I racconti di Roma

di Matih Bobek
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** L'atac ha le sue ragione che la ragione non conosce. ***
Capitolo 2: *** Lo 036 - Mistero o leggenda? ***
Capitolo 3: *** Il 64 - 1 parte - ***
Capitolo 4: *** Il 64 - 2 parte - ***
Capitolo 5: *** Odissea romana - parte prima - ***
Capitolo 6: *** Odissea romana - parte seconda - ***
Capitolo 7: *** Odissea romana - parte terza - ***
Capitolo 8: *** I saggi di fine anno - prima parte - ***
Capitolo 9: *** I saggi di fine anno - seconda parte - ***
Capitolo 10: *** Gli amici ritardatari ***
Capitolo 11: *** L'elefante ***
Capitolo 12: *** Quando un romano e una livornese ***



Capitolo 1
*** L'atac ha le sue ragione che la ragione non conosce. ***


Sono le 7:30 del mattino, e i vagoni del treno sono pieni come lo stomaco di un tacchino il giorno prima del ringraziamento; praticamente c’è mezza Roma. “Valle Aurelia dista una manciata di fermate” continuo a ripetermi in testa, quasi un rito apotropaico, sarà, eppure per ragioni ignote questa ferraglia ambulante ogni tanto decide di fermarsi. Così. Tanto per farmi perdere una buona ventina di minuti; massì, che ce frega, un piccolo ritardo di un paio di lustri che saranno mai. Non mi perdo mica una lezione. No infatti. Ne perdo tre. Senza considerare il danno morale e psicologico. Che non ha prezzo.

Oh, ecco Valle Aurelia. Sono Arrivato. Devo solo farmi strada tra la marea immane di gentaglia. Sì, se questo si spostasse. Guardalo, mica si toglie; mi avrà visto? Manco fossi trasparente. Interveniamo: “Scusi, potrei passare?” sguardo annebbiato e neurone figlio unico vagante nella scatola cranica. Mi fissa; forse non ha capito. Glielo ripeto: “Scusi, potrei passare?” … pausa millenaria… : “Devo scendere anche io!” Calmino eh, potevi rispondermi prima invece di dormire in piedi; certo che una passata di dentifricio sulle zanne potevi darla. Mamma santa, sembrano i miasmi della cloaca maxima.
Le porte si aprono, la marea si diffonde come il verbo di Cristo per la banchina; a piccoli passi, mi avvicino all’uscita: passo, aspetto. Passo, aspetto. Prima le signore. passo. Il solito idiota che entra sul treno prima che siano tutti scesi: tre passi indietro. Oddio, ma cos’è il gioco dell’oca? Strattonata a destra, spintone a sinistra, ed eccomi fuori dall’inferno. E in ritardo apocalittico, ma ce la posso fare. Sì, ce la posso fare, prendo le scale mobili… veloce Matteo, dai, veloce… ma perchè prendono tutti le scale oggi? Ci stanno quelle mobili a due passss… ferme. Ovviamente ferme. Ma perchè ci casco sempre, perchè? Valle aurelia, la Gardaland delle scale mobili, ma ne funzionasse una! Uff, e allora: gradino, gradino, gradino, gradino, veloce dai, veloce… Uuuh, ok veloce, ma non cadere, tieniti ai corrimano, dai, ci siamo, ecco le porte della metro, prepariamo la tessera. La fila dai, fate veloci su, quanto ci vuole a infilare un pezzo di carta?? Il mio turno: prendo l’abbonamento, lo infilo nella fessura… suspence… ERRORE. Come errore? Mah, riproviamo… suspence con imprecazione… ERRORE. Ok calma, calma. Oddio che nervoso! Ma tutte oggi? Dio, che ho fatto di male? Eh? Ok, ok, reagiamo: vado dalla guardia nel gabbiotto, mi faccio aprire da lui. Che problema c’è? Già… che problema c’è… a parte il fatto che il gabbiotto è vuoto. Dannazione! Dove sei, guardia fedifraga? Se ti becco ti scuoio! Dove ti nascondi? Ispezioniamo il luogo: due tizie si avvicinano ai tornelli, uno si sta facendo derubare di un euro e cinquanta dall’Atac, un altro, boh, girovaga per la stazione, vestito in blu, mentre mangia uno sfilatino. Sarà lui la guardia? Non ha segni di riconoscimento… spille, spillette e cavoli vari; proviamo:” scusi, lei è dell’ATAC?”
“Vedi ‘n po’ te, che ce sto a fa qua sennò?” Un emerito nulla, dato che stai allegramente mangiucchiando un paninazzo con la porchetta di Ariccia. Per di più non sei dove dovresti essere, ovvero nel gabbiotto, e non sei riconoscibile. Ringrazia che vado di fretta, altrimenti… : “Purtroppo non mi funziona l’abbonamento” che ho pagato quaranta euro.
“E quinni che voi?” Un pezzo del panino; ma secondo te che voglio? “Potrebbe aprirmi le porte?” “Ma accollate all’artri no?” Credo di non aver capito bene. “Scusi?” “Che stai a dormì? Aspetta che passa uno e t’accolli dietro!” Cioè. Un responsabile dell’Atac mi sta spingendo a infrangere la legge. E tutto ciò, quando gli basterebbe piggiare un bottone. Uno stupido bottone. “Lei sa che quello che mi sta ‘consigliando’ di fare è un tantinello… illegale?” “Ma lo fanno tutti!” Non mi stupirebbe troppo scorpire che ‘sto tizio è un pluriricercato. “E non sarebbe più facile per entrambi aprirmi le porte?” Come farebbe una qualsiasi altra guardia, dopo aver verificato che io sia veramente in possesso di un abbonamento. “Ahò, me sto a magna’ er panino!” Dai, sono su candid camera, per forza! Dove sono le telecamere? Mi guardo intorno. No, nessuno scherzo. Amara realtà.
“Chiedo scusa per il disturbo. Buona giornata. E buon panino.”

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Capitolo 2
*** Lo 036 - Mistero o leggenda? ***




                                                                                                                                                                                                    "Come l'araba Fenice, che vi sia ciascun lo dice, dove sia nessun lo sa" 
                                                                                                                                                                                                                                                                                 ( Metastasio)

A volte ne ho sentito parlare. Qualche volta vedo il suo nome scritto sui cartelli delle fermate. Un giorno mi capitò addirittura di leggere di lui sul sito dell'Atac. Non credo però di averlo mai visto. Come buona parte di Roma nord, del resto.
036: è una leggenda, come il mostro di Loch Ness e l'allunaggio degli americani? Oscuro enigma, degno delle telecamere di 'Mistero'? O, semplicemente, il nostro peggiore incubo? Non ci è dato saperlo, ma vediamo più nel dettaglio la situazione:
in quel di Cesano, folle scalpitanti di fedeli aspettano l'arrivo dello 036. A qualsiasi ora del giorno e della notte. Che sia brutto o bel tempo. Col caldo e col freddo. I punti di ritrovo, sparsi sulla Cassia, su via del Baccanello e su via della Stazione di Cesano, raccolgono centinaia e centinaia di credenti. Da quanto aspettano? Alcuni  da mesi, altri da anni. Altri in realtà sono scheletri con i vestiti. Perchè aspettano? Perchè lo 036 è un messia: colui che condurrà i fedeli alla salvezza.
Alla stazione de la Storta invece, compaiono, sempre più frequentemente, paparazzi o forse semplici curiosi intenti a certificare l'esistenza del mostro di metallo; con cautela, ci siamo avvicinati ad alcuni di loro per farci dire le ultime novità: uno di questi, afferma di averlo visto sguisciare rapido come una vipera tra i sassi, nei pressi di via Tieri: " è di media grandezza, blu o forse azzurro." altri, invece, dopo mesi di ostinata ricerca, si sono arresi: " E' un complotto dell'atac. Sicuro."
Nei pressi del centro storico di Cesano, leggenda e mistero si fondono in un unico racconto: si tramanda che lo 036 sia figlio dello 024, la grande assente, e del 201, colui che non passa, e che sia stato creato per poter diffondere il verbo dell'atac aldilà della Cassia. Si narra inoltre che lo 036, altrimenti detto l'inesistente, spesso si rechi dalle parti della stazione, poichè innamorato della Grande Ferraglia, colei che porta fino a Roma Ostiense, nota a Roma nord col nome de "la soppressa". Altre versioni ci informano che l'Inesistente, non avendo concezione del tempo, non sappia precisamente quando incontrare la Grande Ferraglia, cosa che fa saltare ogni coincidenza. Ammesso che possa esistere una qualsiasi coincidenza. Nonostante la frequenza con cui lo 036 si dirige alla stazione, nessuno è mai riuscito ad avvistarlo e a produrre delle prove. O meglio, nessuno è mai tornato vivo per poterlo fare. I racconti del borgo offrono dettagliate descrizioni riguardo al carattere dell'inesistente: capriccioso, volubile e dedito ai fumi dell' alcool. L'ultima in particolar modo, si ricollega ad una teoria secondo la quale l'arrivo dell'inesistente sia preannunciato da un aggressivo odore di birra. Anche alle sette del mattino. 
Nonostante i vari racconti e le diverse teorie, l'esistenza dello 036 è ancora avvolta dal mistero. Non è possibile avvistarlo: perchè velocissimo, e perchè dannatamente simile alla madre, la grande assente, che frequenta le stesse zone. Il sito dell'atac ne parla ancora, fornendo informazioni dettagliate, alimentando il fanatismo dei credenti.
C'è anche chi afferma di esser riuscito ad avvistarlo e, addirittura, di esserci salito. Purtroppo, è ancora in stato comatoso.
Dove le leggende non arrivano però, c'è il disgusto dei semplici cittadini, stanchi e stufi di dover spendere un euro e mezzo di biglietto per un qualcosa che, diversamente dall'araba Fenice, c'è, esiste, che lo si neghi o no, ma dove sia nessuno veramente lo sa.

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Capitolo 3
*** Il 64 - 1 parte - ***



I vagoni dei treni di Roma sono di due tipi: quelli in cui l'aria condizionata proviene direttamente dal polo sud, e quelli in cui l'aria condizionata non esiste. 
Qualche giorno fa, io e mio padre decidemmo di dirigerci al centro;  una volta arrivato in stazione, non sai mai cosa sperare (  oltre al fatto che il treno ritardi di meno di venti minuti, ovviamente ): se beccare il polar express, oppure il piccolo vagone crematorio con posti a sedere, che almeno son comodi; se morire con un fucilata alle ginocchia, o con la testa mozzata.
 Il caso decise per noi, e appena messa la punta del piede nel treno, capimmo di aver beccato il vagone polare: quello popolato dai pinguini controllori, e orsi macchinisti. Quello con sedili in comodo permafrost e i vetri dei finestrini in sottili lastre di ghiaccio. Quello il cui pavimento, è forse più una pista da pattinaggio, e i corrimano sono stalattiti. In poche parole, il set di Frozen! Mi godetti il viaggio, o perlomeno ci provai; osservavo il paesaggio, sognavo l'estate ( anche se in pieno luglio). L'igloo su rotaie arrivò a destinazione; mio padre mi svegliò dal mio sonno antartico, mi fece segno di scendere, e d'un tratto, nel bel mezzo della mattinata mi ritrovai a San Pietro. Eppure sembrava di stare ai tropici.   Vidi in lontananza il cupolone troneggiare in tutta la sua santità, sembrò grondasse di sudore, anche lui come noi poveri cristiani. Continuai a guardarmi intorno: ma perchè ero lì? Non lo ricordavo: lo sbalzo di temperatura, da sotto lo zero a deserto africano, mi lasciò frastornato. Quel buon uomo di mio padre, con semplici gesti e poche parole, notò il mio sconforto, e con sguardo comprensivo, mi guidò nel percorso. Avanzammo, come anime perse, sperando che il traghettatore di Roma, il mitico 64, fosse già lì, al capolinea, pronto a partire. Non c'era. Lo sconforto si dipinse buio sul volto dei poveri disgraziati sparpagliati per il marciapiedi, che, a giudicare dalle gocce di sudore sui loro visi, aspettavano da molto. Mio padre rimase in silenzio, soffocando tra i denti qualche parola sgradita, non facendo trapelare nulla dal viso serioso. Io, semplicemente, non capivo niente: il sole picchiava troppo forte, ed ero più simile ad un budino che ad un essere umano. I minuti scorrevano come acqua di un ruscello, e imprecazioni e bestemmie si levavano dalla folla in attesa, mentre sullo sfondo il cupolone si scioglieva in lacrime. Ad un tratto arrivò il 64, caricò la marea di anime lamentose e rimase lì. Fermo. Ad aspettare. Cosa non si sa. Intanto, all'interno dell'autobus, si veniva a formare un microcosmo di mille sfaccettature, un mondo in miniatura brulicante di miliardi di vissuti differenti, che sfumava  in una miriade di imprecazioni e bestemmioni tonanti. Salito sull'autobus, stretto stretto, mi ritagliai un piccolo spazio, e mi misi, con un misto di stupore e incredulità ad osservare la folla: una donna si avvicinò al conducente e iniziò a chiedergli con insistenza e con un italiano zoppicante:" ma quanno parte? Nopperchè devo annà a pregà a San Pietro!" ( probabilmente nella speranza che il signore le donasse un libro di grammatica). Una ragazza, di trent'anni circa, ciancicando nervosamente una chewing gum, urlava al telefono:"Non poi capì, st'autobus dem****a c'ha messo 'na vita, mò non se decide a movese, porca t***a, che c***o!" e secondo dopo secondo, esaurì l'intero vocabolario delle volgarità, rendendomi nota l'esistenza di termini che mai avrei potuto immaginare. Seduti sui sedili, tre ragazzi dall'accento chiaramente esteuropeo, parlavano a velocità supersonica. E ancora, un anziano dal viso pulito e scarno, un uomo dal colorito grigio e dalla pelle rugosa, come il tronco di un albero, e poi una ragazza, dai capelli scuri e le labbra gonfie, con l'immancabile matita sulle labbra;  trucida nell'anima, pensai.
Uno intento a messaggiare sul cellulare, l'altro a smadonnare in turco, e l'ultima, che sbuffava come un toro, prendendosela con chiunque le si avvicinasse:  poverina, stava stretta. Noi invece sguazzavamo allegri, tutti appiccicati sotto l'afa di metà luglio. 
L'autobus partì, faticando per il peso eccessivo, e iniziò il suo ansimante viaggio tra le vie di Roma. Ogni curva ci buttava l'un addosso alll'altro, e la strada dissestata amplificava lo sconforto. Ma il vero dramma fu quando l'autobus arrivò alla prima fermata: quattro biondini dall'aria spaesata carichi di borsoni attendevano sul ciglio della strada. La loro visione destò il panico nell'autobus: " non fateli entrare! NON FATELI ENTRARE!"Si levarono urla di terrore, visi atteriti si dipinsero sui loro sorrisi e ancora." VI PREGO, NON FATELI ENTRARE!!" la donna con la matita sulle labbra ringhiò agitando i pugni:" NON C'ENTRAMO! STAMO TUTTI SCHIACCIATI! ANNATEVENE, ASPETTATE N'ARTRO AUTOBBUS!" Quasi sembrava che gli occhi le stessero per uscire dalle orbite. Le porte si spalancarono e l' amazzone de Noantri si lanciò sui poveri ragazzi, sbarrando loro l'entrata. Sbraitò contro loro; sbraitò tanto che la saliva sciolse la matita attorno i canotti di pelle. Io e mio padre ci scambiammo uno sguardo loquace e ridevamo sotto i baffi per le assurdit
à che ci venivano schiaffate sotto gli occhi.
( to be continued)

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Capitolo 4
*** Il 64 - 2 parte - ***


 Il 64 continuò la sua odissea, e arrivò appena sotto il ponte Cavalleggeri; fuori dal finestrino, videmmo uno spettacolo terribile: una folla immane di gente, intenta a salire sull'autobus. Al panico generale si sostituì una pallida rassegnazione. Io, ormai sciolto in sudore, ero sul punto di svenire, un po' per il caldo, un po' per il timore di dovermi arrampicare sulle mancorrenti. L'orda salì, e noi ci spalmammo sulle sbarre di metallo. Disperato, guardai mio padre e gli chiesi come mai ci fosse così tanta gente, lui si limitò a scuotere la testa: non ne sapeva nulla. Un signore dietro di noi, con cappello e baffi grigi, si girò e ci disse: "la metro A è ferma." Lasciò che le sue parole ci penetrassero, restando serio, poi, come se avesse professato chissà che verità, si rigirò. 
La metro A ferma. Strano. Forse è l'unica cosa che funziona a Roma. Certo, a volte più che una metro sembra un parco acquatico, ma almeno è efficiente. O meglio, lo era. Ancora, il silenzio di mio padre fu più chiaro di mille parole. Uscito dalla galleria, il 64, pieno zeppo di anime disperate, si trovò nel bel mezzo di uno degli incroci più tremendi di tutta Roma, Ed è tutto dire. Dai finestrini potevamo vedere lo spettacolo dal vivo: le automobili sgommarono sul lucido asfalto bollente per evitare di scontarsi. Una macchina sfrecciò contromano, e un motorino fece slalom tra gli ammassi di latta. Dai finestrini delle auto sbucavano le mani "vaffa", il gesto romano per eccellenza, mentre io, con sguardo sconvolto, osservavo il degrado dell'umanità dipingersi sul nero del catrame, proprio vicino al mausoleo di Adriano.
Il viaggio continuò, e ci illudemmo che il peggio fosse finito; ma la quiete fu frantumata di nuovo quando, all'ennesima fermata, salì un ragazzo che, non riuscendo ad entrare, dovette spingere la folla. Non volendo, pestò il piede a miss matita - sulle - labbra: il tempo si fermò.  Si squarciò il cielo al di sopra di noi, l'autobus all'interno sembrò tingersi di rosso; le fiamme uscivano dalle sue pupille, e dalla bocca fiumi di lame affilate sostituirono la lingua. Una voce pietrosa e fredda come granito fuoriuscì dalla cava dentata, e si scagliò violenta contro il malcapitato:"PORCA T***A! CHE C***O FAI! MA SEI UN C*****E! M'HAI SPORCATO 'E SCARPE!"Un buon motivo per buttarle, pensai tra me e me. " MA CHE C****, TUTTE A ME OGGI, TUTTE A ME! Indiavolata, la coatta continuò ad urlare e urlare, mentre il ragazzo, poverino, seriamente dispiaciuto, le chiese scusa, tremando come una foglia:" Mi dispiace veramente, posso fare qualcosa?" Veramente galante, pensai. Lei non pensò lo stesso:" Sì: TE DEVI DA LEVA' DAR C***O!". Il giovane abbassò la testa e si spalmò sul vetro delle porte. Io, incredulo, nuovamente guardai mio padre, cercando nei suoi occhi una risposta. Trovai il silenzio, ancora e di nuovo. La ragazza retrocalcitava sbuffando come un cavallo imbizzarrito, scuotendo lo shatush, un po' per il caldo, un po' per vanto. 
Sgangherato e satollo di anime, l'autobus fece le ultime fermate mentre mano a mano scendevano i superstiti. Noi attendevamo il capolinea. Nei pressi di Corso Vittorio, salì una coppietta di anziani: vistosamente affaticata dalla calura estiva lei, e vistosamente affaticato dalla moglie, lui. A turno si lamentarano prima del caldo, poi dei giovani ( che per me erano anziani, tanto quanto loro ) che non cedevano il posto, degli stranieri, di cui l'autobus era zeppo ( Asia, Africa, Europa, America e Oceania: tutti in uno. I poli ovviamente, sul treno ), poi delle mezze stagioni che non esistono più, e dei mezzi pubblici, sempre pieni zeppi; ricordarono con la nostaglia negli occhi i loro bei tempi andati in cui " si stava meglio", e poi battibeccarono: lei aveva ragione anche se diceva che il cielo era verde, lui torto marcio. Sempre. Dopotutto si sa, il matrimonio è formato da uno che ha sempre ragione e dal marito. E in taluni casi, dall'idraulico. 
La coppietta scese una fermata prima del capolinea, e lasciò sul mio volto un sorriso dolceamaro. 
Eravamo ormai quasi arrivati; l'autobus aveva assunto l'aspetto di una tomba fiammeggiante: "almeno seppellitemi seduto, per favore!" pensai. Le mie gambe non mi sorreggevano più ed ero sul punto di crollare. Il caldo si era fatto insopportabile, ed ero bagnato da capo a piedi.  Cercai refrigerio aprendo lo sportellino, che sembrava però fissato nel cemento. C'erano metri e metri di finestrini e nessuna possibilità di aprirli. Ma chi li costruisce gli autobus a Roma? Saw l'enigmista?
Spalmato sul finestrino, con gli occhi semiaperti, pregai che finisse quell'inferno. Dopo un attimo, che mi parve senza fine, mio padre mi toccò la spalla, e mi fece segno di scendere: eravamo arrivati. Scesi dal bus di Satana, e non appena toccai terra, col volto provato, alzai le mani al cielo, commosso e poi lanciai un ultimo sguardo al rottame degli inferi, che sembrò quasi ringhiare di soddisfazione nel vedermi sfinito, o inaspirsi di odio per non avermi fatto fuori. 
Piazza Venezia splendeva raggiante, con le sue aiuole festose di gioia e profumate di fiori, mentre la figura del Vittoriano si imponeva con la sua regalità sulle strade al di sotto. Orde di turisti inebriati dalla bellezza di Roma scattavano foto su foto, sorridendo felici. Via del Corso brulicava briosa di vita, e i resti della Domus Aurea brillavano per il sole. Il cielo era limpido e regalava una piacevole brezza che mi accarezzava la pelle. Mio padre mi fece sedere su una panchina all'ombra, vedendomi stravolto e accaldato; rimase in piedi accanto a me e disse:" Quando ero piccolo io, il raccordo non esisteva; gli autobus erano pochi e passavano di rado, i treni, non ne parliamo; la metro non sapevamo cosa fosse, le strade erano dissestate, piene di buche, e se disgraziatamente pioveva poco piu' della norma, era la fine; le poche macchine che circolavano conoscevano le regole della strada come io conosco l'aramaico antico. L'educazione non è mai stata di casa. Dimmi, e' cambiato qualcosa?" Scossi la testa in silenzio. Un attimo di silenzio e aggiunse: " E' il prezzo della bellezza."

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Capitolo 5
*** Odissea romana - parte prima - ***




                                                                               Bisogna smettere di dire che il prossimo è stupido, maleducato o ignorante: di solito è tutte e tre le cose.
                                                                                                                                                                                                            (Sandro Montalto)



Le cose che odio sono molte. Forse troppe. Saranno i vent'anni; sarà che ormai il tempo passato con gli altri esseri umani ha di gran lunga superato la dose consentita; sarà che il mio temperamento, per natura,  è sempre stato quello di una stufa a pellet. Insomma sarà quel che sarà ma, ora come ora, la lista delle cose che odio è terribilmente lunga. E questo mi preoccupa un po', perchè sembro uno di quei vecchiettini che passa la propria vita con le mani dietro la schiena a commentare gli operai. Mi sento un po' come Bersani, capite no? Ed è dura sentirsi come Bersani a ventidueanni. In parte però, credo sia normale. Sì insomma, sono uno studente. E non uno studente qualsiasi, ma de La Sapienza, quindi costretto quotidianamente a dover lottare con una burocrazia labirintica e asfissiante. Per di più vivo a Roma. A Roma nel 2015. Quando la più alta forma di cultura rimasta sono probabilmente i video di Yotobi. Ma non è solo questo ( che comunque contribuisce in modo non trascurabile), forse la cosa che mi condiziona di più è il fatto che prendo i mezzi pubblici tutti i giorni. Proprio in quel contesto la natura italiana, la nostra forma mentis, emerge con una lucidità e chiarezza tali che giusto l'altro ieri ho ordinato un camion di maalox per curare il reflusso gastrico. La mia vita da pendolare compierà due anni ad ottobre, è giovane ma molto precoce ed ha acquisito una capacità analitica molto accurata. Diciamo anche che non era difficile: il provincialismo di certe persone non ha sfumature, si ripresenta sempre uguale a se stesso, senza variazioni, notarlo non è certo difficile. Quindi non so, mettiamo caso un martedì mattina, come consueto, ti trascini fuori da letto a stento verso le 7:10, risucchi tempestivamente la tazza di caffè con il dolcificante e inserisci a mò di banconota i biscotti in bocca. Ti fiondi fuori di casa, facendo di tutto per scrollarti di dosso il tuo avvoltoio personale ( tua madre, per chi non la conoscesse). Arrivato in stazione, raggiungi la banchina, e insieme a una quarantina di persone intorpidite dal sonno, aspetti il treno regionale veloce, quello delle 7:48 più venti minuti di ritardo. Il cielo è coperto da un sottile velo e l'aria mattutina punge sul volto. Ti poggi con la schiena su di una colonna, mentre guardi un ragazzo bere un'aranciata. Se bevessi tu un'aranciata di prima mattina, saresti in grando di alimentare un treno a vapore, ma questa è un'altra storia. Il ragazzo si scola l'ultimo sorso della bevanda gasata, si guarda intorno con aria circospetta e lascia la bottiglia vuota sulla banchina. Con il secchio a tre passi. Gli lanci un 'occhiataccia che zittirebbe una mandria inferocita di boyscout, metafora non casuale, considerato che è già accaduto nel viaggio Stoccolma - Copenaghen. Vorresti cestinare la bottiglia vuota, non prima di aver fatto un discorsino sul bene pubblico al troglodita con i risvoltini, e già che ci sei, una lezioncina basilare sulla moda. Purtroppo lo salva il treno, l'ammasso di ferrivecchi mai puntuale che oggi decide di spaccare il secondo. Il vandalo si guarda bene dall'entrare nel tuo stesso vagone, e sfugge alle tue grinfie. La mattinata è appena cominciata, gli zebedei friggono come le patatine di Mac Donanld's. Entri nel vagone, ti senti come compresso in un barattolo di sottoaceti bagnati. Ti guardi intorno, sei in cerca di un posto libero, pur sapendo che sul diretto alle otto del mattino, non troverai nemmeno il gabinetto vuoto; c'è gente capace di simulare una gastroenterite solo per poter occupare il bagno per tutta la durata del viaggio. Srotoli gli auricolari, fidati compagni di viaggio, sperando che siano un pretesto sufficiente per evitare il chiacchiericcio insostenibile dei concittadini o per sfuggire alla diarrea verbale della solita vecchierella che infesta i vagoni del treno. La ferraglia ferma a la Storta; sai che un fottio di gentaglia sta per popolare il tuo vagone, allora ti schiacci per bene contro il vetro degli sportelli inutilizzati. Un anziano signore  dallo sguardo granitico ti chiede di fargli spazio:" Fatti più in là." " Signore, anche se lei è convinto di popolare già il mondo dei morti, io non sono un fantasma" pensi tra te e te. Non dici nulla, ti spalmi come stracchino sulla parete. Intanto, tra la marea di capocce stanche, scorgi un viso conosciuto. Il panico si impossessa del tuo corpo. Subito ti irrigidisci, attorcigli le dita attorno al filo degli auricolari, ti mordi le unghie dell'altro mano, il respiro si ingrossa in un affanno disperato. La mattina non chiedi nulla, se non il sacrosanto rispetto del silenzio. Che già quotidianiamente tua madre infrange con la sua invadenza. Solo un po' di silenzio. Non vuoi incontrare nessuno, non daresti retta nemmeno alla Gabanelli in persona, nell'improbabile ipotesi che ticchettasse le sue dita ossute sulla spalla per interloquire con te. Inizi a rimpicciolirti, a coprirti il volto, piano piano ti fai sempre più basso e conti i secondi che ti distanziano dalla tua fermata. Lei sembra averti notato. Ti fissa per dieci secondi, quindici, venti, poi il suo sguardo è trafitto da un lampo di genio. Ti ha riconosciuto. Ti sorride. Tu sollevi gli angoli della bocca. Ci provi almeno. Ci vorrebbe una gru per riuscirci. Un cenno con il capo; lei scuote la mano fendendo il l'aria stantia del vagone. Le sue labbra si muovono, forse sta cercando di comunicare qualcosa. Ti sfili gli auricolari e cerchi di interpretare il suono:" Dove scendi?" Non riesci a muovere le labbra, con un gesto le fai capire che scendi alla prossima. Lei triste risponde che scende al capolinea. Se avessi un'anticchia di brio e un minimo di spazio vitale, ti scateneresti in un ballo sfrenato di gioia. Fingi di essere dispiaciuto. Il treno ferma a Valle Aurelia. Prendi la borsa che avevi poggiato per terra per non occupare spazio ( pensiero che i tuoi concittadini hanno difficoltà a concepire). Ti prepari a scendere; con quel poco di forza nelle braccia, saluti la tua amica e aspetti che si aprano le porte. Due ragazze sulla ventina ti passano avanti. " Devo scendere anche io" fai gentilmente notare con un filo di voce:" Non me sembra che te sto a sbarra' 'a strada." Parla una lingua che credevi estinta. O forse speravi estinta. Non distingui mai il confine tra i tuoi ideali e l'effettiva realtà che ti circonda. Fai finta di nulla, altrimenti ti ritroveresti condannato da un fiume di dita aguzze che sentenziano la tua scortesia nei confronti di giovani fanciulle. Come minimo, verresti additato come porco maschilista. Anche dal signore accanto a te che parla con il commercialista alle otto del mattino informandolo che stasera la moglie è fuori per lavoro. 

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Capitolo 6
*** Odissea romana - parte seconda - ***


 Le porte si spalancano, stai per muovere il primo passo per la libertà, ma ecco che il solito gregge di imbecilli si fionda dentro al treno, senza l'accortezza di far scorrere la fiumana di gente fuori dal vagone. Ancora, ti ritrovi illuso e deluso di fronte alla diseducazione del tuo paese. Tra uno spintone e un calcio, sei  sulla banchina. Le scale sono lontane come l'obelisco di piazza del Popolo in pieno agosto quando ti trovi a metà di via del Corso. Cerchi di farti strada, improvvisando un abile slalom tra i passanti. Per qualche strana ragione, camminano tutti con una lentezza atavica, quasi stessero sfruttando l'inerzia per muoversi. Devono andare a lavoro, ne sei certo, eppure non temeno di ritardare. Controllano l'orologio con fare nervoso, lo noti, la tensione è palese nello sguardo, eppure poi restano lì, fermi, come falene imbambolate dal lampione. Non sai se stimarli o reputarli inetti. No, in realtà lo sai benissimo. Prendi di fretta le scale mobili "Così mi sbrigo", pensi; scendi gradino dopo gradino, poggiandoti sul corrimano per paura di cadere, ma ecco che subito devi fermarti: Il tipico luminare che non ha ancora capito che bisogna tenere la destra sulle scale mobili. O magari, semplicemente, non conosce la differenza tra destra e sinistra. Lo capisco, per carità, un anno di Renzi può fare questo e altro. Chiedi permesso, con un tono tantinello scocciato. Il signore si volta, ti lancia un'occhiata di sufficienza e borbotta:" Se vai di fretta prendi le scale, come tutti!" Ti fermi lì. Sul gradino. Di stucco come un pollo di legno. Perchè il nostro becero ignorantone doveva sputarmi addosso la sua sentenza al sapore di rancido qualunquismo, magari per sentirsi meglio con la sua iniqua coscienza morale. E non puoi dire nulla, per carità, come osi sfidare le leggi del qualunquismo? Le uniche veramente sentite in Italia. C'è chi ci ha governato per ben due decadi grazie a tali leggi. Dopo aver ingoiato qualche vaffanculo e consumato mentalmente un calendario di maledizioni in greco antico, torni a camminare rapido. Seconda rampa di scale, stavolta quelle consuete. Terza rampa di scale, prendi le mobili. Che tanto sono ferme, secondo la legge di Murphy che non cessa di perseguitarti. Finalmente la Metro A. Tutto trafelato, ti avvicini al tornello con stretto in mano l'esoso abbonamento. Non puoi fare a meno di notare che una stragrande maggioranza di persone decide di passare per i tornelli riservati ai diversamente abili. Forse l'italianità è un handicap mentale, pensi. Giunto alla banchina, aspetti la metro. Si ferma, e già aldilà dei vetri si staglia alla tua vista l'ingente numero di passeggeri, stretti stretti, che si mantengono in equlibrio con la morte incastonata sul volto. Ti stazioni di fronte alle porte aspettando che si aprano, mentre una ragazza sulla trentina preme incessantemente il bottone verde:" guardi signora, premere il pulsante non serve a nulla. Le porte si aprono automaticamente al momento giusto." spieghi con fare fraterno. Ti senti un po' san Francesco tra i poveri. Lei però ti guarda come se fossi Scattle de La Sirenetta e le avessi appena spiegato che il soffia bla bla veniva utilizzato in era preisterica:" Guarda che ho trent'anni!" Subito risponde impettita; tentenni un attimo: la risposta inaspettata ti ha confuso: "Sì non ne dubito, ma io dicevo del pulsante..." " Ti sbagli, io lo premo sempre." " Guardi, io non lo premo mai, eppure le porte si aprono lo stesso." "Be', allora? Vuoi un premio?" " In realtà vorresti un lanciafiamme per scioglierle quella faccia da culo, ma nessuna arma può sostituire una buona dose di educazione. A parte il bazooka di GTA. " Buona giornata!" " Questi ragazzi di oggi, così maleducati!" Ti volti di scatto con le fiamme nella voragine delle pupille. Lei spaventata, indietreggia e si va a sedere lontana da te. Ti guardi attorno cercando un posto a sedere, ma ti arrendi nuovamente all'evidenza. Qualche fermata dopo, si libera la postazione di fronte a te; cogli l'occasione come farebbe qualsiasi giovane nato stanco. Ma prima, con il tuo solito fare pacato, offri gentilmente il posto all'anziana signora con i capelli radi. Lei con un gesto silenzioso rifiuta e ringrazia con un lieve cenno del capo. Ti siedi. A Flaminio entra una signora di circa quarant'anni, la tipica donna di Roma nord; pensi abbia il viso da Alessandra o magari Maria qualcosa, o forse uno di quei nomi radical chic come Fiorenza o Giuditta. La osservi, colpito dal suo aspetto: ha una luce particolare negli occhi; un aspetto così curato e al contempo semplice:" Ma non mi offri il posto, scusa eh?" Lo scontro con l'asprezza delle sue parole mi fa cozzare a terra." Scusi?"
" Ma che sei sordo? Mi cedi il posto?" Come se le fosse dovuto. Signore e signori, ecco a voi la dama de 'sto cazzo! Non volendo perdere tempo e sanità mentale in una discussione sterile, ti alzi prontamente, scusandoti:" Ma non volevo sedermi, volevo solo che mi chiedessi il posto! Voi giovani dovete imparare le buone maniere!" Se non le abbiamo imparate, è probabilmente perchè gente come lei non può insegnarle, vorresti dirle. Ti trattieni, anche stavolta. A che pro mettersi a discutere con chi non può comprendere? Tiri le labbra e ti mordi la lingua, e intanto la tua mente sta macinando un corpus mai scritto di offese sconsacrate che farebbero tremare la Terra. Ti siedi di nuovo. Appena poggiato il sedere sul sedile, Fiorenza la signora dei borghi ti istiga nuovamente:" Almeno potresti cedere il tuo posto alla signora?" "Gliel'ho già offerto, ma ha rifiutato." 1 pari, palla al centro cocca. " Ma veramente..." interviene l'anziana dai capelli radi" Non mi hai offerto prorpio nulla." Ok, lo so. E' una candid camera, ora esce quel minchione di Teocoli, Mammuccari, Amendola o chiunque fosse. " Che aspetti?" " Signora, io non ho problemi ad offrirle il posto, e infatti gliel'ho già ceduto prima, quando lei hai rifiutato. Se ora lo vuole, si segga pura, veramente!" " Voi giovani siete così aggressivi!" Aggressivo? Cara signora Fiorenza Giuditta Maria Alessandra, sarei aggressivo se prendessi la sua faccia da cazzo e la sbattessi ripetutamente sullo spigolo del sedile fino a vederla esalare l'ultimo respiro sommersa dal suo stesso sangue. Allora sarei aggressivo, sì. Lo sarei ancora di più se, nel mentre, le urlassi che è una frustrata, una signorotta indispettita dalla fine dei saldi che si diverte a martoriare le palle a chiunque abbia raggiunto uno straccio di obiettivo nella vita. " Chiedo scusa." Mi alzo. " Tranquillo, puoi restare seduto, devo scendere." Ora lei si siede. Anche solo per mezzo minuto.  Anche per uno stradanatissimo secondo. Si deve sedere. " Guardi, resto in piedi, così elimiamo il problema eh!" Ti stai spazientendo, e a ragione! Sei messo a tacere ancora prima di poter parlare. Ma anche nel caso in cui parlassi, qualsiasi cosa tu dicessi verrebbe ritorta contro di te, fino a trasformarti in un agitatore sociale, in un instabile matto a piede libero, uno di quei casi umani che di solito siede sulle poltrone di Barbara d'Urso. No, no, non sto parlando di Alfonso Signorini... be', sì anche.

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Capitolo 7
*** Odissea romana - parte terza - ***



 Prendi le distanze da Fiorenza, signorotta del Grande Nord, e dalla vecchiettina smemorata.
Mancano ancora poche fermate, eppure più la distanza si accorcia, più l'attesa si fa snervante e estenuante: la metro non fa che riempirsi ad ogni fermata come un tacchino messo all'ingrasso per il giorno del Ringraziamento; di tanto in tanto, ricevi qualche occhiata storta senza motivi precisi; il cicaleggio diviene via via sempre più insostenibile. Ti sei sempre chiesto quale legge fisica determinasse che, chiunque entri in metro, debba obbligatoriamente starnazzare al cellulare. Ti ritrovi così a sapere gli sporchi affaracci di chiunque: la singora di fronte a te, seduta nella postazione, con un french discutibile e l'aria scontrosa, impartisce rigidi ordini alla babysitter: il figlio ha il morbillo e non è andato a scuola. La figlia invece, di nome Ginevra, torna a casa per l'ora di pranzo, ovviamente deve trovare il pasto pronto, altrimenti... Peccato non sapere nulla del marito, veramente. Ancora, di lato, un signore dall'aria distinta, con una ventiquattrore in cuoio, leggermente logora, discute animosamente: parla di contratti non consegnati, di robaccia burocratica. Niente di interessante. All'improvviso, cambia il registro linguistico, sfoderando un accento romano pesantissimo; frappone tra una parola e l'altra  un' imprecazione, scandita con tono altissimo:" A fijo de na mignotta, andò cazzo stai anna', tacci tua." Bastavano due parole: dove vai? Almeno in un luogo pubblico. Almeno alle otto di mattina. Certe regole non sono scritte perchè dovrebbero essere impresse nella nostra coscienza di cittadino, pensi. Un attimo di vuoto e ti chiedi:" ma quale coscienza?"  Dovunque ti volti, vedi qualcuno parlare al telefono. Per certi versi, si tratta di momenti preziosi: le persone sono capaci di svuotare la propria anima in un vagone della metro, a patto che siano al telefono. Come se quell'apparecchietto da appena seicentoeuro potesse creare intorno a loro una bolla isolante. Be', in effetti a quel prezzo, te lo aspetti. Finalmente Vittorio Emanuele. Sospiri, come se ti stessi levando un macigno dalla bocca dello stomaco. Appena le porte automatiche si spalancano, ti getti fuori dalla metro, curvi rapido verso l'uscita e ti dirigi alle scale mobili; non riesci però ad inserirti nel flusso: ti tagliano la strada, cercando di infilarsi in ogni spazio vuoto:" C'ero prima io" hanno il coraggio di ribadire, con tono tronfio. Sospiri ancora, stavolta però, perchè il peso di quell'enorme macigno è tornato a esercitare il suo peso sulla tua pazienza. Pensi di capire cosa provasse Sisifo a dover spingere in cima al monte il solito masso che poi sarebbe rotolato indietro travolgendolo. Certo quando a travolgerti è il tuo paese, la tua casa, una parte di te stesso, ti senti più impotente di un vescovo in un paese cattolico. Ancora, vieni superato da un'alta signora dai lunghi capelli scuri, l'ultima della fila. " Finalmente tocca a me" pensi" Mi tocca correre sulle scale per recuperare i minuti persi." Appena espresso l'ultimo pensiero, la stangona mora dopo appena il terzo passo, si ferma sul gradino a chiacchierare con l'amica ritrovata. Accanto a lei. Sullo stesso gradino. Occupano in due lo stesso fottutissimo gradino della scala, impedendo di fatto il passagio a destra e a sinistra. Alzi il capo, cercando con lo sguardo la nuvoletta di fantozzi, l'unica spiegazione possibile a questo punto. Le guardi insistentemente per una buona manciata di secondi. Certi sguardi valgono più di mille parole. Certi sguardi ma non questo a quanto pare. Tra il timido e lo spazientito, decidi di farti avanti per chiedere permesso. Sei del parere che un cittadino ben educato, una persona civile, debba rendersi conto da solo di certe cose. Ma del resto, chiunque può sbagliare. Di prima mattina poi... con la testa tra le nuvole, si sa, no? Anche in questo caso sta al cittadino educato fare presente il giusto atteggiamento da tenere e puttanate simili che non hanno alcun senso per gente di questa levatura. Lo sai benissimo. Alzi il dito, con voce sottile:" permesso". Le due si voltano con sguardo feroce. " Non vedi che stiamo parlando??"  Lo vedi. Lo vedi benissimo, purtroppo. " Sì...ehm, volevo solo chiedere se gentilmente poteva spostarsi; sa, ho lezione tra poco." " Be', potevi alzarti prima!" In Italia, il concetto di libertà, dopo aver spiccato il volo, ha ricevuto un colpo secco in pancia e scende ora in picchiata libera tra le braccia del più becero egosimo. Come se fosse un concetto di cui fasciarsi per giustificare le prorpie mancanze, dietro cui nascondere e forgiare la propria individualità, dimenticandosi che la libertà nasce, si basa e dipende dalla collettività. La si utilizza per colpire l'altro, non per accoglierlo; la si utilizza per scaricare ogni responsabilità, non per rendersi partecipi delle soluzioni; la si utilizza per giustificare l'ignoranza, la disinformazione, la superficialità, non per combatterle. Sembra che la libertà sia stata distorta al punto da fungere da base ideologica dell'ignoranza, da sempre prigione della mente.
Irritato e spazientito, rispondi:" Sulle scale mobili si tiene la destra. E' una regola." Sputi questa frase fuori dai denti, con ferma collera e voce piatta. " Ma allora quel tizio?" Indica l'altra, per venire incontro alla sua amica. Il signore indicato si aggira sulla quarantina, è nero di pelle e si trova a metà delle scale, piuttosto distante da voi:" Scommetto che a lui non dici niente! Certo... è straniero!" Il tuo ultimo desiderio è quello di intrattenere una discussione con le figlie di Salvini a quest'ora immonda della mattina. La tua pazienza ha raggiunto il limite, tutta la bontà e la calma mantenute fin'ora hanno lasciato spazio ad un guizzo ardente nello sguardo e un tono sicuro e titanico:" Innanzitutto, di fronte a me ci siete voi, non lui. Quando lo avrò raggiunto, farò presente a lui ciò che ho fatto presente a voi. Secondo poi, la nazionalità non ha a che fare con la legalità o meno delle azioni. Chi sbaglia, sbaglia." Il tuo discorso sembra averle spiazzate. Si guardano qualche secondo, dopodichè torni ad incalzarle:" Allora, vi spostate, gentilmente?" Con un tono che è stato prosciugato di tutta la gentilezza. Arrivi all'uscita della stazione dove inaspettatamente sono presenti tanti controllori quanti sono i tornelli. Esibisci l'abbonamento con semplicità; il controllore fa il suo dovere, lo ispeziona con un'accuratezza e serietà professionali ammirevoli: " Mancherebbe la data di nascista, qui a sinistra" indicando uno spazio vuoto giusto accanto al nome. Be' sì, zelo ammirevole, ma da quando in poi si indugia su dettagli tecnici di questo genere? " E' un problema agente?" " Dovrei chiamare gli uffici ATAC e verificare che tu sia il vero possessore, ma per stavolta ti lascio passare." Nel frattempo non puoi fare a meno di notare che le due amiche di Salvini vengono  fermate dalle altre guardie in quanto sprovviste di biglietto:" lo abbiamo perso." inscenando trafelate una folle ricerca. Vengono assolte:" Per stavolta chiudo un occhio". Passano furtivamente i tornelli, con l'espressione di chi l'ha fatta franca. E tu sei stato cazziato perchè mancava la data di nascita. Allibito e amareggiato per questa prima ora e mezza di giornata, ti chiedi cos'altro potra mai accadere; veramente non c'è fine al peggio? Ma blocchi subito il pensiero: non vuoi provocare il destino, ne hai già avute abbastanza. Non sai che, nel viaggio di ritorno a casa, una ragazza disegnerà con lo smalto sul bracciolo del treno la svastica nazista, giustificando il suo atto dicendo che:" se i miei  amici ce l'hanno tatuato sul braccio, non può essere una cosa brutta." Non lo sai ancora, e ti godi quello straccio di tempo che ti lascia al sicuro e ignaro di quanto siano bui questi tempi.

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Capitolo 8
*** I saggi di fine anno - prima parte - ***


Avete presente quegli spettacoli tediosi e allucinanti che siete costretti ad assistere a fine maggio perchè avete avuto la malsana idea in autunno di iscrivere vostro figlio ad una scuola di musica?
Dal vostro sguardo terrorizzato, intuisco che i saggi di fine anno rappresentano un incubo anche per voi, come per la stragrande maggioranza della popolazione. Anche se poi il digusto viene abilmente camuffato per quelle due tre ore di estrema sopportazione alla quale veniamo piegati.
In tutta onestà, più che i saggi di fine anno, io odio chi li organizza. Li odio con un trasporto corroborante, con un’imperante intolleranza. Li odio talmente tanto che non posso fare a meno di partecipare come spettatore ad ogni maledetto spettacolo di fine anno. Da due anni a questa parte sono diventato un vero e proprio cacciatore di saggi. Vi starete chiedendo cosa diamine significhi; magari mi starete immaginando, vagabondo tra le periferie coatte di Roma nord, con in mano una penna a mo’ di fucile, mentre setaccio le viuzze anguste in cerca di qualche teatrucolo scrauso e decadente. Ecco, la verità non è troppo lontana. Non so cosa sia e dove provenga questo sentimento contraddittorio e masochista che mi spinge a farmi così male; semplicemente mi diverte terribilmente guardare la superficie dei nostri atteggiamenti e scorgere una frustrazione mai espressa che brulica poderosa appena sotto i volti sorridenti. Pensate, la mia fama di cacciatore è talmente nota nella cerchia dei miei conoscenti, che non ho nemmeno bisogno di alzare le flaccide chiappe dalla sedia, mi basta aspettare che qualche mia amica mi chiami al telefono in un ombroso ma caldo mezzogiorno di giugno e mi chieda con colpevole innocenza se voglio venire a vedere la sorella, la cugina, la nuora del macellaio o chi per voi, che canta:
“Sì, certo volentieri! Posso portarmi anche carta e pena?” L’alternativa sarebbe rimanere a casa a vedere l’emozionante concerto di Marcella Bella. E’ come se Dio avesse d’improvviso deciso di ascoltare i miei più reconditi desideri e mi avesse offerto,su un piatto di lucido platino, i più prelibati esempi di trash nostrano. Scegliere non è facile: rinuncerei in entrambi i casi ad una critica caustica. Ci ho pensato, tanto e a lungo, e sono arrivato alla conclusione che, a ben vedere, Mediaset si sforza quotidianamente di superare i limiti del trash. Riuscendoci sempre, tra l’altro. Marcella Bella oggi, Al Bano domani, no? Quindi, non posso proprio perdere questa grande occasione: tutto il becero provincialismo di Roma nord, questa sera, sarà sotto ai miei occhi, succulento come pancetta sulla brace, pronto a farsi dilaniare dal fluire feroce della penna.

Come ho sottolineato all’inizio, più che i saggi, odio chi li organizza. E il pubblico, molto spesso. Perchè tutto sommato, quei poveri ragazzi tremolanti costretti ad esibirsi nonostante un fifa che se li divora, che colpa hanno? Oltre ad avere genitori in pole position nella corsa all’ipocrisia, intendo.
“Allora, vieni sul serio?” chiede con tono inquisitorio la mia amica “Certo, canta tua sorella, non posso mancare!” ” Più che altro” aggiunge lei, con una nota sardonica nella voce” c’è l’insegnante!” Un motivo in più per non mancare, direi. E’ come se fosse una celebrità, secondo un qualche distorto ragionamento. Nasce tra i campi di grano; cresce a pane e provincialismo; stessa intellettualità di Barbara d’Urso e la capacità d’eloquio di Emma Marrone. Ma soprattutto, quella ridicola convinzione di essere aldilà della massa, originale, anticonformista, quando a dire il vero, è il peggior sottoprodotto delle borgate. Lei è la Cersei del trash, la regina di cuori di questo labirintico mondo perennemente votato alle canzoni dei Modà; La sua vena artistica è in cancrena dal giorno della sua nascita e il suo cuore irrora puro trash nelle vene; i pezzi, dedicati con ostentato sentimentalismo alla figlia o al marito, posseggono quel satanico odore stantio da miasma tossico e richiamano un modo di fare musica che ha smesso di esistere da almeno un secolo, per ovvie ragioni. Il concettismo articolato delle liriche presenta la stessa complessità del pensiero pseudo politico di Salvini.
” Come sarà vestita, stasera?” Chiede la mia amica. Non c’è bisogno di chiederlo, penso: sarà la trasfigurazione del Kitsh, lo so, qualsiasi cosa indosserà. Come nelle occasioni precedenti, dopotutto.
Ci stiamo dirigendo sulla scena del crimine, dove a breve, quell’unica goccia di senso del decoro ancora vagante nei pressi degli ultimi spazi di Roma, riceverà il colpo di grazia sul compensato scricchiolante del palco.
Sceso dalla macchina, sono già preda di un conato. Ammettiamolo, veniamo bombardati da input di pura ipocrisia, provincialismo e pacchianaggine, ogni giorno, ad ogni ora. Anche voi che ora state borbottando ” Ma io non vedo la televisione!” non vi preoccupate: Il provincialismo è ovunque vi voltiate: nelle notizie fasulle di facebook e in quei commenti pregni di ignoranza appena sotto; sul sedile del treno, dove qualche giorno fa un ragazza ha disegnato con lo smalto la svastica nazista; è impresso con inchiostro nero sulle pagine dei quotidiani; aleggia nei gesti della signora che vi è appena passata davanti alla posta. Scoppietta frenetico tra le risatine false della folla di genitori che, qui sotto i miei occhi, starnazza animosamente senza rispetto. Sono tutti sorridenti, imbellettati come pacchi di natale, allegramente inconsapevoli del fatto che non c’è nulla di meno elegante di chi lo è nel contesto sbagliato. Una signora di mezz’età, con un vestito così stretto che deve essersi per forza cosparsa di vasellina prima di indossarlo, mi pesta il piede. Le lancio un’occhiata storta, aspettando le sue scuse. Silenzio. Evidentemente i soldi che tenta di ostentare con brillocchi di dubbi bellezza non possono comprare l’educazione.
Sono le nove e mezza, le poltrone del teatrino sono riempite. Mi guardo intorno, sperando che non ci sia nessuno che conosco, per evitare quella lunga sceneggiata al sapore di convenevoli e sorrisi forzati. Nessuno. Qualche viso conosciuto c’è, ma si tratta di quei casi in cui tu sai chi sono, ma loro non sanno chi sei tu, e allora fai di tutto per mantenere l’anonimato ed evitare ogni contatto umano. Con il tempo, mi rendo conto, sono divenuto insofferente, intollerante, intransigente.
Che peccato, veramente!
Che peccato non esserlo stato prima, intendo!
( continua...)

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Capitolo 9
*** I saggi di fine anno - seconda parte - ***


Il sipario si apre, ed eccola apparire in tutta la sua tracotante e becera coattanza. Sfoggia un completo nero, forse una tuta, che io indosserei solo per andare in palestra il quindici agosto quando ho la certezza di non trovarci nessuno. Il capello riluce vermiglio sotto i fari del palco: un taglio talmente passato di moda che è quasi all’avanguardia. Il tutto è sigillato da una cintura sgargiante con la fibbia a forma di quadrifoglio. Onestamente, farebbe venire un attacco di cuore a undici stilisti su dieci. “Ma che s’è messa?” le mie amiche sono allibite. Non guardano il vestito però. Seguo il loro sguardo atterrito e capisco tutto: le scarpe. Probabilmente Tony Manero le sta cercando da una quarantina d’anni. O forse anche lui ha capito che si tratta della più grande ingiuria subita dal mondo della moda. Le prime tre esibizioni snocciolano subito lo standard della scaletta: un mix patetico di pezzi archiviati dei peggiori autori italiani mai esistiti e brani direttamente scelti dalla playlist di Studio Aperto. Non un brano che sia fuori dallo schema della canzone pop da classifica o del repertorio da sagra di paese. Osservare questi giovani sfilare uno dopo l’altro, cimentandosi in interpretazioni arcaiche di brani che varrebbero un centinaio di denunce agli autori per offesa all’arte, mi infonde un senso di disgusto e tristezza. La rabbia sopraggiunge solo quando fugacemente getto uno sguardo sulla folla di genitori commossi che squassano l’aria stantia del teatro battendo vigorosamente le mani. Il loro sguardo lucido e colpevole brilla sotto la luce dei fari, effondendo amore per ogni nota che il figlio stona; poi, finita l’esibizione del proprio guaglione, si lanciano in grida appassionate: “Bello de mamma, core mio!!”. La dea del trash, l’insegnante, introduce, uno dopo l’altro, i suoi amati alunni, non mancando di sfoggiare doti giornalistiche degne di Paola Perego. Si impiccia della vita sentimentale delle ragazze, flirta insensatamente con i giovani sbarbatelli, presumibilmente minorenni, e non manca di sottolineare, ogni tanto, come la sua guida abbia trasformato certe carampane in veri e propri usignoli. Può darsi, penso io, ma considerati i brani che resuscita ad ogni occasione, quello che manca a lei, e quindi a suoi protetti, è la conoscenza musicale, la capacità di adattarsi ai diversi generi che dai ruggenti anni venti si sono sviluppati fino ad oggi. Inoltre, dovrebbe sapere che cantare non vuol dire sparare acuti e sostenerli dieci minuti per poi strappare l’applauso più fragoroso, ma veicolare un coacervo di emozioni con le sfumature della voce, con il bagaglio emozionale del cantante e con tanti altri fattori di cui chi insegna canto deve tenere conto. Evidentemente però, a lei interessa altro; a lei interessa ritagliare un momento di gloria per sua figlia, che fa esibire ogni volta per una buona mezz’ora; le interessa esibirsi il più possibile per dimostrare di saper comunicare con i pipistrelli grazie agli ultrasuoni; le interessa far sfilare le sue marionette canterine per un puro torna conto personale; le interessa mostrarsi sensibile e sciogliersi in lacrime sbandierando le disgrazie dei suoi alunni ad un pubblico di cento persone che hanno già troppi problemi per conto loro. La fiera delle virtù pacchiane però, non avrebbe alcun senso né effetto se non ci fosse un pubblico altrettanto pacchiano pronto a schiamazzare felice per ogni volgare trovata. Durante la godibile esibizione di una ragazza, una bambina timidamente si fa strada sul palco e comincia a far galleggiare tutt’intorno giganti bolle di sapone color rosa Paris Hilton. Io d’un tratto perdo ogni compostezza; la mascella mi cade a terra con un tonfo sordo e sanguino dagli occhi. Le mie amiche soffocano a stento risate di giusto scherno; lo sdegno mi fa raccogliere quel po’ di forza per girarmi e guardare la folla che lacrima e sorride come stesse ammirando il miracolo di Fatima. Con una sola mossa è riuscita a raggiunge un tale apice di Kitsh che anche la Clerici si inginocchierebbe cedendole l’amato podio. Lo spettacolo giunge al suo termine e la mia mente si sfoga in un lunga catena di maledizioni che mi autoinfliggo per via del mio spirito masochista; mi giuro che mai più cederò al mio gusto contraddittorio solo per un’amara risata. lo spettacolo però non è realmente finito. Usciti dal teatro, la recita continua: la serata è un palcoscenico ed ognuno ha la sua parte. I genitori si complimentano a vicenda, elencando i cento motivi per cui il figlio dell’altro è stato il migliore dello spettacolo, ma dietro la vile maschera traspare la lama del coltello che si vorrebbero reciprocamente piantare tra le spalle. Gli uomini reggono il moccolo appena accanto, parlano tra di loro sfoderando i peggiori luoghi comuni in ambito politico e sociale. Poi le due coppie cominciano ciascuna a produrre orde di inviti, ora per una cena su un attico esclusivo con vista sul Colosseo; per una settimana in uno Chalet nella Val di non; per un agriturismo frequentato solo da attori di Hollywood a due passi da lì. Me li immagino proprio a degustare calici di vino bianco, ad atteggiarsi da grandi enologi con il Tavernello in mano; a spacciare per prelibata Scottona la carne del gatto randagio trovato morto vicino alle ortensie; a spiccicare, prima dei pasti, quelle quattro parole sacre che hanno imparato nelle lunghe domeniche trascorse in chiesa a far finta d’esseri cristiani, per poi dimenticarsi di Cristo per il resto della giornata. L’amabile chiacchierata termina e le coppie si avvicinano alla loro vettura; ad ogni passo che li distanzia dalla folla segue un diretto abbassamento del registro linguistico. Nel frattempo, i giovani cantanti, vestiti come fossero agli Oscar, si pavoneggiano con amici e parenti; l’insegnante sfila come un narciso: tira sorrisi su sorrisi, stringe mani e ride rumorosamente. Io e le mie amiche, piano piano, tentiamo di camuffarci con la vegetazione ai lati dell’entrata mentre ridiamo delle loro pose plastiche. Appena dietro la risata tuttavia, ondeggia il timore di rimanere invischiati per sempre tra le pastoie di una vita provinciale che, un giorno non troppo lontano, terminerà con il confondersi con il resto fino a sembrarci l’unica realtà.

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Capitolo 10
*** Gli amici ritardatari ***


La maggior parte dei miei amici prende il ritardo come uno stile di vita. Inutile dire quanto la cosa mi debiliti. Credo onestamente che i ritardatari siano una delle più grandi piaghe sociali del XXI secolo.
Sono innumerevoli le volte che mi son ritrovato ad aspettarli le ore sotto casa per motivi futili e ragioni insignificanti: una volta perché non sapevano cosa indossare, un’altra perché non li ho avvertiti che stavo per arrivare, altre ancora perché credevano che l’orologio indicasse l’ora sbagliata. Ciò che più mi manda in bestia del loro atteggiamento è che loro non chiedono scusa. Mai. Per arcani motivi, sono convinti che il ritardo sia un sano stile di vita. Magari perché hanno letto sul Galateo che arrivare in anticipo è maleducazione, una delle scuse che rifilano più frequentemente. O forse, si sono imbattuti in qualche improbabile studio psicologico, di quelli svolti dalle università americane sprovviste di fondi, che dimostra quanto ritardare fortifichi il rispetto di se stessi. Psico-balle esistenziali degne di settimanali per adolescenti che ovviamente loro assumono come filosofia di vita.
Se non sono tanto audaci da rifarsi a queste perle per giustificare il loro comportamento, scaricano la colpa addosso a qualcun altro. Molto spesso sono i genitori, che li hanno segregati in camera, con pane, acqua e manette alle grate della finestra. La fata Turchina ha trovato traffico sulla tangenziale e non ha fatto in tempo a liberarli. Altre volte, la colpa è di alcune misteriose condizioni atmosferiche, come “l’acqua che cade dal cielo”. Dunque, l’acqua che cade dal cielo è una divinità atavica e pagana capace di mettere in ginocchio la Capitale. I paesi civilizzati la chiamano semplicemente pioggia. E’ sempre colpa della pioggia, soprattutto se il Raccordo è intasato, dicono i ritardatari. E’ vero… ma poi, penso, perché fare il Raccordo se abiti a la Giustiniana e devi arrivare alla Cerquetta? Ci sono volte in cui la colpa è semplicemente mia, giustamente. Sono io il cattivone che li ha avvertiti solo cinque giorni prima che l’appuntamento sarebbe stato alle sette. Cosa ne potevano sapere loro che non avrebbero avuto abbastanza tempo per limarsi le unghie? Dovevo immaginarlo, io.
Tra i tanti atteggiamenti che rendono odiosi i ritardatari, va fatta menzione di almeno altri due: 1) Sono lenti. Lenti come una canzone di James Blunt; lenti come la polenta valsugana; lenti come i libri di Faletti.
2) Il loro cellulare è sempre irraggiungibile; probabilmente lo smartphone ultimo modello serve solo a fotografare la cena per postarla su Instagram.

La combinazione di questi fattori rende i ritardatari distanti, inafferrabili, evanescenti. Anno dopo anno, è venuto a formarsi nel mio inconscio un istinto omicida nei loro confronti. Ma la loro capacità di sfumare come nebbia in val Padana li rende veramente invincibili. Ormai ne sono convinto: loro esistono a prescindere dal tempo, sono esseri i privi di ogni legame con lo scorrere dei secondi. Proprio come Sonia di Super tre: vive da sempre, senza avvertire la caducità dell’istante. Solo che lei, quando ero un dolce bambino dalle guanciotte rosate, rallegrava le mie giornate. Gli amici ritardatari invece le continuano a svuotare di ogni effettiva utilità e le lasciano inermi sul pavimento.
Insomma, non esistono armi contro di loro. In rarissime occasioni però, raggiungo picchi di autocoscienza ammirevoli: realizzano che arrivare alle 23 quando l’appuntamento è alle 19 è fuori da ogni grazia divina. Allora ricorrono a mezzucci vergognosamente idioti, come ad esempio mettere in avanti l’orologio di dieci minuti. Se quello che volevano era essere presi per i fondelli, bastava alzare la cornetta e chiamarmi. Comunque, di regola se ne lavano le mani: la loro è una nobile arte, secondo il loro personalissimo modo di vedere. E quindi nulla, bisognerà armarsi di santissima pazienza quando si sarà costretti ad andarli a prendere. Sarà meglio non girare senza il fidato gameboy con la cartuccia di pokemon giallo che allievi il dolore di attenderli le ore, in macchina, sotto casa. E mai lamentarsi! Penso ai loro futuri partner. Loro sì che sono condannati. Condannati per sempre.

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Capitolo 11
*** L'elefante ***


La settimana scorsa ho comprato un elefante. Sì esatto, un elefante. Bello grosso, mastodontico... be', ovvio, è un elefante...con la pellaccia spessa e dura, di un grigio argenteo scuro. Le zanne sono lunghe lunghe, così lucide da potertici specchiare. Si è abituato all'aria di Cesano, al clima, anche alle antenne di radio Vaticana.  Come dice? Dove lo tengo? Be' in giardino. Lo lascio scorazzare tra i prati, ogni tanto. Certo, dovrei tenerlo legato, ma con che cuore? Mi guarda con quegli occhietti lucidi, e io mi sciolgo come un ghiacciolo al sole. Quindi sì, be', ogni tanto lo lascio libero... l'orto l'ha distrutto eh, ma almeno è felice di essere libero in un giardino di 500mq... contento sì. Poi qualche volta piange, deve sentirlo come piange! Come un forsennato! Barrisce alla luna e carica il cancello. Vuole uscire, povero cucciolo. l'altro giorno avrebbe sfasciato il cancello di casa se non l'avessi lasciato libero. Ma perchè mai poi vorrà uscire? Qui ha tutto lo spazio che vuole... bah, valli a capire questi animali!  Se l'ho portato a spasso con il guinzaglio? Sì sì certo... be', per un po'. Il guinzaglio gli dava fastidio, già... e Elly... sì, si chiama così, carino no? Elly è troppo alta per il guinzaglio, troppo. Poi, dopo mezz'ora che la portavo a spasso non ne potevo prorpio più: fa un caldo, un caldo boia proprio! Allora l'ho lasciata in giro sola soletta... che male può fare, del resto? Certo, ha aggredito due persone eh, ma pure questi idioti che fanno? Vedono un elefante e scappano. Scappano! Ovvio che poi ti rincorre, la mia piccola Elly. E' nella sua natura... dovrebbero girare armate le persone, sì proprio... per ogni evenienza. Oddio eh, se feriscono la mia Elly io li faccio marcire in galera, che sia chiaro. Addirittura sono venuti a lamentarsi due signori oggi, tutti impettiti con la puzza sotto il naso... dicevano che è pericoloso per le macchine.  Ma che pericolo c'è? Se vede una macchina, Elly la carica. Sta mettendo le zanne, del resto. Con qualcosa dovrà giocare, no? Poi insomma, queste persone che guidano non possono stare un po' attente? Se Elly li colpisce, è colpa loro. Un elefante non può girare libero per le vie comunali senza essere spaventato dal clacson delle auto? Ma in che mondo viviamo, veramente! E questi signori che alzavano la voce e parlavano di leggi... ma loro che ne sanno dello spavento che si è presa Elly? E si stupiscono che si ritrovano l'auto accartocciata come una lattina di coca cola. Fossero gli unici ad essersi lamentati! La famiglia che abita in fondo alla via ha avuto da ridire perchè Elly ha caricato la porta di casa. Be' certo, se vi costruite le case al primo piano, che cosa vi aspettate. Insomma, un po' di buon senso! Quella signora poi... è appena andata via, è venuta a citofonarmi in casa, a disturbarmi all'ora di cena per dirmi che Elly ha rovesciato un secchione dell'immondizia. Ed è un problema mio? Elly ha fame! Non riesco a sfamarla come dovrei. Ha idea di quanto mangi un elefante? Se fiuta del cibo, anche tra la spazzatura, se lo mangia. E' l'istinto.  Poi se rovescia i cassoni, che è colpa mia? Rialzatelo, se vi dà fastidio; oppure, non buttate la spazzatura; Tenetevela in casa! Come dice, scusi? Illegale? Illegale cosa? Ah... è contro la legge lasciare che un animale domestico circoli per le vie comunali? Ma come, qui a Cesano i cani scorrazzano allegramente, senza guinzaglio e museruola! Pensi, addirittura senza padrone! Perchè loro sì e il mio elefante no?

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Capitolo 12
*** Quando un romano e una livornese ***


    La bellezza dell'Italia risiede nella varietà culturale. Il nostro patrimonio spazia dall'arte alla cucina passando per  lo sport e l'artigianato. Ogni regione offre un microcosmo culturale differente ma che, al contempo, condivide con ciascun altro luogo lo stesso respiro, la stessa natura. L'aspetto che nel tempo ha sempre più attirato la mia curiosità è quello linguistico. Sicuramente, l'ambiente universitario e la facoltà di studi scelta hanno favorito lo sviluppo di tale interesse . E' estremamente affascinante osservare come, da regione a regione, la stessa cosa venga detta in modi e modi differenti. Affascinante sì, ma certe volte, in tutta onestà, rappresenta un problema. Magari si è nel vivo di un' interessante conversazione e la comprensione viene bloccata da una piccola, strana parola. Vorrei dire che questo evento si presenta di rado, ma la realtà è che ogni giorno spunta fuori un termine che io non ho mai sentito.
Ciò accade in particolar modo con la mia amica livornese. Ancora più impressionante è pensare che tutto sommato Roma e Livorno non distano così tanto, eppure, vi assicuro, la differenza si avverte. 
Immaginate quindi una qualsiasi conversazione quotidiana con un'amica intima: si parla del più e del meno; cosa fai oggi, cosa farai domani; hai studiato? Ho fame, ti va di mangiare? 


"Ho una fame! Ti va di mangiare insieme?" 
" Sì dai... dove si va?"
" Mah, andiamo dal cinese?"
" Mmmm, non so... magari una cosa più leggera? Mi è venuta una buzza!"
" Che ti è venuta?" 
" Una buzza, B-U-Z-Z-A!"
" Guarda, puoi fare tutti gli spelling che vuoi, ma io non so che lingua stai parlando"
" Ma dai, come, la buzza... non lo dite voi a Roma?"
" Ma secondo me lo dici solo tu in tutta Italia... che cosa vuol dire in italiano?"
" Tipo pancetta, trippa... a me sembra assurdo che non lo diciate."
" Ti giuro, non l'ho mai sentito, noi a Roma diciamo trippa, panza..."
" E panza ti sembra italiano??"
" Sicuramente più comprensibile di buzza... pare swahili!"
" Ora chiedo alla bimbe, sicuramente mi daranno ragione"
" Ma perchè dovresti chiederlo a delle bimbe, che ne possono sapere loro?"
" Ma no, alle mie amiche!!"
" Hai amiche di dieci anni??"
" Ma cosa stai dicendo, le mie amiche! Le hai anche conosciute!"
" Ma perchè le chiami bimbe?"
" Perchè tu come le chiameresti??"
" Ragazze, semplicemente..."
" Vabbè, lasciamo perdere. Senti, mi sono accorta di aver dimenticato a casa il portafogli, quindi niente ristorante..."
" No ma figurati, te li alzo io i soldi!"
" Come?"
" Te li alzo io, senza problema."
" Perchè dovresti sollevare dei soldi per me??"
" Nooo, intendo, te li presto io!"
" Aaaaah, infatti non capivo..."
" Ma perchè voi non lo dite?"
" Evidentemente no... diciamo ' te li presto' ".
" Che stranezza... pensavo fosse "universale"
" Vabbè, insomma, dove si va??"
" Andiamo al cinese dove siamo andati il mese scorso, ok?"
" Non mi ricordo...è lontano? Perchè ho una galla che mi fa un male..."
" Una galla?? Che sarebbe??"
" Una galla, dai... sul piede."
" Oggi abbiamo più problemi comunicativi del solito."
" Eh ma tu non conosci l'italiano!!!"
" Ma intendi la vescica??"
" Sì esatto, la vescica, la galla...dai, se mi fa troppo male mi prendi in collo"
" Perchè proprio in collo? Non ti posso prendere in braccio?
" A Roma dite prendere in braccio?
" A Livorno dite prendere in collo??
" Certo!"
" Ma non ha senso, una persona la prendi in braccio, non in collo!!"
" Ma in collo suona meglio!"
" Al massimo a cavacecio!"
" A cavache???"
" Cavacecio!! Dai, quando eri piccola i tuoi genitori non ti prendevano a cavacecio?"
" Ma non so cosa voglia dire!!"
" Senti, facciamo che andiamo a mangiare..."
" Aspetta un attimo, prendo la passata in borsa... "
" Perchè ti sei portata appresso una bottiglia di pomodoro??"
" Ma no, che dici!! La passata!! Per i capelli... mi da fastidio la zazzera davanti agli occhi!!"
" Ma sei stata in Kazakistan di recente e hai dimenticato l'italiano?"
" Non ci posso credere! Non conosci la passata????
" Ma nemmeno la zazzera... "
" Dai come lo chiamate quella specie di semicerchio che si mette in testa?"
" Il cerchietto??"
" Cerchietto?!?! Ma che brutto!!"
" Invece passata... per niente fraintendibile! E la zazzera??"
" Dai, i capelli che scendono sulla fronte!"
" Ah, la frangetta!!"
" Che brutti nomi che usi!" 
" Mentre tu prendi la 'passata' io mi aggiusto la cintura chè mi cadono i pantaloni."
" Intendi la cintola?"
" Intendo la cintura, quella che metti per stringere i pantaloni..."
" Io la chiamo cintola... cintura suona proprio male! Comunque, pensavo, se invece di andare al cinese mangiamo un piatto di pasta a casa mia?"
" No dai, non ti preoccupare, non mi va di disturbare..."
" Ma figurati, non peritarti!"
" ...Guarda, non avevo intenzione di farlo perchè non ho la minima idea di cosa voglia dire!"
" Scherzi??? Non dite peritare?? Guarda che è italiano!!"
" Immagino, come buzza, zazzera e cintola!!"
" Controllo sul sito de la Crusca, scommetti che si dice?"
" Controlla pure, ti dirà che è una variante toscana, sicuramente."
" E invece no. Guarda, guarda che dice!!!"
" Io non l'ho mai sentito in tutta la mia vita."
" Pensa che strano, io lo utilizzavo anche da bambina!"
" Senti, me lo posso appuntare un attimo sul post-it?"
" Sì fai pure, non abbiamo fretta. Ti serve un lapis?"
" Come mai parli latino?"
" Lapis... è italiano."
" 'Matita' ti sembrava troppo da poveracci?"
" Ma la matita è quella colorata!!
" La matita colorata è colorata, la matita è la matita. Ma dove le hai fatte le elementari? Al Vaticano?"
" Quanto sei simpatico! Noi parliamo la lingua di Dante, mica come voi..."
" Sei rimasta indietro di qualche secolo però..."
" E come lo chiami allora l'appuntalapis??"
" Se intendiamo la stessa cosa, temperino o temperamatite!"
" Temperino?! Ma che schifo di parole usi!!!"
" Invece un bambino che dice appuntalapis ti sembra normale?"

E questo è, grossomodo quello che accade quando un romano e una livornese dialogano. Quant'è bello l'italiano, quant'è bella l'italia!

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