Unsinkable Love di namedemme (/viewuser.php?uid=121315)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Southampton ***
Capitolo 3: *** The waiter ***
Capitolo 4: *** When blue eyes... ***
Capitolo 5: *** ...met green eyes ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
Una piovosa mattina d’autunno si ritrovò a riordinare la
soffitta, posto buio e abbastanza polveroso ma carico di ricordi.
Mentre
spostava e sistemava oggetti e foto di vario genere lo sguardo profondo dei
suoi occhi color nocciola cadde su un taccuino. Era piuttosto vecchio e malandato, ma nonostante questo le
pagine erano in buone condizioni.
I primi due fogli erano stati strappati bruscamente; ricordò
quando se ne accorse poco dopo l’acquisto e decise di non farci troppo caso. Lo
aveva preso per poterci riportare pensieri e qualsiasi cosa le passasse per la
testa e pensasse valesse la pena trascrivere. Tuttavia, non era mai stato utilizzato perché non molto tempo dopo era
entrata in un periodo buio e se n’era scordata quasi del tutto.
Sfiorò la copertina con il palmo della mano nodosa e una
marea di sensazioni la pervase. Dei flashback le percorsero la testa rapidi
come fulmini, e decise. Decise che doveva raccontare ciò che aveva vissuto. E
lo avrebbe fatto tramite quel piccolo manufatto che aveva rivenuto.
Era ormai molto anziana, era molto in là con gli anni ed era
malata. Un tumore stava mangiando lentamente il suo corpo, e quello era uno dei
pochi periodi di tregua dal dolore e dalla sofferenza, grazie soprattutto a
chemio e medicinali vari.
Prese il taccuino e scese lentamente le scale, passo dopo
passo, per quanto il suo fisico provato le poteva permettere.
Si sedette alla scrivania della sua stanza, posò davanti a
sé il piccolo blocco di carta e prese un profondo respiro. Non sapeva se qualcuno
avrebbe mai letto la sua testimonianza, non sapeva nemmeno se qualcuno
l’avrebbe mai trovata, ma in quel momento le importava solo di scrivere e
raccontare.
Prese una penna da un portapenne che si trovava su un angolo
della scrivania e iniziò.
Boston, 10 novembre
1987
Il mio nome è Gemma Styles. Ho
novantacinque anni e non mi resta molto da vivere.
Vivo a Boston da quando sono
arrivata in America il 18 aprile 1912 a bordo di una nave chiamata Carpathia.
Sarei dovuta arrivare a New York a
bordo della nave più imponente e maestosa dell’epoca e sbarcare con la mia
famiglia
in mezzo a moltitudini di persone curiose venute a vedere l’arrivo
della nave ritenuta innaffondabile: il Titanic.
Tuttavia, non sempre va tutto
secondo i nostri piani.
A New York sono effettivamente arrivata,
ma a bordo di una nave che aveva soccorso me e gli altri fortunati scampati
alla tragedia, infreddolita e avvolta in una coperta che un marinaio molto
premuroso mi aveva passato.
Avevo solo vent’anni ma dentro di
me qualcosa era andato in frantumi. Niente sarebbe stato più come prima.
Le settimane successive mi
svegliai più volte nel cuore della notte urlando, preda degli incubi più atroci
che mente umana può concepire.
Caddi in depressione e mi ci volle parecchio
tempo per riprendere in mano le redini della mia vita.
Ora però non voglio dilungarmi
troppo su di me, voglio raccontare cosa accadde in quei pochi ma fatidici
giorni.
Ero la giovane rampolla di una
della famiglie più altolocate di Londra e mio nonno,Edward John Smith, era il
capitano del Titanic.
Vi avrebbe prestato il suo ultimo servizio prima della
pensione e per questo motivo decidemmo di seguirlo e di stabilirci
definitivamente in America.
Non stavo più nella pelle.
Così io, mia madre Anne Smith, mio
padre Desmond Styles e mio fratello Harry ci imbarcammo la mattina del 10 aprile
1912 come passeggeri di prima classe. Con noi si imbarcarono anche la famiglia
del mio fidanzato, Liam Payne, il cui padre, Geoff Payne, era un potente
magnate della finanza inglese.
Harry ed
era il membro della famiglia a cui tenevo di più, gli volevo un bene immenso ed
ero molto protettiva con lui,
nonostante questo avevamo cieca fiducia l’uno
nell’altra e ci confidavamo tutto.
Il giorno successivo alla partenza
del Titanic Hazza, così lo chiamavamo tutti, mi disse che aveva conosciuto un
ragazzo,
e che gli aveva fatto provare emozioni che mai prima d’ora avevano
attraversato il suo cuore.
Mi chiese consiglio, e lì comincio
tutto.
In queste pagine parlerò del
translatantico e del viaggio, ma mi incentrerò su una storia in particolare.
La storia di Harry e Louis.
A quel punto Gemma sentì qualcosa scivolarle sulle guance e
successivamente vide delle gocce cadere sulla pagina che aveva davanti e
bagnarla.
Erano le sue lacrime.
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Capitolo 2 *** Southampton ***
Southampton
Harry
Il ragazzo sentì un debole venticello sfiorargli il viso
pochi istanti prima di scendere dall’auto d’epoca che lo aveva trasportato fin
lì. Appena poggiò i piedi a terra alzò la testa, che fino a quel momento era
stata china, volse lo sguardo verso il molo e gli si presentò davanti uno
spettacolo che gli mozzò il fiato.
Guardò con meraviglia l’enorme translatantico davanti a lui,
i facchini che si davano un gran daffare nel trasportare gli enormi bagagli dei
passeggeri di prima classe (e questo lo fece sentire un po’ in colpa, essendo
uno di loro), gli addetti al controllo sanitario dei passeggeri di terza classe
che chiamavano a gran voce coloro che non si erano ancora fatti visitare e la
gente che affollava il porto di Southampton che salutava parenti e amici in
procinto di salire a bordo. Chiuse gli occhi e il vociare di tutte quelle
persone gli riempì le orecchie. Faceva sempre così quando voleva imprimere
qualcosa nella memoria: osservava e ascoltava attentamente.
Una voce familiare interruppe quel momento particolare.
«Harry! Sbrigati, dobbiamo imbarcarci», era Gemma, sua
sorella, che si trovava pochi metri più avanti di lui insieme ai loro parenti.
Anne e Dev Styles chiacchieravano animatamente con Ruth e Geoff Payne, i genitori
del fidanzato di Gemma. Avvicinandosi, Harry vide la sorella e Liam Payne
scambiarsi un bacio appassionato e con una smorfia di finto disgusto esclamò, «spero abbiate prenotato
una cabina solo per voi!», la coppia in tutta risposta, rise di gusto.
Il
gruppo ben presto arrivò nei pressi della nave e percorse la scalinata che
conduceva direttamente al settore dedicato ai passeggeri di prima classe; il
giovane cercò di percorrerla il più lentamente possibile, per potersi godere
tutto.
Salirono
a bordo, dove videro subito altra gente dell’alta società e nobili, tutti in
tiro come loro. Harry indossava un elegante completo scuro, con il colletto
bianco della camicia inamidato (il che gli creava qualche fastidio, ma ormai ci
era abituato) e Gemma un bellissimo abito color crema, decorato e lavorato
finemente, con un corpetto che le stringeva la vita e le risaltava il seno,
tipico di quel periodo. L’abbigliamento di Liam e degli adulti era molto
simile: completi per i signori e abiti con corsetti e sottogonne in avorio (quest'ultime solo per occasioni importanti) di
vario tipo per le signore, tutti realizzati con le migliori stoffe.
Naturalmente anche scarpe, trucco e accessori non erano da meno, tutto era
realizzato nel minimo dettaglio, tutto doveva essere perfetto.
Poco
dopo salutarono la famiglia Payne, quindi ognuna delle famiglie si recò alla
propria suite.
Quella
degli Styles era una delle più costose del Titanic, con un salotto enorme, un
bagno sontuoso e tre camere separate; i mobili erano pregiati e raffinati, la
maggior parte di essi erano lavorati a mano
ed erano praticamente identici a quelli che possiamo vedere in un museo
di antiquariato dei nostri tempi. La tappezzeria rispecchiava gli abiti dei signori
che popolavano quelle stanze, ovvero colorate, elaborate e della migliore
qualità che ci fosse in circolazione.
Appena
vi entrarono, seguiti dai facchini di bordo che trasportavano i pesanti
bagagli, Gemma si buttò di peso su un divanetto esclamando, «finalmente! Non ne potevo più, questo corsetto è strettissimo, quasi non
respiro». Il signor Styles le lanciò un’occhiataccia, replicando, «comportati come una persona a modo, Gemma, per l’amor di Dio!». I due
fratelli, nonostante fossero stati educati fin da piccoli e sapevano benissimo
come comportarsi in qualsiasi occasione, non amavano le regole che venivano
loro imposte, erano, come diremmo oggi, anticonformisti; di conseguenza spesso
entrambi lanciavano una sorta di sfide indirette ai genitori, trasgredendo di
proposito a molte regole del galateo e del buon costume. Nonostante questo Anne
e Dev volevano molto bene ai loro figli e non esageravano con le sgridate, come
invece succedeva in molte altre famiglie aristocratiche.
In quel momento fece il suo ingresso Edward John
Smith, meglio noto come il capitano Smith,
«Buongiorno, miei cari. Come procede? Spero sia tutto di vostro gradimento».
Il viso di Anne s’illuminò, «è tutto a posto, papà, ti ringrazio tantissimo per essere venuto a
trovarci, non credevo che ne avresti avuto il tempo».
«Per la mia famiglia questo e altro», sorrise il lupo di mare. Agli Styles era capitata un’ottima cabina non solo per
il fatto che erano benestanti, ma anche per il loro legame di parentela con il
comandante.
Des salutò il suocero con un cenno del capo e, nel
frattempo, Harry e Gemma si erano avvicinati timidamente all’uomo. Lo
salutarono con rispetto e lui, di rimando, allargò le braccia, «Aah, suvvia, venite qui», e li strinse entrambi a sé. Edward Smith non era
una persona a cui piacessero molto i convenevoli, specialmente con i suoi
familiari. Con loro si comportava come un padre, un suocero e un nonno
qualunque. Quando si sciolsero dall’abbraccio li guardò entrambi attentamente e
disse, «quanto siete cresciuti! Non vi vedo da una vita». Loro sorrisero e lui
batté loro le mani sulle spalle. «Beh, ora vi devo lasciare, tra mezz’ora il Titanic
salperà», detto questo salutò tutti con un cenno della mano e si allontanò.
A questo punto Harry iniziò a sistemare le proprie
cose e una volta concluso il tutto si mise davanti allo specchio del tavolo da
toeletta di cui ogni stanza era dotata.
Si passò una mano nei ricci castani e ribelli nel
tentativo, vano, di sistemarli. Si fissò allo specchio e osservò i suoi
lineamenti, molto dolci essendo ancora nella fase adolescenziale della sua
vita, le labbra dalla forma allungata e piuttosto sottile, la pelle candida e
morbida nonostante qualche brufoletto qua e là dovuto all’età.
Harry reputava sé stesso un ragazzo carino, non
bellissimo come tutti si ostinavano a dire (specialmente il gentil sesso),
sognatore, testardo e… particolare. Non sapeva perché, ma sia lui stesso che
molte delle persone che lo conoscevano gli attribuivano questo aggettivo.
Si ridestò dai suoi pensieri e raggiunse il resto
della famiglia nel salotto, dove li aiutò a sistemare le loro ricchezze:
soprammobili, quadri, alcune piccole statue e così via; fortunatamente erano
già a buon punto e ci misero poco a finire. Quando il ragazzo controllò l’ora
sull’orologio da parete della suite si rese conto che mancavano pochi minuti
alla partenza del transatlantico e non voleva assolutamente perdersela.
«Scusate, devo andare, torno tra pochissimo», cominciarono a fargli domande
ma lui non rispose e a passo veloce raggiunse il ponte della prima classe.
Arrivò in tempo: proprio nell’attimo in cui mise piede all’esterno il colosso
iniziò a muoversi. Si appoggiò al parapetto e osservò la gente intorno a lui
che si sbracciavano per salutare chi era rimasto a terra. Man mano che il tempo
passava prima le persone, poi il molo si fecero sempre più piccoli, finché Southampton
non scomparve dalla vista del giovane. Ormai vedeva solo il mare e il riflesso
del sole su di esso. Un’inebriante sensazione di libertà gli esplose nel petto
e alzò completamente il volto verso il cielo, lasciando che il vento gli
scuotesse i capelli e sorridendo come non aveva mai fatto prima.
Author’s corner
Ciao a tutti!
Premetto che è dal 2012 che non scrivo più (a parte i
temi scolastici e cose così) perciò
sono un po’ arrugginita. Se ci sono errori,
ripetizioni o quant’altro non esitate a farmelo notare (ho riletto,
ovviamente, ma a volte mi sfuggono lo stesso.
Che dire, è da un mese o più che quest’idea mi
frullava per la testa e non vedevo l’ora di iniziare.
Fatemi sapere cosa ne pensate, ne sarei felicissima ^^
Al prossimo capitolo!
-M
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Capitolo 3 *** The waiter ***
Capitolo 2 senzanomeperora
Louis
Abbottonò
il bottone del colletto della camicia, l'ultimo che gli mancava, prima
di uscire dalla cabina che gli era stata assegnata.
Era situata nel ponte E, come tutte le cabine dei membri
dell'equipaggio, e aveva sei letti, ciò significava che avrebbe
dovuto condividerla con altre persone; a lui non cambiava molto, se
doveva essere sincero.
Appena il ragazzo uscì la sua migliore amica, che lo aspettava in corridoio, sorrise raggiante.
«Louis! Quel completo è semplicemente fantastico, ti
sta benissimo!», esclamò osservandolo attentamente con i
suoi occhi scuri
da cerbiatta.
«Grazie... mi sento molto in imbarazzo», confessò lui, mentre guardava i suoi vestiti.
La divisa da cameriere era composta da un pantalone nero, di un tessuto
piuttosto morbido, e una camicia bianca aderente che riportava, sul
taschino destro, la scritta "White Star Line" in nero. Ai piedi, un
paio di mocassini dello stesso colore dei pantaloni completavano il
tutto. Semplice ma elegante.
Pensò a quanto fosse incredibile il fatto che entrambi fossero
riusciti a imbarcarsi in una nave importante come il Titanic, lui come
cameriere, lei come passeggera di terza classe.
Louis Tomlinson ed Eleanor Calder erano amici fin dalla tenera
età, nati e cresciuti a Doncaster, una cittadina dello
Yorkshire, nel cuore dell'Inghilterra.
Erano entrambi di famiglie povere, ma nonostante questo Louis sognava
di diventare uno chef conosciuto mentre El - come la chiamava lui
affettuosamente - avrebbe voluto avere successo come attrice, e proprio
per questo motivo aveva accettato di buon grado di seguirlo su quel
transatlantico.
Quando il giovane aveva saputo che la sua domanda era stata accettata
si era subito dato da fare per procurare un biglietto a lei, dopo
averle chiesto di accompagnarlo; conoscendo le sue ambizioni, sapeva
che in America avrebbe avuto molte più possibilità.
Così, proprio mentre il Titanic salpava, Louis aveva
accompagnato Eleanor nella sua cabina per mostrarle la divisa, ci
teneva ad avere la sua opinione.
Il suo primo turno sarebbe stato quella sera, a cena. Avrebbe servito i
passeggeri di prima classe, e il pensiero lo metteva in ansia, sapendo
che tra quella gente c'erano persone famosissime, pezzi grossi della
società.
Deglutì rumorosamente al pensiero.
«Lou? Tutto a posto?», chiese la ragazza di fronte a lui, preoccupata.
«Sì, è solo che... sono agitato per stasera, sai,
tutta quella gente altolocata...», mormorò abbassando la
testa e passandosi una mano sul collo.
«Andrai alla grande, fidati di me», disse lei, abbracciandolo.
«Grazie, El», rispose Louis, stringendola a se.
Rientrò quindi in cabina e rimise gli indumenti che usava nel
quotidiano: dei pantaloni beige che gli andavano larghi, una camicia
bianca di almeno una taglia di troppo e delle bretelle marroni.
Passarono le ore pomeridiane, dopo che la nave ebbe fatto le altre due
fermate previste, Cherbourg e Queenstown, a girare per il ponte di
terza classe, dove c'erano per lo più bambini che giocavano,
uomini che parlavano tra loro, molti fumando, e donne che
chiacchieravano tra loro creando un brusio generale di sottofondo.
A un certo punto si fermarono, poggiando le mani sul parapetto e osservando l'oceano.
«Sai, è tutto così strano», esordì
Eleanor, «fino a poche settimane fa credevo seriamente che avrei
passato tutta la vita a Doncaster, o comunque in Inghilterra, cercando
di ottenere ruoli in spettacoli mediocri per locali zeppi di
ubriaconi», sorrise guardando un punto imprecisato dell'orizzonte.
Eleanor era davvero una bella ragazza, aveva labbra carnose, un bel
sorriso smagliante e aveva lineamenti precisi ma delicati, il tutto
incorniciato da lunghi capelli castani e mossi che cadevano sulle
spalle minute.
Louis d'altro canto aveva sempre pensato a lei come un'amica, nulla di
più, nonostante il fatto che per un periodo, agli albori
dell'adolescenza, lei avesse avuto una cotta per lui. Pensandoci, si
rese conto che non si era mai sentito attratto da ragazze in generale,
e trovava più seducente un corpo maschile che curve
femminili.
Nonostante questo, aveva avuto alcune fidanzate, grazie soprattutto al
suo carattere carismatico e allegro, ma tutti quei rapporti si erano
conclusi a causa di ciò.
Non aveva mai confessato a nessuno la sua omosessualità, del
resto nemmeno lui sapeva bene di che si trattasse, dato che all'epoca
questa tematica era trattata pochissimo, soprattutto perché la
maggior parte della popolazione era bigotta e solo al sentire parlare
di queste cose si sarebbe inorridita e avrebbe probabilmente inneggiato
a satana o alle streghe, come se fossero ancora nel medioevo.
«Ah, questa è proprio la nave dei sogni, erano tutte vere
le dicerie che ho sentito sul suo conto. Anche voi in cerca di
fortuna?», una voce chiara e squillante, marcata da un accento
irlandese abbastanza pronunciato, giunse alle loro orecchie.
Si voltarono e videro un ragazzo scarno, dai capelli biondo cenere,
poco più alto di Louis, che li guardava con due sgargianti occhi
azzurri che sprigionavano energia e voglia di vivere.
«Sono Niall Horan», si presentò, porgendo la mano a entrambi.
«Io sono Louis Tomlinson, e lei è Eleanor Calder», si presentò il moro, stringendogli la mano.
«Piacere di conoscerti, Niall», aggiunse la giovane, solare, stringendo la mano di Niall a sua volta.
«Allora, come mai vi siete imbarcati?», chiese curioso l'irlandese.
«Stiamo entrambi emigrando in America per seguire i nostri sogni.
Io vorrei diventare attrice, Louis uno chef. Tu, invece?»,
rispose prontamente Eleanor.
«Non saprei rispondervi con certezza, sono partito per cambiare
vita, ora come ora mi accontenterei di fare qualsiasi lavoro»,
rispose.
«Di dove sei?», chiese Louis, che lo guardava con un
sopracciglio alzato perché, come potrete immaginare, non aveva
mai sentito quell'accento prima.
«Mullingar, Contea di Westmeath, Irlanda», rispose il diretto interessato con un mezzo sorriso.
«Noi siamo di Doncaster, nello Yorkshire, in Inghilterra», disse a sua volta l'inglese.
I tre chiacchierarono a lungo, parlando delle loro rispettive vite,
delle loro speranze e desideri, finché non videro i primi
accenni dell'imminente tramonto.
Quando Louis si accorse che si era fatto tardi salutò i due, tornando alla sua cabina per indossare la divisa.
All'ora prestabilita raggiunse la cucina, dove trovò altri camerieri come lui. Erano almeno una trentina in totale.
Poco dopo arrivò Luigi Gatti, un italiano gestore del servizio di ristorazione della nave.
Richiamò la loro attenzione e spiegò come avrebbero
dovuto comportarsi, cosa evitare e cosa invece era opportuno fare, poi
si congedò augurando buon lavoro.
In quel momento i passeggeri di prima classe stavano arrivando al
ristorante per cenare, scendendo lungo la Grande Scala anteriore, in
cima alla quale vi era un orologio circondato da intarsi di vario tipo;
sopra le loro teste aleggiava un'enorme cupola di vetro, attraverso cui
si poteva vedere il cielo limpido.
Louis rimase fermo impalato per un tempo che a lui parve una vita,
finché vide i suoi colleghi uscire per andare a raccogliere le
prime ordinazioni. Qualcuno che non riuscì a identificare gli
mise in mano un blocco e una penna stilografica, e immediatamente, come
riscosso da un sogno a occhi aperti, s'incamminò anche lui.
Giunse all'ingresso che dalla cucina portava all'enorme sala che si trovò davanti e rimase paralizzato.
Non immaginava che ci fossero così tante persone, tutte che si
comportavano in maniera quasi rigida, imposta dal galateo e dalle buone
maniere che erano loro insegnate fin da piccoli. Tutti impeccabili, non
un capello fuori posto. Il ragazzo si sentì fuori luogo,
nonostante avesse cercato di darsi un po' di contegno lisciandosi i
capelli, tirandoli tutti da un lato, e sforzandosi di ricordare tutto
ciò che il Gatti aveva detto in precedenza.
Cercò di sembrare serio e deciso, assumendo un'espressione simile a quella di una statua.
Gli venne quasi da ridere, però si sentì anche messo alla prova.
Inspirò profondamente e s'incamminò.
Author's corner
So che ci ho messo molto, perdonatemi, in ogni caso ecco qua.
Lo so, lo so, non ho ancora fatto incontrare i nostri Larry, ma fidatevi,
non dovrete aspettare ancora molto ;)
Ogni opinione è ben accetta, sono curiosa di sapere come vi sembra questa storia,
anche se è solo agli inizi.
-M
|
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Capitolo 4 *** When blue eyes... ***
Harry capitolo4 nessunnomeperora
Harry
«Ruth e
Nicola non hanno potuto unirsi a noi, ma mi hanno assicurato che cercheranno di
arrivare in tempo per la cerimonia di fidanzamento», il signor Payne mangiava
di gusto le prelibatezze che gli venivano servite e, quando si parlava
dell’imminente fidanzamento del figlio, gli brillavano gli occhi. Vedere Liam
in procinto di sposarsi con la discendente, tra l’altro molto bella, di una
persona importante come il capitano Smith era come un sogno ad occhi aperti per
lui.
Harry
sbocconcellava il cibo con aria vagamente distratta, ricomponendosi quando suo
padre gli lanciava occhiate eloquenti sussurrandogli “Harry, per favore!” per poi tornare alla posizione precedente in
pochi minuti.
C’era di
tutto: caviale, pollo arrosto, agnello, tutti i tipi di frutta e verdura
possibili (perfino alcuni a lui sconosciuti), il miglior pesce in circolazione
e molto altro.
Le
conversazioni riguardavano perlopiù la cerimonia di fidanzamento, discussioni
sulla finanza locale (specialmente da parte del magnate) e le rispettive
famiglie.
«Allora,
Harry, che progetti hai per il futuro?», il ragazzo sobbalzo tanto era sorpreso
e si rivolse verso il suo interlocutore, ovvero Geoff Payne.
«Ehm… vorrei
iscrivermi all’Università e studiare qualcosa in ambito artistico, magari
musicale», rispose il giovane.
Des alzò gli
occhi al cielo, «ne abbiamo già parlato, non hai bisogno di studiare.
Hai tutto ciò di cui un ragazzo di buona società ha bisogno».
A quel punto s’intromise Anne, «dovresti preoccuparti
di trovare una fidanzata, soprattutto perché sei quasi in
età da matrimonio»; all’epoca ci si sposava
mediamente dai diciassette ai vent’anni, raramente
oltre.
Harry abbassò lo sguardo e posò le posate accanto al
piatto di insalata che stava mangiando. Era da mesi che ci pensava su, ma non
sapeva come dirlo alla sua famiglia. Ormai ne era certo, era attratto dal suo
stesso sesso, l’aveva sperimentato sulla sua pelle più volte; gli era capitato
di trovarsi in presenza di ragazzi piuttosto belli e di sentirsi attratto da
loro, come se fosse una di quelle ragazzine che delle volte, a Londra, lo
guardavano ridacchiando con le amiche.
E poi, lui amava la musica. Sapeva suonare
perfettamente il pianoforte e, in segreto, componeva e scriveva canzoni.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per studiare qualcosa in quel campo, per far sì che
quella passione diventasse il suo lavoro. Una volta Gemma lo aveva sentito
cantare e lui, appena si era accorto della sua presenza, aveva smesso di colpo,
ma lei lo aveva guardato stupefatta esclamando che aveva una voce stupenda. Lui
non ne era poi così sicuro, ma nonostante ciò quel complimento gli aveva
scaldato il cuore; sua sorella era l’unica che lo spronava a fare ciò che più
gli piaceva e a seguire i suoi sogni, e questo lo rincuorava moltissimo.
Distolse la testa dai suoi pensieri e, non riuscendo a
sopportare quella conversazione, decise di allontanarsi, «signori, scusate,
credo di sentirmi poco bene. Vi dispiace se prendo una boccata d’aria per un
paio di minuti?».
Karen gli sorrise comprensiva e Anne disse
semplicemente, «certo caro, vai pure», tutti i presenti si limitarono ad annuire.
A quel punto si alzò e s’incamminò verso l’imponente
scalinata ma, dopo aver passato un paio di tavoli, qualcuno gli finì addosso
alla velocità della luce esclamando “oops” e ruzzolando a terra con lui. Quando
si riprese dallo stordimento era seduto a terra, con la testa che gli girava e
pezzi di cibo sparsi per i vestiti; una piccola coscia di pollo e alcune
fettine di patate gli erano finiti tra i ricci.
Guardò in direzione di colui che gli era venuto
addosso, infastidito, ed esclamò, «stai attendo a dove vai, razza di imbra…»,
quando lo vide bene gli si mozzò il fiato in gola e non riuscì più a formulare
una frase di senso compiuto, «io, oh, ehm… ciao».
Ciao? Cosa? Mi
è bastato così poco perché mi andasse di volta il cervello?!?
Davanti a lui c’era il ragazzo più bello che avesse
mai visto.
I suoi occhi azzurri lo fissavano, spalancati e
sinceramente dispiaciuti, le sue guance erano tinte di un rossore adorabile – adorabile? Harry, riprenditi! – e le sue
labbra sottili erano leggermente dischiuse.
«Mi dispiace da morire», disse, e iniziò a cercare di
ripulire Harry.
«E-ehi!», ora fu il turno dell’aristocratico di
arrossire fino alla punta delle orecchie, «l-lascia che ti dia una mano»,
riuscì ad aggiungere, e cominciò a raccogliere le stoviglie sparse a terra,
cercando maldestramente di rimetterle sul vassoio.
«No, lasci stare, ci penso io», disse l’altro tutto
d’un fiato. I due continuavano a scrutarsi a vicenda, l’uno all’insaputa
dell’altro, e nessuno sapeva cosa dire. I presenti in sala ridacchiavano e li
indicavano, ma loro sembrarono infischiarsene. Era come se si fosse creata una
bolla intorno a loro e tutti gli altri ne fossero esclusi.
Harry studiò l’altro ragazzo, poi, cercando di vincere
l’imbarazzo, si presentò, «io sono Harry Styles». L’altro arrossì di nuovo,
stavolta più violentemente, farfugliò qualcosa e rispose, «Louis».
Si guardarono per l’ennesima volta e sorrisero nello
stesso, preciso momento.
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Capitolo 5 *** ...met green eyes ***
The meeting - Part two
Louis
Senza sapere
come, Louis si ritrovò il giovane a cui era andato addosso in piedi davanti a
lui, con un braccio teso nella sua direzione. Il suo cervello era andato
completamente in tilt quando l’aveva visto: quel ragazzino era senz’altro
qualche anno più giovane di lui, ma si stava comportando come se il più giovane
fosse lui e si sentì uno stupido.
Lo aveva
stregato dal primo sguardo, si era perso dentro quegli occhioni verde smeraldo
e aveva avuto una strana voglia di affondare le mani dentro quei ricci ribelli
che, con i pezzi di cibo incastrati tra di essi, gli davano un aspetto buffo e
tenero. Proprio per questo motivo aveva iniziato a toglierglieli di dosso, non
riusciva a resistere a quella vocina dentro di sé che gli urlava di toccarlo. Inavvertitamente
gli aveva sfiorato una mano, e il contatto con quella pelle morbida gli aveva
provocato un brivido lungo tutta la spina dorsale.
Il
ragazzo lo guardò per alcuni secondi con un’espressione che non seppe
interpretare, «devo andare, scusami», gli disse, prima di dirigersi verso la
scalinata con passo spedito, passandosi una mano tra i ricci allo stesso tempo.
Louis
continuò a guardarlo finché non scomparve dalla sua vista; ancora imbambolato,
una grossa voce maschile lo destò dai suoi pensieri, «cameriere, stiamo ancora
aspettando i primi!».
«Arrivo
subito», borbottò, per poi finire di raccogliere ciò che gli era caduto.
Avrebbe
voluto seguire Harry, parlarci e conoscerlo, ma in quel momento proprio non
poteva andarsene.
Nonostante
quel piccolo “incidente” riuscì a servire i suoi tavoli con un minimo di
ritardo e nessuno si lamentò particolarmente, anche se gli vennero rivolte diverse
occhiatacce.
Finalmente
il suo turno finì, era stanchissimo e avrebbe voluto tanto dormire, ma
all’improvviso degli occhi verdi risplendettero nella sua mente e il suo cuore
iniziò a battere all’impazzata.
Così,
anziché tornare direttamente alla propria cabina, decise di raggiungere il
ponte di prima classe in incognito. Tutti
i passeggeri si erano ritirati a fumare, bere o dormire, perciò nell’aria si
diffondeva solo il rumore dei passi leggeri e veloci di Louis.
Tutti
i passeggeri si erano ritirati a fumare, bere o dormire, perciò nell’aria si
diffondeva solo il rumore dei passi leggeri e veloci di Louis.
Quando
arrivò alla sua meta, ebbe un tuffo al cuore quando vide che la persona che
cercava era dove sperava che fosse.
Harry
aveva le braccia appoggiate al parapetto, incrociate, e fissava qualcosa d’indefinito
nel vuoto; non sembrava essersi accorto della sua presenza.
Il più grande notò che tremava
lievemente a causa del freddo, quindi si sfilò il cappotto che aveva indossato
sopra la divisa da cameriere (trovato per puro caso dimenticato tra le sedie
del salone di prima classe e preso “in prestito” con l’intenzione di rimetterlo
al suo posto) e la pose sulle sue spalle, al che il più piccolo sussultò,
voltandosi di colpo e assumendo un’espressione di pura sorpresa.
Louis gli sorrise lievemente, «ciao», sussurrò, avvicinandosi.
«Ciao…
Louis, giusto?», gli rispose ancora sbalordito.
«Louis
Tomlinson», specificò, vergognandosi a morte per l’enorme imbarazzo provato
quella sera.
«Che
ci fai qui?», una domanda semplice e diretta che bastò a spiazzare l’altro.
«Non
sono bravo a mentire, perciò ti dico subito che ti stavo cercando», esclamò,
assumendo un atteggiamento spavaldo di cui si pentì subito.
Nessuno
gli aveva mai fatto quell’effetto prima: in genere era sempre sicuro di sé, con
la battuta pronta, capace di intrattenere e affascinare le persone.
Il
riccio si strinse nel cappotto e gli sorrise calorosamente, con le guance
leggermente arrossate e mettendo in mostra delle fossette che Louis trovò
stupende.
«Grazie»,
disse Harry, scrutandolo, «ma non voglio che tu ti raffredda a causa mia…».
«Non
preoccuparti», rispose, «sto bene così».
Rimasero
in silenzio per un po’.
«Parlami
di te, Louis», l’aristocratico interruppe il silenzio, guardandolo.
«Sono
un cameriere, ma questo lo sai già», ridacchiò, «ho diciannove anni, vengo da
Doncaster, il mio sogno è diventare uno chef e questo sono io, in poche
parole».
«E
se volessi sapere qualcosa in più?», chiese l’altro, con un sorriso di sfida.
«In
tal caso, dovresti raccontarmi qualcosa di te», rispose prontamente il più
grande, facendo un’imitazione dei passeggeri di prima classe che fece ridere
molto Harry.
Quando
smise, iniziò, «ho sedici anni, la mia famiglia mi fa pressione perché vuole
che mi sposa al più presto, suono, compongo canzoni e, alcune volte…»,
tentennò, «canto», concluse.
«Tu
canti?», chiese l’altro, ammirato, «mi piacerebbe sentire qualche tua canzone».
«Beh…»,
Harry si assicurò che non ci fosse nessun altro nei dintorni, pur sapendo che a
quell’ora in pochi giravano sui ponti, «potresti venire nel mio alloggio, se
vuoi».
Louis
rimase spiazzato per la seconda volta, «va bene», rispose d’impulso, «quando?».
«Domani
la mia famiglia passerà tutto il pomeriggio in giro per la nave, potrei trovare
una scusa per rimanere nella suite», gli fece l’occhiolino e Louis lo guardò
stupefatto.
«Ci
sto, verrò subito dopo pranzo».
Il
riccio lo guardò divertito, «comunque il cappotto è di mio padre, provvederò io
a restituirglielo».
Entrambi
ridacchiarono, si sorrisero e si guardarono alcuni secondi in assoluto
silenzio.
Il
cameriere fece per andarsene ma, prima di incamminarsi, avvicinò le labbra
all’orecchio del giovane per poi sussurrare, «buonanotte, Harry».
Mentre
si allontanava, riuscì a sentire di nuovo la sua voce.
«Buonanotte,
Louis».
Author's corner
Mi dispiace per essere letteralmente sparita, non sto attraversando un bel
periodo e di conseguenza scrivo pochissimo, cercherò di essere più
regolare (dal momento che ho anche altre fan fiction in programma).
Comunque, come promesso, ho scritto due capitoli (in realtà sarebbe
più un unico capitolo diviso in due) e niente, fatemi sapere cosa
ne pensate, se vi va.
A presto :)
-M
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