Vampire - or maybe no..?

di L o t t i e
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo. ***
Capitolo 2: *** Un nuovo, non voluto inizio. ***
Capitolo 3: *** Le blanc chasseur. ***
Capitolo 4: *** ...Novità in vista? ***
Capitolo 5: *** Chapitre quatre. ***
Capitolo 6: *** Perplessità. ***
Capitolo 7: *** Gambetto. ***
Capitolo 8: *** Kimashita wa! ***
Capitolo 9: *** Per favore! ***
Capitolo 10: *** Un fatto importante. ***
Capitolo 11: *** A cena, come una bella famigliola. ***
Capitolo 12: *** Ouf, non si può stare un attimo tranquilli! ***
Capitolo 13: *** Déjà vu. ***
Capitolo 14: *** Viaggi in corso. ***
Capitolo 15: *** Se non apri, non lo saprai mai. ***
Capitolo 16: *** Fiocco di neve. ***
Capitolo 17: *** Profumo di rose e panna montata. ***
Capitolo 18: *** Resonate in the echo. ***
Capitolo 19: *** Vino rosé diluito con un goccio tristezza. ***
Capitolo 20: *** Fantoccio tra le fauci della tigre. ***
Capitolo 21: *** Porcellana rotta, urla silenziose. ***
Capitolo 22: *** Epilogo. ***



Capitolo 1
*** Prologo. ***


Prologo.








«Basta! Claude, così fai male!» urlò l'albina, inarcando la schiena, provando a liberarsi dall'abbraccio ferreo del vampiro.
Ora, come diamine ci era finita ? Perché non ricordava quasi nulla? Soffocò un'altra imprecazione tra i denti, arrendendosi. Più si dimenava, più il dolore cresceva. Doveva pensare, provare a distrarsi ― doveva.
«Non cinguetti più, eh?» a schernirla, lui.
Ah, quanto sentiva freddo. Curiosamente, osservandolo, le veniva in mente quella ragazza che stava sempre un po' in disparte della sua classe ― chissà se le sarebbero piaciuti ancora i suoi amati vampiri se si fosse trovata nella sua stessa situazione.





* * *







Quella mattina William non aveva proprio voglia di andare a scuola, una tazza di latte, jeans e maglietta con giubbotto; sua madre l'aveva raccomandata di indossarlo visto che quella era una mattina piuttosto fredda. In strada solo i studenti che correvano verso il liceo, lei no. In quella mattina monocromatica si limitava a camminare lentamente osservando ogni particolare: il venticello smuoveva le chiome, o meglio, i rami degli alberi; I marciapiedi leggermente umidi per la pioggia della scorsa sera e qualche erbetta nelle crepe di essi e... Oh, una farfalla nera, stranamente, svolazzava di qua e di là. William la guardava affascinata, con un lieve sorriso ad incurvarle le labbra rosee; lo sguardo ceruleo puntato in alto, ormai disattenta alla strada non si accorse che stava per finire contro qualcuno.
«Ah, cavoli..! Scusa.» indietreggiò di qualche passo osservando il ragazzo moro che le dava le spalle. Quest'ultimo la ignorò totalmente continuando a camminare per la propria strada. «Hey!» con tono più fermo cercò richiamare la sua attenzione; mph, una fa la gentile e vedi come ti ripagano!
«Cosa vuoi?» seccato, finalmente, si voltò. Non sembrava avere più di vent'anni dal viso levigato, come scolpito nel marmo. I capelli ribelli e neri le facevano venire voglia di scompigliarli ancor di più e gli occhi... Uh, che bel verde! Come se gli avessero incastonati due smeraldi! La guardava evidentemente scocciato, inarcando elegantemente un sopracciglio.
«Ti ho chiesto scusa.» borbottò nuovamente la sedicenne, sostenendo lo sguardo.
«Hm, okay.» scrollò le spalle, noncurante e fece per andarsene.
«Mi chiamo William.» azzardò l'altra.
E lui si fermò, pietrificato.
Quella ragazza... Fece un piccola, quasi impercettibile smorfia, al ricordo di quell'evento così spiacevole.
Oh.
Oh, attendeva da tanto ciò. William! Che nome particolare per una fanciulla.
«Te l'ho chiesto, forse?» sospirò teatralmente, come uno dei migliori attori melodrammatici, poi abbozzò un sorriso. «Io Claude. Will, posso chiamarti così, vero?» senza aspettare una risposta, proseguì, sempre più entusiasta. «Ti interesso, non è così?» punto gli occhi magnetici su quelli della ragazza esercitando su ella il controllo mentale. «Sì?»
«Sì.» affermò lei in trance non riuscendo a distogliere lo sguardo blu da quello verde.
«E ovviamente vorresti diventare la mia ragazza, giusto?» quella annuì. «Bene. Ora lo sei. E sei anche la mia preda, non ti opporrai a nulla. Intesi?» altro segno di consenso dalla ragazza che infine sorrise felice.
«Che peccato, Will. Hai saltato la scuola.» con un finto tono dispiaciuto portò l'indice sulle labbra. «Fa nulla; è l'ora di uno spuntino!», proferì infantile come un bimbo di cinque anni pronto per la merenda. «Vieni mia cara, andiamo dove nessuno possa vederci.» e con queste parole la prese per mano portandola verso la prima viuzza abbastanza isolata.
Era così strano. Lei non voleva seguirlo.
«Ed ora non urlare.» ridacchiò stringendole ancor di più il polso, poi, piegò verso il candido collo della giovane e con i denti scoperti ne penetrò la pelle diafana mentre il suo sguardo da smeraldo diveniva rubino. Lei rantolò solamente, socchiudendo le palpebre.







* * *







«...È troppo...», soffiò ancora, «...Non voglio... Morire.» Lo supplicò un ultima volta, la vista appannata. Non capiva se dalle lacrime o per l'abbondante perdita di sangue.
Però... ah, emise un'altro piccolo gemito quanto l'altro si staccò dal collo martoriato con un rumore sordo ed agghiacciante. Gli occhi scarlatti brillavano eccitati ― disgustoso.
«Oh, tranquilla tesoro mio. Non morirai, te l'ho già detto. Sarebbe un peccato!» le accarezzò gentilmente il viso asciugandole le lacrime ed osservando attentamente il suo sguardo. Era spaventata, meravigliosamente spaventata ― eppure! Ah-ah, che carina, manteneva la sua sfacciataggine.
«Hai dei bei occhi, Will. Peccato che verranno stravolti dal cremisi.» che poeta, mh. Sorrise soddisfatto del lavoro appena compiuto, ora doveva solo finirlo.





* * *







«Hey, prinzessin! Ti sta bene quel foulard, è nuovo?» domandò lui con un sorrisetto in viso e le braccia incrociate al petto.
«Già, ti piace?» lei chinò il viso di lato, aspettando un suo giudizio.
«Sì, è carino. Anche se preferisco il tuo collo nudo.»
«Ma non posso girare a collo scoperto.»
«Giusto, giusto. Brava ragazza.» annuiva e sorrideva, tutto soddisfatto. «Sai dove ti porto, ora?» lei scosse il viso in segno di negazione. «Al cimitero.»
«Eh..? Perché?» mormorò con voce leggermente incrinata, indietreggiando.
«Ah, lo scoprirai.» disse, mellifluo, prendendola per un braccio ed avvicinandola prepotentemente a sé. Con i canini ora scoperti incise il proprio polso fin quando non iniziò a sanguinare e lo accosto alle labbra della giovane.

Varcarono il cancello imponente e dopo qualche metro si trovarono in mezzo alle lapidi di marmo; alcune bianche, altre lilla o ancora di un pallido celeste. Will, si guardava intorno, apatica in quel momento sotto l'effetto dell'ipnosi.
«Ora urla, dimenati, fai ciò che vuoi William. Ti lascio libera, voglio avvertire ogni tua singola emozione.» la sbatté contro un albero che faceva da spettatore al macabro spettacolo che stava per iniziare.







* * *







William ormai aveva smesso anche di respirare ed il suo corpicino delicato era ancora pressato su quell'albero dal mostro che continuava a sorridere macabramente. La prese tra le braccia, piccola e fragile, in quel momento e la posò sul terreno. Lei ancora sanguinante per le profonde, o meglio, per i profondi buchi che aveva sul collo. Immediatamente anche la terra si colorò di cremisi; le spostò i capelli di lato, quei morbidi e candidi capelli, per darle un bacio in guancia.
«Sei sempre bellissima, Will.» detto questo si alzò e spolverò i pantaloni neri che erano impolverati ed impregnati di sangue. «Ci rivedremo molto presto» poi fece un cenno di saluto, già voltato di spalle, lasciandola lì giacente nella terra, mentre lui si avviava all'uscita di quel cimitero testimone.

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Capitolo 2
*** Un nuovo, non voluto inizio. ***


Un nuovo, non voluto inizio.








Come dovrei sentirmi, fortunata, forse? Perché ho avuto una seconda possibilità? Non sono mai stata interessata a quelle creature osannate da tutti, quali vampiri. A dire il vero, sono completamente ignorante in materia. Ho guardato qualche puntata di qualche telefilm, so che bevono sangue e che non possono girare di giorno, dei “belli dannati”... forse è anche figo esserlo.
Mi sono ricreduta.
William Leroy.




Villa Von Ritcher, febbraio.

«...Lui il est tout mon monde, et bien plus que ça1―»
«Piantala di cantare, non sei nemmeno intonata.» borbottò il moro alzando lo sguardo ghiacciato dal libro e puntandolo sull'albina.
«Sei qui per sorvegliarmi, non per criticarmi.» ribatté prontamente lei, infastidita. Era poggiata, come le era solito fare di giorno, sul davanzale della finestra al secondo piano - quello secondo lei più accogliente. I vetri erano coperti da spesse ed apposite tende scarlatte, quasi nere, per non lasciar filtrare alcun raggio dorato. William le spostava leggermente per aprire uno spiraglio tra quel muro che la divideva prepotentemente dal suo, fino a poco tempo prima, mondo. Osservava. Poteva solo fare questo.
Gli alberi, il prato curato, il cinguettio degli uccelli... È proprio vero, allora, che non si capisce l'importanza di qualcosa fin quando non si perde, eh?
Si voltò lentamente verso la sua guardia del corpo - alias cagnetto da guardia - assottigliando le palpebre, rendendo lo sguardo celeste simile a due lame di ghiaccio, pronte a trafiggerlo in qualsiasi istante. Sperava che lui avesse compreso.
«Tourner dans le vive vide, tourner dans le vide vid―»
«William!» sbottò nuovamente il ragazzo interrompendola per l'ennesima volta, ignorando l'occhiataccia di prima. Lei si accigliò un poco, era stupido? Ora le sembrava una piccola mosca pronta per essere schiacciata. L'avrebbe schiacciato.
«Trevor Knight.» iniziò gelida, non proprio un buon presagio per l'umano. Il diretto interessato, fino a qualche istante prima stravaccato sul divano in pelle beige, stavolta scattò in piedi, lasciando cadere il libro sul tappeto. Aveva imparato una cosa fondamentale di William in quelle settimane, e questa cosa è che non è brava a trattenere la rabbia. Era davvero dolce, tenera e coccolosa - se voleva -, ma mai farla arrabbiare. Testimoni le sue costole ancora doloranti e il suo collo. E pensare che lui era perfino più grande e muscoloso!
«Non mi piace quando mi interrompono. Sono piuttosto nervosa, sai, sono due settimane che non esco da questo posto, sono iniziate le Vacances2 e non posso nemmeno vedere mia madre.» fece un respiro profondo, alzando il busto ed andando vicino al ragazzo - più alto di lei. «Sai perché, Trevor?»
Era una domanda retorica, non chiedeva una risposta, la sapeva già. Quella maledetta risposta.
Trevor a quanto pare non aveva compreso.
«P-perché der Meister3 mi ha imposto di non lasciarti uscire, nemmeno se fossi stato sul punto di morire...»
Esatto.
«...e se anche morissi e tu riuscissi a fuggire, lui ucciderà tua madr―»
«Esatto.» sibilò, lo sguardo perso nel nulla. Quel ragazzo, Trevor, in un certo senso era come lei. Aveva diciannove anni, dei splendidi capelli nero pece e degli occhi ancora più belli, se possibile. Di un celeste così chiaro da sembrare grigio. Era uno dei tanti schiavetti di Claude, tuttavia uno dei pochi ad essere ancora umano.
Quella sottospecie di Hitler - guarda caso aveva anche origini tedesche - l'aveva lasciato come sorvegliante mentre lui andava a sbrigare alcune faccende. Faccende che riguardavano del sangue, un problema dell'albina che riguardava il sangue. Ricordava ancora, come impressi nella sua mente, lo sguardo smeraldo sgranato, stupito, impressionato di quando la neo-vampira aveva vomitato quel prezioso nutrimento subito dopo averlo ingerito. Questo sì che è un problema. Devo risolverlo al più presto. Trevor, tu stai con lei, credo si troverà bene con te che sei ancora umano, aveva detto con il solito ed irritante sorriso stampato in viso.
«Anche se non c'era il bisogno di rispondere.» e sotto lo sguardo allibito del corvino tornò vicino alla finestra, a poggiarsi su quel davanzale come un cane bastonato tornava nella sua cuccia.
«Stai... bene?» mormorò lui, cauto, tornando seduto sul divano e raccogliendo lentamente il libro da terra. La vampira sorrise, anche se di spalle, forse più una smorfia apatica, fatta lì lì per non sembrare una statua di cera. Fece spallucce.
«Sì, idiota. Devo imparare a non risolvere tutto con la violenza, fatto.»
«Wow, e dire che mi aspettavo un cazzotto come la scorsa volta.» e con le folte sopracciglia alzate, abbozzò una risata, riaprendo il volume alla pagina che stava leggendo prima di essere interrotto. Quindi calò di nuovo il silenzio. ...Almeno per qualche minuto.
«Trev, me lo presti il cellulare?»
«No?»
E rieccolo, il copione che ripeteva per l'ennesima volta, déjà vu. Lei insistette ancora, sempre più lamentosa.
Ma certo, il cellulare di Trevor era un perfetto mezzo per parlare con qualcuno, con qualcuno che non fosse un vampiro sadico - o direttamente un uomo. La sua migliore amica Samantha; ah, quella capellona rossa, quelle lentiggini, quanto le mancavano! Le loro chiacchiere. Non ce la faceva più, voleva uscire, immediatamente.
«Dai, solo una passeggiata nella strada principale!»
«A te manca qualche rotella. No.»
«Vieni anche tu, allora! ...Così mi terrai comunque sotto controllo!»
«Devo ricordarti che succede se esci? Pensa se ti aiuto anche! Zack!» e mimò qualcosa simile ad una taglio netto sul collo. William ora gli era appiccicata addosso, come una bimba di cinque anni, fissandolo con gli occhioni da cucciolo.
«No, ho detto. ...E non starmi appiccicata, Will!»
Quella sbuffò sonoramente e mugugnò qualcosa simile ad un lamento. Scivolò via dal corpo del ragazzo e si buttò ai confini del divano, con il gomito poggiato sul bracciolo ed il viso sulla mano, imbronciata.
«Non starai facendo il muso- Will, non ti sei mai lamentata così tanto. E dico sul serio! Che ti prende?»
«Come "che ti prende"? Ma ci sei o ci fai? Sono preoccupata per mia madre e... sto mancando troppo tempo. E ancora, perché non è ancora venuta a cercarmi? I miei amici... Mon Dieu
« ... »
«Ora dovresti rassicurami.»
Trevor arcuò lentamente le sopracciglia guardando la cascata color avorio... divertito. Quella ragazza sdrammatizzava o faceva diventare qualunque cosa divertente, forse non lo faceva di proposito ma alla fine di un qualche discorso strappalacrime se ne usciva sempre con qualche battuta o comunque qualcosa che cancellava la brutta aria da funerale. Forse non lo faceva di proposito, chissà.
«Allo―»
«Okay. Appena cala il sole facciamo un giro in città, mh?» alzandosi dal divano le andò vicino e le poggiò una mano sul capo argenteo, facendole una piccola carezza che lei sembrò gradire.
«Vuoi rischiare la tua vita per un mio capriccio?» borbottò la vampira, velando un sorriso.
«Mi fai pena, tutto qui







* * *









Puntuale come un orologio svizzero, Trevor, all'alba della prima stella in cielo era già vestito e pettinato - si fa per dire, visto che lasciava sempre i capelli un po' per i fatti loro. Percorse il corridoio con calma, dato che la coinquilina stava dormendo, quindi si fermò di fronte alla penultima porta in fondo. Alzò un pugno per bussare e...
«Uh, finalmente!» la ragazza fu più veloce, nemmeno si fosse appostata in precedenza dietro la porta per monitorare ogni movimento del moro - che stava quasi per darle un pugno in testa. Era già straordinariamente pronta, con dei pantaloni bianchi ed un maglione color lavanda, semplice e carina. Il diciannovenne sospirò, perché sì, si era preso un mezzo infarto, poi si voltò di spalle, portando una mano alla nuca.
«Ma non stavi dormendo?»
«Stavo, infatti.» fece un passo verso di lui e gli si appigliò al collo, facendo piegare indietro il povero malcapitato che provava a staccarla in ogni modo. Era più che giustificata la cosa; tra le loro altezze c'erano almeno dieci centimetri di differenza e se quella ragazzina voleva giocare alla scimmia appendendosi al suo collo―
«Sto..! Sto soffocando... Ugh-»






Deliri Note dell'autrice:
«...Lui il est tout mon monde, et bien plus que ça1―»=Tourner dans le vide, canzone della cantante Indila che mi ha anche accompagnato nella scrittura di questo capitolo. ☆
Vacances2=William parla di vacanze scolastiche, perché, su per giù, in tutta la Francia c'è un periodo del mese di febbraio nel quale non si va a scuola.
Der Meister3=Il master, il padrone. È semplicemente tradotto in tedesco.

Oh, sciabolette. Ora ci sono dentro fino ai capelli, eh? Bien, questo era il primo capitolo, se siete arrivati alle note non posso che ringraziare. ;u; *inchin
Per qualsiasi cosa, un verbo dalla coniugazione sbagliata, qualche parola che si ripete troppo, un capello che vi è finito sullo scher--... No, okay. Uhm, che dire, un qualcosa (?) è sempre ben accettato. èwè
E nulla, torno nel mio comodino. ♪
―L o t t i e.

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Capitolo 3
*** Le blanc chasseur. ***


Le banc chasseur.








Dopo essersi staccata dal collo povero Trevor ― che finalmente poté tornare con la schiena dritta e a respirare ― ed avergli fatto le proprie scuse, i due uscirono dalla villa da quella prigione.
William era entusiasta; si capiva dal sorrisone che aveva in viso. Il ragazzo, d'altro canti, non l'aveva mai vista così ― le mancava solo la coda e si sarebbe messa a scodinzolare!
Ah, stava volontariamente disobbedendo al suo padrone, ma sentiva comunque di star facendo la cosa giusta. Claude sarebbe stato via per tempo indeterminato― non sapeva bene cosa era successo a William, ma aveva intuito che quella sottospecie di Hitler ― come si divertiva a chiamarlo la vampira ― ci era andato molto, troppo pesante. L'albina non era un animale e non poteva starsene fino al suo ritorno segregata in casa.
Senza pensarci molto, le prese la mano; piccola manina bianca dalle dita affusolate. Scorse dello stupore nelle iridi celesti.
Sorrise.
«Se devo tenerti sotto controllo, così è meglio.» si giustificò.
«Io non ti ho chiesto nulla.» mugugnò la diretta interessata distogliendo lo sguardo da quello del moro, per puntarlo sulla scalinata ― quasi non riusciva a crederci.
«Ah-ah. Dai andiamo, è una bella serata. Speriamo solo che non si metta a piovere all'improvviso!»
Trevor, nonostante rischiasse di perdere ― letteralmente ― la testa, sembrava tranquillo; come se stesse facendo una normale uscita con gli amici.
Lei non si considerava sua amica.
Iniziarono così a camminare mano nella mano. Quella dell'umano era morbida, calda, rassicurante quasi... se paragonata a quella fredda del vampiro dagli occhi verdi. Un leggero e fresco venticello le accarezzò il viso facendola sentire improvvisamente viva.


Quella, era davvero una bellissima serata, come aveva detto il ragazzo ― malgrado le candide nuvole che lentamente facevano scomparire le stelle e la splendente falce di luna.
Uscendo dal piccolo sentiero attraverso la vegetazione che circondava la villa, le strade della città erano meravigliosamente affollate, illuminate dai lampioni sui marciapiedi e dai fanali delle auto. Le auto! Oh, quanto odiava i fumi di scarico prima, ma quanto li stava amando, ora!
Si strinse di più a Trevor, al suo braccio ― in un gesto davvero confortante, tirando un sospiro di sollievo, sollevata e sopratutto felice. Ma sempre e comunque con un chiodo fisso in testa, non riusciva a non pensarci, non riusciva a non pensare a lui, a quando sarebbe tornato ― cos'altro le avrebbe fatto? Anche quando sarebbe potuto tutto finire con la morte dell'albina...!
«Ohi! Il braccio―»
«...Il? Oh!»
«Sei peggio di uno schiaccianoci.» grugnì il corvino liberando il braccio indolenzito dalla presa della ragazza.
«Tu davvero esagerato ― come sempre.» sbuffò stringendosi nelle esili spalle, allontanandosi di qualche passo, ed osservando le persone che ghermivano il marciapiede. Sperava tanto di intravedere una chioma rossiccia, lunga quanto la sua.
Samantha, la sua più grande amica. Già dalle scuole elementari, quella ragazza era una propria e vera fiamma... che la difendeva sempre dai bulletti.







* * *









«Ragazzi! È arrivata Blance-neige!1» urlò il ragazzo ― Marcel ― appena l'albina mise piede nell'aula. Ormai abituata ai vari nomignoli, William passò avanti ignorandolo bellamente, andandosi a sedere al proprio posto. Subito dopo, un tornado rosso varcò la porta dell'aula.
«SONO IN RITARDO?» proferì ansate, poggiata allo stipite, posando con gran sollievo gli occhi sulla cattedra ancora libera ― l'insegnante non era arrivato.
«Carotina! Sei arrivata anche tu!» e si levò un coro di risate generali, che finirono con un tonfo. Samantha, al contrario di William, era sempre stata una che usava le maniere forti e che di fronte ai bulli non esitava un solo istante ad usarle. Prese la testa del “povero” ragazzo e la sbatté senza ritegno al muro, con dolcezza ed amore, s'intende.
«Un'altra parola e ti mando all'ospedale, cioccolatino.» come se ciò non bastasse; impettita, camminò al banco di William ― una William sorridente e compiaciuta ―, sedendosi accanto alla ragazza.
«L'hai steso.» ridacchiò.
«Dovresti provarci anche tu: è liberatorio.»








* * *









«Uhm, vuoi entrare qui?»
«"Qui", dove?» batté lentamente le palpebre mentre le sue spalle venivano circondate dalle braccia del ragazzo che le indicava con un dito il negozio di accessori di fronte a lei ― probabilmente si era fermata senza accorgersene. Girò il viso, toccando con la punta del nasino il viso dell'umano.
«William, siamo fuori, smetti di pensare per un attimo e goditi questo momenti di libertà, va bene?»
«Ti puzza l'alito.»







* * *









«Claude Von Ritcher, caro, come mai sei tornato qui?» la donna dai corti capelli ramati aveva congiunto le mani sotto il viso squadrato, mentre gli occhi erano fissi su quelli color smeraldo del ragazzo.
«Nostalgia Michela ― Michelle. Avevo voglia di rivedere te, mia bella italiana.» ammiccò il vampiro.
Ciò fece scappare un risolino alla castana dalla pelle appena olivastra seppur fosse anche lei una creatura notturna. Michela, però, era davvero furba e conosceva bene il nobile tedesco; quindi, quelle iridi prima di un nocciola brillante, ora avevano preso una sfumatura vermiglia. Prese il bicchiere di vino bianco, si bagnò appena le labbra, poi lo mise nuovamente giù.
«Ti ho sorpreso a cacciare nel mio territorio e sappiamo entrambi che sei troppo intelligente per farti sorprendere con le mani nel sacco. Perché volevi vedermi, adorabile psicopatico?» iniziò scura in viso la donna, rigorosamente in italiano ― tanto che il suo interlocutore ebbe qualche dubbio sul significato di alcune parole. Era un po' arrugginito con quella lingua. Incurante, continuò a sorridere sornione, poggiando i gomiti sul tavolo di quella deliziosa locandina dove l'aveva trascinato la donna. Un posticino poco conosciuto, ma con un buon arredamento.
Tavoli di legno scuro lungo il perimetro, alternati da separè color glicine, sedie confortevoli e qualche quadro raffigurante il mare sulle pareti color salmone. Il tutto coronato da quell'aria di casa che solo locali come quelli potevano donarti.
«Ich habe ein problem2.» iniziò e subito lo sguardo della donna si illuminò di interesse ― se Claude aveva un problema, quel problema era sicuramente qualcosa di interessante.
«Ti ascolto.» chinò il viso di lato incurvando le labbra piene e rosse grazie al rossetto in un sorrisetto.
«Prima però dovrei informarti che ho trovato la figlia di Leroy; Alexandre Leroy, Le Blanc Chasseur3
Michela per poco non saltò dalla sedia.







* * *









Il suono della porta che si chiudeva violentemente, annunciava a quell'enorme villa deserta che i due ragazzi erano tornati ― prima dell'alba fortunatamente. Infatti erano circa le 3:35 am.
«Stavi per dire a quei tuoi amici cosa sono!» sbottò a dir poco imbestialita la ragazza candida, la quale guardava indignata il coinquilino ― alias cagnolino da guardia ― dagli occhi di ghiaccio. Barcollava pericolosamente verso il divano, andandoci a distendere in modo scomposto, mugugnando cose sconnesse.
Inutile dirlo, dopo il gentilissimo commento di William, finirono nuovamente a litigare e camminare separati.
Separati fino al pub dove il diciannovenne incontrò due suoi amici ― Jean-Pierre e Allen ― i quali già mezzi ubriachi lo avevano invitato ad una “bevuta di riconciliazione”, ribattezzata dalla vampira, “comitato degli idioti”. Infatti lei era assolutamente contraria a ciò, eppure era stata lasciata in un angolo ed ignorata dai più grandi dopo esser stata chiamata Mammina dal più simpatico, quale Jean-Pierre.
Restata a guardare per più di due ore vari ragazzi e ragazze ubriachi strusciarsi tra di loro come gatti in calore, le sue orecchie ad un certo punto sentirono distintamente il suo nome: William. E ringraziò mentalmente quella bellissima cosa chiamata effetto cocktail party4.
Immediatamente, incuriosita, alzò il viso per cercare i tre idioti ragazzi, trovandoli seduti al bancone a sorseggiare qualche strano intruglio iper-alcolico.
«...Davvero non la capisco! È strana, pensate che non è nemmeno capace di mandare giù il sangue...» Trevor, riconobbe la voce. Sgranò gli occhi e s'irrigidì ― quello sprovveduto! Cosa stava dicendo?! E menomale che era stata abbastanza veloce da prenderlo per la mano e trascinarlo fuori prima che potesse pronunciare la fatidica parola “vampiro”, altrimenti Dio solo sa che piega avrebbero preso le cose!
«Sono... delusa e offesa, Knight.» a fatica, parlò. Oh, non era certo una piagnucolona, lei. Era specializzata nel tenere le lacrime al loro posto ― benché sentisse un nodo in gola.
«Damn, William, shut up! And go away, I have a headache!» aspro, si rivolse alla ragazza dagli occhi cobalto che sussultò visibilmente ― non aveva mai visto o sentito Trevor urlare in quel modo. Era... arrabbiato con lei. Con un ultimo sforzo, strinse le labbra pallide in una linea ancor più rigida della precedente e con il volto coperto dai capelli avorio, si avviò velocemente verso le scale per andare al piano di sopra ― nella sua stanza.
La stessa stanza che ora le sembrava troppo grande per lei, abituata alla sua confortevole stanzetta da sedicenne normale, con qualche peluche e vari poster, biglietti di concerti e cinema. Lì, in villa, le camere erano quasi tutte monocromatiche o rosso vinaccia. E la sua era proprio di quest'ultimo colore. Il letto a baldacchino aveva delle tende nere ― ed era matrimoniale, enorme in confronto all'esile corpicino della vampira. L'armadio, alla sinistra del letto, aveva all'interno pochi suoi vestiti probabilmente presi da colui che era il suo creatore.
Tutto sbagliato, pensò sfilandosi il maglione lilla, è tutto così grande e sbagliato. Con sconforto ed insieme ad una lacrima lasciò andare il maglione sul fondo dell'armadio; dopo poco anche i pantaloni gli fecero compagnia. Afferrò il pigiama color carta da zucchero in pile ― che profumava ancora di casa ― e lo indossò con lentezza, senza far rumore; dopodiché si asciugò gli occhi solo come le donne attente al trucco sanno fare: portando un polpastrello sotto le ciglia inferiori, scacciando le lacrime senza lasciar segno.




Deliri Note dell'autrice:
Blance-neige!1=Biancaneve ― in francese.
Ich habe ein problem2=Ho un problema ― solo uno, Claude? :°D
Le Blanc Chasseur3=Il cacciatore bianco ― anche titolo di questo capitolo.
Effetto cocktail party4=Da un articolo preso su internet; “Nei ricevimenti, nei party o nelle conversazioni in un posto affollato il nostro cervello compie un vero e proprio capolavoro: è l’effetto cocktail party, un processo cognitivo per cui dallo schiamazzo e dal caos di voci che si sovrappongono riusciamo attraverso il nostro orecchio a filtrare le informazioni che ci interessano.”

Finalmente, tra starnuti e fazzoletti (?) ecco il secondo capitolo in tutto il suo splendore! ò_ò [non ci crede nemmeno lei, vbb]
Ringrazio Chiaracchan ― aka UnicornaH bella ― e Night_ ― aka G-san ― per le recensioni, ma anche i lettori silenziosi che mi fanno comunque felice leggendo questa cosa FF.
Alla prossima, spero presto, con il prossimo capitolo. ☆
―L o t t i e.

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Capitolo 4
*** ...Novità in vista? ***


...Novità in vista?








«La figlia?!» sbottò. «Sai che è pressoché impossibile, sappiamo tutti che ha solo un figlio maschio
«No, ti dico. È una ragazza.» ribatté il corvino con una calma snervante. «Ma ormai non penso abbia molta importanza; è mia ed un vampiro, ora.»
«Oh-oh, quelli dei piani alti non saranno felici!» Michela si portò una mano in fronte, scostandosi il ciuffo color mogano dagli occhi, poi bevve tutto d'un sorso il vino. «Claude, sei pazzo.» affermò in seguito aprendo le labbra in un sorriso smagliante.
«Si dice furbo, perché se “sappiamo tutti che che ha solo un figlio maschio” non dovrei avere problemi a tenere la ragazza con me.» fece oscillare leggermente il capo, facendo scrocchiare le ossa del collo. Quindi si abbandonò allo schienale della sedia.
«...Come si chiama?»
«Segreto. Sono geloso.»
«Mph, come ti pare. Ma come hai fatto a portarla via al padre? Voglio dire, è uno dei più famosi cacciatori ― non dovresti nemmeno essere qui, in teoria.» ridacchiò la vampira incrociando le braccia sull'abbondante seno; se doveva essere sincera, non credeva fermamente a tutto ciò che usciva dalla bocca del vampiro tedesco ― le pareva fantascienza, ecco!
«Non l'ho fatto!» sorrise trionfante l'altro. Ed intanto lo sguardo marrone di lei sprofondò nella perplessità.







* * *









L'albina si rigirava nervosamente tra il lenzuolo.
Non riusciva a prendere sonno, ma sopratutto non sapeva come comportarsi con Trevor. Più ci pensava, più la rabbia e la tristezza si infiltravano in lei, come ruggine nel metallo, corrodendola.
Il rapporto con il ragazzo era sempre stato, fin dall'inizio, come una corda costantemente tesa: pronta a spezzarsi in ogni istante.







* * *









«Ti dispiace parlare senza sembrare un rebus?!»
«Certamente: Alexandre è―... Oh, ma non ti ho ancora parlato del problema che è sorto!» affermò raggiante il moro come se fosse una rivelazione scioccante.
«...» La donna portò pollice ed indice alla base del setto nasale. Quell'uomo era esasperante, terribilmente infantile e l'unico modo per farsi dire ciò che voleva era stare al gioco di Claude ― o almeno ci avrebbe provato. «Va bene, vedrò di aiutarti come posso e in cambio...» sollevò lo sguardo al soffitto, fortuna che la locanda era chiusa. «...Mi dirai tutto su Leroy e sua figlia.»
«Mh.» e sembrò seriamente pensarci «D'accordo.»


«Qual è il colmo per un vampiro, Michi?» giacca educatamente posta sull'appendiabiti all'ingresso, la camicia appena più sbottonata del dovuto, Claude era accomodato sulla poltrona nella stanza da letto.
Di chi? Ma della vampira italiana, ovviamente.
Siccome l'alba era vicina era rischioso per i due continuare a conversare nella nella locanda, così avevano giusto pensato di trasferirsi a casa della mora. Oh, nulla di speciale in confronto alla villa finemente arredata in stile Ottocentesco di Claude ― la donna prediligeva il Minimal Moderno per ogni stanza, il tutto color glicine e nero.
Nessuno ha due mega-ville come te, gli disse lei ridacchiando appena entrati nell'appartamento.
«Beh, penso non bere sangue.» rispose uscendo dal bagno dopo aver indossato degli abiti più comodi, quali pantalone di una tuta e una maglia con scollo a V. «Ma perché?»
«È il problema di cui ti parlavo.»
«...Non mi pare tu abbia difficol―»
«Di William, mi sono formulato male.»
«E chi è questo William?» gli angoli della labbra carnose non poterono che sollevarsi a formare un sorriso a mezzaluna, compiaciuto, mentre osservava Claude portare una mano al viso, coprendolo, sconfitto.
«La ragazza, si chiama William.» biascicò di malavoglia, aprendo le dita in corrispondenza degli occhi per guardarla.
«William Leroy, ci credo che passa per un maschio!»
«Divertente. Non so cosa fare: rigetta il sangue, un disastro ti dico.» confessò a quel punto lasciando andare un sospiro.
«Io dovrei saperlo?» domandò allora retorica lei accomodandosi sul letto dalle coperte ancora disfatte e stropicciate dalla sua ultima dormita. Era certamente una novità quella, una delle tante della giornata. Di vampiri come la nuova arrivata ― William, Michela non ne aveva mai visti. «Dovresti dirmi di più su di lei, non siamo tutti uguali, grazie al cielo. ...Per esempio, l'hai traumatizzata in modo permanente?» e così sollevo il viso dal cuscino inarcando un sopracciglio verso Claude, il quale aveva assunte un'espressione fintamente angelica. Sfortunatamente conosceva il modo in cui lavorava.
«Traumatizzata..?» quello batté le palpebre per un breve lasso di tempo, confuso. «Che c'entra questo?» borbottò come un bimbo a cui avevano appena tolto le caramelle.
«C'entra eccome! Il modo con la quale si viene trasformati incide molto sulla nostra vita da vampiro!» lo rimproverò la castana sbuffando. Sarebbe stato meglio conoscere di persona quella povera ragazza, piuttosto che parlarne con lui. «Portami con te in Francia ― giusto? Sarà più facile capire la causa del problema se starò con lei, non trovi?»
Claude la guardò storto per un attimo. Voleva nascondere la presenza di William a più gente possibile, non sapeva quanto gli convenisse portare con sé la vampira. In ogni caso, sarebbe stato meglio sbrigarsi, le condizioni della neo-vampira, da quando aveva lasciato la Francia circa un mese fa, gli erano sconosciute e per quanto gli riguardava, William avrebbe anche potuto attaccare Trevor in un improvviso attacco di fame, uccidendolo.
Era stata una magnifica idea lasciare l'umano in sua compagnia.
Ma sì, di Michela, in parte, poteva fidarsi.
«...Prenotiamo il primo volo per Parigi che ci capita.» aveva infine detto con le palpebre ridotte a due fessure e le iridi divenute cremisi inchiodate a quelle cioccolato della donna. L'altra, di tutta risposta, comprese l'avvertimento: nessun passo falso. Perfetto.
«Chiamo un mio sottoposto e ci penserà lui, il prima possibile. Ti ricordo, comunque, che voglio sapere un bel po' di cose.»
«Dai tempo al tempo







* * *









Aveva chiuso occhio, sì e no, qualche ora, non di più. E delle bruttissime occhiaie stavano facendo la loro comparsa sul suo bellissimo visto diafano.
Argh.
Era ancora presto. Stufa di star a letto senza far nulla ― se non rotolarsi sulle coperte ― si era alzata alle 8:53 am. Il cielo era coperto da nuvoloni grigi pronti a riversare un temporale sulla città; che bello!, aveva urlato piano scoprendo tutte le finestre del piano superiore, precipitandosi poi in bagno per un bagno rilassante. L'umano stava ancora ronfando beato sul divano, riusciva a sentirlo fin lì. Non gli avrebbe preparato la colazione né parlato per tutta la giornata ― ma anche per più tempo.
Spogliatasi del pigiama e della biancheria intima, si immerse nella vasca piena d'acqua tiepida dal delicato profumo di rose e colma di schiuma bianca ― che quasi si confondeva con i suoi candidi capelli!
Restò lì una bella mezz'oretta, giusto il tempo per distendere i nervi della sera prima e pulirsi, ovviamente.
Quando uscì, tra qualche brivido di freddo, si avvolse il corpo con un grande asciugamano verde ottanio e pacatamente tornò in camera, dove si asciugò e vestì. Indossò una felpa scura con le maniche abbastanza lunghe da coprirle le mani e dei leggins rosa confetto. I capelli sciolti e bagnati lasciavano goccioline d'acqua sul pavimento ed un alone sul retro dell'indumento; di asciugarli nessuna voglia, non si sarebbe presa nessun malanno essendo un vampiro ― no?
Aprì la finestra accanto al letto e si affacciò: quanto era bello metter la testa fuori dalla camera senza il pericolo di sciogliersi gli occhi? Tanto.
L'aria fresca, quasi gelida del mattino le pungeva piacevolmente le gote che si arrossavano appena dopo un po'.


«...William..?»
Lo sentì ovattato, come se avesse avuto gli auricolari alle orecchie e stesse ascoltando un brano suonato al pianoforte.
Trevor si era svegliato e l'aveva chiamata. Se sperava che lei sarebbe scesa, si sbagliava di grosso. In quel momento sarebbe pure caduto dal divano a faccia sul pavimento, lei non avrebbe accorso.
Con calma riportò l'attenzione sugli alberi che circondavano l'abitazione, le palpebre abbassate, troppo pesanti da tenere su.
«Will..? Mh.» socchiuse le palpebre, in preda ad una fitta di mal di testa. Doveva alzarsi e, pensiero fisso da quando aveva aperto occhio, scusarsi. Perché non poteva essere tutto come nei telefilm? Ti ubriachi, il giorno dopo non ricordi niente, chiedi scusa e tutti ti perdonano. No, invece, quello che era venuto a galla la mattina dopo aveva solo contribuito a sentirsi ancora più male. L'aveva fatto di proposito, per farle un dispetto e la situazione gli era scivolata dalle mani come sabbia. Chissà se l'aveva sentito. Francamente aveva un po' di paura a raggiungere la camera dell'albina, per quanto ne sapeva, gli avrebbe lanciato anche le sedie. Gosh, lentamente si mise a sedere, tanto per non farsi salire l'acido ― aveva ancora i vestiti della sera precedente... e doveva urgentemente andare la bagno.
Che ore erano? Strisciando i piedi si diresse verso la propria camera, al contrario di quella della vampira, lui aveva nello stesso piano della cucina. Aprì la porta ed entrò; non vi aspettate vestiti riversi a terra ed appesi al lampadario, Trevor è sempre stato una sorta di maniaco dell'ordine. E poi, se riponevi le cose al loro posto non avevi bisogno di rassettare ogni giorno. La sua camera era una di quelle monocromatiche: il letto era adiacente al muro, l'armadio in rovere nero invece, era posto all'angolo. In più aveva una poltrona nera con fantasie arabesche bianche e il balcone, già, una persiana dal legno appena rovinato portava ad un grazioso balconcino con qualche fiore ― una pianta di rose rosse. Era sempre piacevole affacciarsi quando qualche raggio di sole oltrepassava quell'armatura di nuvoloni grigi.
Si avvicinò all'armadio e ne aprì le ante, rivelando l'abbondante guardaroba. Claude se la passava bene, non voleva dire la sua vera età, ma il ragazzo sospettava che avesse più di cento anni, tutta quella fortuna non può esser certo fatta in una sola vita umana ― poteva levarsi qualche capriccio e anche più. L'aveva conosciuto in Inghilterra, quando aveva all'incirca l'età di William, mentre era intento a lavorare part-time in un bar; prima il vampiro lo sfruttava usando l'ipnosi, in seguito, era nata una sorta di affezione paterna e compiuti diciotto anni decise di lasciare il paese di sua spontanea volontà per seguire il suo nuovo tutore. Per la famiglia stava facendo un viaggio di lavoro.
Indosso dei jeans chiari, una maglietta nera a collo alto e una camicia a fantasia tartan a mezze maniche blu per completare il tutto. Il blu della camicia riprendeva perfettamente il colore ghiacciato dei suoi occhi e la maglietta aderente contribuiva a sottolineare le forme dell'addome non troppo scolpito. Prese gli occhiali dal cassetto del comodino vicino al letto e li indossò per dar sollievo agli occhi ― non aveva gravi problemi, solo un po' d'astigmatismo all'occhio destro e zero virgola cinquanta gradi in meno per ciascun occhio. Insomma, doveva imparare a non trascurare troppo gli occhiali se non voleva finire, pian piano, come una talpa.
L'orologio alla parete segnava le 9:46 am, si prospettava una lunga giornata. Uscì dalla camera e si diresse in cucina, magari l' avrebbe trovato una aspirin―... Si fermò a metà corridoio, pervaso da brividi in tutta la schiena, sentendo strani ticchettii provenire proprio dalla cucina, come se qualcuno stesse battendo a ritmo le unghie su una qualche superficie. Dopo un lungo sospiro, proseguì la sua camminata trovando la vampira seduta a tavola ― lo fissava in modo imperscrutabile.
Brividi.
«...Buon giorno.» biascicò aggirando il tavolo per aprire la credenza, cercando una aspirina per placare almeno il mal di testa. Non udì nessuna risposta da parte della ragazza, continuò però a sentirsi quei due angoli di cielo addosso. Non trovò ciò che cercava, quindi fu costretto a voltarsi verso l'amica, o almeno ci sperava. «Penso di meritarmi tutte le torture che in questo momento ti stanno passando per la testa, ma non credi che fissarmi in silenzio con quello sguardo sia un po' inquietante?» e vide per una frazione di secondo le labbra della vampira incurvarsi un sorrisetto compiaciuto, il ticchettio continuava, martellandogli la testa come un martello pneumatico; chiuse gli occhi per qualche secondo, tanto per non guardare più quei spilli ghiacciati. «...Sai dove sono le aspirine?» ed improvvisamente il ticchettio s'interruppe come il suono di una campana che squarcia d'improvviso il silenzio, vide lo sguardo di lei mutare lentamente e velocemente allo stesso tempo, il cremisi prendere possesso per qualche secondo infinito il limpido celeste. Poi lei si alzò e d'istinto lui arretro di un passo ― aveva dimenticato che quella con cui condivideva la casa era una belva, qualcosa a cui fare attenzione. Per un attimo credette nel peggio, ma l'albina proseguì con sguardo basso verso le scale. Aveva i capelli umidi? La osservò andarsene trattenendo il respiro, pensando che forse era meglio non stuzzicarla eccessivamente.




Deliri Note dell'autrice:
Eccoci al... Terzo capitolo! (Anche se EFP lo conta come quarto, vbb)
ZAN ZAN ZAN, non ve lo aspettavate così presto, eh? Nemmeno io. :" Oggi niente note o parole strane da spiegare, in compenso è un capitolo un po' più movimentato degli altri, ew.
Come sempre ringrazio chiunque si fermi per leggere e chi recensisce. è3è Spero abbiate avuto una buona lettura! Quindi ci sentiamo al prossimo capitolo, magari riesco a scriverlo velocemente come questo, bye. ~ ☆
―L o t t i e.

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Capitolo 5
*** Chapitre quatre. ***


Chapitre quatre.








Dovette tenersi il mal di testa, visto che non poteva uscire senza William e sopratutto perché quest'ultima si era chiusa in camera.
L'unico passatempo che aveva in villa era leggere, leggere e ancora leggere. In soggiorno ― soprannominato La Stanza Dei Libri dai due ragazzi ― vi era una parete completamente adibita a libreria; circa sette scaffali colmi di piccoli tesori di ogni epoca a partire dal milleottocento, dai volumi enormi e con pagine ingiallite a quelli tascabili che prendevi come passatempo. Il più vecchio che Trevor avesse mai letto era Strange Case of Dr. Jekyll and Mr. Hyde, direttamente dal milleottocentoottantasei e in lingua originale! La copertina e le pagine, nonostante avessero più di cento anni erano conservate discretamente bene ― tranne qualche parola sbiadita e, ogni tanto, qualche termine che nemmeno il ragazzo comprendeva.
Certo, poteva usare anche il cellulare, per passare il tempo, ma senza una connessione internet... Beh, era un poco inutile.
Claude era un amante dei Gialli e del gotico, aveva appurato dopo un'accurata ispezione dei primi due scaffali in basso. Dopo qualche attimo, steso sul divano, il ragazzo leggeva Le Fantôme De L'opéra.

Driiiiiiiiin!
«...»
Driiiiiiiiin!
«...Mhh... A-arrivo!» con uno sbadiglio, il ragazzo dalle iridi ghiaccio aprì gli occhi trovandosi sulla faccia il libro ― si era addormentato leggendo? Evidentemente, sì. Sollevatosi a sedere, posò gli occhiali ― i quali gli segnarono il naso con una striscia rossa ― sul tavolino vicino, insieme al libro. Chiunque fosse stato dietro quella porta, rifletté, non era Claude ― e continuava a suonare con insistenza! Quasi si chiese se l'albina non avesse approfittato del suo sonno per fare una scappatella e poi tornare e... Che ore sono?!
Freneticamente cercò il cellulare nelle tasche dei pantaloni scuri, si voltò verso il tavolino ed infine era lì, a terra. Le sei e venti minuti del pomeriggio; dette anche una veloce occhiata oltre le tende ed il cielo sembrava dire tutt'altra cosa ― sembrava notte fonda.
Driiiiiiiiin!

Claude si compiacque dell'efficienza dei vampiri di Michela, avevano procurato ad entrambi un volo per Parigi il giorno stesso ― che peccato, avrebbe voluto restare in Italia qualche altro giorno, e invece. Il pomeriggio presto, malgrado i pallidi raggi dorati che filtravano dalle nuvole, erano già in aeroporto e, dopo un'ora e mezza o forse poco più, erano già nella capitale. Ah, le botique, ecco a cosa puntava la donna, avrebbe fatto tanto di quello shopping da non saper più dove mettere i capi!
Eppure, destino volle che il vampiro dagli occhi verdi avesse già previsto tutto. Con un ringhiò sommesso, fu costretta ad andare a piedi fin la periferia di quell'enorme città. E con tutte le valigie!
Avrai tutto il tempo di fare compere, le aveva detto, ma conviene incamminarti, non vorrei ti accadesse qualcosa di spiacevole.
Non poteva sbagliarsi, secondo le indicazioni di quel ricattatore, la villa era circondata da una sottospecie di boschetto e vi era, ad un certo punto, anche un vialetto che le avrebbe fatto strada. Giunta a qualche metro dall'imponente struttura, Michela non poté che notare una figura dall'aspetto addirittura spettrale osservarla guardinga ― wow, che accoglienza!, si disse. Quindi proseguì fino alla scalinata che finiva proprio di fronte alla porta d'ingresso, rigorosamente in legno.
Quando Trevor finalmente aprì, quella che si trovò di fronte era una donna che non dimostrava più di ventisette anni dai capelli ramati che scendevano morbidi sulle spalle, leggermente ondulati, gli occhi dello stesso colore ornati da folte ― e piene di mascara ― ciglia. Vestita in modo abbastanza semplice con una camicetta bianca ed un cardigan blu abbinati ad un pantalone bianco, teneva un trolley fucsia per mano e lo fissava insistentemente. Peccato che l'attenzione del diciannovenne fu catturata immediatamente da due abbondanti particolari ― hey, era pur sempre un ragazzo!
«Se mi fai entrare, te le faccio toccare.» disse all'improvviso lei con voce cristallina, certamente scherzando, eppure ciò fece prendere una sfumatura rosea alle gote del ragazzo.
«N-non volevo mic―»
«Scherzavo! Davvero però dovresti farmi entrare, sono amica di Claude.»
Un'amica... Claude? Claude aveva seriamente degli amici? Il britannico sollevò lentamente le sopracciglia scure, quindi fece un passo di lato e mormorò un “va bene, entra” un po' esitante.
Non l'avesse mai fatto.
William aveva il mento poggiato sul davanzale della finestra ed osservava con sguardo assente il paesaggio monocromatico. Si stupì quando vide quella donna dirigersi verso la villa e lanciare un'occhiata quasi allegra verso la sua finestra ― ma chi diamine era? Un'amica di Claude. E sobbalzò quando sentì qualcosa, un suono simile ad un punteruolo che buca la carta. E ora vediamo di far scendere la novellina, ed avvertì una fitta dritta al petto quanto quando quell'aroma pungente le era arrivato alle narici.
Fu un improvviso giramento di testa quello che la colse impreparata alla fine delle scale, le quali aveva sceso in fretta, attanagliata dalla paura. Alla fine, esitante, giunse all'ingresso per trovare qualcosa che fece fare al suo stomaco un triplo salto mortale ― quella donna era avvinghiata a Trevor, il quale, docilmente, si faceva fare un prelievo direttamente dalla carotide. E pensare che era stata così attenta a non procurargli alcun taglietto per tutto il mese nel quale avevano convissuto, perché era consapevole del bisogno fisico di sangue e della repulsione psicologica che aveva per quello stesso liquido, ma sopratutto non voleva dar sazio a Claude. Ed intanto tutto intorno a lei era pregno di quell'odore ferroso.
«Lascialo..!» disse. E quello che doveva essere un ordine, si trasformò in un soffio roco, un miagolio. Nonostante il tono di voce, la vampira sembrò compiacersi ed eseguì, lasciando il ragazzo che emise un rantolio e si poggio a quella. Lei si leccò accuratamente le labbra ed infine sorrise all'albina.

«Mein Gott!» sbottò l'uomo proseguendo con altre esclamazioni e, al contempo, carezzava i capelli lisci e bianchi della ragazza stesa sul divano con la testa sulle sue cosce, dal capo alle punte, che arricciava gentilmente. Non pensava di trovare qualcosa di simile al suo ritorno, ecco cosa succede a fidarsi; la sua Prinzessin era sul punto di svenire, anzi, l'aveva proprio fatto! Fortunatamente tra le sue braccia. Trevor, il ragazzo che teneva in custodia da circa due anni o poco più stordito che si teneva in piedi grazie all'aiuto di quella. «Michela, dammi un valido motivo, uno, per la quale non dovrei rispedirti da dove sei venuta insieme alla tua testa, in un pacchetto regalo.» proferì glaciale e tagliente senza distogliere lo sguardo color smeraldo dalla figura della donna di fronte a lui che, per quanto fosse in piedi, si faceva sempre più piccola alla vista del vampiro seduto. Il ragazzo invece era stato mandato in camera propria a riposare, dopo esser stato curato, ovviamente.
«Awh..!» il filo dei suoi pensieri venne interrotto dallo sbadiglio della ragazzina e non poté far altro che trovare infinitamente carini quei canini da micetta mai utilizzati come di deve. L'albina schiuse lentamente le palpebre, dapprima assonnata sorrise al corvino, in seguito sgranò gli occhi alzandosi di scatto e sbattendo la fronte contro il mento di Claude, le sfuggì anche un'imprecazione tra i denti. «...Non toccarmi
«Buon giorno anche a te.» mugugnò il vampiro sibilando ogni tanto ― si era morso violentemente la lingua a quella testata.
L'altra, con una mano in fronte, stavolta si alzò evitando qualsiasi contatto fisico con colui che le stava carezzando i capelli, constatò con disgusto. Si mise a sedere ai confini del divano ― per poco direttamente sul bracciolo ― e leggermente stordita osservò con astio i presenti. Dov'è Trevor?, pensò con l'ansia che iniziava a farsi strada in lei, mentre una sfilza d'orribili supposizioni le attraversava l'anticamera del cervello; se... se quella donna l'aveva ucciso... lei...
«Si sta riposando in camera sua, è a letto.» disse Claude intercettando i suoi pensieri, o semplicemente intuendoli dagli occhi di lei fatti appena più lucidi. «Michela, chiedi scusa a William per lo spavento che le hai fatto prendere.» proseguì con tono quasi disinteressato poggiando il viso sul palmo della mano, ma comunque attento ad ogni mossa della vampira mora. Vide quest'ultima farsi perplessa, come se stesse pensando qualcosa del tipo “ha seriamente smesso di minacciarmi?” ed invece il visino pallido ― notò con disappunto non più di quel bellissimo bianco porcellana bensì quasi grigiastro, come neve sporca ― dell'altra osservare con interesse la donna. «...Altrimenti penso ricorrerò davvero al pacchetto regalo.» concluse.
Michela deglutì pesantemente, non aveva proprio via di scampo, eh? Sempre meglio chiedere scusa che non avere più la testa. «Mh, bene. Mi spiace William, non era certo mia intenzione farti... svenire.» disse incerta, anche perché non aveva mai visto un vampiro svenire alla vista del sangue. Claude sembrò soddisfatto ed annuì leggermente.
«Che ci fa un altro vampiro qui?» borbottò seccata l'albina, stringendosi nelle spalle.
«Questa donna dovrebbe essere qu―»
«La tua voce non voglio nemmeno sentirla, mi da il voltastomaco.» lo interruppe «Ho chiesto a lei.» questa volta però fu lei a terminare la frase con un sussurro; con uno scatto il vampiro le prese il viso con una mano comprimendole le guance, guardandola con le iridi smeraldo divenute braci ardenti ed un sorriso di sadico piacere ― stava tremando, lo sapeva.
«Non devi interrompermi mentre parlo, lo sai.» e stringeva, stringeva. Le doleva la mandibola.
«Cl―... Cla―..!»
«Claude, non penso possa guarire una mandibola rotta!» intervenne Michela con una nota di preoccupazione nella voce, trattenendosi dal prendere il braccio del vampiro per costringerlo a lasciarla. Lui sembrò pensarci per un attimo poi lasciò bruscamente il viso della ragazza, la quale si alzò in fretta e corse su per le scale sotto lo sguardo sconcertato della donna.







* * *









Ne era uscita vittoriosa, aveva ottenuto il permesso di occuparsi della figlia di Leroy. Un po' aveva insistito perché le aveva fatto una gran pena la scena precedente e poi perché quella piccola vampira non poteva certo superare con quel... bruto il suo rigetto per il sangue. Ora era al piano superiore per cercare la camera di William ― non fu difficile, poiché sentiva perfettamente la ragazza singhiozzare.
Bussò; due colpetti, poi tutto tacque.
«...Chi è?»
Sorrise. «Michela. Posso entrare..?»
«Come ti pare.»
L'altra si stupì della risposta, certo non pensava che avrebbe ceduto così facilmente; esitante girò la maniglia ed entrò. Oh, che pessimo gusto nell'arredamento, che pessimi colori! Per una come lei abituata ai colori pastello quel bianco e nero era un pugno all'occhio.
«Pensavo fosse chiusa a chiave.»
«Non l'ho la chiave della stanza.» borbottò la figura bianca seduta con le gambe incrociate sul materasso. Teneva il viso chino in avanti, sicuramente per non farsi vedere in viso.
«Stavi piangendo?» chiese sedendosi lentamente vicino a lei che si spostò appena.
«Io non piango
«Ah, mh. Certo.»
«Cosa vuoi?»
«Andare a fare shopping, ti va? Solo noi due?» ed infischiandosene se aveva gli occhi arrossati, William sollevò di scatto il viso, osservando con sguardo indagatore l'altra ― come per dire “non stai scherzando, vero?” Poi la donna si avvicinò all'orecchio dell'albina e continuò: «Beh, in realtà faremo anche una scappatella da tua madre, ma lui non lo sa.» lo sguardo della vampira albina parve illuminarsi per un attimo.
«Posso... Posso andare anche da Samantha?» chiese in un sussurro, speranzosa.
«È una tua amica?» domandò la mora allontanandosi.
Will annuì. «La migliore
«Penso proprio di sì. Mi raccomando però, non apparire troppo felice, si insospettirebbe. Ora è andato a caccia, quindi non c'è pericolo se senta. Ci saranno un sacco di cambiamenti da oggi, William.»




Deliri Note dell'autrice:
Salve salvino gente! (?) In realtà non avrei nulla da dire, se non ringraziare, e inveZe posso tranquillamente annunciare che i capitoli usciranno ogni venerdì. Salvo imprevisti per la scuola ― che sta per iniziare e cosine varie. uAu
―L o t t i e.

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Capitolo 6
*** Perplessità. ***


Perplessità.








Al posto di quei leggins rosa confetto ― forse anche un po' troppo attillati, la vampira albina pensò bene di indossare dei jeans puliti.
Michela, quella donna che ancora non credeva fosse davvero amica di quell'individuo, aveva avuto la gentilezza di lasciare William sola in camera a cambiarsi mentre lei aspettava in corridoio ― davvero, si era sbagliata sul suo conto. La stava addirittura aiutando a rivedere la sua Okāsan che non vedeva da troppo tempo.
Sua madre era una donna di tutto rispetto con trentotto anni sulle spalle minute. Yoshiko Akane era alta poco più di un metro e sessanta centimetri, portava i capelli neri sempre sciolti, o almeno, quando ne aveva la possibilità. Gli occhi dalla tipica forma asiatica, racchiudevano delle iridi dello stesso colore ― sembravano dei piccoli universi puntellati di stelle.
Oh, solo al pensiero di Claude che le torceva un capello, la rabbia le cresceva dentro.
Sarebbe anche andata da Samantha, la sua Samantha, se il tempo glielo avrebbe permesso.
I patti a cui era scesa, le raccontò Michela, erano che si sarebbe occupata lei del suo rigetto per il sangue fin quando non avrebbe iniziato a gradirne il sapore e sopratutto non l'avrebbe vomitato; sarebbe potuta uscire a suo piacimento con la donna e Trevor ― che non le aveva ancora porto delle scuse decenti. Alla fine il vampiro dagli occhi verdi progettava di portarla in Germania con sé. Ad essere sinceri, William si sentiva più un oggetto che una persona, invischiata com'era in quella situazione: asfissiata.
Lei che sognava anche di finire gli studi e diventare una psicologa.
È già un passo avanti, si disse agguantando lo specchietto tascabile che teneva sotto il cuscino. E si guardò. Pensava non avesse più potuto farlo, dopo essere diventata un vampiro; costretta a capelli spettinati per l'eternità. Sì, era proprio ignorante riguardo a quelle creature notturne.
Si guardò bene in cerca di cambiamenti significativi: prima di tutto, il pallore alquanto innaturale. Claude aveva messo il dito nella piaga anche per quello, dicendole che non avrebbe mai acquistato un colorito decente senza bere sangue ― e per quanto lo odiasse, aveva ragione. Quindi erano forse dovute a questo anche le occhiaie?
Seconda cosa: i canini. Per quelli, purtroppo, non vi era rimedio. No, non aveva delle zanne, erano solo un poco più appuntiti del normale ― almeno per ora. Forse le sarebbe bastato non sorridere troppo apertamente.
D'un tratto una luce celestina e soffusa irruppe dalla finestra nella stanza, subito seguita dal borbottio grave del tuono ― poco dopo iniziò il temporale. Con uno sbuffo, l'albina si affrettò a chiudere le persiane aperte la mattina stessa; dopo uscì dalla camera.
«Michela, sta pio... vendo.» l'ultima parte la sussurrò, sorpresa di trovare già l'altra vampira pronta e con due piccoli ombrelli color panna in mano; le sorrideva.
«...Tutto okay?» ridacchiò lei porgendogliene uno «Vedi», iniziò ripassando mentalmente il suo vocabolario di francese «se annusi bene l'aria potresti capire anche quando inizierà a piovere ― poi comunque avresti dovuto aspettartelo, visti i nuvoloni di stamattina.»
«Mh, giusto.»
«Beh, sei pronta? Possiamo andare?»
«Oui


Michela, come detto nei capitoli precedenti, era italiana, William, invece, una ragazza bilingue che parlava perfettamente il francese e il giapponese ― e ovviamente l'inglese che studiava obbligatoriamente a scuola.
Inutile dire che le due, durante il giro delle botique, non parlarono molto.
Benché se la cavasse improvvisando o andando per intuito, non era facile intraprendere una conversazione scorrevole con lei.
Da ciò che aveva compreso, la mora, era solita viaggiare come Claude ― ma effettuava comunque dei piccoli spostamenti per evitare di destare sospetti in quanto la sua natura. Era stata solo una volta a Parigi per la sua prima ed ultima luna di miele.
«Ho quasi centoquarantacinque anni.» le disse ad un certo punto mentre uscivano dal terzo negozio trionfanti con un tallieur viola per la più grande ed un adorabile maglione bianco con cappuccio ed orecchie da panda per l'albina.
«Non sembra.» aveva detto in risposta lei stuzzicando l'ilarità dell'altra.
Ora, William Leroy, poteva affermare di abitare insieme a delle mummie viventi.


Quando ormai la pioggia cessò di cadere e alcuni dei negozi presenti in quella via avevano chiuso i battenti per la notte, le due si avviarono verso la casa dell'albina, guidate appunto da quest'ultima.
Era molto più piccola della villa di Claude ed aveva due piani: spiccava tra le altre per il celeste che la colorava; circondata da un piccolo giardinetto, era a sua volta racchiusa da una staccionata di nero sbiadito ed un cancello nello stesso stato.
Nella cassetta della posta, da qualche anno, si erigeva fiero solo il cognome della donna.
A William sembrava essere passata un'eternità da quando aveva messo piede l'ultima volta in casa.
«A-Aspetta... E se poi non è in casa?» ora le sembrava davvero una pessima idea piombare in quell'abitazione, senza preavviso, dopo tutto quel tempo ― rischiando di far venire un infarto alla sua mamma.
«C'è, invece. Non fare la stupida e apri.» William sembrò guardarla storto, quindi aggiunse «Voglio dire, abbiamo fatt― ho fatto tanto per farti venire qui! Non puoi certo tirarti indietro ora.» e sorrise affabile.
Qualcosa dentro di lei non era convinta, le urlava “NON FARE COME DICE!” ed invece, un'altra vocina controbatteva “Beh, Michela non ha tutti i torti”.
Decise di dar retta alla seconda.
Possedeva ancora le chiavi di casa; le le era trovate in tasca dopo essersi risvegliata vampira. Appena aprì la porta, un mix di odori familiari la colpì come una delicata carezza ― e il tonfo di una padella che cadeva. Subito dopo dei passi accorsero veloci alla porta.
Era lì la sua bambina, sulla soglia della porta con le chiavi a mezz'aria, proprio come se la immaginava. Con quei suoi lunghi capelli uguali nel colore a quelli del marito defunto, gli occhi celesti così espressivi e stanchi e pallida come un cadavere. Il cuore perse un battito e poi riprese a pompare più velocemente di prima; ogni madre, sa che non dovrebbe piangere di fronte ai propri figli ― Yoshiko probabilmente no.
Lacrime calde ed incolori fuoriuscirono da quei due pozzi neri e le rigarono le guance velocemente.


Dopo un bel pianto avvinghiata alla sua mamma come un piccolo koala smarrito, Yoshiko le aveva chiesto se stesse bene ― che altro poteva risponderle? Si limitò ad annuire asciugandosi il viso mentre le tornava in mente la figura della vampira mora che era restata fuori; la presentò alla madre dopo che fu entrata, ovviamente evitando di parlare della sua natura vampira.
Si scoprì che quel tonfo era proprio una padella che cadeva: la donna stava iniziando a cenare. Yoshiko si scusò per il disordine che vi era in casa, che poi tanto disordine non era, e si sedette in tavola in compagnia di Michela che ringraziò almeno cento volte per averle riportato la figlia. William, seppur riluttante a lasciare sua madre in compagnia della vampira, si convinse che non aveva nulla di che preoccuparsi, quindi scivolò su per le scale, dritta verso la sua stanza.
La sua vera camera.
Come se il tempo si fosse fermato, quell'angolo di casa era rimasto come l'aveva lasciato quel freddo pomeriggio in cui era andata incontro a qualcosa di peggiore della morte. Il letto era sfatto, con alcuni vestiti su di esso ― se ripensava all'emozione di quel giorno di uscire con il suo “ragazzo”, le venivano i conati ― e la cartella era riversa a terra, il libro di chimica ancora aperto sulla scrivania.
Sentì nuovamente gli occhi pizzicarle. Inghiottì le lacrime insieme al nodo che si era formato in gola e si diresse verso la porta-finestra in legno, spostò le tende velate color pesca con qualche spilla a forma di farfalla ed uscì nel balcone. Il freddo della notte le accarezzava il viso.
Alla sua sinistra vi era una scala esterna che portava direttamente alla mansarda: il suo piccolo regno.
Lì c'era di tutto, dai vecchi peluche che non usava più a vari bauli con vestiti e cianfrusaglie varie. Uno in particolare era in pelle marrone ed aveva due serrature a combinazione ― lei non la conosceva. Aveva provato molte volte ad aprirlo eppure non ci era mai riuscita, certe volte borbottava frasi sconfitta altre diceva retorica “non vuoi che lo apra, eh, papi?”. Vi si avvicinò e ci si sedette sopra, lasciando andare un lungo sospiro.
Non passava momento in cui si dava dell'idiota per non essere stata una figlia come si deve nei confronti del padre.







* * *









«William, mon petit trésor, perché piangi?»
Era sempre così per la piccola albina, appena uscivano dalla sua amata periferia e si dirigevano in centro per qualche commissione speciale, veniva sommersa da sguardi curiosi di gente davvero indiscreta. Lei, dal basso dei suoi sette anni poteva solo voltarsi e fare la linguaccia a quelle persone.
Gli sguardi erano moltiplicati se vicino a lei, a darle la mano, c'era il padre. Lo ammirava segretamente. Le sue iridi tendevano verso il rosa, quasi rosso a seconda della luce alla quale venivano esposti, e portava i capelli appena sopra spalle legati in un codino ― la maggior parte delle volte Alexandre si presentava cordiale, ma sapeva anche tenere il pugno fermo di fronte ai capricci della sua piccola. Portava gli occhiali per via di alcuni problemi alla vista, ma sembrava non vedere mai gli sguardi sbigottiti della gente.
Quel giorno in particolare era il periodo di Natale ed erano andati in un grande centro commerciale; William si era persa nel reparto delle scarpe.
Non sapeva che fare, aveva perso la sua mamma e il papà. Quello non era certo il mini market dove andava sempre con la madre, non conosceva nulla di lì. Da sola in mezzo a tante persone i suoi piedini si erano bloccati.
Cette fille est effrayant”, quel bisbiglio lo sentì bene fra quelle parole e i suoi occhi celestini individuarono immediatamente l'uomo che l'aveva detto; si era voltato non appena la piccola aveva alzato lo sguardo acquoso.
«P-Perché quel cochon ha―»
«William Leroy, cos'è questo linguaggio?» la ammonì Alexandre.
«...Quel signore ha detto che faccio paura.» mormorò dopo, a sguardo basso.
Alexandre strinse le labbra in una linea rigida, sottile; sapeva abbastanza bene cosa potesse provare la figlia in quei momenti. La strinse a sé e le sussurrò: «Io invece penso proprio che tu sia bellissima, proprio come la mamma.»
«Non mi importa! Tu sei mon papa! Per te sono sempre bella!» protestava lei dandogli un pugnetto, offesa.
Ah, e lo odiava anche, il suo papà.









* * *









Venne riportata nella mansarda grazie alla voce della vampira mora che le urlava di scendere e che dovevano tornare in villa.
La stanza vorticò e poi tutto le cadde addosso. Perché dovevano tornare? Non aveva nemmeno spiegato come stavano le cosa alla sua mamma! Scese in fretta.
Quando fu di nuovo in cucina, notò qualcosa di diverso. La vampira bruna sembrava nervosa, al contrario, Yoshiko era particolarmente tranquilla. Si avvicinò a Michela che era già pronta per andare e le disse: «Le hai detto qualcosa?»
«Sì, per favore, non odiarmi.» mormorò in risposta l'italiana.
«Mi raccomando Will, fai attenzione e salutami Claude.» era... era stata sua madre a dire quelle cose? L'abbracciò anche, stringendola forte. Lei però, nonostante quel caldo abbraccio, dentro sentiva il gelo. Quando si dice al danno pure la beffa! Il suo sguardo vagò per un attimo nella stanza, per fermarsi carico di rancore su Michela.
Silenzio.

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Capitolo 7
*** Gambetto. ***


Gambetto.








Era a casa di Alexandre, ma c'era qualcosa che la lasciava perplessa.
La donna, Yoshiko, giustamente, appena William corse su per le scale e fu in camera sua, iniziò a fare domande ― mai sottovalutare l'apprensione di una madre.
Domande scomode per la vampira mora, la quale non poteva dire nulla e che in realtà doveva fare qualcosa. Le dispiaceva. Non immaginava potesse sentirsi così male a tradire quella ragazza conosciuta da poco più di una giornata. Forse si era addolcita con il tempo?
Stava aiutando Claude, lei doveva aiutare Claude ― avevano fatto un patto, non poteva rimangiarsi la parola appena conosciuta la famosa vampira che non beveva sangue. Anche dopo aver fatto dell'ottimo shopping con William, dopo averla vista in lacrime tra le braccia della propria mamma, lei aveva preso la sua fiducia e l'aveva sminuzzata.
Non conosceva le reazioni dell'albina, ma sapeva che non sarebbero state buone.
Il potere di controllare le menti altrui, uno dei grandi vantaggi dei non-morti. Lo utilizzò e magicamente, agli occhi dell'asiatica, Claude era il ragazzo perfetto per la propria figlia ed altre tante, tante cazzat―...
Le iridi fredde come ghiaccio e taglienti come lame della vampira erano incollate alla sua figura, talmente inespressive da risultare spaventose. Piene di un controllo straordinario, consapevoli del destino in cui era inciampata rovinosamente.
Lei non piange.
Lei è fragile come un diamante.
«Dovremmo andare.» era stata lei a biascicare quelle parole, a sciogliere l'abbraccio di sua madre e ad avviarsi verso la porta d'ingresso.

Parlare era faticoso, respirare era faticoso; sentiva le viscere tremarle. Era sull'orlo dell'isteria.
Fece un passo, poi un altro. Si allontanò dal corpo familiare e protettivo di Yoshiko ed avanzò con le gambe di piombo verso la porta.
Michela annuì e la seguì mentre con un sorriso salutò la donna che le accompagnò verso il cancelletto esterno.
Poi, non capendo come, si erano trovate ed urlarsi contro insulti via via più pesanti. La vampira mora teneva un passo più lento.
«...Ti ripeto che―»
«Nulla! Non ripetere nulla!» la interruppe e si fermò con i pugni serrati, avesse avuto qualcosa ― o qualcuno sottomano lo avrebbe distrutto. «Lo sapevo. Sapevo che non dovevo fidarmi. Siete tutti fottutamente uguali! Mi fate schifo. Mi fa schifo sapere di essere come voi.»
A tratti urlava e sussurrava, non la riconosceva.
Le sue parole erano acido che corrodevano lentamente e dolorosamente lei stessa e chi le stava vicino. Con le iridi scarlatte la osservava di sottecchi e se provava ad avvicinarsi le ringhiava. Ma semplicemente bluffava, William di un vampiro aveva solo i difetti: poteva pure incutere timore, ma non fare davvero male. Ed ora si stava lasciando controllare dalla rabbia, dall'odio ed il dolore.
Come biasimarla?







* * *









L’ingresso in villa fu uno dei più disastrosi ― che poi, perché diamine c'era tornata?
Claude e Trevor stavano mestamente giocando a scacchi nel soggiorno, seduti uno sul divano l'altro sulla poltrona. Se non avesse spalancato la porta in quel modo probabilmente non si sarebbero nemmeno accorti della sua presenza.
Il vampiro dagli occhi smeraldo, con uno dei pedoni neri a mezz'aria, si era voltato verso quella furia bianca dalle iridi infuocate. Trevor, colui che le doveva ancora delle scuse, le rivolse solo un'occhiata sfuggente poi tornò alla scacchiera ― la stessa scacchiera che poco dopo finì malamente sul pavimento grazie a William. Il tedesco emise un fischio d'approvazione e di seguito anche Michela, accompagnata dal rumore dei suoi fidati tacchi, fece ingresso nella villa.
«È successo qualcosa di bello, prinzessin?» ed abbassava lentamente il braccio per posare il pedone sul tavolino ora sgombro.
«Va' al diavolo!» gli ringhiò a qualche centimetro dal viso. Sì, evidentemente era fuori di sé.
Quello si limitò ad una scrollata di spalle, sempre con quel sogghigno compiaciuto in volto. Trevor si era appiattito, anzi, sembrava un tutt'uno con lo schienale del divano.
“Codardo”, pensò e seguendo quel briciolo di buon senso che le intimava di non sfidare troppo il corvino, si avviò al corridoio. Ma non sarebbe finita così.
«È salita?» era Michela. Ah, già, abitava anche lei lì ora.
«Non dirmi che ti faceva paura», ridacchiò il vampiro più grande «penso sia molto più carina, così.»
L'italiana lo guardò strano poi si accomodò accanto al ragazzo umano che nel frattempo di era chinato a prendere gli scacchi sul pavimento.
«Davvero avevi preparato tutto?» mugugnò Trevor aggiustandosi gli occhiali che erano un po' scivolati dal naso. «Penso sia stato davvero di cattivo gusto.»
«Non pensare, è meglio.» ribatté Claude, piegando il busto in avanti per poggiare i gomiti sulle ginocchia ed osservare ogni pedone sul tavolino. Iniziò a sistemarli pazientemente sulla scacchiera. «...Trevor, devi fare una cosa per me.»
«Avevi detto niente più costrizioni.» contrariato, l'umano incrociò le braccia al petto accigliandosi appena.
«Non so quanto ti convenga non ubbidire», commentò la castana arcuando un sopracciglio coperto dal ciuffo ramato.
Claude le lanciò un'occhiata più che eloquente, poi tornò ai suoi scacchi. «Sai quanto tengo a te, vero, Trev? Non te lo chiederei se non avessi un occhio di riguardo per la tua vita.»
Ci fu qualche secondo di religioso silenzio nel quale si udì la pioggia che era tornata a scrosciare imperterrita sulla città.
«Devo effettuare un gambetto1 e sacrificare il mio cavallo se voglio un vantaggio su questa partita.»
«Che stai blaterando?» sbottò la vampira ― e Claude ebbe voglia di picchiare una donna.

«Trevor, vattene!» gli intimò ― più che altro era costretta a sussurrare ― a dir poco disperata, poggiata con la schiena sull'altro lato della porta. Era confusa, avvilita, disgustata da se stessa, dal colore scarlatto che aveva avuto il sopravvento sul delicato celeste, dal bruciore opprimente alla gola che, ad ogni fitta, la costringeva a tossire.
Eppure, per quanta forza ci mettesse, l'umano con una spinta più forte delle altre riuscì ad aprire la porta e spostare lei ― si maledisse di non avere la chiave, sarebbe stato tutto più facile!
Dalle labbra di lei s'intravedevano perfettamente due punte aguzze; valle vicino, non avere paura. Oh, se solo non avesse quella voce petulante in testa che lo costringeva ad ubbidire! Ma non era minimamente giustificabile, e ciò lo sapeva. Si avvicinò all'albina e lei di conseguenza indietreggiò alzandosi dal pavimento, senza distogliere un attimo lo sguardo dal suo ― le sembrava spaventata.
«Non dovevi entrare.» biascicò con voce roca, continuando ad indietreggiare, fin quando non fu fermata dal materasso. Deglutì.
Avrebbe fatto male, se lo sentiva. Le prese le tanto candide e fredde quanto tremanti mani e le strinse. «W-William...» no, non voleva farle ancora male, quella giornata era già pessima, intrappolò il labbro inferiore tra i denti per fermarsi ― dannazione. L'albina non interrompeva un attimo il contatto visivo, aveva gli occhi sbarrati, probabilmente non sapeva cosa fare ― o almeno così credeva il ragazzo, molte volte l'altezza fa brutti scherzi; non si era accorto che in quel modo si era procurato un taglio.
La stretta sulle mani si fece più ferrea da parte di lei.
Sangue, sangue, sangue..., viscida, quella vocina si insinuava nella sua mente. E sembrava tutto rimbombare: i respiri, la pioggia che picchiettava sul vetro. Quella, metaforicamente parlando, era l'ultima goccia ― le sarebbe esplosa la testa. Uno scatto in avanti come un cobra, si era alzata sulle punte dei piedi per arrivare alle sue labbra; le morse e succhiò voracemente, tanto che l'altro, colto completamente impreparato aveva perso per un attimo l'equilibrio rischiando di cadere all'indietro. Quello non era un bacio, ma non era nemmeno abbastanza.
Ancora..., l'avrebbe mugugnato come una bambina capricciosa se non fosse stata impegnata a ribaltare la situazione ed a spingere il ragazzo sul letto per potervici nuovamente avventare. Quindi quale punto migliore poteva mordere per avere più sangue se non il collo? Trevor cacciò un urlo quando sentì quei denti aguzzi affondare nella carne ― cavolo se era doloroso!
Nonostante ciò, inesperta com'era, a William il primo morso non diede alcun sollievo. Solo al terzo trovò l'arteria; il sangue le inondò la bocca, caldo ed inebriante ― probabilmente l'umano era svenuto. E beveva, beveva tra i respiri mozzati, mentre una vocina dentro di lei la supplicava di fermarsi. Tuttavia non ci riusciva e continuava, nella mera illusione che dopo tutto ciò sarebbe stato migliore, perché quel sangue era come acqua su un incendio ― salvezza.
Molte volte però, alcuni incendi peggiorano con l'acqua.

«Su su, cucciolina! Ne hai avuto già troppo.» quanto tempo era passato prima che salisse le scale per evitare che William dissanguasse l'umano? Tre minuti, cinque? Sembrava comunque troppi.
Evidentemente gli andava di parlare, tutto lì, perché l'albina non si sarebbe di certo staccata così. L'unica cosa che si aspettava era che, ripresa lucidità, William non rigettasse il sangue. Appena tentò di prenderla, la vampira rispose ringhiando ed avvinghiandosi maggiormente al corpo del ragazzo. «Kleine Schlampe.» sibilò a quel punto Claude, spazientito ed allarmato per la salute di Trevor. La afferrò per i capelli, il più vicino alla cute e la strattonò fino a farle mollare la presa.
«Vuoi una mano?» Michela osservava, appoggiata allo stipite della porta.
«VUOI L'INVITO?!» le urlò Claude che teneva ferma l'albina, sospirò, poi parlò di nuovo «...Occupati di Trevor. Non farlo morire, anche al costo di trasformarlo.»
La vampira annuì, quindi entrò e si avvicinò al corpo del ragazzo mormorando un “che disastro”.

Erano almeno due litri di sangue quelli ingeriti da William, appurò il corvino mentre vedeva la sua speranza crollare come un castello di sabbia in riva al mare e teneva alzati i candidi capelli macchiati in più punti di rosso scarlatto di lei; lei, china sul lavandino del bagno nello stesso piano. Lei, che ora vomitava tutto, anche l'anima.
Scossa da brividi e singhiozzi, al contempo piangeva pentita. E quando ormai il vomito scemava in una tosse secca ed il pianto solo in leggeri mugolii, Claude si accinse a prenderla tra le braccia prima che potesse crollare stremata al pavimento.
D'altro canto lei si fece prendere, accondiscendente, facendosi più piccola di quanto già non fosse, non avendo nulla da replicare. Solo allora, quando a fatica riusciva a tenere le palpebre sollevate, sentì per la prima volta Claude porgerle delle scuse; il resto furono dolci tenebre.







* * *









Il giorno dopo, villa Von Richter.
L'alba era arrivata fin troppo presto per Claude e Michela, i quali si erano divisi i compiti durante la notte.
Trevor non era ancora fuori pericolo ma non dava problemi. Dormiva. Michela si era appisolata vicino a lui. Il corvino invece, seppur stanco, si ostinava a restare sveglio. Sia perché William aveva il sonno molto agitato ― pianse un paio di volte per colpa di qualche incubo, sia perché si era dedicato a fare il bucato e pulire il pavimento dal sangue. Lasciò la camera dell'albina e scese la piano inferiore ed uscì nel balcone. I primi raggi del sole all'alba erano qualcosa di piacevole da avere sulla pelle: la pizzicavano dolcemente, facendolo sentire un po' più vivo. Ispirava a pieni polmoni l'aria umida della pioggia precedente e poi la espirava, poggiandosi con i gomiti alla ringhiera; la giornata però si prospettava anch'essa nuvolosa.
Henrike gli avrebbe dato un bacio in guancia, ora. Non gli piaceva rimuginare sui ricordi, se li lasciava alle spalle quelli ― ma come ignorare uno splendido ricordo? Henrike, sua sorella maggiore non consanguinea, era una pacifista, una di quelle che ti ripetono le stesse cose più e più volte fino all'esasperazione però! Proprio perché era una pacifista si era lasciata uccidere senza reagire.
Sorrise e rientrò in casa prima che finisse bruciato in viso, avrebbe dormito in attesa che Michela si svegliasse.




Deliri Note dell'autrice:
Gambetto1= Direttamente dalla Wiki: “Il gambetto è un'apertura di scacchi caratterizzata dal sacrificio di uno o più pedoni, nella prima fase della partita, in cambio del guadagno di spazio e tempi per lo sviluppo.”
―L o t t i e.

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Capitolo 8
*** Kimashita wa! ***


Kimashita wa!








Penso che siamo ciò che siamo,
e forse non c'è nulla di sbagliato... o forse sì.
E cosa farai quando la facciata si romperà?
Gaia; amica dell'autrice.



Fin dall'inizio ho avuto un brutto presentimento su Claude.
I suoi occhi, benché fossero del mio stesso colore, sembravano... ghiacciati.
Impossibile guardarli senza rimanerne incantati.
Un campanello d'allarme che urla «Pericolo!»
Samantha Walsh.




Rientro dalla vacanze scolastiche; Parigi.


Correva Samantha, correva con il cuore in gola e l'adrenalina nelle vene ― si era svegliata incredibilmente ed eccezionalmente presto per andare a prenderla e trascinarla a forza a scuola. Doveva sbrigarsi: la signora Akane ben presto sarebbe andata a lavoro.
Infatti, quando giunse a qualche metro dall'abitazione dello colore di un cielo sereno, la donna stava giò salendo in auto.
No, no, no..! «Ah, Yoshiko! Aspetti un... attimo...»
Andata. Si piego sulle ginocchia per riprendere fiato ed immediatamente le ciocche rossicce dei capelli le coprirono la visuale dell'automobile che si allontanava.
William non era con lei, quindi era già uscita? Spostò il ciuffo dagli occhi e raddrizzò la schiena munita di cartella e prese dalla tasca della felpa il cellulare: nessun messaggio. Tornata qualche giorno prima da Dublino dove aveva trascorso le vacanze, non poteva mica sapere cos'era capitato all'amica a cui inviava messaggi senza ricevere mai risposta. Sembrava scomparsa nel nulla! Che si fosse stancata di lei?
«Samantha!»
«Oh... Hey.» per quanto poté, sorrise al ragazzo arrivatole alle spalle.
Ragazzo un po' brufoloso ed alto almeno un metro e ottanta, Sean. Frequentava l'ultimo anno di liceo ed aveva aiutato la rossa a recuperare matematica, tutto sommato simpatico.
«Non c'è la tua amica albina?»
«William. No, penso sia già andata», ed alzò le spalle «ti va di fare strada insieme?»







* * *









«Ti assicuro che ringhiavi», Michela annuiva.
«Poi è stato un disastro. Dovresti imparare a mettere il freno a mano qualche volta», Michela annuiva di nuovo.
A Michela le avrebbe volentieri strappato il cuore dal petto.

Dovresti, faresti, impara...! Sapevano dire solo questo? Era questo l'aiuto che le davano? Non avevano bisogno di farle il riassunto e ricordarle cosa aveva combinato.
Se ne stava così, vinta, sotto le coperte che le arrivavano fin su la testa. Ad ogni respiro mandava giù un macigno; si sentiva così viscida e sporca, a quattro giorni di distanza non riusciva nemmeno a guardarlo in viso ― e come avrebbe potuto?
L'ultima volta che si era incrociata con lui per la casa, Trevor aveva perso colore, come un capo d'abbigliamento lavato alla temperatura sbagliata e che era ingrigito.
Sulle labbra le si formò un sorriso appena arricciato, amaro, di scherno verso se stessa.
«Toc-toc!»
...E si chiese se avesse sognato. Forse era già svenuta, ma ricordava nitidamente le labbra del vampiro articolare delle scuse, quel giorno.
«Will, sei sveglia?»
«...»
«Prinzessin, perché non ti alzi?»
«...» ah, e non spiccicava sillaba da due giorni. Ascoltava, assimilava, respirava. Un guscio vuoto.
Claude si avvicinò al letto della vampira e le scoprì il viso: non parve vedere qualcosa di bello, ma subito dopo sorrise, ovviamente.
«Devi alzarti, sono... Uhm, è tardi.»
William aggrottò la fronte. Tardi per cosa?
«Se parlassi sarebbe più facile capirti. Toh.»
Toh. Ed aveva uscito dalla tasca dei pantaloni ― rigorosamente neri ― un cellulare. Dalla cover rosa fragola. Il cellulare.
Eccolo! Ecco dov'era, ecco perché non lo trovava.
Stava per acchiapparlo, per allungare il braccio dalle coperte, ma si fermò ― alzò lo sguardo celeste per osservarlo in viso; ed intanto il led che annunciava l'arrivo di un messaggio lampeggiava insistentemente.
«...Non lo vuoi?»
Certo che lo voleva. Non ci pensò un'altra volta e lo prese. La sacra luce dello schermo le illuminò il visino pallido ― novantotto messaggi non letti e tante chiamate senza risposta. Aprì l'ultimo che le era arrivato proprio dieci minuti prima.

Dove sei? Non ti ho trovato a casa.
Non so se te l'ho detto ma sono stata a Dublino con i miei quindi non sono potuta venire da te... Mica sei arrabbiata? qAq
Mi manchi comunque, quindi oggi devi venire a scuola!! Odio Christine e le sue chiacchiere!

Samantha... non era in Francia per le vacanze? Come aveva fatto a dimenticarlo? Represse l'istinto di schiaffeggiarsi da sola e mantenne un'espressione impassibile, perché poi, cosa avrebbe potuto fare? Stava così bene a letto, magari ci sarebbe restata per qualche centennio in attesa che le cose cambiassero.
«Noto che sprizzi felicità da tutti i pori. Penso che ti renderà più felice sapere...»
La voce piena di sarcasmo di Claude le arrivava ad un orecchio ed usciva dall'altro, più che altro stava provando a capire perché le stesse restituendo il cellulare proprio in quel momento.
«...a scuola. Quindi vestiti e alzati.»

Altroché se era contario a riportarla a scuola, in mezzo agli umani. Però ― c'è sempre un però in questi casi, William aveva preso una bella batosta e non sembrava voler dare segni di vita, cavoli, si comportava da vegetale! Michela pensò bene che mandarla a scuola fosse un ottima idea perché lì avrebbe potuto rivedere i suoi amici.
Ciò andava contro la sua filosofia di recidere tutti i contatti con i familiari. Sembrava l'idea migliore, comunque. Forse quella Michela serviva a qualcosa, dopo tutto.
Venne afferrato per una ciocca di capelli e tirato giù, giù, giù fino ad incontrare due pupille nere contratte contornate da un'iride rosso brillante.
«Scherzi?» una parola, affilata.
«Oh, allora parli ancora!» con un gesto della mano prese quella bianca dell'albina e le fece lasciare i propri capelli «No, non scherzo. Considerala come una sorta d'offerta di pace.»
William abbassò il braccio senza togliersi dal viso quell'espressione accigliata.
Naturalmente non si fidava.







* * *









«Corri carotina, corri!» le urlava Marcel sulla soglia dell'aula come se fosse il confine della zona di salvezza.
«Marcel, fa' un favore all'umanità e muori!»
Possibile che anche dopo esser stato bocciato al primo anno di liceo quel ragazzo continuava a ronzarle intorno? Stava correndo per il primo piano per raggiungere l'aula al secondo prima dell'insegnante ― in un disperato tentativo di non beccarsi l'ennesimo ritardo.
«Anzi!» e tornò indietro di qualche passo «Hai visto William salire?»
«Blance-Neige? Forse.»
«Marcel Joseph-Maria Dumont, non sono dell'umore giusto, quindi non fare il simpatico.»
«Caspita,» soffiò il moro passandosi una mano in fronte «proprio l'appello dovevi fare?» borbottò con stizza «Mi sembra di averla vista, c'era confusione prima.»
E in quel momento avvenne qualcosa di storico, di unico anziché raro, qualcosa che non capiterà più in tutto il globo per altri cento anni: al suono della campanella che annunciava la chiusura dei cancelli agli studenti ancora fuori l'edificio, Samantha Walsh disse grazie a Marcel Dumont.
Un grazie coperto dal suono della campanella, silenzioso.
Un muto grazie che Marcel apprezzò.
Con la coda dell'occhio la ragazza dai capelli rossicci vide la professoressa che le avrebbe fatto lezione alle prime due ore, questo voleva dire correre.
Le mancavano due rampe di scale, solo allora sarebbe sprofondata nella disperazione di aver perso la sua migliore amica, costretta a sedersi insieme alla perfettina della classe o avrebbe avuto un tuffo al cuore per la felicità. Quanto più veloce avesse potuto correre, volò su per le scale, scavalcando studenti più grandi ed alti come armadi.
E fu di fronte all'alula. Ed aprì la porta.
E il primo banco vicino alla finestra era vuoto.
Vuoto. Se ci fosse stata, si sarebbe seduta lì. Oh, quante gliene avrebbe dette a Marcel! Ma quante!
Sbuffò sonoramente, assomigliando vagamente ad una teiera che bolle ed avanzò di un passo. Quindi ancor prima di pentirsi veramente di aver ringraziato Marcel e di sedersi nuovamente insieme a Christine, un bagliore argenteo catturò la sua attenzione come la luce di una lampada a gas per le falene.
Quasi le cascò la cartella dalle spalle.
Era lì.
Quella cretina era lì, seduta all'ultimo banco che... dormiva?
Stava proprio dormendo come se nulla fosse! Le sfuggì una risata. William Leroy, l'albina conosciuta un po' in tutto l'istituto con dei bei voti, aveva il viso poggiato sul banco e gli occhi chiusi ― era mascara quello sulle ciglia normalmente bianche?
Come forse saprete, Samantha non è proprio nota per il suo tatto o i modi delicati. Proprio per questo serbò all'albina un trattamento speciale: una scompigliata di capelli.
Quasi subito la vampira borbottò infastidita, immediatamente riconobbe quell'aroma di cannella misto allo shampoo alla fragola.
«Da quando siedi all'ultimo banco e dormi?»
William sorrise stropicciandosi un occhio. «Facciamo da oggi?»
«Pft―..! Will, i-il mascara―» e scoppiò a ridere «sembri un panda!»
Quello che era un ottimo inizio della giornata, con una figuraccia ― perché Claude aveva insistito tanto per il mascara? Non era proprio abituata. In effetti aveva la mano nera. Accennò anche lei una risata, borbottando poi appena imbarazzata un «Dai, siediti che c'è la prof.»


Intervallo; biblioteca della scuola.

«Hey, Will.» la ragazza mangiò un altro boccone del panino alla maionese, prosciutto e lattuga ― benché fosse vietato mangiare lì.
«Sì, Sam?» William alzò il viso dal quaderno ― ora senza assomigliare ad un panda ― nel quale stava copiando gli appunti della settimana in cui era stata assente. Erano andate in biblioteca perché fuori pioveva a dirotto, faceva anche un po' freddo.
«Stai bene? Voglio dire, mi hanno raccontato che eri sparita ed ora sei ritornata così... alla cavolo.»
L'albina arcuò un sopracciglio, poi rifletté: alla cavolo era perfetto.
«Certo che sto... bene. Mph.»
«Non c'entra quel ragazzo con la quale sei fidanzata, vero? Quello più grande― Claude.» la rossa annuì e poggiò i gomiti sul tavolo in legno, lasciando qualche briciola.
Perspicace la sua Samantha. Non rifletté più di tanto alla risposta, perché avrebbe negato automaticamente, ma venne bloccata dall'amica.
«Possiamo dirci tutto. I tuoi segreti sono i miei e viceversa, capito?»
E che amica. «Certo che lo so―... Ah, forse domani non verrò.» il click della penna. Il quaderno che si chiude. L'amaro sul palato.
«Cosha? Pevché?» deglutì e quasi si strozzò «Siamo rientrati solo oggi e già vuoi assentarti?»
William scosse brevemente il capo, abbozzando una risatina, poi sentì mancare la terra sotto i piedi ― o più nello specifico, la sedia sotto il sedere.
Forse non aveva completamente smaltito il sangue, forse la pressione di stare lì e far finta di niente era troppa, forse...
E corse al bagno delle ragazze.

La campanella ― che sia maledetta! ― era suonata da qualche minuto e lei era ancora nel bagno delle ragazze più pallida del normale in compagnia di una Samantha teneramente in ansia per lei. Le aveva suggerito di far chiamare la madre per andare dal medico, ma l'albina aveva rifiutato con un cenno della mano.
«Mi sto preoccupando.»
«Quando non lo fai, di solito?» provò ad allentare la tensione «Tutto okay, solo un giramento di test―»
«Ti veniva anche da vomitare.» la interruppe Samantha. «Oddio! William!» squittì in seguito la rossa strattonandola per una spalla. Ora avrebbe vomitato davvero.
«C-cosa c'è?!»
«Non sarai mica incinta di Claude!»
«...»
«Non fare quelle faccia, che scherzavo!» si affrettò a dire Samantha, congelata all'istante dallo sguardo dell'altra «Uff... Forse è perché non hai mangiato? Potevo darti un pezzo del mio panino.»
«Andiamo e non dire cose stupide, non vorrai essere mica richiamata dalla temibile Mureau?» ammiccò l'albina prendendo per un braccio l'amica e trascinandola fuori dal bagno ― cambiare discorso ed affrettarsi a tornare in classe erano le cose migliori da fare.




Deliri Note dell'autrice:
Errieccomi! Per fortuna puntuale con il settimo capitolo, che adoro tanto per il debutto di Samantha. *v*
Ringrazio tanto chi mi legge in silenzio e chi lascia anche un piccolo commento, quindi cito U k e c c h i che ringrazio tanto per i complimenti!
...E Gaia, la mammina di Trevor (?) che mi ha illuminato e donato l'ispirazione con quelle due frasi. ♡
Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che non vi siano errori gravi. *coff
Aggiungo che presto modificherò, o meglio, migliorerò il prologo. ☆
―L o t t i e.

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Capitolo 9
*** Per favore! ***


Per favore!








Aveva superato una giornata scolastica di sette ore insieme a Samantha; non era più abituata a stare seduta per così tanto tempo ad ascoltare ogni cosa: le risatine degli alunni, la voce dell'insegnante, chi batteva le unghie sul banco ― mal di testa.
Ma... Tutto nella norma, insomma, se non fosse per l'auto nera che si era parata di fronte alle due appena dopo aver messo piede fuori dal cancello.
«Cosa ci fa lui qui?» fu Samantha a parlarle ed a toglierle le parole di bocca. In effetti pensava sarebbe tornata da sola, in quel posto. In villa.
«È venuto a prendermi.» bisbigliò in risposta l'albina stringendo le bretelle della cartella. In teoria non “aggiornava” l'amica sulla sua relazione con Claude da un bel po'. Avrebbe dovuto farlo, le avrebbe inviato un messaggio nel pomeriggio.
«Prinzessin, com'è andata?»
«Mh.»
«...Eh. Tu sei Samantha, corretto? Ci siamo visti qualche volta, se non erro.»
Dov'era finito il ghigno? Quello non era Claude, non quello che conosceva lei almeno ― quel tizio stava sorridendo in modo amichevole, che quasi ci credeva anche lei.
«Abbiamo fatto un'uscita in tre, una volta.» rispose la rossa abbozzando un sorriso.
«Ah, ecco! Ti va un passaggio a casa? ...Oppure potresti direttamente pranzare con noi.»
«Noi?»
Ed ecco che si ritrovava due paia di occhi verdi addosso. Noi, aveva detto il vampiro. Intendeva loro tre? E anche Trevor e Michela? No. Non esisteva ― come le avrebbe spiegato perché alloggiava in quella villa?
Chissà quanto era restata così, imbambolata e ghiacciata dai propri pensieri, le labbra schiuse. La sua mente aveva appeso un cartello con su scritto “sciopero!”
«―di quella bocca che ti entrano le mosche!»
Ah. La risata cristallina del corvino le riempì le orecchie.
«Comunque non posso, non così all'improvviso. ...Magari un altro giorno.»
«Oh, certo. Capisco. Allora ci conto! Will, sali


Per tutto il tragitto stette in silenzio con la borsa contenente i libri in grembo ― osservava dal finestrino il paesaggio monocolore.
«Peccato non sia venuta, la tua amica.» disse ad un certo punto il corvino addentrandosi con l'auto nel boschetto. «Allora, vuoi dirmi com'è ti è andato questo ritorno a scuola?»
L'albina fece per parlare, togliere il sigillo alle labbra e far uscire qualche suono ― vi rinunciò in partenza.
«O parli o quella lingua te la taglio.»
Ah, ecco. Non essere minacciata per una mattina era stato come vivere un pezzetto di paradiso. «Bene.» sputò con rabbia; non vedeva l'ora di chiudersi ― si fa per dire, in camera. Magari nessuno sarebbe salito ad infastidirla e lei avrebbe avuto un po' di privacy.







* * *









Con la magra consolazione di aver frequentato la scuola per due settimana, ora era di nuovo in gabbia, sotto le coperte. Da qualche giorno erano iniziate le giornate piene di sole ed allegre che prima piacevano anche a lei. Ufficialmente e per Samantha aveva il raffreddore, misto alla febbre. La chiamava però ogni pomeriggio per farsi dettare gli appunti o eventuali pagine da studiare ― qualche volta la rossa chiedeva se stava meglio o no, ma sopratutto se si trovava davvero bene a stare insieme a Claude o se davvero Yoshiko sapesse che lei viveva lì. Aveva avuto il coraggio di mentirle dicendole che doveva studiare l'inglese. Un po' era vero, anche se in realtà quelli che aveva appreso erano solo insulti in tedesco. Ovviamente Samantha non venne più a pranzare ― nemmeno la faceva avvicinare, in verità, alla villa.
Come al solito la sveglia del cellulare la levava prepotentemente dal tepore di un sonno di tenebre ― meglio quelle che gli incubi che popolavano abitualmente la sua notte ― e la costringeva ad allungare un braccio per rimandare l'allarme.
Si sarebbe assentata anche quel giorno.
Schiuse le palpebre le palpebre quel tanto che le permise di metter a fuoco lo schermo luminoso in tutta quella oscurità che regnava sovrana nella stanza e, con sorpresa, si rese conto che non era la suoneria della sveglia ad averla destata dal sonno.
«Pro... nto?» bofonchiò senza neppure leggere il nome di chi le stesse chiamando.
Uno sbuffo ― conosceva quello sbuffo simile all'elegante soffio di una teiera. «Hai intenzione di venire o stai ancora male?» quel tono sapeva vagamente di sarcasmo.
Silenzio. Sgusciò via dalle coperte ed andò direttamente alle tende ― nuvole, chiedeva solo quello!
«Oh... Dieu!» sibilò serrando immediatamente l'occhio sinistro colpito dalla tepida luce mattutina. Che dolore.
«William..?»
«Non... posso venire nemmeno oggi.» soffiò allontanandosi dalla finestra con la mano l'ibera sul volto. «Scusami» concluse a malincuore smorzando un sospiro.
«...Allora vengo io da te.»
«Samantha, no. Sai che non sono a casa mia
«William, sì. Perché vuoi evitarmi?»
Colpita ed affondata. La cime dell'icebearg la prese in pieno viso, dolorosa e fredda, infuocata. «N-non ti sto evitando! Sam, prova a capirmi.» gemette mordicchiandosi le labbra, scivolando nel frattempo al pavimento con la schiena al muro.
«Cosa devo capire se la mia migliore amica fa di tutto per non vedermi?»
...Non dire così. Trattenne il respiro per qualche istante, riempì i polmoni d'aria.
Quella non era solo un'amica, ma anche la sorella che non aveva mai avuto, la sua consigliera, colei che non giudicava, qualcuno di cui poteva fidarsi quando era immersa nella falsità della gente. Doveva farsela scappare così?
«Sam, Samantha, idiota, ascoltami bene: questa sera alle...» Claude solitamente usciva la sera, ma a che ora? «...dieci! Alle dieci vediamoci in quel posto
«...»
«Per favore!»
«Prova a non venire e ti diplomerai da sola.»
William sorrise. «Tranquilla. Ti voglio bene, eh.»


«Non va bene. Stiamo regredendo.»
Michela sbadigliò distesa sul divano con indosso un enorme pigiama in pile fucsia. «Mi ricordi di che stiamo parlando?» biascicò.
«...Lasciamo perdere: farò un monologo, vista e considerata la partecipazione di qualcuno.»
«Uff!» sbuffò lei poggiando il viso sul bracciolo. «Preoccupati di meno e lascia fare al tempo. Ti rendi conto che sei in perenne stato di “delirio di onnipotenza”? William è una ragazza sensibile. Ragazza, non vampira.»
Claude emise un verso lamentoso, poi fece spallucce ― Michela aveva capito più cose dell'albina che lui e questo lo scocciava molto. «Lei invece è un vampiro.» protestò quindi andandosi ad accomodare sulla poltrona. «Poi, su che base dici ciò?»
«Per prima cosa dev'essere lei quella che deve sentirsi un vampiro a tutti gli effetti. Si riduce allo stremo, se non l'hai notat― Dov'è Trevor?»
«Pff.» scettico, il corvino arcuò un sopracciglio. «Penso dorma, è ancora presto.»
«Beato lui.» miagolò raggomitolandosi su se stessa.
«Comunque, tu capisci William più di me, è questo che vuoi dire?» ed assottigliò lo sguardo, piccato.
«Sì e non fare quella faccia. So per certo che ti interessa più cosa vuoi tu che non gli altri, sei egoista. Oltremodo non mi hai più fornito le informazioni che volevo. Che è morto, Alexandre, l'ho capito da sola ― vorrei sapere come, gentilmente.»
«La curiosità uccise il gatto, Michela.» sogghignò il vampiro.
«Ma la soddisfazione lo riportò in vita, Claude.» sorrise lei di rimando.
«Sei davvero una gran―»
«Richter!» urlò la vampira interrompendolo bruscamente, quasi saltando dal divano. Il diretto interessato allargò il piccolo ghigno già presente sulle labbra mettendo in mostra la dentatura perfetta.
«Non lo so, l'ho scoperto per caso quando sono arrivato in Francia. Purtroppo non sono stato io, contenta?»
«Sei insopportabile! Mi chiedo perché rimango ancora qua!»
«Perché altrimenti ti mancherei e non potresti andare in giro per le vie di Parigi a fare shopping illimitato, no?» le ammiccò.







* * *









Stesso giorno, stessa villa; 20:04 pm.

«Tu», le premette l'indice destro sulla fronte «resti qui insieme a lui», puntò l'indice sinistro verso l'umano che smanettava al cellulare «e io esco con Michela, torniamo fra qualche ora non uccidetevi.»
L'albina arricciò il naso, infastidita e scosse il viso per levarsi di dosso il dito del vampiro. Si era svegliata da qualche ora, infatti aveva ancora il pigiama ― sapeva che Claude sarebbe dovuto uscire come gli era solito fare, ma non così presto. Perché così presto? Se lo chiedeva da un po'.
Qualche ora. Non ce l'avrebbe fatta, se lo sentiva. Quando i due vampiri chiusero il portone, lei si diresse su per le scale ― doveva prendere il cellulare che aveva lasciato in camera ed inviare un messaggio a Samantha.
«Will.» la fermò Trevor alzando lo sguardo dal proprio di cellulare. «...Posso parlarti?»
«Dipende.» sbrigativa, gli rivolse solo lo sguardo celeste.
«Scusami, sia per la sera al pub che per―»
«Quella è colpa mia, cretino.»
«Ah, uhm... Certo. Però mi dispiace, sai, non volevo dire davvero che sei strana.» bofonchiò in imbarazzo abbassando appena il capo, facendo riflettere nelle lenti degli occhiali la luce dello schermo del cellulare.
«O-okay.»
«Okay?»
«Sì, mh, ti... ti perdono.»
E corse via. Eppure, non era così facile. Avrebbe dovuto lavorare ancora molto Trevor, però apprezzò il gesto. Non riusciva più a stare tra quelle mura sapendo di aver una questione in sospeso con lui. Se lo era trovato davanti, che dormiva, all'inizio ― disorientata, l'aveva perfino scambiato per Claude! Che se ci ripensava ora le veniva da ridere. Quei due erano completamente diversi, poi, uno era un mostro.


«Guarda che io mi chiamo Trevor. Trevor Knight.» borbottò scocciato il ragazzo guardando storto l'albina che, beh, ricambiava lo sguardo. Gli era solo stato detto di sorvegliarla, nulla di ché. Quella ragazza era davvero particolare, e poi non aveva mai visto qualcuno di albino! Era inevitabile che continuasse a fissarla, era inevitabile che lei fosse infastidita ― o a disagio? «Tu invece, vuoi dirmi come ti chiami?»
«...Non ti interessa. Ti metteresti anche a ridere.» sussurrò, portando le ginocchia al petto.
«Mannò. Provo ad indovinare?»
«Prova.»
Trevor disse almeno cento nomi di ragazze, William scosse il viso altrettante volte. Era logico che il ragazzo non ci sarebbe mai arrivato. Stremato e con la gola secca ― si sarebbe volentieri bevuto un litro d'acqua, sbuffò. «Andiamo! Un nome dovrai pur averlo!»
«William






Deliri Note dell'autrice:
Ue! (?) Son riuscita a pubblicare il capitolo per miracolo, oggi! *sigh çAç
Ringrazio tanto chi mi legge in silenzio e chi lascia una recensione come la mia senpai e U k e c c h i.
Grazie infinite a tutti! ;u; ☆
―L o t t i e.

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Capitolo 10
*** Un fatto importante. ***


Un fatto importante.








Berlino, novembre; 2009.

Un libro in mano, vicino al caminetto.
Odore di sangue.
...E lacrime.

Una cosa che non si sa su Claude: è un piagnucolone.

Gemette, poi tossì nuovamente sangue lercio, così scuro da sembrare nero.
Lui alzò il viso da quelle parole appannate dalle lacrime ― lacrime che ogni tanto gli scappavano e correvano veloci sulle pagine.
Claude schiuse le labbra rosee.
Nessuno suono.
Lei strizzò gli occhi, deglutendo a fatica; era fastidioso non riuscire a vedere in modo decente.
«Non... è...» i suoni sembravano salire e poi, come se rimbalzassero, cadere nuovamente nella sua bocca, soffocandola.
«Me l'hai detto, Nikie» sibilò tra i denti bianchi il tedesco, il quale tentava in tutti i modi di non posare lo sguardo verde, lucido in quel punto. Sul petto scoperto a chiazze scarlatte della ragazza.
Non proprio al centro, , vi era un... qualcosa.
Poteva essere spesso cinque centimetri e lungo venticinque. Di legno.
«...Eppure...» aveva provato ad estrarlo e si era spezzato. Le schegge erano a fior di pelle ― e ossa.
Quel viso da ragazzina, non l'aveva mai visto così addolorato e rassegnato.
Henrike, di solito, sorrideva; in quelle pozze di cioccolato saggiavi la dolcezza, in quei capelli color paglia affondavi le dita: morbidi come piume.
Henrike, la sua creatrice e nuova sorella... amava molto gli umani e li rispettava.
Henrike si fece uccidere da uno di loro.
«Es ist alles... in Ordunung, kleiner bruder.1» disse lei abbozzando un sorriso pallido, come se gli avesse letto nella mente. Alzò una mano cerea, dalla quale potevano vedersi diverse diramazioni violacee che scomparivano sotto la manica del maglione dilaniato.
Il cuore fece un balzo nel petto freddo e senza vita.
Non capiva come, ma il tonfo lo sentì, forte e chiaro, dentro le sue orecchie. Lasciò cadere al pavimento il libro che teneva con due mani e si buttò in ginocchio vicino al divano.
«Non dirlo! Henrike, ti prego, ho solo te...» sussultò scosso da un violento singhiozzo. Tirò su col naso, dannazione. Di nuovo, aveva la vista annacquata.
Quella mano ancor più ghiacciata, ora ruvida al tatto, andò a poggiarsi con dolcezza sul suo viso.
Gli si mozzò il respiro.
«Ti farai... una nuova famiglia...» le labbra screpolate della vampira si fecero più sorridenti, disperate, fiduciose. Altro colpo di tosse. «Sei un vampiro adulto ormai.»
«Non posso.» ...non voleva. Senza lei, sarebbe stato completamente solo. Socchiuse gli occhi.
«Ti amo.» un filo di voce, appena roca, ma sempre e comunque delicata gli carezzò il viso prima di vedere l'ultima lacrima rigarle il viso.

Fu così che quella stella di nome Henrike Ophelia Krämer, dopo tre giorni di agonia, smise definitivamente di brillare.
Lasciò intorno a sé solo tanta oscurità.



«E sei tornato solo ora? Gran bella fregatura trovarlo morto.» quello di Michela non era per nulla un tono derisorio, anzi.
Claude scrollò le spalle, con finto disinteresse. «Visto che ti perdi stando sempre nella tua amata penisola?» la schernì.







* * *









«Cosa c'è che non va, William?!» sbottò la rossa incrociando le braccia al petto, spazientita.
Eccezionalmente spazientita.
Intanto l'albina se ne stava di fronte a lei, senza proferire parola, forse pensando, sospirando ogni tanto.
William l'avrebbe giurato, seduta su quella cassetta della frutta, che prima di arrivare in quel magazzino aveva un discorso bello e pronte. Poi aveva visto Sam e tutto era sparito con un poof!
«Un attimo», borbottò, «Se avevi qualche impegno potevi rifiutare.» Congiunse le mani e le portò al viso, sospirando ancora.
«Non è questo. Ma vuoi dirmi qualcosa? Non mi piace stare in silenzio con te.»
L'albina alzò lo sguardo celeste come colta da un'improvvisa illuminazione. «Allora posso dirti qualcosa di assolutamente folle?»
«A questo punto raccontami anche una barzelletta!» borbottò l'altra abbozzando una risata e sedendosi sul pavimento impolverato.

«Ahahahaha... Ahah... Ah.» Samantha si tirò indietro, non importava se i pantaloni si sarebbero sporcati, doveva solo allontanarsi un attimo da lei e... respirare.
Riempire i polmoni d'aria ed evitare di urlare.
Ovvio.
Oh, era arrivata alla parete di metallo. Raddrizzò le spalle e ci si spalmò addosso.
William, la vampira albina, invece, era ancora seduta senza fiatare ― i due rubini puntati sulle sue ginocchia ed il labbro inferiore tra i denti. Si sentiva un po' così, ma senza più quel peso che la faceva stare male. Bene, era fatta ora avrebbe saputo con certezza se quei sei anni d'amicizia non erano solo una presa in giro. Deglutì e piano alzò lo sguardo verso l'altra ragazza.
Ora scappa, pensò, lasciando un po' di tregua alle labbra arrossate. Era questo ciò che intendeva Claude quando diceva che poteva vedere la paura degli altri? Inspirò l'aria umida del magazzino, odore di muffa, poi si alzò ignorando gli occhi verdi dell'amica che non accennavano a spostarsi dalla sua figura ― lanciò una rapida occhiata all'apertura che faceva da ingresso e si avviò.
«Comunque sono sempre William Leroy.» disse, forse anche per sé stessa, per convincersi che non era poi cambiato molto in lei.
Ma perché convincersi quando la verità ti arriva in faccia ogni giorno come un pugno, con dolorosa consapevolezza? Chissà cosa pensava ora Samantha, se l'avrebbe guardata ancora, o parlato ― non l'avrebbe fatta avvicinare più. Quel peso che tanto la faceva stare male... lo voleva indietro.
Quando poi, si era inconsapevolmente fermata sulla soglia nella vana speranza che le arrivasse un tornado rosso da dietro, per stringerla ― restò a bocca asciutta. «Ah...» sussurrò stringendosi nelle spalle, quindi era così. «...Mi va bene. Non ci speravo nemmeno.» se gli occhi erano davvero lo specchio dell'anima, perché ora i suoi erano tornati al freddo celeste e non si scioglievano come ghiaccio al sole?







* * *









Trevor era in ansia. Anzi, Trevor era l'ansia.
Controllava, sì e no, l'orologio almeno cinque volte al minuto ― era sempre tardi. In quella villa enorme i ticchettii dell'orologio gli facevano accapponare la pelle ed ogni minimo rumore all'esterno era collegato alla paura che Claude sarebbe potuto arrivare prima di William. William, ah, maledizione a quando aveva abbassato la guardia! Quella peste se l'era svignata mentre era al bagno.
Non sapeva dov'era andata ― o se sarebbe tornata più.
Aveva anche provato a chiamarla, ma la chiamata veniva sempre bloccata. Si sentiva così inutile in quei casi! Con un sbuffo uscì nel balcone accendendosi una sigaretta, che portò presto alle labbra, aspirando. Se doveva essere sincero, non andava molto fiero di questa sorta di abitudine che si era preso nel tempo. Abitudine, sia chiaro, non vizio ― ci teneva a questo particolare. Ma non poteva farci nulla se nelle situazioni di profonda tensione quel bastoncino alla nicotina lo aiutava a distendere i nervi. Espirò una nuvoletta di fumo grigio dalle labbra.







* * *









«Vado un mesetto a Dublino ed ecco che cosa combini!» finalmente la voce, stranamente più acuta del solito della ragazza dai capelli rossicci irruppe nel silenzio della notte prima che la chioma bianca potesse sparire dalla sua vista. «Una creatura fantastica mi diventi? E non ti ho nemmeno visto i canini!» sbottò come una bambina alzandosi a tentoni, un po' incerta. «...William?» spostò dietro l'orecchio i capelli avanzando verso le spalle dell'albina ― immobile.
Si era paralizzata, congelata lì sulla soglia da un po', cocciuta. Oh, Samantha, riusciva a donarle un sorriso anche in quelle situazioni, a riprendersi insieme a lei un poco di felicità ― non voleva mettersi a piangere, che cavolo. In fretta cacciò via una lacrima voltandosi di scatto per osservare l'altra con un'espressione che molto probabilmente doveva essere arrabbiata.
«Ma sei cretina?»
«Beh.» alzò le spalle, facendo un sorriso storto.
«Non credevi mica di liberarti della carotina solo con degli occhi rossi? Eh?», ridacchiò, «Waaaah! Abbraccio!» urlò in seguito la rossa prima di spalancare le braccia e correre come una furia verso una William completamente impreparata che iniziò pure lei a correre via per sfuggirle ― gli abbracci improvvisi di Samantha erano famosi per la loro caratteristica “spacca-costole.” Si rincorsero per svariati minuti prima di fermarsi: una poggiata alla parete per riprendere fiato e l'altra a ridere.
«No-non è giusto..!» soffiò la rossa con un occhio chiuso ed il fiato corto. «Fatti prendere, dai!»
«Aah, va bene, lumachina!» ridacchiò la vampira avvicinandosi a grandi falcate. «Uh... Finalmente!» e le si buttò addosso. «Però mi hai messo paura, prima», bofonchiò, «ora devi rimediare raccontandomi tutto
«Gh―..!» “spacca-costole”, che termine azzeccato. «...In che senso?»
«Per prima cosa quando




Deliri Note dell'autrice:
“«Es ist alles... in Ordunung, kleiner bruder.1»”= “Va tutto bene, fratellino”.

AAAAH, scrivere questo capitolo è stato un parto! °-°' Però mi piace un sacco com'è uscito. ☆
Ringrazio taaaanto tanto la Senpai per le minacce che in un modo o nell'altro mi uccide dalle risate e mi motiva. (??) U k e c c h i, che continua a sommergermi di complimenti nei mp, francy_10 che ha messo la storia nelle seguite; grazie millissime! ;A; E qualcuno che lunedì vorrà portarmi nella bara (?), non faccio nomi. *coff ewe
Infine, ultimi, ma non ultimi, i cari lettori silenziosi! Vi mando tanto glitter. *u*
―L o t t i e.

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Capitolo 11
*** A cena, come una bella famigliola. ***


A cena, come una bella famigliola.








«Mh-mh... ~» muoveva le gambe, avanti ed indietro, messa a testa in giù sul divano. «Oh, Trev! Sai che avevi ragione? Sono carini questi libri!» La testa del ragazzo sbucò dall'arco che collegava la cucina al soggiorno, sorridente e con un grembiule. «Eh, almeno non stai chiusa in camera così.»
L'albina alzò gli angoli delle labbra ed alzò il viso ― anche se era divertente vedere Trevor con i piedi al soffitto. I capelli le toccavano il tappeto che vi era ai piedi del divano, chiuse il libricino dalla copertina gialla. «Cucini di già?»
«Ci provo!» ridacchiò l'umano.
«Che testardo!» lanciò il libro sul tavolino e si raddrizzò, stiracchiandosi in seguito. «Guarda che posso pensarci io tra qualche ora... Non vorrei che appiccassi un incendio.» con tono ed aria puramente melodrammatica portò il dorso della mano destra alla fronte, sospirando. Poi rise, sotto lo sguardo fintamente scocciato dell'altro.
«Uccellaccio del malaugurio.» bofonchiò lui tornandosene in cucina.







* * *









«Quindi, ricapitolando...» e Samantha congiunse le mani sotto il mento, la penna tra le labbra. «Sei morta
«Hey!», la ammonì William, «Vacci piano con i termini.»
«...Qual è un sinonimo di morta?», sorrise sfacciata.
«Mph, cretina.» borbottò.
«Va bene», alzò le mani in segno di tregua «la smetto. Però non trovo una spiegazione logica!»
«Non c'è!»
«Ma―...»
L'albina le lanciò un'occhiataccia, zittendola. Erano sgusciate via dall'aula al primo suono della campanella, sorpassando ragazzi e ragazze, chiacchiere e puzza di sudore per raggiungere l'ultimo tavolo nell'angolo della Biblioteca. Là la luce non arrivava bene ed era anche pieno di polvere, ma faceva al caso loro quando non volevano essere sentite ― oltretutto per l'intervallo la maggior parte degli altri alunni preferiva uscire in cortile o starsene nei corridoi.
Samantha si era portata un quaderno, poi chissà perché.
«Ora se stai un attimo zitta, prima che finisce l'intervallo, avrai il tuo... riassuntino
La rossa le puntò la penna rosa con in cima un pompon e il pupazzetto di un micetto, con aria minacciosa ― tanto che l'altra arcuò un sopracciglio scettica, frenando un risolino.
«Poi voglio toccarti i denti.»
«Tu sei fissata.»

«Ma non esiste una specie di polizia dei vampiri?!» strillo la irlandese ad un tratto, tanto che l'altra dovette farle segno di abbassare la voce.
Ah, quanto aveva parlato! Un bicchiere d'acqua non le sarebbe dispiaciuto.
Sbuffò lasciandosi scivolare sulla scomoda sedia in legno, mentre Samantha incrociava le braccia, piccata.
«Perché non chiediamo a―...»
«No. Mai, scordatelo.»
«Bien. ...Allora è meglio avviarci, che abbiamo compito.»
«Cosa









* * *









«'Sera piccioncini!» Michela fece il suo ingresso con una vestaglia non propriamente sua, che lasciava intravedere un po' troppe cose. Fu presto linciata da due paia di occhi celesti, seccati ― e appena imbarazzati. La donna alzò le mani, in segno di resa. «Calma, non mi uccidete», ridacchio poggiandosi con i gomiti sulla penisola in legno scuro della cucina. «Allora, che preparate?»
«Veramente nulla, la carne si è bruciata.» mugugnò il ragazzo, colpevole.
«...Sto provando a salvare le parti non bruciate per farne un insalata.» l'albina scoccò un occhiata a Trevor, mentre tagliava via il bruciato dalle fettine, saccente. Se c'era una cosa in cui eccelleva, quella cosa era cucinare. Dolci, primi piatti, secondi, spuntini, di tutto.
E salvare gli alimenti bruciati dalla pattumiera.
«Claude?» domandò il corvino allontanandosi dai fornelli.
«È ancora su», miagolò l'altra. «Beh, a che ora viene quella... Sephora? Stefania?»
«Samantha! Ci vuole così tanto a ricordarlo?!»
«...Penso ce l'abbia ancora con te.» mormorò di seguito Trevor a Michela, che annuì.
«Ti ho sentito!» e si voltò con il coltello in mano, a mo' di serial killer, accigliata.
Il ragazzo deglutì rumorosamente e con una mezza risata isterica, disse: «Lo abbassi quel coso

Soddisfatta del lavoro compiuto, William si slacciò il grembiule color panna, per piegarlo ― perché alla fine Trevor e Michela si erano spostati in soggiorno per chiacchierare. La vampira si era, per fortuna, anche andata a cambiare ed ora aveva un vestiario molto più sobrio, dei jeans e un maglioncino nero.
Infine il principe, Claude, li aveva degnati della sua presenza nei dieci minuti precedenti al suono del campanello.
«Vado io!» e volò nell'ingresso.
Ora che Samantha sapeva chi aveva vicino, farla venire a cena non le sembrava più una così cattiva idea e l'aveva invitata volentieri ― anche per farle vedere in che razza di mostro abitava, Claude la chiamava semplicemente “villa”, lei gli aggiungeva un “mega” che non faceva mai male. Quando aprì la porta vide la rossa, appena più alta di lei, imbacuccata come quando da piccole andavano a giocare al parco. Una bella sciarpa di lana, berretto dello stesso materiale ed un enorme giubbotto beige.
«Colpa di mia madre.» bofonchiò entrando per liberarsi di quei indumenti superflui e che le avevano arrecato un enorme caldo per tutto il tragitto. Quando il tutto fu sull'appendiabiti e William smise di ridere, si scambiarono delle occhiate complici. Era intuibile che l'albina le avesse già parlato degli altri tizi con cui condivideva lo spazio vitale. I tre si erano messi sull'attenti, Trevor che si era addirittura sporto per ammirare i lunghi capelli rossicci della ragazza che era entrata. Effettivamente William gliene aveva parlato un sacco di volte, di Samantha e l'aveva anche descritta benissimo.
«Lui lo conosci», indicò il vampiro dagli occhi verdi, «lei è Michela e lui Trevor.» concluse sbrigativa con disappunto dei due.
«Samantha, piacere
«Bene, ora che ci conosciamo tutti, possiamo andare a cenare.» Claude si era alzato, lo sguardo languido, con sorpresa di William ― con passo, lento, leggero come sempre, si avviò in cucina.

Quando furono tutti accomodati in tavola, come una bella famigliola, Trevor che sembrava non mangiasse da un mese ― ed invece aveva pure messo su qualche chilo da quando la piccola vampira era arrivata ― si avventò su quella povera insalata di lattuga e bocconcini di carne e masticando bofonchiò «ottimo!», non era una bella visione.
Il tedesco, invece, mogio osservava con sufficienza il piatto punzecchiando di tanto in tanto la carne con la forchetta portandone ogni tanto qualche pezzetto alle labbra, Michela faceva lo stesso.
Che quadro triste, con qualche grande pennellata di rosso acceso, bianco e nero, schizzi di verde, marrone e celeste. Astratto e non proprio, vuoto e vivo. Un completo contrasto ― solo per i più temerari che si addentravano in quello strano museo.
«Mi fa piacere che tu sia venuta a cena, Samantha.»
Era sempre una scheggia in un occhio sentire quella voce pronunciare i nomi delle persone alla quale teneva.
«Anche a me, e mia madre ringrazia.»
«Uh, e di che! Anzi, se vuoi, William ti farà vedere la villa.» ovviamente, quale occasione migliore di metter in mostra il suo più bel cimelio e di levarsi dai piedi le due ragazzine? D'altro canto, all'albina conveniva se voleva parlare con Samantha senza esser sentita dagli altri due vampiri. Non ci penso quindi due volte a scattare sull'attenti. «Certo», disse poggiando la forchetta sul piatto, dando in contemporanea due piccoli calci all'amica vicino a sé ― che sobbalzò, recependo comunque il messaggio. «Ti giuro che questa villa è antichissima e gigante, ancora nemmeno io l'ho visitata tutta!»
«Solamente non dovete aprire la porta sotto le scale.» ecco che il tedesco aveva attirato tutta l'attenzione su di sé. Eppure non se ne curò, mentre posava il piatto sul ripiano della cucina per poi osservare gli altri come se si fosse accorto solo ora di loro. «Nulla di speciale, c'è un muro.»
«Ricevut―...»
«Perché un muro?», domandò Michela alzandosi pure lei.
Tutto tacque per un frangente anche io fastidioso rimuginare dell'umano.
Ed eccolo, il ghigno di Claude, come sempre, prese possesso del suo viso, scacciando quella maschera di cortesia che solitamente indossava in presenza di altre persone ― quasi le era mancato. Si appoggiò al tavolo, squadrando i presenti, come se volesse dire loro «ne siete sicuri? Volete davvero saperlo?». Con tutta sincerità metteva anche un po' di inquietudine con quell'ombra scura in volto, semplice effetto della luce artificiale del lampadario.
«Il pavimento della cantina è crollato, per questo ha fatto murare la porta.» tutti si mossero all'unisono verso colui che aveva parlato. L'umano stava giocherellando con una foglia di lattuga, tutto fuorché interessato alla loro discussione.
«Hai rovinato l'atmosfera.» si lamentò Claude.
«Pff, dai, andiamo. Ti faccio vedere la mia camera.» William prese il braccio della rossa e senza scrupoli la trascinò con sé facendola alzare dalla sedia, oltre il divano e la poltrona, verso le scale che portavano al piano superiore. Samantha pensò che stare con quei tizi era come respirare miasma.
«Tutto be―...»
L'albina alzò un dito, silenzio.
Portò la mano all'orecchio, ci possono sentire.
Non credeva potesse mai vedere William in quello stato: un enorme fascio di nervi tesi.
Avrebbe potuto pensare la capisco, non sarebbe stato vero. Oltretutto il suo cervello stava ancora elaborando la notizia datale qualche giorno prima.
William venne una volta a scuola.
All'uscita la vide rifugiarsi come un gatto scottato ― perché effettivamente era così ― nell'auto di Claude mentre si calava le maniche della maglietta sulle mani; il viso un po' più roseo, le faceva male.
Ricordava che in piena estate la incontrava sempre con il volto appena lucido, non era sudore ― un po' sì.
Doveva per forza usare la protezione solare su quella candida pelle color latte.
Ora non sarebbe bastato più.




Deliri Note dell'autrice:
Salve salve salve! °v°
Da dove iniziare? Uhm. Woah, siamo già al decimo capitolo, sono impressionata da me stessa. °-°
Oggi ringrazio Ida90 che ha messo la storia nelle preferite, I'm commossa, many thx. (?) ;u; Ovviamente nei ringraziamenti ci siete anche voi, lettori silenziosi! uwu
La mia Senpai ritardataria e chiunque abbia la pietà di leggere questa fic. ☆
―L o t t i e.

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Capitolo 12
*** Ouf, non si può stare un attimo tranquilli! ***


Ouf, non si può stare un attimo tranquilli!








«Ma è enorme!» cinguettò Samantha tuffandosi nel letto a baldacchino matrimoniale, una cascata di lava.
«Lo so.» William aveva chiuso la porta e lì era rimasta, con i muscoli delle spalle tesi.
«Vieni qua, almeno in questo letto non si sta strette come in quello di casa tua.» l'aveva esortata l'altra dando pacchette sul piumone vicino a lei, sorridendo, provandoci.
William si lasciò ingannare, sorrise anche lei.
«In effetti... in due è più comodo.» soffiò prima di atterrare di schiena sul morbido materasso, nevicò.
I capelli bianchi volteggiarono in aria, poi ricaddero scomposti, scontrandosi con il fuoco.
«Sei triste?»
«Un poco.» mormorò, quasi Samantha non sentì.
Poi ci fu silenzio.
Un silenzio caloroso, quello che può esserci fra due amici con un intesa perfetta.
«...Anche tu― ...Anche tu», ripeté bisbigliando, «riesci a sentirli da qui?» domandò.
L'albina annuì, abbassando le palpebre.
«Quel Trevor è simpatico almeno?»
«Ci prova, è cretino.» ridacchiò l'altra.
«Ti piace?»
Erano come tornate ai tempi delle medie, quando sottovoce arrossivano per il nome di un ragazzo carino o confessavano le loro cottarelle. Di regola, non poteva mancare la fatidica domanda «ti piace?».
«Nah.»
«Nah?» e le pizzicò carinamente il fianco destro, sorridendo.
William sussultò, «No», bofonchiò.
Forse le sarebbe piaciuto arrossire.
Le mancava sentire le guance accalorarsi. Scacciò via ogni pensiero potesse ricondursi alla sua mancata morte; aveva ancora gli occhi chiusi, ma ciò non le impedì di sentire, vedere Samantha alzarsi e dirigersi verso la finestra. Sentì le pesanti tende spostarsi con un fruscio ed i vetri aprirsi: nonostante fossero già a marzo la sera era ancora pressoché gelida, le congelava i pensieri.
«Ah, Sam, hai visto mia madre di recente?», anche la voce si era ghiacciata, ed era pesante.
Era stanca, psicologicamente distrutta. In quella stanza scura passava quasi tutto il tempo da sola, tra i libri e i sogni. Distrutta dalla pressione scolastica e la paura di perdere l'anno, da Claude che c'era, ancora ― dallo stesso Trevor e Michela, con il suo fare egocentrico. Si fermava a volte e pensava, dov'è finita la donna compassionevole e mi parlò la prima volta? Quindi aveva tratto un sola conclusione, erano tutti uguali. Schiavi del sangue e dell'eterna giovinezza. Anche lei sarebbe diventata così? Oh, questo pensiero la spaventava troppo.
Eppure già sentiva di nuovo quel senso di insoddisfazione solleticarle il palato, la sete appannarle i sensi. E lo odiava, specialmente se ciò voleva dire non accorgersi chi era colui che aggrediva, essere cieca.
Certo, all'inizio era un sollievo, ma dopo, dopo tutto si sfracellava, andava in pezzi. Come se la prendessero a pugni sotto lo sterno con il solo obbiettivo di farla vomitare, sentire le pareti dello stomaco contrarsi dolorosamente per mandare via quell'intruso.
Senza accorgersene, si ritrovò a frenare un singhiozzo a metà gola.
«Will..? Ti vergogni ancora?» la voce di Samantha le apparve come un salvagente in mezzo all'oceano, calda e dolce. Nemmeno lei aveva più, ormai da qualche tempo, il privilegio di vederla piangere apertamente.
«Mh, dovevamo visitare la villa.» sussurrò strofinandosi gli occhi prima di sollevare le palpebre ornate dalle ciglia candide. «Allons-y







* * *









Il ragazzo rabbrividì e si strinse nel piumone, protestando. Un vento freddo si insinuava prepotentemente sotto le coperte e non se ne spiegava il motivo. La sera prima si era premurato di chiudere la portafinestra! Con un enorme sbadiglio, si stropicciò gli occhi per poi agguantare il cellulare sul comodino vicino ― lo schermo lo accecò, praticamente.
E i numeri segnavano le cinque e mezzo del mattino.
Diamine, stava gelando.
A malincuore tirò su i vari strati di lenzuoli e piumone e mise un piede fuori dal letto, arraffando le ciabatte. Come sospettava qualcuno aveva aperto la portafinestra che dava sul balcone.
«William?» biascicò sorpreso con la voce ancora impastata dal sonno e mezzo intontito. Sfregandosi le mani tra loro, guardava i candidi capelli seguire i movimenti della brezza fresca.
La ragazza si voltò con gli occhi appena arrossati e lucidi, chiaro segno che stava piangendo. Nonostante questo gli sorrise.
«Ti ho svegliato?» la sua voce era quasi surreale, lieve, ma perfettamente udibile ― sembrava una bimba stretta nel suo pigiama in pile celeste con i coniglietti.
Lui oscillò lentamente il capo in segno di negazione.
«Non avevo più sonno», mentì, «Tu perché sei qui fuori?»
«È carino vederti dormire e stare appollaiata alla finestra della mia camera è scomodo.»
«Ah, un po' inquietante ma... okay.» cincischiò l'altro non lieto di quella sorta di confessione da parte dell'albina, insomma, lo guardava mentre dormiva?! Scacciò il brivido che minacciava la sua nuca e si concentrò sul cielo. Era ancora scuro all'orizzonte, presentava tanti riccioli di panna per nuvole ed ancora una luna sbiadita che poneva resistenza nello scomparire per lasciare posto al sole. Onestamente poi, Trevor sarebbe pure tornato a letto, ma lasciare William da sola nel balcone gli faceva salire un nodo alla gola. Non sapeva come considerarlo, quella sorta di amore che sentiva crescere ed estendersi come una pianta rampicante all'interno del proprio torace, tra le costole e stretto nel cuore.
«Che ne dici di entrare? Ci prendiamo un thé, quelli li so preparare.» ridacchiò e fu felice di averle strappato un sorriso ― dopodiché annuì.
Rientrarono e lentamente, con tutta l'intenzione di non voler svegliare gli altri due vampiri, scesero le scale: William a piccoli e leggeri saltelli, Trevor trascinando i piedi.
L'albina teneva le mani nascoste sotto le maniche del caldo pigiama mentre prendeva posto in una sedia vicino e l'umano si avvicinava alla credenza per due bustine di thé al gelsomino ― quindi aspettò che l'acqua arrivasse ad ebollizione. Nel frattempo si sedette vicino alla vampira che teneva il viso sulla superficie della tavola, mh.
«Tutto bene? Sembri... floscia.»
«Floscia?» gli fece eco lei aggrottando la fronte, che strano aggettivo. «Sto saltando un sacco di giorni scolastici, e non mi va bene.» sputò in fine.
Ora Trevor avrebbe potuto dirle due cose.
Prima cosa: “Beh, avrai un sacco di tempo per andare a scuola!”
Seconda cosa: “Potresti fare la danza della pioggia.”

Le scacciò entrambe scuotendo il capo.
«Oggi non sembra malaccio il tempo», buttò lì per lì per non fare scena muta.
«Dici?» e parve accendersi nelle iridi celesti una scintilla speranzosa.
«Dico. Ora finisci di bere il thé, ti vesti e rilassi un po' che c'è ancora un sacco tempo alle otto, d'accordo?»
William sorrise, un piccolo sorriso che le faceva arricciare teneramente le labbra rosee, così piccolo che quasi gli balenò in mente il fatto che lei non volesse contarci molto. Aveva paura di sperare, crearsi illusioni? A questo interrogativo non diede mai risposta, in quanto venne distratto dal fischio della teiera.
I due bevvero un ottimo thé caldo al gelsomino.


Come se ci fosse stato un salto temporale, William era già alla seconda ora di lezioni, poggiata con la spalla destra sul muro a prendere gli appunti di storia, mentre Samantha ― completamente disinteressata ― scribacchiava qualcosa sul suo quaderno.
Anche se non sembrava, data da sua espressione quasi accigliata, dentro gioiva come non mai.
«...Quindi la prossima volta interrogazioni a tappeto.» proferì la Mureau, una donnina di circa cinquant'anni alta quanto lei, magra, magrissima con due occhi che sembravano palline da ping-pong tanto erano sporgenti. Aveva i capelli castani scuri raccolti in uno chignon, al quale sfuggivano diversi capelli.
La puntò con lo sguardo ed avvertì un brivido lungo la schiena. «Intesi? Sopratutto lei, signorina Leroy. Non ammetto assenza o sarò costretta a chiamare i suoi genit―...»
L'albina strinse le labbra e tossì di gola, per ricordare alla professoressa, che per quanto riguardava la memoria non era proprio una cima, che la sola persona con cui avrebbe potuto conversare era sua madre. A meno che non volesse parlare con una lastra di marmo, s'intente. La donna, accortasi troppo tardi del suo errore, arricciò le labbra verniciate di rosa confetto con disappunto e si voltò nuovamente verso la lavagna.
«Notevole, signorina Leroy», le fece il verso la rossa imitandone la vocetta stridula e fastidiosa, «l'hai zittita.» ridacchiò Samantha facendo gomitino alla compagna di banco ― la quale rispose con un sorrisetto ed una scrollata di spalle.
«Comunque, che materia abbiamo dopo?»
«Mhh... penso matematica.»

La terza ora trascorse tranquillamente. In verità il professore si era assentato per malattia, ma avevano mandato in classe un supplente: un uomo di all'incirca trentacinque anni portati alla meraviglia, infatti tutte le alunne ci giravano attorno come api col miele ― con domande del tipo “lei è sposato?”, “ha figli?”. Almeno, prima che lui, Christoffe, si accorgesse di lei, ancora seduta al suo banco che scarabocchiava su un blocco da disegno.
Fu Nicole, la tizia con la fissa dei vampiri a parlare. «Lei..? Si chiama William Leroy, le è morto il padre qualche anno fa ed è tipo cinese.» wow, che tatto.
«Zitta Nicky!» la ammonì un'altra.
«...Non era giapponese?» si pose il dubbio un ragazzo.
«Pff, fa lo stesso!»
Poteva vantarsi di avere dei compagni di classe molto gentili e anche di una certa fama nella scuola, a proposito. Alle orecchie le arrivò chiaro e tonto il tipico sbuffo da locomotiva di una Samantha scocciata ― ebbene, anche lei si era avvicinata per conoscere l'avvenente supplente. «Will, il prof. vuole parlarti!»
Ma va?, pensò facendo finta di non aver sentito ogni parola prima. Si alzò dalla sedia per andare verso la cattedra e, nemmeno stesse facendo una sfilata, anche il gruppo dei ragazzi in fondo la osservò ― pendevano dal suono delle proprie ballerine.
Che disagio.
«Sì, prof..?» domandò davanti a lui, con pelle olivastra, un sorriso gentile e i capelli legati in un... codino.
Le parve di aver fatto trapelare una smorfia.
«Posso farti qualche domanda?» le chiese con gentilezza ― No, quello era il tono di chi provava pena per lei, povera ragazza orfana di padre. Le indicò una sedia di fianco a lui.
La osservò.
Lo osservò.
«Riguardo cosa?», algida, già conosceva la risposta.
L'insegnante mandò tutti quanti al loro posto e assegnò loro un compito da svolgere per tenerli buoni mentre lei, arricciando in preda al nervosismo una ciocca di capelli, era seduta al suo fianco.
Si sentiva un oggetto di studio.
«Ah, mh... Sì, anche lui lo er―» e la sua voce venne smorzata dal celestiale suono della campanella che annunciava l'inizio dell'intervallo. Con molto sollievo di alzò e salutò il supplente. Quindi rivolse lo sguardo alle ventuno teste che si dirigevano fuori dalla classe cercando quella rossiccia dell'amica.
Non la trovò.

Lei lo sapeva! Ah!
Aveva visto lo sguardo di quella Nicole su lei e William per tutte e tre le ore, ed ora, eccola là che poneva resistenza alla presa di quella pazza.
Era una comunissima scolara anonima, i capelli castano chiaro, mossi, le arrivavano a metà schiena finendo con orribile shatush rosso-arancione e portava la frangetta. Quella frangetta che le copriva gli enormi occhiali a forma circolare neri. A loro volta, le lenti di quest'ultimi nascondevano gli occhi color cioccolato fondente. Un difetto aveva, o mania, oltre ad essere un'irrimediabile saccente: i vampiri.
Escludendo la sua fidata scagnozza Melanie , quasi tutti la guardavano strano ― che perfino William e lei stessa avevano provato un po' di pena, sapendo cosa di provava.
«Walsh, voglio solo parlarti! Che cavolo!», sbottò lei trascinandola in fondo al corridoio ghermito da alunni.
«Io no! Gardienne, mollami se non vuoi che ti spacchi la faccia!», ruggì la rossa, diretta come sempre ed un pizzico violenta.
«Troglodita, pff. Sai solo risolvere le cose con le mani, tu, vero?» sotto lo sguardo verde ed ostile dell'altra, le lasciò il braccio lanciando qualche occhiata alla porta della loro classe ― l'albina era uscita ed aveva preso la direzione opposta alla loro, perfetto. Samantha congiunse le braccia battendo il piede ritmicamente contro il pavimento. Aspettava che lei aprisse bocca, evidentemente.
«Leroy», biascicò all'inizio come se fosse qualcosa di proibito, «Tu che le stai sempre accanto, non hai notato nulla di strano?»
«Strano, in che senso?», aggrottò la fronte creando fra le sopracciglia rossicce una rughetta.
Pensava che avrebbe tirato fuori uno dei suoi strani racconti, anzi, sperava proprio di no. Non avrebbe retto, sopratutto se la sua amica non sapeva nemmeno dove si trovasse ― così equivaleva a spettegolarla, no? Nicole allargò lo sguardo come spaesata. Forse aveva capito che confessare qualcosa del genere a Samantha non era proprio un'idea tanto brillante.
«Tutto d'un tratto avete cambiato banco e lei fa un sacco di assenze, sapevi che era stata dichiarata scomparsa? Forse addirittura morta!»
Cavolo, sapeva dove voleva andare a parare.
«E quindi?», finse nonchalance, sciogliendo il nodo delle braccia per portare una ciocca di capelli dietro l'orecchio.
«E quindi sei cieca Samantha Walsh?», le puntò il dito indice al viso ― sentiva le lentiggini fremerle, sul punto di fuggire. L'aveva chiamata per nom et prénom insieme. Il corridoio del loro piano, il secondo, ormai era deserto, in più, il sole stava venendo meno a causa di una grossa nuvola bianca.
«Nicole, non puntarmi il dito, sai. Tu e le tue strane fantasie, state lontano da me e William.» detto questo si voltò frustando con i capelli l'aria.
Si sentiva alquanto vittoriosa.

«Si può sapere dov'eri finita? Ti ho cercato anche al piano di sotto!»
«Ma non nell'altro lato del corridoio», sospirò pesantemente, «Nicole mi ha trascinato via al suono della campana.»
Il viso di William mutò notevolmente espressione appena udì il nome della compagna di classe e si fece più seria. «E che ti ha detto?», ora aveva anche un'aria accusatrice e le sopracciglia arcuate come la schiena di un felino.
«Posso dirtelo dopo? Non ho nemmeno fatto merenda.» si lamentò la rossa scartando il solito panino dalla carta stagnola, le rimanevano solo cinque minuti per finirlo.
William sbuffò.




Deliri Note dell'autrice:
Dolcetto o scherzetto, cari lettori? u v u
Okay, lasciamo perdere. (?) Questo capitolo è davvero lungo, ma è servito anche come introduzione per Nicole, abbiate paura. :]
E niente, come sempre un grazie enorme a chi mi segue e anche recensisce, bye! ; A ;)/ ☆
―L o t t i e.

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Capitolo 13
*** Déjà vu. ***


Déjà vu.








Correre, correre, correre.
Non faceva altro da quella che pareva un'eternità verso l'enorme cancello nero. Poteva avvertire il suo fiato sul collo, la sua risata. Si voltava ma non c'era, non vi era nessuno lì.
Improvvisamente, però, eccolo il truce dolore al petto ― ah, l'aria.
Le mancava l'aria, non voleva dormire, non voglio morire.
Questo il pensiero fisso che aveva in testa, le iridi cremisi che la scrutavano fin nell'anima con perversa eccitazione. Provò ad urlare, ma solo aria senza tono usciva dall sua gola... fin quando tutto si faceva nero ed il macabro paesaggio le crollava addosso, asfissiandola.


William spalancò gli occhi, battendo velocemente le palpebre aspirando grosse boccate d'aria. Era lì, nel letto, con la fronte, la nuca ― madida di sudore. Sulla colonna vertebrale avvertiva la maglia del pigiama aderire in più punti alla pelle.
Un incubo.
Uno dei tanti.
Non le succedeva da un po'. Ancora il suo petto si abbassava ed alzava ad un ritmo indefinito, frettoloso, mentre aveva trattenuto un urlo in fondo alla gola. Non avrebbe chiuso occhi per il resto della notte, lo sapeva ― oh, quanto avrebbe dato per incontrare lo Yumekui1. Si passò velocemente una mano sulla fronte, spostando i filamenti bianchi appiccicati a questa.
Sentiva, nonostante il grosso spavento, ancora il sonno stuzzicarle la mente ― eppure.
Traballante si alzò dal letto: si sarebbe fatta un bagno caldo per calmarsi.
Quando passò vicino allo specchio, la sua pelle sembrava sfoglia, pronta a sbriciolarsi in un attimo e trasparente. Sembrava uno spettro e se avesse incontrato qualcuno per il corridoio gli avrebbe fatto provare l'esperienza di un mancato infarto. Era già passato un po' di tempo da quando aveva toccato del sangue, presto o tardi la sua mente avrebbe di nuovo vacillato piegandosi alla fame ― stavolta potrebbe essere Samantha, pensò con una nota di sconforto.
Si accigliò e mise il pigiama nella cesta dei panni sporchi, se con due vampiri adulti non si riusciva a risolvere quel problema, doveva fare qualcosa lei. Prendere il toro per le corna.
Quando la vasca si fu riempita, la schiuma arrivata all'orlo e l'odore di lavanda aleggiava in tutta la stanza ― si immerse, beandosi del calore tiepido dell'acqua.







* * *









Alle sette del mattino era già vestita e pettinata, pronta per una giornata scolastica in segno dell'interrogazione di storia.
Aveva i due capitoli stampati in mente grazie al pomeriggio prima, quando si era fermata insieme a Samantha in biblioteca. Onestamente pensava che sarebbe finita parlando e schezando, lasciando i libri da parte.
Fantastico.
Emise uno sbuffo e subito dopo sobbalzò ― Claude era a fianco la porta ed aveva dato sue colpetti sul legno, bussando. Maledizione, non bastava averlo in sogno, pure di presenza nella prima mattinata.
«Perché devi comparire sempre come un fantasma?», si lagnò lanciandogli un'occhiataccia.
«Sempre..?», scettico e con un piccolo sorriso ad increspargli le labbra, avanzò ― odiava quando la vampira partiva già sulla difensiva ed assumeva quell'aria irritata.
O spaventata?
William, seppur già fosse ad una bella distanza da lui, arretrò ancora, avvicinandosi di spalle alla finestra. Rilassò i muscoli, fissandolo dritto negli occhi, aveva deciso. Visionò tutte le scelte che le erano rimaste ― il bagno, nonostante fosse finita sottacqua una volta addormentandosi, l'aveva aiutata a sistemare i pensieri.
«Sempre.» rimbeccò. Lo vide schiudere le labbra, forse per ribattere o dire una delle sue fantastiche cavolate. Fatto sta che se l'avesse interrotta, il suo discorso sarebbe andato perso. «Claude Von Richter», catturò l'attenzione del tedesco, «sono consapevole del», deglutì, «bisogno che hanno i vampiri del sangue.»
Lo vide annuire e farsi più vicino, a braccia conserte.
«Continua», la esortò con voce profonda, un sopracciglio scuro arcuato.
«Michela mi ha detto dove andate ogni sera», mormorò, osservando le labbra dell'altro dare forma ad una piccola smorfia. Le piaceva coglierlo di sorpresa, fargli capire che quella umana con cui aveva avuto a che fare nei mesi prima si era evoluta, che se voleva qualcosa la otteneva.
La maschera d'eleganza del vampiro venne giù tutto d'un tratto. «William, tieni in mente quanto duri la mia pazienza», le intimò con una tale dolcezza da farla rabbrividire.
Annuì velocemente, stringendo le labbra: dritta al punto.
«Voglio essere una vampira a tutti gli effetti», non pensava sarebbe stato così. Avvertiva la tensione scorrerle nelle vene. «Insegnami
Il tedesco ghignò, musica per le sue orecchie. Se lo sentiva nelle ossa che quel giorno sarebbe stato memorabile.
E pensò ad Alexandre, che probabilmente stava rivoltandosi nella tomba ― la sua figliola voleva diventare come quei mostri che uccideva. Ah-ah, quanto se la rideva! Chi era lui, Claude, per negare questo desiderio all'albina? Chi?! Se non un vampiro logorato dal dolore, dalla follia e dalla voglia matta di vendicarsi?
Le avrebbe insegnato tutto ciò che sapeva, l'avrebbe modellata a sua somiglianza, strappata dalla sua inutile vita mortale.
«Volentieri, prinzessin.»
Si sarebbe tolto dai piedi quella petulante Michela.
La risata si fece strada da sola nella sua gola, all'inizio un roco trattenersi, dopo esplose fragorosa nella stanza.
Non poteva dire di essersi pentita, William.
Conosceva Claude, sfortunatamente.
Quella risata le trapanava i timpani ― non capiva il motivo di tale reazione. Si strinse nelle spalle, le sette e venticinque minuti.
«...Io dovrei incamminarmi per andare a scuola», mormorò e tutto tornò silenzio.
«Certamente.» gettò un occhiata al pavimento ― pian piano le avrebbe fatto lasciare anche quegli inutili studi. «Ma prima...», lo sguardo che le rivolse fu eloquente, non aveva bisogno di spiegazioni.
Si era di nuovo gettata a capofitto in un qualcosa che non avrebbe saputo gestire, così viscido ed appiccicoso da non farla più muovere.
Non muoverti o farà più male, si disse, stretta da quella braccia foderate dal cotone nero dellla maglietta.
«Lascia fare a me.»
Trattenne il respiro, tenne ferme le gambe che tremavano inesorabilmente ancorate al pavimento, strinse la stoffa morbida della maglietta ― e attese.
Attese un dolore che non arrivò mai, attese un morso e ricevette un piccolo bacio a fior di pelle sul collo. Troppo impegnata a concentrare la sua attenzione su altro, ingenua, non si accorse dell'ago.
Sentì le forze venirle meno ed un isopportabile stanchezza appesantirle le palpebre, Morfeo stuzzicarla prepotentemente. La testa girare vorticosamente e non capiva cosa, perché stesse succedendo.
«Ohi, ohi.» la risatina di Claude le arrivò lontana alle orecchie mentre le gambe le cedevano, intorpidite, ed era costretta a stringersi a lui per non cadere.
Quel bastardo. Socchiuse le palpebre in preda ad uno sconcertante déjà vu.

«William... William...»
Gradualmente, la voce risuonava più nitida e fastidiosa, quindi increspò la fronte, voltandosi ― battendo il viso contro qualcosa di morbido.
«Fra qualche minuto suona la campanella, vuoi andarci sì o no a questa benedetta scuola?», sbottò.
«Qualche minuto?», biascicò spalancando gli occhi: il sedile in pelle della BMW. Si mise velocemente a sedere portandosi una mano alle fronte. «Cosa schifo mi hai fatto?», sputò con l'amaro in bocca ed uno sconcertante aroma ferroso sul palato.
Il più grande osservava pazientemente il proprio orologio da polso con un mesto sorriso, ad un tratto alzò lo sguardo smeraldino e attraverso lo specchietto retrovisore lo puntò su quello di William.
«O scendi o perdi la giornata», le disse smagliante indicando lo sportello.
«Ti odio», sbuffò l'albina afferrando la borsa con i libri e scendendo.
L'altro si limitò ad intonare una canzoncina, allontanandosi con l'auto.
Fece fatica a stare in piedi ai primi passi. I suoi ricordi si fermavano all'abbraccio con Claude, poi si interrompevano bruscamente.
Accelerò il passo imitando gli altri studenti. Samantha sarà già entrata, pensò stringendosi nelle spalle. Non riusciva a capire, capire cosa diamine le aveva fatto quel mancato Dottor Frankenstein.
Eppure in parte aveva già trovato la soluzione.

«Pssst, Leroy!» l'albina trasalì appena Nicole la chiamò.
«Non girarti», le intimò Samantha accanto a lei.
«Non lo farò», sibilò lei in risposta gettandosi una furtiva occhiata alle spalle.
Per tutta la mattina aveva avuto l'amaro in bocca e la paura di poter vomitare da un momento all'altro ― in classe poi, non voleva nemmeno immaginarselo. Invece, contrariamente ai suoi pensieri, tutto filò liscio.
La Mureau intanto appuntava i compiti alla lavagna, alzandosi ogni tanto sulle punte delle scarpe, facendo un percorso continuo da destra a sinistra.
La classe tutto sommato era tranquilla e l'albina si stupì quando la professoressa le rivolse solo un paio di domande ― alle quali seppe rispondere immediatamente.
«William!», ancora, la voce di Nicole le arrivò forte e chiara alle orecchie insieme ad una pallina di carta ― no, un bigliettino. Che Samantha prese prontamente.
«Dice di girarti.»
«Io dico di continuare ad ignorarla.»
Quindi poggiò il viso sul palmo della mano, soffiando via un ciuffo di capelli bianchi, mentre con l'altra scriveva i compiti. Sentiva ancora le palpebre pesanti, o meglio, come se le avessero incastonato due macigni nelle orbite ― ed ogni tanto un capogiro non tardava a coglierla di sorpresa. Pensò anche di esser stata drogata, in qualche modo.







* * *









Il corvino osservava trionfante la boccetta vuota a metà ― il liquido al suo interno aveva funzionato egregiamente sull'albina. Finalmente avrebbe fatto a modo suo.
Ridacchiò tra sé e sé, poi conservò la boccetta nella tasca della giacca, era ora di eliminare un particolare superfluo. Oscillò il capo a destra e sinistra facendo scrocchiare le ossa del collo, poi iniziò a salire le scale.







* * *









Al cambio dell'ora Nicole si avvicinò prontamente al loro banco, dopo ciò che le aveva detto Samantha, di quella lì si fidava ancora meno di prima. Di seguito anche Melanie si avvicinò, con i suoi capelli neri a caschetto e due treccioline più lunghe davanti ― lo sapevano tutti che portava le lentine colorate per avere gli occhi blu.
«William.»
«Nicole.»
Si guardarono intensamente negli occhi, poi la castana sorrise, alzando un angolo delle labbra, improvvisamente le prese un braccio ― braccio? Sgranò gli occhi, tirandolo subito via, portandoselo al petto.
«Che cavolo fai?», sbottò la rossa alzandosi e spingendola via mentre Melanie, povera ragazza, aggrottava la fronte non capendo un accidente.
«Temae2», ringhiò, che se l'avesse sentita sua madre le avrebbe dato un ceffone. Si alzò anche lei tirando Nicole con sé fuori dall'aula. Samantha la guardò incredula, non avendola mai vista così furiosa, tenne Melanie per mano trattenendola da seguire le due.
«Hey!»
«Ti assicuro che è meglio non intromettersi», le intimò.

«N-non lo dirò a nessuno, giuro!» deglutì pesantemente Nicole addossata alla parete verde pallida del corridoio ― cavolo. Mentre le lacrime inondavano gli occhi non riusciva a distogliere lo sguardo da quello striato rosso della compagna di classe.
«Ti sembra che mi importi?», sbottò l'albina senza allentare la presa al colletto della camicetta beige della castana ― tsk, avrebbe dovuto fare più attenzione. Accidenti! Non aveva battito cardiaco, giustamente e Nicole l'aveva sentito ― anzi. E non avrebbe nemmeno voluto alzare tutto quel polverone, ma doveva. Doveva spaventarla per bene nonostante fosse a scuola, nel corridoio, dove anche gli insegnanti avrebbero potuto vederla. Non doveva far parlare Nicole.
«Volevo solo sapere se eri davvero un―... nhg», mugolò appena la vampira se l'avvicinò al viso.
«Will, c'è il professore di francese», le intimò Samantha poggiandole una mano sulla spalla ― da dove era sbucata? Trasalì e lasciò andare la stoffa. Nicole singhiozzò una volta poi corse dentro la classe, ma non per questo non le risparmiò un ulteriore occhiataccia. Sospirò.
«Sam», si portò una mano al viso, abbassando le palpebre.
«Stai bene? Non hai esagerato?» e dovette ammetterlo a se stessa Samantha, William anche se per un attimo, le fece paura.
«Forse. ...Mi scoppia la testa», mugugnò sospirando nuovamente. «Chiedo se possiamo stare un attimo fuori, okay? 'Sta qua.»
La rossa le diede una pacchetta spalla, poi varcò la porta della classe, immediatamente adocchio Nicole che ancora si soffiava il naso. Ben le sta, abbozzò un sorriso.
«Walsh, perché fuori dalla classe?», le domandò il professore mentre sfogliava il registro per chiamare l'appello.
«Leroy non si sente molto bene, le volevo chiedere se posso stare qualche minuto insieme a lei.»
«Cinque minuti, poi devo iniziare la lezione.»
La rossa annuì, poi si voltò per uscire di nuovo.




Deliri Note dell'autrice:
[...] Yumekui1[...]: il magiatore di sogni; per capire meglio vi consiglio di ascoltare la canzone Yumekui Shirokuro Baku di Len Kagamine, per chi non la conosce. ☆
[...] «Temae2» [...]: sicuramente più conosciuto come “temee” (手前) è tradotto nei vari anime e manga come “bastardo!!11xdxd”, ma è solo un modo maleducato per dare del “tu” a qualcuno ― proprio per questo se la madre la sentisse le laverebbe lavato la bocca con il sapone. ☆

È STATO UN PARTO PUBBLICARE DAL CELLULARE. Non lo auguro nemmeno al mio peggior nemico. (?) ò___ò" E se vi chiedete perché mi sono inoltrata in questa opera suicida, è morto il pc. *sob* Quindi se ci sono più errori del normale colpa della tastiera. =___="
Bien, ora passiamo ai ringraziamenti! Ringrazio Damon94 e _ALEH_ per aver messo la storia nelle preferite. *manda glitter* ☆ ;____; E come sempre i lettori silenziosi + chiunque lasci una recensione per farmi sapere cosa ne pensa. ☆☆☆
―L o t t i e.

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Capitolo 14
*** Viaggi in corso. ***


Viaggi in corso.








«[...]Cancellate il mio sesso, stivatemi di crudeltà dalla corona ai piedi!
Ispessite il mio sangue, sbarrate ogni accesso al rimorso:
che nessuna ipocrita istanza di umanità scuota il mio disegno mortale o ne distorni l'effetto! [...]
Densa notte, vieni e ammantati del più buio fumo dell'inferno,
poiché il mio aguzzo coltello non veda le ferite che infligge,
né il cielo possa sbirciare oltre la coltre di tenebra [...]»
Macbeth, William Shakespeare.










Oslo, Norvegia.

«Victoria!» il ragazzo, molto più alto di lei, corse dietro aggiustandosi alla bell'e meglio la camicia con una mano, tenendo la cravatta blu notte nell'altra. Che casino, che casino! Sbuffava esasperato aumentando il passo ― oh, al diavolo le regole! Prese a correre, l'eco dei suoi passi si espanse per tutto l'immenso corridoio, accompagnati da quelli della sorella.
«Stammi lontano!», urlò la bionda con il fiato corto arrivando ad una porta in legno, bianca. Poggiò la mano sulla maniglia e bruscamente aprì.
L'uomo al pianoforte stonò, irrigidendo le spalle già di sé dritte, alzando lo sguardo ambrato verso la porta, mentre la donna dai capelli brizzolati raccolti in uno chignon come se non fosse accaduto nulla continuò a leggere un libro. Subito dopo, alla porta comparì anche il ragazzo con un aria pressoché sconvolta ed il fiatone.
«P-padre, non la ascoltare!»
Quindi la donna chiuse il volume di scatto, scagliando frecce color turchese verso i due.
«Elijah, Victoria; un poco di decenza, vi pare il modo di entrare ed interrompere vostro padre?», disse lei, algida, alzandosi dal divano.
«Vostro figlio ha una relazione con un uomo!», squittì Victoria, come a giustificarsi del gesto tanto sconsiderato ― il ragazzo impallidì, deglutendo rumorosamente, altra stonatura da parte dello strumento musicale. Il tempo parve arrestarsi in quell'istante, mentre in modo flemmatico l'uomo dai folti capelli e baffi si alzava e camminava verso il figlio, senza scomporsi.
Elijah sentiva la gola secca ed un innaturale odio verso la sorella crescergli dentro; era successo tutto talmente così in fretta che i pensieri dentro la sua mente si erano come volatilizzati. Immaginava già che reazione avrebbero avuto quei due, i suoi genitori. Se solo quell'idiota della sorella imparasse a bussare prima di entrare nelle camere altrui, lui avrebbe potuto portare avanti la sua reputazione da figlio ed erede modello. La madre si era congelata vicino al divanetto, livida, quasi stesse per svenire da un momento all'altro, suo padre gli era di fronte ― il Re di Norvegia. Poi un forte schiaffo gli fece girare il viso, il dolore sordo che si estendeva dalla mandibola a tutto il cranio, l'orecchio gli fischiava; ma non un fiato uscì dalle sue labbra.
«...È vero?»
«Ha rilevanza?», ribatté, le labbra tese come la corda di un violino, gli occhi blu ghiacciati.
Non ne aveva, ma quella sfacciataggine gli costò molto: la diseredazione. Era una famiglia rigida la sua, ottusa e lui troppo se stesso per poter stare alle regole della normalità ― normalità? Non è normale amare qualcuno senza badare a ciò che ha in mezzo alle gambe?

Il freddo vento invernale norvegese gli pizzicava le gote arrossate e leniva il bruciore al viso del giorno prima, sentiva che si sarebbe preso un malanno in quel modo, ma non importava più di tanto a lui ― Synnøve, la sua tutrice aveva insistito per seguirlo, accompagnarlo almeno all'aeroporto; una donna di tutto rispetto che l'aveva visto crescere, l'unica evidentemente che lo amava davvero. Ogni tanto lei tirava fuori dalla tasca del cappotto un fazzoletto soffiandosi il naso, scusandosi del “raffreddore”. Che cara.
«Non piangere, dai», mormorò lui caricando le valigie sull'auto.
«La Francia è così lontana!» singhiozzò lei aggiustandogli ancora una volta il colletto della camicia, mettendogli poi al collo una sciarpa bianca.
«E tu così tragica, Sy. So la lingua, ho con me del denaro per sistemarmi, troverò un lavoro», le sorrise.







* * *









Di solito, si sta così da uno psichiatra ― William pensava, sdraiata sul divano con le mani giunte sull'addome e le palpebre abbassate che, nonostante le ciglia immacolate, facevano ombra sulle gote esangui. Ogni suono ed il canticchio di Claude in cucina quasi rilassante.
Era mattino e Trevor uscito con un paio di suoi amici; avrebbe scommesso qualunque cosa che fossero Jean-Pierre e Allen, ma pazienza. La vampira albina non riusciva ad aprire occhio e certo non si aspettava che il tedesco sapesse cucinare, cosa, poi non l'aveva capito bene. Dall'odore le parve cioccolata calda, ma con una punta acre ― insomma, il sonno le stordiva anche i sensi in quelle mattina di domenica.
In tre giorni tutto aveva preso una piega diversa, equilibrata ― strana. Da quando restava in casa, sola, con un Claude allegro che canticchiava in cucina? Doveva trattarsi di un sogno, no, un incubo. Sola, poi, vi chiederete perché ― dov'era Michela? Già bella domanda. La vampira mora non si faceva vedere da qualche giorno, ma il tedesco era tranquillo, non proprio una buona cosa in certi casi e Trevor anche; che fosse tornata in Italia senza dire nulla a nessuno? Se lo domandava ogni tanto, William, ma comunque era la cosa più plausibile dato che anche tutto ciò che le apparteneva era sparito. Nonostante questo, poi tutto tornava in un angolino delle sue mente, ignara di cosa fosse successo realmente.

Claude salì velocemente le scale percorrendo il corridoio del primo piano fino alla penultima porta ― occasionalmente si soffermava sulla grandezza di quella mostruosa ed imponente villa. Con nonchalance aprì la porta senza bussare né ovviamente avvertire la donna che vi era all'interno; ce n'era davvero bisogno? Michela, come ogni altro vampiro, dormiva come una roccia se non la si disturbava ― lui coglieva solo la palla al balzo e ne approfittava per sbrigare le sue faccende. Oh, nulla di che ― eliminare il superfluo.
Di solito quel compito spettava ai Cacciatori, ma se doveva estirpare un'erbaccia di nome Michela De Vita, allora quello spettava a lui. La stanza era completamente immersa nell'oscurità, ed in essa, le iridi cremisi sembravano illuminate da una luce propria.
Si avvicino con passo felpato al letto sulla quale giaceva Michela su un fianco: i capelli color mogano erano sparpagliati sul cuscino ed appariva così...
«Per quanto ancora vuoi fissarmi, eh, Ritcher?»
«Ah. Sei sveglia?»
«Hai la grazia di un elefante quando ti muovi, stai facendo il digiuno?», la donna sollevò le palpebre, poi, rigirandosi tra le coperte, si mise i modo da poter osservare il corvino. «Cosa vuoi? È presto.»
«In verità, mandarti via», sorrise l'altro con fare innocente sedendosi sul materasso.
«...in pratica staccarmi la testa, sì, capisco.»
«Oh, suvvia, non fare quella faccia! Vorrai mica prendertela a male? Mi è successo qualcosa di davvero bello, non rovinare il momento con la tua... presenza―», così come si tirava il collo ad un pennuto, Claude in un gesto secco protese la mano sulla gola della donna, la quale, presa alla sprovvista sobbalzò con un verso strozzato afferrando il braccio del vampiro, stringendolo. Socchiuse le palpebre, Michela, assottigliando lo sguardo color cioccolato; rifletté, tra sé e sé che quella certo non era la forza del Claude che aveva conosciuto anni or sono, sicché riuscì a sollevarsi assestando poi un calcio allo sterno del tedesco.
«Che fai, giochi?», gracchiò Michela.
«Per niente!», ridacchiò l'altro, un occhio socchiuso. «L'ho detto, sei di troppo, perché non sparisci?»
«Stai parlando con me o William?!» urlò la vampira avventandosi su lui allo stesso modo, stringendogli la gola con forza, digrignando i denti. «Non mi sarei mai aspettata da uno come te questi sentimentalismi, eri davvero così affezionato alla tua Creatrice da vendicarti sulla figlia di quel Cacciatore?»
Claude soffocò un gemito costretto dalla presa ferrea, mantenendo a stento la curva derisoria che gli ornava il viso ― inspirò. Non si aspettava nulla di diverso, per questo voleva sfruttare il sonno dell'altra per ucciderla , poiché la differenza di forza, per quanto gli costasse ammetterlo, tra lui e l'italiana era troppa.
D'altronde perché continuare ad allenarsi e sfidare con ammirevole sfrontatezza gli altri vampiri? Non aveva senso, tutto ciò, ai suoi occhi dopo la morte della sua amata; in quei anni, l'unica cosa che era cresciuta, alimentata dall'odio, era la sete di vendetta verso quel dannato albino.
E albina era pure sua figlia, ironia della sorte.
Alexandre era stato davvero furbo a darle un nome il quale ne confondesse l'identità: William.
William, così fragile nel suo candore esterno e tanto sfrontata da gettarsi nella gabbia del mostro per adorarne le fauci.
No, Henrike non era solo la sua Creatrice, ma la sua amante, sorella e madre ― era ciò di più caro avesse al mondo e non avrebbe permesso che invece la strirpe di quel Cacciatore avesse continuato a vivere.
«Sei patetico Ritcher, mi fai pena», sibilò lei avvicinando il viso al suo e... sì, ah, tutto era sensualmente esilarante. «Mi sono stancata: a me una ragazzina non interessa. Lascerò Parigi, ma non dimenticarti» ed in questa piccola, quanto significativa, pausa strinse ancora il collo del tedesco facendolo annaspare come un pesce fuori d'acqua «che lei è figlia di un Cacciatore ce l'ha nel sangue, è pericolosa.»



«Spero vivamente che ti piaccia, Will» disse il corvino portando con sé due tazze fumanti nel soggiorno. «Mh?» sorrise poi quando vide la piccola vampira aggrovigliata in quei filamenti argentei come in un bozzolo ― che magnifica farfalla ne sarebbe uscita. Si era addormentata; e lui che aveva messo tanto impegno nel preparare quel sanguinaccio1 speciale. Poggiò le tazze sul tavolo, vicino alla scacchiera e la guardò intensamente con i suoi occhi verdi. E si chiese cosa passasse per la graziosa testolina albina e quali brutti sogni infestassero il suo sonno; lo lusingava immaginare che fosse lui uno dei suoi incubi.
Accavallando le gambe, portò le mani sul grembo, come quando doveva posare per un qualche ritratto o semplicemente ascoltare qualche consigliere. Abbassò le palpebre. Se Henrike... se non si fosse presentata dinanzi a lui, con quella genuina felicità di fanciulla, se non l'avesse trasformato... chissà come sarebbe finita la sua vita. Forse avvelenato da qualcuno il quale gli portava rancore.
«William, dai, svegliati.»
Si alzò dalla poltrona andandole più vicino, magari per scuoterla. La chiamò un'altra volta e sospirando le scostò con una mano i capelli dal viso trovandoli umidi; si accigliò quindi, perplesso. Ah, non si era accorto che stesse piangendo ― quella ragazzina stava diventando una vera piagnucolona.
«Allora oggi tua madre parte?», domandò ad alta voce con tutto l'intento di farla sussultare, poi si mise seduto, mentre la vampira spalancava gli occhi; ghignò. «Dormivi?»
«...Solo appisolata», borbottò lei fissandolo con astio. «Cosa hai preparato?»
«Cioccolata calda. Ieri stavi dicendomi che Yoshiko andrà in Giappone.»
«È il compleanno di mia nonna, domani. ...Dove ho lasciato l'elastico? Senti, non è che c'hai messo qualcosa di strano dentro?»
«Perché?», domandò l'altro sorridendo e porgendole la tazza.
William alzò le spalle. «Ti conosco, sai.»
«Uh, capisco. Trevor mi ha chiamato, prima: chiede se puoi fargli trovare pronto il pranzo.»
«Non mangiava con i suoi amici?», mugugnò soffiando sulla sulla bevanda per berne un sorso. E quanto lo ― e si maledisse per essersi fidata, ancora. Dieu, quella cioccolata era una schifezza. Trattenne un conato e mandò giù senza risparmiarsi una smorfia.
«Dice che la tua cucina è insostituibile. Buona?»
«Diciamo che ho bevuto di meglio, fai pena a cucinare.»
«Oh, beh...» fece spallucce.
In tutto questo, il tedesco le sembrò troppo gentile, anche per i suoi standard; si chiese se non fosse diventata paranoica. Intanto il vampiro più grande aveva accavallato le gambe e stava bevendo anche lui ― la sua mente, a quella vista, le fece fare un passo indietro, permettendole di riflettere sul fatto che Claude sviava ogni pasto o bevanda; quindi perché proprio ora stava gustandosi della cioccolata?
Con gli occhi celesti inchiodato sulle labbra piene e rosee dell'altro, intravide i canini, quindi un pensiero folle si trascinò in lei facendole poggiare la tazza sul tavolino ed alzare ― la bocca piena.
«Siediti e manda giù», le ordinò asciutto, con tono neutro. «Verdammt2, il tuo palato non si è ancora abituato che riconosce già il sapore del sangue?» borbottò passandosi una mano fra i capelli neri con disapprovazione.
William deglutì, più che altro si costrinse ― il tutto coronato da un'espressione schifata. «Sei subdolo.»




«Trev, devo chiederti un favore abissale», mormorò William accostandosi all'orecchio del ragazzo che frattempo si premurava di spazzolare la pasta nel piatto ― di tutta risposta, all'inizio, le arrivò un mugolio soffocato.
Rabbrividì a quel fiato gelido ed era più che plausibile.
Era più che plausibile che in cambio di un pranzo la vampira gli chiedesse un favore dandogli così qualcosa da fare, sperava, nel pomeriggio in quanto i suoi amici erano impegnati con le rispettive ragazze. E, per farla breve, si sentiva il terzo... uhm, quinto incomodo.
«Dimmi tutto. Mentre mi faccio un panino.»
«No, no! Ora resti seduto e mi ascolti. Anzi, dovresti metterti a dieta.»
«...dieta?»
«Certo! Ma intanto, dimmi, ce l'hai la patente?»
«No» e si accigliò vedendo l'espressione dell'albina incresparsi come carta stracciata. «Era importante?»
«Cruciale! Come fai, alla tua età, a non avere la patente?» esclamò lei sedendosi di peso su una sedia, la testa sulla superficie della tavola. Sbuffò sonoramente, iniziando a tamburellare con le unghie sul legno. Trevor dovette per forza accorgersi del nervosismo latente di William per aggrottare la fronte ed aggiustarsi gli occhiali sul naso.
Crucciandosi, giunse alla conclusione che un povero essere umano non era sempre utile in ogni situazione, anche se si trattava di una neo-vampira, specialmente se era William Leroy.
«'Well!» e si tirò indietro con la sedia, producendo un rumore stridulo, alquanto fastidioso. «Vado a fumarmi una sigaretta», si alzò, stiracchiò e contò fino a dieci. Puntuale come un orologio svizzero William lo prese per un braccio trattenendolo. «Hey!», protesto abbozzando un sorriso.
«Guarda che poi puzzi.»
«Verissimo», s'intromise Claude comparso chissà quando, poggiato al muro che li osservava sogghignando. «Tra qualche ora accompagneremo la madre di Will all'aeroporto.»
Trevor scoccò un occhiata perplessa all'albina dietro di sé, poi guardò Claude.




Deliri Note dell'autrice:
[...] Sanguinaccio1[...]: Dalla Wiki; Il sanguinaccio è una crema dolce a base di cioccolato fondente amaro e aromatizzato con sangue fresco di maiale, il che gli fornisce un caratteristico retrogusto acidulo. Okay, sì, Claude ha modificato la ricetta con del sangue umano, se non si era capito. :]
[...] «Verdammt2» [...]: “Accidenti” in tedesco.

E CHI NON MUORE....
Salve a tutti cari lettori e lettrici, Gcchan torna vittoriosa con un nuovo computer e pronta a riprendere questa long-fic!
Ci tenevo un sacco a pubblicare questo capitolo poiché si introduce un altro personaggio molto importante: Elijah. Capirete in seguito perché. ~
Ovviamente, e ci tengo a dirlo, quell'accenno di omofobia trattata all'inizio capitolo resterà lì 5ever ― non sopportavo nemmeno di scriverlo, ma era cruciale per lo svolgimento della storia. è__è
L'uscita di Michela credo che non piacerà a qualcuno. ((Ogni riferimento a te, Senpy, non è casuale.))
Distribuirò le medaglie di Obama a chiunque sia arrivato fin qui! (?) Ed ora mi fermo, altrimenti queste note diventeranno più lunghe del capitolo stesso. ☆☆☆
― L o t t i e.

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Capitolo 15
*** Se non apri, non lo saprai mai. ***


Se non apri, non lo saprai mai.








Era venuto a soffiare un forte vento, quel pomeriggio e la preoccupazione che regnava sovrana sul viso dell'albina non era certo invisibile ― Trevor, seduto accanto a lei in auto, almeno provava a consolarla; Claude guidava, maledettamente silenzioso ed inquietante nei suoi sorrisi di circostanza che riusciva a somigliare vagamente ad un uccellaccio del malaugurio, verso la graziosa abitazione color cielo per accompagnare Yoshiko all'aeroporto.
La donna, fatta accomodare sul lato del passeggero mentre la valigia nel portabagagli, ringraziò il tedesco per il passaggio, anche perché «non avrei avuto a chi lasciare la mia auto». Scambiati i convenevoli, quali bacio sulla guancia e breve racconto delle magnifiche giornate che passavano in villa, anche Trevor venne presentato come un amico dei due, colui che dava quelle sorta di ripetizioni alla vampira.
Le capacità di interagire con qualcuno quale si aveva un legame affettivo nell'albina si erano notevolmente atrofizzate, se Yoshiko rivolgeva la parola solo al vampiro. Beh, sì, doveva ammettere che non aveva molto da dirle, e ciò che voleva davvero dirle veniva censurato dalla presenza di Claude.
Non fece caso al tempo che passarono in auto, la presenza di Trevor, in un modo o nell'altro, rendeva il tutto più leggero e piacevole; che sia per i strani disegnini sul vetro appannato o per l'espressione del suo viso, le donava un sorriso. In definitiva, era fortunata che ci fosse.
L'aeroporto, l'albina, come la donna che doveva intraprendere il viaggio, poteva affermare di conoscerlo discretamente bene ― frutto di tutte le sue partenze verso il paese del Sol Levante. Claude fermò l'auto e Trevor si incaricò di aiutare Yoshiko con il bagaglio mentre madre e figlia scendevano dal mezzo ed il vampiro, straordinariamente pieno di fiducia nei confronti dei due, si allontanava per un posteggio.
I raggi del sole erano splendidamente pallidi e sopportabili, complice la stagione invernale non completamente passata ― il frenetico via vai delle persone con valigie e bambini imbronciati, la riportavano ai giorni frenetici nei quali si preparavano per incontrare i nonni in Giappone. Già, era alquanto nostalgico ed il suo giapponese arrugginito.
Prima di fare il chek-in, poi, la donna si fermò per ringraziare il britannico e prendere con sé il bagaglio.
«Wathashi no chīsana1», iniziò la donna, carezzando il viso gelido di William; incredibile che non si preoccupasse o facesse domande. «questa chiave... tienila come un tesoro, non farla vedere a lui
A William, non si può dire che le si gelò il sangue nelle vene, ma ci andò vicino quando la madre le consegnò la sopracitata chiave, non più grande del suo palmo, avvolta in un foglietto di carta. Ella annuì velocemente prima di vedere la madre confondersi con altra gente.
«A che ti serve?», s'intromise il britannico aggrottando la fronte.
«Nulla di interessante», bofonchiò l'altra riponendo il tutto nella tasca posteriore dei pantaloni. Per quanto le riguardava, Trevor era completamente alla mercé di Claude e se ciò che pensava aprisse quella chiave era corretto era un cosa che riguardava solo lei ― il biglietto l'avrebbe studiato in seguito. Le doleva il petto, ma non poteva fidarsi completamente del ragazzo. Lui la guardava un po' offeso, come se fosse stato tradito, ma senza insistere; piuttosto le rivolse uno sguardo, interrogandola sulle prossime mosse.
«Possiamo anche andarcene, arrivata lì mi farà sapere quando venire a prenderla.»
«Uhm, va bene. Faccio uno squillo a Claude per sapere dove si ha posteggiato.»

Mentre camminavano verso l'uscita, nuovamente, la sensazione di bruciore al petto si ripresentò, più intensa di prima. La corrodeva ― il perché, evidentemente non si collegava a Trevor. Voltò il viso a sinistra, osservando la spalla di quest'ultimo, poi a destra, scorgendo, tra i vari passeggeri che tornavano, chi da una vacanza, un viaggio di studio o lavoro; fra le varie teste castane, bionde e grigie un fiocco di neve. Lo sguardo le brillò di una strana luce. Era come se stesse proprio cercando quella persona ― immobile fra tante. La testa abbassata a controllare chissà cosa su un foglio di carta, la sciarpa immacolata che gli dava fastidio, eppure sorrideva, spostandosi il ciuffo bianco dalla fronte.
«Will? Ohi, vieni!», la spronò la voce di Trevor ― lo stesso Trevor che la prese per un braccio e la tirò a sé.
«U-un attimo!», protestò lei non riuscendo più ad individuare la figura del ragazzo; era lui, il suo profumo, a stuzzicarle l'olfatto, a far inquinare di cremisi il celeste dei suoi occhi?
«Non è il momento di farsi venire gli attacchi di fame», gli intimò l'altro. Che era allarmato, dalla voce si capiva, ma William non comprendeva di cosa stesse parlando.
All'esterno lui la osservò ben bene: parve come stonata. Trevor si passò una mano tra i capelli, asciugando anche quelle minuscole goccioline di sudore che gli imperlavano la fronte.
«Beh? Che ti prende?»
«Betsuni... Niente, a-andiamo. Prima che gli beleni qualche insensato sospetto e faccia una strage», non nascondeva che era alquanto sorpresa: la sete era improvvisamente scomparsa insieme a quell'odore ― lasciandole come souvenir un bellissimo senzo di insoddisfazione.

«Alleluja, iniziavo a preoccuparmi», sibilò il tedesco, quasi minacciosamente osservando con un sogghigno William dallo specchietto retrovisore, mentre Trevor si accomodava nel posto davanti.
«Paranoico», sbuffò la ragazza spostando lo sguardo sul finestrino.
L'umano non osava fiatare e si sarebbe detto tranquillo, ad una prima occhiata, un quasi perfetto attore ― dentro si chiedeva cosa fosse successo in quel breve frangente alla vampira; che dopo tutto quel tempo l'istinto da vampiro si fosse ripresentato non era strano, specialmente in presenza di tutta quella gente, ma che tutto sia finito appena usciti, lasciando l'albina completamente tranquilla... no.
«'Che pensi, Trev?», incalzò Claude, facendolo emergere dai suoi pensieri.
«Ma il gatto, alla fine, è vivo o morto?2»







* * *









“Alle otto a casa mia, domani si marina la scuola; poi ti spiego”, era questo il corto e coinciso SMS inviato da William a Samantha intorno all'una di notte del giorno prima. In risposta, quella mattina alle sette e mezza un bell'okay dall'amica. Il minimo era stato fatto, ora sarebbe dovuta uscire di casa senza Claude, per quello contava sulla mezz'ora di anticipo che aveva prima che l'innata capacità del vampiro di far andare tutto male si attivasse: cavolo, quello lì aveva una sveglia incorporata! Indossando una felpa bianca con cappuccio e dei jeans neri, scese le scale a piedi nudi per fare meno rumore. Teneva in mano le converse nere.
Arrivata alla fine di quelle scale dannatamente lunghe, lasciò andare quell'aria che aveva iniziato a trattenere chissà quanto tempo fa ― di voltò per accertarsi che nessuno la seguisse e spedita, con passo di canarino, uscì dalla porta principale.
Portò un braccio sul viso, scorgendo la luce tanto temuta, per coprirsi gli occhi; quindi calò il cappuccio, lasciando che l'esagerata chioma albina fuggisse da quell'angusto spazio per posarsi lungo le sue curve. Si sarebbe fatta una corsetta.

Aveva dovuto chiedere a suo fratello ― quello sporco ricattatore, di coprirla mentre usciva di casa e convincere la madre che fosse andata a scuola. Diamine, ora avrebbe dovuto sistemargli il letto per una settimana! Ma va be', la cosa era alquanto elettrizzante: il messaggio di Will, lei che non doveva farsi scoprire... Sembrava quasi una serie TV! Raggiunse la (ex-)casa dell'amica in quasi un quarto d'ora e la stava aspettando poggiata al cancelletto scuro, le mani nelle tasche. Poco dopo, scorse la figura dell'albina agitare un braccio verso di lei; ricambiò il saluto.
«Hey. ~»
«Come mai questo appuntamento alla “agente segreto”?»
«Devo controllare una cosa», ridacchiò l'albina armeggiando con la serratura del cancelletto, fino ad aprirla. «Da quanto non andiamo in mansarda?»
«Un bel po' di tempo», mormorò la rossa seguendola, chiudendosi il cancello alle spalle. «Ci tenete ancora le cose di tuo padre? Dobbiamo fare una seduta spiritica?»
«Pft, Sam!», la spintonò l'altra abbozzando una risata genuina. Già, il tatto di quella scalmanata non era dei migliori, ma sapeva quando tirare fuori le frasi peggiori in sua presenza. «Affatto», scosse appena il capo, «voglio vedere se questa», e prese la chiave che le diede sua madre insieme al foglietto, mostrandola a Samantha, porgendogliela, «apre uno dei suoi bauli.»
«Uhh, interessante! E... questi? Sono kanji3
«Da quando studi?», scherzò William, annuendo in seguito. «Kyūjūgo, nanajūgo to nanajūgo4
«Oh, giusto! Lo dico sempre, no? Will?», affrettò il passo su per le scale. «Mi fai la traduzione?»
«Sono numeri», le rispose pacata raggiunta la propria camera: il letto era stato rifatto e tutto era in ordine. Ovviamente mancavano i libri scolastici ed i vestiti.
«Ah, sul serio?»
«Mh-mh.»
Spostò la tenda con le spille a forma di farfalla ed aprì la portafinestra ― ricordava bene che nel balcone il sole non iniziava a splendere prima delle quattro di pomeriggio, così uscì senza problemi seguita da Samantha. Salirono le scale esterne in metallo fino a raggiungere la mansarda. Rimaneva solo da capire quale dei bauli in cuoio era quello giusto. Si passò velocemente una mano sulla nuca.
«Non dirmi che...»
«...sì, devo controllarli tutti.»
Dalle labbra della rossa uscì uno sbuffo, quello classico da teiera; mentre studiava i bauli, si accorse che non avevano serratura dove mettere una chiave, pensò che doveva essersene accorta pure William, visto che aveva aggrottato la fronte, pensierosa. L'albina percorse a grandi falcate la stanza, chinandosi arrivata ad un angolo. Il che era fantastico, in quanto lei stava per rompersi l'osso del collo inciampando in una vecchia bambola; ma perché non avevano acceso la luce?
«È questo?»
«L'unico, sì. Apro?»
«Apri.»
Sarebbe stato carino se il cuore le avesse iniziato a battere forte per l'emozione o le mani avessero iniziato a sudare, ma dovette accontentarsi della vaga sensazione di tremore. Inserì la combinazione ai due lucchetti di lato, poi inserì la chiave in quello centrale ― non sapeva che immaginarsi, cosa aspettarsi da suo padre a quel punto, poiché nemmeno ricordava quel baule e cosa vi fosse stistemato dentro. Perché poi scoprirlo ora? Girò la chiave due volte e lo scoccare della serratura fece sussultare entrambe.
Alzando il coperchio... non era difficile capire a cosa servisse ciò che vi era dentro, anzi. Ma il problema era, in mezzo a tutte quelle improvvise domande che le sia affollavano in mente, capire cosa ci facesse suo padre. Quel benedetto uomo all'apparenza persino stupido, troppo buono, cosa..?
«Gesù, sembra l'armamentario di Alaric Saltzman5






Deliri Note dell'autrice:
[...] «Wathashi no chīsana1» [...]: letteralmente, piccolo/a mia.
[...] «Ma il gatto, alla fine, è vivo o morto?2» [...]: se non lo avete capito vi bacchetto; Trevor fa una chiara allusione al paradosso del Gatto di Schrödinger. Non ha alcun collegamento con la loro discussione, difatti serviva solo a far star buono Claudio.
[...] kanji3 [...]: dalla wiki; I kanji (漢字 "caratteri Han", cioè "caratteri cinesi") sono i caratteri di origine cinese usati nella scrittura giapponese in congiunzione con i sillabari hiragana e katakana. OVVERO QUELLI CHE MI STANNO FACENDO PENARE IN QUESTO PERIODO.
[...] Kyūjūgo, nanajūgo to nanajūgo4 [...]: novantacinque, settantacinque e settantacinque.
[...] Alaric Saltzman5 [...]: per chi segue The Vampire Diaries non sarà difficile capire questa fantastica uscita di Samantha, ma se non vi ha suscitato nulla dovete sapere che il suddetto Alaric è (o era?) “un cacciatore di vampiri, ha una buona conoscenza del loro mondo, è abile nel combattimento corpo a corpo e nell'uso di armi, e ne sa costruire alcune, come le granate alla verbena.”

Giuro che le note sono finite. ewe"
Questo doveva essere insieme al capitolo scorso, in verità, ma siccome ne era uscita qualcosa di... troppo l'ho diviso in due facendone uscire queste piccole parti, già. Ora penso che non sia stata una buona idea, but who cares. Scopriamo che Yoshiko serve a qualcosa, sì, confondere ancora di più le idee a William e che il padre anche se morto continua a rompere gli attributi.
Chi è il ragazzo-ciuffo-bianco all'aeroporto? ZAN ZAN ZAN. Vbb, dai, spero tanto che si capisca.
Mando un bacetto a U k e c c h i, sperando che tu reperisca un pc nuovo, so che vuol dire. *shiver ♡
―L o t t i e.

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Capitolo 16
*** Fiocco di neve. ***


Fiocco di neve.








Doveva ammetterlo, prima di avviarsi a scuola, quella mattina, pensò di portarsi una delle posate d'argento del servizio più pregiato di sua madre; ma alla fine rinunciò, resasi conto dell'assurdità della cosa. In compenso sospirò di sollievo quando non vide quella massa di capelli bianchi ambulante; non era strano che non venisse in modo regolare e nemmeno che i suoi sospetti fossero fondati. Insomma, dopo anni di serie TV e ricerche su Internet, era impossibile che non riconoscesse una vampira:certo, qualche volta aveva fatto un buco nell'acqua, ma... William era davvero una succhia sangue ― glielo aveva anche dimostrato. Diamine, il suo cuore non batteva! I brividi le corsero su per la schiena facendole venire la pelle d'oca al solo pensiero.
Prese posto in aula e mise sul banco i libri di inglese, Melanie fece lo stesso. Non facevano quella materia da mesi per mancanza di docente: che avessero finalmente trovato qualcuno?
«Tu per caso l'hai visto?»
«Perché, è un uomo?»
«Sarà la solita madrelingua più vecchia di mia nonna», bofonchiò dietro di loro Johnatan stuzzicando l'ilarità delle due.
Passarono dieci minuti abbondanti, ma nessun insegnante varcò la soglia dell'aula e la classe stava diventando irrequieta. Si erano già formati i soliti gruppi di chiacchiera. Qualche altro minuto dopo gettò il registro sulla cattedra un ragazzo dalla camicia abbottonata alla bell'e meglio come se avesse fatto una maratona ― quegli aloni sotto le ascelle confermavano il tutto. Nicole arcuò le sopracciglia come se fosse stata folgorata. I suoi occhioni marroni furono immediatamente colti dai capelli immacolati del tizio, almeno, quelli sul davanti ― come se fossero stati tinti dalla neve, ghiacchiati. Gli altri erano molto più scuri quasi neri a far contrasto con la pelle diafana.
«Siete voi la 2ªG?»
Domandò lui prendendo posto in cattedra, un coro d'assensi lo sollevò dall'idea di aver sbagliato per l'ennesima volta. Era lì da appena due giorni eppure la sua specializzazione in lingue straniere gli era subito stata utile. Si rianimò un poco, aggiustandosi il colletto ― stava morendo di caldo, fortuna che aveva lasciato il cappotto in sala insegnanti! Vide già alzarsi una mano, quindi decise di presentarsi.
«Prima delle domande», sorrise alla ragazza, «lasciatemi presentare» e, anche se gli dolevano i piedi, si alzò nuovamente per poggiarsi alla cattedra, le braccia incrociate al petto. «Sarò il vostro insegnante di lingue straniere fino al raggiungimento del Bac1. Vi avverto, avremo un ritmo molto veloce nelle prossime lezioni quindi mi aspetto il massimo rendimento da voi: dovete recuperare. Sentitevi liberi di chiedere ulteriori spiegazioni nei momenti di incomprensione. Per il resto sono Neru
Okay, non era proprio un genio ad inventarsi nomi, ma quella parola gli piaceva, sia di suono che significato.
«Ora puoi chiedermi quello che vuoi, dimmi anche il tuo nome; poi chiamerò l'appello.»
«Nicole Gardienne; lo sa che abbiamo una compagna albina?»
Si levò un coro di mormorii, come se non si fossero accorti dei capelli dell'altro e del particolare colore degli occhi: di un blu così intenso da sembrare viola. Elijah aggrottò la fronte battendo una mano sulla cattedra, ecco che si cominciava. Qualcun altro menzionò pure Samantha, la quale certo non passava nemmeno inosservata con i suoi capelli rossi.
«Beh», ridacchio il professore, «non vi manca proprio nulla», scherzò.
Già, nemmeno i vampiri, pensò Nicole.







* * *









Mentre Samantha si rigirava tra le mani un paletto di legno punzecchiandone la punta con il dito, William era diventata tutt'uno con la parete. Alla rossa ormai non faceva né caldo né freddo vederla chiudersi in quei silenzi, abituata com'era ― quindi la lasciava ai suoi pensieri e poi avrebbero parlato. Anche lei, certo, era un po' confusa vedendo tutto ciò e ripensando alla persona di Alexandre non trovava alcun collegamento con quelle armi. Difficilmente si scorgevano in quell'uomo modi bruschi, non gentili ed immaginarlo destreggiarsi tra i vampiri per ucciderli a sangue freddo era un controsenso. Sorrideva sempre, o quasi, beh, quando William da piccola faceva quelle scenate davanti a lui il suo viso sembrava irrigidirsi solo per ammonire la figlia ― quella piccola peste. Riusciva sempre a perdersi da qualche parte, che sia stato un labirinto o una stanza, puntualmente poi iniziava piangere. Si lamentava sempre sognando di avere dei capelli normali, incolpando, forse perché simili, il padre per essere nata in quel modo. Ci restava segretamente male, Alexandre, ma pensava che il comportamento delle sua piccola fosse normale, a quell'età.
I vampiri li cacciava ancor prima di sposarsi e all'inizio era stato difficile gestire quella sorta di doppia vita.
«Secondo te...», ruppe il silenzio William, il viso tra le ginocchia, «...cosa penserebbe di me, ora?»
«Di te? Io mi chiedo cosa avrebbe fatto a Claude; guarda quanto sono appuntiti questi cosi!»
Sentì nitidamente erigersi alta una risatina.
«In effetti. Fa vedere.»
Sì.
Comunque non poteva negare che suo padre fosse bravo in un sacco di cose, così come intagliare. Dei paletti. Lo capiva dalla delicatezza dei segni non troppo marcati sul legno, il quale era comunque affilato, pericoloso ― anche per un essere umano. Cosa avrebbe fatto a Claude? Domanda interessante; sarebbe stato carino se Alexandre avesse ucciso quel mostro.
«Forse è meglio andare. Se Claude si svegliasse si insospettirebbe. E se questo accadesse verrebbe sicuramente qui», sentenziò. In realtà quasi sicuramente il tedesco stava già facendo un interrogatorio completo a Trevor, unico e probabile suo complice. Cadeva in errore se pensava fosse così stupida da rivelare ogni sua mossa all'umano.
«Andare dove? I cancelli sono chiu― mi ascolti?», sbuffò la rossa, imitando l'amica. Si alzò spolverandosi i pantaloni. L'altra ripose l'oggetto nel baule e poi chiuse il tutto come prima, ma coprendo con un telo quest'ultimo.
Certo che l'ascoltava, ma stava anche pensando. Organizzarsi mentalmente una sorta di piano per tornare lì altre volte, senza destare sospetti al vampiro, senza sua madre era difficile crearsi un alibi che potesse reggere. Magari di pomeriggio sarebbe stato più facile: poteva dire che sarebbe dovuta andare a “studiare” da una sua amica.
«Tu sai dove abita quella spocchiosa di Nicole?»
«Ho il suo numero di cellulare, perché?»
«Penso che ci serva», ammise di malavoglia, chiudendosi alle spalle la porta di casa. Aggrottò le sopracciglia, socchiudendo gli occhi, divenuti sfortunatamente più sensibili alla luce.
«Tutto apposto?», le domandò l'amica, per sicurezza.
L'albina annuì, calando il cappuccio sul viso.


Forse, quelle due, non si erano propriamente accorte della presenza dietro l'angolo.
Forse, William non aveva ancora imparato ad usare i suoi sensi come si doveva, ma in fondo era meglio così.
Se l'avesse vista ― se avesse visto quella persona non sarebbe finita bene. Bene. La figura sorrise, sistemandosi anch'essa il cappuccio di una felpa, ricacciando indietro lacrime morte. Non poteva stare ancora lì a lungo, doveva tornare indietro, nascondersi per qualche tempo. Manca poco, si disse, posando lo sguardo rossastro sulla lunga chioma bianca della ragazza, piccola donna.
Conosceva quella città come le sue tasche ed il fascino non gli mancava, avrebbe trovato qualche altra sistemazione provvisoria.


La castana, Nicole, per poco si strozzò con quel maledetto muffin leggendo sul display del cellulare il nome di Samantha Walsh ― si chiese, quando, in quella sua vita fosse stata così idiota da cedere il suo numero di cellulare a qualcuno come quella testa di carota.
«Pronto..?», risposte, riprendendo a masticare con calma.
-Nessuno ti ha mai detto che masticare al cellulare è fastidioso?-
Per poco non le cadde, il boccone che aveva in bocca. La sua mente si bloccò un istante: non vi era altra spiegazione, quella doveva essere la cattiveria in persona. Quella William, se la ritrovava ovunque! ― andavano nella stessa classe, ma quelli erano dettagli. Cosa voleva, esattamente, da lei? Perché aveva telefonato con il cellulare di Samantha? Si era spinta a tanto? Uccidere quella povera ragazza solo per quest...
-Will, ma ha risposto?-
-Mh-mh, ma penso si sia strozzata.-
«C'è anche Walsh?», domandò, anche se la conferma le era già giunta alle orecchie, ignorando la frecciatina.
-Secondo te da quale cellulare ho chiamato?-, le ringhiò l'albina dall'altro lato della cornetta. Mh, non era di buon umore; o così le parve.
«Ti chiudo la chiamata in faccia.»
-Devi solo provarci e―..!-
-William!-, la ammonì Samantha.
Uno sbuffo.
-Senti, maniaca di vampiri, dovresti... uhm, come dire... a-aiut―-
«Aiutarti?», soffiò la castana, aggiustandosi gli occhiali circolari. Non le piaceva che le si attribuisse della maniaca, ma poteva sorvolare. La cosa si faceva interessante. Decise di spostarsi da vicino alla finestra, iniziando a camminare per il corridoio, aveva a disposizione altri dieci minuti prima della fine dell'intervallo; e voleva goderseli tutti.
«Ci sei, sanguisu―»
-Hai da fare domani pomeriggio?-
Silenzio.
Non le pareva vero ciò che era uscito dalle sue labbra, odiava ammetterlo, ma Nicole era l'unica persona quasi sana di mente abbastanza acculturata sull'argomento “vampiro”. Si trovavano ancora nei pressi dell'abitazione celeste, qualche strada più avanti, pronta per tornare nella propria cella, quella prigione che era la villa. Si sarebbe inventata qualcosa sul momento, ma in quel momento doveva sistemare il suo alibi per il giorno dopo.
-Nicole..?-
«È suonata la campana: sentiamoci più tardi» e bloccò.


«Dannazione», imprecò William tra i denti, restituendo l'apparecchio alla rossa, «ha riattaccato.»
«Quindi?»
«Quindi nulla, tu, questo pomeriggio prova a convincerla o davvero le faccio male.»
Samantha alzò le mani «Uhh, attenta Superman, che mi incendi con lo sguardo!» rise.
Lei.
Quella voce però non scompose l'espressione fin troppo seria dell'altra, la quale di conseguenza smorzò la risata cristallina di Samantha.
«Sei seria», non era una domanda. Un'affermazione a fronte aggrottava. La consapevolezza di non riuscire ad alleggerire l'atmosfera era opprimente, in special modo se si trattava della sua migliore amica, colei che non era troppo incline alla violenza come qualcun altro.
Che poi quei pugni e schiaffi li dava in modo innocente, Samantha.
«Che c'è, non posso?»
«No, cioè, certo», bofonchiò, «Dici che non è il momento giusto per accompagnarti?»







* * *









Varcando la porta, già l'aria pregna di elettricità la investi come uno schiaffo. La bottiglia di liquore sul tavolino vicino al divano confermava. Ma nessuno era stato ucciso, niente sangue: aveva risparmiato Trevor. Forse si era solo innervosito. Quindi per distendere i nervi e non prendere decisioni avventate aveva preferito del buon Chartreuse2; lo riconosceva dal singolare aroma pungente, di quelli che ti stordisci solo a respirarne i vapori.
Disgustoso.
Forse anche per questo quando chiuse la massiccia porta in legno scuro capì immediatamente chi vi era dietro, ad aspettarla. Eppure fece finta di nulla, camminando, scendendo i due gradini coperti da un tappeto per avanzare e scomparire in cucina.
Aprì il frigorifero, ne chiuse lo sportello e sussultò.
«Mi hai ignorato?», arcuò un sopracciglio il vampiro.
«Solo un poco, guarda», disse con sarcasmo. «Trevor?»
«Fuori. Voglio dire, era uscito per cercarti.»
«E..?»
Il tedesco fece spallucce, seguendo la lunga chioma bianca di William fin le scale, come un fastidioso avvoltoio insieme al suo puzzo di morte e alcool. Erano proprio quelli i momenti in cui non voleva aver a che fare con lui. Inoltre Trevor era stato mandato, costretto dal sopracitato vampiro alla sua ricerca; non la dava a bere a nessuno. Era sempre lui l'artefice di tutto.
Nel suo stato normale, chiamiamolo così, era trattabile colui che riconosciamo con il nome di Claude Von Richter, ma se si aggiunge del sangue o qualsiasi altra bevanda di base alcolica colui che vi troverete vicino sarà solo un maniaco delirante.
Per questo l'albina ad un certo punto si fermò, al limite.
Eppure non avrebbe potuto mai confrontarsi con lui, in quello stato, vomitargli addosso tutte le parole mai dette in quei mesi. Mesi fatti di pura eternità. Non si poteva ragionare con lui, se voleva qualcosa provava ad ottenerla ad ogni costo. Se pensava tu non avessi ragione, automaticamente vinceva lui. Ti scavava dentro per cogliere tutti i sassolini, le paure, dalle più piccole alle più grandi per il puro gusto di terrorizzarti.
Avvertì infine una mano stringerle il braccio ― quel tipico tocco pieno di prepotenza. Immediatamente provò ad allontanarsi, divincolarsi dalla sua presa. Odiava avere le mani di qualcuno sopra il suo corpo; senza pensarci due volte gli assestò un calcio sulla gamba. Sembrò fargli... una carezza. Carezzare, era un bel verbo: già da sé esprimeva il gesto.
«Claude, sul serio―»
Sul serio.
La frase le si smorzò in gola. Arrogante. ...o no. C'era qualcosa di più dolce in quello, qualcosa mai provato e che non si sognerebbe mai di dire su Claude. Perché per lei nessun aggettivo buono era attribuibile a colui che l'aveva rovinata ― esatto. Quindi perché fare un'eccezione proprio in quel momento? Quando, schiena contro quel corrimano in legno di quelle scale secolari, in quella villa piena di ricordi sbiaditi e pianti, una bottiglia di liquore e fretta... due petali di rose scarlatte di posarono su altri pallidi e screpolati.
Un bacio senza aria, sott'acqua. Gli occhi turchesi sgranati, quelli del corvino serrati.
«Non devi ignorarmi, mai.»
«Sparisci
Il sapore d'alcool sulle labbra, il viso una tela bianca: colori sembravano essersi sciolti. Con stupore, il tedesco si allontanò, giù per le scale.
La morbidezza di quelle labbra rotte e spezzate ancora sulle sue. Non era un atto spregevole, ma un bisogno innocente, come innocenti erano tutti i suoi gesti in quel momento. Un confronto.
Uno stramaledettissimo confronto. Scendendo quei scalini si diede dell'idiota svariate volte, nel silenzio che era calato fece in tempo a scorgere la porta d'ingresso aprirsi e sentire la voce del diciannovenne borbottare qualcosa.
«È tornata.»
«Davvero?», sì, era stupito.
«Davvero













Deliri Note dell'autrice:
Bac1: (o anche Baccalauréat) è il titolo di studio che conseguono gli allievi francesi alla fine del ciclo di studio delle scuole superiori. Può essere paragonato alla maturità italiana.
Chartreuse2: È un liquore francese dal caratteristico sapore molto forte. È molto dolce, ma varia fra lo speziato e il pungente.

Da questo capitolo non mi aspetto nulla, in verità. Lo pubblico con tanto tempo in ritardo, ma non ho nemmeno il tempo di emettere un fiato tra i vari impegni. È persino uno sputo piccolino e questo.
Spero vi sia piaciuto, in qualche modo; che la storia non risulti piatta. Un grazie grande grande a chi ancora la legge, chi mi consiglia e suggerisce.
Il prossimo, in tutta sincerità, non so se verrà pubblicato puntualmente, sigh.
Alla prossima! ☆
―L o t t i e.

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Capitolo 17
*** Profumo di rose e panna montata. ***


Profumo di rose e panna montata.








Non si stupì di sentire i passi frenetici di Trevor venire verso la sua camera, difatti gli aprì la porta ancor prima che bussasse ― almeno lui l'avrebbe fatto.
D'altro canto il ragazzo, senza fare domande, le si fiondò addosso, in un abbraccio ferreo.
«Ma che diamine avete tutti?!», esclamò stizzita lei, protestando debolmente, ma ricambiando in qualche modo.
Dopo un sospiro di puro sollievo, qualche attimo più tardi, Trevor la lasciò.
«Sei una cretina», iniziò lui accomodandosi sul letto ad una piazza e mezza: aveva ancora la giacca. «Puoi accusarlo di tutto, tranne che non ti voglia bene... a modo suo.»
Ah, ecco.
William sottolineò, a mente, «a modo suo» un paio di volte, in rosso. Ripassandolo più volte.
Quelle semplici frasi stesero un velo scuro sul viso di porcellana della vampira, la quale preferì stare in piedi; se si aspettava la comprensione faceva prima a gettarsi dalla finestra, l'umano. Non dopo aver parlato al cellulare con una fanatica, non dopo aver ricevuto un bacio dal suo creatore ubriaco e con chissà quali sensi di colpa venuti a galla.
«Non ti permetto di parlarmi così», si impose pacatezza , danzando verso l'armadio per prelevare dei vestiti più leggeri. Vide il ragazzo schiudere le labbra, forse per parlare ancora, protestare. Fu più veloce.
«Nulla. Sai cosa ha fatto, qualche minuto dopo che sono tornata? Mi ha baciata, Trevor» ed il ragazzo strinse la stoffa dei pantaloni beige tra le dita. «Ho il sapore d'alcool appicicato alle labbra», continuò lei ― senza pietà, «sai qualte volte mi ha toccata e ridotto quasi alla morte prima di questo? No? Allora non provare a giustificare le sie manie di controllo! Hai sentito, vampiro?», dopodiché osservò l'umano, le labbra rigide ed algide, «ora, se permetti, andrei a fare un bagno.»
Era diventata brava a zittire la gente, pensò Trevor, ed anche ad ucciderla con le parole ― taglienti come un coltello da cucina. Non lo sapeva lui. Nonostante ciò le sue parole, «mi ha baciata», continuavano a rimbombargli nelle orecchie, come il suono di un martello pneumatico.

«Ha ragione lei, caro umano dal cuore d'oro.»
Lo appostrofò il tedesco dal soggiorno mentre scendeva le scale. Scorse un braccio di Claude cingere, anzi, penzolare dalla spalliera del divano: era ovvio che avesse sentito la loro discussione, ma il fatto che assumesse un comportamento così passivo era il preambolo di un crollo di nervi. Il caro umano dal cuore d'oro se ne rendeva conto.
«Smettila di bere e vai a riposarti», gli posò una mano sulla spalla, Trevor.
«Non vuoi unirti a me?», gli propose l'altro, affabile, porgendogli la bottiglia pressocché vuota.
Il diciannovenne negò con altrettanta cortesia osservando il viso del vampiro prendere una sfumatura alquanto sinistra che poi scemò in un broncio.
«Pensi anche tu che sia ubriaco?», grugnì, lo sguardo verde assottigliato.
«Io? Macché! Sono solo fedele alla leggenda che i vampiri debbano dormire di giorno!»
«Non ri credo», ridacchiò, «dài, un goccetto solo! Sono disposto a regalarti anche la bottiglia!»
Dannazione, era senza speranze ― appurò il ragazzo.
«Oppure», soffiò il tedesco, una ventata d'alcool che stordì l'umano, «per aver tentato di mettere una buona parola con William vorresti una ricompensa
Non gli piaceva.

Un po' rigida, dopo aver messo il comò dietro la porta per una qualche sicurezza, scivolò dentro la vasca piena d'acqua calda e schiuma bianca al profumo di rose.
Sentiva i muscoli del collo tutti rigidi. Pensò che avrebbe avuto bisogno di messaggio rilassante con oli profumati e... sì, avrebbe continuato a sognare. Le andava bene anche quell'oretta a mollo in quel pezzetto di paradiso.
Soffiò via una montagnetta di schiuma.
Il solo pensiero di affrontare un'intera giornata come i primi mesi, chiusa lì, la feceva stare male ― peggio della claustrofobia. Magari ne avrebbe approfittato per visitare le stanze più remote della villa. Le sembrò un buona idea.
Sbuffando dalle narici mandò via un ancipelago di bollicine, poi si tirò su.
L'acqua sembrava essere diventata gelatia alle rose ― chissà che gusto avrebbe avuto.
Gusto.
A proposito di gusto, pensò. Era da un po' che non mangiava e non ne sentiva nemmeno il bisogno, ma lo sfizio di sentire il sapore di qualcosa di commestibile sul palato premeva.
Affondò una mano nella gelatina alle rose: la schiuma si era fatta panna montata ed il suo corpo di bolle. Era piacevole osservare le tessere di mosaico blu notte appannarsi a causa del vapore che poi condensava e gocciolava, giù, ai piedi del muro.
Ipnotico.
Di nuovo, si immerse nella vasca, toccando il fondo con la schiena, completamente ― i lunghi capelli a farle da cuscino ed i suoni attutiti dal muro di gelatina.







* * *









Non poteva tornare a casa prima delle due.
Sua mamma era in casa, il fratello a raccattare un qualsiasi lavoro, il padre, erborista, al suo negozio.
Lei, piccola umana, a bazzicare per le viuzze dopo aver accompagnato l'amica al limite del boschetto. Non sembrava particolarmente allegra di tornare in quel posto.
Non li conosco, si disse.
Odiava ammetterlo, ma la sua forza da maschiaccio ed il suo viso innocente decorato dalle lentiggini non sarebbero serviti contro dei vampiri.
Anche William lo era.
Già.
E poi c'era anche una donna, ma ne ignorava il nome.
I raggi pallidi di un sole tiepido le carezzarono il viso. Le mani le prudevano ― era inutile. Samantha Walsh era inutile.
La cruda verità la schiaffeggiò in viso in modo assai violento.
Calciò via un sassolino, poi... si ricordò qualcosa.

Come poteva averlo dimenticato?!
-Sì?-
«Sono Samantha, una compagna di Nicole.»
-Oh! Capisco, ti serve qualcosa?-
Una palazzina di tre piani con terrazzo, completamente bianca e balconi neri finemente lavorati con un portone di tutto rispetto e massiccio.
Il citofono inghiottiva le sue parole e poi ne sputava altre.
Si chiedeva perché avesse rimosso tale informazione dalla testa, forse perché era la casa si colei che non sopportava.
Sì, plausibile.
Colei che l'accolse fu la madre di Nicole ― strano, pensava lavorasse. Una donna molto più bella della figlia, con capelli ondulati color sabbia che le arrivavano a metà schiena ed occhi simili a due acquamarine; ben piazzata in quanto altezza, forse un metro e settantacinque.
Avrebbe preferito lei in classe al posto della quattr'occhi.
«Un favore», iniziò accomodandosi su una sedia.
La madre di Nicole (pareva avesse un nome del tipo Amélie, dalla faccia. L'avrebbe chiamata così) le si sedette di fronte.
«Ti va un bicchiere d'aranciata?»
«No, grazie.»
«Tua madre sa che marini la scuola?», le sorrise, senza arroganza.
Provava un certo rispetto per quella donna.
«No, dovevo aiutare una mia amica.»
«Capisco. Allora, che tipo di favore, mia figlia ti ha di nuovo detto qualcosa di offensivo?»
Scosse il viso con l'ombra di un sorriso che le minacciava le labbra. «Veramente volevo chiederle se domani possiamo studiare con sua figlia.»
«Voi, chi? E perché lo chiedi a me?», ridacchiò Amélie.
«Ah, beh...»
Ed ora cosa avrebbe inventato?







* * *









Era felice.
Dopo molto tempo.
Vivere in quell'enorme abitazione con quel peso gravante sulle sue spalle era asfissiante. Dovendo anche nascondere le proprie relazioni. Gli aveva fatto un favore, il suo vecchio, a disconoscerlo o come diamine si diceva.
Parigi.
Adorava come quel nome gli si posava tra le labbra. Abituato al freddo norvegese, sentiva quasi caldo in quel mese di marzo. Caldo! Ah.
Quelle tre, per il momento, ore di lavoro erano trascorse più che bene: gli avevano assegnato quattro classi, le più bisognose ― due seconde e due terze. La 2ªG lo incuriosiva di più, tra le altre; forse perché la frequentava una ragazza albina ― sì. Istintivamente ravvivò il ciuffo di capelli innevato.
Neru.
Sorrise. Avrebbe dovuto farci l'abitudine.
L'ultima cosa, anche se, a pensarci meglio, sarebbe dovuta essere la prima, che gli rimaneva da fare era trovare un appartamento. Momentaneamente tornò all'albergo per posare la borsa con gli elenchi ed i vari libri di testo e si infilò in tasca il portafogli ed il cellulare ― doveva anche cambiare la scheda telefonica.
«Styrke og mot!1»
Strinse i pugni ed uscì, pieno di buoni propositi, animato dall'entusiasmo.







* * *









Nuovo messaggio:
“Ho risolto il problema con Nicole.
Per te alle sei va bene?
In ogni caso, ricordi come si chiama la madre di Nicole?”


Tipico di Samantha dimenticarsi i nomi della gente; Charlotte, si chiamava così e alle sei andava benissimo ― glielo scrisse.
Non sapeva perché... avrebbe solo dovuto ringraziare Samantha almeno mille volte prima di chiederle qualche altro favore. Chiederle, seh. Glielo aveva praticamente ordinato, ma le migliori amiche si comprendono a vicenda, no? E poi, loro, avevano superato tante di quelle liti che si sarebbero pure potute insultare pesantemente... in modo amichevole.

“Davvero?
Strano, ha la faccia da Amélie. (...)”

“Sam, di che diamine parli?”

“Nulla, nulla!!
A domani, bye! ♡”


La solita, si ritrovò a sbuffare mentalmente. Lanciando il cellulare sul letto ― dove fece qualche rimbalzo e poi si fermò, riprese in mano la spazzola continuando a carezzare i lunghi capelli bianchi: le arrivavano ai fianchi, superandoli di qualche centimetro. La cura che riservava loro sfiorava il maniacale; eppure non ricordava quando aveva inziato. Iniziato a farli crescere, spazzolarli ogni santo giorno, spuntarli di un centimetro ogni tanto, assicurarsi di non avere doppie punte.
Si alzò e, a piedi scalzi, si avviò alla finestra per sbirciare fuori: il cielo si era fatto meraviglioso, piccoli pezzetti di nuvole si erano messi in fila perdendosi all'orizzonte, sulla punta della Tour Eiffel, sovrastando ogni abitazione.
Con uno scatto la aprì, respirando a pieni polmoni l'aria che si faceva gentilmente strada tra le mura di quella stanza pregna d'oscurità.
Indossò una camicetta ed andò in esplorazione.

Si accorse che, stranamente, tutte le stanze che provava ad aprire erano chiuse a chiave ― soprattutto le più remote. Imprecò sottovoce, giunta alla fine di un altro corridoio, posò la mano sulla maniglia in ottone e tentò di aprire, sapendo già di dover fare retrofront ― eppure.
La porta cedette, il suo braccio scivolò.
Era aperta.
Vi erano due finestre ornate di tende giallo ocra, le pareti color salmone; stonava con il resto della villa. Sembrava inutilizzata da molto ed il pulviscolo di divertiva a giocare sui raggi di luce che filtravano dalla stoffa. Tutto l'ambiente aveva un nonsoché di caloroso, come se fosse qualcosa a sé stante. In mezzo alla stanza su un ampio tappeto bordeux vi era un pianoforte nero a coda, splendidamente tenuto.
Ma perché? Non aveva mai sentito Claude o Trevor suonare, lei invece, oh... Attratta come una falena dal fuoco, si avvicinò, sfiorando il coperchio della tastiera, acchiappando un poco di polvere col dito. Brividi le corsero lungo il braccio, giù nella schiena ― chiuse gli occhi.
Osservò meglio quel nero lucido, scorgendo inciso un nome: «Henrike Ophelia Krämer», disse sottovoce ed una brezza si infiltrò sotto la camicia di cotone. Strano, gli specchi erano chiusi.
«Che ci fa qui?», dura, quella domanda le perforò le orecchie.
Claude.
Si voltò di scatto e, attraverso i filamenti bianchi, lucidi che per un attimo le coprirono la visuale, scorse un luccichio cremisi. Poi si accorse che il suo interlocutore era senza maglietta: gli occhi turchesi studiarono per qualche attimo quell'addome scolpito nel marmo.
«Nulla.»
Il vampiro mosse un passo verso di lei, aveva ripreso quell'aria austera, la sbronza gli era già passata? I capelli erano scarmigliati, neri quanto la vernice dello strumento musicale; non passò molto prima che un angolo di quelle labbra peccatrici si alzasse, mostrando in contemporanea un canino ed il solito, ma soprattutto solido, ghigno.
«Chi è Henrike?», accidenti alla sua lingua.
L'altro finse nonchalance, eppure le iridi si congelarono, come offese, come ad ammonirla ― deglutì.
«Ti ho dato il permesso di andartene in giro?»
«Non ne ho bisogno.»
«Ah», era ad un pelo dalle sue labbra e quella furbamente girò il viso, si compiacque: imparava in fretta la sua principessa, «davvero?», le ringhiò quindi scendendo percorrendo il delicato profilo.
«Sì. Non mi hai risposto, chi è Henr―»
«Esci da questa stanza o giuro che non avrai più modo di parlare.»
Le promise, l'alito gelido che le premeva e graffiava la pelle del collo: masochista, la rimproverò una vocina, che tutto sommato, doveva riconoscerlo, non aveva tutti i torti. Sapeva quando prendere alla lettera le parole di Claude ed in un soffio sparì, come neve trasportata dal vento.













Deliri Note dell'autrice:
«Styrke og mot!1»: dal norvegese “forza e coraggio!”

Eccomi, gentah! ò3ò
Cavoli, ci credete? Sono puntuale! Siate fieri di me cari lettori perché tra qualche attimo potrei seriamente avere una crisi isterica tra la connessione internet che mi fa i dispetti e certa gente rompi coglioni scatole che anche al fine settimana non sono contente e devono torturarti.
Venendo al capitolo, sono molto soddisfatta! I tasselli del puzzle si stanno pian piano unendo e chissà che Claude Bei-Addominali Von Ritcher non vuoti il sacco a William! So che aspettate il tanto atteso incontro tra Will ed Elijah aka Neru―... *grilli ed insetti vari* (?) Va bene, mi sto solo facendo i filmini.
VBB.
Ringrazio tutti voi che continuate a leggere facendo alzare il conto delle visite, aiut, siete tantissimi! *commoss* E ovviamente _Night e Requiem_Banshee che hanno recensito, soprattutto mi scuso con quest'ultima: risponderò al più presto! ;___;
Bacini,
―L o t t i e.

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Capitolo 18
*** Resonate in the echo. ***


Resonate in the echo.








Il giorno dopo, la routine riprese: la scuola non aspettava mica.
Dopo l'episodio del pianoforte, inutile dirlo, non riuscì a cavare un ragno dal buco. La bocca di Claude era sigillata o rispondeva in modo evasivo, minaccioso, teso. Claude Von Ritcher che era teso.
Questa sì che è bella!, esclamò mentalmente William arricciando una ciocca di capelli bianchi, il gomito poggiato sul bracciolo dell'auto. Diede una fugace occhiata al riflesso del vampiro: gli stavano bene quei Ray-Ban, i quali con le lenti nere non facevano intravedere lo sguardo verde ― quello stesso sguardo che continuava ad ignorarla dallo scorso giorno. Sembrava che i ruoli si fossero invertiti.
Henrike Ophelia Krämer, quel nome non riusciva a toglierselo dalla testa. Pensando e ripensando, setacciando ogni informazione su Claude in suo possesso concluse che forse Henrike sarebbe potuta essere una qualche parente lontana o, peggio, una sorta di amore platonico. Aveva persino chiesto a Trevor, ma era evidente che non poteva rispondere: era facile riconoscere quel tono di voce degno di una segreteria telefonica pre-registrata post soggiogazione. Sbuffò, accidenti.
L'auto nera si fermò proprio di fronte al cancello della scuola, William vide Samantha aspettarla qualche metro più avanti, sulle scale. Scese.
«Ti vengo a prendere io, non fare scherzi», la ammonì il vampiro, abbassando di qualche centimetro il finestrino per osservarla.
«Sta' tranquillo», gli ringhiò in risposta.

Raggiunta l'amica sulle scale, finalmente alzò lo sguardo, poggiando le mani ghiacciate sul viso leggermente arrossato. Poi Samantha le circondò le spalle con un braccio, sghignazzando.
«La sai l'ultima?»
Oddio, pensò l'altra, scuotendo il capo.
«Hanno trovato un professore di inglese!», esclamò la rossa tutta euforica.
L'albina si chiese come facesse a reperire certe informazioni; a chi cavolo si rivolgeva? Solo lei poteva vantarsi di avere pochi amici e quasi zero conoscenti? Pazienza.
«Sul serio?», domandò dapprima, un pizzico scettica, «Pensavo non studiassimo più quella materia.»
«Mi hanno detto che è anche figo, ah! E albino, Will!»
Quest'ultima sussultò, nemmeno si fosse scottata col sole di mezzogiorno e fuggì dalla presa dell'amica per guardarla negli occhi, accigliata. «Mi sembri una specie di stalker», borbottò, «Come fai a saperlo?»
«Ho solo chattato con Melanie. Sai, esiste una cosa chiamata Facebook!», cantilenò.
«Scusa se sto insieme ad un vampiro maniaco del controllo che mi ha tolto pure internet, Samantha», sbuffò... ancora. «Quindi è albino, eh? Povero tizio.»
«Uh. Io riporto solo ciò che mi ha detto lei. Non sei curiosa?»
«Per nulla», mugugnò. «Comunque, cos'era quella storia dei nomi?»

L'ora dell'intervallo arrivò molto velocemente, strano, in quanto le lezioni di francese sembravano sempre durare un'eternità. Insieme a Samantha decise di fare un giro per i corridoi prima di tornare in aula ― che Nicole fosse stata per tre ore consecutive al proprio banco, in silenzio, la inquietava a morte e non la convinceva per nulla. Quella ragazza stava tramando qualcosa: aveva un brutto presentimento. O forse era lei la paranoica che riconduceva tutti i brutti presentimenti alla castana.
«Non dirmi che non ti capita mai! Per esempio, tu ce l'hai, la faccia da William!»
«Sam, sarei pure potuta chiamarmi Ame-nigishi-kuni-nigishi-amatsuhiko-hiko-ho-no-ninigi-no-Mikoto, come la metti?»
«Impossibile», mugugnò la rossa.
«E tu cosa ne―»
«Impossibile.»
«Eh?»
Di fronte a loro, la capigliatura color cioccolato fondente scarmigliata, la pelle di un colore bello ― dovete sapere che ci sono cose impossibili da spiegare: una di queste era il colore della pelle di Marcel, la quale, a prima vista faceva pensare al tepore del sole, al fresco dell'ombra al mare. Gli occhi vispi color nocciola del diciassettenne erano proprio puntati sulle due amiche e le mani mollemente aggrappate alle tasche dei pantaloni.
Quel tipo portava solo camice a fantasia tartan.
Diamine, si sarebbe potuto dire attraente.
«Carotina e Blance-Neige!», le salutò sogghignando.
«Cioccolatino», grugnì Samantha.
Quello sorrise, tra gli incisivi una strana cosa verde ― forse della lattuga.
«Al primo anno non c'è nessuno da importunare quindi ci cercavi?», incalzò William.
«Anche», ridacchiò. «Nicky la svitata», e le orecchie dell'albina improvvisamente iniziarono a gradire le parole del moro, «mi ha proposto di andare a casa sua...»
Le due amiche si scambiarono un'occhiata complice.
«Quando?», chiese la rossa.
«Oggi, ma mi scoccia troppo ad andarci. Non starà mica pensando di riunire la classe, vero? Che rottura», sbuffò grattandosi con l'indice una guancia.
«Eh?!», squittì l'irlandese, «E tu? Non provarci, a venire! Oggi abbiamo un impegno noi con lei!»
«Appunto, sapendo che ci saresti stata anche tu, carotina, non ho potuto rifiutare!» e con il tono di chi la sa lunga diede qualche colpetto di gomito alla sua interlocutrice.
«Ma smettila!», lo spinse lei, avvampando.
Approfittando della distrazione dei due, e sentendosi decisamente il terzo incomodo, si allontanò velocemente ― un principio di tic nervoso che le minacciava l'occhio. Non troppo innervosita però, in quanto Nicole era solo una scusa da rifilare a Claude. Giusto.
Sfilando tra i corridoi, destreggiandosi tra gli alunni che li intasavano ― eccola. Le pepite turchesi che aveva per occhi come chiodi si piantarono sulla chioma arancio-castana della compagna di classe. Si accorse che stava parlando con qualcuno. Aggrottò la fronte, poggiando una mano sul fianco, indispettita; non si aspettava proprio nulla Nicole, eh? Uno scherzetto non avrebbe guastato.
Con nonchalance si avvicinò ancora, a grandi falcate, il brutto presentimento che tornava a galla, strisciando sotto la pelle color porcellana. Ascoltava sempre il suo sesto senso, ma ora sembrava essere l'ago impazzito di una bussola.
Accidenti!
Nicole stava cinguettando qualcosa, da civetta quale era. Le diede qualche colpetto sulla spalla, facendola sussultare.
«Will!»
La sopracitata sogghignò soddisfatta, guardando di sfuggita l'interlocutore della mora. Anzi, lo guardò intensamente. Interdetta, si pietrificò sul posto, somigliando vagamente ad una statua di marmo bianco.
Bianco.
Era lì, spruzzato come vernice sui capelli di quel ragazzo.
Il tipo dell'aeroporto!, pensò dopo qualche attimo deglutendo rumorosamente: le si era creato un noto in gola. Colui che avevano scelto per insegnare loro inglese le sorrideva ― gli occhi quasi viola, proprio come piccoli universi... come quelli della sua mamma.
Una gomitata, con molta delicatezza, la riportò con i piedi a terra, nel corridoio del liceo.
«Parlavo di te sai? Perché non sei venuta, ieri?»
Sembrava che le corde vocali si fossero prima cristallizzate e poi frantumate.
«Gardienne», la richiamò il professore. «William Leroy», sorrise poi all'albina, calorosamente.
«Cosa le ha detto?», distolse lo sguardo, avvertendo un familiare formicolio vicino agli occhi.
«Sciocchezze» e la castana storse le labbra, contrariata. «Non mi fido mai di ciò che dicono, io preferisco conoscere. Mi dispiace di non averti visto durante la lezione di ieri. Sono il professore Neru.»
«Mh, Neru?», un angolo delle labbra le si alzò, come agganciato da un amo invisibile, «Neru-san wa neru no ga suki?1»
Elijah batté le palpebre, disorientato, poi riconobbe la lingua. Quella ragazza era giapponese e ciò lo stupì, anche se forse quell'altra ragazzina glielo aveva detto ― non aveva prestato molta attenzione a Nicole, invero, sarebbe dovuto pure andare via. William stava per scusarsi, non sentendo alcuna risposta. Vide la compagna di classe ancora più spaesata e ciò la fece ridacchiare.
«Ah? Mochiron!2», sentì poi esclamare il professore.
Stupita, finalmente lo guardò negli occhi. «Hontō?3», domandò senza accorgersene, strabuzzando gli occhi. «Nihongo o hanasu?4»
«Scusate!», la petulante voce della castana interruppe quel grazioso dialogo facendo scoppiare a ridere il norvegese, smontando quella già di per sé flebile aria professionale ― in effetti sembrava ancora molto giovane, l'albina gli avrebbe dato al massimo venticinque/ventisei anni. Dopodiché la fine dell'intervallo venne annunciata dal trillare della campanella: il professore si ricompose, si schiarì la voce.
«Mi dispiace, devo proprio andare», disse, quindi si avviò verso le scale principali quasi accennando una corsa.
«Cosa cavolo stavate dicendo?!», borbottò Nicole, rivoltasi immediatamente a William.
William che non si aspettava di rivedere il ragazzo con la sciarpa bianca dell'aeroporto, di provare come se fosse la prima volta la bruciante sete di sangue, di parlare in giapponese con qualcuno dall'accento così strano o incontrare un albino parziale. La risata del giovane ancora, come un eco, risuonava nelle sue orecchie, cristallina, piacevole. Sfiorò con la lingua i canini notevolmente allungati, chinando il viso di lato: che sensazione strana.
Ignorando la domanda che le era stata posta, quasi fosse un automa, iniziò a camminare per tornare in classe, seguita da una Nicole incavolata nera.







* * *









«Prinzessin, stai bene?», le chiese il vampiro, svoltando a destra per imboccare il viale che portava alla villa. «Hai un'aria trasognata», sibilò poi, quasi fosse un reato. Non portava più gli occhiali ed ora gli smeraldi che aveva incastonati splendevano come non mai.
«Devi rispondermi ancora ad una domanda», cantilenò lei, tamburellando ritmicamente con le dita sulla cartella. Era l'unico modo per zittire Claude al momento, tirare fuori Henrike.
Samantha ci era rimasta davvero male quando le aveva detto di aver incontrato il professore nuovo, infatti glielo descrisse con accuratezza per consolarla, anche se l'avrebbe visto fra due giorni in classe. Informato Claude della sua uscita di studio, il vampiro non aveva fatto storie e questo, nonostante le creasse qualche sospetto, le alleggerì un poco la giornata. Sam sarebbe venuta lì e poi insieme avrebbero raggiunto la casa di Nicole, in teoria. In pratica, il baule in mansarda stava aspettando solo lei ― non voleva ritardare.
Varcando la porta e scendendo i due scalini, la vampira notò immediatamente qualcosa di diverso; si bloccò avvertendo in seguito il tedesco sbatterle contro di proposito.
«Allora? Ti muovi?», grugnì.
«Chi c'è, oltre Trevor?», domandò, assottigliando lo sguardo.
«Oh, allora non sei proprio un caso perso!», esultò il vampiro sorpassandola. Tutto d'un tratto pieno d'allegria ― la quintessenza della lunaticità. «Una ragazza deliziosa, in tutti i sensi. È in camera, meglio che non sali», gli intimò ridacchiando come un bambino.
«Cosa?!», sbottò. Non che le desse fastidio, ma...
«Gelosa
«Mph», sbuffò, «tu non c'entri nulla, ovviamente.»
«Ovviamente.»

Dopo essersi preparata una tazza di thé, sotto delle occhiate stranite di Claude ― nemmeno stesse rubando, salì in camera sua. Sentiva Trevor e la voce di quella tizia, ridacchiare e parlottare. Non aveva che fare fino alle sei, per cui tirò fuori gli auricolari e si distese sul letto: avrebbe letto un libro.
Non sapeva che l'umano avesse una relazione, ma ciò non avrebbe dovuto lasciarla talmente sbigottita! Insomma, Trevor era un ragazzo come gli altri, aveva diritto a frequentare chi voleva. Almeno lui. Anche se fosse, lei escludeva a prescindere qualche relazione sentimentale. Pensandoci, forse avrebbe dovuto fare i compiti invece di riflettere su cose che non le riguardavano. Oltretutto non riusciva a leggere una frase che le lettere si attorcigliavano. Perfetto!, sbottò mentalmente, si sarebbe annoiata a morte e non aveva nemmeno qualcuno con cui passare il tempo.
Chiuse il libro e lo ripose sul comodino vicino al letto, bevendo un sorso di thé... insipido. Aggrottò le sopracciglia, perplessa, mentre le note di “La Pluie” continuavano a danzare, meste. Oh, quanto avrebbe voluto un po' di pioggia. Quella canzone riusciva sempre a rilassarla, in un modo o nell'altro.

All'ora stabilita, il campanello della Villa Von Ritcher suonò, puntuale come un orologio a cucù. Colui che andò ad accogliere Samantha fu Claude, con i sorriso più falso di una maschera da clown. Fece accomodare la rossa sul divano e salì le scale per chiamare l'albina che presunse si doveva essere addormentata per dimenticarsi del suo appuntamento. La porta come al solito era chiusa, ma non si disturbò di bussare. Entrò nella stanza avvolta dall'oscurità, poi quasi il sorriso non gli cascò direttamente dal viso. Giù, fino al pavimento come un mattone di cemento.
Immediatamente una smorfia di pura rabbia sostituì la bellezza sovrumana del vampiro, stravolgendogli i tratti facciali. Non poté trattenersi dallo sferrare un pugno alla parete, facendo cascare giù qualche frammento di muro, ringhiando sommessamente. Tutto all'internò dell'abitazione tacque ed il cuore di Samantha perse un battito per l'improvviso tonfo; indecisa, era tentata di salire su a controllare cosa fosse successo, ma prima che potesse fare anche solo un passo, un ragazzo sbucò da un corridoio tutto affannato.
«Cos'è successo?», domandò, accorgendosi solo in un primo momento della rossa. «E tu perché sei qui?»
«Dovrei uscire con Will, ma c'è stato un tonfo», spiego velocemente non facendo caso alla maglietta messa al rovescio ed i pantaloni sbottonati di Trevor.
Determinata, corse su per le scale seguita dal corvino.
Claude, di spalle sembrava emanare pericolo da ogni poro: i muscoli tesi si potevano osservare da sopra la stoffa della maglietta e suoni simili a fusa graffianti stordivano l'udito. Trevor gli si avvicinò, come se avesse a che fare con quella creatura tutti i giorni ― oh, ma era così!
Anche Samantha riluttante mosse qualche passo all'interno della stanza, ma della sua migliore amica nessuna traccia.
William non c'era.
Il candido bianco era scomparso, sbranato dal nero.
Deglutì, le gambe che minacciavano di cederle e una profonda angoscia strisciante stava insinuandosi in lei. Vide il ragazzo dagli occhi di ghiaccio voltarsi verso quella fanciulla dalle mille lentiggini, allarmato, le parole che rimbombavano, quasi si trovassero sott'acqua. Stava gridando?
Poi, anche lei fu inghiottita dal buio.













Deliri Note dell'autrice:
«Neru-san wa neru no ga suki?1»: “Le piace dormire?”, ma è anche un gioco di parole, in quanto neru (寝る) è il verbo dormire. VBB, COSE SQUALLIDE.
«Ah? Mochiron!2»: “Ah? Certo!”, a chi non piace dormire, scusateh.
«Hontō?3»: “Sul serio?/Davvero?”
«Nihongo o hanasu?4»: “Sa parlare giapponese?”

TA-DAH!
Potete anche lanciarmi patate, sono pronta con l'armatura. In questo capitolo finalmente Will ed Elijah si parlano, GENTEH, ceh. Ma poi Will scompare, quindi Claude distruggerà il mondo. Proprio mentre Trev iniziava a farsi una vita sociale. Samantha si trova lì alla cavolo. (???) Okay, no―... La situazione è alquanto critica e del tutto improvvisata, quindi nemmeno io riesco a prevedere come finirà il tutto. Penso che qualcuno mi picchierà. (...)
Non riesco a scrivere seriamente a quest'ora e dopo una giornata che nemmeno NONSOCHI.
Ma VABBENE. Pretendo l'oscar: avevo pure perso una pagina del capitolo, la quale fortunatamente ed ovviamente ho ritrovato. Quanto sono incapace. °A°"
Eeeeeee quindi nulla, a tutti quelli che nonostante i ritardi continuano a leggere g r a z i e.
Alla prossima, si spera puntualmente,
―L o t t i e.

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Capitolo 19
*** Vino rosé diluito con un goccio tristezza. ***


Vino rosé diluito con un goccio tristezza.








Molte volte i sogni sono trappole utopiche, piene di ideali e persone a noi care che altrimenti vedremmo solo in foto; un po' è per questo che non dovremmo avvicinarci troppo. Come falene finiremmo scottati.
Eppure, dopo tanti supplizi, perché non far crogiolare la mente in un simile piacere? Proprio per questo tra un campo pieno di fiori, quelli celesti che crescevano nel balcone della nonna giapponese, William si lasciava cullare dalle braccia del padre. Il volto di Alexandre, pian piano andava sfumando, insieme al vento che iniziava a soffiare sempre più violento ― un pianoforte in lontananza suonava Sweet Dreams Are Made Of Screams. La melodia sembrava invitare le nuvole d'argento fuso che si incamminavano verso il prato ed il viso dell'uomo ormai era come una televisione bloccata su un canale statico: i tratti del viso erano distorti da tutte quelle interferenze. Decisamente il confine tra sogno ed incubo è troppo sottile.
In quel momento il freddo si fece strada sotto la pelle di porcellana e subito dopo lei cadde, dove non lo sapeva, ma stavolta vi era un braccio teso a salvarla. Quindi non ci pensò due volte ad afferrare quella mano che la tirò su. Non vide mai il proprietario di quella mano liscia e gelida, in quanto lentamente Morfeo decise di abbandonarla.
Quando riuscì a vedere bene di fronte a sé, riuscì a capire che era buio pesto. Non era agitata, nonostante l'incubo dalla quale era riuscita a fuggire. La stanza era priva di finestre, il letto morbido, confortevole: deliziosamente piccolo. Un comò era posto alla sua destra con sopra delle fotografie ed un orologio da polso ancora funzionante. Tutto ciò la fece rabbrividire o meglio, le persone che venivano ritratte la facevano star male ― lei e sua madre. Una piccola William in fasce era raffigurata in una cornice ovale ed accanto Yoshiko con una decina di anni in meno le sorrideva. Ora la domanda che le ronzava in testa era «chi poteva possedere quelle foto?»
Voltò il viso dalla parte opposta: vi era il baule, quello che avrebbe dovuto controllare nuovamente con Samantha.
Per quanto riusciva a ricordare era ancora in camera sua ad ascoltare la musica, forse un po' assonnata, ma poi tutto si interrompeva lì. Ed eccola, ora, nella stanza di un qualche potenziale stalker. Bene, benissimo.
Nella vita attirava solo gente disturbata, doveva farsene una ragione.
Indossava ancora i propri vestiti, solo le scarpe si trovavano ai piedi del letto. Si mosse sotto le coperte per poi sollevarle e poggiare i piedi al pavimento marmoreo. Con lentezza si mise in piedi, non senza un capogiro, come reduce da un'influenza ― il che era quasi nostalgico.
Allo stesso tempo lo scoccare di una serratura la fece immobilizzare sul posto, facendole trattenere perfino il respiro. Affinò l'udito, scorgendo il sospiro affranto di qualcuno, poi il fruscio di un indumento ed infine dei passi avvicinarsi. Perché non riusciva a muovere un passo?
Si sedette nuovamente stringendo tra le dita quell'anonimo copriletto bianco ― aspettò.
Sadicamente la maniglia si abbassava con pigrizia e la luce fioca del corridoio iniziava a proiettarsi attraverso la fessura fino ad un angolo della stanza, quindi l'uomo entrò, quasi esitando. Lei che accigliata studiava quella figura, per poco non perse i sensi scorgendo quel volto; sgranò gli occhi similmente a quando ci si trova di fronte uno spettro ed in effetti... era così.
Alla sua vista, Alexandre, invece addolcì i tratti del viso, gli occhi rosati languidi ― sul procinto di frantumarsi come uno specchio.
«Mon petit trésor
Era davvero lui, non la continuazione dannatamente reale del sogno.
«...Perché?», le labbra tremanti, che si arricciavano come boccioli di rosa ed una disperata voglia di far cadere ogni apparenza, ogni maschera. Suo padre abbozzò un sorriso e quella bella facciata cascò, sbriciolandosi in mille pezzi: non poteva più resistere, quindi pianse.
Grosse lacrime luccicanti come mille stelle corsero giù dal suo viso per poi scontrarsi con la superficie dei suoi pantaloni.
Senza sapere come, ecco che si ritrovava avvinghiata all'uomo, scossa da violenti singhiozzi mentre delicatamente, con la familiare dolcezza di quattro anni prima, Alexandre le carezzava il capo albino sussurrandole parole dolci all'orecchio. Si sentiva così a casa, così sicura tra le braccia forti di quell'uomo col codino.
«Non m-mi lasciare, ti prego. Non a-andartene più» e lo stringeva ancora, con la paura che potesse dissolversi da un momento all'altro.
Ma Alexandre non lo fece; rimase lì fin quando William non riuscì a calmarsi. Anche tentare di sciogliere quel semplice ma solido abbraccio significava far scattare sull'attenti la figlia.
«Mi metto seduto vicino a te, d'accordo?»
Lei annuì impercettibilmente, nonostante ogni fibra del suo corpo si rifiutasse categoricamente di farle aprire le braccia.
«Finalmente», ridacchio l'albino ― questo fece fare un sorriso anche a William.







* * *









«Hai mandato a casa la tua ragazza?»
«Non è la mia ragazza.»
«Dettagli, futili dettagli», due mani batterono e poi sfregarono tra loro. «Bene, che si fa della redhead
Una specie di grugnito provenne dal divano e Samantha, ancora priva di sensi, rotolò a pancia in giù, un braccio incastrato tra due cuscini.
«Verdammt, non ci sono più le fanciulle di un tempo!», melodrammatico, il vampiro portò una mano alla fronte.
«Aspettiamo che si svegli, no?»
«No. Ho una certa fretta, sai» ed ecco che incombeva sull'indifesa sedicenne.
«Mhh», mormorò quest'ultima alzandosi sui gomiti, ancora con un piede oltre il confine del sonno.
«Oh! Ma tu guarda che tempismo», esclamò Claude e Samantha sentì la mano ghiacciata del tedesco posarsi sulla nuca. Lei rabbrividì. Poi, come se fosse un micio, facendole riprendere tutta la lucidità la girò. A quel punto, avendo guadagnato la sua attenzione, sorrise mettendo in mostra, pavoneggiandosi con i lunghi canini. «Che ne dici di una donazione?», lo sguardo verde scintillò.
«Mai! A-aiuto..!», mormorò appiattendosi alla spalliera, fissando male il vampiro.
«Claude!», esasperato Trevor, corse in aiuto di Samantha. «Ci sono le sacche di sangue e Samantha è un'amica di Will.»
«Trevor, perché non mi lasci fare?»
«Dov'è William?!», strillò la rossa in mezzo ai visi dei due che sussultarono ed arretrarono, ognuno a cercare di capire se il proprio timpano si era rotto o meno.
«Ecco...», iniziò l'umano.
«Risparmiati l'epilogo: so già tutto», brontolò lei. «Dov'è William?»
«Ti sei incantata?», sbottò il vampiro.
«Non mi fai paura.»
«Hai visto troppi film, ed anche sbagliati, se te ne esci con questa frasetta», ringhiò Claude già al limite della propria pazienza. Generalmente non si sarebbe scaldato troppo, ma in quel frangente sentiva preso di mira il proprio orgoglio da vampiro in quanto non si era accorto di nulla ― nella stanza dell'albina, inoltre, c'era l'odore di qualcun altro. Assottigliò le palpebre riducendo gli occhi a due fessure, completamente perso nei propri pensieri: conosceva il sonno di William, così pesante che nemmeno i cannoni avrebbero potuta svegliarla ― fattore facilmente sfruttabile se doveva guardarla mentre teneva la guardia abbassata o per qualcuno intenzionato a rapirla. Ma chi avrebbe voluto rapire quella ragazzina? Tra i vampiri che volevano estirpare le generazioni di Cacciatori, oltretutto, l'identità dell'albina era pressoché sconosciuta.
Il campo si restringeva.
«Tu, Anna dai capelli rossi, cosa dovevate fare oggi pomeriggio?»
«Mi chiamo Samantha, se te lo fossi dimenticato. Dovevamo studiare insieme a dei nostri compagni», certo non sarebbe venuta meno alla promessa fatta: Claude non doveva sapere.
«E dove sono i tuoi libri?»
Oh-oh.
«Non potrebbe essere uscita per una passeggiata o che ne so? Non manca da molto, in fondo», suppose Trevor, cercando di calmare i bollenti spiriti dei due.
«No», rispose immediatamente il vampiro.
«Impossibile», sentenziò la rossa.
Poi entrambi si frustarono con gli occhi.
Trevor avrebbe giurato di scorgere delle scintille.
«Potrebbe essere stata Michela», ruppe il silenzio Claude.
«Ma... perché?»
«Non lo so», biascicò portando pollice ed indice alla base del naso.
A quel punto Samantha si alzò davvero stufa delle chiacchiere dei due, quindi si avviò verso le scale, diretta nella camera di William. O almeno, erano queste le intenzioni prima che il tedesco le si parasse di fronte, minaccioso.
«Dove pensi di andare, ragazzina?»
Lei deglutì, alle spalle poteva sentire gli occhi gelidi dell'altro ragazzo sulla propria figura. «Devo controllare se Will ha lasciato qui il cellulare.»
«Oh...», rifletté l'umano, «Samantha, sei un genio!», gridò quindi raggiungendo i due. «Scommetto che ti servirebbe anche un portatile.»
«Eh
Trevor guardò Claude, più che eloquente.
«Capito, capito», borbottò questo e, dopo un cenno sbrigativo con la mano, quasi fosse trasportato dal vento scomparì.







* * *









«Perché non ti sei fatto vivo prima? Ti credevamo morto, eppure―»
«Io sono morto», la interruppe bruscamente, stringendole poco la mano. «E anche tu», aggiunse con tono grave, abbassando le palpebre. «Sei davvero giovane ed inesperta e non ti sei accorta di nulla nella foga dell'abbraccio, quest lo capisco, ma anche tua madre ci ha fatto caso.»
«Co-cosa? La mamma già sapeva..?»
«Prima che partisse. Le ho consegnato io la chiave del baule.»
«A cosa non ho fatto caso, papà?», chiese con impazienza, non riuscendo ad intercettare lo sguardo rosato dell'albino. Non riusciva a comprendere, dannazione. Poi Alexandre la piccola mano sul proprio petto.
Ed ella capì.
Oh, eccome se lo fece.
Premette anche, ancora di più su quel petto, quasi volesse infiltrarsi tra quelle costole e la carne per raggiungere il cuore. In quel punto, dove da piccola poggiava il visino, assonnata, ora era come se vi fosse il nulla. Il cuore di suo padre non batteva ― alzò gli occhi celesti, scossi, trovando per fortuna il sostegno di quelli di Alexandre.
Quest'ultimo si aspettava una reazione disastrosa da William ed invece lei mantenne una compostezza degna della più bella statua dall'espressione apatica.
«Cos'hai fatto in questi anni?», domandò solamente lasciando scivolare il braccio sul materasso, sfuggendo al più grande quasi fosse sabbia tra le dita. Ripensando al giorno del funerale, al corpo di suo padre vestito di tutto punto per un viaggio di sola andata dentro una tomba, alla faccia addolorata i sua madre in abito nero. A tutto. Quindi, era solo una menzogna, quella? «Io... ho convissuto con i sensi di colpa di― per non essere stata una buona figlia e..!» e nulla. Non riusciva ad andare avanti senza rischiare di nuovo le lacrime. Inspirò.
L'albino rimase interdetto, poi smosse con le dita lattee il ciuffo di capelli immacolato che gli copriva la visuale. La sua bambina pensava di non essere stata una buona figlia e ciò lo riempiva di tristezza.
«Sono, anzi, ero un Cacciatore, prima di scontrarmi con lei», si alzò dal letto, lasciando che il materasso andasse alla deriva, mentre lui congiungeva le mani dietro la schiena, perdendosi nei ricordi di quel lontano giorno di quattro anni fa.
«Ovviamente era giunta la sua ora se mi avevano dato l'ordine, eppure era così tranquilla: accettava il suo destino. Mi ricordava te, in un certo senso. Suppongo avesse la tua età quando la trasformarono», sospirò.

«Il famoso Cacciatore Bianco, Alexandre, suppongo», la vampira lo osservò con un pizzico di curiosità nelle iridi marroni, studiandolo in modo alquanto esplicito, poi sorrise, porgendogli la mano. Il suddetto rimase alquanto perplesso a quel comportamento, in quanto, solitamente non incontrava in quel modo i vampiri e poi quest'ultimi non erano mai amichevoli. Nonostante ciò strinse la mano a quella ragazza.
«Henrike Krämer», mormorò.
«Henrike Ophelia Krämer, Nikie per gli amici», lo corresse sorridendo.
Bene, era una situazione davvero insolita. Ed ora, cosa avrebbe dovuto fare?
«Non dici nulla?», gli domandò lei chinando il visino di lato, lasciando la mano pressoché bianca del Cacciatore. Le illuminava lo sguardo ed ora capiva perché era anche nominato L'Ange de la Mort: sembrava sul serio un essere ultraterreno che donava la morte a quelle creature dannate come i vampiri.
«Di solito, sai, è tutto un po' diverso», le confessò.
«Capisco, sì», con l'aria pensierosa osservò il marciapiede. «Gli altri non si offrono così facilmente, presumo. Ma io ho la bellezza di quasi mille anni e la vita appare ormai così noiosa, la morte mi sembra l'ultima perfetta esperienza che potrei fare. Dimmi, Cacciatore, posso chiederti un favore?»
«Dipende, anche se dovrei solo ucciderti», sorrise appena. Di fronte a sé si erigeva praticamente un pezzo di storia e non riusciva a non provare rispetto per lei. Sembrava davvero una ragazza sui diciassette anni e gli occhi di un caldo color cioccolato erano limpidi, non come gli altri. Stare vicino a quella vampira infondeva una sorta di serenità.

«Qual era il suo favore?», chiese William ora del tutto rapita dal racconto del padre.
«Di lasciare vivere il suo compagno», Alexandre sorrise con amarezza poggiando le mani sul comò, inspirando profondamente, «Claude Von Ritcher.»
A quel punto tutto il mondo crollò sulle spalle della vampira e quelle parole le rimbalzarono addosso pesanti come mattoni. Il bisogno di sapere ora era irrefrenabile e, per quanto i pezzi del puzzle nella sua mente iniziavano ad unirsi, si alzò andando vicino al padre. Il nome di Claude le faceva venire solo i conati se pensava avesse avuto una relazione con la stessa vampira che uccise suo padre. Tutto era già segnato quindi e, forse, nemmeno quell'incontro mattutino era casuale.
«Comunque accettai, seppur sapessi che prima o poi toccasse anche a lui. Ma non fu così facile», la voce calda di Alexandre sembrava essersi congelata mentre osservava con insistenza il legno del mobile e, a tratti, si torturava le labbra, «Claude non sapeva. Era allo scuro di tutto, fin quando quella sera non trovò la sorella.»

Il patto era fatto, era finalmente arrivata l'ora di adempiere al suo compito. Non aveva mai discusso con un vampiro per tutto quel tempo ed ora capiva perché non andava bene: si iniziava a prendere una pericolosa confidenza con quella belva e quindi si abbassava la guardia. Si trovava di fronte a lei che finalmente era pronta ad andarsene per sempre, il legno contro la pelle del palmo della mano destra, l'impugnatura salda. Come doveva essere quella di un esperto.
«Nikie, allontanati da lui!», urlò il corvino, le zanne sguainate e gli occhi iniettati di sangue. Alexandre non l'aveva visto arrivare, e come poteva data la velocità inumana di quegli esseri? Scattò verso di lui senza pensarci due volte, in quel momento troppo occupato per preoccuparsi della promessa fatta alla vampira. Non conosceva per nulla il suo compagno, ma sembrava un tipo molto impulsivo, quindi anche molto ingenuo. In poche parole, stupido. Se osava presentarsi in quel modo ad un Cacciatore la quale fama precedeva sempre la sua persona.
Furono gli istanti più lunghi della sua vita quelli che videro frapporsi alla figura del vampiro quella di Henrike ed allo stesso tempo anche quelli più veloci. Disgraziatamente, non riuscì a fermarsi in tempo e trafisse la ragazza con il paletto, prendendo anche un'angolazione alquanto storta a causa del tentativo di arrestare il suo attacco. Forse, anzi, sicuramente la punta del legno aveva colpito il cuore della vampira non in pieno e nemmeno di striscio: una dolorosa via di mezzo che le avrebbe donato il peggiore ricordo della morte.

L'albino avrebbe voluto prendersi la testa fra le mani tanto non avrebbe voluto ricordare quell'episodio, invece i suoi pensieri vennero interrotti dalla suoneria di un cellulare ― William sussultò.
«Samantha!», esclamò sgranando lo sguardo. Poi si rivolse al padre chiedendogli indirettamente un consiglio, quello, leggermente sollevato le fece segno del via libera. Non era certo un sequestratore, in special modo se quella di fronte a lui era sua figlia.
«Ehy», rispose visibilmente nervosa.
-Oddio..! Will, stai ben―-
-Prinzessin!-
-William!-
«Samantha, dove sei?!» urlò sull'orlo dell'isteria l'albina, il campanello d'allarme che aveva trillato subito dopo l'esclamazione di Claude. Sentì Samantha borbottare qualcosa ai due, una sorta di rimprovero ed il tedesco protestare nella sua lingua madre.
-Dove sei tu, William Leroy!-
Alexandre aggrottò la fronte.
«In verità... Non... lo so, ecco», in parte era vero, no?













Deliri Note dell'autrice:
Fangirlo per il mio stesso capitolo. Il fatto è che tengo un sacco al personaggio di Alexandre, quindi spero di aver reso bene il tutto e di non aver creato confusione o fatto errori gravi, anche se a quest'ora il sonno gioca brutti scherzi. °A°
Quindi domani ricontrollerò il tutto, lo prometto. (?)
Come sempre si ringraziano i lettori silenziosi che con le loro visite mi rendono comunque felice e la Senpai che continua a sostenermi. uvu E mi55 rixxy, che ha recensito il prologo ed aggiunto la storia alle preferite. ♡
―L o t t i e.

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Capitolo 20
*** Fantoccio tra le fauci della tigre. ***


Fantoccio tra le fauci della tigre.








Era di giovedì che avrebbe dovuto avere la lezione d'inglese più lunga della sua vita e, teoricamente, era già giovedì: l'orologio da polso di Alexandre sul comò le annunciava che la mezzanotte era passata da circa tre minuti.
Samantha dall'altra parte dell'apparecchio le aveva spiegato molto semplicemente come far rintracciare il proprio cellulare dal portatile di Claude―il vampiro aveva un portatile, già. Che lei non ne fosse a conoscenza era plausibile visto e considerato che la camera del tedesco era una sorta di punto caldo della villa: non ci si avvicinava mai.
Il colore rosato dell'iride di suo padre sembrava essersi incendiato e lei si morse le labbra con veemenza voltandosi verso il letto per dare le spalle a quegli occhi così penetranti nell'oscurità della camera e poter pensare con razionalità. Con le dita di porcellana ad attorcigliare una ciocca di capelli ostentava calma.
-Will, ci sei?-
«Mh-mh. Aspetta un attimo: ti richiamo io se posso», così, le chiuse la chiamata in faccia, sospirando pesantemente.
«Cosa vuoi fare?», le chiese Alexandre.
Ed in quel momento sussultò, quasi fosse stata colpita da un tizzone ardente e capì―capì che non ci sarebbe stato nessuno a salvarla in quella realtà contorta se non lei stessa. Cosa voleva fare? Ciò che sapeva fare meglio, ovviamente.
«In quel baule ci sono le tue armi», nonostante non fosse una domanda, l'altro annuì. L'albina fece il giro del letto e si chinò davanti al baule per aprirlo.
«Cosa vuoi fare?» le ripeté con una nota d'apprensione il padre.


Dopo qualche minuto, sette ne contò il tedesco, ancora nessuna notizia di William e starsene seduto sul divano a non fare nulla lo innervosiva a tal punto che non riusciva a far smettere la gamba di tremare. La sua non era normale preoccupazione, quello si chiamava perdere il controllo ed un come lui non era abituato a ciò: avrebbe preferito che gli tagliassero un arto, piuttosto. Solo lui avrebbe potuto uccidere William. Lo sapeva, ci aveva impiegato troppo tempo. Accidenti.
«Verdammt» sibilò pressando con forza la mano destra sulla coscia.
«Mi stai mettendo ansia», mugugnò Samantha concentrata con lo sguardo sullo schermo del computer.
«Samatha!» esclamò Trevor calando gli occhiali sul naso. «Il pallino! C'è un pallino!» ed ecco che in men che non si dica il corvino si era unito ai due.
«Dov'è? Devo andare a prenderla e poi staccare la testa a chi l'ha presa.»
Lo sguardo verde della ragazza dai capelli rossi gli si posò un attimo addosso, forse preoccupata poi inspirò. Claude non gli piaceva. «È in un magazzino abbandonato... lo conosco», mormorò.
«Bene. Ora tu, signorina, ti fai accompagnare a casa da Trevor che io vado a recuperare l'albina.»
«No!», protestarono i diretti interessati.
«T-tu non sai dov'è, posso accompagnarti!», propose Samantha.
«Devo costringerti con la forza, mh?»


Alexandre Leroy non sapeva come ci fosse finito, lì. O sì. Era tutto abbastanza confuso se provava a rifletterci e l'odore di sangue non lo aiutava benché sapesse resistere. Ricordava bene quel capannone e come la piccola Samantha e William si fossero perse in quel luogo: lui ed il padre dell'altra ragazza erano rimasti abbastanza sorpresi. Alla fine la situazione si era risolta per il meglio e quelle due canaglie avevano adottato quel capannone abbandonato come un luogo segreto dove incontrarsi.
Ma ora non sarebbe stato più così: in mezzo al pavimento polveroso vi era sua figlia William―non ferita gravemente, per carità, ma non sarebbe stata capace di mettersi seduta senza l'aiuto di qualcuno. Lui invece era in attesa, abbracciando una balestra, dell'arrivo di Claude. La tensione era palpabile ed il suo disagio poteva tagliarsi con un coltello se fosse stato un oggetto tridimensionale. Si sentiva anche abbastanza sciocco e per nulla un buon padre, in quel momento.
Poi in un battito di ciglia―il vampiro era già lì. Affinò lo sguardo e punto l'arma contro le spalle del corvino ora piegatosi verso l'albina, non aveva più bisogno del mirino. Sentiva qualcosa intorno a lui, qualcosa che lo intorpidiva, lo chiudeva in una scatola trasparente e lo aiutava a concentrarsi―senza, si disse, non riuscirei a fare nulla. Si ricordò: lui era un cacciatore, Dio, la balestra gli pesava quasi: era fredda, pesante, bollente allo stesso tempo ma il grilletto no, quello era fin troppo leggero ed aveva paura.
Paura di uccidere, condannare la persona a cui teneva di più.
Bastava così poco.
E proprio mentre veniva scosso da un momento di pace, abbassò l'indice.







* * *









Una settimana dopo, altro giovedì.
Cos'era cambiato, precisamente? Nulla. O... Claude era ancora più protettivo nei suoi confronti. Sapeva che era sbagliato pensarlo, ma trovava suo padre davvero un incapace: aveva avuto la schiena del vampiro servita su un piatto d'argento, quindi, perché evitare il cuore? Perché lasciarla ancora con lui? Anche Alexandre era sadico? Strinse la matita fra i denti, visibilmente nervosa: la presenza di Neru la mandava in subbuglio, la gola sembrava foderata di carta vetrata.
Nonostante non ne fosse sicura, pensava che il professore si rendesse conto del cambiamento che subiva l'albina ed anche lui non scherzava. L'espressione del ragazzo di faceva più seria e la voce pacata e calma come quella di un ipnotista; gli alunni della seconda G non potevano che prestargli attenzione, tutti tranne William. Uno sguardo in più verso il professore e sarebbe stata la fine, quindi continuò a sfogarsi torturando quella povera matita, osservando fuori dalla finestra le nuvole grige e minacciose compattarsi fino al suono della campanella.
Forse lei fu la prima ad uscire dalla classe, seguita da Samantha. Stavano scendendo le scale―ovviamente Nicole la fissava, ce l'aveva ancora con loro per non essersi presentate quel giovedì scorso, ma non potevano spiegarle ciò che era accaduto realmente.
«Comunque vedi di stare attenta.»
«Mh? Possiamo parlarne dopo? Magari per telefo... no», William abbassò lo sguardo. Si sentiva più leggere in effetti, ma non avrebbe mai pensato di dimenticare la cartella in classe!
«Oh, Will, hai dimenticato―!»
«Grazie dell'acuta osservazione, Sam», roteò lo sguardo, fermandosi facendo andare in confusione gli studenti dietro di lei come formiche spaesate, «puoi andare avanti ed avvertire Claude che arrivo tra un minuto?»
«No problem», la rossa oscillò non curante la mano riprendendo a camminare mentre l'albina, voltatasi, si faceva largo tra la folla.
Già una rampa di scale dopo, si presentava di fronte a lei la desolazione di una scuola priva di studenti. Si sarebbe data una mossa, ma di vedere il tedesco non ne aveva proprio voglia, piuttosto, si chiedeva quando suo padre si sarebbe deciso a farsi vivo o uccidere direttamente il vampiro. Istintivamente portò una mano al fianco a tastare da sopra la stoffa il punto in cui si era fatta conficcare un paletto―avvertiva la pelle ancora pericolosamente sottile e tutto ciò perché anche come vampira faceva schifo, perché non riusciva a bere il sangue e le sue capacità rigenerative erano poco superiori a quelle umane. Camminando per il corridoio, rifletté nuovamente su quanto tetra e deserta diventasse la scuola senza gli alunni a popolarla. Fuori le nuvole tenevano alla larga i raggi del sole, scure e pronte a riversare sulla città un bel temporale.
Uno strano brivido le percorse carezzevole la schiena fino alla nuca; deglutì in modo forzato e finalmente di fronte alla porta dell'aula la aprì con un colpo secco―contemporaneamente al tuono che rimbombò greve tra quelle quattro mura, subito dopo accompagnato dal lampo celeste.
Proprio quest'ultimo illuminò, spettrale, la figura seduta dietro la cattedra.
«P-prof!» boccheggiò l'albina retrocedendo.
«Willia―» Elijah si morse il labbro, «Leroy, hai bisogno di qualcosa?»
«No, ecco... in realtà ho dimenticato la cartella quindi sì», mosse velocemente qualche passo all'interno dell'aula, «l-la prendo e vado.»
L'altro annuì velocemente prima di sollevare nuovamente il viso dai vari documenti che occupavano la sua visuale, quindi inchiodò quei due frammenti d'universo impunemente sottratti dal cosmo sull'albina. «Potrei parlarti?»
«Ora?!»
Il ventiquattrenne aggrottò la fronte. «Non vuo―»
«N-no, voglio dire, certo», si sistemò in spalla la borsa e, seppur con riluttanza si avvicinò all'insegnante: troppe sensazioni insieme. «Mi dica.»
«Forse non è compito mio, ma ti vedo sempre parecchio distratta dalla lezione... va tutto bene?»
«Sì», soffiò stringendo la bretella della borsa, «ora... devo sul serio andare.»
Nonostante ciò. Nonostante quella frase, quello che in realtà desiderava in quel momento era del sangue, andava bene anche una goccia, una soltanto. E mentre si avvicinava a quel collo, la voce di Elijah veniva piacevolmente coperta dal battito del suo cuore. Mentre sentiva che la William umana avrebbe fatto un altro passo verso lo strapiombo fino a venir inghiottita―ecco che qualcuno la tirò per i capelli: Claude.
«Sapevo che ci stavi impiegando troppo tempo», mormorò tra sé e sé, «ma non pensavo che ci stessi provando con il tuo professore», ghignò.
«Non ci sto provando con nessuno, lasciami i capelli!» si lagnò l'albina senza staccare lo sguardo cremisi da quello del giovane principe.
Quest'ultimo stava già per alzarsi e magari darsela pure a gambe, scioccato ma comunque ancora inconsapevole di chi aveva, in realtà, di fronte.
«Riprendi un attimo la lucidità e lascia fare a me, mh?» quindi con nonchalance, scaraventò William al muro per concentrarsi sul ventiquattrenne tutt'uno con la parete.
«Stammi lontano!», ma, pronunciate queste parole, Claude era già ad un palmo dal suo viso―troppo vicino. Elijah, senza via di fuga, si limitò a deglutire il nodo che gli si era formato in gola e scostare lo sguardo da quello magnetico del vampiro.
«Eh no, devi guardarmi», sorrise Claude prendendogli il viso con una mano, comprimendogli le guance per costringerlo. «Non puoi muoverti e neanche urlare. Batti le palpebre se hai capito. Perfetto!»
Si voltò quindi verso l'albina, lasciando scivolare via la mano dal viso di Elijah; quest'ultimo avrebbe voluto correre via eppure nessuna parte del proprio corpo sembrava voler collaborare, poteva solo osservare―come la piccola preda di un'incantevole tigre bianca guidata dal perfido addestratore. La vide allungarsi sulle punte per poter raggiungere il collo eppure Claude la fermò ancora per indirizzarla sul polso del ragazzo, di quel povero manichino. Gli alzò la manica della camicia e porse l'arto all'eterna sedicenne.
Avvertì distintamente le punte dei canini aguzzi conficcarsi nella propria carne, il pungente dolore irradiarsi in tutto il braccio e la schiacciante sensazione d'impotenza stringergli le interiora: era come se la propria giovinezza venisse risucchiata via. La sentiva e non la sentiva, mentre chiudeva gli occhi, lasciava che la vita fluisse via da lui e pian piano esalava respiri sempre meno regolari. E proprio quando credette che avrebbe iniziato a vederci sfocato, la vampira si staccò―era tutto così irreale.


«Quindi sei passato da essere il mio ragazzo, a stalker... a tutore? Potevi inventarti qualcosa di meglio.»
Claude rise senza far rumore a quelle parole, svoltando con l'auto per addentrarsi nella vegetazione che circondava la villa. Poco dopo, molteplici gocce iniziarono a cadere sofficemente sul parabrezza dell'auto creando eleganti mosaici d'acqua.
«Mi ascolti?»
«No. Sono troppo concentrato a capire perché tu non abbia vomitato il sangue di quel tizio. Come ti senti?», spense l'auto, voltandosi verso l'albina.
«In colpa
«Suvvia, dovresti essere felice.»
William stava già salendo pigramente le scale, incurante della pioggia: i candidi capelli erano aderiti in più punti sul viso, come i vestiti sul corpo snello. «E invece no, credi stia bene?»
«Oh, cielo, devi esserti presa una bella cotta per preoccuparti così!» ribatté lui sogghignando.
La più giovane buffò, lasciandolo passare per aprire il portone, poi lo sorpassò. «Ti odio», mormorò quindi saltellando giù per i tre scalini come un piccolo pettirosso, frustando l'aria con i capelli e lasciando dietro di sé una scia di goccioline.
«Allora mettiti in fila», si limitò a cantilenare Claude chiudendosi il portone alle spalle.


Aveva iniziato a piovere, forse già da una buona mezz'ora.
L'unica cosa che poteva fare Elijah era ripararsi il capo con la propria valigetta in pelle, infischiandosene dei vestiti ormai più bagnati che asciutti. Sentiva la testa pesante, come se stesse per venirgli un forte mal di testa ed aveva l'impressione di dimenticare qualcosa―prima di farsi venire seriamente un'emicrania, arrivò al condominio dove aveva affittato un appartamento. Come da routine salutò la portiera e togliendosi la giacca fradicia salì le scale fino al terzo piano.
Aprì la porta con su appeso un cartellino di benvenuto ed una volta dentro l'aria satura di pioggia l'accolse quasi calorosamente―aveva dimenticato di chiudere le persiane la mattina, già. Sorrise al nulla, quindi si diresse verso la cucina dove poggiò su una sedia la giacca e su un'altra la valigetta. Allentò il nodo alla cravatta ed in seguito anche lui si sedette, sospirando.
In quelle giornate gli capitava di pensare a Synnøve, era certo che a lei, almeno, mancava la sua presenza―e forse la sorella Victoria si era pentita di aver sventolato la verità sotto il naso dei loro genitori... seh, a chi voleva prendere in giro? Quella vipera non aspettava altro per accaparrarsi il titolo di erede.
Uno starnuto, soffice, varcò le labbra dell'ex-principe, quindi decise definitivamente di togliersi di dosso gli abiti umidi e andare a fari una doccia calda.
Il lavoro di insegnante tutto sommato gli piaceva: in ventiquattro anni non era mani andato normalmente a scuola, come giusto che sia per il figlio del re di Norvegia: lui aveva degli insegnanti privati, di conseguenza insegnare in un liceo lo riempiva di una strana quanto genuina felicità. Questa felicità poco a poco scemava man mano che William Leroy continuava ad essere assente o, quasi con nervosismo, si girasse ovunque tranne che la lavagna o lui stesso spiegare l'argomento giornaliero. Quella ragazzina in qualche modo lo incuriosiva parecchio, parlarle era la sua priorità e proprio quel pomeriggio si era presentata una buona occasione per farlo... Aggrottò la fronte poi tirò indietro i capelli bicolore.
«Jævla1», mormorò mentre l'acqua tiepida delineava il profilo del viso ed i lineamenti del corpo, mentre i muscoli contratti e tesi potevano districarsi e alleviare per qualche attimo la strana tensione accumulata. Abbassava le palpebre e pur sforzandosi non riusciva a comporre quel puzzle che aveva in mente, ma piuttosto vedeva, come in un tunnel, due gemme verdi avvicinarsi, magnetiche come quel paio di labbra sogghignanti che avrebbe voluto tanto mordere.
Non posso permettermi certi pensieri...”, pensò poggiando la fronte sulle mattonelle fredde.








Jævla1= Accidenti.

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Capitolo 21
*** Porcellana rotta, urla silenziose. ***


Porcellana rotta, urla silenziose.








L'aria era ferma, sporca, stantia come l'acqua che ristagna in qualche pozzanghera―probabilmente in quella stanza non si apriva una finestra da giorni. Claude stava iniziando ad odiare quella luce giallognola che proiettava il lampadario e rimbalzava sui mobili d'arredamento abbastanza impolverati. Il tedesco tirò indietro i capelli neri osservando ancora, accigliato e pensieroso, quella freccia dalla punta in argento―la stessa punta che lo avrebbe ucciso definitivamente.
Ci rifletteva da giorni, ma non riusciva a comprendere perché gli sembrava tanto familiare, qualcosa gli sfuggiva. Come il perché di tanta goffaggine usata per scagliarla. Il paletto che invece aveva estratto dal fianco di William lo aveva riconosciuto fin troppo bene: solo un uomo avrebbe potuto intagliarlo. Eppure...
Lanciò la freccia sul comò, massaggiandosi le tempie con entrambe le mani. Alexandre Leroy era morto, non vi erano motivi per scervellarsi tanto, no?
Allora perché... perché...
«Claude?»
Quest'ultimo digrignò i denti, lanciando la prima cosa che colse con gli occhi a Trevor. Il soprammobile in porcellana si schiantò contro la parete, mancando il viso del ragazzo di qualche centimetro. Il britannico sussultò, osservando prima il vampiro, poi William dietro di sé―la quale fece capolino con il viso, fissando sbigottita il faccino di porcellana della donnina ormai sul pavimento.
«Lo volevi mandare al pronto soccorso?!», sbottò l'albina.
«...C-credo di aver visto la morte―», farfugliò Trevor, gli occhiali calati sul setto nasale.
«Che tragici. Non l'avrei mancato, non credete?», ma non ne era certo neanche lui: quel lancio non era proprio calcolato. Claude osservò Trevor, quella sua espressione ancora mezza terrorizzata solleticava pericolosamente la propria ilarità.
«Ehy, ma quella non è la frec―»
«Eh no, eh no, chi vi ha dato il permesso di entrare?» borbottò il vampiro spingendoli fuori, chiudendosi la porta alle spalle. «Cos'è, non si bussa?»
«Ah! Senti chi parla! Tu sei il prim-- ch-- mhh!»
«Shh, sei fin troppo gasata oggi», rise il corvino continuando a premere il palmo della mano sulle labbra di William. «Trevor? Riprenditi, mi sembri un anemico.
Cosa volevate?»

Quella zona di Parigi era tappezzata di nuvole color piombo. Nonostante la pioggia avesse smesso di cadere, i passanti tenevano tutti con sé almeno un ombrello―tranne William e Trevor, che per qualche arcano motivo evitavano il contatto fisico in qualsiasi modo, con qualsiasi pretesto. Insomma, tra i due aleggiava un'insolita nube d'imbarazzo; non certo come la loro prima, trasgressiva uscita dalla villa.
L'albina aveva notato questa sottile differenza nel corvino, per quanto in minima parte fosse sempre succube, e non ne comprendeva il motivo. Comprendeva solo che―provava un certo disagio a stare vicino al diciannovenne, ora.
In ogni caso, doveva concentrarsi sul motivo di quell'uscita gentilmente concessa dal vampiro più grande. Mancava giusto una settimana, giorno più, giorno meno, al compleanno di Samantha: al venti di aprile. E neanche se fosse stata tenuta in un carcere di massima sicurezza avrebbe rinunciato a comprare un regalo alla sua migliore amica.
«Quindi... hai già qualche idea in mente?» abbozzò Trevor sfilandosi gli occhiali da vista.
«Certo», assicurò l'altra: stavolta avrebbe optato per un capo d'abbigliamento, in fondo lei e Sam erano molto simili di costituzione, nonostante la rossa si vantasse dei due centimetri che la rendevano più alta dell'amica. «Non pensavo che Hitl―Claude ci tenesse così tanto a scoprire chi mi ha... uhm, rapita», borbottò entrando in una boutique, seguita da Trevor.
Il ragazzo ridacchiò piano. «Ne è quasi ossessionato, sai che vuole essere lui il “privileggiato”», aggrottò le sopracciglia, inforcando di nuovo gli occhiali.
«Oh, certo... nessuno può uccidermi se non lui», commentò William roteando gli occhi. Nel frattempo aveva già agguantato almeno tre magliette e un abito. «Vado a provarli.»
«Mh», annuì l'altro, «ti... ti aspetto qui.»
Si sentiva terribilmente fuori posto.







* * *









Il mattino seguente, venerdì, Elijah - o Neru, come aveva iniziato a farsi conoscere in quella zona - si svegliò giusto un poco più tardi del solito. Il suo orologio da polso e la sveglia che evidentemente non era stata puntata segnavano le sette e dieci minuti. Certo, avrebbe iniziato a lavorare dopo l'intervallo scolastico, ma preferiva arrivare a scuola in anticipo. Un po' perché non aveva molto da fare in casa, un po' perché il giorno prima aveva stranamente dimenticato di correggere alcuni compiti della 3ªA, classe che quell'anno avrebbe conseguito il diploma.
Sentiva il corpo pesante, fatto di piombo, la mente annebbiata, confusa. Forse... dopo la doccia... possibile che fosse andato direttamente a dormire? Ancora racchiuso nel bozzolo che era il lenzuolo del suo letto, si passò una mano tra i capelli bicolore. Quindi decise di alzarsi.
Tra un pensiero e l'altro - far sapere il suo nuovo indirizzo e numero di cellulare a Synnøve - iniziò a vestirsi con i soliti abiti: camicia bianca, blue jeans, scarpe, beh, comode... un po' così, con la testa fra le nuvole.
Il polsino della camicia gli dava una fastidiosa sensazione al polso destro: gli prudeva. E sempre sul polso destro avvertiva un piacevole tepore o ancora un vero e proprio incendio, bruciava.
Eppure, qualcosa gli impediva di alzare la manica e osservare per comprendere il motivo del prurito. Inconsapevole che, se l'avesse fatto, avrebbe scoperto la prova concreta che una delle sue alunne fosse in realtà un vampiro e che il pomeriggio scorso fosse stato aggredito anziché parlare con il tutore di William.
Si osservò distrattamente allo specchio della toilette, mentre aggiustava i capelli un po' per i fatti loro―e i suoi occhi sembravano aver perso quella magnetica sfumatura violacea, lasciando posto soltanto ad un banale blu, statico e vuoto.

Verso le otto circa, Samantha e William stavano già salendo al secondo piano dell'istituto, avviandosi in classe. Nicole, dietro loro, stava inviando qualche messaggio prima di spegnere il cellulare. Melanie aveva preso il raffreddore, quindi a volte la castana era costretta a seppellire l'ascia di guerra per passare un po' di tempo con le due migliori amiche - non l'avrebbe ammesso mai, ma le piaceva stare con Sam e Will - per non finire in fondo alla classe, ignorata da tutti.
«Spero comunque che il mal tempo duri fino al mio compleanno! Sai che tristezza non poter uscire con te per colpa del bel tempo?!» rise Samantha.
«Effettivamente...» sbuffò l'albina.
«Beh...» iniziò la castana, intromettendosi, senza però alzare lo sguardo dai gradini «...male che vada...» continuò a camminare, non accorgendosi che le due di fronte a sé si erano fermate a guardarla. «Potrest―» alzò il viso rendendosi conto di essere fissata. «...»
«Potreste, cosa?» domandò la rossa, chinando il viso d'un lato.
«Assolutamente nulla. Vi volete spostare?!» le sorpassò rossa in viso «ma tu guarda queste, oh.» borbottò accelerando il passo.
«...È arrossita», disse William.
«E anche tanto», concluse Samantha.
Le due si guardarono un attimo tra di loro, sbigottite, poi alzarono le spalle, continuando a salire le scale.
«Oh, a proposito di rossori, Will!» esclamò Sam sulla soglia dell'aula. «Per i tuoi standard», l'albina aggrottò la fronte, «hai un colorito migliore, intendo qui!» si schiaffò le mani sulle guance guadagnandosi una strana occhiata da parte di William. «Hai le guanciotte!»
«Tutti hanno le “guanciotte”, eh.» mugugnò l'altra stringendosi nelle spalle, dando una spintarella all'amica per spronarla ad entrare in classe.
Aveva capito cosa intendesse Samantha.

-Mhh, pronto?-
-Papà?!-
-Oh, tesoro mio.-
-Il tuo numero non era..?-
-L'ho riattivato giusto un paio di giorni fa, ma non pensavo mi avresti davvero chiamato. Hai bisogno di qualcosa? Come sta il tuo fianco? Mangi regolarmente?-
-...-
-William? Ehi―-
-Te ne sei andato ancora, mi hai lasciato con Claude.-
-Sì, lo so, ma...-
-Perché non l'hai ucciso? Perché
tua moglie è ancora in Giappone?-
-Non parlare così di tua madre-, ribatté Alexandre con tono severo, -sta lavorando duramente per trovare un lavoro e una casa in attesa che la situazione qui si sistemi. È complicato.-
-Sta cercando lavoro?-
-Credi che potremo continuare a vivere a Parigi dopo che Claude sarà scomparso?-
-Non so, ma il Giappone è dall'altra parte del mondo!-
-Will, ti **ngo a tro**** d**ani, ** bene?-
-Pa', non ti sent―!-

«...e ha riattaccato.»
«Mh, cosa hai detto?»
William continuò a guardare fuori dalla finestra, mordicchiando il cappuccio di una penna nera. Di quella chiamata, non aveva proprio compreso la fine: l'audio era tutto disturbato. Quella chiamata, che per mera curiosità aveva fatto la sera prima, l'aveva distrutta.
«Stai scendendo in cortile? Mi sa che sta iniziando di nuovo a piovere», lasciò cadere il cappuccio della penna sul banco.
«Ahh, no. Ricordi che la Mureau voleva vedermi?»
«Mhh... ora sì.»
«William», sbuffò Samantha, «che hai?»
La diretta interessata si limitò a scrollare le spalle, fissando il cielo grigio fuori la finestra. «Mi faccio un giro in corridoio.»
«Come ti pare», borbottò l'altra gonfiando appena le guance.
Uscirono insieme dalla classe; l'albina accompagnò l'amica fino alle scale - l'aula insegnanti si trovava al piano terra -, la osservò scendere e, prima che si voltasse per andare alla deriva in quell'oceano di studenti pettegoli, vide un ciuffetto bianco oscillare su per i scalini.
Arcuò le sopracciglia, facendole sparire sotto i capelli. Neru - il suo professore di inglese, e unico individuo dal quale era riuscita a bere del sangue senza conseguenze devastanti - teneva sottobraccio una piccola pila di fogli. Sembra star bene, pensò con sollievo. Sollievo che sparì, sostituito da un'incontrollabile ed atipica paura, non appena il ragazzo le arrivò di fronte e la osservò con quei suoi bellissimi occhi blu incrinati dalla stanchezza.
«William Leroy», sorrise lui.
«'Giorno prof.», rispose lei, incerta. Anche se le possibilità che ricordasse qualcosa fosse nulla, non riusciva a far finta di nulla e sorridere, comportandosi normalmente. Sospirò e in silenzio fece retro front per tornare in aula―come aveva ipotizzato fuori aveva ripreso a piovere.
«William!», un barboncino marrone―no, Nicole, con quei suoi enormi occhiali circolari coperti per la metà dalla frangia, le stava correndo incontro. «Will! Hai visto il prof. d'inglese?» le domandò, continuando a correre sul posto.
L'albina indicò dietro di sé. «Andava di là.»
«Okay, grazie!»
Grazie?! «No, aspetta aspetta!» prima che Nicole potesse schizzare via, la prese per un braccio. «Cos'è successo di così grave da farti dire grazie a me
La castana sembrò pensarci su, fissando la sua interlocutrice con le sopracciglia arcuate dalla curiosità. «Se te lo dico», sogghignò, «tu dovrai soggiogare qualcuno per me.»
«Cos―no!» sbottò William mollando immediatamente la presa.
«Daaai!» si lagnò la castana.
«Perché dovrei costringere qualcuno a fare o dire qualcosa per te?»
«Perché potrei aver scoperto qualcosa di interessante sul prof.», s'impettì.
«Guarda che tutti gli albini non sono mica vampiri...»
«Non intendevo quello! Mia madre mi ha detto che in Norvegia c'è stato uno scandalo ultimamente: il figlio del re, Elijah qualcosa - Herald? - si è scoperto essere gay e―»
«Pensi che Neru, il nostro professore, sia in realtà questo Elijah?», arcuò un sopracciglio, scettica.
«Ne sono sicura! Se su Google immagini cerchi “Elijah principe di Norvegia” esce una sua foto!»
«Oh, ma... se ha voluto tenerlo segreto un motivo ci sarà, no?»
Alla fine, facendo riflettere Nicole, William riuscì a dissuaderla. Arrivarono alla conclusione che non sarebbe stato corretto. Principe o no, se quello che interessava alla castana era solo avere una storia da raccontare o «un autografo» a costo di rovinare l'identità di una persona l'albina non l'avrebbe aiutata in ogni caso.
Nonostante la curiosità.
Magari, pensò, avrebbe chiesto a Claude di indagare o, ancora, avrebbe potuto farlo lei da sola, discretamente. Inconsapevole che non avrebbe avuto altre occasioni per farlo.

Il termine della giornata scolastica venne annunciata alla campanella alle 14:30. Pioveva ancora ed il grigio veniva scacciato ogni tanto da qualche lampo azzurro ed i suoni della città oscurati dai tuoni. Al portone d'ingresso del liceo, come prevedibile, si era creato un ingorgo di studenti ed ombrelli. Una volta fuori William e Samantha aprirono i loro ombrelli―l'albina si guardò velocemente intorno, notando qualcosa che la fece rabbrividire: l'auto di Claude, lui stesso, non era lì.
«Tutto okay?»
«Oggi vado a piedi, non preoccuparti. Ci vediamo lunedì!» le sorrise incamminandosi nella direzione opposta. Più avanzava verso il boschetto, più la sensazione di essere osservata aumentava, cresceva―come un piccolo parassita che le si arrampicava addossi, viscido. Arrivò al sentiero che conduceva alla villa con il fiatone ed un immaginario batticuore che le tamburellava nelle orecchie.
Qualcosa non va. C'è qualcosa di sbagliato―pensò, prima stringendo il manico dell'ombrello e dopo facendolo cadere insieme alla cartella. Le goccioline d'acqua s'infrangevano sulla sua figura bianca silenziose e rinfrescanti, stonavano con quel crescendo d'ansia. Alzò lo sguardo, riprendendo la sua camminata veloce: tra il paesaggio monocolore, una nube scura si alzava dalla villa per raggiungere il cielo.
La villa non aveva un camino.

Quando arrivò, la porta d'ingresso era aperta.
«Claude..? Trevor..?» sussurrò entrando con cautela.
L'aria era pesante, ma ciò che bruciava si trovava sicuramente al piano superiore. Lì, all'ingresso, invece, era tutto distrutto: dal tavolino, ai quadri, al divano. Come se quel posto avesse improvvisamente perso la magia che lo teneva in piedi.
«Non penso che Trevor possa... sentirti.»
La voce atona di Claude ruppe il silenzio. Flemmatica, l'albina si voltò. Alla sua sinistra il vampiro stava seduto sul pavimento, tra le mani aveva un pezzo di legno―il paletto di legno che era stato estratto proprio dal suo fianco. I pantaloni neri del corvino erano impolverati, teneva il viso chinato, come se gli interessasse solo quell'oggetto.
«Infatti dopo la morte non c'è un bel niente. Suvvia prinzessin», alzò lo sguardo verde osservando per qualche secondo il viso di William: una tela bianca. «pensavi ci sarebbe stato il lieto fine?»
«Trevor... l'hai ucciso? T-tu...»
«Tecnicamente», poggiò una mano sul pavimento per alzarsi, «si è trattato di suicidio
William era certa di aver perso ogni colore ed espressione, ma quando i suoi occhi incontrarono quelli di Claude, vacillò - per un attimo sentì il pavimento sgretolarsi sotto i suoi piedi - e fece tre rapidi passi indietro, d'istinto.
Il labbro inferiore intrappolato fra i denti, il respiro veloce―si guadò attorno.
«Avrei potuto portarti in Germania con me, Will. Tanto», scrollò le spalle avanzando di qualche passo, «che senso avrebbe avuto ucciderti se non ci fosse stato Alexandre come spettatore? Ma poi ho capito, grazie a questo... tu sapevi già tutto. Quel cacciatore è ancora vivo. Tch.» una scintilla si accese in quegli occhi smeraldini, incendiandoli e un'espressione disgustata s'impadronì del viso del vampiro e con velocità inumana si scagliò sull'albina.
Ella emise un verso strozzato, pressata alla parete, tenuta su per il collo da Claude. Si mosse, inspirò l'aria graffiante afferrando con entrambe le mani il braccio del corvino nella vana speranza di fargli allentare la presa. Serrò gli occhi. Si sentiva come una mosca crudelmente tenuta dalle ali, che tentava in tutti i modi di fuggire emettendo un ronzio disperato.
Sentì le dita di Claude stringersi ancor di più sulla pelle, poi il suono nitido e raccapricciante del legno che affondò, senza esitazione, in mezzo al suo petto, le ossa spezzarsi come stuzzicadenti.
Sgranò gli occhi, rigettando sangue dalla bocca, un urlo le si gelò in gola. La vista le sia annebbiò e le lacrime, silenziose, scesero lungo le guance esangui―come se non avesse più alcun briciolo di forza, lasciò il braccio del corvino, prima che quest'ultimo a sua volta la lasciasse cadere al pavimento con un tonfo sordo. Stordita, riuscì a cogliere la sagoma di un uomo sovrastare quella di Claude china in avanti.
«'ccidenti», ghignò senza scomporsi troppo. «Credo proprio che ora non potrò evitare la vecchia signora morte», ridacchiò debolmente.
«Esattamente», sibilò Alexandre chinandosi in avanti per afferrare i capelli neri di Claude con una mano e poggiare la balestra sulla schiena del vampiro. «E ora vedi di sparire», premette il grilletto.
Lasciò cadere l'arma sul pavimento, insieme al corpo improvvisamente ingrigito e disidratato di quell'ormai mummia, un guscio senz'anima―si precipitò quindi senza ulteriori indugi da William, sollevandole il capo chino.
«Mon petit trésor, William, ehy», la chiamò dolcemente, carezzandole una guancia, ostentando un sorriso pallido.
«Pa... pà..?»
Alexandre strinse le labbra, ponendo un braccio sotto le ginocchia della figlia e l'altro dietro le scapole. «Sì, sono io. Resta sveglia. Ora andiamo via da questo posto, andrà tutto bene. Ci sono qui io, ora.» quindi la sollevò dal pavimento. «Will, come ti senti?»
«Sto morendo... ancora―ngh... c-come dovrei... sen... tirmi..?»
«Sbagliato, non stai morendo. Non hai progetti per domani? Raccontami, dài.»
«Il... compleanno di Samantha», sussurrò debolmente l'altra.
«Ah, sì? Che giorno è?», scese le scale, finalmente fuori dalla villa in fiamme. «Ehy!», attirò l'attenzione di un ragazzo, il quale si avvicinava in corsa, «Tu sei Trevor, giusto?!»













Ultime deliri note dell'autrice:
GENTE.
EHY GENTE, VI RICORDATE DI ME?
Siamo arrivati all'ultimo capitolo, ci credete? Io proprio no. Accidenti, che poi non è proprio l'ultimo, visto che dopo abbiamo l'epilogo (che spero di pubblicare mooolto presto! uvu)... e un sequel, ma shh. Scriverlo è stato un parto gemellare. In verità, questi sono quasi due capitoli, ehw. Cari lettori e lettrici, non vi ringrazierò mai abbastanza per aver seguito (messo nelle preferite, ricordate, recensito) questa storia! Se penso che il prologo, quell'obbrobrio, è arrivato a circa 1000 visite mi commuovo. ;____;
Un ringraziamento speciale va a Chiaracchan, alla senpai, che ha sopportato i miei scleri sui capitoli, le paranoie e mi faceva da consigliera e Gaia, la mammina di Trevor e mia lettrice personale. [rido] ♡
Che altro dire? Ve lo aspettavate questo finale? Pensavate sul serio che quello scemo di Trevor fosse morto? Che vi avrei trollato? :>
Lasciatemi un commentino, che mi fate felice. ☆
Un bacino a tutti,
―L o t t i e.

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Capitolo 22
*** Epilogo. ***


Epilogo.










MISTERIOSO INCENDIO DEVASTA PARTE DEL BOSCO” era il titolo che coronava le prime pagine dei quotidiani solo il giorno dopo; “[...] oltre che gran parte della vegetazione, le fiamme hanno raso al suolo anche una villa disabitata la quale si trovava proprio al centro del bosco. «L'incendio ha avuto origine proprio lì», hanno confermato i vigili del fuoco” proseguiva l'articolo. Una settimana dopo e già tutti a commentare quanto poi insolito fosse il ritrovamento dei resti di un cadavere secolare. La TV locale, i telegiornali, i programmi che solitamente trattavano di tragedie sembravano impazziti: giravano attorno l'argomento con grottesco interesse.
Tutto era diventato frenetico, non bastava, non c'era tempo per soffermarsi un attimo―guardarsi attorno, chiedersi dove fosse finita lei: la protagonista di questa storia. Perché poi, con le vacanze primaverili alle porte, farlo. E dopo? Beh, tanto a quel punto tutti se n'erano già dimenticati o... non proprio, contando i pettegolezzi che si erano venuti a creare a scuola.
E chi era più adatto a rispondere a quegli interrogativi fluttuanti, se non Samantha? Era un pensiero più che logico.
Se solo quelle domande non la opprimessero, rispondere con cortesia e calma non sarebbe stato difficile invece di vomitare addosso agli altri la sua rabbia. E non a parole; così tornando ad essere la solita manesca―che se non fosse stato per il controllo esercitato su di lei da Elijah, per la sua calma e pazienza, avrebbe rischiato l'espulsione prima del diploma, perdendo l'anno.
Il suo professore di inglese si era rivelato essere il tanto discusso principe norvegese ed i primi tempi non si fece neanche vedere a scuola, nonostante la consapevolezza di non poter realmente cambiare identità solamente trasferendosi in un altro paese. La reazione di Nicole a quel “nuovo” pettegolezzo non fu nella sua normalità: parve quasi dispiaciuta del boom di notizie e fu proprio lei a proporre alla classe di andare a trovare Elijah in casa per convincerlo a tornare. Ovviamente mascherò la sua preoccupazione, celando le sue vere intenzioni con un «non voglio certo diplomarmi senza un'adeguata formazione in inglese!» davvero teatrale e forzato: tutti sapevano che se Elijah se ne fosse andato avrebbero certamente trovato un altro insegnante d'inglese.







* * *









Settembre 2014, un anno dopo, domenica.
Nella capitale stava nuovamente per arrivare il freddo, si iniziavano ad indossare le prime maglie a maniche lunghe―le piogge improvvise, il nostalgico tempo grigio. Per alcuni era già iniziata la scuola, altri dopo una settimana lavorativa approfittavano del giorno di riposo per riposarsi, ovviamente. Samantha Walsh, ormai diciottenne, non avrebbe mai pensato che lavorare in erboristeria con il padre fosse così stancante! Avere a che fare con i marmocchi che accompagnavano le loro madri e rimproverarli per non far loro toccare le teiere e le varie erbe metteva a dura prova la sua già scarsa pazienza. Sbuffò, cambiando ancora canale in televisione per non incappare in un'altra pubblicità di qualche pentola antiaderente o leggings che ti appiattivano il sedere fermandosi su un documentario molto interessante incentrato sulle meduse.
Per l'ennesima volta, sospirò guardandosi intorno alla ricerca di qualche cosa da fare per debellare la noia; poi si ricordò che in camera sua, a prendere polvere c'era ancora un pacco arrivatole qualche giorno prima, che non aveva avuto tempo di aprire.
Rotolò giù dal divano, dimenticando si spegnere la televisione, si tirò su per poi camminare con frenesia attraverso il corridoio; spalancò la porta di camera sua, lasciando forse un bel segno sul muro. Non pensò fosse qualcosa di importante, se ricordava bene, su quel pacco non vi era neanche la scritta «FRAGILE». Si chiese se non fosse qualcosa arrivatole dall'Irlanda, da qualche suo parente... che si trattasse di qualcosa inviatole da William non le solleticò neanche l'anticamera del cervello―che poi, era ancora viva? Stava bene? Dov'era? Dopo un anno - o poco più - non si aspettava più nulla, dopo il diploma si era ripromessa di andare avanti e non lasciarsi turbare dagli avvenimenti precedenti, da vampiri o qualsiasi altra... stranezza. Si strinse nelle spalle: da quando aveva iniziato a pensarla in quel modo sulla sua migliore amica? A volte si convinceva che prima o poi l'albina sarebbe ritornata, che l'avrebbe rivista dormiente sul banco prima delle lezioni... prima della fine del liceo, per ricevere il Bac insieme a lei.
Ma tutto ciò non successe, William non si diplomò mai.
Sulla scrivania - negli ultimi tempi quasi inutilizzata -, vicino al barattolo delle penne, il pacco si era coperto di un sottile strato di polvere. Smemorata com'era, aveva dimenticato ciò che il postino aveva riferito a sua madre al momento della consegna. Guardò dentro il barattolo in cerca delle forbici o di un taglierino, ma non ne trovò e con le sue unghie pressoché inesistenti trovare il punto giusto dello scotch da grattare era impossibile.
Costretta, ma non certo di malavoglia, fece irruzione nella stanza accanto.
«Ricky, dov'è il taglierino?», punzecchiò il fratello sulla spalla.
L'altro con fare annoiato continuò ad osservare il televisore, ignorando la sorella. Sbadigliò.
«Erick!»
«Dove vuoi che lo tenga un taglierino, nel cassetto delle mutande?», domandò retorico, ravvivandosi i capelli rossicci come quelli della sorella, «Guarda nel cassetto della scrivania, no?»
Trovato l'oggetto interessato, tornò in camera propria, agguantando il pacco e posizionandosi sul letto. Tagliò lo scotch nel punto in cui il cartone si incontrava, quindi finalmente aprì quel tanto sudato pacco. Ciò che vide fu una busta bianca di una lettera su un qualcosa coperto da un cellophane; forse chiunque si sarebbe prima preoccupato di leggere la lettera, ma Samantha preferì metterla da parte e strappare brutalmente la pellicola per tirarne fuori il contenuto.
Si ritrovò tra le mani una salopette in tessuto, color salmone, con una toppa dal motivo floreale cucita all'altezza della coscia destra―non proprio adatta al clima che si stava avvicinando. La piegò come poté sul letto, un po' perplessa, poi prese la busta che aveva messo da parte; la aprì.
Oltre una pagina piegata con cura, dentro la busta vi trovò una scheda telefonica per chiamate internazionali. A sua volta, ad esso era attaccato un altro foglietto con su scritto un numero di cellulare e sotto di esso la frase «chiamami!».
Samantha spalancò gli occhi, trattenendo il respiro, fissando quel numero.
La tentazione era forte.
Tanto che vinse.


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