Academy of Darkness

di rosamond44
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


Erano innumerevoli i miei sforzi di muovere anche una sola fibra di un singolo muscolo, ma si rivelarono uno dopo l'altro inutili, spaventandomi e scoraggiandomi a continuare. Non so esattamente da quanto tempo fossi lì distesa ed immobile, ma doveva esserne abbastanza in quanto avvertii delle presenze. Erano più persone che parlottavano sicuramente da ancor prima che mi svegliassi. I loro mormorii inizialmente ovattati, mi giunsero alle orecchie sempre più chiari, rendendomi possibile intercettare qualcuna delle frasi da loro pronunciate.

«Guardate, sembra che si stia svegliando», riuscii a distinguere tra il brusio smorzato una voce femminile.

Non parve però a me, che mi stessi risvegliando. Non riuscivo a percepire il mio stesso corpo e i miei sensi erano –in maggior parte- assopiti.

«Non ancora», questa volta volta udii una voce maschile che diede voce ai miei pensieri.

Calò un silenzio mortale, spezzato poi dai continui tintinnii di bocce o fiale di vetro che riversano liquidi di natura a me ignota da un contenitore all'altro. Qualcuno vi trafficò con esse per un periodo che a me parve un eternità, per poi avvicinarsi. Una mano grande si infiltrò tra i miei capelli ed alzò con un gesto fulmineo la mia testa, inclinandola quanto potesse bastare per avvicinare un bicchiere alle mie labbra e fece scorrere liberamente un liquido caldo e denso in gola. Inizialmente non sentii nulla, ma poi un bruciore terribile cominciò ad ardere in gola, per poi espandersi su tutta la pelle. Avrei voluto contorcermi dal dolore, grattarmi per il prurito, gridare per le pene, ma il mio corpo non si mosse, obbligandomi a patire in silenzio. Strinsi gli occhi più forte che potei e tentai di nuovo di muovermi, ma le fitte mi costrinsero a mettere a tacere il mio desiderio. Mi abbandonai all'effetto dell'infuso, attendendo con impazienza repressa l'efficacia della bevanda -sperando che ne avesse uno- ma il bruciore non scomparì, alimentandosi invece delle lacrime di rabbia che mi colavano fino alle orecchia, lasciando scie sulle tempie che mi infastidivano, e del mio respiro sempre più affannoso.

«Sembra stia soffrendo», rimarcò la stessa ragazza di prima con tono preoccupato.

«Ha un leggero bruciore, ma presto passerà».

Leggero!? Lo schernii mentalmente. Se fossi stata abile in quel momento, avrei riso in faccia all'artefice del mio dolore, ma non potendolo fare –fisicamente parlando- attesi quel benedetto presto con infinita impazienza. A poco a poco cominciai ad abituarmi al bruciore, sostituito in parte da un'improvvisa stanchezza. Rilassai i muscoli che tenni tesi fino ad ora e lasciai cadere la testa di lato. Fortunatamente ripresi controllo delle mie azioni –anche se in questo momento erano dettate dall'istinto- e mi rannicchiai in posizione fetale. Non mi feci domande del perché mi potessi muovere o perché il bruciore fosse svanito, mi sentivo stanca come non mai e avevo solo voglia di dormire. Captai dei bisbiglii e dei passi, poi una porta venne chiusa con calcolata attenzione. Capito di essere rimasta sola non potei far altro che assecondare i miei bisogni. Strinsi gli occhi e mi abbracciai in un gesto protettivo, poi lasciai che Morfeo facesse il suo dovere e mi addormentai.

***

Non credo fosse passato tanto tempo da quando il sonno mi cullò tra le sue braccia, in quanto mi venne -inizialmente- difficile tenere gli occhi aperti, costringendomi a sbattere un paio di volte le palpebre incerate e ancora appesantite dal sonno. Con ancora i muscoli indolenziti e i movimenti straziatamene lenti, drizzai a sedere sul soffice materasso di uno di una serie di lettini, muniti esclusivamente di lenzuola e cuscini rigorosamente bianchi. Strofinai le mani chiuse a pugno sugli occhi per poi mettere a fuoco la veduta bianchissima di una luna piazzata proprio all'unica finestra della stanza. Nonostante l'intensità non fosse realmente come parve a me, il bagliore mi sembrò accecante e mi vidi costretta a stringere gli occhi –ancora ricoperti di un leggero velo di sonno- e a distogliere lo sguardo altrove. Nonostante sembrasse essere calata la sera, la camera era ben illuminata, rendendomi possibile osservarla piuttosto chiaramente. Esaminai increspando la fronte la stanza che a me parve un'infermeria. Languidi raggi argentei filtravano dalla finestra andando ad accarezzare i pochi mobili presenti nella stanza e le pareti spoglie. L'attenzione mi scivolò poi sui residui di un intruglio verdastro sul fondo di una tazza, poggiata sul tavolino in mogano al lato del letto. Strinsi le labbra ed arricciai il naso inorridita, sperando vivamente che non fosse la bevanda dal sapore acre presente ancora sulla mia lingua. Sperai. Feci scorrere le mie iridi smeraldo sulle pareti in cerca della porta perfettamente mimetizzata, quando il luccichio della maniglia metallica mi catturò l'attenzione. Scesi spavalda dal letto –piuttosto altino- e rischiai una caduta che si prevedeva dolorosa. Mi aggrappai alla stoffa stropicciata del candido lenzuolo e mi tirai su. Barcollante usai il muro come appiglio per la mia avanzata verso l'uscita, muovendomi goffamente e tremante per lo sforzo. Fortunatamente il tragitto non si rivelò così infernale come mi preparai psicologicamente che fosse, e il muovermi ebbe un'effetto benefico sulle mie gambe, che cominciarono piano piano a rinvigorirsi dallo stato di semi-paralisi. Strinsi trionfante la maniglia ghiacciata tra le mani e con tutta la forza –di cui disponevo al momento- la abbassai, ma non si aprì. Feci scivolare le dita più in basso in cerca della chiave, ma non vi trovai niente. Chinai il capo giusto per accertarmi che mancasse davvero, e persi un battito quando notai invece che non mancava solo la chiave, bensì proprio la serratura. Presa dal panico abbassai e rialzai la maniglia velocemente, quasi a rischio di staccarla. La paura venne poi in parte sostituita dalla rabbia, e presi a scalciare contro la porta e a gridare "Aprite!" a più non posso, ma niente cambiava. Appoggiai perfino un'orecchio sulla porta mettendomi in ascolto e stando sul attenti per intercettare anche il minimo rumore, ma sembrava deserto. Eppure c'erano delle persone con me prima, non possono essere sparite nel nulla. Resomi conto che gridare più forte possibilmente fosse utile solo a lesionare le corde vocali, mi misi le mani ghiacciate sulla fronte. Cominciai a sudare freddo e a guardarmi intorno in cerca di un'uscita alternativa, e la vidi... la finestra. Era immensamente ampia, quasi a ricoprire metà della parete. I vetri lucidi erano come un richiamo ed io mi avvicinai. Se prima mi balenò un frammento d'idea di utilizzare la finestra come via di scampo, beh, ora mi dovetti ricredere. Non so a quale piano mi trovassi, ma sicuramente molto, troppo in alto affinché io possa anche solo sperare di intravedere il suolo. Rimasi di sasso nell'ammirare il panorama irrealistico che mi si parò dinnanzi agli occhi, tuttavia ammisi che era bellissimo. La luna luminosa e argentea era incentrata sul blu notte del cielo, punteggiato da miriadi di stelle. Si specchiava sulle acque pacifiche di un lago dalle distese indefinite. A troneggiare sulla veduta incantevole di un panorama vagamente magico vi era un palazzo, ma non uno di quello fiabesco, sprigionava bensì un'avvolgente aura oscura, intrigante, che mi fece alzare in punta di piedi e sporgere leggermente più in avanti per cercare di notare altri dettagli.

«Non sporgerti troppo in avanti. Quello alla finestra, come puoi notare non è vetro ».

Sussultai nel sentire una voce femminile, profonda e dal tono distaccato alle mie spalle. Volsi il mio sguardo diffidente in sua direzione, e vi trovai una ragazza alta, dai lunghi boccoli scuri intenta ad accendersi una sigaretta portando l'indice fiammeggiante verso questa. Osservai allibita la nuvola di fumo liberata dalle sue labbra rosee e piene, stando sull'attenti nell'eventualità di un attacco a sorpresa da parte dell'essere sovrumano, a me mostrato sotto le spoglie di un'affascinante e giovane ragazza. Nel teso silenzio lei ridacchiò. Era una risata bassa, poco duratura, con lievi sfumature di divertimento più inclini all'ironia.

«Calmati», mi fissò seria negli occhi, dandomi modo di ammirare le sue bellissime iridi cremisi «se avessi voluto attaccarti l'avrei fatto da tempo, non credi?».

Chiuse gli occhi stringendo la sigaretta annoiata tra i denti e si portò una mano tra i folti capelli. Pettinò alcune ciocche con le dita, per poi aprire gli occhi velocemente, cogliendomi in fragrante mentre la analizzavo.

«Cosa sei?», domandai con un filo di voce, soddisfatta comunque di non aver balbettato.

«È una lunga storia», troncò annoiata «ora andiamo».

Si voltò incamminandosi verso la porta.

«Andare? E dove?».

Cercai di essere più cauta possibile sul da farsi, non mi fidavo assolutamente di lei. Non dopo quello che avevo visto prima.

«Senti», si voltò scocciata «vieni e non fare storie».

Va bene, va bene. Che caratterino. Mi ritrovai a pensare mentre varcavo la porta. Entrai in un corridoio lungo e scarsamente illuminato. Una scia di fuochi fatui fluttuavano a mezz'aria illuminando di una luce bluastra il lungo cammino. Per un attimo il mio cuore prese a martellare nel petto per l'agitazione. Non avevo proprio paura, ma ammisi di essere leggermente intimorita dall'oscurità che mi avvolgeva e dalle stranezze che vedevo. Non riuscivo ad avvertire la presenza di quella ragazza, così cominciai a guardarmi intorno.

«Dove sei?», gridai.

«Non strillare», mi ammutolì comparendo al mio fianco.

«Ma dov'eri?», ripresi a parlare sottovoce, come se qualcuno potesse sentirci.

«Andiamo!».

Potresti almeno degnarti di rispondere. Cominciai a seguirla nella semi oscurità del corridoio con passi leggeri. La ragazza davanti a me camminava sicura di sé senza controllare se le stessi dietro. Cercai di evitare di domandarmi se lo facesse perché era sicura che la seguissi, oppure non le importava, ma non ci riuscii. Svoltammo una curva e ci ritrovammo dinanzi una scalinata. Salii i gradini dopo di lei, guardandomi i piedi per non inciampare e attesi –arrivata in cima- che aprisse la porta.

«Entra!», mi fece passare per prima.

La camera dove ero appena entrata era –a differenza delle altre- molto spaziosa, dorata, luminosa e... popolata. 

 

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


«Era ora», sentii una voce maschile alla mia destra.

Girai la testa in sua direzione trovandovi un ragazzo dai capelli biondo scuro che sorreggeva pigramente la testa con una mano. Aveva uno sguardo intenso, blu, bellissimo; mi parve di guardare l'oceano.

«Allora...», una voce famigliare mi fece girare la testa dall'altra parte «tu sei...».

«Nicole», mi presentai porgendo la mano alla ragazza bionda di fronte a me.

Lei la guardò curiosa, poi sorridendo la strinse. Mi risultò subito simpatica, sorrideva sia con le labbra che con gli occhi e questo mi aiutò a scacciare un po' dell'ansia dell'essere circondata da sconosciuti.

«Io sono Estelle», mi disse «loro invece», indicò la ragazza dai capelli scuri seduta su un divanetto accanto al ragazzo biondo «sono Beatrix e Luke. Siamo tutti studenti di quest'accademia», spiegò gentilmente.

«E noi?», una voce sottile, ma arrogante mi fece concentrare sulla figura minuta di una ragazza dai color caramello seduta più vicino allo scrittoio in legno massiccio accuratamente ornato di foglie d'oro.

«Sono la figlia del direttore, avresti dovuto presentarmi per prima», incrociò le braccia al petto e fissò pungente lo sguardo su Estelle.

«Su, su Monì, non arrabbiarti», le sorrise rassicurante il ragazzo dai capelli argentati al suo fianco.

«Ma Gabriel, come puoi dirmi di non arrabbiarmi?! Questa è una mancanza di rispetto anche nei tuoi confronti».

Il ragazzo che appresi fosse Gabriel scosse la testa esasperato.

«Come avrai capito io sono Gabriel», mi sorrise gentile «e lei è mia sorella Monica. Benvenuta all'Academy of Dark and White Magic, o Academy of Darkness come preferisci».

Strabuzzai gli occhi.

«Magic?», chiesi perplessa.

«Sì, qui si studia magia, il controllo degli elementi della natura e storia del Mondo del Basso e dell'Alto», Mi spigò come se fosse una cosa che dovrei già sapere.

«È inutile che le dici cosa studiamo, se non sa nemmeno cosa siamo», diede voce i miei pensieri Luke.

«Non spetta a me accogliere i nuovi studenti, tanto meno illuminarli su questioni tanto importante», si giustificò con innocenza Gabriel.

«Dov'è il direttore allora?», chiese annoiata Beatrix.

«Arriverà a momenti», intervenne Monica.

Per tutta la durata della loro conversazione notai il tono pungente col quale si rivolgevano l'uno all'altro. Mi sentii terribilmente a disagio nell'ascoltarli parlare ignorando completamente la mia presenza.

«Da dove vieni?», mi chiese Estelle indicandomi di sedermi accanto a lei, ignorando il brusio della guerra fredda tra i quattro.

«Londra».

«Gran Bretagna, che bello!», congiunse le mani entusiasta «Anche noi abbiamo una casa sulla Terra, in Olanda per esattezza».

Aggrottai le sopracciglia.

«Che intendi con sulla Terra? Dove mi trovo esattamente?».

Lei si fece seria guardandomi così intensamente da mettermi i brividi.

«Oops, ho parlato troppo. Presto scoprirai tutto».

Detto questo concentrò l'attenzione sugli altri, intimandomi così di tacere ed aspettare l'arrivo del fantomatico direttore. Sospirai confusa e a disagio, facendo attenzione a non farmi sorprendere, per poi puntare lo sguardo sulle quattro figure sedute d'avanti a me. Rivedei come un flash in un nanosecondo l'itinerario che percorsi finora, era stato breve ma intenso. Ebbi ancora fresca l'immagine del libro che aprii con cautela nella soffitta polverosa di casa mia. Dettaglio piccolo ma importante, considerando la meticolosità di mia madre e l'ossessione di entrambi miei genitori per le pulizie dubitai che mia madre l'avesse chiusa a chiave ancora ricoperta da un manto di polvere. Tutt'altro, potei affermare quasi certamente che l'avesse fatto proprio con l'intento di nascondere quel libro odorante di muffa e mistero. Sentii come se l'avessi ancora tra le mani e strinsi le dita ancora ricoperte da piccoli brillantini -segno inconfutabile che l'avessi avuto tra le mani- e assaporai sulla mia pelle il ricordo delle scosse che mi fecero precipitare in questo posto. È avvenuto tutto veloce, indolore e tutt'ora difficile da considerare realtà. Fui ridestata di colpo quando qualcuno -che ritornando con i piedi per terra scoprii essere Beatrix- parlò:

«Ma si può sapere dove è finito quell'uomo?», brontolò annoiata.

Monica, neanche le avesse sputato in faccia scattò:

«Quell'uomo guarda caso è il direttore di quest'accademia, quindi portagli rispetto», sentenziò inviperita.

Beatrix la guardò impassibile non mostrando di essere provata in alcun modo dalle sue parole. Alzò un sopracciglio continuando a fissarla poi sorrise.

«Sto pensando a qualcosa di molto cattivo da dire, però mi tratterrò».

Monica sbuffò.

«Per me puoi dire quello che vuoi, tanto...».

Un colpo di tosse attirò la nostra attenzione verso la porta dalla quale fece comparsa un uomo sui quaranta. Era biondo e aveva la pelle lattea, ciò che gli conferiva un'aria angelica, però lo sguardo trasmetteva tutto fuorché innocenza o stupidità, e una lunga cicatrice gli solcava la guancia sinistra. Tuttavia non arrecava alcun danno al suo fascino. Camminò lentamente verso di me sedendosi infine al mio fianco. Mi scrutò attentamente con i suoi occhi ambrati per poi presentarsi:

«Io sono Erasmus, direttore e discendente del diretto fondatore dell'Universo Astrale, mondo creato appositamente per ospitare i studenti di quest'accademia».

Guardai le sue labbra muoversi e pronunciare quanto detto in modo solenne. Mi vergognai ammetterlo, ma non compresi niente di quanto avesse appena detto. Per fortuna sembrò accorgersene e risparmiandomi di parlare cominciò lui stesso.

«Come ti chiami bambina?», chiese unendo le mani.

«Nicole», sussurrai flebile completamente catturata nell'ammirare le bolle che aveva appena creato con le sole mani.

Mi sentii davvero una bambina quando sorrisi nel vedere le bolle -che sembravano di sapone- danzare nell'aria, e una di loro si avvicinò pericolosamente al mio naso. Temendo che potesse scoppiare chiusi gli occhi.

«Guarda attentamente Nicole!».

Aprii cautamente gli occhi per vedere Erasmus ravvicinare le due bolle. La porzione che si sfiorava emanò una piccola luce.

«Posso andarmene, o la mia presenza è indispensabile?», sbuffò Beatrix.

«No, tu resti qui!», tuonò Estelle.

«Abbiate un po' di pazienza ragazze», le tranquillizzò calmo il direttore per poi concentrarsi di nuovo su di me.

«Che palle!», sentii borbottare Beatrix sottovoce sprofondando imbronciata tra i cuscinetti del divano.

«Supponiamo che la bolla alla tua destra sia il Mondo Demoniaco, ovvero la nostra dimensione , e la bolla alla tua sinistra la Terra», cominciò a parlare Erasmus.

«Allora, la luce che vedi qui è un piccolo spazio tra le due dimensioni che accoglie qui i studenti di ogni specie, come: angeli, demoni, streghe, folletti, ninfe, fate, vampiri e molti altri. Ogni individuo appartenente alla propria specie arriva qui tramite un portale protetto da un sigillo. L'individuo è in grado di spezzare il sigillo -che gli viene dato in un libro dai propri genitori da generazioni sin dalla nascita- solo quando è pronto. A quel punto è il sigillo stesso che richiama il proprietario del libro e si fa spezzare per poi far accedere lo studente alla mia accademia. Può succedere a qualsiasi età; basta che non superi i trent'anni, non ci tengo ad avere vecchietti qui», sicuramente cercò di sdrammatizzare un po' vista la mia faccia.

«E io che ci faccio qui, allora?».

«È vero che ci sono creature sovrannaturali -come le chiamate voi umani- che viaggiano o vivono sulla Terra, però...», fece una pausa grattandosi il mento pensieroso.

«Però...», lo incitai a continuare sempre più spaesata.

«Però non sono mai arrivati studenti da lì. Non hanno né le conoscenze, né il potere di farlo».

«Lei non è completamente umana, lo sento dal suo odore>>, fece concentrare l'attenzione di tutti su di sé, Luke.

«Giusto», commentò il direttore «voi demoni riuscite a distinguere le varie razze dall'odore. Quindi lei cosa è, Luke?».

Luke continuò a fissarmi ancora un po' con un'espressione impassibile dipinta sul volto. Poi passò una mano tra i capelli e si gettò indietro sullo schienale del divano chiudendo gli occhi.

«E io che ne so!».

Come sarebbe che ne sai? Li guardai stranita per poi abbandonarmi ad una leggera risatina nervosa.

«Scusate, scusate...», asciugai con l'indice una lacrima comparsa dallo sforzo di ridere «come fate ad essere così sicuri che io sia qui in veste di studente».

Analizzai le loro reazioni: Beatrix fumava indisturbata trovando più interessante l'analizzare il tessuto beige dei suoi pantaloni; Estelle mi guardava con apprensione; Monica aveva un'espressione schifata neanche fossi un'insulso insetto; Luke mi guardava come fossi una povera pazza; Gabriel spostava le sue iridi ghiacciate da me al direttore in attesa di una sua reazione.

«Dammi la mano!».

Titubante allungai la mano verso il direttore, che la prese fra le sue come quando fece apparire le bolle. Un leggero tepore mi baciò il dorso della mano e una luce bluastra fuoriuscì tra le dita di Erasmus. Guardai incantata -quando liberò la mia mano- la stella rossa o forse era un fiore a cinque petali, che si materializzò sulla mia pelle diafana. Azzardai a toccarla, ma questa scomparve immediatamente. Rivolsi al direttore il mio sguardo interrogatore.

«Questo è il simbolo impresso sulla pelle di tutti i studenti dell'Academy of Darkness. Appare ogni volta quando si apre un portale. La sua presenza indica che tu sei qui in veste di studente. Hai altre domande?».

«Voglio sapere come andarmene da qui?», chiesi con tono deciso.

«Hai due possibilità: primo studi fino all'ultimo livello per bene senza farti bocciare arrivando fino all'ultimo livello», alzò l'indice «e due», alzò anche il medio «se sei proprio impaziente, puoi sempre ricorrere alla Sfida del Diavolo».

Promettente. Pensai con il morale a terra.

«E in cosa consiste questa prova?».

«Lascia perdere, tanto non hai alcuna possibilità di superarla», scoppiò a ridere Luke.

Assottigliai lo sguardo in sua direzione, offesa.

«Luke ha ragione», ci mise del suo Monica con l'inseparabile cipiglio sul viso delicato da bambola di porcellana, uno spreco a parer mio «è chiaro come il giorno che non la supereresti neanche volendo».

«Beh, neanche tu se per questo», controbatté Beatrix con l'evidente intento di mettere a tacere l'altezzosità della figlia del direttore.

Non era certo mia intenzione, che le cose degenerassero fino al punto di aizzare l'una contro l'altra le due ragazze. Tuttavia ringraziai in cuor mio Beatrix per aver preso le mie difese -o almeno così mi era sembrato-.

Luke ridacchiò leggermente visibilmente divertito, appoggiando il gomito sul bracciolo del divano, coprendosi in parte la bocca. Chissà la furia di chi tentasse di evitare?

«Smettetela voi due!», sospirò esausto il direttore, poi rivolgendosi a me «666, la Sfida del Diavolo consiste in: 6 avversari da battere; 6 sfide diverse e 6 giorni a disposizione. Chi ne è capace, può lanciare la sfida quando vuole».

Sgranai gli occhi. Era chiaro come il giorno -per citare Monica- che non avrei superato quella prova neanche con un intervento divino.

«E adesso sparite dalla mia vista», il direttore di diresse, alzandosi, verso la sua scrivania «sono stanco morto. Monica accompagna la ragazza in dormitorio e dalle l'uniforme».

«Perché io?», sbottò questa.

Erasmus sospirò di nuovo massaggiandosi le tempie.

«Beatrix, occupatene tu».

Lei si alzò e mi fece cenno di seguirla.

«Aspetti un'attimo», mi rivolsi al direttore «io sono una ragazza normalissima, non ho alcun potere particolare...», ricordai il dito di Beatrix che prese fuoco «...e non so nemmeno come potrei cavarmela se restassi qui».

«Hm...», si grattò pensieroso il mento «non hai tutti i torti. Provvederò a mandarti un tutor, cosicché ti possa aiutare».

Non era questo ciò che intendevo. Mandami a casa! Mi morsi il labbro delusa.

«E non venirmi a dire che non hai alcun potere. Se hai aperto un portale dal Mondo degli Umani, significa che il tuo livello è piuttosto alto».

«E in che classe la mettiamo?», chiese Beatrix al mio fianco.

«Blu. La luce che è apparsa insieme al marchio era blu».

«Va bene», alzò Beatrix le spalle «andiamo!», mi ordinò infine.

Sospirai e la seguii fuori dalla stanza ancora più confusa di prima; sola ed impaurita per il futuro incerto e stravolto che mi aspettava. Solo un pensiero mi frullava in mente, mentre a testa china scendevo gli stessi gradini ripidi di prima: voglio tornare a casa.

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


A passi incerti avanzai lungo gli ampi corridoi verso l'uscio della mia nuova classe, affiancata dalla presenza quasi impercettibile di Gabriel. Dovette accompagnarmi lui in qualità di figlio del direttore per giustificare il mio ritardo, e poi, frequentava il mio stesso livello, quindi accompagnarmi non gli si rivelò un lavoraccio. Di tanto in tanto lo osservavo di sottecchi nell'intento di intuire un qualunque pensiero che potesse frullargli in testa, con –sfortunatamente- scarsi successi. Apparì ai miei occhi come un ragazzo tranquillo, taciturno e misterioso. La sua figura slanciata, dalla pelle diafana, avvolta nell'uniforme nera non rendeva giustizia al suo fascino, che descrissi -inizialmente- angelico, anche se non del tutto. I capelli argentei gli sfioravano delicatamente le guance –in quanto erano piuttosto lunghi- mentre scivolava aggraziato sul pavimento in listelli di legno scuro. Arrivata davanti alla porta mi bloccai. Guardai in direzione di Gabriel cercando conforto ed incoraggiamento nei suoi occhi celesti, come ogni volta che l'abbandonismo mi pervadeva l'animo. Respirai profondamente e tesi la mano verso il pomolo dorato, restia a varcare la soglia per affrontare l'incertitudine che mi attendeva oltre. Ma fui costretta ad aprire la porta, per poi essere accolta da un mosaico di facce nuove: dalle più singolari alle più attraenti; dalle pelli più normali fino a quelle dai colori più particolari, dai ghigni più strambi alle aggraziate guance rosee. Studenti di stazze ed espressioni differenti puntarono chi due, chi tre, chi anche più occhi sulla mia figura. Il sentirmi semplicemente osservata, non era proprio come avrei descritto il miscuglio di emozioni che mi pervadeva. Non ero proprio –anzi, non lo ero affatto- il tipo di ragazza da definire socievole, ovviamente non amavo privarmi della compagnia di cari e mi si potrebbe pure dare della chiacchierona, a volte, però, ero piuttosto riluttante ai cambiamenti e mi ambientavo assai difficilmente.

«Siediti qui!».

Tranquillamente, Gabriel mi indicò a sedere accanto a lui. Ed io, come un'automa lo feci. Mi guardai intorno, intenta a scrutare i volti dei miei nuovi compagni, i quali ostentarono indifferenza offensiva nei miei confronti, pensai. Seguì il solito quarto d'ora accademico prima dell'inizio della lezione; tempo che gli studenti sfruttarono appieno nel conversare tra loro, ignorando completamente la mia presenza. Mi sentii ancora più a disagio di quanto già fossi. Riflettei sul discorso di ieri –che tutt'ora considerai inverosimile- e cercai di 'scorgere' qualche indizio sulla veridicità delle parole del preside, che affermava della presenza della magia. Assurdo, altrimenti non potei reputarlo.

«Nicole, ti senti a disagio?», constatò ingenuamente Gabriel.

Non era un ragazzo stupido, affatto, ma l'innocenza che appresi lo caratterizzasse era quasi infantile, angelica forse.

«No!», negai, non so per quale motivo «sono solo incredula».

«Incredula?! Per quale ragione».

«Non farci caso, non riesco ancora a digerire tutti questi cambiamenti», risi istericamente, facendo –sicuramente- intendere la mia bugia.

«Non preoccuparti, andrà tutto bene», mi incoraggiò e gliene fui grata.

Un ripetitivo colpire con la penna sulla superficie legnosa del tavolo attirò l'attenzione dei presenti sulla figura elegante del professore –appresi più tardi- di storia. Era un uomo, che dubitai sfiorasse la trentina, molto affascinante. Alto, biondo, occhi verdi, pelle abbronzata, sorriso smagliante e camicia felicemente sbottonata. Era davvero un professore quello?

Scivolò tra i banchi salutando, uno ad uno, gli studenti. Si soffermò al mio e mi chiese di presentarmi. Lo feci con rapidità militare, accasciandomi poi sulla mia sedia, felice di essere scampata al suo sguardo magnetico. Mi sorrise e cominciò la lezione.

La voce gentile e il delizioso interessamento per gli studenti, lo rendeva il professore più amato nell'accademia, soprattutto –come appresi in seguito- tra le studentesse. E non ne dubitai. Era bello e spiegava divinamente; i termini storici, date ed altri avvenimenti importanti fluivano come oro colato dalle sue labbra, e noi studenti coglievamo ogni singola lettera con interessamento massimale, per poi ricordarle in seguito. Ovviamente però, il frutto di tanta ammirazione –almeno per la maggior parte delle ragazze- era il primo motivo. Io, personalmente, mi sentivo quasi in soggezione circondata da tanto, troppo splendore.

La lezione di oggi stuzzicò particolarmente la mia curiosità. Erik –il professore-cominciò dalle radici della storia del Mondo Demoniaco, tenendo conto –e gliene fui immensamente grata- della mia totale ignoranza sull'argomento: le razze esistenti nella dimensione senza confine del Mondo Demoniaco e della Luce, conosciuto più spesso con il semplice nome prima nominato, a causa della supremazia delle Creature delle Tenebre. Le razze si dividevano in tre categorie: Creature della Notte o Oscure o delle Tenebre; della Luce e del Mondo di Mezzo. Le prime erano essenzialmente Demoni, seguiti poi da: Vampiri, Troll, Goblin; le Creature della Luce sono quanto di più puro e benigno ci possa essere in un mondo dove le tenebre sembrarono regnare sovrana, in cima alla piramide vi erano gli Angeli, per poi scendere: Ninfe e Fate della Luce; sottospecie delle Fate della Luce erano quelle del Bosco, caratterizzate da una personalità più immatura, giocherellona, dispettosa, che erano appartenenti alla razza più vasta: le Creature del Mondo di Mezzo. Questo abbracciava una vastità maggiore di specie, come: Streghe, Licantropi, Sirene, Folletti e molte altre, tra cui gli Incroci: esseri dal sangue non puro, come me.

Seppur potrei considerare tale realtà –oltre che inverosimile- anche fiabesca, finii anche io, infine, succube del suo fascino, assaporando e stoccando ogni sua parola.

***

«Allora, novellina, come è stato il primo giorno?», chiese gioiosa Estelle.

Mi rallegrai nel circondarmi di volti familiari –seppur da poco- nell'atrio. Estelle camminava al mio fianco, raggiante e come sempre di buon umore. Beatrix e Luke invece erano qualche metro più addietro intenti a discutere vivacemente tra loro, non trovando alcuna soluzione al loro problema. Non ebbi avuto ancora il piacere di conoscere meglio Beatrix, o Luke, ma per il momento mi deliziai della presenza affabile di Estelle.

«Bene», risposi abbozzando un sorriso.

Per ora. Pensai.

«Dove stiamo andando?», chiesi poi.

«Devi sapere che qui, diversamente dalla Terra, si studiano maggiormente le arti pratiche, piuttosto che teoretiche».

«Sei piuttosto informata sulla Terra», notai con un pizzico di diffidenza nello sguardo.

«È perché sono cresciuta lì», rispose senza esitazione e dovetti crederle, nella sua voce non vi era accenno di menzogna «per qualche tempo», aggiunse poi con tono flebile.

Le riservai una lunga occhiata insicura sul porle domande più personali, ma lasciai perdere, concentrandomi invece sul suono dei passi che riecheggiavano negli ampi corridoi.

«Perché devo farlo io?», sentii borbottare Luke.

«Chi è che disse: 'mi farò perdonare, lo giuro!', eh? Tu, te lo ricordo».

«E dai! Beatrix, io non ho tempo».

«Trovalo!».

Luke sospirò esausto, facendomi intuire che probabilmente aveva ceduto. Non so quale fosse il motivo della loro –sembrò- disputa, ma non me ne curai troppo.

«Nicole!», mi richiamò Beatrix e mi voltai in sua direzione, arrestando la mia avanzata.

«Sì».

«Ecco il tuo tutor!», esclamò vivace.

Un tono di voce che –dal poco che la conoscevo, dubitai utilizzasse- mi sorprese. Infatti troppo presa dallo stupore, quasi ignorai il suo pollice che m'indicava Luke.

«Oh, non è necessario, se non vuoi», mi affrettai a dire lievemente imbarazzata.

Non era tanto il problema che lui non volesse, ma forse ero io a non volere stare da sola in sua compagnia. Sono sempre stata quel tipo di ragazza che un po' evitava i ragazzi, sopratutto se così affascinanti. Definire Luke poi, semplicemente affascinante era poco; era bello, più che bello, ma non era solo ciò a farmi venire l'agitazione. Più che altro io ero troppo timida in confronto alla sicurezza e decisione che emanava lui. Lo guardai di sottecchi, ma lui mi beccò. Sorrise sornione.

«No, non preoccuparti. Non sei tu il problema», si giustificò.

«Ah!», mi lasciai sfuggire.

«Comunque non importa quello che vuole Luke, lui sarà il tuo tutor e punctum», sorrise soddisfatta Beatrix.

Luke le rifilò un'occhiataccia, ma non ribatté.

Deglutii prima di chiedere: «E... e cosa dobbiamo fare?».

Luke come spezzato da una trance, mi guardò sorpreso.

«Ci penseremo a tempo debito», portò una mano dietro la nuca guardandomi mortificato.

Chiaro. Neanche lui lo sapeva.

«Ragazzi, correte a lezione!», gridò qualcuno alle mie spalle, agitando freneticamente un campanello dorato.

Protessi le orecchie con entrambe le mani e mi piegai leggermente, stringendo stretto gli occhi. Quando il suono cessò li riaprii, trovandomi davanti un essere di spiacevole aspetto. Piccolo e tozzo, guardava accigliato in alto, verso le nostre figure. Un nano!

«Calma Glockenspiel», parlò atona Beatrix.

«Tu!», la indicò visibilmente infuriato «hai di nuovo rubato le chiavi dell'aula 402 ».

«Di nuovo? Rubato? Non ho mai fatto una cosa del genere», rispose scandalizzata Beatrix.

«Non ti credo», s'intestardì.

«Ma secondo te, per quale ragione dovrei sottrarti le chiavi per entrare nell'aula di storia, se potrei benissimo entrare dalla finestra o sfondare la porta? E sai che ne ho le capacità», lo guardò fermamente convinta delle sue parole.

Glockenspiel la guardò diffidente e fece per replicare qualcosa, ma si ammutolì dopo un breve istante di riflessione.

«Sicuramente hai dimenticato dove le hai messe, è possibile, alla tua età poi».

«Non lo so...», bofonchiò voltandosi ed incamminandosi su per le scale «...eppure ero sicuro che... ma dove le avrò messe?».

«Storia?», chiese Luke guardandola come uno che la sa lunga.

«Le rimetterò al loro posto», aggiunse un'innocente sorriso Beatrix.

«Sì, sì, come no», ammiccò in sua direzione Estelle.

«Andiamo!», sviò il discorso Beatrix avanzando davanti a noi.

Non so esattamente a cosa si riferissero, ma capii solo che Beatrix era tutt'altro che innocente sulla questione della sparizione della chiave. Ma anche stavolta non indagai ulteriormente, dopotutto non erano affari che mi riguardano.

La seguente lezione era pratica, allenamenti simili a educazione fisica mi rassicurò Estelle, ma non seppi fino a che punto crederle. Li seguii fino all'uscita e varcammo insieme l'ingresso. All'aperto un'ondata di aria salmastra mi riempì le narici ed un dolce venticello mi carezzò la pelle, andando a giocare con i miei capelli. Mi mossi beata dalla soavità della brezza e non mi accorsi del posto dove giunsi, troppo distratta nell'ammirare le lucciole che mi danzavano intorno. Quando una di questi si avvicinò ancora di più a me, aguzzai la vista e la osservai più attentamente. Una minuscola fata, vestita solo di luce mi sorrise dolcemente. Intenerita e allo stesso tempo meravigliata, alzai la mano, preparando l'indice per sfiorarla. Ma ad un soffio dal piccolo capo dell'adorabile fata, Beatrix fermò bruscamente la mia mano, cingendo in una stretta ferrea il mio polso.

«Non lasciarti ingannare, queste», le indicò con aria schifata «sono più dispettose di quanto sembrano».

«Perché?», chiesi massaggiandomi il polso dolente.

«A loro non piace essere toccate, eppure ti inducono a farlo solo per fartela pagare».

«Non esagerare», la rimproverò Luke «sono semplicemente eternamente bambini».

Beatrix schioccò la lingua.

«Come vuoi».

Procedemmo ancora un po', arrivando poi ad una pista da corsa. Ai lati di questa vi erano disposte numerose panche, creando una specie di stadio d'atletica, un po' più primitivo però. Seduti vi erano numerosi studenti, che aspettavano annoiati l'arrivo del professore. La maggior parte di loro indossava come me, l'uniforme composta da gonna e camicia nera. A seconda del livello cambiava il colore della cravatta, sette livelli in tutto, in ordine decrescente di importanza: livello oscuro, per i migliori e ultimo livello raggiungibile; livello rosso, penultimo; livello blu; verde; giallo; viola e bianco. L'ultimo –ahimè – era il livello nel quale nessuno avrebbe voluto capitare, e nel quale io meritai di essere considerando che gli studenti di questa classe hanno sangue umano che scorre nelle loro vene. I poveretti subiscono lo zerbinaggio da parte degli studenti di livello più alto per il solo motivo di essere incapaci -o quasi- nell'utilizzo della magia. Ma io? Per quale motivo mi misero in un livello così alto e perché nessuno mi ebbe ancora detto cosa sono, se non ero umana?

Seguii i tre che andarono a sedersi su una panca, e analizzai –anche se prima non ci feci particolarmente caso- la loro uniforme, attribuendoli ai vari livelli. Beatrix era del livello oscuro, indossava infatti pantaloni neri, camicia bianca e una cravatta nera, che teneva allentata. Luke ed Estelle invece avevano, come me l'uniforme nera: camicia e gonna nera, per Estelle e pantalone del medesimo colore per Luke; mentre loro a differenza mia, avevano la cravatta rossa.

Accidenti che livelli alti. Pensai continuando a fissarli.

Luke voltò lo sguardo in mia direzione ed io –colta in fragrante mentre lo fissavo- trasalii.

«Sta arrivando il professore», disse.

Non stava guardando me. Capii in seguito, quando –veramente- le sue iridi blu si posarono su di me, nel scrutare la mia espressione confusa ed imbarazzata per i pensieri precedenti, che capii dove fosse direzionata la sua attenzione prima: alle mie spalle. Che sciocca!

Il professore in questione si rivelò niente meno che un bestione alto due metri e incredibilmente massiccio. Si muoveva rapidamente, e dal suo modo di avanzare come se fosse in procinto di partire in guerra, sperai vivamente che non fosse un militare.

«Allora!», tuonò con un vocione che mi mise i brividi «Oggi si corre!», continuava a gridare «Siccome non avete bisogno di riscaldamento cominciamo!».

Scrutai l'espressione di Beatrix al mio fianco: non era per nulla entusiasmata.

«Ma non abbiamo delle tute?», chiesi guardandomi.

Non correrò certo con la gonna.

Beatrix fece per rispondermi, quando il professore si avvicinò velocemente a noi. Le sue iridi dorate risaltarono subito in evidenza, nettamente in contrasto con la sua carnagione leggermente più chiara del solito mulatto.

«Livello oscuro, siete i primi!».

Cominciarono ad avanzare energeticamente una ventina di studenti, tra questi anche Beatrix. Si misero tutti in postazione pronti per la corsa. Era impossibile non notare la loro voglia irrefrenabile di correre e il fuoco della competitività che si accese negli occhi di tutti loro, Beatrix compresa. Mi chiesi cosa li spingesse a voler mettere tutta la loro energia in una semplice corsa, ma la risposta era ovvia: il desiderio di primeggiare, di essere il migliore. Gli altri studenti –in special modo quelli dei livelli più alti- seguivano attenti le mosse dei loro compagni, bramosi di cogliere ogni dettaglio per diventare a loro volta come loro, ma molto probabilmente il loro desiderio maggiore era non di eguagliarli, bensì superarli. Era durante piccole attività come queste che mettevi in mostra le tue capacità, e sopratutto la tua voglia di ampliarle. In quest'accademia la propria posizione non era mai al sicuro. Solo perché eri giunto ad un livello abbastanza alto, non potevi metterti il cuore in pace, dovevi dimostrarti di essere degno di essere a tale livello, in caso contrario nessun professore si faceva troppi scrupoli nel declassificarti. Era una questione di orgoglio. Tutto lo era per loro. Ed io lo imparai a mie spese.

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


«Siete pronti?».

La voce potente del professore rimbombò nell'oscurità dell'accademia. La notte quasi perenne del Mondo Astrale ci avvolgeva nel suo manto stellare, facendoci perdere in miriadi di ricordi, pensieri, sogni. Infiniti, come il numero di quelle magnifiche palle di fuoco che brillavano incessantemente nel cielo. Tuttavia, nonostante la notte l'ambiente era ben illuminato, soprattutto grazie alla luna, che quando la fissai troppo a lungo, sembrò contraccambiare il contatto visivo. Lo facevo anche da bambina e finivo sempre per spaventarmi e correre in casa. Anche questa volta l'avrei fatto volentieri,  ma mi limitai semplicemente a distogliere lo sguardo.

«Demoni, quarantacinque giri di corsa; angeli quaranta...», cominciò a parlare -finalmente senza gridare- il professore.

«Cosa?!», si lamentò un ragazzo che non riuscii ad identificare «Perché noi quarantacinque giri? Questo è razzismo».

Uno stuolo di risate mi abbracciò, costringendomi ad abbandonarmici anche io. Non so chi abbia parlato, ma sospettai un demone.

«Per te cinquanta, fannullone», si avvicinò minaccioso il professore ad un ragazzo dalla capigliatura minuziosamente curata.

Ciocche nere-bluastre gli ricadevano su una parte del volto, coprendo l'occhio destro; mentre dietro venivano più corti. Era alto e non particolarmente sviluppato in muscolatura. Portava numerosi braccialetti ed un paio di collane. I suoi movimenti erano aggraziati e quasi effeminati, dava l'impressione di essere un soggetto piuttosto delicato. No, decisamente non era adatto per lo sport.

«Non è necessario», si difese sorridendo inquietato.

Il professore, soddisfatto del risultato ottenuto, ghignò e lasciò correre -per stavolta, come disse-. Si allontanò dalla pista e diede il via soffiando in un corno. Gli studenti partirono come razzi: veloci, competitivi, inarrestabili.

***

«Sono a pezzi!», esalai l'anima gettandomi a peso morto sul letto.

Dovetti correre quindici giri, ma considerando la mia muscolatura affievolita durante le vacanze pasquali -probabilmente le ultime che avrei festeggiato, visto che non sarei più uscita da lì- la mia prestazione si rivelò un vero fiasco e dopo il primo giro avevo già il fiatone. Non so come sia riuscita a scamparla e a non farmi beccare. Sospirai esausta, mentre stesa supina, inghiottita dal morbido materasso, chiusi gli occhi e credetti quasi di addormentarmi, quando la porta venne aperta con impetto.

«Su, pigrona!», riconobbi la voce allegra di Estelle «Andiamo a mangiare».

Aprii gli occhi di malavoglia. L'unica cosa che volessi fare al momento era dormire, non avevo fame.

«No, grazie», mugugnai.

«Non hai fame?», chiese stranita «ma è da quando sei arrivata che non mangi».

«E da quanto tempo sarei qui?», chiesi con disinteresse.

Avevo ormai notato che qui la notte era perenne e l'assenza del sole -che mi mancava non poco- rendeva molto difficile distinguere 'il giorno' dalla notte, quindi non seppi da quanto tempo fossi all'accademia.

«Tre giorni!», esclamò Estelle dopo un breve attimo di riflessione.

«Io ne ricordo due», le feci notare, accentuando l'ultima parola.

«Il primo giorno hai dormito come un ghiro».

Avevo un ricordo piuttosto confuso e appannato di quel giorno, sopratutto del mio risveglio. Troppe informazioni su una realtà alla quale non mi ero ancora abituata mi furono date. Tuttora stentavo a crederci.

«Allora vieni?».

Sentii il materasso piegarsi leggermente sotto il peso di Estelle. Aprii gli occhi per guardarla. La conoscevo da poco, ma mi sentivo già di considerarla una potenziale amica. Era amichevole e socievole, e aveva sempre dimostrato una certa premura nei miei confronti, ma forse solo perché ero nuova. Mi guardava con apprensione. Le sorrisi per rassicurarla. Stavo bene. Certo potevo stare meglio, ma non esitai un'attimo a compiacermi della fortuna che mi accompagnò nell'incontrare subito Estelle. In questa valanga di novità, di cambiamenti e di nuovo inizio, lei c'era e mi offriva il supporto necessario per andare avanti.

«Non ho fame. Voglio solo dormire», le dissi «e poi ho le gambe a pezzi».

Lei rise. «Ci credo!».

Scattò energeticamente in piedi e si diresse verso la porta. Strinse tra le dita il freddo metallo della maniglia dorata e l'aprì velocemente. Si voltò in mia direzione.

«Io vado! Dormi bene!», mi augurò raggiante.

Ma come fa? Pensai con innocente invidia. Avrei voluto anche un solo percentuale della sua energia. Solo uno. Io ero da sempre particolarmente torpida. Difetto svantaggioso specialmente negli sport, ed infatti oggi l'ho confermato, sopratutto a me stessa con la corsa.

Rotolai sulle candide lenzuola del mio nuovo letto e ne assaporai il fresco odore di lavanda. Immersa nel silenzio della mia stanza, al primo piano del dormitorio femminile dell'accademia, l'unico rumore percettibile era quello del battito regolare del mio cuore. Mi persi ad ascoltarlo fissando con sguardo assente il soffitto candido, costellato di lucciole. La stanza era elegante e spaziosa. Ospitava tre persone -come tutte le altre del resto- ed io ebbi la fortuna -che per la verità fu frutto dell'insistenza di Estelle- di finire con le mie nuove conoscenti: Beatrix ed Estelle. I letti erano disposti parallelamente ed erano a una piazza ciascuno. L'intelaiatura era in legno chiaro ed il materasso era soffice; le lenzuola erano candide e profumavano di vaniglia, mentre le coperte erano dorate. Quello che più mi piaceva dei letti era però, il cuscino: grande, morbido, bianco e con il margine dorato. La stanza -seppur fosse sempre notte- era sempre luminosa, colpevole essendo le pareti color crema, i letti dorati e i mobili eleganti in legno chiaro. Piccole sfere di luce fluttuavano in aria, coprendo come un manto il soffitto. Non erano alcun essere vivente, era la luce. In un primo momento pensai fossero lucciole, tuttora le chiamo così. Le trovavo assolutamente stupende, potevo forse addormentarmi così?

***

«Nicole», sentii sussurrare al mio orecchio.

Mi ero beatamente addormentata, ipnotizzata dal magico luccichio che mi circondava. Chiunque stesse cercando di riportarmi alla realtà, strappandomi dal mio mondo dei sogni, perdeva solo il suo tempo. Abbracciai il cuscino e mugugnai parole sconnesse, che dovevano essere un 'lasciami in pace'.

«Nicole!», gridò una voce familiare, stavolta incurante del mio stato di sonnolenza.

«Che c'è?!», gridai, scattando come una molla e mettendomi a sedere sulla sponda del letto.

Mi stiracchiai un po', esibendomi in un sbadiglio da record. Con le mani chiuse a pugno, le stropicciai sugli occhi, mettendo a fuoco solo in fine la figura davanti a me.

Estelle, indossando la divisa, era posta davanti a me con espressione di rimprovero. La guardai assonnata.

«Su, svegliati. Arriveremo in ritardo», si affrettò a dire, andando a svegliare Beatrix.

La scosse con forza, gridandole di svegliarsi. Beatrix emerse da sotto le coperte con un espressione accigliata.

«Che vuoi?», sbraitò la mora.

«Alzati che facciamo tardi».

«Lasciami dormire!».

«Se ti rimetti a dormire, poi non ti svegli più. Ti conosco bene mia cara», rispose Estelle tra i denti, strappandole di scatto le coperte di dosso.

«Spero tanto che agli Inferi esista un girone speciale per quelli che non si fanno mai gli affari propri!», le rispose alzandosi.

«Dopo mi ringrazierai», le lanciò addosso la camicia.

Beatrix si alzò di malavoglia e si diresse in bagno trascinando i piedi. La seguii con lo sguardo, finché non sbatté la porta alle sue spalle.

«Non farci caso», sospirò Estelle «è sempre una bestia appena svegliata».

«Guarda che ti ho sentito!», fece capolino Beatrix.

«Era questa l'intenzione», le rispose la bionda aggiungendo una linguaccia.

«Hai fame?», chiese poi a me Estelle.

«Non, non tanto, se devo essere sincera. Perché me lo chiedi?», le risposi infilandomi i pantaloni.

Non volevo che mi capitasse di nuovo di dover correre con la gonna.

«È che Remì ti ha dato una pozione piuttosto potente»,congiunse le mani sorridendomi mortificata «e ci ha detto di tenerti d'occhio, nel caso la fame non ti tornasse».

«Chi è Remì?».

«È uno stregone. Presto lo conoscerai».

«Ah!», risposi non sapendo che altro dire.

Dopo che Beatrix liberò il bagno -dopo tanto tempo, abbastanza da far infuriare Estelle- andai a lavarmi e pettinarmi. Rimasi imbambolata a guardare nello specchio, non tanto il mio riflesso, piuttosto il bagno in sé. Le altre volte non ci feci particolarmente caso, ero troppo stanca, ma il bagno era... elegante, l'avrei descritto. Era spazioso e luminoso, sembrava giorno. Pavimento e pareti erano ricoperte da fredde piastrelle color crema con decorazioni di fiori stilizzati dorate. Sentii il scroscio dell'acqua ed infatti al centro vi era una vasca, che inizialmente scambiai per una piscina con acqua tiepida, che pian piano si riscaldava emanando vapori. Attorno alla vasca vi erano piccole fatine che giocavano nell'acqua. Mi avvicinai con cautela. Ma questo non è il nostro bagno? Arrivata a due passi da loro mi bloccai, ricordando l'avvertimento di Beatrix nel evitare di toccarle. Ritornai su miei passi, dandomi una fugace occhiata allo specchio e passando velocemente una spazzola tra i miei lunghi e rossi capelli. Erano di un color rosso acceso, naturali, ma molti pensavano li avessi tinti in quanto -fortunatamente, a parer mio- avevo una pelle liscia e latte, priva di nei e lentiggini, tipici per i rossi. Strinsi le spalle guardandomi allo specchio e ripensando ai commenti sui miei capelli. Problemi loro. Mi dissi indifferente. A me piacevano, non mi importava della loro opinione. Non più.

Scesi le scale velocemente, rincorrendo -una volta in cortile- le mie compagne di stanza, che continuavano a battibeccare tra loro sin dal loro risveglio. Sorrisi scuotendo la testa. Era evidente che si volessero bene, anche se troppo testarde per dirlo. Accelerai il passo e a breve fui al fianco di Estelle.

«Finalmente! Perché ci hai messo tanto?».

Alzai le spalle guardando di fronte a me.

«Non lo so. Ero sovrappensiero».

Lei alzo un sopracciglio perfettamente arcuato.

«Sbrighiamoci, dobbiamo ancora fare colazione e poi abbiamo le lezioni».

La guardai sgranando gli occhi.

«Anche voi mangiate?», chiesi perplessa.

«Certo! Perché no? Il cibo è buono», sorrise Estelle.

«Pozzo senza fondo», borbottò Beatrix accendendosi una sigaretta.

«Fumi di prima mattina?», chiese storcendo il naso Estelle.

Beatrix sospirò, prese la sigaretta tra le l'indice e il pollice, l'analizzò per un po', poi la lanciò per terra.

«Hai ragione, fa schifo».

«E allora perché fumi?», le chiesi guardandola con apprensione «è nocivo per la salute, lo sai?».

«Figurati», ridacchiò lei «non mi fa niente».

La guardai poco convinta mentre avanzavamo verso un'edificio nelle vicinanze dell'istituto. Non potei certo non notare che non mi avesse risposto alla prima domanda, ma non mi chiesi troppo il perché, dopotutto i motivi a fumare erano sempre i soliti: noia, conformismo, che altro? Stupidità a parere mio. Pensavo così sopratutto per la mia appartenenza a una famiglia di medici. I miei genitori tendevano sempre a spiegarmi la vita -parole di mio padre- mostrandomi più che altro gli effetti collaterali di essa. Ricordavo ancora quando mi portò nel suo ufficio -ero in quinta- a mostrarmi la foto di un polmone carbonizzato. Credetti di essere rimasta traumatizzata a vita. Hanno sempre avuto metodi un po' estremi, ma efficaci. Infatti, non avevo mai provato a fumare e appena ne sentivo l'odore mi coprivo il naso. Non ero paranoica, ero semplicemente salutista.

Varcammo la soglia della porta, e fummo subito accolte da un tripudio di colori vivaci e di delizioso odore di pane appena sfornato. Lo sentivo benissimo, pronto a stuzzicarmi l'olfatto e il palato. "La mensa" - come l'aveva definita Estelle- apparì ai miei occhi come un lussuoso ristorante, con tanto di camerieri che prendevano le ordinazioni; tavoli ampi e dalle belle tovaglie; e comodissime poltrone di velluto beige o pelle, che ti invitavano a sederti. Era ufficiale: avevo appena trovato il mio paradiso. Adoravo cucinare, e ancora di più mangiare; peccato che io dovessi sempre astenermi per via del mio corpo, che non appena intercettava un po' più calorie del solito, non esitava a trasformarlo in adipe sulle cosce. Fortuna che il ciclismo era tra i miei hobby. Avanzammo verso uno dei numerosi tavoli e prendemmo posto. Immediatamente una cameriera alta, slanciata e dai passi leggeri si avvicinò a noi. Dalle orecchie a punta dedussi fosse un elfo; o almeno lo pensai. Prese velocemente le ordinazioni e si diresse in cucina. Caffè, non desideravo nient'altro, la fame non mi era ancora tornata. Nel frattempo che aspettavamo non persi tempo a guardarmi intorno e ad analizzare lo splendore che mi circondava. Ristorante, altro che mensa. Anche qui la stanza era molto illuminata, sembrava che fosse costantemente accarezzata dal sole. I tavoli -tutti rotondi- erano disposti ordinatamente, formando una serie di file per lasciare ampi spazi ai carrelli ricolmi di varietà innumerevoli di cibo che passavano continuamente. Ai tavoli -diversamente da come mi aspettavo- erano seduti maggiormente esseri dall'aspetto umano. Quando però, incrociai gli occhi rossi di un ragazzo due file più in là, capii che non lo erano. Trasalii colta in flagrante e voltai subito lo sguardo altrove quando mi sorrise beffardo.

«Quello è un vampiro», mi disse Beatrix con tono monocorde «tutti pervertiti quelli».

«Ma smettila», sbuffò Estelle, roteando gli occhi «per te tutti sono maniaci o pervertiti».

«Non l'ho mai detto».

«Sì,sì, come vuoi».

Scossi la testa. Litigano di continuo.

«Ciao ragazze», una voce maschile, calda e melodiosa ci fece girare tutte nella stessa direzione.

A sedersi accanto ad Estelle fu un ragazzo mediamente alto e piuttosto magro, che dimostra più o meno la mia età; porta dei pantaloni neri strappati alle ginocchia, la camicia dell'uniforme e una cravatta molto allentata verde. Aveva dei capelli corvino lunghi fin sopra le spalle, che teneva pettinati ordinatamente all'indietro. Abbinatovi all'abbigliamento, erano le numerose collanine metalliche che portava al collo, una cintura composta di catene argentee intrecciate e i piercing che portava: uno al labbro, uno al sopracciglio sinistro e tre ad un orecchio solo. Sfortunatamente, il luccichio dei suoi gioielli distoglieva l'attenzione dai suoi bellissimi occhi, perlacei, che mi guardavano curiosi. Dovevo ammetterlo, nonostante l'abbigliamento rock, risultava particolarmente elegante.

«Nathan!», lo salutò con entusiasmo Estelle.

«Che ci fai qui, non dovresti stare con i bambini?», chiese Beatrix con la consueta gentilezza.

Nathan però non si offese, anzi rise vivacemente.

«Una vostra nuova amica?», chiese continuando a guardarmi.

«Ehm... sono Nicole», mi presentai un po' impacciata.

«Nathan».

«Come ti sembra l'accademia, Nicole? Ti piace?», mi chiese sorseggiando dalla cannuccia il succo che gli avevano appena portato.

Seguii con lo sguardo i movimenti della cameriera bruna, con i capelli accuratamente raccolti in un elaborata treccia, che dopo aver appoggiato il succo e le tazze sul tavolo, si allontanò silenziosamente. Sembrava umana.

«Se devo essere sincera... no», risposi onestamente, provocandogli un'altra risata sinceramente divertita.

«Neanche a me piace», confessò.

«Idem», risposero contemporaneamente le due ragazze, ognuna concentrata sulla propria tazza.

«Oh!», fece rizzandosi e guardando oltre la mia spalla «sta arrivando Luke».

In quel preciso momento concentrammo tutti la nostra attenzione verso l'entrata, dalla quale apparve Luke. Si muoveva lentamente, con passo sicuro e felino, incurante -o forse abituato- agli sguardi sulla sua figura: alta, slanciata e con le spalle larghe. La sua figura atletica era fasciata nell'uniforme scura, che faceva subito risaltare i suoi profondi occhioni blu, come l'oceano. Guardava inespressivo davanti a sé, mentre avanzava verso il nostro tavolo.

«È veramente affascinante, vero?», chiese Nathan continuando a fissarlo.

«Come?», chiesi sobbalzando.

Lui mi guardò stranito ed io abbassai lo sguardo, analizzando il colore scuro del caffè -che tra l'altro non avevo ancora toccato- imbarazzata. Non si era rivolto a me, eppure io ho reagito così.

«Non sono così disperata da sbavare dietro a mio fratello», rispose Beatrix trangugiando il suo toast.

«Sì, nostro fratello è un gran pezzo da novanta», ridacchiò Estelle «ma tu dimmi...», si sporse in avanti, aggrottando le sopracciglia «...non sarai mica omosessuale, vero?».

«No! Per carità», rispose Nathan indignato «sono solo un artista, so riconoscere quel che è bello. E poi lo sai, ho solo occhi per te», le sorrise il furbacchione

«E così deve essere», sorrise a sua volta compiaciuta Estelle.

«Ma quindi siete fratelli?», chiesi.

«Esatto! Perché non si nota?», domandò Estelle guardando Beatrix «di solito dicono che ci somigliamo».

«Ciao», ci salutò Luke prendendo posto accanto a Beatrix.

Lo guardai in viso, riducendo gli occhi a due fessure. Lui mi guardò aggrottando le sopracciglia. Sicuramente sembravo maleducata. Spostai lo sguardo sui visi di Estelle e Beatrix. Il mento delicato, il naso leggermente all'insù, i zigomi alti. Sì, si somigliavano. Ma la bocca piccola dal labbro superiore più sottile e quello inferiore più tumido, resa leggermente sproporzionata, ma adorabile; gli occhi grandi, contornati da lunghe ciglia scure; i capelli lisci e di un color sabbia; e le sopracciglia leggermente più scure del colore dei capelli erano tutti dettagli, che creavano una somiglianza maggiore tra Luke ed Estelle.

«Ma voi siete gemelli?», chiesi guardandoli.

«Sì», rispose allegra Estelle «io però più grande, di dieci minuti».

«Questo perché io sono un gentiluomo e ti ho lasciato passare per prima», replicò Luke beccandosi un tovagliolo in direzione del viso, che prese al volo.

«Aggressiva!», le disse ridacchiando.

Beatrix sbuffò. «Oh no! Ancora questa storia».

 

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Dopo le lezioni dovetti incontrarmi con Luke sulla sponda a est del dormitorio femminile bagnata del Mirror's Lake. Era ormai parecchio tempo che lo aspettavo e sinceramente non ne potevo più. Mi sedetti, sbuffando al limite della pazienza su una roccia e guardai le piccole onde formatesi dalla fresca brezza primaverile. Se non fosse per la temperatura bassa e per il mio altrettanto basso livello di sopportazione del freddo, volentieri avrei immerso le gambe nell'acqua cristallina. Presi un piccolo sassolino e lo lancia sulla superficie del lago. Fece due rimbalzi e poi venne inghiottito dalle fredde acque del lago. Il Mirror's Lake, ovvero il lago dello specchio; in esso vi si specchiava maestosa la luna e le stelle sembravano giacere sul fondo del lago stesso, ma conoscendo questo posto -seppur da poco- capii che brulicava di magia, come il resto dell'accademia del resto. Presi un'altro sassolino e lo lanciai con più voga, questa volta rimbalzando sulla superficie dell'acqua per cinque volte. Progresso! Mi complimentai con me stessa. Presi un'altro sassolino e lo lanciai di nuovo, un'altro, un'altro e un'altro ancora. I piccoli lanci, corti e timorosi inizialmente, si trasformavano pian piano diventando più impetuosi, più rabbiosi, più inarrestabili. Come me quando perdevo la pazienza. Ma dove sei Luke?! Gridai in cuor mio lanciando un'altro sassolino con la medesima -se non più- forza.

«Così facendo risveglierai il mostro marino che dorme laggiù?», finalmente Luke si degnò di deliziarmi della sua presenza.

«Finalmente sei arrivato», non trattenni la rabbia e la lascia trasparire dalla mia voce al meglio.

Lui sorrise sornione, infilando una mano in tasca e alzando il mento orgoglioso.

«Impaziente?», chiese senza togliere quel sorriso.

«Per cosa?».

«Andiamo prima che il mostro ti divori», mi diede le spalle ignorando la mia precedente domanda.

Sbiancai piantando i piedi per terra.

«N-non vorrai dire che c'è... che c'è davvero un mostro, vero?».

Lui ridacchiò divertito dalla mia reazione.

«Perché non dovrebbe?».

«Ma c'è o non c'è?», chiesi allontanandomi dalla riva e raggiungendo il suo fianco.

Non avrei certo voluto rischiare di essere inghiottita in un solo boccone da un mostro. Luke continuava a ridacchiare divertito e a evitare una risposta diretta, facendomi uscire di senno. Alla fine mi rispose con un semplice:

«Chissà!».

Ed io rinunciai a continuare ad indagare, tanto con lui era una causa persa, mi lasciava intendere e capire solo quello che lui voleva. Niente di più, niente di meno. Fu il giorno stesso che ricevetti un piccolo assaggio, innocuo, insignificante lo considerai, non vi badai nemmeno.

Ma la verità è che l'atteggiamento di qualcuno nei confronti degli altri, lo riserva anche a te, dopotutto anche tu fai parte degli altri.

 Lo seguii in silenzio lanciandogli furtivamente occhiate di sottecchi. Era un ragazzo particolare: estroverso e allo stesso tempo riservato; silenzioso ma chiacchierone quando voleva; premuroso ma distaccato; accettava il tuo affetto ma certe volte ti faceva sentire indesiderata. Non era sua intenzione, non voleva essere così, ma lo era ed io credevo di non capirlo. Provare comunque non nuoce. Fu dall'inizio che lo trovai affascinante, ma solo quel giorno cominciammo veramente a conoscerci, eppure ai tempi non mi sembrava affatto un'inizio.

Camminammo da ormai una decina di minuti attraverso i lunghi e luminescenti corridoi, lasciandoci alle spalle solo varie porte. Nessuna raffigurazione particolare, né qualche pianta e nemmeno altre strane creature che possa meravigliare i passanti, niente di niente. Eppure non riuscii a rimanere indifferente nel intravedere attraverso le ampie finestre il bellissimo cielo stellato e la luna che faceva da maestra, specchiarsi nelle limpidi e tranquille acque del laghetto. Il quale, pure nell'oscurità manteneva una lucentezza anormale, eppure meravigliosa.A rendere l'atmosfera più magica, vi erano le piccole fatine, che fluttuavano nell'aria, danzando sull'acqua e giocando a nascondino tra i verdi fili d'erba. Le loro risate infantili e gioiose si sentirono perfino attraverso il vetro e le pareti, creando l'impressione di udirle da lontano, ma anche da vicino.

Affrettai il passo per non perdere di vista Luke, parecchio più avanti di me. L'atmosfera seppure magica era inspiegabile, il che la mia parte razionale non riuscì ancora a digerire; perciò più che esserne piacevolmente incantata, ne ero inquietata. Le loro voci avevano qualcosa di misterioso ed affascinante allo stesso tempo; mi piacevano, ma mi facevano paura. Desiderai ascoltare di più le loro risate, ma la sensazione malinconica che sbocciava in me mi spaventava, mi spaventa.

Solo io ne ero però, provata, in quanto Luke camminava guardando dritto davanti a sé senza prestare loro attenzione o mostrare qualche segno di apprezzamento. Per quanto mi sforzassi anche io a ignorarle, o a tenere il passo di Luke, non riuscii in nessuna delle due. Finché l'atmosfera non si spezzò dal non poco potente schianto che feci contro la schiena dura di Luke. Ma è una montagna. Pensai massaggiandomi il naso con espressione addolorata.

«Sta' più attenta», mi disse in tono monocorde, più che altro per educazione, non per proprio interessamento.

Troppo distratta e indolenzita, non solo per lo schianto, ma anche per la corsa di ieri, non gli risposi; e lui non esattamente interessato a sentirsi dire qualcosa, aprì una porta ben tre o forse quattro volte la sua altezza, ed io gli avrei dato sul metro e novanta, tant'era alto. Si spostò leggermente, ed in gesto cavalleresco mi fece entrare per prima. Mi piaceva il 'prima le signore', ma se si trattava di dover affrontare imprese titaniche o incontri con orchi, avrei volentieri fatto a meno. Entrai a passi incerti, aguzzando la vista e stando in allerta. Luke alle mie spalle mi guardava -sicuramente- spazientito, lo sentivo. La stanza era buia, quindi feci radici a due passi dalla soglia della porta.

«E ora perché ti sei fermata?».

Sì, era al limite della pazienza.

«Non vedo niente», gli risposi con altrettanta gentilezza.

«E allora dovevi lasciarmi passare per primo».

«Prego allora», mi spostai lasciandogli campo libero «dopo le signore».

Era troppo buio e non vedevo ad un palmo dal mio naso, ma fui certa che mi avesse già trucidato con i suoi profondi occhi mare.

«Spiritosa».

«Più di te», abbozzai un sorriso fasullo.

Non disse nulla, sapeva per esperienza propria cosa significasse litigare di continuo e sapeva anche che il più intelligente taceva per primo in una discussione. Odiavo questa sua affermazioni, ma non sopportavo lasciare il discorso in sospeso e non riuscivo a non dire la mia, ciò faceva di me la meno intelligente? Da questo punto sì, ma solo questo.

«Dove stiamo andando?», gli chiesi quando pensai che le acque si fossero calmate.

Nessuno di noi chiedeva mai scusa; lui per orgoglio, io per -più che altro- paura.

«Tu hai capito cosa sei?», mi chiese serio.

Seppure la mia vista si era abituata -per quanto potesse- al buio, non riuscivo a vederlo in volto. Ma ero sicura avesse puntato i suoi pozzi blu nei miei.

«No», risposi sincera.

Dopotutto, il direttore mi spiegò come funziona l'accademia, come vi fossi arrivata e come sarei potuto andarmene. Ma mai mi illuminò su cosa fossi, sul perché fossi giunta qui e sopratutto il perché di questo posto. Non ero incredibilmente brillante, ma era un errore, grande, considerarmi stupida, perché non lo ero. Angeli, demoni, vampiri, folletti, streghe e tutti gli altri a cosa poteva servire loro quest'accademia. Ognuno di loro aveva le proprie radici e le proprie tradizioni, una più diversa dell'altra, passando da razza a razza. Troppe diversità racchiuse in questo posto troppo piccolo per la loro maestosità. Avevano davvero bisogno di una scuola?

«E allora andiamo a scoprirlo», mi disse con una voce rassicurante.

Come è lunatico. Sorrisi e proprio in quel momento una fiamma apparve davanti a me, prendendomi alla sprovvista e facendomi indietreggiare un po'.

«Luke!», gridai spaventata «il tuo braccio ha preso fuoco!».

«Non gridare, ti sento benissimo».

Grazie alla luce della fiamma vidi la sua espressione dolente, mentre toglieva la mano dall'orecchio.

Mi avvicinai al suo braccio timorosa. Lo analizzai stupita.

«Non brucia!», esclamai sussurrando con la voce impastata di stupore.

«Perché, vorresti?».

La sua domanda -nella quale avvertii una leggera ironia- mi offese.

«Perché dovrei», gli chiesi accigliandomi.

«Chissà!», disse con la voce dalla quale trasparì il suo sospetto.

Lo guardai incredula? Meravigliata? Offesa? Non sappi cosa provassi nel preciso momento, nel quale le mie irridi verde incontrarono le sue blu. I miei occhi erano terribilmente sgranati, mentre le pupille si dilatarono quando lui si voltò, cominciando ad avanzare. Sbattei le palpebre un paio di volte, ancora in uno stato di spiacevole confusione.

«Perché il tuo braccio brucia? O meglio: perché ha preso fuoco, ma non brucia?».

«Sono un demone», rispose continuando la sua marcia «so controllare il fuoco».

«Tutti i demoni controllano il fuoco?», chiesi seguendolo a debita distanza.

Luke fece una lunga pausa, facendomi credere che avesse ignorato la mia domanda -come spesso accadeva-.

«No», rispose.

«E allora chi?», continuai con la mia raffica di domande.

Forse fu scortese continuare a bombardarlo di domande in quel modo, ma volevo conversare, non ero una che si impicciava negli affari degli altri. Odiavo però il silenzio, e l'unico modo per non farci avvolgere da esso era intraprendere una conversazione. Quello che Luke non fece, quindi lo considerai mio dovere.

«I poteri si tramando da generazione a generazione, quindi il potere è il marchio che contraddistingue le famiglie, rendendole uniche agli occhi dell'intera società», spiegò tranquillamente.

Ah! Ecco perché anche Beatrix sa controllare il fuoco.

«E funziona solo per i demoni?».

«No. Funziona per tutte le razze. Ogni famiglia ha il suo potere simbolo».

«E se si mescolano più razze?», chiesi guardandomi intorno.

Avanzando però, mi scontrai con la schiena di Luke. Maledizione! Non di nuovo! Portai la mano a massaggiare il naso nell'intento di alleviare il dolore.

«Questo non succede, e non deve succedere», mi disse serio e cupo in volto.

«Perché? È vietato?».

«Sì. E ora andiamo».

Percepii la fermezza nella sua voce, mentre mi dava le spalle e avanzava a passo spedito.

«Dove andiamo?», deglutii prima di fargli l'ennesima domanda.

«Da Remì», rispose freddamente.

Quelle furono le ultime parole che mi rivolse; e quella precedente fu l'ultima domanda che gli porsi. Avvertii una voragine crearsi tra di noi. Non ci conoscevamo da molto, è vero, eppure sentii di aver inconsciamente sfiorato un tasto dolente. L'unione tra due razze è vietata. Fu sentirmelo dire, che mi colpì particolarmente, non tanto per il fascino dell'amore proibito, ma per la rigidità che vigeva nella loro società. Sbirciai in direzione della figura di Luke. Era avvolto in un manto di tetro silenzio, il che mi fece tergiversare, insicura se parlargli o meno. In fine optai per evitarlo, dopotutto, non potevo certo pretendere che si aprisse con me. Io non lo avrei fatto.

Sgusciando tra gli stretti scaffali di una vecchia e polverosa biblioteca, ci trovammo ben presto dinanzi un uscio in legno scuro. Luke non attese molto -a differenza mia che mi bloccai davanti ad essa, bloccando anche il suo passaggio- e l'aprì. Feci così ingresso in un piccolo laboratorio. Al centro era posto un lungo tavolo in legno imbrattato di liquidi dalla natura a me sconosciuta; fiale e recipienti contenenti varie sostanze dai colori vivaci: verde; rosa; giallo; vidi perfino una sostanza che produceva continuamente bolle -nonostante fosse in una piccola tinozza con ghiaccio- assumendo le varietà dei colori della natura. Monti di libri ergevano imperiose tra le scatole disordinate colme di erbe, e al centro di tutto questo disordine vi era un ragazzo basso, dalla carnagione olivastra, con corti capelli scuri intento a versare con cautela una goccia di acido, con il chiaro intento di farla cadere nel cerchietto disegnato su un cubetto di legno. Alzai un sopracciglio chiedendomi lo scopo del suo -se così si poteva definire- esperimento.

«Remì!», lo richiamò Luke, ma lui troppo assorto dal suo fare non ci badò.

Luke si spazientì «Remì!», alzò di un poco la voce.

«Shh!», ci ammonì corrugando la fronte senza distogliere l'attenzione dalla fiala che teneva tra le dita maculate dai troppi esperimenti.

Guardai Luke di profilo, fisso su Remì. Dalla sua espressione non trapelava alcuna emozione, alcun sentimento, alcun pensiero. Non potei fare a meno di chiedermi come ne fosse capace, io non ne sarei mai stata. Ma era davvero un bene? Dal mio modo di pensare sembrava quasi che lo considerassi un complimento. Ma lo era davvero? Forse sì, o forse no.

«Allora Nicole... sei pronta?».

Sobbalzai udendo una voce non del tutto sconosciuta alle mie spalle e voltai velocemente il capo in sua direzione, capendo qualche frazione di secondo dopo, che fu Remì ad indirizzarmi la domanda.

«Pronta per cosa?», chiesi accigliandomi.

«Per scoprire chi sei».

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


Remì mi porse la mano e mi invitò ad avvicinarmi, sulle labbra stampato un sorriso di incoraggiamento dalla dubbia sincerità, in quanto gli occhi stanchi tradivano lo sforzo, seppure dal benevolo intento. Afferrai la mano titubante e lasciai che mi conducesse davanti a sé. Seguii come un'automa ogni sua indicazioni, fidandomi -o almeno provandoci- dei suoi occhi fosforescenti che mi scrutavano curiosi, non leggendovi alcuna sfumatura di malizia. Erano del colore più puro e luminescente del giallo come delle stelle alte nel cielo.

«Adesso dovrei mettere le mani sul tuo cuore», mi disse facendomi inarcare un sopracciglio.

«In che senso?».

Lui si avvicinò a me facendo appena un passo, ma io indietreggiai. Dopotutto, non mi fidavo ancora fino a tal punto, non lo conoscevo .

«Non temere», mi rassicurò lui «metterò le mani sulla tua schiena all'altezza del cuore».

Lo guardai ancora poco convinta, sperando che dal mio sguardo diffidente capisse che mi dovesse spiegazioni più limpide .

«Serve per percepire la tua aura», chiarì per rassicurarmi.

«Ah!», esclamai ancora non del tutto convinta.

Lasciai che si avvicinasse e cautamente, lentamente, e come si tratterebbe una statua dal più fragile vetro poggiasse le mani sulla mia schiena, irrigiditasi subito ad un tocco estraneo. Le sue mani erano grandi dal tocco forte; deciso; energico, ma delicato; caldo e attento. Mi sentii leggermente in imbarazzo, non amavo il contatto con gli sconosciuti, ma era necessario in questo caso. Chiuse gli occhi prendendo una grossa boccata d'aria e strinse forte le palpebre. Trattenni

il fiato,troppo sconcertata dal suo atteggiamento. Ero in apnea, per qualche strana ragione non volevo che il mio fiato lo sfiorasse nemmeno. Fissai i suoi lineamenti ben marcati: la mascella squadrata, saldamente serrata nel suo atto di concentrazione; le labbra sottili e scure; il naso leggermente ricurvo e il ciuffo ebano che gli carezzava la pelle olivastra.

Luke ridacchiò. «Posso uscire, se sono di troppo».

Remì, troppo assorto dal suo "compito" lo ignorò, o forse non lo sentì, ma io no. Lo linciai con lo sguardo provocandogli ancora più divertimento. Rise a voce alta senza badare che Remì fosse concentrato. A quanto pare troppo concentrato, in quanto la sua espressione non mutò di una virgola. Portai l'indice alle labbra e feci segno a Luke di tacere. Lui mi ignorò bellamente e cominciò a guardarsi intorno. Seguii confusa i suoi movimenti, osservandolo dirigersi verso un vassoio ricolmo di frutta, nascosto dietro ad una pila di libri. Agguantò una mela e se la portò alle labbra.

«Fossi in te non lo farei», parlai sottovoce per non disturbare Remì,il quale sembrò essersi immobilizzato di fronte a me.

Sentii il suo tocco farsi più rigido e lo guardai, voltandomi di scatto in sua direzione. Ma la sua espressione era la stessa.

«Ed io, fossi in te mi concentrerei», scherzò Luke ammiccando in direzione del viso corrucciato di Remì.

Lo guardai allarmata, come se fosse sprofondato in un sonno beato ed io avessi paura di svegliarlo.

«Non riesce ancora ad identificare la tua razza», sbuffò roteando la mela, tenendola sulle punta delle dita lunghe ed affusolate «povero stolto!».

«Guarda che ti sente».

«È questo il bello!», rise «Non può!».

«Come non può?», ripetei alzando la voce di un paio di decibel.

«Shh!», ridacchiò «Non può e basta. Leggere l'aura di qualcuno richiede tempo,forza e concentrazione».

«Tu ne sei capace?».

«Mica devo sapere fare tutto», rispose con noncuranza.

«Quindi è un no».

«Sta' più attenta, così complichi il lavoro a Remì».

Si alzò dalla sedia e lanciò la mela in mia direzione. Presa alla sprovvista la afferrai per riflesso ad un soffio dal mio naso.

«Che c'è, vuoi che ti faccia da cavia?».

«Guarda che Remì si offende se dici che le sue mele sono avvelenate. Sono da parte di sua nonna, appositamente per il suo unico e tra parentesi preferito, nipote».

«Davvero?», chiesi pentita di aver messo in dubbio la commestibilità delle mele.

La guardai attentamente. Una mela bellissima rossa e dall'aspetto invitante, degna di indurre Eva in tentazione per una seconda volta.

«No! Neanche io so la natura di quelle mele», confessò divertito.

Sgranai gli occhi.

«E se l'avessi mangiata?!».

«Alla fine non l'hai fatto».

«E se?».

Sbuffò, lasciandosi cadere la testa all'indietro.

«Come sei noiosa. Ma quanto gli ci vuole per darti una risposta?», disse esasperato rialzando il capo e guardandomi «Non te la prendi se me ne vado,vero?».

«Certo che sì», risposi «tu mi hai portata qui, e tu mi riporterai indietro».

«Non sono certo la tua balia», mi guardò infastidito.

«Ho dimenticato la strada», inventai «era tutto buio», questa era vera.

«Non è che invece vuoi ancora stare in mia compagnia. Confessa!».

Sbuffai distogliendo lo sguardo.

«Ti piacerebbe».

Lo sentii ridere beffardo, ma non lo guardai per nessuna ragione. Concentrai la mia attenzione invece, sul viso di Remì, mutato in un'espressione sofferente. Lo guardai preoccupata. Che gli sta succedendo? Le sue mani cominciarono a tremare, mentre l'intero corpo sembrava essere attraversato da spasmi di dolore, dovute allo sforzo prolungato. Si allontanò da me con uno scatto improvviso. Con respiro affannoso e gli occhi ancora chiusi, cadde in ginocchio. Schiuse le labbra per ispirare ancora più ossigeno, ed io mi avvicinai al suo fianco, e cercando di mantenere la calma gli poggiai una mano sulla schiena, pronta ad intervenire nel caso soffocasse. In breve anche Luke apparve silenziosamente e velocemente accanto a noi. Lo afferrò per un braccio e costringendolo ad alzarsi, se lo caricò in spalle, per poi cominciare a dirigersi verso l'uscita.

«Che gli è successo?», chiesi preoccupata, quando vidi che non si muoveva più. Era svenuto?

«Non lo so», rispose serio Luke, intimandomi di proseguire in silenzio.

Gli lanciai un'ultima occhiata di sfuggita, notando la sua espressione pensierosa, e lo seguii fuori dal laboratorio. Ci addentrammo nel buio pesto della biblioteca che antecedente il laboratorio e ci avviammo verso l'uscita. Spezzammo poi velocemente il buio, correndo a perdi fiato lungo i corridoi dell'accademia arrivando infine nel cortile.

«Ci penserò io a lui, tu va' pure a dormire», mi disse Luke sistemandosi meglio il corpo di Remì in spalle.

«Ma...».

«Non preoccuparti», mi disse guardandomi severo negli occhi «neanche se volessi non potresti aiutarlo».

Mi incupii nel sentire tali parole e lo guardai storto. Anche se non molto, sarei stata capace di aiutarlo in qualche modo.Il suo sguardo d'acciaio però, non ammetteva repliche.

«Va bene!», risposi offesa «Buona notte».

Non badai al mio tono di voce e mi incamminai verso la mia stanza a passo spedito e accigliata, mentre ripensavo a quello che successe appena. Accidenti a te, Luke!

***

Il "giorno" seguente cominciò male, malissimo. Non riuscii a chiudere occhio tutta la notte, girandomi di continuo tra le fresche lenzuola. Fremevo di impazienza e agitazione; un miscuglio di emozioni che come un turbine mi contorceva lo stomaco e non mi dava tregua. Eppure mi sarei dovuta preoccupare per la salute di Remì, ma non lo feci. Che persona orribile. Mi definii. E continuai a pensarlo: mentre mi alzavo dal letto; mentre mi lavavo e spazzolavo lentamente i capelli; mentre indossavo l'uniforme; mentre mi dirigevo insieme alle due ragazze, mie compagne di stanza fuori; mentre trascinavo pigramente i piedi giù per le scale e poi verso la mensa; mentre mi sedevo sulla sedia elegante, ricoperta di velluto color crema; mentre addentavo un biscotto. Per tutto il tempo non feci altro che pensare a quello che successe il giorno precedente, o la notte. Alla fine non ricevetti alcuna risposta. Sapevo solo di essere un Incrocio, nient'altro.

«Estelle chiama Nicole. Ci sei?».

Estelle agitava una mano d'avanti ai miei occhi, guardandomi con i suoi occhioni verde scuro, con lievi sfumature topazio.

«Stai bene?», chiese.

Anche Beatrix alzò lo sguardo sul mio viso, guardandomi inespressiva.

«Sì, sto bene», borbottai «ho semplicemente un po' sonno».

Per confermare le mie parole sbadigliai annoiata e stampai un'espressione annoiata in volto. Sperai di riuscire a ingannarla, perché il vero problema era Estelle. Beatrix non sarebbe intervenuta mai, neanche se le mie intenzioni fossero palesi per lei.

«Chi mente, brucia all'inferno», sentii sussurrare al mio orecchio.

Sobbalzai e guardai in direzione della provenienza della voce. Luke, alla mia sinistra raddrizzò la schiena, mentre stava in piedi con una mano poggiata sullo schienale della mia poltrona.

«Sono desolato», cominciò terribilmente garbato «ma dovrei privarvi della presenza della vostra amichetta per un po'».

Estelle alzò un sopracciglio tenendo lo sguardo fisso sul viso del fratello.

«Non pensare male», le rispose accigliandosi.

«Non l'ho fatto», sorrise questa «quindi a cosa ti serve Nicole?», chiese sorridendo enigmatica.

«Ma piantala!», disse Beatrix «deve andare da Remì».

Sgranai gli occhi e sua sorella la fissò.

«E tu come fai a saperlo?», le chiese.

«Lo so e basta», rispose annoiata.

«Sai, sono sempre stata curiosa di sapere, come mai tu fossi sempre a conoscenza di vita, morte e quant'altro su Remì. Non è che sotto sotto c'è qualcosa tra di voi?».

Beatrix sgranò gli occhi, finalmente mostrandosi sorpresa, per poi guardare truce sua sorella.

«Ma che cazzo dici?».

Luke trattenne a stento una risata.

«Calma, Betty. Le mie erano innocenti supposizioni», ridacchiò sua Estelle, sbattendo le ciglia con innocenza.

«Quell'espressione da angelo non ti dona per niente», sorrise anche Beatrix.

«Guarda che a me dona tutto».

«L'importante è che tu ci creda», ridacchiò.

Le guardai sorridendo anche io. Chiedendomi come fosse avere una sorella. Io avevo solo un fratello, più grande di me di ben sette anni. Non era lo stesso. Le due sorelle continuarono a punzecchiarsi ignare del mio sguardo poggiato avidamente sulle loro figure, in cerca di fare mie le loro stesse gioie. Avere una sorella sembrava proprio divertente.

«Andiamo, Remì si è ripreso», mi disse Luke abbassandosi di nuovo verso di me.

La vicinanza mi rese possibile assaporare il suo odore. Portava un profumo non troppo forte, ma comunque inebriante, che non tardò a riempirmi le narici, lasciandomi lì imbambolata mentre Luke saliva i pochi gradini verso la porta. Lo seguii con lo sguardo. Ero piacevolmente sorpresa dalla mia nuova e piccola scoperta. Adoravo i profumi maschili, ed ero anche piuttosto pretenziosa sull'argomento, infatti erano pochi i profumi che mi piacevano realmente e quello che mi colpiva particolarmente in un ragazzo era l'odore. Il suo mi piaceva.

Mi affrettai ad uscire dall'edificio e cominciai a guardarmi intorno. Scorsi la figura di Luke poco più avanti. Non si fermò ad aspettarmi, ma camminava piano. Ciò mi permise -correndo un po'- di raggiungerlo in fretta. Arrivai al suo fianco in breve.

«Potevi anche aspettarmi», gli dissi imbronciata.

«Guarda che non ho certo intenzione di dedicarti tutto il giorno», parlò innervosito guardando di fronte a sé. Che antipatico! «Ho anche io da fare. È già troppo che ti accompagni ovunque tutto il giorno».

«Qualcuno qui ha la luna storta», mi stavo innervosendo anche io, ma appellai a tutto il mio autocontrollo -parecchio- e gli risposi il più "gentilmente" possibile «e comunque non te l'ho chiesto io di diventare il mio tutor, potevi rifiutare».

«Sì è vero», ammise più tranquillo «ma a quanto pare ti sei rivelata più complicata di quanto sembrassi... e sperassi», posò lo sguardo su di me analizzandomi.

«In che senso scusa?».

«Remì ti spiegherà tutto. Quindi vedi di avere pazienza», disse freddamente «e magari questa volta prova a non ucciderlo».

Cosa? Aggrottai la fronte guardandolo confusa.

«Ma di che stai parlando? Io non gli ho fatto proprio niente».

Luke continuò a camminare ignorando la mia domanda, facendomi innervosire ancora di più.

«Sarebbe buona educazione rispondere alle domande, lo sai?», chiesi lievemente acida.

«Così come sarebbe buona educazione non assillare le persone di domande, lo sai?»,rispose a tono, voltandosi a guardarmi.

Sbuffai guardandolo in cagnesco, mentre lui avanzava spedito verso l'entrata laterale dell'accademia, la stessa del giorno precedente. Io ero qualche passo dietro di lui, e con lo sguardo sulla sua schiena e i ricordi ancora vividi del nostro pseudo litigio, non riuscii a trattenermi e gli feci la linguaccia. Odioso!

«Sei proprio una bambina», disse ridendo senza voltarsi indietro.

Beccata!

***

Entrai per prima -di nuovo- nel laboratorio di Remì. Lo trovammo come la sera precedente, intento a eseguire chissà quale pazzesco esperimento. Si muoveva tra le scartoffie energeticamente, tant'è che dubitai che gli fosse successo qualcosa di grave. Era allegro e pieno di vitalità. Non potei fare a meno di guardarlo stupefatta.

«Stai bene?!», ero ancora a bocca aperta.

«Certo», rispose lui allegramente.

«Ne sono felice», sorrisi avvicinandomi al tavolo, a debita distanza da lui.

«...Quindi vedi di avere pazienza... e magari questa volta prova a non ucciderlo».

Il ricordo delle parole di Luke riaffiorarono nella mia mente, influenzando -involontariamente e anche volontariamente- il mio comportamento.

«Allora, perché mi hai fatto chiamare», gli chiesi sorreggendomi coi palmi sul tavolo e guardando distrattamente verso la porta.

Luke era appoggiato al muro con lo sguardo fisso nel vuoto. Era stranamente silenzioso. Sorrisi. Anche se diceva di non volermi aiutare alla fine lo faceva comunque. Ero in debito con lui, dovevo ringraziarlo. Non era certo sua obbligazione, eppure lo faceva. Sarebbe scortese e da ingrato non dirgli almeno un grazie.

«Ah, Nicole!», mi strappò dai miei pensieri Remì «ti spiacerebbe passarmi quel libro alla tua destra?».

Guardai in basso sul tavolo. Vicino alla mia mano vi era un libro grosso, dalla coperta verde scolorita con qualche chiazza di inchiostro qua e là. Aveva l'aria di essere molto vecchio e la totale assenza di titoli o scritte varie, indicava che non provenisse dalla biblioteca. Lo presi nella mano, soppesandolo un po' e glielo porsi. Lui guardò il libro senza alzare lo sguardo verso di me e sorrise.

«Ah! Grazie», lo prese con una mano, sfiorando l'altra con la mia.

Guardai la mano con fare interrogativo. Era evidente che fosse un gesto intenzionato.

Avvenne tutto velocemente: un vortice di colori mi si parò davanti agli occhi, creando uno stato confusionario nella mia mente, e costringendomi a chiudere gli occhi per l'improvviso dolore. Li riaprii, ma l'immagine che ebbi di fronte a me era diversa. Non mi trovavo più all'accademia, ero altrove.

 

 

 

 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Il verde mi circondava abbagliante. Languidi raggi di sole filtravano attraverso le folte corone degli alberi, andandosi ad intrecciare ed illuminando la cupola smeraldina formatasi sopra il mio capo. Era meraviglioso e mi dava un'incredibile senso di pace, mentre allo stesso tempo mi sentii incredibilmente piccola di fronte alla maestosità della natura. La quale, mi stringeva tra le sue braccia cullandomi beatamente a ritmo del dolce cinguettio degli uccelli. Il vento mi accarezzava delicatamente le guance e mi scompigliava i capelli. Chiusi gli occhi ed alzai il viso verso il cielo, assaporando lo stato di pace esternato dal mio animo. La luce mi mancava da molto, troppo tempo ed il vivo della natura mi riempiva i polmoni d'aria fresca e l'animo di gioia. Mi sarei dovuta preoccupare per quello che mi accadde appena, eppure non vi badai molto. Non inizialmente, almeno. Aprii gli occhi guardando di fronte a me, ammirando l'ambiente rurale presentatomisi davanti agli occhi. Un villaggio. Le poche e piccole casette rustiche erano sparpagliate sulla pigra distesa collinare. Era una giornata assolata, eppure sottili scie di fumo salivano dai camini, danzando nel cielo e andando pian piano ad intrecciarsi tra loro. Distava un poco da me, ma mi incamminai con la testa leggera ed il passo affrettato verso questo. Feci appena qualche passo, tenendo lo sguardo fisso sulla casetta più grande posta al centro del paesello, che in breve mi trovai di fronte ad essa. Ero ancora nella posizione con un piede posto in avanti, pronta a partire. Incredula mi ricomposi guardandomi intorno imbarazzata, sperando che nessuno mi avesse vista, ma nessuno sembrava avermi notata. Guardai alle mie spalle e riconobbi il tratto di foresta che poco fa ammiravo. Ma che...sta... succedendo?

Con espressione interrogativa mi guardai intorno. Forse è tutto un sogno. Pensai dandomi un pizzicotto sul braccio. Sentii il dolore. Era tutto vero.

«Attento! Dove corri?», gridò allegra la voce di un bambino.

La sentii alle mie spalle, così mi voltai per vedere meglio. Un ragazzino sui sette anni: una cascata di capelli castano lunghi fin sopra le spalle e un paio di occhi scuri, brillavano allegri ed innocenti mentre rincorreva una piccola pala di pelo, un cagnolino. Questo correva in mia direzione e con un salto agile ed un stridulo abbaio, mi saltò addosso. Non avrei mai fatto in tempo a muovermi da lì, così optai per coprirmi il viso con le braccia. E attesi. Attesi, attesi... e attesi ancora.

Non accadde nulla. Titubante sciolsi il mio scudo e lasciai cadere le braccia sui fianchi.

«Aspetta!», rise il bambino con gli occhi lucidi dal divertimento e dalla stremante corsa.

Anche lui correva in mia direzione ed in men che non si dica, mi attraversò come fossi aria, come se non mi avesse vista, come se... come se non esistessi. Non capisco, che sta succedendo?

Ancora sconvolta, chinai il viso e guardai il mio ventre, dove la testa del bambino era... entrata. Questo si stava rigenerando: il corpo di ectoplasma stava velocemente cicatrizzando lo spazio a macchia uniforme che si creò, andando a ritornare come prima. Alzai la mano e la guardai. Ebbi da sempre la pelle lattea, ma adesso, a guardarla era bianca, quasi trasparente. Che mi sta succedendo? Mi chiesi per l'ennesima volta guardandomi intorno allarmata. Sperai di intravedere la forza maligna che mi rese inconsistente, quando... ricordai. Era forse stato Remì?

Ancora non accennavo a muovermi da lì, stavo imbambolata a guardare per terra come se le crepe sul terreno battuto potessero formare chissà quali grovigli dall'arcano significato. Miriadi di domande mi investirono la testa, trattenendomi lì scioccata e immobile. Non riuscivo più a battere ciglio, non riuscivo nemmeno a torcere un filo di pensiero coerente, quasi non ero nemmeno certa di respirare. Mi sentivo intrappolata.

«Ora vado», sbuffò una voce maschile.

Alzai la testa di scatto con gli occhi che fuoriuscivano dalle orbite. La voce mi parve familiare, molto, ma il non aver ancora intravisto nessun conoscente, mi chiesi se non fosse solo frutto della mia immaginazione.

«Hai preso le mele, vero?», parlo dall'interno della casa una'anziana signora.

Sentii dei rumori. Qualcuno stava scendendo le scale a passo spedito.

«Certo che sì, nonna».

«Aspetta che ti accompagni», gridò.

Il ragazzo sbuffò. Sentii i suoi passi avvicinarsi alla porta d'ingresso. Non seppi il perché, ma trattenni il fiato e il cuore prese a galoppare dall'agitazione e dall'impazienza. Sentivo che c'era qualcosa, o meglio qualcuno che conoscevo.

«Remì, aspetta questa vecchia signora».

Remì?! Sgranai gli occhi e feci un passo in avanti all'apice dell'impazienza. Se non aprivano immediatamente la porta l'avrei sicuramente fatto io. Non ne potevo più.

«Va bene», rise.

«Ecco cosa significa crescere bambini», disse permalosa sua nonna.

Remì rise e aprì di scatto la porta, correndo fuori a qualche passo dall'ingresso. Lo guardai. Era come lo conoscevo: stesso taglio di capelli, stesso modo di vestire e la stessa aria da perenne quindicenne. Continuava a ridere mentre sua nonna uscì più lentamente, agitando il bastone in aria anche ella divertita. Era una donna piccola e dallo sguardo gentile, ma aveva l'energia di un giovane. Portava un vestito lungo, scuro e teneva i capelli bianchi raccolti dietro la testa.

«Vieni qui», gli disse più dolce con gli occhi lucidi dalla commozione.

«No, no non piangere», si avvicinò a lei stringendola in un abbraccio che lei ricambiò con affetto materno.

«Tieni», gli porse un sacchetto di tela.

Lui lo afferrò. «Che cosa è?». Lo aprì. «No nonna, no. Non prendo tutte queste mele, all'accademia ne abbiamo a volontà».

Sua nonna si accigliò. «Perché mangiare quelle mele quando hai le mie. Queste sono le più buoni, non ne troverai mai...».

«Sì, va bene», la interruppe «adesso vado», la strinse velocemente in un abbraccio, poi si diresse in mi direzione.

Mi aspettavo che anche lui non mi notasse, ed infatti successe. Mi passò affianco senza nemmeno percepire la mia presenza.

«Remì, aspetta!», gridai cercando di afferrarlo per la manica.

Ricevetti una scossa che mi fece subito allontanare. Perché? Mi chiesi guardando la mano fumante. Remì si bloccò e si voltò in mia direzione. Trattenni il fiato spaventata. Mi stava guardando. Il suo sguardo vagava indagatore alla ricerca di qualcuno, ma non mi vedeva. Scosse la testa come per risvegliarsi.

«Che strano», borbottò incamminandosi verso un vicolo.

Feci un passo per seguirlo, ma la mia vista cominciò ad appannarsi. Un turbine di vento avverso alla mia avanzata mi bloccò, impedendomi di proseguire nel mio pedinamento. Chiusi gli occhi, proteggendomi il viso con le mani dalla sabbia innalzatosi che mi pizzicava la pelle della pancia lasciata scoperta dall'alzarsi della camicia. Mi piegai in due, quello era decisamente il mio punto debole. Sentii un fischio assordante penetrarmi i timpani e il cervello, poi tutto intorno a me si ammutolì. Non ebbi nemmeno la forza per aprire gli occhi. Ero così stanca, che mi lasciai crollare.

***

Il mio fisico giaceva pesante su una morbida superficie. Sentivo il liscio tessuto solleticarmi la guancia, mentre vacillante tra il destarmi e il continuare a sonnecchiare, incordai i muscoli affinché reggessero il mio peso. Non avevo ancora la forza di aprire gli occhi così, goffamente, provai ad alzarmi. Ricaddi debolmente -e neanche troppo dispiaciuta- di nuovo sul morbidissimo materasso. Mi adagiai meglio, infilando le mani sotto il cuscino e affondando il viso in esso. Non era il solito odore di lavanda a riempirmi i polmoni con la sua freschezza, era qualcos'altro. Non mi piaceva. Sentii il fruscio del vento fischiare e un brivido di freddo mi fece venire la pelle d'oca. Tirai le ginocchia al petto, acchiocciolandomi stretta. I rumori erano ormai chiaramente percettibili, così come la consapevolezza di essere adagiata su un letto in una camera. Sentii lo scricchiolio delle lastre di legno, piegate sotto il peso di qualcosa, o qualcuno. Dei passi. Si avvicinarono leggiadri, il rimbombo lontano appena appena avvertibile. Si fermarono ed io mi misi in ascolto. Una porta venne aperta poi i passi proseguirono. Non era diretto nella mia stanza.

Un sospiro. «Svegliati per una buona volta», riconobbi la voce del mio tutor.

Luke?!

Aprii gli occhi di scatto e guardai di fronte a me con il viso ancora parzialmente immerso nel cuscino. Come punta da una vespa, mi rizzai velocemente a sedere, simulando un leggero mal di testa per non dover incontrare i suoi occhi. Ma fu inevitabile.

«Spiacente Cenerentola, ma la mezzanotte è scoccata da un pezzo e l'incanto è finito», continuò monocorde senza smettere di guardarmi inespressivo.

Era svogliatamente seduto su una sedia vecchia, che scricchiolava stridula ad ogni suo piccolo movimento. Posto sul palmo di una mano, reggeva il mento mentre teneva infilzato il gomito su un ginocchio. Quando lo guardai si mise a sedere composto, lasciando che i sottili raggi di luce lunare gli illuminassero il viso, mettendo in risalto il bellissimo blu dei suoi occhi.

«Ma di che stai parlando?», chiesi stropicciandomi gli occhi.

Mi guardai intorno. Eravamo in una piccola stanza spoglia e poco illuminata. Fungevano da mobili solo un letto, un armadio parzialmente coperto da una tenda bianca; un tavolo stracolmo di libri polverosi e qualche sedia, sparse qua e là.

«Dove sono?», aggiunsi allibita.

Luke scosse la testa e sospirò.

«Ripeto: sei davvero problematica».

«E adesso che ho fatto?», gli chiesi accigliandomi.

«Ti conosco da appena qualche giorno e già mi fai subire le pene dell'inferno».

«Non capisco».

«Certo che non capisci», parlò continuando a guardarmi inespressivo «dove sei stata?».

«Questo dovrei chiederlo io. E poi, parli chiaramente per una buona volta. Non ho proprio voglia di stare qui a cercare di decifrarti».

Luke sospirò di nuovo.

«E piantala di sospirare, altrimenti ti sfugge tutta la fortuna», gli dissi sorridendo scherzosa per smortire un po' la tensione, ma lui mi fulminò con lo sguardo.

«Ascolta attentamente perché non lo ripeterò più», incrociò le braccia e accavallò le gambe guardandomi severo «Remì ti spiegherà più dettagliatamente, ma in sostanza... non sarò più io il tuo tutor».

«Cosa?!», chiesi stupita facendolo aprire in un sorriso.

«Che c'è, già ti manco?».

«Non esagerare».

«Comunque», ritornò serio «non lo sarà più a tempo pieno...».

«Non mi sembra che tu lo sia poi tanto a tempo pieno», gli feci notare dispettosa.

«Sopportare tutto questo vale più di a tempo pieno», scimmiottò la mia voce, pronunciando le ultime tre parole.

Ridacchiai. «Dai, continua».

Sorrise anche lui.

«Sembra che Remì abbia qualche idea sulla tua possibile razza, perciò dopo le lezioni andrai da lui e ti dirà quel che c'è da sapere».

«Ma ci vuole tanto per capire la razza di qualcuno?», chiesi inarcando un sopracciglio «voglio dire: non è come distinguere un umano da un cane? Non è evidente?».

«Beh, se ti piace essere paragonata ad un cane», cominciò lui a ridere.

Mi accigliai. «Sono seria».

«Non non lo è», rispose continuando a ridere.

Ma che ha tanto a ridere?

«Siccome un tempo le Creature delle Tenebre erano solite a infiltrarsi tra gli umani, impararono ad assumerne le sembianze e tuttora le mantengono. Perché diciamocelo... l'unica qualità degli umani è l'aspetto».

«Mi stai dicendo che ho un bel aspetto?», scherzai.

Lui mi sorrise. «Tu non sei umana, quindi...», scrollò le spalle ed alzò le mani in segno di resa.

«Che cattivo! Ti bastava dire di sì».

«Spiacente, ma non mi piace illudere le persone», si giustificò con un mezzo sorriso.

Lo guardai torvo. «Va bene, chiudiamo il discorso...».

«Prima che qualcuno qui si imbestialisca», sorrise beffardo guadagnandosi l'ennesima mia occhiataccia.

«O prima che qualcuno qui dimostri il suo non essere gentiluomo», gli feci la linguaccia.

So essere anche immatura, a volte.

«Su, andiamo!», si alzò dalla sedia dirigendosi verso la porta «è tardi».

«Quanto tardi?», gli chiesi alzandomi e seguendolo forte.

«Troppo per le bambine, è già passata la mezzanotte».

«Ho dormito così tanto?», chiesi passandomi una mano sul viso.

«Non hai dormito...», rispose Luke cominciando a scendere le scale immerse nel buio.

Mi affrettai a seguirlo per non restare indietro, da sola nell'oscurità.

«...hai fatto un viaggio nei ricordi».

Piantai i piedi al suolo completamente stranita dalle parole che avevo appena sentito. Ripercorsi in breve l'intero accaduto che lui definì ricordo. Molto si spiegava: il fatto che non fossi sentita o vista da nessuno; che fossi stata attraversata come se fossi aria; la presenza di Remì, l'ultima persona che vidi prima dell'accaduto, e l'ultima che... toccai.

«Come ho fatto?», sussurrai sconvolta e confusa con lo sguardo basso, fisso nel nulla.

«A questo non posso risponderti, non lo so», si fermò.

«E allora come lo sai?».

«L'ha detto Remì», ricominciò a scendere.

«E tu gli credi?», gli chiesi fissando nel buio dove credetti che fosse lui.

Non rispose, ma il suono della suola delle scarpe a contatto con il pavimento, non riecheggiava più negli stretti corridoi. Sentii il leggero fruscio del tessuto della camicia, provocato dallo strisciare del braccio sul fianco, mentre si voltò velocemente in mia direzione.

«Ho forse altra scelta?» , chiese con voce seria, dura, quasi cupa.

Non potei rispondergli, non lo sapevo neppure io. Stetti lì a rimuginare sulle parole, sugli eventi, sulle emozioni che pensai di scorgere nell'ultimo tempo. Tutto intorno a me era solo una coltre di mistero, che diventava sempre più fitta con l'avanzare del tempo. Mi sentivo in trappola, costretta ad andare incontro ad una realtà che non avevo scelto. E questo mi faceva rabbia. L'impotenza. Riuscii a percepire le schegge blu di Luke fisse su di me, come se il velo delle tenebre non gli disturbasse affatto nel guardarmi. Non si mosse, non disse nulla, stette lì immobile e mi lasciò del tempo per schiarirmi le idee. Apprezzai molto il suo gesto e mentalmente, lo ringraziai.

 

 

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Oltre i vetri appannati della finestra che dava sul Mirror's Lake, piccole stelle brillavano come gemme preziose incastonate nel manto blu notte dell'oscurità, specchiandosi sulle acque calme e profonde del lago. Ammirai gli intrecci che andavano a formarsi e con l'indice tracciai linee immaginarie, unendo le stelle e formando costellazioni, mie, del tutto inventate. Sospirai triste quando i ricordi della mia casa, la mia famiglia, la mia vecchia vita cominciarono ad invadermi il pensiero e, crudelmente, con prepotenza si insinuò nel mio animo riaffiorando in me la malinconia che mi accompagnava dall'arrivo all'accademia. Cominciai a trascinarmi svogliatamente su per le scale. Ero diretta al laboratorio di Remì. Da ormai tre giorni –se così si potevano chiamare- mi torturavano con lo stesso problema: la mia appartenenza a qualche razza. Quale fosse? Sinceramente, non ero così impaziente di scoprirlo. I miei piani erano ben diversi: volevo tornare a casa, alla mia vecchia vita; concentrarmi sui miei studi e prendere le redini della mia vita nelle mie mani. Avevo ormai diciott'anni, ero ormai libera di decidere della mia vita e responsabile di ciò. Ne ero consapevole, più che consapevole, ma questo, anche se mi spaventava, non mi avrebbe certo fermato. O almeno così sarebbe stato se non fossi finita qui. In un'altra dimensione. Assurdo.

Arrivai presto davanti alla porta e non tardai ad afferrare la maniglia ed aprire la porta. Varcai la soglia del laboratorio come un'automa, con lo sguardo vuoto, fisso nel nulla, immersa nei miei pensieri che allo stesso tempo non sentivo più miei, anzi che non sentivo più. Pensavo, ma non sapevo a cosa.

Vagai con lo sguardo in cerca di Remì in tutta la disastrosa e piccola stanza. Un flebile raggio di luna andava a posarsi sulle montagne di libri, illuminando la polvere alzatasi nell'aria. Lo guardai con aria assorta, trovando affascinante il modo in cui le piccole particelle di polvere libravano nell'aria, illuminatosi sospese tra luce ed oscurità. Chissà com'era poter volare? Sentii dei rumori. Qualcosa di pesante cadde sul pavimento, rialzando la polvere posatasi a terra, che prontamente mi invase le narici facendomi starnutire.

«Vivi in salute! È così che dicono gli umani?».

Remì fece capolino da dietro alle scartoffie malamente gettate sul pavimento.

«Più o meno», risposi avvicinandomi alla sua bassa figura seduta sul pavimento.

«Oddio, sei caduto?», gli chiesi aiutandolo ad alzarsi.

«No, tranquilla», il suo tono era vivace, non sembrava essersi fatto male « stavo solo cercando questo libro», mi porse senza esitazione un volume pesante e dalla coperta terra di Sienna.

La fodera in pelle del libro nuova, ben conservata custodiva e celava il contenuto, non presentando alcuna iscrizione. Lo aprii e l'odore di passato si insinuò nei miei polmoni costringendomi a schiudere le labbra in cerca di più ossigeno. Le pagine ingiallite tradivano l'aspetto di intoccabile che mostrava all'inizio, facendomi comprendere il valore di un tale libro. Era antico e sicuramente prezioso. Sfiorai la pagina ruvida con i polpastrelli, timorosa che si potesse disintegrare sotto il mio tocco. Carezzai gli esemplari di foglie secche; ciuffi d'erba; radici e petali di fiore gustandone la ruvidità causata dal tempo e il profumo fresco ed innaturale che sembrò avessero conservato. Poi i miei occhi si posarono sulle scritte: eleganti, ben marcati ed inclinati. I caratteri che mi parvero essere cirillici –per me incomprensibili- si fondevano con qualche carattere latino, che spiccavano qua e là. Diedi un'occhiata a qualche parola e, stranamente, riuscii a distinguere alcune parole: Ingredienti,radice ,pianta, bollire, mezzanotte, trasforma, sangue, capelli, occhio...

«...pozione», sussurrai con il cuore che galoppava in gola, per chissà quale ragione.

Immagini di volti demoniaci e riti proibiti presero vita nella mia mente, invadendola con prepotenza e rendendomi difficile riuscire a scacciarli. Tremante strinsi più forte il libro tra le mani, per paura che lo lasciassi cadere. Era strano, forse immaturo, ma il semplice leggere tali parole creava in me una strana sensazioni di inquietudine. Concentrai di nuovo tutta la mia attenzione sulle parole in alto della pagina che spiccavano per i caratteri più grandi. Pozione...aguzzai la vista cercando di leggere la parola seguente, ma mi fu molto difficile, non c'era alcuna lettera che avessi trovato nella precedente perché mi aiuti, così dovetti abbandonarla, per ora. ...trasforma... mezzanotte. A occhio e croce sarebbe dovuto essere pozione che trasforma, quel mezzanotte probabilmente indicava il tempo limite, ma non ne ero poi così sicura. Troppo fiabesco. Ma trasforma in cosa? Questo ero terribilmente curiosa ed allo stesso tempo restia di scoprire. Chiusi il libro con un tonfo restituendolo a Remì senza nemmeno guardarlo, ancora sconvolta.

«Hai letto quello che c'era scritto nel libro?», la voce di Remì era terribilmente tranquilla, pacata, senza alcuna nota di preoccupazione per -sicuramente- la mia espressione da cadavere. Che si aspettasse una mia reazione del genere?

«Io...», boccheggiai mettendomi una mano tra i capelli e indietreggiando di un passo.

«Sono serio Nicole», e lo era davvero, lo capii quando alzai il viso e lo guardai.

«Non conosco l'alfabeto nel quale sono scritte quelle parole», ammisi «sembra vagamente cirillico, ma c'è pure qualche lettera dalla grafia latina, ma sono veramente poche... non capisco, come ho fatto a leggere alcune parole, quando io...».

«Aspetta!», mi interruppe «hai letto solo qualche parola?», chiese pensieroso. Annuii.

«Che cosa vuol dire? Non sono analfabeta, ma sono abbastanza sana di mente per riconoscere le parole della mia lingua o quelle che studio».

«Che cosa vuol dire?», ripeté Remì sottovoce, ancora assorto dai suoi pensieri.

Strinse il volume al petto con fare protettivo e mi guardò negli occhi, esaminandomi. Allungò all'improvviso una mano verso i miei capelli e ne afferrò una ciocca. La strinse delicatamente tra le dita e la tirò, senza farmi male, davanti ai nostri occhi.

«Hai sempre avuto i capelli rossi?», chiese continuando a fissarli.

Aggrottai le sopracciglia. Sperai vivamente che non fosse un'altro che pensasse li avessi tinti.

«Da quando ne ho memoria», risposi.

Lui sorrise melancolico e lasciò andare i miei capelli.

«Quanti ricordi!», chinò il capo guardando il libro stretto tra le sue braccia.

Lo guardai ancora più confusa di prima. Che stava farneticando?

«Allora Remì», tornai al discorso di prima «in che lingua è stato scritto quel libro?».

Lui alzò il viso e mi guardò comprensivo. «Nella nostra».

***

L'androne che ci accolse era riccamente decorato. Le pareti dorate e raffiguranti scene di creature, che fino ad una settimana fa avrei considerato mitologiche, ci accolsero solari e ricche di tempo trascorso. Bellissime sirene nuotavano nelle acque salmastre coperte solo di pelle e squame, i lunghi capelli che le sfioravano addirittura le pinne erano decorati con conchiglie e stelle marine, intrecciati con alghe. Piccole e giocose fate bagnate di polline e rugiada danzavano tra i fiori, volando allegre e spensierate come bambine, ma burlone all'inaspettato. Un grande e luminoso arcobaleno composto di tessere di vetro colorato lasciava filtrare la luce lunare, creando un mosaico di luce e fili di colori sospesi nell'aria. Le colonne corinzio sostenevano il peso di tale sfarzo, andandosi ad allineare e delineando il nostro passaggio, tenendoci a debita distanza dalle mura ricche di storia. Procedemmo silenziosamente verso un grande portone. Remì camminava a passi leggeri tenendo stretto tra le braccia il suo volume di pozioni. Io lo seguivo in silenzio, senza spiccicare parola, troppo intenta ad ammirare i volti delle fanciulle di bellezza botticelliana; i paesaggi così realistici e le scene così magiche ma così reali.

Arrivammo in breve dinanzi alla porta e Remì non tardò ad aprirla. Una stanza grande, grandissima ci accolse tra le sue braccia colme di cultura. Non avevo mai visto una biblioteca simile, così grande, così ordinata, così accogliente. La stanza era sommersa nell'oscurità, illuminandosi però subito non appena feci un passo in avanti. Le candele erano poste ad ogni angolo: sui tavoli, vicino ad ogni ripiano degli scaffali, sulle scale che portavano ai piani superiori. Arazzi rossi e finemente decorati in fili dorati ornavano le mura spoglie, spettatrici dei giochi di ombre createsi al nostro passaggio. L'avrei definita un'atmosfera quasi romantica, peccato che non avevo nessuno con cui condividerla. Inspirai a pieni polmoni l'odore delle avventure fantastiche racchiuse tra le pagine di tutti quei libri, e mi liberai un po' dai pensieri pessimisti che gravavano come macigni sulla mia povera pace interiore. Senza ulteriore indugio Remì si avvicinò ad uno de scaffali e prese un volume piuttosto corposo.

«Siediti, per favore», mi disse sfogliandolo velocemente.

Mi sedetti senza proferire parola e lo fissai in silenzio in attesa che si muovesse lui. Ma non ci riuscii per molto, la mia curiosità era insaziabile.

«A cosa ti riferivi prima, quando hai affermato quanti ricordi?».

«A cosa mi riferivo?», domandò confuso alzando la testa sforzandosi a ricordare.

Tuttavia mi sentii offesa, stava insultando la mia intelligenza. Faceva il finto tonto ne ero sicura, più che sicura.

«Ti riferivi forse ai miei capelli?».

«Abbi per favore pazienza, ti spiegherò presto tutto», disse supplichevole sedendosi al mio fianco.

Voltava pagina dopo pagina in una ricerca rapida e attenta. Poneva l'indice sulle fitte righe del testo, percorrendolo con occhi esperti di chi ne conosceva bene il contenuto. Guardai la sua espressione corrucciata, cercando di non pensare alle parole che mi avrebbe detto di lì a poco. Poggiai il gomito sul tavolo e svogliatamente reggei il capo sul palmo continuando a fissarlo. Chissà a quale razza apparteneva? Il villaggio dal quale proveniva era piccolo e –anche se sembrava un po' primitivo- sembrava accogliente e la popolazione era allegra e spensierata.

«Ecco», borbottò porgendomi il libro «leggi qui», mi indicò dove «a voce alta per favore».

Presi il libro e mi schiarii la voce.

 

«Un giorno Diana disse a sua figlia Arcadia:

È vero che tu sei uno spirito,

Ma sei nata per essere ancora mortale,

E tu devi andare

Sulla Terra a fare da maestra

A donne e uomini che avranno

Volontà d'imparare la tua scuola

Che sarà fatta di stregoneria.

Non devi essere come figlia di Caino

E della razza di quelli che son divenuti

Scellerati e infami a causa dei maltratamenti

Come Giudei e Zingari

Tutti ladri e briganti,

Tu non diventerai...

Tu sarai (sempre) la prima strega». (1)

Lessi il fragmento che Remì mi aveva mostrato con un'iniziale indifferenza, ma man mano che procedevo con la lettura verso dopo verso, non potei fare a meno di riempirmi la testa di quesiti. Il cipiglio sul mio volto fece sicuramente trasparire il mio stato confuso. I versi racchiudevano un significato ben chiaro e comprensibile, eppure io cercai di scacciarlo, non volevo che fosse vero. Il viaggio nel ricordo di Remì, il riferimento che fece ai miei capelli rossi, la scritta pozione, strega, il libro di pozioni e il continuo sperimentare di Remì nel suo laboratorio per ancora –a me- sconosciuti motivi, mi fecero balenare in mente un'idea assurda. Strega. Remì non pensava mica che io fossi... una strega, vero?

Alzai il mio sguardo interrogativo, confuso e in cerca di –da troppo tempo attese- spiegazioni e aspettai che chiarisse, ma evidentemente pur essendo una creatura sovrannaturale, non leggeva nel pensiero.

«Cosa significa questo?», gli chiesi freddamente poggiando il libro sul tavolo e chiudendolo.

Fu allora che notai, sulla coperta del libro era scritto a caratteri cubitali: Storia delle Streghe, Stregoni e Stregoneria. Guardai Remì ancora più esigente di chiarimenti.

«Cosa non capisci?», chiese lui con altrettanto atteggiamento.

Liberai una breve e leggera risatina isterica.

«Non penserai davvero che io sia una strega?».

«Sarò sincero, non ne sono del tutto sicuro», confessò «dopotutto, non sono ancora riuscito a leggere la tua anima».

La sua affermazione mi ricordò l'accaduto meglio e un leggero senso di colpa riaffiorò in me, sopratutto per le parole di Luke. Sicuramente mi aveva rinfrescato la memoria intenzionalmente, ma era più che lecito che gli rivolgessi le mie più sentite scuse.

«Scusa», sussurrai sinceramente mortificata «per colpa mia quella volta hai rischiato grosso».

Lui rizzò a sedere guardandomi confuso. Inarcai un sopracciglio non comprendendo la sua reazione.

«Ma cosa ti ha fatto pensare che fosse così grave?», chiese lui sbigottito. «Sono semplicemente svenuto per lo sforzo. Ero molto stanco e come se non bastasse la tua aura è impenetrabile», disse massaggiandosi il mento pensieroso.

«Perché?», gli domandai appuntandomi di mandare al diavolo Luke, mi aveva fatto prendere un accidenti con le sue parole.

«Non so spiegartelo», confessò guardandomi serio in volto «ma sospetto che i tuoi poteri siano bloccati».

«Che intendi?».

«Hai già diciotto anni, vero?».

«Certo», risposi capendoci sempre meno di dove volesse andare a parare «ma questo che importanza ha?».

«Se fossi una strega, a questo punto saresti in grado di controllare i tuoi poteri, almeno in parte».

«Allora non lo sono».

«Non ci metterei la mano sul fuoco, ho appena detto che potrebbero essere stati bloccati».

«E come sarebbe possibile?», sgranai gli occhi.

«Con un sigillo», rispose come se fosse assolutamente scontato che io lo sapessi.

«È assurdo! Chi vorrebbe mai bloccare i poteri di qualcuno che nemmeno li ha?», chiesi con un sorriso isterico sulle labbra.

«Qualcuno che non voleva che tu li sviluppassi».

Sbuffai appoggiandomi allo schienale della sedia. Quel discorso mi sfiniva.

«Cosa ti fa pensare che io sia una strega?», ritornai all'attacco.

«Il colore dei tuoi capelli...», cominciò a dire, ma io lo interruppi.

«Questo non è un po' troppo... medievale», chiesi cercando di ironizzare.

Ma non funzionò a smaltire la tensione e mi ritrovai a ridere da sola come una stupida. Che figuraccia.

«Sarà, ma sappi che le streghe, essendo mortali, sono sempre vissute sulla Terra, l'hai letto pure nel breve testo di prima. Tra l'altro questo è tratto da un libro sulle streghe realmente esistito nel mondo degli umani, scritto da un uomo».

«E i capelli rossi?».

«Streghe e stregoni hanno una trasformazione visibile anche fisicamente, chiamiamola pure una specie di... pubertà. Ogni strega ha un suo potere personale di grandissima forza che coltiva e fortifica sin da piccolo, le alte arti si apprendono. Con l'acquisire dell'esperienza diveniamo un tutt'uno con la nostra stessa forza, che dobbiamo controllare e usare nel bene e contrastare il male. Non bisogna assolutamente deviare il corso del bene in favore della forza oscura. Colui che pratica la magia nera è destinato a divenirne succube, schiavo di se stesso, della sua stessa sete implacabile di male e di potere, che alla fin fine gli si ritorcerà contro. Ma finché non si diventa Sciamani, le ordinarie streghe e stregoni dimostrano di essere allievi della vita coi loro capelli. Rossi, come il sangue di drago che scorre nelle nostre vene».

Trattenni il fiato nell'ascoltare le sue parole, infuocate di ammirazione per il proprio essere e colme di orgoglio. Ne rimasi incantata, le parole di Remì avevano fluito solenni dalle sue labbra, mentre con la mano sul cuore aveva lasciato che tutto il suo orgoglio per le proprie capacità, la soddisfazione di sé stesso trasparisse appieno e lui poteva, ne aveva motivo. Infatti aveva folti capelli che gli coprivano il capo, grande motivo di vanto, dopotutto i capelli cambiavano colore quando streghe e stregoni dimostravano di essere all'altezza di controllare i loro poteri e loro stessi. Però, perché Remì si ostinava a credere che io fossi come lui? Il colore dei capelli non era certo una prova sufficiente affinché decretasse tale verdetto.

«Perché sei così sicuro che io sia una strega?».

«Non lo sono infatti, dobbiamo ancora dimostrarlo», rispose lui tranquillo.

«E come?», sbuffai «Spero vivamente tu non abbia intenzione di gettarmi in un lago con un macigno legato alla caviglia», ironizzai.

Lui rise. «Questa è stata una delle mosse più stupide degli umani. In realtà loro uccidevano i loro simili, mai una vera strega è stata catturata da loro, o se fosse successo, abilmente sarebbe scappata», si rattristò «come potevano fare cose del genere? Mai vedrai da noi commettersi simili atrocità, i propri fratelli e sorelle sono intoccabili».

«Chi è Arcadia?», gli chiesi dopo un attimo di silenzio.

«È stata la prima strega ad andare sulla Terra e anche la prima a nascere».

«Ho capito», risposi esausta guardandomi intorno, non mi interessava sapere altro su questa donna. «Sei molto informato sulla storia del tuo popolo».

«Certo!», esclamò con enfasi gonfiando il petto orgoglioso «sono molto fiero di quello che sono e di quello che il mio popolo rappresenta, penso sia più che naturale che io conosca al meglio la nostra storia, per te non è forse così».

«Non esattamente», alzai una spalla «l'uomo ha commesso atti atroci di cui non credo si possa andre fieri», gli dissi per evitare di confessare che era una noia studiare tutta quella storia di cui non ero molto interessato. La biologia aveva più attrattiva.

Sospirai e mi alzai in piedi. Avevo un assoluto bisogno di sprofondare tra le fresche e profumate coperte della coperta del mio letto, l'unico posto dove mi sentivo meglio in quest'accademia.

«Dove stai andando?», chiese Remì seguendo con lo sguardo ogni mio movimento.

«Ho bisogno di una boccata d'aria fresca», gli dissi «e di riflettere su questa storia».

«Capisco».

«'Notte Remì», lo salutai incamminandomi verso l'uscita.

«Nicole!», richiamò la mia attenzione facendomi voltare in sua direzione. «Mi credi?».

Sorrisi ricordando di aver già posto questa domanda a qualcuno, e gli risposi: «Ho altra scelta?».

 

(1) tratto da Arcadia, or the Gospel of the Witches- Charles Godfrey Leland

 

 

 

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


«Sei all'accademia da ormai una settimana, eppure non stai apprendendo appieno l'alchimia», esalò in tono grave la professoressa «certo, non posso negare che tu abbia le basi della chimica, ma qui si studia magia, chiaro? Magia».

«Certo, capisco», mi limitai a rispondere con sguardo fisso ed assente davanti a me.

Per quanto mi sforzassi non riuscivo a prestarle la mia totale attenzione. Blaterava ormai da un po', tant'è che persi gran parte della ricreazione, e per cosa poi? Una ramanzina insensata sulle mie scarse –a detta sua- capacità di apprendimento. Tra parentesi era la mia prima lezione di alchimia. Sospirò e cominciò a scarabocchiare su un foglio, quando ebbe finito me lo porse guardandomi altezzosa da dietro la montatura spessa degli occhiali sul naso.

«Vai in biblioteca e chiedi che te ne diano una coppia».

Presi il foglietto e provai a leggere.

«Come si intitola il libro?», chiesi non capendo un'acca della sua calligrafia.

«Tu mostra il foglio e basta», sputò le parole con voce stizzosa.

Ritrassi la mano e la guardai inespressiva. Mai conobbi una persona tanto sgradevole, eppure non la giudicai all'inizio per il suo aspetto, privo di fascino, dalla pelle sgraziatamente solcata da profonde rughe e i capelli castano chiaro a cespuglio, all' espressione perennemente schifata e insoddisfatta. No, cercai di conoscerla e apprezzarla come persona, come semplice essere vivente, ma dopo poco mandai al diavolo le mie intenzioni buoniste e lasciai che un disprezzo inspiegabile –non troppo dopotutto- si facesse largo in me, nella mia opinione su di lei. Non sopportavo le persone che giudicavano alla prima impressione, ma solitamente non ci facevo troppo caso. Poi, la professoressa mi riprese mentre analizzavo come se provenissi dalla Luna la lapis philosophorum   o, come appresi in seguito, la Pietra filosofale. Non essendone a conoscenza, la professoressa si è presa il disturbo di farmi notare la mia inferiorità razziale rispetto ai miei compagni, e detto ciò, l'ammirazione iniziale che provai per la sua conoscenza in materia di alchimia crollò a picco. Siccome la mia aura –a detta di Remì- era ancora quasi del tutto impercettibile, io per gli altri restavo ancora un umana, razza non particolarmente amata o definita alla loro altezza qui. Tutto ciò rendeva la mia permanenza ancora più infernale di quanto già fosse.

«Va bene», sforzai un tono pacato, era pur sempre la mia insegnante. «Grazie e arrivederci».

Non mi rispose e io non attesi ulteriormente. Uscii chiudendomi la porta alle spalle e subito mi diressi verso le scale. Il vociare continuo degli studenti che si apprestavano ad entrare nelle rispettive aule di classe mi avvolsero con impetto, insinuandosi nella mia mente e rendendomi difficile distinguere i miei pensieri dalle loro voci. Mi guardavo intorno curiosa mentre camminavo velocemente. Nonostante le regoli dell'accademia che tutelavano i diritti di qualsiasi essere, appartenente a qualsiasi razza, che fosse degna o meno a parere dei presuntuosi, ero sempre in allerta, vigile ai languidi sguardi scrutatori che esseri dalla fredda pelle bianca mi lanciavano, leccandosi i lunghi canini appuntiti. Affrettai il passo guardando in direzione del gruppetto di vampiri all'angolo del corridoio: tre ragazze di spalle bramavano l'attenzione del ragazzo alto e moro di fronte a loro. Lui sorrideva, ma non parlava. Da un'occhio esterno era evidente la sua mancanza di interesse, ma le ragazze non sembravano accorgersene, continuando a parlare, l'una cercando di prevalere sulle altre. Rallentai un po' mentre continuavo a tenere lo sguardo insistente fisso su di lui. E se ne accorse, alzò la testa e mi inchiodò con lo sguardo di fuoco. Sussultai, colta in flagrante e voltai il capo, allungando il passo. Con la coda dell'occhio notai come le sue iridi rosse erano fisse su di me mentre mi allontanavo e un sorriso sornione apparve sulle sue labbra. Incrociai le dita e sperai non avesse fatto troppo caso al mio odore.

«Fate largo!», gridò divertito un ragazzo.

I studenti cominciarono a parlare più vivacemente e la confusione creatasi mi indusse a voltarmi. Tra la folla adesso più fitta, un ragazzo dai sbarazzini capelli scuri si faceva largo, sgusciando agilmente tra le persone, che imprecavano vergognosamente qualora fossero state urtate al suo passaggio. Ma lui preso da incurante allegria continuò con la sua maratona. Correva in mia direzione a velocità sorprendente mentre rideva a crepapelle. Sgranai gli occhi e mi spostai appena in tempo di evitare un possibile scontro, aggrappandomi alla ringhiera delle scale e accoccolandomi protettiva alle sbarre di freddo ferro. Sentii l'aria agitarsi sopra il mio capo e un'urlo euforico risuonò nell'edificio. Pian piano però, andava cessando, diminuendo d'intensità, risuonando come un grido lontano. Aprii gli occhi di scatto, realizzando l'accaduto e mi alzai velocemente, sporgendomi poi in avanti e notando la chioma nera del ragazzo che fluttuava ribelle mentre cadeva nel vuoto. Ero scioccata. Perché l'aveva fatto? Saltare nel vuoto da quell'altezza significava morte certa. Stetti immobile, aumentando la presa sulla ringhiera fredda e scivolosa sotto il mio tocco sudato ma saldo e continuai a guardare come il corpo di lì a poco si sarebbe schiantato a terra. Non avevo le forze di urlare, non le avevo mai in caso di pericolo, semplicemente la voce mi moriva in gola; i piedi si piantavano nel pavimento e diventavano rigidi come pali, impedendomi qualsiasi movimento. Ero senza fiato, incapace di fare alcun movimento, ero in apnea, in attesa che succedesse qualcosa.

«Ashley!».

Una voce femminile, colma di rabbia gridò. Come destata da un incanto, mi voltai in sua direzione, trovandomi accanto una ragazza dai rossi capelli fiammanti, raccolti in una voluminosa coda alta. Si aggrappò con forza alla ringhierò e con sguardo infuocato fulminò il ragazzo, che atterrò leggero come una piuma.

«Ashley, vieni qui!», digrignò i denti gridando di nuovo.

Lui scoppiò in una fragorosa risata.

«Ehm... fammici pensare...», batté l'indice sul mento in un gesto palesemente divertito e col solo scopo di innervosire la ragazza «no!», rispose infine.

La rossa sbraitò arrabbiata «io ti ammazzo!».

«Va bene», rise salutandola con la mano «ma dopo, ora ho da fare».

«Vieni qui!».

«Ciao, ciao!», la salutò correndo fuori dall'atrio.

«Bastardo», sibilò la ragazza tra i denti.

Alzò un ginocchio sulla barra e, tenendosi saldamente ad essa fece una lieve pressione sull'altro piede. Allontanò leggermente il busto all'indietro e inspirò una generosa quantità d'aria. Compreso un po' del suo carattere impulsivo e delle sue intenzione, mi aggrappai al suo braccio e la bloccai. Non ero pronta ad assistere a un potenziale suicidio.

«Fermati, ti prego», le dissi con voce implorante, più di quanto pensassi.

Lei si voltò in mia direzione con uno sguardo omicida, visibilmente infuriata dal mio gesto.

«E tu chi diavolo sei e cosa vuoi?», chiese guardandomi, ma senza staccarsi dalla barra.

«Prima scendi», le dissi «per favore», aggiunsi quando inarcò un sopracciglio.

«Perché dovrei?», ringhiò guardandomi di traverso e aggrappandosi con maggiore forza alla barra.

«Se salti morirai?», le chiesi cercando di farla ragionare.

«E tu che ne sai?», mi schernì.

«La mia era una domanda», le feci notare con tatto, visto e considerato il suo carattere, quasi certamente l'avrebbe presa come un offesa.

«Certo che non morirò», mi disse infastidita, ma con un accenno di imbarazzo.

Voltò il capo in direzione opposta e fui sicura che si fosse morsa la lingua.

«E ora scansati», mi minacciò rudemente.

«D'accordo».

Feci un passo indietro e alzai le mani, dandole per inteso che non l'avrei più importunata. Lei mi osservò per un breve periodo poi sbuffò e si allontanò dalla ringhiera, incrociando le braccia al petto. Notai subito la cravatta viola, che indicava il penultimo livello in ordine di forza. Alzai lo sguardo e incrociai il suo furibondo, colmo di rabbia.

«Che c'è?», avanzò minacciosa verso di me «Hai qualcosa da ridire sul mio livello più basso del tuo?».

Sgranai gli occhi incredula.

«Assolutamente no!», risposi con enfasi.

«E allora che hai da guardare?».

«Niente», sorrisi innocente.

E ora come la calmo? Forse era meglio lasciarla saltare. Mi ritrovai a pensare.

«Chi sei?», chiese diffidente.

Esitai a rispondere, pensando a una risposta che potesse risultare favorevole per entrambe. Avrei dovuto farle capire le intenzioni assolutamente prive di doppi fini che mi avevano indotto a fermarla. Diede un colpo di tosse e con un cipiglio in viso mi intimò di parlare. Scrollai le spalle, dopotutto non avevo molto da dire.

«Sono Nicole, piacere», le dissi educatamente.

Lei sgranò gli occhi, poi scoppiò a ridere.

«Mi prendi in giro, vero?», chiese pulendosi le lacrime agli occhi.

Io misi il broncio. Non mi sembrava di aver detto nulla di buffo.

«Mi hai chiesto chi sono, scusa che avrei dovuto dire?».

«Certo che...avevi... avevi una faccia», continuava a ridere e le parole che diceva erano sconnesse.

«Ha, ha», le feci il verso, scocciata.

«Sono Rose», porse la mano ricomponendosi.

Ricambiai il gesto con una leggera diffidenza e notai con quanta vivacità ed energia stringeva la mia mano. Era chiaro che non aveva ancora sbollito la rabbia. Feci una smorfia di dolore e lei lasciò subito il mio povero arto indolenzito.

«Oh, scusa», fece dispiaciuta portandosi le mani alla bocca «ho qualche problemino a controllare la mia forza», spiegò e io sgranai gli occhi «ma il maestro di judo mi aiuta molto», si affrettò a dire.

«Forse ti serve un corso di yoga, non judo», le dissi ancora dolente.

«No, yoga è noioso, potrei anche addormentarmi stando tutto il giorno su un tapettino», disse tutto d'un fiato roteando gli occhi, per poi concentrarsi di nuovo su di me «oh! Scusa, ti ho interrotto, stavi andando da qualche parte?».

«Sì, veramente sì, stavo andando in biblioteca, ma non devi scusarti, tu mi sembravi più impegnata», ammiccai in direzione della porta d'ingresso.

«Sì, sì», rise imbarazzata ricordandosi la scena di prima «abbiamo dato un po' di spettacolo, eh?».

«Beh,...».

«No! Non dire niente, fammi restare con l'illusione che non sia successo niente di grave», disse sgranando i suoi grandi occhi scuri e agitando le mani in avanti.

Risi sinceramente divertita.

«Come vuoi», le risposi con un fresco sorriso stampato sulle labbra.

«Senti...», cominciò portandosi una mano dietro la nuca «...scusami per prima, ero solo molto arrabbiata con quella canaglia di Ashley», distolse lo sguardo imbarazzata.

Sicuramente non era sua abitudine chiedere scusa.

«Quando lo prendo lo strangolo, farabutto», strinse le mani a pugno e parlò guardandoli arrabbiata.

Avrei scommesso che stesse progettando le torture da infliggere a quel ragazzo. Alzò poi lo sguardo velocemente, sgranando i suoi occhi da cerbiatta.

«Sembro una pazza, lo so», scosse la testa ed io le sorrisi. «Mi dispiace averti attaccata prima, non sembri affatto una di quelle sbruffoni dei livelli superiori, ma io me la sono presa con te», si fece più seria.

Guardai la mia cravatta. «No, non farci caso. In realtà non so nemmeno io perché sono a questo livello, sicuramente tu sai più magia di me».

Lei si accigliò. Oops!

«Non voglio dire che tu sia debole o altro», mi affrettai a dire.

«Non me la sono presa», disse con voce stranamente calma, appoggiando i gomiti alla ringhiera, stando di spalle. «In realtà, neanche io so controllare la magia, ne è la prova il colore dei miei capelli», confessò guardando in basso.

«Vuoi dire...», persi un battito «che anche tu sei una strega?».

Forse avevo finalmente trovato un mio simile, forse finalmente non sarei più stata così sola. Certo avevo Estelle che mi sosteneva, Remì che mi aiutava a scoprirne di più sulla mia razza, ma non era lo stesso. Avevo bisogno di sapere che, almeno biologicamente, c'era qualcuno che mi somigliava, che apparteneva alla mia stessa razza.

«Perché, tu sei una strega?», chiese sgranando gli occhi.

«Sì».

«Ah!», esclamò e un motto di delusione mi invase «Io, teoricamente dovrei essere una ninfa», rise «ma come puoi ben notare, sono tutt'altro che una dolce e delicata fanciulla», sorrise.

«E i capelli cosa hanno a che fare con la tua razza?», chiesi flebile.

«Le ninfe non hanno chiome rosse, le loro sono dorate, brune...perfino argentee!», esclamò con una leggera rabbia velata da rassegnazione.

«Però hai dei bei capelli», cercai di tirarle su il morale.

Lei sorrise. «Grazie».

«Ti rappresentano».

«Come una matta da legare», scoppiò a ridere contagiandomi.

Ad interrompere il mio breve stato di spensieratezza fu il suono della campanella, che, come un strillo, squarciò il silenzio dell'accademia, segnando l'inizio dell'ultima lezione. L'ottava al giorno, alla quale però solo i più "fortunati" partecipavano: i studenti del livello oscuro. Mi guardai intorno, notando un paio di studenti che salivano le scali. Tra questi anche Beatrix. Trascinava i piedi svogliatamente, sul volto dipinta la solita inespressività. La guardai a lungo, finché non contraccambiò il contatto visivo. La sua espressione non mutò.

«Io adesso avrei gli allenamenti», una voce alle mie spalle mi costrinse a distogliere l'attenzione dagli occhi color sangue della ragazza.

Mi affrettai a girarmi in sua direzione scusandomi per il gesto maleducato del non ascoltarla.

«Certo», le dissi ancora un po' stordita.

«Mi ha fatto davvero molto piacere conoscerti», confessò con un sorriso che le fiorì sulle labbra.

«Anche a me», la rassicurai.

«Spero solo di non averti dato l'impressione di essere una pazza aggressiva», rise.

«Solo un po'», ci scherzai su, imitandola nel gesto.

Proprio in quel momento avvertii la presenza di Beatrix alle mie spalle. La vidi con la coda dell'occhio avvicinarsi. Mi passò affianco lanciandomi una fugace occhiata e continuò a camminare verso il fondo del corridoio. La guardai sconcertata. Mi aveva ignorata, o era una mia semplice impressione?

***

«Mi scusi, sto cercando questo libro», porsi il foglietto alla donna alta e snella di fronte a me.

Aveva corti capelli biondo platino che teneva dietro le orecchie, mettendo in mostra le orecchie a punta. Un elfo! Azzardai a pensare. Il viso piccolo e pallido era contratto in un'espressione di massima concentrazione. La capivo, era la mia stessa espressione quando provavo a leggere i scarabocchi scritti sul foglio.

«Sono spiacente, ma devi ricevere il permesso dal direttore prima», disse soave guardandomi con i suoi occhi verde prato.

«Perché?».

«L'anno scorso molte delle coppie sono andate distrutte, adesso ne sono rimaste solo due. Il direttore ha ordinato che fossero custodite e solo con il suo permesso possiamo darle agli alunni. Tu hai per caso perso il tuo volume?».

«No, non l'ho mai avuto», ammisi.

«In tal caso ti sarà più facile riceverne una copia».

«Grazie lo stesso», mi congedai e uscii dalla piccola biblioteca al secondo piano.

Non era minimamente paragonabile alla biblioteca che visitai insieme a Remì. Questa era ordinale, munita del più classico arredamento. File di scaffali colmavano il vuoto della stanza che altrimenti sarebbe stata spoglia; lampade a olio a ogni dove illuminavano lo spazio tra queste quattro mura per bene, permettendo un'adeguata lettura. Tuttavia, la trovai priva dello stesso fascino dell'altra biblioteca, quasi non sembravano essere della stessa accademia. Lanciai un'ultima fugace occhiata ai ripiani colmi di libri e chiusi la porta alle mie spalle.

***

Trovai l'ufficio del direttore più grande di quanto ricordassi. Il grandissimo lampadario nel centro della stanza illuminava la spaziosa camera dorata, rendendola accogliente e luminosa. I divanetti eleganti, ricoperti di tessuto color crema a motivi dorati erano vuoti, non come l'ultima volta. Il direttore scrisse velocemente un consenso e firmò con altrettanta impazienza. Portava i capelli lunghi fino alle spalle sciolti, che andavano a cadergli in avanti, coprendo la cicatrice che gli deturpava il viso. La camicia bianca aderiva perfettamente al suo fisico statuario e gli conferiva l'aria da angelo maledetto. Era strano, non era certo un lavoro da invidiare il suo, o almeno questo a parer mio, eppure dalla sua espressione era difficile leggervi se a lui piacesse o meno, tuttavia vedendolo lì, in quel ufficio, intento ad armeggiare con tutte le carte ordinatamente depositate sullo scrittoio, non potevi fare a meno di dirti: «Sì, questo posto fa per lui».

«Ecco fatto», alzò il viso dal foglio e dopo avergli dato un'ultima occhiata me lo porse.

«Grazie», dissi tranquillamente.

«Ti sei ambientata?», chiese allungandosi per prendere una mappa.

«Credo di sì», cercai di crederci anche io.

«Vedrai che tra un po' riuscirai a controllare i tuoi poteri e tutto ti sembrerà più facile. L'aver scoperto a che razza appartieni è già un grande passo avanti», concluse guardandomi.

Aggrottai le sopracciglia. «E lei come fa a sapere che...».

«Remì ti aiuta per ordine mio, credi davvero che possa fare i suoi comodi nella mia accademia? Io so ogni passo di tutti voi. Devo sapere per potervi proteggere».

«C'è qualche pericolo dal quale dobbiate farlo?».

«Non si sa mai», rispose concentrandosi di nuovo sui suoi fogli.

Schiusi le labbra per porre la mia prossima domanda, ma lui mi precedette:

«Domani è il vostro giorno libero».

«Non lo sapevo», ammisi.

«Visto che non potete uscire dall'accademia...», mi guardò come a farmi intendere che avesse previsto che gli avrei chiesto dell'argomento «... faresti meglio ad iscriverti a uno dei club».

«Come faccio a sapere quali sono ancora disponibili?».

«Ormai siamo ad aprile, anche se manca poco alla fine dell'anno ci sarà ancora qualcosina libero, chiedi alle tue compagne di stanza, insomma... te la caverai, sei ormai grande».

«Certo», alzai un angolo della bocca.

Ogni volta che parlavo con lui, l'iniziale idea che fosse un brav'uomo andava sfumandosi. Ci teneva proprio a dimostrare quanto fosse bastardo.

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


«Mi dispiace, ma qui non abbiamo più posti liberi», replicò con sguardo indifferente e tono annoiato la capogruppo del club di pittura.

Era una giovane alta e mora, con i corti capelli graziosamente ordinati in un taglio a caschetto. Le punte di capelli più lunghe davanti le sfioravano i zigomi, incorniciandole il pallido e delicato viso ovale. Tuttavia la frangetta cortissima a distanza di un paio di dita dalle sopracciglia la trovai orrenda, ed in più lo sguardo di ghiaccio, freddo e distaccato e i muscoli contratti in un'espressione corrucciata le rendevano i tratti più spiacevoli. Invano il dono della natura nei confronti di certi era. Non portava la cravatta, il che mi indusse e spremermi le meningi per capire a quale livello potesse più probabilmente appartenere. Non avendone però la prova, mi limitai ad andare a fiuto, perciò ipotizzai fosse di un livello alto date le arie da smorfiosa che si dava. M'infastidivano, ma deliberatamente le ignorai.

«E sai se ci sono altri club con qualche posto disponibile?», chiesi in tono cortese, guardandola dritto negli occhi, curiosa di leggere le emozioni che vi trasparivano da essi.

Provava forse scherno nei miei confronti? Non ne avrei del tutto escluso la possibilità, dopotutto non era la prima e probabilmente nemmeno l'ultima a lasciar trasparire senza vergogna tanto astio immotivato. Così espresso sarebbe potuto sembrare quasi un'insicurezza, un mio timore nei confronti dell'incerto futuro che mi si era proposto dinanzi, ma non era così. Certo l'ansia mi pervadeva di continuo, ma stando di fronte a questa ragazza, di fronte ad un altro essere che mi guardava con ribrezzo, non solo mi seccava facendo montare in me una rabbia estranea al mio animo tranquillo, ma mi spingeva ad assottigliare lo sguardo e a guardarla con un pizzico di sfida che dispiacque al suo essere arrogante.

«Non credo, siamo ormai alla fine dell'anno, dubito tu possa trovare qualche posto vacante. Lascia perdere», mi sorrise beffarda.

Le sorrisi sornione. «Grazie del consiglio».

Arricciò le labbra abbozzando un sorriso e si voltò di scatto rientrando nell'aula sbattendomi la porta in faccia. Guardai incredula la porta. Avrei mai trovato qualcuno che almeno lontanamente si potesse definire gentile in quest'accademia? Ne avevo seri dubbi. Esasperata, stanca e con poca voglia di gironzolare in ricerca ulteriormente, mi incamminai lungo il corridoio. Non avevo tanta voglia di cercare un club e in cuor mio sperai tutti i posti fossero occupati, ma il direttore mi aveva imposto di trovarne uno, giusto per "svagarmi" un po'.

Camminai –più che altro trascinavo i piedi- sulle lastre di legno, guardando dritto davanti a me immersa nei miei confusionari pensieri. Ad un tratto mi sentii afferrare per il braccio e tirare con fermezza. Non potei far altro che bloccarmi. Guardai in direzione di colui che aveva arrestato la mia ritirata nei dormitori con l'espressione un misto tra furore e sorpresa. Per carità! Era il mio giorno libero. A guardarmi con occhi sgranati e spaventati era un piccolo elfo dai capelli biondo cenere e gli occhi verdi. Aveva un viso talmente piccolo e magro, che le lunghe orecchie sembravano più grandi del solito. Era posto in una posizione che definii difensiva, leggermente piegato sulle ginocchia e schiacciato contro la parete, teneva le braccia incrociate davanti al viso e stringeva gli occhi serrando i denti. Alzai un sopracciglio con espressione interrogativa. Ero così mostruosa. Non ero molto abile nel consolare la gente, o aiutarli a superare uno "shock" –sopratutto se ero io a causarlo- perciò inesperta e al contempo stupita da tale reazione, non feci nulla, mi limitai ad attendere in silenzio che si ricomponesse. E l'attesa durò un tantino troppo.

«Hai bisogno di qualcosa?», chiesi guardandolo torvo.

Più che altro era la mia espressione di sempre quando analizzavo qualcosa, ma davo l'impressione di guadare male.

Lui aprì inizialmente un occhio e mosse freneticamente l'iride di qua e di là, analizzando il territorio e cercando di avvistare altre possibili "minacce". Quando capì che nessun pericolo fosse in agguato, abbassò le difese, ricomponendosi e, lisciando pieghe immaginarie sul gilet verde muschio, alzò il viso guardandomi.

«Perché mi hai fermata?», chiesi in un tono che sforzai pacato.

«Sono Hermins, piacere», parlò con voce sottile stingendomi la mano «faccio parte del club di giardinaggio e stiamo cercando nuovi componenti. Ho sentito che anche tu sei in cerca di un club, ma che non trovi niente, quindi perché non ti unisci a noi? Abbiamo una grandissima serra a disposizione solo per noi, t'immagini? Sarà bellissimo, su vieni!», mi afferrò una mano cominciando a trascinarmi verso una porta.

Ancora confusa per la veloce parlantina dell'elfo, presi un colpo quando iniziò a tirarmi verso un portone, così piantai i piedi per terra e non mi mossi di un millimetro. Tutto tranne il club di giardinaggio.

«Giardinaggio, eh?», ridacchiai istericamente guardandomi intorno in cerca di un appiglio per svignarmela.

«Sì certo!», esclamò allegro, fermandosi anche lui, liberandomi dalla sua presa.

«Senti... Hermins», calcai ogni singola parola, sperando che m'inspirassero una buona scusa per rifiutare.

Dopotutto ero un'umana, anche se solo a metà, non avevo certo il cuore di rifiutare bruscamente un piccolo essere dai biondi capelli e con due deliziosi occhioni verdi. Dovevo trattare la questione con tatto.

«Senza offesa», continuai allungando i tempi «ma non sono molto interessata a...».

«Come no?», si avvicinò afferrandomi entrambe le mani «vedrai che sarà molto interessante, ci sono un sacco di fiori», gli brillarono gli occhi mentre con voce squillante e allegra proseguiva «di tutti i tipi, ci sono le rose, margherite, orchidee, viole, aloe...».

«È stupendo, davvero, ma non...», cercai di sottrarmi alla sua presa.

«Dai, almeno vieni a dare un'occhiata», incalzò sempre più insistente.

Forse se non lo fosse stato avrei anche preso in considerazione l'idea, ma non se continuava in que...

«Sono allergica al polline!», dichiarai –forse con un po' troppo foga- la prima menzogna che mi era passata per la testa.

«Non dire bugie», mi rimproverò. Beccata!

«Ma io non dico bugie», mi sforzai un tono il più convincibile possibile.

«E perché non l'hai detto subito?», sorrise in un modo che mi intimava di cessare con questa ridicola scusa. Hm, sveglio il bambino!

«Perché mi hai assalita dall'inizio e mi era sfuggito di mente».

Nonostante tutto era mio dovere tenere in piedi la bugia che gli dissi.

«Prova a dare almeno un'occhiata, come puoi dire che non ti piace se nemmeno hai...».

«Ti ha detto che non vuole, significa che non vuole e basta. Perché insisti tanto?», sentii ad un tratto una voce maschile che parlava con tono scocciato alle mie spalle.

Mi voltai in direzione del mio –se così si poteva definire- salvatore, e lì rimasi spiazzata. Luke?

«In carne ed ossa», esclamò lui sorridendomi divertito.

«Ma che...».

«Avevi una faccia, non c'era bisogno di dire tanto, sai?».

Non risposi. L'unico mio pensiero in quel momento era rivolto alla piccola peste che stava rubando il mio prezioso tempo per la ricerca, o per il relax.

«Luke!», esclamò gioioso Hermins «Non è che...».

«No!», rispose secco avvicinandosi.

Neanche il tempo di lasciarmi dire qualcosa –o lasciar spiccicare parola al piccolo Hermins- che mi afferrò per un braccio e ci allontanammo.

«Ma che stai facendo?», gli chiesi seguendo goffamente il suo passo veloce.

«Mi sembra evidente», rispose tranquillo guardando davanti a sé «ti sto salvando le chiappe».

«Sì, grazie», gli dissi roteando gli occhi «ma perché?».

Lui rallentò il passo e si voltò un attimo per guardarmi. Lasciò la presa sul mio braccio.

«Sinceramente non lo so», ammise alzando le spalle «mi facevi una tale pena a guardarti lì in difficoltà».

«Beh, potevi anche abbandonarmi al mio destino».

«Piccola ingrata», mi rimproverò «potresti dire semplicemente grazie, non credi?», si allontanò cominciando a camminare dandomi le spalle.

«Ma l'ho già fatto», gli dissi in tono assolutamente innocente.

«Che bambina!», esclamò scuotendo la testa esasperato.

Riuscivo comunque a vederlo di profilo, così notai un lieve sorriso esasperato comparire sulle sue labbra.

Sorrisi a mia volta, mentre più energica di prima affrettavo il mio passo per arrivare al suo fianco. Non posso dire che mi era mancato –lo conoscevo da troppo poco per affermare ciò-, ma il nostro punzecchiarci a vicenda mi risollevava il morale e mi faceva sentire un po' meglio in questa oscura accademia, dove non ero vista di buon occhio per un motivo che poco fa mi era estraneo, e che tuttora non avevo compreso: la razza. In poco più di una settimana a parte i pochi che si sono occupati di me sin dal mio arrivo all'accademia, e la mia recente conoscenza con Rose, che speravo si evolvesse in un'amicizia, non avevo ancora avuto il fegato di avvicinarmi ad un mio compagno di classe, quindi ero ancora l'umana che vagava nei corridoi e nelle aule dell'accademia. Quella sulla bocca di tutti ma affianco di nessuno. Come avrei potuto del resto, mi guardavano –non tutti, questo non potevo certo negarlo, ma la maggioranza- in un modo che mi faceva sentire realmente disprezzata. Non mi consideravo una ragazza forte, ma non ero nemmeno una debole. Affrontavo tutte le diverse situazioni che mi si paravano davanti, appellando a tutto il mio senso di responsabilità e costruendomi, quando necessario, il coraggio per andare avanti ed affrontare i miei problemi. Ma quando si trattavano di problemi a livello sociale, avrei volentieri battuto in ritirata, ma non potevo.

«Finalmente non hai più il muso lungo».

Alzai lo sguardo, destandomi dal mio groviglio di pensieri, posandolo in quello intenso di un blu oceano di Luke. Era fisso su di me in attesa di una risposta, ma io ero troppo concentrata a studiarlo per pronunciare una parola. Era davvero difficile leggerlo. I lineamenti fini erano rilassati, tale per i muscoli che non tradivano alcun suo sentimento –anche se fosse stato infastidito mi sarebbe bastato, avrei potuto sapere che è capace di provare qualcosa-, solo i suoi occhi rappresentavano un mistero.

«Sai, io non ti capisco. Perché stavi lì a cercare di dare una spiegazione a quel bamboccio, quando potevi semplicemente rifiutare e andartene?», m'interruppe di nuovo dai miei pensieri per riportarmi con i piedi per terra.

«Credo semplicemente che tutti meritino una spiegazione». Hm, detto così era troppo filosofale.

Ed infatti anch'egli lo notò. «La fai sembrare una questione importante».

«Ogni cosa che facciamo è importante, secondo me, perché ogni nostra azione mostra quello che siamo».

«Tieni così tanto alla tua immagine?», domandò in tono realmente sorpreso.

«Bella domanda! La verità è che non ne sono certa ma penso di sì».

«Allora buona fortuna nella vita, ne avrai bisogno», scrollò le spalle sorridendo.

«Perché dici questo?», non potei fare a meno di chiedere, mentre con espressione corrucciata mi voltai a guardarlo.

«Perché non puoi vivere come vogliono gli altri, ma come piace a te», affermò serio, guardando dritto davanti a sé.

Mi persi un attimo a contemplare il suo perfetto profilo, mentre ripercorrevo mentalmente la nostra conversazione, soffermandomi specialmente sulle sue risposte. Le sue opinioni mi avrebbero sicuramente aiutata a comprendere un po' del suo essere, ma necessitavano di un analisi ben più profonda. Analisi che sarebbero state ben durature e sulle quali desideravo rimuginare a lungo. Mi ripromisi di passarci su la notte –o meglio il sonno-. Intanto, non volevo assolutamente permettere che il silenzio si insinuasse tra di noi, perché immersi nell'imbarazzo del silenzio senza parole era il peggio in una conversazione.

«Con questo vuoi dire che meglio il piacere al dovere?», domandai ricatturando la sua attenzione, che sembrava essersi persa in vari pensieri proprio come la mia poco fa.

«Assolutamente no. Penso solo che siano due cose completamente differenti che non hanno tangenti l'una con l'altra. C'è quello che va fatto e quello che ci piace fare. Quello che volevo dire è che non puoi modellare il tuo essere a piacere della società. Prima degli altri ci sei tu ».

Mi indicò con l'indice guardandomi serio, mentre io rimanendo stupita di fronte a lui rallentai fino ad arrestare miei passi. Ero colpita, decisamente molto colpita. Nel breve arco di tempo un cui ci eravamo visi e nel quale eravamo stati in contatto l'uno con l'altro, era oscillato tra l'essere scherzoso e l'essere inavvicinabile. Non mi ero mai soffermata sulla sua persona, mi ero limitata a studiarlo esternamente e ad impuntirmi con testardaggine alle sue battute. Ma quell'oggi mi aveva dato un piccolo assaggio del suo io, del suo modo di pensare. La scoperta che fosse un ragazzo più profondo di quanto pensassi mi fece sorridere, più che altro per soddisfazione, mentre, mordendomi la lingua –ovviamente non troppo-, mi sbrigai a raggiungerlo, in quanto era ben più avanti di me.

«Hai ragione, ma per fare ciò bisogna avere un po' di fegato», ammisi dopo una breve riflessione.

«Ecco perché c'è chi si distingue dalla massa», mantenne lo sguardo fisso di fronte a sé, mentre avvertii una leggera sfumatura di orgoglio nella sua risposta.

Sorrisi. «E tu?», gli chiesi curiosa di sentire la sua risposta.

«Io cosa?», con un'accenno di confusione si voltò in mia direzione a studiare la mia espressione, che prontamente permutai in indifferente.

«Tu ti curi dell'opinione degli altri sul tuo conto?», chiesi pur aspettandomi una negazione.

«Sì», rispose fermo «come tutti del resto».

Sgranai gli occhi sinceramente sorpresa. Lo consideravo un ragazzo tremendamente sicuro di sé, conscio delle sue capacità e del suo fascino, perfino dotato di una piccola o grande che fosse vena ribelle, che non badava all'opinione degli altri e che faceva quello che più gli aggradava. Volentieri avrei esposto la mia opinione, ma per paura di essere giudicata male e considerata superficiale, tacqui. Io sì, che mi curavo dell'opinione altrui sul mio conto.

«E pensi di distinguerti dalla massa?».

Lui si aprì in un sorriso che presagì e confermò il mio pensare.

«Sì». Come non detto.

Camminammo in silenzio ancora per un po', guardandomi intorno in cerca di qualche volto, conosciuto o nuovo che fosse mi bastava una distrazione all'imbarazzante silenzio creatosi tra di noi. Più che altro ero io che mi sentivo a disagio. Gli lanciavo furtive occhiate di tanto in tanto per notare solo che la sua espressione fosse immutata.

«Sei impegnato adesso?», chiesi silenziosamente. Accorgendomi in tempo di quanto ambigua la mia domanda potesse sembrare aggiunsi velocemente, la mia voce velata da un lieve accenno di imbarazzo: «voglio dire... non ti sto intralciando? Magari avevi un impegno ed io ti sto solo rubando del tempo».

Luke sorrise deliziato dalla mia reazione e mi rassicurò in tono pacato: «veramente non avevo nessun impegno, andavo in mensa a pranzare».

«Oh!», esclamai scostandomi una ciocca di capelli dietro l'orecchio «è già così tardi?».

«È da un po' che cerchi un club, eh?», chiese ritornando con la solita espressione indecifrabile di prima.

«Già», sospirai abbattuta.

«Fossi in te lascerei perdere», mi consigliò guardando fuori dalla finestra.

«Ti assicuro che non sei il primo a dirmelo, ma devo», ammisi mio malgrado.

Lui allora mi guardò incuriosito. «Perché? Se non è un segreto».

«Ordini superiori», risposi sorridendo, provocandogli la stessa reazione.

***

Luke si avvicinò al portone di fronte al quale ci trovavamo, e come da cavaliere che era, si avvicinò per primo e posò la mano sul pomolo dorato. Ma non aprì. Si girò quasi completamente in mia direzione e mi guardò in viso.

«Non considerarlo un randez-vous, ma...», cominciò a parlare con il massimo distacco «prego».

Aprì la porta e mi fece entrare per prima. Ed io da ben offesa nell'orgoglio di donna che ero, passandogli accanto ci tenni a precisare: «Ma figurati, non l'avrei mai comunque considerato».

«Mm!», si compiacque raggiungendomi «ci siamo un po' inacidite, eh?», constatò divertito.

«No», negai sedendomi a tavola con aria indifferente «ho semplicemente espresso la mia opinione».

«Cioè?», si sedette sulla sedia di fronte a me.

«Credo che a nessuna ragazza piacerebbe essere invitata ad un appuntamento nella mensa della scuola, anche se questa ha tutta l'aria di essere un lussuoso ristorante», mi espressi senza mezzi termini ancora infuriata –anche se cercavo di non darlo a vedere- con lui.

Non mi aspettavo certo che mi invitasse ad uscire –avrei comunque rifiutato, non uscivo con gli sconosciuti- ma avrebbe potuto rivolgersi con più tatto, non mi sarei certo fatta film mentali. Ah, ragazzi. Bastava essere un po' gentile con loro e già pensavano che gli sbavassi dietro.

Luke, con mia grande sorpresa, eruppe in una fragorosa risata, attirando l'attenzione dei pochi commensali, che ci guardavano come allo scorrere un evento raro. Loro guardavano stupiti noi, ed io guardavo confusa loro.

«Attento a non strozzarti», gli brontolai –perché avevo voglia di ridere anch'io per sfogarmi un po'- non capendo il motivo di tanto chiasso.

Pian piano si calmò, ricomponendosi e pulendosi con lentezza diabolicamente calcolata una lacrima dall'occhio. Lo faceva apposta, ne ero sicura.

«Perché mi guardi così male?», chiese del tutto ingenuo.

«Niente, niente», esalai afferrando il menu e posizionandolo a erigere una barricata di fronte a me.

«C'è una cosa che vorrei sapere», uscii allo scoperto ricordandomi di Hermins.

«Dimmi», parlò Luke senza distogliere l'attenzione dal menu.

Era tornato quello di sempre e sinceramente me ne dispiacevo. Avrei preferito che ridesse ancora piuttosto che riacquistasse la sua aura impenetrabile, così era più complicato per me comprenderlo o anche solo intuire i suoi pensieri, il che rendeva l'approccio difficoltoso.

Quando alzò lo sguardo su di me, mi costrinsi a ritornare sulla retta del discorso e cessare di analizzarlo di continuo.

«Hermins è veramente un bambino, o ne ha solo l'aspetto?».

Lui aggrottò le sopracciglia leggermente, probabilmente confuso del perché ebbi porto questa domanda

«Sì, lo è», rispose concentrandosi di nuovo sul suo menu.

«Non pensavo che anche i bambini potessero frequentare un'accademia», confessai i miei dubbi.

«Capisco il tuo punto di vista, ma qui le cose non funzionano come sulla Terra», disse del tutto tranquillo «abbandona un po' della tua razionalità e sii pronta a tutto», alzò gli occhi su di me «la magia non ha né origine, né limiti».

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