Nella mia mente

di Ubriacarsidiparole
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Al buio ***
Capitolo 3: *** Azzurro ***
Capitolo 4: *** Tutto inutile ***
Capitolo 5: *** Cioccolato ***
Capitolo 6: *** Speranza ***
Capitolo 7: *** Domande ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


 
Ricordo che pioveva. 
Ricordo ancora l’odore umido del vento che mi sferzava il viso, avvolgendomi come una coperta fredda.
Ricordo il morbido tessuto della sciarpa che fece la mia mamma quando ero piccola.
Ricordo ogni piccolo istante di quel giorno. 
Se avessi ancora i miei colori la potrei ritrarre. 
Potrei ritrarre lo sguardo sconvolto di quell’uomo, la sfumatura esatta del sangue che scendeva a rivoli dal viso candido della bambina, per poi ricadere a piccole gocce sull’asfalto e confondersi con la pioggia,la sua posizione innaturale e la gente intorno a lei.
Potrei dipingere i loro occhi terrorizzati, le labbra che tremavano ed insieme a loro, io, che rimasi lì, sul marciapiede a guardare inerte la scena. Come se tutto quello che stava accadendo in quel momento fosse solo un sogno, se stringevo forte gli occhi e mi davo un pizzicotto, tutto sarebbe svanito come nebbia. 
Ricordo di averci provato, ma il sogno rimase davanti ai miei occhi. La bambina non se ne era andata, era ancora sull'asfalto.
Mia sorella non avrebbe più sorriso, non avrebbe più corso né giocato.
Mia sorella era morta.
Il sangue scorreva, ancora, inesorabilmente.



Ciao :)
Anche se è molto piccolo come prologo, spero vi abbia incuriosito e che, appena pubblicherò il seguito, continuerete a leggere.
Mi farebbe piacere sapere cosa ne pensate di questa prima parte, accetto tutte le critiche del mondo, perché sono consapevole di dover imparare ancora molto e vorrei crescere nell'ambito della scrittura, quindi spero che domani, appena mi collegherò, troverò qualche recensione :).

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Capitolo 2
*** Al buio ***


Non piansi al funerale, ricordo di aver chiuso gli occhi e di essermi svegliata al buio.
In quella cella, che ha potuto conoscere la parte più oscura della mia esistenza, troppo fredda la notte e troppo asfissiante il giorno.
Non c’era una finestra. Non ricordavo più l’esatta sfumatura del cielo, né il tepore del caldo sole, né il vento sulla pelle.
Più ci provavo, più i pensieri si sfumavano, si dissolvevano e non riuscivo a riprendermeli.
I miei ultimi pensieri riportavano a quella notte, a quell'orribile momento che ha cambiato il corso della mia vita, bloccando per sempre quello di mia sorella.
Non avevo niente, solo quattro pareti grigie ed una brandina più dura del pavimento.
Rimanevo seduta tutto il tempo, la testa appoggiata al muro, le dita che continuavano a graffiare il pavimento, fino a far sanguinare le dita.
Mi dicevo che non ero pazza.
Mi dicevo che non era stata colpa mia.
Ma sapevo che non era così.
Sapevo di sbagliarmi, e quella consapevolezza mi distruggeva pian piano, come un mostro dentro la mia pancia, che lentamente mi abbatteva, finché non sarebbe rimasto più niente di me.
Finché non sarei morta e forse libera dal dolore, dalla tristezza, dalla rabbia repressa, dall'odio.
Cercavo di ricordare in che giorno eravamo, ma le ore si confondevano tra di loro.
Ogni minuto mi sembrava un anno mancato, un occasione persa che non avrei mai potuto riavere.
Il tempo scorreva e mi sembrava che la ragione si frantumasse secondo dopo secondo, come cocci di vetro, troppo piccoli per rimetterli insieme.

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Capitolo 3
*** Azzurro ***


Finché non arrivò lui, il cui colore degli occhi era troppo bello per essere veritiero, per essere contemplato da un essere indegno come me, di quell'azzurro irriproducibile, come il mare che vedevo una volta dalla finestra della mia camera.
Mi sarei voluta immergere in quelle iridi per non uscirne mai più, avrei voluto rintanarmi in quel colore lapislazzuli per sempre, lontana dalle tenebre che mi risucchiavano giorno per giorno. Mi riportavano ad un’esistenza diversa da quella che stavo vivendo, ad una possibile vita parallela dove le cose erano andate in modo differente, dove tutti eravamo un po’ più felici, dove mia sorella era viva e potevo ancora sentire la sua dolce risata.
Il giorno in cui lo gettarono nella cella faceva molto freddo, i brividi sulla pelle mi rammentavano che ero ancora viva, che non ero libera.
Prima che la porta venisse richiusa, vidi il volto di coloro, che tempo addietro, mi avevano scagliato in quell'incubo; due ragazzi di qualche anno più grandi di me, uno più slanciato, rasato a zero, dove dietro l’orecchio si poteva notare una scritta nera, l’altro tozzo, con le spalle squadrate.
Incrociai gli occhi del ragazzo con il tatuaggio, impassibili, come quando arrivai, sbraitando a squarciagola, scalciando per la disperazione e per la rabbia, cercando in tutti i modi di salvarmi, di scappare, ma troppo debole per riuscire davvero a fare qualcosa.
Poi il suo volto scomparve dietro la porta in ferro, che tante volte avevo provato ad aprire, provando a fare leva con le unghie, sgolandomi fino a perdere la voce per poi ricadere distrutta sulle pietre che ricoprivano il pavimento.
Passai molto tempo a fissare il ragazzo, cercando di capire come fosse finito in quella gabbia di matti, così all'apparenza normale.
Poi aprì quei suoi occhi, mettendo a fuoco lo spazio dove era stato esiliato, fino a posarli su quello che rimaneva della ragazza di una volta.

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Capitolo 4
*** Tutto inutile ***


-“Come ti chiami”?- mi aveva chiesto.
Mi sembrò quasi ridicola la scena: era appena stato gettato in una cella e il primo interrogativo che gli venne in mente era sapere il mio nome.
Appena tentai di parlare, riuscii solo ad emettere un rantolo incomprensibile, la gola mi bruciava e nel panico temetti di non poter mai più dire nemmeno una parola.
Quando riprovai non riconobbi la mia voce, risuonò gracchiante ed estranea alle mie stesse orecchie.
Era passato molto tempo dall'ultima volta che qualcuno mi aveva posto una domanda, troppo tempo dall'ultima volta che avevo parlato.
-“Abigaille”-
-“William”-
Non strinsi la mano che mi porse subito dopo.
Era surreale quella scena. Troppo ordinaria.
Appariva così calmo, così a suo agio tra quelle quattro mura.
Mi sarei aspettata che si arrabbiasse, che urlasse ed imprecasse, non che parlasse del più e del meno, come se ci fossimo appena incontrati al parco.
Non sembrava che fosse stato appena confinato in quel luogo buio, forse per sempre, ma probabilmente lo sapeva.
Sapeva che un giorno lo avrebbero portato in un ospedale psichiatrico.
Aveva solo atteso l’inevitabile.
Era appoggiato al muro opposto a dove mi trovavo io. Sedeva scomposto, con una gamba portata al petto e l’altra distesa davanti a sé.
Aveva ormai rinunciato a stringermi la mano ed aveva appoggiato la sua in grembo, sulla maglietta grigia, troppo grande per lui.
Mi fissava, con insistenza.
Ero nervosa e cominciai a scrostare il pavimento.
Ascoltavo il leggero rumore prodotto delle unghie a contatto con la pietra.
Sentivo sotto le dita il sangue che riprendeva a colare e i leggeri sassolini che si staccavano dal pavimento nudo.
Iniziai a calmarmi.
Stava aspettando che dicessi qualcosa, qualunque cosa.
Ma non avevo niente da dire, non avevo più niente da dire da molto tempo ormai.

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Capitolo 5
*** Cioccolato ***


All'improvviso sentii una pressione calda sulle mani e delle lunghe dita avvolsero le mie.
-“Fermati”- mi sussurrò, ma io non c’ero più.
Come faceva a non accorgersene? O forse lo sapeva, ma ormai ero troppo lontana per vedere il suo sguardo.
Non ero più in quella gabbia, ero vicino al fornaio; quel piccolo locale incassato in un vecchio palazzo color avorio.
L’aroma del pane appena sfornato riempiva la piccola stradina ed io ero felice. Mia sorella rideva e tutto il cioccolato le impiastricciava la bocca, sembrava una bambina di pochi anni che giocava con il cibo.
-“ Ma sai almeno mangiare un cornetto?”-
-“Provaci tu, con tutta questa cioccolata!”- continuava a ripetere, ridendo, ed io insieme a lei.
Era tutto perfetto, il sole era alto e la nostra felicità si diffondeva insieme al profumo dei cornetti caldi, per la minuta via.
Ma come tutte le cose belle, niente è eterno.
Qualcuno mi stava chiamando e nel modo in cui un oggetto si riflette nel mare, appena mi voltai, non c’ero più. Mia sorella non c’era più.
Nessun viso si poteva più scorgere nelle acque. Il sogno era svanito ed io ero di nuovo con William.
Non riuscivo a mettere a fuoco il suo viso, una nebbia fitta copriva tutto e la sua voce era sempre più forte,più alta: -“Abigaille!”-
-“Chi sei?”- dissi senza pensarci.
-“Sono William”-
Sembrava che finalmente avesse compreso quanto fossi fuori di brocca, ma mai come in quel momento ero lucida;la mia domanda era un’altra.
-“Perché sei qui? Tu non dovresti essere qui”-
Il suo sguardo intenso era rimasto interdetto ed io capii che i miei dubbi erano sensati.
-“Questa conversazione non sai quante volte l’ho immaginata, ripetuta più e più volte a bassa voce, ma mi è completamente sfuggito dalla mente pensare che tu potessi introdurla.”- un leggero sorriso gli increspò le labbra.
Io rimasi lì, in rigoroso silenzio con le viscere che si aggrovigliavano sempre di più.
Mi immaginai dei lunghi bruchi rosa che si abbracciavano, così forte, così stretti che alla fine non riuscirono più a separarsi, finché non soffocarono entrambi, tra le braccia dell’altro.
Fece un lungo respiro, come se cercasse di prendere coraggio dall'aria gelida che ci avvolgeva.
-"Io ti aiuterò ad uscire da qui”- disse tutto d’un fiato, aspettando una mia reazione.

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Capitolo 6
*** Speranza ***


Mi veniva da ridere, una di quelle risate isteriche, con i denti tutti in mostra e la gola aperta, per far uscire suoni striduli e acuti.
Mi veniva da piangere, perché iniziavo ad avere anche le allucinazioni, un’altra conferma della mia follia.
Ma continuai a fissarlo con gli occhi dilatati e la bocca serrata, per non permetterle di dire sciocchezze, che avrebbero compromesso la mia, già sottile, incolumità.
Non provai a fare nulla, finché non si fosse spiegato meglio o finché non fossero venuti a torturarci, perché ci eravamo permessi di considerare una ipotetica fuga, davanti ai loro occhi attenti.
Come se mi avesse letto nel pensiero, disse –“Prima di arrivare qui ho disattivato gli altoparlanti e sostituito le telecamere con video di qualche giorno fa. Per il momento solo in pochi sanno che sono qui. Ci vorrà del tempo prima che se ne accorgano e dobbiamo sfruttare al massimo queste ore.”- aspettò qualche secondo prima di continuare a parlare, illustrandomi le sue intenzioni di fuggire.
Mi sbagliavo. Se si trovava seduto poco distante da me, inginocchiato sulla pietra, era solo per un motivo, e sicuramente non era lì di sua spontanea volontà.
–“Sei pazzo, completamente pazzo.”- Era davvero sarcastica la situazione. Io che giudicavo un’altra persona folle. Così satirica quella situazione, che forse era giunto il momento di quella risata isterica, che aspettava di uscire da quando quel ragazzo era entrato in quella cella e nella mia vita.
-“Ti assicuro di esserci stato giorni, mesi a pensarci. Ho programmato ogni piccolo dettaglio.”-
-“Come puoi pensare anche lontanamente di riuscirci.”- Sussurrai più a me stessa, che a lui.
Mi odiavo. Odiavo il mio stupido cervello perché non riusciva a ragionare e permetteva al mio cuore di battere per una stupida ed inutile speranza.
Odiavo lui, perché aveva permesso tutto questo.
-“ Perché ci credo.”- mormorò piano, avvicinandosi.

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Capitolo 7
*** Domande ***


E’ pazzo. Pazzo. Pazzo. Pazzo. Mi allontanai dalla sua presenza e gattonai fino all'angolo opposto. Appoggiai la testa sulla parete umida cercando di riflettere.
Le domande si tallonavano fra loro senza sosta. Erano come tante grosse lettere nere che ruotavano davanti agli occhi.
Così tante che non riuscivo nemmeno a capirne il senso, non riuscivo a prenderle e ad ordinarle in un discorso coerente.
Solo una frase era chiara, così chiara che mi dava il tormento.
Se tutto quello che diceva era vero, perché aveva messo a rischio la propria vita per aiutare una tizia che non conosceva affatto? Perché sprecare il proprio tempo con una persona già morta?
Non avevo più niente da dire, preferivo rimanere con le mie domande senza risposta. Non mi fidavo. Di lui. Della speranza. Della felicità.
L’unica ancora che avevo avuto per tutti quei giorni era stata la sicurezza. La consapevolezza che non avrei più visto il sole. La mia vita era giunta al termine e solo in quel momento mi resi conto che finalmente ero in pace. Non volevo uscire. Che senso avrebbe avuto?
Non avevo più nessuno. Non avevo più uno scopo.
Alla fine il silenzio venne interrotto dalla sua voce. Quella voce, che senza il mio consenso, stava diventando troppo familiare.
-“Rischia. Non c’è niente qui per te. Questo non è il posto adatto a te. Questo posto non è adatto a nessuno”- pronunciò quelle ultime parole con durezza e il suo sguardo venne oscurato da un ombra, che però scomparve troppo velocemente per poterne concentrare l’ attenzione.
-“Allora quale sarebbe il posto adatto a me?”-
-“Sicuramente non qui.”-
-“Questo è l’unico luogo dove una come me può rimanere. Sono completamente fritta.”-

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