Mon couer s'ouvre à ta voix. di Elphie94 (/viewuser.php?uid=896164)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** L'ombra del fantasma. ***
Capitolo 3: *** Assassinio all'Opera Garnier. ***
Capitolo 4: *** L'ombra dell'angelo. ***
Capitolo 5: *** Figaro, Figaro, Figaro. ***
Capitolo 6: *** La voce dell'angelo. ***
Capitolo 7: *** La camera degli specchi. ***
Capitolo 8: *** Lo spettro di Mefistofele. ***
Capitolo 9: *** Il misterioso coupé. ***
Capitolo 10: *** La Morte Vivente. ***
Capitolo 11: *** L'uomo nella pioggia. ***
Capitolo 12: *** Il racconto di Christine. ***
Capitolo 13: *** Arabesque. ***
Capitolo 14: *** Nel dominio del fantasma. ***
Capitolo 15: *** Heathcliff. ***
Capitolo 16: *** Memorie di una ballerina. ***
Capitolo 17: *** Oltre la maschera. ***
Capitolo 18: *** Regina. ***
Capitolo 19: *** Il respiro della vita. ***
Capitolo 20: *** Il Maestro e Marguerite. ***
Capitolo 21: *** La Morte e il Cigno. ***
Capitolo 22: *** Un colpo magistrale del signore delle botole. ***
Capitolo 23: *** Il racconto del Persiano. ***
Capitolo 24: *** Requiem per un sogno. ***
Capitolo 25: *** Il dolore perfetto. ***
Capitolo 26: *** Senza perdono. ***
Capitolo 27: *** La bestia nel cuore. ***
Capitolo 28: *** Il canto muto. ***
Capitolo 29: *** Il gioco del trono. ***
Capitolo 30: *** La ragazza di tenebra. ***
Capitolo 31: *** Danza macabra. ***
Capitolo 32: *** Sotto la pelle. ***
Capitolo 33: *** Viaggio di ritorno. ***
Capitolo 34: *** Il gatto e il topo. ***
Capitolo 35: *** Il mio cuore si apre alla tua voce. ***
Capitolo 36: *** Imperatrice. (e il mio cuore le restò sulle labbra) ***
Capitolo 37: *** La baronessa di Castelot-Barzebac. ***
Capitolo 38: *** Epilogo. ***
Capitolo 1 *** Prologo. ***
PROLOGO
1910,
12 Febbraio.
Il
cielo aveva un bizzarro senso dell'umorismo.
Non
importava quanto a lungo distogliessi lo sguardo dal finestrino: le
gocce di pioggia picchiavano sul vetro così come nei miei timpani,
ed era impossibile ignorarle. L'eco di un tuono risuonava in
lontananza, oltre le alte guglie della città che svettavano sullo
sfondo grigio acciaio – un mare di torbide nuvole arrabbiate. Il
cielo sembrava proprio di cattivo umore, quel mattino, ma non ero
tipo da farsi intimidire. Anche se non ero esattamente all'apice
dell'entusiasmo.
Avrei
dovuto esserlo, certo. Finalmente, dopo mesi e mesi di ricerche,
sembrava che il rosso filo invisibile che mi legava a una vita da
lungo tempo obliata mi stesse conducendo nella direzione giusta.
Avevo dovuto scavare a lungo nella melma che l'aveva sommersa, spesso
col rischio di ritrovarmi inzaccherato fino all'osso, ma ne ero
uscito con miracolosa dignità. Ora si trattava di compiere solo gli
ultimi passi, di tirare ancora un po' quel filo rosso che solo io
sembravo aver scorto tra le tenebre. Mi sembrava di inseguire, per la
prima volta, le tracce di un uomo di carne e sangue, non più un mero
spettro senza nome né voce. La sua
voce,
invece... Se mi concentravo abbastanza, chiudendo gli occhi, allora
forse – forse – riuscivo quasi a udirla. Non una
voce
– la
voce.
Lanciai
una rapida occhiata fuori dal finestrino. Anche se non avrei voluto –
quel panorama fosco intorbidiva ancor più il mio umore già cupo –
non potei farne a meno. C'era qualcosa di stranamente avvincente
nella pioggia, come il ticchettio di una musica lontana.
Sospirai:
quella storia alla lunga mi avrebbe fatto impazzire. Dovevo
risolverla al più presto.
Se
solo avessi ottenuto maggiore collaborazione dalla donna stoica e
testarda da cui mi stavo recando ora...
La
fiacre
sobbalzò su una buca nel terreno, e così anche quel che c'era
dentro il mio stomaco. Da quando ero riuscito a recuperare Memorie
di un direttore
di Monsieur Armand Moncharmin, avevo desiderato avidamente di poter
parlare con Madame Giry, vecchia maschera del palco numero 5. Ma il
tempo non era stato misericordioso: la donna era già deceduta da
parecchi anni. Non ebbi neanche il tempo di covare il lutto per
quella perdita significativa per le mie investigazioni che, parlando
con l'attuale segretario dell'Accademia nazionale di musica,
incontrai Monsieur Faure, giudice istruttore del clamoroso caso
Chagny. Nella mia mente ero già riuscito a conciliare in modo
verosimile certi drammatici avvenimenti che all'epoca fecero scalpore
(la morte del conte di Chagny, il misterioso rapimento di Christine
Daaé e persino il famoso crollo del lampadario) con l'esistenza di
un individuo esterno alla famiglia Chagny, qualcuno che all'Opera
veniva chiamato “fantasma”… Più difficile, naturalmente, era
stato persuadere il signor giudice istruttore.
Avevo
avuto la solida intuizione di collegare tra loro i vari avvenimenti
che segnarono in tragedia l'anno 1881 per lo stesso istinto che mi
aveva guidato nella mia lunga e fortunata carriera di giornalista.
Spesso mi ero trovato in situazioni poco chiare – processi civili o
penali che fossero – che ero riuscito a sbrogliare grazie a quello
stesso intuito, e portato alla luce con penna tagliente e sempre
precisa. C'era un motivo, d'altronde, per cui avevo avuto
successo nel campo. Da ragazzo avevo lasciato la carriera d'avvocato
– poco ispirata, tra l'altro – perché un richiamo irresistibile
mi aveva condotto alla carta e all'inchiostro, e avevo scoperto come
la penna fosse un'arma ben più affilata della spada. Colpiva in
punti nascosti e pungolava incessantemente le sue vittime. Non era
stato possibile rifiutare quell'invito.
E
così, da mesi e mesi di incessante lavoro, mi ero immerso a
capofitto in una storia ben più grande e misteriosa di me. E dire
che avrei dovuto essere abituato a certe cose – ma quella era la
vicenda più bizzarra del mondo.
La
mia gioia era stata immensa quando Monsieur Faure mi aveva parlato di
uno dei testimoni più eccentrici di quel maledetto caso Chagny: un
uomo che tutti chiamavano “il Persiano”, e che all'epoca aveva
fatto strane dichiarazioni a proposito del vero colpevole di quella
vicenda senza capo né coda. Nessuno gli aveva dato ascolto, però:
lo avevano considerato un visionario. Ma io mi ero informato bene sul
conto di quell'uomo, un ex daroga
alla
corte dello Shah di Persia, e ne avevo tratto che era una persona
onesta e incapace di inventare “sciocchezze” solo per attirare
l'attenzione su di sé. Anzi, nei suoi anni di residenza a Parigi si
era tenuto perlopiù nell'ombra, tanto che nessuno pareva conoscere
il suo passato o persino il suo nome. Si sapeva solo che era un
assiduo frequentatore dell'Opera, e niente più. Non era molto da cui
iniziare, ma a me sembrava di aver scoperto un qualche maestoso
tesoro nascosto.
Un
altro notevole testimone di quelle vicende, che poteva chiarire
alcune parti della trama che mi erano ancora oscure, era la figlia
della defunta Madame Giry. Nelle sue Memorie,
l'ex
direttore Moncharmin non aveva certo approfondito lo strano caso del
fantasma che li aveva giocati tutti, dal primo all'ultimo, e io ero
sicuro che la Giry sapesse ben più di quanto
sembrasse.
Era pur sempre figlia della maschera del palco numero 5 – il “palco
del fantasma”. Se non potevo parlare con Madame, avrei fatto una
bella chiacchierata con Madamoiselle.
Solo
che ora non si poteva più parlare di nessuna signorina: alla
segreteria dell'Opera, in cui ormai non ero più semplice ospite, ma
un visitatore assiduo e anche un bel po' ficcanaso, mi avevano
informato, ahimè!, del trapasso di Madame, risalente a molti anni
prima, e del fatto che la sua unica figlia, da promettente stella
della danza, era divenuta baronessa di Castelot-Barzebac.
La
cosa mi aveva lasciato un po' interdetto. Tuttavia, quello non era
certo un caso unico. Talvolta accadeva che una semplice ballerina,
étoile
dell'Opera
o persino umile membro del corpo di ballo, conseguisse un matrimonio
facoltoso. Non avevo tardato a scoprire il domicilio della donna,
appena un po' fuori Parigi, e a recarmi da lei come, d'altro canto,
ero andato a far visita al Persiano. Mi ci era voluto parecchio tempo
per conquistare la fiducia di quest'ultimo. Il Persiano – un uomo
di un'onestà e un candore quasi infantili – mi aveva offerto non
solo le prove dell'esistenza del “fantasma”, ma anche il racconto
di una vita incredibile e del vero destino del visconte Raoul de
Chagny e della soprano Christine Daaé. La cosa mi aveva fatto girare
la testa, ma solo la corrispondenza scritta dalla stessa cantante,
procuratami dal Persiano, aveva potuto dissuadermi dal tortuoso
dubbio che quella fosse tutta un'enorme messa in scena. Ero vicino,
così
vicino...
Si trattava solo di sistemare gli ultimi tasselli del mosaico.
Peccato
che la suddetta baronessa non si sforzasse di collaborare granché.
Quando
mi ero recato la prima volta a casa sua – una splendida villa in
stile imperiale, con colonne di marmo bianco, fregi dorati e possenti
architravi – mi ero stupito al pensiero che una nobile d'alto
rango, benché questo titolo l'avesse acquisito dal marito, abitasse
praticamente in aperta campagna, così distante dalla societé
di
cui avrebbe dovuto essere la créme
de la créme,
e senza vergogna. Il mio sospetto s'acuì quando, accolto dalla
governante, mi resi conto che la maestosa abitazione era deserta.
C'eravamo solo io, una esigua manciata di domestici e, naturalmente,
Madame.
A
dire la verità, quando avevo mostrato il mio biglietto da visita, la
cameriera – una giovane dal viso lentigginoso e i capelli di fiamma
– mi aveva guardato senza nascondere minimamente la diffidenza.
«La
baronessa non cerca fastidi, Monsieur» aveva dichiarato la
fanciulla, con una tale impudenza da lasciarmi senza fiato. Ah,
meravigliosa nobiltà.
«Mi
dispiace recare disturbo, Madamoiselle. Vi prego di credere che non è
mia intenzione. Ma in quanto giornalista, ho il dovere morale di far
luce su alcune vicende misteriose avute luogo all'Opera anni fa e di
cui la vostra signora può essere mirabile testimone, come d'altronde
lo è l'intero staff del teatro.»
Mi
fermai, ponderando le parole. Mi ero ripreso dalla brusca
accoglienza. «Se Madame non accetta di ricevermi, ebbene, ne
comprendo la ragione. Tuttavia la questione è seria e potrebbe
interessarle.»
«E
come, se permettete?» chiese la cameriera, sempre le sopracciglia
aggrottate in un broncio sospettoso. «Monsieur?» aggiunse poi, come
ripensandoci.
Ha
strane maniere, pensai,
ma non indugiai oltre. Non potevo biasimare del tutto una ragazza che
voleva, a quanto pare, solo proteggere la privacy,
come dicono gli inglesi, della sua padrona. Se abitava così isolata
dalla città, in una dimora troppo grande per la sua solitudine,
doveva pur esserci una ragione. Ma io ero ansioso di arrivare al
sodo.
«Le
dica che ho delle informazioni sulla scomparsa della cantante
Christine Daaé, e poche, brevi domande da porre. Credo che la
conoscesse, ha cantato per un certo tempo all'Opera Garnier.»
Non
mi piacevano gli approcci così diretti, di solito preferivo glissare
e arrivare allo scopo attraverso vie traverse e più sicure, ma
quella dichiarazione sortì, come avevo previsto, l'effetto sperato.
La giovane domestica non mi sembrava, d'altronde, tipa da vie
traverse.
Mi chiesi se valesse lo stesso anche per la sua signora. Tuttavia, se
da ballerina era entrata nel mondo della nobiltà, quasi nuda sotto
lo scudo della protezione del marito, non doveva essere ingenua. O
perlomeno, così speravo.
Ma
non
era quello il momento di tergiversare. Ero a dir poco trepidante al
pensiero di far finalmente luce su quel caso misterioso… Il solo
pensiero dei preziosi documenti del Persiano che mi attendevano a
casa, al sicuro nel cassetto della scrivania, mi riempiva di un
febbrile entusiasmo che mi era familiare: lo avvertivo sempre, quando
ero sul punto di scoprire un dettaglio nuovo e incredibile che
potesse aiutarmi a rivelare l'enigma che avevo davanti agli occhi. E
quello in cui ero immischiato ora era qualcosa che non assomigliava a
nient'altro che avessi mai visto. Poteva essere il colpo della mia
vita. Ma soprattutto, mi muoveva un sincero interesse nei confronti
di un'esistenza messa a tacere e perduta nell'oblio del passato.
Svelare al mondo la realtà celata dietro la maschera...
La
mia attenzione tornò sulla giovane cameriera, che mi squadrò con
un'ultima occhiata truce, ma sconfitta. Alla fine si decise a correre
di sopra e riferire a Madame della visita dell'intruso
– non prima di aver chiamato un'altra domestica, questa volta una
donna anziana, vispa e raggrinzita, che mi fece accomodare
nell'elegante soggiorno. Tutto quel lusso, per un attimo, mi accecò.
Mi sedetti sul bordo di una vasta poltrona rivestita di velluto
rosso, osservando con curiosità quell'ambiente aristocratico. Tra
quelle mura dimorava il silenzio, interrotto soltanto dai vaghi
rintocchi di un orologio Luigi XIV. Era strano, ma nonostante la
bellezza di quel mobilio, gli arabeschi d'oro ricamati sulle
tappezzerie, l'ordine impeccabile e il lieve sentore di tè che
proveniva dalle cucine al piano inferiore, un brivido di gelo mi
percorse. Sembrava che le pareti fossero fatte di polvere. Non in
senso letterale – tutta la casa era perfettamente linda e ben
tenuta, senza che si notassero i segni che il tempo pur doveva aver
arrecato
– era più un'impressione.
Quasi come se quella abitazione fosse abbandonata da anni, o vi
vivessero dei fantasmi...
La
domestica – questa volta la giovane dalla chioma fulva e le guance
spruzzate di efelidi – ritornò e mi condusse di sopra, in un altro
salottino più appartato e modesto che aveva più l'aria di uno
studiolo che di una sala da ricevimento.
«Madame
preferisce non scendere di sotto, Monsieur. È di salute cagionevole
e ultimamente non è stata affatto bene» mi spiegò sottovoce la
giovane donna.
Io
annuii, comprensivo, mormorando che non c'era alcun problema. La
stanza era arredata nel medesimo stile del resto della casa, ma gli
scaffali erano pieni di libri, le tende di pesante broccato carminio
erano tirate, e le uniche fonti di luce erano qualche candela su un
tavolino e un caminetto acceso. A quella vista non potei trattenere
un sospiro di sollievo: cominciavano a ghiacciarmisi i piedi.
Un'altra
differenza sostanziale col grande salotto al piano inferiore era che
in questo più piccolo un'ombra scura e minuta occupava una poltrona
di fronte al focolare, mentre in silenzio osservava le scintille
crepitare tra i trucioli fumanti.
Mi
schiarii educatamente la gola, notando che la figura mi faceva segno
di entrare. «Prego, accomodatevi» disse con voce roca, indicando la
poltrona dinanzi a sé. «Chiedo venia per la mia condotta, Monsieur.
La mia salute non è più forte come una volta.»
Ripetei
che non vi era alcun problema, anzi, mi scusai per il disturbo.
La
donna non si degnò di correggermi, cosa che mi mise leggermente a
disagio: si vedeva che il mio era proprio
un
disturbo. Sprofondai nella poltrona, non prima di essermi esibito in
un lieve inchino.
La
donna in questione, come il salotto al piano inferiore, sembrava
fatta di polvere, ossa e poco altro. Quando la vidi, fui invaso da un
senso di pietà e comprensione che tuttavia cercai immediatamente di
dissimulare. Era comunque una baronessa, e tutti i nobili sono
orgogliosi, si sa.
Si
trattava di una signora di mezza età, molto esile –
s'intravedevano i polsi ossuti, le spalle incavate, le dita lunghe e
dall'aria tanto gracile da non essere naturale. I capelli scuri,
striati di grigio, erano tenuti insieme in una crocchia severa; anche
il suo abito era nero, semplice ma
elegante, eppure
paurosamente in tinta con l'impressione macabra che dava quella
vista. Incarnato bruno, occhi color pece – che un tempo non
dovevano essere stati privi di attrattiva, incorniciati da lunghe
ciglia nere – lineamenti duri e tirati, sguardo acuto e penetrante.
Era chiaro che non era in cerca di “fastidi”, come mi aveva
gentilmente informato la giovane cameriera. In ogni caso, le dovevo
qualche spiegazione.
Lei
mi domandò, ovviamente, come ero venuto a conoscenza del caso di
Christine Daaé, e soprattutto cosa vi avessi a che fare. Capii dove
voleva arrivare. Cosa
ne ricavate?,
sembravano accusare i suoi occhi scuri.
La
informai delle mie investigazioni fin dal principio, di come fossi
riuscito a rintracciare alcune testimonianze dell'epoca, tra cui
quella della Sorelli, ex prima ballerina dell'Opera, che ormai da
lungo tempo si era ritirata dalle scene. Le spiegai come mi ero
procurato le Memorie
di
Monsieur Moncharmin, ex direttore del teatro, dove raccontava alcuni
strani avvenimenti a cui lui e il suo collega, Monsieur Firmin
Richard, avevano assistito. Non tardai a dirle che il mio interesse
principale era far luce su una figura interessante che, attraverso
vari indizi, avevo scoperto realmente esistita: quella del cosiddetto
– e famigerato – fantasma dell'Opera.
Quando
menzionai il fantasma, tutta la sua fisionomia sembrò mutare d'un
tratto. I lineamenti duri e in parte inespressivi si riempirono di
una strana luce che non esitai a percepire come un misto di tensione
e sgomento. Era chiaro che si aspettava di tutto, eccetto che mi
mettessi a parlare del fantasma. Anche se Madame Giry era purtroppo
passata a miglior vita, forse, come avevo sperato, era la figlia,
Marguerite de Castelot-Barzebac, un tempo nota allo staff dell'Opera
come “la piccola Meg”, a sapere qualcosa su quel figuro
misterioso. Tuttavia notai che il suo sguardo, improvvisamente
acceso, non tardò ad acquietarsi. Mi fissò severamente, ed ebbi la
netta impressione che fosse meglio non contrariarla in quel momento,
qualunque cosa avesse detto.
«Tutte
quelle storie su un “fantasma” che vagava nell'Opera, involuto e
invisibile, non erano che sciocchezze per spaventare le piccole
allieve ballerine» disse in tono fermo. Mi squadrava con una punta
di altezzosità, come se mi considerasse altrettanto sciocco e
infantile nel perseguire certe superstizioni. Punto sul vivo, le
dissi che avevo ottenuto le prove della sua esistenza da qualcuno –
di cui per ovvie ragioni non potevo fare il nome – che lo aveva
conosciuto personalmente. Non si trattava di uno spettro, bensì di
un uomo in carne e ossa.
«E
voi dite che si divertiva a fare scherzi di cattivo gusto ai
direttori e allo staff dell'Opera? Mi chiedo che razza d'uomo dovesse
essere, allora» commentò lei, acida.
Annuii.
«Un uomo molto... insolito,
Madame. Cosa si raccontava sul fantasma, di preciso? Lo ricordate?»
La
donna si agitò impercettibilmente sulla poltrona. «Si raccontavano
molte cose, perlopiù assurdità. Ma non vedo come questo possa avere
a che fare col rapimento di Christine.»
«Voi
conoscevate Madamoiselle Daaé?»
Abbassò
lo sguardo sulle mani ossute, che teneva poggiate in grembo come a
cullarle. «Sì, e bene. Eravamo molto amiche, un tempo. Quando
scomparve, ne fui addolorata. Ci furono delle voci... Qualcuno disse
che era fuggita col visconte di Chagny – tutti conoscevano la loro
storia. La cosa si tingeva di macabro se si pensa alle misteriose
circostanze in cui era morto il fratello del visconte e lei
era scomparsa dal palco... Ma voi tutto questo già lo sapete, vedo.»
Difatti
non ero rimasto per sorpreso da quelle parole. Sapevo quello e molto
di più. Ma dovevo essere cauto: c'erano ancora cose che non mi erano
chiare... ad esempio, il rapporto tra il fantasma e Madame Giry. Come
era arrivata ad essere la sua “collaboratrice”?
In
quel momento, entrò la cameriera più anziana a passo felpato.
Portava un vassoio con due tazze di ottimo Earl Grey fumante.
Ringraziai con doveroso rispetto e osservai Madame che girava con
aria pensosa il cucchiaino di delicata porcellana nel liquido
ambrato.
«Marie
e Giselle sono qui con me da molti anni. Dopo la morte di mio marito,
sono rimasta sola. Ho avuto il mio momento, credo…»
Il
suo sguardo si dipinse di un distacco acuto, e per un attimo mi parve
che non vedesse più la mia persona davanti a sé, ma quella di
qualcun altro. Si riprese, tuttavia, in un battito di ciglia.
«Ancora
non capisco cosa centri questo “fantasma” con Christine. Voi dite
che era un uomo e non uno spettro o un'invenzione della mente...
Pensate che fosse in qualche modo coinvolto nella sua fuga col
visconte?»
«Non
lo credo, Madame, ne sono sicuro. E ho le prove.»
Lei
alzò un sopracciglio. «Ma davvero?» disse con malcelata
incredulità.
«Sì.
Ho una fonte sicura. E non credo che fosse semplicemente coinvolto...
Penso
che tutta quella situazione fosse opera sua, soltanto sua.»
«Che
cosa ardita da dire. Un fantasma che rapisce una cantante… Perché
mai avrebbe dovuto farlo?»
«Vi
ripeto, con grande umiltà, che ho le prove che non si trattasse di
uno spettro, Madame.»
«Ma
certo che non si trattava di uno spettro. Gli spettri non esistono,
Monsieur, o non conoscete il sarcasmo?»
Sospirai.
Era meglio ignorare quel commento.
«A
voi interessa il destino di Christine Daaé, non è vero?»
Lei
mi riservò un'occhiata pungente. «Sì, ma non è per fare due
chiacchiere che siete qui, Monsieur... Leroux, giusto?»
Confermai
con un cenno secco del capo. «No, Madame. È per conoscere certi
dettagli che non riesco ancora a inquadrare nel grande mosaico. Ad
esempio, se mi concedete la grazia di parlarmene, mi piacerebbe
discutere del cosiddetto palco numero 5. Vostra madre ne era la
maschera, non è vero?»
«Mia
madre era una donna onesta, una gran lavoratrice. Era istruttrice di
danza all'Opera da anni. Non ammetto che si facciano insinuazioni su
una sua possibile complicità in un caso di rapimento e assassinio!»
Mi
ritrassi, sconcertato da quella invettiva. «Oh, no, no, no, non era
mia intenzione, stavo solo...»
«Cosa
stavate implicando, Monsieur? Oh, voialtri giornalisti, sempre pronti
a trarre profitto dalle disgrazie degli altri...!»
«Vi
giuro che non...»
«Ebbene,
come vi giustificate?»
Trassi
un enorme respiro. Era strano per me vedere quella donna, quel corpo
– che sembrava abitato da uno spettro aggrappato troppo a lungo a
una vita a cui non apparteneva più – animarsi di un fuoco nascosto
tra le ceneri della mestizia. In realtà, non si era minimamente
scomposta fino a quando non avevo nominato la madre. Dovevo aver
toccato un nervo scoperto e, come un chirurgo, mi conveniva essere
prudente per non perdere la mia “paziente”.
«Madame,
voi saprete certamente che qualcosa di molto strano accadeva
all'Opera, in quel periodo. Bizzarre apparizioni, buste di migliaia
di franchi scomparse nel nulla, voci senza volto, omicidi senza
spiegazione... come quello di Joseph Buquet, il capo macchinista. Ve
lo ricordate?»
Lei
annuì, ancora rigida. Sembrava tesa come la corda di un arco pronto
a colpire.
«Ebbene,
io sono sicuro – ne ho le prove – che tutto questo sia
riconducibile a un solo uomo, che si nascondeva dietro l'entità di
“fantasma”, e che ha approfittato della vulnerabilità della
vostra nobile madre per i suoi profitti... Quindi, come vedete, non è
mia intenzione gettare fango sulla reputazione di Madame Giry o di
Christine Daaé, né tanto meno su quelle del visconte di Chagny e di
suo fratello. Mi spinge semplicemente il dovere di far luce su un
mistero che ha gettato tenebra nella vita di molti.»
«Teoria
interessante» commentò Madame, giocherellando coi bottoni dei
polsini dell'abito. «Farà sicuramente successo.»
Non
ero sicuro se fosse un'accusa o si stesse semplicemente burlando del
sottoscritto. Con un sospiro e una maledizione silenziosa a tutte la
baronesse inacidite e orgogliose di questo mondo, proseguii: «Madame,
non vi costringo assolutamente a collaborare alle mie indagini. Non
sono un pubblico ufficiale. Se trovate irrisorie le mie “teorie”
o diffidate del mio lavoro, non posso del tutto biasimarvi. Mi scuso
umilmente per avervi recato disturbo e onta, anche se spero che non
sia questo il caso. Se non c'è altro, forse è meglio che vada, non
voglio infastidirvi ulteriormente. Grazie mille per il tè e
l'accoglienza.»
Posando
la tazzina ormai vuota sul tavolino, feci per andarmene con un ultimo
inchino, ma la baronessa mi fermò sulla soglia.
«Aspettate.»
Mi
voltai, nascondendo un sorrisetto trionfante. Non era proprio il
momento di fare salti di gioia.
«La
mia testimonianza vi aiuterebbe a svelare il mistero di Christine?»
In
realtà mi avrebbe aiutato solo a scoprire i metodi con cui il
fantasma si era impadronito del palco numero 5 in modo così
esclusivo, e del mirabolante trucco della “busta magica”. Ma non
era il caso di dirlo.
«Sarebbe
la testimonianza preziosa di qualcuno che ha assistito a quegli
eventi, Madame.»
Lei
posò lo sguardo sulle tende di pesante broccato, e ancora una volta
sembrò non vedere nulla davanti a sé se non il frutto della sua
immaginazione, magari dei suoi ricordi. Ma anche questa volta la
visione durò solo qualche attimo.
Con
fare meno esitante, tornai al mio posto vicino al caminetto, dove le
fiamme ormai lottavano per qualche ultimo brandello di vita. La mia
ospite non sembrò farci caso. Ponderava qualcosa con grande
intensità: le rughe sulla sua fronte si erano contratte
visibilmente, le sopracciglia unite a formare una linea severa, quasi
di algida distanza. Non mi permisi di interrompere le sue
elucubrazioni: da giornalista, sapevo trattare con le persone
abbastanza bene da sapere che in certi casi era meglio aspettare e
“prenderla con le pinze”, come si suol dire... per non rischiare
di farsi male nel tentativo o di lasciarsi sfuggire la presa.
«Monsieur,
io non so molto» esordì infine la baronessa. «Ma se quel poco che
so può aiutarvi a svelare il mistero di Christine, ebbene, è a
vostra disposizione.»
Mi
aprii in un sorriso affabile. «Vi ringrazio, Madame.»
Come
scoprii poco dopo, effettivamente Marguerite de Castelot-Barzebac non
mi rivelò granché... Anzi.
Dovetti far appello a tutta la mia pazienza (che non era molta) per
non farmi saltare i nervi.
Cominciò
dapprima a parlarmi della madre: di come da ballerina era divenuta
insegnante di danza all'Opera, e di come, qualche anno dopo la morte
del marito, si era stabilita con la figlioletta proprio in quel
teatro a cui aveva donato la sua anima di artista. Continuò
descrivendomi nei dettagli più minuti la vita della “piccola Meg”,
come da allieva fosse divenuta ballerina di fila. Ora, a me non
interessava affatto sapere quali fossero i cioccolatini preferiti di
Madame Giry o come si annodavano i lacci delle scarpette da ballo
attorno alle caviglie; come una bambina di nove anni imparava ad
andare en
pointe e
delle vesciche che affliggevano quei poveri piedini inesperti... e di
come spesso il dolore rimanesse anche dopo, quando quei movimenti
sembravano persino più naturali del battito del cuore, impressi a
fondo nel corpo della giovane ballerina come le preghiere che
impariamo nell'infanzia e non dimentichiamo più.
Finsi
di riempire il mio quaderno di appunti, ma in realtà mi limitavo a
scarabocchiarvi sopra qualche frase incomprensibile. Non avevo
intenzione di interrompere quel flusso. Più andava avanti e più ero
sicuro di due cose: la prima era che la baronessa fosse un po' tocca;
o che magari,
non avendo
più occasione di parlare con nessuno di quei primi anni all'Opera da
moltissimo tempo, si stesse prontamente rifacendo a mie spese. La
seconda era che sembrava stesse facendo di tutto, in modo quasi
impercettibile, per evitare di arrivare al punto che sapeva
interessarmi maggiormente. Era una donna di mezza età troppo sola e
malata per capire quali fossero le mie priorità, o fingeva?
Fu proprio questo dubbio assillante che m'impedì di terminare la
conversazione seduta stante e passare a questioni più urgenti e
produttive. Io stesso sapevo tergiversare molto bene e non lasciai
trapelare nulla della mia crescente frustrazione. Le sorridevo nei
momenti giusti e scribacchiavo qualcosa sul quaderno, ascoltando con
la massima attenzione. Aspettavo che arrivasse al clou
della
vicenda, o perlomeno speravo ci arrivasse. Tentennavo, ma non potevo
lasciar perdere senza l'adeguata ricompensa ai miei sforzi... Mi ci
era voluto così tanto per trovare quella donna. E in più... c'era
una tale tristezza malcelata nei suoi occhi, mentre parlava della
madre, che non ebbi cuore di interromperla. Non guadagnavo niente da
tutto quello, ma neanche perdevo qualcosa.
Quando
me ne andai, quella sera, promettendo di ritornare l'indomani per il
resto dell'intervista,
ero arrabbiato con me stesso, con lei, col fantasma e... no, con
nessuno in particolare. Sapevo che avrei dovuto incalzarla con un
torrente di domande sullo strano rapporto “d'interesse” che, a
dire di Moncharmin, si era instaurato tra Madame Giry e lo “spettro”
che infestava il palco numero 5. Moncharmin nelle sue memorie aveva
solamente accennato al mistero della busta scomparsa – scherzo
attribuito ai precedenti direttori dell'Opera – ma io sapevo da
fonti certe, quali l'ex segretario Rémy e il maestro di canto
Gabriel, che gli illustri direttori si erano comportati in maniera
assai strana proprio la sera dell'inspiegabile sparizione di
Christine Daaé. Il direttore Moncharmin aveva solo accennato al
fantasma nelle sue memorie, e con grande scetticismo. Ne aveva
parlato come se fosse una sciocca superstizione da teatro, o
un'enorme bufala inventata dagli ex direttori per prendere in giro
lui e Richard, ma io sapevo che c'era qualcosa di più che Monsieur
Moncharmin aveva tenuto nascosto per non infangare la reputazione
dell'Opera e dei suoi proprietari. E sapevo
che
la baronessa era al corrente di più cose di quante facesse
trapelare.
Nel
tragitto in carrozza diretto al mio appartamento nel Marais, mi
chiesi ancora una volta se non fosse davvero un po' tocca. Tuttalpiù,
mi dava l'impressione di una persona molto sola. Forse era per quel
motivo che mi aveva affidato certe sue memorie, anche se mi erano
inutili... Magari il giorno dopo avrebbe detto di più a proposito
del fantasma. Finora non mi ero arrischiato a interrogarla sul serio,
perché ero certo che alla minima pressione avrebbe reagito
invitandomi cordialmente
a
sparire dalla sua vista e a lasciarla in pace – che lei di quella
storia ne sapeva giusto quel poco che le aveva rivelato sua madre,
che stavo sfruttando la sua amicizia con Christine Daaé per provare
a tirarle fuori cose che erano del tutto illogiche e anche
offensive... No, se ero così certo che la baronessa potesse
rivelarsi un valido testimone di certi avvenimenti di quella vicenda
d'amore e di terrore, allora dovevo conquistarmi la sua fiducia –
lentamente, con la solita cortesia… Alla fine, forse, in questo
modo mi avrebbe raccontato ciò che anelavo davvero di sapere.
E
se pure l'esito si fosse dimostrato insoddisfacente… Almeno ci
avevo provato.
Non
fu facile. Non si fidava di me, e inizialmente non aggiunse nulla
alle cose che già sapevo, se non un punto di vista differente sulle
voci che all'epoca circolavano tra i membri del corpo di ballo a
proposito del “fantasma”. Alcuni dichiaravano di averlo visto,
magro come uno scheletro e con indosso una maschera e un frac,
aggirarsi tra le passerelle nelle quinte del teatro. Altri di aver
udito risate macabre, sbuffi o simili provenire – o così sembrava
– dalle pareti stesse. Se qualche oggetto spariva nel nulla o
accadeva qualche evento strano e inspiegabile, non c'erano dubbi: era
colpa del fantasma!
Nel
raccontarmi tutto questo, Madame alzava spesso gli occhi al soffitto
con grande scetticismo. Era evidente che per lei la stupidità di
quelle affermazioni non aveva limite. Ma io, pur considerando quelle
superstizioni esagerate, sapevo che nascondevano un fondo di verità.
Le chiesi cosa ne pensasse lei all'epoca, dal momento che era palese
che non condivideva i timori di altri membri dello staff dell'Opera.
La baronessa scosse la testa, affermando che, per quanto le storie di
orrore e mistero stuzzicassero la sua curiosità, per lei rimanevano
solo quello, per l'appunto: storie, invenzioni della mente, e
null'altro. Assolutamente impraticabili nella realtà. Per questo
fin
da allora aveva creduto che fossero solo leggende atte a
istigare
l'immaginazione dei più giovani e impressionabili (e non solo la
loro).
«E
lei non era giovane e impressionabile?» osai chiedere con un pizzico
d'ironia.
Lei
stirò le labbra in quello che sembrava una specie di sorriso
distorto. «Oh, sì. Ero molto giovane e molto impressionabile, ma
sulle cose sbagliate.»
Mi
chiesi cosa intendesse dire in realtà, ma non indagai oltre. Era
evidente che la baronessa teneva molto alla propria privacy,
e non avevo acquisito ancora un livello di confidenza tale con lei da
potermi permettere di ficcare il naso nei suoi affari privati. E non
credevo ci sarei mai arrivato.
Mi
sbagliavo. In quella settimana, mi recai ogni giorno da lei a
prendere il tè e discorrere di ciò che accadeva all'Opera in quegli
anni, ai tempi in cui il grande teatro era stato la sua casa. Era
chiaro che non si lasciava andare a certe reminiscenze del passato da
molto, molto tempo. Forse fu la mia disponibilità ad ascoltare, a
notare
la
sua profonda nostalgia, che riuscì a farla schiudere dal suo bozzolo
raggrinzito. Ma ero certo che misurasse attentamente ogni parola che
le sgorgava dalle labbra, cauta e diffidente quasi quanto me. Mi
venne in mente il sospetto che mi stesse valutando,
e con me, ciò che sapevo. A volte il suo sguardo assumeva
un'espressione vacua, un velo di polvere si posava sui suoi occhi
stanchi. Di nuovo, avevo l'impressione che non vedesse me,
ma qualcun altro. Forse la madre, o il marito defunto… o un'amica
lontana. Magari la stessa Christine.
Il
giorno dopo quella mia prima e poco fortunata visita, mi recai nella
sua solitaria villa con il famoso pacchetto di lettere che mi aveva
chiesto – ordinato, cioè – di farle vedere. Era ovvio che, prima
di scendere nei dettagli della “collaborazione” tra sua madre e
il fantasma, di cui ero assolutamente certo che fosse a conoscenza,
voleva le prove che la mia
testimonianza
non fosse, come si suol dire, “campata in aria”. A dire la
verità, le avevo portato solo parte della corrispondenza che la
giovane soprano aveva indirizzato al visconte di Chagny, mettendo da
parte alcune delle pagine strappate dal suo diario che raccontavano
più di quanto osassi rivelare al momento.
Quando
gliele mostrai, la baronessa si trovò costretta ad ammettere che
quella era proprio la calligrafia della sua vecchia amica. Per
darmene prova, chiese alla giovane governante, Giselle, di portare
nell'appartato salottino in cui si tenevano le “interviste” un
certo scrigno. Non ci fu bisogno di dare alla ragazza altre
indicazioni. Era evidente che per la padrona questo forziere
nascondeva qualcosa di prezioso e privato. In effetti vidi
che si
trattava – da quel poco che mi fu concesso di vedere – di alcuni
ricordi della sua giovinezza. E, tra questi, alcune lettere che
Christine in persona le aveva spedito – non tardai a riconoscerne
la calligrafia minuta e ordinata. Questo risvegliò il mio interesse,
e difatti
da quel momento la baronessa apparve assai più disponibile a
collaborare. Mi chiese da dove provenissero quelle missive, e io fui
costretto a rivelarle che il misterioso personaggio che mi aveva
svelato il mistero del fantasma era il Persiano, uno straniero che
all'epoca frequentava spesso l'Opera.
La
baronessa corrugò la fronte con aria grave, ma non apparve troppo
sorpresa da quella mia bizzarra rivelazione. Ricordava il Persiano,
naturalmente:
i più superstiziosi tra i membri dello staff del teatro dicevano che
portava sfortuna. Ridacchiammo insieme di un particolare episodio che
mi narrò al riguardo e di cui io presi nota:
un incidente che la piccola Cécile Jammes, allora sua compagna nel
corpo di ballo, aveva raccontato con dovizia di particolari a lei e
alle altre ragazze, comprese l'altera Sorelli. A quanto pareva, l'ex
maestro di canto Gabriel – che eppure era un gentiluomo – nel
“toccare ferro” per scongiurare la iella dopo un fortuito
incontro col Persiano, era inciampato e per poco non si era
fracassato il cranio! In effetti, era un avvenimento abbastanza
macabro che non avrebbe dovuto farci sorridere, se non fosse stato
per il fatto che Gabriel aveva affermato di essersi spaventato tanto
da perdere il controllo in quel modo, rischiando persino di ruzzolare
giù per le scale, poiché
alle spalle del povero Persiano aveva scorto una testa di morto! A
queste parole, mi feci subito più serio. Le chiesi se pensasse che
fosse davvero il fantasma, ma lei rispose scuotendo il capo con
decisione.
«É
ridicolo, Monsieur. In realtà, quando seppi di questo piccolo
incidente – che per fortuna si risolse nel migliore dei modi per
Monsieur Gabriel – pensai immediatamente che il maestro di canto si
fosse inventato una scusa per giustificare la sua incredibile
goffaggine. Accadeva di frequente che avesse questo tipo di
incidenti. E poi è davvero ridicolo» continuò con maggior
scetticismo. «Come può esistere un uomo vivo… che abbia però
l'aspetto di un morto? Doveva trattarsi quasi sicuramente di uno
scherzo elaborato, anche se alla lunga molto seccante, lo ammetto.»
Io
deglutii, non sapendo se insistere al riguardo oppure cambiare
argomento. «Vi assicuro che si trattava di un uomo» decisi infine.
Lei
mi puntò contro i suoi occhi scuri, d'un tratto accesi. «Un uomo
che il Persiano conosceva, a quanto pare.»
«Sì,
ne ha riconosciuto gli… insoliti talenti una volta che si fu messo
all'opera – nel vero senso della parola.»
«E
dove lo avrebbe incontrato?»
«Nella
sua madrepatria. Lì quest'uomo di cui vi parlo era stato un
architetto al servizio dello Shah.» Glissai abilmente sui dettagli
più raccapriccianti della storia.
«Quindi
voi mi state dicendo, Monsieur Leroux» incalzò la donna senza che
dalla sua voce trapelasse alcuna emozione, «che un architetto
persiano si divertiva a “infestare” un teatro dell'Opera e a
spaventare chi vi lavorava? Davvero credibile.»
«Non
era persiano, Madame, era francese» proseguii con rinnovata
determinazione. M'infastidiva quella mancanza di fiducia nel mio
racconto, ma d'altronde non mi aspettavo altro. Sapevo che la
maggioranza della gente avrebbe scambiato il frutto dei miei sforzi
per un'opera di finzione. Da un lato, forse era meglio così. Eppure,
la sola idea che nessuno venisse a conoscenza dell'uomo che si celava
dietro la maschera… che quell'esistenza straordinaria si perdesse
definitamente nell'oblio dell'ignoranza… mi era quasi
intollerabile.
«Con
tutto il rispetto, Madame, vi ripeto che ho lo prove materiali della
mia testimonianza. So con certezza che vostra madre si occupava
dell'affitto del palco numero 5 – sapete senza dubbio che c'era un
motivo se veniva chiamato “il palco del fantasma”. So anche che
ha avuto dei problemi con la direzione del teatro per questo.»
Lei
fece una smorfia, come se avesse ingollato
un frutto particolarmente acerbo. L'accenno alla madre l'aveva punta
sul vivo – alla buon'ora. Adesso dovevo giocare con prudenza le mie
carte.
«Forse
vi piacerebbe far luce sull'ombra che ha avuto in qualche modo a che
fare con vostra madre» insinuai, e fui pronto ad aggiungere: «Perché
non ci siano dubbi sulla sua lealtà. So che all'epoca qualcuno ha
sospettato che…»
«Mia
madre è morta da molti anni, Monsieur» m'interruppe la baronessa.
«E insieme a lei, tutte le persone che mi erano care.» Il suo
labbro inferiore diede in un tremito impercettibile. «Nessuno può
più dire nulla su di loro che abbia valore. Non sono vivi per
controbattere. E del resto, a nessuno importerebbe.» Non mi guardò
negli occhi neanche per un istante. Fissava invece i resti inceneriti
nel caminetto. Pensai che, con così tante perdite, la sua vita non
era poi del tutto dissimile da quelle braci spente.
«Voi
dite che quest'uomo, questo… fantomatico spettro
ha
avuto qualcosa a che fare con l'omicidio del conte Philippe de
Chagny… e con la fuga di Christine e del signor visconte. In che
modo questo è potuto avvenire?»
«Ho
dimenticato di dirvi una cosa molto importante, Madame» iniziai con
calma. Feci una pausa e inspirai profondamente. «Il fantasma era
innamorato di Christine Daaé.»
Non
volevo ancora svelare tutta la mirabolante storia della “voce
maschile” che aveva instillato in Christine l'arte di un canto
purissimo, parte del suo magnifico talento… Era troppo fantastica
per essere presa sul serio, almeno per il momento.
Ottenni
comunque l'effetto sperato. La baronessa sgranò gli occhi in
un'espressione di indecifrabile sgomento. «Che storia è mai
questa?»
«Eravate
amica di Christine, non è vero? Sapevate che qualcuno le stava dando
lezioni di canto?»
Lei
si umettò le labbra rinsecchite con evidente fastidio misto a
disagio. Poi assunse un'aura di fredda calma che mi stupì, e mi
chiesi se non ne rimanesse raggelata lei stessa. «Sì, ma me lo
confessò solo qualche mese prima della sua sparizione. Non mi rivelò
mai il nome di quel maestro, ma… lei mi sta dicendo che
l'insegnante di canto di Christine e l'uomo che secondo voi si
nascondeva dietro l'identità di fantasma dell'Opera erano la stessa
persona?»
«Ne
ho le prove, Madame» ribadii – non mi sarei mai stancato di dirlo.
«Le lettere che vi ho mostrato oggi e che, come voi avete
confermato, sono state scritte da Christine in persona… ebbene, è
stato il Persiano a darmele, e a lui a sua volta le aveva date il
fantasma, dopo la partenza di Madamoiselle Daaé col visconte.»
Lei
era allibita. «Fino a questo punto…» mormorò con un filo di
voce. Io m'accigliai, non cogliendo sul momento il significato di
quelle parole.
«Fino
a questo punto ha agito quell'uomo per… immagino, per ottenere le
attenzioni della mia vecchia amica?» aggiunse con chiaro disprezzo.
Io
annuii, e lei serrò le labbra.
«Ah»
si limitò a mormorare, ma mi sembrava che stesse reprimendo chissà
quale fiume di parole. Possibile che non avesse mai notato nulla di
strano nel comportamento di Christine? Prima di far visita alla
baronessa, il Persiano mi aveva riferito che la giovane soprano e la
“piccola Meg” un tempo erano state molto vicine. Qualcosa non
quadrava.
«Non
capisco il perché di tutta questa storia del fantasma, Monsieur»
continuò Madame con aria rabbuiata. Forse non era contenta del fatto
che la sua vecchia amica l'avesse tenuta all'oscuro di quell'enorme
disastro. Ma io mi trovavo a condividere le ansie di Madamoiselle
Daaé.
«Diciamo
che quest'uomo di cui vi ho parlato, Madame, era stato uno dei
capomastri al tempo della costruzione dell'Opera Garnier. Sentiva
quindi di detenere una sorta di… “diritto” sul teatro»
spiegai. Lei bevve ogni parola con attenzione.
«Davvero?
E perché non lo ha reclamato con mezzi meno dissennati,
allora, come un uomo normale?»
Non
potei trattenere un sorrisetto. «Perché non era quel che si dice un
uomo normale, Madame. Non lo era affatto.»
La
signora impallidì. Inghiottì il suo turbamento senza dire una
parola. Con un campanello chiamò la governante – questa volta
quella più anziana, Marie, se ben rammentavo – perché le portasse
subito una tazza di tè “molto forte”. Ignorai deliberatamente
che non aveva chiesto di prepararne anche un'altra per il suo ospite.
Il
mio disagio scomparve del tutto quando Madame riaprì lo scrigno e ne
estrasse un'altra lettera,
diversa da quelle che le aveva spedito Christine. Quando me la tese
in un muto invito a leggerne il contenuto, notai che la pergamena era
spessa e ingiallita dal tempo, invasa da quelli che a prima vista mi
sembrarono scarabocchi. Aguzzando la vista, compresi infine che erano
delle semplicissime parole, scritte con inchiostro rosso sangue, in
una grafia grossolana, infantile, come di un bambino che ancora
stenti a ricordare l'alfabeto. Tuttavia, la grammatica era
ineccepibile.
Lessi
tutto d'un fiato e, man mano che i miei occhi scorrevano sulla
pagina, il mio volto si faceva sempre più bianco,
probabilmente per l'emozione.
Madame,
1825.
Madamoiselle Ménétrier, corifea, è divenuta marchesa di Cussy.
1832.
Marie Taglioni, prima ballerina, viene fatta contessa Gilbert des
Voisins.
1846.
La Sota, ballerina, sposa un fratello del re di Spagna.
1847.
Lola Montes, ballerina, sposa morganaticamente il re Ludovico di
Baviera e diviene contessa di Landsfeld.
E
così via, fino a che, al termine di quell'elenco di gloriosi
connubi, si leggeva a chiare lettere:
1885.
Marguerite Giry, imperatrice.
La
missiva era firmata F.
dell'O.
«Che
cosa significa tutto questo?» chiesi, perplesso, sebbene l'identità
del mandante mi fosse oltremodo palese.
«Ho
esitato molto prima di mostrarvi questa lettera, Monsieur» rispose
la baronessa come se non avessi aperto bocca. «Mi perdonerete se ho
aspettato per valutare meglio le vostre intenzioni.» Mi rivolse un
sorriso forzato.
«Questa
lettera è…»
«Sì,
l'ha scritta lui.
A mia madre, anni e anni fa.»
«E
voi come ne siete venuta a conoscenza?»
La
donna assunse un'aria indifferente, come se narrasse la vicenda in un
corpo che non le apparteneva. «Me ne parlò mia madre poco dopo la
sparizione di Christine. Le avevo chiesto se era vero quel che si
diceva, ossia che il palco numero 5, di cui era la maschera,
apparteneva al “fantasma”. Io ne ridevo, ma lei mi avvertì di
non parlarne a sproposito. E ora capisco il perché.»
«Quindi
vostra madre sapeva che il fantasma non era uno spettro, bensì un
uomo?»
«Probabilmente
sì. Era una donna pratica che non avrebbe mai dato fede a certe
superstizioni. Per questo mi insospettii dei suoi ammonimenti e
insistetti perché mi raccontasse la verità. Lei mi fece leggere
questa lettera. A quanto pare, aveva stretto un “patto” con il
fantasma.»
Madame
sospirò, come se tutt'ora disapprovasse le azioni della madre.
Eppure, un velo di tristezza si celava oltre i suoi occhi freddi.
«Lei sospettava che fosse un uomo normale… per quanto possa essere
normale uno che si comporta in modo così assurdo. Ma la
preoccupazione nei miei confronti vinse sul suo pur forte senso
dell'onore e decise di acconsentire alle sue richieste, che
d'altronde erano molto semplici. Bastava che gli riservasse il palco
numero 5 e che lì lasciasse tutto ciò che i direttori avrebbero
indirizzato a lui.»
«I
ventimila franchi mensili…» compresi in un lampo.
«Sì,
ma mia madre non sapeva che si trattasse di denaro. Né il fantasma
né tanto meno i direttori la misero a conoscenza di quella truffa.
D'altronde, lei non ne avrebbe comunque ricavato nulla. Il fantasma
le dava qualche mancia ogni tanto… il che ci faceva comodo – non
eravamo quel che si dice benestanti, anche se ce la cavavamo. E
soprattutto, aveva promesso di farmi divenire imperatrice.»
Ammiccai,
ancora confuso. «Imperatrice?»
«Del
palco dell'Opera, s'intende. E per un po', lo sono stata.»
«E
come avrebbe adempiuto a questa promessa?»
Madame
sorrise – un sorriso nascosto, tra l'amaro e il divertito. «Se mi
fossi mostrata degna di questo titolo, non gli sarebbe stato
difficile mettere una vocina all'orecchio dei direttori e farmi
promuovere, da semplice corifea, a solista e, finalmente, prima
ballerina. Sospetto che sia per questo che mia madre mi faceva
esercitare più delle altre ragazze del corpo di ballo. In verità
era sempre stato così, ma dopo la promessa del fantasma i suoi
sforzi perché raggiungessi l'eccellenza addirittura raddoppiarono.
Per meritare il posto, dovevo sudare sangue. Cosa che feci… peccato
che questo cosiddetto “fantasma” svanì nel nulla dopo la
partenza di Christine. E se quel che mi dite è vero, ora la ragione
mi è chiara.»
«Davvero?
Vostra madre non ricevette più nessuna lettera da lui?»
«Nessuna.
E questo ben prima che fossi promossa ad étoile.
Come vedete, sono riuscita a diventare prima ballerina anche senza il
suo prezioso aiuto.» Dal tono sarcastico con cui aveva parlato, era
evidente che la sola idea di una raccomandazione pungeva il suo fiero
orgoglio, di cui, come avevo potuto constatare, aveva una riserva
infinita.
«Sapete
qualcosa dell'affare della “busta magica”?»
Lei
annuii, poggiando il mento sul palmo della mano come a sostenere una
conversazione alquanto noiosa. La cosa avrebbe dovuto offendermi, ma
ormai pendevo dalle sue labbra e non vi prestai attenzione, pronto
com'ero ad appuntare tutto sul mio fedele quaderno.
«Mia
madre me ne parlò qualche giorno dopo l'accaduto. Era indignata.
Aveva scoperto la truffa del fantasma, ma i direttori pensavano – e
ammetto che fosse una deduzione alquanto logica – che fosse sua
complice. La chiusero nell'ufficio dell'amministratore Mercier per
impedirle di mettersi in contatto con il fantasma. Come scoprì dopo,
il furto non aveva avuto luogo... anche se per tutta la serata i due
direttori avevano continuato a comportarsi in modo a dir poco
bizzarro. Era proprio la malaugurata sera del rapimento di Christine.
La mia amica sparì dal palco dopo un improvviso blackout,
volatilizzatasi come fumo… io ero nelle quinte, e vidi tutto. O
meglio, non vidi nulla, esattamente come tutti gli altri. Assistetti
solo alla scena. Dopo mi misi alla ricerca di Christine, ma non
riuscii a trovarla da nessuna parte. Ero molto preoccupata, e quando
intravidi il visconte, ancor più disperato di me, intuii che forse
lui non aveva nulla a che fare con quella messinscena… Dopo quella
sera, non li vidi più. Nessuno dei due. In tutto il teatro non si
faceva che parlare dell'accaduto, e della morte del conte Philippe,
il cui cadavere era stato ritrovato nei recessi di Rue Scribe, vicino
allo sbocco che portava al lago sotterraneo dell'Opera…»
«Sì,
di questo avvenimento sono già a conoscenza.»
«E
allora non abbiamo altro da dirci.» La donna emise un sospiro
lievissimo, come se si fosse tolta un peso. Era evidente che il
congedarmi le dava sollievo. Mi accigliai: non credevo che la mia
presenza le recasse tanto fastidio.
«Se
è così, vi ringrazio per la vostra testimonianza» dissi, alzandomi
ed esibendomi in un lieve inchino di saluto. In seguito aggiunsi, con
meno cautela di quanta avessi usata finora: «Siete certa di non
sapere nient'altro sulla faccenda della “busta magica”? Nessuna
idea su quale trucco abbia usato il fantasma?»
Lei
mi fulminò con un'occhiata a dir poco raggelante. «Mi spiace,
Monsieur» rispose in un tono che era tutto tranne che di scusa.
«Credevo di essere stata chiara: io e voi non abbiamo altro da
dirci.» E sprofondò in un gelido silenzio che non osai infrangere.
Quando
arrivò la cameriera, Giselle, a scortarmi alla porta, compresi che
la nostra conversazione era terminata. Non importava se il fango li
aveva inabissati, confusi con il resto della rena rugginosa del
passato… i segreti di quella donna mi sarebbero rimasti per sempre
preclusi.
Con
un ultimo inchino, me ne andai da quella grande casa di polvere e
ricordi perduti, portandomi dietro più domande che risposte.
Mancava
molto poco perché la verità venisse finalmente a galla – e con
essa, dall'oblio, le memorie di una vita
nella morte,
un'esistenza condannata fin dalla nascita. Il mio entusiasmo
raggiunse il massimo grado quando le prove di quella fantastica
storia risorsero letteralmente dalla terra in cui erano state
sepolte. Difatti, per la cerimonia di sepoltura delle “voci vive”
– registrazioni di illustri cantanti custodite in una cella nei
sotterranei dell'Opera, da cui sarebbero state richiamate alla
superficie cent'anni dopo – furono trovati i resti di uno
scheletro. E non uno scheletro qualunque… Io, che partecipai ai
lavori di scavo, vi riconobbi quel filo rosso che mi aveva legato ad
esso fin da quando il Persiano mi aveva affidato le sue memorie, e
adesso mi stringeva il cuore. Non fu un mero frutto della mia
immaginazione: al dito di quello scheletro – che adesso
rassomigliava a tutti gli altri sepolti sotto la terra – vi era
infilato un anello, una sottile fede d'oro con sopra incise due
lettere: C. D. Christine Daaé, naturalmente! Era proprio quella la
descrizione che mi aveva fatto il Persiano dell'anello nuziale donato
dal fantasma alla giovane soprano. E quando portai la notizia a
quell'uomo onesto e giusto, anche lui non poté nascondere la
commozione che, malgrado tutto ciò che quella creatura sfortunata lo
aveva costretto a subire, lo afferrò come me che, finalmente, vedevo
realizzato il mosaico che stavo ricostruendo da così tanto tempo con
lavoro certosino. Un mosaico fatto d'ossa, oro arrugginito dal tempo
e voci vive…
Prima
di mettere l'ultimo punto al manoscritto finale, non riuscii a non
cedere alla tentazione e feci nuovamente visita alla baronessa per
portarle la notizia che la mia indagine si era conclusa e che presto
avrebbe conosciuto tutti i dettagli del destino della sua vecchia
amica.
Giselle,
la giovane governante dai capelli di fiamma, mi accolse col solito
broncio e mi accompagnò nello stesso studiolo in cui, qualche
settimana prima, la baronessa aveva acconsentito a ricevermi e a
rispondere alle mie domande. Adesso ero io che avevo qualcosa da
dichiararle.
La
donna che mi si presentò dinanzi era ancora più scarna, meno viva
di quella che rammentavo. Quanto rassomigliava al fantasma del mio
racconto! Era chiaro che la sua salute era peggiorata: notai il
livido pallore della sua pelle bruna, gli occhi cerchiati di rosso e
violaceo, i polsi fragili come quelli di un'antica bambola rotta.
Quasi mi dispiacque di averla disturbata nuovamente, ma d'altronde,
se lei aveva acconsentito a ricevermi, una ragione doveva pur
esserci.
«Monsieur
Leroux.» Mi
accolse con l'usuale fredda cortesia, anche se fui lieto che
rammentasse il mio nome. «Mi scuso per il mio stato… Sono malata,
ma anche pronta a sentire cosa avete da dire.» Era una sfida,
chiaramente lanciatami per farmi capire che non importava in che
condizioni fosse, era sempre abbastanza lucida da colpire a segno con
le sue parole argute, il suo sguardo penetrante, la sua apparente
antipatia per i giornalisti. E per le mie “cianciate” in
particolare.
«Sono
io a dovermi scusare, Madame. Non ero assolutamente a conoscenza
del…»
«Ormai
non ne è più a conoscenza nessuno, se non il mio esiguo personale
di servizio. Certo che non potevate saperlo. Vi invito ad
accomodarvi» disse in un tono che sembrava più perentorio che
educato, quasi volesse farla finita al più presto con quella storia.
Non
potevo biasimarla. Le rivolsi un breve inchino e mi sedetti al solito
posto, proprio dinanzi a lei.
«Non
sareste venuto qui se non aveste avuto qualcosa di importante da
dirmi.»
«E
difatti, Madame, sono qui per annunciarvi che presto il mio
manoscritto verrà pubblicato.»
«Buon
per voi.» Era chiaro che non le interessava.
«E
anche che è stato ritrovato uno scheletro in una cella sotterranea
dell'Opera.»
«So
già anche questo, l'ho letto sul giornale. A dire la verità, io non
posso più leggere, ma è la mia fedele Giselle a farlo in vece mia.»
Fu colta da un attacco di tosse tanto forte che la governante, che a
differenza della scorsa volta non ci aveva lasciato, accorse subito
al fianco della padrona per versarle del tè e qualcos'altro da una
fiaschetta, probabilmente una medicina, in una tazza che le porse
subito. La baronessa tossì anche l'anima nel fazzoletto di seta
ricamata e bevve avidamente. Si ricompose mentre io rimanevo sulle
mie, profondamente a disagio.
«Signora
baronessa, se vi sentite male…»
«Sono
abbastanza in forze per stare a sentire voi e le vostre mirabolanti
scoperte, Monsieur» m'interruppe lei con voce rauca, la gola e i
polmoni raschiati da un dolore a me inimmaginabile. Tuttavia, sebbene
provassi compassione per la sua sofferenza fisica, mi sentii offeso
dall'insinuazione nelle sue parole.
«Voi
credete che sia tutta una farsa, per me? Un facile metodo di
pubblicità e guadagno?»
«Questa
storia è talmente assurda che mi è difficile immaginare un altro
motivo.»
Avvampai
di rabbia. «Madame, io vi dico che quello scheletro apparteneva al
fantasma dell'Opera.»
Lei
s'irrigidì. «I fantasmi non hanno scheletri.»
«Questo
sì. Perché era un uomo, Madame, un uomo che non assomigliava a
nessun altro.» Stanco di quello scetticismo, ero pronto a vomitare
tutta la tensione, le derisioni e l'incredulità che avevo provato io
stesso sulla mia pelle in quelle settimane d'inferno e paradiso
insieme. «Era un uomo geniale, un prodigio maledetto dalla nascita
da un'orribile deformità che condizionò per sempre la sua
miserabile esistenza. Nacque nei pressi di Rouen, in un piccolo
villaggio dove nessuno lo capì. Ancora bambino, fuggì dalla madre
che neanche riusciva a guardarlo in faccia senza la maschera che lo
aveva costretto a indossare fin dal suo primo giorno di vita.
Trascorse anni e anni in giro per il mondo, costretto a esibirsi come
fenomeno da baraccone nei circhi e alle fiere di campagna. Presto
prese il controllo dei propri talenti e si fece un nome proprio. Fu
chiamato alla corte di Persia in qualità di più grande
prestigiatore del mondo. Lì commise azioni che preferisco non
ripetere in questa sede. Dopo pochi anni fu costretto a tornare in
Francia, e qui eresse a propria tana i sotterranei dell'Opera, il suo
sacrificio alla dea musica. Li ideò lui personalmente. Vi si nascose
per anni, celato allo sguardo degli uomini, finché non udì una
voce: la voce della vostra amica Christine. Se ne innamorò e le
offrì di darle lezioni di canto. Christine, che aveva perso tutta la
speranza e la gioia per la musica dopo la morte del padre, ritrovò
l'anima attraverso la storia dell'Angelo del canto. Sì, egli si
finse un Angelo per avvicinarsi a lei. L'antica promessa di Papà
Daaé si era avverata, per Christine. Ma lui era un uomo di carne e
sangue, dovete credermi, Madame. Sì, era un uomo, e si chiamava
Erik.»
«Lo
so» disse la baronessa in un soffio.
«Bene…
No, un attimo: cosa?»
Rimasi
attonito. Forse avevo capito male. Forse tutta quella vicenda, alla
fine, mi aveva fatto impazzire sul serio.
«Ho
detto che lo so» ripeté la donna. I suoi occhi avvizziti, cerchiati
dalla stanchezza, erano colmi di lacrime. Le mani, posate sul velluto
della gonna, improvvisamente sembravano piene di vita: tremavano,
come scosse da un burattinaio invisibile. Qualcosa sembrava averla
fatta risorgere dal suo stato di morte apparente.
«Come
sarebbe a dire che lo sapete? Cosa significa?»
Le
lacrime le striarono le gote, che improvvisamente erano d'ambra mista
a chiazze color osso e rubino sulla pelle sottile come garza. Si
coprì il volto con le mani.
«Madame,
non capisco…» Ero talmente sbigottito che non trovai più la forza
di proferire parola.
«Voglio
dire» iniziò lei, con la voce che tradiva l'amarezza in un rantolo
a stento trattenuto, «che lo conoscevo. So benissimo chi era… sono
una delle poche persone in questo mondo a poter dichiarare una cosa
simile.»
Crollai
di nuovo sulla poltrona. Avevo sempre pensato che quella donna
nascondesse qualcosa… ma quella reazione mi era del tutto inattesa.
Non riuscii a far altro che ascoltare.
«Per
tutti questi anni, ho taciuto sulla sua esistenza… Era
il suo ultimo desiderio, e io lo compresi, e lo rispettai… Non mi
rimase altro che questo.»
«Perché
non me l'avete detto subito?» chiesi in tono appena udibile. Il mio
mondo si era di nuovo capovolto. Adesso c'erano nuovi elementi da
considerare, altre cose inimmaginabili… un palinsesto da
riscrivere, raschiato col sangue di una vita che no, ancora non
conoscevo, malgrado le mie illusioni.
«Perché,
mi chiedete?» Lei scoppiò a ridere – una risata che mi gelò il
sangue nelle vene. Era talmente priva di ilarità che mi parve un
singhiozzo malformato. Si asciugò il volto col fazzoletto, e lì
rimase, a coprirle
le labbra rinsecchite. Avevo creduto che il suo cuore fosse divenuto
arido a forza di perdite e mancanze… ma avevo torto, perché non
sapevo quanto avesse perso e quanto ricordasse ancora.
«Non
mi fidavo di voi» disse in un sussurro torbido. I suoi occhi
d'uccello mi avevano fissato fin dal nostro primo incontro con grande
diffidenza, ma adesso vi era qualcosa di nuovo: una preghiera. Se per
se stessa o qualcuno di ormai irraggiungibile, o se diretta a me, non
potevo saperlo.
L'orgoglio
non aveva potuto coprire le ferite del tempo. Erano decrepite, ma
ancora bruciavano;
e
io vi avevo gettato nuovo sale, avevo ridato loro un nome e l'avevo
appuntato sul mio manoscritto.
È
vero, è tutto vero. Erik era vivo. E anche questa donna lo sa.
Deglutii
a fatica e mi ricomposi, come d'altronde fece anche lei.
«E
adesso avete deciso di dirmi la verità?»
Il
suo sguardo puntò sulla distanza, oltre la mia immaginazione. I suoi
occhi erano lucidi, non più vuote crisalidi di memorie perdute.
«Avete fatto di lui una descrizione accurata e sentita. Il vostro
interesse è sincero… L'ho compreso solo ora. D'altra parte, non
avevo scelta. La mia non è una storia per i giornali.»
«Non
la pubblicherò, se è questo ciò che volete» promisi, ed ero
onesto sia con lei che con me stesso. «Farò pubblicare solo il
manoscritto originale… Se lo desiderate, quel che mi racconterete
resterà tra noi, e solo queste mura ne saranno testimoni. Non ne
farò parola con nessuno.»
Lei
mi lanciò un'ultima occhiata sospetta, ma infine si arrese. «Se
anche Monsieur Nadir ha affidato a voi le sue memorie, devo
rassegnarmi anch'io.»
«Monsieur
Nadir…?»
«Colui
che voi chiamate il Persiano. Sì, conosco anche quel brav'uomo. E
Christine, e Raoul, e il conte… conoscevo tutti. Sono stati parte
della mia vita. E soprattutto, conoscevo lui.»
Strinse
le dita con tanta forza che temetti di vedere le ossa scricchiolare e
rompersi sotto il mio sguardo colmo d'orrore. Ma era più resistente
di quanto la sua malattia palesasse.
«Sono
lo spettro della ragazza che ero… ormai non mi resta più nulla,
neanche la vita. Ben presto me ne andrò.»
«Non
dite così» dissi in tono desolato, ormai commosso da quel discorso
saturo di rimpianto. Marguerite Giry, baronessa di Castelot-Barzebac,
mi rivolse un sorriso – questa volta uno vero, triste, i denti
giallastri visibili oltre le labbra di carta.
«Ben
presto io stessa non sarò altro che una storia. Ma non ho paura, non
più. Aspetto questo momento da molto tempo, forse dalla morte di mio
marito. O anche da prima.»
Emise
un ultimo sospiro. Poi alzò lo sguardo e incontrò i miei occhi. Io
non avrei preso nessun appunto, lo sapevo. Ero lì solo per ascoltare
una storia – la sua. La loro.
«Da
dove posso cominciare, Monsieur?»
Sorrisi
anch'io. «Credo che l'inizio vada bene, Madame.»
Note
dell'autrice: Questa è la
prima storia che pubblico su EFP, ma non la mia prima fanfiction. Ne
ho sempre scritte, fin da quando avevo quattordici anni. Ho già
scritto quasi trenta capitoli di Mon
couer, e qui ne
pubblicherò uno a settimana – al massimo ogni due settimane.
Quest'anno ho la Maturità classica, quindi come immaginate sarò
molto impegnata, e non so se riuscirò a completarla prima della fine
dell'anno scolastico, come è mio desiderio. Ringrazio autori come
Alexandre Dumas (padre) e George R.R. Martin, i cui lavori mi hanno
offerto ispirazione – vedrete più avanti come. Se otterrò un buon
riscontro (e voglio critiche, anche se costruttive), continuerò a
pubblicare i vari capitoli. Dipende tutto da voi, ragazzi!
Vorrei inoltre aggiungere
che questa storia sarà maggiormente basata sul libro, anche se ci
saranno importanti elementi presi dal musical di Andrew Lloyd Webber
e dal Phantom di Susan Kay. Un po' un misto, diciamo. Per me è
molto importante, perché finora sono riuscita a scrivere solo
racconti oppure one shot (sebbene abbastanza lunghi); questa è la
mia prima storia a capitoli, e sarà lunga, anche se non
eccessivamente. Vi auguro buona lettura! Commentate, mi raccomando! |
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Capitolo 2 *** L'ombra del fantasma. ***
IL
RACCONTO DI MEG
[Atto
I.]
i.
l'ombra
del fantasma
La
mia non è una storia per i deboli di cuore. Lo so perché l'ho
provato sulla mia pelle, e ha lasciato cicatrici indelebili. È la
storia di una ragazza che sognava di danzare per tutta la vita, in
bilico tra il presente e un passato che non riusciva a dimenticare;
di una giovane soprano che non chiedeva altro che ritornare ad amare
la musica, e dell'angelo che avverò il suo desiderio. È,
soprattutto, la storia di un'eroina, una storia sull'amore, sulla
redenzione e sui mostri che vivono dentro di noi – gli unici che
esistano e che dobbiamo temere davvero.
No,
l'eroina non sono io. Ho conosciuto donne che hanno valicato il
confine tra il sacrificio umano e divino, tra il coraggio del
semplice e quello del santo, tra l'intelligenza del cuore e del
calcolo. Io non sono mai stata tra queste. Fui, per tutta la vita,
preda di situazioni che non riuscivo a controllare, e che eppure mi
sforzai di vincere in ogni modo.
Ero
solo una piccola ballerina – anonima, troppo sfacciata per non
cacciarsi nei guai un giorno sì e uno no, troppo solitaria per
attirarsi le simpatie della gente “importante”. Fui sempre e
soltanto un'osservatrice attenta, e combattei solo per me stessa.
Vinsi i miei demoni, mi chiedete? Questo è qualcosa che dovrete
scoprire da voi, Monsieur Leroux, se riuscirete a restare sveglio
durante questo viaggio.
Ci
tengo ad aggiungere che questa è anche la storia di un uomo. Un uomo
che, come voi avete detto, non assomigliava a nessun altro. Se volete
sapere qualcosa sui mostri a cui ho accennato prima, e che dimorano
nelle nostre menti, ascoltate il racconto della sua vita.
Ora,
immaginate: un edificio di marmo e granito, una cupola maestosa, una
facciata sorretta da spesse colonne di un bianco accecante, fregi
scolpiti ad arte che ricordano quelli degli antichi templi ellenici;
su tutto vegliano le statue di creature alate, musica fusa nell'oro,
per ricordare a coloro che entrano a quale dea sia dedicato quel
grandioso monumento. Immaginate una giovane che può chiamare quel
palazzo “casa” – quell'effige del nuovo impero, miscela di
classicismo e del più sfarzoso e moderno barocco.
Sì,
quella era la mia casa, e una parte fondamentale della storia ha
luogo proprio lì, all'Opera Garnier, punto focale dove si
intrecciano l'uno all'altro, in una trama fittissima, i fili che
tessono le vite dei numerosi personaggi di questa storia.
Mia
madre ed io vivevamo in quel teatro da più di sei anni. I nostri
modesti appartamenti erano ricavati da stanze un tempo adibite ai
camerini degli artisti, e non poteva esserci dimora migliore per noi.
Fin dalla prima infanzia, avevo respirato l'arte negli arabesque
di mia madre e nelle sonate per pianoforte di mio padre; il destino,
se poi esiste davvero, aveva voluto chiamare anche me su quella via,
e io avevo seguito la mia vocazione con tutta la determinazione di
una bambina viziata e cocciuta come ce ne sono tante. Viziata perché
figlia unica, e abituata ad avere tutto; cocciuta perché non sapevo
accettare quasi mai un “no” come risposta. Ma gli occhi mi
brillavano mentre apprendevo, a quattro anni, i miei primi passi di
danza e indossavo le nuovissime scarpette da ballo. Molto presto
cominciai a prendere lezioni. Non ricordo un tempo in cui la danza
non abbia fatto parte della mia vita, o meglio, non l'abbia resa
completa, in qualche modo dandole valore ai miei occhi. Esiste da
sempre per me, come la musica. Entrambe sono state le mie amiche più
fedeli, le uniche che, in un modo o nell'altro, non mi abbiano mai
abbandonata.
La
storia inizia proprio in quel teatro, e grazie alla musica. In
particolare, una mattina di circa trent'anni fa…
«Signorine,
più diritte con quelle gambe. Jammes, sollevala ancora di più.
Ecco, perfetto. Giry! Che cosa stai facendo?»
Mi
voltai per affrontare l'ennesimo rimprovero di mia madre. Le rivolsi
un sorrisetto colpevole.
«Nulla,
Madame. Non ero concentrata. Non accadrà più.»
Durante
le lezioni e le prove dei balletti, ero sempre attenta a non
rivolgermi a lei con nominativi più familiari.
Mi
rivolse uno sguardo severo. «Sarà meglio, perché vi voglio
perfette per la serata di gala. Forza, abbiamo già provato
Polyeucte.
Date il
massimo, e ricordate di tenere quelle caviglie il più dritte
possibile. Sincronizzate. Un,
deux, trois!»
L'orchestra
ricominciò a suonare da dove si era interrotta. Io mi unii alle
altre e ripetei per quella che sembrava la centesima volta la
coreografia del balletto in cui dovevamo esibirci al gala dato in
onore dei direttori dimissionari. Avevamo tutte i piedi doloranti, ma
non importava: la danza faceva dimenticare questo e altro. Inoltre,
per raggiungere il livello di eccellenza a cui aspiravamo mia madre e
noi tutte, questo era il minimo. La vita di una ballerina è fatta di
unghie dei piedi insanguinate, calli e dolori che col tempo diventano
sordi e vuoti, come una musica dimenticata, eppure sempre presente
nel fondo della mente. E, soprattutto, è fatta di voli a metà –
l'illusione di avere le ali a mezzo metro da terra.
Quel
giorno in particolare mi ero distratta al passaggio di alcuni membri
del coro e della compagnia di cantanti, tra cui la sostituta prima
donna: Christine Daaé. Vedendola stranamente pallida dopo le prove,
le avevo fatto un cenno col capo per indicarle la mia (speravo
rassicurante) presenza. Udendo Monsieur Reyer, il direttore
d'orchestra, parlare col maestro di canto Gabriel dello sfortunato
raffreddore della Carlotta, la nostra diva, che per questo
impedimento aveva dovuto rifiutare l'invito di esibirsi al gala,
avevo finto un improvviso conato di vomito. Christine, con la quale
avevo intavolato una conversazione muta e che aveva origliato il
discorso tra Reyer e Gabriel, comprese a chi erano dirette le mie
smorfie e scosse la testa con aria di rimprovero. Tuttavia, la vidi
nascondere il viso nel libretto degli spartiti nel tentativo di
soffocare una risata.
La
mia poca simpatia per la Carlotta era ben nota: non si trattava di
qualcosa di personale, non le avevo mai parlato direttamente – era
troppo altezzosa per rivolgere la parola a una corifea. In realtà
era semplice: non mi piaceva il modo in cui ci guardava tutti, come
fossimo a uno stadio inferiore dell'evoluzione rispetto a lei, e
quindi per natura sottomessi ai suoi voleri. Che erano tanti e
volubili, aggiungerei. Inoltre, sebbene la sua voce fosse celebre per
l'intonazione perfetta e il timbro di coloratura potente, avevo
l'impressione che cantasse con la stessa personalità di una bambola
di pezza. Le sue doti canore erano invidiabili, ma non mi suscitava
neanche lontanamente le emozioni della Krauss, che avevo spesso
sentito esibirsi dal vivo. O forse ero io ad avere la capacità
emozionale di un sasso, come una volta mi aveva rimproverato mia
madre quando le avevo espresso la mia vera opinione sulla Carlotta e
la sua “straordinaria” arte. Sapevo che, in segreto, condivideva
il mio aspro giudizio, ma probabilmente non voleva che si sapesse che
una ballerina di fila – nello specifico, sua figlia – andava in
giro a parlar male della diva di casa, per salvarmi dai suoi artigli
non poco affilati.
In
realtà, solo con Christine palesavo la mia antipatia per la soprano
spagnola.
«Ha
una voce perfetta» mi diceva Christine con fare accomodante.
«E
un ego ancora più grosso del suo cervello» commentavo io. Lei
sorrideva e dava in un sospiro talmente lieve che non l'avrei notato
se non l'avessi conosciuta così bene. Chissà cosa pensava in quel
momento: se invidiava la teatralità della Carlotta, dote che a lei,
con la sua riservatezza, rendeva difficile “padroneggiare” il
palco, farlo suo e diventarne regina. Quell'insicurezza mi dava ai
nervi: Christine aveva una voce purissima, ma davanti a un pubblico
non riusciva a dare il meglio di sé. Era un bel quadro concluso solo
a metà. Una vista graziosa, ma davanti alla quale si passava avanti
fin troppo facilmente.
«Non
capisco quel che intendi» diceva lei, anche se secondo me capiva
eccome.
«Mi
sembri ferma.
Qualcosa ti paralizza.» Le parlavo con schiettezza, come era mia
abitudine. Non m'importava di offenderla in qualche modo: il mio
scopo era che raggiungesse il massimo delle sue capacità, e sapevo
che ne era in grado. Lei, che eppure non prendeva le critiche troppo
sul personale, si rabbuiava. Non sembrava affatto d'accordo con la
sottoscritta.
«Questo
è il meglio che posso dare» dichiarava con fermezza, e la
conversazione terminava lì. Ma si sbagliava. Ne ebbi prova qualche
giorno prima delle prove del gala, quando Reyer, Gabriel e
l'amministratore Mercier si consultarono disperati perché la
Carlotta aveva il raffreddore. E addio esibizione d'eccellenza alla
serata di gala!
«Non
immagino che perdita sia per lo spettacolo» bisbigliai nell'orecchio
di Christine, che trattenne a forza un sorriso e alzò gli occhi al
soffitto, esasperata e insieme divertita. Eravamo vicine, mischiate
ad altri membri del corps
de ballet
e del coro, attente alla discussione tra i tre uomini. Ilaria
Sorelli, la prima ballerina, aveva appena terminato di parlare con
loro e mia madre della sua performance – si sarebbe esibita in un
aggraziato pas
de deux –
quando l'amministratore Mercier si era fatto largo tra la turba di
coristi e allieve ballerine, raggiungendo Reyer e Gabriel e
informandoli del raffreddore della Carlotta. C'era dunque bisogno di
una sostituta.
In
realtà, dubitavo si trattasse di un semplice mal di gola. La
Carlotta era molto orgogliosa, e un incidente avvenuto circa una
settimana prima, durante una prova del Faust,
l'aveva ferita troppo nel profondo. Quel giorno eravamo riuniti
nell'auditorium quando avevano fatto il loro ingresso i direttori
Debienne e Poligny, insieme ad altri due uomini che avevo scorto
qualche volta nei corridoi del teatro. Non avevo idea di chi fossero.
Cercai
di non lasciarmi distrarre dai cenni che i direttori facevano ai loro
accompagnatori. Erano diretti a noi ballerine, impegnate ad esibirci
in un breve balletto d'intermezzo, mentre i cantanti della compagnia
si riposavano insieme al coro e all'orchestra. Fu forse una mia
impressione, ma quando uno dei due sconosciuti fece segno a Debienne,
questi rispose: « … la figlia di Madame Giry. Un talento
promettente.»
Poco
abituata com'ero a sentirmi rivolgere dei complimenti – non si
facevano sconti nel mondo del balletto – per poco non andai fuori
tempo, guadagnandomi una rimbrottata da mia madre. Nascosi un sorriso
soddisfatto sotto i baffi.
Mentre
l'esercizio andava avanti, il quartetto continuò a discorrere
amabilmente, accennando ad altri talenti nel corpo di ballo e tra i
cantanti. Fu allora che il maestro Reyer fece segno all'orchestra di
fermarsi.
«Scusate,
signori, ma ci sono delle prove in corso.»
A
quanto pare, non ero stata la sola a distrarsi all'arrivo dei
direttori e degli altri due gentiluomini. Dall'espressione di mia
madre, era evidente che condivideva il disappunto di Reyer.
«Monsieur
Reyer, mi dispiace interrompervi.» Poligny si affrettò a scusarsi,
salendo sul palco per farsi notare da tutta la compagnia. Era un
ometto basso e mingherlino, dall'aria nervosa. In quei giorni, per un
motivo a noi ignoto, appariva se possibile ancora più teso. Debienne
era di tutt'altra pasta: un uomo corpulento quanto l'altro era esile,
con un collo taurino e un grosso paio di baffi. Le sue gote erano due
mele rosse, ma quel giorno la sua faccia appariva più che altro
simile a un pompelmo rosa.
«Monsieur
Reyer, Monsieur Gabriel, Madame Giry.» Debienne rivolse un cenno di
cortesia ad ognuno di loro. «Monsieur Poligny ed io volevamo fare un
annuncio. Ci duole confessare che le voci sono vere: presto lasceremo
la direzione dell'Opera.» Un mormorio si diffuse tra la compagnia.
In effetti, erano settimane che si bisbigliava dell'imminente ritiro
dei direttori.
«Ma
siamo lieti di annunciare» riprese Poligny, sforzandosi di far
sentire la propria voce debole oltre i sussurri del coro e del corpo
di ballo insieme, «che due gentiluomini capaci prenderanno il nostro
posto. Di certo i loro volti vi sono noti. Vi presento Monsieur
Armand Moncharmin e Monsieur Firmin Richard.»
I
due uomini che li avevano accompagnati fin lì sul palco
s'inchinarono quando Poligny li presentò alla compagnia, che per
tutta risposta scoppiò in un applauso breve ed educato.
«Sono
sempre due vecchi» sentii borbottare la fin troppo allegra Tholomyés
alla piccola Cécile Jammes, che condivideva la sua delusione. Si
mormorava infatti che l'aitante conte Philippe de Chagny stesse per
divenire mecenate dell'Opera. Di certo un uomo diverso dai due che ci
erano appena stati presentati come i futuri nuovi direttori.
Armand
Moncharmin era alto e dinoccolato, e assomigliava a un manico di
scopa con sottili baffi alla francese. A differenza di una scopa,
però, aveva un sorriso più amichevole. Firmin Richard era un nome
noto alla comunità musicale parigina: critico, compositore e
musicista discreto, era appassionato d'opera quanto probabilmente il
suo compagno Moncharmin, che aveva più l'aria di un imprenditore, ne
ignorava l'arte. Era un uomo ancora più alto del suo collega, e
decisamente più mastodontico, con pochi capelli di un vago rossastro
attorno alla lucida pelata. Se Moncharmin aveva l'aria di un
intellettualoide, Richard aveva l'aspetto di un macellaio con abiti
da borghese d'alta classe. Devo ammettere che la cosa mi risultò
alquanto indifferente: non m'importava dell'avvenenza o meno dei
nostri direttori, purché fossero efficienti nel loro lavoro. Lasciai
tutta la delusione alle ragazzine, che si aspettavano l'affascinante
conte. Sapevo che Richard era un critico acclamato e speravo che
s'intendesse di musica più dei suoi predecessori, che si lasciavano
più che altro consigliare da Reyer e mia madre.
Debienne
e Poligny si affrettarono a presentare ai futuri direttori i membri
più illustri della compagnia.
«Monsieur
Reyer è il nostro direttore d'orchestra.» Il “nonno”, come lo
chiamavano le più piccole tra le allieve ballerine, per la sua
abitudine di distribuire loro caramelle ogni volta che ne incrociava
un gruppetto nei corridoi – sembrava che nelle tasche nascondesse
un'infinita miniera di dolciumi. Indirizzò a Moncharmin e Richard un
breve cenno.
«Madame
Giry è invece la nostra ottima istruttrice di danza.» Mia madre
rivolse loro un inchino severo ma cortese, che i due uomini
ricambiarono. Alta e snella, aveva lineamenti marcati che, con quelle
folte sopracciglia scure e i capelli neri stretti in una crocchia
austera – che io avevo ereditato – la facevano assomigliare a un
corvo. Ma era un corvo aggraziato ed elegante, con la stessa forza di
un'aquila reale. La sua pelle era pallida porcellana, raggrinzita
solo nelle poche rughe che le solcavano il viso. Io invece avevo
ereditato la statura piccola e l'incarnato bruno di mio padre,
d'ascendenza africana. E se il suo naso era lungo e leggermente
adunco, e le donava un'aria di fermezza e volontà, il mio era
schiacciato e, nel complesso, poco attraente. Da giovane non era
stata una bellezza, proprio come me; ma a differenza della
sottoscritta, possedeva un fascino che aveva incantato lo spirito di
non pochi giovanotti, tra cui mio padre, che se n'era innamorato a
prima vista. Si erano conosciuti all'Opera Le Péletier, prima
dell'incendio che l'aveva distrutta. Mia madre vi lavorava come
ballerina, mio padre faceva parte dell'orchestra in qualità di
giovane pianista. A dire di quest'ultimo, Antoinette Giry era la più
meravigliosa creatura su cui avesse mai posato gli occhi – anche se
non era vero. Era sempre stato molto innamorato di lei. Forse era per
questo che…
Mi
riscossi da quei pensieri – non era proprio il momento per sciocchezze
del genere – e mi concentrai nuovamente sulla scena di
fronte a me. La Sorelli era appena stata presentata a Moncharmin e
Richard, e adesso toccava all'attuale diva dell'Opera e al suo
collega – si sussurrava anche amante – il tenore Ubaldo Piangi.
Fu poi il turno del celebre baritono–basso Carolus Fonta, che
interpretava il ruolo di Mefistofele nella nuova produzione del
Faust.
Moncharmin,
che s'era detto ammiratore dalla Carlotta, le chiese di esibirsi per
lui e il collega in un'aria assai famosa, l'air
des bijoux cantata
dal personaggio di Marguerite nel terzo atto.
«Come
i miei direttori comandano» acconsentì la Carlotta, simile a un
felino soddisfatto delle carezze del padrone. Ma con lei non si
sapeva bene chi fosse il datore di lavoro e chi l'impiegato.
«Maestro»
si rivolse a Reyer.
«Come
la mia diva comanda» rispose quest'ultimo, in realtà molto più
accondiscendente della prima donna, e fece segno all'orchestra di
iniziare a suonare. Mentre le prime note si diffondevano nell'aria,
invisibili ricami di suono che andavano a sfiorare ciò che giaceva
sotto la pelle, io mi allungai sul pavimento e tesi il più possibile
la gamba destra, fino allo spasimo. Era un dolore che non sentivo
più, tanto quell'esercizio mi era entrato nel sangue. Avevo
trascorso anni e anni a tendere le gambe fino a vedere i nervi
pulsare sotto la carne.
La
voce della Carlotta mi inondò i timpani. La guardai di traverso:
ammirabile intonazione, ma… non c'era nulla da fare. Sul palco
restava Carlotta, non diventava Marguerite. E la protagonista del
Faust non
era lei.
I
direttori tuttavia sembravano alquanto soddisfatti. Assomigliava più
a una Carmen, in effetti, la cui personalità forse sentiva più
affine alla propria. Non aveva nulla del riserbo di Marguerite; la
giovanile scoperta di sentirsi bella non aveva lo stesso effetto sul
pubblico, dunque, che se fosse stata una vera attrice a impersonarla.
Questa Marguerite sembrava una donna di mondo, non una provinciale
tutta casa e chiesa.
S'il
me voyait ainsi!
Comme
une demoiselle
Il
me trouverait belle!
Fu
proprio durante questi versi che accadde qualcosa d'inaspettato. Si
udì uno schiocco e infine un grosso urto, come di una fune spezzata
e qualcosa che cadeva. La Carlotta ebbe appena il tempo di emettere
un urlo strozzato che uno degli imponenti fondali di scena le crollò
addosso, sotterrandola sotto un mare di cartapesta. Tutti gli altri
si erano allontanati appena in tempo prima di essere travolti.
Carlotta doveva la fortuna di essere l'unica vittima di
quell'incidente al fatto che, quando cantava, preferiva occupare da
sola il centro della scena. Noi altri che eravamo sul palco
sobbalzammo ai lati. Alcune delle piccole allieve ballerine gridarono
per lo sgomento e la paura. Svanito l'effetto sorpresa, risvegliati
dai gemiti soffocati della diva sotterrata, tutti si gettarono in
avanti e corsero a toglierle di dosso quel peso considerevole. Il
caos serpeggiò per tutto l'auditorium, mentre le ballerine, in
particolare le più piccole, rabbrividivano e saltellavano di qua e
di là come tanti cagnetti idrofobi.
«É
stato lui! Il fantasma dell'Opera!» si sussurravano tra loro tutte
eccitate.
Alzai
gli occhi allo splendido soffitto a cupola: che idiozia. Erano anni
che circolavano voci su quel dannato spettro che recava solo
confusione e noia nel teatro che aveva eretto a sua dimora. Se
avveniva un qualsiasi incidente più o meno grave, nessuno dei più
superstiziosi aveva dubbi: era stato il fantasma.
«Strano
modo di trattare degli ospiti in casa sua. Se è il suo teatro,
perché ci tiene a boicottarlo?» era stato il mio commento
sarcastico una volta che la piccola Jammes mi aveva riempito la testa
di stupidaggini sul fantasma di un musicista condotto al suicidio per
amore – o di un vecchio macchinista a cui si era spezzato il collo
in una rovinosa caduta da una passerella nel sovrappalco; o
addirittura uno degli operai che aveva lavorato alla costruzione
dell'Opera Garnier e che era morto quando un masso di marmo gli aveva
ridotto il cranio in poltiglia sull'asfalto dove un giorno sarebbe
sorto il teatro. Nessuno lo sapeva con certezza. Avevo cercato di
tranquillizzare la ragazzina, dicendole che erano tutte sciocchezze.
Non riuscii nell'obiettivo.
Nutrivo
il sospetto che le ragazze provassero una sorta di strana eccitazione
ogni volta che si parlava del fantasma, e per questo volevano
crederci – dipendenza dal brivido che si chiama adrenalina. Ci
volle il sordo tonfo del bastone di mia madre, che picchiò
violentemente contro il pavimento – suo gesto abituale che
rassomigliava al silenzioso march
di un
generale in battaglia – per calmarle. Passò sulle ragazze uno
sguardo severo, come a dire: “Signorine, un po' di contegno.”
Io,
che mi ero limitata a balzare in piedi e a spostarmi all'indietro per
evitare che il fondale, crollando, colpisse pure me, ritornai a
concentrarmi sulla penosa scenetta che si svolgeva davanti ai miei
occhi. Ubaldo Piangi aveva tirato su la Carlotta, oscillando anche
lui nello sforzo: pesante com'era, sembrava una balenottera intenta a
tirare su un albero di Natale – la Carlotta era così agghindata da
ricordarne uno per davvero. In quel momento era furibonda: il viso
avvampato dalla furia e probabilmente dallo spavento, tutte quelle
attenzioni non produssero altro effetto che farla innervosire ancora
di più. Fece segno a tutti, eccetto che a Piangi, di allontanarsi
per farla respirare.
«Mia
cara, state bene?» le chiedeva ininterrottamente il suo collega e
amante, non capendo che in quel momento la cantante non era in grado
di parlare. Dall'espressione sulla sua faccia e le chiazze rossastre
sui suoi zigomi affilati, non mi sarei stupita se avesse fumato anche
dalle orecchie.
I
nuovi direttori si erano presi un bello spavento, ma si erano
rasserenati quando avevano potuto constatare che la loro prima donna
stava bene. Debienne e Poligny, invece, erano lividi: il primo
sembrava sul punto di tirarsi via i baffi a manciate
dall'esasperazione; l'altro aveva l'aria di qualcuno che sta per
venire meno da un momento all'altro. Se possibile, divennero ancora
più terrei in volto quando udirono lo starnazzare delle ragazzine.
Debienne riservò loro un'occhiata fulminante, il che era strano: di
solito era oltremodo cortese con le ballerine, anche quelle più
anonime o giovani. Io, che ero una semplice corifea, rimanevo una
delle più grandi del corps
de ballet e
in questo senso avevo un certo ascendente sulle più piccole, o
perlomeno su alcune di loro. Parlo, ovviamente, delle allieve
ballerine, che andavano da un'età compresa tra i dieci e i quindici
anni. I miei ammonimenti al silenzio e quelli delle altre ballerine
più grandi non bastarono: ci vollero la Sorelli e infine mia madre
col suo bastone da soldato a farle tacere.
«Buquet!»
gridò Debienne con l'aria di uno che avrebbe volentieri torto il
collo al povero macchinista. Questi – un uomo di mezza età
dall'aria semplice e a modo – scese spaventato dal suo posto sul
sovrappalco. Era lui il principale responsabile della macchina che
faceva ruotare il teatro: le scenografie dipendevano da lui e i suoi
sottoposti. Gli altri macchinisti gli fecero spazio per farlo
passare. L'uomo si presentò al cospetto dei direttori con aria
incolpevole.
«Buquet!
Spiegate quest'incidente.»
«Non
sono stato io, Messieurs» spergiurò Buquet con voce atona. «Io non
ero neanche al mio posto, i miei colleghi possono provarlo.»
«Ma
davvero?» rimbrottò Debienne, tagliente.
«Buquet,
siete un uomo di parola. Sapete spiegare cos'è successo?» chiese
Poligny, massaggiandosi le tempie come se gli stesse per scoppiare il
cervello.
«Vi
giuro che non ne ho idea. Deve essersi allentata una fune. Qualcuno
non deve aver stretto bene il nodo.» Scambiò un'occhiata con gli
altri macchinisti. Debienne folgorò alcuni dei più giovani con
un'occhiataccia che li fece trasalire. In fondo, era il loro datore
di lavoro. Poligny appariva più diplomatico.
«E
voi dov'eravate, Buquet?»
Questi
si torse le mani callose. «Stavo controllando gli scenari del
prossimo atto, Monsieur. Non ero al mio posto.» Poi aggiunse,
calando lo sguardo e con tono improvvisamente torbido: «Se c'era
qualcuno, allora doveva essere un fantasma.»
A
queste parole, una nuova corrente di pigolii attraversò come un'onda
anomala il gruppo delle ragazzine. La Sorelli – che tutte seguivano
come un gregge col suo pastore – fece loro cenno di calmarsi, prima
che mia madre fosse costretta a usare di nuovo il bastone.
«Dio
del cielo!» fece Richard roteando gli occhi. «Siete tutti
ossessionati.»
Mia
madre gli indirizzò uno sguardo severo che tuttavia l'imprudente
futuro direttore non poté notare, poiché era voltato di spalle.
Quel
comportamento bizzarro non mi sfuggì. Me lo annotai nella mente,
come riferimento per il futuro.
Alzai
gli occhi verso la passerella da cui era crollato il fondale. In
effetti non c'era nessuno – almeno non adesso. Aguzzando la vista,
vidi un lampo nero agitarsi nel buio… Ma forse era solo uno scherzo
della mia lievissima miopia. O magari Figaro, il gatto dell'Opera.
Accigliata,
tornai ad osservare la scena. I signori dimissionari avevano
congedato Buquet e gli altri macchinisti, tra cui scorsi un viso
familiare. Luc mi vide e mi fece l'occhiolino prima di andarsene. Io
cacciai la lingua in una smorfia d'infantile alterigia. Lui rise e
scosse il capo, e io feci lo stesso vedendolo affrettarsi alle
calcagna dei suoi colleghi più anziani.
«Signora!
State bene?» Poligny sembrava essersi finalmente accorto che la
Carlotta era ancora viva e vegeta. Anche Moncharmin e Richard, che
per tutto il tempo si erano limitati a scambiarsi occhiate perplesse
per via di quel trambusto di cui non comprendevano la ragione – in
fondo era stato solo un incidente, e nessuno s'era fatto male – si
avvicinarono per informarsi sulla salute della cantante. In ogni
caso, non era il suo stato fisico ad essere preoccupante.
«Signora,
sono cose che capitano» disse Moncharmin con fare conciliante,
vedendo che era ancora rossa di rabbia.
Fu
la cosa più sbagliata da dire in quel momento. Se possibile, lo
sguardo della Carlotta si fece ancora più furente. Sembrava sul
punto di staccare la testa al gentiluomo sprovveduto, che infatti
indietreggiò d'istinto.
«Cose
che…» iniziò la prima donna, per poi fermarsi subito, quasi le
mancasse il fiato. «Cose che capitano…?» Squadrò i due futuri
direttori dall'alto in basso, riversando su di loro tutto il furore
che aveva trattenuto fino a quel momento – e non era poco.
«Sono
tre
anni che
queste cose capitano!» Pronunciò una sequela di quelle che
probabilmente erano imprecazioni e insulti in uno spagnolo
rapidissimo. Quando era arrabbiata, il suo accento diveniva ancor più
evidente. «Tre anni! E nessuno di voi» indicò dapprima Debienne e
Poligny, e poi gli sfortunati Moncharmin e Richard, agitando un
indice sotto il naso di ognuno di loro come se fosse una spada,
«nessuno di voi ha fatto qualcosa! Beh, finché queste cose
accadranno, questa
cosa»
indicò se stessa con un gesto eloquente, «non accadrà!»
E
uscì a grandi passi dall'auditorium, seguita dai suoi lacchè e da
un Ubaldo Piangi che pareva più simile che mai a un appendiabiti,
dal momento che sembrava stare lì solo per reggerle la pelliccia.
Il
suo collega Carolus Fonta tentò di fermarla, ma la Carlotta non si
fece intenerire e si congedò in una nuvola di profumo e gioielli,
mugugnando qualcosa che assomigliava a un “adesso basta, questa è
la goccia che fa traboccare il vaso” e altre imprecazioni in
spagnolo.
Avrei
voluto che Christine fosse lì presente. Mi sarebbe piaciuto avere
qualcuno con cui ridere. Ma dal momento che ero sola e che scoppiare
in una fragorosa risata sotto il naso dei direttori, di mia madre e
della Sorelli era l'ultima reazione che in quelle circostanze ci si
aspettava da una ballerina di fila, mi trattenni a fatica. Nello
sforzo, credetti di essermi rotta un paio di costole.
«Signori»
disse Poligny indossando il cappello, «se avrete bisogno di me, sarò
a Francoforte.»
«E
io a Napoli» aggiunse Debienne.
Reyer
emise un gemito.
«Ma…
la Carlotta canterà, vero?» chiese Moncharmin, allarmato.
«Ma
certo. Le passerà. Si sa come sono queste dive…» rispose Richard,
ma anche lui sembrava poco convinto. La tempra della Carlotta non era
da sottovalutare, questo lo sapevano tutti.
«Vi
lasciamo ai vostri preparativi per la serata di gala che si terrà in
onore delle nostre dimissioni. Monsieur Mercier è stato davvero
gentilissimo ad organizzarla. Vi ringraziamo di tutto cuore per tanta
dedizione» disse Debienne, mutando discorso e rivolgendosi
all'intera compagnia.
«Siamo
davvero commossi» soggiunse Poligny, anche se il suo colorito
verdognolo non mi pareva granché dovuto alla commozione.
«Ci
rivedremo tutti alla serata di gala.»
Strinsero
la mano a Fonta e a Reyer, rivolsero un ultimo inchino a mia madre e
fecero anche loro una bella uscita, che però chissà perché
assomigliava di più a una rocambolesca fuga. Sembrava che non
volessero altro dalla vita che scappare dall'auditorium il più in
fretta possibile.
Moncharmin
e Richard si guardarono, apparentemente confusi da quell'impazienza.
Non capivano, nessuno di noi capiva.
Beh,
non ancora.
Fu
per questo che giorni dopo, quando Mercier venne ad avvisare Reyer e
il maestro di canto Gabriel che la Carlotta non si sarebbe esibita
alla serata di gala, pensai che la scusa non fosse solo un semplice
raffreddore. Forse aveva qualcosa a che fare con l'incidente di una
settimana prima.
Fatto
stava che adesso ci trovavamo senza una delle cantanti principali e
più attese dal pubblico. Uno spazio vuoto in una serata che si
preannunciava un disastro a metà.
Feci
per dire qualcos'altro a Christine, ma mi bloccai quando la vidi
impallidire.
«Stai
bene?» dissi, alzando un sopracciglio. «Non credevo che la salute
di Carlotta ti interessasse fino a questo punto.»
«Oh,
non è per quello» rispose lei, scossa dalle sue riflessioni. Da
qualche mese sembrava ancora più distante del solito. C'era sempre
stata in lei una malinconia, un qualcosa di amaro e vuoto che aveva
inevitabilmente attirato ciò che di marcio avevo in me fin
dall'infanzia. Era stata la sua solitudine, l'aria di quieto distacco
che mi avevano incuriosita la prima volta che l'avevo vista, tre anni
prima: non avevo mai veduto occhi così tristi in un viso tanto
giovane… se non, a volte, quando mi guardavo allo specchio. E da
egocentrica qual ero, non mi ero lasciata sfuggire l'opportunità di
un'amicizia fuori dagli schemi, una sorellanza che andava oltre il
sangue: era nella carne, nelle nostre voci quando avevamo parlato a
tu per tu per la prima volta e avevamo compreso che a nessun altro
sarebbe stato altrettanto facile dire ciò che ci ribolliva nella
mente e non potevamo confessare. Non era mia abitudine confidarmi, ma
Christine era stata ciò che non avrei mai creduto potesse esistere:
nelle nostre anime si agitava la stessa assenza, che lenivamo
attraverso la compagnia dell'altra. Anche lei, come me, aveva perso
il padre molto presto. E come per me, da allora tutto – sebbene per
circostanze opposte – aveva assunto un significato diverso.
Aveva
stuzzicato il mio interesse – quella ragazza timida, straniera, con
l'aria di provenire da un altro mondo dove a noi gente comune non era
permesso accedere. Facile vittima delle crudeli facezie delle ragazze
più “in gamba” della compagnia, l'avevo presa sotto la mia ala
protettiva. Anch'io avevo subìto l'iniziazione tipica della mia età:
prese in giro e scherzi da quattro soldi che nell'infanzia avevo
considerato come un’ulteriore dimostrazione che era meglio starsene
per conto proprio. Col tempo le cose erano cambiate, ma mi era stato
impossibile non notare la solitudine di Christine, proprio per questa
affinità. Ed ero rimasta sorpresa quando la ragazza, pur con il suo
carattere modesto, aveva dimostrato una certa perseveranza che la
faceva andare avanti malgrado quel vuoto negli occhi.
«Da
quando mio padre è morto… è come se avessi perso la parte più
importante di me. Adesso mi sento manchevole e storpia. Non so se
riuscirò più a correre» mi aveva confessato un giorno. La sua
sincerità nei miei confronti mi stupiva, e io non avevo potuto far
altro che dirle che la capivo, sul
serio. Lei
mi credette, anche quando le dissi che non era più sola.
Non
ci sapevo fare con le manifestazioni d'affetto: mi venivano fuori
goffe, un po' burbere, senza la tenerezza che pure provavo. Ma
Christine era percettiva, almeno nei miei riguardi, e il suo
abbraccio mi donato maggior sollievo di qualunque medicina.
Per
l'affetto che le portavo, non potei non rimanere basita quando, fra
tutti, fu proprio mia madre a dare a Reyer un suggerimento che le
cambiò la vita.
«Non
c'è qualche sostituta in grado di prendere il suo posto?»
«La
Carlotta non ha sostitute, Monsieur Mercier.»
«Messieurs»
li interruppe mia madre, introducendosi nella conversazione. «Se
posso permettermi di suggerire qualcuno più che all'altezza del
compito…»
«Chi?»
chiese Reyer, dando voce ai miei dubbi.
«Christine
Daaé potrebbe cantare, signore.»
Io,
che in quel momento mi trovavo en
pointe,
per poco non caddi in una maniera ben poco degna di una ballerina.
Tra tutti i nomi che mi aspettavo, quello era l'ultimo della lista.
«Cosa?»
sbottai, a voce troppo alta. Non che m'importasse di essere udita o
meno.
Al
mio fianco, Christine s'irrigidì.
Lo
sapeva, pensai.
Sapeva che
mia madre avrebbe suggerito il suo nome, ecco perché era tanto
pallida. Era nervosa.
Cos'era
quella novità? Perché nessuna delle due me ne aveva accennato?
Come
ho già detto, Christine aveva talento, questo era inconfutabile. Si
era diplomata al Conservatorio, ma non si era mai distinta. Aveva una
voce pura, ottima tecnica e timbro dolce, ma non riusciva a prendere
note di più ampio respiro e, cosa ancora più grave, cantava come
una di quelle bambole meccaniche che emettono una graziosa musichetta
appena giri la chiave che hanno conficcata nella schiena. Christine
cantava a comando, come se si
sforzasse. Non
c'era spontaneità nei suoi gesti, nei suoi acuti. A volte sembrava
che neanche volesse farlo. Non l'animava la passione che infiammava
certi artisti e li faceva oscillare al confine con il genio. Non era
niente di speciale… Almeno all'apparenza. Io immaginavo che potesse
dare di più, ma lei non me ne aveva mai dato prova.
In
ogni caso, non tanto da diventare sostituta di una cantante celebre
come la Carlotta a una serata di gala così importante.
«La
corista?» Mercier fece eco ai miei pensieri.
«Sì.
Ascoltatela, Messieurs: ha avuto una grande scuola» spiegò mia
madre in tono conciliante.
«Che?»
farfugliai io. «Christine, di che sta parlando?»
Christine
aveva preso lezioni di canto unicamente da suo padre, oltre che al
Conservatorio, ma era morto da anni. Era a lui che si riferiva mia
madre? Dai racconti di Christine, sapevo che era stato un violinista
di talento, ma non famoso, se non forse nel suo Paese d'origine. Non
poteva essere certo un grande curriculum di presentazione, quello.
«Sentiamo»
acconsentì Reyer, non so se perché non aveva nulla da perdere o
perché ormai era troppo disperato per rifiutare anche quell'esile
tentativo di soluzione. «Venite pure avanti, cara.» Con gentilezza,
le fece segno di avvicinarsi. Probabilmente si era accorto che la
ragazza era ben più che esitante. Non che non fosse palese.
Ancora
a dir poco perplessa, la guardai salire sul palco a passi lenti, come
se volesse ritardare il più possibile una condanna al patibolo.
«Cosa
ci cantate, signorina?» le chiese Reyer, cortese. Era sempre stato
affettuoso nei confronti di me e Christine. Conosceva bene la sua
voce, ma era chiaro che ormai si aggrappava a qualsiasi cosa. Il gala
si sarebbe tenuto l'indomani sera: se volevano concludere qualcosa,
bisognava rischiare.
«Io…
direi Je
veux vivre,
dal Romeo
e
Giulietta
di Gonoud.»
Reyer
annuì e le fece segno di cominciare. Mia madre era immobile,
appoggiata al suo bastone, eppure attentissima. In sala era calato il
più imperturbabile dei silenzi; gli occhi di tutti erano puntati
sulla giovane donna che si accingeva a prendere un respiro profondo.
Molte occhiate stranite o di scherno vennero scambiate tra i vari
membri del coro e del corpo di ballo, soprattutto tra coloro che
conoscevano Christine dai tempi del Conservatorio e sapevano che non
avrebbe mai potuto arrivare ai livelli della Carlotta.
Lei,
le palpebre chiuse, raddrizzò la schiena curva in un attimo,
assumendo una posa morbida, eppure molto più solida di prima. I
piedi ben piantati a terra, sembrava aver preso consapevolezza di
quale fosse adesso il suo posto.
Prima
di cominciare, mi guardò. Posò i suoi limpidi occhi azzurri su di
me, come per cercare una risposta nei miei, scuri e indecifrabili.
Annuii. Sapevo che avrebbe colto il significato del mio gesto: la
nostra conversazione muta andava avanti da tre anni, ormai.
Credo
in te. Forza, puoi farcela.
Ecco qual era il mio tacito messaggio per lei.
Lei
inspirò ancora una volta, un respiro che sembrò riempirle la mente
e il cuore, oltre che i polmoni.
Poi
dischiuse le labbra e cominciò a cantare.
Non
ho mai assistito dal vivo alla trasfigurazione di un bruco in
farfalla, quando il viscido insetto fuoriesce dalla sua crisalide per
diventare una splendida creatura piena di colori. Direi che quel che
vidi quel giorno fu la cosa più simile alla rottura di un bozzolo.
La
voce di Christine conservava l'usuale purezza nel timbro, ma per il
resto era del tutto mutata: sembrava che un angelo le avesse messo le
ali per farla volare.
E
il suo volo era pindarico, assoluto: cantava come se dovesse
svellersi il cuore dal petto e offrirlo alla musica insieme a tutte
le lacrime che non era mai riuscita a versare. Le piangeva tutte
adesso, attraverso le note: sentivo la sua eccitazione, la sua
passione, la sua gioia, potevo vederle il cuore palpitare nel petto e
il sangue scorrerle nelle vene, pulsante di vita. Era viva
– per la prima volta da quando l'avevo conosciuta, cantava come se
la vita dovesse sgorgarle dalle labbra in un fiotto di echi e suoni,
la magia prodotta da una cassa toracica e delle corde vocali. E le
sue sembravano essere mutate in oro. Chi era il re Mida che l'aveva
risvegliata dalla sua morte apparente?
Ma
ora non riuscivo a rispondere a quella domanda. Ero completamente
travolta dalla voce che erompeva da quel corpo di fanciulla: una voce
potente come quella di una regina, o di una dea, senza perdere le
tonalità che la rendevano, col senno di poi, una Giulietta perfetta.
C'era una meraviglia infantile in lei, quasi non riuscisse a credere
alle sue stesse orecchie. Guardava dinanzi a sé, senza posare lo
sguardo su nessuno in particolare. Più andava avanti e più, mi
accorgevo, guardava il soffitto.
Il
cielo, mi
corressi. Spera
che suo padre possa vederla in questo momento, mentre risplende in
tutto il suo fulgore.
Come
Giulietta, sembrava in preda all'amore più estatico e puro che si
possa immaginare, ma il suo era rivolto alla musica.
Quando
l'aria terminò, l'auditorium piombò di nuovo nel silenzio. Dopo
qualche istante sbigottito, la sala eruppe in un fragoroso applauso.
Si sentivano i “brava!” delle piccole allieve, affezionate a
Christine, che aveva sempre una parola dolce per loro. Per il resto,
la compagnia era immersa nel più totale sgomento. La silenziosa
Christine Daaé, la stramba ragazza svedese sempre con la testa tra
le nuvole, che cantava come una dea sul palco che sembrava a lei
destinato da sempre! Da far girare la testa a molti.
«Meravigliosa!»
proruppe Reyer in un applauso più sonoro degli altri.
Io
scossi la testa, in preda a un sorriso: non finiva mai di
sorprendermi. Sapevo che Christine stava guardando me. Anche quella
volta, tra noi le parole erano vane: non c'era molto che potessi dire
e che lei non riuscisse per prima a intuire. Aveva la splendida
qualità di guardare nell'animo delle persone e di vedervi fin nel
profondo, cosa in cui io stentavo, goffa com'ero con tutto ciò che
portava il nome di “emozione”. C'era un solo modo sicuro per me
di esprimerle: la danza.
Ora
sapevo che finalmente Christine aveva ritrovato la sua strada.
Non
pensavo, allora, che le farfalle vivono un giorno solo. E poi, come i
sogni, muoiono.
Christine
non sembrava godere di quelle improvvise attenzioni. Sgattaiolò via
dall'auditorium prima di soffocare e fece per squagliarsela
furtivamente. Riuscii a raggiungerla prima che evaporasse nel nulla.
«Ma
dove ti nascondevi?»
La
tirai da parte, aiutandola così a rispondere alle domande dei
curiosi. Ma non poteva eludere le mie.
Christine
si aprì in un piccolo sorriso. «Da nessuna parte, Meg.»
Rispose
con indifferenza, come se il mio sgomento non avesse ragione
d'esistere.
«Andiamo.
Non ti ho mai sentita cantare in quel modo.»
In
realtà, non avevo mai neanche pensato
che
potesse arrivare ad essere tanto sublime. Credevo fosse talentuosa e
che meritasse maggiore notorietà, ma questo
superava
il semplice talento.
«Cosa
intendeva mia madre quando ha detto che hai avuto “una grande
scuola”? Hai preso lezioni e non me l'hai detto?»
Perché
non me ne hai parlato?, sussurrava
malevola una voce al mio orecchio. Compresi che era quella del mio
orgoglio ferito.
«Fai
troppe domande, amica mia» replicò Christine, e per un istante
apparve a disagio, quasi inquieta. Si fissò le mani come se d'un
tratto fossero divenute più interessanti della mia faccia – il che
poteva pure essere vero. Ma non era quello il momento di
tergiversare. Sentii il mio orgoglio cedere il passo alla
preoccupazione.
«Pensavo
a mio padre» confessò in un sussurro. Dovetti tendere le orecchie
per udire quelle parole, e me ne sorpresi, perché di solito cercava
di parlare il meno possibile del padre defunto – un'altra cosa che
ci accomunava. «Pensavo a lui e a tutte le cose che ho perduto. Al
mare grigio acciaio del mio Paese, che ancora ritrovo nei sogni. Alle
foreste di sempreverdi secolari, ai fragili fiori primaverili. Non
respingevo questi pensieri come un tempo. Lasciavo che m'inondassero,
come un grembo caldo e accogliente. Rammentavo le rassicuranti
melodie del violino di mio padre, che m'ispiravano il canto.»
Non
sai mentire,
fu il mio primo pensiero. Non
provarci neanche con me. Ma
non lo dissi. C'era qualcosa di indecifrabile nei suoi occhi che me
lo impedì.
«Ma
stai prendendo lezioni, sì o no?»
Christine
sospirò, come se non avessi capito niente di quel che aveva detto.
In realtà l'avevo ascoltata molto bene, ma non volevo farmi
distrarre. Dovevo sapere. Quel suo pallore innaturale… Non c'era
ragione di nasconderne la causa, non a me. Da egoista qual ero, non
pensavo che invece di ragioni ce n'erano eccome, solo che non potevo
– né forse volevo – vederle.
«Sì»
rispose lei alla fine, ed era evidente che si era sgravata di un peso
che non riusciva più a sopportare. «Da qualche mese, ormai.»
«E
cosa c'è di male? Perché non me ne hai parlato subito?»
«Io…
è un affare delicato, Meg. Volevo affrontarlo da sola.»
Sbattei
le palpebre, senza capire. «Se preferisci così… Ma non credo di…»
«Posso
andare a casa, Meg? Sono davvero molto stanca.»
Non
scappare via da me. «Certo
che sì, non devi mica chiedermi il permesso.»
«Non
ti stavo chiedendo il permesso, Meg.»
Ovvio.
Era il suo modo cortese di scaricarmi in modo perentorio. Sottile,
com'era lei.
«Comunque
ti capisco, anch'io sono distrutta. Ho i piedi a pezzi.» La studiai
un'ultima volta, sospettosa. «Sei sicura di stare bene? Mi sembri
ancora un po' bianca in volto.»
«È
l'emozione» minimizzò lei. «Ero così nervosa. Vorrei essere come
te, sai? Tu non sei mai nervosa prima di un'esibizione.»
Emisi
un lieve sbuffo. «Vuoi dire che non lo mostro e basta.»
Quanto
vorrei che fosse vero.
«Ci
vediamo domani, allora. Salutami Mamma Valerius.»
«Lo
farò.»
Mi
salutò con un frettoloso bacio sulla guancia, mentre io mi limitai
ad arruffarle i riccioli biondi. Doveva essere davvero scossa. Sapeva
che ricambiavo quelle smancerie solo in rare occasioni: non era nel
mio carattere, la naturalezza del dare e ricevere.
Forse
era lei ad averne bisogno. Ha bisogno di sostegno, di un'amica. E
anche tu. Ma non lo ammetti, stupida orgogliosa testarda che non sei
altro.
Zittii
la voce della parte più delicata di me mordendomi un labbro a
sangue. Christine aveva già girato i tacchi, era quasi alla fine del
lungo androne dorato che era il foyer della danza.
«Christine?»
La fermai prima che mi svanisse dinanzi.
Lei
si voltò, gli occhi sgranati, torbidi come immaginavo fosse l'acqua
cristallina dei laghi svedesi nei giorni di pioggia. «Sì?»
«Chi
è il tuo insegnante?»
Sul
suo volto dolce e franco si dipinse un'espressione fredda e
imperturbabile che di rado le avevo visto indossare. Dentro
di lei ha un'armatura, dove non si vede. È più forte del diamante e
brilla con altrettanta forza. E non lo sa.
«Forse
un giorno te ne parlerò. Ma non oggi.»
La
durezza svanì dalle sue fattezze con rapidità, cedendo a quella che
mi parve un'impronta di rimpianto. Poi se ne andò, lasciandomi lì a
rimuginare sull'enigma che era diventata.
Quella
notte mi svegliai di soprassalto, i timpani pieni di un ticchettio
sconosciuto. Scivolai fuori dal sonno e dal letto, scostandomi dagli
occhi la frangia scomposta di capelli neri. Erano ribelli e
cespugliosi, quasi impossibili da tenere in ordine. Nulla a che
vedere con i morbidi riccioli color miele di Christine. Erano una
seccatura: quando sei una ballerina, l'ultima cosa che desideri è
che dei ciuffi di capelli ti finiscano sugli occhi mentre accenni a
una piroetta. Non potevo permettermi di inciampare sul palco davanti
a tutti.
Tesi
le orecchie. Che cos'era quel ticchettio che udivo in lontananza? Era
terribilmente irritante.
Cercai
di identificare da dove proveniva il rumore che aveva disturbato il
mio sonno, chiedendomi se avesse svegliato qualcun altro.
Improbabile: avevo il sonno molto leggero. In tutta fretta accesi una
candela che tenevo sempre sul comodino accanto al letto e indossai
una veste da camera grigia un po' troppo lunga per la mia scarsa
statura, ma dovevo accontentarmi. Infilai le pantofole ai piedi e
uscii dalla camera a passo felpato, portando con me il lucignolo. Il
tremulo bagliore lasciava scie aranciate sulle pareti, rilevando ciò
che si celava nell'oscurità attorno a me.
Ben
attenta a non urtare qualcosa o a inciamparvi sopra, svegliando poi
tutta l'Opera in un rovinoso fracasso, molto più assordante del
ticchettio di cui inseguivo l'eco, m'inoltrai nel corridoio dei
camerini, dove era collocata la mia modesta stanzetta. Ero immersa in
un amnio d'ombra, che s'adattava alla mia pelle con agio
straordinario.
Scivolai
nel buio come un'onda attirata alla riva da un moto sempiterno. Alla
fine anch'io tornavo sempre lì, dove mi spingeva la corrente. I
cantucci d'ombra dell'Opera Garnier erano da sempre i luoghi che
preferivo. Lì potevo pensare liberamente, come non mi riusciva di
fare alla luce dei riflettori.
Il
ticchettio che mi stava facendo venire il mal di testa proveniva dal
piano inferiore, probabilmente dal vasto auditorium. Oltrepassai una
rampa di scale a chiocciola, un altro stretto corridoio e il foyer
della danza, ora occupato solo dagli spettri di luce creati dallo
stoppino sulle pareti d'oro e marmo. Eccetto che per quel ticchettio,
il grande teatro era immerso nel silenzio come i suoi abitanti. Vi
abitavano vecchi macchinisti e operai – gentile concessione
dell'amministrazione. Dopo ciò che era accaduto a mio padre, anche
mia madre ed io ne eravamo diventate ospiti. D'altronde, non avremmo
più potuto vivere in quella casa baciata dalla morte…
No,
non dovevo pensarci. Non ora, non di notte, non quando le ombre
rendevano più attiva e vulnerabile la mia immaginazione, mutandola
in un calice di veleno… e infine in una piaga.
Cacciai
a forza dalla mia mente quei pensieri assurdi e mi concentrai sul
famoso ticchettio. Proveniva dalle quinte del teatro, esattamente dal
fondo del palco. Il sipario era calato, l'aria era una prigione
d'ombra e polvere. Tutt'intorno, barbagli dorati mi impedivano di
perdere la strada, come lame nel buio. Ma non avrei mai potuto
perdermi in quel luogo. Lo conoscevo come il mio stesso corpo, vi
vivevo con uguale familiarità.
Una
goccia di quella che sperai ardentemente fosse solo acqua mi colpì
sulla fronte, scivolandomi lungo il naso. A giudicare dall'odore, no,
non si trattava d'acqua. Mi affrettai a ripulirmi con una manica,
distorcendo le labbra in una smorfia di disgusto. Figaro doveva
averne fatta un'altra delle sue.
Questa
è la volta buona che non gli fanno più mettere piede – beh, zampa
– qui dentro.
Figaro
era il gatto “dell'Opera”, ma non aveva padroni, per quanto tutti
si prendessero cura di lui. Era libero di vagare dove più gli
pareva, e di girare per i vicoli notturni di Parigi come la
sottoscritta non avrebbe mai potuto fare. In un certo senso, era più
libero di me.
Sospirai
e sollevai lo sguardo e la candela, mentre le gocce continuavano a
scendere in una cadenza odiosa. Il lezzo di piscio e legno sporco mi
trafisse la narici, e mi tappai il naso con la mano che non reggeva
il lumicino. Se ne sarebbero occupati domani quelli delle pulizie.
Sperai che in qualche modo si sbarazzassero di quel fetore.
Immaginavo i cantanti e i ballerini sul palco che si sforzavano di
trattenere dei conati. Scossi la testa: l'ultima cosa che desideravo
era che qualcosa andasse storto alla serata di gala. Era il debutto
di Christine, o perlomeno la sua più importante occasione di
brillare. Già era stata un discreto Siebel nel Faust,
in cui
aveva sostituito un'artista ammalata.
Da
parte mia, avevo già interpretato non pochi ruoli da solista, poiché
ero tra coloro che lavoravano da più tempo all'Opera. Ma erano state
tutte parti marginali. Ero ancora un'anonima ballerina, anche se ogni
anno diventavo meno giovane e più esperta. Non attendevo altro che
la mia occasione: doveva
arrivare,
mia madre ne era praticamente sicura, e io… io non vedevo altro che
l'obiettivo: le luci del palco puntate su di me. Il mio desiderio non
era tanto quello di essere famosa, quanto di interpretare i ruoli che
avevo sempre sognato: Giselle, Odette, Coppelia…
Seguendo
un istinto che non riuscivo a far tacere – né tanto meno lo
desideravo – posai la candela per terra e mi avvicinai al centro
del palco. Col sipario calato, potevo solo immaginare le platee di
poltrone foderate di velluto carminio, ora vuote. Sollevai le braccia
in un moto aggraziato e misi i piedi in seconda posizione, dandomi
una spinta. Con le pantofole non potevo fare granché, e dovevo stare
ben attenta a non scivolare. Una, due, tre piroette. Continuai a
volteggiare fin quando non mi girò la testa, ossia solo qualche
minuto più tardi, dal momento che la mia resistenza era alquanto
elevata. Risi da sola, e l'eco della mia risata mi rimbombò fin
nelle ossa. Ero ridicola, me ne rendevo conto, e sognare non mi
avrebbe portata a nulla di concreto. Volevo il legno sotto le scarpe
da ballo, il gesso che mi scorticava le unghie dei piedi, le calze
che mi prudevano le cosce, il trucco che mi colava sul volto per il
sudore, i capelli tanto tirati all'indietro da far male
all'attaccatura. Volevo essere carne e sangue, non aria. Visibile,
non un miraggio sfuggevole di qualcosa che poteva essere ma non era
mai stato.
D'un
tratto udii qualcosa. Una risata. All'inizio non ci feci caso –
pensai fosse un mero eco della mia. Poi mi accorsi che il timbro era
del tutto diverso. Apparteneva a un uomo.
Mi
morsi l'unghia del pollice fino alla mandorla – com'era mia
abitudine quando venivo colta alla sprovvista – e sollevai da terra
il lucignolo, scrutando nelle tenebre. Pensai si trattasse di un
macchinista o di qualche altro operaio con troppa voglia di
scherzare, ma non era l'orario adatto a una scenetta del genere. Mi
trovavo nell'auditorium, nel cuore della notte. Ragionevolmente, non
poteva esserci nessuno, tanto meno un uomo che rideva.
Mi
feci coraggio e scostai le grandi tende del sipario, puntando la
candela verso la platea e infine i palchi. Nulla, sembrava non ci
fosse nessuno. Ma io avevo udito quella risata, non era stato tutto
frutto della mia immaginazione. E non potevo aver avuto delle
allucinazioni – la mia mente si riempì di pensieri involuti –
non adesso,
non ora,
concentrati.
Scossi
la testa quasi con violenza e indietreggiai. Fu allora che la udii di
nuovo, ma questa volta proveniva da una direzione diversa: era alla
mia destra. Con uno scatto rapido, mi voltai e puntai la luce verso
l'origine di quel suono molesto. Nessuno. Il palco era un mondo vuoto
quasi quanto me. La udii di nuovo – una risatina bassa e malevola.
Il timbro, malgrado gli sghignazzi, era dolce ma distorto, perché
quello era l'ultimo aggettivo che avrei potuto attribuirvi in una
situazione del genere. Non sembrava giusto, ma era la verità.
Questa
volta mi vennero i brividi, poiché la udii proprio nel mio orecchio
sinistro – vicinissima, tanto che mi sembrò di percepire un fiato
caldo sul collo… Mi voltai di scatto, esasperata e inquieta. Ma
ancora una volta, non c'era nessuno.
«Adesso
basta. Vieni fuori!» sibilai a denti stretti, sentendo montare in me
la rabbia e l'umiliazione. Perché avevo paura,
e non potevo permettermelo.
«Come
desiderate, Madamoiselle.»
La
voce era la stessa che era esplosa in quella risata irritante. La
riconobbi dall'accento sarcastico. Questo, com'è prevedibile, non
fece altro che incrementare la mia foga.
Indietreggiai,
pronta a vedere quell'imbecille spuntare davanti ai miei occhi.
Gliela avrei fatta pagare… Eppure, per qualche ignota ragione, non
riuscivo a soffocare il timore che provavo dentro di me. Mi scorreva
nelle vene, facendo pulsare il mio cuore più rapidamente del solito.
Fu
allora che urtai contro qualcosa – o qualcuno
– e mi
voltai.
Fu,
col senno di poi, una pessima idea.
Avevo
urtato contro un corpo solido, ben più alto di me. Non vidi nulla se
non due fari nella notte…
Solo
in seguito mi resi conto che fissavo dritto negli occhi più gialli e
luminosi e spettrali che avessi mai visto. Erano loro ad emanare quel
bagliore simile a due stelle sulla distanza, o lo sguardo di un
felino nel buio.
Con
un grido strozzato – non mi aspettavo di certo una visione del
genere! – corsi via tanto in fretta che la candela si spense,
diventando un inutile impedimento nella mia mano, e lasciai indietro
una pantofola, non curandomi di recuperarla. Quasi inciampai
nell'orlo della veste troppo lunga. Tutto quel che desideravo era
mettere la maggiore distanza possibile tra me e quei due occhi gialli
e brillanti come lucciole, che sapevo non appartenere certo a Figaro.
Seguii la stessa strada che avevo percorso all'andata, ma questa
volta ero in fuga da qualcosa a cui non sapevo dare nome. Fuggivo
come un topolino spaventato dall'agile ed enorme gatto nero pronto a
balzargli addosso e divorarlo. Corsi, corsi tanto che mi bruciarono i
muscoli delle gambe, ma non avvertii alcun dolore. Con l'eco di
quella risata che ancora mi tempestava nelle orecchie, la mia mente
si riempì di un unico pensiero – irrazionale, assurdo, a cui prima
d'allora non avevo mai concesso la meritata attenzione.
Eppure,
adesso era tutto ciò che sapevo.
È
lui, pensavo
col cuore in gola, furiosa per quella stessa ammissione. È
lui, il fantasma dell'Opera!
Note
dell'autrice:
Ed eccoci arrivati al secondo capitolo – beh, il primo del racconto
di Meg. Che ve ne pare? Come già detto, ci sono elementi importanti
presi dal musical, anche se la maggioranza della storia si baserà
sugli eventi del libro di Leroux. Naturalmente, sottolineo che i
dialoghi ispirati a quelli di una delle prime scene del musical
appartengono ad Andrew Lloyd Webber,
non a me.
LammermoorLace:
Oddio, grazie mille! Non mi aspettavo assolutamente una recensione
così entusiasta. Sei fin troppo generosa. Hai proprio analizzato
bene il personaggio di Meg, complimenti! Comunque, per rispondere
alla tua domanda, ho scelto questo titolo perché amo molto
quell'aria d'opera, ed è proprio ascoltandola che ho avuto
l'ispirazione. Non chiedermi come. XD Grazie ancora. |
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Capitolo 3 *** Assassinio all'Opera Garnier. ***
ii.
assassinio
all'opera garnier
Inutile
dire che non trascorsi una notte tranquilla. Continuai ad agitarmi,
irrequieta, anche nel sonno, vittima di sogni imprendibili che
dimenticai non appena la luce del sole mi accecò gli occhi. Al
mattino fui destata piuttosto bruscamente da un sordo bussare alla
porta, e per poco non ruzzolai giù dal letto in un viluppo di gambe
e lenzuola.
«Sì,
sì, ho
capito. Ora
mi sveglio» bofonchiai a malincuore. Ero riuscita ad appisolarmi
solo per un paio d'ore, e iniziavo appena a godermi il meritato
riposo. Morfeo mi aveva tradito, quella notte, ma i doveri quotidiani
mi chiamavano.
Mi
sollevai a fatica dal pavimento freddo, districandomi dalle lenzuola
e passandomi una mano sulla fronte imperlata di sudore. Arrancai
verso il grande specchio, gettando un'occhiata al mio riflesso
all'interno. Come avevo previsto, ero un disastro. Per la mancanza di
sonno, profonde occhiaie cerchiavano i miei occhi piccoli e scuri, e
le palpebre apparivano più pesanti del solito. Mi trascinai nel
piccolo bagno destinato a mio solo uso e consumo e riempii un catino
d'acqua gelida, sciacquandomi il viso e sperando così di togliere
alle mie guance incavate ogni traccia di stanchezza. Indossai una
gonna di tulle bianco e un corpetto in tinta, di cui strinsi i lacci
con tanta forza da farmi male. Le calze mi fasciavano le gambe magre
e le ginocchia nodose con la morbidezza del raso. Poi arrivò la
parte difficile: i miei capelli al mattino erano particolarmente
stopposi e difficili da domare. Li spazzolai con gesti ruvidi e
spicci – ad ogni passata mi sembrava che il pettine mi strappasse
via i capelli a manciate. Infine li annodai in uno stretto chignon,
fissando i boccoli ribelli con più forcine di quante sapessi di
avere nella mia riserva personale. Con la sensazione di avere un
portaspilli al posto della testa, feci per infilarmi le scarpette da
ballo, consumate dall'usura e dal tempo eppure sempre care. Fu allora
che ai piedi del letto notai una lettera.
Ma
certo, come avevo potuto dimenticare? La mancanza di riposo non mi
rendeva lucida. La scorsa notte avevo lasciato una pantofola
nell’auditorium, nella fretta di mettere più distanza possibile
tra me e il baluginio delle due pupille d'oltretomba. E ora la
pantofola mi era stata riportata indietro. Come
Cenerentola con la sua scarpetta, pensai
sarcastica. Il
principe qui è stato altrettanto cortese.
Dimenticai
la vecchia pantofola e afferrai la lettera con un luccichio avido e a
un tempo inquieto negli occhi. La pergamena all'interno della busta
(non sigillata) era ricoperta da quelli che a prima vista mi
apparvero scarabocchi indecifrabili, scritti con inchiostro rosso
vivo. Un po' troppo vistoso, a mio parere. Ci volle qualche minuto
per decodificare quella grafia persino più disordinata della mia.
Madamoiselle,
vi
restituisco ciò che vi appartiene, con il consiglio di fare
attenzione a dove lasciate la testa, da oggi in poi… o i piedi. Non
andate a zonzo per il teatro a un'ora tanto sconveniente: non potete
sapere chi ha avuto la vostra stessa idea.
Fate
buon uso del mio suggerimento.
Mi
accigliai. Cos'era, una minaccia malcelata o uno scherzo ben
congegnato? Un fiotto d'ira e inquietudine invase ogni fibra del mio
essere. Che faccia di bronzo! Era palese che il mandante fosse lo
stesso imbecille che mi aveva giocato quel bel tiro la notte
precedente. La luce del giorno aveva rischiarato la mia mente
intorbidita dalla paura, e mi ero ritrovata ad ammettere che doveva
essere stata una magnifica presa in giro. Apprezzavo uno scherzo
riuscito, ma non quando ne ero la vittima, e quello stava andando un
po' troppo sulle lunghe. Abile, però, lo confesso. Il fantasma
dell'Opera, figurarsi! C'era una mano umana dietro tutto questo, un
cervello umano… e l'idiozia e la sfacciataggine tipica degli
uomini. Ne potevo quasi fiutare l'orma. Qualcuno si divertiva a dar
credito a quelle voci superstiziose, che sussurravano di uno spettro,
vero padrone, seppur invisibile, del teatro… Ma a quale scopo? Chi
c'era dietro?
Non
avevo dimenticato gli occhi felini e l'ombra con cui mi ero
“scontrata” la scorsa notte. Possibile che fosse solo un trucco?
D'altro canto, chi mai avrebbe potuto sapere della mia presenza in
auditorium a un'ora così tarda? Che si trattasse di un vero
spirito…?
Aggrottai
la fronte. No, dovevo aver fiducia nella ragione e nella logica.
Erano state le mie guide fino a quel momento: non potevo permettermi
di cedere alla superstizione… alla paura.
Fui
percorsa da un brivido involontario.
Da quanto la paura è parte di te? Ricordi un tempo in cui non lo sia
stata?
No.
Mi sembrava che la mia vera vita fosse iniziata con la paura… ma
non doveva per forza finire nello stesso modo.
Sbattei
le palpebre dinanzi ai raggi del sole che filtravano dalle imposte,
abbozzando una ragnatela d'oro fuso sul mio volto bruno e
imbronciato. Gli eventi della notte precedente avevano risvegliato in
me un'inquietudine mai del tutto sopita, familiare eppure unica: il
timore di ciò che non riuscivo a controllare dentro di me. Non aveva
nome, e mi fluiva nelle vene come fiele. Aspettava solo il momento
giusto per arrivare al cuore. E a quel punto, cosa sarebbe accaduto?
Non potevo pensarci.
La
risposta era semplice: ogni mio incubo si sarebbe avverato.
«Meg?
Ma cosa combini lì dentro?».
«Nulla,
ma’. Sono pronta.»
Finii
di annodarmi i nastri delle scarpe da ballo alle caviglie,
immergendomi negli odori che mi avvolgevano, nella sensazione del
pulviscolo del sole invernale sulla pelle, come sempre facevo quando
rientravo in me dopo una conversazione con me stessa che non tenevo a
proseguire. Avevo imparato a conviverci: la mente è la costante
regista della nostra esistenza, un sottofondo che non possiamo
ammutolire. Io mi lasciavo prendere dai sensi, permettevo al mondo
intorno a me di pungolarli per evitare di perdermi in me stessa. Per
evitare di pensare al nome del mio male.
Antoinette
Giry entrò comunque, malgrado le mie rassicurazioni, per constatare
coi suoi occhi il motivo del mio ritardo. Mi scrutò in volto e, nel
notare i segni innegabili di un'altra notte priva di sonno, assunse
un'espressione di profonda preoccupazione.
«Meg,
tesoro, hai dormito poco, stanotte.» Non era una domanda.
«Niente
di allarmante.» Non avevo alcuna intenzione di raccontarle della mia
piacevole
avventura
notturna. Probabilmente mi avrebbe creduto in preda alle
allucinazioni. E credetemi, quella era l'ultima cosa che desideravo.
Mia madre era una donna pratica che dava poco adito alle fantasie;
d'altronde, al posto suo avrei fatto lo stesso.
«Non
sarà stata una di quelle
notti, spero.» Sul suo volto la preoccupazione lasciò spazio a una
vera e propria ansia.
«No»
mi affrettai a rassicurarla.
«Sai
che puoi venirmi a chiamare quando vuoi, a qualunque ora del giorno e
della notte, se sei in difficoltà. Tu sei il mio primo pensiero,
Meg. Lo sai, vero?» mi disse, accarezzandomi i capelli con dolcezza.
Internamente gioii a quel tocco: era raro che ci abbandonassimo a
certe effusioni sentimentali, benché fossimo madre e figlia, e non
solo perché breve e prezioso era il nostro tempo insieme. Troppo
dure per essere donne, quelle Giry,
avevo udito una volta dire la mia maestra delle elementari a una sua
collega. Ma si sbagliava. Lei fra tutti, avrebbe dovuto sapere quanto
dura può essere una donna.
Mia
madre possedeva una fermezza invidiabile, e io ero stata una bambina
ostinata e irrequieta, terribile con le sue ginocchia costantemente
sbucciate e gli abiti macchiati di fango. Insensibile ed egoista come
solo una bambina sa essere.
Ma
da allora molte cose erano mutate.
«Sono
adulta, ormai. So badare a me stessa.»
O
così ti piace credere.
«Lo
so, ma a volte vorrei che… che sapessi lasciarti andare un po',
almeno con me.» Sospirò. Sperai che non ricominciasse a incolpare
se stessa per come era venuta su quella figlia sbagliata. Mi aveva
cresciuta come nessun altro avrebbe potuto fare.
«Adesso
vieni a fare colazione. Ci aspetta una lunga giornata.»
Non
immaginava quanto.
«Tu
sapevi che Christine prende lezioni di canto?» le avevo chiesto la
sera precedente a cena. Annessa alla sua camera, che era più grande
e confortevole della mia, vi era un cucinino che fungeva anche da
sala da pranzo. Era lì che trascorrevamo le nostre serate insieme
dopo ogni lezione, se non c'erano spettacoli. Queste nostre occasioni
di stare insieme erano rare, dal momento che, per incrementare i
nostri introiti mensili, svolgeva anche il lavoro di maschera. Non
eravamo benestanti, e lo stipendio di una corifea era risibile in
confronto alla mole di lavoro che mi attendeva, ma ce la cavavamo.
Dopo la morte di mio padre, visti gli stimati servigi resi da lui e
mia madre all'Opera Le Péletier, l'amministrazione ci aveva permesso
di vivere qui, in un piccolo appartamento arredato solo per noi,
ricavato da vecchi camerini. Mia madre aveva accettato subito
quell'offerta, malgrado l'orgoglio: gli affitti erano cari. E
l'ambiente attivo dell'Opera avrebbe fatto bene al mio temperamento
inquieto, almeno a dire del dottore. Con un brivido al pensiero –
odiavo i medici – tornai a concentrarmi sul piatto di minestra che
avevo davanti e, soprattutto, sulla risposta di mia madre. Lei, che
cuciva seduta al suo posto favorito – a capotavola, proprio di
fronte a me –, s'accigliò.
«Me
l'ha riferito ieri. Secondo il suo insegnante, era pronta per il
grande debutto. Quando l'ho udita cantare, neanch'io ho avuto più
dubbi al riguardo.»
«Certamente
è una metamorfosi notevole. E chi sarebbe il miracoloso maestro?»
chiesi, inghiottendo una generosa cucchiaiata di minestra. Mia madre
non era quel che si dice una gran cuoca, ma io ero di gran lunga
peggiore ai fornelli, quindi vedevo bene di tacere.
«Non
ti ingozzare.»
«E
tu non far finta di non aver sentito, maman.»
Le
sue labbra si strinsero a formare una linea dura e sottile come una
cicatrice. Faceva sempre così quando era contrariata. Tornò a
concentrarsi sul suo lavoro a maglia. Non capivo perché si
ostinasse: con ago e filo era tremenda, anche se, ancora una volta,
non quanto me.
«Non
lo so», rispose infine.
«Non
lo sai?» ribattei, stupita e delusa insieme, lasciando cadere il
cucchiaio nel piatto vuoto a metà. Tintinnò in un modo che nel
silenzio improvviso sembrò assordante. «Ma in questo posto nessuno
fa domande eccetto me?»
«Tu
ne fai troppe.»
«Non
più di quanto sia ragionevole. Domani le chiederò di nuovo chi
diavolo sia questo suo maestro dei miracoli. Tutta questa segretezza
è assurda. Che bisogno c'è…».
«Te
lo proibisco» mi ingiunse mia madre, interrompendo i miei lamenti.
D'un tratto appariva severa come durante una delle sue lezioni.
«Quella ragazza ha diritto di tenere per sé ciò che vuole.»
«E
perché dovrebbe? Non capisco. Insomma, non ti sembra sospetto?
Christine che mente su qualcosa… Ma dai.»
«Forse
si tratta di un qualche artista famoso che vuole mantenere il suo
anonimato. Non puoi saperlo, Meg.»
Pensai
alla Carlotta e mi venne da ridere. Ma come idea non era poi tanto
assurda.
«E
va bene. Aspetterò che sia lei a parlarmene di sua volontà.»
Mia
madre mi lanciò uno sguardo d'approvazione, evidentemente rincuorata
dai miei nuovi propositi. Non riuscii più a spillarle altre
informazioni al riguardo.
Venne
fuori che avevo ragione ad avere dei sospetti, ma andiamo con ordine.
La
mattina del gran gala non riuscii a trovare un attimo per parlare
tête–à–tête
con
Christine. Attorniata da direttori, coristi e orchestranti, appariva
irraggiungibile quanto la Carlotta. Sembrava che a un futura stella
fosse proibito rivolgere la parola a un'anonima ballerina di fila.
Eppure, tra i membri del corps
de ballet cercò
il mio sguardo, che ricambiai. Le strizzai l'occhio, notando la sua
espressione sofferente. Era palese che, come me, non vedeva l'ora di
esibirsi e basta, lasciandosi alle spalle tutti quei giochi
d'adulazione. Non le piaceva essere diventata all'improvviso il
centro dell'attenzione comune, dal momento che era abituata al suo
vecchio status di ragazza invisibile. Dopo
stasera sarà anche peggio, pensai.
Tutta
Parigi parlerà della Daaé.
Come me, si sarebbero tutti chiesti dove si fosse nascosto finora un
simile talento.
Semi–celata
dietro un fondale del palcoscenico – sembrava volerci annegare
dentro – Christine mi rivolse un breve sorriso. Era ovvio che
avrebbe preferito stare in mia compagnia piuttosto che in quella
situazione. La fama non le donava, ma sapevo che avrebbe finito per
indossarla con la solita grazia. Si
abituerà. Deve. Ha un futuro da stella davanti a sé. Anche
lei sembrava non aver dormito granché, quella notte: le sue occhiaie
avrebbero potuto rivaleggiare con le mie. Un po' di cipria avrebbe
coperto ogni cosa, ma un velo di polvere bianca – nel mio caso
color bistro – non poteva nascondere la stanchezza.
Christine
appariva in preda a una serie di emozioni contrastanti: dall'ansia da
prestazione all'estasi e la gioia pure che provava nel cantare, e che
trasmetteva al pubblico con la sua voce angelica. Toccava vette di
suono che non avevo mai udito provenire da lei. Sembravano sgorgare
da una fonte segreta nel suo corpo di ragazza.
Dopo
una breve pausa pranzo in un'economica osteria poco distante da place
de l'Opéra, io e le altre ragazze del corps
de ballet fummo
di nuovo trascinate nel vortice delle prove del gala. Ci esercitammo
fino allo sfinimento, tanto che alla fine ne avevo abbastanza del
Polyeucte.
Maledicendo
Charpentier1,
continuai ad eseguire pirouette,
rond de
jambes e
arabesque
fino a quando non mi sentii più le unghie dei piedi.
Probabilmente erano
un ammasso di materiale morto e sanguinolento sui miei poveri piedi
gonfi, divenuti deformi dopo anni e anni di sforzi en
pointe.
Mia
madre mi aveva insegnato il significato del duro lavoro, a me più
che alle mie compagne. Non faceva favoritismi, benché fossi sua
figlia: anzi, nei miei confronti era persino più severa. Conosceva i
miei limiti e i miei punti di forza alla perfezione, perché ero la
sua stessa carne; e proprio per questo esigeva da me il massimo che
le mie capacità mi consentivano di raggiungere. Io non ne avevo a
male, tutt'altro, gliene ero grata: in me scorgeva un potenziale che
desiderava tirar fuori prima che qualcos'altro potesse infrangerlo.
Prima che diventassi
simile a un coccio di vetro rotto e inutile.
Prima
che mi trasformassi in mio padre.
La
sua ombra non avrebbe mai abbandonato la mia: mia madre lo vedeva nei
miei lineamenti, nei tratti più irrequieti e oscuri del mio
carattere. E voleva per me un futuro diverso. Io condividevo le sue
speranze.
Le
altre ragazze non mi avevano mai reso la vita troppo difficile solo
perché ero “la figlia di Madame Giry”: avevano presto dovuto
arrendersi all'evidenza che lavoravo sodo quanto loro, e non
possedevo minor talento o meriti. Tuttavia, ricordo un episodio
particolare in cui le asprezze della mia personalità e i
pettegolezzi altrui cozzarono miseramente. Una volta udii Claire
Lambert, figlia di un ricco commerciante e pertanto più viziata di
quanto io fossi mai stata, spettegolare alle mie spalle su quanto
fossi “palesemente raccomandata” da mia madre, e che avrebbero
dovuto cacciare sia lei che me per questo. Da poco unitasi al gruppo
– non potevamo avere più di dodici anni – aveva già radunato
attorno a sé un cospicuo capannello di emulatrici e piccole amiche
adoranti, grazie ai suoi modi raffinati, al suo status sociale di
piccola borghese altezzosa e al suo aspetto da bambola. Io, con la
mia “faccia da scimmia” (odiato soprannome affibbiatomi alle
elementari), non avevo mai ottenuto lo stesso successo. Soprattutto
con il mio ostinato mutismo, in cui mi ero chiusa dacché quel
disgraziato di mio padre era morto. Ero una delle poche ad essere
rimasta indifferente a Claire Lambert, insieme a qualcuna delle altre
che conoscevo fin dall'infanzia e che rimase dalla mia parte
nonostante tutto. Claire mi credeva un'idiota – glielo sentii dire
una volta con le mie stesse orecchie – troppo stupida per cogliere
le sue frecciatine. Quel giorno a lezione avevo fatto pena: era uno
di quei
giorni in
cui la mia testa era altrove, e non sentivo più di appartenere al
mio stesso corpo. Non dissi nulla a mia madre, che eppure non mi
tolse gli occhi di dosso per tutto il pomeriggio, allarmata. Quando
udii i sussurri maligni di Claire alle mie spalle e le risatine di
tutte le altre – non ero mai stata particolarmente amata, neanche
prima,
quando tutto era diverso, più normale – l'ansia cedette il posto
alla furia. Mi avventai sulla disgraziata Claire, centrandola con un
pugno ben assestato sul suo bel nasino alla francese. Di quei momenti
mi rimase solo il ricordo del sangue che le scorreva sulla faccia e
dei suoi gemiti isterici. Finii in punizione, come si può ben
immaginare, e fu la più dura che avessi mai ricevuto fino a quel
momento. Solo un'altra volta abbattei la barriera di silenzio che mi
ero eretta attorno dalla morte di mio padre: fu quando udii alcune
compagne del mio corso di danza spettegolare, a loro ignoto rischio,
sulle singolari circostanze della morte del mio defunto genitore. Io
davo loro le spalle, come con Claire, ma le sentii lo stesso. Solo in
quell'altra occasione si risvegliò in me la bestiolina tutta ossa e
furia che si calmava solo alla vista del sangue, e che cadeva in una
sorta di torpore gelido appena concluso il misfatto. Il sangue
sgorgato dalle narici di Claire Lambert mi aveva paralizzato come un
veleno e un balsamo insieme; ne ero rimasta ipnotizzata, quasi fossi
un cobra ammaestrato. Mi ricordava un altro
sangue, un
altro
rosso…
Da
piccola ero stata una birbante, metà cucciolo di lupo e metà
bambina pestifera, sempre pronta a rompere qualcosa o ad arrampicarmi
dove non avrei dovuto. Divenuta ragazzina, ero un blocco di granito
pronto a incrinarsi. Le crepe erano già visibili, e mia madre fece
di tutto per risanarmi. In parte funzionò. Dopo un anno riacquistai
l'uso della mia lingua lunga e nessuno osò più prendermi in giro
tanto apertamente. Non si verificarono più quegli episodi in cui
perdevo il controllo, anche se sapevo ciò che alcune persone
pensavano di me. Ma non me ne curavo. Non ritornai mai più ad essere
la bimba spensierata di un tempo, ma ricominciai a vivere. Mi
sembrava di dover di nuovo imparare a parlare, camminare, mangiare,
bere, respirare… Solo la danza non cambiava mai.
Una
volta cresciuta, attirai l'amicizia di nuovi membri del corps
de ballet,
che vedevano semplicemente quello che volevo mostrare loro. Le più
piccole adoravano quando raccontavo loro qualche storia dell'orrore e
del mistero, per la disperazione delle loro madri.
Tutto
scorreva con la regolarità della placida Senna nei suoi canali.
Poi
arrivò Christine.
«Meg,
ma cosa hai fatto alla faccia?» mi apostrofò Louise con sguardo
accigliato.
«Ah,
queste.» Indicai le mie vistose occhiaie. «Ho fatto a pugni con il
fantasma.»
Il
che poi non è tanto distante dalla verità. Diciamo che mi sono
“scontrata” con un presunto spettro.
Juliette
scoppiò a ridere. Fabienne, che era molto superstiziosa, rabbrividì.
«Non scherzare.»
Sogghignai.
«Avanti, sappiate stare allo scherzo. Senza un po' d'ironia, non so
come sopravviveremo a questo gala.»
«Ma
come? Sarà presente tutta la bella società parigina! Non sei
eccitata?» ribatté Louise. Non capiva come qualcuno potesse non
essere
entusiasta a quella prospettiva.
«L'Opera
è sempre piena di ricconi aristocratici» risposi, aiutando la mia
amica a stringere i lacci del corpetto mentre Juliette faceva lo
stesso con me. «Non vedo come questa serata possa essere diversa da
tante altre.»
«Beh,
prima di tutto, Christine canta in un ruolo importante» commentò
Fabienne.
«Giusto»
ammisi. «Non l'ho dimenticato. Solo, ho sempre saputo che sarebbe…
come dire, sbocciata. Ha talento, la ragazza.»
Ero
palesemente orgogliosa della mia migliore amica. Tutti sapevano che
Christine ed io eravamo inseparabili. L'avevo presentata alle altre
ragazze, con cui aveva fatto amicizia grazie a me. Altrimenti, sapevo
che sarebbe rimasta sulle sue per tutto il tempo. Non che non la
comprendessi, ma non sopportavo di vedere sul suo viso quella
malinconia. Speravo che qualche chiacchierata con delle coetanee
potesse rallegrarla. Per fortuna, avevo scelto la compagnia giusta.
Louise, Juliette e Fabienne erano tra coloro con cui avevo più
legato nel corpo di ballo, ragazze semplici e dal buon carattere che
l'avevano accolta subito con calore. Ognuna di noi aveva una qualità
o un difetto che all'altra mancava, il che rendeva stimolanti le
conversazioni… o semplicemente divertenti, come le preferivo io.
«Altro
che talento» fece Juliette.
«Ahia»
mi morsi un labbro. Aveva stretto i lacci del corpetto con troppa
forza. «Se hai intenzione di soffocarmi, cara mia, almeno avvertimi
prima» scherzai.
«Se
volessi soffocarti, lo farei mentre dormi. Innocente e placida come
un angioletto. Così sarebbe più facile sorprenderti» rise
Juliette.
«Ma
io sono
innocente
e placida come un angioletto» dissi, sbattendo le palpebre con aria
incolpevole.
«Certo,
e io sono Marie Taglioni2.»
Finì di legarmi i lacci del corsetto.
«Non
capisco perché noi donne indossiamo volontariamente queste trappole.
Siamo forse tutte masochiste?» mugugnai, affrettandomi a infilare la
gonna di tulle.
«Lo
hai capito solo ora? Altrimenti perché correremmo dietro agli
uomini?» ribatté Juliette, sarcastica, annodandosi un grazioso
nastro viola al collo da cigno. Era la più bella tra noi: occhi
verdi, serici capelli castani, pelle di pesca. Ammetto che la
invidiavo un tantino: la mia era devastata dai segni dell'acne
adolescenziale. L'acne alla fine era diminuito, ma le cicatrici no.
«Sono
gli uomini a correre dietro a noi donne» affermò Louise con grande
serietà.
D'un
tratto bussarono alla porta.
«Signorine,
altri dieci minuti e si va in scena.»
Udimmo
la voce del tuttofare Rémy da dietro l'uscio chiuso. Non osava
entrare, dal momento che ci stavamo cambiando. Era pur sempre un
camerino, quello.
Louise
mi afferrò la mano. «Andiamo, Meg, devi farti dare una sistemata da
Madame Soirée.»
«Ma
tanto non si nota niente.»
«Non
vorrai andare in scena con quella faccia, vero?» fece Louise,
scandalizzata.
«Sono
un tale mostro?» scherzai, fingendomi offesa.
«Sì,
davvero orribile» confermò Juliette con una risatina. Le rivolsi un
gestaccio poco signorile.
«Louise
ha ragione, faremo tardi se non ci muoviamo» ci interruppe Fabienne.
E Dio sapeva che, se Fabienne concordava con Louise su qualcosa,
allora la situazione era seria.
Mi
trascinarono a forza fuori dalla mia stanza, dove avevamo appena
finito di cambiarci, fino al grande camerino condiviso da tutte le
ragazze del corpo di ballo, eccetto la Sorelli, che ne aveva uno
tutto per sé, come si conviene a una prima ballerina. Mi accolse una
baraonda di tulle, piumini per cipria, bicchierini di rum dimenticati
sui tavolini, nastri ed esclamazioni d'eccitazione e nervosismo
insieme. A quanto pareva, Louise non era la sola ad essere tanto
esaltata.
Sul
serio?,
pensai, mordace.
«Madame,
compite voi il miracolo su questa povera anima smarrita» disse
Louise a Madame Soirée, la nostra truccatrice. Sbuffai, ma nulla
poté sottrarmi alla tortura una volta che la signora ebbe dato
un'occhiata alla mia faccia. Lanciai uno sguardo in tralice a Louise
e alle altre prima di essere sommersa da un oceano di cipria e fard,
o così mi parve. Guardandomi allo specchio, malgrado tutto, fui
soddisfatta del risultato e ringraziai Madame Soirée con un
sorrisetto.
«Devi
dormire almeno otto ore a notte, cara. Non ci sarò sempre io a
coprire quei brutti segni violacei sotto gli occhi» mi consigliò
Madame con tutto il cuore.
«Lo
terrò a mente.»
Tra
le mie colleghe serpeggiarono risolini striduli. Magari si stavano
chiedendo cosa mai mi impediva di dormire la notte.
«Ancora
Luc, Meg?» insinuò Caroline con un'espressione maliziosa sul viso a
forma di cuore.
Alzai
gli occhi al soffitto. «Per favore. Sai che tra noi non c'è più
niente da un pezzo. È solo un amico d'infanzia.»
Era
vero: Luc, che ora lavorava a tempo pieno come macchinista, era stato
una mia antica… fiamma. Ci eravamo scambiati qualche bacio ardito e
nulla di più. Beh, poco
più. Lo conoscevo da quando portavo ancora le trecce, da prima
ancora che mio padre morisse. In realtà, non credo di aver mai
provato un reale interesse nei suoi confronti, se non una certa
curiosità nel gioco proibito dei baci. Da piccola mi ero divertita
più a tirargli pizzicotti e palle di fango che non carezze
amorevoli. Le cose non erano poi cambiate molto: battibeccare con lui
mi rallegrava ancora. Era più una sorta di figura fraterna per la
sottoscritta.
Il
che mi faceva pensare…
«Christine!»
esclamai, come se la mia amica dovesse comparirmi dinanzi da un
momento all'altro. «Speravo di andare da lei prima dell'inizio dello
spettacolo per augurarle buona fortuna.»
«Impossibile,
mancano pochi minuti e poi entriamo in scena» disse Fabienne, che
aveva un animo delicato, ma anche una certa rigidità con le regole,
cosa che trovavo asfissiante.
«Magari
puoi andare da lei dopo la nostra esibizione. C'è un po' di tempo a
perdere tra quella dell'orchestra e della Krauss. Christine canterà
alla fine.»
Mi
convinsi a rimandare tutto, seppure a malincuore. Ero riuscita a
fermarla solo qualche minuto in uno dei corridoi, quel pomeriggio,
per chiederle com'era andata la giornata finora e se era nervosa per
la serata che l'aspettava. Non era la prima volta che si esibiva
davanti a un pubblico, ma di sicuro mai in modo così plateale. Mi
era apparsa alquanto emozionata, anche se in lei vi era ancora una
traccia di inquietudine a cui non riuscivo a dare nome. Mi
nasconde qualcosa, intuii
subito. Christine non sapeva mentire, e le si leggeva in faccia lo
sforzo. Per mia sfortuna, presto avrei avuto la risposta al dilemma
che quell'oggi aveva occupato la mia mente quasi più del Polyeucte.
«Signorine,
ai vostri posti.»
Monsieur
Rémy venne di nuovo a chiamarci, e scendemmo tutte nel foyer della
danza, zampettando in un corridoio laterale che portava dritto nelle
quinte del teatro come un nugolo di uccelletti ammaestrati. Era la
stessa strada che avevo percorso la notte precedente, sulle tracce
del cosiddetto “spettro”.
Sbuffai
tra me e me, scettica. Non avevo certo dimenticato la mia piccola,
divertente
disavventura,
e ancora smaniavo di trovarvi una spiegazione che avesse un senso.
Fu
Madame Antoinette Giry in persona ad accoglierci nelle quinte.
«Signorine,
mi raccomando. Rendetemi orgogliosa, come so che siete in grado di
fare.» Passò su di noi uno sguardo penetrante. I suoi occhi
d'uccello – la stessa forma dei miei – si posarono sulla
sottoscritta per un secondo in più del necessario.
«Bene.
Ora andate.»
E
noi andammo, in un turbinio di tulle e nastri. Formavamo una nube
compatta di riccioli e tutù.
«Sei
pronta?» mi bisbigliò Juliette all'orecchio. Non potei non cogliere
una nota di malizia nella sua voce.
«Sono
nata pronta» risposi con altrettanto sarcasmo.
La
performance filò liscia come l'olio. Faceva da intermezzo tra
l'esibizione dell'orchestra e quella dei cantanti a seguire.
Sincronizzate come una sola anima, non sbagliammo un solo passo, o
così mi parve. Alla fine, gli applausi ci inondarono mentre ci
inchinavamo al nostro pubblico. Era vero quel che aveva blaterato
Louise: la sala era colma di persone dagli abiti eleganti, le signore
adornate di gioielli favolosi e gli uomini in frac e cilindro scuri.
Mi arrischiai a guardare con attenzione il palco del conte Philippe
de Chagny. Era un uomo sulla quarantina, attraente, elegante, dai
sottili baffi scuri e un sorriso impeccabile. Lo notai applaudire con
entusiasmo. Al suo fianco, vi era un giovanotto pallido e grazioso
come una fanciulla, dai capelli biondi e i liquidi occhi azzurri.
Osservai con maggiore attenzione del solito quel bel ragazzo, di cui
Christine mi aveva tanto parlato nei giorni precedenti. Il suo nome
era Raoul, visconte di Chagny e fratello minore del conte Philippe.
«Si
può dire che da ragazzi fossimo inseparabili» mi aveva confessato
la mia amica quando l'aveva riconosciuto tra il pubblico. Era corsa
subito da me, per dirmi che aveva rivisto il suo vecchio amico
d'infanzia, il “caro Raoul”, di cui serbava ancora il tenero
ricordo. A quanto pareva, si erano conosciuti durante una vacanza del
giovane visconte sulle coste della Bretagna, nel villaggio di
Pierrot–Guirec. Il padre di Christine era ancora vivo, a quel
tempo, e suonava ancora il suo fedelissimo violino, per la gioia
della figlia, che lo accompagnava con la sua dolce voce. Quando
Christine aveva perduto la sua sciarpa rossa in mare, il piccolo
Raoul – che era rimasto incantato dalla ragazzina e non aveva fatto
altro che rimirarla per tutto il tempo senza avere il coraggio di
avvicinarsi – si era gettato in mare per recuperarla. Quando
gliel'aveva riportata, fradicio come un pulcino, Christine era
scoppiata a ridere e l'aveva abbracciato. Da allora non si erano più
lasciati e avevano trascorso mesi splendidi insieme. Sfortunatamente,
Raoul doveva tornare a casa dal fratello, a Parigi; alla fine, si
erano separati tra le lacrime.
«Non
ti dimenticherò mai» le aveva detto quel ragazzino buffo, con una
fossetta tra i denti e l'arruffata frangia bionda a coprirgli gli
occhi. Si erano rincontrati anni dopo, quando l'ormai adolescente
Raoul aveva fatto visita alla zia a Pierrot–Guirec ed era andato a
trovare anche Christine e suo padre. In entrambi i ragazzi erano
sorti sentimenti nuovi e incomprensibili. Anche se Christine non me
l'aveva detto a chiari termini, compresi che provavano qualcosa di
forte l'uno per l'altra.
Non
rimane altro che una graziosa favoletta, pensai
con un pizzico di tristezza, mentre ritornavamo tutte accaldate nel
camerino. Lui
è un visconte. Anche se l'avesse riconosciuta, anche se si decidesse
ad avvicinarsi a lei, Christine non potrebbe mai sperare in un'unione
onesta. Dura
verità da accettare, ma pur sempre la verità.
Pensare
a tutti quei discorsi di innamorati mi aveva fatto salire il livello
del saccarosio nel sangue. Mi sembrava che dovessi vomitare zucchero
da un momento all'altro.
Decisi
di andare da Christine per augurarle buona fortuna, trepidante quasi
quanto doveva esserlo lei. Sfuggii alle attenzioni delle mie compagne
e delle piccole allieve ballerine, corse a saltellare attorno alle
più grandi come gallinelle esaltate. Districandomi a fatica dalle
loro grinfie e mimetizzandomi tra le altre con le mie doti
camaleontiche – o di ragazza invisibile – sgattaiolai via
ignorando la voce stridula di Louise che mi martellava i timpani. Non
mi fermai fin quando non arrivai in fondo al corridoio, dove sostai
di fronte all'uscio chiuso di un altro camerino. Mi sembrò di udire
una voce provenire dall'altra parte. Vi riconobbi quella della mia
amica, anche se non distinsi altro che un mormorio incomprensibile.
Accostai l'orecchio alla porta: che Christine stesse ricevendo un
altro visitatore? Mi parve improbabile.
Cionondimeno,
bussai.
«Christine?
Posso entrare?».
Seguì
un breve trambusto. Sembrava che Christine si fosse alzata
bruscamente dalla sedia.
«Sì,
Meg, entra pure.»
Così
feci, lieta di poterle finalmente parlare a quattrocchi. Era una
visione deliziosa nel suo bell'abito color crema, semplice ma
elegante, decorato con ricami di merletto azzurro. Risaltava il suo
incarnato e i suoi occhi chiari.
«Con
i capelli ravviati in quel modo, sembri una regina.»
Un
lieve rossore si diffuse sulle sue gote pallide. «Non dire
sciocchezze, Meg. Poi è colpa tua se mi monto la testa.»
«Non
ti farebbe male un po' di presunzione. Te la meriti. In questo posto
c'è tanta gente dall'ego spropositato, che mi chiedo perché non sia
già esploso.»
Christine
scoccò un'occhiata distratta al suo riflesso allo specchio.
Chiaramente, il suo aspetto era l'ultimo dei problemi.
«Non
mi vedo affatto come una regina, Meg.»
«Ma
sì. Una di quelle regine buone delle fiabe… Seria, elegante, piena
di grazia, eccetera.»
«E
se io sono una regina, tu cosa sei?»
Ci
riflettei su un attimo. «La strega cattiva» risposi con
convinzione.
Christine
scoppiò a ridere – mi piaceva il suono della sua risata,
cristallina e pura, e mai affettata. Le mie labbra si distesero in un
sogghigno.
«Ma
quale strega! Tu sei la mia fata madrina» mi disse circondandomi le
spalle con un braccio.
«Un
ruolo che sono ben contenta di recitare.»
La
scrutai di sottecchi: era solo leggermente pallida, ma le sue iridi
azzurre baluginavano di una frenesia segreta.
«Ho
visto il visconte in sala, tra il pubblico» le confessai tutto d'un
fiato, non sapendo come avrebbe appreso la notizia. In quei giorni
era apparsa stranamente scostante al riguardo. Mi folgorò con
un'occhiata gelida da sotto le ciglia sbiadite.
In
un battito di cuore passa dalla dolcezza al ghiaccio di un carapace
invisibile. Avvertivo
tremare lievemente in lei i confini di una barriera – l'ennesima –
che non riuscivo ad abbattere.
«Non
ha nulla a che fare con me.»
«Ma
davvero?» sibilai, sarcastica.
«Non
mi ha neanche riconosciuta, Meg.»
E
se mi ha dimenticato? Sentivo
quella domanda pulsare nella sua mente. Beh,
di certo non le consiglierò di rendersi ridicola saltellandogli
intorno come se nulla fosse – “vi ricordate di me, Monsieur
visconte? Sono la bambina a cui avete ripescato la sciarpa in mare.”
«Sei
proprio sicura che le cose siano così? In fondo non vi vedete da più
di sei anni.»
«Non
posso essere sicura di niente.»
«Stasera
ti riconoscerà di certo.»
Lei
emise un flebile sbuffo scettico. «Non credo proprio.»
«Beh,
se ciò non accade…»
«…
avrò avuto ragione di ignorarlo.»
«Perché,
quale ragione hai, adesso?»
Sospirò,
distogliendo lo sguardo improvvisamente carico di tristezza.
«Non
farmi domande alle quali non posso rispondere.»
«E
tu permettimi di capire»
sbottai, con tono più aggressivo di quanto fosse mia intenzione.
«Non sembri felice della sua presenza qui. È legittimo che mi
faccia qualche domanda, dal momento che all'inizio ne eri estatica…»
«Meg»
Christine m'interruppe con voce fredda e risoluta. Eppure, in lei
colsi una scintilla di paura. Perché
è così agitata, adesso? Diamine, che carattere umorale. «Non
parliamo di Raoul, te ne prego. Non è che una follia infantile…»
«Credimi,
non sono entusiasta all'idea di discutere di cose del genere più di
quanto lo sia tu. Ma si tratta pur sempre di te»
la indicai con un dito accusatore. «Non perderei tempo per qualcun
altro. C'è qualcosa di… di diverso in te in questo periodo e non
capisco cosa. Pensavo che potesse avere a che fare con questo tuo
fantomatico Raoul.» Alzai le spalle in un gesto di apparente
indifferenza. «Ma se dici che non ti importa di lui…»
Lei
tornò a studiare i nostri riflessi nello specchio. Accanto a lei,
ero un corvo al fianco di un usignolo, ma i nostri sguardi erano
ugualmente fieri, limpidi. Non
importa quanto siamo diverse. Qui e ora, noi siamo pari.
«Tu
riesci a guardarmi dentro, Meg.» Mi strinse una mano tra le sue,
voltandosi a guardarmi con quei suoi occhi di cristallo e oceano. «E
allora dimmi, sono pronta per tutto questo?»
Non
ebbe bisogno di aggiungere altro perché capissi a cosa si stava
riferendo. Il
grande passo. La fama che sicuramente ti seguirà ovunque una volta
che avrai cantato stasera. Un palco tutto per te.
«Lo
sei sempre stata» risposi, serissima. «Solo che non lo sapevi.»
Lei
dischiuse le labbra nel bocciolo di un sorriso. «Diciamo che mi
serviva un miracolo.»
Io
roteai gli occhi di fronte a quell'aria improvvisamente sognante.
«Nessun miracolo. Qui l'unico miracolo sei tu.»
In
un gesto molto poco da me, mi portai la sua mano bianca e delicata
alle labbra e vi posai un bacio fraterno, che speravo le fosse
d'incoraggiamento. Dentro di me qualcosa tremò, quasi temessi di
vederla diventare cera nella mia presa stanca.
«Questo
sì che è un miracolo!» scherzò lei, stupita quanto me da quel mio
comportamento atipico. «Devi essere ubriaca.»
«Scema.»
Le pizzicai una guancia arrossata.
Eppure
sentivo che in qualche modo la stavo perdendo; che un frammento di
lei si stava lentamente consumando, e non sapevo cosa sarebbe uscito
fuori dal bozzolo.
«Madamoiselle
Daaé, mancano cinque minuti.»
Monsieur
Rémy bussò alla porta per avvertire la futura giovane diva.
Entrambe sobbalzammo, mentre in noi trepidavano scintille
d'eccitazione. Quasi mi sentivo come se fosse stato il mio debutto.
«Io
sarò nelle quinte.»
«Non
mi auguri un “in bocca al lupo”?»
«Che
quel lupo crepi tra atroci sofferenze.»
Ridacchiammo
entrambe, lei nervosamente. Si sollevò dal suo posto davanti alla
toletta e arrancò verso l'uscio del camerino, che in realtà
apparteneva alla Carlotta, ma che ora veniva usato dalla sostituta
della diva.
«Christine»
la chiamai, in un ultimo tentativo di trattenerla – invano. «C'è
qualcosa che dovresti dirmi?»
Lei
inclinò il capo, in quel momento sempre più simile a un delizioso,
antico quadro. Ma
dentro di te aspiri a qualcosa di più. Vuoi essere note e carne, non
la tela stantia e i colori ammuffiti di un ricordo. Non sbiadire di
fronte ai miei occhi.
«No,
Meg. Nulla.» Sul suo volto, oltre al pallore delle gote, non
dimorava altro che un ingannevole candore, come se fossi io a dover
rispondere a domande impossibili.
Non
mentire. Non sei una brava bugiarda.
Poi
se ne andò, lasciando dietro di sé un effluvio di gelsomino – il
suo caratteristico profumo – e null'altro.
Indugiai
per qualche altro minuto nel camerino, persa nei miei pensieri. Ero
certa che, in fondo a quelli di Christine, ci fosse qualcosa a cui
non poteva dare voce.
E
non tutto può diventare canto.
Con
le dita, tracciai arabeschi di polvere invisibile sul ripiano della
toletta, seguendo i riflessi della lampada a gas. Come la luce,
cacciavo pensieri imprendibili – avevo la netta impressione che del
quadro mi sfuggissero i chiaroscuro, le tinte brumose di una trama
segreta e indicibile. La mia mente vagabondava, offuscata dai dubbi,
ma mi risvegliai: non mi avrebbero condotto da nessuna parte, se non
ad ulteriori dilemmi insolubili. Non potevo far altro che attendere
che i nodi venissero al pettine. Peccato che la pazienza non fosse
esattamente la mia migliore virtù.
Uscii
dal camerino della Carlotta, arredato come noi altre comuni ballerine
potevamo solo sognare, dopo aver rivolto un'ultima occhiata distratta
al grande specchio a parete. Non mi restava che cambiarmi per la
festa che si sarebbe tenuta nel foyer della danza, in onore dei due
direttori dimissionari – non prima di aver assistito all'esibizione
di Christine, ovvio.
Il
tonfo dei miei passi era attutito dallo scalpiccio di una mandria di
tori – ma no, si trattava solo delle piccole allieve ballerine che,
in un vortice di tulle bianco e gridolini indistinti, si dirigevano
verso il camerino della Sorelli. Rischiai di essere travolta da
quella furia, quando mi giunse alle orecchie un bisbiglio tutto
eccitato: «Doveva essere proprio lui… Il fantasma dell'Opera!»
M'irrigidii.
Vergognosa della mia reazione, incuriosita e esasperata al contempo
da quella situazione assurda, rimasi ad ascoltare la concitata
conversazione che si svolgeva a pochi passi da me. Non riuscii a
scostarmi in tempo: fui trascinata in un uragano di nastri e risatine
stridule, miste ad esclamazioni di puro sgomento.
«Meg,
Meg! L'abbiamo visto!» La piccola Jammes mi afferrò per un braccio,
scuotendomi come se ne andasse della sua stessa vita.
«Ma
chi?»
«Lui!
Il fantasma, insomma!»
Sbuffai.
«Ancora con questa storia? Non imparate mai?»
In
realtà la piccola Jammes non era così piccola: giglio di quindici
anni, in altezza già mi superava di parecchi pollici. Ma d'altronde,
quelle meno alte di me erano talmente poche che ero stata eletta come
la più nana tra le danzatrici del corps
de ballet.
«E
dove siete state testimoni di questa fantasmagorica
visione,
si può sapere?»
«Ma
poco dopo il balletto, nelle quinte!»
Mi
raccontarono di come avessero scorto un guizzo nero – il lembo di
un lungo mantello – su una passerella nel sovrappalco e, ne erano
certe, doveva essere proprio lui!
Durante
la narrazione, alcune di quelle graziose signorine scoppiarono in
risate eccessive e innaturali, altre in esclamazioni di orrore. Io mi
limitai ad alzare un sopracciglio.
«Sicure
che non fosse semplicemente uno dei macchinisti?»
Il
veleno del dubbio serpeggiò tra le mie giovani compagne. Tuttavia,
la quattordicenne Claudine Tholomyés – nota per la sua irriverente
sagacia anche tra i membri più anziani del corpo di ballo –
controbatté in fretta. «I macchinisti non indossano lunghe cappe
nere, per quel che ne so.»
Tra
le ragazzine si diffusero mormorii di assenso.
«Bah!
Io dico che voi vedete il fantasma dappertutto» dissi col dovuto
sangue freddo. Mi sentivo goffa, intrappolata in quel modo nella
marmaglia di piccole ballerine dall'immaginazione iperattiva. Io
stessa fui per un attimo preda del dubbio. Non avevo dimenticato
l'incidente della notte prima, e l'amichevole
incontro–scontro che ne era seguito. Al solo pensiero, un brivido
involontario mi percorse verga a verga. Il mio naturale scetticismo
non funzionava se davanti a me spuntavano dal nulla grandi iridi
giallastre, brillanti come fari nell'oscurità.
«Gli
spettri non esistono» proclamai nel tono più risoluto di cui fossi
capace, non sapevo se per convincere me stessa o le mie giovani
colleghe.
«Ma
Joseph Buquet l'ha visto! Ci è proprio “finito addosso”! Non è
vero, Claudine?» Cécile Jammes si rivolse all'amica in cerca di
appoggio, come sempre.
Era
vero. Qualche settimana prima, il capo macchinista aveva raccontato
ai colleghi del suo singolarissimo incontro con un essere spettrale.
Sulla rampa di scale che portava al sottopalco del teatro, aveva
urtato – non si può dire “naso contro naso”, perché il
fantasma non ne aveva – un losco figuro che sembrava fatto più
d'incubi che d'ossa e sangue: lo spirito dell'Opera, per l'appunto.
«Un
teschio» lo aveva descritto Buquet, con una mano sul cuore per lo
spavento, «prodigiosamente magro, indossa un frac che pende da
un'impalcatura scheletrica. Gli occhi, nelle orbite cave, non si
distinguono bene – insomma, si vedono solo i due buchi neri del
cranio. La pelle, tirata e sottile come pergamena, è di uno
sgradevolissimo giallastro tendente al grigio, devastata come la
carne sul viso di un morto. Il naso non è che un buco, come gli
occhi, e l'assenza
di quel
naso è una cosa orribile a
vedersi!»
In conclusione, sottili ciocche di capelli neri come la pece, sulle
tempie e dietro le orecchie, completavano quella visione
d'oltretomba.
Inutile
dire che quella testimonianza aveva fatto sensazione tra i membri
dello staff dell'Opera e del corpo di ballo. D'un tratto, tutti non
facevano altro che parlare del fantasma. Una leggenda simile era
diffusa fin dai primi giorni dell'Opera Garnier, e di colpo era sulla
bocca di tutti – un sussurro segreto, un pensiero che di rado
sopravviveva alla luce del giorno, ma che non lasciava mai le menti
di chi aveva eletto l'Opera quale sua seconda casa.
Io
ne ridevo. «Se ha una faccia del genere, non capisco perché ci
tenga a mostrarla in giro» era stato il mio commento alla
testimonianza di Buquet. Dipingevo quadri sempre più orripilanti per
le mie piccole compagne, divertendomi a spaventarle, sotto gli
sguardi di disapprovazione di mia madre e di Christine, la quale
tuttavia non poteva fare a meno di sorriderne. Nessuna delle due
credeva a quelle che definivo “emerite cretinate”: io non avevo
alcuna considerazione per il sovrannaturale, mentre Christine lo
conciliava con la realtà nello scudo di una fede personalissima,
intima e sacra. Questo costituiva il più grande divario tra noi: io
mi recavo in chiesa molto di rado, per la disperazione di mia madre,
che non riusciva più a costringermi come quando ero bambina. Inutile
dire che questo non mi aveva attirato le simpatie di molti, e in
alcuni casi venivo additata addirittura come una compagnia “poco
raccomandabile”. (Massima ipocrisia: l'ambiente teatrale era
dissoluto per definizione, e non si sa per quale miracolo –
probabilmente la sorveglianza rapace di mia madre – mi fossi
conservata alquanto “pura”, malgrado tutto, in particolare se si
considerava la mia natura refrattaria alle regole.)
Christine
invece pregava con un fervore che mi era sconosciuto: per l'anima di
suo padre, per se stessa o per entrambi, non lo sapevo. Lei non me ne
parlava mai, e io facevo bene a tenere la bocca chiusa, per una
volta. Era una delle poche cose interamente sue che avesse conservato
di anni più felici.
Ciononostante,
Christine era troppo intelligente per credere all'esistenza di uno
spettro, e io troppo scettica.
Eppure
dovevo ammettere che adesso avevo i miei dubbi. Non sull'esistenza o
meno di chissà quale spirito composto d'aria e cose morte, ma di un
guitto che stava portando lo scherzo agli estremi. Se fosse stato Luc
o uno dei suoi degni compari a raccontare quanto aveva visto Buquet,
non ci avrei creduto fin quando non ne fossi stata testimone coi miei
stessi occhi. Ma Buquet era un uomo morigerato e, per di più,
sobrio.
«Magari
per una volta si sarà scolato un goccetto di troppo» diedi voce
alle mie speculazioni. «E voi altre non fatevi impressionare. Sono
solo storie.»
Era
proprio per questo che avrei dovuto preoccuparmi, ma allora ero molto
giovane e non conoscevo il potere che può contenere una storia, le
profezie della parola scritta o narrata.
«Tua
madre non sa nulla del fantasma, Meg?» sussurrò la piccola Jammes
con fare cospiratorio. Le altre si strinsero di più le une alle
altre, come se temessero che il fantasma potesse udirle.
«E
perché dovrebbe?» chiesi, spiazzata. Immaginai mia madre in
combutta con uno spettro, e trattenni a stento il riso.
«Beh,
è la maschera del palco numero 5.»
«E
allora?»
«Ma
come, Meg! Il palco numero 5!»
Continuavo
a non capire. «Che?»
«Ma
il suo
palco!
Appartiene al fantasma, naturalmente!» Tholomyés non riuscì più a
contenersi. Aveva l'aria spazientita, come se fossi troppo stupida
per arrivarci da sola.
Quella
mi era nuova. Avevo già sentito parlare di un fatidico palco che il
fantasma si faceva riservare dai direttori ad ogni esibizione, ma non
mi ero mai data la pena di scoprire di più al riguardo. Ma che fosse
mia madre la maschera di quel palco in particolare…
«Com'è
che io non ne sapevo niente?»
«Perché
non c'è niente da sapere.»
Tutte
trasalimmo nel medesimo istante – uno spettacolo notevole. Mi
voltai di scatto, trovandomi faccia a faccia con mia madre. Sul suo
viso non vi era nulla che esprimesse la tenerezza che provava nei
miei confronti: in quel momento era Madame Giry, l'integerrima
istruttrice di danza, non una madre.
«Signorine,
cosa fate qui a bighellonare? Andate a prepararvi per la cerimonia di
gala.»
Già,
non vorremmo perderci il discorso della Sorelli per nulla al mondo.
Dio ce ne scampi.
Le
allieve ballerine chinarono il capo, obbedienti.
«Attente
a non urtare nel naso inesistente del fantasma!» berciai loro
dietro, ironica. Fui travolta da un'ondata di starnazzi d'orrore ed
esclamazioni di scherno. Mia madre picchiò a terra il bastone una
volta sola, e di colpo calò il silenzio. Le allieve ballerine si
dileguarono come un branco di lepri spaventate, dirette al camerino
della Sorelli – probabilmente per rifilarle la stessa storia che
avevano raccontato a me.
Io
continuavo a ridacchiare come un’ebete, fin quando non avvertii su
di me gli occhi severi di mia madre.
«Oh,
andiamo. Sono solo storielle per spaventare i bambini.»
«Faresti
meglio a trattenere quella lingua lunga che ti ritrovi, Meg. E anche
Buquet dovrebbe fare altrettanto.»
«E
adesso cosa centra Buquet?» chiesi, sospettosa. Incominciavo ad
essere stanca di tutti quegli enigmi sfocati. Capirci qualcosa era
una rogna quasi peggiore del “fantasma”.
Mia
madre non avrebbe mai dato adito a certe voci superstiziose, era una
donna tutta d'un pezzo. Perché mai era così seria al riguardo, e
non esasperata come avrebbe dovuto essere?
La
conoscevo troppo bene per non fiutare il lezzo di qualcosa di strano,
di non detto.
«Marguerite
Giry» lei mi guardò con somma austerità. Era così differente da
Antoinette, la madre devota a una figlia unica e storta.
«Sei o no una ballerina?»
Istintivamente
misi i piedi in prima posizione. Annuii. Che
freddura.
«E
allora fa il tuo dovere. Va’ da Christine.»
Sì,
ha bisogno di me.
Ma
non feci in tempo a fare neanche un passo, che fummo raggiunte da una
turba di ballerine – di nuovo. Insieme, erano un branco di piccoli
cigni dalle piume scarmigliate. Tornavano dal camerino della Sorelli,
e con loro c'erano infatti la prima ballerina, col viso di cera, e
Madame Jammes, la madre di Cécile, che aveva l'aria di aver bisogno
di un buon cordiale.
«Oh,
che disgrazia!» riuscii a distinguere attraverso le varie
esclamazioni di comune orrore.
«Ma
che succede? Calmatevi tutte» intimò mia madre, spaesata quanto me.
Madame
Jammes le afferrò un braccio, battendosi il petto con una mano
grassoccia. Era una donna matronale, robusta come un granatiere, ma
in quel momento il suo viso era di uno sgradevole color mattone, e
gli occhi roteavano nelle orbite bulbose come in cerca del cordiale
di cui ho parlato prima.
«Oh,
che tragedia!»
«Ma
cosa è accaduto mai, signora?»
Mia
madre le pose una mano sulla spalla, nel tentativo vano di impedirle
di vacillare. Con quella mole, Madame Jammes avrebbe potuto
sotterrare sia me che mia madre senza tanti problemi.
«Oh,
Madame… Il povero capo macchinista, Joseph Buquet…»
«Ebbene,
Joseph Buquet…?» la incoraggiai, d'un tratto avida di notizie.
«Joseph
Buquet è stato ritrovato impiccato nel terzo sottopalco!»
Gemiti
d'orrore uscirono dalle piccole bocche di belletto delle allieve
ballerine.
«Oh,
che tragedia!» ripeté di nuovo Madame Jammes, continuando a
battersi il petto.
A
questa dichiarazione – è quasi superfluo dirlo – seguì un coro
di strepiti terrorizzati. «É stato lui, non c'è dubbio!»
sussurravano tra loro le ragazzine. «Il fantasma dell'Opera!»
Note
dell'autrice:
1
Charpentier: ideatore
del balletto Polyeucte.
2
Marie Taglioni:
celebre ballerina classica dell'epoca.
Ecco
un nuovo capitolo. Vorrei specificare che il passato di Meg (ciò che
è accaduto al padre, ad esempio) verrà svelato col tempo. Sappiate
solo che c'è un'ombra in lei che la tormenta, e che le ha reso più
evidente l'affinità con l'amica Christine, che considera come una
sorella. (Ah, e abbiate pazienza. Presto il fantasma farà la sua
comparsa.)
Recensite,
mi raccomando: ho bisogno di commenti come di linfa vitale. |
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Capitolo 4 *** L'ombra dell'angelo. ***
iii.
l'ombra
dell'angelo
Se
tra le signorine del corps de
ballet e lo staff dell'Opera
circolava la voce che una mano misteriosa fosse l'artefice della
morte di Joseph Buquet, i più credevano si trattasse di suicidio,
ché come tale appariva e fu bollato senza ulteriori indagini. Ma
parlerò in seguito delle strane circostanze di quell'incidente che
ci colpì tutti, poiché accadde in una sera in cui davvero era
l'ultima cosa che ci aspettavamo.
Io,
che di suicidi e affini non volevo sentir parlare, mi allontanai da
quella cloaca di ipotesi campate in aria e corsi nel foyer della
danza, a quell'ora semi deserto, dal momento che tutti si trovavano
in auditorium. Ignorai i richiami di mia madre che ancora mi
echeggiavano nei timpani, come spettri di una voce lontana, e mi
diressi immediatamente nelle quinte del teatro, da dove avrei potuto
avere una visuale privilegiata della scena. Avrei rimuginato su
quell'ennesima bizzarria, questa volta finita in tragedia, in un
secondo momento. Adesso avevo il debutto di un'amica – l'unica
– a cui pensare; dovevo
essere presente per lei, per darle il mio muto sostegno, di questo mi
rendevo conto. Nelle quinte, mi districai tra coristi, costumiste e
truccatrici, tutti che saltellavano di qua e di là come tante
cavallette ammaestrate. Io sola sembravo avere una meta dritta,
precisa, una retta che correva parallela a quella della soprano al
momento in scena. Sapevo che mia madre mi avrebbe presto raggiunta:
nonostante l'infausta notizia appena ricevuta, da cui doveva
riprendersi – Joseph Buquet era un lavoratore molto stimato
nell'ambiente dell'Opera – non si sarebbe persa l'esibizione di
Christine per nulla al mondo. Nei tre anni della nostra amicizia,
aveva preso a cuore quell'orfana solitaria e pensosa, iniziando a
considerarla quasi una seconda figlia, come per me era la sorella che
non avevo mai avuto.
All'Opera
Garnier non si era mai veduta una serata di gala come quella: i
privilegiati che vi assistettero ne avrebbero parlato in termini
entusiastici e nostalgici ai loro figli e nipoti, di questo ero
certa. Gounod (al quale fui tanto sfacciata da chiedere l'autografo
personalmente), Saint–Saëns, Massenet e Delibes diressero di
persona l'orchestra nell'esecuzione delle loro opere. Tra gli
interpreti, Gabriel Fauré, Gabrielle Krauss e Rosine Bloch. Queste
ultime cantarono rispettivamente il bolero dei Vespri
siciliani di Verdi e il
brindisi del Lucrezia Borgia di
Donizetti.
Ma
nulla di tutto ciò fu paragonabile a quello che ne seguì.
Ero
abituata al fatto che illustri ospiti si esibissero sul nostro palco,
eppure anch'io sentii un fremito d'eccitazione quando fu il turno di
Christine – ero riuscita ad arrivare appena in tempo per assistere
alla sua performance. Il suo trionfo fu assoluto. Si esibì dapprima
in alcuni passaggi del Romeo e
Giulietta di Gounod, autore a
lei caro, che in quell'occasione la diresse di persona. La sua grazia
semplice e la voce serafica erano le stesse di due giorni prima, e
furono le sue armi per conquistare un pubblico altrimenti sgomento.
La perfetta soprano, mi
ritrovai a pensare, mentre note e legati mondavano ogni bruttura, i
laterizi sporchi della mia anima. Negli occhi di Christine vigeva
qualcosa di incredibilmente diverso dalla morte apparente che avevo
imparato a conoscere in lei in quegli anni insieme. Ora sembrava
brillare, e la sua voce rasentava accenti di inaudita bellezza –
l'amore si era fatto titano immortale, quella sera, e ritornava alla
vita nella voce di Giulietta. Fu capace di illudere persino me.
Ma
niente fu paragonabile alla divina ispirazione che la travolse – e
con lei tutti noi che la ascoltavamo – quando cantò nell'atto
della prigione e nel trio finale del Faust,
in sostituzione della Carlotta.
Marguerite!
Marguerite!
Attraverso
la voce tonante di Ubaldo Piangi, udivo il mio nome echeggiare in un
richiamo al cielo, rivolto all'angelo in cui sembrava essersi
trasfigurata la mia amica, l'anonima Christine Daaé, la riservata
ragazza di campagna, straniera in terra francese. Gli occhi rivolti a
deli invisibili, la musica la possedeva in un fremito di vita che,
insieme a lei, faceva rabbrividire tutto il pubblico ammaliato. Era
divenuta regina del palco e padrona del canto. Nessuno fino a quel
momento aveva mai rammentato il nome di Christine Daaé, ma dopo
quella sera fu sulla bocca di tutti. Da quale abisso d'anonimato
sorgeva quella fulgida stella del mattino? Nessuno aveva mai
interpretato Marguerite con tanto trasporto. In quel momento, lei era
Marguerite, sul punto di
essere rapita dagli angeli. O forse gli angeli la accettavano tra i
loro ranghi perché era divenuta una di loro? Sembrava che, insieme
alla voce, dalle labbra le sgorgasse anche l'anima, ora visibile e
bella sul viso di quella ragazza cresciuta nelle stalle, in apparenza
un punto bianco nel fulgore dorato dell'Opera. Un punto indelebile,
lo sapevo. Un raggio. Non poteva essere altrimenti.
Eppure
molti si stavano di certo chiedendo dove avesse mai acquisito un
simile genio. Io, che la conoscevo bene, sapevo che ne era sempre
stata in possesso, ma che era rimasto imprigionato dentro di lei, in
una gabbia dalla quale solo ora l'aveva liberato, donandogli le ali.
Ma qualcun altro poteva chiedersi dove l'avesse tenuto nascosto
finora, e soprattutto perché l'avesse rivelato soltanto adesso.
Christine era sempre stata un'ottima cantante; ma “discreta” non
è sinonimo di stella. Un minuscolo punto nel firmamento, non il
sole. Ma quella sera in lei si concentrava la galassia intera: se non
dal cielo, da dove veniva una tale ispirazione?
Dal
centro del suo cuore.
Come
Faust, sembrava che avesse stretto un patto col diavolo pur di
risvegliare in sé il canto perduto con la morte del padre – musica
e amore. E quella sera lei era musica, e amore, e splendore. Quasi
non sembrava più lei. Appariva trasfigurata – la
crisalide si è schiusa e la farfalla ha ali d'angelo. Tanto
che ne fui intimidita, il che era ridicolo: io, che arretravo dinanzi
a Christine! Figuriamoci. Sarebbe stato più probabile che un
fulmine, abbattendosi sulla cupola del teatro, facesse cadere il
grande lampadario…
(C'è
forse metafora più appropriata, Monsieur Leroux?)
Col
cuore gonfio d'orgoglio, ricordai la diciassettenne fresca di
Conservatorio con cui mi ero scontrata in un corridoio dell'Opera tre
anni prima. In ritardo per una prova generale, avevo urtato la
novellina, ed entrambe eravamo finite col didietro per terra. Ci
eravamo rimesse in piedi massaggiandoci la parte dolorante, sorbendo
le scuse l'una dell'altra; poi ci eravamo guardate in faccia e, alla
vista dei nostri visi arrossati, non avevamo potuto fare a meno di
ridere come due babbee. E avevamo continuato a ridere per parecchio
tempo.
«Mi
dispiace tanto» aveva balbettato lei, scostandosi un ricciolo biondo
dalla fronte liscia e pallida. Mi aveva teso la mano in un gesto
amichevole, imbarazzato. «Christine.»
«Io
sono Marguerite, ma puoi chiamarmi Meg. Solo mia madre mi chiama
Marguerite, e quando è arrabbiata con me. Non vorrai trasformarti in
mia madre.»
Lei
rise ancora, e mi strinse la mano. Aveva una stretta delicata, a
differenza della mia, ferma a tal punto da farle scricchiolare le
ossa. Ma lei non emise un gemito di protesta: si limitò a stringere
la sua presa con maggiore fermezza. In quella gara silenziosa,
compresi parte della sua natura. Da allora eravamo diventate
inseparabili. Non mi ero mai pentita di esserle inciampata addosso,
quella mattina di tre anni prima. E, speravo, neanche lei.
«É
proprio un trionfo» mi sussurrò una voce familiare all'orecchio.
Era Luc.
«Già»
annuii con orgoglio.
«Non
mi dirai che ti stai commuovendo» fece lui in tono di scherno. Il
suo volto cotto al sole era a un centimetro dal mio naso. Le mie
labbra si distorsero in una smorfia.
«Io,
commossa? Macché» negai con vigore, inghiottendo il magone che mi
ottundeva la gola. Lui, per tutta risposta, scoppiò in una risata
bassa e irritante, che cessò solo quando gli rifilai una gomitata
nel fianco.
«Ahia!
Fa male!» si lagnò Luc, massaggiandosi la parte dolorante.
«Ti
farà ancora più male se lo dici a qualcuno.»
Lui
si limitò a scuotere il capo, divertito, ma non per questo prese
meno sul serio la mia minaccia. Da piccoli ci eravamo pestati tante
volte che ne portavamo ancora i segni, per la disperazione di mia
madre. Non che lui lo avrebbe mai ammesso. Luc era un orfano, un
gamin adottato
dall'Opera non meno del gatto Figaro, randagio quanto lui. I
macchinisti e i capi servizio del teatro, gli uscieri e le maschere
erano la sua famiglia. Il che mi ricordava…
«Meg.»
Assunse un'espressione improvvisamente seria, così rara sul suo
volto giocoso. «Hai saputo…?»
Gli
intimai di fare silenzio. «Sì, ma ne parleremo più tardi»
sussurrai a denti stretti.
Joseph
Buquet era stato il suo capo e certamente una figura paterna, così
come tutti gli altri membri più anziani dello staff tecnico del
teatro. Non avevo dimenticato la sua morte – suicidio? – e gli
interrogativi che aveva sollevato… Avrei dovuto porgere a Luc le
mie sentite condoglianze, ma il fatto era troppo recente. Inoltre, al
momento ero concentrata su Christine, che di certo non doveva sapere
niente della morte di Buquet. Mi limitai quindi a posare una mano sul
braccio di Luc, e lui comprese. Ecco una qualità che apprezzavo: non
servivano tante parole perché capisse ciò che intendevo
comunicargli.
La
“nuova Marguerite” – come sarebbe stata definita l'indomani sui
giornali – fu accolta da mille clamori, tanto che la sala intera
sembrò tremare quanto la cantante, che si era accasciata tra le
braccia di Carolus Fonta.
«Ma
sta male?» chiese Luc al vento, stupito. Anche lui aveva applaudito
fragorosamente, più per sostenere me che la mia amica, dal momento
che non credo fosse in vena di ascoltare l'opera, dopo la notizia
della morte del suo capo. Smisi di battere le mani come una foca
addestrata – credetti di avere i palmi scorticati – e mi
precipitai sul palco, ignorando Luc che mi faceva cenno di rimanere
dov'ero. Ero sotto gli occhi di tutti, ma non m'importava: Christine
aveva perduto i sensi, il volto bianco come gesso, striato da lacrime
sottili. Sembrava aver reso l'anima a Dio.
«Christine!»
le schiaffeggiai una guancia con ben poca grazia. «Christine!»
«Madamoiselle,
allontanatevi, per favore».
D'un
tratto non ero più sola: molti avevano seguito il mio esempio.
Sembrava che l'intera compagnia – coristi, ballerine, truccatrici,
orchestranti – si fosse riversata sul palco, ora tanto gremito che
qualcuno mi pestò un piede.
«Ehi!»
protestai, scattando come un gatto a cui hanno calpestato la coda.
Peccato che fossi un ridicolo micio sperduto nella turba della “gente
dell'Opera”, come ci chiamavamo, tutti che si stringevano attorno a
Christine.
«Lasciatela
respirare!» urlò qualcuno. Mi parve di riconoscere la voce di mia
madre, ma non potevo metterci la mano sul fuoco.
«Un
medico! Chiamate un medico!» proclamò a gran voce qualcun altro, e
questa volta riconobbi il timbro familiare di Monsieur Reyer.
Da
quel momento in poi fu il caos. Trasportarono Christine d'urgenza nel
suo camerino, con me e tutta la folla alle calcagna. Nelle quinte del
teatro e nel corridoio laterale che conduceva ai camerini degli
artisti, dovetti dare a spallate chiunque mi si parasse davanti,
senza perdere d'occhio la figurina vestita di bianco che Reyer e
Fonta aiutavano a reggersi in piedi. Notai che praticamente la
stavano tenendo in braccio, dal momento che era del tutto priva di
sensi.
Il
corridoio dei camerini non era mai stato più affollato. Sembrava che
tutto il teatro si fosse riunito per assistere allo svenimento di
Christine non meno del suo straordinario trionfo. Irritata, pestai i
piedi a chiunque osasse intralciarmi. Era la mia
amica, quella, non il giocattolino nuovo.
Fu
allora che urtai contro qualcuno con una foga pari alla mia. Quando
si voltò, riconobbi il volto di ragazzo del visconte Raoul de
Chagny, che tempo prima Christine, tremante d'entusiasmo, mi aveva
indicato tra il pubblico.
«Scusate,
Monsieur» mi affrettai a dire con la maggiore cortesia.
«Scusatemi
voi, Madamoiselle.»
In
quel momento non aveva nulla di riservato o timido. Il suo viso era
pallido quasi quanto quello della sua vecchia amica priva di sensi,
le pupille dilatate dalla preoccupazione e il respiro ansante. Era
chiaro che le ansie di Christine non avevano fondamento: Raoul
l'aveva riconosciuta eccome, e non sembrava indifferente alla
faccenda.
Ci
riversammo tutti nel camerino di Christine, che sedeva sulla poltrona
mentre il medico le porgeva una boccetta di sali.
«Non
sarebbe meglio far sgomberare la stanza da tutta questa gente?»
disse Raoul al dottore. Si era fatto strada tra la folla e aveva
raggiunto senza indugio il capezzale di Christine, ma non aveva
ancora osato toccarla.
«Avete
perfettamente ragione» concordò il medico.
Fu
mia madre che, con un tonfo secco del suo bastone sul pavimento in
marmo e la sua voce austera, riuscì a far uscire tutti senza
difficoltà. Aveva il dono di farsi ascoltare senza sforzo, il che in
una situazione del genere era solo un bene.
«Tu
resta, Meg» mi pose una mano sulla spalla. Io annuii, guardandola
uscire.
Ben
presto il camerino si svuotò. Rimanemmo solo io, il dottore, Raoul e
Christine mezza svenuta.
Un
bizzarro quartetto.
Mi
chinai sulla mia amica, tastandole la fronte. Era solo leggermente
calda, notai mentre Raoul si inginocchiava accanto alla ragazza,
cosicché quando si svegliò, si trovò con il dottore da un lato, il
visconte dall'altro e me china sopra di lei.
Christine
riprese pian piano i sensi, sbattendo le palpebre. Il suo sguardo
annebbiato si posò prima sul dottore, poi su di me, a cui rivolse
l'accenno di un sorriso, e infine su Raoul. Quando lo vide, ebbe un
sussulto.
«Stai
bene?» le chiesi, infrangendo quel silenzio teso.
Lei
annuì, ancora gli occhi fissi su Raoul, il quale aveva il collo e le
orecchie rosse come mele mature. Il dottore le tastò il polso,
ignorando lo scambio di occhiate tra la sua “paziente” e lo
strano giovanotto che le si mostrava tanto interessato. Probabilmente
credeva che se il ragazzo agiva in quel modo, doveva averne il
diritto. Io sapevo che non lo aveva – beh, non ancora – e gli
puntai addosso uno sguardo scrutatore. Lui, com'è naturale, non mi
prestò la benché minima attenzione: era tutto concentrato su
Christine, che lo guardava come se fosse un'allucinazione molesta. Mi
chiesi se avesse del tutto ripreso i sensi.
Era
Raoul!
Avrebbe dovuto essere felice della sua preoccupazione per lei, della
sua presenza lì. E allora perché appariva tanto… Era ansia,
quella?
«Monsieur…»
disse in un mormorio tanto lieve che dovetti tendere l'orecchio per
udirlo, «… chi siete?»
A
quel punto quasi mi pestai la fronte, sbalordita. Che cosa
significava? Lei lo conosceva eccome, non aveva nessun motivo per…
Stavo
per rovinare tutto, quando pensai bene di trattenere la mia lingua
biforcuta. Se Christine si comportava in quel modo incomprensibile,
doveva avere le sue ragioni, che io le intuissi o meno.
«Madamoiselle»
esordì Raoul, ancora inginocchiato davanti alla ragazza. Le prese la
mano con trasporto, ma osò sfiorarle a stento le dita sottili, quasi
avesse timore che quella visione potesse sparirgli dinanzi non appena
avesse cercato di afferrarla. «Sono il bambino che andò a
raccogliere la vostra sciarpa in mare.»
Christine
e il dottore si scambiarono uno sguardo. Dopodiché scoppiarono a
ridere tutti e due. Io rimasi lì impalata, istupidita, ammiccando
ottusamente. Ora mi ero persa. Ma
che diavolo…?
Ero
tanto attonita che non diedi neanche voce alla mia stupefazione.
Non
quanto Raoul, però. Quest'ultimo, se possibile, si era fatto ancora
più rosso in viso. Si alzò, probabilmente col magone in gola, a
giudicare dalla sua espressione.
«Madamoiselle,
giacché non mi riconoscete, mi piacerebbe parlarvi in privato di una
questione… una questione molto importante…»
«Certo,
ma non ora» fece Christine, tirandosi su a sedere a fatica. Io le
diedi una mano, e lei mi ricambiò con un flebile sorriso. «Grazie,
Meg.»
Poi
si rivolse nuovamente al visconte: «Siete molto gentile, ma…»
«Ma
adesso Madamoiselle Daaé deve riposare e rimettersi in forze»
concluse per lei il dottore, in un tono non privo di cortesia.
«Lasciatemi curare la signorina.»
«Non
sono malata» ribatté Christine con improvvisa fermezza. Si alzò
con un'energia del tutto nuova, passandosi in un rapido gesto la mano
sulle palpebre.
«Adesso
lasciatemi, per favore. Vi ringrazio di tutto, dottore, ma ho bisogno
di restare sola… Vi prego di lasciarmi… Mi dispiace, ma questa
sera sono molto nervosa.»
Il
dottore fece qualche debole tentativo di protesta, ma davanti alla
ferma risoluzione della giovane non osò insistere oltre. E se ne
andò con Raoul, del tutto disorientato. Feci per seguirli,
altrettanto confusa, ma Christine mi fermò afferrandomi per un
braccio.
«No,
Meg. Tu resta» mormorò. «Chiudi la porta, per favore.»
Feci
quanto mi aveva chiesto. Poi mi voltai a guardarla, incrociando le
braccia al petto in una posa che ricordava l'austerità di mia madre.
Dovetti intimidirla, perché si ritrasse ai miei occhi e tornò a
sedersi sulla poltrona, massaggiandosi le tempie. Appariva sfinita,
eppure piena di una fermezza – la sua corazza – che non potevo
scalfire.
«D'accordo»
inspirai a fondo. «Dimmi cosa sta succedendo, perché non ci sto
capendo niente. E credimi, guardarti svenire e poi comportarti da
pazza non è un'esperienza che tengo a ripetere.»
Lei
mi folgorò con lo sguardo. «Pazza?»
«Non
riesco a comprenderti.»
«Solo
perché non riesci a comprendere le mie ragioni, non vuol dire che
non ne abbia e che sia impazzita da un momento all'altro.»
«Lo
so» sbottai. Mi sedetti davanti alla toletta, le unghie che
scavavano solchi nei palmi delle mani nel tentativo di trattenere la
rabbia. Non verso di lei, ma me stessa. Non
avrei dovuto usare quella parola. Pazza… Io meglio di tutti dovrei
sapere che…
«Oh,
Meg, mi dispiace.»
Inutile:
non potevo rifiutare una riappacificazione a quegli occhi di mare e
nuvole. Un paesaggio torbido, quella sera, eppure il suo trionfo era
stato assoluto.
«Perché
hai finto di non riconoscere Raoul?»
«Perché
non provo alcun interesse nei suoi confronti, Meg. Non più.»
Sbattei
le palpebre, senza capire. «Ti confesso che mi sono persa.»
Lei
sospirò. «É
una storia lunga.»
«Ho
tutto il tempo del mondo.»
«Non
dovresti andare alla festa del gala?»
«Sai
che me ne frega della festa. Quel che mi dirai tu è molto più
importante.»
Lei
mi rivolse un lieve sorriso. Notai che continuava a torcersi le dita
e a guardarsi attorno, come se aspettasse che cadesse qualcosa dal
cielo – un fulmine, magari – ad aiutarla o a punirla. Poi chiuse
gli occhi e trasse un profondo respiro, prendendo una risoluzione.
«Volevo
dirtelo già da tempo, Meg, ma non mi è stato possibile.»
Mi
prese la mano con aria tanto grave che mi parve di essere appena
entrata in un territorio proibito, sacro, un santuario privato.
L'armatura di Christine lasciava intravedere, da una crepa nella
cotta d'acciaio, uno spiraglio di luce.
«Meg,
ricordi la storia che mio padre mi raccontò a proposito dell'Angelo
della Musica?»
Di
tutte le cose che avrebbe potuto dire in quel momento, quella era
l'ultima che mi aspettavo. Strabuzzai gli occhi, perplessa. «Sì.
Non male come storia da raccontare ai bambini prima di coricarsi. Tuo
padre aveva un certo spirito d'immaginazione, non c'è che dire.»
La
invidiavo. Ciò che mio padre mi aveva lasciato erano solo incubi e
ricordi di polvere.
Lei
mi rivolse un'occhiata severa che mi ricordò mia madre – era la
stessa espressione che riservava solo e soltanto a me quando facevo
qualcosa che la contrariava.
«Beh,
ti sbagli, Meg. E mi sbagliavo anch'io, nel credere che fosse solo
una fantasia, un'illusione infantile. Mi sbagliavo eccome.»
«Che
cosa vuoi dire?»
Papà
Daaé amava raccontare alla figlia molte storie fantastiche, e quella
della piccola Lotte e dell'Angelo della Musica era la loro favorita.
La
piccola Lotte pensava a tutto e non pensava a niente. Uccello estivo,
planava nei raggi dorati del sole, portando sui suoi boccoli biondi
la sua corona primaverile. La sua anima era limpida e azzurra come il
suo sguardo. Coccolava sua madre, era fedele alla sua bambola, aveva
gran cura del suo vestito, delle sue scarpe rosse e del suo violino,
ma sopra ogni cosa amava addormentarsi ascoltando l'Angelo della
Musica.
Così
cominciava quella favola. Christine me ne aveva parlato in passato.
Lei e Raoul da bambini chiedevano a Papà Daaé infinite informazioni
su quel misterioso Angelo. Ed egli rispondeva che quell'essere
celeste non visitava tutti i musicisti, ma solo chi studiava per bene
tutte le scale ed era davvero devoto alla musica, con un'anima buona
e pura. Chi non sapeva dell'Angelo diceva che avevano del genio. Si
dà il caso che prima di morire, Papà Daaé avesse promesso alla
figlia che non sarebbe rimasta sola, e che dal cielo un giorno le
avrebbe mandato l'Angelo della Musica per guidarla lungo una strada
tortuosa che, altrimenti, avrebbe percorso in completa solitudine. Ma
si sbagliava. Christine era rimasta orfana, sola, e aveva dovuto
affrontare tutto – stabilirsi in un Paese straniero, i bisbigli
della gente, la timidezza – con le proprie forze. Poi aveva
incontrato me, che speravo di aver alleggerito un po' quel fardello.
Ma sapevo che, in fondo al suo animo, limpido quanto quello della
piccola Lotte, si annidava ancora lo spauracchio della solitudine,
dell'abbandono. La morte del padre l'aveva lasciata del tutto vuota.
Aveva messo da parte le vecchie leggende che un tempo le avevano dato
tanta gioia: non vi credeva più. Andava avanti senza scopo, senza
pace, senza una bussola con cui orientarsi nel vasto e crudele mondo
che la circondava. Sempre estranea, sempre al di fuori di tutto.
«Avevo
perduto la fede, Meg. Brancolavo nel buio… Poi mi sono ritrovata.
Sono incappata in me stessa e non ho sentito più quel… quella
lacerante voragine nel
petto.» Si strinse una mano all'altezza del cuore, come per
sottolineare le sue parole. «Perché
ho finalmente udito la voce dell'Angelo della Musica.»
Rimasi
in silenzio. L'orologio sulla parete scoccò le dieci di sera, ma io
non mi curai dei suoi rintocchi. «Pensavo che per te fossero solo
amabili sciocchezze.»
«Mi
sbagliavo! Stammi a sentire, Meg… Tu devi
ascoltarmi. Anch'io all'inizio
pensavo di star sognando… Credevo di essere impazzita! A quali
abissi può arrivare la disperazione? Forse infine avevo toccato il
fondo della voragine… Ma non era così. Era tutto reale. Un angelo
era venuto per guidarmi… Non ero più sola… E sono tornata a
credere, Meg. A vivere, a sperare, a sognare ciò che un tempo era
buio e desolato.»
«Cosa…?
Fammi capire: tu hai udito una voce, e credi che appartenga a un
angelo?»
«La
prima volta l'ho udita nel mio vecchio camerino. Pensavo provenisse
da qualche stanza vicina, ma poi mi accorsi che era dentro
la parete! E mi parlava, e
rispondeva a ciò che dicevo.» Chiuse gli occhi. «La voce più
soave. Ovviamente, all'inizio credetti di essere pazza. La voce mi
aveva chiesto, con estrema cortesia, se poteva darmi lezioni di
canto. Io corsi a casa da Mamma Valerius, e non potei non confessarle
ciò che mi era successo, colma d'angoscia perché credevo che mi
avrebbe considerata matta da legare. E davvero non sentivo più di
appartenere a me stessa… Ma Mamma Valerius non reagì come mi
aspettavo. Mi disse che era ovvio, “bambina mia. Deve essere
l'Angelo della Musica.” Come colpita da un fulmine, il mattino dopo
tornai nel camerino e udii di nuovo la voce. Le chiesi se fosse
l'angelo, e lei confermò ciò che Mamma Valerius mi aveva detto. Era
tutto vero! E allora ho
creduto… Mi sono abbandonata alla fede e ne sono tornata più
forte, più viva.»
«Rallenta
un attimo. È stato quindi quest'angelo a darti lezioni di canto?»
«Sì,
da tre mesi, ormai.»
Beh,
di certo sa fare miracoli. L'ha risvegliata dalla sua morte
apparente, e non solo: ha spinto al massimo il suo talento,
conducendola per mano sulla via del sublime.
«Dì
qualcosa, Meg» mi pregò lei, in attesa di una risposta e alquanto
ansiosa. Si torceva ancora le mani.
«Io…»
non mi fermai a ponderare le parole da usare, e questo fu un grande
errore. «Io penso che bisogna essere folli per credere a una cosa
simile!»
Mi
morsi la lingua. Intuii subito che quella era la cosa sbagliata da
dire al momento sbagliato. Il suo volto perse ogni colore, tanto che
pensai che avrebbe perso di nuovo i sensi. Ma, come capii ben presto,
impallidiva dalla rabbia.
«É
questo che pensi?»
«Sì,
è questo che penso.»
«Che
sono pazza? Ah, lo sapevo, non avrei dovuto dirtelo…»
«Invece
hai fatto bene. Così adesso conosco la verità. Dovresti parlarne
anche con qualcun altro…»
«Un
dottore, magari?» insinuò lei in un sibilo sarcastico. Aveva gli
occhi lucidi.
«No!»
negai con tutte le mie forze. Conficcai l'unghia del pollice nel
palmo della mano con tanta forza da pensare che potesse lacerarmi la
carne. Niente medici. Non anche
Christine, Dio, ti prego. «Ma
magari qualcuno che abbia più sale in zucca di Mamma Valerius!»
«Come
osi offenderla?»
«Oso,
oso. È una pazzia, te ne rendi conto?»
«Certo
che sì. Ma tu non l'hai udita, Meg. Una voce simile non può
appartenere a nessun essere umano. Ho trascorso anni al Conservatorio
e poi qui all'Opera. Ho visto esibirsi grandi artisti, ma nulla può
eguagliare l'angelo. E la voce si
sposta! Prima nella parete a
destra, poi a sinistra, poi dal soffitto fino al mio orecchio… E il
violino, Meg! Neanche mio padre lo suonava così. E anche la sua
musica, come la voce, viene da dentro
le pareti. Ho controllato:
nelle stanze vicine non c'è nessuno. Dimmi: se non sono pazza, che
altra spiegazione ci può essere?»
«Solo
tu puoi udire questa voce?»
«Così
mi ha detto.»
Mi
massaggiai le tempie. «Non so, Christine… Mi pare tutto così
assurdo.»
«Non
ti biasimo» aggiunse lei, questa volta con meno asprezza. Avevo
sempre pensato che Christine fosse intelligente: forse un po'
ingenua, da un certo punto di vista ancora una quindicenne imberbe,
da un altro molto più matura della sua età. Non avrebbe mai creduto
a una simile assurdità se le circostanze non fossero state
straordinarie. Dovevo crederle o meno? Nella mia insensibilità, nel
fervore della logica su cui facevo affidamento, tutto questo aveva
solo un nome: follia. Ma era qualcosa che non riuscivo ad accettare,
non se si trattava di Christine. Era sempre stata la mia ancora di
sanità in questo mondo. Non potevo perdere anche lei.
Non
capivo che lei stessa si era aggrappata a quella voce come a
un'ancora, perché la salvasse dall'abisso che aveva nel cuore e che
presto l'avrebbe inghiottita; dalla morte più lenta e dolorosa che
esista: quella dell'anima. Non stava seguendo una sciocca credenza
infantile, ma il suo istinto di sopravvivenza.
«Credi
ancora che io sia pazza?»
Guardarla
negli occhi e risponderle fu stranamente arduo. «Credo che ci sia
qualcosa che non va, Christine. Non posso credere che esista un
angelo simile.»
Lei
si voltò, dandomi le spalle. Era abbattuta, ogni articolazione
piegata dalla sofferenza nel sentirsi dare della pazza dalla sua
migliore amica.
Se
fossi stata un'altra persona, avrei trovato per lei parole di
conforto – l'avrei capita, o almeno ci avrei provato. Ma ero io, e
non sapevo quali parole, quali gesti usare. Mi limitai a deglutire
pesantemente, sentendomi impotente, inadatta, stupida. Eppure, era
Christine che avrei dovuto insultare nella mia mente. Sciocca,
sciocca amica mia. Ma non ci
riuscivo. Neanche io sarei stata obiettiva nella sua situazione. Se
fossi cresciuta com'era cresciuta lei, come una popolana, con un
padre che l'aveva allevata a musica e favole, sola al mondo se non si
contava una vecchia ormai delirante costretta a letto dall'età
avanzata…
Avrei
fatto affidamento anch'io su una voce che usciva dalle pareti e che
credevo appartenesse a un angelo?
La
sola idea mi pareva ridicola. No, era più probabile che, coi miei
trascorsi, credessi di essere diventata pazza sul serio. Non che il
pensiero non angustiasse Christine: credere nell'angelo era l'unica
opzione che le rimaneva, se non voleva cedere alla follia.
Mi
sentii una pessima amica. Provavo rabbia e delusione nei suoi
confronti, ma sentivo che non le meritava. Lei mi aveva aperto il suo
cuore, e io lo avevo rigettato come il corpo fa con qualcosa di
estraneo e infetto. Purtroppo per Christine, non ero la persona
giusta per esserle d'aiuto, non emotivamente. Ma potevo darle una
mano in altri modi.
«Lasciami
sola, Meg. Ho bisogno di pensare.»
La
capivo: era probabile che in quel momento la mia presenza le
risultasse intollerabile – in pratica l'avevo accusata di sentire
voci che non esistevano.
«Se
hai bisogno di qualcosa…» esitai, a disagio. Non mi sarei
rimangiata ciò che avevo detto, ma non potei reprimere il lieve
senso di colpa che mi attanagliava.
Uscii
senza far rumore, scuotendo la testa. C'era qualcosa che non tornava
– anzi, molte cose. I progressi di Christine erano innegabili. Che
la sola illusione di
udire la voce dell'angelo l'avesse aiutata a tal punto da liberarsi
delle antiche remore? Era improbabile, eppure… No, dovevo andare a
fondo in quella storia. Di certo avrei cercato di scoprire di più su
quel fantomatico “angelo”… Prima di tutto, se fosse solo frutto
della vivida immaginazione di Christine.
Fu
allora che mi accorsi di non essere sola nel corridoio dei camerini.
In un angolo, attendeva con ansia il visconte di Chagny,
giocherellando col cilindro che reggeva in mano. Chiaramente nervoso,
mi guardò uscire come se fossi uno spettro. Mi avvicinai a lui,
mentre egli faceva lo stesso. La mia espressione, tuttavia, non
poteva paragonarsi alla sua, avida di notizie sulle condizioni di
Christine.
«Non
siete alla festa, Monsieur?» chiesi, evitando ogni convenevole.
«Oh,
no, Madamoiselle» rispose lui, salutandomi con un lieve inchino.
«Io… ecco… aspettavo che Madamoiselle Daaé si rimettesse per
scambiare una parola con lei… Solo una parola, non desidero altro.»
Appariva incredibilmente abbattuto.
«Non
ci siamo presentati» disse d'un tratto, come se se ne fosse
ricordato solo adesso.
«Non
ce n'è bisogno, so chi siete» dissi, sbrigativa. Mia madre mi
avrebbe dato una tirata d'orecchi per essermi rivolta in modo tanto
sfacciato a un uomo della levatura sociale del visconte, ma Raoul non
sembrò fare caso alla mia scortesia, o al fatto che gli fosse
diretta da un'umile ballerina di fila. Ritenni che presentarmi a mia
volta fosse un buon modo per rimediare.
«Sono
Meg Giry, un'amica di Christine.»
«Piacere
di fare la vostra conoscenza, Madamoiselle. Vi ho vista danzare
stasera.»
Oh,
no, ci risiamo. Odio i convenevoli. «Il
piacere è mio, Monsieur» replicai con un sorriso forzato. Sperai di
non risultare beffarda.
«Madamoiselle
Daaé si sente meglio?»
«Oh,
un po', Monsieur. Ma ha ancora mal di testa, credo, non verrà alla
festa. Sapete, la fragilità dei nervi femminili…» La mia bocca si
distorse in un sogghigno che tutto era, eccetto che appropriato alla
situazione. Non sapevo se sperare o meno che cogliesse il mio pesante
sarcasmo. «Perdete il vostro tempo, qui.» Ero sicura che Christine
avrebbe voluto che gli riferissi questo. Provai un'istintiva
irritazione. Non sono un
dannato piccione viaggiatore. Non potrebbero discutere da soli dei
loro problemi invece di fare di me il loro tramite?
Non
potevo immaginare che quello era solo l'inizio.
Lui
apparve deluso. «Sono molto dispiaciuto per Madamoiselle Daaé…
Spero che si rimetta presto.»
«Senz'altro.»
«Sapete…»
abbozzò, incerto, «… stasera ha cantato in un modo… non l'avevo
mai udi–»
Fu
interrotto da quello che mi parve un lieve singhiozzo, proveniente
dal camerino di Christine. Eravamo a pochi passi di distanza dalla
porta, quindi potevamo sentire piuttosto bene quel che accadeva
all'interno.
Mi
sentii male. La mia amica piangeva e io non ero con lei!
Beh,
che si faccia pure consolare dal suo angelo, ronzò
una vocina maligna nella mia mente. La zittii all'istante. Non volevo
essere crudele e ingiusta, non con Christine, che mi aveva dimostrato
illimitato affetto nei tre anni della nostra amicizia.
La
preoccupazione sul volto del visconte era il perfetto riflesso della
mia. Era evidente che lo animava la mia stessa emozione nell'udire il
singhiozzo sommesso di Christine. Si avvicinò alla porta e fece per
bussare, contrito in volto, ma prima che potessi impedirglielo,
udimmo una voce – un'altra voce, una voce d'uomo,
che diceva con tono singolarmente autoritario:
«Christine,
tu devi
amarmi!»
Trasalimmo
entrambi. Raoul rimasse paralizzato, con il braccio sospeso a
mezz'aria.
Poi
udimmo la voce di Christine, che si intuiva accompagnata dalle
lacrime – un suono tremante, sofferente. «Come potete dirmi
questo? Io, che canto solo per voi!»
A
quel punto quel disgraziato del visconte dovette appoggiarsi alla
porta per non crollare. Sul suo giovane volto si concentrava tutta
l'angoscia di questo mondo, nota a tutti gli amanti.
Io
mi sentii gelare il sangue nelle vene. Quella
voce! Ora ero certa che non
esistesse solo nella testa di Christine. Ma a chi mai poteva
appartenere? Era davvero un angelo, quello che avevo appena udito
parlare?
Inermi,
io e il visconte restammo ad origliare dietro la porta. Un'azione
che, col senno di poi, reputo del tutto irrispettosa, ma al momento
eravamo troppo sgomenti – chi per un motivo, chi per un altro –
per riflettere su questioni morali. Io non me n'ero mai curata, il
visconte era in preda alle sue pene d'amore. Si capirà come non
fossimo i soggetti più adatti per riflettere su ciò che era giusto
o sbagliato fare.
«Dovete
essere davvero stanca» seguitò la voce. Aveva un timbro
incantevole, caldo, accattivante. Una voce perfetta per un angelo. E
non l'ho ancora udita cantare.
«Oh,
sì» replicò Christine. «Stasera vi ho dato la mia anima e sono
morta.»
«La
tua anima è così bella, bambina mia» riprese la voce, grave, «e
te ne ringrazio. Non c'è imperatore che abbia ricevuto un dono
simile. Questa sera gli angeli hanno pianto.»
Dopodiché
non si udì più nulla.
Il
visconte e io ci scambiammo uno sguardo. Dalla sorpresa, palese sul
mio viso, Raoul dovette dedurre che non sapevo quel che stava
succedendo più di quanto lo sapesse lui.
Probabilmente
pensava che Christine lo avesse rifiutato per l'amante che nascondeva
nel camerino. M'irritai anche al solo pensiero – non sapevo se
ridere o no all'idea di Christine che nascondeva un uomo
nell'armadio. Era a dir poco risibile, e dal suo sgomento doveva
pensarlo anche il visconte, che pure la conosceva bene. Senza tanti
complimenti, afferrai Raoul per un braccio e lo trascinai dietro un
angolo dell'angusto corridoio. La porta infatti si stava aprendo, e
l'ultima cosa che desideravo era farmi scoprire ad origliare insieme
al visconte.
Christine
uscì dal camerino, avvolta in una lunga cappa di lana scura, pronta
ad uscire in incognito dal teatro e ritornare a casa da Mamma
Valerius. Appariva più serena, stringendosi in un vecchio manicotto
di pelliccia.
Mi
mordicchiai l'unghia del pollice, com'era mia abitudine in situazioni
di tensione. Attendemmo un altro minuto, ma nulla. La porta rimaneva
chiusa. Il visconte, di cui non mi ero curata fino a quel momento, si
districò dalla mia presa e attraversò il corridoio, giacché
appariva vuoto.
«Ma
che fate?» protestai. Non gli avrei certo permesso di ficcanasare
nel camerino di Christine – se è per questo, neanch'io ne avevo
il diritto, anche se sapevo che alla fine avrei ceduto alla
tentazione pur di scoprire la verità.
Con
nostra grande sorpresa, il camerino era vuoto. Ci guardammo in
faccia, senza aprire bocca. Rimanemmo come stoccafissi davanti
all'uscio per almeno cinque minuti. Mi sentivo stringere le viscere
in una morsa spiacevole, ma per un motivo differente da quello del
visconte. La stanza era vuota.
Se la voce apparteneva a un
uomo, dove diavolo era?
Mi guardai attorno, avvertendo i sintomi di un imminente mal di
testa. Che fosse davvero un angelo? No, non volevo crederci. E allora
da dove mai proveniva quella voce? Christine aveva detto che era
dentro la
parete, e che si spostava ovunque volesse…
«Madamoiselle,
io… questo non è il mio posto. Adesso è chiara la ragione per cui
Christine non voleva parlarmi.» Pallido e disperato, il visconte mi
rivolse un breve inchino. «Ho commesso un'azione riprovevole…
Origliare dietro una porta… Devo essere ammattito.»
«Allora
lo sono anch'io, Monsieur.»
Lui
si allontanò senza aggiungere altro. Gli tremavano le mani, e quasi
gli scivolò il cilindro quando se lo rimise in capo. Mi appoggiai
allo stipite della porta, asciugandomi il sudore gelido dalla fronte.
Prima
quella visione nell'auditorium – gli occhi gialli nell'ombra –
poi il cambiamento inedito nell'arte di Christine, la morte di Joseph
Buquet, mia madre che si comportava in modo strano, quelle
sciocchezze sull'Angelo della Musica… E infine quella voce senza
corpo.
Per
qualche ragione, mi sembrò che tutti quegli elementi fossero
collegati tra loro, uniti da un invisibile filo rosso che tuttavia
non riuscivo ad afferrare.
Bene
bene, papà. Fammi i complimenti. Alla fine sono impazzita davvero,
proprio come te. |
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Capitolo 5 *** Figaro, Figaro, Figaro. ***
iv.
figaro,
figaro, figaro
Quei
giorni si susseguirono l'uno all'altro come una slavina di neve e
ghiaccio, perché di questo mi sembravano fatte le mie ossa ogni
volta che ripensavo a ciò di cui ero stata testimone la sera del
gala. Non mi ero presentata alla festa – davvero, quella era
l'ultima delle mie preoccupazioni – preferendo rimanere in camera
mia a tartassarmi il cervello. Non sarei arrivata alla verità
comportandomi in quel modo, ma era sempre meglio che far finta di
niente e dover sorridere a degli idioti in frac.
Furono
Louise, Juliette e Fabienne a scovarmi per prime, probabilmente
mandate in esplorazione da mia madre per scoprire dove si era
cacciata sua figlia. Con sollievo di tutte loro, non mi ero cacciata
in nessun guaio in particolare, né stavo macchinando qualche scherzo
dei miei per rendere indimenticabile l'ultima sera di Debienne e
Poligny all'Opera Garnier. Finsi un mal di testa – chissà, magari
Christine mi aveva contagiato – e rimasi sola nella mia stanza, a
chiedermi se dovevo o meno correre dietro Christine fino a casa di
Mamma Valerius e scuoterla per le spalle per benino, oppure restare
lì a torturarmi con l'unica compagnia di Figaro, il gatto
dell'Opera, che chissà come si era infilato sotto il mio letto per
poi acciambellarsi sul mio grembo.
«Neanche
chiedi il permesso, tu» dissi sarcastica, accarezzando il suo
morbido pelo color pece.
Lui,
per tutta risposta, emise un miagolio e sbadigliò, mettendo ben in
mostra i piccoli canini aguzzi. Conficcò le unghie di una zampetta
nel lino chiaro della mia veste da notte, come se mi avesse capito e
si fosse offeso del mio sarcasmo da quattro soldi.
Poggiai
la testa sul cuscino, persa nelle mie riflessioni. Mi ero svestita in
fretta, infilandomi nel letto, avvertendo pesare su di me
un'improvvisa stanchezza. Mi sentivo vagamente in colpa nel lasciare
mia madre sola a quella festa – lei odiava quel genere di
celebrazioni, la rendevano esausta e non se lo poteva permettere,
dati il suo lavoro e la serietà che vi metteva – ma a mia volta
sollevata di essermi risparmiata una serata inutile. Non che adesso
stessi facendo qualcosa di molto più produttivo. Il solo pensiero mi
irritava. Dovevo fare
qualcosa. Ma cosa?
Mia
madre diceva sempre che ero troppa prona a gettarmi nella mischia
senza rifletterci due volte, ed era vero. Mi facevo una risata,
dicevo la prima cosa che mi passava per la testa e via, creavo più
confusione che altro. Sei una
stolta, disse una voce nella
mia testa in tono d'accusa.
«Ma
zitta» sbottai, prendendomela col cuscino e rifilandogli un pugno
che fece sussultare il gatto accovacciato sul mio stomaco. Figaro
soffiò, sdegnato, e saltò giù dal letto con la coda sollevata in
aria, come se non fossi all'altezza delle sue attenzioni.
«Ma
certo, vattene anche tu» sibilai, imbronciata. «Dio, se mi metto a
parlare con gatti e voci nella mia testa, significa che sto male sul
serio.»
Dovevo
elaborare un piano – qualsiasi cosa pur di uscire da quella stasi,
da quel senso di impotenza. Cosa? Prima di tutto, avevo bisogno di
sapere di più sia su quella storia dell'angelo che sulla morte di
Joseph Buquet. Mia madre lo avrebbe chiamato “ficcanasare”, io
optavo per un più blando “assicurarsi di non essere del tutto
impazzita e seguire il proprio istinto.” In quello, ero più che
discreta.
E
per coincidenza, sapevo esattamente a chi rivolgermi.
Il
mattino dopo mi destai più presto del solito e mi preparai in fretta
– l'usuale rito che eseguivo appena sveglia per affrontare una
lunga giornata di prove. Mi infilai le scarpette da ballo e corsi in
auditorium, sperando di trovarvi i macchinisti intenti a farsi un
giro di rum prima dell'inizio delle prove generali del Faust.
Il corps
de ballet non aveva
particolari ruoli in questa opera, se non come membri dell'ensemble,
di cui anch'io naturalmente
facevo parte. Dopo il Faust, era in programmazione un balletto, anche
se non si sapeva ancora quale. Intendevo prepararmi per il provino da
solista, ma non era quello il momento per pensarci.
Passai
di fronte a un capannello di scalmanati, intenti a ubriacarsi di
prima mattina. Quelli sghignazzarono non appena entrai nel loro campo
visivo.
«Ehi,
Meg» fece uno di loro – Jacques, il più grande e stupido di
tutti. E, dal momento che era anche il più avvezzo a correre dietro
alle sottane e all'alcol, il capo era lui.
«Ragazzi.»
Con
un cenno, salutai lui e i suoi compagni. Non erano cattivi, solamente
amavano gozzovigliare ed oziare, e pertanto erano il tormento di
Buquet. O almeno, lo erano stati prima che si ritrovasse con un
cappio al collo.
«Sapete
dov'è Luc?» Se non dormiva da qualche grisette
ansiosa di concedergli le sue
grazie, la casa di Luc Bousset era l'Opera, non meno di quanto lo era
per me o Figaro.
Qualcosa
di simile all'invidia mi strinse le viscere in una morsa al pensiero
di quanto loro – un giovincello sprovveduto e focoso e un gatto di
strada – fossero più liberi di me.
Al
nome del mio amico, Jacques e i suoi si misero a ridere come bufali.
«Scusate
se non ci trovo nulla di divertente» aggiunsi, mettendomi le mani
sui fianchi in una posa che ricordava mia madre. Sperai di suonare il
più autoritaria possibile.
«Non
ha passato la notte da te, Meg?» insinuò Pierre, un tipo scarno con
la faccia da topo che non faceva altro che stare dietro al suo capo.
«E
tu non l'hai passata da Jacques?» ribattei, velenosa. Ottenni
l'effetto sperato: Pierre divenne verde in viso mentre gli altri
risero ancora di più.
«Andrei
di fretta. Devo parlargli.»
«Suvvia,
Meg. Un goccetto?» Jacques mi offrì la sua bottiglia di rum, ma io
declinai con un cenno secco del capo.
«No,
grazie.»
«Adesso
fai la santarellina? L'ultima volta te ne sei scolata metà e non sei
neanche crollata.»
«Preferisco
non ricordare.» Era vero, non mi ero accasciata al suolo, ma il mal
di capo mi aveva afflitto per tutta la notte e anche il giorno
seguente. «É stata solo una stupida scommessa.»
«Che
hai vinto» fece Jacques, sollevando il suo bicchiere e tracannandone
il contenuto in un solo sorso, in un brindisi beffardo alla
sottoscritta.
«Sorpreso?»
chiesi, incrociando le braccia al petto e distendendo le labbra in un
lieve sogghigno.
«Più
che altro, sono sorpreso che una cosina come te non abbia dato subito
di stomaco.»
«Chiamami
un'altra volta “cosina” e scoprirai che è un aggettivo quanto
mai appropriato per ciò che non
avrai più tra le gambe.»
Se
possibile, gli altri risero ancora di più – e la risata di Jacques
era la più tonante di tutte. Alla fine, mi sciolsi anch'io in un
sorrisetto. Sapevo che ora non celavano intenzioni malevole dietro
quelle battute scherzose, ma un tempo era stato diverso. Jacques e la
sua banda, di cui faceva parte anche Luc – in pratica erano
cresciuti assieme – non approvavano che il loro amico, tra tante
“cosine” graziose nel corps
de ballet, avesse messo gli
occhi proprio su di me. Inutile spiegare loro che ci conoscevamo fin
da bambini: non mi consideravano abbastanza graziosa
per Luc.
«Meg
“faccia di scimmia”? Andiamo, Luc, quella sembra un corvo
rachitico.»
Inutile
dire che Luc li aveva presi quasi a pugni per questo, con mia grande
soddisfazione. Mi sarei lanciata su uno di loro anch'io, se fosse
stata una lotta alla pari… ma Jacques era grosso il doppio di me, e
non ero così sciocca, né il mio istinto suicida tanto disperato.
Mi
ero vendicata quando, per una stupidissima scommessa, avevo deglutito
mezza bottiglia di quello che mi pare fosse whisky – adesso la mia
memoria vacilla – tutta in una volta, e non avevo vomitato, né ero
crollata al suolo, o svenuta “tra le braccia di Luc”. I postumi
della sbornia si erano fatti sentire quando avevo rigettato anche
l'anima, chiusa in bagno, con Christine che mi scostava i capelli dal
volto e mi detergeva la fronte imperlata di sudore gelido, scuotendo
la testa in preda alla preoccupazione mentre io sghignazzavo,
soddisfatta di me stessa. Quella sera avevo affrontato il mio
battesimo dell'alcol, ma non ci tenevo ad indugiare oltre in simili
vizi. Non volevo finire come mio padre. Claude Giry era stato un
pianista brillante, un marito e un padre devoto, ma d'un tratto
qualcosa in lui si era mortalmente incrinato, e l'alcol era stato uno
dei tanti modi con cui aveva provato a darvi sollievo, invano. Niente
poteva curare il suo male quando anche darvi un nome incuteva paura.
«Luc
è nel primo sottopalco. Sta dando una ritoccata a un qualche
fondale» m'informò Pierre, che a quanto pareva non vedeva l'ora di
liberarsi di me.
«Alla
buon'ora» mugugnai, attraversando le quinte e scendendo la stretta
rampa che portava al sottopalco. Ignorai gli sghignazzi di quei
bellimbusti – non erano degni della mia attenzione – e mi diressi
a passo felpato in fondo alla sala, sovrastata da imponenti travi in
legno scuro: un caleidoscopio di argani, botole segrete e macchinari
vari di cui avevo imparato i nomi con gli anni, e di cui Luc si
occupava da sempre. Era il suo lavoro, d'altronde. Le quinte, le
passerelle e i sottopalchi del teatro costituivano il suo regno, in
cui si sentiva libero e a suo agio come accadeva a me sul palco –
la quieta sensazione di aver trovato il proprio posto nel vasto
mondo. Chi è che diceva che
tutto il mondo è un palcoscenico, come la vita?1
Non
mi sforzai di ricordarlo e mi concentrai su Luc. Spostava i vari
fondali, controllando se avessero macchie o altre tare invisibili
sulla distanza. Gli spuntai alle spalle e lui sobbalzò.
«Non
mi dire che ti sei spaventato.»
«Mi
sei comparsa davanti all'improvviso!»
«Temevi
fosse il fantasma?» dissi scherzando, con l'idea di farlo ridere.
Una pessima idea: Luc si rabbuiò di colpo e chinò il capo, d'un
tratto serio e taciturno come lui non era mai.
«Cosa
c'è?» chiesi, più bruscamente di quanto fosse mia intenzione. Una
domanda alquanto sciocca, col senno di poi: era ovvio che provasse
una grande tristezza per la morte di Buquet.
«Mi
dispiace, Meg. È solo che… Monsieur Buquet è morto così
all'improvviso, senza una spiegazione, e…»
«Non
preoccuparti. Anzi, mi dispiace sinceramente» gli posai una mano sul
braccio, nel tentativo di rincuorarlo. «A proposito» aggiunsi con
falsa nonchalance, «cos'è successo esattamente? Se te la senti di
parlarne…»
«Ma
come, non lo sai?» abbassò la voce, come se qualcuno potesse
udirci. Siamo soli, avrei
voluto rammentargli, ma rimasi in silenzio. Non intendevo
interromperlo, non adesso. Dovevo
capirci qualcosa.
«Monsieur
Buquet è stato…» deglutì con difficoltà. «Insomma, l'hanno
trovato impiccato nel terzo sottopalco.»
«Questo
lo so. Si tratta di suicidio?»
Lui
giocherellò con i polsini sfilacciati della camicia. Sembrava che il
disagio che provava controllasse ogni fibra del suo corpo. «Tutto fa
pensare a questo, già. Ma se devo confessartelo, non ne sono del
tutto convinto.»
Aggrottai
la fronte, attenta a non perdere una parola. «Davvero? E perché?»
Domanda
stolta: nutriva i miei stessi dubbi, ecco perché. Ma volevo che ne
parlasse ancora.
«Beh,
c'è il fatto della corda.»
«La corda
con cui si è impiccato?»
«Sì.
Gisquet, il macchinista che l'ha trovato, giura che…» e qui smorzò
tanto la voce che fui costretta ad avvicinarmi e a tendere l'orecchio
per sentirlo, «… che, quando è tornato con i soccorsi, la corda
era… beh, diversa.
Insomma, non era la stessa di quando lo aveva trovato cinque minuti
prima.»
Questo
non me l'aspettavo. «Diversa come?»
«Più
robusta, prima di tutto. La prima appariva sottile, come una garrota,
ma con la forma di un cappio. Ma non è sicuro di ciò che ha visto.
Era quasi del tutto immerso nel buio, si scorgeva solo la… la
sagoma, ecco.»
Interessante.
Scacciai via dalla mia mente
l'immagine di quel lugubre pendolo. «Buquet era un uomo… come
dire, sereno?»
Lui
mi scoccò un'occhiata incredula. «Certo che sì. Era un brav'uomo,
una persona che non credo soffrisse di particolari preoccupazioni…
Anche se…»
«Anche
se cosa?» lo esortai, cieca davanti alla sua crescente angoscia.
Lui
rimase un attimo ad osservarmi, studiando i lineamenti del mio volto,
la mia espressione d'attesa. «Beh… Non era più lo stesso da
quando… da quando aveva veduto il fantasma.»
Sbuffai.
«Non crederai anche tu che si tratti di un fantasma.»
«Di
qualcosa
si tratta, Meg, perché Buquet non mentiva. Non l'ho mai visto così
scosso.» Si strinse nelle spalle, inghiottendo il suo disagio. «Ha
visto qualcosa,
e da allora niente gli è più andato bene. Sappiamo com'è finita.
Non so, non può essere una coincidenza. Ma io non intendo
immischiarmene.»
Riprese
il suo lavoro come nulla fosse.
«Come
puoi dire questo?» esclamai, colpita dalla sua apparente – credevo
simulata – indifferenza. «Se c'è qualcosa di reale
in tutta questa storia…»
«Meg.»
Luc mi afferrò una mano con improvviso ardore, tanto che
indietreggiai. «Meg, ti prego. So che segui sempre il tuo istinto, e
che è inutile cercare di persuaderti. Ma sta’ fuori da questa
storia. Monsieur Buquet ci ha perso la testa… Non possiamo essere
sicuri che non si sia ucciso proprio per questo. Magari il
macchinista si è sbagliato davvero su quella corda. La polizia lo ha
bollato come suicidio…»
Deglutii
un fiotto di bile che d'improvviso mi aveva ostruito la gola. Quelle
parole mi vorticarono nel cervello come pulviscolo mosso dal vento.
«Ma
se tu stesso hai detto di avere dei dubbi in proposito!» incalzai.
«Sì,
ma se si tratta davvero di assassinio, Meg, allora è meglio che tu
non ci abbia a che fare. Non voglio che ti accada nulla di male.»
«Spetta
solo a me decidere quel che posso o non posso fare.»
«Questo
lo so. È solo un consiglio, Meg. Da amico.»
Annuii.
«Apprezzo lo sforzo, Luc.»
«Grazie
mille» ribatté lui, caustico.
Gli
battei un colpo giocoso sulla spalla. «Non mi caccerò nei guai, te
lo prometto.»
Avrebbe
dovuto sapere che, tra mille cose, ero anche una bugiarda.
Se
solo gli avessi dato retta…
Dopo
aver assolto i miei doveri quotidiani – ossia dimostrare che ero
effettivamente all'altezza di essere una corifea, e recarmi a lezione
puntualmente – fui travolta dai resoconti della gran festa della
sera prima, a cui non avevo partecipato.
«Sei
la solita, Meg» mi rimproverò Louise, arricciando le labbra. Non
capiva come un semplice mal di testa potesse impedirmi di essere
presente a un evento tanto acclamato.
«Non
è colpa sua» controbatté Fabienne, più comprensiva.
«Seriamente,
ragazze, non me ne importa niente» dissi in tono seccato. Appoggiata
al davanzale della finestra, permettevo all'aria gelida di gennaio
che filtrava da uno spiraglio nell'imposta di schiarirmi i pensieri,
come faceva con la turba di nuvole grigio perla nel cielo d'acciaio.
Il sole non era che un fantasma, quel mattino, e l'aula di danza era
marmo e inverno.
«Come
mai così di malumore?»
«Non
mi sembra giusto far festa e dimenticare che nella stessa sera è
morta una persona.»
«Intendi
Buquet.» Juliette si mosse, a disagio. Le altre si scambiarono
occhiate imbarazzate.
«Non
pensavo che ti turbasse fino a questo punto.»
Era
vero. In un altro momento, non vi avrei prestato tanta attenzione, ma
era tutta una scusa. La ragione del mio umore torbido non era altro
che il fitto mistero in cui mi ero ritrovata tra capo e collo, le
mille domande senza risposta che mi pulsavano nella mente come tanti
cuori impazziti. Odiavo avere tanti dubbi, tante ossessioni
irrisolvibili.
«Avresti
dovuto esserci, comunque» proseguì Louise, come se non avessi
raggelato la conversazione con la mia acidità. «Anche solo per il
fantasma.»
Fabienne
si fece un rapido segno della croce, mentre Juliette si massaggiò le
tempie: intuiva che l'accenno al residente spettro dell'Opera non mi
avrebbe rallegrata.
«Che
sia maledetto» imprecai, quasi ringhiando alla povera Louise, che in
fondo aveva buone intenzioni.
Fabienne
trasalì: «Non dire così.»
«Non
crederai anche tu a un vero fantasma!»
«Ieri
alla festa era presente, a dire della piccola Jammes» spiegò
Louise, persistente.
«La
piccola Jammes è una quindicenne facilmente impressionabile. Ed
erano presenti molti uomini in frac» commentai.
«Sì,
ma non tutti indossavano una maschera.»
Malgrado
la mia irritazione non cedesse di un pollice, fui ugualmente attratta
da quella descrizione, come una falena alla fiamma. Non credevo
nell'esistenza degli spiriti, ma non potevo negare quella del
contorto meccanismo che giostra la mente umana. Chi si celava dietro
quell'artificioso scherzo – perché di questo ero certa si
trattasse? Era in qualche modo collegato a ciò di cui ero stata
testimone due notti prima, nell'auditorium, e a quel che Joseph
Buquet aveva visto e che tanto lo aveva scosso, fin quasi – forse –
a fargli perdere il lume della ragione? Rimestavo quei dubbi
irrisolti nella mente, ed essi mi parevano incollati alle pareti del
pensiero, ché neanche tutta la mia forza di volontà riusciva a
dissotterrarne le radici, adesso piantate fermamente nella fertile
terra di una mente giovane ed eccitabile quanto era la mia all'epoca.
Non me ne accorgevo, ma andavo ricercando quei misteri perché di
questo volevo vivere: dell'estasi di essere vicina a una soluzione
inafferrabile.
Avrei
voluto comprendere me stessa in egual maniera.
«Cos'è
successo di preciso?» chiesi, avida di dettagli e allo stesso tempo
punta nell'orgoglio per quel mio bisogno. La sola idea di un fantasma
dell'Opera era ridicola, ma
qualcosa doveva pur tenere quella fantasia agganciata alla realtà.
Non ero così sciocca da credere che si trattasse di mere coincidenze
– e quel che restava, per quanto improbabile, doveva essere in
qualche modo reale.
Niente di paranormale, ma carne e sangue. E, soprattutto, una mente
capace di ragionare e inventare.
«La
piccola Jammes ha urlato all'improvviso, agitando il dito sotto il
naso della Sorelli, che in quel momento si preparava per il suo
discorso d'addio ai direttori – ebbene, Jammes ha starnazzato con
una voce stridula: “È lui, è il fantasma!” E tutti si sono
voltati nella direzione in cui indicava. Lei asserisce di aver veduto
un uomo in maschera – di sfuggita, certo, appena un lampo – ma…»
Il
dettagliato resoconto di Louise, intonato in un cinguettio concitato,
fu interrotto dal più sobrio commento di Juliette: «Ma Meg
apprezzerà di più i dettagli sul discorso della Sorelli, non è
vero?»
A
quel punto ridacchiammo tutte insieme, persino Fabienne, che alle
forze sovrannaturali credeva sul serio. Non importava quanto io e le
altre ci impegnassimo per inocularle un po' di buon senso, né se i
miei scherni andavano a segno: era certa che qualcosa di strano e
inspiegabile avvenisse sotto il tetto dell'Opera Garnier. Solo
adesso, benché in termini diversi, avrei concordato con lei.
«Essermelo
perso è uno dei miei più grandi rimpianti» ironizzai, posandomi
una mano sul cuore in un gesto di esagerata solennità. Per quanto
ammirassi la nostra prima ballerina, non avevo mai condiviso la cieca
venerazione che provavano le altre nei suoi confronti, e sapevo che
Juliette, Louise e Fabienne la pensavano similmente.
«Christine
sta meglio?» chiese d'un tratto quest'ultima. «Avrei voluto
chiederglielo di persona, ma da ieri sera è intoccabile.»
«Anch'io
non l'ho vista stamattina» risposi, e ne ero amareggiata. Parlare
con lei sarebbe stato vitale, adesso.
«Non
è venuta all'Opera?» incalzò Louise.
Scrollai
le spalle in un segno a metà tra ignoranza e indifferenza. «Direi
che si è concessa il suo meritato riposo, per una volta.»
«Ieri
sera è stata sublime» aggiunse Juliette, ma il suo tono era più
pensoso che ammirato. La guardai dritto negli occhi verdi, felini,
implacabili. «Sta prendendo lezioni di canto?»
Scossi
la testa, forse con più vigore del necessario. «Non che io sappia»
mentii con noncuranza simulata. Non era davvero il caso di parlare di
angeli della musica a chicchessia.
«Stasera
ho intenzione di andare a trovarla, comunque» le informai. «Spero
che si senta meglio.»
Di
quello ero certa. La mia mente era fissa su un solo obiettivo:
cavarle fuori qualcosa in più su quella storia dell'angelo. Magari
scoprire dove si tenevano le sue lezioni? Se c'era qualcuno di
palpabile dietro
tutto quello… Speravo davvero che avesse dei denti, così da
poterglieli spezzare uno per uno.
Avvolta
nella mia mantella più pesante – una cappa imbottita di pelliccia,
di un marrone stantio – infilai gli stivaletti di cuoio lucido, mio
piccolo vanto, e trotterellai per Rue Scribe, diretta alla Rue du 4
Septembre, decisa a non affittare una fiacre.
Christine abitava in un modesto appartamento in Rue Notre Dame des
Victoires, distante solo una mezz'ora da place de l'Opéra, e io non
avevo franchi da buttare.
Parigi
era di un candore assoluto, quel giorno: la neve era caduta in
abbondanza, e la sua coltre impenetrabile l'aveva resa una città di
diamante, ineffabile come un sogno perduto. Il freddo intirizziva le
ossa, ed era l'unica cosa che rendeva reale quella magnifica visione
da cartolina. Mi strinsi nel manicotto e continuai ad avanzare a
falcate rapide e sicure. Allo zenit, il sole era una macchia nebulosa
nell'infinito mercuriale, e non emanava alcun calore. I miei pensieri
in quel momento non riscaldavano più del ghiaccio sotto i miei
piedi, o della brina che ricopriva i tetti delle case.
Zampettai
come un'anatra intorpidita dal gelo, diretta verso la sua tana di
foglie e calore. Continuai la mia fredda marcia senza curarmi dei
passanti, osservando il mondo circostante: le vetrine illuminate, gli
alberi vestiti d'inverno, i fiori di ghiaccio nelle aiuole appassite.
Finalmente arrivai a destinazione, proprio mentre il sole morente
cedeva il posto alla luna, bianca e indifferente quanto la neve che
drappeggiava la città. Sospirai, e il mio fiato caldo formò una
piccola nuvola di vapore che svanì a contatto con l'aria gelida del
tramonto parigino.
Avevo
impiegato quasi venti minuti, pur con la mia falcata da corridore. Di
conseguenza, boccheggiavo. Tuttavia le mie gambe rimasero salde. Dopo
anni e anni di danza, quello era il minimo.
Fui
accolta in casa Valerius dalla cameriera, una donna tracagnotta dal
collo taurino che mi accompagnò in camera della padrona non appena
le chiesi di Christine.
«Madamoiselle
non è in casa, ma Madame Valerius vi riceverà con piacere.»
Era
un ambiente familiare, quello: un appartamento arredato con la
discreta eleganza tipica di un piccolo borghese di campagna venuto ad
abitare in una grande città. L'ormai deceduto professor Valerius
aveva per così dire adottato
Christine e suo padre dopo
aver scoperto il loro grande talento musicale nella loro patria, la
Svezia. Dopo la sua morte, Mamma Valerius si era presa cura di
Christine come se fosse figlia sua, ma era troppo anziana e malata
perché potesse starle davvero vicino. Era Christine che doveva
occuparsi di lei, adesso, e lo faceva con tutta la gratitudine
possibile. In fondo, era stato per merito suo e del marito se
Christine aveva potuto studiare al Conservatorio e ora aveva un
impiego all'Opera. Papà Daaé era stato un povero contadino, un
violinista di paese senza alcun mezzo per sostenere la figlia.
L'aiuto del professor Valerius era stato fondamentale, ma a dire di
Christine suo padre non si era mai ripreso dalla forte nostalgia che
lo aveva pervaso da quando aveva messo piede in suolo francese,
lasciando la sua amata Svezia, con i suoi laghi e le sue montagne dai
pinnacoli innevati e la sua lingua aspra e gutturale di cui Christine
portava ancora le vestigia di un lieve accento.
Seguii
la cameriera attraverso uno stretto corridoio, rischiarato dal
baluginio di una lampada a gas alla parete, e mi fermai dinanzi alla
porta della camera da letto di Mamma Valerius. Bussai con doveroso
rispetto, e da dentro una voce allegra e raschiante mi invitò ad
entrare.
Ormai
ero abituata alla vista di quell'anziana donna costretta a letto, ma
qualcosa mi toccò dentro ugualmente. Era una sensazione di diniego:
speravo – sapevo – che il mio futuro non sarebbe stato simile.
Non sarei mai riuscita a vivere in quel modo, accudita come una
bambina che non riesce neanche a reggersi sulle proprie gambe – non
io, non senza la capacità di camminare, di danzare.
Non riuscivo a immaginarmi raggrinzita, accasciata tra lenzuola lorde
dei miei umori che non potevo neanche cambiare da sola. Ovviamente,
con la prospettiva degli anni le cose sono mutate, e di molto. Adesso
non sono poi tanto differente da quella donna quasi senza più corpo,
tanto appariva inutile e pesante
– simile a un macigno che ti
impedisce di alzarti, camminare, mangiare, vivere. Ce l'ho qui, nel
petto, e mi ha seguito come un'ombra per anni. Vi sono tante forme
diversedi morire, e questa è una delle peggiori.
A
giudicare dal sorriso con cui mi accolse Mamma Valerius, il suo stato
non le toglieva quella dolce serenità che si raggiunge quando si sa
che si è diretti verso un luogo meraviglioso, un faro che non
abbandona mai la propria visuale. C'era della leggerezza in lei,
quell'essere vago e imprendibile come una piuma di cigno, e lo stesso
candore. Forse apparteneva già ad un altro mondo, uno ove il corpo
non serve.
«Meg,
cara ragazza! Che piacere vederti.»
«Il
piacere è mio, Madame.»
Presi
posto su una sedia al suo capezzale, senza attendere il permesso. Lei
non parve farci caso, e mi rivolse ancora una volta quel sorriso
etereo e sdentato.
«Cercavi
forse Christine?» Pronunciò il nome della ragazza con un accento di
ineffabile dolcezza. Era evidente anche solo dalla sua voce quanto
quella figlia adottiva fosse preziosa per lei. Ma lo era anche per
me, ed era per questo che mi trovavo lì.
«Sì,
infatti. Sapete dov'è andata?»
«Oh,
non dovrei dirlo.»
Strabuzzai
gli occhi. «E perché mai?»
«É
un segreto» rispose lei, e ammiccò con fare infantile. Iniziai a
tamburellare il piede sullo scendiletto, in una maniera che avrebbe
allarmato un osservatore più attento e percettivo di Mamma Valerius.
Credevo infatti di sapere a quale segreto si riferisse quest'ultima.
«Si
tratta dell'angelo, vero?»
Lei
emise un suono incomprensibile, ma che era evidentemente di sorpresa.
Tra le sue labbra aride risuonò come il verso di un uccello
strozzato – alquanto spiacevole all'udito.
«Oh,
te l'ha detto, alla fine? Ne sono lieta. L'angelo le aveva comandato
di non rivelare a nessuno della sua venuta, ma io glielo dicevo:
“Dillo a Meg. È una brava ragazza. Capirà.” Ma Christine
scuoteva la testa. Come se avesse potuto tenersi tutto dentro, poi!
Povera cara, non deve essere stato facile per lei.»
«No,
infatti. Mi sapete dire dove si trova in questo momento?»
«Con
il suo buon genio,
naturalmente. All'Opera.»
Imprecai
mentalmente. Doveva essere uscita prima di me, e non l'avevo
incrociata per strada. O forse aveva percorso una via secondaria
proprio per evitare di incontrarmi – sapeva che prima o poi sarei
andata a cercarla. Ma non era a conoscenza del fatto che avevo udito
anch'io – beh, io e il visconte – la voce
maschile. Così l'avevo
chiamata tra me e me, in mancanza di una definizione migliore. Non
sapevo, infatti, se appartenesse a un angelo (poco probabile) o a un
uomo (decisamente più realistico).
«É
lì che si tengono le lezioni?»
«Oh,
sì. In un camerino sempre vuoto, di solito all'ora in cui sorge il
sole, quando non c'è nessuno.»
Furbo,
certo. Era per non farsi udire da eventuali e sgraditi ascoltatori.
Fu
allora che rammentai qualcosa che mi tolse il fiato. Come potevo
essere stata tanto stupida? Perché diavolo non ci avevo pensato
prima?
Mi
colpii la fronte con una mano.
«Oh»
cacciai un singulto d'orrore e rabbia insieme. «Oooh.»
«Meg,
cara, stai bene?»
Mamma
Valerius mi studiò con aria preoccupata. A confronto con le sue
condizioni, il mio stato di salute era eccellente. Era dunque ironico
che fosse lei a pormi quella domanda, ma la mia espressione doveva
aver rivelato il mio sgomento.
«Io…
sì. Ho appena ricordato una cosa.» Mi alzai di scatto, quasi
facendo cadere la sedia tanta era la mia fretta. «Madame, è stato
un piacere» mentii con un inchino distratto. L'anziana donna mi
strinse la mano con lo stesso sorriso sulle labbra di carta.
«Devo
dire a Christine che sei passata, cara?»
«Sì,
grazie.»
La
cameriera mi accompagnò alla porta, pensando forse che dovessi
essere ammattita. D'altronde, in quella casa non sarebbe stata una
novità: ovvio che Christine avesse finito per credere alla storia
dell'angelo, se era stata allevata da una moribonda con un piede
nella fossa e un altro nel mondo delle nuvole. Mamma Valerius, più
di là che di qua, esercitava un'influenza potente sulla figliastra,
e la sua ingenuità infantile – ironicamente, un sintomo della
senilità avanzata – aveva contagiato anche lei.
Scesi
in strada e tornai a casa con il medesimo passo rapido dell'andata,
ma le mie falcate erano meno sicure, più erratiche. Ero persa nei
miei pensieri. Ricordavo cosa Christine mi aveva detto la sera
precedente, dopo avermi rivelato la verità sul cosiddetto angelo.
Le
avevo chiesto se solo lei poteva udire la sua voce, e lei me lo aveva
confermato. E allora perché mai anche io e il visconte l'avevamo
udita?
Nelle
mie dita intirizzite, il sangue scorreva con maggior rapidità,
animato da una rabbia repressa che finalmente aveva ragione di
esistere. Quella era la prova tangibile che qualcuno – un
mascalzone della peggior specie, certamente – stava prendendo in
giro la mia amica. Ma per quale motivo?
Non
potevo credere di non averci pensato prima. Ero stata così stolta!
Per tutto il giorno avevo rivangato nella mia mente la conversazione
avuta con Christine la sera prima, ma quel frammento mi era sfuggito
finora, e adesso mi stava davanti come la fulgida testimonianza della
mia sanità mentale – e soprattutto di quella di Christine.
Altro
che angelo! Gli spezzerò le ali, lo giuro.
Tornai
all'Opera Garnier tutta trafelata, gli stivali coperti da un sottile
strato di neve, la cappa puntellata di bioccoli sciolti come rugiada
al sole. Non mi cambiai neanche con degli abiti asciutti: mi diressi
nel corridoio dei camerini con l'intenzione di fare irruzione in
ognuno di essi pur di trovare Christine. Ma la fortuna non era dalla
mia parte, quel giorno. Probabilmente la mia amica se n'era andata
prima del mio ritorno. Non potevo credere che facesse di tutto per
evitarmi, ma a quanto pareva era così.
Tornai
nella mia stanza per cambiarmi d'abito, rifilando un calcio rabbioso
alla cassettiera, col solo effetto di rompermi un'unghia del piede.
Imprecai e mi sedetti sul letto, occupandomi della ferita, sebbene da
ballerina fossi abituata a vesciche e altre amenità simili.
Ragionando,
mi chiesi se non avessi fatto meglio a parlare di quella storia con
mia madre. Avere un'autorità dalla mia poteva essere utile, e in
fondo, notando la mia inquietudine in quei giorni, sicuramente si
sarebbe preoccupata invano. Almeno così avrei potuto rassicurarla in
parte, spiegandole che non si trattava di me, bensì di Christine e
di un sedicente angelo.
Che
razza d'uomo poteva fingere di essere una creatura celestiale per
avvicinarsi a un'inesperta soprano? Un pazzo, non v'erano dubbi in
merito.
Incrociai
le mani sul grembo, per evitare di torcermi le dita o di rosicchiarmi
le unghie come un topo affamato. Fu allora che notai una palla di
pelo che si strusciava contro le mie gambe con morbido abbandono.
«Figaro»
lo chiamai in un sussurro, e l'animale mi permise di accarezzare il
suo piccolo corpo flessuoso. Poi d'un tratto, con uno scatto lesto
tipico dei felini, sfuggì alle mie moine e, sempre balzando, si
avvicinò alla porta, raschiandone la superficie legnosa con gli
artigli.
«Vuoi
uscire?» chiesi – come se poi avesse potuto rispondermi. Gli aprii
la porta e lui trotterellò via a passo sinuoso, rivolgendomi
un'occhiata che, se non fosse stato un animale, avrei potuto definire
complice. Cercai di agguantarlo prima che potesse dileguarsi del
tutto, ma Figaro sgusciò via con facilità e con la coda mi fece
segno di seguirlo. O così avrebbe fatto se non fosse stato un
semplice gatto.
Decisa
a riprenderlo, lo seguii attraverso il corridoio deserto. Dal momento
che la nuova stagione musicale sarebbe stata inaugurata solo fra
qualche giorno, quella sera l'Opera era immersa nel più completo
abbandono, eccetto per me e mia madre – l'una impegnata ad
acciuffare un gatto ribelle, l'altra a preparare una frugale cena
nelle nostre stanze.
Figaro
si fermò in fondo al corridoio, in una nicchia dimenticata. Io
stessa non vi avevo mai rivolto più di una semplice occhiata, benché
l'Opera fosse la mia casa e la conoscessi bene. Mi accucciai
all'altezza di Figaro, che si lasciò accarezzare mentre con le
zampine dava lievi colpi sul pannello di legno della parete.
«Se
vieni con me senza fare storie ti darò sardine per cena. Meglio del
gatto di un re, sicuro» gli promisi con tono suadente, le mani
immerse nel suo corto pelo corvino. Non riuscii a dire altro o a
prenderlo tra le braccia, che mi accorsi che qualcosa non andava. Il
pannello si muoveva.
Attonita, scostai Figaro e studiai la parete con attenzione. Con le
sue unghie feline, Figaro doveva aver attivato chissà quale
meccanismo per far ruotare il pannello. In realtà era solo una
lastra di legno di noce, e il congegno che lo apriva doveva essere
arrugginito, dal momento che Figaro era riuscito a farlo funzionare
dall'esterno. Con un brivido di adrenalina, scostai il pannello, che
emise un cigolio di vita, e infilai la testa nella cavità buia che
faceva da ingresso. In realtà era poco più di una fessura, un
pertugio squarciato nella notte, largo appena per far passare un uomo
accovacciato. Io, che ero piccola e minuta, non avrei avuto problemi.
Una
forte ondata di curiosità mi pervase, rendendomi impaziente. Dovevo
assolutamente scoprire dove portava… Riconoscevo una botola quando
ne vedevo una: il palcoscenico traboccava di trucchi simili,
necessari per la messa in scena delle opere e dei balletti.
Attraverso un meccanismo perfetto, fondali e altri effetti scenici
venivano spostati insieme agli attori, che potevano entrare o uscire
di scena in una nuvola di fumo con l'uso del semplice ghiaccio secco.
Deglutii,
la gola arida. La mia prima esperienza con una botola non era stata
piacevole. Avevo quattro anni e, saltellando sul palco, per sbaglio
ero caduta attraverso un passaggio che, dopo l'ultima messa in scena,
non era stato richiuso bene. Ero scoppiata in lacrime e mio padre era
corso a riprendermi prima che potessi mettermi a urlare. Poi,
asciugandomi gli occhi col suo fazzoletto di trina, mi aveva stretta
tra le braccia con dolcezza, spiegandomi il meccanismo di cui ero
stata vittima ignara. Dopo l'iniziale spavento, ne rimasi affascinata
e avevo convinto mio padre a mostrarmi altre botole e passaggi
segreti. Avevamo trascorso una sera a divertirci in quel modo. Non
sarei mai più stata così felice con lui.
Un
fiotto di bile mi ostruì la gola a quel ricordo. Lo ricacciai
indietro con rabbia. Lieto di vedermi affrontare le mie paure, Claude
Giry mi aveva definito la sua
piccola impavida, e allora ne
ero stata fiera. In seguito, avevo provato solo una bruciante
vergogna: non mi ero dimostrata all'altezza di quelle parole, ché le
paure che dovetti affrontare in seguito furono molto più
terrificanti di un semplice incubo infantile, imprendibili come aria
velenosa e altrettanto infette. Avevano suppurato la carne del mio
coraggio fino a farla marcire, deturpandola, e ne era rimasto solo un
ricordo sfregiato. Come mio padre, come la bambina che ero stata.
Mi
ripromisi di curiosare in quel passaggio segreto dopo cena, il più
tardi possibile, così da non insospettire mia madre. Non sapevo
perché, ma intuivo che mi avrebbe proibito di avventurarmi lì, in
quella breccia ammantata di buio e probabilmente invasa da ragni e
topi. Rabbrividii al pensiero, ma non mi lasciai impressionare
troppo. Solo un'occhiata,
mi dissi con un fremito d'eccitazione. Mi sembrava di trovarmi in uno
scadente romanzo gotico, dove la protagonista scopre uno spiraglio
nascosto nel maniero spettrale e allo stesso tempo terribilmente
romantico in cui si trova con l'alto e tenebroso coprotagonista
maschile. Sogghignai all'idea – detestavo quel genere di romanzi;
non leggevo che storie d'orrore e mistero, e di rado, poiché non ne
avevo il tempo materiale – e mi rizzai in piedi, dando un buffetto
amichevole sul collo del mio peloso piccolo amico.
«Grazie,
Figaro» gli dissi, sebbene quello mi ignorasse, limitandosi a
strusciarmi la coda fra le gambe. «Mi hai reso questa serata ancora
più interessante.»
Dopo
cena feci quanto mi ero ripromessa, quando il giorno morì del tutto
all'orizzonte e la luna risorse tra le ceneri delle stelle per farsi
alta nel cielo, tanto buio da apparire senza colore. Consumai un
pasto modesto con mia madre, e per tutto il tempo rimasi in silenzio,
fatto singolare che dovette allarmare maman
– la quale infatti continuò
a studiarmi in un modo che, se non vi fossi stata abituata, mi
avrebbe messa a disagio. Le chiesi se avesse incrociato Christine,
spiegandole della mia visita a casa Valerius, ma lei negò con un
cenno del capo. Mangiai in fretta e la informai che andavo a riposare
– ovviamente una bugia bella e buona. Nella solitudine della mia
camera, attesi il momento giusto per agire. Quando le luci si
spensero, afferrai una candela e m'inoltrai nel corridoio deserto,
sperando di essere silenziosa quanto Figaro ma senza illudermi
troppo. Avevo lasciato il passaggio aperto, cosicché uno spiraglio
della cavità nascosta era visibile sotto il getto della mia candela,
la cui fiamma tremolava tra le ombre come nell'abbraccio di un
amante.
Mi
accovacciai sulle ginocchia, incurante della polvere che si posava
sulla mia semplice veste da camera grigia. Avanzai carponi come un
infante, affondando una mano nel cemento arido del cunicolo mentre
con l'altra reggevo la candela. Il fascio di luce colpì il soffitto,
che era più alto di quanto avessi immaginato all'inizio. Lieta di
non dover continuare a strisciare sulle ginocchia, mi alzai e
proseguii a passo lento e misurato, ben attenta a dove mettevo i
piedi. Il passaggio si addentrava nell'ignoto oscuro, fin dove il
bagliore rassicurante della candela non poteva raggiungerlo. Non
sapevo da quanto tempo camminassi: forse un paio di minuti, forse
quindici. Mi pentii di non essermi portata dietro un orologio.
Cercando
di ignorare con tutte le mie forze le pareti drappeggiate di
ragnatele – non le avrei sfiorate neanche con un dito, per nulla al
mondo – proseguii nella mia risoluzione, volendo almeno scoprire
dove conduceva quel passaggio. Fu allora che mi trovai a un bivio.
Mi
morsi un labbro. Maledizione, a questo non avevo pensato.
Scioccamente, avevo creduto che il cunicolo continuasse ad allungarsi
sempre nella stessa direzione. Non avevo previsto diversamente. Cosa
dovevo fare?
D'un
tratto avvertii qualcosa strisciarmi vicino a una gamba. Guardai in
basso e vidi un enorme ratto che mi passava di fianco, del tutto
tranquillo, come se fossi una presenza abituale in quella desolazione
di polvere e ombre. Squittii più forte dello stesso topo e mi pigiai
contro la parete, lasciando che l'animale se ne andasse per i fatti
suoi. Non si udiva nulla, se non l'eco ridondante del mio gemito e il
palpito irregolare del mio cuore. Lo potevo sentire ovunque
– nella gola, nei timpani, nelle viscere. Fui lieta di non aver
fatto cadere la candela nella mia goffaggine, perché allora sarebbe
stato molto più difficile tornare indietro.
Rabbrividii.
«Coraggio, non puoi avere paura di un topo» mi dissi a voce alta,
sperando di suonare rincuorante e determinata. In realtà, la mia
voce non era più che un fievole mugugno.
«Dovrei
ritenermi fortunata. Almeno non ho fatto cadere la candela né mi
sono spezzata l'osso del collo inciampando in qualche buca nel
terreno. Non morirò in questo modo, grazie tante.»
«Ne
sei proprio sicura?»
Rimasi
raggelata. Una voce sibilante mi aveva sussurrato quelle parole
all'orecchio, e ne fui tanto impressionata che rimasi immobile, come
una cariatide di sale. Non osavo voltarmi, ma non ce ne fu bisogno.
Una
mano scheletrica mi afferrò una spalla, stringendola con tanta forza
che mi si mozzò il fiato in gola. La candela era oramai a terra, ma
per fortuna non si era spenta. Atterrita, mi ritrovai con la schiena
al muro, mentre un'ombra nera come un pipistrello si stagliava tra me
e l'uscita, impedendomi ogni movimento.
L'ombra
indossava una maschera.
Note
dell'autrice:
1 Per la
precisione, William Shakespeare.
Eccoci
ad un nuovo capitolo. Come vedete, è finalmente comparso il
fantasma: che cosa accadrà alla disgraziata Meg? Lo saprete presto.
:)
Vi
prego di lasciare una recensione, anche per dire che fa pena e dovrei
smettere di scrivere per sempre. XD Mi piacerebbe discutere con voi
dei vari personaggi, e se li sto trattando bene (presto apparirà
Erik, quindi i consigli sono ben accetti). Alla prossima. :)
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Capitolo 6 *** La voce dell'angelo. ***
v.
la
voce dell'angelo
Se
quel mattino qualcuno mi avesse detto che allo scoccare della
mezzanotte sarei finita in una simile situazione, ci avrei riso su e
avrei liquidato la faccenda in fretta. Non credevo alle predizioni.
Tuttavia,
la parte più sensata di me mi diceva che avrei dovuto immaginarlo.
Troppe cose erano successe, e quella era la goccia che faceva
traboccare il vaso.
Certo,
tutto mi sarei aspettata fuorché questo.
Non
so bene neanch'io come finii con la schiena pigiata contro il muro
ruvido, la polvere nel naso e un'ombra imponente che incombeva su di
me come un rapace famelico. Con un gemito soffocato, cercai di
liberarmi dalla morsa che mi artigliava la spalla, invano.
Ero
in trappola.
Alzai
gli occhi, in preda al panico. Uno sguardo di fuoco incontrò il mio:
al riverbero della candela, quegli occhi d'oro sembravano bruciare
come stelle lontane. Sono gli
stessi, pensai, attonita, gli
stessi occhi che vidi nell'auditorium la sera prima del gala!
Mi
dibattei come una mosca in un barattolo, ma i miei sforzi erano
inutili. L'ombra, che con mio grande orrore indossava un frac e una
larga cappa nera, mi aveva agguantata con una sola mano, e non solo
non sembrava avere alcuna intenzione di lasciarmi correre via come un
cerbiatto in fuga da un lupo affamato, ma mi immobilizzava con una
tale agevolezza che avrei potuto benissimo essere un colibrì in
gabbia.
Rabbiosa,
cercai di sferrargli un calcio, ma l'uomo mascherato lo evitò con
facilità e mi strinse la mano alla gola con tanta forza che credetti
di soffocare. Mi ucciderà,
pensai, mentre le lacrime mi
offuscavano la vista – non sapevo se per la paura o perché stavo
boccheggiando – come ha fatto
con Buquet. Finirò come lui.
Tutto
intorno a me divenne bianco e silente. Esistevano solo quella sagoma
spettrale e le sue dita scheletriche attorno alla mia gola, e il mio
respiro rantolante, come il pulsare di un cuore malato. Non riuscii a
distogliere gli occhi dalla maschera che copriva il volto del mio
assalitore: era di stoffa nera e si intonava bene alla sua apparenza
funerea e al buio del cunicolo. L'unica nota di colore in lui erano i
suoi occhi, gialli e terribili.
«Non
vi avevo ordinato» sibilò lui accostando il suo volto invisibile al
mio – internamente trasalii a quella vicinanza inaspettata – «di
non andare in giro da sola di notte, Madamoiselle?»
Non
ebbi la forza di rispondere: la voce mi era morta in gola.
«I-i…»
«Cosa?»
Lo
sconosciuto mi scosse con maggior forza, tanto che mi trovai a
tremare e a battere i denti come per una gelata improvvisa.
«S-sto…»
Stargli
così vicino era intossicante. Emanava un'aura di agghiacciante
maestà, e torreggiava su di me che, piccola ed esile, ero una
bambina tra le sue braccia. Potevo avvertire il suo fiato sul collo –
mi si rizzarono i peli sulle nuca al solo pensiero – e il suo
strano odore, un misto di… decomposizione e morte, dolciastro in
modo nauseante… Mi ricordava il lezzo che emanava dal cadavere di
mio padre, il giorno in cui era morto.
Com'è
facile immaginare, questo nesso improvviso non mi rincuorò.
Lui
allentò la presa sulla mia gola, così che mi fu possibile aspirare
una profonda boccata d'aria, per quanto viziosa. Fui invasa da una
frammentaria sensazione di sollievo.
«Parla»
ingiunse lui con un tale accento di autorità che, lì per lì, mi fu
impossibile protestare.
Le
sue dita ossute trovarono comunque la mia spalla, che ormai doleva
tra le sue grinfie d'acciaio, scarne solo all'apparenza.
«Io…
volevo solo…»
«Curiosare
nel mio dominio?»
«No,
io…»
«Ebbene?»
Con
un brivido, mi coprii il volto, come se mi aspettassi di essere
battuta per questo. Il mio istinto di conservazione sembrò accendere
in lui una reazione inaspettata. Con quello che mi parve un ringhio
di disgusto, mi gettò lontano da sé. Persi l'equilibrio e ruzzolai
a terra. Mi strinsi le ginocchia al petto, incurante del vestito
ormai sporco, dei capelli arruffati, delle palme delle mani
scorticate per la caduta.
Mi
accucciai contro il muro, come se avesse potuto proteggermi.
«Chi
sei tu, bambina, che vieni a ficcanasare in questo luogo senza luce?»
Alzai
lo sguardo, senza perdere d'occhio quella visione raggelante – non
che fosse possibile, d'altronde.
Da
dove diavolo era spuntato? Mi era arrivato alle spalle, o così mi
sembrava, ma non sapevo attraverso quale ignoto passaggio nell'ombra.
«Louise
Georges» fu il primo nome che mi balzò in mente. «Per caso ho…»
«Tu
menti!»
tuonò lui, tanto che sobbalzai. Mi rannicchiai ancor di più contro
il muro. Non avevo nessuna intenzione di morire in quel posto, lo
avevo detto prima e lo pensavo ancora, benché lui sembrasse avere
tutt'altri progetti al riguardo.
«Sei
una piccola indisponente bugiarda, ma non pensare neanche per un
attimo di poter mentire a me.
Vedo attraverso le tue menzogne come fossero di cristallo.»
«Non
ne dubito.»
Lui
si aprì in quello che mi parve un sogghigno – era difficile dirlo
in quella penombra, e con la maschera a coprirgli la maggior parte
del volto.
«Io
conosco tutti nel mio teatro,
piccola sciocca. Non molto furbo, usare il nome di una delle tue
amiche pettegole con il sottoscritto.» Mi guardò attraverso le sue
orbite invisibili.
«Mi
chiamo Meg Giry.» Con il fuoco nelle vene, decisi di accomodarmi ai
suoi voleri.
«Beh,
Meg Giry, forse
un uccellino dovrebbe riferire a tua madre delle tue frequenti
passeggiate notturne. Neanche lei ne sarebbe lieta… Ma credimi,
sempre meno del sottoscritto.»
Si
chinò su di me, simile a un enorme pipistrello che ripiega le sue
ali d'ombra. Mi osservò per qualche minuto, quasi sviscerandomi, il
che mi mise profondamente a disagio – non più di quanto già non
fossi. In realtà, ero terrorizzata.
La capacità di ragionare e
formulare pensieri di senso compiuto mi aveva del tutto abbandonata:
ero fremiti e voglia di sopravvivere, adesso, nient'altro. Un mucchio
d'ossa tremante abbandonato ai piedi di una fiera.
La
fiera in questione mi sollevò il mento con un dito lungo,
bianchissimo, sottile. Mi sembrò solo un altro pallido ragno in quel
luogo soffocante, e mi ritrassi. Non sarei morta senza lottare, per
quanto tutti i miei sforzi potessero essere vani.
Perché
questa certezza di morire, mi chiederete?
Perché
avevo riconosciuto in quell'oscuro figuro il fantasma dell'Opera, e
l'ultima persona che lo aveva incontrato – diciamo pure urtato –
così da vicino, ossia Buquet, era finita impiccata. Adesso ero quasi
certa che non si trattasse di suicidio.
Lui
fece comunque in tempo a sfiorarmi, così che incrociassi il suo
sguardo. Le mie viscere si erano tramutate in acqua: il suo tocco
lieve era gelido, tanto che rabbrividii.
«Hai
paura di me, bambina?»
Gli
rivolsi un'occhiata incredula. Era
stupido? Certo che avevo
paura, ma che domande faceva?
Mi
aveva intrappolata in quell'angolo di mondo dimenticato da Dio, mi
aveva praticamente aggredito – secondo lui, quale doveva essere la
mia reazione? Senza contare che avevo riconosciuto in lui il
famigerato spettro dell'Opera, che a quanto pareva era più di sangue
e carne di quanto la leggenda gli desse conto.
Lo
folgorai con tutta l'avversione possibile. Non credevo ci fosse
bisogno di rispondere.
Lui
sembrò trovare nei miei occhi ciò che cercava. Fece una smorfia, si
rizzò in tutta la sua considerevole altezza e tenne fisso lo sguardo
su di me, informe mucchietto d'ossa e stoffa ai suoi piedi.
«Perché
sei venuta qui?» mi chiese con la sua voce profonda.
«Per
caso, lo giuro! Ho scoperto questo passaggio per
caso! Se questo teatro è tuo
come dici, allora dovresti starci più attento!»
Dal
momento che non mi dava del voi, non reputai fosse giusto fare lo
stesso.
Come
non detto. Con un sibilo furioso, mi afferrò di nuovo per un braccio
con malagrazia e mi tirò su come se fossi fatta di piume. Dio,
perché non imparo mai a tenere la bocca chiusa?
«Non
fare la spiritosa con me, ragazzina. E per te è Monsieur.»
«Non
dico altro che la verità, Monsieur.
Dove vado non vi compete…!»
«Sì
che lo è, se si tratta del mio
teatro!» continuò lui,
sbatacchiandomi furiosamente. «La tua impudenza non ha limiti.»
Anche
la vostra, Monsieur, pensai,
ma questa volta vidi bene di tacere. Mi morsi un labbro finché non
percepii il gusto aspro del sangue, rame e sale sulla mia lingua.
«Cosa
ci fai sveglia ad un'ora così tarda?»
Quello
non era davvero il momento giusto per fare conversazione, ma risposi
ugualmente: «Non riuscivo a dormire, Monsieur. Ero divorata dalla
curiosità…»
«La
curiosità, la curiosità… Ebbene, la curiosità uccide,
Madamoiselle. Vedete bene di non dimenticarlo.»
La
parola “uccide” mi vibrò nell'orecchio destro, poi in quello
sinistro, e infine in tutte le membra come il suono deforme di una
corda di violino spezzata. Rabbrividii e gli artigliai il braccio,
che ancora mi stringeva una spalla, con il fervore dei disperati,
quasi temendo che potesse iniziare a strangolarmi da un momento
all'altro.
Inoltre,
come mai adesso mi dava del voi? Era per caso un lunatico (non che ne
dubitassi davvero)? E cos'era quella, una minaccia?
«Mettiamola
così» proseguì lui con la voce più amabile, come se stessimo
conversando affabilmente attorno a un tavolino e stessimo prendendo
il tè in pieno giorno. «Seguite le mie istruzioni, la prossima
volta, o un giorno il vostro sottile, piccolo collo si ritroverà in,
diciamo, uno stato non
invidiabile. Sono stato
abbastanza chiaro?»
Sì,
decisamente una minaccia.
«Chiarissimo»
biascicai con un filo di voce.
«Mi
rincuora sapere che il vostro udito e le vostre capacità di
ragionamento funzionano.»
Arretrò
di un passo, liberandomi la spalla dalla morsa che l'artigliava –
non brutale, ma ferrea. Mi guardò con malcelata freddezza.
«Potete
andare, Madamoiselle.»
Deglutii
rumorosamente. Mi servì qualche secondo per riuscire a muovere di
nuovo i piedi, trasfigurati in blocchi di cemento. Lui si chinò e mi
cacciò in mano la candela, indicando con un lungo dito bianco la via
che mi avrebbe ricondotta alla luce.
«Conoscete
la strada» disse, non senza un pizzico di sarcasmo. «Se vengo a
sapere che avete parlato a qualcuno del nostro incontro – e
credetemi, lo saprò – sarò costretto a ricorrere a misure
drastiche. E mi dispiacerebbe.»
«Sissignore»
promisi nella maniera più convincente possibile. Era facile
rivolgerglisi come a un'autorità: fu il mio istinto di conservazione
a farmi parlare in quel modo.
«Bene.
Ora andate.»
Caracollai
attraverso il passaggio rischiarato solo dal fievole lume che reggevo
nella mia mano tremante. Quando osai voltarmi, non vidi altro che
buio – il riflesso muto della mia paura. Strisciai carponi oltre
l'angusta fessura che apriva e chiudeva il tunnel. Richiusi il
pannello alle mie spalle di modo che celasse la breccia nel muro:
nessun altro avrebbe potuto curiosarvi dentro come, stupidamente,
avevo fatto io. Sobbalzai quando qualcosa mi sfiorò una gamba, ma
tirai un sospiro di sollievo nell'udire il miagolio di Figaro,
risuonante nel silenzio come un sasso lanciato su una placida
superficie d'acqua. I suoi occhi verdi, nella notte, erano frammenti
di luce solida. Mi riportarono alla mente le iridi giallastre del
fantasma – perché proprio di lui si trattava, non poteva essere
nessun altro – e un brivido mi scosse verga a verga. Una cosa,
tuttavia, era certa: quel tizio non
era uno spettro.
Chi
diavolo era?
Un
pazzo, senza alcun dubbio!
Mi
strinsi nell'ormai malandata veste da camera, come a difendermi da un
freddo strisciante, invisibile ma corporeo, che minacciava di
lasciarmi lì, rattrappita e sconvolta, nel corridoio deserto. Stavo
per battermi contro un nemico di cui non ero all'altezza, ma come si
poteva impedire al freddo di prendere possesso delle ossa, di farne
un tempio per l'inverno ormai inoltrato?
Mi
salì la bile in gola.
Avevo
riconosciuto subito a chi appartenesse quella voce: il fantasma
dell'Opera e l'Angelo della Musica erano la stessa persona.
Trascorsi
una notte a dir poco turbolenta – mi sembrava di trovarmi su una
galea squassata dai marosi di una tempesta inarrestabile. Dormii di
un sonno fatto d'ombra e occhi rilucenti nel buio, e al mattino mi
svegliai con in mente l'impronta di incubi che non ricordavo più,
quasi il sorgere dell'alba avesse bandito i particolari più
tenebrosi, bagnandoli di luce. Mi rimaneva solo una bizzarra
sensazione di accecamento, e non rammentavo il lampo che mi aveva
colpita.
Il
ricordo del mio spassosissimo
incontro della scorsa notte
era inciso nei miei pensieri come il tocco ustionante del sole su una
pelle di latte, nuda e vergine ai suoi raggi. Mi ero lambiccata il
cervello per ore e ore, senza pietà, rigirandomi nel letto e
dibattendomi come un pesce nella rete. Il sonno non era che uno zenit
inafferrabile che mi conquistò solo dopo una lotta asfissiante. Di
me non rimasero che brandelli esausti.
Chi
diavolo era
quell'uomo? E soprattutto, cosa voleva da Christine?
La
sua voce era la stessa che avevo udito dietro la porta del camerino,
quella che aveva detto “stasera
gli angeli hanno pianto”! Ne
ero sicura, l'avrei riconosciuta ovunque. Non
si trattava di un essere
ultraterreno, questo era ovvio: una scintilla di orgoglio bruciò in
me al pensiero che avevo avuto ragione per tutto questo tempo.
La
ragione di una fessa, sbuffai
amareggiata. Che avessi avuto torto o meno, non risolveva la
situazione.
Qualcuno
si stava prendendo gioco di Christine e dell'Opera tutta, e io non
potevo sopportarlo. Come potevo non rivelare la verità alla mia
amica? Come potevo, in buona fede, lasciare che… che quel pazzo
misterioso giocasse con la sua mente come fosse una bambola di carne?
Avvertii pungere dentro di me l'irritazione verso Papà Daaé:
Christine era cresciuta sola, in campagna, circondata da gente
superstiziosa e sognatrice. Suo padre – suo unico vero amico
nell'infanzia, se si eccettuava Raoul – le aveva riempito la testa
di musica, nuvole e fiabe. E alla sua morte lei aveva perso tutto
questo, la linfa per cui viveva. E ora che sembrava aver ritrovato,
non dico la gioia, ma il desiderio
di vivere… Ecco che tutto,
come sempre, le si rivoltava contro. Christine era ingenua,
inesperta, ma non meritava quell'inganno.
Chi
diavolo era quell'uomo che minacciava di morte una fanciulla indifesa
come nulla fosse – la sottoscritta, cioè – considerava il teatro
di sua proprietà e andava in giro con una maschera a nascondergli la
faccia? E poi, che razza d'uomo poteva avere degli occhi simili,
così… così inumani?
Christine
mi aveva riferito che il suo angelo aveva una voce più che
incantevole: era divina. Doveva esserlo, per ingannare Christine, che
si nutriva di musica fin da quando aveva cominciato a camminare.
Ora
avevo più chiaro il mosaico, ma mi mancavano i tasselli che
collegavano insieme tutti gli altri. Perché?
Perché si nascondeva, perché quella segretezza maniacale, perché
si fingeva uno spettro e un angelo? Chi si celava dietro la maschera?
Di certo doveva indossarla per nascondere la propria identità. Chi
poteva essere? Mi grattai la testa dolente e soffocai il volto nel
cuscino. Niente mi impediva di andare dalla polizia… ma non avevo
prove!
Se avessi nominato il fantasma dell'Opera e l'Angelo della Musica,
non sarebbe stato certo lui a
venir rinchiuso… ma io, e in un manicomio! Dentro di me sentii
montare la rabbia, una barricata di pura ostilità. Mi sentivo così
impotente… Ero un topo in balia di un felino che frattanto,
sornione, faceva i comodi suoi senza che potessi contrastarlo in
alcun modo.
In
più, mi aveva chiaramente minacciata. Non sapevo se quei moniti
fossero solo una precauzione o un vero pericolo. Ero pronta a correre
il rischio? Voleva solo zittirmi o sarebbe stato realmente capace di
– com'era? – ricorrere a
misure drastiche? Rabbrividii,
i piedi gelati sebbene fossi avvolta nella mia coperta più pesante.
Non
conoscevo quell'uomo. Non sapevo di cosa fosse capace.
Non
potevo trascurare la morte di Buquet. Era stato l'unico ad aver
veduto il fantasma da vicino – un teschio, così lo aveva
descritto; che razza di trucco aveva mai usato per spaventarlo a quel
modo? – e ne era morto. Non poteva essere una coincidenza. Il collo
di Buquet certamente non si trovava in uno stato invidiabile, ora,
proprio come lui aveva
detto che sarebbe finito il mio, di collo, se non avessi imparato a
tacere quando era più opportuno.
Cosa
dovevo fare?
Le
mie elucubrazioni furono interrotte da un sordo bussare alla porta.
«Meg!
Sei sveglia?»
La
voce di mia madre risuonò come un tuono nei miei timpani stanchi. Mi
lasciai sfuggire un mugolio di protesta.
«Purtroppo
sì.»
«Preparati.
Oggi la direzione ha annunciato il nuovo balletto che verrà
rappresentato dopo il Faust.»
Presa
dalla curiosità, sollevai il capo da sotto il cumulo di coperte che
mi fungeva da scudo contro il fulgore dell'alba.
«Davvero?»
«Sì.
Ma lo saprai solo se ti alzi dal letto.»
Sbuffai.
Quella sarebbe stata una lunghissima giornata.
Mia
madre non accennò più a una sola parola. Conclusi che fosse andata
a occuparsi delle proprie mansioni, lasciando che la sua figlia
indisposta se la sbrigasse da sé. Pur essendo protettiva – dopo la
morte di mio padre, era stata la mia armatura contro un mondo che
minacciava di sopraffarmi – mi aveva sempre abituata a cavarmela da
sola anche nelle avversità. Eravamo sempre state noi due, dacché
ricordassi. Questa autonomia era fin troppo insita nella mia natura:
a volte anche una virtù, se portata all'eccesso, può divenire
vizio, e cade nell'errore. La mia indipendenza, che in sé per sé
era una qualità niente affatto spregevole, era facile a mutarsi in
ostinato orgoglio, in un rigetto dell'umana necessità di aiuto e
contatto esterno. Cieca, mi aveva condotto spesso a chiudermi
nell'isolamento peggiore: quello forzato dalla paura di mostrare
debolezze a chi non guardava che l'acciaio che era in me, senza
notare il livore che si celava sotto di esso; a chi non avrebbe
saputo cogliere il loro muto significato, le cose non dette.
Come
in quel momento: mi trovavo sul filo del rasoio. Non importava quale
scelta compiessi, da ogni lato trovavo un abisso. Dire la verità a
Christine avrebbe potuto mettere in pericolo me stessa, e chissà,
forse anche la mia amica. Confidarmi con mia madre avrebbe potuto
avere le medesime conseguenze. Ero in trappola.
Tormentata
da quei dubbi irrisolti, mi alzai dal letto e mi scostai i capelli
umidi dalla fronte. Avevo gli abiti impregnati di sudore gelido,
segno di una notte tempestosa. Lanciai un'occhiata all'orologio che
tenevo sul comodino accanto al letto, e mi avvidi che erano quasi le
sette del mattino. Appena in
tempo, pensai. Avevo dormito,
ma così male che non mi sentivo meno stravolta della notte
precedente.
L'alba
inoltrata dipingeva nebulose di sole e pulviscolo sui mobili, che
avevano visto tempi migliori. Li faceva assomigliare ad astri
dimenticati dalla notte.
Mi
preparai in fretta e mi diressi nel foyer della danza con l'aria di
una condannata al patibolo. Ero di pessimo umore, com'è facile
immaginare, e nulla sarebbe mutato in quella giornata maledetta.
Forse fare qualcosa
invece che rimanere lì a lambiccarmi il cervello mi sarebbe stato
più utile. Impotente qual ero, almeno avrei evitato di continuare a
torturarmi in quel modo, e per di più invano. Odiavo rimanere a
pensare
senza che potessi far nulla per risolvere una situazione problematica
– e questa era più che problematica: era a dir poco folle, non c'è
che dire.
In
pochi giorni, la mia vita si era del tutto capovolta.
Il
dubbio mi assillò ancora per ore e ore, tanto che riuscii a stento a
concentrarmi sugli esercizi di quel giorno. Quando arrivarono gli
altri membri del corps de
ballet, avevo già riscaldato
i muscoli delle gambe e appreso che il prossimo balletto
rappresentato all'Opera Garnier sarebbe stato Giselle.
Perlomeno quella notizia mi diede un po' di gioia: era uno dei miei
preferiti. Ero sempre stata affascinata dal ciclo di follia e
vendetta che conduceva la protagonista nella cerchia delle Villi, le
spettrali figure di fanciulle tradite dall'amore e morte per esso. A
tutto questo, si aggiungeva naturalmente la coreografia elegante e
impeccabile, e la difficoltà del ruolo stesso di Giselle, il cui
personaggio dava il nome all'opera. La sola idea di cimentarmi in un
simile ruolo mi dava i brividi. Come già detto, fino a quel momento
non mi ero esibita che come corifea – un membro dimenticabile,
eppure sempre presente, in ogni corps
de ballet. Non potevo sperare
di diventare étoile:
il ruolo di Giselle sarebbe toccato alla Sorelli, certamente, e si
vociferava che Caroline Jeanne avrebbe interpretato l'implacabile
Regina delle Villi, dopo aver graziato il palco tante volte nel ruolo
di solista. Diventare prima
solista per lei era certamente
un grande passo. Di un paio d'anni più grande di me, Caroline e io
non eravamo mai state molto vicine. La sua sfacciata bellezza
sembrava contrastare col mio aspetto insignificante, che di fianco al
suo appariva quasi sgradevole. Eppure, in quegli anni avevamo
sviluppato un rapporto civile e amichevole: la sua grazia sulla scena
era innegabile, e Caroline rispettava la mia passione. Fu proprio lei
che mi avvicinò per prima quel mattino.
«Dovresti
proporti almeno per la parte di sostituta, Meg» mi disse dopo avermi
salutato con un grazioso sorriso. Stranamente silenziosa, si era
subito messa alla sbarra, intavolando con me una conversazione
eccitata su quanto di nuovo ci era stato annunciato quel mattino. Il
suo entusiasmo era palese, anche perché doveva essere conscia che
sarebbe stata scelta per il ruolo della Regina. Ebbe la buona grazia
di non farvi accenno né di mostrare un minimo di vanteria al
riguardo: anzi, quell'incoraggiamento da parte sua mi lusingò.
«Sei
corifea da quasi sei anni, ormai. È ora di pensare alla parte di
solista, no?»
«Ci
avevo pensato, e ti ringrazio. Dovrei sostenere l'audizione…»
«E
allora?» m'interruppe lei, passando en
pointe. «Sono certa che la
supererai. Anch'io sono diventata solista più o meno alla tua età.»
Parlava
come se avesse decenni di esperienza più di me. Mi morsi la lingua e
trattenni una delle mie uscite caustiche. Mi aprii in un sorriso che
assomigliava più a una smorfia – quel giorno non avevo proprio
voglia di scherzare.
«Non
ti sceglieranno subito come artista principale, ma potrebbero darti
una parte ugualmente importante come sostituta.»
Non
sapevo cosa pensare del fatto che mi stesse incitando subdolamente a
diventare la sua,
di sostituta.
Molte
altre ragazze avrebbero sostenuto l'audizione per il ruolo della
Regina delle Villi, anche solo come sostituta. Era da un po' che
rimuginavo sull'idea di essere una di loro… Per riuscire
nell'obiettivo che mi ero preposta, ossia diventare prima ballerina,
dovevo cominciare a darmi una mossa sin da allora. Per una volta ero
stata anche fortunata: Giselle
mi piaceva molto, e sarebbe
stato più facile per me calarmi nella parte.
Fummo
presto raggiunte dalle altre ballerine, tra cui Louise, Juliette e
Fabienne, che presero posto alla sbarra accanto a me. Seguirono la
Sorelli e, ovviamente, mia madre. Dopo il riscaldamento dei muscoli,
ci esercitammo tutte in alcuni dei passi più tipici di Giselle.
Anche se era ancora presto per
preparare delle vere e proprie audizioni, sapevo che già da quel
momento mia madre – uno dei membri della commissione che avrebbe
giudicato le nostre audizioni, e naturalmente l'elemento più
autorevole nell'ambito del balletto – ci osservava con attenzione
per adattare al meglio le nostre capacità alla coreografia di
Coralli e Perrot.
Frattanto,
avevo preso la mia decisione. Se anche quel giorno Christine non
avesse avuto intenzione di farsi vedere all'Opera, mi sarei fatta
avanti io. Come si suol dire, se Maometto non andava alla montagna…
Non
sapevo ancora con precisione cosa le avrei detto, ma bisognava pur
fare qualcosa. Dovevo elaborare un piano… e decisamente quel
genere di attività cerebrale non era il mio forte. Di solito mi
gettavo nelle situazioni con la foga di un toro alla carica, non
perché non pensassi alle conseguenze (beh, ci pensavo, ma dopo,
quando spesso era troppo tardi per porvi rimedio), ma perché seguire
il mio istinto era ciò che mi veniva più naturale. Ora dovevo agire
con una prudenza che mi era estranea: non potevo rischiare di mettere
in pericolo né me stessa né le persone che mi erano care. Dovevo
giocare le mie carte con attenzione. Di certo non potevo rimanere
indifferente a quel disastro. Qualcosa di grosso si stava svolgendo
sotto gli occhi di tutti, e io, che per caso avevo strappato il velo
che celava la verità ai miei occhi – uno, perlomeno; tutto il
resto mi appariva ancora indistinto e sfocato, un mistero
incomprensibile sulla distanza – ne ero testimone, e rischiavo di
diventarne l'ennesima vittima.
Quel
giorno, com'è facile immaginare, fui d'umore nero, e le mie amiche
fecero bene a lasciarmi in pace: i miei pensieri erano altrove.
Persino la prospettiva di Giselle
mi lasciava più insensibile
del normale. Dopo un pranzo frugale e le prove di quel pomeriggio,
decisi di rilassare un po' i miei nervi tesi al massimo con un bel
bagno caldo. L'acqua quasi bollente mi rinfrancò l'anima e mi
schiarì la mente intorbidita da pensieri fin troppo drammatici,
preoccupazioni di cui non riuscivo a vedere il fondo e che pertanto
mi frustravano ancora di più. Ricapitolai la situazione, immersa
com'ero fino al mento nell'acqua che profumava di fiori d'arancio –
un effluvio a cui non potevo rinunciare: la boccetta mi era stata
data in regalo da mia madre lo scorso Natale.
Il
fantasma dell'Opera esisteva davvero, così come l'Angelo della
Musica, ed erano la stessa persona – lo stesso squinternato, cioè.
Si trattava di un uomo che andava in giro con indosso una maschera,
un frac e un'ampia cappa nera per, probabilmente, nascondere la
propria identità. Il perché mi sfuggiva, come non comprendevo la
ragione dei suoi assurdi comportamenti. Perché si fingeva uno
spettro e un angelo? Se era un “genio della musica”, cosa mai gli
impediva di agire come un uomo normale? E se provava un interesse –
speravo puramente musicale, ma per qualche motivo ne dubitavo – nei
confronti di Christine, perché non avvicinarla senza ricorrere a
quella follia? Perché ingannarla e manipolarla fino a tal segno?
C'era poi da mettere in conto la morte di Joseph Buquet. Questi aveva
raccontato di come si fosse scontrato con un misterioso figuro che
invece della faccia aveva un teschio. E i suoi occhi, poi… quasi
animaleschi nella loro unicità. Una delle mie compagne nel corps
de ballet aveva splendidi
occhi color topazio, ma privi della sfumatura dorata di quelli del
fantasma, che rendeva il suo sguardo più simile a quello di un
pericoloso felino.
In
ogni caso, Joseph Buquet era morto. Suicidio? E se si fosse trattato
invece di assassinio? Non era tanto improbabile, se si pensava
all'affare della corda di cui mi aveva parlato Luc il giorno prima…
Ma anche di quello non esistevano prove tangibili. Ovviamente, le
minacce che avevo ricevuto da quell'individuo quando per caso mi ero
addentrata nel “suo” reame non lasciavano spazio a molti dubbi…
Centrava sicuramente con
la morte di Buquet. Non potevo immaginare i dettagli, ma di quello
ero certa.
E
poi, lo strano comportamento di mia madre… Non me ne ero
dimenticata. Sulla questione del fantasma, si era rivelata
inesplicabilmente severa. S'irrigidiva e diventava di pietra ogni
volta che vi si accennava, e soprattutto se ero io a ficcanasare.
Inoltre, quella storia del palco numero 5… il palco del fantasma.
Mia madre ne era la maschera, ed era vero che da mesi si era notato
che era sempre vuoto, almeno all'apparenza; per questo avevano
cominciato a circolare voci sul suo vero
possidente, ossia il fantasma.
Che mia madre ne sapesse più di quanto palesasse?
Non
potevo crederci, eppure tutto puntava in quella direzione. Anche in
questo, c'era qualcosa di non detto che andava esplorato e spiegato.
Giravano
altre dicerie sul fantasma. Si diceva che avesse costretto i vecchi
direttori, Debienne e Poligny, a pagargli un sostanzioso salario, e
che per questo alla fine i due se l'erano, per così dire,
“squagliata”. Non sapevo come quella notizia avesse fatto a
trapelare – forse nel controllare i registri dei conti mensili,
qualcuno aveva notato che ogni volta mancava una certa somma
all'appello, e non se ne conosceva la ragione. Questo, aggiunto alla
superstizione che affliggeva non pochi membri dello staff dell'Opera,
aveva esacerbato l'immaginazione collettiva, e una di queste menti
iperattive aveva collegato quel mistero all'esistenza del fantasma.
Solo ora scorgevo in quelle che all'apparenza erano sciocchezze da
ignoranti un certo filo logico.
E
io, intanto, cosa dovevo fare?
Uscii
dalla tinozza d'acqua ormai tiepida e, scossa da brividi che come
causa non avevano solo l'inverno ormai inoltrato, mi asciugai con un
panno di morbido lino e m'affrettai a indossare i miei vestiti più
caldi. Il bagno mi aveva rigenerata: mi ero immersa volontariamente
in quel calice rinfrancante e ne ero uscita con la mente più lucida
e distesa. Ora la mia pelle emanava un vago effluvio d'arancio,
piacevole all'olfatto.
Avevo
preso una decisione: non potevo discutere con nessuno del mio funesto
incontro–scontro di quella notte, il fantasma mi aveva lanciato un
monito ben chiaro in proposito. Non volevo dargli nessuna scusa per
ricorrere a maniere più
drastiche. Ma non aveva detto
nulla riguardo alla voce
maschile che avevo udito fuori
dal camerino di Christine, insieme al disgraziato visconte. Potevo
almeno avvertire la mia amica, dirle che l'angelo le aveva mentito
quando le aveva detto che nessun altro eccetto lei poteva udirlo, e
che era palese si trattasse di una meschina truffa. Non avevo idea di
cosa avrei fatto dopo, ma almeno era un inizio. Era importante che
Christine fosse consapevole di quell'inganno.
E
io che l'avevo accusata di essere pazza!
Trafelata,
scrissi un biglietto alla mia amica, che indirizzai al numero 7 di
Rue Notre Dame des Victoires. Era semplice nella forma, e se fosse
stato intercettato non avrebbe lasciato indizi sulle mie reali
intenzioni.
Cara
Christine,
mi
dispiace di aver agito in quel modo la scorsa sera. Probabilmente
sarai furiosa con me, e già ti immagino mentre leggi queste mie
sciocchezze con un cipiglio freddo che poco dona al tuo viso di cui,
seppur nordico nei lineamenti, ho sempre apprezzato la dolce
comprensione che mostra anche per questa pessima amica. Avrei dovuto
esserti di supporto quella sera, e invece ti ho aggredito. Avevo le
mie ragioni, ma tu hai le tue, e io avrei dovuto rispettarle. Non
l'ho fatto, e ora credo che tu mi stia evitando. Sospetto però che
ci siano anche altri motivi in ballo, e vorrei parlartene, questa
volta con più calma.
Accetti
se ti dico che ora mi rimangio tutto ciò che ti ho detto la scorsa
sera?
Meg.
Sperai
che il tutto fosse abbastanza conciso e portai la lettera alla buca
della posta più vicina in Rue Scribe. Spesso io e Christine ci
divertivamo a scriverci messaggi anche se ci vedevamo quasi tutti i
giorni all'Opera, in special modo quando una delle due era malata e
costretta a letto. Ero quindi sicura che avrebbe ricevuto la mia
lettera.
Per
quanto mi riguardava, avevo un ultimo compito a cui adempire.
Il
fantasma non aveva detto nulla riguardo al fare
domande sul mistero che lo
circondava. Volevo saperne il più possibile, e da fonti più
autorevoli delle piccole allieve ballerine o i superstiziosi membri
dello staff dell'Opera.
Lì
per lì pensai a mia madre, ma lei sembrava direttamente coinvolta
nella vicenda. Mi avrebbe scacciata via senza tanti complimenti se
solo avessi accennato al residente spettro del teatro, già me lo
immaginavo. La conoscevo abbastanza bene da poter anticipare le sue
mosse – peccato che non fosse lo stesso per il fantasma. Quel tizio
era una mina vagante. Inoltre, temevo che divenisse vittima
incolpevole delle minacce che il fantasma aveva rivolto a me
soltanto.
Optai
per una fonte più sicura. Con fare spedito, mi diressi verso il
grande auditorium, dove sapevo che le prove dell'orchestra erano
appena terminate. Speravo di trovarlo ancora lì, e infatti non mi
sbagliavo.
«Monsieur
Reyer!» lo chiamai con voce sonora. Lui, che stava armeggiando con
un plico di spartiti mentre i musicisti raccoglievano i propri
strumenti e discorrevano tra loro, si voltò verso di me con un
sorriso gentile.
«Meg,
mia cara» mi salutò col solito affetto che riservava a me e a mia
madre soltanto. Conosceva Antoinette Giry dai tempi dell'Opera Le
Péletier, e credo che in me vedesse molto della giovane, provetta
ballerina che era stata. Ma io ero più inquieta e selvatica, come
mio padre.
«Monsieur,
se non vi dispiace vorrei chiedervi una cosa.»
«Dite
pure.»
«Non
datemi del “voi”, vi prego. Mi conoscete da troppo tempo.»
In
realtà, fino ai dodici anni avevo preso lezioni insieme alle altre
allieve ballerine all'Opera Le Péletier, che era stata poi distrutta
in un incendio nel 1873. Questo evento aveva affrettato
l'inaugurazione dell'Opera Garnier, avvenuta circa due anni dopo. Era
qui che aveva avuto luogo il mio debutto ufficiale sulla scena
teatrale parigina.
«Me
lo imponi?» sorrise lui. Annuii: per me rappresentava una sorta di
figura familiare, quasi uno “zio” affettuoso. Naturalmente, non
mi espressi con queste esatte parole. Riuscii comunque nell'intento:
Monsieur Reyer sembrò rilassarsi e mi fece accomodare accanto a lui
in uno dei posti in platea.
«Allora
dimmi pure, Meg. Sono a tua disposizione.»
«Monsieur,
volevo chiedervi…» esitai. Dovevo suonare il meno sospetta
possibile, ma ciò che stavo per dire non era da me. Avrei dovuto
trovare una scusa decente. «Ecco, vorrei che mi raccontaste quel che
sapete sul fantasma dell'Opera.»
Alla
fine decisi di essere diretta, come sempre.
Lui
ammiccò, sorpreso. «Il fantasma dell'Opera, dici?» I suoi sottili
baffi grigi ebbero un fremito.
«Sì.
È per una sciocca discussione tra me… tra me e Christine.» Col
senno di poi, avrei dovuto dire un altro nome, qualsiasi
nome, qualcuno di più
appropriato, come Louise o Fabienne, ma Christine fu la prima persona
che mi venne in mente. Mi schiaffeggiai mentalmente per quella gaffe.
«Riguarda delle storie assurde che Cécile Jammes e le sue compagne
si raccontano tra loro. Nulla di che, è tutto molto infantile.»
Lui
sospirò e alzò gli occhi al soffitto. «Cosa posso dirti? É dalla
fondazione di questo teatro che sento parlare del fantasma.»
«Voi
non ci credete, Monsieur?»
«Perché,
tu sì, Meg?» Mi rivolse un'occhiata complice, al che scoppiai a
ridere. Evitai bene di trasformare quel riso in un sintomo di
isteria.
«No,
naturalmente.»
«Beh,
quel che posso dirti è che anche alla vecchia Opera Le Péletier
giravano voci su degli spettri che infestavano il teatro. Accade
sempre in edifici come questi, pensa ad esempio ai manieri isolati di
campagna. Sono costruzioni che infondono soggezione: la scena
perfetta di un dramma paranormale, non trovi?»
Sogghignai.
«Oh, sì.» Non sapete quanto.
«So
che ti piacciono le storie dell'orrore, ma non credevo che prendessi
queste dicerie seriamente.»
«E
infatti non è così. M'incuriosisce. Devo trovare qualcosa per
contraddire Jammes e le altre: sono stanca delle loro superstizioni.»
«Dovrai
scavare molto a fondo in questa melma, allora: tutto quel che si dice
sul fantasma è contraddittorio.»
Inspirò
profondamente, lo sguardo sereno fisso sulla buca d'orchestra. Era
quello il suo vero palcoscenico, come per Luc il sottopalco e per me
la ribalta vera e propria. Il suo volto sembrava scolpito nella
cartapesta, come un'antica maschera greca – il suo profilo scavato
rassomigliava un po', in effetti, alle caratteristiche fisionomie
elleniche.
«Vuoi
sapere qualcosa in particolare?»
«Il
palco numero 5» risposi, molto semplicemente.
«Beh,
da parecchi mesi circola voce che venga affittato al fantasma. Ma tu
questo già lo sai, vero?»
Annuii.
Per me non era nulla di nuovo.
«Ed
effettivamente viene
affittato?»
Lui
si mosse sullo scranno, leggermente a disagio. «Non è un ambito di
mia competenza, ma a quel che ne so sì.»
«Ma
se non ci va mai nessuno!»
«Appunto.
E c'è di più.» Mi si accostò con fare complice, come se dovesse
rivelarmi chissà quale inaudito segreto. Tesi l'orecchio, in
impaziente attesa. «Sono anni
che dai nostri registri di
conto mancano all'appello certe somme di danaro… Soldi che non si
sa dove vadano a finire.»
«Quindi
è vero» osservai, fingendomi costernata. «Il fantasma esiste
davvero. O qualcuno che si finge tale.»
«Non
so, Meg» fece lui, esitante. Poi aggiunse, in tono ben più fermo:
«So solo che del denaro sparisce dalle nostre casse, e che non vi è
una spiegazione a tutto ciò. Non credo affatto si tratti di uno
spirito, ma c'è comunque qualcosa che non mi convince.»
«La
penso allo stesso modo» mi affrettai a soggiungere. «In effetti è
a dir poco… bizzarro. Voi dite che si tratta di una truffa, nulla
di più?»
«C'è
qualcos'altro» si distese in un lieve sorriso. «Mi chiedo cosa
avesse bevuto quel poveretto di Joseph Buquet – che la sua anima
resti in pace – quando si mise a dire che il fantasma al posto
della faccia aveva un teschio.»
Rimasi
fulminata. Fu forse il modo in cui erano state disposte queste parole
nella frase, ma qualcosa mi scattò nel cervello, come una molla
dapprima arrugginita che ora aveva ritrovato il suo slancio. Restai
immobile per qualche istante, cera e pietra fatte carne.
Mi
rizzai di colpo e mi precipitai fuori dall'auditorium, allarmando il
povero Reyer, che agitava la sua bacchetta da direttore d'orchestra
nella mia direzione.
«Meg!
Ma dove vai? Cosa succede?»
Mi
voltai per rivolgergli un sorriso frettoloso. «Mi sono appena
ricordata che devo fare una commissione molto importante per mia
madre. Grazie per aver risposto alle mie sciocchezze.»
«Non
c'è di che, cara Madamoiselle.»
Ma
io già correvo verso il foyer della danza, diretta al corridoio dei
camerini.
Avevo
compreso una cosa, anche se pareva troppo assurda per essere vera:
Buquet aveva veduto il fantasma senza
maschera… Finora avevo
ipotizzato che la indossasse per celare la sua vera identità. Ma se
non fosse stato solo per quella ragione?
Non
sapevo ancora cosa, in effetti, mi passasse per la testa, ma ero
certa che la maschera del fantasma servisse a qualcosa di più che a
mantenere semplicemente l'anonimato dell'uomo che la indossava. E
credevo fosse collegato al motivo delle sue azioni dissennate.
Ora,
Monsieur Leroux, non dovete pensare che avessi compreso la verità.
Era troppo grande e inspiegabile per una mente limitata come la mia.
Sospettavo solo che ci fosse qualcos'altro sotto, un altro fattore
che finora non avevo considerato. Ma non ci sarei mai arrivata da
sola.
Come
si vedrà in seguito, il mio fiuto non sbagliava.
Note
dell'Autrice:
Ed
ecco qui un nuovo capitolo. Questa volta appare il fantomatico Erik,
di cui ovviamente Meg non conosce ancora l'identità... Ma ne verrà
a capo fra non molto. Questo è il loro primo incontro... Non proprio
amore a prima vista, vero? Ci vorrà molto
tempo prima che tra i due si instauri anche solo un rapporto civile,
e mi pare più che normale, vista la natura di Erik e il suo
carattere a dir poco impossibile.
Malinconica:
Grazie mille per la recensione! Non preoccuparti, ci vuole un po' per
capire dove "voglia andare a parare" con questa storia,
quindi è normale che tu abbia atteso prima di recensire. In effetti,
Meg è un personaggio che mi ha sempre incuriosito: se hai visto il
musical, vedrai che l'ho caratterizzata prendendo spunto sia da
questo che dal libro. Il resto è tutto di mia fantasia, perché mi
piace giocare alla "psicologa" coi miei personaggi. :) La
vicenda è narrata dal punto di vista di Meg, che rievoca i suoi
ricordi al giornalista Gaston Leroux (il nostro amato autore).
Inoltre il racconto è diviso in due atti: il primo racconta gli
eventi dell'Opera, la storia di Erik, Christine, Raoul e il Persiano;
il secondo ciò che accade dopo,
che è di mia invenzione. Avverto, però, che questa storia non sarà
una Erik/Christine (lo dico per gli amanti della coppia), perlomeno
non più della storia originale. Se ti senti scoraggiata da questo,
posso capirti. Comunque, di nuovo grazie per aver recensito, spero
che continuerai a seguirmi in quest’avventura. :) Un saluto. |
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Capitolo 7 *** La camera degli specchi. ***
vi.
la
camera degli specchi
Quei
giorni furono un tormento. Christine non rispose alla mia lettera, il
che mi fece pensare che per qualche motivo mi evitava ancora. In
realtà, compresi che evitava tutti.
Aveva disdetto certi impegni e non si faceva vedere all'Opera Garnier
da un paio di giorni. Sarei andata dritta a casa sua a prenderla per
i capelli se mia madre non me lo avesse categoricamente proibito.
«Non
capisci, Meg? È sopraffatta dalla fama improvvisa. Accade a tutti i
giovani artisti, quando hanno successo. È normale che voglia restare
un po' sola.»
«Ma
io le devo parlare di un affare
importantissimo!»
«Dalle
tempo, e non essere brusca con lei. È chiaro che dovete risolvere le
vostre divergenze, ma se è di cattivo umore non ti ascolterà.
Quando sarà pronta, verrà da te.»
Era
vero. Tanta era la mia furia, che mi sarei precipitata da lei e avrei
cominciato a scuoterla per benino, urlandole in faccia la verità sul
suo angelo.
Le parole di mia madre mi portarono a riflettere: in quel momento,
l'epidermide della sua anima era troppo sensibile perché non vi
provocassi un taglio netto, profondo, irrimediabile. Che venisse lei
da me – io l'avrei aspettata per rivelarle con franchezza la mia
verità, o almeno quella parte che la prudenza (se mai ne avevo) mi
concedeva di rivelare. Avrei messo fine a quell'inganno; o meglio,
avrei dato una mano a Christine. Se c'era qualcuno che poteva far
cessare quella farsa, era soltanto lei.
Alla
fine, uno si salva sempre da solo.
Trascorsi
due giorni in preda a una frenesia febbrile: Christine continuava a
non rispondere alla mia lettera, né si presentò all'Opera Garnier.
Sembrava che dopo l'exploit della sera del gala fosse svanita con la
rapidità di un'eclissi. Da astro, era diventata fumo. Peccato che
ora la fama la precedesse: non poteva più godere dell'anonimato di
un tempo, e tutti si domandavano dove fosse finita la soprano che
aveva incantato l'Opera due sere prima. Difatti già circolavano
certe indiscrezioni che mi irritarono, se possibile, ancora di più.
Non sapevo come si venissero a sapere certe cose, quale fosse la
fonte e in che modo si diffondessero tanto rapidamente, come foglie
al vento; fatto sta che si diceva che il conte Philippe de Chagny
avesse spedito una lettera di raccomandazione traboccante
d'entusiasmo per conto di Madamoiselle Daaé alla direzione
dell'Opera. La signorina in questione, tuttavia, aveva respinto il
gentile omaggio ed era rimasta sulle sue. Per di più, dopo essersi
esibita in casa di non ricordo quale contessa, aveva cancellato
alcuni altri impegni, tra cui la sua partecipazione a un concerto di
beneficenza. La ragazza sembrava essersi momentaneamente ritirata
dalle scene, e dalla mia vita. Mia madre mi aveva consigliato di
aspettare, e io non riuscivo a togliermi dalla testa che sapesse più
di quanto desse a vedere. Fu forse per questo che seguii il suo
suggerimento; ma, come si vedrà in seguito, questa mia improvvisa e
poco caratteristica obbedienza non durò a lungo. È vero, rischiavo
grosso: non potevo fare a meno di sentirmi sul collo il fiato del
fantasma. Al solo pensiero provavo un brivido di paura e rabbia:
paura perché ancora ricordavo le lunghe dita di lui strette attorno
alla mia gola, in una muta minaccia; rabbia perché ribollivo al solo
pensiero della faccia tosta di
quel pazzo…
Non
avevo la minima idea di cosa avesse in mente, di chi fosse, delle
ragioni che lo portavano a comportarsi così: come si fa a combattere
l'ignoto? Conoscere il proprio nemico è la prima regola su un campo
di battaglia. Non sapere mi
dava ai nervi.
E
il peggio erano le voci che circolavano sulla mia amica, alle quali
non potevo controbattere se non con mute occhiate fulminanti. Ero
certa che a diffonderle fossero i sostenitori della Carlotta, gelosi
dell'improvvisa popolarità della sua giovane rivale. Nessuno ora
poteva dubitare del sublime talento di Christine, eppure si diceva
che si fosse “montata la testa” e che “puntasse troppo in alto”
– senza parlare dei suoi “rapporti” col conte di Chagny, che
aveva inviato quella lettera di raccomandazione. Che idiozia!
Christine, come si era visto, non avrebbe mai accettato un
compromesso di quel tipo, era troppo onesta. Chiunque la conoscesse
non poteva dubitare della sua serietà, professionale e non; inoltre,
non conosceva l'ambizione. Non aveva mai desiderato superare la
Carlotta o qualcosa di simile: tutto ciò che voleva era cantare.
Bisogna
anche dire che Christine fu molto fortunata a eludere la mia guardia
costante, perché in quei giorni rimasi bloccata a letto a causa di
un forte raffreddore: avevo il naso ostruito e la gola intasata di
muco, tanto che respiravo a malapena e la mia voce, già roca di per
sé, era diventata simile al verso di una cornacchia. Mia madre mi
rifornì a vita di tisane e brodo di pollo – ne ingurgitai a litri,
tanto che al solo pensiero cominciò a venirmi il mal di stomaco.
Louise,
Juliette e Fabienne vennero a trovarmi una sera dopo l'usuale
performance del Faust,
premurandosi tuttavia di restarmi a distanza perché non le
contagiassi. Mi aggiornarono sulle novità dell'Opera, per esempio
sull'improvvisa scomparsa di César, il cavallo che veniva usato di
scena nel Prophéte,
e che tutti pensavano fosse stato rubato dal fantasma. A queste
parole, mi salì il sangue al cervello e starnutii rumorosamente. Che
cosa aveva in mente quel folle, adesso?
Mi
riferirono anche che Christine si era esibita quella sera nel ruolo
di Siebel con la consueta grazia. Delusa che non fosse venuta a farmi
visita dopo lo spettacolo – se solo avessi potuto muovermi dal
letto! Avevo tanta urgenza di parlarle – mi rabbuiai e pensai ad
alta voce: «Le ho scritto un biglietto, l'altro giorno. Avrebbe
potuto rispondermi.»
Approfittava
del fatto che fossi raffreddata dalla testa ai piedi, e che non
volevo rischiare che il tutto degenerasse in un'influenza, dal
momento che presto si sarebbero tenute le audizioni per Giselle?
Non era da lei. Che il suo angelo
le avesse proibito di
rivolgermi la parola per il modo in cui avevo riso della sua
“esistenza”? Christine non gli avrebbe mai obbedito fino a questo
punto, ne ero sicura… o quasi. Fui sollevata da quelle paranoie
quando Juliette mi porse un biglietto, di cui riconobbi la grafia
minuta, e un involto dal contenuto ignoto. Attesi che le altre se ne
fossero andate per leggere la lettera con un'avidità che quasi
superava il mio raffreddore.
Cara
amica mia,
mi
dispiace di non aver risposto prima al tuo messaggio, ma in questi
giorni sono stata molto turbata, e sentivo il bisogno di restare
sola. Tutto questo successo mi ha inebriata – non me l'aspettavo!
Lui (tu
sai bene di chi parlo) mi aveva avvertito che avremo “conquistato
Parigi”, ma quasi non mi riconosco più quando canto! È come se
una forza superiore mi possedesse… quasi non fosse la mia voce! Oh,
Meg, le mie sono solo paturnie, lo so bene, tuttavia non ho potuto
fare a meno di affliggermi, chiedendomi cosa ne sia stato dell'orfana
svedese con la voce da capinera a cui suo padre insegnava il francese
attraverso le più famose arie d'opera. Perché talvolta mi sento
persa in me stessa, quasi non mi appartenessi più…!
Ma
ora sono qui, pronta ad affrontare qualunque cosa, e so che ti sarai
preoccupata per me, anche se non vorrai ammetterlo. Domani mattina
all'alba parto per Perros–Guirec: come sai, è l'anniversario della
morte del mio povero papà. Ci resterò per tre giorni, dopodiché
potrò finalmente riabbracciarti. Ti lascio un piccolo regalo, perché
tu possa perdonarmi per il mio comportamento scostante di questi
giorni. L'ho fatto con le mie mani, e guarda caso ti sarà utile ora
che sei costretta a letto raffreddata – povera la mia Meg! Spero
con tutto il cuore che ti rimetterai presto, e che questo mio regalo
allievi un po' la delusione che certo dovrai provare nei miei
confronti. Per quanto riguarda il nostro
celeste amico (di nuovo, tu sai
a chi mi riferisco), ne parleremo al mio ritorno da Perros–Guirec.
Accetto le tue scuse, ma avevi tutto il diritto di nutrire dei dubbi;
io al posto tuo avrei fatto lo stesso. Dici che ora credi ad ogni mia
parola? Vorrei poterci credere anch'io! Ma ne riparleremo.
Con
affetto,
la
tua Christine
Scossi
la testa con un moto divertito leggendo le poco discrete allusioni di
Christine al nostro celeste
amico. Mi rabbuiai: no, di
certo quell'individuo non era
amico mio! E avrei voluto che non lo fosse neanche di Christine. Ma
presto avrei accomodato quella faccenda. Rivelando a Christine della
voce che avevo udito fuori dal camerino (si sarebbe certamente
arrabbiata sapendo che ero rimasta fuori ad origliare, ma di quello
mi sarei preoccupata dopo), avrei fatto sbocciare in lei i semi del
dubbio, già piantati dalla sua logica non del tutto assente. Sapevo
che si era aggrappata all'idea dell'angelo per convincersi di non
essere pazza, e per non affogare nell'amarezza di una vita vuota e
meccanica. A quel punto, la verità le si sarebbe svelata facilmente.
Rivolsi
la mia attenzione al pacco che mi aveva inviato tramite Juliette –
ero un po' delusa che non fosse venuta di persona, ma capivo che non
voleva rischiare di farsi contagiare dal mio raffreddore proprio ora
che doveva partire per Perros. Scartai l'involto e non potei
trattenere un sorriso quando ne saggiai il contenuto: una morbida
sciarpa di lana rossa che avvolsi attorno alla mia gola bruciante con
gratitudine.
Per
questa volta sei perdonata, Christine. Ma,
come lei stessa aveva scritto, ne avremo riparlato.
Mi
ripresi alquanto in fretta dal mio raffreddore: come lascito, ebbi
solo un'insistente e fastidiosa tosse secca che di tanto in tanto mi
scuoteva il petto come un tamburo, ma per il resto le cure accorte di
mia madre avevano fatto il loro effetto. Antoinette sapeva che
detestavo i medici e preferiva non farmi visitare, a meno che non
fosse strettamente necessario. Io le assicurai che non era questo il
caso, pensando che quella irritante tosse fosse una sciocchezza e che
sarebbe passata presto come il raffreddore. Ovviamente mi sbagliavo,
ma andiamo per ordine.
Con
mia grande gioia, avevo ripreso il mio lavoro di corifea, quando ci
capitò un vero guaio tra capo e collo: qualcosa che non avevo
previsto e che fu quasi la scintilla della mia totale rovina.
O,
peggio ancora, dipartita.
Era
un giovedì di nubi e tempesta quando, tornando da una lezione
piuttosto faticosa, trovai mia madre che piangeva nella nostra
piccola cucina soggiorno. Immaginate che effetto mi fece quella
visione.
Non
vedevo mia madre versare una lacrima da anni – dalla morte di mio
padre, forse. Se accadeva, era in privato: non mi aveva mai mostrato
le sue debolezze, eppure ne aveva e quella ne era la conferma. Era
umana. Esterrefatta, quasi tardai ad abbracciarla con tutta la
tenerezza di una figlia emotivamente goffa e brutale.
«Maman,
calmati. Cos'è successo?»
Lei
si soffiò il naso nel fazzoletto di trina e scosse la testa, il viso
chiazzato di rosso, ignorando la pentola che bolliva sul fornello.
«Oh,
Meg, scusami… Non avrei dovuto farmi vedere in questo stato da te.»
«Ti
pare che sia un problema, questo?» risposi, esasperata. «Piuttosto,
dimmi cos'è accaduto.»
Il
panico mi afferrò e mi strinse le viscere in un nodo scorsoio
letale. Immaginai gli scenari più apocalittici, perché di certo
doveva trattarsi di qualcosa di grave se mia madre piangeva in quel
modo, ma mi costrinsi a tenere a bada la mia mente in subbuglio e a
concentrare tutta la mia attenzione sulle parole della donna che
stringevo tra le mie braccia ossute.
La
feci accomodare sul piccolo sofà e non allentai la stretta sulla sua
spalla, che speravo fosse di conforto e sostegno per lei. Dopo
essersi soffiata il naso un'ultima volta, la vergogna sembrò
rifluirle sul viso in un fiotto di rossore e mi guardò con occhi
d'indicibile angoscia.
«Meg…
Mi hanno licenziata.»
«Che
cosa?»
Rimasi
a dir poco raggelata. Questo non me l'aspettavo. Ero sconvolta: non
c'era motivo per cui una donna professionale come Antoinette Giry
potesse essere licenziata. Era una colonna portante dell'Opera
Garnier, non meno di quelle che sostenevano i frontoni sulla facciata
esterna del teatro. Era destinata a lavorarvi fin da quando l'Opera
non era più che un embrione nella mente di Charles Garnier. Era
impossibile…
«Cara,
mi dispiace tanto, ma purtroppo è la verità.»
«Ma
cos'è accaduto di preciso?» insistetti, troppo costernata per non
ripetere la medesima domanda a pappagallo. Mi sembrava che dei punti
interrogativi mi galleggiassero nel cervello, pulsando dolorosamente.
«Oh,
Meg…» Stupita, notai che il disagio era tornato sul suo volto. Le
sue labbra si strinsero tanto da assomigliare a una sottile
cicatrice, come accadeva sempre quando era contrariata. Questa volta,
però, era in preda al nervosismo più puro. Una visione rara:
Antoinette Giry era sempre calma e austera, e mostrava preoccupazione
e ansia solo nei riguardi di sua figlia. Quel che accadeva
all'esterno del suo esiguo nucleo familiare era sotto il suo
controllo. Ma ora qualcosa era cambiato.
«Allora?»
incalzai.
«Ebbene…»
esordì lei. Ebbe una pausa, come se stesse cercando le parole
giuste. «Tu sai che da un po' di tempo Poligny e Debienne ricevono
degli strani messaggi… un certo F.
dell'O. che richiede un
salario di ben ventimila franchi mensili, li ricatta… Sono
circolate molte voci al riguardo…»
«Il
fantasma dell'Opera» risposi prontamente, e lei mi rivolse
un'occhiata indecifrabile. «Allora è vero» continuai, fingendomi
ignorante in materia. «Qualcuno sta truffando i signori direttori
fingendosi… che cosa, uno spettro?» Lei annuì, mesta e tuttavia
serissima. Non potevo dubitare della sua parola: l'affare era più
grave di quanto avessi immaginato.
«Ma
i direttori non crederanno certo…»
«Sono
avvenuti degli incidenti, Meg» m'interruppe mia madre, e io tacqui,
colpita dalla sua aria solenne. Ci credeva anche lei, era evidente.
D'accordo, allora non sono del
tutto pazza… «Incidenti
inspiegabili.»
«Sì,
ma questo cosa c'entra col tuo licenziamento?»
«Ci
stavo arrivando. Ecco, tu sai che sono la maschera del palco numero
5.»
Annuii.
Già immaginavo dove volesse andare a parare.
Lei
si torse le mani in grembo, e quando parlò la sua voce era rauca e
bassa, quasi che la verità le sgorgasse dalle viscere e le
raschiasse la gola. «Il palco numero 5 è affittato a questo
individuo… il fantasma dell'Opera. Egli ha richiesto espressamente
che gli venga riservato.»
«Ma
chi è questo tizio, si può sapere?»
Mi
scoccò un'occhiata severissima che mi costrinse a ritirarmi sui miei
passi. «Meg, non chiederlo mai. Può essere molto pericoloso. Mi hai
capita?»
«Ma…»
«Non
voglio sentire obiezioni. Per una volta, obbedisci senza fiatare. Ti
chiedo solo questo – è molto meglio così, credimi.»
Sa
chi è – mi giunse alla
mente quel pensiero folle. Eppure aveva senso. Ovviamente non era un
fantasma – lo avevo toccato, era fatto di carne e sangue – gli
avevo parlato,
avevo sentito il suo respiro sul collo, la sua mano gelida sulla mia…
Repressi un brivido al ricordo. E allora chi
diavolo era?
Se
mia madre era così preoccupata, doveva essere pericoloso quanto
immaginavo. Forse anche lei sospettava che quello di Joseph Buquet
non fosse un suicidio… Ma se sapeva qualcosa di concreto
al riguardo, perché non lo
diceva? Che il fantasma stesse ricattando anche lei?
«Stamattina
Messieurs Moncharmin e Richard mi hanno convocato nel loro ufficio e
mi hanno interrogata. Anche loro hanno ricevuto dei messaggi
minacciosi da parte di questo “fantasma”… E pensano che sia
io.»
«Cosa?
Ma sono matti?» Avevo la bocca tanto aperta dallo stupore che pensai
che mi si dovesse slogare la mascella.
«O
una sua complice» soggiunse mia madre, chinando il capo.
A
quel punto non potei trattenermi – la mia lingua, come spesso mi
accadeva, sembrava un muscolo involontario, del tutto indipendente
dal cervello.
«E
tu non lo sei, vero?»
Lei
mi folgorò con lo sguardo. I suoi occhi grigi erano metallo liquido.
«Io
mi limito ad occuparmi del palco numero 5, come ho sempre fatto.» La
sua voce s'incrinò nuovamente, e questo mi inoculò un po' di
accortezza. Le strinsi una mano.
«È
un'ingiustizia» dissi, digrignando i denti. Minore attenzione, e
avrei potuto stringerle le dita fino a farle scoccare le nocche,
tanta era la furia che mi scorreva nelle vene come fiele e lava.
«Lo
so, ma non possiamo farci nulla. Ho già provato a convincerli a
lasciarmi almeno il posto di istruttrice di danza, ma mi hanno detto
che ne troveranno un'altra. Sospettano di me, ed è già tanto che
non mi facciano arrestare.» Si massaggiò le tempie, socchiudendo le
palpebre. Era così esausta e pallida.
«Ma
non possono licenziarti così! Tu sei parte della storia di questo
teatro! Come osano…?
E la nostra casa? Dove vivremo? Il mio stipendio di corifea è così
misero che…»
«Ci
arrangeremo. Ci danno tempo fino a quando non troveremo un'altra
abitazione, poi dovremmo andarcene.»
Trasalii
fin nel profondo. Non poteva essere vero. L'Opera Garnier era la mia
casa… Vivevo lì da quando avevo quindici anni. Era assurdo.
«Non
sanno quel che fanno» proseguì mia madre, riferendosi ai due
direttori, che in quel momento odiavo quasi più del fantasma.
«Pensano si tratti di una beffa, ma credimi, Meg, ho seguito questo
affare del fantasma fin dall'inizio, e i vecchi direttori alla fine
lo avevano capito. Accadranno grandi sciagure se non seguiranno gli
ordini del fantasma dell'Opera.»
«Ma
non possono rivolgersi alla polizia, invece di licenziare della gente
onesta in modo così ingiusto?»
Lei
sogghignò – un orribile sorriso, simile a una piaga sul suo viso
angosciato, aperta come le ferite nel suo cuore di madre. «Immagina
cosa direbbero le autorità se venissero a sapere del fantasma.
E chi ci rimetterebbe la faccia, secondo te?»
I
direttori, certo. «Quindi tu vieni licenziata… perché la loro
reputazione rimanga cristallina?» chiesi con rabbia a stento
repressa. Lei annuì, amareggiata.
Poi
soggiunse, con un tono funereo che mi fece rabbrividire: «Ricorda,
Meg, non ti immischiare oltre in questa faccenda. Troveremo un modo,
vedrai… Ce l'abbiamo sempre fatta, e anche stavolta ci riusciremo.
Ma non voglio che venga presa di mira anche tu. Hai sempre avuto
l'inclinazione a curiosare ovunque, e un certo sprezzo per le regole.
Ma qui si tratta di…» deglutì a fatica. «Giuramelo, Meg.
Promettimi sulla tomba di tuo padre che non farai nulla.»
Le
mie dita ebbero un tremito convulso. Mia madre se ne avvide e si
affrettò a stringerle delicatamente tra le sue. Ero sgomenta: di
solito non facevamo mai accenno a mio padre, era troppo doloroso. E
ora lei mi chiedeva di giurare sulla sua tomba…
Annuii,
sentendomi simile a una marionetta all'ordine di fili invisibili, ed
ella mi abbracciò con tutto il conforto e l'amore materno di cui era
capace. C'è un solo
burattinaio dietro questa faccenda, pensai
cupamente, e io mi strapperò
quei fili a forza dalla pelle, se sarà necessario.
Ho
già detto, Monsieur Leroux, che tra le altre cose sono anche una
bugiarda?
Il
mio carattere mi impediva di starmene lì con le mani in mano mentre
mia madre ed io venivamo cacciate dalla nostra casa. Fu dopo le
lezioni pomeridiane – la notizia del licenziamento di Madame Giry
non era ancora trapelata, ma ben presto sarebbe divenuta di dominio
pubblico – che, sperando di risultare il più invisibile possibile,
cosa in cui di solito eccellevo, presi la mia risoluzione e scivolai
nel passaggio segreto svelatomi da Figaro giorni prima, lì dove per
la prima volta avevo incontrato il sedicente Angelo della Musica.
Vi
chiederete come sia arrivata a questa decisione, e a dire la verità
neanch'io ne sono del tutto consapevole: chiaramente, non pensavo.
L'istinto di agire mi aveva portata a fare qualcosa di terribilmente
audace e molto, molto stupido. In effetti, si direbbe che avessi
voglia di farmi staccare la testa per davvero, ma quella era una
questione di vita o di morte. Mia madre veniva cacciata dalla sua
casa, senza lavoro, e insieme a sua figlia si ritrovava in mezzo a
una strada, senza il benché minimo sostegno poiché non avevamo
parenti o amici… No, dovevo fare qualcosa. Dovevo almeno tentarci.
C'era un'unica persona a cui potevo rivolgermi… ed era anche quella
che temevo di più al mondo, e con buone ragioni – pensavo fosse un
truffatore, un ricattatore, un manipolatore senza scrupoli, oltre che
un probabile assassino!
È
colpa sua, pensavo. La rabbia
era tale che non mi faceva ragionare: nel fondo dei miei pensieri ero
consapevole che quella era una pessima idea, ma il mio istinto
intuiva anche che non c'era altro da fare. Era l'ultima possibilità
prima del baratro. Avrei potuto rimetterci la vita, ma già rischiavo
molto, e c'era anche mia madre da considerare… Dovevo
fare qualcosa.
Inoltre,
volevo la mia vendetta. Mi ero premurata di portarmi dietro un paio
di grosse forbici da cucito, anche se immaginavo non potesse servire
granché contro un avversario di quel genere. E tuttavia mi faceva
sentire più sicura. Quando avrei dovuto affrontare quel…
quell'uomo orribile,
ne avrei avuto bisogno. Ero infatti certa che c’entrasse con il
licenziamento di mia madre, e non indirettamente, ma che ne fosse,
invece, il vero responsabile. La mia rabbia si era riversata su di
lui come una valanga, e come si può arrestare una tale forza della
natura? Doveva pur essere diretta verso qualcosa o qualcuno, e io
avevo trovato il mio capro espiatorio, benché questi non fosse
affatto innocente.
Inutile
aggiungere che mi sentivo terribilmente in colpa. Temevo che fosse
stato il mio “ficcanasare” ad aver causato quel mutamento
orribile e improvviso nelle nostre vite. A quello si aggiungeva
l'apprensione per il destino di Christine: non avevo dimenticato che
dovevo aiutarla a salvarsi dal pericoloso inganno in cui stava
annegando volontariamente per istinto di sopravvivenza, come un
naufrago ha bisogno di terraferma e aria.
Percorsi
quindi il passaggio segreto, entrando attraverso la breccia che si
allargava come una ferita nel muro. Questa volta avevo con me una
lanterna cieca, oltre che le forbici (avrei preferito un coltello, ma
le lame erano ugualmente taglienti), e mi guardavo indietro ad ogni
passo. Sussultavo al minimo scricchiolio, e ignoravo del tutto se
qualche ratto mi zampettava accanto, tanto ero presa dal mio
obiettivo. Finalmente arrivai al punto in cui la strada si biforcava
crudelmente, il crocicchio dove avevo incontrato quell'individuo
la prima volta – dove, cioè,
mi aveva quasi aggredita, spaventandomi a morte. Provai lo stesso
brivido, ma non mi lasciai fermare, malgrado la tentazione di correre
via a gambe levate. La lanterna gettò un fascio di luce su ognuna
delle arterie che si diramava dinanzi a me. Entrambe sembravano
dirigersi nella medesima direzione: sempre diritte, fino all'abisso
di oscurità che la mia fievole luce non poteva rischiarare. Dovevo
scegliere. Sarei sempre potuta tornare indietro, in caso il labirinto
si fosse fatto più arduo. Dovevo perlomeno tentare.
Avevo
molto da perdere e di certo poco da guadagnare, in caso di
fallimento. Con un sospiro che riecheggiò tra le pareti di pietra
sporca, m'inoltrai nel corridoio a destra. Mi sembrava di avere una
spada di Damocle sul capo, ma mi ripetei che potevo sempre tornare
indietro in caso qualcosa mi fosse sembrato oltremodo sospetto. La
mia paura principale era che quel
tizio mi arrivasse addosso tra
capo e collo, e per questo motivo mi arrestavo ad ogni passo, quasi
che un vero fantasma mi alitasse sul collo una zaffata di morte. Per
farmi coraggio, stringevo le forbici al petto, pronta ad usarle
contro un eventuale aggressore. Si distingueva nell'aria un odore di
umidità e terra putrefatta, e il dolce declivio sotto i miei piedi
era solo leggermente ripido, così che provavo appena la sensazione
di calarmi di mia volontà in un abisso di tenebra – le viscere del
teatro. Lo immaginai come un mastodontico scheletro, i muscoli
pulsanti sotto la carne di marmo e cemento, e io mi trovavo in una
delle sue tante vene nascoste. Il flusso di sangue che mi arrivava al
cuore mi rimbombava nei timpani, come il crepitio di un falò nel mio
petto scarno. Mi sentivo divorare dal fuoco segreto dell'adrenalina.
Cosa
avrei detto a lui una
volta che me lo fossi ritrovato davanti? Perché ero certa che
avrebbe finito per incombere su di me, simile a un nero uccello del
malaugurio. Non sapevo cosa gli avrei detto con precisione: la mia
crescente rabbia mi avrebbe ispirata sul momento. Probabilmente
le mie saranno solo minacce inutili. Non posso competere con un
maestro di quel calibro.
Ho
già detto che mi fermavo ad ogni battito di cuore per guardarmi alle
spalle, per timore di essere colta di sorpresa come l'ultima volta.
Ma le mie accortezze non servirono a molto: il mio piede inciampò
d'un tratto nel vuoto assoluto. Il grido che mi sgorgò dai polmoni
inondò l'abisso che mi inghiottì – le fauci di un mostro
invisibile e letale. Ero precipitata in una botola talmente ben
nascosta che la luce della lanterna cieca non l'aveva svelata ai miei
occhi – che, ricordate, sono leggermente miopi. Atterrai su una
superficie dura e piana, ma la caduta era stata breve, per fortuna.
Mi massaggiai il didietro dolorante, dando in un gemito involuto.
Controllai che non mi fossi rotta una costola o una caviglia, e in
effetti ero tutta intera. Tuttavia, mi sembrava che le mie membra si
fossero mutate in un unico livido pulsante – di quell'avventura mi
sarebbero rimasti addosso i segni, questo era certo. Tardai a
ritrovare il respiro nel petto, o anche solo a ricordare come si
usavano i polmoni.
Mi
rialzai a fatica, ritornando sull'attenti. Ripresi in mano la
lanterna cieca, che fortunatamente non si era infranta – l'avevo
tenuta stretta al petto per tutta la caduta – e ringraziai il cielo
per quello. Con non poco senso di allarme, mi guardai attorno. La mia
ansia raggiunse livelli indicibili, tanto che trasalii verga a verga,
quando constatai che a ricambiare il mio sguardo attonito non era
altro che la mia stessa immagine. Dapprima, com'è facile immaginare,
fui avvinta da un profondo spavento: dove diavolo
ero finita? Che posto
infernale era mai quello? Ci volle qualche minuto di profonda
respirazione per placare la mia mente febbricitante: compresi che ciò
che avevo visto non era altro che il mio riflesso. Con crescente
frenesia, toccai la parete a me più vicina: era gelida e liscia.
Lasciai scorrere le mani lungo tutto il muro: era ricoperto
interamente di specchi! Senza parole, arretrai, puntando la mia
lanterna verso l'alto. Il suo fascio di tiepida luce svelò la botola
da cui ero caduta, ma disperavo di passare nuovamente di lì e
tornare in superficie – ero certa di trovarmi a molti metri sotto
il livello terreno del teatro. Non sarei mai riuscita a raggiungere
l'uscita, si trovava troppo in alto e non avevo modo di salire fin
lassù. Arrampicarsi sulle pareti era fuori questione.
Con
mio grande orrore, scoprii che la bizzarra stanza non era deserta:
quasi urtai contro uno strano oggetto di metallo, di considerevoli
dimensioni, che a un'ispezione più attenta riconobbi come un albero,
con tanto di fronde e rami nodosi. Era, ovviamente, finto – le
foglie e il legno erano dipinti, ma con una tale ingegnosa abilità
da sembrare reali. E ancora peggiore fu la mia reazione quando notai
che una corda pendeva da uno dei rami massicci: una corda di un
materiale singolare, sottile, trasparente, quasi elastico…
Come
colpita da un lampo improvviso, sobbalzai. Corrispondeva in ogni
punto alla descrizione che mi aveva fatto Luc della corda con cui
Buquet, secondo il macchinista che aveva scoperto il suo cadavere, si
era impiccato!
«Oh,
no…» mormorai, senza fiato. «No…»
Lasciai
cadere la lanterna e cedetti ai miei istinti più primitivi: con un
ruggito di rabbia e paura, mi scagliai contro uno specchio,
prendendolo a calci con la maggior furia possibile, nel tentativo di
infrangerne la superficie riflettente. Fu tutto vano: per quanto
valeva poteva essere anche di ferro, era altrettanto resistente.
E
io ero in trappola.
Scivolai
carponi, in preda al panico. Quella camera era stata costruita per
uno scopo palesemente letale. Forse aveva già concluso il suo bel
compitino con Buquet. Che ne fosse stato vittima? E io, che fine
avrei fatto?
Provai
ad urlare, sperando che qualcuno mi udisse – ovviamente ero
scettica.
«C'è
nessuno? Ehi!» gridai con tutto il fiato che mi rimaneva nei
polmoni. Nessuno rispose, come mi aspettavo. Chi sarebbe stato tanto
pazzo da avventurarsi in quelle profondità ignote e tenebrose?
Io,
ovvio, pensai con amarezza, e
mi misi le mani nei capelli, tirandomeli con forza. Avevo tanta
voglia di prendermi a schiaffi. In quel momento sarei stata lieta
persino di rivedere il fantasma. Intanto, non avevo aiutato mia
madre, e mi ero condannata da sola. Se nessuno fosse venuto a
liberarmi… Rabbrividii, nauseata. Il mio scheletro non sarebbe mai
stato ritrovato, mia madre sarebbe morta di disperazione… Che cosa
avevo fatto?
Ero
stata una stolta. Come avevo creduto di poter ingannare il fantasma?
Perché ero certa che fosse una trappola di sua invenzione. Allora
non sospettavo che si trattasse di qualcosa di ancor più mirabolante
e letale di quanto la mia povera immaginazione poteva creare.
Non
so con esattezza quanto tempo trascorsi là dentro – ore,
sicuramente; forse una notte intera. Per quanto sconfitta, non mi
arresi subito: passai minuti infiniti ad arrovellarmi il cervello per
cercare una via d'uscita. Se c'era un'entrata, si doveva pur uscire
da qualche parte. Forse un meccanismo strambo apriva qualche porta
segreta dall'interno invece che dall'esterno. Mi misi a tastare le
pareti di specchi con grande minuzia, in mancanza d'altro. Forse
avevo la febbre, perché mi sentivo ribollire in ogni fibra, la gola
arida per le grida, le membra doloranti per la caduta. Fu tutto
inutile: dopo circa dieci minuti mi persi nella penombra e dovetti
ricominciare daccapo. Mi venne voglia di urtare la testa contro la
parete. Ora capivo a cosa serviva quella corda: i prigionieri
venivano lasciati lì a morire di sete, fame e paura, finché non
decidevano loro stessi di darsi la morte per evitare quel tormento.
Solo allora il fantasma veniva a recuperarli… sì, il loro
cadavere! Con un gemito di disperazione, mi accasciai sul pavimento
freddo. Il gelo mi penetrò fin nel midollo: mi sembrava di essere
fatta di ghiaccio, e che potessi sgretolarmi da un momento all'altro
– un mucchio di ossa gelide e polvere che una volta era stata pelle
in un antro dedicato alla morte.
Pensai
a mia madre, e mi sentii morire dentro: cosa avrebbe detto non
trovandomi la mattina seguente nel mio letto? E Christine? Non potevo
abbandonarle in quel modo…
Mi
maledicevo mille volte per la mia stupida impulsività che mi aveva
condotta in quel luogo freddo e orribile, dove a farmi compagnia,
come in una beffa ben studiata, non vi era altro che il mio riflesso
allo specchio. Fui preda di numerose crisi di tosse che mi scossero
nel profondo. Avevo un dannato bisogno di calore e luce, ma lì ad
attendermi non c'era altro che il gelo di una notte insondabile.
Mi
tornò in mente mio padre. Anche lui era morto in modo orribile e
precoce. Nella penombra, mi sembrò che la sua immagine si
riflettesse negli specchi, confondendosi con la mia in un gioco
spettrale. Dove finiva lui e dove iniziavo io? Se non avessi trovato
una via d'uscita – e ormai era ben poco probabile – mi sarei
ricongiunta a lui… Se poi esisteva sul serio un aldilà. Desideravo
rivederlo? Il mio cuore si tendeva verso di lui per un istinto
inspiegabile, ma le parole che mi salivano alle labbra come spuma
sulla superficie del mare mutavano in fiele non appena raggiungevano
la punta della lingua, e rotolavano ai miei piedi, percuotevano il
pavimento – sporche, antiche, e soprattutto stanche.
Perché?,
mi chiedevo incessantemente.
Eppure io lo sapevo. Sapevo il perché.
D'un
tratto, nell'immoto silenzio udii un suono distante, come di passi.
Non so come mi giunse all'orecchio: ero quasi paralizzata al suolo,
esausta dopo aver trascorso non so quanti giri di clessidra a
picchiare le pareti di specchi e a cercare un'improbabile uscita
nascosta; inoltre l'accesso di tosse mi aveva lasciata sfibrata e
inerme. Ora quello spettro di un suono mi indicava che c'era un'altra
vita palpitante lì fuori, poco lontana da me. Sollevai il capo come
un cane che riconosce il suo padrone. I passi, in verità alquanto
felpati, si fecero più vicini. Sentii germogliare in me una
scintilla di acerba speranza.
«Sono
qui…!» gracchiai con la gola arsa dalla sete e dalla tosse.
Picchiai il mio pugno minuto sulla parete di specchi come una
bestiolina selvatica che si dibatte nella gabbia.
«C'è
nessuno? Ehi? Ehi!» gridai con maggior vigore nella voce. Pestai sui
muri con tanta forza che mi parve che le mie dita scricchiolassero
all'impatto.
Di
colpo si spalancò una porta alla mia destra, a pochi passi da me
che, ormai annichilita, mi trascinai in piedi e mi costrinsi a
rimanervi. La luce che immetteva da quell'apertura a sorpresa –
quella che avevo cercato con febbrile fervore fino a poco prima,
invano – mi accecò, tanto che barcollai. Ad oscurarla giunse
un'ombra nera, così alta che coprì del tutto la visuale di ciò che
c'era al di là della mia prigione.
Con
un gemito strozzato, strinsi con maggior forza le forbici nel palmo
della mia mano sudata.
«Tu»
disse una voce familiare, bella e odiata, con una punta di stupore e
asprezza insieme.
Gli
puntai contro le mie forbici arrugginite. Lui sbuffò e avanzò di
qualche passo.
«Cosa
diavolo ci
fai tu qui, Meg Giry?»
«Me
lo chiedo anch'io» mugugnai a denti stretti. «Che posto è questo?»
«Sono
io che
faccio le domande qui, Madamoiselle» ribatté lui con crescente
irritazione. «Hai di nuovo disobbedito ai miei ordini, e
deliberatamente? Come hai osato…?»
«Sono
capitata qui dentro per
sbaglio!»
Lui
esplose in una risata orribile.
«Credetemi,
Monsieur, non ci tenevo proprio a finire in questo posto! E non ci
trovo niente da ridere – sono qui da ore e ore!» ringhiai con
rabbia.
Lui
si fece serio. «Meriteresti una sorte ben peggiore, piccola
imbecille.»
«E
allora uccidetemi adesso. Provateci.» Strinsi al petto le forbici.
Il mio tono era di sfida, ma in realtà mi tremavano anche le ossa.
Nella
penombra, mi parve che mi rivolgesse un'occhiata profondamente
scettica. Sebbene le sue fattezze fossero celate dalla maschera e
dalle tenebre sue compagne, i suoi occhi restavano inconfondibili.
Inclinò il capo di lato, come per saggiarmi. Dovevo essere una
visione di rara pateticità.
«Audace,
impudente e imbecille.»
Con
poche pennellate, aveva abbozzato un quadro perfetto della
sottoscritta. Ma non mi sentivo affatto audace: la paura mi rodeva
dall'interno come una leonessa affamata.
Prima
che potessi anche solo accorgermene, con uno scatto felino il
fantasma mi afferrò il polso e mi strappò di mano la mia patetica
arma. Ringhiai di terrore e ira quando mi strattonò per il bavero
del vestito, impedendomi di muovermi e avvicinando il mio volto al
suo, sempre mascherato.
«Speri
forse di uscire viva dalla camera della morte, mia cara?» disse con
sarcasmo.
Biascicai
qualcosa d'incomprensibile.
«Che
cosa?»
sibilò lui tra i denti. Era evidente che fosse furioso: dal suo
corpo emanavano ondate di rabbia pura, tale che poteva competere con
la mia. Era oltremodo scontento
del fatto che avessi
disobbedito nuovamente ai suoi ordini. Ma lui non poteva comandarmi a
bacchetta, neanche se fosse stato il re degli inferi in persona, o il
demonio.
Con
i miei piccoli pugni, colpii il suo braccio di ferro, eppure ossuto
sotto la stoffa nera del lungo mantello. «Razza di… razza di
bastardo…»
tossii ancora ed ebbi la tentazione di sputargli in faccia. Per
fortuna mi trattenni in tempo.
«Meg
Giry» disse lui in un tono di tale greve solennità e sdegno che mi
spezzò il fiato in gola, «preparati
a incontrare Dio!»
«Mia
madre è stata licenziata!»
gli urlai in faccia, e questa volta le lacrime mi bruciavano gli
occhi in modo insopportabile. Mi rigarono le guance incavate,
appannandomi la vista. Dinanzi a me vi era solo uno sguardo dorato,
sfocato, fisso nel mio.
L'uomo
mascherato mi lasciò andare all'istante, come fossi un ferro
rovente. «Cosa?»
Ora
appariva costernato.
«Siete
un farabutto!» gli gridai contro tra le lacrime. Sembrava che tutta
la tensione che avevo accumulato in quelle infinite ore di angoscia
mi stesse sommergendo in un'unica onda anomala. «Avete anche la
faccia tosta di far finta di niente quando è evidente che è tutta
colpa vostra! Che razza di vile vendetta è mai questa, eh? Mia madre
non c'entra nulla in questa faida tra noi due! Io…» Egli arrestò
quel flusso di parole rabbiose e piangenti premendomi una mano
guantata sulla bocca. Emettei un vigoroso mugugno di protesta,
conficcandogli le unghie nelle dita.
«Questo
non lo sapevo» mi disse in tono calmo e misurato. Lo stupore nella
sua voce appariva sincero, ma non ci avrei messo la mano sul fuoco.
«Ah, dovrei tagliarti la lingua per ciò che hai detto.»
Ritrasse
la mano, e questa volta ebbi il buon senso di non insultarlo. Ero
comunque certa che alla fine di quella “chiacchierata” sarei
morta in modo orribile.
«Sei
venuta fin qui solo per dirmi questo?»
«Per
accusarvi, Monsieur. Se non rimediate subito alle vostre azioni…»
«Ebbene?»
«Ebbene,
racconterò tutta la verità a Christine!»
Se
avesse potuto, mi avrebbe strangolata lì, all'istante. Lo intuii dal
lampo oscuro nei suoi occhi. Solo in seguito compresi a cosa dovevo
attribuire la mia salvezza, la mia sfacciata fortuna. In
quell'occasione, sopravvissi per miracolo.
«Di
cosa parli?» disse lui, gelido, sillabando ogni parola.
«Lo
sapete benissimo, Monsieur! Come osate ingannarla in questo modo?»
Non mi ero accorta che avevo ancora il viso striato di lacrime.
«E
tu come osi disobbedire ai miei ordini una
seconda volta? Stolta,
insolente bambina!»
«Ero
disperata!
Io e mia madre finiremo in mezzo a una strada ed è tutta colpa
vostra e dei vostri complotti!»
«Ti
ho già detto che non ho nulla a che fare col licenziamento di tua
madre, piccola imbecille!»
Entrambi
ci ringhiammo addosso con la foga di due fiere. Alla fine, lui si
massaggiò le tempie doloranti. «Da che parte ti sei diretta?»
«Cosa?»
«Al
bivio. Che strada hai scelto? Quella a destra?»
Annuii.
«Sciocca
ragazza!» Serrò gli occhi a fessura, cosicché aveva davvero lo
sguardo di un falco rapace. «Dovrei toglierti di mezzo seduta
stante, per evitare che ti impicci ulteriormente in cose che non
ti riguardano.»
«Perché
non lo fate, allora?» Avrebbe avuto la possibilità di mettermi un
cappio al collo almeno cento volte negli ultimi cinque minuti.
Qualche motivo particolare glielo impediva. «Ma vi consiglio di
pensarci bene» continuai, aggrappandomi al barlume di un'idea e
sperando che funzionasse. «Due morti bizzarre in un così breve
lasso di tempo… Risulterebbe subito sospetto. E questa volta sarete
denunciato alla polizia.»
Mi
scrutò ancora con i suoi occhi impietosi. «No» concluse, eppure ci
aveva riflettuto su. Non era avventato, ed era conscio che farmi
fuori in quel momento avrebbe richiamato sul teatro l'attenzione
delle autorità. In più, probabilmente sapeva che mia madre era a
conoscenza della sua esistenza e di molte delle sue malefatte. In
caso fossi scomparsa sul serio, ella non avrebbe tardato a dire tutto
alla polizia, col rischio di essere scambiata per una visionaria. Ero
pur sempre la figlia della maschera del palco numero 5, il suo
palco. «Ma no. Potresti
ancora essermi utile, chi lo sa.»
Strinsi
i pugni fino a far diventare livide le nocche. «Non sarò una vostra
pedina!»
«Tu
farai ciò che ti dico, Marguerite Giry, o tu e tua madre finirete
sul lastrico.» Mi puntò contro un dito lungo e ossuto. «Ascolta.
Tutto si sistemerà, hai la mia parola…»
Mi
trattenni a stento dallo sbuffare, a dir poco incredula. Non dava
l'impressione di uno che mantenesse la propria parola.
«…
che domenica questa storia sarà conclusa. Sì, lo sarà… E tu
vedrai, Meg Giry! Se questo non avverrà, potrai fare quel che vuoi.»
«Come
denunciarvi alle autorità?»
Lui
sogghignò. Questo non mi fu di conforto. «Esattamente. Aspetta fino
a domenica. E bada bene che non è una richiesta, è un ordine.
Ricorda, questo è il mio
teatro, e tu ne fai parte in
modo indissolubile.»
A
quel punto abbassai un po' ogni difesa per far spazio a una naturale
quanto perversa curiosità. «Ma voi chi
siete?»
Lui
si irrigidì. «Ti ho già detto di non impicciarti in cose che non
ti riguardano.»
«E
Christine? Questo mi riguarda eccome. Che intenzioni avete nei suoi
confronti?»
Sapevo
che non avrei dovuto menzionare la mia amica, ma la mia
preoccupazione nei suoi riguardi era troppa per ignorarla. Lo sguardo
di lui si fece di fuoco.
«Christine
ha un grande talento. Ti basti sapere questo, Madamoiselle.»
Il modo in
cui pronunciò il suo nome mi colpì. C'era un'inflessione di
ineffabile… dolcezza (poteva
mai essere?) nella sua voce in genere così intimidatoria e tonante.
Non poteva essere una coincidenza. «Ma…»
«Non
interferire, Meg Giry, o sarò costretto a ripensare se mi sarai
utile o meno.»
Finalmente
mi decisi a tacere.
«Adesso
ti accompagnerò di sopra… Ma dovrai lasciarti bendare senza fare
storie.»
«Che
cosa?»
Non
avevo la benché minima intenzione di farmi trascinare da lui chissà
dove senza neanche poterlo tenere d'occhio.
«Pensi
davvero che ti faccia girare comodamente per il mio dominio senza una
precauzione? Questa non è una visita turistica, Meg Giry.»
«Non
se ne parla.»
«Allora
ti auguro un buon soggiorno qui dentro.»
Mi
morsi un labbro, furiosa con me stessa e soprattutto con lui.
«D'accordo» concessi. Se era l'unico modo per uscire di lì… Non
che avessi altre opzioni.
Lui
annuì e uscì un minuto, richiudendosi la porta alle spalle. Quando
tornò, aveva in mano una benda di seta nera.
«Voltati,
Madamoiselle» disse con insperata cortesia.
Sbuffai
e, incrociando le braccia al petto, feci quanto mi chiedeva – o
meglio, pretendeva (il dannato!).
Mi
avvolse in un abbraccio lieve come il petalo di un giglio; mi sfiorò
a malapena, ma fu sufficiente. Prima che potessi protestare, mi
sventolò sotto il naso una boccetta dal colore indefinibile, di cui
inspirai l'effluvio amaro.
«Ehi,
ma che…»
La
testa mi vorticò a un ritmo di marcia, la stanza semi–buia
ondeggiava intorno a me. Unico punto fisso: l'ombra nera che mi
circondava leggermente la vita con un braccio per impedirmi di
crollare al suolo.
«Bastardo…»
farfugliai prima di crollare in un torpore istantaneo.
Quando
mi risvegliai ero nel mio letto, e fu grazie al solito tonfo sordo
che mi faceva da sveglia – segno che mia madre bussava alla mia
porta perché mi destassi. Ero avvolta in una coperta di un
bellissimo cachemire rosso, a me sconosciuta. Quasi cascai a terra
nella fretta di togliermela di dosso, scivolando su una lettera
posata ai miei piedi, vicino alle pantofole. Avevo dormito vestita,
com'era prevedibile, e il mio abito di mussolina grigia era sgualcito
e sudicio per via del travaglio che aveva dovuto sopportare. Tuttavia
non vi prestai attenzione: afferrai il biglietto e lo lessi tutto
d'un fiato, senza sapere se sentirmi furiosa o spaventata o
semplicemente sollevata di essere ancora viva e vegeta. La grafia era
la stessa che conoscevo – sbilenca, infantile, quasi illeggibile, e
l'inchiostro era rosso, come l'ultima volta.
Madamoiselle
Giry,
mi
scuso per le mie azioni della scorsa notte, ma sono stato costretto
ad ingannarvi, perché altrimenti non mi avreste mai concesso di fare
quel che ho fatto. Non potevo rischiare, nemmeno se voi fosse stata
bendata. Sappiate che la boccetta che vi ho fatto annusare conteneva
un elisir innocuo, e all'alba vi sarete già ripresa.
Il
nostro accordo è dunque segnato. Aspettate fino a domenica per
organizzare la vostra prossima mossa.
P.S.
Spero che il mio regalo vi faccia dimenticare la mia scortesia. Sono
stato ben poco gentiluomo la scorsa notte.
Come
sempre, non era firmata, ma io conoscevo il mandante. Il regalo…
ovviamente si riferiva alla morbida coperta di cachemire – sembrava
molto preziosa. Cos'è, voleva comprarmi? Con un sibilo di rabbia,
accartocciai il biglietto e lo gettai a terra, mugugnando una serie
di imprecazioni accalorate rivolte a un certo F.
dell'O. Mi maledissi mille e
mille volte, e rimasi a fissare le lettere scritte in quel modo così
sgraziato sulla pergamena giallastra. Durante il nostro ultimo
incontro, si era rivolto a me con il tu, come fossi una bambina, in
un certo modo inferiore a lui (il pensiero mi irritò ulteriormente).
In quella lettera, invece, usava il voi. Mi stava forse prendendo in
giro?
Mi
accasciai su una sedia, asciugandomi con la manica dell'abito la
fronte imperlata di sudore gelido. Avevo stretto un patto col
diavolo, certo: mia madre era probabilmente salva, ma Christine? Per
che cosa avevo venduto, almeno momentaneamente, la sicurezza della
mia amica? E perché mi aveva risparmiata, quando l'altra notte ero
alla sua mercé? In parte perché la mia improvvisa dipartita sarebbe
sembrata davvero troppo sospetta, a pochi giorni di distanza da
quella inspiegabile di Buquet. Ma era davvero solo per questo? Ne
dubitavo. Tremavo al pensiero del modo in cui potevo essergli utile.
Presi
a pugni il cuscino con tanta forza che le nocche mi divennero livide.
Infine, angosciata, mi presi la testa fra le mani, senza arrestare il
fiotto di imprecazioni che mi sgorgò dalle labbra aride.
Note
dell'Autrice:
Ecco
di nuovo il fantasma, che qui è ancora una figura temibile e
minacciosa per Meg (com'è giusto che sia). Meg ha proprio preso una
decisione poco saggia in questo capitolo, dovuta alla sua impulsività
e al suo furore, rapido ad accendersi. Ne è uscita fuori per
miracolo, o c'è qualcos'altro sotto? Vedrete, vedrete. :P
Malinconica:
Cara, sono contenta che il capitolo ti sia piaciuto! Erik è un
personaggio difficile da trattare, è così contraddittorio… ma
molto affascinante. Comunque, ti rivelo già da subito che ci sono
diversi motivi per cui Erik non ha fatto fuori Meg all'istante, e non
è solo per scrupoli di coscienza (come sappiamo, ne ha ben pochi).
La vera ragione è un'altra, ma si verrà a sapere più in avanti...
anzi, le ragioni sono molteplici, ma non posso svelarle adesso,
capisci. Ti assicuro però che non c'entra tanto il fatto che sia
amica di Christine: sappiamo che dopo sarà disposto ad uccidere
un'altra persona a lei cara (Raoul) pur di avere ciò che vuole. Ah,
e non solo il disgraziato visconte... Erik, cosa mi combini? Non è
così che si conquista una donna. XD Alla prossima settimana, e
grazie mille per aver recensito! |
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Capitolo 8 *** Lo spettro di Mefistofele. ***
vii.
lo
spettro di mefistofele
La
notizia del licenziamento di mia madre si diffuse come erba maligna
in tutto il teatro, e d'un tratto divenni oggetto di numerosi
sussurri, tutti riguardanti la vera ragione per cui Antoinette Giry,
integerrima istruttrice di danza, era stata cacciata via dallo staff
dell'Opera così d'improvviso. Io non badavo a quelle voci, perlopiù
nate da immaginazioni annoiate e ficcanaso che proprio non avevano
nulla da fare eccetto speculare sulle vite degli altri, e mi limitavo
a fare il mio lavoro.
Inoltre, ero troppo preoccupata perché ciò che pensava la gente di
me e mia madre potesse in qualche modo toccarmi. Avevo stretto una
sorta di “accordo” col fantasma – era strano chiamarlo così!
Non conoscevo neanche il suo nome, se poi ne aveva uno – e lui mi
aveva promesso che entro domenica tutto si sarebbe sistemato. Con
“tutto”, pensavo intendesse il licenziamento di mia madre. Presto
saremmo state cacciate via dall'Opera, che era la nostra casa, e ci
saremmo ritrovate a vivere chissà dove, di colpo indigenti – il
mio misero stipendio di corifea non bastava per l'affitto di un
appartamento decente. Saremmo dovute andare a vivere nei bassifondi
di Parigi, dove si raccoglievano tutti i miserabili della città. E
presto anche noi avremmo dovuto riconoscerci in quelle file di
uomini, donne e bambini condannati dal destino e dalla società.
L'ingiustizia era piovuta nelle loro vite proprio come nelle nostre.
Fino a quel momento non mi ero mai resa conto di quanto fossi
fortunata a vivere, seppur modestamente, con la garanzia di potermi
permettere tutto il necessario. Presto non avrei più avuto quella
sicurezza, anche perché non sapevamo se mia madre sarebbe riuscita a
trovare un altro lavoro. La danza era tutto il suo mondo, e
all'infuori di questa c'era il vuoto; ma si sarebbe accontentata
anche di fare la cenciaiola pur di mantenerci. Si sarebbe rimboccata
le maniche e avrebbe lavorato sodo, come sempre. E io dovevo
imitarla, almeno per adesso.
Il
fantasma mi aveva detto di non preoccuparmi, ma io, com'era logico,
non mi fidavo di lui. In particolare perché aveva preteso qualcosa
in cambio: il mio silenzio. Non voleva che rivelassi la verità a
Christine, altrimenti potevo scordarmi il suo intervento nella
faccenda di mia madre. Certo, ero stata io
ad andare da lui, e questo
“patto” era molto meglio di ciò che mi ero aspettata dal nostro
incontro – avevo temuto di morire! E sarei morta pur di aiutare mia
madre, e anche Christine, se era il caso. Ma quell'uomo, seppure
furibondo poiché avevo disobbedito ai suoi ordini e mi ero
intrufolata di nuovo nel “suo dominio”, ovvero i sotterranei
dell'Opera – viveva forse lì? Vi si nascondeva? – non mi aveva
fatto del male. Beh, mi aveva drogata senza il mio permesso – il
miserabile! – ma tutto sommato mi era andata bene. Non ci avevo
rimesso la pelle come pensavo, e inoltre avevo ottenuto quel che
volevo: la promessa che mia madre avrebbe riavuto il suo lavoro. Era
solo una promessa, però, e io non mi fidavo; avrei atteso fino al
giorno dopo – che, infatti, era domenica – per agire sul tempo.
Al
solo pensiero mi sentivo male, ma decisi di non dire nulla a
Christine per un altro giorno. Avrei dovuto fingere davanti a lei, lo
sapevo, e questa prospettiva mi dava la nausea, ma ero in trappola e
non potevo fare altro. Christine non sarebbe stata in pericolo che
per un altro giorno… Cosa poteva accadere in un giorno?
Tutto,
mi risposi da sola, mordendomi
le unghie per la tensione. Potrebbe
succedere qualunque cosa, Christine non ne sarebbe avvertita e
avresti tu la colpa di questo.
Per
ora, non potevo far altro che attendere. E così feci, tesa come non
mai: ero un fascio di nervi, straordinariamente cupa, e mi concentrai
sulle esercitazioni mattutine con una determinazione inusitata anche
per la sottoscritta. Sembrava che dovessi scendere in guerra con
tanto di armatura, non sul palco del teatro con indosso delle
scarpette da ballo.
Esistono
diversi tipi di battaglie in questo mondo.
Com'è
prevedibile, la mia tosse peggiorò e fui costretta a spalmarmi sul
petto e sulle scapole l'impacco di erbe che mia madre aveva
acquistato in farmacia. Non le dissi nulla per non preoccuparla,
sperando che fosse così occupata con i suoi tanti problemi da non
notare quelli che riguardavano solo me. Avevo preso freddo in
quell'infernale prigione sotterranea – la camera degli specchi,
così l'avevo denominata. Mi sfuggiva ancora il suo reale scopo –
perché proprio un albero?
– ma non mi lasciai vincere dalla tosse e continuai a comportarmi
come se nulla fosse, e a danzare col maggior zelo possibile:
riscaldamenti, esercizi alla sbarra, tutti i passi più complicati e
il mio riflesso nei grandi specchi che coprivano le pareti,
reminiscenze dell'incubo di quella notte. La mia immagine mi
perseguitava con l'insistenza di un vero spettro, e dovetti fermarmi
per impedire alla bile che mi ostruiva la gola di riversarsi sulle
mie vecchie ma fidate scarpe da ballo. Il mio cervello fluttuava in
una bolla di sangue, che mi rifluiva alle tempie a un ritmo doloroso.
«Meg,
tutto bene?»
Fabienne,
che mi era accanto, mi pose una mano sulla spalla col suo fare
delicato. Poco più avanti, anche Louise e Juliette si erano fermate
per lanciarmi sguardi allarmati; a qualche metro di distanza, mi
sentii addosso gli occhi apprensivi di Caroline. Le altre
continuarono la coreografia.
Scoccai
un'occhiata di sottecchi a mia madre, che appariva seria e dignitosa
come sempre. Per me che la conoscevo bene, però, erano evidenti sul
suo volto i segni di una profonda mestizia. La sua pelle era carta
vetrata, stranamente accartocciata attorno agli occhi e agli angoli
della bocca; numerose ferite invisibili la sfiguravano.
«Non
ho mangiato a colazione» mentii in fretta, rivolta a Fabienne.
«Male,
male» commentò quest'ultima con aria di rimprovero.
Feci
loro cenno di continuare a danzare, e anch'io seguii il mio buon
consiglio, concentrando ogni forza rimastami nei polpacci e nelle
punte dei piedi. Alla fine di quella giornata di lavoro, ero sfibrata
nei muscoli del corpo e dell'anima.
Molte
ragazze quel mattino mi avevano chiesto se era vero che Madame Giry
era stata destituita dal suo ruolo non solo di maschera, ma anche di
istruttrice di danza. Io avevo confermato, suscitando lo sgomento tra
le mie compagne. Mia madre era ammirata e rispettata da molti membri
della compagnia: era severa ma giusta, e non faceva sconti neanche a
me che ero sua figlia – anzi, soprattutto alla sottoscritta.
Eppure, quando le lodi erano meritate, non esitava nel tesserle.
Davanti
a mia madre, le ragazze fecero finta di niente, impegnandosi forse
più del solito: sapevano che solo così potevano mostrare vera
riconoscenza nei confronti della loro maestra, che di fatto comprese
la loro silenziosa gratitudine e il dispiacere che provavano nel
vederla andare via. Tutte sapevano che doveva essere lei ad
annunciare quella infausta notizia, e fu un bene che nessuna delle
mie compagne vi accennasse minimamente. Mostrarono una sensibilità
di cui non le credevo capaci – beh, non alcune di loro, perlomeno –
e questo mi stupì piacevolmente, ricordandomi perché mi trovavo
tanto bene in quella compagnia.
Quel
sabato di fine gennaio anche le nuvole avevano un cuore di ghiaccio,
come gli alberi innevati lungo i fianchi dei boulevard. Non ebbi però
tempo di godermi la neve con le mie amiche, o persino l'invito di Luc
che, lo sapevo, non vedeva l'ora di bombardarmi di neve insieme alla
sua banda di screanzati compari. Ma in qualche modo aveva saputo
dell'imminente licenziamento di mia madre e si limitò a darmi
un'affettuosa pacca sulle spalle in segno di supporto, consapevole
che non avrei tollerato gesta eccessive di compassione.
Al
pensiero di incontrare Christine, che quella sera si sarebbe esibita
di nuovo nel ruolo di Siebel, provavo una sorta di terrore sottile,
che si nascondeva come un vipera sotto la pelle per inocularmi il
veleno dritto nell'anima. E pensare che fino al giorno prima smaniavo
al pensiero di parlarle! La vergogna che provavo era tale da
rovinarmi il piacere della compagnia della mia amica. Conoscere la
verità e non rivelarla era contro la mia natura, fin troppo diretta
– tanto che, come si è visto, molto spesso mi si rivoltava contro.
In
qualche modo mi sentivo complice del fantasma, anche se solo
momentaneamente; e il pensiero mi era insopportabile.
Fu
Christine che, prima della sua esibizione, venne a scovarmi nella mia
stanza. L'abbraccio che ci scambiammo fu sincero e dolce da parte
sua, e impacciato per me, che a stento riuscii a sfiorarle la schiena
con le mie dita irrigidite. Feci del mio meglio per sorriderle. Per
fortuna, lei attribuì il mio umore cupo a quanto era accaduto con
mia madre.
«Oh,
Meg, l'ho appena saputo da Louise» mi disse, accarezzandomi una
guancia fredda. I suoi occhi erano colmi di furore e mortificazione:
era affezionata ad Antoinette quanto quest'ultima alla ragazza. «Se
avete qualche problema nel trovare una nuova casa, sappi che potrete
restare con me e Mamma Valerius finché volete. La nostra porta è
sempre aperta.»
«Ti
ringrazio davvero, Christine.»
«Non
dirlo neanche. Tu e tua madre avete fatto tanto per me.»
A
quelle parole mi fu difficile guardarla negli occhi, tanta era la
vergogna che sentivo ribollire dentro di me. Traditrice,
sibilava una voce accusatoria
nella mia mente – e, strano a dirsi, aveva il timbro suadente del
mio nemico.
Le
chiesi com'era andato il viaggio a Perros–Guirec, e per un po' ci
limitammo a parlare di inezie. Sembrava che anche lei volesse evitare
decisamente l'argomento sul quale eravamo state tanto in disaccordo
giorni prima, ossia l'affare del sedicente “angelo”.
«Anche
Raoul è venuto a Perros.» Il tono con cui mi rivolse queste parole
era lieve come la stretta delle sue mani poggiate in grembo. I suoi
occhi vagarono sulla carta da parati stinta alle mie spalle, quasi
che non potesse reggere le fattezze dure e spigolose del mio viso. Il
soprannome Faccia di scimmia
non mi era stato dato a caso,
tanti anni prima.
Ovviamente,
Christine non riusciva a guardarmi per ben altra ragione.
«L'hai
invitato tu?»
«Sì.
Pensavo che ci avrebbe fatto bene – parlare nei luoghi che abbiamo
conosciuto insieme, da bambini…»
Vicino
alla tomba di tuo padre,
pensai, ma non ci fu bisogno di dirlo a voce. Tra noi i sottintesi
erano sempre stati chiari.
«Mi
pareva di aver capito che non volessi avere nulla a che fare con lui.
Non più, almeno.» Quelle parole risuonarono strane persino alle mie
orecchie. Era ovvio che c'era qualcosa di più sotto, ed ero sicura
che c’entrasse il suo “angelo”. Ne ebbi la conferma quando
Christine si mosse, a disagio.
«É
più complicato di quanto credi» ribatté, e sui suoi occhi calò un
velo d'ombra che minacciò di coprire anche me.
«Spiega,
allora» la incalzai.
Christine
emise un sospiro. «Tu per prima hai scritto in quel biglietto che
volevi parlarmi. Comincia prima tu.» Mi guardò da sotto le ciglia
bionde. «Non teniamoci più segreti, Meg.»
Annuii,
combattendo un accesso di nausea al pensiero che in realtà avrei
dovuto mentirle per tutto il tempo. Ancora
un altro giorno… Domani le dirò tutto.
«Volevo
solo chiederti scusa per… per averti chiamato “pazza”, l'altro
giorno. È stato imperdonabile. Chi meglio di me…» mi interruppi
quando Christine pose una mano sul mio braccio. Un gesto di
delicatezza inaspettato.
«Amica
mia, ti ho già scritto nella lettera che non devi preoccuparti.
Chiunque avrebbe reagito come hai reagito tu.»
«Io
non sono chiunque, però» precisai. La mia storia personale avrebbe
dovuto impedirmi di attaccare Christine in modo tanto brusco, eppure
non era stato così. «Avrei potuto usare ogni argomentazione
possibile, tranne quella.»
Lei
accettò le mie scuse col suo sorriso dolce e accogliente. Sa
di casa, mi resi conto, e per
la prima volta da innumerevoli giorni mi acquietai come un gatto
selvatico domato dalle carezze di una nuova, gentile padrona.
Non
avevo tardato a notare che era leggermente pallida, gli occhi
cerchiati di viola, come se la notte prima non avesse dormito
granché. Anche in questo, condividevamo qualcosa senza saperlo.
«Tocca
a te.» Le feci segno di dire quanto aveva raccolto dentro di sé in
quei giorni a Perros-Guirec senza che avesse la possibilità di
mostrarlo anche a me.
Lei
si grattò un avambraccio con fare impacciato. Poi sospirò e assunse
un'aria di profonda risolutezza, decidendosi a fissarmi dritto negli
occhi, e io ressi il suo sguardo di mare e nuvole.
«Prima
di partire per Perros, ho scritto un biglietto a Raoul. Non so
neanch'io perché l'ho fatto… Ma dovevo rivederlo. Non potevo
lasciare così le cose tra noi.»
«Gli
hai detto di seguirti a Perros?»
«Non
proprio.» Le sue labbra si distesero in un mezzo sorriso. «Ma
sapevo che avrebbe capito.»
La
storia dei sottintesi. Anche loro sembravano avere un codice di
comprensione segreto.
«E
così ha fatto.» Mi guardò da sotto le ciglia bionde.
Un'impressione di cautela e allo stesso tempo ansia aleggiava su di
lei, quasi si aspettasse il mio aspro giudizio e lo temesse. «Gli ho
parlato dell'Angelo.»
Perlomeno
fu diretta, proprio come sapeva che la preferivo.
Trassi
un respiro che risuonò quasi sibilante tra i miei denti stretti.
«Perché avresti fatto una cosa del genere?»
«Dovevo.
Credeva che mi fermassi a parlare con voci
maschili nel mio camerino.»
Il suo viso si fece improvvisamente livido di un antico furore, ma
infine riacquistò il suo colorito naturale. Raoul doveva averle
riferito quanto aveva ascoltato fuori dalla porta del suo camerino,
la sera del gala. Repressi a stento l'istinto di battermi una mano
sulla fronte. Fortunatamente, non aveva fatto alcun accenno alla
sottoscritta. Christine non sapeva che avevo origliato anch'io.
Dalla
mia avevo già una lunga lista di azioni scorrette nei suoi
confronti: che l'avessi spiata in quel modo era proprio l'ultima cosa
che necessitava di sapere, almeno per adesso. Domani
le dirò tutto, mi rammentai.
Solo un altro giorno… Eppure
temevo ciò che il domani avrebbe portato.
«Si
è attardato fuori dal mio camerino, la sera del gala» dalla smorfia
sulle sue labbra, era evidente che non avrebbe perdonato tanto
facilmente al visconte il suo origliare, e che ne era ancora offesa,
«e a quanto pare ha udito… la sua
voce.» Un'espressione
angustiata comparve sul suo bel volto, ora di nuovo pallido.
Forse
la cosa si sarebbe risolta senza il mio intervento: Raoul aveva agito
anche per conto mio.
«Ma
non potevi udirla solo tu?»
«Così
mi ha detto la Voce.»
Si
prese la testa tra le mani. «Ho dubitato, Meg. La mia fede ha
vacillato… e non posso biasimarmi del tutto per questo. Eppure
tanta meraviglia…» deglutì a fatica, mentre io la lasciavo
parlare. «Mi aveva promesso che avrebbe suonato La
resurrezione di Lazzaro, quel
brano che papà tanto amava, sulla sua tomba. Col violino del morto.
Ma nemmeno mio padre ha mai suonato in quel modo, Meg… Non puoi
capire se non lo hai ascoltato con le tue stesse orecchie. Ogni
dubbio crolla dinanzi a quei suoni divini… Sono gli unici momenti
in cui mi sento felice: quando ogni fibra del mio corpo sembra essere
composta di musica.» Mi rivolse uno sguardo sofferente. «Stamattina
mi sono recata nel mio vecchio camerino, per la solita lezione. La
Voce mi ha detto che lei stessa ha fatto in modo che Raoul la
udisse…»
«Perché
si allontanasse da te, credendo che appartenesse a un altro uomo»
conclusi per lei.
«Mi
ha avvertito nuovamente: se mai mi sposerò, non potrò più udire la
Voce.» Sulla sua fronte si tracciò una ruga di disperazione. «E io
non posso pensare di vivere senza, Meg. Non sono pronta. Sarebbe come
perdere mio padre per la seconda volta…»
«Christine,
lui non
è tuo padre.» Dovetti mordermi la lingua per non aggiungere anche:
É solo un impostore. Un
bastardo che sta approfittando del tuo dolore.
«Lo
so bene, ma è stato mio padre a fare in modo che venisse da me.
Ovunque lui sia adesso… è come se fosse di nuovo con me.»
Sarà
più arduo del previsto. Era
chiaro che per Christine il conforto della Voce era immenso:
immaginai un mondo dove, per qualche ora, non sentissi più il
perpetuo, spinoso dolore che mi portavo dentro dalla morte di mio
padre… Era più che
allettante: era una benedizione.
Ma
non è reale. Niente di tutto questo lo è. E
a una bugia, preferivo il dolore.
«Nuovamente,
dici? È per questo che hai finto di non riconoscere Raoul l'altra
sera?»
Lei
annuì, amareggiata. «Oh, non avrei voluto, credimi. Ma tra la Voce
e Raoul… Come posso scegliere, Meg? È impossibile.»
Sarebbe
come scegliere tra suo padre e un giovane amore, compresi
in modo subitaneo.
«Non
credo che tu sia pazza, Christine. Credo però che tu soffra molto.»
Cercai di modulare le mie parole, ma era difficile: non ero brava in
queste cose. Di solito era Christine che offriva maggiore conforto
con esse. Ma io non ero lì per offrirle conforto, perlomeno non in
quel momento. Le avrei porto su un piatto d'argento qualcosa di ben
più importante: la verità.
«Sei
annebbiata dal dolore. So cosa
vuol dire.» Sì, lo sapevo. Christine aveva visto suo padre
deteriorarsi davanti ai suoi occhi, come un polmone malato, fino a
morire. Io avevo visto marcire il mio finché mi era stato
impossibile riconoscerlo nell'uomo che mi aveva un tempo amata e
cresciuta. Finché il suo sangue non si era mescolato alle mie
lacrime.
«Christine,
penso che qualcuno ti stia prendendo in giro. E della grossa, anche.»
Lei
mi folgorò con lo sguardo. «Che strano. Anche Raoul mi ha rivolto
le stesse parole. E lui ha origliato dietro la mia porta.»
Un
fiotto di sangue mi rifluì al collo, ma lo ignorai. «Christine,
parlo sul serio. Il tuo sedicente Angelo non esiste. Non puoi credere
a ciò che ti dice.»
«E
le prove di quanto mi dici tu
dove sono?»
Oh,
no. Davvero non volevo litigare di nuovo con lei, ma non mi lasciava
altra scelta. Non avrei potuto dirle che avevo incontrato a tu per tu
la Voce, che non era affatto senza corpo, ma dovevo comunque
convincerla a mettere da parte il dolore e a pensare razionalmente.
«Gli
angeli non esistono. Qualcuno per qualche motivo ti sta manipolando e
il tuo lutto non ti permette di ragionare! Chiunque sia, è solo un
ignobile bastardo.»
Lei
dischiuse le labbra, momentaneamente senza fiato. Avevo usato parole
troppo crude; pulsavano come piccoli tagli sulla mia lingua – i
frammenti della nostra fiducia reciproca.
«Pensavo
che almeno tu mi credessi.» Le tremavano le mani e la voce. Poi si
ricompose, improvvisamente fredda. «Bene. E dove sono le prove di
quanto dici? La tua versione potrà essere più razionale, ma non più
veritiera della mia. Come puoi dire che gli angeli non esistono? Si
tratta della mia fede, Meg, della mia
religione: non ti permetto di
ridere delle mie convinzioni.»
Le
stai riponendo nella persona sbagliata, Christine: credimi, io l'ho
incontrato! Non è una Voce proveniente dal cielo, si tratta di un
uomo in carne e ossa che forse ha ucciso Buquet e minacciato me! Oh,
Christine… Se solo avessi
potuto raccontarle tutto! Ma mi era impossibile. Avevo stretto un
patto col diavolo – rischiavo davvero di vomitare al pensiero – e
ovviamente Christine aveva ragione: il mio rampante cinismo non
poteva sputare veleno sulla fede di un'altra persona, in special modo
quella della mia migliore amica. Credere negli angeli e in una vita
ultraterrena non la rendeva peggiore né più sciocca di me, che mi
aggrappavo al sangue e alla realtà come lei ai sogni indistinti di
un domani migliore.
«Tuo
padre è morto, Christine, morto!
Non puoi ritrovarlo in una Voce ultraterrena. È solo un'illusione,
più distruttiva di quanto pensi! Tu devi
credermi.»
La
vidi sbiancare, come colpita da uno stiletto invisibile dritto al
cuore. Non appena pronunciai quella invettiva, compresi di aver
sbagliato e provai ancora più vergogna. Nel mio tentativo di
proteggerla da un pericolo ancora intangibile eppure imminente, avevo
versato sale sul suo lutto e il suo dolore. Ero stata impietosa e
rude. Come se lei non sapesse già che ascoltare la Voce, prendere da
lei lezioni di canto, non le avrebbe ridato suo padre! Le aveva solo
infuso di nuovo la gioia di vivere. Ancora una volta, mi trovavo
inerme di fronte all'istinto di sopravvivenza che guida gli esseri
umani. Come speravo di convincerla a darmi retta in quel modo? Ciò
che avevo detto sembrava averle formato squarci invisibili sul viso
pallido. Vedevo il sangue scorrerle dal naso, dai polsi, dalle
clavicole – gli zigomi come pozze rosse. Le ferite delle parole.
«Christine…»
abbozzai, piena di biasimo verso me stessa.
Lei
deglutì, ma non si lasciò abbattere. Non crollò dinanzi alla
realtà, più cruda di quanto si aspettasse. Mi guardò dritto negli
occhi, con rinnovata risolutezza: «Non mi illudo di farti credere in
qualcosa che non è tangibile. Io stessa a volte vacillo, ma
cambieresti idea se udissi la Voce cantare. Di questo sono certa.
Sapresti che deve esserci qualcosa di
più in questo mondo; perché
non posso sopportare il pensiero che…» si arrestò di colpo, la
voce incrinata in più punti. «Non so più cosa credere» confessò,
seppellendo il viso tra le mani. «A parte la musica. Devo almeno
credere in quella.» Proprio in quel momento bussarono alla porta.
«Madamoiselle
Daaé, fra dieci minuti siete in scena» la avvertì la voce
familiare di Monsieur Rémy.
Inspirò
profondamente, riacquistando lucidità. «Forse è meglio che tu
vada, Meg.» Il triste sguardo che mi rivolse mi rese improvvisamente
docile.
Annuii
e non aggiunsi altro, affrettandomi ad uscire dal camerino e
lasciandola sola, persa nei suoi pensieri tormentati. L'ultima
immagine che ebbi di lei fu quella di una giovane donna angustiata,
che si reggeva la testa tra le mani come fosse un peso troppo grande
per lei. E tuttavia lottava ancora.
Non
sapevo che quella sarebbe stata l'ultima volta che l'avrei vista per
parecchio tempo.
Mi
richiusi la porta alle spalle, reprimendo a stento l'impulso di
sbatterla violentemente, facendo cigolare i cardini. Mi appoggiai con
la schiena sul legno di quercia tirato a lucido, d'un tratto esausta.
Non sapevo se l'accusa che avevo rivolto a Christine potesse valere
anche per me, ma in un certo senso quelle parole mi perseguitavano
come di certo dovevano ora angosciare la mia amica.
Imprecai
tra me e me. Perché non riuscivo mai a trovare le parole
appropriate? Mi uscivano fuori sempre frammentate, spigolose,
fatalmente sbagliate, e finivo per provocare più guai che altro.
Christine era più brava di me nell'usarle, ma non sapeva mentire:
entrambe eravamo difettose, anche se in maniera diversa.
Provai
un istintivo fiotto di rabbia e bile nei riguardi del fantasma. Le
sta riducendo il cervello in poltiglia con le sue bugie: come osa?
Come osa approfittare di lei in questo modo? E soprattutto, perché?
Qual è il suo vero fine?
Ancora
una volta, mi chiesi chi si celava dietro la maschera di spettro e
angelo, a chi appartenesse il genio che Christine tanto decantava.
Doveva essere straordinario se era riuscito ad ingannarla in quel
modo: Christine era ingenua, certo, ancora inesperta delle cose del
mondo, ma niente affatto stupida. Non sarebbe mai cascata nella
trappola se questa non fosse stata perfettamente congegnata,
probabilmente tanto da poter fuorviare anche la sottoscritta. Io
potevo essere più grezza, più pratica di Christine, che viveva
nella propria testa senza fare tanta attenzione al mondo esterno. Ma
una voce addirittura divina
avrebbe potuto farmi come
minimo tentennare. Ricordai come Christine aveva cantato la sera del
gala, la sua stupefacente metamorfosi. Lei stessa quella sera era
apparsa ai miei sensi simile a un angelo; non volevo neanche
immaginare come potesse essere il suo maestro.
Con
un profondo senso di oppressione, mi diressi verso le quinte del
teatro, dove avrei avuto una perfetta visuale di ciò che accadeva in
scena. Ed ecco Christine comparire sul palco, nei panni di Siebel, e
decantare il suo amore per Marguerite (il che era ironico, dal
momento che quello era il mio nome e noi due avevamo appena discusso
aspramente). Fu deliziosa come sempre, ma vi era qualcosa di vuoto
nei suoi occhi, un deserto infinito e senza nome, di cui le mie
parole erano state la causa scatenante. Quando tornò nelle quinte,
preferì ignorarmi, ancora in pensiero per ciò che le avevo detto.
Io, d'altro canto, non la forzai, sapendo che se fosse rimasta sola
avrebbe avuto il tempo di riflettere con calma, e solo allora, forse,
ci saremmo perdonate a vicenda. Mi chiesi come avrebbe reagito quando
l'indomani le avrei raccontato la verità: cosa avrebbe fatto quando
le avrei rivelato che avevo incontrato il suo “angelo” per ben
due volte, e che si trattava del famigerato fantasma dell'Opera?
Christine credeva nell'Angelo della Musica, ma non negli spettri; non
aveva mai dato peso a quelle superstizioni, proprio come me. Il suo
cuore era rimasto innocente come a quindici anni, e nella sua mente
aveva trasformato una fiaba in realtà. Tuttavia, non era affatto
credulona o superstiziosa.
Quando
ritornò in scena, entrambe notammo, forse nello stesso momento, il
visconte di Chagny nel suo palco: era pallido e tremante, e Christine
sbiancò improvvisamente in volto quando lo intravide. Balbettò i
suoi ultimi versi e tornò nelle quinte, tirandosi dietro il mantello
che le copriva le spalle e scivolando nei suoi stivaloni di cuoio
trattato. Per l'agitazione, di certo non aveva cantato come la sera
del gala: era stata del tutto priva di concentrazione. Non potevo
certo biasimarla.
Quando
mi passò accanto, si limitò a rivolgermi uno sguardo di ineffabile
tristezza. Fu questo ciò che mi bruciò dentro: il fatto che non
fosse arrabbiata per quel che le avevo detto. Che in fondo all'anima
capiva che quelle parole erano per il suo bene, che avevano una
scintilla di veridicità. Mi salì la bile in gola nel vederla
ritornare nel suo camerino per l'intervallo. Decisi di non unirmi a
lei.
Rivolsi
la mia attenzione nuovamente allo spettacolo, dove finalmente entrava
in scena la Carlotta in tutta la sua… gloria. Nelle quinte non mi
aveva rivolto la minima attenzione – d'altronde, perché avrebbe
dovuto? – e mi aveva oltrepassato con alterigia. Il contrasto con
la mestizia di Christine era lampante.
Come
ben sapete, Monsieur Leroux, quello fu l'inizio di una serie di
eventi infausti e inspiegabili che cominciò con la caduta della
Carlotta. Quest'ultima aveva fatto il suo ingresso trionfale sul
palco, cominciando a cantare i suoi versi. La sua voce era talmente
perforante che mi pulsavano i timpani. E, di nuovo, non
era Marguerite, ma Carmen. Il
suo corpo aveva una sapienza di cui il personaggio di Marguerite
avrebbe dovuto essere priva. Non c'era inesperienza nei suoi gesti;
non erano naturali, né lo era la sua voce, per quanto l'intonazione
fosse perfetta.
Forse
avrei fatto meglio ad andare, magari per raggiungere Christine e
raccontarle la verità… Cosa importava del patto col fantasma?
Dovevo forse stare dalla parte del diavolo, in tutto questo? Eppure,
mia madre… Se egli poteva davvero fare in modo che riavesse il suo
lavoro, e noi la nostra casa – non potevo pensare di vivere lontano
dall'Opera…
Scrupoli
di coscienza… Ah, quanto li odiavo. Era per questo che il dubbio mi
tormentava: sapevo che ciò che avevo fatto, il mio accordo col
fantasma, era sbagliato; ma non avevo potuto fare altro che
accettare. Si trattava di mia madre. In più, era solo per un giorno.
Solo un giorno, e avrei potuto dire la verità a Christine, aiutarla…
Ma
in un giorno potevano cambiare molte cose. E in quel giorno in
particolare, cambiò tutto.
Fu
allora, alla fine dei versi:
Et
je comprende cette voix solitaire
qui
chante dans mon couer
che
la Carlotta emise quel che a tutti gli effetti assomigliava a… era
possibile? A un gracidio.
La Carlotta aveva gracidato
sul palco. Cuac cuac!
La sua voce era venuta meno e adesso si trovava lì, immobile,
raggelata dal terrore. La sala intera aveva dato in un sussulto. La
prima donna si era portata una mano alla gola. Dovete sapere che non
era mai accaduto nulla del genere prima: l'intonazione della Carlotta
era così perfetta che nessuno avrebbe mai neanche potuto immaginare
una cosa simile. Louise, che era al mio fianco, si portò una mano
alla bocca in un gesto di puro sgomento.
Piangi,
che era vicino alla cantante, la guardava come se fosse caduta
improvvisamente dal cielo, come uno di quei lampi che squarciano
l'atmosfera. Aveva le braccia un po' aperte, in un muto gesto di
impotenza.
Coraggiosamente
– dovevo concederle almeno questo – la Carlotta riprese da dove
si era fermata.
Et
je comprends cette voix solitaire
E
di nuovo… cuac cuac!
Il rospo che era nella sua gola non voleva saperne di tacere. Il
pubblico trattenne nuovamente il fiato, e ai nuovi gracidii della
prima donna insorse un tumulto di oltraggio e sgomento. Lanciai
un'occhiata ai due direttori sul palco: erano lividi anche loro.
Quell'oggi
c'erano state diverse voci riguardo certi complotti segreti di
Christine contro la diva spagnola. Ovviamente chi conosceva
Christine, tra cui la sottoscritta, non aveva dato ascolto a quei
pettegolezzi, di certo diffusi dagli ammiratori della Carlotta per
supportare quest'ultima nella rivalità con la più giovane soprano.
Era risaputo che la Carlotta non aveva preso bene il trionfo di
Christine al gala, che aveva completamente sommerso la sua fama.
Diciamolo apertamente: Carlotta non era mancata a nessuno la sera del
gala, e questo la urtava più di quanto palesasse.
Adesso
avrebbe voluto sprofondare nel palco e non risollevarsi mai più. I
gracidii della Carlotta furono il sottofondo dell'avvenimento più
assurdo della serata – sì, ancora più assurdo del fallimento
della soprano: il mastodontico lampadario cominciò ad oscillare
pericolosamente, tra le urla delle persone che vi stavano sotto. Di
colpo si staccò, con un rumore assordante e un sibilo mortale, e
crollò a terra tra le prima file del teatro.
Si
scatenò un putiferio: le grida rimbalzavano tra le pareti tremanti,
le persone fuggivano a gambe levate dal luogo dell'incidente.
«Oh,
mio Dio» bofonchiai, senza fiato.
«Oh,
Signore» mi fecero eco Louise e Luc, che mi erano di fianco. Ci fu
un via vai generale: non c'è bisogno di descrivere nei dettagli ciò
che accadde, lo sapete già. Potete benissimo leggerne nei giornali
di allora. Il mio primo pensiero, lo ammetto, andò a mia madre, che
per fortuna era al sicuro da qualche parte nelle quinte, ora che non
doveva più assolvere i suoi doveri di maschera del palco numero 5 –
e presto neanche quelli di istruttrice di danza. Il secondo pensiero
fu per Christine, che si trovava nel suo camerino ma che di certo
doveva aver udito quel trambusto infernale.
«Qualcuno
sarà rimasto schiacciato?»
«Oh,
mio Dio! Che tragedia, che tragedia!»
«Ma
com'è potuto accadere?»
Intorno
a me sentivo confabulare tutti a gran voce, ma la mia mente era
lontana. Dovevo avvertire Christine e assicurarmi che stesse bene. Mi
precipitai nel corridoio dei camerini, pronta ad affrontarla ancora,
ma quello riservato alla Daaé era deserto. Bussai invano, poi feci
irruzione, senza più remore. Non vi trovai nessuno.
«Christine?»
Il
mio richiamo fu vano: nessuno era lì per rispondermi. Strano: eppure
credevo che si fosse chiusa nel camerino per darsi una rinfrescata
durante l'intervallo. Che fosse tornata nell'auditorium per assistere
all'incidente? Il lampadario sembrava essere crollato quasi per
magia. Come era potuto accadere? Forse uno dei sostegni aveva ceduto,
arrugginito dal tempo? Impossibile, il grande lampadario non era così
vecchio. E allora come…?
Tornai
in auditorium in tutta fretta, facendomi largo tra la folla
spaventata che gremiva il foyer della danza. Tra questi trovai mia
madre, che aiutava Monsieur Reyer e un paio di uscieri a far andare
via tutti in ordine, senza che la gente si calpestasse a vicenda
nella fretta furiosa di fuggire dal luogo di quel terribile
incidente.
Mia
madre mi vide, e sul suo volto fu visibile il sollievo. «Meg! Grazie
al cielo stai bene.»
«Cercavo
Christine, ma non è nel suo camerino. Tu non l'hai vista, vero?»
«No,
non credo fosse in auditorium.»
«Quanti
sono i danni?»
Mia
madre strinse la labbra, questa volta in una smorfia che non
esprimeva contrarietà ma preoccupazione. «Parecchi feriti e… oh,
Meg, è morta una donna – sono appena riusciti a tirarla fuori
dalle macerie.»
«Si
sa chi è?»
Antoinette
Giry si strinse nello scialle, improvvisamente in preda a un brivido.
«Doveva sostituirmi nel lavoro di maschera. L'ho riconosciuta quando
hanno estratto il corpo.»
«Che
cosa?»
Rimasi
raggelata. Non poteva essere una coincidenza.
«Meg,
è terribile. Penso solo che se non fosse stato per il mio
licenziamento…»
«Non
darti assolutamente la colpa di quanto è accaduto. Tu non c'entri
nulla, chiaro?» la interruppi con fermezza. Il senso dell'onore di
mia madre era troppo forte perché non si sentisse in qualche modo
responsabile della morte di quella donna.
«Adesso
vai a cercare Christine. Sono sicura che sia qui da qualche parte.
Magari anche lei ti sta cercando.»
Annuii
e mi diressi nell'auditorium, dove tutto era un vero disastro: il
lampadario giaceva tra le prime file delle poltrone, al centro di un
enorme tumulto. Erano arrivati i pompieri e i medici per spostare i
resti del lampadario e curare i feriti, che in tutto erano una
decina. Per fortuna, non era morto nessun altro eccetto quella donna,
il cui corpo ora giaceva a terra ricoperto da un lenzuolo bianco.
Davanti alla morte rimasi perplessa e impotente, come sempre.
Ricordai che ero lì per cercare Christine, ma non la trovai; eppure
guardai ovunque. Se ne era già andata senza avvertire? Mi sembrava
strano, dopo quanto era successo. Ero sicura che avrebbe cercato di
aiutare in tutti i modi, se fosse stata presente.
Dove
sei finita, Christine?
Fu
allora che scorsi il visconte di Chagny tra la folla, insieme al
fratello. Anche lui sembrava cercare qualcosa – o qualcuno
– e i nostri sguardi si
incrociarono. Ci rivolgemmo un'occhiata imbarazzata – avevamo
trascorso il nostro ultimo incontro ad origliare dalla porta di
Christine – ma per il resto preferimmo ignorarci. Avevo altro a cui
pensare, ed ero sicura che anche lui fosse nella medesima situazione.
Nei
giorni seguenti, Christine Daaé sembrava essere evaporata nel nulla.
Nessun altro oltre a me – e, credo, il visconte, che ritornò
all'Opera Garnier un paio di volte dopo l'incidente chiedendo alla
direzione se Madamoiselle Daaé poteva riceverlo, ovviamente senza
ottenere alcuna risposta – si preoccupò di dove fosse, ma io non
riuscii a scacciare dalla mia mente la spiacevole sensazione che
qualcosa di molto poco chiaro stesse accadendo sotto il mio naso. La
mia preoccupazione si acuì in modo incredibile quando, andando a far
visita a casa Valerius, scoprii che la mia amica non era neanche lì.
Inutile dire che fui presa dal panico. Non poteva essere svanita
così, come fumo, ma dov'era?
«Quindi
non è rimasta con te all'Opera, Meg?» mi chiese Mamma Valerius,
altrettanto preoccupata. I suoi occhietti lattiginosi si persero nei
miei, pieni d'ansia.
«Starà
bene, Madame. La troverò, non preoccupatevi. Ci deve essere stato un
malinteso. Christine è sicuramente all'Opera.» Le risposi in questo
modo per tranquillizzarla, ma non ero troppo lontana dalla verità:
avevo il sospetto di sapere esattamente dove si trovasse Christine, e
come avevo detto non era troppo lontano dal teatro, anzi.
Il
mio sospetto divenne una sicurezza quasi lampante quando, due giorni
dopo l'incidente, mia madre mi annunciò che aveva ripreso il suo
lavoro di maschera, e non avrebbe dovuto lasciare quello di
istruttrice di danza, né tanto meno noi la nostra casa. Il sollievo
che provai in proposito quasi oscurò i miei dubbi lancinanti, ma non
fu abbastanza. Mia madre in persona era molto
perplessa al riguardo, ed ero sicura che condividesse in parte le mie
incertezze.
La
Carlotta che gracidava sul palco, il crollo del lampadario, la
scomparsa di Christine, e adesso mia madre a cui veniva restituito il
suo lavoro, proprio come aveva promesso il fantasma… In qualche
modo, tutto era collegato, ne ero certa. Dietro questa situazione
c'era un disegno molto più grande e complicato di quanto potessi
immaginare, e credevo di conoscerne l'artista.
Qualcosa
era mutato nello schema generale – non sapevo quale dettaglio di
fondamentale importanza, ma era così. E c'era la mano scheletrica
del fantasma in tutto questo, non potevo più negarlo.
Fu
così che presi una decisione che non tardai a reputare pessima,
eppure necessaria. I giorni passavano e Christine non si faceva
vedere, ed io ero sicura che le fosse accaduto qualcosa di male. Il
sospettato numero uno infestava i sotterranei dell'Opera, e c'era un
unico modo per arrivare a lui e, di conseguenza, a Christine. Non
potevo chiamare la polizia, poiché non avevo prove: mi avrebbero
creduta matta se avessi detto loro che sospettavo che la mia amica
fosse stata rapita da un tizio che si faceva chiamare “fantasma
dell'Opera”.
Ci
volle tutto il mio coraggio per decidere di attraversare nuovamente
il passaggio mostratomi da Figaro e tornare nel dominio del fantasma,
questa volta con la speranza di incontrarlo, malgrado la paura.
Dovevo assicurarmi che Christine fosse con lui prima di agire,
procurarmi una qualche prova… Non potevo lasciare che le cose
facessero il loro corso come nulla fosse.
Quando
quella notte mi avventurai nello stretto passaggio segreto del
corridoio dei camerini, tremavo malgrado lo scialle di lana che
indossavo. Mi aspettavo, come la volta precedente, che il fantasma mi
sbucasse alle spalle, aggredendomi di sorpresa; oppure di finire in
una qualche trappola simile alla camera degli specchi. Giunta alla
deviazione senza troppi problemi – non dovevo neanche chinare il
capo, per via della mia scarsa altezza, malgrado il soffitto fosse
basso – scelsi la via che conduceva a sinistra. Rammentavo le
parole del fantasma, quando mi aveva chiesto che strada avessi scelto
tra le due, e mi aveva dato della “sciocca” quando gli avevo
risposto che mi ero diretta a destra. Era proprio quest'ultima che
portava dritto nelle fauci della camera degli specchi. C'erano due
possibilità: che anche la strada di sinistra conducesse a un'insidia
nascosta, o che fosse la via giusta da seguire per arrivare… dove?
Probabilmente al covo del fantasma. Fu così che, dopo aver superato
una lunga rampa di scalini sdrucciolevoli, arrivai sulla riva del
grande lago sotterraneo. Sapevo della sua esistenza da quando l'Opera
era stata costruita: essendo fondata su un terreno molto umido,
avevano fatto confluire tutta l'acqua trovata scavando in questo
vasto lago sotterraneo attraverso delle pompe apposite. Ma tutto
questo voi già lo sapete, vedo, Monsieur Leroux. Avete condotto bene
le vostre ricerche, ma non sapete di certo ciò che accadde dopo.
Alla
riva era attraccata una piccola chiatta dall'aria non propriamente
nuova, probabilmente messa lì per chi volesse superare il lago senza
infradiciarsi del tutto. Fui grata di questo: non sapevo nuotare e
non avrei mai potuto continuare per la mia strada, altrimenti. Con
tutta l'evidenza, al di là del lago si trovava la mia meta, la
persona che stavo cercando. Mi voltavo ancora ad ogni battito di
ciglia, con la terribile sensazione di essere osservata – sintomo
di una paranoia crescente. Mi feci coraggio e posai il lumicino che
mi faceva da guida sulla superficie della barca, che ondeggiò
lentamente sotto il mio peso. L'acqua al di sotto si riempì di crepe
come un'antica brocca incrinata, o come le vene che scorrono sul
palmo di una mano. Afferrai il remo e cominciai a vogare con tutta la
forza delle mie esili braccia, che erano meno fragili di quanto
apparissero. La barca oscillò in avanti finché non raggiunse un
ritmo cadenzato, e continuò ad avanzare sull'acqua liscia come uno
specchio con l'agio di una lacrima sulla pelle. Spingevo con forza, e
già cominciavano a dolermi i muscoli delle braccia, ma non mi
arresi: dovevo raggiungere la riva opposta. Già da allora scorgevo
dei gradini e una porta chiusa, che conduceva chissà dove. Il panico
mi si agitava nello stomaco, attorcigliandomi le budella in un nodo
scorsoio. Dovevo stare attenta ed essere prudente. Nella tasca
sentivo il coltello da cucina che avevo portato con me farsi più
pesante; speravo che, in caso di pericolo, bastasse a difendermi. Non
sarei caduta senza lottare, questo era certo.
Quel
che la mia povera immaginazione non aveva previsto era quanto accadde
in seguito.
All'inizio
fu un soffio; mi lambì le orecchie con la cadenza più lieve e
dolce. Lo spiffero divenne un sussurro che, stranissimo, sembrava
provenire dall'acqua. Un canto melodioso sorse dalla superficie
verdastra, e mi inondò con il moto delle onde sulla rena sabbiosa.
Rimasi sconvolta: da dove usciva fuori quella meraviglia? Mi ritrovai
a pensare alle sirene che, secondo le leggende, attiravano i marinai
alla morte con le loro voci bellissime… Ora anch'io mi trovavo
sull'acqua, e la voce proveniva da qualche parte sotto la superficie
spettrale. Sembrava che l'intero lago respirasse quella emanazione
divina. Era una melodia senza parole, una voce senza sesso né
origine che mi cullò in una sorta di rapimento estatico. Mi rimasero
poche gocce di lucidità nel cervello, che mi dissero che quello
doveva essere un trucco del fantasma. Se questa era la voce
dell'Angelo, tuttavia… Mi chinai verso la superficie del lago, che
partoriva quel suono ultraterreno. Senza che quasi me ne accorgessi,
avvolta nelle spire di quella voce splendida – puro miele e oro –
quasi sfiorai l'acqua con il naso.
Fu
allora che l'incantesimo si spezzò, e due braccia d'acciaio
spuntarono dal lago per trascinarmi giù, giù, sempre più giù.
Feci appena in tempo ad emettere un grido strozzato che l'acqua
gelida mi invase la gola e le membra, in una morsa più letale di
qualsiasi altra avessi mai provato. Un paio di braccia mi stringeva
forte, impedendomi di muovermi e di afferrare così il coltello che
dovevo ancora tenere conservato in un risvolto dell'abito. Fu solo
dopo qualche secondo di inutile lotta che mi resi conto che sarei
morta lì, annegata da quelle braccia impassibili che, come grinfie,
mi avevano catturato. L'acqua, impietosa, mi riempiva i polmoni. Gli
occhi brucianti si offuscavano, tutto era nero come in un incubo, le
orecchie pulsavano dolorosamente…
Mi
sentii trascinare verso l'alto, dove finalmente il mio volto infranse
la superficie, e tornai a respirare. Quasi incosciente, mi sentii
sballottare di qua e di là finché non raggiunsi la riva. Qualcuno
mi batté una mano sulla schiena, azione che ebbe l'effetto di farmi
quasi soffocare nel rivolo d'acqua che vomitai ai miei piedi. Con i
pugni serrati a terra, distesa e senza forze, mi resi conto di essere
completamente alla mercé dell'essere che mi aveva costretto a fare
quella piacevole
nuotata – e credevo di sapere chi fosse. La vista ancora
annebbiata, continuai a tossire finché non mi parve di aver
rigettato anche l'anima. Alzai lo sguardo e intravidi un'ombra alta,
nera e gocciolante che mi sovrastava. Trattenni a stento un ringhio
di rabbia – mi bruciava troppo la gola per una cosa simile.
Non
ci potevo credere: mi aveva sopraffatto di nuovo.
«Tu»
dissi infine in un sibilo furioso. Lo guardai sistemarsi la maschera
sul volto in ombra come nulla fosse. «Tu, abominevole figlio di…»
Egli
si voltò di scatto e, prima che potessi aggiungere altro, mi sollevò
con un braccio solo e mi scosse come se avessi bisogno di una bella
scrollata per comprendere le sue parole.
«Cerchi
il suicidio?» mi disse con i denti serrati. «Cosa ci fai qui? Come
hai fatto ad arrivare al lago?»
«Dovrei
essere io a fare le domande qui!» replicai, rabbiosa come una vipera
aizzata e pronta a mordere a morte. Parlare mi raschiava ancora le
pareti della gola bruciante. Inoltre, tremavo dal freddo, cosa che
non sembrava affliggere il mio sinistro “amico”.
«Mi
hai quasi affogato!»
«Osi
disobbedirmi per la terza volta
e credi davvero che non ci
siano conseguenze per questo?»
«Io
non sono costretta ad obbedirti! Non ti devo niente!»
«Sì,
invece! Mi devi più di quanto pensi, piccola imbecille!» Qui si
arrestò, come se d'un tratto avesse perduto il filo del discorso,
per poi riafferrarne un altro. «Ti stavi infiltrando in casa mia.»
«Avevo
un buon motivo per agire così, mentre tu non ne avevi nessuno per
aver quasi tentato di annegarmi!»
«Quasi,
per l'appunto.
Ti ho trascinato a riva, mi pare. Sei ancora viva, no?» chiese,
sarcastico.
«E
allora con quale intenzione mi hai trascinato in acqua? Per farmi
fare un bel bagno freddo?»
«Sei
tu che sei caduta in acqua. E se ti è sfuggito, ti ricordo che io
ti ho portato a riva. Non sai
nuotare, o sbaglio?»
«Bugiardo!
Non sono caduta! Tu volevi annegarmi!»
«Non
dire idiozie.»
«Non…»
«Ora
basta!»
Lo disse con un tale accento d'autorità che mi zittii per davvero.
Ci scrutammo in cagnesco per qualche secondo, tacendo. Ero sicura che
mi avesse trascinato in acqua con l'intenzione di uccidermi, ma che
per qualche strano motivo avesse cambiato idea non appena si era
accorto che ero io il suo bersaglio. Forse detenevo un potere su di
lui che mi era ignoto, senza neanche conoscerne la vera ragione.
Forse era vero che non poteva
uccidermi.
«Perché
sei qui, comunque? Perché continui a intrometterti in cose che non
ti riguardano, Meg Giry?»
«Sai
benissimo il perché» mormorai, battendo i denti. Non avevo nessuna
intenzione di cedere, non importava quanta paura mi facesse
quell'uomo. Se era un uomo, poi. Chissà cosa si nascondeva dietro la
maschera…
«Christine»
dissi a mo' di spiegazione, quando lui non rispose. Lo vidi serrare
gli occhi dorati, ma non reagì.
«Ebbene?»
disse dopo qualche altro attimo di silenzio, quasi la cosa non lo
interessasse. Questo comportamento ambiguo mi assicurò del tutto sui
miei sospetti. Non avrebbe palesato una tale indifferenza nei
confronti della sua allieva se non fosse stato in qualche modo
implicato nella vicenda.
«É
scomparsa! Nessuno riesce più a trovarla, e io credo proprio di
sapere di chi sia la colpa.»
«Oh,
ma davvero?»
«Già.
Non usare quel sarcasmo, perchè tanto ti ho scoperto.» Afferrai il
coltello che tenevo ancora nascosto nelle pieghe dell'abito e glielo
puntai contro. «Se non mi dici subito cosa è accaduto a Christine…»
Lui,
per tutta risposta, scoppiò a ridere.
«Credi
di farmi paura, Meg Giry?»
«Credo
che siamo nemici.»
«Oh,
questo è sicuro. Ma tua madre ha riavuto il suo lavoro, o mi
sbaglio? Non hai nulla di cui lamentarti.»
«L'incidente
col lampadario… Sei stato tu, ammettilo!»
Lui
scosse il capo, e nella sua voce non scorsi alcun tremore. «Il
lampadario… ebbene, quel lampadario era vecchio. I supporti si
saranno arrugginiti.»
«Non
mentire!»
«E
tu sii meno impudente! Cosa c'è, ti senti forte adesso perché hai
il coltello dalla parte del manico?» Indicò con un cenno beffardo
l'arma che stringevo nella mia mano tremante. «Non funziona così
con me, Meg Giry.»
«Cosa
ne hai fatto di Christine? So che è qui con te, da qualche parte in
questo posto orribile. Dimmi dove la tieni nascosta!»
«Pretendi
molto» commentò lui, atono. «Christine è qui di sua spontanea
volontà.»
«Stai
mentendo.»
«É
la verità. Se non ci credi, piccola ballerina, trovati nel camerino
di Christine fra tre giorni.» Sollevò tre dita della mano destra
come per sottolineare quelle parole. «Vedrai che tornerà qui
spontaneamente.»
Rimasi
sgomenta. Non avevo tenuto in conto che Christine potesse essere
andata via di sua volontà, ma ero sicura che mentisse. Non poteva
essere vero.
«Voglio
vederla» proclamai a gran voce.
«Impossibile,
sta dormendo.»
«Se
è qui, vuol dire che sa che sei un uomo e non un angelo.» Lo
guardai con sospetto. «Quando l'altro giorno mi hai detto che oggi
tutto si sarebbe risolto, avevi già in mente di portarla qui. Già
sapevi che non avrei avuto il tempo di dire la verità a Christine,
perché tu stesso ti saresti mostrato a lei. Aspettavi solo il
momento giusto.» Mi trattenni a stento dal prendermi a schiaffi da
sola. «Che stupida. Come ho potuto fidarmi di te?»
«Ho
mantenuto la mia parola. Tua madre ha riavuto il suo lavoro. Ti basti
sapere questo.»
«E
come? Hai ricattato i direttori finché non ti sei annoiato e hai
deciso di far cadere quel dannato lampadario? Lo sai che è morta una
persona? E proprio colei che doveva sostituire mia madre come
maschera! Credi che sia così stupida da pensare a una coincidenza?»
Quindi
era questo il suo messaggio ai direttori Moncharmin e Richard. Se
non fate come dico io, accadrà qualcosa di disastroso. Ad
esempio, il crollo di un lampadario nel mezzo di uno spettacolo.
«Pensi
che debba giustificarmi con te, ragazza?»
«Sì,
se hai commesso un omicidio! Soprattutto se ci va di mezzo mia
madre!»
«Tua
madre non è assolutamente mia complice come pensavano i direttori,
mia cara. Di questo puoi stare tranquilla.»
«Non
ne dubitavo. Solo, non penso che si tratti di una coincidenza.»
«É
stato un caso fortuito, tutto qui.»
«Non
puoi continuare a mentirmi in modo così spudorato!»
Ero
certa che quell'incidente portasse la sua firma. Avevo rischiato
nuovamente di morire, quel giorno, ma neanche questo fermò la mia
invettiva.
«Hai
ottenuto ciò che volevi. Tu e tua madre potrete rimanere in questo
teatro. Cosa vuoi di più?»
«Sì,
è così, ma a che prezzo? La morte di una persona innocente?»
«Ti
ho detto che è stato un caso. Non era previsto…»
«Quindi
ammetti che
sei implicato in questa storia!»
Lui
si morse la lingua, le mani strette a pugno. Era evidente che si
tratteneva appena dallo strangolarmi. Notai la sua rabbia silenziosa
e ne sogghignai.
«Tu
non mi ucciderai.»
«Davvero?»
chiese lui, beffardo.
«Sei
terribile, ma non fino al punto di uccidermi. Avresti potuto farmi
fuori molte volte, ma non l'hai fatto. Perché?»
«Me
lo chiedo anch'io, credimi.»
Come
avevo sospettato, c'era un motivo reale dietro quelle azioni
contraddittorie – le minacce non messe in atto – che mi aveva
salvato la pelle in più di un'occasione. La domanda era: perché?
Lui non sembrava intenzionato a rispondermi, quindi passai ad
argomenti più urgenti.
«Che
intenzioni hai con Christine?»
«Questi
non sono davvero affari tuoi, Meg Giry.»
«Sì,
invece! Si tratta della mia migliore amica, e se un individuo
mascherato che sospetto abbia a che fare con ben due morti dice di
essere il suo Angelo della Musica per poi portarla nel suo rifugio
sotterraneo, mi pare di avere tutto il diritto di sapere la verità!»
«Te
l'ho detto, Christine Daaé è qui di sua spontanea volontà. Se non
ci credi, presentati nel suo camerino fra tre giorni.» Lo ripeté in
tono lento, scandendo le sillabe, come se si trovasse di fronte a una
bambina particolarmente ottusa. Sentii il sangue affluirmi al
cervello.
«La
ritroverò? Perché ti avverto, se così non è, chiamo la polizia e
li porto direttamente qui.»
«Sì,
la ritroverai. Ma ti consiglio caldamente
di non immischiarti oltre in
questa storia. Ne va della vita di molti membri della razza umana.
Sono stato abbastanza chiaro?»
Una
nuova minaccia, e questa volta estesa a più persone. Mia madre e
Christine erano tra queste? Io stessa lo ero, probabilmente. Forse
non poteva farmi fuori adesso, ma nulla glielo avrebbe impedito in
futuro. Cosa dovevo fare? Per il bene di altre persone, forse di
Christine stessa, per ora mi vedevo costretta a lasciar perdere.
Adesso comunque sapevo dove si trovava. E se fosse accaduto qualcosa…
mi sarei diretta alla polizia, ora che il fantasma aveva minacciato
“molti membri della razza umana”? Ne parlava quasi come se lui
non ne facesse parte.
«Non
farei mai del male a Christine. Togliti dalla testa questa idea. Non
sono solo il suo angelo; non ha amico al mondo più leale di me.
Chiaro?»
Dovevo
credergli? Anche questa volta, il modo in cui aveva pronunciato il
nome di Christine celava un'inflessione di ineffabile dolcezza,
qualcosa che non avevo mai udito nella sua voce, prima. Forse era
vero che, volutamente, non avrebbe mai fatto del male alla mia amica.
Ma potevo esserne certa, dal momento che sembrava non avere scrupoli
nel far del male ad altre persone?
«Non
abbiamo altro da dirci.» Mi indicò con un lungo dito bianco una
piroga attraccata alla riva, diversa dalla barca che ancora giaceva
in mezzo al lago. Questa probabilmente apparteneva al fantasma.
Fu
strano lasciar vogare lui mentre io me ne stavo ferma, le dita ancora
strette attorno al manico del coltello – non si poteva mai sapere.
Non mi sentivo al sicuro, non ora che ero testimone di quella
minaccia. Qualcosa gli impediva di farmi del male – perché era
evidente che ero divenuta per lui una vera spina nel fianco, se non
un pericolo per i suoi astrusi piani – e dubitavo fossero i suoi
scrupoli di coscienza. Se aveva causato l'incidente col lampadario,
che la morte di quella donna fosse o meno casuale, non doveva averne
molti. In più, aveva minacciato “molti membri della razza umana”
se mai avessi avuto la brillante idea di rivolgermi alle autorità.
Già dubitavo che chiunque mi avrebbe creduto se avessi rivelato
dell'esistenza del fantasma dell'Opera. Diceva che Christine era lì
con lui volontariamente, ma io sospettavo che mentisse. Come si
sarebbe comportata Christine una volta capito che il suo Angelo della
Musica non era così… angelico? Avrebbe accettato di incontrare
questo tizio che le aveva fatto da maestro per mesi o sarebbe
scappata via impaurita? Un misto di entrambe le cose era la risposta
più plausibile. E se la fa del
male, malgrado ciò che ha detto? Cosa posso fare io per impedirlo?
Chiamare la polizia col rischio di farmi scambiare per una pazza e
provocare l'ira del fantasma? Se ha fatto davvero cadere lui quel
lampadario, chissà di cos'altro è capace. Quelle
domande mi vorticarono nella mente, impazzite, per tutto il viaggio,
che fu silenzioso quanto il mio sinistro compagno. Per ora mi era
impossibile agire: era un nemico troppo forte per me sola, che non
avevo altre armi se non la mia ostinazione. La mia preoccupazione per
il destino di Christine non s'affievolì, comunque. Avrei atteso quei
tre giorni con ansia; in caso non fosse tornata da me entro quel
lasso di tempo, con la certezza che stesse bene e che lui
non le avesse fatto nulla di
male… allora avrei pensato a come agire. Non potevo soccombere alle
sue minacce.
Il
fantasma mi fece scendere sulla riva opposta. Quasi inciampai
nell'orlo dell'abito, tanto tremavo dal freddo. Non sapevo come
faceva il mio accompagnatore ad essere tanto stoico – lui non
tremava affatto. Forse vi era abituato.
«Ricordati
le mie parole, Meg Giry. Tre giorni, e avrai le risposte che cerchi.
E nessuno si farà male. Siamo intesi?»
Annuii.
«Affare fatto. Ma se così non accade…»
«Sarà
così. Deve esserlo. Vedrai.»
Lui,
che era rimasto ancora sulla barca, con un'ultima vogata voltò il
natante e cominciò a remare nella direzione opposta, lasciandomi
sola a tremare insieme a un lumicino che mi avrebbe fatto da guida
per la strada del ritorno. Mi chiesi cosa ne avrebbe fatto della
piccola chiatta su cui ero salita all'andata. Probabilmente l'avrebbe
riportata dove io l'avevo trovata, fingendo che nulla fosse accaduto.
Alla fine di lui non vidi altro che un'ombra distante, simile a una
piccola macchia color catrame sullo sfondo che mi circondava.
Misteriosa quanto l'uomo a cui apparteneva.
Ritornai
nel mio camerino dopo circa un quarto d'ora di vagabondare, con i
denti che battevano. Mi stringevo negli abiti zuppi nel vano
tentativo di farmi un po' di calore. Era notte fonda quando tornai
nella mia stanza. La prima cosa che feci fu spogliarmi dei miei
vestiti fradici e indossarne altri asciutti e puliti. Non potevo fare
molto per i capelli, se non raccoglierli in una crocchia arruffata.
Mi avvolsi in mille coperte, sperando che assorbissero il gelo che mi
attanagliava fin nel midollo e mi donassero un po' del loro calore.
Quella
notte sognai che Christine era in pericolo, sull'orlo di un vasto
baratro, e mi chiedeva aiuto. Io non riuscivo ad arrivare in tempo:
le tendevo una mano, gridavo il suo nome, ma tutto era inutile. Anche
lei era poco più di un riflesso nella mia mente, e non aveva nessuna
ombra.
Note
dell'autrice: Tante scuse per il ritardo, non aggiorno da
secoli, ma ho avuto problemi a scuola (niente di grave) e faticato a
scrivere. Ecco il nuovo capitolo: Meg sembra avere una tendenza a
mettersi nei guai, ma farà di tutto per aiutare le persone a cui
tiene. Riuscirà a tenere testa al temuto fantasma? Vedremo
Malinconica:
Figurati, sono io ad essere in ritardo! Lieta che ti sia piaciuto il
capitolo scorso, spero che tu ti goda anche questo. Anche questa
volta Meg per poco non ci rimetteva la pelle! Povera Christine...
*guarda male Erik* Alla prossima! :3 |
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Capitolo 9 *** Il misterioso coupé. ***
viii.
il
misterioso coupé
Come
ben sapete, Monsieur Leroux, questa prima sparizione di Christine non
fu quella che infiammò tutta Parigi mesi dopo. Questa provocò
tumulto solo negli animi di coloro che volevano bene a Christine, tra
cui la sottoscritta. A quanto pare, ella aveva scritto alla direzione
dicendo di essere malata e che non si sarebbe presentata all'Opera
per qualche giorno. Avevo appreso quell'informazione da Louise,
Juliette e Fabienne, sempre informate sulle ultima novità all'Opera
Garnier. Io sapevo chi doveva esserci dietro quella lettera –
certamente non Christine. L'idea era stata del fantasma, e di nessun
altro. Il pensiero che quel folle fosse in compagnia della mia amica
– giovane, bella e dolorosamente ingenua, ferita da un passato che
non riusciva a dimenticare – mi nauseava. Cosa le avrebbe fatto?
Aveva giurato che mai le avrebbe torto un capello; il modo in cui si
riferiva a lei sembrava far trasparire dei sentimenti di –
possibile? – dolcezza nei
riguardi della mia amica. Cosa provava nei suoi confronti? Era il suo
maestro, il suo angelo; perché mai quella mascherata? Cosa
nascondeva, e chi era in realtà? Christine era sua prigioniera, o lo
aveva incontrato volontariamente come lui tanto declamava? Certamente
non potevo credergli. Ma era anche vero che di fronte a lui ero
impotente: sembrava sempre stare un passo avanti a me, cosa che mi
frustrava terribilmente. Fisicamente non ero alla sua altezza, questo
mi era chiaro. Inoltre, il mistero che lo circondava non mi
permetteva di rivolgermi alla polizia come nulla fosse. Ero inerme e
impotente, sì, e questo mi infuriava più di quanto potessi dire a
parole.
Mi
scervellai nel cercare di capire come avesse fatto a cantare quando
era sott'acqua; perché quella voce che avevo udito e che mi aveva
tanto incantato doveva essere la sua. La meravigliosa voce d'angelo
che Christine mi aveva descritto… Non mi stupivo ora che avesse
creduto appartenesse a un essere sovrannaturale, addirittura divino.
Effettivamente, la sua bellezza non era di questo mondo. Com'è ovvio
pensare, non riuscii a trovare una soluzione a questo ennesimo
mistero. Di una cosa ero certa: aveva trovato il modo di respirare
sott'acqua. Il come mi sfuggiva, però.
Non
dovevo far altro che aspettare quei tre giorni, sperando che
Christine tornasse da me sana e salva. La rabbia per l'impotenza che
sentivo era tale che non mi lasciava concentrare neanche sulla danza,
nemmeno ora che mia madre era tornata a lavorare. Anzi, più ci
pensavo e più rammentavo l'incidente col lampadario, il suo
probabile colpevole e il pericolo in cui doveva trovarsi Christine.
In
tutto questo, Caroline aveva trovato il tempo di chiedermi se avevo
pensato a prepararmi per il provino per Giselle.
In quei giorni in verità non ci avevo pensato affatto; la mia mente
era gremita da altre preoccupazioni. Mi proposi di studiare i passi
per la parte non appena avessi avuto la mente lucida: dovevo far
trascorrere altri due giorni per attendere che Christine tornasse da
me e mettere fine (o così speravo) alle mie ansie, più che
giustificate.
Due
giorni dopo trovai un biglietto sul mio comodino, di ritorno da
un'intesa giornata di prove. La grafia minuta apparteneva
inconfondibilmente a Christine. Più i miei occhi scorrevano su
quelle poche righe, più mi saliva la bile in gola.
Cara
Meg,
non
preoccuparti per me, sto bene. Non ho idea di come tu sia venuta a
conoscenza di questo luogo, di lui,
ma sappi che devi stare tranquilla. Non posso dirti molto. Tornerò
presto, solo non in questi giorni. Rassicura chiunque ti chieda dove
mi trovi che sono malata, a casa di un'amica. Non dire a nessuno la
verità, Meg, e non fare nulla, per adesso: ne va della vita di
molti.
Ti
voglio bene.
Christine
Quindi
aveva mentito. Com'era prevedibile, il fantasma aveva mentito quando
mi aveva detto che avrei dovuto attendere solo due giorni perché
Christine ritornasse “in superficie”. Le minacce che aveva
rivolto a “parecchi membri della razza umana” sembravano reali,
però. Christine era ancora nelle sue grinfie, sebbene assicurasse
che stesse bene – era la sua grafia, quello era innegabile. Avevo
visto la scrittura del fantasma, ed era quasi illeggibile. Era
impossibile che riuscisse a riprodurre alla perfezione quella della
mia amica, anche se non si poteva escludere a priori. Ancora una
volta, ero impotente. Non potevo tornare nei sotterranei, avrei corso
il rischio di infuriare ancora di più il fantasma, e allo stesso
tempo non potevo rivolgermi alla polizia, non solo per il rischio di
sembrare pazza, ma perché in ogni caso, anche se le autorità mi
avessero creduto, avrei potuto provocare un guaio ben peggiore di
quello in cui mi trovavo, tuttalpiù perché Christine si trovava ora
tra le grinfie del fantasma.
Cosa
dovevo fare? Quell'impotenza mi uccideva.
Ma
avrei trovato una soluzione. Non mi sarei lasciata surclassare da
quello spettro di carne e malignità, poteva scordarselo.
Nei
giorni seguenti, la mia preoccupazione salì alle stelle: il
biglietto di Christine mi aveva rassicurato sul suo stato solo fino a
un certo punto. Aveva promesso che sarebbe tornata, ma io non sapevo
se crederci o meno. Mi ritrovavo così ad eludere le domande di
alcuni interessati – principalmente le mie amiche o qualche corista
– su Christine, su dove si trovasse e come stesse. Io rispondevo
che era malata e si trovava a casa di un'amica, ma che sarebbe
tornata una volta rimessa in sesto. Questo sembrò soddisfare la
maggior parte degli interessati, eccetto mia madre, che appariva più
cupa del solito malgrado avesse ripreso a lavorare, cosa che amava
più di ogni altra. Questo mi insospettì. Da molto nutrivo
l'impressione che sapesse più di quanto desse a vedere, e il fatto
che non s'interessasse che marginalmente allo stato di salute di
Christine mi fece presumere che ne fosse già a conoscenza. Era
strano che non fosse preoccupata. O meglio, lo era, ma non faceva
domande né si era offerta di andare a trovarla, proposito da cui
avevo dovuto distogliere Louise, Juliette e Fabienne. Temevo infatti
che non sarei riuscita a mantenere il segreto con mia madre, che me
lo avrebbe fiutato addosso con la sua acuta capacità di percezione.
Probabilmente aveva fiutato ben altro, e io non potevo neanche
immaginarlo.
Per
timore di ciò che sarebbe potuto accadere se la verità fosse
trapelata, rimasi in silenzio. Aspettai con ansia il ritorno di
Christine, sapendo che non potevo far nulla, non se Christine stessa
me lo chiedeva. Ne va della
vita di molti, aveva scritto
nel biglietto. Rabbrividii, eppure mi vidi costretta a cedere, almeno
momentaneamente.
Come
si dà la caccia a un fantasma, d'altro canto?
Mia
madre mi spedì a fare una commissione, quando feci un incontro
curioso.
Era
trascorsa circa una settimana dalla scomparsa di Christine, e il mio
umore era nero. Per darmi qualcosa da fare, mia madre mi aveva
spedito a far rammendare degli abiti alla sartoria più vicina – un
commissione semplice che aveva il compito di sgombrarmi la mente dai
pensieri più oscuri. Fu allora che incontrai il visconte di Chagny,
il quale vagabondava poco lontano da Rue Scribe con un'aria a dir
poco depressa.
«Madamoiselle
Giry, vi cercavo» disse lui senza più timidezza, esibendosi in un
lieve inchino. Io feci lo stesso, sorpresa da quell'incontro
inaspettato.
«Monsieur
visconte» dissi senza celare lo stupore.
«Se
non vi dispiace, volevo… ecco, volevo chiedervi come sta
Madamoiselle Daaé. L'ultima volta che l'ho vista è stato il giorno
del disastro del lampadario, quando si è esibita nel ruolo di
Siebel.»
«Christine
risiede attualmente a casa di un'amica, appena fuori città. È
malata, Monsieur…» Il volto del visconte divenne bianco per la
preoccupazione. «… ma presto starà meglio, non temete.» O almeno
così speravo anch'io.
«Oh,
capisco» rispose Raoul, più sollevato. Il suo viso si rabbuiò
ancora quando proseguì: «Capisco bene che non sono affari miei.
Madamoiselle Daaé è stata molto chiara in proposito. Tuttavia, non
vedendola esibirsi più all'Opera, l'ho creduta svanita nel nulla…
e non ho potuto fare a meno di preoccuparmi. Ma se lei desidera che
mi faccia da parte…»
«Così
vi ha detto?» chiesi, niente affatto stupita. Anche prima della sua
sparizione, Christine si era ritrovata a scegliere tra la Voce e il
suo amico d'infanzia.
«Per
il mio bene, ha scritto.» Era evidente che il visconte non credeva a
quest'ultima affermazione. Nonostante Christine gli avesse raccontato
dell'Angelo della Musica, ricordai che lui era stato scettico al
riguardo quanto la sottoscritta. Probabilmente credeva che fosse
un'articolata scusa di Christine per nascondere l'identità di un
misterioso amante – la “voce maschile” che aveva udito nel
camerino. Oppure, ancora peggio, che Christine fosse vittima di un
pericoloso inganno – e questa era la maledetta verità.
«Vi
ha scritto, dunque?»
«Sì,
pochi giorni prima dell'incidente col lampadario. Mi scrisse che non
avremmo dovuto rivederci più, e che era per il bene di entrambi.»
Sulla fronte del giovane si disegnò una ruga di disperazione. «E se
è quel che desidera, io non posso obiettare. Volevo solo assicurarmi
che stesse bene.»
«Lo
sarà presto, Monsieur» lo rassicurai come potevo. Era palese che
tenesse molto alla mia amica, e che il dolore che gli infliggeva quel
rifiuto era ancora pulsante.
Fu
allora che accadde l'impensabile.
Rue
Scribe era un cuore di ghiaccio nel freddo di inizio febbraio, ma
qualcosa disintegrò quella perfezione invernale quando una fiacre
sbucò dalla strada e ci
sorpassò coi cavalli al trotto. Non lanciammo che un'occhiata
distratta alla carrozza, ma bastò: al profilo del sole al tramonto,
si scorgeva dal finestrino una sagoma di donna. Quando i fievoli
raggi di luce lo misero a nudo, non avemmo più dubbi: era Christine!
Raoul
credette di diventare pazzo. «Christine!»
Pronunciò
il nome del suo amore – perché era evidente che ne era innamorato
– con un tale accento di disperazione da toccare persino me, chiusa
nel mio personale sgomento.
La
carrozza frattanto si allontanava.
«Eh,
no» disse il visconte tra sé e sé, «questa volta l'Angelo della
Musica non mi sfuggirà!» Prese a correre all'impazzata, seguendo la
fiacre senza
curarsi dei passanti che gli lanciavano occhiate stranite.
«Monsieur
de Chagny!» gli gridai dietro, invano. Con l'involto degli abiti
rammendati sotto il braccio, sbuffai e sollevai l'orlo della gonna,
ringraziando il cielo che i miei stivali fossero abbastanza comodi da
correrci. Raggiunsi il visconte alla fine della strada, quando ormai
la carrozza era distante nell'orizzonte aranciato.
«Monsieur
visconte!»
Raoul
appariva senza fiato, il volto arrossato dall'aria pungente, i
capelli arruffati per la corsa e il vento. Era stravolto, ma non ci
faceva caso. I suoi pensieri erano concentrati su Christine.
«L'avete
vista anche voi?»
«Chi?
Cosa?» dissi, facendo finta di nulla.
«Ma
come chi? Christine!» Il giovane indicò la direzione presa dalla
carrozza come se fossi ottusa e non l'avessi neanche sfiorata con lo
sguardo.
«Era
proprio lei, ne sono sicuro!»
«State
sbagliando, Monsieur. Di certo non poteva essere lei. Come vi ho
detto, è malata.»
«Scusate,
Madamoiselle, ma non mi sembrava tanto malata in quel momento…!»
Mi
morsi il labbro. Ops,
pensai.
«Sono
certa che si trattasse di qualcun altro.»
«Avete
visto chi le stava accanto?»
Scossi
la testa. Anche se l'avessi saputo, non glielo avrei detto, ma io
avevo veduto solo un profilo nell'ombra e nient'altro.
«Ha
mentito. Tutta la storia di quell'Angelo era una menzogna. È
evidente la ragione per cui mi ha allontanato in modo tanto
repentino. Ma perché non dire la verità…?» si fermò, pensoso,
il magone in gola. Si afferrò il petto come a calmare i palpiti
impazziti del cuore. «Ha ingannato anche Mamma Valerius. Ma perché,
Christine…? Chi è quest'uomo che nascondi?»
«Non
sono affari vostri.»
Adesso
ero arrabbiata. Christine aveva tutto il diritto di avere un amante
senza essere per questo giudicata, come molti uomini che a loro volta
avevano “intime amiche” tra le ballerine e le cantanti
dell'Opera. Si sospettava che lo stesso conte di Chagny conoscesse
molto bene la
nostra Sorelli.
«Anche
se Christine nascondesse una relazione, non sarebbe vostro diritto
giudicarla per questo o venirne a conoscenza, se lei non vuole. E
poi, vi ho già detto che non è così. Christine è malata. Vi siete
sbagliato, quella che avete visto non era lei. Conoscete Christine,
sapete che è onesta con gli altri.»
Il
visconte sembrava interdetto di fronte alla mia invettiva – ammetto
che ero stata molto sfacciata in proposito, ma non me ne pentivo. Un
velo di imbarazzo gli coprì la fronte.
«Lo
so. Tutto questo non è da lei. È proprio per questa ragione che non
so spiegarmi…» si fermò, passandosi una mano sugli occhi. «Se
Christine non ricambia i miei sentimenti, d'altro canto, non posso
farci nulla né fargliene una colpa, come avete detto voi. Avete
ragione. Mi scuso per il mio comportamento, Madamoiselle.»
Annuii
per dimostrare che avevo compreso il suo stato d'animo. Era
innamorato, giovane e rifiutato: una combinazione perfetta per quel
veleno che si chiama gelosia.
«Con
permesso.» Il visconte si inchinò e fuggì via con aria a dir poco
mesta, il viso pallido come un cencio vecchio. Ben presto il suo
profilo si mescolò a quello degli altri passanti di Rue Scribe,
confondendosi col bianco della città invernale.
Sospirai,
posandomi una mano sul cuore. Il viso che avevo scorto dal finestrino
di quella fiacre apparteneva
decisamente a Christine, e non c'erano dubbi sull'identità del suo
compagno. Quindi Christine era viva,
e all'apparenza stava bene. Non potei trattenere un sospiro di
sollievo. Inoltre, poteva anche uscire. Forse non era prigioniera
come pensavo, o almeno non in modo così esclusivo. I dubbi mi
attanagliarono di nuovo la mente. Quando sarebbe tornata “in
superficie”? Se sarebbe
tornata, poi. In quella lettera lei mi aveva assicurato di sì, ma
quanto poteva valere la sua parola? Era lei la vittima di tutto quel
raggiro. Solo una persona avrebbe potuto dirmi la verità al
riguardo, ossia il fantasma, ma non avevo intenzione di incontrarlo
ancora, almeno per il momento. Non mi fidavo di lui. Le sue
intenzioni mi erano oscure. Era chiaro che provava qualcosa di più
di un semplice interesse artistico per Christine. Mi aveva assicurato
che non le avrebbe mai fatto del male, ma come ho già detto, sarei
stata sciocca a credergli sulla parola. Aveva minacciato “molti
membri della razza umana”, perché non Christine?
Tornando
all'Opera, la mia mente fu piena di quelle meditazioni, speculazioni,
domande che non avevano risposta. Sorrisi pensando alla faccia che
avrebbe fatto mia madre se avesse scoperto il modo sfacciato in cui
mi ero rivolta al visconte di Chagny. Peccato che quest'ultimo non
avesse fatto per nulla caso al mio tono impudente, tanto era preso
dalla sua passione amorosa. Riflettei in particolare su una frase che
Raoul aveva detto, ossia che Christine avesse mentito anche a Mamma
Valerius. Che quest'ultima fosse convinta che l'assenza della giovane
in quei giorni fosse dovuta all'Angelo della Musica? La demenza
senile era arrivata fino a questo punto? A quanto pare la credulità
non aveva limiti. Mi riproposi di farle visita un altro giorno, per
conoscere il suo punto di vista. Magari tra le cose che Christine le
aveva detto – o forse scritto, proprio come a me – avrei scoperto
qualche indizio utile.
Ero
nel foyer della danza, diretta al corridoio dei camerini, quando
venni fermata da un uomo a cui fino a quel momento non avevo mai
rivolto la parola.
«Scusate,
Madamoiselle.»
Aveva
un lieve accento straniero, ma per il resto parlava un francese
impeccabile. Era un uomo affascinante – alto, la pelle scura, gli
occhi di giada che vibravano di intelligenza. Indossava un cappello
di astrakhan, che gli copriva i capelli neri, venati d'argento.
«Siete
Madamoiselle Giry, vero?»
Annuii,
stupita – poiché quell'uomo, che avevo intravisto spesso all'Opera
Garnier, era niente di meno che colui che tutti chiamavano “il
Persiano”. Alcuni sostenevano che portasse sfortuna, un pregiudizio
forse nato dal suo essere straniero in terra francese, e molto
misterioso. Si sapeva solo che era un assiduo frequentatore
dell'Opera da qualche tempo a quella parte, e nient'altro.
«Mi
presento. Sono Nadir Khan, al vostro servizio.»
S'inchinò
in modo serio e galante che mi fece alzare un sopracciglio,
lievemente imbarazzata. Non ero abituata a quella cavalleria.
«Io…
sono Meg Giry.» M'inchinai a mia volta, rigidamente, chiedendomi
quante volte avessi ripetuto quel gesto, quel giorno.
«Siete
amica di Christine Daaé, non è vero?»
«Anche
voi la cercate, Monsieur?»
«Perché,
chi la cercava oltre a me?»
Adesso
appariva di colpo sull'attenti.
«Nessuno
in particolare» risposi, non volendo rivelare troppe informazioni
sul visconte di Chagny a quel perfetto estraneo. Dovevo ammettere che
mi aspettavo che qualcuno mi facesse domande su Christine, ma non
certo il Persiano.
«Siete
un giornalista, per caso?»
Mi
venne in mente che non sapevo nulla sul suo enigmatico personaggio, e
avere la stampa che blaterava sulla scomparsa di una cantante era
l'ultima cosa che desideravo.
Lui
dovette percepire la mia ostilità, perché ribatté, sulla
difensiva: «Oh, no, no. Sono un ammiratore. Non vedo il suo nome sui
programmi da un po'. Ho chiesto alla direzione la ragione di
quest'assenza, e loro mi hanno risposto che ha preso un congedo per
motivi di salute. Il segretario, Monsieur Rémy, che ha ascoltato la
conversazione, mi ha detto di rivolgermi a voi, poiché siete sua
amica. Volevo solo sapere come sta.»
«Sta
bene, Monsieur.» Se solo avessi potuto garantirlo a me stessa.
«Se
lo dite voi, Madamoiselle. Comunque, è stato un piacere conoscervi.»
Mi
strinse la mano in un gesto di cortesia che mi parve alquanto
affabile. Non capivo perché molti evitassero quell'uomo: sembrava
avere maniere eccellenti. Io stessa non ero tipo da lasciarmi
abbindolare così facilmente, quindi se ammettevo una cosa del genere
doveva proprio emanare un'aria di fiducia.
«Il
piacere è mio» risposi con la maggiore sincerità possibile.
«Madamoiselle
Daaé sarà via per molto tempo?»
«Non
saprei.»
Il
suo tono assunse una sfumatura di apprensione. «Non siete in
contatto?»
«Potrei
contattarla, se volete» mentii spudoratamente. «Desiderate
riferirle qualcosa in particolare?»
«Solo
i miei omaggi. Potete darmi il suo indirizzo, così da poterle
scriverle di persona?»
«No.»
«Come
sarebbe a dire “no”?»
D'accordo,
quell'insistenza appariva alquanto sospetta.
«So
solo che è a casa di un'amica. Non la conosco.» Poi aggiunsi, forse
più spudoratamente di quanto fosse prudente: «Si è ritirata dalle
scene così d'improvviso che sembra che a prenderla e a portarla via
sia stato un fantasma.»
Il
volto olivastro di Nadir Khan assunse una preoccupante sfumatura
cerea.
«Cosa?»
chiese lui, d'un tratto spaventato.
«Stavo
solo scherzando, Monsieur» dissi, senza celare l'esasperazione:
visconti innamorati, fantasmi rapitori e persiani privi di senso
dell'umorismo… in quale compagnia mi trovavo!
«Ma certo,
Madamoiselle.» Lui si passò in fretta una mano sulla fronte, d'un
tratto imperlata di sudore gelido.
Così
tutti lo evitavano perché era terribilmente superstizioso? O avrei
dovuto leggere qualcosa di più in quel comportamento ambiguo? Perché
di certo una reazione simile era a dir poco sospetta.
«Se
avete notizie di Madamoiselle Daaé, scrivetemi a questo indirizzo.»
Mi porse un biglietto da visita, con su scritto Rue
de Rivoli, numero 25. Annuii e
intascai il biglietto, non sapendo cosa ne avrei fatto.
«Con
permesso. Di nuovo, piacere di aver fatto la vostra conoscenza.»
Detto questo, s'inchinò nella maniera più cortese che esista e se
ne andò per la sua strada, come se nulla fosse accaduto, eccetto che
era leggermente pallido in viso.
«C'è
gente strana in giro» riflettei ad alta voce, con il pensiero
rivolto a un certo spettro dell'Opera in particolare. Non pensai che
tra quei bizzarri personaggi potevo essere annoverata anch'io.
D'altronde, ognuno di noi pensa di essere il protagonista della
storia, non certo lo strambo di turno.
L'incontro
col Persiano mi aveva innestato un'idea nella mente, riguardo a
persone che si comportavano in modo sfuggente e che sembravano sapere
più di quanto dessero a vedere.
Decisi
di affrontare mia madre una volta per tutte quella sera stessa, con
l'intenzione di estrapolarle qualche informazione su Christine, se ne
era a conoscenza. Non avevo dimenticato quegli strani avvertimenti
sul fantasma che mi aveva rivolto in precedenza, lo sguardo severo
che teneva sempre pronto per me quando in passato avevo preso in giro
le ragazzine che fuggivano non appena si sentiva parlare del
fantasma. Né tanto meno avevo dimenticato che era stata lei a
suggerire a Monsieur Reyer che Christine aveva avuto “una grande
scuola” e che pertanto era pronta per sostituire la Carlotta al
gala di addio ai direttori.
Quella
sera, a cena, affrontai con lei l'argomento per la prima volta.
«Maman,
sai qualcosa di Christine?»
Lei
quasi fece cadere il tovagliolo. «Cosa intendi dire? È malata,
questo lo sanno tutti.»
«Ma
non tutti sanno dove si trova veramente.»
«E
tu credi che io sia una di queste persone?»
Il
suo sguardo era tanto sapiente e penetrante che non ebbi più dubbi
in merito.
«Credo
che tu sappia più di quanto sembri. E non devi nascondermelo, non
più. Tutti quegli strani avvertimenti… non servono, ormai. L'ho
incontrato.»
«Chi?»
«Lui,
mamma. Il fantasma dell'Opera.»
Lo
dissi in un sussurro, come se il fantasma potesse udirci, e sperando
di avere ragione – e che mia madre non pensasse che fossi pazza. I
suoi occhi da uccello, che avevo ereditato, si serrarono davvero come
quelli di un falco. Poi emise un sospiro che mi parve un misto di
esasperazione e sollievo insieme.
«Lo
so. Mi ha detto di tenerti d'occhio, in caso avessi commesso qualche
altra sciocchezza. Come immischiarti in affari che non ti
riguardano.»
«Quindi
tu sei in contatto con lui. Lo conosci.» Mi morsi il labbro,
sentendo in bocca il sapore del sangue. «Lo sapevo.»
«Non
sono sua complice, Meg. Ma ho avuto il… piacere di incontrarlo
molto tempo fa, e di ritrovarlo anni dopo qui, all'Opera Garnier.»
«Cosa
stai dicendo?»
«Sto
dicendo che conosco colui a cui ti ho avvertito di fare attenzione,
tempo fa. Non ti farebbe del male, Meg, non a te. Ma anche di questo
non posso essere sicura. Con Erik, non si può mai sapere.»
«Erik!»
esclamai, sgomenta. «Allora quel
tizio ha un nome!»
«Ti
dirò tutta la storia, Meg. Ora che anche Christine è coinvolta,
penso che tu abbia il diritto di conoscerla.»
Ci
stringemmo sul divano, lasciando che il calore della stufa ci
abbracciasse.
«Da
dove posso cominciare?»
Le
sorrisi – tristemente; era un sorriso che nascondeva le parole che
mi aveva celato in tutti quegli anni – e le risposi nello stesso
modo in cui vi siete rivolto a me oggi, Monsieur Leroux: «L'inizio
può andar bene, maman.»
Note
dell'autrice: Eccoci a un
nuovo capitolo. Questa volta è più un capitolo di passaggio, ma è
importante perché si approfondisce la psicologia di Raoul e
soprattutto compare il personaggio del Persiano, che diventerà
fondamentale nel corso della storia, come ho rivelato nella mia
risposta alla recensione di Malinconica
dello scorso capitolo. Ringrazio quest'ultima per aver recensito,
sperando che le piaccia anche questo nuovo capitolo. Buona lettura!
(Mi piacerebbe ricevere altre recensioni, anche negative, seppure
costruttive. Sono sempre un piacere per un autore.) |
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Capitolo 10 *** La Morte Vivente. ***
ix.
la
morte vivente
La
stufa emanava gli ultimi brandelli di vita mentre io e mia madre vi
ci stringevamo attorno, sedute sul divanetto d'altri tempi. Un lampo
rossastro ci avvolgeva come un abbraccio rubato.
«Cosa
vuoi sapere?» chiese mia madre, il tono rassegnato di una donna che
non aveva più nulla da nascondere.
«Tutto»
risposi, decisa. «Come lo hai conosciuto, che cosa vi hai a che
fare… Tutto, insomma, fin dal principio.»
Lei
sospirò a lungo prima di proseguire. «É avvenuto molti anni fa.
Ero ancora molto giovane, più giovane di te – ero solo un'allieva
ballerina all'Opera Le Péletier. Dovevo avere circa quindici anni.
Sai cosa sono le fiere itineranti, vero?»
«Sì,
lo so.»
«Ebbene,
noi ragazze avevamo deciso di recarci ad una di queste fiere che
passava per Parigi. Avevamo veduto i volantini per la città ed
eravamo curiose. Vi era scritto che, tra molti divertimenti, c’era
un'esibizione particolare – un genio speciale chiamato “la Morte
Vivente” avrebbe mostrato per noi i suoi grandi talenti. Questo
stuzzicò subito la nostra curiosità, come puoi ben immaginare. Così
ci recammo a questa fiera, di nascosto dai nostri genitori. I tuoi
nonni non avrebbero voluto che visitassi luoghi simili, per di più
alla mia età, ma io trasgredii il loro divieto e vi andai comunque.
Col senno di poi, non so se feci bene o male…
A
prima vista, quella fiera mi apparve un coacervo di fantasticherie:
pagliacci, giocolieri, venditori ambulanti e mangiatori di fuoco… E
poi c'erano loro. Certe umane… bizzarrie.» Qui mia madre si fermò,
per assicurarsi di avere la mia massima attenzione. L'aveva eccome.
«All'inizio
fu molto divertente, anche se non potevo far tacere la voce dentro di
me che mi diceva che in quel luogo c'era qualcosa di sbagliato,
qualcosa di losco che ancora non mi si era mostrato… Non so se le
mie compagne provassero la medesima sensazione, ma per me era così.
Ci accostammo al tendone dell'ultima attrazione, quella che
aspettavamo fin dall'inizio. Avevamo visto cose che, nel nostro
essere infantili, ci avevano spaventato e meravigliato insieme: nani,
donne barbute, un uomo che sapeva inghiottire una lama… È tutto
ancora impresso nella mia memoria. Ma quel che ne seguì vi è inciso
in modo indelebile.
Allora
eravamo troppo piccole e superficiali per chiederci se fosse giusto
che queste persone… bizzarre, diverse dalla norma, dovessero essere
esposte come fenomeni da baraccone, senza il diritto di chiamarsi
umani. Iniziai a domandarmelo quando mi resi conto che quella mostra
di stranezze non mi divertiva. Lo dissi a una mia amica, che mi
rispose che facevo troppo la difficile. Un'altra mi accusò di avere
paura. Io, che non arretravo di fronte a una sfida, decisi di
arrivare fino alla fine con coraggio, inghiottendo la bile. Non
sapevo cosa, ma in tutto quello – nella gente che li guardava
stranita, divertita, beffarda – c'era qualcosa di profondamente
sbagliato. Percepii una forte, simultanea empatia verso quelle povere
persone che, almeno figurativamente, erano in gabbia.
Ma
non ero ancora giunta all'ultima attrazione, questo devi ricordarlo,
Meg. Fu allora che arrivammo all'ultimo tendone, il più affollato.
Una turba gremiva l'ingresso, e per entrare dovemmo attendere qualche
minuto. Alla fine, riuscimmo a farci largo tra la folla e ad
assicurarci qualche posto da cui si poteva veder bene lo spettacolo.
E
che spettacolo, Meg! Su una piattaforma leggermente rialzata, c'era
semplicemente un uomo – ad un'occhiata più attenta mi parve un
ragazzo, sebbene fosse alto per la sua età – vestito di nero, come
nera era la sua maschera. Sulla spalla teneva in bilico un violino.
Alle prime note, la sala cadde nel silenzio più assoluto. Nei miei
anni all'Opera, non avevo mai udito nessuno suonare così! Quella
melodia straziante mi riempì gli occhi e il cuore di lacrime
involute. Sembrava che non fossi l'unica a cui quella musica
straordinaria suscitasse una tale emozione. Altre persone nel grande
androne sembravano parimenti toccate. Fu allora che qualcuno gridò:
“La maschera! Togliti la maschera!”
Il
ragazzo smise di suonare. Quando parlò, la sua voce era come miele.»
Sì,
capisco che impressione può averne ricevuto, pensai,
sarcastica.
«”Volete
che mi tolga la maschera?” disse lui. Dalla sua voce potevo dedurre
che doveva avere la mia età, forse era anche più giovane. La folla
proruppe in un “sì” eccitato e animalesco insieme. Io e le mie
amiche rimanemmo lì a guardare con stupore: infatti non sapevamo
cosa ci aspettasse, né potevamo immaginarlo. Ripensai al titolo che
gli avevano conferito – la Morte Vivente – e rabbrividii.
“E
così sia” disse il ragazzo… Dopodiché si tolse la maschera.
Non
ci sono parole per descrivere il sussulto simultaneo di noi ragazze e
della folla tutta quando posammo gli occhi sul suo volto nudo. Se si
può chiamare volto…» Mia madre si passò una mano sugli occhi,
come a voler scacciare una visione che persisteva a perseguitarle i
pensieri e che bruciava sotto le palpebre, sulla retina, come i raggi
del sole.
«Cosa
intendi dire?» chiesi, d'un tratto allarmata. Ero vicina a scoprire
la verità celata dietro la maschera… Eppure, ora non ero così
certa di volerla conoscere.
«Un
volto mostruoso… Ecco cosa nascondeva. Non avevo mai neanche
pensato a nulla del genere… né potrò mai dimenticarlo. Un volto
simile a un teschio… Compresi perché lo chiamavano “la Morte
Vivente”. La pelle giallastra e rinsecchita sull'osso, un buco in
luogo del naso, le labbra inesistenti… É TK davvero difficile da
descrivere.»
Rimasi
senza parole, cercando di immaginare quella visione d'oltretomba.
Christine!,
pensai inorridita. Così era questo ciò che celava la maschera.
«Era…»
«Deforme,
sì. Avevamo già visto delle deformità a quella fiera – e chi non
le aveva viste? – ma questa superava i limiti. E quando cantò…
quando dischiuse le labbra invisibili per emettere un suono… sembrò
che il diavolo piangesse lacrime di cristallo. Com'era possibile che
un essere dall'aspetto tanto orribile potesse produrre un suono tanto
meraviglioso? E pensare che doveva essere poco più di un bambino! La
sua voce era dolce, non ancora del tutto sviluppata. Da questo
indizio compresi che era persino più giovane di me, nonostante
l'altezza. Aveva l'aspetto di qualcosa morto da molto tempo, quindi
da questo non si poteva dedurre granché. Quando terminò di cantare,
la folla se ne andò in silenzio. Alcuni gli lanciavano del denaro,
che lui prendeva al volo – piccolo pegno per aver stretto il cuore
di qualcuno in una morsa indimenticabile di paura ed estasi al
contempo. Le mie amiche si erano pentite di essere venute lì, alla
fin fine, e declamavano a gran voce che quella notte non sarebbero
riuscite a dormire senza rivedere in sogno quel volto deforme e
scheletrico. Io tacevo, perché negli occhi gialli di quella creatura
sfortunata avevo scorto qualcosa di terribilmente umano. I nostri
sguardi si erano difatti incrociati per un attimo, e vi avevo
riconosciuto un'immane tristezza – così umana, a differenza del
suo aspetto, da balzare ancor di più all'occhio. Non riuscivo a
togliermi quella visione dalla testa. Tanta fu la mia costernazione
che quella notte non dormii, e presi una risoluzione che tenni
nascosta ai tuoi nonni. Tornai il mattino dopo, poco prima delle
prove di danza, al campo dove si era tenuta la fiera. Ora le tende
erano abbassate, i giostranti non lavoravano. Li colsi nei loro
momenti di vita quotidiana, mentre accudivano i figli piccoli o
assolvevano alle loro faccende. Entrai nella parte del campo
riservata ai fenomeni da baraccone, attirandomi addosso gli sguardi
curiosi dei passanti. Fui fermata da un uomo dall'aria losca,
probabilmente uno dei padroni della fiera, che mi chiese cosa mai ci
facessi lì. Era chiaro che non ero una di loro.
“Sono
qui per visitare la tenda della Morte Vivente.” Non so con quale
coraggio dichiarai il mio proposito. “Volevo fargli i complimenti
per lo spettacolo, ma ieri sera non ho potuto: le mie amiche mi hanno
trascinata via senza che potessi far nulla per impedirlo.” Lui mi
rivolse un'occhiata che, malgrado la sua aria da poco di buono, mi
parve preoccupata e incredula al contempo, come se pensasse che mi
stessi burlando di lui. Tuttavia mi indicò la tenda dove si trovava
il “mostro”, distante da tutte le altre – lo notai
subitaneamente. Attratta come una falena alla fiamma, m'inoltrai
nella tenda, che era di uno sbiadito giallastro che sfociava nel
grigio – come la pelle del suo possidente – e inghiottii tutto il
mio coraggio. Credimi, Meg, me ne servì non poco per entrare. Sperai
che avesse indosso la maschera, e il mio desiderio fu accolto. La
tenda era disseminata di cuscini di varie grandezze e stoffe
colorate, plichi di carta e boccette d'inchiostro. Un solo tavolino
costellato di strani alambicchi dal contenuto ignoto fungeva da
scrittoio. Colui che desideravo incontrare era seduto su alcuni
cuscini, la schiena ritta come un manico di scopa, e accordava il suo
violino con le lunghe dita ossute. “Hai una visita” annunciò
quello che presumevo fosse il padrone, lì, il quale mi fece cenno di
avanzare. Il ragazzo mascherato si voltò e fu preda di un lieve
sussulto. Probabilmente mi aveva riconosciuto.
“Ciao”
dissi timidamente, con la voglia di fuggire via di lì il più presto
possibile. Mi chiesi cosa mai mi fosse venuto in mente. Dovevo essere
impazzita, eppure ero ossessionata dallo sguardo spento di quegli
occhi tristi. Dovevo parlargli, dirgli che lo avevo notato, che la
sua mestizia non era rimasta incompresa e ignorata…
Lui
non rispose al mio saluto.
“Ero
qui la scorsa sera. Ti ho visto esibirti.” Esitai. “Hai… hai un
talento eccezionale.”
Lui
annuì in segno di comprensione. “Vi ringrazio, Madamoiselle.”
Ah, quindi conosceva le buone maniere. Questo mi fece incuriosire sul
suo passato: chi lo aveva educato in quel modo?
“Volevo
farti i complimenti per…”
“Per
cosa?” incalzò lui, e nel suo tono di voce percepii un sottofondo
di naturale diffidenza. Pensava che fossi lì per prenderlo in giro,
ovvio.
“Per
la tua voce. E il modo in cui suonavi.” Indicai il violino che
reggeva tra le lunghe dita come fosse un oggetto particolarmente
prezioso. “Suoni da molto?”
“Da
quando ho memoria.” Non gli chiesi chi glielo avesse insegnato, se
avesse dei genitori o qualcosa di simile, sebbene la mia curiosità
al riguardo fosse innegabile. Pensai fosse meglio non insistere su
argomenti così personali.
“Anche
questa l'ho da quando ho memoria.” Si tolse la maschera in un gesto
brusco, e alla vista di quell'orrore mi uscì di bocca un grido
strozzato che trattenni a stento, mordendomi le labbra a sangue. Mi
portai le mani al viso, come un riflesso distorto, e chiusi gli
occhi.
“Non
voglio spaventarvi, ma credo che questo sia ciò che volevate
vedere.” La sua voce dorata, bella anche quando si esprimeva
soltanto a parole e non col canto, divenne improvvisamente dura,
trasudante amarezza. “É molto sciocco, scommettere su chi avrà il
coraggio di vedere la bestia. Dovreste dirlo alle vostre amiche.”
“Non
sono qui per una scommessa, lo giuro.” Aprii gli occhi, giusto in
tempo per vederlo rimettersi la maschera, probabilmente pentito di
quell'atto impulsivo. “Sono qui per farti i complimenti,
nient'altro.”
“Complimenti…?”
Lui scosse il capo, come se non capisse.
“Sì.
Non credo che ci siano molte persone qui che te li facciano spesso,
ma li meriti. Non ho mai sentito cantare e suonare qualcuno in questo
modo. Hai composto tu quel brano che hai suonato ieri sera col
violino?”
Lui
annuì, d'un tratto a disagio. Si guardava le scarpe, come fossero
più interessanti di me, ma io sapevo che fingeva. “C'era tanta
tristezza in quelle note.” Se viveva in quel modo, credo bene che
avesse tutto il diritto di essere tanto triste. Lui mi fissò con i
suoi strani occhi gialli, inquietanti e umani al tempo stesso. Solo
da quegli occhi si scorgevano le sue vere emozioni, e solo se lui
decideva di mostrarle. “Non siete qui per una scommessa?”
“No.
Ti è già capitata una cosa del genere?”
Lui
annuì, d'un tratto speranzoso che dicessi la verità.
“Vi
ringrazio, allora, Madamoiselle…”
“Antoinette.”
Gli sorrisi, tentennante. Quel ragazzo veniva trattato come fosse
meno che umano, ma io non avrei fatto lo stesso. Sentivo una certa
dignità in lui, forse più straordinaria del suo magnifico talento.
“Hai
un nome?” gli chiesi, sperando di non dovermi rivolgere a lui come
se non ne avesse uno.
Esitò
per un istante. “Erik” rispose. In fondo, io gli avevo rivelato
il mio.
“Non
è un nome francese. Sei straniero?”
“Non
so. È un nome come un altro.”
Annuii,
comprensiva, non volendo insistere su argomenti personali. “Domani
tornerò” gli promisi con serietà. Era per fargli capire che non
avevo paura di lui, tutt'altro.
“Non
dovete, Madamoiselle…”
“Chiamami
Antoinette.”
E
così feci, Meg. Per un paio di giorni andai da lui dopo ogni
esibizione, semplicemente per vedere se aveva ancora quel lampo di
tristezza ineffabile negli occhi. E lo aveva, ogni volta.
Ma
non posso dimenticare il suo sguardo quando condivisi con lui la mia
merenda. Era così magro che gli chiesi se mangiasse abbastanza. “Non
ho mai molta fame” mi rispose lui.
Pensai
di aver trovato un nuovo, inusuale amico. La mia compassione per la
sua situazione era ciò che mi aveva avvicinata a lui in primo luogo,
ma adesso mi guidava un interesse genuino nei suoi confronti. Era
taciturno ed educato e sembrava a disagio in mia compagnia, come se
non fosse abituato ad avere accanto delle persone. Quando gli feci
qualche domanda a proposito della sua età, lui mi rispose che aveva
tredici anni – due anni in meno di me, come avevo immaginato –
anche se era già alto come un ragazzo di sedici. Sembrava che
qualcuno gli avesse stirato le membra una per una, allungandole in
modo improvviso, come un elastico.
Gli
parlai delle mie lezioni all'Opera – fu l'unica volta che lo vidi
davvero entusiasta di qualcosa: era molto attento alle mie
descrizioni del teatro e degli spettacoli, tanto che non si lasciava
sfuggire una parola, le iridi accese come candele nel buio. Capii che
voleva sentir parlare di musica e lo accontentai, descrivendogli nei
più minuziosi dettagli le opere che venivano rappresentate.
“Mi
dispiace di essermi tolto la maschera così all'improvviso, l'altro
giorno. Credevo che foste qui per questo.” Mi rivolse queste parole
lo stesso dì in cui condivisi con lui la mia merenda.
Scossi
la testa. “Non ho avuto paura.”
“Non
mentite.”
Allora
tacqui, preferendo il silenzio a una bugia. La verità era che non
sarei riuscita a guardarlo in volto, malgrado tutto.
Solo
dopo qualche giorno raccolsi in me il coraggio di chiedergli cosa ne
fosse della sua famiglia. Si rabbuiò immediatamente, replicando solo
che non aveva mai conosciuto suo padre e che sua madre doveva essere
ben felice che se ne fosse andato. Da queste poche parole, non potei
ricavarne granché, se non che non era stato amato neanche dai suoi
genitori.
Notando
le mie visite, lo stesso uomo che mi aveva fermato qualche giorno
prima e che doveva essere il padrone mi si accostò prima che potessi
raggiungere la tenda di Erik. “Che cosa fate qui, signorina? Questo
non è posto per voi.”
Scossi
la testa, incurante. “Sono qui per un amico.”
Lui
rise – una risata bassa e crudele. “Se credete che quello
lì sia vostro amico, vi
sbagliate di grosso.”
“Quello
lì è solo un ragazzo di
tredici anni, costretto ad esibirsi come fenomeno da baraccone
davanti a tanta gente. Ha un talento eccezionale…”
“Quello
lì è il figlio del demonio,
signorinella. Lo avete visto bene in faccia?”
“Non
è colpa sua se è nato così.”
“Ma
c'è qualcos'altro di strano
in lui, se capite cosa intendo.”
Aggrottai
la fronte. “Che cosa?”
“Tutti
quei trucchi demoniaci. Avete visto come ieri sera parlava senza
aprire la bocca? Come faceva in modo che sembrasse che il canto
provenisse dai quei fiori ai suoi piedi?”
“Sì,
ma quello si chiama ventriloquismo. Me ne ha parlato. Sono solo
trucchi. Non crederete…”
“E
voi dove credete che li abbia appresi? Si dicono cose malvagie su di
lui. Nel campo dove stava prima, viaggiava con un tizio di nome
Günther. Era il suo padrone. Ebbene, questo tizio è stato
pugnalato, e il ragazzo è fuggito. Chi credete che abbia commesso
quell'assassinio?”
Rimasi
raggelata. “Non credo di capire…”
“E
invece capite benissimo. Vi consiglio di stare lontana da lui. Potete
farvi ingannare dalla sua bella voce, ma credetemi, è la genia del
diavolo, quello lì.”
Mi
voltai e fuggii prima che potesse dire altro. Tornai a casa piena di
domande e paure: doveva esserci una spiegazione. E per trovarla,
avrei dovuto affrontare direttamente Erik. Ero disposta a fare una
cosa del genere?
Il
giorno dopo mi ritrovai alla “porta” di Erik, e chiesi di
entrare. Lui mi accolse col solito lampo negli occhi: questa volta
una miscela di mestizia e… qualcos'altro – forse tiepida gioia
per la mia venuta. Come capirai, Meg, una miscela pericolosa per il
mio povero cuore.
“Siete
venuta a dirmi addio?” Non ho detto che mi si rivolgeva sempre con
il “voi”, malgrado io gli dessi del “tu”, e che non mancava
mai di essere educato nei miei confronti. Non mi si avvicinava mai,
quasi avesse paura di me.
“Perché
dici questo?”
“Domani
parto. La fiera si sposta in un'altra città. Forse addirittura in
Spagna.” Lui si guardò i piedi, d'un tratto pieno di vergogna. “Vi
hanno sicuramente avvertita sul mio conto.”
“Sì,
è così” risposi tristemente. “É vero, Erik? Quel che si dice
su di te?”
Lui
mi guardò con quegli occhi gialli che parlavano pur essendo muti –
non hai idea delle cose che potevi leggervi dentro, come specchi
distorti del suo animo nascosto.
“Erik,
sappi che ti ricorderò per quel che sei stato in questi giorni con
me. Non per quello che dicono loro.” Lo rassicurai, ma lui scosse
il capo.
“Hanno
ragione. Dovresti stare lontana da me.” Era la prima volta che mi
si rivolgeva con il “tu”, cosa che mi disorientò.
“Domani
partirai e non ci vedremo più. Il tuo desiderio sarà esaudito.”
Lui
sospirò. Era evidente che non voleva davvero che la nostra inusuale
e breve amicizia si spezzasse come un ramo sotto la pressione di una
mano umana troppo forte.
“Ti
ricorderai della piccola ballerina Antoinette Jules, non è vero?
Dovunque andrai?” Era inutile dire che non l'avrei dimenticato. Non
avrei potuto dimenticare il suo volto, la sua voce, i suoi occhi. Li
avrei sempre custoditi nella memoria, come germogli nati dal letame.
Gli
tesi la mano e lui la prese, a dir poco esitante. Evidentemente non
era abituato al contatto umano. Le sue dita erano freddissime e
ossute, ma mi abituai presto a quella vicinanza inaspettata.
“Sì.
E tu ti ricorderai di Erik?”
Annuii.
Avrei ricordato lui – non la Morte Vivente, non il figlio del
diavolo, ma il ragazzino le cui orecchie erano diventate rosse quando
gli avevo offerto una pezzetto della mia fetta di torta. Quegli occhi
di bambino, eppure troppo sapienti e pieni di tristezza per essere
realmente infantili.
Me
ne andai, sapendo che quella era l'ultima volta che lo vedevo. A
quanto pare mi sbagliavo.»
Mia
madre sospirò, mentre io ascoltavo in un silenzio rapito.
«Fammi
capire. Il fantasma dell'Opera sarebbe questo Erik che hai conosciuto
un tempo?»
«Sì.
All'inizio non lo credevo neanch'io, ma adesso ne sono sicura. La
prima volta che ho udito nuovamente la sua voce fu nel palco numero
5. Ricevetti un biglietto una mattina, firmato F. dell'O. Vi era
scritto che il mattino dopo avrei dovuto trovarmi in quello stesso
palco per discutere della carriera di mia figlia. Se ero interessata,
dovevo farmi trovare lì alle otto precise.»
«Aspetta
un attimo.» Strabuzzai gli occhi, alzando una mano per farle segno
di arrestare il racconto. «Io cosa c’entro in tutto questo?»
«L'uomo
di cui ti ho appena rivelato il nome, Erik – se è il suo vero
nome, poi – è molto più astuto di quanto credi.»
«É
un ignobile bastardo.»
«Meg,
il linguaggio.»
«Non
me ne importa un accidenti! Tu non sai cos'ha fatto!»
Mia
madre sospirò. «Lo immagino. Si tratta di Christine, vero? Ma
andiamo per ordine.
Immagina
come rimasi quando ricevetti quella lettera. Quando arrivai
all'appuntamento, ero diffidente e stranita. Non sapevo cosa
aspettarmi. Ero pronta ad affrontare un arrampicatore sociale, o
peggio ancora, un ricattatore. Non trovai nulla del genere. D'un
tratto udii una voce provenire dal soffitto. Una dolce voce. Era
diversa da quella dell'Erik che rammentavo: questa apparteneva a un
uomo, non a un ragazzo, ma quella nota accattivante era la stessa.
Qualcosa riaffiorò alla mia memoria, ma non sapevo dire cosa: non
l'avevo ancora riconosciuto. Rimasi sbalordita quando capii che
dovevo trattare con una voce senza corpo.
“Ah,
Madame Giry” disse quest'ultima. “Sedetevi, prego.” Feci quanto
mi aveva chiesto, soprattutto perché sul sedile in questione vi era
una lettera per la sottoscritta. Ecco, aspetta un attimo che te la
mostro.»
Mia
madre si alzò e si diresse in camera sua, che era annessa alla
piccola cucina soggiorno. La udii rovistare in qualche cassetto,
finché non ritornò con in mano la suddetta lettera. Era quella che
vi ho mostrato all'inizio della nostra “intervista”, Monsieur
Leroux – quella su cui era scritto che sarei divenuta imperatrice
entro il 1885. Riconobbi immediatamente la grafia impossibile,
l'inchiostro rosso del fantasma.
Mia
madre riprese subito il suo racconto. Parlava in fretta, tanto che
avevo appena il tempo di elaborare le sue parole, e nessuno per farle
domande.
«“Cosa
significa?” chiesi, contrariata. Non ero rimasta affatto
impressionata da quella lista.
“Significa”
disse la voce, “che in me avete trovato il vostro più leale amico.
Farò in modo che vostra figlia divenga imperatrice dell'Opera,
proprio come ho promesso in quella lettera. Siete molto preoccupata
per il suo avvenire, o sbaglio?”
Era
vero. Meg, cara, non devi darti la colpa di questo, ma dopo ciò che
è accaduto con tuo padre…» Le sue labbra ebbero un fremito. Le
presi una mano in segno di conforto – la sua pelle era come carta
sotto le mie dita. Non mi ero accorta che era diventata tanto magra
in quelle settimane piene di imprevedibili avvenimenti. «”Sì, è
così” risposi. “Ma voi chi siete? Come fate a saperlo?”
Rilessi la firma nella lettera. “F. dell'O… Fantasma dell'Opera!”
Esclamai, comprendendo subito i sottintesi. “Siete voi, quello di
cui tutti parlano! Quello che, si dice, pretende ben ventimila
franchi di rendita dai nostri direttori!”
“Non
lo pretendo, è un mio diritto, Madame.”
“Io
non tratto con i fantasmi, Monsieur.” Feci una smorfia. “Ma voi
non siete uno spettro, giusto…?” La voce non rispose.»
«Pff.
Certo che non lo è.»
«Non
interrompermi, Meg. Ora, avevo compreso di trovarmi davanti – beh,
non proprio davanti, visto che ne udivo solo la voce – ad un uomo
in carne e ossa. Non avevo mai dato adito a certe superstizioni, non
avrei cominciato adesso. “Monsieur, cosa volete?”
“Niente
di eccessivo” rispose lui. Più parlava, e più mi sembrava di aver
già udito la sua voce – non sapevo dove, ma era così. “Che vi
prendiate cura di questo palco, come è vostro lavoro fare. Solo che
dovrà essere riservato a me.
Che portiate i miei messaggi ai direttori. Ecco, non c'è altro.
Molto semplice, no?”
“E
in cambio?”
“In
cambio, farò in modo che vostra figlia abbia qualche parte in più
da solista. Una qua, una là… Presto diverrà corifea.”
“Potete
fare una cosa del genere?”
“Senza
alcun dubbio.”
Non
devi giudicarmi, Meg, nel sapere che accettai il patto. C'era
qualcosa in quella voce che mi diceva di fidarmi dell'uomo a cui
apparteneva. Tuo padre era morto già da qualche anno, ma tu avevi
costruito intorno a te quella fortezza di solitudine, muta e fredda,
e… temevo per te. La tua unica passione era la danza. Il tuo futuro
era scritto in essa. Così accettai, ma non subito. Fu solo dopo aver
riflettuto attentamente, dopo averti osservata nelle tue lezioni…
Meritavi tutte le possibilità di questo mondo. E non lo dico perché
sei mia figlia, Meg, ma perché è così: ti impegnavi così tanto…
Hai talento. Non potevo offrirti nulla se non quel piccolo agio. Dio
solo sa quante difficoltà avevi dovuto superare sul tuo cammino.
Così tornai una settimana dopo in quello stesso palco, portando con
me un biglietto su cui avevo scritto la mia risposta. Avevo stretto
un patto col fantasma dell'Opera. Negli anni seguenti, mi limitai a
fare il mio lavoro, come lui stesso mi aveva detto; in cambio,
portavo i suoi messaggi ai direttori e viceversa. Ben presto
riconobbi in lui la mia vecchia conoscenza, quel piccolo Erik che ora
non doveva essere più tanto giovane. Non ero certa che fosse lui,
tuttavia; solo che la sua voce me lo ricordava immensamente. Non
osavo chiederglielo direttamente. Mi ero immischiata in qualcosa di
più grande di me, ma non avevo scelta: il mio amore di madre mi
aveva guidata fin lì. Capirai quando un giorno anche tu avrai un
figlio.»
«Come
hai potuto fidarti di lui? Oh, maman!»
protestai, senza parole. Avevo sempre considerato mia madre una donna
pratica e indipendente. Sapere che ora dovevo la mia posizione di
corifea a quel maledetto fantasma… No, non poteva essere – non
dopo tutti i miei sforzi…
«Ho
potuto» rispose mia madre, seria. «Quando Joseph Buquet raccontò
la sua storia – il vero volto del fantasma – non ebbi più dubbi.
Era davvero lui, il mio Erik!
Non poteva essere una coincidenza. Ecco perché si era rivolto a me,
e perché aveva proposto di aiutarmi nel guidarti verso il successo.
Con me, si comportò sempre da gentiluomo. Mi lasciava addirittura
delle mance, a volte dieci franchi in una volta sola. Così
arrotondavo le nostre spese. Dio solo sa quanto ne avevamo bisogno.»
«E
cosa mi dici di Christine? Cosa sai a proposito?»
«Il
giorno prima delle prove generali del Faust,
quando la Carlotta ebbe quell'incidente con il fondale…»
«Se
vuoi chiamarlo “incidente”…»
«…
ebbene» proseguì mia madre, come se non avessi detto nulla, «il
fantasma, Erik o chicchessia mi disse di proporre lei come sostituta
della Carlotta. Malgrado i miei dubbi, quando Christine in persona mi
disse che stava prendendo lezioni di canto, feci quanto mi era stato
chiesto, come tu ben sai. Ora non avevo più sospetti, ma solo
certezze: il fantasma e il maestro di canto di Christine erano Erik,
quel ragazzo deforme che conobbi un tempo. La rivelazione mi
preoccupò: che intenzioni aveva con Christine? Che forse avesse
scorto un talento in lei, e volesse aiutarla a coltivarlo come a me
aveva promesso che ti avrebbe aiutata nella tua carriera di
ballerina? C'era qualcosa di più. Ma Meg, tu come fai a conoscerlo?
Come è potuto accadere?»
Le
raccontai tutto dal principio, senza trascurare i particolari:
l'incidente nell'auditorium la sera prima del gala, l'Angelo della
Musica di Christine, il passaggio segreto e la camera degli specchi.
Le dissi della strana corda sottile che secondo i miei sospetti aveva
ucciso anche Joseph Buquet, probabilmente rimasto vittima di quella
camera come avevo rischiato di diventarlo io. Le raccontai di ciò
che era accaduto al lago e dei miei sospetti sulla scomparsa di
Christine. Fu un lungo racconto, anche se meno dettagliato del
nostro, Monsieur Leroux. Ma non celai nulla d'importante: finalmente
non avevo segreti con mia madre, e ciò mi riempiva di un sollievo
indicibile.
«Per
questo non mi ha mai fatto veramente del male. Avrebbe potuto, ma non
l'ha fatto. Perché sono tua figlia.»
«Esatto.
Ma devi stare attenta, Meg. Erik non è più il bambino infelice di
un tempo: è un uomo, ormai, e molto deve essere cambiato in questi
anni… Una volta mi avvertì lui stesso di stargli lontano; non ebbi
bisogno di seguire il suo avvertimento, perché se ne andò lui per
primo. Adesso sono io che avverto te: non sappiamo con chi abbiamo a
che fare. Devi stare attenta. Non immischiarti più in questa
storia.»
«Ma
Christine? Non posso abbandonarla!»
«No,
non puoi. Ma me ne occuperò io.»
«Temo
che non tornerà.»
«Se
è così, andremo insieme alla polizia. Ti sta bene?»
Annuii,
solo vagamente rassicurata. Quelle mirabolanti rivelazioni mi
affollavano il cervello come una tempesta di neve – senza
direzione, rimbalzavano l'una contro l'altra in una raffica
impazzita. Quella sera andai a letto con lo stomaco e la testa in
subbuglio. Mia madre mi aveva promesso aiuto sulla questione di
Christine, ma non avremmo potuto far niente fin quando quest'ultima
non fosse tornata da noi. Se
fosse tornata.
Per
evitare di affogare nell'angoscia, seppellii la testa nel cuscino.
Non potevo neanche pensare che Christine non sarebbe tornata, ma
dovevo comunque considerare la possibilità. Allora sapevo che avrei
mandato all'aria gli avvertimenti del fantasma e che insieme a mia
madre sarei andata dritta dalla polizia, che quest'ultima credesse o
meno alle nostre parole.
Ripensai
al racconto di Antoinette. Certamente la vita del fantasma – di
Erik, come dovevo abituarmi a chiamarlo adesso – non doveva essere
stata facile, ma non mi sarei lasciata prendere dalla compassione
proprio adesso. Ecco perché indossava una maschera, ecco perché
aveva nascosto la sua vera identità a Christine: non poteva rivelare
il suo volto, e pertanto anche il suo genio, che a dire di mia madre
e della mia amica era immenso.
Oddio,
Christine, pensai d'istinto.
Sapevo che non avrei dovuto giudicare una persona dal suo aspetto, ma
finora non avevo avuto che conferme riguardo a quanto quest'ultimo
corrispondesse a ciò che teneva nascosto nell'anima. E la mia amica
ne era stata all'oscuro fino a quel momento. Non potevo fare a meno
di pensare a quanto potesse rimanere sconvolta da quegli eventi.
Sapere che il suo Angelo non
era, difatti, un angelo, bensì
un uomo, per di più deforme… La sua anima fragile avrebbe retto?
Ricordai l'anello di piombo che le cingeva il cuore e pensai che era
più forte di quanto sembrasse. Tuttavia, non potei fare a meno di
chiedermi come avrebbe reagito.
Trascorsi
l'ennesima notte insonne, rincorrendo nei sogni fantasmi che non
avevano nome e fanciulle in pericolo, senza ben capire se era la luce
o l'ombra che mi attirava a sé come un magnete invisibile.
Note
dell'autrice: Eccoci ad un
nuovo capitolo, in cui si esplora un po' del passato del misterioso
Erik. Di certo la sua è stata una vita sfortunata, non trovate?
Capire che c'è un uomo oltre il mostro è disturbante e difficile
per Meg. Riuscirà a vedere la differenza? Chi lo sa (no, beh, io lo
so. La storia l'ho scritta io. XD)
Vorrei
ringraziare di cuore chi ha messo questa fanfiction tra le
seguite/preferite, e ora risponderò alle recensioni:
bibliofila_mascherata:
Addirittura una delle storie migliori che tu abbia mai letto? Non
dire così, poi mi monto la testa e mi imbarazzo. >///< XD
Spero di non deluderti più in avanti. Finora di capitoli ne ho
scritti trenta, quindi stai sicura che fino a quel punto non
l’abbandonerò. Quest'anno ho la maturità classica, ma cercherò
di dividere bene il mio tempo e dedicarmi un po' anche a questa
storia che è per me molto importante. Grazie mille. :3
Malinconica:
Sono molto contenta che ti sia piaciuto lo scorso capitolo, spero che
tu ti goda anche questo, dove Madame Giry rivela un paio di cose a
Meg riguardo al nostro fantasma preferito. Grazie per aver recensito,
come sempre; è una gioia sentire le tue opinioni sulle mie
sciocchezze da scribacchina. :3 |
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Capitolo 11 *** L'uomo nella pioggia. ***
x.
l'uomo
nella pioggia
Trascorsero
ben due settimane – quindici giorni di perpetua ansia e domande
senza risposta da parte mia e, sicuramente, anche da quella del
visconte di Chagny – prima che Christine si facesse di nuovo viva
dalla tomba in cui era stata rinchiusa. Poiché io ero certa che vi
fosse stata condotta contro la sua volontà, checché il fantasma –
ossia Erik – ne dicesse. Un altro giorno e sarei andata di corsa
dalla polizia, ma accadde qualcosa che me lo impedì.
Un
paio di giorni prima del ritorno di Christine, ricevetti una nuova
lettera da parte sua, che ora vi mostro. Le ho conservate tutte, una
per una – eccolo qui, il mio reliquario di memorie perdute.
Sono
per me come le ossa dei santi, perché sono tutto ciò che mi rimane
di persone che non ho più al mio fianco.
La
lettera diceva:
Cara
Meg,
sono
lieta che tu abbia seguito il mio consiglio. Qui va tutto bene.
Tornerò fra qualche giorno. Puoi andare a trovare Mamma Valerius per
conto mio, e rassicurarla che sto bene e che tornerò presto da lei?
Ti chiedo quest'ultimo favore, Meg. Al mio ritorno ti spiegherò
tutto.
Con
affetto,
Christine
Sì,
ci sarebbero state molte cose da spiegare. I segreti tra noi due
avrebbero dovuto essere definitivamente infranti, ed era per il
meglio.
Quella
mattina a lezione fui particolarmente distratta, con la mente rivolta
al racconto di mia madre e al destino, ancora ignoto, di Christine.
Persino mia madre era tanto assorta che non mi rivolse che un paio di
moniti poco convinti.
«Meg,
stai bene?» mi chiese Juliette, sempre la più vigile delle mie tre
amiche.
«Sì,
ti ringrazio. Solo un lieve mal di testa.»
«Dovresti
mangiare di più. Sei così magra» puntualizzò Louise, osservandomi
con disappunto.
«Sì,
grazie anche a te per il consiglio. Ma adesso devo andare.»
«E
dove? Non te ne andrai ancora a spasso con Luc, non è vero?» fece
Fabienne, contrariata. Non aveva mai approvato Luc, lo trovava troppo
“poco serio” per i suoi gusti. Peccato che a me fosse sempre
piaciuto proprio per questo.
«Non
so quante volte dovrò ripeterlo: Luc ed io siamo solo amici»
risposi, esasperata.
«Ma
il modo in cui ti guarda…» insistette Louise, maliziosa.
«Vi
state inventando tutto» rimbeccai io, solo vagamente turbata.
Davvero non volevo pensare che Luc potesse provare ancora qualcosa di
vero nei miei confronti: ormai ci avevo messo una pietra sopra. Lui
aveva mostrato di preferire ben altre sottane alle mie, e io lo avevo
accettato senza piangerci troppo sopra, consapevole dei miei limiti –
dei lividi sotto la pelle che non potevo condividere neanche con lui.
«Dove
devi andare, comunque?» chiese Juliette, mettendo fine una volta per
tutte a quelle sciocchezze, con grande gioia della sottoscritta.
«Da
Mamma Valerius. Ho un biglietto di Christine, mi ha chiesto di andare
a vedere come sta.»
«Christine
sta bene?» chiese Fabienne, apprensiva.
Annuii,
ponendomi la stessa domanda. «Meglio. Tornerà fra qualche giorno, o
così mi ha scritto.» O sarebbe stato meglio dire: così speravo.
Le
mie amiche si scambiarono sguardi di sollievo. Erano brave ragazze,
in fondo.
Infagottata
nella mia mantella grigia, attraversai Rue du 4 Septembre pestando i
piedi a terra nel tentativo vano di riscaldarli contro il freddo
pungente. La casa di mamma Valerius e Christine era poco lontana
dall'Opera, quindi anche questa volta non sprecai denaro che avrei
potuto spendere altrimenti per una fiacre
che potevo benissimo
sostituire con una lunga, robusta camminata invernale. Dal piacevole
bagno nel lago, la mia tosse –
residuo di un brutto raffreddore di qualche settimana prima – si
era fatta più secca, e il punto a metà tra le scapole aveva
cominciato a dolermi; un dolore sordo che non sapevo nominare. Con
tutte le mie apprensioni, evitai di preoccupare ulteriormente mia
madre con quelle che pensavo fossero sciocchezze. Anche perché,
malgrado tutto, mi sentivo fisicamente bene. Il mio male risiedeva
altrove.
Col
senno di poi, fui avventata. Mi chiedo quante tragedie avremmo potuto
evitare se solo mi fossi presa maggiormente cura di me stessa, se
solo fossi stata più accorta. Ma allora non potevo neanche
immaginarlo.
Fu
la domestica ad accogliermi in casa Valerius, chiedendomi di
attendere perché mi annunciasse alla padrona. Feci quanto mi era
stato chiesto, sperando di sbrigare presto quella faccenda: nell'aria
già sentivo odore di pioggia, e infradiciarmi per l'ennesima volta
non era tra le mie massime priorità. Fui ricevuta in un salottino
sommariamente ammobiliato, alle cui pareti si fronteggiavano i
ritratti del professor Valerius e di Papà Daaé. Osservai
quest'ultimo quadro con attenzione quasi scrupolosa. Avevo sempre
creduto che Christine assomigliasse più alla madre nei lineamenti,
ma gli occhi azzurri erano inconfondibilmente quelli del padre: la
stessa limpidezza, la stessa vena di malinconia. L'impronta dei Daaé
era innegabile in quel dipinto come nel viso di Christine. A questa
riflessione, mi si strinse lo stomaco all'idea che forse non avrei
mai più rivisto il volto della mia amica. No,
mi dissi con ostinazione, no,
non cedere alla paranoia. Andrai in fondo a questa storia, riuscirai
ad aiutarla. Non combinare altri disastri e sii prudente.
Ero
sempre stata molto brava nel darmi buoni consigli, e pessima nel
seguirli.
Non
dovetti attendere a lungo. Fui ricevuta come qualche settimana prima
nella camera della signora, troppo malata per alzarsi e ricevermi nel
salottino.
«Meg,
cara. Vieni qui, fatti guardare bene.»
Avanzai
e presi la mano che l'anziana donna mi tendeva. I suoi capelli erano
ormai tutti bianchi, ma il suo sguardo non era mai stato più
cristallino e fanciullesco.
«Sei
venuta qui per Christine, non è vero? Ma dovresti saperlo, ormai.»
«Che
cosa?» chiesi, già indovinando la risposta.
«Dove
si trova.»
«Sì,
lo immagino. Ma sono venuta qui per averne conferma. Ero molto
preoccupata per lei.»
«Non
devi. Christine mi ha scritto una lettera, ma io non ho potuto
leggerla con questi miei vecchi occhi. Marie l'ha letta per me.»
Lanciò uno sguardo affezionato alla cameriera, che si dileguò oltre
la soglia. Non potevo biasimarla: probabilmente credeva di vivere in
una casa di pazzi.
«Christine
mi ha scritto che è con lui.»
«Lui
chi?»
«Ma
il suo buon genio, naturalmente.»
Cacciai
un sospiro che qualcuno con una percezione migliore di Mamma Valerius
avrebbe potuto scambiare per esasperazione e frustrazione insieme.
«Ma
certo, chi altri.»
La
buona e ingenua donna, che in quel momento avrei tanto voluto
strangolare con le mie mani per essere così credulona, sorrise con
letizia tutta naturale.
«Christine
ha scritto anche a me, prima di… partire con il suo buon genio.
Voleva che mi accertassi che steste bene, Madame.»
Lei
rise con tutta la fanciullesca ilarità di questo mondo. La demenza
senile ha le sue gioie. «Oh, quella ragazza si preoccupa troppo per
questa vecchia mamma che tanto le vuole bene.»
«Dice
che tornerà presto.»
«Oh,
spero che sia felice lassù» fece Mamma Valerius, come se non mi
avesse proprio sentita.
«Lassù
dove?» chiesi in un lampo di paura. Che intendesse dire…?
«Ma
in cielo, naturalmente. Col suo angelo.»
Per
la mente mi attraversò il pensiero macabro che, se mai Christine
fosse morta, sarebbe stato semplice riferirlo a Mamma Valerius usando
queste parole: “Christine è partita per sempre col suo Angelo
della Musica e non tornerà più.” E chissà, malgrado la
separazione, Mamma Valerius avrebbe trovato anche il tempo di
sentirsi felice per lei.
Se
non avessi visto Christine qualche giorno prima su quel coupé, e se
non avessi ricevuto la sua lettera quella stessa mattina, avrei
davvero pensato che fosse morta. Per fortuna, potevo scartare questa
ipotesi, anche se non potevo sapere se avesse o meno dovuto
affrontare un fato peggiore della morte, dal momento che non mi
fidavo del fantasma.
«Mi
ha scritto che tornerà presto, comunque. Voleva che lo sapeste.»
Christine
non poteva dire nulla contro di me, adesso. Ero stata fin troppo
paziente. Avevo fatto ciò che mi aveva chiesto: parlare a Mamma
Valerius e rassicurarla sulle condizioni della figlioccia. Le avrei
detto in seguito che non ce n'era stato bisogno.
«Oh,
ne sono felice. Ma mi raccomando, bisogna che non dici una sola
parola di tutto questo a nessuno, neanche alla tua brava madre… è
un segreto.» Mamma Valerius si portò un dito alle labbra con fare
cospiratorio, come a suggellare il patto tra noi tutti e l'Angelo.
Annuii,
trattenendomi a stento dal prendere a testate il muro per la
frustrazione – o colpire qualcosa, magari proprio Mamma Valerius.
Non credevo si potesse essere tanto ingenui. Una fede così perfetta
in una favola simile mi lasciava senza parole.
Avendo
compiuto la mia missione per conto di Christine, decisi di tornare a
casa prima che cominciasse a piovere, ma non fui così fortunata: la
strada del ritorno fu un bagno di fango e acqua piovana. Non si
vedeva in giro un'anima viva, se non sporadiche carrozze trainate da
cavalli infreddoliti e qualche coraggioso sotto l'ombrello. Io mi
strinsi nella mantella, imprecando a bassa voce ogni volta che finivo
in una pozzanghera, ossia più spesso di quanto mi sarebbe piaciuto.
Ero in trappola sotto la pioggia che cadeva fitta, un drappo di mille
e mille punte di spillo.
Alzai
gli occhi al cielo, lasciando che le gocce gelide mi scivolassero sul
viso come rivoli di ruscelli nati da un'unica sorgente. Quel tocco
freddo mi schiarì le idee: potevo rimanere sotto la pioggia, correre
all'impazzata, o fermarmi in qualche negozio fin quando il temporale
non fosse cessato. Optai per quest'ultima alternativa.
Tuttavia,
prima che potessi scegliere in quale bottega intrufolarmi, una fiacre
si fermò dinanzi a me, le
porte aperte per la sottoscritta. Rimasi impalata di fronte a quella
visione che sembrava essere caduta dal cielo – non mi ero accorta
che i cavalli avevano arrestato il passo dinanzi a me se non quando
mi ci ero ritrovata quasi addosso.
«Sali»
disse una voce orrendamente familiare dall'abitacolo. Rabbrividii.
Non
ci penso proprio, pensai in un
rifiuto quasi involontario tanto fu spontaneo. Preferisco
restare a bagnarmi qui fuori.
«Non
vorrai prenderti una polmonite, spero» disse la voce bella e odiata,
come se mi avesse letto nel pensiero.
«Lo
preferirei» mormorai, e sperai con tutto il cuore che malgrado la
voce bassa e il sottofondo della pioggia in tumulto lui mi avesse
udita ugualmente. Le mie preghiere furono esaudite, perché sentii un
lieve sbuffo provenire dall'interno della carrozza.
«Non
fare tante storie, Meg Giry. Questo regalo è da parte di Christine,
non mia. Pertanto, puoi considerarlo sicuro.»
Ponderai
le sue parole, ma davvero non c'era più tempo: la pioggia di
febbraio mi stava gelando fin nel midollo. Anche le mie ossa
sembravano essersi trasfigurate in pezzi di ghiaccio.
Un
brivido di pericolo mi attraversò quando posai lo stivale infangato
di melma e acqua piovana sul piedistallo, ma lo ignorai. Mi fu
tuttavia impossibile trattenerlo quando di riflesso, per evitare di
scivolare, afferrai la mano guantata che lui
– il fantasma, l'uomo, Erik
– mi tendeva dall'interno dell'abitacolo. Mi riparai nella
carrozza, portandomi dietro uno scroscio di acqua e un tappeto di
fango come un bizzarro corteo. Il mio compagno fece appena una
smorfia quando mi sedetti, fradicia dalla testa ai piedi, e mi
scrollai la mantella bagnata dalle spalle.
Il
fantasma si sfilò i guanti e picchiò con la punta dell'ombrello sul
tettuccio della carrozza, così che il cocchiere sapesse che poteva
partire. La fiacre cominciò
a traballare sotto il mio corpo zuppo d'acqua.
«É
la seconda volta di fila che ti vedo bagnata fradicia, Meg Giry.» Il
fantasma – Erik, come dovevo sforzarmi di chiamarlo adesso – mi
lanciò uno sguardo obliquo con i suoi occhi come fari gialli.
«Non
per colpa mia.»
«Avresti
potuto portare un ombrello.»
«Non
pensavo avrebbe piovuto.»
«Poco
previdente, come sempre.» Emise un lieve sospiro.
Lo
fissai, improvvisamente sulla difensiva. Mi strinsi negli abiti e
dissi in tono duro, d'accusa: «Per caso mi stavi seguendo?»
«Io…»
«Perché
se è così, giuro che…» continuai, senza riprendere fiato.
«No,
non ti stavo seguendo. Non avrei alcun interesse a farlo.» Mi
bloccò, riservandomi un'occhiata derisoria, come se mi stesse
sfidando a interromperlo di nuovo.
«Con
me non
hai alcun interesse a farlo, certo. Con altri, invece…»
Lui
capì subito a chi mi riferivo, e pertanto non ribatté. Invece
aggiunse: «Christine ti ha avvistata mentre uscivi dall'Opera e noi
rientravamo. Dal momento che le avevo detto che avrebbe piovuto e tu
eri senza ombrello, mi ha chiesto di darti un passaggio, anche se non
credeva avresti accettato. Mi ha detto che avresti preferito
infradiciarti nella pioggia piuttosto che salire in carrozza con me.
Si sbagliava?»
«Faceva
troppo freddo.»
«Certo.»
«Bene,
l'idea di questa piacevole passeggiata non è stata tua.»
«Sapevo
che altrimenti non avresti mai accettato un passaggio.»
«Se
fossi stato tu
a offrirmene uno, certo che no. Avrei pensato a una trappola.»
Questa
volta scoppiò a ridere. Una risata ancora più irritante del
normale, poiché innegabilmente incantevole – tutto ciò che
riguardava la sua voce era incantevole.
«Quanta
paranoia in te, Meg Giry.»
«Ho
tutte le giustificazioni di questo mondo per pensare male di te.
Quella camera strana con gli specchi, il rapimento di Christine…»
«Christine
è venuta di sua spontanea volontà.»
«E
ti aspetti che ci creda? E che mi dici del lampadario?»
«Era
proprio vecchio, quel lampadario. Colpa dei tecnici, avrebbero dovuto
assicurarsi che i supporti non fossero arrugginiti.»
«Ah!»
sbuffai e affondai nella poltrona, infradiciandola un altro po'. Il
bello è che, se fossi andata a controllare i contrappesi del
lampadario, ero sicura che sarebbero stati arrugginiti come aveva
detto lui.
«E
quello scherzetto nel lago? Bella trappola, non c'è che dire.»
«Pensavo
fossi un intruso.»
«Anneghi
tutti quelli che vengono dalle tue parti?»
«Non
posso permettere che qualcuno scopra la mia casa. Lo capisci?»
Questa volta il suo tono di voce era terribile – una rabbia fredda
lo pervadeva. «Non lascerò che…» Qui si fermò, ma io compresi.
Se lo avessero scoperto, non solo sarebbe finito dietro le sbarre, ma
probabilmente trattato come un fenomeno da baraccone. Di nuovo. Per
questo, a un certo punto della sua vita aveva deciso di nascondersi
allo sguardo degli uomini: ne aveva paura, e forse li odiava.
«Comprendo»
dissi, in tono mio malgrado più accondiscendente. «Comprendo il
perché della tua insana paranoia al riguardo. La camera degli
specchi, la trappola nel lago… Sono tutti mezzi che ti servono
perché nessuno riesca ad arrivare a te, o sbaglio?»
Lui
non rispose, lo sguardo fisso oltre il finestrino.
«Ti
chiami Erik, giusto?»
«Te
l'ha detto tua madre?»
«Non
si risponde a una domanda con un'altra domanda.»
Lui
sospirò. «Sei piccola ma snervante, Meg Giry. Ebbene, sì. Il mio
nome è Erik. Così mi chiamavano, un tempo.»
«Quindi
non è il tuo vero nome.»
«Ho
detto che così mi chiamavano. Ti basti sapere questo.»
Non
indagai oltre. Mi limitai solo ad aggiungere: «Non mi sembri tanto
un “Erik”.»
Lui
sbuffò, ma non disse nulla.
Erik
era un nome inequivocabilmente straniero. Non si pronunciava con
l'accento, come l'Éric francese. Ma lui parlava perfettamente la mia
lingua madre.
«Christine
conosce la verità?»
«Quale
verità?»
«Lo
sai.» Davvero non volevo dire le parole: sulla
tua deformità. Sarebbe stato
come renderlo reale. Lo osservai con attenzione: la sciarpa che
indossava fino al principio del naso gli nascondeva la maschera, ma
l'orlo del cappello niente poteva contro il lume acceso di quegli
occhi di brace.
Anche
così, aveva un aspetto inquietante.
«Sei
molto ficcanaso, Meg Giry.»
«Io
mi definisco ragionevolmente
curiosa.»
«Diciamo
pure ficcanaso.»
C'era
un misto di tensione e – possibile? – divertimento nella sua
voce; come se la mia tendenza a “ficcanasare” – sue parole –
fosse irritante e insieme dilettevole. Mi guardò come se fossi un
esperimento, quasi non avesse mai visto in vita sua una sarcastica,
sfrontata, curiosa ballerina di fila dai capelli e la pelle scura.
«Questi
non sono affari che ti riguardano, Meg Giry.»
«Quindi
non hai intenzione di rispondermi?»
«No,
infatti. Spiacente di deluderti.»
Mi
morsi il labbro. La storia che mia madre mi aveva raccontato mi
costringeva a guardarlo sotto un'altra luce: così terribile e
intimidatorio, le labbra invisibili da cui sgorgavano minacce, mi era
apparso più simile a un demonio che a un uomo. Ma ora sapevo che
aveva sofferto, che era stato bambino, che il suo destino era
miserabile. Aveva sicuramente commesso delle atrocità, e non lo
giustificavo. Tuttavia, sentivo che era umano. E ciò mi turbava in
modo indicibile.
In
più, ora non mi sentivo più in pericolo in sua presenza come un
tempo. Non temevo per la mia vita, almeno in parte.
«Mia
madre mi ha detto che ti ha conosciuto molti anni fa.»
«É
così.»
Rimanemmo
in silenzio per qualche attimo. Cercai di immaginare ciò che
nascondeva la maschera, l'orrore che celava: non riuscii a
figurarmelo, malgrado la descrizione di mia madre e Buquet. Era
troppo favolistico perché potessi farlo. Di una cosa ero certa: non
avevo paura del suo volto, anche perché non l'avevo mai veduto.
Avevo paura delle azioni che avrebbe potuto compiere.
«Perché
lavoravi in quel posto? Non eri troppo giovane per una cosa del
genere?»
I
suoi occhi di falco si serrarono in fessure oblique. Inclinò il
capo, come per osservarmi meglio. «Sei davvero più ficcanaso di
quanto immaginassi, Meg Giry.»
Attesi
con ansia la sua risposta. Più che ficcanaso, stavo imparando a
diventare paziente.
«Non
devi mai chiedere cosa giace sotto questa maschera, la maschera di
Erik. Mai più.»
Perché
adesso si riferiva a se stesso in terza persona? Forse per
distanziarsene?
«Cosa
mai ti hanno fatto perché tu ti comporti in questo modo?» non potei
fare a meno di chiedere. I suoi occhi mandarono lampi.
«Davvero
non sono affari tuoi.»
«Un
giorno scoprirò la verità su tutto questo. Sul perché delle tue
azioni, su ciò che è accaduto tra te e Christine. E tu non potrai
impedirlo.»
Lui
tamburellò le lunghe dita ossute sul sedile accanto al proprio.
«Posso
perlomeno chiederti se Christine ritornerà presto?»
«Ti
ha scritto, mi pare.»
«Sì,
ma non basta. È la tua parola contro la sua. Voglio sapere la
verità. Sono stanca di questi sotterfugi… Perché nessuno dice mai
le cose come stanno – chiaramente, senza sottintesi? Lo
preferisco.»
«Perché
nessuno si preoccupa di quel che preferisci tu, Meg Giry.»
«Oh,
questo l'avevo notato» ribattei con sarcasmo. «Ma ho diritto di
sapere una cosa: mia madre ha stretto quel patto con te, ricordi?
Beh, non posso credere che l'abbia fatto.»
«Eppure
è così. Le ho detto che diventerai imperatrice, ed è quel che
accadrà.»
«Non
voglio nulla da te!
Niente facilitazioni, niente raccomandazioni… Solo il frutto del
mio lavoro.»
«Allora
aspetta e spera, Meg Giry. Saresti diventata corifea con un paio
d'anni di ritardo se non avessi messo certe paroline nell'orecchio
giusto. È così che va il mondo dello spettacolo, Madamoiselle. I
direttori se ne occupano come fosse un ufficio qualunque, non arte.»
«So
molto bene come
vanno le cose in questo mondo.»
«Sai
anche che è quel che è bastato alla Sorelli? Perché credi che tua
madre ti faccia esercitare più delle tue piccole compagne? Credi che
le piaccia soltanto essere dura con te, o è perché da te pretende
qualcosa di concreto?»
«Vuole
che riesca nella vita come non è mai riuscito mio padre. Come le è
stato impedito dopo quell'incidente.» A ventisette anni mia madre
aveva perso la possibilità di ballare dopo un disastroso incidente
in carrozza. Per fortuna, aveva conservato l'uso delle gambe. Era
stato proprio in quell'anno che si era decisa a sposare mio padre.
Erano fidanzati da anni, ma avevano ritardato sempre il matrimonio
per timore che la carriera di mia madre terminasse inevitabilmente.
«Esatto.
Vedo che comprendi. Invece di perdere tempo intrufolandoti in
passaggi segreti…»
«Si
tratta di Christine. È amica mia. Ho tutto il diritto di sapere se è
in pericolo o meno.»
«Christine
non è mai stata in pericolo.»
«Tu
stesso dicesti a mia madre, un tempo, che eri pericoloso.»
«Le
dissi che avrebbe fatto meglio a starmi lontana: era diverso. Io
ero diverso.»
«É
proprio questo che preoccupa entrambe. Che tu non sia più il bambino
di un tempo.»
Lui
mi riservò un'occhiata fulminante. «No, non lo sono – non più.
Sono trascorsi troppi anni, troppi accadimenti… La mia mente ha
raggiunto orizzonti inimmaginabili. Cose che tu non potresti mai
capire, Meg Giry.»
«Tu
dici? Mettimi alla prova.»
Egli
sospirò. «Non mettere alla prova me,
ballerina. Non ti conviene giocare con il fuoco.»
«Allora
spiegami perché mi hai aiutata, questa sera.»
Stavolta
mi rivolse uno sguardo che aveva in sé un qualche barlume di
interesse.
«É
chiaro che mi disprezzi. Hai solo accomodato la richiesta di
Christine… o c'è qualcos'altro?»
«Cosa
intendi dire?»
«Che
mia madre si fida di te. In fondo, molto in fondo. Non lo ammette a
chiari linee, ma è così. Pensa che tu non mi faresti del male,
anche se le ho detto che mi hai minacciata al riguardo. Perché?»
«Perché
le ho promesso che avrei vegliato su di te.»
«Prego?»
Rimasi
sconvolta. Cosa intendeva dire? Che oltre ad essere l'Angelo della
Musica di Christine, era anche il mio angelo guardiano?
«Hai
capito bene.»
«E
perché le avresti promesso una cosa del genere?»
«Per
avere la sua collaborazione, è ovvio.»
«Quindi
hai mentito.»
Mi
sentii improvvisamente in pericolo.
«Non
irrigidirti tanto, Meg Giry. Non corri rischi, se non ti impicci. Tu
fai parte dell'Opera Garnier, e tutto ciò che è dell'Opera
appartiene anche a me.»
«Perché
senti tanti diritti su questo teatro? Non l'avrai costruito tu?
Oppure sì?»
Lui
mi lanciò uno sguardo diffidente. «Un giorno la tua lingua sarà la
tua rovina, Meg Giry. Ricordati le mie parole.»
Tamburellò
ancora le dita sul pomello dell'ombrello. Le osservai con attenzione:
erano bianche come osso. Immaginai che il suo volto dovesse avere una
uguale sfumatura cadaverica.
«Ecco,
siamo arrivati.»
Annuii,
dando una sbirciata fuori dal finestrino. Non aveva smesso di
piovere, e place de l'Opéra assomigliava a uno stagno del
Luxembourg. Una fievole luce lunare faceva brillare le gocce come
frammenti di diamante grezzo.
Il
fantasma – Erik – mi tese l'ombrello, che presi senza indugio.
Notai che teneva più lontano possibile la mano da quella della
sottoscritta, per evitare di sfiorarla anche solo per caso. Il
contatto umano gli piaceva meno che a me.
«Grazie…
per il passaggio» dissi, incerta e controvoglia.
«Ringrazia
Christine, non me.»
«Vorrei
averne l'occasione.»
«L'avrai.
Non temere.»
Scesi
dalla carrozza senza aggiungere altro. Mi lanciai un'occhiata alle
spalle, e vidi la fiacre
voltare per Rue Scribe e dirigersi alla mia sinistra, per poi sparire
dietro l'angolo. Mi chiesi dove si sarebbe fermata, dove lui sarebbe
sceso, da quale buco infernale si passava per raggiungere la sua casa
sotterranea. Erano tutte domande che sarebbero rimaste senza
risposta. Mi aveva assicurato che presto Christine sarebbe tornata in
superficie, ma non gli credevo. Non più, ormai; non su questo
argomento.
Superai
i gradini dell'Opera, mentre i miei stivali pestavano il terreno con
uno splash sordo
e spiacevole. Una volta all'interno, rimasi ad osservare il grande
ingresso che mi avvolgeva nel suo abbraccio dorato. Lasciai dietro di
me orme bagnate, e sperai che gli addetti alla pulizia non ne
avessero troppo a male.
Decisi
di non raccontare a mia madre di questo incontro fortuito; le avrebbe
solamente provocato ulteriore apprensione, per di più inutile, e non
era il caso. Riflettei su ciò che il fantasma – Erik – mi aveva
detto: che appartenevo a questo teatro, e pertanto a lui. Se vegliava
sull'Opera come su di me, allora avevo un bel po' di lamentele da
fargli, pensai con sarcasmo.
Mi
precipitai nella mia camera, ignorando gli sguardi curiosi di chi si
era attardato nel teatro più del solito. Sperai di non incontrare
Luc in quello stato miserabile. Mi osservai nella grande psiche che
fronteggiava la porta della mia stanza: la pioggia aveva tracciato
lingue d'argento sulla mia pelle scura, sul groviglio che erano i
miei capelli, legati in una semplice crocchia, sui miei abiti zuppi.
Anch'io
ero come acqua, sempre a intrufolarmi nelle storie degli altri come
pioggia tra le crepe di un muro – le feritoie della notte – e ne
raccoglievo i detriti.
Sospirai
e mi cambiai, asciugandomi con scrupolosità e spazzolandomi i
capelli neri e crespi, più annodati del solito. Ero l'esatto
contrario di Christine, con la sua pelle di porcellana, i suoi
riccioli biondi e i profondi laghi azzurri degli occhi. La mia
carnagione era di un bell'ambra scuro, ma per il resto ero
insignificante. E ne ero ben consapevole.
Non
c'era nessuna favola in cui un bel principe sarebbe caduto dal cielo
per dirmi che ero bella, chiedendo la mia mano: non credevo a
storielle del genere. Dovevo guadagnarmi quel che volevo con le mie
sole forze.
Ripensai
al fantasma, mio “angelo guardiano”. Se era così, non aveva
fatto proprio un bel lavoro in quegli anni. Dalla morte di mio padre,
mi era sembrato di annegare sempre di più in un incubo senza fine da
cui solo la danza, poco a poco, mi aveva riportato in superficie. In
quei momenti, nessuno aveva combattuto le mie battaglie al mio posto;
c'eravamo solo io e i miei demoni. Avevo squarciato la gola ad ognuno
di loro, ma non li avevo mai vinti del tutto: erano sempre lì in
agguato, lo sarebbero sempre stati. La mia vita poteva mutare in
inferno con spaventosa facilità – un viale di sogni spezzati. No,
non potevo permetterlo.
Strinsi
i denti e intrecciai i miei capelli selvaggi. Avrei voluto afferrare
un paio di forbici e tagliarli più corti in un accesso di follia, ma
non feci nulla del genere. Sarebbe stato impensabile, persino per me,
che eppure facevo spesso di quelle uscite.
Ripensai
ad Erik, ai suoi sottili capelli neri – inutile, non riuscivo a
togliermelo dalla testa. E chi avrebbe potuto, al mio posto? Il suo
mistero mi lasciava inerme.
Da
dove veniva? Chi era in realtà? Che vita aveva mai vissuto? Quale
orrore celava oltre la maschera? Qual era il vero motivo delle sue
azioni? Tutti questi quesiti gremivano la mia mente come una folla in
un teatro troppo piccolo e angusto.
Mia
madre lo aveva conosciuto. Egli, in cambio della sua collaborazione
e, immaginavo, del suo silenzio, le aveva detto che avrebbe vegliato
su di me e la mia carriera in un modo più distante e indiretto ma
non troppo dissimile dall'Angelo della Musica di Christine. Solo che
io non mi ero mai accorta di avere questa “sentinella” alle
calcagna, e il pensiero mi dava i brividi. Mia madre si era lasciata
convincere non solo dalla grande preoccupazione nei miei confronti,
ma dal ricordo che aveva di un giovanissimo Erik, allora degno di…
compassione – ancora esitavo nel pensare a questa parola così
pregna di significati in riferimento a lui.
E ancora stentavo a dargli un nome, a non pensare a lui come a
un'entità malefica ma come a un uomo. Un uomo che forse non mi
avrebbe fatto del male, e che tuttavia ne era ancora capace, se solo
avesse voluto. Che razza di persona era? Capirete, Monsieur Leroux,
come una giovane donna può ritrovarsi di fronte a un tale enigma:
confusa, incuriosita e diffidente insieme. E io ero tutte e tre
queste cose.
Mi
stesi sul letto, tossendo. Avrei dovuto fare qualcosa a proposito,
quindi decisi di spalmarmi un'altra po' di quella lozione alle erbe
sul petto, ignorando l'insistente dolore tra le scapole. Ripassai
nella mente la coreografia di Giselle,
almeno i passi che mi riguardavano, in quanto non avevo rinunciato
all'audizione per il ruolo di Regina delle Villi. Ormai era assodato
che avrei tenuto il provino, quindi dovevo parlarne il più presto
possibile con mia madre, che mi avrebbe preparato per l'importante
occasione. In realtà, avrebbe potuto darmi solo qualche indicazione:
essendo una dei giudici, il resto del lavoro spettava solo e soltanto
a me, ed ero ansiosa di mettermi alla prova.
Pensai
ai miei piccoli successi negli anni precedenti, e mi salì la rabbia
in gola al pensiero che forse non erano meritati. Che era stato il
fantasma – Erik – a procurarli per me, e non il mio talento.
Avrei dovuto dirgli due paroline al riguardo, ma il pensiero di
incontrarlo ancora mi agitava. Non per paura – non sapevo
spiegarmelo. Se da una parte speravo di non vederlo più, dall'altra
sapevo che i nostri passi erano destinati a incrociarsi ancora,
specialmente quando Christine fosse tornata – pensai quando
e non se,
perché non potevo sopportare il pensiero che Christine fosse – no,
non Christine, non la mia dolce amica dai riccioli, la voce e il
cuore d'oro.
Era
notte tarda quando udii un rumore nel camerino di fianco al mio, che
guarda caso apparteneva a Christine. Ho già detto che avevo il sonno
leggero, quindi mi svegliai nel cuore del buio più oscuro. Accesi la
candela sul comodino e mi stiracchiai, le orecchie tese per percepire
ogni minimo rumore nella stanza accanto. Non c'erano dubbi: la stanza
non era vuota. Con il cuore in gola, mi alzai e infilai le pantofole,
ponderando due possibilità: o si trattava di Christine, o del
fantasma. Non potevo lasciarmi sfuggire nessuna delle due. Decisi
quindi di sgattaiolare via dalla mia stanza per intrufolarmi –
sempre acqua, sempre pioggia
– nel camerino vicino. Mi lasciai scivolare sul pavimento come il
topolino che ero, sempre col naso all'insù alla ricerca di novità
da scoprire e sui cui “ficcanasare”, come avrebbe detto il
fantasma. Armeggiai con la maniglia della porta, mentre la candela
gettava lingue di luce che sembravano tremare e bruciare sulle pareti
circostanti. A un mio gesto, la maniglia si aprì, lasciando che un
sospiro di luna s'inoltrasse oltre la porta socchiusa. All'interno
vidi un'ombra, seduta sul letto. Chiaramente, apparteneva a una
donna.
«Christine!»
sussurrai, abbastanza forte perché mi udisse e perché il mio
sollievo fosse percettibile.
Note
dell'autrice: Che ve ne pare
di questo nuovo capitolo? Non sono mai sicura della caratterizzazione
di Erik, quindi se avete qualcosa da criticare al riguardo, lo
accetto con piacere. In fondo siamo tutti qui per confrontarci e
imparare, no?
Malinconica:
Sono veramente felice che il capitolo scorso ti sia piaciuto, spero
che ti godrai anche questo. Grazie per i complimenti, sento di non
meritarli ^\\\^
bibliofila_mascherata:
Sono già al 30° capitolo, fino ad allora continuerò a pubblicarla,
e spero sinceramente di continuare a scrivere fino alla fine, anche
perché ho già bene in mente il concludersi della trama e ovviamente
il finale. Grazie per aver letto e recensito! :D
Captain_Willard:
Forse la mia storia non ha tante recensioni perché non si concentra
su Erik/Christine... Ma io sono ugualmente contenta di ricevere le
vostre, di recensioni! Sono così entusiastiche che ho paura di
montarmi la testa, o di deludere le vostre aspettative. (Addirittura
la tecnica del "racconto nel racconto" ti va venire in
mente Conrad? Quando lo hai nominato credo di avere urlato, perché è
un autore che sto studiando proprio in questo periodo in letteratura
inglese.) :D Grazie mille, alla prossima!
|
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Capitolo 12 *** Il racconto di Christine. ***
AVVISO
SUPER IMPORTANTE: In questo
capitolo ci sarà un riassunto di quanto nel libro di Leroux
Christine racconta a Raoul della sua disavventura nei sotterranei di
Erik. Ora voi vi chiederete: perché non lasciare da parte i
dettagli? Il motivo principale è che il pubblico di questa storia,
all'inizio, non doveva essere quello di EFP. Non avevo intenzione di
pubblicarla, affatto, ma di farla leggere solo ad
amici/parenti/conoscenti interessati (insomma, tutta gente senza
familiarità alcuna col libro di Leroux). Pertanto, non pubblicare
certi dettagli avrebbe privato il lettore ignorante di una
comprensione piena del carattere dei personaggi, in questo caso Erik
e Christine, e degli eventi successivi. Ad esempio: come descrivere
la paura della ragazza senza accennare alla furia demoniaca di Erik
dopo il suo smascheramento da parte di quest'ultima? Capite il mio
dilemma? Sono stata molto in pensiero, perché questo non sarà
l'unico capitolo preso dal libro: più in avanti, il Persiano
racconterà ad una Meg sgomenta e arrabbiata della sua disavventura
nella casa di Erik (sapete tutti a quali eventi mi riferisco). Se
questo infrange in qualche modo le regole di copyright di EFP, non
esitate a farmelo notare: cancellerò il capitolo e lascerò la
storia incompleta, almeno fino a quando non avrò trovato un'altra
soluzione. Ribadisco che TUTTO è di proprietà di Gaston
Leroux, non oggetto delle mie
fantasie. Scusate per il disturbo, e fatemi sapere.
xi.
il
racconto di christine
«Meg!»
Christine
ebbe molta meno prudenza di me, e non abbassò la voce. Corse dalla
sottoscritta e mi abbracciò con tanto vigore che quasi lasciai
cadere la candela. La strinsi a me con un'emozione indefinibile che
mi palpitava nel cuore.
«Dio,
Christine! Sei viva! Stai bene?»
La
studiai al chiarore del lumicino. Era oltremodo pallida, con un
colorito quasi malaticcio, ma sembrava in buona forma. Non potei
trattenere un sospiro di sollievo.
«Sì,
sto bene. Oh, è quasi un sogno che si avvera – rivederti, per me,
ora… Credevo che sarei rimasta lì sotto la terra per sempre.»
Le
strinsi un braccio per darle conforto.
«Sono
qui. Non sei sola.»
Lei
rise – un riso amarissimo che le contrasse i bei lineamenti,
rendendoli aspri. «Oh, questo lo so, Meg. So che non sono mai sola…
Lui me
lo ha detto – è con me ovunque io vada. Lui,
Voce e fantasma.»
La
feci sedere sulla poltrona, avvolgendole le spalle con un braccio.
Non riuscivo a smettere di toccarla, quasi non credessi che fosse lì,
viva e vegeta, al mio fianco.
«Raccontami
tutto. Cosa è successo? Dimmelo, Christine – te la senti?»
«Sì,
sì – ho bisogno che qualcuno sappia la verità. Ma dimmi, Meg,
come fai a conoscerlo? Lui
mi ha detto di scriverti, che avresti capito, ma non ho osato
chiedere altro, dato che sembrava molto irritato al riguardo. Ho
pensato di domandare direttamente a te, una volta uscita da quel
sogno – incubo.» Si corresse a metà frase, come se davvero non
sapesse cosa avesse vissuto. Pensai che parlarne l'avrebbe aiutata a
comprendere meglio se stessa.
Come
qualche giorno prima con mia madre, le raccontai tutto fin dal
principio: di come avessi origliato fuori dal suo camerino, udendo
per la prima volta la voce dell'angelo (qui il suo volto si rabbuiò,
e lo presi come un avvertimento a non fare mai più una cosa simile);
del passaggio segreto; della camera degli specchi e del lago, fino al
giorno in cui mi aveva riaccompagnato in carrozza. I miei incontri
col fantasma erano sempre stati a dir poco intensi,
tanto da esaurire le mie forze al solo parlarne. Lei ascoltava con
attenzione.
«Sì,
deve essere la camera dei supplizi; è così che l'ha chiamata quando
gli ho chiesto di cosa si trattasse» commentò tra sé e sé quando
parlai della stanza degli specchi.
«Ma
dimmi di te. Come hai conosciuto la verità? Raccontami tutto.»
Lei
mi strinse la mano, tremante. I suoi occhi emanavano una luce
spettrale. Non le avevo mai visto uno sguardo simile in volto, prima.
«Oh,
Meg… Sono stata così cieca.»
«Non
fartene una colpa, adesso. Dimmi com'è andata» chiesi, quasi avida.
«Come
sai, ho udito la sua voce prima di incontrarlo. La mia anima era
rimasta ingenua come quando a quindici anni mio padre mi raccontava
ancora della piccola Lotte, e come la piccola Lotte anch'io, dopo la
sua morte, attendevo l'Angelo della Musica. Sebbene non facessi più
affidamento su quelle storie, non le avevo mai dimenticate. E quando
udii quella voce adorabile, credevo che si fosse messa a cantare
accanto a me, o
in un camerino vicino. Tanta fu la mia sorpresa che andai io stessa a
controllare, ma non c'era nessuno. In parte fu colpa della mia mamma
adottiva, perché quando tornai a casa e le raccontai l'accaduto, mi
disse: “Forse è l'Angelo della Musica. Chiediglielo.” E così
feci, e la Voce me lo confermò. Come sai, mi chiese di darmi delle
lezioni di canto, ogni giorno. Andò avanti per tre mesi. S'instaurò
una grande intimità tra me e la Voce, una fiducia assoluta. Mi disse
che era scesa sulla terra per farmi assaporare le gioie supreme
dell'arte eterna. Ci davamo appuntamento in un camerino abbandonato
ogni mattino all'alba, in un angolo dell'Opera completamente deserto.
Come descriverti quelle lezioni! Tu stessa, che eppure hai detto di
aver udito la sua voce, non potresti fartene un'idea.
Si
sarebbe detto che la Voce sapesse esattamente a quale livello di
preparazione mio padre mi avesse lasciato morendo, e di quale
semplice metodo avesse fatto uso; e così, ricordandomi, o meglio,
ricordando tutte le lezioni passate e beneficiandone all'istante
insieme alle presenti, feci dei progressi prodigiosi che, in altre
condizioni, avrebbero richiesto anni. Contro tutti i difetti della
mia voce, mio padre aveva lottato e trionfato per un istante; la Voce
li vinse definitivamente. In più, ridestò in me una vita ardente,
sublime, divorante. Facendosi ascoltare, la Voce possedeva la virtù
di elevarmi fino a lei. L'anima della Voce prendeva alloggio nella
mia bocca e vi soffiava l'armonia.
Di
lì a poche settimane, non mi riconoscevo più quando cantavo: ne ero
perfino spaventata. I miei progressi erano rimasti un segreto tra me,
la Voce e Mamma Valerius, per ordine esplicito della Voce. Mi
dispiace di non avertene parlato prima, Meg – se solo ti avessi
dato retta quando ero ancora in tempo! Ma ormai è vano piangere sul
latte versato. La disfatta è già avvenuta. Andiamo con ordine,
però.
Fuori
del camerino continuavo a cantare con la mia voce di tutti i giorni,
e nessuno, neanche tu, si accorgeva di nulla. Facevo tutto ciò che
la Voce voleva. “Vedrete” diceva, “stupiremo Parigi!” Io
aspettavo, e vivevo in una specie di sogno estatico. Nel frattempo,
una sera, scorsi Raoul nella sala. La mia gioia fu tale che non
pensai nemmeno a nasconderla quando tornai nel mio camerino. La Voce
vi si trovava già e si avvide subito, dall'aria che avevo, che c'era
qualcosa di nuovo. Mi chiese che cosa avessi, e io non trovai nulla
di sconveniente nel raccontargli la dolce storia tra me e Raoul, e il
posto che occupava nel mio cuore. La Voce tacque. La chiamai, non mi
rispose; la supplicai, ma fu inutile. Mi prese il folle terrore che
se ne fosse andata per sempre! Fosse piaciuto a Dio, amica mia!
Quella sera rincasai in uno stato di disperazione. Mi precipitai al
collo di Mamma Valerius dicendole: “Lo sai, la Voce se n'è andata!
Forse non tornerà più!” Lei era spaventata quanto me e mi chiese
spiegazioni. Le raccontai tutto. Mi disse: “Perbacco! La Voce è
gelosa!”»
Era
evidente che Erik si era accorto dei sentimenti di Christine nei
confronti di Raoul, e ciò lo aveva turbato non poco. Senza perdere
il filo delle mie riflessioni – tutto finalmente stava per avere un
senso – continuai ad ascoltare il racconto concitato di Christine.
«Il
giorno seguente» proseguì Christine dopo un profondo sospiro, «la
Voce era là, nel camerino. Mi parlò con grande tristezza. Mi disse
chiaro e tondo che se avessi dato il mio cuore a qualcuno sulla
terra, a lei non restava altro da fare che tornarsene in cielo. E me
lo disse con un tale accento umano
di dolore che già da quel
giorno avrei dovuto nutrire dei sospetti e cominciare a capire che
ero stata vittima dei miei sensi plagiati. Ma allora la mia fede in
quella apparizione, alla quale peraltro era legato così intimamente
il ricordo di mio padre, era ancora intatta. Niente era per me più
temibile che non udirla più; d'altra parte, riflettendo sui miei
sentimenti per Raoul, ne avevo valutato l'inutile pericolo; non
sapevo neppure se si ricordava ancora di me. E in ogni caso, la sua
posizione in società, a confronto con la mia, ci vietava per sempre
la speranza di un'unione onesta. Giurai alla Voce che per me Raoul
non era altri che un fratello, che non sarebbe mai stato niente di
più, e che il mio cuore era scevro da amori terreni… Per questa
ragione ho finto di non riconoscerlo, quella sera del gala.»
Era
chiaro: Erik aveva ingannato Christine, approfittando del suo dolore
per la scomparsa del padre, non ancora assopito, e la sua fede
nell'Angelo della Musica, per avvicinarsi a lei nell'unico modo che
gli pareva possibile. Se ciò che mia madre mi aveva detto era vero,
gli sarebbe stato impensabile altrimenti. E tuttavia, fui presa da un
moto di rabbia nei confronti di quella manipolazione senza scrupoli.
Come aveva osato…? E Christine era caduta nella trappola della sua
voce – a quanto ne diceva mia madre, la sua unica bellezza!
Christine
proseguì imperterrita: «Nel frattempo, le ore di lezione tra me e
la Voce trascorrevano in un divino delirio. Mai prima d'allora la
bellezza dei suoni mi aveva posseduto fino a quel punto, e un giorno
la Voce mi disse: “Adesso va', Christine Daaé, e porta agli uomini
un po' di musica celeste.”
Non
so perché la sera del gala la Carlotta non si fece viva; non so come
e perché fui chiamata io a sostituirla; accadde e basta. Cantai…
cantai con un trasporto sconosciuto; ero leggera come se mi avessero
messo le ali; per un attimo credetti che la mia anima in fiamme
avesse abbandonato il suo corpo!»
«É
vero» concordai, rammentando. «Quella sera eri a dir poco radiosa,
Christine.»
Lei
arrossì e mi strinse le dita. «Cantavo piangendo. Le mie forze mi
abbandonarono. Quando riaprii gli occhi, eri qui, accanto a me… E
c'era Raoul! Sai già perché ho finto di non riconoscerlo, e ho riso
di lui. Sono stata crudele, ma era l'unico modo.
Ahimè,
la Voce non si può ingannare. Aveva riconosciuto Raoul, ed era
gelosa! I due giorni seguenti mi fece delle scenate atroci – già
da allora avrei dovuto capire – ero così cieca e sola… Mi
diceva: “Voi lo amate! Se non lo amaste, non gli sfuggireste!
Sarebbe un vecchio amico al quale stringere la mano come a tutti gli
altri. Se non lo amaste, non avreste paura di trovarvi da sola con
lui e con me! Se non lo amaste, non lo caccereste!”
“Basta!”
dissi irritata alla Voce. “Domani devo andare a Perros, a pregare
sulla tomba di mio padre; dirò al signor Raoul de Chagny di
accompagnarmici.”
“Come
volete” rispose la Voce, “ma sappiate che anch'io sarò a Perros,
giacché sono ovunque voi siate, Christine, e se siete sempre degna
di me, se non mi avete mentito, suonerò per voi, a mezzanotte in
punto, sulla tomba di vostro padre. Suonerò la Resurrezione
di Lazzaro, con il violino del
morto.”
Così
scrissi un biglietto a Raoul, che lo portò a Perros con me. Lì
accadde esattamente quel che la Voce mi aveva predetto; e per di più
Raoul mi disse di aver udito anch'egli la Voce! Com'era possibile?
Ella mi aveva detto di essere udibile solo per le mie orecchie. Come
ho potuto farmi ingannare fino a questo punto? Com'è possibile che,
davanti alle ansie tanto personali della Voce e alla rivelazione di
Raoul, non abbia sospettato qualche impostura? Ahimè, avevo perduto
il controllo di me stessa: ero una cosa sua! La Voce disponeva di
mezzi che dovevano avere facilmente la meglio su una come me!»
«Questo
è vero, Christine.»
Avrebbe
dovuto rimproverarsi a lungo per la sua ingenuità, ma questa volta
non dissi nulla in proposito né fui inutilmente dura con lei. Capii
il suo dolore: la morte del padre era stata una sofferenza tanto
grave da accecarla. In fondo, io dovevo saperlo: anche mio padre era
venuto a mancare. Eppure ero certa che, nel profondo, lei avesse
sospettato una trappola, ma avesse deciso di rendersi cieca e sorda
davanti agli indizi che pure le si paravano davanti.
«Non
rimproverarti troppo. Lui non avrebbe dovuto approfittare di te in
questo modo, in ogni caso. E alla fine, hai conosciuto la verità.»
«Sì,
e sono precipitata in un incubo. Ma andiamo per ordine, amica mia: la
sera in cui dovevano accadere tante sventure – in cui la Carlotta
gracidò sul palco e la sala piombò d'improvviso nell'oscurità, con
il crollo fragoroso del lampadario – quella sera ci furono un morto
e parecchi feriti, e il mio cuore era diviso in due. Il mio primo
pensiero nella catastrofe fu allo stesso tempo per Raoul e per la
Voce, giacché sapevo che tu eri al sicuro dietro le quinte, Meg;
Raoul era salvo nel palco insieme a suo fratello, quindi non c'erano
problemi. Tornai in camerino tutta agitata, quasi che la Voce fosse
una persona reale e il lampadario potesse aver schiacciato anche lei.
Mi chiusi dentro e la supplicai, con le lacrime agli occhi, di
mostrarsi, se era ancora viva. La Voce non rispose, ma d'un tratto
udii una lunga, meravigliosa invocazione che conoscevo bene. Era il
lamento di Lazzaro quando, alla voce di Gesù, comincia a sollevare
le palpebre e a rivedere la luce del giorno. Era il pianto del
violino di mio padre. Poi, su quello stesso strumento ora trionfante,
la Voce, facendosi finalmente sentire, cominciò a cantare la frase
dominante e sovrana del brano: “Vieni! Credi in me! Coloro che
credono in me rivivranno! Cammina! Coloro che hanno creduto in me non
potranno morire!” Non saprei descriverti l'impressione che
ricevetti da quella musica: mi sembrò che ordinasse anche a me di
andare, di alzarmi, di camminare verso di lei. Si allontanava, la
seguivo. “Vieni… Credi in me…” Credevo in lei, andavo –
andavo e, cosa straordinaria, il camerino dinanzi ai miei passi
sembrava allungarsi. Evidentemente, doveva esserci un effetto di
specchi, poiché davanti a me avevo lo specchio. Poi, di colpo, mi
sono ritrovata fuori del camerino, senza sapere come.»
Qui
la interruppi. «Senza sapere come? È possibile?»
«Meg,
ero così ipnotizzata che all'inizio vedevo sfocato dinanzi a me: lo
specchio era divenuto nebbia! Solo più tardi compresi che lo
specchio girava sui suoi cardini e che si era aperto per farmi
largo.»
«Lo
specchio nel tuo camerino? Quindi era lì dietro che si nascondeva Er
– il fant – la Voce, insomma.»
«Sì.
Posso solo dirti che, trovandomi davanti allo specchio, d'un tratto
non l'ho più visto; l'ho cercato dietro… ma non c'erano più né
lo specchio né il camerino! Ero in un oscuro corridoio. Allora ebbi
paura e gridai.»
Comprensibile.
Forse lo specchio funzionava in modo simile al pannello di legno nel
muro che apriva il passaggio mostratomi da Figaro, che probabilmente
ogni tanto sgattaiolava lì dentro per cibarsi dei topi che lo
infestavano. Mi proposi di controllare in un secondo momento.
«Tutto
era nero intorno a me; lontano, un debole chiarore rossastro
illuminava un angolo di muro, una svolta. Quando cacciai quel grido,
mi accorsi che la mia voce era rimasta sola a colmare le pareti: il
canto e il violino ora tacevano. Ed ecco che, all'improvviso, nel
buio, una mano si posò sulla mia… o meglio, qualcosa di ossuto e
gelido m'imprigionò il polso e non mi lasciò più. Mi dibattei per
un istante, colta dal panico, e gridai ancora; credevo di morire per
lo spavento. Qualcuno mi spingeva verso quella luce rossa; allora
vidi che ero tra le mani di un uomo alto, avvolto in un grande
mantello nero, con indosso una maschera che gli nascondeva il viso…
Tentai un ultimo sforzo: le mie membra s'irrigidirono, la mia bocca
si aprì ancora per urlare di terrore, ma una mano la chiuse, una
mano che sentii sulle labbra, sulla carne… e che aveva un odore di
morte! Svenni.
Quanto
tempo rimasi senza conoscenza? Non saprei dirlo. Quando riaprii gli
occhi, l'uomo in nero ed io eravamo sempre avvolti dalle tenebre. Una
lanterna cieca, posata per terra, rischiarava il getto di una
fontana. La mia testa era china sul ginocchio dell'uomo dal mantello
e la maschera nera, e il mio silenzioso compagno mi rinfrescava le
tempie con una cura, un'attenzione, una delicatezza che mi sembrarono
più orribili da sopportare della brutalità del suo rapimento di
pochi istanti prima. Le sue mani, per lievi che fossero, avevano
comunque un sentore di morte, quindi le respinsi, ma senza forza.
“Chi siete? Dov'è la Voce?” chiesi in un sussurro. Mi rispose
soltanto un sospiro. D'improvviso un alito caldo mi attraversò il
viso e vagamente, nelle tenebre, accanto alla sagoma nera dell'uomo,
distinsi una forma bianca. La forma nera mi sollevò e mi depose
sulla forma bianca. Repentinamente un gioioso nitrito venne a colpire
le mie orecchie stupefatte; mormorai: “César!”. La bestia
sussultò. Amica mia, ero mezza distesa su una sella e avevo
riconosciuto il cavallo bianco del Prophète,
che così spesso avevo coccolato a forza di dolciumi. Ebbene, una
sera nel teatro si era sparsa la voce che l'animale fosse scomparso e
che fosse stato rubato dal fantasma dell'Opera. Quanto a me, credevo
alla Voce, ma non avevo mai creduto al fantasma; tuttavia, ora mi
domandavo tremante se per caso non fossi prigioniera proprio di quel
fantasma! Dal profondo del mio cuore chiamai in aiuto la Voce, poiché
non avrei mai immaginato che la Voce e il fantasma fossero una cosa
sola.
Non
feci alcun movimento e mi lasciai guidare. A poco a poco mi assalì
un torpore singolare: la forma nera mi sorreggeva e io non facevo
nulla per impedirlo, convinta com'ero di essere sotto l'influsso
benefico di qualche elisir.»
Mi
chiesi se il fantasma avesse drogato anche lei, come aveva fatto con
me la notte in cui mi ero ritrovata nella camera degli specchi. Dal
racconto che mi fece Christine di quel che accadde durante quel
viaggio singolare nei recessi dell'Opera, doveva essere così.
«Superammo
una galleria circolare che scendeva sempre più in basso… Finché
non ci ritrovammo in riva a un lago. Ora ero abbastanza lucida da
vedere ciò che accadeva intorno a me. Le acque plumbee del lago si
perdevano in lontananza, nel buio, ma un lucore bluastro illuminava
quella sponda. Vi scorsi una piccola barca, attraccata a un anello di
ferro sul molo.
Le
anime dei morti non dovevano aver provato una maggior inquietudine
arrivando allo Stige. Caronte non era certo più lugubre o più muto
della forma umana che mi trasportò nella barca. L'effetto
dell'elisir era finito? Bastava la freschezza di quel luogo a farmi
tornare completamente in me? Il mio torpore era svanito. Feci pochi
movimenti, che denunciarono la ricomparsa del mio terrore. Il mio
sinistro compagno dovette accorgersene perché, con un rapido gesto,
congedò César che fuggì nelle tenebre della galleria. L'uomo si
gettò nella barca, che liberò dal suo legame di ferro. Si impadronì
dei remi, e vogò con forza e rapidità. I suoi occhi, sotto la
maschera, non smettevano di guardarmi; sentivo il peso delle loro
pupille immobili. Scivolammo nel chiarore bluastro dell'acqua, per
poi approdare dopo aver oltrepassato una nuova e completa oscurità.
La barca urtò un corpo duro. Feci per gridare, dato che avevo
recuperato le forze, ma fui disturbata dalla luce – la luce
accecante in mezzo alla quale ero stata depositata. Mi alzai con un
balzo. Ero al centro di un salone che sembrava addobbato soltanto di
fiori, come quelli che ero solita trovare in camerino dopo ogni
“prima”; al centro di quell'imbalsamazione molto parigina, l'uomo
in nero e mascherato stava in piedi, a braccia conserte. Infine
parlò: “Rassicuratevi, Christine” disse; “non correte alcun
pericolo.”
Era
la Voce!
Il
mio furore era pari alla mia sorpresa. Mi precipitai sulla maschera;
volevo strapparla, per conoscere il volto della Voce. La forma d'uomo
mi disse: “Non correte alcun pericolo, se non toccate questa
maschera.” E, imprigionandomi dolcemente i polsi, mi fece sedere.
Quindi si mise in ginocchio davanti a me, e non disse più niente.
L'umiltà
di quel gesto mi infuse di nuovo un po' di coraggio; la luce,
rendendo nitida ogni cosa attorno a me, mi restituì alla realtà.
Per quanto fosse apparsa straordinaria, quell'avventura ora si
attorniava di cose mortali che potevo vedere e toccare. Ero in un
salone simile a tanti altri. Probabilmente avevo a che fare con
qualche spaventoso stravagante che, misteriosamente, aveva preso
dimora nel sottosuolo, come altri fanno per necessità.
E
allora la Voce – la Voce che avevo riconosciuto sotto la maschera –
era là in ginocchio davanti a me: un uomo!
Smisi
perfino di pensare all'orribile situazione in cui mi trovavo, non
chiesi nemmeno cosa ne sarebbe stato di me e qual era il progetto
oscuro e tirannico che mi aveva condotta in quel salone, come si
conduce un prigioniero in una cella, una schiava in un harem. Non
è possibile, è la Voce!, mi
dicevo; e non riuscii a trattenere le lacrime.
L'uomo,
sempre in ginocchio, dovette intuire il motivo del mio silenzioso
pianto, perché disse: “É vero, Christine. Non sono né angelo, né
genio, né fantasma… Sono Erik.”»
«Quindi
ti ha rapita! Non sei affatto andata lì di sua volontà come mi
aveva detto! Quello sporco bugiardo!» Non potei impedirmi di
imprecare contro quel dannato.
Christine
m'intimò il silenzio. «Sappi che lui è sempre con me, Meg; non
dovresti insultarlo in questo modo.»
«Tu
non lo hai fatto? Quando hai scoperto tutto, non l'hai maledetto?»
«Oh,
sì, mille volte; ma non lo odio; è proprio questa la cosa più
terribile. Ne provo orrore, ma non lo odio. Non riesco a odiarlo.
Come posso, Meg? Mi ha ridato la voce. Inoltre, immagina: Erik ai
miei piedi, nella dimora sul lago, sotto terra. Si accusa, si
maledice, implora il mio perdono!
Confessa
la sua impostura. Mi ama! Mette ai miei piedi un immenso e tragico
amore! Mi ha rapita per amore! Mi ha rinchiusa con lui, nella terra,
per amore – ma mi rispetta, striscia, geme, piange!»
Piange?
Conosciamo lo stesso uomo?, non
potei fare a meno di chiedermi.
«E
quando mi alzo, Meg, e gli dico che non posso che disprezzarlo se non
mi restituisce seduta stante la libertà che mi ha preso, cosa
incredibile – me la offre! Non ho che da andarmene. È pronto a
indicarmi il misterioso cammino. Tuttavia si è alzato anche lui, ed
io sono sempre obbligata a rammentare che, se non è né fantasma, né
angelo, né genio, è pur sempre la Voce, perché canta!
E
ascolto… e resto!
Quella
sera non scambiammo una parola. Aveva preso un'arpa e cominciò a
cantarmi – lui, voce d'uomo, voce d'angelo – la romanza di
Desdemona. Il ricordo di averla cantata io stessa mi faceva
vergognare. Amica mia, c'è una virtù nella musica che fa sì che
non esista più niente del mondo esteriore al di fuori di quei suoni
che vengono a colpirti nel profondo del cuore.»
Concordai
silenziosamente. La musica era magia; potevo solo immaginare come si
fosse sentita Christine in quel momento. Non solo il suo corpo; anche
la sua anima ne era stata rapita, senz'altro.
«La
mia stravagante avventura fu presto dimenticata. Riviveva soltanto la
Voce, e io la seguivo inebriata nel suo viaggio armonioso; mi
condusse nel dolore, nella gioia, nel martirio, nella disperazione,
nell'allegria, nella morte e nel trionfo dell'imeneo… Ascoltavo…
Lui cantava… Mi cantò brani sconosciuti; mi fece ascoltare una
musica nuova che mi suscitò una strana impressione di dolore, di
languore, di riposo – una musica che, dopo aver esaltato la mia
anima, la placò a poco a poco e la condusse fin sulla soglia del
sogno. Mi addormentai.
Quando
mi svegliai, ero sola, distesa su un letto di mogano, in una camera
assai semplice, illuminata da una lampada posta sul marmo di un
vecchio comò stile Luigi Filippo. Cos'era quel nuovo scenario? Mi
passai la mano sulla fronte, come per scacciare un brutto sogno, ma
non ci impiegai molto per capire che non avevo affatto sognato. Ero
prigioniera e non potevo uscire da quella camera se non per entrare
in una sala da bagno adiacente, molto confortevole, con acqua calda e
fredda a volontà. Tornando nella camera, scorsi sul comò un
biglietto scritto con inchiostro rosso che mi informò chiaramente
sulla mia triste situazione e che, come se fosse ancora necessario,
fugava tutti i miei dubbi sulla realtà di quegli eventi. “Mia
cara Christine” diceva il
biglietto, “rassicuratevi
pienamente sulla vostra sorte. Al mondo non avete amico migliore né
più rispettoso di me. In questo momento siete sola, in questa dimora
che vi appartiene. Esco per correre in qualche negozio e portarvi
tutta la biancheria di cui potete aver bisogno.”»
Immaginai
Erik che faceva compere, e a quella visione – un uomo imbacuccato
che andava per negozi ad acquistare biancheria femminile – non
seppi se ridere o piangere.
Christine
condivideva la mia opinione.
«Decisamente,
mi dissi, sono caduta tra le
mani di un pazzo! Che cosa ne sarà di me? Per quanto tempo quel
miserabile pensa di tenermi rinchiusa nella sua prigione sotterranea?
Come una forsennata, cercai
un'uscita che non riuscii a trovare. Mi accusavo amaramente per la
mia superstizione, e provavo un terribile piacere nel rimproverare la
perfetta innocenza con cui avevo accolto, attraverso le pareti, la
Voce del genio della musica… Quando si era così sciocchi,
bisognava attendersi le più inaudite catastrofi, e si erano meritate
tutte! Avevo voglia di farmi del male – cominciai a ridere e a
piangere al tempo stesso. Non mi avresti riconosciuta, Meg. Fu questo
lo stato in cui mi trovò Erik.
Dopo
aver bussato tre volte alla parete, entrò tranquillamente da una
porta che non ero riuscita a scoprire e che lasciò aperta. Aveva le
braccia cariche di pacchetti, che depose in fretta sul letto mentre
io lo ricoprivo d'insulti e gli intimavo di togliersi quella
maschera, se aveva la pretesa di dissimularvi un viso di uomo onesto.
Mi
rispose con grande serenità: “Non vedrete mai il volto di Erik.”
Mi
rimproverò di non aver ancora provveduto alla mia toletta personale
a quell'ora del giorno; si degnò d'informarmi che erano le due del
pomeriggio – difatti ero ancora vestita con i panni di Siebel. Mi
lasciava mezz'ora per farlo; detto questo, si curò di caricare
l'orologio e di regolarlo. Dopodiché mi invitava a trasferirmi nella
sala da pranzo, dove ci attendeva – così mi annunciò – una
eccellente colazione. Avevo una gran fame; gli sbattei la porta in
faccia ed entrai nella stanza da bagno. Feci un bagno dopo aver
sistemato accanto a me un grosso paio di forbici, qualora Erik, dopo
essersi comportato come un folle, cessasse di comportarsi anche da
gentiluomo. L'acqua mi rinfrancò, e quando mi presentai da Erik
avevo preso la saggia risoluzione di non contrariarlo né tanto meno
di offenderlo in alcun modo, anzi, se necessario, di lusingarlo allo
scopo di ottenerne una pronta libertà. Fu lui a parlarmi per primo
dei suoi progetti su di me; me li illustrò, a suo dire, per
rassicurarmi. La mia compagnia gli era troppo dolce perché potesse
privarsene così seduta stante, come aveva invece promesso per un
attimo il giorno prima, davanti alla mia indignazione e al mio
terrore. Ora dovevo comprendere che non avevo motivo di essere
spaventata nel vederlo accanto a me. Lui mi amava, ma non si sarebbe
dichiarato finché non glielo avessi permesso, e il resto del tempo
sarebbe passato in musica.
“Che
cosa intendete con il resto del tempo?” gli chiesi.
Mi
rispose con fermezza: “Cinque giorni.”»
Sì,
era quello che aveva detto anche a me – la stessa madornale bugia;
qualcosa non doveva essere andato secondo i piani, però.
«”E
dopo, sarò libera?”
“Sarete
libera, Christine, giacché, trascorsi questi cinque giorni, avrete
imparato a non aver più paura di me; allora tornerete, di tanto in
tanto, a trovare il povero Erik…!”
Il
tono con cui pronunciò queste ultime parole mi commosse
profondamente. Mi sembrò di ravvisarvi una così reale disperazione
che rivolsi alla maschera uno sguardo intenerito. Sotto la stoffa,
all'estremità della maschera, apparirono una, due, tre, quattro
lacrime.»
Ancora?,
mi chiesi, stupefatta. Era
impossibile che quell'uomo dal cuore di granito potesse piangere in
un modo tanto… tanto patetico!
Di nuovo, svelavo un altro strato dell'uomo–Erik che si andava ad
aggiungere a quelli che avevo già scoperto sul
fantasma–angelo–demone.
«Silenziosamente,
mi indicò il posto di fronte a lui, a un tavolino che occupava il
centro della stanza dove, il giorno precedente, mi aveva suonato
l'arpa; mi sedetti, alquanto turbata. Mangiai tuttavia di buon
appetito – qualche gamberetto, un'ala di pollo innaffiata con un
po' di Tokai; quanto a lui, non mangiava, non beveva. Gli chiesi
quale fosse la sua nazionalità, e se il nome Erik non nascondesse
un'origine scandinava. Mi rispose che non aveva né nome né patria,
e che aveva scelto il nome Erik a
caso.»
Una
risposta simile a quella che aveva dato a mia madre tanti anni prima.
Christine
continuò: «Gli chiesi perché, se mi amava, non aveva escogitato un
altro modo di farmelo sapere invece di rapirmi e tenermi prigioniera
sotto terra!
“É
davvero difficile” gli dissi, “riuscire a farsi amare in una
tomba.”
“Ciascuno”
rispose lui in tono singolare, “ottiene gli appuntamenti che può.”»
Ovviamente
aveva dovuto ricorrere a quei mezzi per via del suo aspetto:
Christine era la preda perfetta, in quanto per avvicinarsi a lei non
avrebbe dovuto usare che il suo miglior talento, la voce. Se non
poteva essere un uomo per lei, sarebbe diventato il suo Angelo. E
così aveva fatto.
«Poi
si alzò e mi tese le dita, poiché – così disse – voleva
concedermi gli onori del suo appartamento, ma io ritrassi bruscamente
la mia mano dalla sua. Quel che avevo toccato era a un tempo madido
e ossuto, e rammentai che le sue mani emanavano un alito mortale.
“Oh,
vi chiedo scusa” gemette lui.
Aprì
una porta davanti a me. “Ecco la mia camera” disse. “É
alquanto strana da visitare… Volete vederla?”
Non
ebbi esitazioni. I suoi modi, le sue parole, tutto in lui mi
suggeriva di aver fiducia – e poi, avevo come un presentimento che
non c'era da aver paura.
Entrai.
Mi sembrò di penetrare in una camera mortuaria. Le pareti erano
tutte parate di nero, ma al posto dei finimenti bianchi che di solito
completano quel funebre ornamento, spiccavano su un enorme
pentagramma le note ripetute del Dies
Irae. Al centro della camera
c'era un baldacchino da cui ricadevano tendaggi di broccato rosso e,
sotto il baldacchino, una bara aperta. A quella vista, indietreggiai.
“Dormo
là dentro” fece Erik. “Bisogna abituarsi a tutto nella vita,
anche all'eternità.”»
Dorme
in una bara? Oh santo Dio.
«Volsi
altrove lo sguardo, tanto era sinistra l'impressione che avevo
ricevuto da quello spettacolo. I miei occhi incontrarono allora la
tastiera di un organo che occupava un'intera parete. Sul leggio c'era
un quaderno scarabocchiato tutto di note rosse. Chiesi il permesso di
guardarlo e sul frontespizio lessi: Don
Giovanni trionfante.
“Sì”
mi disse, “talvolta compongo. Sono vent'anni che ho iniziato questo
lavoro. Quando sarà finito, lo porterò via con me nella bara e non
mi sveglierò più.”
“Bisogna
allora che vi lavoriate il minor tempo possibile” dissi.
“A
volte vi lavoro per quindici giorni e quindici notti di seguito,
durante i quali vivo soltanto di musica; poi mi riposo, magari per
anni.”
“Volete
suonarmi qualcosa del vostro Don
Giovanni trionfante?”,
chiesi, credendo di fargli piacere e vincendo la ripugnanza che
provavo nel restare in quella camera della morte.
“Non
chiedetemelo mai” rispose con una voce cupa. “Questo Don
Giovanni non è stato scritto
sul testo di un Lorenzo Da Ponte, ispirato dal vino, dalle avventure
galanti e dal vizio, e finalmente castigato da Dio. Se lo desiderate,
vi suonerò Mozart, che vi farà piangere qualcuna delle vostre belle
lacrime e vi ispirerà nobili riflessioni. Ma il mio Don
Giovanni brucia, Christine,
eppure non è folgorato dal fuoco celeste…!”
Dopodiché
tornammo nel salotto che avevamo appena lasciato. Notai che in tutto
l'appartamento non c'era un solo specchio. Stavo per manifestare
questa mia riflessione, quando Erik si sedette al piano. Mi disse:
“Vedete, Christine, esiste una musica così terribile da consumare
tutti coloro che le si avvicinano. Voi ne siete ancora lontana, per
fortuna, altrimenti perdereste il vostro fresco colorito e non vi si
riconoscerebbe più al vostro ritorno a Parigi. Cantiamo l'opera,
Christine Daaé.”
Mi
disse queste ultime parole come se mi scagliasse un'ingiuria.
Ma
non ebbi il tempo di andare fino in fondo sull'inflessione che aveva
dato a quelle parole. Cominciammo subito il duetto dell'Otello,
e già la catastrofe era sulle
nostre teste. Questa volta mi aveva lasciato l'aria di Desdemona, che
cantai con una disperazione, uno sgomento così reali come non mi era
mai riuscito fino a quel momento. La vicinanza di un simile compagno,
invece di annichilirmi, mi ispirava un magnifico terrore. Gli eventi
di cui ero vittima mi avvicinavano sensibilmente al pensiero del
poeta, e trovai accenti di cui il compositore sarebbe rimasto
incantato. Quanto a lui, la sua voce era tuonante, la sua anima
vendicativa si avventava su ogni nota e ne aumentava terribilmente la
potenza. L'amore, la gelosia, l'odio esplodevano attorno a me in
grida strazianti. La maschera nera di Erik mi faceva pensare alla
naturale maschera del Moro di Venezia. Era Otello in carne e ossa.
Credetti che stesse per picchiarmi, che sarei caduta sotto i suoi
colpi… eppure non tentavo alcun movimento per sfuggirgli, per
evitare il suo furore, come la timida Desdemona. Al contrario, mi
avvicinai a lui, attratta, incantata, trovando un fascino nella morte
al centro di una simile passione; ma, prima di morire, volevo
conoscere, per catturarne la sublime immagine nel mio ultimo sguardo,
quegli sconosciuti lineamenti che il fuoco dell'arte eterna doveva
trasfigurare. Volevo vedere il viso
della Voce, e istintivamente,
in un gesto che non riuscii a controllare, poiché non ero più in
me, le mie dita strapparono la maschera e…
Oh!
L'orrore…! Orrore…!
Orrore…!»
Christine
si bloccò, seppellendo il viso tra le mani tremanti. Sapevo io
stessa cosa si nascondeva sotto la maschera, ma Christine l'aveva
veduto coi propri occhi, e l'effetto doveva essere ben diverso. La
sorpresa e l'orrore dovevano essere stati un tutt'uno micidiale nel
suo cuore.
«Vivessi
cent'anni, sentirei sempre il clamore sovrumano che Erik provocò, il
grido del suo dolore e della sua rabbia infernali, mentre quella…
quella cosa appariva
ai miei occhi, immensi d'orrore come la mia bocca, che restava
spalancata e che tuttavia non urlava più.
Oh,
Meg – quella cosa! Mi resterà sempre davanti! Se le mie orecchie
saranno per sempre piene delle sue grida, i miei occhi saranno per
sempre ossessionati dal suo viso! Che immagine! Come evitare di
vederla ancora, e come potertela descrivere? Meg, hai presente i
teschi, quando sono stati disseccati da secoli? Ma una testa
mortuaria è muta, il suo muto orrore non vive! Ma immagina, se ti è
possibile, la maschera della Morte che d'improvviso si animi per
esprimere, con i quattro buchi neri degli occhi, del naso e della
bocca, la collera all'ultimo stadio, il furore sovrano di demonio, ma
non uno sguardo nei buchi degli
occhi, giacché, come ho
appreso più tardi, i suoi occhi di brace s'intravedono soltanto al
buio… Dovevo essere, incollata al muro, la personificazione della
Paura, come lui era quella dell'Orrido.
Allora
avvicinò a me l'orribile ghigno dei suoi denti senza labbra e,
mentre cadevo in ginocchio, mi sibilò odiosamente nelle orecchie
cose insensate, parole senza costrutto, maledizioni, deliri…
Chino
su di me, esclamava: “Guarda! Hai voluto vedere! Vedi! Pasci i tuoi
occhi, ubriaca la tua anima della mia maledetta deformità! Guarda il
viso di Erik! Ora conosci il viso della Voce! Non ti bastava
ascoltarmi? Hai voluto sapere come ero fatto. Siete così curiose,
voi altre donne!” E rideva ripetendo: “Siete così curiose, voi
altre donne!” con un riso mugugnante, rauco, schiumante,
formidabile. Diceva anche cose come questa: “Sei soddisfatta? Sono
bello, eh? Dopo che una donna mi ha visto, come te, è già mia. Mi
ama per sempre! Sono una specie di Don Giovanni!” E, ergendosi in
tutta la sua statura, i pugni sui fianchi, dondolando sulle spalle
quell'orrenda cosa che era la sua testa, tuonava: “Guardami! Sono
Don Giovanni trionfante!”
E
dal momento che io tenevo la testa girata chiedendo grazia, lui la
voltò bruscamente verso di sé, afferrandomi per i capelli, tra i
quali si erano insinuate le sue dita scheletriche…»
«Che
cosa?
Mi aveva giurato che non ti avrebbe fatto del male!» la interruppi,
serrando le mani a pugno per la rabbia.
«Non
ho ancora finito, Meg. Aspetta e ascolta. Mi trascinava per i
capelli, e poi… Oh, questo è ancora più orribile…»
«Che
cosa ti ha fatto?» dissi, fuori di me dalla furia. Come aveva potuto
rapirla, imprigionarla e poi farle del male in quel modo? L'aveva
terrorizzata a morte!
«Poi
sibilò: “Come! Ti faccio paura? È possibile? Forse credi che
abbia ancora una maschera, eh? E che questa – questa! – la mia
testa, sia una maschera! Bene!” cominciò a urlare, “strappala
come l'altra! Su! Su! Ancora! Ancora! Lo voglio! Le tue mani! Le tue
mani! Dammi le tue mani – e se non dovessero bastare, ti presterò
le mie… e ci metteremo in due a strappare la maschera.” Scivolai
ai suoi piedi, ma lui mi afferrò le mani, Meg… e le affondò
nell'orrore della sua faccia… Con le mie unghie si lacerò la
carne, la sua orribile carne morta!
“Impara!
Impara!” gridava, la sua gola che sbuffava come una fucina, “impara
che sono fatto interamente di morte, dalla testa ai piedi! E che è
un cadavere quello che ti ama, ti adora e non ti lascerà mai più,
mai più! Farò ingrandire la bara, Christine, per quando, più
avanti, saremo all'apice del nostro amore! To', non rido più, vedi?
Piango… piango su di te, Christine, che mi hai strappato la
maschera, e che per questo non potrai lasciarmi mai più! Finché mi
avessi creduto bello, Christine, saresti ancora potuta tornare! So
che saresti tornata! Ma ora che conosci la mia mostruosità, fuggirai
per sempre! Ti avevo messo in guardia! E allora perché hai voluto
vedermi? Insensata, folle Christine, che hai voluto vedermi! Quando
nemmeno mio padre mi ha mai visto, quando mia madre, per non vedermi
più, mi fece dono, piangendo, della mia prima maschera!”
Finalmente
mi aveva lasciato; ora si trascinava sul pavimento singhiozzando
terribilmente. Poi, come un rettile, cominciò a strisciare, si
trascinò fuori dalla stanza, penetrò nella sua camera richiudendone
la porta e restai sola, abbandonata al mio orrore e alle mie
riflessioni, ma liberata dalla visione di quella cosa. Un prodigioso
silenzio, un silenzio di tomba era seguito a quella tempesta, e potei
riflettere sulle terribili conseguenze di quel gesto. Le ultime
parole del mostro mi avevano sufficientemente edotta. Mi ero
imprigionata per sempre con le mie stesse mani, la mia curiosità
sarebbe stata la causa di tutte le mie sciagure. Eppure lui mi aveva
avvertita… Mi aveva ripetuto che non avrei corso alcun pericolo
finché non avessi toccato la maschera, ma io l'avevo toccata.
Maledissi la mia imprudenza, ma constatai rabbrividendo che il
ragionamento del mostro era logico. Sì, sarei tornata se non avessi
visto il suo volto… Mi aveva già abbastanza commossa, intenerita,
impietosita con le sue lacrime mascherate perché non restassi
insensibile alla sua preghiera. Dopotutto non ero un'ingrata, e la
sua stramberia non poteva farmi dimenticare che era pur sempre la
Voce e che mi aveva riscaldato con il suo genio. Sarei tornata! Ma
ora, una volta uscita da quella catacombe, non ci avrei certo rimesso
piede! Non ci si torna a rinchiudere in una tomba in compagnia di un
cadavere che ci ama!
Da
certi modi forsennati che aveva avuto, durante quella scenata, di
guardarmi e di accostarsi a me, avevo potuto valutare l'efferatezza
della sua passione. Perché non mi avesse preso tra le braccia,
allorché non potevo opporgli alcuna resistenza, bisognava che dietro
quel mostro si celasse un angelo, e forse, in fondo, Angelo della
Musica un poco lo era, e chissà che non lo sarebbe stato interamente
se Dio l'avesse rivestito di bellezza anziché ricoprirlo di
putredine!
D'un
tratto si udirono le note dell'organo.
Allora,
amica mia, cominciai a capire le parole di Erik su ciò che chiamava,
con un disprezzo che mi aveva stupito, la musica d'opera. Ciò che
stavo ascoltando non aveva nulla a che fare con ciò che mi aveva
affascinato fino a quel giorno. Il suo Don
Giovanni trionfante (giacché
non avevo dubbi che si fosse precipitato sul suo capolavoro per
dimenticare lo sgomento di quell'istante) sulle prime non mi sembrò
altro che un lungo, terribile e magnifico singhiozzo in cui il povero
Erik aveva riversato tutta la sua maledetta infelicità.
Rivedevo
il quaderno dalle note rosse e non mi era difficile immaginare che
quella musica fosse stata scritta col sangue. Mi accompagnava lungo
le varie stazioni del martirio; mi faceva entrare in tutti i recessi
dell'abisso abitato dall'uomo
brutto; mi mostrava Erik che
urtava la sua povera e spaventosa testa contro le funebri pareti di
quell'inferno, rifuggendo laggiù, per non spaventarli, gli sguardi
degli uomini. Assistetti, annientata, palpitante, pietosa e vinta,
allo sbocciare di quegli accordi giganteschi in cui era divinizzato
il dolore; poi, i suoni che risalivano dall'abisso si raggrupparono
all'improvviso in un volo prodigioso e sinistro, la loro folla
volteggiante sembrò scalare il cielo come l'aquila ascende verso il
sole, e il mondo sembrò infiammato da una sinfonia tanto trionfale
che intuii che l'opera doveva essere finalmente compiuta, e che la
Bruttezza, sollevata sulle ali dell'Amore, aveva osato guardare in
faccia la Bellezza! Ero come ebbra; la porta che mi separava da Erik
cedette sotto i miei sforzi. Sentendomi, si era alzato, ma non aveva
osato voltarsi.
“Erik!”
esclamai, “mostratemi il vostro volto senza paura. Vi giuro che
siete il più doloroso e il più sublime tra gli uomini, e se
Christine Daaé guardandovi dovesse tremare, sarà soltanto perché
pensa allo splendore del vostro genio!”
Allora
Erik si girò, perché mi credette, e anch'io, ahimè – anch'io
avevo fiducia in me. Levò verso il Destino le sue mani liberate e
cadde alle mie ginocchia pronunciando parole d'amore – parole
d'amore sulla sua bocca di morto… e la musica aveva taciuto…
Abbracciava
i lembi della mia veste; non vide che tenevo gli occhi chiusi.
Che
altro dirti, amica mia? Ora conosci per intero il dramma. Per
quindici giorni, si è rinnovato… Quindici giorni durante i quali
ho mentito. La mia menzogna fu tanto spaventosa quanto il mostro che
me la ispirava, e a questo prezzo ho potuto ottenere la mia libertà,
stanotte. Bruciai la sua maschera, e finsi così bene che, anche
quando non cantava più, osava elemosinare uno dei miei sguardi, come
un timido cane che gironzola attorno al suo padrone. Si comportava
così intorno a me, come uno schiavo fedele, e mi circondava di mille
premure. A poco a poco gli ispirai una tale fiducia che osò portarmi
a passeggio sulle rive del lago, e in barca sulle sue acque di
piombo; negli ultimi giorni della mia prigionia, di notte o di sera
tardi mi faceva oltrepassare dei cancelli che chiudono i sotterranei
di Rue Scribe. Là c'era ad attenderci una carrozza, che ci conduceva
verso le solitudini del Bois. La sera in cui incontrammo te e Raoul
per poco non mi fu fatale, perché è tremendamente geloso di lui, e
per placarlo dovetti annunciargli che presto Raoul partirà per una
spedizione al Polo, dal momento che è nella marina… Mi ordinò
anche di scriverti dei biglietti, visto che “ti eri impicciata” e
avevi scoperto una mezza verità. E ricorda: nessuno, nessuno può
sapere la verità su Erik! Preoccupata per te, perché ormai avevo
compreso dalle sue minacce che cosa era in grado di fare se
ostacolato, feci quanto mi diceva e pregai di rassicurarti e
ammonirti insieme. Devi perdonarmi se l'ultima volta gli ho chiesto
di riaccompagnarti a casa, ma ti avevo visto dalla carrozza, faceva
buio e stava per piovere – non mi ha permesso di vederti come avevo
sperato. Non pensavo avessi acconsentito al suo invito.»
«Che
vuoi che ti dica, stavo gelando.»
«É
stato… cortese con te?»
«In
quell'occasione sì, tanto che me ne sono stupita. Ma dimmi, come lo
hai convinto a liberarti?»
«Non
solo riferendogli della prossima partenza di Raoul. Alla fine, dopo
quindici giorni di quell'abominevole cattività in cui, di volta in
volta, fui arsa dalla pietà, dall'entusiasmo, dalla disperazione e
dall'orrore, mi credette quando gli dissi: ritornerò!»
«E
così farai, Christine? Ritornerai davvero da lui?»
«Amica
mia, non ho altra scelta, dal momento che cose terribili accadranno
se non mantengo la mia promessa. Devo dire però che non sono tanto
le spaventose minacce che accompagnarono la mia liberazione che mi
aiutano in questa risoluzione, quanto lo straziante singhiozzo che
emise sulla soglia della sua tomba!
Sì,
quel singhiozzo» ripeté Christine scuotendo dolorosamente il capo
biondo, «m'incatena a quello sventurato più di quanto io stessa
comprenda. Povero Erik – povero, povero Erik!»
«Provi
pietà verso di lui malgrado la violenza di cui – lo hai visto –
è capace?» chiesi sbalordita. Certo, era un racconto molto triste,
e sentivo bruciare in me sentimenti sconosciuti – di risentimento,
orrore (per la sorte della mia amica e degli altri protagonisti di
quella storia) e compassione
per il destino miserabile del
disgraziato colpevole di quella vicenda. Io, che non credevo di poter
provare tali emozioni nei riguardi di un essere descrittomi come la
reincarnazione della Morte, così pieno di odio e furore, sentii che
un muscolo segreto dentro di me si contraeva al pensiero della sua
disperazione – perché di disperazione si trattava, questo era
beninteso. Palpitava come il mio cuore, ma non ne capivo la cadenza.
Era spaventoso e orripilante e pietoso e temibile e sì, forse degno
di compassione. Era, soprattutto, umano. Quella era la prima volta
che mi si mostrava l'uomo Erik, col suo amore infantile e allo stesso
tempo passionale, folle, esigente e terribile per la mia amica; col
suo carattere geniale, violento, umorale, furioso e servile al
contempo. Era un parto di contraddizioni, e suscitava in me
sentimenti altrettanto contrastanti. Immaginai come si dovesse
sentire Christine, che eppure era la protagonista di quella storia
abnorme – l'efferatezza dei suoi sentimenti dovevano bollirle
dentro come un lago di lava. Soffrivano entrambi, intrappolati in un
destino più grande di loro: Erik perché consapevole di non poter
avere l'amore che desiderava, Christine perché impossibilitata a
darglielo (non con quella storia, non con quelle dinamiche – quasi
sentivo i suoi pensieri – non
lui, mai lui).
Quindi
era l'amore – un amore assurdo – che ispirava ogni azione di
Erik. Ora tutto aveva un senso. Ma Christine non poteva rimanere con
lui. Non era abbastanza umano, e non solo nell'aspetto, perché
qualcuno, chiunque – la mia amica compresa, che eppure aveva un
cuore d'oro – potesse prendere quella decisione responsabilmente.
«Christine,
tu sai che Erik non potrà mai mutare aspetto. Ma se fosse gentile
– se avesse deciso di comportarsi in un'altra maniera, di usare
altri mezzi per dichiarare il suo amore, per conquistarti…» (se
non ti amasse come fossi un'idea, una proprietà, un fiore, ma come
una persona merita di essere amata)
«… se non avesse mai rubato la tua libertà… se non ti avesse
mai ingannata e aggredita… lo avresti amato? Con tutto…?»
«Perché
mi dici questo, Meg?» Christine mi guardò con occhi colmi d'orrore.
«Perché mi domandi cose simili, che tengo nascoste in me come il
peccato? Sai che io… io lo avrei…»
Scoppiò
in un singhiozzo inguaribile. La strinsi a me con goffaggine che
mascherai per delicatezza.
Lo
avresti amato, Christine. Se fosse stato un po' angelo come tu pensi
che sia, lo avresti amato sul serio. Perché sei buona fino a questo
punto. Io non sarei mai
riuscita in questo. Molti altri non avrebbero avuto pietà del loro
carnefice, soprattutto se avesse avuto un tale aspetto; ma Christine
capiva e amava in silenzio. Il suo amore era la compassione, il più
grande di tutti. Ma era condito di paura, e si poteva rivolgere a
chiunque. Erik voleva essere l'unico
e solo uomo della vita di
Christine; ma come pretendere tanto?
Quando
si fu sfogata, le tesi un fazzoletto per asciugarsi gli occhi, cosa
che lei fece con mani tremanti.
«É
tardi, Meg. Dovresti andare a dormire.»
«Non
ti lascio, se non vuoi. Non c'è problema.»
«No,
devi riposare, Meg.»
«Sei
tu che dovresti dormire un po', Christine. Hai un aspetto
spaventoso.»
Christine
sorrise – o meglio, i bordi della sua bocca di rosa si contrassero
come in un crampo doloroso – e annuì. «D'accordo. Ci proverò.»
«Sappi
che non sei costretta a tornare da lui. Troveremo un modo.»
«Non
c'è modo, Meg» fece lei tristemente. «Contro Erik, non si può
vincere. Domina su questo teatro come un re. Farà qualcosa di
terribile se ci mettiamo contro di lui, lo so. Tu non hai sondato
l'abisso della sua disperazione. Io l'ho visto – l'ho udito
– e so che sarebbe capace di
qualunque cosa, Meg… Potrebbe farti del male, a te e a tanti altri,
e a Raoul, se non torno da lui! Non m'importa di essere sua
prigioniera per sempre, se basta a tenerlo a bada…»
«Troveremo
una soluzione, Christine. Non sarai sola in tutto questo.»
Le
strinsi la mano e non la lasciai finché lei non mi incoraggiò di
nuovo ad andare a letto. Obbedii controvoglia. Non volevo andarmene,
ora che l'avevo ritrovata – quasi che avessi paura che Erik potesse
arrivare d'improvviso e portarla via di nuovo, sotto la terra.
M'infilai
sotto le coperte e cercai di prendere sonno, contando i battiti del
mio cuore. Ero sicura che quelli di Christine fossero tanto forti che
avrei potuto udirli anche dalla mia stanza.
Ripensai
ad Erik, al suo doloroso passato e altrettanto miserabile presente,
al suo futuro senza speranza, e alla triste situazione di Christine:
l'avrei aiutata, con tutte le mie forze. Ma forse era troppo tardi
per aiutare lui, quel geniale uomo deforme che tanto scompiglio stava
creando nelle nostre vite. Era senza scrupoli, e sapeva essere
violento e terribile… Era folle, eppure…
Mi
morsi un labbro a sangue, rigirandomi tra le coperte. Non volevo
sentire quella poco familiare stretta al petto – compassione
– ma riflettevo sul fatto che aveva avuto una madre, e un'infanzia,
e lacrime da versare, e amore, per quanto contorto, da dare... Questo
lo rendeva più umano e meno fantasma ai miei occhi.
Dio,
questi sentimenti sarebbero stati tipici di Christine, che provava
una forte empatia per gli altri; e difatti, lei provava pietà per
Erik, pur essendo vittima delle sue manipolazioni.
Io,
frattanto, in cosa mi ero trasformata?
Note
dell'autrice: Risponderò alle
bellissime recensioni del capitolo scorso nel prossimo. Ribadisco
ancora una volta quanto scritto da me sopra, ossia che gli
eventi che Christine descrive a Meg sono tutti opera di Leroux,
non miei. Se questo non basta e infrange qualche regola, fatemelo
sapere, e con molta tristezza cancellerò tutto.
|
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Capitolo 13 *** Arabesque. ***
IMPORTANTE:
I
dialoghi tra Raoul e Christine in questo capitolo sono stati
opportunamente modificati da me, ma appartengono
interamente a Gaston Leroux.
Spero (di nuovo) di non infrangere altre regole di copyright. Se c'è
qualche problema, segnalatemelo, e io provvederò a risolverlo (vi
giuro, sono preoccupatissima al riguardo).
xii.
arabesque
Trascorse
qualche giorno prima che potessi concentrarmi sulla mia audizione per
Giselle.
Avevo ancora tutte le intenzioni di sostenere il provino; mia madre
mi consegnò il fascicolo con la coreografia che cominciai ad
imparare tra le pause delle lezioni. Non lasciai che gli straordinari
avvenimenti di quei giorni mi distraessero dal mio obiettivo
principale, che non avevo dimenticato: diventare una ballerina di cui
poter andare fieri.
Non
fu facile. Mi servirono tutte le mie capacità di concentrazione, che
per cominciare non erano molte, e nel frattempo pensavo a una
soluzione per il dilemma di Christine. L'unica che mi veniva in mente
era andare alla polizia, ma già sapevo che non appena avremo
accennato al fatto che colui che aveva rapito la mia amica era anche
il “fantasma dell'Opera”, nessuno ci avrebbe prese sul serio. E
anche se fossimo riuscite a condurre le autorità fin sulla sponda
del lago, chissà cosa avrebbe fatto Erik per impedire che
arrivassero alla sua casa sotterranea. Nulla
può fermare Erik, così
Christine mi aveva detto. Le sue minacce d'altronde parlavano da sé.
Ciò che più mi turbava era che suddette minacce non venissero da
pura crudeltà, ma dalla disperazione più dolorosa. Cosa dovevo
fare, avere compassione di lui o maledirlo? Quell'ambiguità non mi
piaceva affatto, e non osavo parlare con Christine dei miei
sentimenti contrastanti verso il suo Maestro – che lo odiassi o
meno, non aveva importanza, benché effettivamente lo disprezzassi
per le sue azioni. Certo non si poteva definire un gentiluomo!
Eppure, quei sospiri di sofferenza… Mi pareva di udirli, e proprio
perché non riuscivo a scacciarli dalla mente, mi irritavano più che
mai. In quei giorni divenni considerevolmente più nervosa, tanto che
persino Louise, Juliette, Fabienne e Luc mi stavano alla larga, ben
sapendo che avevo bisogno di solitudine. Provavo ansia al solo
pensiero di Christine che ritornava in quella tomba, e ogni volta che
vi si recava temevo che non ne uscisse mai più, che il mostro
l'avrebbe tenuta con sé per sempre, sotto la terra.
Christine
non andava a fargli visita solo per placarlo o per un gesto di pura
pietà: aveva paura di
cosa lui avrebbe fatto se lei avesse osato disobbedire ai suoi
ordini. Per quanto si fingesse suo schiavo, era pur sempre lui a
detenere un potere sulla mia amica che poteva essere eguagliato solo
da quello, altrettanto ipnotico, della sua voce. Sì, era questa la
vera ragione per cui Christine tornava da Erik: non poteva fare a
meno della sua musica. Il suo pensiero era ancora legato strettamente
a quello del padre, e lei non se n'era liberata. Sogni di cenere,
ecco cos'erano, ma difficili da disperdere. Si aggrappava a quella
memoria di note e scale come fosse una reliquia, l'ultima tra detriti
e macerie di un passato che non poteva più tornare in vita.
Io
mi limitavo a tenerla d'occhio e a temere per lei. Christine era
decisa a non coinvolgere nessuno, in particolar modo Raoul.
«Ti
ama fino a questo punto?» le chiesi una volta che rimanemmo sole nel
mio camerino, mentre lei si pettinava i riccioli biondi.
Sulle
sue labbra di pesca si disegnò una smorfia indicibile. «Fino al
delitto. Non posso permettere che Raoul si immischi in questa storia.
Finirà col fargli del male.»
Ovviamente,
è inutile spiegare a chi ci stavamo riferendo. Non pronunciavamo mai
il suo nome: era un essere innominabile che, da quel che diceva
Christine, sembrava avere occhi e orecchie dappertutto. E lei era in
trappola.
L'impotenza
che sentivo dentro di me mi dava la nausea. Il solo pensiero di non
poter far nulla per aiutarla, perché ogni cosa avrebbe portato a
delle conseguenze potenzialmente disastrose, mi agghiacciava le
viscere. La osservavo sgretolarsi dinanzi a me, sempre più bianca in
volto, sempre più insonne, come una statua friabile, erosa dal
tempo. C'era un cuore che batteva sotto quel marmo, oppure era già
diventata spettro? No, Christine era più forte di quel che sembrava.
«Devo
almeno dire addio a Raoul prima della sua partenza per il Polo. Non
merita tanta indifferenza da parte mia.»
E
io non posso lasciarlo andare senza nemmeno rivolgergli un ultimo
saluto, furono le parole non
dette, che rimasero sospese tra noi come foglie nella brezza gelida
d'inverno.
«Come
hai intenzione di incontrarlo?»
A
quanto pareva, Erik avrebbe fatto qualcosa di orribile se l'avesse
scoperta nuovamente con Raoul.
«Gli
scriverò un biglietto. Gli dirò di incontrarci sul tetto, è
l'unico luogo sicuro per noi. Lui
è troppo impegnato con la sua
opera, adesso, per seguirci. E di rado esce fuori dal suo
appartamento quando è in una di queste fasi d'ispirazione.»
Accettai
la proposta di Christine, e feci in modo che al visconte fosse
consegnato il biglietto. Tuttavia non assistetti al loro addio, e
regalai loro un momento da trascorrere in privato. Quando Christine
ritornò dall'incontro, era ancora più pallida in viso, e le sue
occhiaie mi apparvero più incipienti, i capelli meno lucenti del
solito.
«Christine,
devi riposare» continuavo a dirle, ma lei non mi ascoltava. Era
troppo impegnata a riprendersi l'equilibrio della propria vita,
strattonata da una parte – quella del suo insegnante – e
dall'altra – che la faceva tendere irresistibilmente verso Raoul.
Non vi erano mezze misure.
Quanto
a me, io ero nell'ombra, come sempre: pensavo e pensavo e pensavo,
e non riuscivo a trovare una soluzione. Ballavo con una intensità
inaudita, una sorta di rabbia frenetica che forse non mi rendevano la
più elegante delle Regine della Villi, ma sicuramente la più
passionale. I piedi mi si riducevano ogni sera a sanguinanti pezzi di
carne dalle unghie deformate e le vesciche scoppiate, tanto che mia
madre, che me li fasciò con amore, mi disse di andarci piano – e
se me lo raccomandava Antoinette Giry in persona, la cosa era più
preoccupante di quanto immaginassi.
«Mangi
a malapena. Lavori sempre. Dovresti prenderti una pausa, di tanto in
tanto.»
«Non
posso, maman. Non
posso.»
Se
non ballavo, allora ero costretta a pensare,
e i pensieri mi vorticavano nella mente, imprendibili, dolorosi,
esausti. Sembravano respirare a un ritmo tutto loro, come polmoni
malati. No, preferivo le vesciche a tutto quello.
E
la tosse. Continuava a dolermi quel punto a metà tra le scapole, e
spesso la gola e il petto mi bruciavano per l'intensità di quella
tosse maledetta. Il peggio fu quando mi ritrovai a dar di stomaco
dopo una lunga giornata di prove. Dormivo poco, perché
ricominciavano gli incubi. Il solo pensiero di andare a dormire era
per me un conforto e un timore insieme, perché nel momento tra il
sonno e la veglia ero sola con i miei fantasmi. Niente e nessuno
avrebbe potuto scacciarli via al mio posto.
Più
le occhiaie di Christine diventavano solchi incipienti, più io
rassomigliavo allo spettro che la perseguitava. Qualche giorno prima
della mia audizione – l'ansia di tutte le ballerine che avrebbero
sostenuto i provini era palpabile nell'aria – Christine si
precipitò da me di corsa, riferendomi cosa era accaduto durante il
suo incontro con Raoul, quali parole si erano scambiati.
«Meg»
mi disse, prendendomi per un braccio. Il suo volto pareva di gesso.
«Credo di averlo salvato. Ed è giusto che sia così, che parta…
Non mi rivedrà mai più! Se così deve essere…»
«Cosa
hai intenzione di fare, Christine? Vuoi davvero rimanere con lui
per il resto dei tuoi giorni?
Vuoi che ti imprigioni ancora?»
«Sono
già in trappola, Meg! Non capisci, amica mia? Io non mi sposerò
mai! Mai e poi mai!»
A
queste sue parole inquietanti – mai
e poi mai – compresi cosa
intendesse dire. Mai e poi mai Christine avrebbe sposato Erik.
Sarebbe morta, piuttosto. Quest'ultimo pensiero macabro mi raggelò,
e intuii immediatamente le sue intenzioni.
«Non
fare sciocchezze, Christine. Attenta a quel che dici. Sono sicura che
c'è una soluzione.»
«Non
posso scappare da… da lui,
e non posso permettere che il suo progetto vada in atto. E l'unica
maniera che c'è è quella di…»
Di
morire prima che Erik potesse oltrepassare il limite e dare fondo
alla sua disumana disperazione, con cui aveva contagiato anche
Christine. Forse la morte l'avrebbe fermato.
«Che
cosa ti ha detto Raoul? Gli hai spiegato tutto?»
«Non
una parola. Ed è meglio così, per il suo bene. Bisogna proteggerlo,
capisci. Anche tu, Meg – anche tu dovresti stare lontana da tutto
questo.»
«Non
se ne parla, io non ti abbandono. Scenderei sotto la terra pur di
aiutarti con i miei poveri mezzi. Non sei sola.»
Christine
mi rivolse un breve sorriso spento. «Non permetterò che nulla di
male ti accada» proseguii, posandole una mano sul braccio col fare
più incoraggiante di cui fossi capace.
«Ho
incontrato Raoul sul tetto, come ci eravamo accordati di fare. Io
tenevo il viso nascosto nel cappuccio, sebbene fosse pieno giorno.
Con quanto animo Raoul si lanciava in discorsi contro l'Angelo della
Musica! Sembrava convinto che io volessi nascondergli chissà quale
assurdo mistero. “Se lo amate, vi basta solo dirlo, Christine.”
Così mi disse.
“In
nome del nostro amore, Raoul, dovete lasciar perdere questa storia.”
In nome del nostro amore! Capisci, Raoul era convinto che non
provassi nulla per lui, e si domandava perché avessi voluto
incontrarlo se mi interessava qualcun altro. Eppure non aveva saputo
resistere all'invito. Voleva scoprire la vera identità dell'Angelo
della Musica, il genio di Perros – il mio amico.
Mi scagliò addosso parole rancorose, alimentate dalla disperazione
di un amore che credeva non ricambiato. “Voi mentite, Madamoiselle!
In realtà non mi amate, non mi avete mai amato! Perché dunque, con
il vostro atteggiamento, con il vostro stesso silenzio, fin dal
nostro primo incontro a Perros avete autorizzato le mie speranze?
Speranze oneste, signora, ché io sono un uomo onesto e vi credevo
una donna onesta, mentre al contrario avevate soltanto l'intenzione
di burlarvi di me! Vi siete burlata di tutti! Avete vergognosamente
abusato del cuore candido della vostra stessa benefattrice, che
continua a credere alla vostra sincerità, perfino quando ve ne
andate a passeggio al Bois con un misterioso uomo! Vi disprezzo!”
Dopodiché scoppiò in lacrime. Ma io non pensavo che a trattenerlo,
lasciandomi ingiuriare.»
Sbuffai
senza ironia. Ah, gli uomini: credono sempre che il mondo giri
intorno alle loro testoline, che il loro ego supera in grandezza.
Raoul pensava che Christine mentisse sulla storia dell'Angelo della
Musica per stare con chissà quale amante, e lui ci era cascato! Non
si era accorto però che i sentimenti da tenere in conto qui non
erano i suoi, ma quelli di Christine.
«”Un
giorno mi chiederete perdono per tutte queste orribili parole, Raoul,
e io vi perdonerò!” dissi con sincerità. Lui scosse la testa.
“No, no – mi avevate fatto impazzire! Quando penso che avevo un
solo scopo nella vita: dare il mio nome a una ragazza dell'Opera!”
“Raoul,
sciagurato!” lo interruppi, ora indignata.
“Ne
morirò per la vergogna!”
“Vivete,
amico mio” dissi con voce grave e alterata. “E addio…”
Ci
scambiammo un addio furente. Poi lui, esitante nel voltarmi le
spalle, osò un altro sarcasmo: “Mi permetterete di venirvi ad
applaudire di tanto in tanto, non è vero?”
“Non
canterò più, Raoul!”
“Davvero?”
fece lui, ancor più ironicamente. “Vi hanno creato una rendita? Le
mie congratulazioni! Ma ci rivedremo forse al Bois una di queste
sere.”
“Né
al Bois, né altrove, Raoul – non mi vedrete mai più.”
“Si
potrebbe almeno sapere in quali tenebre ripiomberete? Per quale
inferno ripartirete, misteriosa signora? O per quale paradiso…?”
“Non
posso dirvelo, amico mio. Non posso più dirvi nulla, non mi
credereste! Non avete più fiducia in me, Raoul – è finita!”
Dissi queste ultime parole con un tono tanto disperato che egli
trasalì. Dalla sua espressione, era chiaro che il rimorso cominciava
a rodergli il nocciolo dell'anima. “Ma insomma” esclamò, “cosa
significa tutto ciò, potete dirlo? Perché non tornate in voi? Che
cosa avete fatto in questi quindici giorni? Che cos'è questa storia
dell'Angelo della Musica che avete raccontato a Mamma Valerius?
Qualcuno è riuscito a ingannarvi, ad abusare della vostra credulità?
Io stesso ne sono stato testimone a Perros. Ma ora sapete cosa fare –
mi sembrate più ragionevole, Christine, sapete quel che fate. Eppure
Mamma Valerius continua ad aspettarvi invocando il vostro “buon
genio”! Spiegatevi, Christine, ve ne prego… Potrete ingannare
qualcun altro, ma non me. Che cos'è questa commedia?”
A
queste parole, tirai giù il cappuccio della mantella. “È una
tragedia, amico mio!”
Quando
vide l'espressione, i segni del male sul mio viso cereo, non poté
trattenere il mio nome tra le labbra, sussurrandolo tra lo stupore e
lo spavento. Dovevo essere una maschera orribile. Pentito,
comprendendo la mia infelicità, quasi si gettò ai miei piedi,
tendendo le braccia: “Amica mia! Amica mia!” mi ripeteva, “avete
promesso di perdonarmi…”
Ero
così presa dalla scontentezza, convinta di aver perso anche lui per
sempre, che girai i tacchi e me ne andai, dicendogli semplicemente:
“Forse… un giorno…”
Ma
in cuor mio l'avevo già perdonato.»
Bene:
quella storia aveva portato anche il visconte alla esasperazione più
totale, tanto che si era rivolto in modo poco nobile alla sua
preziosa amica. Ora avrei scommesso che si stava rimangiando ogni
parola, impotente quanto me, senza alcuna idea di cosa fosse accaduto
in realtà di tanto grave e senza una soluzione su cui poi agire.
Sentii una fitta di pietà anche per lui, stranamente. Tutti i
protagonisti di questa storia assurda mi parevano degni personaggi di
una tragedia greca, da stringere un cuore di legno. Mi ero sempre
vantata di saper controllare bene le mie emozioni, e spesso infatti
indossavo una maschera di indifferenza che risultava convincente. In
realtà, mi ribollivano dentro al ritmo del cuore, il sangue che
fluiva nelle vene con maggior rapidità. Dovevo accettare di essere
umana, e quindi fallibile. Il misterioso figuro di nome Erik avrebbe
dovuto impararlo a sua volta.
Il
giorno dopo il litigio, terminato con un addio, tra Raoul e
Christine, mi ritrovai con quest'ultima a far visita a Mamma
Valerius. L'anziana donna era divenuta raggiante quando aveva rivisto
il volto della sua protetta. L'abbracciò con delicatezza, quasi
fosse caduta dal cielo e credesse che potesse scomparire di nuovo
dinanzi ai suoi occhi sgomenti.
Notai
con quanta fatica Christine cercasse di dissuadere la madre adottiva
dal parlare dell'Angelo, dicendole che lo stesso “buon genio” le
aveva raccomandato di non rivelare alcun dettaglio delle loro
lezioni, persino a Mamma Valerius e alla sottoscritta. Ovviamente, io
sapevo molto più di quanto avrei voluto. Mi riempiva di piacere il
fatto che Christine si fosse fidata di me a tal punto da raccontarmi
la sua storia, pur sapendo che ero finita nei guai proprio per il mio
vizio di ficcanasare dove non avrei dovuto.
Christine
e io finivamo di rammendare delle calze di Mamma Valerius – lei con
grazia, io che facevo fatica ad infilare il filo di lana nella cruna
dell'ago – quando ci fu annunciata la visita del visconte di
Chagny. Christine divenne subito bianca in volto, ma si alzò per
riceverlo in camera di Mamma Valerius, come d'altronde feci anch'io.
Raoul
appariva più insonne di Christine, che dalla sera precedente
sembrava stare meglio, sebbene un velo di malinconia sempre si
posasse sul suo viso stanco. Questa, senza tradire alcuna emozione,
gli tese la mano in un gesto cordiale ma freddo. Fu Mamma Valerius ad
interrompere quel lugubre silenzio.
«Ebbene,
Monsieur de Chagny» esclamò la donna, ancora costretta a letto.
«Non riconoscete più la nostra Christine? Il suo “buon genio”
ce l'ha restituita!»
«Maman!»
interruppe seccamente la giovane, mentre un vivo rossore le colorava
anche la fronte oltre alle guance, dapprima pallide. «Credevo che
non se ne sarebbe più parlato. Sapete bene che non esistono geni
della musica.»
«Figlia
mia, eppure ti ha dato lezioni per tre mesi…!»
«Mamma,
vi ho promesso di spiegarvi tutto uno di questi giorni, spero… Ma
fino ad allora, mi avete promesso di tacere e di non chiedermi più
nulla.»
«Se
tu mi promettessi di non lasciarmi più! L'hai forse promesso,
Christine?»
«Mamma,
non vedo come questo possa interessare Monsieur de Chagny…»
«Vi
ingannate, Madamoiselle» interruppe il giovane con voce fiera,
seppure incrinata dall'emozione, «tutto ciò che riguarda voi
m'interessa a un tal punto che forse un giorno comprenderete. Non vi
nasconderò che sono stupito e rallegrato insieme nel vedervi accanto
alla vostra madre adottiva, e che ciò che è accaduto ieri tra noi,
ciò che avete potuto dirmi e che ho potuto intuire, non faceva
presagire un così pronto ritorno. Sarei il primo a rallegrarmene se
voi non vi ostinaste a serbare su tutto questo un segreto che può
esservi fatale… e sono vostro amico da troppo tempo per non
preoccuparmi, con Madame Valerius, di una funesta avventura che
resterà pericolosa fintantoché non ne avremo chiarito la trama, e
di cui finireste per essere vittima, Christine.»
A
quelle parole, Mamma Valerius si agitò nel letto. «Che cosa vuol
dire tutto questo?» esclamò. «Christine è forse in pericolo?»
«Sì,
signora» dichiarò Raoul, malgrado i cenni di Christine che
sottintendevano un silenzio.
«Mio
Dio!» ansimò la vecchina. «Devi dirmi tutto, Christine! Perché mi
rassicuravi? Di quale pericolo si tratta, Monsieur de Chagny?»
«Un
impostore sta abusando della sua buona fede!»
«L'Angelo
della Musica è un impostore?»
«Lei
stessa vi ha detto che l'Angelo della Musica non esiste!»
Cercai
di dire qualcosa per evitare un disastro ancora maggiore, ma non mi
salirono le parole alle labbra. «Oh, di che si tratta, in nome del
cielo?» continuava Mamma Valerius, in preda a un sospiro angoscioso.
«Mi farete morire!»
«Signora,
attorno a noi e a Christine aleggia un mistero terrestre ben più
temibile di tutti i fantasmi e di tutti i geni!»
All'espressione
terrorizzata della donna, Christine si precipitò al suo capezzale,
stringendola tra le braccia esili con una morsa di ferro. Mamma
Valerius ansimava come se stesse per venire meno da un momento
all'altro. «Meg, per favore, prendile un bicchiere d'acqua. Ecco,
maman,
sono qui. Non dovete credere a ciò che dice.»
Feci
quanto mi era stato chiesto, scivolando via come un'ombra. Nessuno mi
notava in quel momento: l'attenzione era incentrata sulla povera
Christine. Cominciava a farmi pena anche lei, che eppure si era
dimostrata forte nell'affrontare la situazione di petto, cercando di
proteggere i suoi cari – lei che allo stesso tempo era vittima ed
eroina!
Quando
tornai nella stanza, porsi il bicchiere d'acqua a Christine, che
aiutò la madre adottiva a sorseggiare lentamente, ripristinando la
calma.
«Giurami
che non mi lascerai più, tesoro mio» implorò la vedova del
professor Valerius con un tono che avrebbe fatto piangere gli angeli.
Christine
taceva, e Raoul, anche lui non poco scosso, disse: «Dovete
prometterlo, Christine. È la sola cosa che possa rassicurare vostra
madre e me. Quanto a noi» mi lanciò un'occhiata, come a voler
trovare una complice nella sua invettiva, ma io lo ignorai, «se ci
promettete di restare sotto la nostra protezione in futuro…»
«É
un impegno che non vi chiedo, e una promessa che non posso farvi!»
dichiarò con fierezza Christine. Si era eretta in tutta la sua
statura, e appariva d'un tratto brillante, tanto che Raoul
indietreggiò. Io scoccai ad entrambi un'occhiata perplessa. Non
avevo mai visto Christine in preda a una rabbia così appassionata.
«Sono padrona delle mie azioni, Monsieur de Chagny; non avete alcun
diritto di controllarmi e vi prego di dispensarvene in avvenire.
Quanto a ciò che ho fatto in questi ultimi quindici giorni, solo un
uomo al mondo avrebbe il diritto che glielo raccontassi: mio marito.
Ebbene, io non ho marito, e non mi sposerò mai!»
Detto
questo con forza, Christine tese la mano verso Raoul, come a voler
rendere quelle parole più solenni. Raoul impallidì, ma non per
quelle parole autoritarie. Aveva notato l'anello che Christine
portava al dito.
«Non
avete marito, eppure portate una fede.»
In
effetti, era una fede semplicissima, d'oro, con sopra incise due
lettere: C.D. Le
iniziali di Christine Daaé, per l'appunto. Anch'io quel mattino
avevo notato la novità, e avevo chiesto giustamente delle
spiegazioni. La mia amica, rossa in volto, all'inizio era stata
riluttante, ma poi mi aveva confessato che Erik le aveva dato
quell'anello e che lei non doveva toglierlo assolutamente.
«Altrimenti accadranno grandi sciagure» mi aveva spiegato, con un
tremito innominabile nella voce.
«É
un regalo!» disse Christine, arrossendo nuovamente e tentando invano
di camuffare il proprio imbarazzo.
«Christine,
dal momento che non avete marito, quest'anello vi è stato donato da
chi spera di diventarlo! Perché ingannarci ulteriormente?
Quest'anello è una promessa, e la promessa è stata accettata!»
«É
quel che le ho detto anch'io!» esclamò la vecchia.
«E
che cosa vi ha risposto, Madame?»
«Quel
che mi pare» interruppe Christine, che cominciava ad esasperarsi.
«Monsieur, non vi sembra che questo interrogatorio sia durato un po'
troppo?»
Raoul,
di gran lunga più agitato di noi tre donne tutte insieme, proseguì:
«Vi chiedo scusa per avervi parlato in questo modo, Madamoiselle.
Sapete bene quale onesto sentimento mi induca a immischiarmi in
faccende che indubbiamente non mi riguardano. Ma lasciate almeno che
vi dica ciò che ho visto – e ho visto più di quanto crediate,
Christine – o quanto meno ho creduto di vedere, perché in una
simile avventura si comincia a dubitare dei propri stessi occhi…»
«Che
cosa avete dunque visto, o creduto di vedere, Monsieur?»
«Ho
visto la vostra estasi al suono
della voce, Christine! Della
voce che usciva dal muro, o da un camerino, o da un appartamento
adiacente – sì, la vostra estasi! Proprio questo mi fa temere per
voi! Siete sotto l'influsso della più pericolosa malia! Eppure, a
quanto pare, vi siete resa conto dell'impostura, se oggi dite che non
esiste alcun genio della musica!
Allora, Christine, perché l'avete seguito anche quella volta? Perché
vi siete alzata con il volto radioso, come se udiste realmente degli
angeli? Ah, quella voce è davvero pericolosa, Christine, perché io
stesso, mentre ascoltavo, ne ero talmente rapito che siete scomparsa
sotto i miei occhi senza che potessi dire in quale direzione ve ne
foste andata! Christine… Christine, in nome di Dio, in nome di
vostro padre che è in cielo e che vi ha tanto amata, e che mi ha
amato, Christine, ora dovete dire, alla vostra benefattrice, a
Madamoiselle Giry e a me a chi appartiene quella voce! E, vostro
malgrado, noi vi salveremo! Suvvia, il nome di quest'uomo, Christine!
Di quest'uomo che ha avuto l'audacia di infilare al vostro dito un
anello d'oro!»
«Monsieur
de Chagny» rispose freddamente la mia amica, «non lo saprete mai!»
Vedendo
con quanta ostilità si rivolgesse al visconte, Mamma Valerius
gracchiò, prendendo le difese della ragazza: «Monsieur visconte, se
lei ama quell'uomo, la cosa non può riguardarvi.»
«Ahimè,
Madame» replicò umilmente Raoul, «credo che Christine lo ami
davvero. Tutto me lo prova, ma non è questa la mia unica
disperazione, poiché non sono affatto sicuro che l'uomo amato da
Christine sia degno di questo amore.»
Non
ne avete la minima idea, pensai
con sarcasmo.
«Spetta
solo a me giudicarlo, Monsieur!» fece Christine, guardando Raoul
dritto negli occhi con infinita irritazione.
«Quando
si fa uso» proseguì Raoul, che sembrava aver bisogno di qualcosa di
forte per riprendersi, «di mezzi così romantici per sedurre una
ragazza…»
«Bisogna
che l'uomo sia un miserabile e che la ragazza sia proprio una
sciocca, non è vero?»
«Christine…!»
«Raoul,
perché condannate così un uomo che non avete mai visto, che nessuno
conosce e di cui voi stesso non sapete nulla?»
«So
almeno quel nome che pretendete di nascondermi per sempre. Il vostro
Angelo della Musica, Madamoiselle, si chiama Erik!»
A
queste parole trasalimmo entrambe. Se il visconte fosse stato più
accorto, avrebbe notato il livore sul mio viso e dedotto che sapevo
più di quanto apparisse.
Christine,
bianca come la tovaglia di un altare, balbettò: «Chi ve l'ha
detto?»
«Voi
stessa!»
«Com'è
successo?»
«Mentre
lo compiangevate l'altra sera, dopo il nostro incontro sul tetto.
All'arrivo nel vostro camerino, non avete forse detto: “Povero
Erik!”? Ebbene, da qualche
parte c'era un povero Raoul che vi ha sentito.»
«É
la seconda volta che origliate da dietro una porta!» esclamò
Christine, sdegnata.
Assunsi
un'espressione colpevole quanto quella sul volto di Raoul.
«Non
ero dietro la porta – ero nel camerino! Nel vostro stanzino,
Madamoiselle…»
Probabilmente
si era intrufolato lì pensando di poter parlare con Christine, e
trovando la porta aperta, alla fine aveva deciso di svelare una volta
per tutte il mistero che lo attanagliava. Naturalmente aveva usato i
mezzi sbagliati, ma non potei non pensare che al posto suo avrei
fatto lo stesso, e me ne vergogno un tantino.
«Sciagurato!»
gemette Christine, in preda a un indicibile spavento. «Sciagurato!
Volete che vi uccidano?»
«Può
darsi!»
Raoul
pronunciò quelle parole con tanto amore e disperazione che a
Christine sfuggì un singhiozzo.
Allora
gli prese le mani con tutta la tenerezza di cui era capace, e gli
disse solennemente: «Raoul, bisogna che dimentichiate la voce
maschile, che perdiate memoria
perfino del suo nome… che non tentiate mai più di penetrare il suo
mistero!»
«Questo
mistero è dunque tanto terribile?»
«Non
ce n'è uno più spaventoso sulla terra.»
Un
silenzio sconsolato calò tra i due giovani.
«Giuratemi
che non farete niente per “salvarmi”» insistette Christine.
«Giuratemi che non entrerete più nel mio camerino se io stessa non
vi ci chiamerò.»
«E
voi mi promettete di chiamarmici qualche volta, Christine?»
«Ve
lo prometto.»
«Quando?»
«Domani.»
«Allora
ve lo giuro!»
Lui
le baciò le mani e si congedò con un ultimo inchino rivolto a me e
a Mamma Valerius, che osservavamo la scena che si spiegava davanti a
noi come da un punto sulla distanza.
Christine
aveva dunque preso la situazione tra le mani. Ora toccava a lei ogni
decisione: noialtri eravamo impotenti di fronte alla sua forza di
volontà. Con lo scopo di proteggerci, tuttavia, forse non proteggeva
se stessa. Avrebbe davvero cercato di morire, se Erik non l'avesse
più lasciata andare? Ne era capace? Intuii che sì, lo era eccome.
Christine possedeva un coraggio silenzioso, di quelli che non si
vantano, non si scorgono che ad uno sguardo più scrupoloso. Era quel
coraggio che le faceva provare compassione persino per il suo
carceriere. L'uomo che si nascondeva dietro la maschera avrebbe
permesso o no che Christine vedesse Raoul prima della partenza di
quest'ultimo? Forse era talmente sicuro che il ragazzo sarebbe
partito da aver abbassato la guardia. Non sperai che avesse
cominciato a comprendere che Christine non era un oggetto di sua
proprietà, da adorare e ornare come desiderava; non un uccello in
gabbia, ma un essere umano libero, con una sua volontà1.
Era la volontà di Christine che avrebbe deciso il suo fato e quelli
di Raoul ed Erik, non le manipolazioni di quest'ultimo. Diceva di
amarla; mi chiedevo se, con la vita che aveva vissuto, non avesse che
un'idea sfigurata dell'amore, di cui poteva aver letto, o visto in
un'opera. Di certo non sapeva come corteggiare una donna. Nel suo
appartamento sul lago l'aveva ricoperta di fiori e di ogni comodità,
ma non era che una gabbia dorata: Christine lì sarebbe soffocata.
Sarebbe morta. Lui si era inginocchiato di fronte a lei, aveva
mostrato le sue lacrime, ma anche quanto terrificante potesse essere
la sua furia. Diceva di essere suo schiavo, ma era chiaro che la
prigioniera in tutto questo era Christine, che non aveva libertà di
scelta.
Come
sarebbe andata a finire quella tragedia?
Tutto
ciò, sommato alla fatica delle lezioni di danza e all'ansia per
l'audizione, scatenò in me una tosse violenta che riuscivo a stento
a nascondere a mia madre. Nonostante i miei sforzi, il gelo preso in
quel periodo – nella camera degli specchi, nel lago e nella pioggia
– mi si era cucito addosso come una seconda pelle. Non c'era attimo
in cui non avessi freddo. In più, i miei incubi erano tornati. Forse
gli avvenimenti di quel periodo mi avevano turbata più di quanto
credessi, perché i miei sogni erano pregni di ricordi che pensavo di
aver messo da parte ormai da un po'. I miei pensieri erano frattaglie
imbevute di sangue: mi sembrava di avere il cervello in fiamme –
una guerra che non cessava nemmeno con l'arrivo del sonno, dove ad
aspettarmi c'erano mostri peggiori del fantasma che infestava l'Opera
Garnier. Non pensavo ad altro che a ballare: un
deux trois attitude derrier entrechat arabesque fouettés – tutto
era confusione nella mia testa. Un rumore bianco, assillante.
Non
dormivo la notte. Mi esercitavo continuamente, senza prendermi una
pausa, col timore che sarei rimasta a pensare
(i ricordi erano polvere nella
mia mente, e non andavano via col vento d'inverno): questo mi avrebbe
causato dolore. Molte volte il nome di mio padre mi sfuggiva dalle
labbra in quei sogni imprendibili. Fu mia madre che, la notte prima
del provino, a un mio urlo disumano, si precipitò al mio capezzale e
mi toccò la fronte madida di sudore gelido. Io la abbracciavo con
mani tremanti.
«Ti
ho svegliata.»
«Avrai
svegliato mezza Opera, ma non importa. Ora sei al sicuro. Ci sono qui
io, adesso.»
Mi
scostò i capelli appiccicosi dalla pelle traslucida del collo.
«Ma
tu tremi.»
Mi
costrinse a stringermi nelle coperte, sperando che il tremito e il
rumore nella mia testa scomparissero, magari all'unisono.
«Lo
hai sognato ancora, non è vero?»
Ora
mi capitava due, tre volte all'anno. In quei giorni avevo avuto ben
più di un incubo: forse era l'ansia per l'audizione, per me così
importante, che mi regalava quelle visioni notturne di cui avrei
volentieri fatto a meno.
«Sì.»
«Ti
preparo qualcosa di caldo.»
«No,
aspetta» tossii nel cuscino. Mia madre mi strinse forte una mano.
«Sei
bollente. Meg, domattina devi farti controllare da un dottore.»
«Non
se ne parla!» esclamai, con tanta forza che maman
fu costretta a farmi cenno di
abbassare la voce. «Non voglio nessun medico… Si tratta solo di un
incubo, niente di più. È normale. Solo un raffreddore.»
«Meg,
tu hai la febbre.»
«Domani
ho un'audizione, mamma. Non posso farmi fermare da questo» dissi, la
voce riarsa. Poi aggiunsi, in un tono minuscolo, quasi fosse ancora
una bambina spaventata: «Non lasciare che i medici mi portino via.
Ti prego.»
Lei
mi strinse tra le braccia, scuotendo il capo con gli occhi lucidi di
lacrime nascoste. «Mai, Meg. Te lo prometto.»
Era
il nostro segreto silenzioso; neanche Christine sapeva di questa mia
paura. Era a conoscenza della mia avversione per i dottori, ma non
poteva immaginare quanto fosse profonda e pericolosa in realtà.
Quella
notte mia madre non lasciò il mio capezzale se non per andare a
prepararmi una tisana bollente, che mi ustionò la lingua appena ne
sorbii un sorso. Riuscii a calmarmi, ma non ripresi a dormire.
Ripassai con mia madre le varie posizioni del balletto che avevo io
stessa coreografato e che avrei portato al provino l'indomani. Lei si
complimentò con me, niente affatto sorpresa.
«So
che hai talento, Meg. È ora che tutti si accorgano di quanto vali.»
Annuii,
emozionata – non che l'avrei mai ammesso, neanche a mia madre.
Quest'ultima mi sfiorò una guancia con una mesta dolcezza, rara in
lei quanto un fiore tra pinnacoli innevati. «In qualunque modo
andrà, sarò fiera di te. Ma devi riguardarti, Meg. Dopo il provino,
devi farti controllare questa tosse e la febbre. Me lo prometti?»
Annuii
ancora una volta, la gola troppo riarsa per parlare.
«Non
lascerò che ti accada nulla di male, Meg. È solo una visita
medica.»
L'ultima
volta che avevo visto un dottore avevo dieci anni; era stato in un
ospedale che appariva più simile a un carcere, e di cui mio padre
era ospite. La freddezza con la quale gli poneva domande era
strabiliante. Lì dentro gli avevano rovinato la vita. Non volevo
fare la stessa fine, anche se questo timore mi ossessionava.
Assomigliavo a mio padre più di quanto volessi, forse anche nelle
cose peggiori. Mi chiedevo se mia madre riviveva il calvario che
erano stati gli ultimi mesi di vita di mio padre, quando io ero in
quelle condizioni.
Il
sole emerse dalle nubi fumose – una maestosa sfera di fuoco, simile
a quella in cui si era tramutato il mio cervello in quelle ore
notturne. Debole e ancora febbricitante, mi lavai e mi vestii in gran
fretta, recandomi subito nella sala della danza per esercitarmi alla
sbarra e scaldarmi i muscoli. Non feci colazione: avevo la sensazione
che, se avessi inghiottito qualcosa, avrei rischiato di dare di
stomaco sul palco, e non era proprio il caso. Ma un semplice
raffreddore non mi avrebbe fermata.
Tra
le fila di ragazze che concorrevano per il provino, trovai Juliette,
che si spaventò non appena mi vide.
«Dio,
Meg, sei così pallida! Stai bene?»
Dovevo
essere davvero livida, se la mia pelle scura aveva assunto quel
colorito terreo. «Solo un raffreddore. Devo aver preso la malattia
di Christine.» Inventai lì per lì una scusa che per metà era
vera. Juliette mi rivolse comunque uno sguardo preoccupato, quasi
come altre due ragazze che avevano trasalito quando per poco non
avevo starnutito loro addosso.
«Sei
pronta?» mi chiese la mia amica.
«Sono
nata pronta» gracchiai, sperando di risultare convincente.
Dall'espressione sul bel volto di Juliette, si capiva che non la
pensava nel medesimo modo.
Ci
fecero aspettare nel foyer della danza; ci avrebbero chiamate secondo
un ordine alfabetico. Strinsi le mani a pugno e provai qualche plié.
Bene, avevo ancora il
controllo del mio corpo. Mi bastava non crollare sul palco –
ballare come avevo ballato durante quelle esercitazioni infernali,
giorno e notte, senza altri pensieri per la testa.
Ma
tutto quel sangue…
Cominciai
a grattarmi il braccio con una tale voracità che Juliette fu
costretta a posarmi una mano sulla spalla per fermarmi. «Calma, Meg»
mi disse in tono dolce e rassicurante. «Siamo tutte nervose.» Nei
suoi occhi brillava una vera apprensione. Non mi aveva mai visto così
agitata in tutta la sua vita.
«Meg,
sei sicura di stare bene?» chiese, accigliata.
«Benissimo.
Mai stata meglio» mentii prontamente. Mi chiesi se Erik avrebbe
assistito ai provini, o forse era troppo occupato a perseguitare
Christine. Ah, no, eccola che compariva – la mia amica era tra il
pubblico. Era lì per vedere me.
Il pensiero di dover rendere fiera anche lei mi incoraggiò, in
qualche modo.
Non
farti abbattere da un raffreddore e qualche incubo. Puoi farcela.
Quando
arrivò il mio turno, quasi saltai in piedi. Mi diressi verso il
palco, sentendo su di me gli sguardi apprensivi di mia madre e
Christine, che doveva aver notato l'espressione sul mio volto.
«Madamoiselle
Marguerite Giry, giusto?» chiese l'amministratore Mercier. Annuii,
sperando davvero di non dare
di stomaco.
«Che
cosa ci portate?» s'informò invece Reyer, con voce più gentile e
il solito sorriso che riservava solo alle sue “nipoti” preferite
– tra cui Christine ed io.
«Una
mia coreografia, ispirata alla Regina delle Villi.»
«É
per questo ruolo che ballerete?»
«Sì,
è per questo.»
Vidi
alcune delle altre ragazze del corps
de ballet confabulare tra
loro. Mia madre si irrigidì e richiamò il silenzio. La Sorelli mi
guardava dall'alto in basso, come se non potesse credere alla mia
sfacciata insolenza. Tutti sapevano che ero figlia dell'istruttrice
di danza, e credevano che avrebbe scelto me solo perché ero sua
figlia. Non sapevano che mia madre seguiva delle regole ferree, e non
mi aveva mai mostrato preferenze? Chi avrebbe dovuto preoccuparsi
erano i direttori Moncharmin e Richard, a cui sarebbero state
indirizzate le mie future lettere di raccomandazione da parte di un
certo F. dell'O.
Provai una rabbia inaudita al pensiero: dovevo farcela con le mie
forze! Cos'era questo imbroglio?
Quest'oggi
avrei dimostrato che non c'era bisogno di tutto quel raggiro: le mie
gambe erano abbastanza solide da reggere il peso dei miei sogni, e
soprattutto quello della più crudele realtà. E poi, non era proprio
il momento per pensare ad Erik.
Non
potei fare a meno di chiedermi se avrebbe assistito alle audizioni.
In fondo, come diceva lui, era il suo
teatro, chi veniva assunto per
un determinato ruolo era sotto la responsabilità dei direttori. E
dal momento che lui se ne andava in giro quasi fosse il re di quel
luogo…
Consegnai
al pianista il mio spartito e tornai sul palco, posizionando i piedi
nel modo corretto.
Un,
doix, trois…
Quando
la musica mi giunse alle orecchie, provai un calore immenso, una
fornace nel petto. Mi mossi con grazia e sicurezza: d'un tratto la
febbre era sparita, o così mi sembrava, tanto ero concentrata sui
miei passi. Mi libravo come una libellula indecisa su quale fiore
posarsi, e in quella danza riversai tutta la mia intensità, la mia
infelicità, la mia apprensione di quei giorni. Gli incubi erano
diventati musica, e questa mi giungeva dal pianoforte alle orecchie
come gocce di pioggia – tic
tac, una ad una, per una
catena infinita di suoni e immagini meravigliose.
Potevo
quasi udire il sospiro di sollievo di mia madre.
Poi
accadde: la vista mi si annebbiò, ma non smisi di danzare. Quando
finii, non udii neanche l'applauso stupefatto che ne era seguito. La
mia mente era concentrata su un unico pensiero: togliermi il sangue
di dosso. Me lo sentivo sulle mani, sulla schiena, tra le cosce –
caddi a terra svenuta e il buio si chiuse attorno a me. Feci appena
in tempo ad udire delle voci preoccupate chiamare il mio nome.
Il
sangue, pensai, sconcertata.
Levatemelo di dosso. Un
paio di braccia mi afferrò, trascinandomi verso l'alto. Un pensiero
mi attraversò la mente febbricitante – i
medici mi stanno portando via! Finirò come mio padre, trattata come
un animale rabbioso. Mi
divincolai con tutte le mie forze, senza vedere nulla intorno a me se
non abbacinanti macchie rosse, sentendo tra le dita il liquido
cremisi, viscoso e spietato. Ma era tutto nella mia immaginazione,
come avrete potuto capire. E non per questo era meno reale.
Sentii
una voce amica esclamare il mio nome a gran voce. Era Christine:
vedevo il suo volto pallido galleggiare dinanzi a me, e quello di mia
madre.
«Chiamate
un dottore, presto!»
No,
niente medici… Nessuno mi
diede retta.
«Oddio!
Sta male!»
«Chiamate
aiuto!»
Non
percepii più il freddo legno del pavimento sotto le mie membra
stanche e doloranti – qualcuno mi aveva sollevata. Tossii, sentendo
anche in bocca il sapore rugginoso del sangue.
E
il sangue era vita e morte ed era ovunque – il suo ricordo non mi
avrebbe mai lasciata: quello del mio vero battesimo.
D'improvviso
avevo di nuovo dieci anni, con le scarpe che sguazzavano in una
pozzanghera rossa, il cadavere di mio padre ancora caldo ai miei
piedi… Niente e nessuno avrebbe potuto salvarmi da quello,
ora.
Persi
conoscenza, continuando a bofonchiare cose senza senso, a gemere di
dolore e talvolta ad urlare – mi sentivo ancora il sangue addosso,
capite, e nessuno vedeva!
Nessuno faceva qualcosa per
ripulirmi! Come potevano essere così ciechi?
Il
corpo senza vita di mio padre si raffreddava sul pavimento.
Fu
allora che diedi in un ultimo gemito e il buio mi inghiottì del
tutto.
Avevo
nove anni e camminavo in punta di piedi in cucina, scoprendo mio
padre seduto al tavolo, con un bicchiere e una bottiglia tra le mani
tremanti. Il volto di Claude Giry era pregno di un dolore
inimmaginabile. Quando mi vide arrivare, si sciolse in un sorriso
nervoso.
«Meg,
non ti avevo sentita. Vieni, bambina.»
Mi
accoccolai sulle sue ginocchia, ignorando il lezzo di alcol che
aleggiava attorno a lui come una nuvola velenosa.
«Mamma
ha detto che starai via per un po'» gli dissi, gettandogli le
braccia al collo. Non volevo che se ne andasse, ma non mi erano
sfuggite le urla notturne, il suo sguardo spento, il suo umore
fragile. Era il fantasma dell'uomo che era stato mio padre una volta.
«Stai
male, papà? Mamma dice che i dottori ti guariranno.» Raccolsi una
sua lacrima e gli baciai la guancia. Lui si scostò leggermente.
«É
così, Meg. Non devi preoccuparti. Starò molto bene, dopo. Ti
porterò di nuovo al parco, così potrai arrampicarti sugli alberi
quanto vuoi.»
«Posso
venire a trovarti in ospedale?»
Lui
esitò. «Forse… Non è un posto adatto a una bambina come te.»
«E
perché? I malati non mi fanno paura.»
«In
questo ospedale si ricoverano dei malati un po'… speciali. Non è
neanche un vero ospedale, è una struttura di confine.»
«Anche
tu sei speciale, papà?»
Lui
sorrise – il sorriso più triste che avessi mai veduto. «Non lo
siamo tutti?»
Annuii.
«Non
preoccuparti. Papà tornerà presto. Guarirò, così potrò tenerti
fra le mie braccia per sempre e giocare con te quando e come vuoi.
Potrò vederti crescere e…» Qui si interruppe, singhiozzando sulla
mia spalla. Gli accarezzai i capelli, a disagio. Non avevo mai visto
mio padre piangere in quel modo.
«Mi
dispiace, figliola. Meriti un padre molto migliore di me.»
«Ma
io non voglio un altro papà. Io voglio te.»
Con
tutte le tue manie, pensai.
Avevo colto quella parola in uno degli ormai frequenti litigi tra i
miei genitori, ma non sapevo cosa significasse, se non che faceva
piangere il mio papà. C'era come un'ombra minacciosa che incombeva
su di noi, e non conoscevo il suo nome.
Note
dell'autrice:
1 non un uccello in gabbia, ma un essere umano
libero, con una sua
volontà: citazione dal
romanzo Jane Eyre di
Charlotte Brontë.
Eccoci al
nuovo capitolo. Vi dico solo che, dopo questo, il rapporto tra certi
due personaggi di nostra conoscenza cambierà per sempre. Eh eh, vi
lascio sulle spine, non è vero?
Captain
Willard: Ma lo sai che ho
capito che sei un ragazzo solo adesso? XD Avevo dato per scontato che
fossi una ragazza dato che la maggioranza degli utenti del sito lo
sono, e invece sono contentissima. Comunque sì, Erik/Meg = OTP a
vita. Ti posso chiedere come mai li shippavi già prima? Io no, è
stato qualcosa di naturale che è nato mentre scrivevo questa storia.
Grazie mille per i complimenti, spero che anche questo capitolo ti
sia piaciuto!
Malinconica:
Ci hai preso quando dici che
Erik prova simpatia per Meg, ed è per una ragione in particolare che
svelerò nei prossimi capitoli. Non voglio dire nulla. :D Alla
prossima, e grazie!
P.S.
Qualcuno di voi ha già capito il trauma nel passato di Meg, che ha a
che fare con suo padre? Cercate di indovinare (vi dico solo che, come
si è già capito, è qualcosa di molto triste).
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Capitolo 14 *** Nel dominio del fantasma. ***
xiii.
nel
dominio del fantasma
Attorno
a me si diramava il buio più totale. Chiazze rossastre mi
annebbiavano la vista, e non sapevo più dove fossi. Voci confuse mi
arrivavano ai timpani – ovattate, come memorie di un sogno
dimenticato. Mi sentivo come se fossi diventata una fiamma viva.
«Dottore,
come sta?»
«É in preda al delirio, causato dalla febbre molto alta. Dovevate
chiamarmi prima, Madame.»
«L'avrei
convinta a farsi visitare oggi. È forse troppo tardi, dottore?»
«Ha
i polmoni pieni d'acqua, Madame, e un principio di polmonite.»
I
presenti trattennero il fiato.
«Se
non curata, potrebbe diventare molto grave. Ma ciò che mi preoccupa
è la febbre cerebrale.»
«Febbre
cerebrale?»
I
miei incubi, pensai. Li
rammentai tutto d'un tratto, dopo la tregua che mi aveva regalato lo
stato di incoscienza – tornarono da me con il moto di una slavina
impetuosa. Erano parte di me stessa, non meno delle ossa, del
midollo, della danza.
«Si
riprenderà?»
Questa
volta non fu mia madre a parlare, ma un'altra voce, una deliziosa
voce ben viva nei miei ricordi offuscati. Christine.
Pensai a come doveva essere
spaventata per me. Anche la malattia di suo padre era cominciata con
una semplice tosse, da cui non si era più ripreso.
«Per
la polmonite, sì. Siamo arrivati appena in tempo. Ma temo per la
febbre cerebrale. Se si dovesse svegliare…»
«Se?»
gemette mia madre. Potevo immaginarla portarsi le mani al cuore,
sconvolta da quella nuova prospettiva.
«Quando»
corresse il dottore. «Quando si sveglierà, potrebbe non essere più
la stessa persona. Ha subito un trauma molto forte, voi mi dite.»
«Sì,
è così.»
«Sarà
difficile che si riprenda da questo, allora. Mi dispiace, Madame –
Madamoiselle. Forse la cosa più giusta da fare sarebbe ricoverarla.»
Dopo
che il dottore se ne fu andato, non udii più nulla se non il pianto
silenzioso di mia madre e Christine, e persi di nuovo conoscenza. Il
buio mi avvolse nel suo abbraccio freddo e non provai alcuna emozione
o dolore: ero in un limbo in cui i miei polmoni e il mio cervello
galleggiavano tra le fiamme. Perché è così che sentivo il mio
corpo: lambito dal fuoco più doloroso.
Cosa
ne sarebbe stato della cenere dei miei ricordi, dei miei sogni più
oscuri? Ero diventata un involucro di carne e ossa e male, e
null'altro.
L'ospedale
era di un bianco accecante. Era un luogo in cui l'assenza di colori
regnava sovrana, un luogo colmo di suoni e odori che io non
conoscevo. Anche mio padre era divenuto non più di una macchia
bianca su uno sfondo altrettanto candido. Era tutto così
fastidiosamente pulito, senza un granello di polvere, di vita;
sembrava l'anticamera di una tomba. Allora non potevo immaginare di
averne ricevuto l'impressione più giusta.
Visitammo
mio padre nella sua cella – perché di cella si parlava. Era una
prigione, ampliata solo dalle sofferenze della sua mente fragile. Non
udivo altro che il palpito impazzito del mio cuore e urla lontane,
come provenienti dalle viscere della terra, ma in realtà più vicine
di quanto fosse possibile immaginare. Quel luogo mi metteva i
brividi. A nove anni, decisi che non sarei mai stata costretta a
trovarmi in un posto del genere. Mai, mai come mio padre. Eppure lo
avevo visto deteriorarsi di fronte ai miei occhi di figlioletta
ignorante. Ora appariva simile a un fantasma: la sua pelle scura
aveva assunto una tonalità livida che incuteva paura negli animi
degli unici cari che gli fossero rimasti, ossia mia madre ed io. Fu
una visita frettolosa e quasi del tutto priva di parole; ci limitammo
ad abbracciarci forte tutti e tre, insieme, come una volta. Ma adesso
quell'abbraccio sapeva di sogni spezzati e parole impossibili da dire
a voce alta.
«Vi
voglio bene, ricordatelo sempre.»
«Papà,
quando tornerai a casa?» Temevo che non si trovasse bene con noi,
pertanto si era rinchiuso in quel luogo asettico e bianco come il
marmo: per stare lontano da noi.
«Presto»
rispose lui, e attorno ai suoi occhi neri – lo stesso colore dei
miei – si formarono piccole rughe d'espressione. Mentiva, ma le
bugie avevano il sapore del miele e io le inghiottivo senza dire
nulla.
Appoggiai
l'orecchio alla porta. Già da allora ero troppo curiosa e
m'immischiavo in fatti di cui evidentemente i miei genitori volevano
tenermi all'oscuro. Le loro voci offuscarono i miei pensieri e il mio
senso di colpa per quell'ennesima malefatta.
«Le
voci non tacciono mai, Antoinette. E fin quando sarà così, non
posso offrirvi nulla.»
«Ti
hanno dimesso dall'ospedale… Pensavo stessi meglio.»
«Non
è un ospedale. Chiamiamolo col suo vero nome.»
«Claude…»
«Antoinette,
io ti amo, e amo anche nostra figlia. Non sai quanto. Ma non posso
vivere così. Non ho nulla da offrirvi se non sofferenza. E non mi
farò rinchiudere ancora come un criminale, messo in gabbia come una
bestia senza nome.»
«Cosa
posso fare per te? Per aiutarti?»
«Nulla,
purtroppo. È una battaglia che devo combattere da solo.»
Allora
non sapevo che l'avrebbe persa del tutto.
Il
sangue mi inzuppava le scarpe, i vestiti, le mani. Avrei dato
qualunque cosa pur di togliermelo di dosso. Rimasi muta, negli occhi
ancora l'immagine di mio padre che moriva. Avevo dieci anni e per un
mese intero non avrei più detto una parola.
«Perché
lo ha fatto? Perché è dovuto morire?»
«Il
suo male lo ha divorato. Non aveva più forza per andare avanti. Meg,
è ora che tu lo sappia.»
«Neanche
i dottori sono riusciti a curarlo.» Trattenevo a stento le lacrime –
il corpo freddo di mio padre come un'ossessione, un'impronta
incancellabile nella mia coscienza. «Lo hanno trattato come un
fenomeno da baraccone, lo hanno messo in gabbia. Li odio, li odio
tutti.»
«Meg…»
«Avrebbero
dovuto fargli del bene, e invece lo hanno rovinato.» Quando era
uscito da quell'ospedale, era già morto. Era andato via per sempre.
Non avrei mai rivisto mio padre come quando ero piccola e mi
insegnava a giocare a palla nel parco del Luxembourg, i nomi delle
stelle e quelli degli uccelli nell'aria. La musica nel sangue –
neanche quella era stata in grado di salvarlo. Nemmeno il suo amore
per me e mia madre. Tutt'altro. Il troppo amore lo aveva ucciso.
Mi
svegliai con le orecchie piene dei sospiri, delle urla di mio padre
che squarciavano la notte. Ormai conoscevo quel suono straziante, mi
era familiare come l'aria che respiravo. Era in tutti i miei incubi.
Tutto
intorno a me era una nube ovattata, che mi proteggeva dalla realtà
troppo dura. Strabuzzai gli occhi e cercai di mettere a fuoco
l'ambiente in cui mi trovavo. Ero in un letto, questo era ovvio; non
bianco, quindi non mi trovavo in ospedale, ma non ero neanche nella
mia stanza. Mi guardai in giro, sollevando leggermente il capo: ero
in una camera ammobiliata semplicemente, distesa supina su un
elegante letto a baldacchino, le lenzuola color rubino che
contrastavano col legno di mogano del mobilio, in qualche modo
antiquato. Un lampadario diffondeva una luce dorata che si rifletteva
su ogni cosa, come uno specchio sfocato. Su una cassettiera, notai
che scoccava l'ora un orologio stile Luigi Filippo.
Rimasi
attonita, mentre la paura cominciava a serpeggiarmi dentro, subdola e
soffocante. No, non poteva essere. Se la descrizione combaciava –
ed era effettivamente così – allora non c'erano dubbi. Mi trovavo…
Con
uno sforzo, sollevai il capo dai cuscini di piume, scostando la
coperta. Indossavo la mia semplice veste da notte grigia, che mi
scendeva sulle spalle come seta liquida. Feci per alzarmi, ma non ne
ebbi la forza. Sembrava che le mie membra fossero state investite da
una carrozza in folle corsa. Provai di nuovo, ma fu vano. Le mani mi
tremavano, e non solo per il freddo. Cacciai fuori un mugolio di
protesta.
«No»
dissi, quasi che in questo modo potessi far scomparire d'incanto
quell'ambiente sconosciuto eppure familiare e riportarmi al sicuro,
nella mia stanza in superficie. «No no no no…»
«Non
dovresti muoverti, Madamoiselle.»
Trasalii.
Non lo avevo sentito entrare.
«Tu»
sibilai con ostilità.
«Io»
confermò lui. Si ergeva alto e dinoccolato sulla soglia della camera
Luigi Filippo, in maniche di camicia. Come sempre, il suo volto era
celato dietro la maschera nera. I suoi occhi d'oro apparivano
impassibili.
«Che
cosa ci faccio qui?» chiesi, sull'orlo di un attacco di panico.
«Ti
ci ho portata io» rispose lui come se nulla fosse. Lo guardai, piena
d'incredulità.
«É
uno scherzo, vero?»
«Ti
pare che abbia voglia di scherzare? Non mi fa più piacere che a te,
credimi.»
Mi
toccai la fronte madida con una mano intorpidita. Il mio ultimo
ricordo risaliva alla mia audizione. Dopo questa – che supponevo
fosse stata un disastro – non rammentavo che voci confuse e sogni
deliranti, un dolore sordo al petto, la gola riarsa, le membra
febbricitanti. Cercai di collegare tutto questo alla mia situazione
attuale, ma non trovai soluzione all'enigma.
«Perché
sono qui?» incalzai, sempre più agitata.
«Stai
calma. Non ricordi nulla di quanto è accaduto?»
«Ricordo
solo che sono svenuta sul palco. Mi sentivo malissimo. Ma tu non hai
risposto alla mia domanda.» Cosa dovevo fare per ottenere una
risposta chiara da lui – mettermi a urlare? Lanciare qualcosa di
preferibilmente contundente su quella testa mascherata?
«Stavi
tanto male che hai rischiato di non riprenderti più.»
«E
tu cosa c'entri in tutto questo, si può sapere? Pretendo
di tornare a casa!»
«Tu
non puoi pretendere nulla, Madamoiselle. Sei mia ospite.
Io sono il padrone di casa. Non puoi dare ordini a me
– sono stato abbastanza chiaro?»
La
sua voce era tonante e freddissima. Rabbrividii fin nel midollo.
«Non
hai risposto alla mia domanda. Sono tua prigioniera? Che cosa mi hai
fatto, mi hai drogata di nuovo?»
Lui
scoppiò in una risata priva di gioia.
«Non
mi pare di aver accennato a nessuna prigionia, qui. Ripeto, sei mia
ospite.
Tua madre pregava che qualcuno ti aiutasse senza però essere
costretta a portarti in ospedale. Una richiesta quasi impossibile,
dal momento che la febbre cerebrale che ti ha colpito è stata
fulminante. Ma io ho i miei mezzi. Le ho proposto di curarti io
stesso, e lei ha accettato.»
«Cosa?
E perché avresti dovuto fare una cosa del genere?»
«Perché
ho promesso di vegliare su di te, piccola insolente che non sei
altro. C'è un accordo effettivo tra me e tua madre, non lo
dimenticare.»
Rabbrividii.
Eccolo lì, il mio angelo guardiano… Terribile come solo un angelo
sa essere.
«Sei
rimasta priva di sensi per quattro giorni.»
«Quindi
sono quattro giorni che mi trovo in questa catacombe?»
Lo
vidi serrare il pugno – segno che era irritato dal mio inesistente
rispetto verso la sua dimora.
«Sì.»
Evitai
di farmi prendere dal panico e lanciargli un cuscino in faccia –
cosa che comunque non sarei riuscita a fare, ero ancora troppo
debole. Decisi di ponderare con razionalità quanto mi aveva detto.
Mia
madre si fidava a tal punto di lui? Nella disperazione e nel timore
di perdermi, forse aveva acconsentito a quest'ultimo tentativo di
salvarmi, ma non potevo credere che Erik avesse compiuto un atto
tanto generoso senza altri scopi in mente.
«Voglio
tornare di sopra.»
«Non
puoi.»
«Allora
ammettilo che sono solo tua prigioniera!»
«Ti
ripeto che sei mia ospite. Non puoi andartene: sei ancora troppo
debole. È già un miracolo che tu riesca a stare in piedi oggi.»
Inclinò il capo, come per riflettere. «In effetti, lo devi a me.
Tua madre non ti ha insegnato a mostrare un po' di gratitudine?»
«Ah,
grazie tante!» esclamai, ora furibonda. Come osava portarmi lì,
sotto la terra, senza il mio consenso, per poi impedirmi di andarmene
quando volevo? Non avevo nessuna intenzione di trascorrere altro
tempo in balia di quell'uomo.
«Hai
rischiato di morire per la tua poca accortezza, e ora sei salva.
Cos'altro desideri, Madamoiselle?» disse lui con un tono che
traboccava acredine.
Mi
sollevai le coperte fino al mento, sentendomi nuda sotto la pelle.
«Cosa
vuoi da me? Cosa mai puoi volere da una come me?»
Lui
non rispose, imponente, terrificante nel suo silenzio di brina.
Sbuffai e scostai le coperte, ignorando che sotto la veste le mie
gambe erano nude e avevano un disperato bisogno della ceretta. Misi
un piede a terra, tentai qualche passo esitante. Mi sentii
incredibilmente pesante, io che ero tanto minuta e leggera, e le mie
gambe erano troppo fiacche per reggere un peso simile. Crollai a
terra dopo quattro passi, i piedi nudi sul pavimento gelido.
Erik
avanzò lentamente, come dinanzi a una bestiolina ferita. Questo
pensiero mi fece stridere i denti dalla rabbia.
«Non
ti avvicinare» gli intimai, ma queste parole non ebbero su di lui un
grande effetto, specialmente perché avevo cominciato a tossire in
modo violento e convulso, soffocando il viso nel palmo di una mano
tremante. In pochi passi egli mi raggiunse e mi sollevò come fossi
stata una bambola di creta, deponendomi sul letto e coprendomi con le
coperte dal calore invitante. Mi ribellai debolmente, ancora
impegnata a tossire.
«Lasciami
stare.»
«E
farti morire? È questo che vuoi?»
«A
te cosa diavolo importa?»
«Attenta
a come parli.»
«Attento
tu, invece! Non mi meraviglio se non mi fido di te – dopo tutte le
meschinità che…»
Tossii
di nuovo, più forte di prima. Erik mi tese un bicchiere d'acqua che
era posato sul comodino accanto al letto. Lo guardai sospettosa. Mi
parve di intravedere un lampo di malinconia in quelle pupille d'oro
fuso, inquietanti come quelle di un gatto e altrettanto disumane.
«Non
è veleno. Se avessi voluto ucciderti, non saresti qui ora, te lo
garantisco.»
Decisi
di credergli, almeno questa volta, e bevvi avidamente. Mi sembrò che
anche la mia mente si rinfrancasse da quell'orribile risveglio.
«Anche
Madamoiselle Daaé sapeva che avevo i mezzi per aiutarti, e ha
richiesto che facessi qualcosa per te. Per questo ti ho portata qui.»
«Mi
hai intrappolata qui, vorrai dire.»
Lui
strinse la mascella. «No. Puoi andartene quando vuoi. Anche adesso,
se lo desideri, ma sappi che in queste condizioni, se non sei sotto
la mia stretta sorveglianza, potresti rimetterci parecchio. La
decisione spetta a te.»
Fece
per voltarmi le spalle, ma io scattai in avanti, malgrado la
debolezza, e gli afferrai un polso ossuto. «Non te ne andrai fin
quando non saprò chi sei davvero, qual è il tuo vero scopo –
perché dubito che tu sia divenuto un filantropo così d'improvviso,
e…»
Lui
si divincolò dalla mia molle presa in un battito di ciglia e strinse
a sua volta il mio polso in una morsa ferrea.
«Forse
non ci siamo capiti. Questa è casa mia.
Sei mia
ospite, e se rimani qui non
dovrai vagare per la casa, né disturbarmi mentre lavoro. Chiaro?»
Il suo tono di voce era così raggelante che mi parve di aver
ricevuto una secchiata d'acqua gelida addosso. Deglutii a fatica e mi
divincolai a mia volta dalla sua presa. Sperai di avergli conficcato
le unghie nella pelle di cera.
«E
non dovrai toccare la maschera di Erik.»
Mi
diede quest'ultimo monito con una tale solennità che mi sentii più
piccola di quanto già non fossi. Una sciocca, piccola bambina
cocciuta, sempre pronta a infilarsi in guai più grandi di lei.
Erik
girò i tacchi e sparì oltre la porta, che – notai – non
richiuse a chiave dietro di sé. Forse confidava così tanto nelle
sue capacità minatorie da essere convinto di avermi intimorita. Si
sbagliava. Non aveva, non poteva avere nessuna influenza sulle mie
decisioni e azioni. Non sarei stata sua umile schiava finché fossi
rimasta lì, in quella spiacevole compagnia – non sapevo chi dei
due detestasse più l'altro.
Eppure,
a quanto diceva, mi aveva salvato la vita. Ricordai la voce del
dottore tra i miei deliri. Mi era arrivata alla mente come l'unica
nota giusta su un pianoforte male accordato. Aveva detto che molto
probabilmente non mi sarei più ripresa dalla febbre cerebrale, che
niente avrebbe potuto farmi ritornare com'ero prima. A quanto pare si
sbagliava.
Come
aveva potuto curarmi meglio di un qualsiasi medico? Era lui stesso un
esperto in medicina o cosa? Da quel che avevo capito, era un genio
musicale, ma non sapevo di altre sue eccellenti doti. Quell'uomo era
una continua sorpresa.
E
anche un incubo. Ovviamente aveva accettato di curarmi non perché
preoccupato per la mia sorte, ma per impressionare Christine. O forse
per tenermi lì come ostaggio. Sì, tutto quadrava perfettamente.
Quel
bastardo…
La
testa cominciò a pulsarmi dolorosamente. La febbre era calata, ma
Erik aveva ragione: ero ancora molto debole e la tosse mi angustiava
i polmoni e la gola. Era naturale che volesse tenermi d'occhio: se le
mie condizioni fossero peggiorate, lui sarebbe stato pronto per
intervenire sul momento. Mi presi la testa fra le mani: non volevo
essere salvata da nessuno, tanto meno da lui – non ne avevo
bisogno. E tuttavia, in quella situazione…
Mi
feci coraggio e pensai di rimanere. In fondo, lui mi aveva detto di
stargli lontano. Finché avessi seguito i suoi ordini, la convivenza
sarebbe stata pacifica. La rabbia mi ringhiò dentro fin nelle
viscere al solo pensiero di fare il bravo soldatino con quel
comandante di ferro, ma decisi che era meglio subire questa
umiliazione che rischiare di stare male di nuovo.
Chiusi
gli occhi, stringendomi nelle coperte calde. Mi trovavo nella stanza
di Christine, la camera in stile Luigi Filippo che lei mi aveva tanto
meticolosamente descritto pochi giorni prima. Mi chiesi se Christine
avrebbe continuato le lezioni col suo maestro, ora che anche io ero
lì per udirle. Forse Erik avrebbe trovato un altro modo perché
s'incontrassero – perché era certo che Christine sarebbe tornata
da lui, non solo per la musica, ma per pietà e paura insieme. La
sofferenza di quell'uomo – non dubitavo che ne avesse provata tanta
fin dalla nascita – lo aveva condotto su un sentiero pericoloso. Lo
aveva trasformato nel mostro che tutti temevano senza che nemmeno se
ne accorgesse. Si era arreso all'evidenza, nell'unico modo in cui
poteva capire se stesso: attraverso gli occhi degli altri. E in quell
ritrovava solo disgusto, paura, repulsione, addirittura odio. Non
c'era da meravigliarsi per come era venuto su. Malgrado i suoi modi…
gentili, quasi servili, verso Christine (eccetto per l'episodio della
maschera, in cui aveva rivelato quanto la sua furia potesse essere
spaventosa a vedersi, e la sua vera natura), dubitavo che mi avrebbe
trattata con le medesime maniere da gentiluomo. Ero una spina nel
fianco, non l'oggetto dei suoi desideri. Non aveva nessun obbligo nei
miei confronti, se non la parola data a mia madre e alla sua pupilla.
Posai
la testa sul cuscino, improvvisamente insonnolita di fronte a tutte
quelle riflessioni. Magari potevo chiudere gli occhi solo per qualche
istante e dimenticare…
Quando
mi svegliai, mi sentii decisamente meglio, tanto da potermi alzare in
piedi. Ero ancora malaticcia, ma me la sarei cavata. Le ombre mi
abbracciavano con dolcezza, ma non sapevo che ora fosse. Accesi la
luce – come aveva fatto
quell'uomo a costruire un
impianto elettrico sotto la terra? – e mi ricordai del bagno di cui
Christine mi aveva parlato giorni prima. Scivolai giù dal letto e
caracollai verso una porta a destra che conduceva nel luogo da me
desiderato. Era una piccola stanza confortevole, grande abbastanza
perché potesse entrarvi anche la vasca. Lo specchio della toilette
mi aveva rivelato un volto scavato e livido in modo malsano, con
incipienti solchi intorno agli occhi, ma comunque vivo.
I capelli erano un groviglio
orribile. Con un sospiro, riempii la vasca di acqua caldissima (mi
chiesi di nuovo come avesse fatto a impiantare un sistema di tubature
in quel luogo dimenticato da Dio, e – immaginavo – da solo), mi
sfilai la vestaglia madida di sudore e ormai maleodorante e mi
lasciai andare a quella stretta rinfrancante. Mi spazzolai i capelli,
districando i numerosi nodi uno per uno finché non furono lisci, ma
privi della lucentezza dei riccioli di Christine. Li pettinai con un
tale trasporto che parecchie ciocche si strapparono dal cuoio
capelluto così violato. Canticchiai sotto voce – in modo terribile
– un'aria di cui non rammentavo il nome e l'autore, per darmi
forza. Solo allora cedetti alle lacrime: sarei dovuta rimanere lì
per chissà quanto tempo, costretta dalla malattia. Furiosa,
cominciai a imprecare in una maniera tale che avrebbe fatto arrossire
persino Jacques e Pierre, i macchinisti amici di Luc. Ripensare a lui
in quel momento faceva troppo male, così volsi i miei pensieri su
mia madre: ancora peggio.
Mi
asciugai in fretta – il bagno caldo mi aveva ristorato – e tornai
nella stanza Luigi Filippo. In un armadio di legno di mogano trovai
un assortimento di abiti femminili, probabilmente destinati a
Christine, e senza pensarci troppo su ne scelsi uno, di un rosa
pallido che risaltava la mia carnagione scura, e lo indossai. Era un
po' troppo lungo per la mia taglia, ma potevo arrangiarmi. Mi avvolsi
in uno scialle di lana, infilando i piedi in delle scarpine troppo
grandi per me. Anche quelle erano per Christine, senza dubbio. Con un
brivido, aprii la porta da cui era uscito Erik e curiosai in giro. Mi
trovai in un salotto simile a tanti altri, con poltrone rivestite in
velluto carminio dall'aria comoda e mura bianche di calce. Qualcosa
catturò il mio sguardo girovago: un pianoforte a coda, lucido e
invitante nella sua magnificenza. Terribile e bellissimo come la voce
del suo proprietario.
Mi
avvicinai allo strumento, attirata da una forza sovrumana. Mille
ricordi mi gremivano la mente: rammentai quando mio padre, celebrato
pianista, mi insegnava le prime note sul pianoforte. Ero una bambina
incredibilmente indisciplinata, ma mio padre era un uomo paziente e
riuscì nell'intento di insegnarmi a suonare. Dopo la sua morte, non
avevo più toccato il pianoforte.
La
mia attenzione fu catturata dagli scaffali ricolmi di libri di ogni
genere e grandezza: volumi rilegati in cuoio antico, pergamene,
edizioni nuovissime – un vasto assortimento che avrebbe fatto la
felicità di ogni amante della lettura. Io non lo ero, ma mi
incuriosii ugualmente. Con la punta delle dita, accarezzai quasi con
riverenza quelle pagine d'inchiostro e anima, e d'un tratto non mi
sentii più così sola. Presi un volume dall'aria antica, dalla
copertina dorata e i caratteri illeggibili: non era scritto in una
lingua occidentale, questo era certo. Forse era arabo, o ebraico.
Cercai di capire di cosa parlasse, ma senza successo. Lo riposi al
suo posto, continuando la mia indagine. Libri di musica, filosofia,
architettura, e persino romanzi – intravidi tra questi Il
conte di Montecristo, di cui
avevo sentito parlare. Afferrai un libro il cui titolo mi attirava:
Cime Tempestose, di
una certa Emily Brontë. Forse ne fui attratta perché era stato
scritto da una donna. Avevo sentito parlare di poche scrittrici
all'epoca: la mia ignoranza in materia di letteratura, francese e
internazionale, era illimitata.
Arretrai,
urtando un corpo solido alle mie spalle. Con un brivido, mi voltai di
scatto e mi ritrovai faccia a faccia con Erik e la sua maschera
impassibile. Trasalii: non l'avevo sentito avvicinarsi.
«Mi
dispiace…» furono le prime parole che mi vennero in mente. Mi
affrettai a riporre il libro sullo scaffale. «Mi annoiavo, e…»
«Ti
annoiavi» mi fece il verso lui, le braccia conserte. Così vicini,
torreggiava su di me, che ero molto minuta. Gli arrivavo appena
all'altezza del cuore.
«Mi
chiedevo se potevo leggere qualcosa per passare il tempo. Mi hai
detto che sono tua ospite.»
«Hai
buona memoria» disse lui, in tono indecifrabile.
Chinai
il capo, sorpresa per quel complimento improvviso, ma consapevole che
non aveva finito di parlare.
«E
con una buona memoria, ci si aspetterebbe che tu ricordi gli
avvertimenti che ti vengono dati!»
Ecco,
per l'appunto.
«Mi
annoiavo» ripetei, impudente.
«Non
puoi girovagare come nulla fosse quando ti ho chiesto espressamente
di non farlo!»
«Non
puoi darmi degli ordini come se fossi una tua sottoposta!»
«Ma
questa è casa mia!
Fin quando sarai qui, seguirai le mie regole!»
I
nostri sguardi – carbone e oro – sembravano pervasi da una strana
elettricità mentre ci fissavamo in silenzio, come cani rabbiosi che
si preparano all'attacco. Cominciò a girarmi la testa. «Non credo
di aver fatto nulla di male…»
«Mi
hai deliberatamente disobbedito, piccola imbecille!»
«E
adesso cosa hai in mente di fare? Sculacciarmi?» dissi senza curarmi
della mia insolenza. Le tempie iniziarono a pulsarmi dolorosamente.
Un senso di nausea mi afferrò alla bocca dello stomaco con tanta
forza che rimasi senza fiato.
«Tieni
a freno la lingua, Meg Giry!»
Cominciai
a tossire violentemente, ma lui andò avanti con la sua sfuriata
incredibilmente irritante.
«Sciocca,
impudente ragazza…»
Le
sue parole si confusero nella mia mente come colori su una tavolozza,
mischiati sapientemente da un pittore ubriaco. Oscillai e gli
afferrai un braccio, stringendolo in una morsa di ferro per evitare
di crollare a terra.
Non
feci in tempo a sentire altro che il buio m'inghiottì,
risucchiandomi in un abisso senza luce.
Quando
mi destai, ero nel letto a baldacchino, ed Erik mi sovrastava.
«Hai
dormito bene?» mi chiese, stranamente gentile.
Annuii,
senza ben sapere cosa fosse accaduto. «Mi è ritornata la febbre?»
«Sì,
ma ho fatto in modo che calasse di nuovo. Hai fame?»
Scossi
la testa in un debole cenno di diniego.
«Peccato.
Dovresti mangiare.»
«Anche
tu. Sei così magro.» Lo avevo dedotto dai suoi polsi ossuti,
dall'impalcatura scheletrica del suo strano corpo. Sembrava che
qualcuno gli avesse stirato le membra una ad una.
Lui
sbuffò sotto la maschera nera. «Da che pulpito.»
Non
aveva tutti i torti: anch'io ero spigolosa – un fascio di nervi e
ossa, la pelle attaccata ad esse tirata e sottile.
«Se
mangio qualcosa, darò di stomaco.»
«Come
desideri. Ti ho nutrita con acqua e miele in questi giorni, ma da
domani in poi dovrai mangiare qualcosa di solido con le tue sole
forze. Chiaro?»
Annuii
debolmente. Qualcos'altro attirò la mia attenzione: un verso
improvviso, lo strusciare di piccole zampe sulla stoffa.
«Figaro.»
Ero a dir poco sorpresa di trovarlo lì. Con i suoi occhi verdi
risplendenti, si acciambellò sul mio grembo, e io lo grattai
distrattamente dietro le orecchie.
«Questo
gatto appartiene a te?» chiesi ad Erik, sperando in una risposta che
non fosse l'ennesimo enigma.
«Appartiene
all'Opera.»
«E
di conseguenza tutto ciò che appartiene all'Opera è anche tuo.»
Erik
non rispose, ma sapevo di aver colto nel segno.
«Come
fa a superare il lago?»
«Nessuno
può superare la Sirena.»
La
Sirena? Ah, certo: il trucco della voce. Mi domandai come si fosse
inventato una cosa simile; dovevo ammettere che era ingegnoso.
«E
allora come fa?»
«Non
si arriva qui solo attraverso il lago.»
Ah-ah.
«E quali sarebbero queste strade nascoste, praticate regolarmente da
gatti randagi?»
«Già
hai curiosato abbastanza.»
Erik
mi tese una fiala di vetro soffiato che emanava un odore ambiguo,
traboccante di liquido verdastro. Arricciai il naso quando me la
cacciò in mano senza tanti complimenti.
«Che
roba è?»
«La
tua medicina. Prendila, non è veleno.»
Potevo
fidarmi? Decisi di rischiare e ne sorbii un sorso. Subito sputacchiai
tutto, in un modo tanto disgustoso da far storcere il naso ad Erik –
anche se secondo Buquet non ne aveva uno.
«Cosa
ti aspettavi, vino speziato?»
«Non
di certo una porcheria simile.»
«Il
linguaggio.»
A quanto pareva le parole volgari gli davano fastidio: me lo appuntai
nella mente come riferimento per il futuro. Se mai avessi voluto
irritarlo, sapevo cosa fare.
Mi
feci coraggio e tracannai il contenuto della fiala in un solo sorso.
Le mie labbra si deformarono in una smorfia di disgusto. «Nauseante.»
«Dovresti
mostrare più rispetto. Sono erbe rare, e un preparato difficile da
ottenere.»
«E
tu dove hai preso gli ingredienti? Chi ti ha insegnato a preparare
questo composto?»
«Ho
viaggiato molto.»
«Non
è una risposta sufficiente.»
«Tua
madre ti ha detto che per un po' di tempo ero in una carovana di
gitani, bohemién,
vagabondi e artisti circensi. In quei luoghi si può imparare molto,
se uno sa dove cercare.»
«Conosci
bene le erbe medicinali, dunque?»
«Abbastanza
da riuscire a curare la tua febbre cerebrale come un qualsiasi
medico. Senza chiedere compenso.»
«Eccetto
la mia prigionia qui.»
«Non
sei assolutamente prigioniera. E credimi, questo è più un fastidio
che altro.»
Dovevo
credergli? Decisi di rischiare. «Se guarisco…»
«Guarirai.
Te lo assicuro.»
«Ebbene,
quando guarirò
potrò andarmene di qui, vero?»
«Assolutamente.
Prima sarà, meglio è.»
«Per
una volta concordiamo su qualcosa.»
Colsi
un lampo di divertimento nei suoi occhi felini. «Così sembra.»
Poi
tirò fuori qualcosa dalla tasca della giacca e me lo porse. Era un
libro, lo stesso che aveva attirato la mia attenzione quando ero
andata a curiosare in soggiorno: Cime
Tempestose.
Lo
osservai a bocca spalancata.
«Sul
serio?»
«Se
questo significa che non mi disturberai più e non andrai in giro a
ficcanasare, allora ti permetto di leggere i miei libri. A patto che
– ripeto – tu non vada a ficcanasare.»
«Affare
fatto.»
Accettai
il regalo e lo sfogliai avidamente. Non volevo addormentarmi di
nuovo, non ora che mi sentivo meglio, e leggere era pur sempre meglio
di niente.
«Dimmi,
è un bel libro?»
«Questo
dovrai scoprirlo da sola.»
E
se ne andò, rapido com'era apparso. Una visione in nero. Accarezzai
la corta pelliccia di Figaro, che dormicchiava sulle mie ginocchia, e
cominciai dalla prima pagina.
Forse
una convivenza era possibile, se ognuno rispettava gli spazi
dell'altro – un po' difficile, dal momento che lui era tenuto a
vegliare su di me in caso mi sentissi di nuovo male. Eppure era
fattibile. Un bocciolo di speranza mi fiorì nel petto. Forse sarei
sopravvissuta a tutto quello, e magari nessuno si sarebbe fatto male.
Note
dell'autrice: Salve a tutti, eccomi tornata. Da qui in avanti le
cose cambieranno per Meg e il nostro fantasma preferito, anche se non
così repentinamente. Vorrei anche precisare una cosa: non sono una
dottoressa, quindi non sono esperta, ma per esperienza semi–personale
posso dirvi che quel che Meg ha avuto è stato un delirio psicotico
causato dalla febbre e dal trauma subito (che si scoprirà fra non
molto, non temete). All'epoca non esistevano termini simili per le
malattie mentali, da qui la "febbre cerebrale" di cui hanno
sofferto tanti personaggi dei libri ambientati nell'Ottocento (per
dirne una, la stessa Catherine in Cime Tempestose).
Malinconica:
Cara, ci hai azzeccato in pieno quando hai detto che Meg ha paura che
i dottori "la portino via", e che questo è collegato a
qualcosa che è accaduto al padre, ma i dettagli si sveleranno più
avanti (fra non molto, non disperare. Non è comunque chissà quale
sorpresa XD). Ma perché disprezzi tanto Raoul? Nel fandom italiano
vedo che lo odiano tutti, mentre in quello inglese (i fan che
frequento io su Tumblr, perlomeno) le cose vanno decisamente meglio.
Peccato, perché io lo adoro (a quanto pare sono l'unica XD). E sì,
avrà i suoi difetti, ma mai quanto Erik, non dimentichiamoceli. XD
Io lo trovo genuino nel suo amore per Christine, pronto a sacrificare
tutto (la sua vita, il suo status sociale, il buon rapporto con il
fratello) per lei. Raoul/Christine = OTP. E All I ask of you è
la canzone che farò suonare al mio matrimonio, se mai mi sposerò!
XD Vabbè, si possono avere opinioni diverse, no? Il mondo è bello
perché è vario. ^^ Grazie mille per aver recensito, spero che ti
piaccia anche questo capitolo, e di non deluderti. |
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Capitolo 15 *** Heathcliff. ***
xiv
heathcliff
Trascorsi
la metà della notte a pensare che avevo scelto bene il mio libro:
dal suo inizio, pareva uno di quei romanzi gotici che facevano salire
i brividi sulla schiena delle allieve ballerine e, ironia della
sorte, vi era anche uno spettro di mezzo. Gustai i primi capitoli,
dal punto di vista di un noioso Mr Lockwood, aspettandomi chissà
quale storia fantasmagorica su Cime Tempestose, la residenza
misteriosa in cui era ambientata la vicenda.
Non
accadde. La storia abbracciava quella della famiglia Earnshaw –
padre, madre, fratello e sorella – e del trovatello Heathcliff, e
del rapporto tra quest'ultimo e la minore degli Earnshaw, Catherine.
Mi
addormentai con il libro in grembo, stordita dalla crescente febbre.
Il mio sonno fu inquieto come solo un sogno febbrile sa essere, ma mi
svegliai all'accogliente odore di uova e bacon. Aprii gli occhi e mi
ritrovai con una porzione di quella seducente colazione sulle
ginocchia, con in più due fette di pane fritto. Il mio stomaco emise
un languorino. Non ricordavo da quanto tempo non mettevo qualcosa di
commestibile sotto i denti.
«Ma
che…?» mormorai a mezza voce. Osservai quel ben di Dio con tanto
d'occhi. Era una porzione fumante di uova in padella e bacon
arrostito, accompagnata da un paio di toast. Il tutto sistemato
perfettamente su un bel vassoio alla mia portata. Sul comodino al mio
fianco intravidi un bicchiere colmo di succo d'arancia.
Che
visione paradisiaca! Stavo ancora sognando?
«Ben
svegliata.»
Quella
voce impossibile mi entrò nei timpani dal nulla e rabbrividii. No,
purtroppo il sogno era finito.
«Che
cosa significa tutto questo?»
«Che
devi mangiare. Intendo, qualcosa di solido. Ora.»
Era
sulla soglia, alto e distinto come sempre. Questa volta era
abbigliato finemente, col frac e tutto. Era una visione imponente.
«Ricordati
che non puoi darmi ordini» dissi stancamente.
«Non
è un ordine, è un consiglio. Da quanto tempo non mangi cibo
solido?»
«Cosa
t'importa?»
«Ti
ho portata fin qui.»
«Quindi
si tratta di mia madre. Del legame che hai con lei. Si fida così
tanto di te da permetterti di portarmi qui sotto?»
«Si
fida abbastanza, credimi. Perché sa che è l'unica possibilità che
ha se vuole rivedere sua figlia.»
«L'ospedale…»
«In
ospedale ti ucciderebbero.»
«Questo
lo so.»
«E
lo sa anche lei.» Mi guardò da oltre i buchi della maschera. «Ora
mi farai la cortesia di mangiare?»
Osservai
il ben di Dio sul mio grembo. «L'hai preparato tu?»
Lui
diede in un breve cenno d'assenso.
«Per
me?»
Chinò
il capo.
«Non
ci credo.»
«Grazie
della fiducia.»
«Voglio
dire, sai cucinare?»
«Come
credi che viva qui?» In effetti, era un normale appartamento da
scapolo… Se non si considerava il fatto che si trovava sotto terra
– e, naturalmente, la camera adibita a Christine.
«Cosa
ti aspettavi, candelabri e nebbia e grate?» scherzò lui, aprendo le
braccia in un movimento circolare, come per mostrarmi ciò che mi
attorniava. In effetti, non somigliava alla tomba di un vampiro. Ma
sapevo che da qualche parte, destinata per lui, aveva una bara e una
camera che si poteva dire mortuaria. Un luogo a cui sicuramente non
avrei mai avuto accesso, ed era meglio così. Non ci tenevo a vedere
la tomba che Erik si stava preparando con le sue stesse mani – una
tomba che avrebbe allargato anche per Christine, se… Non sapevo se
queste parole erano state dettate dalla furia dell'essere smascherato
o da un'intenzione reale. In quest'ultimo caso, eravamo entrambe
nelle mani di un pazzo. Ma io sospettavo che fosse l'effetto della
rabbia, da cui di per sé bisognava guardarsi, a farlo parlare così.
«Quindi
hai cucinato tutto questo per me?»
Lui
annuì di nuovo. Avvertii un certo imbarazzo nell'aria.
«E
mi hai curato?»
«Sei
fuori pericolo, ma la febbre potrebbe ricomparire. Pertanto dovrai
sorbire le tue medicine in silenzio. Chiaro?»
Annuii,
ma non aveva compreso quel che intendevo dire. «Mi hai curato tu.»
«Sì.»
«E
allora ti ringrazio.»
Lui
chinò di nuovo il capo, come in accettazione. Allora feci qualcosa
di inaspettato, tanto che stupii non solo lui ma anche me stessa. Gli
tesi la mano, che lui prese prima di pensare davvero al significato
del gesto. Ci stringemmo le dita e un calore m'inondò il corpo,
malgrado il gelo della sua pelle. Non mi scostai al suo tocco, ma lo
accolsi, già conoscendolo.
«Grazie.»
Lui
non rispose, ma ebbi l'impressione che volesse dirmi la stessa cosa.
«Adesso
finisci di mangiare» disse in tono serio. Poi si ritirò, rapido
come era apparso – una visione.
Mi
gettai con foga sul piatto fumante, ingozzandomi di uova e bacon,
attenta a non inghiottire troppo velocemente per timore di dare di
stomaco. Conoscevo il rischio, e non mangiavo cibo solido da giorni,
proprio come aveva detto Erik.
Quando
ebbi spazzolato tutto, posai il vassoio sul comodino e bevvi
avidamente dal bicchiere, dissetandomi di succo d'arancia. Finalmente
sazia, mi sgranchii le gambe troppo a lungo inutilizzate. Quanto
ancora avrei dovuto attendere prima di ricominciare a ballare?
Se
c'era una cosa che mia madre mi aveva insegnato era che la danza
necessitava di un esercizio costante. Ero rimasta inerte troppo a
lungo; i miei piedi avevano sostenuto ben altri sforzi. Ma ora per me
era impossibile ricominciare a danzare. Me ne resi conto quando
tentai di alzarmi: l'unico risultato che ottenni fu quello di
scivolare giù dal letto, le gambe tremanti, senza la forza di
reggermi in piedi. Avrei dovuto passare ancora un bel po' di tempo
sotto le lenzuola, come un frutto lasciato lì a marcire. Non ero
abituata alla quiete. Avrei dovuto accontentarmi di restare a leggere
il libro preso in prestito dalla collezione di Erik, che lui era
stato così gentile
da
mettermi a disposizione. Ripensai al momento di reciproca
sopportazione condivisa tra noi: avrei dovuto davvero essergli grata?
In fondo sì, mi aveva salvato la vita. In base a ciò non potevo
odiarlo, malgrado la situazione con Christine. Mia madre si era
fidata di lui, e lei era saggia: c'era qualcos'altro in quella storia
che non mi era stato detto, un patto tra Antoinette Giry e il
fantasma. Mi aveva rivelato che l'aveva conosciuto in un momento in
cui era piccolo e degno di compassione, ma non era rimasto il bambino
di un tempo, anche se mia madre lo avrebbe sempre ricordato così.
C'erano anfratti oscuri in lui, ora, che temevo di svelare, e di cui
Christine aveva appena sondato la superficie: erano crepe orrende,
dolorose, cancerogene, ma io non riuscivo a scostare lo sguardo. Ero
malata quanto lui? Quella insana curiosità – diciamo pure
attrazione – era normale?
Repressi
a stento un brivido. Si può essere attratti da una mente in
subbuglio? Non è un peccato, quanto l'innamorarsi di un angelo?
Ritornai
alla ruvida brughiera di Cime
Tempestose,
leggendo dell'infanzia dell'inquieto Heathcliff. Nella sua durezza
trovavo similitudini col mio salvatore – era strano appellarsi a
lui in quel modo, ma era la verità. Mi aveva fatto del bene, forse
non volendo, ma ne era capace.
E la consapevolezza mi turbava.
Pensai
al legame che sulle pagine – era evidente – si andava formando
tra Heathcliff e Catherine Earnshaw. La piccola era una selvaggia
fatta e finita, con la brughiera inglese nelle vene. Tra lei e
Heathcliff c'era un'affinità, una comprensione che mi incuriosì,
malgrado la mia delusione nello scoprire che non si trattava di una
storia dell'orrore, ma di passioni umane. Né lui né lei uscivano
dalla pagina come ritratti felici: lui duro come la roccia e
tempestoso come la casa che della tempesta portava il nome, lei
volubile come un uccello e il vento. C'erano parole non dette tra
loro, parole che la Brontë non aveva trovato necessario scrivere
perché erano già impresse sulla carta, come aliti di vita, e davano
respiro al racconto.
Non
mi riconobbi in nessuno dei protagonisti: nel nel geloso Hindley, né
nell'intelligente ma crudele Heathcliff, né nella volubile
Catherine, ancora così poco donna. In Edgar, nella sua gentilezza,
potevo forse riconoscere un po' Raoul, il visconte, che eppure
possedeva un fuoco che al personaggio del romanzo era estraneo. Per
il resto, non potevo che trarre la conclusione che Christine fosse –
fortunatamente – dissimile da Catherine nell'amabilità con cui
vedeva e trattava tutti: con bellezza e bontà, soprattutto nei
riguardi di chi non vedeva bellezza e bontà in se stesso.
Da
come era impiantata la storia, sapevo che non sarebbe finita bene per
i protagonisti: non poteva esserci lieto fine, non per anime così
rozze e crudeli come la bufera inglese, la sua natura aspra e
selvaggia. In qualche modo, sperai che così non fosse per noialtri,
persino per Erik: per quanto rassomigliasse Heathcliff nella sua
durezza, in questi non trovavo quel nocciolo di umanità
che
tanto aveva colpito mia madre e la stessa Christine in lui; quel
singhiozzo silenzioso, quella tragedia innominabile, quel genio senza
abisso che era Erik.
In
quei giorni imparai a conoscerlo, o meglio, a conoscere le sue
abitudini. Usciva di rado dalla sua stanza, dove probabilmente
scribacchiava le sue composizioni. Sapevo che non avrebbe permesso
alle mie orecchie mortali di cogliere le soavi note del suo Don
Giovanni trionfante, che
doveva restare inedito fino alla sua morte. Potevo farmi un'idea del
suo capolavoro solo attraverso la descrizione che di esso mi aveva
fatto Christine, che ne aveva uditi gli straordinari accenti.
Io
stessa uscivo poco, giusto quel tanto per scegliere un libro dalla
vasta collezione che Erik mi metteva a disposizione – come si vede,
mi trattava quale un'ospite di riguardo – e lo vedevo di rado:
veniva da me per portarmi da mangiare – il cibo era semplice, ma
sempre delizioso – e le medicine.
«Dove
hai imparato a cucinare così?» chiesi, ingozzandomi di brodo di
pollo. Lui strinse le labbra, in una lieve smorfia di disgusto di
fronte alle mie cattive maniere che riuscì a stento a dissimulare.
«Non
parlare con la bocca piena.»
«E
tu potresti non trattarmi come una bambina?»
«Se
ti comporti da bambina, io ti tratto da bambina.» Mi diede un
buffetto di rimprovero su una guancia, ma il contatto con la sua
pelle fredda mi fece tremare. Lui abbassò lo sguardo, arretrando
come fossi un ferro rovente, meditabondo e sconcertato per la sua
avventatezza.
«Scusa»
mi disse, e questo era il massimo che potevo ottenere da lui in quel
momento.
Scossi
la testa. «Figurati» proseguii come se nulla fosse accaduto, come
se quel tocco non fosse stato acqua gelida per la mia pelle.
Inghiottii una cucchiaiata di brodo.
«Non
hai risposto alla mia domanda, comunque.»
«Un
uomo solo impara quel che può.»
Distorsi
le labbra. «Bella risposta enigmatica. Comunque, se sei bravo nella
musica almeno la metà di quanto lo sei in cucina…»
«Sono
molto più bravo, credimi. In cucina sono perlopiù discreto.»
«Non
sei uomo da mezzi termini, tu.» Sorrisi e mi pulii il mento che
gocciolava di brodo. «Posso rassicurarti sulle tue capacità
culinarie, però.»
Mi
ripresi in fretta, tanto che quando terminai Cime
Tempestose (e
di solito non ero una lettrice rapida) erano trascorsi solo pochi
giorni ed ero già in piedi. Ero ancora tremante, avvolta nel mio
scialle – Erik, con non poca riluttanza, immagino, aveva finito per
concedermi di usare gli abiti e gli accessori destinati a Christine –
ma mi reggevo abbastanza bene sulle mie caviglie sottili. Provai ad
eseguire una pirouette, ma quasi cascai tra le braccia di Erik, che
giunse nella camera proprio in quel momento per vedermi incespicare
come una ragazzina alle prime armi e non una ballerina esperta. Mi
afferrò tra le braccia e mi strinse a sé, stupito nel sentir
provenire dal mio petto un singhiozzo a metà.
«Impazzirò
se non faccio qualcosa.»
«Hai
sempre la lettura.»
«Impazzirò
se leggo troppo. E poi non amo leggere, lo sai.»
Alzai
gli occhi verso i suoi: oscuri, giallastri, impenetrabili, e li
trovai – di certo in un accesso di follia – magnetici. Non avevo
mai visto occhi simili in un essere umano, e non riuscii a scostare
lo sguardo. Lui sollevò una mano, come per seguire i lineamenti del
mio viso; eravamo così vicini che udivo il suo cuore palpitare con
il mio, in un unico abbraccio di sangue e vene ansanti. Poi fece
cadere la mano, e in qualche modo questo mi deluse.
«Ritornerai
presto a danzare, Meg. Te lo prometto.»
Avevo
osservato che non mi chiamava mai solo con il nome: in quel momento,
doveva essere oltremodo serio. Decisi di credergli, e feci bene.
Nessuno mi diede più voglia di danzare di lui, nelle settimane – e
nei mesi, tanti incredibili mesi – seguenti.
«Lo
giuri?»
«Sì.
Erik lo giura. Ma tu devi riguardarti. Non fare sforzi. Sei una
sciocca e insolente ragazza…»
Ecco
che era tornato a porre un muro di distanza tra noi, proprio ora che
appariva in parte abbattuto.
«Devi
sempre fare così?»
«Così
come?»
«Agire
come fossimo nemici. Sto cercando di instaurare un dialogo, e
credimi, non è cosa da me…»
«Se
il tuo tentativo di “instaurare un dialogo” è incespicarmi
addosso, fa pure.»
Arrossii
fino all'attaccatura dei capelli. Poi diceva che quella impertinente
ero io.
«Ho
trovato qualcosa da fare: prenderti a pugni.»
«Se
ci riesci, cosa di cui dubito.»
Per
qualche strana ragione, ne dubitavo anch'io. Avrei voluto, ma lui era
troppo forte, anche se di certo qualche colpo ben assestato se lo
meritava. Mi aveva salvato la vita, me la stava salvando ancora, ma
non dimenticavo la sua insana ossessione per Christine.
«Christine
verrà presto a trovarti» mi riferì, come se mi avesse letto nel
pensiero.
«Che
cosa?»
«Le
ho detto che stai meglio e che sei in condizioni di ricevere visite.
Verrà da te domani, quindi preparati.»
Con
preparati,
intendeva:
non indossare uno dei vestiti che le appartengono. Avrei dovuto
accontentarmi della mia vecchia vestaglia da notte, o fare di testa
mia: avrei sfidato il diavolo?
«E
lei è venuta a trovarti in questi giorni?»
Lui
esitò, ma infine desistette. Qualunque cosa fosse accaduta tra noi
in quel periodo, sentivo che si fidava maggiormente di me, come io di
lui.
«Sì.»
Non
disse altro, tanta fu l'emozione, e per una volta tacqui anch'io.
Quanto a lungo pensava di tenerla con sé? Raoul sarebbe partito tra
settimane. E dopo, cosa ne sarebbe stato di Christine? Non poteva
costringerla a rimanere lì con la forza, quindi la attirava con la
sua musica, il che era la stessa cosa. La stava subdolamente
manipolando, perché ero certa che continuasse a darle lezioni in un
qualche anfratto nascosto dell'Opera. E Christine in questo modo non
si sarebbe mai liberata di lui – del ricordo di suo padre, della
musica, della pietà che le suscitava, della paura che le inoculava
dentro come ghiaccio nelle vene. Una paura sottile, terribile,
incarcerante. Perché Erik non accettava la volontà di Christine, e
fin quando così non fosse stato, non avrei mai potuto perdonarlo del
tutto, neanche se mi avesse salvato la vita dieci volte.
Ma
potevo conoscere il nemico, sondarlo, scoprire i suoi punti deboli,
le sue crepe invisibili. Questa era l'unica cosa che potevo fare per
aiutare Christine. Per il resto, doveva cavarsela da sola, almeno per
il momento. Ero certa che ce l'avrebbe fatta; dentro aveva
un'armatura invisibile alla vista che solo chi la conosceva bene
aveva provato sulla propria pelle. Io e Raoul e lo stesso Erik ne
eravamo un esempio, solo che Erik avrebbe voluto piegare quel
metallo, farlo suo… e ciò non andava bene per nessuno dei due.
«Cosa
posso fare?» chiesi un giorno, disperata. Avevo terminato il libro e
ne avevo cominciato un altro, a cui stavo trovando difficile
appassionarmi – I
Miserabili di
Victor Hugo. Avevo tralasciato Il
gobbo di Notre Dame per
le troppe analogie con la nostra storia, conoscendo il balletto ad
esso ispirato, e la tragedia che, lo sapevo, nascondeva tra le sue
pagine. L'ozio mi stava dando alla testa. Credevo che tra quelle
quattro mura sarei impazzita: ora sapevo come si sentiva Christine,
senza la musica, però… Era davvero come essere seppelliti in una
tomba.
«Tu
come ci sopravvivi?»
«Sei
troppo abituata al mondo esterno, Madamoiselle. Dovresti dar retta
anche a quello interno.»
«Quello
interno?»
«Diciamo
che vivo più nella mia mente che nel mondo reale. Così trascorro le
giornate: tra musica, studi, libri… Non ti sembra una vita
appagante, vero?»
«Mi
appare più che altro solitaria.»
«Ho
la compagnia di Figaro» disse lui come se bastasse.
«Sì,
ma ti occorre dell'altro.» Ecco
perché desideri Christine al tuo fianco. Ecco perché ti stai
abituando persino alla mia sfortunata presenza, che non credo tu
sopporta. «Non
hai mai qualcuno con cui parlare?»
«A
parte la bara nella mia stanza?» fece lui, sarcastico. «O magari
l'organo? Non fare quella smorfia, so che Christine te ne ha parlato.
Come non avrebbe potuto, in fondo? Non gliene faccio una colpa.»
«Finirai
per impazzire qui dentro.» Se
non hai già dato di matto. A
me pareva di esserne sull'orlo.
«Un
uomo si deve abituare a molte cose. Anche un uomo come Erik» fece
lui, enigmatico. Poi si voltò verso di me: eravamo seduti al
tavolino del soggiorno, e lui mi somministrava la medicina
quotidiana. Non pranzavamo mai insieme: non l'avevo mai visto
mangiare né, se è per questo, sfilarsi la maschera. A quello era
attentissimo.
«Cosa
sai fare, ragazza?»
«Intendi,
a parte ballare?»
«Sì.
Sai spazzare, cucinare?»
«Non
so fare molto.»
«Bene»
fece lui, beffardo. «E le tue capacità canore mi sono note, o
meglio, mi è nota la loro assenza, quindi niente lezioni per te.»
«Ehi,
io non ti ho chiesto niente!» commentai, punta sul vivo. Non sapevo
cantare, ma non doveva per forza farlo sembrare un difetto
insormontabile.
«Fammi
capire, vuoi che ti faccia da domestica?»
«No.
Voglio che ti dia da fare, così da non crollare in una crisi di
nervi. Non ho medicine per l'ozio. Spazza, spolvera, lava – se lo
desideri, è ovvio.»
«Sono
diventata Cenerentola, adesso?»
«Se
non perdi nessuna scarpetta.»
Sospirai.
Non vedevo opzioni migliori. «E va bene, dammi uno spolverino. Vedrò
cosa posso fare.»
Non
potevo fare molto. Mi limitai a spazzare un pavimento già lucido e
qualche mobile poco polveroso – a quanto pareva Erik era molto
ordinato – e ad approfittare per spolverare la libreria, l'unico
mobilio che mi attirasse in quella stanza antiquata, eccetto il
pianoforte a coda ben in mostra su una pedana e lasciato intoccato in
mia presenza, poiché lui non suonava mai dinanzi a me. Mi limitavo a
sfiorarlo con sguardi languidi, senza osare toccarlo. Tracciava in me
il cordolo di memorie troppe dolorose.
«Non
mi chiedi cosa ho pensato di Cime
Tempestose?»
gli domandai un mattino – o quel che mi pareva un mattino. Era lui
a tenermi il conto delle ore e dei giorni, dato che per me era
impossibile non perderlo in quel meandro di notte sempiterna. Mi
chiesi come ci riuscisse Erik, anche se sospettavo che a volte
perdesse anche lui il senso del tempo e dello spazio.
«Non
lo ricordo bene.»
«Almeno
lo hai letto o lo tieni solo per collezione?»
«Sì,
l'ho letto, ma tanto tempo fa; forse tu non eri nemmeno nata. Ero
giovane. Non avrei comunque compreso molto.»
Era
la prima volta che ammetteva una sua sconfitta, il che era un po'
fuori carattere: avevo il sospetto che si considerasse perfetto in
molte cose e terribile, un verme strisciante, in parecchie altre.
Quell'uomo era una contraddizione infinita e mi affascinava proprio
per questo, come un'equazione particolarmente complessa può
interessare un matematico appassionato.
Gli
ricordai la trama intricata del libro, che lui non fece fatica a
memorizzare; gli descrissi l'amore distruttivo tra Heathcliff e
Catherine, le scelte sbagliate dei due. Non sapevo neanche se il
libro mi fosse piaciuto o meno.
«Non
credi che Heathcliff sia stato esagerato nel volersi vendicare anche
sulla figlia della donna che amava e sull'uomo che lei aveva
sposato?» gli chiesi, curiosa della sua opinione al riguardo. Sapeva
che non stavo più parlando di Heathcliff.
«E
tu non credi che Catherine avrebbe potuto sposarlo?»
«Non
poteva.»
«Lei
lo amava. Tanto bastava.»
«E
invece no. Non lo ha sposato per motivi egoistici, e sia, ma forse
non aveva molte altre possibilità. Se lo avesse sposato, non avrebbe
posseduto più nulla. Non sarebbe valsa più a nulla. Tu sei un uomo,
non puoi capire.» Era l'unico momento in cui avevo simpatizzato con
Catherine, con la sua scelta di vita. Quella della ragione al posto
di un cuore che alla lunga si sarebbe bruciato da solo, e non sarebbe
valso più a nulla.
«Sono
un uomo, dici? Ebbene?»
Sembrava
non credere che lo avevo appena accomunato a tutto il resto del
genere maschile.
«Una
donna senza matrimonio in questo mondo non è una donna vera,
se capisci quel che intendo. Molto peggio di un uomo senza figli
maschi. Per Catherine era l'unica possibilità per realizzarsi in
questo mondo. Non aveva altro.»
«Aveva
Heathcliff.»
«Un
bruto. Un amore adolescenziale. Per quel che vale…»
«Ma
se l'avesse sposato…»
«Sì,
lo so, Heathcliff non avrebbe progettato quella vendetta atroce.
Anche perché lei non ne sarebbe morta. La compatisco, tutto qui.
Innamorarsi di un lupo non è cosa semplice, e questo vale per
entrambi.»
«Non
se anche dentro di te hai il sangue del lupo.» Strinse le labbra –
non era abituato ad essere interrotto – e mi guardò intensamente.
Sentii un calore improvviso nascermi nel petto come un'onda anomala,
involuta – un pezzo di carbone tra i diamanti.
«Le
scelte di Catherine non giustificano quelle di Heathcliff, tutto qui»
sentenziai, e per quella volta non mi contraddisse. Di nuovo, sapeva
che non mi stavo riferendo a dei personaggi di un libro di fantasia.
«Tu
spazza in quell'angolo. Io ti porto la cena.»
Se
ne andò col suo passo curvo, eppure languido, sinuoso. Mi chiesi
come facesse. Si muoveva come un ragno nella sua tana. A proposito di
ragni – ne scovai un paio sotto la credenza che chiudeva la
libreria in un angolo. Feci una smorfia e agitai la scopa come
un'arma.
«Sciò,
sciò!» borbottai, invano.
«Cosa
succede?»
Erik
era tornato col vassoio della cena, che si affrettò a posare sul
tavolino del soggiorno. Mi si avvicinò quasi si aspettasse un altro
guaio da parte mia, come quella volta che per sbaglio aveva fatto
cadere a terra un libro antichissimo e prezioso, rovinandone la
copertina rilegata in oro.
Non
mi aveva rivolto la parola per un giorno intero, chiuso nel suo
studio a mormorare frasi come: «Sciocca, impudente ragazza…»
«Sì?»
mi ero messa di mezzo io per spezzare la tensione, cercando altre
commissioni da fare nell'ozio putrido in cui ero cascata.
«Niente,
sono solo ragni.»
«Solo
ragni?» Il suo tono di voce assunse una sfumatura gelida. Si mise le
mani sui fianchi, in una posa che sarebbe sembrata quasi comica se la
sua espressione non fosse stata tanto raggelante.
«Cosa
hai in mente di fare, ragazzina?»
«Questa
ragazzina
qui
– che poi non sono una ragazzina, sono persino più grande di
Christine – vorrebbe rendere questo un posto decente dove vivere, e
quindi ha deciso di liberarsi di queste odiose creature. E ora, se
non ti dispiace…»
Mi
strappò la scopa di mano prima che potessi dire altro.
«Come
osi, piccola insolente?»
«Non
capisco. Vuoi favorire tu?»
Se
fosse stato mia madre, mi avrebbe tirato le orecchie, ne ero certa.
«Cosa
ti hanno fatto queste creature?»
«Niente.
Sono solo ragni. Sporcano e…»
«Non
è assolutamente vero!»
«Certo
che sì, emerito idiota!
Sono ragni! Cosa ti aspetti che facciano?»
«Mi
aspetto che tu non uccida creature innocenti!»
Mi
ci volle un attimo per capire. Chinai lo sguardo verso il mucchio di
polvere e ragnatele ai miei piedi. «Stai scherzando?»
«Io
non scherzo mai. Ora dimmi cosa ti hanno fatto – o potrei cambiare
idea e spazzare via te, che ne dici?»
Non
trovai la battuta niente affatto divertente. Per quanto dicesse di
non beffare, godeva nell'usare il sarcasmo sugli altri, soprattutto
sulla sottoscritta. «Niente in particolare» ammisi, attonita e
innervosita, «se solo andassero a covare nidi altrove. Ma questa è
una casa per degli essere umani e…»
«E
allora? Anche loro hanno bisogno di luce, piccola sciocca, o no? Non
possono ripararsi dalla bellezza altrui, se non fanno nulla di male –
perché presumere che sono pericolosi, o...?»
Oh.
Capito.
Di nuovo, non stavamo parlando dei ragni.
«Sono
solo insetti» dissi, presa da un nuovo accesso di tosse. Tutto quel
parlare di polvere non mi aveva fatto bene. Presi a tremare come un
infante tra le braccia della madre.
Era
ovviamente la cosa sbagliata da dire. Lui mi fissò dall'alto in
basso, ogni traccia di colore – lo sbalorditivo oro dei suoi occhi
– perso in un liquame di freddezza. Se avevo ottenuto la sua pur
delicata fiducia in quei giorni, ecco che l'avevo perduta di nuovo.
«Dovrei
lasciarti a congelare qui, piccola, spietata bambina senza cuore.»
«Non
sono senza cuore. E comunque non potresti.» Tossii ancora. «Non
spezzare un altro cuore: quello di mia madre.»
E
di Christine, ma
fu vano aggiungerlo.
Lui
si morse un labbro invisibile e mi prese tra le braccia. La sua
stretta era meno confortevole che nei giorni precedenti, dalla quale
mi ero sentita inspiegabilmente attratta, ma ugualmente fredda.
Mi
condusse a letto, non senza le mie medicine. Mi rimboccò le coperte
come un amico gentile, cosa che lui non era affatto.
In
quel momento ricordai due cose: la sua immensa sofferenza, che lo
portava a paragonarsi a dei ragni, e il fatto che no, non lo odiavo
più, ma comunque non potevo ancora fidarmi di lui. E la cosa mi
distruggeva in un modo che non riuscivo a capire.
Note
dell'Autrice: Non
chiedetemi perché ho scelto Cime
Tempestose,
e se davvero sia possibile trovarlo nella libreria (immensa,
immagino) di Erik. So solo che è un libro al quale sono molto
affezionata, ed Erik forse vi sarebbe stato attratto per il fatto che
è stato scritto da una donna, cosa un po' inusuale all'epoca (ma
ragionando in questo modo avrebbe dovuto leggere anche Jane
Eyre
di Charlotte Bronte, la sorella di Emily, e tanti altri). Diciamo che
è meglio che non prenda ispirazione dai personaggi del libro (ma
sappiamo che farà anche di peggio, il maledetto XD). Il rapporto tra
i due testoni – Erik e Meg – si fa sempre più complicato:
riusciranno ad andare d'accordo, per una volta? Vedremo. (Beh, io lo
so. Muhahaha.)
Malinconica:
Cara, hai perfettamente ragione quando dici che Erik è consapevole
della sua intelligenza e ci tiene a farla notare (in fondo è
qualcosa che il Persiano dice anche nel libro, se non sbaglio). Mi fa
tanto, tanto piacere che questo capitolo ti sia piaciuto, e spero che
quest'altro non ti annoi. Un bacio <3
Captain
Willard:
Le tue recensioni mi fanno morire. No, sul serio (in senso buono). XD
Per me è un sollievo il fatto che mi dici che il mio Erik sia IC, è
così difficile da trattare, una vera sfida – anche se molto, molto
divertente. Erik supereroe, sì! XD Beh, lui sarebbe più come il
Joker; Christine è Batgirl e Raoul è ovviamente il suo Robin; e
Meg... Meg sarebbe un'eroina un po' dark e allo sbando, tipo Jessica
Jones. Okay, basta sclero. XD Adesso ci saranno tanti bei capitolozzi
di "convivenza coatta", come l'hai chiamata tu (un termine
che si adatta perfettamente, credimi XD). Spero che tu ti goda anche
questo capitolo e non vi abbia rotto le palle a tutti co' sto Cime
Tempestose (qualcosa
dovevo inventarmi per far passare il tempo a Meg, là nei
sotterranei; non guardatemi male XD). Alla prossima! <3 |
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Capitolo 16 *** Memorie di una ballerina. ***
xv.
memorie
di una ballerina
Per
un paio di giorni ci rivolgemmo la parola solo di rado, lui chiuso
nella sua tomba, io che spolveravo i libri maneggiando con cura
quelli più antichi. La collezione era ricca di molti tomi delle più
svariate lingue e argomenti, e cercavo di assimilare tutta la
conoscenza che, lo sapevo, non avrei mai potuto apprendere. V'erano
romanzi classici, volumi di anatomia e di architettura, alcuni
sbiaditi dal tempo, altri in lingue a me ignote. Mi chiesi se Erik
sapesse decifrarle. Decisi di chiederlo direttamente a lui. Ma non
avevamo più parlato da quel furioso litigio; se ne stava sempre
rintanato nella sua camera della morte, probabilmente a scribacchiare
certe composizioni con il suo solito inchiostro rosso e la grafia
orribile.
Quando
Christine venne a trovarmi mi trovavo a letto, nella camera Luigi
Filippo, in uno stato pietoso. La nostalgia per la danza mi pulsava
nelle vene come fiele. Lei se ne accorse.
«Sei
così pallida, Meg.»
«Come
potrei non esserlo? Non vedo la luce del sole da giorni.»
Lei
si aprì in un sorriso triste. «Guarirai presto.»
«E
chi lo dice?»
«Erik.»
«E
tu ti fidi lui?»
«Si.
Almeno in questo – ha abilità eccellenti in molte pratiche.»
«Certo,
è proprio un artista in tutti campi. Non ti hai mai0 accennato alla
camera dei supplizi?» Il nostro sguardo sfrecciò sulla porta chiusa
ermeticamente alla nostra destra. Demmo entrambe in tremito
involuto.
«C'è
qualcosa di sbagliato in lui, Meg, lo so. Eppure le mie orecchie sono
piene dei suoi sospiri…» Si prese la testa fra le mani, come a
voler scongiurare una maledizione. «Dopo quella scenata furiosa
dello smascheramento, ho visto in lui un tale odio che ne rimasi
paralizzata. Ma poi eccolo che si getta ai miei piedi, piange,
maledice se stesso… Come posso abbandonarlo in questo stato, Meg? È
il mio maestro e io… c'è stato un tempo in cui non potevo vivere
senza di lui.»
«Ma
ora devi imparare a farlo» conclusi con fermezza.
Lei
annuì, altrettanto risoluta. «Non posso restare con lui solo in
ricordo di mio padre, o per le sue minacce. Non lascerò che qualcun
altro si faccia del male.» Mi accarezzò il viso con dolcezza, quasi
fossi una bambola preziosa che aveva temuto di perdere.
«Se
riuscissi a convincere Erik a lasciarti andare…»
Lei
scoppiò in una risata amara. «Impossibile. Mi ama troppo per non
godere della mia compagnia, così lui mi ha detto.»
«Lui
ed io adesso abbiamo un rapporto più o meno civile. Se riuscissi a
parlargli…»
«Niente
può fermare Erik, neanche Erik» disse Christine con grande serietà,
negli occhi una disperazione limpida come il suo sguardo. Poi mutò
espressione. «Con te è sempre un gentiluomo, vero?»
Sogghignai.
«Si ritiene tale. Non vuole neanche sfiorarmi e sta da me il più
lontano possibile.» A
parte quella volta in cui ci siamo stretti la mano. O quella in cui
gli sono incespicata addosso, pensai,
arrossendo in modo molto poco “da me”.
«Si
limita a portarmi da mangiare e le medicine, che prepara lui stesso
con chissà quali erbe. E in effetti sto molto meglio.»
«Nient'altro?»
«Mi
presta i suoi libri, o almeno alcuni di questi, e mi permette di
pulire la casa perché non cada preda dell'ozio. Ne impazzirei, lo
so.»
Poi
aggiunsi, con fare cospiratorio: «Ci può sentire, ora?»
«É
chiuso nella sua camera della morte. Ma con Erik non si può mai
sapere.»
«Già.
Non si può mai sapere.» Mutai discorso. «Come sta mia madre?»
«É
TK in pena per te, ma si fida dell'abilità di Erik. Dice che lo ha
conosciuto da bambino, è vero?»
Annuii.
«Ad una fiera.»
Christine
chiuse gli occhi, forse sentendo sulle spalle il dolore del piccolo
Erik e del mostro che era diventato. «Le dirò che stai meglio e che
sei fuori pericolo. Potete scambiarvi delle lettere, e io farò da
tramite.»
Acconsentii,
e mi sentii meglio al pensiero che l'indomani avrei rivisto il suo
viso amico.
Christine
ed Erik continuarono i loro consessi musicali, che dovevano essere
straordinari. Tuttavia, io ne ero preclusa, intenta a spolverare la
casa e a mettermi alla prova con diversi esperimenti culinari che non
andavano mai a buon fine. Un giorno mi saltò alla mente una folle
idea: volevo cucinare del pane, anche se erano anni che non mi
cimentavo in cucina. Dagli anni dell'Opera non avevo preparato mai
neanche un uovo al tegamino, poiché era mia madre che provvedeva a
tutti i miei bisogni. L'ultima volta che avevo cucinato era stata con
mio padre, che mi aveva insegnato a preparare la pasta, a tenderla e
infine a dare ad essa la forma di una pagnotta. Quel ricordo era
doloroso, ma dal momento che, dopo gli ultimi incubi, volevo
rimettermi in pace con la memoria di mio padre, quell'attività mi
sembrava appropriata. Cominciai dal pane e ne uscì fuori un totale
disastro, tanto che il fumo che inondò la cucina arrivò fino alle
narici di Erik, che fiutò immediatamente la situazione. Dalla sua
camera mortuaria, in maniche di camicia, si precipitò in cucina –
un piccolo ambiente confortevole, che faceva molto anni Trenta – ed
esclamò: «Che diavolo succede? Cosa stai combinando qui?»
Non
l'avevo mai visto così scompigliato e furioso. Probabilmente quei
miei esperimenti avevano interrotto una sua fase di ispirazione.
«Sto
cucinando del pane, non mi sembrava nulla di male.»
«Annegando
nel fumo?» disse lui, con fare beffardo ed esasperato insieme.
«Avevi detto che non sapevi cucinare, e il risultato si vede.»
Arrossii
di rabbia. «Mi annoiavo. Volevo fare qualcosa.»
«Incendiarmi
la cucina?» Mormorò qualche maledizione nei miei riguardi e
raggiunse il fornello e la forma di pane ormai ridotta ad un ovale di
cenere.
«Mi
dispiace, va bene?» risposi, anche se non ero del tutto sincera. Il
solo pensiero di far bruciare la sua cucina era ben più che
allettante. Mi chiesi se non fosse questo che l'anima mi suggeriva, e
che perciò mi aveva portato a comportarmi in maniera così sciocca.
L'impasse di quei giorni mi uccideva. Avevo ricevuto dei biglietti di
mia madre – non aveva potuto vedermi, ero troppo debole per
attraversare il lago e il labirinto sotterraneo. In più, Erik non
voleva che nessun altro venisse a conoscenza della sua tana, tanto da
aver disposto delle vere e proprie trappole mortali per questo –
pensai alla camera degli specchi, o al trucco della Sirena.
«Mi
dispiace di averti rovinato il forno. Pulirò tutto io» ripetei a
bassa voce, piena di vergogna verso me stessa, ma anche stanca di
quelle parole così stantie. Tutto, in quel teatro di vite, stava
lentamente svanendo, e io non ero che una pedina – non avrei mai
potuto fare scacco matto.
Erik
mi guardò freddamente, ma anche meno teso. «Sistemiamo questo
disastro, allora.»
«Sistemiamo?»
dissi incredula.
«No.
Tu
sistemi
questo disastro – l'hai combinato con le tue mani – io
torno
a lavorare.»
«Ma
se stai sempre in camera tua!»
«E
cucino, e preparo le medicine che ti stanno salvando la vita. Il
minimo che puoi fare è aiutarmi se combini disastri.»
Era
vero, ero in debito con lui. La cosa mi dava ai nervi.
Acconsentii
con riluttanza e mi accinsi a raschiare il forno con tutta la forza
del mio olio di gomito. Erik non tornò in camera. Si sedette al
tavolo e mi fissò come se si aspettasse che per lo sforzo dovessi
venire meno da un momento all'altro.
«Sto
bene» gli rivolsi quelle parole dopo un paio di occhiate esasperanti
da parte sua. «Smettila di fissarmi come se dovessi svenirti tra le
braccia da un momento all'altro.»
«Sei
così piccola che quasi non lo noterei» osservò lui con distacco.
Tamburellò le dita sul ripiano del tavolo, in un ritmo che scandiva
una musica sconosciuta.
«Non
assomigli affatto a Christine. Lei non è così indisciplinata.»
«Scommetto
che non fai sgobbare lei
in questo modo.»
«Scommetto
che lei non causa disastri come te.»
«Potresti
venire almeno a darmi una mano invece di star fermo lì,
imbambolato?»
Lui
sospirò e, con mia grande sorpresa, s'inginocchiò al mio fianco,
non senza essersi prima munito di uno straccio ruvido. Anche chino in
questo modo, sovrastava la mia forma rannicchiata. Non lavorò molto
di gomito, ma almeno collaborò, il che era una novità. Di solito si
distanziava da me e da tutti i miei problemi, a meno che non lo
riguardassero personalmente. Forse era davvero preoccupato per lo
stato della sua cucina. Lo immaginai a fare le pulizie di casa, con
tanto di grembiule e cuffietta, e scoppiai a ridere di cuore.
«Perché
ridi? Ti pare una situazione comica?»
«Moltissimo.
L'avresti mai immaginato – noi due che raschiamo via il bruciato
dal forno, frutto di un esperimento culinario andato a male?»
Gli
angoli delle sue labbra, simili a cicatrici sulla sua pelle, si
distorsero in una smorfia ironica che era solo l'ombra di un sorriso
vero e proprio.
«Effettivamente»
si limitò a soggiungere lui.
Le
nostre mani si sfiorarono ancora una volta, e percepii un brivido che
non aveva nulla a che fare con il freddo. «Scusami» disse lui in un
sussurro, ma non risposi. Preferii ignorare il vuoto allo stomaco che
mi afferrava ogni volta che mi toccava – un misto di paura,
diffidenza… ed eccitazione.
Marguerite
Giry, mi
dissi con fermezza, tu
hai qualche problema serio. Ricordati che ha architettato lui quella
camera delle torture che ha causato la morte di Buquet. E il
lampadario? E il trucco della Sirena? E il rapimento di Christine?
No, non va bene.
Sì,
ma non credo che sia del tutto privo di compassione, altrimenti non
mi avrebbe salvato la vita. È stato quasi gentile
con
me in questi giorni.
Illusa,
è solo perché vuole ingraziarsi Christine e tua madre. Non gliene
importa nulla di te.
Non
è vero. Non è vero, in fondo.
«Madamoiselle?
Stai bene?»
Non
risposi.
«Meg.»
Voltai
il viso e lo guardai negli occhi; quegli occhi assolutamente
magnetici, in un modo disumano. Cosa vi scorgevo dentro?
Preoccupazione – era possibile? Cosa c'era dietro la maschera?
Sollevai
una mano per sfiorargli il volto – come poteva essere una delle
esperienze più straordinarie della mia vita senza che ne conoscessi
le fattezze, l'identità, persino il suo vero nome? – ma mi scostai
immediatamente. C'era qualcosa di oscuro
in
lui che mi attraeva come una falena alla fiamma. Dovevo
distanziarmene subito.
Mi
alzai di scatto, rimettendo in ordine gli stracci.
«Quando
potrò tornare a ballare?»
«Fra
non molto potrai ricominciare ad esercitarti, ma con moderazione.
Domani ti farò una sorpresa.»
«Che
tipo di sorpresa?» scattai io, avida e sgomenta al contempo. Che
cosa potevo aspettarmi da uno come lui?
«Vedrai»
mi rispose enigmatico, prima di tornare nella sua camera della morte.
«Ti
godi la lettura?» mi chiese quel pomeriggio. Ero accomodata in una
poltrona, avvolta in una coperta, con una tazza di tè caldo, Figaro
in grembo e I
Miserabili in
mano.
«Sì.
Certo che Victor Hugo è prolisso. Era proprio necessario quel
capitolo, 1817?»
Erik
scrollò le spalle. «Settant'anni fa dava più contesto alla storia
di quanto ne possa dare ora, o fra cent'anni.»
«E
quelle sessanta pagine solo sul vescovo di Digne? Per carità,
scritte benissimo, ma mi ci è voluto un po' per abituarmi.»
«Adesso
a che punto della storia ti trovi?»
«A
quella di Fantine.» Tremai di rabbia per la sua triste sorte.
«Perché noi donne dobbiamo essere sempre personaggi casti e puri,
pure mentre erriamo? Non è umano, l'errare? Non abbiamo forse gli
stessi desideri maschili, le stesse ambizioni? Nel cuore, non siamo
uguali, sebbene differenti nel corpo? Non riesco a capire.»
«Più
avanti nella storia troverai un personaggio che risponde in parte ai
tuoi requisiti.»
«Davvero?»
Lui
annui, e io continuai la mia lettura.
«Dove
sei stato finora? Ho sentito che te ne andavi dalla porta.»
«A
fare affari.»
«Prego?»
«Ecco,
guarda.» Mi porse un fascicolo di pergamene, con disegni di figure
femminili che danzavano nelle pose più diverse. Vi erano anche
parecchi appunti, scritti in una calligrafia familiare.
«Mia
madre.»
«Ti
manda lo spartito. Così puoi imparare la parte in tempo. Le ho
assicurato che fino ad allora sarai abbastanza forte per esibirti.»
Mi
accinsi a sfogliare le pagine che riguardavano il corpo di ballo, di
cui avrei fatto parte – le contadine della prima parte e le
magnifiche Villi nel secondo atto, cercando il segno di mia madre sul
foglio che indicava quale parte dovessi recitare. Ma non trovai
niente.
Erik
mi fermò gentilmente il polso.
«Dov'è
la mia parte nel corps
de ballet?
Non sono stata esclusa solo perché alla fine dall'audizione mi sono
sentita male, vero? Mi sono esercitata così tanto…»
«Meg,
nel coro non c'è nessuna parte per te. Sei tu la sostituta per la
Regina delle Villi.»
Per
poco non crollai dalla poltrona.
«É
così. Tua madre è molto orgogliosa di te.»
«Ma
com'è possibile? Sono svenuta durante l'audizione!»
«Avevi
già finito di esibirti, però. E a quanto pare sei stata apprezzata
e promossa a solista.»
«Ma
se ero quasi priva di sensi!»
«Hai
ballato comunque splendidamente.»
Era
la prima volta che ricevevo un complimento da lui. Rimasi così a
bocca aperta da assomigliare a un pesciolino in una vasca.
«Dimmi
che non c'entri niente con tutto questo. Non hai ricattato nessuno
per farmi avere una parte da solista, vero?» insinuai, già fumante
di rabbia.
Lui
sbuffò, facendo tremare i bordi della maschera. «Certo che no. Erik
mantiene le sue promesse, quando gli altri se lo meritano.»
Devo
credergli?
Decisi di concedergli il beneficio del dubbio.
Sfogliai
gli spartiti con una smorfia. C'era un piccolo
problema
da risolvere, prima.
Non
sapevo leggere la musica.
Negli
anni che avevo trascorso all'Opera, avevo imparato certe arie e
sinfonie, avevo una memoria brillante e una forza straordinaria per
la danza, ma se mi trovavo dinanzi a uno spartito ero come intontita.
Sapevo leggere le note, ma la musica non risuonava dentro di me come
un organo. Mi era impossibile imparare dei passi di danza su una
musica intangibile, altrimenti non sarei mai riuscita ad andare a
tempo. Come fare? A chi chiedere aiuto? Ovviamente non c'era che una
persona disponibile.
Memorizzai
i miei passi al meglio, mentre la convivenza con Erik si faceva
sempre più civile. Non ci insultavamo né litigavamo più, e questo
era un miglioramento.
Mi
lasciai andare a qualche esercizio di ginnastica per riscaldare i
muscoli e risparmiarmi uno strappo – era l'ultima cosa che
desideravo. Ero arrugginita, ma come si dice: “il lupo perde il
pelo ma non il vizio”, e presto i miei muscoli cominciarono a
sciogliersi.
Ora
l'unica cosa da fare, dopo aver imparato i passi a memoria, era
procurarmi delle scarpette con la punta di gesso, cosa non facile. Le
mie probabilmente si trovavano in qualche remoto cassetto del mio
camerino, su in superficie. Lassù le cose erano più chiare, meno
ambigue. E questo non mi piaceva.
La
mattina dopo trovai ai piedi del letto le mie scarpette da ballo, e
con grande sorpresa non mi fu difficile riconoscerne il mandante. Con
un largo sorriso, mi vestii in fretta e trangugiai la colazione. Poi,
avvolta in una pesante coperta di lana – avevo ancora qualche
accesso di tosse, di tanto in tanto – mi precipitai in salotto,
dove trovai Erik intento a leggere un pesante tomo di musica, forse
sulla vita di Mozart, e di come questa avesse influenzato il suo Don
Giovanni. Eppure,
sebbene conoscessi il nome del suo capolavoro, mi aspettavo che fosse
nettamente diverso da quello di Mozart; Christine stessa me lo aveva
descritto.
«Ho
un problema» annunciai, non senza un minimo di esitazione, ma
determinata ad andare dritta allo scopo. Lui alzò stancamente gli
occhi dal libro. Non gli piaceva essere disturbato, soprattutto dalla
sottoscritta. Credo che dovesse ancora abituarsi all'idea di avere un
ospite in casa.
«So
che non te ne importerà, ma devi sapere che non so leggere la
musica. Non riesco a sentirla
solo
tramite le note di un pentagramma. In questo modo non posso
esercitarmi nella danza.»
«E
io cosa avrei a che fare con tutto questo?» chiese lui, in tono
vagamente annoiato.
«Beh,
visto che sono costretta a rimanere in questo tuo piccolo ospedale
per altre due settimane, pensavo che… ecco…» D'un tratto ero
esitante: la mia sfrontatezza si era esaurita. Stavo per chiedere al
fantasma dell'Opera di aiutarmi: anche qualcuno più coraggioso di me
sarebbe arretrato. Ma Erik si era dimostrato cortese in quei giorni.
Dovevo battere il ferro finché era caldo.
«Vuoi
che suoni per te, giusto?» indovinò lui subitaneamente.
Tossicchiai.
«In poche parole…»
Lui
emise un lieve sospiro e mise da parte il suo tomo. Sembrò ponderare
con dolorosa concentrazione. Peccato che non potessi vedere il suo
viso mascherato. D'un tratto, posò i suoi occhi di falco su di me.
«E
così sia. Puoi rubare un'ora del mio tempo ogni giorno, Meg Giry.
Per il resto dovrai cavartela da sola, anche perché sei ancora
debole e non puoi sforzarti molto se intendi guarire del tutto.»
Non
potei trattenere un largo sogghigno di vittoria. «Ti ringrazio.»
Lui
chinò il capo in segno di accettazione.
E
così iniziarono le nostre prove. Fu come tornare a camminare dopo
giorni di inerzia. Avevo la danza nelle vene così come Erik aveva la
musica nel sangue, e queste due particolarità si mescolavano bene
l'una all'altra. Non mi ci volle molto per capire che Erik era un
grandissimo pianista e che si stava solo riscaldando con la musica di
Giselle,
che stava adattando per pianoforte.
Ogni
giorno ballavo per un po' più di tempo, così da riabituarmi allo
sforzo che la danza imponeva al mio corpo ancora malaticcio. Erik,
in qualità di “dottore”, non permetteva che superassi i limiti.
Avevo ancora un po' di tosse, ma nessun dolore all'altezza delle
scapole. La febbre era sparita, e così i deliri. Presto sarei
risalita in superficie, ma mi stupivo nel pensare che quel periodo di
“clausura” era stato migliore di quanto mi aspettassi. Una forza
oscura mi attirava verso le tenebre di quel posto, che si adattavano
alla mia pelle con agio straordinario. Mi risaltavano ancor più
della luce del sole. Scoprire il fascino del buio è sempre
pericoloso, perché non sai mai cosa puoi trovare all'interno
dell'abisso, chi potrà ricambiare il tuo sguardo. Io osai guardare,
e quello fu l'inizio e la fine di tutto1.
Erik
batteva il tempo con il tallone, come mia madre col suo bastone da
soldato, mentre io ripetevo i passi con diligenza. Non parlavamo in
quei momenti: la musica riempiva il vuoto tra di noi con splendida
armonia. Non c'era bisogno di parole, bastava uno sguardo per capire
che ero fuori tempo o avevo sbagliato un passo, o che dovevo
migliorare i miei arabesque.
I
miei sentimenti contrastanti verso Erik mi confondevano e
m'infuriavano al contempo: non sapevo se essere diffidente (non
abbassavo mai la guardia in sua presenza) o semplicemente affascinata
dal suo genio, grata perché mi aveva salvato la vita, o impaurita
perché conoscevo l'esistenza della camera dei supplizi e ciò di cui
– se portato alla disperazione – era capace.
Un
giorno mi scoprì ad osservare il pianoforte, terribile e magnifico
al contempo, con sguardo distante. Avevamo appena terminato una
sessione di prove, e io sfioravo i tasti bianchi e neri in una sorta
di estasi. La mia mente non era lì in quel momento, ma altrove,
lontano, persa in ricordi che mai sarebbero divenuti nebbia.
«Sai
suonarlo?» mi chiese, non senza una certa curiosità.
Mi
voltai verso di lui, incredula. «Non dovresti saperlo? Tu sai tutto
di tutti, qui all'Opera.»
Erik
si aprì in un lieve sogghigno. «Non tutto.»
«Allora
ammetti che hai delle manchevolezze.»
«Non
ho detto nulla del genere.»
Risi.
Parlare con lui mi risultava estremamente facile, come l'acqua di un
ruscello si adatta al suo letto e scorre nelle profondità di una
foresta.
«Facciamo
un gioco» proposi con malizia. Lui alzò lo sguardo verso di me,
improvvisamente sull'attenti. Io mi sistemai languidamente sulla
poltrona, come un felino che si rilassa. Figaro fece la sua comparsa
e si strusciò lungo la gamba di Erik, che lo grattò amichevolmente
dietro le orecchie. A quanto pareva apprezzava la compagnia degli
animali più di quella degli uomini.
«Che
tipo di gioco?»
«Io
ti faccio una domanda e tu ne fai una a me. Siamo costretti a dirci
la verità al riguardo.»
Lui
sembrò ponderarvi su un momento, le braccia conserte. Poi annuì.
Ero sicura che avrebbe ignorato il mio monito e avrebbe mentito
ugualmente, ma almeno avevo fatto un tentativo. Non era solo per
conoscere il mio nemico: era per sapere qualcosa di lui,
dell'uomo Erik – non del fantasma né del genio della musica. Avevo
già appurato che era il miglior virtuoso del pianoforte che avessi
mai visto, persino più di mio padre, che eppure era stato rinomato
nel campo. Avevo saggiato la potenza della sua voce con il trucco
della Sirena. Ora volevo sapere chi era veramente.
Volevo
sapere qualcosa dell'uomo che mi aveva impedito di morire – o
peggio, restare afflitta per sempre da una terribile febbre
cerebrale.
«Inizio
io» dissi senza vergogna. «Da quanto tempo suoni?»
«Da
quando ho memoria» rispose lui, laconico.
«E…»
«No,
adesso tocca a me» precisò Erik, sollevando un lungo dito ossuto
per arrestare il mio flusso di parole. Diavolo, diventavo sempre più
curiosa sul conto di quell'uomo. Dovevo ponderare bene le mie
domande.
«Com'è
morto tuo padre?»
Raggelai.
Quella era una domanda che non mi aspettavo.
«Perché
vuoi saperlo?»
«Perché,
quando eri ancora in delirio, pronunciavi spesso il suo nome. È
chiaramente collegato a un incubo. Ma se non ne vuoi parlare…»
«Le
regole del gioco valgono per tutto, anche per questo» risposi,
improvvisamente piccata. «Vuoi conoscere la mia triste, patetica
storia? Ebbene, eccoti servito.» Presi un bel respiro e gli lanciai
un'occhiata fulminante. Lo avrei fatto pentire di avermi posto una
domanda simile.
«Il
ricordo più bello che ho di mio padre è questo: quando avevo cinque
anni, mi prese sulle ginocchia e mi insegnò a suonare il pianoforte.
Le mie manine ossute si allungavano su quei tasti meravigliosi, e la
voce amata di mio padre mi guidava.»
Mi
fermai per un attimo. Erik ascoltava con ineccepibile attenzione.
«Questo
è uno dei pochi ricordi davvero belli che lo riguardano: gli altri
sono solo cenere e polvere intossicanti.» Mi fermai ancora, ma
risoluta nel voler continuare a parlarne.
«Non
ricordo come ebbe inizio. Qualcosa nella sua mente scattò, e da
allora non fu più lo stesso. Da felice qual era, divenne
improvvisamente triste. Un giorno restava a letto, e dovevamo
costringerlo a mangiare. Un altro giorno, ed eccolo lì, lo spartito
in mano, le dita sul pianoforte – poteva strimpellare quanto
voleva. Di notte lo udivo piangere col viso seppellito nel cuscino,
mentre mia madre gli accarezzava la testa in fiamme.
“Non
posso sopportare queste voci. Esse mi tormentano in modo
inaccettabile. Non posso più vivere così, Antoinette. È per il
bene tuo e della nostra piccola Meg.”
Nell'ennesima
sfuriata, era solito gettare a terra oggetti del mobilio di casa,
quasi fossero le idee che lo ossessionavano. Non capiva cosa aveva,
né tanto meno io e mia madre ne comprendevamo le origini. Un uomo
buono, talentuoso, sincero… cosa mai gli era accaduto?
Si
recò in ospedale di sua spontanea volontà. I medici avrebbero
dovuto curarlo, ma così si trattava solo di una tortura. Un giorno
mia madre ed io ci avventurammo in quel tetro edificio dalle pareti
bianche come la morte. Sentii le urla e i gemiti degli altri
prigionieri – perché in fondo si trattava di questo: custodire i
malati lontani dalla “gente normale”.
Ero
troppo piccola per capire una cosa del genere, ma non abbastanza da
non sentire la nostalgia di mio padre. Superammo il corridoio dei
supplizi – lo chiamavano così perché in quelle celle erano
ricoverati i malati più gravi, che venivano tenuti d'occhio nel caso
volessero fare del male a se stessi o ad altri – e arrivammo nella
sala delle visite, sempre su quel piano. Non riuscivo a staccare gli
occhi dal biancore accecante delle pareti, quasi fosse un riflesso
del mio animo intorpidito. Non capivo con esattezza dove mi trovassi
e che genere di ospedale fosse quello, ma allora cominciavo ad
intuire. Mio padre ci attendeva, più smunto che mai, con degli
orribili segni intorno ai polsi. Capii che lo avevano legato durante
una delle sue crisi. Nessuno comprendeva la ragione delle “voci”
nella sua testa, tanto meno lui che ne soffriva.
Quando
fu dimesso, era più morto che mai. Non sapevo cosa gli avessero
fatto in manicomio, ma certo non lo avevano aiutato. Si dedicò
all'alcol – diceva che gli zittiva la mente – e non potevo più
abbracciarlo senza percepire il lezzo di rum che si portava dietro
come un vessillo. Presto non fu più in grado di lavorare.
Trascorreva intere giornate a letto, per poi mettersi a strimpellare
sul vecchio pianoforte con una furia tale da sembrare posseduto. Una
volta, dallo spioncino della camera che condivideva con la mamma, lo
vidi mettersi le mani nei capelli, tirandoli con tanta forza che mi
fece male solo a guardarlo.
All'apparenza
aveva tutto: era bello, di buon carattere, lavorava come pianista
nell'orchestra dell'Opera Le Péletier, aveva una famiglia che lo
amava ed era stimato e rispettato da tutti. E questo era un grande
passo, viste le sue origini africane. Ma il suo talento come
musicista faceva dimenticare ogni pregiudizio al pubblico più
altezzoso.
Cosa
si incrinò dentro di lui? Ancora me lo chiedo. Arrivò al punto in
cui non riusciva più a parlare, tanto le voci che aveva nella testa
lo confondevano. Cominciò a vedere cose che non esistevano, e sia io
che mia madre ci spaventammo. Io ero piccola e non potevo fare molto;
inoltre, era evidente che i miei genitori volevano tenermi lontana da
quell'incubo. Non ci riuscirono.
Poi
venne quel giorno… Sapevo che qualcosa sarebbe andato storto. Era
una mattina d'inverno, e io corsi con le mie scarpette rosse lungo il
boulevard che mi avrebbe riportato a casa, con la cartella che mi
ballonzolava sulle spalle come un sacco poco gradito. Ero uscita
prima da scuola, col permesso di mia madre, per esercitarmi per il
prossimo saggio di Natale di noi allieve ballerine. Ricordo che quel
giorno posi in capo a una delle mie compagne più antipatiche un
ragnetto che avevo raccolto da terra, tutto intento a tessere la sua
tela. La mia compagna urlò con tutto il fiato che aveva in gola,
mentre io ridevo tanto che mi doleva lo stomaco. Era uno dei miei
soliti scherzi – tutti a scuola sapevano che ero indisciplinata,
disobbediente, eppure libera come loro, con tutta quell'etichetta,
non avrebbero mai potuto essere.
Tornai
a casa dopo aver ricevuto dalla maestra una meritata bastonata sulle
mani davanti a tutta la classe per quella mia marachella. Dalla porta
della camera dei miei s'intravedeva la luce accesa: insolito, dal
momento che mio padre preferiva il buio. Sarà
una di quelle giornate in cui resta a letto tutto il giorno,
pensai tristemente. Volevo salutarlo, ma non ne ebbi il coraggio.
Spiai dalla feritoia della porta: mio padre era chino sul tavolo e
scribacchiava qualcosa. Le mani gli tremavano tanto che non riusciva
a scrivere correttamente. Io ero ancora sulla soglia, pronta a
spalancare la porta per dargli il mio saluto, ma notai che nell'altra
mano reggeva un oggetto sconosciuto. Una
pistola, intuii
poco dopo. Avevo appreso quella parola, riferita a quella particolare
arma, nei miei studi e nelle mie letture (anche se preferivo di gran
lunga giocare a pallone con Luc e il resto della compagnia piuttosto
che restare ore e ore col sedere incollato su una sedia. Non ero una
brava studentessa).
La
prima cosa che mi chiesi fu: come
se l'è procurata? E
dopo: cosa
ha intenzione di fare?
Si
portò la pistola alla tempia, fremente. Non feci in tempo a
spalancare la porta che egli premette il grilletto e…» Chinai il
capo, mentre le lacrime mi bruciavano le guance. Non avrei lasciato
che lui
mi
vedesse in quello stato. Tamburellai le dita sul pianoforte, senza
emettere alcuna nota.
«Meg»
disse Erik con voce più dolce del miele. «Meg, se non sei nelle
condizioni di parlarne…»
«No,
sto bene» risposi, asciugandomi gli occhi. Era apprensione
quella
che udivo nel suo tono? Era davvero preoccupato per me? Gli lasciai
il beneficio del dubbio.
«No,
lascia stare. Il dado ormai è tratto.» Presi un profondo respiro,
chiusi gli occhi e rivissi la scena così come mi si era palesata
undici anni prima. «Il mio “NO!” disperato è stato l'ultimo
suono umano che mio padre abbia udito. Dopodiché, il nulla.
Non
so per quanto tempo rimasi lì, imbalsamata, le scarpette rosse
divenute ancora più rosse, il mio vestito buono per la scuola
schizzato di sangue. La stanza sembrava annegare nel sangue – ve
n'erano tracce sul letto, sui comodini, sulle tende di pizzo
giallastro. Poi iniziai ad urlare e…» Questa volta lacrime roventi
mi scivolarono sulle gote arrossate. «Fu la governante a trovarci:
il cadavere di mio padre a terra, me in piedi che gridavo con tutta
la forza che avevo in gola, destando l'attenzione di tutto il
vicinato. Smisi solo quando arrivò mia madre e mi portò via da
quella scenografia di morte. Per settimane non parlai. I dottori
insistevano che dovessi essere ricoverata in ospedale, che ero in uno
stato catatonico, qualunque cosa volesse dire, per il trauma subito.
Ma mia madre, dopo l'esperienza avuta con mio padre, non aveva
nessuna intenzione di perdere anche sua figlia in manicomio. Fu forse
questo che mi risvegliò, alla fine: la consapevolezza che a mia
madre non restava nessun altro eccetto me. Lentamente, ricominciai ad
osservare, a parlare, a respirare e a danzare – ero come una
neonata che si dibatte nella placenta, in attesa di venire alla luce.
Ma mi bastava chiudere gli occhi perché rivivessi il suicidio di mio
padre, il sangue sul pavimento… erano un'ossessione incancellabile.
La danza mi salvò, per fortuna, ma tutt'ora ho incubi al riguardo.»
Mi fermai e lo guardai negli occhi. Egli ricambiò il mio sguardo.
C'era qualcosa di indecifrabile in lui che non riconoscevo, mentre
fissava le mie pupille arrossate dal pianto. Compassione? Pietà? Non
mi sembrava tipo da sentimenti simili. Eppure, notai che aveva
stretto le mani in due pugni serrati.
«Meg,
stai tremando.» Mi pose la sua giacca sulle spalle. «Ecco, tieni.»
La
sua cortesia era quasi sospettosa. «Adesso tocca a me» disse in
tono enigmatico, ma io lo fermai. «Il gioco è finito. Posso
prendere un po' d'aria?»
«Certamente.»
Mi accompagnò sulla riva del lago, sorreggendomi per la vita – non
aveva tardato ad accorgersi che ero malferma sulle gambe. Oscillavo,
la mente annebbiata dai ricordi, ma quel contatto mi rinfrancava.
Erik mi depose con dolcezza sulla riva e mi lasciò sola, senza che
io glielo dicessi. Aveva intuito che in quel momento preferivo la
solitudine dei miei pensieri.
Mi
portai le ginocchia al petto, guardando il mio volto riflesso
nell'acqua plumbea. Era gonfio e arrossato, gli occhi ancora lucidi.
Piansi tutte le amare lacrime che avevo trattenuto in quegli anni,
mentre l'ossessione che mi perseguitava la mente tornava ad affondare
i suoi artigli dentro di me. Non sapevo se parlarne o meno mi avesse
fatto bene. Non avevo mai rivolto quelle parole a nessuno, eccetto
forse Christine. Perché proprio lui?
Perché
in lui vedevo l'oscurità che mi tormentava, ecco perché. Rivedevo
mio padre e i miei incubi. Era l'innominabile della mia vita, e lui
ne era il simbolo. Invece di spaventarmi, la notte mi accoglieva
beatamente. Mi sentivo protetta – non temevo il buio. Mi cullavo in
quell'amnio, la pelle delle guance ancora rovente per le lacrime.
D'un tratto udii qualcosa: una musica lontana, angelica, che
proveniva dall'appartamento che avevo appena lasciato. Il suono del
violino era straziante, eppure meraviglioso – gli angeli avrebbero
pianto dinanzi a quella musica celeste. Ora capivo perché Christine
aveva creduto che Erik fosse il genio della musica. Non avevo mai
udito nessuno suonare con tanta abilità, nemmeno nei miei lunghi
anni all'Opera.
Capii
che mi stava dedicando quella melodia: un'offerta alla mia
disperazione, la tragedia che mi scorreva nelle vene. Caddero
lacrime, ma questa volta erano dolci. Quella musica magnifica mi
cullò fin sulla soglia del sonno, e mi addormentai lì, scevra di
pensieri che non trattassero della sinfonia di Erik.
Ero
ancora tra le braccia di Morfeo quando sentii qualcosa picchiettarmi
leggermente una spalla.
«Meg,
così ti raffredderai» disse la voce d'angelo. «Ti accompagno nella
stanza. Devi riscaldarti. Non ho passato una settimana e mezzo a
cercare di guarirti se poi questi sono i risultati.»
Annuii
e cacciai un mugolio riluttante. Non aveva tutti i torti: in riva al
lago faceva freddo, sebbene avessi indosso ancora la giacca di Erik.
Lui
mi porse una mano ossuta, bianca come osso. «Vieni, bambina.»
Probabilmente era pronto a condurmi di peso nella stanza Luigi
Filippo, se avessi rifiutato il suo invito. Malgrado quel “bambina”
con cui mi si era rivolto non mi piacesse, accettai la sua stretta.
Fu allora che alzai gli occhi e lo guardai in viso – il suo vero
viso.
Aveva
dimenticato di indossare la maschera.
Note
dell'autrice:
1l'inizio
e la fine di tutto: frase
tratta da
Il grande Gatsby
di F.S. Fitzgerald.
Eccoci
a un nuovo capitolo. Questa volta si scopre il passato di Meg – che
dite, è abbastanza traumatico? Non l'avevate intuito? Non fa niente,
eccolo qua tutto per voi. Volevo anche precisare che Erik non si
scorda della maschera perché all'improvviso è diventato scemo, ma
perché ha preso talmente tanto l'abitudine di avere Meg in casa che
se n'è dimenticato. Per lui, non è più un'ospite, ma parte della
casa, e pertanto si comporta di conseguenza. Come reagirà Meg al
vero aspetto di Erik? Si accettano scommesse. XD Un bacio a tutti!
Malinconica:
In
effetti il gesto del buffetto sulla guancia è un po'… improvviso
da parte di Erik, tanto che pure lui ne rimane sorpreso. Il fatto è
che condivide una storia con Meg che non ho ancora svelato e che si
vedrà fra qualche capitolo (sì, ci sono altri segreti). In fondo,
credi che abbia accettato di curare Meg solo per Madame Giry e
Christine? C'è un altro motivo, ma taccio al riguardo. Grazie mille
per la recensione, spero che anche questo capitolo ti piaccia! <3
Una
domanda a voi lettori: dovrei inserire "Tematiche delicate"
negli Avvertimenti della fic, visto che si parla di suicidio? Non
sono molto pratica di queste cose, quindi accetto un consiglio.
Grazie in anticipo. |
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Capitolo 17 *** Oltre la maschera. ***
xv.
oltre
la maschera
Niente
potrebbe descrivere l'orrore che provai quando vidi il suo volto
smascherato. Aprii la bocca come per urlare, ma non ne uscì alcun
suono. Sul viso mostruoso di Erik si dipinse una uguale espressione
di orrore, specchio della mia, perché si era reso conto di aver
dimenticato d'indossare la maschera.
Oh,
l'orrore
di
quel viso! Sarebbe impossibile a descriversi, eppure sia Christine
che Buquet e mia madre ne avevano fatto un ritratto somigliante.
Avrei dovuto essere preparata, ma nel mio stato di tormento emotivo
quella vista orripilante fu l'ultima goccia che fece traboccare il
vaso.
«Meg…»
disse lui in un gemito, ed era talmente pietoso, così simile a un
cagnolino respinto dal proprio padrone, che un cuore di ghiaccio si
sarebbe sciolto al pensiero. Ma non il mio.
«Stammi
lontano» gli comandai, allontanandomi da lui in gran fretta,
trascinandomi sul letto di ghiaia che era la riva del lago. L'orlo
della mia gonna lambì l'acqua e si bagnò all'istante, ma non
m'importava. L'unico mio desiderio in quel momento era mettere la
maggior distanza possibile tra me e quella
cosa.
Provai
ad alzarmi, scossa com'ero, gli occhi ancora arrossati dalle lacrime.
Quasi ruzzolai a terra, perdendo l'equilibrio, ma Erik mi afferrò
tra le braccia prima che potessi cascare nel lago gelido. Con un
brivido d'orrore, mi liberai dalla sua presa, non senza prima avergli
dato un pugno sul petto. «Come osi…?» chiesi, evidentemente
traumatizzata. Picchiai ancora sul suo petto con i miei piccoli
pugni, ma lui era solido come una roccia e non si mosse. «Come osi
incantarmi con la tua dannata musica e poi presentarti così?»
ringhiai. Un altro piccolo pugno.
«Come
osi… io ti ho aperto il mio cuore…»
Crollai
a terra, singhiozzando disperata. Lui fece per tendermi una mano in
segno d'aiuto, ma io mi allontanai in gran fretta, ancora carponi.
«Non
osare toccarmi, tu… razza di mostro…»
Mi
alzai a fatica e mi precipitai nella stanza Luigi Filippo,
lasciandolo lì, sulla riva del lago, immobile come una statua,
paralizzato dal mio stesso orrore. Mi gettai sul letto, il corpo
scosso da singhiozzi irregolari. Come avevo potuto dimenticare chi
era veramente? Mi ero fidata
di
lui, senza neanche saperne il perché – forse ero consapevole che
solo lui, con la sua oscurità, avrebbe compreso le parti più
tenebrose della mia anima.
Come
avevo potuto pensare che il nostro rapporto potesse essere civile,
ragionevole? Era mio nemico, lo sarebbe sempre stato finché avesse
voluto sotterrare insieme a lui e al suo orrido, orrido
volto
anche la mia amica in quella catacombe. Forse lui sognava una casa
normale, con tanto di moglie da portare a passeggio la domenica
(neanche fosse un cane) – sognava l'anonimato, ma mai, con quel
viso, gli sarebbe stato possibile…
Seppellii
il volto tra i cuscini. Piansi per molte ore, o così mi parve,
finché non mi calmai e realizzai ciò che avevo fatto. Il completo
silenzio regnava nell'appartamento sul lago. Mi chiesi se Erik fosse
rimasto paralizzato lì sull'argine come una statua dell'Orrido
oppure fosse tornato a rintanarsi nella sua camera della morte. D'un
tratto, provai un profondo senso di vergogna.
Mi
aveva salvato la vita. Il suo viso era orribile, certo, ma cosa
importava? Mi aveva aiutato nel momento del bisogno, senza chiedere
nulla in cambio. Non per me, forse per conto di mia madre e
Christine, ma l'aveva fatto. E io cosa gli avevo offerto? Solo
disprezzo per qualcosa che non poteva controllare. Ripensai ai ragni
che mi aveva impedito di uccidere, qualche tempo prima. Non era colpa
loro se la natura li aveva resi spregevoli agli occhi degli uomini.
Perché punirli per questo?
Avevo
molti motivi per essere arrabbiata con Erik, perché molte delle sue
azioni erano ingiustificabili; ma non per il suo aspetto. Mi ero
comportata esattamente come la madre che lo aveva respinto, la gente
che lo chiamava “la Morte Vivente” alle fiere di fenomeni da
baraccone. Non ero diversa dagli altri. Lo avevo chiamato mostro.
Avevo perso il controllo.
Avvampai
di vergogna.
Come
era potuto accadere? Forse era stata la sorpresa di ritrovarmi
quella… quella cosa
davanti,
dopo avergli donato il mio cuore raccontandogli delle mie memorie più
terribili.
Ricordai
l'apprensione nei suoi occhi, rivolta a me – a me, a cui non doveva
nulla. C'era qualcosa di terribilmente umano
in
lui, e io lo avevo ignorato, mentre Christine non poteva cancellarne
l'ombra e dimenticarlo così facilmente – una delle tante ragioni
per cui, alla fine, tornava sempre da lui.
Avrei
dovuto richiamarlo sulle sue azioni, cosa che avevo già fatto
numerose volte, ma non sul suo volto. Di quello non aveva colpa,
eppure tutto aveva inizio da lì.
Mi
sollevai lentamente dal letto e occhieggiai il mio riflesso nello
specchio. Ero un disastro, ma non mi aspettavo di meno. Con la
spazzola, cercai di districare i nodi tra i miei capelli cespugliosi,
invano. Sospirai e uscii fuori, in soggiorno, diretta verso la camera
di Erik. Sapevo che l'avrei trovato lì, e così fu. Bussai alla
porta con tutta la delicatezza di cui ero capace.
«Entra»
disse la voce familiare dall'interno.
La
stanza era esattamente come me l'aveva descritta Christine, con le
pareti rivestite di nero e un grande baldacchino con lenzuola rosso
rubino. Sui tendaggi alle pareti vi erano impresse alcune scritte
familiari – il Dies
Irae di
Mozart, immaginavo – ma ciò che attirò il mio sguardo fu la
grande bara che fungeva da letto, posta tra i tendaggi del
baldacchino. Doveva aver subito un grande trauma, ed essersi un po'
troppo immedesimato nei panni della Morte Vivente, per vivere in quel
modo.
Erik
era seduto a un magnifico organo, che si era procurato chissà come.
Non suonava. Aveva le mani strette a pugno sulle ginocchia. Notai che
stavolta indossava la maschera.
Deglutii.
«Erik»
dissi, esitante. Era la prima volta che lo chiamavo per nome. Lui
sollevò leggermente il capo chino.
«Erik,
io… mi dispiace.»
Questo
lo prese alla sprovvista. «Prego?»
«Ho
detto che mi dispiace, e non farmelo ripetere» dissi io, vergognosa.
«Mi dispiace di aver reagito in quel modo. Non avrei dovuto. È
stato terribile da parte mia. Ti prego di… di perdonarmi. Puoi
farlo?»
Gli
tesi la mano in segno di pace. Lui mi guardò negli occhi; notai che
erano lucidi. Non si era infuriato come con Christine quando io avevo
visto il suo volto perché non solo si era trattato di un mero
incidente, una sua dimenticanza, ma anche perché non aveva
importanza per lui se io conoscevo la sua bruttezza. Per me non
provava alcun interesse amoroso.
«Sono
abituato a manifestazioni del genere, Madamoiselle» disse lui con
voce grave. «Non hai nulla di cui scusarti.»
«Ti
ho chiamato mostro.»
«Non
è quel che sono?» Il tono con cui disse queste parole – così
desolato, privo di qualsiasi speranza – mi incrinò qualcosa nel
petto.
«Non
è detto che tu lo sia. Una faccia non fa l'anima. Potresti essere
diverso, se volessi.» Gli tesi ancora la mano. «Pace?»
Lui
mi guardò dal basso verso l'alto. Poi tese la mano e strinse la mia
in una delicatissima presa, simile a un tocco di rugiada. La sua
pelle fredda tremava contro la mia, ma io non avevo più paura.
«Ho
un'altra proposta da farti» dissi quando le nostre mani si furono
separate. «Erik» saggiai il suo nome sulla lingua, e notai che non
era spiacevole all'udito, «stasera ceneresti con me?»
Lui
mi guardò come se fossi pazza.
«Cosa?»
«Hai
capito. Ceniamo insieme, come due persone civili che abitano nella
stessa dimora.»
«Non
dovrebbe essere l'uomo ad invitare la donna a cena?» Ne parlava come
se fosse un evento tanto estraneo a lui da provenire da un altro
pianeta.
«Di
solito sì. Ma qui queste sciocche regole di etichetta non valgono.»
Lui
ci pensò su per un attimo. «Basta che non metti mano ai fornelli.»
Risi.
«No, questa volta lascio fare tutto a te.»
Lo
assistetti ai fornelli solamente per vederlo all'opera. Le sue mani
erano agili e scattanti in cucina così come sul pianoforte. Quella
sera optammo per un magnifico pollo arrosto con patate.
«Dove
prendi tutta questa roba?»
«Secondo
te rimango chiuso qui dentro tutto il tempo?»
«Vuoi
dire che esci allo scoperto?» Me lo immaginai a fare compere come
una persona normale: visione improbabile.
«Ho
i miei mezzi» rispose lui, enigmatico. Si accinse a raschiare le
patate mentre io rimanevo lì ferma a guardare – non voleva neanche
farmi avvicinare ai fornelli.
«Per
esempio?»
«Una
sciarpa, un naso finto, un paio di occhiali e un cappello a tesa
larga. Niente di più semplice.»
«Tu
hai un naso finto?» esclamai, sgomenta. Cercai di immaginarlo.
«Più
di uno. Sono indispensabili, come puoi ben capire. Li ho modellati io
stesso. Sono ciò che un medico chiamerebbe “protesi
all'avanguardia”.»
Infilò
il pollo nel forno – un magnifico esemplare, tornito e invitante –
insieme alle patate che aveva appena tagliato con le sue mani agili.
Io non riuscivo a staccare gli occhi da quelle dita lunghe e sottili,
che si muovevano abilmente, in modo quasi magico sotto il mio sguardo
attonito.
«Sei
un tuttofare, tu. Musicista, compositore, cantante, prestigiatore,
ventriloquo, medico, cuoco… Dimentico qualcosa?»
«Sono
anche un architetto.»
«Vuoi
dire che hai progettato tu i sotterranei del teatro, la tua casa e
tutto il resto?»
«Sì.»
Lo
guardai. Non sapevo se essere ammirata o intimorita da tutto quel
sapere.
«E
non sono esattamente un medico. Ho studiato anatomia per un certo
periodo di tempo, in gioventù, e appreso le proprietà di certe
erbe.»
«Questa
tua conoscenza è stata sufficiente per salvarmi la vita, però.»
Avevo un grosso debito nei suoi riguardi, e la cosa non mi piaceva.
Lui
chinò il capo in un falso segno di modestia. «È così.»
Non
ci rivolgemmo molto la parola se non a cena, attorno alla tavola
imbandita. Mi avventai sulla coscia di pollo come se non mangiassi da
giorni.
«Tua
madre non ti ha insegnato le buone maniere?» chiese Erik,
sarcastico. Occupava il posto accanto al mio, e continuava a non
mangiare.
Non
vuole togliersi la maschera,
indovinai.
«Mia
madre non è qui per rimproverarmi» risposi con la bocca piena di
carne deliziosa.
«Puoi
sfilarti la maschera, sai» aggiunsi, con più audacia di quanta me
ne sentissi addosso. «Per mangiare, intendo.»
«Non
voglio rovinarti l'appetito.»
Annuii,
sebbene a malincuore. Effettivamente, non aveva tutti i torti.
«Quanti
strumenti suoni?»
«Parecchi.
Il pianoforte, il violino, l'organo, l'arpa… non ho mai
padroneggiato quelli a fiato, però.»
«E
quante lingue conosci?»
«È
un interrogatorio?»
«No.
È per conoscere meglio il mio ospite. Anche tu puoi farmi delle
domande, se vuoi, come il gioco di ieri.» Sperando
che non finisca nello stesso modo.
«Oltre
al francese, conosco l'inglese, il tedesco, il persiano, un po'
d'arabo, l'italiano, lo spagnolo, il russo. E la lingua dei gitani.
Ho imparato da me anche il latino e il greco antico, quando ero
bambino.»
«Solo
questi?» scherzai.
Lui
annuì, distorcendo le labbra in una smorfia che potevo prendere per
un sorriso.
«Devi
aver viaggiato molto.»
«È
così.»
Posai
il mento su una mano. «Qual è la tua opera preferita? Anche se ho
sentito che non apprezzi tanto la musica lirica.»
«Non
è che non l'apprezzo. È che esiste un altro genere di musica, ben
superiore e terribile, che voialtri con le vostre ariette d'opera non
potete immaginare. È una musica che appartiene alla notte.»
Anch'io
appartengo alla notte, pensai
d'un tratto.
«Vorrei
udirla» diedi voce ai miei desideri.
«Non
puoi. Ti consumerebbe.»
«Ma
io non sono come Christine. Non sono
innocente.»
Ci
scambiammo un'occhiata intensa. «Purtroppo sì, Meg, lo so. Ma
dovresti dimenticare.»
«Non
hai risposto alla mia domanda. Qual è la tua opera preferita?»
«Se
proprio devo scegliere, il Faust.»
«È
anche la mia preferita» dissi, non senza una traccia di stupore.
«Perché ti piace? Cosa vi trovi di differente dalle altre opere? E
qual è il tuo compositore preferito…?»
Lo
bersagliai di domande – tutte innocue – per saggiare la sua
conoscenza in campo musicale. E in effetti era vastissima: sembrava
conoscere a menadito ogni opera, ogni compositore che fossero mai
esistiti. Davanti a quell'immenso sapere, io mi facevo piccola
piccola e restavo ad ascoltare, affascinata. Capii che nessuno
avrebbe potuto interpretare meglio il ruolo di genio della musica,
eccetto lui. Stavo assistendo allo spettacolo di un vero genio –
uno terreno – all'opera. Sembrava composto di musica e ossa: la
musica gli scorreva nelle vene con il sangue e faceva pulsare il suo
cuore a una cadenza sconosciuta.
Sentirlo
parlare in quel modo era quasi un'esperienza religiosa: qualunque
artista sarebbe stato benedetto se avesse avuto anche una sola
briciola del suo genio – me ne resi conto immediatamente. Lo avevo
già udito suonare il pianoforte e il violino, e non potevo
dimenticare la Sirena, ma anche solo sentirlo parlare era
ipnotizzante. Ero affascinata,
non potevo negarlo.
C'era
qualcosa di sinistro e oscuro in lui che non potevo ignorare ma che,
anzi, mi attirava come un'aquila alla sua preda; poi intravedevo la
sua palese umanità
e
rimanevo impietosita, basita, incantata. Chiunque fosse, era un
essere straordinario.
C'era
una domanda che mi volteggiava nella testa: perché
proprio Christine? Perché lei e non un'altra delle coriste? Era
solo per il suo evidente talento? Ero certa che inizialmente le
avesse proposto di darle lezioni di canto solo perché innamorato
della sua voce, di cui aveva scorto le potenzialità nascoste. Poi
erano trascorsi mesi, e Christine per lui era diventata tutto: oltre
ad essere la sua pupilla, era la sua luce, vita – era musica. Forse
era per questo che ne era tanto ossessionato.
Non
ebbi il coraggio di porgli quella domanda.
«Ti
vedo esitante, Meg. Di cosa hai paura?» mi chiese con la sua voce
come miele. Certo che poteva essere subdolo.
«Di
impazzire. Di diventare come mio padre» dissi senza neanche
pensarci. Mi morsi la lingua a sangue – ecco che dalle labbra mi
sgorgavano parole come veleno. Mi misi le mani tra i capelli.
«Non
so perché ti sto dicendo questo» dissi, lo sguardo chino. Lui mi
pose un dito bianco e lungo sotto il mento, sollevandomi il viso. Ci
guardammo negli occhi, carbone e oro a contrasto.
«Perché
rimarrà qui, in questa tomba, con me solo come testimone» rispose
con serietà. «Una volta tornata alla luce, ti dimenticherai di Erik
e delle tue paure.»
«Non
potrei mai» mormorai io.
Lui
scostò il dito dal mio viso e tornò a guardare nel suo piatto
vuoto. D'istinto, gli sfiorai un polso, notando le cicatrici sotto la
stoffa della camicia.
«Aspetta»
dissi, allarmata, «e queste come te le sei procurate?»
Lui
ritrasse la mano, coprendosi il polso con fare difensivo. «É stato
molto tempo fa, ma certe cicatrici rimangono indelebili» rispose
lui, enigmatico come sempre.
«Hai
tentato il suicidio?»
«No,
anche se molte volte l'ho desiderato.»
Guardai
negli occhi come pozze dorate del mio angelo guardiano.
«E
allora cos'è successo?»
«Non
è una storia per le tue orecchie.»
«Anche
la mia non era una storia per le tue
orecchie,
eppure tu hai ascoltato» ribattei. «Adesso tocca a me, ricordi?»
Lui
sospirò, ma alla fine cedette. Il nostro patto era chiaro: una
domanda spettava a lui, e un'altra a me.
«Mi
sono procurato queste cicatrici la prima volta in cui mi vidi allo
specchio. Lo ruppi in mille pezzi. Non potevo avere più di sei anni.
I miei ricordi di allora sono confusi, ma quella memoria in
particolare resterà indelebile nella mia mente.» Sogghignò. «Vedi?
Neanch'io so perché ti sto dicendo queste cose. Non – non dovrei…»
«Eppure
entrambi stiamo commettendo lo stesso sbaglio» conclusi io,
altrettanto turbata.
Un
attimo di silenzio. L'odore del pollo arrostito annebbiava i sensi.
«Vorrei
combatterla.»
«Che
cosa?» chiese lui, perplesso.
«La
mia paura. E la tua?»
«Le
mie paure si sono già del tutto avverate» sospirò lui con grande
tristezza.
Non
potei fare a meno di proseguire con queste parole: «Mi aiuteresti a
superare la mia, di paura?»
«E
come?»
«Dandomi
lezioni di pianoforte. Vorrei recuperare il mio rapporto con quello
strumento, così come con la memoria di mio padre. Mi faresti questo
favore? Mi basta anche solo un'ora al giorno.» Se
non sei troppo occupato a perseguitare Christine,
pensai tra me e me.
Lui
mi guardò sbalordito. Di certo quella era l'ultima richiesta che si
aspettava da me.
«Se
prima di andare a dormire mi sentirai suonare il pianoforte, allora
la risposta sarà sì.»
«Così
sia» acconsentii, e brindai con lui, sebbene il suo bicchiere fosse
vuoto.
Quella
notte, furono le dolci noti di un notturno di Chopin a cullarmi nel
sonno. Sorrisi e mi abbandonai all'abbraccio di Morfeo, aspettandomi
chissà cosa dall'indomani.
L'indomani
mattina Christine mi fece visita. Questa volta ero in uno stato molto
più decoroso, e la tosse mi era passata quasi del tutto. Notai che
portava ancora l'anello di Erik al dito.
«Le
vostre lezioni continuano, vedo.»
Lei
annuì tristemente. «È la condizione per vedere Raoul.»
«Ti
permette di stare con lui?» domandai, stupita. Sapevo che il
cosiddetto Angelo della Musica, fantasma dell'Opera o quel che era
provava una terribile gelosia nei confronti del visconte.
«“Che
sia infelice quanto me” dice lui.»
«Perché
Raoul dovrà partire presto.»
«Oh,
deve
farlo. Non posso permettergli di restare qui: è troppo pericoloso.»
Sì,
Erik si sarebbe spinto oltre ogni limite pur di eliminare il suo
rivale. Dovevo ricordare che, malgrado la sua gentilezza nei miei
riguardi in quei giorni, si trattava di Erik.
Christine
aveva avuto un saggio della sua furia quando lo aveva smascherato, io
nella camera dei supplizi. Nessuno si sarebbe chiuso volentieri in
una tomba con un cadavere del genere!
«Io
non mi sposerò mai» dichiarò Christine con fierezza e disperazione
insieme. «Mai!»
I
sottintesi di quelle parole erano chiari. Sospirai e, in un gesto
molto poco da me, l'abbracciai dolcemente. La cullai tra le mie
braccia per un po', consolandola, ignorando le lacrime che bagnavano
il satin del mio abito.
Era
coraggiosa, molto coraggiosa nell'affrontare tutta quella situazione
da sola – persino io non potevo aiutarla. Non potevo salvare quella
parte di Christine che ancora, misteriosamente, la riportava ad Erik.
Si trattava davvero di sola pietà o paura, checché lei ne dicesse?
Io
non credevo proprio. Come lei era attratta dalla sua musica angelica,
io non potevo resistere all'inferno nei suoi occhi. Eravamo come due
brocche rotte nello stesso punto; c'era qualcosa di marcio
in
lui – la sofferenza lo aveva trasformato – così come c'era in
me, dalla morte di mio padre.
Come
lui, anch'io appartenevo alla notte. Christine, invece, era uno
splendido uccello estivo, come in quel racconto della piccola Lotte.
Come potevano un tale uccello e un tetro corvo essere destinati a
stare insieme per l'eternità? Ero certa che anche Erik lo sapesse,
ma non riusciva a lasciarla andare. In questo, forse potevo aiutare
la mia amica: mi ero resa conto che, malgrado i nostri battibecchi,
non mi era indifferente. Mi considerava sua pari, o quasi, e
condividevamo un rapporto civile.
Mi
ricordava mio padre, con il suo carattere umorale, la ricerca della
solitudine, il vuoto negli occhi, il disperato ardore per qualcosa
che non c'era. E mi ricordava me stessa, con la rabbia, la voglia di
capire senza riuscire a guardarsi allo specchio. Gli incubi nella
mente e nel cuore.
Affrontammo
l'argomento “Christine” un giorno che mi aiutava a solfeggiare su
una composizione di Mozart.
«Hai
intenzione di tenerla intrappolata qui per sempre?»
Non
ci fu bisogno di precisare a chi mi stavo riferendo.
«Non
sono affari che ti riguardano, Meg Giry. Impara il tuo solfeggio.»
Ecco che era tornato rabbuiato e minaccioso.
«Invece
sì. Si tratta della mia amica.» Balzai in piedi, determinata. «Non
puoi conquistarla rendendola tua prigioniera!»
«Non
ho alternative.»
«Sì,
le hai, invece. Potresti comportarti da gentiluomo, prima di tutto, e
non come un pazzo ossessionato da una soprano.»
Si
alzò in piedi anche lui, sovrastandomi. «Come osi…?»
Lo
ignorai. «Tutte le manipolazioni, le minacce, gli isterismi e le
scenate… Questo non è amore, Erik.»
«E
tu cosa sai dell'amore, piccola ballerina?» mi rispose lui con
durezza.
«Nulla»
fui costretta ad ammettere – ed era vero, non mi ero mai
innamorata. Al massimo, avevo avuto una lieve cotta per Luc,
nient'altro. Sentendo parlottare le mie amiche dei loro pretendenti,
io mi sentivo sempre esclusa: prima di tutto perché non ne avevo,
secondo perché non riuscivo a capire cosa ci fosse di tanto
eccitante. «Ma so che quel che stai facendo è sbagliato.»
«Tutte
le “manipolazioni e minacce”, come le definisci tu, sono l'unico
modo per assicurarmi la sua compagnia. Non desidero altro da lei,
solo la sua presenza. Dopo aver visto la mia maledetta faccia, sapevo
che non sarebbe più tornata da me. Per paura…»
«Non
è la tua faccia che la fa paura! Per essere un genio, sei davvero
ottuso!»
Le
orecchie di Erik si infiammarono. «Adesso basta, Meg Giry. Questa è
una questione che non ti riguarda. Non ficcare il naso dove non devi,
se sei tanto fortunata da averne uno. E ora continua con i solfeggi.»
«É
un ordine?» chiesi, alzando un sopracciglio.
«Sono
il tuo maestro, adesso. Quindi direi di sì.»
Feci
quanto lui mi chiedeva, ma solo per calmarlo. Era più prudente così.
Una
voce angelica sovrastava le urla nella mia testa.
«Meg!
Meg!»
Una
mano ferma mi scosse per le spalle. Aprii gli occhi di scatto. Erik
era seduto accanto a me, sul letto della camera Luigi Filippo, in
maniche di camicia – s'intravedevano gli avambracci lividi e
sottili, con le vene ben in risalto sotto la pelle traslucida, le
cicatrici. Accese una candela e un fascio di luce illuminò i nostri
visi – il suo mascherato, il mio terreo e sudaticcio.
«Cos'è
successo?» mi chiese con la sua voce flautata. «Ti ho udita urlare
e…»
«Il
solito incubo» mugugnai a malincuore.
«Ne
vuoi parlare?» domandò lui con insolita dolcezza.
Annuii.
Liberare le catene del mio cuore con lui era semplice come il
respirare.
«Temo
che si accorgano che c'è qualcosa di sbagliato
in
me. E che mi portino via, lontano da mia madre e tutti i miei cari…»
e
da te. Ma
questo non lo dissi.
«Chi
dovrebbe portarti via, Meg?»
«I
medici, con i loro camici bianchi. Mi portano nel manicomio dove è
stato rinchiuso mio padre…»
«E
cosa succede, allora?» incalzò gentilmente. Era come pungolare un
fiore.
«Allora
muoio anch'io.» Soffocai il viso nel cuscino. «Mi punto la pistola
alla tempia e…»
«Meg,
tu non sei tuo padre.»
«Ma
gli assomiglio, questo non puoi negarlo.»
«Forse
sì, ma tu sei comunque una persona differente.»
Io
tenevo ancora il volto seppellito nel cuscino. Lui fece per
accarezzarmi i capelli, lentamente – un gesto infimo, come se
temesse di spezzare le ali a una farfalla. Ma alla fine ritrasse la
mano, sfiorandomi soltanto. La mia delusione per quel gesto
incompiuto mi sorprese. Volevo
davvero che
la sua mano si posasse sul mio capo? A quanto pareva sì.
Devo
essere impazzita sul serio.
«Vado
a prendere una cosa. Torno subito.» Si alzò dal mio capezzale e si
precipitò fuori dalla camera Luigi Filippo. Quando tornò, portava
con sé il suo prezioso violino e una boccetta dal contenuto
sconosciuto.
«Bevi
questa. Ti farà stare meglio.»
Distorsi
le labbra in una smorfia, ma feci quanto mi chiedeva. Era la bevanda
più amara che avessi mai assaggiato, ma la inghiottii ugualmente, e
non tardò a fare effetto. Una nebbia tiepida calò sui miei occhi
stanchi, portandomi subito a chiudere le palpebre.
«Che
cosa mi hai dato?»
«Qualcosa
per farti dormire. Farai un sonno senza sogni.»
«Ti
ringrazio.» Poi, vedendo che si stava rialzando, gli afferrai un
polso con voracità.
«Aspetta»
balbettai, senza sapere quel che stavo facendo. Sapevo soltanto che
non volevo restare sola con i miei incubi, non di nuovo.
«Non
me ne stavo andando» disse lui, e io allentai la mia morsa. Si
accomodò sulla poltrona accanto al mio letto e cominciò a suonare
il suo violino – una melodia dolce, probabilmente di Brahms. La
musica mi scorreva nelle vene come il sangue, e attutiva il dolore
meglio di qualsiasi morfina. Solo chi ha sentito suonare Erik può
capire l'effetto che produceva la sua musica. Le sole note erano
lacrime d'angelo.
«Ora
dormi, Meg. E non temere. Erik resterà qui, se lo desideri.»
Sì,
lo desideravo. Non potevo più negarlo. Chiusi gli occhi e mi
rannicchiai tra le braccia di Orfeo, cantore degli dei, rinato in
quella creatura misteriosa, simile a un demonio ma con la voce di un
angelo.
«Grazie»
mormorai, prima di cadere in un sonno senza sogni che placò la
tempesta che era in me.
Note
dell'Autrice:
Ebbene, eccoci a un nuovo capitolo – scusate il lieve ritardo. Ora,
prima di dire che Meg è una stronza per come si è comportata con
Erik dopo averlo visto senza maschera, ricordiamoci una cosa: oltre
ad essere (in quel momento) emotivamente traumatizzata e molto
scossa, siamo nel 1881. Noi immaginiamo la faccia di Erik con
facilità grazie a fanart, e a tutti i film dell'orrore mai creati,
ma allora?
Non era possibile una cosa del genere. Il viso di Erik è
mostruoso, e finora è davvero la cosa più orripilante su cui Meg
abbia mai posato gli occhi. Basti pensare alla reazione del pubblico
quando vide la faccia truccata di Lon Chaney nel film muto del 1925:
alcuni svennero, e altre scene simili. E il viso del mio Erik è
ancora peggiore di quello (seppur professionalmente truccato
benissimo, soprattutto per l'epoca) di Lon Chaney! Meg ha sbagliato,
come farebbero in molti al posto suo, e se ne vergogna (come molti
altri non se ne vergognerebbero affatto). Da oggi in poi sarà molto
più clemente con il viso di Erik e molto meno con le sue malefatte,
non temete. Non voglio difendere la mia "eroina", perché
non è perfetta e qui si vede, ma sarebbe stato davvero assurdo se
non avesse avuto una reazione molto forte alla vista del viso più
mostruoso del mondo, ché tale è quello di quel povero bastardo di
Erik. Vorrei anche sottolineare che Christine ha una reazione forte
allo smascheramento perché infatuata della Voce che credeva amica e,
soprattutto, per via della scenata da manuale di Erik, che davanti a
lei da angelo si trasforma in demonio delirante (questa poteva pure
risparmiarsela: è stata un comportamento molto violento, il suo). Al
posto di Christine, personalmente, anch'io mi sarei spaventata a
morte. E probabilmente anche al posto di Meg, qui. Ecco.
Fine
del rant. XD
Passiamo
ad affari più piacevoli del faccino di Erik:
Malinconica:
Cara, spero che tu non sia rimasta delusa dalla reazione di Meg, ma
prima ho già spiegato le mie ragioni, quindi… Spero che mi
perdonerai. ^^ In realtà Erik non l'ha fatto apposta a non indossare
la maschera, certe volte può essere davvero ottuso. XD Il resto del
capitolo però consolida il rapporto tra Erik e Meg, quindi spero che
non ti abbia delusa. Un bacio, e a presto!
Captain
Willard:
I tuoi commenti mi fanno sempre morire. No, sul serio, recensisci il
più possibile perché è una gioia leggerti. XD Ma passiamo alle
cose serie: mi dispiace davvero per tuo padre, spero che leggere la
storia di Meg non ti abbia riportato alla mente e al cuore spiacevoli
ricordi e sentimenti. :( Stay strong :D Coooomunque, non sei il solo
ad avere una cotta per Erik. Meg non lo ammetterebbe mai, ma… ti
capirebbe. Il bello è che illogico: è così… orrendo, e così
affascinante, non se ne rende conto neanche lui. O il suo fascino sta
proprio nell'essere orrendo (dentro e fuori), e nella sua voce
ipnotica? Chi lo sa. Comunque sì, è un mezzo psicopatico, anche di
questo Meg si è resa conto già da un po'. XD "Piccola granata"
è un appellativo perfetto per Meg… ma non glielo diciamo. Non
voglio immaginare la sua reazione. XD Spero che tu non sia rimasto
deluso da questo capitolo. Un abbraccio :3 |
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Capitolo 18 *** Regina. ***
xvii.
regina
Trascorse
così un'altra settimana, in cui in me si alternavano l'eccitazione,
il fascino e una naturale diffidenza difficile da diluire. Erik era
un maestro d'eccezione: suonava il pianoforte in modo meraviglioso,
assai migliore di mio padre, che eppure era stato un virtuoso di
quello strumento.
Ritornare
a pestare quei tasti dopo tanti anni di gelo era come imparare di
nuovo a camminare: ci volle molto per sgranchire le mie dita
anchilosate, tanto da seccare il mio maestro (e l'allieva) in più di
un'occasione. Eppure lui continuava, imperterrito, a darmi lezioni,
spartiti su cui lavorare e consigli da rimembrare.
«Hai
i polsi troppo rigidi» mi disse un giorno, sbuffando come una
ciminiera.
«Ci
sto provando»
ribattei, piccata.
«Non
è abbastanza. Pensi che questo sia un gioco? Vuoi che sia un gioco,
Meg Giry?» Mi guardò con i suoi occhi imperscrutabili. «Non mi
costerebbe nulla interrompere le lezioni, qui e adesso.»
«Non
voglio interromperle.» In quelle note ritrovavo mio padre – quando
era ancora mio padre e non il fantasma di se stesso, ossia. Stavo
facendo pace con la sua memoria: ricordi d'acqua cristallina
risalivano alla superficie della mia mente, ed erano gioiosi: memorie
di quando era lui
a
darmi lezioni, e non il sinistro figuro mascherato che impartiva più
ordini che altro. Avevo il sospetto che non fosse altrettanto severo
con Christine, la sua pupilla. Non che dubitassi dell'autorità
dell'Angelo della Musica, sia ben chiaro.
Nei
giorni della mia convalescenza fui dunque impegnata tra libri,
pulizie di casa e lezioni di pianoforte. Adesso mi toccavano sonate e
semplici valzer che avevo il sospetto componesse Erik stesso,
sospetto che si tramutava in realtà se si pensava all'inchiostro
rosso con cui erano scritte le note sul pentagramma. Vomitava musica
come effluvi da una rosa, con la naturalezza del genio. Io arrancavo
per stargli dietro, ma la cosa più sorprendente era che sembrava
sapere esattamente quale spinta avessero bisogno le mie mediocri
capacità (ero poco meno di una dilettante, soprattutto dopo dieci
anni di inerzia) e come prendermi. Litigavamo senza pietà,
soprattutto quando non azzeccavo la nota giusta e la frustrazione si
trasformava in rabbia nelle mie vene. Non avevo un temperamento
disciplinato, la qual cosa frustrava anche lui, che nella sua mente
di certo faceva paragoni con la più docile Christine. Lo irritava
anche la mia voce, simile a quella di una cornacchia, come aveva
gentilmente
precisato più volte. Ma credo che lo attirasse la sfida che gli
proponevo – perché di certo costituivo una sfida per lui.
Sospettavo fosse questo il motivo per cui, in principio, aveva deciso
di accordarmi quelle lezioni: tra noi c'era un contrasto che andava
ben oltre gli screzi tra l'allieva e il suo maestro.
Secondo
lui ero indisciplinata,
indisponente, irrispettosa, impudente e
tutta un'altra serie di aggettivi che iniziavano per “i” e
avevano tutti lo stesso significato: ero una studentessa difficile, e
a lui piacevano le cose difficili. Così stava tentando di
sbrogliarmi come fossi un gomitolo aggrovigliato, una nota alla
volta.
In
fondo – molto in fondo – non gli dispiaceva che fossi così
diversa da Christine, tanto che non volevo neanche definirmi sua
“pupilla” o chiamarlo “maestro”, se è per questo. Credo si
rivedesse nel mio temperamento focoso e indipendente, diciamo anche
rozzo e ribelle.
Perlomeno,
nessuno di noi due si annoiava.
Cominciavo
a stare meglio. Le visite di Christine si erano fatte più
sporadiche, ma faceva comunque da tramite tra me e mia madre –
avevo da dirle due paroline riguardo tutta quella storia, una volta
tornata in superficie.
Più
di tutto, mi mancava la danza. Certo, mi esercitavo anche
nell'appartamento sul lago, avevo una stanza e un pianista a mia
disposizione (più o meno; Erik accettava di accompagnare le mie
acrobazie al pianoforte solo quando lo voleva lui – scoprii che era
un tipo alquanto capriccioso – e con la promessa che non avrei
rotto nulla per sbaglio nel suo salotto). Ogni giorno riacquistavo le
forze e diventavo meno livida, meno scarna. Il sangue tornava a
colorarmi le guance e dormivo e mangiavo di buona lena. Altre volte
Erik ed io ci eravamo seduti allo stesso tavolo per parlare di
musica, libri, dei numerosi Paesi che aveva visitato e delle
tradizioni che li caratterizzavano, ma ero io ad invogliarlo. Volevo
conoscere bene il mio nemico, che ora non sapevo se considerare più
tale.
«Sei
molto più piacevole quando non lanci minacce di qua e di là come
lame» avevo avuto la faccia tosta di dirgli un giorno che eravamo a
tavola insieme. Lui aveva appena terminato di raccontarmi dei pirati
che aveva incontrato in uno dei suoi viaggi in Turchia, quando vagava
per il mondo, senza patria né nome.
Lui
chinò il capo, ma vidi l'ombra di un sorriso sulle sue labbra di
carta. «Anche tu sei più piacevole quando non vai a ficcanasare
dove non ti compete.»
«Ma
adesso sto
ficcanasando.
Tutte queste domande sulla tua vita passata…»
«Sono
io che ho scelto di parlartene. E scelgo sempre con gran cura, non
dubitare, piccola ballerina.»
«Già»
dissi con un velo di malcelata incertezza. La domanda che rimaneva
sospesa tra noi era questa: perché?
Perché
lui mi stava raccontando quelle cose e io gli avevo detto di mio
padre e lui mi aveva concesso le lezioni di pianoforte…? Perché
stavamo legando, malgrado tutto?
Perché
è malato, pensai
con tristezza. Come
mio padre. Come me. Tra due miserabili ci si intende.
Lui
doveva essere arrivato alla stessa conclusione, poiché non rispose.
C'era qualcosa di evidentemente marcio in lui, che chiamava a sé ciò
che di marcio avevo io dentro. La medesima putrefazione era il
fondamento del nostro rapporto, se tale si poteva definire.
«Presto
tornerai a casa» mi rassicurava ogni giorno. Ed io, sebbene
desiderassi rivedere la luce del sole e mia madre con tutte le mie
forze, mi scoprivo restia a lasciarlo solo in quella tomba. E quando
pensavo a Christine e al destino che la aspettava, non potevo fare a
meno di preoccuparmi anche per lui. Christine non sarebbe mai
diventata la sua sposa da viva; ero certa che lui fosse pronto
all'eventualità di seppellire se stesso insieme a lei, nella terra.
Non
capiva quanto sbagliato
fosse tutto ciò? La disperazione governava le sue azioni, e di certo
correvamo tutti sul filo del rasoio.
Fu
dopo esattamente tre settimane di convalescenza che mi annunciò la
buona novella: finalmente ero del tutto guarita e sarei potuta
tornare a casa – ossia “di sopra”, in superficie – quando
volevo. Mi diede una fiala da cui avrei dovuto prendere qualche
goccia ogni giorno, per sicurezza. Avevo l'impressione che non fosse
per i miei polmoni annacquati, ma per la mia mente dolorante.
«Non
dimenticare di prenderle, è importante» mi informò con severità.
«Dieci
gocce di questa roba, e tu credi che non avrò più problemi con la
tosse?»
«Non
sono per la tosse» confermò i miei sospetti.
«Ah»
feci. «E allora a cosa servono?» soggiunsi, fingendo ignoranza.
«Per
tranquillizzarti. Non soffrirai più di alcuna febbre cerebrale, te
lo assicuro.»
Annuii.
Credevo nelle sue parole, adesso. Da quando avevo cominciato a
fidarmi di lui?
Forse
perché ti ha salvato la vita, mi
diceva una vocina insistente nella mia mente. Ma non bastava. Eppure…
Non
sapevo cosa provavo per lui, ma non era odio, non più. Non potevo
odiare chi mi aveva aiutata fino a quel punto. Anche se quella stessa
persona creava più guai che altro.
Fu
lui stesso ad accompagnarmi in superficie, una volta guarita.
Superammo il lago con la solita piroga, ma non lasciò che remassi
anch'io, come un vero gentiluomo. Io ero accucciata ai suoi piedi,
vestita con un abito azzurro palesemente destinato a Christine, che
era più alta e robusta di me. Lui era in piedi, ammantato di nero, e
remava lentamente, con agio. Era di certo abituato a quella
traversata, mentre io, che non sapevo nuotare, mi tenevo ben lontana
dall'acqua.
L'acqua
plumbea sembrava emanare sospiri di fumo all'avanzare della piroga,
che la guadava malgrado la nebbia ottundesse i sensi. Lì e ora, mi
pareva di appartenere a un altro mondo – uno fatto di fiati e del
debole chiarore del lumicino che si rifletteva sullo specchio
d'acqua.
Erik
mi guidò fino alla sponda opposta, e gli afferrai il braccio per non
cadere quando dovetti scendere dalla piroga.
«Certo
che per essere una ballerina, sei davvero maldestra» sogghignò lui.
«Sta’
zitto» lo misi a tacere con una smorfia. «É colpa di questa
maledetta gonna. È troppo lunga per me.»
«Sei
tu ad essere troppo bassa.»
«Ma
sta’ zitto» ripetei borbottando tra me e me. Lui ridacchiò –
questo mi irritò maggiormente: il suono della sua risata era
delizioso all'udito.
Mi
fece strada lungo il percorso che conoscevo e che, a mio rischio e
pericolo, avevo attraversato tante volte. Io gli stavo dietro,
piccola in confronto alla sua grande ombra. S'irrigidì quando gli
presi la mano per evitare di perdere sia lui che la lanterna cieca
che reggeva, ma dopo un attimo si rilassò e mi condusse oltre il
bivio che avevo a mia volta superato, finendo una volta nella camera
dei supplizi e un'altra volta sull'argine del lago sotterraneo. Non
potevo dimenticare quelle disavventure con facilità. Rivolsi
un'occhiataccia ad Erik e scossi il capo – questo tizio aveva una
camera delle torture in casa e mi aveva salvato la vita, e io non
sapevo se provare gratitudine o voglia di rompergli la testa con un
oggetto preferibilmente contundente.
«Siamo
arrivati.»
Erik
indicò l'uscita che conoscevo così bene con un cenno del capo.
«Bene.
Allora, come dire… grazie di tutto.»
Rimanemmo
per un attimo in un silenzio imbarazzato. Districai le mie dita dalle
sue, opportunamente guantate.
«Ci
si vede» dissi in modo alquanto impacciato, facendo un segno di
saluto e chinandomi per passare dalla ormai ben nota fessura. Gli
voltai le spalle, e lo udii allontanarsi a passi strascicati.
«Aspetta»
lo richiamai prima che potesse svanire nel nulla com'era suo solito.
Lui
si voltò. Il lume gli illuminava il volto mascherato.
«Se
fai del male a Christine, io ti ammazzo. Chiaro?»
Lui
non sogghignò, segno che prendeva sul serio la mia minaccia. Mi
rivolse un inchino – non sapevo se fosse ironico o meno – e svanì
nell'ombra alla quale apparteneva.
Rimasi
ferma per un attimo, rosa dai miei dubbi. Poi scostai il pannello
della parete e sgattaiolai via come un topolino spaventato.
La
prima persona che abbracciai fu mia madre – e fu l'abbraccio più
lungo che ricevetti, se la memoria non m'inganna. Mi strinse a sé
come fossi un oggetto di inestimabile valore, e fu allora che pretesi
di avere risposte riguardo la mia piccola “vacanza” nei
sotterranei dell'Opera.
«Non
sapevo a chi rivolgermi, Meg. Mi avresti maledetta se ti avessi
portata in ospedale, eppure ero pronta a rischiare, quando lui
si
è offerto di aiutarmi. Anzi, di aiutare te.»
«Erik
mi ha detto che siete state tu e Christine a chiedere il suo aiuto.»
«Sì,
ma solo dopo che lui ce lo ha offerto. A quanto pare, ti ha preso
sotto la sua ala protettiva.»
Non
sapevo se sentirmi più o meno al sicuro dopo questa notizia.
«Adesso
lo chiami Erik. Vi date del tu?» chiese mia madre, fingendo
noncuranza, ma le sue labbra strette tanto da formare una sottile
cicatrice sulla pelle non mi ingannavano.
«Mi
ha salvato la vita. Mi pare il minimo» risposi io, con la medesima
finta noncuranza. «Tu, piuttosto, ti sei fidata di lui. Capisco
Christine, ma… tu stessa mi avevi messo in guardia su di lui. A
cosa si deve questo cambiamento?»
Lei
s'irrigidì, ma dal suo volto non traspariva alcuna emozione. «Meg,
so che lui non ti farebbe mai del male.»
«Sì,
ma c'è andato vicino parecchie volte.»
«E
io ti ripeto che, oltre alle vuote minacce che hai ricevuto, con te
non si sarebbe spinto oltre. Perché…» Si fermò come se stesse
ponderando le parole da usare.
«Perché
sono tua figlia» conclusi io per lei. Mia madre annuì, quasi
sollevata dopo essersi tolta l'onere di dirmi la verità.
In
qualche modo, ero legata ad Erik non solo per via di Christine, ma
anche per il tacito patto stretto tra lui e Antoinette. Un filo rosso
e invisibile annodava il mio destino al suo, più di quanto
immaginassi.
Erik
era debitore nei confronti di mia madre, probabilmente una delle
poche persone in questo mondo che gli aveva mostrato gentilezza.
Pertanto, mentre lei gli teneva assicurato il palco all'Opera, lui
faceva qualcosa per soccorrere la figlia di quella stessa donna che,
poco meno che ragazza, aveva condiviso la sua merenda e il suo cuore
con lui. Ero una pedina su una scacchiera troppo grande per me. Ciò
che mi preoccupava era che anche Christine fosse finita in quel
medesimo gioco.
«Mi
ha aiutata a prepararmi per la parte in Giselle»
proseguii, mutando discorso. «Non posso credere di avercela fatta.»
«Sono
orgogliosa di te, Meg. Ma sapevo che non c'era di che preoccuparsi.»
«Sicuro
che non ci sia lo zampino di Erik in tutto questo?»
Mia
madre mi guardò stranita.
«No,
te lo giuro. Hai acquisito quel ruolo solo grazie alle tue forze.
Erik – il fantasma, cioè – non si è intromesso.»
«E
tu come fai a saperlo?»
«Perché
me lo ha detto lui. Spesso, nel mio lavoro di maschera del palco
numero 5, sento la sua voce, così riconoscibile. Talvolta mi parla.
In questo caso, mentre tu eri ancora in convalescenza, mi ha detto
che non ci sarebbero state raccomandazioni per te. Avresti dovuto
farcela da sola.»
«É
ciò che gli ho ricordato anch'io. Gli ho spesso detto di non aver
bisogno del suo aiuto. Quindi mi ha ascoltato. È quasi un miracolo.»
Sospirai di sollievo. Non volevo essere una “favorita” in alcun
modo.
«Lui
ha un'alta opinione delle tue capacità» aggiunse mia madre, al che
sussultai. Ma se durante le nostre lezioni di pianoforte non faceva
altro che ripetermi quanto mediocre fossi?
«Non
si sarebbe offerto di aiutarti nella tua carriera se non ti avesse
giudicato all'altezza, Meg.»
Inghiottii
quella nuova informazione. Ponderai l'opzione di dirle tutto sulle
nostre private lezioni di pianoforte, ma alla fine optai per il
silenzio. Avrei comunque continuato a suonare, ma da sola: questo me
lo ero ripromesso quando avevo lasciato l'appartamento sul lago.
Qualche
attimo dopo mi ritrovai stretta nell'abbraccio di Christine,
Juliette, Louise e Fabienne, che si congratularono con me per la mia
salute ritrovata e per il mio ruolo di sostituta in Giselle.
Christine ed io ci lanciammo più di qualche occhiata piena di
sottintesi: lei sapeva dove ero stata in quelle tre settimane di
inferno e paradiso insieme, mentre le altre credevano che fossi stata
ospite di qualche parente fuori Parigi per tutto il tempo della mia
convalescenza. Solo Juliette, la più sveglia tra le mie tre amiche,
appariva perplessa al riguardo.
«Non
sapevo che avessi dei parenti fuori Parigi. Anzi» soggiunse poi,
come ripensandoci, «non sapevo che avessi dei parenti, punto.»
Le
riservai il mio sorriso più luminoso. «Neanch'io fino a poco tempo
fa ne ero a conoscenza. Una vecchia prozia, con una casetta appena
fuori Parigi – confortevole, la più adatta a una convalescenza
rapida e sicura.» Pensai ai sotterranei dell'Opera e a quanto questi
fossero poco appropriati a una situazione come la mia, e a come si
fossero in realtà rivelati una sorta di santuario. Pensai ad Erik,
il mio improbabile dottore, e sogghignai tra me e me.
Quando
rimasi finalmente sola con Christine, quest'ultima mi pose le domande
che mi aspettavo.
«Con
te come si è comportato?»
«Intendi
Erik?»
Lei
annuì, come se avesse timore di pronunciare il suo nome.
«Da
gentiluomo, più o meno. Abbiamo avuto i nostri alterchi.» Ripensai
a quando gli avevo quasi bruciato la cucina e sospirai. «Con te,
invece?»
«Ora
che sei tornata in superficie, vado a trovarlo nella sua tomba» mi
rispose Christine con un brivido. «Non so quale destino mi attenda.
Pensavo che tornare da lui lo avrebbe tranquillizzato, e invece ha
avuto l'effetto contrario. Diventa ogni giorno più pazzo di gelosia,
e temo per Raoul.»
«E
a te non pensi, Christine?» Quale sorte le sarebbe toccata, dal
momento che non aveva intenzione di sottomettersi ai capricci di Erik
e di diventare sua moglie?
«Non
mi avrà da viva, te l'ho già detto.»
«Christine,
devi smetterla di andare da lui. Se la tua vicinanza non placa la sua
gelosia, il senso di possesso che detiene su di te…»
«Non
posso farlo, Meg! Non capisci? Più delle sue minacce, sono i suoi
singhiozzi a legarmi a lui! Piange, cade ai miei piedi, si tortura…
Come posso lasciarlo in questo stato? Ne sarebbe devastato.»
Una
parte di te lo ama e non riesce a distaccarsene, pensai
con un'improvvisa intuizione. Per
te, in parte è ancora la Voce che amavi e che ti ha ridato la vita.
Distinguere
la Voce dall'uomo non era facile per Christine, questo lo avevo
compreso.
«Non
so come finirà tutto questo» disse d'un tratto la mia amica, con
voce incrinata. «Ma in qualsiasi modo, non sarà un lieto fine per
nessuna delle pedine in gioco.» Si coprì la bocca con una mano per
soffocare i singhiozzi. Io la strinsi forte a me, protettiva e goffa
al contempo. Avrei voluto prendere la sua tristezza e disperderla
come piume al vento, e anche quella di Erik, che ormai neanch'io
potevo più ignorare o considerare semplicemente un nemico, ora che
conoscevo l'uomo dietro la maschera di angelo e fantasma.
«Dovrai
cantare ne La
Jeuve,
dopo la rappresentazione di Giselle.»
«Come
lo sai?»
«Louise
sa sempre tutto di tutti. Mi stupisco che non conosca anche la vera
identità del fantasma.»
Questa
volta le labbra di Christine si tesero in un sorriso stentato.
«Sì.
Sai che la Carlotta è partita per l'America, dopo il suo… gracidio
nel Faust?»
«Una
vera tragedia. Quindi sei stata promossa tu come prima donna?»
Christine
annuì timidamente.
«Ma
è fantastico! Io solista, tu prima donna… Un grande avanzamento
per le nostre carriere, non trovi?» dissi, circondandole le spalle
con un braccio.
«Speriamo
che lo sia altrettanto nella vita reale» commentò Christine in tono
grave.
Più
il tempo trascorreva tra le prove di balletto e più la tensione
aumentava sulla grande scacchiera predisposta da Erik, di cui lui
manovrava i fili con incommensurabile maestria. Non solo ero parte
dell'ensemble
di quella produzione di Giselle,
ma ero stata promossa a ruolo di sostituta nel caso la nostra Regina
delle Villi, che ovviamente era Caroline, come avevo predetto, non
fosse disponibile. La nostra Regina era in perfetta forma, quindi
stentavo a credere che un giorno avrei mai potuto prendere il suo
posto. Già che fossi giunta ad ottenere la parte di sostituta era un
grande onore per me. A ventuno anni, era il ruolo fino ad allora più
importante della mia vita. Mi ero ripresa del tutto dalla malattia –
Erik, come forse mia madre già sapeva, era stato un ottimo dottore –
e mi bastarono non pochi esercizi per ritrovare in me la forza di
ballare. Dopotutto, fino a tre settimane prima volevano rinchiudermi
in un ospedale. La mia paura per questi luoghi superava il razionale
e sfiorava la patologia, ma non potevo arrendermi proprio ora.
Perciò,
quando Caroline cadde preda di un forte raffreddore, fui scelta io
per sostituirla in quella produzione. Ero stralunata mentre tutte le
mie amiche mi saltellavano intorno, eccitate per il mio grande
debutto da solista. Per me era difficile esprimere le emozioni a
parole, e ancora di più mostrarle,
ma ringraziai ognuna di loro per la fiducia che avevano riposto in
me. Ci furono non poche occhiate d'invidia da alcuni altri membri del
corps
de ballet,
ma per il resto le ignorai. Alcune voci dicevano che mi avevano
scelta solo perché ero la figlia di Madame Giry, cosa non vera
perché mia madre era severissima con il suo giudizio e altre volte
aveva preferito in un assolo qualche nuova ballerina piuttosto che
me. L'unica cosa che mi preoccupava era se quella promozione partisse
da un'idea di Erik. Gli avevo ripetuto più volte che non intendevo
“vendermi” e sprecare il mio talento in quel modo, cosa a cui
dapprima Erik aveva acconsentito. Sperai che non ci fosse la sua
firma sotto la mia promozione a solista e sostituta, altrimenti
l'avrei preso a schiaffi (o almeno ci avrei tentato; non era tipo da
farsi ingannare con un colpo a sorpresa).
Tutto
si sarebbe spiegato una volta che fossi entrata in scena: se il
pubblico apprezzava, allora voleva dire che ero stata scelta per il
mio talento. In caso contrario… beh, era logico.
La
sera prima di esibirmi – Madame Soirée mi aveva dovuto accorciare
l'abito, poiché io ero molto più minuta di Caroline – trovai sul
mio comodino un biglietto. Lo lessi con una certa avidità.
Buona
fortuna.
E.
Come
aveva fatto ad arrivare fin lì? La porta della mia camera era chiusa
dall'interno… il mio sguardo si posò sul grande specchio che
adornava la mia stanza–camerino. Ma certo, aveva utilizzato un
simile trucco anche con Christine. Mi misi a vagliare lo specchio
perché vi trovassi qualcosa – qualsiasi cosa – che mi desse
segno che nascondeva in realtà un passaggio segreto.
Com'è
ovvio pensare, non trovai nulla. Doveva comunque esistere un
sostegno, qualche cardine girevole.
«Madamoiselle,
mancano cinque minuti» disse la familiare voce del segretario Rémy
oltre la porta.
Sospirai
e finii di sistemarmi i capelli, tirati all'indietro con una cintura
di fiori come corona. Mi guardai allo specchio: non ero bella nemmeno
conciata in questo modo, ma al massimo qualcuno avrebbe potuto dire
che ero “graziosa”. Scoprii che il bianco non mi donava come il
nero; invece per Christine valeva il contrario. Com'eravamo diverse,
eppure indivisibili.
Era
la sera del mio debutto. Qui e ora, avrei messo alla prova il mio
talento. Sospirai per darmi coraggio e rammentai le parole che
Christine mi aveva rivolto poco tempo prima: «Sarai grandiosa. Me lo
sento.»
Ripetei
quelle parole allo specchio. Le mie mani erano in preda a un lieve
fremito, ma la cosa importante era che le gambe restassero solide e
ferme, e le mie lo erano.
Era
la prima volta che il mio nome sarebbe comparso sul programma al
fianco di quello dell'etoile,
la
Sorelli. Sperai che ad Erik non venisse in mente l'idea di far
crollare di nuovo il lampadario proprio quella sera. Sarebbe stato
presente?
Perché
la cosa dovrebbe interessarmi?
Scossi
la testa per liberarmi da un pensiero fastidioso quanto una mosca
inquieta. Mi diressi nelle quinte, dove vidi mia madre abbracciarmi
con i suoi occhi da uccello. La loro forma era identica a quella dei
miei, ma il colore era diverso – grigio contro nero. In me vedeva
il suo sogno realizzarsi. Era ora che le luci della ribalta
illuminassero anche me.
Fu
un turbinio di luci e occhi ignoti. La vista del pubblico davanti a
me mi faceva palpitare il cuore fino in gola. Entrai in scena,
all'inizio del secondo atto, con le maggiori sicurezza e grazia
possibili. Gettai il mio sangue su quel palco, quasi un sacrificio
alla danza, e quando il pubblico applaudì la mia esibizione, mi
scivolò un'unica lacrima sul naso schiacciato. Al momento degli
inchini, raccolsi i fiori che mi vennero gettati dalle prime file di
un pubblico esultante.
Fui
accolta nei camerini da una turba di tulle e nastri – le piccole
allieve ballerine erano venute a porgermi le loro congratulazioni.
«Sei
stata grandiosa, Meg!» la piccola Cécile Jammes mi urlò proprio
nell'orecchio destro.
«Sì,
mitica» aggiunse la sua compagna Tholomyès.
Il
gruppo si disperse quando entrò in scena mia madre – alta, bastone
in mano, dall'aria severa come sempre. Ma nei suoi occhi riconobbi la
scintilla dell'orgoglio più puro.
«Sì,
hai fatto un ottimo lavoro. Sii lieta di questo, Meg.»
Era
la prima volta che mi chiamava per nome, lasciando da parte quel
“Giry” con cui mi si rivolgeva sempre di fronte alle mie
compagne. Compresi che dovesse essere molto più che felice per sua
figlia e il suo speciale debutto.
In
camerino, non fui sorpresa di trovare una pallida Christine ad
aspettarmi. Mi offrì un bellissimo mazzo di fiori di campo – ne
scelsi uno e glielo appuntai sull'abito, in segno di ringraziamento.
«Sei
stata meravigliosa, Meg. Chissà cosa diranno domani i giornali.»
Già,
la critica della stampa. Al pubblico ero piaciuta, ma i critici erano
più difficili da accontentare. Rammentai l'entusiasmo dei
giornalisti nel descrivere il debutto di Christine alla sera del
gala. Per qualche motivo, dubitavo che sarebbe stato lo stesso.
Fu
solo dopo che anche Christine mi lasciò che notai sul comodino
un'altra lettera, e questa volta il mandante era palese. Lo
accompagnava una rosa dai petali color rosso sangue – una singola
rosa, legata alla lettera da un sottile nastro nero.
Senza
ancora aver terminato di togliermi il trucco e cambiarmi d'abito,
visto che di sotto mi attendeva un brindisi con tutta la compagnia –
sì, persino l'altera Sorelli, e non me lo sarei perso per nulla al
mondo – lessi il contenuto del biglietto.
Stasera
sei stata una vera regina sul palco.
E.
Una
regina, diceva? Ma non bastava. Lui aveva promesso che sarei
diventata imperatrice. Con un sogghigno, nascosi il biglietto nel
solito cassetto del comodino, dove tenevo gli altri. Erano documenti
speciali per me, come prove dell'esistenza di un altro mondo, uno più
oscuro in cui potevo aggirarmi simile a un'ombra, celato dallo
splendore dell'Opera Garnier. Il sottomondo di Erik. Li ho ancora
custoditi tutti qui: sono reliquie che mi porto dietro da trent'anni.
Una
volta cambiato l'abito e indossato qualcosa di più adatto al freddo
limpido di fine febbraio, uscii per brindare insieme alla compagnia,
sapendo che Christine quella sera era impegnata altrove – a tenere
a bada, come fosse un cane rognoso, il custode di quel sottomondo, il
re dei sotterranei dell'Opera.
Quale
futuro ci attende?, non
potei fare a meno di chiedermi, dando un'ultima occhiata alla rosa
che giaceva sul mio comodino, all'apparenza innocente. Ma non
dimenticavo le sue spine.
Note
dell'autrice: Meg è finalmente guarita ed è tornata in
superficie. Tuttavia, malgrado la spiegazione della madre, sospetta
che sia qualcos'altro sotto, e non ha torto. Vi avviso che il
prossimo capitolo sarà cruciale per svelare questo mistero, e
soprattutto cambierà di molto la bizzarra amicizia tra Erik e Meg.
Mi scuso anche per il mio ritardo nel postare, ma ho avuto dei
piccoli problemi a scuola (maledetto esame di maturità! Ma chi è il
genio che se lo è inventato? XD)
E
ora passiamo alle recensioni:
ondallegra:
Una nuova lettrice! Che bello! :D Comunque capisco quel che
intendi quando dici che la storia all'inizio non ti aveva presa…
Posso essere molto prolissa quando voglio. In ogni caso, sono molto
contenta che tu ti stia appassionando a queste mie sciocchezze da
scribacchina. Grazie per i complimenti! È sempre una gioia leggerli,
perché ti alzano l'autostima a mille (e io sono nota per non avere
un granché come autostima). Spero che ti piaccia anche questo
capitolo.
Malinconica:
Eh, sì, cara, il loro rapporto si fa più intenso… Dovresti
leggere il prossimo capitolo, allora. XD Spero che questo ti abbia
incuriosito. Un bacio <3
Captain_Willard:
Ho già detto che adoro le tue recensioni? XD Beh, sì, ci vorrà
molto tempo prima che questi due imbecilli si bacino. (Figurati che
io terminato da poco di scrivere il trentunesimo capitolo, e ancora
si devono dare una mossa. XD) Ho riso quando mi sono immaginata Erik
in versione Tony Stark, ahahaha. XD Bellissimo quadretto. Ma perché
anche tu odi Raoul? Solo io lo adoro nel fandom – anzi, phandom?
Lo trovo adorabile. Non giudicarmi. XD Vabbè, tanto ognuno ha le sue
opinioni ed è questo il bello, giusto? Al prossimo capitolo, un
abbraccio anche a te! :3 |
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Capitolo 19 *** Il respiro della vita. ***
xviii.
il
respiro della vita
«“…
la sua grazie rustica ha incantato il pubblico. Questa piccola
selvaggia dal nome sconosciuto ha creato una Regina delle Villi dura
e aspra come i pinnacoli dei Pirenei, fredda e risoluta come la neve.
Ci aspettiamo di vedere altro da questa giovane artista che tanta
sorpresa ha suscitato negli estimatori di Giselle.”»
Louise
terminò di leggere l'articolo con un sorriso.
«Cosa
volevano dire con piccola
selvaggia?»
m'impuntai, piccata.
«Forse
si riferivano al colore della tua pelle, Meg» Fabienne rispose in
tono desolato.
«Già,
non si è mai vista una Regina delle Villi tanto scura di carnagione,
prima. Di solito sono alte, flessuose, chiare e imponenti…»
rincarò Juliette.
Tutte
cose che io non ero, ovviamente.
«Non
importa, Meg. Sei piaciuta al pubblico, e tanto basta. Hai visto
tutti quei fiori nel camerino?» continuò la mia amica.
«Mia
madre avrà voglia di denunciarli tutti, una volta letto l'articolo»
sospirai io.
«Ma
ci ascolti, Meg? I fiori,
Meg, ricordati i fiori» insistette Juliette.
«Che
cosa vuoi che me ne faccia? Sai che non mi piacciono granché.
Occupano spazio, appassiscono in fretta e poi non so dove metterli.»
Naturalmente non feci alcun riferimento alla singola rosa rossa che
avevo ricevuto la sera prima da un mandante non misterioso ai miei
occhi.
«Hai
letto i biglietti contenuti nei mazzi? Si è sparsa la voce ieri sera
che il giovane barone di Castelot-Barzebac in persona sia rimasto
colpito dalla tua esibizione, e che ti abbia mandato dei fiori senza
però avere il coraggio di farsi avanti» m'informò Louise in tono
malizioso.
Un
barone? Il sogno di mia madre si realizzava. Vedermi al fianco di un
nobile avrebbe confermato bene la profezia di Erik riguardo tutte
quelle sciocchezze sull'Imperatrice, ma a me non importava altro che
la danza. La mia performance aveva ricevuto un buon riscontro, anche
se alcuni si lamentavano che non fossi abbastanza morbida
per
la parte, qualunque cosa volesse dire. Per altri, era un nuovo modo
di percepire il ruolo, come sul giornale che leggevamo Louise,
Juliette, Fabienne ed io all'ombra di un tipico caffè parigino, non
lontano da place de l'Opéra.
«Immagino
abbiano scritto un poema sulla Sorelli» dissi con pesante sarcasmo.
«Immagini
bene» rise Juliette, che insieme a me era l'unica a non andare
dietro alla nostra prima ballerina come una pecora al gregge.
«Come
siete cattive, ragazze» disse Fabienne, che tuttavia non poté
reprimere un sorrisetto.
Sorseggiai
la mia cioccolata calda, pensando a Christine e mia madre – l'una
che andava di sua spontanea volontà, sebbene costretta da
circostanze a lei estranee, a sotterrarsi in una tomba; l'altra di
cui si avvicinava il compleanno. Avrei voluto regalare qualcosa di
esclusivo a mia madre, ma non avevo idee. Fu la passeggiata con le
mie amiche a darmi quella giusta, in un negozietto dell'usato in cui
curiosammo in una stradina nascosta. Tra mille bigiotterie, intravidi
un elegante scrigno in legno di mogano, che di certo avrebbe
riscontrato i gusti di mia madre. Sì, avete capito bene, Monsieur
Leroux: è lo stesso che vi ho mostrato all'inizio della nostra
conoscenza e che conteneva la lettera del fantasma e quelle di
Christine. Fu un regalo che acquistai per mia madre, ma che era
destinato ad appartenere a me e a far da reliquiario a tutte le mie
memorie – o meglio, a ciò che rimane di esse. Come ne sono venuta
in possesso, vi chiederete? Questo è un quesito al quale risponderò
più avanti, se avrete la pazienza di aspettare.
Dunque,
intravidi quell'oggetto e lo catturai con gli occhi: in quel momento
non avevo i franchi sufficienti per un acquisto simile, ma il mattino
dopo, poco prima dell'alba, sarebbe stato un momento perfetto per
sgattaiolare via senza che mia madre se ne accorgesse, prima
dell'inizio delle lezioni di danza. M'informai sull'orario di
apertura del negozio, che coincideva con i miei progetti, e tornai a
casa lieta di aver perlomeno compiuto qualcosa di buono.
Il
mattino dopo ero già in piedi prima che l'alba sorgesse, e non
appena il sole fece capolino all'orizzonte, m'imbacuccai nel mio
mantello e andai per la mia strada senza che nessuno – in
particolare mia madre – mi vedesse, o così credevo. Acquistai lo
scrigno che tanto mi aveva colpito a una prima occhiata, e che non
appariva meno antico e pittoresco alla luce dell'alba. Spesi tutti i
franchi che avevo portato con me, quindi optai per un ritorno a piedi
a casa, all'Opera Garnier. Le strade erano deserte in quella zona
della città, e un brivido mi colse: per un attimo, mi parve di
essere l'unica forma di vita in tutta Parigi, sola come può esserlo
la luna in un cielo senza stelle. Ma quelle erano sciocche fantasie,
quindi non vi diedi retta più del necessario. Strinsi il mio
pacchetto tra le braccia – era più pesante di quanto sembrasse –
e continuai per la mia strada, a passo spedito. Fu allora che accadde
un imprevisto piuttosto grave… ma sinceramente, con tutta la mia
dose di sfortuna, avrei dovuto prevederlo.
Stavo
svoltando un angolo quando qualcuno mi afferrò per una spalla e mi
spinse nel vicolo disabitato più vicino, ignorando le mie vive
proteste. Quando mi strinse per il collo, capii che ero in serio
pericolo.
«O
la borsa o la vita» mi sibilò un uomo all'orecchio. Gli davo le
spalle, ed egli mi stringeva da dietro, quindi non potevo vederlo in
volto. Da quei pochi indizi che avevo intuii che era cencioso, non
molto alto, e dalla voce lievemente tremante si poteva dedurre che
non doveva essere molto più vecchio di me, e soprattutto non
abituato a tentare rapine su giovani donne che passavano per la sua
strada.
«Sul
serio?»
mi venne da dire. Ora ci mancava anche il rapinatore.
«O
la borsa o la vita» ripeté lui, ostinato.
«Non
ce l'ho neanche, una borsa» ribattei io.
Lui
tirò fuori da chissà dove un coltellaccio che mi puntò alla gola,
al che deglutii. Le cose si mettevano male. Non sapevo se il mio
rapinatore avesse o meno il fegato di tagliuzzarmi.
«Dammi
tutti i soldi che hai.»
«Non
ne ho nessuno!»
«Non
scherzare con me, ragazza. Cos'hai dentro quel pacco?»
Si
riferiva ovviamente al regalo per mia madre, che ancora stringevo al
petto.
«Certamente
non soldi» risposi io, piccata e ormai anche impaurita. Fu allora
che mi venne in mente un'idea.
«Puntami
addosso quel coltello ancora una volta e mi metto a urlare.»
Subito
sull'attenti, lui mi coprì la bocca con una mano. Non aspettavo
altro. Morsi con tutta la mia forza e mi liberai dalla sua stretta
con una gomitata, lasciandolo lì a imprecare come un dannato e a
succhiarsi il pollice sanguinante.
E
ora corri, mi
suggerì l'istinto, ma mi fermai quando udii il rumore di una
colluttazione alle mie spalle. Un altro giocatore era sceso in campo.
Lanciai una rapida occhiata alle mie spalle e mi arrestai del tutto,
notando un'ombra familiare.
«Oh,
Signore» dissi, tornando indietro di qualche passo. Il mio
rapinatore era steso a terra, ormai inerme. Col volto scavato e
sporco, doveva essere uno dei miserabili di Saint Michel, non certo
un rapinatore seriale.
«L'hai
fatto fuori?» dissi all'ombra familiare che, malgrado non volessi,
era apparsa in mio aiuto.
«Macché.
L'ho solo messo fuori combattimento per un po', in tempo per l'arrivo
della polizia» disse la voce come velluto che ormai avevo imparato a
conoscere. Sapevo che non sarebbe rimasto per farsi notare dalle
autorità.
Gli
afferrai un braccio e lo trascinai sulla strada principale. Non mi
ero accorta che aveva iniziato a piovere. Le gocce mi colpirono come
spilli sulle guance imbiancate dalla paura.
«Che
ci fai tu
qui?»
quasi gli ringhiai contro.
«Ti
aiuto a uscire fuori dai guai, roba vecchia. Hai un insolito talento
per cacciarti in brutte situazioni.»
«Non
sono io che vado in cerca di guai. Di solito, sono loro a trovare me
per primi.1»
Deglutii
e lo fissai con fredda rabbia.
«Erik,
mi hai seguito?»
«Niente
affatto. Ti aspettavo all'incrocio per darti questo.» Mi tese
l'ombrello, che aprì sopra le nostre teste. Aveva il volto coperto
da una sciarpa e gli occhi infossati erano appena visibili oltre
l'orlo del cappello a tesa larga. E portava, naturalmente, un naso
finto.
«Quindi
mi stavi seguendo» mormorai, in preda alla furia. «Non devi farlo
mai più, sono stata chiara?» Mi sembrava di dover rimproverare un
bambino piuttosto ottuso.
«Tua
madre ti ha vista uscire senza ombrello. Di nuovo.»
«Quindi
è stata lei a… Ah!» Mi colpii la fronte come fosse un canale di
sfogo soddisfacente. «Dovrò dirle due paroline al riguardo. Non ti
voglio come mio protettore, guardiano o altre sciocchezze simili. Non
voglio farmi seguire da te.»
«Non
ti sei lamentata molto quando ho messo fuori combattimento quel tizio
nel vicolo.»
Arrossii
di rabbia. «Non so se l'hai notato, ma me la stavo cavando benissimo
da sola.»
«Certo.
Impressionante, da quel che ho visto.» Lo immaginai sogghignare
dietro la sciarpa, col suo orribile ghigno sulla testa di morto.
Emettei
un ringhio basso, come un cane da guardia che ha avvistato un
potenziale nemico. Ma lui non era mio nemico, era solo… Erik. Solo
Erik.
C'era
molto di non detto in quelle parole.
«Beh,
ti ringrazio per l'ombrello e… qualunque cosa tu abbia fatto a quel
disgraziato…»
«L'ho
solo stordito un po'. Niente di grave.»
«Sì,
beh, grazie. Ma non seguirmi mai più.»
«Neanche
se a chiedermelo è tua madre?»
«Soprattutto
in questo caso. Puoi farlo?» Puoi
imparare almeno questo, per costruire una relazione quanto di più
simile ci sia al normale?
«Anzi,
tu devi
farlo.
Chiaro?»
«Non
puoi darmi ordini.»
«Scommetto
che dà fastidio, vero?»
Lui
fece per ribattere, ma sollevai un dito per arrestare il suo flusso
di parole. «Non mi seguirai più, a meno che non sia io stessa a
chiedertelo – caso improbabile, comunque. Intesi?»
Dopo
una breve pausa, lui annuì solennemente. «Intesi.»
Rabbrividii
e strinsi il pacco al petto. Meditai di gettarlo in una pozzanghera.
«Se
ti può consolare, tua madre non si è mai permessa di chiedermi di
seguirti, prima d'ora, né io l'ho mai fatto o ho intenzione di
continuare. È preoccupata per te. Sei appena guarita da una
malattia, e già te ne vai a zonzo sotto la pioggia.»
«Ho
dimenticato l'ombrello.»
«Per
questo tua madre mi ha chiesto di aspettarti all'incrocio.»
«Quindi
sapeva che sarei uscita stamattina.»
«A
quanto pare.»
Imprecai
in un modo che avrebbe fatto arrossire Luc.
«Il
linguaggio.»
«Maledizione!
E io che volevo farle una sorpresa.»
«Il
linguaggio.»
Erik
mi tese la mano – quella che non reggeva l'ombrello. «Una fiacre
ci attende. Ti va un passaggio?»
Sospirai.
Avevo altra scelta? «Sei impossibile» gli dissi, scuotendo il capo.
«In
che senso?» mi chiese, prendendomi per mano come fossi una bambina.
Sistemai la mia presa sulle sue dita, cosicché sembrasse più
signorile.
«Sbuchi
fuori così… dappertutto. E nelle occasioni più disparate.»
«Sono
un evento imprevisto nella tua vita, Meg Giry?»
«A
dir poco» sospirai io. Salii in carrozza, con lui che da gentiluomo
mi aiutava a saltarvi su. Richiuse l'ombrello e si sedette nel posto
di fronte a me, facendo cenno al cocchiere di partire.
«Perché?»
gli chiesi dopo un minuto di orrido silenzio. Strinsi gli occhi e lo
fissai mentre si sistemava la sciarpa sul volto, rendendolo ancor più
imperscrutabile.
«Cosa?»
«Perché
mia madre si fida di te? Non capisco. Ora che mi hai salvato la vita
lo comprendo, ma prima?
Non credo si basasse solo su un ricordo di te. Vi siete affidati a
vicenda qualcosa d'importante: la mia vita e il tuo palco, nonché il
suo silenzio. Perché? C'è qualcosa che mi è sempre sfuggito.»
Lui
mi fissò con i buchi neri dei suoi occhi. Scintillavano appena due
stelle in lontananza nel suo sguardo. «Meg… Io ti ho salvato la
vita, e tu questo lo sai.»
«Sì,
e te ne ringrazio» ripetei.
«Non
era la prima volta.»
Mi
spostai sull'attenti, sbattendo le palpebre. «Che cosa?»
«Anni
fa, ti salvai la vita… e tua madre si fidò di me da allora.»
Mi
sentivo vagamente nauseata. Quanti segreti non conoscevo ancora? E
soprattutto, quali?
«Dimmi
tutto» gli ingiunsi con la maggior autorità possibile. Sembrava
strano – io
che
parlavo a lui
in
quel modo, quando era lui che di solito deteneva quel tono di sottile
e insopportabile comando – ma in quel momento i nostri ruoli si
erano invertiti. Ero io che avevo il diritto di sapere, ora, e
nondimeno lo chiedevo.
«Fu
un evento insolito, anche per me» cominciò lui. Mi pareva
stranamente vigile, come se temesse una qualche reazione imprevista
da parte mia, o da se stesso. «Tu e tua madre vi eravate appena
trasferite all'Opera Garnier. Potevi avere forse quattordici,
quindici anni.»
«Sì,
è a quell'età che sono venuta a vivere lì.»
«Non
so con quanta precisione tu ricordi… Accadde un incidente. Un
gattino – quello che prima di Figaro abitava l'Opera – fu
travolto da una trave nel sottopalco, e questo causò una certa
agitazione tra le allieve ballerine. Tu eri tra queste. Io ero
presente, nascosto. Alla vista del sangue e dei… resti
dell'animale, il tuo volto si fece livido quanto quello di un
cadavere. Scappasti via, senza che le tue amiche ti notassero.»
«Ma
tu ovviamente mi notasti.»
«Ti
avevo già adocchiato prima, sapevo che eri la figlia di Antoinette.
Era impossibile sbagliarsi: le somigliavi, benché portassi sul volto
e nella carnagione l'impronta innegabile di tuo padre… Sono
sincero: mi incuriosì la tua espressione, che riconoscevo. Era
simile a quella che avevo indossato io stesso la prima volta che vidi
il mio riflesso in uno specchio: assoluto terrore. Ti seguii fino
alla tua stanza, attraverso un passaggio che portava direttamente al
grande specchio nella tua camera. Se ti fossi sentita male, ero
pronto ad avvisare tua madre.
Tu
eri lì, l'espressione vuota, di fronte alla tinozza che avevi
riempito d'acqua, per fortuna completamente vestita. Non riuscivo a
staccare gli occhi dai tuoi: erano così colmi di dolore, e allo
stesso tempo vuoti come una tomba sconsacrata… Mi sembrava che la
tua anima fosse visibile oltre le ossa, il midollo – e poi ti sei
immersa, ancora vestita, nella vasca… finché non vidi più il tuo
viso. Cosa diavolo stavi facendo? Compresi che eri in pericolo quando
vidi che non ritornavi in superficie. Che avessi perso i sensi
nell'acqua? Eri così piccola che la tinozza bastava a contenerti
tutta. Il tempo passava: non potevo più chiamare tua madre, ormai.
Dovevo fare qualcosa. Corsi un enorme rischio, e fu un atto impulsivo
da parte mia, lo ammetto, ma… Seguii quanto mi sussurrava il mio
istinto – ti è familiare questa sensazione, non è vero? Ti
afferrai appena prima che annegassi. Non sapevo cosa ti fosse
accaduto, se volevi
che l'acqua ti sommergesse, se eri caduta in una sorta di trance, né
capivo il motivo, allora, della tua reazione alla morte di
quell'animale, avvenuta proprio davanti ai tuoi occhi. Adesso so,
naturalmente. Ora capisco.»
Tremavo,
quasi fossi rimasta sotto la pioggia. «Cosa accadde, dopo?»
«Non
respiravi, ed eri fradicia dalla testa ai piedi. Indossavi ancora la
tua veste e le scarpe da ballo, attaccate al tuo corpo come una
seconda pelle. Non c'era tempo di avvertire tua madre. Era questione
di vita o di morte.»
Guardai
il suo volto invisibile con un fremito interno.
«Erik…»
«Ascoltami
con attenzione, per favore. C'era solo un modo perché tu respirassi
di nuovo, e non persi tempo. Mi sfilai la maschera e con queste mie
labbra, se tali si possono definire…»
Si
fermò, senza più il coraggio di andare avanti. Si guardò
fissamente i polsi cicatrizzati. Io mi sfiorai la bocca in un moto
involontario.
E
così mi aveva infuso nel petto il respiro della vita.
Erik
si mosse impercettibilmente sul sedile. «Devi perdonarmi, ma non
sapevo cos'altro fare. Non ero mai stato così vicino a una persona,
capisci, e di certo non per farle del bene. Tu sei stata la mia prima
e unica redenzione. Non so neanche per quale istinto mi convinsi a
salvarti, quel giorno. Solo, non potevo abbandonarti. Non dopo aver
visto il mio stesso male nei tuoi occhi, frammenti di oscurità che
esistono anche in me.»
Ora
tutto era chiarissimo, limpido come uno specchio d'acqua dinanzi ai
miei occhi stupefatti. Ecco perché non aveva mai potuto farmi del
male, malgrado lo avessi ostacolato più volte. Ecco perché mia
madre si fidava di lui e mi aveva affidato alla sua veglia. Mi aveva
già salvato la vita una volta: non l'avrebbe messa in pericolo di
nuovo.
In
più, ero l'unica persona con cui avesse avuto un contatto così
ravvicinato. Lui, che era coperto
di morte dalla testa ai piedi,
aveva ridonato la vita a un altro essere umano.
«Quando
tua madre rientrò, ti vide tra le mie braccia. Respiravi, ma giacevi
ancora priva di sensi, fradicia e livida. Mi ero affrettato ad
indossare la maschera, ma lei mi riconobbe ugualmente.
“Erik…
Sei proprio tu.”
“Badate
a questa bambina, Madame.” Lei ti raccolse dalla mia presa, ed io
sparii prima che tu potessi vedermi.»
Si
trattava di un infausto episodio della mia fanciullezza. Quando mi
ero svegliata, avevo trovato mia madre al mio fianco, non certo un
uomo mascherato.
«Pensavo
che fosse stata lei a tirarmi fuori dalla vasca. Ho un ricordo molto
confuso di quegli istanti, ma certo non potevo sospettare…»
«Spiegami,
Meg, perché hai compiuto un atto simile. Benché trasudassi
disperazione – la potevo avvertire nell'aria, quasi potesse avere
un corpo e spostarsi – non ho mai capito cosa ti passasse per la
mente in quei momenti.»
«Volevo
solo lavarmi il sangue dai vestiti, dalla pelle… me lo sentivo
addosso» gli dissi in un sussurro. Quell'incidente col gatto mi
aveva riportato alla memoria un altro rosso… «Quando l'acqua mi
avvolse, mi sentii finalmente in pace, pulita.
Non ricordo come, ma persi i sensi… Rammento che qualcuno mi
trascinò sopra l'acqua, infrangendone la superficie. E poi il volto
di mia madre.»
Ci
volle tutta la mia ostinazione per impedirle di chiamare un dottore.
Non volevo finire in una cella bianca come mio padre, come un animale
feroce costretto in gabbia – poiché non avevo dubbi che lì sarei
finita, un giorno, se andava avanti questa storia… Così voltai
pagina. Da quel momento, i miei incubi diminuirono. Combattei i miei
demoni uno per uno, stringendo il cuscino tra i denti per evitare di
urlare, la notte, quando ero sola con i miei fantasmi.
«Volevo
solo che il dolore sparisse. Lo capisci?»
Erik
ricambiò il mio sguardo. «Sì, ti capisco.»
E
fu allora che compresi. La mia attrazione per lui, lo strano
magnetismo che si era instaurato tra noi… era perché lui capiva.
Comprendeva
appieno i sottintesi, il non detto, l'indicibile della mia vita. Era
come guardarsi in un riflesso distorto.
Quando
neanche la mia stessa madre poteva capirmi del tutto…
E
poi era arrivato lui, con le asprezze della sua anima contorta,
marcia, putrefatta quanto la sua pelle. In lui riconoscevo le mie
radici.
Poiché
non importava quanto la luce mi chiamasse a sé, l'amnio costituito
dall'oscurità mi era sempre andato meno stretto. Ero fatta di
tenebre, e lo era anche lui. Quasi sentivo il mio sangue pulsare
nelle sue vene, in particolare ora che avevo saputo di aver bevuto il
respiro direttamente dalle sue labbra… le sue labbra informi… Per
un attimo me le figurai, ma non provai orrore. Solo un senso di
stupore che, ne ero certa, provava anche lui.
«Mi
hai salvato la vita due volte, e non so quasi nulla di te.»
«Conosci
il necessario.»
«Sei
un mistero che vale la pena svelare.»
Lui
si strinse nelle spalle, senza sapere se sentirsi lusingato o meno
dalla mia fascinazione nei suoi confronti, anche verso le zone più
ombrose della sua anima.
«Grazie»
gli sussurrai. Era come se la cataratta che mi rendeva cieca si fosse
sciolta.
«Pensavo
che avresti provato orrore, e invece mi ringrazi. Perché?»
Davvero
non capiva quanto era stato importante per lui, quell'unico contatto
umano che aveva avuto? Davvero non notava l'effetto che aveva su di
me?
«Perché
non volevo morire, quel giorno. Non sul serio. Per questo ti
ringrazio.»
Lui
chinò il capo in segno di accettazione.
Lo
sentiva anche lui, il filo rosso che ci legava? Non importava quanto
mi ostinassi a mentire a me stessa, io ero attratta
dall'oscurità
che celava nella sua anima. E non perché fosse nuova, o gradita –
perlopiù era malsana – ma perché non era dissimile dalla mia. E
in quel momento non avevo bisogno di una medicina, ma di un malato
che comprendesse il mio male e mi aiutasse a sconfiggerlo. A ricucire
i lembi sbrindellati della mia vita.
Mi
vedeva come una cosa sua,
io che non solo appartenevo all'Opera ma avevo in me il suo respiro?
Se così era, allora dimenticava che lui era mio allo stesso modo,
perché le mie labbra erano state le prime a sfiorare le sue. Solo
per me, era stato umano; solo per me, aveva deciso di essere vita e
non morte. Solo per me, aveva trasgredito se stesso e l'odio
intrinseco che si portava dietro come una cicatrice indelebile,
cucita sulle sue labbra avvizzite.
Mi
sporsi verso di lui, mentre la pioggia continuava a battere sul
tettuccio della carrozza; place de l'Opéra doveva essere poco
distante.
«Erik»
esordii – assaporavo il suo nome sulla lingua come fosse un frutto
particolarmente prelibato, poiché a pochi era concesso di conoscerlo
– «ricominciamo le lezioni di pianoforte. Ne ho bisogno.»
Lui
inclinò la testa di lato, come per studiarmi con attenzione.
«E
perché mai?»
«Lo
sai, il perché.»
«Ti
aiutano con i tuoi incubi.»
Annuii,
perché per qualche motivo inspiegabile tale era la verità, e non
potevo negarla. Aiutami
a salvarmi da me stessa, dal sangue malato che mi scorre nelle vene.
Aiutami ad essere libera.
«Se
io accettassi, cosa ci guadagnerei?»
Mi
aprii in un sogghigno. «Prendila come una sfida. Avanti, solo mio
padre è mai riuscito ad insegnarmi a suonare quel dannato strumento.
Non vorrai essere da meno.»
Stavo
pungolando il suo orgoglio, il che lo metteva sempre in allerta, lo
sapevo.
«Ebbene,
così sia» sentenziò alla fine, e io gioii in segreto. Le mie
viscere si strinsero piacevolmente all'idea di riprendere le nostre
lezioni.
«Sapevo
che avresti accettato.»
«Oh,
ma davvero?»
«Ti
piacciono i rebus, le cose difficili, le complicazioni.»
«Credimi,
sei più di una semplice complicazione nella mia vita, Meg Giry.»
Non
sapevo cosa dire a queste parole, pertanto tacqui. Lo
stesso vale per me, volevo
dirgli, ma le parole mi rimasero incastrate in gola.
Cosa
avrebbe detto mia madre di quelle lezioni private? Erano qualcosa che
facevo per me stessa, perché sentivo che mi avrebbero portata a una
sorta di chiusura sulla morte di mio padre, cosa che evidentemente
non avevo ancora raggiunto. E non mi serviva un insegnante qualsiasi:
sentivo che Erik comprendeva il mio dolore – la mia paura di
impazzire, già di per sé irrazionale; il mio oscuro timore di
finire come Claude Giry, con tutte le mie stranezze, la mia segreta
brama di sangue – e la sua musica lo trasformava in catarsi. Sì,
Erik comprendeva come nessuno mai, neanche mia madre o Christine, era
riuscito a capire, perché era anche nella sua mente. Eravamo come
due bestie che si avvicinano perché fiutano il simile: non si dice,
ma molte amicizie nascono così. E la nostra era l'amicizia più
bizzarra (a dir poco) che si potesse immaginare, se poi si poteva
definire tale.
Con
lui, malgrado fosse fatto
di morte dalla testa ai piedi,
mi sentivo stranamente viva.
Quasi
cedetti al pensiero di cosa avrebbe detto Christine. Era convinta che
Erik fosse pericoloso, e il bello era che ne ero perfettamente
consapevole: dovevo sembrare egoista nell'approfittare del suo
riguardo nei miei confronti, del fatto che non avrebbe mai fatto del
male a colei alla quale aveva restituito la vita con un respiro e che
ora condivideva il suo. Non abbassavo la guardia con lui, e non ero
certo diventata meno furiosa per via del suo comportamento nei
confronti della mia amica. Se ci pensavo, mi prudevano ancora le mani
per la voglia di prenderlo a pugni.
Ma
non potevo voltare le spalle a tutto ciò che condividevamo come
fosse nulla: era qualcosa che non aveva niente a che fare con
Christine. Pertanto, tale avrei dovuto considerarlo.
«Queste
lezioni devono rimanere un segreto» decisi improvvisamente,
attirando la sua attenzione.
«Temi
ciò che Christine potrebbe dire al riguardo?»
Di
nuovo, quell'inflessione di dolcezza e malinconia al nome della mia
amica.
«Sì.
Non è il caso che lo sappia, non credi?»
Con
ciò che pensa di te, potrebbe credere che tu mi abbia fatto il
lavaggio del cervello. O peggio, che io sia una tua alleata. Ma
questo non lo dissi.
«Perché?
Pensi che non voglia condividere con chicchessia il suo maestro?»
disse in tono più che vagamente beffardo. Era chiaro che nemmeno lui
credeva alle sue stesse parole.
«Perché
per capirne la ragione dovrebbe venire a sapere del mio tentato
suicidio» risposi senza mezzi termini. «E non voglio che lo
sappia.» Per quanto ciò mi dolesse, era la verità.
Lui
strinse gli occhi a fessura, come a saggiarmi. «Perché? Se credi
che non capirebbe…»
«Non
voglio allarmarla.» Solo mia madre ed Erik conoscevano questo mio
lato oscuro. Christine era la migliore amica che potessi desiderare,
ma non potevo pretendere tanto neppure da lei. Volevo che il mio lato
oscuro rimanesse tale anche ai suoi occhi, che non vedesse mai la
luce del sole, quasi potessi fingere in questo modo che non fosse
reale.
«Come
desideri, Meg.»
Bene,
non pensavo che convincerlo sarebbe stato tanto semplice. Sospirai di
sollievo.
«So
che non vuoi che venga a sapere di questa parte di te. Pensi che sia
così stupido da non riuscire a capirlo?»
«Tu
indossi una maschera, certo che lo capisci» mugugnai quasi tra me e
me. Poteva comprendere questo mio desiderio di nascondere una parte
di me alla luce del sole come nessun altro, era ovvio.
«E
ti confesso che grava. Sei pronta a sopportarne il peso anche tu?»
Deglutii.
Eravamo giunti in place de l'Opéra. «Per evitare che lei soffra con
me, sì, lo farei.»
E
dovresti accettarlo anche tu, pensai.
Se fossi riuscita ad avere su di lui una vera influenza, forse avrei
potuto fare in modo che il suo atteggiamento riguardo la situazione
“Christine” cambiasse. Forse potevo fare in modo che
comprendesse.
Ma
no, rammentai,
dolente. Nessuno
può fermare Erik, neanche Erik stesso. Avrei
assistito al dramma come spettatrice, anche se avrei continuato a
tentare di intrufolarmi nella storia per avere la mia piccola parte –
ne avrei strappato i lembi per cucirle addosso le mie parole, che ora
si spezzavano sotto i denti, e i loro resti tremavano.
«Fatti
trovare ben coperta contro il freddo nel tuo camerino, quando l'Opera
stasera sarà deserta dopo lo spettacolo.»
«Come
hai intenzione di portarmi nel salotto di casa tua? Si trova qualche
metro più sotto, mi hanno detto» dissi sarcastica.
«Sei
la solita impudente. Ma non stolta. Scommetto che troverai la
risposta anche da sola.»
Ci
pensai su. La mia fronte si aggrottò per la concentrazione, e
prontamente, come lui aveva predetto, scoprii la soluzione
all'enigma. «Ma lo specchio, naturalmente. Si apre su un passaggio
segreto, non è così?»
«Sveglia
ragazza» si complimentò lui, e chinò il capo. Eravamo giunti a
destinazione, e cinti da una nuova catena. Il destino si prendeva
gioco di me, legandomi sempre più a quell'uomo da cui una mente
logica sarebbe rimasta lontana. Ma ormai ero preda di uno strano tipo
di follia: forse ero pazza sul serio, o forse ero sulla via per
ritrovare me stessa, dopo che avevo perso pezzi di me con la morte di
mio padre.
«A
stasera, allora» dissi con un brivido sconosciuto. Lui assentì, ma
non aggiunse altro. Scesi dalla fiacre,
e
ancora una volta mi chiesi dove si accostasse e dove portasse il
tragitto di Erik. Sicuramente all'appartamento sul lago, ma il come
mi sfuggiva.
Mi
diressi verso il magnifico palazzo che era l'Opera Garnier. Il
selciato brillava al tocco del sole dell'alba, giunto dopo la
pioggia, come ricoperto di gocce di rugiada fresca. In realtà, era
più arido che mai. Solo
un'illusione, pensai,
assorta.
Cosa
sarebbe stato Erik verso la strada che stavo percorrendo per
ricompormi? Un semplice mezzo, o un bivio, o addirittura un ostacolo?
Ripensai a Christine e a ciò che l'attendeva e rabbrividii. Eravamo
tutti sospesi su una corda invisibile, tesa su un abisso insondabile.
Se
ti guardi indietro, sei perduta, mi
dissi. Non l'avrei fatto, non ora che la storia stava per compiersi,
non ora che i destini di tutti noi stavano di nuovo per mutare rotta.
Note
dell'autrice:
1 Non
vado in cerca di guai. Di solito, sono loro a trovare me per
primi:
Citazione da Harry
Potter e il prigioniero di Azkaban di
J.K. Rowling. Un
biscotto a chi l'aveva già indovinato!
Allooooora,
sorry per il ritardo, ma la maturità mi sta mandando in crisi
esistenziale. Per fortuna ho una buona amica a sostenermi e bravi
prof, altrimenti l'ansia mi salirebbe alle stelle e non riuscirei più
a combinare nulla. Comunque, dopo aver letto questo capitolo, mi
aspetto che scenda un fulmine dal cielo che mi colpisca proprio in
testa per tutte le maledizioni che mi avrete mandato. Perché secondo
la sottoscritta ho inventato una baggianata pazzesca e voi vorrete
uccidermi per questo. Mi faccio le condoglianze da sola.
bibliofila
mascherata:
Grazie, cara! Addirittura in astinenza? Spero che questo nuovo
capitolo ti abbia soddisfatta, anche se secondo me ho scritto una
pazzia. Ahimè.
Ah,
ci tengo a precisare che l'importanza del contatto fisico tra Erik e
Meg (quando lui le ha praticato, in poche parole, la respirazione
bocca a bocca) non è di tipo sessuale, romantico o filiale (orrore,
orrore), ma vale in qualità di vero e proprio contatto umano, uno
dei pochi e più salubri nella vita tempestata di Erik. Proprio per
questo è tanto importante per il loro legame – ci tenevo a
precisarlo. Erik non ha mai creduto che lui, “fatto di morte dalla
testa ai piedi” come si definisce egli stesso, potesse mai ridare
la vita a un altro essere umano. Eppure con Meg così è stato. Per
questo si è “affezionato” alla ragazza – ormai divenuta
adulta. |
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Capitolo 20 *** Il Maestro e Marguerite. ***
xix.
il
maestro e marguerite
Scoprii
che il passaggio attraverso lo specchio non era molto differente da
quello che io stessa avevo usato per la prima volta e che mi aveva
condotto prima alla camera dei supplizi, secondo la trappola
disegnata da Erik, poi al lago sotterraneo e all'appartamento lì
accanto costruito. Era solo meno angusto, e portava a una scala di
cui non conoscevo l'esistenza. I gradini erano tanto ripidi che la
prima volta finii per aggrapparmi ad Erik nel tentativo di non
incespicare nei miei passi, dopodiché, da brava ballerina, ci presi
in fretta la mano.
Erik
mi accompagnava lungo il tragitto con una torcia in mano, vogando poi
nella piroga che aveva adibito a suo uso personale. Remava sempre lui
– un gesto gentile come lui era di rado. Nel suo soggiorno si
tenevano le nostre lezioni, in modo non molto differente dalle mie
settimane di convalescenza lì dentro.
Erik
mi aveva insegnato a solfeggiare – e avevamo avuto bisogno di tutta
la nostra pazienza per questo – così da seguire il tempo della
musica che mi accingevo a suonare. Pigiare i tasti del pianoforte era
per me un'esperienza innominabile: era come dare vita dal nulla a dei
suoni che dipingevo con i miei personalissimi colori. Era un parto,
ma ne valeva la pena: alla fine di ogni lezione ero sudaticcia e
dovevo trattenere il desiderio di colpire il mio maestro con il
libretto degli spartiti su quella sua testa di morto, ma ero libera.
Non mi sentivo così libera da anni. Attraverso le note vomitavo il
mio rancore, la mia rabbia, tutto l'acido nel mio stomaco si
trasformava in musica, e ad esso davo le ali. Erano ali ancora un po'
imperfette, forse non pronte per spiccare il volo, ma quel momento
non avrebbe tardato a lungo. Erik – dovevo ammetterlo con
riluttanza – era un insegnante straordinario, sebbene fosse severo,
e insieme a lui avevo fatto progressi incredibili, progressi che, in
altre circostanze, avrebbero richiesto mesi e mesi di esercizi.
Prediligevo Chopin, ma molti dei suoi brani erano ancora ben oltre la
mia portata, quindi mi accontentavo dei valzer che Mozart aveva
composto a sei anni. Trovare delle difficoltà in essi era per me
alquanto umiliante, e i sospiri del mio maestro – sebbene mi
rifiutassi di chiamarlo tale – si potevano udire in tutti i
sotterranei. Ma io andavo avanti a testa china, come un toro alla
carica, finché le dita delle mani non mi facevano male quanto quelle
dei piedi che dovevano sopportare il mio peso nella danza da anni.
Bastava una sonata, e il resto andava via: le mie remore
sull'ambiguità morale del mio insegnante, di me stessa che gli davo
corda, su ciò che avrebbero detto Christine e mia madre se avessero
saputo di questo “scambio” – perché di questo si trattava:
lui, attraverso lo studio del pianoforte, mi ridava la pace dei
sensi; io gli ricordavo che era ancora umano – insomma, ero una
donna libera che aveva preso coscientemente una decisione che secondo
la logica era poco giudiziosa, ma che alla lunga stava portando dei
vantaggi ad entrambe le parti. I miei incubi si erano attenuati, come
la sabbia si surriscalda al sole, e l'influenza che detenevo su Erik
cresceva sempre più. Per quanto assumesse quel tono di comando, io
ero ben consapevole che con me ormai si trattava di una facciata. Non
ero mai disposta a sottostare ai suoi cosiddetti ordini, e pensavo
che le mie ramanzine gli facessero bene. Credetti di aver acquisito
su di lui un'influenza tale da spingerlo nella direzione giusta
riguardo la situazione “Christine”, e non mi vergogno a dire che
quello era uno dei miei obiettivi principali: conoscere il nemico –
se così ora potevo definirlo – per poi saggiarne non solo i punti
deboli, ma sfruttare anche quelli di forza a mio vantaggio. Ora il
genio della musica si dedicava a me.
Avevamo
fondato le basi di una strana amicizia: entrambi guardinghi l'uno con
l'altra, ci saremmo affidati reciprocamente le nostre vite se ne
avessimo avuto la necessità. L'Erik spaventoso che avevo conosciuto
la prima volta che ci eravamo incontrati – ahimè, un'occasione
assai infelice – non riusciva a conciliarsi nella mia mente con
quello che mi leggeva Il
conte di Montecristo per
farmi addormentare al suono della sua voce d'angelo, ammaliante e
trasudante calore. Aveva preso questa abitudine quando aveva compreso
i miei timori riguardo il sonno: avevo sempre combattuto i miei
demoni da sola, ma ora avere una mano da intrecciare alla mia quando
tremavo per lo sforzo a cui quell'eterna battaglia sottoponeva il mio
corpo esile mi faceva sentire bene.
Non letteralmente – era sempre restio al contatto umano, molto più
di me, se possibile (e io che avevo sempre pensato di essere un po'
misantropa!) – ma sapevo che capiva
lo sguardo d'orrore nei miei occhi quando mi risvegliavo da un
incubo. Non pensava che fossi pazza, o malata, per le mie paure, i
miei sogni, il mio tentato suicidio di tanti anni prima, l'effetto
che il sangue aveva su di me. Non pensava fossi perversamente
contorta,
o irrimediabilmente senza speranza.
«Il
sangue mi calma» gli confessai una notte. Gli avevo chiesto di
restare al mio capezzale, dopo aver preso le medicine (le sue
orecchie si erano tinte di un rosso fiammante nel vedermi in veste da
notte, ma non aveva commentato, per fortuna). «Un tempo non era
così, ma ora è diverso. Quando a dodici anni presi a pugni Claire
Lambert, fui deliziata dal sangue sul suo volto e sulle mie mani.»
Mi fermai. «C'è qualcosa di sbagliato in me.»
Lui
attese chissà cosa prima di rispondere. «Non hai nulla che non
vada, Meg. Hai solo vissuto un'esperienza molto triste, hai visto
cose che una bambina non dovrebbe mai vedere. Hai sofferto come alla
tua età non si dovrebbe soffrire.»
Io
avevo annuito lentamente, rasserenata, e avevo poggiato il capo sul
cuscino. Lui sfogliava il libro che reggeva tra le mani.
«Leggo
io. Tu chiudi gli occhi, Meg.»
«Faresti
questo… per me?»
Lui
annuì, a disagio. Anche nella penombra, notai che aveva il collo e
le orecchie arrossate. Sogghignai tra me e me, fiera dell'influenza
che stavo acquisendo su di lui. Il fantasma dell'Opera che arrossiva
alle parole di Meg Giry… Non potei trattenere un sorrisetto
malizioso.
E
così erano cominciate le nostre letture. Di solito lasciavo leggere
lui. Sapeva che la lettura mi annoiava (da bambina avevo addirittura
avuto difficoltà ad imparare), mentre lui era un lettore avido e
appassionato, e soprattutto veloce: poteva leggere un tomo intero in
una notte e memorizzarlo perfettamente. Inoltre, gli piaceva adattare
la sua voce a quella dei personaggi, e ne usciva fuori una farsa
degna dell'imperatore in persona. Era bravissimo con gli accenti e si
vedeva che recitare per quel pubblico privato lo metteva a suo agio.
Io mi limitavo a farmi cullare dalla sua voce d'angelo quando volevo
che il sonno mi trasportasse, o a commentare con battute sarcastiche
gli eventi del libro. Battibeccavamo furiosamente, ma questo
divertiva entrambi.
Non
potevo dimenticare che sapeva essere crudele, molto
crudele
con chi credeva suo nemico, ma allo stesso tempo mi chiedevo se
questa crudeltà fosse davvero tutta colpa sua. Potevo solo
immaginare quali orribili esperienze avesse vissuto – l'esistenza
che conduceva era di per sé un cancro – ma pensavo che se la
società fosse stata pronta ad accoglierlo a dispetto della sua
deformità… Avrebbe potuto essere uno dei più grandi geni
conosciuti se gli altri suoi simili non fossero scappati davanti a
lui – rovinandolo, isolandolo, schernendolo e probabilmente anche
sottoponendolo a vere e proprie sevizie, fisiche e psicologiche…
Sì, forse la colpa era anche un po' nostra. Ma questo, il suo odio
per la razza umana che lo aveva espulso dalla sua cerchia come un
corpo infetto, non giustificava la morte di Buquet, avvenuta per mano
della camera dei supplizi da lui
ideata
appositamente, o il crollo del lampadario, o la sua furia
manipolatrice nei riguardi di Christine. Era un enigma
insormontabile: si doveva compiangerlo o maledirlo? Io mi limitavo a
fare entrambe le cose, contenta che ora non fosse più mio nemico –
beh, almeno non nel senso stretto della parola. Sulla questione
“Christine”, una spada di Damocle pendeva sulle nostre teste.
Sapevo che le stava permettendo di vedere il visconte – io stessa
avevo avvistato lei e Raoul tra le passerelle nelle quinte del grande
teatro, intenti a giocare come due bambini – perché questi sarebbe
partito presto per il Polo. Ma dopo
cosa
avrebbe fatto? Era questo il grande interrogativo. Avrebbe costretto
Christine a sposarlo con la forza? Sapeva bene che non avrebbe mai
potuto averla da viva. Sarebbero morti entrambi, nell'ultima,
disperata tragedia?
Non
potevo immaginare che stesse architettando qualcosa di molto
peggiore.
Mentre
leggeva, a volte mi lasciava sfiorare le cicatrici sui suoi polsi –
distrattamente, come il tocco di una piuma. Ero sicura che tutto il
suo corpo portasse i vessilli della guerra che doveva essere stata la
sua esistenza, ma ovviamente mi curavo bene dal dirgli qualcosa al
riguardo.
«Ti
consideri tanto estraneo alla razza umana da non sentirti obbligato a
rispettare le sue regole, non è vero? Per questo uccidi, o perlomeno
hai ucciso in passato. Non è così?» ebbi il coraggio di chiedergli
una volta, consapevole di poter provocare la sua rabbia. Ma non mi
importava. Lui non poteva più farmi paura, e io non mi sarei
lasciata comandare a bacchetta.
Come
è facile intuire, nei suoi occhi passò un lampo di furia
inespressa.
«Sei
curiosa e indisponente come al solito, Meg Giry. Eppure sei mia
allieva, dovresti aver imparato…» cominciò lui con durezza.
«Non
confondermi con Christine, adesso!» lo interruppi con sdegno. «Lei
poteva essere sotto il giogo del tuo incantesimo, una volta, ma ora
non più, e io non ci sono mai cascata. Non sono una tua allieva.
Sto provando ad essere tua amica,
perché mi hai salvato la vita due volte e non posso fare a meno di…
di… interessarmi, ecco, alla tua vicenda. E sono preoccupata per
Raoul e Christine. Sì, hai sentito bene, anche per il visconte. È
un giovane innocente, che non merita le tue astruse minacce. E di
certo non le merita Christine. Non hai il diritto di agire così solo
perché…»
«Perché
cosa,
sentiamo!» allargò le braccia, invitandomi a proseguire con fare
sardonico.
«Perché
gli altri ti considerano un mostro.»
«Tu
stessa una volta mi hai definito tale.»
Quel
ricordo mi ferì, e ferì anche lui. Dietro la maschera potevo vedere
i suoi occhi divenire lucidi. Hai
tanta influenza su di lui da farlo anche piangere, adesso.
Complimenti, Marguerite. Chissà
perché, quelle parole beffarde suonavano nella mia mente con la voce
mai dimenticata di mio padre.
«Lo
so, e mi dispiace. Ma come ti dissi all'epoca, un viso non fa
l'anima. Perché non provi ad essere diverso?»
«Nessuno
ha mai apprezzato i miei sforzi.»
«Io
li apprezzerei» dissi in un sussurro.
Lui
scosse la testa furiosamente, prendendosela fra le mani. Lo stavo
confondendo. Ora non sapeva più cosa fare. Stavo raggiungendo il mio
obiettivo: cercare di fargli cambiare i suoi propositi riguardo la
situazione con Christine, turbarlo, farlo pensare
a
mente lucida, col senno di poi. Questo però non mi rendeva meno
triste.
Mi
accostai a lui, sfiorandogli una spalla.
«Erik…»
dissi flebilmente.
«Lasciami,
Meg Giry. Adesso Erik deve stare da solo. Per pensare, sì… Ho
bisogno di meditare. Da
solo.»
Sottolineò queste due ultime parole con un rantolo a metà tra il
rabbioso e un singhiozzo.
Voglio
aiutarti, pensai,
ma non lo dissi. Me ne andai mestamente, ma quella sera fu puntuale
come al solito e ci accingemmo a iniziare la nostra usuale lezione di
pianoforte.
«Hai
svolto quegli esercizi con il polso e la mano che ti avevo spiegato?»
Annuii.
«Bene.»
Il
silenzio fra noi era gelido come l'acqua del lago, ma non mi sentivo
in dovere di chiedergli scusa solo perché avevo detto la verità.
Era lui quello che doveva scusarsi, non certo io. E non certo con me,
anche se sarebbe stato un inizio.
Vedevo
l'uomo oltre la bestia, ma non potevo dimenticare la bestia. Non era
ancora del tutto umano. Per quello ci sarebbe voluto il bacio di un
angelo fatto donna, le sue lacrime come un battesimo, ma non era
ancora arrivato il momento.
Mi
ero avvicinata a lui perché avevo anch'io il potenziale per
diventare una bestia, e tra due simili ci si comprende. Ma ora ecco
che volevo diventare per lui… cosa, una sorta di angelo guardiano,
custode della sua (non esistente) coscienza? Cacciai uno sbuffo
d'incredulità che attirò l'attenzione di Erik.
«Cos'hai?»
«Nulla,
è che pensavo… Sto cercando di tirare fuori la coscienza nascosta
dentro di te, perché so che da qualche parte c'è, pulsa ancora,
come un cuore vivo stretto in un pugno. Lo so perché altrimenti non
mi avresti salvato la vita. Perché altrimenti non sentiresti il
desiderio di amare, pur avendo l'incapacità di farlo nel modo giusto
– non interrompermi. È anche normale: al tuo posto, con un genio
come il tuo (non montarti la testa, adesso!) sarei impazzita da
tempo. Tuttavia, c'è una cosa che mi sfugge.» Gli afferrai la
torcia dalla mano e presi a guidarlo io attraverso i sotterranei che
ormai conoscevo tanto bene.
«Cosa,
Meg, sfugge alla tua mente brillante?» disse lui, sarcastico.
«Perché
li odi così tanto? Intendo, gli altri. La gente normale.
Cosa
mai ti hanno fatto? Insomma, posso immaginarlo, ma…»
Lui
mi fermò, giocherellando con i polsini del frac, che indossava sotto
il solito mantello nero. Ma non stava giocando: mi mostrò le
cicatrici sui polsi che ormai conoscevo bene.
«Questo
è solo l'inizio di ciò che mi hanno fatto.»
Era
mostruoso quanto il mostro che lo aveva ispirato – e
lui è diventato un mostro per reazione. Gli
coprii un polso ossuto con una mano. La mia carnagione olivastra
contrastava con quella cadaverica di lui.
«Ho
capito» gli dissi, ed era vero. Solo adesso iniziavo a comprendere,
ma il quesito rimaneva: dovevo compiangerlo od odiarlo?
Scoprii
che mi infuriava fare entrambe le cose allo stesso tempo, così
decisi che gli avrei offerto un'amicizia come si fa con un lupo
feroce, o con un segreto nel buio. Non sapevo che avrei finito per
amare quell'oscurità, per stringerla a me, carne contro carne, come
si fa con il bene più prezioso.
«Prendi
il la.»
Sbuffai.
Avevo le maniche arrotolate fino ai gomiti, il sudore sulla fronte e
una smorfia orribile sul viso. «Te l'ho detto, non
so cantare.»
«É
impossibile che tu abbia un così poco senso dell'intonazione, non
esiste essere umano al mondo…»
«Vuoi
prendermi in giro?» Mi voltai per guardarlo, la gola roca per lo
sforzo. Ci stavamo esercitando su quegli insensati vocalizzi da
mezz'ora, invano. Era molto meglio concentrarmi sul Für
Elise di
Beethoven, a questo punto.
«Stai
perdendo il tuo tempo.»
«Ne
sono perfettamente conscio. Hai la voce di una cornacchia
raffreddata.»
«Ma
grazie, eh. Non avevi detto che per me non c'erano in serbo lezioni
di canto?»
«Sì,
ma non ho mai detto che non posso pungolarti.»
«Ti
stai solo divertendo a mie spese.»
Si
mise solennemente una mano sul cuore. «Giuro che io mai…»
Poi fissò il mio volto arrossato dalla rabbia, le gote gonfie per
trattenere un sospiro d'esasperazione, e scoppiò a ridere con la sua
risata deliziosa all'udito, ma anche terribilmente irritante.
«Idiota»
borbottai tra me e me. Questo lo fece ridere ancora di più.
«Per
cortesia, smettila di prenderti gioco di me così apertamente o giuro
che scaravento via questo dannato coso.»
Picchiai i tasti del pianoforte con furia cieca.
«Perdonami,
Madamoiselle» fece lui, ancora ridendo, «ma dovresti vedere la tua
faccia in questo momento.»
«Sì,
me la immagino. Uno spettacolo, proprio.» Gli lanciai un'occhiata di
sbieco. «Confessa che ti stai divertendo a mie spese da mezz'ora.»
«Ebbene
sì, sono colpevole.»
«Sciagurato!»
Feci
per colpirlo con il libretto degli spartiti. Alla fine mi aprii
anch'io in un sorrisetto.
«Sono
un caso tanto irrimediabile?»
«Sembrerebbe
di sì. Ma tu sbagli la postura. Alzati.»
Sollevai
un sopracciglio, obbedendogli una volta tanto. Anche lui, che era
seduto di fianco a me al pianoforte, si alzò, aggirandomi.
«Che
intenzioni hai?» chiesi, sospettosa.
«Tu
sbagli a prendere fiato. Il diaframma deve prima tendersi, poi
chiudersi. Su, forza, prova. Prendi un bel respiro, come ti ho detto
di fare io.»
Feci
quanto lui mi diceva e diedi in un laaaaa
stonatissimo
che gli fece rizzare i peli sulla nuca.
«No,
no, non ci siamo.» Si avvicinò a me da dietro, circondandomi la
vita con un braccio.
«Sei
impazzito? Che diavolo
stai
facendo?» gli posai una mano sul braccio per fermare la sua presa
solida su di me. Erik mi ignorò deliberatamente e tastò un punto
sotto il mio petto, mostrandomi come si faceva ad aprire e chiudere
il diaframma.
«Ecco,
così. Adesso prendi il la.»
In
preda alla foga della lezione, non si era accorto che eravamo troppo
vicini. La mia schiena era poggiata al suo petto e le sue dita si
contraevano appena sotto la mia cassa toracica, all'altezza delle
costole. Fui presa da un calore che nulla aveva a che vedere con la
frustrazione che quella pratica esercitava su di me.
Tossicchiai.
«Sì, ma così non riesco a concentrarmi.» Posai delicatamente una
mano sulla sua, scostando senza violenza le sue dita dal punto dove
teoricamente doveva trovarsi il mio diaframma. Lo sentii ribollire in
viso anche se aveva la maschera ed era voltato di spalle.
«Oh.
Scusa.»
Si
allontanò da me frettolosamente e io abbandonai le braccia lungo i
fianchi, sentendo un vuoto improvviso tra le costole. Maledizione,
Meg. Tu sei pazza da legare. Di
nuovo, la voce che suonava terribilmente simile a quella di mio padre
nella testa, a farmi da lume della ragione (la beffa dopo il danno).
Lui
è un mostro. Non puoi essere attratta da lui
in
quel… in quel
senso.
Attratta?
Io da lui? Assolutamente no, è ripugnante.
Eppure
quel che hai provato non mentiva. Non nascondere le tue emozioni.
Emozioni?
Io non provo nessuna emozione. L'unica cosa che testimonia la mia
pazzia interiore è il fatto che sto argomentando mentalmente con me
stessa su una questione così infima!
E
poi è troppo vecchio per me.
Davvero,
questo mi sembra il male minore.
«Meg.»
Tacqui.
«Meg
Giry.»
Voltai
il capo nella direzione da cui proveniva quella bella voce. «Sì?»
«Prendi
il la,
adesso. Come ti ho insegnato io.»
Sospirai
e tornai con la mente alla mia lezione, che ancora doveva concludersi
(come il battibecco nella mia testa). Feci quanto lui mi aveva detto
e di nuovo, puntualmente, stonai.
Erik
si coprì le orecchie con le mani.
«É
inutile. Sono un caso disperato» dissi, non senza una punta di
nervosismo. Io lo avevo avvertito.
«Su
questo mi trovi concorde, Meg. Ricominciamo con Beethoven.»
Mi
sedetti al pianoforte e cominciai a suonare, con Erik che scandiva il
tempo. Quando inciampai su una nota, lo notammo entrambi e mi fermai.
Imprecai a mezza voce.
«Il
linguaggio.» Se fosse stato la mia maestra delle elementari, mi
avrebbe rifilato una bacchettata sulle mani per quella parolaccia
sussurrata.
«Da
capo.»
«Erik,
ci sto provando da tre ore e non riesco a superare questo passaggio!»
«E
ti dai per vinta così facilmente? Non è da te, Meg Giry.»
Sapevo
che stava pungolando il mio orgoglio, che non era poco, per tentare
di arrivare alla mia ostinazione. Ci riuscì, come predetto. Ripetei
il passaggio del brano, e puntualmente sbagliai ancora.
«Tendi
bene le dita.» Mi strinse una mano tra le sue e divaricò le dita
così che potessero toccare ogni tasto di cui avevo bisogno. «E ora
suona.»
Suonai
con le sue mani sulle mie. Questa volta, riuscii dove dapprima avevo
fallito.
«Visto?
Erik ti insegna bene» mi disse, e quasi potevo udire
il
sogghigno nella sua voce.
Sì,
ma mi sto di nuovo deconcentrando, pensai
mentre le mie mani erano ancora raccolte tra le sue. Diedi in un
brivido. Lui si scostò subito.
«Scusa.
Dimentico il freddo.»
«Non
si tratta di questo.»
«E
di cosa, allora?» chiese, sinceramente curioso. Non aveva capito.
Sbattei
le palpebre, come se mi fossi appena ridestata da un sogno. «Nulla.
Lascia perdere.» Mi alzai e gli tesi lo spartito.
«Domani
suoneremo un po' di Brahms.»
«Che
gioia.»
«Mostra
un po' più di entusiasmo, piccola ballerina.»
Alzai
i pugni in aria e applaudii come una scimmietta ammaestrata. Lui
ridacchiò ancora, ed era un bene. Mi piaceva sentirlo ridere in quel
modo sincero, genuino.
«Vieni.
Ti accompagno nella tua stanza.»
Era
passata la mezzanotte quando ritornai in camera mia, fremente di una
voglia che non riuscivo a confessare. Mi maledissi in tutte le lingue
che conoscevo (e non erano poche: se c'è una cosa che si impara
vivendo in un teatro, sono le imprecazioni nelle lingue delle opere
liriche) e mi infilai nel letto, rannicchiata come una tartaruga nel
suo guscio. Quella volta avevo abbandonato la compagnia di Erik e del
nostro conte di Montecristo, dicendogli che sarei crollata subito dal
sonno e che non avevo bisogno del suo aiuto per dormire sonni
tranquilli. Mentivo, ovviamente. Mi diedi della matta mille e mille
volte, in modo alquanto masochista. Quel che avevo provato oggi a
lezione era un brivido che avevo avvertito di rado nella mia vita:
era difficile eccitarmi fino ad avere una mia risposta fisica
a
un semplice tocco, per di più innocente. Non ero timida: con Luc mi
ero trovata in situazioni assai più… intime, e non ero arretrata
né ero arrossita in quel modo puerile che mi faceva sentire nervosa
come una vergine prima della sua notte di nozze. Era ridicolo. No,
era malsano. Dovevo essere ammattita.
Forse
è perché dopotutto è
un uomo, mi
dissi con convinzione. Non
mi trovavo così vicina a un uomo da una vita. Lui
era stato così concentrato sulla lezione che non si era accorto
dell'effetto che la sua sola presenza fisica aveva avuto su di me. Mi
chiesi quale sarebbe stata la sua reazione se mai avesse toccato
Christine in quel modo – innocente, eppure tangibile. Di
sicuro cadrebbe a terra svenuto. Ma per me non prova nulla, dunque…
E
meno male, aggiungerei.
Mi
rigirai tra le lenzuola, pensosa. Forse aveva già toccato Christine
in quel modo. Cosa potevo saperne io? Di certo non andavo a chiedere
ai due diretti interessati.
A
lei aveva dato lezioni di canto. Ora si limitavano a riunirsi in
consessi musicali che dovevano essere di straordinaria bellezza, ma
che al resto del mondo erano preclusi. Non potevo sapere se Erik
avesse mai toccato Christine nello stesso modo, come un maestro
eppure così
vicino… Sentii
una fitta di rabbia al pensiero. Gelosia?
Non lo credo possibile. Sarei
stata comunque più contenta se si fosse tenuto lontano da Christine,
e probabilmente così era. La venerava troppo per sfiorarla anche
solo con il pensiero. Io, d'altro canto, ero per lui molto più
terrena,
una presenza viva e fisica al suo fianco. Ma per fortuna, lui non
provava alcun interesse di quel tipo nei miei confronti. Non volevo
essere io la vittima delle sue scenate e manipolazioni, grazie tante.
Purtroppo a Christine, dolorosamente bella e gentile, era toccata
quella parte.
Ripensai
alle parole con cui Erik mi aveva ragguagliato sul suo concetto di
musica. C'era una musica nella quale ci si abbandonava ad uno strano
languore, un misto di dolore ed efferata passione, che lui chiamava
la musica della notte. Immergiti
in questa musica, cosicché nessuno potrà più farti del male. Usala
come scudo, come un'arma, come un amnio protettivo. Abbandona i
sensi…
Era
difficile per me capire quel concetto. Non riuscivo a convergere le
mie emozioni nella musica così come nella danza. Forse ero ancora
troppo dilettante per trasferire le mie emozioni sul pianoforte, per
imbeverne ogni nota come nel mio sangue. Eppure, a dire di Christine,
Erik era riuscito a creare questa musica sublime, superiore, eccelsa,
col suo Don
Giovanni trionfante. Non
avevo ancora osato parlargli del suo capolavoro, che lui intendeva
portare con sé nella tomba. Viveva solo per completarlo. Ma ora che
aveva trovato Christine, c'era un'altra ragione per lui di vivere. E
con lui, prendeva vita il fantasma.
Quella
notte non dormii che a tratti, e fui preda di sogni intoccabili alla
luce dell'alba. Mi svegliai madida di sudore, senza ben sapere cosa
avessi sognato, tra le cosce un calore innominabile. Deglutii e andai
a rinfrescarmi, per poi indossare un semplice abito nero. Avevo
acquistato dei fiori il giorno precedente, e speravo non fossero già
appassiti. Quella mattina mi ero preposta una missione: avrei portato
quei fiori sulla tomba di mio padre, dove non mi recavo da tanto
tempo, per il giorno del suo compleanno. Scesi all'alba, i corridoi
dell'Opera ancora deserti, e salutai mia madre con un bacio,
dicendole che andavo a fare una visita in chiesa. Lei si accigliò
subito, dal momento che sapeva che non ero religiosa. Ma io non
volevo ancora dirle del percorso che stavo facendo per riconciliarmi
con la memoria di mio padre – non a metà percorso, perlomeno.
Magari glielo avrei detto quando sarei tornata dal cimitero. Infilai
i fiori sotto la cappa di lana nera e uscii senza fare colazione.
Presto mi trovai in place de l'Opéra, dove il palazzo Garnier si
stagliava come una montagna d'oro e marmo su una valle invasa da una
nebbia ingombrante. Feci per fermare la prima fiacre
che
passava di lì, quando udii il mio nome nella nebbia.
«Madamoiselle
Giry!»
Mi
voltai, e vidi con stupore che chi si stava avvicinando a me a grandi
passi, un po' ansante, era il cosiddetto Persiano, che non incontravo
a tu per tu da prima del ritorno di Christine. Ricordai quel giorno
in cui, insieme al visconte di Chagny, avevo avvistato Christine in
una fiacre,
e
dei miei tentativi per convincerlo che non si trattava della nostra
amica in comune – che non poteva essere lei, dal momento che
Christine era “ammalata”.
«Monsieur»
lo salutai con un lieve inchino, sorpresa.
«Sono
Nadir Khan. Rammentate, Madamoiselle?»
Annuii.
Come potevo dimenticare? Lui mi strinse amichevolmente la mano.
«Dovete
essere ben lieto che Christine Daaé si sia ripresa dal suo malore,
Monsieur» dissi, ricordando che l'ultima volta mi aveva chiesto di
lei, e di come era impallidito quando, con sarcasmo, avevo detto che
era sparita così d'improvviso che a rapirla poteva essere stato solo
un fantasma…
«Infatti»
rispose lui, ma non pareva assai più sollevato di prima. Era, anzi,
piuttosto terreo in volto.
«Vi
confesso che non è per lei che mi rivolgo a voi oggi, Madamoiselle.»
In
effetti era strano. Cosa ci faceva all'Opera ad un'ora così
inconsueta?
Glielo
chiesi, e lui sorrise, incerto. «Vi cercavo, Madamoiselle Giry.»
«Cercavate
me?»
dissi io, stupita.
«Esatto»
riprese lui. «So che può sembrarvi strano, ma è così, credetemi.»
«Vi
credo. Quale ne è la ragione, se posso?» chiesi. Parlare in modo
così formale mi dava una strana sensazione.
Lui
si chinò su di me – notai che doveva essere poco meno alto di
Erik, il che era comunque considerevole – e mormorò: «Conosco la
vera identità del fantasma.»
A
queste parole raggelai. Come poteva essere? Chi mai era quell'uomo, e
cosa sapeva in verità?
«Non
vi capisco, Monsieur» dissi, fingendomi indifferente. Forse, se
fossi stata noncurante…
«Ahimè,
penso che capiate troppo bene, invece» disse lui in tono mesto. Ad
una folata di vento, si sistemò il cappello di astrakhan sul capo.
«Conosco Erik, purtroppo. E so che lo conoscete anche voi, sebbene
forse non bene come pensate.»
Arretrai
d'un passo. Sa
il suo nome!
«Chi
siete voi, Monsieur?» Non potei fare a meno di mettermi una mano sul
cuore.
«Nadir
Khan, Madamoiselle. Una vecchia conoscenza di Erik.»
Rabbrividii
e mi strinsi nella cappa di lana. «Come fate a conoscerlo?»
«Era
quello che volevo chiedervi io stesso, oggi.» Il Persiano chinò lo
sguardo perforante dei suoi occhi verdi su di me. Erik,
che cosa hai fatto?, mi
chiesi. Quell'uomo, quello straniero, non sembrava avere tuttavia
un'aria ostile. Più che altro, mi apparve alquanto perplesso e
preoccupato.
«Conobbi
Erik nella mia madrepatria. Fui io stesso a portarlo a corte, per
ordine dello Shah di Persia. Si era sparsa la fama che il più grande
prestigiatore del mondo soggiornasse a quel tempo in Russia, e così
era. Io ero un daroga
– il capo della polizia, ossia – alla corte di Persia.»
Impallidii.
Non pensavo di ritrovarmi dinanzi a un uomo tanto importante.
«So
che Erik ha viaggiato molto» annuii, e sapevo che conosceva, tra le
tante, anche la lingua persiana. Con quelle nozioni, era facile fare
due più due.
«Madamoiselle
– Marguerite, posso chiamarvi così?»
Annuii,
mentre lui mi prendeva una mano tra le sue. Ora appariva sinceramente
allarmato.
«Non
sapete in cosa vi siete immischiata. Non so con quali lusinghe egli
vi attiri nella sua tomba…»
«Nessuna
lusinga, Monsieur, ve lo posso assicurare.»
«Ebbene,
sono false. Erik commise molte atrocità in Persia, per ordine della
piccola sultana. Io stesso ho visto con i miei occhi la camera dei
supplizi che costruì per lei.»
«Di
questo sono consapevole, Monsieur. Io stessa ho veduto quella che voi
chiamate la camera dei supplizi. Ci sono entrata.»
Lui
mi fissò sconvolto, lasciandomi la mano. «E siete l'unica ad
esserne uscita viva, a mia memoria. Ma se sapete tutte queste cose,
allora perché…» Deglutì, ancora stupefatto. «Vi ho vista
attraversare con lui il lago. Io ero ben celato, poiché egli mi ha
avvertito di non venir più a “ficcanasare” dalle sue parti, così
lo tengo d'occhio di nascosto.»
«Diciamo
che anch'io lo tengo d'occhio.»
Lui
mi guardò con aria interrogativa.
«So
che Erik è pericoloso. So che ha commesso molte azioni riprovevoli –
io stessa l'ho richiamato su molte di queste, tra cui quelle commesse
ai danni della mia amica Christine. Sapete certamente quel che è
accaduto, e che accade tuttora, tra lei ed Erik.»
«Sì,
so tutto. Anche se lui mi ha giurato che non le ha torto un capello,
vedo che il cuore di lei appartiene a un altro.» Strabuzzò gli
occhi. «Allah solo sa cosa Erik farebbe se condotto alla
disperazione.»
«Vedo
che siamo d'accordo, Monsieur Nadir.»
«E
allora come…?»
«É
una lunga storia.» Mi mossi, a disagio. Per capire il rapporto nato
tra me ed Erik, avrebbe dovuto sapere di mio padre e del mio tentato
suicidio. «Mi ha salvato la vita due volte, Monsieur. Prendo con lui
lezioni di pianoforte, tutto qui. Voi certo sapete che è un prodigio
musicale.»
«Un
prodigio in molti campi» aggiunse lui, cupo.
«Ebbene,
il mio povero padre defunto era un pianista, e sto tentando di
riconciliarmi con la sua memoria. È un discorso difficile da
comprendere se non sapete il principio di questa storia…»
Rabbrividii
ancora.
«Ma
voi tremate, Madamoiselle Marguerite. Vi prego, accettate il mio
invito ed entriamo in quel caffè. Per non farvi gelare.»
Acconsentii
di buon grado – la temperatura stava scendendo rapidamente – e mi
accomodai nel locale insieme al Persiano. Chi avrebbe mai potuto
prevedere un simile scenario, quella mattina?
Gli
raccontai di come ero venuta a conoscenza dell'esistenza di Erik, e
lui mi parlò invece di quando gli salvò la vita in Persia, tra
tante cose.
«Lo
Shah gli aveva comandato di architettare per lui una dimora ideale,
colma di così tante botole e trabocchetti che il sultano poteva
spiare chiunque e ovunque volesse. Non v'erano segreti in quel
palazzo. Erik era un genio nel costruire certe bizzarrie
architettoniche, tanto che da noi lo chiamavamo con un nome che
significa “il signore delle botole”. Ma lo Shah non era
soddisfatto: voleva far uccidere Erik perché i segreti del suo
castello rimanessero sconosciuti a chiunque sulla terra, in
particolare ai nemici di Persia, che avrebbero potuto impadronirsene
per i loro scopi. Lo Shah era crudele e sua figlia, la piccola
sultana, si era stancata di Erik, che era il suo “intrattenitore di
corte”, promosso poi a sicario e maestro delle torture. Io gli
salvai la vita, a patto che non commettesse più alcun delitto,
facendo in modo che partisse per la sua madrepatria e che lasciasse
dietro di sé un finto cadavere. Come potete immaginare, non mi è
stato difficile trovarne uno rassomigliante.»
Bevvi
un sorso di tè e annuii.
«Se
conoscete la verità su Erik, sul mostro ch'egli è, allora perché
continuate a… a frequentarlo?»
«Per
la stessa ragione per cui voi gli avete salvato la vita, immagino.»
Lui
ammutolì, sorbendo a sua volta il suo tè.
«Non
voglio essere indiscreto…» disse lui, esitante, e da quel momento
seppi che lo sarebbe stato suo malgrado, «… ma riguarda in qualche
modo ciò che è accaduto a vostro padre? So che era un pianista
rinomato all'Opera Le Péletiér.»
«Sì»
dissi io, chinando il capo. «Ma voi come sapete…?»
«Quando
vi ho vista attraversare per la prima volta il lago sotterraneo con
lui, ho collegato il tutto alla vostra amicizia con Madamoiselle
Daaé. Doveva pur c’entrarvi qualcosa. Ho fatto qualche ricerca su
di voi.»
«Sì,
ma quel che io ed Erik condividiamo è estraneo a quanto tuttora
accade con Christine.» Lo guardai fisso nei suoi begli occhi. «Erik
mi ha salvato la vita due volte. Non posso spiegare molto, se non
questo. Non mi farebbe mai del male, neanche se oltrepassassi i
limiti. Già l'ho fatto, e sono ancora qui per testimoniarlo. E
rammentate» soggiunsi, seria, «io sono sempre dalla parte di
Christine. Quel che faccio è anche per lei.»
Ci
lasciammo sulla soglia del caffè. Erano le undici inoltrate, avevamo
parlato a lungo, ma non importava. Ora sapevo che avevo un alleato
nella lotta contro Erik.
Il
Persiano, Nadir Khan, mi accompagnò fino alla fiacre,
offrendosi di pagare – malgrado le mie proteste – il viaggio
d'andata.
Poggiai
la testa sul finestrino, sussultando ad ogni minima scossa. Ero una
triste figura, nel cimitero, con indosso la mia cappa nera.
Attraversai quel mausoleo di statue monumentali, la nebbia che saliva
in spirali sempre più fitte di serpenti aggrovigliati. Finalmente mi
fermai alla tomba di Claude Giry. Non era in territorio consacrato,
come si conviene a un suicida. Vicino alla lapide c'erano ancora i
fiori che mia madre gli aveva portato la settimana prima – lei si
recava a salutare la tomba di mio padre molto più spesso di me. Ecco
con cosa ci aveva lasciato: ricordi di polvere e una tomba
sconsacrata e fiori appassiti, ma non gliene facevo una colpa. Più
che altro, me la prendevo con chi avrebbe dovuto guarire il suo male,
ma non ci era riuscito. Quel cancro aveva finito per consumarlo come
la tubercolosi avrebbe fatto con qualsiasi altro malato. Nessuno era
stato in grado di curarlo.
E
chi saprà curare te quando…?
Distolsi
con disperazione quei pensieri dalla mente. Non
adesso, non adesso. Li
odiavo: pensieri come spilli, ferivano con meticolosità omicida.
Posai
i fiori sulla lapide di mio padre, e sul suo marmo vuoto potevo quasi
leggere a chiare lettere: suicida.
Vergogna su di lui e su tutta la sua famiglia.
Il
giorno del funerale, mentre mi stringevo a mia madre nel mio abito
nero come il mio sguardo, avevano gettato la sua bara appena fuori
dal cimitero, nella terra dei suicidi. I suoi fratelli lo stavano
aspettando con ansia. Rammentavo i sussurri delle altre allieve
ballerine, quando si chiedevano se la figlia del suicida avesse anche
lei qualcosa che non andava. Il ricordo di come le avevo fatte tacere
– pugni e parole di veleno – mi raschiava la pelle dell'anima. Il
colore del sangue andava a tingere, come sempre, quei macabri
ricordi.
Ricordai
invece quando avevo suonato con Erik le medesime melodie che suonavo
con mio padre, e il risultato era impressionante per qualcuno che
aveva ripreso le sue lezioni solo da poche settimane, questo dovevo
ammetterlo. Quel pensiero mi diede conforto: esattamente il motivo
per cui avevo cominciato quelle lezioni di pianoforte, perché mi
rassicurassero.
«Sei
in ritardo. Perdi molto tempo nel tuo lutto.»
Sospirai
e mi voltai, trovandomi faccia a faccia con un'ombra familiare. Era
vestito di nero come la sottoscritta, imbacuccato in una sciarpa e in
un largo cappello di feltro. Il suo volto non era visibile se non ad
una stretta vicinanza.
«Erik.»
Ci
eravamo dati appuntamento proprio al cimitero, ma quasi sobbalzai
quando me lo ritrovai davanti. Il giorno prima, senza molti
preamboli, mi aveva detto che avrebbe voluto mostrarmi “una cosa”,
ovviamente senza spiegarmi di cosa si trattasse, ma io gli avevo
riferito la mia volontà di andare a far visita alla tomba di mio
padre. Se fosse stato ancora vivo, avrebbe compiuto cinquantadue
anni.
«Ci
hai impiegato molto per arrivare qui. Ho atteso a lungo il tuo
arrivo. Eri esitante?»
«No,
ho solo trascorso qualche piacevole ora in compagnia di una tua
vecchia conoscenza.»
Lui
non ci mise molto per capire di chi si trattasse.
«Nadir.
Il daroga» disse, rabbuiato. «Ti ha raccontato delle cosiddette
“ore rosa di Mazenderan”? Di come ho fatto ridere la piccola
sultana, o qualche altra storia dell'orrore sul mio conto?»
«Mi
ha raccontato abbastanza, ma io non mi faccio impaurire così
facilmente.»
«Temevo
che…» si morse un labbro, che sulla sua pelle era come una
cicatrice. I suoi denti, che attraverso la maschera si scorgevano a
malapena, erano di un inquietante giallastro. Probabilmente non
importava quanto lui se li lavasse, rimanevano sempre di quel colore.
«Che
avrei dato di matto alla rivelazione delle tue disavventure in
Persia? Niente che già non immaginassi, non temere.»
«Quindi
continueremo le nostre lezioni.» Appariva vagamente speranzoso.
«Certo.
Non ho intenzione di perderti d'occhio.»
«É
solo una scusa per controllarmi?»
«No,
ma in tal proposito è un ottimo diversivo.»
Ci
avviammo tra i viali alberati del cimitero. La nebbia copriva le
foglie di un mantello argentato, fumoso alla luce rivelatrice dei
raggi del sole mattutino, tiepido come solo il sole di Aprile sa
essere.
«Monsieur
Nadir mi ha detto che in Persia hai commesso svariate atrocità. Te
ne penti mai?»
Mi
basterebbe solo questo. Dimostrami che in fondo sei umano; che non mi
sono sbagliata sul tuo conto. Che la bestia nel tuo cuore non ha
ancora preso del tutto il controllo.
«Sì,
molte volte» disse lui, con la voce venata di tristezza.
La
fiacre
ci
attendeva appena fuori dal cimitero. Erik mi aiutò a salire e poi
saltò su egli stesso, rifilando un comando veloce al cocchiere.
«Dove
vuoi portarmi?» chiesi, curiosa e guardinga.
«Voglio
mostrarti una cosa.»
«Questo
lo so. Potresti essere più dettagliato?»
«Attendi
solo qualche altro minuto.»
Arrivammo
in place de l'Opéra che era quasi mezzogiorno: avevo perso metà
giornata per colpa sua.
«Andiamo.
Cos'hai di tanto mirabolante da mostrarmi?»
Lui
mi prese gentilmente per un braccio e scendemmo dalla fiacre.
Erik pagò il cocchiere (con i soldi confiscati ai direttori col
ricatto, probabilmente), mentre quest'ultimo si limitava a guardare
stranito il gentiluomo ammantato di nero e la donzella che gli stava
alle calcagna, poi mi trascinò con sé verso Rue Scribe. Svoltò in
un vicolo deserto, fermandosi dinanzi a un'imponente grata. Il
lucchetto che la serrava era chiuso con molteplici catene, ma Erik
sembrava avere tra le mani la chiave giusta. Lo aprì, e con esso la
grata.
«Eccoci
arrivati.»
«Un'altra
strada per il tuo sotterraneo, immagino.»
Lui
annuì.
«Quindi
è da qui che passa Figaro quando viene dalle tue parti.»
«Esattamente.»
Ci
inoltrammo attraverso le tenebre, ma lui tirò fuori prontamente una
miccia dal mantello e con essa accendemmo una torcia che trovammo lì
sul selciato, non certo per caso. Scendemmo sempre più in basso,
dove la gettata del lumicino non arrivava. Il pavimento si faceva
sdrucciolevole ai lati, dove scorreva un rivolo proveniente dal
grande lago sotterraneo. Tutto il passaggio somigliava a quello che
si può trovare in una fogna, solo con meno lezzo e pochi topi e
ragnatele.
«Perché
mi stai mostrando questo passaggio, Erik?» chiesi, sinceramente
stupita.
«Secondo
te, qual è la ragione?»
Si
fida di me, e vuole dimostrarmelo.
«Devo
essere pazza per seguirti. Secondo te lo sono?» gli chiesi con voce
appena udibile oltre il flusso inondante dei miei pensieri.
Si
voltò verso di me – nel buio, i suoi occhi erano come stelle sulla
distanza.
«Mia
cara, tu sei sana di mente quanto me» disse, stringendomi la mano
che gli tendevo per superare un passo invaso dall'acqua lacustre.
Chissà
perché, questa risposta non mi rassicurava affatto.
Note
dell'autrice:
*
Il
titolo di questo capitolo è un chiaro riferimento al romanzo russo
Il
Maestro e Margherita di
Michail Bulgakov.
Alloooora,
rieccomi dopo le solite due settimane di attesa. Questo capitolo è
molto… particolare, perché per la prima volta Meg si rende conto
di essere – in qualche modo assai contorto – attratta *rullo di
tamburi* da Erik. Ma cosa l'affascina, con esattezza, della sua
persona? Non certo l'aspetto! Voi che dite? :D
Malinconica:
Non preoccuparti se non hai recensito un capitolo, per me è già
meraviglioso che tu ne recensisca soltanto uno! XD Nel senso che mi
fa tanto piacere che poi rischio di montarmi la testa, capisci. XD Eh
sì, è sicuramente dolce il gesto di Erik di salvare la ragazza che
poi, tra amore e odio, prenderà sotto la sua ala protettiva. Spero
che non sia troppo OOC, considerato che è qualcosa che fa perché si
identifica nel dolore di Meg – lo ha ammesso lui stesso – e
perché poi si tratta della figlia di Madame Giry. Di certo non è
diventato un "eroe" o "buono" da un momento
all'altro – ricordiamo che è sempre quello che in inglese si
definirebbe un "anti-villain", ed è anche per questo che
ci piace tanto. ^^ Grazie per il tuo in bocca al lupo (crepi! ^^):
ormai la scuola è agli sgoccioli e gli esami sono alle porte, ma
confido di superare questa prova. Un bacio, e al prossimo capitolo.
**
bibliofila_mascherata:
Che bello sapere che questa storia ti appassiona tanto! Eh sì, Meg
ed Erik sono una coppia di pazzi. XD Si esasperano l'un l'altro, ma
in fondo sono legati. Che ne dici di questo capitolo, dove il loro
rapporto finalmente prende una piega più… romantica (almeno da
parte di Meg; Erik è ancora – e lo sarà per un bel po' –
occupato a perseguitare la povera Christine)? Non temere, questa
storia non diventerà mai uno sdolcinato raccontino d'innamorati…
Almeno non subito. E sappiamo già (dal prologo, se ricordi) che
finisce male. Okay, taccio. Non voglio spoilerare nulla. Sappiate
solo che vi farò soffrire tutti, e molto – MUHAHAHAHA! XD Al
prossimo capitolo. ** |
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Capitolo 21 *** La Morte e il Cigno. ***
xx.
la
morte e il cigno
Lo
stupore di Maman
quando le raccontai che ero andata a far visita alla tomba di mio
padre
superò le mie aspettative. I suoi occhi grigi divennero lucidi, e
commentò solo stringendomi forte una mano, comprendendo che dovevo
aver superato tante remore per giungere a quel punto. Stranamente,
non faceva male. A tal riguardo, sentivo una bizzarra sensazione di
pace. La mia volontà di superare quel trauma stava finalmente dando
i frutti sperati. E di certo l'aiuto silenzioso di Erik non guastava.
Fui
costretta a parlarne anche con Christine, dal momento che mi lesse in
viso che qualcosa in me era mutato – non potevo tenerle segreto
qualcosa molto a lungo. Le spiegai dei miei tentativi di superare la
morte di mio padre, che erano anche i suoi: ero certa che mi capisse
su quel punto. La vidi infatti aprirsi in un lieve sorriso che mi
rincuorò. Ovviamente non le rivelai nulla sulle lezioni con Erik,
anche se alla fine ero sicura che ne sarebbe venuta a capo e allora
mi avrebbe odiata per non averle detto subito la verità, e chi vi
era implicato. Ma neanche lei, con tutte le affinità che
condividevamo, avrebbe potuto capire senza che le raccontassi di come
Erik mi aveva salvato la vita anni prima, e non avevo intenzione di
rivelarle il mio tentato suicidio. Mi avrebbe forse accomunata a mio
padre, credendo che fossi pazza anch'io? Non potevo pensare che
Christine fosse capace di una cosa simile, ma non volevo neanche che
credesse che, con quelle lezioni e il mio quieto avvicinarmi ad Erik,
la stessi tradendo. Anche il Persiano aveva condiviso una bizzarra
amicizia con Erik – il motivo che alla fine lo aveva spinto a
mettere in pericolo la sua stessa vita pur di salvare quella del
mostro. Tanto avevo compreso dalla nostra ultima chiacchierata.
Seppur preoccupato e consapevole di dove la disperazione e la
noncuranza verso le leggi dell'umanità potessero condurre Erik, gli
portava uno strano affetto, come si fa con una bestia feroce ma
ferita nel profondo, eppure ancora capace di fare del male. In questo
eravamo più simili di quanto lo stesso Erik potesse prevedere.
Tenere
nascosto tutto ciò a Christine, che era sempre stata mia confidente,
mi faceva male, ma finché la storia con Erik non avesse preso una
piega diversa, non potevo mutare la mia posizione di osservatrice
neutrale.
Beh,
neutrale, adesso. Sei sempre pronta a difendere Christine.
E lo sarei stata fino all'atto finale di quella tragedia già
scritta. Christine un giorno mi aveva confessato che non credeva vi
sarebbe stato un lieto fine per nessuno, ma io non mi scoraggiavo.
Non potevo lasciare che il male ci sopraffacesse tutti quanti,
persino Erik. Presto si sarebbe arrivati a una conclusione, e io già
sapevo da che lato schierarmi. E non potevo non avvertire il terrore
ribollire nel fondo delle mie viscere per quello.
Cercavo
di domare la bestia, ma non avevo illusioni al riguardo. Erik avrebbe
commesso qualcosa di innominabile prima della fine, ne eravamo tutti
consapevoli. Questo solo avrebbe dovuto darmi gli incubi, ma io,
colpevole, dormivo per la prima volta da anni sonni tranquilli, le
mie coperte come una gabbia dorata in cui celarmi ogni volta che il
mondo diventava più crudo e sanguinoso di me. Ancora per poco tempo,
potevo chiudere gli occhi e fingere di non essere in bilico sul bordo
di un baratro. Che tutto alla fine si sarebbe risolto.
Non
ero così stolta da ingannarmi, però.
Una
mattina limpida e fredda come uno stagno ghiacciato non riuscii ad
evitare i chiacchiericci e i pigolii delle mie compagne, soprattutto
di quelle più giovani, che non avevano ancora imparato qual era il
momento giusto per tacere prima di sembrare gallinelle in una
fattoria.
«Meg,
tu cosa indosserai al ballo mascherato?»
Ah,
sì, la mascherata di Aprile. Si organizzavano sempre feste di quel
tipo all'Opera, e quell'anno sarebbe stato in vista
dell'inaugurazione del nuovo lampadario. Quante cose erano mutate da
quando era caduto, quasi un mese e mezzo prima! Caduto, poi… Ero
sicura che Erik centrasse qualcosa, anche se lui non lo aveva mai
ammesso apertamente. E quando mai diceva la verità?
Con
Erik non si può mai sapere, rammentai
le parole di Christine, e fui costretta a darle ragione. Sperai
solennemente che quella volta non avesse in mente di far cadere altri
lampadari, altrimenti lo avrei strangolato con le mie mani.
«Ho
una mezza idea» risposi a Cécile Jammes e a Claudine Tholomyès,
che annuirono tutte eccitate.
«Io
mi vestirò da farfalla» dichiarò a gran voce Louise, e un coro di
“ooooh”
seguì alla sua proclamazione. Tutte ci immaginammo il suo abito da
mascherata, e solo io mi vidi costretta a reprimere un sorrisetto.
«Io
da fata dell'acqua. Con mia madre ho già comprato il vestito e tutto
il resto» disse Fabienne. Un'altra serie di “ooooh”
dalle allieve più piccole.
«Io
ho in mente qualcosa di sensazionale» esclamò Juliette con un
sorriso segreto, «ma non vi dico nulla. Dovrò chiedere l'aiuto di
Madame Soirée, però.» Madame Soirée era la nostra costumista e
truccatrice, una sorta di seconda madre per noi tutte ballerine,
sempre impegnate ad entrare ed uscire fuori da tutù di tulle e a
spalmarci sul volto creme colorate e stravaganti. «Già mi sta
cucendo l'abito. Meg, dovresti affrettarti anche tu se vuoi il tuo
abito in tempo.»
«Madame
non deve cucirmi niente, solo rammendarmi un certo tutù. Vi avevo
detto che ho una mezza idea.»
«Ma
non hai intenzione di dirci nulla in proposito» concluse Juliette
con un sorrisetto.
Scossi
il capo. Ne avevo già parlato con mia madre, che aveva promesso di
dire due parole a Madame Soirée per procurarmi il vestito, a cui
sarebbe servito solo qualche ritocco. La cosa più difficile sarebbe
stata il trucco, ma avevo fiducia in lei. Con il favore di mia madre,
che era sua amica, avrei avuto un trattamento speciale. Era la prima
volta che approfittavo della posizione di Antoinette, se non si conta
l'uccellino
che
mi aveva aiutato a diventare corifea anni prima. Sibilai di rabbia al
pensiero – che nervi.
«Chissà
come si vestirà la Sorelli» sospirò Jammes, e gli occhi di tutte
si posarono sulla prima ballerina, che si stava riscaldando alla
sbarra.
«Chissà
se avrà il coraggio di ballare pubblicamente col conte Philippe de
Chagny» si chiese Louise, dando voce ai pensieri di tutte. Si udì
un sospiro unanime.
«Non
credo. La loro storia d'amore è segreta» obiettò Fabienne in un
sussurro.
«Ma
se lo sanno tutti» commentai io, tagliente.
«Io
lo trovo romantico» disse Louise con occhi sognanti.
«Io
lo trovo patetico» replicai in tono mordace. «Tutte queste
etichette da nobile con la puzza sotto il naso… Ridicolo. Il conte
non dovrebbe vergognarsi di frequentare la Sorelli.»
«Ma
è così che va nell'alta società. Malgrado tutto, Ilaria rimane una
ballerina, e lui un conte» spiegò Juliette con un pizzico di
tristezza.
«Ne
sono consapevole. Ma continuo a trovarlo ridicolo. Non riuscirei a
vivere una storia in quel modo, a meno che non sia insignificante.»
Ripensai
alle mie scappatelle passate con Luc, a come non mi fossi curata di
ciò che la gente poteva dire di me. Ricordai anche che non potevo
biasimare la Sorelli se voleva mantenere un segreto come tale: io
stessa nascondevo qualcosa d'importante a Christine e mia madre. Mi
vergognai al pensiero e tacqui, lasciando parlare le mie amiche
liberamente.
Avevo
trovato l'idea giusta per un abito da mascherata ripensando a quel
che mi piaceva di più: la stessa danza. Il mio cuore si librava come
un colibrì al solo pensiero de Il
lago dei cigni,
da sempre il mio balletto preferito. Come spesso mi accadeva, non
m'interessavano tanto i personaggi principali quanto quelli di
contorno: mi ero fatta molte domande su quello di Odile, per esempio.
Mi ero sempre chiesta cosa provasse lei, il cigno nero, in tutta
quella situazione – se fosse o meno innamorata del principe. La sua
crudeltà mi affascinava, così come il modo seducente di ballare.
Era il lato oscuro di Odette, il cigno bianco, virginale ed elegante
e pura come la neve. Sì, avete indovinato, Monsieur Leroux: era
proprio da cigno nero che volevo mascherarmi, e avevo fatto ricucire
su mia misura un vecchio costume di scena non più utilizzato da
Madame Soirée, la quale mi aveva promesso un sensazionale trucco per
gli occhi e il viso. Avevo poca vanità, non essendo mai stata bella,
ma quella sera volevo splendere, come Odile al posto di Odette:
volevo avere su di me gli occhi di tutti – se non per la mia
(inesistente) bellezza, almeno per quella della mia mascherata.
Avevo
intenzione di recarmi al ballo senza che nessuno sapesse in anticipo
che costume avrei indossato, per vedere se qualcuno mi avrebbe
riconosciuta. Era uno scherzo che valeva la pena di fare – una
risata alla faccia delle mie compagne del corps
de ballet
mi avrebbe fatto bene.
Poi
pensai che Erik indossava una maschera da tutta la vita, e i miei
pensieri si arrestarono come un corso d'acqua costretto in un argine
a fluire sempre nella stessa direzione. Balli in maschera come quelli
erano le uniche occasioni in cui il volto che indossava tutti i
giorni per nascondere quello vero sarebbe passato inosservato. Ebbi
un'intuizione e mi chiesi se avrebbe fatto una comparsa al ballo.
Forse, se anche Christine fosse stata presente… e il visconte?
Quella
poteva essere la genesi di una catastrofe, ma non sarei stata io a
dargli l'idea per generarla.
Tra
le lezioni di pianoforte, quelle di danza e i vari spettacoli che
s'intrecciavano alla trama, avevo poco tempo per parlare con
Christine, che tra l'altro si divideva tra Raoul e il suo insegnante.
Attendevamo entrambe con ansia il momento in cui il visconte sarebbe
partito per la spedizione al Polo: solo allora Erik avrebbe compiuto
la sua mossa finale. Scacco
matto al re,
pensai. Saremo riusciti davvero – io, Christine e il Persiano – a
fermarlo prima che fosse troppo tardi? Speravo di sì, e mi tenevo
sull'attenti, così come Monsieur Nadir. Lo incrociai un paio di
volte nel foyer della danza, in particolare una sera dopo una
memorabile interpretazione di Christine ne La
Jueve,
ma in pubblico fingeva sempre di non conoscermi. Al massimo mi
rivolgeva un cenno serio ed educato, ma lo sguardo che mi lanciava
era pieno di sottintesi. Non
siamo al sicuro. Nessuno di noi lo è. Non fino a quando questa
storia non sarà finita.
Questo dicevano i suoi occhi di giada, particolarmente espressivi.
Dopo
la sua esibizione ne La
Jueve,
trovai Christine nel suo camerino, che un tempo era appartenuto alla
Carlotta. Probabilmente aspettava il visconte od Erik (al quale
apparteneva la notte), ma fu lieta di vedermi.
«Hai
intenzione di venire al ballo in maschera?» le chiesi dopo i saluti
di convenuto. Strano, non erano mai servite quelle formalità tra
noi. Ma in quel momento sapevamo che dovevamo fingere, perché
qualcun
altro
poteva essere in ascolto.
«Forse
sì, ma non ti dico da cosa mi vesto.»
«Nemmeno
io. Voglio vedere se riuscirai a riconoscermi.»
Sorridemmo
entrambe, ma era un sorriso venato di tristezza: Christine non mi
rivelava la sua mascherata per timore che Erik ascoltasse e la
riconoscesse con facilità tra gli ospiti dell'Opera.
«Come
va con Raoul?» le chiesi, non sapendo se mi avrebbe risposto.
«Meravigliosamente.
Ci vediamo tutti i giorni. Gli ho mostrato ogni centimetro di questo
teatro, o quasi.»
La
immaginai, regina di quel regno, trascinare con sé il suo
cavaliere–amante per le passerelle e i corridoi nascosti
dell'Opera. Era un amore fresco e giovanile, il loro: sereno
e
al contempo venato di malinconia. Ricordai uno dei nostri
divertimenti preferiti, prima
– coccolare i cavalli delle stalle a forza di dolciumi, dando a
ciascuno di loro un nome diverso. Di nuovo, mi salì alle labbra un
sorriso mesto. Probabilmente non avrei più fatto niente del genere
con lei, dopo la fine di quella storia scritta nella tragedia.
«Ti
voglio bene» proruppi inconsapevolmente. Allora lei, con le lacrime
agli occhi, mi abbracciò. Non ci fu bisogno di dire altro. Come
sempre, Christine capiva i miei sottintesi.
Non
andare via da me. Non morire.
Ma
nessuno poteva prevedere il futuro, tanto meno io che lo temevo.
I
miei passi sulla ghiaia scricchiolavano come sotto i denti, arrivando
alle orecchie con uno stridore.
Sulla
terra ferma ero ancora la cornacchia bruttina, maldestra e
velenosamente sarcastica che tutti conoscevano, ma sul palco mutavo
in un aggraziato cigno – nero, naturalmente. O così credevo.
Erik
mi aveva lasciato un biglietto quel pomeriggio, scrivendo di
incontrarci direttamente nel suo appartamento poiché era “assai
indaffarato”. Sperai che non stesse combinando una delle sue
malefatte e scivolai nel passaggio segreto mostratomi da Figaro,
poiché Erik non mi aveva ancora rivelato quale cardine nascosto
facesse aprire lo specchio nel mio camerino.
Quando
entrai nel soggiorno illuminato dalla luce dell'impianto elettrico da
lui stesso costruito nei sotterranei, lo vidi seduto comodamente
nella sua poltrona preferita, in grembo un lungo telo di stoffa rossa
delle dimensioni di una tenda, destinato a chissà quale uso.
Ma
la cosa più assurda era che stava cucendo – completo di ago e
filo, beninteso – chissà quale disegno sulla tela rossa. Anche con
la maschera, potevo vedere la sua concentrazione.
«Che
cosa
stai
facendo?» chiesi, senza parole.
«Mi
sembra ovvio.»
«Dico,
è questo il motivo per cui ho dovuto remare fin qui da sola?»
«Una
volta tanto non ti fa male. Hai le braccia troppo esili.»
«Guarda
chi parla, sacco d'ossa.» Incrociai le braccia, incurante
dell'occhiataccia con cui mi fulminò. Si era abituato ai miei
scherni, anche se non si innervosiva di meno quando mi rivolgevo a
lui in quel modo irrispettoso.
«Attenta
a come parli, ragazzina.»
Arg.
Odiavo quando mi chiamava in quel modo, come se non fossi sua pari.
Occhio
per occhio, d'altronde.
«Questa
è una vista che ricorderò per sempre: il temuto fantasma dell'Opera
che rammenda come una vecchia comare di paese.»
«Non
me lo farai dimenticare mai, non è vero?»
«Già»
gli assicurai con un sorriso malizioso. «E comunque, guarda il lato
positivo: perlomeno non sono sul
serio calzini.»
«Non
mi deconcentrare.»
«Ti
rammendi i calzini da solo?»
«Credi
che abbia un sarto a portata di mano?»
«Cosa
vuoi che ne sappia, tu sei una continua sorpresa.»
Erik
sbuffò, seppure lievemente divertito. «Sei venuta qui solo per
gongolare o per fare lezione, signorinella?»
Sospirai
e mi sedetti al pianoforte, pronta per esercitarmi sul nuovo brano di
Brahms. Mi fermai, osservandolo cucire ancora sulla poltrona.
«Tu
comincia con gli arpeggi.»
«No,
sul serio, si può sapere che cosa
stai
facendo? Devo preoccuparmi per il benessere di qualcuno o è una cosa
innocente?»
Anche
con indosso la maschera, lo immaginai sollevare un sopracciglio
invisibile. «Guarda qui.» Si alzò e si mise la tela rossa sulle
spalle. Notai che non vi aveva cucito sopra un disegno, ma una
scritta: Non
toccatemi, sono la Morte Rossa che passa…
«A
che altezza devo tagliare la stoffa perché assomigli a un mantello?»
«Diciamo
qui.» Mi alzai e, chinandomi, gli mostrai il punto dove avrebbe
dovuto amputare il largo telo rosso. Ancora una volta, mi meravigliai
di quanto fosse alto.
«Morte
Rossa? Che significa?»
«Dal
racconto di Edgar Allan Poe.»
Sbattei
le palpebre nella mia ignoranza, anche se quel nome non mi era nuovo.
«Proprio
tu che ami le storie del brivido dovresti conoscerlo. Leggi il
racconto.»
«Se
mi presti il libro, anche subito.»
Lui
annuì e, con un cenno del capo, indicò la grande libreria dove
custodiva tutti i suoi tesori letterari. «Ho una prima edizione di
quel racconto, quindi tratta bene il volume. Dovrebbe essere sul
terzo scaffale.»
Era
proprio dove lui aveva detto, una vetusta pubblicazione dalla
copertina vermiglia. Lo aprii e lessi: «La maschera della Morte
Rossa.»
«Conoscendoti,
ti piacerà sicuramente» mi assicurò Erik.
«Perché
ti serve quel costume?» gli chiesi, sebbene in cuor mio già
conoscessi la risposta.
«Per
il ballo in maschera, naturalmente.»
«Hai
intenzione di farvi una capatina in qualità di fantasma dell'Opera?»
O
per seguire Christine? Che ha davvero in mente?
«É
un'occasione imperdibile per uno come me, non trovi?»
Sospirai,
già presagendo il caos che ne sarebbe seguito.
«Se
lo dici tu. Ti terrò d'occhio.»
«Mi
riconoscerai, non temere.»
«Già
immagino. Ma tu non riconoscerai me.» Sogghignai con aria saputa.
«Tu
dici?» disse lui con un sogghigno altrettanto beffardo.
«Vedrai.
Ovviamente non ti rivelo adesso il mio travestimento. È una
sorpresa.» Mi augurai che il mio piano funzionasse, e che al ballo
fossi tanto splendente che nessuno mi avrebbe riconosciuta per
davvero, a parte naturalmente mia madre, la cui etichetta la
costringeva a presentarsi a quell'evento unico, seppure – lo sapevo
– non con particolare gioia.
«Ora
vai al pianoforte, Meg. Abbiamo già perso troppo tempo in
chiacchiere.»
Gli
feci il verso, ma obbedii, per una volta. Aveva ragione. Stava per
scoccare l'ultima ora di quel dramma, ed entrambi ne eravamo
consapevoli.
Il
racconto de La
maschera della Morte Rossa mi
piacque molto, come Erik aveva previsto, ma mi piacquero meno le sue
implicazioni. Una terribile pestilenza – la Morte Rossa, per
l'appunto – affligge una contrada, e il suo principe, Prospero –
un uomo d'animo ottimista e temerario – decide di rinchiudersi nel
suo castello con i suoi concittadini per contrastare la pestilenza. I
convitati trascorrono il tempo tra mascherate e buffoni, fin quando
il principe non indice un ballo in maschera, al quale si presenta un
ospite misterioso, ammantato di rosso sangue e con indosso la
maschera di un cadavere. Il principe aveva fatto costruire sette
camere dai colori diversi, ma solo l'ultima, dipinta di nero, era
evitata da tutti, poiché considerata funesta. Il misterioso ospite
attraversa tutte e sette le camere, intoccato dagli altri convitati
che rimangono perplessi e angosciati di fronte a quell'apparizione.
Nell'ultima stanza, Prospero affronta il mascherato ospite, ma cade
a terra privo di vita, così come, pian piano, tutti gli altri
abitanti del castello. Sotto la maschera non vi è nulla: è infatti
la Morte Rossa, che ora ha il dominio del maniero e regna
nell'oscurità.
Le
implicazioni di quel racconto mi furono subito chiare. La Morte Rossa
era una chiara metafora per la peste, che al tempo dello scrittore
affliggeva la sua America. Erik aveva scelto un costume originale, ma
pieno di sottintesi. Si immedesimava con la Morte al quale tutti lo
paragonavano per il suo aspetto cadaverico con fin troppa facilità;
per evitare di soccombere alla morte, lui
era diventato morte,
un incubo per tutti. Si adombrava di troppi nomignoli per i miei
gusti: il fantasma dell'Opera, il signore delle botole, l'Angelo
della Musica… e ora anche la Morte Rossa.
Questo
non poté che creare domande nella mia mente afflitta: che cosa aveva
davvero in mente? Qual era il suo scopo finale in quella mascherata?
Al ballo lo avrei riconosciuto a colpo d'occhio – probabilmente non
avrebbe neanche avuto bisogno di una maschera, per una volta. Era
triste che quella fosse l'unica occasione in cui il suo viso sarebbe
stato accettabile per la gente che altrimenti l'avrebbe temuto e
scacciato. Come
hai fatto tu quando per la prima volta lo hai visto in volto,
ricordai
con un pizzico di senso di colpa. Se io avevo reagito così, non
potevo immaginare cosa gli avessero fatto le altre persone nella sua
lunga e oscura esistenza…
Non
potevo certo farmi prendere da qualcosa di patetico come la
compassione,
ora. Non potevo permettermelo. Dovevo essere vigile, come in una
missione segreta.
E
lo sarei stata, non ne dubitavo. E neanche Erik avrebbe dovuto.
«Ecco,
tesoro. Un ultimo tocco… Ecco, ora sei perfetta.»
Dischiusi
le palpebre e mi guardai allo specchio. Il giorno del gran ballo era
ormai giunto, ed io ero – secondo i miei desideri –
irriconoscibile. Il mio corpo esile era fasciato in un tutù di
tulle, disseminato di nere gemme preziose, lungo fino alle mie
ginocchia nodose. Le braccia erano coperte da dei guanti di piume
nere e argento che creavano un magnifico effetto, da vero cigno. Ma
il trucco era la cosa più strabiliante: intorno agli occhi avevo due
ombre nere che si allungavano in una delicata volta sulle mia fronte,
bassa e non più corrucciata, a simulare delle piume. Il mio viso
angoloso era coperto di cerone perlaceo, che contrastava con il
bistro della mia pelle naturale. Tra i capelli, tirati in un semplice
ma elegante chignon, vi era una tiara di gemme finte che si
intrecciavano come una corona d'alloro sul mio capo – anch'esse
nere e brillanti. Ero realmente irriconoscibile. Sorrisi, schiudendo
le labbra color corallo.
«Allora,
mia cara, ti piace?»
Annuii
con entusiasmo. «Avete fatto un ottimo lavoro, Madame. Davvero, vi
ringrazio di cuore.» Avevamo impiegato tre ore per raggiungere quel
risultato finale, ma ne valeva la pena. Osservai le mie spalle
scoperte: la pelle butterata dall'acne era nascosta da uno spesso
strato di cerone. Mi sentivo elegante e bellissima, proprio come
Odile.
Madame
Soirée sorrise alle mie spalle, rimirando il suo piccolo capolavoro.
Tutto quel trucco mi aveva davvero trasformata in un bel cigno, cosa
che non ero.
È
una mascherata, pensai,
ma
per una sera l'illusione è ciò di cui ho bisogno.
Mia
madre mi sorrise alle mie spalle. «Sei perfetta, Meg.» Indossava la
sua maschera, anch'essa nera come l'abito che la racchiudeva in un
bozzolo che non raggrinziva malgrado l'età che avanzava. Anche così,
colsi il suo orgoglio e la sua emozione.
«Voglio
proprio vedere cosa diranno Juliette e le altre. Se mi
riconosceranno.»
«Scommettiamo»
disse mia madre con un altro sorriso.
«Affare
fatto» dissi ridendo.
Lasciammo
Madame Soirée ai suoi preparativi per il ballo, non senza prima
professarci in altri mille ringraziamenti, e ci dirigemmo verso il
foyer della danza. Qui mi separai da mia madre, ben attenta che
nessuno mi notasse vicino a lei – così sarebbe stato più
difficile riconoscermi.
Davanti
ai miei occhi dipinti si estendeva l'immensa scalinata centrale
dell'Opera. La sala era un caleidoscopio di colori e suoni rombanti,
che mi danzavano dinanzi prima che potessi afferrarli. Tutti avevano
indosso maschere delle più stravaganti – notai scimmie, demoni,
preti e svariati uccelli variopinti. Discesi i gradini, la gente che
mi faceva largo per cercare di capire chi fossi sotto il trucco.
Tutto vano: il mio anonimato mi permetteva di mantenere il mio status
di ragazza invisibile, sebbene dal mio debutto come Regina delle
Villi in Giselle
la
mia notorietà fosse in qualche modo cresciuta. Al termine della
scalinata individuai due scheletri familiari: i direttori Moncharmin
e Richard, che confabulavano tra loro sorbendo dai dei calici di
champagne. Ne afferrai anch'io uno al volo da un cameriere che errava
reggendo un vassoio. Questi mi rivolsero un inchino, indifferenti che
fossi o meno lì per ascoltare il loro vocio.
«Mi
congratulo con te, Richard» fece Moncharmin, arricciandosi i sottili
baffi grigi da sotto la maschera da scheletro – sogghignai tra me e
me per quella involuta rassomiglianza con il mio amico,
che tanti guai aveva causato loro. «Che soirée.»
«É
quasi un peccato che quel fantasma non sia qui.»
I
due fecero cin
cin con
un risolino nervoso. Sogghignai sotto i baffi: Erik doveva averli
spaventati a morte con il crollo del lampadario. Chissà che faccia
avrebbero fatto i due disgraziati direttori vedendolo arrivare al
ballo mascherato da Morte Rossa. Lo avrebbero riconosciuto? La
descrizione di Buquet era inconfondibile. Scossi il capo, presagendo
il disastro. Erik si stava proprio divertendo alle spalle di
Moncharmin e Richard, estorcendo loro denaro con l'inganno. Avrebbe
avuto bisogno di una lavata di capo in proposito, e non solo su quel
misfatto. Ne aveva compiuti così tanti nel corso di pochi mesi che
ormai avevo perduto il conto.
Avanzai
tra la turba di maschere, mentre la musica di un valzer cominciava ad
allietarmi i timpani. Mi guardai attorno, in cerca di qualche volto
familiare. Riconobbi il gruppo di allieve ballerine, guidate da
Cécile Jammes e Claudine Tholomyés, che cercavano di sfuggire al
controllo delle loro madri per bere di nascosto calici di champagne e
danzare con qualche bel giovanotto in maschera. Si avvidero della mia
presenza e del fatto che le stavo osservando, e mi rivolsero qualche
occhiata divertita. Alzai un sopracciglio. Non mi avevano
riconosciuta.
Che
dire delle mie amiche Louise, Juliette e Fabienne? La prima e
l'ultima parlottavano tra loro, vestite rispettivamente da farfalla e
fata dell'acqua, reggendo raffinatamente tra le dita dei calici di
champagne. In particolare Louise, sembravano essere modellate
appositamente per eventi simili, come delle figurine ricamate con
grande attenzione ai dettagli. Juliette invece splendeva al braccio
di un giovane cavaliere che non indossava una maschera – doveva
essere dunque un nobile, dal momento che solo coloro che avevano
sangue blu nelle vene si abbigliavano normalmente a un ballo
mascherato, o almeno così prevedeva l'etichetta. La mia amica
indossava un abito viola e rosa, decorato di stelle argentate, così
come la corona che le cingeva il capo. Si era vestita da principessa
delle stelle – ecco la sorpresa che voleva fare a me e alle mie
amiche, ed era un incanto. I suoi setosi capelli castani le
scivolavano con grazia sulle spalle nude, mentre agitava le braccia
fasciate da guanti bianchi di raso con eleganza a ritmo del ballo che
suonavano i concertanti. Feci per avvicinarmi a Louise e Fabienne,
curiosa della loro reazione al mio travestimento, quando qualcuno mi
picchiettò un dito su una spalla e mi voltai. Anche abbigliato a
quel modo – da Pierrot, il viso abilmente truccato – ai miei
occhi era inconfondibile.
«Luc»
dissi con un sorriso.
«Pensavi
che nessuno ti avrebbe riconosciuta?»
«Avevo
questa speranza, sì. Più una scommessa con me stessa.»
«Che
hai perso. Che cosa credevi? Meg, ti conosco da quando portavi ancora
le trecce.» Mi offrì il braccio come nulla fosse, invitandomi a
seguirlo sulla pista da ballo. Gli posai una mano sulla spalla,
accettando il suo muto invito. Lui strinse la presa sulla mia vita e
mi fece volteggiare con più grazia di quanta mi sarei aspettata da
lui.
«Dove
hai imparato a ballare?»
«Ho
i miei mezzi.»
«Qualche
tua amica grisette
ti ha dato una mano» indovinai io, scuotendo il capo. Ridemmo
entrambi.
«Mi
sei mancata» sussurrò lui col fare più suadente possibile. «Sei
così impegnata, in questi giorni, da non avere più tempo per un
vecchio amico?»
«A
stento mi rimane del tempo per me stessa» risposi, pensando a quanti
amici in realtà stessi più o meno proteggendo, o perlomeno, del cui
destino mi interessavo al punto da mettere in pericolo il mio.
Christine, mia madre, Raoul, il Persiano, e naturalmente Erik…
Eravamo tutti immischiati in una vicenda assurda, controllata dai
fili di un maestro burattinaio sopraffino.
«Sei
un incanto stasera.»
«Adulatore.
Cosa direbbero i tuoi amici se ti vedessero ballare con una come me?»
«Direbbero
che ho avuto la fortuna di invitare la donna più affascinante di
tutte, e morirebbero d'invidia.»
Risi
in modo leggermente sguaiato. «Vorrai scherzare.»
«No,
non scherzo.» Mi fissò intensamente, e nei suoi occhi scuri lessi
un lampo d'inequivocabile desiderio. Arretrai, senza nemmeno sapere
il perché.
«Cosa
c'è?»
«Mi
gira la testa» mentii prontamente.
«Riposiamoci
un po', allora» propose lui con gentilezza. Ecco, non volevo questo:
non volevo che fosse gentile con me. Che mostrasse dell'interesse
nei miei riguardi. Non quella sera, né mai. Fabienne aveva ragione:
Luc non era abbastanza serio perché io costruissi su di lui delle
speranze di nuvole e nebbia. I castelli in aria di Raoul e Christine
non sarebbero mai stati possibili tra me e Luc: eravamo entrambi
troppo instabili, e alla fine le nostre personalità si sarebbero
inevitabilmente scontrate in un viluppo di lapilli e lava. Luc era un
fuoco divagante, mentre io, come acqua, scivolavo tra le crepe della
notte, invisibile. E il fumo è il solo figlio del fuoco e
dell'acqua. Non volevo che di noi rimanesse solo bragia morente.
«E
quello
chi
è?»
Sollevai
il capo e notai che la turba si stava agitando come un mare in
tempesta, scostandosi e aprendo le sue acque come dinanzi a Mosè in
persona. In lontananza, avvidi un lampo di rosso.
Oh,
non ci posso credere. Ha avuto la faccia tosta di presentarsi
davvero.
Frammezzo
ai capannelli di convitati turbati ed eccitati insieme da
quell'arrivo imprevisto, Erik si muoveva con una certa maestà,
imponente nel suo abito color rubino e nel lungo mantello che gli
danzava sulle spalle come una fiamma viva. Sono
la Morte Rossa che passa, si
poteva leggere a chiare lettere dorate sulla stoffa cremisi. Non
toccatemi. Da
sotto il cappello piumato a grandi falde, intravidi il suo volto –
il suo vero
volto.
Come avevo previsto, e come la Morte Rossa stessa faceva nel racconto
di Poe, non indossava una maschera. Ma questo i convitati non
potevano saperlo. Udii qualche esclamazione di sorpresa, e
addirittura qualcuno che mormorò a un vicino: «Ma chi l'ha truccato
con tanta abilità?»
Perché
di certo quello che si trovavano davanti assomigliava più a un
cadavere in putrefazione che a un uomo in maschera.
La
turba si apriva per lasciarlo passare, in preda alla suggestione,
eccetto per uno scellerato – che riconobbi come Jacques, il
macchinista amico di Luc – palesemente ubriaco, che accettò la
sfida dei suoi compagni e toccò la Morte Rossa. Non l'avesse mai
fatto! Una mano scheletrica gli imprigionò il polso. Udii fin da lì
il gemito di dolore di Jacques, che si allontanò in tutta fretta da
quella figura imponente. Lanciai un'occhiata ai due direttori,
divenuti lividi: sicuramente nel vedere quel cadavere avevano pensato
al fantasma dell'Opera e a tutto ciò che si diceva sul suo conto, e
le lettere che – lo sapevo – aveva loro scritto con l'inganno. La
Morte Rossa sembrava cercare qualcosa, o qualcuno.
Perlustrava
la sala in silenzio, e io seppi subito a chi dava la caccia. Provai
l'impellente desiderio di avere mia madre accanto a me, ma in quella
folla sarebbe stato più semplice trovare un ago in un pagliaio.
Mi
scostai da Luc, mormorando una scusa.
«Ehi,
Meg, dove vai?»
Ero
come trasognata. Mi facevo largo tra la folla e il fragore dei
festeggiamenti come un'anima disperata che cerca di arrivare, a
tentoni, alla riva tanto anelata. Quando raggiunsi la mia meta, osai
sfiorare una spalla ammantata di rosso.
«Cerchi
qualcosa?»
Lui
si voltò, e vidi per la seconda volta la sua spaventosa deformità.
Deglutii d'istinto, ma non distolsi gli occhi. Lui serrò i suoi per
qualche attimo.
«Meg?»
Annuii
con un inchino beffardo.
«Al
tuo servizio, Erik.»
«Per
questa sera sono solo la Morte Rossa.» Si limitò a squadrarmi –
e, se avesse avuto un sopracciglio, immaginavo che lo avrebbe alzato
nel rimirarmi.
«Ti
ho riconosciuta dalla voce. Stasera sei…» inclinò il capo, come
intento a trovare la parola giusta, «… molto graziosa.»
Mi
sentii avvampare le guance. Che stupida.
«Tu
sei… beh, elegante.» Ridacchiai nervosamente. Mi sentivo sempre
più stolta ogni minuto che passava.
Era
strano, non avevo provato quelle sensazioni così bizzarre con Luc.
Era come avere un'altalena nello stomaco. Mi feci coraggio e gli
offrii un braccio: «Danzeresti con me, Monsieur?»
Lui
aprì la bocca, ed era evidente sul suo viso la sorpresa. Senza
maschera, per lui era difficile nascondere le emozioni.
Semplicemente, non vi era abituato.
«Inviti
a ballare molti cadaveri viventi in cerimonie simili?»
«C'è
sempre una prima volta.»
Lui
saggiò la mia mano tesa verso di lui e la mia figura ammantata di
nero e piume, in attesa. Mi serrò le dita in una stretta lievissima,
ma avvertii ugualmente un brivido – e non ero sicura che fosse
dovuto soltanto al gelo della sua pelle morta.
«E
va bene» lo udii mormorare.
Lo
trascinai sulla pista da ballo, incurante dei sussurri e degli
sguardi incollati su di noi. Dovevamo sembrare proprio una strana
coppia.
I
musicisti fecero per attaccare con un valzer di Tchaikovskij che
conoscevo bene.
«Dovresti
fare
qualcosa»
gli sussurrai, avvicinandomi alla sua figura imponente – forse era
per via del cappello, ma mi pareva più alto del solito – e
prendendo le sue mani scheletriche tra le mie, in sé per sé
alquanto magre. Non sapevo cosa stavo facendo: cosa avrebbero detto
mia madre e Luc dopo avermi vista ballare con la Morte Rossa? E
Christine, se era presente? Ma non m'importava. Agii d'istinto, come
mio solito. Avrei pensato alle conseguenze più tardi. Ora mi
concentrai sulla debole presa di Erik attorno al mio vitino esile.
Ballammo
come in un sogno. Ero stranamente cieca e sorda a tutto ciò che non
fosse Erik e la musica che mi riempiva le orecchie e il cuore.
Volteggiammo più lentamente delle altre coppie, senza notare che si
era formato un vuoto attorno a noi. Eravamo come soli sulla pista da
ballo.
«Ti
sei mascherata da Odile.»
Annuii
con un sorrisetto.
«Bella
trovata» mi sussurrò lui all'orecchio. Rabbrividii e lo strinsi più
forte a me, posando il capo sul suo petto. Per qualche minuto, volevo
fingere che non fossimo
noi
a danzare: non Erik e Meg, ma due estranei che si erano incrociati a
un ballo in maschera – la Morte e il Cigno… e nient'altro – per
pochi minuti – nient'altro aveva importanza.
Non
sapevo perché lo volessi, non ero brava a leggermi dentro.
Rincorrevo i miei capricci con la voluttà della bambina che ero
stata un tempo, tutta ginocchia sbucciate e fango sul vestito per
andare in chiesa. La ragazzina brufolosa, con le trecce e le pelle
scura che combatteva i demoni nel sonno mordendo il cuscino di notte
e danzando di giorno. Quella notte ero Odile, bella e splendente e
spietata, e nel mio valzer trascinavo la pericolosa Morte Rossa –
maestosa, spettrale, terribile a vedersi. Stringevo a me l'uomo con
la voce più bella del mondo e il volto più mostruoso come se fosse
cera e dovesse sciogliersi nella mia presa; come se il sogno fosse
appena a un passo dalla fine.
«Perché
questa farsa, Meg?»
«Perché
tu hai accettato?»
Rimanemmo
muti. Sì, sarebbe stato bello, per una notte, fingere che il mio
cavaliere fosse un semplice uomo in maschera, e che il nostro sogno
sarebbe durato più di qualche minuto rubato. Ma lui era Erik, era
proibito,
e
io mi sentivo come Eva di fronte all'albero della conoscenza del bene
e del male. Non
mangiarne, perché alla fine ne moriresti. Ma
io ne stavo assaggiando un frutto succoso, e il pericolo mi
rincorreva dappresso.
Il
mio cavaliere ed io ci guardammo negli occhi – io avevo chiuso i
miei per non vedere il suo volto, l'unica in quella sala a sapere che
era reale
e
non un'abile mascherata – e il valzer si concluse. Gli stringevo
ancora le mani.
Lui
sembrò intravedere qualcosa sulla distanza, perché i suoi occhi
gialli e profondamente infossati d'un tratto si accesero. «Devo
andare. Mi dispiace.»
Mi
piantò in asso sulla pista da ballo, e io mi sentii perfettamente
idiota. Ignorai gli sguardi sconcertati degli altri convitati su di
me – in fondo, avevo osato toccare (e danzare!) con la Morte Rossa
– e seguii la scia scarlatta che mi si dipanava dinanzi come uno
dei gomitoli di Figaro. Sapevo chi aveva avvistato e riconosciuto.
Christine,
mi
dissi, in preda al timore.
Lo
raggiunsi e lo afferrai per un braccio. «Non osare…» esordii, ma
lui si scostò con facilità dalla mia presa e seguì una figura
abbigliata di nero, che stringeva la mano di un'altra sagoma, questa
volta bianca. Il
visconte, intuii.
Attraversammo il foyer della danza – io sempre alla calcagna di
Erik, come un cane da caccia – e le scale che portavano su, sempre
più su, fino al tetto dell'Opera. Qui Erik, non appena comprese la
meta dei due giovani amanti mascherati, mutò strada così
bruscamente che quasi dovetti correre per non perderlo di vista.
S'infilò tra svariate passerelle del sovrappalco – io che lo
seguivo col fiatone – per poi correre fin sul tetto, dove infine si
arrestò, arrampicandosi dietro la statua dorata di Apollo con la sua
lira. Quest'ultimo rivolgeva le braccia al cielo, come in una muta
invocazione. Erik aveva superato delle vie traverse e più rapide per
arrivare al tetto e nascondersi prima che Christine e Raoul ne
avessero l'occasione. Qui avrebbe potuto spiarli e agire di
conseguenza.
Io,
ai piedi della statua, gli tirai il mantello.
«Scendi
subito di lì!» mugugnai tra i denti, rabbiosa. «Che cosa hai in
mente di fare?»
«Non
sono affari tuoi, Meg. Torna al ballo.»
«Non
puoi darmi ordini, mi hai sentito? Io non me ne vado finché non
scopro che intenzioni hai.»
Lui
emise un sibilo. «Meg…»
Allora
feci una cosa molto coraggiosa e molto stupida – frase che poteva
riassumere perfettamente la mia vita: feci per arrampicarmi anch'io
sulla statua, ma mi mancava l'agilità di Erik. Inoltre le scarpe che
indossavo in quel momento non erano adatte ad una scalata di quel
genere.
Erik
se ne accorse e per poco non si mise le mani tra i capelli.
«Che
diavolo
stai
facendo?»
«Ti
impedisco di fare qualche assurdità di cui ti pentiresti!» sbuffai
– non ero arrivata neanche a metà e già non mi sentivo più le
braccia dal freddo.
Erik
scosse la testa e si calò dalla statua con una facilità che beffava
i miei sforzi, poi mi avvolse nel mantello rosso. Solo allora smisi
di tremare.
«Tu
sei pazza.»
«Da
che pulpito.»
Mi
fece segno di tacere quando Raoul e Christine ci raggiunsero. Ma non
potevano vederci, eravamo ben nascosti dietro la statua.
I
due giovani cominciarono a parlottare tra loro. Erik tese le
orecchie. Io gli diedi un pugno sul braccio.
«Quel
che stai facendo è sbagliato!»
Mi
tappò la bocca con una mano. «Silenzio. Sto cercando di ascoltare.»
Mi
divincolai dalla sua presa e mi trattenni a stento dallo sputargli in
faccia. Lui mi strinse a sé come una bambolina, impedendomi di
muovermi e avvertire così Christine e Raoul di quella presenza
indesiderata. I due giovani sembravano veramente certi di essere al
sicuro, lassù.
«Se
avete paura di lui, vi nasconderò. Vi terrò in salvo in un posto
che conosciamo solo noi, dopodiché partirò per il Polo, dal momento
che voi mi avete detto che non vi sposerete.»
Così
parlava Raoul, tendendo le braccia verso Christine. Lei, che finora
era stata la più forte tra i due, si abbandonò nel suo abbraccio.
La
notte li avvolgeva come il cielo nero faceva con le stelle di
diamanti spezzati. Una brezza di primavera scuoteva l'abito di
Christine, un semplice domino nero, e il manto del visconte, questa
volta bianco. Pur essendo nobile, si era travestito a una mascherata,
certo di non esservi riconosciuto e per amore di Christine, che
sicuramente aveva organizzato quell'appuntamento segreto.
«Ma
se non mi rivelerete il mistero della voce maschile, potrei
commettere qualche follia. Per esempio, non partire per il Polo.»
Sentii
Christine emettere un'esclamazione di sgomento, ed Erik irrigidirsi
accanto a me.
«Tacete!
In nome del cielo, tacete. Se lui
vi
sentisse, povero Raoul!»
«Vi
sottrarrò al suo
potere,
Christine, ve lo giuro! E, ciò che più conta, finirete per non
pensare più a lui.»
«É
possibile?» chiese la fanciulla. Anche da quella distanza potevo
notare il suo pallore, ora che si era tolta la maschera. Poi annuì,
stringendo le mani del giovane. «Presto andremo più lontano e più
veloci delle nubi, dopodiché mi abbandonerete, Raoul. Ma se, quando
sarà giunto per voi il momento di portarmi via, non dovessi più
acconsentire a seguirvi, ebbene, Raoul, voi dovrete trascinarmi con
la forza!»
Christine
disse queste parole con sconcertante determinazione, mentre si
stringeva forte al visconte.
«Temete
dunque di cambiare idea, Christine?»
«Non
lo so» disse lei in tono strano, scuotendo mestamente il capo. «É
un demonio!»
Ebbe
un brivido. E così anche Erik al mio fianco.
«Ora
ho paura di tornare a vivere con lui, giù nella terra!»
«Cosa
vi costringe a tornarci, Christine?»
«Se
non sono al suo fianco, possono accadere grandi sciagure! Ma non ne
posso più – non
ne posso più! So
che bisogna avere pietà… Ma lui è troppo orribile! E intanto il
momento si avvicina: mi rimane un solo giorno! E se non ci vado, sarà
lui a venirmi a cercare con la sua voce. Mi trascinerà con lui, da
lui, sotto la terra, e si metterà in ginocchio davanti a me, con la
sua testa di morto! Mi dirà che mi ama! E piangerà! Ah, quelle
lacrime, Raoul! Quelle lacrime nei due buchi neri della testa di
morto – non posso più veder scorrere quelle lacrime!»
Christine
si tormentò orribilmente le mani, mentre Raoul, contagiato da quella
disperazione, la stringeva sul suo cuore: «No, no! Non lo sentirete
più dire che vi ama! Non vedrete più colare le sue lacrime!
Fuggiamo… Christine, fuggiamo subito!» E fece per trascinarla via
sul serio.
Ma
lei lo fermò.
«No,
no» disse scuotendo dolorosamente il capo, «non ora! Sarebbe troppo
crudele… Lasciate che mi senta cantare ancora domani sera, per
l'ultima volta… e poi ce ne andremo. A mezzanotte verrete a
prendermi nel mio camerino; a mezzanotte in punto. In quel momento,
lui mi aspetterà nella sala da pranzo sul lago… Saremo liberi e
voi potrete portarmi via! Anche se rifiutassi, dovete giurarmi che lo
farete, Raoul… perché sento che questa volta, se torno laggiù,
forse non ne uscirò mai più!»
Povera
Christine! E
povero Erik, pensai
al figuro che accanto a me tremava. Lei aggiunse: «Non potete
capire!» Ed emise un sospiro al quale dietro di lei un altro
sospiro, più lieve, aveva risposto. La giovane batté i denti. «Lo
avete sentito?»
Io
lo avevo udito benissimo. Era il sospiro del cuore di Erik.
«No»
assicurò Raoul, «non ho sentito niente…»
«É
troppo terribile» confessò Christine, «tremare tutto il tempo in
questo modo! Eppure qui non corriamo alcun pericolo; siamo in casa
nostra, in casa mia, all'aria aperta… Non l'ho mai visto all'aria
aperta – deve essere orribile!»
Non
ti sbagli su questo, pensai,
senza il coraggio di alzare gli occhi sul volto smascherato di Erik
al mio fianco.
Christine
voltò su Raoul i suoi occhi grandi, limpidi e azzurri – e
smarriti. «Ah, la prima volta che l'ho visto… credevo che stesse
per morire…!»
«Perché?»
chiese Raoul, che appariva realmente spaventato. «Perché avete
creduto che stesse per morire?»
«Perché
l'avevo visto!»
Christine
si coprì le orecchie con le mani. «Anche quando non c'è, le mie
orecchie sono piene dei suoi sospiri… Tuttavia, se avete udito
anche voi, Raoul…»
I
due giovani si guardarono intorno. L'unica cosa che mi tratteneva
dall'andare da loro e urlare del pericolo che correvano era la
stretta di Erik attorno alla mia spalla e il timore di causare più
danni che altro. Allora ci sarebbe stato un confronto diretto tra
Erik e il visconte, e questa era l'ultima cosa che volevo. Erik
avrebbe potuto ucciderlo
solo
perché aveva osato innamorarsi di Christine Daaé, e lei lo amava di
ricambio.
Rivolsi
un'occhiataccia al mio amico.
E
fu allora che Christine si decise a raccontare la verità a Raoul.
Gli parlò nello stesso modo in cui aveva parlato a me appena
liberata dalle due settimane di prigionia: gli raccontò di come
avesse udito per la prima volta la voce dell'Angelo della Musica e
delle loro lezioni, delle rassicurazioni di Mamma Valerius, della
gelosia della Voce non appena Raoul aveva fatto la sua comparsa… E
poi la sera – la sera del gracidio della Carlotta e della caduta
del lampadario – in cui l'aveva rapita e in cui si era svelato a
lei come un uomo. “Non sono né angelo, né genio, né fantasma.
Sono Erik.” Così le aveva detto.
Raoul
aveva fatto per alzarsi quando un nuovo sospiro aveva invaso l'aria,
ma Christine lo aveva trattenuto con forza. «Dobbiamo parlare qui!
Bisogna che sappiate tutto, e che lo sappiate qui!»
«Ma
perché qui, Christine? Ho paura che il fresco della notte possa
nuocervi.»
«Dobbiamo
temere soltanto le botole, amico mio, e qui siamo al di sopra del
mondo delle botole… Non ho il diritto di vedervi fuori dal teatro,
e non è il momento di contrariarlo… Non destiamo i suoi sospetti.»
«Christine,
qualcosa mi dice che sbagliamo ad aspettare domani sera e che dovremo
fuggire subito!»
«E
io vi dico che, se non mi sente cantare domani sera, ne proverà un
infinito dolore.»
«É
difficile non causare dolore ad Erik e abbandonarlo per sempre.»
«In
questo avete ragione, Raoul, perché è certo che morirà a causa
della mia fuga…» Poi aggiunse con voce sorda: «Ma la partita è
alla pari… giacché rischiamo che lui ci uccida.»
«Vi
ama fino a questo punto?»
«Fino
al delitto!»
«Ma
il suo rifugio non è introvabile. Possono andarlo a prendere. Dal
momento che Erik non è un fantasma, possono parlargli e per giunta
costringerlo a rispondere.»
Christine
scosse la testa: «No, no! Non si può nulla contro Erik! Si può
solo fuggire!»
«E
come mai allora, potendo fuggire, siete tornata da lui?»
«Perché
era necessario… Lo capirete quando saprete in che modo ne sono
uscita…»
«Ah,
come lo odio!» esclamò Raoul. «E voi, Christine, ditemi… ho
bisogno che me lo diciate per ascoltarvi con maggior calma… e voi,
lo odiate?»
«No»
si limitò a rispondere Christine.
«Eh,
perché tante parole! Voi l'amate di certo! La vostra paura, i vostri
terrori, tutto questo è amore, e del più delizioso. Di quelli che
non si confessano» spiegò Raoul con amarezza. «Di quelli che,
quando ci pensate, vi fanno venire i brividi… Pensate un po', un
uomo che dimora in un palazzo sotto terra!»
«Dunque
volete che ci torni!» interruppe Christine, brutale. «State
attento, Raoul, ve l'ho detto: non ne tornerò mai più!»
Un
silenzio terribile cadde su noi quattro, che tendevamo le orecchie,
muti, verso il canto inudibile della notte.
«Prima
di rispondervi, desidererei sapere quale sentimento vi ispira, dal
momento che non lo odiate.»
«Orrore!»
disse Christine – e qui vidi Erik stringersi una mano al petto,
come per afferrare il proprio cuore straziato.
«É
proprio questa la cosa più terribile: ne ho orrore, ma non lo odio.
Come posso odiarlo, Raoul?»
E
qui Christine continuò il suo racconto, che proseguì imperturbato
fin quando non arrivò allo smascheramento di Erik: a Raoul sfuggì
un'imprecazione e una minaccia quando Christine gli disse che Erik
aveva osato tirarle i capelli e conficcarsi le unghie di lei sul
viso, straziandosi ancora di più la carne di morto.
«Basta!
Basta!» interruppe Raoul, «lo ucciderò! Lo ucciderò! In nome di
Dio, Christine, dimmi dove si trova l'appartamento sul lago! Devo
ucciderlo!»
«Oh,
taci, Raoul, se davvero vuoi sapere!» E la giovane donna continuò
il suo racconto, che mi fece rammentare tutto l'orrore e la
disperazione che era Erik e che il suo straordinario essere poteva
suscitare negli altri. Gli riservai l'ennesima occhiataccia.
Quando
alla fine rivelò a Raoul come fosse riuscita a convincere Erik che
sarebbe tornata, il visconte gemette: «E voi siete tornata,
Christine. E avete detto: “Povero Erik!”»
«Dubitate
ancora dell'amore che vi porto, Raoul? Sappiate allora che ogni mio
viaggio da Erik ha aumentato il mio orrore per lui, poiché ciascuno
di quei viaggi, invece di placarlo come speravo, l'ha reso sempre più
pazzo d'amore! E ho paura – ho paura!»
«Avete
paura… ma mi amate? Se Erik fosse un gentiluomo, mi amereste,
Christine?» Senza saperlo, il visconte le aveva posto la stessa
domanda che le avevo fatto io il giorno in cui mi aveva raccontato
tutta la storia dal principio.
Christine
si voltò, turbata. «Sciagurato! Perché tentate il destino? Perché
domandarmi cose che nascondo in fondo alla mia coscienza come si
nasconde il peccato?»
Christine
e Raoul, in piedi accanto alla statua della lira di Apollo, si
strinsero tra loro. Poi Christine allacciò le belle braccia tremanti
attorno al collo del giovane: «O fidanzato di un giorno, se non vi
amassi, non vi offrirei le mie labbra. Per la prima e ultima volta,
eccole.» Lui le prese, ma un urlo straziante interruppe il bacio tra
i due, che si affrettarono a correre via, come due bestiole
spaventate.
Non
importava che Christine avesse espresso la sua pietà per lui, di
nuovo;
il suo orrore per le azioni che poteva compiere era più grande. Il
disdegno per l'averla rapita e resa prigioniera e ingannata e
aggredita e minacciata non poteva svanire col tempo. Ma Erik credeva
si trattasse della sua maledetta deformità. Non capiva. Si era
ripiegato sulla statua, una bestia in rosso, il viso orrendo rigato
di lacrime di tristezza e rabbia e odio.
«Come
ha potuto?» mormorava. «Dopo tutto… io
l'ho creata! Io le ho dato la voce! E lei mi ha tradito!»
«Aveva
già una voce, Erik. E non ti ha tradito: non è mai stata tua»
risposi con calma. Lui emise un singhiozzo di rabbia.
«Erik…»
mi avvicinai a lui, posandogli una mano sulla spalla. Lui si scostò
via con una brutalità che con me non mostrava più da tanto tempo.
«Erik,
cosa hai intenzione di fare, adesso?»
Adesso
che Christine aveva deciso di fuggire da lui…
Lui
mi rivolse uno sguardo spettrale, reso ancor più demoniaco dai suoi
occhi di brace nella notte oscura. Sembrava davvero la Morte, pronta
per la vendetta.
«Ebbene.
Dichiaro guerra a entrambi. E se tu cercherai di intrometterti, Meg
Giry… Beh, non te lo consiglio, mia cara.» Si aprì in un
sogghigno orrendo.
«Non
esiste più nessun Erik. Solo il fantasma.»
Deglutii
e seppi che era la fine. Non potevo più fermarlo. Qualunque cosa
avesse in mente, avrebbe dovuto fare il suo corso.
Non
mi era mai apparso meno umano, e allo stesso tempo più straziato dal
dolore. Quest'ultimo lo aveva accecato, rendendolo folle di
disperazione. Già se ne poteva vedere un baluginio nelle sue pupille
dorate.
Ed
è solo l'inizio, mi
dissi in un brivido.
Note
dell'autrice:
*
Il vestito da principessa delle stelle di Juliette è ispirato
all'abito che indossa Christine durante la sequenza del ballo in
maschera nel musical di Andrew Lloyd Webber. Biscottino a chi lo
aveva indovinato già.
Allora,
rieccomi. Questa volta c'è il ballo in maschera! Ho sempre adorato
il costume da Morte Rossa di Erik, e le sue implicazioni. Secondo me
quello del film del 2004 non rende affatto giustizia all'originale.
Voi che ne pensate? :)
Sono
emozionata nel dirvi che la prossima volta che aggiornerò, fra due
settimane, sarò – finalmente! – diplomata. A meno che non mi
boccino o faccia scena muta all'esame orale. :/
Dovete
sapere che, per problemi di salute, ho lasciato il liceo al quarto
anno. Quando sono stata meglio, ho deciso – non senza riserve –
di ricominciare a studiare, a vivere, malgrado il male che mi aveva
rovinato l'adolescenza. Sono trascorsi tre anni, ad Agosto ne compirò
ventidue: è da quando ne avevo diciannove che scrivo questa storia,
per me così importante, e ancora più importante è stato per me
pubblicarla qui e trovare un'accoglienza così entusiasta! Vi
ringrazio di cuore :3
bibliofila_mascherata:
Sappiamo già che Erik morirà, alla fine, e questa cosa uccide anche
me. Ma non posso farci nulla. :( Vediamo se riuscirà a ricevere un
po' d'amore e felicità nel tempo che gli resta, che ne dici?
(Comunque no, mi odierai. Li farò soffrire tutti tantissimo.
MUHAHAHA *risata maniacale alla Erik*)
Malinconica:
In questo capitolo i sentimenti di Meg si fanno più forti, ma
lei è testarda e non lo ammette neanche a se stessa, proprio per
l'illogicità di tali emozioni. Che ne pensi del costume da Cigno
Nero di Meg? Ho sempre amato quel balletto.
Curiosità:
sebbene io e Meg condividiamo qualcosa, e spesso siamo sulla stessa
lunghezza d'onda, abbiamo due caratteri molto diversi. Lei è
impulsiva, sarcastica, audace e pratica; io sono molto più timida, e
vivo nel mondo delle meraviglie. Spero che la mia influenza su questo
personaggio non nuoccia alla sua caratterizzazione. Però mi diverto
un mondo a scrivere di qualcuno così diverso da me. :D
Alla
prossima, e pregate per me e per i miei esami! (bibliofila cara,
anche tu hai la maturità classica quest'anno, giusto? In bocca al
lupo anche a te! :*)
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Capitolo 22 *** Un colpo magistrale del signore delle botole. ***
xxi.
un colpo magistrale del signore delle botole
Tamburellavo il piede sul pavimento in un ritmo stonato, mentre la luce della lampada gettava lame d'oro vivo sulle pareti dell'appartamento sul lago. Il salotto non era mutato dai lontani giorni di convalescenza che avevo trascorso in quella casa assurda: il grande pianoforte era ancora lì, e mi attendeva senza che potessi rispondere al suo richiamo. Ero certa che quella sera Erik non fosse in vena di impartire alcuna lezione di musica.
Ero scivolata nel passaggio segreto di Figaro, attraversando i bui recessi dell'Opera e il lago di piombo, ma nell'appartamento non avevo trovato nessuno ad attendermi. Cosa che mi preoccupava e mi innervosiva insieme. Cosa stava combinando adesso il mio “maestro”? Dove era finito?
Il mio allarme non cessò che quando udii un rocambolesco suono di passi e qualcuno trascinarsi sul selciato della riva lacustre, all'esterno dell'appartamento. Balzai in piedi. Eccolo che tornava, e Dio solo sapeva come aveva impiegato il suo tempo in quelle ore di assenza.
Contrassi la fronte: quel suono di passi mi parve strano, come una nota sgorgata da una corda male accordata del pianoforte. Un suono distorto che non apparteneva al passo felpato di Erik, che ormai conoscevo bene quanto il mio.
Quando fece il suo ingresso in soggiorno, notai che praticamente si trascinava sul pavimento, arrancando come un animale ferito. Zoppicava. Erik che zoppicava? Qualcosa non tornava.
Mi vide, in piedi nel bel mezzo del suo soggiorno, e sbuffò con esasperazione. La sua voce, di solito limpida, era arrochita. «Che diavolo ci fai tu qui?» mi chiese con asprezza. Poi aggiunse, come ripensandoci: «Perché mai te lo chiedo?»
«Che cosa stavi combinando, si può sapere? Cos'hai che non va?»
Accennai alla sua andatura claudicante. Erik si sfilò il cappello e lo ripose sul ripiano del tavolino più vicino.
«Davvero, non sono affari tuoi.»
«Sì, invece, se riguarda – come sospetto – Christine.»
Fu allora che notai il sangue. Gocciolava da una ferita invisibile all'altezza dell'anca, e insudiciava il pavimento con il suo rosso pulsante.
Impallidii. «Sei ferito.»
«Grato che le tue capacità di osservazione non siano del tutto scadenti.»
«No, sul serio – cosa è successo?»
Mi avvicinai a lui, che si toglieva di dosso il mantello nero con grande lentezza. Mi avvidi di una chiazza rossastra sul suo fianco.
«Cristo, stai sanguinando!»
«Ancora, le tue capacità d'osservazione mi sbalordiscono, Meg cara» disse in tono strascicato. Vidi le sue labbra di carta contrarsi in una smorfia, e crollò sulla poltrona più vicina.
«Smettila con il sarcasmo. Ti credi tanto arguto, non è vero?»
«Senti da quale pulpito.»
Lo aiutai a togliersi la giacca – o meglio, quasi gliela strappai di dosso nella mia ansia, con la solita grazia elefantesca – e scossi il capo di fronte alla camicia imbevuta di sangue all'altezza del fianco destro.
«Devi disinfettare quella ferita. Non so quale pazzia tu abbia commesso, stavolta, ma devi toglierti la camicia.» Feci per sbottonare la prima asola, ma lui si irrigidì notevolmente e si ritrasse come un serpente pronto ad attaccare.
«No!» quasi urlò con voce tonante. Fui lì lì per coprirmi le orecchie con le mani. «Non se ne parla» proseguì con tono più pacato, ma ugualmente mordente.
«Non fare il modesto. Non è niente che non abbia già visto.»
«Non osare, Meg Giry. Non approfittare della mia momentanea debolezza.» Fu come se mi avesse letto nel pensiero. Arretrai, le mani tese in un gesto di muto soccorso.
«Allora ti strappo un lembo della camicia. Devo controllare quella ferita.»
«Sei un dottore, per caso?»
«No, qui l'esperto in medicina sei tu. Ma io non ho intenzione di restarmene con le mani in mano mentre tu sanguini come un maiale macellato.»
Lui fece una smorfia. «É una sciocchezza. Nulla di preoccupante.»
«Ma certo, stai solo insudiciando di sangue metà del tuo salotto.»
«Non ho bisogno di aiuto.»
«Ma sì che ne hai bisogno, idiota.»
Mi chinai su di lui e, ad un suo muto assenso, strappai con rudezza un lembo della camicia bianca e rossa, svelando la carne viva sotto di essa. Sul suo fianco si apriva una ferita che rigurgitava sangue e, quel che era peggio, notai che frammenti di metallo erano come incastrati nella pelle pulsante.
«Che roba è?» chiesi, arricciando il naso.
«Frammenti di proiettile. Ho fatto visita al visconte, stanotte.» Fece una smorfia, ben visibile oltre la maschera. «Ha una mira migliore di quel che mi aspettavo.»
«Perché mai avresti fatto una cosa del genere?» rabbrividii. «Volevi ucciderlo, non è vero?»
Lui non rispose.
«Questo è il colmo. Dovrei lasciarti qui a morire dissanguato.»
«Non morirò dissanguato. È solo una ferita superficiale. E comunque…» mi scrutò con i suoi indecifrabili occhi d'oro, «... perché non lo fai?»
«Saresti davvero più felice se me ne andassi?»
Ancora una volta, lui non rispose.
«No che non lo sarei» sussurrò infine, e questa ammissione mi convinse a restare.
«Non posso andarmene e lasciarti in questo stato. Tu mi hai salvato la vita, maledetto.»
«Si tratta dunque di un debito non risanato?»
«Sì» mentii. Perché c'era qualcos'altro che giaceva sotto la polvere del dovere morale. Qualcosa a cui non volevo dare un nome, né tanto meno potevo.
«Adesso dimmi cosa devo fare. Per una volta, ti ascolterò.»
Lui emise un sospiro, controllandosi la ferita con aria rabbuiata. Poi disse: «Nel tuo bagno – voglio dire, in quello di Christine…» si fermò dinanzi a questo suo lapsus. A disagio, si affrettò a correggersi. «Lì c'è una cassetta di pronto soccorso. Una piccola valigia bianca, nel secondo cassetto in basso.»
Feci quanto mi aveva chiesto e tornai con in mano la cassetta, che aprii sulle mie ginocchia, di nuovo china su di lui. Era colma di garze, fiasche d'alcol e altre diavolerie che Erik stesso aveva raggruppato e messo a disposizione di Christine. Ma ora servivano più a lui che a lei.
«Dammi la pinza, per favore» mugugnò lui tra i denti. Compresi subito quel che intendeva fare.
«Vuoi estrarre da solo i frammenti del proiettile?»
«Tu saresti in grado di farlo, forse?»
Mi morsi un labbro. «Posso provarci. Ma sarà doloroso.»
«Sopporterò.»
«Molto doloroso.»
«Non emetterò neanche un gemito, te lo giuro.»
Afferrai la pinza e mi chinai ad osservare la ferita. Il proiettile aveva colpito la carne solo di striscio, ma in modo sufficiente a lasciare il suo marchio. Per fortuna non ero una persona facilmente impressionabile – o almeno, non lo ero più – perché quella vista era disgustosa.
Uno ad uno, estrassi i pochi frammenti di proiettile da quel corpo martoriato. Ogni volta, sentivo Erik grugnire qualcosa di incomprensibile, ma non si lamentò, come aveva promesso, né si dibatté per il dolore. Alla fine ero sudaticcia e pallida, e avevo voglia di vomitare. Mi tremavano le mani. Ci avevo impiegato più o meno dieci minuti, ma erano stati i dieci minuti più lunghi della mia vita.
«Ci sei?» dissi, vedendo che aveva chiuso gli occhi oltre la maschera. Lui annuì, privo di forze.
«Bisogna disinfettare la ferita e suturarla.»
«Ossia?» chiesi, senza la più pallida idea di cosa volesse dire.
«Passami ago e filo. Devo ricucirla.»
Questa volta pensai che avrei dato di stomaco sul serio. «Non puoi farlo da solo.»
«Ho compiuto imprese ben più ardue di questa in passato. È solo un taglio.»
«Sì, ma non abbiamo morfina. Farà male. Molto male. Potresti svenire per il dolore, e allora io cosa farò? Ti lascio qui a morire dissanguato, razza di…?» Mi mancò la parola. Questo lo fece sogghignare.
Rise e sputacchiò un po' di sangue. Perfetta visione per il mio stomaco già in subbuglio. Presi un respiro lento.
«Vai in cucina» mi istruì lui dopo che si fu placato. «Sul tavolo c'è una bottiglia di vino. Portala qui.»
«Ti pare il momento di ubriacarti?»
«Se lo bevo, attenuerà il dolore.»
Feci quanto mi chiedeva. Sollevò i bordi della maschera e deglutì mezza bottiglia in poche sorsate. Scosse il capo, come per schiarirsi le idee.
«Sai cucire?»
«La stoffa. E neanche tanto bene.»
Lui emise un gemito impercettibile. «Va bene. Proviamo.»
Annuii, le mani ancora fradice di sangue – il suo. Versai una generosa quantità di alcol sulla ferita per disinfettarla, e lo stesso feci con l'ago che avrei utilizzato per l'operazione, ma Erik si limitò a sibilare qualcosa d'indefinito. Afferrai un filo dalla valigetta e mi accinsi a compiere il mio lavoro di ricamo. Riuscii a farne entrare un'estremità nella cruna dell'ago, ma la parte più difficile arrivava dopo. Deglutii a fatica quando infilai la punta dell'ago nella carne, convincendomi che non era poi molto diverso da un normale lavoro di cucito. Solo un po' più rosso.
Erik sobbalzò quando l'ago gli entrò sotto la pelle. «Va' avanti, per favore. Per favore, Meg» disse, ingollando altri sorsi di vino. Si asciugò il mento con le lunghe dita.
Fu un lavoro frettoloso e grossolano, ma feci del mio meglio per richiudere la ferita. Udivo il battito del mio cuore percuotermi i timpani, le vene del collo e dei polsi e delle tempie. Erik non emise neanche un gemito, ma era evidente che soffriva dalla smorfia perenne sulle sue labbra invisibili. Alla fine, ero distrutta e tremavo. La nausea, se possibile, era aumentata. Vomiti dopo, mi dissi.
Erik respirò a pieni polmoni e controllò la mia opera. Ogni tanto mi aveva incoraggiato, sussurrandomi un “Stai andando bene, Meg” con la sua voce più dolce, che profumava di dolore.
«Hai fatto un buon lavoro. Sei stata in gamba, mia cara.»
«Grazie per il complimento» dissi in tono acido.
«Grazie a te» rispose lui sinceramente. Mi rivolse uno sguardo tale che avvertii le mie gote imporporarsi.
«Adesso basta con queste scemenze. Devo bendarti e poi sarà tutto finito.»
Estrassi delle garze dalla solita valigetta e feci per compiere quell'ultimo sforzo, ma Erik mi fermò.
«Ce la faccio da solo» disse, togliendomi di mano le bende. E in effetti ne fu in grado, sebbene avesse trangugiato notevoli quantità di vino e si fosse fatto appena ricucire una parte del fianco da una principiante che non aveva la minima idea di cosa stava facendo.
Fu allora che notai le cicatrici. Erano molteplici, e gli costellavano la schiena. Lo fermai e, con delicatezza, ne sfiorai i bordi in rilievo sulla pelle livida quanto quella di un cadavere.
«Erik» dissi in un soffio, «cosa sono queste?»
Lui strinse le labbra. «Reminiscenze del passato. Nulla di cui tu debba preoccuparti.»
«Chi mai ti ha fatto questo?»
Lui terminò la sua operazione di bendaggio e si sistemò la camicia strappata di modo che celasse la schiena, costellata di cicatrici come il cielo stellato sopra Parigi.
«Scappai di casa da bambino. È vano spiegarti il motivo. Mi imbattei in una compagnia di gitani che mi vendette ad una fiera per una grossa somma di danaro. Fu un tedesco a comprarmi. Il suo nome era Günther.» Sputò queste parole tra i denti come veleno. «Fu lui a mettermi in gabbia e a inventarsi la storia della Morte Vivente, come certamente ti avrà detto tua madre. Mi considerava una sua proprietà. Ma io non ero d'accordo e questo mi costò caro.» Accennò alla schiena con fare eloquente. «Diciamo che era un amante della frusta. E ancora di più, amava usarla su di me.»
Si aprì in un sogghigno terribile. «Ho fatto in modo che cessasse di far del male ai suoi fenomeni da baraccone. Per sempre. Ma le cicatrici non se ne sono mai andate.»
«Ė orribile» mormorai, nauseata. Gli sfiorai una spalla mentre lui si prendeva la testa fra le mani.
«Perché ne parli in questo tono?»
«Quale tono?»
«Come se la cosa ti riguardasse da lontano. Come se quel bambino non fossi tu.»
Lui chiuse le palpebre oltre la maschera. «Devo essere ubriaco sul serio» mormorò, massaggiandosi le tempie pulsanti. Poi scosse il capo, come per schiarirsi i pensieri. «Quel bambino non sono io, difatti. È trascorso troppo tempo. Troppe cose sono accadute. I miei viaggi intorno al mondo, il soggiorno in Persia, le ore rosa di Mazenderan, quando la sultana mi fece tingere di rosso la corte dello Shah…» rabbrividì al ricordo, «… il mio ritorno in Francia, dove tutto è cominciato. Ma non è mai stata la mia patria, non più di quanto Erik fosse il mio nome. Così mi chiamava Günther, col suo accento tedesco e l'alito che sapeva perennemente di birra. Un nome che mi è rimasto addosso come una seconda pelle, l'ennesima cicatrice. Come tutto il resto, l'ho conservato – per rammentarmi le mie radici. Se poi ne ho.» Deglutì a fatica ed emise un sospiro. Sapevo che ero la prima persona a cui avesse mai rivolto quelle parole. Non c'era bisogno di dire altro in proposito.
«Non parliamone più. Non è stata l'unica sevizia che ho subito, né tanto meno l'unica che abbia inflitto. Nessun altro aveva mai veduto le mie cicatrici, prima.» Mi rivolse un'occhiata di sottecchi. «Ti faccio orrore, vero, Meg?» La sua voce era improvvisamente venata di tristezza.
«Nei tuoi riguardi provo tante sensazioni differenti, Erik. L'orrore è tra queste, ma non per quello che pensi tu.» Sollevai una mano per sfiorargli il volto mascherato, come a voler testimoniare le mie parole, ma alla fine il coraggio mi mancò. Rimasi di pietra, ad osservarlo. Cosa mai devo fare con te? Cosa?
«Dimmi quel che è accaduto col visconte. E non osare mentirmi» dissi con autorità.
Lui fece una smorfia. «Volevo solo osservare per bene il ragazzo, colui che Christine ha scelto al mio posto.»
«Non lo ha scelto al tuo posto. E ti ho detto di non mentirmi. Cos'è, volevi strangolarlo nel sonno?»
«Ti confesso che l'idea mi è passata di mente più di una volta.»
Sospirai, reprimendo l'istinto di prenderlo a schiaffi. «Continua.»
«Lui si è accorto della mia presenza – ero all'esterno della dimora, sul suo balcone, la finestra chiusa – ha preso una pistola che teneva nascosta in un cassetto vicino al letto e ha sparato con la mira di un soldato. Ho evitato il colpo solo di striscio. Il rombo dello sparo ha svegliato tutta la casa, ma sono riuscito a sgattaiolare già per la grata non visto. Credo di aver lasciato qualche traccia di sangue, però.»
«Doveva essere buio. Come ha fatto a vederti? Ha scorto solo la tua sagoma?»
Erik accennò con fare stanco ai propri occhi. Ma certo, nelle tenebre rilucevano come quelli dei gatti. «Mi ha riconosciuto. Avevo sottovalutato il ragazzo.»
«Potevi rimanerci secco. E anche lui.» Gli pestai il braccio con un pugno. «Devi smetterla di minacciarlo, mi hai sentito? Adesso basta. Lascia che Christine scelga cosa fare della propria vita. Non metterla in gabbia.»
«Non voglio imprigionarla.»
«É proprio quel che stai facendo! Più cerchi di avvicinarla a te e più lei si allontana! Non capisci?» sbottai, con la voglia di tirargli i capelli e fargli ancora più male.
Lui scosse il capo. «Sei tu che non capisci, Meg. Lei è l'unica prova che ho dell'esistenza di Dio su questa terra. Solo la sua vicinanza mi rende meno mostruoso di quanto io già non sia. Non oserei mai toccarla – io, sfiorare quell'angelo… non se ne parla. La spezzerei. Ne morirebbe. Ma so già come andrà a finire questa storia. Non vedi che è tutto già scritto? Devo solo concludere l'ultimo recitativo… e l'opera sarà compiuta. Come il mio Don Giovanni trionfante.»
Si aprì in un sogghigno orribile che mi fece scorrere un brivido gelido lungo la schiena.
«Qualunque cosa tu abbia in mente, io sarò lì per impedirti di combinare un disastro. Di far del male ad altre persone. Ne hai già fatto abbastanza.»
«Ti aspetterò, Meg. Anche il daroga mi ha rivolto una dichiarazione simile. Devo dedurre, allora, che anche tu sarai solo un altro ostacolo sulla mia via? Sai cosa faccio a quelli che mi sono d'impiccio.»
Sì, lo sapevo. Seguirà la via più logica per liberarsi di quell'ostacolo. Oserà liberarsi anche di me?
«Monsieur Nadir mi ha detto che ti ha salvato la vita.»
«Sono sicuro che di quest'atto si sia pentito più di una volta.»
«E tu non gli sei grato per quel che ha fatto? Non è stato forse tuo amico quando nessun altro era pronto a rischiare per salvarti la vita, Erik? Gli avevi promesso che non avresti più commesso alcun delitto!»
«I giuramenti sono fatti per incastrare i babbei» dichiarò lui in un mugugno. Si alzò dalla poltrona e s'infilò la giacca. Io osservai i suoi movimenti felini come se dovesse scattare da un momento all'altro.
«Non conosci la gratitudine?» gli chiesi, già assaporando l'amara risposta sulla lingua.
«Quel che conosco non ti piacerebbe, piccola ballerina» rispose lui, dandomi le spalle così che non potessi vedere il suo volto mascherato. «Non ho altro da dire.»
Mi alzai in piedi, le mani ancora inzaccherate di sangue. Con le lacrime agli occhi, satura di rabbia, uscii fuori dall'appartamento sul lago senza proferire un'altra parola. Mi sciacquai fino ai polsi nell'acqua gelida del lago e lasciai Erik alle sue elucubrazioni – avevo già le mie con cui fare i conti. Tremante, le mani gocciolanti, ritornai nella mia camera e mi asciugai in fretta. Il getto della candela sul comodino emanava una luce danzante che mi apparve più tenebrosa ogni minuto che passava, quasi la notte la stesse inghiottendo suo malgrado. Presto avrebbe sommerso l'intero teatro.
Scossi il capo, massaggiandomi le tempie. Posai la candela sullo scrittoio e afferrai carta e inchiostro. Avevo bisogno di schiarirmi le idee, e nulla era meglio della parola scritta. Conservo ancora questo foglio, scritto nella mia calligrafia frettolosa e grezza.
Erik (alias l'Angelo della Musica, il signore delle botole, la Morte Vivente, il fantasma dell'Opera):
– Genio deforme fin dalla nascita, vive nei recessi dell'Opera.
– Compositore, musicista, cantante, illusionista, ventriloquio, architetto. Profonde conoscenze in campo dell'anatomia e delle erbe medicinali.
– Età: ha due anni meno di mia madre (direi quindi quarantasette?).
– Ha subito numerose sevizie fisiche e psicologiche. Lo hanno reso quasi del tutto inumano.
– Fu sua madre a donargli la sua prima maschera. Suo padre morì prima della sua nascita. Scappò di casa da bambino. Catturato da un gruppo di gitani, fu venduto a un certo Günther, padrone di una fiera di fenomeni da baraccone. Qui fu messo in gabbia e ribattezzato Erik, la Morte Vivente. Il suo aguzzino fu probabilmente la sua prima vittima. Tutto questo prima dei tredici anni, quando incontrò mia madre.
– Padroneggia molte lingue e ha viaggiato in molti Paesi, tra cui l'Italia, la Russia, la Turchia, la Spagna, l'India, la Persia.
– In quest'ultimo Paese ha vissuto (per quanto?) alla corte dello Shah, come “intrattenitore di corte” della piccola sultana, figlia del re. Secondo Monsieur Nadir, è stata quest'ultima a commissionare ad Erik l'invenzione della camera dei supplizi (ancora oggi mi sfugge il suo reale funzionamento). Joseph Buquet ne è stato probabilmente vittima. Qui divenne sicario per ordine dello Shah. Immagino che le sue vittime siano state innumerevoli.
– Ha ammesso chiaramente di essere pentito delle azioni che ha commesso durante ciò che chiama “le ore rosa di Mazenderan”. (Mazenderan deve essere la regione in cui dimorava la corte dello Shah.)
– Per lo Shah ha costruito un palazzo speciale, gremito di botole e passaggi segreti noti a lui soltanto. Per timore che qualche nemico di Persia li scoprisse e ne facesse uso a suo vantaggio, lo Shah lo ha messo a morte. È stato salvato con l'inganno grazie all'aiuto del Persiano, ossia Monsieur Nadir Khan. (Credo si scriva così.)
– Perché quest'ultimo lo ha salvato? Se Erik era un macellaio senza scrupoli, perché Monsieur Nadir ne ha avuto pietà? Che rapporto condividono in realtà?
– Deve aver avuto qualche contatto con Charles Garnier, l'ideatore dell'Opera. Altrimenti non si spiega la costruzione del labirinto sotterraneo che porta all'appartamento sul lago. Anche questo punto mi è ancora oscuro.
– Ha costruito delle trappole intorno alla sua casa di modo che nessun estraneo vi possa entrare da vivo. La camera dei supplizi e il trucco della Sirena del lago ne sono degli esempi lampanti, e io sono scampata ad entrambi.
– Esistono vari accessi alla sua casa: quello mostratomi da Figaro nel corridoio dei camerini, quello attraverso gli specchi e quello oltre il cancello in Rue Scribe. Potrebbero esisterne altri senza che io ne sia a conoscenza.
– Innamorato Ossessionato da Christine Daaé, che tuttavia è consapevole delle sue malefatte. Geloso del suo rivale, il visconte Raoul de Chagny, al punto da meditare il delitto nei suoi confronti.
– Christine non si sottometterà mai a lui. Ha ideato una fuga col visconte, ma è chiaro che Erik cercherà di fermarli in ogni modo. Devo avvertirla in tempo, o questa volta ci scapperà il morto.
– Se Erik la tiene prigioniera e Christine si suicida, egli ne morirà. È molto probabile che questo sia il suo piano fin dall'inizio: morire con lei è l'unico modo per averla accanto per sempre.
– Inutile dirlo, è completamente folle e l'amore che prova per Christine è maniacale e terribile.
– Mi ha salvato la vita due volte, e io non riesco ad odiarlo. Non posso. Non posso farlo…
Le ultime parole erano vergate dalle mie lacrime. Era chiaro che provavo dei sentimenti che non fossero solo di orrore, rabbia e paura nei confronti di Erik, ma non mi lasciava altra scelta. Da quel momento in poi eravamo nemici. E sapevo che non era affatto gentile con chi gli sbarrava la strada.
Esausta, scorsi quella lista ingarbugliata. Erano tutte le nozioni che avevo appreso su di Erik in quei mesi folli, e per sconfiggere il nemico bisogna conoscerlo. Io lo conoscevo quel tanto da poter stilare quella lista. Forse dimenticavo qualcosa, ma non importava.
Nascosi quel documento nel cassetto dello scrittoio e, con un sospiro eloquente, mi svestii dagli abiti della festa in maschera, mi sciacquai il viso strofinandolo con cura per togliere ogni residuo di trucco e indossai la mia veste da notte. Appoggiai il capo sul cuscino, affondando nel letto come un sasso nell'acqua. Temevo di non riuscire a chiudere occhio, quella notte.
E invece dormii. Al mattino mi svegliai tanto più stanca della notte precedente, poiché i miei sogni erano stati popolati da ombre e luci che svanivano con il giungere dell'alba e avvinghiavano la mia mente in interrogativi senza speranza. Cosa dovevo fare adesso? Di certo, non fingere che tutto fosse nella norma. Non mi sarebbe stato possibile.
Mi alzai dal letto – quel giorno sarebbe stato lunghissimo, già lo prevedevo – con le membra stanche per un'afflizione che non era più fisica dei miei pensieri imprendibili. Rovistai nel cassetto del comodino finché non trovai quel che cercavo: un biglietto da visita, con su scritto un indirizzo che col trascorrere del tempo avevo dimenticato: Rue de Rivoli, numero 25. Era l'indirizzo del Persiano, e quel biglietto me lo aveva dato quando ci eravamo incontrati la prima volta. Ringraziai la mia buona stella per non averlo gettato via. Vergai qualche parola frettolosa su un pezzo di carta e, dopo essermi vestita, lo imbucai nella cassetta delle lettere in place de l'Opéra. Quella stessa mattina avrebbe raggiunto il suo destinatario.
La brezza d'Aprile mi danzava tra i capelli come un serpente ipnotizzato dalla musica del suo incantatore. Ero seduta a un tavolino al solito caffè di place de l'Opéra, sorseggiando una tazza di tè caldo che rincuorava le mie membra intorpidite da una notte di sonno farraginoso. L'effluvio fatiscente della primavera inondava l'aria.
Lo scorsi sulla distanza, col solito berretto di astrakhan sul capo. Scese da una fiacre e, quando mi vide, mi si avvicinò a grandi falcate. La sua espressione preoccupata poteva ben rivaleggiare con la mia.
«Madamoiselle» s'inchinò con fare galante.
«Monsieur Nadir» dissi io, invitandolo con un gesto a sedersi accanto a me.
«Mi avete scritto un biglietto che dal tono mi pareva alquanto urgente.» Mi scrutò attentamente con i suoi occhi verdi e penetranti.
«Temo che la situazione sia difatti molto urgente.» Avevo ordinato per lui una seconda tazza di tè, da cui sorbì un sorso con un ringraziamento sussurrato a mezza voce.
Gli raccontai senza indugio ciò che era accaduto al ballo in maschera, e i miei timori per quanto sarebbe invece accaduto quella sera, durante la rappresentazione del Faust.
«Christine canterà un'ultima volta per lui, ma egli ha un piano, Monsieur, ne sono certa.»
«Lo conosco abbastanza da poter dire lo stesso» fece lui, cupo. «Si è sicuramente preparato ad ogni eventualità. E c'è di più.» Aggrottò la fronte con aria mesta. «Non avete letto i giornali di questa mattina?»
Scossi il capo. Cos'altro era successo, adesso?
«Ebbene, è stato annunciato il fidanzamento ufficiale tra il visconte Raoul de Chagny e la soprano Christine Daaé, il che ha causato un certo scandalo, vista la differenza di classe sociale tra i due. Il loro amore è contrastato anche in questo senso. Sembra che il conte Philippe non ne sia contento.»
Mi infilai le mani nei capelli, scostandomi la frangia scura dagli occhi con un gesto impaziente. «Erik darà di matto non appena leggerà quell'articolo. Se gli capita sotto gli occhi, ossia.»
«Già. Saremo entrambi preparati in caso qualcosa vada storto. Avete avvertito la vostra amica Christine?»
Scossi il capo. «Le ho scritto un biglietto nel quale le raccomandavo di vederci al più presto, ma non si è ancora presentata all'Opera. Tuttavia, ormai si può fare ben poco. Solo contrastare Erik.»
«Non parlate così» mi disse il Persiano con fare incoraggiante. «Riusciremo sicuramente a sventare i suoi piani in tempo. Non temete.»
«É difficile rimanere speranzosi di fronte a questo disastro.»
Lo informai anche che Erik era stato ferito quella stessa notte, seppure non gravemente: forse questo avrebbe potuto rallentarlo.
«Siete stata molto coraggiosa nell'affrontarlo» mi disse con un lieve accenno di stupore nella voce.
«Nulla di più del normale, Monsieur.»
«Parlate così, ma avete fatto molto. Perché lo avete aiutato, Madamoiselle?»
«Vi prego, chiamatemi Marguerite. O meglio, Meg.»
Lui ammiccò ai raggi del sole del mattino. «Meg» disse, solo con una lieve incertezza. «Ebbene, cosa provate nei suoi confronti?»
Mi massaggiai le tempie. «É complicato. Ma nonostante tutto, non riesco ad odiarlo. Mi ha salvato la vita due volte, Monsieur, quando nemmeno io ero certa che ce l'avrei fatta a sopravvivere. E c'è qualcosa di inesplicabilmente umano in lui…»
«So di cosa parlate» mi rassicurò il Persiano, posandomi una mano sul braccio nel notare il mio turbamento. I suoi modi gentili mi rincuorarono. Non ero sola nella lotta contro il mio nemico–amico, e non ero del tutto ammattita. «In Persia, fu una delle ragioni per cui gli salvai la vita. Ero pagato per conoscere al meglio i suoi trucchi, e alla fine conobbi lui stesso… E non potei rimanerne indifferente. Era una tragedia vivente. Ma più di tutto, mi turbò un episodio che accadde dopo che egli aveva già ideato, per ordine della sultana, la camera dei supplizi. Quella ragazza si divertiva a fare vittime tra i numerosi prigionieri di corte. Spesso mandava contro di loro Erik in tutta la sua furia, nell'arena dei gladiatori… Allora era impossibile scampare al suo laccio del Punjab.»
«Al suo cosa?» chiesi, incuriosita e già pronta ad udire l'ennesima storia dell'orrore.
Monsieur Nadir sospirò con gravità. «Il laccio del Punjab. L'arma preferita di Erik. Una sottile corda, simile a una garrota ma lunga come un cappio, col quale strangolava le sue vittime. Queste erano spesso nemici politici dello Shah, che aveva fatto di lui il suo sicario più temibile, o i prigionieri a cui accennavo prima.»
Ma certo. La corda che avevo visto nella stanza delle torture era proprio quel laccio di cui parlava il Persiano con una sorta di religioso timore. La corda che aveva ucciso Joseph Buquet. Lo lasciai continuare il suo racconto. «In quegli anni io lo sorvegliavo. Non provava alcuna gioia nell'uccidere: uccideva con il sangue freddo di un serpente, ma non era un sadico, questo glielo concedo. Godeva della posizione di potere che il ruolo di principe degli strangolatori gli offriva. Sapeva essere spietato e clemente al tempo stesso. Ascoltate questo mio racconto.
La giovane sultana, sotto la cui influenza Erik diede il peggio di sé, gli consegnò una schiava perché potesse farne ciò che voleva. Desiderava metterlo alla prova, era ovvio. Io stesso accompagnai la ragazza, che non poteva avere più di sedici anni, nelle stanze di Erik. Quando gli riferii gli ordini della sultana – ossia che prendesse l'innocenza di quella schiava – lo vidi stringere i denti in modo orribile, irrigidito nelle membra scheletriche. Si accostò alla giovane, che conosceva bene la deformità sotto la maschera ed era terrorizzata all'idea di essere toccata da un individuo simile.
“Hai paura di me, bambina?” domandò lui, accovacciato al suo fianco, scrutandola. La ragazza tremava – era quindi vano che rispondesse.
“Daroga” mi apostrofò Erik con voce gelida, “cosa ci fa qui questa fanciulla? Cosa dovrei farmene?”
“Secondo ordine della sultana, è tua. Puoi farne quello che più desideri.” I sottintesi erano chiari, e la fanciulla era solo una schiava.
“Quello che desidero, dici? Imbecille!” scagliò lontano da sé una sedia con un calcio poderoso. Io mi riparai dietro lo scrittoio.
“Erik, sei impazzito?” La ragazza, se possibile, tremava ancora di più. Avevamo dovuto trascinarla fin lì piangente e strepitante, ma il suo destino era segnato, che Erik lo volesse o meno. Gli ordini della piccola sultana non si discutevano, a meno che non si volesse assaggiare la morte.
“Non la violerò come fosse un animale in una gabbia! Una schiava senza diritti! Liberatela” ingiunse con voce tonante. La sua furia era terribile a vedersi. “Non farò mai una cosa simile! Non vedete che le faccio paura? E non ha forse ragione ad averne?” chiese, allargando le braccia, gli occhi dorati che mi fulminavano. Fu impossibile contenerlo. Alla fine la ragazza tornò nell'harem, intoccata, e io mi ritrovai a chiedermi chi fosse davvero il mostro, lì, in quella corte splendente e velenosa.»
«Che fine fece quella ragazza? Ed Erik? Non ebbe ripercussioni per questa sua disobbedienza ad un ordine della sultana?» chiesi, pendendo dalle labbra del Persiano.
L'espressione di quest'ultimo si tramutò in una di profonda amarezza. «Sono orrori che le vostre giovani orecchie non dovrebbero udire.»
«Ho sopportato abbastanza orrori nella mia vita. Credo di poter resistere anche a questo.»
Lui esitò, ma alla fine accordò il mio desiderio di udire il seguito di quella straordinaria vicenda. «Ci furono delle ripercussioni, sì, e molto gravi» proseguì il Persiano con voce misurata. «La schiava fu messa a morte. La sultana costrinse Erik ad assistere allo spettacolo di lei che perdeva la vita nella camera dei supplizi. Egli non batté ciglio, ma io sapevo che covava un odio e una rabbia profondissimi. Lo vidi affacciato al balcone dei suoi appartamenti, le mani strette in una morsa sulla ringhiera, le lacrime che colavano dal suo viso mascherato. Fu allora che decisi di essergli amico, per quanto una creatura simile potesse avere amici. Non lo persi mai d'occhio nei suoi anni di soggiorno in Persia. Alla fine, quando giunse il momento, non volevo che morisse. Riuscii con l'inganno a salvargli la vita, rispedendolo in Francia, e feci credere a tutti che fosse morto. Lo Shah in persona l'avrebbe cercato in tutti gli angoli del mondo, se così non fosse stato.»
Il silenziò calò come un fendente tra noi. Sorbii un altro sorso del mio tè ormai freddo e deglutii a fatica. «Adesso vi pentite di averlo salvato, non è vero?»
«Lo feci a patto che non commettesse più alcun delitto. A quanto pare mi sono illuso.» Monsieur Nadir si passò una mano sugli occhi, come a voler scacciare una visione insistente dalla retina.
«E con tutto questo, non lo odiate?»
Egli scosse il capo.
«Anche se ha fatto del male?»
«Il male che ha fatto a me – ebbene, gliel'ho già perdonato.»
Comprendevo come non mai il suo punto di vista.
«Credo, Meg, che siamo più simili di quanto mi aspettassi» disse lui stringendomi una mano. Mantenni la stretta di ricambio. «Sì, è proprio così, Monsieur.»
Le brume del primo mattino si erano rischiarate per mostrare i dardi del sole d'Aprile, che via via andava facendosi sempre più caldo, un focolare che si lasciava l'inverno alle spalle. Quel giorno fui del tutto distratta a lezione, ricevetti più di una severa rimbrottata da mia madre – che eppure mi scandagliò con aria preoccupata e severa insieme – e attesi Christine nella mia stanza–camerino, dove le avevo scritto che ci saremo incontrate. Un lieve bussare alla porta mi avvertì della sua presenza. Sull'uscio, appariva scarmigliata, quasi avesse corso per arrivare fin lì, e si guardava intorno con aria più circospetta di una cerbiatta braccata in una foresta.
«Christine.» La presi per un braccio senza tanti complimenti e la trascinai dentro con me. Appariva tanto scossa che non potei fare a meno di offrirle un posto a sedere sul mio letto. Lei accettò con gratitudine. Annodava e disfaceva con un moto perpetuo i nastri che il suo abito azzurro, dal taglio semplice, esibiva ai polsi. Era chiaramente nervosa, e aveva ragione di esserlo. Il tono della mia lettera era stato ben più che di semplice allarme.
«Meg, cos'è accaduto?» Mi fissò con i suoi occhi come laghi. In quel momento erano torbidi, quasi che una pioggia invisibile stesse percuotendo l'acqua azzurra e limpida della superficie senza pietà, con la violenza di mille aghi incuneati sotto la pelle. Il suo sguardo pareva onnisciente, come se già sapesse in anticipo quel che stavo per dirle.
Con un sospiro, le raccontai quanto era accaduto la sera prima alla festa in maschera, e anche dopo, nel sotterraneo di Erik. Ad ogni parola, il volto serio della mia amica si faceva sempre più pallido, le sue gote perdevano il colorito rosa che le contraddistingueva. La stanchezza e il dolore erano chiari sul suo viso, tracciavano le sue fattezze in un quadro dal soggetto distorto.
«E questo è quanto» conclusi, non senza una traccia di amarezza e sarcasmo insieme. Incrociai le braccia al petto e osservai la reazione della mia amica. Le sue labbra fremevano come attraversate da una corrente elettrica. Attesi che si fosse calmata prima di indurla a parlare.
«Allora, cos'hai intenzione di fare?»
«Raoul ed io abbiamo già organizzato tutto. Partiremo stasera, dopo che mi sarò esibita nel Faust. Dopo che… un'ultima volta…» si prese la testa tra le mani. Sulle sue spalle sopportava un peso troppo grande. «Maledetto… Mi aveva promesso che non mi avrebbe più seguito né spiato, eppure lo ha rifatto…»
«Non puoi fidarti di lui, Christine. È un mentitore nato.» Aveva ingannato lei, aveva ingannato il Persiano, e aveva giocato un bel tiro anche a me. Le mani mi si chiusero a pugno, e inghiottii la bile che mi salì in gola – un fluido di violenza che domai a stento.
«Io ti direi di scappare ora, ma sarebbe ugualmente inutile.»
«Già. Lui m'inseguirebbe ovunque io vada. Non ho altra scelta se non seguire il piano di Raoul e partire stanotte.»
«Se prima lui non attua il suo, di piano. Chissà, potrebbe essere in ascolto anche in questo momento.»
Entrambe ci guardammo attorno, dando in un brivido.
«Sii forte, Christine. So che puoi farcela. Non sei sola – io e il visconte ti aiuteremo in ogni modo. E poi c'è quest'uomo, che conosce Erik da molto tempo…» Gli parlai di Monsieur Nadir e di come quest'ultimo avesse promesso di essere ben in allerta, quella sera. Christine deglutì, anche se non sapevo se fosse rincuorata o meno da questa promessa di soccorso. Sapeva che, comunque fosse andata, avrebbe dovuto vedersela con il mostro faccia a faccia almeno un'ultima volta. E quest'incontro avrebbe deciso il destino di molti.
«Canterò» ribadì con rinnovata determinazione. La vidi stringere i pugni quanto me, e conficcarsi le unghie nella carne fino alla mandorla. «Per l'ultima volta. Mi atterrò al piano. Non c'è altra soluzione.»
«No, a quanto pare.»
Poi Christine fece qualcosa di inaspettato: soffocò un singhiozzo e mi gettò le braccia al collo, stringendomi a sé con forza indomita. Risposi al suo gesto d'affetto con la mia solita goffaggine, troppo sorpresa per proferire parola.
«Ti rendi conto che questa potrebbe essere l'ultima volta che ci parliamo, o addirittura vediamo?»
Deglutii, mentre le viscere mi si tramutavano in acqua ghiacciata. «Sei diretta, vedo.» Non sopportavo il pensiero di perdere la mia migliore amica, ma per il suo bene, avrei resistito. Potevo essere coraggiosa: ero una Giry, in fondo. Ero la figlia di mia madre.
Quando si staccò da me, le presi una mano e la strinsi tra le mie. Le sue dita erano stranamente fredde. «Ci rivedremo ancora, Christine, non temere. Dovunque andrai, io sarò lì ad attenderti.»
Lei scosse il capo. «Se Erik mi prende, questa sera, devi promettermi che non scenderai nella sua tomba a cercarmi. Perché a quel punto io non ne uscirò mai più, e forse neanche tu. Promettimelo, Meg.»
«Sai bene che non posso.» Come poteva pensare che l'avrei abbandonata al suo destino?
«Meg, ascoltami bene.» Negli occhi di Christine c'era una dolce saggezza che a me era sempre stata preclusa. L'ammiravo per questo. «Conosco Erik, e so che lo conosci anche tu. Credi davvero che lascerebbe entrare chicchessia nella sua dimora sul lago? Non questa volta, Meg, non questa volta. Non te, non il Persiano… e per quanto riguarda Raoul, ebbene, cerca solo l'occasione giusta per ucciderlo.»
Scosse la testa con orrore. «Tutti in questo teatro sono in pericolo, stasera. Lo capisci, vero?» Annuii. Rammentavo le parole che Erik mi aveva rivolto tanto tempo prima, quando ancora non avevo appreso il suo nome: a risponderne saranno molti membri della razza umana.
Molti membri della razza umana. Il significato era ovvio: qualunque cosa stesse complottando, eravamo tutti in pericolo. Il peso di tutto ciò incurvava le spalle minute di Christine, che eppure era più forte di quanto desse alla vista. Da sola, sarebbe riuscita a reggerlo?
Con questi interrogativi che mi ribollivano in testa, la scortai nel suo camerino e l'aiutai a cambiarsi d'abito per la sua entrata in scena nel Faust. Quando il segretario Rémy venne a chiamarla, era pronta per entrare in scena, sul volto un'espressione decisa che le contraeva i bei lineamenti delicati. Mi strinse una mano per l'ultima volta mentre l'accompagnavo nel foyer della danza. Ci lasciammo solo nelle quinte, dopo un ultimo sguardo. Nella mia memoria, rimasero impressi come in un'antica incisione l'immagine dei suoi limpidi occhi azzurri – così pieni di forza, di fede, di paura, di speranza. Così diversi dai miei. Ricordai quando, una notte che avevo trascorso a casa Valerius – quella sera l'avevo portata con me in una taverna di periferia dove avevo potuto trangugiare tutti i bicchierini di rum che volevo – ci eravamo infilate sotto le coperte del suo letto ed eravamo rimaste sveglie fino all'alba a chiacchierare del più e del meno. Se il termine “anima affine” significava qualcosa, sicuramente aveva a che fare con Christine e l'amicizia che condividevamo.
Anima affine, pensai. Erik.
Che cosa aveva in mente di preciso?
Strinsi i denti, osservando Christine entrare in scena mentre io rimanevo nell'ombra, nelle quinte del teatro, incurante di chiunque mi stesse intorno. Loro non avevano importanza; Christine sì.
Attesi con pazienza fino alla fine del quinto atto. Fino a quel momento non era accaduto nulla che fosse fuori dalla norma. In un palco tra il pubblico dorato dell'Opera, notai il visconte di Chagny, chiaramente febbricitante, in compagnia del fratello maggiore, il conte Philippe, che di tanto in tanto gli lanciava occhiate significative con le sue iridi scure e penetranti. Doveva essere al corrente del fidanzamento tra Raoul e Christine, e ovviamente lo disapprovava. Da buon fratello maggiore, era suo dovere consigliare il visconte e guidarlo “sulla retta via”: forse, chissà, si pentiva di averlo portato all'Opera di sua iniziativa, ora che quel dramma d'amore stava raggiungendo la sua inevitabile conclusione. Ma niente avrebbe potuto porre freno alla testardaggine del fratello minore, e tanto meno al suo devoto amore per Christine Daaé.
Mi guardai intorno, d'improvviso colpita da un pensiero dapprima tralasciato. Dove diavolo era finita mia madre? Con un cenno della mano, avvicinai Luc, che era a pochi passi da me, intento a sorvegliare il lavoro degli altri macchinisti. Dopo la morte di Buquet, sembrava sempre più vicino ad aver assunto il suo ruolo nella ruota che muoveva l'Opera: nessuno conosceva i sottopalchi del teatro quanto lui. Nessuno eccetto Erik, mi corressi mentalmente. La sua dimora si trovava al di sotto del quinto e ultimo sottopalco del teatro, probabilmente all'interno della guaina interna costruita attorno al lago sotterraneo. Un luogo irraggiungibile, o così sperava Erik quando ne aveva preso possesso. A quanto pareva, per avervi costruito la camera dei supplizi e per aver utilizzato più di una volta il trucco della Sirena del lago, non doveva esserne poi tanto sicuro. Meglio prevenire che curare, avrebbe detto lui.
Mi accigliai di fronte a Luc, che scuoteva la testa in segno di diniego: «Non so dove possa essere finita tua madre, Meg. So che è stata chiamata nell'ufficio dei direttori, ma qui non vedo neanche loro.» Era vero: Moncharmin e Richard non erano presenti allo spettacolo. Qualcosa non quadrava.
Cos'altro devo aspettarmi, adesso? Ero ormai al culmine dell'esasperazione.
«Ehi, Meg» fece Luc, in tono di finta noncuranza, «al ballo in maschera ti ho vista danzare con quel tizio travestito da Morte, o quel che era. Lo conoscevi?»
Ah, sapevo che questo momento sarebbe giunto. E io avevo già pronta la risposta.
«A dire la verità, no. Una sciocca scommessa con me stessa: volevo vedere se la Morte Rossa era davvero intoccabile come diceva.»
«A quanto pare, non per le belle ragazze.»
Sogghignai falsamente, sperando che credesse alla mia baggianata. Per fortuna fu così, perché mi sorrise e disse in tono scherzoso: «Meno male. Pensavo di dover essere geloso di un cadavere.»
Risi in modo più sguaiato del solito.
Fu allora che i miei occhi tornarono sulla scena: Christine fino a quel momento aveva cantato con poca sicurezza, conscia dello sguardo critico della sala puntato su di lei. Chi conosceva la sua storia col visconte – ossia tutti – non poteva non sorridere a certi passaggi dell'opera, in cui la bella e innocente Marguerite s'innamora di Faust. Gli sguardi della sala andavano dalla figura bionda sul palco ai posti che occupavano il visconte e suo fratello, entrambi turbati ma per motivi differenti. Dalla scena, Christine mi rivolse un'occhiata d'aiuto che non feci fatica a cogliere. Gliene rivolsi una d'incoraggiamento, e tanto bastò. Da quel momento Christine s'impegnò a fondo nella sua recita, e mai fu tanto sublime. Durante l'ultimo atto, in cui Marguerite invocava gli angeli affinché la conducessero con loro in cielo, anche al pubblico sembrò di avere le ali. Raoul si era alzato dal suo palco, ipnotizzato, un tutt'uno col canto dell'amata.
Fu in quel momento che accadde qualcosa d'imprevisto, che tuttavia io e gli altri coinvolti in questa vicenda avremmo dovuto presagire.
La sala fu immersa nel buio – solo un lampo, ma sufficiente a sollevare grida di sgomento dal pubblico – dopodiché la luce riapparve… solo che la diva era scomparsa dal palco!
Christine!
Si sollevò un tumulto generale. Il baritono Carolus Fonta era rimasto a braccia aperte sul palco, senza ben sapere cosa stesse accadendo attorno a lui. Lo stesso valeva per il pubblico e per chi sostava dietro le quinte: questi ultimi si precipitarono sul palco. Forse era caduta in una botola, chissà… Ma io non mi mossi. Colsi lo sguardo disperato del visconte e compresi. C'è Erik dietro tutto questo, certo come io mi chiamo Marguerite.
«Ma cos'è successo? Meg, dove vai?»
Ignorai gli schiamazzi di Luc, che cercò invano di afferrarmi per un braccio, ma io fui più rapida di un aspide del deserto e gli sfuggii tra le mani. Dovevo correre a cercare il Persiano, e subito.
E mia madre, pensai, cercando di non farmi prendere dal panico. Dove diavolo è finita?
Nel foyer della danza ebbi la fortuna di incrociare un agitato segretario Rémy, in compagnia dell'amministratore Mercier e del maestro di canto Gabriel, e gli scossi il braccio con fervore.
«Avete visto mia madre, Monsieur?»
Era inutile dire chi fosse. Tutti lì sapevano che la “piccola Meg” era la figlia di Madame Giry, l'istruttrice di danza.
«Non credo sia di nostra competenza il… ah!»
Gli avevo artigliato il braccio con tanta violenza che l'uomo non poté reprimere un gemito.
«Voglio sapere dov'è mia madre. E i direttori? Sanno che Christine Daaé è scomparsa dal palco?»
I tre si guardarono stupefatti. «Abbiamo tentato di dirglielo, ma invano. Sono chiusi nel loro ufficio, adesso. È tutta la sera che si comportano in modo strano.»
Qui c'era ancora una volta lo zampino di Erik, potevo metterci la mano sul fuoco. «E mia madre è con loro?»
«Era. I signori direttori… ebbene…»
«Sì?» incalzai, sempre più spazientita.
«L'hanno chiusa nell'ufficio dell'amministrazione, Madamoiselle» fece Mercier, che di certo non voleva sembrare un vile di fronte a una ragazza arrabbiata.
Gli dardeggiai contro un'occhiata di fuoco. «Che cosa?»
«É per quel fatto dei ventimila franchi rubati» si affrettò ad informarmi Rémy.
«Credono ancora che mia madre centri qualcosa?»
«É tutta colpa del fantasma dell'Opera!» squittì Gabriel, torcendosi le dita.
«Sì, e magari è stato anche lui a rapire Christine Daaé!»
Tutti e tre si fecero una bella risata alla faccia mia, che li guardavo schiumante di rabbia. Mi congedai con un'imprecazione, nelle mie orecchie i loro commenti – “Sono tutti pazzi in questo teatro – pazzi!”
Ma certo, riflettei mentre mi dirigevo verso l'ufficio dell'amministrazione, questo è il giorno della rendita dei ventimila franchi. Sicuramente Moncharmin e Richard dovevano aver preso delle precauzioni contro un eventuale attacco del fantasma. E sbarazzarsi di mia madre, che faceva da emissario tra quest'ultimo e i due direttori, era una di queste manovre d'emergenza.
«Un corno» sibilai, incurante delle occhiate curiose che una ballerina tutta affannata per la corsa poteva suscitare in chi incontrava. Salii un paio di scale e mi ritrovai sul piano dove avevano alloggio diversi uffici, tra cui quello dell'amministrazione. Ero fortunata: il corridoio era deserto, ma dovevo fare in fretta, prima che Rémy o qualche altro lacchè venisse a informare di nuovo i direttori. Estrassi una forcina dalla mia acconciatura disordinata e la infilai con mala grazia nella serratura della porta: un'abile mossa che avevo appreso da bambina insieme a Luc in una delle mie tante, lontane marachelle e via, la porta era aperta. Mia madre ne uscì trafelata e sconvolta.
«Meg! Ma come…» I suoi occhi si posarono sulla forcina e scosse il capo, senza avere però la forza di rimproverarmi.
«Cos'è successo? Perché ti hanno rinchiusa qui? E perché tu non hai protestato?»
«Non avevo scelta. O questo, o una cella in galera – i direttori sono stati molto chiari in proposito.»
Sospirò e mi spinse nell'ufficio, dove avremmo potuto parlare liberamente. «Hanno scoperto il trucco usato da Erik – il fantasma, ossia – per accaparrarsi i ventimila franchi.»
«E scommetto che centri anche tu.»
«Sì, ma solo in parte. Non sapevo che si trattasse di denaro. Ti racconto tutto dal principio: ecco, vedi, i direttori mi avevano dato una busta dicendomi di posarla sulla solita sedia nel palco numero 5. E così io feci. Ma dal fantasma avevo ricevuto altri ordini: ossia quello di infilare la busta datami dai direttori nella tasca di Richard e di posarne nel palco un'altra, consegnatemi in precedenza dallo stesso fantasma. Sentendo odore di truffa, pensai bene di agire di conseguenza, ma poi mi ricordai di Erik – ti aveva salvato la vita, Meg! E aveva promesso che saresti divenuta imperatrice da qui a pochi anni! Non potevo tradirlo! E così feci quel che mi aveva chiesto. Un mese dopo fui ricevuta nell'ufficio dei direttori, che mi spiegarono la truffa. La prima busta recava ben ventimila franchi – e io che avevo pensato si trattasse di semplici lettere! – e loro non l'avevano persa d'occhio per tutto il tempo dello spettacolo di quella sera nel palco numero 5, ma quando andarono a controllare – ebbene, i ventimila franchi erano scomparsi, sostituiti da banconote evidentemente false! Spiegai ai direttori cosa era avvenuto, ora comprendendo la tragicità di quella truffa a cui, seppure involontariamente, avevo contribuito. Il fantasma mi aveva chiesto di infilare la busta (quella con il denaro vero) nella tasca di Richard, e di posarne un'altra (quella con le banconote false) nel palco numero 5. Ma io, ti ripeto, non avevo idea che si trattasse di denaro: nessuno me ne aveva fatto accenno, tanto meno Erik – ero stata solo un viatico in quella truffa semplice ma ben organizzata! Il vero mistero era come il fantasma si fosse impossessato della busta con i veri ventimila franchi prendendola dalla tasca di Richard senza che questi o nessun altro se ne accorgesse. Per questo stasera mi hanno rinchiusa qui, con la minaccia di portarmi alla polizia se avessi protestato. E loro non vogliono che si venga pubblicamente a sapere dei loro guai con un fantasma. Arrecherebbe danno alla reputazione del teatro, capisci.»
Fremente di rabbia, mi massaggiai le tempie, cercando di non urlare. «Capisco. Ecco perché i direttori si stanno comportando in maniera strana. Ma non è l'unico misfatto perpetrato dal fantasma, stasera: Christine è scomparsa dal palco in piena rappresentazione.»
Mia madre si portò una mano alla bocca. «E tu credi si tratti di lui?»
«Chi altri?»
Antoinette Giry annuì, comprendendo la gravità della situazione. «Meg, è vitale che io rimanga qui dentro. Non posso uscirne, o rischio la galera. Ma tu devi promettermi che non andrai da sola in cerca di Christine.»
«E chi ha detto che andrò da sola?» risposi con un sogghigno a metà.
«Meg…!»
«Lo giuro, maman. Adesso devo cercare il visconte. Gli mostrerò la via per raggiungere i sotterranei di Erik, e possibilmente anche alla polizia.»
«Non crederanno mai alla vostra storia.»
«Lo so, ma dobbiamo tentare.» Le strinsi una mano e uscii dall'ufficio, diretta nuovamente nel foyer della danza. Lasciare mia madre lì da sola era come abbandonarmi dietro una parte di me, ma non potevo fare altrimenti. Non sapevo come Erik avesse escogitato il rapimento, ma il colpevole di quella vicenda era palese ai miei occhi. Dovevo ricongiungermi con Monsieur Nadir e il visconte e, insieme, preparare un piano…
Non dovetti cercare a lungo. Poco più avanti, dinanzi alla porta dell'ufficio dei direttori, trovai una folla accalcata e… uomini in divisa. Sicuramente gendarmi. Mi mossi con maggior cautela – non volevo attirare l'attenzione più del dovuto. Intravidi un berretto di astrakhan e sospirai di gioia.
«Monsieur Nadir!» lo chiamai in quello che era poco più di un sussurro. Lui si voltò, fissandomi con i suoi seri ma benevoli occhi verdi.
«Madamoiselle Meg, siete voi».
«Christine…»
«Sì, lo so. Ho riconosciuto il tocco del mostro.» Emise un lungo sospiro. «Solo Erik avrebbe potuto escogitare un trucco simile!»
Fu allora che vedemmo districarsi tra la calca una figura in frac e cappello a cilindro, un ricciolo biondo scomposto sulla fronte, i sottili baffi arricciati dal nervosismo.
«Dove andate così di fretta, Monsieur de Chagny?»
Egli si voltò e fissò i pallidi occhi azzurri su Monsieur Nadir – erano colmi di sorpresa e diffidenza insieme. «Ancora voi!»
Ancora?, mi chiesi. Che Raoul e Nadir Khan si fossero già incontrati?
«Chi siete?» proseguì il visconte.
«Ma come, lo sapete benissimo! Sono il Persiano!» rispose con decisione Monsieur Nadir.
Raoul annuì. Essendo frequentatore dell'Opera, doveva già aver avvistato quel misterioso individuo più di una volta. Mi scoccò un'occhiata sgomenta.
«Madamoiselle Giry, cosa fate qui?»
«La stessa cosa che fate voi, suppongo. Sono qui per Christine.»
Il visconte scosse il capo. «Non sapete in cosa vi state cacciando.»
«Oh, no, lo so come e più di voi, Monsieur visconte.»
Alle mie parole, Raoul apparve stranito. Fu il Persiano ad interromperci: «Mi auguro, Monsieur de Chagny, che non abbiate tradito il segreto di Erik.»
«E perché avrei dovuto esitare a tradire quel mostro?» rispose fieramente Raoul. «É forse vostro amico?»
Il Persiano e io ci rivolgemmo una breve occhiata d'intesa.
«Spero che non abbiate detto nulla di Erik, signore, perché il segreto di Erik è quello di Christine Daaé, e parlare dell'uno è come parlare dell'altro!»
«Monsieur» esclamò Raoul, sempre più impaziente, «a quanto pare siete al corrente di parecchie cose che mi interessano, tuttavia ora non ho tempo per starvi a sentire!»
«Ve lo ripeto, Monsieur de Chagny, dove andate così di fretta?»
«Non lo indovinate? Accorro in aiuto di Christine Daaé…»
«E allora restate, Monsieur, perché Christine è qui!» mi intromisi io, prendendolo per un braccio.
«Con Erik?» chiese il visconte in un sussurro.
«Con Erik» confermò il Persiano.
«E voi come fate a saperlo?»
«Eravamo entrambi alla rappresentazione. Abbiamo riconosciuto la mano del mostro» spiegai nel modo più conciso possibile. Raoul mi rivolse un'occhiata turbata.
«Quindi anche voi sapete…»
«Christine mi ha rivelato tutto. Ma ora non è il momento di tergiversare.»
«Cosa avete detto alla polizia?» proseguì il Persiano.
«Tutto quel che credo di sapere. Ma non mi hanno creduto. Il commissario mi ha detto che Christine sarebbe stata rapita da mio fratello, il conte Philippe…»
«Oh, Monsieur de Chagny, io non lo credo affatto…»
«Già, è impossibile, non lo pensate anche voi?»
«C'è modo e modo di rapire, e il conte Philippe, che io sappia, non ha mai fatto incantesimi.»
«Quindi è con un incantesimo che Erik ha rapito Christine?» feci io, perplessa, alzando un sopracciglio.
«Una sorta» mi rispose Monsieur Nadir, condiscendente. Poi si rivolse al visconte: «Penso di poter fare qualcosa per voi, Monsieur de Chagny, per questo vi ho fermato.»
«Potete condurmi da Christine?» chiese il povero giovane, concitato.
«Potrei tentare di condurvi da lei, sì, e anche da lui!»
«Quindi voi lo conoscete, Monsieur?»
Il Persiano non rispose. Si udì solo un altro profondo sospiro.
«Allora corriamo, Monsieur! I vostri argomenti sono convincenti, e io non sono altro che uno stupido… Corriamo! Mi affido interamente a voi! Come potrei non credervi quando nessun altro oltre a voi crede a me? Voi che siete l'unico a non sorridere quando si pronuncia il nome di Erik?»
Detto questo, il giovane prese le mani del Persiano tra le sue, febbrili, in segno di riconoscimento.
Il Persiano si portò un dito alla bocca. «Silenzio!» disse, spiando i rumori lontani del teatro, i più minuscoli scricchiolii che si producevano nei muri e nei corridoi vicini. «Non pronunciamo più questa parola qui dentro. Diciamo: lui. Avremo minori possibilità di attirare la sua attenzione.»
«Lo credete dunque tanto vicino a noi?»
«Tutto è possibile, Monsieur… se in questo momento non è con la sua vittima, nella dimora sul lago.»
«Ah, anche voi conoscete quella dimora?»
Il Persiano annuì, e ci condusse in un labirinto di corridoi che non tardai a riconoscere. Eravamo diretti verso il corridoio dei camerini e, presumibilmente, in quello di Christine. Mi ricordai dello specchio, via d'accesso all'appartamento sul lago.
«Che io sappia, ci sono tre passaggi segreti che conducono alla sua casa» dissi, respirando a pieni polmoni in quella corsa inaspettata. «Quello in Rue Scribe…»
«É chiuso» m'interruppe Raoul. «Ho già controllato – ne conoscevo l'esistenza grazie a Christine.»
«Io ho la chiave» rivelai.
«Davvero?» chiese Raoul, a dir poco sgomento.
«Sì, ma non conviene andare di lì. Passa per il lago, così come l'altro passaggio segreto che conosco. E noi non vogliamo superare il lago, vero?» mi rivolsi al Persiano, che annuì con un lieve brivido.
«Saremo vittime della trappola della Sirena. Conosco una via che ci condurrà direttamente alla casa sul lago, evitando le trappole del fantasma.»
Eravamo giunti dinanzi a una porta, che il Persiano aprì prontamente. Un attimo dopo sbucammo davanti all'uscio chiuso del camerino di Christine.
«Non sapevo che si potesse arrivare qui senza attraversare il corridoio dei camerini» dissi sorpresa.
«Neanch'io» si accodò Raoul. «Monsieur, voi conoscete benissimo l'Opera!»
«Non quanto lui!»
Feci per aprire per prima la porta del camerino. Ero certa che il passaggio di cui parlava il Persiano fosse quello a cui si accedeva grazie allo specchio girevole, che io non avevo mai visitato (se non quello dietro lo specchio della mia stanza). Questi tuttavia mi fermò, prendendomi gentilmente per un polso.
«Tornate da vostra madre, Madamoiselle. Prendetela e portatela via dall'Opera. È troppo pericoloso per voi scendere qui sotto.»
Mi rabbuiai dinanzi all'ingiustizia di quell'affermazione. «Se non è troppo pericoloso per voi, allora non lo sarà neanche per me.»
Egli sospirò. Sapeva che aveva a che fare con una persona ostinata. «Se Darius, il mio domestico, arriva in tempo, il visconte ed io presto saremo armati con due pistole. Voi sarete nuda e scoperta dinanzi ai tiri del fantasma. Non posso permettere che vi accada nulla di male.»
«Questa questione riguarda me quanto voi, lo sapete bene. Se non mi volete con voi…»
«Non ho detto questo…»
«Sì, ma era sottinteso. Sarei di peso, giusto?»
Il Persiano scosse il capo, e con esso il berretto di astrakhan. «Non volevo dire questo…»
Non mi vogliono perché sono una donna, è chiaro, pensai rabbiosa. Dovrei restare ad aspettare in un posto sicuro, non gettarmi nel pericolo come questi uomini.
Beh, se era così, io non avevo la minima intenzione di seguire i dettami dell'etichetta. Non l'avevo mai fatto, e non avrei cominciato quella sera. Corsi via, rapida come un gatto, prima che il Persiano o Raoul o chicchessia potesse acciuffarmi.
«Madamoiselle!»
«Meg!»
Udii le voci dei due uomini alle mie spalle, ma fu inutile. Non mi fermai, e loro non avevano tempo per rincorrere una ballerina testarda. Non me ne sarei rimasta con le mani in mano. Christine era importante anche per me (Erik è importante anche per me), e non l'avrei lasciata in balia di quel mostro senza tentare di liberarla. Se gli uomini non volevano il mio aiuto, ce l'avrei fatta da sola.
Ebbene, non conoscevo un passaggio che portasse direttamente alla casa di Erik, quindi avrei dovuto superare il lago a mio rischio e pericolo. Mi recai dapprima nella cucina di mia madre, e tra le posate afferrai un coltello affilato che riposi in un risvolto della manica – non sarei certo andata lì sotto a mani nude, come aveva detto il Persiano. Non sapevo maneggiare una pistola, ma una lama era differente. L'avrei puntata alla gola di Erik pur di costringerlo a lasciar andare Christine. In ogni caso, dovevo parlare con lui, assicurarmi che la mia amica stesse bene.
Attenta che nessuno mi vedesse, mi lasciai scivolare nel passaggio mostratomi da Figaro, insudiciando di terra e cemento secco l'abito grigio che indossavo, all'altezza dei gomiti e delle ginocchia. Mi sollevai di scatto, arrancando nel percorso buio che ormai conoscevo a memoria. All'entrata del passaggio avevo lasciato un lumicino spento e una scatola di fiammiferi – in caso di necessità, beninteso – che accesi senza indugio. E avevo fatto bene. Ignorando lo squittire dei topi che sarebbero divenuti poi il pranzo di Figaro, mi ritrovai di nuovo dinanzi al famoso bivio, e imboccai il vicolo di sinistra che portava al lago e alle sue acque plumbee.
Sciolsi il nodo che legava la solita barca all'ormeggio e mi ci tuffai dentro, facendola traballare col mio piccolo peso. Afferrai un remo e cominciai a vogare all'impazzata. Quando raggiunsi il centro del lago – sembrava che mille ragni di seta bianca si stessero arrampicando sulla superficie dell'acqua, tramutati in bruma da una fata capricciosa – presi fiato.
«Erik, sono io! Sono Meg! Non fare niente di stupido!»
Raggiunsi la riva senza problemi, segno che Erik aveva ascoltato. Lo vidi in piedi sulla rena argillosa, con indosso il solito frac nero, le braccia incrociate.
«Meg, va' via di qui.»
«Lascia andare prima Christine e poi ne riparliamo.»
«Meg…»
«Qualunque cosa tu abbia in mente, smettila subito!» lo afferrai per il bavero della giacca mentre lui, di contrasto, mi prendeva un polso, non senza gentilezza.
«Non puoi tenerla prigioniera qui per sempre.»
«Non ne ho intenzione, infatti.»
Questo non mi rincuorò. Il suo tono era stato di macabro sarcasmo, e dovetti deglutire un fiotto di bile per evitare di sputargli addosso il mio furore.
«Cosa vuoi fare, ucciderla? Ucciderla insieme a te?»
Vidi un lampo nei suoi occhi d'oro, e scoppiai in una risata lugubre e priva di qualsiasi gioia. Probabilmente stavo impazzendo anch'io. «Bene, bene: è così che si conquista una donna, Erik! Sei davvero un Don Giovanni!»
Lui mi strinse il polso con maggior fermezza, anche se non tanto da farmi male.
«Meg, metti alla prova la mia pazienza. Non puoi restare qui. Anzi, che dico: prendi tua madre e va via dall'Opera. Così saprò che almeno tu sarai al sicuro.»
«Al sicuro da cosa?»
«Da me» rispose lui con un pizzico di tristezza.
«Erik, non essere il mostro che loro temono. Non…»
Non feci in tempo a dire altro che lo vidi sfilarsi qualcosa dalla tasca. Prima che potessi reagire in qualche modo, magari afferrando il coltello che avevo infilato in un risvolto dell'abito, lui mi coprì la bocca e il naso con un fazzoletto umido, che emanava uno strano effluvio dolciastro che mi nauseò.
«Non ci prov… are… bastardo…»
Una cappa di buio mi racchiuse, un manto in cui ero imbrigliata senza pietà. Non potei sconfiggere l'oscurità che avanzava: non rammentai più nulla, se non quell'odore acre e la stretta di due braccia forti attorno alla mia vita sottile, il tintinnio del coltello che cadeva per terra.
Note dell'autrice: Eccoci ad un nuovo capitolo e, come vi avevo promesso nelle note del precedente, sono diplomata. Oddio, non ho ancora saputo il voto complessivo, visto che ho sostenuto l'orale ieri mattina, ma so per certo che sono andata bene: i prof mi hanno fatto i complimenti (mi hanno tenuto lì per quasi un'ora) e allo scritto in totale ho preso 37/45, il voto più alto della classe insieme ad altri miei due compagni. Sono molto sorpresa e molto, molto soddisfatta di me stessa come non mi accadeva da tempo. Ma parliamo del capitolo: qui Erik ritorna a fare il bastardo, mannaggia a lui, e Meg non ci tiene proprio a fargli combinare altri disastri. Tuttavia, sfortunatamente il fantasma sembra più furbo e preparato persino di lei... E ora, le recensioni!
Malinconica: Il fantasma dell'Opera è anche uno dei miei libri preferiti, ovviamente! E' bello avere questa passione in comune. Ed Erik che si cuce i calzini da solo... Sì, l'immagine fa ridere, ma pensa che potrebbe rammendarsi da sé anche le mutande. XD Meg è molto restia ad accorgersi dei sentimenti che prova verso quel gigantesco idiota di Erik: non ci sa fare con le emozioni, come abbiamo visto. Ci vorrà ancora molto tempo per questo, e tante cose dovranno accadere, ma alla fine giungerà quel momento, non temere. :) Grazie per i tuoi auguri per la maturità, a quanto pare il tuo in bocca al lupo mi ha portato fortuna! :D (Sono troppo felice di essermi liberata di un peso così gravoso.) Spero che ti piaccia anche questo capitolo, e alla prossima! :3
bibliofila_mascherata: Come ti è andata la maturità? Spero bene quanto a me, se non di più! Comunque no, dai, Christine non è stupida. Io l'adoro. Ma perché nessuno apprezza Raoul e Christine eccetto me? XD Beh, io penso sia molto coraggiosa e gentile e compassionevole, ma è anche (logicamente) spaventata a morte ed è molto consapevole dei guai che Erik può provocare. Proprio per questo non può amarlo: è lo stesso Erik che, col suo comportamento, la allontana da sé, come cerca di fargli capire Meg più volte (invano)! (Oh, Erik. Ma quando imparerai? *sospira*) Che ne pensi di questo capitolo? Cosa farà Meg una volta scoperti le vere intenzioni del fantasma? Riuscirà a non farsi drogare da quel maledetto un'altra volta? XD Un bacio, alla prossima! :3
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Capitolo 23 *** Il racconto del Persiano. ***
AVVISO SUPER IMPORTANTE: Il racconto del Persiano è tratto quasi del tutto esclusivamente dal libro di Leroux. Per capire le mie motivazioni nell'inserire un brano preso dal libro originale, vedete la nota molto importante all'inizio del capitolo 12. Le ragioni sono le medesime. Allo stesso modo, se questo costituisce un problema per EFP, fatemelo sapere. Grazie mille.
xxii.
il racconto del persiano
L'odore fresco dell'erba mi inondava le narici. Sedevo sul terreno molle di rugiada con il lungo abito di seta che mi fasciava le ginocchia, intenta ad osservare una bambina danzare nel prato. Mia figlia: boccoli neri e pelle del colore dell'ambra. La piccola, che non poteva avere più di quattro anni, rideva spensierata, il piedino immerso in una pozzanghera. Ma questo non turbò la sua gioia infantile.
Sorrisi e distesi le gambe: dopo l'ennesimo spettacolo, mi dolevano alquanto. Lavoravo troppo, mi diceva sempre mia madre, ma a me non importava: nulla eguagliava la sensazione di essere prima ballerina sul palco, i riflettori puntati sulla mia figura minuta e spigolosa (la luce sembrava renderla più morbida, più flessuosa).
Una mano giunse a cingermi le spalle, e io mi aprii in un sorriso da gatta: mio marito. Eccolo che arrivava – sempre in ritardo, il maledetto. Chissà in che modo strambo aveva occupato la giornata, quell'oggi.
«Cerca di arrivare prima, la prossima volta» mormorai contro la sua spalla.
Lui rise – la sua risata era bassa, dolce e incantevole…
Poggiai il capo sulle sue lunghe gambe. Se avessi alzato lo sguardo, avrei potuto incrociare il suo viso… Stavo per voltarmi, in preda ad uno strano languore…
Mi svegliai ricoperta di sudore gelido. Il mio petto si alzava e si abbassava in un moto affannoso, e cercava il respiro. Non era stato un incubo, tutt'altro. Ma quel sogno mi aveva turbata più di molti altri. Mi bruciarono gli occhi per le lacrime: perché non era vero, pensai, sconfitta. Niente di tutto quello si avvererà. Ecco perché era tanto doloroso, eppure splendido.
Figurarsi: io! – una figlia, prima ballerina… e mio marito. Non conoscevo il suo volto, ma doveva essere bellissimo, poiché in me avevo avvertito tanto amore da non poterlo più contenere.
Mi guardai intorno. L'ultima cosa che ricordavo era… ma certo, quel dannato di Erik che mi drogava per farmi assopire. Ed era la seconda volta che lo faceva senza il mio permesso. Mentalmente, imprecai contro di lui.
Dopodiché, tutto mi giunse alla mente come un'onda anomala, un maremoto che urtò contro le pareti del mio pensiero. Erik! E Christine, e Raoul, e il Persiano, e mia madre…
E poi… dove diavolo mi trovavo? Non nel mio camerino, non nei sotterranei dell'Opera. Ero in un salotto ammobiliato modestamente ma non privo di gusto, distesa supina su un divano, sulle ginocchia una coperta dagli splendidi motivi orientali. Il fragore della strada giungeva ai miei orecchi dalla finestra aperta. Diedi in un brivido. Cos'era quel nuovo scenario?
«Siete sveglia» disse una voce sconosciuta.
Un vecchio con indosso una palandrana e un berretto di astrakhan, dai lineamenti scuri, mi si avvicinò con cautela e un sorriso che a suo dire doveva parere rassicurante.
«Chi siete? Dove mi trovo?» chiesi interdetta.
«Sono Darius – solo Darius, il domestico di Monsieur Nadir Khan. E questo è l'appartamento numero 25 in Rue de Rivoli.»
Ma certo, la dimora del Persiano. Scossi il capo per schiarirmi le idee.
«Cosa ci faccio qui?»
«Tutto a suo tempo. Desiderate qualcosa di caldo – un po' di caffè con cardemomo, magari? Una specialità delle mie terre.»
Annuii, perplessa. Com'ero finita lì? Diedi voce al mio turbamento. Darius sorrise mestamente, porgendomi una tazza di bevanda calda, dal profumo dolce e invitante. Sorbii lentamente un sorso e ne gustai il sapore sulla lingua.
«Una carrozza vi ha condotta fin qui, priva di sensi. Il conducente mi ha detto di aver ricevuto specifiche istruzioni da un individuo ammantato di nero, di cui non riusciva a intravedere bene le fattezze.»
«Erik…» indovinai subito.
«Vi farà piacere sapere che vostra madre riposa nell'appartamento vicino, il numero 24. É rimasta al vostro fianco per ore, fin quando la stanchezza non ha colto anche lei. Le ho detto io di occupare la casa vicina – è a vostra disposizione, sapete, è di proprietà del mio padrone.»
«Monsieur Nadir» feci io, al che Darius annuì.
«Riposa nella sua stanza, adesso. Anche lui è stato portato qui, fradicio e privo di sensi, da un uomo vestito interamente di nero.»
Aggrottai la fronte. «Fradicio?»
«Sì, proprio così. È giunto qui ore dopo di voi e vostra madre, Madamoiselle. Sono certo che vi spiegherà tutto non appena sarà sveglio.»
«E mia madre…?»
«Sta bene. È solo un po' provata dalla preoccupazione.»
«Per ora la lascerò riposare. Quando si sveglierà, avremo tempo di parlare.»
Darius annuì la sua approvazione, quando un rumore nella stanza di fianco ci costrinse al silenzio. Con indosso una veste da notte ricamata in arabeschi orientali, per una volta senza cappello di astrakhan, giunse il Persiano, che si grattava la testa e aveva un colorito decisamente verdastro. I segni scuri sotto gli occhi non aiutavano a dare un'impressione diversa da quella di un uomo che doveva essere scampato a un pericolo non indifferente.
«Padrone!» esclamò Darius. «Sono lieto di vedervi in piedi. Desiderate qualcosa da bere?»
«No, grazie, mio fedele amico. Se bevessi qualcosa adesso, non sono certo che riuscirei a trattenere il mio stomaco. Puoi lasciarci, comunque. Ti ringrazio per i tuoi servigi.»
«Di niente, padrone» rispose Darius, e si congedò con un ultimo inchino, portando via con sé la tazza con dentro i resti del mio caffè speziato.
«Cosa è accaduto? Da quanto tempo sono qui?» volli informarmi subito, piena d'ansia. Il Persiano si sedette sul divano accanto a me, ed era palese il suo turbamento.
«Siete qui da quasi un giorno, Madamoiselle.»
«Un giorno?» esclamai, in tono leggermente stridulo. Quel dannato mi aveva drogata proprio per bene. «In un giorno possono accadere moltissime cose.»
«E così è stato. Dovete scusarmi per il mio comportamento di ieri sera, ma davvero, pensavo solo alla vostra sicurezza: col senno di poi, è un bene che non siate venuta con noi, poiché l'intera operazione di salvataggio è stata un disastro.» Monsieur Nadir sospirò gravemente.
«Cominciate dall'inizio, Monsieur» lo esortai con più gentilezza di quanta intendessi mostrare.
«Ebbene, mentre voi andavate per la vostra strada, il visconte ed io siamo entrati nel camerino di Christine Daaé. Darius arrivò in tempo, portando con sé un astuccio che conteneva due pistole di pregiata fattura, che avevo serbato intenzionalmente per momenti come questo.
“Volete battervi in duello?” mi interrogò il giovane.
“Effettivamente, Monsieur, ci stiamo recando a un duello. E che duello!”
Porsi una pistola a Raoul, e cominciai a palpare il grande specchio. Il visconte attendeva con ansia che gli mostrassi la via che lo avrebbe condotto da Christine… e dal mostro. Finalmente lo udii: lo scatto del contrappeso – un trucco che conoscevo bene, giacché in Persia Erik me lo aveva mostrato personalmente. Dall'interno, era un po' lento a girare, ma dall'esterno era un'altra storia: sarebbe ruotato rapidamente, e lo specchio sarebbe quasi sembrato di nebbia ad occhi inesperti… Lo specchio si solleva di qualche centimetro, poi spostandosi sale sul perno e comincia a ruotare. È una meccanica antica come gli splendori della sala dei tripodi a Delfi, dove utilizzavano lo stesso sistema. Io avevo scoperto il trucco degli specchi perché nei miei giorni all'Opera avevo indagato su Erik e sulle sue misteriose sparizioni. Fu allora che lo specchio cominciò a ruotare, ed io e il visconte, avanzando nel tunnel apertosi dinanzi ai nostri occhi, fummo nell'oscurità. All'interno del passaggio trovammo una lanterna cieca, che accesi prontamente, e una botola che portava ai sottopalchi più in basso, nei recessi del teatro. Il mio scopo era arrivare al terzo sottopalco, dove, dietro un'impalcatura del Roi de Lahore, avevo scoperto trovarsi un passaggio che portava direttamente alla casa sul lago.»
«Nel terzo sottopalco, dite? Ma è dove stato trovato il corpo impiccato di Joseph Buquet!» lo interruppi, basita.
«Già, e c'era un motivo per questo. Ma ascoltate il resto. Quel corridoio dietro gli specchi, insieme a tutti gli altri, era già bello che pronto per Erik, giacché era stato scavato ai tempi della Comune di Parigi, per consentire ai carcerieri di condurre direttamente i loro prigionieri nelle celle costruite nei sotterranei. Come voi ben sapete, infatti, a quell'epoca l'Opera, non ancora aperta al pubblico, era diventata una prigione di Stato.
Il visconte sembrava avere piena fiducia in me, grazie a Dio, e mi seguì attraverso la botola nel terreno. Il mio scopo era arrivare, non visti, fino al terzo sottopalco – impresa non da poco, e tuttavia possibile. Ci trovammo dietro un tramezzo che ci nascondeva perfettamente. Lì accanto, oltre una piccola scala, si udiva la voce del commissario di polizia, che stava evidentemente interrogando qualcuno. Scoprimmo così che Erik aveva drogato ben tre assistenti alla manutenzione del cosiddetto “organo” del teatro, che gestiva l'illuminazione dell'Opera. Il commissario non arrivò ad indovinare l'esistenza di Erik, ma intuì che uno sconosciuto nel servizio dell'illuminazione aveva causato quel guaio, e che era collegato al misterioso rapimento. Il commissario interrogò i due direttori, troppo emozionati per parlare in modo spedito, che lo informarono di un fatto curioso: non era la prima volta che il tecnico delle luci Mauclair si addormentava in quel modo. Era accaduta la stessa cosa proprio la sera del cuac della Carlotta – la malaugurata sera del crollo del lampadario. A quel punto, il visconte ed io avevamo finito di origliare. Raccomandai al giovane di posizionare la mano con la pistola davanti agli occhi, pronta per sparare, ma Raoul non comprendeva il motivo di un'azione tanto bizzarra. Così, difatti – disse – non sarebbe riuscito a prendere bene la mira. Ma non si trattava di sparare. Gli dissi che l'importante era tenere la mano come se stesse per premere il grilletto di una pistola, con il braccio piegato a metà; quanto alla pistola in sé, poteva anche metterla in tasca. “É una questione di vita o di morte!” soggiunsi con gravità, e lo invitai a seguirmi. Il buon giovane fece quanto gli avevo detto, anche se probabilmente non ne capiva le ragioni.»
«Il laccio del Punjab» intuii, come colpita da un lampo. «In quel modo, ad un eventuale attacco di Erik, la vittima è in grado di difendersi, tenendo la mano all'altezza degli occhi e impedendo al laccio di stringersi al collo.»
«Esatto. Siete intelligente, Madamoiselle. Ma il povero visconte non sapeva nulla del laccio del Punjab, e io non avevo tempo di spiegargli alcunché. Dal secondo sottopalco, in un dedalo di travi e cordami e vicoli nascosti, sbucammo nel terzo sottopalco. I chiudiporte erano stati chiamati dalla polizia per l'interrogatorio, quindi non avevamo nessuno che ci sbarrasse la strada. Trascinandoci sulle ginocchia e su una mano – dato che l'altra era sempre all'altezza degli occhi – arrivammo alla parete di fondo. Lì addossata c'era una vasta tela abbandonata appartenente allo sfondo del Roi de Lahore… e, vicinissimo, il sostegno di una quinta. Tra il sostegno e il fondale c'era appena lo spazio per un corpo – un corpo che un giorno era stato trovato, e che corrispondeva a quello di Joseph Buquet. Alla fine ingoiai ogni esitazione e mi decisi. Premetti la mano sulla parete, una pietra girò su se stessa, e ora nella parete c'era un foro. Questa volta caricai la pistola e feci cenno a Raoul di fare lo stesso. Il foro era molto stretto: avanzai con cautela, sempre tastando. Chiesi al visconte di sfilarsi gli stivali, poiché c'era un bel salto da fare e non dovevamo produrre il minimo rumore. Raoul fece quanto gli avevo chiesto. Gli dissi anche di lasciarsi cadere attraverso la botola nel pavimento, e di stare tranquillo, perché io lo avrei preceduto e lo avrei preso tra le braccia in tempo nella caduta. E così feci. Atterrammo nell'oscurità senza problemi. Quel che preoccupava entrambi era l'assenza di rumori: eravamo entrati nella casa del mostro, ma non un urlo, non un richiamo, non un gemito… Sentii i pensieri che attraversavano la mente preoccupata del visconte: e se fossimo arrivati troppo tardi? Ma no, non era possibile… Avevo preso ogni cautela… Diressi i raggi della lanterna cieca contro le pareti, cercando di trovare il foro dal quale eravamo passati, ma la pietra si era richiusa su se stessa. Il fascio luminoso gettò luce su qualcos'altro: una sorta di filo che esaminai e riconobbi all'istante. Lo allontanai da me con un sussulto d'orrore: era il laccio del Punjab! Scrutai le pareti con la lanterna cieca… e vidi che mi rispondeva solo il riflesso del dischetto rosso! Esso illuminò un albero i cui rami, rigogliosi, arrivavano fino al soffitto… Non poteva essere – eppure avevo visto il mostro passare di lì! Mi aveva ingannato!
“Il muro è uno specchio” fece Raoul, tastando la parete.
Trattenni a stento un grido d'orrore.»
«Oh, no…» gemetti, già presagendo il continuo di quella storia.
«Ebbene, eravamo precipitati nella camera dei supplizi! Era la prima volta che mi recavo nella dimora sul lago: preso dalla curiosità, da quando avevo scoperto che la presenza di Erik infestava l'Opera Garnier non avevo avuto pace. Lo aveva seguito fino al lago sotterraneo, senza la possibilità di vedere, in quel buio, dove approdasse con la sua piroga. Un giorno decisi di avventurarmi io stesso in quelle acque. Non l'avessi mai fatto! D'un tratto udii una voce melodiosa provenire dalla superficie del lago – da sotto la superficie, ossia.»
«La Sirena» commentai.
Lui annuì. «Esatto, e il suo fascino per poco non mi fu fatale. Era allo stesso tempo un respiro e una musica, così soave che non mi faceva alcuna paura. Al contrario, nel desiderio di avvicinarmi alla fonte di quella dolce e accattivante armonia, mi chinai verso l'acqua. Se fossi stato superstizioso o incline a credere alla favole, avrei pensato di avere a che fare con qualche sirena incaricata di turbare il viaggiatore tanto ardito da navigare sulle acque della casa del lago, ma grazie ad Allah, provengo da un Paese dove si ama troppo il fantastico per non conoscerlo a fondo, e un tempo io stesso l'avevo studiato attentamente attraverso Erik: con i trucchi più semplici, qualcuno che conosceva bene il proprio mestiere poteva mettere alla prova la povera immaginazione umana. Non ebbi alcun dubbio di trovarmi alle prese con una nuova invenzione di Erik, ma ancora una volta quell'invenzione era così perfetta che, chinandomi, mi sentivo spinto più dal desiderio di goderne l'incanto che da quello di smascherarne l'inganno. E mi chinai, sì… fino a rovesciarmi. Due braccia mostruose uscirono dall'acqua e mi afferrarono per il collo, trascinandomi nel gorgo con una forza irresistibile. Sarei certamente morto se non avessi avuto il tempo di lanciare un urlo, grazie al quale Erik mi riconobbe. Difatti era lui; invece di annegarmi, come era certamente sua intenzione, nuotò e mi depose dolcemente sulla riva.
“Ti rendi conto di quanto sei imprudente?” mi disse, alzandosi davanti a me, tutto grondante di quell'acqua infernale. “A che scopo tentare di entrare nella mia dimora? Non ti ho invitato. Non ho chiesto né di te né di nessun'altra persona al mondo! Mi hai salvato la vita soltanto per rendermela ancora più insopportabile? Per grande che sia il favore resogli, Erik finirà forse per dimenticarsene, e sai bene che nulla può fermare Erik, nemmeno Erik.”»
Sì, in quelle note alterate potevo quasi udire la voce del mio Erik.
«Lui seguitava a parlare, ma io non avevo altro desiderio che conoscere quello che già chiamavo il trucco della Sirena. Lui si prestò ad appagare la mia curiosità, giacché Erik, che è un vero mostro – almeno così lo giudico io, che in Persia avevo avuto l'occasione, ahimè, di vederlo all'opera – per certi aspetti è ancora un autentico fanciullo, presuntuoso e vanitoso, e nulla lo intriga quanto il provare, dopo aver stupito la gente, tutta l'ingegnosità davvero miracolosa della sua intelligenza.
Si mise a ridere e mi mostrò una lunga canna.
“É un banalissimo giunco” mi disse, “ma è comodissimo per respirare e cantare sott'acqua. È un trucco che ho appreso dai pirati del Tonchino, che in questo modo riescono a restare nascosti per ore intere in fondo ai fiumi.”
Gli parlai con tono severo. “É un trucco che per poco non mi ha ucciso!” dissi. “E forse è già stato fatale ad altri!”
Lui non mi rispose, ma si drizzò davanti a me con quell'aria infantile di minaccia che conoscevo bene. Non mi feci intimorire. Gli dissi chiaro e tondo: “Rammenti che cosa mi hai promesso, Erik? Niente più delitti!”
“Perché?” chiese, assumendo un'aria inoffensiva, “ho forse commesso qualche delitto?”
“Sciagurato! Hai dunque dimenticato le ore rosa di Mazenderan?”
“Sì” rispose, rattristandosi di colpo, “preferisco averle dimenticate. Tuttavia l'ho fatta ridere, la piccola sultana!”
“Tutto questo” dichiarai, “appartiene al passato. Ma ora c'è il presente, e tu devi rendermi conto di questo, giacché, se avessi voluto, per te non esisterebbe più! Ricordatelo, Erik: io ti ho salvato la vita! Giurami…”
“Che cosa?” disse. “Sai bene che non mantengo mai i miei giuramenti. I giuramenti sono fatti per incastrare i babbei.”»
«Sì, anche a me ha rifilato queste pillole di saggezza» commentai con asprezza.
Il Persiano proseguì: «”Erik…” gli dissi. “Giurami che… Joseph Buquet…”
“Buquet che cosa?”
“Sai benissimo quel che intendo dire! Giurami che è stato un incidente, che non sei stato tu ad ucciderlo!”
Lui scoppiò a ridere. Quando ride, è anche più spaventoso. Saltò nella barca sogghignando in modo così sinistro che non potei fare a meno di tremare.
“Ah” sogghignò. “Il capo macchinista. Ebbene, io non centro niente con quella storia! Niente! E ora, un consiglio, daroga… va' ad asciugarti, se non vuoi buscarti una polmonite. Non salire mai più nella mia barca, e soprattutto non tentare di entrare in casa mia! Non sempre ci sono, daroga, e mi dispiacerebbe dedicarti la mia messa da requiem!”
Detto questo, con una specie di ghigno, si mise in piedi a poppa e cominciò a vogare, dondolandosi come una scimmia. In quel momento sembrava proprio il fatale nocchiero, con in più i suoi occhi dorati, rilucenti nell'oscurità.
Da quel giorno rinunciai a penetrare nella sua dimora attraverso il lago. Ormai quell'accesso era fin troppo sorvegliato, soprattutto da quando sapeva che io lo conoscevo. Ma ero convinto che dovesse essercene un altro, poiché più di una volta avevo visto sparire Erik nel terzo sottopalco, proprio mentre lo spiavo e senza che potessi immaginare come. Da quando avevo ritrovato Erik, vivevo nel perpetuo terrore delle sue orribili fantasie, non tanto per me quanto per gli altri. E quando avveniva qualche incidente, non potevo fare a meno di dirmi: “Forse è stato Erik!”, come altri attorno a me dicevano: “É stato il fantasma!” Poveretti! Se avessero saputo che il fantasma esisteva in carne ed ossa ed era ben più terribile della vana ombra che evocavano, avrebbero smesso di scherzare a quel modo! Se solo avessero saputo di cosa era capace Erik, soprattutto in un campo d'azione come l'Opera!
Quanto a me, non vivevo più! Benché Erik mi avesse solennemente dichiarato di essere del tutto cambiato e di essere diventato il più virtuoso tra gli uomini, da quando era amato per ciò che era, frase che sul momento mi lasciò orribilmente perplesso, non potevo impedirmi di fremere. La sua orribile, unica e repellente bruttezza lo bandiva dall'umanità, e spesso avevo avuto l'impressione che non sentisse più alcuna remora nei confronti della razza umana.
Avevo ormai scoperto il bizzarro commercio morale che si era stabilito tra il mostro e Christine Daaé. Nascosto nel ripostiglio annesso al camerino della giovane diva, avevo assistito a mirabili consessi musicali, che facevano sprofondare Christine in una meravigliosa estasi; tuttavia non avrei mai pensato che la voce di Erik – che a suo piacimento diventava sonora come il tuono e dolce come quella degli angeli – potesse far dimenticare il suo orrendo aspetto. Capii tutto quando scoprii che Christine non lo aveva ancora visto! Ebbi occasione di penetrare nel camerino e, rammentando le lezioni che un tempo Erik aveva impartito anche a me, non mi fu difficile scoprire il meccanismo segreto che faceva ruotare la parete dello specchio. Nella medesima circostanza scoprii il percorso segreto che conduce alla fontana e alla prigione dei comunardi, come pure la botola che doveva consentire a Erik di introdursi direttamente nel sottopalco. Qualche giorno più tardi – la sera tragica in cui cadde il lampadario, ed ero certo che in quest'ennesima malefatta centrasse sul serio il mio Erik – quale non fu la mia meraviglia quando potei verificare con i miei stessi occhi che Erik e Christine Daaé si vedevano, e di sorprendere lui, chino sulla piccola fontana piangente, nel cunicolo dei comunardi, mentre rinfrescava la fronte di una Christine priva di sensi. Un cavallo bianco, il cavallo del Prophéte, scomparso dalle scuderie sotterranee dell'Opera, se ne stava tranquillamente al loro fianco. Mi feci vedere. Fu terribile. Vidi scintille sprigionarsi dagli occhi dorati e, prima di aver potuto pronunciare una sola parola, fui colpito in pieno volto, rimanendo stordito. Quando ripresi i sensi, Erik, Christine e il cavallo bianco erano scomparsi. Non ebbi dubbi che la poveretta dovesse essere prigioniera nella casa sul lago. Senza esitare, decisi di tornare su quella riva, malgrado il pericolo certo di una simile impresa. Per ventiquattro ore restai in agguato, nascosto in attesa che il mostro uscisse. Quell'attesa mi ripagò: udii un lieve sciabordio nel buio, vidi i due occhi dorati brillare come fanali, e subito dopo approdare la barca. Erik saltò sulla riva e venne verso di me.
“Sei qui da ventiquattro ore” mi disse. “Mi disturbi! Ti avverto che andrà a finire molto male! E sarai stato proprio tu a volerlo! La mia pazienza con te è stata prodigiosa! Credi di seguirmi, immenso imbecille, e invece sono io che seguo te: so tutto ciò che hai scoperto su di me qui dentro. Ieri ti ho risparmiato, nel cunicolo dei comunardi; ma te lo ripeto per l'ultima volta: non farti più vedere! Tutto questo è davvero imprudente, parola mia! Mi chiedo se conosci ancora il significato delle parole!”
Era così in collera che mi guardai bene dall'interromperlo. Dopo aver sbuffato come una foca, precisò il suo orribile pensiero: “Sì – bisogna che io mi spieghi una volta per tutte: a causa delle tue imprudenze finiranno per chiedersi che cosa stai cercando qui… e finiranno per scoprire che cerchi Erik… vorranno cercare Erik, come te… scopriranno la casa sul lago… E allora tanto peggio, vecchio mio! Tanto peggio! Io non rispondo più di nulla!”
Riprese a sbuffare come una foca.
“Di nulla! Se i segreti di Erik non rimangono i segreti di Erik, tanto peggio per parecchi membri della razza umana! È tutto quel che dovevo dirti, e – a meno che tu non sia un immenso imbecille – questo dovrebbe bastarti.” Si era seduto a poppa nella sua barca e percuoteva il legno della piccola imbarcazione con i talloni, in attesa di una mia risposta; gli dissi semplicemente: “Non vengo qui per cercare Erik.”
“E chi altri?”
“Lo sai bene: Christine Daaé!”
Mi replicò: “Sono nel pieno diritto di darle appuntamento a casa mia. Lei mi ama per quello che sono.”
“Non è vero! L'hai rapita e la tieni prigioniera.”
“Ascolta” mi disse, “mi prometti di non occuparti più dei miei affari se ti provo che sono amato per quel che sono?”
“Sì, te lo prometto” risposi senza esitare, convinto com'ero che non avrebbe mai potuto procurarsi una simile prova.
“Ebbene, ecco, è semplicissimo. Christine Daaé uscirà di qui quando vorrà, e ritornerà – sì, ritornerà! Perché lo vorrà… Ritornerà, perché mi ama per quello che sono!”
“Oh, dubito che ritorni! Ma è tuo dovere lasciarla andare.”
“Mio dovere, immenso imbecille? È mia volontà! È mia volontà lasciarla andare, ma lei tornerà – perché mi ama…! Tutto questo, ti giuro che finirà con un matrimonio – un matrimonio alla Madeleine, immenso imbecille! Mi credi, ora? La mia messa nuziale è già scritta… Vedrai che Kyrie!” Tamburellò ancora i talloni sul legno della barca, in una specie di ritmo che accompagnava cantando a mezza voce: “Kyrie – Kyrie – Kyrie Eleison! Vedrai, vedrai che messa!”
Se avessi visto che Christine ritornava da lui, in effetti non avrei potuto far altro che arrendermi all'evidenza, giacché una bellissima creatura ha comunque il diritto di amare il più orribile dei mostri, soprattutto quando, come il nostro, possiede il dono di incantare con la musica, e quando questa creatura è per l'appunto una valentissima cantante.
“E ora vattene! Devo uscire per fare compere!”
Così me ne andai, sempre preoccupato per la sorte di Christine Daaé. Non potevo liberarmi da un'indefinibile angoscia a causa dell'incredibile responsabilità che un giorno mi ero accollata lasciando vivere il mostro che oggi minacciava parecchi membri della razza umana. Con mia prodigiosa meraviglia, le cose andarono esattamente come mi aveva annunciato. Christine Daaé uscì dalla casa sul lago e vi tornò più di una volta senza alcuna apparente costrizione. Seguendo Erik, avevo scoperto la botola nel terzo sottopalco, dietro al fondale del Roi de Lahore, in cui era stato trovato il corpo impiccato di Joseph Buquet. Ma mi guardavo bene dall'entrare nella casa del lago quando Erik era presente. Ero poi sempre molto interessato all'intrigo di Christine e di Erik, non tanto per una mostruosa curiosità, ma piuttosto, come già detto, a causa di quel terribile pensiero che non mi lasciava mai. Se Erik scopre che non è amato per quel che è, possiamo aspettarci di tutto, pensavo.
Seppi presto la verità sui tristi amori del mostro. Dominava la mente di Christine con il terrore, ma il cuore della fanciulla apparteneva interamente al visconte Raoul de Chagny. Mentre questi ultimi giocavano entrambi, come due fidanzati innocenti, tra i camminamenti dell'Opera, io mi preparai a tutto – anche ad uccidere il mostro, se necessario. Un giorno, stanco di attendere il momento propizio, feci ruotare la pietra nel terzo sottopalco e udii subito una musica formidabile; Erik, lasciata aperta ogni porta, lavorava al suo Don Giovanni trionfante. Sapevo che era l'opera della sua vita. Mentre io rimanevo nel mio buco, lui cessò un attimo di suonare e disse con voce tonante: “Bisogna che questo sia finito prima! Molto prima!” Quelle parole mi fecero tremare nel profondo: sapevo che Erik intendeva inumarsi nella tomba non appena avesse terminato la sua opera massima. Il giorno del rapimento di Christine, dopo aver letto sul giornale del mattino l'annuncio delle nozze tra Christine e il visconte di Chagny, mi chiesi se dopotutto non avrei fatto meglio a denunciare il mostro. Ma – tornai a ragionare – una simile iniziativa non poteva che far precipitare la catastrofe incombente. Quella sera entrai nel teatro, aspettandomi di tutto. Il rapimento di Christine durante l'atto della prigione, che naturalmente sorprese tutti, mi trovò preparato. Immagino che anche voi, Meg, foste in allarme, ma per la vostra sicurezza non intendevo scatenarvi contro il mostro, capite. Pensai che questa volta era la fine per Christine, e forse per tutti. Se avessi denunciato l'accaduto, sarei stato scambiato per un pazzo visionario. Nessuno mi avrebbe creduto. Dovevo cavarmela da solo – o meglio, io e il visconte dovevamo cavarcela da soli, sormontando non pochi ostacoli. Vi ho già detto cosa accadde, e come finimmo nella camera dei supplizi: presto scoprirete il suo reale funzionamento, che per poco non ci ha costato la vita. Nella stanza degli specchi, con l'albero di ferro per gli impiccati, temevo che il povero visconte si facesse prendere dal panico e, in un gesto impulsivo, cominciasse a urlare il nome dell'amata, quando udimmo delle voci che provenivano dall'esterno della camera.
“Prendere o lasciare! La messa nuziale o la messa funebre!” Riconobbi la voce di Erik. Si udì un lamento, dopodiché un lungo silenzio. Non dovevamo farci scoprire. Se lui fosse stato conscio della nostra presenza lì, i nostri supplizi non avrebbero tardato a cominciare. Per controllare, gli sarebbe bastato guardare attraverso la piccola finestra invisibile dall'interno attraverso la quale gli appassionati di supplizi – soprattutto la giovane sultana – guardavano ciò che accadeva alle vittime nella camera. Gli eravamo alle costole e lui non lo sapeva. L'unica cosa che mi preoccupava era l'impulsività del visconte che, preso da una profondissima emozione, non poteva fare a meno di agitarsi ogni qual volta udiva uno di quei lamenti che credevamo appartenessero a Christine.
“La messa funebre non è allegra” proseguì Erik, “mentre la messa nuziale, dite un po', non è magnifica? Bisogna prendere una decisione e sapere ciò che si vuole; per quanto mi riguarda, è impossibile continuare a vivere così, sottoterra, in una tana come una talpa. Il Don Giovanni trionfante è terminato: ora voglio vivere come tutte le altre persone. Voglio avere una moglie con cui andare a passeggio la domenica. Ho inventato una maschera che può darmi il volto di chiunque. Per strada non si volteranno neppure. Ma tu piangi! Hai paura di me! Eppure in fondo non sono cattivo! Amami e vedrai! Avevo soltanto bisogno di essere amato per diventare buono! Se mi amassi, sarei mite come un agnello e potresti fare di me ciò che vorresti.”
Ben presto il gemito che accompagnava quella sorta di litania amorosa aumentò. Non avevo mai sentito nulla di così disperato, e sia io che Monsieur de Chagny riconoscemmo che quella spaventosa lamentazione apparteneva allo stesso Erik. Quanto a Christine, doveva essere da qualche parte, magari proprio dalla parte opposta della parete che noi avevamo davanti – immobile, ammutolita dall'orrore, senza nemmeno più la forza di gridare, con il mostro alle sue ginocchia.
Quel lamento era sonoro, ringhiante, rantolante come il pianto di un oceano. Per tre volte Erik proruppe in quel gemito che gli dilaniava la gola. “Tu non mi ami! Tu non mi ami! Tu non mi ami!”
Silenzio.
L'unico nostro pensiero era di avvertire Christine della nostra presenza senza che il mostro potesse sospettarlo. Ormai non potevamo uscire dalla camera dei supplizi a meno che Christine non ce ne avesse aperto la porta: soltanto a quella condizione potevamo esserle d'aiuto, perché non avevamo la minima idea di dove fosse quella porta.
D'un tratto il silenzio dall'altra parte fu turbato dal rumore di una suoneria elettrica. Si udì come un balzo da quella parte del muro e la voce di Erik che tuonava: “Suonano! Ma prego, accomodatevi!”
Un lugubre sogghigno. “Chi viene a disturbarci di nuovo? Aspettami qui un istante, vado a dire alla Sirena di aprire…”
Si udirono dei passi e una porta che si chiudeva. Capii soltanto una cosa, per un attimo noncurante del fatto che se il mostro era uscito, lo aveva fatto per compiere altri crimini: ora Christine era sola dietro quel muro!
Raoul cominciò a chiamarla: “Christine! Christine!”
Nessuna risposta. Il visconte dovette ripetere numerose volte il suo appello prima che una debole voce giungesse fino a noi.
“Sogno.”
“Christine, Christine! Sono io, Raoul!”
Silenzio.
“Rispondetemi, Christine! Se siete sola, in nome del cielo, rispondetemi!”
Allora la voce della fanciulla mormorò il nome di Raoul.
“Sì, sì, sono io! Non è un sogno! Christine, abbiate fiducia! Siamo qui per liberarvi! Ma non commettete imprudenze – quando sentite il mostro, avvertiteci!”
“Raoul… Raoul!”
Si fece ripetere più di una volta che non stava sognando e che Raoul era riuscito ad arrivare fino a lei, guidato da un compagno fidato che conosceva il segreto del rifugio di Erik.
Voleva che Raoul si allontanasse immediatamente. Tremava al pensiero che Erik potesse scoprire il suo nascondiglio, perché in tal caso non avrebbe esitato ad uccidere il giovane. In poche precipitose parole, ci informò che Erik era completamente pazzo d'amore e che era deciso ad uccidere tutti e anche se stesso con gli altri, se lei non avesse acconsentito a divenire sua moglie. Le aveva dato tempo per riflettere fino alle undici della sera seguente. Era l'ultimo rinvio. Erik aveva pronunciato una frase senza che Christine potesse comprenderla del tutto: “Sì o no; se è no, saranno tutti morti e sepolti!” Ma a me quella frase era chiarissima, perché forniva una terribile risposta ai miei timori.
“Potreste dirci dove si trova Erik?” le domandai.
“No! Sono legata… non posso muovermi.”
Sentendo questo, il visconte di Chagny ed io non potremmo trattenere un grido di rabbia.
“Ma dove siete?” domandava ancora Christine. “Ci sono solo due porte nella mia camera, la camera Luigi Filippo di cui vi ho parlato, Raoul… Una porta da cui entra ed esce Erik e un'altra che non ha mai aperto davanti a me e che mi ha proibito di oltrepassare, perché, così mi ha detto, è la più pericolosa di tutte le porte – la porta dei supplizi.”
“Christine, siamo dietro quella porta!”
“Siete nella camera dei supplizi?”
“Sì, ma non riusciamo a vederne la porta.”
“Ah, se solo potessi trascinarmi fin là! Picchierei sulla porta, cosicché voi potreste vedere dove è nascosta.”
“Ha una serratura?” chiesi.
“Sì.”
Ebbene, se dall'altra parte si apriva con una chiave, come tutte le porte, dalla nostra parte si apriva grazie a una molla e a un contrappeso, e non era una cosa facile da scoprire.
“Bisogna entrare in possesso della chiave di questa porta” dissi trafelato.
“Io so dov'è” rispose Christine, spossata dallo sforzo – probabilmente stava cercando di liberarsi, invano. “Ma sono legata troppo bene! Miserabile…!”
Seguì un singhiozzo.
“Dov'è la chiave?” chiesi, cercando di tranquillizzare Monsieur de Chagny.
“Nella camera, accanto all'organo, insieme a una piccola chiave di bronzo che pure mi ha proibito di toccare. Sono entrambe in un sacchetto di cuoio che lui chiama: il sacchetto della vita e della morte… Oh, Raoul, fuggite! Tutto qui è misterioso e terribile! Erik sta diventando completamente pazzo, e voi siete nella camera dei supplizi! Andatevene da dove siete venuti!”
“Christine” disse il giovane, “usciremo insieme di qui, oppure moriremo insieme! Non ti lascio sola!”
“Dobbiamo mantenere tutto il nostro sangue freddo” sussurrai. “Perché vi ha legata, Madamoiselle? Eppure non potreste evadere dal suo rifugio, lo sa benissimo!”
“Ho tentato di uccidermi! Questa sera il mostro, dopo avermi trasportata qui priva di sensi, metà narcotizzata, si è assentato. A quanto pare – così mi ha detto – era dal suo banchiere!»
«Ossia, era andato a fregare i ventimila franchi ai direttori» mormorai acida.
«Così pare. Christine continuò: “Quando è tornato, mi ha trovato col volto insanguinato! Avevo tentato di uccidermi – sbattendo la testa contro il muro!”
“Christine!” gemette Raoul, in preda all'angoscia.
“Madamoiselle” esclamai, “il mostro vi ha legata… Sarà lui a sciogliervi… Non si tratta che di recitare la commedia giusta per questo! Non dimenticate che vi ama!”
“Povera me – come potrò dimenticarlo?”
“Ricordatevene invece per sorridergli… supplicatelo… dite che quelle corde vi fanno male…”
Ma Christine ci disse: “Silenzio! Sento qualcosa… É lui! Andatevene, andatevene!”
Vi fu un sospiro formidabile e poi un grido d'orrore. Udimmo la voce di Erik.
“Ti chiedo perdono di mostrarti un volto simile! Sono proprio in uno bello stato, non è vero? È colpa dell'altro! Perché ha suonato? Io domando forse a chi passa che ore sono? Ora non domanderà più l'ora a nessuno. È colpa della Sirena…”
Un altro sospiro, ancor più formidabile, si sprigionò da quell'anima greve e insondabile.
“Perché hai gridato, Christine?”
“Perché soffro, Erik!”
“Credevo di averti fatto paura…”
“Erik, sciogliete queste corde – sono forse vostra prigioniera?”
“Tenterai ancora di morire.”
“Mi avete dato tempo fino a domani sera alle undici, Erik…”
“Dopotutto… dal momento che dobbiamo morire insieme… e che io ho fretta quanto te… sì, anch'io ne ho abbastanza di questa vita, capisci? Aspetta, non muoverti, ora ti libererò. Devi dire soltanto una parola: no!, e sarà subito finita, per tutti… Hai ragione. Perché aspettare fino a domani sera alle undici? Ah, sì, perché così sarebbe stato più bello! Ho sempre avuto la mania delle convenienze… della pompa… É infantile! Nella vita bisogna pensare solo a stessi, alla propria morte… Il resto è superfluo… Vedi come sono bagnato? Ah, mia cara, ho fatto proprio male a uscire, c'è un tempo da cani! A parte questo, Christine, credo proprio di avere delle allucinazioni: sai, quello che suonava poco fa alla Sirena – va' in fondo al lago per vedere se ora suona! – ebbene, assomigliava… Ecco, voltati… Sei contenta? Ora sei libera. Mio Dio! I tuoi polsi, Christine! Ti ho fatto male, non è vero? Soltanto questo meriterebbe la morte… A proposito di morte, bisogna che gli canti una messa!”
Ascoltando quei discorsi, non potei impedirmi di avere un orrendo presentimento. Chi aveva cercato di attraversare il lago, come un giorno avevo fatto io, cadendo nella trappola?
Ricordo che il Dies Irae che cantò ci travolse come un temporale. Sì, c'erano tuoni e lampi attorno a noi. Già altre volte lo avevo udito cantare – riusciva a far cantare persino le fauci di pietra dei tori androcefali sulle mura del palazzo di Mazenderan. Ma cantare così – mai, mai! Cantava come il dio del tuono…
Tutto d'un tratto, voce e organo si fermarono bruscamente. E si udirono le sillabe metalliche: “Che cosa ne hai fatto del mio sacchetto?” Ripeté ancora queste parole, furibondo, poi soggiunse: “Hai voluto che ti liberassi per prendermi il sacchetto, confessa!”
Si udirono passi precipitosi, la corsa di Christine che tornava nella camera Luigi Filippo.
“Perché fuggi?” diceva la voce rabbiosa che l'aveva inseguita. “Allora, vuoi rendermi quel sacchetto? Non sai che è il sacco della vita e della morte?”
“Ascoltatemi, Erik” sospirò la giovane donna, “poiché ormai è deciso che dobbiamo vivere insieme, che cosa vi importa? Tutto ciò che è vostro mi appartiene.” Lo aveva detto in modo così incerto e tremante da far pietà.»
Ma certo, Christine era una pessima bugiarda. E in quel momento tremava dallo spavento.
«”Vorrei visitare” riprese lei, “la camera che non conosco e che voi mi avete sempre tenuto nascosta – è una curiosità femminile!” aggiunse, in un tono che voleva sembrare giocoso ma che non dovette far altro che aumentare la diffidenza di Erik, tanto suonava falso.
“Non mi piacciono le donne curiose!” replicò Erik.»
«Sì, a questo ci ero arrivata anche da sola» mugugnai, ripensando a tutti i momenti in cui aveva rimproverato la mia impudenza.
«“Restituitemi il mio sacchetto – piccola curiosa!” E sogghignò mentre Christine lanciava un grido di dolore – le aveva strappato di mano il sacchetto. Fu proprio in quel momento che il visconte, non riuscendo più a trattenersi, lanciò un grido di rabbia e di impotenza, che mi fu estremamente difficile soffocargli dalle labbra.
“Ah!” fece il mostro. “Che cosa è stato? Non hai sentito, Christine?”
“No, no!” rispose la sventurata, “non ho sentito niente!”
“Mi era parso che qualcuno avesse gridato.”
“Un grido? State forse impazzendo, Erik? Chi volete che gridi in fondo a questa caverna? Sono stata io a gridare, perché mi facevate male! Non ho sentito proprio niente!”
“Perché parli così? Tu tremi! Come sei agitata… Menti! Hanno gridato! C'è qualcuno nella camera dei supplizi – ah, ora capisco…”
“Non c'è nessuno, Erik!”
“Il tuo fidanzato, forse!”
“Che? Io non ho fidanzato! Lo sapete bene!”
Un altro sogghigno malvagio. “Del resto, è così facile scoprirlo… Mia piccola Christine, amore mio, non c'è bisogno di aprire la porta per vedere cosa succede nella camera dei supplizi. Vuoi vedere? Ecco: se c'è qualcuno, vedrai illuminarsi lassù, vicino al soffitto, la finestra invisibile. Ecco fatto – spegniamo! Non avrai paura del buio, in compagnia del tuo maritino!” E qui rise di nuovo orribilmente.
“No! Ho paura!” riprese la voce agonizzante di Christine. “Vi ripeto che ho paura del buio! Quella camera non mi interessa più! Siete voi a farmi continuamente paura, come a un bambino, con la vostra camera dei supplizi! Allora mi sono incuriosita, è vero, ma ora non mi interessa più! Assolutamente!”
E ciò che temevo sopra ogni cosa cominciò automaticamente. Ci fu un incendio di luce. Il visconte di Chagny, che non se lo aspettava, fu tanto sorpreso da barcollare. E dall'altra parte esplose la voce piena di collera: “Te lo dicevo che c'era qualcuno! Vedi ora la finestra luminosa, lassù? Chi c'è dall'altra parte del muro però non la vede. Ora salirai sulla doppia scala. È qui per questo. Mi hai chiesto spesso a cosa servisse – bene, ora lo sai! Serve a guardare attraverso la camera dei supplizi… piccola curiosa!”
“Quali supplizi? Quali supplizi ci sono là dentro? Erik, Erik! Ditemi che volete solo farmi paura! Ditemelo, se mi amate, Erik!”
“Andate a vedere alla finestra, mia cara.”
Il visconte pareva sul punto di svenire, ed era normale, in quelle condizioni. Io, che già avevo assistito numerose volte a quel tetro spettacolo durante le ore rosa di Mazenderan, ero attento unicamente a ciò che si diceva dall'altra parte.
“Andate a vedere! Poi mi direte com'è il suo naso! Altrimenti, se non salite voi, salirò io!”
“Va bene, sì, andrò a vedere – lasciatemi!”
“Ah, piccina mia! Come siete graziosa… Siete proprio gentile a risparmiarmi questa fatica alla mia età! Ora ditemi com'è il suo naso! Se la gente si rendesse conto della fortuna di avere un naso, un naso tutto proprio, non verrebbe certo a cacciarlo nella camera dei supplizi!”
In quel momento, sentimmo distintamente, sopra le nostre teste, le parole: “Amico mio, non c'è nessuno!”
“Ne siete sicura?”
“In fede, no, non c'è nessuno.”
“Beh, tanto meglio! Che cosa avete, Christine? Suvvia, non vi sentirete male! Se non c'è nessuno! Come vi è sembrato il paesaggio?”
“Oh, interessante! Siete stato voi a costruire questa camera, Erik? Sapete che è davvero bella? Decisamente, siete un grande artista, Erik.”
“Sì, un grande artista nel mio genere.”
“Ma ditemi, Erik, perché l'avete chiamata la camera dei supplizi?”
“Oh, è semplicissimo. Innanzitutto, cosa avete visto?”
“Ho visto una foresta”»
Ma certo, pensai. Il riflesso dell'albero sulle pareti degli specchi dà l'effetto di essere proprio in una foresta. È un trucco abile.
«”E che cosa c'è in una foresta?”
“Degli alberi.”
“E allora, che cosa hai visto tra i loro rami? Cosa c'è in un ramo?” disse la voce terribile. “C'è una forca! Ecco perché chiamo la mia foresta la camera dei supplizi! Come vedi, è solo un modo di dire – io non mi esprimo mai come gli altri, non faccio niente come gli altri. Ma ne sono stanco, stanco per davvero! Ne ho abbastanza, sai, di avere una foresta in casa e una camera dei supplizi e di abitare come un ciarlatano nel doppiofondo di una scatola! Voglio avere un appartamento tranquillo, con porte e finestre normali e un'onesta moglie dentro, come tutti! Una moglie cui vorrei bene, che porterei a spasso la domenica, e che farei ridere tutta la settimana! Ah, vedrai, con me non ci si annoia! Non c'è ventriloquio al mondo più abile di me!”
E il miserabile (che effettivamente è il miglior ventriloquio del mondo) frastornava la fanciulla per distogliere la sua attenzione dalla camera dei supplizi. Stupido calcolo – Christine non pensava che a noi! Ripeté a più riprese, con il suo tono più dolce e supplichevole: “Spegnete la finestrella, Erik!” Ma Erik continuava a tempestare Christine con i suoi giochi da ventriloquio. D'un tratto potemmo sentire la sua voce provenire oltre la parete, vicino a noi, nella stessa camera dei supplizi, e quasi facemmo per avventarvici contro – quella stessa voce che aveva usato la sua abilità di ventriloquio per guastare la carriera della Carlotta con il suo cuac.
“Erik!” lo interruppe Christine, “tacete! Non vi sembra che faccia caldo qui?”
“Oh, sì” rispose lui. “Il calore diviene insopportabile.”
“Che cosa succede?” disse la voce rantolante d'angoscia della giovane. “Il muro sta bruciando!”
“Christine, mia cara, è per via della foresta accanto.”
“Che cosa volete dire…? La foresta…?”
“Ma non avete visto che era una foresta del Congo?”
E la risata del mostro si elevò così terribile che non riuscivamo più a distinguere i supplichevoli lamenti di Christine. Il visconte di Chagny gridava e percuoteva il muro come un pazzo – non riuscivo più a trattenerlo. Dopo che Erik ebbe finito di ridere in quel modo così orrendo, si udì il rumore di una rapida colluttazione, di un corpo che cadeva a terra e che veniva trascinato…»
Christine!, pensai, allarmata e furiosa.
«Il merito delle invenzioni di cosiddette “case dei miraggi” o “palazzi delle illusioni” va attribuito interamente a Erik, che costruì la prima sala di questo genere in occasione delle ore rosa di Mazenderan. L'albero si rifletteva nelle pareti esagonali della camera, dando l'effetto di una foresta infinita. Ma perché proprio un albero, e di ferro dipinto, poi? Perché doveva essere abbastanza solido per resistere a tutti gli attacchi della vittima, che alla fine dei giochi si sarebbe ad esso impiccata col laccio del Punjab. Ed essendo le pareti della sala fatte di specchi, non offrivano alcun appiglio. Si era in trappola. Il soffitto era luminoso. Grazie a un ingegnoso meccanismo di riscaldamento, si poteva aumentare la temperatura a piacimento… e nella camera dei supplizi essa doveva imitare l'atmosfera di una foresta africana. Vi lascio immaginare la disperazione degli sventurati che ne sono stati vittime.
Intravidi una scalfittura in uno specchio – in certi punti, esso era spezzato. Un disgraziato, le cui mani e i cui piedi erano meno nudi dei condannati delle ore rosa di Mazenderan, era di certo caduto in quell'illusione mortale e, impazzito dalla rabbia, aveva inveito su quegli specchi che, benché avessero riportato lievi danni, avevano continuato a riflettere la sua agonia. E il ramo dell'albero era disposto in modo tale che, prima di morire, aveva potuto vedere penzolare insieme a lui – suprema consolazione! – mille impiccati.
Sì, Joseph Buquet era passato di là!
Respirai a fondo. Restava un'unica scappatoia, a me che possedevo una conoscenza approfondita della maggioranza dei trucchi di Erik: quella che si apriva nella stanza Luigi Filippo. Non potevamo più contare sull'aiuto di Christine Daaé, dato che la povera ragazza era stata trascinata via dal mostro di modo che non disturbasse i nostri supplizi.
Ma innanzitutto bisognava calmare Monsieur de Chagny: le scaglie di conversazione che, malgrado la sua emozione, era riuscito a percepire tra Christine e il mostro avevano contribuito non poco a fargli perdere il controllo di se stesso; se a questo aggiungete l'impressione della foresta magica e l'ardente calore che cominciava a far grondare sudore sulle nostre tempie, non vi sarà difficile comprendere come il povero visconte fosse in preda a una certa esaltazione. Andava e veniva a vuoto, agitando la pistola contro il mostro invisibile e invocando “Christine! Christine!” a pieni polmoni. Io lo presi da parte e gli spiegai la logica dietro quella foresta, quell'arsura, e gli rammentai che ci trovavamo in una piccola camera – non dovevamo dimenticarlo mai. Egli si distese a terra – i supplizi già stavano agendo su di lui – mentre io tastavo ogni specchio nella speranza di trovare la molla che avrebbe fatto aprire la porta segreta attraverso il meccanismo utilizzato da Erik. Esplorai con cura le pareti, ma con quel calore sempre più abbondante era un'impresa ardua. Stavamo letteralmente cuocendo in quella foresta infuocata. Alla fine mi distrassi a un'esclamazione del visconte e dovetti ricominciare il mio lavoro d'accapo. Questo fu un duro colpo per entrambi. Dopo quel che mi parvero ore, non trovai altro che rami, bei rami di una foresta del Congo, in cui eravamo inesorabilmente persi… No, dovevo mantenere la mente lucida, anche se ormai il visconte era, come si suol dire, andato. Sosteneva di camminare già da tre giorni e tre notti nella foresta, in cerca di Christine Daaé, e che sarebbe morto pur di trovarla… La invocava con tale emozione da farmi venire le lacrime agli occhi. Ma non potevo far nulla per lui se non ricordargli che tutto ciò che vedevamo e sentivamo sulla nostra pelle era un trucco. Entrambi ci tastammo la gola in fiamme, arsi dalla sete. Giunse la notte – l'illuminazione si era affievolita, ma così non il calore. La notte nelle foreste dell'equatore è sempre pericolosa, soprattutto per chi, come noi, non aveva fuoco da accendere contro le belve feroci. Mi distesi accanto al visconte, rinunciando alla mia folle ricerca della molla. D'un tratto sentimmo il ruggito di un leone, ed ecco che Raoul si alzava, la pistola in pugno, pronto a far fuoco… ma era un altro dei trucchi di Erik, io lo sapevo bene, eppure l'illusione era così perfetta da destare anche in me il seme del dubbio. Sapevo cosa sarebbe seguito: dopo il leone c'era il leopardo, e poi il ronzio della mosca tsé–tsé. Cominciai a gridare il nome di Erik, invano, cercando di muoverlo a pietà – già una volta mi aveva risparmiato dalla trappola della Sirena, in fondo. Ma non udii risposta. Alla fine, rimanemmo pietrificati quando ci ritrovammo in un deserto di rocce, un'immensa e arsa nudità che ci circondava da ogni parte… Cominciavamo a morire di caldo, fame e soprattutto sete. Alla fine, vidi Monsieur de Chagny sollevarsi e indicare con un dito un punto lontano… c'era un'oasi! Un'oasi nel deserto ancestrale! E acqua… limpida come uno specchio… Ma no, era solo un altro trucco, e il più terribile di tutti: era il quadro del miraggio. Arrivati a destinazione, una volta capito che ad aspettarci c'era solo un altro specchio e non l'acqua, restava un'unica cosa da fare: impiccarsi all'albero di ferro! Così gridai a Monsieur de Chagny, ma quest'ultimo, scarmigliato e scottante per la febbre, mi mandò a quel paese senza tanti preamboli, e con me tutte quelle storie di miraggi, molle e specchi. Il supplizio lo aveva catturato, ed era naturale, era logico, che solo io avessi serbato qualche residuo di lucidità, dal momento che già tante volte mi ero trovato al cospetto di quell'orrore. Il visconte si trascinò fino all'oasi gridando “Acqua!” con la bocca spalancata come se bevesse… e anch'io, anch'io feci lo stesso… E non solo. Noi sentivamo l'acqua – l'udivamo sciabordare – una parola che si comprende con la lingua! Quale perfida mente aveva ideato tutto quello, perché quando ci apprestammo e leccare la sorgente d'acqua, le nostre lingue toccarono solo lo specchio rovente. Balzammo via dal dolore. Il visconte si puntò la pistola ancora carica alla tempia, mentre ricompariva – quale tempismo – l'albero di ferro… e io sapevo il perché! Raoul stava già mormorando: “Addio, Christine!” quando d'improvviso notai qualcosa sul pavimento… Fermai appena in tempo il braccio del visconte. Era un chiodo che sporgeva dal pavimento – avevo trovato la molla! La indicai al visconte e gli mostrai il chiodo nero che cedeva alla mia pressione. E allora non fu una porta ad aprirsi, ma una botola sul pavimento. Il visconte ed io respirammo l'aria fresca che proveniva dal suo interno come fosse un pezzo di paradiso. Egli era già pronto a gettarsi nel buco, ma io lo precedetti con la lanterna cieca. Ci trovammo in uno spazio umido, non troppo distante dal lago, dove sperammo – chissà – di trovare dell'acqua. Ad aspettarci però c'erano file di piccole botti accatastate l'una all'altra: ci trovavamo nella cantina di Erik! E quelle botti dovevano contenere il suo vino – sapevo che era un amante del buon vino… Ma erano sigillate ermeticamente. Con un temperino che portavo nella tasca interna della giacca, tentai di far saltare il tappo. In quell'istante mi sembrò di udire, come se venisse da molto lontano, una sorta di monotono canto il cui motivo mi parve noto, perché l'avevo sentito spesso nelle strade di Parigi: “Botti! Botti! Avete botti da vendere?” Anche il visconte aveva udito. “É buffo” disse, “sembra quasi che il canto provenga dalle botti, e che si sposti al loro interno.” E così era, difatti. Tornammo a concentrarci sulle botti e il loro contenuto: il visconte vi immerse le mani, ed esclamò subito: “Cos'è? Non è acqua!” Mi chinai anch'io… e senza pensarci due volte gettai via la lanterna cieca così bruscamente che si spense. Ciò che avevo visto nelle mani del visconte di Chagny… era polvere da sparo!
Il miserabile non mi aveva affatto ingannato con le sue vaghe minacce contro parecchi membri della razza umana! Fuori dall'umanità, si era costruito ben lontano dagli uomini una tana da animale sotterraneo, ben deciso a far saltare tutto con lui in una clamorosa catastrofe se quelli che dimoravano di sopra fossero venuti a braccarlo nell'antro in cui aveva rifugiato la sua mostruosa bruttezza.»
Mi misi le mani nei capelli. Dunque avevo fatto davvero bene a non condurre la polizia da Erik – non che le autorità mi avrebbero creduto sana di mente, comunque – visti i rischi che correvamo…
Ma continuai ad ascoltare il racconto del Persiano, sempre più concitato.
«Ora capivamo tutto ciò che il mostro aveva voluto dire con la sua abominevole frase: “Sì o no! Se è no, saranno tutti morti e sepolti!” Sì, sepolti sotto le macerie di ciò che era stato il grande teatro dell'Opera di Parigi! Si poteva concepire un crimine più spaventoso per lasciare il mondo in un'apoteosi di orrore? Preparata per garantire la tranquillità del suo rifugio, la catastrofe sarebbe servita invece a vendicare gli amori del più orribile mostro che avesse mai messo piede sulla terra! Domani sera alle undici… Aveva scelto bene il suo orario, ci sarebbe stata molta gente – in piena rappresentazione.»
«Voleva ucciderci tutti? Quell'abominevole bastardo!» Non potei trattenere un grido di rabbia alle parole di Monsieur Nadir, e strinsi i pugni fino a conficcarmi le unghie nel palmo della mano.
«Se Christine Daaé diceva no – domani sera alle undici – e come avrebbe potuto non dire no? Non avrebbe preferito sposarsi con la morte in persona che con quel cadavere vivente? Era forse al corrente che dal suo rifiuto dipendeva la fine di parecchi membri della razza umana?
Cercando di ritrovare i gradini di pietra che ci avrebbero ricondotti di sopra, fummo fulminati da un pensiero improvviso: “Che ora è?” Domani sera alle undici poteva essere adesso! Ci sembrava di essere rinchiusi in quell'inferno da giorni, anni, dall'inizio del mondo…
Nella camera degli specchi dimorava il buio. Gridammo con tutte le forze: Monsieur de Chagny invocava Christine, mentre io chiamavo Erik, ma fu vano. Nessuno ci rispose. Al visconte venne in mente di rompere l'orologio che aveva al polso per tastare le lancette e provare ad indovinare che ora era. E in effetti dalla loro posizione le lancette sembravano scoccare le undici in punto… ma di quale giorno? D'un tratto bussarono contro il muro. Si udì la voce di Christine che chiamava Raoul a squarciagola. Christine singhiozzava, non sapeva se avrebbe ritrovato il visconte ancora vivo! A quanto pareva, il mostro era stato tremendo – non aveva fatto altro che delirare in attesa che lei si degnasse di pronunciare quel sì che ancora gli rifiutava. Tuttavia, lei glielo aveva promesso a patto che lui l'avesse condotta nella camera dei supplizi, ma Erik si era ostinatamente opposto, proferendo atroci minacce nei confronti di tutti i membri della razza umana… Alla fine, dopo ore di quell'inferno, era uscito, lasciandola sola per riflettere un'ultima volta.
“Che ora è, Christine?”
“Sono le undici meno cinque!”
“Ma quali undici?”
“Le undici che devono decidere della vita e della morte! Me lo ha ripetuto andandosene. È spaventoso! Delira, si è strappato la maschera di dosso e i suoi occhi d'oro scagliano fiamme! Non fa che ridere! Ridendo mi ha detto, come un demonio esaltato: “Cinque minuti! Ti lascio sola a causa del tuo ben noto pudore… Non voglio che tu arrossisca davanti a me quando mi dirai sì, come fanno dei timidi fidanzatini! Diamine, sono un uomo di mondo!” Vi ho detto che sembrava un demonio esaltato! “Tieni” e ha attinto nel sacchetto della vita e della morte, “ecco la piccola chiave di bronzo che apre i cofanetti di ebano sul camino della camera Luigi Filippo. In uno di quei cofanetti troverai uno scorpione, nell'altro una cavalletta, due perfette imitazioni in bronzo fatte in Giappone. Non dovrai far altro che girare lo scorpione sul suo perno – ciò significherà ai miei occhi, quando entrerò nella camera Luigi Filippo, nella camera del fidanzamento: sì! Se invece giri la cavalletta, vorrà dire no!, e quella camera diverrà la camera della morte…” E rideva come un demonio esaltato! Quanto a me, non facevo che supplicarlo in ginocchio perché mi desse la chiave della camera dei supplizi, promettendogli di essere per sempre sua se me lo avesse concesso. Ma lui ha risposto che quella chiave non sarebbe più servita a niente e che l'avrebbe gettata in fondo al lago. E poi, continuando a ridere come un demonio esaltato, mi ha lasciata sola, dicendomi che sarebbe tornato cinque minuti dopo, perché sapeva qual è il dovere di un galantuomo nei riguardi del pudore di una donna! Poi mi ha gridato: “La cavalletta – stai attenta alla cavalletta! Non gira soltanto! Salta! Salta che è una bellezza!”
Il discorso di Christine era una sequela interrotta di frasi, parole sconnesse, esclamazioni, giacché anche lei, durante quelle ventiquattro ore, doveva aver toccato il fondo del dolore umano, e forse aveva sofferto più di noi! Christine si interrompeva continuamente per esclamare: “Raoul, stai male?” Palpava i muri, ora freddi, e chiedeva per quale ragione erano stati tanto caldi.
Mi ero conservato abbastanza lucido da comprendere che, se si girava la cavalletta, essa saltava… con parecchi membri della razza umana! Non vi era alcun dubbio che la cavalletta comandasse qualche scarica elettrica destinata a far saltare in aria la polveriera! In fretta e furia, Monsieur de Chagny che, dopo aver riascoltato la voce di Christine, sembrava aver recuperato la sua forza d'animo, spiegava alla giovane donna in quale tremenda situazione ci trovassimo, e che bisognava subito girare lo scorpione.
E lui, lui dov'era? Forse si era messo in salvo, o stava aspettando la formidabile esplosione… Non poteva certo sperare che Christine acconsentisse a divenire volontariamente la sua preda?
Alla fine udimmo i passi di Erik. Era entrato nella camera Luigi Filippo e aveva raggiunto Christine. Non pronunciava una parola. “Erik!” alzai la voce. “Sono io! Mi riconosci?”
A quell'appello, rispose subito con un tono straordinariamente calmo: “Dunque non siete ancora morti là dentro? Beh, ora cercate di starvene un po' tranquilli.”
Tentai di interromperlo, ma lui mi rispose, così freddamente da raggelarmi: “Un'altra parola, daroga, e faccio saltare tutto.” E aggiunse subito: “L'onore spetta alla signorina! La signorina non ha toccato lo scorpione, e neanche la cavalletta” (come parlava pacatamente, e con quanto spaventoso sangue freddo!) “Guardate: apro senza chiave – perché sono il signore delle botole e pertanto apro e chiudo tutto ciò che voglio, come voglio… Apro i cofanetti d'ebano: Madamoiselle, guardate… queste bestioline sono davvero ben imitate, e come sembrano inoffensive! Ma l'abito non fa il monaco! Se si gira la cavalletta, Madamoiselle, saltiamo tutti… Sotto i nostri piedi c'è abbastanza esplosivo per far saltare in aria un intero quartiere di Parigi. Se si gira lo scorpione, tutto l'esplosivo viene sommerso dall'acqua. Madamoiselle, in occasione delle nostre nozze, farete un magnifico regalo ad alcune centinaia di parigini che in questo momento applaudono un modesto capolavoro di Meyerbeer: farete loro dono della vita, poiché voi, Madamoiselle, con le vostre graziose mani” (che voce stanca, quella voce!) “girerete lo scorpione! E felici e contenti, ci sposeremo!”
Silenzio. Poi: “Se entro due minuti, Madamoiselle, non avrete girato lo scorpione – ho un orologio – io girerò la cavalletta… e la cavalletta salta che è una bellezza!”
Il silenzio che seguì fu il più tremendo che si possa immaginare. Non ci restava altro che pregare. Presentivamo fin troppo bene cosa stesse accadendo nella mente sconvolta di Christine Daaé, capivamo la sua esitazione nel far girare lo scorpione – e ancora una volta, se fosse stato lo scorpione a farci saltare tutti? Se Erik avesse mentito, decidendo di seppellirci tutti nell'abisso insieme a lui? Ne era perfettamente capace. Quando assumeva quel tono calmo e freddo, voleva dire che era pronto a tutto – al più tirannico misfatto o al più forsennato sacrificio.
Infine, la voce di Erik, questa volta di una dolcezza angelica: “I due minuti sono trascorsi… Addio, Madamoiselle…! Salta, cavalletta!”
“Erik” esclamò Christine, che doveva essersi precipitata sulla mano di lui, “giurami, mostro, giurami sul tuo infernale amore che bisogna girare lo scorpione!”
“Sì, per saltare alle nostre nozze.”
“Ah, lo vedi? Salteremo in aria!”
“Alle nostre nozze, ingenua ragazza! Lo scorpione apre il ballo! Ma ne ho abbastanza! Non vuoi girare lo scorpione? A me la cavalletta!”
“Erik!”
“Basta!”
Avevo unito le mie grida a quelle di Christine. Il visconte continuava a pregare… E poi: “Erik, ho girato lo scorpione!” Aspettammo di diventare nient'altro che briciole, perché dalla botola giungeva un sibilo inquietante… Non era affatto il sibilo del fuoco. Non sembrava piuttosto un getto d'acqua? L'acqua saliva fino a coprire le botti, e ci chinammo su di essa con le nostre gole infuocate… Ma l'acqua non si fermò alla scala della botola. Essa saliva con noi, allagava il pavimento… Bisognava che Erik chiudesse il rubinetto, di acqua ce n'era abbastanza. “Erik! C'è abbastanza acqua per la polvere! Chiudi lo scorpione!” Né Erik né Christine rispondevano, e ora l'acqua ci arrivava alle ginocchia… Non avevo mai assistito a un simile supplizio a Mazenderan, ma ora eravamo prigionieri dell'acqua! L'acqua che saliva al soffitto e ci inghiottiva, fino a impedirci il respiro… Noi nuotavamo, in attesa di annegare! Un ultimo grido… e ancora, tra i gorgogli, “Botti, botti! Avete botti da vendere?”»
Il Persiano strinse le mani sulle ginocchia, mentre io restavo ad ascoltare in un silenzio inorridito.
«Monsieur de Chagny ed io fummo salvati dalla sublime devozione di Christine Daaé. Aprendo gli occhi dopo che il buio della camera allagata ci aveva inghiottiti, mi ritrovai disteso su un letto, mentre il visconte era coricato su un divano. Un angelo e un diavolo vegliavano su di noi… Dopo i miraggi della camera dei supplizi, tutta quella mobilia così tranquilla che ci circondava era dissonante come la nota su una corda spezzata di un violino. L'ombra dell'uomo mascherato si chinò su di me e sussurrò: “Va meglio, daroga? Guardi questi mobili? È tutto ciò che mi resta della mia sventurata madre…” Mentre Erik parlava, Christine non diceva una parola. Portava in una tazza del cordiale, o forse del tè fumante; l'uomo mascherato gliela prese di mano e me la offrì. Il visconte dormiva. Erik, versando un po' di rum nella tazza, me lo indicò: “É tornato in sé molto prima che potessimo decidere se resterete ancora in vita, daroga. Sta benissimo – dorme… Non bisogna svegliarlo…” Ricordo che Erik lasciò la camera per un istante, mentre io mi sollevavo su un gomito per guardarmi intorno. Chiamai il nome di Christine, ma ella, dopo essersi avvicinata ed avermi poggiato una mano sulla fronte, si allontanò. Rammento che, nell'allontanarsi, non rivolse alcuno sguardo al visconte di Chagny, ma tornò a sedersi sulla poltrona – la sua sagoma bianca e silenziosa come una suora di carità che avesse fatto voto di silenzio. Erik ritornò con un paio di fiaschette, dopodiché mi tastò il polso. “Ora siete salvi tutti e due. Fra un po' vi ricondurrò di sopra, in superficie, per far piacere alla mia sposa.” Rivolsi di nuovo la parola a Christine, ma ella continuò a non rispondermi, immobile come una cariatide scolpita nel marmo. Erik mi fece bere una pozione, poi mi disse che non avrei dovuto rivolgermi alla “sua sposa” né ad altri, perché poteva essere pericoloso per la sorte di tutti. Da quel momento rammento solo l'ombra nera e la sagoma bianca chinarsi sul visconte di Chagny… Poi più nulla. Ero ancora molto debole, e muovermi in alcun modo mi provocava uno spaventoso dolore alla testa… Quando mi svegliai, ero in casa mia, sotto le cure del fidato Darius, il quale mi informò che, la notte precedente, ero stato trovato davanti alla porta del suo appartamento, dove dovevo essere stato trasportato da uno sconosciuto che, prima di allontanarsi, si era tuttavia preso il disturbo di suonare il campanello.
Appena sveglio, mandai a prendere notizie del visconte al domicilio del conte Philippe. Mi fu risposto che il giovane non si era fatto ancora vivo, mentre il conte Philippe era morto. Avevano trovato il suo cadavere in Rue Scribe, sull'approdo del lago dell'Opera. Rammentai la messa funebre che avevo ascoltato dietro le mura della camera degli specchi e non ebbi più dubbi. Conoscendo Erik, non mi fu difficile ricostruire il dramma. Dopo aver creduto che suo fratello avesse rapito Christine Daaé, si era precipitato all'inseguimento sulla strada di Bruxelles, dove sapeva che i due giovani erano diretti per la loro fuga d'amore. Non essendo riuscito a trovarli, era tornato all'Opera, dove si era ricordato delle straordinarie confidenze fattegli da Raoul sul suo fantastico rivale, aveva saputo che il visconte aveva cercato di penetrare nei sotterranei del teatro e alla fine era scomparso. Il conte, che non dubitava più della follia del fratello minore, si era a sua volta lanciato in quell'infernale labirinto sotterraneo, attraverso il cancello (di solito chiuso) di Rue Scribe, che egli aveva dato ordine di aprire. Non mi serve altro per spiegare il ritrovamento del corpo del conte sulla riva del lago dei morti.»
«Oh, Signore! Ha ucciso il conte?» esclamai strabuzzando gli occhi. «Quindi è a lui che aveva dedicato quella messa funebre!»
«Esatto.»
«Ma perché io sono qui?» chiesi, perplessa. «Sono giunta da Erik prima di voi e del visconte. Ma lui mi ha narcotizzata, vorrei sottolineare senza il mio esplicito permesso, e portato qui. Lontano dall'Opera…»
«Così come vostra madre. Ella dichiara di aver udito la voce di Erik nell'ufficio dell'amministrazione, che le spiegava il luogo dove ora dimorate e che doveva raggiungervi subito. Percependo il tono di allarme, Madame Giry si è precipitata qui al vostro fianco. Le abbiamo dato a disposizione l'appartamento numero 24 – sapete, è di mia proprietà, ma fino ad adesso non ho mai saputo che farne. Ora lo so.»
«E che ne è stato di Christine e del visconte?» chiesi, tremante di paura e orrore per la loro sorte. «Quel dannato non ha fatto esplodere il teatro, e Christine ha girato lo scorpione, quindi ha detto sì… Ma questo non vuol dire che abbia lasciato andare Raoul così semplicemente! Potrebbe essere ancora suo ostaggio, e Christine sua prigioniera!»
Non credevo che avrebbe mai fisicamente nuociuto a Christine, ma dopo il racconto del Persiano, avevo compreso che il suo istinto omicida–suicida era troppo forte per farvici conto. E poi, perché mi aveva lasciata andare prima che il dramma iniziasse? Mi aveva portata lì, a casa del Persiano – un luogo sicuro dove ci sarebbe stato qualcuno (mia madre e Darius) a prendersi cura di me. Che Erik con quel gesto avesse voluto risparmiarmi, sicuro com'era che Christine avrebbe girato la cavalletta e che tutti loro sarebbero saltati in aria? Questo pensiero mi turbò, e lo confessai al Persiano, insieme all'intera storia – che andava da mia madre quindicenne al mio tentato suicidio quasi trent'anni dopo. Gli confessai il curioso scambio morale (non sapevo come altro definirlo) tra me ed Erik, e lui non mi giudicò, né disse altro che potesse irritarmi. Si limitò ad annuire con aria grave. «Sì, deve essere stato questo il suo scopo – la vostra sicurezza. Credo che a suo modo si sia affezionato a voi e a vostra madre, Madamoiselle.»
Scossi il capo, senza parole. Dopo tutto, il fatto che provasse per me una sorta di muto affetto mi turbava quasi quanto la camera dei supplizi, di cui ora conoscevo a fondo il reale scopo. Non credevo che un uomo pronto a farsi esplodere insieme a un centinaio di persone perché afflitto da una incommensurabile disperazione – di vivere, di amare, di morire – potesse provare un tale riguardo nei miei confronti da volermi proteggere… da cosa? Da se stesso, il peggior mostro sulla faccia della terra. Eppure me lo aveva detto, quando il giorno prima lo avevo affrontato sulla riva del lago, poco prima che mi narcotizzasse. Mi aveva detto che mi avrebbe protetto da se stesso. E così aveva fatto.
«Incredibile» mormorai, scuotendo il capo e crollando sulla poltrona di fianco al Persiano. Egli mi batté una mano sulla spalla con fare conciliante. Non sapevo quale sarebbe stata la mia reazione nei riguardi di Erik una volta che lo avessi rivisto – perché la storia non era finita: anzi, era appena cominciata – ma ebbi la mia risposta quando Darius entrò in soggiorno e ci disse che un individuo in nero, di cui non riusciva a scorgere il volto, chiedeva di entrare. Monsieur Nadir ed io ci guardammo, non avendo dubbi sull'identità del misterioso nuovo venuto.
«Erik!» esclamammo entrambi, con un sospiro che faceva da eco al dolore nelle nostre anime.
Note dell'autrice: Troverete le risposte alle recensioni nel capitolo prossimo. Di nuovo, ribadisco che il racconto del Persiano appartiene a Leroux, così come gli eventi narrati da Nadir e accaduti nei sotterranei dell'Opera che questi racconta a Meg. Mi raccomando, è importante.
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Capitolo 24 *** Requiem per un sogno. ***
xxiii.
requiem per un sogno
Monsieur Nadir ed io balzammo in piedi, mentre nel soggiorno dell'appartamento in Rue de Rivoli faceva il suo ingresso il fantasma dell'Opera.
Darius, percependo il sentore della tensione che era calata, improvvisa e decisa come un fendente, si dileguò oltre una porta d'acero, ornata d'arabeschi a motivi floreali ricamati direttamente nel legno.
Lui… Come osava presentarsi lì come se nulla fosse? Come se la sua presenza non avesse del tutto scombussolato le nostre vite?
Appariva estremamente provato, come se avesse corso chilometri per giungere fino a noi. Non respirava: rantolava. Feci un passo in avanti, poi un altro, poi un altro ancora. Non mi curai della sua inspiegabile debolezza. Rapida come un felino, scattai e gli sferrai un pugno sul volto mascherato così forte da farlo barcollare all'indietro. Era stato un gesto tanto spontaneo che, anche se fosse stato in condizioni migliori, ero certa che non sarebbe riuscito a prevederlo e a schivarlo.
«Questo è per Christine, lurido figlio di puttana!» gridai tra i denti, tanto rabbiosa che il Persiano dovette afferrarmi per un braccio, sconvolto, per impedirmi di aggredirlo di nuovo.
«Madamoiselle!» fece quest'ultimo, troppo scioccato per dire altro. Schioccai le nocche arrossate del mio pugno destro, che sentivo dolere per il contraccolpo.
Erik non emise un gemito. Si asciugò in fretta un rivolo di sangue che gli colava dalla maschera.
«Lasciala stare, daroga. Me lo sono meritato, suppongo.»
Si raddrizzò in tutta la sua statura, ma appariva ancora stranamente esausto, quasi fosse sul punto di cadere a terra privo di sensi. Nadir mi circondò le spalle con un braccio, fermandomi dal prenderlo a calci, dal momento che già avanzavo di nuovo verso di lui.
«Assassino del conte Philippe, che cose ne hai fatto di suo fratello e di Christine Daaé?»
A quell'apostrofe formidabile del Persiano, persino io mi acquietai. Era la verità che cercavamo, non ulteriore sangue e violenza. Mi massaggiai le dita della mano destra, che ancora prudevano per un istinto atavico al quale ero sempre stata incline a dare ascolto.
Erik, ancora barcollante, tacque ancora. Poi, trascinatosi fino a una poltrona, vi si lasciò cadere emettendo un profondo sospiro. Sembrò scuoterlo fin nelle costole, nei polmoni. Dopodiché esordì, a piccole frasi spezzate, col respiro corto: «Daroga, non parlarmi del conte Philippe… Era già morto quando sono uscito di casa… Quando la Sirena ha cantato… É stato un incidente… un triste, penoso incidente… Era caduto, in modo semplice e naturale, nel lago…»
«Tu menti!» lo interruppe il Persiano, serrando gli impietosi occhi di giada.
Erik curvò il capo e proseguì: «Non sono venuto qui… per parlarti del conte Philippe… ma per dirti che… che sto per morire.»
Sobbalzai a quella dichiarazione inaspettata. Ma se stava benissimo – un incanto, proprio – fino al giorno precedente? Cosa gli era accaduto in quelle ore perché parlasse in tal modo? Sapevo che era ferito a un fianco, ma l'avevo aiutato a medicarsi (maledetto lui! Non avrei dovuto farlo!). Non era così grave. C'era qualcos'altro sotto.
«Dove sono Raoul e Christine?» incalzai io, trepidante. Se menti anche su questo, giuro che ti prendo a pugni di nuovo, e al diavolo il Persiano se tenta di fermarmi.
«Sto per morire.»
«Raoul de Chagny e Christine Daaé?» insistette Nadir, con tono sferzante.
Erik sembrò non sentirlo neppure. «D'amore, daroga… Morirò d'amore… Proprio così… L'amavo tanto! E l'amo ancora, daroga, perché ne morirò, te lo ripeto… Se tu sapessi com'era bella quando mi ha permesso di baciarla da viva, giurando sulla sua anima… Era la prima volta, daroga – la prima volta, capisci, che baciavo una donna… Sì, viva – l'ho baciata da viva ed era bella come una morta!»
Di quell'accozzaglia di morte, amore e baci non avevo compreso granché, perché dovete sapere, Monsieur Leroux, che Erik parlava con un filo di voce e sia io che il Persiano dovevamo tendere l'orecchio per udirlo. Quest'ultimo si mise a scuoterlo per un braccio.
«Vuoi dirci una buona volta se è viva o morta?»
«Perché mi scuoti così?» rispose stentatamente Erik. «Ti ripeto che sono io che sto per morire… Sì, l'ho baciata da viva…»
«E ora è morta?» dissi, mordendomi un labbro. Sulla lingua, sentii aspro il sapore di rame e sale.
Erik soggiunse come se non avessi detto niente, il che mi innervosì ancora di più: «L'ho baciata così, sulla fronte… e lei non ha ritirato la fronte dalla mia bocca! Ah, è una brava ragazza! Mi chiedete se è morta? Non credo, benché la cosa non mi riguardi più… No, no, non è morta! Se venissi a sapere che qualcuno le ha torto un solo capello…! È una coraggiosa e onesta ragazza che ti ha salvato la vita, daroga, per soprammercato, in un momento in cui non avrei dato un soldo per la tua pelle di persiano. In fondo, nessuno si occupava di te. Perché eri laggiù con quel ragazzo? Per di più stavi rischiando la vita! Parola mia, lei mi supplicava per il suo giovanotto, ma io le avevo risposto che, visto che aveva girato lo scorpione, ero divenuto per ciò stesso, e con il suo beneplacito, il suo fidanzato; che a lei non servivano due fidanzati, cosa più che giusta anche questa. Quanto a te, non esistevi, non esistevi già più e, te lo ripeto, saresti morto come l'altro fidanzato!
Tuttavia, daroga, stai bene a sentire: poiché voi due gridavate come ossessi a causa dell'acqua, Christine è venuta da me con i suoi grandi e begli occhi azzurri, spalancati, e mi ha giurato sulla sua anima che avrebbe acconsentito a diventare la mia sposa da viva! Fino ad allora, daroga, nel fondo dei suoi occhi avevo sempre visto una sposa morta; era la prima volta che vi leggevo una sposa viva! Era sincera, aveva giurato sulla sua anima. Non si sarebbe uccisa. Il patto era concluso. Mezzo minuto più tardi, tutte le acque erano riconvogliate nel lago, e ho dovuto tirarti fuori la lingua, daroga, perché questa volta – parola mia – ho proprio creduto che ci avresti lasciato le penne. Finalmente! Ecco, era fatta! Dovevo soltanto riportarvi a casa vostra, in superficie. Quando hai sbarazzato della tua presenza il pavimento della camera Luigi Filippo, ci sono tornato io, da solo.»
«Che cosa ne avevi fatto del visconte di Chagny?» interruppe il Persiano.
«Eh, cerca di capire… Quell'altro, daroga, non potevo riportarlo subito in superficie… Era un ostaggio.»
«Bastardo» sibilai contraendo la mascella, ma Erik – di nuovo – mi ignorò bellamente, e proseguì: «Ma non potevo neppure tenerlo nella casa sul lago, per via di Christine. Allora l'ho comodamente rinchiuso, l'ho educatamente incatenato (il profumo di Mazenderan l'aveva reso simile a una pappa molle) nel sotterraneo dei comunardi che si trova nella zona più deserta della più infima cantina dell'Opera, sotto il quinto sottopalco, dove nessuno va mai e da dove non ci si può far sentire da nessuno. Ero tranquillissimo e sono tornato accanto a Christine. Lei mi aspettava…»
A quel punto del suo racconto, Erik si alzò così solennemente che sia io che il Persiano, che avevamo ripreso posto sul divano, dovemmo alzarci, quasi avvertendo che era impossibile restare seduti in un momento tanto grave. Nadir si tolse perfino il berretto di astrakhan.
«Sì, mi aspettava!» proseguì Erik, che cominciò a tremare come una foglia. «Mi aspettava in piedi, viva, come una vera fidanzata viva, che aveva giurato sulla sua anima… E quando mi sono avvicinato, più timido di un bambino, lei non è fuggita… No, no… É rimasta… Mi ha atteso… Mi è parso addirittura, daroga, che abbia un po' – oh, non molto – ma un po', come una vera fidanzata, teso la fronte… E… e… l'ho baciata! Io…! Io…! Io…! E lei non è morta! È rimasta naturalmente accanto a me, dopo che l'avevo baciata, così, sulla fronte… Ah, com'è bello, daroga, baciare qualcuno! Tu non puoi capirlo! Ma io – io! Mia madre, daroga, la mia miserabile madre non ha mai voluto che la baciassi… Mi rifuggiva, gettandomi la maschera… E nessun'altra donna – mai, mai! Ah! Allora, proprio così… con una simile felicità, proprio così, ho pianto. E piangendo sono caduto ai suoi piedi… E ho baciato i suoi piedi, i suoi piccoli piedi, piangendo… Anche tu ora piangi, daroga… Anche lei piangeva – l'angelo ha pianto…»
E in effetti, mentre Erik singhiozzava, il Persiano faceva fatica a trattenere le lacrime davanti a quell'uomo che rantolava, ora di dolore e ora di commozione. Io stessa sentivo gli occhi bruciare, e dovevo mordermi il labbro a sangue per ricacciare indietro le lacrime tanto odiate.
«Daroga, ho sentito le sue lacrime colare sulla mia fronte – la mia fronte! Erano calde, e dolci… Le sue lacrime coprivano tutta la mia maschera, si mescolavano alle mie nei miei occhi… colavano fino alla mia bocca… la mia specie di bocca! Ah, le sue lacrime su di me! Sta' a sentire, daroga, sta' bene a sentire che cosa ho fatto… Ho strappato la mia maschera per non perdere una sola delle sue lacrime… E lei non è fuggita! Non è morta! È rimasta viva, a piangere… su di me, con me… Abbiamo pianto insieme! Signore del cielo! Mi avete fatto dono di tutta la felicità di questo mondo!»
Detto questo, Erik crollò nuovamente sulla poltrona, rantolando.
«Ah, non è ancora giunto il momento di morire… Lasciami piangere ancora» disse al Persiano. Dopo un istante, Erik riprese il suo racconto: «Ascolta, daroga, ascolta bene questo… Mentre ero ai suoi piedi, ho sentito che diceva: “Povero sventurato Erik!”, e mi ha preso la mano! Io, mi capisci, ormai non ero altro che un povero cagnolino pronto a morire per lei… Figurati che avevo in mano un anello, un anello d'oro che le avevo regalato e che lei aveva perduto… ma che io avevo ritrovato… una fede. L'ho infilata nella sua piccola mano e le ho detto: “Tieni, prendila! Prendila per te… e per lui… Sarà il mio regalo di nozze – il regalo del povero sventurato Erik… So che ami quel giovane… Non piangere più!” Lei, con una voce dolcissima, mi ha chiesto che cosa intendessi con quelle parole, gliel'ho spiegato, e allora lei ha compreso subito che ormai ero ridotto a un povero cagnolino pronto a morire… Ma lei – lei poteva sposare quel giovanotto quando voleva, perché aveva pianto con me… e aveva detto: “Povero sventurato Erik!”
Sono andato a liberare il giovane visconte e gli ho detto di seguirmi da Christine… Si sono abbracciati in mia presenza nella camera Luigi Filippo – Christine aveva il mio anello… Ho fatto giurare a Christine che, dopo la mia morte, una notte sarebbe venuta, raggiungendo il lago dalla parte di Rue Scribe, per seppellirmi in gran segreto con l'anello d'oro che lei avrebbe dovuto portare fino a quell'istante… Le ho detto dove avrebbe trovato il mio corpo e che cosa avrebbe dovuto farne… Allora Christine mi ha baciato anche lei, per la prima volta, sulla fronte – su questa mia fronte! E se ne sono andati entrambi… Christine non piangeva più… soltanto io piangevo… Daroga, daroga… se Christine manterrà la sua promessa, tornerà presto!»
Erik tacque. Monsieur Nadir ed io ci scambiammo un'occhiata: eravamo entrambi tranquillizzati sulla sorte di Raoul e Christine, giacché nessun membro della razza umana avrebbe potuto mettere in dubbio, dopo averla udita, la parola di Erik che piangeva.
«Quando sarò prossimo alla fine, daroga» annunciò dopo una lunga pausa, «ti invierò tutte le lettere che Christine ha scritto al visconte, e che mi ha poi affidato. E a te, Meg, il suo diario.» Per la prima volta da quando era entrato nell'appartamento in Rue de Rivoli, si rivolse direttamente a me. Guardarlo negli occhi ancora umidi mi fece male. Avevo voglia di colpirlo con un altro pugno, di stringerlo a me in tutto il suo dolore. Non volevo che morisse, oppure volevo ucciderlo io con le mie mani? Non lo sapevo. Non sapevo più nulla, se non che mi aveva cambiato e salvato la vita, e io non riuscivo ad odiarlo. Non del tutto, perlomeno. Odiavo le sue azioni e colui che le aveva commesse, ma non l'uomo che aveva pianto dinanzi a me quel giorno; era lo stesso che mi aveva risparmiata, salvata, aiutata. Non potevo essergli indifferente, come non lo era il Persiano, che aveva lo sguardo gonfio di pietà.
«Quando sarò morto» riprese, «pubblicherete il mio necrologio sull'Epoque.»
Era tutto.
Io crollai sul divano, senza parole, senza rivolgergli alcun gesto o alcuna parola mentre il Persiano lo accompagnava alla porta e Darius lo sorreggeva fino al marciapiede. Lanciai un'occhiata alla finestra: i raggi della luna ricamavano ragnatele sul mio viso in ombra e sulla scena che si stava svolgendo in strada. Una carrozza si allontanò in tutta fretta, probabilmente diretta a place de l'Opéra.
Monsieur Nadir si sedette di fianco a me e non disse nulla per qualche minuto. Il silenzio era bianco e assordante.
«Vi accompagno all'appartamento numero 24. Credo proprio che vostra madre desideri vedervi.»
E così fece. Lo seguii come un automa oltre la porta e sul pianerottolo, ed egli mi accompagnò fin sulla soglia. Mi rivolse un'ultima stretta di mano, dichiarando che quell'appartamento da oggi in poi sarebbe stato ad uso e consumo di mia madre ed io, e che avremmo sempre avuto lui e Darius a nostra disposizione. Su entrambi pesava il segreto dell'esistenza di Erik, che potei alleggerire solo quando mia madre, con gli occhi lucidi, mi strinse a sé in un abbraccio che durò più di quanto potessi contare, felice di avermi al sicuro tra le sue braccia.
Quella notte ci raccontammo una storia: la storia di un bambino dallo sventurato volto che era cresciuto per diventare il terrore dell'Opera, mutato in bestia per poi essere domato dalle lacrime di un angelo. E, finalmente, piansi. Per Christine, per l'uomo che amava, per lui. Un po' anche per me stessa, testimone di quella vicenda straordinaria che non avrei potuto raccontare a nessuno. Sarebbe rimasto un segreto, appena un sussurro, tra me, mia madre e Monsieur Nadir, ora che Erik… Erik…
Mia madre mi cullò fino a quando il sonno mi raggiunse, sebbene non volessi dormire – mi sembrava di aver già dormito abbastanza. Il sole dell'alba ammantò il mio viso e il mobilio semplice dell'appartamento: mia madre ed io eravamo distese sul letto, l'una di fianco all'altra. Avevamo trascorso la notte a parlare, ma io non ero stanca. Non più. Era ora di tornare a casa, all'Opera. Darius, che venne a svegliarci con in mano un vassoio di una magnifica colazione – pane, miele e porridge fatto in casa – ci informò che una carrozza era a nostra disposizione, sulla strada, in caso avessimo voluto tornare lì, dove tutto era cominciato. Assentii e lasciai mia madre, che rimase in Rue de Rivoli per discutere “di un affare importante, ma di cui non dovevo preoccuparmi” col Persiano. Prima di uscire, mi detersi il viso in una bacinella d'acqua, evitando di concentrarmi troppo sulle mie occhiaie riflesse nello specchio. Indossavo ancora gli abiti del giorno prima, e avevo fretta di cambiarmi e di ricominciare la mia routine quotidiana di lezioni di danza, sperando che almeno questa potesse per qualche attimo farmi dimenticare il pensiero di Erik che moriva metri e metri sotto i miei piedi, nella sua tana nascosta.
Mi fu impossibile però far svanire dalla mia mente, dove erano come incise a fondo con uno scalpello, le ultime parole che Christine mi aveva rivolto, o meglio vergato, in una lettera che trovai nel mio camerino e che strinsi al cuore quasi potesse imprimermi nel profondo il lieve effluvio di gelsomino della mia amica ormai lontana. Conservo ancora la lettera, che ora qui vi porgo:
Cara amica mia,
Erik mi ha giurato che ti trovavi al sicuro, e non ho potuto non credere alle lacrime smascherate su quel povero volto sventurato, poiché – come ormai il nostro amico Persiano ti avrà già raccontato – tanto in lui è cambiato da quando abbiamo pianto insieme, le lacrime dell'uno mischiate con quelle dell'altra. L'ho sentito diventare umano sotto la mia pelle, e non ho mai visto nulla di più compassionevole di quel disgraziato che piangeva ai miei piedi e che mi lasciava andare con l'ultima raccomandazione di seppellirlo col suo anello – dovrei dire nostro – prima di andare via definitivamente dal Paese. Devi infatti sapere che, quando leggerai questa lettera, io sarò già lontana da Parigi. L'inchiesta sulla morte del conte ha come sospettato Raoul, che naturalmente è innocente, ma sarebbe difficile provarlo. In questo momento siamo sulla strada che ci porterà da una delle sue sorelle, e lì attenderemo prima di partire per la mia terra, la Svezia. Lì Raoul ed io potremo, da sposati, crearci una vita insieme, la vita che ho sempre desiderato e di cui Erik mi ha fatto dono. Porteremo con noi anche la mia cara madre adottiva. Non posso credere che tornerò a casa, finalmente. E malgrado il mio cuore pianga per l'uomo che ormai non posso più chiamare mostro e per l'Angelo che tanto amavo, custodirò queste rimembranze per sempre – ma è ora di ricominciare a vivere, Meg. E sento di potercela fare anche da sola, sebbene io non sia sola, ho Raoul al mio fianco. Mi rivedrai prima della fine, amica mia, te lo prometto. Non me ne sarei andata, altrimenti, senza la sicurezza che presto o tardi ti rivedrò di nuovo. Sei stata presente per me in un momento in cui qualsiasi altro sarebbe fuggito, e non lo dimenticherò. Non ti dimenticherò mai.
A presto, dolce amica mia.
Con amore,
la tua Christine
Poco ci volle perché non versassi altre lacrime su quel foglio di carte, rovinando così la bella grafia chiara di Christine. Ci saremmo riviste, allora – era una promessa. E Christine Daaé manteneva le sue promesse, da donna onesta qual era. Strinsi la lettera al cuore come se così facendo potessi stringere a me la mano fragile eppure così forte della mia vecchia amica. Già sento la tua mancanza, Christine. Ero lieta che potesse coronare il suo sogno d'amore col visconte: entrambi meritavano un lieto fine, dopo la brutta avventura che li aveva coinvolti fin quasi alla morte. E tuttavia, il pensiero di non rivedere più il caro volto di Christine nei corridoi d'oro e marmo dell'Opera Garnier mi scavava nel petto una voragine spoglia come un albero in inverno.
Ci saremo riviste, diceva, e ci contavo. Quanto a me, diventai nuovamente invisibile in quei giorni di puro caos. All'Opera non si faceva altro che parlare della scomparsa di Christine e del visconte, e della morte del fratello di quest'ultimo, Philippe de Chagny. Io, che conoscevo i particolari e il vero colpevole di quella vicenda, vidi bene di tacere. Difatti, quando mia madre tornò da Rue de Rivoli – era stato Monsieur Nadir in persona ad accompagnarla gentilmente in carrozza – mi prese in disparte prima che le lezioni del mattino cominciassero e mi raccontò quanto aveva udito dal Persiano in persona.
«Mi ha detto che ha cercato di rivelare la verità – o almeno una parte di questa – alle forze dell'ordine, ma che non gli hanno dato ascolto. Lo hanno scambiato per un visionario.»
«Strano che non lo abbia previsto prima. Perché ha fatto una cosa del genere?»
Condannare Erik adesso che a suo dire stava morendo era vano e quasi crudele, in un modo in cui il Persiano non si era mai comportato fino a quel momento.
«Perché credono che il colpevole del rapimento di Christine e della morte del conte sia Raoul» rispose mia madre amaramente.
«Lo so, ma non credevo che fossero scemi fino a questo punto. I fratelli Chagny si adoravano, è risaputo.»
«Ebbene, per loro è molto più facile credere in questa bugia che nell'esistenza di Erik. È un bene che Raoul se ne sia andato con Christine, non credo potrebbero più rimettere piede a Parigi.»
«Christine tornerà. Forse sola, ma tornerà. Anche solo per poco» dichiarai, sperando con tutta me stessa che fosse così.
Mia madre mi rivolse uno sguardo compassionevole: avevo perduto la mia migliore amica, e presto avrei perso qualcun altro… Il solo pensiero era tale da ridurmi le viscere in ghiaccio liquefatto.
Molto difficile fu sopportare i pettegolezzi della gente: nel corps de ballet non si faceva altro che parlare del caso Chagny e della scomparsa di Christine, un mistero che stava gettando tenebra su molti. Io, che conoscevo appieno la verità, ero costretta al silenzio. Era tuttavia difficile lasciare che i pensieri vagassero in un luogo in cui il nome di Erik non vi risonasse come un eco imprendibile e infinito: l'impronta che aveva lasciato sulla mia mente era indelebile. Mi incuriosii quando venni a sapere da Louise, Juliette e Fabienne – le uniche di cui sopportavo la compagnia, al momento, visto che vedevano bene di non parlare troppo di Christine di fronte a me (erano abbastanza sensibili da evitare l'argomento in mia presenza, dal momento che era evidente il mio dolore al riguardo) – che i ventimila franchi rubati erano stati resi ai rispettivi proprietari il giorno dopo il loro inspiegabile furto, con grande sorpresa dei direttori Moncharmin e Richard. Non sapevo come si venissero a sapere certe cose, eppure doveva essere la verità, per quanto improbabile. Erik aveva bisogno di quel denaro, e se l'aveva restituito voleva dire che vi aveva rinunciato; aveva rinunciato alle nozze con Christine, e a tutto quanto rimanesse per lui sulla superficie della terra. Ragionai così, e credetti di avere ragione.
Chiesi a mia madre se ciò di cui aveva discusso col Persiano quel giorno in cui gli aveva parlato in privato non riguardasse proprio “la busta magica” che ora non risultava più scomparsa – pertanto, anche ogni accusa di complicità contro di lei cadeva come per incanto.
Il mio intuito, a quanto pareva, aveva avuto ragione anche quella volta.
«Sì, Meg, abbiamo discusso proprio di questo» mi spiegò mia madre pazientemente, mentre consumavamo insieme un pasto frugale nella nostra cucina–soggiorno. L'appartamento numero 24 in Rue de Rivoli era ancora a nostra disposizione, e sapevo che prima o poi il Persiano avrebbe convinto mia madre a trasferirsi là, un luogo comodo e ben ammobiliato, proprio come nei suoi sogni. Per quanto mi riguardava, la mia casa era l'Opera, e non riuscivo a immaginare di viverci lontano, come per Erik non esisteva altro luogo dove morire se non quel monumento alla dea musica a cui anche lui aveva dato respiro con la sua arte architettonica, in un dedalo di labirinti sotterranei che aveva eletto a sua dimora. Il solo pensiero di Erik morto mi trafiggeva il petto come un dardo scagliato da un arciere esperto: un unico colpo, ben bilanciato, diretto al cuore. Potevo quasi udire la corda dell'arco che si tendeva per decretare la mia fine. La mia pace mentale in quei giorni era minata: non riuscivo a pensare ad altro, e tremavo di rabbia per questo. Il destino del mostro mi riguardava da vicino, più di quanto volessi ammettere. Eravamo legati dal medesimo filo rosso, non potevo dimenticarlo. Non potevo abbandonarlo a se stesso.
«E come avrebbe fatto quel folle a rubare la busta coi ventimila franchi, sentiamo?»
«Un trucco più semplice di quel che avevo previsto: c'è una botola di fianco alla poltrona del direttore nel loro ufficio – anche se non vi sono andata io stessa a controllare – ed è lì che la mano di Erik appariva e trafugava nella tasca di Richard, in segreto, abilmente, senza che nessuno dei presenti se ne avvedesse…»
«Alla lista dei suoi numerosi talenti, devo aggiungere anche il furto, allora» mugugnai sardonica.
Madame Giry mi strinse una spalla in segno di conforto, percependo i laterizi di dolore sotto il cemento della mia voce incrinata.
«Il Persiano come l'ha saputo?»
«Dal fantasma in persona. È un brav'uomo, sai? Per quella storia dell'appartamento che ci ha dato a disposizione, e tutto il resto…»
«So che sognavi una casa così da secoli» le dissi in tono più ammorbidito.
«Ed io so che tu preferiresti rimanere all'Opera» ribatté mia madre con voce più gentile del solito. Chiusi gli occhi. «Forse no» pensai, ed era vero. L'Opera sarebbe sempre rimasta la mia casa, il mio rifugio – con tutte le sue nicchie, passerelle, sottopalchi bui in cui celarsi agli occhi della luce intrusiva, i suoi magnifici fregi scultorei – ma non potevo pensare di vivere nel luogo in cui Erik aveva deciso di inumarsi una volta morto. Non potevo vivere con il suo cadavere seppellito metri e metri sotto i miei piedi, calzanti le mie vetuste scarpette da ballo. Avrei deciso in seguito cosa fare. Ora avevo un ultimo compito da svolgere prima della fine.
Scesi nel passaggio di Figaro forse per l'ultima volta. Impressi nella memoria ogni passo, ogni granello di polvere, la tela di ogni ragno che dipingeva le pareti con le sue trame di filo invisibili. Arrivata al lago di piombo, attraversai le sue acque vogando con lentezza, quasi aspettandomi di udire la meravigliosa voce della Sirena – la sua voce – ancora una volta, l'ultima. L'eco della sua rimembranza mi pulsava nei timpani come il palpito di un cuore malato. Bum, bum: il cuore di Erik nelle mie orecchie. Nessuno venne ad accogliermi sulla riva, come avevo previsto. Se pure qualche estraneo avesse raggiunto le sponde del lago, Erik lo avrebbe lasciato vivere. Aveva smesso di uccidere per la propria sicurezza, poiché non aveva più nulla da nascondere. Ormai era attaccato alla vita solo grazie al filo che Christine aveva tessuto per lui, e ora che lei se n'era andata – che lui l'aveva lasciata andare – quel filo si era fatalmente spezzato.
Aveva lottato per rimanere in vita, per avere quegli esili brandelli di esistenza che ad ogni essere vengono concessi alla nascita, ma ora la morte lo attendeva come l'estremo rifugio, un grembo in cui cercare l'ultima fiamma di calore prima della fine. Era diventato terrore per allontanare quella sensazione da sé, ma non si può combattere se stessi aggredendo gli altri. Ora che lo aveva compreso, lasciava che quella paura innominabile lo stringesse a sé con la dolcezza di un'amante – o di una madre – che lui non aveva mai conosciuto.
«Erik?» dissi scendendo dalla barca, attenta a non bagnarmi l'orlo dell'abito. «Erik?»
Il suo nome era come una daga nel mio stomaco.
«Erik?» ripetei quando entrai nel soggiorno che ora conoscevo a menadito. Posai il mio sguardo sul pianoforte che era diventato un po' anche il mio in quei mesi folli; lo spazio in cui mi ero esercitata a ballare per le prove di Giselle; la poltrona preferita di Erik; la libreria come un antico santuario.
Poi la vidi. La maschera nera a terra, gettata via come uno straccio vecchio. La raccolsi con dita tremanti. Non l'avevo mai toccata prima: era come sfiorare il volto di Erik. Era una parte di lui, cucita sulla sua pelle non meno dell'identità di fantasma.
«Erik?»
Era in casa, maledizione; avrebbe almeno potuto rispondermi.
Esitai sulla porta, sempre nera, della sua camera. Vi ero entrata in un'unica occasione, per scusarmi dopo averlo chiamato mostro quando avevo visto le sue fattezze per la prima volta. Adesso la ragione per cui vi entravo era ben diversa.
Aprii la porta, che cigolò sui cardini, senza tanti complimenti – senza nemmeno bussare.
«Erik.» Pronunciai il suo nome come se fosse una preghiera, e un sospiro mi sgorgò dal petto come il vuoto che mi si era incastrato tra le costole e il cuore.
Era seduto all'organo e mi rivolgeva silenziosamente le spalle. Lo vidi passarsi una mano ossuta tra i capelli neri.
«Meg» disse con un filo di voce arrochita, quasi non aprisse bocca da molto tempo. Il mio nome fu la prima cosa che gli cadde dalle labbra, e rotolò ai nostri piedi come tutte le parole che non ci eravamo mai detti e che rimanevano sospese tra noi come lucciole nella notte.
«Sei qui per prendermi a pugni di nuovo?» Colsi un lieve accento del suo antico sarcasmo in quella domanda retorica.
«No, anche se mi piacerebbe. Dovrei ucciderti con le mie stesse mani, te ne rendi conto?»
«Sì.»
Eppure non mi mossi. «Tranquillizzati» dissi dopo un istante di silenzio, «non sono qui per conficcarti uno stiletto nel cuore. Stai già facendo un ottimo lavoro da te.» Gli dardeggiai contro un'occhiata penetrante, seppure mi desse le spalle e non potesse così reggere il mio sguardo. Ero sicura che avrebbe bruciato ugualmente.
«Come vuoi morire? Ingerendo veleno? Lasciandoti crepare di fame e sete? Dimmelo, sono sinceramente curiosa.»
«Morirò d'amore» mormorò lui, sempre voltato di spalle. Le sue lunghe dita sfiorarono i tasti dell'organo distrattamente, in un movimento naturale per lui quanto il battito del cuore.
«Non dire assurdità. Non si può davvero morire d'amore. Tu hai visto troppe opere.» Era per combattere l'illogicità di quelle sue affermazioni che ribattevo con tanta freddezza, o perché non accettavo il pensiero di una sua morte prematura?
«Voltati» gli dissi con autorità.
Lui si limitò ad emettere un rantolo di diniego.
«Dammi la maschera.» Tese le dita nel vuoto, come a voler afferrare un oggetto invisibile dietro di sé. Io rimasi immobile, le braccia incrociate al petto in un muto atto di sfida – con lui e con me stessa.
«Voltati e basta» sibilai, sperando che la mia voce non risultasse incrinata.
Emise un sospiro.
«Cercherò di non vomitare, te lo prometto.»
Un rantolo che poteva somigliare a un sogghigno. Dopo qualche istante si voltò, con il braccio teso verso la maschera. Vidi nuovamente l'orrore del suo viso, ma non battei ciglio, inghiottii la bile – ormai lo conoscevo – e gli tesi l'oggetto dei suoi desideri, che lui prese con movimenti lenti, forzati. Sulla sua gota destra, se di gota si poteva parlare, esibiva ancora un livido nel punto in cui l'avevo colpito un paio di giorni prima. Non mi sentii minimamente in colpa per quello.
Si affrettò ad indossare la maschera, che gli si adattò al volto tumefatto con l'agio di una seconda pelle. Poi puntò i suoi occhi d'oro, due soli persi in un buco nero, nei miei. Mi sentii rabbrividire dall'interno, ma non di paura. Non lo temevo più da molto tempo, oramai.
«Dovrei ucciderti per quel che hai tentato di fare» ribadii con i pugni serrati, quasi dovessi trattenermi a stento dall'aggredirlo di nuovo.
«So anche questo.»
«Ma non morirai per causa mia.»
Mi fissai le scarpe, ingerendo un pensiero dopo l'altro. Posai infine lo sguardo sulle sue dita, che rassomigliavano a zampe di pallidi ragni senza vita nella penombra della camera mortuaria.
«Perché sei qui, Meg?» chiese lui, come se ce ne fosse bisogno.
Alzai gli occhi e incontrai i suoi: due cascate d'oro racchiuse in un ovulo d'oscurità. M'interrogavano, muti, con l'espressione irraccontabile di un uomo che è al limite di tutto – della sua vita, di se stesso, del suo amore. Il bozzolo raggrinzito che lo racchiudeva si stava scoprendo, ma la farfalla che ne usciva era nata morta, le ali come un sudario attorno al piccolo corpo immobile. Nessun battito. Era muto, come presto sarebbe stato il suo cuore.
«Sono venuta fin qui per avere delle risposte. A due domande, per la precisione.» Picchiai i talloni sul pavimento, in un ritmo altalenante che, in un altro momento, Erik mi avrebbe detto di ammutolire con uno sbuffo d'irritazione. Ma non in quello: ora sembrava scevro di qualunque emozione non fosse la rassegnazione.
«Già immagino quali siano.»
«Evita di inventarti le risposte» lo ammonii. «La prima domanda è: hai davvero intenzione di morire?»
Lui si strinse le dita al petto e sprofondò nella sedia accanto all'organo, ma non suonò. «Sì. Ed è quasi contraddittorio, sai… Non mi sono mai sentito veramente vivo, umano fino ad adesso. Non morrò da mostro: questo è tutto ciò che posso chiedere.»
«Non parlare come se fossi già morto.»
«Ero già morto prima di nascere.»
Chiusi gli occhi. Sotto le palpebre, le lacrime bruciavano con tanta intensità da far male, poiché non volevano cadere. Lui mi guardò con incommensurabile tristezza.
«Piangi» costatò in un filo di voce. «Perché?»
Lasciai cadere una lacrima, poi una seconda, ma fui rapida ad asciugarle sul mio volto esangue. «Perché mi importa.»
«Non dovrebbe.»
«Lo so, ignobile bastardo.»
«Ah, ecco che riconosco la mia Meg.»
«Non sono di nessuno, io, tanto meno tua.»
«Era solo per dire, Meg.»
Fece un gesto infimo, quasi a sfiorarmi il volto, ma poi si ricompose e abbassò il braccio. Deglutii, sospirando – avevo trattenuto il fiato fino a quel momento, e ora mi sgorgava dalle labbra come un fiotto d'acqua gelida, e mi inumidiva gli occhi.
«Perché mi hai risparmiata? Perché mi hai portata in salvo, per evitare che fossi coinvolta nell'esplosione? Perché io…?» lasciai cadere quelle parole a terra, e rotolarono fino ai piedi di Erik, che le raccolse senza chinarsi. Si attaccarono alla sua pelle come polvere.
Lui rispose – fu più giusto dire che soffiò: «Perché mi importa.»
Questa volta piangevo apertamente. «Sul serio?»
Lui assentì, senza più essere in grado di dire altro. Si massaggiò le tempie prima di parlare ancora, e le parole gli sgorgarono dalle labbra quasi dovesse scavarle nelle viscere, tanto erano pregne, sudate, calde di sangue e umori. «Non potevo sopportare il pensiero di un mondo in cui Meg Giry non esisteva. Tu dovevi vivere, e con te tua madre, naturalmente… Ho pensato a te morta, come me, come tutti gli altri, parecchi membri della razza umana… E non ho potuto sopportare a lungo quell'immagine. Non avrei dovuto portarti via di qui in quel modo, sono stato un bruto. Ma sapevo che non mi avresti lasciato andare fin quando io non avessi liberato…» Non disse il suo nome, ma sapevo a chi si riferiva. Christine, forse non sei stata l'unica a salvargli l'anima, pensai, ammutolita. Forse la mia tiepida amicizia nei suoi riguardi ha fatto la sua parte. Forse, solo forse.
Comunque fosse, dopo tanto tempo, aveva imparato ad amare. Il sacrificio che Christine era pronta a compiere, la sua compassione lo avevano illuminato. Avevano risvegliato l'angelo che era in lui, dormiente per la rabbia da cui aveva scelto di farsi dominare; aveva toccato l'amore che lo componeva in egual maniera, e per la prima volta, come quando mi aveva salvato la vita anni prima, gli aveva dato fiato. In lui celava il demone arrabbiato con Dio e il cucciolo d'uomo che non aveva mai conosciuto l'amore.
Non voglio che tu muoia, pensai disperatamente, involontariamente. Maledetto, non morire. Non ora che hai finalmente imparato cosa significa essere umano. Non ora… Non adesso, non voglio… «Grazie» mormorai controvoglia.
Lui sollevò il capo, che teneva chino sul petto. «Perché mi dici questo?»
«Perché mi hai salvato la vita due volte. Perché me l'hai cambiata. Senza di te, non avrei mai ricominciato a suonare il pianoforte. Non sarei mai andata a far visita alla tomba di mio padre. Non avrei mai scoperto di cosa sono capace pur di proteggere qualcuno a me caro.»
Lui rimase in silenzio.
«Rimani sempre un bastardo, però.»
«Sì, grazie per avermelo rammentato.»
Mi lasciai sfuggire un sogghigno e scossi il capo. Mi voltai, avviandomi verso la porta. «Questa è davvero l'ultima volta che ci parliamo» sussurrai, più a me stessa che a lui, senza ben sapere se fosse un'affermazione o una domanda. Corrugai la fronte, e lo udii spostarsi sulla sedia.
«Davvero.» Anche questa, non sapevo se fosse un'affermazione o una domanda.
Non mi voltai ancora e uscii dalla camera mortuaria, pensando che non vi avrei più rimesso piede.
Mi sbagliavo.
Il palinsesto della vita di Erik era ancora tutto da scrivere, così come il mio, ma allora nessuno dei due poteva immaginarlo. I nostri destini erano legati in un nodo scorsoio, e più si stringeva più le cose intorno a noi si facevano sfocate, lampi pericolosi che potevano colpirci non appena avessimo abbassato la guardia. Questa è solo la fine del primo atto, Monsieur Leroux, giacché molto doveva accadere prima che a questa storia fosse messa la parola fine.
Note dell'autrice: * Il titolo di questo capitolo è ispirato a quello del film Requiem for a dream di Darren Aronofsky, girato nel 2000.
* La confessione di Erik è tratta, come i lettori del libro avranno notato, dal racconto di Leroux. Quindi non mi appartiene. Per essere chiari.
Allora, eccoci finalmente alla fine del primo atto della storia, ma quest'ultima è lungi dall'essere conclusa... Accadranno davvero tantissime cose assurde nei prossimi capitoli (spero di avervi messo un po' di curiosità e che mi seguirete in questo viaggio). Certo che Erik ne combina di tutti i colori qui, vero? Ammetto che scrivere di Meg che gli dà un pugno è stato molto... soddisfacente. Se lo meritava. XD Ora le risposte alle bellissime recensioni del capitolo 22:
Malinconica: Cara, come vedi Erik si disfa di Meg in modo più "gentleman" di quanto si potesse mai pensare... E la risposta ai perché della giovane l'abbiamo in questo capitolo. Comunque sì, Meg non ha sbagliato i calcoli con l'età di Erik: quando incontra sua madre da fanciulla, lei ha quindici anni e lui dice di averne tredici, quindi, logicamente, ora lui dovrebbe averne quarantasette... E' ovviamente una mia approssimazione, perché nel libro non si conosce mai davvero l'età di Erik, anche se si sa che non è più giovane e con qualche calcolo si può dire che non può avere meno dell'età che ho scelto io per lui, considerando i suoi trascorsi in Persia ecc. ecc. Ora, che ti pare della fine del "primo atto"? Purtroppo per voi, ci saranno ancora tanti capitoli da digerire... Tutti incentrati sul "dopo": cosa accadrà ad Erik, Meg e compagnia dopo gli avvenimenti (disastrosi, anche se poteva finire peggio) dell'Opera? Mi sono inventata tutto di sana pianta, come una brava fangirl e fanfictionara (esiste sto termine? XD), quindi tremo al pensiero di cosa ne penserete tu e gli altri lettori... Spero che non mi aggredirete! Perché il prossimo capitolo sarà tragico. Tutti i prossimi capitoli saranno più o meno così. Muhahahah, sono sadica. Un bacio! :3
bibliofila_mascherata: Com'è andato l'orale? Io ho avuto 86 alla fine, voto massimo all'ultima prova (30/30!). Mi stavo mettendo a piangere dalla gioia! XD Adesso mi aspetta l'università, eh eh... Spero di non impazzire dallo stress. XD Comunque non è vero che scrivo così bene. Sei tu che sei troppo buona. :D *si commuove* Su Christine, ammetto che è molto diversa da Meg (sono contenta che lei ti piaccia tanto!), ma è voluto: le due amiche sono due facce della stessa medaglia. Volevo sottolineare la forza di entrambe senza però doverle mettere "in contrasto": così emergono fuori i tratti forti delle due giovani (la pazienza e la compassione di Christine, la lealtà e l'audacia di Meg) senza che diventino "rivali", in qualche modo, anche in amore. Perché la mia è una storia sulla forza delle donne, e su come questa può essere diversa in ognuna di noi. :) E sì, Raoul è un bravo ragazzo: lo adoro perché è davvero innamoratissimo di Christine e pronto a sacrificare tutto per lei (vita, lignaggio, eredità, reputazione sociale, il rapporto col fratello) e odio che Erik abbia ucciso Philippe. Insomma, pure la beffa dopo il danno. Gli incubi del visconte non avranno mai fine, temo. Ma c'è Christine, e insieme possono ricostruirsi una nuova vita, lontani dall'orrore che "il mostro" ha costruito. Riguardo Erik, sì, io l'adoro - è il mio personaggio preferito di sempre, è normale - ma sono oggettiva con lui: non è un santo, anzi, ed è proprio questo a renderlo un'antagonista di tutto rispetto e così complesso, non trovi? Comunque questo è l'inizio della redenzione di Erik, che dal momento in cui Christine gli ha mostrato "la retta via" si comporterà meglio, vedrai. E non può essere che così, altrimenti come farà Meg ad arrendersi ai sentimenti che sente crescere per lui? :) Un bacio anche a te. :3 Alla prossima!
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Capitolo 25 *** Il dolore perfetto. ***
IL RACCONTO DI MEG
[Atto II.]
xxiv.
il dolore perfetto
Il sole tesseva viticci dorati sui riccioli castani di Juliette, riempendole gli occhi verdi di schegge di luce, simili a pozzi in cui annegare. In quel momento era estatica: il suo sorriso bianchissimo splendeva come avesse rubato un raggio da quello stesso sole che, all'orizzonte, si agganciava alle dita fuligginose delle nuvole.
La mia amica mi parlava con frenesia, come sempre da qualche giorno a quella parte, da quando avevano annunciato che il prossimo balletto ad essere rappresentato sarebbe stato Coppelia.
«Verrai alla mia audizione, non è vero? O hai intenzione di prepararne una tua?»
«Si vedrà» risposi enigmaticamente, i miei occhi ancora concentrati sui riflessi che il sole filtrante dall'ampia finestra creava sulla sua frangetta ordinata.
«Meg è un po' sulle nuvole in questi giorni» ci interruppe Louise. Anche il suo sorriso era bianco. Mostrai il mio, di sorriso, meno perlaceo di quello delle mie amiche, e certamente più falso. «Non sarai mica innamorata, Meg cara?» continuò Louise, con fare malizioso. Fabienne sospirò e alzò gli occhi al soffitto. Lo stessi feci io, ma con maggior rudezza.
«Certo che no» risposi in tono sferzante.
«Ehi, perché sei scattata come un gatto a cui hanno pestato la coda? Punta sul vivo, per caso?» fece Louise, incrociando le braccia al petto. Lasciai che il mio sguardo abbracciasse l'aula della danza, i suoi specchi lucidi alle pareti, il pavimento di legno rosato e i suoi rumori familiari – un deux trois, i rintocchi delle scarpe da ballo sulle assi di ciliegio, i sospiri nei petti delle ballerine, forzati nei corsetti di raso bianco.
«Niente affatto. Mi sento solo un po' stanca in questo periodo, tutto qui» risposi, cercando di modulare la grettezza nel mio tono di voce.
«Non centra Luc, vero?» fece Fabienne, alla quale il gamin cresciuto per diventare un macchinista dell'Opera non era mai andato a genio.
«É troppo impegnato a correre dietro alle sottane di altre ragazze per pensare alle mie. E di questo sono grata» risposi con un pizzico di durezza. Non sapevo quante volte avevo spiegato alle mie amiche, nonché alle altre mie compagne di corso, che tra me e Luc non c'era più nulla da un pezzo. Il mio cuore e la mia mente non erano mai stati catturati nel viluppo dell'amore, ringraziando il cielo, e ora ero troppo presa da ciò che accadeva sotto i miei piedi – metri e metri più in basso, dove la luce del sole non arrivava – per dare importanza a quelle sciocchezze.
«Signorine, alla sbarra. Su, forza, muovetevi. Giry! Concentrati, ragazza.»
La freddura di mia madre mi distolse dai miei pensieri. Sottostai al suo sguardo severo mentre seguivo le altre cupamente. Mi accinsi a danzare di malavoglia, e questo si notava dai miei passi scevri di passione.
Erano trascorse due settimane dalla partenza di Raoul e Christine, e la mancanza di quest'ultima mi pulsava dentro come un secondo cuore. Sapevo che fuggire lontano, tornare nel suo Paese era il finale più lieto che ci fosse per lei, ma non dubitavo che, come me, sentisse la mancanza di ciò che aveva lasciato indietro. Io ero una di queste cose? E lui?
Sospirai. Le mancava il suo Angelo, anche se adesso aveva imparato a vivere senza, non l'uomo sotto la maschera. Io invece non potevo distogliere il pensiero da quest'ultimo, quasi fossi vittima di una maledizione. Era nelle mie vene come fiele – vi si diffondeva come un liquido viscoso; era un'infezione, ma non potevo farne a meno.
Erik. Il suo nome come una bestemmia nella mia mente. Indicibile, involuto, eppure presente e vivo. Più dell'uomo che quel nome lo portava, comunque.
Presto non ritornerà che ad essere polvere, mi dissi con convinzione. Il suo scheletro, ormai simile a quello di chiunque altro, giacerà nei sotterranei per sempre.
Era un pensiero insopportabile.
«Giry, ho detto concentrati.» Lo sguardo d'acciaio di mia madre mi trafisse. Picchiò il bastone a terra una sola volta, ma bastò perché gli occhi di tutte le mie compagne mi fossero addosso come avvoltoi. Deglutii.
«Certo. Non accadrà più, Madame.»
Lei annuì, ma non abbandonò il mio sguardo. «Bene, ricominciamo. Un, deux, trois!»
La danza ricominciò, così come quel cerchio di vite di cui ormai il mio amico non faceva più parte. Niente da fare, dovevo parlare col Persiano al più presto. Io non sarei tornata nelle viscere del teatro, ma egli doveva sapere cosa stava combinando lui lì sotto. Doveva sapere cosa mi sarebbe toccato fare – se dovevo seppellire i miei segreti con la sua bara. Ben due settimane, e nulla di concreto era giunto alle mie orecchie: quanto avrei dovuto attendere prima di porre una volta per tutte la parola fine a quella storia?
Avevo controllato i necrologi sull'Epoque tutti i giorni da quando lo avevo incontrato faccia a faccia per l'ultima volta, tanto da preoccupare mia madre per questa mia ossessione. In realtà, quando fosse stato prossimo alla fine, Erik avrebbe consegnato al Persiano e a me le reliquie che conservava di Christine, e che lei stessa gli aveva affidato. Il suo diario – che avrei serbato gelosamente, senza leggerlo – toccava a me custodirlo.
E sarei stata ben lieta di farlo, se qualcuno si fosse sbrigato a morire.
Il pensiero di Erik morente mi era intollerabile: non riuscivo neanche a concepirlo in quello stato, pertanto non scesi più nella dimora sul lago. Non volevo andare lì e scoprirlo a giacere in una bara. Se fosse morto più in fretta, forse sarei uscita da questa impasse e avrei accettato la realtà… Ma non in quell'occasione. Il pensiero delle sue ultime parole rivolte a me (perché mi importa) era un'ossessione dolce, ma inguaribile e malsana non meno delle altre.
Fingere, scherzare, ridere come mio solito era un'impresa ardua, pertanto rimasi cupa per tutti quei giorni. Gli altri la consideravano una naturale conseguenza alla separazione tra me e la mia migliore amica, e non potevo dare loro torto: Christine mi mancava come il respiro nei polmoni, e speravo di rivederla, prima della fine dell'ultimo atto. Non credevo che Raoul sarebbe stato tanto lieto di tornare alle catacombe dell'Opera Garnier – l'uomo folle aveva annegato suo fratello, distruggendogli la reputazione e costringendolo a fuggire dalla Francia come un criminale. In più, non si poteva dimenticare ciò che aveva fatto passare al Persiano e a lui nella camera dei supplizi, di cui ora capivo il curioso e letale meccanismo (un tormento più psicologico che fisico, direi). La piccola sultana doveva essere proprio crudele per aver ordinato a Erik di ideare una simile tortura. E se c'era una cosa che Erik aveva, era l'immaginazione. Figurarsi, una stanza piena di specchi senza che egli potesse riflettervi il suo volto! Diabolicamente geniale, com'era lui.
Mi distrassi da quelle ponderazioni quando, tornata in camera mia con il desiderio di staccarmi dai piedi le scarpette da ballo – per il dolore, sembravano grovigli di rovi che mi salivano fin sopra le caviglie – trovai un biglietto sul comodino. Era vergato con inchiostro rosso, e la calligrafia era impossibile. Riconoscere il mandante mi fermò in petto il cuore.
Meg,
stasera fatti trovare nel mio appartamento sul lago, come se stessi per venire ad una delle nostre lezioni. Scegli tu l'ora. Anche il daroga sarà lì. Devo consegnarvi alcuni oggetti prima che sia troppo tardi.
Non vi era imposta alcuna firma, ma non importava. Sapevo chi mi aveva lasciato quel biglietto.
Dice che sta per morire, però ha ancora tempo di sgattaiolare nei cunicoli segreti del suo regno d'ombra e fumo.
Riflettei che doveva essere passato attraverso lo specchio nel mio camerino. E doveva essere uscito di notte per infilare la busta per il Persiano nell'apposita cassetta delle lettere in place de l'Opéra. Celato dalle tenebre, il suo aspetto non era poi dissimile da quello di chiunque altro.
Se voleva consegnarci le reliquie di Christine, allora significava che era davvero prossimo alla morte. Mi si strinse qualcosa nel petto al solo pensiero.
Con indosso la mia cappa per tenermi al caldo – le mie membra erano scosse a intervalli regolari da brividi di gelo, sebbene fosse una tiepida notte di Aprile – scivolai nel passaggio segreto di Figaro con il lumicino in mano a gettare fasci dorati sui muri di salnitro e polvere. Avvertii un forte senso di deja-vu quando mi ritrovai ad affrontare di nuovo le acque del lago: la scorsa volta avevo giurato che sarebbe stata l'ultima. A quanto pare mi sbagliavo.
Era forse una mia impressione, ma l'aria sembrava più nebulosa del solito, e più gelida. Mi strinsi nella cappa e, con un lieve tremito, vogai fino alla sponda opposta. La Sirena doveva aver già avvertito Erik della mia presenza. Quando feci il mio ingresso nel soggiorno dell'appartamento sul lago, trovai Monsieur Nadir accomodato su una poltrona, mentre Erik – che appariva stremato, anche se impeccabilmente vestito – frugava in un cassetto contenente chissà cosa.
«Interrompo qualcosa?» dissi, infrangendo il silenzio come una lastra di ghiaccio.
I due uomini si voltarono nella mia direzione. Nadir si alzò in piedi per stringermi la mano e salutarmi, ed Erik mi rivolse appena un cenno del capo. Bene, ora li riconoscevo.
«Mi sono vestita di nero, pensavo dovessi presiedere a un funerale» dissi pungente. Erik fece una smorfia, ma anche quella appariva stanca, tirata, quasi il suo corpo fosse fatto di carta umida e facile a sbriciolarsi.
«Siediti, Meg.»
Incrociando le braccia e sfilandomi di dosso la cappa nera, mi accinsi a sedermi di fianco al Persiano, che tuttavia appariva concentrato su Erik, quasi a studiarlo. Era ovvio: voleva vedere se stava morendo sul serio. Il suo male lo divorava dall'interno – un'arpia dagli artigli affilati e potenti. Niente che si potesse scorgere a occhio nudo, ma credevo che Monsieur Nadir fosse un ottimo osservatore.
«Hai ancora intenzione di morire o no? Ci stai tenendo tutti sulle spine» dissi, acida.
Erik mi lanciò un'occhiata di sbieco. «Questo è il motivo per cui sei qui, Meg.» Con un gesto lento, cadenzato, mi tese qualcosa che aveva prelevato dallo scrigno – quello che aveva tutta l'apparenza di essere un diario. Lo aprii e ne tastai la copertina ruvida, di un blu sfocato, le pagine bianche disseminate di una grafia piccola e sottile, che riconobbi come quella di Christine. Infatti sul frontespizio della prima pagina si poteva benissimo leggere il suo nome, vergato a lettere maiuscole. Lanciai ad Erik un'occhiata sospettosa.
«Non l'ho mai letto, neanche di sfuggita. Lei me l'ha affidato prima che andasse via… perché potessi darlo a te.» In egual maniera, consegnò un plico di lettere al Persiano.
«Queste sono le sue missive inviate a quel giovanotto, nel mese in cui giocavano a fare i fidanzati» spiegò Erik in tono amaro. «Non ho letto neanche queste.»
Un rapitore rispettoso, pensai, ma questa volta vidi bene di frenare la lingua.
«Cosa vuoi che ce ne facciamo?» chiese Monsieur Nadir, perplesso.
Erik scrollò le spalle. «Non è più affar mio, ormai. Puoi farci quello che vuoi… Conservarle, bruciarle. Io non ho più diritto di dire nulla in materia.»
Silenzio – una pausa ustionante. Tamburellai il piede sul pavimento in un ritmo stonato.
«Che cosa dovrei farci io col diario di Christine?»
«Quello che vuoi.»
«Non voglio leggerlo. Sarebbe come invadere lo spazio personale della mia amica. Non sono te, Erik.»
«No che non lo sei» sibilò lui tra i denti. «Ma ora non importa più nulla… Tutto è volato via – l'angelo è volato via…»
Colpii il tavolino più vicino con il diario, e un tonfo secco e sordo ci pulsò nei timpani, tanto che il Persiano, al mio fianco, sobbalzò.
«Basta con queste lamentele da cagna in calore.» Proruppi in una sequela di imprecazioni tale che fece arrossire il povero Nadir, che mi pose una mano sul braccio nel vano tentativo di acquietarmi. Erik mi guardava con occhi di ghiaccio. Più si ostinava con quella sua espressione vuota e muta, più io mi infuriavo.
«Non capisci? Come potrei vivere in questo teatro ora che…» scossi il capo, senza ben sapere cosa stavo dicendo. «Non voglio abitare in una gigantesca tomba.»
«Abituati all'idea.»
«E tu non puoi pensare di reagire? La tua vita non è ancora finita, Erik!»
«Sì che lo è – sei tu a non capire. Non è mai neanche iniziata.»
Ci fissammo in cagnesco per qualche attimo, finché il Persiano non venne ad interrompere la tensione elettrica tra noi.
«Erik, è una tua scelta. Morire… Se scegli questo destino, non potrai più tornare indietro.»
«Daroga» rispose Erik con un sorriso distorto, orribile, una piaga, «non ho più nulla per cui vivere. Il mio sogno si è infranto, e ho compreso i miei errori. Non avrò mai una vita normale… e non solo per la mia faccia. Dio mi ha fatto mostro: ebbene, io decido di non morire come tale. Per questo ho lasciato che lei…» era evidente che pronunciare il suo nome gli era ancora arduo, «… che lei se ne andasse con il suo giovanotto. Ha pianto con me, daroga. Mi ha baciato sulla fronte, questa mia fronte di morto! E non è morta! Dio non poteva farmi un dono più grande. Mi sono sentito vivo per la prima volta nella mia esistenza, e non voglio perdere questa sensazione. Morire per me non sarà altro che l'ennesimo viaggio – l'ultimo. Non ho più nulla per cui restare. Non lei, non la mia opera, niente di niente.»
Hai me, disse una vocina da chissà quale luogo nel profondo del mio animo, ma la zittii all'istante. Erik era il Diverso per eccellenza: con la sua voce dalla bellezza senza sesso, con l'aspetto cadaverico, il suo fascino esoterico… La società non lo avrebbe mai accettato. Il suo sogno non era mai stato vivo.
Il Persiano sospirò e infilò il plico di lettere dentro la fodera della giacca, sistemandosi il berretto di astrakhan sul capo.
«Bene, anche questa è fatta» disse con rassegnazione e malinconia insieme. Neanche lui sembrava lieto della morte prossima di Erik, malgrado il male che quest'ultimo gli aveva arrecato. Mi guardò con i suoi splendenti occhi verdi.
«Vi accompagno di sopra, Meg.»
«Non ce n'è bisogno. Io rimarrò qui» dissi con convinzione. Sia il Persiano che Erik mi lanciarono un'occhiata sbigottita. «Solo per qualche altro minuto» soggiunsi, come per discolparmi.
Monsieur Nadir fissò entrambi con sguardo scrutatore, forse meditando se rimanere o no in caso ci fossimo scannati a vicenda. Lo tranquillizzai con il mio sorrisetto migliore.
«Potete andare, Monsieur. Conosco bene la strada del ritorno. Non c'è alcun problema.»
«Ne siete sicura?»
«Assolutamente.»
Un'ultima occhiata perplessa, poi si dileguò dal soggiorno, salutando Erik con uno sguardo gonfio di dolore e me con un mezzo inchino.
«Che strada prende?» chiesi, curiosa.
«Quella che passa per Rue Scribe.» Erik depose via lo scrigno che aveva contenuto le reliquie di Christine Daaé e tornò a guardarmi con i suoi impossibili occhi d'oro. Sembravano pepite scavate in una miniera buia e fredda e umida. Li avevo visti furiosi, quegli occhi: tristi, sghignazzanti, ridenti, addirittura pieni di lacrime. Ma mai mi erano apparsi tanto vuoti, e fu una visione di orribile catarsi – riversare il proprio dolore nella voragine di un altro.
«Perché sei rimasta, Meg? Qualcosa di quanto ti ho detto non ti è chiaro, forse?»
Scossi il capo e indicai il pianoforte, che si ergeva, maestoso e intoccato, nel centro del soggiorno. Sotto la maschera, potevo quasi vederlo mentre alzava un sopracciglio.
«Posso suonarlo? Un'ultima volta?»
Erik esitò, squadrandomi come se fossi un alieno. Non comprendeva il motivo della mia richiesta. Ma a quel pianoforte ero legata da qualcosa di più di un semplice rapporto tra allieva e strumento musicale: quel pianoforte era il canto di mio padre, della ragazzina spensierata che non ero più, di giorni migliori. Era le lezioni che avevo condiviso con Erik e che mi avevano aiutata a tenere cara la memoria del mio sfortunato genitore suicida.
Qualcosa brillò nei suoi occhi – un luccichio insondabile, tanto breve da parere sfuggente – un segno di comprensione. Mi fece cenno di accomodarmi.
«Suona quel che desideri.»
Mi avvicinai al pianoforte a passi piccoli e contati. Sfiorai i tasti bianchi e neri con la delicatezza di un'amante, e mi schioccai le dita con un rumore secco che mi fece sobbalzare, nel silenzio tetro della casa sul lago. Erik si sedette su una poltrona, o meglio, si trascinò su di essa, arrancando come se le gambe dovessero cedere sotto il suo peso da un momento all'altro. Io mi accomodai sullo sgabello dinanzi al pianoforte.
«Cosa vuoi sentire?»
«Qualunque cosa andrà bene, Meg.»
Sfiorai i tasti con la dovuta riverenza. Quanto mi erano mancati! Potevo dare un nome ad ognuno di loro. Nel plico degli spartiti cercai una musica adatta, e la trovai in un semplice valzer di Mozart su cui mi ero esercitata più volte in passato. Mi accinsi a suonare con dita tremanti. Pensai fosse l'ultima volta che toccavo quello strumento: non suonai bene, le imperfezioni nella mia tecnica erano ancora evidenti, ma suonai con l'anima. Dedicai quel motivetto andante alla tristezza di Erik, alla mia, a quella di Christine e Raoul e del Persiano.
Quando finii, mi voltai verso di lui. Era sempre seduto sulla poltrona, una mano sugli occhi come se avesse mal di capo. Probabilmente i miei errori da dilettante dovevano aver offeso la sua delicata sensibilità artistica, ma me ne fregavo. Speravo invece che avesse recepito il messaggio dietro quelle note un po' sbilenche.
«Ti accompagno alla riva del lago» mi disse, alzandosi stancamente dalla poltrona. E così fece. Insistetti per remare da sola, giacché non ero una bambina che dovesse essere trasportata di qua e di là come una bambola. Gli rivolsi un'ultima occhiata sulla distanza: ero al centro del lago, ma la voce della Sirena non mi avrebbe raggiunto. Lui era là, sulla sponda opposta, immobile come una cariatide maledetta dal crisma di una pelle inguaribile. Diverso da chiunque altro.
Sospirai, pensando che quella era davvero l'ultima volta che lo vedevo.
Mi sbagliavo ancora.
Mia madre si era trasferita da breve tempo nell'appartamento numero 24 di Rue de Rivoli, che il Persiano tanto gentilmente ci aveva concesso. Sapevo che Antoinette se n'era innamorata, ed era ora che avessimo una casa tutta nostra. Anch'io stavo provando gusto nell'avere una stanza vera e propria tutta per me, ammobiliata con eleganza semplice, e poi dormire lontano dall'Opera mi faceva dimenticare, almeno per un po', chi voleva seppellirsi nelle sue profondità. Era un'ustione sulla mia anima, un'ossessione impronunciabile.
Quella sera mi lasciai accogliere dai profumi di Parigi in fiore: il viavai delle fiacre, il mormorio dei passanti, intrappolati com'erano nelle loro conversazioni, le vetrine dei negozi splendenti di vitalità, un piccolo gamin che offriva mazzetti di papaveri ad un sou. Quando si avvicinò a me, esclamando a gran voce: «Volete un fiore, Madamoiselle?», sorrisi e declinai l'offerta.
La mia meta era prossima, quindi non persi tempo. Era una serata deliziosa, che contrastava col mio umore torbido. Avevo preso l'abitudine di dormire nell'appartamento numero 24 insieme a mia madre, giacché i miei incubi erano tornati, come una malia incontrollabile, della quale ero fatalmente al giogo. Non avevo ancora trasferito tutti i miei oggetti personali nella nuova casa, perché malgrado tutto non sapevo se sarei riuscita a staccarmi completamente dall'Opera. In fondo, era stata la mia casa per tanti anni. Lì avevo conosciuto persone straordinarie; a quell'edificio sia mia madre che io avevamo dedicato l'anima. Ma magari un cambiamento ci avrebbe fatto bene, permettendomi di dimenticare ciò che accadeva – e moriva – nei sotterranei dell'Opera.
Salutai l'usciere con un cenno secco del capo – dormicchiava nella sua solita nicchia, già ubriaco – e salii le scale a chiocciola che portavano al mio nuovo appartamento. Subito mi avvidi che qualcosa non andava per il verso giusto. C'era troppo silenzio, un silenzio tanto pesante da ammorbare l'aria che respiravo. Aprii la porta con gesti lenti, cauti.
«Maman?» chiamai con un filo di voce. Era sciocco: perché permettevo all'ansia di pervadermi fino ad ogni più infimo nervo del mio corpo? Ma l'istinto al quale così spesso mi affidavo mi sussurrava all'orecchio di restare cauta. Mia madre continuava a non rispondere. Tutte le luci erano spente, benché fosse sera e maman dovesse essere già di ritorno dopo l'ennesima lezione di danza.
Entrai in soggiorno in punta di piedi. E fu lì che lo trovai.
Il cadavere di mia madre che giaceva sul tappeto orientale, il sangue che insudiciava le sue vesti nere e il pavimento attorno a lei. Rimasi paralizzata dall'orrore. Per un attimo mi giunse alla memoria il ricordo di un altro rosso…
Mi precipitai sul corpo senza vita di mia madre. Alla luce tremolante della luna che filtrava dall'imposta, si vedeva la profonda ferita che esibiva all'addome. Inflitta da non una, bensì più pugnalate, le viscere visibili come un turbinio di serpenti morti e aggrovigliati nello stomaco di mia madre. Mi salì la bile in gola e per poco non diedi di stomaco. Doveva essere un incubo. Sì, uno dei miei orrendi sogni. Solo che non avevo mai sognato niente del genere: di solito era il cadavere di mio padre ad ossessionarmi, e la cella buia in cui lo avevano imprigionato al manicomio dove un giorno temevo di essere rinchiusa anch'io.
Credetti di impazzire.
Cacciai un grido strozzato e afferrai il corpo ormai gelido di mia madre, scuotendola come se avessi potuto svegliarla e ridarle la vita con la rudezza dei miei gesti ansiosi. Il sangue mi inzuppò gli abiti, le viscere scoperte mi si attaccarono alla gonna come artigli molesti, ma non m'importava.
Perché? Cosa abbiamo fatto per meritarci questo?
Non mi accorsi che singhiozzavo disperata se non quando mi mancò il respiro. A quel punto non mi trattenni più e rigettai ogni residuo di bile sul parquet perfettamente tirato a lucido. Placata, tornai a fissare il cadavere di mia madre raffreddarsi sul duro pavimento. Ero seduta con le ginocchia strette al petto, come una bambina, incapace di ragionare, di dire anche solo una parola. Il sangue che continuava a scorrere mi stordiva, mi bagnava, mi lacerava le corde del cuore.
Chi aveva compiuto un simile delitto? Chiunque fosse, poteva essere ancora in casa. Mi rizzai in piedi, improvvisamente guardinga. Scavalcai il corpo sviscerato di mia madre senza osare più guardarlo – qualcosa si era spezzato definitivamente in me quando vi avevo posato sopra gli occhi.
Sentivo scricchiolare le ossa della mia anima in putrefazione, i battiti del mio cuore che mi martellavano i timpani e che si trasformavano in un fastidioso formicolio alle dita.
Dovevo fare qualcosa, e dovevo farlo subito. Mi vorticarono nella mente le possibili opzioni: andare alla polizia, all'ospedale, perlustrare prima la casa assicurandomi che nessuno mi stesse spiando in quel momento – era troppo, sentivo che questa volta non sarei riuscita a sopravvivere. Con le mani ancora inzaccherate di sangue e materiale organico, mi accostai alle tenebre.
L'assassino mi colse di sorpresa. Mi afferrò alle spalle, impedendomi di muovermi, e mi puntò una lama alla gola. La pelle tenera si increspò al tocco dell'affilato e gelido metallo. Urlai e mi dibattei (morirò morirò morirò), le mani e gli abiti ancora impasticciati di sangue, che gocciolava vermiglio sulle mie scarpe.
«E tu chi saresti? Ah, certo, la puttanella di Azrael. Avrei dovuto immaginarlo.»
Non capendo una sola parola di ciò che quell'uomo con la voce rude mi aveva bisbigliato all'orecchio, anche per via del suo pesante accento straniero, sfoderai un poderoso calcio che lo colpì agli stinchi, facendogli stridere i denti dal dolore. Mi gettai in avanti, pronta a scappare (lontano lontano sempre più lontano sempre pioggia tra le feritoie della notte), ma egli mi afferrò per la collottola come se fossi stata una bambina e fece per puntarmi di nuovo la lama del suo coltellaccio alla gola.
D'un tratto si udì un rumore felpato di passi che si avvicinavano. Vicino a me, sentivo l'assassino irrigidirsi.
«Abbiamo preso la tua baldracca. Se la rivuoi indietro ancora intatta, consegnati a me.»
«Non mi abbasso a certe infime minacce.» Una scura e alta figura sostava sull'uscio del soggiorno, con in mano quel che pareva – era difficile dirlo nella penombra – un lungo elastico.
Il laccio del Punjab, pensai. Erik.
Mi divincolai dalla presa dell'assassino, che notando i miei sforzi mi scagliò lontano da sé come fossi un insetto fastidioso. Egli aveva in mano una daga, Erik un cappio. Chi dei due avrebbe avuto la meglio?
Rimasi paralizzata ad osservare la conversazione tra i due uomini.
«Non mi aspettavo di trovarti qui, Azrael» disse l'assassino.
«Avete fatto fuori anche il daroga?»
«Oh, no, lui è ancora in vita. Da qualche parte, chissà dove e in quale meandro oscuro, ma lo scopriremo. Come avvertimento abbiamo sventrato questa vecchia arpia e il servitore leccaculo di Khan.»
Quindi anche Darius era morto. Questo mi fece male, ma non quanto l'aver visto il corpo senza vita di mia madre.
«Lasciate stare la ragazza. Non centra nulla con tutto questo.»
«Sì, ma se la uccido…»
«Ti darò la caccia fino ai confini del mondo.»
L'uomo sconosciuto, i cui lineamenti affilati erano appena visibili nella penombra della mezza luna, rise in modo rude a sguaiato.
«E noi che credevamo fossi ancora l'Angelo della Morte. Venticinque anni in Francia e ti sei rammollito.»
«Sono cambiato, ma non tanto da non poterti spezzare il collo con queste mie mani per ciò che hai fatto.»
E così il combattimento iniziò. Erik pareva danzare: schivava i colpi dell'avversario con grazia, mentre quest'ultimo cominciava a boccheggiare.
«Codardo! Smettila di scappare!»
«Oh, non sto scappando. Proprio per niente.»
In un movimento tanto fulmineo che, se avessi sbattuto le palpebre nel momento sbagliato, non avrei neanche notato, Erik agitò il laccio del Punjab e lo strinse attorno al collo dell'avversario che, viola in viso, lottava disperatamente per liberarsi. Ma era vano: la presa di Erik era troppo forte, e alla fine anch'egli morì. Nonostante i molti anni trascorsi dai giochi nell'arena di Persia, Erik rimaneva un guerriero singolare ma incredibile. Strappò il cappio dalla testa dell'assassino (anche lui è morto. Siamo tutti morti, qua dentro) e si voltò cautamente verso di me. Avanzava ad una cadenza lenta e calmante, come dinanzi a una bestiolina spaventata e rabbiosa insieme. Certo, lo avevo appena visto uccidere un uomo con la rapidità e il sangue freddo di un serpente.
Il bastardo però aveva ucciso mia madre. Il debito così era risanato. Ed Erik ripagava sempre i propri debiti.
«Dobbiamo andarcene di qui, Meg. Ne verranno altri. Questo era solo un avvertimento.»
Balzai in piedi, furiosa con me stessa e con lui. «Si… Si può sapere che cosa sta succedendo? È la seconda volta che vedo un mio genitore morire… e pretendo una spiegazione!» balbettai.
«L'avrai, ma più tardi. Adesso seguimi e fai attenzione.»
Non mi ero avveduta che il mio corpo veniva scosso da singhiozzi irregolari e che tremavo verga a verga. Ma era dentro che faceva più male: dove dapprima c'era il posto riservato a mia madre, ora sgorgava una fontana di sangue e viscere putrescenti. Chiusi gli occhi: l'immagine del cadavere di mio padre si sommava a quello di mia madre. Rabbrividii e credetti di svenire, ma Erik fu pronto a stringermi tra le sue braccia fredde, sorreggendomi senza alcuna fatica.
«Dobbiamo andare. Il daroga ci aspetta. Se restiamo qui più a lungo, ci prenderanno. Ti fidi di me?» fece lui con un tono di voce che avrebbe potuto spezzare il cuore a un angelo.
Gli presi la mano. «Per questa volta… sì.»
Non avevo altri a cui appellarmi. Scoprimmo che per il trauma non ero in grado di reggermi in piedi, ma lui mi sollevò come fossi stata una bambola di creta e mi spiegò che avremmo dovuto dileguarci prima dell'arrivo delle autorità.
«L'assassino aveva in tasca dell'argenteria rubata da questa casa, forse per inscenare una rapina. Ma sapeva che io avrei capito.» Mi mostrò una fascia con sopra cucito lo strano emblema di una rosa rossa. «Era un uomo della regina.»
Non ebbi la forza di chiedergli di cosa diavolo stesse farneticando. Mi sentivo morire dentro. Un ferino roditore mi divorava dall'interno, fino al midollo. Mi faceva male l'anima.
«E… mia madre…?»
Gli occhi di Erik si riempirono di mestizia. «Mi dispiace, Meg. Presto arriveranno le forze dell'ordine e non possiamo farci vedere qui. Si penserà a una rapina finita male.»
Il lezzo di morte, che conoscevo così bene, mi riempiva le narici e mi lasciava in preda alle vertigini.
«Non… non mi sento…» Gli vomitai sulle scarpe. Lui si aprì appena in una smorfia di disgusto.
«Meg, adesso ti porto in un posto sicuro. Poi ti spiegheremo tutto.»
Annuii. Non feci in tempo a lanciare un'ultima occhiata al cadavere di mia madre che fui sopraffatta dall'orrore, e svenni, ritrovandomi in un corridoio da cui non proveniva alcuna luce.
Note dell'autrice: * Il titolo di questo capitolo è preso dal romanzo omonimo di Ugo Riccarelli, che io non ho mai letto, per inciso, ma mi piaceva come suonava. Sì, lo so, è strano.
Volete uccidermi. Ammettetelo. Immagino mentre leggete e mi scagliate contro imprecazioni delle più colorite, come: “Bastarda, come hai potuto far soffrire Meg in questo modo un'altra volta? Il suo trauma passato non bastava?” Ebbene sì, lo ammetto, sono sadica. So anche che non capirete molto di quanto sta succedendo, ma nel prossimo capitolo tutto verrà svelato, promesso.
A proposito, vorrei scusarmi per il ritardo nel postare questo inizio del secondo atto della fic, ma ho avuto dei problemi col pc (che rompipalle che è) e spero mi perdoniate. Da qui in poi inizia una nuova fase della storia, che coinciderà con la discesa di Meg nel dolore più profondo (non ci sarà molto da festeggiare, sorry) e la redenzione di Erik in seguito all'amore e alla compassione mostratagli da Christine. Sappiamo che non diventa esattamente un santo dopo gli eventi dell'Opera, ma che perlomeno capisce i suoi errori, e questo è già un ottimo inizio. Il legame tra Erik e Meg diverrà sempre più forte, perché affronteranno molte dure vicissitudini insieme, ma non mancheranno i soliti battibecchi. Sono fatti così, quei due, cosa ci posso fare. XD
E ora, le risposte alle fantastiche recensioni:
Malinconica: Cara, certo che la visita di Meg ha fatto molto piacere ad Erik, e lo ha anche sorpreso. Entrambi per la prima volta hanno ammesso di tenere l'uno all'altra, è stato molto dolce da parte di tutti e due. Un momento di tenerezza inaspettato nel mezzo del dramma. Avverto che da qui in avanti la tragedia diventa pure più preponderante, come ti sarai accorta da questo capitolo: i nostri “eroi” (pfff XD) dovranno superarne tante… Poveretti, li faccio soffrire troppo. Hai una qualche idea su cosa sia successo alla povera Madame Giry? (Credimi, sopprimere una grande donna come quella è stato un colpo al cuore, ma… dovevo farlo per mandare avanti la trama. Arg.) Chi ci sarà dietro l'assassinio di lei e Darius? Erik centra sicuramente, ma come? Eh eh, mi sa che dovrete aspettare tutti il prossimo capitolo. Un bacio, e spero che non mi vorrai troppo male, adesso. <3
bibliofila_mascherata: Ti ho fatta piangere? Addirittura? Povera piccola! <3 D'ora in poi le cose non faranno altro che peggiorare, MUHAHAHA! (Okay, la smetto.) Comunque no, io non avrei scelto Erik. Cioè, tipo, mai. Neanche a pagarmi. Ma se lo ami!, diranno tutti. E sì che lo amo, ma come personaggio fittizio. C'è una differenza. Penso che sia super complesso e interessante e uno dei mostri tragici più affascinanti della letteratura, ma è anche uno stalker maniaco omicida con qualche rotella fuori posto. (Te l'ho detto che ero oggettiva.) Ti do un consiglio da amica: se un uomo si comporta con te come Erik si comporta con Christine, tu SCAPPA. Subito. Senza voltarti indietro. Certo, qui c'è un altro fattore da considerare: il suo vissuto assolutamente tragico. Non credo esista essere umano al mondo più infelice di lui. Ma questo spiega le sue azioni, non le giustifica. Non è la stessa cosa. Persino Meg, che ne è attratta e prova nei suoi confronti vero affetto, non resterebbe mai con lui pur se le venisse data questa possibilità. A meno che… Erik non cambi davvero. Cosa che nel libro fa a metà: vediamo che comprende i suoi errori, e la sua morte equivale a una redenzione. Nella mia storia affronterà un percorso di redenzione vero e proprio: non diventerà un santo, assolutamente, ma almeno una persona decente. Altrimenti come farà Meg ad innamorarsi sul serio di lui, eh eh? Poi, anche Meg affronterà un percorso particolare – vedrai quale – e questo la porterà ad avvicinarsi inevitabilmente ad Erik. Insomma, è necessario che ci siano delle condizioni perché si possa costruire una relazione sana con uno come Erik. Ricordiamo che ha degli scrupoli con Meg, ma non con altri innocenti – quelli, se si mettono sulla sua strada, sono fregati (o impiccati). Beh, perlomeno prima. Adesso Erik ha capito che è stato proprio il suo comportamento ad allontanare Christine da lui. Perché no, Christine non lo lascia perché è brutto come la morte, ma perché è crudele. O meglio, lui capisce di esserlo, di aver sbagliato tutto, proprio quando Christine gli mostra cos'è l'amore vero: sacrificarsi per un'altra persona. E, ovviamente, la compassione: Christine lo bacia malgrado la sua faccia sia orrenda e dimostra che comprende la sua tristezza e la sua umanità, e piange con lui (“povero sventurato Erik!” lo chiama; e questo dopo tutto il male che ha fatto a lei, a Raoul e che minaccia di fare a molti “membri della razza umana”!). Erik è differente dagli altri mostri, o dagli assassini che uccidono le proprie fidanzate/mogli/amanti ecc. di cui sentiamo tanto parlare in televisione (purtroppo, è un argomento molto triste, che fa arrabbiare, e molto attuale) perché lui la lascia andare. È questa la tragedia di Phantom: una storia a La Bella e la Bestia… tutta al contrario. Però alla fine Erik diviene davvero umano, come il mostro della favola. Solo che, se le Bestia è sempre stata gentile con Belle, Erik si è comportato in maniera assai… discutibile. Non trovi anche tu?
Scusa il rant. XD Comunque grazie, grazie, grazie per i complimenti (non sento di meritarli), e ti voglio un mondo di bene anch'io! Che bello trovare lettrici così dolci e leali. <3 Spero che questo capitolo non ti abbia sconvolto troppo e che apprezzerai l'inizio di questo maledetto “secondo (e ultimo) atto”. Un bacio! <3
debbythebest: Una nuova lettrice! Che bello! Davvero hai letto questa mia sciocchezzuola in una notte? Eh, sarà pure una cretinata, ma è piuttosto lunga, quindi complimenti! ^^ Mi fa TANTISSIMO piacere che ti sia piaciuta, spero di non deluderti (ho un po' d'ansia a proposito…). Un abbraccio <3
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Capitolo 26 *** Senza perdono. ***
xxv.
senza perdono
Annaspavo in cerca di aria, chiusa in una bolla di sangue dalla quale non potevo uscire. E il sangue era ovunque – era vita, morte, battito del cuore. Mi impregnava le vesti e le membra stanche. Mi trovavo in quella che sembrava una curiosa camera dalla forma sferica e le pareti pulsanti. Il livello del sangue si alzò sempre di più, finché non riuscii a tenere i piedi a terra. Galleggiavo, o almeno ci provavo, dal momento che non sapevo nuotare, nel rosso più terribile che si possa immaginare.
Poi li vidi.
I cadaveri straziati dei miei genitori. Erano l'uno di fianco all'altra, devastati dalla morte, ma da essa riuniti.
«No, no…» mormorai con quel poco di fiato che conservavo in gola. Dovevo uscire da lì, e subito. Mi agitai violentemente, come una marionetta controllata dai fili invisibili di un burattinaio crudele. Presto il sangue mi sommerse del tutto, e io continuavo a dibattermi, ad annaspare, sempre più vicina ai cadaveri dei miei genitori… (non potevo credere che mia madre fosse morta era impossibile non c'era altra spiegazione) Solo alla fine mi resi conto che quella bolla di sangue, quella camera delle torture, non era altro che la mia mente.
Cercai di urlare, ma deglutii solo un fiotto di sangue. Tutto intorno a me era rosso, rosso, rosso…
Mi destai con un singulto, le membra ricoperte di sudore gelido. Mi trovavo nella camera Luigi Filippo: nulla lì era mutato da quando l'avevo vista l'ultima volta. Il mobilio pulito e antiquato contrastava col mio dolore. Ero distesa supina sul letto, ma ora mi rannicchiai come un topo in gabbia, le ginocchia nodose strette al petto. Dondolai in una malia nervosa – avanti e indietro, avanti e indietro. Nello sguardo, avevo ancora impressa l'immagine di mia madre, la mia invincibile madre, che moriva senza la possibilità di rivolgermi un'ultima parola d'amore, un ultimo bacio. Solo allora mi accorsi che avevo il volto bagnato di lacrime. Mi ustionavano la pelle come sale su una ferita, ma sgorgavano dolci, luccicavano come rugiada sul mio volto dai lineamenti angolosi. Provavo il desiderio di spaccare qualcosa, qualunque cosa, di rivoltarmi come una bestia rimasta troppo a lungo chiusa in una gabbia. E forse la morte di mia madre era stata proprio questo: la liberazione dei miei istinti più ferali.
Sentii una profonda fitta di disgusto e nausea fino al centro della gola, e vomitai ancora sullo scendiletto ai miei piedi. Pessima mossa, Erik ne sarebbe stato furioso – ma al diavolo Erik e le sue regole. Non me ne importava più nulla, ormai.
Mi decisi ad alzarmi. Avrei voluto rimanere immobile per sempre, così magari la realtà non mi avrebbe investita, uccidendomi – quando udii un vocio provenire dalla stanza accanto.
«Non possiamo tenerla qui. La prenderanno. Ci prenderanno.»
«E dove vuoi che la portiamo, daroga? Con noi non è al sicuro comunque.»
«Ma almeno avrà la possibilità di vivere. Noi la difenderemo.»
Udii uno sbuffo che, chiaramente, proveniva da Erik.
«Siamo vecchi, daroga. Non siamo più in grado di proteggere nessuno.»
«Tu non lo sei mai stato, forse. Ma io sì.»
Entrai in soggiorno sferrando un calcio alla porta, facendo sobbalzare i due interlocutori. Non avrebbero discusso del mio destino in mia assenza: solo a me spettava deciderlo.
«Meg!» esclamò il Persiano, che sembrava lieto di vedermi in piedi. Si affrettò ad abbracciarmi, ma io rimasi immobile come una statua di cera, eppure non mi scioglievo tra le sue dita.
«State bene?»
«Come vuoi che stia, daroga? Probabilmente non è mai stata peggio in vita sua» commentò Erik, sardonico. Notai però la sfumatura di dolore nella sua voce.
«Ho la nausea» biascicai, massaggiandomi le tempie. «E sono anche confusa.»
«Vi spiegheremo tutto subito.»
Erik mi porse una fiala di cordiale che inghiottii immediatamente. Di colpo, un calore dalla fonte introvabile mi attraversò il corpo in tutti i suoi tendini e nervi tesi. Il Persiano, sempre premuroso, mi stringeva un braccio come per sorreggermi, o consolarmi, e mi accompagnava a sedere sulla poltrona su cui Erik amava tanto appollaiarsi e leggere nei suoi giorni di noia.
«Cosa è successo?» chiesi in quello che era a malapena un sussurro. «Chi…? Perché…?»
Non trovavo le parole. Monsieur Nadir mi strinse la mano con fare rassicurante.
«Sono stati gli uomini della Khanum. Ho riconosciuto il loro marchio.» Erik mi mostrò la fascia con la rosa rossa cucita sopra che aveva tolto all'assassino di mia madre… quando? Per quanto tempo ero rimasta incosciente? Posi loro questa domanda, ed essi mi risposero che erano passate delle ore, massimo quattro, e che era notte fonda. In quel labirinto sotterraneo, non esistevano né il giorno né la notte, quindi era impossibile contare le ore, ma mi fidavo del giudizio di Erik e del Persiano.
«Chi sarebbe questa Khanum?»
«La madre del reggente sultano di Persia. La piccola sultana al cui servizio fui tanto tempo fa.»
Rabbrividii fino al midollo. «Intendi quella che ti fece costruire la camera dei supplizi solo perché si annoiava?»
Erik annuì.
«Il giovane sultano attualmente in carica è suo figlio» aggiunse il Persiano. «Lo so perché continuano ad arrivarmi informazioni, di nascosto, dalla Persia. Darius era il mio fedele emissario» il suo volto si rattristò. Ma certo, avevano fatto fuori anche lui. Mi morsi il labbro fino a sentire in gola il sapore del sangue (sangue, sempre e solo sangue).
«E questo cosa centra con me?» chiesi, evitando di parlare di mia madre. In questo modo potevo fingere, anche solo per un attimo, che la sua morte non fosse reale. Stupida. Sei sempre stata una stupida bambina. Non servirà a niente.
Erik e Nadir si scambiarono un'occhiata significativa.
«Allora?» sbottai, le mani sui fianchi. Avrei voluto alzarmi in piedi, ma quando ci provai barcollai tanto che fui costretta a sedermi di nuovo.
«Sono a caccia, Meg. Di noi» Erik indicò, con un gesto eloquente, se stesso e il Persiano. «La morte di Darius e di tua madre non sono state altro che un semplice avvertimento. Le loro spie hanno indagato a lungo, fino a scoprire la mia dimora, e che tanto tempo fa il daroga mi ha salvato la vita.»
«Vogliono ucciderti per lo stesso motivo dell'ultima volta?»
«Sì. Ma c'è qualcos'altro, lo percepisco. Probabilmente una guerra in corso. Il palazzo di Mazenderan non è più al sicuro.»
«La Persia è attualmente in uno stato di guerra civile» soggiunse Nadir, sempre un braccio stretto attorno alle mie spalle. «Vogliono Erik. Lo vogliono entrambe le fazioni.»
«Per poi ucciderlo» conclusi io.
I due uomini annuirono solennemente.
«Ma tu non dovevi essere già morto?» Questa volta non riuscii a contenermi. Balzai in piedi e puntai un dito contro Erik, con il sangue che mi ribolliva nelle vene come lava. Il vulcano attendeva solo di esplodere.
«É colpa tua. È tutta colpa tua. Mia madre non sarebbe mai morta se tu non fossi entrato nelle nostre vite come un uragano!»
«Meg…» cominciò il Persiano con voce pacata, ma io lo ignorai.
Mi avvicinai tanto ad Erik da sfiorargli il petto con la punta del naso. Era così alto, ma non m'importava. Mi venne voglia di prenderlo a pugni di nuovo, e lo schiaffeggiai in piena faccia. «Emerito bastardo, è sempre colpa tua! Da quando sei entrato nella mia vita, tu…» soffocai un singhiozzo. Dopodiché feci qualcosa di inaspettato sia per me che per lui: poggiai la testa sul suo petto, le lacrime che mi rigavano il volto straziato dalla stanchezza. Sollevai i pugni per colpirlo sul suo torace magro – potevo percepire le ossa al di sotto della stoffa della camicia immacolata – ma tutto quel che feci fu conficcargli le unghie nella pelle. Sperai di avergli fatto male. Dalla sua espressione dolente, però, intuii che non erano i miei artigli a stringergli il cuore, non il mio schiaffo, ma le mie parole. Ricordai che anche lui aveva tenuto a cuore mia madre – mi importa, mi aveva detto una volta. E importava anche a me.
«Non ci sono parole, Meg. Non merito il tuo perdono.»
«Tu tenevi a lei. Per questo l'hanno uccisa.» E con lei, hanno sradicato e violentato anche una parte di me, quella che mi faceva sentire umana.
«Sì.»
«E per questo vogliono far fuori anche me.»
«Sì.»
Alzai il volto e lo fissai negli occhi. Quegli occhi incredibili, disumani nel loro colore impossibile, eppure colmi di un'umanità ineffabile. Niente aveva senso con Erik, neanche il cuore che mi palpitava nel petto ogni volta che ci guardavamo così intensamente, come due fiere pronte a sbranarsi – o a fare l'amore.
«Colpiscimi, se vuoi. Picchiami, sputami addosso, uccidimi… accetterò tutto e non reagirò. Porto su di me il peso di quella lama.»
Tu porti il peso di tutti noi, pensai, ma non dissi nulla. Mi trattenni dal rifilargli un'altra sberla e arretrai, mentre il Persiano mi circondava le spalle con un braccio in un gesto di amichevole rassicurazione. Tremavo ancora, sia fuori che nelle articolazioni dell'anima.
«Chi era quel… quel tizio?»
«Un sicario al soldo della Khanum» mi rispose Erik.
«Quindi vi conoscevate.»
«Quando ero agli ordini del vecchio sultano, sì.»
Certo che lo conosceva, pensai, inorridita. Era uno di loro!
«Ti ha chiamato in modo strano…» proseguii, incerta.
«Azrael» confermò Erik.
«Per noi musulmani, Azrael è l'Angelo della Morte» spiegò il Persiano, e tutti i tasselli del mosaico ora quadravano perfettamente.
«Così mi chiamavano un tempo» soggiunse Erik con una smorfia. Evidentemente essere accomunato a una creatura sovrannaturale di natura funebre, molto differente dall'Angelo della Musica, non gli piaceva.
«Un altro soprannome» feci io, massaggiandomi le tempie doloranti. La testa mi girava come le pale di un mulino al vento.
«Dobbiamo fuggire subito. Adesso» disse Erik in tono autoritario.
«Prima è, meglio sarà per noi tutti» soggiunse il Persiano, pensoso.
«E dove?» chiesi, allargando le braccia quasi che dal cielo, come pioggia, potesse giungermi la risposta. «Dove, Erik?»
«In America. Lì sarai al sicuro, ma dobbiamo fare in modo che non scoprano la nostra meta.»
«L'America? Dico, sei impazzito?» esclamai, stupefatta. «Non conosco nemmeno l'inglese!»
«Imparerai. Vuoi vivere o no?» mi squadrò lui con occhi di fiamma.
La verità è che non lo so, pensai. Non so più nulla. Il calice della mia mente si è svuotato, per poi riempirsi solo di sangue, e altro sangue ancora.
«E tu?» gli chiesi, diretta. «Non avevi forse intenzione di morire fino a ieri?»
Lui deglutì. «Sì, ma non per mano loro. Non dove lei non potrà tornare a seppellirmi. Inoltre, avevo fatto una promessa, e questa volta ci tengo a mantenerla.»
Ma certo, aveva promesso a mia madre che avrebbe vegliato su di me. Come se ne avessi bisogno, poi. E tuttavia, ora che ero – che eravamo – davvero in pericolo…
«Perché la Khanum mi vuole morta? Non capisco. Io non centro nulla in tutta questa storia. Questa faida non interessava nemmeno mia madre.»
«Non è per voi, è per lui» disse Nadir con un cenno all'uomo mascherato, il quale si limitò a fissarmi silente. «Sa che non sarà facile catturarlo e riportarlo, per di più vivo, fino in Persia. Né sarà semplice estorcergli le informazioni che desiderano.»
«Ma se hanno in pugno te, io non posso che arrendermi. Lo capisci?» disse Erik con voce strozzata, come se qualcosa gli ottundesse la gola, impedendo alla sua bella voce di librarsi naturalmente.
Annuii. «Sono solo una pedina, allora.»
«Lo siamo tutti» mi rassicurò il Persiano.
Scossi il capo con violenza. No… Qualunque cosa il fato avesse in serbo per me, io avrei avuto una parte attiva in tutto questo. Non sarei rimasta semplicemente a guardare mentre due uomini mi aiutavano sul sentiero della salvezza. Sarei stata io la regina sulla scacchiera, non un semplice pedone da sacrificare quando non se ne ha più bisogno.
Pensai sul serio all'idea di partire per l'America. Sarebbe stato un viaggio lungo e poco sicuro, ma quel che mi spaventava era il dopo. Cosa avrei fatto in un Paese di cui non parlavo neanche la lingua? Avrei smesso di danzare per sempre? Non sarei stata sola, avevo Monsieur Nadir al mio fianco, e lui potevo considerarlo mio amico. Ed Erik, dopo avermi tratta in salvo come aveva giurato di fare a mia madre… cosa ne sarebbe stato di lui?
Queste domande non avevano risposta, non finché fossi rimasta lì ad aspettare.
«Cosa devo fare?» dissi. I due uomini si scambiarono un'occhiata che non mi sfuggì, pur fulminea che fosse. «Ci sarà pur qualcosa che potrò fare.»
«Nadir ha già preparato i cavalli e le provviste. Viaggeremo di notte, col favore del buio. Ad un buon trotto, arriveremo a Calais in una settimana e mezzo.»
«E una volta lì, come partiremo per l'America? Non sono mai stata brava in geografia, ma mi hanno detto che c'è un vasto oceano tra questo e il Nuovo Mondo» replicai, sarcastica. Sentivo il livore crescere in me come un cancro, e lo rivolsi alla persona sbagliata.
Erik mi fulminò con freddezza. «Non parlare in questo tono, ragazza. Sei ancora troppo scossa per dire certe cose.»
«Erik, comprendila. Ha la mente fragile, ora…»
«Fragile?» Erik cacciò un lieve sbuffo d'incredulità. «Ma se è l'unica persona che riesce a tenermi testa oltre te e…» Qui si fermò, deglutendo a fatica. Christine, pensai. Anche pronunciare il suo nome è come una daga nel cuore, per lui.
«Adesso tutto questo non ha importanza. Concentriamoci sulla situazione presente.» Relegai il dolore per la morte di mia madre in un angolo del mio cervello, così che avessi ancora la capacità di ragionare.
«C'è una cosa che abbiamo pensato, il daroga ed io» spiegò Erik, e il suo tono mi parve stranamente esitante. Forse temeva che lo avrei preso a sberle di nuovo – cosa non del tutto irrealistica, d'altronde.
«É per la vostra sicurezza, Meg» mi assicurò il Persiano.
Corrugai la fronte. Qualunque cosa stessero per propormi, non doveva essere piacevole per la sottoscritta.
«I sicari che ci stanno alle calcagna stanno inseguendo un uomo in maschera, uno originario del Medio Oriente e una ragazza» disse Erik in una cadenza lenta e modulata che avrebbe dovuto tranquillizzarmi, ma che invece ebbe solo il potere di allarmarmi ancora di più. Se usava la malia della sua voce, allora voleva dire che c'era qualcos'altro sotto.
«Un ragazza» ripeté Erik. «Non un ragazzo.»
Ammiccai, come dinanzi a un improvviso fascio di luce puntato sui miei occhi. Era assurdo.
«Volete che mi travesti da uomo?» chiesi accigliata, in tono pungente.
«Te l'avevo detto che non avrebbe gradito» disse Monsieur Nadir, al che Erik replicò: «Non è costretta a gradire nulla.»
«Perché mai dovrei fare una cosa simile?» continuai, sempre più confusa. Non avrei avuto problemi ad indossare abiti maschili, ma le mie forme erano decisamente quelle di una donna. Come avremmo fatto a nascondere anche questo?
«Sarebbe molto più sicuro. Incontreremo gente per la nostra via, e sarete voi a rivolgervi a loro in caso di bisogno. I nostri cacciatori si aspettano una ragazza, non un orfano di strada.»
«Per il resto viaggeremo in aperta campagna, seguendo vie traverse e più sicure che mi sono note da quando ero un ragazzino e viaggiavo con una carovana di guitti per il Paese» aggiunse Erik. «E poi, se sapessero che sei una ragazza… se ti prendessero… farebbero cose… cose indicibili.» Lo vidi stringere il pugno in segno di rabbia repressa. La violenza carnale lo inorridiva, a quanto pareva.
«Capisco.» Annuii, muta. Poi ritrovai la voce: «Non posso nascondere tutto» dissi senza pudore. «Mi dovrete cercare un corsetto bello stretto.»
«Abbiamo già tutto il necessario» spiegò Monsieur Nadir con voce sempre gentile, lievemente in imbarazzo.
«Quindi già sapevate che avrei accettato.»
«Ti conosco troppo bene, Meg» interloquì Erik. «Sapevo che avresti scelto la strada più furba.»
«D'accordo, allora. Lo farò» strinsi i pugni e, di nuovo, cacciai via dalla mia mente il ritratto funebre di mia madre dinanzi ai miei occhi colmi d'orrore. Sentii crescermi un magone in gola, tale che mi fu difficile aggiungere: «E gli altri? Tutti mi conoscono, qui all'Opera. Non posso sparire all'improvviso, come nulla fosse. Cosa diremo loro?»
«A questo ho già pensato io» ribatté Erik, in tono non meno gentile di quello del Persiano. «Lascerai una lettera alla direzione dicendo che sei partita per andare in campagna, poiché molto malata. Ormai la notizia di… di quanto è accaduto a tua madre si sarà sparsa, la polizia avrà aperto le indagini (finirà per bollare il tutto come una rapina andata male, non temere). Lascerai l'Opera nel cuore della notte, traumatizzata da quanto accaduto. Nessuno sospetterà nulla.»
Aveva già pensato a tutto, come sempre. Era come quando aveva rapito Christine per la prima volta: in quelle due settimane di prigionia, aveva fatto credere a tutti che la mia amica fosse malata.
«E il cadavere dell'assassino?»
«Me ne sono già occupato io.»
Sospirai. «Immagino che dovrò scrivere io stessa la lettera. La tua calligrafia è francamente orrenda, e troppo riconoscibile» dissi ad Erik, che annuì, sebbene corrucciato dal mio commento sulla sua grafia illeggibile e sbilenca.
«Ho già portato tutti i tuoi averi qui, in modo da farla sembrare una vera partenza. Così nessuno potrà insospettirsi.»
Annuii. «Come usciremo di qui? Se ci stanno aspettando, là fuori…»
«C'è un condotto nelle fognature di Parigi che porta direttamente fuori dalla città» spiegò Erik semplicemente. «Attraverseremo quel passaggio, di cui pochi sono ancora a conoscenza, e certamente non il nostro nemico.»
Passare per le fogne. «Splendido. Non vedo l'ora di partire» mormorai tra me e me, sarcastica.
«C'è un'altra cosa che dovete fare, oltre che indossare vestiti da uomo» il Persiano mi si rivolse in tono esitante. Questa volta temeva davvero che avrei detto di no.
«Cosa?»
Ero stanca, così stanca. Sentivo la testa girare per le troppe emozioni, susseguitesi l'una all'altra come una raffica di proiettili nella mia mente. Avrei dovuto lasciare l'Opera, forse per sempre; avrei dovuto abbandonare Parigi e la Francia – la mia città e il mio Paese; non avrei più rivisto Luc, e Juliette, e Fabienne e Louise. E le piccole Jammes e Tholomyés, l'affettuoso Reyer, il dolce Figaro… Sarebbe tutto finito nell'oblio di un passato che era come una cicatrice sulla mia pelle imperfetta.
Frattanto, Erik aveva rovistato in un cassetto della più vicina credenza. Mi porse un paio di forbici.
«Devi tagliarti i capelli, Meg.»
D'istinto mi portai una mano alla mia capigliatura crespa e arruffata. Stopposi com'erano, mi avevano sempre dato problemi, ma non li avevo mai amati come ora. Fissai le forbici che Erik mi tendeva: era il punto di non ritorno, l'ultimo legame con una realtà che non potevo più chiamare mia.
«Va bene. Lo farò.» Afferrai le forbici con un movimento deciso che lasciò Erik leggermente accigliato.
«Sei sicura?»
Annuii. Certo, tagliarmi i capelli era come estrarre, ancora pulsante, quel cuore che mi rendeva ancora “la piccola Meg”, ballerina dell'Opera e tragicamente orfana. Da quel momento in poi, non sarei più stata la stessa.
«Se devo fare una cosa, che la faccia come si deve. Vado a vedermi allo specchio nel bagno. Tu portami i vestiti che mi servono.»
I due uomini si scambiarono uno sguardo contrito: la mia determinazione li turbava, ma acconsentirono con rapidità.
«Bene» mugugnai con voce rauca. Mi diressi nel bagno attiguo alla stanza Luigi Filippo e mi guardai allo specchio: i miei occhi erano ancora rossi e gonfi di pianto. Ma adesso non volevo più piangere. Hanno bevuto tutte le mie lacrime. Si sono portate via anche quelle.
Le forbici erano stranamente gelide nelle mie dita contratte. Rabbrividii quando tagliai la prima ciocca. Essa cadde sul pavimento senza emettere alcun rumore, come piume d'uccello.
«Vuoi una mano?» chiese Erik sulla soglia del bagno. Non osava avvicinarsi oltre allo specchio.
«No, ce la faccio da sola» risposi con decisione.
Non contai i minuti, solo le ciocche che cadevano e si ammucchiavano sul pavimento in un cumulo nero come bitume. Alla fine la mia testa pareva un bitorzolo dalla forma lievemente appuntita. La frangia mi frusciava sulla fronte, ma i capelli erano molto più corti di quando mi arrivavano alle spalle. Ora mi sfioravano le orecchie, mettendole a nudo. Mi sentii vagamente a disagio, come se mi fossi vestita della pelle di qualcun altro, fattezze che non mi appartenevano. Sono solo capelli, pensai. Ricresceranno.
Mancava solo che indossassi gli abiti appositi preparati per me da Erik e Nadir. Erano piegati sul letto: li osservai con attenzione. Dovevano essere i vestiti di un ragazzino, a giudicare dalla taglia, ma proprio per questo mi entravano a pennello. Strana sensazione: non avevo mai indossato dei pantaloni, prima, ma erano miracolosamente comodi. La mise consisteva in un camiciotto bianco, un paio di calzoni di stoffa resistente, color mattone, e una giacchetta dello stesso colore. Le scarpe erano ugualmente marroni, ma così piccole che potevano essere appartenute solo a un bambino. Mi calzavano bene – erano perfette per il mio piccolo piede deformato da anni e anni di danza en pointe. L'idea della danza mi riempì gli occhi di lacrime, perciò volsi i miei pensieri altrove. Mi concentrai sulla mia nuova tenuta, infilandomi come tocco finale un berretto, sempre marrone, sul capo rasato. Ecco, ora apparivo più simile che mai ad un gamin di strada, solo più pulito. Sperai di mantenere tale questa apparenza per molto tempo, poiché ero, in effetti, irriconoscibile.
Se Jacques e gli altri amici di Luc mi avessero visto in questo stato, certamente avrebbero trovato un nuovo straordinario nomignolo per me, oltre che Faccia di Scimmia. Quante grasse risate si sarebbero fatte a mie spese.
Le fasce che Erik mi aveva consegnato mi stringevano il seno – o meglio, quel poco di carne che avevo al suo posto – in modo da renderlo invisibile sotto il largo camiciotto. Ero perfetta, dolorosamente perfetta.
Quando tornai in soggiorno conciata in quel modo, il Persiano mi rivolse uno sguardo di comprensione, addolorato. Gli occhi di Erik erano invece indecifrabili dietro la protezione della maschera.
«Partiamo, allora» disse quest'ultimo, indossando la cappa nera sulle spalle e il cappello che gli copriva gli occhi. Anche Nadir si era infilato la giacca.
Annuii. Addio. «Partiamo.»
Chi conosce la storia delle fogne di Parigi sa che sono un coacervo di cunicoli scavati nella terra, di viscere strappate al cemento, di passaggi larghi quanto la gola di un drago. L'acqua che scorreva nei condotti emanava un lezzo che mi costringeva a tapparmi il naso per non cedere all'istinto di dare di stomaco. Anche Monsieur Nadir, al mio fianco, appariva a disagio, ma era un uomo dai nervi d'acciaio e non espresse alcuna lamentela. Questo valeva anche per Erik: mi chiesi chi tra i due fosse il più stoico.
Non potevo guardarmi indietro, difatti non osavo voltarmi. Come nel mito di Orfeo ed Euridice, una storia dell'antica Grecia che mio padre amava raccontarmi quando ero piccola, seduta sulle sue ginocchia: voltati indietro e sarai perduta. Orfeo aveva ceduto alla tentazione, ma io sarei stata più forte. Avanzavamo tra cunicoli che apparivano direttamente scavati nel buio, budelli di oscurità che solo la torcia di Erik rendeva attraversabili, come il guado di un fiume durante una tempesta logorante. Le pareti di pietra e salnitro parevano trasudare umidità e fetore. Intravedemmo anche parecchi ratti che gironzolavano vicino ai nostri piedi, grandi come cuccioli di gatto, ma non li temevo: non era dei ratti che bisognava avere paura.
Le piastrelle sdrucciolevoli sotto i miei piedi non mi mettevano più a mio agio delle larghe voragini di terra umida dove affondare, come nelle sabbie mobili – le trappole delle fogne. Tuttavia, Erik vi si districava con naturalezza. Sembrava conoscere la strada a menadito, e noi ci affidammo totalmente a lui in questa occasione.
Arrivammo alla meta dopo circa un'ora, o così mi era apparso, di girovagare. Un'uscita da cui penetrava un singolo raggio di luna rubato alla notte si allargava dinanzi a noi come una piaga nella carne nera dell'oscurità. La attraversammo e sbucammo nella notte fredda e limpida di una Parigi addormentata. Legati a due pali lì accanto, c'erano una puledra dal pelo bianco come la neve e uno stallone nero dall'aria imponente. Entrambi portavano sacchi con le provviste sui loro dorsi sellati.
«Dove avete preso dei cavalli del genere?» chiesi, perplessa.
«Ho i miei mezzi» rispose Erik, enigmatico come sempre.
«Mi chiedo quando mai mi darai una risposta comprensibile.»
Nadir salì sulla puledra bianca, che scalpitò appena sotto il peso del suo cavaliere. Naturalmente, per Erik rimaneva lo stallone nero come la notte.
«E per me nessun cavallo?»
«Non sai cavalcare, no?»
Scossi il capo. In effetti, l'unica volta che ero salita in groppa a un cavallo era stato anni e anni prima, con mio padre – quando era ancora mio padre e non la sua ombra deturpata – che mi aveva insegnato a tenere le redini quando eravamo andati in vacanza in campagna, un'estate fresca di tanto tempo prima. Ricordai il sorriso di mia madre quando mi aveva vista in sella – non mi ero mai sentita più libera come in quel momento – e il magone che mi ottuse la gola rischiò quasi di soffocarmi. Non pensarci. Non pensare. Non ricordare.
«Salta su con uno di noi.»
Mi avvicinai a Monsieur Nadir, trepidante, ma a metà strada mutai idea. Con grande sorpresa dell'interessato, feci per salire in groppa allo stallone di Erik che, sgomento, mi tese la mano per aiutarmi. L'afferrai e mi sistemai sulla sella, goffa. Né Monsieur Nadir né Erik stesso fecero commenti.
«Bene. Andiamo. Dobbiamo essere più veloci del lampo» concluse quest'ultimo, e partimmo al galoppo verso Calais, attraverso vie strette e introvabili sulle mappe, che valicavano ruscelli nati da sorgenti sconosciute.
Era Erik a guidarci. Aveva una profonda conoscenza delle strade che percorrevamo, frammezzo a boschi di radi alberi di quercia e radure di gigli ancora in boccio. Ci fermavamo a qualche torrente solo per abbeverare i cavalli e lasciare che riposassero almeno un'ora o due, mentre noi stessi mangiavamo qualcosa di malavoglia. Per il resto del tempo, eravamo in sella. Il mio senso di libertà svanì ben presto quando mi accorsi che avevo il didietro e le cosce doloranti, poiché non ero abituata a quel ritmo assurdo. Erik non voleva che riposassimo neanche un minuto, e anche Nadir era d'accordo, quindi ci accontentavamo della nuda terra quando facevamo abbeverare e nutrire i cavalli. Erano un paio d'ore di sonno al giorno, ma presto imparai a dormire anche in sella, la testa poggiata alla schiena del mio sinistro compagno. Così abbigliato, con lo stallone nero che tra me e me avevo ribattezzato Notte, rassomigliava proprio alla Morte biblica, venuta per scatenare l'Apocalisse insieme alle sue tre sorelle: Pestilenza, Guerra e Carestia. Quante volte, da piccola, avevo udito quel sermone in chiesa, quando la mia povera madre mi costringeva ancora a recarmici, sebbene io obbedissi di malavoglia?
Bisogna aggiungere che Notte aveva un pessimo carattere e solo Erik sembrava in grado di domarlo. Aveva una dolcezza con gli animali che in lui non avvertivo mai in presenza di altri esseri umani. Ma certo, era ovvio: a quegli animali non importava che volto avesse. Erano le uniche creature sulla terra a potergli donare amore incondizionato.
Gli chiesi se avesse mai pensato ad avere un animale da compagnia.
«Da bambino avevo un cane di nome Sasha. Apparteneva a mia madre, veramente, ma da quando nacqui divenne mia. Mi leccava il viso senza spavento alcuno nelle sue moine» Erik mi raccontò in tono malinconico, mentre cavalcavamo senza sosta e io gli circondavo la vita con un braccio. Intuivo che c'era qualcos'altro a proposito che non mi diceva.
«Che fine ha fatto?»
«L'hanno uccisa. Tanto tempo fa.»
Dopodiché percepii la sua riluttanza a dilungarsi sull'argomento. Qualunque ferita gli avessero inflitto con la morte del suo compagno canide, era ancora ustionante.
Superammo fattorie e villaggi, villette di campagna e boschetti di alberi d'acero, ma non ci fermammo mai a parlare con nessuno, né qualcuno venne ad interrompere il nostro cammino.
Fummo fortunati, perché l'apparenza dei miei compagni era fin troppo riconoscibile. Ci accostammo ad un villaggio solitario, costituito da casette costruite col legno e una chiesetta sempre aperta a chiunque volesse pregare (non io; io ormai avevo finito di credere in Dio da molto tempo), dove trattai con un fattore per acquistare con l'oro di Erik – quello che aveva risparmiato negli anni di ricatti ai direttori dell'Opera – della biada per i nostri cavalli. Il mio travestimento funzionò: sembravo davvero un ragazzo come tutti gli altri, e nessuno fece domande. Se i nostri inseguitori avessero interrogato gli abitanti del villaggio, questi avrebbero risposto di aver visto solo un gamin in giro, nessuna giovane donna né tanto meno uomini mascherati o dalla pelle scura, visibilmente stranieri. Erik e Nadir si tenevano sempre in costante lontananza dai centri abitati, ed era un bene: non volevamo essere notati – il nostro trio era già alquanto bizzarro di per sé, e avrebbe attirato non pochi mormorii. Una volta a Calais, ci saremmo dispersi tra la folla, dal momento che era una grande città, anche se non maestosa quanto Parigi.
Le scintille del bivacco creavano arabeschi d'oro rosso sul terreno color ruggine. La luna, i cui raggi trasparenti filtravano attraverso le imposte, era una pietra incastonata in un cielo di ghiaccio nero. Erik, accanto a me, era immobile come quell'astro.
«Dovresti dormire» mi disse d'un tratto. Monsieur Nadir, poco lontano, già riposava beatamente – per quanto lo permettesse un giaciglio di paglia. Il turno di guardia toccava ad Erik, quella notte. Ci fermavamo così di rado che ormai avevo imparato a dormire in sella al cavallo, la testa che ciondolava al trotto, una mano stretta alla vita del mio sinistro cavaliere per impedirmi di ruzzolare al suolo. Avevo le cosce dilaniate da piaghe da sella, ma mi limitavo a stringere i denti, emettendo rari sibili di dolore. Eravamo in perpetua fuga da un nemico che era sempre alle nostre spalle, attenti a confondere le nostre tracce per depistare gli inseguitori. Una volta giunti sulla costa settentrionale della Francia, ci saremo imbarcati su una nave di contrabbandieri, vecchie conoscenze di Erik che già lo avevano accolto a bordo una volta. La nostra meta era l'America, il grande continente in cui non avrei mai pensato di mettere piede, e lì saremo rimasti fino alla fine della guerra che ci aveva coinvolto nel suo uragano di sangue e detriti di vite distrutte. Mi sentivo addosso il lezzo della decomposizione… o forse era solo la vicinanza eccessiva di Erik. O anche il fatto che non mi lavavo da più di una settimana. I giorni trascorsi in sella a un cavallo, senza mai riposarsi o mangiare altro che fosse pane duro, strisce di pesce affumicato e formaggio stagionato avevano segnato anche Nadir, che eppure era un uomo di costituzione robusta e di solida forza d'animo, che non si lamentava mai. Quanto ad Erik, lo avevo visto trangugiare qualcosa pochissime volte.
Ma dorme mai?, mi chiedevo. Una mattina fredda e senza nubi lo scoprii a sonnecchiare insieme a me che, alle sue spalle, gli circondavo la vita con un braccio.
Era immobile e insondabile come un muro di granito, ma quando feci per scuoterlo per un gomito udii l'obiezione di Nadir. «E' così da un paio d'ore» mi riferì in un sussurro. Cavalcava piano, senza mai lasciare il nostro fianco. I suoi gentili occhi di giada erano segnati dalla durezza a cui quella rocambolesca fuga lo stava sottoponendo, circondati da occhiate livide, il volto scavato. Eppure era ancora in piedi, fermo e deciso. Non volevo neanche pensare a che aspetto avessi io. Per quanto mi riguardava, se avessi dovuto mangiare altro pesce affumicato o formaggio, avrei dato di stomaco. E quando le scorte fossero finite, cosa avremmo fatto? Ci saremmo cibati dei vermi che si celavano nella terra o degli scarafaggi sotto i sassi? Non potevamo cacciare: Erik ci aveva proibito di accamparci e di accendere il fuoco, e aveva ragione. Voleva attirare l'attenzione il meno possibile, scivolando tra sentieri che sembrava conoscere solo lui nelle campagne abbandonate. Se incrociavamo un villaggio o una fattoria, li aggiravamo, superandone i confini. Ma era raro che ne incontrassimo. Erik aveva scelto un itinerario che comprendeva solo foreste e lande deserte. Conosceva bene quelle strade – così ci aveva rassicurato: da ragazzo, ci era già passato. Quanto a me e Nadir, non potevamo far altro che appoggiarci a lui. Io avevo oltrepassato le mura di Parigi rare volte, e solo da bambina; Nadir era uno straniero che conosceva il Paese soltanto in piccola parte. Erik aveva attraversato la Francia in lungo e in largo e viaggiato molto, arrivando perfino in Asia. Il buon senso ci suggeriva di lasciar fare a lui, anche se il solo pensiero che mi desse ordini mi ottundeva la gola in una morsa rabbiosa. La furia mi montava dentro ogni giorno, insieme alla spossatezza, al dolore, agli incubi. Era per questo che non riuscivo a dormire.
Dopo una settimana, Nadir aveva proposto ad Erik di fermarci in qualche casolare abbandonato. «Ci basterebbe anche una stalla, Erik. Non possiamo andare avanti così. Le nostre provviste stanno per finire. Dobbiamo fermarci in un villaggio e riprendere fiato… Di denaro ne abbiamo.»
«Quello ci serve per la nave e il trasporto. Se pensi che i nostri amici contrabbandieri ci lasceranno salire a bordo con loro come nulla fosse, ti sei rimbecillito completamente.»
Nadir ignorò l'insulto. «Come pensi che andremo avanti, dopo? Dovremo pur fermarci per cambiare cavalcatura.» Aveva ragione, i nostri destrieri erano stremati. Erik permetteva che riposassero solo poche ore al giorno. Proprio come me e Nadir, stesi sulla nuda terra in chissà quale bosco sperduto. Notte era schiumante di sudore e aveva il fiato grosso: persino un cavallo forte come lui era alle strette.
«Non dirmi che non ci hai pensato» biascicai con voce raschiante. Era divenuta sempre più rauca, dal momento che mi ero ridotta a una sorta di muta. A volte avrei voluto essere altrettanto sorda, altrettanto cieca, altrettanto insensibile.
«Certo che sì.» Non ne dubitavo. Tra tutti gli aggettivi che potevo attribuirgli, stupido non era tra questi. «Ma non possiamo fermarci. Non ora.»
«Erik, pensa che anche loro dovranno fermarsi. Anche loro avranno i nostri stessi bisogni. Abbiamo ancora del vantaggio nella corsa. Fermiamoci al prossimo villaggio, te ne prego.»
Erik meditò per un po', ma alla fine acconsentì. Forse anche lui era stremato: in fondo, non era più un ragazzo. Dovevo ricordarmi che doveva essere sette, otto anni più giovane di Nadir.
Ci fermammo a una fattoria alla periferia di un minuscolo villaggio, e fui io a parlare con i proprietari. Una volta visto quel losco figuro mascherato e lo straniero dalla pelle scura, sapevamo che non ci avrebbero mai fatti entrare in casa… Nessuno di loro. Non sbagliavamo, difatti.
Ma con il denaro si comprano molte cose. Erik ne aveva portato con sé abbastanza da convincerli a cederci biada, acqua e cibo in quantità. Per una notte, inoltre, avevamo affittato un casolare abbandonato poco più avanti. In realtà con quel denaro avevamo solo acquistato il loro silenzio, anche se Erik non ne era affatto convinto.
«Non durerà… Non quando su di loro pioverà altro oro. Dalla mia parte ho il frutto di anni di…»
«… coercizioni?» suggerii, sarcastica.
Lui m'ignorò. «In ogni caso, nemmeno io posso competere con un sultano.»
«Credi che li abbiano pagati molto per darci la caccia?»
«Oh, sì. Non vedono l'ora di stringermi una corda attorno al collo. Per loro sono più importante dell'oro, adesso. Sono il mezzo con cui vincere una guerra.»
«Sei un esemplare di razza, Erik. Si danno davvero molto da fare per metterti in gabbia.»
Lui mi scoccò un'occhiata fulminante da dietro la maschera. I suoi occhi, nell'oscurità, erano molto più visibili che alla luce del giorno, e io avevo imparato a decifrare i suoi stati d'animo attraverso i due buchi della maschera nera… Perlomeno alcuni. E se ti catturassero… cosa farebbero di te, dopo?, mi domandai.
«Ma poi mi scuoierebbero vivo» aggiunse lui, come se mi avesse letto nella mente. «Dimenticano che le ho create io, le ora rosa di Mazenderan. Non sono che pallide copie… Nessuno ha fatto ridere la sultana più di me.» Concludemmo la conversazione con quella nota sinistra.
Dopo esserci sistemati nel casolare, aiutai Nadir a spennare la cena di quella sera – due galline, ancora vive quando le avevamo portate via dal pollaio. Ero stata io a sventrarle e a tagliare loro la testa. Il daroga mi aveva mostrato come si faceva, aiutandomi non poco, e anche come si accendeva un fuoco. Erik era rimasto a guardarmi con i suoi strani occhi dorati, fissi, due stelle di pietra. Nadir mi lanciava occhiate apprensive. «Siete sicura?» Sembrava allarmato dalla mia ostinazione… E forse aveva ragione di esserlo.
«Voglio dare una mano.»
«Dovreste stendervi sul pagliericcio e riposare un po'.»
«Sto bene. E voglio davvero dare una mano.»
Mi sentivo inutile, un pupazzo che doveva fare qualcosa per non sentirsi più tale.
«Lasciala fare, daroga. Se ci tiene tanto, perché insistere su una questione così sciocca?» Fui sorpresa dal fatto che Erik fosse giunto in mia difesa. Avevo l'impressione che non si intromettesse in discussioni del genere, che avesse altro a cui pensare. O forse anche lui voleva solo divorare quei maledetti volatili.
Quando la nostra cena fu ben arrostita e rosolata, mi avventai su un cosciotto con tanta voracità che per poco non soffocai ai primi due morsi. Avevo ben poco di signorile in quel momento: con quei capelli, gli abiti e tutto il resto, mi stavo trasformando sempre più in un monello di strada.
«Se mangi troppo in fretta ti si chiuderà lo stomaco. E non sarebbe piacevole, dal momento che cavalchi con me.» Inutile dire chi mi aveva rivolto quell'aspro consiglio. Mi pulii il mento gocciolante con la manica della camicia e folgorai Erik con un'occhiataccia, anche se aveva ragione. Terminata la cena, Nadir si addormentò subito. Quel pover'uomo era esausto, ma speravo che perlomeno il buon cibo l'avesse rinvigorito. Fu allora che Erik mi disse che avrei dovuto dormire.
«Non ci riesco. Non adesso.» Il dolore alle cosce mi impediva di pensare, ma ora che ero sdraiata su un pagliericcio davanti a un fuoco acceso… No, era diverso. Lui inclinò la testa di lato, come per osservarmi meglio.
«Mi apparivi molto spossata fino a poco fa.»
«Lo sono. Ma non posso dormire.»
«Sei sicura di stare bene?» mi chiese con la sua voce d'angelo. Annuii: ero certa di non avere febbre né altro di simile.
«Se resto qui distesa, per tutta la notte rimarrò a pensare a come è morta.» La sensazione viscida del sangue di mia madre sulle mani, un abbraccio di morte e sogni spezzati… l'ultimo. «Me le immagino ogni notte, sai? Le facce di chi ha dato ordine di ucciderla.»
«Sì, ho notato che ripeti la parola “Khanum” a bassa voce di tanto in tanto, nel sonno, quando credi che io non possa udirti. Ma io ti sento sempre, Meg. E non comprendo il motivo di una litania tanto… odiosa.»
Gli lanciai un'occhiata di sottecchi. Aveva pronunciato la parola giusta.
«É per ricordarmi della rabbia» risposi. Sperai che Nadir stesse dormendo della grossa; non mi sentivo a mio agio nell'intraprendere quel discorso davanti a lui. Con Erik era diverso… anche se non sapevo perché. «É l'unica cosa che mi fa andare avanti in questo momento. Non mi rimane altro.» Ero una cavità di ombre e ceneri, tutte unite da una stessa trama: la morte mi seguiva ad ogni passo. E con essa, la rabbia e il dolore. «Se prima temevo di fare la fine di mio padre» dissi, sforzandomi di tenere ferma la voce, «ora non sono altro che questo: furia e ossa. E fa male… dappertutto.» Mi strofinai le tempie, mentre una fitta lancinante mi attraversava il capo da parte a parte come un'aureola.
«Il sonno non concilia» commentò Erik, che ora teneva lo sguardo fisso sul focolare.
Annuii. «Il sonno è… una rimembranza indesiderata.»
«Non potresti dimenticare comunque.»
«Lo so. E non voglio farlo.»
Questa volta si decise a guardarmi. I fantasmi delle fiamme volteggiavano nei suoi occhi.
«Perché hai voluto uccidere tu le galline?»
«Cosa?»
«Ti sei sfogata? Ti ha fatto stare meglio?»
Intendeva forse chiedermi se… se provocare a delle creature più deboli ciò che aveva dovuto provare mia madre mi avesse risollevata? L'idea non mi aveva sfiorata… se non in parte. Ma non era stato il pensiero delle galline sofferenti a rincuorarmi.
«Non i maledetti polli» sibilai. «Loro. La Khanum, lo Shah – tutti loro.»
Lo vidi irrigidirsi. «Ti sbagli. Non ti farà stare meglio.»
«Davvero?» lo sfidai. Ero impudente, e lo sapevo. Ma quella era una questione troppo importante, e oramai la mia rabbia poteva quasi pareggiare con la sua. Ma se la mia era un fuoco ardente, quella di lui era una miscela di ceneri divenute pietra: calda come lava, ma dura come il granito.
Sta parlando con le parole del nuovo Erik, compresi. Quello vecchio – prima di Christine, del nostro incontro, di tutto – sarebbe stato diverso.
«A te ha fatto stare meglio?»
«Che cosa vuoi sapere davvero, Meg?» mi chiese con voce severa.
«Voglio sapere…» esitai. Avrei avuto davvero il coraggio – o la follia – di pronunciare le parole che adesso mi vorticavano nella mente? Fin quando rimanevano dubbi irrisolti, non sarebbero divenuti reali… Ma era di fatti e verità che ora dovevo nutrirmi. Fu questa consapevolezza a dar loro voce.
«Quando hai ucciso per la prima volta… quale ne fu la ragione?»
Erik s'irrigidì considerevolmente. «La mia non è una strada che vorresti intraprendere. Credimi, bambina.»
Una brivido di rabbia gelida mi corse lungo la schiena. «Non ho ti chiesto di rispondermi con cianciate filosofiche. E non chiamarmi bambina! Non sono…»
«É vero, non lo sei. Ma forse dovresti.»
«Non sono innocente, Erik! Ho dentro di me cose… cose oscure…» Cose alle quali un tempo non volevo dare nome, limitandomi a confinarle nella bolgia della paura. Ma ora tutto era cambiato. «E ho sete, ma non di innocenza. Quella me la sono lasciata alle spalle definitivamente quando ho visto il cadavere straziato di mia madre!» Lacrime di rabbia mi salirono agli occhi, ma non caddero. Erano come congelate. «Aiutami a comprenderle» gli chiesi infine in un soffio. Lui si limitò a fissarmi a lungo, in silenzio. Quello sguardo un tempo mi aveva messo a disagio – avrebbe fatto stare sulle spine chiunque – ma ora non cercavo altro.
Sei il mio specchio distorto. La mia metà nera. Aiutami a dare un colore ai relitti che mi celo dentro. Aiutami a trasformarli in vita e caos. Proprio come aveva fatto lui, ne ero certa, tanto tempo prima.
Emise un sospiro lievissimo. «La prima volta che commisi un omicidio avevo dodici anni» disse infine. «Fu per legittima difesa. All'inizio ero troppo stordito per dare un nome a ciò che provavo, anche solo per rendermi conto del sangue che mi scorreva tra le dita… Ma poi capii. E sentii.»
«Cosa?» chiesi, affamata di risposte.
«Il… potere. Per la prima volta da quando avevo memoria, mi sentivo più forte di chi mi aveva minacciato, umiliato, ferito fuori e dentro, dove non si vede… Avevo ancora le mie cicatrici, le avrei avute addosso per sempre, come un vessillo, a ricordarmi ciò che ero e ciò che era stato. Ma ora potevo procurarne anche ad altri. Non mi sarei più tirato indietro. Ora ero io la minaccia. E…» si guardò le mani, come immerso in un ricordo che, seppur passato, mostrava ancora la sua carne pulsante, bruciata, viva, «… provavo una sorta di… indescrivibile euforia. Non assomigliava a nulla che avessi mai provato prima. Non era gioia, era… spezzare catene invisibili. Ero più vivo dell'uomo dissanguato ai miei piedi… Più vivo di quanto fossi mai stato fino ad allora. Eppure ero ancora al limite. Uccidere non mi avrebbe regalato la vita che anelavo, di questo non m'illudevo… Ma avevo reso qualcuno più morto di me. Ancora più freddo, le orbite incavate, e presto la sua pelle si sarebbe ridotta in scaglie decomposte, diventando polvere su un teschio visibile quanto il mio. Sarebbe diventato più simile a me di qualunque altra creatura vivente…! Ma con quell'uomo non volevo condividere nulla, neanche il suo aspetto da morto. E così me ne andai.» Si fermò. Sapevo che era la prima volta che dava voce a quei pensieri, la prima volta che ne parlava con qualcuno. Era stato per lui come aver vomitato della bile che gli marciva il fegato da anni e anni. Si torse le dita, naturalmente turbato da quella confessione.
«Non voglio più sentirmi morta» fui io a infrangere per prima il silenzio. Lui mi fissò con occhi che non avevano bisogno di parole. «Non potrò mai più essere viva, non come prima. E allora… Se non posso essere viva, voglio essere Morte.»
Dirlo ad alta voce, trovare le parole giuste fu come un'epifania. Se non posso avere la vita, allora diventerò padrona della morte. Ne farò un'arma, così nessuno potrà più farmi del male.
Guardai Erik. Sapevo che in lui giaceva, meno dormiente e inesperta che in me, la stessa risoluzione. Ed era spaventoso. Il mio nero riflesso, pensai. Anche se lui non era più l'assassino senz'anima di un tempo… Eravamo diversi, eppure le affinità tra noi erano innegabili. Scossa da questa improvvisa consapevolezza, mi strinsi nella coperta e poggiai la testa sul pagliericcio. Era pieno di pulci, ma ormai, pulce in più, pulce in meno…
Quella notte i miei sogni furono popolati da cadaveri putrescenti, e quelli dei miei genitori erano tra loro. Il ventre squarciato di mia madre, le cervella disintegrate di mio padre… Tutto sui miei vestiti laceri. Avevo dieci anni, come il giorno in cui mio padre si era sparato alla testa davanti ai miei occhi colmi d'orrore. Nello specchio che mi fronteggiava, potevo vedere il sangue e i residui organici che inzaccheravano il cotone bianco, il pavimento, la parete… D'un tratto il mio riflesso si trasfigurò in una maschera di carne marcia, decomposta, l'osso ben visibile oltre il velo di pelle inaridita… Stavo diventando un cadavere come loro! Mi afferrai la gola nel tentativo di non urlare. La pistola di mio padre, di cui chissà come mi ero impossessata, tremava nella stretta delle mie dita piccole e sudate. L'onda di cadaveri stava per travolgermi e soffocarmi, lo sapevo… Una marea vestita di bianco, le braccia legate in una cinghia, i denti marci pronti a strapparmi via la faccia a morsi… Sarei diventata come loro, una reliquia di ciò che era stata Marguerite Giry, finita in un manicomio perché, come suo padre, vedeva sangue e morte dove non ce n'erano. Il terrore mi avvinghiò a sé in un abbraccio che mi era ormai familiare. Quel terrore era differente da tutti gli altri: faceva parte della mia stessa essenza, né più né meno della danza. Non potevo ignorarlo né annientarlo del tutto. Sarebbe rimasto nella mia mente, dormiente, per poi risorgere come una fenice dalle sue ceneri. Solo che non era una fenice: il suo piumaggio era di un nero corvino, il becco mi picchiava sulla fronte e diceva: «Vedi, vedi…» Era un corvo, presagio di morte. E la morte mi seguiva dappresso oramai da anni.
No, non l'avrei permesso. La pistola di mio padre, che avrebbe decretato la mia fine, poteva essere qualcosa di diverso. Fronteggiai l'orda di cadaveri con più coraggio di quanto credevo di possedere. Presi la mira e sparai. La forza del contraccolpo mi svegliò in preda agli spasimi. La prima cosa che feci fu mettermi una mano sul cuore: batteva all'impazzata, la fronte imperlata di sudore gelido, brividi scuotevano il mio piccolo corpo fasciato in abiti sbagliati, che non mi appartenevano. Sono viva, pensai. Sono viva. Lanciai un'occhiata ad Erik che, avvolto nel lungo mantello nero, dormiva su un pagliericcio poco lontano dal mio. Il suo respiro era lieve e ritmato, come una musica fatta di fiati, che imprigionava il vento. Quel suono mi tranquillizzò. Sono viva, pensai ancora. E lo sei anche tu.
Quella notte aveva generato il seme della mia fame, e io le avevo dato un nome: vendetta.
Note dell'autrice: Scusate il ritardo (again). Sono andata in vacanza al paese di un'amica, mi sono (quasi) ubriacata per festeggiare i miei ventidue anni appena compiuti (tanti auguri a me! XD), ho conosciuto persone fantastiche e tornata a casa il pc non mi faceva più aprire i documenti di Word. Quindi come avrei potuto pubblicare il capitolo qui su EFP? Non sapete quante parolacce ho scagliato contro il mio computer, eh eh. XD Però ora eccomi qui, come promesso.
Prima di tutto, credo che tutti abbiate sentito del terremoto. Ora, io vivo in Campania, quindi non l'ho sentito, ma voi? Sono stata in pensiero. State tutti bene? Vi prego, ditemi di sì! Sono stata in ansia. Una preghiera per tutte le vittime del terremoto, questa tragedia mi strazia il cuore. :(
Dopo aver posto questa importantissima premessa, vi voglio dare una bella (credo) notizia: da un po' sto scrivendo una Modern AU di Phantom, ma non lunga come questa… É una long shot (si dice così?), cioè, molto long… Ma se mai la finirò e la pubblicherò qui, la dividerò in capitoli. Ovviamente ho già in mente il finale e più o meno il corso della storia, che è molto più leggera di questa e una sorta di… sua AU… Un po' complicato da spiegare. Le due fic non sono collegate, comunque. Ah, è raccontata dal punto di vista di Erik, e mi sono divertita moltissimo con quel matto. Tra l'altro, sono così fangirl da aver convinto una delle mie migliori amiche (anche lei amante della lettura) a leggersi il libro di Leroux. Il musical no, perché non le piacciono i musical – dice che l'annoiano, vabbè. Ognuno ha i suoi gusti. Per me è strano perché vivo di musical, quindi… XD Fra non molto anche lei leggerà la mia fic e sono molto soddisfatta di questo. Riuscirò nella mia missione di trasformarla in una fangirl sfegatata? Ci sono riuscita a metà con i miei fratelli minori (che adesso non ne possono più del Fantasma perché dicono che sono una pazza ossessionata, ma io non sono pazza, sono solamente… una povera fangirl. Mi capite, vero? Ditemi che mi capite).
Ora, tornando al capitolo… quando parlavo di una “trasformazione” di Meg, almeno parziale, intendevo proprio questo. L'ultimo paragrafo l'ho scritto prima di mettere giù la storia, perché già sapevo dove volevo, come si suol dire, andare a parare. Meg si sente attratta da Erik perché percepisce una sorprendente somiglianza tra loro due, malgrado le apparenze… E ora le somiglianze si fanno più evidenti. O almeno, così fa apparire il desiderio di vendetta di lei che, vi dico, sarà un punto chiave per la psicologia del personaggio. Volevo scrivere di un'anti–eroina fin dall'inizio, come Erik è un anti–villain. Per ora si tratta di una fantasia contorta in cui le piace crogiolarsi, ma secondo voi si attuerà mai? Sembra molto improbabile… Cosa farà? Lo scoprirete nel prossimo capitolo! *risata maniacale alla Erik perché sì, ogni tanto una degna scrittr… oddio, non mi definirei una scrittrice, anche se sarebbe il mio sogno diventarlo; diciamo scribacchina – comunque, dicevo, una degna scribacchina deve essere malefica e sadica coi suoi personaggi*
Vi amo tutti! E ora, le recensioni.
Malinconica: Cara, hai visto giusto, Erik deve proprio vedersela con qualcuno del suo passato. Il passato viene sempre a bussare alla porta, come si suol dire. Davvero non ti aspettavi la morte di Madame Giry? Beh, non ti do torto, era difficile da immaginare, anche perché è avvenuta così, senza preavviso. Sono contenta che tu mi abbia perdonata il ritardo della scorsa volta. Mi perdonerai anche adesso? Spero di sì. (sì sì sì sì ti prego perdonaaaaaami) :) Un bacio! <3
debbythebest: Non sei affatto una “povera scema”, io mi stavo commuovendo quando ho letto la tua recensione, specialmente la parte (e cito direttamente): “hai di certo un futuro [con la scrittura]”. Io amo scrivere più di qualsiasi altra cosa al mondo, e mi ci sono voluti anni per convincermi a pubblicare qualcosa di mio, ma alla fine per vostra grande gioia (XD) ci sono riuscita. Quindi eccomi qui. Adesso tutti i personaggi (Meg, Erik, Christine, il Persiano, Raoul, Madame Giry, ecc.) sono un po' come mie creature. Oddio, fa strano dirlo, ma li amo tanto. Grazie, Leroux, per averli inventati. Il merito va tutto a lui. Sapevi già che Azrael nel mondo islamico era l'Angelo della Morte, dunque? Io no, non prima di alcune ricerche per questa storia – sono un po' ignorante in religione. XD Comunque brava, quindi avevi già dedotto qualcosa. Adesso le cose saranno drammatiche, poi di nuovo felici (ma quando mai lo sono state? XD), poi SUPER drammatiche… Eh, basta spoiler. Spero che ti piaccia anche questo capitolo! Se non ti piace, non fa nulla, puoi anche scrivermelo in una recensione e mandarmi a quel paese. XD Un bacio. <3
bibliofila_mascherata: Eh sì, Erik è un personaggio poetico. Sono tanto innamorata di quel vecchio, orrido pazzo. Eeeeeh. *sospira* (Anche Meg lo è. O lo sarà. Però non glielo dire perché altrimenti picchia XD) Sai, questa estate, per il mio ventiduesimo compleanno e la tanto attesa Maturità, presa in ritardo ma comunque, sorvoliamo… Eh sì, dovevo andare a Londra con la mia famiglia. E secondo te cosa facevo a Londra, proprio l'esatto giorno del mio compleanno? Ma sì, vedevo il Fantasma dell'Opera a teatro! Ormai il musical lo conosco a memoria. E anche il libro. Penso che avrei pianto dalla gioia e saltellato per tutto il tempo nella poltrona, cantando nella mente le parole delle canzoni insieme agli attori. E invece alla fine non se n'è fatto più niente, causa problemi più grandi di me e dei miei genitori. Niente di grave, eh, e a Londra ci andremo sempre, un giorno, ma mi è dispiaciuto tanto. Ho comunque trascorso un bel compleanno, e ora che sono tornata dalle vacanze mi faccio risentire anche su EFP. ^^ Comunque sei troppo dolce a farmi questi complimenti, lo siete tutti. Non li merito, no! Ma sono felice lo stesso. Al prossimo chapter, cara! <3
P.S. Una curiosità: se mai facessero un film o una miniserie TV basata sul libro di Leroux e FEDELE a quest'ultimo (seh, è bello sognare), chi vorreste nella parte dei protagonisti? O meglio: quando leggete il libro e/o questa stupida fanfiction, chi immaginate a vestire i panni dei personaggi?
Per Erik ho qualche idea. Allora, visto che hanno tutti voci molto particolari, pensavo a:
1. Madds Mikkelsen.
2. Tom Hiddleston (che però ora è troppo giovane per la parte. Magari fra qualche anno?)
3. Benedict Cumberbatch.
4. Una volta avevano in progetto una miniserie TV, produzione francese, con Jeremy Irons. PERCHÉ NON L'HANNO FATTA PIÙ? Ecchecavolo.
Nel ruolo di Christine, o Léa Seydoux (che è pure francese. Beh, Christine è svedese) oppure Holliday Grainger. Molto simili a come immagino la dolcissima Daaé. Raoul… Aaron Taylor Johnson. Nel film Anna Karenina con Keira Knightley, era Raoul. Andate a dare un'occhiata, la somiglianza con la descrizione del libro è francamente impressionante.
Il Persiano… non lo so. Alexander Siddig? Oh, sì, potrebbe andare.
Madame Giry… Mi piacerebbe Maggie Smith, naturalmente. Quel tocco di classe british è inconfondibile. Sarebbe una favola averla nel cast.
E la mia Meg? Come la immaginate? Ricordate che deve essere piccola, magra, scura di pelle, non una bellezza ma comunque graziosa. (Beh, non tanto appena sveglia senza trucco. Insomma, si è capito, una persona normale. Non un'attrice di Hollywood.) Difficile, eh? Io immaginavo il suo volto come quello di Samantha Barks, che è una bravissima attrice di teatro che ha recitato nel ruolo di Éponine nel recente film tratto dal musical de Les Misérables. È molto bella e un po' troppo… formosa per Meg, e dovrebbe essere anche più scura di pelle anche se so che suo nonno aveva origini africane, ma qualcosa negli occhi… nelle fossette sulle guance… nei capelli… non so. Mi aveva attirato. Poi boh, Meg è difficile da immaginare.
Fatemi sapere le vostre idee! :)
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Capitolo 27 *** La bestia nel cuore. ***
Un piccola nota: questo capitolo è… doloroso. E violento. Non credo che il rating superi l'arancione, ma se non è così ditemelo. E anche se devo inserire qualche particolare avvertimento tipo “Tematiche delicate”, ecc. Non sono esperta di EFP, quindi non saprei che fare. Buona lettura.
xxvii.
la bestia nel cuore
Il giorno dopo eravamo già di nuovo in marcia. La terra umida sembrava imperlata di chicchi di diamante, tanto la rugiada brillava al sole di inizio Maggio. Attraverso un fitto bosco di querce e sempreverdi, il cui sentiero appariva conosciuto solo agli occhi di falco di Erik, superammo il guado di un piccolo torrente, dove lasciammo abbeverare i cavalli. Mi osservai nel riflesso dell'acqua: ero irriconoscibile. I capelli arruffati sotto il berretto spuntavano in tutte le direzioni, e la leggera peluria scura sul labbro superiore che non avevo potuto eliminare in quei giorni – non avevamo certo tempo per cose del genere – mi faceva apparire ancora più maschiaccio di quanto già non fossi. Il che era un bene, suppongo. L'ultima cosa che volevamo era che, in caso venissimo catturati, i nostri inseguitori riconoscessero in me le fattezze di una donna.
«Altri pochi giorni, al massimo una settimana, e arriveremo a Calais. Non preoccupatevi, Meg» mi diceva il Persiano in tono rassicurante, stringendomi un braccio. Io annuivo, insensibile. Non mi importava quale fosse la nostra meta: una parte di me voleva fuggire per non ricordare, un'altra non avrebbe mai voluto – né potuto – dimenticare.
Erik era muto. Avvertivo in lui una strana tensione, che si esprimeva all'esterno solo con manovre di prevenzione che dovevano apparire assai strane ad un occhio inesperto. Tornammo indietro più volte sui nostri passi per disperdere le nostre tracce ed evitare di essere seguiti. Chiunque ci stava alle costole doveva essere un vero segugio, perché Erik era un mago nel far sparire ogni traccia di sé e di noi che lo seguivamo.
«Sei preoccupato» gli dissi una volta. Ero seduta dietro di lui, con la testa poggiata alla sua schiena per riposare. A lui non sembrava dar fastidio, quindi mi permise di abbracciarlo in quel modo di buon grado. Forse anche lui aveva bisogno di calore umano. Il didietro mi era ormai diventato insensibile tanto mi doleva per il troppo tempo trascorso in sella, ma non emettevo un solo lamento. Il nostro viaggio era già difficile senza che ci fossi io ad intorbidire il morale della squadra.
«Sono sempre preoccupato» mi rispose Erik in tono enigmatico, e lo immaginavo accigliarsi e corrugare la fronte, anche se non potevo vedere il suo volto. Avevo appreso come distinguere i suoi stati d'animo dalla minima cadenza nella sua voce.
«Sei sicuro che ci stiano ancora alle calcagna, vero?»
«Certo che sì. Non sono mai stato più sicuro di qualcosa in vita mia.»
Deglutii. Ormai eravamo vicini alla meta, come diceva Nadir: dovevamo solo tenere duro. Eppure era arduo: anche i nostri cavalli erano allo stremo, tanto che avevo udito Erik e il Persiano discutere se non fosse meglio cambiare cavalcatura. Dicendo questo, l'uomo mascherato accarezzava con la delicatezza delle sue lunghe dita bianche la criniera scomposta e corvina di Notte, che accettava biada e mele solo da lui. Sapevo che, in caso avessero deciso davvero di acquistare nuovi cavalli, avrei dovuto trattare io l'affare. Per previdenza, loro non potevano avvicinarsi a nessun villaggio. In fondo, la mia mascherata aveva un duplice fine.
Prima di appisolarmi, che fosse sulla sella o sul duro terreno, nella mia mente rivangavo due nomi odiosi: Khanum e Shah, per ricordarmi di chi aveva dato l'ordine di uccidere mia madre. La mano che aveva eseguito l'assassinio era stato solo questo, un mezzo, e ormai era morto anche lui, grazie ad Erik, che – di nuovo – mi aveva salvato la vita. Gli incubi che mi perseguitavano avevano il profumo della vendetta, ora, che mi ribolliva nelle vene come fiele. Di notte sognavo di stringere tra le dita il cuore ancora palpitante della regina di Persia. Un sogno impossibile – come avrei potuto ucciderla se eravamo diretti dall'altra parte del mondo? – eppure l'unico che mi faceva rimanere ancora in vita.
Purtroppo mi restava ancora poco tempo per sognare.
Fu al calar del sole che ci raggiunsero. Il cielo era tinto di sangue, sfondo perfetto del dramma che ne seguì. Udimmo gli zoccoli dei cavalli e un rumore bizzarro, come di qualcosa di pesante che si trascinava sul terreno diseguale, e una risata macabra che ci zampillò nelle orecchie. Rabbrividimmo e ci guardammo alle spalle.
«Ci sono dietro!» esclamò il Persiano in tono strozzato.
Lanciai un'occhiata nella direzione che indicava Nadir. Neanch'io potei trattenere un brivido e un'imprecazione.
«Stringiti forte» mi disse Erik, al che per una volta non feci obiezioni. Silente, affondai il viso tra le sue scapole. «Dobbiamo aumentare di velocità.»
Diede di speroni e Notte si trasformò in un fulmine, ricoperto di schiuma bianca per lo sforzo. Avanti, bello, pensai, disperata, stretta ad Erik. Forse possiamo ancora seminarli.
Ma anche i loro cavalli erano veloci, più veloci dei nostri, che erano stanchi. Ci circondarono nel mezzo di una radura spoglia, con ai lati salici che svettavano come blocchi di granito in una fortezza, perché in egual maniera non potevamo superarli. Vidi il Persiano alzare le mani, sconfitto, col fiatone in gola, come la sua puledra d'argento. Erik emise un sibilo ed estrasse dal mantello il laccio del Punjab, pronto a combattere. Io mormorai un'altra imprecazione: li avevo contati, ed erano in troppi. Nove contro tre: non avevamo possibilità, e questo lo sapeva anche Erik.
Vidi anche che cosa aveva causato quello strano rumore che aveva destato in primo luogo la mia attenzione: era un carretto bestiame, che ora ci aveva raggiunto ed era trascinato da un'altra coppia di equini, guidati dall'ennesimo nemico. Ora eravamo in dieci contro tre: le probabilità a nostro favore erano minime. Erik era un guerriero incredibile, ma non era più giovane come una volta, e quella marcia forzata aveva debilitato anche lui.
«Azrael» disse uno di loro, con un sogghigno storto sul viso, in sella a un destriero fulvo. Aveva un volto caprino, e il suo pizzetto non contribuiva a dargli fattezze più umane. Disse qualcosa in una lingua che non compresi.
Erik s'irrigidì al mio fianco e rispose nella stessa lingua sconosciuta. Doveva essere persiano.
«Arrendetevi e scendete da quei cavalli. Non vi verrà fatto alcun male» ripeté il Caprone, questa volta in un francese stentato, di modo che anch'io potessi capire. Aggrottai la fronte, le viscere serrate dalla paura. Non è vero, pensai disperatamente. Estorceranno con la forza tutti i segreti di cui necessitano ad Erik, e uccideranno noi altri. E alla fine anche lui.
Gli altri sulle loro selle risero, avanzando con le spade sguainate. All'odore del metallo, Notte e la puledra d'argento diedero in un nitrito di terrore.
«Se non scendete da soli, vi costringeremo. Troveremo un modo» riprese il Caprone, che doveva essere il capo, dacché parlava sempre lui.
Fu a quel punto che uno dei sicari – un uomo dalla lercia barba nera e gli abiti macchiati di quel che sembrava vino – scese dalla propria cavalcatura con un'andatura ondeggiante e, prima che ce ne rendessimo conto, trafisse la gola della puledra d'argento con la sua spada lunga, ancora più rossa alla luce del sole al tramonto. Emettei un singulto, vedendo il cavallo cedere e accasciarsi a terra in un nitrito disperato, e Nadir cadere di sella tra le risate sguaiate del nemico.
Erik sibilò qualcosa in una parlata a me ignota, la lingua stretta tra i denti, e saltò giù di sella con una mossa aggraziata, facendo schioccare il laccio del Punjab. Mentre un altro degli uomini mi afferrava la gamba e mi faceva rotolare a terra, disarcionata a forza da Notte, anche quest'ultimo fu infilzato come un maiale arrosto e reso immobile dalla gelida Morte che ci circondava e con cui tutti rischiavamo di danzare, ora. Io scalciai a più non posso, rendendo difficile al mio rapitore il compito di tenermi ferma. Solo quando mi puntò una daga alla gola, mi decisi a non muovermi. Osservai il resto del campo di battaglia: era disseminato di cadaveri – ci erano voluti almeno quattro uomini per catturare Erik, che intanto aveva fatto strage. Ora erano in sei contro tre – anzi, due, visto che io ero in trappola e disarmata, praticamente inutile. Il pensiero mi diede le vertigini, tanto era cocente la rabbia dentro di me. Solo dopo che i quattro uomini furono a terra – chi ferito mortalmente da un proiettile di Nadir, chi strangolato a morte dal laccio del Punjab di Erik – il Caprone scese dal suo destriero fulvo e fece un cenno all'ultimo uomo rimasto in piedi di avanzare verso l'uomo mascherato. Quest'ultimo sicario, che era rimasto perlopiù nell'ombra fino a quel momento, entrò in campo come l'ultimo asso nella manica del nemico. Non avevo mai visto uno stallone più grande: ebbene, l'uomo che lo cavalcava era ancora più gigantesco. Con un solo pugno sulla mandibola, mandò Nadir al tappeto, confiscandogli la pistola e anche la spada che portava al fianco prima che riuscisse ad estrarla. Poi si occupò di Erik, i cui occhi brillavano rossi al lucore del sole al tramonto: era come osservare una battaglia tra demoni. La Montagna era più forte, così mastodontico, ma Erik era più veloce. Fu necessario che il capo, il Caprone, si scomodasse e lo trafiggesse con la sua spada, lasciandogli un sorriso sanguinante sul volto e strappandogli di dosso la maschera, perché Erik fosse costretto al suolo, sconfitto. Anche a lui confiscarono il laccio del Punjab.
«Codardo, l'hai attaccato alle spalle!» urlai, inghiottendo un gemito. L'orrido volto di Erik sembrava vomitare sangue: sperai che il Caprone non lo avesse ferito a morte.
«Meg…» disse il Persiano, facendomi segno di tacere per non aggravare la situazione. Ma io non mi sarei fatta zittire da nessuno.
«Pezzo di merda!» Esplosi in una sequela di imprecazioni in francese, che eppure il Caprone sembrò comprendere abbastanza da fare un cenno alla Montagna. L'uomo che mi aveva catturato mi teneva ancora ferma – a fatica – grazie alla daga che mi puntava alla gola, ma fu il pugno della Montagna a stendermi definitivamente. Percepii in bocca il sapore del sangue, e sputai un dente insieme a una boccata di saliva rossa. Per poco non mi ero morsa la lingua per la forza del pugno, e non riuscivo più a parlare.
«Finalmente la cornacchia si è zittita» disse il Caprone in francese, poi di nuovo in una strana lingua – persiano? – al che tutti risero: la Montagna, l'uomo che mi aveva catturato e che mi teneva puntata ancora la daga alla gola, il Caprone stesso e quello con la barbaccia nera che teneva fermo Nadir con delle corde spesse e una pistola alla tempia. Da dieci che erano, si erano ridotti in quattro, e questo solo per opera di due uomini. Compresi perché in Persia Erik era conosciuto come l'Angelo della Morte. Eppure nemmeno questa nomea era bastata a salvarci.
Fummo scaraventati, opportunamente legati, nel carro bestiame, che emanava un lezzo insopportabile di piscio e paglia secca. I quattro sicari si davano il cambio alla guida del carro, e per tenerci sotto controllo. Malgrado sanguinasse da un'oscena ferita al viso che rendeva le sue fattezze ancora più mostruose, c'era voluta tutta la forza della Montagna per acquietare Erik nel suo carro. Alla fine, a furia di pugni, calci e bestemmie, riuscirono a domarlo, minacciando di tagliare la testa ai suoi compagni se non fosse rimasto al suo posto.
«La Khanum ti vuole vivo, almeno per ora, Azrael. Ma non dimenticarti che lo stesso non vale per il vecchio daroga e la baldracca.» Tutti e tre rizzammo il capo allo stesso tempo, allarmati. Negli occhi di Erik vidi l'orrore puro.
«Pensavate di fregarci con la storia del travestimento?» disse Barba Nera, quello che aveva catturato Nadir.
«Quando l'ho afferrata, le ho sentite, le tette sotto la camicia. Poca carne, ma ce n'era comunque» disse l'uomo che mi aveva disarcionato da Notte e al quale non avevo ancora dato un nomignolo. Senza Nome, lo definii tra me e me.
«Vi sbagliate» disse Nadir in un flebile tentativo di mantenere ancora la mascherata.
«Davvero? E allora mostraci l'uccello, dolcezza. No? Bene. Sono sicuro che ci divertiremo moltissimo durante questo viaggio.»
I quattro risero sguaiatamente, mentre io diventavo livida. Quindi la mia farsa non era servita a nulla. Tutte le precauzioni prese… inutili. Cosa mi avrebbero fatto, ora? Quale destino mi attendeva? Uno persino peggiore della morte? Vidi Nadir scuotere il capo con orrore ed Erik stringere i denti. Il suo viso era messo a nudo, adesso, e come sempre quando era senza maschera, non sapeva nascondere le sue emozioni. Era furioso, e con il sangue che gli gocciolava dalla ferita che gli attraversava la fronte, il naso inesistente e la guancia destra, ancora più terrificante.
«Provate a sfiorarla anche solo con un dito, e io mi mordo la lingua e me la ingoio» sibilò con asprezza, e quegli altri cessarono all'istante di ridere.
«Sapete che ho il fegato di farlo, e né la Khanum né lo Shah ne sarebbero felici» aggiunse Erik con un sogghigno orribile, poiché sapeva di aver vinto.
Il Caprone si guardò attorno, poi annuì con una smorfia: «Se è tanto importante, tieniti la tua puttanella per te, Azrael. Era comunque troppo racchia per interessarci davvero.» Gli altri risero, anche se più nervosamente. Senza Nome mi lanciava occhiatacce lampeggianti di rancore, Barba Nera rideva come un ubriaco perenne e la Montagna sghignazzava più forte di tutti quanti. E io avrei voluto ucciderli uno per uno.
«In marcia. Abbiamo una nave da prendere» ordinò il Caprone, e la carovana si mosse.
Rivolsi ad Erik un'occhiata di sottecchi. «Grazie» sillabai. Non ebbe bisogno di rispondermi.
I giorni che seguirono furono un inferno misto a un incubo paralizzante. Quando il sole era ancora alto in cielo, restavamo legati nel carretto, sulla paglia lorda dei nostri umori – non ci permettevano di uscire e di provvedere ai nostri bisogni più primitivi – l'uno vicino all'altro per trarre calore dai nostri corpi. Eravamo coperti di lividi e tagli, ma era Erik quello messo peggio, poiché era quello che aveva lottato con maggiore abilità e più duramente. Il suo volto nudo era un'orrida maschera sanguinante: il taglio che gli attraversava il viso aveva bisogno di cure che i nostri aguzzini non avevano alcun desiderio di prestargli. Quando cercai di puntualizzarlo, ricevetti come risposta un pugno nello stomaco dalla Montagna in persona, che non sembrava pensare con la sua testa – obbediva solamente ai silenti cenni del Caprone.
Di notte giungeva la parte peggiore. Quando calava il sole, ci portavano fuori in qualche radura deserta, sempre legati come animali, per poi riempirci di calci e pugni finché non sputavamo sangue. Avevo le membra doloranti, come se fossi caduta da una grande altezza. Ogni articolazione mi doleva, e se avessi visto il mio corpo nudo allo specchio mi sarei spaventata tanto doveva sembrare smagrito e disseminato di lividi profondi. Era Senza Nome a porci le domande: il suo volto era talmente anonimo che lo avrei dimenticato con facilità se non fosse stato lui ad interrogarci. Qual è la mappa del palazzo del re di Afghanistan? E quello di Ezzat, la sorella della Khanum? Erik in persona aveva ideato e organizzato la costruzione di quegli edifici.
«Ne risponderò solo allo Shah, e a nessun altro» mormorava lui tra i pugni che gli cascavano addosso. In realtà riusciva a parlare a stento, per via del sangue che gli gocciolava in bocca – la sua specie di bocca – ogni volta che tentava di aprirla… La sua bella voce era strozzata, soffocata dal sangue. L'intero nostro mondo si era tinto di questo: percosse e sangue.
Dal momento che Erik non avrebbe aperto bocca con loro, i nostri ospiti non potevano ancora ucciderlo, e quindi si sollazzavano nel farci cascare addosso una cateratta di colpi – pugni e calci e unghiate che ci divoravano il corpo e la mente. Ci gettavano pane raffermo sul pavimento lercio del carro, bevevano acqua dinanzi a noi che, assetati, restavamo a guardare con occhi avidi, ridotti ormai a bestioline in gabbia. Quando Barba Nera porse a Nadir un fiasco di quel che doveva essere acqua, il Persiano ne bevve a grandi sorsate, per poi rigettare tutto a terra fin quasi a soffocarsi. Era piscio di cavallo quello che gli avevano offerto, e a questo ci saremo dovuti abituare.
E il mio odio cresceva. Maceravo rabbia e furore, che palpitavano in me con la stessa vita del mio cuore straziato. Solo il pensiero che un giorno li avrei uccisi tutti mi faceva restare in vita. E forse non ero l'unica: nella penombra del carretto, legati come animali, vedevo il mio stesso furore negli occhi di Erik. E in quelli di Nadir, stranamente, vedevo determinazione: non si era ancora arreso, e nemmeno io intendevo farlo. Ero ricoperta di lividi, la saliva rossa di sangue, mi erano caduti due molari per colpa di certi pugni della Montagna inferti alla mia mascella fragile, ma ero ancora viva. E pertanto, aspettavo. Anche in Erik era viva la stessa risoluzione: non lo diceva apertamente, ma qualcosa – l'embrione di un piano, un'idea – gli ribolliva nella mente. Non ne rigurgitava il minimo sussurro, per timore che i nostri aguzzini potessero cogliere questa scintilla di speranza in lui, ma c'era. Lo vedevo sul suo viso morto, sporco di sangue coagulato.
Un giorno – non sapevo quanto a lungo fossimo rimasti lì, il tempo non contava quanto il dolore – vidi Erik muoversi leggermente: le corde che gli trattenevano i polsi in una morsa d'acciaio tremavano. Mi accigliai: stava lavorando a qualcosa per liberarsi, lo sapevo, ma cosa? E poi, non poteva combattere da solo, in quello stato miserabile, contro quattro uomini, tra cui uno come la Montagna.
«Erik, cos'hai in mente?» disse il Persiano in un soffio, che fu come un brivido di sole nella notte sempiterna della nostra prigione. Erik continuava a muoversi in modo strano, e si udiva il rumore di qualcosa che grattava… lento, ma inesorabile, le corde con le quali era così strettamente legato.
«Tu fammi fare, daroga. Solo un altro po' di tempo. Me ne basta solo un altro po'…» disse a fatica Erik. Strascicava le parole: la ferita sul volto doveva bruciare come un inferno di dolore. Se non si fossero sbrigati a curarla, si sarebbe infettata e allora sarebbe stato troppo tardi. Ma questo ai nostri torturatori non interessava. Bastava che Erik rimanesse in vita – non importava in quale stato fosse – quel tanto da arrivare in Persia. E una volta giunti lì, ci avrebbero uccisi definitivamente.
Avevo cercato di ribellarmi, invano. La Montagna mi aveva spinto la faccia contro la dura terra di un boschetto di aceri, l'humus caldo e umido che mi finiva in bocca e che io sputacchiavo insieme a radici e vermi. I lividi sul viso pulsavano ancora, dopo quella volta. Mi avevano minacciato di usare la mia bocca per ben altri scopi se non fossi rimasta zitta e muta. A nulla erano serviti i mugugni feroci di Erik, ancora legato come un animale in gabbia. Di nuovo, pensai. Lui già una volta aveva conosciuto quella sensazione – quella bizzarra, ferina, di non essere più umani. Ci stavano togliendo la nostra umanità, o almeno ci stavano provando. Ma noi non cedevamo, più duri delle rocce sotto il fiume che ci accingevamo a guadare tramite un largo ponte. Lo capii perché udii lo scrosciare dell'acqua, e diedi un'occhiata sbieca all'esterno attraverso certe sottili feritoie nel legno marcio del carretto che ci faceva da gabbia. Il fiume scorreva nei pressi di Calais: eravamo quindi quasi arrivati a destinazione. Non sapevo se tremare o meno alla notizia.
Erik continuava il suo misterioso lavoro di buona lena, malgrado si sforzasse ogni volta di non svenire per il dolore alla ferita che esibiva come l'ennesima mostruosità sul suo volto già di per sé tanto tormentato. Presto sarebbe stato libero, poi avrebbe potuto occuparsi di noi, giacché lui da solo, ridotto in quello stato, non avrebbe potuto affrontare quattro uomini. Beh, anche col nostro aiuto le probabilità di riuscita del suo piano erano scarse.
Nascondeva una lamina, sottile come vetro, nel risvolto di una manica: quell'ingegnoso nascondiglio fu la nostra salvezza. Dovette lavorare a lungo e con tenore, ché le corde che lo legavano erano stretti nodi contorti, ma alla fine riuscì a liberarsi le mani come tanto aveva sperato. Era un trucco che conosceva da tempo: gli aveva salvato la vita in un'altra occasione, ci sussurrò un dì di nuvole torbide, e io già sapevo a cosa si riferisse. Con Günther, il suo aguzzino nell'infanzia, che lo aveva messo in gabbia e denominato la Morte Vivente. Il primo uomo che avesse mai ucciso, anche se solo per legittima difesa. Aveva appreso questo trucco da un ex galeotto, mi disse in seguito. Il difficile stava nel rendersi indifferente dinanzi agli uomini che ci avevano catturato. La notte in cui si liberò, Erik strinse un nodo più lieve attorno ai suoi stessi polsi per mascherare il fatto che in realtà si era liberato dalle catene che lo legavano. Fu una notte particolarmente difficile: a nessuno furono risparmiati i colpi della Montagna, e le domande insistenti di Senza Nome mi ronzavano nelle orecchie fino a farmi pulsare i timpani. Qual è la mappa di questo palazzo? Quali sono le botole nascoste? E tutto il resto.
Erik preferiva sputare sangue piuttosto che rispondere.
«Quando ti ritroverai davanti allo Shah, non resterai muto. Sei fortunato, mostro: è perché ti vogliamo vivo che non uccidiamo te e il tuo amico e la tua puttanella.» Non prima di essersi trastullati con la sottoscritta, era il non detto orribile che rimaneva sospeso nell'aria come pulviscolo di un sole velenoso. Non mi uccideranno senza prima avermi violato nel corpo come nell'anima.
Una nube di orrore passò su di me quando mi chiesi se avessero fatto lo stesso con mia madre. Pregai che la sua morte fosse stata il più rapida e indolore possibile. Ma chi preghi?, mi chiesi, senza trovare risposta alcuna. Non c'è altro dio qui che la Morte. E quali preghiere le si possono rivolgere?
Non ancora. Non ancora.
Il giorno seguente, Erik si adoperava per aiutare Nadir a sciogliere le sue, di catene. «Non preoccupatevi, Meg» mi disse quest'ultimo, dato che il primo riusciva a parlare a stento. «Presto libereremo anche voi.»
Un'altra notte, pensai mentre sopportavo un'altra cascati di calci e pugni e schiaffi. La mia faccia doveva essere talmente gonfia e livida da risultare irriconoscibile, ma non avevo certo avuto l'occasione di specchiarmi, in quei giorni. Un'altra notte e poi li ucciderò tutti nel sonno. Ad ognuno di loro taglierò la gola e ne riderò, bagnandomi nel loro sangue. Questo pensiero mi faceva sopportare i colpi, le bastonate, i lividi. Ormai non mi reggevo più in piedi, tanto le viscere mi si erano contratte nello stomaco che aveva subito tanti danni. Non sanguinavo solo fuori, ma anche dentro, dove non si vede. Era il dolore massimo, quello che non riuscivo a spiegare.
Non dormivo da giorni. I miei capelli erano incrostati di sangue, paglia e piscio. Emanavo un lezzo di escrementi che avrebbe fatto inorridire la vecchia me, ma ora non ero più la “piccola Meg”. Ero un topo, e da tale mi comportavo nella gigantesca baraonda che mi assediava. Volevo ritornare ad essere una fiera: questo dissi ad Erik il giorno in cui si accingeva, attento a non attirare l'attenzione dei nostri cani guardiani, a spezzare le mie, di catene, con la sua lamina sottile, quasi magica – un oggetto così piccolo era la chiave della nostra liberazione.
«Dimmi che un giorno lo avrò» gli dissi in un sussurro stentato. I denti stridevano nella bocca piena di saliva rossastra. Lui mi lanciò un'occhiata che decifrai come interrogativa. Mi ero abituata al suo viso smascherato, un'orrida pozza di sangue al posto del naso e della guancia destra, già di per sé incavata come quella di un teschio.
«Il cuore della Khanum. Della piccola sultana. Prometti che mi aiuterai ad averlo. Promettilo.»
Lui esitò. Non è una strada che ti piacerebbe intraprendere, mi aveva detto un giorno, ma a me non importava. Era la strada che avevo scelto, e tanto bastava. Nessuno poteva decidere il mio fato, eccetto me. E anelavo a ritornare una leonessa e a lasciarmi indietro i giorni da topolino spaventato.
«Promettilo, Erik.»
Dopo tutto il male che ci avevano fatto…
Lui annuì, stringendomi le dita tra le sue, fredde e macchiate di sangue. Avevamo stretto un patto, allora. Mi avrebbe aiutata nella mia vendetta, in un modo o nell'altro.
Si accinse poi a strofinare la lamina contro la corda ben legata attorno ai miei polsi. Quella notte avrebbe avuto inizio la nostra liberazione. Erik, Nadir ed io ci stringemmo l'uno all'altro, all'apparenza per cercare calore, ma in realtà alla disperata ricerca di rassicurazione: non eravamo soli, neanche nel mondo ovattato e doloroso nel quale eravamo cascati.
Ci fecero scendere dal carro un'ultima volta, per porci le medesime domande a cui non avremmo risposto – lo sapevano – per picchiarci senza che noi potessimo difenderci. Ma questa volta era diverso. Loro avevano in mente qualcosa di diverso.
«Vediamo se questo ti farà parlare, Azrael» disse il Caprone con un sogghigno disumano. Ma chi è tutta questa gente?, pensai, inorridita. Mercenari della peggior sorta, senza dubbio, provenienti da ogni parte del mondo. E pensare che un tempo Erik era stato il migliore – il più raffinato, il più letale – di tutti loro.
«Noi ci sollazziamo con la tua sgualdrina fin quando tu non dici quelle quattro paroline che tanto cerchiamo di toglierti di bocca, Azrael.»
Lui si aprì in un sogghigno rossastro. «Erik. Il mio nome è Erik.»
Il Caprone sbuffò. «Sì, come vuoi. Tienila ferma» diresse un cenno a Senza Nome, che mi strattonò e mi gettò a terra in un viluppo di vesti sudice, urla (le mie) e risa (le sue). Come fosse un lazzo divertente.
Nadir si scosse brutalmente dalla morsa di Barba Nera, mentre Erik veniva tenuto fermo dall'incrollabile Montagna.
«Lasciatela stare…» Erik mugugnò, sputacchiando un po' di sangue. Il suo viso era una maschera dell'orrore. Pareva davvero la Morte Rossa, sanguinante e furiosa. I nostri aguzzini non lo ascoltarono. Senza Nome fece per strapparmi di dosso i pantaloni lerci, al che urlai e mi dibattei, rifilandogli un calcio nell'addome che lo fece gemere e arretrare.
Era il segnale che potevamo agire.
«Lasciatela stare!»
Erik si alzò in piedi, malgrado i colpi ricevuti, il taglio grondante sangue sulla faccia e la Montagna che lo teneva fermo. Con un salto felino, liberandosi delle corde ormai inutili, si aggrappò a quest'ultimo e lo azzannò alla gola come un leone fa con una gazzella. La Montagna urlò mentre Erik gli squarciava la gola usando solo i denti, e cercò di toglierselo di dosso, invano. Il gigantesco uomo finì a terra, dissanguato, sotto lo sguardo colmo d'orrore di tutti gli altri.
Anche noi non avevamo perso tempo. Li attaccammo di sorpresa, proprio com'era nei nostri piani. Monsieur Nadir ruppe cartilagine e ossa con una gomitata sul naso di Barba Nera, poi gli sfilò la pistola dalla cintura e gli sparò alla fronte in un gesto rapido che quasi poteva eguagliare la velocità di Erik.
Il Caprone era troppo sorpreso per reagire – stava accadendo tutto così in fretta. Tirò fuori la pistola, ma l'Angelo della Morte – e della Musica – gli fu addosso in meno di un secondo. Con un ringhio disumano, gli ruppe prima il braccio, poi il collo in un'unica manovra mortale.
Io scalciai tra le braccia di Senza Nome, che ancora mi teneva a terra, ma non avevo nessuna voglia di farmi aiutare da un uomo. Non ero più un topo: mi slegai anch'io dalle corde e lo colpii all'addome con un calcio poderoso – avevo usato la stessa forza che avrei messo in una delle mie pirouette, e non era da sottovalutare. Senza Nome finì a terra. Afferrai quindi un sasso dalla massa notevole con l'intenzione di saltargli addosso e di colpirlo al cranio. E così feci: dopo una lotta furibonda in cui egli cercò di bloccarmi le mani omicide, la mia furia ebbe la meglio. Lo colpii una volta su quella testa tanto odiata, poi una seconda, e una terza. Ancora, ancora, ancora, fino a ridurlo a un grumo sanguinante sotto di me.
«Muori!» sibilai con le mani lorde di sangue e materiale organico. «Muori muori muori muori muori!» E continuavo con quella litania, all'infinito, e non udivo altro se non quella. Non mi accorsi che i rumori della battaglia alle mie spalle si erano placati.
«Meg.»
«Muori!» urlai per quella che mi parve la ventesima volta, continuando a colpire la testa – se ormai si poteva definire tale – di Senza Nome, ridotta a un irriconoscibile miscuglio di sangue e carne e ossa e cervella.
«Meg!»
Una mano fredda mi fermò il polso. Continuai a divincolarmi per un po', ma il mio nome pronunciato da quella voce di seta infine mi acquietò. Lasciai cadere la pietra sul corpo senza vita del mio antico torturatore e rimasi stretta nella presa di Erik, che mi abbracciava da dietro in modo da tranquillizzarmi e allo stesso tempo tenermi ferma.
«Basta, Meg. È morto, ormai. Non possiamo fare altro che andarcene.»
Io annuii, ancora in trance. Mi voltai, sudicia di sangue e altre cose a cui preferivo non pensare, ed egli mi strinse al suo petto in un gesto di inaspettata tenerezza nel mezzo della Morte.
«Mi dispiace, Meg» mi disse, accarezzandomi i capelli con una dolcezza tale da sciogliermi. «Non sai quanto.»
«Siamo sudici» dissi con voce ferma, scostandomi da lui. Non sapevo perché adesso mi pareva così importante.
Monsieur Nadir ci accompagnò al torrente poco lontano, in cui potemmo lavarci il viso e le mani. Erik, chissà come, aveva recuperato la sua vecchia maschera dal cadavere del Caprone. SI lavò per bene la ferita al viso, fasciandola con un lembo del mantello, dopodiché tornò ad indossare la maschera. Subito assunse una posa differente: le sue spalle erano più diritte, il suo corpo meno curvo. Era più uomo che animale in gabbia, ora – perché di certo la furia che avevamo dimostrato poco prima non era stata umana. Ma mi avevano minacciato, e questo per qualche motivo lo aveva reso furioso.
Perché gli importa, ricordai, mentre le nocche delle mani mi bruciavano. Avrei voluto sprofondare nell'acqua per sentirmi di nuovo pulita, ma non avevamo vestiti di ricambio. Avremmo dovuto accontentarci.
«Aspetta» mi disse in un sussurro. Le sue mani sfiorarono le mie con una delicatezza che da lui non mi aspettavo. Strappò un lembo del suo mantello, lo bagnò nell'acqua del ruscello e mi fasciò le dita insanguinate. Solo in quel momento mi accorsi che avevo i palmi scorticati dalla pietra scabra con cui avevo ucciso un uomo per la prima volta. Bruciava, ma dalle labbra non mi uscì fuori neanche un sibilo di dolore. La vista e l'odore del sangue non producevano più alcun effetto su di me. Tutt'altro, mi calmavano. Il sangue mi calma, pensai, in preda a un gelido torpore dal quale non riuscivo a destarmi. Il mondo intorno a me era nebbia fredda. Esistevamo solo io, Erik e le sue dita livide sulle mie. Doveva esserci qualcosa di profondamente sbagliato in me, fin dall'inizio.
Guardai le mie mani, poi quelle di Erik. Mai mi erano apparse più simili. La perdita dell'innocenza… Fissai dritto negli occhi il mio sinistro compagno di viaggio. Ho già detto quanto le sue iridi oro pallido fossero strane, quasi feline. Vi celava dentro un che di animalesco. Non erano propriamente belle, non più del resto del suo corpo devastato. Eppure non riuscivo a guardare nient'altro. Ipnotizzavano quasi quanto la sua voce. Se in fondo alla sua gola dorata nascondeva un'impronta angelica, nei suoi occhi vi era ancora qualcosa di innegabilmente umano – nell'espressione, nel riflesso della luce o della notte che vi si specchiavano. Lo stigma della sua umanità è il riflesso nei suoi occhi. E adesso mi guardavano con quella che mi parve pietà, qualcosa che sul suo viso mascherato avevo veduto ben di rado. Questo fece sentire me meno umana che mai.
«Abbiamo ancora un pezzo di strada da fare, e col favore della notte saremo avvantaggiati. Non dovremo attirare troppa attenzione» disse Erik a Nadir, che annuì.
«Qui abbiamo finito» disse quest'ultimo, in tono mesto.
«Sì» concordò Erik, guardandomi, «abbiamo finito.»
Note dell'autrice: * Il titolo è tratto dall'omonimo romanzo di Cristina Comencini, che io – di nuovo – non ho letto. Ma mi pareva appropriato.
* Ringrazio George R.R. Martin e le sue Cronache del ghiaccio e del fuoco, da cui è stato tratto il telefilm Game of Thrones, qui in Italia conosciuto come Il trono di spade. Chi conosce la saga vedrà delle similitudini tra Meg e il personaggio di Arya Stark, di cui sono debitrice a Martin. Grazie, George.
* In realtà, tutta l'idea di questo secondo atto mi è venuta mentre leggevo Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas. Certamente capirete le connessioni. A qualcuno viene fatto un grosso torto che gli cambia del tutto la vita → quel qualcuno vuole vendicarsi. Moltissimo.
Che cosa avevo detto nel primissimo capitolo? Questa non è una storia per i deboli di cuore. Ho forse esagerato un po', questa volta? Ehm… ditemelo che volete farmi del male. Ho fatto soffrire troppo i nostri beniamini, ne sono consapevole, ma… questo punto – davvero – è troppo importante per la psicologia di Meg. Avrà una forte ripercussione sulle sue decisioni future e quel che accadrà nei prossimi capitoli, che spero sia abbastanza ricco di colpi di scena da farvi sudare freddo (muhahaha). Volevo anche sottolineare una cosa: avrete notato come in questo capitolo Meg viene definita “racchia”. Non è la prima volta che le succede. Prima di tutto, vista la forte pressione che la società detiene sul mondo femminile riguardo il nostro aspetto fisico, quante volte vi siete sentite (parlo alle ragazze) insicure al riguardo? Io ho subito anche atti di bullismo al riguardo, quando ero ragazzina. Per questo, ancora oggi che ho ventidue anni, mi è difficile sentirmi a mio agio nel mio corpo. Visto che non è qualcosa che viene denunciato spesso (o so lo è, viene fatto male, del tipo: “Mostrare fiducia in se stessi è sexy! *occhiolino*” detto da una supermodella o attrice di Hollywood, il che non ha senso) volevo farlo tramite un personaggio di una storia destinata a un pubblico che sia anche giovane e composto da donne, proprio perché tutte coloro che si sono sentite dire che sono brutte almeno una volta nella vita si riconoscano nel personaggio di Meg e capiscano che, davvero, è il mondo quello sbagliato, non loro. In fondo, la storia di Erik è un messaggio su quanto sia importante ciò che uno ha dentro di sé, non fuori. Non sto dicendo che l'aspetto fisico non sia importante, ma che il volersi bene e accettarsi lo è molto di più. Questo in primis. In secondo luogo, Meg può essere brutta per alcuni, graziosa per altri, anonima per altri ancora. È un tipo, insomma. Una ragazza normale in questo senso. Qui non è truccata, non si lava da una settimana, ecc. ecc. Lei stessa si fa leggermente schifo. XD Ma la cosa importante è che né Erik (sarebbe ipocrita da parte sua) né il Persiano la trattano diversamente solo perché adesso ha un aspetto disastroso. È importante rispettare una donna (beh, anche un uomo, naturalmente) malgrado il suo aspetto fisico. È fondamentale. Un'altra cosa, poi giuro che la finisco con questa filippica: Meg ha origini africane, e si vede. Ha lineamenti tipicamente non caucasici, e questo in una società razzista come quella del XIX° secolo dove il modello di bellezza è la pelle bianca può farla apparire “brutta”, “selvaggia”, al più “esotica”. Secondo voi perché proprio il soprannome “Faccia di Scimmia”? Ma non preoccupatevi, Meg sarà apprezzata, in futuro. E non solo per il suo aspetto fisico, come dicevo prima. C'è tanto di più in lei.
Okay, basta con questo rant. XD Spero di non avervi annoiato.
E ora le recensioni.
ondallagra: Grazie, sono contenta che ti sia piaciuto lo scorso capitolo! Spero che questo ti abbia soddisfatto – ehm… anche se è molto violento e drammatico. Ehm. Perdonami. XD Verrà un giorno in cui Erik e Meg saranno felici, finalmente, lo prometto. :) Un bacio!
Malinconica: La mia fedele lettrice! :* Come hai notato, sì, da qui diciamo che più che la storia in sé, inizia una sua parte totalmente diversa. Se prima la fic si limitava ad essere un riadattamento del libro e il suo “scheletro” era quello che della storia di Leroux, questo è il sequel, e tutto di mia invenzione. Per questo sono anche un po' agitata nel postare i capitoli, proprio perché è tutta farina del mio sacco e ho timore di deludervi. Era facile fin quando mi potevo basare su ciò che ha scritto Leroux, ma ora… Spero che questo capitolo non ti sconvolga troppo. Prometto che nel prossimo, per farmi perdonare, ci sarà una scena molto tenera tra Erik e Meg, ma non dico altro. :) Un bacione, alla prossima!
debbythebest: Sono contenta che la storia ti piaccia e che ti sembri originale! Prima il villain era Erik stesso (una specie molto contorta di villain, diciamocelo, vista la crescente attrazione della protagonista nei suoi confronti) e adesso sì, è la piccola sultana. Non preoccuparti per la brevità della tua recensione, mi fa piacere che tu me ne abbia lasciato una. Mi fanno sempre felici, le recensioni. :) Un abbraccio. **
Naturalmente ringrazio tutti coloro che hanno messo questa storia tra i preferiti/seguiti/ricordate/ecc. e mi raccomando, recensite! Voglio sentire i vostri pareri. Anche solo se volete mandarmi a quel paese. XD
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Capitolo 28 *** Il canto muto. ***
xxvii.
il canto muto
Calais affacciava direttamente sul mare come un'enorme ancora di una nave all'approdo. I miei compagni ed io la attraversammo, simili a fantasmi nella notte, dopo aver trascorso gli ultimi giorni nelle solitarie campagne del mio Paese, da cui presto mi sarei separata, forse per sempre. Il solo pensiero era intollerabile, ma dovevo essere coraggiosa. Sono un lupo, una leonessa – non un cucciolo smarrito. E non piangerò. Questo era il giuramento che avevo fatto a me stessa e che tenevo a mantenere.
Gli ultimi giorni di viaggio erano stati un tormento. Monsieur Nadir mi guardava di sottecchi con i suoi occhi verdi e penetranti, come se si aspettasse di vedermi scattare da un momento all'altro. Solo Erik si limitava a non commentare la spiacevole avventura che ci aveva coinvolti fino a farci sanguinare, fuori e dentro. Nel profondo della mia anima, eressi mura più alte di quelle dell'Opera Garnier, la mia casa tanto amata e ora lontana, sfuggente come un sogno, bella come il ricordo di un'alba.
Non ci scambiammo una parola su quanto era accaduto; ci assicurammo solo che nessuno dei tre avesse qualcosa di rotto e che fossimo tutti in grado di montare a cavallo e viaggiare per un altro tratto di strada fino al porto di Calais. Eravamo ricoperti di lividi e tagli, deboli nelle membra e nell'anima, ma vivi. I nostri abiti erano sporchi e stracciati, anche se non emanavano un lezzo disgustoso quanto i nostri corpi lasciati a marcire tra umori ed escrementi in quel carro maledetto per quasi una settimana. Sentivo i pidocchi correre su e giù per la nuca, e tanto era il fastidio che avevo preso l'abitudine di cercare di prenderne uno per poi schiacciarlo tra le dita come fosse un minuscolo frutto troppo acerbo. Lasciavano sul palmo della mia mano una traccia sanguinolenta, ma non avevo altrettanta fortuna nell'acchiapparne più di uno o due alla volta.
Notte e la puledra d'argento erano caduti sotto i colpi della banda di sicari, quindi prendemmo i loro cavalli. Malgrado l'esitazione di Monsieur Nadir, non seppellimmo i corpi, lasciandoli ai corvi. D'altronde, loro avrebbero fatto lo stesso con noi. Così disse Erik, ed io ero d'accordo. Non avevamo nulla da discutere.
Viaggiammo per una notte e un giorno, la luce del sole che filtrava dai drappi di foglie dei boschetti che superavamo al trotto, quella della luna che ci bagnava sui sentieri più aperti. Corremmo il rischio di attraversare le strade solo di notte, quando erano deserte. Io viaggiavo sempre con Erik: avevamo trascorso così tanti giorni a quella vicinanza inaspettata che il mio odore si era impregnato del suo – vagamente dolciastro e nauseante, simile al lezzo di qualcosa di marcio in lenta decomposizione. Ma ormai vi avevo fatto l'abitudine. Affondavo il viso tra le sue scapole con un agio tale che mi sembrava di viaggiare con lui da sempre. A lui non dava alcun fastidio, altrimenti sapevo che avrebbe espresso il suo disappunto a voce alta; ma non commentò. Si limitava a stringermi di tanto in tanto il braccio, per assicurarsi che fossi ben avvinghiata a lui.
Il nostro ritmo di viaggio fu più lento di prima, ed era naturale: malconci com'eravamo, avevamo bisogno di più pause per riposarci e nutrirci. Le scorte che avevamo trovato in sella ai cavalli dei nostri antichi torturatori erano migliori delle nostre, seppur semplici, e in quantità maggiore: pane duro, formaggio stagionato, gallette, carne essiccata, e addirittura mele mature. Dopo giorni di digiuno, divorammo le nostre porzioni con avidità, sebbene Monsieur Nadir avesse già razionato con cura il cibo, avvertendoci di non mangiarne troppo per non sentirci male dopo. Il nostro organismo doveva riabituarsi ad avere di nuovo qualcosa nello stomaco.
Ci abbeverammo a fresche sorgenti, dove tentai anche di sciacquarmi i capelli e liberarmi dei pidocchi; forse avrei dovuto tagliarli ancora più corti. Il solo pensiero mi dava la nausea: volevo indietro i miei capelli, volevo indietro la mia identità. Me l'avevano strappata insieme all'innocenza, alla mia pelle imbevuta di sangue. Non avrei permesso che mi rubassero altro.
Giungemmo a Calais di notte, come avevamo sperato. In caso contrario, avremmo attirato troppa attenzione, conciati in quella maniera miserabile. I vicoli stretti della città erano silenti, mentre noi li sorpassavamo con moto altrettanto taciturno. Calais era una città costruita sulla pianura che si allargava fino a lambire le coste sabbiose del mare, freddo e nero sotto il cielo altrettanto scuro della notte. Si succedevano viuzze strette tra mura di argilla e mattoni lasciati a scottare al sole o impregnati della rugiada dei raggi di luna quando il giorno moriva. Noi superammo quelle strade, attirandoci solo gli sguardi curiosi degli ubriaconi che, fuori dalle taverne, si attardavano a gozzovigliare.
Il molo era uno spettacolo che, perfino di notte e con la mia amarezza, mi lasciò per qualche secondo senza fiato: non avevo mai visto il mare. Una distesa d'acqua all'apparenza infinita, abbracciata all'orizzonte solo dalla luce fievole dell'astro notturno e bagnata dalle sue lacrime. Attraccate al pontile, vi erano navi di tutti i tipi e dimensioni: galee a remi e a vela, chiatte e pescherecci carichi di merci, natanti mercantili di grosse dimensioni e scafi da diporto. Mi chiesi quale, tra quelle, sarebbe stato il mezzo con cui saremmo arrivati in America. Era visibile anche un'imponente nave da crociera, che avrebbe preso il largo proprio il giorno dopo, forse diretta verso il Nuovo Mondo, come noi. Ma non potevamo rischiare di esporci al pubblico in quel modo. Erik aveva un suo piano ben definito da attuare.
«Al limitare del porto, c'è una locanda che in verità è gestita da dei contrabbandieri – mie vecchie conoscenze. Con la somma d'oro giusta, ci consentiranno un passaggio diretto verso l'America. Saremo ben nascosti e non avremo alcun problema, vedrete. Non si sono certo dimenticati di Erik.» Era molto sicuro del fatto suo, e noi ci affidammo – di nuovo – interamente a lui, ché non avevamo altra opzione.
Lasciammo i cavalli fuori da una piccola taverna dalle finestre ancora illuminate, con un'insegna che leggeva Da Jean. Rimasi nell'ombra di Erik, sentendomi sicura con la mia daga infilata nel risvolto della manica. Se le cose si fossero messe male, non ci saremmo lasciati prendere allo sbaraglio, questa volta. Non avremmo esitato. I sicari di Persia – originari in verità di varie nazioni sparse per il mondo – ci avevano derubato del nostro oro (beh, di quello di Erik) e delle nostre armi, ma noi ci eravamo ripresi tutto questo con la forza.
«É un'usanza dello Shah, l'assoldare tanti sicari ai suoi ordini?» avevo chiesto ad Erik, con voce più roca del solito poiché non la utilizzavo più tanto spesso come prima. Avevo imparato a trattenere la lingua tra i denti, e a tenere certi segreti per me.
«É un'usanza di tutti i ricchi politici, re o governanti che siano. Anche nella nostra civilizzata Francia» rispose lui con un pizzico del suo usuale sarcasmo. «Guardie o sicari, non fa differenza.»
«Eri anche tu una sorta di… mercenario, diciamo così?»
«Una sorta, sì. Ad alto costo.»
«E perché svolgevi questo bel lavoretto, se tanto li disprezzi?»
Erik ebbe una pausa. «La sultana – ora Khanum – mi promise che sarei diventato l'uomo più potente di Persia, con delle abilità singolari come le mie. Ed io ero stanco di sentirmi impotente. Mi lasciai andare: se ero un mostro, tanto valeva che lo fossi completamente.»
«Ma poi ti stancasti anche di questo.»
Lui annuì piano. «Uccidere non mi dava alcuna gioia, se non quella vacua sensazione di potere a cui ti ho già accennato. Nel profondo, sapevo di desiderare solo una vita normale. Ora mi rendo conto di quanto fossi sciocco nel pensare che l'avrei mai ottenuta. Niente e nessuno poteva regalarmela. Nessuna magia poteva cambiare la mia faccia.»
Ma la compassione di Christine ti ha cambiato, pensai d'un tratto. Ti ha fatto ridiventare umano. E ora tu sei diverso. Lo percepivo dal tono della sua voce, dall'espressione nei suoi occhi dorati, più lontana del solito. Tu dovevi morire – volevi morire. Non eri più legato a questa terra da alcunché. Nemmeno da me.
Entrammo nella taverna mentre il locandiere si accingeva ad asciugare dei boccali vuoti al bancone e una servetta lucidava i tavoli. Era un locale spoglio, con assi di legno tarmate dal tempo. Eppure, era più accogliente di qualsiasi luogo avessimo incontrato sulla nostra strada in quei giorni folli. L'uomo al bancone ci squadrò con aria sospettosa e guardinga insieme, posando il boccale e lo straccio che aveva in mano. La servetta si limitò a lanciarci un'occhiata veloce e a scambiarne un'altra col suo padrone.
«Vai pure, Danielle» disse questi, e la ragazza si dileguò in un battito di ciglia. Alzai un sopracciglio: eravamo così spaventosi?
Nel locale non c'era nessuno a parte un ubriaco che dormiva nel suo posto al bancone. Anzi, che russava con beneplacito. Per il resto, eravamo soli. Il che è un bene, supposi. Sentii pesare il pugnale nella manica, e vidi bene di non cacciarlo fuori prima del momento opportuno. Eravamo lì per fare accordi, non sgozzarci a vicenda.
«Il locale è chiuso, adesso.»
«Non proprio» fece Erik, con un cenno all'ubriaco al bancone. Per tutta risposta, questi continuò a russare sonoramente.
Il locandiere – Jean? – avvampò. Il suo naso dai capillari scoppiati divenne ancora più rosso. Ora rassomigliava a una mela un po' troppo matura, complice anche la rotondezza del suo ventre.
«Chi siete, Messieurs?»
Di nuovo, ero stata scambiata per un uomo. Perfetto, pensai sarcasticamente. Ma in fondo, non era quello che volevate?
«Non mentire: mi riconosci. Quante altre volte hai veduto un uomo in maschera passare di qui?» fu di nuovo Erik a parlare, con voce di seta.
«Solo una volta, e molti, molti anni fa» disse Jean, come colpito da un fulmine. «Allora era un ragazzo in giro per il mondo. Che tu sia proprio…?»
Non fece in tempo a concludere la frase che un'altra voce lo interruppe. «Già, sembrerebbe essere proprio lui, no? Il vecchio Erik. O dovrei dire Azrael? Hai molti nomi: quale ti è più congeniale?»
Chi aveva parlato? Mi guardai in giro, individuando la fonte di quelle domande sarcastiche: era l'ubriaco al bancone. Solo che non era poi così ubriaco, e aveva soltanto finto di dormire. Era un uomo di bell'aspetto, dalla carnagione olivastra, con corti capelli scuri e occhi penetranti della stessa sfumatura nocciola, insidiosa. Era più giovane del nostro guerriero migliore, Erik, ma non era armato.
In un lampo – non ebbi neanche il tempo di ammiccare – Erik estrasse il laccio del Punjab da sotto il mantello e il Persiano la sua pistola. Di conseguenza, anch'io tirai fuori il mio coltello.
Lo sconosciuto sollevò le mani in un gesto di muta resa. «Ehi, ehi, andiamoci piano, con quelle armi.»
«Non voglio spargimenti di sangue nel mio locale» disse l'uomo che doveva essere Jean, d'un tratto livido in volto. Notai come non si fosse spostato di un millimetro dalla sua postazione dietro il bancone.
«In passato, mi permettesti un viaggio verso la Turchia su una delle tue navi da contrabbando» disse Erik a Jean, senza però staccare gli occhi dallo sconosciuto dall'incarnato bruno. «Ora credevo che, grazie all'oro che portavo con me, me ne avresti concesso un altro. E invece chi mi ritrovo nel tuo locale? Scagnozzi della regina.»
Guardai l'uomo che si era finto ubriaco con un improvviso accesso d'odio. Se era un uomo della Khanum, allora lo avrei eliminato io stessa, e con piacere, se Erik e Nadir mi avessero lasciata libera di agire senza interferenze…
«Devi anche specificare di quale regina, però» disse l'uomo con un mezzo sorriso irriverente. Provai l'istinto di fargli provare il gusto del mio coltello su quella lingua lunga che si ritrovava.
«Di che cosa sta parlando?» chiesi, stizzita.
Fu Monsieur Nadir a rispondermi. «Non porta il simbolo della rosa rossa. Perlomeno non dove lo possiamo vedere. Deve essere un uomo di Ezzat, la sorella della Khanum.»
Ezzat, certo. Ora rammentavo: Senza Nome ne aveva accennato nei suoi disumani interrogatori. Qual è la mappa del palazzo di Ezzat? Un brivido mi corse lungo la spina dorsale al ricordo.
«Non voglio guai… regali, qui dentro.» Certo che quel Jean era proprio un codardo.
«Nessun guaio, amico» rispose il finto ubriaco con un altro sorriso irriverente.
«Amir» disse Jean, il naso che sembrava esplodere tanto era rosso e vistoso il suo colore, «mi avevi detto che sarebbero venuti, ma mi avevi promesso che non si sarebbe verificato alcuno scontro. Non voglio il mio locale sporco di sangue.»
«Sarà pieno d'oro quando ce ne andremo» fece l'uomo chiamato Amir.
«No, sarà pieno del tuo, di sangue, vecchio» ribattè Erik in un sibilo, puntando il laccio del Punjab verso Jean e tenendo allo stesso tempo d'occhio Amir, che continuava a ridersela, come se avere dinanzi l'Angelo della Morte non contasse nulla, «se non mi spiegate cosa succede. Entro un limite di tempo ragionevole, s'intende.»
«Il daroga ha ragione.» Amir fece un cenno col capo a Nadir. Notai che non aveva ancora abbassato le mani. «Ezzat è la mia regina. E nessun altra. È lei che mi comanda di portarti nel suo palazzo, Azrael.»
Ora anche questa Ezzat ci dava la caccia? Non bastavano i sicari dello Shah?
«Come può la Persia avere due regine?» dissi io, corrugando la fronte.
«É possibile. Ma ancora per poco.»
«Che vuol dire?» continuai io in tono duro, nella speranza di chiarire l'ingorgo che avevo al posto del cervello.
Amir fissò i suoi caldi occhi scuri su di me. Sembrò squadrarmi per un attimo, prima di rispondere: «Sua Maestà Ezzat non vi cerca per prendervi prigionieri e poi uccidervi. Cerca Azrael per un solo motivo.»
«Le servo» aggiunse Erik, corrucciato e meditabondo. Chiaramente, stava pensando se strangolare sul momento quel tipo di nome Amir, tutto sorrisi sprezzanti, oppure no.
«Ma certo che sì, Azrael. Per vincere una volta per tutte la cosa più importante.»
«Che cosa?» chiesi in un sussurro.
«Il potere.» Fu Erik a rispondere, con voce misurata. «L'unica cosa che conti.»
«Perspicace, Azrael» fece Amir in tono impudente.
«Ed Ezzat vuole prendere il posto della sorella come Khanum?» chiesi. Ora cominciavo a inquadrare i vari tasselli.
«Sua Maestà Ezzat vuole diventare Khanum al posto della sorella minore. Il trono è suo di diritto. Suo figlio Roshak dovrebbe regnare come Shah.»
Ora capivo. Si trattava di una partita letale nella quale ci avevano tragicamente coinvolti. Lo eravamo fino al midollo, perché loro – adesso ne comprendevo il motivo – avevano bisogno di Erik.
«Vi servo per svelare i segreti del palazzo di Mazenderan. Il palazzo dell'attuale Khanum, Assiye, la sorella della tua regina.»
Era strano per me udire il nome della Khanum lanciato lì sulla scacchiera come un pedone comune. Era anche il nome che rivangavo nella mente ogni volta prima di arrendermi a Morfeo, quando la stanchezza cedeva il passo agli incubi che mi perseguitavano – incubi di sangue e materia organica e sangue e ancora sangue. Dovunque: sui corpi dei miei poveri genitori, di Senza Nome… Dentro di me, sentivo una calma gelida afferrarmi, come se il mio cuore fosse avvinto nel pericoloso nodo scorsoio del laccio del Punjab. Stavo stringendo fino a ridurlo in briciole. Più Erik diveniva umano, meno io mi sentivo costretta nelle maglie dell'umanità. Eravamo l'uno lo specchio distorto dell'altra. Il mio oscuro riflesso… pensai.
Lo guardai. Sembrava immerso in una profonda meditazione.
«Possiamo fidarci?» chiese Nadir, più a se stesso che ad Amir.
Quest'ultimo annuì lentamente. Aveva ancora le mani sollevate in quella dichiarazione di pace e resa muta. «Siamo amici, o perlomeno così spero. La mia regina non ha alcuna intenzione di farvi del male. Tu la conoscevi, Azrael. Non è come sua sorella. Non è come il ragazzo Shah.»
Erik deglutì, stringendo gli occhi.
«Deduco che non abbiamo scelta» disse infine, in tono moderato. «Non credo affatto che tu sia giunto fin qui a mani vuote e senza una scorta. Come sapevi che saremo venuti in questo postaccio?»
«Ezzat era sicura che saresti passato per Calais come l'ultima volta che sei fuggito dalla Persia. Per tutti questi anni, ha sempre saputo che eri vivo, ma non ne ha mai fatto parola con nessuno.»
«E viene a cercare adesso il mio aiuto?»
«Necessita di alleati, non di nemici. Sarete liberi di andarvene, se lo desiderate. Non vi staremo alle calcagna, a differenza di qualcun altro.» Qui l'uomo di nome Amir si arrestò, con fare eloquente. «Se venite con noi, sarete più al sicuro, poiché vi proteggeremo.» Questa volta si rivolse direttamente ad Erik: «Abbiamo bisogno del tuo aiuto, Azrael. Per vincere una guerra civile. Molti popolani hanno formato una resistenza contro il regno dell'attuale Shah, Naser, che in fondo è solo un burattino della madre. È la Khanum Assiye a governare davvero. E tu la conosci, Azrael: è crudele, una tiranna. Ezzat sarebbe una regina più adatta. Conoscevi anche lei, e la sua saggezza.»
Quindi erano le due donne a comandare: i loro giovani figli non erano altro che pedoni sacrificabili. Erik si accigliò, e così anche il Persiano. Io stessa corrugai la fronte, le dita ancora strette con veemenza attorno alla daga. Che cosa potevamo fare? Quale scelta avevamo?
«E va bene. Verremo con voi.» Erik e Nadir si scambiarono uno sguardo d'intesa. Entrambi erano giunti alla stessa proposizione.
«Tu che ne dici?» mi chiese infine Erik.
Meditai: andare in Persia… mi pareva ancora più difficile dell'America. Presto sarebbe esplosa la rivoluzione, di cui non saremmo stati che detriti. Ma se andavo in Persia, potevo essere vicina alla Khanum e al suo regale figlio. L'odio mi ribollì nelle vene, fiele di una vendetta a lungo ponderata.
Annuii e diedi il mio muto consenso.
«Bene!» esclamò Amir, battendo le mani sul bancone. Il bicchierino di rum ancora mezzo pieno sobbalzò insieme al tavolo. «Sapevo che sarei riuscito a convincerti. Devo dirlo subito agli altri – dobbiamo partire in fretta.»
«Agli altri?» sibilai, sempre con la daga in allerta.
«Beh, il tuo amico mascherato l'ha detto, mi pare. Non mi sarei arrischiato a fermarmi in questo posticino delizioso – nulla di personale, Jean – se non avessi avuto con me un certo numero di compagni. Su, andiamo. La carrozza ci attende, ragazzo.»
«Sono una ragazza» precisai, ormai stanca di quella mascherata.
Amir s'inchinò con fare giocoso. «Tante scuse, Madamoiselle. Non incontro molte donzelle con le braghe, di questi giorni. Andrai d'accordo con mia moglie. Anche a lei piacciono i pantaloni.»
Mi accigliai, sospettosa. L'uomo lasciò un sacchetto pieno di monete d'oro sul bancone e, con un altro mezzo inchino rivolto al vecchio Jean, si diresse verso l'uscita della locanda, aspettandosi che lo seguissimo.
«Il tempo non ti ha reso giustizia, Jean» fece Erik al vecchio contrabbandiere, che appariva sgomento. Poi ripose il laccio del Punjab in un risvolto del lungo mantello e seguì le orme di Amir fuori dall'uscio, nella notte fresca di inizio Maggio. Nadir ed io lo imitammo, non senza prima lanciare una breve occhiata alla locanda che ci lasciavamo alle spalle. Vidi la testa di Danielle, la servetta, spuntare dalla porta sul retro, e il naso rosso del vecchio Jean, che appariva molto felice di essersi liberato di noi.
Non salutai e mi infilai la daga nella cintura. Anche quello era solo un altro posto che sarebbe divenuto polvere nei miei ricordi, un cumulo di cenere disperso nel vento.
Scoprimmo che Amir aveva portato degli amici con sé – molti più di quanto ci aspettassimo, in realtà. Il brigantino a palo di cui era capitano possedeva tutta l'apparenza di un semplice natante mercantile, ma in realtà era un covo di pirati e mercenari della peggior sorta. Sulla tolda della nave, la luna rischiarava i buchi neri che erano gli occhi di Erik mentre si guardava intorno con diffidenza.
«Non siete mai salita su una nave, vero, Meg?» mi chiese Monsieur Nadir, con l'usuale tono gentile con cui mi si rivolgeva.
Scossi il capo. Guardai la grande vela ripiegata su se stessa, che presto si sarebbe gonfiata per il vento, se questo avesse avuto la grazia di esserci favorevole. La ciurma ci fissava con curiosità, e sogghignai tra me e me nel vedere con quanto timore reverenziale occhieggiassero Erik, che tuttavia appariva indifferente.
«Sei famoso da queste parti, Angelo della Morte» gli dissi in tono sarcastico. Lui emise un lieve sbuffo di fastidio.
«Preferirei essere chiamato Erik. Almeno da te.»
«Stavo solo scherzando. Come sei permaloso… E comunque, io ti chiamo come voglio» risposi con impertinenza. Lui rinunciò a piegarmi, poiché sapeva che era vano, e si rivolse al capitano.
«Quanto durerà il viaggio fino in Persia?»
«Circa un mese e mezzo» rispose invece una donna con un pesante accento straniero. Aveva la pelle scura e splendidi occhi grigio ardesia, simili in bellezza a quelli del Persiano. Era abbigliata con modesti abiti di lino, un velo intorno al capo, ma notai le braghe di cuoio resistenti e gli stivali alti fino al ginocchio, una spada infilata nella cintura. Una vera spada, non il giocattolo con cui mi trastullavo io e che avevo rubato a Senza Nome.
«Poi dovremmo attraversare parte del Paese non appena saremmo arrivati alla sponda sud. Questo dopo aver superato lo stretto di Gibilterra, il Mar Mediterraneo e una frazione dell'Egitto. Circumnavigare l'Arabia e lo Yemen è l'idea migliore: in questo modo, non dovremo oltrepassare i confini nazionali» continuò lei, incrociando le braccia al petto. Malgrado gli abiti modesti, non potei non notare che il suo era molto più generoso del mio, il che mi fece corrugare la fronte. Quella sì che sarebbe stata difficile da scambiare per un uomo, e la invidiai un tantino per questo.
«Una parte del Paese? E anche una frazione dell'Egitto, dite. Non sarà pericoloso?» disse Nadir, accigliato.
«Sì, ma in Egitto abbiamo nostre spie fidate. In Persia, a metà strada ci uniremo all'esercito di Sua Maestà Ezzat e suo figlio Roshak.»
«Ci attende comunque un duro cammino» proseguì lui. Era vero: avevamo avuto esperienze spiacevoli durante il nostro, di viaggio sulla terra ferma. Chi ci assicurava che non avremmo potuto incontrare dei soldati della Khanum nel bel mezzo del deserto persiano?
«É l'unica strada che ci attende» concluse Amir, e vidi Erik annuire impercettibilmente. Era d'accordo, e lo ero anch'io: non vedevo altre soluzioni.
La donna dai begli occhi grigi mi porse la mano inaspettatamente. «Sono Darya» disse con un lieve sorriso bianco neve. «E ho sposato questo idiota.» Fece un cenno ad Amir, che parlava fitto con il Persiano e che quindi non poteva udirci. Le mie labbra si schiusero in un sogghigno.
«Se lo consideri un idiota, perché lo hai sposato?»
«L'amore è una follia, piccola.» Per fortuna lei aveva riconosciuto in me delle fattezze femminili. «Non sono piccola. Non lo sono più da molto tempo. Ho ventuno anni, ormai» risposi. Lei arretrò, visto il tono duro della mia replica.
«Ti chiedo scusa, allora. Vestita in questo modo, sembri più giovane.»
Mi rilassai, accarezzando la punta della daga che avevo infilata nella cintura. «Lascia perdere. Io sembro sempre più giovane.»
«Avete tutti un aspetto terribile» commentò Darya, serrando i suoi occhi da felino e scrutandoci con attenzione. Erik e Monsieur Nadir stavano ancora parlando col capitano, Amir, del viaggio che ci attendeva, e all'apparenza avevano mostrato poca attenzione a quella donna vestita in modo tanto singolare, ma sentivo lo sguardo di Erik che mi bruciava la nuca. Nulla poteva sfuggire ai suoi occhi dorati.
«Facciamo davvero tanta paura?» domandai, corrugando la fronte. Darya rise, anche se brevemente. «Oh, no. Tu sembri solo un pulcino coperto di lividi. I tuoi amici, d'altro canto…» Capii che si riferiva soprattutto ad Erik. La maschera imbevuta di sangue non aiutava a rendere le sue fattezze meno minacciose. «Abbiamo un medico a bordo» mi informò Darya con voce melodica. «Vi apporterà tutte le cure possibili…»
«Neanch'io sono un pulcino» ribattei in tono ostile. La guardai negli occhi, per una volta fiera dei miei lividi, dei tagli che ancora esponevo sul volto e sulle braccia. «Ho ucciso un uomo, io. Per difendermi e fuggire, ma l'ho fatto. Non sono innocua come credi.»
Darya mi guardò severamente. «Allora sono tante le cose che di te non so… come posso chiamarti?»
«Meg andrà bene.»
«Meg» sussurrò lei, come assaporando il mio nome. Le piacque, quindi mi rivolse un breve sorriso, sebbene tetro. «Tu e i tuoi compagni avete comunque bisogno di un medico». Guardammo Erik e Nadir, ancora vicini ad Amir, che impartiva ordini in una lingua sconosciuta, probabilmente persiano – stavo cominciando a riconoscerne la cadenza, anche se non ne comprendevo una parola – ai suoi uomini.
«Il vento è favorevole» mi disse Darya, con la sua voce da donna sicura, esperta. Mi rammentava mia madre, in modo assurdo. «Sarà un viaggio tranquillo, se non incapperemo in qualche bonaccia. Ma anche in quel caso, andremo avanti a forza di remi. Abbiamo una forza non indifferente di uomini dalla nostra.»
Era vero: tutta la ciurma – una masnada di almeno cinquanta uomini – si agitava sulla tolda, sul ponte di comando, diretta ai loro posti. Saremo scivolati nella notte come spettri.
«Alla dogana egiziana non ci scopriranno?» chiesi, chiedendomi come fossero i nostri rapporti con la marina del luogo.
«Abbiamo delle credenziali – e dei precedenti. Crederanno che questo sia un natante mercantile. È carico di spezie e tessuti, sai. Va sempre bene per simulare uno scambio di merci.»
«Eravate da quel Jean e i suoi contrabbandieri per questo.»
Darya annuì, squadrandomi con attenzione. «Sei sveglia. Ora vai sottocoperta, ti mostrerò la tua stanza. Un bel bagno dovrebbe farti bene.»
L'acqua era salata, ma pur sempre acqua. Strofinai la spugna contro la mia pelle indurita dalle intemperie, mentre la nave avanzava placidamente tra le onde bagnate dai raggi di luna. Eravamo diretti verso un luogo a me sconosciuto, e la nostra meta avrebbe dovuto farmi paura, ma più che altro mi sentivo insensibile: niente aveva più senso adesso, non ora che…
Strofinai più forte, liberandomi definitivamente dei pidocchi, guardandoli galleggiare, stecchiti, nell'acqua. Ero immersa in una tinozza, nel mio cantuccio sottocoperta. Darya mi aveva mostrato come riempirla d'acqua e persino il sapone da usare. Quella donna mi piaceva: era sinceramente gentile, non aveva un duplice scopo nei nostri riguardi. E questo era una rarità.
Pensai ad Erik e Nadir, a cui Amir aveva mostrato, in modo simile a come Darya aveva fatto con me, tutto ciò che poteva loro servire nei loro nuovi cantucci sottocoperta. Avevamo persino una branda tutta nostra, e dormirvi sopra sarebbe stato meraviglioso: non riposavo su una superficie morbida da quel che parevano eoni. Pensai in particolare ad Erik, con la sua ferita al volto. Avrebbe acconsentito a farsi curare da un estraneo? Sperai di sì, per il suo bene. Era ostinato, ma non tanto ottuso da non capire il pericolo che correva altrimenti.
«Non così forte, potresti spellarti quel poco di pelle che hai attaccata alle ossa» disse una voce familiare. Smisi di strofinarmi e mi voltai: Darya era sulla soglia del mio nuovo cantuccio, con in mano quello che mi parve un involto di abiti puliti che depose sulla branda. Mi sorrise: aveva un sorriso affilato quasi quanto quello del marito.
«Sei un pirata anche tu?» chiesi, curiosa mio malgrado.
«Per adozione» rispose lei, incrociando le braccia al petto. I miei occhi non lasciavano mai la spada che portava alla cintura, e lo notò. «Questa? Un giocattolino col quale mi piace trastullarmi come un gatto fa col suo gomitolo.»
«Tuo marito ti permette di indossare braghe e andare in giro armata.»
«Siamo su una nave di pirati ed io sono l'unica donna a bordo, cosa ti aspettavi? E poi, non è mio marito che me lo permette. Sono io che l'ho deciso.»
Corrugai la fronte, gli occhi posati sul capo velato che si andavano a fermare poi sulla spada alla sua cintura. «Pensavo che i musulmani fossero persino più severi dei cristiani riguardo simili… particolari.»
«Amir non è mai stato un tipo particolarmente religioso. E se avesse mai tentato di proibirmi qualcosa…» Darya sorrise – di nuovo quel sorriso affilato come un rasoio. «Lo avrei sgozzato nel letto nuziale. E lui questo lo sa.»
Deglutii. Questa donna mi piaceva sempre più.
«Prima mi hai dato del pulcino.»
Lei chinò il capo, in segno di scusa. «Non sapevo con chi avevo a che fare.» Colsi una nota beffarda in quella risposta, e mi accigliai.
«Lo sembro così tanto? Un pulcino, intendo.»
«Sembri sperduta, come una bambina» Darya meditò a fondo prima di parlare. «Non spaventata, ma realmente senza bussola.» Serrò gli occhi felini e mi squadrò, ancora nuda nella tinozza, con curiosità e acutezza insieme.
«Non voglio più avere un'apparenza simile. Voglio essere sicura, indomabile. Cosicché nessuno possa più farmi del male. A me e alle persone che mi sono care.»
«E quel singolare uomo che attualmente nella stanza accanto sta facendo tante storie perché non vuole togliersi la maschera è una di queste persone?»
Il solito Erik. Sospirai.
«Anche se lo fosse?» chiesi in tono di sfida.
«Hai degli amici particolari. E potenti. Di certo non adatti a un pulcino.»
«Perché non sono un pulcino. Voglio essere una fiera.» Come avevo detto ad Erik quel che sembrava un'eternità prima? Se non posso essere viva, non come un tempo, allora voglio essere padrona della morte.
Darya mi scrutò con tutta l'attenzione dei suoi occhi grigi, magnetici. È molto bella, pensai con rammarico. E davvero capace di sgozzare un uomo nel letto nuziale.
«Anch'io ero come te. Quando ho incontrato Amir, lui era già una fiera, come dici tu. Mi ha insegnato come diventarlo, a suo rischio e pericolo – o meglio, mi ha dato qualche indicazione. Io ero già sulla buona strada. Il percorso da terminare era mio e soltanto mio. Essere sua moglie non sarebbe stato facile. Non volevo essere un peso, un costante tesoro da proteggere. E pertanto ho imparato l'arte della spada, cosicché nessuno potesse farmi del male, proprio come dici tu.» Chinò il capo nella mia direzione.
«Esistono diverse tipi di armi che una donna può usare in questo mondo, proprio come un uomo. Le lacrime, il cuore, la lingua, la spada… e anche qualche altra cosa.» Ridacchiò vedendomi ammiccare mio malgrado, poiché avevo inteso l'antifona. «Io ho scelto la mia. E tu, pulcino… quale sarà la tua scelta?»
Uscì con un inchino, lasciandomi a meditare.
Entrai nella camera destinata ad Erik con indosso una camicia e dei calzoni puliti, sebbene un po' larghi per la sottoscritta, soprattutto poiché dopo la tempesta che si era abbattuta su di noi ero molto smagrita. Anche Monsieur Nadir era lì, e mi accolse con un debole sorriso paterno.
«Meg» disse, poggiandomi una mano su una spalla con fare protettivo. Con il capo, fece un cenno all'uomo che si agitava sulla branda a qualche passo da noi, e sospirammo all'unisono. Se qualcuno al mondo poteva comprendere il mio stato d'animo conflittuale nei confronti di Erik, quel qualcuno era il Persiano.
«Voglio uno specchio» sibilò il fantasma dell'Opera in persona – o Angelo della Morte: come avrei dovuto definirlo? – incrociando le braccia al petto, in un segno di ostinazione che si poteva dire eloquente in tutte le lingue del mondo.
Il medico scosse il capo. «Non sarebbe una buona idea, signore. Proprio non…»
«Lo so bene, cosa credi? Via, dunque, datemi uno specchio. Non mi sembra di aver chiesto nulla di introvabile.»
L'uomo che fungeva da medico di bordo, pasciuto e vagamente pallido (non sembrava felice di occuparsi di un paziente come il nostro Erik, e non potevo biasimarlo), scambiò un'occhiata con Monsieur Nadir. Quest'ultimo annuì, e io alzai gli occhi al cielo.
«Davvero, Erik, non mi sembra il momento di…» iniziai, ma lui mi dardeggiò contro un'occhiata fulminante e io tacqui, sollevando le mani in segno di resa. «Come vuoi tu» mormorai, stizzita. Se non ci dava retta, tanto peggio per lui.
Quando il medico gli porse lo specchio, Erik si sfilò la maschera e i rudimentali bendaggi intorno alla ferita e lanciò un'occhiata al suo riflesso. La sua smorfia poteva pareggiare con la mia. Sembrava sul punto di scoppiare a ridere… o in lacrime, cosa che avrebbe fatto venire i brividi a tutti comunque. Con un mugugno incomprensibile, lasciò cadere lo specchietto sul letto che occupava, e il medico si affrettò a recuperarlo.
«Monsieur sarà lieto di sapere che è stato fortunato. La ferita avrebbe potuto portargli via una parte del naso se…» Qui il medico si fermò, ingarbugliandosi nel suo stesso francese stentato. Se effettivamente avesse avuto un naso, conclusi io nella mia mente. Erik dovette giungere alla stessa conclusione, perché si aprì in un sogghigno orribile alla vista. «Che dire: sono nato fortunato» disse, sarcastico. Poi lanciò un'occhiataccia al medico, che arretrò d'istinto.
«B-bisogna disinfettare la ferita e ricucirla. Se Monsieur me lo permette…»
«Monsieur non te lo permette.»
«Ah» il medico arretrò ancora.
«Erik» disse il Persiano in tono d'avvertimento, incrociando le braccia al petto. Il fantasma lo ignorò.
«Andiamo, Erik» mi intromisi io, stufa di quei giochetti. «Invece di spaventare mezzo equipaggio, potresti essere più collaborativo. A nessuno piace la tua ferita, a te meno che a tutti. Fatti curare, avanti. E non fare storie come un bambino capriccioso.»
«Non sono un…» esordì lui, poi si fermò, forse rendendosi conto di quanto ciò che stesse per dire apparisse effettivamente infantile e petulante. «E va bene» fece un cenno al medico, ancora spaventato. «Sistemiamo questo orrore.»
Nadir ed io sospirammo di sollievo. E anche questa è fatta, pensai, sentendomi meglio ora che Erik avrebbe ricevuto delle cure appropriate e dopo essermi lavata a fondo.
«Non credevo fosse possibile per me diventare ancora più brutto. A quanto pare mi sbagliavo» lo sentimmo mugugnare con sarcasmo al povero dottore, che annuì tutto contrito e concentrato sul suo lavoro di tetro ricamo.
Il medico ci diede una qualche pasta da spalmare sui lividi e i tagli che ancora esponevamo sulla pelle nuda – i miei erano diventati di un inquietante colore giallastro – e ci raccomandò di riposare bene, quella notte, sulle nostre nuove brande. Io annuii in risposta, chiedendomi quanti uomini dell'equipaggio sapessero parlare almeno un po' di francese. Sapevo che se usavano quel particolare idioma era per rendersi comprensibili alle mie orecchie, dato che sia Nadir che Erik ovviamente conoscevano il persiano.
Mi rigirai nella brandina: no, il sonno non riusciva proprio a cogliermi impreparata. Era come se delle mura difensive mi proteggessero dall'abbraccio liquido di Morfeo.
Salii sopraccoperta, avvolta solo nei miei calzoni e nella camicia di lino leggera. Un brivido mi percorse verga a verga, ma lo ignorai. Volevo avere la luna negli occhi, come pozze di pioggia astrale nelle mie orbite. Mi sporsi dalla murata, osservando l'acqua nera come la notte punteggiata da esili spruzzi lucenti, riflessi delle stelle lontane. Un moto lento e regolare mi cullava, ma non mi facilitava il sonno. Sentii solo una lieve nausea. Tutti gli altri uomini dell'equipaggio dormivano sottocoperta, eccetto la sentinella sulla torre di guardia. Osservai le vele che si lasciavano gonfiare dalla lieve brezza notturna.
«Non riesci a dormire?»
Quella voce impossibile mi tintinnò nelle orecchie, e la accolsi, non sapendo se con benevolenza o semplice accettazione.
Appoggiato con grazia alla murata del natante, Erik mi guardava a braccia incrociate, il volto coperto dalla solita maschera, e non solo: a fasciargli il viso vi erano anche certe garze che delicatamente gli coprivano la carne dalla fronte al buco che aveva in luogo del naso.
«E tu?»
Erik scosse il capo. «Oramai ho bisogno di dormire di rado. Mi sono abituato a una vita senza sonno.»
«Non mi sembra salutare.»
«Siamo in due, allora. Da quanto non dormi come si deve, Meg?»
Non soddisfai il suo interesse nei miei riguardi. La risposta era palese. Da quando siamo partiti. Da quando mia madre è morta. Da quando ho ucciso Senza Nome.
«I sogni mi rammentano ciò che vorrei dimenticare. E ci sono altre cose…» corrugai la fronte, tracciando con le dita arabeschi invisibili sul legno scuro della murata, «… cose che non posso e non devo dimenticare. Ma mi tormentano. Sono un'ossessione impronunciabile.»
«Puoi parlarne?» Era una domanda, quasi che non fosse sicuro delle mie intenzioni verso di lui. Lo guardai in quei suoi occhi inumani, eppure stille di emozioni si coglievano in lui solo attraverso quelle orbite dorate, appena visibili oltre la maschera.
«Con te… Sento che posso parlare di molte cose» gli confessai, chinando lo sguardo, «e quindi anche di questa.» Sospirai. «Non riesco a non pensare che… di mia spontanea volontà… sono divenuta un'assassina. E la mia brama di sangue non si è placata.» Lui sapeva a che mi riferivo. «E non posso non pensare che, se vi cedo… forse, solo forse… ora non sono tanto diversa da loro. Pronta ad uccidere chiunque pur di ottenere quello che voglio. E se fosse come un contagio, e se la malvagità che mi circonda mi avesse scolpito nonostante la mia anima, la mia volontà fossero differenti? Se una parte di me fosse irrimediabilmente crudele, se…»
«Meg, tu non sei crudele.»
«Potrei esserlo.»
«In molte circostanze e, con più esattezza, in quelle in cui ti sei ritrovata tu, molti lo sarebbero.»
«Sì, e anche nel tuo caso. Ma tu stesso mi hai detto che…»
«… non sono “molti uomini”, sì, credo che tu te ne sia accorta, ormai. Ma tu sei… tu. Diversa da qualsiasi altro.»
«Una parte di me ora lo è in modo insanabile.» Lo fissai dritto negli occhi. «Se ricordi, mi hai promesso un cuore.»
Lui s'irrigidì. «Non hai ancora mutato idea in proposito.»
«No, non potrei mai.» Strinsi i pugni fino a conficcarmi le unghie scorticate nella pelle. Avevo ancora le dita coperte di piccoli tagli provocati dalla pietra aguzza con cui avevo ucciso per la prima volta. «Loro hanno fatto del male a mia madre, Erik. Un male irreparabile. Come potrei cambiare idea? Tutto ciò che voglio è il cuore della Khanum nel palmo della mia mano.»
«Non ti renderebbe felice, alla lunga.»
«Tu dici? Scommettiamo.»
«Meg, non ti restituirebbe tua madre.»
Mi morsi un labbro. «Questo lo so. Ma cos'altro mi resta per cui vivere? Mi sembra di annegare nel nulla…»
Erik fece per sfiorarmi una spalla, ma si fermò, con mia grande delusione. Rabbrividii, ma non per la paura, né il freddo. Io volevo che la sua mano si posasse su di me, in modo da trarne… cosa, conforto?
Dovevo essere impazzita sul serio.
«Temi di cedere al nulla che ti assale, lo capisco» disse lui, chinando il capo. «Poi non ti resterebbero che la follia e il dolore… Credimi, lo so. Ho già provato tutto questo in passato. Ma tu sei forte, Meg – non cedere, non commettere i miei stessi sbagli. Una volta mi dicesti di non diventare il mostro che loro temevano che fossi. Ora io ti dico di non abbandonarti a quegli istinti violenti che senti agitarsi nel tuo animo, perché è ciò che vorrebbero loro. Io ti ho promesso un cuore, è vero… E lo avrai, alla fine di questa storia. Ma tu dovrai solo avere coraggio e combattere con te stessa. Non perderti, non diventare ciò che non sei.»
Non diventare come me.
Feci una smorfia. «Pazza come mio padre? O crudele come chi ha ucciso mia madre?»
«Tutte e due le cose. Vedi, alla lunga ho imparato… che la violenza non è la risposta a tutto. Per persone come noi può essere un sacrificio enorme, ma ne vale la pena, davvero.»
Christine, pensai. Non avrei mai creduto di udire queste parole uscire dalla sua bocca. Ma l'amore di Christine lo aveva davvero trasformato.
«Sei in cerca di un cuore, ma non perdere il tuo, frattanto. Non farlo. Sarebbe una perdita incommensurabile.» Il tono di Erik era venato di tristezza.
«Ti dispiacerebbe vedermi persa?»
«Mi dispiacerebbe se tu facessi qualcosa di cui poi ti pentiresti. Inoltre, tua madre non avrebbe mai voluto che ti lasciassi consumare dall'odio.»
«Mia madre non avrebbe voluto che accadessero tante cose, Erik.»
Guardammo in silenzio la distesa marina dinanzi ai nostri occhi spenti: era punteggiata di stelle, come schizzi su una tela lasciati dal pennello di un pittore distratto. Dio – se esisteva – era in quel riflesso, in quella notte. Sentii la presenza del creato, pulsante e fiera, come mai prima d'ora.
«Vorresti dormire con me?»
Erik mi lanciò un'occhiata sbalordita, come se mi fossero diventati d'un tratto i capelli blu.
«Cosa?»
Lo vidi arrossire – o meglio, le sue orecchie assunsero una spiacevole tonalità tulipano. Io stessa esplosi in una risatina idiota. Così posta, sembrava una domanda indecente.
«Voglio dire» mi affrettai a correggere, «se ti va di fare come facevamo all'Opera. Potremmo parlare finché non ci addormentiamo, e trascorrere così la notte.» Sapevo che anche il suo sonno era travagliato da incubi. Era anche per questo che si era abituato a dormire poco – il necessario per sopravvivere ed essere in forze, perlomeno.
«Non ho nessun libro da leggerti.» Ricordai con nostalgia quando mi leggeva Il conte di Montecristo per farmi compagnia nelle mie notti agitate. Era così che era nato il nostro… rapporto, per quanto bizzarro potesse sembrare ad occhi esterni.
«Non fa niente, ci inventeremo qualcos'altro. Vieni.» Lo afferrai gentilmente per un polso e lo guidai fino al mio abitacolo sottocoperta. Mi distesi sulla brandina con movimenti resi goffi dai lividi che ancora portavo sulla pelle come vessilli della vita e dell'innocenza che avevo perduto. Gli feci cenno di accomodarsi accanto a me. Lui si sedette al mio fianco, esitante.
Chiusi gli occhi. «Parla.»
«E cosa dovrei dire?»
«Qualunque cosa. Per distrarmi.»
«É solo per questo che vuoi che ti parli?»
Scossi lievemente il capo. Alzai lo sguardo verso di lui. Le sue pupille feline brillavano nel buio come scaglie di diamante – spezzato dal dolore, dalla tempesta che era la sua esistenza da quando aveva messo piede in questo mondo.
«La tua voce» risposi semplicemente. Non c'era suono più bello per le mie orecchie.
Lui comprese, perché chinò lo sguardo sulla mia forma minuta, le mani giunte in grembo come in attesa di qualcosa che non aveva nome.
Annuì e dischiuse le labbra in un canto sconosciuto, composto da parole straniere che non riconoscevo. Manteneva la voce bassa, per non farsi udire dal resto dell'equipaggio, ma io potevo sentirlo benissimo riverberare nella mia mente – le sue doti di ventriloquo erano, come sempre, eccellenti. Mi riempiva le orecchie e il cuore come il mare. Un brandello di paradiso al centro dell'inferno.
«É una ninna nanna gitana. La imparai quando non ero che un ragazzino in giro per il mondo» mi spiegò con pazienza. Poi ricominciò a cantare.
La sua voce! Se esistevano poche parole per descrivere l'orrore del suo volto, ebbene, nessuna era in grado di rendere chiaramente la meraviglia che era la sua voce. Pungolava in me corde sconosciute, e mi sentivo fremere dall'interno. Cullata dall'angelo, i miei pensieri si schiarirono, scevri di memorie di sangue e vite distrutte. Ora esisteva solo la voce, e il corpo di Erik che sfiorava il mio sulla brandina stretta che condividevamo. Provavo un calore indefinito in tutte le membra, ma lo ignorai. Lo sentii sfiorarmi – solo sfiorarmi – qualche ciocca di capelli ribelle dalla fronte, delicato come una lacrima su una pelle vergine.
«Dormi, Meg. E non pensare. Fai buoni sogni.»
Ci addormentammo con il mio capo poggiato sulla sua spalla, la sua testa china sulla mia, cullati dalla marea andante. Quella notte, sorprendentemente, nessuno di noi venne assalito da un incubo.
Note dell'autrice: Vi avevo detto che ci sarebbe stata una scena carina tra Erik e Meg in questo capitolo. Che ne pensate dell'idea di farli andare in Persia? Ve l'aspettavate o meno? Erik è davvero cambiato dopo tutto ciò che è successo con Christine, ma non temete, non è diventato un santo, e penso proprio che mai lo diventerà. Ha solo capito i suoi errori, e meno male: il rapporto tra lui e Meg non avrebbe potuto sbocciare altrimenti. Da questo chapter in poi ci saranno non pochi OC, spero che vi piacciano perché sono un po' come delle mie creature. :D
E ora, le fantastiche recensioni:
ondallegra: Sono così contenta che lo scorso capitolo ti sia piaciuto! Ci saranno altri momenti crudi, comunque. Niente di troppo esagerato, però. Spero che continuerai a seguirmi in questa follia! Attualmente sto scrivendo il 33° capitolo (oh mamma mia, non posso credere di essere arrivata a tanto), e spero di finire la storia prima di Natale. Non ci conto troppo, però. Un bacio e grazie mille per aver recensito! :3
bibliofila_mascherata: Tu mi vuoi far piangere, vero? No, perché leggendo la tua recensione ero davvero toccata. Scrivere è la mia vita, e un giorno spero di poter pubblicare un libro decente, secondo te ne sarò in grado? Ti ringrazio moltissimo per le tue splendide parole, mi fanno sorridere e riempire d'orgoglio come un pavone allo stesso tempo. Anche tu hai notato la somiglianza tra Meg e Arya? Come ho già detto, l'ispirazione per tutta questa storia della vendetta mi è giunta leggendo Dumas, ma come avrai notato anche da questo capitolo, sono stata molto influenzata da Martin. Lo vedo un po' come un tributo, visto che mentre scrivevo questa parte della storia stavo rileggendo… mi pare il secondo o terzo libro della saga. Quali sono i tuoi personaggi preferiti di GoT? Per me è difficile scegliere, sono tutti così ben caratterizzati, ma direi Daenerys, Tyrion, Jaime, Arya (per l'appunto) e Brienne. Ma mi piacciono anche tanti altri! Il prossimo chapter, pensa un po', si chiamerà *rullo di tamburi* Il gioco del trono. Si capisce bene il perché. Tutta questa storia della sorella maggiore che viene scansata dalla sorella minore per il trono di Persia non ti ricorda un po' gli eventi della Danza dei Draghi? Anche se sono due cose molto, molto differenti, eh. :) Grazie mille per le tue dolci parole, un bacio! :3
debbythebest: Sono contenta che ti sia piaciuto lo scorso capitolo, avevo un po' di dubbi in merito, e spero che ti piacerà anche questo. Apparentemente non sono più diretti verso l'America: adesso è la Persia la loro meta. Vanno proprio nella tana del leone, eh? Mi dispiace di averti fatta piangere, però. (Piangerai anche in seguito. Muhahaha. XD) Ci sentiamo al prossimo capitolo! Un bacio anche a te! :3
Malinconica: Sì, credo che il rating arancione vada bene, ma sai, per sicurezza volevo chiedere. Io sono abituata a thriller e scene di sangue, ma non posso guardare cose splatter che mi viene il vomito, quindi… sono un po' suscettibile. XD Per non parlare dei film horror: una volta ho visto (da sola, a quindici anni… pessima idea) Shining di Kubrick – il mio regista preferito – e ho sognato che un tizio mi voleva squartare con l'ascia mentre mi rincorreva. XD Che ne dici di Erik in quest'ultimo capitolo? È proprio dolce anche qui, vero? Sta diventando proprio un bravo guaglione come diciamo noi in Campania, ma mai un santo. Però migliora, fortunatamente per Meg. Un bacione, e alla prossima! :3
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Capitolo 29 *** Il gioco del trono. ***
xxviii.
il gioco del trono
Raggi di sole mi bagnarono il viso come rivoli d'acqua. Socchiusi gli occhi, sbattendo le palpebre. La luce filtrava dalla piccola finestra ad oblò accanto alla brandina. Mi rigirai e urtai un corpo duro.
«Oh.»
Erik dormiva placidamente al mio fianco, le lunghe gambe intrecciate e le mani sul petto. Il sole sanguinava sulla sua maschera, tracciando scie aranciate nella penombra del cantuccio che mi era stato destinato sulla nave del Sole Nero – così Darya mi aveva detto che si chiamava la compagnia mercenaria di suo marito.
Per un attimo, mi chiesi cosa diavolo ci facesse sulla mia brandina, poi rammentai.
Mi morsi un labbro, sentendo sulla lingua il sapore dell'acqua marina con cui mi ero lavata la sera prima. Il dolce canto di Erik mi aveva cullato, quella notte. Stargli così vicino era intossicante.
Con una vaga esitazione, gli scostai una ciocca di capelli neri dalla fronte. Lui stirò le labbra e mugolò qualcosa d'incomprensibile, aprendo con lentezza i suoi occhi dorati. Alla luce del sole, erano come incandescenti.
«Mmm.»
«Buongiorno.» Tentai un lieve sorriso.
«Buongiorno a te.» Lui si puntellò sui gomiti e si sollevò per guardarmi più da vicino. Cercava sul mio viso i segni dell'ennesima notte insonne, ma non ne trovò. Questo sembrò rassicurarlo.
«Come ti senti?» mi chiese con delicatezza.
«Meglio. Ho rimuginato un po', stanotte. Ho preso una risoluzione.»
«Davvero? E quale?»
«Lo vedrai. Hai dormito bene anche senza bara?»
«Divertente.»
Forse si accorse solo in quel momento che eravamo troppo vicini, perché arrossì – era evidente dallo spiacevole porpora sul collo e le orecchie – e arretrò. Potevo vedere ogni scaglia d'oro nei suoi occhi… Assomigliavano davvero a quelli di un gatto, ma erano di un color miele intenso, più scuro vicino all'iride.
«Come sta la ferita?»
Lui si grattò nel punto in cui avrebbe dovuto avere il naso. «Brucia solo un po'. Quel dottore da strapazzo dice che lascerà una cicatrice.» Distorse le labbra in una smorfia sarcastica. «Come se ci fosse bisogno di dirmelo.»
«Devi farti curare bene. Anche Monsieur Nadir è dello stesso parere.»
Lui annuì, sconfitto e anche alquanto stupito dalla nostra preoccupazione nei suoi confronti. «Come vuoi.»
«Per fortuna non si è infettata.»
«Un rischio scansato a malapena.»
Sospirai. «Avresti potuto rimetterci quella tua brutta pellaccia.»
«Lo so.»
Lui mi guardò con quei suoi occhi indecifrabili, e io sprofondai in un oceano dorato, anche solo per qualche istante. Non aveva paura di morire, no: lui aveva desiderato la morte, fino a poco tempo prima. E ora cosa restava della sua risoluzione?
Non avrei sopportato anche la sua perdita, lo sapevo come certi pensieri oscuri si annidano nell'antro del cuore e lì vi fanno rifugio; certi sussurri segreti nella conchiglia delle orecchie.
Vivi, Erik. Almeno per me. Ma questo non glielo dissi mai.
Sentimmo bussare alla porta e sobbalzammo. Erik si affrettò a scendere dalla brandina, quasi impaziente di allontanarsi da me.
«Meg, sei sveglia?» disse la voce familiare di Darya fuori della porta.
«Sì.»
Lei entrò senza indugio, e rimase di sasso nel vedere che non ero sola.
«Oh. Salve. Erik, giusto? Così mi pareva di aver inteso» fece, mentre il suo sguardo cristallino sfrecciava da lui a me in una domanda muta.
«Avete inteso bene, Madame» lui chinò il capo in un gesto lieve, in segno di rispetto. Si passò una mano tra i capelli, chiaramente imbarazzato dal silenzio che seguì a quelle parole. «Devo parlare col daroga.» Si dileguò oltre la porta, non senza prima aver rivolto a entrambe un educato cenno di saluto, che io ricambiai. Darya lo guardò andarsene con un'espressione perplessa sul bel volto scuro.
«Non immaginavo che dormiste insieme.» Mi guardò stranita, come a chiedersi che gusti avessi in materia di uomini.
«Cosa? Oh, no. No no no no no. Lui… abbiamo solo parlato un po', stanotte. Nessuno dei due riusciva a dormire. Siamo…» corrugai la fronte, in cerca della parola giusta, «… amici. Una sorta.»
«Ah, certo. Scusa se ti sono sembrata indiscreta.»
«Figurati.»
Darya continuò a guardare nella direzione in cui se n'era andato Erik.
«In Persia si narra ancora la leggenda dell'Angelo della Morte» disse in tono pensoso. «Rapido ed efferato, era. Sapeva essere spietato e misericordioso come solo un angelo può essere.» Posò su di me i suoi trasparenti occhi grigi. «Si dice che avesse una voce bellissima, anche se solo la famiglia reale l'aveva udito cantare. Non era un dono che lui offriva alle orecchie di tutti. É vero?»
Annuii lentamente. «Ha una voce… incantevole. Beh, a dir poco.»
«Mi piacerebbe sentire questa tanto decantata voce d'angelo» disse Darya, incrociando le braccia al petto.
Scrollai le spalle. «Magari riesco a convincerlo a cantare una serenata davanti a tutto l'equipaggio.»
Lei sorrise. «Sarebbe uno spettacolo da non perdere.»
«Oh, sicuro.»
«Potrei scommettere con Amir sulla possibilità che tu riesca a convincerlo sul serio.»
«Non ci sperare tanto» risposi con una smorfia. «Sa essere molto ostinato.»
«Voce d'angelo… e volto di demone. Questo tuo Erik è davvero un uomo singolare.»
«Non sai quanto, in effetti.»
Ella mi squadrò con curiosità, come a chiedersi cosa condividessi con un individuo del genere, tanto da permettergli di dormire al mio fianco. Il bello è che non le avrei saputo rispondere.
Col senno di poi, posso dire che l'amicizia che condividevamo era strana quanto lui era diverso da chiunque altro, di una diversità che era impressa sulla sua pelle come un crisma, una maledizione, e che non la lasciava più.
Ero forse maledetta anch'io? Non quanto lui, ma ci sono persone con la tragedia nel sangue, ed entrambi eravamo composti della stessa sostanza. Non so se avessimo un'anima, ma se così era, allora le nostre avevano un'affinità di sangue.
«Ho pensato molto a quanto mi hai detto ieri. Sulla scelta che ognuno di noi, donna o uomo che sia, deve compiere.»
Darya corrugò la fronte, attenta alle mie parole. «E…?»
Rovistai nel mio fardello, che tenevo in un mucchio di stracci dimenticati sul pavimento del mio cantuccio. Nascosta tra i miei vecchi abiti ormai rovinati dalle intemperie, c'era una daga affilata, appartenuta a Senza Nome. «Questa l'ho rubata all'uomo che ho ucciso» dissi con finta noncuranza, ma un brivido mi trapassò le piaghe delle dita ancora fasciate.
«Sarebbe stato più semplice con una pistola. Tutto è più semplice con una pistola.»
«A quello ci arriverò, ma dopo. Prima…» scagliai un'occhiata alla spada che Darya teneva appesa alla cintura, al fodero di pelle lucida, «… voglio un assaggio di quella.»
Darya distorse le labbra in un sorriso che avrebbe potuto apparire simile a un ghigno al riverbero aranciato del sole mattutino. «Vuoi imparare come si usa a dovere questo giocattolino? Attenta, potresti tagliarti.»
«Non mi taglierò» ribattei, decisa. «E poi, quanto difficile potrà essere? Li infilzi con la punta, ed è fatta.»
«Già. Quanto difficile potrà mai essere?» replicò Darya, riecheggiando le mie parole in un sogghigno che alle mie orecchie apparve quasi malinconico.
«Perché non chiedi al tuo amico daroga di aiutarti?»
«Non credo approverebbe. Tu, d'altra parte…»
«Perché vuoi imparare?»
«L'hai detto tu stessa. Tutti scelgono che arma usare nella propria vita, e io ho scelto la mia. Non voglio più sentirmi un peso per nessuno. Se verremo attaccati, voglio essere in grado di difendermi come tutti gli altri.»
Darya emise un lieve sospiro. «Capisco. Ma in un mese e mezzo circa, dubito che riuscirai a raggiungere un livello tale di esperienza da sentirti davvero al sicuro…»
«Non importa. Spada, pistola… qualsiasi arma, io imparerò ad usarla. E allora non sarò più un topolino in fuga.» Voglio essere una fiera, pensai quasi con disperazione. E la vendetta sarà mia.
«C'è altro che dovresti dirmi?»
Era una domanda retorica. Mi morsi un labbro.
«Non ne ho solo bisogno per difendermi.»
«L'avevo immaginato.» Darya trasse un altro sospiro, che parve un soffio di musica in quel silenzio di piombo. Si udiva però il rassicurante sciabordio delle onde sulla carena della nave, che vi scivolava sopra con agio.
«Allora, mi aiuterai?»
Mi rivolgevo a lei con naturalezza e spontaneità, malgrado la conoscessi da poco. Ma quella era la mia natura, diretta e inflessibile, pertanto avrebbe dovuto abituarsi. Avevo percepito in lei una simile tempra: non sarebbe stato difficile convincerla.
«Chiedere aiuto mina al tuo orgoglio, non è vero?» sorrise lei. «Ti capisco. Anche per me era così, alla tua età.» Mi parlava come se fosse assai più esperta di me – cosa probabilmente vera, anche se non poteva avere che una decina d'anni in più della sottoscritta.
Estrasse la spada dal fodero con un gesto aggraziato e me la puntò contro come per avvertirmi. «Non sarà facile.»
«Mi impegnerò.»
«Io imparai da sola, quando ero ben più giovane di te, sebbene alle femmine sia proibito portarsi dietro un giocattolino simile. Amir mi aiutò in seguito a raffinare la mia arte, ma ci volle disciplina.»
«Sono abituata alla disciplina» ribattei io. «Prima, a Parigi, ero una ballerina all'Opera Garnier.» Mi sembravano fossero trascorsi secoli da allora.
«Oh, buono a sapersi. Scoprirai che la scherma è una sorta di danza. Letale, ma comunque una danza.» Il suo sorriso si affilò. «Eri una brava ballerina?»
«Me la cavavo piuttosto bene, sì.»
«Allora dovrai trovare dentro di te la stessa forza se non vuoi mollare su questa strada impervia. Ne sei capace?»
Annuii con risolutezza. Lei mi rivolse l'ennesimo sorriso, bianchissimo nella penombra della mia cabina.
«Va bene. Vieni di sopra a fare colazione e poi ne riparliamo.»
Con la medesima grazia con cui l'aveva estratta, ripose la spada nel fodero di cuoio lucido e se ne andò a passi felini, misurati. Se l'arte della scherma le aveva infuso tanta eleganza nei movimenti, mi chiesi perché la danza non avesse fatto lo stesso con me nei miei lunghi anni di sofferti esercizi.
Sospirai e indossai anch'io la daga alla cintura. Ero molto diffidente riguardo gli uomini dell'equipaggio – uomini che non conoscevo, di cui non mi fidavo e che non parlavano neanche la mia lingua. Salii sopraccoperta e la trovai affollata di gente che s'ingozzava di pane, liquore (già a quest'ora del mattino?) e tè. Beh, erano pirati e mercenari, cosa mi aspettavo che facessero? Tutti gozzovigliavano con più o meno allegria, occhieggiando di tanto in tanto Erik, che se ne stava appoggiato alla murata di prua col comandante. Parlavano fluentemente persiano, tanto che quando mi avvicinai non fu possibile per me comprendere i loro mormorii.
«Stanno parlando di guerra. Tutte cose che una fanciulla dovrebbe ignorare.» Monsieur Nadir mi offrì una pagnotta di pane e marmellata e una tazza di tè caldo, che bevvi avidamente prima di rispondere. «Mi interessa eccome, invece. Sono impelagata da capo a piedi in questa faccenda.» Feci una smorfia, addentando un morso di pane dolce e continuando a parlare con la bocca piena in un modo che mi avrebbe fatto guadagnare una rimbrottata da mia madre. Ma l'hanno uccisa. Non è qui con me, non lo sarà mai. Inghiottii questo pensiero doloroso insieme alla colazione. «Loro mi hanno strappato alle braccia di mia madre, alla mia vecchia vita. Sono intenzionata a ripagarli con la stessa moneta.»
«Meg…»
«Non preoccupatevi, Monsieur» dissi, mentre le molliche mi rimanevano attaccate al labbro inferiore e al mento – mi affrettai a ripulirmi con una manica. «So badare a me stessa.»
«Se avete bisogno di una mano amica, sapete dove trovarmi» mi rispose lui con fare paterno, rassicurante. La sua presenza era certamente un balsamo – così gentile e placido – nella tormenta che era la mia vita. Lanciai un'occhiata di sbieco ad Erik, che aveva abbandonato la sua conversazione con Amir, il quale ora parlava animatamente con la moglie, di nuovo in persiano. Era sempre appoggiato alla murata e si teneva lontano dagli altri, che a loro volta sembravano ben felici di stargli alla larga. La sua nomea tra quella gente non era quel che si dice positiva.
Quel giorno il vento era favorevole, e la brezza mi scompigliava i capelli sulla fronte. Avrei voluto avere una forcina perché non mi cadessero sugli occhi. Forse avrei potuto chiedere a Darya – non vedevo altra donna a bordo, il che mi mise un po' sull'attenti. Non mi sfuggivano gli sguardi lascivi degli uomini dell'equipaggio, ma sapevo che non avrei ricevuto delle avances sgradite per via di Erik. Ero un'ospite di riguardo, lì a bordo. Nessuno mi avrebbe fatto del male, anche se non trovavo giusto che non ci provassero per timore di Erik, invece che per rispetto verso la sottoscritta. Ma parlare a quegli uomini di rispetto era come rivolgersi a un muro.
E se ci provano, io li sbudello. O perlomeno, avrei imparato a farlo molto presto.
Il mese e mezzo di viaggio trascorse con più rapidità di quanto mi aspettassi. Conobbi Jasper, un mozzo orfano preso in custodia da Amir e Darya e che poteva avere all'incirca dodici anni. Anche se non conosceva una parola di francese, gli mostrai come lucidare al meglio il ponte della nave, ed egli in cambio corruppe Caspar, il cuoco, affinché mi regalasse i pezzetti di carne più morbidi, il pesce più tenero, la zuppa di cipolle più saporita. Secondo lui, avevo bisogno di ingrassare. In cambio, io gli insegnai un po' della mia lingua, con l'aiuto di Monsieur Nadir, che ci servì da interprete. Mi divertii ad imparare qualche parola di persiano, ma era difficile, poiché possedeva un alfabeto totalmente diverso dalla mia lingua occidentale. Quello scambio di culture fu un passatempo utile, anche se mai quanto le mie “lezioni di danza” – così le avevo denominate a degli stupiti Erik e Nadir.
Darya ed io usavamo dei bastoni, che aveva preso chissà dove. La mia prima lezione fu un totale disastro, perché mi sfidò a colpirla almeno una volta, ma io non vi riuscii. Alla fine, ero sudaticcia e senza fiato. Jasper – con l'equipaggio che gli urlava di tornare al suo lavoro da mozzo – mi sosteneva tifando il mio nome, porgendomi un bicchiere d'acqua e una pezzuola con cui detergermi la fronte imperlata di sudore. Io lo ringraziavo con un mercì di cui lui da poco aveva cominciato a comprendere il significato e tornavo alle mie lezioni di danza. Niente di più diverso dalle mie vere lezioni di balletto all'Opera Garnier, ma era provvista la stessa disciplina.
Un deux trois… Un deux trois… La danza della morte è appena cominciata.
«Devi essere rapida come un felino, e altrettanto calma. Non hai grande forza nelle braccia, ma nelle gambe… i tuoi polpacci sono solidi e rifiniti. Ovvio, sei una ballerina. Usa tutto questo a tuo vantaggio. Il tuo nemico ti sottovaluterà sempre, perché sei una donna, e così esile. Sfrutta il suo pregiudizio, fallo diventare un tuo punto di forza.»
Annuivo, gli occhi scintillanti sotto la fronte corrugata e sudaticcia. Ogni volta che sbagliavo e lasciavo cadere il mio bastone a terra, o colpivo il pavimento della nave con il didietro dolorante, sentivo le rauche risate dei membri dell'equipaggio, che borbottavano qualche commento tra i denti. Io mi massaggiavo le cosce e lanciavo loro un'occhiata di sfida, ma quelli non si acquietavano finché Darya, in quanto vice–capitano della nave, non gridava loro di smetterla di bighellonare e mettersi invece a lavoro.
«Cosa stanno dicendo?» le chiesi, imbronciata.
«Meglio che tu non lo sappia» rispose Darya, altrettanto contrita.
«Loro ti rispettano.»
La donna rise amaramente. «Alcuni di loro, la maggior parte, sì – mi hanno vista combattere insieme ad Amir in tutti questi anni. Sono leali al loro capitano, e di conseguenza a me. Ad altri non sono mai piaciuta, ma non dicono nulla.»
«Perché temono che tuo marito possa avere qualcosa da ridire in proposito?»
Lei rise ancora. «Non solo. Sanno che sarei in grado di sventrarli in poche mosse. Sono un'ottima spadaccina, più brava di molti di loro messi assieme, e questo a parecchi non va giù.»
«Che una donna possa vincerli in un duello?»
«Esatto. Ho dovuto far mangiare la polvere a molti, prima che potessero accettare una femmina a bordo. Dicevano che avrei portato sfortuna all'equipaggio.»
«Che stupidaggine.» Ridacchiamo insieme, poi lei mi picchiò gaiamente su una spalla. «Adesso dicono lo stesso di te, capisci.»
«Forse, se fossi più graziosa, non si lamenterebbero tanto» dissi con sarcasmo. Che vermi.
«Forse. Ma tu sei graziosa, e coraggiosa. Piaci a non pochi, qui a bordo.» Lanciò un'occhiata oltre la mia spalla, ed io seguii il suo sguardo. Si posò su Erik che, seduto in un angolo remoto della tolda, era intento a leggere un libro persiano dalla copertina usurata dal tempo che Amir gli aveva prestato (anche se quest'ultimo non mi sembrava propriamente tipo da libri. Quando glielo avevo fatto notare, il capitano era scoppiato in quella sua caratteristica risata rauca. «Giovane impertinente» aveva risposto, scompigliandomi i capelli. Io mi ero irrigidita, scoccandogli un'occhiata dura: «Che cavolo di risposta sarebbe?»)
Guardai Darya, poi Erik, e infine capii. Quasi mi strozzai inghiottendo un fiotto di saliva.
«Cosa?»
«Oh, niente. Assolutamente nulla di importante» rispose lei con finta noncuranza, ridacchiando.
«Certo, stavi solo insinuando.»
«Io non insinuavo niente.»
«Come no.»
Ricominciammo con le nostre lezioni di danza, anche se io non riuscivo a togliermi dalla testa l'idea che ad Erik potessi piacere. In che senso?, mi chiesi, anche se non ero ingenua e avevo capito benissimo dove voleva andare a parare Darya. La cosa sembrava divertirla non poco, invece io la trovavo terrorizzante. Era molto sveglia: che si fosse accorta del particolare affetto che Erik provava nei miei confronti? Beh, è normale che sia così, con tutto quel che abbiamo passato insieme… Siamo amici – una sorta. Come lui e Monsieur Nadir.
Beh, non proprio, disse un'altra voce nella mia testa. A Monsieur Nadir non canta la ninna nanna quando nessuno dei due riesce a dormire. Mi morsi la lingua. Ero la cosa più vicina a un'amica che Erik avesse mai avuto: non volevo rovinare tutto in quella maniera.
«Ahia!» Una bastonata sulla spalla mi fece perdere l'equilibrio, e caddi nuovamente. Darya scosse il capo. «Concentrati, madamigella. In battaglia saresti già morta una dozzina di volte.»
Annuii, massaggiandomi la spalla. «Ricominciamo.»
E così facemmo.
«Destra, sinistra. Destra, sinistra, sinistra, destra, destra, sinistra…»
«Ahia!»
Balzai all'indietro, ma non fu sufficiente: il bastone mi colpì sui polsi e io arretrai, mugolando di dolore come un micio arrabbiato. Dardeggiai contro Darya un'occhiata furibonda.
«Avevi detto sinistra.»
«Sì, ma ti ho colpito a destra. E tu non hai schivato il colpo. Questo significa che stavi combattendo con le orecchie, non con gli occhi.»
«E questo cosa vorrebbe dire?» Mi massaggiai i polsi doloranti, osservando la macchia violacea che si stava espandendo a vista d'occhio su quello destro. Da quando avevo cominciato le lezioni di danza ero piena di lividi, se non si contavano quelli che mi portavo dietro dalla mia prigionia ad opera dei sicari della Khanum.
«Fidati della tua vista, Meg, dei tuoi sensi. Devi guardare con gli occhi, non con la mente. Tu ci ragioni troppo sopra, sulle cose.»
«Che strano. Mia madre mi diceva sempre il contrario.»
«Tua madre?» Darya aveva colto il tono incrinato della mia voce quando avevo nominato il mio defunto genitore.
«L'hanno uccisa.» Guardai a terra, serrando le dita a pugno, dimentica del dolore ai polsi e di ogni altro livido che mi pulsava sotto la pelle. «Un sicario dello Shah l'ha fatta fuori. Erik ha fatto fuori lui, prima che si sbarazzasse anche di me. Ma è stata la Khanum a dare l'ordine di uccidere chiunque avesse un qualche legame con Erik e Monsieur Nadir. La Khanum e lo Shah. Ed io…»
«Tu vuoi vendicarti.» Darya incrociò le braccia, posando per un attimo il bastone a terra. Io feci lo stesso. «Sai che significa, puntare alla vita della Khanum e dello Shah di Persia?»
«Sì, lo so, è una follia, ma… è l'unica cosa che mi fa andare avanti. Ho così tanta rabbia dentro di me… Mi pulsa dentro come un cuore malato. Fa male, ovunque.»
«Se Ezzat e Roshak vinceranno questa guerra, avrai la possibilità di vedere realizzati i tuoi sogni: la Khanum e lo Shah ai ceppi.»
«Sì, ma sarò io a tagliare loro la testa?»
Lei sospirò. «Meg…»
«Perché ti fidi tanto di questa Ezzat e di suo figlio?»
«Il popolo è dalla loro parte. E dovresti chiamarla Maestà. Capirai quando la conoscerai.»
Ammiccai, inebetita. «Io la conoscerò? E come?» Non mi sembrava verosimile: come avrei potuto presentarmi dinanzi a un membro della famiglia reale? Ero un nessuno, una ragazza–nulla.
«Erik conosce Sua Maestà molto bene. Molto tempo fa, come ben sai, risiedeva alla corte di Persia. Il vecchio Shah ebbe due figlie femmine, Ezzat e Assiye. Alla prima doveva spettare il trono, ma il padre considerava troppo ambizioso e rivoluzionario il marito della figlia – un consigliere di corte trasferitosi dopo il matrimonio a Teheran – e così egli consegnò il trono alla figlia minore e prediletta. Assiye cospirò in segreto per avvelenare il marito e da allora, fin quando il figlio Naser non ebbe raggiunto l'età adatta, regnò come regina madre sul Paese.»
«Voleva il potere.»
«Più di ogni altra cosa, sì. Il potere corrompe i cuori di molti, piccola mia, e il cuore della sultana era già nero. Avrai saputo qualcosa delle “ore rosa di Mazenderan”.»
«Sì, Erik e il daroga mi hanno raccontato abbastanza al riguardo.»
«E allora non abbiamo altro da dirci. Vedrai con i tuoi stessi occhi.»
Annuii, sebbene ancora turbata e meditabonda.
«Come vanno le tue lezioni di danza?» mi chiese il capitano Amir con una luce irrisoria negli occhi scuri. L'equipaggio si riposava in quella sera di primavera, quando la luna si celava tra le nubi grigiastre del cielo d'inchiostro. Avevamo trascorso dei giorni particolarmente difficili superando lo stretto di Gibilterra, col mare in tempesta. Noi ospiti eravamo rimasti sottocoperta per tutto il tempo, mentre Amir, Darya, il piccolo Jasper e persino il grasso cuoco Casper, insieme al resto dell'equipaggio, lottavano con sartiame e vento e pioggia infernale sulla tolda, impedendo al natante di smarrire la rotta, o peggio. Il povero Nadir, che soffriva leggermente il mal di mare, diede di stomaco almeno quattro volte, in modo molto poco consono al suo atteggiamento dignitoso. La cosa fece ridere Erik, anche se appariva ugualmente preoccupato per il Persiano – notai mentre gli porgeva una pezzuola per detergersi il volto sudaticcio e livido. «Odio le tempeste» aveva commentato il disgraziato Nadir con un mugugno, al che io non potei che concordare con una smorfia.
«Le mie lezioni di danza vanno benissimo, grazie» risposi con tono solo lievemente freddo, il naso all'insù per darmi importanza. L'attitudine di Amir mi dava ai nervi: rideva e diceva qualsiasi cosa gli passasse per la testa, con una naturalezza che sconcertava chi non vi era abituato. Mi ricordava troppo me stessa nella mia vita precedente, prima della morte di mia madre – forse ancora prima del suicidio di Claude Giry: una me stessa che mi era morta dentro ma di cui portavo ancora il sudario.
Amir trasse una profonda boccata da un narghilè che teneva poggiato sulle ginocchia. Eravamo seduti in cerchio attorno a una torcia, ma per il resto lasciavamo che fosse la luna a illuminare i nostri volti. La ciurma aveva aperto con avidità le botti conservate nella stiva, dando fondo alla propria sete. E Dio solo poteva immaginare con quanta bramosia tre dozzine di pirati e mercenari potevano festeggiare la fine della tempesta con birra speziata e rum. Sentivo gli schiamazzi dell'equipaggio, ma non ne comprendevo una parola. Qualche giorno prima ci eravamo fermati in non so quale punto della costa marocchina per scambiare delle merci con altri trafficanti del luogo, ed io avevo osservato dalla murata della nave il viavai del porto di quel Paese sconosciuto: i natanti all'approdo, dalle forme più diverse; la bancarelle che vendevano ogni sorta di cianfrusaglie; pescatori e prostitute che mettevano in mostra la loro mercanzia. L'equipaggio del Sole Nero si era anche rifornito di liquori di ogni tipo, e così quella sera avevamo festeggiato. Che cosa, non lo sapevo: c'era una guerra in procinto di scoppiare, o che forse era già cominciata. Certi uomini avevano davvero sete di violenza, così come Erik mi aveva detto una volta. A proposito di Erik – egli sedeva qualche metro lontano da noi, le braccia incrociate al petto, in silenzio. Avevamo trascorso molte notti insieme: aveva preso in prestito qualche libro dalla collezione (scarsa) di Amir, e mi addormentavo al suono della sua voce che mi narrava certe splendide leggende e poesie persiane. Quando uno di noi veniva scosso da un incubo, l'altro era sempre pronto a stringergli una spalla per confortarlo. Non sono sola: questo era l'unico pensiero che mi rincuorava. E come sarei stata dopo… dopo che quella guerra fosse finita, chiunque fossero stati i vincitori? Era un'idea che non volevo sfiorare neanche con le ali della mente, di cui avrei voluto chiudere le palpebre per sempre, per evitare che certi ricordi (sangue sui miei abiti sangue sul corpo senza vita di mia madre sangue sulle mie mani segnate da tagli superficiali) mi pulsassero dentro, decomponendomi l'anima.
Dopo la mia vendetta, se fossi riuscita ad attuarla… cosa avrei fatto? Come mi sarei sentita?
Scossi il capo e mi concentrai sulle storie che Amir – un ottimo narratore – raccontava: sue vecchie scorribande e avventure piratesche che davano le ali alla mia adrenalina. Darya sedeva accanto a lui, appoggiata al suo braccio. Apparivano come una coppia felice. Ne fui un po' invidiosa: tanta serenità mi pareva preclusa per sempre, ora che…
«Cosa fumi?» chiesi ad Amir per distogliermi da quelle riflessioni deprimenti. Non mi sarei arresa: avrei combattuto i demoni nella mia mente come sempre avevo fatto – con la spada in pugno, stavolta. Guardatemi mentre mi salvo da sola.
«Vuoi anche tu un assaggio di paradiso, Madamoiselle?» rise Amir. Era molto affascinante alla luce della luna, questo glielo concessi.
«É oppio, piccola» rispose Darya, dando una lieve pacca sulla spalla del marito.
«Ambrosia degli dei per noi mortali» continuò Amir. «Vuoi provare?»
«No, grazie.» Sebbene fossi curiosa, mia madre mi aveva sempre messa in guardie da droghe di quel tipo, e per rispetto alla sua memoria, obbedii al suo muto comando che mi sentivo ridondare dentro come il ricordo di un sogno.
«E tu, mio amico mascherato? Mi avevano detto che ne eri un ammiratore» continuò Amir, voltandosi per rivolgersi ad Erik, che scosse il capo senza dire una parola.
«Cosa intendi con ammiratore?» dissi, accigliata.
«Non sapete quante volte l'ho trovato affogato in quel veleno. Ma è stato tanto tempo fa» spiegò Nadir, lo sguardo basso per l'imbarazzo, un lieve sorriso sulle labbra.
«Adesso non mi dire che sei anche un drogato!» mi colpii la fronte con una mano, tra le risate generali. Erik si affrettò a negare. «No, Meg. Come ti ha detto il daroga, è stato molto, molto tempo fa. Non prendo quella roba da più vent'anni.»
«Alla tua salute, Erik!» Amir sollevò il boccale del narghilè e aspirò con voluttà. Il mio amico mascherato gli rivolse un'occhiata obliqua, e i suoi occhi bruciarono nell'oscurità come carboni ardenti. Ma il pericoloso luccichio nelle sue iridi d'oro si placò in breve tempo, e solo Nadir ed io lo notammo. Ci scambiammo uno sguardo d'intesa. Se Erik aveva ancora istinti violenti, ora – dopo Christine, dopo tutto – li controllava molto bene. Stavo imparando anch'io il significato di quella repressione: quante volte avrei voluto sgozzare uno dei membri dell'equipaggio che mi metteva a disagio col suo sguardo che si posava troppo a lungo sul mio corpo informe, reso ancor più anonimo dagli abiti maschili che indossavo? Quante volte sentivo ribollire la rabbia dentro di me al pensiero di ciò che i reali di Persia mi avevano strappato con la forza e il sangue?
Bussai alla camera di Erik. Era rinchiuso lì dentro da circa mezz'ora e non era tornato sulla tolda con gli altri. Mi chiesi se si fosse addormentato: dovevamo finire di leggere alcuni brani di mitologia persiana che lui mi traduceva in francese con l'usuale perfezione.
«Erik, sei sveglio?»
Da dietro la porta udii dei rumori confusi che non riuscii a distinguere bene. Cosa stava succedendo? Bussai, poi entrai nella stanza. Lo vidi di spalle, mentre si aggiustava qualcosa sul volto – notai che la maschera, insanguinata, giaceva dimenticata sul letto.
«Erik, stai bene?» chiesi, allarmata.
Lui si voltò appena. La ferita sul suo viso, che gli attraversava la fronte, il buco che aveva in luogo del naso e quel che gli rimaneva della guancia destra, si era riaperta ai margini, e stillava sangue. Lui si teneva le mani sul volto, per risparmiarmi lo spettacolo. «Si è riaperta la ferita» costatai, avanzando di qualche passo nella sua direzione. «Aspetta, ora ti aiuto a fasciarla…»
Tesi una mano verso di lui, ma sarebbe stato come tentare di stringere il vento. Lui si irrigidì notevolmente al mio tocco, quasi fossi un ferro rovente, un'arma letale. Arretrò e scosse la testa, mentre le fasciature s'imbevevano di sangue.
«Non toccarmi, per favore.»
«Erik, ma che cosa stai dicendo?» Sbattei le palpebre, perplessa, forse persino spaventata.
«Tu non capisci» disse in un sussurro roco. Mi fissò con quei suoi occhi disumani, e mi si gonfiò in petto il cuore nel vedere che no, erano più vivi di quanto potessi sopportare. Mi limitai a stringere le mie stesse dita rovinate. «Non puoi. Ed è naturale, è ovvio, è… Come potresti? Non puoi capire cosa si prova nel non potersi neanche guardare allo specchio… Nello sfiorare pelle morta sul proprio viso e nient'altro… Nient'altro che un vuoto, dentro e fuori di te. Sei un abisso di rovina, e chi mai potrebbe sopportare un tale… un tale abominio? Mostro è una parola che mi risuona nelle orecchie da quando ho memoria. Non mi ha mai abbandonato, come certi sogni non diluiscono col tempo e alla fine si trasformano in incubi, poiché non si avverano. E tu…» Allungò una mano bianca verso di me che, raggelata, non riuscivo a scostare lo sguardo, o me stessa, dal tocco di fuoco dei suoi occhi e quello gelido e morto della sua pelle sulla mia. Mi sfiorò appena una ciocca di capelli, null'altro, eppure mi sembrò di percepirlo ovunque. Gli tremavano le mani. «Guardati» disse, come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Guardati. Perfezione. Perfezione dell'essere umani e vivi e… Tu sei così bella. Non puoi capire.»
Sbattei le palpebre, sconvolta. Nessuno mi aveva mai definito bella in tutta la mia vita, neanche mia madre, neanche Luc nei nostri antichi fulgori di ormoni e passioni adolescenziali. Perché, molto semplicemente, non lo ero: ero spigolosa e insipida e avevo i denti un po' storti, la pelle rovinata dall'acne giovanile, il naso a bitorzolo. In quel momento compresi quel che Erik stava cercando di dirmi: che non importava quanti difetti avessi – e non erano pochi. A suo confronto ero bella, bellissima. Christine era stata una dea, io una ninfa. Per esserlo, agli occhi di Erik bastava avere un aspetto umano, e io lo avevo.
Internamente trasalii al suo tocco, sebbene fosse leggerissimo, una goccia di rugiada e poco più. E non era per paura, né per disgusto; forse per la sorpresa, e per qualcos'altro, qualcosa che non riuscivo, o non volevo, decifrare. Lui se ne accorse e arretrò d'istinto, forse sconvolto dalla sua stessa audacia.
«Scusa» mormorò. Come se dovesse chiedere ammenda per quel tocco di foglia e piuma, somigliante a una lacrima. Uno spirito dell'aria mi aveva sfiorato i capelli, quel giorno, e nel cuore rimanevano le volute tracciate dal suo tocco, i primi segni di ciò che si chiama desiderio.
Gli afferrai un braccio con decisione. Lui sussultò leggermente.
«Non nasconderti da me» gli dissi in un sussurro. Poi gli tesi le bende che trovai gettate alla rinfusa
sul suo letto e lui le prese, senza sfiorarmi le dita.
«Grazie» disse, quasi sorpreso. Io sollevai un sopracciglio: cosa credeva, che lo avrei lasciato a sanguinare come un cane bastardo lì, solo, nella penombra di quella cabina su una nave che non ci apparteneva, circondati da persone che non ci conoscevano?
«Con quella maschera intrisa di sangue, spaventerai a morte metà equipaggio» sogghignai. Lui stirò le labbra in quel che sembrava l'ombra di un sorriso.
«Questo mi ricorda i bei tempi andati, quando la gente dell'Opera mi credeva un fantasma.»
«Sei stato tu a mettere in giro queste voci per primo, perché ti faceva comodo.»
«Non lo nego. È stato un passatempo divertente. Tutte le piccole allieve ballerine che urlavano come gallinelle: “Oh, è lui! Il fantasma dell'Opera!”» Imitò alla perfezione la voce acuta e stridente delle ragazze. Ridacchiammo insieme di quei ricordi dolci e amari a un tempo. Evitai di riflettere così sulle sensazioni che il suo tocco aveva provocato in me pochi istanti prima: non riconoscevo le avvisaglie di quella caduta sensazionale che si chiama amore, perché non l'avevo mai provato davvero. Non era la prima volta che accadeva, però. Questo mi costrinse a fermarmi a ponderare con considerazione: ricordai quando gli avevo sfiorato una mano per la prima volta, tanto tempo prima, o quando lui mi aveva toccato con innocenza durante una disastrosa lezione di canto… Mi sembrava che le mie viscere fossero avvinghiate dalle fiamme dell'inferno. Non potevo dimenticare questa sensazione abissale, e tuttavia ci tentai: strizzai le palpebre e rivolsi i miei pensieri altrove.
Mi chiesi, non senza un pizzico di disperazione, se lui provava lo stesso. Perché se così non era…
«Fatti visitare dal medico di bordo» gli dissi in tono perentorio. Lui annuì – sapeva che discutere con me su simili questioni era vano: potevo essere testarda quanto e più di lui.
Lo percepii esitare, mentre gli davo le spalle. «Poi ti raggiungo in camera per finirti di leggere quella storia di ieri?» Suonava certamente come una domanda, visto il tono interrogativo.
Mi voltai e annuii, e un'espressione di sollievo gli riempì gli occhi. «Bene» disse, più a se stesso che a me. «Bene.»
Uscii dalla camera con il cuore e le vene sulle tempie, sui polsi e sulle dita che pulsavano come piccoli soli.
Raggiungemmo la costa persiana circa un mese e mezzo dopo dacché eravamo partiti dalla Francia, non prima di aver superato una frazione dell'Egitto, che ci permetteva di raggiungere il Mar Arabico senza circumnavigare l'Africa. Il viaggio era stato lungo, e il clima cominciava a diventare torrido. La nostra meta era Teheran, la capitale persiana dove viveva la regina Ezzat nel palazzo ideato per lei da Erik stesso. Il difficile era giungere fino alla capitale in incognito, viaggiando per le deserte campagne persiane, senza farsi scoprire dalla guardia reale dell'esercito della Khanum Assiye e dello Shah Naser. In Egitto era stato molto più semplice: ci eravamo celati frammezzo a una compagnia di commerciante beduini, in realtà collaboratori del Sole Nero. Avevo di nuovo dovuto indossare i panni di un uomo, però. Riprendemmo il viaggio in mare dopo una settimana e mezzo circa, ma vidi molto poco dell'Egitto, se non deserti e rade oasi, dato che trascorrevo i giorni a dormicchiare rannicchiata all'interno di un un carrozza merci trainata da cammelli (creature che m'incuriosirono, poiché non ne avevo mai veduto uno prima) e le notti a smembrare i miei incubi.
Arrivati al fine in Persia, ci organizzammo in una piccola carovana, e portammo con noi solo i guerrieri migliori: abbandonare la maggioranza dell'equipaggio non mi toccava affatto, ma dovetti salutare Jasper, il piccolo mozzo, sperando che lo avrei rivisto al mio viaggio di ritorno in Francia. Se mai ci sarebbe stato, un viaggio di ritorno: dovevamo solo attraversare la Persia con l'alito della guardia reale sul collo. Niente di più facile.
«É una condanna a morte» sentenziò Erik, solito uccello del malaugurio che non era altro.
«Sempre ottimista tu, vero?» fece Amir con una smorfia.
«Non ha tutti i torti. Siamo una dozzina di persone…» cominciò il daroga.
«… che si fingono dei mendicanti» precisò Darya. Nello scendere dalla nave già ci eravamo procurati gli abiti e i cammelli, lunghi veli per proteggerci il viso dalla sabbia, adatti anche a nascondere le nostre fattezze – soprattutto quelle di Erik, troppo riconoscibili. La guardia reale non conosceva nessuno dei nostri volti, ed io avevo la carnagione tanto scura da poter passare per un'indigena del posto. Erik, d'altra parte…
«Per la Khanum e lo Shah sarà come cercare un ago in un pagliaio» dichiarò Darya.
«Ma non sospetterà che anche sua sorella si sta muovendo alla ricerca di Erik?» chiesi, contrita.
«Certo che sì. Sa che è l'unico motivo per il quale l'esercito che Ezzat ha radunato non si è ancora mosso da Teheran» spiegò Amir, nel suo francese accentato. Quello di Darya era poco migliore, ma ugualmente ottimo. C'erano tante cose che di loro non sapevo.
«Perché combattete per la causa di Ezzat?» chiesi loro durante il nostro primo giorno di viaggio.
Ogni giorno cambiavo cavaliere, e di volta in volta sedevo in groppa a un cammello dietro Erik, Darya, Amir o Nadir.
«Per denaro, certo. Siamo mercenari» rispose duramente Amir, al che rimasi un tantino delusa, anche se non mi ero aspettata altro. E tuttavia, dopo averli conosciuti… non mi sembravano persone capaci di uccidere solo per l'oro.
«Ma siamo anche persiani, piccola ballerina» aggiunse Darya con la sua voce melodiosa, «e vogliamo aiutare questo Paese a ritrovare la sua libertà.»
«Quindi, se la Khanum e lo Shah vi offrissero più denaro di Ezzat – di Sua Maestà, intendo, voi non cambiereste partito?»
«Ci hanno già provato, ma invano» spiegò Amir. «Ezzat ha comprato per prima la nostra lealtà.»
«Dicono che la lealtà dei mercenari sia molto volubile» feci notare.
«E questo dove lo hai sentito, Madamoiselle?» chiese Amir, fingendosi piccato; ma io non ci cascai.
«Non la nostra» rispose invece Darya con serietà. «Quando sposiamo una causa, è per sempre. Il nostro esercito è andato a ingrandire le file di quello della regina e di suo figlio. Loro li guideranno in battaglia, noi combatteremo sotto i loro vessilli… abbiamo già deciso.»
«E davvero credete che sia per il bene del Paese?» chiesi, non poco stupita, malgrado provenissi da una nazione che aveva dato al mondo l'esempio in materia di rivoluzioni.
«A volte, per vincere una pace, c'è bisogno della guerra» affermò Erik in tono stentoreo. Tutti ci voltammo a fissarlo. «Questa è la vostra guerra, persiani. Anche noi francesi ne abbiamo avuta una.»
«Beh, più di una» precisai, «e non tutte sono andate a buon fine.»
«Questa sì» concluse Amir, sicuro. Lo osservai di sottecchi: ero in groppa al cammello di Erik, e gli cingevo con agio la vita ossuta. Per l'intera durata del viaggio di quel giorno, preferii rimanere in silenzio e posare il capo sulla sua schiena. Di tanto in tanto tracciavo scie invisibili sulle sue scapole, seguendo le cicatrici che immaginavo sotto la stoffa nera che lo ammantava.
Come in Francia e in Egitto, ci tenemmo lontano dalle grandi città, attraversando solo piccoli villaggi e l'infinito – o così appariva ai miei occhi stranieri – deserto persiano. Ci caricammo d'acqua e viveri e superammo le grandi distese di sabbia cocente, rossa e bianca e dorata, sospirando di gioia alla vista delle oasi verdeggianti, e riposando di notte, quando la luna emergeva nel cielo di ossidiana come un faro lontano ma sempre presente all'orizzonte. Il freddo del deserto allora ci coglieva, e ci stringevamo attorno a un modesto falò. Eravamo una dozzina di guerrieri mercenari scelti personalmente da Amir, se non si contavano il capitano, Darya, il Persiano, Erik ed io. Anche allora, mi accoccolavo di fianco all'Angelo – o Diavolo? Cos'era in realtà? Temevo che mai l'avrei capito – che mi indicava le stelle e mi rivelava i loro nomi, a me sconosciuti. Allora a noi si aggiungeva Monsieur Nadir, che me li traduceva in persiano.
«Vediamo stelle diverse, ma siamo sotto lo stesso cielo» mi disse quest'ultimo con un lieve sorriso. Annuii, poggiando il capo sulle ginocchia e sentendo il calore che emanava dal corpo di Erik, la sua trasudazione, mescolarsi ai miei. Avevo il formicolio alle dita, fin nelle radici del cuore, e di nuovo non sapevo cosa provare. Di certo non mi accadeva lo stesso con qualsiasi altro uomo! Mi ero sempre vantata di come fossi in grado di controllare le mie emozioni, e ora… Speravo che Erik (né nessun altro) notasse il mio assurdo comportamento. Era folle: non sapevo quali fossero i pensieri che mi scorrevano nella testa, né le emozioni che mi riducevano le membra a un unico brivido palpitante. Mi diagnosticai una follia passeggera e passai oltre. Non potevo farmi distrarre in quel modo.
Le mie lezioni di danza andavano avanti. Quando ci accampavamo in un luogo qualsiasi, più o meno nei pressi di un villaggio o ai limiti di un'oasi, Darya ed io ci sfidavamo. Mi aveva procurato – non so come – una spada affilata che mi aveva insegnato a maneggiare con cura: come impugnare l'elsa nel modo giusto, varie tecniche di affondo, e soprattutto come difendermi dai fendenti nemici. Era un lavoro faticoso, che mi lasciava spossata e mi affliggeva il mal di capo, ma ne valeva la pena: pian piano miglioravo considerevolmente. Secondo Darya, ero portata anche per questo particolare tipo di danza.
«Stai andando bene» mi diceva per incoraggiarmi. Io non sentivo imbarazzo, nemmeno sotto lo sguardo degli altri uomini, che si concentravano su di noi poiché non avevano altro da guardare. Sentivo i commenti dei mercenari persiani, ma non me ne curavo, anche perché non li comprendevo.
Erik, dal canto suo, non aveva nulla da dire, ma sapevo che i suoi occhi dardeggianti non mi lasciavano mai davvero. Li sentivo bruciare sulla mia nuca, simili a un incendio dorato. Cosa gli passava per la testa? Era lieto dei miei progressi, o indifferente, o persino preoccupato? Da quando mi aveva donato il respiro della vita, anni e anni prima – non potevo pensare che le nostre labbra si fossero toccate, non davvero – eravamo uniti indissolubilmente. No, non mi era indifferente, questo ormai mi era chiaro. Come io, naturalmente, non lo ero nei suoi confronti.
«Tua madre aveva ragione. Hai un vero talento per la danza. Ogni tipo di danza» mi disse una notte in cui eravamo coricati vicini, imbacuccati nelle nostre coperte per ripararci contro il freddo sferzante. Io strofinai il naso contro la sua spalla.
«Devo prenderlo come un complimento?»
Lui non rispose. «Mi chiedo se ti vedrò mai tornare a danzare veramente. Era la tua vita.»
Mi incupii. «Me l'hanno strappata via.»
«Ma tu puoi ancora riprendertela.»
«É quel che intendo fare» dissi in un sibilo. «Con il sangue e il ferro.»
Erik emise un sospiro quasi inudibile. Nel silenzio della notte, si udiva solo il lieve respiro di chi già dormiva e il russare degli altri.
«La rabbia che hai dentro… Usala a tuo vantaggio. Usala per mantenerti in vita. Non farti bloccare da nulla sulla tua strada. Ti ho promesso un cuore, ed è quello che avrai, se è ciò che desideri.»
Dopodiché chiuse gli occhi. Ebbi l'intenso, inesprimibile istinto di stringermi a lui come facevamo in mare, nella nostra solitudine. Ma ora era impossibile, avevamo compagnia. Cosa avrebbe pensato Monsieur Nadir della nostra familiarità? Anche se, col senno di poi, dovevo ammettere che doveva sapere cosa il suo compagno di cabina andava a fare in quella della loro giovane compagna di viaggio, quando spariva ogni notte con un libro sotto il braccio.
«A volte mi sembra di essere l'unica persona vivente sulla faccia della Terra» gli confessai una notte, mentre il cielo brulicante di stelle si rifletteva nei suoi occhi. Lui posò lo sguardo su di me che, stesa al suo fianco, gli parlavo in quello che era appena un sussurro, con le labbra tese verso la conchiglia del suo orecchio bianchissimo. Ai barbagli fusi nell'argento della luna, splendeva cadaverico.
«Che strano. Per me era l'esatto contrario» ribatté lui.
«Ed ora?» gli chiesi, sfiorandogli con le dita una spalla.
«Ora sono molto consapevole del… del mio cuore che batte» rispose arrossendo e voltando il viso dall'altra parte. Forse mi ero lasciata trascinare un po' troppo. Era così facile, con lui, dimenticare le barriere che ancora ci dividevano, implacabili. Mi scostai dal suo corpo freddo e chiusi gli occhi, sentendo bruciare sulla retina il riverbero delle stelle. Non potevo vederle, adesso, ma loro erano ancora lì, intente a sorvegliarmi come speravo che, dall'alto, stesse facendo mia madre. Speranza vana: il mio rampante cinismo m'impediva di credere in un aldilà. Non avrei più rivisto il suo volto severo e amabile insieme, mai più. Mi colò una lacrima lungo il naso – una sola – e mi rassegnai a un'altra notte di sonni agitati.
Era difficile nasconderli ora che dormivamo tutti insieme attorno al fuoco. Immaginate, Monsieur Leroux: un gruppo di sconsiderati mercenari e pirati – in tutto, una dozzina – armati fino ai denti (le spade e le pistole erano nascoste sotto i mantelli) e una ragazza che stava apprendendo l'arte della guerra insieme a loro, ad ogni passo, ad ogni granello di sabbia rossastra sotto le zampe dei nostri cammelli. Mi agitavo convulsamente nel sonno, ma Erik era sempre lì per rassicurarmi, sfiorandomi i capelli con la delicatezza di una piuma mentre io mi aggrappavo al suo braccio, per evitare di conficcarmi le unghie nelle palme della mani fino alla mandorla. Non era il modo né il momento giusto per rivelare i miei sogni turbati a un nugolo di mercenari rozzi che non parlavano nemmeno la mia lingua. Non avrebbero capito, e mi avrebbero considerata debole, non conoscendo la mia storia. Quella era l'ultima cosa che volessi: tornare ad essere ai loro occhi un topo spaventato. No, non potevo permetterlo. Le “lezioni di danza” stavano dando i loro frutti, e ogni giorno miglioravo nell'arte della spada. Adesso, sebbene mai avrei potuto competere con loro e l'esperienza che portavano sulle spalle, ero più sicura di me stessa. Ero più leonessa che cucciolo smarrito.
I giorni passavano senza che incontrassimo ostacoli, fortunatamente. Avevamo l'aspetto di una carovana qualunque, come se ne vedevano spesso in quelle lande di sabbia e vento e terra arida sotto il sole e oasi sporadiche, come macchie sulla pelle, ove cui ci fermavamo per riprendere fiato e far provvista di acqua e frutta. Darya mi incalzava con la spada, e ormai avevo quasi – e sottolineo il quasi – imparato a vedere con gli occhi, come diceva lei, e a danzare in un modo del tutto differente da quello che avevo immaginato. Ero una principiante, ma promettevo bene. Avevo sempre pensato che la danza fosse il mio unico talento: beh, non avevo torto.
Adesso sono trascorsi così tanti anni che non saprei più tenere un'elsa nel verso giusto e, peggio ancora, non riuscirei a reggere il peso della spada. Non con la malattia che avanza, non con il mio corpo di ossa e ricordi di fumo.
Tornando al passato, presto accadde qualcosa che mise alla prova non solo le mie nuove abilità, oltre che la mia vita, ma anche la quiete del viaggio. Eravamo ormai vicini a Teheran, mancava un solo giorno all'arrivo nella grande città. Lì saremo stati al sicuro, dal momento che era gremita di uomini di Ezzat che l'avrebbero difesa fino alla morte.
Un capannello di uomini con in capo un velo, ma per il resto armati e protetti da maglia di ferro, ci fermò mentre erano in ricognizione. Non erano tanto ottusi da portare la rosa rossa in terra nemica, fuori dai confini di Mazenderan, ma sapevamo per istinto – dal modo in cui ci scrutavano, rapaci – che si trattava di uomini della Khanum. Spie in incognito.
Scambiarono con Amir parecchie parole che non capii. Notai quanto tutti si fossero irrigiditi intorno a me. Accarezzai la fodera che conteneva la spada che Darya mi aveva donato. Un peso scomodo, che eppure mi tranquillizzava.
«Cosa stanno dicendo?» chiesi a Nadir, che condivideva con me la montatura, un mio braccio attorno alla vita. Parlai in quello che suonò come poco più di un sibilo tra i denti.
«Hanno l'accento di Mazenderan» rispose il Persiano in francese. «Ci hanno scoperti.»
«Quindi è certo che non sono uomini di Ezzat.»
«No, altrimenti avrebbero riconosciuto Amir, e ci saremmo potuti rivelare a loro e ottenere protezione.»
Deglutii. «Merda» imprecai. Nadir era talmente teso che non fece caso alle mie maniere poco signorili. Guardai Erik, in sella a un cammello a pochi passi da noi. Sedeva rigido e meditabondo, e non si muoveva di un muscolo.
In men che non si dica, tutti estrassero le spade e le pistole all'unisono. Io rimasi intontita, poi tirai fuori anch'io la mia arma, stringendo forte l'elsa nel palmo madido.
Amir e gli altri uomini continuavano a parlare – o meglio, a lanciare grida di battaglia contro gli sconosciuti, che ricambiavano con ringhi altrettanto feroci. Si scatenò una confusione immane. Nadir si scostò dalla marmaglia, ritraendosi col suo cammello – tutti gli altri sembravano imbizzarriti all'odore del sangue e del metallo e della polvere da sparo.
«State indietro, Meg» mi suggerì il Persiano.
«Non ci penso proprio» sussurrai tra i denti, stringendo con maggior forza la spada tra le mani.
Era una massa di corpi e trasudazione palpitante. La guerra ci cantava nelle vene, e sulla schiena mi salì un brivido d'eccitazione e paura insieme, quasi avessi le viscere avvinghiate, quando saltai giù dal cammello per evitare che un soldato, il cui elmo era coperto da un velo di lino rosso, mi si avventasse contro. Con uno scatto rapido, gli mozzai il braccio di netto – lo stesso braccio che impugnava l'arma che avrebbe voluto affondarmi nello stomaco. Sobbalzai, chiudendo gli occhi mentre scagliavo il colpo e lui urlava di dolore; un grido che riuscii a comprendere malgrado le barriere del linguaggio. Mi ero macchiata di sangue gli abiti, ma non importava. Ora non c'è tempo per vomitare.
Arretrai, incapace di notare ciò che accadeva agli altri, concentrata com'ero sulla figura che incombeva su di me. Un altro dei soldati della Khanum avanzava a passi pesanti, brandendo una spada grossa il doppio della mia. Deglutii, scoccando una rapida occhiata intorno a me. Darya ruggiva, infilzando un uomo più alto di lei di tutta la testa con lo scatto di un toro alla carica; Amir brandiva due sciabole, spalla contro spalla con Nadir, che aveva tirato fuori la sua pistola; Erik schivava i fendenti con facilità – avendolo riconosciuto, il nemico non mirava comunque a punti vitali del suo corpo, volendolo mantenere in vita – e notai come metteva al tappeto un uomo giovane la metà dei suoi anni con un solo colpo, per poi finirlo con il suo letale laccio del Punjab in circa cinque secondi. Tornai al mio, di scontro: il mio avversario (è solo altra carne da macello, mi dicevo, non devi pensare che sia altro, è un morto che cammina) menò un fendente che parai appena; il contraccolpo mi fece vibrare il braccio. Montante, affondo, imbroccata – vedi con gli occhi, Meg, usa i tuoi occhi. E così facevo: come Darya mi aveva insegnato, danzavo via dalla sua morsa mortale con la stessa agilità con cui piroettavo, un tempo, sulle scarpette da ballo. Si arrivò al punto che il mio nemico ed io lottammo ringhiando, lama contro lama: non avevo speranze di sopraffarlo, le mie braccia non erano abbastanza forti, e non avrei resistito a lungo. Il suo volto, per metà coperto da un sottile velo di lino carminio, era così vicino al mio che potevo vedere le pagliuzze nei suoi occhi. Con un ansimo disperato, lasciai la presa e mi gettai tra le sue gambe divaricate. Egli mi scagliò quella che doveva essere una maledizione. Passandogli attraverso, gli avevo reciso un legamento della coscia sinistra, e fu costretto in ginocchio, alla mia mercé: gli tagliai la mano della spada prima che potesse voltarsi e riacciuffarmi di nuovo. Con un grido che gli sgorgò dalle labbra e che non avrei mai più dimenticato, gli tagliai la gola di traverso. Fu un colpo rude, una ferita malfatta, poiché avevo chiuso gli occhi. Il mio sangue cantava, e non sentivo dolore.
Fu allora che mi voltai, e ruzzolai all'indietro di una mezza dozzina di passi, in una fuga quasi rocambolesca. L'uomo che mi puntava contro una pistola crollò a terra, scalciando e sparando al cielo in un ultimo tentativo di liberarsi dalla micidiale stretta dell'Angelo della Morte che gli stava alle spalle. Mi resi conto di quanto fosse effettivamente forte Erik – una forza quasi bestiale in un corpo così magro, tutto nervi tesi, muscoli sottili e pulsanti e ossa visibili sotto la pelle – e di come fossi stata stolta a sfidarlo ai tempi dell'Opera Garnier. Il nemico spirò in pochi istanti. Erik mi guardò, leggermente ansante, gli occhi d'ambra che mandavano lampi.
Mi aveva salvato la vita. Per la terza volta.
Non dissi una parola. Mi guardai attorno, accorgendomi solo in quel momento che la battaglia era finita: erano giunti rinforzi direttamente da Teheran – soldati di Ezzat e Roshak, si doveva supporre – e avevamo vinto. Eravamo circondati, e io ero coperta di sangue.
«State bene, Meg?» Nadir arrivò al mio fianco, ansioso. Mi squadrò in cerca di ferite o qualcosa di simile. Annuii, corrugando la fronte.
«Sto bene. Chi sono quelli?» Indicai il gruppo di uomini a cavallo che ci aveva attorniato. Un giovane dai fluenti capelli neri, che egli scuoteva liberandoli dal velo che li intrappolava, parlava con Amir – di nuovo, non capivo una parola di quanto stavano dicendo. Compresi solo allora quanto fossi estranea a tutto quello: era una guerra che non mi apparteneva, in un Paese che non era il mio. La strada che mi si stagliava dinanzi era gremita di ostacoli dal sapore sconosciuto sulla lingua, che neanche sapevo nominare. Ero un pesce fuor d'acqua.
Studiai i cadaveri che ci attorniavano: avevamo perduto solo due dei nostri, realizzai con sollievo. Sia Darya che Amir sembravano in ottima forma. Il mio sguardo non si posò oltre sul sangue e le viscere che macchiavano il terreno. Per un attimo fui invasa dalla nausea e mi portai una mano alla bocca dello stomaco. Tossii, scossa da conati di vomito.
Fu allora che Erik mi afferrò per le spalle, ed ebbi l'impressione che si stesse trattenendo dallo scrollarmi un po'.
«Sei impazzita?» Aveva gli occhi fulminanti. «Perché non ti sei nascosta?»
Mi scostai da lui con brutalità. «Perché avrei dovuto?»
«Eravamo sotto attacco.»
«Ebbene? Non voglio celarmi dietro le vostre schiene come un animaletto smarrito. Hai visto cosa Darya mi stava insegnando. Pensavi che fosse solo un gioco? Mi prendi per un'idiota?» gli sibilai in faccia con ardore. Lui arretrò, preso in contropiede.
«Potevi finire uccisa.»
«Come tutti voi. Io non sono diversa.» Incrociai le braccia al petto. «Non voglio nascondermi, Erik. Mai più. Non sarò mai una guerriera, ma voglio saper badare a me stessa. Chiaro?»
Lui tacque, stringendo i denti. Poi aggiunse, in tono flebile: «Avevo promesso a tua madre che avrei vegliato su di te. Che razza di guardiano sono se non riesco a proteggerti?»
«Non mi farai da cane da guardia» ribattei, stizzita. Gli puntai un dito contro il petto. «Mettitelo in testa, capito?»
Lui arretrò, stupito dalla mia ostinazione. Eppure doveva conoscermi, e sapere che razza di testa calda ero. Si aprì in un sorriso distorto: «Sei la degna figlia di tua madre. Anche lei non avrebbe mai voluto cedere la propria indipendenza.»
«Vedo che ci capiamo.»
Nadir ci fissava mortificato. «Badate a stare attenti, tutti e due. Non mettetevi nei guai e, se potete, restate lontani dallo scontro.» La sua voce si fece triste. «Non voglio perdere nessun altro.» Certo: dopo la morte di Darius, eravamo gli unici amici che gli rimanevano. Che bel gruppetto, pensai con pesante sarcasmo. Un pazzo che un tempo impiccava la gente per vivere e una tizia che sognava di sventrare lo Shah di Persia e la sua nobile madre.
Sospirai. Almeno io avevo Nadir dalla mia parte, che era sano di mente. Erik, d'altra parte… Sebbene fosse cambiato da allora, ricordai tutti i guai che aveva causato (o quasi causato) all'Opera e a Christine. Lo guardai di traverso.
Darya mi sorprese passandomi un braccio attorno alle spalle. «Ti sei portata bene, ma la prossima volta guardati le spalle.» Feci una smorfia che da lontano poteva assomigliare a un sorriso.
«Chi sono quelli?» Indicai gli uomini che ci avevano subitaneamente aiutati contro i soldati della Khanum. Questa volta qualcuno mi fece la grazia di rispondermi.
«Lui è Roshak, il figlio di Ezzat.» Darya sorrise, con un cenno al giovane dai capelli scuri e gli occhi scintillanti che avevo notato poco prima. Malgrado la sua età, era sicuramente il comandante dei suoi uomini. «L'erede al trono.»
Ah, ora conoscevo uno dei motivi primari della guerra. Lo osservai di sottecchi: aveva la schiena ritta e la voce potente, e sembrava aver chiara la sua posizione sulla scacchiera.
Ma nessuno gli ha detto che è la regina il pezzo più potente in campo?
Roshak non fece caso a me, come è giusto che fosse. Non ero che una mosca nell'alveare che si ritrovava a dover portare sulle spalle, e di cui sua madre era l'ape regina. Seppellimmo i caduti e poi ci avventurammo nel deserto persiano, questa volta vicini alle porte della città.
Teheran sorgeva antica e accerchiata da mura di pietra stentorea, rossastra, sulla pianura. Una volta giunti alle porte della città, fu sufficiente che Roshak scoprisse il bel viso cotto al sole perché le sentinelle di guardia lasciassero passare lui e il suo corteo senza domande ma, anzi, con riverenti inchini. Avevo notato il Re dei Re scambiare qualche parola con Erik, prima – forse per accertarsi che fosse davvero lui l'uomo che stavano cercando. Erik doveva averlo convinto, perché sul suo viso vedevo splendente il riflesso del trionfo.
«Benvenuta nella nostra capitale, Meg» fece Amir con un gesto eloquente, portandosi alla destra mia e di Erik – ero ancora seduta sul cammello, alle sue spalle. Feci una smorfia irrisoria che fece sorridere Darya, pochi metri più indietro, e ignorai il capitano mercenario.
Tutto quello che posso dire su Teheran era che differenziava ampiamente da Parigi. Palazzi di pietra antica mettevano radici nella terra arida e calda, padiglioni di ricchi tendaggi vendevano spezie e sete e altra merce che non riuscii ad individuare. Su tutto, aleggiava un odore che non saprei ben definire, se non con la parola straniero – e la barbara degli antichi ellenici ero io, fatalmente posta tra l'incudine e il martello.
Un soldato portava il vessillo di Roshak che garriva nel vento, e gridava di fare largo per lasciar passare il legittimo Shah di Persia – questo lo dedussi dalle poche parole che avevo appreso della lingua persiana. Ma non ce n'era bisogno: la gente – gli uomini vestiti con larghi pantaloni di lino e camice dalle maniche arrotolate, le donne che nascondevano il capo nel velo – si scostava al nostro passare, e grida di giubilo vibrarono nell'aria e si elevarono al cielo che virava a un color tramonto vivo, di fuoco. Grida che non comprendevo, ovviamente. Esaltavano tutti la figura del loro sovrano, che in cambio salutava con un cenno della mano ancora umida di rosso.
«É molto amato» commentai, senza poter trattenere una nota di sarcasmo.
«Qui, almeno, sì.» Tra me ed Erik aleggiava ancora una certa freddezza, dovuta allo scambio di parole poco gentili di prima, ma sperai di accomodare il tutto sfiorandogli delicatamente una spalla con le dita.
«E altrove?»
«Nella regione di Mazenderan si sono radunati i realisti, quelli che rimangono fedeli a Naser e alla madre Assiye. Ma il capitano ha ragione: sono in pochi rispetto agli oppositori, soprattutto se si conta che il popolo – la maggior parte, che io sappia – è dalla loro parte. E con la conoscenza da me fornitagli, vinceranno questa guerra.»
Corrugai le sopracciglia. «Il tuo contributo è tanto importante?»
«A quanto pare.»
Intravedemmo su un'altura il grande palazzo di Teheran, dimora del re Roshak e della regina madre Ezzat. Solo in quel momento mi resi conto del genio architettonico di Erik: era stato lui a progettare quell'edificio, ed era magnifico. Con colonne istoriate, era possente in una maniera che mi ricordava l'Opera Garnier, eppure appariva del tutto diverso. Le bifore filtravano la luce del sole morente, sotto la quale la pietra risplendeva dorata, pulsante. I fregi erano finemente scolpiti, e sembravano vivi a contrasto con le cupole a volta, tipiche dell'arte musulmana. Rimasi a bocca aperta mentre ci facevano passare dal torrione di guardia – noi mercenari eravamo tutti stanchi e insanguinati – e attraversavamo il ponte che dava sul grande fossato. Le zampe dei cammelli pestavano stancamente sulle pietre bianche, e così avanzammo fino al mastodontico portone che dava sull'ampia sala d'ingresso. Essa da sola avrebbe potuto contenere dieci volte il foyer della danza dell'Opera Garnier, con i suoi corridoi dorati. Lasciammo le cavalcature alle cure di alcuni servi e seguimmo Roshak e il suo seguito lungo la rampa di scale che portava ai piani superiori, ossia alla Sala del Trono. Eravamo sporchi ed esausti, ma il giovane principe aveva fretta di riferire alla madre del suo ritorno e della vittoria sulle spie di Mazenderan.
«Ci sarà tutto il tempo di guardarsi attorno, dopo» mi sussurrò Darya, scostandosi una ciocca di capelli umida che era scivolata via dalla protezione del velo, notando che il mio sguardo vagava sulle volute dei capitelli e i morbidi tappeti persiani con avidità. «Nel frattempo, cerca di farti il più bella possibile.»
«Bel consiglio» dissi, appiattendomi i capelli sulla fronte – erano un groviglio disastroso. Non mi pettinavo da… beh, avevo perso il conto dei giorni.
La Sala del Trono era grande quanto mi aspettavo. Arazzi che raffiguravano scene di battaglia e miti orientali drappeggiavano le pareti; i frontoni delle colonne erano teste di animali selvaggi, tipici dei luoghi della sabbia; degli scalini portavano a un piedistallo su cui si stagliava uno scranno rifinito in pietre preziose – degno dell'Ombra di Dio, a quanto pareva. La luce che irrompeva dalle finestre a trifora e dal grande lampadario di cristallo che pendeva dal soffitto era accecante. Su un trono più modesto, posto a un livello inferiore rispetto a quello del re, sedeva una donna vestita di seta dorata, una corona a cingerle il capo e un velo intessuto di preziosi a coprirle i capelli. Parlava con alcuni consiglieri di corte, ma quando facemmo il nostro ingresso tacque e ci osservò con un misto di sollievo e aspettativa. Non sapevo perché, ma era difficile cogliere le sue emozioni. Poteva essere sulla cinquantina, ma la sua bellezza era ancora incontrastata.
Roshak prese posto sul suo scranno, pronunciando qualche convenevole di rito e salutando quella che doveva essere sua madre, Ezzat, con un gesto lieve e rapido ma di cui non mi sfuggì la gentilezza. Non poteva, tuttavia, mostrarsi sentimentale dinanzi ai suoi uomini.
L'araldo riferì in persiano della nostra vittoria, e ci presentò tutti dinanzi alla regina, che ci squadrò con occhio di falco. Tutti c'inchinammo al suo cospetto, tranne Erik, che si limitò a chinare il capo con un sorriso nascosto.
Ezzat cominciò a parlare in persiano, parole che fu in seguito Monsieur Nadir a tradurmi.
«Miei valorosi soldati» esordì, tendendo le braccia come per accoglierci tutti, «benvenuti. E per alcuni, bentornati.» Il suo sguardo perforante si posò sul daroga ed Erik in particolare. «Siete ben accetti tra le nostre schiere. Capitano Amir, potrete unire le vostre forze a quelle del resto del vostro esercito.» Sapevo che era accampato in alloggi fuori dal castello che, sebbene enorme, non era in grado di ospitare tutti i soldati del Sole Nero, la compagnia mercenaria di Amir e Darya, come mi aveva spiegato quest'ultima.
«Sono lieto di essere al vostro servizio, maestà.»
«Lo immagino.» Colsi un'ombra di sarcasmo nel tono della regina, come se sapesse che l'oro era lo scopo principale per cui i soldati di Amir combattevano. D'altronde, tutto ha un prezzo, anche la guerra, e il potere soprattutto.
«Erik.» Riconobbi all'istante il suono del nome del mio peculiare amico. Sbagliavo, o c'era una sorta di nostalgia nella voce di Ezzat, mentre posava i suoi occhi scuri sulla figura dell'Angelo della Morte? In fondo, lo conosceva sin dai tempi del suo primo soggiorno alla corte dello Shah, quando doveva essere ragazza e ancora nubile.
«Quanto tempo è trascorso. Sapevo che ti avrei ritrovato vivo, prima o poi.»
Con mia grande sorpresa, non parlò in persiano, ma in un francese impeccabile, così che anch'io riuscii a capire il loro dialogo.
Erik sogghignò. «Non avete dimenticato la mia lingua madre.»
Ezzat sorrise. «Come potrei? Mi sono sempre tenuta informata sulle vicende del tuo Paese. Ne sono sempre stata affascinata, come ben sai, e tu sei stato un maestro d'eccezione.»
Poi aggiunse, ritornata seria: «Sai perché sei qui.»
«Sì.»
«Sai anche che non è mia intenzione farti del male. Immagino che abbiate superato molte vicissitudini.»
«Dovete ringraziare vostra sorella per questo. Ci ha aizzato contro i suoi mastini.»
Ezzat fece una smorfia, come se l'allusione alla Khanum non le fosse affatto gradita. «Non parlarmi in tono così scortese, Erik. Sono una regina, ormai, non la principessa che si rifugiava nei tomi di strategia militare per sfuggire ai ricevimenti di corte.» Sogghignarono entrambi al ricordo. «Non apprezzo che mi si rammenti la mia parentela con quella donna. Vuole guerra, e guerra avrà. Anche se, d'altro canto, rimane pur sempre…» Ebbe una pausa, ma compresi che sapeva benissimo come terminare la frase. Solo che non voleva farlo.
«Dovremmo fargli vedere le mappe di Mazenderan, madre» disse Roshak, concitato. «Per prepararci alla guerra.»
Ezzat alzò una mano. «Siete stanchi. Avete appena concluso un lungo viaggio. Lasciamo loro il tempo di riposare, figlio. Non trovi?»
Roshak annuì. Era evidente che, sebbene a lui spettasse l'ultima parola, teneva in gran conto il consiglio della madre, che lo influenzava largamente.
«Caro Nadir Khan, quale piacere ritrovarti in patria dopo tutti questi anni. Molte cose sono cambiate, da allora.»
«Immagino di sì, Maestà.»
«Cambieranno. E presto.»
Con mio grande sgomento, sembrò notarmi tra la turba di gente che affollava la sala. Io, che mi nascondevo dietro Erik, sollevai leggermente lo sguardo, inebetita. Perché mi fissava in quel modo?
«Non sei originaria di qui, vero?»
Si stava rivolgendo a me?
Darya mi spinse un po' in avanti perché mi facessi notare meglio. Scossi il capo. «No… Madame.»
Sentii il daroga trattenere il fiato alle mie spalle ed Erik sogghignare nel suo solito modo luciferino. Non l'avevo chiamata “sua maestà” né nulla di simile. Non ero sua suddita, in fondo. Con mia sorpresa, Ezzat si limitò a sorridere della mia impudenza. Fui grata che Roshak non comprendesse il francese, altrimenti mi avrebbe già fatta punire per la mia insolenza, ne ero certa. I sovrani orientali detenevano un potere assoluto sui loro sudditi, e sebbene la politica di Ezzat e suo figlio fosse molto più democratica rispetto a quella della Khanum Assiye e dello Shah Naser, non potevo dimenticare quali fossero le regole del gioco.
Roshak comprese a chi si stava rivolgendo sua madre e disse semplicemente: «Il ragazzo è con il daroga e Azrael, mia signora. È sporco di sangue – vuol dire che ha combattuto, quel tanto da sopravvivere – ma non so chi sia.»
«É una ragazza» lo corresse gentilmente Ezzat. «Come ti chiami?»
«Meg» risposi senza indugio.
«Assiye ha dato l'ordine di perseguitare chiunque fosse in stretto contatto con Erik. Immagino che si tratti del tuo caso.»
«Loro… hanno ucciso mia madre. Questo non posso dimenticarlo.» Strinsi i pugni fino a conficcarmi le unghie nella carne.
«Mi dispiace» disse Roshak, quando queste parole gli furono tradotte dalla madre. «Avrai la tua giustizia, fanciulla.»
Annuii, mentre Ezzat faceva da interprete fra noi. Gli occhi di Roshak brillavano del fuoco della rivoluzione.
«Ora andate a riposare e a rinfrancarvi, ne avrete bisogno. Selene» Ezzat si rivolse a una giovane ancella al suo fianco, «mostra loro le camere degli ospiti e tutto ciò di cui necessitano.» La serva annuì, facendoci segno di seguirla per un corridoio laterale, che portava all'uscita della Sala del Trono.
Mi lanciai un ultimo sguardo alle mie spalle. Il gioco del trono, pensai. È appena cominciato.
Note dell'autrice:
* Il titolo di questo capitolo è un tributo al primo romanzo di George R.R. Martin della saga delle Cronache del ghiaccio e del fuoco, A Game of Thrones, tradotto in italiano – per l'appunto – Il gioco del trono.
Scusate il ritardo, ma in questi giorni ho avuto un'emicrania pazzesca, non dormo bene da secoli e giovedì comincio pure l'università. Evvai.
A parte l'entusiasmo, sono lieta di dirvi che mi mancano circa tre capitoli per finire questa storia. Non ci posso credere, l'ho quasi terminata! Per me è un grande risultato, anche se magari ciò che scrivo sono solo sciocchezze. Parlando del capitolo di oggi... è lungo. Ma parecchio. Diciotto pagine di Word, che record per me. Spero non vi annoi.
E ora le recensioni!
bibliofila_mascherata: Sì, la Persia *.* Sono felice che ti piacciano i miei OC. E arrossisco sempre ai tuoi complimenti, non li merito. >///< Nel prossimo capitolo ci sarà una scena divertente, eheh (tra tante tragedie). Un bacio.**
debbythebest: Che ne pensi di questo nuovo capitolozzo? Lunghetto, eh? XD Spero che ti piaccia. ^^ Grazie mille per la recensione (non devi farti perdonare di nulla), e un bacio. :3
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Capitolo 30 *** La ragazza di tenebra. ***
xxix.
la ragazza di tenebra
I corridoi del palazzo inghiottivano le nostre ombre con le luci dei grandi lampadari che rimbalzava alle pareti, e apparivano simili a immense bocche di fuoco venute per divorare le tenebre dentro di noi. Seguivo la scia di Selene, la (finora) muta ancella di Ezzat, dove ella mi conduceva, superando rampe di scale e larghi androni dorati. Mi stava portando in un'ala del palazzo che di rado veniva utilizzata: quella per gli ospiti. O perlomeno, un certo tipo di ospiti.
«Almeno avremo stanze tutte per noi. Ho già sopportato troppa compagnia per i miei gusti, su quella nave sette volte maledetta.»
Inutile dire a chi appartenessero queste parole. Fulminai Erik con un'occhiataccia – in fondo, Darya ed Amir e l'equipaggio tutto erano stati più che cortesi nei nostri confronti – e tutti fecero finta di non averlo udito. Forse era proprio così: mi aveva parlato quasi nell'orecchio, di modo che quelle parole sembravano rivolte solo alla sottoscritta. Se era stanco della mia continua presenza, presto non gli avrei più dato noia, visto che mi stavo per lanciare in una missione suicida–omicida tale che avrebbe fatto storcere il naso (se ne avesse avuto uno) persino a lui, che di questi atti di follia era un esperto.
Presto ci separarono dagli uomini, diretti verso diversi alloggi. O perlomeno, tentarono di separarci, ma Darya fu irremovibile, e così Amir: volevano rimanere insieme. Non avevo mai visto coppia più unita, se non Raoul e Christine, decisi a sacrificare tutto l'uno per l'altra. Ancora, questa dimostrazione d'amore mi turbò. Lanciai uno sguardo contrito ad Amir e la sua banda, Nadir e soprattutto Erik, che mi rivolsero un piccolo cenno di saluto. «A dopo» lessi sulle labbra rovinate di quest'ultimo, ed io annuii, rimanendo sola con Selene. La fanciulla mi guidò attraverso un camminamento esposto al sole accecante del tramonto fino a una serie di appartamenti il cui lusso esagerato mi dava le vertigini. Da quel momento in poi – capii – sarebbero appartenuti a me.
«Non sarete sola, Madamoiselle.» Sobbalzai: solo in un secondo momento mi resi conto che quella voce delicatamente accentata veniva dalla giovane ancella al mio fianco. Lei scosse i folti riccioli che teneva coperti dal consono velo e sorrise, timida. «Ci sono molti servitori qui al castello che faranno di tutto per farvi sentire ben accolta e riverita.»
«Non voglio sentirmi riverita» risposi in modo fin troppo brusco. La squadrai da capo a piedi. «Conosci il francese? E bene, anche.»
Lei chinò il capo. «Sono l'interprete di corte, Madamoiselle, nonché una delle ancelle personali di Sua Maestà la regina.»
«Ah, per questo ti ha mandato qui da me: affinché qualcuno capisse ciò che dicevo» riflettei ad alta voce. «Chiamami Meg. Tu sei Selene, giusto?» le dissi, più amichevole di quanto fossi in realtà.
Lei annuì, stupita dalla mia considerazione. Era una bella ragazza: probabilmente era abituata a ricevere attenzioni di tutt'altro tipo, e avevo l'ovvia sensazione che non le piacessero. «Sì, Meg» rispose infine, con un pizzico di esitazione.
Non le sorrisi. Non ero proprio in vena: mi sentivo la bocca cementata da una forza innaturale. Inoltre, odiavo i convenevoli.
«Dove posso fare un bagno? Da sola» precisai, in caso non l'avesse intuito. Ma la giovane serva era ben più lungimirante di quanto apparisse. «Ci avevo già pensato. Conosco il posto giusto. Venite con me.» Poi soggiunse, come ripensandoci: «Che forse vogliate sistemarvi prima nei vostri alloggi?»
«Più tardi. Voglio sentirmi pulita. E dei vestiti ben lavati.»
«Così sarà fatto.» Mi fece cenno di seguirla ancora e questa volta scendemmo in basso, dove il sole del tramonto non arrivava con i suoi spicchi di luce rubata. Giungemmo a una sala da bagno apparentemente vuota, dalle pareti di marmo chiaro: vasche ampie almeno il doppio di un letto matrimoniale facevano capolino qua e là, e l'acqua emetteva un vapore stagnante. I muri erano umidi proprio per questo, e così le piastrelle decorate finemente a motivi orientali.
«Che posto è questo?»
«I bagni personali di Sua Maestà e sua sorella. Appartenevano a loro quando erano fanciulle e ancora nubili, e vivevano entrambe in questo castello. Prima che l'attuale Khanum si trasferisse nel palazzo di Mazenderan» spiegò concisamente Selene.
«Ah. Ora capisco perché sono inutilizzati.» Feci per avanzare tra le grandi vasche e sceglierne una per me, quando mi accorsi di qualcosa. Nel bel mezzo del vapore, non lo avevo notato.
«L'acqua proviene direttamente dalle sorgenti più calde e pulite della città» stava spiegandomi Selene, ma si avvide che qualcosa non andava e che ciò aveva attirato la mia attenzione.
«Oh, non siamo soli.»
Notai il mucchio di abiti neri abbandonato sull'orlo di un'ampia vasca fumante e ne riconobbi la provenienza, o meglio, il proprietario. Un sogghigno malevolo si distese sul mio volto, e il sentore di un'idea si diffuse nella mia mente.
«Chi va là?» chiese una voce profonda che conoscevo bene, tra le ondate di vapore.
Scoppiai a ridere, con gran disagio di Selene, che aveva tutta l'aria di volersi liquefare sulle piastrelle di preziosa ceramica del pavimento.
«Che fortuna. Ci ritroviamo sempre, noi due, anche nei posti più impensati» dissi, facendomi strada tra le volute di vapore acqueo.
«Meg cara, devo darti una spiacevole notizia: sparisci. Questo non è il momento giusto.»
«Davvero?»
Feci segno all'ancella di allontanarsi, dato che ormai avevo trovato quel che cercavo. Il vapore emanava dall'acqua in aliti appena visibili. «Vai pure, Selene» dissi in un sussurro. La giovane serva annuì, lanciando un'occhiata obliqua all'ombra di Erik, appena visibile. Questi era tutto intento a sistemarsi la maschera sul viso – doveva averla tolta per rilassarsi almeno per qualche minuto, ed ecco che arrivavo io a rovinare i suoi bei propositi. Scorgevo appena il suo profilo. Avanzando nel vapore, si fece più evidente. Selene, percependo le avvisaglie di un litigio, si dileguò col suo usuale passo lieve, felpato.
Erik si agitò nell'acqua, immergendosi così a fondo che solo la testa era visibile. «Che cosa hai in mente?» disse in un tono che voleva sembrare di dura autorità, ma che non m'ingannò. Potevo udire infatti il fremito di sgomento, quasi paura, nella sua voce.
«Mi pare ovvio» dissi allargando le braccia. «Voglio farmi un bagno.»
«Fallo in un secondo momento.»
«Sono sudicia e stanca, mi va di farlo adesso.»
«Meg, giuro che…» Gli si strozzarono le parole in bocca quando vide che armeggiavo coi pantaloni di cotone che lasciai cadere ai miei piedi, dopodiché passai alla camicia sbrindellata che indossavo. Erik emise un singulto ben udibile, al che sogghignai.
«Che diavolo stai facendo?»
«A te cosa sembra?»
Alla fine mi sfilai anche la camicia con movimenti lenti, anchilosati dagli antichi lividi e dalla stanchezza. Erik mugugnò un'imprecazione in una lingua che non conoscevo e si schermò gli occhi.
«Vattene.»
«Non se ne parla. Ho diritto di stare qui quanto te.» Avanzavo verso la grande vasca centrale – quella occupata da Erik – i piedi nudi sul pavimento umido, emanante calore. Anche tutto il resto del mio corpo era nudo, con enorme disagio di Erik.
«Buon Dio, mettiti qualcosa addosso.»
Mancò poco che ridessi sul serio. «Quarant'anni in giro per il mondo e non hai mai visto una donna? A chi vuoi darla a bere?» chiesi alzando un sopracciglio. Avanzai ancora, diretta alla grande vasca fumante. Era terribilmente invitante.
Erik si allontanò il più possibile dalla sottoscritta, con movimenti strenui perché non cogliessi – vano desiderio – neanche un centimetro del suo corpo.
«Devi proprio usare questa vasca, piccola dannata?»
«Questa mi piace.» Mi lasciai scivolare nel caldo abbraccio dell'acqua, che mi rigenerò all'istante, sfiorando distrattamente uno dei tanti lividi che costellavano le mie braccia ossute.
«Ecco, ora puoi guardare» dissi dopo che mi fui immersa del tutto nell'acqua, la frangia di capelli neri che mi gocciolava sugli occhi. Erik guardò, tentennante, e scostò subito gli occhi altrove, benché entrambi fossimo immersi nell'acqua fino al mento.
«Non temere, non attenterò alla tua virtù» sogghignai ancora. Le orecchie di Erik divennero di uno straordinario color rubino. Ridacchiai: quella situazione era folle, ma in fondo perché no? Ormai nulla aveva più logica nella mia vita.
«Perché conservi ancora la tua virtù, o sbaglio?» chiesi con insano divertimento. Dovevo essere ubriaca, perché ero ben consapevole che, se lui fosse stato ancora senza scrupoli come un tempo, mi sarei ritrovata col collo spezzato in meno di un battito di cuore.
Erik mi folgorò con il suo sguardo dorato, le orecchie e il collo paonazzi. «Non sono domande che una ragazza dovrebbe porre a..!.»
«Io non sono una ragazza» lo interruppi col mio tono più sferzante, ed era vero. Non mi sentivo più tale da tanto tempo. «E non mi importa un accidenti di quel che dovrei o non dovrei dire e fare.»
«Sì, l'avevo notato» rispose Erik in un mormorio, in qualche modo a disagio.
Non voleva rispondermi, ma era chiaro che non aveva mai conosciuto donna, o almeno questo mi suggeriva l'intuito. Si comportava come una vergine prima della sua notte di nozze – lo pervadeva lo stesso nervosismo.
E poi, con quell'aspetto, chi avrebbe mai…?
«Nadir mi ha parlato di quando la sultana ti ha fatto dono di una schiava, e della tua reazione. Tanti anni fa… E di quel che accadde dopo» dissi lentamente.
«Il daroga parla troppo» sibilò Erik, chiaramente contrariato. Si passò le lunghe dita tra i capelli neri e umidi, senza alcuna intenzione di sfilarsi la maschera, anche se con l'umidità di quella sala doveva esserglisi appiccicata addosso.
«Il daroga voleva solo convincere me e se stesso della tua nascosta umanità, in un momento in cui entrambi non eravamo tanto certi potesse esistere.»
«E il tuo verdetto qual è, Meg? Sentiamo.»
Ponderai bene le mie parole. «Dopo ciò che accadde a quella ragazza...» esitai, ma fu solo per un istante. «Davvero non hai mai pensato di...» feci un gesto vago ma eloquente.
I suoi occhi, dietro la maschera, divennero schegge di pietra dura. «Perché avrei dovuto?»
«Molti uomini al posto tuo l'avrebbero fatto. Anche parecchie donne, se è per questo.»
«Io non sono molti uomini.»
«Sì, di questo mi ero accorta.» Inclinai il capo, come per osservarlo meglio. Le sue spalle ossute emergevano appena dall'acqua perché scorgessi il colore della sua pelle cadaverica.
«Sei un uomo singolare.»
«Solo perché non voglio comprare le attenzioni di una donna? E per cosa, per sopportare altri sguardi d'orrore? Non è piacevole, te lo assicuro. Inoltre, senza un minimo di sentimento per me non ha senso. Non proverei nemmeno il desiderio di...» lasciò la frase in sospeso, a disagio, ma io intuii subitaneamente i sottintesi.
«Ho sempre visto le due cose da una prospettiva diversa, come se fossero separate.»
«Non io.»
Strano uomo. Non aveva mai avuto remore nello sporcarsi le mani di sangue, ma la prospettiva di trovarsi tanto vicino ad un altro essere umano lo lasciava allibito e spaventato come un fanciullo. L'unica donna con la quale aveva provato a stabilire una vera e propria connessione, fallendo miseramente, era Christine. Le lacrime di lei, mischiate alle sue, lo avevano fatto sentire umano. Mi chiesi se da allora per lui le cose fossero mutate. Aveva utilizzato la violenza più e più volte nel corso della sua vita, se tale si poteva definire, ma a quanto pareva quella carnale lo disgustava e lo lasciava inorridito. Non potei non apprezzare questa sua ennesima sfaccettatura. Era un curioso binomio.
«L'unica donna alla quale chiesi un bacio fu mia madre» disse lui in un sussurro a malapena udibile. «Due, anzi. Uno subito, l'altro per riserva.» Poi rise amaramente, con voce più sonora. «Non dovrei dirti queste cose.»
«Lo stai facendo comunque» risposi io in tono moderato, freddo, più calmo di quanto mi sentissi in realtà. Lui si fece serio, gli angoli della sua bocca si teserò per istinto all'ingiù.
«E quale fu la sua risposta?» ebbi il coraggio di chiedergli.
Erik sollevò le dita lunghe e magrissime, nervose, della mano destra, e tra esse fluì l'acqua, più rapida del pensiero. Si rimirò con un'attenzione improvvisa – che, devo dire, non mi convinse affatto – le unghie giallastre, la pelle di pergamena.
«Puoi immaginarla da te.»
In effetti, la mia era stata una domanda ottusa. Le uniche labbra che avessero mai toccato la sua carne erano quelle di Christine. E le mie, quando mi aveva salvato sei anni prima dal mio tentato suicidio, respirandomi sulla bocca – un'immagine che non riuscivo nemmeno a figurarmi nell'occhio della mente.
«Cosa pensi?» mi chiese lui con voce d'un tratto dolce, modulata.
«Che non deve essere stata un granché come madre.»
Emise un lieve sbuffo. Le sue spalle spaventosamente ossute si sollevarono in un gesto di incredibile noncuranza. «Non più di tante altre, immagino.»
«Non ti ha mai battuto?»
«Spesso. La esasperavo. A dire il vero, era sufficiente la mia sola presenza per questo.»
Sbuffai anch'io, lievemente alterata. «Questo non giustifica…»
«Non era violenta con me, se è questo che intendi. Non lei. Gli aguzzini nella mia vita sono stati altri, almeno nel senso che intendi tu.»
«Capisco.» Mi arrotolai un ricciolo sull'indice. Fremevo dal desiderio di farmi più vicina a lui, ma mi trattenevo, sebbene stentassi in questo. Non mi spiegavo questo bisogno: non avevo mai sofferto la solitudine. La mancanza di mia madre doveva darmi alla testa.
«Sei triste, ora. Perché?» La sua voce era così terribilmente angelica che non potei non guardarlo negli occhi di bragia accesa.
«Stavo pensando… se io sarei riuscita ad essere differente, a comportarmi diversamente. In una situazione simile a quella di tua madre, intendo.»
«Se avessi avuto un figlio come me?» Lui sibilò tra i denti, emettendo un verso a metà tra una smorfia e l'ennesimo sbuffo incredulo. «Tu cosa pensi?»
«Non so se avrei avuto il coraggio di…» Mi arrestai, come in trappola fra il dire e il fare. Il coraggio di fare cosa? Di baciarlo e di stringerlo a me come sua madre non aveva mai potuto, qualcosa in cui solo Christine era riuscita? Io, avere il coraggio e la compassione della mia vecchia amica?
«Cosa, Meg?» I suoi occhi erano così intensi, così pieni di vita in confronto al suo corpo morto, che quasi mi ritrassi fisicamente. Eppure ero stata così priva di inibizioni con lui pochi attimi prima. Era un gioco di controllo, di sguardi – c'era tensione fra noi, ora che eravamo letteralmente nudi e senza difese, questo era palpabile.
«Saresti una buona madre» mi confessò lui, sprofondando di un altro paio di centimetri nell'acqua ormai tiepida.
Esplosi in una risata sguaiata. «Questa è bella. Da dove ti esce fuori?»
«Dico sul serio. Sei…» fece un gesto inconsulto con le lunghe dita pallide, «… molto leale e protettiva.»
«Protettiva? Ma se non sono riuscita a proteggere mia madre, e a stento me stessa? Protettiva io, quando ho fallito con Chris…» mi fermai appena in tempo, mordendomi la lingua. Se fosse stato possibile, lo immaginai impallidire ancor di più dietro la maschera. «Insomma, hai capito.»
«Non è colpa tua. Sei riuscita in molte cose, Meg.»
«Non è vero. Non ho concluso nulla. Sono utile solo a farmi salvare la vita da te, nient'altro.»
Christine si è salvata da sola, pensai, ed era vero.
«Sei riuscita a toccarmi dove nessuno era mai giunto prima.»
Trattenni il respiro a queste parole, pronunciate con lentezza e tanta serietà – a cosa le dovevo? – da parte sua. Ma non cedetti.
«A vederti mezzo nudo, intendi? Questa sì che è una grande impresa da parte mia.»
Le sue orecchie divennero di nuovo paonazze. «Concedimi la grazia di fare a meno del sarcasmo.»
«Impossibile, è incorporato.»
«Non fare del vittimismo, adesso. Non è da te.»
«Prima sarcasmo, ora vittimismo. Di cos'altro vorresti accusarmi, sentiamo?»
«Di avermi fatto sentire umano per la prima volta. Involontariamente, ma è così.»
Rimanemmo per qualche attimo in un silenzio teso come la corda di un arco. Si sentiva solo lo sciacquio della vasca piena dei nostri corpi, stranamente elettrici.
«Che intendi dire?» sillabai in un soffio.
«Quando ti salvai la vita per la prima volta, anni fa…» esitò, chinando lo sguardo. Quando ti baciai, furono le parole non dette ma sottintese. Mi agitai al pensiero. «Si stabilì un legame fra noi, lo avvertii, Meg.» Mi fissò a lungo, con i suoi occhi come fari nella notte. «Mi sei stata amica quando nessun altro sarebbe rimasto, scagliandomi in faccia la verità su me stesso – la mia stoltezza, la mia follia, la mia rabbia.» Esalò una risata che era come un respiro. «Sono stato proprio – passami il termine, sono certo che non ti offenderai – un bastardo, vero, Meg?»
Risi anch'io, giocherellando con le mie dita intrecciate. «Eri davvero ingestibile.»
«Ci vuole coraggio per essere amica – un'amica delle più oneste e sincere – di qualcuno come me.»
«Forse» accolsi quella nuova prospettiva, non avendola mai presa in considerazione prima.
«Oh, guarda. Quella fanciulla ti ha lasciato dei vestiti puliti.»
«Intendi Selene?»
«Si chiama così?»
«Sì, ed è un'interprete qui a corte, oltre che un'ancella della regina.»
Feci per alzarmi, al che lui si portò una mano agli occhi immediatamente, schermandosi il viso fintanto che non mi rimettevo qualcosa addosso.
«É stata gentile, non trovi?» dissi mentre mi asciugavo con un morbido panno di lino, piacevolmente caldo e odoroso di lavanda.
«Ha solo eseguito il compito che le è stato affidato.»
«Prima sono stata brusca con lei. Forse non avrei dovuto» proseguii, infilandomi la tunica di delicata seta imperlata dalla testa. Era di un color pesca magnifico, ma troppo graziosa per una figurina anonima quanto la mia.
Mi voltai verso Erik, ancora immerso nella vasca fino al mento. «Ecco, ora puoi guardare.»
Lui esitò.
«Niente scherzi, stavolta» gli assicurai con un sorrisetto. «Non ci tengo a sentirti urlare come una gallo strozzata.» Il mio sogghigno si allargò all'idea.
«E va bene.» Aprì gli occhi, che risplenderono nella penombra della sala da bagno, nel vapore che ancora si sollevava dalle acque di sorgente.
«L'idea di questo bagno è stata, a ragion veduta, pessima.»
Scossi il capo, fingendomi offesa. «E dai. Adesso siamo compagni. Condividiamo tutto, no?» Risi vedendo che le sue orecchie arrossivano ancora. Chissà come deve essere buffo in viso, pensai. Se il suo si può chiamare viso, aggiunsi cupamente tra me e me.
«Compagni.» Scandì bene ogni lettera, come a tastarne il sapore sulla lingua. Ci rifletté sopra, e la cosa sembrò piacergli, poiché scorsi l'ombra di un sorriso sulle sue labbra di carta.
«Sì, compagni» ribadii io. E non mentivo.
Quei giorni trascorsero in relativa tranquillità. Non vidi più la regina né lo Shah suo figlio, com'era giusto che fosse: una nullità come la sottoscritta non aveva posto tra il sangue reale. In compenso, Darya e Selene si rivelarono ottime compagnie. Parlavo con la giovane ancella – più giovane di me, a quanto pareva – del mondo che mi ero lasciata alle spalle, e che lei avrebbe tanto desiderato vedere con i propri occhi. Le descrivevo le mie lezioni di danza, e lei rimaneva in ascolto, affascinata, mentre il mio cuore veniva stretto nella morsa dolorosa della nostalgia. Erik e Monsieur Nadir erano impegnati negli incontri con l'Ombra di Dio e sua madre. Darya mi aveva rivelato quanto quest'ultima fosse esperta nell'arte della guerra, un genio di strategia e calcolo che finora aveva vinto tutti gli scontri che si erano tenuti fra la sua schiera di soldati e quella della sorella e del nipote. Era stata lei stessa a istruire il figlio nell'ars bellandi – un termine che appresi da Erik, il quale conosceva bene il latino, mentre io non masticavo che le parole delle preghiere e delle funzioni religiose, senza conoscere appieno il loro significato.
Darya mi offriva sempre lezioni di scherma, ed io imparavo ogni nuova mossa con ansia febbrile, macerata internamente da un tormento interiore al quale non sapevo dare nome, se non vendetta, o perlomeno il suo desiderio accecante.
Custodivo nella mente la bozza di un'idea, audace e stolta al contempo. Ma in quali altri termini potevo descrivere il mio comportamento se non questi?
La possibilità di metterla in atto si presentò quando, ormai da ore nella sala che Darya mi aveva presentato come il nostro teatro per le esercitazioni con la spada, si udì un avvicinarsi di passi e uno sparo che riecheggiò nell'aria con un rimbombo atroce. La sala – esagonale, dalle pareti di freddo marmo, un tempo utilizzata come armeria e pertanto adattissima allo scopo alla quale l'avevamo adibita Darya ed io – sembrò tremarne.
Imprecai.
Alle mie spalle udii una risata familiare.
Imprecai di nuovo.
«Meg, tieni a freno quella lingua. Quante volte dovrò ripetertelo? Non si confà a una fanciulla.»
Mi voltai per veder entrare Erik – abbigliato come d'usuale di nero, la maschera ben appiccicata al viso devastato, così che mi era impossibile vederlo. Ma conoscevo l'orrore che si ostinava tanto a celare.
«Fanciulla un corno. Te l'ho già detto: me ne frego di quello che dovrei o non dovrei fare.»
«Sì, rammento che mi accennasti alla cosa.» Si guardò intorno con fare circospetto. «Non dovresti maneggiare da sola quell'arma.» Indicò la pistola dal manico istoriato in argento e di ottima fattura che reggevo tra le mani, ancora tremanti per il contraccolpo, al quale non ero abituata.
«Dov'è la tua insegnante?»
«Darya è andata a farsi un giro con suo marito. Sono peggio di due piccioncini alla prima cotta, quei due.»
Lui fece una smorfia, dimostrando chiaramente cosa pensava di piccioncini alla prima cotta. «Non hai mai visitato il palazzo, Meg?»
«Perché questa domanda?»
«Volevo accordarti l'occasione di giocare all'esploratrice, quest'oggi, ma vedo che hai altro da fare.» Accennò con il capo alla pistola. Giocherellai con l'arma ancora calda tra le mie mani.
«Selene mi ha mostrato qualcosa, ma sono sempre stata confinata qui o nella mia stanza, sebbene io sia libera di andare e venire dove e come mi pare, in teoria. Non mi piacciono le occhiate delle sentinelle di guardia e della servitù: mi guardano tutti come se fossi un pezzo di carne.»
«Almeno con te non distolgono lo sguardo in preda al panico, fuggendo via a gambe levate» commentò lui, mordace e amarissimo.
Sorrisi all'idea. «Preferirei di gran lunga che mi temessero, invece.»
«Non c'è rispetto nel timore che ispiro.»
«É pur sempre qualcosa.»
«Per questa ragione vuoi imparare a sparare, oltre che a duellare con la spada? In quest'ultima arte sei già diventata alquanto discreta, malgrado le notevoli pecche.»
Inghiottii quel complimento a metà. «In questo momento vorrei spararti.»
Lui rise, con quella sua risata musicale che mi tintinnava nei timpani. «Quale violenza vedo in te, giovane Artemide. A cosa miravi, prima?»
Indicai il punto sopra un arazzo di scene da caccia che pendeva proprio dalla parete dinanzi a me. Erik emise un lieve fischio. «Hai mancato di due piedi il bersaglio. Che pessima mira.»
Mi morsi un labbro, offesa. «Cosa ti aspettavi? È la prima volta che maneggio una pistola.»
«Quando la utilizzai io per la prima volta, tanti anni fa, non mancai il colpo.»
«Tu hai la vista di un falco, è un'altra cosa.»
«Lo prenderò come un complimento.»
Mi si avvicinò, squadrandomi con subitanea attenzione. Io mi accigliai. «Cosa c'è? Perché mi guardi a quel modo?»
«Sbagli la presa. È così che si tiene in mano una pistola. Così» insistette, afferrandomi le mani e sistemando la mia presa sull'arma, le sue dita fredde intrecciate alle mie. Era straordinariamente vicino a me in quel momento, tanto che potevo sentire il suo odore. Deglutii e mi scostai, percependo in lui il medesimo turbamento.
«Scusa.»
«Figurati.»
Forse pensava che il suo tocco mi causasse ancora gli incubi, ma erano ben altri i sogni che insinuava dentro di me… Mi vergognavo moltissimo al pensiero. Non sapevo se volevo stargli vicino oppure fuggire via a gambe levate.
«Suvvia, prendi un'altra volta la mira. Fammi vedere quello che sai fare.» Questa volta fu lui a sciogliere la tensione creatasi tra di noi come una lastra di ghiaccio.
«É una sfida?»
«Prendila come ti pare, Meg.»
Annuii e mi concentrai, prendendo la mira e stendendo le braccia, un unico punto dinanzi a me che quasi pulsava ai bordi della mia vista. Contai fino a tre, dopodiché premetti il grilletto – ci volle una certa pressione da parte delle mie dita magre per riuscirci – e, di nuovo, sbagliai. Il proiettile andò a conficcarsi almeno due piedi più a sinistra dell'obiettivo che mi ero preposta.
Erik scoppiò a ridere. «Ribadisco che hai una pessima mira.»
«Ma stai zitto» mugugnai, innervosita dal suo palese divertimento. Ecco cosa gli risollevava l'umore, in quei giorni: assistere alle disgrazie altrui. Non molto diverso da com'era stato all'Opera, prima di Christine, prima di tutto. Eppure, adesso qualcosa era mutato.
«Lasciamo perdere questa cosa» dissi in tono irritato, gettando via la pistola nel mucchio d'armi in cui l'avevo pescata, come un oggetto dimenticato.
«Ti arrendi così facilmente? Non è da te» si premurò di pungolarmi Erik.
Lo guardai in tralice. «Se pensi che mi stia arrendendo, ti sbagli.» Afferrai la mia spada – più una daga lunga, leggera, maneggevole – e gliela puntai contro. Lui fissò la punta acuminata con attenzione e un'espressione che, dietro la maschera, immaginavo sorpresa e incredula al contempo.
«Allora?»
«Allora…» mi rigirai l'elsa della spada tra le dita. Ormai vi avevo acquistato una certa familiarità, dovuta al numero di ore che trascorrevo con in mano quell'arma, che non era da sottovalutare.
«Se ti colpisco almeno una volta – senza trafiggerti da nessuna parte, beninteso – non farai storie come un bimbo viziato e mi lascerai andare in guerra in santa pace.»
Lui s'irrigidì, come avevo previsto. «Non posso permetterti una cosa simile, Meg. E lo sai. Mi stupisco che siamo qui a parlarne.»
«Me ne stupisco anch'io, invece, perché – sai – non credo proprio tu possa avere alcun comando su di me.»
«Ho promesso a tua madre che ti avrei protetta. È l'ultimo giuramento che ho compiuto, l'ultimo e il primo al quale mai presterò fede.»
«E allora sei un idiota, niente di meno e niente di più.»
«Insolente come sempre, vedo» sbuffò lui, mentre io cominciavo ad accerchiarlo, simile a un avvoltoio goloso della sua preda.
«Smettila di girarmi intorno.»
«Non se ne parla.»
«Potrei torcere quel tuo collo delicato senza neanche accorgermene.»
Darya mi aveva detto che mi avrebbero sottovalutata tutti, per le mie origini, il mio sesso, il mio fisico mingherlino. Vedranno, oh sì, se vedranno…
Erik non fece in tempo a proferire altra parola che mi avventai contro di lui con un ringhio; evitò a malapena il mio ardore. Giocammo al gatto col topo per almeno dieci minuti: era chiaro che, fossi stata un altro, lui avrebbe già tirato fuori il suo laccio del Punjab e per me sarebbe finita. Tutto sarebbe finito. Mi morsi un labbro fino a farlo sanguinare.
«Non riuscirai mai a colpirmi. Adesso smettila con questi giochetti.»
«Non sto giocando!» lo aggredii in un singulto di rabbia. Poi feci una cosa molto stupida e al contempo molto coraggiosa: stanca di quel peso inutile, gettai via la spada e mi avventai su di lui in un unico e slanciato salto che ci fece rotolare entrambi sul pavimento. Lo sentii sbattere il cranio a terra, con mia piena soddisfazione. Eppure non si lasciò sfuggire un gemito.
«Ti ho preso!» Con le mani gli afferrai il polso sinistro, quello con cui utilizzava il laccio del Punjab. Non sarebbe riuscito ad estrarlo fin quando io non avessi abbandonato la presa.
In un battito di ciglia gli ero saltata addosso, affondandolo – più per la sorpresa che per altro, dovevo ammetterlo. Gli feci cascare sulla faccia una furia di calci che lui riuscì a fermare a stento – se così non fosse stato, gli avrei fatto saltare qualche dente.
«Meg, ho capito – ho capito! Adesso smettila!»
Mi fermai prima di fargli male sul serio.
«Capito cosa?»
«Che non sei debole. Ma non è questo tuo essere diventata un uragano di carne e ossa ad avermi convinto.»
«E cosa, allora?»
Non feci in tempo ad avvedermi del luccicare pericoloso nei suoi occhi. Inghiottii a stento un'imprecazione quando con un colpo di reni mi girò sulla schiena. In un attimo fu sopra di me, imponente, mentre io scalciavo sotto il suo corpo magro e nervoso come un infante tra le braccia di uno sconosciuto.
«Non ti arrendi mai. Neanche dinanzi alla follia.»
«Sai benissimo che mi spaventa a morte.» E la follia sei tu, e tutto quel che comporta starti vicino, Erik.
«Sì, ma la combatti. Questo è…» con un ansimo soffocato, riuscì a evitare l'ennesimo calcio. Mi imprigionò i polsi in una morsa silente e letale, da cui non riuscii a districarmi. Mi ero fatta acciuffare: come lui prima di me, avevo abbassato la guardia, solo perché per un attimo avevo creduto di avere la meglio.
«É cosa?» sibilai tra i denti, la saliva come bile sulla lingua, tanto era amara.
«Molto coraggioso da parte tua.»
«Vorrai dire molto stupido.»
Con le gambe gli circondavo i fianchi strettamente, intrappolandolo a me. Sentivo il cuore battergli nel petto, il suo respiro sulla mia bocca, e la sua maschera mi sfiorava il naso.
Repressi un brivido d'eccitazione per quella vicinanza inaspettata. Involuta? La risposta mi turbava.
«Sono comunque riuscita a colpirti.»
«No, mi sei saltata addosso, il che – ammetterai – è differente.»
«Non se ne parla, Erik! Tu mi avevi promesso…»
«Ed Erik mantiene sempre le sue promesse, certamente.»
Sbuffai, cercando di non guardare troppo a lungo le stelle che erano i suoi occhi. «Certo, come no.»
«Meg…» Con la mano, egli seguì il profilo del mio viso, sfiorando – solo sfiorando – la mia pelle. Rabbrividii internamente.
«Se è la morte che stai cercando…»
«No. Non voglio morire. Non come mio padre, mai come lui…»
«E allora perché blateri follie?»
Respirai a fondo, per quanto lo spazio ristretto tra noi due lo permettesse. Non sembrava essersi accorto, come in altre occasioni, dell'effetto che la sua vicinanza aveva su di me. Tuttalpiù, doveva aver capito che non mi faceva più paura da un bel pezzo, oramai.
«Non avrò pace fin quando non avrò stretto nel mio pugno il cuore della sultana. Di questo abbiamo già parlato. Non mi farò fermare da nulla. Nemmeno da te, se sarà necessario.»
«E io ti ho già detto che avrai un cuore, se è questo il tuo desiderio.»
«Non ti sguinzaglierò come un cane rabbioso giù per la china della mia follia, Erik. Appartiene solo e soltanto a me. Apprezzerò il tuo aiuto, se vorrai prestarmelo, ma sarò io a dettare le condizioni.»
«Non voglio comandarti. Voglio aiutarti.» Me lo disse in un sussurro tale che avrebbe spezzato il cuore a un angelo.
«Lo so» sospirai, reprimendo l'istinto bestiale che mi aveva conquistato – averlo tra le cosce così a lungo mi stava dando alla testa. «Allora fa come dico, per una volta. Lasciami andare.»
«Sei così piccola. Potrei ucciderti con un solo respiro…» Questa volta mi toccò – toccò davvero – l'incavo della gola. Da come aveva parlato, dai suoi occhi dal luminare sfocato, sembrava perso nei suoi pensieri.
«Erik, lasciami andare» dissi in tono più imperioso, al che lui obbedì in perfetta sincronia, sollevando il suo corpo e separandolo dal mio. Mi tese una mano per aiutare ad alzarmi, ed io la strinsi di buon grado.
«In qualunque cosa tu voglia immischiarti, sappi che ti starò vicino come un'ombra. Lo capisci, questo, vero?»
A tali parole, a malapena sussurrate e forse sognate, annuii con forza. Aveva ragione. Il mio desiderio di vendetta mi consumava, ma anche se non avevo più nulla per cui vivere, dovevo farlo. Mia madre avrebbe voluto così. E anche mio padre. Dopo tutto il male che era stato fatto alla mia famiglia, non potevo restare a guardare mentre la sua ultima componente si autodistruggeva nell'odio per qualcun altro. Per quanto sembrasse impossibile che ci fosse qualcosa oltre questo… ebbene, c'era. La danza, pensai, devo tornare a danzare. Per i miei genitori e per me stessa.
E poi non ero sola. Erik e Monsieur Nadir mi erano amici: singolari amicizie, avrebbe detto qualcun altro, soprattutto nel caso del primo, ma ad ogni modo… Erik mi aveva salvato la vita più volte di quante si potessero contare sulle dita di una mano. Stava dimostrando che perfino una persona come lui – al limite del mondo, di se stesso, di tutto – poteva mutare in qualcosa di migliore. Perché nonostante dentro di lui qualcosa fosse inesorabilmente incrinato, uno spiraglio di luce illuminava col suo lieve chiarore le crepe buie della sua anima in decomposizione. L'amore lo aveva distrutto, e poi salvato, come solo il vero amore può fare. Lui lo aveva provato, aveva lasciato andare Christine, aveva rinunciato a distruggere centinaia di vite solo per l'egoistico desiderio di morte che lo perseguitava da sempre. Aveva aiutato me e il Persiano, per quanto…
Era indiscutibilmente cambiato.
Ci stringevamo ancora la mano. Il freddo delle sue dita mi permeava le ossa.
«Restami vicino, se vuoi. Che tu mi faccia pure da sentinella, se la cosa ti aggrada. Ma ricorda: uno si salva sempre da solo, alla fine.» Fui molto chiara in proposito.
Lasciò andare la mia piccola mano dalla presa della sua, molto più grande e bianca e perfino più magra. Mi toccai le dita, un ronzio nelle orecchie del cuore.
«Ah, eccovi. Selene ha detto che avrei potuto trovarvi qui.» All'udire la voce del Persiano, Erik e io aumentammo notevolmente la distanza tra i nostri corpi, quasi si trattasse di un contagio. Non parlammo più del modo in cui eravamo stati così terribilmente vicini, quell'oggi.
«Meg, dovrai insegnare a quella ragazza il concetto poco persiano di privacy» disse Erik, riferendosi senza dubbio all'innocenza di Selene nel condividere quell'informazione con Nadir, inconsapevole di farci “beccare” occupati in una conversazione così seria, così tra noi due.
Nadir si accigliò. «Vi disturbo?»
«Nessun disturbo, Monsieur. Erik stava proprio per andarsene. Non è vero, Erik?» gli rivolsi un sorriso astuto, a cui lui rispose con uno dei suoi sogghigni più sinistri. «Certo, certo.»
Nadir si grattò la testa, rinunciando a capire cosa stesse succedendo tra gli unici amici che gli rimanevano sulla faccia della terra. Bella coppia di pazzi, pensai con sarcasmo.
«Erik, dovresti ricordare che tra queste mura non esiste privacy. In fondo, le hai progettate tu stesso a questo scopo.»
«Sì, e tutt'ora me ne pento più di qualsiasi altra sciocchezza abbia mai compiuto nella mia vita.»
«La lista è lunga» dissi io con un cipiglio eloquente, ricordando i guai che mi aveva fatto passare ai tempi dell'Opera. Non volevo immaginare cosa avesse combinato nei quarant'anni che precedevano quei mesi incredibili.
«Cercavate anche me, Monsieur?» mi rivolsi al Persiano con la maggiore gentilezza. Gliela dovevo, in fondo. Anche lui mi aveva aiutata molto con la sua presenza rassicurante.
«A dire la verità sì, Meg. Madame Darya mi manda a dirvi che dovrete allenarvi da sola, oggi. È impegnata altrimenti.»
«Spero che non centri Amir in questo» dissi io contrariata, mentre Erik scuoteva la testa, divertito, e il Persiano si apriva in un sorriso imbarazzato.
«Oh, no, Meg. È impegnata con noi sul versante battaglia. È per questo che ti sono venuto a chiamare, Erik: le Loro Maestà desiderano vederti. Hai terminato quella mappa che ti avevano richiesto?»
Erik annuì, apparentemente annoiato.
«Bene, allora dobbiamo fare in fretta. Fra non molto comincerà l'incontro, al quale saranno presenti le Loro Maestà e i comandanti dell'esercito.»
Quindi anche Amir e Darya, pensai.
«Voglio venire anch'io» m'interposi tra loro, seria. Erik sghignazzò ancora, mentre il Persiano ammiccava, sorpreso.
«Non credo sia una buona idea, Meg. Non è un posto adatto a una fanciulla come voi…»
Non volevo discutere su quel punto. «A Darya è permesso, però.»
Erik rise più forte – si stava divertendo a mie spese, il maledetto. Gli dardeggiai contro un'occhiataccia. «Darya è difficilmente paragonabile a una fanciulla.»
«Sì, ma…»
«É una guerriera esperta, Meg» mi spiegò il Persiano con la sua usuale pazienza. «Nessuno deve certificarlo per lei.»
«Che la ragazza partecipi pure, daroga» ribattè Erik, a braccia incrociate. Tutti e due gli rivolgemmo uno sguardo sorpreso: Nadir perché non si aspettava quella novità da parte del suo vecchio ed eccentrico amico, io perché non pensavo di trovare in lui un così facile alleato.
«Se vuole annoiarsi con discorsi che nemmeno capirà, sono affari suoi. Non ti pare?»
«Erik, ma non è appropriato che…»
«A chi vuoi che importi? Oramai…»
«Sì, infatti» annuii io con convinzione. Davvero non volevo rimanere fuori dai giochi ora che si era deciso che, in qualche modo contorto, ne facevo parte.
Nadir guardò prima lui, poi me, e infine sospirò. Sembrava che qualcuno gli avesse fatto espellere a forza quel po' di aria dai polmoni. «Oh, Allah… E va bene. Venite pure, Meg.»
Con mia grande soddisfazione, raggiungemmo tutti insieme la Sala del Trono seguendo Erik attraverso una scorciatoia che dall'arsenale conduceva alla grande e ampia stanza reale. Oltre una porta a vetri, decorata con fini mosaici che formavano un caleidoscopio di colori, il passaggio era in antico salnitro, simile – ma molto più largo e illuminato, e soprattutto più pulito – a quello che mi aveva mostrato Figaro ai tempi dell'Opera. Quando ne uscimmo, tutti e tre respirammo l'aria afosa ma pura della bella Persia, e sbucammo da dietro una porta laccata in legno di mogano – una bruma rossastra nel bianco marmoreo della Sala del Trono. Ci accostammo ad Ezzat e alla compagnia di generali, mercenari e quant'altro con un inchino frettoloso. Roshak mugugnò con aria autoritaria qualcosa che non compresi.
«Non preoccupatevi, è solo leggermente adirato per il ritardo» mi rassicurò una voce dolce e femminile alle mie spalle. Era Selene, l'ancella della regina e interprete di corte, che mi strinse delicatamente una mano tra le sue, altrettanto piccole e scure. Il Persiano soggiunse qualcosa che, anche questa volta, non capii. Fu in seguito Selene a raccontarmi nei dettagli l'esito dell'incontro. Il tavolo al quale tutti erano riuniti attorno era coperto da alcune mappe precisissime del Paese: ben visibile era la regione di Mazenderan, dove dimorava la Khanum con suo figlio, il giovane Shah Naser.
«Dovremmo partire a breve, Vostre Maestà» disse uno dei comandanti dell'esercito, a giudicare dalle medaglie che esibiva sul petto e dal modo in cui faceva penzolare i folti baffi bianchi. Nessuno mi prestò attenzione.
Ezzat annuì: «Sì, è di vitale importanza. Erik» riconobbi il nome del mio amico, «mostraci la mappa.» Certo non perde tempo.
L'ex spettro dell'Opera aprì proprio sotto il naso della sultana una pergamena sulla quale era disegnato a tratti finissimi un palazzo, che in meraviglia non poteva che superare quello in cui ci trovavamo adesso.
«Esistono vari passaggi per entrare nel palazzo» spiegò Erik in un persiano assai eloquente. «Consiglio di prendere questo qui.» Indicò un punto sulla mappa.
Ezzat rimase a rimuginarvi per un po', poi annuì gravemente.
«Non vedo il problema» s'interpose Roshak con la sua voce tonante e sicura. «Attaccheremo di notte, quando meno se lo aspettano.»
«Ci aspetteranno eccome, invece» Ezzat rivolse al figlio uno sguardo che stava a significare: “Devi ancora imparare molto.” «Sappiamo di quanta forza possono disporre?»
«Un esercito minore del nostro, Maestà» rispose Amir, stringendo le dita attorno all'elsa della sciabola che portava sempre al fianco destro, quasi a voler combattere in quel preciso momento un nemico invisibile.
«Allora non ci sono problemi, come vedete, madre.» Roshak appariva molto sicuro di sé e della propria futura vittoria sulla zia e il cugino maledetti.
«Mai sottovalutare il nemico, figlio. Specialmente se quel nemico è…» deglutì leggermente, sfiorando con dita affusolate ed eleganti il prezioso disegno di Erik – un coacervo di botole travestito da palazzo reale.
Roshak annuì, così come gli altri comandanti. Non dava loro alcun fastidio essere influenzati in tal modo da una donna? Forse si fidavano davvero molto della risaputa saggezza della regina. Tutti, notai, riponevano grande fiducia in lei.
«Tra queste, perché ci consigli la strada che hai appena indicato, Erik?» La futura Khanum si rivolse di nuovo a colui che un tempo veniva chiamato “il signore delle botole”.
«Quella attraverso le fogne è la migliore, perché è anche la più segreta e difficile da difendere. Esistono diverse uscite. Una botola è proprio nelle prigioni, a ridosso dell'ingresso, ma bisogna superare le guardie per passarvi attraverso. Sempre dritto, e poi si sbuca all'esterno del palazzo. Le fogne hanno numerose vie e botole che ho progettato appositamente per depistare eventuali aggressori. E molte trappole, anche. Qui sono segnati i percorsi principali.»
«Dovremmo dividere l'esercito in parti uguali per attaccare da diversi lati, così da confondere il nemico» concluse Ezzat in tono grave. Aveva un cipiglio che riconoscevo: era immersa in una profonda riflessione, ma il suo teatro era il campo di battaglia, e le luci della ribalta non erano altro che le grida di guerra dei suoi uomini.
«Sarete voi a guidare l'esercito?» chiesi senza pensare, nel mio francese incomprensibile alla maggioranza dei presenti. Tutti si voltarono verso la figurina anonima che aveva parlato, ma io non arrossii, sebbene messa a nudo dagli sguardi scrutatori degli astanti. Godetevi pure lo spettacolo. Ecco una straniera che ha il coraggio di rivolgersi direttamente a Sua Maestà.
Erik mi scagliò un'occhiata indecifrabile. Ezzat si limitò a sorridermi – un sorriso tagliente come una lama: «No. L'Ombra di Dio avrà il comando; io resterò nelle retrovie, come si confà al mio ruolo e al mio sesso.» Era palesemente sarcastica al riguardo, tanto che non capivo come gli altri comandanti non potessero accorgersi di essere stati tutti abbindolati da lei. Erano sotto il suo diretto comando – il comando di una donna – e neanche se ne avvedevano. Darya tossicchiò, celando una risatina. Selene si agitò, a disagio, al mio fianco. Monsieur Nadir nascose un sorriso sotto i baffi.
«Manderemo avanti una compagine ben nutrita contro le mura del castello, a sud, per condurre la battaglia verso più fronti.» La regina riprese il suo discorso in persiano e indicò un punto sulla mappa di Erik. Tutti si sporsero per guardare meglio.
«Erik, tu guiderai i soldati nei cunicoli delle fogne.»
«Avverto, però, che il lezzo lì è terribile.»
«Non ci spaventa.» Ezzat gli rivolse un grazioso sorriso al miele.
«Mia signora, le pare… saggio affidare a lui il comando delle sortite più importanti?» disse un altro generale, sempre in persiano, lo sguardo fisso su Erik come se fosse un enorme cumulo di letame. Strinsi i pugni.
«Lui è l'unico che conosca quel percorso a menadito. In fondo, è una sua invenzione.» Roshak non sembrava nutrire per Erik particolari simpatie, a differenza della madre, ma parlò in modo giusto.
Era più pratico dei pregiudizi.
«Ci sono domande?» la sua voce tonante riecheggiò nella sala d'ombra e pulviscolo. Tutti scossero il capo all'unisono, in preda ai mormorii. Nessuno ebbe il coraggio di replicare. La parola del Re dei Re era legge, in quel Paese. «Bene.» Roshak si rilassò sullo scranno accanto alla madre. Le si rivolse con baldanza: «Darò onore al nostro sangue col mio valore in battaglia.»
«Così sia, figlio.» Ezzat gli pose una mano sul braccio, ma non lo accarezzò. Egli non glielo avrebbe permesso dinanzi ai suoi uomini.
«E l'avanguardia vicino alle mura sud? Dovremmo porre grande attenzione agli zamburak.»
«L'avanguardia resisterà fino all'arrivo dei rinforzi, che giungeranno presto. Anche il nemico si attende un attacco a sorpresa, ma non sa da dove attaccheremo. È uno specchio per le allodole, almeno fino alla riuscita delle sortite.»
Tutti annuirono in silente comprensione. «Allora è deciso. L'incontro è concluso. Domani partiremo all'alba.» Roshak appariva alquanto soddisfatto all'idea, Ezzat un po' meno. La marmaglia si sciolse come neve al sole, sparpagliandosi in tutti gli angoli della mastodontica Sala del Trono. La regina si eresse dal suo scranno, massaggiandosi le tempie in un gesto di debolezza che non si sarebbe concessa se fosse stata consapevole che qualcuno – ossia io – la stava guardando. Si avvide della mia insolenza e ne sorrise.
«Immagino che tu non starai con le mani in mano, fanciulla, ad aspettare la giustizia del Re dei Re.»
Deglutii, mentre le sillabe del suo francese accentato ma grammaticalmente perfetto mi sibilavano nei timpani.
«Attenta, ragazza di tenebre: il cammino nell'oscurità è arduo, e questa vecchia signora, che si nascondeva al buio imparando a memoria L'arte della guerra quando aveva la tua età, invece di eseguire i propri doveri di moglie e madre, ne sa qualcosa.»
Erik e il daroga apparivano sgomenti che la regina in persona mi avesse rivolto la parola.
«Ho perso quattro figli prima della nascita di Roshak.» Accennò con lo sguardo al giovane, che ora studiava le mappe, perso nel suo mondo di guerra e sangue.
«Non perderò anche lui. Vinceremo questa battaglia, e anche quelle a venire, se sarà necessario. E tu avrai la giustizia che meriti, come il mio popolo.»
Io voglio vendetta. Voglio strangolare la Khanum, tua sorella, con le mie stesse mani.
Ma tacqui. Mi limitai ad annuire e ad allontanarmi con un inchino, senza attendere il permesso per congedarmi. Selene mi si affiancò.
«Vado a infilzare qualcos'altro con la spada nell'arsenale. Se Darya mi cerca, mi troverà là. Puoi dirle questo?» chiesi alla giovane ancella. Ella annuì con gentilezza. Io le rivolsi il lampo di un sorriso, ma era ombra e detriti sul mio volto macerato dalla sofferenza. Sognavo la morte di mia madre – e quella di mio padre – ogni notte, oramai. Solo la vicinanza di una bestia mio simile, Erik, riusciva a placarmi: la consapevolezza di non essere sola in quell'inferno. Ragazza di tenebre, pensai. È un buon soprannome. Sempre meglio di Faccia di Scimmia, comunque.
Avrei fatto onore alla fama che questo comportava? Avrei davvero ceduto ai miei istinti più oscuri?
Partirò per la guerra, conclusi. Non c'è altra soluzione.
Note dell'autrice:
* Il titolo è tratto direttamente da quello di un capitolo di uno dei miei romanzi preferiti, Storia di una ladra di libri, che consiglio a tutti di leggere.
Mi scuso per il lieve ritardo, ma l'università mi sta stressando anche se non ho ancora cominciato a studiare come si deve (non so come farò quando questo accadrà): ho avuto qualche problema classico dei pendolari, io che non sono abituata ad esserlo, e qualche crisi esistenziale degna di me. Insomma, non è stato un periodo facile, questo, ma ho iniziato a scrivere il 35° capitolo e vi annuncio che ne mancano due e mezzo (compreso l'epilogo) alla fine di questa storia a cui sono tanto affezionata.
Mi sono divertita tantissimo nello scrivere la scena del bagno dal punto di vista di una maligna e beffarda Meg (e non credo che Erik non abbia mai visto una donna nuda, comunque; il mio personale headcanon è che abbia studiato anatomia o che perlomeno si sia interessato alla materia in gioventù, e che quindi conosca anche l'anatomia femminile, ma che comunque non abbia mai avuto rapporti veri e propri con una donna, questo mi pare ovvio). La seconda scena tra loro – quella ambientata nell'armeria – trasuda tensione sessuale da tutti i pori (scusate) e ne sono perfettamente consapevole, ma prima che i nostri due eroi si arrendano a suddetta tensione ci vorrà ancora un po' di tempo, logicamente.
Ah, sorry per la mia poca esperienza nello scrivere scene di strategia militare, ma come avrete notato proprio non è il mio campo, non ho mai letto libri sull'argomento quindi mi sono basata sulla fantasia, e si nota. Grazie per la comprensione.
E ora, le fantastiche recensioni:
ondallegra: Davvero credi che Erik sia IC? È molto difficile per me gestirlo, perché nonostante conosca bene il personaggio (che in questo caso è sì, più modellato sul libro, ma ha anche qualcosa del musical), qui affronta un suo percorso personale completamente nuovo – una redenzione che però non deve snaturarlo del tutto. Insomma: più Erik diventa umano, meno Meg si sente umana. Più avanti vanno, e più diventano simili, paradossalmente. Volevo giocare su questo punto. Mi fa piacere che trovi la trama originale (secondo me non lo è; voglio dire, è un miscuglio tra Il conte di Montecristo e Il trono di spade, che stavo leggendo nel periodo in cui inventavo la trama di questo “secondo atto”, quindi ne sono rimasta influenzata). Ti aspetto nei miei incubi in caso non terminassi la storia, ma come ho detto prima sono a buon punto! :D Un bacio! **
bibliofila_mascherata: Lieta di averti fatto piacere questa ship da pazzi (Erik e Meg, ossia). Comunque sei proprio una brava lettrice: in effetti Cime Tempestose è uno dei miei libri preferiti in assoluto e sì, il rapporto tra Erik e Meg si basa sulla stessa sintonia di quello di Cathy e Heathcliff, con la differenza che è molto più salutare e mentalmente stabile del secondo. Insomma, se i protagonisti del romanzo della Brontë hanno una relazione distruttiva, spero che traspaia dalla mia storia che quello di Meg ed Erik non lo è, anzi. Fa bene ad entrambi, credo – non che siano normali, quei due, eh… Era solo per precisare. Complimenti per aver notato il riferimento ad un classico della letteratura inglese! Un bacione! <3
debbythebest: Spero che ti sia piaciuto anche questo capitolo. Il prossimo sarà denso di avvenimenti, ma sì, sto trattando con più lentezza il rapporto tra Erik e Meg e il suo svolgersi e i sentimenti di lei per lui. Capisci che adesso la testa di Meg è da un'altra parte, ma il suo cuoricino (col quale lei non è molto in sintonia) le sussurra di emozioni indicibili all'orecchio… Ci vorrà ancora un po' perché la coppia “scoppi”, ma arriverà il momento giusto, vedrai. Baci baci :*
Malinconica: Grazie per i complimenti! *piange di felicità* E devo dire che aspettavo una tua recensione, ma non scusarti. Mi dispiace che tu abbia avuto dei problemi, li ho avuti anch'io in questo periodo (e quando mai non li ho? Ho degli sbalzi d'umore allucinanti), ma scrivere e leggere le vostre recensioni così entusiaste mi risolleva il morale. Meg, come hai notato, sta subendo un'evoluzione caratteriale, e così anche Erik e il loro rapporto. Che ne dici della scena del bagno? A me ha fatto ridere un sacco, perché mentre scrivevo mi immaginavo l'espressione scioccata di Erik, ahaha. XD Un bacio anche a te! :333
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Capitolo 31 *** Danza macabra. ***
xxx.
danza macabra
Quella notte fui preda di sogni inquieti che non si dissolsero al baluginio della candela sul comodino. Mi svegliai ansante, stravolta, il viso striato di lacrime. Mi scostai una ciocca di capelli dalla fronte. Ansimavo, il cuore traboccante di ricordi non voluti, non cercati.
Ammiccai e mi passai una mano sulla fronte. Non feci in tempo ad alzarmi che udii un lieve bussare alla porta. Deglutii. «Chi è?» chiesi con voce rauca.
«Sono io» mi rispose una voce dolorosamente familiare. Sussultai.
«Erik» sospirai. «Cosa…?»
«Ti ho udita urlare. Posso?»
Assentii, ed egli fece il suo ingresso, abbigliato in modo molto simile all'uso persiano, ma non privo della sua inseparabile maschera nera, che gli copriva la maggior parte del volto devastato. Sulla soglia, appariva stranamente esitante. Mi rabbuiai. «Mi spii spesso mentre dormo?» chiesi in tono di dura disapprovazione. Lui si aprì in una smorfia che da lontano – forse – si poteva definire sorriso. «No. I miei appartamenti sono nell'ala affianco.»
«Ho urlato davvero? E che cosa ho detto?»
«Niente di comprensibile.» Avanzò di qualche passo, giacché io gli facevo segno di avvicinarsi. Ero ancora nascosta tra le pregiate lenzuola di seta azzurra – un cambiamento non da poco, visto come avevo dormito in quelle ultime settimane. Tutto, nella mia stanza, era azzurro: sembrava un pezzo di cielo sereno, ma mancava la luce del sole. Ora la notte inghiottiva ogni cosa. Ricordai quanto l'oscurità mi fosse sempre sembrata più accessibile, più vicina alla mia personalità. E anche a quella di Erik. Siamo uguali. Il pensiero era spaventoso.
Lui si accostò al mio capezzale e si sedette sul bordo del letto, sempre esitante, quasi si aspettasse che da un momento all'altro gli urlassi di sparire dalla mia vista. Cosa che non sarebbe accaduta, naturalmente. Quante notti avevamo trascorso l'uno accanto all'altra, balsamo reciproco delle nostre pene?
«L'hai sognato di nuovo, vero?»
Non c'era bisogno che rispondessi. Mi conosceva troppo bene. Mi asciugai le guance con un movimento brusco: non volevo farmi vedere in lacrime, era umiliante. Ma con lui riuscivo ad essere me stessa e a mostrare anche le parti più vulnerabili del mio io, la me stessa che soffriva in silenzio, digrignando i denti con il volto nascosto nel cuscino.
«Ogni volta che chiudo le palpebre, lo vedo. Il cadavere di mia madre. Quello di mio padre. Il sangue degli uomini che ho ucciso.»
«Se la cosa ti tormenta tanto, allora perché continuare? Perché uccidere ancora?»
Si chiedeva perché non gli lasciassi campo libero. Volevo una vendetta: ebbene, perché non attuarla tramite le sue mani già fradice di sangue? Avevo un assassino esperto a mia disposizione, e mi aveva promesso un cuore.
«Non voglio essere in debito con te. Il pensiero mi è insopportabile» dichiarai con ostinazione, ed era vero. Era una faccenda che dovevo risolvere da sola, se ero abbastanza donna da affrontarla. Lui annuì. Aveva capito.
«C'è qualcos'altro.» Non era una domanda. Non sapevo come, ma riusciva a leggermi nella mente come nessuno mai. Era quasi inquietante.
Inchiodai i miei occhi scuri nei suoi. Strinsi le ginocchia al petto, consapevole di indossare solo una camicia leggera sotto la quale ero nuda. Lui sedeva al capezzale del mio letto, ben contento che le lenzuola coprissero il mio (inesistente) pudore. Ricordai quanto si era sforzato di distogliere gli occhi dal mio corpo nudo il giorno del bagno, e mi morsi un labbro per reprimere un sorriso. Talvolta era un tale bambino.
«Io voglio uccidere. Ne sento il bisogno. Mi tormenta, mi ossessiona, ma non riesco a smettere.» Avevo parlato in quel che era poco più di un sussurro flebile. Mi coprii una mano con la bocca, ingoiando un fiotto di nausea improvvisa. «Mi chiedo che razza di creatura io stia diventando. Dove andrò a finire. Non è solo la vendetta che voglio, è che… sono così arrabbiata. Sono accecata dalla rabbia. Ho paura di perdermi, Erik.» Lo guardai con occhi pieni di un'immensità eclatante. Nei suoi trovavo il mio riflesso. Mi osservava, ascoltando in silenzio. Ecco una qualità che apprezzavo: nei momenti seri, sapeva quando tacere. Il silenzio era un sudario piacevole su di noi. Vi erano molte parole non dette, tracciate nell'aria tutt'intorno come pulviscolo invisibile. Erik riusciva a leggerne il codice segreto alla perfezione.
«Anche per me era così. Quando ero molto giovane, molto più giovane di te. E più solo.» Fece per accarezzarmi una spalla, un gesto di tenera rassicurazione che avrebbe sciolto l'inverno nel mio cuore, ma si raggelò. Nessuno dei due era abituato a simili manifestazioni di… affetto. Affetto, sì. C'era affetto tra noi. Amicizia. Avevamo affrontato così tante vicissitudini insieme che non potevamo non essere legati. E il cordone che stringeva le nostre anime in una sola era molto resistente.
«Sei una brava persona, Meg. L'oscurità ti tenta, ma alla fine seguirai sempre la tua strada. Sei troppo forte perché tu soccomba ad essa.»
Chinai lo sguardo. «Non lo credo.»
«É vero, invece. Sei la persona più forte che conosca. E sei anche insopportabile, ostinata, impudente, indisciplinata, sfacciata…»
«… Ehi, ora basta con gli insulti.»
«… E arguta, divertente, affascinante…»
«No, ho cambiato idea, continua pure.»
Lui sorrise. Lo imitai.
«Anche tu hai un certo fascino, quando vuoi essere piacevole» aggiunsi, sogghignante. Mi dondolai sui talloni con aria saputa. «Ma sei anche il più grande bastardo che abbia mai conosciuto.»
«Detto dalla tua voce da cornacchia, è un complimento.»
«Almeno io ho un naso.»
Erik fece una smorfia e me lo pizzicò delicatamente, mentre io me la ridevo.
«Sei davvero invidioso del mio naso.»
«Taci, piccola insolente.»
Risi ancora, mentre lui scuoteva il capo, con l'aria di un genitore che abbia a che fare con un marmocchio d'indole irreparabile. Mi immaginai come dovesse essere stato da bambino. Mi si strinse qualcosa nel petto: un tale genio in un corpo così piccolo e magro… senza amore. La violenza aveva plasmato il suo mondo fin dalla più tenera età, e di lui, del bambino che era stato – innocente, intelligente oltre ogni limite, solo – aveva fatto un mostro.
Le nostre risate si affievolirono. Puntai gli occhi sulla sua gola bianchissima, la pelle traslucida al lucore della luna.
«Resta.»
Lui sapeva a cosa mi riferivo. Gli feci comunque cenno di stendersi al mio fianco, sotto le lenzuola odorose.
Si mosse, a disagio.
«Non credo sia appropriato…»
«Non temere, non ti mostrerò le mie grazie come il giorno del bagno.» Lui s'imporporò, e io sogghignai al ricordo. Imbarazzarlo a volte era facilissimo.
«Resta. Ti prego.» Non farmelo ripetere.
Lo immaginai alzare un sopracciglio inesistente sotto la maschera. «É un ordine?»
«Sì. Sei mio prigioniero.» Gli afferrai un polso e feci finta di ammanettarlo.
Lui sbuffò. «Divertente.»
«Non avevi detto che lo ero?»
Il silenzio ci inondò per qualche istante di trepidazione. Aspettavo la sua risposta, ma non dovetti attendere a lungo.
«D'accordo.»
S'inerpicò sotto le coperte, probabilmente terrorizzato al pensiero che qualcuno della servitù potesse entrare nella stanza senza preavviso e scoprirci in quella posizione compromettente. Io lo trovavo divertente, lui non condivideva la mia opinione.
«Parla di qualcosa.»
«E cosa dovrei dire?»
«Una storia del tuo passato. Una canzone. Mi piace il suono della tua voce, ma mai quanto piace a te.»
«Questo cosa vorrebbe dire?»
«Che hai un ego più grosso di Parigi.» Ridacchiai quando lui mi fece il solletico a un fianco per zittirmi.
«Non iniziare con il solletico, ti avverto che sono letale in questo genere di lotta.» Ricordai le battaglie con Christine a quel gioco infantile, quando rimanevo a dormire a casa Valerius e ci divertivamo a scagliarci i cuscini addosso come due ragazzine. Quanta semplice gioia in quei momenti… Mi mancava come il sole.
Frattanto, Erik aveva sollevato le mani in un gesto di muta resa. «Come desideri, Madamoiselle.»
Si accorse del mio improvviso mutismo e incrociò le braccia al petto. «Cosa pensi?»
«A tempi migliori.» Mi accoccolai accanto a lui, la testa sulla sua spalla. Era ossuto e scomodo e freddo, ma non m'importava. Non avrei abbandonato quella vicinanza per nulla al mondo.
«Canta.» Chiusi gli occhi. Lo udii sospirare e dischiudere le labbra.
Quel che ne seguì fu un sussurro melodioso che mi fece rabbrividire di piacere in ogni fibra. Se fossi stata in piedi, le mie ginocchia avrebbero ceduto e mi sarei liquefatta sul pavimento. Era un incanto. Sperai che non si accorgesse dell'effetto che aveva su di me, ma era vano. Era ben consapevole del potere della sua voce divina.
«Oh, Erik…» mormorai, il naso nella sua spalla. Inspirai forte il suo odore. Non trascorse molto tempo prima che Morfeo mi accogliesse tra le sue braccia.
Solo la notte ci avrebbe cullati in quel modo lieve, intimo, segreto. Erik mi lasciò prima del sorgere dell'alba, di modo che la stanza fosse vuota quando Selene fosse venuta a svegliarmi. Non voleva che qualcuno ci scoprisse insieme così – io, nella mia vestaglia da notte, aggrappata a quell'uomo che sembrava giunto da un altro mondo. No, decisamente no, avrebbe detto lui. E potevo comprendere il perché.
I preparativi per la partenza verso il palazzo di Mazenderan occuparono un giorno intero. Partimmo all'alba del giorno dopo, una carovana che lasciò quasi deserta la città. Infatti solo le donne, i vecchi e i bambini erano rimasti a salutare i mariti, i padri e i figli che facevano parte della Resistenza e andavano a ingrossare le fila dell'esercito di Roshak ed Ezzat. Stendardi col loro simbolo garrivano al vento. Il sole picchiava sui veli dei soldati, che li indossavano per ripararsi il capo. Il trottare di cavalli e cammelli riempiva il deserto come un incendio, e la sabbia si levava al cielo.
Io cavalcavo con Erik, che a sua volta era alle calcagna della regina. Quest'ultima era vicina al figlio, serrati entrambi da un invalicabile cerchio di guardie. Darya e Amir erano alla testa del loro esercito, Monsieur Nadir accanto a noi.
Quando, affacciata alla finestra, vidi per la prima volta quella compagine di armati riunirsi fuori e dentro le mura del palazzo, mi si mozzò il fiato in gola. Non avevo mai visto tanta gente in un unico posto.
«Quanti soldati ci sono?»
«Più di quelli del nemico» rispose Erik, vago. Il cappuccio nero gli copriva la testa, ma forse sarebbe stato meglio se si fosse vestito di bianco. Il colore nero attirava maggiormente la luce del sole, e tratteneva il calore corporeo. Malgrado la temperatura fosse più alta di quanto potessi mai aspettarmi a Parigi, le mani di Erik erano ancora fredde. Qualche volte le stringevo per rinfrescare le mie, e mi divertivo a sentirlo sbuffare e lagnarsi che lo stavo usando come refrigeratore personale.
«L'esercito di Assiye e Naser sta avanzando proprio dinanzi a noi» osservai. Saremo sopravvissuti a uno scontro in campo aperto?
Erik intuì la mia domanda rimasta muta. «Le nostre legioni sono più numerose, e questo il nemico lo sa. Inoltre, hanno me dalla loro parte.»
Gli lanciai un'occhiataccia dal basso. «Sempre così pieno di te. Mi stupisco che tu non esploda da un momento all'altro.»
«Sono un genio, lo so.»
Tu odi te stesso, pensai, rabbuiata. Ti sei sempre odiato.
«Per essere un cadavere vivente, mi trovo francamente spassoso.»
«Sei un tale imbecille.» Lo colpii a un braccio con il mio piccolo pugno, ma non tanto da fargli male sul serio. Lui fece una smorfia irrisoria.
«Erik» proseguii, questa volta seria, «ci stanno venendo addosso.»
«Hai paura? Sappi che se ne hai, è legittimo. Siamo tutti spaventati.» I suoi occhi si posarono sulla figura baldanzosa di Roshak. «Beh, quasi tutti» grugnì.
Scossi la testa. Il piano era semplice ma efficace: una volta arrivati a Mazenderan, la battaglia avrebbe avuto inizio. Una compagine di duecento uomini, guidata da Erik – con il Persiano come suo vice – si sarebbe distaccata dalla gran parte dell'esercito per compiere una via trasversale che avrebbe poi portato alle fogne del palazzo e ai passaggi segreti per entrarvi. Sgominate le guardie nemiche, avrebbe aperto le porte agli alleati dall'interno. Secondo Roshak, avevamo la vittoria in pugno: quello era il miglior piano strategico mai congegnato, e ovviamente il merito di quella trovata sarebbe ricaduto sul principe in persona, il futuro giovane Shah. Sua madre, cauta com'era, non dava sfogo al proprio entusiasmo. Era seria e terribile come una valchiria, anche se su insistenza dei generali sarebbe rimasta nelle retrovie, al sicuro. La madre dello Shah avrebbe avuto una protezione degna del suo lignaggio.
Il primo litigio della giornata fu quando, al calar della sera, ci accampammo nel mezzo del deserto. Avrei dovuto condividere una tenda con Selene e le altre poche ancelle che seguivano la regina dovunque come ombre, il che non importava. Il peggio fu quando mi accorsi che effettivamente tutti mi trattavano come fossi parte della servitù – anzi, con maggior indifferenza. Mi infuriai. Essere sottovalutata in quel modo, come una bimba da nulla, mi dava alla testa.
Eravamo riuniti nella tenda di Nadir – lui, io, Erik, Amir e Darya – quando quest'ultima mi riferì che Ezzat aveva dato ordine che facessi parte della sua guardia e che rimanessi al suo fianco durante i combattimenti. In poche parole, ne sarei rimasta fuori.
«Ciò che ho imparato da te non è stato per difesa» ringhiai ad una Darya più inflessibile che mai.
«É un ordine. Meg, è molto rischioso.»
«Mi avevi detto che ero pronta! Ho bisogno di scendere in battaglia!» Il richiamo del sangue era troppo forte. Temevo che alla lunga mi avrebbe fatta impazzire (come mio padre) e che avrei finito per sgozzare qualcuno dei miei camerata.
«Vuoi forse morire? Così sarai più al sicuro. Se le cose si mettono male, scappa, mettiti al riparo. Le guardie penseranno a te e alla regina» insistette Amir.
«Non voglio che altre persone pensino cosa fare di me» ribattei, picchiando il pugno sul tavolo. Nadir sobbalzò, e mi pose una mano sul braccio. «Calmatevi, Meg. So che siete sconvolta, ma state esagerando.»
Erik rimaneva muto, le braccia incrociate al petto come una cariatide vestita di notte.
«Loro mi hanno tolto tutto.» Strinsi i denti e ringraziai il cielo per la fermezza che ancora conservavo nella voce. Mi resi conto di fare la figura della bambina capricciosa.
«Tutto a parte la vita. Conservala» fece Darya, più dolcemente.
Scossi il capo. Non capivano. Nessuno capiva. Non ho più nessuna vita. Mi hanno tolto l'identità, i capelli, mia madre. Mi hanno strappata al mio Paese. Se voglio vivere, devo conquistarmela, la vita: col sangue. È il prezzo da pagare. Li farò soffrire tutti – tutti – come hanno fatto soffrire mia madre. Devo ucciderli. Devo…
Uscii fuori dalla tenda, le mani sulle tempie. Stavo impazzendo, lo sentivo. Stavo diventando un vampiro assetato di sangue. Non ero più in me. Che realizzazione terribile.
Udii dei passi alle mie spalle, e li riconobbi dal loro incedere felpato. Erik. Percepii le sue mani sulle mie spalle e diedi in un brivido. Era così vicino a me che potevo tranquillamente poggiare la testa sul suo petto. Ma non lo feci. Alla fine, non facevo mai nulla. Mi limitavo a desiderare, a crogiolarmi nella mia follia. Perché era una follia, senza dubbio. Non avrei mai abbattuto il ponte che ci separava, così esteso da straziarmi.
«Meg» mi sussurrò all'orecchio. «Pensa a cosa avrebbe voluto tua madre per te.»
«Di certo non questo» risposi, e inghiottii un singhiozzo malformato. Lui posò il mento sul mio capo, le labbra tra i miei capelli. Quale calma mi pervadeva nel suo abbraccio… Malgrado le insidie che dovevo affrontare a breve, mi sentivo sicura, protetta. La salvezza era nelle nostre presenze vicine, nel filo indissolubile che ci legava.
«Ti prometto che avrai giustizia, Meg. E che farai la tua parte.»
Capiva che il sentirmi inerme mi faceva rabbrividire fin nelle viscere. «Non mi serve una promessa da te. Tu non puoi nulla sulle mie decisioni. È una cosa che debbo conquistarmi da sola. E lo farò, te lo posso garantire.»
Mi voltai e gli rivolsi uno sguardo determinato. Il suo, invece, era astuto e attento come sempre.
«Resterò al mio posto, se è ciò che Sua Maestà vuole» sottolineai con grande sarcasmo.
«Meg, promettimi che non ti caccerai nei guai.»
«Quando mai ho infranto una promessa?»
«Meg.»
Sapeva che eravamo entrambi dei gran bugiardi. Sbuffai e gli diedi una pacca rassicurante sulla spalla.
Lui si massaggiò le tempie, come se avesse davvero a che fare con un'adolescente turbolenta.
«Mia cara, sei terribile. Mi chiedo come quei santi dei tuoi genitori siano riusciti ad allevarti.»
«Mi hanno allevata splendidamente. E poi, avresti dovuto conoscermi da bambina. Ero molto più pestifera di adesso.» Sogghignai e lo lasciai solo a rimuginare sulle mie parole, e sulle azioni che intendevo compiere.
In realtà il mio intento era semplice: se recarmi alla spedizione capitanata da Erik nelle fogne del palazzo della Khanum era impossibile, sarei davvero rimasta nelle quinte. In allerta, pronta a difendere Ezzat e attenta a udire ogni ronzio sulla posizione della sorella Assiye. Una volta che fosse stata catturata, o perlomeno localizzata, non importava quanti uomini o quante miglia ci distanziassero: sarebbe stata alla mia mercé. Non anelavo altro.
Era tutto pronto per la spedizione: Erik, Nadir e i loro uomini; l'avanguardia di Roshak; la retroguardia che proteggeva Ezzat, di cui avrei fatto parte anch'io, nel ruolo di guardia del corpo. Sapevo che, tuttavia, quella era solo una scusa per tenermi buona e lontana dal pericolo, e avrei dovuto ringraziare la regina ed Erik e Darya e chiunque avesse pensato a me in questo modo, ma non ero dell'umore giusto. Il sangue mi ribolliva nelle vene: il richiamo barbarico della guerra mi suonava nei timpani e non riuscivo a metterlo a tacere. Volevo combattere. Volevo uccidere. Ero diventata una bestia, la mia peggior paura.
Selene mi rivolse uno sguardo amico, al mio fianco alla destra della regina. Quest'ultima si limitò ad osservare l'insoddisfazione, la fame sul mio viso.
«So che cosa vuoi» mi disse in francese. Io, ancora stupita che mi rivolgesse la parola, poiché il suo rango era tanto più elevato del mio, la osservai di rimando.
«Sono anni che rimango nelle retrovie, ad aspettare che i miei uomini ritornino sani e salvi dalla guerra. Prima mio padre, poi mio marito, e infine mio figlio… Eppure sono sempre rimasta qui, nell'ombra, a tessere la mia ragnatela senza che nessuno se ne avvedesse.» I suoi occhi erano onice lucida. «Ci vuole coraggio anche per questo. Per aspettare. Troverai il tuo posto, ragazza di tenebre.»
Annuii, ringraziandola a mezza voce per il consiglio. Selene, che aveva ascoltato tutto, mi riservò uno sguardo incuriosito, ma non disse nulla.
Seppi qual era il mio posto quando per prima si staccò un'avanzata di esploratori dal nostro esercito. Col senno di poi, non fu una delle mie idee più brillanti, ma insistetti perché non ero più in grado di stare ferma. Il mio animo si tendeva verso la guerra in maniera inconcepibile. Come esploratrice avrei potuto sostenere un ruolo comunque più attivo del solito, e non sarei rimasta con le mani in mano. Avrei ottenuto una parte in questa tragedia.
«É il mio posto» dissi alla regina, sapendo che lei avrebbe capito. Ezzat corrugò la fronte, poi annuì. «Andrai con gli altri soldati ad esplorare il terreno circostante in cerca di avanguardie del nemico. Selene verrà con te, in qualità di interprete.» Sussurrò parole di incoraggiamento alla ragazza, che obbedì senza paura. O perlomeno, senza mostrarla.
Gli altri soldati del mio gruppo sembravano solo leggermente infastiditi dalla mia presenza e da quella di Selene. Eravamo donne, e pertanto un peso. Io la pensavo diversamente.
Il saluto di Erik fu il più straziante. Si limitò a stringermi una mano, e fu un bel gesto perché stava a significare che mi considerava sua pari. Mi mormorò un: «Resta viva» che profumava di tutte le cose che non ci eravamo detti ancora, i momenti che non avevamo ancora vissuto e quelli che non avremo esplorato mai insieme. Sapevo che sarebbe venuto con me se ne avesse avuto la possibilità.
«Tornerai presto» mi assicurò Darya, anche se non sapevo se voleva convincere più me o se stessa. Salutai gli amici che mi ero fatta in quelle settimane incredibili.
Solo che tutto aveva più che altro il retrogusto acido di un addio.
«Attenta a non pestarmi i piedi, donna» disse il soldato accucciato davanti a me, in un sibilo aspro che era inconfondibile alle mie orecchie, sebbene Selene mi traducesse le sue parole con maggior garbo. Gli lanciai un'occhiataccia.
«Scusa tanto, uomo» mugugnai con astio. Non ci fu bisogno che Selene traducesse. Ci scambiammo sguardi in cagnesco, ma la discussione terminò lì, con grande sollievo dell'interprete di corte. Non le piaceva il conflitto, eppure aveva seguito la sua regina in guerra senza discutere. Il suo coraggio silenzioso mi ricordava quello di un'altra mia vecchia e cara conoscenza, amata e perduta: Christine. Se avesse potuto vedermi adesso, non mi avrebbe riconosciuto nella giovane donna spigolosa e sarcastica che era stata la sua migliore amica ai tempi dell'Opera. Ora ero una piccola furia di male e ossa, ossessionata dall'idea della vendetta. Solo l'amicizia quieta di Erik mi faceva ricordare chi ero davvero. Mi stavo perdendo del tutto? Avrei oltrepassato il punto di non ritorno? Avevo già ucciso; uomini innocenti, per di più, anche se per legittima difesa – eccetto per Senza Nome. Ero macchiata a vita: in qualunque modo ne sarei uscita fuori, non sarei più stata la stessa comunque. Mi chiesi se un giorno Christine mi avrebbe rivista per leggere i segni del male sul mio viso. Sarebbero stati tanto evidenti? L'avrei rivista davvero?
Se vuoi farlo, devi uscire viva da questa situazione. E così avrei fatto.
«Non c'è nessuno. Possiamo tornare indietro» annunciò il capitano della spedizione. Eravamo una dozzina, e tutti sembravano più o meno lieti di tornare con l'esercito e alla marcia. Fu quando ci voltammo che ci cascarono addosso.
Si erano nascosti in un nugolo di alberi vicini e ci stavano osservando da chissà quanto tempo. Il simbolo della rosa rossa era brillante sui pettorali delle loro armature, e mi fece ribollire il sangue. Solo allora mi ricordai che io non indossavo che un'armatura di fortuna, una corazza per coprirmi il cuore, i polmoni e le costole molto leggera, regalatami da Darya, che ne aveva trovato – forse per miracolo – una della mia taglia minuta. Mi andava ancora un po' grande, ma questo non mi impedì di estrarre la spada e difendermi dal fendente di un uomo grosso il doppio di me, ma resistetti. Lottammo ferocemente – io che danzavo all'indietro per evitare i suoi affondi, proprio come mi aveva insegnato Darya, con la mia velocità sviluppata – e gli affondai la punta dell'arma nella fessura sotto l'ascella. Zampillò sangue, e l'uomo ululò di dolore. Un sasso in testa lo fece crollare a terra una volta per tutte: con mia grande sorpresa, notai Selene che, dietro di me, aveva lanciato quel sasso. Mi aveva aiutata.
«Grazie» le urlai nel caos di sangue e membra spezzate che era lo scontro. Le feci segno di non lasciare il mio fianco, ed ella si affrettò a seguire il suggerimento, tremante e ancora incredula di ciò che aveva fatto per darmi una mano. Come si vedeva, e malgrado la mia indipendenza, accoglievo di buon grado un po' di man forte.
Mi accorsi che lo scontro non stava andando bene per la nostra fazione: eravamo rimasti in sei, e gli altri – l'odiato nemico – erano in vantaggio numerico. Mi avvidi anche che ad alcuni non venivano inflitte ferite mortali, ma solo quel tanto da stordirli e catturarli. Cominciarono a legarli con delle corde e a trascinarli verso una meta sconosciuta.
«Oh, no… Non di nuovo…» Non mi sarei fatta intrappolare di nuovo come un mero topo. Caddi a terra quando qualcuno mi colpì forte la testa con l'elsa della lama. Mi pestarono la mano della spada, confiscandomi l'arma, e guaii di dolore. Ovviamente i miei propositi erano andati a farsi benedire.
«Selene…!»
Avevano legato anche lei, e la trascinavano di forza, anche se ella sembrava non aver opposto troppa resistenza – quel tanto da non farsi ferire gravemente, a differenza della sottoscritta. Qualcuno mi afferrò per le gambe e mi trasportò di peso per una strada sabbiosa, fino a rinchiudermi in un carretto insieme a tutti gli altri – quelli che erano rimasti. Erano tutti storditi e feriti, ma vivi.
«So cosa vogliono fare. Me l'hanno già fatto una volta» borbottai a Selene, che tradusse agli altri. Non sapevo se mi avrebbero ascoltata o meno, ma almeno avrei tentato.
«Vogliono portarci al palazzo della Khanum e farci svelare i nostri piani sotto tortura» disse il comandante della spedizione. Aveva indovinato perfettamente. Annuii quando Selene mi tradusse le sue parole.
«Siamo spacciati. Ci chiuderanno tutti nella camera delle torture!» disse un altro, terrorizzato.
Eravamo tutti impauriti e sanguinanti, chiusi in quel carro senza che la luce morente del sole ci bagnasse. «Non credo» dissi io. «La camera delle torture di Erik impiega troppo tempo a fare il suo effetto, e loro non hanno tempo. Troveranno altri modi per torturarci.»
«Non una parola sui piani di Sua Maestà» ordinò il comandante della spedizione. «Anche a costo delle nostre vite e del nostro senno, noi li difenderemo.»
«Anche quando sarete – anzi, saremo – sotto tortura? Conosciamo tutti i metodi di Assiye. E suo figlio non sembra avere più pietà.»
Il capitano mi rivolse un'occhiata ponderata. «Siamo soldati. È quel che facciamo, signorina. Combattere fino alla morte.»
«Questo non è combattere» sussurrai tra i denti, ma feci cenno a Selene di non tradurre le mie parole. Non volevo rovinare l'umore a tutti con il mio cinismo, non se avevamo una speranza di mantenere segreti i piani di Ezzat e Roshak fino al loro arrivo. Anzi, fino all'arrivo di Erik, Nadir e la loro truppa. Cosa stavano pensando, non vedendoci tornare? Sicuramente dovevano aver capito che eravamo stati catturati dal nemico in una sortita a sorpresa. Dovevano aver intuito i loro piani.
Maledetti. Maledetti bastardi…
La vista mi risultava ancora un po' sfocata dopo la botta in testa. Mi lacrimarono gli occhi, ma finsi che fosse per la ferita che mi bruciava la nuca. Nessuno fece un commento. Eravamo tutti sulla stessa barca.
Lanciai un'occhiata a Selene. Era tutta colpa mia se era stata catturata – non sarebbe mai andata con i soldati dell'esplorazione se non fosse stato per la mia cocciutaggine. Era tutta colpa mia se ora veniva torturata. Avevo il sospetto che fosse di granito sotto quell'aria gentile e delicata, perché era cresciuta al fianco di Ezzat e, nell'anima, aveva assunto un po' del metallo della sua regina.
Quando ci fecero scendere dal carro, trascinandoci a forza di spintoni fino al palazzo di Mazenderan, le scagliai un'occhiata colma di vergogna. Ma lei non sembrò notarla e continuò ad avanzare coraggiosamente, sebbene la disperazione cominciasse a crescere nel suo sguardo scuro. La disperazione divenne terrore quando ci portarono all'interno del palazzo, che finalmente potei ammirare in tutto il suo splendore. Il capolavoro architettonico di Erik. Era simile a quello di Teheran, ma ancora più maestoso e magnifico, e i suoi segreti dovevano essere migliaia. Capii perché Assiye aveva tanto bisogno di Erik per svelarli, e perché volesse ucciderlo per tenergli la bocca chiusa. Era orribile, la caccia che gli aveva dato. La caccia che tutti gli avevano dato. Come aveva detto, una volta? Sono il mezzo con cui vincere una guerra. Pertanto più prezioso e più facile a morire di qualunque altra creatura vivente.
Attraversammo l'androne principale, luminoso di mosaici costellati da mille gemme e colonne altissime, imponenti. Mi parve che ci volle un'eternità per condurci alla Sala del Trono, dove ci stavano aspettando. Notai che questa volta vi erano due scranni posti su una pedana rialzata: su uno di essi sedeva un ragazzo più giovane di Roshak, dai sottili capelli neri e gli occhi di un verde incredibile, socchiusi come quelli di un gatto. Naser, il piccolo Shah. Piccolo per modo di dire, poiché, sebbene adolescente, per gli standard orientali era già un uomo: eppure ecco la madre, Assiye – finalmente la incontravo – ritta al suo fianco. Di una bellezza prepotente, ferina e così dissimile da quella di Ezzat (eppure qualcosa di uguale si incarnava nei lineamenti delle due sorelle, entrambe dedite al gioco del potere quasi come a quello della vita), era la Khanum di Persia. Poteva essere di qualche anno più giovane di Ezzat, la pelle di una perfezione quasi marmorea e gli stessi occhi che il figlio sembrava aver ereditato. Era una visione imponente. Si capiva il suo carattere dominante dalla posa felina delle sue membra, dei suoi occhi. Ci guardò con grande soddisfazione, e disse qualcosa ai soldati che ci avevano condotto fin lì che non compresi, e che Selene non ebbe possibilità di tradurmi. Sarebbe stata uccisa se avesse aperto bocca nel momento sbagliato. Naser applaudì, deliziato. Disse qualcosa che fece ridere la madre, la quale fece cenno ai suoi uomini di portarci via, probabilmente diretti verso la sala delle torture. Poi i suoi occhi si fermarono su di me.
«Aspetta, aspetta» disse in francese, e ancora una volta il suono della mia lingua madre tra le labbra di un sovrano di Persia mi stupì.
«Non sei un ragazzo. E neanche di qui. Devo dedurre che Azrael ti ha condotto nel mio Paese dal suo.»
Aveva occhi acuti come quelli della sorella, ma brava.
«Devi essere la piccola baldracca che gli andava dietro, giusto? Com'è stato il viaggio?»
«Delizioso. Ho ucciso personalmente uno dei tuoi luridi emissari.»
Assiye si incupì. Fece cenno a una guardia, e questa mi rifilò uno schiaffo che mi diede le vertigini. Scossi il capo per schiarirmi le idee dopo il colpo.
«Hai la lingua tagliente come il tuo amico mascherato.» Assiye si sedette sul trono, mentre il figlio guardava dall'una all'altra, irritato dal suo non capire. La madre gli rivolse un gesto che voleva dire: “pazienza, mio caro, e vedrai.”
«Non è l'unica cosa che abbiamo in comune. Siamo entrambi assassini.»
Lei scoppiò a ridere – una risata melodiosa che mi fece sanguinare le orecchie.
«Erik era un maestro della morte. Non te l'ha mai detto? Uccidere era la cosa che lo divertiva di più, ai suoi tempi. Quando era giovane e mio.»
«Non è vero. Ora è cambiato, è…»
Lei scosse il capo, divertita. «Uomini come lui non cambiano così facilmente.»
«Tu non sai niente di lui. Niente.»
Un altro schiaffo potente. Mi bruciava la guancia destra.
«Chiamami Sua Maestà. La tua piccola cotta per l'Angelo della Morte non ti salverà. Pensi che verrà lui ad uccidermi come tanto desideri? Perché lo vedo, quel desiderio. Nei tuoi occhi. È sempre stato nei miei.» Si alzò e mi si avvicinò. Mi dimenai quando mi sollevò il mento con una mano. Fui abbastanza intelligente da non sputarle in faccia, anche se lo avrebbe meritato.
«Non ho nessuna piccola cotta per lui! È mio amico!»
«Uomini come lui e donne come me non hanno amici. È la legge della natura. Ci ha fatto entrambi predatori, e nel suo caso mostri. Diversi da tutti gli altri. E tu sei patetica nella tua convinzione.»
«É per questo che vuoi il trono? Ti credi tanto differente dagli altri? Sei solo una serpe pronta a tutto pur di avere un briciolo di potere!»
Questa volta ricevetti un pugno nello stomaco. Non ero riuscita a trattenermi.
«Mi odi tanto: perché? Cosa ti ho fatto? Non ti conosco neppure.» Questa volta riconobbi un'ombra di curiosità nella sua voce di velluto.
«Per colpa tua sono finita in questo mare di sangue. Per colpa tua sono stata torturata. Per colpa tua ho ucciso. Per colpa tua hanno ucciso mia madre!» Sputai queste parole con un tale odio da farle sgranare prima gli occhi, poi costringerla ad una risatina irritante.
«Non è meraviglioso? Una mia parola, e la vita di molta gente può cambiare senza che neanch'io lo sappia.»
«Ci provi gusto, non è vero?»
«Oh, sì. Eppure sei una donna, dovresti capire. Quante volte ti hanno detto no, per colpa del tuo sesso?»
«Il mio sesso non è una colpa. È per me un vanto.»
«Questo è un mondo di uomini. Ma io sono al di sopra di loro. Al di sopra di tutti. Anche di mio figlio, ma lui non lo sa.» Lanciò un'occhiata affettuosa a Naser, che continuava a guardarci, perplesso.
«Essere una donna non significa alzarsi al di sopra del livello degli uomini, ma dimostrare che loro non possono dettare legge sul nostro corpo, sulla nostra mente, sulla nostra anima. Così penso io, così pensa tua sorella.»
Il suo volto assunse una smorfia molto spiacevole.
«Mia sorella… Pensi che sia tanto diversa da me?»
«Lei non uccide innocenti. Non li tortura solo per divertimento.»
«Innocenti… Sono vittime sacrificabili! Tutto è sacrificabile, per il potere!»
«Anche tuo figlio?»
Questa volta fu lei a schiaffeggiarmi, con non meno forza della guardia. Ne stavo prendendo parecchie, nel giro di dieci minuti. Un record. Erik avrebbe alzato gli occhi al cielo per quella che avrebbe definito: “La mia ennesima imprudenza.” Ma sapevo che sarebbe stato fiero del mio impavido coraggio dinanzi a un mostro come Assiye.
«Via di qui.»
«Prenderò il tuo cuore. È una promessa.»
«Tu sei completamente pazza, piccola baldracca.» Poi disse due parole in persiano che stavano a significare: “Portatela via!”
Ansioso di sapere come andò a finire quella nostra prima conversazione? Oh, vi dico solo che non fu l'ultima, Monsieur Leroux. Non lo fu affatto.
Urtai di nuovo la grata con una spallata. Niente da fare: era inutile, e lo sapevo. Non sarebbe mai andata giù.
«Meg, così vi farete solo del male. Venite qui, accanto a me» disse Selene con il suo tono più dolce e convincente.
«Per aspettare che torturino anche me e te in questa prigione? Non ci penso proprio.»
Ci avevano chiusi nei sotterranei, ed avevano già cominciato i supplizi. Dalla gattabuia, sentivamo le urla del capitano, che dovevano riecheggiare – con grande gioia di Assiye e Naser – per tutto il palazzo. Forse gli stavano tagliando una per una le dita delle mani e dei piedi.
Selene si coprì le orecchie, e così feci anch'io.
«Impazziremo tutti se non facciamo qualcosa. E, soprattutto, moriremo.»
Guardai i miei compagni: erano in cinque, sporchi di sangue e melma e altre cose a cui preferivo non pensare, ma sui loro visi vigeva la rassegnazione. Una morte dolorosa e lenta sacrificata ad un eroismo che nessuno avrebbe ricordato.
No, non potevo permetterlo…
Fu allora che rammentai.
«Ma certo!» Mi colpii la fronte con una mano. «Quanto sono stupida! Come ho fatto a non pensarci prima?» Scossi il braccio di Selene come se ne andasse della mia stessa vita. Lei mi fissò quasi fossi pazza.
«Cosa succede? Meg?»
Gli altri non comprendevano una parola del mio biascicare allegro, ma avevano scorto il mio sorriso e si chiedevano se non stessi ammattendo.
Erik, sei un fottuto genio. No, che dico: io sono un fottuto genio.
«Il passaggio segreto, Selene! Passa per le fogne» dissi a bassa voce. «E l'entrata delle fogne è nelle prigioni dei sotterranei! Non capisci?»
Lei sbatté le palpebre, poi comprese. Tradusse in fretta agli altri le mie parole, al che tutti si fecero più attenti.
«Sì, ma come facciamo a uscire dalla gattabuia? Ci hanno imprigionato. E ci sono due guardie, lì fuori» disse un uomo della compagnia, con una vistosa cicatrice di guerra sulla fronte.
«Noi siamo in cinque. Possiamo sopraffarli» disse un altro.
«Senza armi?» chiese Selene, prima in persiano e poi in francese.
Sorrisi. «Forse qualcosa lo abbiamo.» Sotto il velo, scostai dai capelli ricciuti dell'ancella una forcina, senza delicatezza alcuna. Lei si grattò nel punto in cui le avevo tirato via la forcina – e un ricciolo disordinato.
Gli uomini scoppiarono a ridere.
«Cosa vuoi farci con questa, ragazza?»
«Aspetta» disse uno, il più giovane, guardandomi attentamente. «Forse non ha tutti i torti.»
Mi fece segno di proseguire. Il più silenziosamente possibile, infilai la forcina nella serratura e ruotai. Ci volle un po' di tempo, ma alla fine ce la feci. Era un trucco vecchio quanto l'amicizia tra me e Luc. L'avevamo appreso insieme quando portavo ancora le trecce.
«Adesso silenzio. Preparatevi alla lotta.» Uscimmo furtivamente dalla gattabuia, in fila indiana. L'ingresso per le fogne era proprio lì, lo notammo a pochi metri da noi. Dovevamo solo non farci scoprire dalle guardie.
Cosa più facile a dirsi che a farsi, naturalmente. La porta per le fogne era proprio dietro una delle due sentinelle.
«E adesso?» borbottò il più giovane dei miei compagni. Feci loro segno di stare a guardare, poi raschiai a terra e, malgrado le unghie che si scorticarono e divennero fradice di sangue, riuscii a divellere un chiodo dal pavimento. In punta di piedi, mi avvicinai alla guardia da dietro e, prima che l'altra avesse tempo di urlare un avvertimento, gli saltai alle spalle e gli conficcai il chiodo in testa. Lui urlò e cadde a terra, privo di vita. Un'altra morte innocente, ma necessaria, sulle mie mani fradice di sangue. Altro materiale per i miei incubi. Ma quello non era il momento giusto per pensarci.
Gli altri uomini della mia compagnia si gettarono addosso all'altra sentinella che, sebbene armata, non poté nulla – era uno scontro impari: uno contro cinque. Il soldato con la cicatrice sulla fronte lo sgozzò – sentii il gemito di Selene, che si era stretta alla mia veste – e alla fine aprimmo la grata che portava alle fogne.
Dopo una scivolata, cascammo tutti nell'acqua sporca che ci arrivava alle ginocchia.
«É un labirinto» disse uno degli uomini, ed era vero. La costruzione fognaria era maestosa quanto il palazzo che la sovrastava, colmo di botole, tunnel e trappole. Deglutimmo tutti all'unisono. Uscire di lì sarebbe stata un'impresa.
«Lui ha detto di andare sempre avanti, di ignorare le curve e ogni altra strada. State attenti ad eventuali trappole.»
Andai per prima, disarmata. Le spade e le daghe delle due sentinelle erano andate ai cinque soldati, e io non mi opposi, poiché sapevo che, sebbene avessi dimostrato di essere in grado di difendermi da sola come desideravo, loro erano molto più esperti di me. Inoltre, mi seguirono di buona grazia, eleggendomi quale loro leader ufficiosa, con Selene – sempre coraggiosa malgrado il lezzo delle fogne – al mio fianco.
Ci trascinammo nell'acqua per mezz'ora. «Sempre avanti, sempre avanti» dicevo io. «Non vi lasciate ingannare.» Una volta ci fermammo ad un incrocio e rimanemmo lì fermi per dieci minuti mentre litigavamo su quale strada prendere. Alla fine presi io in mano la situazione e decisi che sarei andata dritto, e chi voleva seguirmi poteva pure farlo, al diavolo. Finì che mi seguirono tutti.
Il labirinto ci faceva girare la testa. Avevo la nausea del lezzo di merda e di tutte quelle giravolte. Mi sembrava infatti di vorticare sempre a vuoto, malgrado andassi avanti.
Ormai dovevano essersi accorti da un pezzo della nostra fuga. Sperai che non intuissero la via per la quale eravamo scappati – avrebbe rovinato i piani di Ezzat e Roshak, e la sortita di Erik.
Erik, pensai. Se tutto andava bene, lui e Nadir ci avrebbero raggiunto con i loro soldati, prima o poi. Non eravamo in trappola, se continuavamo a sperare.
Sebbene fossi cinica per natura, non mi davo per vinta tanto facilmente. Continuai ad avanzare, e così i miei uomini – se ormai potevo definirli tali.
«Vedo una luce» disse Selene, ed era vero. Un fascio di luce lunare – o quel che pareva tale – si proiettò dinanzi a noi, sfibrati nel corpo e nell'odorato.
«Attenti» li avvertii, ma non ce ne fu bisogno. Era davvero l'uscita. Stavamo per scavalcarla quando un rumore di passi ci fermò.
«Aspettate» tuonai. «Chi va là?»
I miei compagni esposero le armi ai barbagli lunari, ma fu inutile. Avrei riconosciuto quel passo felpato ovunque.
«Erik!» dissi. «Sono io, Meg!»
Nel buio scorsi i suoi occhi di falco. Era insieme a Nadir, che salutai altrettanto calorosamente. Si accostarono a noi come se non credessero ai propri occhi.
«Vi pensavamo perduti» disse il Persiano, infrangendo il nostro abbraccio.
Erik non mi toccò. Si limitò a fissarmi da capo a piedi, e il suo sguardo si posò qualche secondo in più del necessario sulla mia guancia rossa per gli schiaffi, le mie unghie insanguinate. Si accostò a me quel tanto che potevo avvertire il suo fiato sulla mia bocca. Mi si mozzò il respiro in gola, ma riuscii a parlare tranquillamente: «Sto bene. Sono viva.»
«Avrei fatto di tutto per salvarti. Ancora e ancora, se me lo avessi permesso.»
«Ricordi? Io mi salvo da sola.» Gli rivolsi un sogghigno di familiarità. Lui sorrise – il primo, vero sorriso che vedevo sul suo volto da una vita.
«D'accordo, allora. Usciamo via di qui.»
Dopo che raccontammo loro com'eravamo fuggiti, ci dissero quel che era accaduto al campo. In seguito alla nostra scomparsa, avevano compreso che eravamo stati catturati, ma Ezzat e Roshak avevano deciso di andare avanti col loro piano. Che si era dimostrato glorioso: i duecento soldati di Erik e Nadir erano entrati dalle fogne all'interno del palazzo, sgominando il caos mentre la compagine di Mazenderan era impegnata con l'esercito di Teheran che attaccava ai cancelli del palazzo. Avevano aperto le porte del castello di Mazenderan ai compagni. Il palazzo era stato conquistato, la Khanum e lo Shah messi ai ceppi. Sorrisi quando lo venni a sapere. La mia conversazione con Assiye non era ancora terminata: prima avrebbe dovuto assaggiare il bacio della mia lama. L'ultimo frammento di incubo prima della fine. Dopo, forse, non sarei più stata me stessa, ma cosa m'importava? Cosa avevo da perdere? Eppure… negli occhi di Erik, così felice di vedermi viva e vegeta – sebbene non pronunciasse una parola al riguardo – lo vidi. Cosa avevo da perdere.
Non mi fu possibile pensare altrimenti che fummo raggiunti da una mezza dozzina di soldati di Mazenderan fuggiti via dalla battaglia. Per un attimo ci guardammo gli uni e gli altri, senza ben sapere cosa fare. Poi uno di loro estrasse una pistola e la puntò su Erik. Lo colpì a un fianco così velocemente che non riuscii neanche a sbattere le palpebre.
Il mio urlo angosciato si sommò a quello del Persiano quando Erik, dopo aver oscillato sui propri piedi per qualche secondo, crollò a terra. I miei cinque compagni si scagliarono contro i soldati di Mazenderan, così come Nadir, in un flusso crescente di stridori di battaglia.
Mi accasciai accanto ad Erik, ma un altro soldato nemico, rimasto più indietro degli altri, corse come un folle verso di noi, la spada puntata verso il mio amico a terra. Se fossi rimasta lì ferma, se fossi scappata, avrebbe colpito Erik, dandogli il colpo di grazia, e questi sarebbe morto. Lo sapevo come il sangue che mi scorreva tra le dita. Era, come esso, una certezza. Ma ero disarmata, maledizione, non potevo contrastarlo! A meno che…
Ebbi solo pochi secondi per pensare: Selene mi indicò un sasso lì a terra, che afferrai senza remore nel mio pugno e lanciai contro il nemico, e questa volta il cielo ebbe pietà di me. La mia mira fu efficace. Lo colpii in testa tanto forte da fermarlo, quel tanto da attirare l'attenzione di Nadir che gli impedì di avanzare una volta per tutte. Non si era neanche accorto del pericolo che correvamo: Selene mi aveva aiutata a salvare la vita ad Erik. Le sillabai un “grazie” prima di accasciarmi di nuovo al suolo di fianco al mio amico.
Sangue. C'era tanto sangue che per poco non vomitai. «Dobbiamo fermare il sangue» dissi come prima cosa, la mente affondata in tutto quel rosso che gli usciva dall'altezza delle costole. Mi affrettai a strapparmi la veste per tamponargli la ferita, ma c'era troppo rosso… Lui mi fermò la mano.
«Meg…»
Un soffio di voce.
«Stai fermo, dannazione! Non muoverti o uscirà altro sangue!»
«Meg.»
Ora la battaglia si era fermata. Nadir era di fianco a me, con una mano sulla mia spalla, ma non la sentivo. L'unico tocco che esisteva per me era quello delle dita gelide e livide di Erik strette alle mie.
«Mi hai salvato… la vita…»
«Idiota, stai morendo! Morirai se non…»
Lui scosse il capo e mi premette un dito sulle labbra. Sentii il sapore del suo sangue mischiato al mio e alle mie lacrime – non mi ero resa conto che stessi piangendo.
«Meg, tu sei la cosa più…»
Non seppi mai cos'ero. Svenne prima di finire la frase.
«No… No!» ringhiai, afferrandogli le spalle e sbatacchiandolo di qua e di là come fosse un pupazzo. Gli artigliai il petto. «Non puoi morire, brutto bastardo! Non osare lasciarmi qui da sola, tu, razza di…» Nadir mi fermò prima che potessi aggravare la situazione.
«Respira ancora.»
«Sì, e gli batte il polso» aggiunse Selene, accorsa vicino a me e a lui.
«Forse abbiamo ancora una speranza. Dobbiamo portarlo da un dottore. Presto, voialtri» si rivolse in persiano ai miei compagni “delle fogne”, che si affrettarono ad aiutarlo a prendere Erik di peso, per quanto disgustati dal contatto con una simile creatura. È un uomo, pensai. È un uomo, e sta morendo, e mi ha salvato la vita, e io vorrei tanto poter dire lo stesso…
Come sempre, Nadir – la voce della ragione – aveva vinto. Mi lanciò un ultimo sguardo prima che cedessi tra le braccia di Selene. Non mi sarei mai fatta vedere in quelle condizioni miserevoli da nessuno se non fosse stato per il fatto che ora l'uomo che… che io… beh, stava morendo e io non potevo fare nulla. Non potevo fare nulla.
Sono vittime sacrificabili! Tutti lo sono, per il potere! Aveva detto Assiye.
No, ti sbagli, lurida stronza, pensai con rabbia. Lui non lo era. Lui non lo era.
Note dell'autrice: Rieccomi a rompervi le scatole. Che ne dite di questo capitolo? Le scene di battaglia sono convincenti o semplicemente stupide? È tutto poco credibile? Se mi dite di sì, giuro che non mi offendo. Mi sa che lo è davvero, ma non sapevo proprio cosa inventarmi. E così mi è uscita fuori questa marea di stronz… voglio dire, baggianate.
Per quanto riguarda i miei affari personali, ho ricominciato a frequentare l'università. Ho anche comprato i libri che mi servono per i corsi dopo essermi fatta dare le fotocopie degli appunti delle lezioni a cui non mi sono recata. Per fortuna ho compagni molto gentili e disponibili. Mi sento francamente stupida nel non capire la linguistica (che sia italiana, tedesca o generale), ma sto stringendo i denti. Non mollerò così facilmente. Voglio essere forte come le eroine dei miei romanzi preferiti. Come Meg, Christine e tutte le altre. Se proprio non ce la faccio, cambierò facoltà, ma il momento della laurea arriverà anche per me. L'ho promesso sulla tomba di mia nonna e lo ribadisco qui. Bene. Adesso ho finito di lamentarmi dei miei affari, grazie a Dio.
Ora, le recensioni:
debbythebest: Mi fa tanto piacere che lo scorso capitolo ti sia piaciuto, e anche l'evoluzione di Meg, che in questo subisce un'altra svolta. In effetti, io vado lenta coi sentimenti dei due protagonisti perché non sarebbe credibile se si mettessero a sbaciucchiarsi dopo pochi capitoli. Erik e Meg hanno formato un legame fortissimo, ma ci vorrà un po' prima che si accorgano che forse può trattarsi di qualcosa di più che semplice amicizia. Certo, io ci sto mettendo una vita a far scoppiare la coppia (più di trenta capitoli!) ma sono fatta così. Spero che ti piaccia anche questo chapter e che non ti sembri stupido (a me ogni cosa che scrivo sembra stupida). Baci baci **
bibliofila_mascherata: La scena del bagno in effetti è ispirata a quella di Jaime e Brienne, sapevo che lo avresti indovinato. In realtà avevo in mente una cosa del genere da parecchio tempo, poi rileggendo A Storm of Swords sono incappata in quella scena e ho detto: sì, così è perfetta! XD Erik imbarazzato è il massimo, vuoi mettere? *__* Meg lo fa sudare freddo. È proprio una peste. XD
Come al solito le tue parole mi commuovono. Ho in mente di pubblicare qualche storia originale, se mai riuscirò a scriverle, e spero che mi seguirai anche in quelle future avventure. Sarà un piacere averti con me. :3
Hai analizzato molto bene il rapporto tra Heathcliff e Catherine in Cime Tempestose, che è stato il mio primo classico inglese (l'ho letto alla tenera età di quattordici anni) e quindi ci sono proprio affezionata. L'avrò riletto una decina di volte – sono un po' morbosa. XD Naturalmente il rapporto tra Erik e Meg è molto diverso, ma hanno la stessa affinità. Sono molto belle anche le tue parole sull'amicizia e sull'amore. Non considero infatti l'amicizia come meno importante dell'amore romantico, tutt'altro. Mia madre ha sposato il suo migliore amico (che poi sarebbe mio padre XD), quindi sono cresciuta con questa concezione e il sogno di trovare un compagno altrettanto speciale (piuttosto irrealistico, ma… dai, in fondo sono una romanticona XD).
E grazie a TE, mia cara. Anch'io vorrei che questa avventura non finisse mai, ma devo occuparmi anche di altri progetti. E, perché no, fare di nuovo una visitina a questo fandom. ^_^
Un bacione **
P.S. Per il Big Damn Kiss devi aspettare ancora un po', ma arriverà. E vi distruggerà. E io finirò per farmi uccidere da qualcuno di voi per il mio sadismo. MUHAHAHA.
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Capitolo 32 *** Sotto la pelle. ***
xxxi.
sotto la pelle
Insistetti nell'ignorare le domande che il dottore mi poneva, tradotte tramite Selene. Avevo mal di testa (per via della botta presa con l'elsa della spada), ma nessuna concussione; una mano contusa da quando me l'avevano pestata; e, infine, qualche livido e taglio sparso. Ero sporca di sangue (non mio), ma per il resto stavo bene. Era quello che ripetevo da circa un'ora.
«Sto bene» dissi per quella che speravo fosse l'ultima volta. Sfrecciai un'occhiata di fuoco al dottore, che arretrò. I miei occhi parevano bruciare, ma sapevo che non avrebbero mai avuto sugli altri l'effetto di quelli gialli di Erik. Perché questi sapeva incendiare le persone solo con lo sguardo. Quanto a me… mi serviva un po' di pratica.
Eravamo in una stanza del palazzo, una delle tante rimaste vuote e semi–distrutte dopo la battaglia. Era un peccato vedere il capolavoro architettonico di Erik andare in briciole (letteralmente), ma sapevamo tutti, anche Ezzat, Roshak e lo stesso Erik, che la guerra non lasciava che reliquie dietro di sé.
La guerra. Che idea stupida. Mieteva vittime ovunque andasse, lasciando dietro di sé solo ossa e fumo. E io ero una sua vittima e una sua fautrice, che lo volessi o meno.
«Come sta?» chiesi immediatamente quando vidi il Persiano avanzare verso di me, dopo aver bussato alla porta mezza sfasciata. Internamente, mi chiesi il perché di un gesto così infimo, ma poi capii: l'educazione di Nadir Khan era parte di lui, soprattutto verso due signore. Ora, questa definizione si atteneva a Selene, ma a me? Conservavo ancora una pelle umana, dopo tutto quel che avevo fatto? Avevo ucciso persone innocenti, per esempio le guardie dei sotterranei di Mazenderan – non mi avevano fatto male né mai me lo avrebbero fatto. Facevano solo il loro dovere. Eravamo nemici in nome di cosa? Ponderai sull'inutilità di tutto quell'odio, che aveva finito per pervadere anche me.
«Sopravviverà» rispose Nadir con un cenno sicuro del capo. Le mie ossa, il mio midollo, tutto fu invaso dal sollievo. Mi accasciai sul letto, sospirando. Era vivo. Erik era vivo. Ringraziai la sua brutta pellaccia, che questa volta aveva quasi rimesso, e dissi: «Posso vederlo?»
«Ha ancora la febbre, e dorme, ma sì, potete vederlo, Meg. Però prima devo chiedervi come state voi.»
«Non starò bene finché non lo avrò visto, lo sapete.»
Il Persiano sospirò. «Riuscite a stare in piedi?»
«Certamente.»
«Ottimo.»
Mi fece segno di seguirlo – educatamente, com'era suo solito. Selene mi trotterellò alle calcagna. E dove sarebbe potuta andare, quella povera ragazza? Non aveva altri che me in quel turbinio di morte. Ci avventurammo nei corridoi oscuri del palazzo. Erano disseminati di cadaveri, sia nemici che nostri. Avevamo vinto, ma a quale costo? Sentii Selene tapparsi la bocca alle mie spalle per soffocare un urlo di orrore. Chissà se conosceva qualcuno di quei soldati. Non glielo avrei mai chiesto.
Il palazzo sembrava fatto di cristallo, poiché sia sopra che sotto di noi potevo vedere la morte. Ed essa mi perseguitava dal suicidio di mio padre. Quando quel ciclo di torture avrebbe avuto fine?
Vi erano feriti gementi e dottori e infermieri improvvisati ovunque. Intravidi Ezzat e Roshak tra quella mischia, pronti a dare sollievo ad alcuni dei soldati mutilati. Mi stupii: due potenti che si preoccupavano davvero del popolo. Capii quel che Darya aveva cercato di dirmi quando le avevo chiesto perché la novella Khanum ispirasse tanta fiducia. Era una regina buona. E saggia, e forte in battaglia. Un bravo sovrano, come anche suo figlio.
«Non svegliatelo. Il dottore ha fatto quel che poteva: ha estratto il proiettile, gli ha ripulito la ferita, gliel'ha ricucita e fasciata, l'emorragia si è fermata. Ma sicuramente soffre molto.» Nadir non mi risparmiò i dettagli più macabri. Sapeva che ero abbastanza forte per digerirli, e così feci. Annuii ed entrai.
Il tanfo di morte che mi diede il benvenuto non era altri che l'odore della pelle infetta di Erik. Arricciai il naso, ma non commentai. Nadir sgusciò via non sentito, non visto, così come Selene: sapevano entrambi che dovevo restare da sola con lui.
Eccolo lì, steso sul letto, nudo fino alla cintola ma coperto dalle fasciature al fianco e dalle lenzuola. Non respirava: rantolava. Deglutii un fiotto di vomito che mi raschiò le pareti della gola, ma lo ignorai. Mi accostai piano. Gli toccai una mano ossuta. Era un inferno di febbre e rimorsi, la ferita all'anca gli stava scavando un solco di dolore che andava ingrandendosi, invadendo il suo corpo infranto. Bruciava, ed era strano per la sua pelle di solito fredda e morta. Il medico di corte aveva fatto il possibile per lui. Ora non restava che attendere. Ma la pazienza non era una virtù di cui potevo vantarmi. Dovevo fare qualcosa, qualsiasi cosa. Di certo non potevo lasciarlo in quello stato, da solo, preda dei suoi demoni e deliri… Lui che aveva combattuto i miei al mio fianco. Bagnai una pezzuola nell'acqua fredda, con l'intenzione di dare un po' di sollievo alla sua fronte in fiamme. Ma per farlo, avrei dovuto sfilargli la maschera. Per un attimo, esitai. Quando si fosse svegliato, la cosa non gli avrebbe fatto piacere. La sua reazione era prevedibile. Ma io non ero lì per far piacere a lui: ero lì per aiutarlo, e al diavolo le sue remore. Io non ne avevo più al riguardo. Gli sfilai quindi la maschera, il più delicatamente possibile. Tra l'altro non gli faceva bene tenerla indosso, non in quelle condizioni e con quel caldo torrido. Mi accigliai di fronte al suo viso devastato, ma non emettei alcun suono. Era un orrore, certo – nella mia mente ne era rimasta ben impressa l'immagine, difficile da dimenticare. La prima volta che lo avevo visto in volto, avevo pensato che fosse la cosa più repellente su cui avessi mai posato gli occhi. E a quel tempo, non mi sbagliavo. Ma adesso che avevo conosciuto altri orrori, ben più orribili perché tangibili dentro, e non solo nel corpo… No, non mi faceva più ribrezzo. Ora sapevo bene chi era lui, l'essenza che lo componeva. Era Erik, solo Erik. Il suo aspetto non era che una facciata distorta del suo sé…
E quella era l'unica cosa su cui valesse la pena concentrarsi al momento. Inspirai profondamente e gli tamponai la pezzuola bagnata sulle tempie. Respirava con rantoli affannati, come un cane dopo una corsa spericolata. Sembrava che qualcosa, dall'interno, gli stringesse i polmoni e il cuore e le costole in una morsa letale. Assomigliava più che mai a un cadavere in agonia, e questo lo rendeva una visione inquietante e pietosa insieme. Un morto non può soffrire, non soffre più… Ma Erik non era morto. Era umano, era vivo e il suo dolore era lancinante. Un involucro di ossa e tragedia, eppure sanguinava come chiunque altro. Sollevai un lembo del lenzuolo di seta leggera e osservai il suo petto scarno sollevarsi e abbassarsi a un ritmo dissonante, le abbondanti fasciature sulla ferita al fianco… Era così magro. Come poteva avere dentro di sé tanta forza? Più volte mi ero posta questa domanda, ma ormai avevo rinunciato a trovarvi una risposta. Molte cose in Erik erano inspiegabili. Gli tamponai la pezza sul collo e sulle spalle. Lui se ne avvide ed emise un rantolio indefinito. Non capii se fosse di sollievo o di dolore. Sapevo quanto fosse stoico – per quanto riguardava le ferite del corpo, sopportava tutto quasi con indifferenza, come se lo riguardasse da lontano. Ma soffriva comunque: solo, era difficile che lo rivelasse agli altri.
Dischiuse le labbra – se sempre si potevano definire tali, tanto erano sottili e disseccate, la chiostra di denti ben visibile nella maschera da teschio. Mormorò qualcosa di incomprensibile, e accostai l'orecchio per distinguere le parole. Forse voleva qualcosa.
«Erik?» mormorai, sperando di trarre un qualche senso da quello che probabilmente si sarebbe rivelato solo un delirio da febbre. Lui biascicò qualche altro suono senza senso, accompagnato da profondi sospiri. E poi lo udii: quel nome che non gli avevo sentito pronunciare da tanto tempo, un nome che risuonava alle mie orecchie ugualmente dolce e amaro.
«Christine…»
Dentro di me, qualcosa si incrinò. Mi pareva che fosse udibile – lo scricchiolio delle ossa nella cassa toracica, il cuore stretto in un anello di piombo. Mi allontanai senza neanche capirne la ragione. A cosa era dovuta quella mia reazione? Smarrita, rabbrividii e mi appoggiai alla testiera del letto, rialzandomi subito. Non era strano che, nel suo delirio, Erik chiamasse il nome di lei. Era immerso in una miscela di incubi e sogni: era normale che vi subentrasse il pensiero di lei, suo incubo e sogno più grande. Era qualcosa di cui io non facevo parte. Forse fu questo a farmi male, a un livello inconscio, troppo remoto perché riuscissi a decifrarne i segni: la consapevolezza che, in qualche modo, ero tagliata fuori da una parte della sua vita – la più importante. Arretrai di qualche passo, del tutto dimentica della pezzuola umida. Era assurdo, non avrebbe dovuto importamene fino a quel punto. Eppure quel nome mi aveva contorto le viscere, in modo non molto dissimile dal laccio del Punjab. Perché? Mi sembrava di sanguinare, ma lui non lo vedeva. Non poteva. Perché? Sapevo che, se Christine fosse stata lì, si sarebbe presa cura di lui con altrettanta dedizione. Il suo animo generoso non le avrebbe concesso il contrario. Forse Erik, la mente accecata dalla febbre e dai medicamenti, aveva pensato che ci fosse proprio lei lì, accanto a lui. Che fosse stata proprio lei a dare un po' di sollievo a quel volto già morto… Che avesse ingoiato ogni bile e fissato a lungo e senza disgusto quel suo corpo martoriato, quelle fattezze di indicibile bruttezza. Christine l'avrebbe fatto, al posto mio? Sì, di questo ero certa.
Ma adesso Christine non era lì. Probabilmente Erik non l'avrebbe mai più rivista al proprio fianco. Adesso c'ero io – ero io quella che sedeva al suo capezzale, che attendeva la sua guarigione. Io avevo affrontato con lui le desolazioni della Persia, le impervie onde del Mediterraneo, le solitarie campagne francesi. Mi ero immersa nel sangue, rimanendone quasi annegata. Ero sporca, malsana, un fantasma non meno di lui. Ma in lui c'erano ferite impossibili da risanare. Io avevo qualcosa a cui tornare… A lui non era rimasto più nulla se non quel nome.
Ci sono anch'io, avrei voluto dirgli. Non sei solo. Sono accadute troppe cose perché possa anche solo immaginare una separazione. Non ti lascerò a marcire, te lo prometto. Ma era inutile. Sapevo che sarebbe morto con quel nome sulle labbra. Non il mio…
Rimuginarci sopra non mi faceva stare meglio. Anzi, sentivo afferrarmi i piedi da grinfie invisibili che mi trascinavano giù, sempre più a fondo, in un abisso dove nulla mi sarebbe più stato comprensibile. Dove mi aspettavano l'ignoto e la follia.
Mi voltai, intenta a lasciarlo lì con i suoi rimpianti e ad affrontare i miei da sola, altrove.
«Meg…» Raggelai. Forse avevo udito male. La mente poteva giocare strani scherzi.
«Meg…» No, era proprio lui. Avrei potuto riconoscere quella voce ovunque. E non veniva dalla mia testa.
Ritornai al suo capezzale, vagamente esitante. Lui mi chiamò ancora – lo vidi muovere le labbra disseccate, scandire ogni lettera… Gli sfiorai una mano.
«Sono qui» dissi. Lui aprì i suoi strani occhi dorati. Alla luce del lumicino, brillavano come due stelle, le uniche in un notturno cielo in tempesta. Mi guardò in modo indecifrabile: non riuscivo a capire se provasse un qualche sollievo nel vedermi davvero lì accanto a lui, oppure se i suoi sensi fossero semplicemente ottenebrati dalla morfina.
«Come ti senti?» chiesi, anche se non ero certa che potesse rispondermi.
«Io…» Fece una smorfia che sul suo volto apparve ancora più atroce. Tornò a fissarmi, studiandomi come a saggiare se fossi un'allucinazione o meno. Io gli strinsi la mano, per fargli capire che era tutto reale, che non ero uno spettro della sua mente… Non come Christine.
D'un tratto sgranò gli occhi, portandosi una mano al volto. Notai che sfiorò appena la carne devastata. Mi lanciò un'occhiata di puro orrore.
«Ho dovuto toglierti la maschera. Stavi bruciando e dovevo raffreddarti un po'.» Gli posai una mano sul braccio col fare più rassicurante di cui fossi capace. «Sta tranquillo.»
Lui fece per sollevarsi, ma si fermò subito, la faccia contratta dal dolore.
«Ma sei pazzo? Sta giù, non puoi muoverti. Ti si aprirà di nuovo la ferita.» Scostai le lenzuola perché vedesse le fasciature sul suo torace storpiato. Questo non sembrò iniettargli dentro un po' di buon senso. Mi dardeggiò contro un'occhiata di rimprovero tale che, se non l'avessi conosciuto, sarei fuggita a gambe levate. Ma io riconobbi nelle sue iridi giallo pallido un fondo di paura e stupore misto a infinita irritazione. «Come…?» farfugliò. Crollò con la testa sul cuscino, troppo spossato per aggiungere altro. Alla buon ora, pensai.
«Bravo» dissi con una punta di sarcasmo. «Hai capito. Adesso riposa, altrimenti non ti rimetterai mai in sesto. E io dovrò farti da infermiera per parecchio tempo.» Una prospettiva che non gradivo molto: non tanto per la fatica, anche se io stessa avevo bisogno di tranquillità, di "rimettermi in sesto". La verità era che non potevo sopportare di vederlo in quello stato. Mi si spezzava qualcosa dentro.
Per mostrargli che non avevo timore del suo aspetto, seguii le vene del suo braccio fino ai polsi, segnate da vistose cicatrici. Ne tracciai i contorni senza paura. Risalivano a molto tempo prima.
Lui mi gettò un'ultima occhiata di stupefazione, come se non credesse a ciò che vedeva. Prima che chiudesse gli occhi, vi vidi gratitudine e internamente ne gioii.
Quella notte dormì sogni più tranquilli del solito, e non lo udii più pronunciare il nome di Christine.
Trascorsero due settimane prima che la febbre calasse. In quel periodo rimasi al capezzale di Erik quasi senza requie, come sapevo che lui avrebbe fatto al posto mio se mi fossi trovata nella sua stessa situazione. Migliorava a vista d'occhio, e ogni tanto riuscivamo anche a parlare. Lo informavo sui progressi che stavano adoperando nella ricostruzione del suo palazzo – notai che utilizzava questo aggettivo quasi con possessività – e nella messa a morte dei traditori, a cui io non assistevo. Ero stanca della morte. Di notte, ne sognavo già troppa, e mi tormentava. Quella di Assiye non meno delle altre, stranamente.
Non ne parlavo ancora con Erik. Sapevo che era troppo malato per un discorso simile. Avrei aspettato che guarisse del tutto, per poi apprendere il suo consiglio. Tuttavia, la decisione finale spettava a me.
Un giorno Selene sedeva accanto a me al capezzale di Erik, cucendo delle filacce per il moribondo, che dormiva sogni inquieti per via della febbre. Il dottore veniva a cambiargli le fasciature ogni quattro ore e gli dava chissà quale miscela per farlo dormire, cosa che Erik detestava alquanto ma che era costretto a ingurgitare per sopportare il dolore, che solo dopo giorni e giorni andava alleviandosi. Io mi coricavo ben di rado nei miei appartamenti, preferendo rimanere a leggere insieme a Selene e a Monsieur Nadir – sì, spesso visitava anche lui il moribondo – di fianco al baldacchino di Erik. Ora era una di queste ultime occasioni, e la giovane interprete aveva appena finito di tradurre per me un libro di splendide poesie persiane.
«Non credevo fossi un'amante della letteratura, Meg.»
Ora mi dava del tu tranquillamente, cosa che mi faceva piacere.
«La noia cambia molto i caratteri delle persone» le risposi con un sorriso pungente. Lei ricambiò con uno molto più dolce. Inutile: mi ero affezionata a quella ragazza anche perché, in qualche modo, la sua gentilezza mi ricordava quella di Christine. La mia vecchia amica… Mi mancava davvero molto. Un suo consiglio mi sarebbe stato utile, adesso. Ma sapevo già cosa mi avrebbe detto di non fare.
Selene tornò ad occuparsi delle sue filacce, quando entrambe udimmo qualcosa che ci fece sobbalzare. Nel suo sonno febbrile, Erik aveva mormorato qualcosa.
Il nome di Christine, forse? Il mio? Quello di qualche conoscenza che apparteneva alla sua buia giovinezza?
«Che cosa sta dicendo?» chiesi a Selene, aggrottando la fronte. Erano parole in un'altra lingua, ne ero sicura. Quale, esattamente? Persiano? Ormai avrei dovuto riconoscerne la cadenza.
Dapprima, Selene divenne molto pallida in viso. Infine le sue guance assunsero una sfumatura rosea che mi stupì.
«Allora?» incalzai.
«Non credo di poterlo ripetere.»
Mi corrucciai. «É un'imprecazione?»
Lei si affrettò a scuotere il capo. «Oh, no, è… dolce. Ma anche privato.»
«Privato.» Strabuzzai gli occhi. «Ha amato una donna, in passato. Credo la ami ancora. Può riferirsi a lei?»
Selene arrossì di nuovo. «Beh, ha detto… qualcosa che in persiano significa mio sangue. Nel senso di “mio simile, mio amore”. Ti prego, non menzionarglielo.» Probabilmente temeva la furia vendicatrice dell'Angelo della Morte, ma dubitavo che, a questo punto, Erik avrebbe mai nuociuto a un innocente.
«Mio sangue» ripetei tra me e me. «Non ha senso. Dice solo scemate, anche quando dorme e ha la febbre. Quest'uomo mi farà impazzire.»
Selene soffocò una risata, e la conversazione terminò lì.
Mio sangue, pensai con uno sbuffo. Doveva essere una qualche sua bizzarra romanticheria. Di certo si riferiva a Christine, allora. Senza saper spiegare a me stessa il motivo, mi rabbuiai di nuovo all'idea. Avrei dovuto abituarmi.
Con gioia mia e del Persiano, il dottore lo dichiarò guarito quasi del tutto dopo tre settimane. Il palazzo era ridivenuto splendente, avevano spazzato via i cadaveri dei soldati e le pozze di sangue da terra, ma ai miei occhi mai avrebbero potuto cancellare il macello brutale che si era tenuto tra quelle mura. Il mio cuore era votato alla violenza, così come quello di Erik: per questo eravamo anime affini, ed era terribile il solo pensiero. Lo sapevo io, lo sapeva lui e lo sapeva anche il Persiano, che eppure non si intrometteva. Ma adesso ero stanca: volevo solo tornare a casa e riposare. Il mio era stato un lungo, lungo viaggio, niente affatto piacevole. Sapevo che ora Erik, in cuor suo, provava lo stesso. Eravamo come due corde dello stesso strumento, accordate sulla stessa nota.
«Hanno ripulito tutto. Ha quasi la bellezza di un tempo» gli dicevo un mattino mentre provava a sedersi, e respirai con maggior agio nel vedere che vi riusciva senza troppa difficoltà.
«Quasi?» puntualizzò lui.
«Alcune aree sono ancora… inagibili. È passato un mese, Erik, non puoi pretendere che…»
«Quasi» lo udii borbottare tra i denti. Indossava la maschera, naturalmente. Dopo la mia trovata di tanto tempo prima, e malgrado avesse apprezzato il gesto in sé, non aveva più voluto togliersela. Non che potessi biasimarlo, soprattutto se Selene era con me e Nadir a visitare il suo capezzale. Avrebbe regalato incubi alla ragazza inutilmente.
«Darya mi ha avvisato che domani ci sarà una festa. Ci sarà la musica, da bere, da mangiare…»
«Basta che ci sia il vino, e io sarò un uomo felice.» Sospirò e appoggiò i piedi a terra. Indossava solo le fasciature e un paio di brache, ma era pronto a sfilarsele. Dapprima mi ero ribellata a questa sua azione, che consideravo avventata (pensate: io che gli rimproveravo di essere avventato!), ma lui mi aveva assicurato che aveva già provato a fare la stessa cosa in presenza del dottore e che le ferite non si erano affatto scucite. Anzi, erano pulitissime. Di quella brutta avventura sarebbero rimaste solo le cicatrici, e c'era da aspettarselo.
Lo guardai sfilarsi le bende dal torso magro e cadaverico con le braccia conserte. Tamburellai il piede sul pavimento.
«Sto bene» disse lui, impaziente quasi quanto me. «Te l'ho detto, non sverrò ai tuoi piedi in una marea di sangue.»
«Voglio comunque assicurarmene.»
«Come sei cocciuta.»
«Quale novità.»
Era un fascio di muscoli e nervi, bianco come osso. No, più bianco, se possibile. Esisteva una tonalità più chiara del bianco stesso?
«Le mie cicatrici ti attraggono tanto, fammi capire?» Parlava di quelle – tante – che esibiva sulla schiena, ora nuda. Arrossii come una bambinetta ingenua e resistetti alla tentazione di cacciare la lingua in una smorfia oscena.
«Illuditi. Perché non mi permetti di aiutarti?»
Questa volta fu il suo turno di arrossire. «Mi devo vestire. Io sono un uomo e tu sei una donna. E a meno che tu non abbia altri gusti…»
«Senti, senti! A chi davi della ragazzina fino a poche settimane fa? Mi consideri una donna solo quando ti fa comodo!» ringhiai. Poi aggiunsi, con fare più comprensivo: «Se ti vergogni, lascia che ti aiuti il Persiano. O il dottore. Qualcuno.»
«Non mi faccio fare da badante, io.»
Fu allora che persi la pazienza e mi gettai sul letto, accucciandomi al suo fianco. Lui sussultò, mentre mi dava di spalle. Poggiai una mano sulla sua spalla nuda e cicatrizzata – era assurdo il contrasto tra la mia pelle di bistro e la sua, mortalmente pallida e fredda – e lui saltò in piedi di colpo, reggendosi il fianco dove era stato colpito recentemente. La sua cicatrice più fresca e nuova.
«Non farlo mai più!»
«Sei un idiota!»
«Meg, per favore. Per favore. Tu non sai cosa sono.»
Quel sussurro straziato avrebbe fatto piangere un angelo; peccato che io non lo fossi. Lo osservai dal basso, incredula. Mi alzai anch'io, calpestando il pavimento di marmo lucido con forza. Sembravamo due pazzi a litigare in quel modo, ma non era la prima volta per noi e non sarebbe stata l'ultima.
Strinsi gli occhi a fessura e gli sfiorai un braccio, per poi stringerlo con determinazione. Lui si mosse, a disagio. Il tocco era dolore, per lui, e questo lo capivo; ma non il mio. Non ora. Doveva capire che non volevo detenere alcun controllo su di lui, in quel modo; che volevo solo dargli una mano.
«Lasciati aiutare. Almeno da me.» Ebbi l'immediato istinto di strappargli via la maschera, ma non osai. E meno male. «Io so perfettamente cosa sei.» Gli puntai un dito contro. «Sei un assassino? Niente di nuovo, lo sono anch'io. Sei un pazzo? Me lo hai già dimostrato ampiamente. Il tuo aspetto? Ebbene, lo conosco. Sei tutto questo e molto di più.» Sei anche il mio migliore amico.
Lui sembrò pensarci sopra. Poi pose una mano sulla mia – quella che gli stringeva il braccio – e allentò la presa molto dolcemente. Annuì, calmo come acqua stagnante. Gli sorrisi.
«Siamo compagni. Condividiamo tutto, ora, anche il dolore.»
Lui annuì ancora, una scheggia di stupore negli occhi gialli, felini, inquieti e inquietanti insieme.
«Solo la camicia» acconsentì. «I pantaloni so infilarmeli da me, eh.»
Arrossii e ridacchiai. Scommettevo che solo sua madre lo aveva visto nudo, neonato, per cambiargli il pannolino. Scossi la testa per togliermi quell'immagine ridicola dalla mente. Eppure, mentre lo aiutavo a infilarsi una comoda camicia bianca, non riuscivo a smettere di ridere.
«Mi fai il solletico» disse, giocherellando con i bottoni della camicia mentre io cercavo di infilarne uno in un'asola, scossa da risatine irritanti.
«Scusa. Lascia perdere. Ora mi calmo.»
Lo aiutai a vestirsi – almeno in parte – e fui lieta che avesse avuto l'umiltà di accettare il mio aiuto. Mi occupai degli ultimi tre bottoni, mentre lui mi studiava il polso come fosse un insetto interessante e lui un entomologo appassionato. Gli sfiorai il petto con un dito, seguendo i bordi di una cicatrice frastagliata. Notai che la sua pelle si era fatta lievemente più calda, anche se non tanto da sembrare viva.
«Ti fa male?»
«No.»
Sbagliavo, o il suo cuore sotto il mio palmo umido di sudore palpitava più rapidamente del dovuto?
«Meg…» soffiò lui, e io risposi, stranita: «Sì?»
Ci guardammo imbarazzati per un momento, in silenzio, senza sapere cosa dire. Era a dir poco bizzarro. Nessun silenzio tra noi ci aveva mai messo a disagio. Era per questo che la sua compagnia mi andava tanto a genio: era raro trovare delle persone con cui non ti sentivi in dovere di parlare.
Sussultammo entrambi quando Nadir entrò, bussando alla porta e permettendoci così di allontanarci l'uno dall'altra con un balzo.
«Erik, sei pronto? La Khanum ti aspetta per la colazione.»
Erik fece una smorfia. «Non mangerò. Sapete entrambi che non mangerò.»
Il Persiano fu a un passo dallo sbuffare d'esasperazione. «Come desideri. Vuole sapere come stai. Di persona, da te. In queste settimane si è tenuta costantemente aggiornata sulla tua salute.»
«É vero» confermai. Ero alquanto stupita che un sovrano avesse un tale riguardo in proposito, ma a quanto pareva questo tipo di persone esisteva veramente. Ora capivo perché era stato così facile sollevare il popolo contro Assiye, la tiranna, e perché quest'ultimo riponesse tanta fiducia in Ezzat, ora Khanum – sul trono che le spettava.
«D'accordo. Fammi portare la colazione in camera da qualche servo. E vino. Ho bisogno di vino.» Si massaggiò la radice del naso – beh, se avesse avuto un naso – quasi un pensiero fastidioso lo travagliasse.
Mi scostai ulteriormente da lui e lo salutai con un cenno della mano, che ricambiò. Mi chiusi la porta alle spalle quando rispose, alquanto seccato, ad una richiesta del Persiano: «Per l'amor di Dio, daroga! So infilarmi i pantaloni da solo, non sono diventato un neonato!»
Risi mentre me la filavo nei miei appartamenti, mai troppo lontani dai suoi, per fare colazione. Mi meritavo qualche altra ora di buon sonno, questo era certo. Evitai di pensare così alla scenetta patetica in cui Erik ed io eravamo rimasti a guardarci trasognati l'un l'altra, certa che non sarebbe accaduto più nulla del genere e attribuendolo alla solita follia, sicuramente passeggera, che mi attanagliava da qualche mese a quella parte.
Nessun problema, mi rassicurai. Ero una brava bugiarda.
Mi avevano depilata, imbellettata, vestita di tutto punto: Selene mi aveva prestato un suo abito, rosso e scollato sulla schiena, e io mi guardavo allo specchio sistemandomi il velo – sempre rosso – sul capo, e la frangetta ora ordinata. I miei capelli erano ricresciuti in quei due mesi fino ad arrivarmi alle orecchie, quasi in una parodia di un caschetto: ora potevo acconciarmeli in maniera decente.
«Sembri una vera persiana» si complimentò Selene con un lieve sorriso.
«Sembro solo ridicola. Per fortuna non porto tacchi, altrimenti su quei trampoli sarei caduta come una cretina.»
Selene ridacchiò. «Ma tu sei una ballerina. Come puoi essere tanto sgraziata in queste situazioni?»
«É la mia natura, incomprensibile anche alla sottoscritta.» Mia madre mi rimproverava allo stesso modo, ricordai. Una fitta di dolore mi attraversò il petto, e quel terremoto interiore dovette essere visibile sul mio viso. Selene mi strinse una spalla con la sua usuale delicatezza.
«Stai bene?»
«Sì.» Era abituata al mio stoicismo, alla mia ostinazione nel non voler rivelare i miei veri sentimenti, e capiva.
Mi accompagnò nella sala delle cerimonie, maestosa e dorata. Tutto brillava di gemme e preziosi: uno sfarzo che contrastava in modo nauseante con il sangue che aveva imbrattato le mura e le delicate piastrelle in ceramica dipinta soltanto poche settimane prima. La gente fuori dal palazzo – soldati e mercenari – gozzovigliava allegramente, cantando e ubriacandosi alla salute della regina e del nuovo Shah. Dentro, i nobili non si comportavano in modo assai diverso. Non conoscevo quasi nessuno in quella marmaglia: individuai Darya ed Amir, che mi salutarono e mi chiamarono a gran voce, ma io rifiutai il liquore e il loro invito e girai per la sala in cerca del Persiano. Non lo vedevo da nessuna parte. Corrucciata, lasciai Selene in balia di alcuni baldi giovanotti che le avevano chiesto un ballo e fuggii via, sul balcone, portandomi una mano alla fronte per detergermi il sudore. Dapprima l'idea di vestirmi in quel modo elegante mi aveva rallegrata, per qualche motivo, ma ora il lezzo ammorbante del sudore e della calca mi dava allo stomaco. Non ero mai stata tipo da feste. Non che mi trovassi a disagio, semplicemente mi annoiavano. Ricordai che per mia madre era valsa la medesima cosa: un'altra daga nello stomaco. Mi accasciai per terra e guardai in alto, dove la luna si rifletté nei miei occhi e mi inondò di un bagliore bianchissimo come il marmo, come la pelle di Erik. A proposito, dov'era? Probabilmente confinato nelle sue stanze. Doveva ancora riposare. Sicuramente ad Ezzat avrebbe fatto piacere la sua presenza lì – l'avevo intravista sul trono, che intratteneva alcuni dignitari con l'usuale grazia. Roshak era più intento a ridere dei maghi di corte e dei loro giochi d'illusione. Sapevo che Erik, se fosse stato presente, avrebbe offerto uno spettacolo assai migliore – magico – di quei buffoni.
«Madamoiselle, stai bene?»
Parli del diavolo…
Sollevai il capo e lo vidi stagliato dritto dinanzi a me, contro il parapetto del balcone. Mi offrì una mano quando diedi in un assenso, ed io l'afferrai senza pensarvi molto su. Nessuno dei due faceva il primo passo per allentare la presa, e le nostre dita continuavano ad essere intrecciate come un nodo scorsoio. La musica – melodie molto differenti da quelle a cui ero abituata all'Opera, di certo accattivanti per un orecchio come il mio – giungeva dalla sala insieme al rumorio dei convitati. Potevo quasi udire la voce smorzata e calma di Ezzat e la risata roboante di Roshak, ma mi concentrai sugli straordinari occhi dorati del mio amico, curiosa di leggervi dentro.
«Danzeresti con me, Monsieur?» chiesi stringendomi a lui.
«Sei molto sfacciata.»
«Ovviamente.» Tracciai una scia invisibile sul suo petto, seguendo la cicatrice che – lo sapevo – giaceva sotto la stoffa. «Non hai una strana sensazione di deja-vù?»
Lui sorrise. «Certo. Dovevi essere proprio un'insolente, per chiedere un ballo alla Morte Rossa.»
«Non l'ho chiesto alla Morte Rossa» osservai, ferma. «L'ho chiesto a te.»
Lui mi guardò stranito, rabbuiato. Mi sfiorò la mano che gli stringevo al petto e le mie viscere divennero acqua.
«Meg…»
Oh, no, non di nuovo. Non di nuovo quella patetica scena imbarazzante di silenzio tra noi due. Deglutii. Lui sembrava una statua. Mi stringeva ancora la mano.
Non dissi nulla. Sentivo che qualcosa si sarebbe rotto, se avessi proferito parola.
«Eccovi qua!»
Una voce ridondante ci fece sobbalzare. Lui si allontanò da me di colpo, con un balzo di almeno mezzo metro. Io feci lo stesso, rossa in viso, ma mai quanto lui lo era sul collo e le orecchie.
Amir, palesemente ubriaco, doveva essere sfuggito al controllo della moglie. Ci passò le braccia sulle spalle. «Interrompo qualcosa?»
«Assolutamente no» rispondemmo Erik ed io all'unisono, forse un po' troppo velocemente.
«Miei cari, perché non venite a danzare con noi? Non sei forse una ballerina, Meg? E guarda come sei carina stasera!»
«Attento, Darya potrebbe diventare gelosa» lo ammonii con un sorrisetto.
«Di uno scricciolo come te? Ma no. Oppure potrebbe diventarlo lui. E allora sarebbero guai» fece Amir con un cenno della testa ad Erik, che arrossì di nuovo e si aprì in una smorfia.
«Sono certa che non abbia nulla del genere in programma» intervenne Darya, che finalmente ci aveva raggiunti. Prese per un braccio il marito e mormorò un “scusate” mentre lo trascinava via, lui che urlava ancora se volevamo dell'arrack.
Erik ed io ci guardammo un attimo. Poi scoppiammo a ridere come due imbecilli.
«Io vado a prendere qualcosa da mangiare. Ho un certo languorino. Ti raggiungo dopo.»
Lui annuì ed io mi voltai, rientrando nella sala, non prima di avergli rivolto la domanda: «Sei sicuro di non volerti unire alla festa? Potrebbe essere divertente. Potremmo spettegolare sui nobili invitati e i loro aristocratici deretani.»
Lui sorrise. «Faresti meglio a non farti sentire dallo Shah.» Sapevo che era un no. Beh, ci avevo provato. Almeno con la sua compagnia la festa sarebbe stata sopportabile. Mi avviai per la mia strada, decisa a raggiungerlo in seguito. Mi riempii un piatto di svariate leccornie – scelsi in base a quelle che dall'aspetto e l'odore mi parevano più invitanti – curiosa di provarle tutte. Sorrisi a Selene, ancora impegnata nei balli. Avevo l'impressione che non fosse abituata a dire di no molto spesso, e quindi non poteva rifiutare. Risi tra me e me nel vedere finalmente il Persiano circondato da belle donne eleganti che pendevano dalle sue labbra. Lui, un po' in imbarazzo, raccontava – come mi rivelò in seguito – dell'esotica Francia e dei suoi costumi.
Quando raggiunsi il balcone dove Erik mi attendeva, notai che non era solo. Mi fermai sulla soglia, nascosta dietro una tenda di velo e perle rosate. Osservai le due schiene dinanzi a me. Una era di Ezzat, sicuro come il mio nome era Marguerite. Per mia fortuna, parlavano francese.
Non so quale diavolo in me mi suggerì di rimanere ad origliare. La mia povera madre mi avrebbe tirato le orecchie per quella insolenza, ma io non mi curai degli scrupoli. Ascoltai.
«Devi essere molto stanco.»
«Lo sono.»
Una breve pausa. La brezza estiva scostava il lungo velo intarsiato di brillanti dalle spalle regali di Ezzat.
«Sei molto affezionato a lei. Lo vedo.»
Capii che si stava riferendo alla sottoscritta quando aggiunse: «Vi ho visti insieme, prima.»
«Non si sbircia in modo così sfacciato» disse Erik con un sorriso sarcastico, come a voler liquidare la faccenda. Ma Ezzat era più saggia. Gli posò una mano sul braccio in un gesto protettivo.
«Stai attento. Khan mi ha già detto che sei stato deluso una volta…»
«In quel caso il biasimo era tutto mio. Inoltre, ora è differente.»
«Cosa provi per lei, Erik?»
Se qualcun altro – qualsiasi altro – gli avesse posto la medesima domanda, lui si sarebbe limitato a rispondere con uno sbuffo beffardo e una minaccia a metà. Con la regina, questo non era possibile.
«É… un'amica. Una compagna molto preziosa.»
Ezzat – potevo scorgere il suo profilo – aggrottò la fronte e annuì a quella risposta. Io non sapevo cosa provare. La logica a cui sempre mi affidavo mi diceva che dovevo essere lieta di una risposta simile. Era la medesima che avrei dato anch'io, se qualcuno mi avesse chiesto i miei sentimenti nei suoi riguardi. Eppure… C'era qualcosa di innominabile che mi rodeva dall'interno. Qualcosa come un cuore che si ostinava a pulsare malgrado stesse per finire i suoi battiti.
«Ehm.» Li interruppi prima di lasciarmi andare ad altre riflessioni dolorose. Sapevo che mi avrebbero fatto visita nei sogni, quella notte.
M'inchinai frettolosamente. «Salve» dissi, sfrontata e impacciata insieme. Ezzat mi rivolse un sorriso. Le offrii qualcosa dal mio piatto, ma lei declinò con gentilezza.
«Sei molto cara, ma mi sono già servita di tante portate da rivaleggiare con mio figlio.»
«Non credo che nessuno potrebbe rivaleggiare con lui in tal senso.»
Lei rise della mia insolenza. Ci salutò e ritornò al suo trono, dove i convitati l'aspettavano.
«Il rosso ti dona» mi disse prima di andarsene.
«Grazie» risposi, stupita.
Con Erik non accennai alla conversazione che avevo origliato e alle sensazioni che aveva prodotto in me. Feci finta di nulla, e mangiai e parlai tranquillamente con lui. Rimanemmo insieme per tutto il tempo, appoggiati al davanzale del balcone. Nessuno venne a disturbarci.
Ma io avevo un'ultima cosa da fare prima della fine, ed Erik lo sapeva.
«Ci stai ripensando» disse quando ebbi finito di ingozzarmi. Ingollai un sorso di liquore fruttato.
«Mmm» mi limitai a dire, e lui sospirò dietro la maschera.
«Meg, è finita. Assiye avrà la giustizia che merita.»
«Sì, lo so.»
«Questo non ti fa dormire sogni più tranquilli?»
«Più o meno.» Fissai l'orizzonte, la bella vista di Mazenderan dove tanto tempo prima Erik aveva tinto di rosso la sua corte. Un'altra tragedia vi si era abbattuta, eppure noi festeggiavamo come se si fosse trattato di un'occasione gioiosa. In parte lo era, perché avevamo vinto, ma… cosa avevamo vinto, di preciso? Tutte quelle vicende mi avevano fatto riflettere. Non importa chi siano le vittime, pensai. Sempre di morti si parla. Non c'era proprio nulla da festeggiare.
«Ho preso una decisione.»
«Bene. Non che prima fossi meno ferma al riguardo.» Mi osservò di sottecchi, attento. Mi sentii scandagliata fin nel profondo.
«All'alba… Mi accompagneresti a fare una visitina alle prigioni? Non che non ricordi la strada. Ci so arrivare anche da sola. Però…» Mi strinsi nelle spalle, colta da un brivido improvviso.
Lui si sfilò il mantello e me lo pose indosso, con delicatezza.
«Grazie…» sussurrai, stupita, immergendomi nel suo odore familiare.
«Non preoccuparti. Ci sarò, fin quando mi vorrai.»
Osservai la luna che ci bagnava di bianco sopra le nostre teste. Sarebbe stato così ancora per molto tempo, lo sapevo. Anche se non conoscevo il perché.
Il freddo dei sotterranei mi correva lungo la schiena in brividi simili a serpi striscianti. Deglutii, avvolta in un paio di calzoni e una giacca scura che emanavano un rilassante effluvio di lavanda – pulito, così in contrasto con il luogo nel quale stavo per addentrarmi. Dietro di me, percepivo la presenza rassicurante di Erik. Lo avevo voluto con me per essere testimone della mia rinnovata sanità mentale – se l'avrei mai più ritrovata, poi. Quello era un interrogativo che ancora mi torturava. E in gran parte lo dovevo alla donna a cui stavo andando a far visita quell'oggi. Mi conficcai le unghie nel palmo sudato della mano fino alla mandorla. No, non dovevo cedere. Per una volta, solo una volta, avrei lasciato da parte i miei istinti più oscuri per dare retta alla voce della ragione.
Inizialmente le guardie non volevano permetterci entrare, ma un'occhiataccia di Erik le ridusse al silenzio. Sapevo che Ezzat sarebbe venuta a conoscenza di quella mia avventura nelle segrete del castello di Mazenderan, ma non mi sarei opposta. Avrei dato una conclusione anche alla nostra conversazione, più o meno muta che fosse.
Erik rimase indietro, come di mia richiesta, e io raggiunsi la cella più angusta di tutte. Quando la vidi rannicchiata in un angolo, gli abiti lussuosi che le cadevano addosso come un velo, lo sporco sul viso mischiato al sangue, quasi non la riconobbi. Ma quando mi lanciò un'occhiata scintillante da sotto la frangia nera come bitume, non tardai a rammentare lo sguardo da tigre di Assiye.
«Tu. La puttana di Azrael. Quasi non ti aspettavo più.» Mi squadrò da capo a piedi. «Sei pulita.»
«A differenza di qualcun altro.»
Lei non si lasciò scalfire. «Quasi non ti riconoscevo. Senza – sai – il sangue.»
Mi morsi un labbro, ma non cedetti. Mi avvicinai con passi lenti, misurati. Senza preavviso, le afferrai la testa per i lunghi capelli sporchi e le tirai un pugno in faccia talmente forte che finì a terra a sputare un dente e una boccata di sangue.
Rise sguaiatamente. «Sei venuta per finirmi, piccola sgualdrina straniera?»
«Non dovresti usare quel linguaggio contro una che ha la daga dalla parte del manico.»
Lei rise ancora. Il sangue le gocciolava dalle gengive molli. «Allora? Dalla prima volta che ti ho visto, ho saputo che desideravi farmi fuori con tutta te stessa. In modo lento, doloroso. Come la tua mammina, presumo? Sì, immagino di sì.»
Non risposi.
«Sei pazza.»
«Mai quanto te.»
«Condividiamo più cose di quanto sembri, non è vero?» Lei distese quel sorriso rosso. «Ma rifletti. Se mia sorella sapesse che l'hai privata di un'esecuzione plateale…»
«Non ci sarà nessuna esecuzione. Non per te, almeno.» Questa volta fu il mio turno di sorridere malignamente. Assiye aggrottò la fronte.
«Erik le ha parlato. Lei è d'accordo. Anzi… questa era la sua idea fin dall'inizio.»
«Erik, certo. Il tuo adorato.»
«Non è…»
«Non lo desideri, forse? Io sì, lo desideravo. Ma poi mi stancai anche di lui. Era un'arma. Presto ci si stufa del proprio giocattolo.»
Sbattei le palpebre. Quindi Assiye aveva provato, nella fanciullezza, una sorta di macabra e contorta attrazione per… per Erik.
«Sadica come sei, probabilmente ti eccitavi vedendolo uccidere la gente.»
«Sono tanto prevedibile?»
«No. Sei solo un mostro. Tutti i mostri lo sono, per una mente allenata.»
«E ricordati che anche il tuo amico lo è. Un'arma, ho detto prima. E non si smette mai di esserlo. Si è allenato per uccidere i propri nemici e chiunque gli sbarrasse la strada.»
«Anche io. Mi sa che è per questo che andiamo tanto d'accordo.»
Tra noi cadde il silenzio. Si udiva solo il gocciolio di umidità sulle pareti di salnitro.
«Non avrò la gioia di guardarti morire. Erik aveva ragione fin dall'inizio: non mi riporterà indietro mia madre e tutto ciò che mi hai rubato. Non farà cessare i miei incubi, né il sangue che imbratta le mie mani finirà di pulsare. Ci sarà sempre e solo quello.»
«E allora cosa vuoi, ragazza?» Adesso sembrava arrabbiata. Certo, non sapeva dove volessi andare a parare.
«Vedi, ho un'amica che sarebbe stata in grado di pronunciare le parole “ti perdono”. Sarebbe stata molto più forte di me – di una forza incancellabile. Ti avrebbe annientato con nove lettere, e si sarebbe sentita in pace con se stessa. Ma io non sono lei.» Non volevo rivelarle il nome di Christine. Sorrisi amaramente. «Mi accontenterò di saperti agonizzante in questa cella buia, umida, fetida e fredda per il resto dei tuoi giorni. Questa, per me, si chiama giustizia.»
«Agonizzante?» ripeté lei. Non capiva. «Mia sorella – la Khanum – ha voglia di farmi pestare ogni giorno fino a farmi rivoltare le budella?»
«Non esattamente. Tu ami tuo figlio?»
Lei si irrigidì. «Cosa?»
Non attesi una sua risposta. «Probabilmente sì. Vedi, lui è ufficialmente colpevole dei crimini del suo regno. Perché era il suo regno, o mi sbaglio? Tu eri solo la regina madre. E la folla richiede la sua testa. Anche la tua, ma quella è un'altra storia.» Inclinai il capo mentre vedevo la sua bocca riempirsi di nuovo di rosso e i suoi occhi di lacrime. Stava cominciando a capire. «Vedrai tuo figlio morire senza la possibilità di fare nulla. Impotente come lo sono stata io. Come lo sono state tutte le tue innumerevoli vittime. E rimarrai in questo lurido posto, nelle segrete del tuo palazzo, a scontare la pena più grande di tutte.»
«Quale?»
«La sopravvivenza.»
Lei scoppiò a ridere, i polsi avvinti dalle catene che la imprigionavano. Era una risata folle – come il mio canto di vendetta dopo che avevo ucciso per la prima volta (il sangue di Senza Nome sulle mie mani, insieme a quello dei miei genitori), come può essere soltanto quella di una madre che sa di star per assistere alla fine dell'unico essere che ama a questo mondo. Come poteva essere soltanto quella di Assiye.
«Fa male» disse lei, quasi sorpresa nello scoprirsi a provare dolore per una circostanza simile. Si sfiorò il petto. «Ho sempre sognato di sedere su un trono più in alto di chiunque altro, ma alla fine mi hai davvero strappato il cuore, come volevi.» Mi guardò con quei suoi occhi luccicanti di lacrime, rabbia, sudore e angoscia. «Sei soddisfatta?»
«No» dissi con gelido distacco, apatia, narcosi. «Non sarò mai soddisfatta.» E, senza guardarla un'ultima volta, girai sui tacchi e me ne andai.
Seppi che si era lacerata i polsi con la catena che li avvinceva la sera prima dell'esecuzione di suo figlio. Che non fu rimandata, e alla quale non assistetti – avevo la nausea di tutto quello.
E, di nuovo, non ero soddisfatta. Non lo sarei stata mai, mai più.
Note dell'Autrice: Rieccomi con un nuovo capitolo. Che ne pensate? Sì, lo so, state diventando impazienti di vedere questi due – intendo, Erik e Meg – combinare qualcosa di concreto. Ma è un processo lento. E, come si vede da questo capitolo, lui è ancora preso da Christine (sarebbe OOC, non trovate? Anche se…). E Meg – si renderà mai conto dei suoi sentimenti per quel vecchio bastardo? Beh, vedrete come e quando. Abbiate ancora un po' di pazienza, vi prego.
Per quanto riguarda i miei affari personali, queste due settimane sono state… strane. Ho avuto la febbre, ho lasciato l'università per lavorare (momentaneamente, visto che l'anno prossimo cambierò facoltà), e Trump ha vinto le elezioni (non so voi, ma… bleah). Insomma, non sono al mio meglio, e non ho scritto granché in questo periodo. Mi mancano un capitolo e mezzo, più l'epilogo, alla fine di questa storia. Non posso ancora credere di essere arrivata a questo punto. Spero che vi abbia divertito, finora.
E ora, le recensioni:
ondallegra: La tua critica è più che costruttiva e, in effetti, si fonda su basi concrete a cui neanch'io avevo pensato: ora ti spiego perché. Allora, io sono un'egocentrica incredibile – dillo a tutti quelli che mi conoscono bene – e sì, naturalmente il racconto è visto dal punto di vista di Meg, che non poteva sapere cosa fosse successo in battaglia poiché impegnata in un'altra – e il fatto che si salvasse da sola era molto importante, visto che fino a questo momento lei stessa si era lamentata di come questo la differenziasse da Christine e la rendesse “dipendente” da Erik. Ora, ripeto, da egocentrica, scrivo quello che a me piacerebbe leggere, ed è un difetto: pensavo semplicemente che ai miei lettori non interessassero i dettagli della battaglia. Tutto qui. Il pathos che avevo creato, a tuo dire, per suddetta battaglia era riferito più a quel che vi avrebbe combinato Meg che agli altri. Scusami se ti sono parsa negligente sotto questo punto di vista. Mi sa che hai ragione. (Non sono affatto offesa, anzi.)
Per il resto, sono così felice che tu ti sia emozionata nel leggere il capitolo precedente! E grazie per avermi riconfermato che Erik è IC. È così difficile da trattare, il maledetto! E hai analizzato benissimo l'evoluzione di Meg. La morte la segue dappertutto… eppure ciò che le ricorda la sua umanità, l'essere viva, è il legame con Erik, fatto di morte dalla testa ai piedi. (Ho dei lettori così intelligenti. Sono fortunata.) Spero di non averti deluso con questo nuovo capitolo. Un bacio. <3
debbythebest: Grazie per i complimenti. Macché bravissima! Sono solo una scribacchina che ama tanto scrivere delle sue fantasie contorte. Lieta del fatto che i due testoni – Meg ed Erik – non ti sembrino OOC. Sono ossessionata dal renderli più IC possibile, malgrado le circostanze. (E scusa per l'ansia. Dai, che finirà presto.)
Un bacione anche te, cara! <3
bibliofila_mascherata: Ma grazie a te! Addirittura peggio di Assiye? Ehehe, sappi che sto ridacchiando sotto i baffi. Sono contenta che ti piacciano così tanto quei due sfigati di Erik e Meg, e aspetta e vedrai (intendo, per il bacio che tutti stiamo attendendo con ansia). E sì, anch'io voglio un Erik tutto per me (magari con il naso XD) :3 Ormai non mi stupisco più dei miei gusti in materia di uomini: sono MOLTO strani e ne sono consapevole. XD Per quanto riguarda i miei genitori, prima di fidanzarsi erano infatti molto amici (si sono conosciuti alla festa di compleanno dei 21 anni di mia madre, figurati), poi hanno capito di provare qualcosa di più, e così via… il resto è storia, come si suol dire. Sette anni di fidanzamento e venticinque di matrimonio, più tre figli (la maggiore sono io). Malgrado i non pochi problemi, si vogliono sempre bene, e questo è un sollievo per me e i miei fratelli.
Sono davvero una delle tue scrittrici preferite? Ma se sono solo una scribacchina sfigata! Sono comunque onorata. Ti adoro. *__*
Per quanto riguarda l'università, molto è in gioco in questi ultimi tempi. Sto anche valutando se frequentare solo un paio di corsi (quelli che più mi interessano) prima di cambiare facoltà in un'università più vicina alla mia città. Beh, vedremo… Vorrei lavorare, più che altro. Ma se non trovo un lavoro, che faccio, quest'anno? Non posso rimanere con le mani in mano tutto il tempo. Poi, non è che abbia molti amici con cui uscire e spassarmela – mai avuti, quelli. Vorrei uscire con tutti voi – che bel gruppetto che faremmo – ma abitiamo lontano! Mannaggia. :(
Grazie per il “sei intelligente e in gamba”. Non credo di esserlo granché, ma grazie comunque, cara. Tvb, un bel bacio. <3
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Capitolo 33 *** Viaggio di ritorno. ***
xxxii.
viaggio di ritorno
I festeggiamenti continuarono per giorni, addirittura – seppi in seguito – settimane. La notizia che la Resistenza aveva vinto la sua battaglia si sparse in tutto il mondo grazie ai media giornalistici.
«Non ci faranno mai dimenticare questa avventura, neanche quando saremo di nuovo in Francia» commentò Erik, arricciando il naso – se ne avesse avuto uno, ossia – dinanzi a una marea di articoli in prima pagina sui quotidiani persiani. Io ero d'accordo, ma compresi i motivi di quel festeggiamento: non c'era stata la libertà di parola, scritta o parlata che fosse, da quasi due decadi.
Tutto il Paese celebrò fino alla preparazione del nostro viaggio di ritorno, che era imminente. Non avevamo più niente da fare, lì, ed Ezzat e Roshak ci concessero graziosamente di rimetterci in sesto e partire con una nave della loro flotta. Anzi, della flotta di Darya e Amir, che furono lieti di accompagnarci in quell'ultima traversata.
Era l'alba del primo luglio, il sole gettava lance oblique sul mio viso, malgrado l'ombra offerta dalle palme di deliziosi datteri che circondavano il balconcino della mia camera. O meglio, della camera a mia disposizione fino a quel momento. Ne afferrai uno da un ramo più basso, e addentai il frutto succoso. Peccato che fosse troppo maturo. Lo sputacchiai con un'imprecazione che fece ridacchiare delicatamente una presenza alle mie spalle.
«Non sai ancora distinguere quelli acerbi da quelli troppo maturi, vero?» sorrise Selene, avvicinandomisi. Mi ripulii la bocca con una manica e sorrisi, sperando che non mi fossero rimasti dei resti di quel maledetto dattero tra i denti, ma la mia amica non mi disse nulla al riguardo.
«E tu non sapresti riconoscere un plié da un arabesque. Così siamo pari.»
«Ehi, questo si chiama barare.»
«No, è pura logica.»
Ridacchiammo insieme e – lo sapevamo – per l'ultima volta. I suoi occhi si riempirono di lacrime. Io deglutii un po' troppo rumorosamente. Mi gettò le braccia al collo prima che avessi l'opportunità di impedirglielo.
«Per Allah, mi mancherai tanto» fece lei, soffocando un lieve singhiozzo nella mia esile spalla. Le accarezzai il capo velato con la maggiore gentilezza possibile.
«Anche tu.» Mi feci coraggio. «Potrai scrivermi quando vorrai. Indirizza le lettere all'Opera Garnier. Quella è la mia casa.» Non mi sarei certo trasferita nell'appartamento in cui mia madre era stata brutalmente uccisa.
«Mi piacerebbe tanto vederla. Il tuo Paese deve essere bellissimo.»
«Lo è anche il tuo. Solo che l'ho visitato in maniera – e in un tempo – poco appropriati.» Scossi la testa gravemente. «Non credo vi rimetterò più piede. Lo sai, vero?»
Lei annuì, gli occhi ancora liquidi. Povera Selene. Dirle addio era la cosa più difficile.
«Vienimi a trovare» la incoraggiai.
«Se i miei doveri me lo permettono, lo farò con grande gioia. Solo…» chinò lo sguardo, per un attimo indecisa. Poi si fece più ferma. «Non uccidere più, Meg. Me lo prometti?»
«Se intendi dire che dovrò trattenermi dall'infilzare Erik, allora te lo giuro.»
Lei rise e tirò su col naso. «Sei una persona fantastica.»
«Anche tu. Non speravo di incontrare qualcuno come te in questo viaggio orribile.»
«Mi dispiace che tu abbia dovuto vedere il mio Paese in questo tempo tempestoso e mortale.»
«Credo mi sia bastato per una vita intera.» Mi fermai un momento. «Grazie» mormorai poco dopo, quasi incredula che quella parola sgorgasse dalle mie labbra. Selene mi gettò un'occhiata stupita.
«E di cosa?»
«Di avermi fatto capire che a una donna non serve una spada per essere coraggiosa.»
Lei sorrise, i denti perlacei che contrastavano con la carnagione di bronzo. «Figurati.»
Mi accompagnò fino al cortile del palazzo, dove ci attendevano alcuni servi, e Darya, Amir, Nadir ed Erik con le nostre cavalcature. Il porto non era vicino. Ci sarebbero serviti molti altri giorni di viaggio.
«Scrivimi» le ripetei.
Lei annuì. Io mi strinsi a Darya sul nostro cammello, inspirando il suo profumo – mi chiesi se mai l'avrei dimenticato, una volta tornata in Francia – e mi guardai alle spalle finché Selene non fu un puntino lontano sulla distanza. Un minuscolo raggio di luce nell'alba che si sollevava all'orizzonte. Ero destinata a non rivederla mai più, né a risentire la sua dolce voce. L'ennesimo fantasma nella mia vita di reliquie.
Non ce ne andammo senza prima essere ricevuti nella splendida Sala del Trono dalla Khanum e lo Shah di Persia. Ci augurarono un buon viaggio, quest'ultimo più distaccato della madre, la quale mi rivolse in francese queste esatte parole: «Riponi la spada, ragazza di tenebre. Ora è il momento di tornare a danzare.» Gli occhi d'onice le scintillarono. «Mi piacerebbe vederti sul palco.»
«Se verrete a far visita a Parigi, ne avrete la possibilità.»
«Sì… mi piacerebbe. Se posso. Ho tanto lavoro da fare.» Scoccò un'occhiata grondante affetto al figlio, che la ricambiò. «Ricostruiremo questo Paese insieme. Tu torna a riposare… giovane ballerina.»
Annuii. «Grazie, Madame.»
Sorrise quando – per l'ennesima volta – mi rifiutai di chiamarla col suo titolo di regnante. Scosse il capo con aria divertita. «Sei davvero impertinente. Non so come faccia il nostro Erik, qui, a sopportarti.»
Il suddetto fece per rispondere con una delle sue battute al vetriolo, ma io lo interruppi prima ancora che potesse proferire parola: «Con tutto il rispetto, Madame, sono io che sopporto lui. Non sapete quante ne ha combinate all'Opera.» Ci sarebbe voluto troppo tempo per spiegarle effettivamente il come e il perché.
Lei rise, deliziata, mentre lo Shah la guardava come a chiederle cosa ci fosse di tanto divertente nella nostra conversazione. La madre fece un gesto noncurante al figlio, per distoglierlo da quei pensieri.
«Allora andate. Ci risentiremo.»
Non era vero. Non avrei mai più visto la bellezza e la saggezza splendente di Ezzat, né l'ardore tutto giovanile di Roshak. Non li avrei rivisti mai più. Ma anche del loro destino parlerò oltre. Adesso non è tempo.
«Come diavolo…?»
Guardai prima Erik, poi la scacchiera. Poi di nuovo Erik.
Lui mi mostrò un sorriso tutto denti e arroganza – quell'odiosa consapevolezza della sua intelligenza che lo faceva sembrare un bambino vanitoso e che avrei voluto levargli a suon di schiaffi.
«É semplice, davvero. Direi elementare.» Incrociò le braccia al petto, con quell'aria da sapiente che mi faceva ribollire il sangue nelle vene.
Mi aveva battuta a scacchi per la quarta volta di fila. In circa dieci minuti. E sospettavo fosse stato anche generoso nel concedermi così tanto tempo – sbuffai al pensiero – per contrattaccare alle sue mosse precise e letali.
«In fondo è normale. Sei solo una principiante. Io gioco a scacchi da una vita.»
«Fammi capire, mi stai dando della stupida?»
«No, credo che tu possegga un'intelligenza del tutto nella norma.»
Gli lanciai uno sguardo di fuoco e per poco non gli scaraventai addosso la scacchiera e tutti i pezzi, ma sarebbe stato un peccato rovinarla, visto che era di Amir. Quasi cambiai idea quando vidi quest'ultimo che se la rideva beatamente dello strano duetto tra me ed Erik.
«Il nostro uomo in maschera sa come corteggiare una donna» sogghignò il capitano tra sé e sé.
Non ne hai idea, pensai, con la mente rivolta a tutti i guai che aveva combinato all'Opera mesi prima, ossessionato com'era da Christine.
Mi alzai in piedi di scatto e mi diressi nella mia cabina, pestando la suola delle scarpe sulle travi di legno della nave. Poche settimane e tornerò a casa, pensai. Mi scoprii spaventata all'idea. Non ero più la stessa di un tempo. Non ero più come Juliette, Fabienne e Louise, le mie vecchie amiche e compagne di ballo. Loro erano giovani, semplici, spontanee; io no. Forse non lo ero mai stata. Forse non ero mai stata adatta al mondo, alla vita…
Mi raggomitolai tra le lenzuola, le ginocchia nodose strette al seno. Non piansi. Prima non ero mai stata una persona facile alle lacrime, ma ora la rabbia esacerbava ogni cosa. L'infelicità era un cancro che mi intossicava il sangue.
Trascorsero un paio d'ore quando venni svegliata da una voce familiare.
«Meg. Meg.»
«Mmmh.»
«La cena è pronta. Vieni a mangiare. Jasper ti aspetta.»
Ma certo, il piccolo mozzo con cui avevo stretto amicizia al viaggio d'andata. Dischiusi lentamente le palpebre. Erik era seduto al mio capezzale e seppi dal tremito quasi impercettibile delle sue lunghe dita bianche che mi aveva scosso per le spalle – toccata, quindi – per destarmi. Ammiccai.
«Vai a quel paese.»
Sbuffai e affondai la faccia nel cuscino.
Erik sospirò, troppo stanco per rimbrottarmi. «Sei ancora arrabbiata con me perché hai perso a scacchi e involontariamente ti ho dato della stupida? Beh, sappi che molti sono stupidi in confronto ad Erik.»
«E pochi hanno il medesimo ego.»
Lui sorrise, gli occhi brillanti nella penombra. La marea ci cullava dolcemente; il cielo fuori doveva essere un miracolo di stelle.
«Scusa.»
«Non sono arrabbiata con te. E non certo per una sciocchezza simile.»
«Tu detesti perdere, Meg.»
«Come te.»
Mi scostai la frangia dagli occhi e lo soppesai. «Erik…»
«Di cosa vuoi parlarmi?» Lui sembrava aspettarsi una sorta di ultima, disperata confessione da parte mia. Le nostre chiacchierate notturne non si erano concluse.
Perché?, mi chiesi. Perché lui e non qualcun altro? Avrei potuto incontrare e legarmi a chiunque, ma tra i tanti mi era capitato proprio quell'uomo dal vissuto incredibile. D'altronde, era diverso da tutti gli altri, questo dovevo riconoscerlo.
«Sai che non sono avvezza a parlare di emozioni.»
«Non lo sono neanche io, se è per questo.»
«No, in effetti tu le emozioni le fai divampare e basta.»
Lui si rabbuiò. «Aspetta un attimo. Cosa vorrebbe dire?»
«Che sei una botte di polvere da sparo pronta a esplodere.»
Lui sbuffò e scosse il capo. «Erik ha molta, molta pazienza. Soprattutto con sciocche, piccole impertinenti di nostra conoscenza.»
«Non sei mai stato un uomo paziente.»
Lui rise – non era davvero arrabbiato, questo ormai lo sapevo. Riconoscevo al volo i suoi stati d'animo: mi bastava notare la lieve inclinazione del capo quando era incuriosito o pieno di disappunto, e capivo. Ora si stava solo beffando di me… non in modo differente dal solito, quindi.
Dopo, divenne improvvisamente serio. «Continua il tuo discorso. Perdona l'interruzione.»
«Figurati. Dicevo… Mi è difficile esprimere quello che provo, specialmente a parole. Ma con te è diverso.» Arrossii e chinai lo sguardo, sperando che non si avvedesse del mio imbarazzo. Ma lui notava sempre tutto. Era acuto e percettivo, solo che spesso non sapeva decifrare i segni che coglieva negli altri, data la sua mancanza di esperienza col mondo complesso delle emozioni umane. «Ma ho sognato spesso, in questi giorni, di… Insomma, mi chiedo cosa accadrebbe se rimanessi qui con Darya e Amir. Potrei diventare un pirata. Una mercenaria. Finirei per farmi uccidere in qualche guerra e, se non imparassi a nuotare, affogherei in mare durante una tempesta, augurando comunque alla Sole Nero un tragitto sempre sicuro, ma… avrei il mondo nel palmo della mia mano.» Sospirai, acquietandomi per un istante.
«Ci hai pensato sul serio o mi stai solo prendendo in giro?»
«No, ci ho riflettuto. Voglio dire, è un pensiero che mi è passato per la mente, e uno non può controllare la propria mente, giusto? Io dovrei saperlo.»
Lui annuì. «Anche io.»
«Appunto. Ebbene… Ci ho pensato. Perché ho creduto che non mi rimanesse nulla, che anche ritornare a casa mi sarebbe stato doloroso. Che vivere e basta sarebbe stato doloroso. Ma poi mi è venuto in mente che… cosa ho se non la danza? La musica è tutto ciò che mi riporta alla mia famiglia, e io devo tornare alla musica. Se mi rimane ancora qualcosa, è questa. Non più l'innocenza, se mai l'ho avuta. Né penso che potrò mai più essere davvero felice.»
Erik sollevò una mano per fermarmi. «Aspetta.»
«No, fammi finire.» Lo guardai di sottecchi. Non potevo dirgli che, malgrado l'ossessione di cadere in un'oscurità eterna in cui la gioia mi sarebbe stata per sempre preclusa, questo timore si scioglieva come neve al sole quando lui mi era vicino. Perché la sua presenza, in effetti, mi allietava come non mai. Sarei pazza a dirglielo. Per poco non arrossii di nuovo. Invece tossicchiai.
«Devo danzare. Forse così sarò di nuovo felice. È ora di tornare a casa.»
Lui sorrise leggermente. «Meg, tu sei giovane, bella e di talento. E non sei del tutto imbecille, sebbene…»
«Non sono bella. Ma molto intelligente, questo sì.»
Lui sbuffò. «Hai una quanto mai bizzarra considerazione di te stessa. Tu sei tutto questo e molto di più. Hai una vita davanti, soprattutto. Hai trascorso momenti terribili, esperienze che non molti tuoi coetanei francesi supererebbero. Sei stata torturata, in tutti sensi – ti hanno quasi uccisa. Eppure sei ancora qui. Hai vinto, Meg. Hai vinto contro tutti i tuoi nemici, contro ogni aspettativa, e te stessa. Mi hai salvato la vita, piccola ballerina.» Per un attimo vidi un lampo di qualcosa – non saprei dire cosa – nei suoi occhi. Era gratitudine, forse? So solo che mi fece rimanere con la gola secca.
«Non c'è bisogno di aggiungere altro.»
Si alzò dal mio capezzale e si allontanò dalla mia figura rannicchiata sulla branda, le lenzuola come un muro divisorio tra noi due. Mi fece un cenno con le dita cadaveriche.
«Vieni, adesso. Devi mangiare.»
«Non puoi darmi ordini.»
«Non è un ordine, è un consiglio.»
Questo mi riportò alla memoria una certa discussione di molto tempo prima… Sogghignai. «Nessun deja-vù a queste parole?»
«Hai buona memoria. In effetti…» Socchiuse gli occhi. «Ricordo. In un'occasione ben diversa, ti dissi che avevi bisogno di nutrirti per recuperare le forze.»
«Già. E io ti risposi che non potevi darmi ordini.»
«Io ribattei che si trattava solo di un consiglio, sì.»
Ci eravamo scambiati quelle frecciatine nel periodo in cui, malata, mi ero affidata alle cure di quell'uomo a dir poco bizzarro nell'appartamento sul lago. Sorrisi al ricordo. Era stato tutto più semplice, allora. E questo è ben dire.
Ciò che era avvenuto in seguito era un turbine di sangue e tragedia, di sogni spezzati e lacrime mai piante. E di sentimenti a stento colti nel bocciolo di un cuore che non riusciva a darsi ragione di quanto gli avveniva ogni volta che si ritrovava vicino a quello di Erik, palpitante al medesimo ritmo.
Avrei osato…? No, avevo ancora troppa paura per dare un nome a ciò che provavo per lui. Per non cedere alla follia, dovevo dimenticarlo.
Pensavo a tutto questo mentre mi alzavo e lo seguivo sul ponte della nave, dove mi fu servita un'ottima cena. Rimasi seduta a gambe incrociate vicino a Darya, che mi raccontava tra un sorso di rum e un altro di come aveva conosciuto Amir e delle loro prime avventure insieme.
Avevo sempre sognato di girare per il mondo, di vivere esperienze ineffabili… La mia esperienza si era rivelata del tutto diversa.
Quando rimanevo sola con i miei fantasmi, le immagini mi scorrevano davanti agli occhi come una pellicola bruciata: ritratti di morte e sangue che non riuscivo a spazzare via. Non piangevo, non più. Mi limitavo a stringere i pugni e i denti e ad affondare la testa nel cuscino, coperta come da uno scudo dalle lenzuola della brandina. Non mi confidavo con nessuno, nemmeno con Erik, benché sapessi che con lui sarei stata al sicuro: le nostre chiacchierate – nonché i frequenti battibecchi – mi aiutavano a decifrare le mie emozioni ingarbugliate in una miscela esplosiva di colpa, terrore e angoscia, lasciandomi libera di pensare senza per questo dover fingere di essere qualcuno che non ero. Non con lui, almeno. No, lui vedeva sempre attraverso di me, le mie parole, come fossi di cristallo. E io, allo stesso modo, vedevo lui.
Ad esempio, mi lanciava sempre fugaci occhiate furtive ogni volta che mi avvicinavo alla botte di rum speziato per riempire la mia coppa, perché sapeva che Claude Giry aveva cercato di annegare nell'alcol le sue ossessioni terrorizzanti, fallendo, e che io temevo di fare la sua stessa fine.
«Meg. Meg, lascia perdere.»
Mi si avvicinò mentre, una sera in cui la luna brillava piena nel cielo di fuliggine, io ero intenta ad attingere alla botte di rum per l'ennesima volta – avevo perso il conto. Nella confusione sulla tolda, dove l'equipaggio tutto gozzovigliava e si abbuffava di pesce salato e cantava in una lingua a me ignota, nessuno ci notò. Tuttavia, forse Darya mi cercava.
Erik mi fermò il polso con una mano mentre ignoravo il tono di rimprovero nella sua voce – odiavo essere trattata come una bambina che ha bisogno di cure per ogni minima cosa – e diedi uno scossone alla sua stretta sulla mia carne tenera.
«Cosa c'è?» chiesi, le braccia incrociate al petto, gli occhi a fessura.
«Voglio impedirti di fare una sciocchezza.»
«Non ho intenzione di ubriacarmi. Reggo bene l'alcol. E poi tu non sei mio padre. Chiaro?»
«No, infatti. Tu finirai come Claude Giry se continui così.»
Mi trattenni dal rifilargli una sberla. «Come osi…?»
«Sei te stessa o l'ombra di tuo padre?» Rampicante o fiore?
Scossi il capo furiosamente, poi con un senso di dolente tristezza. «A volte le due versioni si confondono tanto che mi è difficile distinguerle l'una dall'altra. A volte mi sento più fantasma che donna.» Gli sorrisi, amara e mordace. «Sto diventando anch'io uno spettro, Erik. Non te l'aspettavi?»
Negli occhi dorati di lui vigeva un'espressione serissima. «Spiegami cosa ti sta accadendo.»
«Non posso, non qui.» Mi s'incrinò la voce, ma appena, solo un sospiro. «Vieni nella mia cabina quando tutti saranno andati a letto. Ti aspetterò, e potremo parlarne con riservatezza.»
Lo lasciai immerso nei suoi pensieri. Conoscendolo, aveva già indovinato cosa infestasse i miei.
Ero rannicchiata sulla mia brandina quando Erik chiese di entrare. Doveva essere notte inoltrata, poiché il solito gozzovigliare dell'equipaggio era finito e non si udiva altro che il sospiro del vento e il suono delle onde che cullavano la carena del natante.
Mi vide lì immobile, quasi il respiro mi fosse rimasto intrappolato nella cassa toracica, e mi guardò dolente.
«La mia mente gioca brutti scherzi» mormorai in preda alla nausea. Mi si agitava ancora dinanzi agli occhi sgranati l'immagine di tutti i cadaveri straziati che avevo visto nella mia vita. Non me ne libererò mai, pensai con un senso di acuta disperazione. Saranno sempre lì a ricordarmi cosa sono, e cosa non voglio essere.
«Meg…» esordì lui. Sedette al mio capezzale, e sapevo che voleva toccarmi – che so, posarmi una mano sulla spalla in segno di conforto, scostarmi una ciocca di capelli dalla fronte – ma non osava. Non osava mai, alla fine. La sua vicinanza mi fece pulsare il cuore a un ritmo impazzito. Allo stesso modo, io non riuscivo a metterlo a tacere. Né il cuore né la mente si possono davvero controllare.
«Pensavo di poter conquistare la morte, ma mi ha sconfitto. Sono una sua preda. Sono stata così stolta… Avrei dovuto dare retta a te, per una volta. Ho paura che queste ferite non si rimarginino mai. Che resterò sempre così, a un passo dal baratro.»
Lui scosse il capo lentamente. «Non puoi conquistare la morte, è vero. Questo è un errore che anche io ho dovuto pagare duramente. Ma puoi accoglierla. Trattarla da compagna, quasi sorella, come la vita. Bisogna avere coraggio, per questo. E tu lo hai, puoi starne certa.»
Le mie labbra ebbero un fremito. «Mi piaceva uccidere. È questo che mi tormenta. Come posso… tornare all'Opera e ricominciare a vivere come se nulla di tutto questo fosse accaduto? Come farò a fingere davanti al mondo intero? Non so se sono abbastanza forte…»
«Lo sei. Te lo assicuro.»
Giocherellò con i polsini della camicia mentre io fissavo i suoi polsi di un biancore assoluto, cadaverico, e le cicatrici che decoravano quell'affresco macabro.
«Se tornassi indietro, lo rifarei. Rifarei tutto quello che ho fatto. E non me ne pentirei, come adesso.»
«Quindi sei angosciata perché non te ne penti.» Non era una domanda, ma un'affermazione solidissima.
«Sì. Questa consapevolezza mi spaventa da morire, Erik. Tu non l'hai mai provata?»
«Quando ho ucciso Günther, a dodici anni, no. Non ero felice, ma la via del potere e del sangue può portare a soddisfazioni… quasi carnali. Alla corte di Mazenderan, annegavo nell'oppio come hai cercato di fare tu stasera con l'alcol. La mia mente era così confusa e annebbiata, ed io così pieno di rabbia che mi arresi all'evidenza. Se non potevo avere l'amore di cui ogni essere umano ha diritto, allora avrei seminato morte. Era l'unico modo per saziarmi. Quando tornai in Francia, mi preoccupai solamente di me stesso. Preparavo la mia morte – intendevo seppellirmi una volta completato il Don Giovanni trionfante. Volevo lasciare nel mondo la mia impronta di architetto, e così progettai i sotterranei dell'Opera. Prima volevo conquistare la morte, esserne padrone… Poi capii. E la accolsi come un'amica di lunga data. Era la mia liberazione. Per me non c'era altro destino, mi dicevo. Soprattutto dopo quanto accaduto con…» inspirò a fondo prima di pronunciare quel nome, «… con Christine.»
Perché parla al passato? Mi chiesi se dopo questo, dopo tutto, dopo di me, volesse ancora morire. Inghiottii un sorso di bile al pensiero. L'idea della sua morte mi spaventava assai più del suo viso devastato. Forse lo sapevo già da tempo…
«Se Ezzat e Roshak avessero perso la guerra contro Assiye, io le avrei dato la caccia fino ai confini del mondo. Avrei ucciso chiunque mi si fosse parato dinanzi per ostacolarmi – chiunque. Questo cosa mi rende? Una bestia, un mostro?»
«Ti rende umana. Solo umana.»
Lo guardai con occhi che non avevano bisogno di parole. Grazie, pensai, ma non lo dissi. Per essermi rimasto al fianco. Perché mi capisci come nessuno mai.
«Meg, devi comprendere… la tua è stata una vittoria su tutti i fronti. Non sei un mostro. Non lo sei e non lo sarai mai.»
«Ma se mi è piaciuto uccidere…»
«C'è qualcosa di instabile in te, lo so. Qualcosa che richiama a sé ciò che ho io di instabile, al mio interno. È la tua sofferenza, la tua natura è oscura. Ma questo non significa che non vi sia anche la luce. Il mondo non si divide in luce e oscurità: vi è anche il grigio, ciò che non possiamo vedere se non ad un secondo e più attento sguardo.»
Annuii: concordavo con lui. Se tu sei un mostro, allora lo sono anche io, Erik. Siamo troppo legati. «Se sono un mostro fuori, non significa che debba diventarlo anche dentro» dichiarò lui con solennità. Sorrisi.
«Finalmente lo hai capito. Ci hai messo un po'.»
Sorrise anch'egli, la penombra che rendeva i suoi occhi simili a fantasmi dorati, rubati al cielo. Era una visione inquietante e magnetica insieme. Ma io non avevo più paura.
«Ora dormi, Meg. L'alcol ti avrà reso sonnolenta e confusa, immagino.»
Mi grattai la testa. Un lieve pulsare alle tempie disturbava il corso – già di per sé tanto agitato – dei miei pensieri. «É per questo che ho bevuto. Volevo un sonno senza sogni.»
«Che idea intelligente, Madamoiselle.»
«Non hai tutti i torti.»
Mi stiracchiai le membra tese e chiusi gli occhi. Lui rimase al mio fianco finché non caddi tra le braccia di Morfeo, sussurrandomi un canto meraviglioso – era farfalle dorate e tremule margherite di primavera e cirri candidi. Era Erik, e la sua voce aveva il potere divino di acquietare qualsiasi animo tormentato. Tutti, meno che il suo.
Con i gomiti poggiati alla balaustra della nave, mi godevo la brezza tra i capelli arruffati, l'odore di mare che permeava tutto come una scintillante coperta di sale e acqua limpida. Osservavo il sole annegare all'orizzonte, ma sapevo che non sarebbe morto: ad ogni alba ritornava a fare capolino tra i nembi di zucchero rosa e arancione, una gigantesca sfera di fuoco lontanissima da me, eppure così vicina… Sii come il sole, Meg. Risorgi ad ogni alba dopo la notte oscura.
Avevo cessato di esercitarmi con Darya alla danza della spada, dal momento che il mio turno si era concluso, e in quei giorni, nella solitudine della mia cabina, mi stiracchiavo i muscoli delle gambe e della schiena, ripetendo per ore gli stessi esercizi di riscaldamento che eseguivo all'Opera Garnier, sotto le direttive di mia madre. Sospirai. Mi mancava così tanto… Come il respiro. Non credevo che avrei mai smesso di sognare il suo cadavere scempiato, o quello di mio padre, né tanto meno degli uomini che avevo ucciso. Ma, come aveva detto Erik, dovevo imparare a conviverci. Non mi sarei arresa. E così ricominciai pian piano, da piccoli esercizi, a dare alla danza tutta me stessa, consegnando ad essa ogni mio male senza nome (e quel bocciolo doloroso e squisito insieme che mi cresceva dentro e fioriva, stillando rugiada, alla vicinanza di Erik).
Distolsi la mente da quei pensieri e decisi di darmi un'occhiata intorno. Non ero sola sul ponte. Jasper era intento a strofinare con tanto olio di gomito il pavimento di lastre di buon legno resistente, munito di spazzola e sapone. Pensando di andare ad aiutarlo, feci per dirigermi verso di lui, ma a metà strada cambiai idea. Avevo notato una figura abbigliata di nero poco distante, accovacciata sotto l'albero maestro, la schiena ad esso poggiata.
«Salve» lo salutai con un sorriso a metà. Era concentrato su una pergamena su cui scarabocchiava chissà cosa con grande attenzione, perciò non si avvide subito della mia presenza. Sussultò quando mi rivolsi a lui e strinse più forte la pergamena tra le dita ossute, guardandomi con aria di rimprovero.
«Ti disturbo, per caso?» chiesi, pungente.
«No, io… non facevo nulla di che.»
«Sì, si vede. Posso dare un'occhiata?» accennai al disegno che ancora reggeva tra le mani, stretto al petto. Lui si rabbuiò.
«Non sapevo disegnassi, anche se avrei dovuto immaginarlo. Sei un architetto, dopotutto.»
«Già.»
«Stavi disegnando un palazzo? Fammi vedere.»
Ignorai il suo mugugno di protesta e afferrai il foglio con la rapidità di un aspide del deserto, proprio sotto il suo naso (beh, naso. È una metafora).
«Attenta a dove metti quelle mani.»
«E dai! Non essere timido. Non sei credibile.»
Osservai il disegno sotto i miei occhi. Una figura femminile sostava dinanzi al parapetto di una nave con la polena a forma di cigno, e un'aria sognante pervadeva la scena. In secondo piano, il sole morente, le ombre che gettava sul mare come frecce da una balestra infuocata. La donna dava le spalle all'osservatore, per cui non era possibile scorgerne le fattezze. Si indovinava però il suo esile corpo, fasciato in un abito di seta scura svolazzante. Serrai gli occhi a fessura.
«É uno schizzo meraviglioso» dissi con sincerità, restituendolo al proprietario. Egli lo prese con fare possessivo e imbarazzato insieme.
«Chi è la donna?» chiesi, curiosa.
Erik chinò gli occhi infossati e scrollò le spalle. «Nessuno in particolare.»
«Deve essere molto bella. Lei, intendo.»
«Più di quanto crede.» Erik pronunciò queste parole in un soffio, con l'aria di uno che espettorava sangue dai polmoni. Non credeva alle proprie orecchie, e sembrava voler sprofondare dieci metri sotto terra.
Io ammiccai. «Oh. Capisco.» In realtà non avevo capito proprio niente, ma vidi bene di tacere.
Quando tornai nella mia cabina, quella notte, rivangai la conversazione. Che fossi io la donna del disegno? Questo pensiero mi dardeggiò nella mente insieme a tanti punti interrogativi. Impossibile. No, no. Era vero che ad Erik le persone, di norma, non piacevano, e preferiva la solitudine del suo appartamento sul lago. Eppure, fino a pochi momenti prima, ero appoggiata a quella balaustra, nella medesima posizione della misteriosa donna del disegno…
Ti stai facendo una marea di paranoie per nulla, Marguerite Giry. Sei una povera illusa. Lui ama Christine. Christine. Di una meraviglia che tu non puoi neanche immaginare.
Mi si strinsero le viscere in una morsa poco piacevole e sentii gli occhi bruciare senza pietà. Affondai il volto nel cuscino e mi costrinsi a pensare a qualcos'altro, qualsiasi cosa… Qualsiasi cosa non fosse Erik, e il fuoco che mi divampava dentro ogni volta che il solo pensiero di lui mi affiorava nella mente. Finirai in manicomio come tuo padre. Brava.
Il sonno giunse scombussolato, quella notte. Ma per una volta, i miei sogni non erano popolati da sangue e cadaveri putrescenti. Sognai di raccogliere da terra la maschera di Erik, il suo falso viso, come il giorno in cui mi ero recata nell'appartamento sul lago per chiedergli perché mi avesse risparmiata nel suo folle piano per conquistare Christine, e se intendesse davvero morire. Solo che questa volta stringevo al cuore quell'oggetto e non lo lasciavo più, mai più. Come fosse l'ultima cosa che mi fosse rimasta di lui.
Non sapevo che quel sogno era premonitore in molti modi.
Fu durante una notte in cui il sonno non mi coglieva, sotto un cielo maculato di stelle, che mi accorsi per la prima volta di quanto effettivamente Erik fosse cambiato, e non solo dopo Christine, no. Dopo me.
Eravamo poggiati entrambi alla balaustra della Sole Nero, e un sudario di silenzio riempiva il vuoto tra noi con splendida armonia.
«Tu hai mai visto un delfino?» gli chiesi, scorgendo nell'acqua un guizzo sconosciuto di qualcosa che si muoveva, più grosso di un pesce normale. «Ce ne sono da queste parti?»
Erik scrollò le spalle. «Non saprei dirtelo.»
«Qualcosa che non sai, finalmente» sogghignai tra me e me, avendolo colpito nel segno. Il suo petto si gonfiò di orgoglio ferito, ma non ribatté.
Lo osservavo, in quei giorni, e avevo notato quanto sembrasse differire dall'uomo distrutto e rassegnato che era divenuto dopo la partenza di Christine, quando era – a suo dire – a un passo dalla tomba. A quel tempo pensava che la morte fosse l'unica via in grado di dargli la pace che tanto cercava, ma ora c'era qualcosa di diverso in lui che…
Mi aveva detto, un tempo, che aveva pensato spesso al suicidio, fin dalla più tenera età, ma che non aveva mai tentato. Capivo allora perché si era immerso fino ad affogarne nell'oppio e nel sangue, quando aveva tinto di rosso la corte di Mazenderan.
Quello che aveva passato dopo che Christine se n'era andata con la sua benedizione era stato solo un suicidio più lento, l'attesa di una morte ormai agognata come un naufrago brama la terra ferma. E adesso? Voleva morire ancora? Una volta tornati a casa, a Parigi, all'Opera – che cosa avrebbe fatto?
«Erik, tu credi in Dio?»
Lui incrociò le braccia al petto e mi guardò con aria perplessa. «Perché questa domanda?»
«Perché non ne abbiamo mai parlato, e sono curiosa.»
«La solita ficcanaso.» Tese le labbra fino a che non divennero un'unica cicatrice bianca e sottilissima. «Sì, credo in Lui. Ma forse è Lui a non credere in me.»
Quelle parole mi spiazzarono. «Credi anche nell'aldilà?»
«Sì. Da piccolo, il sacerdote del mio paese mi offriva sermoni infiniti sul giudizio universale e l'inferno. Per questo non ho mai…» deglutì. «Voglio dire, non ho mai tentato di uccidermi, sebbene la mia vita fosse un inferno in terra. Temevo un altro inferno, ancora invisibile, ma ben peggiore.»
«Sì, ma… se esiste un Dio, perché avrebbe lasciato che un Suo figlio soffrisse così tanto, come te?»
«Per anni e anni mi è stato ripetuto che appartenevo alla genia del Diavolo. Forse è per questo che Dio mi ha abbandonato. Non sono mai stato una Sua creatura.»
Vidi l'amarezza nei suoi occhi e il mio cuore si strinse in una morsa di compassione. Avrei voluto consolarlo, ma come? Se nemmeno io avevo fede…
«C'è una cosa che vorrei confessarti» mi si rivolse dopo qualche minuto di quiete. Le mie narici fremevano all'odore salmastro che il mare evocava come in un incantesimo.
«Qualche altro assassinio non giustificato?»
«No, non si tratta di questo.»
Esalai un sospiro sollevato. Ne avevo abbastanza di storie dell'orrore.
«Quando mi hanno ferito, in Persia…» d'istinto, si portò una mano all'altezza della costola sinistra, dove una cicatrice dai bordi frastagliati ancora deturpava la sua pelle già tanto tormentata. È una reliquia di guerra, pensai, osservando i sentimenti contrastanti – le luci e le ombre – nei suoi occhi dorati. «Ebbene, ho avuto paura. Tanta. Temevo davvero di morire.»
D'un tratto mi sentii la gola e le labbra aride. Non aveva detto di aspettare la morte, fino a tre mesi prima? «È normale» risposi invece, trovando le parole in chissà quale anfratto della mia mente. «Tutti hanno paura di morire, Erik. Anche i più fedeli e coraggiosi.»
«Non è questo che intendevo» ribatté lui senza guardarmi in viso. Aveva gli occhi fissi sul mare sotto di noi, che ci cullava dolcemente, e che brulicava del riflesso della luna d'avorio e le stelle lontane.
Quando ebbe il coraggio di incrociare il mio sguardo, mi avvidi di quanto i suoi occhi fossero gonfi di mestizia… e qualcos'altro, un sentimento indicibile. «La verità è che temevo di non rivederti mai più. Per questo ho lottato tanto per rimanere in vita. Per questo io… adesso, io temo di nuovo la morte.» Si passò una mano tra i capelli, neri come i miei. «Ti darei la colpa di questa mia rinnovata debolezza, ma non riesco ad arrabbiarmi seriamente con te. No, non è colpa tua. Sono io ad essere uno stolto.» Mi guardò di nuovo. «Mi hai tenuto in vita, Meg. Ci siamo salvati a vicenda. Ora il debito è ripagato.»
Non seppi cosa dire. Tutto intorno a me era nebbia bianca e la voce di Erik e i suoi occhi e le sue lunghe dita pallide e ossute su di me… Percepii un lieve giramento di testa, dato dall'emozione, ma lo nascosi con la maggior prudenza possibile.
«È stato un piacere, Monsieur.»
«Anche per me, Madamoiselle.»
Mi limitai a sfiorargli le dita, poi la mia stretta si rafforzò. Ci tenevamo per mano – fu forse per una manciata di secondi, abbastanza tuttavia per assorbire il gelo della sua pelle morta. Quando ci separammo, mi sentii improvvisamente vuota, ma non sola. Mai sola.
Note dell'Autrice: Scusate tanto, tanto per il ritardo. In realtà, credo che da oggi in poi aggiornerò ogni tre settimane, poiché sono arrivata al 36° capitolo, quindi ci siamo quasi, e… ho sofferto di una vaga mancanza di ispirazione, in questo periodo. Ho avuto problemi di salute – niente di grave, ora sto bene – e all'università. Non solo ho deciso di lavorare – alla Feltrinelli della mia città, se mi assumono, il che mi pare un po' improbabile – ma di seguire il corso di inglese il secondo semestre (sono iscritta a mediazione linguistica), e di superare l'esame per poi iscrivermi a Lingue in un'altra università, più vicina a dove vivo. Sono ottimista, malgrado le solite insicurezze, ansie e paure. Cercherò di lavorare duro per realizzare il mio sogno di diventare una traduttrice (e una scrittrice, ma questo era inutile specificarlo). Figuratevi che una ragazza americana con cui ho fatto amicizia su Tumblr (non so se conoscete questo social network; lo so che ci sono parecchi blog porno lì, ma ignorateli), anche lei fan di Phantom e di Meg ed Erik, mi ha scritto che pensava fossi madrelingua inglese, dato che scrivevo così bene in questa lingua (questo prima di scoprire che sono italiana). Naturalmente mi sono gonfiata d'orgoglio come un pavone. Io, che considero il mio inglese a stento passabile, quasi madrelingua! Da non crederci. Ovviamente faccio ancora molti errori con i tempi verbali e mi scordo parecchie parole e ho spesso bisogno del dizionario, ma… è stata una bella cosa per me, che ho così poca autostima. Grazie, Sydney (la ragazza americana in questione si chiama così). <3
Inoltre, vorrei aggiungere che sto lavorando in contemporanea (sì, lo so, sono pazza) anche a una fanfiction su The Walking Dead, che però credo che non finirò mai, ma è bello sognare. Quindi sono un po' strattonata: da una parte il fantasma, dall'altra gli zombie (se sapete di cosa parla il telefilm). Che battuta pessima.
E ora, le recensioni!
ondallegra: Tesoro, ma perché non dovrei rivolgerti più la parola? La tua critica era costruttiva e giusta. Anzi, spero di avere in qualche modo spiegato, nello scorso capitolo, le mie ragioni… piuttosto sciocche, a dire il vero. Ma vabbè. Ho letto solo ora il tuo messaggio privato, e ti confermo che sto bene. Sopra puoi leggere il motivo del mio ritardo. Sono contenta che questa storia ti piaccia fino a tal punto da essere impaziente per il prossimo aggiornamento! Mi odi, allora, perché tra questi due idioti di Meg ed Erik ancora non succede nulla? Aspetta e vedrai. Manca ancora un po' di tempo. Abbi pazienza. (Sì, lo so, non è facile quando c'è tanta tensione sessuale irrisolta…) Un bacio! <3
debbythebest: Cara, non preoccuparti per la brevità della recensione, non devi mica scrivere un poema! Anzi, è bellissima. Neanch'io avevo notato il parallelismo tra Meg che, nella scena del ballo del capitolo scorso, era vestita di rosso come Erik ne “La Morte e il Cigno”, ai tempi dell'Opera. Brava! Inoltre, è una differenza che c'è tra Meg/Erik e Raoul/Christine: se i colori dei primi sono rosso e nero, i colori dei secondi sono invece il blu e il bianco. Sono complementari, ma hanno significati totalmente diversi.
Spero che ti piaccia anche questo capitolo. Un bacio! <3
Malinconica, dove sei finita? È da un po' che non lasci recensioni, di solito sei così puntuale… Non ti sono piaciuti gli ultimi capitoli? Hai qualche problema personale? Spero che vada tutto bene. Era di questo che mi preoccupavo, non per la mancanza di recensioni, figurati. Magari stai leggendo queste mie parole. Ti mando un bacio, cara. <3
P.S. (per tutti) Ho avuto anche dei seri problemi nel caricare questo capitolo. Sono contenta che si siano risolti, altrimenti non sarei qui.
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Capitolo 34 *** Il gatto e il topo. ***
xxxiii.
il gatto e il topo
Il viaggio di ritorno fu assai più piacevole di quello dell'andata. Malgrado gli incubi che riuscivo a nascondere bene, e la sensazione di essere sul filo di un rasoio, me la cavavo meglio di quanto mi aspettassi. E soprattutto, non vedevo l'ora di rimettermi a danzare.
Sorpresi tutti quando, durante una festicciola data dall'equipaggio riunito sulla tolda della nave – come quasi ogni sera, ormai – mi gettai in un balletto improvvisato sulle note dell'armonica di Jasper e gli applausi di tutti gli uomini, oltre Darya, ovviamente.
«E dici che sono mesi che non ti eserciti? Sei bravissima» si complimentò quest'ultima quando ebbi finito, mentre il marito mi offriva un calice di rum per rinfrancarmi. Mi detersi la fronte gocciolante di sudore.
«Sono davvero trascorsi mesi, e sono rigida come un manico di scopa. Avresti dovuto vedermi all'Opera. Lì ero al mio massimo.»
«Il nostro topolino non se la tira affatto, vero?» rise Amir, che era rimasto ad ascoltare.
«Oh, non chiamarla così» lo rimbrottò Darya, divertita. «La nostra Meg è una leonessa.»
Sorrisi. «I topolini spaventano gli elefanti, però.»
«Sì, ma i gatti li mangiano.» Amir scoppiò nell'ennesima risata roboante e brindò alla salute mia e della moglie, che si limitò a scuotere il capo.
«É un mito da sfatare» mi sussurrò Erik quella notte, quando rimanemmo soli, affacciati alla balaustra. «Gli elefanti non hanno davvero paura dei topi.»
«Lo sapevo. Volevo solo ribattere a ciò che aveva detto Amir.»
«Però i gatti li mangiano sul serio. Dovresti stare attenta, petite souris.»
«Di cosa stiamo parlando esattamente?» sorrisi io.
«Vai a dormire, Meg. È tardi.»
«La smetti di trattarmi come se fossi tua figlia?»
«Potresti esserlo.»
Repressi a stento una smorfia d'orrore. «Per l'amor di Dio, no. Il mio povero padre era malato, ma non così.»
Tornai in cabina con la sua risata incantevole nelle orecchie. Bene, ero contenta di farlo ridere.
Quella notte rivangai nella mente i suoi occhi dorati, come mi avevano fissata con espressione indecifrabile mentre mi dilettavo in qualche passo di danza accompagnata dall'armonica del giovane Jasper. A come osservava il movimento ondeggiante dei miei fianchi sottili. Mi sentii il volto in fiamme e lo tuffai nel cuscino. Strano. Non ero mai stata timida. Riservata, certo, ma fin troppo sfacciata, soprattutto da bambina. No, anzi – prima della morte di mio padre, ero stata ancora più pestifera. Dopo, una nube di grigio era caduta su di me.
Strano, ripetei, e mi addormentai con quei quesiti irrisolti nella mente. Non giungevo alla verità perché era troppo assurda per la mia mente così razionale, così logica. Sentimenti di questo tipo mi lasciavano sempre allibita… soprattutto nei confronti di un uomo così diverso dagli altri come lo era Erik.
Non servirono le mie preghiere perché il mio amico facesse una serenata davanti a tutto l'equipaggio, come una volta mi aveva chiesto di fare Darya. Per ringraziare la banda di averci accompagnato fin lì, e visto che non volevano altro oro, Erik si fece prestare l'armonica da Jasper e improvvisò un lied di Schubert. L'equipaggio tutto, da uomini rozzi qual erano, si acquietò e restò in devoto ascolto, aprendo la bocca solo come espressione della loro sorpresa. Alla fine, erano tutti in lacrime, o quasi. Proruppero in un applauso sentito al quale Erik reagì con un semplice inchino e un sorrisetto sapiente. Persino Jasper, che era sempre stato timoroso nei confronti di Erik, sembrò costernato e ammirato insieme.
«Come ci riesce?» chiese Amir, scuotendo il capo e applaudendo ancora.
«Non saprei. È la sua magia» risposi.
«Ha ridotto mercenari duri e crudi a ragazzini piangenti» concluse Darya, guardandosi intorno. «Forse pensano tutti alla propria casa, alle famiglie che hanno avuto – o non hanno avuto.»
Annuii. Anch'io pensavo a mia madre, a mio padre, a Christine… ma la voce di Erik trasformava le ferite in miele.
Più tardi, chiesi ad Erik come mai si fosse convinto a ripagarli in quel modo, dal momento che non desideravano oro da parte sua.
«Ci hanno salvato la pelle. È il minimo, non ti pare?»
«Non è che l'hai fatto solo per farti dire per l'ennesima volta quanto tu sia geniale, vero?»
Lui rise. «Mi credi così egocentrico?»
«Sì» risposi senza aver bisogno di pensarci. Poi aggiunsi, corrucciata: «Non avevi detto che non sapevi suonare gli strumenti a fiato? Beh, l'armonica è uno strumento a fiato.»
«Infatti ho improvvisato.»
Rimasi costernata. «Vuoi dire che hai improvvisato Schubert su un'armonica, quando non ne avevi mai toccata una prima in vita tua?»
Lui annuì. Io sbuffai e gli rifilai un leggero pugno sul braccio.
«E adesso cos'ho fatto?»
«Sei assurdo. Incredibilmente assurdo…»
Tornai nella mia cabina con lui che se la rideva alle mie spalle. I contorni delle mie labbra non poterono fare a meno di sollevarsi.
Quando giungemmo al porto di Calais, fu facile mischiarci con gli altri scafi. Salutai tutti, abbracciai Jasper e mi accinsi a separarmi dall'equipaggio del Sole Nero. Non li avrei più rivisti. Darya ed Amir ci accompagnarono fino alla stazione, vestiti in abiti occidentali che avevano prestato anche per noi, dal momento che eravamo privi di qualsiasi mezzo di sostentamento se non l'oro di Erik. Indossare di nuovo i panni di una francese, in particolare col mio accento parigino, era strano per me. Non indossavo un corpetto da secoli, ma fui lieta del cambiamento. Mi sembrava di tornare un po' più me stessa, pensai annodandomi al collo il fiocco blu del grazioso cappellino prestatomi da Darya.
L'addio che ci rivolgemmo fu straziante. Erik aveva già acquistato tre biglietti per il treno che ci avrebbe ricondotto a Parigi, dotato di comode cuccette e tutto il resto. Era intento insieme a Monsieur Nadir a mettere in ordine i nostri (scarsi) bagagli, aiutato da Amir. Darya ed io lasciammo lavorare gli uomini e, non senza un filo di imbarazzo, ci scambiammo un abbraccio umido e sentito.
«Sei stata più di un'amica per me. Una maestra.»
«Ti scriverò» mi promise lei, stringendomi forte. Mi lisciò i capelli sulla fronte e mi rivolse il suo solito sorriso aguzzo, sornione, intelligente.
«Mi mancherai.»
«Ritrova la tua strada, piccola mia. Ah, a proposito…» Da una borsa che teneva al fianco tirò fuori una sottile daga poco meno lunga di una lama bastarda. Era la mia spada, avvolta in un fodero di pelle lucida: la riconoscevo. Avevo deciso, non senza rimpianti, di lasciarla a bordo. In fondo era una parte di me, e ora mi aveva seguita.
«Se vuoi tenerla…»
«Non so cosa farmene.»
«Pensala come a qualcosa che ti ho dato io e, pertanto, un dono. Un ricordo della tua Darya.» Aveva gli occhi lucidi, quindi non potei rifiutare. Non ne ebbi la forza. Quella spada rappresentava tutto ciò che ero stata e che non potevo cancellare, e Darya lo sapeva.
Salutammo Darya e Amir affacciati al finestrino del nostro cubicolo, e quasi piansi quando la vidi asciugarsi le lacrime con il dorso della mano, il marito che le stringeva una spalla in segno di conforto. Era un addio, quello, lo sapevo.
Non la rividi più.
Il viaggio durò poco: fummo costretti ad usare la diligenza per superare le campagne, ma in confronto all'odissea sanguinosa dell'andata, quella sembrava una vacanza. Ovviamente, adesso potevamo godere di maggiori comodità per il viaggio, dal momento che nessuno ci seguiva e non eravamo più in pericolo.
Ero seduta tra Erik e Nadir nella carrozza, che per il resto era vuota. Le mie gonne ingombranti irritavano Erik più che mai, ma non si lamentò. Era sicuramente lieto di vedermi più simile alla me stessa di un tempo, ma esistono cicatrici indelebili, e lui ne era la prova vivente. Ricordai quando gli avevo sfiorato il petto, seguendo il cordolo di una di esse, e avvampai come una perfetta idiota. Affondai il viso nel fazzoletto, fingendo di starnutire. Nadir mi rivolse un'occhiata di simpatia, Erik invece una di curioso sospetto, ma nessuno dei due si profuse in commenti inopportuni. Come al solito, relegai quell'ardore improvviso in un angolino nascosto della mia mente e pensai ad altro.
«Quanto manca per Parigi?»
«Ancora un giorno e saremo a casa. Non avere fretta» mi disse Erik col maggior garbo di cui era capace. Sbuffai – con quel tono la sua risposta mi sapeva tanto di paternale – e incrociai le braccia al petto. Quando riconobbi le mura della mia città, quasi scoppiai in un grido di gioia. Era finita! Era tutto finito. Avevo perso me stessa in quel lungo e doloroso viaggio, ma ecco che mi ritrovavo.
«Casa…» sospirai di sollievo, e Monsieur Nadir ed Erik si scambiarono un'occhiata complice. Bentornati.
Erik aveva nascosto tutte le mie cose nei sotterranei dell'Opera, per simulare una reale partenza da parte mia. Scendemmo in Rue Scribe e lì ci separammo, con il facchino che mi aiutava a portare i bagagli fin nell'androne della palazzo Garnier. Era sempre lo stesso: magnificente, marmoreo, profumava di ricordi dolci come il miele e al contempo velenosi come ortiche. Mi sentii pervasa da una ventata di nostalgia e un dolore ineffabile al cuore che si poteva descrivere solo come un bizzarro miscuglio di tristezza e letizia insieme. Quante volte mi ero sentita sicura tra quelle mura? Un tempo erano state tutto il mio mondo, teatro dei miei sogni più audaci. E adesso che del mondo avevo visto tanto, adesso che ero stata marchiata a fondo dalla guerra – il male per eccellenza – non ero più la stessa di quando avevo varcato il foyer della danza l'ultima volta.
Mi accinsi a salire gli ampi scalini marmorei dell'immenso androne. Tutto mi pareva nuovo, eppure simile a se stesso, di una familiarità che mi faceva bruciare gli occhi e il sangue nelle vene. Il sole sorgeva appena all'orizzonte: quel mattino sarei dovuta tornare ad ambientarmi nel mio nuovo–vecchio mondo, e pensai che cambiarmi e dirigermi subito nella sala delle esercitazioni per fare un po' di pratica mi avrebbe aiutata. La danza aiutava sempre.
Un singhiozzo mi rimase incastrato in gola quando entrai nel mio camerino, che fungeva anche da camera da letto. Nulla era cambiato: il letto e il piccolo scrittoio erano sempre gli stessi, forse solo più ordinati; la grande psiche mi fronteggiava, e io mi sfilai il cappellino. Con decisione, afferrai la spazzola e delle forcine e tirai i capelli all'indietro, così che solo la frangetta fosse visibile, e alcune riccioli dietro le orecchie. Ecco, così va molto meglio. Indossai il mio tutù e le scarpette da ballo con la punta in gesso, ormai rovinata dal tempo, e con un improvviso sconforto mi accasciai sul letto. Dio, ti prego, se esisti… Concedimi almeno cinque minuti di pace. Non chiedo altro. Chiusi le palpebre, come se così potessi sbarrare le porte della mia mente. Cinque minuti senza pensare al cadavere di mia madre tra le mie braccia, alla sua mancanza… L'Opera era la mia casa, ma senza di lei non avevo più una famiglia. Non sono sola, però. Ho Monsieur Nadir con me… Posso rivolgermi a lui per qualsiasi mio bisogno. E poi, naturalmente, c'è Erik.
Erik, certo. Bell'enigma, quell'uomo.
Il mio ritorno fu accolto gioiosamente da tutti i membri dello staff dell'Opera, che si mostrarono lieti di rivedermi e non pieni di pietà per quanto accaduto a mia madre. Così fu più sopportabile. Tutti mi mostrarono le loro sentite condoglianze per il mio lutto, senza però soffermarsi troppo sull'argomento; pensavano infatti che fosse stato il trauma della perdita a costringermi a partire da Parigi.
Quando mi vide, Luc corse a stringermi in un abbraccio che mi stritolò le costole e mi sollevò i piedi da terra. Ridacchiai sulla sua spalla e gli arruffai i capelli, reprimendo le lacrime che minacciavano di sgorgare.
«Mi sei mancata tantissimo. Avrei voluto scriverti qualche lettera, ma non conoscevo il tuo indirizzo.»
«Il dottore ha detto che dovevo riposare» mentii con noncuranza.
«E ora stai meglio, vero?» si premurò di chiedermi con apprensione.
«Molto meglio.» Non sapevo se anche questa fosse una bugia o meno.
Le mie compagne del corps de ballet furono altrettanto liete di accogliermi nuovamente tra i loro ranghi, soprattutto le più piccole, come Cécile Jammes e Claudine Tholomyés, che quasi piansero nell'abbracciarmi. Questo mi fece sorridere.
«Ci mancava il tuo talento» disse Caroline, dopo avermi stretto la mano.
«E a me mancava questo posto» dissi io, accennando alla sala della danza e a tutte loro. Juliette aveva ancora il braccio attorno alle mie spalle – lei, Fabienne e Louise mi erano mancate più di tutte. Fui lieta di riprendere le lezioni di danza.
Monsieur Lefévre si presentò a me come il nuovo istruttore di danza. Secondo le mie compagne, era di gran lunga più noioso di mia madre, che come è ovvio mancava a tutte. Non m'importa. Voglio solo danzare fino a morirne, pensai mentre, terminati gli esercizi di riscaldamento, mi accingevo ad eseguire i passi dettati dal nuovo maestro. Questi si accorse immediatamente della mia rigidità – ero più lenta e tesa delle altre – ma non palesò il suo disappunto e passò oltre. Lo avevano di certo avvisato della mia “malattia”.
«Madamoiselle» mi fermò giusto dopo la fine delle prove del pomeriggio, «so che vi siete ripresa da poco da un male e un lutto che vi hanno recato grande dolore. Vedo che i vostri muscoli ne hanno risentito, ma i direttori Richard e Moncharmin mi hanno informato del vostro talento. Sono certo che vi rimetterete subito alla pari con le altre del corps de ballet. Ve lo auguro di cuore» chinò il capo e se ne andò via con passo elegante da giaguaro. In effetti era un bell'uomo, sulla quarantina, con un certo portamento. Ovvio, era un istruttore di danza. Ma notai la sua avvenenza solo distrattamente. Mi era giunto alla mente in quel momento che il fantasma dell'Opera, in teoria, non esisteva più. Erik avrebbe condotto la sua vita in incognito. Solo il Persiano ed io ne saremmo stati a conoscenza.
Mi morsi il labbro: il mio pensiero ritornava sempre a lui, alla fine, come in un circolo vizioso. Non andava bene per niente.
Seppi che Caroline aveva sostituito la Sorelli come prima donna, in quanto quest'ultima si era ritirata misteriosamente dopo il – guarda caso – ritrovamento del corpo del conte Philippe. Rabbrividii al ricordo. Oh, Erik, come hai potuto… Eppure era mutato così tanto da allora. Tutto era mutato. Io, poi, più di tutti. E non potevo più fare a meno di lui.
Sospirai e tornai nel mio camerino, aspirando gli odori dell'Opera, tutto ciò che il male mi aveva negato in quei mesi – ciò per cui il mio cuore aveva battuto fino a quel momento. Affondai la testa nel cuscino. Il dolore per mia madre, la sua mancanza, mi colpì come un'ascia alla fronte. Strinsi i denti e sopportai al mio meglio. Avevo sviluppato una certa tolleranza per il dolore, in tanti anni, soprattutto per quello psicologico – anche se, non dobbiamo dimenticarlo, avevo subito una vera e propria tortura per mano dei bruti dello Shah. Era l'innominabile della mia vita, quello che non potevo condividere con le mie compagne di danza e tanto meno con Luc.
Fu allora che notai un biglietto sul comodino. Mi accigliai e lo lessi, non tardando a riconoscere la grafia scarlatta e orribile.
Cara Meg,
spero che il ritorno a casa non sia stato… troppo, per così dire. Non temere, riprenderai a ballare con la scioltezza di un tempo in men che non si dica, se ti eserciti con cura. E lo farai, conoscendoti. Volevo solo rassicurarti.
Adesso ti chiederai l'utilità di questa mia. Ebbene, non la conosco neanch'io. Puoi anche bruciare la lettera nel fuoco, petite souris.
E.
I lineamenti del mio viso si distesero. Lo scopo di quel biglietto era chiaro, anche se magari non lo era per lui: voleva solo farmi sorridere, e ci era riuscito. Ovviamente non bruciai il biglietto, ma lo conservai insieme a tutto ciò che mi ricordava la mia vita passata, la me stessa che, insieme a mia madre, non esisteva più: le lettere di Christine ed Erik, la rosa che quest'ultimo mi aveva donato in occasione del mio debutto da solista in Giselle, e tutto il resto, custodito nello scrigno di legno intarsiato che avevo regalato a mia madre molti mesi prima e di cui ormai mi ero appropriata. Lo stesso che ho custodito in tutti questi anni, fino ad adesso.
Dovevo ad Erik una replica, e avevo già un'idea in mente. Afferrai carta, penna e inchiostro dallo scrittoio e scarabocchiai qualcosa di simile:
A questo petite souris manca il pianoforte nell'appartamento sul lago. Mi piacerebbe tornare a strimpellarlo, una di queste sere. Se Monsieur le chat accetta, naturalmente.
Meg
Sorrisi e lo lasciai sul mio comodino, con esattezza su un libro di Edgar Allan Poe che mi aveva prestato proprio Monsieur le chat in persona, tanto tempo prima. Era ora di ridarglielo.
Mi svestii, liberandomi del trucco ma non del dolore. Non potei fare a meno di sentirmi sola come mai prima d'ora, e di piangere fino ad addormentarmi. Tuttavia, la prospettiva che il giorno dopo sarei tornata a danzare e forse avrei rivisto Erik mi rassicurò, cullandomi nel sonno, in cui naufragai come una galea in una tempesta.
Dopo che ebbi cenato – anche se ormai mangiavo di malavoglia e ridevo assai di meno, cosa che le mie amiche non avevano tardato a notare – sgattaiolai nella mia stanza per darmi una rinfrescata e…
«Ah!»
Quasi mi venne un infarto quando vidi Erik steso comodamente sul mio letto, le gambe accavallate e il libro di Poe tra le mani. Lui alzò lo sguardo dalla pagina.
«Ma sei impazzito? Che ci fai qui?»
«Sono stato rapito dalla lettura.»
«Ma tu quel libro lo hai già letto.»
«Non conta. Stai bene?»
Mi portai una mano sul cuore. «Stava per venirmi un colpo. E se qualcuno ti avesse veduto al posto mio? Sai, sei piuttosto riconoscibile.»
Lui fece spallucce. «Ero certo che nessuno sarebbe giunto qui, a parte te.»
Sbuffai. «Certo, dici?»
«Certissimo. Ho intuito su queste cose.»
«Come no.» Ciondolai e, se avessi avuto delle tasche, vi avrei infilato le mani dentro, chiuse a pugno.
«Allora, cosa rispondi alla mia lettera di ieri…?» dissi senza tergiversare – non ero brava in questo. Di solito ero fin troppo diretta e brutale, ed Erik lo sapeva. Inaspettatamente, arrossì. O meglio, le sue orecchie arrossirono – io non potevo vederlo in viso, per via della maschera.
Alzai un sopracciglio. «Mmm.»
«Davvero vuoi… riprendere le lezioni di pianoforte?»
Si era alzato e ora mi fronteggiava a capo chino, e non per questo sembrava meno alto.
«Bravo, mi hai rovinato la piega delle lenzuola.»
«Meg.»
«Guarda che non ho un cameriere, faccio tutto io.»
«Meg.»
Sospirai. «Ma sì che lo voglio, Erik.» Perché è così esitante? «Suonare mi fa bene.» E stare con te mi fa stare anche meglio, se possibile. Ma questo non lo dissi.
Lui si guardò le mani, poi incrociò le braccia al petto. «D'accordo. È possibile. Se vuoi… possiamo cominciare stasera stesso.»
Oh, così presto? Che queste lezioni siano mancate anche a lui?
«Sì, va bene. Prima mi cambio e poi ti raggiungo nell'appartamento sul lago.»
«Ti aspetto sulla sponda per il giro in barca, allora.»
Girò i tacchi e, con il solito marchingegno di sua invenzione, spalancò lo specchio a parete e vi passò oltre, con passo felpato.
«Non sbirciare, eh» dissi mentre cominciavo ad allentare i lacci del corpetto del tutù che indossavo. Lo udii fermarsi subitaneamente nel suo percorso al di là dello specchio.
«Ma per chi mi hai preso?» disse, offeso, mentre io me la ridevo.
La lezione di pianoforte scorse liscia come l'olio, e gli restituii anche il libro di racconti di Poe che avevo “preso in prestito”. Feci per congedarmi, gli occhi gonfi di sonno, quando mi rammentai di qualcosa che lì per lì mi era sfuggita. Non ci avevo mai fatto caso, non più del normale, comunque. Ma ora mi inquietava come non mai.
«Erik…»
«Sì?»
Mi umettai le labbra, accigliata. «Tu hai un letto, vero?»
Lui mi guardò come se fossi stupida. «Che cosa cerchi di dirmi, Madamoiselle?»
«Voglio dire, dormi in un letto?»
La linea delle sue labbra sottili e bianche divenne una cicatrice livida. «Sai benissimo qual è il luogo del mio riposo.»
Scossi il capo, cercando di schiarirmi le idee. «Fammi capire: tu dormi in una bara, giusto?»
«Perché tanto interesse?» Sembrava vagamente piccato, con un velo di imbarazzo.
«Non ti permetterò di dormire in una bara. È una cosa da matti.»
«E me lo dici solo adesso? Da quanto tempo sai dove dormo?»
«Da… un bel po', in effetti. Ma non ci avevo mai pensato prima, non seriamente. Beh…» scossi il capo, non sapendo bene cosa dire. Nella mia mente era ovvio, ma non trovavo le parole: non mi ero mai preoccupata prima perché non avevo mai pensato a lui come a un uomo, vivo e vegeto al mio fianco. Quasi meritasse di dormire in una bara, quasi fosse sempre stato con un piede nella fossa. Ma ora era diverso: ora che mia madre era morta, che una parte di me era morta, dopo la Persia. «Ecco, non è un posto dove possa dormire un uomo.»
«Meg, io non sono un… uomo. Non davvero.»
«Stai dicendo che per metà sei donna? Questo spiegherebbe gli acuti da castrato, a meno che…»
Le sue orecchie avvamparono violentemente. «Non scherzare. Voglio dire…»
«So cosa vuoi dire.» Non sentiva di essere umano. Ma non poteva essere così… Non dopo tutto quello che era accaduto tra noi – le notti trascorse con il mio capo chino sulla sua spalla, la sua dolce, dolce voce nelle mie orecchie che mi fondeva il cuore, il fatto che gli avevo salvato la vita e, al medesimo tempo, ridato la voglia di vivere con la mia semplice presenza. Non poteva…
«Sei umano e meriti di dormire da essere umano. Come ti è venuta in mente questa idea della bara, poi?» Chissà quale trauma aveva mai subito per comportarsi in quel modo.
Lui esitò. «Günther» sibilò, e l'odio era ancora vivo nella sua voce dopo tutto il tempo trascorso. Certe ferite non si sarebbero mai rimarginate in lui, non completamente. Per quanto fosse cambiato, qualcosa dentro di lui era irrimediabilmente spezzato. Come in me.
«Mi faceva usare una bara nelle mie performance. Io… uscivo da quella bara, come un morto vivente, e… il pubblico rimaneva a bocca aperta, quasi fossi davvero la Morte in persona.» Strinse le labbra in una smorfia. «Lui diceva che poi pagavano di più se usavo i miei trucchi per sorprenderli.»
«Mi dispiace» dissi sinceramente, non sapendo cos'altro dire. Quali parole rimanevano, dinanzi all'orrore vero? «Nella gabbia…?»
«Sì. Ho tentato di ribellarmi, ma…» fece un cenno alle sue spalle. Capii che stava indicando la sua schiena, e le cicatrici che – lo sapevo – giacevano sotto la stoffa. «Poi mi sono abituato. Bisogna abituarsi a tutto, in questa esistenza, anche alla morte.»
E tutto questo mentre era ancora un bambino. Deve esserne rimasto traumatizzato a vita.
«Erik, stammi a sentire. Tu hai un letto. Puoi dormire lì.»
Lui si rabbuiò, comprendendo immediatamente cosa volessi dire. «No. È… suo. La camera di…»
Di Christine, certo.
«Sii realista. A te serve un letto, uno vero, e non puoi procurartene uno adesso, non ti pare? Usa quello, nel frattempo.»
Erik si passò una mano tra i capelli neri e sottili. «Non mi troverei a mio agio…»
«È una tua decisione» replicai con fermezza e, sperai, un tono gentile. «Non voglio che tu ti senta a disagio. Fai quel che credi sia meglio per te. Ti ho dato un consiglio da amica. Spero che tu non te la sia presa.»
Lui scosse il capo. «Non potrei mai essere arrabbiato con te, Meg.»
Arrossii a quella dichiarazione, ma dall'esterno si vedeva solo il mio lieve sorriso.
«Allora tu… indossa quel che ti fa da pigiama e accomodati sul letto. Io intanto vado a prendere una cosa. » Mi avviai verso la libreria, al che lui si accigliò.
«Non rovinare i miei volumi» mi ammonì dalla stanza Luigi Filippo. Io scoppiai a ridere.
«Non preoccuparti, non rovinerò i tuoi amati libri e le tue costosissime prime edizioni» scherzai. «Me ne serve uno solo… uno soltanto… Ah, eccolo!»
Afferrai un tomo di una certa grandezza, a me molto familiare, e tornai nella camera Luigi Filippo. Erik era steso sul grande baldacchino con le braccia incrociate al petto, in attesa. Gli sventolai sotto gli occhi il libro che gli avevo portato.
«Ah, Il conte di Montecristo» notò con un sorrisetto, che io ricambiai.
«Non lo abbiamo mai finito di leggere. Ti va…?»
Lui annuì, e fu il mio turno di crollare sul letto, abbastanza ampio da far posto a due persone. Cominciai a leggere da dove ci eravamo fermati l'ultima volta, e miracolosamente riuscii a rammentarmi tutti i nomi dei personaggi. Per Erik, è inutile dirlo, non ci furono problemi a proposito.
Ci addormentammo l'uno vicino all'altra, come quando eravamo in mare, in cerca di sogni e cacciatori di incubi.
Da quella notte in poi, rimasi con Erik quasi sempre, se il mio lavoro me lo permetteva. Di giorno, dopo le lezioni di danza, mi aiutava a strimpellare il pianoforte al massimo delle mie capacità; di notte, quando nessuno di noi riusciva a crollare tra le braccia di Morfeo, parlavamo e leggevamo e dormivamo insieme, sul baldacchino della camera Luigi Filippo.
Ci vollero molti giorni prima che Erik vi si abituasse: spesso mugolava nel sonno a causa degli incubi – frasi spezzate di cui non riuscivo a cogliere il nesso logico – oppure era occupato a rassicurare me dai cattivi sogni che non mi lasciavano requie.
Una notte particolarmente difficile, mi pose sulle spalle una coperta, malgrado fosse estate; ma in fondo, l'inverno si sentiva sempre lì, negli anfratti dei sotterranei dell'Opera. Sembrava che il gelo fosse un tutt'uno con le mie membra.
«Meg.»
Mi svegliai di botto, gli occhi lucidi. «Scusami» mormorai, pensando di aver disturbato il suo sonno. Lui scosse la testa. «Piccola sciocca amica mia, non è a me che devi chiedere scusa, ma a te stessa.» Mi lisciò i capelli sulla fronte. «Quando riuscirai a perdonarti?»
«Per cosa?» chiesi con finta noncuranza, tirando su col naso e reprimendo i brividi.
«Per la morte di tuo padre. E quella di tua madre, e coloro che hai ucciso…»
«Ho ancora così tanta paura, Erik. Di vivere. Mi sento così diversa dalle altre mie compagne… Loro non possono neanche immaginare…»
Erik scosse il capo e mi strinse nella coperta, mentre io mi massaggiavo le tempie con le dita. Erano gelide anche quelle.
«Mi manca. Mia madre, intendo. Dio, mi manca così tanto…» Feci fatica a trattenere i singhiozzi, il volto affondato nel morbido cuscino di piume. «Ecco, ti sto imbrattando di lacrime il lenzuolo. Sono un disastro.»
«Ma cosa vuoi che me ne importi? Piangi, Meg. Sfogati, ora che puoi. So che devi mantenere una facciata di pietra ogni volta che sei con le tue compagne, con il tuo maestro, con chiunque… Sei libera nella danza. La musica per me è sempre stata fonte di rassicurazione. Ho versato la mia anima nel Don Giovanni trionfante… E alla fine sono rimasto spoglio, quasi privo di essa. Poi tu mi hai ricordato che ero umano. Non dimenticarlo mai, Meg. Capito?»
Annuii, asciugandomi le gote arrossate. «Promettimi una cosa.»
«Cosa?» Mi guardò negli occhi, stringendo la mia piccola mano tra le sue dita fredde.
«Se impazzissi…»
«Meg…»
«Se impazzissi» ribadii con maggior solennità, «non mi porterai dai dottori, vero? Fammi rimanere qui.» Con te.
«Non ti porterei mai via da casa tua, Meg. Mai. E poi, tu non impazzirai.»
«Dici? A me sembra sempre di essere sul filo del rasoio…»
«Manterrai l'equilibrio, credimi. Non cadrai. E se pure lo facessi, ti rimetterai in sesto come sempre.»
Annuii. Avrei voluto dirgli che era anche grazie a lui se ero ancora integra, malgrado il ciclo vizioso di morte e sangue in cui mi avevano gettata a forza.
«Ora dormi.» Mi cullò tra le sue braccia per un po', mentre respiravo a fondo il suo odore quasi fosse parte di me, parte della voragine che avevo dentro e, allo stesso tempo, della colla che teneva insieme i pezzi della mia anima.
«Non ti ho mai chiesto qual è il tuo vero nome.»
Eravamo appollaiati sul baldacchino, lui in maniche di camicia ed io con la mia sottoveste e i capelli tenuti all'indietro da mille forcine. Ero troppo annoiata per sfilarmele dolorosamente dal capo. Ah, le gioie di essere una ballerina.
Lui, le mani dietro la testa, mi guardò in tralice alla luce soffusa dell'unica candela sul comodino. «Perché vuoi saperlo?»
«Perché sono certa che Erik non sia il tuo vero nome. Hai detto a Christine che lo avevi scelto per caso.» Ormai potevo nominare la mia vecchia amica liberamente, seppur con cautela. «Come mai?»
Lui si schiarì la gola. «Non è proprio così. È una lunga storia.»
Lo invogliai a continuare col mio silenzio pensoso. Erik sospirò.
«Il sacerdote che mi battezzò alla mia nascita si chiamava Éric. Éric Mansart. Fu l'unico a rimanere vicino a mia madre dopo la mia… venuta nel mondo. Al paese pensavano che fossi una maledizione caduta su quella disgraziata di mia madre, che non era molto più anziana di te quando rimase incinta. Padre Mansart si curava della mia anima, vedi. Fin da piccolo, mostrai una grande schiera di talenti. La mia mente era eclettica e assorbiva qualunque informazione le giungesse, malgrado il mondo esterno mi fosse proibito. Mia madre mi chiamò Éric proprio perché fu il prete a darmi quel nome. Quando scappai di casa…» lo sentii aggrottare la fronte sotto la maschera protettiva, «… dovevo avere circa nove anni. Vissi per due settimane nelle campagne vicino Rouen, nutrendomi come meglio potevo, ammassando pietre e felci per costruirmi ripari dalla pioggia e dal freddo. Incontrai un accampamento di gitani per la via.» Inclinò il capo. «Ti dirò: non furono più crudeli con me di chiunque altro avessi mai conosciuto. Scoprirono il segreto che celavo oltre la maschera, naturalmente, e ne furono impauriti. Non sapevano cosa fare di me: tenermi con loro per sempre? No, non era possibile. Il loro capo mi vendette a un tedesco che andava in giro per le fiere dell'Europa a mostrare i suoi fenomeni da baraccone. Divenni in fretta uno di loro – il più prezioso, e il più ribelle. Mi cacciò in gabbia e mi legò, per il timore che scappassi e gli rovinassi così la prospettiva di un bel gruzzolo d'oro. Per mesi fui costretto tra le sbarre, con pochissimo cibo e acqua pulita, costretto a farmi vedere da tutti come la Morte Vivente. E non collaboravo: maggiore era la mia umiliazione, più mi ostinavo a comportarmi da bestiolina furiosa. Un leone in gabbia. Günther mi frustava parecchio, dopo. Pensavo solo alla morte, e pregavo che un angelo mi portasse via negli inferi pur di strapparmi alle sue grinfie. Poi reagii. Cominciai a lavorare di nuovo di cervello – fino a quel momento sembrava che le mie capacità intellettive si fossero assiderate per via dello stupor nel quale ero caduto. Non mi ero mai sentito meno umano, ma strinsi un patto con il mio padrone: niente gabbia, e gli avrei fatto guadagnare di più grazie al mio ventriloquismo e le altre abilità da prestigiatore. Quando scoprì che sapevo suonare meglio di qualunque altro musicista professionista, accettò. Andò avanti così per un po', e la mia esistenza divenne più tollerabile, ma… non durò a lungo. Quando Günther tentò di costringermi di nuovo in gabbia, divenni feroce e, per impedirgli di farmi ancora del male, lo uccisi. Fuggii dal campo quella notte stessa.» Una pausa solenne. Anch'io sentivo il bisogno di tacere, dopo quella confessione di bile e cicatrici.
«Günther mi chiamava Erik, con il suo accento tedesco. E io presi quel nome, per rammentarmi l'odio, le mie radici… se mai ne avevo. È un nome che mi sono guadagnato, non trovi? Così nacque Erik.»
Così nacque il mostro, vorrai dire. Ma non commentai.
Riposammo insieme un altro po', e sapevo che la mia compagnia gli recava piacere, addirittura sollievo, perché non mi cacciò mai via. Tutt'altro: si preoccupava per me e il mio benessere, e la mattina mi ritrovavo sempre, puntualmente, tra le lenzuola del mio letto in superficie. I mesi trascorrevano così, in una sorta di nebbia estatica dove neanch'io sapevo cosa provassi.
La verità era che mi stavo innamorando di lui, ma non lo sapevo ancora. E fu il mio bene e la mia maledizione.
Note dell'autrice: Salve a tutti! Ecco il mio regalo per il nuovo anno. Spero che abbiate trascorso un buon Natale, e che quest'anno vi sorrida! Lo spero davvero, perché questo 2016 è stato… strano, a dir poco. E non in modo positivo. Politicamente e umanamente, è stato un anno bestiale. Ma non voglio dilungarmi oltre.
Che ne dite di questo capitolo? Finalmente Meg sta capendo qualcosa… Nel prossimo vedrete ancora meglio. Eh, sì. Non posso svelare nulla – abbiate un altro po' di pazienza.
E ora, le bellissime recensioni:
ondallegra: Mi dispiace tanto per l'attesa, ho avuto alcuni problemi… Mi perdoni? Dai, dimmi che mi perdoni. :) Almeno c'è qualche scena carina e tenera tra Erik e Meg. Vedrai che nel prossimo capitolo… Eh, no, aspetta, non lo posso dire. Ti dovrai torturare ancora un po', MUHAHAH. Hai fatto un'ottima analisi dei perché e dei come degli strani marchingegni che sono i cervelli di Erik e Meg, che ne dici di farne un'altra anche adesso? Nell'inconscio, Meg sa che si sta innamorando di lui (alla buon'ora), ma razionalmente, lo accetterà? Mmm, vedrai.
Un bacio, alla prossima! :*
Jessica24: Oh, un'altra lettrice! Sì, sto scrivendo anche l'AU a cui ho accennato, spero di pubblicarla il prima possibile (si sa che sono lenta in questo, quindi perdonami già in anticipo). Ti ringrazio per aver recensito e messo questa storia tra le seguite, sono così contenta che ti stia appassionando! Spero che ti piaccia anche questo capitolo. E comunque sì, è probabilmente la prima (l'unica?) Erik/Meg nel fandom italiano – che, diciamocelo, in Italia quello del Fantasma è un po' uno sfigafandom, eh. All'estero il musical è così famoso, naturalmente… L'Italia non è un Paese di musical, purtroppo per me che, invece, sono fissata.
Un bacio! :*
Facy: Una nuova lettrice, che bello! E che recensione, wow! Davvero l'hai letta in due giorni? Sei pazza? Sono più di quattrocento pagine di Word! Ahahaha. :D Mi lusinghi, comunque.
Grazie per avermi sottolineato il mio “piccolo” errore grammaticale – non ho mai avuto problemi in questo ambito, ma capisco che ho ancora molto da imparare e mi fa piacere che qualcun altro più bravo di me se ne sia accorto. :) Per quanto riguarda le scene d'azione, ti do ragione, sono molto difficili da scrivere. Io non avevo mai, e dico mai, scritto qualcosa di simile prima d'ora: il mio genere è sempre stato psicologico–introspettivo, ma volevo dare una scossa alla storia, e quindi… Spero che mi perdonerai. :) Il “mio” Erik ti ha fatta innamorare? Meg potrà capirti. La sua faccia è un orrore, ma c'è qualcosa in lui di decisamente affascinante… Non essendo razionale, è difficile spiegarlo a parole.
Parlando di Christine, trovo il suo personaggio – potrà sembrare strano – un grandioso esempio di femminismo: una “damigella in difficoltà” che salva se stessa e altri dal “mostro” non con armi “maschili”, se parliamo di stereotipi – non che ci sia nulla di male nel, che so, maneggiare una spada e dimostrare che si può essere forti quanto e più di un uomo, eh, e l'ho dimostrato con Meg e Darya – no, lei salva tutti con la compassione e il sacrificio: la sua empatia fa sì che veda del buono anche nel “mostro” e che salvi persino lui da se stesso. Gli salva l'anima. E poi non si fa mettere i piedi in testa da nessuno: quel “sono padrona delle mie azioni” è il suo mantra e ha insegnato tanto anche a me. Che ci può essere la luce oltre le tenebre, malgrado tutto ciò che ha sofferto (non solo la depressione e l'apatia dopo la morte del padre, ma anche la tortura più o meno psicologica da parte di Erik). Come hai detto tu, ci sono molti che nel fandom di ASOIAF lodano Arya e maltrattano Sansa: io adoro entrambi i personaggi – certo, con Arya è diverso, in quanto la sua discesa nella vendetta è stata esemplare per l'evoluzione psicologica della mia Meg (avevo già detto che Martin mi era stato d'aiuto, vero?) – ma in modo diverso. Solo perché Sansa ha commesso degli errori (a UNDICI anni, lo ripeto) e crede nelle storie cavalleresche e nelle canzoni e le piacciono i bei vestiti non significa che sia stupida o non sia un personaggio forte e ben costruito. Tutti i personaggi di Martin lo sono, per me, e subiscono un'evoluzione pazzesca. Sansa ha avuto la forza di sopravvivere nella corte di Approdo del Re e agli abusi di Joffrey e Cersei, e questo senza mai perdere la sua compassione verso, che so, personaggi come Tyrion o il Mastino. Arya è sopravvissuta a ben altre situazioni. Entrambe sono forti, ma di una forza diversa. Ora, pensare che l'essere “femminili” (ripeto, sempre secondo gli stereotipi) faccia di un personaggio una persona automaticamente più “debole” è… sessista, a dir poco. Non trovi? (E poi a Meg piacciono i bei vestiti. È una ballerina, hai mai visto i costumi – così preziosi e raffinati – di una ballerina professionista? Sono meravigliosi. :D)
Il mio scopo era proprio quello di dare un esempio di grande amicizia al femminile, malgrado Meg e Christine siano l'una l'opposto dell'altra – e io assomiglio più a quest'ultima, certamente: anch'io ho sempre la testa fra le nuvole! È così raro vederne.
Ah, puoi dirmi dove esattamente la dinamica tra Erik e Meg ti è sembrata poco… 1881? Così la prossima volta imparo e non faccio errori.
Ciao, un bacione! :*
P.S. Il tuo post scriptum mi ha fatto sbellicare dalle risate. Ti prego, scrivine altri così! :D
debbythebest: Ciao, cara! Ecco, ho pubblicato… non così presto, purtroppo, perdonami. Sono contenta che ti stia piacendo l'andamento della storia! Ecco di nuovo Parigi – era mancata anche a me, e a Meg, naturalmente. Ti è piaciuta la scena del disegno, quindi? Eh, sì, è tenera. :D Un bacione anche a te, a presto (speriamo)! :*
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Capitolo 35 *** Il mio cuore si apre alla tua voce. ***
xxxiv.
il mio cuore si apre alla tua voce
Ottobre giunse con la brezza autunnale e le foglie bronzee sugli alberi dei boulevard; avevo preso l'abitudine di passeggiare tra quelle vie con lo sguardo perso nella gente che mi passava di fianco, nelle aiuole di fiori ormai quasi appassiti e nel pulviscolo del sole al tramonto. All'orizzonte, era fuoco e fumo, il cielo nient'altro che un torbido ammasso di nuvole accatastate l'una all'altra per formare un morbido cuscino. Talvolta Luc o le mie amiche mi accompagnavano, ma con loro non mi sentivo mai del tutto me stessa, poiché tanti erano i segreti che celavo loro nell'antro del mio animo; tanti segreti oscuri. Con Erik era diverso. Anche il Persiano a volte si univa a me in quelle passeggiate, e da uomo percettivo qual era, non mancò di notare la mia malinconia in quell'autunno appena inoltrato.
«C'è qualcosa che non va, Meg?» mi chiese con l'usuale gentilezza. Giocherellai con il pomo dell'ombrello nero che mi riparava dagli esuli schizzi di pioggia che minacciavano di gocciolarmi lungo il naso.
«Niente più del dovuto, Monsieur» risposi con un sorriso poco vivace. Lui si intristì. Ricordava il fuoco di un tempo, e ora ne vedeva le braci spente. Non voleva che di me rimanessero solo quelle.
«Come sta il nostro comune amico?»
Sorrisi a quell'appellativo. «Bene. Mangia, dorme… e non in una bara.»
«Sì, ho saputo la novità.»
«Convincerlo è stata dura, ma vederlo in quella tomba mi metteva disagio. Anche il solo pensiero mi era insopportabile.»
Naturalmente, Monsieur Nadir non sapeva che condividevo con lui quel letto. Sarebbe stato ancor più imbarazzante. Anche se forse lo sospettava, chissà. Il Persiano trascorreva non poche sere nella dimora di Erik, e io mi divertivo a guardarli giocare a scacchi – o meglio, a guardare Erik stracciarlo di netto – mentre io leggevo un libro e sorbivo una tazza di tè e limone. Eravamo molto uniti, tutti e tre. Dopo la morte di mia madre, erano l'unica famiglia che mi fosse rimasta. Vedevo in Nadir una sorta di figura paterna, sempre così premuroso; quanto ad Erik… preferivo lasciar perdere. Quel che provavo per lui non era affatto amore filiale. Sapevo che cos'era la devozione di una figlia per il proprio padre, e non avevo mai, mai considerato Erik sotto quella luce, perché non gli avevo mai concesso l'autorità necessaria. Eravamo pari, tutto qui.
La camera Luigi Filippo, da prigione dorata di Christine Daaé, era divenuta il nostro rifugio. Entrambi ci appollaiavamo sul letto, sotto le coperte, per parlare o anche solo fingerci di non guardarci in silenzio per ore e ore finché il sonno non ci coglieva. La sua presenza era un balsamo per i miei sogni infetti, e valeva anche il contrario.
C'erano tante cose che di lui ancora non sapevo: una volta mi permise di visitare la sua camera – che non si poteva più dire mortuaria – dove lui lavorava ancora all'organo; moltissimi disegni erano accatastati in un angolo dello scrittoio.
«Sono tutti opera tua?» chiesi, ammirata e costernata insieme. Lui annuì, silente.
Erano schizzi di architettura e paesaggi e, rare volte, persone. Riconobbi Christine, bella come un angelo – e dell'angelo aveva gli occhi, profondi laghi azzurri. Quanto mi mancava. E poi una donna – una donna molto bella, dai capelli corvini, che non riconobbi. Sotto il ritratto vi era scritto Madeleine. Aggrottai la fronte. «Chi è?» chiesi.
Lui s'irrigidì solo leggermente. «Mia madre.»
Rimasi a bocca aperta, a fissare prima il ritratto dell'elegante figura femminile e poi quello, reale, del mio strano amico. Solo il colore dei capelli era uguale. Per il resto, i lineamenti di Erik erano tanto disfatti da renderli simili solo a quelli di un cadavere in putrefazione, per sua enorme sfortuna. Ma questo ormai non aveva più effetto su di me: se non fosse stato così, non sarebbe stato Erik, molto semplicemente.
«Sai che fine ha fatto?»
«Morì anni dopo la mia fuga. Lo venni a sapere quando dalla Persia tornai a Rouen, per visitare la casa della mia infanzia. Niente era più come prima, eppure mi sembrava che il tempo lì si fosse fermato.»
«Non l'hai più vista, dopo che sei scappato di casa a nove anni?»
Lui scosse il capo.
«Tu la odi, Erik?»
«No. Credevo di sì, ma… no. Mia madre non mi diede mai amore nei miei anni infantili. Voleva amarmi, ma non aveva lo stomaco di te e Christine. Pochi ce l'hanno a questo mondo. Ma non la odio. Mi fa solo pena, e questa forse è la cosa peggiore di tutte. Che di lei non mi sia rimasto che questo mio disegno imperfetto, dai tratti ancora adolescenziali.»
Alzai un sopracciglio. «Se questo schizzo è imperfetto, dovresti vedere come disegno io.»
Lui fece una smorfia, ma capii che era divertito. «Preferisco non assistere allo spettacolo, cara Meg.»
Cara. Mi balzava sempre in petto il cuore, molto stupidamente, quando mi si rivolgeva così. Chinai lo sguardo per dissimulare il rossore compiaciuto sulle mie guance, e riposi i disegni nel loro angolino. Ci accingemmo a cominciare la nostra usuale lezione di pianoforte, e misi da parte le mie stupide fantasticherie una volta per tutte. Non era tempo di rimuginarvi su.
Ad Ottobre iniziava la nuova stagione all'Opera Garnier. Sussultammo tutte di gioia quando Monsieur Lefevre ci informò che il prossimo balletto ad essere rappresentato sarebbe stato niente meno che Il lago dei cigni.
Ma mancava una prima donna. Caroline, che aveva preso il posto della Sorelli dopo il ritiro di quest'ultima, infatti sarebbe presto convolata a nozze con un ricco mercante inglese, e il suo trasferimento a Londra era imminente. «Tenta un provino, Meg» mi disse prima di partire. «Sei già solista. È ora di sbocciare.»
Annuii e le promisi che avrei fatto un tentativo.
In quel periodo mi concentrai sulla danza come non mai, e non fu facile: ritornata dalla Persia e dagli orrori che lì avevo visto e subito, pensavo che mai sarei tornata a ballare come un tempo. Mi sbagliavo. O meglio, sì, il mio stile era differente – più sentito, più sofferto, più feroce – ma non meno efficace. Padroneggiavo il palco come ai tempi di Giselle.
Mi presentai alle audizioni con la sicurezza di ore e ore di tormentato esercizio alle spalle: se temevo di impazzire, la danza era e sarebbe sempre rimasta il mio cardine, la radice di sanità mentale alla quale mi aggrappavo. Eppure, esibendomi nel passo della morte del cigno, espressi tutta la mia sofferenza, la mia tragicità, la mancanza che sempre avrei percepito nella mia vita. E volai. Così tanto che fui scelta, malgrado alcune imperfezioni tecniche che avrei dovuto risolvere con l'aiuto di Monsieur Lefevre, come nuova étoile del balletto e prima danzatrice. Quando appresi la notizia in anticipo, niente di meno che da Erik in persona – non volevo sapere come ne fosse venuto a conoscenza lui; forse poteva ancora porgere l'orecchio all'ufficio dei direttori, malgrado il suo alter ego spettrale fosse stato, in teoria, esorcizzato – non mi trattenni e lo abbracciai con tanta forza che credetti di stritolargli le costole. Lui si irrigidì, non abituato a quelle manifestazioni d'affetto, ma io lo lasciai andare e lo ringraziai per il tempo che aveva trascorso con me, a sopportare le mie paturnie e a darmi consigli su come avrei dovuto rendere evidente la passione che mi bolliva nel sangue, il fervore che sapeva di genio, anche al pubblico osservante.
«Non è stato un fastidio. Hai talento, Meg: sapevo che prima o poi sarebbe venuto a galla» disse, ancora un po' rosso dopo il mio abbraccio. Io stessa ero vagamente senza fiato, e forse un po' brilla.
«Dobbiamo festeggiare. Stanotte, quando sarò tornata dopo l'uscita con le mie amiche… Invita anche il Persiano. Ah, e prepara la tua bottiglia di vino migliore. Questa è la più bella notizia che mi sia capitata… beh, praticamente da mesi.»
Gli offrii un nuovo sorriso a trentadue denti e sgattaiolai via come un vero topolino, lasciando il gatto solo e alquanto stordito.
La première andò bene come speravo, e anche le repliche seguenti. Ballavo con un'intensità che mai avevo conosciuto prima. Nel personaggio di Odette, tradita da Sigfried che si era innamorato della ragazza sbagliata, scoprivo nuovi accenti tratti dalla mia esperienza: il mio cuore si librava insieme al mio corpicino svelto e magro, e con il pubblico ebbi successo. I critici commentarono con articoli sullo strano “incantesimo” che avevo gettato sulla sala non appena avevo fatto la mia comparsa sul palco nei panni della Regina dei Cigni; tracciavano una linea netta tra la conturbante malinconia di Odette e l'oscura sensualità di Odile, e mi compiacqui di questo. Nessun commento sul colore della mia pelle, per una volta. Bene.
«Oh, Meg, sei stata un incanto» cinguettarono le allieve ballerine quando ritornai nel camerino dal mio debutto. Avevo la stanza invasa da fiori e molti spettatori desideravano il mio autografo. Chiesi qualche minuto per rinfrancarmi e cambiarmi d'abito quando notai che qualcuno bussava… non alla porta, bensì allo specchio a parete. Seppi subito di chi si trattava.
«Sei presentabile? Ti giuro che non sto sbirciando.»
«Se stessi sbirciando sapresti che sono vestita» sorrisi e lo accolsi gioiosamente. Lui si girò i pollici, un po' a disagio. Mi porse un fiore, una singola rosa rossa, che tuttavia per me era più preziosa di ogni altro orpello.
«Sei incantevole.»
«Grazie.»
Arrossimmo entrambi come due scolaretti – eravamo sinceramente ridicoli – e lui si inchinò, prendendomi la mano in un gesto che mi fece rimanere senza fiato.
«Tua madre sarebbe molto orgogliosa di te. Sapeva che questa era la tua strada.»
«Non sei stato tu a pormi una corona sul capo e nominarmi imperatrice. Come vedi, ce l'ho fatta anche da sola.»
«Ed è meglio così, credimi. Il fantasma dell'Opera ha fatto il suo tempo, ormai.»
«Mi raccomando, quando tornerò dalla cena con il cast e gli altri artisti fa trovare pronto il vino.»
Lui rise, con la sua risata melodica che un tempo avevo odiato e che ora amavo più di ogni altro suono al mondo, eccetto forse quello del mio nome stillato dalle sue labbra.
«Vuoi ubriacarti?»
«Voglio fare festa.»
«Se c'è del vino, io sono felice.»
Gli diedi dell'alcolizzato e lui scoppiò a ridere di nuovo, e continuò a ridacchiare come un babbeo quando quasi lo cacciai a forza dal mio camerino, timorosa che qualcuno entrasse di colpo e lo vedesse lì con me. Per quello davvero non avrei avuto una delle mie concise spiegazioni logiche. Dopo essermi cambiata, affrontai la folla in tumulto, ma non avevo paura; ero tuttalpiù annoiata, perché desideravo ardentemente tornare nell'appartamento sul lago – chissà perché. O meglio, per chi.
Accettai fiori e complimenti dalla “gente perbene” di Parigi, mostrandomi onorata di quelle attenzioni. Sapevo che di lì a poco il mio nome sarebbe stato sulla bocca di tutti, insieme ai dettagli noti della mia tempestosa vita passata: il suicidio di mio padre, la morte di mia madre, la mia “malattia” dopo il lutto. Sarei stata un frutto succoso per tutti gli amanti dei pettegolezzi. Ho paura che si accorgano che c'è qualcosa di sbagliato in me, e che mi portino via. Così avevo rivelato una volta ad Erik, molto tempo prima. Dopo la Persia, la sensazione che in me mancasse un ossicino o una cellula, un qualcosa che gli altri avevano e che li conduceva per mano sulle strade impervie della vita, era divenuta una certezza asfissiante.
A mezzanotte, tornai felice all'Opera, nella mia vera casa, nell'appartamento sul lago. Trascorsi la serata a ridere delle penose frecciatine di Erik e delle reazioni esasperate del Persiano, sorseggiando vino rosso e, alla fine, addormentandomi al fianco del mio amico e maestro.
A Novembre accadde qualcosa che mi costrinse a una riflessione dolorosa.
Era trascorsa la prima settimana del mese, e io ed Erik avevamo appena terminato l'ennesima sessione di lezioni di piano. Stavo diventando sempre più abile, ma questo era anche grazie al mio tirannico insegnante, che però si rivelava sempre meno despota col trascorrere del tempo. Tuttavia, era straordinario.
«Quando festeggi il compleanno?»
Lui si fermò: stava ordinando un plico di spartiti di Liszt – poco prima mi aveva offerto un'esibizione incredibile di una delle sue rapsodie più famose – e mi rivolse un'occhiata accigliata.
«Perché me lo chiedi?»
«Perché è una cosa che non so di te, e mi piacerebbe saperlo.»
«Sei troppo curiosa per il tuo bene.»
«Questo è già appurato. Allora?»
Erik sospirò. «Non mi va di parlarne.»
Aggrottai la fronte. «É successo qualcosa in particolare?»
«Non voglio ricordare.»
Non ci voleva un genio per capire che alla parola “compleanno” era associata una memoria dolorosa. Non volevo pungolarla, e tuttavia… «Il mio è il tre gennaio.»
«Sì, lo so.»
«Compirò ventidue anni fra circa due mesi.»
«So anche questo.»
«E tu?»
Si massaggiò la radice del naso che non aveva. «Lasciamo perdere.»
Sorrisi. «Stupido che non sei altro. Tanto so bene quanti anni hai.»
«Perfetto.» Non gradiva minimamente l'argomento. La nostra differenza di età non gli piaceva, ma non aveva mai creato problemi nel nostro rapporto. Era vero che in molte cose aveva più esperienza di me, con tanti più anni alle spalle, ma in altre… No, c'era un equilibrio e un rispetto altrui nella nostra amicizia che apprezzavo come non mai.
«Il mio compleanno…» esordì lui, dopo una pausa.
Attesi.
«Sono nato il due novembre del 1834. Eccoti accontentata.»
Mi ci volle qualche secondo per assorbire quell'informazione. Poi scoppiai a ridere. Lui fece una smorfia. «Lo trovi divertente?»
«Stai scherzando, vero?»
Erik incrociò le braccia al petto, aspettando che capissi che effettivamente non stava mentendo. Sembrava oltremodo scontento.
«Fammi capire, sei nato il giorno dei morti?»
«Già. Quale assurda ironia, eh? Dio doveva essere ubriaco quando mi ha messo al mondo.»
Sbattei le palpebre. «Io… non so cosa dire.»
«Perché non c'è niente da dire. È ridicolo. Tutto nella mia esistenza lo è, a quanto pare: una improponibile farsa.»
Mi grattai la testa. «Il due novembre è già passato.» Come scorreva rapido il tempo. «Non ti ho fatto alcun regalo.»
Lui si batté la fronte con una mano. «Sei seria?»
«Sì. È importante.» Ci pensai su. «Non hai mai ricevuto un regalo, vero?» indovinai.
Lui annuì mestamente. «Se è per questo, non ne ho neanche mai donati.»
«Ma…?» proseguii io, imperterrita. Davvero ci tenevo a non far passare quell'occasione inosservata.
«Quando mia madre si degnò di spiegarmi cosa fosse un compleanno, avevo sei anni» mi informò. Era appoggiato al pianoforte, le braccia incrociate al petto come a proteggersi dai suoi stessi ricordi. Dal fantasma della madre che non lo aveva mai accettato. «Mi disse che potevo avere un regalo. Io le chiesi se potevo avere, allora, due baci.»
«Ah, certo. Uno ora, un altro per riserva.» Mi aveva già raccontato quella storia straziante.
«Sì. Lei scoppiò in lacrime e io rimasi sconvolto. Mi rifugiai nella mia camera e fui costretto a scendere solo per cena. Era un omaggio al piccolo festeggiato.» Distorse le labbra. «Solo che io decisi di andarci senza maschera.»
Le mie dita ebbero un fremito involuto. Quella storia non avrebbe avuto un lieto fine, riuscivo a intuirlo.
«Mia madre, alla vista del mio viso scoperto, si infuriò selvaggiamente. Se ho ereditato una cosa da lei, è la capacità di diventare spaventoso quando mi arrabbio sul serio. Lei sognava il figlio perfetto, ed io… non ero che un aborto malformato, per lei e la società. Un mostro, e in un mostro alla fine mi sono trasformato. Devi sapere che fino ad allora non conoscevo la ragione per cui dovevo indossare la maschera, per cui non uscivo mai di casa. Mia madre aveva cercato di tenermi nascosta la cosa il più a lungo possibile. In quell'occasione non ci riuscì. Mi trascinò per il braccio, come un bambolotto di pezza, su per le scale fino in camera sua, dove teneva l'unico specchio della casa. Come avrai capito, l'accesso a quella particolare camera mi era severamente proibito. Quando vidi per la prima volta il mio viso smascherato allo specchio, pensai fosse un mostro orribile e ruppi la superficie riflettente in mille pezzi. Ho ancora le cicatrici.» Mi mostrò i segni distorti che portava sui polsi e che ormai conoscevo bene. «Impiegai qualche giorno a capire che il mostro dello specchio ero io. Fu una realizzazione terribile. Un'epifania che non augurerei mai neanche al mio peggior nemico.» Ci pensò un po' su. «Forse.»
«Non so cosa dire» sussurrai, a disagio. «Mi dispiace se ho pungolato queste tue pessime memorie…»
«Non è colpa tua» Erik scosse il capo, e capii che non era offeso. Solo malinconico.
«Quindi niente regalo.»
«Niente regalo.»
Trascorremmo qualche secondo in un quieto silenzio. Io ponderavo.
«Aspetta.» Mi alzai in piedi, abbastanza da arrivargli all'altezza della spalla. Lui mi osservò, incerto.
Sapeva che ero imprevedibile quando mi mettevo in testa qualcosa. «Un regalo posso fartelo ancora.»
Mi avvicinai a lui, che sembrò spiazzato. Non capiva. «Cosa?»
Non gli diedi tempo di parlare, né ne concessi a me stessa per razionalizzare il tutto e mutare idea. «Scusa per il ritardo.» Mi alzai sulle punte e gli baciai la guancia mascherata. Il mio stomaco fece una capriola, e lui non mi fermò, limitandosi solo a sfiorarmi i gomiti – aveva cercato invano di trattenere il mio impeto – e a guardarmi come se fossi pazza.
«Uno adesso, un altro di riserva. Ricordi?»
Lui si toccò dove lo avevo baciato. «Oh.» Si schiarii la gola. «Io… grazie.»
«Figurati.» Sorrisi.
Lui sembrava ancora assai turbato. Gli servì qualche minuto per uscire dal trance in cui era caduto. «Quindi significa che se ti racconto una storia triste sul mio passato mi bacerai di nuovo?»
«Scemo.» Lo colpii a un braccio, ma ridacchiai. «Comunque, dipende da me.»
«Ah. Buono a sapersi.» Era così rosso che le sue orecchie sembravano carboni ardenti. Mi sedetti di nuovo al pianoforte, con aria compiaciuta e vagamente senza fiato. Con un altro segreto nel cuore, l'ennesimo.
La conclusione dolorosa alla quale giunsi arrivò qualche giorno dopo. Eravamo impelagati su un passo della Habanera di Bizet, e lui mi spronava ad esercitarmi fino a scorticarmi le unghie, fino a che quello che sarebbe uscito dal suo strumento non fosse stato perfetto.
«Avanti, forza. Di nuovo.»
Sbuffai, sudaticcia.
«Non posso…»
«Tu puoi fare qualsiasi cosa. Puoi volare su un palco con delle semplici scarpine da ballo dalla punta in gesso. Puoi fare anche questo.»
Sospirai e mi accinsi ad eseguire il passaggio che mi stava creando tante difficoltà e facendo maledire Bizet mentalmente.
«Ecco. Ce l'hai fatta. Visto?»
Sembrava esausto quanto me. Scoppiai in una risata sonora e tamburellai le dita sul pianoforte. Intonai la canzone – malissimo – con una nota tanto stonata che lui si tappò le orecchie e scosse furiosamente il capo.
«Dio, smettila. Questo non si può chiamare canto… Il verso di una cornacchia è più musicale della tua voce.»
Io continuai imperterrita con la mia ridicola versione di L'amour est un oiseau rebelle, costringendolo a tapparsi le orecchie. «Finiscila» mi ingiunse, tirandomi per gioco una ciocca di capelli. Io gli rifilai un pugno sul braccio, ma notai che rideva. Il suono della sua risata mi fermò in petto il cuore. Era meraviglioso, più del suo canto, più della sua musica – niente poteva paragonarsi alla sensazione di pace che m'infuse dentro il solo udirla. Fu come essere immersa in una tinozza d'acqua calda dopo una giornata di grandine e pioggia, un balsamo dal veleno d'ortica che mi ottundeva il cuore e lo intrappolava tra le sue maglie di rampicanti. Fu per questo che non smisi di cantare, se non quando si unì a me, per ascoltare. Fu forse allora che mi resi conto di amarlo, ma non fu un pensiero conscio, quanto l'istinto della belva umana che fiuta il simile e non lo lascia andare mai più. Essersi imbattuti in se stessi, ritrovarsi nella voce di un altro, nei frammenti bruciati della sua anima. Il suo nome era un embrione d'amore e vita nel mio petto. Erik, Erik, pigolava l'uccellino ribelle – il piccolo corvo dentro di me. Erik, Erik, Erik.
Sono innamorata di lui. Quella realizzazione era terribile. Di notte non riuscivo a dormire, tanto cercavo di dare una logica all'amore devastante e miracoloso che provavo per lui. Era impossibile. Sì, impossibile. Tutto frutto della mia mente malata. Devo essere impazzita sul serio, alla fin fine. Eppure tutti i tasselli del mosaico combaciavano: le mie reazioni al suo tocco, alla sua voce, alla sua risata, l'adorazione che provavo per il modo in cui distorceva le labbra di carta quando sorrideva e il modo in cui mi stringeva delicatamente la mano tra le sue lunghe dita ossute e bianche da far paura. Amavo la sua presenza, tanto che non desideravo altro compagno di vita se non lui – non potevo neanche immaginare un altro uomo al mio fianco. La verità è che non ero mai stata sentimentale: sapevo che un giorno mi sarei sposata, ma era una prospettiva che mi riempiva di noia e che sapeva di monotonia al solo pensiero. Era un dovere che avrei dovuto assolvere per amore di mia madre, ma non mi ci vedevo a sfornare bambini come una giumenta da monta e cambiare pannolini e fare la brava mogliettina. Non che ci vedessi qualcosa di male, solo che… quella non ero io. Ero sempre stata troppo indomita e selvaggia per una vita sedentaria – io che sognavo di viaggiare, di vedere il mondo, di calcare i palcoscenici di molti celebri teatri… Non mi sarebbe dispiaciuto avere un compagno al mio fianco, però. Amavo la solitudine, ma nessuno può rimanere da solo per sempre, neanche Meg Giry in tutta la sua testardaggine. Soprattutto, non ora che avevo perduto del tutto la mia famiglia. Ora Erik era la mia famiglia. E, Dio, lo amavo tanto da farmi venire le lacrime agli occhi.
Ma non era logico: la sua faccia era oggettivamente ributtante, il suo carattere difficile più del mio… e tanti erano gli anni che ci separavano. Al pensiero, avevo voglia di urtare la testa contro il muro. Cosa mai poteva offrirmi una creatura simile? Non m'importa, diceva l'uccellino ribelle dell'amore (come nella canzone di Bizet) nel profondo del mio animo. Ma io non ero mai stata brava a dare ascolto ai palpiti del cuore.
Fu difficile nascondere la mia spaventosa realizzazione in quei giorni. Le settimane trascorrevano rapidamente, e presto le mie preghiere furono esaudite: Coppélia era il nuovo balletto in programma, e Monsieur Lefévre fu rigido nel prepararmi al meglio per quella parte. Qualcos'altro a cui pensare. Per timore che la mia “malattia” – se il mio amore si poteva definire tale – trapelasse in qualche mio gesto o parola, evitavo di trascorrere con Erik più tempo del necessario, informandolo che dovevo esercitarmi per la parte, che avrebbe assicurato la mia fama crescente di prima ballerina dell'Opera Garnier (anche il solo pensiero a volte mi pareva un sogno distante). Erik capiva e non obiettava, ma lo vedevo sempre più spesso raccolto nei suoi pensieri, durante le nostre lezioni di pianoforte, e vago. Anche lui, come me, ponderava qualcosa di importante.
Una volta lo sorpresi a sognare ad occhi aperti, lo sguardo vitreo oltre la solita maschera.
«Erik?»
Non rispose. Ripetei il passo del brano su cui ero bloccata, e puntualmente sbagliai.
«Erik!»
Di nuovo, non rispose.
Schioccai le dita e lui ritornò alla vita, sbattendo le palpebre.
«Cosa?»
«É mezzanotte passata.» Di solito le nostre lezioni non duravano che una, al massimo due ore. Era la notte che apparteneva a lui, solo che dormire insieme nello stesso dannato letto stava diventando difficile. Non di rado una vampata di calore mi inondava le membra e provavo il desiderio quasi palpabile di toccarlo e… No, non dovevo pensarci. Era ridicolo. Di più, io ero ridicola. Illogico, illogico, illogico. Me lo ripetevo come un mantra, come se questo servisse a placare il mio ardore. Quasi non avrei voluto rendermi conto dei miei sentimenti per lui: ero certa di esserne innamorata da più tempo di quanto fosse decente – forse da prima della partenza di Christine – ma era stato così semplice fino ad allora. Stare vicino a lui era una benedizione, eppure io tremavo al pensiero di essere felice.
«A cosa pensavi?» gli dissi, cauta, rimettendo in ordine gli spartiti e le mie gonne. Vestivo ancora e sempre di nero, in segno di lutto per mia madre.
«Io… è sciocco.»
«Sono tutta orecchi.»
Lui sorrise, e mi riempì il cuore. «Sai, non sei il mio confessore.»
«Beh, pensavo solo che magari ti avrebbe fatto piacere parlarne con qualcuno che…»
«Sto scherzando, Meg.»
Oh, il modo in cui pronunciava il mio nome… come un sospiro, o una preghiera. Povera me.
«Non pensavo a nulla di importante. Stai tranquilla.»
«Ne sei sicuro?»
Lui annuì.
Mi giungeva sempre alla mente il dubbio assillante che il suo desiderio di morte non si fosse placato davvero. E come avrei fatto se…?
Cercai di non pensarci.
C'era una cosa che mi disturbava quasi più di ogni altra, ragionai mentre mi cambiavo e indossavo la veste da notte. M'infilai nel letto e chiamai Erik, perché si sistemasse nella solita poltrona a suonare il violino – la mia ninna nanna, come la definivo tra me e me, prima di stendersi sotto le lenzuola e dormire accanto a me, facendo da angelo custode ai miei sogni tormentati. Mentre egli suonava un assolo improvvisato di una meraviglia sconosciuta, io riflettevo sull'impossibilità che il mio amore per lui si tramutasse in qualcosa di concreto e non semplici castelli in aria. Christine, pensavo. Non provavo alcun rancore verso la mia vecchia amica, ma che lui fosse ancora innamorato di lei era un dato di fatto che non potevo contrastare. Come potevo, d'altronde, competere con Christine? La sua bellezza, la sua bontà… Sarebbe stato come paragonare un usignolo a un corvo. Una cornacchia bruttina e impaziente, ecco cos'ero. Non il meraviglioso cigno bianco, non la perfezione di una voce da serafino. Christine… nella sua mente e nel suo cuore ci sarai sempre e soltanto tu.
Si avvicinava dicembre, e così il Natale. Il primo Natale senza mia madre… Andavo a visitare spesso la sua tomba, al cimitero dove avevano seppellito il suo povero corpo sventrato. Vi portavo fiori freschi, così come a quella di mio padre. «Mi manchi da morire, Maman» mormorai con le mani congiunte e gli occhi fissi sulla lapide, un giorno che la neve aveva deciso di far visita al cielo di Parigi. La sognavo molto, e mi svegliavo sempre con la testa dolorante e gli occhi umidi, dopo.
«Sei sicura di non voler venire a casa nostra? Mia madre sarebbe felice di accoglierti tra noi» mi disse Juliette durante una pausa tra le lezioni di danza. Riannodai il nastro delle mie scarpette da ballo alle caviglie.
«Non preoccuparti. È che non me la sento di stare in compagnia. Berrò una buona cioccolata calda e andrò a dormire presto. Sarà più semplice così.»
Avevo dato la stessa risposta a Luc, che eppure aveva insistito perché trascorressi la sera della vigilia con lui e i suoi amici e il suo stuolo di grisette adoranti.
«Lo so che è difficile per te, però… trascorrere da sola il giorno di Natale…»
«Non preoccuparti» le ripetei per l'ennesima volta. «Festeggeremo tutti insieme al ballo di Capodanno.»
«Mmm, tu mi nascondi qualcosa.»
La guardai con nuovi occhi. «Che intendi dire?»
«Hai una luce nello sguardo che non ho mai visto prima in te.»
Certo che era percettiva. Risi e chinai il capo.
«Non capisco, davvero.»
«Sei troppo tranquilla. E tu non sei mai tranquilla.»
Arrossii e scossi la testa. «Non so a cosa ti riferisci.»
Lei mi rivolse contro un dito e la sua bella bocca assunse la forma di un oblò. «Meg Giry che arrossisce! Questa sì che è una visione.»
«Non dirlo in giro. Ho una certa reputazione, io» replicai in tono duro, ma lei sapeva che in fondo era bonario.
«Può entrarci… qualche giovanotto?»
Arrossii ancora. Non vedevo nulla di male nel… «Una cosa del genere.»
«Non è Luc?»
Sbuffai. «No, non lui, tranquilla.» É qualcuno con una nomea molto peggiore della sua. Se avesse conosciuto l'identità dell'uomo di cui ero innamorata… Avrei pagato pur di vedere la sua espressione, ma dovevo mantenere il segreto. Ormai ero un'esperta in merito.
«E com'è? È bello? È ricco?»
Per poco non mi strozzai con un fiotto di saliva. «Non lo definirei esattamente bello…»
«Oh, beh, non importa, basta che piaccia a te. Non puoi proprio dirmi nulla su questo misterioso giovane?»
«Che non è più giovane.»
«Oh.» Si grattò la punta del nasino alla francese. «Di quanto è più vecchio di te?»
«Ehm…» Davvero non volevo rispondere.
«Meg, non sarà sposato?»
«No, no, assolutamente. E comunque, non accadrà mai nulla fra di noi.»
Lei si rattristò. «Perché dici questo?»
«Non potrebbe mai ricambiarmi» sospirai io. «Dal momento che è innamorato di un'altra donna.»
«Oh» fece Juliette, corrucciata. «Mi dispiace, Meg.»
«Non dispiacerti. Sarebbe comunque una follia. È troppo vecchio per me.»
Alla smorfia della mia amica, vidi di aggiungere: «Non tanto, non preoccuparti. In ogni caso…»
«Deve essere un uomo straordinario se ha attirato l'attenzione del lupo solitario della compagnia» scherzò lei, e io risi, annuendo. «Ha molte qualità… inimmaginabili.»
Juliette fu abbastanza educata da non chiedermi altro in merito, né io aggiunsi altro. Quel che avevo detto era già troppo.
Ed io ero in trappola.
Il suo viso non mi faceva più paura. Non eravamo più nemici. Lui adesso era casa, era… tutto ciò che di buono rimaneva della mia vita disastrata. Dopo quel che avevo passato…
Fui brava a tenere nascosto tutto ciò anche al Persiano, che eppure dovette dedurre qualcosa dal modo in cui a volte lo sorprendevo a guardarmi preoccupato, proprio mentre io mi sentivo costretta a distogliere gli occhi da Erik. Che nel mio modo di guardarlo fosse così evidente che…?
Eppure Erik non sembrava capirlo. Certo, in alcuni momenti si comportava in modo strano. Mancava qualche giorno alla vigilia, ed io ero appollaiata sulla solita poltrona ad ascoltarlo suonare il pianoforte, quando udii la sua voce squillarmi nelle orecchie come un campanello d'allarme.
«Sei sicura di voler restare qui anche a Natale?»
Sbattei le palpebre come davanti a una luce molesta.
«Puoi ripetere, scusa?»
Lui si schiarì la gola. «Insomma… credo che tu abbia bisogno di aria e luce, e… come si chiama, quel tuo giovanotto…»
Aggrottai la fronte. «Conosci Luc?»
«É il mio teatro.»
«Ah, certo. Come ho fatto a dimenticarmene.»
«Beh…» Improvvisamente tacque. Agitò le lunghe dita sui tasti dello strumento senza pigiarne alcuno. Questo sì che era strano.
«Io sto bene qui.» Sorrisi e gli feci cenno di proseguire la sua sonata. «Certo che ho bisogno di aria e luce, ma anche di questo posto. Posso fare la spola tra entrambi.»
«Se davvero lo desideri…» Non sembrava crederci sul serio.
«Certo che sì» lo rassicurai. Scossi il capo e tornai a chiudere gli occhi, attendendo che ricominciasse a suonare. Che strano uomo che era.
Natale incombeva su di noi come un mantra, per rammentarci che, oltre all'altro, eravamo soli. Ma sapevo di essere già abbastanza fortunata ad avere perlomeno lui al mio fianco: avevo rischiato di perderlo molte volte e non volevo ripetere l'esperienza. Per il resto, avevo perso tutto.
Fu il giorno prima della vigilia che accadde quel che avevo temuto: un cambiamento che ci portò a un punto di svolta notevole.
«Scusa se vengo qui in anticipo» gli dissi dopo essere entrata nell'appartamento sul lago – la Sirena ormai non funzionava più – senza che lui se ne avvedesse. Gli comparsi di spalle, con lui che sobbalzava, seduto al pianoforte, al suono della mia voce.
Dal suo atteggiamento, compresi subito che qualcosa che non andava: si affaccendava a sistemare il plico di spartiti imbrattati di inchiostro fresco e ad evitare così di sporcarsi le dita di rosso, senza successo.
«Stai bene?» chiesi, accigliata.
«Non ti aspettavo» mi rispose lui, dandomi sempre le spalle.
«Erik, ti sei dimenticato della nostra lezione?»
«No, io… avevo da fare, e…»
Vederlo così agitato era oltremodo bizzarro. «Allora» cominciai, avvicinandomi, e notai una scritta – era impossibile sbagliarsi – di un color sangue vivo su uno dei fogli di pergamena che lui cercava di nascondermi invano.
Marguerite, diceva.
«Aspetta un attimo» gli posai una mano sulla spalla, e lui fremette. Fece per ritrarre il foglio, ma io lo afferrai prima che potesse acciuffarlo e lo scandagliai per bene, evitando i suoi deboli tentativi di riprenderselo.
«Meg…»
«Questo cos'è?»
Gli sventolai sotto il naso (metaforicamente) la pergamena colpevole. Non ero affatto arrabbiata, solo curiosa e… imbarazzata. Lui sembrava vergognarsi da morire, ma mi diede comunque una risposta.
«Uno spartito.»
«Questo lo vedo.» Era inutile spiegare a cosa mi riferissi nella mia sorpresa. Perché quella composizione portava il mio nome?
«Io… l'ho scritta pensando a…» arrossì di nuovo. Si schiarì la gola e si diede un'aria più dignitosa. «Pensando che ti sarebbe piaciuta. È il tuo regalo di Natale.»
«Una sorpresa?»
«Avrebbe dovuto esserlo, sì. Ma poi sei venuta tu a rovinare tutto, come sempre.»
«Sono nata per darti fastidio.» Sogghignai e gli feci cenno di accomodarsi al pianoforte. Lui obbedì, quasi dolorante nei movimenti freddi, robotici, tesi.
«Puoi suonarla?»
«Non è conclusa.»
«Mi piacerebbe comunque ascoltarne un'anteprima, se è possibile.»
«Aspettavo Natale per…»
«Non riuscirei ad aspettare neanche un'ora di più. Sono troppo curiosa.»
«L'ho sempre detto che l'eccessiva curiosità sarebbe stata la tua fine, Meg Giry. E quella lingua lunga che ti ritrovi.»
«Sono sopravvissuta finora.»
Erik si fece coraggio e lasciò che le sue dita scivolassero sul pianoforte. Lo toccava con la delicatezza di un amante. Rabbrividii al pensiero.
Suonò con una dolcezza inusitata, tanto che fremetti dall'interno e lacrime di commozione mi bruciarono gli occhi. E non ero una lacrima facile. Il brano era semplice, ma sincero e tenero come un cuore di burro. Era ciò che provava per me. Era tutto quello che non riusciva a dirmi. Quando smise di suonare, tirai su col naso mentre lui si sgranchiva le dita.
«Ecco, la devo ancora finire. Fin qui è…»
«É meravigliosa» completai io per lui. Si voltò a guardarmi, sorpreso dalle mie gote arrossate, dai miei occhi luminosi.
«Davvero ti piace?»
«Non ho mai udito composizione più bella. Sei un vero genio, Erik.»
Lui chinò il capo al complimento e si alzò in piedi, rimettendo in ordine lo spartito. Lo seguii, senza parole.
«A Natale ti farò ascoltare la versione completa. Ho pensato a tanti tipi di regali, ma questa è davvero l'unica cosa che sappia fare…»
«Sai fare molte cose» lo redarguii con un sorriso commosso. «Non è da te essere modesto.»
«Beh, sì. Credo che tu abbia ragione.»
Ci fronteggiammo entrambi, lievemente euforici.
«Posso darti il mio regalo?»
Lui ammiccò. «Adesso?»
«Beh, almeno una piccola anticipazione. So che non potrò cavarmela sempre così, ma…»
«Di cosa stai parlando?»
Era palesemente confuso, dal momento che non mi vedeva con alcun pacchetto in mano, e si domandava quale fosse il misterioso dono.
«Uno adesso, l'altro di riserva. Ricordi?»
Non fece in tempo a commentare che gli gettai le braccia al collo e mi alzai sulle punte per baciarlo sulla guancia mascherata. Ma in qualche modo era troppo vicino, e io sentivo il suo odore, e ne ero fatalmente intossicata…
Prima che entrambi ce ne rendessimo conto, premetti le labbra sulle sue in un bacio casto ma ardito. La sua bocca era immobile e gelida contro la mia: mi avvidi che non stava ricambiando il bacio. Presa dal terrore e da un improvviso gelo interno, mi allontanai da lui con la rapidità di un felino.
La sua reazione fu del tutto drammatica – come avrei dovuto aspettarmi, e come era nel suo carattere. Si portò una mano alla bocca e strabuzzò gli occhi, quasi non credesse a quel che era appena accaduto. Lo avevo baciato, e non sulla guancia. Notai che tremava verga a verga. Si accasciò sul pianoforte, d'un tratto senza forze.
«Perché l'hai fatto?» chiese. Non in tono accusatorio, ma disperato.
Io stessa ero rimasta immobile come una statua – silente e inflessibile – e non riuscivo a proferire parola. Mi sforzai e mi umettai le labbra improvvisamente aride.
«Io…»
Il suo perché? ancora mi ronzava nella testa, come una mosca fastidiosa. Perché sono innamorata di te, brutto idiota.
«Io…» tentai di nuovo. Non avevo la forza. Dio, che cosa ho fatto? Mi voltai e corsi via per la strada da cui ero venuta, e lui non mi richiamò indietro.
Note dell'Autrice: Eccomi con un nuovo capitolo. Ormai ne mancano solo due e poi l'Epilogo, e… The End. Mi rattrista, ma è così.
Che dire, questo capitolo porta il titolo della mia storia, tratto da quello dell'omonima aria di Camille Saint–Saëns, quindi è il più importante… anche solo perché è qui che – finalmente! – Meg si rende conto di essere innamorata di quel testa dura di Erik. Che vi aspettavate dalla sua reazione? Inutile dire che, essendo lei una persona poco avvezza alle romanticherie, non ha fatto salti di gioia. E tuttavia, il bacio… Un bacio inaspettato per entrambi. Probabilmente Erik è fortunato a non essere caduto a terra svenuto per la sorpresa. Cosa accadrà dopo? Si accettano scommesse. XD
Vi avverto che, letto il prossimo capitolo, vorrete uccidermi. Preparatevi.
E ora, le recensioni:
Jessica24: Allora, cara, che dire… Ehm, mi dispiace, e – senza fare spoiler – non aspettarti un lieto fine. Te lo dico per avvertirti. Come già letto nel prologo, l'aria di totale depressione che circonda Meg trent'anni dopo questa vicenda ha una sua ragion d'essere. Meg – si è capito – aveva problemi di depressione, ansia e stress post traumatico da anni (ma non mi azzardo a fare una diagnosi; non sono nessuno per farlo, solo che si riconoscono i sintomi, povero cuore). E ora, dopo la morte di sua madre e le cose che sono accadute in Persia – non proprio una piacevole vacanza – l'hanno fatta cadere in un abisso da cui si rialza mano a mano grazie alla sua forza d'animo, all'amore per la danza e a quello per Erik. Non le rimane altro.
Il problema del finale della storia, ti dirò, non sta tanto nel fatto che Meg ha paura di non “valere più a nulla” se sposa Erik: la differenza sostanziale tra lei e la Cathy di Cime Tempestose è che, a differenza di quest'ultima, a Meg non importa nulla del suo status sociale. È ambiziosa, certo, vuole a tutti i costi essere prima ballerina – e ci riesce – ma non le importa della ricchezza (sebbene Erik sia ricco, con tutti i soldi che – credo? – abbia guadagnato in Persia, in qualità di macchina assassina, molti anni prima) né del parere degli altri. Come ho scritto nel lontano primo capitolo, Meg ha sempre combattuto contro un fato avverso che non poteva controllare – perché contro alcune cose, come la morte, davvero non possiamo fare niente, se non appunto andare avanti. E ti assicuro che Meg andrà avanti malgrado tutto. ^^
Molto brava anche nel notare che la citazione che hai riportato dallo stesso Cime Tempestose appare molto adatta ad Erik e Meg, ed in effetti è stata una delle mie fonti d'ispirazione per il loro rapporto. Qualche altra lettrice bravissima l'aveva già detto – non ricordo chi, esattamente, scusate, sono pessima XD – e ora ribadisco a te, come a lei allora, che malgrado le somiglianze tra il caratteraccio di Heathcliff ed Erik (possessivi, dominanti, vendicativi, rabbiosi, ecc.), per fortuna il rapporto tra lui e Meg fa bene ad entrambi e li aiuta a crescere, a conoscere meglio se stessi e l'altro, e a maturare. Insomma, non è distruttivo, o almeno non era mio intento che lo fosse. Anche se nessuno dei due è proprio un raggio di sole, eh. XD
Grazie anche per i complimenti sull'aver mantenuto salda l'amicizia tra Meg e Christine, a differenza di Love Never Dies (non mi far parlare al riguardo, altrimenti scriverei un papiro: dico solo che Webber ha reso tutti i personaggi completamente OOC – sì, anche Erik, che non sembra essere cambiato affatto dal primo musical e non aver capito niente di importante dalla compassione di Christine). Sì, Meg è un po' gelosa di Christine, è naturale, ma non le vuole male, assolutamente: anzi, la considera una sorella e una grande amica, e la donna che ha fatto comprendere ad Erik cosa significhi veramente amare qualcuno. Se non fosse stato per Christine, Erik non sarebbe cambiato e Meg, per quanto attratta da lui, non se ne sarebbe mai innamorata fino a questo punto. Quindi sì, grazie, Christine! **
Ti piace Sansa, dunque? Piace molto anche a me. È cresciuta tantissimo dal primo libro, non trovi? Tu che cosa pensi del fatto che nel telefilm le hanno fatto sposare Ramsay al posto di Jeyne Pool? Io avrei voluto ammazzare i produttori con le mie stesse mani. Meno male che si è vendicata, alla fine… Ma quello che ha passato le rimarrà sempre addosso, povera piccola.
Per concludere – scusa il rant XD – i musical sono la mia passione e sì, è bello conoscere qualche italiano che la condivide! Quali altri musical ti piacciono? Io sono andata a vedere Wicked a Londra anni fa, è stato il mio primo musical. I miei preferiti sono Phantom – per l'appunto XD – Les Misérables e Hamilton. :)
Un bacio, cara! :*
P.S. Oh, sì, mi piacerebbe leggere qualche ff in inglese, ma aspetto la fine della storia (tanto ormai manca poco) per non farmi influenzare inutilmente. Tu che ne dici? Sono troppo paranoica? XD
Facy: Cara, non ho frainteso la tua recensione allo scorso capitolo, si vedeva che era più che positiva (infatti dopo averla letta sono rimasta con un sorrisone ebete stampato in faccia per mezz'ora XD), ero solo curiosa riguardo le “inezie” a cui hai accennato. Voglio migliorarmi, e le critiche costruttive sono sempre ben accette. Anche i consigli, se è per questo! Anch'io a questa storia darei una rifinitura in alcuni punti, comunque. ^^
Un punto curioso che non ho mai avuto modo di spiegare qui: all'inizio, Erik dà a Meg subito del “tu”; questo ai tempi era, ovviamente, maleducato – pfft, figurati se a Erik importa XD – e rude, soprattutto nei riguardi di una donna. O così immagino. La stessa Meg infatti non lo sopporta, e se gli dà del “voi” all'inizio, per poi passare rapidamente al “tu”, è perché lui la rimprovera al riguardo e lei non vuole finire strangolata. Il fatto che si diano del “tu”, a differenza di Raoul e Christine, o di Christine ed Erik stesso, è perché sono due maleducati. XD E poi, beh, per evidenziare la familiarità che entrambi maturano l'uno nei confronti dell'altra. Ma questa è un'altra storia.
Davvero trovi che Meg non sia un personaggio banale? In effetti, a parte le “basi” che io non potevo cambiare (la passione per la danza, l'essere figlia di Madame Giry e amica di Christine) davvero è stato come scrivere un po' di un OC. Non volevo creare nessuna Mary Sue, né rendere Erik un odioso Gary Stu (ho scritto bene? XD), quindi grazie per avermi rassicurata al riguardo. ^^
Sì, come hai detto tu, Meg inizia davvero ad abbracciare il suo lato oscuro, senza rinnegare quello luminoso: tutti siamo composti di luce e oscurità, d'altronde. Si vede anche come in questo capitolo, lei stessa dica ad Erik che ha bisogno di “luce ed aria, ma anche di questo posto”, ossia dell'appartamento sul lago, che è oscuro e freddo. Ovviamente è una metafora. XD
Un punto: non credo che la Meg di trent'anni dopo si possa definire “vecchia” nel vero senso della parola; ha cinquant'anni, non settantacinque. XD Ha tre anni in più di Erik che, ricordiamo, non è propriamente un giovanotto – ha quarantasette anni, il bellimbusto. XD (Dio Santo, ma non è che la loro differenza di età è un po' troppo esagerata? Non è colpa mia, giuro. XD Nel libro, Erik ha più o meno quell'età, si capisce, e certo non potevo scrivere di una Meg trentenne se Christine ne ha venti e Raoul ventuno, non ti pare? Dio santo. Perché una volta, scherzando, ho chiesto a mia madre cosa accadrebbe se mi mettessi io con un quarantasettenne – ho la stessa età di Meg, ventidue anni – e lei ha detto che a mio padre verrebbe un infarto. Non che abbia torto, povero XD) Ehm, ehm. Tornando alla recensione, davvero ti stava venendo da piangere? Beh, non hai idea di cosa ti succederà nel prossimo capitolo, allora… Non spoilero nulla. Inutile dire che adesso mi metto a piangere io per tutti i complimenti, basta, mi danno alla testa! Io che sono famosa per essere molto dura per me stessa, poi… Forse un po' troppo, me lo dicono tutti. ^^
Hai ragione nel dire che Erik e Meg non finiranno per cavalcare insieme verso il tramonto, ma ti giuro che sì, lui è molto amato. E lo capirà prima della fine, stai tranquilla.
Un bacione! <3
P.S. Un altro dei tuoi immancabili post scriptum, please? Quel “cavalcate verso il letto” mi stava facendo morire dal ridere. XD
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Capitolo 36 *** Imperatrice. (e il mio cuore le restò sulle labbra) ***
xxxv.
Imperatrice
(e il mio cuore le restò sulle labbra)1
Fu una notte travagliata. Quando mi destai, ero fremente: avevo le cosce umide di voglia e la voce di mia madre nelle orecchie. Scossi la testa e mi affrettai a prepararmi per una nuova giornata di esercizi. In quelle ore cercai di dimenticare quanto accaduto la sera prima nell'appartamento sul lago, e anche Erik non dava segno alcuno della sua presenza. Parodiai il marmo nella mia cieca – e finta – indifferenza. Alla felicità, preferivamo entrambi l'orgoglio.
«Stai bene? Ti vedo un po' stralunata» mi disse Juliette mentre ci riscaldavamo i muscoli nella sala della danza. Altro che stralunata. Con un'occhiata ad uno dei grandi specchi che ricoprivano la parete, mi resi conto di quanto il mio volto fosse emaciato, frutto di una notte tempestosa. Sospirai e guardai la mia amica.
«Credo di aver commesso un grave sbaglio, Juliette.» Chinai il capo, massaggiandomi le tempie doloranti.
«Riguarda l'uomo di cui mi hai parlato?»
«Sì. È il mio migliore amico ed io… spero proprio di non aver fatto una sciocchezza.»
«Dovete solo chiarirvi» mi pose una mano sulla spalla in segno di conforto. «Non preoccuparti.»
Annuii e tornai ai miei esercizi. Erik era stato il mio primo pensiero al mattino, e aveva popolato la mia notte come pochi incubi sapevano fare. Solo che non si trattava di un incubo, ma di un sogno che mi avrebbe costretta alla pazzia per la sua assurdità… E io ero ancora più assurda.
Tornata nel mio camerino, notai un biglietto sul comodino dalla grafia rossa e incredibile che avrei riconosciuto ovunque.
Devo parlarti. Dopo la prima di stasera, sul tetto, vicino alla statua di Apollo. Mi troverai lì.
E.
Sospirai. Aspettavo quel momento da parecchio tempo. Un confronto era inevitabile, e io non mi sarei tirata indietro – mai. Semplicemente, non era nel mio carattere, ed Erik lo sapeva.
La prima di Coppélia andò meglio del previsto. Il mio camerino fu nuovamente invaso da fiori e ammiratori, ma io non diedi udienza a nessuno, fingendo di soffrire di un lieve mal di testa. Quando il buio divenne totale, sgattaiolai con indosso una cappa a coprirmi la testa e le spalle e raggiunsi per vie indirette e più sicure il tetto dell'Opera Garnier. I miei passi risuonavano sul pavimento come coppe di vetro infranto, e sperai con tutte le mie forze che nessuno mi stesse seguendo. Ma non avrei dovuto preoccuparmi: Erik doveva già essersi assicurato della segretezza del nostro incontro. Non dovevo dubitare di lui, non in questo.
Cominciava a cadere un lieve spolverio di neve: i bioccoli candidi mi solleticavano il naso sotto il cappuccio, e il tetto dell'Opera, paesaggio vestito di bianco, appariva simile a un letto morbido, ma anche gelido. Seduto sotto la statua di Apollo, vi era Erik. Anche lui indossava una cappa nera, oltre che la solita maschera, e mi aspettava.
Deglutii pesantemente, sapendo che si era accorto del mio arrivo dal suono dei miei passi, che eppure la neve attutiva.
Non ci salutammo. Ci limitammo a guardarci per qualche attimo, gonfi di vergogna, e a distogliere infine lo sguardo. Io lo tenni fermo sul panorama parigino su cui affacciava il tetto, sentendo il suo sguardo dorato bruciare sulla mia nuca incappucciata. Non avevo indossato quel mantello solo per ripararmi dal freddo, d'altronde.
«Perché?» mi chiese di nuovo, e questa volta scandì le sillabe, lento e razionale, senza lasciar trasparire il minimo tremito nella voce. Non c'era bisogno di chiedere a cosa si riferisse. Il nostro bacio – un bocciolo di rosa nelle tenebre – sembrava perseguitarmi come un vero fantasma.
«Lo sai, il perché.»
Lo udii deglutire. Mi voltai appena per vederlo massaggiarsi le tempie con la coda dell'occhio.
«Da quanto?»
Anche qui, era vano domandargli cosa intendesse dire con quelle parole.
«Da mesi, ormai» risposi in un soffio. «Forse da prima della partenza di Christine.»
Lui affondò il volto tra le mani. «Oh, Signore.»
Mi accigliai. «Mi trovi così ributtante?»
Lui sgranò gli occhi e scosse il capo, come colpito da un fulmine. «Ma come ti viene in…?»
«Non c'è bisogno che tu dica niente. È ridicolo – io sono ridicola. È la situazione più patetica in cui mi sia mai trovata. Ho sempre temuto di fare la fine di mio padre, e ora eccomi qui: a confessarmi come da un prete all'uomo più impossibile sulla faccia della Terra.»
Lui non interruppe il flusso. Rimase in silenzio ad ascoltare, le mani strette a pugno sulle ginocchia, quasi avesse voluto stringere in egual maniera il suo cuore. Dio solo sapeva quanto mi sarebbe piaciuto poter fare lo stesso.
Scoppiai a ridere – una risata che sapeva di isteria. «Non è risibile? Tu sei tu e io sono ancora più pazza di te!» Mi passai una mano sugli occhi, sorprendendomi nel notare che erano umidi. Pensavo di non possedere più la forza di piangere.
«Ho provato a dire a me stessa che era una follia – ti giuro, ci ho provato con tutta l'anima. Ma il mio cuore… mi ha tradito. Che verme, non è vero?» distorsi le labbra in una smorfia irritata. Ancora non lo guardavo negli occhi.
«Come…?» gli mancavano le parole.
«Non lo so. È proprio questo il punto: non c'è un solo filo logico al quale possa aggrapparmi. Ho cercato di spiegarmelo con il mito di Platone sulle anime separate dagli dei che una volta erano integre, un corpo solo, e che nel nostro tempo vanno alla ricerca della propria metà costantemente – ma no, non suonava giusto, perché io non sono la metà di nessuno. Finché non ho capito di non desiderare altro compagno che te.» Diedi in un brivido glaciale – quelle parole mi raschiavano la gola fino a farla bruciare – e chinai il capo.
«Quando l'ho capito, quando l'ho accettato, ho pensato di essere impazzita definitivamente. Quel che rimaneva della mia sanità mentale è andata a farsi fottere.»
Erik era talmente sconvolto che non riuscì neanche a rimproverarmi per il turpiloquio.
«Per settimane ho relegato… questo… in un angolo della mia mente, sperando che se non vi avessi prestato attenzione sarebbe svanito. Sciolto come neve al sole. E invece era come un tumore che, non curato, cresce sempre più. Tuttavia, non lo considero maligno. Mi sento come se mi avessero maledetta e di nuovo battezzata al medesimo tempo.»
Lui continuava ad ascoltarmi, le labbra dischiuse in un'espressione di immobile stupore.
«Credo che dovremmo separarci. Almeno per un po'.»
Negli occhi di Erik passò un baluginio pericoloso, come di una preda in trappola.
«Stai scherzando?»
«Erik, se non posso strapparmi a mani nude il cuore dal petto…»
«Non posso farlo neanche io.»
Mi umettai le labbra. Le mie dita erano attraversate da convulsi spasmi elettrici.
«Non posso costringerti ad abbandonare la tua casa, so bene che ti sarebbe difficile vivere in un altro luogo. Ma io pensavo di affittare un appartamento qui a Parigi e…»
«E cosa? Di evitarci per sempre?»
«Di evitare che si ripeta quel che è accaduto ieri, Erik!» insistetti io. Lo guardavo solo in tralice. Notai che aveva un tic alla mano sinistra, quella con cui impugnava il laccio del Punjab – segno che era nervoso, forse persino arrabbiato.
«Resta.» Il suo sussurro fu lacrime e miele per le mie orecchie. Mi costrinsi a scuotere il capo con forza.
«Per iniziare a seguirti come un cagnolino scodinzolante? Hai davvero tanta poca considerazione della mia dignità?»
«Non sei costretta a seguire proprio nessuno.»
«Credi che per me sia facile? Oh, Dio…» repressi un singhiozzo portandomi una mano all'altezza della gola, mentre i miei lineamenti si distorcevano in una smorfia di dolore. «Sei la persona più straordinaria che abbia mai conosciuto, e il solo pensiero di una separazione mi crea una tale angoscia che mi è difficile esprimerla a parole.»
«E allora resta.»
«Per vederti in pena per un'altra? Oh, no… Non se ne parla. Ho un orgoglio da proteggere.»
Questa volta era confuso. «Di cosa stai parlando?»
«Di Christine, naturalmente. Tu la ami e…»
«Aspetta un attimo…»
«Sapevo che mi avresti rifiutata fin dall'inizio, eppure ho rovinato tutto ugualmente. Non avrei dovuto svelarmi. Io non sono Christine, Erik. Sono brutta e oscura e maldestra, con un pessimo carattere e una lingua ancora peggiore. Lo so che non c'è competizione, e d'altro canto mai ho voluto mettermi alla pari con la mia più grande amica…»
«Taci.» Alzò un dito per interrompermi. Repressi un altro singhiozzo e un'imprecazione e rimasi ad ascoltare la sua controbattuta.
«Senza Christine, io non sarei l'uomo che sono adesso. Ma senza di te, non sarei nemmeno più vivo.» Si grattò la radice del naso che non aveva, contorcendo le dita come fosse in preda ad uno sforzo poderoso.
«Brutta e oscura e maldestra quale ti definisci… Come puoi pensare che…?»
Si arrestò un attimo, poi scoppiò a ridere. Una vera risata, roboante e melodica. Rimasi a fissarlo a bocca spalancata.
«Ti pare il momento giusto?» Mi venne voglia di prenderlo a schiaffi. Raccolsi un pugno di neve da terra e glielo scagliai contro, ma lui non cessò di ridere.
«Razza di bastardo, smettila!»
Lui si fermò appena prima che gli gettassi addosso un'altra palla di neve. Si scosse la gelida sostanza biancastra dal mantello.
«Se pensi di dovertene andare perché non sopporti la mia vista, fai pure. Non è mai stato un gran bello spettacolo, comunque. Ma se credi invece che fuggire e far finta che io non esista – e viceversa – sia la soluzione a un sentimento non ricambiato… Dio, mi sento strano solo a dirlo.» Sogghignò ancora, ma brevemente. Il sorriso che ne seguì era dolce e malinconico.
«Meg, non c'è nessun altro che desideri più di te al mondo. Christine è il passato; tu sei il presente e il futuro e tutto ciò che resta della mia vita. Come credi che non possa amarti dopo quello che ci è successo? Dopo tutto ciò che abbiamo superato insieme? Hai paura di un fantasma, forse? Non devi. Erik sa che il suo cuore è con te – sempre. Come sei stata sciocca a pensare di dover competere con il ricordo di qualcuno per… per un essere come me! Non esiste alcun parametro di paragone nella mia mente. Solo tu. Meg…» strinse le dita a pugno, come per darsi coraggio, «… è la tua pelle che chiama la mia. Non so dire altro.» E proferite queste parole, tacque.
Io ero stordita. Significava forse che…?
«Quindi tu…»
«Certo che sì.»
«Da quanto?»
«Dal nostro viaggio in Persia, credo. Mi sono maledetto mille e mille volte – non credevo di essere così ottuso da commettere lo stesso sbaglio, ancora. Tendo ad avere pochi amici, lo sai, e tu sei stata la prima e l'unica, per me. Imparai ad osservarti, notai la tua forza, la tua ironia – tutto di te mi attraeva, come un naufrago alla terra, o un vagabondo al calore di un focolare in inverno. Era come se fossi già un'impronta sulla mia anima, e cancellarti sarebbe significato morire nel tentativo. Speravo che passasse, col tempo, proprio come lo speravi tu. Ma così non è stato. E ora mi trovo qui, dinanzi a te per dirti: resta. Soffriremmo entrambi invano.»
Notando che ero troppo sconvolta per proferire parola, si contorse le dita in una stretta nervosa e proseguì: «Spesso ti ho invitata ad uscire maggiormente coi tuoi amici, perché avevo la certezza che ti avrei persa per qualcun altro più giovane, più… normale di me. E non avevo torto: che vita posso mai offrirti? Non ho nulla se non questa.» Indicò la maschera che gli copriva il volto.
«Non voglio una vita normale. Non potrò mai averla, non dopo mio padre, non dopo la Persia, e a questo punto preferisco viverla al fianco di qualcuno che…» quasi dissi la parolina magica, ma mi morsi la lingua. Aveva comunque compreso quale fosse il messaggio.
Lui si alzò, ancora il viso tra le mani. Io mi avvicinai, cauta.
«Meg, non posso condannarti a vivere in una tomba con me…»
«Decido io cosa fare della mia vita. E credimi, non ci sarà nessuna tomba.»
Lui mi guardò dal basso verso l'alto. Non osava accostarsi maggiormente: le parole gli tremavano in bocca come denti rotti, si incollavano sotto la lingua e diventavano polvere, come in un sogno dimenticato.
«Concediti di essere felice, per una volta. E lo stesso vale per me.»
Mi accostai lentamente, come a una fiera appena liberata dalla gabbia. Un passo, due passi. Gli sfiorai il volto mascherato con le mani e il cuore tremanti. Non provavo la benché minima paura, non più. Lui, d'altro canto, appariva terrorizzato. Fremeva sotto il mio tocco come una bestiolina ferita, quasi si aspettasse che lo uccidessi con una singola carezza. Scostai leggermente i lembi della maschera perché scoprisse di più le labbra: erano sottilissime, due cicatrici nella pelle livida, i denti dal vago colorito giallastro. Le sfiorai con le mie, e vi posai il bacio più delicato di cui fossi capace; stretto a me, lo avvertivo tremare.
Scosse piano la testa. «Meg…» Il mio nome – un sospiro nella sua gola dorata – mi parve in quel momento, detto da lui, il suono più meraviglioso che orecchio umano avesse mai udito.
Gli posai una mano sul cuore. Esso palpitava con la forza di mille soli. «Ora e qui, tu sei vivo» gli sussurrai, il volto premuto contro il suo petto. «Sei vivo, Erik, sei vivo…»
Lui represse a stento un singhiozzo, e si appoggiò a me, stringendomi come fossi fatta di cera e dovessi sciogliermi al calore di quel contatto. «Sei vivo…» Quella notte asciugai ogni sua lacrima e ne bevvi la tristezza; ci rivolgemmo parole mai dette, che ora stento a ricordare nei dettagli ma che rimarranno per sempre impresse in me, poiché vi era l'eternità in ogni lettera, in ogni battito di suono. Ci addormentammo insieme sul letto che era diventato il nostro, stringendoci l'uno all'altra come due bambini in cerca di calore. Fu la notte in cui ritornai in vita anch'io.
Il sole del mattino non riusciva a penetrare con i suoi raggi fin nel nostro nascondiglio sotto la terra. E quale nascondiglio era. Mi stiracchiai sul letto, appena desta, e mi sorpresi nel non sentire la sua presenza accanto a me, il suo corpo freddo e strano ma da me tanto amato. Dov'era?
Mi passai una mano sugli occhi. Non ero stanca, benché fosse la vigilia di Natale e noi avessimo trascorso la notte a piangere (questo valeva per lui) e a baciarci (questo valeva invece per entrambi). Avevo scoperto che Erik era molto più timido ed esitante di quanto potessi mai immaginare, ma alla fine era riuscito a sciogliersi. Dopo un fiume di lacrime, certo.
Io ne avevo sorriso, accarezzandogli il volto mascherato – non aveva intenzione di sfilarsi la maschera, né ora né mai. Io sapevo che alla fine lo avrei convinto, ma avevo lasciato che esplorasse questo territorio a lui nuovo – l'amore – con la dovuta gradualità.
«Mi stai infradiciando i capelli di lacrime.»
«Scusa.»
Non avevo voglia di alzarmi, ma ben presto udii dei passi avvicinarsi alla porta della camera Luigi Filippo, che era divenuta ormai il nostro mondo, e il mio sorriso sornione si allargò quando, con occhi pieni di sonno, lo vidi entrare nella stanza con in mano un vassoio colmo di leccornie.
«Cioccolata. Non ci posso credere.»
«Hai bisogno di ingrassare e irrobustirti.»
«Tu mi vizi troppo.»
Poggiò il vassoio della colazione sul letto e vi si sedette con le lunghe gambe incrociate. Mentre io mi apprestavo ad ingozzarmi di croissant e marmellata, lui mi accarezzava i capelli arruffati dal sonno con indicibile tenerezza.
«Dormito bene?»
«Poco, ma bene.»
Lui arrossì – una cosa adorabile – e io ridacchiai. «Allora non sono stato un totale disastro.»
Intendeva, nel gioco dei baci. Sorrisi. «Devi solo acquisire maggiore sicurezza: è normale. Io sono soddisfatta così.»
«Buon per te, mia cara. Quanto al sottoscritto, non ho nulla di cui lamentarmi.» Mi baciò la mano, fino a poco prima impegnata a reggere una tazza di cioccolata calda fumante. «Non sono il primo uomo che…» lasciò la frase in sospeso.
Che ho baciato? No, ma sei il primo di cui mi innamoro sul serio.
«Evidentemente» risposi io. «Sei geloso?» lo punzecchiai.
«Assolutamente no. La gelosia ha rovinato tutto una volta; non voglio che accada di nuovo.»
«Non accadrà. Non devi temere.» Nessuno può paragonarsi a te nella mia mente, pensai, ma non lo dissi.
«Ho parlato col daroga, mentre dormivi.»
Annuii, assaggiando un biscotto. Sapevo che gli piaceva cucinare e che li creava lui stesso. Era bravo anche in quell'arte.
«Lo hai rassicurato sulla natura della nostra relazione.» Conoscevamo fin troppo bene i trascorsi poco felici di Erik con le donne – e con una in particolare.
«Sì, ma lui sospettava già da tempo. Già altre volte mi aveva indotto a confessargli i miei sentimenti per te, però sapeva che fino ad ora non ho mai avuto alcuna intenzione di agire al riguardo. Ero sicuro di vedermi rifiutato… Ancora. E sarebbe stato più che giusto. Ma a quanto pare tu non sei normale, ed è la mia fortuna.»
Risi. «Ho dovuto accettare io per prima questo… beh, questo. Non è stato facile.»
«Il daroga dice» proseguì lui, pensoso, «che nulla vieta a una donna come te di amare… beh, uno come me.»
«Vero. Solo il freddo acume della logica, che ho dovuto lasciare da parte per unirmi a te in questa dolcissima follia.»
«”Freddo acume”? Mi stai dicendo che saresti intelligente?»
Rise quando lo colpii con il cuscino.
«Imbecille.»
«In ogni caso» disse quando si fu ripreso, «il daroga mi avverte che se ti faccio soffrire dovrò vedere di sopravvivere a un proiettile in gola. E non voglio proprio provarci.»
«Dovrai sopravvivere alla mia furia.»
«E non solo.» Si massaggiò le tempie. «I fantasmi dei tuoi genitori mi staranno maledicendo dalla tomba.»
Risi all'immagine. «Sono morti; ormai non possono più niente.»
«La loro memoria è sempre importante. Pertanto…»
«… sarò la tua imperatrice.» Mi tesi in avanti per premere le mie labbra sulle sue, al che lui divenne paonazzo e vagamente ebbro di felicità.
Mi baciò di nuovo la mano. «Fai colazione e vestiti. Io ho una sorpresa da prepararti.»
Quando si alzò e fece per andarsene, mi lamentai: «Che cavolo di sorpresa è se me lo dici adesso?» Mi beai della sua risata che mi tintinnava nelle orecchie, limpida come cristallo. Per la fretta, quasi mi strozzai con la cioccolata calda. Un bel bagno mi avrebbe fatto bene, però.
La sorpresa si rivelò essere la composizione completa di Marguerite, il brano per pianoforte che mi aveva dedicato: anche Monsieur Nadir dovette ammettere che era splendido, quando si unì a noi per la cena della vigilia, e trascorremmo insieme quello strano Natale. Era il mio primo Natale senza mia madre: un dolore sordo al petto che neanche l'amore di Erik poteva addolcire. Visitai la sua tomba e poi quella di mio padre, avvertendo più che mai la sua mancanza.
«Sono felice, adesso, Maman. Non sono sola. Ma temo che questa felicità mi sfugga dalle dita come granuli di sabbia.» Sospirai e lasciai i fiori sulla lapide, stringendomi nella mia cappa scura. Erik mi sfiorò le dita con le proprie, gelide ma piene di buone intenzioni; segno che aveva compreso il mio dolore, e non lo dimenticava malgrado la felicità che ci era piombata addosso come una benedizione. Non credevo ai miracoli, ma la devozione di Erik nei miei confronti mi riempiva di meraviglia, anche se questa mai avrebbe raggiunto il livello della sua.
«Sei consapevole che pochi giorni dopo Capodanno compio gli anni?»
«Certamente, cara.»
«Cara. Questo vezzeggiativo è quasi sospetto.»
«Preferisci piccola imbecille insolente?»
Lo colpii su un braccio, ma solo per scherzare, mentre lui fingeva di tirarmi un orecchio. «Ma no. È che sei così dolce con me. Non sono abituata. Un tempo eri così arrogante e freddo…»
«Non abituarti troppo.»
«Voglio un altro regalo per il mio compleanno.»
«Tu te la sei cavata con due baci…»
«Non vale. Ne voglio uno vero.»
«Ci penserò. Ma non fissarti troppo: non voglio viziarti.»
Cacciai la lingua e premetti la testa nell'incavo della sua spalla, mentre lui mi stringeva a sé: era freddo e scomodo, ma non m'importava. Non m'importava più, oramai.
«Ho capito cosa regalarti la prossima volta» annunciai mentre eravamo stesi sul letto, la luce spenta per far posto all'oscurità strisciante e magnifica. Lui mi stringeva a sé come fossi il tesoro più prezioso del mondo.
«Davvero?» Era esitante. Sapeva che stavo per sparare una delle mie frecciatine sarcastiche – mi conosceva troppo bene.
Io soffocai il riso. «Il naso.»
Anche con la maschera e coperto dal buio, potevo indovinare i suoi lineamenti contrarsi in una smorfia perplessa.
«Prego?»
«Il naso di Gogol2.»
Un attimo di silenzio. Poi scoppiai a ridere come una babbea quando lui mi colpì (ma senza farmi male davvero) con un cuscino sulla faccia.
«Oh mio Dio.»
Ero talmente satura di ilarità che quasi non avevo la forza di riprendermi dalle risate.
«Sei un demonio.»
«No, sono solo molto arguta.»
Alla fine rise anche lui, scuotendo il capo. «Così mi uccidi, piccola imbecille. Sei fortunata ad avere un naso.» Mi diede un colpetto sul nasino schiacciato.
Diedi in un ultimo scoppio ilare, poi mi limitai a sorridergli.
«Ecco» fece lui, la voce dolce e placida.
«Ecco cosa?» Gli posi quella domanda nello stesso tono in cui avrei chiesto: sei stupido?
Lui mi sfiorò la fossetta sulla guancia destra. «Voglio vedere sempre questo sorriso luminoso.»
«Nulla dura per sempre.»
«Ne sono consapevole. Pertanto, mi impegnerò nell'impossibile.»
Affondai il volto nel suo petto. In quel momento non sembrava un sogno tanto astratto e irraggiungibile.
La sera di Capodanno, al gala organizzato all'Opera, indossai l'abito migliore che avessi – non ne avevo tanti, ma con la mia promozione a prima ballerina ero diventata assai più ricca, e pertanto anche il mio guardaroba si era ampliato. Fui leggermente più brillante di quanto fossi mai stata da mesi a quella parte, e le mie amiche non mancarono di notarlo.
«Ti vedo bene, Meg» fece Louise con un sorriso sincero.
«Sorridere ti illumina il viso» aggiunse Fabienne.
«Siamo liete che tu abbia qualcosa per cui sorridere, finalmente» concluse Juliette. Sapevano tutti i miei trascorsi, e non poche delle mie compagne andavano a visitare la tomba di mia madre di tanto in tanto. Solo che non conoscevano gli avvenimenti in Persia, e il sangue sulle mie mani, e il bacio di Erik sulla mia pelle… Non potevano capire. Erano così giovani. Le invidiavo per questo.
«E per cosa dovrebbe sorridere, ora?» chiese Louise, la più maliziosa.
Juliette celò un sogghigno sotto i baffi; invece io, incapace di nascondere la mia recente gioia, chinai il capo.
«Allora è vero. Meg Giry è innamorata» continuò la mia amica, e tutte batterono le mani, mentre io – al centro di questo circolo ridente – mi aprivo in un sorriso sornione.
«Sono così felice per te, Meg cara» mi abbracciò Fabienne, entusiasta. Ma mai quanto Louise: volle sapere tutti i dettagli, pertanto ne inventai molti, e più tardi, quella notte, ne risi con Erik, che apprezzò quella nuova mascherata come fosse uno dei miei scherzi più beffardi.
«Sei una tale bugiarda.»
«Ho imparato tutto dal maestro.»
«Ah, ma davvero?»
Trascorrevamo le notti a dormire l'uno rannicchiato contro l'altra, oppure a raccontarci storie del nostro vissuto – il mio molto più breve del suo, e meno denso di avvenimenti, seppure ricco di colpi di scena poco graditi – e mi rendeva felice il fatto che si fidasse di me a tal punto da svelarmi i suoi segreti altrimenti inconoscibili. Mi raccontava i dettagli più neri e sprezzanti della sua infanzia e adolescenza, e quelli più macabri della sua giovinezza in Persia, come fossi davvero l'unica con la quale parlare del nostro mal de vivre fosse addirittura lecito. Con chiunque altro, era un non detto fremente, un cuore dai battiti nascosti. Era il respiro della nostra anima.
E io avevo capito cosa desideravo per il mio compleanno.
Non sono sicura di come iniziò. Era la notte del tre gennaio, e compievo ventidue anni. Un traguardo: un tempo, alla morte di mio padre – e a quella di mia madre, seguita come un domino macabro e terribilmente beffardo – mi sembrava che nulla mi avrebbe mai portata ai vent'anni. Eppure ero lì, viva e vegeta: forse non integra, ma non vinta; non abbattuta. Sì, ero viva e volevo la vita – la volevo in modo disperato, un ansimo fremente nel petto.
Come tutte le notti, ero acciambellata contro il corpo di Erik, il capo chino sulla sua spalla. Gli accarezzavo i capelli, sfiorando i lacci della maschera. Ripeto, non so bene come cominciò: so solo che seguii l'istinto e, dopo un rapido bacio sulle labbra, gli toccai la gola con le mia bocca vogliosa.
Ero come presa da un raptus di follia improvvisa, ma in realtà avevo ponderato per bene i miei gesti. Lo sentii divenire di ghiaccio sotto di me. Si alzò subitaneamente e si allontanò dalla sottoscritta, quasi fossi una malattia contagiosa.
«Sei impazzita?» mi chiese con un filo di voce. Fino ad allora, non si era mai permesso di baciarmi altro che non fossero le mani o il viso.
«È il mio compleanno» dissi a mo' di spiegazione.
«E cosa vorresti, sentiamo: me infiocchettato come un pacchetto regalo?»
Sorrisi all'idea. «Non sarebbe male.»
Lui mi diede le spalle, curvo, e scosse la testa furiosamente. «No, no. Non posso.» Sospirò. «Sei così giovane, maledizione…»
Mi accostai a lui, lentamente. Gli strinsi una spalla. «Puoi» gli assicurai. Lui si voltò a guardarmi, una confusione indicibile negli occhi d'oro.
«Vuoi?» soffiai. Il debole lucore della candela disegnava sulla sua maschera ricami ambrati.
«Perché se non vuoi, non sei costretto a…»
Non feci in tempo a concludere la frase che mi baciò, disperatamente, senza la delicatezza di un tempo. Dovevo essere aria per i suoi polmoni.
Vuole.
Sorrisi sulla sua bocca. Non cessai di baciarlo neanche mentre gli sfilavo i bottoni della camicia; la mia mano scese più in basso, sul suo addome e poi...
«Ah.»
Risi quando vidi che aveva difficoltà a sciogliere i lacci del mio corsetto. Alla fine si spazientì e li strappò. Lo trascinai sul letto insieme a me, su di me. La sua pelle… oh, era una mappa di tormenti. Baciai e accarezzai con amore ogni cicatrice, mentre lui prendeva confidenza con il mio corpo nudo. Ci vollero almeno tre ore prima che si sentisse a suo agio, ma io non avevo fretta. Gli presi una mano e la posai sul mio cuore. Pulsava a un tale ritmo che pensai dovesse piroettarmi fuori dal petto. Alla fine lasciò che le sue dita fredde vagassero sulle mie membra. Cominciò lentamente: prima mi baciò le labbra, poi la mascella, infine il collo, i piccoli seni, l'addome... Quando arrivò all'interno delle cosce inarcai la schiena e diedi in un gemito di piacere. Lui alzò lo sguardo, incontrando i miei occhi. Riconobbi quell'espressione. Stai bene? Annuii e lo indussi a continuare.
In seguito furono solo carne, umori, sospiri spezzati nella sua gola dorata – e l'odio, la rabbia, il dolore, tutto aveva cessato di pulsare. Esisteva solo Erik dentro di me, e nient'altro – nulla – aveva più importanza. Non ero esattamente illibata: avevo già permesso a Luc di frugarmi sotto la gonna, ma mai fino a quel punto. Quando giunsi al culmine, mugolai qualcosa d'indefinito e affondai il viso nella sua spalla e le unghie nella sua schiena. Lui, tremante, poggiò il capo sul mio petto. «Grazie…» sussurrò con un filo di voce. Sperai che non rovinasse l'atmosfera piangendomi addosso.
Ridacchiai al pensiero. «Figurati.»
Leggermente ansanti e sudati malgrado fosse inverno e il nostro rifugio si trovasse nei freddi sotterranei dell'Opera, appoggiavo la testa sul suo petto mentre lui districava le dita tra i nodi dei miei capelli.
«Sei così bella.»
«Ecco che ora deliri. Sapevo che sarebbe arrivato questo momento.»
«Non deliro.»
«É da una vita che lo fai.»
Lui sorrise, ma non poté negare.
«Sei felice?» gli chiesi, e lui sembrò sorpreso dalla domanda. Mi guardò negli occhi con le sue iridi color oro pallido e gli angoli della sua bocca – se tale si poteva definire – si distesero.
«Ti preoccupi se io sono felice?»
«Mi preoccupo sempre per te. Sei un tale testone.»
«Lo sono.»
«Cosa? Felice o un testone?»
Lui scoppiò a ridere. «Entrambi. E tu?»
Sorrisi. Lambii il cordolo della sua cicatrice più fresca – quella sul fianco, che si era procurato nell'ultimo viaggio in Persia.
«Non ti ho…» Erik deglutì pesantemente. Lo sentii bollire sotto la maschera.
«Sì?» lo invitai gentilmente.
«Voglio dire, non è stato doloroso? So che per una donna, se non si è attenti…»
«Allora le cose le sai.»
Lui arrossì. «Guarda che sono un esperto di anatomia – sì, anche quella femminile. Non sono così ingenuo da…»
«Da credere che fossi ancora illibata? Erik, vivo in un teatro e ho ventidue anni.»
Lui rimase per qualche attimo sconcertato.
«Vuoi dire che non era la prima volta che…»
«Ma sì. Solo che non è stato il mio primo contatto con un uomo in assoluto.»
Erik ammiccò. «Ah. Capito.»
«Non cambierai opinione su di me?»
«Perché dovrei?»
Sembrava sinceramente confuso. Sorrisi della sua inesperienza. «Non fa nulla. Non preoccuparti.»
Gli posai di nuovo la testa sul petto.
Mi raccontò la storia di ogni sua cicatrice, e io le bevvi come fossi un assetato in un deserto: non credeva di ricordarle tutte, ma dal momento che mi interessava ci provò.
«Ognuna di loro ha qualcosa da dire. Ogni livido, ogni bruciatura trasformata in pelle.»
«E se ti dicessi che del passato m'importa fino a quando ha ripercussioni su di noi? Ora non ne ha. Io le trovo piene di significato, Erik.»
Lui sbuffò. «Ho sempre saputo che eri pazza, ma non dubitavo del tuo senso estetico.»
Indurii la mascella. «Sei tu. Queste cicatrici… ti rendono chi sei. Mi importa solo del presente. Nel presente ci siamo noi. Quindi alza quel culo secco e vieni a baciarmi.»
Erik soffocò una risata. «Quale volgarità.»
Sogghignai. «Tanto lo so che ti piace.»
E mi baciò.
Del nostro tempo insieme non posso dire altro che fu come un sogno dai risvolti sfocati, bellissimo e imprendibile, e destinato a durare poco: non mi sembrava di aver mai amato qualcuno con la stessa intensità con la quale amavo Erik. I mesi trascorrevano pacifici, i nostri incubi erano domati dalla presenza dell'altro. Non smisi mai di sognare i cadaveri dei miei genitori, di Senza Nome e degli altri che avevo ucciso; lui non mi mostrò mai il suo viso alla luce del sole, e non me ne stupivo. Le persone non sono medicine. Ma potevamo sorreggerci l'un l'altro, con determinazione e non poca fatica: insieme al suo, aveva fatto rinascere anche il mio desiderio di vivere. Eravamo vivi entrambi.
Ma avevamo ancora poco tempo.
Se il fantasma dell'Opera era morto, Erik non era defunto con lui. Vi pensai un mattino, appena sveglia, osservandolo dall'uscio della camera Luigi Filippo, vestita solo di una camicia, mentre lui suonava chissà quale melodia – meravigliosa all'orecchio – al pianoforte.
Lo abbracciai da dietro e lo baciai sul collo, stringendolo a me.
«Buongiorno» gli sussurrai, cominciando a divorarlo di baci.
Lui rise. «Come sei entusiasta stamattina.»
«E tu sei pigro. Torna a letto…»
«Sei piena di maliziose intenzioni, vedo.»
«Non ne hai la minima idea.»
Continuai a baciarlo, e sogghignai nel sentirlo gemere nel mio abbraccio.
«Che fervore. Tesoro, guarda che ho una certa età…»
«Sei vecchio.» Gli mordicchiai l'orecchio. «Un orribile vecchiaccio.»
«Più o meno è la descrizione adatta. Ma non ti sei lamentata tanto stanotte, quando mi hai conficcato le unghie nella schiena…»
Mi allontanai di colpo. Non credevo a cosa avevo appena udito. Di solito ero io ad uscirmene con quelle frecciatine a doppio senso – lui era sempre così pudico…
Ma ora stava ridendo. Stava ridendo di me.
«Porco. Sei un vecchio porco. Non ci posso credere.»
Lui continuò a ridere come un imbecille. Lo colpii alla nuca.
«E smettila.»
Stavo per baciarlo di nuovo, presa da un nuovo scoppio di ilarità, quando udimmo un leggero colpo di tosse. «Ehm–ehm.»
Sia io che Erik ci voltammo tanto rapidamente da farci male il collo.
Monsieur Nadir era in salotto, le braccia per metà sollevate nel tentativo di coprirsi gli occhi con le mani. «Non ho visto niente, giuro.»
Erik ed io avvampammo – eravamo stati colti in flagrante – e ci allontanammo il più possibile l'uno dall'altra.
«Oh mio Dio.»
«Ripeto, non ho visto niente.»
Nadir si coprì gli occhi con le mani mentre sgattaiolavo nella camera Luigi Filippo in cerca dei miei vestiti. Origliai la conversazione tra i due uomini che si teneva in soggiorno.
«Daroga, io…»
«Lascia perdere, Erik. Davvero, lascia perdere.»
«Che diavolo ci fai qui a quest'ora del mattino?»
«Dovevi darmi quella medicina per il raffreddore. L'amore reca gioia, ma a quanto pare fa anche dimenticare gli appuntamenti con i vecchi amici.»
Minuti di silenzio imbarazzato si dipanarono mentre io m'infilavo la sopravveste bianca.
«Strano. È stato come vedere mia figlia baciare il mio migliore amico.»
«Daroga!»
A quel punto non mi contenetti più, ed esplosi in una risata fragorosa.
Purtroppo mi restava ancora poco tempo per ridere.
Ero imperatrice dell'Opera e del cuore di Erik, ma la clessidra che controllava le nostre vite continuava a far cadere chicchi di sabbia… e scorreva, scorreva indomita e indomabile.
La musica e la danza facevano da cornice al nostro quadretto, che non s'interrompeva se non di domenica, quando – per un motivo che capivo bene – mi portava a passeggio per i boulevard, al calar della notte. Sembrava incredibilmente felice. Mi chiedevo quando mi avrebbe chiesto di sposarlo. Sapevo che aveva delle remore al riguardo, ma io lo avrei chiuso in valigia e portato con me nel mio viaggio intorno al mondo – ero determinata su questo punto – se fosse stato necessario. Forse dovrei chiederglielo io.
Fare l'amore con lui era come danzare in punta di piedi – quello che provavo era fisico solo in parte. Mi beavo delle gioie della carne quanto, e forse meno, di quelle dello spirito: la sua anima mi chiamava a sé, ipnotizzante quanto la sua voce – potevo sentire riecheggiare l'eco del suo battito nella conca della costola sinistra, appena sotto il cuore, fino alla punta delle dita.
Ma iniziarono a trascorrere dei giorni in cui notai che Erik era stranamente sfinito. Terminava prima del solito di suonare e leggere per me, dormiva più a lungo e, peggio ancora, era restio ai miei baci.
Non che non mi volesse. Era, mi diceva, semplicemente stanco.
Poi cominciò a tossire.
Inizialmente ne rimasi sì stupita, ma non oltremodo sconcertata. Insomma, era pur vero che Erik non aveva mai dimostrato di poter cadere preda di debolezze umane come un semplice raffreddore, ma era umano, inequivocabilmente.
«Va tutto bene?» gli chiesi una notte, guardandolo tossire anche il cuore nel fazzoletto di trina; si copriva più del solito, infreddolito, e pensai a una febbre passeggera.
«Solo un raffreddore, mia cara» mi rassicurò, baciandomi sulla fronte. Mi strinsi a lui, perplessa.
«Certo. Come vuoi. Ma curati.»
Qualche giorno dopo gli fu impossibile nascondermi i sintomi, o almeno non più. Tossì così forte da sputare sangue: quando presi nota del liquido rosso sulle sue dita, tremai.
«Erik, che sta succedendo?»
Lui si raddrizzò, passandosi una mano sulle labbra insanguinate. Le parole in bocca gli si agitavano convulsamente. «Nulla, sto…»
«Ma non dire puttanate» dissi duramente, e lui non mi rimproverò il turpiloquio. Avvertiva la mia gelida rabbia ed era improvvisamente cauto. «Che cos'hai?»
Christine aveva perduto il padre con una semplice tosse, mutatasi poi in qualcosa di molto più grave – eppure tutto era cominciato così. La storia si ripeteva.
Erik sospirò gravemente. «Non trovo le parole, Meg.»
«Provaci.»
Chinò lo sguardo. «Credo… di essere malato. Molto malato.»
Deglutii. Fu come se una fiacre mi avesse investito. «Allora curati.»
«Non posso…»
«Come sarebbe a dire non puoi? Sei un medico, no? Uno studioso, un genio. Curati.» Era logico, era… La sua mente era così grandiosa da poter risolvere tutto, era sempre stato così.
«Non c'è cura per questo.» Si trascinò su una sedia e parlò come se da ogni parola gli gocciolasse fuori del veleno. «L'ho studiato su alcuni cadaveri, tanti anni fa… Una malattia rara. Si diffonderà sempre di più tra la gente, col passare delle decadi, ne sono certo. Sta di fatto… che io ne sono affetto. Riconosco tutti i sintomi. Non volevo dirtelo subito, non finché non ne fossi stato sicuro… ma non è una semplice polmonite. È molto peggio. Non c'è via di fuga da questo.»
Lo guardai a bocca aperta. Ero senza parole.
«Mi stai… prendendo in giro?» dissi dopo un minuto di orribile silenzio. Lui scosse il capo, dolente. Non aveva la forza di parlare.
Per poco non mi accasciai a terra. Dovetti fare appello a tutta la mia determinazione per non cedere lì, davanti a lui – per non trasformarmi di nuovo in un topolino perso e spaventato e solo.
Mi massaggiai le tempie doloranti, in preda alla nausea. «Da quanto lo sai?» Eravamo in primavera, l'effluvio dei gelsomini – che tanto mi ricordava quello di Christine – si diffondeva nell'aria dorata di Parigi, ma non giungeva mai fino al sottosuolo, il regno di Erik.
«Da circa un mese, con certezza. Ma lo sospettavo da più tempo.»
«Quanto…» inspirai a fondo. Ero una cariatide di dolore. «Quanto ti resta?» Mi ci volle tutto il mio sangue freddo per formulare quella domanda. Lui respirò appena, e disse in un soffio, dopo un attimo di pausa orribile: «Sei mesi. Non di più.»
Deglutii un fiotto di nausea che mi giungeva in gola direttamente dalla bocca dello stomaco. Sei mesi. Sei mesi e poi lui…
«Pensavo che non ci fosse soluzione scientifica che la mia mente non potesse cogliere. Eppure… c'è ancora così tanto che non capisco.» Si fermò. «Forse… Forse è Dio che vuole così…»
«Non fare il fatalista, adesso. Non ti si addice.»
Mi avvidi che ero umida di sudore gelido. La mia bolla di felicità si era infranta ancora prima che mi accorgessi delle crepature sulla sua superficie di cristallo. Ero tutta un tremore, ora, e il mio viso una maschera impassibile quasi quanto quella – reale – di Erik.
«Meg…»
Lui fece per toccarmi, ma io mi scostai quasi bruscamente.
«Devo… Ho bisogno d'aria, non – non riesco a respirare…» Fuggii via, sulla riva del lago Averno, e mi portai una mano all'altezza delle costole, il cuore che minacciava di sgorgarmi dalla gola come una cataratta di tragedia. Il cuore, pensai. Non mi sento più il cuore…
Non so per quanto rimasi su quella riva tanto familiare. Minuti, forse… Non piansi. Ero troppo scioccata. Tornai da Erik traballante, e lui fece bene a lasciarmi sola – mi conosceva alla perfezione e sapeva che avevo bisogno di qualche attimo di solitudine per raccogliere i miei pensieri sanguinanti.
Lo trovai nella stessa postura in cui lo avevo lasciato: alto, immobile, con le braccia lungo i fianchi. Il solito tic alla mano sinistra – la mano del laccio del Punjab… la stessa mano con cui mi aveva sfiorato, circa un anno prima, all'altezza del diaframma durante una disastrosa lezione di canto. La tese verso di me, ed io mi precipitai tra le sue braccia.
E, finalmente, piansi. Non ero mai stata brava con le parole – ero una macchina che vomitava solo imprecazioni e umorismo becero, come mi aveva definito Erik tanto tempo prima, durante uno dei nostri numerosi battibecchi. Singhiozzai sul suo petto e scossi il capo furiosamente.
«Non lasciarmi sola… Erik, per favore…»
Anche lui pianse, silente, con il mento poggiato sul mio capo arruffato.
«Oddio…» sussurrai tra le lacrime. Perché tanto dolore? Cosa significa, Dio? Perché?
Dovevo quindi strapparmi un occhio dall'orbita, oppure tagliarmi una mano? Perché questo sarebbe significato separarmi da lui. Era un dolore intollerabile che non riuscivo ad accettare. Come potevo vivere senz'anima? La mia sarebbe finita nella tomba con lui, perché le nostre anime erano la stessa cosa. Tremavo al pensiero di perderlo... e, ahimè, mai lo avevo tanto amato.
Ci stringemmo per ore e ore, spaventati e sconvolti. Quale destino ci attendeva, adesso? Sempre e sempre solo Morte. Mi ero innamorata della Morte, avevo fatto l'amore con la sua incarnazione umana e fisica, e ora come mi ripagava? Con lacrime d'addio?
Ma l'amore è un dare e ricevere scambievole, e io ne avevo ricevuto più di quanto fosse possibile in una vita intera.
Ricordai la mia antica preghiera alla Morte. Non ancora. Non ancora.
Quegli ultimi mesi di esistenza di Erik furono i più terribili della mia vita, un lento suicidio dell'anima. E la mia anima si stava librando con la sua, diretta verso un luogo dove non l'avrei più ritrovata. Vivevo per far rimanere in forze il mio amore per quegli ultimi istanti di gioia e dolore rubati al cielo.
Giunse presto il tempo in cui non riuscì più a cantare senza tossire sangue. Quasi svenne tra le mie braccia, impossibilitato a suonare per me – per l'ultima volta – la melodia che mi aveva dedicato e che portava il mio nome.
Fu costretto a letto, nella camera Luigi Filippo, e la perdita della sua voce fu sconvolgente per lui. Io mi ritirai nei sotterranei, l'opposto di Persefone che, invece, tornava da Ade solo d'inverno. Ma io non avevo più una madre, e la primavera era già giunta, e non sentivo più il profumo dei fiori: tutto ciò che riempiva le mie narici era il lezzo infetto della malattia.
Con una lettera di scuse, lasciai momentaneamente il mio lavoro di étoile per trasferirmi stabilmente nell'appartamento sul lago, in modo da non abbandonare Erik neanche per un secondo. Mi sarei presa cura di lui come un tempo lui stesso aveva fatto con me, con la differenza che io ero terribilmente impotente, ora. Per la direzione dell'Opera, inventai che ero malata, e in fondo era vero: sì, ero malata anch'io. Con lui, moriva la parte più importante di me.
Il Persiano mi dava il cambio al capezzale di Erik quando il sonno mi coglieva impreparata. La febbre si era impossessata del corpo del mio amore in una morsa dolorosa: spesso rigettava anche il sangue dell'anima e avevo paura che mi morisse tra le braccia da un momento all'altro.
«Bruci da far paura…» mormorai un giorno. Ero pallida e sudaticcia – ormai lo ero sempre – e mi limitai a rinfrescare il suo viso smascherato con una pezzuola imbevuta d'acqua per donargli conforto. Rammentai quando eravamo ancora in Persia, e per la prima volta avevo compiuto un gesto del genere… Quanto tutto era mutato da allora. Una lacrima mi gocciolò lungo una gota livida – avevo perso il mio colorito di bistro che Erik, lo sapevo, tanto amava.
Lui si sforzò di sollevare un braccio per raccoglierla. Strinsi le sue dita gelide tra le mie, con una devozione che mi lacerava le corde del cuore.
«Meg…»
Gli intimai un dolce silenzio. «Non sforzarti. Riposa.»
«Meg, devo dirti una cosa… Un'ultima promessa…»
«Dimmi.» Gli accarezzai con amore i capelli. Il Persiano era nel salotto, e aspettava che terminasse la notte perché giungesse il momento di darmi il cambio al capezzale del moribondo.
Lui prese un respiro profondo. Dio, la sua povera voce… era a stento un gracidio, adesso. «Promettimi che vivrai.»
«Non posso vivere senza di te…»
«Devi. Puoi. Sei forte – sei la persona più forte che conosca…» Tossì e io raccolsi il suo sangue in un fazzoletto ricamato e gli detersi le labbra deturpate su cui tante volte avevo posato i miei baci vogliosi.
«Tu sei tutto per me.»
«Anche tu. Meg, mi hai dato più felicità di quanta io abbia mai meritato… Lo so che non ti merito. Dio…» Una lacrima gli corse lungo la gota cicatrizzata, tormentata, incavata come quella di un teschio. L'asciugai con una carezza.
«Ho paura. Non del dopo, no… Di lasciarti. Non voglio, non voglio lasciarti…»
«Lo so…»
«Ma non ho scelta, qui. Ho commesso tante azioni orribili nella mia esistenza… Dio, ho ucciso – ho ucciso – solo per… un perverso senso del potere, e istinto di sopravvivenza, e rabbia, tanta rabbia…» Emise un gemito di dolore. «Andrò all'inferno.»
«Non che non ci andrai. Sei diverso, ora – sei cambiato, tu… ti sei pentito di tutto… E anch'io ho commesso azioni riprovevoli.»
«Non come me. Mai come me, mio tesoro.»
Mi guardò intensamente con i suoi occhi dorati, specchi lucidi in cui si rifletteva il mio dolore, il mio senso di perdita imminente. «Potrai ritrovarmi nella musica» disse con voce fievole – la sua bella, amata voce. «Sarò nelle note, negli arpeggi, in ogni tuo passo di danza. Non dimenticarli. Promettimelo, Meg. Me lo devi giurare.»
Le mie labbra ebbero un fremito. «Te lo giuro. Sulla mia anima, sulla tua, su quella dei miei genitori, io – io te lo giuro. Vivrò.»
Lui ebbe un lieve sorriso. «Bene» gemette piano. «Bene. Scrivi a Christine. Verrà… non è vero? Se non fosse stato per lei, io…» Io non sarei riuscito ad amarti.
«Lo so.» Appariva oltremodo stremato. «Ti amo» gli sussurrai con gli occhi gonfi di lacrime. Lui mi fissò stupefatto: era la prima volta che lo ammettevo apertamente.
«Ti amo anch'io.»
«So anche questo. Ora dormi, mio caro… Dormi…»
Lui chiuse gli occhi ed espirò in un tremore improvviso. Piansi silenziosamente sul suo petto, non prima di aver baciato le sue labbra rovinate, fino ad addormentarmi anch'io.
«Non lasciarmi qui… Erik…»
Ma lui non rispose. Non rispose più.
La notte calò presto.
Erik spirò nel cuore di una notte di settembre stranamente gelida. Erano trascorsi quasi due anni dal nostro primo incontro, e uno da quando ci eravamo dichiarati a vicenda il nostro amore. Servì tutta la forza del Persiano per convincermi a staccarmi dal suo cadavere.
Spirò che era tra le mie braccia.
E il mio mondo andò in pezzi, ancora. Di nuovo, non fui mai più la stessa.
Note dell'autrice: 1 e il mio cuore le restò sulle labbra: Verso tratto da una bellissima canzone di Fabrizio De Andrè, il cui titolo è Un malato di cuore.
2 Gogol: Nikolaij Vasil'eviĉ Gogol è considerato uno dei grandi della letteratura classica russa, Il naso è una delle sue storie più famose. Personalmente non l'ho letto, ma ho trovato il volume a casa di un'amica mentre frugavo (col suo permesso) nella sua libreria. Già conoscevo l'autore, e pensando al titolo del racconto non ho potuto resistere e prendere in giro Erik.
Ammettetelo che volete ammazzarmi. E male, anche. Insultatemi pure: sono una sadica, una… vabbè, completate voi. Probabilmente fin dal prologo avrei dovuto dire: “Ma come potete sperare che ci sia un lieto fine?” Eh. È stato uno dei capitoli più difficili per me da scrivere: la parte tutta amorosa e felice dei due ritrovati piccioncini è stato un battito di ciglia; la scena d'amore è stata particolarmente imbarazzante, perché non vi nego che per far quadrare tutto nella mia mente ho dovuto fare una ricerca su Google riguardo i contraccettivi nel tardo Ottocento, con mio padre che ha fatto irruzione per caso nella mia stanza proprio in quel momento, e… sì, imbarazzante. Ma dal momento che – non so se lo avete notato – Meg è una persona molto, ehm, fisica, era ovvio che si potesse trattenere fino a un certo punto. No, non mi dilungherò nel parlare dei contraccettivi usati in quel periodo – Meg ne avrebbe saputo qualcosa, essendo sveglia e vivendo in un teatro, e io avrei preferito non saperne niente, ma tant'è…
La parte dolorosa è stata… ardua. Non riuscivo a trovare le parole. Alla fine mi sono messa un giorno davanti al PC e ho buttato giù tutto in una volta, e ho pianto amaramente. Vi giuro, ho pianto. Far morire un personaggio che hai amato tanto e di cui hai scritto per circa tre anni è angosciante. Anche se, ripeto, era ovvio fin dal prologo che Erik sarebbe morto, prima o poi – solo che immagino vi aspettaste un po' più poi di… questo. Almeno, che so, farli vivere una decina di anni insieme e poi stroncarlo come la sadica che sono. E invece no, devo far soffrire voi e me stessa in questo modo. Sono un mostro: ho dato loro solo un anno di tempo insieme. Scusate.
Questo è l'ultimo capitolo che ho scritto: me ne manca solo uno, e infine l'epilogo, che sarà molto più corto. Non ho ancora cominciato a scrivere il prossimo… So benissimo quel che accadrà, naturalmente, e sebbene – ve lo giuro – Meg andrà avanti e avrà una vita sua, si susseguirà un'altra serie di tragedie che… cioè, mai una gioia, proprio. Naturalmente, tutto si ricollega al fatto che Meg si sente in qualche modo perseguitata dalla morte fin dall'infanzia: prima il padre, poi la madre, infine Erik… e non dimenticate ciò che è accaduto in Persia, il fatto che abbia ucciso – sì, per legittima difesa, ma non se ne pente, e il trauma che uno subisce nell'affrontare una vera e propria guerra, la vita da soldato, deve essere non indifferente.
E che poi l'amore della sua vita sia un uomo che sembra un cadavere putrefatto non è casuale. Lo dice lei stessa.
Purtroppo è un periodo in cui, anche se mi metto davanti allo schermo del PC, non riesco a scrivere. Credo di aver dimenticato come si fa (è possibile?). Se fra tre settimane il prossimo capitolo non sarà pronto, vi giuro che pubblicherò l'altra mia storia, sempre Erik/Meg – la Modern AU, praticamente. Vi assicuro che, pur non mancando del solito draMMaaaa di cui non posso fare a meno, è molto più leggera (e più breve) di questa, e non manca dei suoi momenti divertenti. È più una commedia romantica con qualche tocco, ripeto, drammatico perché sì. Vi sta bene? Spero che non mi maledirete. (Ma chi vogliamo prendere in giro, lo state facendo fin dall'inizio.)
E ora, le recensioni (esordirò chiedendo scusa a ciascuno di voi per la giostra emotiva e luttuosa che è stato questo capitolo):
ondallegra: Scusa. (Appunto.) Non ti preoccupare per non aver recensito, figurati! Grazie per l'avermi riconfermato che Erik è IC. Sì, è sicuramente Lerouxiano, con – come hai detto giustamente tu – influenze da parte del Fantasma di Webber. Tu lo trovi seducente? In qualche modo contorto, lo è… Il suo imbarazzo e la sua agitazione nel, ehm… fare cose più concrete con Meg non lo rendono un dio del sesso (come viene invece mostrato in certe fic – forse lo immaginano tutti come Gerard Butler nel film del 2004? Seh, il mio è molto più orrendo, e così deve essere, altrimenti il personaggio viene snaturato). In ogni caso, ha una personalità affascinante. Perlomeno quando si redime (e non è incazzato XD).
Come hai visto, Erik all'inizio respinge Meg – mi riferisco al primissimo bacio nel capitolo scorso – perché non solo troppo sconvolto per sapere cosa fare, ma anche per il fatto che, pur ricambiando i suoi sentimenti, non si ritiene degno, o adatto, a intraprendere una relazione con lei, consapevole di non poterle regalare una vita normale (cosa che invece lui un tempo desiderava avere con Christine. Ricordi la storia della “sposa viva”?). Niente casetta col cane e marmocchi in giro per il giardino perfettamente curato, per intenderci. Meg lo sa: non ha mai voluto una vita del genere, visto che considera il matrimonio come una “noia” e un “dovere da assolvere” più per far piacere alla madre che a lei. Poi ci sono tante cose che li separano: l'aspetto di Erik, il carattere a dir poco umorale dello stesso, l'età… beh, non è poco. Anche io, fossi in Erik, avrei dei seri dubbi.
In ogni caso, il tuo bisogno di leggere di Erik che finalmente tromba come Dio vuole è stato esaudito. Certo, non è una lemon – non le so scrivere, e poi con Erik sarebbe troppo strano… è così fesso XD – ricordiamoci che è un verginello di quarantotto anni… Mi sa che è più Meg che si è sbattuta lui, tu che dici? XD
Sei libera di odiarmi con tutta l'anima, dopo questo capitolo.
Grazie a te, un bacio! <3
Facy: Scusa. No, davvero, ho detto che avrei chiesto scusa a tutti, ed eccomi qua. Ti aspettavi un capitolo simile – un concentrato di emozioni, a dir poco? Spero che non ti sia messa a piangere sul serio. (Dio solo sa i pianti che mi sono fatta io.)
Per quanto riguarda l'errore grammaticale, grazie per avermelo segnalato. Non lo avevo notato, sono una cretina. Provvederò a correggere. Tra l'altro, sto avendo problemi con l'html da qualche settimana a questa parte, credo che dovrò contattare l'amministrazione del sito.
Tornando a noi, sì, il richiamo a Madeleine, la madre di Erik, e la triste storia dei “due baci” sono tratti dal romanzo della Kay; mi pare di aver specificato anche nelle mie primissime note d'autrice che ho preso spunto anche da lei. Solo per alcune cose, però: ho tradotto (parte de) il romanzo in italiano, da aspirante traduttrice quale sono, e devo dire che le parti che ho preferito sono state proprio quella dell'infanzia di Erik e degli accadimenti in Persia (eccetto qualche, ehm, dettaglio). Per rassicurarti, no, Christine non è la copia sputata di Madeleine. Nessun complesso di Edipo qui, santo cielo – anche se sono sicura che Erik, nel suo sogno d'amore, cercava in Christine anche il conforto che da sua madre non ha mai avuto. Poi, come hai visto, ci sono molte differenze tra la caratterizzazione della mia Christine (ingenua, sì, ma anche indipendente, determinata, assolutamente un'eroina femminista come nel romanzo di Leroux) e di quella della Kay (infantilizzata all'estremo e “punita” perché non è riuscita ad amare Erik nonostante tutti i numerosi casini che questi ha combinato).
Anche per me un personaggio femminile che si rispetti non deve essere assolutamente incentrato solo sull'amore che prova per un eventuale coprotagonista maschile. Non sarebbe né giusto né realista. Il sogno primario di Meg era diventare prima ballerina, e ci è riuscita con le sue sole forze… niente raccomandazioni da un certo F. dell'O.
Non mi chiedere, poi, come mi sia inventata la data di nascita di Erik: mi è venuta in mente così, e probabilmente è una cosa scema, ma non so… è come la beffa dopo il danno. Certo che quest'uomo è una tragedia vivente. (E ora che, come si è visto, muore dopo aver finalmente trovato l'amore e la pace mentale che cercava… Gesù.)
Erik chiede a Meg “perché lo hai fatto?” dopo che quest'ultima lo ha baciato perché è così fesso che non si è accorto dei sentimenti che quest'ultima prova per lui. Emotivamente, è come un bambino nel corpo di un uomo. È un concetto che ho approfondito anche nell'altra mia fic, che è vista dal suo punto di vista. Sì, è molto maturato dopo ciò che è successo con Christine e in Persia, ma in quanto ad emozioni romantiche/sentimentali è molto… incapace. Beh, è pure ovvio.
No, non è vero che la mia scrittura migliora di capitolo in capitolo. Secondo me è peggiorata. Lo ripeto, ultimamente mi metto davanti al PC e mi sembro una deficiente. Boh, sarà un periodo… ho scritto qualcosa riguardo qualche altro fandom, per cambiare un po' aria, ma ti assicuro che questa storia sarà conclusa. Giuro che mi metto un giorno e scrivo il capitolo a raffica. XD
Sì, Meg ha cinquant'anni nel prologo: è il 1910, sono trascorsi ventinove anni da quando, tanto tempo prima, ha incontrato Erik per la prima volta… e che incontro che è stato, ricordi? Comunque è malata, molto malata, e in fin di vita. Per questo appare più fragile – almeno fisicamente; nello spirito, è ancora una forza della natura – di quanto sia in realtà.
Per quanto riguarda la differenza di età… lasciamo perdere. Meno male che sono due adulti consenzienti (non avrei scritto nulla di diverso, figurati). Almeno è canon. Cioè, Christine nel romanzo di Leroux (e anche nel musical di Webber, ora che ci penso) quanti anni potrà avere, venti? Ed Erik… ripeto, lasciamo perdere. (Anche se, devo ammetterlo, mi piacciono gli uomini più grandi. Una volta ne parlai con due mie amiche e loro confessarono lo stesso. Sarà che sono un'anima antica… XD)
E grazie a te. Sei tu ad essere stupenda! <3
P.S. Le manette di pelo rosa non sono servite, per fortuna, ma diciamo che è stata comunque Meg a trascinarlo a letto… non che lui non volesse, mi pare che si sia visto il contrario. XD La tensione sessuale tra sti due era troppa, alla fine dovevano scoppiare,
Ah, nel prossimo post–scriptum sei liberissima di dare sfogo al tuo odio per me.
Jessica24: Scusa anche a te. Altro che angst… la storia di Meg ed Erik è una tragedia.
Per quanto riguarda Sansa, sì, anch'io preferisco decisamente i libri al telefilm. Ma in GENERALE, proprio. Non credo li perdonerò mai per il modo in cui hanno trattato i miei adorati Martell. O per lady Stoneheart. O per Stannis. E milioni di altre cose che non sto qui a dire. Probabilmente l'unico cambiamento che mi sia piaciuto sul serio è quello di aver fatto incontrare prima del solito Tyrion e Daenerys, che sono i miei personaggi preferiti. Ho letto A Dance of Dragons tutto d'un fiato aspettando con ansia che i due si incontrassero… Niente. Beh, spero che nei libri avranno un bel rapporto come nel telefilm.
Non so se nella nuova stagione – nonché ultima :( – Sansa incontrerà Sandor (lo spero perché li shippo tanto), ma Tyrion sì, probabilmente… perché sono certa che Dany incontrerà Jon, e visto che Tyrion è con lei mentre Sansa sta con Giovanni Neve (XD)… Chissà che reazione avranno.
Bei gusti in fatto di musical! Hai letto anche il romanzo di Notre Dame de Paris? Lo scrittore è Victor Hugo, lo stesso de I Miserabili… se ti piacciono le tragedie e i pianti facili, gradirai sicuramente. XD Beauty and the Beast è anche uno dei miei musical preferiti, nonché il Disney che adoro di più, insieme a Mulan e Oceania!
Il fatto che Meg nel romanzo della Kay racconti quelle storie macabre è riportato anche nella mia fic; non so se ricordi, ma ho scritto che a Meg piaceva descrivere nei dettagli le azioni orribili del fantasma alle sconcertate allieve ballerine… solo che lei non ci crede, lo fa per prenderle in giro. XD
Un bacio! <3
debbythebest: Scusa. (Eh, è dovuto.) Hai visto come è andata a finire? Spero che non ti sia venuto il groppo in gola…
Meg è molto segnata dalla morte della madre e da ciò che è accaduto in Persia, certo. In Francia ritrova una sorta di equilibrio, anche grazie ad Erik. Poi ovviamente arrivo io a rovinarle la festa… Lieta che ti sia piaciuta la scena finale dello scorso capitolo, quale hai gradito di più in quest'ultimo? Non credo la morte di Erik, eh? Poveretto. E povera anche la mia Meg. :'(
Un bacio anche a te! <3
bibliofila_mascherata: Scusa, mia fedele lettrice. Se eri sotto shock prima, non voglio immaginare adesso. Sono crudele, lo so.
Qui si sono spinti ben oltre il bacio… Almeno Erik ha conosciuto l'amore prima di morire. E a quarantotto anni, poi… Era ancora “giovane”. Beh, mezza età. Quel che è, insomma.
Nella mia AU, ti giuro che non è così tragico. Almeno ti potrai consolare con quella.
Un bacio, cara! <3
P.S. Ehm, una precisazione: quando Meg dice di non essere del tutto illibata e che ha permesso a Luc, in passato, di “frugarle sotto la gonna”… Spero che abbiate capito i sottintesi. Non c'è bisogno che vi faccia il disegnino, vero? XD Diciamo che Meg a ventidue anni è molto più esperta di Erik a quarantotto.
P.P.S. Non ho precisato che, se non si fosse capito, Erik muore di cancro ai polmoni. Non essendoci le cure di oggi, muore in fretta e dolorosamente. E sì, nel mio headcanon anche il padre di Christine è morto in questo modo – sappiamo solo che “aveva la tosse”, ma vabbè. Come ho scritto qui, la storia si ripete.
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Capitolo 37 *** La baronessa di Castelot-Barzebac. ***
xxxv.
la baronessa di castelot-barzebac
Mi strinsi nella cappa nera – ora più che mai, il nero mi apparteneva e mi si appiccicava addosso come un sudario – in attesa sulla soglia del cancello di Rue Scribe. La pioggia calava dal cielo come l'apocalisse, un futuro impossibile, una pace distorta. Ero un'isola squassata dai marosi di una tempesta inarrestabile, e il suo nome mi riverberava nei timpani e nella mente e nel cuore come il rintocco di una campana funebre. Non ci sarebbe stato nessun funerale, per lui; nessuna lapide, nessuna tomba consacrata. Non credevo nell'aldilà, ma oh, Dio – speravo che almeno lui si trovasse in un posto migliore, adesso. In passato ero stata molto cinica e scettica riguardo alla gentilezza, alla bontà, alla redenzione: le consideravo – scioccamente, nella mia cecità – favole cristiane. Naturalmente non lo erano.
Dovunque fosse, doveva essere in una costellazione migliore. Eppure non si scorgeva alcuna stella in cielo.
La fiacre si fermò dinanzi all'entrata del vicolo. Il conducente aiutò a scendere dalla carrozza una donna imbacuccata, che lo pagò e lo ringraziò profusamente. La donna si voltò nella mia direzione, e io intravidi appena il suo viso sotto il cappuccio blu.
«Christine!» la chiamai a gran voce, facendole cenno di ripararsi in fretta sotto il mio ombrello. I suoi occhi azzurri ebbero un luccichio sotto la mantella e si affrettò a raggiungermi. La pioggia creava l'ennesimo drappo su di noi, pungente come un pugno di spilli.
Non disse nulla. Si limitò ad abbracciarmi così forte che credetti di soffocare.
«Amica mia, sapevo – sapevo che ti avrei rivista!»
La strinsi a me con un ardore che non credevo più di possedere.
«Mi sei mancata immensamente.» Sperai di non avere la voce incrinata – invano.
Lei mi osservò per qualche attimo di doloroso silenzio. Sapevo cosa stava vedendo: un volto smagrito, occhiaie profonde, guance incavate, pelle livida. Dischiuse le labbra di pesca in un'espressione di sconcerto.
«Meg… Cosa mai ti è accaduto?»
A quel punto non riuscii più a trattenermi: le lacrime mi gonfiarono gli occhi già rossi e la abbracciai più forte. Affondai il volto nell'incavo della sua spalla e tremai contro il suo corpo a me tanto amico e familiare. Il suo profumo di gelsomini, così sereno, contrastava con la mia rampante disperazione.
«Non qui.»
La trascinai oltre il cancello di Rue Scribe, invitandola ad appoggiarsi insieme a me alla parete di salnitro del passaggio segreto ideato da – da – non riuscivo neanche a pensare al suo nome, maledizione. Ero diventata un cumulo di macerie: quelle del nostro amore.
E fu allora che le raccontai tutto: di come lui mi avesse salvato la vita anni prima, da ragazzina; delle lezioni di pianoforte; della Persia; di come fosse cambiato; del fatto che mi ero innamorata di lui come non mi era mai successo prima e, temevo, mai sarebbe accaduto di nuovo.
Lei rimase a bocca semi–aperta, ed ebbe la buona grazia di non interrompermi. In qualche modo sapeva che, se avessi arrestato il flusso, non sarei riuscita a vomitare ancora quel fiume di parole che mi raschiava la gola come vetro. Non sapeva neanche della morte di mia madre; ne rimase sconvolta.
Non dissi il suo nome. Mi limitai ad un “lui” inconfondibile.
Christine rimase in silenzio per qualche istante.
«Perché non me lo hai detto prima? Sei sempre stata incredibilmente onesta – forse in modo persino brutale – con me…»
La guardai con occhi gonfi. «Mi dispiace. Sono stata una stolta… Avevo paura. Perdonami, ti prego.»
«Ma certo che ti perdono. Meg, hai sofferto così tanto, ed io… io non ne ho mai saputo nulla, né ero qui con te per aiutarti! Oh…»
Ci scambiammo un abbraccio umido, asciugandoci entrambe gli occhi. Le lacrime avevano più potere delle parole.
Il Persiano aveva fatto stampare l'annuncio sul Moniteur – “Erik è morto” – giorni prima del vero decesso. Sapevamo che Christine lo avrebbe letto, ovunque fosse, e avrebbe recepito il messaggio. Era in attesa già da molto tempo.
«Raoul non era contento che tornassi qui, ma mi ha accompagnata ugualmente. Sapeva che era importante per me. Non può farsi vedere in giro per la città, sai com'è… Inizialmente abbiamo trovato ospitalità presso una delle sue sorelle, poi ci siamo diretti verso Nord. Ed è qui che…» Si sfiorò la pancia con una mano. Solo allora, scostando il mantello e la sciarpa, notai il pronunciato rigonfiamento.
«Christine» dissi col fiato mozzato, «ma tu sei…»
«Ormai è quasi giunto il momento del parto. Qualche altra settimana di attesa.» Mi rivolse un sorriso baluginante nell'oscurità.
«Sono felice per te.»
Lei mi accarezzò il viso con gentilezza, ed io proseguii nel farle strada attraverso il passaggio che conoscevo così bene. Arrivammo in poco tempo alla riva del lago. Remai con vogate nervose fino alla soglia dell'appartamento. Qui condussi Christine verso la camera Luigi Filippo.
Lei si fermò sull'uscio per qualche istante e inspirò a fondo.
«Va tutto bene?»
«Dovrei essere io a porre questa domanda a te, amica mia.»
Scossi il capo. «Sono grata della tua presenza qui.»
La presi per mano e ci fermammo insieme dinanzi al letto, dove giaceva Erik, le braccia conserte, immobile nella morte. Avevo fissato quell'immagine sulla retina della mia mente, e lì restava, bruciata. L'avrei rammentata per il resto dei miei giorni.
I lineamenti di Christine si sfaldarono leggermente. Contrasse le labbra per l'emozione e, con lentezza, infilò al dito di Erik l'anello nuziale che indossava ella stessa e che lui le aveva dato molto tempo prima. Gli strinse le mani gelide.
«Sei stato mio maestro e amico. Grazie per avermi aiutata a riprendermi la voce. Hai vissuto un'esistenza angosciosa… ma sei stato amato, sappilo.» Mi lanciò un'occhiata di sottecchi. Io ero talmente insensibile al mondo esterno, tanto rattrappita in me stessa come un cucciolo esposto al gelo della notte, che non reagii in alcun modo. Mi limitai a fissare la scena, silente.
Avevo consumato tutte le mie lacrime, in quei giorni. Non pensavo di essere più viva.
Monsieur Nadir giunse in quel momento e salutò Christine con calore; quest'ultima gli rivolse i suoi più sentiti ringraziamenti per quanto aveva fatto per noi tutti in quei tempi indicibili.
«Solo il mio dovere, Madamoiselle… nei riguardi di un vecchio amico che è riuscito ad imparare, grazie a voi e a Meg, cosa significa amare.»
Sapevo per quale motivo il Persiano era lì. Dovevamo seppellire Erik, e in fretta. Erano trascorsi appena due giorni dal suo decesso, ma il morbo di morte cominciava a farsi sentire.
Avanzai di qualche passo, come tramortita. Christine e il Persiano restarono immobili, intenti ad osservare la scena dispiegarsi dinanzi a loro.
«La maschera» mugugnai. «É stato costretto a indossarla in questa vita – è stata la sua gabbia. Non voglio che lo sia anche nell'altra.»
«Hai ragione, Meg» concordò Christine. Monsieur Nadir non ebbe bisogno di dar voce ai suoi pensieri.
Sfilai ad Erik la maschera nera che era stato il suo scudo contro un mondo troppo crudele persino per lui, che crudele lo era stato davvero, un tempo. Lo aveva forgiato a sua immagine e somiglianza.
Nessuno di noi sobbalzò a quella vista. Conoscevamo tutti troppo bene il volto disastrato del mio amore. Non lo avevo mai trovato meno orrendo, certo; ma quello era un fatto oggettivo che nessuno poteva contestare. Era – come ho già detto – parte di lui, né più né meno di questo. Eppure tutto cominciava da lì.
Posai le mie labbra sulle sue per un'ultima volta – temetti quasi di udire il cuore nel mio petto incrinarsi a quest'amara consapevolezza… ma ormai non c'era altro da spezzare.
«Ti amerò per sempre» sussurrai al suo corpo senza vita. Sperai che da qualche parte potesse udirmi. Sperai che il suo fantasma tornasse ad ossessionarmi… oppure volevo dimenticarlo per sempre? Non lo sapevo.
Il Persiano ed io lo trasportammo sulla riva del lago, dove il mio amico aveva già scavato una fossa adeguata. Lo aiutai a rivangare il terreno – naturalmente, non permettemmo a Christine di fare alcunché: era in uno stato di gravidanza avanzato. Quando la prima zolla di terra lo colpì, diedi in un singulto, e Nadir lo notò.
«Non dovete farlo per forza, Meg. Posso sbrigarmela da solo. Andate a riposare con Madamoiselle Daaé, ve ne prego.»
«No, glielo devo, Monsieur. Devo stare con lui fino all'ultimo. Fino all'ultimo…» Borbottai maledizioni mentre lo aiutavo con la pala. Era un lavoro manuale che mi sfibrò fino al midollo, tanto ero debole nelle membra del corpo e dell'anima.
Alla fine, rimasi in ginocchio, la gonna nera gonfia attorno a me. Non so per quanto tempo Christine ed io fissammo quella tomba anonima e, speravo, introvabile. Udii la mia amica mormorare preghiere, le mani congiunte; sapevo che il suo concetto di spiritualità era più complicato di quanto desse alla vista. Io non pregai; non piansi; solo, non smisi di tremare.
Cercai di immaginare un futuro senza di lui: mi sembrava impossibile. Eppure dovevo farcela, dovevo – glielo avevo promesso. Ero stata una piccola bugiarda, in passato, ma non allora; non lì, sulla sua tomba. Neanche io ero così sfacciata.
Doveva essere mattina quando Christine mi portò, sorreggendomi tra le braccia, nella cucina dell'appartamento sul lago. Il Persiano ci aveva lasciate sole, esausto anche lui per quella disavventura che, si vedeva, lo aveva provato sia nel fisico che nel cuore. La mia amica mi preparò un tè che sorbii a malapena. Provavo un senso di nausea crescente alla bocca dello stomaco.
«Meg, vieni con me.»
Alzai lo sguardo sul suo adorabile viso.
«Cosa?»
«In Svezia, a casa mia. Per qualche tempo, almeno. Non ho cuore di lasciarti così… Raoul sarebbe lieto di accoglierti.»
Ponderai la proposta con attenzione: d'altronde, cosa avevo da perdere? Non avevo più nulla, neanche il cuore. Erik me lo aveva rubato e lo aveva seppellito con sé nella tomba.
«D'accordo. Sì, verrò.»
Lei mi rivolse un sorriso lieve che io non ricambiai.
Non ci volle molto per radunare le mie cose sparse per l'appartamento sul lago. Sapevo che lo vedevo per l'ultima volta. Con l'impressione di lasciare anche il respiro in quel posto freddo e solitario che eppure era stato casa mia più di qualsiasi altro al mondo, mi diressi verso l'argine dell'Averno, e con l'aiuto di Monsieur Nadir riuscii a trasportare tutti i bagagli – che non erano pesanti; non possedevo molto al mondo – sull'altra sponda e, infine, sulla soglia del cancello. Christine mi attendeva lì, e cercò di aiutarmi a sollevare una valigia.
«Non fare pazzie. Ricordati che sei incinta» l'ammonii. Lei annuì, placatasi. Voleva darmi una mano in tutti i modi possibili, era evidente.
Il Persiano mi rivolse un abbraccio durevole e affettuoso.
«Rimettetevi, Meg. Scrivetemi se lo desiderate.»
«Sicuro di non voler venire? A Raoul farebbe piacere accogliervi. Vi dobbiamo molto» insistette Christine. Monsieur Nadir declinò con un lieve sorriso.
«No, Madamoiselle. Porgete pure a vostro marito i miei più cari saluti, e le mie congratulazioni.» Accennò al rigonfiamento del ventre di Christine.
«Vi sentirete solo» dissi io.
Lui sospirò. «No, Madamoiselle. Io avrò tanto cose di cui occuparmi…»
Certo, Erik gli aveva lasciato tutto il mobilio dell'appartamento sul lago, che un tempo era appartenuto a sua madre. Era suo compito sistemarlo appositamente, come richiesto dal suo vecchio ed eccentrico amico.
Monsieur Nadir ci aiutò a salire sulla fiacre, insistendo per pagare il viaggio – era inutile discutere con un uomo su questo genere di cose, anche se io non avrei mai perso l'abitudine. Eravamo dirette verso l'albergo dove soggiornava Raoul; insieme a lui, saremo partiti per la Svezia. Non sapevo quanto sarebbe durato il viaggio… Speravo meno dei miei incubi.
La Svezia era fredda e incantevole, come l'avevo immaginata dalle descrizioni vivaci e accurate di Christine – si dimostrò un'ottima narratrice, e non c'era da stupirsene. Raoul fu così lieto di vedermi che mi baciò la mano e mi accolse come fossi una sorella ritrovata; non avrei dovuto stupirmi della sua natura, che era affabile e generosa. Mi rattristai, tuttavia, alla notizia che Mamma Valerius, in quell'anno e mezzo che ci aveva separate, era deceduta per l'età ormai molto avanzata e la malattia inguaribile che aveva finito per consumarla. Malgrado questo, la sua figlioccia non era rimasta sola, proprio com'era nei desideri della madre adottiva.
Raoul e Christine avevano acquistato una comoda, piccola villa nei pressi del paese natio della mia amica. Lì lei si occupava di dare lezioni di musica ai bambini del villaggio; Raoul si apprestava a diventare un uomo tra i più semplici: aveva preso l'abitudine di cucinare per la moglie e l'ospite – ossia la sottoscritta – e dovevo ammettere che mostrava un certo talento in quest'ambito.
Naturalmente, questo mi riportava alla mente Erik in una slavina di emozioni dolorose. La verità era che tutto mi riconduceva a lui: sentivo nelle orecchie l'eco della sua voce, e mi sembrava di impazzire. Mi trovavo in un museo, e il soggetto dei quadri era sempre lo stesso. Non avrei mai dimenticato i suoi occhi, la sua risata, la sua trasformazione in bestia senza cuore ad uomo che il cuore me lo aveva rubato.
Christine mi disse che Raoul soffriva ancora di non pochi incubi per quanto accaduto nella camera dei supplizi e al fratello, più di un anno prima. Cucinare per lui era diventata una maniera per distrarsi e sollevare al contempo l'umore suo e della moglie, che in ogni caso era presente nella sua vita come mai prima. «Una notte ci siamo ritrovati a lavare il pavimento della cucina. Una scena assurda… Era così nervoso e triste. E anch'io… Non è facile.» Christine sospirò. Nessuno poteva capire le sue parole meglio di me.
Trascorrevo i giorni in una sorta di insensibile e sorda catalessi: era molto simile a ciò che aveva provato nel periodo successivo alla morte di mio padre, anni prima. Christine mi restò accanto con l'usuale grazia dignitosa alla quale ero abituata. Il mio orgoglio era troppo forte per permetterle di aiutarmi a lavarmi e vestirmi ogni benedetta mattina, ma le concedevo di spazzolarmi i capelli mentre io le accarezzavo distrattamente la pancia rigonfia. Un altro piccolo cuore pulsava dentro di lei, adesso.
Il giorno del parto giunse prima del previsto: Raoul andò a chiamare di corsa la levatrice del paese mentre io restavo con Christine, che urlava per le fitte al ventre. Immaginai che fossero come lame nella sua carne soffice. Rimasi con lei per tutta la durata del parto; Raoul insistette per essere presente, e così fummo noi due a stringere le mani di Christine mentre lei spingeva e spingeva e spingeva – non che capissi cosa la levatrice le stesse dicendo, visto che era in svedese – e alla fine il bambino nacque. Anzi, una bambina: era meravigliosa, con gli occhi azzurri dei genitori.
Raoul e Christine rimasero a contemplarla per quelle che sembrarono ore, mentre io aiutavo la levatrice a rimettere in ordine gli asciugamani insanguinati e la bacinella d'acqua ormai rossastra.
La piccola – che chiamarono Pauline, il nome della madre ormai defunta di Raoul – era in salute e robusta, con grande gioia dei genitori e anche, devo ammettere, della sottoscritta. Per quanto assistere a simili spettacoli di serenità familiare mi mordesse il cuore – non credevo che avrei mai più provato una simile gioia – ero lieta che, dopo tante disavventure, Raoul e Christine avessero raggiunto la pace che meritavano.
Qualche giorno dopo la nascita di Pauline, mentre io mi limitavo a restare al fianco della mia amica nei momenti in cui allattava la figlioletta – Raoul si era quasi sciolto in lacrime la prima volta che aveva visto la sua famiglia in quel modo, ed era oltremodo comprensibile – Christine mi pose una domanda che non mi aspettavo.
«Meg, so che è una richiesta non facile, questa…» La mia amica tentennò, accarezzando la testolina graziosa dell'infante.
«Dimmi» la incoraggiai con una voce sottile quanto un sospiro. Era divenuta ancora più roca e bassa del solito, dal momento che parlavo così poco. E mangiavo anche di malavoglia.
«Meg, vorresti essere la madrina di Pauline? Ne ho parlato con Raoul, e davvero non c'è nessun altro che potrebbe prendere il tuo posto.»
«Christine…»
Ero decisamente commossa, tanto che non riuscii a trattenere due grasse lacrime che mi sgorgarono dagli occhi. La mia amica – quasi sorella – le asciugò con dolcezza.
«Non piangere…»
Soffocai il viso nell'incavo della sua spalla, attenta a non disturbare la bambina, che beveva il latte con tutto l'agio di una poppante cullata dalle braccia di una madre amorevole.
«Mi sento spezzata, Christine… Quasi fossi manchevole. Un uccello al quale si è rotta un'ala. Ho perso il cuore e non so se lo ritroverò mai più…»
Affondai il viso nello scudo protettivo delle mie mani esili, singhiozzando, mentre la mia amica mi accarezzava i capelli. Spaventata dai miei singhiozzi ben udibili – sperai vanamente che Raoul non li cogliesse, al piano superiore – Pauline scoppiò nel pianto stridulo tipico dei neonati. Christine la calmò con una pazienza che mi era estranea.
«Tesoro mio» la mia amica mi rivolse uno sguardo colmo d'affetto, «anche questa tempesta cesserà. Vedrai. Non posso mentirti: vi sarà sempre una mancanza. Ma il vuoto non rimarrà tale per sempre. Nulla è per sempre.»
Annuii – questo lo sapevo bene. Lei aveva perduto la sua prima famiglia (il padre e la madre), poi Mamma Valerius, per trovarne un'altra, infine, in Raoul e la piccola Pauline. Chissà perché, dubitavo che a me sarebbe toccato in sorte lo stesso miracolo.
Trascorse una settimana prima del battesimo del nuovo membro della famiglia Daaé (Raoul aveva deciso, in modo assai lungimirante, di prendere il cognome della moglie). Per l'occasione, indossai il mio abito migliore e scortai i miei amici in chiesa. Fu un ingresso goffo, il mio: non entravo in un simile luogo sacro da una vita, ma la messa in latino mi era familiare, sebbene non ne comprendessi che poche parole. Accettai con grande onore il ruolo di madrina di Pauline, e quella sera, a casa Daaé, mentre Raoul e Christine si concedevano un delicato lento, io coccolavo la piccola e la stringevo al seno con una tenerezza che non sentivo più di possedere.
Quella notte, com'era ovvio, fui travagliata dagli incubi – sentivo una mano fantasma, gelida e appena esitante, che mi accarezzava il capo dolorante, ma quando mi risvegliavo mi lasciava. L'assenza mi rivoltava le viscere con la precisione di una daga ben affilata, il cordolo di una cicatrice che non sarebbe mai svanita.
Tornai in Francia qualche settimana dopo, assicuratami che Christine e Raoul non avrebbero avuto problemi nel crescere la bambina da soli. Non sarebbe stato facile – pensai mentre abbracciavo la mia amica sull'uscio della casa – ma ce l'avrebbero fatta. Si amavano troppo per arrendersi dinanzi agli ostacoli.
«Scrivimi. E io scriverò a te. Capito?» Christine mi baciò una guancia e io annuii. Non potevo prometterle che sarei stata bene, malgrado tutto, ma potevo concederle almeno questa piccola rassicurazione. Aveva già tanto a cui pensare, e non volevo che l'apprensione per la sottoscritta la gravasse maggiormente.
Dopo quel giorno, tuttavia, non la rividi più.
Dicono che il tempo guarisca, ma non è proprio così. Il tempo era un palinsesto che io riscrivevo sempre con la medesima storia: la Morte di cui mi ero innamorata in modo così totalizzante mi seguiva come un segugio a caccia. Sembrava aver trovato in me la preda perfetta, ed io mi dibattevo nella trappola, come un naufrago che tenta di sopravvivere alla marea che minaccia di sopraffarlo.
Era difficile non soccombere alla tentazione di infilarmi nel letto e non alzarmi mai più. Ogni volta che il pensiero mi attraversava la mente, ricordavo con precisione le parole che avevo rivolto allo stesso Erik: gli avevo detto che avrei continuato a vivere – avevo giurato sulla sua anima… e sulla mia, e su quella dei miei genitori. In base a ciò, non potevo darmi per vinta.
Pertanto, tornai al mio lavoro di étoile, e in ogni passo riversavo la mia disperazione, il mio lutto, in una morsa tale da commuovere gli astanti. Vi era un che di indomito e selvaggio nei miei passi di danza. E, come aveva promesso Erik, in ogni nota percepivo la sua presenza. Era un balsamo che mondava la mia anima, e al contempo un fantasma che non avrebbe mai cessato di perseguitarmi.
Ero in trappola.
Il Persiano veniva a vedermi ad ogni messa in scena. Dopo lo spettacolo, andavo a salutarlo con tutto il calore che mi era ancora possibile mostrare, ma ammetto che fui negligente nei suoi confronti: lo evitavo, perché la sua presenza mi ricordava quella assente di Erik – mi riportava alla memoria tempi migliori. Niente più passeggiate immersi nel tramonto parigino, niente più farfalle dorate nei suoi gentili occhi di giada. Era una parte del mio passato che non desideravo rammentare.
Juliette fu la prima delle mie amiche ad accorgersi che qualcosa non andava: non ridevo più con la stessa facilità di un tempo, né rivolgevo battute fredde e sarcastiche alle mie compagne. Trascorrevo il tempo con un mesto sorriso che impastava il mio volto in un'assurda maschera, tanto che, tornata nella mia camera, mi lavavo ripetutamente la faccia con la paura maniacale che si fosse cementata per davvero in quell'espressione di finta serenità.
«Meg, ti vedo così abbattuta in questo periodo… Cos'hai che non va?»
Juliette era palesemente preoccupata per la sottoscritta.
Rivolsi uno sguardo aguzzo nei dintorni. Eravamo sole. Forse con lei potevo parlare…
«In quei mesi di malattia… Ebbene, la malattia non era mia.»
Juliette aggrottò la fronte, perplessa e apprensiva.
«Hai presente l'uomo di cui ti ho parlato?»
«Pensavo che riguardasse lui, e che non steste più insieme. Non dirmi che…»
Annuii. Lei comprese subitaneamente, e si portò una mano alla bocca.
«Oh, mio Dio. Meg, mi dispiace tanto… Perché non me lo hai detto subito?»
«Sai come sono fatta.»
«Sì, sei una testona. Oh, mia cara…» Mi accarezzò il volto ed io la ringraziai per l'amicizia che mi dimostrava.
Nei mesi seguenti, lei, Fabienne e Louise – a cui pure avevo rivelato il vero su quanto accaduto al mio misterioso amore – mi restarono accanto come ombre, o angeli custodi. Un po' quelle attenzioni mi davano fastidio… ma d'altro canto non ero sola.
No, non ero mai sola: Erik era sempre accanto a me, nella mia mente. Un pensiero involuto, una bestemmia e una preghiera insieme. Avevo voluto l'amore, mi ero arresa ad esso per la prima volta in ventitré anni e ora ne pagavo le conseguenze. Ero Icaro, e il sole mi aveva uccisa; tutto ciò che rimaneva delle mie ali erano piume di cera sciolta.
Il mio lavoro di étoile proseguiva in modo eccellente. Monsieur Lefévre si congratulò con la sottoscritta per una mia esibizione in particolare – Aurora ne La bella addormentata – e i giornalisti sembravano tutti d'accordo, per una volta, nel sostenere che la mia pelle scura ben si adattava al personaggio della gitana Esmeralda ne Il gobbo di Notre Dame. Naturalmente, io volevo essere giudicata per le mie abilità, non per il colore della mia pelle. Andavo fiera dei miei antenati africani: mi ricordava l'eredità di mio padre.
Non vi è bisogno di dirlo, ma non toccavo un pianoforte dalla morte di Erik. Ero caduta in una sorta di gelida depressione: mi alzavo e andavo a lavorare, ma mancavo di vera passione ed entusiasmo per la vita. Il mio futuro era un oblio di tenebre. Ero insensibile a tutto e a tutti, fuorché la danza: solo con la mia arte riuscivo a ricordare Erik in un modo che mi portasse una sorta di malinconica letizia. Ma soprattutto, in essa ritrovavo me stessa, ed era la cosa più importante.
Con la sensazione di essere un pesciolino in una boccia, camminavo per il mondo con chiodi sotto le palme dei piedi nudi, e il dolore era come il cancro che si era portato via l'amore della mia vita. Non avrei permesso che si portasse via anche me.
Un giorno mi diedi la pena – e questa volta per davvero – di leggere alcuni dei biglietti contenuti nei mazzi di fiori che mi venivano offerti ad ogni esibizione. Cominciavo a trovarli irritanti: non sapevo dove metterli e alla fine mi vedevo costretta – senza alcun rimpianto – a gettarli via o, ancora meglio, a distribuirli tra le mie compagne del corps de ballet.
La maggior parte dei biglietti era firmata da ricchi aristocratici, vecchi con la puzza sotto il naso, che mi invitavano a gozzovigliare con loro come se nulla fosse – ovviamente, era tutto scritto in modo più elegante e meno diretto, ma io andavo subito al sodo. Sbuffai e li buttai nel cestino dei rifiuti. Stavo per fare lo stesso con l'ultimo dei biglietti, consegnatomi in un mazzo di margherite (banale), ma rileggendolo mi avvidi che era diverso.
Madamoiselle Giry,
sono un vostro ammiratore dall'inizio. Vi prego di accettare questo mio umile dono, e vi ringrazio di condividere con noi il vostro angelico talento.
Barone Armand di Castelot–Barzebac.
Aggrottai la fronte. Mi aveva scritto una lettera di complimenti anche al primo debutto da solista, anni prima, quando sia Maman che Erik erano ancora vivi. Quante cose erano mutate da allora…
Non era pomposo come gli altri. Lusingata da quella placida ammirazione, conservai il biglietto e lo riposi nel mazzo di margherite fresche. D'un tratto non mi appariva più così banale: la sincerità non lo era mai, in un posto come l'Opera Garnier.
Incontrai il suddetto barone qualche giorno dopo: passeggiavo per Parigi in cerca di un nuovo costume per il ballo in maschera di Aprile – non avrei voluto andarci, non ero dell'umore giusto, ma avrei assolto al mio dovere come una brava bambina di porcellana; ormai non mi restava altro – quando udii delle lievi risate provenire alla mia destra. Mi voltai. Un branco di giovanotti, all'apparenza molto ricchi, sembrava spronare uno di loro a farsi avanti. Gli schiamazzi erano diretti a me. L'uomo in questione, calcandosi il cappello sulla testa e inghiottendo tutto il suo coraggio, mi si presentò con fare timido ma galante.
«Madamoiselle Giry?»
«Sì.»
Lui si inchinò con un agio che tradiva il suo sangue blu. Lo imitai, aggraziata con le mie movenze da ballerina.
«Sono Armand di Castelot–Barzebac. Vi ho spedito un dono l'altra sera, con un biglietto che recava i miei complimenti, dopo la vostra ultima performance… Io…» Divenne rosso e incominciò a masticare parole incomprensibili. Pensavo che si sarebbe messo a balbettare dal nervosismo. I suoi compagni lo incoraggiarono con non poche risate. Riservai loro un'occhiataccia. Non mi sembrava giusto ridere della sua timidezza. Dio solo sapeva quanto anch'io avevo avuto a che fare con uomini tanto inibiti… ma Erik – lui era stato un caso a parte.
«É un piacere conoscervi, barone.» Gli rivolsi il mio sorriso migliore, alla faccia dei bellimbusti che ancora se la ridevano.
Lui sembrò colpito.
«Oh, il piacere è tutto mio, credetemi. Danzate magnificamente.»
Accettai il complimento con un altro sorrisetto e un inchino. «Siete troppo gentile.»
«Mi chiedevo se… Voglio dire, so che appare sfacciato, ma…»
«Dite pure.»
«Se un giorno sareste libera per un caffè… o una passeggiata… ecco. In qualità di amici, beninteso.»
Arrossì di nuovo e chinò il capo, già rassegnato ad un “no” secco. Eppure era un bel giovane: doveva avere più o meno la mia età, con capelli rossicci, deliziose efelidi e occhi verde mare. Forse non era abituato a fare la prima mossa.
«Sono libera adesso. Sto andando a fare spese per il ballo in maschera all'Opera Garnier. Mi accompagnereste?»
Armand di Castelot–Barzebac aprì la bocca ad oblò per la sorpresa, e così i suoi amici più dietro, che avevano sentito tutto.
«Sarebbe un onore.»
Prima di andare per la nostra strada, non dimenticai di rivolgere un sogghigno saputo ai bellimbusti che avevano accompagnato il barone fin lì tra scherni e risate. Così imparavano.
«Ignorateli, vi prego. Sono solo molto stolti… non serbano cattive intenzioni» mi disse Armand, mortificato.
«Non è un problema, Monsieur. Sono abituata.» Ricordai come avessi risposto con calore ad ogni derisione – sul mio aspetto, principalmente – di Jacques e gli altri amici di Luc. Certo, questi mi aveva sempre difeso, ma io avevo imparato a farlo da me.
La passeggiata fu a dir poco piacevole. Armand mi accompagnò in varie boutique per scegliere il costume appropriato; io non avevo gusti difficili, e mi accontentai di un abitino di seta e tulle bianco, con ricami in pizzo, decorato con delicati fiori in tinta. Una maschera dello stesso colore e un fiore tra i capelli, e sarebbe stato l'ideale.
Armand si offrì di pagarmi l'abito, ma io rifiutai in modo così insistente che si trovò costretto a desistere. Uscimmo dal negozio, io con un pacchetto sotto il braccio.
«Potrei tenerlo per voi» il barone accennò all'involucro che reggevo.
Ridacchiai. «Oh, Monsieur, vi ringrazio per il pensiero, ma non è affatto pesante. Posso farcela da sola. O non mi credete capace?»
Lui arrossì e si affrettò a scuotere il capo. «Certo che… Voglio dire, è la mia educazione da aristocratico a parlare, Madamoiselle.»
«É un pensiero gentile, Monsieur, ma non credo di essere più debole di voi.» E l'ho dimostrato. Ho ucciso una mezza dozzina di uomini con le mie stesse mani. In Persia, sono stata in guerra.
«Oh.» Lui sembrò colpito. «Siete molto sicura di voi.»
«Non di me, ma dei miei diritti.»
«Capisco.» E capiva davvero. Per quanto gentile, non dimostrò mai di provare alcun tipo di superiorità nei miei confronti: e non solo perché donna, ma anche per le mie umili origini. Inoltre, doveva sapere del suicidio di mio padre. Era facile scoprirlo, se si era interessati alla sottoscritta.
Al ballo in maschera parlai molto tempo con lui – lo riconobbi subito, giacché non portava alcun costume. Essendo nobile, non sarebbe stato giusto dinanzi all'etichetta.
Anche lui mi riconobbe – o meglio, riconobbe il mio vestito. Si complimentò per la mia bellezza (cosa quasi fantascientifica) e mi offrì un ballo, trepidante e imbarazzato. Sorrisi e accettai la proposta.
Naturalmente, la mia quiete mentale fu presto minata dai semi del dolore: rammentai di un altro ballo in maschera, e di un altro cavaliere che, nello stesso modo esitante, mi aveva stretta a sé in un valzer da far girare la testa… Un cavaliere in rosso…
Mi salì la bile in gola e mi congedai con una scusa, fuggendo via per respirare un po' d'aria fresca. Aprile era un mese tiepido, ma la notte era ugualmente pungente. Strinsi così forte le nocche che queste s'imbiancarono sotto la seta dei guanti.
«Madamoiselle, state bene?» Il barone mi aveva seguito per accertarsene di persona. Si avvide della mia espressione angosciata. «Preferite rimanere da sola?»
«No, io… ho ricordato qualcosa, tutto qui.»
«Deve essere profondamente doloroso.»
Annuii. Perché ne stavo parlando? Ero sempre stata restia a confidarmi, se non con note – e ormai scomparse – eccezioni. Ma c'era qualcosa in quel giovane che mi induceva ad avere fiducia, e il mio intuito non sbagliava.
«C'era un uomo, prima… tempo fa. Mi pare sia trascorso un secolo…»
«E ora…?»
«Ora non c'è più» gli rivolsi un sorriso mesto. «Mi mancano, sapete? Lui e mia madre. Con mio padre è diverso, ho avuto più tempo per elaborare il lutto. Con gli altri… è stato tutto troppo tragico e improvviso.»
«Io non ho mai conosciuto mio padre. È morto prima della mia nascita.»
Come Erik, riflettei.
«Avevo un fratello maggiore, sapete? Ma è morto quando ero piccolo. Da allora a mia madre non resto che io.» Sospirò. «Non sono fatto per essere il capo di una famiglia tanto prestigiosa. Il mio posto è nell'ombra. Ma ritornando a voi… Non so dirvi quanto mi dispiaccia, Madamoiselle. Sembrate una brava persona, e certamente le brave persone non meritano tutto questo. Il vostro dolore deve essere inimmaginabile.»
Come spiegargli che non ero una brava persona? O almeno, non come mi vedeva lui, né il mondo intero. Avevo ucciso ed ero stata quasi uccisa; il sangue mi imbrattava le mani dalla morte di Claude Giry. Il suo richiamo era sempre stato forte, e io lo avevo accettato, avevo compreso che era parte di me: odio e amore, luce e oscurità, bianco e nero, notte e giorno… ero un caleidoscopio di sfaccettature. Così come ogni altro essere umano al mondo.
Parlammo quietamente per qualche altro minuto, e mi ripresi dopo aver buttato giù un calice di champagne. Gli appuntai sul bavero del frac la rosa bianca che avevo tra i capelli. Il rossore sulle sue guance lentigginose mi fece sorridere.
Trascorsi molto tempo in compagnia di Armand – lui mi aveva invitato a chiamarlo così, ormai. Io lo avevo imitato, e lui mi chiamava Meg con agio, anche se non aveva smesso di rivolgermisi con il “voi”. Mi piaceva sempre di più: era solare e dolce come una vera margherita. Stare con lui mi regalava la tranquillità di giacere a piedi nudi in un campo fiorito, con la rugiada fresca sotto la punta delle dita, incurante del vestito che s'insozzava di terra.
Il fatto che fosse entrato nella mia vita era una benedizione. Beneficiai di quell'amicizia con grande ingordigia: stare al suo fianco mi toglieva Erik – e mia madre, e mio padre, e il sangue – dalla testa. Ben presto, cominciai a provare strane quanto familiari sensazioni: un nodo in gola quando lo prendevo sotto braccio, un colibrì al posto del cuore quando mi sorrideva con quel suo fare timido e adorabile… Capii che mi piaceva sul serio, e che il tempo che trascorrevo con lui ogni giorno, prima o dopo gli esercizi e gli spettacoli, non arrivava mai troppo presto.
Naturalmente, il confronto con Erik era inevitabile: l'amore che avevo provato per lui era nato prima come un'attrazione mentale fortissima, un connubio di bisogni primari – quello dell'essere capiti e dell'essere amati per ciò che si è davvero; la sua anima cantava all'oscurità che serbavo in me, la chiamava per nome. L'attrazione, dapprima curiosità, era mutata poi in qualcosa di molto più forte: un affetto intensissimo, divenuto un vulcano di lava e lapilli. Lui era me, io ero lui. Semplicemente questo.
Con Armand era diverso: mi rendevo conto che, per quanto il desiderio e l'apprezzamento che provavo per la sua compagnia fossero veritieri, forse innamorarmi di lui era più un bene per me stessa che un accadimento spontaneo. Mi ricordava l'amore maniacale che Erik aveva provato per Christine: si era invaghito di un'idea… e del fatto che quell'idea lo facesse stare bene. Forse io non ero così diversa.
Sta di fatto che non potevo immaginare di vivere senza Armand.
E lui provava lo stesso: era autunno inoltrato quando ci demmo appuntamento sul tetto dell'Opera – quel luogo era il tempio delle più strane e ardite dichiarazioni d'amore della mia vita. Lui si rigirava i pollici già da un po': appena sembrava sul punto di dire qualcosa, così chiudeva bocca. Mi accigliai.
«Armand, se non mi parlate, non risolviamo nulla» decretai, decisa ad apparire risoluta e determinata al riguardo, anche se dentro di me fremevo.
«Meg, io devo rivelarvi…» prese fiato, col coraggio di guardarmi negli occhi. Avvertii il cuore in gola. «… di ammirarvi e amarvi moltissimo. Siete una donna di grandi doti: avete talento, intelligenza e una certa rude ironia che vi rende cara ai miei occhi.» Sorrise suo malgrado. «Non riesco a non pensare a voi – vi penso continuamente, e… Mi siete entrata nell'anima, Meg. Vi prego di… di accettarmi. Se non provate lo stesso, è comprensibile, e io non…»
«Armand» gli posai una mano sulla spalla, al che lui sussultò. «Sapevo che sarebbe giunto questo momento. E vi dico che…» Armand sembrò trattenere il respiro, «… che essere vostra mi onorerebbe e mi farebbe più piacere di quanto possa esprimere a parole.» Sorrisi, questa volta sinceramente – la maschera era caduta.
«Davvero?»
«Sì. Ma voi meritate qualcuno che sia molto migliore di me… Un'anima devota… Non sono la persona che credete.»
«Io vi conosco, posso dire che…»
É troppo ingenuo, inesperto e innamorato per pensare razionalmente. Altrimenti, ciò che dico avrebbe senso anche per lui.
«Amico mio» lo interruppi, «giurate di avere pazienza con me. Non sarà facile.»
Lui mi prese le mani con trasporto. «Permettetemi di conoscervi, allora.»
Annuii, e mi avvicinai per baciarlo. Sotto i raggi del sole morente, si consolidò il nostro rapporto.
Sarebbe stato un marito molto migliore di quel che meritavo, e non sbagliavo.
Ero sempre stata una bambina solitaria. Crescendo, non ero mutata granché, ma la presenza di qualcun altro – un compagno, un amico – al mio fianco, una presenza fissa, dava solidità al mio essere pioggia tra le crepe della notte. La pioggia bagnava la terra, e da essa spuntavano radici. In costante movimento, avevo bisogno, in realtà, di una persona da poter chiamare casa.
La prima di queste persone fu mia madre; poi Erik. E, infine, venne il turno di Armand.
Mi resi conto che era lui ad essersi innamorato dell'idea che aveva di me, perché non mi conosceva davvero. Eppure io lasciavo correre per bearmi di quegli attimi di pace che solo la sua presenza sapeva regalarmi, ormai. Ero egoista? Approfittavo di lui, malgrado le mie buone intenzioni? Questo sembrava pensare sua madre, la baronessa di Castelot–Barzebac, la quale mi squadrava dall'alto in basso e non mi considerava degna di sua figlio, né tanto meno del titolo di nobile. La incontrai per la prima volta quando Armand mi portò nella sua villa – immensa, appena fuori Parigi – per presentarmi a lei in qualità di sua futura moglie.
Una sera, mi stavo recando a dormire con una tazza di camomilla fumante in mano – non credevo mi sarei mai abituata ad avere dei servitori ai miei ordini – quando la udii discutere animatamente con Armand riguardo la sottoscritta, e mi fermai ad ascoltare dietro la porta socchiusa di uno dei numerosi, ampli soggiorni.
«É una ballerina, Armand! Sei forse uscito di senno? E non è neanche bella. Come ti è venuto in mente di…?»
«Madre, non vi permetto di parlare così di Meg. Lei è…»
«Una negra! In casa mia! Non la voglio qui.»
«Come osate…? Dimenticate la civiltà.»
«Sei tu a dimenticarla. Sarà lei a darti dei figli, sarà lei a crescerli – come ti aspetti che verrà su la progenie di un Castelot–Barzebac e di una Giry?»
«Ho preso la mia decisione, madre. Meg è buona, onesta e intelligente – e, per me, più bella di qualsiasi altra donna! La amo, e tanto basta. Voi l'accetterete – niente discussioni.»
Mi affrettai a rifugiarmi nella mia camera, presagendo la fine di quel litigio.
In cosa mi ero impelagata? Sarà lei a darti dei figli, sarà lei a crescerli… Non mi ero mai immaginata con dei figli al seno, neanche nel mio tempo con Erik, perché sapevo che non avrei potuto averli. D'altronde, non me ne curavo. Ma adesso… Costruirmi una famiglia non sarebbe più stato solo un piacere, ma un dovere. E io non ero mai stata brava nel seguire le regole, come sapete bene.
Il matrimonio e il viaggio di nozze in Italia furono un sogno ad occhi aperti. Scrissi una lettera a Christine per darle la buona novella, e il Persiano venne a congratularsi personalmente con me una volta usciti dalla chiesa, al termine della cerimonia.
«Chi era quell'uomo, mia adorata?» mi si avvicinò Armand con fare curioso.
«Un vecchio amico» risposi semplicemente, e lui annuì, dimentico del Persiano e della sua stranezza. Era troppo felice per rimuginarvi su.
Naturalmente, la mia gioia ebbe un'esistenza breve. Amavo Armand e lo desideravo nella mia vita, ma se solo avessi potuto sbarazzarmi della madre… Dio, era la donna più odiosa sulla faccia della Terra. O forse era solo una donna preoccupata per il figlio, e per il fatto che fossi una mangiatrice di uomini – non riuscii mai a convincerla del contrario. Anche in punto di morte, fu sempre contro di me. Ma io la perdono, ormai. Ho perdonato molte cose, perché non lei?
In ogni caso, la baronessa si occupò personalmente della mia educazione, affinché parlassi il francese più colto possibile, mi muovessi con eleganza e conoscessi a memoria l'etichetta. Non ero famosa per le mie buone maniere, e si vedeva: per evitare di fare figuracce dinanzi ai nobili ospiti di mio marito, era arrivata a farmi imparare dall'inizio alla fine il manuale di bon ton, la storia della sua famiglia, e mi circondava di servitori. Mi lisciavano i capelli con un certo olio costosissimo, per poi arricciarli sapientemente; mi vestivano in stretti corsetti e abiti di seta dal perfetto taglio sartoriale; dovetti apprendere tutto sulla moda per intrattenere le nobili signore della società parigina.
Ma Armand non amava le feste, e ne ero lieta. D'altronde, il mio concetto di festeggiare era molto diverso dal suo: pensai alle bevute con Darya e Amir e la ciurma intera della Sole Nero, anni prima. Sì, quello si confaceva maggiormente alla mia personalità.
Inutile dire che mi sentivo terribilmente in colpa. Gli celavo una parte di me come la luna fa con la Terra: non conosceva i miei trascorsi, ed era meglio così, perché se li avesse saputi non mi avrebbe più voluto al suo fianco. Ero una ballerina, certo: ma cosa avrebbe detto se fosse venuto a sapere che ero stata anche un'assassina?
Ma presto mi resi conto che non potevo più nascondermi con così tanta premura. Anche la luna alla fine deve mostrare ogni faccia di sé.
La notizia che aspettavo un bambino giunse inattesa e improvvisa: mi ero insospettita non solo per l'assenza del ciclo, ma anche perché avevo cominciato a dar di stomaco ogni mattina. La conferma giunse dal medico di famiglia. Armand era estasiato: mi prese in braccio e mi fece roteare per tutta la stanza, mentre io ridevo, stringendomi a lui.
«Guarda che così ti vomito addosso.»
«Non importa. Oh, Meg, ma lo immagini? Un bambino tutto nostro!»
«Spero sia maschio» mugugnò altezzosamente la signora baronessa. Le dardeggiai contro un'occhiata di fuoco.
«Non importa se sia maschio o femmina» commentò Armand, che non pensava all'eredità.
Nei giorni seguenti, mi sembrava di camminare sulle nuvole, quasi non fossi me stessa: forse ero ancora incredula alla notizia, chissà. In ogni caso, l'amore con Armand era dolce e non volevo privarmene: quindi festeggiammo a modo nostro.
Una notte ebbi un incubo.
Non ricordo i dettagli, ma ciò che ne seguì: una mano sulla mia fronte e un'altra a lisciarmi i capelli.
«Meg!»
Aprii gli occhi di scatto e sobbalzai.
«Oh, mio Dio…»
Prima di andare a dormire, avevo dimenticato di prendere i soliti tranquillanti che mi intorpidivano anche il dolore inconscio, quello che non riuscivo a controllare – e che più mi spaventava. Mi alzai e spalancai la finestra, alla ricerca furiosa di aria da inoculare nei polmoni. Quella che mi circolava adesso in corpo sembrava fiele.
«Meg, tesoro…» Armand mi raggiunse, avvolgendomi uno scialle attorno alle spalle esili. «Cos'è successo?»
«Un incubo.» Gli sorrisi tristemente. «Ti avevo avvertito che avresti dovuto essere paziente con me.»
«Non è un problema.» Mi strinse una spalla, poi si corrucciò. Sembrava alquanto perplesso. «Meg, chi è Erik?»
Raggelai. Non udivo quel nome da parecchi anni.
«P–perché mi dici questo…?» balbettai.
«Perché lo hai nominato nel sonno. E non è la prima volta. Piangi quando lo fai, e stanotte è stata la peggiore di tutte. Fossi un altro uomo, mi insospettirei. Ma io ti conosco e…»
No, tu non mi conosci.
«Lui era… l'uomo di cui ti ho parlato una volta. Ricordi? Al ballo in maschera.»
«Ah. Capisco.» Un momento di pausa. «Ne sei ancora innamorata?»
«La sua perdita per me è stata incommensurabile. Vorrei poterti spiegare, ma…»
«Fallo, allora.»
«Non posso.»
«Non puoi o non vuoi?»
Rimasi in silenzio. Lui si passò una mano tra i capelli rossi.
«Scusa. Scusami, amore. Aspetti un bambino e non dovrei parlarti in questo modo…»
«No. Hai tutto il diritto di agire così. Io…» Sono una bugiarda e non ti merito. Ma ero troppo egoista e non osavo privarmi di lui, il mio unico conforto. Mi ero ritirata dal mondo della danza non appena avevo saputo di essere incinta, dal momento che nessuno mi avrebbe più offerto alcun ruolo, non con un bimbo in grembo. Armand aveva sostenuto di non avere alcuna intenzione di “tarparmi le ali” e costringermi ad abbandonare la danza, malgrado le furiose insistenze della madre… E io gli davo man forte. Una volta partorito, però, mi domandavo come avrei fatto a crescere mio figlio, dividendomi tra il palco e la culla. Certe donne dovevano essere vere eroine. Entrambi i miei genitori lavoravano quando io ero nata, e mia madre aveva volontariamente preso una pausa solo nel periodo dell'allattamento. Come Armand, Claude Giry non aveva avuto nessuna intenzione di “tarparle le ali”. Non che mia madre ed io fossimo quel tipo di persona.
Mi chiesi perché per noi donne si fosse creato il problema del dividersi tra la famiglia e il lavoro, perché per gli uomini non fosse lo stesso. Beh, la risposta era facile quanto urticante.
In più, essendo ormai nobile – sebbene avessi acquisito quel titolo da mio marito e non per diritto di nascita – lavorare in pubblico, e in particolar modo come prima ballerina, sarebbe stato uno scandalo. Per non parlare, poi, del fatto che presto saremmo stati in dolce compagnia.
Era una situazione difficile.
«Meg, vieni a sederti. Sembri agitata.»
Mi accomodai sul letto, stringendomi a lui.
«Sai che domani devo partire per affari.»
Annuii.
«Promettimi che al mio ritorno mi racconterai la verità. Promettimelo, Meg.»
Ponderai. Forse una parte di questa… Forse posso parlargli di Erik. Non sarà facile, ma mi fido di lui. Mi fidavo davvero?
«Ci lavorerò sopra.»
Non ebbi mai l'occasione di parlargli di Erik, come mi ero prefissata di fare. Due giorni dopo, un poliziotto giunse a casa mia, con la notizia che Armand di Castelot–Barzebac era morto in un incidente stradale a Parigi. Ero talmente sconvolta dalla notizia che il poliziotto si spaventò e mi offrì una boccetta di sali per farmi riprendere i sensi. Non sapeva che ero incinta.
Non mi costrinsero a vedere il corpo, scempiato dall'incidente in carrozza. E fu un bene: non avrei mai potuto dimenticare quell'immagine, altrimenti.
La madre lo seguì qualche giorno dopo. Sui giornali si disse che era morta di crepa cuore. Mi chiesi se avrei finito per fare la stessa fine: ma per la vita che portavo in grembo, dovevo essere forte. Era l'unica cosa viva che mi fosse rimasta di Armand.
Sapete senz'altro, Monsieur Leroux, che non ho figli, e per una ragione: la mia bambina – che avrei chiamato Antoinette, come mia madre – nacque morta. Strinsi a me il suo corpicino urlando di dolore, con le cosce impregnate di sangue, gli abiti appiccicati alla pelle per il sudore. Seppellii Antoinette di fianco al padre: era giusto così.
Non mi alzai dal letto per un mese intero. Vivevo a stento. Mi servì tutta la mia forza per riprendermi: avevo perso la mia prima famiglia (i miei genitori), la seconda (Erik) e anche la terza (Armand e la mia piccola Antoinette). Non mi rimaneva nulla. I giorni si susseguivano come una slavina su una rena ghiacciata, ché tale era il mio cuore. Avevo dimenticato come si fa a vivere.
Poi tornai in me – fu un lento cammino: ripresi a mangiare e a lavarmi da sola. Poi a vestirmi e infine a camminare. Mi pentii amaramente della mia debolezza, seppure fosse così umana che davvero nessuno avrebbe potuto rimproverarmi al riguardo: avevo promesso a Erik che avrei vissuto.
E così avevo fatto… e dovevo continuare con quella risoluzione.
Feci tutto ciò che non avrei potuto fare nei panni di Meg Giry – ma santo cielo, come baronessa sì: viaggiai per il mondo in lungo e in largo e mi ubriacai delle sue bellezze: l'America e l'Europa erano gli sfondi della mia vita disastrata, e a volte mi spinsi persino in Africa – dove potevo seguire le tracce dell'eredità di mio padre – e in Asia. Non tornai più in Persia, però. Era troppo doloroso, e io non abbastanza coraggiosa. Non dopo Erik, non dopo Armand, non dopo la mia piccola Antoinette.
Donai molto dell'eredità dei Castelot–Barzebac (una famiglia ormai finita) alla ricerca per la psicoanalisi; comprai il manicomio che un tempo era stato la prigione di mio padre e al suo posto feci costruire un orfanotrofio. Mi impegnai in numerosi dibattiti, sballottata tra vari studiosi e dottori. Doveva sembrare alquanto strano: pensate, una baronessa che si interessa dei malati mentali! Parlai in favore dei loro diritti, affinché fossero trattati da essere umani degni di avere tutte le cure possibili, e non bestie in gabbia. Non come era stato per mio padre. Se Claude Giry avesse ricevuto un trattamento diverso, se fosse stato aiutato sul serio nella malattia di cui, ripeto, non aveva nessuna colpa, non più del cancro che colpì Erik e che ora ha colpito anche me, forse anche la mia vita sarebbe stata diversa. Forse la Morte non mi avrebbe inseguita, beffandosi di me e portandosi via tutto – tutto tranne me stessa.
Mi portò via Selene, la mia giovane amica interprete in Persia: seppi da una lettera di Jasper, il mozzo del Sole Nero, che era morta di parto, anche se si era sposata felicemente. Nella stessa lettera, appresi il destino di Darya e Amir: erano stati uccisi durante una battaglia. Avrei dovuto aspettarmelo – erano mercenari, e non esistono molti mercenari dalla vita lunga, non tra quelli audaci come loro – eppure fu un colpo.
Ezzat regnò a lungo come Khanum fino al matrimonio del figlio, dopo il quale si fece da parte: morì circondata dai suoi cari. Non vi è miglior modo di morire. Da giovane sognavo una vita di gloria e una fine altrettanto maestosa, ma ora so che me ne andrò qui – come avevo detto ad Erik quando gli avevo confessato di amarlo, molto tempo fa, sul tetto dell'Opera? Brutta, oscura e maldestra. Non sono mutata davvero, dopotutto.
I miei amici dell'Opera – Juliette, Fabienne, Louise e Luc – stanno bene: si sono sposati e, da quel che so, Luc lavora ancora come capo macchinista all'Opera Garnier. Eppure io non vi ho più fatto ritorno dopo aver terminato la mia carriera di ballerina. È casa di memorie troppo lancinanti perché possa sopravvivervi.
Quelle più dolorose, oltre a ciò che mi lega ad Erik e mia madre, appartengono a Christine: ci siamo scambiate regolarmente delle missive, che mi sono state di grande conforto, fino alla sua morte, avvenuta prematuramente in un incendio che ha tuttavia lasciato indenni sia Raoul che i tre piccoli Daaé, che erano fuori casa. È stato lo stesso visconte a spedirmi una lettera per avvisarmi. La carta era umida di lacrime. Dio ha concesso loro più tempo di quanto sia stato dato a me e ad Erik, ma non era comunque abbastanza – non è mai abbastanza, in questi casi.
Per quanto riguarda Monsieur Nadir, l'ultima volta che l'ho veduto è stato al funerale di mio marito. Era venuto a porgermi le sue condoglianze. È sempre stato un uomo leale, e uno dei migliori amici che abbia mai avuto. Vi prego di porgergli le mie scuse e il mio affetto, quando lo rivedrete.
Ed io… io aspetto. Attendo di diventare una storia. Non una bella storia, beninteso, ma una vera, viva, vissuta: non sono un'eroina, Monsieur Leroux. Ho amato come tutti amano, e ho lottato per sopravvivere. Adesso sono sola, ma non ho più paura.
Negli anni, mi sono chiusa nel mio reliquiario e alla fine sono divenuta io stessa un relitto – lo spettro della donna giovane e forte che ero… Mi spaventava a morte l'idea – sempre la stessa, infida e crudele, che non mi ha mai abbandonata – di finire come mio padre: suicida, o peggio. Non me lo sono mai concessa. Molte volte ho udito le voci dei miei morti nelle orecchie; molte volte ho percepito la mano fredda di Erik sulla mia. Come osava tormentarmi dall'oltretomba? Lo avevo amato come nessuno mai. Ma perché arrabbiarsi? Si trattava di mere allucinazioni, voi direte. Certamente. Eppure – non mentite – non avete avuto anche voi l'impressione, entrandovi, che questa casa fosse abitata da spettri lontani?
È solo questione di tempo, ormai, prima che lo diventi anche io.
Solo questione di tempo…
Note dell'Autrice:
E siamo arrivati all'ultimo capitolo. Ora manca solo l'epilogo, che è breve, e che pubblicherò domani. Quando avevo detto che sarebbero accadute varie tragedie nella vita di Meg, oltre alla morte dei genitori e di Erik, non mentivo. È tutto molto triste, vero? Maleditemi quanto volete, so di essere una sadica di prima categoria.
È stato un capitolo molto difficile da scrivere: Meg diventa un guscio vuoto, per poi rimettere insieme i pezzi della sua vita grazie alla danza e all'amicizia (poi amore) con Armand; infine, la sua vita va in frantumi di nuovo. E lei è di nuovo lì, a incollare i tasselli del mosaico. Questa volta è più difficile che mai, ma ce la fa: perché, direte voi. Perché ha fatto una promessa – lo ha giurato sulla sua anima, ricordate? Come Christine giurò allo stesso uomo che sarebbe diventata la sua sposa viva – e lo deve a se stessa. Ha una storia da raccontare, e ora è alla fine.
A domani, con il prossimo – e ultimo *sigh* – aggiornamento.
E ora, le recensioni:
ondallegra: Hai pianto? Oddio, mi dispiace! Quindi ti ho stupita col finale “a lutto”… Beh, che dire, un ultimo colpo di scena prima della fine. Cosa mi dici del futuro di Meg in questo capitolo? Era ovvio che sarebbe diventata baronessa, ma te lo immaginavi così? Ammetto di adorare Armand – povero, non è colpa sua se Meg non lo ama quanto lui ama lei, per via del ricordo oppressivo di Erik; e anche così, Meg non può che sentirsi in colpa.
Hai “incontrato” Erik a Londra? Sei andata a vedere il musical, quindi. Non sai quanto ti invidio… Ricordi il cast che hai visto? Tanto io li conosco tutti a memoria. (Lo so, sono ossessiva. Ops.)
Erik IC… Ammetto che è stato difficile. Come hai detto tu, non lo si era mai visto aprirsi così con qualcuno, né nel libro né tanto meno nel musical. E grazie anche per i complimenti sul personaggio di Meg: io l'adoro e ho fatto di tutto perché fosse credibile.
Un bacio, a domani! <3
P.S. Sì, sto scrivendo un'altra ff. La pubblicherò presto, non temere.
Io immagino Erik ancora più orrendo della versione (magnifica) di Lon Chaney, ma certe movenze sono indescrivibili. Per quanto mi piaccia la voce di Ramin Karimloo, ammetto che non è il mio Fantasma preferito. Il mio ALW!Erik perfetto sarebbe un misto: la voce di Jonathan Roxmouth – senti su youtube la sua versione di “Music of the night” – e la recitazione di Earl Carpenter – di nuovo, su youtube è presente la sua fantastica versione del “Final lair”. Ammira e piangi con me.
Grazie per avermi fatto notare il pessimo (per l'appunto) errore di grammatica che neanch'io avevo notato. (Hai letto il capitolo cinque volte? Pazza! XD) Vado a correggere subito.
Jessica24: Bravissima, hai notato il riferimento alla situazione di Sansa nei libri di Martin. In effetti, pensavo proprio a lei quando l'ho scritto. È una sensazione che ho provato anche io, quindi… :)
Grazie per avermi segnalato l'errore! Ma cosa avevo quando ho scritto questo capitolo?
Domani è la fine… E già. Promettimi di recensire, please!
Un bacio! <3
bibliofila_mascherata: Scusami – sapevo che saresti andata in stato di shock. Ho pianto anch'io quando ho scritto la scena della morte di Erik, credimi. Tanto.
Comunque basta con i complimenti, che poi ci credo sul serio. Non “scrivo meravigliosamente”, suvvia… Ho ancora tanto da imparare. Sei troppo dolce e ti voglio bene anch'io. <3
Un bacio! <3
P.S. Immagino Armand come l'attore Eddie Redmayne. Avete presente? Assolutamente adorabile.
P.S. E dai, che lo sapevate che alla fine facevo morire tutti male! Vero? *cerca di difendersi dai forconi*
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Capitolo 38 *** Epilogo. ***
xxxvii.
epilogo
1910, 12 Marzo
Marguerite Giry in Castelot–Barzebac, un tempo nota alla gente dell'Opera come la “piccola Meg”, morì circa un mese dopo il nostro incontro. È tuttora nota per essere stata una donna di grande forza, che ha lottato a lungo per i diritti delle persone afflitte da malattie mentali e ne ha vinti alcuni. Al suo funerale sono presenti in pochi. Non era benvoluta: troppo stramba e solitaria per la bella società di Parigi. Non era amata, forse neanche rispettata. Ma la Meg che conoscevo avrebbe riso di tutto ciò.
Noto che tra il rado pubblico pregante – la baronessa verrà seppellita di fianco al marito e alla figlia nata morta – vi è un uomo dai capelli prematuramente ingrigiti, con pallidi occhi azzurri e un colorito ancora fresco. Una giovane donna dai capelli biondi e gli occhi di un blu incredibile – simile, eppure differente, a quello che pare essere suo padre – gli stringe una mano. L'uomo getta una rosa, una singola rosa rossa, sulla bara chiusa. Ciò mi rende perplesso, come ci sia qualcosa di straordinario in atto che non riesco a cogliere col pensiero.
Ricordo che la baronessa si è fatta seppellire con la sua cassetta di legno intarsiato, appartenente alla madre, in cui conservava tutte le memorie di una vita obliata. O quasi, penso, guardando l'uomo dagli occhi azzurri.
Un nome mi guizza nella mente: Raoul de Chagny! La somiglianza è straordinaria, e lo è anche la coincidenza. Tuttavia, non mi avvicino per intervistarlo. Dio solo sa come potrebbe reagire la polizia nel sapere che il sospettato numero uno del clamoroso caso Chagny è di nuovo a Parigi. Spero che la mia storia riesca a far luce sulla verità… sulla maschera che essa indossa. Erik se n'è liberato in punto di morte, grazie a Meg; ma la vita è un susseguirsi di mascherate, lacrime salate su volti di cera. Che siano esse di gioia o dolore, ha importanza fino a un certo punto.
Dopo la cerimonia funebre, mi reco in Rue de Rivoli a casa del Persiano, e a lui consegno, come dettatomi da Meg in persona, i saluti e l'affetto della baronessa, nonché le sue scuse. Il brav'uomo piange a queste parole.
«Non deve scusarsi di nulla. Avrei potuto essere un padre per lei, ma non ne sono stato in grado. La vita ci pone dinanzi ostacoli incontrollabili: la morte e la malattia sono tra questi. L'unica cosa che possiamo decidere è come affrontarle. E Meg lo ha fatto sempre a testa alta. Solo che alla fine il cancro ai polmoni l'ha stroncata, come è successo ad Erik. Ah, il mio eccentrico amico… Fra poco anch'io me ne andrò. Sono vecchio e malato, non mi resta molto tempo. Ma prego Allah di rivederli – la mia vecchia moglie defunta in così giovane età, ed Erik e Meg, naturalmente. Non disperate, Monsieur Leroux: se è possibile per due anime ritrovarsi dopo la morte, le loro si sono già riunite.»
E così spero anch'io. Mi fermo dinanzi al mausoleo dei Castelot–Barzebac, facendo un confronto tra la donna matura senza più nulla per cui combattere, nemmeno se stessa, e la giovane piena di vita e sogni che doveva essere stata un tempo. I sogni alla fine l'avevano tradita.
E a me cosa resta?
Prima di tutto, raccontare la sua storia. La loro storia. La morte porta via tutto… ma il ricordo sulla carta perdura. E come mi aveva detto Meg, quell'ultimo giorno?
È solo questione di tempo, ormai…
*
Il cuore mi palpita in gola come un uccello impazzito in una gabbia troppo stretta. Una sensazione che non credevo più di risentire… Mi hanno sempre paragonata a un corvo. Ma ora so che ero un'aquila, e dell'aquila ho dimostrato la forza sulla Terra. È ora di affrontare ciò che viene dopo.
Ammetto di non essere mai stata credente. Mi chiedo se questo inciderà sul finale della mia storia immortale: dove finirò?
Poi apro gli occhi, e lo vedo: una scena familiare. Il foyer della danza, il mio riflesso negli specchi e sul parquet tirati a lucido; sembra che siano la mia unica compagnia, lì, ma mi sbaglio.
Un uomo suona al pianoforte.
Mi alzo dalla mia posizione raggomitolata – come una bambina! Assurdo – e raddrizzo la schiena, da ballerina che si rispetti. Un'occhiata più attenta agli specchi, e mi avvedo che indosso un tutù bianco molto familiare: ho di nuovo ventuno anni, fresca di sogni e con ancora trent'anni di vita davanti. Una vita non facile, ma pur sempre vita. E io avevo giurato sulla mia anima.
Mi avvicino all'uomo al pianoforte. La melodia è familiare in modo inquietante… poi lo scorgo meglio: capelli neri ricciuti, pelle scura, profilo amabile… un'espressione dolce negli occhi che non rammentavo più.
«Papà.»
Lui arresta la sua nenia e mi sorride. Mi fa cenno di avvicinarmi con le sue mani da pianista. «Vieni, piccola mia.»
Nell'ansia di vederlo scomparire dinanzi a me, mi avvinghio a lui con più forza del necessario. Lui sorride del mio furore. Scoppio in lacrime sulla sua spalla, e anche lui – anche lui piange.
«Oh, papà… Mi dispiace, mi dispiace tanto…»
«Sono io che devo chiederti scusa, figliola. Se solo avessi saputo…»
«Non potevi…» tiro su col naso. «Non sono arrabbiata con te, davvero.»
«Sono fiero della mia piccola Meg. La mia bambina è diventata una donna così coraggiosa.» Mi stringe finché non smetto di piangere. Se è un altro dei miei incubi, prego Dio che duri il più a lungo possibile.
«Adesso ti porto a vedere una cosa. Vieni.» Mi solleva con grazia e io lo seguo attraverso il corridoio, superando una rampa di scale, fino all'ingresso dell'Opera Garnier. Adesso mi avvedo che non è vuoto.
È splendente come in un sogno. La prima persona che riconosco è mia madre, che mi viene incontro.
«Oh, Meg, sono così fiera di te.»
«Maman…»
Davvero non ne posso più, e scoppio di nuovo in lacrime contro l'incavo della sua spalla. Lei mi accarezza i capelli con una dolcezza che non credevo più di poter provare sulla mia pelle, e mi mostra agli altri. Ci sono tutti: Ezzat, alla quale rivolgo il mio usuale inchino irriverente che fa sorridere la Khanum; Selene, dolcissima, che mi stringe la mano; Darya e Amir che mi salutano festosamente; c'è persino Figaro, il gatto dell'Opera. Gli gratto la testa con un sorriso lieve.
E poi la vedo. Christine, un vero angelo, che mi corre incontro e mi stringe a sé. Ci scambiamo parole mai dette, due sorelle dell'anima che si ritrovano. Mi chiedo se sia un sogno o l'oltretomba. È troppo per essere vero, in tutti e due i casi.
Infine c'è Armand, con la nostra piccola Antoinette in braccio: bacio loro le gote arrossate dalla vita che non ci scorre più nelle vene. La bambina ha i miei capelli neri, la pelle ambrata e tempestata di efelidi delicate, e gli occhi verdi del padre.
«Avrei voluto condividere non una, ma cento vite con te, sole mio» mi sussurra Armand all'orecchio. «Solo che, forse… non eri con me che eri destinata a dividerle.»
Non capisco quelle parole. Lui sorride e fa un cenno impercettibile con il capo verso la massiccia rampa dorata dell'ingresso. Guardo anch'io nella medesima direzione.
Una figura alta e magra, vestita di nero, si distingue in cima alle scale. È immobile, le braccia conserte, ma un lieve sorriso gli distende le labbra bianche e sottili.
Ho il groppo in gola. D'un tratto non riesco a respirare.
«Erik…»
Mi accingo a salire le scale con una tale rapidità che quasi finisco per azzopparmi, il che sarebbe un finale ridicolo. E invece lo raggiungo, gettandomi tra le sue braccia.
«Finalmente…» mormoriamo insieme. Ridiamo tra le lacrime quando ci accorgiamo di aver parlato all'unisono.
«In realtà, avrei voluto vederti vivere altri trent'anni. O quaranta.» La sua voce è bellissima, tenebrosa e profonda come la rammentavo. Non indossa la maschera, ed è giusto così: in questa vita, non è possibile che se la sia portata dietro. Io lo avevo liberato.
«Senza di te? Arduo.» Mi sciolgo contro il suo petto. «Mi sei mancato come l'aria nei polmoni…»
«Sono sempre stato con te. Solo che non mi vedevi. Non me ne sono mai andato.»
Piango e resto ad ascoltare il palpito accelerato del suo cuore – il suono più bello di tutto il creato; eccetto la sua voce, ovviamente.
Non so se sia un sogno o meno, lo ripeto, ma… ricordo la preghiera che rivolgevo alla Morte tanto tempo prima. La sussurro sul palcoscenico della mia mente, con una forza tale che mi sembra di inveire.
Non ancora, ti prego. Fa che duri – non ancora…
FINE
Note dell'Autrice:
Non posso assolutamente credere che sia finita. Ragazzi, è stata un'avventura durata tre anni: non avevo mai neanche immaginato di riuscire a completare una storia così lunga, eppure eccomi qui.
Per quanto riguarda l'epilogo, naturalmente è di nuovo dal punto di vista del giornalista (Gaston Leroux stesso) a cui Meg racconta la sua storia. Perché ormai la storia di Meg si è conclusa… E la scena in corsivo è invece un sogno della stessa Meg in punto di morte, oppure ciò che avviene dopo la sua morte? Essendo agnostica, mi astengo dal giudicare: secondo le vostre personali credenze, credete quel che volete. Certo, anche a me piacerebbe che fosse tutto vero… Che abbia rincontrato i suoi cari defunti in una sorta di paradiso. È anche bello pensare che, malgrado Erik abbia commesso tante azioni di discutibile moralità (ehm ehm) e fosse lui stesso convinto di finire all'inferno per questo, essendosi pentito, sia potuto entrare nella grazia divina da cui si credeva abbandonato. Ma non è mio desiderio discutere di religione: la fede distorta di Erik non cambia molto malgrado lui stesso si redima grazie a Christine. Erik crede nell'esistenza di un Dio, ma è evidentemente un Dio che non lo ama e di cui non è figlio – o almeno così ritiene lui; Meg è atea, è sempre stata scettica, ma è bello pensare che anche lei si sia meritata il paradiso perché ha tanto sofferto e, per quanto lei non lo creda, ha buon cuore. O no? :)
Ovviamente non è del tutto finita qui. Ho altre storie in programma – alcune addirittura in corso – sia in questo fandom che in altri, e originali. Non so quando pubblicherò la mia Modern AU di Phantom – ricordate? Ve ne avevo parlato :) – perché volevo andare ancora un po' avanti con la storia, anche se vi assicuro che so benissimo come finirà e tutto il resto. Devo solo trovare le parole.
Non voglio perdere i contatti con voi. Se volete, potete mandarmi un messaggio privato: ho un Tumblr molto attivo e anche Facebook, e sa a qualcuno può far piacere, sarebbe bello scambiare qualche chiacchierata con voi ogni tanto. (Vi assicuro che non sono un predatore sessuale – beh, un predatore sessuale lo direbbe lo stesso, quindi non è comunque credibile.) Visto che ci accomuna la passione per gli stessi personaggi, e dal momento che non conosco nessuno che la condivida con me… Beh, se volete parlarne un po', io sono disponibile. :D
Grazie, grazie, grazie mille a tutti coloro che hanno recensito, messo nelle preferite/seguite/ricordate o anche solo letto questa storiella. Siete stati tutti perfetti e meravigliosi e mi avete illuminato le giornate. Grazie di cuore! <3 Non vi elenco tutti solamente perché sono pigra, ma sappiate che mando un bacio ad ognuno di voi.
E ora levo le tende e me ne vado. Non sto piangendo, lo giuro. *scrive con il groppo in gola*
Jessica24: Ciao, cara, sono contenta che ti sia piaciuto lo scorso – e ultimo – capitolo. E certo che non potevo lasciarle in vita anche la bambina, sono perfida – più di Martin, ammettilo! U.U Anche se lui non ha ancora finito con la saga, mancano due libri, e io non sono per niente tranquilla al riguardo. Secondo me Dany, Jaime e Brienne muoiono sicuro – intendo, tra i miei preferiti; poi ci sono tanti altri personaggi che finiranno molto male. Non qualche altro Stark, spero. Li ha già fatti fuori tutti, chi manca all'appello?
Ti avviserò con piacere non appena avrò pubblicato la nuova storia. Prego che ti piaccia anche quella. In definitiva… cosa ti è piaciuto di più di questa fic? E cosa no? Dove posso migliorare – quali sono i miei punti di forza e quelli di debolezza? (A parte certi strafalcioni grammaticali… E io che pensavo di essere bravina con la grammatica. A quanto pare sono stupida. Non ne ho fatti molti, comunque – spero.) Naturalmente è una domanda che pongo a tutti. Aspetto le vostre opinioni sulla conclusione della storia con grande aspettativa.
Un bacio! <3 |
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