La danza di Kalì

di Nemainn
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** -1- ***
Capitolo 3: *** -2- Fine ***



Capitolo 1
*** Prologo ***









-Prologo-

 

 

«Questi pezzi non valgono un cazzo, ragazzino.» L'occhio modificato brillò di una luce rossa, mentre analizzava i circuiti neurali che erano stati messi sul banco del negozio.
Lì, nella periferia di Lakhnau, era comune quel commercio non troppo lecito di parti di ricambio e nessuno se ne interessava. Il negoziante, un uomo pieno di innesti e modifiche che sembravano dei fai da te non troppo riusciti, sbatté i pezzi con aria schifata. «Sono corrosi, inutili pezzi di metallo che non potrei usare neanche per sbaglio.»
«Non è vero!» il ragazzino dinoccolato incrociò le braccia al petto magro, fissandolo «Sai benissimo che le uscite neurali sono intatte, è solo la cavetteria che è consumata!»
Riprendendo in mano alcuni dei pezzi sul tavolo, e rigirandoseli tra le mani in parte meccaniche, il negoziante sbuffò. «'Fanculo, Shiva, solo la metà sono buoni, piantala di fare questi giochetti. Posso darti giusto 20 rupie e perché sono generoso.»
Il ragazzino alzò gli occhi al soffitto, guardando quell'insieme di tubi attraverso cui si notava a malapena l'intonaco sporco di nero. Sospirò e annuì, mettendosi nella tasca dei pantaloni troppo grandi per lui quelle vecchie monete. Uscì dalla porta tenuta assieme da fil di ferro e assi inchiodate, finendo sulla strada polverosa che conservava ancora, qua e là, tracce dell'antica pavimentazione. La tecnologia c'era ancora, certo, e sua nonna ogni tanto gli raccontava cose che gli sembravano incredibili visto che già da quella generazione alla sua tante altre conoscenze erano state dimenticate: oggetti che non potevano più essere riparati, macchinari che venivano messi assieme e mantenuti a tentativi, senza essere capiti.
«Shiva?» la ragazza magra quanto lui che gli venne incontro aveva gli occhi speranzosi. I primi segni dell'infezione si vedevano sulla pelle leggermente dorata: macchie di colore scuro, malate, e lui sapeva quanto lei che sarebbe morta in un paio d'anni nella migliore delle ipotesi... qualunque cosa potessero fare, quello era il suo destino. Perché il morbo del sole malato, come veniva chiamato, modificava qualcosa, nel corpo, e uccideva trasformando la pelle in una specie di pietra che si sgretolava. La gente diventava polvere, tutto lì. Granelli che si disperdevano nel vento.
Lui le sorrise strizzandole l'occhio e allontanando quei pensieri. «Si mangia, Candra!» La prese a braccetto, più alto di lei anche se era più giovane di quasi tre anni, iniziando a camminare verso il mercato. Lì, in città, c'era la grossa cupola che li sovrastava a proteggerli dai raggi venefici del sole, anche se larghi pezzi della copertura erano scomparsi. Nessuno, ormai, sapeva riparare quei macchinari; troppe cose erano state scordate, troppe tecnologie perdute, inoltre sembrava che a nessuno interessasse davvero recuperarle.
Lui e la sorella si guadagnavano da vivere cercando nelle zone tra le città, selvagge terre di nessuno, pezzi dell'antica tecnologia e rivendendola alla metropoli più vicina. Da quando la loro nonna era morta, pochi anni prima, erano rimasti soli a badare l'uno all'altro e Candra aveva iniziato a mostrare i primi segni della malattia da qualche mese.
Si avvicinarono a un ambulante che vendeva forme di pane chapati con qualcosa che spacciava per carne, piena di curry. Comprarono una porzione a testa e si sedettero sui gradini di un alto palazzo che assomigliava a un dente cariato, spezzato, che puntava con le sue travi d'acciaio scoperte al cielo. Candra mangiò lentamente, l'aria intenta a pensieri che Shiva non riusciva a immaginare.
«Senti, ti ricordi cosa diceva la nonna?»
Shiva fissò la sorella, senza capire. «Diceva tante cose, nello specifico...?»
«Oggi è Raksha Bandhana.»
Quello, per Shiva, spiegava tutto. La nonna aveva raccontato loro del rituale che si teneva nella prima luna piena del mese di sravana*, quando l'estate era al suo culmine e lì, ai piedi dei monti, l'aria si faceva dolce.
Candra prese dalla tasca un cordoncino che sembrava fatto di seta rossa, spessa, intrecciato a dei fili di rame e gli prese il polso, l'aria seria sul viso dai lineamenti delicati e i gesti misurati e solenni. I grandi occhi neri di lei erano lucidi e i capelli tenuti corti erano spettinati e di un tonalità così cupa da essere simile alla volta notturna. «Che le divinità ti proteggano da ogni male, per tutta la vita. Che tengano lontani da te gli spiriti maligni e ogni malattia. Che il mio amore sia sempre con te, fratellino.»
Gli occhi di entrambi si riempirono di lacrime e Shiva deglutì, completando quel rituale mentre la sorella gli legava al polso il bracciale. Era stato fatto per durare, ed entrambi sapevano il perché. Non riuscì a trattenere le lacrime, sedici anni erano troppo pochi per poterlo davvero fare. «Con questo rakhi mi impegno a proteggerti sempre, Candra.» Quella era la dimostrazione d'amore più grande che una sorella poteva dedicare a un fratello, un gesto antico, millenario, che era un grandissimo onore ricevere. «Ti starò accanto per sempre... te lo giuro!»
Con un sorriso venato sia di gioia che di tristezza Candra abbracciò il fratello. Per sempre era forse un anno, due se era molto fortunata, per loro. Il fato era così strano... la sua vita aveva un limite così palpabile e preciso che aveva deciso che in quel Raksha Bandhana, l'ultimo che probabilmente avrebbe festeggiato, avrebbe dato a Shiva quel piccolo tesoro.
Asciugò gli occhi del fratello, lei aveva quasi diciannove anni, eppure non si sentiva giovane, ma infinitamente vecchia, stanca e addolorata. Cos'avrebbe fatto Shiva da solo? Quand'era che il futuro era passato dall'essere una promessa a una minaccia? Come avrebbe potuto avere un avvenire, lasciato solo in un mondo che non li voleva e in cui essere orfani, in cui vivere, era quasi un delitto?
Fuori dalle città coperte dalle cupole, da quegli agglomerati di luci e tecnologie fatiscenti e dimenticate, c'erano zone selvagge e pericolose, luoghi dove gli sbandati e senza casta si univano formando bande. Assassini, ladri, banditi della peggior specie, e lei non voleva che suo fratello facesse quella fine. Lavoravano per avere un futuro, per la promessa di una vita decente, ma poi era arrivata la malattia e la speranza si era spenta nel cuore di Shiva. Sentiva che si sarebbe lasciato andare senza di lei, che era il suo faro. La nonna glielo diceva sempre: Candra, il nome della luna, che con il suo perlaceo bagliore anche nella notte più scura dava speranze e luce, si era rivelato profetico. Lei era quello per Shiva, la ricerca di un futuro che valesse la pena essere vissuto, per cui si poteva e voleva lottare.
Alzò gli occhi, intravedendo oltre i pezzi della cupola, il profilo lontano dei monti Ladakh, trattenendo le lacrime.



 



Lakhnau: è la capitale dello stato indiano del Uttar Pradesh.

*Valuta del anno 3100

*sravana: circa agosto

Il Raksha Bandhana è una festività che si celebra nella luna piena del mese di sravana (agosto-settembre) che è il secondo mese della stagione delle piogge.
"Raksa-Bandhana (legame di protezione), il giorno in cui i brahmani rinnovano il proprio cordoncino sacro e le ragazze di qualunque ceto legano un filo al polso dei propri fratelli di sangue o adottivi, affinché la divinità li protegga da ogni male per tutta la vita; nel medesimo tempo, colui che riceve il filo (in hindi, rakhi) assume l'impegno a proteggere la sorella nei momenti difficili."

Grazie a tutti quelli che hanno letto la storia, se vi piace fatemelo sapere, fa bene alla mia autostima!
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Le Storie di Nemainn
Nemainn EFP

 

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Capitolo 2
*** -1- ***









- 01 -

 

Con il fiato spezzato i due ragazzi avanzavano tra il fitto fogliame, la stanchezza che rendeva le gambe pesanti.
«Shiva...!» con il respiro ansante Candra chiamò il fratello, avanti a lei di pochi passi. Lo guardò fermarsi, i capelli sporchi e appiccicati di sudore al collo e la faccia piena di terra e polvere. «Non... non ce la faccio ad andare avanti, vai tu. Li depisterò.»
Shiva fece i passi che la separavano dalla sorella, negli occhi castani la furia e la disperazione. «Non dire cazzate!» l'apostrofò «Tu ce la devi fare!» L'afferrò per il polso, ma era impossibile procedere: Candra era troppo stanca. Si erano imbattuti in quella banda in una zona che credevano abbandonata. Stavano depredando delle rovine di quello che pareva essere stato un agglomerato di case per metà sepolte da una valanga o, almeno, quello era ciò che sembrava loro. Sopra quei declivi di terra erano cresciute piante di ogni genere, alberi ormai alti e robusti tanto era il tempo trascorso. Pensavano di essere in una zona sicura, mentre scavano tra quei resti, alla ricerca di tecnologia ancora utilizzabile e che potevano vendere.
Era stato Shiva a sentirli, un suono simile a un sibilo l'aveva messo in allerta e si era lanciato contro la sorella. Al suolo, dietro un cumulo di terra appena smossa, avevano spiato con cautela dalla direzione da cui proveniva il rumore, accucciati. In pochi minuti videro arrivare loro incontro su delle moto a motore gravitazionale, malmesse e a stento funzionanti, un gruppo di predoni. Quei mezzi erano pezzi rari e preziosi, sarebbe stata una grossa fortuna poterne rubare uno, il problema era chi le guidava. Erano meno di una decina di moto e sopra ognuna di esse c'erano almeno due persone, erano chiaramente una banda di Illegali. Senza legge, privi di casta, pericolosi e armati. Rubare a loro era un pensiero suicida, l'unica cosa che potevano fare era scappare, sperando di non essere visti. Avevano strisciato, cercando di andarsene senza farsi scorgere, ma la fortuna non li aveva benedetti. Con un grido d'allarme erano stati indicati e si erano messi a correre tra la fitta foresta.
Lì le moto non potevano avanzare più rapide di un uomo, costrette dalla vegetazione negli spazi stretti e angusti tra i tronchi e il sottobosco robusto e florido. L'inseguimento era così iniziato e, da allora, i due fratelli avevano continuato a correre praticamente senza mai fermarsi e Candra non reggeva più. Era sfinita, così stanca che nulla poteva spingerla ad avanzare ancora, neppure la certezza dello stupro e della morte sembravano in grado di spronarla. Su quelle moto e dandosi il cambio, credendo di aver trovato chissà cosa o chi, gli inseguitori non si davano per vinti e arrendersi a loro era impensabile, voleva dire essere uccisi. Almeno, lei sarebbe sicuramente morta, alla fine, era malata; ma per suo fratello il fato poteva essere perfino peggiore. Ogni tanto giungevano loro i suoni di quella caccia, incitamenti animali, sguaiati, che li terrorizzavano.
In preda alla paura erano fuggiti verso i monti, sperando che tra pietre e alberi perdessero le loro tracce, ma era evidente che possedevano un tracciatore di qualche tipo, che li avrebbero trovati e che era solo questione di tempo. Davanti a loro scorreva un ampio torrente e assetati, ignorando le elementari norme che avevano inculcate dalla nascita, bevvero. Poteva ucciderli con un sorso, farli ammalare, ma la sete era troppa per entrambi per fermarsi e pensare.
Dopo essersi dissetato, Shiva osservò attentamente quello che li circondava. «Andiamo a monte del ruscello, se esce da una grotta possiamo nasconderci.»
«Se ci porta in una gola, invece?» disse Candra con il filo di fiato appena recuperato, seguendo però il fratello quando iniziò ad avviarsi, con i grossi anfibi a mollo in cui entrava l'acqua gelida «In quel caso siamo in trappola, lo sai...»
Ma Shiva la fissò caparbio e lei avanzò ancora, trovando la forza in qualche modo, per lui, al di là della stanchezza e del dolore ai muscoli, di quella specie di ovattato nulla che l'avvolgeva per via dello sfinimento, proseguì. I piedi a mollo nell'acqua gelida risalirono quel torrente, a volte inerpicandosi lungo le piccole cascate, o aggirandole quando erano troppo alte. Passarono le ore, lente, mentre Candra si sentiva animare da un filo di speranza.
«Non li sento da un po'...» Shiva, sentendo le parole della sorella, annuì e lei proseguì con la voce spezzata dalla fatica. «Non vedo quasi più dove metto i piedi, non li sento più inseguirci. Io mi fermo, Shiva.»
«Anche io.» Il ragazzo, nella luce fioca che rimaneva come ultima vestigia del crepuscolo, mise il braccio sul fianco della sorella aiutandola a fare gli ultimi barcollanti passi. A volte l'aveva portata sulle spalle, quando lei crollava, dandole un minimo di riposo a quel mondo. Ma anche lui, ormai, era stremato. Si rifugiarono in un tronco cavo poco lontano, spaventati dai possibili insetti velenosi, senza nulla da mangiare, infreddoliti e stanchi, ma erano ancora vivi e questo, al momento, bastava.
Fu il suono di voci umane a svegliarli, lontane, certo, ma erano sicuri fossero i loro inseguitori e nella luce che le stelle e la luna davano ripresero a seguire il corso del torrente. Man mano che avanzavano, portate dal vento, le voci si facevano più o meno vicine, spronandoli, mentre Candra osservava il fratello, chiedendosi cosa dire per convincerlo a lasciarla indietro: poteva depistarli, salvarlo. Lei, tanto, era già morta.
«Cosa...?» la sorpresa nella voce di Shiva calamitò l'attenzione di lei, distogliendola dai suoi pensieri. Alla loro destra, nella parete rocciosa che costeggiavano, un cerchio di quello che sembrava acciaio si intravedeva tra una cascata di radici e rampicanti. «Aiutami...»
«Non abbiamo tempo per questo!» soffiò stanca, guardandolo. Ma lui non l'ascoltò e con dita frenetiche spostò le radici, strappando i rampicanti e mettendo a nudo quella porzione di roccia.

 

*

 

Un fremito sfiorò la coscienza assopita, un vento che parlava di cambiamento, e lentamente, da un sonno durato un tempo forse incalcolabile, ma che a lei pareva durato quanto una notte, si svegliò.
Attorno a lei la luce era soffusa, ma non era ciò che la circondava che voleva vedere, non quello che i suoi occhi potevano percepire la interessava. Chiuse di nuovo le palpebre e la sua coscienza si diramò lungo le linee neurali che dalla capsula si ramificavano in tutta la città sotterranea. In uno spazio ampio, dentro una caverna immensa, come colonne che univano soffitto e pavimento vari livelli di edifici riprendevano vita. Leggiadre, all'apparenza delicate, quelle torri erano collegate tra loro da ponti aerei e qua e là enormi cupole contenevano parchi e giardini curati. Tutto era rimasto in stasi, come lei, fino a quando quel sottile avvertimento non l'aveva ridestata. Lei era rimasta lì, l'unica a guardia del passato, l'unica a guardia del futuro.
Kalì spinse la sua mente lungo i corridoi e le stanze, i laboratori e le camere, i giardini e ogni altro luogo, ridestando ogni cosa. Androidi ripresero vita e iniziarono a controllare ogni apparato, mettendo in funzione e riparando dove necessario ciò che i loro pochi fratelli rimasti desti per quel periodo di sonno avevano mantenuto in stato quiescente, ma pronto a tornare a funzionare. Ci volle poco e l'apparenza di vita tornò in quel luogo, mentre il cervello di Kalì analizzava i dati.
Era l'anno 3100, aveva dormito per circa ottocento anni. Aveva chiuso gli occhi quando il dolore per la distruzione che aveva portato era stato intollerabile, quando aveva dovuto compiere la scelta e il sacrificio l'aveva risvegliata da quello stato di furia incontrollata, priva di ogni limite o freno, in cui era stata indotta. La sofferenza la travolse: era feroce, colma di ricordi, e le riportò alla mente tutto ciò che con il sonno aveva potuto dimenticare.
Al tempo l'umanità era al vertice di una crescita tecnologica che stava portando gli uomini a frontiere di longevità, salute e scienza mai sperimentate prima. Ma non bastava, no, non era ancora abbastanza. Volevano creare l'essere perfetto, immortale, potente, che unisse davvero uomini e macchine, volevano creare una nuova forma di vita, essere dèi. Così allora fecondarono ovuli, li manipolarono usando ogni scoperta e scienza: la genetica, la biologia, la biomeccanica e la tecnologia si fusero in quel laboratorio scavato sotto i monti Ladakh. I feti crebbero, assumendo forme umane eppure al contempo inumale. Erano dèi, mostri, erano solo bambini.
Una lacrima scivolò sul viso dalla pelle nera della donna nella capsula, mentre i volti della sua infanzia le accarezzavano la mente. Nel suo gruppo erano in tre e le avevano chiamate Shakti, Saraswati e Kalì. Erano gemelle e si amavano l'un l'altra, indivisibili, le loro menti erano una e trina. Assieme a loro ne erano stati creati altri, molti altri. Tanti morirono ancora feti, altri sopravvissero alcuni anni, ma pochi raggiunsero la maturità. A quattordici anni vivevano assieme, animali da laboratorio, cavie, senza sapere di esserlo perché non conoscevano altra vita. Vagavano nella struttura, giocavano nei giardini, senza aver mai visto il sole o il firmamento stellato con i loro occhi. Erano i nuovi umani potenziati, superiori... pericolosi.
Loro tre crebbero assieme a quelli che erano amici e fratelli, conobbero Bhrama, Vishnu e Shiva, conobbero Yama, Varuna e Aditi. Erano amici, erano fratelli tra di loro, gli unici bambini, gli unici così diversi dagli altri umani che vedevano.
Poi con l'età arrivarono esperimenti sempre più pesanti, modifiche, manipolazioni, e lentamente qualcosa cambiò. Impararono a oltrepassare i firewall e videro con gli occhi elettronici dei satelliti, delle telecamere di sorveglianza, delle webcam, il mondo. Videro e iniziarono ad aver paura di un creato che era diventato disumano. Si erano stretti uno all'altra vedendo che la carne e il sangue degli uomini erano diventati poca cosa, solo merce di scambio, l'amore e gli affetti meri vincoli di ricatto, il rispetto per le altre forme di vita era ormai inesistente. Pochi, grandi potenti controllavano il mondo e anche le loro vite, regnavano reggendo i fili di governi che altro non erano che burattini. Videro, assieme, la decadenza degli uomini, ciò che fuori di lì era la vita. Videro gli slums delle megalopoli, il degrado, il male incarnato nelle persone che fagocitavano e divorarono loro stessi e il loro mondo in un cannibalismo autodistruttivo che avrebbe presto posto fine a tutto, anche a loro.
Erano solo esperimenti, esseri che si stavano rivelando troppo potenti, con troppo potenziale, e scoprirono che avevano deciso di eliminarli non appena giunti ai risultati cercati.
Kalì si mosse in quella capsula che la manteneva in vita e che lentamente risvegliava il suo corpo, processo molto più lungo che per la sua prodigiosa mente. Era la sola a potersi ridestare, in quella città sotterranea, era colei che lì era rimasta a vegliare. Gli uomini avevano voluto creare degli dèi e, vedendo che avevano compiuto l'opera a cui puntavano, ne avevano avuto paura. Ma una volta dato il via a una vita che sfiorava il divino non si poteva più toglierla, riprendersi ciò che avevano fatto. Loro non glielo avrebbero permesso. Passarono anni in cui si erano preparati, celando ciò che avevano appreso ai loro creatori, agli scienziati che avevano donato loro la vita, fingendo ubbidienza e una certa ingenuità che non era in realtà loro. Accumularono conoscenze, nascosero la loro reale forza e le loro uniche e straordinarie capacità. Gli scienziati però agirono, riuscendo a dimostrarsi più lungimiranti di quello che loro si erano aspettati.
Il ricordo della sofferenza per quella morte, per la carne che le era stata tolta come se fosse stata sua, le strappò un urlo di dolore. L'anima ancora fremeva, in frantumi, dopo tutto quel tempo. La prima di loro a morire era stata Saraswati, la prima a spegnersi per mano di quegli scienziati. La sua mente aveva sentito un urlo di agonia, uno strappo, e dove c'era stata lei, dove Saraswati con la sua bellezza, la sua gioia per ogni forma di vita, lei che si era opposta alla violenza in ogni modo, lì c'era il nulla. Le ultime parole che Saraswati aveva condiviso con loro, il suo ultimo pensiero, ancora spezzava il cuore di Kalì: “Non ho mai desiderato nient’altro. Solo… vedere le stelle. E ora non le vedrò mai...”. Quel desiderio così piccolo e così immenso, vedere quel firmamento che sognava con i suoi occhi, le era stato negato per sempre. Quel vuoto aveva fatto impazzire lei e Shakti, e la loro follia aveva contagiato gli altri. Nessuno nel loro gruppo condivideva un simile rapporto, mentre altri di loro morivano la forza delle loro menti aveva coinvolto in quel tormento ognuno di loro. In preda al cieco strazio dell'anima avevano ucciso ogni uomo, ogni donna, chiunque lì dentro, ma la sua sete di sangue non si era calmata. Kalì era uscita con Shiva nel mondo, calcando il suo piede sulla superficie per la prima volta, aveva danzato con colui che amava una danza di distruzione, portando la morte. Lei e Shakti, due corpi e un'unica anima, amavano Shiva. Anche Saraswati l'aveva amato, e lui le amava come fossero state una cosa sola.
Loro erano una cosa sola.
La morte di Saraswati aveva rotto l'equilibrio tra loro tre, portandole alla follia più assoluta, mentre da ciò giungeva quella che venne definita la guerra dei tre giorni; tanti erano bastati a devastare l'umanità.

 


*

 

«Candra, sembra una specie di porta, se entriamo possiamo seminarli, far perdere le nostre tracce, possiamo farcela!» Shiva trafficava con quel pannello di pietra, sentiva che c'era un modo, ma quella tecnologia era troppo evoluta, troppo antica, perché potesse facilmente capirla. Codici, servivano codici di un qualche tipo, magari? Passò le dita sulle superfici metalliche incastonate nella pietra liscia come vetro, toccando, spingendo, pregando e imprecando.
La ragazza si morse il labbro, la voce degli inseguitori era sempre più vicina, tanto che si distinguevano le prime parole. «Andiamocene, non sappiamo aprirla...»
«No!» il rifiuto era venato di furia e Shiva sbatté il palmo aperto sulla superficie centrale, simile a vetro nero, che prese vita. Davanti agli occhi stupefatti dei due la roccia si mosse silenziosamente, rivelando un corridoio in cui delle luci artificiali illuminavano un passaggio di pietra perfettamente squadrata, con il suolo simile a uno specchio nero. I due fratelli si guardarono, poi entrarono. Una follia, probabilmente, ma con gli inseguitori così vicini avevano scelta?
Dietro di loro la lastra si chiuse e il silenzio regnò.
«Cosa facciamo adesso, Shiva?» chiese lei, guardando quella porta che presentava un meccanismo simile all'interno «Aspettiamo e poi usciamo?»
«Voglio vedere cosa c'è in fondo al corridoio. Dove porta...» la voce del ragazzo era eccitata e gli occhi pieni di curiosità.
Candra si morse il labbro, mettendo la mano sulla spalla del fratello. «Potrebbe essere pericoloso...»
«Non penso. Credo sia un posto abbandonato. Io vado lo stesso. Andiamo, dai!»
In fondo non avevano poi molto da perdere, e anche lei era curiosa. «Al primo segno di pericolo toniamo indietro, però!» disse in tono categorico, e i due si avviarono lungo il corridoio, spalla a spalla, stanchi ma troppo curiosi per fermarsi.

 

*

 

Il corridoio si snodava lungo un percorso in linea retta, in cui le luci non erano mai mancate. Ma ben presto quel silenzio opprimente che era spezzato solo dal rumore dei loro passi mise profondamente a disagio i due.
«Mi sembra di camminare da ore, qua è tutto uguale.» La voce di Candra era un mormorio dai toni inquieti mentre, al fianco di Shiva, procedeva con passi lunghi.
Il ragazzo si strinse nelle spalle. «Credo che ci sia qualcosa più avanti, c'è una luce rossa. Si intravede appena...»
«Sì, la vedo anche io.» Confermò la ragazza.
Proseguirono in quell'ambiente identico a se stesso ancora per lunghi minuti, arrivando alla luce rossa. Trovarono una porta e, quando si avvicinarono, si aprì da sola, rivelando uno spazio stretto.
«Un ascensore.» Shiva, sorridendo, accarezzò il liscio acciaio simile a uno specchio che contornava l'accesso e fece un passo avanti, entrando. Candra esitò un istante, ma poi fece il passo necessario.
Una voce metallica, femminile e limpida, parlò e i due sobbalzarono.
«Specificare piano.»
I due si guardarono.
«Primo...» disse incerto il ragazzo, osservando la sorella che annuì. Un ronzio flebile accompagnò la sensazione di movimento e le pareti di vetro nero divennero trasparenti.
Davanti ai due si mostrò una città sotterranea, perfetta e meravigliosa che con le sue forme architettoniche ricordavano quelle naturali, simili a frattali o di fiori su esili gambi.
Le grandi piattaforme che ospitavano le cupole in cui cresceva vita vegetale erano verdi e lussureggianti, simili nella loro disposizione a corolle. Candra cercò la mano del fratello, stringendola, negli occhi di entrambi lo stupore e la meraviglia davanti a quel vivo frammento di tecnologia dimenticata. Lì nulla era in rovina, non c'erano segni che lasciassero pensare che l'antica guerra che con un colpo di spugna aveva distrutto la civiltà, avesse sfiorato quel luogo.
L'ascensore con un minimo fremito si fermò e le porte si aprirono. Un'ampia piazza sospesa, circondata da piccole aiuole fiorite, dava il via a una raggiera di strade. Piccoli automi meccanizzati, in condizioni inspiegabilmente ottime, sembravano badare a quelle piante. Attorno a loro regnava ancora il silenzio.
«Non c'è nessuno...?» Alzando la voce Candra parlò. «Ehi!?»
«Sono praticamente certo che sia abbandonato. Un complesso così tecnologico lasciato a se stesso, che si è mantenuto autonomamente nel tempo... potremmo trovare tesori enormi, Ca'!»
Lei sorrise al nomignolo; quando era un bambino Shiva l'usava sempre ma, crescendo, l'aveva abbandonato lasciandolo emergere solamente quando era profondamente emozionato.
Lei annuì. Qualcosa però non andava, qualcosa era sbagliato in tutto ciò, ma era un presentimento irrazionale che non riusciva a spiegare, come un brivido sulla pelle che lasciava dietro di sé gelo e inquietudine, «Andiamo via.» mormorò.
«Scherzi?!» Il ragazzo fissò la sorella a bocca aperta, incredulo. «Abbiamo... questo tra le mani e vuoi andare via?! Ma che ti prende?»
Lei scosse il capo, incerta. «Non mi piace. È strano, c'è troppo silenzio. È come se fosse tutto così... triste...»
«Sei diventata matta?» Shiva sbuffò. «Spiegami, hai paura dei fantasmi adesso?»
Lei fissò il fratello con rabbia, ma alla fine scosse la testa: non aveva motivo razionale per andarsene, in effetti. «Va bene, proseguiamo. Fa strada, eroe...»
Senza farselo ripetere due volte il ragazzo si incamminò, inoltrandosi verso la via più centrale di quella raggiera, dirigendosi con passo sicuro verso quell'edificio che, simile a una leggiadra spirale fatta di materiale candido, brillava leggermente dall'altra parte del complesso.

 

*

 

Andiamo là, Kalì, di là!”
Nella mente della donna la voce di Shiva, del suo Shiva, era perfetta. Inalterata negli anni il ricordo la manteneva identica e lei, in quella capsula che era fin troppo somigliante a una bara, sentì il suo cuore fremere.
Dove?” la voce di Kalì risuonò allegra tra i tronchi degli alberi, mentre seguiva in quel passo vivace l'altro ragazzino, che dimostrava come lei quattordici anni. Gli sorrise, allungando la mano, prendendo quella dell'altro e stringendola tra le dita con un sorriso timido. I suoi sentimenti erano divisi con le sorelle; amavano Shiva, erano un'anima e tre corpi e, anche se non erano fisicamente tutte lì, dove era una erano tutte. E mentre la sua mano stringeva quella di lui, tutte e tre sentivano il loro cuore tremare colmo d'emozioni.
Rivisse quelle memorie mentre guardava attraverso le telecamere quei due ragazzi, fratello e sorella, mentre si tenevano per mano. Li aveva osservati, analizzati, studiati. La femmina era malata, non aveva più di dieci mesi di vita davanti a lei, un morbo che a quanto pareva era un'evoluzione di una malattia più antica e che per un periodo era stata debellata: il cancro.
Ora le cellule impazzivano degenerando, attivando una mutazione a livello genetico che modificava il DNA stesso, riducendo in polvere il corpo. Osservò la ragazza prendere nella sua la mano del ragazzo, sorridergli con amore, e un nuovo tremito la scosse.
Ricordava l'amore, l'aveva provato. Quello fraterno, quello per un amico, quello per un compagno, quello per Shiva. Era per quel sentimento che si era fermata quando era stata sul punto di completare la sua opera, per quell'amore aveva dato una possibilità.
Nuove immagini fiorirono, meravigliosamente nostalgiche e dolorose dalla sua memoria, mentre osservava l'avanzare dei due lungo la via centrale, una parte della sua mente rivolta al presente e una al passato.

Saraswati e Shakti aspettavano dietro il cedro, non appena Kalì, la terza di loro, apparve, le andarono incontro con gli occhi pieni di gioia. Si presero le mani in silenzio, condividendo la sensazione dell'amore. “Shiva...” dissero assieme, un sorriso d'identica gioia sui loro volti, non dissero altro, le parole non servivano.

Erano state create con un codice genetico tale da renderle aspetti diversi della stessa persona; erano di sembianza diversa l'una dall'altra, quasi opposta in certi tratti, eppure erano più legate che gemelle: erano la stessa entità. Saraswati era morbida, di forme invitanti, chioma e occhi più neri della notte e una pelle di puro alabastro, lei sola poteva cantare con una voce ammaliante intessendola nelle più splendide delle emozioni. Shakti era eterea, sottile, un'espressione dell'anima che condividevano. Era minuta e vitale, occhi simili a opali e una chioma candida, la pelle chiara che a volte pareva avere sfumature di un delicato verde, appariva come una creatura in perenne movimento, sempre irrequieta e fremente, infine lei, Kalì, era la più forte. Tonica e muscolosa aveva occhi e capelli fiammeggianti con la pelle di un colore scuro, del nero più intenso, simile al buio più cupo. Erano complementari, uniche, unite, e quando parevano avere sedici anni conobbero tutte le forme dell'amore per Shiva. Saraswati cantava, dalla sua voce nascevano immagini, sapeva creare con il suono le più splendide illusioni mentre Shakti modellava sul corpo forte e possente del ragazzo quelle fantasie, sfiorandone la pelle azzurrata, baciandolo e danzando attorno a lui con la malizia di una fiamma che ardente illuminava, ma era lei, Kalì, che faceva esplodere la sensualità in loro, quella più selvaggia e sfrenata. Quando con i capelli del cupo rosso del sangue sciolti sulla schiena cavalcava senza inibizioni o freni quello che, nei cuori delle tre, era il loro sposo, erano le più ataviche delle sensazioni a risvegliarsi in loro, un'energia potente che faceva vacillare la terra. Non erano umani, non erano uomini e donne anche se da loro creati, erano esseri quanto di più simile a dèi avessero mai calcato quel suolo.
Kalì si mosse, la mano che nel liquido di sospensione che avvolgeva il suo corpo pareva una macchia d'oscurità si posò sul volto in un gesto di sconforto.
Aveva, avevano, amato.

 

*

 

«Leggi cosa c'è scritto qua.» Shiva si avvicinò alla porta davanti a loro: era ampia, di metallo opaco e al di sopra di essa spiccava una scritta, ed era quello che il ragazzo indicava.
Candra inclinò la testa, strizzando appena gli occhi; da lontano la sua vista non era eccellente e dopo un attimo decifrò la parola. «Amaravati.» scandì con voce chiara. «Il nome del paradiso di Indra, della città degli dèi...»
«Già, credo che abbiamo trovato qualcosa di più grosso, tanto più grosso del previsto.»
Candra fece un passo verso il fratello, squadrandolo. «O un guaio troppo grande per noi, Shiva. Andiamocene.» Un brivido gelido accarezzò la pelle della ragazza, che si sentì osservata. Era una sensazione che l'accompagnava dall'inizio del viaggio in quel posto. «C'è nessuno?» chiese ancora, incerta.
«Non vedi che non c'è nessuno, Ca'?» Shiva sbuffò.
In realtà neppure lui si sentiva a suo agio, ma nel vedere tutto quello una folle speranza si era radicata nel suo cuore. Se lì l'antica tecnologia era salva, se tutta la sapienza perduta era conservata, doveva trovarla. Doveva... per Candra. Una speranza di curarla, di guarirla dal morbo del sole malato, di impedire che la sorella diventasse polvere sotto ai suoi occhi... se poteva trovare una cura, se aveva una possibilità, era lì. Da quando la guerra dei tre giorni aveva distrutto il pianeta il morbo era apparso, devastante. Prima l'urgenza per gli ultimi sopravvissuti di coprire le città con le cupole per proteggersi, e poi l'inarrestabile declino che li aveva portati a quello che erano ora, aveva impedito anche solo di cercare veramente una cura.
Il ragazzo si mosse verso la porta che al suo avvicinarsi si dischiuse silenziosamente, aprendosi lateralmente e mostrando una stanza illuminata. Entrò e dopo un attimo, incerta, Candra lo seguì. Era un locale vuoto se non per una serie di frasi incise sulle pareti, che facevano il giro del perimetro all'altezza degli occhi. Sulla superficie bianca, con un colore blu scuro, si alternavano. «Aditi è il firmamento, Aditi è l'atmosfera, Aditi è la madre, è il padre, è il figlio, Aditi è tutti gli Dei, Aditi è le cinque razze degli uomini, Aditi è ciò che è già nato, Aditi è ciò che deve ancora nascere.» Lesse lei, con voce sussurrata. Candra si spostò, leggendo tra sé altri brani, fermandosi poi davanti a uno in particolare: «Tenebra, ricoperta da tenebra, era in principio; tutto questo universo era un ondeggiamento indistinto. Quel principio vitale, che era serrato dal vuoto, generò se stesso come l’Uno mediante la potenza del proprio calore.» Candra sentì una morsa inspiegabile allo stomaco mentre con le dita seguiva quelle lettere, rabbrividendo. Sembravano risuonare in lei, come se risvegliassero una parte atavica e sopita.
La mano di Shiva si posò sulla spalla della sorella, un tocco caldo e delicato. «Vieni, dobbiamo riposare un po', non c'è fretta, vediamo se c'è dell'acqua, mi sembra di vedere un rubinetto in fondo, magari funziona ancora!»
Lei annuì, colpita da quelle parole, da tutte quelle frasi. Avevano un sentore antico, eppure vibravano in lei come se attraverso il tempo da un passato lontano le arrivassero, sulla spinta di un'onda fremente. Era una sensazione strana e la ragazza sfiorò ancora con lo sguardo quelle lettere, i grandi occhi che a fatica le lasciarono.
Proseguirono, il corridoio presentava delle porte che davano su stanze arredate, sembravano uffici. Tavoli, sedie, poltroncine, schermi scuri come occhi vuoti. Sembrava che tutto fosse stato abbandonato da poco, ordinatamente, ma sapevano che quello non era possibile. Esplorarono con calma, trovando un bagno e l'acqua; quando passarono la mano sotto al rubinetto, iniziò a scorrere limpida. Shiva l'assaggiò con cautela, sentendola dolce al palato e sorrise. Bevvero, assetati, iniziando a percepire l'immensità del loro sfinimento ora che la sensazione di sicurezza si era rinforzata. Avanzarono, cercando nelle altre stanze, salendo scale mobili che al loro passaggio si azionavano: brevi rampe che li portarono da un piano all'altro. Ogni livello di quella colonna, verso l'alto, erano uffici, o almeno lo sembravano. Decisero di scendere, addentrandosi lungo i piani segnati in negativo e trovarono delle stanze. Piccole unità abitative, un paio per piano, interrotte ogni tanto nella loro continuità da piani dedicati a zone che parevano comuni. Decisero di fermarsi in una stanza a caso, buttandosi così com'erano su un letto, senza preoccuparsi di nulla, convinti di essere soli e che il tutto fosse mantenuto da discreti macchinari senz'anima.
La stanchezza vinse sulla fame, e il sonno li avvolse con l'abbraccio caldo del riposo.

 

*

 

Kalì si mosse e lentamente si mise seduta, il coperchio della capsula finalmente aperto e il liquido eliminato. Prese il primo, vero respiro in ottocento anni e si stiracchiò, assaporando quella rinascita, la sensazione dei muscoli e della carne, della pelle che si tendeva e dell'aria che sfiorava la sua persona in una tiepida carezza. Passò le mani lungo il corpo, riappropriandosi di quelle percezioni fisiche che erano state solo un sogno per troppo tempo, sorridendo. Ma era un'espressione velata di una malinconia dalle sfumature così stanche, da far apparire il suo volto quello di una divinità millenaria intagliata nella pietra.
Eternamente bella, giovane, forte, eternamente perfetta... e sola.
Sentiva la mancanza delle sorelle, sentiva il profondo vuoto che che lambiva il suo essere. Chiuse gli occhi, rossi come rubini, per poter meglio spingere la sua mente lungo i sentieri dei cavi che percorrevano l'intera cittadella scientifica. Impulsi elettrici figli e fratelli dei cervelli da cui erano stati ispirati, ne seguiva le informazioni, assimilandole. Vedeva e ascoltava con occhi nascosti di telecamere e androidi, guardando i fratelli dormire. Silenziosa mosse i passi che la separavano da loro.
Necessitavano di cibo e ordinò all'intelligenza artificiale a guardia del complesso di provvedere. Frutti vennero raccolti, pasti preparati da braccia robotiche e portati in quella stanza mentre lei, poco discosta dalla soglia, vegliava. Osservava i due umani, quelle due giovani creature, mentre il loro respiro riempiva la stanza.
Si soffermò sul maschio, sentendo il cuore che perdeva un battito mentre la somiglianza tra lui e il suo Shiva le si palesava in tutta la sua forza. Non era una somiglianza fisica, non particolarmente, almeno; era quel modo di muoversi, di guardare, il sorriso. Quella vitalità piena di forza e un'anima colma di speranza e dolcezza. Lo vedeva da come guardava continuamente la sorella, da come si sporgeva per aiutarla, e vedeva in lei quello stesso genere di amore. Ma era lui, che portava il nome del suo amato, a ferire la sua anima con quel sorriso così schietto e sincero, con quegli occhi luminosi.
Guardali! GUARDALI! Sono loro, gli uomini, che hanno causato tutto! Sono i colpevoli!”
La voce che nella mente di Kalì urlava quelle parole era la sua, ma era folle, piena di odio e dolore, disperata. Una lacrima solitaria le scese lungo il volto mentre ricordava: aveva sentito la morte spezzare il legame, aveva urlato sentendo la follia avanzare, attaccandosi alla sorella rimasta, abbracciandola, tremando, piangendo e urlando. Lo strazio era stato infinito mentre il suo cuore cedeva a esso, spezzandosi irrimediabilmente.
Rivide ciò che ottocento anni prima aveva dato inizio a tutto, rivide quello che era stato il primo passo verso la sua danza. La memoria le riportò i volti di Yama e Shiva, di Aditi, Brahma e Vishnu, di tutti quelli che erano i suoi fratelli e le sue sorelle, di ognuno di loro. In un genocidio li stavano eliminando senza scrupolo, remora, umanità. Gli scienziati erano stati furbi; avevano creato degli dèi, ma avevano però fatto in modo di poterli distruggere. Non erano, però, stati abbastanza abili: eliminandoli uno alla volta stavano dando il tempo al resto di loro di rendersi conto, di agire, di salvarsi, e così la loro collera si era scatenata. Lei aveva contagiato tutti, lei aveva scatenato il lato selvaggio e la sete di sangue, il desiderio delle rosse carni gocciolanti, della vendetta, lei aveva reso folle la loro furia, il loro dolore, il tormento della separazione che riecheggiava dalla sua anima a quelle di tutti loro.
Chiuse gli occhi e l'intelligenza artificiale, obbedendo al suo volere, le fece rivedere quelle immagini.
Si vide con la faccia rossa di sangue mentre calpestava i cadaveri degli scienziati, avanzando come una furia tra quei corpi, intanto che alcuni dei suoi fratelli e sorelle che conservavano una scintilla di lucidità bloccavano il sistema di sicurezza, evitavano l'innescarsi di quella bomba impiantata nella loro carne e riprogrammavano l'intelligenza artificiale che governava il complesso. Danzava, i capelli come fiamme di un incendio divorante che ondeggiavano sulla schiena nuda, la pelle nera su cui il sangue scarlatto brillava come un ricamo di rubini. Si rivide mentre con le mani strappava dal petto i cuori di chi aveva dato loro la vita, fino all'ultimo, stanandoli. Non c'era arma convenzionale in grado di bloccarla, veleno che potesse fermarla, ostacolo rallentarla. Gli uomini avevano ucciso la metà di loro perché avevano avuto paura di quello che avrebbero potuto fare, della loro creazione, scatenando così ciò che temevano.
Era stata una furia assetata di sangue priva di senno o clemenza, che senza distinguere amici e nemici uccideva: come colei a cui il suo nome era ispirato portava la furia e la distruzione. Il gusto del sangue, a quella vista, divenne vivo nel suo ricordo. Ferroso, corposo, era il sapore della vendetta. Aveva sterminato infine ogni scienziato, ma quello non le era bastato. La furia sua e dei sopravvissuti non era ancora arginata, la follia imperversava ancora, assetata, famelica, e si scatenarono nel mondo.
Meritavano, gli umani, quel mondo che stavano distruggendo?
Meritavano quel cielo negato a chi tra loro l'aveva bramato e a cui era stato sottratto?
Stavano uccidendo loro stessi e ciò che li circondava in un'apoteosi di cieco egoismo, inconsapevoli dei loro stessi atti, desiderosi di innalzarsi senza più vedere le conseguenze dei loro gesti, e loro ne erano il risultato.
No. Non meritavano nulla di tutta quella meraviglia che la Terra poteva donare. Non erano degni della vita che possedevano, che dileggiavano, che davano per scontata.
Così la guerra dei tre giorni si era scatenata. Le menti di quegli dèi creati dall'uomo si impadronirono di ogni tecnologia mentre i loro passi scatenavano tempeste di sabbia e fulmini, terremoti, aprivano acque e cielo in cataclismi inimmaginabili. L'asse terrestre aveva vibrato, le città crollavano con un loro gesto e il sangue, a Kalì, non bastava mai. Teschi adornarono il suo collo, il rosso succo vitale delle sue vittime era diventato il suo unico abito, le mani strappano carni e le dilaniavano. La pazzia era ormai tutto quello che per Kalì aveva senso, neppure la voce di Shakti giungeva più a lei nella nebbia di dolore e follia che l'avvolgeva. Nulla la fermava, mentre con il piede calcava la terra, schiacciando cadaveri e macerie.
Inarrestabile.
Solo lei, ancora, perseguiva la vendetta: dovevano morire tutti. Il cielo negato a Saraswati sarebbe stato negato per sempre a ognuno di loro e mai più un essere umano avrebbe camminato su quel suolo. Inutilmente la chiamarono, cercando di placarla, rivoltandosi anche contro coloro che amava, furiosa, ferita, folle. L'anima agonizzante e urlante, spiritata, selvaggia, continuò la sua danza di distruzione fin quando davanti a lei non si pose Shiva.
Ricordava perfettamente lo sguardo luminoso di lui, così colmo di pietà, sofferenza e forza, una roccia che si era affilata con il cadere di infinite lacrime. Occhi pieni, come quelli di quel ragazzino che placidamente dormiva davanti a lei. Strinse le labbra, sentendo l'antico dolore pungerla, straziare ancora l'anima e il cuore.
A mezza voce, posando lo sguardo sui due fratelli, in un mormorio a stento udibile, recitò: «Là dove non vi è oscurità, né notte, né giorno, né Essere, né Non Essere, là vi è il Propizio; là vi è il glorioso splendore di quella Luce dalla quale in principio sgorgò antica saggezza.» Perché quello era Shiva: il saggio, il propizio, che l'aveva placata con il suo amore, colui che aveva fermato quella danza di morte danzando insieme a lei, riportandola attraverso quel nulla alla luce. Shiva, così bello, con i capelli raccolti in una crocchia disordinata sulla cima del capo e gli occhi brillanti d'amore, che le veniva incontro tendendole le mani.
Ricordava come l'aveva attaccato senza remore, senza riconoscerlo, cieca e selvaggia e nel riportare alla mente quelle sensazioni un brivido la scosse; la follia era sempre lì, sotto il velo, in attesa. La tenebra era forte quanto la luce, in lei, erano un equilibrio in eterna lotta. L'immagine del suo Shiva, della sua danza, l'invase. Lui era forte, potente e non la temeva perché lei era la sua amata, era la sua compagna, era colei che aveva condiviso con lui i doni dell'amore.
Ma allora, Kalì, non si risparmiò in nulla: selvaggia e indomabile, folle nel suo dolore, cercava solo di soddisfare quel vuoto lasciato dalla morte della sorella, colmandolo di morte e devastazione. Beveva come una bestia il sangue delle sue vittime, rabbiosa, spaventosa e terrificante. Eppure Shiva, un passo dopo l'altro, sfiorandola con dolcezza, amorevole, aveva riportato la luce dentro di lei, goccia dopo goccia, con la passione e la compassione che lo contraddistinguevano, fino a quando non si era infine fermata, riconoscendolo.
Ricordava come lui l'aveva abbracciata, stringendola a sé con l'ardore di un dio, di un uomo, la paura di un ragazzo e la saggezza antica che era solo sua. Lui si colmò del veleno che annientava la sua anima, dissipandolo.
Aveva pianto disperatamente, aggrappandosi a lui, mentre i sopravvissuti della follia degli uomini, dopo tre giorni, si ritrovavano.
La polvere infine calò, dissipandosi nel vento, e i pochi umani sopravvissuti uscirono dai nascondigli, ricominciando a vivere.



 



Grazie a tutti quelli che hanno letto la storia, se vi piace fatemelo sapere, fa bene alla mia autostima!

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Le Storie di Nemainn
Nemainn EFP

 

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Capitolo 3
*** -2- Fine ***









- 02 - Fine -

 

Il rimbombo dei ricordi nella mente di Kalì era assordante, la sommergeva riempiendo i suoi occhi di lacrime e avvolgendola nel dolore, eppure un cambiamento nel respiro del ragazzo riuscì a calamitare ogni sua attenzione. Con fatica distolse la mente dai ricordi, osservandoli. Si stavano svegliando, erano abbracciati, sporchi e vicini alla denutrizione, eppure in loro vedeva quello che erano state lei e le sue sorelle, quel legame luminoso che ancora, in qualche modo, sentiva, vuoto e doloroso.
«Non abbiate paura.» disse in tono basso e carezzevole, osservando la spavento dipinto sui lineamenti dei ragazzi. Avvolta in un abito sottile, una lunga tunica smanicata scarlatta, fece un passo avanti. «Non sono qua per nuocervi. Ero in stasi e il vostro arrivo ha attivato il protocollo di risveglio.» spiegò, cercando di apparire inoffensiva.
Candra e Shiva si guardarono, spaventati da quella donna, dalla sua presenza che pareva oscurare qualunque luce. Era di una bellezza eccezionale, di quel genere che, però, atterriva, sgomentava e toglieva il fiato. Era la bellezza della lama di una spada, il filo che riluce sporco di sangue, dell'ultimo brillio di un sole che muore. Deglutendo, Candra, certa che quella donna fosse pericolosa, si mise davanti al fratello, fissandola con sguardo battagliero nonostante quella stretta gelida allo stomaco e le gambe molli. «Chi sei?»
«Mi hanno chiamata Kalì.»
I due ragazzi la fissarono, studiandola per lunghi attimi. Shiva si mise in ginocchio sul letto, una mano sulla spalla della sorella, sporgendosi per osservarla meglio. Ma ogni sua possibile esternazione fu preceduta da Candra, che pareva essersi ripresa prima di lui. «Ti hanno chiamata...? Cosa intendi?»
La donna sorrise e denti bianchissimi balenarono per un istante tra le rosse labbra carnose. Kalì aveva notato come la femmina avesse protetto il maschio, come nascondesse il timore. «Tutti hanno ricevuto il nome da qualcun altro; anche voi, immagino.» Sorrise nuovamente, indicando il tavolino vicino al letto su cui erano posati alcuni vassoi coperti. «Cibo, se ne volete.»
Shiva alzò il coperchio di uno dei vassoi e i suoi occhi si sgranarono alla vista di quelle leccornie. Allungò la mano, ma la sorella lo bloccò. «Perché ci dai cibo?»
«L'ospitalità non è più sacra?» muovendosi lentamente, per non spaventare i due umani, la donna si avvicinò al tavolo scoprendo gli altri piatti da cui s'innalzò una voluta di vapore e un profumo delizioso. «Se temete qualche inganno posso mangiare con voi.»
Candra la guardò, studiandola, infine annuì. «Ce n'è abbastanza per tre.» sentenziò e lasciò il polso del fratello che si gettò sul cibo, famelico.
Sedendosi davanti ai fratelli, Kalì li osservava, spiluccando del riso mentre gli odori forti e ricchi delle spezie invadevano l'aria.
Questo era ciò che era diventata l'umanità? Ragazzini malati, sporchi, spaventati e denutriti? Orfani che si guadagnavano da vivere sfuggendo a chi era più forte di loro?
Mandò gli impulsi necessari, la sua mente in sintonia con quella artificiale del complesso scientifico, e le immagini della Terra le arrivarono dai satelliti. Aree completamente distrutte, annientate dal sole che non trovava quasi barriera nell'atmosfera. Quando la guerra dei tre giorni era terminata, la polvere posata e i morti dimenticati, quello che l'uomo aveva fatto era comunque rimasto. Inquinamento, radioattività, aree intere devastate dalla contaminazione chimica e biologica. E, sopra tutto quello, un cielo che aveva smesso di essere la protezione del pianeta. Piante e animali estinti, decimati, mutati. Uomini che davano vita a veri mostri... il mondo, la storia della superficie, passò nella sua mente.
«È questo che è nato dalla pietà di Shiva?» sussurrò mesta, sovrappensiero.
Immediatamente il ragazzo alzò gli occhi, fissandola incuriosito. «Cosa?» Con ai lati della bocca delle chiazze di cibo sembrava piccolo, ma gli occhi smentivano quell'aspetto così infantile. Poteva essere giovane, un ragazzo, ma era anche vecchio. Come il suo amato, lo stesso sguardo. Così simili e così diversi... Kalì strinse le dita tra loro, sentendo il dolore pungente e affilato che le attraversava il cuore.
«Pensavo ad alta voce.» disse con una leggera smorfia che poteva quasi sembrare un sorriso.
Shiva inclinò il capo, studiandola. «Hai detto il mio nome.» Kalì annuì al ragazzo che continuava a mangiare, senza però togliere gli occhi da lei. Era curioso, anzi, sospettoso.
«Sì, so i vostri nomi. Questo luogo ha occhi e orecchie.»
«Ci spiavi?» Candra chiese, pulendosi la bocca con il dorso della mano e la donna notò una chiazza grigia, grossa come una moneta, sopra il polso. Sapeva che era malata, ma l'impatto visivo di quella macchia per un attimo la turbò.
«Qualcosa del genere, il processo di risveglio non è immediato.» la mano nera di Kalì si posò sul polso di Candra e lo girò, in modo da poter vedere bene quella degenerazione cutanea che si spandeva nella carne. «Non appena ho potuto muovermi sono venuta da voi. Non dovete temermi.» La ragazza la lasciò fare, irrigidita, temendo qualche reazione. Solitamente, anche se non era infettiva, la gente colpita da quella malattia veniva scacciata malamente. Ricordava bene come ai confini delle città, in quella fascia che non era ancora selvaggia ma non era più protetta, se quello che si trovava nelle città poteva essere chiamata protezione, quelli colpiti dal morbo sostavano. Attendevano la morte, soli, i movimenti sempre più difficili mentre grossi tratti di pelle, di carne, diventavano grigi, fino a quando non potevano fare altro che rannicchiarsi a terra attendendo la morte, di diventare polvere. Perfino il conforto delle lacrime e delle parole era negato quando la malattia si spandeva, raggiungendo gola e occhi. Il morbo del sole malato era una maledizione, dicevano, era l'ira degli dèi, chiunque fossero, che si abbatteva su di loro.
I due fratelli si guardarono, incerti nel credere all'affermazione di quella sconosciuta, nell'avere fiducia in quelle parole; come potevano non temere quell'estranea? Abituati alla minaccia perenne che li circondava, a guardarsi le spalle, alla paura, la fiducia era un sentimento sconosciuto e pericoloso, se non tra loro.
«Un occhio aperto e un pizzico di sfiducia e si arriva al domani.» esordì Candra, lasciando che quella strana donna dai capelli fiammanti la studiasse mentre sfilava il polso dalla presa delicata. «Lo diceva nostra nonna, una cosa in cui ho sempre creduto.»
«Una donna saggia, è morta?»
«Era vecchia.» Si limitò a dire Shiva, alzando gli occhi dal cibo e sospirando, finalmente sazio. «Ma che posto è, questo?»
«Era una cittadella scientifica segreta. Esperimenti biologici, molecolari, manipolazioni genetiche...» Kalì si indicò con un mezzo sorriso. «Come potete vedere, del resto.»
«Beh, ma ci sei solo tu?» Shiva la guardò. Non era poi così stupefacente o strano quello che la donna diceva; molti dei sopravvissuti avevano oltrepassato i limiti del DNA e della carne, avevano fuso loro stessi con le macchine o erano mutati per colpa del sole, e intere tribù di esseri che non si potevano più definire umani vagavano. Ma lei non era stata il frutto più o meno casuale di tentativi e follia, era stata voluta. Almeno, quello era ciò che Shiva pensava, curioso, osservandola con sempre più attenzione. «Ti hanno lasciata qua da sola?»
Qualcosa dovette trasparire dal viso della donna e Candra, istintivamente, mossa da un'empatia che raramente esternava, posò una mano su quella di lei. «Mi dispiace, è brutto rimanere soli.»
«È stata la mia punizione, la mia scelta...» sospirò, gli occhi di rubino distanti, voltati al passato. «Ho compiuto atti che necessitavano di espiazione e i miei fratelli hanno accettato che rimanessi qua a guardia di questo luogo.»
Ma non era solo quello, no, era molto di più quello che avevano ordito. Lei, la più potente tra di loro, era non solo la guardiana del loro luogo di nascita, del posto che custodiva i segreti della loro origine. Proteggendo ciò che non aveva potuto abbattere, lei era la sentinella dell'umanità. Quello era il prezzo sia della sua calma, che della sua colpa.
Quando aveva cessato la sua danza selvaggia, quando la sua sete di sangue si era calmata e le sue lacrime esaurite, si era guardata attorno e aveva visto.
Molti di loro erano morti, ma molti ancora erano vivi. Nei giorni che trascorsero Shakti le rimase sempre accanto e così Shiva, riempiendo il suo cuore mentre lei e la sorella, vicendevolmente, ricucivano e sanavano quell'anima che le univa, dando una nuova armonia alla loro essenza. Era stato un processo lungo e complesso, dove prima erano tre, ora erano due, l'equilibrio era meno stabile, meno solido, ma il legame divenne perfino più stretto, al di là di ogni immaginazione. Shakti e Kalì erano un'unica cosa, agivano e pensavano l'una in complemento dell'altra e quel dolore, quella solitudine, quel vuoto, divenne meno doloroso pur continuando a esistere perché nulla, mai, avrebbe potuto colmare quello spazio in cui Saraswati era vissuta. Nelle loro anime la ferita avrebbe sanguinato per sempre, ma impararono una cosa che agli umani era nota; sulla loro pelle, nel loro cuore, capirono che la vita continuava e che il dolore diventava sopportabile, che c'erano sempre ragioni per proseguire. Lo videro in ogni umano che incontravano, mescolandosi tra loro, osservando, guardando e studiando quella che era l'umanità al di fuori della protezione della cittadella scientifica, dopo la guerra dei tre giorni, dopo la devastazione. Viaggiarono in lungo e in largo, calcando le strade di quella terra che ancora caparbiamente si chiamava India, parlando con chi rivolgeva loro la parola, difendendo chi decidevano meritevole del loro intervento, donando ciò che potevano grazie alle loro capacità, mentre leggende fiorivano alle loro spalle, storie che parlavano di interventi divini. Ma non videro solo il bene, furono lunghi gli anni in cui peregrinarono per il mondo, unendosi e dividendosi dai loro fratelli, ma loro tre rimanevano sempre uniti. Shiva, Kalì e Shakti erano indivisibili, erano una famiglia, un'unione di anime. Videro le stelle, le distese selvagge della giungla, le cime innevate dei monti che, così alti, toccavano il cielo e amoreggiavano con gli astri notturni. Kalì e Shakti contemplarono tutte quelle meraviglie che Saraswati aveva desiderato vedere, ogni notte ammiravano il firmamento e pensavano a lei, stringendosi l'una all'altra, in silenzio.
Nel loro girovagare senza una vera meta, però, osservarono soprattutto l'uomo. Appresero sulla loro pelle cosa rendeva l'essere umano così unico e speciale, così magnifico e così terrificante, e Kalì si sentì dilaniata da colpa e rimorso mentre ancora la rabbia ruggiva, a volte, in lei. Aveva sterminato quasi completamente la popolazione della Terra, eppure non si erano dati per vinti. Aveva, grazie a Shiva che l'aveva fermata, dato una possibilità a quell'umanità e non se ne pentiva. Collaborando, il più delle volte, avevano ricominciato a edificare nuovamente il loro mondo, vedeva i semi di nuove città, sostegno e giustizia ma, come ogni medaglia, anche quella nuova aveva un altro lato, più terribile e oscuro. L'uomo non era fatto solo di bene, ma neppure solo di male, era entrambi e sceglieva come agire di volta in volta e c'era chi prediligeva sfruttare gli altri e la forza, chi la tolleranza, la lungimiranza e la collaborazione.
Videro che molti innocenti erano vittime di tiranni, nuovi re si erano innalzati dalle macerie e, padroni dell'ultima tecnologia, comandavano come dittatori. L'umanità si riprendeva facendone pagare il prezzo a chi, debole e fragile, non poteva opporsi. Più il tempo passava, nel loro viaggio, più quei gesti oscuri prendevano forza: l'uomo aveva abbandonato la via della collaborazione sempre di più, mentre antiche e mai dimenticate faide tra caste, famiglie e litigi atavici tornavano a galla. Il momento più difficile era terminato, la ricostruzione iniziata e i primi luoghi sicuri affermati e, in quello scenario, aveva iniziato a proliferare il male. L'omicidio, lo stupro, ogni forma di villana interazione maligna si radicava sempre più, come un cancro. Ingiustizie e gesti d'altruismo si alternarono, però, davanti a loro in quel lungo vagabondare, colmandoli sia di meraviglia che di orrore.
Quell'apocalisse era stata causata da lei, tutto quello era causa sua. La perdita di ogni legge, di ogni giustizia, e Kalì non se ne faceva una ragione, soffrendo, desiderando imporsi per portare pace e armonia, ma non era quello il loro compito, l'uomo aveva una strada, le diceva Shakti, e doveva imboccarla da solo. Non erano dèi, non erano ciò a cui si erano ispirati nel crearli. Potevano vegliare e fare piccole cose, ma se fossero loro stessi divenuti re e dittatori, allora non sarebbero stati migliori degli uomini che quello facevano. Quelle parole della sorella le davano forza e coraggio, così come il suo coltivare la speranza e la fiducia nell'umanità.
Scoprirono che molti dei loro fratelli si stavano prodigando per l'uomo e, nascosti nell'ombra, creavano piccole oasi serene e pacifiche, in cui davano la possibilità di vivere con giustezza senza governare, ma proteggendo coloro che decidevano di vivere un'esistenza libera dalla tirannia. Ma l'uomo non pareva fatto per la felicità o la giustizia: resero anche quei luoghi infetti dal morbo delle peggiori bassezze umane. Eppure, anche in quegli scenari, vedevano palesarsi gesti così altruistici e grandi da mettere in ombra il male. Quegli esseri, quegli dèi creati in laboratorio, si sparpagliarono sempre più cercando risposte alle loro domande, cercando speranza, cercando quello che avrebbe dato loro pace da quell'inquietudine. Avevano forse uno scopo, forse no, ma cercare alla propria esistenza un fine era qualcosa a cui non potevano sfuggire. Alcuni, nel tempo, si erano addormentati di un sonno senza ritorno, privi di speranza o scopo, altri si spensero definitivamente fermando consapevolmente il loro cuore, e il loro numero diminuì ancora portando nuovo e immenso dolore a ognuno di loro. Quando uno di loro cessava di vivere lo sapevano, lo sentivano, e soffrivano.
Fatti non fummo per vivere.” Quello le aveva detto un giorno, Shiva, al culmine dello sconforto, e lei aveva pianto di rabbia e dolore. Erano vivi, dovevano continuare a vivere! Avevano ciò che Saraswati aveva sognato: avevano la terra sotto i piedi e il capo coronato di stelle, poteva davvero il saggio e compassionevole compagno della loro anima perdere di vista la gioia che aveva sempre accompagnato la sua esistenza? Shiva s'incupiva ogni giorno di più, cessando di essere luminoso e giusto, fermato più volte da Kalì e Shakti quando il suo desiderio di giustizia diventava troppo simile a cieca vendetta e furia che bramava sangue.
Ma il declino di Shiva continuò e Kalì vide ciò che era avvenuto a lei nascere e radicarsi nel cuore dell'amato: ciò che le aveva imposto di salvare, ora lui voleva distruggere. Il ricordo si allontanò quando il silenzio dei due fratelli si fece pesante, così Kalì riportò la sua attenzione a loro e fu la prima a parlare. «Cosa desiderate fare? Non potete rimanere qua a tempo indeterminato.»
«Possiamo riposarci ancora un po'? Ce ne andremo il prima possibile, eravamo... inseguiti.» Candra disse a mezza voce, incerta, e si rilassò visibilmente quando Kalì annuì.
«Potete rimanere anche qualche giorno, questo è possibile.»
La donna si alzò e i due ragazzi l'imitarono, seguendola mentre li guidava lungo le vie di quel luogo fantastico, un giardino divino, così come prometteva quel nome.
Vagarono con passo tranquillo e quando si fermarono in un giardino colmo di alberi da frutto e fontane gorgoglianti, Candra notò un'altra di quelle strane frasi incisa su un basso muretto. Lesse ad alta voce: «In principio vi era oscurità nascosta da oscurità; indistinguibile, tutto questo era acqua. Ciò che era nascosto dal vuoto, l'Uno, venendo in essere, sorse attraverso il potere dell'ardore.» fece una pausa e fissò Kalì «Queste frasi sono... strane. Cosa sono?»
«Citazioni.» la donna sorrise e con la mano tracciò i contorni di quelle lettere. «Sono brani di un libro così antico che era quasi dimenticato quando la cittadella fu costruita, si chiama Rig Veda. Era un libro di sapienza filosofica.»
«Filosofia?» Shiva alzò un sopracciglio.
«Roba che non si mangia, tranquillo.» gli rispose la sorella, prendendolo in giro.
Lui, per tutta risposta sbuffò. «Guarda che so cosa è la filosofia, nonna l'ascoltavo anche io...»
Candra annuì, allungando la mano per scompigliare i capelli al fratello, mentre si sedeva su una panchina sotto le fronde fiorite di un albero. Kalì si avvicinò, osservandoli, e lo sguardo dei due ragazzi incontrò il suo.
«Ma quindi tu sei sola qua?» Shiva domandò, sporgendosi verso la donna che, lo doveva ammettere, l'incuriosiva parecchio.
«Sì, e no. Qua c'è un altro come me, ma... dorme, non può uscire dalla stasi.» Il sorriso mesto di lei aveva qualcosa di così doloroso da mettere in profondo disagio i ragazzi, che si guardarono.
«Beh, quindi siete solo due?» Candra si portò le ginocchia al petto, abbracciandole e inclinando appena il capo proseguì. «Hanno... creato solo voi?»
Kalì sospirò, ponderando l'idea di raccontare ai due ragazzi la sua storia, dei suoi fratelli e delle sue sorelle, di divulgare almeno una parte di quelle memorie che erano custodite in lei. Sarebbe stato doloroso, ma forse anche liberatorio. «No,» disse infine, la decisione presa «eravamo in tanti, davvero in tanti.
«Un tempo lontano, ormai più di ottocento anni fa, il mondo era al vertice dello sviluppo. L'uomo voleva creare, essere un dio, non voleva più solo rimaneggiare la materia. Quel desiderio così pericoloso e controverso divenne realtà in questo luogo, iniziarono a manipolare il genoma umano, il codice genetico, unendo scienza medica in ogni forma a biomeccanica, tecnologia, fino a creare una stirpe di esseri superiori. Eravamo noi.» Kalì si strofinò delicatamente lo zigomo, gli occhi di un rosso cupo come quello dei granati che guardavano senza vedere i volti attenti dei due ragazzi. «Io e le mie due sorelle fummo tra le prime a essere messe al mondo, eravamo tre corpi, tre menti, ma un'unica anima. Ognuna di noi viveva anche la vita delle altre due, eravamo come gemelli, più che gemelli. In altri punti della città, in altri laboratori, presero vita in breve tempo molti altri, ma non erano tutti esperimenti fortunati e riusciti, alcuni morirono in embrione.
«Altri erano così mostruosi che spaventarono gli scienziati che li avevano creati, che li uccisero. Altri ancora erano incompleti o in qualche modo sbagliati e lentamente uno dopo l'altro morirono. Sopravvivemmo in pochi fino alla pubertà, non eravamo che una quarantina. E solo allora ci fecero conoscere tra di noi. L'isolamento fu tolto e scoprimmo quello per cui fummo creati. Volevano migliorare la razza umana, ma noi non lo eravamo, non davvero. Eravamo qualcosa di nuovo e di diverso, qualcosa che trascendeva l'uomo. In noi coesistono carne e tecnologia in un equilibrio naturale e perfetto, una cosa che nessun umano innestato potrebbe mai ottenere. Nanomacchine, potenziamenti neurali, particelle di collegamento... scherzando ci chiamavano i loro piccoli dèi.
«Scherzavano, ridevano, ma avevano paura. Alcuni di noi li spaventavano in modo oscuro, quasi istintivo, come Yama. Lo avevano chiamato come il dio dell'aldilà; era un ragazzino etereo, dai capelli candidi e dagli occhi completamente neri che sapeva cogliere ogni menzogna, ogni paura, mettere a nudo l'anima umana con un solo sguardo distratto. Imparammo tutti a nascondere quello che potevamo fare, scoprendo che nel programma degli scienziati, assieme alla nostra creazione, c'era la nostra distruzione.»
«Volevano uccidervi...? Hanno ucciso tutti?» Kalì lo fissò a lungo, trovando in lui così tanto del suo Shiva, quello sguardo così meraviglioso, intenso e fiducioso, colmo di compassione per lei che il cuore le fremette tra dolore, rimpianto e amore.
«Sì, una volta ottenuto quello che volevano era quello l'intento, eliminarci tutti e ci sono quasi riusciti.»
Shiva annuì, sentendo in qualche modo una certa affinità con quella donna che donna non era. «Va sempre a finire così. Ti usano, poi ti buttano quando non servi più.» il tono era amaro, ferito, non certo quello di un giovane con davanti a sé una vita.
«Eravamo esperimenti, nulla più per loro. Non era importante che avessimo coscienza di noi stessi, a loro ciò non interessava. Avevamo un solo scopo e, trascendendolo, eravamo diventati pericolosi, esperimenti fin troppo riusciti.» Kalì vide nella sua memoria ognuno di loro, i loro volti, le loro voci.
«Poi cosa è successo?» Candra parlò con voce sommessa, sentendo il dolore che la figura stessa di Kalì sembrava emanare.
«Poi hanno deciso di ucciderci tutti. Ma noi ce l'aspettavamo, avevamo bucato da tempo i protocolli a protezione dei file più interessanti, eppure ci presero alla sprovvista e uccisero molti di noi prima che riuscissimo a reagire, in preda allo shock.
«Venne la rabbia, il dolore, la morte di ognuno di noi era sentita da tutti, vibrava dolorosamente nelle nostre anime, la vivevamo. Alcuni di noi sono impazziti...» Io sono impazzita, pensò amaramente, guardando i volti dei discendenti di coloro che erano stati risparmiati. «La guerra dei tre giorni ha avuto inizio qua, da questa città sotterranea.»
Un silenzio esterrefatto calò, mentre i due ragazzi, sgranando gli occhi, guardavano quella donna, quella creatura, in modo nuovo, diverso, unendo ciò che sapevano a quello che era stato detto in quel luogo, a quello che ora potevano dedurre.
«Tu... voi... siete i mostri, i demoni, quello che ha devastato il mondo?!» con la voce strozzata, Shiva fissava incredulo Kalì. «Tu sei quella Kalì, quella
«Sì, sono quella Kalì, sono io che ho calpestato il vostro mondo.»
Candra posò una mano sul polso di Shiva, il suo volto era terreo ma il suo sguardo limpido e fermo non lasciò mai quello dell'altra. «Nonna era istruita, una delle ultime persone davvero erudite, forse. Ci ha raccontato quello che è successo, al di là delle leggende, quello che lei chiamava la storia dei fatti e non della fantasia degli sciocchi.» fece una pausa, umettandosi le labbra mentre scavava nella memoria alla ricerca delle parole e, come se l'anziana donna che li aveva cresciuti potesse riprendere vita, le parve di sentire ancora la sua voce nella mente. Era doloroso e bellissimo rievocare quei ricordi, i pomeriggi passati ad ascoltarla, con Shiva troppo piccolo per capire che le dormiva tra le braccia. «Mi ricordo. Con l'uomo in quella che lei chiamava l'epoca d'oro, i satelliti che orbitavano in geosincrono con il pianeta, la tecnologia che faceva i miracoli, siete arrivati voi. Lei diceva un esercito di super soldati, ma non era così, quindi. Eravate solo spaventati e arrabbiati. Ve la siete presa con il vostro creatore, con chi vi ha tradito...» Candra deglutì e Kalì la fissò, colpita. «Avevate paura. Lo capisco, ma credo che se avessi vissuto quei tre giorni vi avrei odiati. Avete decimato la razza umana, sterminata fino al punto che solo una persona su dieci, se non su venti, è sopravvissuta. Abbiamo perso quasi tutte le conoscenze. Nonna diceva che l'uomo era troppo specializzato, ormai. Nessuno poteva saper fare tutto, chi sapeva usare una macchina non sapeva ripararla, e anche così erano così complesse che ogni parte di esse aveva bisogno di talmente tante competenze, così tante persone, che lo sterminio ha portato alla perdita delle capacità essenziali. Nel tempo, inizialmente, qualcuno riusciva ancora a far funzionare davvero tutte quelle cose, a ripararne gran parte, ma la fame, il bisogno di soddisfare i bisogni primari, ha avuto il sopravvento e si è perso così tanto! La nonna chiamava questa l'età degli idioti sapienti. Sappiamo usare certe tecnologie alla cieca, senza comprenderle perché la morte di così tanta gente ha impedito che venissero trasmesse, sappiamo sfruttarle, ma non capirle. Sappiamo così poco...»
«Età degli idioti sapienti. Tua nonna aveva un senso dell'umorismo molto sottile...» Kalì disse con un piccolo sorriso venato di una tale cupa tristezza da poter spezzare il cuore. «Parlami ancora di tutto quello: io so cosa ho visto e fatto, ma non so la storia dal vostro punto di vista.»
Candra e Shiva si guardarono e il ragazzo si strinse nelle spalle, la sorella annuì e tornò a posare lo sguardo su Kalì. «Abbiamo perso quasi tutto. La gente gira con innesti che la metà delle volte non funzionano, i macchinari sono fermi, nessuno sa ripararli o farli partire. Il bisogno primario dell'uomo è il cibo, poi un riparo, poi la... famiglia. Ma mancano molte cose. I database medici sono rovinati, la conoscenza ormai è intrecciata alla superstizione e quando ci sono le malattie parlano di maledizioni divine.» Senza esserne consapevole, le dita di Candra scivolarono sulla macchia grigia sopra il polso, dove la pelle era fredda e indurita, simile a pietra. «Ogni generazione è sempre meno fortunata. Ci sono luoghi dove la conoscenza viene quasi adorata. Lì viene conservata, trasmessa, ma è quasi una religione. Pochi possono arrivare a quei luoghi e accedervi, sono protetti, sono fortezze.»
«In alcuni di quei luoghi dimorano i miei fratelli ancora desti.» mormorò Kalì, muovendo piano le mani sulla veste scarlatta, lisciandola sulle gambe. «Quelli che non si sono lasciati morire.»
«Allora è vero...?» Shiva prese la parola, sentendosi strano davanti a Kalì, a quell'essere che aveva distrutto il suo mondo. Eppure non riusciva a fargliene una colpa, per lui era un passato lontano, di cui non poteva portare rabbia o rancore. «Credevo fossero dicerie, parlavano di dèi protettori.»
Kalì lo guardò, desiderando allungare la mano e sfiorare il viso del ragazzo, ma si trattenne. «Quello è ciò che rimane di noi. Quando la follia cessò, alcuni vollero aiutare il mondo che avevamo distrutto. Volevano aiutare, proteggere, espiare in qualche modo la colpa, però non era facile. L'uomo è testardo, ha in sé bene e male ma spesso, nelle situazioni più estreme, ciò che porta con sé è solo l'eccesso. Viaggiai per il mondo, lo facemmo tutti, ma tornammo qua, nella terra che ci aveva dato i natali. Tornammo nell'India delle nostre radici, dove ci sentivamo legati, dove credevamo di sentire il richiamo di casa. A questa terra ci lega un'amore strano: volevamo tornare a casa senza averne davvero una. Ci perdemmo, che scopo avevamo? Vedevamo il bene e il male, e alcuni di noi tormentati dalla colpa, dall'assenza di certezze, decisero di fermare per sempre il loro cuore. Le perdite subite, il dolore, era troppo da sopportare per loro e posero fine alle loro esistenze. Il battito cessò e le loro carni divennero polvere. Altri decisero di addormentarsi, creando fortezze inespugnabili e nascoste camere di stasi che potevano durare in eterno, programmate per risvegliarli solo a determinate condizioni.» Kalì sospirò, amareggiata e stanca. «Poi chi ci aveva fermati, chi mi aveva fermato, perse la luce della speranza. Più viaggiavamo più vedevo il bene, come dalle macerie fiorissero germogli di speranza. Ma dove io vedevo gesti che nutrivano la mia fede, il mio amato vedeva solo distruzione e male. Lui, che mi aveva fermato, decise di terminare ciò che avevo iniziato...» La voce di Kalì si spense e i due ragazzi la fissarono sempre più irrequieti. «Shiva, si chiama come te. E tu mi ricordi lui.» Non si trattenne più, gli occhi lucidi, antichi, si mostrarono colmi di una fragilità talmente grande che colpì il ragazzo. Non si mosse quando la mano di lei gli si posò sul volto: era calda, morbida, viva.
«Lui dov'è?»
«Lui dorme. E io sono qua a vegliarlo, a proteggere il mondo da lui.» Kalì mormorava, sentendosi spezzata. Toccare il viso così caldo del giovane riportava a galla il dolore, la solitudine, quello struggente vuoto colmo di sofferenza in cui la morte delle sue sorelle e il sonno di Shiva la condannava. La sua espiazione, la sua scelta. Avevano tutti accettato e votato a favore di ciò, ma il peso era suo, solo suo. La responsabilità data da colpa e amore gravava unicamente su di lei. Era un fardello ingombrante che la schiacciava, ma solo lei poteva portarlo. Solo lei. Da sola.
Il giovane posò la sua mano su quella della donna, una carezza timida, impacciata, colma della freschezza di una gioventù mai davvero conosciuta da lei. L'altra mano di Kalì si trovò stretta tra quelle di Candra. Anche lei era calda, viva. Condannata.
Avevano il cuore colmo di dispiacere per lei, come se avessero guardato oltre le sue parole, oltre la carne, come se avessero visto la sua anima stretta in una corda di spine e lame. Candra e Shiva avevano percepito, avevano sentito quel dolore così umano, così immenso, così familiare a modo suo da essere impossibile da ignorare.
«Non sei sola, alcuni sono vivi...»
«Non posso andare da loro, ho un compito.» Kalì sfilò le mani da quelle dei ragazzi e sorrise mestamente. «Devo vegliare.»
Si alzò, fece alcuni passi e girò il capo, invitando i ragazzi a seguirla con lo sguardo. In una silenziosa processione si avviarono, guidati da lei, tra i giardini e le vie sopraelevate, tra androidi manutentori e macchinari che svolgevano lavori ripetitivi, guidati dall'intelligenza artificiale centrale. Luoghi colmi di bellezza si profilavano lungo quel percorso che li portò nel cuore di quella cittadella, nel giardino più segreto, nel cuore del fiore più bello.
Davanti a loro, in un eden colmo di vita, in un tripudio di boccioli e corolle, tra il canto di uccelli altrove estinti, due capsule di stasi simili a gocce di vetro riposavano, fianco a fianco. Illuminate dalla luce che filtrata dal fogliame assumeva sfumature di un delicato verde, erano come due bare di cristallo. Quella a destra era aperta, con i cavi al suo interno visibili, quella a sinistra era serrata, i lati accarezzati da rampicanti fioriti, coronati di corolle piccole e bianche, profumate. Kalì si avvicinò, posando la mano nera sulla superficie, accarezzandola e osservando l'interno. L'espressione divenne dolce, malinconica, colmandosi di una luce che pareva emanare amore.
«Lui è Shiva.»
Si avvicinarono e contemplarono l'uomo che risposava immerso in un liquido trasparente, il volto bellissimo, sereno, rilassato. Candra portò lo sguardo tra il volto dei due Shiva diverse volte; simili in certi tratti erano quasi l'uno lo specchio più giovane e magro dell'altro. Certo, suo fratello non aveva quella sfumatura blu della pelle, così come altre cose meno evidenti erano diverse, ma una certa, inspiegabile e inquietante somiglianza era evidente nelle pieghe della bocca e lei fu certa che avrebbero avuto lo stesso sorriso, lo stesso sguardo.
Allungando a sua volta la mano, il giovane sfiorò con aria quasi timorosa quella superficie. Un tocco accennato, incerto, che rifletteva la sua confusione. «Tu... tu lo ami?»
«Lo amo, lo amavamo.»
Quelle parole uscirono in un delicato soffio mentre gli occhi si chiudevano, contenendo il dolore. Si mosse, sfiorando con le mani i volti di entrambi i ragazzi, guardando i loro occhi, ripensando a ciò che le avevano detto. Il mondo stava ancora morendo, il declino era continuo, inarrestabile. Tra quanto l'uomo sarebbe diventato un animale?
Eppure loro due, con le loro parole, avevano dato nuova linfa alla sua speranza. Pur confermandole ciò che aveva visto dai satelliti, quel cannibalismo che continuava a intaccare l'umanità, quella mancanza di avanzamento, erano a modo loro splendidi.
Dalle sue mani un dono piccolo, segreto, passò da lei a loro e, non vista, la macchia sulla pelle di Candra iniziò a scolorirsi. Ci sarebbe voluto tempo, ma le nanomacchine che nel suo corpo vivevano potevano essere riprogrammate e lei lo aveva fatto. Aveva modificato una parte di sé, donandola a lei e a lui, sarebbero stati protetti. Le avevano donato molto, senza saperlo, e lei aveva deciso di ripagare ciò che avevano fatto. Le parole, i gesti, la luce di compassione che brillava nei lor occhi.
Finché ci sarebbe stata compassione e amore avrebbe vigilato, anche se il suo cuore era lacerato. Anche se la sua anima era attanagliata dalla sofferenza. Almeno, questo era ciò che la sua mente diceva, lottando contro il suo cuore e al suo unico desiderio.
Voleva riabbracciare Shiva.
Vedeva i due fratelli e desiderava potersi abbandonare tra le braccia di colui che amava, di potersi stringere a lui riempiendo finalmente quel vuoto che la sua assenza, che l'assenza delle sue sorelle, rendeva un tortura perenne. Avrebbe sacrificato il mondo intero per quello, lo avrebbe fatto... e allo stesso tempo lottava perché ciò non avvenisse, perché il suo tormento non vincesse, perché Shiva continuasse nel suo sonno.
Kalì ricordò come la pazzia che era stata sua era diventata di Shiva. La memoria di quello sguardo duro, che perdeva la pietà e la luce, divenne fuoco nella sua anima. Ricordava come il sogghigno del suo volto si era tramutato in quello del distruttore, mentre la sua personale giustizia si abbatteva sull'umanità che ormai riteneva indegna di essere salvata.
«Lui perché dorme?» Kalì alzò lo sguardo e le sue mani scivolarono, tornando lungo i suoi fianchi. Guardò il giovane e sorrise mestamente.
«Lui ha perso la speranza.» disse, mentre la mente tornava sui fatti lontani e le dita si stringevano sulla stoffa scarlatta, tremanti.
Lei e Shakti si erano opposte a lui, alla sua decisione, supplicandolo, bloccandolo, contenendolo, ma la ragione era lontana dal cuore e dalla mente del loro amato. Aveva visto troppa ingiustizia e sofferenza, troppa malvagità. Aveva perso la fiducia che, invece, Kalì e Shakti avevano guadagnato. Lui aveva fermato lei, indicandogli i germogli di speranza colmo di fede, mentre ora vedeva solo brulla morte e desolazione in quelle promesse in cui aveva creduto. Mentre lei, che aveva voluto e desiderato solo dolore e vendetta, aveva fatto tesoro di ogni seme di generosità e altruismo, di ogni piccola piccola gemma di umanità in quel mondo devastato, dando la sua fiducia all'uomo.
Kalì si allontanò di qualche passo dai ragazzi che osservavano la capsula di Shiva, per poi sorprenderla recitando un mantra che portava aiuto a chi era nel momento del bisogno, che si appellava al Buddha della compassione, al protettore di coloro che erano nel momento più buio.
«Om Mani Padme Hum...» sentiva le voci dei fratelli intrecciarsi in quell'omaggio al suo amato dormiente e si sentì stringere il cuore. Anche quella era l'umanità.
Così come lo era il sorriso di Candra pieno d'amore, il bracciale del Raksha Bandhhana al polso di Shiva, quel legame indissolubile e forte, quel rituale che continuava a esistere. Un segno d'amore che persisteva, più forte e radicato di qualunque altro simbolo d'odio.
Si sedette accanto a una fontana, all'ombra di un gelso, con le mani in grembo, mentre il suono delle voci che intonavano quel mantra le giungeva sottile e colmo di compassione.
«Shakti, Saraswati, cosa devo fare, sorelle mie?» mormorò con un filo di voce. «Ho giurato che avrei fatto una scelta, ancora una volta, ma quale è quella giusta?»
Chiuse gli occhi, sentendoli umidi, mentre il volto folle di Shiva le balzava alla mente.
Aveva perso la luce e non erano state in grado di salvarlo, non era stata in grado di salvare Shakti. Lei si era posta a baluardo tra quella follia e l'uomo, invocando la sua pietà, ma lui era ormai perduto. Era lanciato nel suo scopo ultimo: la distruzione completa necessaria a ricreare, a plasmare un nuovo mondo e una nuova umanità guidata da loro, una nuova razza. Ma non erano davvero dèi, non erano altro che esperimenti, esseri che trascendevano la loro origine, ma che rimanevano tutt'altro che divini, pur avvicinandosi a quel concetto sotto, forse, troppi aspetti. Aveva gridato, spezzata, quando il collo di Shakti era stato torto con brutalità e la sua testa staccata e lasciata rotolare a terra. Aveva urlato, gettandosi su di essa e rialzandosi coperta del sangue di colei che era metà della sua anima, nuovamente fiamma selvaggia. Stringendo in una mano i capelli dell'amata sorella e nell'altra una lama si era lanciata urlante su Shiva, folle di dolore.
Aveva ucciso Shakti. L'aveva uccisa davanti ai suoi occhi, privo di ragione e pietà.
Allora lottarono, calpestando il sangue di colei che entrambi amavano, sporcandosi di quell'impasto di terra e scarlatto siero, ferendosi. I più potenti tra tutti che si affrontavano, selvaggi, in una danza di distruzione e morte.
Un giorno, un secolo, il tempo non aveva nessun significato in quella lotta mentre il lume dell'intelletto si allontanava sempre di più da entrambi; poi Kalì vide qualcosa in grado di oltrepassare quella sofferenza.
Era solo una bambina, un'umana giovane e fragile, ma difendeva i fratelli ancora più piccoli, ardendo di quella forza unica in quegli esseri così minuti e deboli che erano gli uomini. Vide, ricordò l'amore per Shakti e Saraswati, per Shiva stesso, quello che aveva desiderato proteggere, quello che Shakti stessa aveva voluto difendere fino a sacrificarsi. Allora la sua anima aveva urlato ancora più forte, ma non per il dolore, non per aver perso tutto quello, ma per quello che ancora poteva scivolarle tra le dita: la speranza.
Non siamo dèi!” gli aveva detto, mentre la sua mano posava la testa mozzata della sorella, “Non siamo creatori! Se un compito dobbiamo avere, ora, è conservare! Guarda cosa stai facendo! Fermati!” Aveva supplicato, disperandosi, cercando di scuoterlo da quell'odio, fino a quando non aveva dovuto manifestare tutta la sua forza, abbattendo Shiva e fermando la sua danza. Lo aveva trasportato correndo per giorni, il corpo in fin di vita dell'amato tra le braccia, fino a lì. L'aveva messo in una capsula, programmandola, condannandolo al sonno eterno nella speranza che tornasse, un giorno, a essere savio. Aveva contattato i loro pari, il loro popolo, i loro fratelli e assieme era stato deciso di mettere sulle sue spalle quella responsabilità.
Lei aveva accettato, ma il prezzo era grande, era immenso, la stava derubando di ogni gioia.
Kalì guardò i due fratelli, qual era la sua scelta, quindi?
Il prezzo della vita di Shiva, contenuta, sorvegliata, era stato imposto da lei stessa e dai loro fratelli. Lei avrebbe sorvegliato, vegliando il luogo, la conoscenza, e l'uomo. Ma se sarebbe stata destata avrebbe dovuto ancora una volta decidere tra la salvezza e la distruzione, tra l'uomo e Shiva, tra la solitudine e la speranza. Avevano posto su di lei il giogo, il peso, il potere del giudizio, affermando che a esso si sarebbero inchinati. Lei era la più potente, era divenuta l'ape regina di quell'alveare, era stata abbandonata. L'avevano lasciata lì, sola, a sognare il passato fino a quando, ottocento anni dopo la guerra dei tre giorni, non era stata svegliata da loro due. I sensori periferici avevano colto la loro presenza, la sua mente sopita aveva concesso l'accesso alla cittadella, e il processo atto a ridestarla si era avviato. Ora doveva scegliere, ma prima doveva capire.
Guardò ancora una volta i due ragazzi, mentre il suo cuore in lotta si stringeva al pensiero del suo amore per Shiva, per l'amato. Lo aveva sprofondato nel sonno, salvandogli la vita e allo stesso tempo negandogliela, per difendere quell'umanità sfiorita e decadente, malata, ma che conservava ancora in sé la luce che l'aveva portata a graziarla. Agognava spezzare la sua solitudine, abbandonarsi a lui, riempire il vuoto e colmare la sua anima, ma conosceva il prezzo del suo desiderio.
Sospirò, dandosi altro tempo, osservando Candra e Shiva, guardandoli. Erano a loro modo luminosi e fragili, ma in loro conservavano la bellezza della passione umana e della forza delle emozioni che guidava le loro vite. Rappresentavano il frutto della decadenza, con la sfiducia in quel futuro privo di promesse, per cui però continuavano a lottare.
Malattia e fame li accompagnavano, la continua minaccia del più forte e la mancanza di sicurezza, ma caparbi lottavano. Così come lei si aggrappavano tra cuore e mente alla vita, così come lei avevano la voce del desiderio e del raziocinio.
Con un sorriso, accarezzando con il ricordo il volto dell'amato che giaceva addormentato poco lontano, sentendo con la memoria la sua pelle, i tratti del viso e il sorriso, agognando il suo calore e di spezzare la sua solitudine ma, al contempo, desiderando coltivare quei germogli di speranza che l'uomo continuamente faceva nascere, osservava i fratelli. Il costo della sua scelta era la rinuncia. Se avesse scelto l'uomo per sempre si sarebbe negata l'amore di colui che era la sua anima, se avesse scelto lui avrebbe spento ogni fiamma di vita umana.
Doveva compiere la scelta, era il suo dovere, ma poteva attendere e osservare, desta, ciò che sarebbe avvenuto.
Avrebbe deciso, ma non in quel momento.



 



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