Make a wish

di aki_penn
(/viewuser.php?uid=39511)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Kraken e crauti ***
Capitolo 2: *** La parete dei visi ***
Capitolo 3: *** La trappola di foglie ***
Capitolo 4: *** L'acqua nel pozzo ***
Capitolo 5: *** La vasca dorata e il mare rosso ***
Capitolo 6: *** Il diavolo e i semi d'ortica ***
Capitolo 7: *** Il fuoco nell'armadio ***
Capitolo 8: *** L'armata di matriosche ***
Capitolo 9: *** Uomini Preziosi ***
Capitolo 10: *** La testa di lucciole ***
Capitolo 11: *** La casa col buco nel tetto ***
Capitolo 12: *** L'alchimia dell'oro ***
Capitolo 13: *** La bocca sul pavimento ***
Capitolo 14: *** La palafitta sull'oceano e gli otto inviti ***
Capitolo 15: *** Il palazzo in aria ***
Capitolo 16: *** Cuor di coniglio ***
Capitolo 17: *** Il sonno del genio ***
Capitolo 18: *** La spada e il diacono ***
Capitolo 19: *** Il requiem ***
Capitolo 20: *** Il boia e la regina ***
Capitolo 21: *** Lacrime di coccodrillo ***
Capitolo 22: *** L'albero magenta ***
Capitolo 23: *** Il tavolo intagliato ***
Capitolo 24: *** Il liquore d'alga ***
Capitolo 25: *** Il dio nudo ***
Capitolo 26: *** La città in fiamme ***
Capitolo 27: *** I quattro Cardinali ***
Capitolo 28: *** Il gabbiano d'alghe ***
Capitolo 29: *** Il trono di legno ***
Capitolo 30: *** Vecchi difetti ***
Capitolo 31: *** Il veleno della regina ***
Capitolo 32: *** Il terzo corno ***
Capitolo 33: *** La chiave e la neve ***
Capitolo 34: *** Il destino del consigliere ***
Capitolo 35: *** Il lupo e il topo ***
Capitolo 36: *** La caccia e l'iguana ***
Capitolo 37: *** Bestie e brioches ***



Capitolo 1
*** Kraken e crauti ***


 


Make a wish-

Capitolo uno-

Kraken e crauti -

 

 

 

Al porto non c’era più nessuno quando un’accetta venne scagliata con non troppa forza sul molo. Una mano emerse dall’acqua e si aggrappò al bordo, subito dopo un intero ragazzo riemerse sputacchiando acqua salata. Tinkerbell sbuffò e sputò ancora, imprecando, mentre risaliva sul molo, aiutandosi con un ginocchio. Gattonò fino all’accetta e l’afferrò prima di alzarsi in piedi, gocciolante e traballante.

“Che cavolo!” esclamò. Si passò la mano libera sulla faccia, cercando di asciugarsela alla bell’e meglio, faceva freddo e lui era bagnato fradicio. Batté i piedi e strinse i denti “Stramaledetto polipo” biascicò tra sé. indossava solo una maglietta a maniche corte e dei pantaloni di tela, vestiario quanto mai poco adatto al clima, dato che su gran parte della banchina era ancora depositata della neve fresca. Si strinse nelle spalle, dopo aver assicurato l’accetta ai lacci che aveva attorno al polpaccio e si diresse con passo deciso fino a un punto d’attracco delle navi, dove stava appoggiato un cellulare e una giacca blu dall’aria militare, assolutamente abbandonati. Tinkerbell afferrò il cellulare come se l’avesse appoggiato lì solo un secondo prima filò la giacca sotto il braccio, gli dispiaceva indossarla, si sarebbe bagnata.

Avrebbe voluto complimentarsi con sé stesso per aver pensato che buttandosi in acqua alla ricerca del Kraken il suo cellulare si sarebbe annacquato e di conseguenza rotto e per averlo lasciato all’asciutto, non sempre faceva caso a certi dettagli, ma, in quel momento, era troppo infreddolito per essere contento di qualche cosa. Uno dei tentacoli del Kraken volteggiò a pelo d’acqua, godendo ancora di un briciolo di vita, prima di disgregarsi e sparire nell’aria confondendosi nel vento col pulviscolo.

Tinkerbell avanzò a passo veloce per togliersi di mezzo a quella nebbia quasi innaturale, era sicuro che la gigantesca piovra non avrebbe più imperversato da quelle parti, ma quella solitudine e quel silenzio gli mettevano una certa fretta. La notte era in parte rischiarata dalle luci del porto, ma in mezzo alla nebbia il risultato era quasi più inquietante del buio pesto.

Per quanto Tinkerbell non fosse un tipo impressionabile, aveva un gran freddo e questo lo spingeva ad allontanarsi il prima possibile dal molo, dove tirava un gran vento, in più, doveva ritrovare Ruthie, l’aveva lasciata sotto un cavalcavia, ed era lì che era diretto. Probabilmente il suo padrone era scappato via già da un po’, era certo che stesse bene, non c’era bisogno di cercarlo.

Non ci mise molto ad arrivare dove voleva, per sua fortuna il suo senso dell’orientamento era invidiabile, rimase però a bocca aperta quando si ritrovò davanti a una gigantesca scritta gocciolante e disordinata, sulla parete del cavalcavia, la scrittura non era fluida e la prima cosa che pensò fu sangue. Erano numeri, una serie di sette cifre.

Tinkerbell prese il cellulare dalla propria tasca, compose il numero e lo portò all’orecchio, era così assorto e accigliato che per un secondo si scordò di aver freddo, mentre il telefono squillava dando segno di essere libero.

“Pasticceria Carmen & Carmen, come posso esserle utile?” disse una voce squillante dall’altra parte.

“Ruthie, hai scritto il tuo numero di telefono sul muro usando il sangue?”  esclamò Tinkerbell, la sua voce rimbombò stridula nel silenzio, ma nessuno ebbe modo d’ascoltarlo.

“Oh, quante storie, è vernice. Volevo essere sicura che lo vedessi. Mi sono svegliata per terra tutta bagnata e il cellulare era sparito, ne ho dovuto comprare uno nuovo. Quanto tempo ci hai messo? Non è che sei morto?” sbottò Ruthie dall’altra parte. Tinkerbell alzò un sopracciglio infastidito, a volte si chiedeva cosa servisse avere un’assistente che lo prendeva in giro. “Sì, ti sto telefonando dalla pancia del Kraken. Dove cacchio sei?” sbottò.

Ruthie, appena uscita dalla doccia e dolcemente avvolta in un accappatoio bianco si schiarì la voce “Blossom Holiday Hotel, cinque stelle, una sala per il bigliardo, la sauna, la pisc…”

“Sì, sì, va bene, il nome!” sbottò lui, “Seppia”

“Seppia?”

“Ti sei registrata all’hotel come la signora Seppia?” domandò Tinkerbell incredulo. “La signora Marina Seppia, ad essere precisi” spiegò orgogliosa Ruthie. "Per l’amor del cielo”  bofonchiò lui, buttandole giù il telefono senza voglia di salutarla.

Non gli ci volle molto per trovarsi zoppicante e gocciolante ad attraversare il corridoio dell’albergo, bagnando la moquette con gli anfibi. Aveva un occhio nero, e probabilmente si era rotto una costola, ma la cosa che più gli dava fastidio era il freddo, si sentiva così irrigidito che faceva fatica a camminare. L’usciere dell’hotel l’aveva guardato male, non aveva l’aria di essere un tipo raccomandabile, c’erano parecchi club di nuoto nel mare ghiacciato, ma solitamente ci si andava in costume da bagno e non vestiti, e nemmeno tra i più stoici era di moda girare in maglietta d’inverno, ma alla fine l’aveva fatto passare, c’era una signora Seppia all’hotel, e aveva preteso la suite.

Tinkerbell scorreva lo sguardo sui numeri dorati sulle porte bianche del grand’hotel, gli avevano detto che la signora Marina Seppia – che razza di nome – alloggiava nella camera 511, lo Champagne che aveva ordinato sarebbe arrivato a breve, tra l’altro. 508, 509, 511. Si fermò davanti alla porta, curvo e gocciolante, oltre che di pessimo umore, gli dava un po’ fastidio che Ruthie se la fosse spassata al grande Hotel mentre lui faceva a botte con una seppia gigante.  “Bah” fece tra sé, gli capitava fin troppo spesso di sbuffare in quel modo, da solo, sua madre diceva che erano i refusi di essere un gemello, ci si aspetta sempre di avere qualcuno di fianco. Mise la mano sulla maniglia e la girò, aprendo la porta.

Se fosse stato più sfortunato, o semplicemente se fosse stato una persona normale, il coltello che gli passò a un centimetro dall’orecchio, fischiando, e che gli tagliò qualche ciuffo di capelli su un lato, gli si sarebbe piantato in un occhio. Si lasciò cadere lentamente per terra, sulla moquette, come sciolto, e forse le sue gambe si erano davvero sciolte, mentre la mano rimaneva salda sul pomello.

Ruthie stava nel bel mezzo della stanza, in accappatoio, in posizione di lancio “Perché mi vuoi uccidere, Ruthie?” piagnucolò Tinkerbell.

“Pensavo fossi il Kraken”

“Devo essere un Kraken davvero educato, se entro dalla porta” fece Tinkerbell, con un sorrisetto ebete. Un secondo dopo era saltato in piedi e urlava come un ossesso “Che cacchio ti è saltato in mente!? Se fosse stato un cameriere come te la saresti cavata?”

Ruthie boccheggiò per poi alzare le spalle, non troppo preoccupata, avvolta in un accappatoio troppo grande per lei “Ma non era un cameriere, non c’è nessun cadavere, perché preoccuparsi?” rispose lei, la tranquillità fatta a persona. Tinkerbell sospirò, sgonfiandosi e Ruthie pensò davvero che si sarebbe sciolto di nuovo per terra.

Sbuffò, guardandola con aria stanca “…e poi te lo dico sempre di non lanciare i coltelli, che poi resti disarmata…” disse chiudendosi dietro la porta e iniziando a sgocciolare senza pietà sul pavimento della suite. Ruthie schioccò la lingua “Tanto non avrei avuto gradi possibilità contro un calamaro gigante” commentò incurante. Il ragazzo alzò le sopracciglia “Vero” ammise infine. Il coltello della ragazza rimase fuori, infilato nel muro del corridoio, finché uno zelante custode non lo ritrovò e lo staccò, dopo averlo fissato perplesso per una mezz’ora buona.

Tinkerbell ciondolò in bagno tirandosi dietro la porta “Vado ad aggiustarmi” annunciò in un sussurro, mentre Ruthie fissava il tappeto infangato dagli anfibi del ragazzo “Quello aveva l’aria di costare” commentò, ma lui non sembrò sentirla.

Ruthie era bassa, una donna bonsai, con i capelli castano scuro e gli occhi grandi dello stesso colore, il viso tondo e la pelle troppo chiara, non era un tipo che attraesse molto l’attenzione, a parte quella dei collezionisti di bambole di porcellana, ma Tinkerbell l’aveva notata perché quella stronzetta riusciva a essere impertinente quanto e più di lui. E anche perché era brava a clonare le carte di credito, dote da non trascurare.

Quando Tinkerbell uscì dalla doccia, Ruthie si rotolava sull’enorme letto a due piazze, vestita con un ridicolo pigiama a cuori, molto infantile. Non era il primo che vedeva, ne aveva uno anche con gli orsetti e uno con i ricci, se si ricordava bene.

“Ehi” fece lui, per attirare la sua attenzione, la televisione, accesa senza volume, trasmetteva un concerto della band più famosa del momento, Tinkerbell li aveva sentiti per radio un paio di volte, ma non gliene fregava un granché. La ragazza si girò a guardarlo, aveva solo un asciugamano legato in vita e con un altro si stava strizzando i capelli neri e Ruthie non poté far altro che constatare che, che uscisse o entrasse dalle porte, era sempre piuttosto gocciolante.

L’occhio nero era sparito e, a giudicare da come camminava e respirava, anche la costola doveva essere tornata al suo posto. Fece qualche passo e si lasciò cadere sul letto bianco, come morto, a stella, con le braccia larghe, neanche fosse stato appena crocifisso.

Ad entrambi i polsi portava due braccialetti di metallo che sarebbero potuti sembrare due polsini “Sembri Wonder Woman in versione argentata” era una delle prime cose che gli aveva detto Ruthie quando si erano conosciuti. Una delle prime cose che gli aveva detto dopo che erano arrivati in ospedale, ma comunque Tinkerbell aveva sentito la sua virilità colpita nel vivo. Subito dopo erano arrivati gli attacchi al suo nome, Campanellino, ma quello era un altro problema.

Tinkerbell, con la testa affondata nella trapunta grugnì. “Che c’è?” chiese Ruthie, che si era appena impossessata del telecomando, probabilmente era tempo di dormire anche per lei, si intravedevano le prime luci dell’alba.

“Mi stanno chiamando” biascicò lui, con la trapunta in bocca. Ruthie scalciò “Ma  che cavolo! Non abbiamo nemmeno dormito!” lo guardò esasperata, mentre lui alzava la testa dal letto. “E dove? Sentiamo” lo interrogò seria.

Tinkerbell aveva alzato la testa dal piumone e si era passato la lingua sui denti, come per controllare che fossero ancora tutti al proprio posto “Germania. Rosenrot, un paesino un po’ sperduto”

Ruthie tirò un pugno inferocito al materasso, per poi incrociare gambe e braccia e gonfiare le guance, indispettita “Mai le Barbados o le Maldive…”

Tinkerbell riappoggiò la testa sulla trapunta “Beh, questa volta c’era il mare però”

“Siamo in Norvegia! C’è la neve, cacchio!” sbottò, Tinkerbell fece un sorrisetto divertito “Fai le valigie Ruthie, partiamo adesso”

Ruthie chiuse gli occhi e sospirò. Solo una mezz’ora dopo erano entrambi vestiti di tutto punto, Tinkerbell aveva perfino recuperato una giacca che non era quella blu col doppiopetto. Non era tipo da ammalarsi per un po’ di neve, quello era ovvio, ma questo non voleva dire che gli facesse piacere prendere del freddo. Ruthie lo aspettava, con indosso gli anfibi,  delle calze pesanti e uno zaino di proporzioni esagerate sulla schiena. Si guardarono, lui con un sorriso, lei con una smorfia.

“Smettila di fare quella faccia, quando arriviamo in Germania ti offro un caffè” fece lui allegro, Ruthie si soffermò per un secondo a guardare il punto il cui il sopracciglio sinistro veniva interrotto da una vecchia cicatrice e si imbronciò ancora “Quelli mangiano crauti e caffè a colazione!” sbottò e Tinkerbell aprì la porta del bagno incamminandocisi dentro, seguito dalla ragazza brontolante.

Si ritrovarono all’aperto, subito fuori da un capannoncino di lamiera in disuso e coperto di rampicanti.

In qua e in là c’era ancora qualche cumulo di neve, doveva aver nevicato recentemente e probabilmente avrebbe nevicato di nuovo, era quasi Natale. 

Tinkerbell si avviò baldanzoso per il sentierino fangoso e leggermente in discesa, che portava al paese, mentre Ruthie rimaneva ferma fuori dalla porta del capannone che si era chiusa, chiudendo via la stanza d’albergo norvegese, e tirava fuori dalla tasca della gonna un cellulare ultimo modello. Fece scivolare le dita sullo schermo facendogli emettere qualche bip bip, per poi sbottare “In questo posto dimenticato da Dio non c’è nemmeno un hotel di lusso. Mangeremo davvero crauti tutto il tempo”

“Crauti e wurstel, Ruthie, crauti e wurstel” esclamò Tinkerbell allegro, mentre la sua camminata in discesa prendeva velocità.

Ruthie pestò i piedi e si apprettò a seguirlo imbronciata.

 

 

Aki_Penn parla a vanvera: alla fine, dopo secoli, sono tornata nel Fantasy, gira e gira ci si torna sempre. È da un po’ che rimugino su questa storia, sono felice di essere riuscita finalmente a iniziare a scriverla! Spero che vi possa piacere.

Già che ci sono ne approfitto per dire che Rosenrot è un nome scelto a caso, non credo che esista un paesino con quel nome in Germania, secondo, non credo che i tedeschi mangino crauti tutto il tempo, è solo Ruthie a essere un po’ indisposta nei confronti dei posti freddi. Ultimo ma non meno importante, il dialogo riportato nell’intro avverrà più avanti, non è una cosa messa lì a caso, ovviamente!

In ogni modo, grazie mille per aver letto fino a qui! 

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** La parete dei visi ***


Make a wish-
Capitolo due-
La parete dei visi -

 
Il campanellino suonò quando Tinkerbell aprì la porta nel piccolo locale dagli interni in legno, sull’insegna sbiadita c’era scritto Schneider . Era il primo che avevano trovato arrivando in paese e, probabilmente, era anche l’unico, dato che si trattava di un borgo di poche case. Sulla collina c’era una rocca, appartenuta a qualche ricco signore, secoli prima.
Era mattina presto e il sole non era ancora sorto, ma nel piccolo bar c’erano già due o tre vecchietti che bevevano caffè e latte. Si voltarono tutti a guardarli, turisti, in quel borgo di tre case, non se ne vedevano quasi mai, anzi, non era chiaro come andasse avanti il Bed & Breakfast dei signori  Schneider. “Buongiorno” disse Tinkerbell, Ruthie sapeva che la lingua che parlava lui non era tedesco, probabilmente non era nessuna lingua realmente esistente, eppure le sue parole risuonarono chiare nella sua testa come in quella dei nonnini presenti, che risposero con un laconico Guten Morgen. Aveva studiato lingue e quindi sapeva che quella era una risposta pertinente al saluto di Tinkerbell, che avanzò attraverso la saletta ricoperta di legno chiaro fino ad andare a sedersi al bancone del bar, con un sorriso. Il barista, che stava asciugando una tazzina, lo guardò “Due caffè, per favore!” ordinò. Il barista annuì, mentre una ragazzina, che poteva avere undici anni, gli passò affianco di corsa  e s’intrufolò dietro al bancone, portando un vassoio di bicchieri lavati, appena usciti dalla lavastoviglie.
Ruthie si avvicinò al ragazzo strascicando i piedi, non vedeva l’ora di andare a dormire, aveva passato tutta la notte sveglia ad aspettare che Tinkerbell tornasse all’hotel.
Si era risvegliata tutta bagnata senza una scarpa poco distante dal molo, il cellulare doveva essere finito in acqua, non si sapeva come, o in una siepe, o chissà dove. Aveva finito per recuperare lo zaino con la sua roba, l’aveva nascosto in un capanno da pesca poco lontano dal luogo dove si era risvegliata, era corsa a comprare un altro cellulare e a scrivere il proprio numero su un muro, in modo che Tinkerbell non potesse fare a meno di vederlo e poi si era trovata una stanza nell’hotel più costoso della città, per mettersi ad aspettare. Probabilmente era stata colpita alla testa, non aveva ritrovato nessun bernoccolo, ma era l’unica spiegazione plausibile. Una delle tante notti da dimenticare, insomma, lei non era come lui, le occhiaie mica le donavano!
Mise tre bustine di zucchero di canna nel caffè lungo che il barista le mise davanti, mentre Tinkerbell si guardava intorno, dopo avene usate altrettante. Una cosa sulla quale si trovavano d’accordo era quella che lo zucchero è sempre una buona cosa.
Il barista si mise ad asciugare i bicchieri appena arrivati, senza badare troppo a loro, lei aveva l’aria di chi si sarebbe addormentata sul bancone da un momento all’altro, mentre lui si guardava in giro curioso. Il barista non notò né la cicatrice che gli spaccava a mezzo il sopracciglio né i due braccialetti che sembravano manette d’altri tempi.
Lo sguardo del ragazzo si fermò su una delle pareti in legno delle quali era ricoperto tutto il locale. Nella parte dove sedevano i clienti vi erano acquerelli tremuli che raffiguravano alberi e fiori (“Probabilmente di gelatina” constatò Ruthie, non appena la caffeina entrò in circolo) mentre vicino al bancone vi erano appesi, con delle puntine da disegno, dei fogli fotocopiati con delle foto in bianco e nero. Identikit. Tinkerbell schioccò le labbra, persone scomparse. “Bingo” sussurrò a Ruthie, che appoggiò il viso alla mano e lo guardò assonnata “L’unica vittoria sarebbe un letto, se proprio lo vuoi sapere”
Tinkerbell si voltò verso il barista e disse in quella sua lingua che potevano capire tutti senza saperlo “C’è un albergo dove io e la mia amica possiamo sistemarci per qualche giorno?”
Il barista smise di asciugare i suoi bicchieri per tornare a dargli udienza “Questo è un Bed and Breakfast, se vi interessa, abbiamo quattro camere e sono tutte libere”. Tinkerbell gli sorrise “Sarà perfetto allora”
“Posso chiedervi per quanti giorni pensavate di rimanere, non vorrei essere scortese, ma prendiamo pagamenti anticipati” disse l’uomo. Doveva avere più o meno quarantacinque anni e i capelli erano lunghi e raccolti in una coda bassa, la barba incolta e il viso truce. Ruthie pensò che sarebbe potuto essere un bell’uomo, se si fosse degnato di sorridere.
“Oh, ancora non lo sappiamo, volevamo trascorrere un po’ di tempo lontani dal traffico e questo paesino un po’ isolato ci sembrava assolutamente adatto. Forse staremo una settimana” spiegò Tinkerbell, affabile. “Non c’è nulla a Rosenrot” sentenziò il barista, truce e conciso. Il suo interlocutore sorrise di nuovo “Lo so, è proprio per quello che siamo qui” ribatté allegro, finendo la sua bevanda. Il barista annuì tetro e continuò ad asciugare i bicchieri, Ruthie stava ancora sorseggiando il proprio caffè, non c’era alcuna fretta.
Il ragazzo si rimise a studiare la parete degli identikit: Ada Müller, Bille Hartmann, Fiene Berger, Svea Winkler, Renette Groß, Undine Kraus, Nelda Pfeiffer, Lutwine Schneider , Milli Koch, Juthe Keller,  Landeline Klein, tutte ragazze, tutte piuttosto giovani, la più vecchia aveva ventotto anni.
“Greta” chiamò il barista, laconico, e la ragazzina che aveva portato i bicchieri ricomparve dal nulla. Portava una bandana arancione in testa e sui jeans erano ricamate delle farfalle, i capelli erano scuri come quelli dell’uomo che li aveva serviti, dovevano essere parenti.
“Potresti portare questi signori alla camera numero uno? Immagino che vorranno appoggiare i bagagli”, la ragazzina, che evidentemente rispondeva al nome di Greta, annuì, imbronciata come l’uomo, e afferrò un mazzo di chiavi da sotto il bancone, al quale era attaccato un grosso portachiavi a forma di uno.
“Potete accomodarvi, mia figlia vi porterà alla vostra camera, il caffè lo potrete pagare quando scenderete a dare l’anticipo della settimana” spiegò senza guardarli ed entrambi si erano già voltati a seguire la ragazzina.
“Ehm, signor…” il barista si fermò, rendendosi conto di non avergli ancora chiesto le generalità “Jessie Tinkerbell” terminò lui. Il barista annuì “Sì, signor Tinkerbell…la tenga d’occhio, la ragazza, non è un posto tranquillo come sembra, questo” disse, truce. Fu il turno di Tinkerbell di annuire, anche se con molta più spensieratezza “Ho visto il muro del pianto” disse, accennando al muro pieno di fogli da fotocopie con le foto in bianco e nero di tutte quelle ragazze. Il signor Schneider s’incupì, ma non rispose.
Tinkerbell si voltò con una piroetta e raggiunse Ruthie e Greta in cima alle scale. Bizzarramente la stanza numero uno si trovava infondo al corridoio. Greta si voltò a guardare Tinkerbell, mentre apriva la loro porta “Ha ragione mio padre, non dovreste essere qui. Quelli del castello si prendono le ragazze, prima o poi si prenderanno anche me…” disse, con la bocca contratta in una smorfia dolorosa. Dalla bandana  usciva solo qualche ciuffo di capelli e per un secondo tutto ciò riportò alla mente qualche ricordo doloroso, fu un po’ come un pugno inaspettato allo stomaco, ma durò solo un secondo e tutte le sue interiora si rilassarono nuovamente. Era sono una ragazzina con una bandana, nulla che avesse più legami con lui. C’era un sacco di gente che usava le bandane.
In quel momento il barista spuntò dalla cima delle scale, era dall’altra parte del corridoio, ma la sua voce rimbombò per il disimpegno vuoto “Greta smettila di spaventare i clienti con queste storie, li ho già avvertiti io, non c’è nulla da temere se si sta attenti”
Greta lo guardò con odio, e poi si voltò verso Ruthie, che afferrò solo alcune parole “Sono quelli del castello. Rubano la gente. Lo so che sono loro!” sbottò, arrabbiata.
“GRETA!” sbraitò l’uomo, piuttosto arrabbiato, compiendo gli ultimi gradini e avviandosi per il corridoio nella loro direzione, il bar era stato lasciato allo sbaraglio, ma tutti quei vecchietti non avrebbero fatto nulla di tanto pericoloso da non poter essere lasciati soli.
“Smettila di spaventare la gente con storie senza senso!” sbraitò l’uomo. “Stai zitto, non sono storie senza senso!” gridò lei, scappando via, arrabbiata. Il barista si scansò per lasciarla correre giù per le scale, reprimendo l’istinto di rincorrerla “Scusatela” disse poi ai due che erano rimasti fermi nel bel mezzo del corridoio, Ruthie con una mano sulla maniglia della porta semi aperta.  Tinkerbell scosse la testa “Stia tranquillo, non è niente”
“Il caffè potrete pagarmelo dopo quando verrete a dare l’anticipo per la stanza, non c’è fretta, accomodatevi pure” ricordò poi, anche se l’aveva già detto, ansioso di cambiar discorso, asciugandosi le mani ancora bagnate nel grembiale macchiato che portava indosso. “Scendiamo subito, il tempo di appoggiarsi”
L’uomo annuì e fece dietrofront guardando basso e i due entrarono nella stanza, anch’essa quasi tutta in legno chiaro, sopra a un mobiletto sotto la finestra v’era un vasetto con un mazzolino di fiori di campo messi a seccare. Ruthie non fece in tempo a chiudersi la porta dietro le spalle che Tinkerbell le era già balzato quasi addosso, la ragazza trattenne un urletto e si accasciò contro la porta schiacciando lo zaino, mentre questa si chiudeva con uno schiocco.
“Che fai?” sbraitò. Tinkerbell fece un sorrisetto ebete “Abbiamo già scoperto qualche cosa, e senza bisogno di ordinare dei crauti” sentenziò allegro, prendendola per un braccio e riportandola in posizione eretta. Ruthie fece cadere il suo gigantesco zaino sul parquet e fece una smorfia “Meraviglioso” commentò, con poca convinzione “Credi davvero che la bestia per cui sei stato chiamato qui sia alla rocca sulla collina?”
Tinkerbell alzò le spalle “L’ha detto quella ragazzina, e il barista non le crede. Mi basta per pensare che sia proprio così”
Ruthie sospirò, sembrava ancora piuttosto scocciata per la notte passata in bianco “Bene, quindi entriamo lì e facciamo del casino?” domandò, stancamente. Tinkerbell scosse la testa lentamente, guardando il soffitto, con aria pensierosa “No, affatto…tu entrerai lì e non farai del casino” ordinò.
“E perché?” sbottò lei, che non se l’aspettava. Tinkerbell alzò le sopracciglia “A questa bestia piacciono le ragazze…non so se hai notato la sfilza di identikit di persone scomparse che c’era nel bar qua sotto. Quindi, beh, tu andrai là e chiederai di farti assumere come cameriera”
“A fatica mastico due parole di tedesco” ribatté lei incrociando le braccia, irritata all’idea di dover andare da sola.
“Non ti devi far assumere davvero, voglio solo che tu vada a dare un’occhiata” fece lui, appoggiandole le mani sulle spalle con aria rassicurante, ma avvicinandosi con la fronte a quella di lei, ghignando in modo molto poco carino “Perché non lo fai tu?”
Tinkerbell fece un salto all’indietro  e alzò le spalle, con aria saccente “Perché io devo trovare il mio padrone, è chiaro!”  sentenziò lui alzando le braccia al cielo. Ruthie sbuffò di nuovo, scocciata “E se mi ammazzano?” chiese, schietta.
“Non ti ammazzano”
“Non lo sai”
“Non sappiamo nemmeno se il seme d’ortica si trova davvero lì”
“Se mi ci stai mandando ne sei quantomeno sicuro”
“Non morirai Ruthie” fece lui, l’aria si era leggermente addolcita, ma pareva proprio che il suo unico scopo fosse quello di mettere fine al discorso.
“Tu non preoccuparti, prenditi uno strudel e vai alla rocca a fare un giro. Io vado a pagare il conto e a cercare il mio uomo” fece un sorrisetto e aperta la finestra vi ci si buttò giù.
“Quando la gente noterà un deficiente che salta dalle finestre e corre sui tetti sarai nei guai, Tinkerbell!” strillò, irritata, uscendo dalla porta giusta per tornare al bar a prendersi lo strudel.

 
***

Ruthie s’incamminò lentamente sulla rocca battuta dal vento. Aveva chiesto qualche informazione in più al barista, mentre mangiava il suo strudel caldo. Lui aveva avuto la buona creanza di parlarle in inglese e le aveva spiegato che la famiglia Böhm possedeva quel castello da secoli, ma solo negli ultimi cinquant’anni erano tornati a viverci. La rocca era stata dichiarata patrimonio dell’umanità, recentemente, probabilmente avrebbero avuto delle rogne legali, abitando lì, ma a Ruthie quelle cose non importavano. Pareva che vivessero in tre in quel posto abnorme,  dei Böhm erano rimaste solo le due figlie, ormai adulte, i genitori erano morti anni prima, ormai anziani, e un vecchio domestico. La sorella minore non si vedeva da anni, il domestico  aveva spiegato che la ragazza soffriva di attacchi di panico e non voleva uscire di casa, quella maggiore ogni tanto si faceva vedere, vestiva elegante e portava grandi cappelli, ma per lo più se ne stavano chiuse nella rocca. A Ruthie suonava come una vecchia storia, sembrava tutto così losco, quasi una storia di fantasmi.
Avrebbe voluto chiedere qualche cosa, ma fu come se il barista le avesse letto nel pensiero perché si mise a dire “So cosa vi ha detto mia sorella, che sono loro a rapire le ragazze, sono tutte donne giovani” aggiunse, indicando il muro “ma sono state fatte parecchie indagini su questa storia, il caso è ancora aperto. Insomma, tutti sono stati interrogati e perquisiti, non hanno ritrovato i cadaveri…hanno setacciato tutta la zona, anche il castello…lo sappiamo tutti che sono loschi, ma credo che non ci sia davvero motivo di dubitare di loro…non possiedono nemmeno un’automobile con cui muoversi…”
Ruthie annuì, mentre il barista tirava su col naso “E’ una brutta storia” aveva potuto solo commentare, aveva già dovuto, in passato, parlare con qualcuno che si era trovato così vicino a una bestia, ma a certe cose non ci si abituava mai.
Ogni tanto si chiedeva come diamine le fosse venuto in mente di seguire Tinkerbell nel suo terribile lavoro di cacciatore di bestie. Una vita tranquilla e noiosa, fatta di solitudine e rancore non sarebbe stata meglio? E così pensando si trovava a risalire la collina, la strada era asfaltata, ma probabilmente nessuna auto saliva più lì da anni, l’asfalto era mal messo e tra le crepe cresceva l’erba.
Arrivò in cima col fiatone e si guardò intorno finché non trovò un citofono installato su un cancello nuovo, che stonava col vecchio palazzo. Chissà quanto spendevano per il riscaldamento.
Una voce roca la fece rinsavire e si ricordò che avrebbe dovuto parlare in tedesco “Bu-buongiono. Volevo parlare con la signorina Böhm…”
Diversamente dalle aspettative, data la pessima presentazione, in cancello automatico si aprì, lasciandola entrare. 

 
***

 
Tinkerbell si sedette al tavolo con due vecchietti che giocavano a scacchi. “Buongiorno” esclamò ancora, i due si voltarono a guardarlo di sbieco, per poi riportare gli occhi sulla scacchiera, ma Tinkerbell non si perse d’animo “E’ una bella giornata vero, cosa ne pensate di tutte queste persone scomparse” cominciò con un discorso del tutto privo di logica e tatto.
Dietro al bancone il barista asciugava bicchieri, c’era da chiedersi quanti ne avessero e, soprattutto, quanti ne usassero.
“Non ora, saremmo impegnati, ragazzino” borbottò uno dei due abbastanza irritato, e probabilmente lo sarebbe stato anche se Tinkerbell non avesse esordito parlando di cose macabre. Il ragazzo succhiò la cannuccia del succo alla pesca che aveva ordinato al bar prima di sedersi e afferrò il cavallo bianco sopravvissuto facendolo finire proprio su una casella che avrebbe incastrato il Re nero. “Scacco matto signori, immagino che ora non sarete più così impegnati!” esclamò gioioso e irritante allo stesso modo. I due vecchi si voltarono verso di lui, entrambi piuttosto scocciati e con le mandibole contratte “Sentiamo ragazzino” concesse quello che aveva ancora una folta chioma bianca, a differenza dell’altro, quasi calvo “Spero che faremo in fretta. Mi irrita anche la tua bevanda da donnina”
“Le chiedo scusa signor Müller” si scusò Tinkerbell con una canzonatoria riverenza, l’uomo non fece caso al fatto che lo stesse prendendo in giro, ma si irrigidì sentendosi chiamare per cognome.
“Lei e Ada vi somigliate. È suo nonno?” avrebbe dovuto direera, ma ebbe l’accortezza di non farlo. L’uomo  barbuto lo guardò con gli occhi stretti “Cosa cacchio vuoi da noi?” sputò, allontanandosi da lui, di poco, seppur rimanendo seduto dov’era. Tinkerbell non parve preoccupato e sorrise “Sono molto fisionomista”
In realtà l’aveva sentito chiamare così da un  tizio che aveva chiesto una brioche e per sua grande fortuna si era ricordato il nome di Ada Müller. In realtà i due non si somigliavano per nulla, ma il paese era piccolo, non potevano esserci troppe persone con lo stesso cognome.
I due uomini al tavolo lo squadrarono e a Tinkerbell ricordarono un po’ Buddy Gilmore e James Ford che lo guardavano male prima di ridere di lui e ficcargli la testa nel water. In quel caso, però, probabilmente nessuno sarebbe finito con una parte del corpo nel gabinetto.
“Prima di tutto, mi chiamo Tinkerbell, credo che non sia carino rompervi le scatole senza essermi presentato” cominciò lui, da grande oratore, mentre il vecchio senza i capelli, bisbigliava all’altro “Che nome effemminato”
“Lo so” ribatté Tinkerbell senza scomporsi e proseguendo “Io e la mia amica siamo venuti in questo paese per rilassarci, non mi fa sentire tranquillo vedere quel muro”
Il vecchio barbuto rimbalzò sulla sedia, grugnendo, e accennò a un sorriso di scherno “Allora non dovresti lasciare la piccoletta passeggiare da sola, mentre tu ti bevi dei succhini di pera” commentò un po’ acido.
“E’ pesca” puntualizzò Tinkerbell sbattendo le palpebre “E comunque Ruthie ha una revolver con sé” aggiunse, come se se lo fosse ricordato solo in quel momento.
“E allora!” esclamò il barbuto perdendo la pazienza, e ci mancò poco che non ribaltasse la scacchiera. Tinkerbell sorrise e alzò lo sguardo al cielo. Il vecchio senza capelli soffocò una risatina e l’amico batté il pugno sul tavolo “Non sono cose su cui scherzare” sbottò, e perfino il barista alzò gli occhi dal suo lavoro, cosa che accadeva di rado.
“Scusi” boccheggiò Tinkerbell abbassando lo sguardo e grattandosi il collo.
“Immagino che non sia mai successa una cosa del genere a qualcuno che conosci” sbottò, Tinkerbell lo guardò di nuovo, rimanendo serio “Dipende dai punti di vista, signor Müller”
Il signor Müller soffiò irritato guardando da un’altra parte, in realtà Tinkerbell si sentiva di essere stato sincero a rispondere in quel modo, non era la prima volta che si trovava davanti a una bestia del genere, ma di certo nessuno gli aveva mai ammazzato la nipote, o qualcuno di caro, ecco. Dopo anni che faceva quel lavoro quella parte rimaneva sempre piuttosto imbarazzante, per sua fortuna il vecchio barbuto aveva voglia di chiacchierare “E’ iniziato tutto due anni fa” cominciò, e il ragazzo smise anche di respirare per essere sicuro di non interromperlo “La prima fu proprio Ada, o almeno credo, la prima di cui si è parlato al telegiornale, almeno” Tinkerbell annuì, ma l’uomo non lo guardava, sembrava perso nei suoi pensieri.
“Ada era una brava ragazza, non capisco come si possa farle del male. Vero, Albwin?” chiese poi, un po’ malinconico. Il vecchio amico, che non si aspettava di essere interpellato in un momento così delicato, sobbalzò. “Sì, sì, certo” Tinkerbell fu sicuro che lo fosse, non avrebbe voluto fare altre domande, ma non era lì per consolare due vecchietti appassionati di scacchi “Quante persone saranno sparite da allora?”
L’uomo non sembrò troppo colpito dalla sua domanda e si mise a pensare “Direi…direi una cinquantina, in tutta la regione, il nostro paese è stato il più colpito però”
“Un serial killer davvero prolifico” aggiunse poi il vecchio Albwin, con un sorrisetto amaro, Müller lo guardò male, come a voler dire che magari la sua adorata nipote non era davvero morta.
Era assolutamente morta, per quanto ne sapesse Tinkerbell, e, solitamente, ci azzeccava.
“La ragazzina…” iniziò il ragazzo, per poi venire interrotto “Greta?”
“Lei. Dice che c’entrano qualche cosa le persone che abitano nel castello” disse poi lui, lasciando la frase senza una vera e propria conclusione e il vecchio fece un altro sorrisetto “Sono strani. Non piacciono nemmeno a me, ma, ad essere sinceri, non abbiamo…la polizia intendo, chiaramente, non hanno prove per dirlo, non è un crimine vivere in una vecchia rocca e sembrare un po’ strani, no?” disse con l’aria di uno che credeva proprio il contrario. Il vecchio amico sospirò, incrociando le braccia e appoggiandosi con la schiena allo schienale della sedia “Renette Groß era la loro domestica, è sparita da dentro al castello. Non trovi bizzarro che nessuno se ne sia accorto?”
“Ada è sparita dalla sua camera, pensi che l’abbia rapita io?” sbottò Müller, punto sul vivo. Albwin abbassò la testa, sentendosi in colpa. Tinkerbell fece lo stesso e Müller lo guardò, non aveva un’aria astiosa e sbuffò, come se toccasse a lui consolarli in quel momento “Davvero la ragazzina ha un revolver?” chiese poi, Tinkerbell annuì senza guardarlo. “E lo sa usare?”
Tinkerbell fece un sorrisetto divertito “Direi di sì”
 

***

 
Ruthie non poté fare a meno di pensare che il domestico della rocca fosse uscito da un libro, era elegante e barbuto, c’era da chiedersi perché non fosse ancora in pensione, ma dato che quello era un colloquio non le sembrò il caso di domandare. Era elegante e portava una barba folta e bianca, anche i capelli erano folti, nonostante l’età, Ruthie era convinta che dovesse essere vecchio.
Non si erano parlati granché, lei gli aveva presentato il suo curriculum scritto in tedesco, completamente falso, dove si diceva avesse lavorato per vari hotel, quando viveva in Connecticut, e poi si era complimentata per le lucine colorate sulla porta, non c’era nient’altro che desse segno che in Natale era in arrivo.
Il vecchio le aveva sorriso e le aveva detto che era contento che qualcuno venisse a chiedere lavoro lì, c’era davvero bisogno di una domestica, dato che in quel vecchio castello vivevano solo lui e le due signore. Purtroppo una delle due era molto introversa e usciva da camera sua molto raramente. Ovviamente non occupavano tutta la rocca, sarebbe stato uno spreco di riscaldamento, e poi chi la pagava la bolletta del gas? Ridacchiò e aggiunse che le signorine Böhm non erano ricche come si poteva pensare vedendo la loro residenza.
Il tutto venne recepito cercando di tradurre alla meglio il tedesco stretto del vecchio maggiordomo.
“Quindi lei si occupa di tutto?” chiese Ruthie, seguendolo a passo svelto per il corridoio dalle pareti scure. L’uomo si voltò verso di lei, per annuire e aggiunse “Avevamo una domestica… Renette, è stata una vittima del serial killer che agisce in queste zone. Immagino ne abbia sentito parlare, signorina”
Ruthie annuì. Il vecchio sospirò “Sono sparite tante ragazze negli ultimi due anni, ma Renette sparì dal nostro castello e tutti ci additarono come i colpevoli. Glielo sto dicendo, signorina, perché non voglio che lo venga a sapere da altri. Io e le signore non abbiamo nulla a che fare con questa storia, solo perché viviamo in una rocca isolata”
Ruthie annuì e si chiese se, effettivamente, fossero loro i colpevoli, sembrava abbastanza sincero nel suo dispiacere, alla fine che prove avevano per credere che fossero loro i colpevoli? Sospirò e incrociò la braccia, continuando a seguirlo, allo stesso tempo la preoccupava che Tinkerbell l’avesse mandata lì, non era tipo da fare cose a caso, forse, semplicemente, il domestico non ne sapeva niente.
L’uomo si voltò nuovamente verso di lei “Non fraintendermi, ma non ci interessa molto che tu sappia bene il tedesco, devi fare solo la domestica, per me è un sì, ma dobbiamo chiedere alla signora” sorrise ancora e si apprestò a farla entrare nel salotto dove la signorina Böhm prendeva il tea.
 

***

 
Greta stava spazzando le foglie nel cortile quando Tinkerbell le arrivò alle spalle, lei fece un urletto e per poco non inciampò cadendo per terra. Tinkerbell alzò le braccia in segno di resa “Scusami, non volevo spaventarti” disse, dispiaciuto e divertito allo stesso tempo.
Greta grugnì, era una ragazzina piuttosto seria. Portava un paio di jeans con ricamate delle farfalle e una bandana in testa che lasciava sfuggire solo qualche ciuffo di capelli scuri, come quella mattina.
“E’ per la sparizione di tua sorella che sei sempre così cupa?” chiese lui e Greta sobbalzò, boccheggiando “Su, non fare la stupita, il Bed & Breakfast cita Schneider come insegna, tu ci lavori, e sul muro delle persone scomparse spicca una certa Lutwine Schneider. Schneider non è mica un cognome così diffuso!”
Greta batté le palpebre qualche volta “A dire il vero sì, è tra i dieci più comuni in Germania”  lo corresse lei, serafica. Tinkerbell arrossì e aggiunse “Beh, non sarete mica in tanti in questo paesino, no?”
Greta scosse la testa “No, te lo concedo, Lutwine è mia sorella. E non è per lei che sono triste. Cioè…sì, ma sono sempre stato un tipo dispotico” aggiunse, ricominciando a spazzare, serenamente.
“Tra un po’ nevicherà”
“Credo di sì” e si fece silenzio di nuovo. Sperava che tirando fuori la questione Lutwine Schneider la ragazzina si sarebbe messa a parlare.
“Da quando va avanti questa storia?” lo sapeva già, ma non gli veniva in mente nessun modo per iniziare. Greta alzò le spalle “Due anni? Più o meno due anni. Non dovresti lasciare andare in giro la tua amica da sola”
Tinkerbell sbuffò “Non ti preoccupare per lei, ha un revolver. Non avrei ragione di preoccuparmi per me, invece?”
Greta alzò la testa dal suo lavoro e lo guardò, appoggiandosi alla scopa che stava usando. “No, il serial killer prende solo ragazze”
“E se mi mettessi una parrucca bionda?” fece lui, cercando di scherzare “Non saresti per nulla credibile” sentenziò Greta, con nessuna voglia di ridere, ricominciando a spazzare. Tikerbell s’accigliò “Non mi sottovalutare sai, quando avevo tredici anni mio padre se ne andò in Thailandia. Al momento è fidanzato con un uomo e si fa chiamare Joanna” fece lui. Fu il turno di Greta di accigliarsi “Non è vero!” sentenziò, non aveva voglia di farsi prendere in giro.
“Giuro!” fece lui, spalancando gli occhi e a Greta sembrò che lui la stesse prendendo ancora in giro, ma lasciò perdere e lui continuò “C’è un motivo per cui credi che siano loro, dico quelli che abitano alla rocca, i colpevoli? Mi hanno detto che sparì un sacco di altra gente”
Greta si strinse nelle spalle “Lutwine era in camera sua quando sparì, come Ada Müller e probabilmente molte altre ragazze. Non c’è un motivo, neanche il fatto che abitino in un castello, hanno setacciato il loro podere in lungo e in largo, dopo la sparizione di Renette, lo penso e basta” fece con un sospiro, per poi concludere “Se fossi in te mi preoccuperei davvero di non perdere d’occhio la tua amica piccoletta”

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** La trappola di foglie ***


Make a wish-

Capitolo tre-

La trappola di foglie -

 

Ruthie si era appena allacciata l’ultimo bottone della casacca del pigiama, quando il cellulare, che aveva lasciato sulla cassettiera, vibrò. Lo afferrò prima che facesse troppo rumore e rispose senza salutare “Tinkerbell” disse soltanto. Dall’altro lato giunse la voce gioviale dell’amico.

“Sono felice che  tu sia ancora tutta intera”

“Speravi di no?”

“Sai che sarei perso senza di te” disse in tono canzonatorio, ma era vero. “Come è andata lì?” domandò poi Ruthie, che non si era scomposta.

“Mi hanno assunta” disse, ansiosa di sputare il rospo. “Questo sì che è losco!” esclamò Tinkerbell, quasi felice “Ammettiamolo, Ruthie, il tuo tedesco fa schifo”

“Smettila di insultare il mio tedesco, per cortesia, comunque me l’ha detto anche il vecchio domestico, non hanno bisogno di una domestica che parli tedesco, per pulire non ci vogliono grandi abilità. Posso dargli torto? Pare che non voglia venire più nessuno a lavorare qui, da quando li hanno additati come colpevoli”

“Ti ha detto questo?”

Ruthie annuì, ricordandosi poi che lui non la poteva vedere “Sì”

“Quindi cosa ne pensi?”

“Non lo so, non sono così convinta che siano loro. Non credo che la bestia che stai cercando sia il maggiordomo, e anche la maggiore delle signorine Böhm si è dimostrata molto cortese” spiegò, cercando di rendere chiara la situazione.

“Nessuna bestia è mai stata scortese, se lo vuoi sapere”

“Il kraken era cortese?” domandò Ruthie, canzonatoria.

“Oh, sai benissimo che questo tipo di bestia non somiglia affatto al kraken!”

Ruthie ridacchiò dall’altra parte del telefono, aggirandosi per la stanza a piedi nudi. Per terra vi era un tappeto caldo, ma la stanza era un po’ fredda, era difficile riscaldare quell’ambiente, soprattutto perché gli infissi sembravano progettati per far passare gli spifferi.

“Tu hai scoperto qualche cosa di interessante, invece? Trovato un padrone?”

“Per il padrone ho un’idea”

“Immagino sia Greta”

“Amo non doverti dire le cose perché le capisci da te” fece lui con un sorrisetto compiaciuto, mentre camminava per il paese, ormai il sole era tramontato da un pezzo e a illuminare il paese c’era solo qualche lampione sparso.

“Comunque sì, ho qualche ipotesi. La nostra bestia preferisce le ragazze, magari giovani”

“Questo l’avevo scoperto anche io” lo rimbeccò Ruthie.

“Sì, sì, fammi finire. Ti ho mai detto che la creazione delle bestie è ciclica?”

“Se me l’avevi detto non me lo ricordavo”

“Beh, è così, pare che siano poco creativi a crearle, dopo qualche secolo, o magari meno, ritornano bestie simili a quelle già esistite” spiegò Tinkerbell, interrompendosi, toccò quindi a Ruthie continuare “Quindi immagino che tu mi stia dicendo che questa bestia potrebbe somigliare a qualcuno già esistito”

“Mai sentito parlare di Erzsébet Báthory? Visse nella seconda metà del cinquecento” chiese lui, divertito.

Ruthie strinse i denti “Oddio…non voglio farmi stuprare e macellare da una bestia simile!” sbottò lei, con i conati di vomito, le era tornato alla mente tutto quello che aveva letto nel periodo delle superiori in cui le era balenato per la mente di iscriversi a criminologia.

“Ma non è detto che ti stupri, magari ti macella e si fa solo il bagno nel tuo sangue. Perché questa visione tragica delle cose, Ruthie?” scherzò lui, assolutamente fuori luogo. Ruthie si sdraiò sul letto a pancia in giù “Che tipino adorabile” commentò, imbronciata.

“Piuttosto, non hai intenzione di tornare al Bed & Beackfast degli Schneider per la notte?” domandò mentre il suo fiato diventava bianco, nel buio della notte.

“Mi hanno lasciato una camera, questo castello è enorme” spiegò lei, rotolandosi sulle coperte in modo da scalzarle e da mettercisi sotto “inizio domani” aggiunse.

“E non hai paura a rimanere lì da sola? Non era meglio insistere per tornare a casa?”

“Non ti preoccupare, ho il revolver con me” ribatté lei, convinta.

“Già, è quello che ho detto al vecchio Müller. Hai intenzione di difenderti contro una bestia sparandole?” domandò il ragazzo.

“Hai un’idea migliore, genio della lampada?” domandò lei, canzonandolo.

“Posso sempre venire a dormire al castello con te”  e  proprio in quel momento la ragazza sentì un ticchettio provenire dalla finestra. Si voltò di scatto e Tinkerbell stava picchiettando il vetro con il dito,in bilico sul davanzale. Quando vide lo guardava smise per salutarla con la mano e fare un sorriso tutto denti. La ragazza aggrottò le sopracciglia e sbuffò scendendo veloce dal letto, per andare ad aprire la finestra, dalla quale Tinkerbell entrò con un balzo.

Ruthie si affrettò a richiudere la finestra, gli spifferi erano abbastanza, non c’era bisogno di lasciare anche la finestra spalancata come aveva fatto lui. Quando si voltò, il ragazzo era già a letto.

“Mettiti il pigiama!” sbottò, come se fosse sua madre. “Ce l’ho!” esclamò lui, piccato, alzando la trapunta in modo che lei vedesse il suo pigiama a righe. Ruthie sbuffò e gli saltò sopra per raggiungere l’altra parte del letto, dandogli una gomitata e varie ginocchiate “Ahi!” si lamentò lui scalciando da sotto le coperte.

“Hai cinque anni, Tinkerbell?” chiese lei, ancora a gattoni. “Hai cominciato tu!” esclamò lui, rispuntando da sotto le coperte e cacciandola giù dal letto con una spinta. Ruthie si rialzò di scatto dal pavimento, con i capelli sulla faccia e lo sguardo assassino “Smettila, porca vacca, non credi che si potrebbero insospettire se mi sentissero fare la guerra dei cuscini da sola?” domandò, irritata.

Tinkerbell le rispose con un sorrisetto e si rimise con le testa sul cuscino, mentre Ruthie riguadagnava la sua posizione, scalando il letto fin troppo alto per una della sua statura.

“Hai paura?” domandò lui, divertito, appena lei si fu messa in posizione fetale, dandogli la schiena.

“Assolutamente no” ribatté lei, a occhi chiusi.

“Sei falsa come il mio incisivo sinistro” commentò lui, tastando la pistola sotto il cuscino.

Ruthie aprì un occhio “Come mi hai detto che ti è saltato via il dente?”

“Con un pugno” ammise lui.

“Figo”

“Per niente!” protestò lui, piccato, mettendosi comodo nella sua stessa posizione.

Si ricordava bene quanto male gli avesse fatto quel dente rotto, ma, bizzarramente, aveva anche dei ricordi piacevoli di quell’avvenimento. Si ricordava di essersi messo a sedere sugli scalini della veranda, a tarda sera, con un sacchetto di ghiaccio piantato in bocca, il male diminuiva, ma quasi non era più sicuro di possedere delle labbra. Per di più aveva una gran fame, sua madre aveva cucinato le sue famose lasagne precotte e infilate nel microonde, che rendevano sempre felici tutti, a lui era toccato un passato di verdura freddo, e si sentiva un buco nero nello stomaco. Jessie era saltellata fino accanto a lui e si era seduta sui gradini al suo fianco, scompigliandogli i capelli.

“Buono il ghiaccio”

“Fottiti” aveva biascicato lui, indispettito.

Jessie lo guardò fisso. Si somigliavano, sua madre diceva che Jessie era lui con la parrucca, ed era vero, ma Jessie aveva tutti i denti e niente occhi neri, questo andava tutto a suo vantaggio.

Quella sera portava delle infradito, invece che i soliti anfibi che indossava a scuola, Tinkerbell si chiedeva come facesse a non farci i vermi.

“Claaay” lo chiamò lei e Tinkerbell alzò la testa, per guardarla “Ne vale davvero la pena?” domandò.

“Stai zitta, tu sei un’attaccabrighe di prim’ordine. Tu e il tuo fidanzato lo siete!” brontolò lui, che odiava le ramanzine, soprattutto fatte da una che aveva la sua stessa faccia.

“Insomma, Clay, sono solo compiti” continuò lei, battendo piano le suole delle infradito sui gradini di legno. L’estate era alle porte e la scuola stava per finire, la sera calda era la cosa migliore del mondo. Loro madre stava discutendo con il suo fidanzato riguardo all’acquisto di una massiccia quantità di zampironi.

“Potresti farglieli copiare” continuò, appoggiando il viso sulla mano a coppa, mentre il caschetto di cappelli neri oscillava.

“Non voglio che gente stupida prenda i miei stessi voti” brontolò Clay, voltandosi dall’altra parte. Jessie alzò gli occhi al cielo e sbuffò. Quando aveva dieci anni uno dei maestri aveva detto a loro padre che l’unico lavoro possibile per una testa vuota come quella della sua Jessica sarebbe stato la prostituta e lui gli aveva dato un cazzotto rompendogli un dente. Forse il dente rotto di Clay era una specie di contrappasso, comunque da quell’episodio, Tinkerbell aveva iniziato a fare i compiti anche per Jessie, che era passata di colpo tra gli alunni più dotati della classe, pur essendo sospettissima.

“Ma a me li fai copiare!” fece notare. Clay alzò le spalle e si staccò per un secondo il ghiaccio dalla bocca per rispondere “Tu non c’entri, che discorso è?”

Tinkerbell fece una smorfia, per quanto gli fosse possibile dato com’era conciata la sua bocca “Non ho alcuna intenzione di abbassarmi a fare quello che mi dicono loro” brontolò e Jessie sbuffò sonoramente, la sua frangetta svolazzò “Il tuo orgoglio vale più dei tuoi denti?” sbottò.

“Direi di sì” mugugnò Clay, guardandosi i piedi. Anche lui portava delle infradito. Jessie sospirò ancora e appoggiò la testa sulla spalla del fratello, aveva un livido anche lì, ma era coperto dalla maglietta.

“Clay? Vuoi che vada a picchiare qualcuno?” disse una voce proveniente dal cielo. Jessie e Clay alzarono la testa “Bernie? Non eri in bagno?”

“Sono sul mio bianco trono, ma non ho niente da leggere” spiegò Bernie tranquillo, la finestra del bagno era aperta. Jessie urlò “Ma che schifo! Non parlarmi mentre sei in bagno!”

“Stavo solo proponendo a Clay il mio aiuto, cosa ti serve un fratello grosso se non lo usi per picchiare la gente!”

Jessie scosse la testa e tornò dentro imbronciata “Clay avrà una vita fantastica anche senza che tu vada a malmenare della gente, anche se sei grosso, Bernie!” sentenziò in ultimo, prima di rientrare in casa.

Clay si rimise a guardare la strada e sua sorella cambiò idea e tornò fuori a sedersi accanto a lui “Dico sul serio…chi se ne frega dell’orgoglio…”

Clay la guardò “Non voglio una vita come quella degli altri, ne voglio una speciale” disse poi, piano, con le labbra che strusciavano sul ghiaccio in modo quasi doloroso.

Jessie si alzò di nuovo in piedi con uno scatto e le mani sui fianchi “Tu” e lo indicò “avrai una vita speciale, farai grandi cose! Te lo giuro” strillò decisa e Clay fece un sorrisetto poco convinto.

“Lo penso anche io” disse una voce nell’etere.

“Non parlarci mentre evacui, Bernie!” strillò stizzita, e tornò in casa per davvero.

Tinkerbell appoggiò la testa alla schiena di Ruthie, che stava già dormendo, scossa da brividi, le finestre della rocca di Rosenrot facevano davvero schifo, e sorrise. A volte si diceva che avrebbe voluto che sua sorella si fosse sbagliata, ma quello era un ricordo felice.

 

***

Tinkerbell attraversò il paese a passo veloce, sapeva già chi cercare. Quella mattina Ruthie si era svegliata presto, pronta per il suo primo giorno di lavoro, l’aveva lasciato dormire finché non si era preparata e poi l’aveva cacciato giù dal letto con mala grazia. Non ci poteva fare nulla, il letto era il suo punto debole, avrebbe dormito anni interi, se avesse potuto, tanto più che la notte prima l’aveva passata in bianco a fare la festa al kraken.

Ruthie era uscita dalla stanza chiudendolo dentro, mentre lui era ancora in pigiama, per andare a prendere istruzioni dal vecchio domestico. Si chiamava Dagomar, gli aveva detto. Per qualche secondo meditò di rimanere ancora a letto, ma alla fine il buonsenso vinse e poco dopo si ritrovò in giro per Rosenrot alla ricerca di Greta. Prima si concludeva quella faccenda meglio era, e a quel punto arrivava il momento che odiava di più, convincere il padrone di essere il padrone.

Greta stava di nuovo spazzando, nonostante fosse ormai fine dicembre quella notte non aveva nevicato, ma il vento si era fatto sentire – anche attraverso la finestra della loro camera sulla rocca, aveva sentito rabbrividire Ruthie varie volte – e alla ragazzina toccava di nuovo spazzare il cortiletto.

La studiò a breve distanza, senza che lei si accorgesse della sua presenza, gli dava le spalle. Portava ancora i jeans ricamati del giorno prima, erano leggermente a zampa d’elefante, notò, probabilmente dismessi dalla sorella maggiore. La bandana era diventata un laccio per capelli e Tinkerbell poté vedere per la prima volta i suoi capelli neri e lucidi.

Quando la ragazza si voltò verso di lui e lo vide, sobbalzò, probabilmente l’espressione di Tinkerbell era tutto un programma. Lui si affrettò a sorridere per rassicurarla, ci mancava solo che pensasse che fosse uno psicopatico. Greta lo studiò a sua volta, prima di salutarlo. Non era un ragazzo molto alto, i lineamenti erano marcati e i capelli scuri come gli occhi. Non era un tipo muscoloso, ma da sotto il cappotto blu col doppiopetto non avrebbe potuto dirlo, ne era poi interessata a notarlo. Notò però come le scarpe da basket di tela stonassero con il cappotto serioso dall’aria quasi militare, il giorno prima non lo portava.

La pelle era scura e le occhiaie evidenti, probabilmente dimostrava meno dei suoi venticinque anni, avere una barba di cui andare fiero avrebbe aiutato a sembrare un adulto, ma la sua era rossa e cresceva senza ordine, perciò preferiva non averla.

“Come stai?” chiese lui. Greta alzò le spalle “Come sempre. Tu?”

“Bene, grazie” la conversazione si fermò di nuovo e Greta si spostò dall’altra parte del cortile per spazzare le ultime foglie.

“Senti” esordì, a fatica e in imbarazzo.

“Sì?”

“Se potessi, fermeresti questo mostro che uccide le ragazze della zona?” domandò lui, cristallino, non c’erano molti altri modi per intavolare la conversazione.

Greta lo guardò storto “Che razza di domanda è? Certo che lo farei, ma non posso, cosa sei venuto a dirmi? Sei tu il serial killer che si porta via tutta questa gente?” sbottò lei, senza crederci, ma alzando la voce, alterata.

Tinkerbell scosse la testa e si mise un dito sulla bocca, come per intimarle il silenzio “Magari posso aiutarti a metter fine a questa situazione, oppure tu puoi aiutare me…ma promettimi che non urlerai” disse, e la sua voce si fece d’un tratto bassa e sibilante. Greta sgranò gli occhi e fece qualche passo indietro mentre Tinkerbell avanzava e il suo sguardo si faceva serio. La ragazzina si guardò intorno, ma tutto ciò che vide fu un turbinio di foglie secche, ci mise qualche secondo per rendersi conto che quel movimento era innaturale. Urlò e gli diede le spalle intenzionata a correre via, andandosi a schiantare contro un muro di foglie messe in fila, tese, come appese in aria, ma assolutamente impenetrabili.

“Nessuno capisce mai la parte del non urlare. A me non pare complesso!” sbottò un po’ infastidito, mentre Greta cercava di rimettersi in piedi con le lacrime agli occhi, incespicando nelle foglie. Tinkerbell le fece nuovamente segno di fare silenzio e Greta avrebbe urlato ancora se la bocca non le si fosse riempita di foglie.

Il ragazzo si piegò in avanti “Senti, davvero, non sono cattivo, ma non sapevo davvero come tenerti ferma. Il mio nome è Clay Jennings, e tu hai diritto a tre desideri”

Greta, sdraiata per terra, con la bocca piena di foglie lo guardò implorante, con gli occhi lucidi e Tinkerbell sospirò sconfitto, lasciando andare. Greta lo fissò per un secondo e poi si mise a urlare di nuovo. Clay urlò a sua volta e le si lanciò sopra per tapparle la bocca con le mani.

Quando il signor Müller uscì nel cortiletto preoccupato, attirato dalle urla, trovò solo un mulinello di foglie e una scopa abbandonata per terra.

Il signor Schneider trattenne il fiato “E’ stata presa?” boccheggiò.

 

***

Ruthie salì sulla scala di legno cigolante allungando il più possibile la mano per spolverare gli infissi di una grande finestra. Da quanto tempo qualcuno non puliva quel posto? Probabilmente da un bel po’, il vecchio domestico non poteva certo occuparsi di tutto da solo. L’uomo passò e le sorrise e Ruthie per poco non cadde giù dalla scala. Gli sorrise a sua volta, dopo essersi rimessa dritta e maledette il momento in cui era nata alta un metro e un fagiolo.

Scese dalla scala spolverandosi la gonna nera che indossava, era un abbigliamento pessimo per fare le pulizie, lo sporco si vedeva subito. Si guardò intorno perplessa, ci avrebbe messo un secolo per pulire tutte le vetrate di quel corridoio e lei non era veramente lì per fare le pulizie. Zampettò lungo il corridoio, che ogni tanto veniva interrotto da una porta che divideva i locali, e sgusciò nella sala successiva. Era vuota e il pavimento in vecchio parquet scricchiolante. Imprecò per tutto quel chiasso, preferiva di gran lunga gli spazi arredati, con tanto di tappeti che attutivano il rumore dei suoi passi. Avrebbe svegliato anche un morto con tutto quel casino. Arrivò dall’altra parte della stanza in punta di piedi, continuando a imprecare tra sé e sé, e infilò l’occhio nella serratura della porta successiva per vedere cosa vi fosse dall’altra parte. Un altro lungo corridoio dal pavimento nero, con sua grande gioia, in pietra. In fondo al quale la signorina Böhm stava attraversando l’ennesima porta. Ruthie sgranò gli occhi e aspettò solo che la donna fosse passata dall’altra parte per lanciarsi di corsa attraverso il corridoio vuoto. Quando arrivò dall’altra parte si fermò di botto per guardare di nuovo dal buco della serratura, non riusciva a vedere nessuno, la signorina Böhm doveva essersi spostata, nel suo campo visivo c’era solo l’ennesima camera vuota e una finestra sulla parete opposta. Aveva attraversato tutto il castello e in quel momento si trovava nell’estremità opposta. Scostò di poco la porta, sperando che non cigolasse, per vedere se la donna era ancora nella stanza o ne era uscita, proseguendo. Era quanto mai losco che si aggirasse in quella parte della rocca, quando Dagomar aveva chiarito ampiamente che il castello era così grande che solo poche stanze venivano occupate.

Dalla fessura della porta riuscì a vedere la signorina Böhm di spalle, che attraversava una porta, appena si fu chiusa Ruthie aprì la porta, decisa a fiondarsi all’inseguimento della donna, ma si impietrì rendendosi conto che la porta non c’era più. Rimase qualche secondo con la mano ancora sul pomello dell’uscio e poi, con rinnovata verve, corse a tastare la parete, come per paura che scappasse. Non un’imperfezione sul vecchio muro affrescato, non v’era nessuna sporgenza, nulla di nulla, la porta non esisteva.

Pestò i piedi, probabilmente Tinkerbell avrebbe potuto aprirla e sentì un moto di fastidio nel non essere lui. Afferrò il cellulare che aveva in tasca e digitò il numero che conosceva a memoria, il telefono suonò libero, e Tinkerbell rispose dopo due trilli “Sì”

“La bestia è la signorina Böhm. La maggiore, quella che ho incontrato ieri. Con ogni probabilità la sorella minore, quella malata che nessuno vede mai, è stata la sua prima vittima” sentenziò Ruthie, sicura.

“Da cosa lo deduci?” chiese lui, tranquillo.

“L’ho seguita nella parte del castello disabitata” spiegò, mentre si guardava intorno, la stanza era più piccola di tutte quelle che aveva visto, completamente vuota e affrescata. La colorazione però era vecchia e logora e mancavano molti pezzi dei disegni.

“Mi sono ritrovata in una stanza che è dall’altra parte rispetto all’entrata, se mi affaccio si vede la valle dall’altra parte” disse, guardando fuori, per farsi un idea sul dove si trovava e spiegarlo anche a lui “ e lei, semplicemente, è scomparsa nel muro. Non è un passaggio segreto, il muro è completamente liscio, non c’è nessun appiglio, nulla che possa aprire un meccanismo, c’è semplicemente passata attraverso!”

Tinkerbell storse il naso “C’è altro che dovrei sapere?”

“No, cosa posso fare di più?” domandò Ruthie, stizzita. “Era per dire. Ora torna a fare le pulizie e non farti coinvolgere, al resto ci pensiamo noi” fece.

“Sì, Papà” fece lei, canzonatoria e un po’ offesa, mettendo giù il telefono senza salutare e infilandoselo in tasca.

Sentì un lieve scricchiolio alle sue spalle, avrebbe potuto essere il pavimento, ma in quella stanza era di pietra. Con un gesto unico lasciò cadere il cellulare nella gonna di lana e afferrò la pistola dalla fondina.

Si voltò a braccio teso e si ritrovò davanti alla signorina Böhm, sorridente, con i suoi capelli biondi pettinati come se fosse una sposa, la pelle diafana e gli occhi raggianti. Le aveva afferrato il braccio con la mano e Ruthie sentiva le unghie affondare nella carne, attraverso il suo cardigan.  La donna sorrise, per nulla preoccupata del fatto che Ruthie le stesse puntando una rivoltella dritta in mezzo agli occhi.

“Sei la prima che arriva preparata, complimenti” sentenziò, e Ruthie sparò.

 

Aki_Penn parla a vanvera: Eccomi col terzo capitolo, spero che si sia capito qualche cosa, che qualche dubbio si sia chiarito, per lo meno, anche se invece qualche altro si sarà creato. Spero che non vi spiacciano i flashback, o almeno che non vi dispiacciano messi così, non serviva davvero alla trama della storia, ma ci tenevo a parlare di Tinkerbell quindicenne e a sua sorella.

Per quanto riguarda la simpaticissima Erzsébet Báthory, nel caso non lo sapeste, è esistita veramente e pare sia il serial killer più prolifico della storia. Se vi interessa su internet potrete trovare molte interessanti biografie. Non coincidono tutte perfettamente, ma i punti fondamentali sono chiari.

Questa parte ambientata in Germania doveva durare solo tre capitoli, secondo i miei calcoli, ma temo che saranno cinque, quindi ci vorrà ancora un po’, prima di avere una conclusione! XD

Per passare alle cose super mega poco importanti: Clay è un nome che ho scelto dopo aver letto “Tredici”, non che il libro mi sia piaciuto granché, ma mi sembrava che fosse ottimo per il mio protagonista, perciò l’ho chiamato così, Jessie si chiama così per via di Jessie J, il personaggio, nonostante in caschetto, non le somiglia, ma mi piace il suono di quel nome, infatti di cognome fanno Jennings, che è sempre con la “J”. Bernie si chiama così come il topino di Bianca e Bernie.

Spero che il capitolo vi possa essere piaciuto! Grazie mille per essere arrivati fin qui! <3

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** L'acqua nel pozzo ***


Make a wish-

Capitolo quattro-

L’acqua nel pozzo-

 

Tinkerbell si rimise il cellulare in tasca e guardò Greta, seduta sul colmo di una delle casette del paese, accanto a lui. La ragazzina si morsicò le labbra e incrociò le braccia, aveva un po’ freddo, ma non lo diede a vedere “Quindi, Clay, tu saresti un genio?” chiese lei, per la terza volta.

Tinkerbell annuì stancamente, allungando i piedi sulle tegole del tetto “Però potresti non ripetere all’infinito il mio nome? Non mi farei chiamare Tinkerbell se avessi piacere che tutti conoscessero il mio nome di battesimo” commentò.

“Perché proprio Jessie Tinkerbell? è un nome da donna”

“E’ anche un nome da uomo, e comunque Jessie è il nome di mia sorella”

“E’ un po’ effeminato” commentò seria lei, guardandolo negli occhi. Tinkerbell sospirò “Andrai ancora molto avanti con questa storia?” domandò esasperato.

“Se sei un genio, dov’è la tua lampada?” chiese poi lei, con rinnovata perplessità.

“Non ho una lampada, perbacco! Tu hai guardato troppi cartoni animati!” sbraitò Clay, fin troppo forte, rischiando di farsi sentire da qualcuno.

“Ma me l’hai detto tu, testuali parole sono un genio, tipo quello della lampada, quando mi hai portata sul tetto!” sentenziò lei, piccata.

“Appunto, TIPO! Era per farti capire! Guarda, esaudisco i desideri!” esclamò tirandosi un poco su le maniche per far vedere i suoi braccialetti argentati.

“Non sei blu” continuò lei, imperterrita.

“Walt Disney ha traviato la cosa. Ma hai visto quello che so fare, no?” sbottò, un po’ offeso e un fiore blu gli sbucciò sul palmo della mano, in un attimo, Tinkerbell la richiuse e quello svanì.

“Ho ancora il sapore delle fogli in bocca, che schifo!” commentò Greta, non più tanto impressionata, e così dicendo sputò.

“Sei proprio una signorina!” commentò lui, canzonatorio. “Colpa tua” fu la risposta secca. “E va bene…mi devi aiutare, capito?”

“Perché io?”

“Perché mi sei sembrata la migliore” disse semplicemente lui. Greta assottigliò lo sguardo e lo fissò, circospetta.

“Perché?” domandò, sull’attenti “Non è che poi mi uccidi?” chiese ancora, senza dargli il tempo di rispondere alla prima domanda.

Clay le si avvicinò un poco, la distanza tra i loro due nasi era drasticamente diminuita “Non lo so perché, penso che tu possa funzionare bene, come mia padrona. Non è un negoziato, ti ho scelta e così è e poi, se lo vuoi sapere, se avessi dovuto ucciderti l’avrei già fatto soffocandoti con le foglie, in cortile”

Greta s’irrigidì, per la seconda volta Tinkerbell le fece quasi paura.

“Devi esprimere tre desideri per me” spiegò.

“Non dovrebbero essere desideri per me, se sei un genio?” domandò lei, ritrovando la sua tranquillità. Tinkerbell alzò gli occhi al cielo e incrociò le braccia “Certo che sono tuoi desideri, puoi desiderare quello che vuoi, ma ti ho scelta perché spero che mi aiuterai a uccidere la bestia che si è presa tua sorella. Comprendi? I miei poteri non funzionano bene come sugli umani, con le bestie, ho bisogno di un aiuto esterno. Quindi non devi sprecare le tue tre opportunità”

Greta strinse la mandibola “Posso esprimere qualsiasi desiderio?”  domandò lei e lui stava per aprire la bocca per rispondere che Greta lo interruppe di nuovo con le lacrime agli occhi “Voglio vedere Lutwine!”

Tinkerbell storse la bocca “Avevo detto niente sprechi di desideri. Questo potevi usarlo in modo più utile!” brontolò.

Greta, con gli occhi lucidi, scosse la testa “Voglio sapere dov’è Lutwine!” ripeté.

“Avrei potuto dirti che era morta anche senza bisogno che tu lo desiderassi, ma dato che l’hai chiesto ti ci porterò” e così dicendo si alzò in piedi sul colmo del tetto. Allungò le mani verso di lei “Ci andiamo in volo, dammi le mani” disse, senza dare a Greta modo di ribattere.

“In volo?” ripeté lei, perplessa, facendo forza sui palmi per alzarsi, un po’ preoccupata per l’altezza, se fosse scivolata si sarebbe sfracellata al suolo. Tinkerbell annuì e aspettò che lei gli stringesse le mani.

“Pronta?” domandò, Greta annuì, non del tutto sicura. Chiuse gli occhi e sentì Clay che la stringeva e la prendeva in braccio a una velocità impressionante. Strinse la mano al collo della giacca militaresca e strizzò ancora di più gli occhi, mentre si sentiva sballottare. Sembrava che stesse saltellando in qua e in là, sui tetti, forse, aveva fatto così quando l’aveva portata via per la prima volta, dopo la trappola di foglie.

Quando riaprì gli occhi si ritrovavano dall’altra parte della collina. In alto c’era ancora la rocca, ma il paese era nascosto. Era una conca ventosa, l’erba era alta e gli alberi pochi. Ci mise qualche secondo prima di rendersi conto che, nonostante fosse in braccio a Tinkerbell, la terra era fin troppo lontana. Ebbe un brivido e si sentì cadere, ma le braccia di lui non si mossero di un millimetro. Si sporse un poco per guardare giù e le parole di Tinkerbell precedettero il suo pensiero “E’ un pozzo”

“Sì” disse lei, umettandosi le labbra. Lui era in piedi sul bordo di pietra, completamente a suo agio. Greta conosceva quel posto, lei, sua madre, suo padre e Lutwine venivano a fare passeggiate in estate, quando loro due erano piccole.

“Lutwine è nel pozzo?” domandò poi, terrorizzata dalla risposta. Sapeva come si poteva ridurre una persona a bagno nell’acqua. Lutwine era sparita da così tanto tempo.

“No, è sotto”

“Eh?” esclamò Greta, per un secondo più incredula e preoccupata.

“Non è dentro in pozzo, è sotto il pozzo” ripeté Tinkerbell, in un modo che avrebbe dovuto essere più comprensibile, ma che non  lo fu.

“Andiamo, su” aggiunse, e semplicemente saltò giù. L’urlo di terrore di Greta si perse nelle profondità del pozzo.

Greta strinse i denti e sentì il contraccolpo dell’atterraggio, quando Tinkerbell cascò in piedi, a gambe larghe, sul fondo del pozzo. Un paio di gocce le avevano bagnato le guance.

Riaprì gli occhi, senza lasciare la presa sulla giacca del ragazzo.

Per prima cosa guardò su, il buco del pozzo era solo un cerchio di luce. Non riusciva nemmeno a riconoscere l’azzurro del cielo. Non si fermò per chiedersi se anche Lutwine avesse visto lo stesso cerchio di luce. Poi guardò giù, Tinkerbell le lasciò tutto il tempo per ambientarsi e lei intravide, nel buio, che le gambe di lui erano immerse nell’acqua fino a quasi il ginocchio.

“E adesso?” domandò perplessa. Lì sotto, nell’acqua bassa, non poteva esserci Lutwine, quello era certo. Clay annuì, come se bastasse e Greta fece un urletto quando si accorse che l’acqua stava risalendo verso l’alto lungo le pareti del pozzo. La guardò risalire, brillante, sotto il riflesso della luce del giorno.

“Wow” non poté far altro che dire, nonostante la situazione drammatica.

In un batter d’occhio il pozzo si era svuotato  e Tinbkerbell la fece scendere. Greta atterrò sul pavimento di pietra del pozzo a piedi pari. Per terra c’era una botola, il metallo di cui era fatta era arrugginito dalla lunga permanenza sotto l’acqua.

“E’ qui?” domandò lei, nuovamente agitata. Clay annuì e si piegò ad aprire lo sportello, che cedette, cigolante, sotto il suo tocco.

“Dobbiamo scendere” la informò, carponi, con le ginocchia sulla pietra bagnata. Greta annuì, tremante, più per la paura che per il freddo.

“Mi potresti prendere di nuovo in braccio?” chiese. Tinkerbell annuì e allungò le braccia dall’altra parte della botola dove si trovava la ragazzina. Ci misero un secondo e Greta urlò di nuovo, presa alla sprovvista, in un secondo lui l’aveva afferrata ed si era buttato di nuovo giù.

La ragazzina tossì forte, senza avere il coraggio di aprire gli occhi. Spinse il volto contro il petto di Tinkerbell, l’aria era irrespirabile, densa e odorava di marcio e sangue.

Greta tossì forte, le sembrava di soffocare, aprì gli occhi ma non vide nulla e per un secondo pensò che lui la volesse uccidere.

“Mi spiace…” cominciò “questo era il tuo desiderio. Vuoi che faccia luce?” domandò.

“C’è qualcuno vivo, qui dentro?” domandò lei invece. Era chiaro che il corpo sanguinante e macilento di Lutwine non fosse l’unico, lì dentro.

Tinkerbell scosse la testa e poi, ricordandosi che lei non poteva vederlo rispose anche a voce “No”

“Allora portami via” ordinò piagnucolante, con le lacrime agli occhi. Ci volle solo un attimo  e l’aria tornò respirabile e il cielo luminoso anche se grigio. Greta si lasciò cadere carponi tra l’erba, era felice di poter sentire ancora il freddo di dicembre. Era viva. Almeno lei. La botola si era richiusa e l’acqua era tornata al proprio posto.

Clay le lasciò il tempo di riprendere fiato e di sputare, forse avrebbe avuto anche bisogno di vomitare. Lui si passò una mano sulla bocca per ricacciare indietro l’istinto, ma l’aria fredda aiutava anche lui.

“Dimmi quando sei pronta…abbiamo ancora due desideri, Greta”

Lei annuì, tremante “E dobbiamo andare al castello” aggiunse. La ragazzina piagnucolava, si era messa in ginocchio ed era scossa dai singhiozzi.

“La devi ammazzare quella cosa…la devi ammazzare”pianse, la gola le faceva male.

“L’ammazziamo” disse lui, semplicemente, avvicinandosi di qualche passo.

“Dimmi quando sei pronta” l’avvertì poi. E Greta, con le guance rigate dalle lacrime, si voltò a guardarlo “Sono pronta” rispose risoluta.

Pochi minuti dopo si sentì depositata dolcemente sul pavimento di pietra della stanzetta affrescata, con Tinkerbell che la teneva da sotto le ascelle, come se fosse stata una bambola.

“Tutto a posto?” chiese quando lei ebbe fatto due passi per essere sicura di aver riacquistato l’equilibrio. Quei voli la sfasavano.

Greta annuì “Non ti sei tagliata col vetro, vero?” si interessò poi. Aveva deliberatamente fatto esplodere la finestra, avrebbe potuto semplicemente aprirla senza fare tanto caos, ma non gliene fregava granché.

I due si guardarono intorno “Dalla descrizione di Ruthie questa sembra la stanza con l’affresco e la porta dovrebbe essere su quella parete” spiegò Clay.

“A me sembra una parete normale” sentenziò Greta.

“Probabilmente lo è” rispose lui, mentre la ragazzina cominciava a tastare l’intonaco, alla ricerca di qualche cosa che tradisse un uscio.

“Credi che la tua amica stia bene?” domandò lei.

“Spero di sì, ma credo di no” rispose tranquillo lui.

“Hai detto che ha una pistola” gli ricordò lei. Tinkerbell annuì “Sì, ma una pistola può fare davvero ben poco contro una creatura del genere” spiegò lui, standosene a distanza con le mani in tasca, mentre Greta continuava a tastare il muro, febbrile.

“E tu come speri di ammazzarla, questa bestia?” chiese, accigliata, voltandosi per guardarlo.

 “Ho un’accetta” fece lui, con un sorriso, e alzò un pochino la gamba alla quale teneva attaccata l’arma con dei lacci. Greta si stupì di non averla notata prima d’allora.

“Un’accetta?” ripeté lei, perplessa. Toccò a Clay accigliarsi, offeso “E’ un’accetta magica, che cavolo! Se no avrei fatto il taglia legna!” sbottò, imbronciandosi e Greta alzò le spalle, allontanandosi anch’ella dalla parete.

“Qui non c’è nessuna porta” decretò. Lui le si avvicinò, e toccò distrattamente il muro coi polpastrelli “Hai ragione, qui non c’è nulla” accondiscese per poi tirarsi su una manica e appoggiare uno dei suoi due braccialetti d’argento contro il muro.

Greta sgranò gli occhi e spalancò la bocca, vedendo che la parete, a contatto col polso di lui, si scioglieva e apriva in un passaggio buio.

“Non c’è nessuna porta se sei umano” si corresse con un sorrisetto compiaciuto.

“Che figata!” esclamò Greta, dimentica, per un secondo, di quello che stavano andando a fare oltre quel passaggio.

 

Aki_Penn parla a vanvera: Eccomi con un nuovo capitolo, cortino, ma utile. Ho avuto qualche problema nel dividere i capitoli e il prossimo è praticamente lungo il doppio di questo. Qui non c’è Ruthie e a me manca già, spero che non mi abbandonerete per questo, tornerà presto. Grazie per aver letto fino a qui! <3

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** La vasca dorata e il mare rosso ***


Make a wish-

Capitolo cinque-

La vasca dorata e il mare rosso-

 

Tinkerbell prese per mano Greta e avanzò qualche passo nel passaggio, il quale si richiuse dietro di loro come una porta che prima non c’era. Greta si aggrappò maggiormente al braccio del ragazzo con entrambe le mani, agitata, mentre vedeva la luce dietro di sé, lentamente svanire.

“Tinkerbell?” piagnucolò, appoggiando anche la guancia contro la manica della giacca del ragazzo.

“Sono qui” disse semplicemente lui, tranquillo.

“E se lei fosse qui? C’è di nuovo quell’odore orribile…” gemette la ragazzina. Clay emise un lungo sospiro “Non è qui, ma credo sia meglio accendere la luce. Probabilmente quello che vedrai non sarà simpatico. Sei pronta?” domandò. Greta strizzò gli occhi e annuì “Sì” sentì  le lacrime scenderle di nuovo lungo le guance.

“Non posso proprio tornare a casa?” chiese, distrutta, mentre oltre le palpebre avvertiva un leggero chiarore.

“Hai promesso che mi avresti aiutato, Greta, sei la mia padrona, no? Devi ancora esprimere due desideri, per aiutarmi ad ammazzare questa bestia” disse lui con tono pacato, cercando di essere il più gentile possibile.

“Forse dovresti aprire gli occhi” suggerì, senza guardarla.

“C’è qualche cosa di brutto che potrei vedere?” domandò, sempre con la faccia contro la stoffa della sua giacca.

“Esattamente quello che ti immagini” fu la laconica risposta.

La ragazzina si voltò per guardare avanti e subito si nascose di nuovo sotto il braccio di Tinkerbell. Clay si morsicò il labbro. Davanti a loro il corridoio era poco illuminato ma non era difficile scorgere i particolari truculenti.

Respirò forte nel guardare il corpo nudo di una ragazza appesa al muro. O meglio, quello che era stato il suo corpo. Era appesa con un gancio da macellaio che le trapassava il collo da parte a parte. Il torace era tagliato da sotto il seno, come se qualcuno si fosse divertito ad aprirlo come una scatoletta. Abbassò lo sguardo, vedendo solo di sfuggita che le braccia e le gambe terminavano con lembi di carne sfilacciata.

“Non voglio andare avanti” strillò Greta, con i conati di vomito che iniziavano a farsi sentire e le gambe che le tremavano.

Clay si morsicò il labbro e sospirò “Dobbiamo andarci lo stesso. Ti prenderei in braccio se non avessi bisogno di tenere la luce con una mano e l’accetta con l’altra” spiegò. Greta trovò il coraggio di aprire di nuovo gli occhi per guardarlo, mentre teneva in mano una fiammella opaca che donava la fioca illuminazione. Batté le palpebre qualche volta “Bello” commentò poi, tranquillizzandosi un poco. Tinkerbell le sorrise e si chinò a slegare l’accetta dai lacci che la tenevano appesa ai suoi pantaloni. La strinse nella mano libera e avanzò, mentre Greta gli rimaneva attaccata alla giacca guardando in basso, cercando di tenere gli occhi aperti abbastanza solo per essere sicura di mettere i piedi uno davanti all’altro, ignorando il resto.

Fu in quel momento che partì una musichetta da videogioco che del tutto stonava con l’ambiente. Greta lo guardò sottecchi “Cos’è?” chiese, cospiratrice. Clay arrossì, imbarazzato “Il mio cellulare”. Lo estrasse dalla tasca, posizionando, come poteva, l’accetta attaccata alla propria cintura, e guardò il display “Scusami, devo proprio rispondere”

La ragazza annuì dando il proprio consenso e lui accettò la chiamata “Ciao Jessie” esordì, e avrebbe voluto dire che era davvero un momento pessimo, ma sua sorella non gli diede il tempo.

“Clay!” esclamò allegra “Sono tre giorni che non mi chiami” fece, entusiasta di sentire la sua voce. Clay si chiese dove le trovasse certe scorte di energia “Tu non lo sai” continuò la donna dall’altra parte “Metal Dragon ha preso un’altra A” disse orgogliosa. “Oh, wow” fu il commento scarno del gemello, ma Jessie non si fece intimorire. Metal Dragon era il risultato di quando si lascia andare all’anagrafe un sedicenne metallaro e non troppo intelligente, che ha appena avuto un figlio non programmato. Clay aveva provato in tutti i modi di dare al povero Metal Dragon un soprannome umano, ma rimaneva un nome bruttissimo.

“Credo che abbia preso da te” continuò Jessie, così orgogliosa di suo figlio che, all’età di nove anni, era il migliore della classe.

“Senti Jessie, sono lo zio più felice del mondo e non vedo l’ora di portare a Metal Dragon tutti i souvenir che gli ho comprato, ma questo è davvero un momento pessimo, sono con un fornitore e stiamo parlando di cose importanti e…” Jessie non gli lasciò finire la frase e disse subito “Certo, certo, mi dimentico sempre che sei un uomo in carriera” e Clay notò una nota canzonatoria nella voce della gemella “Torni per Natale, vero?”

“Certo” acconsentì lui, sperando fosse vero. “Allora sono contenta. A presto” concluse e lui sapeva che stava sorridendo.

Tinkerbell si rimise il telefono in tasca e guardò Greta, che lo fissava “So che non è molto professionale ma…” lei lo interruppe prima che lui potesse finire “Che lavoro le hai detto che fai?”

“Il rappresentante di tegole”

“Buon Dio” fu l’unico commento. Tinkerbell le sorrise, mentre riprendevano a camminare nel corridoio in pietra.

Greta, a occhi quasi chiusi, inciampò in qualche cosa di putrido e viscido e Clay la prese al volo prima che finisse in una pozzanghera di sangue marcio con la faccia, a pochi centimetri da una testa imputridita con le orbite vuote.

La ragazzina si mise a respirare forte “Davvero, non ce la faccio…non ce la faccio…” singhiozzò focalizzandosi solo sul viso del ragazzo “Quella…quella testa non ha gli occhi…” singhiozzo e il suo corpo era scosso da tremiti e Tinkerbell non avrebbe davvero saputo come tranquillizzarla. Lui era abbastanza abituato a cervelli spalmati sulle pareti e budella volanti, ma probabilmente quello non era posto per una ragazzina come Greta.

“Ho dodici anni…non voglio morire” fece, passandosi la manica della felpa sugli occhi. Tinkerbell chiuse gli occhi e si inginocchiò davanti a lei appoggiando per terra l’accetta. Le strinse una spalla con la mano l’ibera, mentre con l’altra continuava a tenere accesa la fiammella “Ti prometto che non morirai, va bene?”

Greta scosse la testa e si mise una mano sulla bocca, singhiozzando “Non ce la faccio, non ce la faccio… davvero”

Tinkerbell stava per aprire la bocca per rassicurarla di nuovo, ma Greta urlò e si divincolò dalla sua stretta. Il ragazzo sgranò gli occhi e istintivamente andò ad afferrare l’accetta che aveva appoggiato sul pavimento, per rendersi conto che era sparita. Ringhiò, furioso.

Greta strillò, terrorizzata e schiacciata contro il muro. Una mezza dozzina di braccia e mani la tenevano ferma, mentre lei urlava in preda al panico. Una settima mano aveva iniziato a tirarle una gamba con tutta l’intenzione di strappargliela.

Scattò in piedi, fiondandosi in avanti per toglierle di dosso tutti quegli arti sanguinolenti, alcuni erano stati spellati e ne rimanevano solo i muscoli attaccati all’osso. Alla sua arma avrebbe pensato subito dopo aver liberato Greta, anche se quello era un problema: la prima regola era di non farsi mai sottrarre l’accetta.

Il colpo che si abbatté sulla sua spalla sinistra, probabilmente rompendogli dolorosamente la scapola, fu rivelatore su dove si trovasse la sua amata ascia. Tinkerbell ricadde in ginocchio ansimante e si passò la mano destra sulla spalla colpita. In un attimo sentì le ossa tornare integre. Si rialzò, afferrò una delle braccia sanguinanti che si stava infilando in bocca alla ragazzina cercando di asfissiarla e frantumò le articolazioni di un'altra che voleva attaccarsi alla sua caviglia, schiacciandola con la scarpa.

Greta sputò e tossicchiò con le lacrime agli occhi e il fiatone “Mi ammazzano” sussurrò con la voce che era quasi un fischio, non aveva più aria nei polmoni e le braccia la stavano tirando in tutte le direzioni, con la chiara intenzione di strapparle gli arti di dosso. Il braccio che aveva tolto di dosso a Greta si ripropose dal soffitto con la chiara intenzione di strangolarlo e la lama della sua accetta batté forte sulla sua testa, senza tagliarlo. Afferrò la mano che gli aveva preso il collo e la strinse tanto da romperle le ossa, come aveva fatto con l’altra. Prese un altro respiro, scaraventandola via. Greta si era messa a urlare per il dolore e lui non riusciva nemmeno ad avvicinarsi per aiutarla perché uno sciame di mani e piedi gli si era fiondato addosso.

Erano come mosche, facili da scacciare, ma sempre troppe. Ansimò, rendendosi conto che non avrebbe combinato niente, era chiaro che se non avesse cambiato strategia non sarebbe giunto da nessuna parte. Le urla straziate di Greta rimbombavano per il cunicolo in penombra. Probabilmente le articolazioni stavano per cedere.

“E allora facciamo luce!” ringhiò, come rivolto a tutte quelle membra macellate. Chiuse la mano, che reggeva la fiaccola, attorno a un polso a caso e per un secondo si fece buio, un buio assordante. In un secondo l’intero avambraccio, che aveva bloccato, prese fuoco, muovendosi per aria come impazzito, andando a sbattere contro le altre braccia e contro alla sua giacca militare. Tinkerbell ci soffiò su e in un attimo il suo cappotto era di nuovo a posto. Afferrò un altro paio di braccia e le scaraventò contrò il muro, proprio affianco alla testa di Greta che piangeva e strillava. Durò poco, perché quegl’urli vennero smorzati da un colpo di accetta in mezzo al petto che le sfondò lo sterno. L’urlo le si smorzò in gola e gli occhi si sgranarono. L’accetta tornò indietro, come se avesse subito il rinculo di uno sparo andandosi a schiantare in faccia a Tinkerbell, ancora una volta niente tagli, ma lui sentì  distintamente il setto del naso rompersi, insieme all’arcata sopraccigliare. Lasciò che l’ascia continuasse il suo volo andandosi a conficcare nel muro alle sue spalle e si lanciò in avanti ad appoggiare entrambi i palmi sul petto sfondato di Greta, pregando che fosse ancora viva, gli bastavano cinque secondi.

Greta rialzò la testa di botto e prese un respiro come se fosse stata in apnea fino a quel momento. Tinkerbell emise un respiro di sollievo e prima ancora di fare nient’altro si voltò verso l’accetta con la mano aperta. Quella si staccò dalla parete finendogli in mano, come attratta da un magnete. “Questa è mia” sbottò, come se le mani potessero davvero sentirlo.

Le braccia che continuavano a stringere Greta, che si teneva le mani sul petto incredula di quello che stava succedendo, furono macellate per prime. La ragazzina non si rese nemmeno conto del fatto che un paio di dita le finirono in grembo.

L’ultimo braccio presente nel cunicolo fu schiacciato contro il muro di pietra con il manico di legno della mannaia, che gli polverizzò tutte le ossa, e si fece nuovamente buio.

“Tinkerbell?” chiamò preoccupata la voce di Greta, nel buio.

“Sono qui” rispose lui, e una palla di fuoco gli si accese di nuovo in mano, rendendo possibile un confronto tra i due.

La ragazzina respirava forte, ma si sforzò di sorridere “Grazie”

Tinkerbell le mise la mano che reggeva l’accetta, sulla testa “Scusami, più che altro, di solito evito che la mia accetta spacchi lo sterno a chi non dovrebbe”

“Tu non ti sei tagliato però” fece notare lei, battendo le palpebre. Stava urlando e soffrendo, ma si era accorta della cosa. Clay annuì “E’ la mia arma, non può tagliarmi”

Greta sorrise di nuovo, tesa, e allungò la mano per farsi aiutare a mettersi in piedi. Tinkerbell si mise l’ascia in bocca e la tirò su, poi si passò un dito sul naso e sul sopracciglio, sentendo le ossa aggiustarsi e il dolore sparire.

“Andiamo” e se la tirò dietro, il passo si era fatto svelto, del tutto disinteressato ai timori di Greta, ne avevano già viste abbastanza in quel cunicolo senza che nemmeno ci fosse l’ombra della bestia.

Arrivavano in fretta alla fine, il cunicolo era maleodorante e il soffitto era basso, Greta sempre sul punto di vomitare, vedendo corpi dilaniati ammassati lungo le pareti, ma non trovarono altri ostacoli. Probabilmente il numero di vittime stimato dalle autorità era tristemente più basso della realtà. Fu quando si trovarono alla fine del corridoio, davanti a una porta di legno vecchio, che si trovarono davanti a un altro cadavere in movimento.

Il cadavere, decapitato e con le budella che strisciavano per terra, s’inchinò e fece loro segno di procedere.

“Grazie” disse semplicemente Tinkerbell, prima di tagliarlo a mezzo con l’accetta e aprire la porta, trovandosi in un grande salone.

Greta si nascose di nuovo dietro al ragazzo, mentre la porta di legno si chiudeva dietro di loro. La sala era grande, con un soffitto alto, Tinkerbell alzò la testa per vedere le decine di corpi nudi e dilaniati che erano appesi al soffitto, come prosciutti, con ganci, alle travi di legno. A parte ciò la stanza era vuota, se non per una vasca dorata dall’altra parte della stanza. Il sangue delle ragazze colava per terra e dentro alla vasca stessa, il pavimento era tutto sporco. La ragazzina li guardò per qualche secondo, senza rendersi conto di nient’altro e poi abbassò nuovamente la testa, guardandosi i piedi.

“Tu devi essere Tinkerbell” disse una voce dall’altra parte della stanza. Tinkerbell si voltò verso la vasca, sapeva che la bestia era proprio lì. Fu allora che vide per la prima volta la signorina Böhm, mentre riemergeva dal suo bagno di sangue, sporca di liquido rosso fino alle clavicole e l’impeccabile pettinatura da sposa bionda. La donna uscì dalla vasca, senza preoccuparsi di essere nuda, e fece un paio di passi in direzione dei due, Greta si nascose dietro al cappotto di Tinkerbell, cercando si spiare non vista.

“Dal nome mi aspettavo fossi una ragazzina, che delusione” fece, imbronciata. Tinkerbell s’inchinò un poco, canzonatorio, e rispose “Mi sono fatto la barba però, per lei, signorina Böhm”

Greta indietreggiò, non capiva che bisogno ci fosse di quei convenevoli. “Davvero gentile” fu la risposta della bestia “ma continuo a preferire le ragazzine” spiegò, si trovava ancora lontana da loro e fu in quel momento che Clay si accorse che la cosa appesa proprio dietro alla signorina Böhm era Ruthie.

Era appesa a testa in giù con una corda legata ai piedi, aveva ancora addosso tutti i vestiti e questo gli dava la speranza che la Böhm non l’avesse ancora toccata, non sembrava sanguinasse e aveva solo la pancia scoperta perché la maglia si era abbassata a causa della posizione a testa in giù. Prese un profondo respiro, in ogni modo non era bene che stesse troppo con le gambe in aria.

Pregò di sbrigarsi in fretta e fu proprio in quel momento che la bestia bionda riprese parola “Fare il bagno nel sangue delle vergini mi mantiene giovane” disse, guardandosi le mani dalle dita lunghe e affusolate, sporche di rosso. “Quella ragazza che ti sei portato appresso quando sei arrivato a Rosenrot, è vergine?” domandò poi, guardandolo. Tinkerbell strabuzzò gli occhi e balbettò “Ru-Ruthie? Io non…non so…non ho mai chiesto…” incespicò preso alla sprovvista, per poi accigliarsi e sbottare “E comunque non ho alcuna intenzione di farti dissanguare la mia assistente, se permetti!”

La signorina Böhm alzò gli occhi al cielo, avanzando ancora, con qualche passo elegante “Beh, in questo caso immagino che potrò prendermi Greta Schneider, no?” propose, e in un secondo se la ritrovarono affianco. Greta emise un urlo strozzato e si strinse ancor più alla giacca di Tinkerbell, cercando invano di nascondersi. Le nocche erano quasi diventate bianche. Il ragazzo alzò un poco la mano come per tenere indietro la ragazzina.

La donna si passò la lingua sulle labbra e lo guardò divertita, era qualche centimetro più alta di lui. Tinkerbell ebbe modo di studiare bene i suoi lineamenti, mentre stringeva l’accetta tra le dita e pensava a come fosse meglio aggredirla. La signorina Böhm era davvero bella, la pelle liscia a e chiara, i capelli di un biondo chiaro che si confondeva col grigio, come se fosse vecchia, erano raccolti in una pettinatura elaborata che, diversamente dalle aspettative, la rendeva ancora più bella. Degli occhi grigi scintillanti e un neo sotto il destro di questi, componevano l’opera. Si erano scelti bene la donna da far diventare una bestia, Tinkerbell si disse che fosse stato quasi un peccato.

“Oh, Greta” continuò poi la signorina Böhm, lasciando perdere il gioco di sguardi che aveva ingaggiato con Tinkerbell, per occuparsi della piccoletta “Sono sicura che ci divertiremo un sacco insieme, io e Lutwine ce la siamo spassata davvero un sacco quando le ho tolto di dosso l’intestino” ridacchiò educatamente e Greta iniziò a frignare silenziosamente e non era più per la sorella, ma per sé stessa.

Fu allora che Tinkeerbell la colpì con l’accetta al fianco. Vi fu uno spruzzo di sangue laterale e Greta si rannicchiò per terra sentendolo muoversi.

Un affondo del genere non poteva essere dispensato gratuitamente, infatti anche l’occhio di Tinkerbell sanguinava e il suo bulbo oculare se ne stava a guardarlo tra le dita della signorina Böhm, che fatti due passi indietro glielo mostrò come se fosse stato un trofeo.

“Non sei una ragazzina, ma posso sempre scuoiare anche te. Ma non ti voglio usare per il mio bagno di sangue, sono sicura che il tuo rovinerebbe tutto quello delle vergini che ho raccolto fino ad ora”

Greta, che si era coperta gli occhi per non vedere niente, aprì un occhio e sbirciò attraverso le dita per guardare la signorina Böhm indietreggiare ridanciana, la ferita sanguinante che Tinkerbell le aveva fatto sul fianco si stava richiudendo. Quello che aveva in mano era un occhio, le venne l’impulso di vomitare, di nuovo. A giudicare da come Clay si teneva la faccia e da come ansimava, per giunta, doveva essere il suo.

“Tinkerbell” piagnucolò istintivamente, notando il corpo di una ragazza sgozzata che sanguinava a testa in giù dentro la vasca dorata della bestia.

Fu solo quando strillò veramente che Tinkerbell si voltò verso di lei. C’erano delle altre braccia che uscivano dal pavimento e che sembravano del tutto intenzionate ad agganciarla a uno dei ganci liberi che pendevano dal soffitto, probabilmente in modo molto doloroso. Avrebbe dovuto occuparsi dopo di recuperare il suo occhio. Si voltò verso Greta, che ormai era a più di tre metri da terra e le lanciò contro l’accetta che tranciò tutte le braccia che la sorreggevano e tornò indietro come un boomerang, in mano a Tinkerbell. Corse in avanti per prenderla al volo, finendo per strisciare per terra con le ginocchia, in modo che Greta non si sfracellasse per terra.

“Tinkerbell? Non tin interessa più il tuo occhio? Se vuoi posso darlo in pasto a una delle mie teste!” esclamò, ridendo accennando a una serie di dieci o dodici teste legate tra loro per i capelli. Quella più in alto aveva un gancio che le usciva dalla bocca per farla stare appesa.

Tinkerbell saltò in piedi, costringendo Greta a stendere le gambe a sua volta, e scattò in avanti, verso  la donna, che si affrettò a lanciare l’occhio di Tinkerbell verso le teste cercando di fare centro in una delle bocche spalancate. Gli occhi erano sbarrati e le bocche si muovevano fameliche, nonostante non fossero più attaccate al corpo da tempo.

Non aveva un braccio abbastanza lungo da riuscire ad afferrare il proprio occhio prima che finisse in una delle bocche, ma la sua accetta forse era abbastanza lunga. Tagliò i capelli di una delle teste e tre o quattro rotolarono per terra insieme al suo occhio. Tinkerbell, che si era lanciato, cadde anche lui in una pozza di bava e sangue.

“Non posso scuoiare il tuo famiglio, non posso scuoiare Greta Schneider, che sangue dovrei usare per mantenermi giovane?” chiese la signorina Böhm retorica e anche abbastanza divertita nel vedere Tinkerbell  che arrancava nella pozza di liquido maleodorante, cercando di afferrare il proprio occhio, che sgusciava via, sporco.

“Allora me le prenderò tutte e due” decise infine, voltandosi verso Ruthie, ancora a testa in giù. Le avrebbe tagliato la gola, in modo che Clay non avesse modo di ricucirle le ferite. Odiava uccidere la gente prima di averle fatte un po’ soffrire. A volte le tagliava, cicatrizzava le ferite col fuoco e poi le ritagliava ancora per ucciderle. Le lasciava sanguinare nella propria vasca e si beava dei loro urli straziati.

Purtroppo non avrebbe potuto concedersi quel lusso anche per Ruthie, era meglio sbarazzarsi subito del famiglio di un genio.

Tinkerbell si stava rimettendo l’occhio nell’orbita quando Greta urlò ancora “Voglio che abbia le unghie di burro!”

La signorina Böhm si ritrovò a guardare una scia unta sul collo di Ruthie, mentre le proprie unghie tornavano lentamente a essere degli artigli, dopo aver assunto – per un attimo- la consistenza del burro. Si voltò un poco per guardare Greta, ancora seduta per terra, che la guardava con gli occhi sbarrati.

“Questo era il tuo ultimo desiderio, carina…” disse con un sorrisetto infastidito, mentre veniva riacchiappata da un nugolo di braccia, come tra i tentacoli di una piovra. Una testa alla quale era attaccato un busto privo di braccia e gambe le morse il polpaccio e Greta urlò di dolore.

Un ciuffo era sfuggito dalla capigliatura arzigogolata della signorina Böhm, lei se lo riavviò dietro l’orecchio, dopo aver ridacchiato dell’impietosa sorte di Greta Schneider poteva di nuovo occuparsi del famiglio di Tinkerbell che se ne stava a testa in giù pronta per essere ammazzata. Fu allora che venne colpita in piena faccia da un calcio ben assestato di Tinkerbell, che aveva nuovamente tutti e due gli occhi al loro posto. La donna fu scaraventata duramente contro al muro e Clay ebbe un attimo di tempo per correre da Greta, dolorante, e strapparle di dosso braccia, gambe e teste che la mordevano. Le poggiò le mani sui morsi e la guardò intensamente negli occhi “Non esprimere più un desiderio del genere, quelle cose valgono per una sola volta, è praticamente un desiderio sprecato, tieni da conto l’ultimo che ti rimane” disse, severo, e Greta stava per ribattere quando lui concluse “Grazie per Ruthie, comunque”

La ragazzina annuì e lo guardò correre nuovamente incontro alla signorina Böhm che si era rialzata senza difficoltà, mentre un gruppo di mani tiravano Tinkerbell per la giacca.

Il ragazzo le fu addosso in un attimo, con una mano la spinse per terra, tenendo ferma la mano sullo sterno, per impedirle di alzarsi, ma quando le fece calare con forza l’ascia sulla faccia lei la prese tra i denti, impedendogli di tagliare alcunché della sua persona, in compenso entrambe le mani si andarono a stringere intorno al collo del ragazzo, nel chiaro tentativo di strangolarlo. Fu quando iniziò a sentire una delle unghie lacerargli il collo che capì che la vera intenzione della bestia era quello di decapitarlo direttamente, il ché era effettivamente l’unico modo per ammazzarlo.

La signorina Böhm era troppo impegnata a controbattere Tinkerbell per curarsi di far inseguire Greta da qualche brandello di carne sanguinante, ma lei aveva trovato un vecchio attizzatoio in un angolo della stanza e lo brandiva stando con le spalle contro il muro.

Clay alzò di nuovo le braccia e fece ricadere l’accetta sul cranio della donna, che allentò per un secondo la presa, uno schizzo di sangue e cervello lo colpirono direttamente in faccia, per via della forza con cui era stato sferrato il colpo.

“Tinkerbell!” urlò Greta “Voglio farla annegare nel suo sangue!”  continuò, mentre la testa della signorina Böhm si ricomponeva in fretta.

“Allora ti faccio volare e tu desideralo per bene!” disse, con un sorrisetto quanto mai fuori luogo. Con un balzo si alzò dal corpo della donna che, di nuovo integra, si ritrovò i movimenti liberi.

In un attimo Greta venne sbalzata in aria e urlò, mentre Tinkerbell l’attaccava a uno dei ganci da macellaio per la cintura, sperando che reggesse.

Greta faticava a respirare all’idea di cascare giù, da quell’altezza si sarebbe sicuramente sfracellata.

Clay ricadde sul pavimento con un ginocchio per terra.

“Voglio un oceano di sangue” disse Greta, senza fiato. La signorina Böhm la guardò dal basso, senza capire con esattezza cosa sarebbe successo. Ci volle un secondo perché dallo scarico  della vasca cominciasse a sgorgare sangue. In un attimo riempì la tinozza dorata e poi strabordò oltre, mentre anche i muri scuri cominciavano a trasudare liquido scarlatto.

La donna s’incupì, il sangue le arrivava già alle ginocchia e Tinkerbell stava per saltare nella sua direzione quando una decina di braccia lo afferrarono e lo portarono  sotto il livello del liquido.

“Non crederai di fregare la morte, eh, Tinkerbell? Tutti prima o poi dobbiamo morire, perché non per mano mia, allora?” chiese retorica, sapeva che la sua voce arrivava flebile sotto il sangue, ma era anche abbastanza sicura che lui la sentisse comunque. Batté le mani e diverse dozzine di corpi senza testa le si misero davanti a carponi, uno sopra all’altro, a formare una piramide che trovava il suo punto più alto proprio davanti a Greta che urlò di nuovo, brandendo terrorizzata l’attizzatoio arrugginito.

La signorina Böhm le sorrise dal basso, prima di iniziare la sua elegante scalata sui corpi messi carponi uno sopra all’altro come una scala. Greta ebbe modo di studiare il suo sorriso, i suoi capelli acconciati con qualche ciuffo sfuggevole, le gambe affusolate e la schiena ritta, il suo portamento regale.

Chiuse gli occhi e quando li riaprì la vide piegata in avanti intenta a cercare di mantenere l’equilibrio, mentre la scala umana vacillava.

“Vieni giù!” ruggì Tinkerbell dal basso. Greta faceva fatica a vederlo, ma era tutto sporco di rosso e il sangue gli arrivava fino alla vita, mentre era intento a tagliare braccia e gambe a tutti quelli che tenevano insieme la piramide. La donna la guardò di nuovo, prima di attaccarsi a un paio di braccia che spuntavano dal soffitto e si tenevano l’un l’atro, avvinghiandocisi come se fosse stata una liana. La scala umana crollò nel sangue, rischiando di travolgere Clay, che balzò indietro per evitare tutti quei corpi.

Una fitta giungla di mani  trasportò la donna al centro della stanza, senza che lei muovesse un dito, sempre sospesa a diversi metri da terra, mentre Tinkerbell avanzava arrancando nel sangue che ormai gli arrivava oltre la vita.

La signorina Böhm si fece calare di nuovo nella sua vasca dalle braccia servitrici. Non aveva alcuna voglia di stare lì a combattere con il genio e il sangue era così tanto da metterle l’angoscia, il sangue che non sgorga dal corpo di qualcuno non era affatto buono. Rimase ferma in equilibrio sul bordo della vasca mentre Tinkerbell le andava incontro. Una serie di corpi, quelli che avevano fatto da scala fino a due minuti prima, riemersero dall’acqua come rinati e lo afferrarono cercando di portarlo di nuovo sotto con loro. Clay affondò nuovamente e la signorina Böhm ridacchiò. Greta, dall’alto, squittì e la donna si ricordò di lei. Questo la distrasse e non si rese conto della mano che gli afferrò la caviglia e la portò sotto il pelo del liquido. Tinkerbell riemerse, incurante delle mani e dei piedi che gli si attorcigliavano attorno al collo. Scaraventò contro il muro una testa che stava cercando di mordergli il collo e quella si schiantò contro il muro, sporcando Greta di materia cerebrale. Greta si mise le mani sulla bocca, rischiando di vomitare e l’attizzatoio cadde con un tonfo sordo.

Il braccio della signorina Böhm, che Tinkerbell teneva con la testa sotto, si attaccò alla sua gamba, in modo doloroso e il suo sangue si mischiò a quello che stava pian piano allagando il salone.

“Bevitelo, questo schifo, dato che ti piace tanto!” ringhiò lui, tenendola stretta per la spalla e i capelli, finché non la sentì indebolirsi, la presa sul bordo della vasca alla quale aveva cercato di aggrapparsi per tornare su.

Tinkerbell assottigliò gli occhi e le infilò una mano in bocca, prima di toccarle il palato, con la mano a conca e strapparle via metà della testa.

Fece riemergere il corpo, tenendolo stretto per il collo e infilò la mano nel buco insanguinato che era la gola, mentre la testa iniziava a cicatrizzare e rigenerarsi attorno al suo avambraccio. La signorina Böhm, pur senza metà della testa, gli afferrò il braccio che aveva introdotto dentro di lei, mentre il livello del sangue continuava a crescere, ma fu un gesto di un solo secondo, perché appena Tinkerbell ebbe estratto la mano la donna si fece di nuovo arrendevole. Clay la lasciò cadere nel liquido e guardò Greta, ancora appesa per la cintura al gancio da macellaio. Il sangue ricominciò a confluire nello scarico della vasca, abbassando drasticamente il livello di liquido nella stanza.

“Adesso vengo a prenderti” la confortò lui e Greta annuì. Non ci volle molto perché il sangue sparisse del tutto, il pavimento era bagnato e nei punti in cui il pavimento era irregolare c’erano delle pozzanghere, ma non era più quella macabra piscina che era stata fino a un secondo prima.

Si fermò un secondo a guardare il seme grosso e striato che aveva estratto dal corpo della signorina Böhm e poi la guardò, era un corpo nudo e insanguinato con solo metà testa, che si dissolse in un pulviscolo simile a cenere.

 Greta stava piangendo copiosamente a quattro metri da terra.

Fu in quel momento che la porta dalla quale erano entrati si aprì. Greta e Tinkerbell si voltarono di scatto a guardare. Dagomar, il vecchio domestico si guardava intorno disperato “La signorina Böhm…co-cosa avete fatto alla signorina Böhm? E le sue signorine…lei ha ucciso la signorina Böhm?” strillò, fuori di sé. Tinkerbell lo guardò intensamente.

“Le…le avevo trovato delle altre ragazze e…Tu non puoi avere ammazzato la signorina Böhm, la signorina ha…” in un secondo l’uomo si ritrovò Tinkerbell davanti che lo afferrò per la faccia, impedendogli di finire la frase e sollevandolo da terra.

“Penso che la signorina Böhm si meritasse di morire per essere una bestia, ma lo sei pure tu, anche se in altro modo” e così dicendo lo scaraventò contro il muro spaccandogli la testa. Greta seguì la scena dall’alto, senza fiato.

Contrasse la mascella e si trattenne per non tirargli un calcio “A volte capita che gli umani si comportino così…siamo morbosi per natura…” cercò di spiegare, prima di voltarsi a guardarla. In un secondo, la tirò giù e Greta poté di nuovo poggiare i piedi per terra. Si mise le mani sulla faccia poi guardò Tinkerbell e lo abbracciò. Clay arrossì, sotto il sangue, dandogli qualche pacca consolatoria sulle spalle, un po’ imbarazzato.

“Ora devi tornare in paese e mostrare alla polizia questo posto, ora che la bestia è sparita il passaggio probabilmente non si chiuderà più, e acqua in bocca sul mio coinvolgimento in questa faccenda, anche perché non ti crederebbe nessuno. Dovete chiamare anche un’ambulanza, per lui” disse, accennando a Dagomar, con la testa spaccata contro il muro “Devo avergli fatto male, ma è vivo”

“Non voglio che viva, perché non l’hai ammazzato? Anche se è umano, lui l’aiutava…” piagnucolò  Greta.

Tinkerbell chiuse gli occhi “Non sono così saggio da permettermi di decidere la vita e la morte degli uomini” asserì.

“Ora è meglio che sleghi Ruthie, stare a testa in giù non fa bene a nessuno” e così dicendo si voltò verso la vasca, dove stava appeso il corpo della ragazza, ma la corda pendeva vuota al centro della stanza, di Ruthie nemmeno l’ombra.

 

Aki_Penn parla a vanvera: Questo è la cosa più complessa che abbia mai scritto, credo. Non sono una che abbia mai avuto a che fare con l’azione, e nemmeno col sangue, e nemmeno coi super uomini che si rompono e si aggiustano così facilmente. XD Spero che il capitolo non vi abbia ucciso di noia…è venuto decisamente lungo! Grazie mille per aver letto. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** Il diavolo e i semi d'ortica ***


Make a wish-

Capitolo sei-

Il diavolo e i semi d’ortica-

 

Ruthie aprì gli occhi, c’era qualcuno che la stava toccando, non riusciva a capire bene cosa stesse succedendo, si sentiva intorpidita.

“Ehi, signorina” disse quel qualcuno e lei si sentì schiaffeggiare non troppo forte. Batté qualche volta le palpebre e si guardò in giro, cercando di focalizzare cosa stesse succedendo. L’unica cosa che identificò, quando iniziò a vedere qualche cosa e non a percepire solo luce, fu la faccia di un tizio con le sopracciglia aggrottate.

“Ben svegliata!” esclamò l’uomo. Ruthie si tirò sui gomiti, per poi scoprire che non era una buona idea. Emise un urlo di dolore e ricadde sdraiata dov’era.

“Credo che il tuo gomito sia rotto, signorina. Fai attenzione” e così dicendo la tirò un po’ su, cercando di tenerle fermo il braccio il più possibile. Ruthie si lasciò aiutare, intorpidita, per un attimo, dal dolore.

 Erano per terra e, con un’occhiata veloce alla stanza in cui si trovavano, si rese conto di essere ancora all’interno del castello, in una camera non troppo luminosa, diversamente da quello che le era sembrato, e affrescata. Doveva essere una specie di corridoio, un punto di passaggio comunque. C’erano un paio di porte e nessun arredamento, le finestre piccole e alte e i muri dipinti di colori scuri.

“Ti ho trovata appesa come un salame nella camera di una che ama sbudellare la gente, ma mi sembri tutta intera” sentenziò allegro, chinato su di lei. Ruthie annuì “Io credo di doverti ringraziare, ma sono piuttosto perplessa…tu chi saresti?”

L’uomo, che doveva avere cinque o sei anni in più di lei, portava in testa una bandana fiorata e i capelli che spuntavano da essa, in un codino corto e crespo, erano rosso fuoco. Libera dal copricapo aveva una trecciolina che gli scendeva sulla spalla, alla quale erano attaccate diverse conchiglie e fili di lana. Per il resto era vestito con una camicia leggera a maniche corte e dei pantaloncini chiari. Le braccia e le gambe erano tatuate, ma il colpo di grazia lo davano la collana di fiori tropicali e un laccio di cuoio con una conchiglia madreperlacea, che aveva appesi al collo. Ruthie si chiese se quello non fosse un delirio della sua mente. Forse la bestia, che Tinkerbell cercava, la stava macellando e quello era una specie di limbo sereno.

Il ragazzo si tolse un cappello immaginario e simulò una riverenza, per quanto potesse, dato che era già inginocchiato “Io sono Diablo, umile marinaio. Qui per servirla, signorina” fece, per poi sorriderle ancora.

“Io sono Ruthie” disse, ancora frastornata, non era sicura di volergli dare troppa confidenza.

Diablo le sorrise di nuovo, sembrava che stesse realmente cercando di tranquillizzarla, l’aiutò a mettersi seduta meglio. A uno dei polsi aveva appesa una chiave grossa dall’aria antica. Si domandò ancora che razza di persona fosse una conciata così, piena di chincaglieria, che spuntava nel covo di una bestia, dicendo di essere un marinaio.

“Cosa ci fai tu qui?” chiese poi lei, seria. Diablo parve non aspettarsi la domanda, ma non sembrò affatto preoccupato perché, con estrema calma, si mise a dire “Beh, direi che la padrona del castello sia una bestia…io inseguo le bestie…per così dire” spiegò con fare ammiccante. Ruthie lo guardò perplessa “Le volete uccidere? Ma c’è già Tinkerbell” fece, un po’ indisposta. Diablo scosse il capo fulvo e fiorato “No, no, no! A essere sinceri non è che mi piacciano molto, da vive, le bestie, ma loro possiedono..” e non fece in tempo a finire la frase perché si ritrovò con la bocca del revolver di Ruthie proprio sotto al mento, costretto a guardare verso l’alto. Alzò le mani, arreso “Siamo irritabili, eh, signorina?” fece, fin troppo spavaldo per uno a cui stanno per saltare mascella e cervello in un sol colpo.

“Non osare mettermi le mani in tasca. Guarda che non ho paura a spararti in testa” minacciò la ragazza. “Non dovresti strafare, il tuo gomito è rotto, se continui ad agitarti così finirà per uscirti l’osso. Per la donnina-macella-vergini, che sta di là, sarà solo più divertente” continuò Diablo, guardando in basso, verso di lei, per come poteva. Ridacchiava, era preoccupato, ma la cosa non gli impediva di fare lo sfrontato.

“Perché volevi i miei semi d’ortica?” chiese Ruthie, e quello aveva tutta l’aria di essere un interrogatorio. Il sorriso di Diablo si allargò “Perché no? Dico io”

Fu proprio il quel momento che l’uomo fu letteralmente sbalzato via, Ruthie sparò e cadde all’indietro, mentre il proiettile si conficcava nell’occhio di un uomo dipinto nell’affresco.

Ruthie urlò di dolore, quando involontariamente cercò di nuovo di fare forza sui gomiti per mettersi seduta. Tinkerbell era in piedi davanti a lei, con le mani lungo i fianchi e la mascella contratta. La ragazza lo guardò e poi si voltò a guardare Diablo, accasciato contro la parete, che si teneva la mano insanguinata sulla faccia. Tinkerbell doveva avergli tirato un calcio, forse gli aveva rotto il naso.

“Ehi” fece l’uomo, con la voce che era a mezzo tra il canzonatorio e l’amichevole “la donna-bonsai vuole farmi saltare le cervella, poi arrivi tu che mi spacchi il naso, non sarete troppo gentili, oggi?”

“Lo sai che da me non avrai niente” disse Tinkerbell, serio, senza muoversi di un passo. “Ma infatti non ti stavo chiedendo niente, me lo stavo prendendo da solo. Non c’è nulla di male a provarci, no, Tinkerbell?” chiese, divertito, nonostante il sangue gli colasse copioso tra le dita. Ruthie vide una vena pulsare sulla tempia del genio, sembrava proprio che non gli piacesse il modo in cui lo sconosciuto pronunciava il suo nome.

Batté le palpebre, passando lo sguardo da uno all’altro, era chiaro che si conoscessero, probabilmente Diablo aveva cercato di saccheggiare lo stesso Tinkerbell, quando ancora lavorava da solo.

“Immagino che non sia il mio giorno fortunato allora, il tuo famiglio è più vispo di quanto mi aspettassi” disse, alzandosi, fu allora che Ruthie notò la tracolla alla quale aveva attaccato una strana cosa di metallo, con delle ammaccature, che a un occhio esperto si sarebbe rivelato essere un hangdrum. Diablo barcollò un po’ rimettendosi in piedi e si appoggiò all’unica porta della stanza, era vecchia e in legno, stava proprio in mezzo all’affresco, come se facesse parte di esso.

“Vorrà dire che mi toccherà tornare alla Kensington Gardens a mani vuote” disse, con un mezzo sorriso, per quanto potesse, il naso doveva fargli male, aveva tutta la bocca sporca di sangue. Tinkerbell non mosse un muscolo, teneva le mani chiuse a pugno e lo sguardo fisso sull’uomo coi capelli rossi.

“Allora a presto” salutò, afferrando la chiave che aveva al polso e mettendola in mostra come se fosse stata una spada. Poi veloce, si voltò infilando la chiave nella toppa e sgusciò oltre l’uscio.

“Non lo rincorri?” domandò Ruthie, ancora per terra, che si teneva su solo con un gomito. Tinkerbell scosse la testa e la guardò, stancamente. Era sporco di sangue ovunque “Non ho nulla da fare inseguendolo e poi non sarà già più qui, ormai” spiegò, grattandosi la testa.

“Come stai?” chiese poi, inginocchiandosi accanto a lei. La smorfia di dolore sul viso di Ruthie si manifestò prima della risposta, doveva aver fatto un movimento sconsigliabile e il gomito ricominciava a dolerle come se glielo stessero tagliando.

“Ah” piagnucolò lasciando cadere la testa in avanti “il gomito” disse e Tinkerbell lo prese tra le mani. Ruthie emise un lungo respiro, mentre le mani calde e sporche di sangue del ragazzo le prendevano il braccio. Fu doloroso, per un secondo, mentre le sue dita lo stringevano, ma poi sentì solo tepore e il dolore sparì completamente.

Tinkerbell  si rimise in piedi, mentre Ruthie lo guardava dal basso, lui cercava di pulirsi le mani sulla giacca militare, che era già troppo sporca di sangue. La ragazza allungò il braccio verso di lui, per essere aiutata ad alzarsi e lui la tirò su in silenzio, senza sforzo.

Sul suo maglioncino erano rimaste le macchie di sangue per il tocco delle mani di Tinkerbell.

“Cosa è successo?” chiese infine, lei. Tinkerbell emise un lungo sospiro, stanco. Gli faceva male la schiena.

“La bestia era la signorina” disse stancamente. Ruthie sbuffò “Lo sapevo già, le ho anche sparato e le è esplosa la testa, ma poi si è subito ricomposta” brontolò lei, incrociando le braccia.

“Non fare tanto la saputa, se ieri sera eri convinta che fossero tutti innocenti! E, tanto per la cronaca, anche il maggiordomo era a conoscenza della cosa, non escludo che fosse lui a scegliere le ragazzine per la bestia” disse, come per sgridarla, poi aggiunse “Gli ho spaccato la testa”

Ruthie non fece una piega, la sua espressione non cambiò, ma chiese “Esistono umani che collaborano con le bestie?”

Tinkerbell, che aveva incrociato le braccia a sua volta scosse la testa, ma non si riusciva a capire se fosse un o un no.

“E’ piuttosto raro, ma a volte succede. È la prima volta che ne vedo uno di persona, ma mi era stato detto. È come quando i serial killer che, in carcere, si ritrovano pieni di fan che mandano loro lettere d’apprezzamento. È una cosa che la maggior parte della gente non riesce a capire, ma la natura dell’uomo è strana… Comunque, nella maggior parte dei casi, le bestie li ammazzano quando si sono stufati di loro”disse, sfumando il discorso nel vago. Ruthie fece poi un cenno verso la porta “E lui? Ha detto di chiamarsi Diablo”

Tinkerbell annuì “So come si chiama. È un pirata”

Ruthie alzò le sopracciglia “Un pirata?” chiese ridacchiando e lui scrollò le spalle “Noi li chiamiamo così, loro si fanno chiamare così. Fondamentalmente sono dei ladri, li chiamiamo pirati perché viaggiano in nave. Non è l’unico, sono qui per prenderci i semi d’ortica, devi starci attenta come se ne andasse della tua vita.” bofonchiò, dando una pacca al fianco della ragazza, proprio dove stava il vasetto che Diablo aveva cercato di sottrarle. “A proposito, ho una cosa per te” disse, frugandosi nelle tasche. Ne tirò fuori il seme striato che aveva preso dal corpo della signorina Böhm, impedendole di ricomporsi.

“Il seme di oggi” disse, mostrando il suo trofeo all’aiutante. Ruthie si affrettò ad estrarre il barattolo dalla tasca e a svitarlo perché Tinkerbell ci mettesse dentro il seme. Era una barattolo piccolo, somigliava a quelli in vetro per la marmellata.

“E cosa ci fanno con quei semi che rubano? Li usano per dar vita a delle bestie, come fanno le Ortiche…?” Ruthie non sapeva bene come porre la domanda, Clay non sembrava avere troppa voglia di far chiacchiere sull’argomento.

“No” rispose infine “a loro servono perché il cielo non gli cada in testa e per combattere contro di noi. In ogni modo, indipendente da cosa ci facciano, quella roba è mia e DEVE restare mia”concluse, grattandosi il collo, mentre guardava un punto indefinito con sguardo serio. Ruthie si rimise il barattolo in tasca e lo guardò in silenzio, finché lui non ricambiò lo sguardo e sorrise “Senti, se ci prendessimo una settimana di vacanza, dopotutto tra poco è Natale. Ti porto in Connecticut” propose.

Ruthie scosse la testa “Non ho granché da fare a casa mia, preferisco venire via con te e prendere l’aereo da casa tua per andare a casa mia, così avrò la sensazione di star facendo qualche cosa”

Tinkerbell annuì senza insistere o fare domande.

“Come vuoi. Passiamo a prendere i nostri bagagli al Bed & Breakfast e andiamo, non voglio più essere qui quando Greta arriverà in paese”

***

Tinkerbell aprì la porta di un armadio a muro e si ritrovò in una stanza da adolescente, con le lucine di Natale attaccate alle pareti e gli striscioni della squadra di football del liceo.

Ruthie fece qualche passo nella stanza, tenendo la borsa con entrambe le mani, avanzava come se fosse stata in un museo. Fu mentre lei fissava una foto dove si trovavano tre ragazzini, di cui due avevano praticamente la stessa faccia, che Tinkerbell cacciò un urlo disumano. Ruthie urlò a sua volta e cadde in avanti, sotto il peso del ragazzo, che le teneva le mani sugli occhi. Atterrarono sul gomiti di Clay e Ruthie sentì il fiato mozzarsi quando sbatté duramente il petto sul parquet.

Seguì un attimo di silenzio, durante il quale Tinkerbell non spostò le mani dagli occhi di Ruthie, ne si degnò di gravare meno su di lei, col proprio peso.

“Ruthie” sussurrò con aria da cospiratore “non ti ho detto una cosa”

“Cosa?” chiese lei, più scocciata che preoccupata, mentre cercava di togliersi dalla faccia le mani del ragazzo. “Quando avevo quattordici anni, facevo il babysitter”

“Oh, wow. Quindi?” chiese lei, per nulla impressionata. Tinkerbell continuò a bassa voce “La bimba si chiamava Amanda, e mi ha fatto un ritratto”

“E sei imbarazzato al pensiero che io possa vedere il tuo ritratto dove hai un corpo fatto a rettangolo?” chiese Ruthie, che ormai si era arresa ad avere le mani di lui in faccia, cercando di girarsi nella direzione del ragazzo, il petto di lui era ancora appoggiato alla sua schiena, e per quanto non fosse un ragazzo grosso, in quella posizione, non era per nulla leggero.

“A dire il vero sono un triangolo, ma non è quello il punto: c’è scritto sopra il mio nome. Potresti aspettare a occhi chiusi finché non lo stacco?” chiese, sempre a bassa voce.

Ruthie si accigliò, sotto le mani di Tinkerbell “Tanto casino solo per questo? Vai, basta che ti alzi da me e mi fai respirare” brontolò.

“Grazie” esclamò lui con rinnovato entusiasmo, e in un secondo la ragazza poté respirare di nuovo.

“Fatto, puoi guardare” disse un attimo dopo. Ruthie sentì un rumore di cassetto che si apriva e si chiudeva.

Ruthie si guardò di nuovo in giro ridacchiando “Che c’è?” chiese lui, contrariato.

“E’ la stanza di un ragazzino” ridacchiò. Tinkerbell s’imbronciò e sbuffò, incrociando le braccia “Che ci posso fare? Appena ho finito il College ho finito per trovarmi in ‘sto casino, non sono mai tornato a casa e camera mia è rimasta come quando avevo diciotto anni. Mia madre non ha toccato niente” spiegò. Con ‘sto casino, Tinkerbell intendeva l’investitura di genio, Ruthie lo sapeva.

La ragazza gli si avvicinò di qualche passo, con aria divertita, per poi mettersi seduta sul piumone bianco del letto di Clay “Di tuo padre so la storia della Tailandia, eccetera, ma non mi hai mai parlato tanto di tua madre” fece notare lei, curiosa. Clay scrollò le spalle “Non c’è molto da dire. Diciamo pure che la signorina Böhm, in confronto a mia madre, è un tipo che invecchia serenamente” disse lui, tranquillo. Ruthie ridacchiò.

“Spero davvero che non anneghi nel botulino” aggiunse poi, come parlando a sé stesso, guardando fuori dalla finestra. L’albero del loro giardino era spoglio, ma Ruthie pensò che comunque, quella che aveva dalla sua finestra con gli infissi bianchi, fosse una bella vista.

“Glen, tesoro? Non hai sentito anche tu un rumore strano venire dal piano di sopra?” si sentì dire da una donna, dal piano di sotto. Clay drizzò le orecchie, riconoscendo la voce di sua madre che parlava col suo fidanzato.

“Via” ordinò e in un secondo erano saltati entrambi dalla finestra per atterrare nel cortile pieno di foglie, Ruthie in braccio a Tinkerbell.

La prese per un gomito e la condusse fino allo steccato bianco, si piegarono in avanti per essere sicuri di non essere visti da Glen, il fidanzato della madre di Clay, che era rimasto al piano terra e fischiettava preparandosi uno spuntino.

Entrambi uscirono e corsero fino al confine del giardino, dove si ergeva l’alta siepe del giardino dei vicini, che interdiceva la vista sia dalla finestra della camera di Tinkerbell sia da quella della cucina. Si guardarono per un attimo imbarazzati “Ehm…bene…quindi tu te ne vai da tuo padre” disse poi lui. Ruthie annuì  “L’ultima volta che mi ha telefonato, mi ha detto che l’orario di visita è un pochino meno rigido e che magari potremmo perfino stringerci la mano” disse Ruthie, con una nota ironica e un velo di tristezza.

“Questo certamente dopo che il secondino ti avrà perquisito fin nelle mutande per essere sicuro che tu non abbia una lametta per le unghie con le quali lui potrebbe tagliare le sbarre e scappare” commentò lui, con lo stesso sarcasmo, senza guardarla.

“Tu ci scherzi, ma è vero. Sarà un bel Natale in solitudine” rispose lei “Tu divertiti con la tua famiglia” fece lei, e si fece sfuggire una nota di risentimento. Tinkerbell aveva ancora una famiglia degna di essere definita tale, era giusto che volesse passare il Natale con loro, invece che con lei. Avrebbe passato la vigilia mangiando popcorn e guardando l’ennesima replica di Mamma ho perso l’aereo.

“Allora a presto, ti vengo a prendere a casa quando dobbiamo tornare a lavorare” disse lui, sforzandosi di ignorare l’ultima frase di lei. Ruthie annuì “A presto” disse, senza sapere bene cosa aggiungere, prima di girarsi e incamminarsi lungo la strada fredda. Non aveva idea di dove fosse l’aeroporto, avrebbe chiesto al primo passante che le fosse capitato a tiro.

Clay si morse il labbro guardandola andare via, si sentiva un po’ in colpa, ma voleva assolutamente vedere Jessie e, perché no, anche sua madre. Si voltò di nuovo verso casa propria e varcò il cancelletto dal quale era appena uscito, attraversò il vialetto in ghiaia, salì i tre gradini della veranda e spinse la porta di casa propria.

 

Aki_Penn parla a vanvera: Questo capitolo è un po’ più corto dell’altro, un bel po’ più corto, ma mi faceva piacere spezzarlo, e poi dall’ultima volta che ho aggiornato è già passato un po’, quindi ci tenevo.

Il capitolo è decisamente più tranquillo dell’altro e anche il prossimo non sarà all’insegna dell’adrenalina, ma mi serve un po’ di stacco, prima di tutto volevo che si vedesse la famiglia di Clay. Purtroppo ho un debole per le situazioni familiari intricate. XD

Spero che Diablo vi sia piaciuto, mi sono impegnata abbastanza per renderlo al meglio, ma ancora non mi convince del tutto, spero ne abbiate una buona impressione, io me lo immagino come un tipo perennemente in vacanza.

Grazie mille per aver letto fino a qui, non sapete come mi avete reso felice!

P.S.: Vi eravate tutti preoccupati, ma Ruthie sta bene. XD

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Il fuoco nell'armadio ***


Make a wish-

Capitolo sette-

Il fuoco nell’armadio-

 

Joaquim Alvares era nato nel sud del Portogallo e quando aveva compiuto diciotto anni si era trasferito a Lisbona in cerca di fortuna. Da allora viveva di espedienti e di piccole truffe al danno di anziani Portoghesi mezzi sordi e studenti svampiti. Quel giorno invernale arrivò fino all’ultima porta in fondo al corridoio, vicino alle scale. Sul campanello stava scritto Chismes. Lui e José avevano studiato quell’appartamento per mesi, ci abitavano una donna grassa vestita sempre alla moda e un cinese tatuato, piuttosto mingherlino e dall’aspetto un po’ truce, aveva l’aria sciupata e probabilmente faceva uso di qualche sostanza stupefacente. Entrambi dovevano avere tra i trentacinque e i quarantacinque anni.

Il cinese era uscito la sera prima e non era più rientrato, a meno che non fosse passato dalla finestra, ma la cosa era improbabile, dato che l’appartamento si trovava al sesto piano.

Proprio quella mattina, lui e José avevano rapinato una coppia di vecchietti con la vecchia scusa di essere quelli della compagnia del gas venuti per fare un controllo. La donna grassa non sembrava tanto sveglia, e sicuramente non era nemmeno tanto agile, sarebbe stato un gioco da ragazzi prenderla in giro.

Suonò, mentre José stringeva la sua ventiquattrore, professionale.

Ad aprire venne la donna grassa, proprio come avevano immaginato, indossava una camicia da notte rosa ed era truccata solo a metà, i capelli erano pettinati in un caschetto corvino perfettamente liscio, con una frangetta corta. Li guardò con un po’ di diffidenza e Joaquim si presentò “Siamo qui per controllare che abbiate pagato la corretta bolletta del gas, signorina” spiegò, sfoderando uno dei suoi migliori sorrisi. Chismes  - doveva essere lei e non il cinese – alzò le sopracciglia, ma poi sorrise “Certo, il contatore è in cucina”.

La donna fece strada a José e Joaquim si mise in coda e si appoggiò allo stipite della porta del cucinotto, Chismes lo guardò di nuovo e poi si voltò ad aprire il contatore.

Il ragazzo, mentre il compagno intratteneva la donna, sgattaiolò in quella che doveva essere la camera da letto. All’interno la tapparella era abbassata e quando aprì la porta una striscia di luce gli indicò dov’era il comò, c’era anche un letto sfatto, ma lui non si fermò troppo su quello, i soldi non li nascondeva più nessuno nel materasso. Aprì il primo cassetto del mobile cercando di fare meno rumore possibile, ma al posto del solito scricchiolio del legno contro altro legno ne sentì un altro, che non avrebbe saputo riconoscere, sul momento. Si voltò di nuovo verso la porta, per controllare cosa stava succedendo e avvertì qualche cosa di freddo sotto al mento, il freddo si tramutò in dolore, il dolore di una lama che lo pungeva, sotto la mandibola.

Joaquim boccheggiò, senza sapere cosa fare. Davanti a lui c’era il cinese tatuato in mutande, con in mano un tridente, che lo guardava con gli occhi da pazzo, nella penombra. Dio solo sapeva dove avesse tirato fuori un’arma simile.

“Cosa stai cercando, stronzo?” disse, con voce bassa e rabbiosa, non v’era traccia di accento straniero, e l’epiteto stronzo si era fatto un po’ attendere, la cosa lo rendeva ancora più inquietante. Quello faceva davvero uso di droga.

Il cinese piegò la testa, sulla quale portava un’inadeguata cresta di capelli per la sua età, per indicare la porta, mentre Joaquim  ansimava e boccheggiava. “Sparisci, se non vuoi che appenda la tua testa in salotto” ringhiò e scostò il tridente da lui abbastanza da permettergli di allontanarsi. Fu allora che Joaquim si mise a urlare come un matto e come una scheggia uscì dalla camera “José, José, questi ci ammazzano, vieni via! Vieni via!”

José, che era ancora in cucina con la donna in camicia da notte, si affacciò e vide il complice correre fuori veloce come un missile, la porta si aprì davanti a lui, come sospinta da un vento inesistente e subito dopo il cinese spuntò, sempre in mutande, tatuaggi, tridente e cresta, dalla stanza, emettendo urli di guerra e brandendo con furia la sua arma. Fu allora che anche José iniziò a urlare e corse all’inseguimento dell’amico. La porta di richiuse dietro di loro e il cinese, che in realtà era giapponese, abbassò le braccia, stancamente, e poi guardò Chismes con odio “Quelli volevano derubarci!” sbottò.

Chismes alzò le spalle “Lo so, chiaro, ma sapevo che tu avresti fatto qualche cosa. Non avevo davvero idea di come fare per svegliarti: dobbiamo andare a fare la spesa, non voglio andarci il giorno della vigilia di Natale, tutti i negozi saranno pieni di gente” sentenziò, tranquilla.

“Tu hai un problema!” strillò lui, e tornò a letto.

***

I tacchi della signora Jennings battevano sul pavimento del corridoio dell’ospedale “Tuo padre mi ha telefonato giusto mezz’ora prima che arrivassi per dire che lui e il suo fidanzato hanno perso l’aereo” sbuffò “Sono ancora a Bangkok”, si fermò a guardarlo “Dai abbracciami di nuovo, mi sei mancato, Clay” fece, e allungò le mani verso di lui. Clay dovette piegarsi per farsi abbracciare da quella donnina, e pensare che finché non aveva compiuto sedici anni era rimasto più basso di lei. Non che con la maturità fosse diventato un vero colosso, ma aveva una statura degna. Sua madre sospirò di nuovo tormentandosi le mani, indossava una giacchetta blu e portava la minigonna, non stava male, per Tinkerbell sua madre non stava mai male, era solo preoccupato che finisse per riempirsi di botulino tanto da non avere più espressioni.

La donna fece una smorfia e le labbra rosse si incresparono un poco. Gli occhi scuri truccati di azzurro lo guardarono “E poi c’è quel demente di tuo fratello” ricominciò, riprendendo a camminare “Due settimane fa, mi è arrivato uno di quei maledetti piccioni viaggiatori scagazzanti che diceva che forse sarebbe tornato per Natale e poi più niente, perché cavolo non si compra un cellulare, mi domando!” esclamò, gesticolando. Clay alzò le spalle, Bernie si era appassionato ai colombi viaggiatori quando aveva diciotto anni, più o meno, e da quando era andato a lavorare su una nave da crociera li usava per mandare messaggi a sua madre. La mamma odiava tutti quei volatili.

“Ti ricordi? Al matrimonio di tua sorella hanno evacuato in testa a metà degli invitati!” esclamò, e un vecchietto col deambulatore sobbalzò, lì accanto.

“Sì, tra loro c’ero anche io” rispose Tinkerbell, con una smorfia. La signora Jennings scosse la testa e incrociò le braccia, con disapprovazione.

“Per il resto cosa si dice da queste parti?” chiese lui, abbracciandole le spalle con un braccio, mentre procedevano verso il reparto Lunghe degenze.

La signora tirò in fuori le labbra e scrollò le spalle “Nulla di nuovo, Glen ha vinto la gara per la miglior bistecca grigliata del quartiere”

Clay alzò le sopracciglia “In effetti, a casa nostra il barbecue è entrato prima del letto”

“Adesso è a casa ad addobbare per il Natale, vuole vincere il titolo di Casa più natalizia del quartiere” spiegò poi lei. Suo figlio chiuse gli occhi esasperato “Oddio, a forza di lucine sembrerà un’astronave”

“Niente di più facile” fu il commento asciutto di sua madre.

“Niente di nuovo quindi” La signora Jennings scosse la testa “No, i vicini spettegolano, perché mi sono rifatta gli zigomi, sto con un uomo più giovane, tuo padre si fa chiamare Joanna, tua sorella ha avuto un figlio a diciassette anni, tuo fratello è stato bocciato tre volte, si dice in giro che abbia tradito tuo padre perché Bernie non gli somiglia” e i due si guardarono, anche un cieco si sarebbe accorto che Bernie era stato adottato, non somigliava al signor Jennings, ma tantomeno alla signora Jennings “…ma secondo me sono solo invidiosi della bistecca alla griglia di Glen” concluse convinta, guardandolo con aria cospiratoria e Clay non poté fare altro che annuire.

“E poi i tuoi due fratelli sono tatuati come due camionisti infernali” continuò, lamentosa. Clay si chiese che tipo di camionisti avessero all’inferno.

Tinkerbell si ricordava qual’era la stanza nella quale stava andando, ma sua madre gliela indicò lo stesso e Clay seguì il suo dito indice, infilandocisi dentro.

“Clay” esclamò una cosina seduta sul letto che gli sorrise e scese con un balzo incerto. Qualche anno prima gli sarebbe corsa incontro abbracciandolo, quel giorno però percorse la corta distanza a passo calmo, come una vecchia signora. Clay allargò le braccia e l’abbracciò.

Jessie digrignò i denti in un sorriso da bimba mentre strizzava gli occhi oltre la spalla del fratello per poi allontanarsi da lui quanto bastava per vederlo in faccia e infilargli le dita tra i capelli scuri “Che bello finalmente vedere qualcuno con la mia faccia che ha ancora i capelli”

“Non dureranno molto, se me li tiri, Jessie” disse lui, con una smorfia, mentre lei rideva e lo scarmigliava.

Clay e Jessie erano stati davvero simili per essere due gemelli eterozigoti di sesso diverso. Nel viso incavato  e nelle arcate sopraccigliari senza sopracciglia di Jessie si vedeva ancora il suo legame di parentela con Tinkerbell, nel naso a punta e nel viso aguzzo. Jessie sorrise ancora, felice di vederlo, prima di salire di nuovo sul letto e si battere la mano sul materasso per incitarlo a sedere accanto a lei, come se fossero stati ancora piccoli.

Clay accettò l’invito sedendosi sul letto a gambe incrociate, mentre loro madre diceva qualche cosa sul rapporto scarpe-lenzuolo.

Jessie era piccolina, da quando stava in ospedale lo era ancora di più, ai lati del naso, tra gli occhi, si notavano due piccoli buchini, dove c’era stato un piercing, anche quello sotto il labbro era sparito. Quando aveva quindici anni se lo toglieva e poi cercava di fare la fontana, cosa abbastanza schifosa, ma al suo ragazzo, Richard, piaceva. I tatuaggi le si erano appiccicati addosso e sembrava che il cuore intrecciato nell’edera che aveva nel petto le fosse stato disegnato direttamente sulle ossa. In testa portava una bandana, per camuffare un poco la mancanza di capelli.

Quel giorno Jessie si mise in ginocchio davanti a lui e iniziò a strattonarlo per il collo della giacca, era come se non potesse stare ferma per l’agitazione, non era sempre così, Tinkerbell lo sapeva, ma pareva quasi che conservasse le riserve di energia per i momenti speciali. “Tra un po’ arriva Metal Dragon, escono proprio ora da scuola”

Clay venne scosso da un brivido, proprio non sopportava quel nome, aveva provato a chiamarlo M.D., ma il risultato era quello di sembrare si stesse parlando di una droga sintetica. “È il più bravo della classe, te l’ho detto, no? Non vedeva l’ora che tu e Bernie tornaste per Natale” disse, con un sorrisetto furbo.

Tinkerbell alzò un sopracciglio “Gli ho portato un souvenir per ogni paese dove sono stato” disse lui e Jessie incrociò le dita, chiudendo gli occhi “Le calamite per il frigorifero?”

“Già” Jessie emise un urletto di gioia e Clay pensò che i regali piacessero più a lei che al suo nipotino di otto anni.

La signora Jennings si sedette su una sedia pieghevole poco lontano dal letto, sospirando, i suoi gemelli erano più o meno gli stessi da tutta la vita, non riusciva a vedere troppe differenze, nonostante gli anni passassero. Fu in quel momento che la stanza si riempì di mille punti bianchi e scalmanati. Un decina o forse più di piccioni entrarono dalla porta battendo le ali come forsennati.

La signora Jennings si coprì la testa e lo stesso fece anche Jessie. Tinkerbell, invece, alzò il capo e sorrise, da quando gli toccava andare a caccia di mostri non ci metteva molto a intuire le situazioni, anche le più improbabili. Mosse quasi impercettibilmente la mano sinistra e una delle finestre della camera si spalancò, facendo uscire tutti i colombi viaggiatori di Bernie.

“Ta-dan! Il figliol prodigo è tornato!” urlò Bernie entrando nella stanza in quel momento. Tinkerbell ridacchiò e la signora Jennings gli lanciò una delle sue scarpe col tacco “Cretino!” urlò. Bernie si protesse come poté e barcollò da una parte. Jessie, ancora seduta sul letto ridacchiò.

”Tu e i tuoi piccioni!” strillò ancora la madre dei tre “Siamo in un ospedale, ci sono delle norme igieniche!” sbottò adirata.

“Volevo fare un’entrata trionfale” cercò di scusarsi Bernie, spalmato sulla parete mentre lei gli urlava contro.

“Hai ventisette anni, credo che la potresti smettere con queste cavolate!” sbottò ancora lei, in bilico su un tacco solo. Si guardarono per qualche secondo, occhi negli occhi, lei furiosa, lui spaventato. Poi lei sbuffò e saltellò su un solo piede ad abbracciarlo.

Bernie era quanto mai colossale rispetto a lei. Aspettò che lei si fosse allontanata per passarsi le mani sulle braccia nude e tatuate per lamentarsi per il freddo. “Fa freddissimo in Kansas!” esclamò.

Quel giorno Bernie sfoggiava dei pantaloncini di tela con le tasche, dei mocassini, una camicia a righe e un cappello di paglia da mafioso, decisamente un abbigliamento poco adatto alla stagione.

“E allora che cavolo ti vesti così?” sbottò sua madre, che con il maggiore dei Jennings non riusciva proprio ad avere un po’ di pazienza. Bernie non sembrava per nulla offeso dalla cosa.

“E’ che sono appena arrivato, sulla nave da crociera  faceva caldo” cercò di spiegare.

“Sei sbarcato davanti all’ospedale? Non posso credere che tu abbia fatto tutta la strada dall’aeroporto con solo ‘sta roba addosso!” sbraitò ancora sua madre e aggiunse “Finirai per ammalarti”

Bernie alzò le sopracciglia fulve e le sorrise.

“E ridammi la scarpa!”

***

Ruthie entrò in casa girando la chiave nella toppa. Era una villetta piuttosto grande, parte era andata distrutta nell’incendio di undici anni prima, nessuno si era mai preso la briga di metterla a posto, lei aveva passato la sua adolescenza in una casa famiglia e anche quando aveva compiuto diciotto anni aveva cercato di starci il meno possibile.

Era sempre impolverata, avrebbe dovuto mettersi a lavare le lenzuola prima di usarle per la notte. Si domandò se non fosse il caso di andare a dormire in albergo, mentre aspettava che Tinkerbell festeggiasse il Natale con la sua famiglia, per poi tornarla a prendere quando avrebbe dovuto correre incontro a un’altra bestia.

Così pensando entrò nella casa buia. Qualche tegola era caduta dal tetto e la soffitto era la tana di piccioni e altri volatili, ma Ruthie aveva sigillato la botola che portava in mansarda col silicone. Tastò ciecamente il muro finché non trovò lo sportello del contatore elettrico. Non ci mise molto, tutto funzionava a dovere, accese la luce delle scale e salì. Al piano di sopra era quasi tutto buio, le imposte erano chiuse e da quelle filtrava solo una luce fioca, accese la luce della propria camera, senza degnarsi di aprire le finestre, quel posto era umido e sapeva di chiuso e la luce era emessa solo da una lampadina impiccata al soffitto, nessun lampadario a colorire un po’ ambiente.

Aprì l’armadio dove teneva la biancheria e rimase ferma a guardare con le mani ancora sulle ante, dentro c’era una rogo. Una piccola fiamma bruciante che non sembrava espandersi, era come una cosa appoggiata lì, ma Ruthie ne era sicura, quello era fuoco, per davvero. E se ne stava dentro al suo armadio. Il rogo non si muoveva, ma lei cominciò a sentirsi bruciare, come se il fuoco le bruciasse dentro. Vide un’ombra con la cosa dell’occhio e si voltò di scatto “Mamma” chiamò, nel panico. Nessuna risposta e il fuoco dentro di lei diventava sempre più doloroso.

Proprio in quel momento cominciò a risuonare il tutta la stanza una musichetta, la ragazza si guardò intorno, guardò le imposte chiuse, la lampadina accecante, senza riuscire a ricordare dove avesse già sentito quella melodia così familiare, mentre il dolore del fuoco andava svanendo.

Batté due volte le palpebre e si voltò nel buio. Il suo cellulare, rumoroso ed accecante, trillava appoggiato sul cuscino accanto a quello dove Ruthie stava dormendo. Lo afferrò quasi con rabbia e rispose senza guardare chi la stesse chiamando “Pizzeria Carmen & Carmen, buona sera, cosa posso fare per voi?” fece con voce assonnata e piuttosto infastidita.

“Non era una pasticceria, l’ultima volta?” domandò una voce dall’altra parte.

“Tinkerbell” gemette Ruthie assonnata.

“Stavi dormendo?” chiese lui e Ruthie mugugnò un assenso. “Scusa, mi scordo sempre per il Connecticut è due ore più avanti del Kansas. Qui è mezzanotte. Ti volevo salutare, ma se dormivi…”

“No, va bene, non ti preoccupare” non aveva voglia di tornare al sogno con il fuoco nell’armadio “come sta tua sorella?”

Tinkerbell, che passeggiava sul tetto dell’ospedale, sorrise “Il dottore disse che sta migliorando, non tantissimo, ma un po’ sì”

Ruthie rimase per un secondo zitta e dall’altra parte venne un po’ il rumore del vento che sferzava la faccia a Clay.

“Senti, Tinkerbell, se non puoi chiedere aiuto ai tuoi genitori per guarirla, perché hanno già usato i loro desideri…ecco…”cercò di dire. Tinkerbell la interruppe “Ruthie”. Sapeva dove voleva arrivare.

“No, davvero”

“Perché no?” sbottò lei, la voce si era alzata e si era fatta forza sui gomiti, era completamente sveglia.

“Non voglio che tu sia il mio padrone, sei il mio famiglio, questo basta e avanza. Non voglio che tu debba esprimere un desiderio per salvare mia sorella” disse lui alzando la voce a sua volta, serio, irremovibile.

“Ma perché? Dopo quello potrei usare gli altri due al momento del bisogno! Sarei più brava di chiunque altro tuo padrone, e lo sai questo! Non ti fidi di me?” strillò lei e sentì la bocca seccarsi. Clay mandò giù un boccone amaro e strinse le labbra, prima di emettere un sospiro. Quando parlò di nuovo la sua voce era più calma “Ruthie, mi fido di te, ma il lavoro è un conto, la famiglia è un altro. Non voglio dirti il mio nome e tu rimani comunque la persona che meglio mi conosce” deglutì “anche meglio di quanto mi conosca Jessie”

Rimasero in silenzio ancora un po’, entrambi col telefono nell’orecchio, Ruthie cieca nel buio, Clay sopra le luci della città “Immagino sia il no definitivo”

“Lo è. Ti avevo chiamato solo per salutarti, ‘sta sera rimango a dormire con mia sorella, anche se le infermiere non vogliono”

Ruthie fece un sorrisetto tirato “Non può fermarti una bestia, di certo non potrà un’infermiera testarda” Clay ridacchiò “Buona notte”

“Anche a te”

Ruthie si fece ricadere di faccia nel cuscino, avrebbe quasi preferito che non l’avesse chiamata.

 

 

 

Aki_Penn parla a vanvera: Eccomi con un nuovo capitolo! Wooo! È un po’ cortino, ma ho delle difficoltà a scrivere, nell’ultimo periodo.

Spero che vi possa un po’ intrattenere e vi ringrazio tanto per aver letto fin qui! :)

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** L'armata di matriosche ***


Make a wish-
Capitolo otto-
L’armata di matriosche-

 
 
Clay addentò la sua pizza e lo stesso face Bernie, accanto a lui. Quella di suo fratello era condita con una quantità esorbitante di carciofini e l’olio colava macchiando il cartone in cui era stata loro portata. Il fattorino della pizzeria d’asporto era rimasto un po’ perplesso quando gli avevano ordinato otto pizze per la stanza 506 del Morris County Hospital, l’ospedale di Council Grove.
“Non sai mai cosa aspettarti dagli uomini, il mio primo marito, John, faceva il pugile ed era bravissimo ad appendere le mensole, e poi un giorno me lo sono ritrovato che andava in giro sui tacchi (è più bravo di me), il mio secondo marito, invece, è un po’ meno virile e non sa nemmeno attaccare un chiodo alla parete, ma sono abbastanza sicura che non andremo mai dallo stesso parrucchiere” stava spiegando la signora Jennings a un’infermiera che avrebbe voluto farsi i fatti propri. Il resto della famiglia se ne stava imbarazzato a mangiar pizza a testa bassa, Joanna/John Jennings in primis. L’uomo tailandese che sedeva accanto al padre di Tinkerbell sospirò e diede un altro morso alla pizza unta.
Non si poteva stare in così tanti in una stanza d’ospedale e, di certo, non si poteva mangiare come se fosse stata una festa, ma la famiglia Jennings non si era fatta tanti problemi. Jessie mangiava a piccoli bocconi ciò che la mensa dell’ospedale offriva, seduta sul letto, il resto della famiglia si era portato le sedie pieghevoli da casa.
Dopo il suo ex marito, la signora Jennings, implacabile, era passata a lamentarsi del maggiore dei suoi figli, mentre un paio di colombi se ne stavano appollaiati sul davanzale, nonostante il freddo “Bernie, credi che la finirai mai con questa fissa per i piccioni viaggiatori? Quando ti comprerai un cellulare?” domandò. Bernie per poco non si strozzò con un carciofino “Mi piacciono i piccioni. Quale sarà la tua prossima richiesta, mamma, che prenda la patente?” chiese lui.
A sua madre vennero i capelli dritti “Beh, hai ventisette anni, mi sembrerebbe il minimo, i gemelli, che hanno due anni in meno di te, l’hanno presa a sedici anni!” disse lei, con voce acutissima.
“Ma io lavoro su una nave!” esclamò Bernie, di rimando. Il resto della famiglia, a parte il piccolo Metal Dragon, ridacchiò sommessamente.
“E poi sarebbe anche ora di sposarsi e avere dei figli” continuò sua madre, imperterrita alzando il dito in aria, con fervore. “Ma…” cercò di dire Bernie “E anche tuo fratello!”
Fu il turno di Clay di strozzarsi con la pizza “Eh?” domandò incredulo, con gli occhi arrossati, mentre si batteva un pugno sul petto, cercando di mandar giù.
“Hai venticinque anni, Clay, tu e Bernie siete degli adulti e nessuno dei due ha una ragazza…guardate vostra sorella come mi rende orgogliosa!” disse, indicando Jessie, con gesti teatrali. Jessie non alzò gli occhi dal suo cibo da ospedale ma sorrise tra sé, mentre diceva “Non sei stata orgogliosa per niente, all’inizio”
“Per forza, voi scemi avevate diciassette anni!” ribatté la signora Jennings che non era mai contenta, e Metal Dragon alzò le sopracciglia.
“Non ti va mai bene niente, eh, Abigail?” commentò il tailandese, col suo solito tono cantilenante dovuto alla sua provenienza e la signora Jennings si ammutolì di colpo, un po’ imbarazzanta, mentre gli zigomi rifatti si sollevavano.
“Clay, non c’è nessuna ragazza nella tua azienda?” chiese poi Richard, il marito di sua sorella. Da piccolo portava i capelli più lunghi di Jessie e magliette larghe con gruppi metal, crescendo aveva finito per diventare un tipino un po’ anonimo e comunque non troppo intelligente. Di certo non abbastanza intelligente da capire che con una richiesta del genere loro madre sarebbe tornata alla carica.
“Ho una segretaria” disse soltanto mentre tirava un filo di mozzarella filante.
“Ed è carina?” chiese sua madre allungandosi in avanti, con il cartone della pizza sulle ginocchia, mentre lo sguardo di Joanna Jennings andava da suo figlio alla sua ex moglie. “È una segretaria” disse semplicemente lui, non aveva voglia di parlare del suo lavoro, era sempre complesso inventarsi scuse.
“Deve essere un’acquisizione recente, non ce ne aveva mai parlato” commentò Joanna Jennings. Clay alzò le spalle, serio “Lavora con me dall’estate” disse semplicemente.
“E come si chiama?” domandò Metal Dragon, sempre attento ai dettagli, come fanno i bambini, da dietro alla sua pizza Meat Fest.
“Ruthie Romano” rispose lui asciutto, era il vero nome di Ruthie, non vedeva perché inventarsene uno per l’occasione, avrebbe rischiato di dimenticarlo e di fare confusione. La stanza entrò quindi nel panico “Romano come Henry? Quello del film?” chiese Bernie sputacchiando pomodoro.
“La figlia di Romano mica si chiamava Ruthie, era…Richard ti ricordi? Ronnette? Romy? Abbiamo visto il film insieme” disse sua sorella voltandosi verso il marito. Tinkerbell li ignorò, concentrandosi sul proprio pasto.
 “Clay, voglio la Coca Cola, me la passi?” domandò il Tailandese, che non aveva preso parte alla discussione su Henry Romano.
Tinkerbell sentì un brivido percorrergli la schiena. Quello era il terzo desiderio involontario dell’uomo.
Clay afferrò la bottiglia e gliela passò. Si era tolto un peso. Sospirò.
Tutti i suoi familiari avevano esaurito i loro tre desideri utili prima che Clay diventasse obbligato a esaudirli, con cose tipo “Clay, voglio che tu faccia i compiti” o “Voglio che mi aiuti ad aggiustare la bici” o ancora “Voglio che mi passi il sale”, tutti tranne il compagno tailandese di suo padre, non avevano avuto grandi occasioni di incontrarsi, quindi erano anni che Tinkerbell era in ansia in attesa dell’arrivo del terzo desiderio.
E il suo terzo desiderio se ne era andato, così, con una coca. Rimase per qualche secondo a fissare il pavimento senza vederlo, il sollievo l’aveva reso stanco, ma quella sensazione di calore non durò molto.
Fece una smorfia sentendo i due bracciali che aveva al polso iniziare a pulsare. Soffocò un’imprecazione, non aveva nemmeno fatto in tempo a passare il Natale in Kansas. Fece scivolare la mano in tasca e fece suonare il cellulare, per poi scusarsi e uscire un attimo, inscenando una telefonata. Fece il giro dell’ospedale un paio di volte e poi tornò nella camera di sua sorella con aria cupa. Sua madre lo guardò e alzò le sopracciglia.
Spiegare che doveva tornare a lavorare così, di punto in bianco, non era stato semplice “Che urgenza avrà mai un rappresentate di tegole sotto Natale?” aveva esclamato sua madre e, effettivamente, non aveva tutti i torti. Suo padre sbuffò e il Tailandese lo salutò con la mano, Metal Dragon lo abbracciò ad altezza torace, come si conveniva a un bambino della sua età e Jessie gli infilò di nuovo le mani nei capelli. Bernie si alzò e disse che l’avrebbe accompagnato fino all’uscita, così ne avrebbe approfittato per fumare e loro madre gli urlò dietro che avrebbe dovuto liberarsi di quel brutto vizio. Bernie la ignorò.
Fuori faceva un gran freddo e Clay era più cupo che mai.
Si fermarono sui gradini, mentre un infermiere correva dentro l’ospedale stringendosi nelle spalle, faceva abbastanza freddo, c’era da scommettere che presto sarebbe venuta la neve. Bernie, quel giorno, si era degnato di indossare un maglione, nello specifico, con ricamate varie renne.
“E quindi parti di nuovo?” domandò il maggiore dei due, accendendosi una sigaretta. Clay annuì, con lo sguardo basso e le mani nelle tasche del cappotto, non quello militare.
“E dove vai? Lo posso sapere?” chiese, con un sorrisetto. Tinkerbell, alzò lo sguardo verso il fratello e ci mise qualche secondo prima di decidere come rispondere “In Repubblica Ceca”
“Europa, bella…fa troppo freddo per me…”
“Per te fa freddo ovunque” sentenziò il minore dei due, ridacchiando, accennando a volersi allontanare.
“Comunque” continuò Bernie, trattenendolo dov’era “mi sono fidanzato, anche se non l’ho detto alla mamma. Lei ha sempre da ridire”
“Quindi non gliela vuoi presentare?” domandò Clay divertito, tornando sui propri passi. Bernie scosse la testa “Scherzi? Non le sono mai piaciute le mie ragazze. Mica come te, l’adorava la tua Susan”
“Vuoi darle torto?” chiese Tinkerbell, con tutta l’intenzione di stuzzicarlo.
“Beh, Alicia non era così male” disse e Clay lo guardò sottecchi, così che Bernie aggiungesse “beh, a parte l’arresto in Messico, ma non ti soffermare su ‘sti dettagli…”
 
***
 
Tinkerbell aprì la porta del ripostiglio e proprio in quel momento si sentì il rumore di uno sparo. Clay percepì distintamente il proiettile rompergli l’osso del cranio, proprio in mezzo alla fronte, passare sfrecciando attraverso la materia griglia, e gli sembrò quasi di sentire il cervello gorgogliare di dolore, e sfondargli la nuca, fuoriuscendo con uno schizzo di sangue tanto scuro da sembrare nero, come se avessero stappato una bottiglia. Il muro, con appese una mezza dozzina di mensole piene di cianfrusaglie impolverate, si riempì di sangue scuro.
Tinkerbell strizzò gli occhi per il dolore e si piegò un poco in avanti. “Tinkerbell” esclamò Ruthie, protesa in avanti nella penombra. Portava una tuta, delle pantofole di pelo rosa e, nella mano che non reggeva il revolver, teneva il telecomando. Il tutto in modo molto rilassato, in fondo alla stanza era accesa una televisione piuttosto vecchia.
Clay emise un ringhio mentre si abbassava sempre di più, piegato dal dolore. Si mise una mano sulla fronte e una sulla nuca, aspettando che i fori del proiettile si rimarginassero.
“Si è sporcato tutto il muro” constatò Ruthie, mettendosi il telecomando in bocca per innescare la sicura alla sua pistola, per poi infilarla nella tasca della felpa.
“MI HAI SPARATO IN TESTA!” urlò Tinkerbell rialzandosi di scatto, con un balzo, come se avesse recuperato tutta l’energia proprio in quel momento. Ruthie non si mosse di un millimetro e le guardò negli occhi, dietro di loro il televisore parlava dei rituali d’amore tra i pavoni.
“Non puoi sparare senza guardare chi è!” sbottò lui alzando e abbassando le braccia con gesti teatrali ed esagitati. Ruthie alzò le spalle “Pensavo che fosse qualcuno venuto ad uccidermi” rispose con semplicità, molto tranquilla.
“E se fosse stato il tuo vicino?” domandò scioccato, cercando di farla ragionare. Ruthie guardò il muro insanguinato con fare annoiato “Il mio vicino non esce dal ripostiglio, di solito. Al massimo suona il campanello, ma succede comunque raramente. Poteva essere una bestia” ipotizzò infine, con le palpebre a mezz’asta e una calma che dava i nervi.
“Le bestie non escono dai ripostigli!” esclamò ancora Tinkerbell, che aveva addosso l’adrenalina dovuta al dolore per lo sparo.
“E i pirati?”
“Loro sì, ma non li devi ammazzare quelli…al massimo li puoi gambizzare!” fece poi, guardandola fisso. Ruthie annuì a sua volta “Cercherò di ricordarmi” e anche lei aggrottò le sopracciglia. Tinkerbell sperò che fosse vero.
Fu in quel momento che Ruthie realizzò che probabilmente il genio non doveva essere lì solo per farsi sparare in fronte, non sembrava piacergli, infatti.
“Cosa ci fai in Connecticut?” domandò.
Clay alzò le sopracciglia e sospirò “Lavoro. Piuttosto, hai visto tuo padre?” domandò, cercando di deviare la domanda che sarebbe arrivata subito dopo, e la cosa sembrò funzionare.
“Sì” disse lei, stancamente “E i secondini sono sempre scorbutici, hanno paura che cerchi di introdurre armi per farlo evadere”
“Beh, sono sospetti fondati, mi hai appena sparato” sentenziò Tinkerbell, ancora provato. Non era la prima volta che lei gli sparava o lo infilzava o cose del genere.
“Non scherzare, se mio padre dovesse evadere lo farebbe in grande stile” continuò Ruthie, come se fosse ovvio.
“E ha intenzione di evadere?” domandò lui. Ruthie scosse le spalle “Naah. Dice che è vecchio per queste cose…” fece, dirigendosi a passo lento fino alla poltrona sulla quale era seduta, per appoggiarvi il telecomando. Sullo schermo della televisione un pavone faceva la ruota.
Clay si fermò a osservare l’ambiente quasi buio con solo qualche vecchio mobile in qua e in là, la stanza aveva un’atmosfera così desolata. Le tapparelle erano quasi del tutto chiuse. A Ruthie non piaceva casa sua, questo era certo. Non le piaceva più da anni.
“A proposito, Tinkerbell” e lui seppe che stava arrivano la fatidica domanda che avrebbe voluto evitare “Dov’è che andiamo?”
La risposta ci mise qualche secondo in più ad arrivare “Praga” rispose poi. Ruthie sbuffò, pestando i piedi con le pantofole di pelo. “Ancora? Di nuovo al freddo? Ma le Maldive, i Caraibi, l’Egitto…ci sono tanti posti e tu mi porti sempre al nord!” esclamò esasperata.
“Mi spiace” fece lui con una smorfia “Non sono io a decidere. Ti compro una matriosca”
“Non mi pare abbastanza per corrompermi!” starnazzò Ruthie, a voce altissima.
“Ti compro un’armata di matriosche”
Ruthie sbuffò ancora e appoggiò la testa allo schienale della sedia, piegandosi in avanti.
“Non morirai per un po’ di neve” commentò Clay e Ruthie di chiese se non fosse stato il caso di sparargli di nuovo.
***
“E se potessi tornare indietro mi direi Ruthie, non ti preoccupare di queste stronze, quando sarei grande ruberai loro un sacco di soldi, ecco cosa mi direi” sentenziò la ragazza che, fondamentalmente, era un tipo vendicativo.
“Ci paghiamo la cena con la carta di credito di chi, questa sera?” domandò Tinkerbell, tranquillo addentando il proprio gulasch.
“Penelope Mills, stronzetta” rispose lei, aggiungendo un insulto tutto personale, prima di picchiettare il bicchiere di Tinkerbell col manico della forchetta “Sei sicuro di non volere un vino costoso?” chiese.
Clay scosse la testa “Preferisco la mia birra” rispose lui, mandandone giù un sorso, per ribadire il concetto.
“Cosa vuol dire? Anche a me non piace questo vino, ma costa un sacco, e quindi lo bevo lo stesso” disse lei, indicando il proprio elegante calice.
“La cena costerà comunque un sacco, alla carta della tua amichetta Penelope, senza che io beva vino, non temere” fu la risposta tranquilla di lui.
Ruthie sospirò con disapprovazione prendendo il sorso del suo vino bianco.
“Hai idea del perché siamo qui?” chiese poi lei.
“Per ora sto cenando, però…” fece una pausa e indicò con un cenno della testa due eleganti uomini seduti a un tavolo non troppo lontano da loro “…hai sentito cosa dicono?”
“Certo, più o meno il loro discorso è una cosa tipo: hdgfysrgfshd” disse, mettendosi composta, con le posate nel piatto. I due si guardarono per qualche secondo, poi Ruthie disse “Non parlo il ceco, scemo”
Clay alzò un sopracciglio “Vero”
“Sarai costretto a spiegarmi, allora” disse lei, riprendendo le posate e dimostrandosi molto meno indisposta di poco prima. Tinkerbell annuì “Pare che abbiano trovato un mucchio di statue d’oro”
Ruthie sbatté le palpebre, perplessa “Oro?”. Era notoriamente attratta dalle cose costose, anche se, da come andava vestita, non si sarebbe mai detto. Clay annuì “Le hanno trovate in un sotterraneo mentre facevano dei lavori alle fogne. Al momento sono esposte al museo di Storia Naturale in piazza Venceslao”
Ruthie mise i gomiti sul tavolo “Immagino che tu non sia qui per fare il turista, ma cosa possono c’entrare delle statue d’oro con la bestia che stiamo cercando?” domandò lei avvicinandosi a lui, sul tavolo.
Tinkerbell si umettò le labbra pensieroso, dando un’altra occhiata ai due uomini dai quali aveva appreso la notizia “Non ne ho idea, ma è una cosa bizzarra. Credo che dovremmo comprare un quotidiano domani e poi andare al museo. Un po’ di cultura, male che vada, non ci farà male”
Ruthie si mordicchiò le labbra “E poi potremmo prenderne una”
“Oppure potremmo lasciarla dov’è senza fare ulteriori e inutili casini, no, Ruthie?”
“Che rompiscatole!”
***
Tinkerbell uscì dal bagno con indosso l’asciugamano bianco dell’hotel e indicò la porta dalla quale era uscito col pollice “E’ libero, puoi andare”
“Grazie” disse lei tranquilla, entrando al posto suo e lasciandolo nella stanza da solo. Il cellulare di Tinkerbell suonò proprio in quel momento, lui l’afferrò e rispose “Ciao Jessie”
“Clay, sei già arrivato?”
“Appena arrivato. Come va lì?” mentì lui, che non ci aveva messo molto ad arrivare a Praga, passando per la porta della propria stanza e poi per quella del bagno di Ruthie.
“E’ stata una fortuna che ci fosse ancora un posto libero sull’aereo per la Repubblica Ceca, nonostante non l’avessi comprato con nemmeno un giorno di anticipo. Qui tutto bene, anche se la mamma ha detto che Bernie ha rischiato di dare fuoco alla cucina e che, da quando è tornato il loro padrone, i piccioni fanno un gran chiasso. Lei spera che se ne porti un bel po’ via, sulla nave da crociera dove lavora. Poi c’è  il compagno di papà insiste per voler cucinare tailandese per ringraziare dell’ospitalità, ma a Glen non piace e vuole usare il barbecue, anche se ha cominciato a nevicare” spiegò Jessie con voce calma, era ancora triste per la partenza repentina del fratello. “E comunque io e Richard abbiamo riguardato il film su Henry Romano, sua foglia si chiamava Rubye” aggiunse poi, anche se a Clay non interessava granché, lui quel film non l’aveva mai visto, ma Ruthie gliene aveva parlato.
Tinkerbell dava le spalle alla finestra e tamburellava le dita sulla cassettiera, mentre coi piedi nudi bagnava la moquette.
Afferrò l’accetta e si voltò di scatto. L’arma si fermò a qualche millimetro dalla gola di un uomo con la coppola e la bretelle, che rimase immobile a fissarlo, come se fosse stato una statua di sale. Clay gli sorrise, con un sorriso cattivo, e disse “Jessie, senti, ti spiace se ti chiamo tra dieci minuti? Avrei una questione da risolvere”
Appoggiò il telefono sulla cassettiera e guardò l’uomo, piegando la testa da una parte, regalandogli un altro sorrisetto poco raccomandabile “Buonasera Ebén, non ci vedevamo da un po’”
Eveèn sorrise in risposta, era un sorrisetto un po’ teso, stava sudando. Era un uomo minuto, probabilmente non aveva nemmeno quarant’anni. Il visino da topo, col naso a punta, e il pizzetto. A Tinkerbell era sempre sembrato un roditore marrone con la camicia.
Fu proprio in quel momento che si sentì abbracciare e poi stringere da braccia di legno. Si voltò con stizza, avrebbe dovuto immaginarlo. I rami gli si avvolsero intorno alla faccia cercando di soffocarlo. Per un secondo Tinkerbell pensò solo a recidere i rami con l’accetta e a strapparli con le braccia, ma si rese conto che questo stava dando ad Ebén modo di agire indisturbato.
Il manico dell’accetta di Clay cadde con violenza sulla mano di Ebén, dritta sulle nocche, con l’intento preciso di spezzarle, insieme alla mano e tutte le dita, magari, che stavano per afferrare  il barattolo di marmellata in cui stavano i semi d’ortica di Ruthie. Ebén urlò, dolorante, dando a Tinkerbell una maggior conferma di aver centrato bersaglio. Un altro colpo d’accetta lo prese dritto in faccia, sempre di manico, Ebén sentì le ossa del proprio viso rompersi sotto il colpo del ragazzo, che stava ancora soffocando nell’abbraccio vegetale.
Il ragazzo afferrò uno dei rampicanti, non riusciva quasi più a respirare e quell’abbraccio era ruvido, umido e letale. Strattonò un ramo con qualche foglia attaccata e poi la sua mano prese fuoco. Di seguito tutto l’intreccio vegetale s’illuminò.
Ebén arretrò, strisciando per terra aiutandosi con la mano sana, mentre la testa  di Tinkerbell diventava una palla incandescente. La camera si riempì in un attimo di fumo. L’uomo tossì, avrebbe voluto prendere il barattolo di marmellata, ma quello era saldo nella mano di Clay, insieme all’accetta. L’altra aveva appiccato il fuoco e sembrava ancora immersa in quel furore di fiamme.
Ebén strisciò fino ad appoggiare la schiena contro il muro, e le fiamme si spensero, lasciando spazio a del fumo denso. L’uomo si domandò se per caso non avrebbe potuto usarlo contro Tinkerbell, ma gli ci sarebbe voluto un po’ per elaborare un modo. Il tempo non era certo suo amico, perché Tinkerbell, con l’asciugamano parzialmente bruciato e il viso non ustionato ma annerito dal fuoco, riemerse da quella nebbia innaturale che lui stesso aveva creato per liberarsi dei viticci, che l’avevano afferrato.
Si chinò un pochino in avanti e guardò l’uomo-topo con un sorriso beffardo “Bella mossa, Ebén. Sai sempre stupirmi” disse, un po’ canzonatorio.
Ebén abbassò la testa, gli faceva male la faccia, da morire, l’arcata sopraccigliare e lo zigomo destro erano rotti, il colpo di Tinkerbell non era certo stato una carezza.
“Lascia che ti chieda una cosa, Ebén, cosa vi è preso a tutti quanti? Siete spariti per mesi e poi riapparite tutti in una volta”  fece, ridanciano, ancora mezzo nudo.
L’uomo, seduto per terra fece un mezzo sorriso teso, ma fu doloroso, lo zigomo gliela fece pagare con una terribile fitta di dolore.
“E’ stato incoronato il nuovo Re del Grande Mare. La Seconda Guardia doveva essere presente al ricevimento, non credi?” spiegò.
Clay annuì, si era chinato del tutto e teneva mollemente l’accetta tra le dita della mano destra, il barattolo di Ruthie nell’altra “Avete festeggiato un bel po’”
Ebén alzò un poco le spalle “È un vanesio” commentò, dolorosamente.
“E Diablo cosa ne pensa?” Ebén lo fisso, dritto negli occhi “Immagino ci abbia bevuto su”
Se non fosse stato per la faccia strafottente di Tinkerbell e quella disfatta di Ebén, sarebbe sembrata una tranquilla chiacchierata tra amici.
Clay indicò la finestra con un cenno della testa “La vedi? O ti ci butti tu o ti ci butto io”
Ebén annuì, non aveva molte altre scelte, non era quasi mai facile prendere i semi d’ortica a Tinkerbell.
In un attimo era sparito oltre il bordo e la stanza era vuota. Il fumo stava svanendo quasi del tutto e fu allora che Ruthie uscì dal bagno, coi capelli ancora bagnati, avvolta in un asciugamano. Clay era appoggiato alla finestra che guardava giù. Ebén era sparito proprio come era apparso.
“Dovresti portare sempre con te i semi d’ortica” la redarguì lui, senza girarsi e senza essere davvero arrabbiato.
“Anche quando faccio la doccia?” sbottò lei, stizzita.
“Soprattutto quando ti fai la doccia”
 
 
Aki_Penn parla a vanvera: Altro capitolo un po’ di passaggio, giuro che adesso sono finiti. XD Mi spiace che ci sia poca azione, a parte Tinkerbell che si da fuoco alla testa, ma avevo bisogno di seminare un po’ di roba e di spiegare come funzionano i desideri dei suoi famigliari.
Ebén mi ha dato parecchi problemi, principalmente perché, nella mia testa, il suo nome è più che altro un suono, e per un po’ si è chiamato Eveén, per poi passare appunto a Ebén, ma questa è una cosa super poco importante. XD
Per quanto riguarda la frase che dice Ruthie durante la loro cena nel ristorante praghese è una cosa che aveva sentito dire a Jennifer Lawrence durante un’intervista, chiaramente lei, che è una brava persona, non diceva di voler derubare nessuno, alla fine della propria frase. Mi piaceva, in ogni modo, metterci in mezzo una Ruthie un po’ rancorosa rispetto al suo passato che trova metodi di vendetta alternativi ed efficaci. XD
Spero che il capitolo vi sia piaciuto, grazie mille per aver letto fino a qui! <3

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Uomini Preziosi ***


Make a wish-

Capitolo nove-

Uomini preziosi –

 

Tinkerbell e Ruthie attraversarono la lunga piazza Velasco annaspando nella neve. Ruthie aveva indossato la calzamaglia più pesante che aveva e gli scarponi da neve, Tinkerbell portava una cuffia nera che gli schiacciava la frangia sulla fronte e che lo faceva sembrare un ladro d’appartamenti.

 Entrambi avevano il naso rosso per il freddo e alzavano le ginocchia per riuscire a procedere nella neve. La mattinata era luminosa e pulita, ma il freddo era ancora pungente.

Ruthie, con le dita intirizzite, stringeva la carta poco assorbente di un hamburger.

“Io proprio non riesco a capire, tanto casino per i ristoranti di lusso e gli alberghi cinque stelle, e poi ti mangi degli hamburger da trenta corone” commentò Clay mentre salivano le scale del museo, le avevano liberate dalla neve e sparse di sale, in modo che non si creasse una crosta di ghiaccio.

“Avevo fame!” biascicò lei, con la bocca piena, subito prima di dare un altro morso al suo pasto.

“Dici che possiamo anche dare un’occhiata alla riproduzione della testa del mammut che c’è attaccata al muro? Ho letto su internet che ne hanno una!” piagnucolò Ruthie. Clay aprì la bocca esasperato, non era la prima volta che glielo chiedeva quella mattina.

“Per la miseria, Ruthie, siamo qui per lavorare!” sentenziò Clay, stressato. Ruthie sbuffò, offesa, e finì il proprio hamburger in un sol boccone, per poi buttare via la carta proprio prima di entrare nel museo.

Come dicevano i due uomini al ristorante, c’era una teca di vetro antisfondamento nel bel mezzo della sala centrale, appena dopo la biglietteria, e dentro questa stavano una serie di figure luccicanti. Avevano superato il gabbiotto del custode senza problemi, Ruthie li aveva sentiti parlare, forse avevano pagato anche un biglietto, ma lei non ci aveva fatto caso, perché allungava il collo per vedere la grande testa di mammut attaccata alla parete. Era proprio enorme.

Tinkerbell si avvicinò al vetro dove stavano riposte le figure d’oro e ci schiacciò contro la fronte per vedere bene.

“Oh, guarda, il mammut è lì!” disse Ruthie con voce eccitatissima “posso toccarlo?” chiese, non appena furono nella stanza, fingendo di essersi accorta solo in quel momento del gigantesco animale.

“Assolutamente no!” esclamò Clay, senza muoversi dalla sua posizione attaccata alla vetrina, tirandola per la gonna in modo da averla di fianco. Ruthie fece un paio di passi all’indietro, controvoglia, finché Tinkerbell non diede uno strattone più forte alla gonna facendola piroettare e facendola finire proprio accanto a lui, con la fronte a tre centimetri dalla teca.

La mano di lui le si appoggiò sul fianco, debolmente, ma Ruthie sapeva che se avesse provato a spostarla non avrebbe avuto speranza di riuscirci “Guarda con me” propose poi lui, dopo esserci imposto con la forza.

Ruthie sbuffò e si attaccò come lui al vetro.

Dentro la teca c’erano una ventina di statue del colore dell’oro. Luccicanti all’inverosimile, come se fossero state lucidate per ore e ore.

“Magari non è oro vero, oppure è solo lamina…” azzardò la ragazza e Clay scosse la testa, picchiettando il dito indice contro una targhetta appesa alla teca, era scritta in ceco.

“Pare che una di queste sia stata tagliata in due…ah, eccola, è lì” disse lui, indicando una statua tagliata a metà, dietro a tutte le altre.

Tinkerbell tolse il braccio dal fianco di Ruthie ed entrambi si allontanarono di un paio di passi dal vetro “C’è scritto che sono state ritrovate in uno scantinato durante dei lavori, pare che queste non fossero che uniche statue ritrovate, se ne contano più di cento e a un attento esame risultano essere i oro massiccio”

Clay vide gli occhi di Ruthie illuminarsi e la ignorò “Non ti pare la cosa più losca del mondo?” domandò “Nessuno ne ha reclamato la proprietà” aggiunse.

Ruthie annuì, ma poi prese di nuovo la parola “Però perché una bestia dovrebbe creare statue d’oro? Insomma, non dovrebbe essere un problema per voi geni, non sta mica facendo nulla di male”

Tinkerbell indicò di nuovo la teca ed entrambi tornarono a fissare le statue. Ruthie le guardò con attenzione. Erano quasi tutti uomini, di età diverse, quasi tutti con una barba folta, la precisione nell’esecuzione era maniacale.

“A cosa stai pensando?” chiese lei, Tinkerbell si morsicò l’interno della guancia, prima di dire “Sono troppo perfette. Queste erano persone, prima di diventare oro”

Ruthie boccheggiò, cercò di dire qualche cosa e poi guardò di nuovo la teca, trovandosi di nuovo con un interrogativo “E perché nessuno ha chiesto di loro? Hai visto parlare di persone scomparse sui giornali, questa mattina quando sei andato a caccia di notizie?” domandò, cercando di trovare una spiegazione al tutto.

Clay scosse la testa e indicò per l’ennesima volta le statue “Guarda i loro vestiti”

Ruthie si soffermò a guardarli, nessuno di loro era vestito bene, anche nell’oro si evinceva una certo disagio sociale, le scarpe di qualcuno erano rotte.

“Senzatetto” disse infine.

“Direi di sì. Solitamente se sei finito su una strada non hai già più nessuno che si preoccuperà di te” approvò Tinkerbell.

Rimasero per qualche secondo a guardare gli uomini oltre il vetro “Che razza di morte è, questa?” borbottò Ruthie. Clay alzò le spalle fissando i volti preziosi degli uomini d’oro.

“Pensa se si venisse a sapere che quelli che tengono qui in mostra erano stati uomini” immaginò poi lei. Era chiaro che quella fosse opera di una bestia, non v’era più alcun dubbio.

“Non si verrà mai a sapere, non c’è nessun procedimento chimico, in natura, che trasformi il sangue in oro” sentenziò lui, serio.

Ruthie distolse lo sguardo, guardare quelle statue era come guardare un morto in decomposizione, sgradevole e inquietante.

Il suo sguardo cadde di nuovo sulla testa di mammut attaccato alla parete, era molto più carino di un normale pachiderma, secondo Ruthie, molto più peloso e con due lunghe zanne.

“Voglio toccargli la proboscide” disse ancora, stringendo i pugni, voltandosi a guardarlo.

“Ti ho detto che non si può” sbottò Clay, riprendendo colore, e mettendosi le mani sui fianchi come faceva sua madre quando  era piccolo e lei lo doveva sgridare. Stavano parlando della bestia fino a un secondo prima e lei voleva toccare la proboscide del mammut.

Ruthie pestò i piedi, indignata, guardandolo con astio, mentre pezzettini di ghiaccio le si staccavano dalle scarpe da neve andandosi a depositare sul pavimento liscio del museo.

Fu in quel momento che si sentì toccare lievemente su una spalle da qualche cosa di morbido. Fu una pacca fraterna, quasi affettuosa. Ruthie si voltò e si ritrovò la proboscide del mammut che le dava piccoli colpi amichevoli e soffici. Emise l’urlo più acuto che avesse mai fatto in vita sua e cercò di indietreggiare cascando per terra e accovacciandosi vicino al muro.

Ci mise qualche secondo per rendersi conto di ciò che era successo. Voltò lo sguardo verso Tinkerbell, ancora a bocca aperta per lo spavento e il cuore le batteva a mille. Clay si teneva una mano sulla bocca e ce la stava mettendo tutta per non ridere sguaiatamente. La proboscide del mammut era tornata ad essere pelosa e immobile a penzoloni.

“Io ti ammazzo!” urlò lei, furiosa, e scattò in piedi “Io ti ammazzo!” ripeté di nuovo e gli saltò al collo, facendo un tale fracasso che il custode fu costretto a intervenire per separarli e poi cacciarli fuori dal museo per via degli schiamazzi.

Mentre scendevano le scale dell’edificio Clay stava ancora rischiando di soffocare dal ridere “Tu non ti sei vista in faccia…Ahaha!”

“Ti odio” scandì Ruthie a braccia conserte “Potevo avere problemi di cuore, potevo avere un infarto, potevo MORIRE!” sentenziò.

Tinkerbell le diede una gomitata “E dai, affronti una pazza strappa budella e ti spaventi per un peluche di mammut?”

“Non è la stessa cosa” sbottò lei, offesa.

“Il temibile peluche di mammut” continuò lui. “Vuoi un cazzotto? Così che ti faccia saltar via il tuo maledetto dente finto?” chiese lei, inarcando le sopracciglia, con una scintilla malvagia negli occhi.

Tinkerbell si mise entrambe le mani guantate sulla bocca e grugnì un no ovattato. Se c’era qualche cosa che davvero odiava gli si toccasse erano i denti. Ruthie sbuffò e guardò da un’altra parte.

Finirono per ritrovarsi ad attraversare la lunga piazza nuovamente e Ruthie indicò una panchina innevata. Tinkerbell spostò la neve che vi era sopra e appoggiò la mano sulla superficie metallica. In un secondo il metallo si scaldò, nel punto dove Tinkerbell lo teneva stretto sembrava quasi incandescente.

“Ehi, vacci piano, non mi voglio grigliare il deretano!” lo avvisò sfregandosi le mani e soffiandosi sopra per provare un po’ di calore alle dita, che iniziavano a fare male.

“Oggi sedere ai ferri!” esclamò Tinkerbell contento. Aspettarono che il metallo si fosse raffreddato un poco e si sedettero. La panchina emanava un calore piacevole, era come essere seduti su un termosifone, ma più piacevole.

“Da dove partiamo?” domandò Ruthie, con le mani in grembo, intenta a guardare i tetti innevati e il cielo azzurro.

Clay alzò le sopracciglia “Beh, tu ti infili come assistente sociale da qualche parte e io cerco di fare amicizia con qualche mendicante…”

“Che idea geniale, Tinkerbell” disse lei, per nulla convinta “continuo a non parlare il ceco però, come ieri sera” gli fece notare.

“Devi sempre rovinare i miei piani!” lamentò lui, non troppo preoccupato, mentre entrambi si scaldavano il fondoschiena sulla panchina. “Scusa” fece lei, che non si sentiva per nulla in colpa.

“Vorrà dire che verrai a fingerti una senzatetto insieme a me” concluse lui.

“Ma no!” sbottò Ruthie, mettendosi a gambe incrociate per togliere i piedi dalla neve. “Non ti va mai bene niente” continuò invece Clay. Ruthie sbuffò e il suo alito si fece bianco e denso, nel freddo praghese.

“Gli altri geni si comportano così, con i loro famigli?” chiese lei accigliata, decisa a cominciare una disputa col ragazzo. Lui chiuse gli occhi e sospirò annoiato “Non è la stessa cosa, di solito i famigli sono animali. E’ difficile chiedere a un carlino di andare a infiltrarsi in un centro sociale, sai…”

Ruthie guardò da un’altra parte incrociando le braccia e strisciando il sedere cercando di stare più comoda, Tinkerbell trovava sempre il modo di prenderla in giro.

“Chi è il più pericoloso, tra di voi?” chiese poi, per pura curiosità. Clay si passò la lingua sui denti e guardò il cielo “Siamo stati creati per essere tutti uguali. Non c’è qualcuno di più forte tra di noi. Se intendi il più pericoloso però deve essere Commander, perché è cattivo. Nel senso… a volte da di matto. I pirati non vanno da lui perché li ammazza, noialtri invece non lo facciamo” spiegò, poi aggiunse “Noi lo chiamiamo Capitano e gli facciamo il saluto militare per prenderlo in giro”  e ridacchiò tra sé, guardando Ruthie che rispondeva allo sguardo, incerta.

“E se per la rabbia ti stacca la testa?” domandò.

“Ha la stessa probabilità di riuscirci che ho io di staccare la sua. Siamo un cinquanta e cinquanta. Siamo perfettamente uguali, ma lui è una testa calda” spiegò, abbastanza orgoglioso di sé stesso.

“Beh, però almeno nessun pirata va da lui a derubarlo, come ha fatto Diablo con me” sentenziò lei, che per qualche motivo non voleva dargli ragione.

Clay si imbronciò “Come hanno fatto Diablo ed Ebén” la corresse lui.

“Chi?” chiese lei, voltandosi a guardarlo negli occhi. “Ebén” ripeté lui “E’ venuto a trovarci mentre tu ti facevi gioiosamente la doccia lasciando incustoditi i miei semi d’ortica” spiegò, saccente, stava aspettando da tutto il giorno il momento in cui l’avrebbe sgridata.

Ruthie s’imbronciò “Scusa se non sono te”

“Ti perdono” disse, appoggiandole una mano sulla testa, come se la stesse benedicendo. Ruthie la spostò con furia “E smettila di prendermi in giro!” sbottò. Clay rise di gusto e si beccò una palla di neve ficcata in bocca.

***

“Sono cenciosa” brontolò Ruthie “…e ho freddo” continuò, mentre attraversavano una Praga notturna. Se di giorno la città era fredda di notte lo era ancora di più.

Rimase zitta per un po’, non indossava più la gonna con la pesante calzamaglia, ma dei pantaloni lunghi e un cappello di pelo che le copriva le orecchie. Portava i guanti, ma uno dei due era senza dita e le facevano un male cane.

Infilò le mani in tasca e con le dita nude tastò il barattolino di marmellata dentro al quale teneva i semi d’ortica. Le diedero conforto e le ricordarono dove stava andando.

“In un posto del genere si muore, la notte” non era una lamentela, ma una mera affermazione. Clay, con lo stesso cappello che indossava la mattina e il giubbotto strappato, si voltò a guardarla e annuì “Lo so. Sto cercando un posto dove ci si possa rifugiare ma, sinceramente, non saprei dove guardare” ammise.

Ruthie annuì per poi continuare a seguirlo arrancando nella neve. Dopo qualche passo si fermò di nuovo.

“E se ci guardassimo dall’alto?” propose.

Clay si appoggiò a una grondaia ghiacciata e si voltò a guardarla “Dall’alto?”

Ruthie, coi paraorecchie che dondolavano, alzò le spalle “Non stiamo concludendo granché da terra” fece notare. Non stavano concludendo nulla a parte gelarsi i piedi.

“Se fossi un senzatetto cosa faresti?” domandò lui. Ruthie si morsicò la lingua “Probabilmente cercherei un anfratto senza neve. Si rischia davvero di morire assiderati qui per strada” disse lei.

Clay alzò le sopracciglia, da sotto la sua cuffietta da ladro d’appartamento “Quindi è piuttosto improbabile che si veda qualche cosa dall’alto” fece notare, tranquillo, come se fosse stata la cosa più logica, e effettivamente aveva ragione, ma neanche viaggiando coi piedi per terra stavano concludendo nulla.

A Ruthie non rimase neppure il tempo per rispondere che si sentì prendere sotto il seno e sollevare a una velocità incredibile. Chiuse gli occhi e si sentì soffocare, mentre il braccio di Clay faceva forza sulle sue costole. Lei si strinse al suo avambraccio come poté e in un attimo si ritrovò di nuovo in piedi, con le gambe molli. Riaprì gli occhi e si sentì in capo al mondo. Il braccio del ragazzo la teneva ancora per la vita, da davanti, dandole quasi le spalle. Il tetto su cui l’aveva portata era pendente e pieno di neve, così in alto il vento tirava forte e la pelle della faccia tirava così tanto da farle male. Le si sarebbero rotte le labbra. Quanto odiava l’inverno.

Clay aspettò che lei riprendesse l’equilibrio prima di lasciarla andare e si mise a guardare la città illuminata. Aveva scelto un palazzo alto e si poteva vedere in lontananza sia la torre dell’orologio sia il castello, illuminati a festa.

“Mi piace stare in alto” disse lei mentre il vento le batteva addosso. “Piace anche a Jessie” rispose pacatamente lui, che le dava la schiena. Ruthie si voltò a guardarlo “L’hai mai fatta volare?” chiese, stupita. Clay scosse la testa “L’ospedale è alto. Un paio di volte siamo andati sul tetto di nascosto. L’infermiera del suo reparto ci ha sgridato un casino” ridacchiò e Ruthie fece qualche passo temerario più verso il bordo. In un’altra situazione sarebbe stata terrorizzata, ma ad avere Tinkerbell vicino si sentiva in una botte di ferro. un super uomo o un Wonder Woman, come l’aveva chiamato lei la prima volta che si erano visti, per colpa dei braccialetti argentati.

Per un secondo si dimenticò cosa dovevano fare lassù in alto, non è che ci fosse molto da vedere, Ruthie non sapeva nemmeno cosa cercare. La città vista dall’alto, piena di luci, come un lontano formicaio, era bellissima. I riflessi della neve le riempivano il cuore, per un secondo non le importò della bestia e neanche del freddo e desiderò rimanere sospesa su quel tetto per sempre.

D’un tratto sbatté le palpebre, c’era qualche cosa di particolare “Tinkerbell?” chiamò e se lo ritrovò affianco in un attimo. La rapidità con cui si muoveva, a volte, era quasi fastidiosa.

“Quello…è un fuoco?” domandò.

Clay aguzzò la vista per vedere in lontananza “Un fuoco in strada?” fece eco lui.

“Non riesco a vedere, ma mi pare proprio fuoco”

“Un bidone in fiamme” concluse lui. Ruthie si morse le labbra blu dal freddo “Credi che sia abbastanza”

“Potrebbe bastare” concordò lui e Ruthie si sentì di nuovo la terra mancare sotto ai piedi mentre il ragazzo saltava da un tetto innevato all’altro, in direzione del loro fuoco.

 

 

Aki_Penn parla a vanvera: come al solito sono in ansia per il capitolo, ogni volta un nuovo patema. Spero che la scena del museo non sia troppo scema, ma si sono messi a litigare per il mammut e non sapevo più come fermarli. XD

In ogni modo, grazie mille per aver letto fino a qui, non sapete davvero quanto mi rendete felice. <3 

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** La testa di lucciole ***


Make a wish-

Capitolo dieci-

La testa di lucciole –

 

Ebén era in attesa da non molto, quando sentì il rumore che stava aspettando. Si dondolò un poco sui piedi, passando il peso da uno all’altro.

Indossava la solita camicia con le bretelle e la coppola, ma sopra aveva un gilet lungo e largo di un tessuto grosso e di un grigio indefinito.

Scrutò il buio, facendo qualche passo in avanti, allontanandosi dal gazebo bianco al quale era appoggiato fino a un secondo prima. Il rumore degli zoccoli sul legno si stava avvicinando. Non c’era altro modo per raggiungere il gazebo bianco se non per la lunga ma stretta banchina di legno chiaro che sia allungava nel buio proprio davanti a lui. Questo a meno che non si fosse una sirena e si passasse dal mare, ma Ebén non aveva mai visto una sirena, a parte quella che viaggiava sulla Kensington Gardens, la nave di Diablo.

L’unica luce proveniva da un barattolo appoggiato sul tavolo sotto il gazebo, per il resto, tutt’intorno a lui, vi era solo mare nero come il petrolio.

Ebén era nato sul mare, sapeva nuotare come un delfino, non aveva paura delle onde scure.

Non ci volle molto perché, dopo aver sentito il rumore degli zoccoli, Ebén riuscì a intravedere una figura bianca.

La cavalcatura si fece sempre più vicina fino a venir illuminata dalla fioca luce che proveniva da dentro il gazebo. Un unicorno bianco, con un rostro madreperlaceo e la criniera multicolore si fermò sbuffando davanti a lui, terminando la sua corsa folle quasi di colpo. Un metro in più e gli sarebbe finito addosso, ma lui non si scompose e rimase fermo con le mani nelle tasche e il suo grande gilet grigio.

Il cavallo si girò un poco, perpendicolare alla banchina, in modo che la sua padrona potesse guardare negli occhi Ebén. Erano due a cavalcare l’unicorno senza sella. Una aveva dei conturbanti capelli mossi di un colore molto simile al magenta portava vestiti piuttosto sgargianti al di sotto del gilet grigio, uguale a quello di Ebén, che portava su di essi, l’altra era una ragazzina bruttina, dall’aria anche un po’ lurida e i capelli legati in una coda di cavallo.

“Buonasera, Cloris” salutò Ebén, cordiale. Cloris gli regalò uno sguardo sospettoso “Buonasera. Diablo?” domandò subito. Ebén scosse la testa, tra il divertito e il rassegnato “Non verrà, giusto un’ora fa ho ricevuto una freccia infuocata – che, per la cronaca, stava per mandare a fuoco la mia intera nave – da parte della Kensington Gardens dove mi si diceva che Diablo è sparito di nuovo” spiegò l’uomo. La donna fece una smorfia, alzando il labbro superiore solo da una parte in un evidente moto di fastidio “Crede davvero che qui si stia giocando, quel cretino?” ringhiò, mentre l’unicorno  scalciava.

“Cosa possiamo farci?” domandò Ebén, molto più tranquillo, alzando le spalle. “Se lo conosco, sarà a fumare luppolo su qualche spiaggia insieme alla sua stramaledetta sirena” sbottò lei, piuttosto alterata. Ebén alzò di nuovo le spalle “Niente di più facile”

Cloris scese con un movimento aggraziato e fluido, mentre la ragazza che stava cavalcando dietro, che non se l’aspettava, per poco non si ribaltò in avanti. L’unicorno alzò le zambe anteriori e nitrì, mentre lei rischiava di cascare all’indietro e si aggrappava alla criniera dell’animale per non cadere, cosa che lo rese ancora più indisponente.

Fu allora che Cloris tirò le briglie e quello sbuffò e si rimise cheto, con la ragazzina che aveva finito per sdraiarsi addosso a lui quasi completamente, piuttosto scossa.

Ebén diede un’occhiata alla poveretta, doveva avere al massimo tredici anni e non sembrava sentirsi molto a suo agio, poi il suo sguardo tornò a Cloris, che lo attendeva guardandolo fisso, in modo penetrante.

Cloris non aveva nemmeno venticinque anni, i capelli color magenta, mossi e all’aria tanto da sembrare una criniera leonina, carnagione olivastra, fronte alta, mento appuntito e un naso da leonessa. Forse era per i capelli, ma a Ebén aveva sempre dato quell’impressione.

“E’ da un secolo che non ci chiamava” sentenziò lei. Ebén annuì, mentre la ragazzina scendeva da cavallo atterrando in piedi, per poi ribaltarsi comunque in avanti e doversi aiutare con le mani.

“Già, credo che non sappia nemmeno della dipartita del nostro sovrano – pace all’anima sua – e dell’incoronazione del suo erede” rispose lui avviandosi a passo lento verso il gazebo, mentre Cloris lasciava mollemente le redini in mano alla ragazzina.

“Tienilo, Ali” comandò, senza guardarla. “Ma si muove” piagnucolò lei, mentre l’unicorno la strattonava.

“Anche l’universo si muove, non smetterà mai” constatò Cloris vagamente derisoria.

Ebén fece un sorrisetto mentre il cavallo continuava a tirare la ragazzina in qua e in là, strattonandola per la borsa di pelle che aveva a tracolla “No, lo zucchero filato no, l’hai già mangiato!” esclamò lei con voce acuta, Cloris ed Ebén la ignorarono, mettendosi a chiudere le tende del gazebo bianco.

“Ti sei messa a raccattare ragazzini per strada, come fa Diablo?” le sussurrò sui nell’orecchio, così vicino che lei poté sentire il suo respiro sul collo e la cosa le diede un brivido fastidioso.

Non li amava molto, né lui né Diablo. “Non scherzare!” sbottò lei, quasi offesa, voltandosi di scatto a guardarlo “Big Jim l’ha trovata nella cambusa che cercava di rubarci del formaggio. Il dubbio era se buttarla a mare o appenderla all’albero maestro per le orecchie, ma Big Jim l’ha voluta assolutamente tenere. Devo trovargli un animaletto da compagnia, se no mi costringerà ad adottare tutti i marmocchi che trova a depredarci” spiegò e l’ultima frase non nascondeva certo lo scherno.

“Vuole diventare un pirata?” domandò lui, voltandosi dall’altra parte ad assicurare altre tende bianche.

“Chiaro” rispose lei, apatica.

“E com’è?” chiese Ebén, di nuovo, voltandosi a guardarla, giusto al di sopra della propria spalla, lei gli dava la schiena e rispose secca “E’ una spina nel culo”

Ebén ridacchiò, con una risata non davvero allegra “L’avrei potuto immaginare da come tiene il tuo cavallo”

Cloris sbuffò, non aveva voglia di parlare di Ali, ma aggiunse “Un sacco di ragazzini sognano, da piccoli, di far parte della Seconda Guardia del Re, lo trovano affascinante e avventuroso, ma non si immaginano com’è trovarsi davanti a un genio o a una bestia” disse, seria e vagamente arrabbiata.

“A chi lo dici, Tinkerbell mi ha rotto la mano, il naso e il sopracciglio, solo qualche giorno fa” disse lui, quasi allegro. Lei salì in piedi su una delle panche per avvicinare meglio due tende anche in alto e si voltò un poco per guardarlo. Era stata stupida a pensare che gli fosse rimasto addosso anche solo un graffio, il volto e la mano di Ebén apparivano perfetti, come sempre. Coi soliti lineamenti da topo.

“Jim, l’altro giorno, ha avuto da ridire con Fatalii, è tornato con un braccio in meno”

“Almeno ha preso qualche cosa?” chiese Ebén, curioso. Cloris scosse la testa, tristemente “Neanche un seme d’ortica, dopo i festeggiamenti per il Re speravo che avessero abbassato un po’ la guardia, ma non è così”

“Almeno sei riuscita a spaventare un po’ la ragazzina, con Jim senza un braccio?” chiese lui con un sorrisetto, mentre tirava l’ultima tenda, quella che dava sul lungo molo di legno chiaro.

Cloris sbuffò, mettendosi seduta davanti al tavolino tondo, era così piccolo che c’era a malapena spazio per le sue gambe, che non erano lunghissime “Figurati, tanto gli è ricresciuto”

“C’era da aspettarselo” commentò Ebén, che chiuse la scena su Ali che, fuori dal gazebo, litigava con l’unicorno, apparentemente intenzionato a ruminare la sua borsa.

“E vedi di fare silenzio, là fuori, Ali!” tuonò Cloris quando non potevano già più vedersi.

“Signorsì, Capitano” dissero da fuori, con una vocina flebile.

Ebén si sedette di fronte alla donna e i due si lanciarono una lunga occhiata, la mano di lei era già da un po’ stretta sul coperchio del barattolo  che Ebén aveva appoggiato sul tavolo.

Le lucciole avevano iniziato a sbattere con forza verso il vetro, come se fossero state ansiose di uscire e Cloris si mise un dito sulle labbra incitando Ebén al silenzio. Lui si accigliò e disse, con un sussurro stizzito “Non dirmi le cose che sono stato io a spiegarti!”

Cloris gli rivolse un sorrisetto e lui fece una smorfia mentre la mano di lei, piano, svitava il tappo. In un attimo uno sciame luminoso fece brillare il gazebo, da fuori le tende, se Ali non fosse stata occupata a litigare con l’unicorno, che cercava di strapparle la borsa per mangiare lo zucchero filato che vi stava all’interno, l’avrebbe visto.

Cloris sbatté le palpebre qualche volta mentre le lucciole volavano impazzite ovunque, nello spazio ristretto.

Era da mesi che la Mosca Bianca non li chiamava per una riunione. I colloqui con lui erano sempre piuttosto sporadici, a volte passava anche un anno prima che il loro informatore si facesse sentire e, ogni volta, era per poco e tutto era consumato a bassa voce.

Cloris non conosceva il vero nome della Mosca, quando era stata presa nella Seconda Guardia, la Mosca, era già da anni alla corte del Campo d’Ortiche e il suo barattolo di lucciole stava già nella tasca del gilet di Ebén. Non aveva avuto occasione di sapere nulla di più, né su chi fosse la Mosca prima di diventare il loro informatore, né su come fosse riuscito a ottenere un passepartout che dal Grande Mare portava al Campo delle Ortiche.

Dopo qualche secondo di follia, le lucciole ricominciarono a scendere e a farsi sempre più vicine tra di loro, finché Cloris non si ritrovò davanti un volto di luce e insetti.

“Buonasera, Mosca” salutò piano lei, con un mezzo sorriso. Vederlo la elettrizzava sempre, anche se faceva un po’ impressione, aveva una testa di luce pelata e un bocca fatta di insetti che parlava veramente, poteva vedere distintamente le labbra muoversi, anche se su di esse brulicavano decine di lucciole. Gli occhi erano invece chiusi, la Mosca non poteva vederli, almeno così sembrava.

La testa, abnorme e luminosa, emise un suono stridulo che i due pirati interpretarono come una risposta al saluto. Cloris sorrise ancora anche se lui non poteva vederla, e allungò i piedi sotto il tavolo, fu in quel momento che, dall’esterno, venne un tonfo immane, un urlo stridulo femminile e un nitrito di protesta.

La ragazza vide il volto di insetti boccheggiare, mentre questi cominciavano a vibrare irrequieti, ci volle solo un secondo perché il viso esplodesse in milioni di pezzi e le lucciole ricominciassero a volteggiare impazzite dentro al gazebo. Veloce come era iniziato, il trambusto si spense e tutte le lucciole tornarono a stiparsi dentro al barattolo. Cloris fissava il contenitore con la bocca leggermente aperta e lo sguardo vitreo, si era alzata di scatto senza rendersene conto, presa dal fervore.

La loro occasione di avere un incontro con la Mosca si era dissolta così, in una frazione di secondo.

Cloris si voltò con rabbia e, mettendo un piede sulla panca, aprì una delle tende del gazebo con uno strattone e ruggì, piena di furore “Ali! Dovevo buttarti a mare il giorno che ti ho trovato nella stiva e lasciati agli squali!”

“Scusami…” piagnucolò Ali, sputando acqua, mentre l’unicorno ruminava dello zucchero filato stopposo e bagnato che finalmente era riuscito a rubare dalla borsa della ragazza. Lei lo teneva, come poteva, per il corno, per evitare che lui glielo infilasse in un occhio, faceva fatica a nuotare nell’acqua scura.

Ebén ridacchiò, soffocando l’irritazione del momento col pensiero che, probabilmente, Cloris era molto più arrabbiata di lui. “Alla fine Diablo ha fatto bene a disertare” constatò, mentre la donna urlava furibonda“Spero che almeno avrai la decenza di morire annegata in questo momento, Ali!”

 

***

Tinkerbell fece ancora qualche passo nella neve. Oltre l’angolo di una casa il pietra vista veniva un leggero bagliore e un crepitare tipico del fuoco. Era un antro non troppo largo chiuso da una rete di metallo. Vi era anche una porticina, anch’essa di rete, socchiusa, appeso come per sbaglio vi era anche un lucchetto, che qualcuno aveva abilmente aperto tempo prima.

Ruthie, dietro di lui, sbuffò e incespicò ancora nella neve “Siamo arrivati?” domandò.

“Direi di sì, credo sia questo il fuoco che avevi visto da lassù, è probabile che ci siano radunati attorno dei senzatetto” spiegò.

Erano atterrati in un vicolo così stretto che lei e Tinkerbell non potevano camminare uno di fianco all’altra. Piombare dal cielo in mezzo a un capannello di barboni forse non sarebbe stata una buona idea.

“Seguimi” sussurrò pacato e Ruthie annuì passandosi le dita gelide sulle labbra screpolate.

Tinkerbell afferrò la maglia metallica con la mano guantata e ne sentì il gelo a contatto col palmo, il naso quasi gli faceva male dal freddo. Ruthie lo vide mettere un piede oltre la rete e non si rese nemmeno conto di come accadde, fu come un fulmine nero che gli piombò addosso. Clay venne sbattuto contro il palo di metallo che reggeva la recinzione, incrinandolo, mentre un ringhio riempiva l’aria.  

Rimase impalata qualche metro più indietro con le ginocchia piegate e la bocca aperta.

Tinkerbell fece una smorfia, arricciando il naso, mentre irrigidiva il muscolo dove il grosso cane lo stava violentemente addentando. Non l’aveva nemmeno visto arrivare, non si aspettava che qualche cosa del genere gli sarebbe piombato addosso e quello l’aveva morso e dilaniato in un solo secondo.

Fu il turno di Clay di ringhiare, piano, sommessamente, in modo che solo il cane lo sentisse. L’altra mano gli si appoggiò piano sulla collottola, il tocco era leggero ma l’animale  capì che quel tocco così delicato poteva spezzargli il collo in qualsiasi momento.

“Bravo, bello, bravo, lascia il mio braccio” disse tranquillo Tinkerbell mentre incrociava lo sguardo col grosso cane. Questo cercò di liberarsi, terrorizzato, uggiolando, ma Clay strinse un po’, forse per colpa del dolore che provava all’altro braccio e lo costrinse a mantenere lo sguardo su di sé. Per un secondo pensò davvero di volerlo ammazzare lì su due piedi, ma poi mollò la presa a quello scappò uggiolando dietro al suo padrone. Fu solo il quel momento che Tinkerbell ebbe un’idea di che cosa ci fosse oltre l’angolo di pietra vista.

Era un cortiletto piccolo, quadrato e spoglio, proprio nel centro stava un barile al quale era stato dato fuoco e tre uomini imbacuccati vi stavano attorno cercando di scaldarsi.

“Ehi, scusami ragazzo, Lumìr è un buon cane da guardia, forse un po’ troppo. Tutto a posto?” domandò quello più vicino al cancello. Era un uomo non troppo alto con una lunga barba nera e una cuffia col pompon, lercia.

Clay annuì passandosi frettolosamente la mano sul braccio leso “Tranquillo, è tutto a posto, mi ha solo strappato un po’ il giubbotto” mentì.

“Ah, mi dispiace, fammi vedere” si propose il padrone del cane, facendo qualche passo verso di lui. Era inaspettatamente in carne per essere un senzatetto, ma le condizioni dei suoi abiti non mentivano, era vestito di roba di seconda mano che non vedeva una lavatrice da decenni. L’uomo lo tirò delicatamente per la giacca “Va tutto bene, davvero. Siamo già diventati amici” ridacchiò Tinkerbell mentre lui studiava lo squarcio nella sua giacca. Il barbone stava per dire che era proprio una brutta rottura, ma si ritrovò a ridere insieme a Tinkerbell “Sì, è proprio un bravo cane” esclamò. Doveva essere un tipo incline al riso.

“E scusa ancora” aggiunse, Clay scosse le spalle “Nulla di male” continuò, mentre Lumìr, il cane, si nascondeva il più lontano possibile da lui, senza però perderlo mai d’occhio.

I due che si scaldavano dall’altra parte del falò sorrisero. L’attenzione era tutta su di lui, ma  Tinkerbell vide in un attimo cambiare il flusso dei pensieri nella mente del l’uomo, che si mise a fissare un punto oltre la sua spalla. Si voltò anche lui e vide un cappello di pelo sbucare da un angolo seguito da un giaccone troppo largo e da due gambette esili. Ruthie: si era quasi dimenticato di lei.

Ci fu di nuovo un razzo nero sulla neve bianca, Clay ci mise una frazione di secondo a capire che quello era di nuovo Lumìr e che aveva tutte le intenzioni di azzannare Ruthie come aveva fatto con lui.

“No, Lumìr, qui” disse tranquillo e si batté una pacca sulla coscia. Il cane si fermò a metà strada, come se una forza misteriosa lo stesse trattenendo e corse indietro a raggomitolarsi dietro le gambe del suo padrone. Lui ridacchiò “Ma guarda come ti ubbidisce, devi proprio piacergli!” esclamò, contento, l’uomo e Tinkerbell poté constatare che gli mancavano parecchi denti, mentre quelli che aveva era per la maggior parte marci.

Non gli piacevano granché gli animali, era una cosa che Ruthie gli aveva sempre rimproverato e anche Bernie con suoi piccioni. Clay non voleva essere cattivo, ma con gli animali proprio non andava d’accordo. Non del tipo che avrebbe voluto far loro del male, ma preferiva non averne intorno, quello era uno dei motivi per cui non aveva mai avuto un famiglio, prima di Ruthie.

“E’ con te?” domandò il barbone, guardandolo e tornando a scaldarsi le mani vicino al fuoco. Tinkerbell annuì “Sì, io sono Tinkerbell e lei è Ruthie” spiegò.

L’uomo allungò la mano per stringere quella guantata di Clay “Gustav, e quelli sono Ilja e Jiří” disse, accennando agli altri due dall’altra parte del falò. Ilja era abbastanza giovane, doveva avere più o meno l’età di Ruthie, era non ragazzo dalle spalle larghe e dalla barba incolta, i denti li aveva ancora tutti, i capelli erano scuri e la mascella squadrata, sembrava una persona abituata a sorridere, nonostante tutto. Jiří era più vecchio, ma non avrebbe saputo davvero dire quanti anni avesse, le guance erano incavate, gli zigomi sporgenti e il naso grosso, era un uomo nodoso, sotto il cappotto,  la barba ispida e i denti gialli per il fumo.

Tinkerbell li salutò, poi Gustav gli parlò di nuovo “Buffo nome il tuo, non siete di qui, vero?”

Clay sorrise e sentì il labbro spaccarsi per il freddo “Sono nato un po’ più a ovest di Praga” disse lui, tranquillo. Il Kansas era indubbiamente più a ovest della Repubblica Ceca, quel po’ poteva essere interpretato come si voleva.

“Su vieni!” disse poi a Ruthie, facendole segno di avvicinarsi, come avrebbe fatto un nonno.

Ruthie rimase impalata affianco al cancello, paralizzata dal freddo e dalla paura di Lumìr. Fu Tinkerbell a intervenire “Ruthie non parla ceco”spiegò. Gustav fece un’espressione ridicola di chi aveva capito tutto, sembrava che avesse a che fare con dei bambini.

“Vieni avanti, niente paura” disse in uno stentato inglese e Ruthie mosse qualche passo abbozzando un sorriso, aveva un gran freddo, ma vicino al fuoco si stava meglio.

Diede una fugace occhiata al cane, ma quello stava ancora fissando Clay, pronto a scappare.

Lo stomaco di Ruthie brontolò al di sopra dello scoppiettio del fuoco e lei fece un passo all’indietro e arrossì un poco.

Gustav rise sonoramente “Hai fame, eh?” chiese all’aria, dato che la ragazza non poteva capire cosa stava dicendo. Fu Tinkerbell a rispondere “Non abbiamo cenato” fece, e accennò a un sorriso, nonostante tutto. Gustav fece un’altra risata che non aveva nulla di amaro nel tono “Nemmeno io e non ho nulla da mangiare da offrirvi, ma se volete ho un po’ di vino, aiuta un po’ a scaldarsi” disse e allungò il brick  di vino scadente che aveva in mano a Ruthie che scosse energeticamente la testa, il clochard la guardò stupito poi rise ancora “Un tipino tutto pepe, eh?”

“Non sai quanto” fece il genio, con un sorriso un po’ risentito, non si era dimenticato di quando gli aveva sparato in testa. “Tu ne vuoi?” chiese poi, allungando il brick verso di lui. No, non ne voleva assolutamente, non gli piaceva il vino costoso, figurarsi quello in brick, ma accettò, sarebbe stato strano non farlo “Grazie” disse semplicemente e si portò la scatola di Tetrapak alla bocca. Sentì il gusto aspro di quel vino scadente scendergli in gola e poi nello stomaco vuoto. Strizzò gli occhi e si pulì la bocca con la manica, mentre passava di nuovo il vino al suo proprietario.

“Come mai da queste parti?” continuò poi Gustav, curioso. Clay scrollò le spalle, mentre Jiří e Ilja lo fissavano al di là del fuoco e Ruthie se ne stava a qualche passo di distanza.

“Stavamo cercando un posto. Voi ne conoscete qualcuno dove andare?” chiese poi. Gustav scoppiò in un’altra risata e Tinkerbell aspettò che finisse per avere una risposta, fu Jiří a dire la sua, sarcastico “Certo che abbiamo un posto in cui andare, ma a noi piace stare a prendere freddo in strada”

Gustav rise di gusto, ignorando Jiří, che si era fatto serio “Certo che ci sono luoghi dove andare, ma sono tutti pieni, se no non saremmo in mezzo alla strada attorno a un fuoco”

Jiří e Ilja ridacchiarono dall’altra parte e Tinkerbell attese che il suo nuovo amico continuasse a parlare “I centri di accoglienza per i senzatetto danno la precedenza a donne e bambini, lei è minorenne?” chiese poi, accennando a Ruthie con un’occhiata divertita.

Clay ridacchiò “No, non lo è”

“Peccato, avrei detto di sì, è piccoletta” sentenziò poi lui, mentre entrambi si giravano a guardarla. “Lo è” Ruthie capiva solo quello che diceva Tinkerbell, quindi aprì la bocca per ribattere qualche cosa, ma non ne uscì nulla, sembrava indignata e Gustav rise.

“Quindi non c’è nessun altro posto dove andare a passare la notte?” si informò avvicinando le mani al fuoco, le dita erano doloranti per il freddo. Gustav scosse la testa “Non da queste parti. Non siamo lontani da Malà Strana, in centro non ci sono abitazione sfitte e se ci sono non sono facili da raggiungere. Di solito passiamo la notte alla vecchia palestra di Praha, Dolní Měcholupy, ma con questa neve avremmo bisogno di ore per arrivare fin là, non ne vale la pena” spiegò e Ilja annuì dall’altra parte del fuoco.

“C’è un vecchio amico – Ivan – che  sta fisso lì e si occupa del posto, ci sono anche dei matersassi, non è una reggia, ma non è male per l’inverno, purtroppo nelle immediate vicinanze non c’è nessun antro confortevole, credo ci toccherà passare la notte all’agghiaccio davanti al fuoco sperando che nessuno venga ad arrestarci per piromania!” e rise alla sua stessa battuta, Tinkerbell lo seguì nonostante non fosse particolarmente divertito.

“Che poi essere arrestati non sarebbe nemmeno così male, almeno staremo al caldo per una volta e, se siamo fortunati, ci darebbero pure da mangiare” sentenziò Jiří, dall’altra parte, stringendosi nelle spalle.

“Parla per te, mio caro!” esclamò Gustav, tronfio “io sono libero come una libellula!”

“Le libellule muoiono con questo freddo” rispose Jiří, piuttosto amareggiato, ma Ilja rise sonoramente.

“Se no” cominciò il più giovane, con gli occhi che ancora gli ridevano “potremmo andare alla casa col buco sul tetto” propose. Tutti lo guardarono e Gustav si rabbuiò di colpo.

“Se ci vuoi andare, ci andrai da solo, ragazzo” rispose l’uomo dalla barba nera, secco.

 

Aki_Penn parla a vanvera: Salve a tutti, so che vi avevo abituato ad aggiornamenti veloci e questa volta ci ho messo ben due settimane, ma purtroppo – come saprà già chi mi ha su Facebook, ai quali ho rotto infinitamente le balle – ho perso tutto quello che avevo scritto. Mi ero messa avanti col capitolo dieci e undici e stavo per postare il dieci quando la mia chiavetta ha deciso di dare la sua dipartita. Perciò, se avete sentito una bestemmiona, domenica scorsa, ero io. Già.

A parte queste lamentele, spero che il capitolo vi sia piaciuto, temo che riscrivendolo sia venuto un po’ peggio di com’era all’inizio, ma spero che non faccia troppo schifo, scriverlo due volte è stato un parto.

Sono anche un po’ indecisa sulla parte iniziale, nonostante sia quella che mi sono divertita più a scrivere, ho dei dubbi su cosa si possa provare leggendola, dato che è l’intromissione di nuovi personaggi apparentemente senza un vero legame con la storia.

In ogni modo, vi ho presentato finalmente Cloris. Cloris è un nome che riciclo spesso, non so perché, non il personaggio, solo il nome, e credo anche che mi porti una discreta sfiga (vedi anche la perdita dei file). Facendola apparire mi sono tolta un peso!

Spero che il prossimo aggiornamento sia più celere, ma non posso assicurare niente, dato che il mio periodo di malattia è finito e sono tornata a lavorare a tempo pieno e, per di più, ho un po’ di faccende da risolvere.

Spero che il capitolo non sia stato troppo male e, in ogni modo, grazie per aver letto fino a qui, non sapete quanto piacere mi fate. <3

 

 

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** La casa col buco nel tetto ***


 Make a wish-

Capitolo undici-

La casa col buco nel tetto -

 

“ Se vuoi andarci, ragazzo, ci puoi andare da solo” ripeté Gustav, truce. Tinkerbell li guardò entrambi, era abbastanza sicuro che quella fosse la prima traccia che l’avrebbe portato alla bestia.

“Perché dici così?” si affrettò a chiedere. Ruthie lo guardò, sperando di riuscire a carpire qualche cosa del discorso, nonostante capisse solo quello che diceva Tinkerbell.

“Quelli che ci sono andati ultimamente non sono più tornati” disse lui, scuro in volto. Ilja ridacchiò “Probabilmente hanno avuto fortuna” sentenziò divertito.

Gustav scosse la testa “In quel posto succedono cose strane” aggiunse poi, guardando fisso il fuoco, prima di voltarsi a guardare Tinkerbell con aria inquisitoria, come per sapere la sua opinione. Clay alzò le sopracciglia, perplesso “Di che cosa parlate?” domandò.

“La casa col buco nel tetto è la stessa nel quale sono state trovate le statue d’oro. Ne hai sentito parlare, almeno di quelle, vero?” chiese Jiří. Tinkerbell annuì “Sì, so che le hanno esposte al museo di scienze naturali” rispose lui. Ruthie si era appoggiata alla sua spalla, annoiata.

“È un vecchio palazzo, le statue sono state trovate nello scantinato, durante dei lavori alle fognature, al piano di sopra c’è una vecchia abitazione, il salone ha il tetto sfondato, ma le altre stanze sono integre, c’è anche un camino da accendere” spiegò. Tinkerbell annuì, seguendo il discorso.

“Quel posto è maledetto” continuò Gustav imperterrito. Jiří sbuffò, quasi arrabbiato “Smettila con questa storia, Gustav…” sbraitò. L’uomo con la lunga barba nera si mise le mani sui fianchi, indignato e Clay non perse tempo per fare domande “Perché dici che è maledetto?” chiese, innocentemente.

“Te l’ho detto: chi è andato a passare la notte lì negli ultimi tempi non è più tornato” disse. Ilja sbuffò quasi divertito e Jiří lo attaccò di nuovo, acido “Non è tornato perché ha trovato le statue, probabilmente ha preso la sua piccola fortuna ed è andata a rivenderla” sbottò.

Ilja rise, del tutto fuori luogo “Magari potremmo trovare qualche cosa anche noi” aggiunse, speranzoso. Jiří fece una smorfia “Non che sia davvero così stupido da pensare di poter trovare qualche cosa da rivendere, sono certo che la polizia e tutta la gente che c’è passata dal ritrovamento ad oggi avrà già fatto piazza pulita, ma almeno non passeremo la notte all’agghiaccio, tra l’altro ho paura che si metta di nuovo a nevicare”

“Non avete un po’ pensato alla cosa?” sbottò Gustav, alterato. Tinkerbell l’aveva visto così gioioso, prima, che non poteva credere di poterlo vedere così arrabbiato “Non è assurdo che appaiano dal nulla tutte quelle statue senza che nessuno ne rivendichi la proprietà?” tuonò.

“In realtà uno c’è stato, un certo Blažej  Perutz, l’ho letto su un giornale che qualcuno aveva lasciato su una panchina al parchetto vicino alla torre dell’orologio” fece Ilja, pronto.

“Sì, ma poi è stato subito smentito, non aveva idea di quante fossero le statue e non ha saputo spiegare né dove le avesse prese né cosa ci facessero in quello scantinato” intervenne Jiří, per amor del vero.

“È assurdo che nessuno abbia rivendicato la proprietà di tutto quell’oro, Jiří, pensaci” ripeté Gustav, più calmo.

“Hai indubbiamente ragione, ma questo significa forse che quello è un posto pericoloso?” sputò Jiří, ancora piuttosto infervorato.

“Io credo di sì” sentenziò Gustav, contrito. Tinkerbell lo vide increspare le labbra. Jiří emise un lungo sospiro “E spiegami: in cosa consisterebbe questo pericolo?”

Gustav si strinse nelle spalle “Non…non lo so…quelle statue sono a forma di uomini e…” cominciò, ma Jiří lo interruppe urlando “Gesù! Ma ti senti? Pensi che siano loro? Non dire cavolate! Diamine, sei così maledettamente….non lo so! Non so nemmeno come ribattere”

Jiří sembrava davvero arrabbiato, ma Ilja rise forte, fuori luogo “Non c’è nessun processo chimico che trasformi il sangue in oro” sentenziò allegro.

“Sono comunque preoccupato” disse Gustav, messo alle strette.

“Sei comunque folle!” lo corresse Jiří, stanco. Gustav sospirò “A prescindere da quello di cui abbiamo parlato, credo che ci sia qualche cosa di losco” continuò, risentito. Jiří scosse la testa “Abbiamo molte più probabilità di morire qui assiderati che ammazzati nella casa col buco nel tetto. Io vado. Chi è con me?” chiese poi ai presenti.

Ruthie, chiaramente, non mosse un muscolo, quelle parole erano uguali a tutte le altre. Ilja alzò la mano ed esclamò “Io” ridendo in modo inopportuno.

Tinkerbell guardò Gustav.

“Tu non vuoi venire, Gustav?” domandò, vagamente triste. L’uomo scosse forte la testa con energia “Assolutamente no, e faresti bene a non andare nemmeno tu!” esclamò, serio, da sotto la barba nera.

“Lei ha freddo” sussurrò, indicando Ruthie, ferma accanto a lui. Lei avrebbe voluto ribattere che non voleva essere messa in mezzo a discorsi che non capiva, ma stette zitta, in effetti aveva davvero freddo.

Gustav annuì, non aveva più nulla da dire. Tinkerbell si allontanò lentamente, guardandosi indietro, finché non arrivò al cancello di rete, tirandosi dietro Ruthie, che teneva per mano.

Abbassò lo sguardo sulla neve, uscendo. Subito fuori dal cortiletto li aspettavano Ilja e Jiří. Jiří col volto contratto per il nervoso della discussione, Ilja decisamente contento che ci si stesse muovendo.

Jiří grugnì, poi guardò Tinkerbell di sbieco e disse “Gustav è un brav’uomo, ma è un credulone superstizioso, non c’è nulla di losco in quella casa”

Tinkerbell sorrise per cortesia e rispose “Me lo immagino, insomma, persone trasformate in oro, è una scemenza”

“Già. Ci vorrà un quarto d’ora, o forse un po’ di più, per via della neve, per arrivare fin là, voi seguiteci se siete ancora dell’idea di venire, accenderemo il camino, una volta arrivati là”

Tinkerbell si sentì un po’ in colpa a farsi condurre nella tana del lupo senza dire niente, ma non avrebbe potuto fare altrimenti, in più doveva assolutamente incontrare la bestia.

Ruthie aspettò che Jiří e Ilja avessero accelerato un po’ in passo, mettendo qualche metro di distanza tra loro per parlare “E quindi?”

Tinkerbell batté le palpebre un paio di volte “Quindi cosa?”

“Chi hai scelto come tuo padrone?” specificò lei, impaziente. Sentiva un gran freddo e cercava di scaldarsi le mani infilandole nelle tasche della giacca.

Clay sbuffò abbattuto “Nessuno dei due. A me piaceva Gustav, l’altro, ma pare che abbia paura – a ragione – del posto dove stiamo andando”

Ruthie alzò gli occhi al cielo “Che cosa vi siete detti, mentre io vi ignoravo?” chiese ancora, incrociando le braccia, provando a mettere le mani sotto le ascelle per scaldarsi.

Tinkerbell scrollò le spalle, prendendo le mani della ragazza tra le sue, stanco di vederla agitarsi “Quello che più è intuibile anche non capendo: Jiří e Ilja, che sono quelli, volevano andare a passare la notte in questa casa che ha un buco nel tetto, che poi è la stessa nei quali sotterranei sono state trovate le statue d’oro, e Gustav non voleva perché chiunque vi fosse andato non era più tornato. Jiří sosteneva che fosse stupido preoccuparsi per sciocchezze simili e quindi stiamo andando là. Trovo quasi scontato che ciò che stiamo cercando si trovi lì”

Ruthie annuì “Dovresti però sbrigarti a decidere a chi dirai il tuo vero nome” gli ricordò Ruthie, senza lasciargli respiro, poi aprì la bocca in un urlo muto e ritirò le mani da quelle di Tinkerbell “Per la miseria! Volevi arroventarmele come hai fatto con la panchina questa mattina?” sbottò. Clay alzò le sopracciglia, del tutto preso alla sprovvista “Scusa” disse un po’ stupito, mentre Ruthie metteva le mani nella neve. Sarebbe state un’immagine bizzarra se Ilja o Jiří si fossero voltati proprio in quel momento.

Camminarono per qualche minuto in silenzio, procedendo per vicoletti deserti e pieni di neve, in certi punti arrivava alle ginocchia e la cosa diede vari grattacapi a Ruthie. Ilja ridacchiò vedendola cadere a faccia in avanti. Jiří le diede un’occhiata, ma si limitò a dire “Per di qua” quando vide che Tinkerbell la stava rimettendo in piedi.

“Quello non mi piace granché. Anzi, in realtà non mi piace nemmeno quello più giovane, ha riso della mia caduta. Secondo me, la bestia è uno di loro due” sentenziò la ragazza, un po’ offesa.

“Smettila di tirare conclusioni a caso. Ammettilo, la tua caduta era piuttosto divertente” commentò Tinkerbell, tenendola per il gomito, se si fosse inciampata di nuovo avrebbero perso altro tempo e lui voleva vedere quella maledetta casa col buco nel tetto.

Ruthie sbuffò e se ne stette zitta per un po’, guardando avanti imbronciata, finché, del tutto senza un senso logico, domandò “Perché diamine ti chiami Tinkerbell? Non te l’ho mai chiesto”

Clay strabuzò gli occhi e lei continuò “L’hai detto tu che quando vieni investito come nuovo genio puoi sceglierti il nome che vuoi, perché proprio Tinkerbell?” chiese, forse un po’ troppo ad alta voce, tanto che Jiří si voltò per vedere se andava tutto bene. Non parlava bene inglese ed era poco interessato a quello che quei due si dicevano, quindi continuò a camminare accanto a Ilja.

Tinkerbell sbuffò, effettivamente non gliel’aveva mai domandato.

“Alla nostra professoressa della medie piaceva Peter Pan” iniziò a dire, ma Ruthie capì che la cosa non era finita lì “e quindi ebbe la bella idea di organizzare una recita di Natale basata su di esso. Io, ovviamente, feci in modo di essere messo nella squadra degli scenografi, se c’è una cosa che non mi piace è recitare”

“Non l’avrei mai detto, dato il lavoro che fai” ridacchiò Ruthie. Clay la ignorò e continuò a spiegare “Jessie, mia sorella, faceva Campanellino”

Ruthie annuì “Due giorni prima della recita, prontamente, si ammalò, e indovina chi aveva la stessa faccia di Jessie, in modo da non stonare con il volantino che avevano consegnato ai genitori, e, per di più, l’aveva aiutata a imparare a memoria tutte le battute, e quindi già le sapeva?” aspettò solo un secondo “ Ma io, ovviamente” esclamò sarcasticamente gioioso, dandosi la risposta da solo.

Ruthie rise così forte da far girare Ilja e Jiří per controllare che cosa stava  succedendo dietro di loro.

“Mi hanno preso per il culo per anni…” aggiunse pensieroso.

“E tu l’hai scelto come tuo nome?” chiese Ruthie, che stava ancora ridendo con la mano sulla pancia e le spalle che tremavano. Tinkebell alzò le spalle “Trovo che mi si addica e poi è la prima cosa che mi è saltata in mente…è più o meno così che funziona…”

Ruthie lo guardò sorridendo e lui sospirò, mentre il suo respiro si condensava davanti al suo viso.

Ilja e Jiří procedevano davanti a loro, il primo allegro e voglioso di fare conversazione, il secondo silenzioso. “Sei ancora arrabbiato con Gustav?” chiese sorridente. Jiří sbuffò “Non sono davvero arrabbiato con lui, penso solo che sia un idiota, l’unico vero pericolo, questa notte, è il freddo, ma lui sembra non capirlo” disse guardando basso “Di qua” esclamò poi, desideroso di cambiare discorso, voltandosi indietro per vedere se Tinkerbell e Ruthie li stavano seguendo e ciò che vide fu solo una ragazzina con un cappotto troppo grande per lei che li guardava con un sorrisetto un po’ tirato, in mezzo a un vicoletto deserto.

“Dov’è Tinkerbell?” domandò Jiří, brusco. Ruthie boccheggiò, l’unica parola che aveva capito era Tinkerbell e immaginava che gli stesse chiedendo dov’era finito, ma lei non sapeva come rispondere.

Ilja ridacchiò, vedendo l’espressione preoccupata della ragazzina e ripeté la domanda in inglese, Ruthie boccheggiò di nuovo, indicando una casa “È andato a…” ci pensò qualche secondo “fare la pipì”

Ilja ridacchiò ancora e Jiří sbuffò impaziente, alla risposta della ragazza, mentre Tinkerbell se ne stava, non visto, rintanato dietro a un cassonetto dell’immondizia con il telefono schiacciato contro l’orecchio.

“Perché bisbigli, Clay, sarai mica in chiesa?” domandò Jessie, con voce acuta. Tinkerbell chiuse gli occhi, esasperato “Jessie, qui è notte, non vorrei svegliare la mia segretaria. Ti sei scordata di nuovo il fuso orario”

“Uh!” dall’altra parte venne un urletto acuto, che non si preoccupava affatto del fuso orario “Dormite insieme?”

Tinkerbell appoggiò la testa al muro, esausto “Jessie, non avrebbe senso prendere due stanze…e prima che tu ti metta a spettegolare con Bernie e la mamma, abbiamo letti diversi” sbottò, sapendo con chi aveva a che fare.

“Ma è quella che si chiama Romano?” chiese una voce lontana: sua madre.

“La mamma chiede…” iniziò a dire Jessie, ma Clay la interruppe “Sì, ho sentito, senti, ti telefono domani, va bene, qui è notte” concluse, sempre sussurrando, ma con fare più deciso.

“Oh, ma insomma, va bene” disse lei, un po’ risentita.

In un secondo riemerse nel vicoletto innevato, mentre Jiří e Ilja avevano fatto qualche passo nella sua direzione senza che Ruthie avesse la minima idea di come fare per trattenerli.

“Scusatemi” fece, sistemandosi meglio la cuffia sulla testa.

“Non ti si sono gelati i gioielli?” ridacchiò Ilja. Tinkerbell sorrise, e Jiří lo guardò serio, per poi girarsi e continuare a camminare “Siamo quasi arrivati” annunciò.

Tinkerbell annuì e tutti lo seguirono, svoltarono l’angolo e procedettero dritto per un po’, con Ruthie che sbuffava e si lamentava sottovoce, senza che Jiří e Ilja la sentissero.

“Eccoci” fece Jiří, svoltando in una strada un po’ più larga, c’erano parecchi lampioni che illuminavano bene il passaggio. Clay capì subito a quale casa fossero interessati, vi era una porta chiusa e delimitata da un nastro plastico rosso e bianco, tipico dei cantieri, era chiaro che quello fosse il posto dove erano state trovate le statue.

“Basta forzare un po’ la porta, non ci vuole molto” disse Jiří, avvicinandosi con calma, mentre la neve iniziava a cadere, morbida.  Tinkerbell annuì e si affrettò a seguirlo oltre il nastro, mentre Ilja e Ruthie aspettavano a qualche metro di distanza. Ruthie sentì un brivido, tornando consapevole del fatto che stavano per andare a combattere contro una bestia. A volte non le sembrava ancora vero.

Jiří si mise a forzare la porta, prendendola a spallate, ci volle solo un secondo perché Tinkerbell si accorgesse che quella porta non si sarebbe mossa di un centimetro, sotto l’azione di Jiří.

“Lascia che ti aiuti” disse, strascicato, come se non ne avesse troppa voglia. “Non ti preoccupare” ribatté Jiří, con la voce rotta dallo sforzo. Clay lo ignorò e si mise a spingere al suo fianco. La porta si aprì appena Tinkerbell ci appoggiò la spalla contro.

Jiří boccheggiò, spiazzato. Avrebbe voluto dire qualche cosa, ma effettivamente non sapeva cosa, solo, gli era sembrato così innaturale. La porta aveva ceduto in un solo attimo, il ragazzo non aveva nemmeno davvero spinto.  Tinkerbell non si era preoccupato granché e gli aveva sorriso “Avevi ragione, basta fare un po’ forza”

L’uomo annuì, serio, e Ilja sorrise a una Ruthie ancora un po’ tesa. Davanti a loro si spianò una scala buia e non troppo larga.

Jiří allungò il braccio oltre la porta e disse “Prego”

Tinkerbell sorrise “Grazie” ed entrò, subito dopo venne Jiří, Ruthie si infilò in coda e Ilja, allegro per aver finalmente un tetto sopra la testa, chiuse la porta dietro di sé.

Clay salì velocemente le scale, ritrovandosi in una sala piuttosto grande. Ruthie, che emerse subito dopo, incrociò le braccia, vedendo che dal cielo cadeva, candida, altra neve “Ma che cavolo, siamo ancora all’aperto!” esclamò, e Ilja ridacchiò. Anche Jiří accennò un sorriso, capendo cosa la ragazza stava dicendo. La sala era grande e rotonda, o esagonale, con la luce fioca non si capiva bene, le pareti erano sporche, c’era un armadio marcio in un angolo, doveva essere stata mobilia fine, un tempo. Il pavimento era coperto di rifiuti, sacchetti, cartacce, scatoloni rotti.

“C’è una stanza chiusa di qua, con un camino, venite con me” disse in ceco e Tinkerbell prese Ruthie per un gomito, abbastanza rudemente. Lei si accigliò e avanzò sospinta dal ragazzo, verso una porta che Jiří aprì senza tante difficoltà.

Si ritrovarono in un’altra stanza, sporca come la precedente, c’erano cartacce, piume di piccione e un materasso al quale uscivano le molle, ma, per lo meno, aveva un tetto. Ruthie sospirò, quel posto le faceva schifo, ma almeno erano al chiuso, c’era un camino sporco, forse un tempo era stato bianco, come le pareti, ma non doveva più esserlo da diversi anni.

“Hai un accendino, Ilja?” domandò Jiří al compagno più giovane. Ilja annuì, mentre l’altro cercava di spostare un po’ di chincaglieria sporca da dentro la bocca del camino.

“Nella stanza con il buco nel tetto ho visto un armadio vecchio, potremmo bruciare un’anta. Vado a prenderlo, chissà se il legno marcio brucia lo stesso…di sicuro sarà più facile da rompere” sentenziò, tornando verso la porta dalla quale era entrato.

Tinkerbell rimase fermo in mezzo alla stanza, mentre Ruthie appoggiava stancamente la testa alla sua spalla.

Ilja seguì Jiří a ruota, e sparì dietro di lui.

“Credi che sia qui?” domandò Ruthie a bassa voce, era quasi un bisbiglio nell’orecchio del ragazzo.

“Se non è qui abbiamo preso un granchio tremendo” sussurrò lui, mordicchiandosi le labbra. Si erano screpolate, faceva davvero freddo anche lì dentro.

Un urlo li fece entrambi trasalire. Tinkerbell prese la mano di Ruthie e corse fuori dalla stanzetta. Nella grande sala col buco nel tetto non c’era nulla di strano. Ruthie aveva il fiatone, ma non sembrava esserci nulla di anomalo.

La luce della luna li illuminava e Ilja e Jiří se ne stavano piegati dentro l’armadio con le ante aperte. Tinkerbell batté le palpebre e fece qualche passo nella loro direzione. Jiří, finalmente, con un gran sorriso piantato in faccia, gli fece segno di avvicinarsi. Ruthie seguì Clay come un’ombra. Odiava ammetterlo, ma ogni tanto aveva paura, non era così scontato che non le sarebbe successo nulla stando accanto al genio, in Germania aveva davvero rischiato di rimetterci la pelle.

“Guarda” disse, sottovoce, come se qualcuno potesse sentirli. Ilja non sorrideva più, sembrava decisamente stordito.

La mano di Jiří si asprì e dentro Ruthie e Clay ci trovarono un topo. Un topo d’oro. Era assolutamente fedele all’originale, se si fosse mosso nessuno si sarebbe stupito più di tanto. Ruthie esalò un sospiro. Era proprio come le statue del museo di scienze naturali.

Rimasero in silenzio a fissare il topo nelle mani di Jiří, mentre la neve cadeva piano sulle loro teste. Era come se il tempo si fosse fermato, Ilja e Jiří erano sconvolti e felici per la scoperta, per Ruthie e Tinkerbell la cosa aveva tutt’altro significato.

Ci fu un mugolio e Ruthie alzò la testa per guardare Jiří, che aveva stretto il pugno intorno al topo. Urlò nel vedere il pomo d’Adamo dell’uomo muoversi, come se stesse singhiozzando. Il volto, fino a metà della bocca era dorato e la colata di metallo scendeva veloce. In un secondo anche il giubbotto divenne d’oro e Ruthie urlò di nuovo.

 

Aki_Penn parla a vanvera: spero davvero che il capitolo sia valso l’attesa, anche se fondamentalmente non è successo niente di interessante. XD Non ci posso fare nulla, mi piace che Jessie telefoni nei momenti peggiori, chissà se riusciranno mai ad avere una conversazione normale…

Credo che per il prossimo capitolo ci metterà ancora di più a venire fuori, anche perché volevo mettermi avanti anche con quello dopo ancora, prima di pubblicare il prossimo, questo mi aiuta a non dimenticarmi dei pezzi per strada, sono odiosa, lo so.

Grazie mille per aver letto, mi fate tanto felice. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** L'alchimia dell'oro ***


 Make a wish-
Capitolo dodici-
L’alchimia dell’oro –

 

Ruthie si sentì scaraventata dentro l’armadio da un colpo di Tinkerbell. Sbatté forte la schiena contro il legno marcio che, inaspettatamente, non cedette sotto il peso del suo corpo.  Ebbe il tempo di prendere fiato per poi vedere le ante che si chiudevano davanti a lei. Strillò, mentre Tinkerbell piantava la sua accetta nel mezzo delle due ante chiuse.
Ilja era paralizzato dal terrore, era rimasto immobile, con la testa incassata nel collo, come se cercasse di difendersi, accanto alla statua d’oro di Jiří. Non era nemmeno riuscito a rendersi conto da dove Tinkerbell avesse tirato fuori quell’accetta. Perché aveva un’accetta? Perché aveva chiuso la ragazzina nell’armadio? Voleva ucciderlo? Boccheggiò, le mani gli tremavano mentre Ruthie urlava qualche cosa che capì a malapena.
“Non lasciarmi qui, Tinkerbell!” strillò disperata da dietro le ante. Tinkerbell si voltò a guardare il ragazzo, subito dopo aver conficcato l’ascia nel legno. Non avrebbe potuto usare quel trucchetto per molto, ma sicuramente la bestia avrebbe avuto delle difficoltà a rimuovere la sua arma, avrebbero guadagnato del tempo. Sgranò gli occhi e li puntò in quelli del ragazzo ceco, deciso “Vieni con me” e lo prese per il bavero della giacca.
Ilja non era mai svenuto, fino ad allora, ma fu sicuro che ci si sentisse proprio così. Si sentì sollevare, mentre le forze lo abbandonavano, e per un attimo si sentì la testa vuota, mentre le sue membra perdevano di peso.
Quando si riprese dal calo di pressione, Tinkerbell lo teneva per le spalle, stretto. Entrambe le mani del ragazzo lo stringevano e i piedi non toccavano terra. Gli occhi del genio lo fissavano, sembravano non averlo mai lasciato. Era serio e sembrava tenerlo sollevato, era piccoletto, era bizzarro come compisse certe cose con tale facilità.
Gli sembrava di non toccare per terra, abbassò lo sguardo e si sentì svenire di nuovo. La stretta di Tinkerbell si strinse di più attorno alle sue spalle, quasi da fargli male.
Tutti i suoi pensieri erano corsi di qua e di là nella sua testa in un solo secondo e in quel momento fece uno sforzo immane per non smettere di pensare, ma se ci ragionava razionalmente gli sembrava impossibile che Tinkerbell potesse reggerlo ancora per molto, sarebbe caduto e si sarebbe sfracellato al suolo.
“Scusami” esordì il ragazzo del Kansas “è il primo posto che ho trovato” spiegò. Quando Ilja ebbe la forza di riaprire gli occhi constatò che il ragazzo che lo teneva per le spalle era in piedi su un cornicione e lo teneva appeso nel vuoto con le braccia tese in avanti, senza segno di sforzo.
“Chi sei tu? Hai fatto tu quella roba a Jiří?” piagnucolò. Tinkerbell scosse la testa “Io…” iniziò a dire, ma Ilja lo interruppe “Ti giuro che farò tutto quello che vuoi, ma non uccidermi, non ho fatto niente, non ho fatto nien…”
Clay lo scrollò “Stai zitto” sbuffò e Ilja singhiozzò ancora, sbavava, non riusciva a parlare.
“Non sono io quello che ha trasformato Jiří in una statua d’oro, non voglio ammazzarti”spiegò, asciutto. Non si era mai trovato in una situazione simile, ed era proprio scocciato. Prima di tutto aveva lasciato Ruthie chiusa in un armadio in balia della bestia, seppur protetta della sua accetta, secondo: non aveva idea di come fosse davvero quel tipo, non aveva fatto altro che ridacchiare in modo inopportuno e d’un tratto se l’era ritrovato a piangere e singhiozzare tanto da non riuscire nemmeno a parlare. Forse era una reazione normale, essendo sospesi nel vuoto, ma Clay continuava a essere diffidente.
“Chi sei tu, allora?” domandò poi, con le lacrime che continuavano a scendere, ma meno copiosamente di prima. Aveva ancora la bocca impastata, ma la voce si era fatta più ferma. Tinkerbell si chiese se non fosse semplicemente rassegnato, invece che speranzoso.
“Io sono uno che esaudisce i desideri. Ho bisogno che qualcuno desideri per me” spiegò lentamente. La questione rimaneva piuttosto nebulosa, era difficile spiegare tutto in modo veloce e convincente.
“Che cavolo dici?” disse Ilja, per un secondo dimentico di essere sospeso a mezz’aria.
“C’è qualcuno che trasforma le persone in oro, l’hai visto anche tu, no? Mi chiamo Clay Jennings, hai tre desideri da esprimere, sono al tuo servizio”
Ilja scoppiò a piangere, di nuovo, inaspettatamente, ancora sospeso a mezz’aria “Voglio andarmene da qui” biascicò.
Tinkebell imprecò e in un secondo si ritrovarono ai piedi dell’orologio di Praga, lontano dalla casa col buco nel tetto.
Ilja, aprì la bocca per respirare, le mani di Tinkerbell l’avevano mollato. Nevicava piano e faceva freddo, ma lui stava sudando e si sentiva ancora debole, barcollò, ma riuscì a rimanere in piedi. 
Solo dopo un po’ riuscì ad alzare lo sguardo per incrociare quello di Tinkerbell, si guardarono per qualche secondo e alla fine fu Clay quello che cadde per terra, sfinito. Ilja sobbalzò, preso alla sprovvista.
Clay non lasciò il suo sguardo “I desideri sono tuoi, non mi hai mai lasciato intendere che mi avresti aiutato, di solito scelgo i miei padroni con un criterio, ma questa volta tu sei la mia unica speranza. Ho lasciato là la mia assistente, devo andarla a riprendere, e non posso, senza il tuo aiuto” disse, affaticato.
“Chi diamine sei tu?” domandò Ilja, quasi spaventato, arretrando di un passo.
Clay alzò le spalle “Se te lo dicessi, ci crederesti?” domandò di rimando.
Ilja scosse la testa “Non ci torno in quel posto” disse, scuotendo la testa. Gli stavano venendo i conati di vomito al sol pensiero, mentre Tinkerbell tremava pensando a quanto tempo fosse passato. Quando ci sarebbe voluto alla bestia, per estrarre la sua accetta dall’armadio ed aprirlo? Doveva tornare indietro.
“Io sono qui per uccidere quella bestia, ma non posso farlo da solo” spiegò. “Sapevi che c’era qualche cosa di strano qui?” piagnucolò Ilja, le mani gli tremavano e sentiva freddo.
Tinkerbell annuì “Più o meno” ammise. Ilja mandò giù un boccone amaro.
“E non hai salvato Jiří” giunse il ragazzo alla sua conclusione. Clay si mordicchiò le labbra “Sono stato colto di sorpresa” ammise di nuovo, sentendosi in colpa, tra le sue priorità c’era che nessuno morisse, dal suo arrivo in poi.
“Chi mi dice che non sei tu quello che vuole uccidermi?” disse con un ghigno, come uno che si sente di aver fatto centro. Aveva ancora paura però, Clay glielo leggeva negli occhi. Lo guardò serio, prima di dire, lentamente “Se avessi voluto ucciderti l’avrei già fatto, non ci sarebbe nulla di più semplice che fracassarti la testa per terra, per me”
Ilja sentì il sangue congelarsi, e Clay sentì di aver detto una stronzata, il sangue gli era andato alla testa, Ruthie era ancora nella casa col buco nel tetto.
Ilja si morsicò il labbro e arretrò di qualche passo.
Tinkerbell non smise di fissarlo, Ilja lo vide rimanere per terra, sulle ginocchia, come se le gambe non reggessero più “Ti prego” supplicò, con lo sguardo fisso, era una preghiera decisa, onorevole, una di quelle alle quali non puoi semplicemente girare le spalle.
Ilja boccheggiò e si guardò in giro, come se qualcuno potesse indicargli cosa fare, ma la piazza era deserta, era notte fonda e faceva freddo. Gli veniva di nuovo da piangere.
“Cosa puoi fare contro quella cosa?” chiese, con la voce che gli tremava. Clay lo guardò per qualche secondo, fisso. “Tutto quello che vuoi” rispose infine, rimettendosi in piedi.
Non distolse lo sguardo nemmeno per un secondo “Quindi sei con me, Ilja?” domandò, con un tono che non ammetteva repliche.
 

***

Ilja non seppe neanche come si era fatto convincere, quando riappoggiò i piedi sul pavimento della grande sala col buco nel tetto aveva di nuovo il vomito e si sentiva in idiota. Cadde sulle ginocchia, provato dal viaggio, Tinkerbell l’aveva preso in braccio di peso, oppure tirato per la giacca, non ne aveva idea, e lui aveva avuto giusto il tempo per vedere qualche luce praghese nella notte e farsi sferzare un po’ il volto dall’aria, che già erano tornati in quel posto che tanto voleva rifuggire.
“è meglio se ti alzi” consigliò Tinkerbell, allontanandosi da lui di qualche passo.
Ilja alzò la testa, ancora un po’ stordito, per rendersi conto che la stanza era molto più illuminata di come l’avevano lasciata. Batté le palpebre, studiando la zona. Clay, con la testa piegata da una parte, sembrava fare lo stesso.
“Cos’è successo qui?” domandò, stancamente, alzandosi da terra, come poteva. La statua di Jiří era ancora dove l’avevano lasciata, l’oro con cui era fatta pareva luccicare, e lo stesso la colata di cui era coperto gran parte dell’armadio.
V’erano strisce d’oro in qua e in là nella stanza, come se fosse colato casualmente dal cielo. L’accetta che Tinkerbell aveva conficcato nell’armadio, però, era ancora di legno e metallo come era sempre stata. Clay non se ne stupì e l’afferrò per il manico per estrarla dalla sua posizione. Tirò e le ante dell’armadio si aprirono, riversando sul malcapitato genio una valanga di rabbia.
Per poco Ruthie non cadde per terra per l’impeto “Mi hai lasciata qui!” urlò furibonda, cercando di picchiarlo coi piccoli pugni chiusi.
Tinkebell alzò il braccio per difendersi alla meglio “Ma eri dentro l’armadio!” cercò di spiegare.
“Mi hai lasciato in balia di una bestia!” strillò ancora lei.
“Mi sembra che tu stia benissimo. Quanta energia, Ruthie” disse, schivando un gancio destro che mirava al suo naso. Ilja li guardava in silenzio, sentiva ancora i conati di vomito che tornavano verso la propria gola, ma andava meglio.
Ruthie si fermò nel bel mezzo della sala, discretamente illuminata dall’oro, con il fiatone “Sei un deficiente” sbottò ancora, piuttosto offesa, ma decisa a non rincorrerlo più. Clay strinse la mano sull’impugnatura dell’accetta e guardò Ilja, che scrutava il cielo scuro, continuava a nevicare piano, ma il pavimento era tutto ricoperto di neve.
“Non sarà una notte calda, immagino” disse rivolto al genio, senza guardarlo, stancamente.
“Mi spiace, Ilja” disse Tinkebell, sincero, mentre Ruthie gli si avvicinava, con le braccia conserte, cercando anch’essa di trattenere il calore dentro di sé. La rabbia era un po’ sfumata, aprì la bocca per dire qualche cosa, ma qualcun altro parlò al suo posto “Buonasera” dissero dall’alto.
Clay si sentì come se fosse stato colpito da una lama di ghiaccio, e alzò la testa, avvicinando Ruthie a sé, tirandola per un braccio, con un gesto involontario. Automaticamente anche Ilja si avvicinò ai due, con un balzo, mettendosi dietro il genio e alzando la testa.
Tutta la loro attenzione era ormai rivolta alla figura che si trovava a sedere su una trave marcia del tetto, una delle poche che rimaneva ancora in piedi.
“Non sei una donna, quindi  non puoi essere Chismes, hai tutte e due le gambe, e anche tutti i capelli, quindi non puoi essere né Silk né il Capitano, sei troppo basso per essere Skog e troppo pallido per essere Fatalii o Bloom. Non hai gli occhi a mandorla e il tuo famiglio è una ragazzina” elencò, con una rapida diagnosi la figura “Devi essere per forza Tinkerbell”
Tinkerbell annuì e la bestia sorrise “Piacere di conoscerti, mio caro” disse con una nota di cortesia sarcastica.
Ruthie non lo vedeva bene, ma doveva essere un uomo, un uomo con i capelli lunghi quanto lei.
“Oto?” chiamò Ilja, perplesso, guardando in alto. La bestia si voltò verso di lui e si chinò da una parte, sempre tenendo le gambe a pendere dalla trave su cui stava seduto.
Si appoggiò al legno con il gomito e la luce che proveniva dal basso gli illuminò il viso, così che Ruthie e Clay potessero distinguerne i lineamenti.
Era un uomo molto magro, coi baffi e l’aria sudicia. “Ilja, non ti avevo proprio visto. Sei venuto qui a portarmi questa seccante sorpresa?” domandò, indicando Tinkerbell, che fremeva dal basso. Non era sicuro che seguirlo sui tetti fosse una buona mossa.
“Cosa ci fai qui? Qualche cosa ha ridotto Jiří una statua d’oro, dovresti andartene” lo mise in guardia, serio, con le sopracciglia inarcate.
Oto, dall’alto della sua trave, parve stupito, la sua bocca si era trasformata in una “O” di sorpresa, e una mano era finita sulla sua bocca come per coprirla da uno scempio.
“Non dargli confidenza, quello non è il tuo amico Oto” sbottò Tinkerbell stringendo i pugni. Ruthie fece un passo in avanti per avvicinarsi a lui.
“Sì, lo so che Jiří è diventato una statua. Presto lo sarai anche tu, non te ne preoccupare” disse l’uomo, tranquillo.
Ilja fu pervaso da un brivido, e subito dopo venne il caldo torrido.
Clay chiuse gli occhi un attimo, quando li riaprì la bestia stava cadendo di sotto, con loro, proprio di fronte a Ilja.
Non ne ebbe il tempo, Tinkerbell lo afferrò per una caviglia e lo scaraventò contro il muro. Per un pelo, con la testa dell’uomo, non investì Ruthie, che si allontanò dal genio camminando all’indietro, avvicinandosi a Ilja. Il ragazzo era a bocca aperta, terrorizzato e stupefatto allo stesso tempo.
Ruthie si voltò verso di lui “Non sprecare i tuoi desideri per cose inutili” comandò, respirava forte, come se avesse avuto il fiatone. Non era certo la prima bestia che vedeva, ma non ci si abituava mai. Lei non era Tinkerbell, ci voleva poco per ucciderla, e lo stesso valeva per Ilja.
“Non vorrei essere qui” ansimò. Ruthie annuì, tenendolo per un braccio “Nemmeno io, ma non sprecare un desiderio dicendo voglio per sbaglio” disse ancora. Cercava di parlare piano e di scandire le parole, Ilja capiva l’inglese, ma non così bene. 
La bestia si era rialzata e Tinkerbell aveva afferrato più saldamente la sua accetta, con tutta l’intenzione di mirare al collo, subito. Prima si prendeva il seme striato prima quella storia sarebbe finita. Aveva già perso una delle persone con cui si era diretto lì. La statua di Jiří lo guardava con aria inquisitoria, dalla sua posizione, vicino all’armadio.
Oto si alzò, un po’ traballante, ma con un mezzo sorriso stampato in faccia. Con un braccio si riavviò all’indietro i capelli che gli fluivano davanti alla faccia come una cascata castana.
Tinkerbell alzò l’accetta pronto a colpire. Non c’era nessun codice d’onore nel suo modo di combattere, non gliene fregava nulla di colpire alle spalle, mutilare, tranciare o colpire un nemico che era già a terra, le bestie non avevano sentimenti, non avevano paura di morire, e da quando lo vedevano il loro unico scopo era quello di disintegrare lui, il suo padrone e il suo famiglio.
Inaspettatamente il suo fendente si bloccò a dieci centimetri buoni dalla testa riccia e lurida di Oto. Tinkerbell strabuzzò gli occhi e Oto rise.
Un lungo bastone dorato e gocciolante di metallo fuso aveva fermato l’arma di Tinkerbell, e questo era molto divertente per la bestia.
Tinkerbell digrignò i denti e si piegò un poco in avanti, facendo pressione sull’accetta incrociata al bastone di Oto. Lo vide bene in faccia.
Aveva un pizzetto lurido come i capelli, due orecchini all’orecchio destro, gli zigomi sporgenti, il viso allungato e sudato.
Oto ritrasse il bastone, tirandolo verso di sé e in un secondo lo spinse di nuovo in avanti, dritto, contro il volto di Tinkerbell. Clay si scostò da una parte, mentre una delle estremità del bastone diventava una punta acuminata.
La punta della lancia scagliò l’occhio, ma gli provocò un piccolo graffio superficiale. Nulla di ché, si disse, mentre il sangue gli colava sulla gota. In un secondo da rosso divenne dorato, scrosciando bollente come metallo fuso sul suo viso.
Tinkerbell emise un grido, mentre l’oro gli bruciava la carne. La bestia rise e con un salto si appollaiò sull’armadio marcio, parzialmente ricoperto d’oro.
“Suvvia, Tinkerbell, per così poco” lo schernì. Clay ringhiò e fece un balzò fino a lui, ma proprio in quel momento Oto saltò nuovamente sulla trave del tetto sulla quale era apparso. Tinkerbell lo seguì nella notte scura.

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** La bocca sul pavimento ***


Make a wish-
Capitolo tredici-
 La bocca sul pavimento –

 
Ruthie e Ilja rimasero soli nella stanza a respirare forte, Ruthie si era stretta forte alla giacca del ragazzo, un po’ perché aveva paura, un po’ perché non voleva che scappasse.
“Non capisco” ansimò lui, in inglese “quello è Oto, sta alla stazione, di solito” scuoteva la testa, senza capacitarsi. Ruthie scosse la testa a sua volta “Non è vero. Cioè, sì, ma diciamo che non è più propriamente lui” spiegò imbarazzata. Ilja si morse le labbra e si voltò verso di lei “Che cosa vuoi dire? Non ti capisco” e sembrava quasi arrabbiato.
Ruthie si umettò le labbra, a disagio “È difficile da spiegare” cominciò “è come se ti impiantassero un seme in testa e d’un tratto non fossi più tu”
“Non dire sciocchezze” sbottò Ilja. Ruthie lo guardò torvo “Quello sbrodola oro fuso ovunque e tu non credi a quello che dico io?” domandò, seria e anche un po’ arrabbiata. Ilja arrossì, non poteva dire che la piccoletta non avesse ragione. Mosse di nuovo la testa, come per dire no a una domanda che non gli era stata fatta.
“Perché?” domandò, triste. Ruthie alzò le spalle “Esattamente non lo so, ma qualcuno vuole il nostro sangue”
Nonostante la tensione a Ilja scappò un sorrisetto “Sembra tanto una storia fantasy”
“Ho sempre preferito i gialli” sentenziò lei, rigida, poco incline ad abbassare la guardia. Si sentiva come se da un momento all’altro la bestia potesse spuntarle alle spalle, chissà come se la stava cavando Tinkerbell.
“E di Oto? Cosa ne sarà di lui?” domandò Ilja, riprendendo la parola, sembrava di nuovo agitato.
Ruthie scosse la testa “Non lo so. Dipende da quanto tempo ha addosso il seme”
“E che cosa succede se ce l’ha da troppo tempo?” domandò ancora lui, con la voce che gli tremava.
Ruthie fece una smorfia, non le faceva piacere spiegare certe cose, per chi non aveva toccato con mano certe situazioni era complicato da capire “ Beh, in quel caso se Tinkerbell si prende il suo seme, il corpo di Oto scomparirà nell’aria come cenere”
Ilja batté le palpebre qualche volta, stringendo i denti “E quanto tempo ci vuole perché succeda questo?”
Ruthie alzò le spalle “Dipende, c’è chi ci mette anni, chi solo qualche giorno”
Ilja respirò forte, gli stava tornando la nausea.
Un rumore li distrasse entrambi, e alzarono la testa per vedere Oto e Clay sul bordo del tetto bucato, in bilico su una trave dorata.
La spada d’oro della bestia puntò nuovamente al volto del ragazzo. Tinkerbell non avrebbe potuto scansarlo, metà della sua faccia era già dorata, compreso l’occhio, che era diventato cieco. Non poteva correre il rischio di perdere alche l’altro. Aveva provato a passarci sopra la mano, ma non funzionava come con le ferite.
Parò il colpo col bracciale argentato de braccio destro, quello che impugnata l’accetta, e la spada colpì dritto il polso. Il bracciale non cambiò di una virgola, sia quelli che l’accetta parevano immuni alla trasformazione, diversamente dal suo corpo, dove la carne bruciava, sotto l’oro.
Afferrò l’accetta con la mano sinistra e indietreggiò di un passo verso il vuoto. Oto ghignò, ma di nuovo Tinkerbell tornò in avanti mirando al volto, non voleva più solo prendere il seme d’Ortica, desiderava macellarlo e disintegrarlo. Sentiva la rabbia montargli dentro, mentre metà dei suoi denti erano ormai d’oro.
Oto blocco nuovamente il colpo con la sua spada d’oro, che tornò ad essere una lancia.
Si fece scudo con quella e poi ne afferrò la parte lunga con tutte e due le mani. La lancia si divide in due spade di metallo gocciolante.
Tinkerbell sudò freddo: quello poteva diventare un problema. Poteva riuscire a parare i suoi colpi, ma non aveva idea di come poteva colpirlo. Indietreggiò ancora, verso la fine della trave che la bestia aveva toccato facendola diventare dorata.
Ruthie e Ilja stavano guardando la scena dal basso, lui a bocca aperta, lei a denti stretti.
“Devi esprimere un desiderio che lo aiuti ad ammazzarlo” sentenziò, tra i denti.
“Che cosa devo desiderare?” domandò, con la voce che gli tremava di nuovo. Ruthie scosse la testa “Davvero non ne ho idea”
Fu in quel momento che Ruthie sentì la terra mancarle sotto i piedi. Abbassò lo sguardo e urlò. Ilja fece appena in tempo a fare un passo indietro, mentre Ruthie scivolava in basso.
Il ragazzo guardò davanti a sé senza capire per davvero cosa stesse succedendo, Ruthie urlava, ma lui a malapena la sentiva. Sul pavimento sembrava essersi aperta una gigantesca bocca piena di oro fuso. Era una bocca con le labbra, e a uno di quei labbri giganteschi era appesa Ruthie, immersa per metà nel metallo liquido.
Stringeva la sporgenza con le mani, il dolore alla parte inferiore del corpo era lancinante, la sua carne stava andando a fuoco, fumava, a contatto con l’oro fuso. Si stava letteralmente cuocendo.
Ilja dovette guardare quello strazio per qualche secondo prima di accorgersi di ciò che stava succedendo e di correre in avanti cercando di aiutarla.
Il viso della ragazza era una maschera di dolore, rosso e rigato dalle lacrime, non riusciva a tenere gli occhi aperti dal dolore.
Ilja si piegò in avanti e l’afferrò per le braccia, Ruthie paralizzata dal terrore e dal dolore si lasciò  sollevare senza muovere un muscolo.
Fu quando aveva già tirato su le gambe di Ruthie per metà che la bocca ricominciò ad aprirsi. Ilja si sbilanciò in avanti, tanto che il corpo di Ruthie si immerse ancora di più e lei urlò ancora, disperata, mentre anche le sue anche se ne andavano in quella massa di metallo incandescente.  Uno schizzò bollente finì sull’avambraccio di Ilja, che per il dolore mollò Ruthie, lei si attaccò al suo collo, disperata, mentre il braccio del ragazzo bruciava, e si trasformava in oro, fino al gomito.
Ilja non vedeva più niente, gli occhi erano annebbiati dalle lacrime, avrebbe preferito che glielo tagliassero, non aveva mai provato nulla di così doloroso. Cadde all’indietro, portandosi dietro Ruthie, col volto pieno di lacrime e le braccia strette convulsamente al collo del ragazzo.
“Voglio che si chiuda, voglio che si chiuda!” urlò con voce roca, con la voce impastata dalle lacrime, dal muco, il sudore e la saliva.
Aveva appoggiato la testa sul pavimento lercio, mentre Ruthie gli stava ancora addosso, inerme, con le gambe luccicanti d’oro.
La ragazza piagnucolava sommessamente sulla sua spalla, il pianto di un cagnolino. Ilja ansimava, come se avesse fatto una corsa, ma pian piano il dolore al braccio scomparve e scomparve anche lo stesso braccio.
Il ragazzo alzò la testa allarmato, constatando che il suo braccio era diventato d’oro, non lo sentiva più non poteva più muoverlo, era il braccio di una statua.
Ruthie alzò la testa in quel momento, si guardarono “Non sento più le gambe” disse lei, in un soffio, era sudata e bagnata dalle lacrime.
Per un secondo se ne erano scordati, ma stava ancora nevicando sopra le loro teste.
Si guardarono indietro, per controllare cosa fosse successo, la bocca d’oro fuso non c’era più. Ruthie ansimò e Ilja la spostò da sé in modo poco cortese, facendola rotolare sul pavimento, mentre lui si alzava.
La ragazza si accigliò e cercò di sollevarsi sul gomiti. Si guardò le gambe, erano dorate, erano dorate le sue anche e il bordo del suo largo cappotto. Era fisicamente impossibile che si potesse sopravvivere in quelle condizioni, una parte dei suoi organi vitali erano stati trasformati in oro, ma lei non sentiva più dolore.
A sorpresa si sentì sollevare per le ascelle e emise un urlo spaventato “Sono io” disse Ilja, alle sue spalle, e Ruthie si zittì.
Il ragazzo cercò di metterla in piedi, cosa resa più difficile dal fatto che anche il suo braccio era bloccato come se fosse stato ingessato. Il problema principale era che i piedi di lei si erano bloccati come se stesse cadendo, sulle punta, come una ballerina, era impossibile tenerla in equilibrio.
“Maledizione” ringhiò Ilja nella sua lingua, Ruthie non capì, ma se ne stette zitta.
Tinkerbell, più in alto, aveva il fiatone. Odiava non vederci da un occhio, odiava non riuscire a colpirlo senza rischiare di vedersi trasformata in oro un’altra parte del corpo.
Qualsiasi colpo, qualsiasi fendente veniva respinto da Oto, che lo parava con la sua lancia. Tinkerbell ringhiò e lui ridacchiò sotto i baffi, proprio come faceva la bestia di Rosenrot, per loro era così naturale e divertente, loro erano stati  creati per quello, ma Tinkerbell aveva tutt’altro background, doveva essere in Kansas a festeggiare il Natale in quel momento, non lì a cercare di ammazzare un ex senzatetto che l’aveva accecato.
Preso da una furia cieca si buttò di nuovo in avanti e batté con forza l’accetta sul manico della lancia di Oto, la quale schizzò come se fosse ancora liquida. Per lo meno aveva di nuovo una sola arma.
Una goccia d’oro, schizzata dalla lancia di Oto al momento della collisione con l’accetta,  gli arrivò su una mano e si asciugò con uno sfrigolio doloroso. Tinkerbell ringhiò e menò l’arma con ancora più furia, mentre Oto parava, senza riuscire però ad attaccarlo a sua volta.
L’accetta di Clay si abbatté di nuovo sul manico della lancia della bestia, ma questa volta Oto fu più veloce e la mosse come se fosse stato un giocoliere, ritrasse l’arma senza mai smettere di fare pressione contro l’ascia di Tinkerbell e la rigirò in modo che il fondo colpisse il viso del genio. Tinkerbell alzò il braccio appena in tempo per fermare il colpo, che si fermò contro il bracciale argentato che aveva attorno al polso.
Ciò che non si aspettava fu che Oto compisse la stessa mossa con l’altra estremità della lancia. La bestia fece ancora pressione sull’accetta del ragazzo per scivolare nell’altra direzione, Clay ritrasse l’arma, ma la punta del giavellotto si era già conficcata nel suo ginocchio.
Tinkerbell strinse l’occhio buono e digrignò i denti, ma la bestia non ebbe modo di congratularsi troppo con sé stessa perché venne colpita da un calcio nello stomaco che la scaraventò giù dal tetto. La suola della scarpa divenne d’oro fuso in un istante.
Clay ansimò, la sua gamba destra era rigida, il ginocchio era d’oro massiccio, ma il resto funzionava ancora. Sospirò, chinandosi un poco per riprendere fiato.
Buttare una bestia giù da un tetto poteva dargli un attimo di vantaggio, ma non se ne poteva certo sbarazzare così velocemente.
Si rese dolorosamente conto  che ogni operazione era più difficile, dato che una delle sue ginocchia rifiutava di collaborare. Si asciugò il sudore dalla fronte e poi si disse che a Silk mancava una gamba da una vita, non si sarebbe fatto fregare da una giuntura poco collaborativa.
Saltò giù dal tetto fin dentro la stanza dove stavano Ruthie e Ilja, si guardarono. Il ragazzo la teneva su a stento.
“Puoi fare qualche cosa?” domandò lei, seria, doveva aver pianto un bel po’.
Tinkerbell respirò forte, con un’espressione contrita sul volto, mentre si avvicinava zoppicando. Scosse la testa, stancamente “No, non è come avere delle ferite, ma se evitiamo di farci ricoprire d’oro dalla testa ai piedi credo che quando mi sarò preso il suo seme potremo tornare normali” ipotizzò.
“Quindi anche Jiří?” chiese Ilja speranzoso, protendendosi un po’ in avanti. Tinkerbell, che stava per prendersi l’onere di sostenere Ruthie, si voltò a guardare cosa rimaneva di Jiří, poi si voltò di nuovo verso il ragazzo “Lui è già morto, non posso cambiare questo tipo di cose” sentenziò, serio.
Ilja abbassò la testa e strinse di più Ruthie, che alla fine rimase tra le sue braccia. Tinkerbell non si ribellò e voltò loro le spalle.
“Ciò che più mi preoccupa è che sfrutti il mio angolo cieco. Mi ha tolto un occhio” disse, rabbioso.
“Lo farà di sicuro” commentò Ruthie, con la voce di chi è davvero stanco.
“Hai già deciso cosa vuoi che faccia?” domandò poi a Ilja, girandosi verso di lui, ma cercando di rimanere vigile in modo da non venir attaccato di sorpresa.
Ilja scosse la testa “Io non so, non so davvero…” incominciò tremante. “Qualche cosa che lo ammazzi” ribadì Ruthie, seria.
Per poco una goccia dorata non centrò in pieno Tinkerbell che si scostò appena in tempo. Quella si schiantò per terra, schizzando contro la parete e contro un vecchio comò malridotto.
I tre rimasero sull’attenti, mentre copiose gocce cadevano dall’alto unendosi a quelle già scese. Tinkerbell rimase a guardare senza fare nulla, mentre Oto riprendeva forma pian piano. Con poteva combattere contro una massa informe del genere, o forse no…
Non aveva idea di come funzionasse quel corpo e dove si trovasse il seme d’ortica in quel momento, nel dubbio zoppicò in avanti e tagliò a metà la figura informe, che si rovesciò, liquida, in due parti. Non ci volle molto perché le due masse dorate si fondessero insieme tra loro e le ultime gocce cadute dall’alto. Non aveva idea di cosa fare davanti a quello spettacolo, e Oto sembrò capirlo, perché quando riprese le sue sembianze umane ghignò.
In un attimo aveva nuovamente la picca liquida tra le mani. La spinse in avanti, deciso, e Tinkerbell la parò per un pelo con l’accetta. Il ragazzo si protese in avanti, ma mancò di nuovo il suo bersaglio, con un occhio di meno e una gamba mal funzionante non riusciva a gestirsi.
Fu in quel momento che Ilja ebbe la sua ispirazione e strinse più forte le spalle di Ruthie “Voglio che tu lo faccia diventare una statua d’oro, voglio che faccia la stessa fine di Jiří!” strillò da perdere il fiato, nella sua lingua.
Clay batté la palpebra dell’occhio buono e sospirò, pronto a esaudire il desiderio. Allungò la mano libera e afferrò quella della bestia, presa alla sprovvista. Non poté fare a meno di urlare di dolore, mentre sentiva il braccio diventare d’oro stringendo con la mano nuda il braccio di Oto, ma spinse la mano in avanti. Solo in quel momento la bestia si rese conto di ciò che Tinkerbell stava facendo.
Appena il viso di Oto fu toccato dalla propria mano iniziò a trasformarsi in una statua proprio come aveva fatto Jiří. Il braccio di Clay era ormai di metallo lucente fino al gomito, le la trasformazione non si fermava, ci sarebbe voluto poco per arrivare fino alla spalla.
Oto afferrò il braccio di Tinkerbell, in un ultimo disperato tentativo di fermare il genio,  ma ormai non rimaneva più nulla da trasformare in oro, la bestia era diventata una statua. L’oro aveva coperto ormai tutto il braccio del ragazzo, la spalla, la scapola, la clavicola e buona parte del fianco.
Clay prese un lungo sospiro, il braccio faceva male e lui e Oto erano ormai la stessa brutta statua. Guardò col suo unico occhio la cima della testa di Oto, lì dove stavano i capelli d’oro. Una crepa si fece spazio con un crac sinistro, segno che la bestia sarebbe tornata alla carica molto presto. Strinse i denti e affondò l’ascia nel collo di Oto, fino a staccarla, il problema stava nel fatto che il suo braccio fosse ancora attaccato alla testa dell’uomo. Ringhiò di rabbia e la colpì di nuovo col manico della propria arma, mozzandosi anche la mano per fare più in fretta. Non sentì dolore, quella mano non era quasi più sua. Diverse schegge preziose saltarono per la stanza.
Nell’attimo in cui la mano di Oto, che stringeva il suo braccio metallico, tornò umana, Tinkerbell estrasse un seme striato da dentro il suo collo.
La bestia decapitata cadde per terra, di nuovo umana, mentre la sua testa era sparsa in mille pezzi per il salone.
I tre guardarono la bestia dissolversi in cenere, ancora bloccati come statue preziose. Ilja appoggiò la testa sulla spalla di Ruthie.
Tinkerbell sbuffò, avrebbe voluto pulirsi le mani come per dire che si erano liberati di una scocciatura, ma gliene mancava una. Guardò i due che erano nella stanza con lui “E così ci siamo liberati di questo Re Mida dei poveri…” sentenziò.
 

***
 
‘Leandra se ne stava immobile sul suo letto matrimoniale, mezza nuda per il caldo. Era una stanza tonda e sfarzosa, ma faceva troppo caldo.
Era troppo piccola rispetto all’uomo biondo e gigantesco che le dormiva accanto russando, anche lui mezzo nudo, era difficile mantenere una certa integrità in quel posto.
Era piuttosto giovane per trovarsi in quel letto, dicevano alcuni, e se lo diceva anche lei, ma certe cose capitano quasi senza accorgersene.
La finestra era aperta e ‘Leandra poteva guardare fuori. Poteva vedere un paio di torri, una che sembrava fatta d’oro -  la più bella, la sua preferita - e una di ghiaccio, quanto l’agognava, il legno infuocato in cui viveva la faceva impazzire, cosa avrebbe dato per il po’ di fresco.
Fissava quella lunga colonna, agognante, senza nemmeno avere la forza di spostare la lunga treccia bionda che stando sulla sua schiena le dava ancora più caldo.
Fu in quell’attimo che accadde: ‘Leandra urlò, mentre la torre d’oro cadeva. L’uomo accanto a lei sobbalzò, mentre la ragazza correva alla finestra a sporgersi. La torre d’oro era caduta, avevano perso un altro seme.
“No! No!” strillò lei, mentre l’uomo gigantesco la raggiungeva alla finestra. Tre o quattro guardie sudate e in divisa entrarono nella stanza sbattendo la pesante porta di un rosso accesso. Le pareti di legno caldo sembravano essere ancora più bollenti.
“Maestà!?” chiamarono quasi in coro. Il re e la minuscola regina si voltarono a guardarli, con i volti pallidi “Un’altra bestia è andata” li avvertì il re, dalla loro posizione non avevano potuto scorgerne la caduta.
‘Leandra allungò la mano nella loro direzione e due gigantesche braccia fatte di rami e foglie intrecciati si affrettarono a chiudere il portone della loro camera da letto, trascinandosi dietro le guardie “Fuori, per favore” disse poi, con la maggior cortesia e sicurezza che possedeva. Non era tipo al quale si potesse dire di no, si diceva che il re l’avesse sposata proprio per quel motivo. C’era poi chi diceva che l’avesse sposata perché era ubriaco, ma erano malelingue.
‘Leandra si sporse più che poteva per guardare giù e vedere il cadavere della torre d’oro mezzo affondato nel mare di sangue nella quale erano immerse le radici di tutte le torri del Giardino delle Ortiche, compresa la loro torre di fuoco.
“Il mare di sangue si sta abbassando” sussurrò. Il re annuì “Convocherò il consiglio” le disse e poi urlò, in direzione dei soldati che sostavano al di là della porta “Chiamatemi la Mosca!”

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** La palafitta sull'oceano e gli otto inviti ***


Make a wish-
Capitolo quattordici-
 La palafitta sull’oceano e gli otto inviti –

 
“Guarda, Clay, non ne posso più qui, sembra una gabbia di matti da quando tuo fratello è tornato a casa per le vacanze. Mi chiedo come abbia fatto a venir su così, non è mica colpa mia e di tuo padre” sentenziò la signora Jennings dall’altra parte del telefono “per non parlare poi dell’amico piromane e narcolettico di tua sorella” aggiunse.
“Chi?” chiese Clay, un po’ perplesso, sua madre sbuffò “Un ottantenne incontinente che sta al reparto ortopedia. Fa impazzire me e le infermiere, non mi piacciono queste cattive amicizie di Jessie”
“Immagino” commentò Clay, ma sua madre non notò il sarcasmo.
“Ci dispiace che tu non possa esserci, comunque non ti sei perso il tacchino di Glen, le infermiere gli hanno impedito di portarlo in camera, quindi non abbiamo ancora pranzato. Buon Natale, tesoro mio, la nonna ti saluta e ti dice di stare  attento e non sudare”
Tinkerbell sorrise al tramonto tropicale “Buon Natale anche a te, saluta tutti” interruppe la chiamata e infilò il telefono nella tasca dei pantaloni leggeri.
Lui e Ruthie si guardarono “Allora? Sei contenta? Siamo venuti ai tropici per Natale, fa caldo!” sentenziò, con un sorriso.
Ruthie era contenta, inequivocabilmente, ma alzò le spalle “Tu però vorresti tornare a casa” disse, non era una domanda. Fu il turno di Tinkerbell di alzare le spalle “Va bene anche così, comunque li ho salutati, e in ogni modo, sarebbe strano se tornassi a casa così presto, ce la siamo cavata in fretta a Praga”
Ruthie annuì con un sorriso, era felice di passare il Natale con qualcuno, le visita a suo padre non durava più di mezz’ora al giorno.
“Ti va un Mojito?” domandò, con i piedi immersi nella sabbia bianca a pochi passi dalla riva. Ruthie annuì, nonostante lo splendore del posto era una zona abbastanza turistica e a poca distanza stava un capannotto dal tetto di paglia dove si servivano drink. Si domandò se Tinkerbell conoscesse quel posto perché ci aveva combattuto una bestia o c’era solo venuto in vacanza.
Il ragazzo si alzò risalendo la spiaggia chiara, fino ad arrivare al bar e a sedersi sullo sgabello di fronte al bancone. Un ragazzo del posto, che stava asciugando bicchieri, gli sorrise. “Due Mojito, per favore” ordinò Clay, il ragazzo sorrise ancora e si mise a cercare la menta, mentre Clay dirigeva lo sguardo sulla spiaggia, dove stava, tranquilla, Ruthie.
Gli scocciava non passare il Natale con Jessie, ma gli dispiaceva anche lasciare Ruthie alla sua proverbiale solitudine.
“Ecco i due Mojito” dissero dall’altra parte del banco, Tinkerbell si voltò e per poco non cadde dallo sgabello per la sorpresa “Che cacchio fai?” sbraitò.
“Ti preparo i Mojito” rispose Diablo, che aveva preso il posto del barista, con aria piuttosto offesa.
Clay si guardò in giro preoccupato, fissò gli occhi su Diablo e poi su Ruthie, con la bocca leggermente aperta per la sorpresa “Non sono venuto qui a far male a Ruthie” sentenziò l’uomo coi capelli rossi, accigliandosi “Lo sai che non toccherei una donna nemmeno con un dito” disse contrito, poi aggiunse “ a meno che non sia una bestia o un genio”
Tinkerbell sorrise “Hai avuto da ridire con Chismes ultimamente?” domandò.
Diablo borbottò qualche cosa che suonava molto come gli ombrelli vanno usati per la pioggia.
“Che fine ha fatto il barista?” chiese, ricordandosi solo allora della sparizione dell’uomo. Diablo alzò le spalle “Nella dispensa, a cercare questa” spiegò, alzando una bottiglia di rum “ma l’ho presa io, è il mio preferito, tra l’altro. Quasi quasi me la porto a casa” aggiunse dando un bacio alla boccia. Tinkerbell alzò gli occhi al cielo, imbarazzato.
“Allora non sei qui per derubarmi?” domandò Tinkerbell, ancora sospettoso.
“Non se ne parla!” esclamò l’uomo dall’altra parte del bancone con rinnovata enfasi “Non so che abitudini abbiano al Grande Mare, ma è Natale e io sono in vacanza, chi se ne frega di voi geni e dei vostri semi”
Sentenziò, mentre Clay ridacchiava, dando un’altra occhiata furtiva a Ruthie.
“Ho anche saltato la riunione con il nostro informatore. Cloris mi stordirà di lamentele, ma proprio non avevo voglia di sorbirmi le lagnanze di Ebén, tutte le volte che mi vede dice che somiglio tanto a Dirk, il suo vice, che è stato esiliato, e che dovrebbero cacciare via anche me. È davvero una piaga”
Clay guardò di nuovo il suo drink “Sei sicuro che non siano avvelenati? Non voglio trovarmi Ruthie rigida a zampe all’aria”
Diablo scosse la testa “Non rovinerei mai un Mojito con del veleno, dai, dovresti saperlo”
Tinkerbell ridacchiò “Allora ci vediamo” disse, scendendo dallo sgabello e tornando verso la spiaggia.
“Ehi!” esclamò Diablo vedendo tornare il barista.
“E lei chi è?” strillò lui, ci fu un po’ di trambusto e poi il pirata sparì dentro una porta e l’uomo non lo trovò più.
 

***


Juanito non si aspettava un lavoro del genere, quando aveva risposto all’annuncio di un vecchietto che cercava un segretario. Si era ritrovato a fare da assistente a un vecchio strambo e strabico con una barba degna di Babbo Natale, ma con molta pancia in meno. Aveva un umorismo un po’ macabro e c’era da chiedersi come facesse a stare in piedi su quelle fragili gambette. Nonostante le apparenze, rimaneva molto vispo.
La cosa più assurda però era che la sua casa era una palafitta. Una palafitta nel bel mezzo dell’oceano. Veleno gli aveva detto che probabilmente la sua dimora l’avrebbe stupito un po’, ma che se non soffriva troppo di reumatismi la vicinanza con l’acqua non gli avrebbe dato fastidio. Anche dopo queste parole Juanito si aspettava di tutto tranne che un posto simile.
Le sue mansioni erano quelle di una domestica, lavava, cucinava, faceva il bucato e, quella più importante, rispondeva al telefono, cosa per la quale Veleno pareva averlo assunto.
Di solito era un tizio iracondo, che Juanito, nei suoi anni di lavoro presso Veleno, aveva conosciuto e identificato come un giapponese con la cresta, quello che telefonava. In quei casi Veleno gli diceva di inventarsi una scusa e dire che era uscito a fare una passeggiata, cosa abbastanza improbabile, dato che si trovavano nel mare più aperto. C’era anche da chiedersi come facesse la linea del telefono ad arrivare fin lì, Juanito se l’era chiesto più volte.
In ogni modo, Juanito sapeva combattere lo stress provocato dalla vita passata col signor Veleno – così diceva di chiamarsi il vecchio col bastone da passeggio – i puzzle.
Quelli erano sempre stati la sua passione. Quando era stato assunto se ne era portati dietro una discreta quantità e appena il signor Veleno si addormentava e lui non aveva più compiti da svolgere ne tirava fuori uno.
Quello che stava provando a finire da diverse settimane era l’immagine di due leoncini. Duemilacinquecento pezzi, la gioia per un fanatico.
Infilò un pezzo esatto, concludendo così il cielo alle spalle dei due felini, c’era ancora tanta strada da fare, ma era la parte divertente.
Alle sue spalle sentì battere le mani e in un secondo tutti i pezzi di puzzle si unirono tra di loro componendo insieme la figura che faceva bella mostra di sé sulla scatola. Juanito si voltò di scatto, trovandosi davanti il vecchio strabico che ridacchiava tra sé “Basta trastullarsi, Juanito, ho deciso che organizzeremo una bella cena di famiglia!”
 

***

 
Il cielo di Dubai era scuro e sereno e Dirk poteva vederlo bene dalla cima del Burj Khalifa, il grattacielo più alto della città. Respirò l’aria fresca, a quell’altitudine si stava molto meglio che a terra, gli era sempre piaciuto stare in alto. In quel paese si moriva di caldo in estate, perciò starsene sui tetti era una buona idea per combatterlo, mentre il clima invernale gli ricordava un po’ il Grande Mare.
Si strofinò gli occhi per vedere meglio il mare. Portava una maglietta rossa con le maniche corte e dei pantaloncini con molte tasche, capelli erano più corti sui lati della testa e all’orecchio portava appesa una piuma variopinta.
Strinse una mano alla sommità dell’edificio, alzandosi per togliesi la maglia rossa, che in seguito gli sarebbe stata d’impiccio.
Respirò a fondo, a quell’altezza si sentiva l’aria cambiare rispetto a terra. Si sgranchì la schiena, che scricchiolò, insieme alle scapole, mentre un paio d’ali spuntavano dal suo dorso, come se la sua pelle fosse stata acqua, senza nessun ostacolo, un momento prima non c’erano, un momento dopo erano lì, bianche e luccicanti, morbide e pronte a essere usate.
Guardò giù, ottocentoventotto metri di vuoto prima di schiantarsi sull’asfalto. Dirk sorrise e si lasciò cadere a peso morto verso il basso.
Sentì il peso andarsene, era come svenire e avvicinarsi alla morte, ma lui non aveva paura, era molto più vicino alla beatitudine, mentre si godeva la caduta. Teneva gli occhi chiusi, non aveva paura di cadere, solo voleva spiegare le ali. Aprì gli occhi e le ali quando ormai era arrivato all’altezza di tutti gli altri edifici della città.
Volò sbattendo forte le ali e sorvolando le ricche abitazioni, lungo la strada per la sua. Era più o meno l’ora dell’aperitivo dei signori Miller, coppietta inglese trasferitasi a Dubai per chissà quale lavoro. Dirk, personalmente, li trovava un po’ troppo sdolcinati, ma non c’era dubbio che il loro Martini con oliva fosse decisamente soddisfacente.
Di appollaiò, ad ali spiegate, su un comignolo vicino alla loro grande terrazza. Il signor Miller uscì e appoggiò due bicchieri da cocktail sul tavolino di ferro battuto e Dirk si celò alla vista più che poteva, dietro al camino, ma l’uomo non fece caso a lui e tornò dentro chiamando la sua dolce metà “Tesoro, l’aperitivo è pronto!”
Fu giusto il tempo di un battito d’ali e i due bicchieri erano nelle mani di Dirk che volava allegro verso casa.
Atterrò su un ginocchio  sulla moquette bordeaux, tenendo i due bicchieri in una mano sola. Un carlino strabico con la lingua di fuori corse a salutarlo. Dirk ridacchiò e l’accarezzò sotto il mento, mentre l’animaletto gli leccava affettuosamente la mano.
“Buonasera Duchessa” la salutò con un sorriso, prima di alzarsi, togliendosi le scarpe di tela senza slacciarsele, solo usando i piedi.
“Silk?” chiamò, avanzando per il corridoio con la moquette bordeaux “Ti ho portato l’aperitivo, il Martini con oliva che piace a te” urlò, aprendo tutte le porte e guardandoci dentro.
“Devi smetterla di derubare i Miller” dissero da una stanza infondo al corridoio. Dirk lo trovò in sala da pranzo intento a sistemarsi i gemelli sulla camicia. Fece un paio di passi claudicanti verso di lui e Dirk si accigliò. Aveva una gamba rigida come se il ginocchio fosse incapace di piegarsi, ma Dirk lo sapeva, dentro a quella gamba di pantalone color verde mela non c’era nulla più che una lunga asta di ferro che finiva nella scarpa elegante.
Il ragazzo si mise le mani sui fianchi, ignorando il fatto che così facendo avrebbe rovesciato gran parte del loro aperitivo.
“Dove vai?” domandò, circospetto. “A una cena, Dirk” sentenziò l’altro. Era un uomo sulla cinquantina, calvo e grassoccio, ma abbastanza alto, con lineamenti mediorientali e un completo verde mela sgargiante. Le guance piene e gli occhi vispi.
Afferrò il proprio bastone da passeggio e si avvicinò di poco al ragazzo biondo, mentre Dirk rimaneva imbronciato davanti a lui.
“Una cena?” ripeté il ragazzo, piuttosto contrariato.
“Di lavoro” aggiunse Silk.
“Il tuo lavoro è lanciare petali di rosa dagli elicotteri” lo rimbeccò Dirk. Silk sbuffò “Faccio il Wedding planner, non lancio solo petali di rosa dagli elicotteri e poi mi riferivo all’altro lavoro” così dicendo prese il carlino in braccio – il quale lo gratificò con una sonora leccata di faccia – e si avviò verso la porta del ripostiglio.
“Ehi, anche Duchessa?” lamentò Dirk. Silk annuì, con aria paterna “Anche Duchessa, sì. Guardati un film questa sera, Dirk, farò tardi. E non fare casino come al solito”
Dopo aver detto questo si voltò ed entrò nel ripostiglio senza che il ragazzo alato, ancora a petto nudo, potesse dire granché.
Dirk batté i piedi sul pavimento e si bevve entrambi i bicchieri tutti in una volta, iniziando a tramare la sua possibile vendetta.

 

***


Bilal rimase a guardare la donna grassoccia con la giacca militare e i piedi nudi che riemergeva dalla profonda fossa. Era ancora un po’ scosso, non gli era chiaro cosa fosse successo, e che cosa fosse quel mostro, sapeva solo che probabilmente era morto.
La donna, che gli si era presentata come Chismes, per poi cambiare idea e dirgli il suo vero nome, un nome spagnolo, lo guardava sorridente mentre risaliva con un ombrello in mano.
“Tutto bene, Bilal?” domandò al ragazzo dalla pelle scura, che teneva in mano un paio di scarpe dal tacco vertiginoso. Bilal annuì ancora un po’ provato.
“Niente di rotto quindi” aggiunse Chismes, come ulteriore conferma. Bilal annuì ancora, mentre la donna, ormai tornata in superficie, si toglieva la giacca militare mostrando un vestito giallo a fiori.
“Ti ringrazio per avermi tenuto in salvo le scarpe, sai sono di Jimmy Choo” sentenziò, prendendole dalle mani dell’uomo e calzandosele. Bilal non aveva idea di chi fosse Jimmy Choo e perché indossasse scarpe da donna e perché le avesse prestate alla donna grassa con l’ombrello, ma non fece domande.
Chismes storse il naso nel sentire i suoi braccialetti argentati pulsare “Oh, pare che io abbia una cena a breve”disse poi, non si capiva rivolta a chi. Bilal aveva l’aria di chi non poteva stupirsi più di nulla. Le fece un sorriso un po’ tirato e lasciò che si rivestisse, aveva intenzione di dimenticarsi tutto il prima possibile.
 

***

Erano solo lui e la sua cara Sakura, così aveva chiamato la sua moto giapponese. Non c’era nulla che amava di più della sua moto, avrebbe perfino venduto la sua cresta per amor della sua moto. Avrebbe anche venduto il suo tridente, anzi, quello forse l’avrebbe regalato e dato via pagando perché qualcuno se lo prendesse, quella stupida arma e tutte le scocciature che si portava dietro.
Ma quel giorno non c’era nessuno a rovinare la sua pace, Chismes era stata spedita in Arabia per chissà quanto tempo, il suo negozio di tatuaggi era chiuso, sua madre non si faceva sentire da giorni e lui poteva rilassarsi lucidando la carrozzeria della sua splendida Sakura.
Fu in quel momento che sentì i suoi due nefasti braccialetti – erano manette, era inutile definirle in altro modo – pulsare, decretando la fine della sua pace.
Septum cacciò un urlo e diede un pugno alla propria moto, ammaccandola, e rendendosi conto solo dopo di quello che aveva fatto. L’afferrò prima che cadesse per terra, sotto il colpo “Oh, Amore mio, scusami” disse, pieno di sensi di colpa.
Il loro idillio moto-centauro era concluso, interrotto da Veleno e dal suo nefasto segretario.
 

***

 
Fatalii amava il fatto che appena fuori da Pretoria ci fosse una distesa di nulla. Zere aveva a malapena un anno ed era felice di stare in braccio. Non era mai un peso, nemmeno dopo ore di passeggiata, amava quella parte di essere un genio.
Era vestito in giacca e cravatta, come sempre, sembrava che fosse un eterno banchiere, anche quando camminava nel nulla con il proprio terzogenito in braccio.
Sulla sua spalla stava un’iguana variopinta, Zere si divertiva a tirarle la coda, ma il rettile non faceva un piega.
Si posizionò in cima a un promontorio e si sedette, sempre col proprio bambino in braccio. Mise una mano sull’iguana, per toglierla dalla sua spalla e la lanciò in aria. Quella non cadde, ma cominciò a volare in alto, ingrandendosi a dismisura.
In un attimo non era più un’iguana volante, ma un drago variopinto e sputa fuoco, un drago rubato al re del Grande Mare. Sorrise e strinse a sé Zere, che rideva felice davanti a quello spettacolo infuocato e variopinto.
Forse era sbagliato, da parte sua, fargli vedere certi spettacoli da così piccolo, per poi dirgli, da grande, che erano stati tutti sogni, ma sperava che non si potessero avere ricordi vividi del proprio primo anno di vita.
 Sospirò sentendo i suoi bracciali chiamarlo, lo spettacolo era finito, richiamò il drago e si rialzò con uno Zere piuttosto contrariato tra le braccia.
Tra qualche anno ci sarebbe stata solo la delusione di avere un padre assente.
 

***

 
“Non mi guardare così, sai!” esclamò Skog, rivolto al suo famiglio, un castoro dall’aria paurosamente umana. Il castoro batté la coda sul davanzale della finestra.
“Non darmi del distratto!” esclamò Skog, offeso, dall’alto dei suo metro e novantasette. Il castoro batté ancora la coda “Solo perché mi sono tranciato due dita non vuol dire che io sia distratto” brontolò l’uomo, con ancora i suoi attrezzi da lavoro in mano, la sua camicia a quadri era sporca di sangue.
“Non accetto critiche da un castoro” aggiunse, e l’animale gli voltò le spalle, offeso.
“Oh, ma tu guarda, fai anche l’offeso adesso!” sbottò Skog, continuando l’intarsio del mobile che gli era stato commissionato, alla cieca.
Fu in quel momento che i suoi bracciali si misero a pulsare, e il coltello dell’uomo si abbatté sul pollice sinistro del suo proprietario, tranciandolo di netto.
“Diamine!” esclamò Skog, preso alla sprovvista. Il castoro batté di nuovo la coda, come per dire te l’avevo detto.
 

***

 
Commander accese il fuoco del fornello con un fiammifero e ci mise sopra il pentolino con l’acqua calda per il tè. Quella cucina era troppo piccola per lui, ma la sua madre muta lo considerava ancora il suo bambino, nonostante tutti gli anni passati nell’esercito, la cicatrice sulla tempia e la perenne espressione arrabbiata.
Se ne stava in silenzio, in anfibi e mutande, a guardare l’acqua non ancora in ebollizione, quando d’un tratto si voltò verso la propria genitrice, una donna bassa con i capelli ormai bianchi, appesantita dall’età e un’espressione sempre un po’ triste, questa sobbalzò per la sorpresa “C’è qualcuno” disse l’uomo, quasi in un sibilo, stringendo i denti.
La donna vide gonfiarsi una vena nel collo del figlio e chiuse gli occhi, mentre questo prendeva la lancia che portava sempre con sé e la superava uscendo dalla porta della cucina.
 

***

 
Bloom amava Londra, non vi era un motivo particolare, la amava e basta. Non aveva granché con cui riempire la propria vita, perciò aveva viaggiato un sacco, indipendentemente da dove fossero le bestie.
Si sedeva su una delle guglie di Westminster e fissava il Big Ben, lì accanto. Quel palazzo gli ricordava qualche cosa di ancestrale e primitivo, in un qualche modo gli faceva tornare in mente la propria infanzia.
Passava lì ore, quando non pioveva, avvolto nel suo vestito tradizionale indiano a mangiare cibo del fast-food, il menù grande, quello con cui davano lo yogurt in regalo.
Era un uomo minuto, non più giovane, con la pelle scura attaccata al corpo come carta velina, il naso a becco e gli occhi scurissimi. Al suo fianco stava sempre appesa una katana.
Non fu troppo disturbato dall’essere richiamato in azione, era solo un modo migliore di passare la giornata. In un secondo la figura che sembrava aggirarsi per i tetti di Londra sparì com’era apparsa: Nel nulla.
 

***

 
Ruthie si appoggiò sulle ginocchia per guardare sotto a una cassettiera “Non vedo niente qua sotto” sentenziò.
“Eppure deve essere lì” commentò Tinkerbell, piegandosi accanto a lei, non sapendo bene come aiutarla.
Ruthie alzò la testa per guardarlo “Sei sicuro di averlo visto rotolare in questa direzione, Tinkerbell?” domandò poi, come se si fidasse poco di lui.
Tinkerbell, con una mano a coprire una cavità orbitale vuota nel proprio cranio, sembrò un po’ offeso “Stiamo parlando del mio occhio, non avrei motivo di prenderti in giro, Ruthie”
Ruthie si accigliò “E allora dove diamine è?” chiese lei.
“Cosa ne so!?” sbottò lui, inguaiato nel suo giubbotto col doppio petto, la ferita iniziava a fargli davvero male.
“Ehm, scusatemi…” cercò di avere l’attenzione un piccolo uomo dagli occhi a mandorla che stava dietro di loro. Ruthie, ancora a carponi sul pavimento e Clay, con la mano sul viso sfregiato, si voltarono a guardarlo “Che c’è, Shan Yii?” domandò Clay, che parlava la sua lingua.
“Ehm, se è un occhio che state cercando…beh…qui mi pare ce ne sia uno…e mi fa anche un po’ schifo…” aggiunse infine. Non era abituato ad avere occhi umani rotolanti, tra i piedi.
“Oh, cavolo!” esclamò Tinkerbell con esultanza “È proprio lui!”  aggiunse, allungandosi per prenderlo e soffiandoci sopra, si era un po’ impolverato.
Shan distolse lo sguardo mentre Clay si infilava nuovamente l’occhio nell’orbita, sussurrando un che schifo, tra sé.
Battè le mani per pulirsele dalla polvere e accennò con un movimento del capo a un tizio riverso al suolo a faccia in giù “A lui ci pensi tu, Shan Yii?” chiese.
L’omino incrociò le braccia e sputò dalla finestra “Non se ne parla, non voglio mica che mi ammazzi!” esclamò, arrabbiato. Ruthie alzò un sopracciglio, era sempre più convinta che i padroni che Tinkerbell si sceglieva fossero pessimi.
“Non ti ammazzerà” rispose tranquillo, quell’uomo non era più una bestia, ormai. Passandosi la mano su uno dei bracciali argentati che aveva ai polsi lo sentì fremere a contatto con le proprie dita, mentre il corpo venne scosso da un battito di cuore che non era il suo. All’esterno nessuno notò nulla, Clay si morsicò il labbro inferiore, pensieroso solo per un attimo “Bene, Ruthie, pare che ci abbiano appena invitati a cena, mi spiace Shan Yii, volente o nolente questa è un’incombenza tua” e lo guardò con un sorrisetto furbo.
Fu solo un secondo, Shan quasi non lo vide afferrare maldestramente Ruthie e buttarsi oltre la finestra aperta.
 
Aki_Penn parla a vanvera:Eccomi con un altro capitolo, ci ho messo un po’ perché ci sono state di mezzo le vacanze, ma immagino che foste tutti via anche voi, quindi poco male! :P
Spero che il capitolo non vi abbia ucciso di noia, ma avevo bisogno di presentare tutti i geni. Sì, sono i geni, se non si era capito. XD
Dare loro i nomi è stato un parto, neanche a dirlo. Silk, inizialmente, doveva chiamarsi “seta” in arabo, ma ho avuto dei problemi a reperire la parola, quindi ho rimediato con l’inglese. Chismes, invece doveva chiamarsi Gossip, poi ho deciso che era argentina e ho cambiato lingua. Skog significa “foresta/bosco” in svedese. Fatalii è il nome di un peperoncino, inizialmente ne volevo uno che fosse africano, ma andando alla ricerca di questo ho scoperto che nessuno è di origine africana, il fatalii comunque viene coltivato anche in alcune parti dell’Africa, anche se non ne è originario.
Septum è il nome di un piercing, semplicemente. Il resto è facilmente intuibile, credo.
Grazie per aver letto fino a qui, come sempre. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** Il palazzo in aria ***


 

 

WARNINGS: Ho cambiato il nome di Ali in Alih, se non vi ricordate chi è Ali ancora meglio! :P

 

Make a wish-

Capitolo quindici-

 Il palazzo in aria –

 

Big Jim fece saltare il pesce sulla padella, il quale ondeggiò tra cipolle e aglio. Alih sarebbe stata a guardarlo mentre, con straordinaria maestria, preparava il pranzo per tutto l’equipaggio, ma l’unicorno di Cloris la pensava ben diversamente, infatti aveva infilato la testa nella finestra a oblò che dava sul ponte della loro nave e aveva iniziato a ruminarle i capelli castani, tra le imprecazioni e i dinieghi della poveretta.

Big Jim, un uomo inverosimilmente grasso, con il viso tondo e un invidiabile doppio mento, ridacchiò nel vederla così, ma non si mosse dai fornelli. Se davvero ci teneva a far parte della Seconda Guardia sulla nave di Cloris, di certo avrebbe dovuto imparare a cavarsela da sola contro la variopinta cavalcatura del loro capitano.

Jim ridacchiò a sua volta dal suo posto sul tavolo delle cucine. Era un ometto biondo, non troppo alto, con indosso un cappello a larghe falde e un gilet di cuoio. Il naso era lungo e i capelli avevano la consistenza della paglia. Cinque o sei pappagallini verdi gli stavano appollaiati sulla testa e sulle spalle, docili, cinguettando ogni tanto.

Il suo sorriso era rallegrato dai denti storti, nonostante questo e il principio di rughe d’espressione intorno agli occhi, non era un uomo spiacevole alla vista.

“Basta, mollami!” strillò Alih con voce acuta, cercando di tirar via la propria coda di cavallo dalle mandibole voraci dell’animale.

“Bastamollami” ripeterono in coro i pappagallini di Jim, gracchianti, cosa che fece voltare subito Big Jim, che perse immediatamente tutto il piacere della cucina.

“Bastamollami” sentenziarono ancora, mentre il cuoco fulminava il loro padrone “Se non li zittisci, giuro, li mangeremo per cena, i tuoi maledetti canarini” sentenziò Big Jim, con la padella in mano e gli occhi che gli brillavano.

“Maledetticanarini” gracchiarono quelli, in coro. Fu proprio in quel momento, nel quale una battaglia di sguardi si consumava tra i due Jim, che Alih cacciò un urlo più forte e l’unicorno riuscì a trascinarla oltre la finestra a oblò tirandola per i capelli. L’ultima cosa che videro furono le punte degli stivali infangati della ragazzina che sparivano dall’apertura.

“Per la misera!” esclamarono i due uomini all’unisono. “Miseria! Miseria! Miseria!” ripeterono gli uccellini verdi.

Alih venne scaraventata sul ponte con poca grazia e il cavallo si decise finalmente a mollare la presa sui suoi capelli, ormai arruffati e appiccicaticci di saliva.

Fu subito chiaro che l’animale non mirava davvero alla sua chioma, ma aveva intenzione di mangiarsi altro, puntò infatti alla borsa a tracolla della ragazzina, dove di solito lei teneva lo zucchero filato.

“Lì non c’è!” sentenziò Alih, cercando di allontanate il muso dell’animale dalla sua borsa, ma questo continuò imperterrito nel suo lavoro.

Poco distante dalla zona della colluttazione, Cloris ignorò la ragazzina litigare con la sua cavalcatura e continuò a guardare la piccola spiaggia davanti a sé.

La sua nave e la Flying Horn, la nave di Ebén, erano attraccate vicine, al piccolo molo dell’isola. C’erano altre navi, il Grande Mare era quasi tutto costituito d’acqua, era quindi ovvio che i moli delle isole fossero prese d’assalto, anche se la maggior parte della gente viveva su navi e pescherecci.

Il ponte della nave di Cloris era così vicino a quello di Ebén che i due si potevano parlare rimanendo tranquillamente ognuno a casa propria.

“Qual è il problema?” domandò a un certo punto lei, brusca. Ebèn si grattò la testa, alzando di poco la coppola, dietro di lui un paio di marinai si affrettavano a portare casse avanti e indietro per il ponte. “Coli, è Coli il problema, se n’è andato da solo dal Capitano, con la precisa intenzione di rubargli i semi d’Ortica. A casa sua” spiegò senza guardarla.

Cloris invece lo fissò “Non sopporteresti di perdere un altro marinaio dopo Dirk…” sentenziò lei, interpretando i suoi pensieri “Bada bene, non ho intenzione di ascoltare le tue lamentele riguardo alla fuga di Dirk, dopo aver ingannato Silk per farsi dare delle ali”

Ebén aprì la bocca per ribattere, ma una voce glielo impedì “Sì?” domandò Alih, che stava ancora combattendo col cavallo, sentendosi chiamare.

Cloris si voltò verso la ragazzina con aria decisamente infastidita “Ho detto ali, quelle per volare, non il tuo nome, Alih” sbottò.

“Che è successo a Coli?” domandò poi Alih, quando ormai per il Capitano quella questione era chiusa.

 Cloris sbuffò di nuovo, Alih era una palla al piede, l’aveva sempre saputo. “È andato da solo da Commander, e lui lo ucciderà, puoi starne certa” parlava con Alih, ma si voltò verso Ebén, che abbassò la testa, tristemente.

“Ci vado io da Commander, se Coli non torna indietro!” esclamò Alih, in un moto di coraggio, riuscendo, alla meno peggio, a svincolarsi dalla presa dell’unicorno.

“Non dire scemenze, non riesci nemmeno a tener dietro a un cavallo” le rispose malamente Cloris, con un’espressione schifata in viso. Ebèn aveva sorriso amaramente ma non l’aveva guardata.

Alih strinse i denti, offesa “Lo giuro!”

Cloris scosse la testa e si appoggiò al parapetto, stancamente, ben intenzionata a non voler più sentire tali sciocchezze.

***

 

La prima cosa che Ruthie vide, quando varcò la porta di un bar qualunque di Shangai, fu l’enorme pantera nera che le si parò davanti.

Solitamente, avere Tinkerbell affianco era garanzia di semi-immortalità, ma la visione di quel felino ringhiante la paralizzò. Aprì la bocca per urlare, ma non uscì niente, le unghie erano affondate nelle mani, ma non riusciva nemmeno a sentire il dolore, né a vedere cosa c’era oltre quella pantera. Un felino feroce ed elegante con una pelliccia nera e lucida, come se fosse spazzolata tutti i giorni.

Non si accorse nemmeno del movimento di Tinkerbell che la scacciò, in un attimo il gigantesco felino si diede alla sua elegante fuga, saltando un tavolo ovale –ah, c’era un tavolo nella stanza.

“Non spaventare Nerina!” sbraitò un giapponese tatuato che accolse tra le sue braccia il gigantesco felino.

“Il tuo famiglio spaventa il mio famiglio” rispose Tinkerbell, con voce strascicata e sguardo ammiccante. Septum gli lanciò uno sguardo pieno d’astio “E allora dì al tuo famiglio di non spaventarsi” sentenziò incoerentemente lui.

Fu più o meno in quel momento che Ruthie si rese conto di essere entrata in un bar di Shangai, ma di essere arrivata in un posto decisamente diverso, Tinkerbell l’aveva portata lì col solito trucchetto delle porte, che usava per spostarsi velocemente da una parte all’altra del globo.

Quella in cui si trovavano era una stanza ovale, con il soffitto non troppo alto, le curve delle pareti erano morbide e non vi erano spigoli. Si aveva la sensazione di stare in un edificio sciolto o lo stomaco di un gigantesco animale beige. La stanza era illuminata da una calda luce artificiale e al centro c’era solo un tavolo ovale, una grande finestra a semicerchio dava su quello che sembrava un mare di zucchero filato, avrebbe voluto chiedere spiegazioni, ma non lo fece. Il mare di zucchero filato, per quanto interessante veniva dopo agli altri bizzarri ospiti della sala. C’erano anche un  paio di porte e un corridoio che pareva dare sull’esterno. Il posto era sovraffollato, per i suoi gusti.

Seduto non troppo lontano da lei c’era il giapponese tatuato che accarezzava la pantera, poi stava un uomo sulla cinquantina dai capelli biondi, quasi bianchi, legati in una coda, che stava intagliando nel legno piccoli animaletti con un coltello, che li accolse con un gran sorriso. “Tinkerbell!” esclamò allegro l’uomo biondo salutandolo con la mano, poi guardò Ruthie “Lei deve essere il tuo famiglio! Chismes ce ne ha parlato!” esclamò.

“Certo che ve ne ha parlato, Chismes non è capace di tenere nemmeno la piscia” commentò il giapponese, aspro.

“Se vuoi puoi tornare a vivere con tua madre, Septum, non è un problema per me” commentò l’unica donna presente in sala, con molta tranquillità. Ruthie non poteva vederla bene, era seduta dall’altra parte del tavolo e si stava limando le unghie, sembrava una donna piuttosto in carne, vestita di colori sgargianti e con al collo una pelliccia di volpe con la testa e le zampe ancora attaccate. Ruthie si trattenne per non mostrare una smorfia di disgusto quando vide quel peloso orpello.

Clay invece fece una smorfia “Sì, sì, lei è Ruthie” la presentò, un po’ spazientito, mettendosi le mani in tasca. Ruthie mosse qualche passo lontano da lui per farsi vedere, non immaginava sarebbe stato così. Si guardò in giro per vedere se riusciva a capire chi era Commander, aveva sentito parlare soprattutto di lui.

C’era un uomo alto, con la pelle d’ebano e gli occhiali da vista, che la guardava, vestito di un completo elegante. La fissava senza preoccuparsi che lei se ne fosse accorta, la stava studiando tranquillamente, come facevano gli altri. Era come se avere tutto quel potere ti permettesse di fare quello che ti pare anche nelle relazioni sociali. Non aveva ancora inquadrato Tinkerbell da quel punto di vista, ogni tanto le sembrava quasi troppo umano rispetto a quanto lo fosse. Le sarebbe piaciuto incontrarlo quando ancora era umano.

C’era anche un altro uomo dalla pelle scura, in fondo alla sala, quasi all’imbocco del corridoio, sembrava non averla vista, portava vestiti tipici indiani e un turbante, pareva volersi fare gli affari propri.

“È piccoletta” notò, d’un tratto, qualcuno, che le fece voltare la testa lontano dall’indiano solitario. Un uomo grassoccio vestito di verde pisello, con un sorriso bonario, le sorrise “Piacere di conoscerti, Ruthie, io sono Silk” la salutò, brandendo in aria il suo bastone da passeggio.

Fu allora che la donna grassoccia si mise in piedi, mostrando la sua mole e sorridendole amabilmente “Piacere di conoscerti, scusaci, ma non siamo abituati ad avere famigli umani, da queste parti. Sei una bestia rara” e fece un sorrisetto “Io sono Chismes, sono argentina, ma vivo a Lisbona con Septum, che è dell’Hokkaido” cominciò, indicando il giapponese con la pantera, che grugnì in segno di assenso.

“Questo è Silk, è di Dubai e fa il Wedding Planner” Silk sorrise di nuovo quando venne indicato “Fatalii, senegalese, ma vive a Pretoria da prima di diventare un genio, ha tre figli” l’uomo con gli occhiali e il vestito elegante annuì, silenzioso e stanco “Lui è Skog, vive in un paesino nella Svezia del nord e fa il tagliaboschi” spiegò.

“Falegname!” ribatté Skog offeso. “È la stessa cosa” continuò imperterrita Chismes. Skog avrebbe voluto continuare a discutere, ma la donna tirò dritto col suo discorso, ignorandolo “Poi c’è Bloom, che è indiano, Tinkerbell che immagino tu conosca già” Tinkerbell fece un inchino derisorio e Chismes continuò “…e ci manca…”

Fu proprio in quel momento che la porta venne sfondata senza ritegno da una pedata, con tanto di schegge di legno scagliate ovunque. Ruthie non fece in tempo a voltarsi per vedere cosa succedeva, ma Tinkerbell, che era più vicino alla porta, se ne beccò tre belle grosse nel braccio, mentre si proteggeva la faccia.

“Commander” concluse Chismes freddamente a mo’ di saluto.

Il capitano era un uomo alto e con la testa rasata, con una lunga cicatrice sulla tempia e un corpo dall’aria ancora guizzante, nonostante avesse già passato i cinquant’anni. Aveva la divisa dell’esercito, con gli anni Tinkerbell aveva capito che non era capace di staccarsene, avrebbe continuato ad andare in giro con gli anfibi tutta la vita, Clay ne era certo. Il ragazzo strappò le grosse schegge di legno che gli si erano piantate nell’avambraccio senza distogliere gli occhi dal nuovo arrivato.

La giacca militare dell’uomo era sporca di sangue e, tenuto stretto per i vestiti, si trascinava dietro quella che poteva essere stata una persona, un tempo, ma in quel momento era solo un grumo di sangue raffermo e muscoli dilaniati. Ruthie trattenne il respiro e distolse lo sguardo.

“Capitano, quello chi è?”domandò Tinkerbell, ostentando tranquillità e severità. Non c’era una gerarchia, tra di loro, il fatto che Clay fosse l’ultimo arrivato non dava lui meno diritto di parlare.

Commander lasciò andare il cadavere sul pavimento, il quale si sporcò di sangue “Un pirata, venuto a cercarmi in casa mia, con mia madre presente”

“Commander, i pirati non si uccidono” sentenziò Silk, severo, alzandosi e avvicinandosi all’uomo con la sua camminata claudicante e l’aiuto del bastone da passeggio.

“Io uccido chi mi pare, soprattutto se entra in casa mia” dispose sprezzante il capitano, con la voce che sembrava un sibilo, il corpo proteso in avanti e le vene che si facevano più evidenti sul collo “E non accetto ramanzine da chi ne ha trasformato uno in un fringuello” e mosse le mani come se fossero piccole ali. Silk ignorò l’ultima frase e Commander si avvicinò a lui, sovrastandolo.

Tinkerbell stava per prenderlo per il braccio, mentre Ruthie arretrava dietro di lui, quando qualcuno entrò nella stanza e disse con voce tonante “Buonasera a tutti, ragazzi. È da un sacco che non ci si vede, eh?” tutti si voltarono verso un uomo piccolo e anziano con una barba bianca come il latte e un occhio che guardava dalla parte sbagliata.

Veleno sorrise bonario ai presenti, appoggiandosi al bastone da passeggio, subito dopo aver mandato Juanito a occuparsi del cadavere. Juanito, un uomo anch’esso abbastanza piccolo, dalla pelle olivastra e la veste bianca, eseguì l’ordine con una smorfia “Spero che si riuscirà a mettersi a tavola senza troppe discussioni, ognuno mangia quello che vuole”

 

***

 

Tinkerbell si era assicurato di sedere il più lontano possibile da Commander e Septum, dal secondo più per via della pantera che per altro.

“Roxane, quindici metri di chiffon vanno più che bene, sì, certo, sarò di ritorno all’atelier prima che si sposino. Sì, ti ho detto di sì. Fai in modo che per le bomboniere sia tutto pronto entro la data che abbiamo detto. Sì, evitiamo le nocciole, lo sposo è allergico, non voglio morti…” stava dicendo Silk, parlando al telefono.

Ruthie l’aveva osservato muovere le posate, pulirsi delicatamente col tovagliolo e parlare al telefono, le aveva anche rivolto la parola un paio di volte, sembrava un tipo gentile.

Accanto a Silk sedeva Semptum, il giapponese con la pantera, Nerina – così si chiamava il felino, pareva - , che ogni tanto spuntava da sotto il tavolo, dove stava accoccolata ai piedi del padrone, per reclamare una carezza. L’immagine era quanto mai improbabile agli occhi della ragazza. Semptum era intento a mangiare una fetta d’anguria e ogni tanto le lanciava un’occhiataccia.

Il più allegro di tutti sembrava però il vecchio strabico che aveva posto fine al litigio tra Silk e il capitano, prendeva in giro Juanito, il cameriere, parlava ad alta voce, beveva e sghignazzava.

“Lui non è un genio” disse Chismes, che le sedeva accanto. Ruthie sobbalzò e Chismes ridacchiò, facendo vibrare la testa della volpe che aveva attorno al collo come se fosse stata una sciarpa. Si era impegnata a non guardare quello scempio, ma non era semplice. “Ho visto che lo stavi guardando, immagino che tu ti stia chiedendo se è un genio anche lui” disse la donna in carne.

Ruthie batté le palpebre un paio di volte “Tinkerbell dice che siete otto, qui invece siete in dieci, ma immagino che Juanito non conti, né lui neé Veleno hanno i bracciali argentati” disse lei. Chismes annuì “Già, Juanito è il segretario di Veleno, che è il nostro … noi lo chiamiamo Rettore, fondamentalmente anche lui è stato un genio, ma poi è diventato molto vecchio e per ora si limita…come dire…ad amministrare. Da quando sono stata investita come genio lui è sempre stato il Rettore” spiegò, tranquilla, con un sorriso accomodante. Tinkerbell, accanto a lei, ma dall’altra parte, prese un boccone di pizza. Ruthie avrebbe voluto fare altre domande, ma la volpe che Chismes teneva al collo sbadigliò e la guardò. Ruthie emise un urlo che fece voltare verso di lei tutta la tavolata, ma durò poco perché ognuno tornò al proprio cibo, dato che non c’era nulla di interessante da vedere.

Chismes rise, mentre Ruthie boccheggiava, l’unico che stava ancora guardando era Tinkerbell, non particolarmente preoccupato, comunque.

“Lei è Lydia, il mio famiglio. L’ho addestrata a farmi da collo di volpe, le pellicce costano un sacco, sai”spiegò, allegra.  Ruthie fece un sorrisetto tirato, di cortesia, ma fu presa di sorpresa da uno schianto alle sue spalle. Si voltò di scatto, atterrita, e vide il Capitano che spaccava la testa di Skog contro il tavolo.

Ruthie non si intendeva di anatomia, ma quel cranio era proprio spaccato, aprì la bocca senza riuscire a urlare. Non si accorse nemmeno del fatto che l’uomo biondo stringeva ancora una forchetta con infilzata una polpetta del capitano.

“Tieni le tue manacce nel tuo cazzo di piatto, Skog!” ringhiò Commander. Skog, con la faccia disintegrata, ridotta a una maschera di grumi sanguinolenti, alzò la testa e sorrise con quel poco che rimaneva delle labbra, se quello poteva essere un sorriso.

“Tu te la prendi troppo, caro mio” biascicò, non aveva più denti e il sangue gli impastava la bocca, ma non sembrava aver perso il suo proverbiale buon umore. Il capitano emise un altro basso ringhio rabbioso e parve pronto a sbattergli di nuovo la testa da qualche parte, possibilmente per rompergli tutte le altre ossa della faccia.

Skog chiuse gli occhi preparandosi pacificamente al colpo, in un attimo Tinkerbell fu accanto all’uomo ad afferrargli il braccio, rivoltandolo in maniera innaturale e facendo saltare tutti i tendini e strappando i muscoli. Non era cosa che potesse capitare con una semplice torsione, ma Ruthie sapeva che l’aveva fatto, e la cosa fu chiara anche dall’espressione del capitano, che si ritrovò con un braccio inutilizzabile. Ruthie non si era nemmeno accorta che Tinkerbell si fosse alzato, l’aveva fatto con uno di quei suoi scatti repentini che si facevano quasi fatica a notare.

Commander sputò per terra e mollò la testa di Skog per afferrare la tavolata a alzarla per ribaltarla.  Il piano non si alzò nemmeno di venti centimetri, perché Bloom, ancora seduto composto al suo posto, sbatté il pugno sul tavolo ricacciandolo sul pavimento, dove doveva stare. Bloom prese al volo la caraffa del vino che stava per cadere, Fatalii si era alzato in piedi e brandiva un arco in direzione del capitano. In un secondo la freccia scattò e il dardo andò a piantarsi nell’occhio di Commander, che ringhiò come una bestia ferita, mentre Septum gli dava una gomitata tale da farlo finire per terra. Tinkerbell gli mollò il braccio per non seguirlo sul pavimento e si sedette di nuovo accanto a Ruthie, tranquillo, come se nulla fosse accaduto.

“Vino?” domandò Bloom, tranquillo. Tinkerbell annuì “No, grazie, ma chiedi a Ruthie, magari a lei piace” fece lui, cordiale. Ruthie aveva ancora la bocca un po’ aperta, quando il capitano si rialzò sistemandosi il braccio.

“Commander, credo che faresti meglio a prendere un po’ d’aria, qui si soffoca, no?” disse calmo Veleno, senza alzare la testa dalla bistecca che stava tagliando, glielo stava ordinando, era chiaro.

“Non mi dire che cosa devo fare, vecchio strabico” sbottò il capitano, e così dicendo se ne uscì dal salone a passo militare.

Ruthie lo seguì con gli occhi e Chismes le batté piano la mano sotto il mento “Se non chiudi la bocca ti ci entreranno i moscerini” disse, ridanciana, e Ruthie si affrettò a serrare la mascella.

“Allora, vino?” domandò Bloom, allegro. Ruthie annuì perché non sapeva cosa fare, mentre Septum, che era tornato al suo posto a mangiare la propria anguria, guardava con sospetto la scimmia che stava aggrappata alle vesti di Bloom.

“Mia sorella Tsubasa è andata in India un paio di anni fa: una scimmia le ha rubato la macchina fotografica” disse serio.

“A volte lo fanno” disse lui, sempre tranquillo, mentre Bloom innaffiava di vino anche il bicchiere del giapponese. La maggior parte finì sulla tovaglia.

“Allora, Ruthie, hai detto di chiamarti Romano, di cognome?” domandò Chismes, continuando a fare amabile conversazione, mentre Silk preferiva versarsi il vino da solo.

Ruthie annuì “Come Henry Romano, quello del film?” domandò Semptum, curioso e sospettoso allo stesso tempo.

Tinkerbell mandò giù il suo boccone in silenzio.

“Non dire sciocchezze, Septum, la figlia di Henry Romano non si chiamava mica Ruthie!” lo sgridò Chismes.

“Nel film la figlia di Henry Romano si chiamava Rubye” sentenziò a quel punto Ruthie, ma gli occhi furono tutti su di lei quando aggiunse “Mio padre ha venduto i diritti sulla sua storia, ma ha preteso che non mettessero né il mio nome vero né quello di mia madre” spiegò, autorevole. Tinkerbell, serio, alzò la testa dal suo piatto, ci fu un secondo di silenzio, poi Septum sbatté il pugno sul tavolo “Che figata!” sbottò. Skog, la cui faccia era tornata florida come sempre, fece un risolino e bevve un sorso di birra.

“Quindi tuo padre è il famoso Romano. Mi sono sempre detto che quella fosse una storia incredibile” disse il giapponese, allungandosi in avanti sul tavolo, per guardarla negli occhi. Ruthie mantenne lo sguardo dell’uomo “È stata un po’ romanzata, ovviamente” aggiunse, calma. Sembrava essersi guadagnata le simpatie di Septum, con quella rivelazione.

Ci fu di nuovo silenzio, poi fu Silk a parlare “E dicci, dove è finito l’impero di tuo padre, si dice che nella sua carriera di ladro di diamanti abbia trafugato così tante pietre preziose da potersi comprare il Brasile, ma non si è trovato altro che briciole, dopo il suo arresto”

Ruthie ridacchiò “A quello ci ha pensato mia madre, non era mica l’ultima ruota del carro” sentenziò lei, con una strana vena d’orgoglio. Clay preferì non immischiarsi in quella conversazione, lui e Ruthie avevano parlato di Henry Romano migliaia di volte. Silk si grattò la testa e disse, con quel suo solito fare elegante ed educato “Fantastico, a Dirk piacerebbe questa storia”

“Dirk è un ragazzino che ti ha fregato, Silk” sentenziò Commander, che in quel momento se ne stava appoggiato allo stipite della porta. Ruthi8e, che pensava di essersene liberata, sobbalzò.

“Ti ho già detto che non mi interessa la tua opinione, Capitano?” domandò Silk, senza nemmeno girarsi a guardare l’uomo. Commander grugnì, ma non si mosse.

“E tua madre ora dov’è?” domandò Bloom, innocentemente, mangiando con le mani un po’ di insalata scondita. Ruthie si morsicò l’interno delle guance “La mamma è morta qualche anno dopo che mio padre è stato arrestato, così sono stata affidata a una casa-famiglia. Ho passato un’infanzia da sogno e un’adolescenza da incubo. Credo che sia stata una bestia ad ammazzarla, è per quello che lavoro per Tinkerbell” spiegò.

Tutti la guardarono perplessi, a parte Clay che aveva sentito quella storia un sacco di volte e che preferì concentrarsi sulla propria pizza.

“Perché dici che si tratta di una bestia?” chiese Silk, con quella sua eleganza che lo contraddistingueva. Ruthie si passò la lingua sui denti, non era timida, ma quella era una riunione davvero anomala.

“Beh, il corpo di mia madre è stato trovato dilaniato in modo…” ci fu una pausa, non trovata la parola giusta, e Tinkerbell si chiese se glielo avessero fatto vedere quel corpo dilaniato, quando l’avevano trovato, ma lei ricominciò, senza voler perdere tempo “… e poi era stato appiccato fuoco alla nostra casa. I pompieri mi hanno trovata dentro a un armadio. Stavo per morire intossicata dal fumo, quasi un miracolo…”

I presenti rimasero in silenzio, non c’era granché da dire e Ruthie continuò con la storia di sua madre “Il tutto senza il minimo senso, il minimo movente. È questo che fanno le vostre bestie, no?” sentenziò, quasi accusatoria, come per sperare che qualcuno le desse ragione.

Chismes aprì la bocca per dire qualche cosa, ma Veleno fu più veloce di lei. Brandiva piano una forchetta come se fosse stato un direttore d’orchestra e la guardava con un solo occhio, mentre l’altro era intento a fissare il lampadario “Sono anni che non ci troviamo ad avere a che fare con bestie che usino il  fuoco, vero Bloom?” chiese il vecchio. Bloom era quello con la maggior anzianità di servizio, dopo Veleno.

Bloom gli diede ragione “Niente bestie di fuoco, mia cara. Non era una bestia, quella” disse, cantilenante. Ruthie si rabbuiò.

“Io invece credo di sì” ribatté lei, offesa.

“Come vuoi” commentò Veleno, rimettendosi a tagliare la sua bistecca, era una battaglia culinaria quasi epica.

“Ma parliamo di cose serie” iniziò a dire il vecchio, tornando alla propria bistecca. Ruthie si sentì un po’ offesa, nel venir considerata poco seria. “Notizie della bestia di questo secolo? Il flagello? La nostra spina nel fianco? La piaga? L’incredibile rottura di palle che ci tocca ogni cento anni? ” domandò. La ragazza notò un certo sarcasmo in quella sfilza di nomi. Il primo a rispondere fu Tinkerbell, senza nemmeno alzare gli occhi dal piatto “No”

Chismes scosse la testa “Nemmeno io” rispose, prima di bere una sorsata di vino. Poco dopo fu chiaro che nessuno ne sapeva nulla. “È un sollievo” disse stancamente il vecchio, e pareva davvero sollevato, a dispetto dell’ironia della domanda.

“Che cos’è la bestia di questo secolo?” domandò Ruthie in un sussurro avvicinandosi all’orecchio di Tinkerbell tanto che solo lui la potesse udire.

“Una bestia più ostica delle altre” rispose lui, con molte meno accortezze, masticando la sua pizza. Rithie batté le palpebre e rimase immobile a guardarlo, in attesa di una spiegazione più esaustiva. Tinkerbell mandò giù il boccone e iniziò a tagliare un altro spicchio “La bestia di questo secolo si presenta più o meno ogni cento anni, ma questo lo potevi immaginare da te, non è preciso, a volte sono cinquanta, a volte centocinquanta, ma bene o male una volta ogni secolo ci tocca. È una bestia che non si può uccidere quando è in forma di bestia, sostanzialmente” spiegò, prima di mettersi in bocca altra pizza, Ruthie aspettò pazientemente, ma Tinkerbell sembrava aver già estinto la sua spiegazione.

“E quindi come fate?” chiese allora. Clay si rabbuiò “Le uccidiamo quando sono ancora umane”disse, secco.

Ruthie aprì la bocca, disgustata, boccheggiò e poi balbettò “Non è vero”

Tinkerbell si accigliò e la guardò negli occhi “Sì che è vero, te lo sto dicendo” sbottò, inacidito.

“Non l’hai mai fatto. Uccideresti davvero un innocente?” sbottò a voce fin troppo alta. Tinkerbell alzò le spalle “è il mio lavoro” sentenziò e con questo la conversazione fu chiusa, né l’uno né l’atra volevano che andasse oltre.

Ruthie si rimise a mangiare con la testa nel piatto e non rialzò più la testa. Gli altri stavano chiacchierando amabilmente e non li avevano degnati di uno sguardo.

Fu Silk, a quel punto, a girarsi verso il vecchio e chiedere “Ma quindi, Veleno, perché ci hai convocato qui, adesso?”

Il vecchio canuto sobbalzò “Stavo per dimenticarmene!” esclamò, pieno di vitalità, fin troppa per l’età che dimostrava. Ci fu un attimo di silenzio e poi Veleno annunciò “Mi dimetto”

Septum sputò i semi della sua anguria contro Chismes, Bloom rovesciò la sua caraffa di vino e Tinkerbell rischiò di soffocare mentre beveva la sua birra. Ruthie gli diede due sonore pacche sulla schiena per paura che gliele desse qualcun altro, col solo risultato di fargli uscire i polmoni dalle costole.

Clay tossicchiò e, ancora con gli occhi rossi e il boccale stretto in mano, fece “Che?”

“Ho detto che mi dimetto” ripeté il vecchio, sibillino.

“Ci si può dimettere?” sbraitò Septum, sputacchiando ancora cocomero. “Io sì, voi no” ci tenne subito a precisare Veleno.

Ruthie pulì la faccia congestionata di Clay, ancora un po’ provato. Tutti si guardarono, Juanito era quello con gli occhi più sgranati di tutti.

“E adesso?” domandò Skog. Veleno alzò le spalle “Bloom prende il mio posto, è il più vecchio” e così dicendo gli lanciò il proprio bastone da passeggio, che Bloom mancò di prendere e lasciò cadere per terra “e troviamo un altro genio” aggiunse.

Tutti sapevano come venivano investiti i nuovi geni: quando un genio muore la persona che gli è più vicina si prende i suoi poteri. Tinkerbell se lo ricordava bene come era successo a lui.

All’epoca lavorava in un fast food, aveva appena finito il college e aveva continuato a lavorare in quel localino lordo dove per tutti gli anni di università aveva cercato di racimolare qualche soldo, il posto non era molto lontano dal parco pubblico e così, puzzando di fritto e sudore, era andato a sedersi su una panchina in ferro, durante la pausa, a guardare il cielo, totalmente incapace di fare altro.

Era arrivato un uomo cicciotto, sulla sessantina, dall’aria affabile e sicuramente più pulita di quella di Clay. Aveva una cocorita silenziosa sulla spalla e un bel sorriso, oltre che un completo elegante. Gli aveva chiesto se si poteva sedere accanto a lui e Clay gli aveva fatto posto. Si era spostato ancora quando l’uomo, con la chierica, si era messo a dar da mangiare ai piccioni del parco e quelli accorrevano a frotte. A Tinkerbell gli animali erano sempre piaciuti poco. Suo fratello aveva un sacco di piccioni viaggiatori, per di più.

Poi l’uomo elegante si era appoggiato allo schienale e aveva chiuso gli occhi. Non li aveva più aperti.

Era stato all’epoca che aveva scoperto che un genio poteva essere colpito, macellato, avvelenato, senza farsi nulla, ma che non poteva sopravvivere al tempo. Il corpo si consumava ugualmente, anche se in maniera meno visibile. Era sempre una sorpresa.

In quel caso era tutta un’altra storia però, erano tutti lì ospiti del palazzo in aria e le uniche persone presenti che non fossero già geni erano Ruthie e Juanito, per di più non era morto ancora nessuno.

Veleno alzò le spalle, indovinando la muta domanda del suo pubblico “Poco importa, tireremo a caso. Facciamo un salto giù?” domandò, e così facendo si avviò verso il corridoio, spuntando poi in un attimo sulla terrazza che dava sulle nuvole. Sembrava di essere immersi nello zucchero filato. Appoggiò le mani sul parapetto e aspettò di essere raggiunto dagli altri.

Ruthie capì solo il quel momento che cos’era quel panorama assurdo: erano in cielo, in mezzo alle nuvole.

Gli altri otto, Bloom con il bastone da passeggio di Veleno in una mano e la sua katana nell’altra, arrivò per primo, ancora frastornato per quello che era appena successo.

Tinkerbell si affiancò al vecchio, guardando giù, nell’abisso chiaro, indeciso sul da farsi e Ruthie in un secondo fu  accanto a lui. Non si sentiva troppo a suo agio in mezzo a quella banda di super uomini. Gli altri li raggiunsero subito, Silk e Chismes per ultimi, sembrava che ci fosse una sorta di strano feeling tra i due, come se fossero sulla stessa lunghezza d’onda.

Anche Skog si avvicinò al parapetto e guardò giù, la terra non si vedeva, c’erano solo nuvole a perdita  d’occhio.

Veleno si voltò e fissò Bloom con un solo occhio, l’altro guardava Skog. Allungò la mano e gli prese la katana dalle mani, lasciandogli il proprio bastone da passeggio “Questa ormai non è più tua, Bloom” disse, pacato, e poi lanciò la spada dietro di sé, con noncuranza, come se lanciasse una monetina della buona fortuna in un pozzo.

Tutti si sporsero oltre il parapetto a guardare l’arma cadere, Septum, nella foga, schiacciò un po’ Ruthie, che si impose di non lamentarsi, anche se le sembrava di non respirare.

Guardarono sparire la katana nel bianco vaporoso e poi fissarono Veleno, che non aria sibillina disse “Beh, cosa aspettate? Andate a riprenderla!”

Il primo a saltare giù nel vuoto, agile, fu Commander, sembrava impaziente di fare del male a qualcuno. Septum lo seguì bestemmiando contro il nulla e brandendo il proprio tridente, la pantera sotto braccio, incurante delle dimensioni della bestia.

Skog alzò le spalle e prese Ruthie per il colletto della camicia nera, come si prende un gatto per la collottola “Con permesso, signorina” sentenziò il gigante biondo, prima di lanciarsi giù di seguito agli altro. Ruthie urlò come una pazza, ma tutto durò solo un secondo. Tinkerbell fece a malapena in tempo ad accorgersi che Skog si era preso il suo famiglio, che il genio svedese era già sparito.

“Skog! Quella è mia!” urlò Clay facendo forza sul parapetto con una mano e saltandolo. In pochi secondi quasi la metà dei presenti era già sparita. Fatalii sospirò “Beata gioventù” commentò, nonostante avesse parecchi anni in meno di Skog, Commander e Septum. L’iguana che stava sulla sua spalla sbadigliò emettendo un po’ di fumo e Veleno alzò un braccio verso il cielo dicendo “Prego signori, dopo di voi”

E tutti quanti si lanciarono giù, uno dopo l’altro.

 

Aki_Penn parla a vanvera: ecco il capitolo quindici, credo di aver battuto un qualche record di ritardi, con questo aggiornamento, ma finalmente ci sono riuscita! XD

Spero che il capitolo vi sia piaciuto, è stato difficile mettere tutte le cose che volevo metterci, confido nel fatto che non sia stato troppo noioso e che la situazione si sia capita.

Volevo anche farvi sapere che da ora in poi forse i discorsi diretti diventeranno un pochino più sboccati. Clay e Ruthie sono due tipini educati, ma non posso dire lo stesso del resto dei miei personaggi, spero che nessuno si offenda. XD

Grazie mille per aver letto fino a qui, ancora non mi capacito della vostra carineria. Grazie grazie grazie! <3

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Cuor di coniglio ***


Make a wish -
Capitolo sedici -
Cuor di coniglio –
 
 
Il Morrison Market non era molto grande, ma abbastanza da contenere due file di scaffali di metallo laccato di blu. Il gestore del locale era un arabo dalla barba a punta, non si vedeva spesso da quelle parti, ma il suo commesso dalla divisa blu e gialla, che si intonava meravigliosamente con gli scaffali, si occupava egregiamente della pulizia del locale. Qualcuno diceva che si sarebbe potuto mangiare per terra, al Morrison Market. Morrison era la moglie del proprietario, che aveva pensato che un supermercato col proprio cognome sarebbe suonato troppo esotico, nella periferia di Sydney. Il nome aveva poco importanza però, se nel negozio si trovava di tutto.
Gli scaffali erano alti quasi fino al soffitto e il commesso puntiglioso vestito di blu e giallo non poteva vedere tutto ciò che succedeva dietro quelli più pieni.
Ogni tanto allungava il suo collo corto, senza spostarsi dalla sua posizione alla cassa, era un uomo grassoccio con la barba rossa e un mare di lentiggini. Nonostante si ostinasse a cercare di tenere controllato come poteva, non notò il fare furtivo con cui un ragazzino biondo che si avventurò tra gli scaffali dei detersivi.
Doveva avere sedici anni circa, i capelli biondi che sembravano paglia sotto a una coppola scura, le scarpe da ginnastica dai colori flash, e i pantaloni che gli cascavano un po’ sui fianchi troppo stretti. Era pallido e si muoveva in modo febbrile, a giudicare dalle occhiaie che aveva sotto gli occhi di un azzurro slavato, non doveva dormire da parecchio tempo. Il commesso non notò le occhiaie del ragazzino e rimase in piedi dietro alla cassa senza muovere un muscolo.
Il ragazzino biondò passo in un attimo al reparto alcolici, si voltò a guardare la telecamera di sicurezza e aspettò che si girasse verso lo scaffale delle marmellate. Fu con un gesto fluido che afferrò una bottiglia di vodka, e se la infilò nei pantaloni, come se il braccio che l’aveva afferrata non fosse stato il suo.
Si tirò su la maglia e coprì al meglio anche il collo della bottiglia che era rimasto fuori dai pantaloni. Con la sua andatura a gambe un po’ larghe, la stessa con la quale era entrato, passò davanti alla cassa e alzò una mano per salutare “Non ho preso niente” disse, guardandolo negli occhi.
Il commesso lo guardò con sospetto, quel ragazzino aveva vestiti troppo belli e costosi per l’aspetto che aveva. La sua giacchetta aperta e lucida faceva uno strano effetto addosso a un tipo con quelle occhiaie, ma lo lasciò passare.
Il ragazzino uscì fuori e si guardò intorno nel sole accecante della periferia di Sidney, quella giacchetta era decisamente troppo, aveva un gran caldo e la bottiglia di vodka nei pantaloni rischiava di scendere in una delle gambe dei suoi pantaloni da un momento all’altro, ma il commesso puntiglioso del Morrison Market lo stava guardando dalla finestra, mentre se ne andava, si sentiva i suoi occhi vigili sulla schiena.
Voltò in un vicolo cieco, avrebbe scavalcando la rete e sarebbe saltato giù dall’altra parte. Era il cortile di una fabbrica, qualche mese prima c’erano dei cani, ma Robert li aveva avvelenati per non averli in mezzo alle palle quando dovevano passare di lì durante la notte per scappare dalla polizia.
Qualche cosa lo colpì duramente alla testa, lui strizzò gli occhi e seguì il rumore dei rimbalzi sordi sull’asfalto: era una spada chiusa in un fodero di legno, l’elsa ricoperta di cotone intrecciato. Sbatté un paio di volte le palpebre per paura di avere avuto un’allucinazione, ma quella era proprio una spada caduta dal cielo.
Si guardò indietro per essere sicuro che nessuno lo seguisse e poi in alto, da dove sembrava essere venuta la katana, ma gli edifici che si affacciavano su quel vicoletto non avevano finestre su quel lato.
Stava guardando il cielo senza nuvole quando qualche cosa lo colpì allo stomaco. Non vide che cosa gli arrivò addosso, era da solo e in un secondo si era ritrovato a volare contro un cassonetto con un gran schianto. I polmoni gli si erano svuotati dall’aria, il torace gli faceva un male impressionante, gli occhi gli bruciavano per le lacrime e la bocca era piena di saliva.
Il suo corpo si fermò, ma la testa continuò a vorticare, doveva vomitare. Era seduto per terra con la schiena appoggiata a un cassonetto della spazzatura, le gambe stese e le braccia inermi come quelle di una bambola di pezza.
Abbassò di poco lo sguardo su di sé, il cavallo dei pantaloni e la maglietta scura si erano impregnati di sangue, cambiando colore.
Per un secondo gli sembrò di non poter più nemmeno respirare, si rese conto che il liquido vischioso che aveva in bocca non era saliva, sentì il sapore metallico del sangue che gli scendeva sul mento e gocciolava sulla maglia.
Gli era arrivata contro una macchina? Non riusciva a capire, il dolore era lancinante, non aveva nemmeno la forza di urlare.
La bottiglia di Vodka si era rotta piantando i suoi pezzi di vetro nella carne del ventre e dell’inguine. Alzò di poco la testa, la vista gli si stava annebbiando, ma il sole era sempre torrido e luminosissimo.
Aveva anche qualche cosa di rotto, oltre la bottiglia piantata nella pancia.
Per un secondo si chiese se sarebbe morto e poi il sole si oscurò e lui ne fu sicuro, che la sua fine stesse arrivando.
“Ehi” disse qualcuno, scrollandolo. La voce arrivò quasi da lontano, stava perdendo troppo sangue, era tutto così ovattato, il dolore era l’unica cosa ben distinguibile in quella nebbia.
“Forse il calcio di Tinkerbell è stato un po’ forte” disse ancora la voce, questa volta gli parlò più chiaramente, stava proprio parlando con lui. Qualcuno gli aveva dato un calcio. Un calcio del genere? Non aveva abbastanza forza per analizzare davvero la situazione.
“Volevi ammazzarlo?” brontolò qualcuno, lontano da lui, non aveva neppure più la forza di aprire gli occhi, tra le sue gambe c’era un inferno di carne, sangue e dolore. Fu un pensiero fugace, nel quale si domandò che fine avesse fatto la sua virilità in quel lago macabro.
“Non pensavo che avesse una bottiglia nelle mutande, avrei solo dovuto rompergli qualche costola” sentenziò un’altra voce, un po’ irritata.
“Non è stata la bottiglia, gli hai sfondato lo stomaco e anche qualche cos’altro. Rischia di morirci qui” brontolò qualcun altro.
“Ve la ripagherò…la bottiglia di vodka…la ripago” biascicò, il sangue gli colava sul mento, mentre gli sembrava di non sentire più le gambe, la testa gli cadeva in avanti e qualcuno lo aveva afferrato forte per entrambe le braccia.
“In effetti, rubare è un reato, in questo stato, ma noi non siamo qui per questo” l’uomo a cui apparteneva la voce lo prese per il mento e glielo alzò, in modo che lui potesse vederlo.
Cercò di aprire gli occhi, ma vide solo la luce accecante del sole, quell’uomo doveva essere il sole, oltre le lacrime non vedeva granché. Sputò di nuovo sangue e poi divenne tutto buio.
 
***
 
Quando riaprì gli occhi aveva il fuoco in bocca. Aprì le labbra per urlare, ma non ne uscì alcun suono.
Era in ginocchio e davanti a lui c’era un uomo dalla pelle olivastra e il viso magro, vestito con degli abiti indiani tradizionali, chinato per essere alla sua stessa altezza.
Provò a parlare, ma non ci riuscì, la sua lingua era un inferno di dolore e aveva ancora la bocca piena di sangue. Fissò l’indiano negli occhi ansimando, in una muta richiesta di aiuto.
“Ben svegliato, io sono Bloom” disse il tizio davanti a lui e il ragazzino biondo boccheggiò, mentre gli occhi gli si riempivano così tanto di lacrime da non riuscire a vedere più niente. Cominciò a singhiozzare sommessamente, lasciando cadere la testa in avanti, le lacrime bollenti gli scorrevano lungo le guance, un rivolo di sangue gli scivolò lungo il mento per poi gocciolare sul pavimento.
“Ehi testa di cazzo, ascoltaci quando parliamo” ringhiò una voce, era come lo stridore del metallo contro altro metallo. Qualcuno, da dietro di lui, lo afferrò per il ciuffo di capelli biondi che gli ricadeva sulla fronte e lo costrinse a guardare avanti, dove stava l’Indiano. Qualcun altro lo continuava a tenere per le braccia mentre lui era prostrato sulle ginocchia.
“Tagliargli la lingua è stata un’idea pessima, come già ti avevo detto, se sente dolore non ci da attenzione! Come è successo prima!” brontolò l’uomo davanti a lui, non seguì il resto del discorso perché un’orribile consapevolezza si era presa possesso di lui: non aveva più la lingua, il sangue e il dolore, gli avevano tagliato la lingua, era muto, non avrebbe potuto parlare mai più. Era muto, era muto per sempre.
Aprì la bocca in un urlò disarticolato, mentre sentiva il dolore perfino accentuarsi. L’Indiano lo prese per il mento e lui sgranò gli occhi, terrorizzato, cosa volevano fargli ancora? L’avrebbero ammazzato. Quell’orribile consapevolezza gli arrivò contro come un proiettile.
L’uomo gli infilò due dita in gola e, d’un tratto, il dolore sparì. Niente bocca indolenzita, niente di niente, non sentiva più alcun tipo di fastidio e schioccò la lingua sui denti, prima di sputare il sangue che aveva ancora in bocca.
Alzò la testa e guardò l’uomo, il ciuffo di capelli gli era ricaduto su un occhio, chi l’aveva costretto ad alzare la testa se ne era andato.
“La mia lingua?” domandò il ragazzino, mentre sangue e saliva di gocciolavano dalle labbra.
“Ce l’hai di nuovo, non ti preoccupare, e anche il tuo stomaco è a posto. Tinkerbell ci aveva messo un po’ troppo entusiasmo, in quel calcio” spiegò l’Indiano, tranquillo, come se fossero seduti a prendere del tea.
“Altro che colpa del vetro, gli avevi sfondato lo stomaco, è per quello che sputava sangue” sentenziò una voce nasale alle sue spalle.
“Vi ho già detto che non l’ho fatto apposta” rispose un po’ irritata un’altra voce, piuttosto anonima, doveva essere di un ragazzo giovane. 
“Chi cacchio siete voi?” urlò, con voce roca. La saliva gli impastava la lingua e il naso gli gocciolava per tutte le lacrime che aveva versato.
L’Indiano alzò la mano e chiuse gli occhi, come per dirgli di fermarsi “Stai correndo troppo, ragazzino” disse l’uomo davanti a lui, il ragazzo si accorse solo  in quel momento che teneva  stretti in con la mano che non aveva usato per zittirlo,  un bastone da viaggio e  la spada che gli era caduta in testa nel vicolo.
Aprì la bocca per dire qualche cosa, ma il suo interlocutore parlò di nuovo “Prima il tuo nome”
Il ragazzino biondo digrignò i denti, le spalle gli facevano male, quella posizione era scomodissima e anche le ginocchia sul pavimento iniziavano a dolergli “Io mi chiam…” iniziò a dirgli lui, ma qualcuno gli afferrò le labbra con le dita e gliele serrò in una presa ferrea.
“Zitto, ragazzino” grugnì la voce cattiva che aveva sentito prima, sentì le mani dell’uomo affondare nel suo viso come artigli e per un secondo pensò che gli avrebbe strappato via le labbra, mentre gli occhi gli si inumidivano.
Alzò lo sguardo e vide un uomo gigantesco, coi capelli rasati e l’espressione dura, guardarlo dall’alto. Gli occhi erano azzurri e freddi e il cappotto militare a doppio petto gli dava un’aria ancora più minacciosa.
“Non ci interessa il tuo nome vero” spiegò l’Indiano con gentilezza, spostando con le dita il viso del ragazzo verso di sé. Lui si sentiva come pongo in mano a quella gente, non sentiva più male, ma desiderava quasi che lo uccidessero e che la facessero finita così “Ti serve un nome che non sia il tuo, ma che lo sarà per il resto della tua vita. Se dovessi dirci il tuo nome te ne pentiresti presto amaramente” concluse l’uomo e poi strappò con stizza la mano dell’uomo rasato dalla bocca del ragazzino. “Commander, per favore, ne abbiamo tutti abbastanza dei tuoi metodi” aggiunse poi, alzando lo sguardo sull’uomo col cappotto doppio petto, non sembrava per nulla intimorito dai suoi occhi di ghiaccio e dalla sua statura.  Il gigante sputò per terra, rabbioso, ma non si oppose e si allontanò da loro per andarsi ad appoggiare a una parete chiara.
Fu in quel momento che si ritrovò a guardare per la prima volta dove si trovava: era una sala da pranzo con il soffitto irregolare che seguiva un’onda, una grande finestra che sembrava dare sul niente, si sarebbe detto si fosse in un grattacielo davvero alto. C’era poi una tavola ovale che sembrava uscire dal pavimento, era di un unico pezzo, indistinguibile dal resto, come se l’intera stanza fosse stata scolpita nello stesso blocco di pietra chiara. Le luci erano soffuse e la fauna del luogo era quanto mai variegata, per quanto la maggior parte dei presenti fosse vestita come il gigante rasato che gli aveva tappato la bocca.
“Vuoi il mio nome o non vuoi il mio nome?” chiese, con la voce più ferma che possedeva, e la cosa servì, sembrò quasi minaccioso.
L’uomo con la pelle scura e le guance incavate non sembrò affatto preoccupato, continuava a stare chinato davanti a lui e non sembrava per nulla ansioso di cambiare discorso.
“Scegliti un nome, bada che d’ora in poi sarà quello a identificarti, qualche cosa di tuo o la prima parola che ti viene in mente, a me…a noi non importa granché” disse, il ragazzino boccheggiò, non capiva di cosa stessero parlando e cosa volessero da lui, erano una banda di malviventi drogati. Era convinto di avere avuto a che fare con la feccia peggiore della società, ma quegli individui dovevano essere degli psicopatici, e poi cos’era stato quel trucco con la sua lingua?
Prima che potesse dare una risposta fu di nuovo la voce del gigante rasato a prendere parola “Io lo chiamerei Bunny, mi sembra proprio un cuor di coniglio. Si stava già mettendo a piangere…”
“Non sono un cuor di coniglio!” urlò il ragazzino, arrabbiato. Commander si accigliò e fece un passo in avanti con l’aria di chi vuole spaccare la testa a qualcuno e lui si ritrasse su un ginocchio, ma l’uomo con la pelle color ebano e gli occhiali che stava alla sua sinistra, lo strattonò per il braccio e lo rimise composto.
“Su ragazzi, facciamolo decidere a lui” disse un uomo grasso e calvo, con un carlino in braccio, anche lui vestito con il cappotto militare a doppio petto, dal quale spuntavano due gambe di pantalone verde mela e un paio di scarpe di vernice.
“Non credo che uno con un cane che ha preso una padellata in faccia abbia il diritto di parlare, Silk” sputò Commander.
L’uomo grassoccio, che aveva un’aria piuttosto bonaria, lo guardò con odio e accarezzò la sua bestiola borbottando tra sé e sé “Non ti preoccupare, Duchessa, prima o poi ti farò mangiare le sue budella”. Sia lui che Dirk sapevano che Duchessa era debole di stomaco e non gli avrebbero mai dato da mangiare le budella di un uomo, tantomeno quelle di Commander, ma era bello immaginarselo.
“Secondo me gli starebbe bene Bonnie” constatò una donna corpulenta, anch’ella con il cappotto a doppio petto.
“Bonnie è un nome da donna, che cavolo!” ruggì il ragazzino avanzando di poco sulle ginocchia.
“In effetti potrebbe donargli” ammise un uomo dalla voce nasale, un piccolo orientale con una cresta di capelli sulla testa.
“Non scherziamo!” ringhiò lui. L’Indiano ridacchiò divertito dando una rapida scorsa ai presenti. “Bonnie, secondo me, ti donerebbe” sentenziò un ragazzo abbastanza giovane, non altissimo, coi capelli scurissimi, che ridacchiava accanto a una ragazza che non doveva avere molto più di vent’anni e che non portava il cappotto blu scuro come invece facevano tutti gli altri.
“Non dire stronzate, è un nome da donna!” sbottò ancora lui. La situazione diventava sempre più irreale “Non voglio che mi chiamiate Bonnie!” rincarò la dose.
Bonnie vuole dire carino, in scozzese” spiegò la donna grassa, compita, mentre l’uomo orientale con la cresta, annuiva accanto a lei con altrettanta serietà “Come Bonnie Prince Charlie” aggiunse.
“Carlo Edoardo Luigi Giovanni Casimiro Silvestro Maria Stuart, vorrai dire” lo redarguì Chismes, reduce da un recente viaggio di lavoro in Scozia. “E io che ho detto?” sbottò il giapponese, i due si misero a litigare, ma il ragazzino smise di seguirli perché una voce gioviale alle sue spalle che lo fece sobbalzare.
Un uomo con due enormi spalle, il naso rotto e una coda di capelli biondi imperlata del bianco della vecchiaia disse entusiasta “Io dico che Bonnie, per te, è perfetto”
“E Bonnie sia” sentenziò l’uomo col bastone da viaggio, battendolo per terra come per togliere una seduta di tribunale.
 
***
 
“Hai portato il gilet?” chiese un vecchia decrepita coi capelli color magenta, che si appoggiava a un nodoso bastone da viaggio.
Diablo, già sul molo, annuì tirando su con le dita il proprio gilet grigio che denotava la sua appartenenza alla Seconda Guardia.
“Il tuo passepartout?”  domandò la donna. Era decisamente piccola e, a occhio, poteva avere come minimo quattrocento anni, la pelle rugosa e attaccata alle ossa, come se non ci fosse rimasto un solo brandello di carne attaccato al corpo. Lo spirito invece c’era ancora tutto, nonostante la vecchiaia, e Diablo lo sapeva bene.
Alzò il braccio per mostrare la chiave che aveva appena al polso.
“E la testa?” chiese poi la donna, serissima, fissandolo negli occhi. Diablo non si mostrò perplesso neanche per un attimo e si portò le mani alla nuca e alla fronte, tastandole “Direi che sia ancora attaccata al collo, dove deve stare, mia cara Jollah” sentenziò con un sorrisetto. La vecchia lo colpì in piena fronte col suo bastone e Diablo si coprì la parte lesa con le mani, soffocando un’imprecazione.
“Idiota” sentenziò Jollah, come se fosse un dato di fatto e basta. Diablo, ancora dolorante, la scrutò con sospetto, con un occhio solo.
“Allora, sai cosa devi fare, vero?” domandò, imperiosa. Ai due lati della donna, entrambi appoggiati al parapetto della Kensinghton  Gardens, stavano due uomini. Uno era quasi un ragazzino, non poteva di certo avere più di vent’anni, era biondo e quasi imberbe, con la carnagione chiara e i capelli corti e scompigliati. Gli occhi azzurri, il naso dritto e il cipiglio sveglio. I vestiti sembravano vecchi e malandati, ma era pulito. A tracolla portava una cassetta che, tempo prima, doveva essere stata di pregio, piena di terriccio.
L’altro era più in carne, doveva avere quasi l’età di Diablo, gli occhi a mandorla, il naso schiacciato e i capelli neri scompigliati come quelli dell’amico. Sul viso gli erano rimasti i segni di un’acne giovanile e le labbra erano carnose e rosa. Se ne stava a braccia incrociate e guardava Diablo, impassibile.
La vecchia Jollah colpì Diablo in testa col proprio bastone, a tradimento, di nuovo. Il ragazzo si protesse con le braccia e indietreggiò di qualche passo. “Ahi!” strillò e abbassò le mani per guardarla “Cosa ho fatto?”
“Lo sai, allora, come comportarti? Non mi hai risposto, ragazzino!” sbottò la donna, ritirando la sua arma da passeggio, e battendola piano sul ponte della nave.
“Sì!” esclamò Diablo, piuttosto offeso.
“Non sbadigliare, non parlare della tua infanzia, non cantare, lascia a casa l’ukulele, non grattarti, non interrompere il Re mentre parla, sii educato…” iniziò a snocciolare, ma il suo interlocutore la interruppe “E va bene, non sei mia madre!” brontolò lui, con le mani sui fianchi.
“Ti conosco meglio di entrambe le tue due madri!” sentenziò la vecchia, alzando di nuovo il bastone e Diablo non ebbe nulla da ribattere, se ne rimase in silenzio mentre la donnina aggiungeva “E non farti la sorella del Re”
Il ragazzo biondo ridacchiò e si beccò uno scappellotto. “Ahi!” pianse, accarezzandosi la parte lesa.
“Non sghignazzare Ronnie, che hai la stessa espressione della mia zuppa di pesce” lo rimproverò la vecchia Jollah. Ronnie se ne stette zitto a rimuginare, offeso.
Fu Diablo, ancora sul molo, a prendere la parola “Prima di tutto è la sorella del Re a volersi fare me, e non il contrario. E comunque non sono così stupido da trovare motivi in più per farmi odiare dal Re. Anche se penso che sia un idiota”
“Questo faresti meglio a non dirglielo” suggerì la vecchia.
“Ci proverò” continuò lui, distrattamente.
“Quindi?” chiese Jollah a quel punto.
“Quindi cosa?” chiese Diablo, un po’ infastidito.
“Farai il bravo?”
“Farò del mio meglio” promise lui, con un cipiglio tutt’altro che rassicurante “E comunque sono io il capitano di questa nave” ricordò. La vecchia alzò le spalle “Non è un gran problema per me” e tirò uno scappellotto al ragazzo dagli occhi a mandorla, che proprio non se l’aspettava.
“E questo perché?”
“Per ripristinare gli equilibri, Beirei. E ora a sbucciare le patate, per la miseria! Non si peleranno da sole!” stavano ancora bisticciando quando Diablo sparì dalla vista, inghiottito nelle tenebre del molo.
Il Grande mare era costituito soprattutto d’acqua. Erano solo poche isole, e tra queste la più grande, quella dove si trovava il palazzo reale, ma per il resto la popolazione preferiva vivere in barca. C’erano moli senza terra, come quello dei gazebo bianco e isole fatte di scogli con palafitte arrangiate, ma Diablo si era abituato quasi da subito alla vita del marinaio, era un po’ come se l’avesse sempre fatto.
L’isola dove si trovava il palazzo del Re era silenziosa, la notte era ormai calata da alcune ore, e per le stradine strette non si aggirava nessuno. Diablo si manteneva il più vicino possibile al mare, non avrebbe saputo dire perché, ma gli dava sicurezza.
Non era davvero preoccupato, ma il Re non gli piaceva. Aveva giurato fedeltà al Re suo padre, ma non si sentiva assolutamente così legato al nuovo Re  in carica, per non parlare del fatto che avrebbe avuto tutti i motivi per scaraventare Diablo nelle segrete, se solo si fosse preso la briga di indagare un po’ su di lui.
Avanzò a passo svelto verso il castello, prima quella riunione fosse finita meglio sarebbe stato, per tutti. E c’era da sperare che non venisse fuori la questione Dirk.
Percorse le mura del palazzo tenendosi rasente al muro di dura pietra grigia. Era un edificio imponente e piuttosto freddo, visto da fuori. Non vi erano vessilli, né tendoni, quelli del Grande Mare erano gente che stava in acqua, il castello era lì quasi per scherzo.
Sentì un fruscio provenire dall’alto, ebbe giusto il tempo per battere un paio di volte le mani e di voltarsi per vedere una pianta di rampicanti, dal tronco inaspettatamente resistente, frenare la caduta di una donna che sembrava proprio precipitare dal cielo.
“Grazie!” biascicò lei a gambe all’aria, con la bocca piena di foglie. “Poi mi devi spiegare come fai a far crescere questi così così in fretta” le piante ebbero un fremito, come se si sentissero lusingate. Diablo batté di nuovo le mani e le piante la lasciarono andare, facendola cadere sul selciato, in modo non troppo doloroso. La donna si pulì le mani e si scossò il vestito lungo dalla polvere. Aveva un cappuccio che le si era sfilato durante la caduta.
“Da dove arrivi?” domandò divertito. La donna fece una smorfia e indicò con un dito una finestra che stava molto in alto lungo il muro di pietra del palazzo reale. Diablo alzò gli occhi, ma non fece commenti limitandosi a sorridere, se non fosse arrivato lui, lei si sarebbe schiantata a terra in un guizzo di ossa rotte e materia cerebrale sui ciottoli.
“Vai dal tuo fornaio, Merea?” domandò  Diablo guardandola, dall’alto in basso. Lei scosse i boccoli. Era una donna in carne e vista da vicino doveva avere appena diciassette anni. Il viso era tondo e gli occhi grigi e vispi, il seno prominente e le spalle rotonde, aveva il naso storto, ma si intonava col suo viso. Diablo la trovava un tipo divertente.
“Dal macellaio” corresse lei.
Diablo aggrottò le sopracciglia “Mi sembrava di ricordare che avessi una tresca col forna…” non finì la frase perché lei lo zittì “Questo accadeva la settimana scorsa” spiegò.
Il ragazzo annuì, fingendosi comprensivo, ma lei lo sorprese spingendo le proprie labbra contro le sue. Diablo si scostò subito facendo un passo indietro e la guardò accigliato. Avevano già fatto più volte quel discorso “Tuo fratello ha già un sacco di muoni motivi per volermi morto, non diamogliene degli altri” sentenziò.
“Ti proteggerò io da mio fratello” disse lei dal basso, con un sorriso infantile. “E quale valoroso cavaliere saresti” commentò lui, per poi aggiungere, serio “Ho dieci anni in più di te”
“Non mi interessa”
“Sono fidanzato”
“Non sono gelosa”. Diablo fece la smorfia di chi non aveva affatto gradito la battuta e la sgridò con gli occhi. Merea aprì di poco le labbra, in un’espressione scocciata “Ma sei fidanzato con un pesce”
“È una sirena” la corresse lui, paziente.
“Ti do una delle iguane sputafuoco di mio fratello” provò a controbattere, sperando che il baratto servisse.
“Mi vuoi comprare?” chiese lui, inarcando un sopracciglio “e comunque non me ne faccio niente di un drago, contro le ortiche servirebbe, forse, ma non contro un genio. Fatalii ne ha uno, che ha rubato al tuo defunto padre” spiegò.
“Pace all’anima sua” disse lei automaticamente, guardandolo negli occhi.
“Allora ti darò un drago quando dovrai combattere contro delle Ortiche” disse, asciutta.
“Va bene” acconsentì Diablo, piegandosi un po’ in avanti, era decisamente più alto della ragazza.
“Allora verrai con me?” domandò speranzosa.
“No” ribatté lui, conciso.
Merea sbuffò e pestò i piedini per terra, quasi coperti dalla gonna lunga “Ma insomma”. Diablo la guardò tranquillo e serio allo stesso tempo e le mise una mano sulla spalla “Credo che sia ora che tu corra dal tuo macellaio. Io non ho visto niente”
Merea sbuffò di nuovo, come un’aragosta in pentola, e si tirò su il cappuccio scuso, prima di perdersi nella notte del Grande Mare. Diablo non si diede tanti pensieri riguardo alla ragazzina e riprese per la sua strada. Finì di aggirare il castello di pietra e arrivò davanti all’entrata principale, era protetta solo da due guardie. Nessuno era interessato a prendersi un cumulo di pietra, gli abitanti del Grande Mare erano un popolo che amava l’acqua, nessuno si sarebbe mai sognato di attaccare un edificio. Diablo si disse che però il nuovo sovrano avrebbe dovuto stare attento, nessuno lo amava particolarmente.
“Buonasera signori” esclamò lui allegro, le due guardie vestite a righe blu e rosse rimasero impassibili, ma entrambe gli schioccarono occhiate di disprezzo.
“Attenti a non stordirmi di chiacchiere, eh!” commentò lui sarcastico una volta che fu a metà del corridoio d’ingresso. Avanzò seguendo la traiettoria del lunghissimo tappeto rosso bordato da disegni in filo d’oro. Salì la scala reale e girò a destra in un corridoio largo, ma non come quello precedente. L’aspetto era già più intimo e le pareti erano ricoperte di legno, per dare quasi la sensazione di essere in nave. Di notte, quando il cielo era nero, come in mare, l’illusione poteva quasi riuscire. Avanzò a grandi falcate e non diede troppo peso all’anta di un armadio, che aveva appena superato, che si apriva.
Cloris lo raggiunse subito, mettendosi a camminare al suo fianco con la stessa andatura veloce. Era decisamente più bassa di lui e decisamente con un carattere peggiore. Grugnì quando fu al passo con l’uomo coi capelli rossi.
“Almeno questa volta ti sei presentato” sentenziò, senza guardarlo.
“Il Re e la Mosca non sono la stessa persona” ribatté Diablo, vagamente divertito.
Cloris lo guardò e vide che lui sorrideva, fu tentata di tirargli un pugno “Le riunioni col nostro informatore hanno quasi la stessa importanza” avrebbe voluto dire che erano addirittura più importanti, ma non si azzardò, in un castello non si sa mai chi potrebbe ascoltarti.
“Comunque sono venuto a sapere che non vi ha detto molto”
“Questo è un altro discorso” brontolò Cloris, decisamente intollerante per quanto riguardava la faccenda, avrebbe strangolato volentieri Alih, se avesse potuto.
Ebén si unì a loro entrando da una finestra sul lungo corridoio, usando lo stesso trucco del passepartout che aveva usato Cloris per uscire dall’armadio.
Avanzarono a passo veloce, con le scarpe che battevano sul pavimento di legno finché non arrivarono abbastanza vicini a un gigantesco portone istoriato. C’erano intagli di pregio che rappresentavano pesci e scene di pesca e ancora navi e draghi, nessuno dei tre si fermò ad ammirarli, procedendo invece con la loro marcia.
“Ci pensi tu, Ebén?” domandò Cloris, senza nemmeno voltasi a guardarlo, coi capelli color magenta che le svolazzavano sulla schiena.
“Certo che ci penso io, l’ultima volta Diablo ha rischiato di dare fuoco al palazzo” sentenziò l’uomo, contrito. Diablo si voltò verso di loro per ribattere, ma in un attimo si trasformarono tutti e tre in fumo nero che scivolò veloce sotto la porta.
Diablo si ritrovò a stare di nuovo ritto sulle gambe quando ormai si trovavano in un grande salone anch’esso dalle pareti ricoperte di legno. Cloris ed Ebén erano accanto a lui e l’ultimo sbuffo di fumo nero stava svanendo.
Nella grande sala c’erano loro e un ragazzo grasso che doveva avere più o meno l’età di Cloris che sedeva su un vecchio trono di legno. Sembrava solo una sedia un po’ più grossa, ma nel Grande Mare nessuno dava importanza a cosa stava dentro a un castello, l’importante era ciò che poteva galleggiare nell’acqua. Le uniche altre presenze, oltre al Re a ai capitani della Seconda Guardia erano una donna tonda da i folti e crespi capelli rossi, quasi arancioni, che indossava un paio di occhiali tondi dalle lenti scure e li guardava con aria seria. Alla sinistra del monarca, invece, stava un soldato dotato di lancia, immobile come una statua. Diablo avrebbe potuto giurare che non si sarebbe mosso di un solo millimetro per tutta la serata.
La stanza era bene illuminata da molte candele. Dalla luce che facevano era chiaro che qualcuno aveva aiutato quel fuoco con un po’ di polvere di semi d’ortica. Macinando i semi rubati ai geni si poteva fare praticamente tutto, sapendo come miscelare le varie polveri.
Alla sua destra stava un gigantesco acquario dai vetri  anneriti in vari punti. Dentro vi nuotavano una decina di iguane multicolore, una si voltò a guardarlo e sputò fuoco annerendo ancora di più il vetro. Diablo sobbalzò e indietreggiò, voltando lo sguardo, rimettendosi a studiare il monarca, la donna in carne e la guardia immobile.
Il sovrano si mosse sul suo scranno. Merea aveva detto che quel trono le faceva venire il sedere piatto, lei l’aveva provato mentre suo fratello non guardava.
Il Re si alzò, indossava una tunica bianca lunga fino ai piedi, con decorazioni blu attorno al grosso collo e sul petto. Cloris ed Ebén si inchinarono al sovrano, Diablo con un attimo di ritardo: non era abituato a prostrarsi davanti a qualcuno.
“Capitani” li salutò il sovrano, con voce gracchiante, risedendosi pesantemente. Aveva i capelli lunghi fino alle spalle, neri e lucidi, raccolti in parte in una mezza coda sulla nuca, le guance spioventi e delle profonde occhiaie, come se non avesse mai dormito bene in vita sua. Diablo lo detestava.
“Buonasera, Maestà” disse educatamente Ebén, con un filo di voce che raggiunse benissimo le orecchie del Re.
“Non è affatto una buona sera, lo dovreste sapere” grugnì. Diablo fece una smorfia, ma non disse nulla, quel fetente non aveva nemmeno offerto loro delle sedie, se ne dovevano stare lì in piedi come degli stupidi. Avrebbe voluto lamentarsene, ma si ricordò di cosa aveva promesso alla vecchia Jollah e se ne stette in silenzio. Anche la donna dai capelli crespi parve ricordargli quali fossero i suoi doveri di obbedienza al regno.
I tre capitani se ne rimasero in silenzio, mentre la donna tonda coi i capelli crespi che sedeva accanto al Re, si sistemava gli occhiali.
“La Torre dell’Acqua sta crollando” sentenziò poi, rompendo il silenzio con il rumore di uno specchio che si spacca in mille pezzi.
Fu Cloris a prendere la parola, senza pensarci, e facendo un passo in avanti verso il sovrano “La Torre del Riso vorrà dire, Maestà” azzardò.
Il ragazzo batté il pugno sul bracciolo del proprio trono di legno “Ho detto acqua, perché è la Torre dell’Acqua, capitano! Se foste attenti al vostro lavoro, lo sapreste!” urlò.
La donna coi capelli crespi distolse lo sguardo, Diablo, invece, divaricò di poco le gambe e guardò fisso il suo signore, serio.
Il Re parve riprendere il controllo, mentre Cloris si scusava. Si rimise seduto, si era alzato per la foga. Tamburellò le dita sull’intarsio del suo sedile e dopo un attimo che sembrò un secolo rivolse di nuovo loro la parola, la sua voce era calma e lenta “La Torre del Riso è già caduta da troppo tempo, lo so, il cielo attorno alla Torre dell’Acqua si sta crepando. Siamo un piccolo paese, non come il Campo d’Ortiche che abbisogna di centinaia di colonne, a noi ne bastano tre… ma i tre capitani della mia Seconda Guardia non sembrano in grado di procacciarsi nemmeno tre semi d’ortica!” le ultime parole le disse urlando. Si era alzato per il furore e aveva fatto due passi nella loro direzione. Diablo rimase immobile, avrebbe lasciato parlare gli altri e infatti Ebén si fece avanti “Maestà, non è così facile prendere i semi ai Geni, noi lavoriamo sempre duramente e…”
“Palle!” urlò il Re, adirato.
“Maestà…” provò a dire la donna coi capelli crespi, ma lui le urlò contro “Zitta tu, sono loro che voglio sentir parlare!” e di nuovo guardò i tre capitani, Ebén era piegato su un ginocchio e lo guardava dal basso.
“Le Ortiche non hanno questo problema, pare…” disse, in un sussurro cattivo, guardandoli sottecchi dall’alto del suo scranno.
“Le Ortiche li creano, noi li rubiamo ai Geni” disse Ebén, il Re lo sapeva, ma pareva scordarsene.
“E allora rubiamoli alle Ortiche!” urlò il sovrano, livido di rabbia.
“Deacon Brodie non ci darà mai un passepartout per il Campo d’Ortiche” disse Cloris, cercando di mantenere la calma, ma anche lei era arrabbiatissima.
“La Mosca Bianca ne ha uno!” sputò il Re.
“La Mosca Bianca non è mai tornata” fece notare Ebén, il più educatamente possibile.
“Trovate un modo per tenere su il cielo, anche a costo di stare voi e i vostri stupidi equipaggi a reggerlo con i vostri stupidi cadaveri ammassati uno sopra all’altro, o vi giuro che chiederò a Deacon Brodie di chiudervi le porte del Grande Mare!” urlò ancora. Diablo rimase impassibile.
Ebén sospirò e poi si fece forza, facendo un passo in avanti “Maestà, se solo potessi chiederle di perdonare Dirk, io…”
Il Re ruggì tutto il suo furore “A quello avrei dovuto fare ingoiare la sua stupida piuma colorata e poi tagliargli la testa, sono stato troppo buono, l’esilio è una punizione troppo debole per un voltagabbana del genere!” tuonò.
Ebén aveva la gola secca, ma si affrettò a urlare sopra la voce del sovrano per riuscire a finire la frase “Maestà, maestà, io credo che se lei gli concedesse la grazia Dirk potrebbe tornare da noi con un sacco di informazioni in più sui geni, su Silk e magari il suo nome…” quello dell’uomo era quasi un implorare.
“Palle! Dirk tornerebbe qui e ci venderebbe a quel fottuto ciccione pelato e al suo amico Veleno”  disse, prima di lasciarsi mollemente cadere sul suo scranno.
“Sono stanco di voi, andatevene, non le voglio più vedere per un po’ le vostre brutte facce, non di certo prima che il Grande Mare abbia di nuovo le sue tre colonne a reggere il cielo!”  disse. La donna coi capelli rossi e gli occhiali tondi, chiuse le palpebre e sospirò. Il fumo nero avvolse la Seconda Guardia e in un attimo i tre furono scomparsi.
Diablo riprese coscienza di sé quando ormai erano sul molo e fissavano il mare nero.
Si piegò un poco in avanti per massaggiarsi le ginocchia “È sempre la solita vecchia capra” brontolò sommessamente, mentre Cloris si guardava in giro alla ricerca della propria cavalcatura.
“Quella capra è il nostro Re, cerca di ricordartelo, se non vuoi che esilino anche te” sbottò Ebén, piuttosto acido. Diablo fece un sorrisetto cattivo “Non mi sembra che qui quello più in pericolo sia io, sei tu che hai chiesto a sua Meastà” e quel sua Maestà suonò vagamente canzonatorio “…di riaccettare Dirk.  Se vuoi il mio parere, su questa storia, la vecchia capra a ragione: ora come ora Dirk non ci penserebbe due volte a consegnare la tua testa a Silk e Veleno” disse, con un sorrisetto compiaciuto. Non c’era nulla che gli facesse davvero piacere di quella cosa, ma non sopportava che Ebén lo trattasse come un idiota.
“Ho sentito abbastanza” fu il commento gelido che ne seguì. Una vena pulsava sulla tempia dell’uomo. Senza dire niente altro lo superò e si avvio per il lungo mare dell’isola. Solo quando fu abbastanza distante biascicò un frettoloso “Buona serata” senza nemmeno girarsi e sparì inghiottito dal buio. Diablo si chiese se non avesse di nuovo usato il trucchetto del trasformarsi in fumo.
Quando si voltò di nuovo verso Cloris questa era in compagnia di una ragazzina piuttosto magra e non tanto bella che portava con sé un destriero multicolore. Il cavallo le stava masticando la borsa e lei aveva tutta l’aria di averci fatto l’abitudine, ma sembrava piuttosto contrariata comunque.
“È sparito anche Coli, oltre a Dirk, Ebén è un po’ nervoso” lo scusò Cloris, fissando i suoi occhi castani in quelli di Diablo.
“Non me lo sono mangiato io” sentenziò lui, come a dire che non c’entrava nulla in quella storia. Cloris fece una smorfia, non apprezzava l’umorismo in quei momenti, anzi, non apprezzava l’umorismo e basta.
“Se non torna dovremo andare a cercarlo” lo avvertì, e prese le redini del proprio unicorno dicendo, con tono poco cortese “Andiamo, Alih”
Alih, la ragazzina brutta, lanciò un’occhiata curiosa all’uomo e Diablo le sorrise, la ragazzina distolse lo sguardo e si affrettò a seguire il proprio capitano, che ormai era salito a cavallo dell’animale.
Diablo rimase a guardarle mentre sparivano  nel buio e il rumore degli zoccoli dell’unicorno svaniva con la distanza.
Si chinò fino a mettersi in ginocchio sul bordo del molo e guardò l’acqua scura, prima di chiamare “Bianca? Bianca?”
Nessuna risposta, si guardò intorno, scrutando il buio in attesa “Bianca?” chiamò ancora “Sei venuta a prendermi?”
Nessuno rispose e la notte sembrava sempre più scura e desolata.
Il ragazzo si accigliò, guardandosi in giro, poi, sbuffando, immerse la testa in acqua. Se qualcuno fosse passato lì in quel momento avrebbe visto un uomo col sedere all’aria che urlava sott’acqua.
Diablo riemerse sputando acqua e imprecando. Si scrollò i capelli bagnati come se fosse stato un cane. Sospirò e fissò il mare piuttosto contrariato. Fu mentre cercava di distinguere la linea dell’orizzonte che qualche cosa lo afferrò per la testa e lo tirò in acqua con una presa d’acciaio. Diablo si dimenò, ma poi affondò.
 
Aki_Penn parla a vanvera: Eccomi con un altro capitolo! È decisamente lunghetto, spero che nessuno sia caracollato sul computer mentre leggeva, non voglio avervi sulla coscienza! ù.ù
E quindi, ecco il nuovo genio, spero che vi piaccia, perché a me piace parlare di lui e credo che lo tirerò fuori piuttosto spesso. XD È un personaggio un po’ difficile, ma spero di riuscire a renderlo bene anche coi prossimi capitoli.
Come sempre: grazie infinite per aver letto. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Il sonno del genio ***


Make a wish-
Capitolo diciassette-
 Il sonno del genio –
 
Tinkerbell sentì il petto di Ruthie schiacciarsi sulla sua schiena, poi fu la volta dei capelli sulla faccia e la mano di lei appoggiata sulla spalla.
Essere un genio non voleva dire dormire male, ma di certo si svegliava spesso. Quando era piccolo e divideva il letto con Jessie, lei scalciava e si muoveva tutta notte, ma lui non batteva ciglio, continuando a dormire con la labbra leggermente aperte. Da quando dormiva con Ruthie, invece, si svegliava continuamente, a ogni sospiro un po’ più profondo, a ogni scricchiolio. Non era una cosa che gli desse granché fastidio, essere vigile faceva parte dell’essere un genio, ma era strano sentirsi riposato al mattino dopo aver passato ogni attimo della notte a svegliarsi e riaddormentarsi.
In ogni modo, se Jessie gli fosse salita sopra mentre dormiva, lui se ne sarebbe accorto anche da umano, e Ruthie gli stava proprio salendo sopra.
“Che cosa fai?” sussurrò piano, mentre lei appoggiava il mento sulla sua tempia e gli era già per metà addosso, nel tentativo di scavalcarlo.
“Non ti preoccupa?” domandò lei, scivolando di nuovo dietro di lui. Dividevano il posto su un materasso, nel letto di sotto di un letto a castello. Ruthie si era lamentata un bel po’ del fatto che non avessero un letto da darle, ma Tinkerbell le aveva fatto notare che gli altri famigli dormivano per terra, o ai piedi del padroni, a parte Nerina, che sonnecchiava sopra Septum, schiacciandolo. Se ne era stata zitta, ma lui l’aveva sentita continuare a sbuffare ancora per un po’.
In ogni modo, i suoi capelli continuavano a solleticargli il viso mentre lei gli parlava vicino all’orecchio, sempre a bassa voce. Il braccio di lei era comunque aggrappato a lui, come per essere sicura di avere la sua attenzione.
“Il ragazzino, intendo, Bonnie” sentenziò a quel punto il suo famiglio, scalciando un po’. Le gambe nude e i calzini a righe strisciavano contro le sue, faceva un gran caldo, in quella camera erano in troppi. C’era da chiedersi cosa li avesse spinti a rimanere lì a dormire, ma Tinkerbell lo sapeva: Veleno. Le sue dimissioni non avevano cambiato troppo le cose, era sempre lui a dettare legge.
“Cos’ha Bonnie?” domandò lui, cercando di voltarsi un po’ in dietro per vederla in faccia, azione che gli riuscì solo a metà, perché lei era schiacciata contro la sua schiena, in una posizione abbastanza scomoda.
“È tutta la notte che piange, non ha mai smesso”  sussurrò ancora. “Lo so” rispose lui, perplesso, non capendo quale fosse il problema.
Nella stanza c’erano quattro letti a castello, loro due stavano sotto a quello di Fatalii. Chismes e Septum avevano litigato selvaggiamente per decidere chi sarebbe stato sopra e lei aveva vinto, in quel momento il giapponese russava mentre il suo famiglio lo usava come materasso.
Silk si era preso un letto in basso, essendo un genio, nonostante avesse solo una gamba, salire su un letto a castello non sarebbe stato un problema, ma il suo lato umano continuava a farsi sentire persistente e la sua protesi stava accuratamente appoggiata alla parete. Skog dormiva sopra di lui, russando come una sega elettrica e Commander si era sistemato sul piano di sopra dell’ultimo letto disponibile e dormiva voltato verso il muro, in assoluto silenzio. Bonnie stava sotto di lui singhiozzando da tutta la notte.
“Non è che potrebbe fare qualche gesto inconsulto e ucciderci tutti?” domandò. I suoi capelli profumavano di vaniglia e anche quelli di Tinkerbell, aveva usato lo shampoo di lei e adesso entrambi profumavano come fossero torte.
“Ti ricordo che siamo sette contro uno e Bonnie non ha davvero idea di che cosa possa fare il suo corpo” disse lui, tranquillo, riuscendo finalmente a mettersi sdraiato con la schiena sul materasso, Ruthie si era spostata un po’ e teneva un gomito puntellato contro il petto di lui e il dorso appoggiato alla parete. Una gamba era messa di traverso su quelle di Tinkerbell “Potrebbe prendervi di sorpresa mentre dormite” suggerì lei, sempre a bassa voce. Tinkerbell fece una smorfia “Non puoi prendere alla sprovvista un genio, di certo non ci può riuscire uno come Bonnie che è un genio da nemmeno dodici ore e piange nel suo letto”
“Che so, un gesto sconsiderato, qualche cosa del genere…” provò ancora lei, non troppo convinta. Tinkerbell sospirò e estrasse la sua accetta da sotto al cuscino, Ruthie nemmeno si era accorta fosse lì.
“Guarda” le sussurrò lui in un orecchio, e l’ascia squarciò l’aria della stanza puntando alla testa della pantera nera. Ruthie ebbe solo il tempo di aprire la bocca per lo stupore, nella penombra, che Sempum, nonostante dormisse sulla pancia, afferrò al volo, con molta naturalezza.
Il giapponese alzò la testa, arrabbiatissimo “Che cacchio volevi fare a Nerina?” sbottò. Era un sussurro, ma l’intonazione era quella rabbiosa di un urlo. Tinkerbell alzò le mani in segno di resa, ma non era per nulla dispiaciuto “Non volevo ammazzarti il famiglio” spiegò Clay, sottovoce.
“Sarà meglio, se no io ammazzo il tuo!” sbottò Septum, dall’altra parte. Un paio di dita dalle unghie smaltate gli tirarono una delle code in cui aveva legato la cresta dopo essersi lavato i capelli.
“Siamo rissosi, qua sotto?” domandò divertita Chismes, che si era sporta dal letto di sopra.
“Cercano di ammazzare il mio famiglio”lamentò, poi rinsavì “Ma cosa ne parlo con te, hai un famiglio che fa finta di essere morto!” sbottò.
“Lydia è bravissima” commentò lei con orgoglio, riavviandosi una ciocca corvina dietro l’orecchio.  Poi si voltò verso Tinkerbell e chiese, in un sussurro “Che cosa volevi fare con Nerina?”
Clay scrollò le spalle “Volevo solo far vedere a Ruthie che non è facile prendere di sorpresa un genio, è preoccupata per lui” e con un cenno del capo indicò Bonnie, le cui spalle tremavano a causa delle lacrime.
Septum lanciò con rabbia l’ascia al mittente e Tinkerbell la prese al volo, Ruthie quasi non la vide, nella sua traiettoria, l’accetta semplicemente si materializzò nella mano di Tinkerbell.
Fu in quel momento che Skog si mise a sedere di scatto, svegliato da un cigolio del letto “Cosa c’è?” chiese, a voce fin troppo alta. Ci fu un coro di “Sssh” e di gente che si metteva un dito davanti alla bocca, Nerina sbadigliò e Skog si scusò silenziosamente.
Fu il turno del capitano di mettersi sui gomiti e guardarli male. Ruthie strinse i denti e la maglietta bianca del pigiama di Tinkerbell nel pugno. Commander non le piaceva molto, i racconti di Tinkerbell si erano rivelati più che mai veritieri riguardo a quell’uomo.
“Cosa c’è?” domandò in un sussurro stizzito, guardando gli altri. Skog si grattò la testa piena di capelli biondi, Tinkerbell le aveva detto che il falegname dormiva nudo, quindi Ruthie aveva fatto di tutto per non finire a guardarlo.
Chismes indicò piano Bonnie, col dito, stando con una gamba a penzolare giù dal letto.
“È tutta la notte che piagnucola…” sentenziò Septum, con le mani messe a coppa per appoggiare la testa. Nerina si era andata a mettere sotto il letto.
“Smettetela di agitarvi tutti quanti, per l’amor del cielo” supplicò Silk, nel suo pigiama di seta viola, sistemandosi le coperte, mentre il suo carlino strabico starnutiva.
Commander emise un grugnito e sfilò la sua lancia da sotto alle coperte, dove l’aveva tenuta fino a quel momento “Allora adesso gli stacco la testa e ce ne troviamo un altro, non ci serve un genio che piange”annunciò.
Una freccia lo colpì dritto in un occhio, sibilando nella penombra della stanza “Tu non stacchi la testa proprio a nessuno” sbottò Fatalii a bassa voce, con l’arco ancora in mano. Non attese oltre e ritirò l’arma rimettendosi sotto le coperte, piuttosto contrariato e intenzionato a riprendere la propria dormita.
Bonnie si strinse nelle spalle e tutti rimasero immobili a guardarlo. Quando si voltò a vedere cosa stava succedendo -era da un po’ che sentiva dei bisbigli – trovò la camera immersa nel silenzio e popolata da statue, non un bisbiglio, non un sospiro. Septum aveva anche smesso di russare.
Sembrava che nulla si fosse davvero mosso. Bonnie si asciugò gli occhi col dorso della mano e si rimise con la testa sul cuscino.
 
***
 
Quella mattina era stato svegliato da Juanito. Non si ricordava di aver praticamente dormito, quella notte, ma non si sentiva troppo stanco, tuttavia era ancora in stato di semi-shock.
Juanito era un uomo di mezz’età dalla pelle olivastra e il naso a punta che non smaniava per chiacchierare. Vestiva di una tunica di cotone bianco e dei sandali intrecciati, nulla di più.
Gli aveva solo detto di alzarsi e lo aveva portato nella sala col tavolo ovale, a sedersi davanti a nove sedie vuote.
Il posto era illuminato dalla stessa luce tiepida del giorno prima, mentre fuori dalla finestra il cielo era limpido, sembrava quasi che ci fosse solo cielo, dovevano essere dentro a un grattacielo, anche se la sala era piuttosto peculiare. Bonnie davvero non capiva che razza di posto fosse, ma non si azzardò a fare domande all’uomo, il quale si diresse in fondo alla sala per andare a giocare a scacchi con un vecchio strabico vestito di una tunica bianca molto simile a quella dell’altro.
Non era legato e nessuno lo tratteneva, ma Bonnie non aveva nessuna idea di che cosa poteva fare. Scappare per andare dove? Quei tipi gli avevano sfondato lo stomaco e tagliato la lingua, ma in quel momento non c’era più nessun segno evidente della violenza, avrebbe quasi pensato di aver sognato, se solo i suoi pantaloni e la sua maglietta non fossero stati incrostati di sangue. Il suo sangue.
Bonnie si ricordava il dolore causato dal calcio che aveva rotto la bottiglia che stava nei suoi pantaloni. Si ricordava la pozza di sangue che si era allargata sotto di sé.
Si guardò le mani e i polsi, aveva dei bracciali argentati, li aveva notati quando Juanito lo aveva portato a letto, la sera prima, dopo che l’Indiano aveva deciso che si sarebbe chiamato Bonnie.
Bonnie, era un nome del cazzo, era assolutamente da donna.  Aveva cercato di opporsi un po’, ma aveva paura che gli tagliassero la lingua per davvero, o gli cucissero le labbra, il tizio con la testa rasata e la cicatrice sulla tempia aveva tutta l’aria di aver voglia di farlo.
Aveva cercato di sfilarseli, quegli stupidi braccialetti, ma non si erano spostati di un millimetro, era come se la sua pelle si fosse fusa ad essi. Parevano più manette che bracciali, non riusciva a dare un senso logico a quei gingilli che gli avevano messo. Forse avevano installato un microchip che permetteva loro di rintracciarlo nel caso fosse scappato?
Fu mentre faceva quel tipo di ipotesi che una delegazione di gente in cappotto militare fece il proprio ingresso nella stanza. Bonnie rimase immobili a guardarli, senza avere il coraggio di dire nulla e seguendoli solo con gli occhi. Le mani erano al proprio posto, appoggiate sulle ginocchia.
Erano nove, quasi tutti con indosso il cappotto doppio petto blu scuro, a parte il vecchio indiano con cui aveva parlato il giorno prima e una ragazzina bassa.
L’uomo indossava un dhoti blu che gli lasciava scoperti i piedi e parte dei polpacci dalla pelle cadente. Sopra indossava un kurta dello stesso colore, con maniche lunghe e ricami dorati. Avanzava portandosi dietro un lungo bastone, ma sembrava che non ne avesse bisogno per camminare.
L’uomo si sedette nella sedia in mezzo, senza nemmeno degnarlo di uno sguardo finché non si fu accomodato proprio davanti a lui. Alzò la testa e gli sorrise senza dire nulla, mentre gli altri otto si disponevano quattro per parte.
All’estrema destra stava un uomo gigantesco, con i capelli arruffati legati in una coda bionda e bianca e una mascella importante. Aveva un naso rotto e l’espressione ilare, ma a Bonnie questo non aiutava a sentirsi più tranquillo, dato che l’uomo teneva stretto tra i denti un grosso coltello da caccia, col quale sembrava assolutamente a proprio agio. Sotto la sua sedia un castoro stava mordicchiando una delle gambe del sedile.
Accanto a lui sedeva un uomo dalla pelle color ebano e i capelli ricci tagliati corti, aveva un’aria pulita e seria. Gli occhiali che indossava avevano una spessa montatura scura e le lenti pulite. Il viso allungato e le labbra carnose facevano di lui un bell’uomo. Da sotto il cappotto spuntavano dei pantaloni scuri e delle scarpe eleganti. A tracolla portava una faretra e un arco d’osso dall’aria dura e vecchia. Sulla sua spalla stava appoggiata un’iguana variopinta, assolutamente immobile.
Seguendo la linea trovò un ometto più basso, non avrebbe saputo che età dargli, ma di certo non si trattava di un ragazzino, con gli orientali era sempre piuttosto complicato. Aveva i capelli completamente rasati sui lati della testa e un’imponente cresta da punk proprio nel mezzo. Lo sguardo era feroce come la bestia che stava ai suoi piedi: una grossa pantera nera dal pelo lucido, che lo guardò annoiata.
Ci fu uno scambio di sguardi fugace, tra Bonnie e la fiera, poi lei decise che quel biondino secco non le interessava e, sbadigliando, si mise a sonnecchiare.
Bonnie deglutì e tornò a guardare il giapponese, che ricambiò lo sguardo con uno piuttosto torvo. Portava degli anfibi verde scuro e un tridente argenteo appeso dietro la schiena. Era un’arma quanto mai bizzarra e Bonnie preferì non fare congetture sull’utilizzo della medesima, facendo scivolare lo sguardo sull’uomo grasso che sedeva accanto al giapponese.
Era calvo e una delle sue gambe pareva non potersi piegare. Da sotto il cappotto doppio petto spuntavano un paio di pantaloni di un rosa acceso e delle scarpe eleganti con le stringhe. In braccio teneva un carlino esagitato che continuava a cercare di leccarlo. L’uomo, un tipo dall’aria tranquilla, sorrideva alla bestiola mentre le guance gli si imporporavano. Aveva un naso tozzo e le guance tonde, il cranio lucido come se ci si potesse anche specchiare.
Alla sinistra dell’Indiano vestito di blu stava invece l’uomo che gli metteva terrore, testa rasata e cicatrice sulla tempia. Era seduto composto e i suoi occhi chiari lo guardavano così intensamente che Bonnie si chiese se per caso non fosse capace di uccidere anche solo con lo sguardo.
Non aveva animali con sé, solo una lunga picca stretta in mano come se fosse stata un giocattolo. Aveva il viso magro e i lineamenti forti, il collo robusto e il naso dritto. Il ragazzino distolse lo sguardo per non dover più reggere la vista di quegli occhi.
A sinistra stava una sedia vuota e poi una donna molto in carne, anche lei indossava il cappotto doppio petto che le si gonfiava sul seno seguendo le curve del suo corpo.
Portava un collo di volpe con ancora la testa e le zampe appoggiato alle spalle, Bonnie trovava quella cosa di incredibile cattivo gusto, non si era mai iscritto a nessuna associazione di salvaguardia di animali, ma avere un’intera volpe morta sulla groppa era davvero raccapricciante!
Il viso era radioso e ben truccato, i capelli erano lisci e scuri, tagliati a caschetto. Lei gli fece un sorriso quando i loro sguardi si incontrarono.
Dal fondo del cappotto spuntavano le sue gambe grassocce e un paio di scarpe dal tacco vertiginoso, Bonnie si ritrovò a chiedersi se su quel tacco ci fosse intagliato in drago, o qualche cosa di simile.
Per ultimo, all’estrema sinistra, stava un ragazzo, i capelli erano scurissimi come gli occhi, il naso camuso e lo sguardo vispo. La pelle era abbastanza scura e gli zigomi pronunciati. Le labbra sottili erano increspate in un sorrisetto un po’ derisorio. Se ne stava seduto a gambe divaricate e lo derideva.
Bonnie increspò a sua volta le labbra, ma in un’espressione infastidita e studiò la ragazzina seduta sul ginocchio destro di quel tizio che sembrava tanto divertito dalla sua persona.
Lei non doveva avere troppi anni in più di Bonnie, ma neanche molti in meno del tizio sorridente. Portava una gonnellina di cotone e delle pesanti calze grigie a stampe di cuori bianchi. Le scarpe di camoscio che indossava erano slacciate.
Bonnie la guardò assottigliando gli occhi, aveva capelli castani che le arrivavano fino al seno e i fianchi erano larghi. Doveva essere decisamente bassa, dava l’idea di essere una donna in miniatura.
“Quindi, qual è il tuo nome?” chiese il vecchio indiano e Bonnie per poco non cadde dalla sedia, quando l’uomo glielo chiese. Il gigante rasato con la cicatrice sulla tempia grugnì, probabilmente si era accorto del suo momento di panico. Il ragazzo con la ragazzina sul ginocchio ridacchiò, mordendosi le labbra.
“Bonnie” rispose Bonnie infine, dopo un attimo di esitazione.
L’indiano chiuse gli occhi e sospirò “Ottimo, per un attimo ho creduto che mi avresti detto il tuo veno nome. Ricordati, d’ora in poi sarai Bonnie e basta”
Bonnie annuì e aprì la bocca per aggiungere qualche cosa al proprio assenso, ma il vecchio col bastone da passeggio lo precedette “Immagino che ti chiederai perché ti abbiamo portato qui, beh, sappi che è stato così per tutti, chi prima chi dopo. Non ti faremo del male. Non noi, almeno”
L’ultima frase dell’uomo lo mise in allarme, c’era qualche cosa che lo convinceva davvero poco nel tono pacato del suo interlocutore.
“Io sono Bloom” si presentò finalmente l’uomo “…e loro sono Skog, Fatalii, Septum, Silk, Commander, Chismes e Tinkerbell” snocciolò in fretta indicando i presenti e Bonnie si chiese chi fosse Tinkerbell, se il tizio ridente o la ragazzina col volto tondo e la scarpe slacciate.
“Ora sei nostro” disse poi, guardandolo con sguardo deciso, sotto le sopracciglia scure. Fu come uno sparo “Cosa?” sbottò Bonnie senza nemmeno pensare a fare il gentile e sottomesso per non farsi strappare di nuovo la lingua. Non era mai stato né educato né gentile.
“Ti ho dato le mie catene, ora sei nostro, o sei uno di noi, come vuoi tu…” disse Bloom con un sospiro, indicando distrattamente i due anelli d’argento che aveva ai polsi.
“Che cacchio vuol dire?” sbottò ancora il ragazzino, cercando di togliersi quell’inutile chincaglieria.
“Non si tolgono, puoi anche smettere di tirare” commentò calmo il vecchio indiano “Non sei il primo né l’ultimo che ci proverà, ma non c’è modo di toglierli”
Tutti i presenti, esclusa la ragazza con il viso tondo, si alzarono un po’ le maniche per mostrare i loro bracciali d’argento scintillante. Bonnie s’infervorò ancora di più “Che cacchio è questa storia? Io non voglio i vostri stupidi braccialetti e non voglio stare qui, che cosa volete da me?” sbottò alzandosi in avanti e fissando i suoi occhi azzurri in quelli scuri di Bloom, e l’avrebbe preso per il vestito, se qualcuno non avesse detto“Siediti”. Bonnie di bloccò, si sentì come se una spada gelida gli avesse trafitto la schiena. Si voltò di scatto verso la voce che aveva parlato e si trovò a fissare gli occhi gelidi di Commander.
Il capitano era seduto con le gambe accavallate e le braccia conserte. Una lunga picca era appoggiata allo schienale della sedia. Ma non fu lui a toccarlo.
Qualche cosa gli si appoggiò sulla spalla e con un colpo deciso lo scaraventò di nuovo sulla sedia sulla quale prima era seduto.
Per un secondo, Bonnie non respirò. Tutta l’aria gli era uscita dai polmoni. “Stai composto” ordinò pacato Bloom, riappoggiandosi la mano in grembo. L’aveva letteralmente scaraventato, Bonnie si sentiva frastornato.
“Ti prego, non rendere più difficile questa storia, nessuno di noi si diverte”
Il ragazzino si rimise seduto per bene e prese un lungo sospiro, senza dire niente e aspettando che fosse di nuovo il vecchio col bastone a parlare, ma non fu lui a riprendere parola, bensì il vecchio strabico che giocava a scacchi con Juanito in fondo alla sala. I due erano arrivati dietro alla schiera delle nove persone che stavano davanti a lui, ed il vecchio si era sporto abbastanza da poter guardare Bloom in faccia. L’Indiano sobbalzò preso alla sprovvista.
“Ci chiedevamo se voleste dei pasticcini, Juanito fa una crema che è una meraviglia” sentenziò, mentre il segretario alzava un vassoio pieno di dolci.
“Veleno…” iniziò Bloom imbarazzato “forse non è il momento e…” il vecchio strabico lo ignorò “Ne vuoi uno, ragazzino nuovo?” domandò, guardando Bonnie dritto negli occhi. Il ragazzo, che non si aspettava di essere interpellato, boccheggiò, preso alla sprovvista.
“Gli avete tagliato di nuovo la lingua?” domandò preoccupato, guardando Bloom, che scosse la testa rassegnato.
Alla loro sinistra Skog biascicava qualche cosa di incomprensibile, Fatalii sbuffò “Forse se ti togliessi quel coltello dalla bocca sarebbe più facile capirti” sentenziò.
Skog obbedì e si lamentò “Però poi mi scoccia tenerlo in mano, ma voglio anche i pasticcini” spiegò il gigantesco vichingo.
Fatalii, da dietro gli occhiali, alzò gli occhi al cielo “Hai le tasche, Skog, dove pensi che sia l’arma di Silk?”
Il castoro che si era arrampicato sulle ginocchia di Skog, batté la coda sulla sedia e Bonnie non face più caso a loro, Bloom lo stava guardando, mentre Chismes, la donna grassa, chiacchierava amabilmente con il vecchio chiamato Veleno.
“Siamo geni” disse poi Bloom, nessuno faceva più caso a loro, ognuno era impegnato a fare conversazione col proprio vicino. Juanito, Fatalii e Skog disquisivano riguardo a dolcetti al limone, il giapponese parlava con la sua pantera che, immobile con la testa sulle ginocchia dell’uomo, sembrava proprio capirlo. Silk, ogni tanto diceva che il pelo di quell’animale era davvero lucido, e accarezzava il proprio carlino.
Chismes e Veleno, in piedi dietro di lei, parlavano male di Septum e la ragazza con il viso tondo, parlava con il ragazzo al quale stava in braccio. Lui doveva essere quello che gli aveva dato il calcio che gli aveva provocato il collasso delle interiora. Provò un moto di rabbia, che cessò quando Bloom reclamò di nuovo la sua attenzione, con quella frase ambigua.
“Nel senso che siete molto intelligenti?” Bonnie sembrava divertito e infastidito allo stesso tempo, e Commander, l’unico rimasto ad ascoltare la conversazione tra il nuovo Rettore e il nuovo genio, grugnì di disapprovazione. Quel ragazzino grondava indisciplina da tutti i pori e per lui, che aveva vissuto per anni nell’esercito, era inconcepibile.
Bloom scosse la testa, senza raccogliere la provocazione “Nel senso che realizziamo i desideri. Tre per ognuno che conosca il nostro nome” disse.
Bonnie rise forte, ma non era una risata felice, prima di dire “Allora cosa ne dici di esaudire uno dei miei desideri? Ne ho un sacco”
La mandibola del vecchio si contrasse “Non ci siamo capiti, forse: tu sei quello che realizza, non quello che esprime, perché credi di essere in catene?”
Bonnie tornò serio, più che mai infastidito “Smettila di prendermi in giro” ordinò, e nella sua voce c’era una strafottente determinazione.
“Non ti prendo in giro. È una cosa un po’ difficile da spiegare. Il nostro compito non è esaudire desideri a caso, bada bene. Ci sono delle bestie…noi le chiamiamo così, delle creature che uccidono…le persone…noi dobbiamo ucciderle e…per farlo ci servono i tre desideri di qualcuno” non era bravo a fare quel discorso, di solito era Veleno a fare le presentazioni, e gli venivano molto bene. Cercò di ricordarsi cosa gli disse il vecchio strabico quando lui fu investito, ma non riusciva a rammentarlo.
Bonnie alzò un sopracciglio “Mi prendi in giro?” chiese, con un mezzo sorrisetto “Pensi che creda a ‘stra stronzata?” sputò, si stava arrabbiando.
Bloom non rispose, fu Commander a farsi avanti e in un secondo Bonnie vide la mano dell’uomo rasato prendere fuoco come una fiaccola. Un urlo acuto, quasi femminile, si fece largo nella gola del ragazzino, che  arretrò come poteva sulla sedia, rischiando quasi di ribaltarsi.
“Coniglio” sputò Commander, schifato, stringendo la mano a pugno. Le fiamme si estinsero in un attimo, senza alcuna ustione.
Bonnie rimase a guardarlo impalato, senza nemmeno avere la forza di rispondere all’insulto.
“Puoi farlo anche tu, se vuoi” lo avvertì Bloom, annoiato, con il capo stancamente chino. Bonnie batté un paio di volte le palpebre e poi si guardò la mano destra con aria stupita.
Cominciò a urlare appena questa prese fuoco proprio come aveva fatto quella di Commander. Furono urla stridule e spaventate, si dimenò così tanto che cadde a gambe all’aria ancora sgambettando, sul pavimento della sala.
Il capitano gli lanciò uno sguardo degno di quello che si poteva lanciare a uno scarafaggio schifoso. Chismes, la quale si era distolta dalla conversazione con il vecchio Veleno, ridacchiò nel vederlo a terra, terrorizzato, con le pupille dilatate per la paura.
Commander ringhiò, ma a Bonnie non importava, tutto quello che riusciva a focalizzare in quel momento era il fuoco estinto che si era acceso sulla sua mano.
Le sue dita, la sua mano, il suo braccio erano completamente illesi, rosei e sani come prima. Non aveva sentito dolore, ma quello era proprio fuoco. Che razza di scherzo era quello?
“Abbiamo la tua fiducia o, come minimo, la tua attenzione?” domandò Bloom, calmo, mentre tutti gli altri tornavano a guardarlo. Bonnie annuì, visibilmente scosso, rimettendosi a sedere e successivamente alzandosi per rimettersi sulla sedia.
“Te l’ho già detto. Noi uccidiamo le bestie, tu sei uno di noi. Non c’è un criterio per scegliere i geni, viene fatto a caso. Questo vale anche per te, ovviamente. Ah, prima che mi dimentichi: questa è tua”
Bloom gli lanciò ai piedi una katana e Bonnie la riconobbe come quella che l’aveva colpito in testa il giorno prima.
Bonnie lo guardò fisso “Che significa?”
Bloom rimaneva serio, lo erano tutti, a parte il vecchio Veleno, che pareva inspiegabilmente divertito “È la tua, è stata mia, ma come ti ho dato le mie catene ti do anche la mia spada. Ogni genio possiede un’arma” spiegò, stringendo le dita attorno al proprio nuovo bastone da passeggio, che era appartenuto al vecchio strabico e ridanciano, Veleno.
“Le bestie non sono felici di farsi uccidere, potrai immaginarlo” aggiunse. Il ragazzino abbassò la testa e si studiò le dita, che parevano diventate particolarmente interessanti.
“E cosa sono, come sono…queste bestie?” domandò Bonnie senza guardarlo. Sentiva Commander, riusciva a percepirlo come se stesse ringhiando, mentre in realtà non emetteva un solo suono.
“Vogliono il sangue degli uomini. È una storia che va raccontata dall’inizio, Bonnie.” Il ragazzino alzò finalmente la testa appoggiando i gomiti sulle ginocchia, in attesa di una spiegazione.
“Esistono le Ortiche”
“Che sono piante urticanti” lo apostrofò il ragazzino biondo.
“Già” fu costretto ad ammettere Bloom “ma ci sono anche altri tipi d’Ortiche. Quelle di cui sto parlando io non si limitano a causarti irritazione quando vai a fare la pipì nel bosco”
Skog rise sguaiatamente immaginandosi Bloom intento a svuotarsi la vescica nel bosco, ma il resto del gruppo rimase silenzioso, anche Veleno, seppur col suo solito sorriso stampato in faccia.
“Queste Ortiche di cui ti parlo creano dei mostri, che noi chiamiamo Bestie, che uccidono gli uomini per ottenere il loro sangue. Le Ortiche hanno bisogno di sangue per crescere”
Bonnie fece un sorrisetto “Piante bizzarre”
“Oltremodo” fu l’unico commento secco del vecchio Indiano.
“E come sono queste bestie?” chiese il ragazzino. Sembrava di nuovo divertito in modo strafottente, come se non ci credesse davvero.
“Posso essere di qualsiasi forma. Di solito paiono umani, ma so di yeti, piovre, lupi, serpenti, fenici, chimere…questo non è importante. Sarà una sorpresa tutte le volte”
Bonnie si rilassò sulla sedia, con le gambe allungate verso il gruppo di geni, ed aspettò che Bloom continuasse.
“Ci sono due tipi di bestie, è bene che tu questo lo sappia: quelle che si sono completamente trasformate e quelle che non lo sono. Le Ortiche usano basi umane, per i loro mostri, ma la trasformazione richiede un po’ di tempo, dipende dalle persone e dalle bestie, non c’è una regola. Quando la bestia non è ancora trasformata del tutto, per metà della sua esistenza continuerà ad essere umano e inconsapevole. Se un umano scopre di essere una bestia la sua trasformazione aumenta velocità, fino a trasformarsi completamente in un mostro delle Ortiche. Questo devi fare in modo che non accada, noi siamo nati per preservare gli umani, non per ucciderli. Per questo motivo devi uccidere le bestie solo quando sono trasformate. Quindi dopo che le avrai uccise alcune torneranno umane e altre si tramuteranno in cenere” spiegò, Bonnie ascoltava senza dire niente, non era un discorso in cui fosse facile intromettersi.
“La prima regola è non uccidere umani” aggiunse.
“Non sono un assassino” sentenziò Bonnie, offeso.
“Mi fa piacere sentirtelo dire, ma ti assicuro che non è così semplice rimanere fedeli alla propria causa quando inizi ad avere troppo potere e non ti puoi più fermare”
Un paio di persone si voltarono verso Commander, che non batté ciglio. Era stato un uomo violento anche prima di diventare un genio.
“Poi c’è l’ultima cosa che devi sapere: esiste anche una bestia peggiore delle altre, che ci costringe a rompere il nostro giuramento di non fare del male agli umani. È una creatura di difficile creazione, le Ortiche non riescono a sfornare mostri di tale pericolosità più spesso di una volta ogni secolo. Noi la chiamiamo Bestia del secolo, e la dobbiamo uccidere finché rimane umana. Giuri che la ucciderai, se la incontrerai?”
Bonnie si accigliò “Senti, io ho rubato un sacco di macchine e di roba, nella mia vita, ho fatto a botte e ho fatto un sacco di brutte cose ma…io non uccido la gente. Mi puoi dire che devo combattere contro un drago o uno yeti o che cazzo, anche se lo trovo quanto mai assurdo, ma non mi puoi ordinare di uccidere una persona” sbottò e gli venne in mente sua madre. Era una stronza, ma si immaginò a stringerle la gola, mentre lei soffocava piano graffiandogli le braccia e gli venne quasi il vomito.
Bloom scosse la testa “Lo devi fare, chiunque di noi lo farà, se toccherà a lui”
“Come farò a sapere che è la bestia del secolo e non una bestia normale?” domandò poi Bonnie, deviando di poco il discorso.
“Lo saprai quando si trasformerà. Lo saprai e basta”
“Non voglio uccidere nessuno”
“Lo farai”
“No!” urlò.
“GIURA!” ringhiò Commander.
Bonnie si schiacciò sulla sedia, di nuovo atterrito, il capitano si era fatto avanti e gli aveva stretto una mano intorno alla gola.
“O la sua vita o la tua. Abbiamo tutti giurato, e ognuno spera che non tocchi a lui l’infausto compito” gli ricordò Bloom, pacato, accavallando le vecchie gambe.
“Giura” ripeté il capitano, in un sussurro.
“Lo giuro” promise infine Bonnie terrorizzato, mandando giù un boccone amaro.
“Questo è tutto, direi” fece Bloom, non rivolto a qualcuno in particolare, ma Veleno parlò di nuovo, appoggiandosi coi gomiti allo schienale della sedia del nuovo Rettore e guardando Bonnie dritto negli occhi, per come poteva dato il suo strabismo un occhio fissata il soffitto.
“Hai diritto ad un famiglio. Un cane, un gatto, un panda, non ci interessa. Quello di Tinkerbell è la signorina Ruthie, ma scordati di trovare una ragazzina come tua assistente, non sono molti gli umani che vorrebbero seguire un genio nel suo lavoro. Dovrebbe abituarsi al dolore e dovrai farlo anche tu…”
Bonnie sospirò piano, cercando di non far vedere che gli tremavano le mani.
“Ci terrei poi a precisare che il famiglio non è aiuto, ma consolazione. Sei tu che devi uccidere la bestia”
Il ragazzino fece un cenno di assenso e Veleno annuì a sua volta allontanandosi dagli altri seguito dal suo segretario, ancora con in mano il vassoio coi dolci.
“Quanti anni hai, Bonnie?” domandò Bloom dopo un lungo silenzio.
“Sedici” disse lui, e la risposta venne seguita da un boato. “Un cacchio di sedicenne!” sbottò il giapponese. Con la coda dell’occhio, Bonnie poté vedere Tinkerbell che sghignazzava con in braccio la ragazza che doveva essere Ruthie.
Anche Chismes ridacchiò divertita. “Un ragazzino! Cosa siamo, un asilo?” continuò a lamentarsi Septum, ma nessuno gli diede più di tanta attenzione e Bloom continuò “Bene, andrai con Tinkerbell, per vedere come ci si comporta con una bestia. Lui è l’ultimo a essere diventato un genio” Tinkerbell annuì, serio. Sembrava non avere troppa voglia di portarselo dietro, forse voleva stare da solo con la ragazzina con il viso tondo. Bonnie notò che le teneva una mano sulla schiena e si disse che probabilmente Ruthie lo seguiva per un motivo particolare. Tinkerbell gli stava antipatico, non lo terrorizzava come Commander, ma era stato lui a dargli quel maledetto calcio.
“Poi seguirai Chismes” proseguì il Rettore, e quella fu un sorpresa per tutti.
“Cosa?” strillò la donna grassa, che d’un tratto smise di ridere. “Perché?”
“Già, perché?” anche il giapponese era accigliato, forse lo era più di Chismes, quasi per empatia.
“Bonnie è troppo giovane” disse semplicemente Bloom, alzandosi, aveva tutta l’aria di uno che non aveva più nulla di cui discutere. Chismes invece voleva ancora discutere per un bel po’, dato il fardello che le era stato affibbiato.
“Anche Tinkerbell era giovane, aveva vent’anni, eppure dopo la sua prima missione con Commander se l’è cavata da solo!” gli ricordò, con voce stridula, guardandolo dal basso, ancora seduta.
“Venti non è sedici” la rimbeccò Bloom, e poi aggiunse “Io sono il Rettore, io decido”
“Ottima argomentazione!” commentò la voce di Veleno, dalla stanza accanto.
“Perché io?” chiese ancora Chismes ignorando Veleno, stava quasi urlando. Bloom si trovò in difficoltà “Sei una donna, sono sicuro che ci sarai fare meglio di Septum, coi bambini” disse, con una palesissima scusa.
“Io vivo con lei, me lo dovrò sorbire anche io!” urlò Septum, palesando quale fosse il suo problema.
“Sono una donna solo quando ti fa comodo!” urlò lei.
“Già!” commentò il giapponese, indignato, così,  tanto per dar manforte alla propria coinquilina.
“E sei fortunata che Bloom sia un uomo educato, io ti avrei detto che è semplicemente perché sono il Rettore e ho voglia di farti un dispetto!” sentenziò Veleno sempre dalla stanza accanto.
Chismes si lasciò cadere pesantemente sulla sedia.
“E per quanto?” domandò, con lo sguardo vacuo.
“Fino a che ce ne sarà bisogno. Bonnie, vai a salutare tua madre o chi ti pare, non li vedrai per un bel po’” disse poi Bloom e se ne andò, fuggendo dalla ferocia di Septum e della sua pantera.
 
 
 
Aki_Penn parla a vanvera: mi spiace che dopo così tanta attesa sia venuto fuori solo questo. So che non c’è molta azione, ma spero di aver reso chiaro alcune cose non ancora ben spiegate, Bonnie mi serve soprattutto per spiegare, si è rivelato un elemento molto utile. :D
Come sempre, grazie per aver letto. <3
 
 

Ritorna all'indice


Capitolo 18
*** La spada e il diacono ***


WARNINGS:  ve lo dico tanto per scrupolo, questo capitolo è un po’ violentello, niente di davvero sconcertante, ma volevo dirvelo per sicurezza.
Sono anche indecisa se cambiare il rating.
Make a wish-
Capitolo diciotto-
 La spada e il diacono –

 
Diablo le premette le labbra dietro il ginocchio, mentre Bianca cercava di scorgerlo nella penombra. Si alzò, puntellandosi sui gomiti. Le braccia erano incredibilmente magre, il viso ovale e il naso dritto. Il labbro lievemente ipotonico le dava un’espressione di perenne indecisione e Diablo pensava che fosse una cosa carina.
“Beh, allora, come li fanno i funerali, giù da te?” domandò lui, incurante che fosse una domanda quanto mai poco adatta da fare a qualcuno a cui stai baciando una gamba.
Bianca strinse le labbra sottili, ma continuò a fissarlo mentre lui sembrava impegnatissimo a studiarle la caviglia. L’osso prominente, visibile poco sopra il piede, era coperto di squame grigioverdi.
“Di solito” fece una pausa, la sua voce sembrava acqua gocciolante, o almeno a Diablo sembrava così “mettiamo loro delle pietre nella pancia in modo che non tornino a galla e lasciamo che i pesci mangino la salma”
Diablo si distrasse dalla gamba di lei per guardarla con aria disgustata, ma la sua mano rimaneva salda sulla caviglia della ragazza. “Lasciate che i pesci mangino i vostri defunti? Non è…inumano?” chiese, la sua voce non era più bassa com’era stata un secondo prima.
Bianca si accigliò “Noi mangiamo i pesci quando siamo in vita, loro mangiano noi quando siamo morti. Non c’è nulla di più onorevole…per noi. Siamo inumani, perché non siamo umani. Il problema è il parametro che prendi ad esempio”
“Vero” ammise lui, strofinando la guancia contro il polpaccio magro di lei, mentre annuiva.
“E voi?” chiese poi Bianca. Diablo la guardò perplesso, le sue labbra erano di nuovo sulla gamba di lei, a baciare il ginocchio.
Lo vide guardarla con i suoi occhi scuri e il labbro di poco aperto, nella penombra “Noi cosa?” chiese in un sussurro.
“Voi cosa ne fate dei vostri morti?” domandò lei, più chiaramente.
Diablo adagiò la gamba di lei sul letto e le si sdraiò accanto, senza mai distogliere lo sguardo dai suoi occhi.
“Nostri di chi?” chiese poi, ma non aspettò risposta “Qui al Grande Mare li bruciamo col fuoco dei semi d’Ortica” disse, puntellandosi sui gomiti, sdraiato sulla pancia, mentre le loro braccia si sfioravano “E all’Altro Mondo?” domandò lei, sottovoce, Diablo sentì il suo respiro sul viso.
“Ognuno ha le sue tradizioni, c’è chi li crema, e chi li sotterra”
Bianca continuò a guardarlo, come se sentisse che la risposta non era completa “E poi tutto cambia a seconda del periodo storico…sai…” disse, appoggiando il viso sulla mano a coppa.
C’era un simbolo su ognuna delle seconde falangi delle dita del ragazzo. Bianca non sapeva leggere né la lingua del Grande Mare né quella degli uomini dell’Altro Mondo, ma Diablo le aveva insegnato alcune lettere dell’alfabeto. C’erano una A dalla punta arricciata, come se fosse stato un cappello, una J e di nuovo una J e poi una C, nere, un po’ sbiadite. Erano tatuaggi vecchi. Sul pollice aveva una B. non era per lei, le aveva detto, anche se il suo nome iniziava proprio con la B, ma avrebbe potuto esserlo, se lei l’avesse chiesto.
Diablo li portava come se non li sentisse, quei tatuaggi, Bianca si chiedeva come fosse possibile avere così tanti disegni addosso e non sentirne il peso.
Appoggiò un dito sulle scaglie di un drago che volteggiava disegnato sulla spalla muscolosa del pirata, seguendone i contorni.
Diablo era più grosso di qualsiasi sirena Bianca avesse mai visto, lui le aveva detto che probabilmente era grosso anche come uomo, ma non davvero così gigantesco. Erano alti uguali, messi vicini. Lei faceva uno strano effetto, così spaventosamente magra, con le costole e le squame in vista, ma sulla terra era goffa e finiva per camminare ingobbita per non perdere l’equilibrio.
“Allora verrai al funerale?” chiese lui con un sorriso, anche se non era davvero allegro. Bianca strinse le labbra e voltò lo sguardo.
La luce della luna filtrava dalla finestra facendo luccicare le squame che aveva sulle spalle e sui polsi. Il resto della sua pelle era bianco latte, in contrasto con i capelli corvini.
“Non voglio venire a uno dei vostri funerali” disse lei in un sussurro gocciolante. Diablo si spostò, sistemandosi su un fianco, non era particolarmente offeso da quel rifiuto. Bianca si voltò di nuovo a guardarlo e ciò che vide fu il suo petto pieno di disegni scuri.
La sirena non aveva mai visto un quadro, ma immaginava che fossero come Diablo.
“Non so ancora quando sarà, ma sicuramente, se ci riportano Coli, gli faremo un funerale. Coli faceva parte dell’equipaggio di Ebén” spiegò lui, tranquillo. La sua trecciolina con perline e conchiglie ricadeva sulla spalla.
Bianca si morse il labbro “E se non ve lo riportano?” domandò lei a bassa voce. Il resto dell’equipaggio dormiva oltre una sottile parete di legno, e Bianca era abituata ai suoni attutiti sotto il mare.
“Andremo a riprenderlo noi, e allora ci sarà ben più di un funerale”
La sirena alzò il mento, capendo cosa intendeva Diablo dicendo questo “Sopra il mare abita gente terribile”
“Dipende dai posti” commentò lui, con un sorriso.
 
***
 
Bonnie allungò un passo sulla stradina privata di un magazzino abbandonato e si guardò indietro, dove Tinkerbell e Septum, un tipo che andava in giro con un tridente appeso alla schiena, uscivano dalla stessa porta dalla quale era apparso lui.
“Come cacchio siamo finiti qui?” domandò il ragazzino, un po’ scorbutico.
“Tu hai aperto una porta e sei uscito, tutto qui” disse Septum con la sua solita voce nasale.
Bonnie aggrottò le sopracciglia “Mi prendi in giro? Prima non eravamo qui!” sbottò.
“Hai fatto tutto da solo” commentò Tinkerbell, con il suo solito sorrisetto che gli dava tanto fastidio. Li conosceva da poco, ma certe cose aveva già iniziato a notarle, gli sembrava di averli seguiti per migliaia di anni.
Sia l’uno che l’altro erano vestiti con il cappotto blu con il doppio petto ed entrambi avevano lasciato al palazzo in aria i propri famigli. Un po’ gli dispiaceva che non ci fosse Ruthie, era l’unica che non gli facesse saltare i nervi.
“Dove siamo?” domandò Septum, tranquillo “Tu conosci questo posto, no?”
Bonnie di morsicò l’intero nelle guance, infastidito “Sì, che conosco questo posto, siamo nella periferia di South Turramurra, io lavoro qui”
“Pensavo che lavorassi a Sidney” commentò Clay. Bonnie si grattò la guancia, la katana appesa alla cintura gli dava fastidio, lo sbilanciava fastidiosamente da una parte.
“Lavoro anche lì e vivo lì. Io e mia madre…viviamo lì” concluse, come se stesse per dire qualche cosa d’altro ma si fosse fermato, Tinkerbell e Septum non indagarono.
Bonnie si voltò, dando loro le spalle. Erano in una zona periferica, ai margini del verde, la città era lontana, e la strada quasi deserta. C’erano un paio di magazzini abbandonati e uno sfasciacarrozze.
L’edificio era vecchio e polveroso, sulla strada chiusa erano parcheggiate un paio di macchine che dovevano aver avuto un brutto incidente.
“Lavori lì?” domandò Clay, aggrottando le sopracciglia “Non vai a scuola? Hai sedici anni” disse, e la sua espressione era quella di uno che avesse mangiato un’arancia troppo aspra.
“Non ci vado quasi mai. Fatti i fatti tuoi” sbuffò, colpito sul vivo.
“Tu vai pure, noi ti aspettiamo qui, non vogliamo sentire il tuo vero nome. Interverremo solo se ce ne sarà bisogno” gli spiegò Septum, sistemandosi sul lato opposto della strada, a gambe larghe e braccia incrociate. Clay fece lo stesso guardandolo col suo solito ghigno strafottente.
Bonnie fece una smorfia e sputò per terra, prima di attraversare la strada strisciando i piedi “Non avrò bisogno d’aiuto” sbottò e poi sganciò la spada dalla cintola e la lanciò in mezzo alla strada “E questa non me la posso portare dietro!”
Septum grugnì e Tinkerbell ridacchiò, ma nessuno mosse un muscolo per fermarlo, mentre Bonnie metteva il piede sul marciapiede di fronte e sorpassava il cancello aperto dello sfasciacarrozze.
Non fece caso ai due mentre dietro di lui cominciavano a parlare “Ehi, ciao Jessie, no che non disturbi”
“Ma sei sempre al telefono, tu?” ringhiò infastidito Septum.
Bonnie li ignorò e tirò dritto finché a fianco del portone, un’apertura abbastanza grande da far passare una bisarca, notò un ragazzo in tuta blu, chino dentro al cofano di un’auto ammaccata.
Il ragazzino si fermò, nel vedere l’altro che alzava la testa dal proprio lavoro e gli sorrideva togliendosi gli auricolari dalle orecchie.
“Ehi, Charlie” lo salutò il ragazzo andandogli incontro. Bonnie rimase fermo, un po’ stralunato. Era quasi strano sentirsi chiamare di nuovo per nome.
“Ciao Robert” rispose Charlie, apatico, mentre l’amico gli batteva una mano sulla spalla, amichevolmente. Era un ragazzo abbastanza alto, sicuramente più di Bonnie, il petto ampio e le braccia muscolose. Sembrava fatto tutto di un unico pezzo. Gli occhi erano vicini e i capelli scuri tagliati corti e tenuti in aria. Sembrava un ragazzo incline al sorriso, con le labbra carnose sempre arricciate sopra il mento squadrato coperto dal pizzetto.
“Ieri non ti sei fatto vedere” sentenziò, con un sorriso.  Nella taschina che aveva sul petto ondeggiava un pacchetto di sigarette straniere.
“Ho…ho avuto da fare della roba” disse Bonnie, che voleva tagliare corto, non gli sembrava una buona idea parlare del rapimento, della lingua tagliata e di tutta quella roba che gli avevano detto Bloom e gli altri, sarebbe sembrato scemo.
Robert si grattò la testa “Huon ti sta aspettando, credo che volesse parlarti” disse, indicando la grande porta del magazzino con una mano sporca d’olio. Charlie annuì, con un sospiro teso “Vado” disse, avviandosi a passo veloce.
“E poi vai a dormire, che razza di faccia hai? Hai l’aria di uno che non dorme da una settimana!” gli urlò dietro Robert, tornando alla sua carcassa di metallo. Bonnie non lo ascoltò e asprì il grande portone di metallo spingendolo con una mano.
“Houn?” chiamò Bonnie, piano, richiudendo la porta dietro di sé.
Un ometto magrolino con i lineamenti orientali e la pelle scura entrò nel suo campo visivo pulendosi le mani in uno straccio macchiato “Charlie, non mi hai risposto al telefono per quasi due giorni, pensavo che ti fosse successo qualche cosa di brutto” disse l’uomo tranquillo. Aveva il viso ovale e il naso lungo sotto il quale cresceva un accenno di baffi neri. Una barbetta ispida gli copriva il mento. Il collo era lungo e le braccia esili, ma sapeva sempre incutere il giusto timore. Una volta Houn gli aveva rotto un braccio sbattendogli sull’ulna una chiave inglese grossa come il proprio avambraccio.
Avevano la stessa corporatura abbastanza esile, ma Houn era più alto, più vecchio e un po’ più muscoloso.
“Sono stato a una festa, mi sono sballato e ho dormito due giorni”  rispose Charlie incerto. Houn fece una smorfia ma non disse nulla a quel riguardo.
In realtà era stata la cicciona –come si chiamava? Chismes, sì, Chismes – a prendergli il cellulare la prima volta che era svenuto, in modo che non potesse contattare nessuno, gli era stato restituito solo dieci minuti prima, e le chiamate di Houn erano parecchie.
“Ho bisogno di te” disse a quel punto l’uomo, dandogli le spalle, distrattamente.
Bonnie mandò giù un boccone amaro e aprì la bocca per ribattere, ma non fece in tempo perché Houn ricominciò a parlare.
“Il mio rivenditore di usato ha bisogno di altre auto… quindi pensavo di mandare te, con Robert ho altre cose da sistemare” disse, poggiando lo straccio a un appendiabiti lercio. Si voltò di nuovo verso il ragazzino e lo ammonì “E non roba come quella merda che hai rubato l’altra volta, aveva –non so- sei miliardi di chilometri, cadeva a pezzi! Non ci è fruttata un accidente” sbottò.
Bonnie chiuse gli occhi e sospirò, se la ricordava quella macchina,  quando l’aveva vista non gli sembrava male, era lucida e ben tenuta.
“Non ero qui per questo” ammise infine il ragazzino. Houn lo guardò stupito. C’era solo stupore, non rabbia. Era un uomo incline agli attacchi di rabbia, a prescindere dalla sua grandezza fisica.
“Volevo dirti che io lascio” spiegò infine.
“Lasci?” ripeté Houn, alzando un sopracciglio, quasi divertito. Si era appoggiato al suo tavolo da lavoro, e lo guardava, a braccia conserte.
“Sì, non mi va più. Pensavo di andare a fare qualche cosa d’altro, non so…andare a scuola o… non riuscirei più a venire a lavorare per te, mi spiace, Houn…” disse, le parole si susseguivano e a Bonnie sembrava che quasi non avessero senso.
L’uomo scosse la testa, lentamente, con un sorriso “Questo non è un tipo di lavoro dal quale si possano dare le dimissioni, mi pareva chiaro. Ma si vede che non lo era abbastanza”
Bonnie deglutì. “È un tipo di lavoro di cui ti liberi solo quando ne esci disteso, Charlie”
Houn sembrava spiegare qualche cosa di estremamente rilassante. Una volta suo nonno gli aveva insegnato a fare la marmellata. A Bonnie, Houn ricordò suo nonno.
Si voltò lentamente, torcendo solo il busto per prendere qualche cosa, un arnese a caso. Bonnie sospirò, sapeva che gli sarebbe arrivato addosso e gli avrebbe fatto male, tuttavia rimase lì impalato.
“Sei proprio sicuro di volertene andare?” domandò, mentre Houn si avvicinava a lui con un piede di porco in mano. Camminava lento, come se stesse passeggiando e sorrideva. “Houn…io..” cercò di dire il ragazzino, ma altre parole non vennero.
Houn scosse la testa “Tu questo posto lo lasci solo da morto” gli fece sapere. Gli era ormai davanti quando alzò il piede di porco sopra la testa e Bonnie decise che non avrebbe ricevuto il colpo. Si voltò e iniziò a correre verso la porta, ma la parte ricurva lo colpì violentemente alla nuca. Bonnie sentì l’osso spaccarsi, sentì il dolore e il rumore, ma gli occhi non gli si chiusero dandogli il conforto dell’oblio o della morte. Avere parte della testa frantumata era ancora più doloroso del vetro tra le gambe e lo stomaco collassato. Il sangue gli colava sulla schiena, copioso. Arrancò a quattro zampe, muovendosi veloce, mentre il sangue  sul pavimento gli sporcava le mani. Houn era sopra di lui, Bonnie gli dava la schiena, ma sapeva che un altro colpo stava arrivando.
L’uomo alzò il levachiodi sopra la propria testa e lo fece ricadere sulla spalla di Bonnie, Charlie sentì il sibilo della discesa e il fracasso dell’osso che si rompeva con un crack. Prima il rumore, poi il dolore. Nella sua testa rimbombò assordante, e lo stesso fece il dolore. La nuca e la spalla erano su un’unica scia di dolore e sangue. Il pavimento era diventato viscido: lo stava ammazzando, lo stava ammazzando davvero.
Il braccio aveva ceduto e lui era caduto su un fianco. Si rotolo sulla schiena, appoggiò il peso sulla spalla rotta, il male su allucinante. Era in un lago di sangue, gli occhi erano annebbiati dalle lacrime, ma poté distinguere il soffitto sopra la propria testa e poi l’ombra di Houn, sopra di lui. Il terzo colpo puntava alla faccia, di si sarebbe piantato in bocca, rompendogli tutti i denti.
Bonnie chiuse gli occhi, stremato e alzò il braccio. Il piede di porco di fermò a mezz’aria, stretto nella morsa della mano del ragazzino. Non aveva mai avuto una presa del genere, Houn rimase un attimo fermo a guardarlo, perplesso.
Il piede di porco volò via strappato dalle mani dell’uomo andando a sbattere contro una colonna d’acciaio del capannone, con un gran rumore di metallo. Ci volle un attimo perché l’uomo si riavesse dallo stupore di quell’afferro, ma subito dopo gli tirò un pugno, che si abbatté duro sulla bocca del ragazzino. Un paio di denti gli saltarono via.
Houn stava per rifilargliene un altro, ma Bonnie gli afferrò il polso e lo scaraventò lontano da sé.
L’uomo volò quatto o cinque metri più in là, battendo l’osso sacro sul pavimento di cemento. Trattenne il respiro quando vide Charlie alzarsi e arrivargli addosso a velocità inumana. Fu lui ad essere colpito, quella volta. Il pugno gli sfondò d’arcata sopraccigliare e distrusse l’occhio. Dopo quel primo pugno l’uomo aveva già perso conoscenza, ma Bonnie non lo vide, continuò a pestarlo e picchiarlo finché le sue gambe e il suo bacino non furono poltiglia, non sentiva nemmeno più il male al braccio che penzolava dalla propria spalla, disarticolato.
“Muori! Muori! Muori! Muori, stronzo!” urlò, in mezzo alle lacrime, era fradicio di pianto e sangue, il suo e quello di Houn.
Fu quando mirò di nuovo alla testa che si ritrovò a cadere per terra, con la suola di gomma delle scarpe di tela rossa di Tinkerbell che premeva sulla sua faccia, colpendo il punto sensibile dove gli si erano rotti i due denti. La spalla era di nuovo per terra, premuta senza pietà, la nuca pulsava, ma non stava morendo. Avrebbe voluto.
“Scusami Jessie, c’è una persona che ha bisogno di parlare con me. E chiedi all’infermiera se ti può dare della camomilla per dormire, non fa bene passare la notte in bianco”
Bonnie sentì il piede del ragazzo spingere di più sulla sua testa “Smettila” squittì, mentre lui si rimetteva il telefono in tasca. “E per fortuna che eri convinto che non avremmo avuto bisogno di intervenire” commentò Clay, divertito, chinandosi un po’ sul ragazzino, senza spostare il piede e continuando a tenerlo a terra. La spalla gli doleva e perfino respirare era faticoso, stava per svenire, lo sapeva, stava per svenire, ma non svenne.
Sentì la porta serrarsi con un gran frastuono di lamiera che cozzava. Semptum ci si era messo davanti per evitare che si potesse aprire dall’esterno e si era tranquillamente acceso una sigaretta. La katana di Bonnie pendeva pigra dalla cintura del giapponese.
Bonnie chiuse gli occhi e sentì Robert urlare il nome di Houn e battere i pugni contro il metallo della porta. Gli sembrava che quei pugni li stesse battendo nella sua testa, rimbombavano e facevano male. La spalla stava esplodendo in un’eruzione di dolore e la sua bocca era impastata nel sangue.
“Ci sei andato giù pesante, con questo qui, eh? Mi sa che l’hai ammazzato”
 
***
 
“Guarda là!” fece il vecchio Veleno, indicando una pianta piuttosto grossa farsi largo in una crepa dell’asfalto.
“Lo vedo” disse Bloom, non particolarmente colpito dalla cosa.
Edimburgo era una città nera. L’aveva sempre pensato, ma il cielo era limpido. Il contrasto tra l’orizzonte scuro e l’empireo azzurro era fantastico, non troppo lontano c’era il mare e la città cercava di arrampicarsi verso l’alto con le sue guglie scure. La notte gli piaceva di meno, il cielo diventava nero come gli edifici, ma il vento era cessato.
“Segui le piante e troverai Deacon Brodie. Maledetta erbaccia” Veleno ridacchiò, guardando la strada buia, in piedi su un tetto di Holyrood Road. Bloom e Juanito, poco più in dietro di lui, reggevano una barella improvvisata ricoperta da un lenzuolo bianco. Juanito sembrava l’unico a notare l’odore di morte che emanava il corpo nascosto.
“E andiamo a prenderlo, questo diacono” commentò Bloom, stancamente.
Un secondo dopo, il vecchio Veleno, che possedeva un corpo incredibilmente elastico per la sua età, era inginocchiato sull’asfalto a strappare la pianta infestante che era cresciuta tra le crepe della civiltà.
Juanito, che iniziava a soffrire del peso del cadavere, vide allargarsi un’apertura sul terreno, per un secondo gli sembrò quasi un occhio vuoto.
“Andiamo, signori?” chiese Veleno, allegro, e Bloom non se lo fece ripetere due volte, lanciandosi nella voragine dell’occhio vuoto, trascinandosi dietro Juanito e il loro cadavere. Veleno ridacchio e si lanciò anch’egli, il salto era breve e l’asfalto si richiuse sopra la sua testa bianca.
Di sotto era polveroso, e anche piuttosto buio, se si faceva eccezione per gli spiragli di luce che venivano dal soffitto, nei quali si infilavano piante infestanti di vari generi.
A Juanito non piaceva quel posto, per quanto sapesse che il Diacono Brodie non avrebbe potuto fare nulla contro Veleno e Bloom, tutto quello che riusciva a pensare era che quelle piante volessero soffocarlo e anche il vecchio, il vecchio Diacono, lui più di tutti.
La stanza era vuota, piccola, piena di vasi, piante, terra e ragnatele, c’era un tavolo, una porta di legno e un attaccapanni con appesa una tunica che un tempo doveva essere stata bianca, ma che era ormai lorda e usurata, Deacon Brodie usava sempre lo stesso vestito, non c’era da stupirsi che fosse in quelle condizioni.
Il pavimento era di assi inchiodate male, qua e là si intravedeva la terra sottostante e l’umidità aveva intaccato il legno e arrugginito i chiodi. Era la fiera dei vermi, Juanito ne stava guardando uno con disgusto quando la stanza iniziò a tremare e dal soffitto cadde polvere e qualche ragnatela. Bloom tossì e Juanito non poté fare a meno di guardare in mezzo alle proprie gambe, tra due assi di legno c’era una lunga striscia di terriccio umido, fu da lì che arrivò la pianta. Se Juanito non si fosse spostato in tempo l’albero intento a crescere gli avrebbe portato via una gamba. Emise un urlo stridulo e lasciò andare il suo lato della lettiga, il cadavere di Coli cadde per terra, scivolando sulle assi marce, fu un secondo e un paio di piante rampicanti si avventarono su di lui, con l’intenzione di banchettare con le sue carni. Bloom fu più veloce e strappò via da terra con una mano, lanciandole dall’altra parte della stanza. In un attimo la sua mano era diventata incandescente di fuoco scoppiettante e il resto delle piante presenti si ritirò, intimorita dall’avvertimento. Bloom si guardò in giro, circospetto, continuando a tenere alta e visibile la mano in fiamme. Juanito sentiva il calore sul volto.
“Raccogli il pirata, Juanito” gli ordinò il nuovo Reggente e così il segretario fece, tremante.
Della pianta che era cresciuta nella striscia di terra tra le sue gambe non c’era più traccia, stava crescendo poco distante, vicino all’appendiabiti, dentro la tunica.
Ci volle ancora qualche secondo, poi i rami si unirono tra di loro, in una treccia di legno, infilandosi negli spazi che spettavano alle braccia, in un attimo i tre si trovarono davanti a un uomo di legno, con una lunga barba di verdi rampicanti.
Ci volle ancora un attimo perché il legno prendesse la colorazione diafana nella pelle umana e che Juanito si trovasse faccia a faccia con quello che si poteva considerare un vecchio uomo. Aveva il cranio calvo, ma i capelli candidi fluivano da dietro le orecchie e da sotto il mento. La barba era invidiabile e gli arrivava sotto la cintura. Nel bianco della barba si potevano intravedere, qua e là, fiorellini candidi, che spuntavano come primule nella neve. Le sopracciglia erano folte e il naso gobbo, gli occhi scuri e penetranti. Juanito deglutì e Veleno sorrise. Bloom, semplicemente, rimase impassibile e fermo come una statua.
“Buonasera, Redwood!” esclamò allegro Veleno, guardando negli occhi l’altro vecchio. Juanito si rese conto in quel momento di essere circondato da vegliardi. Bloom conservava il colore scuro della sua chioma, ma questo non lo rendeva comunque più giovane.
“Per te sono Deacon Brodie” sentenziò il vecchio albero, duro. Veleno mosse la mano come per scacciare una mosca “Deacon Brodie, Redwood Brodie, per me non cambia, ma come vuoi tu, Diacono” fece, senza prenderlo sul serio.
“Hai strappato le mie piante” constatò, guardando Bloom. Il vecchio indiano annuì “Volevano mangiarsi il nostro cadavere” spiegò Bloom, che non pareva sentirsi in colpa.
“Cosa non si fa, per la propria posizione” sputò Deacon Brodie con disprezzo “Adesso spegni il fuoco, spaventi le mie bambine. Non vi infastidiranno, ci sono qui io”
Le bambine erano le piante rampicanti che si stavano inerpicando sul cadavere di Coli. Bloom spense la propria fiamma e abbassò la mano, mentre a Juanito toccava l’ingrato compito di raccogliere le spoglie del pirata.
“Cosa diamine ci fate in casa mia?” domandò il vecchio. Aveva una voce forte che, allo stesso tempo, sembrava venire da lontano. Veleno si schiarì la voce e fece un passo in avanti, con aria talmente leggiadra che sembrò un passo di danza. Erano entrambi vecchi, ma il Diacono era molto più alto, parevano una sequoia e un fuscello, entrambi imbiancati dalla neve.
“Ti presento il nuovo Rettore, io mi sono dimesso” esclamò alzando la testa per vedere l’altro vegliardo negli occhi. Deacon Brodie si accigliò “Dimesso? Non ci si può dimettere”
“Sei tu a dirlo. Bloom potrebbe affermare il contrario, ha lui il mio bastone”  sentenziò il vecchio Veleno, indicando con il suo dito ossuto l’Indiano. Bloom annuì, serio. Era stato un tipo allegro prima di diventare Rettore, si sentiva un macigno sulla testa. Il bastone da viaggio era infilato nella cintura, era molto più scomodo della katana alla quale era abituato.
“Ma non siamo qui per questo, ti abbiamo portato un regalino. Un regalino in putrefazione. Juanito ha fatto del suo meglio per ricomporlo, ma come sempre il meglio di Juanito fa schifo” spiegò il vecchio, indicando la barella. Il segretario aveva rimesso il lenzuolo sul viso del defunto e grugnì di disapprovazione. Già gli piaceva poco dover avere a che fare coi cadaveri, che almeno non si lamentassero del suo operato.
“Mi hai preso per un becchino?” sbottò Deacon Brodie, voltandosi verso il proprio tavolo per spolverarlo con la mano. Juanito rabbrividì nel vedere una pianta rampicante avvicinarsi al vecchio diacono come se fosse stata un serpente. Redwood la gratificò con una carezza.
“No, ti ho preso per uno che ha le chiavi dell’universo” sentenziò Veleno, e Juanito lo sentì tutto, quel veleno. Deglutì vedendo il diacono alzare la testa e fissare il venerando ex Rettore negli occhi. L’occhio cattivo di Veleno fissava Bloom.
Il nuovo Rettore era fermo e impassibile come una statua, a Juanito fece quasi paura. Deacon Brodie grugnì.
“Se vuoi puoi dare le chiavi del Grande Mare a Bloom e poi ci penserà lui a riconsegnare il cadavere alla famiglia. Noi vogliamo soltanto evitare di avere altra gente in mezzo ai piedi” spiegò, poi il suo sguardo si fece sottile e il sorriso si stirò “Se vuoi te lo puoi anche mangiare” aggiunse. Redwood chiuse gli occhi e sospirò “A noi non piace il sangue, viviamo di sole, acqua e terra, la morte liquida è solo per le nostre torri”
Veleno increspò le labbra in quello che poteva essere una mezzo sorriso, ma anche uno starnuto. “Ti lasciamo col tuo compagno d’avventure, porta i nostri saluti ad Ebén e ai suoi amici pirati. Che sia di lezione per tutti, al Capitano non piacciono quelli che si intrufolano in casa sua”
 
***
 
“Ma tu guarda cosa ci tocca fare. E a me e Chismes toccherà fargli da babysitter, a ‘sto qua!” brontolava Septum scavando col proprio tridente, un attrezzo decisamente improprio.
Bonnie se ne stava a distanza a braccia conserte e lo sguardo perso. Aveva ucciso Houn, l’aveva ucciso e si era a malapena accorto di averlo fatto.
L’aveva guardato, quando Tinkerbell gli aveva tolto la scarpa dalla faccia, quella di Houn, di faccia, quasi non c’era più. Era un grumo di sangue, così come lo stomaco.
Lo vedeva ancora, anche se teneva gli occhi aperti e guardava Septum e Tinkerbell scavare una buca sotto un albero, nel mezzo della boscaglia, vedeva solo Houn e il suo corpo tumefatto.
“L’ho ammazzato” disse a bassa voce, non a nessuno in particolare.
“Già” disse Tinkerbell, tranquillo, iniziando a calciare la terra, stufo di scavare con la propria accetta, anch’essa uno strumento poco adatto allo scavo.
Bonnie deglutì, forse avrebbe voluto piangere, ma gli occhi erano aridi. Non sentiva più male, Septum aveva passato la mano sulle sue ferite e quelle erano sparite, ma lui se ne era a malapena accorto.
“Può capitare. È un brutto momento, quando ti accorgi che non ti sai fermare e che vuoi fare male” disse Clay, a voce bassa e pacata, sfregandosi le mani per pulirle dalla terra.
Septum sputò per terra, lontano dalla tomba che avevano improvvisato, stanco e scocciato.
“Io non volevo fare male” disse, ma la voce gli sembrò quasi quella di un altro. Lo sguardo era fisso al mucchietto di terra sotto all’albero, quello dove Septum e Tinkerbell avevano seppellito il cadavere di Huon.
 “Magari no, ma è morto lo stesso”
“Non possiamo fare qualche cosa?” chiese Bonnie, con voce tremula. Clay scosse la testa “È ora che qualcuno ti insegni le regole di essere un genio: non puoi comandare la vita, la morte e i sentimenti, né con né senza desideri. Per il resto sei praticamente onnipotente”
“Manca la parte migliore” commentò Septum con una smorfia. Bonnie si morsicò le labbra.
“A.. a voi è capitato?” aveva la bocca impastata, troppa saliva, avrebbe di nuovo voluto piangere, ma le lacrime non venivano. Septum grugnì “A me no, ma Chismes ha schiacciato due persone con il vagone di un treno merci, una volta e anche un altro, l’ha…non mi ricordo la dinamica, non me ne ha parlato. Anche Skog ha ucciso qualcuno. Commander non ne parliamo neanche” disse Septum passandosi il braccio sulla fronte per asciugarsi il sudore.
“Nemmeno io ho mai ucciso nessuno, però ho spaccato la testa a un paio di persone. Spero che quello che ho colpito in Germania non si riprenda mai più” fece un mezzo sorriso, pensando a Rosenrot.
Bonnie strinse i denti, e chiuse gli occhi. Gli sembrava che qualcuno l’avesse colpito al petto con una mazza rovente. Gli faceva male il cuore.
“Robert?” chiese poi, senza aprire gli occhi. Strinse le palpebre, come a credere che una volta riaperte tutto sarebbe tornato come prima.
“Il ragazzo che lavorava con Houn?” chiese Septum accendendosi una sigaretta. Bonnie annuì, tirando su col naso. Le lacrime erano arrivate, ma erano rimaste sotto le palpebre, annebbiandogli la vista.
“Probabilmente ti denuncerà alla polizia. O chissà. Finché non trovano il corpo…” iniziò a dire il giapponese, disinteressato.
“Non è detto che colleghi subito la sparizione di Houn con la sua morte e comunque non credo che ci fossero attività del tutto lecite, in quel magazzino” aggiunse Tinkerbell, in attesa di un segno da parte del ragazzino. Bonnie annuì, faticosamente, aveva di nuovo chiuso gli occhi, non vedeva nient’altro che il corpo dilaniato di Houn.
“Non credo che Robert sia tanto ansioso di farsi arrestare” continuò. Bonnie alzò gli occhi, Tinkerbell non era un colosso, ma lo superava comunque di tutta la testa. Sulla guancia del ragazzino scendeva una sola lacrima calda, lui non se ne era nemmeno accorto, ma gli occhi gli bruciavano.
“In ogni modo, ormai non è più la tua vita, d’ora in poi tu sei la spada. Bonnie e basta” disse, mettendo fine al discorso con un sorriso.
Tinkerbell aveva visto tanti morti e tanto sangue, da quando era diventato un genio, soprattutto il proprio sangue, a voler essere precisi. Non aveva mai seppellito un uomo ucciso da un genio, aveva visto le vittime di Commander a volte, ma non era stata la stessa cosa. Rimase sorridente, ma ringraziò di non essere Bonnie.
“Vuoi andare a salutare tua madre?” domandò ancora Clay. Il ragazzino scosse la testa asciugandosi la lacrima solitaria con la manica della giacchetta lucida, ancora lorda di sangue.
“No, non credo sia il caso di andare a parlare con mia madre” spiegò. Tinkerbell alzò le spalle e Septum sbuffò impaziente. “Come vuoi. Questa è tua, Bloom l’ha fatta adattare da Juanito” gli lanciò addosso una giacca blu a doppio petto come quella che indossava lui. Septum se l’era tolta e l’aveva lanciata per terra stizzito, mentre scavava.
Bonnie l’afferrò preso alla sprovvista, quasi si spaventò.
“Allora andiamo”
“Non mi va di andare” rispose il ragazzino con un tono di voce spento e cantilenante, stringendo la giacca al petto, quasi senza accorgersene.
“Andiamo lo stesso” decretò Tinkerbell incamminandosi verso una porta, una qualsiasi che lo riportasse da Ruthie.
 
 
Aki_Penn parla a vanvera: Ecco un nuovo capitolo, anche questa volta ho tirato in ballo un personaggio storico. Il Diacono Brodie di Edimburgo si chiamava William, in realtà, se non ricordo male, la sua è una storia piuttosto bizzarra, e mi ha colpito quando ne ho sentito parlare, così quando ho avuto bisogno di parlare di chiavi in questa storia ce l’ho infilato in fretta e furia. Si starà rivoltando nella tomba! XD
Bene, a parte questo vorrei informarvi del fatto che probabilmente per il prossimo capitolo ci vorrà un po’, avrò poco tempo e – per di più – è un pezzo che so già mi darà dei problemi, quindi scusatemi in anticipo.
Grazie mille per aver letto. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 19
*** Il requiem ***


WARNINGS: Questa volta ho pubblicato davvero, scusatemi per il falso allarme di ieri sera, ma questa notte mi è venuta in mente una cosa che volevo aggiungere, così questa mattina ho cancellato il capitolo per ripostarlo ora. Chiedo scusa!
In realtà ho aggiunto solo un piccolo pezzo alla discussione di Tinkerbell e Bonnie. Bonnie dovrebbe essere molto più sboccato, avrebbe dovuto esserlo anche in questa conversazione, ma non sono riuscita a renderlo così perché mi sembra che si intoni davvero poco alla storia. XD Spero che la cosa non risulti pessima. Scusate ancora se ho fatto del caos con l’aggiornamento del capitolo.
 
Make a wish-
Capitolo diciannove-
 Il requiem–
 
‘Ho ucciso un uomo’
Bonnie appoggiò la testa contro le piastrelle della parete della doccia, mentre l’acqua fredda gli scivolava addosso, era un piacere che non riusciva a godere.
“Bonnie, hai fatto? Sei affogato dentro la doccia?” disse Tinkerbell da fuori, piuttosto scocciato. Bonnie ringhiò e tirò un cazzotto al muro. Una piastrella si ruppe con uno schiocco secco e le nocche del ragazzino si sbucciarono “Cazzo” sbuffo, chiudendo con un gesto secco lo scrosciare dell’acqua. Per poco non ruppe anche il pomello.
Uscì gocciolante dal box doccia e afferrò l’asciugamano bianco dell’Hotel, c’era scritto ‘Hotel spiaggia dorata’. Bonnie era sicuro che quello fosse spagnolo, ma non aveva avuto alcuna difficoltà a leggerlo. Arricciò il naso e lanciò via l’asciugamano, mentre sentiva l’umido dovuto alla doccia trasformarsi già in sudore. Respirò forte, infastidito.
“Allora?” chiesero da fuori. “Arrivo, cazzo!” sbottò Bonnie infilandosi i pantaloncini che Tinkerbell gli aveva prestato. I suoi vestiti erano stati appesi in terrazza, dopo che Ruthie aveva cercato di lavare via, come poteva, il sangue, suo e di Houn.
Increspò le labbra ripensandoci mentre si infilava i pantaloncini, aveva un macigno perennemente appoggiato sul petto, una parte di sé avrebbe voluto tornare a casa e l’altra metà avrebbe voluto fuggire ancora più lontano. Respirò forte, tirandosi su le brache larghe. Tinkerbell le aveva ereditate in adolescenza dal proprio fratello che doveva essere un tipo enorme, quei pantaloncini gli stavano larghi.
Si mise l’asciugamano di traverso su una spalla e spinse la porta per uscire dal bagno.
“Era anche ora” lo accolse Tinkerbell mezzo nudo, a piedi nudi sul pavimento di ceramica, le braccia conserte e una gran faccia da schiaffi.
“Smettila di rompere, cacchio” sbottò Bonnie, superandolo dandogli una spallata. Tinkerbell non ne ebbe a male e in tre passi fu in bagno e si chiuse dietro la porta senza troppi complimenti.
Bonnie sbuffò e lanciò l’asciugamano sul letto. Ruthie, seduta su una gamba, sopra il letto.
Erano in un albergo nel centro di Città del Messico, non era dei più lussuosi, ma era pulito e aveva un’aria familiare. I mobili erano di legno scuro e le coperte chiare e ricamate. L’aria condizionata invece era rotta.
Ruthie gli sorrise. Si era tolta i vestiti che indossava di solito per mettersi una canottiera dalle spalline strette e dei pantaloncini cortissimi. Entrambi avevano dei disegni di un rosa sbiadito che facevano pensare fosse un pigiama.
“Come stai?” gli chiese lei. Bonnie sbuffò di nuovo e alzò le spalle. “E okay”
“Immagino sia un po’ strano, all’inizio. Lo è stato un po’ anche per me” disse con una risatina. Bonnie fece una smorfia e la guardò di nuovo. Ruthie era più bassa di lui, non di molto, ma lo era. Bonnie annuì e finì per far cadere lo sguardo sulla sua scollatura. “Tinkerbell mi ha detto cosa è successo in Australia…” iniziò lei, grave. Il ragazzino annuì di nuovo, aveva lo sguardo fisso sul suo petto, ma non lo vedeva più “Sì. Ero andato a dire che lasciavo il lavoro e poi…non lo so”
Fu Ruthie ad annuire comprensiva, Bonnie sembrava perso in un altro mondo.
Era un ragazzino magrolino, vedendolo nudo si notava ancora di più, Ruthie poteva vedere il suo sterno sotto la pelle. Tinkerbell non era un tipo muscoloso, ma Bonnie sembrava fatto solo di pelle. Aveva una stella a cinque punte tatuata su uno dei pettorali, una delle punte, disegnate con una traccia sottile d’inchiostro, era più lunga delle altre e sembrava quasi indicare qualche cosa.
Il ragazzino batté le palpebre e distolse gli occhi dal suo seno, tornando a guardarla negli occhi “Come mai lo segui, quello?” domandò, accennando alla porta del bagno con la testa. Non ci voleva molto a capire che Tinkerbell non gli piacesse.
“Sto seguendo una bestia”
Bonnie alzò le sopracciglia “Tu stai dando la caccia a una bestia? Non è lui il genio?” chiese, con un sorrisetto.
“Questa bestia ha ucciso mia madre. Veleno dice che non esiste una bestia come quella che gli ho descritto, ma sono sicura che non ci sia nulla di umano in ciò che si è portato via metà della mia famiglia”
Bonnie la guardò, un po’ stordito “E tu vuoi ucciderla?” cercò di immaginarsi a dare la caccia a un mostro che aveva ucciso sua madre e non ci riuscì.
“No, voglio che Tinkerbell la uccida per me. Io non posso fare niente” spiegò, con un sorriso dolce. Bonnie pensò che fosse carina e si domandò di nuovo che diamine ci facesse con uno come Tinkerbell.
“Com’è?”
“Eh?”
“Com’è uccidere le bestie?”
Ruthie fece un altro dei suoi sorrisini “Doloroso, di solito. Ti dovrai abituare. Devi solo fare in modo che non ti stacchino la testa” disse. Bonnie distolse di nuovo lo sguardo, prima di ricominciare a parlare in tono strascicato “Houn” e quel nome fu un calcio nello stomaco “mi ha colpito con un piede di porco sulla testa e sulla spalla, ma adesso non c’è più niente” disse, apatico. Bonnie non ricordava quasi nulla di ciò che era successo dopo.
Aveva ripreso coscienza di sé quando Septum e Tinkerbell stavano già seppellendo il corpo di Houn.
“Tinkerbell dice che certe cose non le devi imparare, il tuo corpo già le sa, come col fuoco che avevi in mano quando ancora eravamo nel palazzo in aria. Probabilmente ti hanno curato loro e tu non te ne sei accorto”
Si ricordava il dolore di avere la testa spaccata, si chiese, per un momento, se Ruthie avesse sofferto di peggio.
“Sono praticamente immortale” disse poi, con un sospiro pesante, era quasi una domanda, anche se Ruthie non sentì l’interrogativo finale.
“Puoi invecchiare” disse lei e Bonnie fece una smorfia.
“Non vuoi andare a casa a salutare tua madre ed inventarti una scusa? D’ora in poi non tornerai quasi mai a Sidney”  chiese lei, umettandosi le labbra. Era sudata, ma le faceva piacere il caldo messicano, si ricordava fin troppo bene la temperatura subita in Repubblica Ceca.
Bonnie fece un sorrisetto scocciato “Casa” ripeté, come se fosse una parola ridicola “…non ce l’ho nemmeno una casa. Io e mia madre stiamo in una roulotte. Lei non ha un lavoro, non abbiamo tanti soldi”
Ruthie diede un’occhiata fuori dalla finestra, i jeans, la maglietta, la giacca e le mutande del ragazzino erano spese sul davanzale ad asciugarsi. L’alone di sangue era rimasto, ma erano meglio di prima.
“Dai vestiti che indossavi non l’avrei detto. Sono marche costose” notò, con un sorrisetto divertito, guardandolo sottecchi. Bonnie avvampò di colpo. “Quelli… quelli” iniziò a dire. Ruthie rise “Li hai rubati?”
“Beh, ecco…” iniziò a dire lui, impacciato.
Ruthie rise forte “Oddio, ti vergogni a dirmelo perché ti sembro una persona per bene?” rise ancora, piuttosto forte “Tinkerbell mi ha detto che tipo di lavoro facevate del capannone di Houn, mi chiamo Ruthie Romano, se permetti in famiglia di rapine ne sappiamo più di te”. Lo guardò con un sorrisetto furbo e Bonnie rimase a guardarla a sua volta “Oh, sì, ho visto quel film” disse solo, un po’ perplesso.
“Ah, tranquillo, se vuoi mantenerti puoi continuare con la professione, in modo saltuario. Ogni tanto anche io clono le carte di credito per Tinkerbell” spiegò. Bonnie alzò le sopracciglia “E…prima di conoscerti come faceva?” domandò, fu la prima cosa che gli venne in mente. Ruthie scrollò le spalle “Ognuno ha un lavoretto. Chismes fa l’estetista, Septum il tatuatore, Skog il falegname, tutto piuttosto saltuario, ovviamente. Tinkerbell faceva qualche lavoretto, ma nulla di fisso, scappava dagli alberghi senza pagare, andava a pranzo da Chismes, Skog o Silk… magari all’inizio puoi farlo anche tu. È difficile seguire un’attività lavorativa quando sei un genio”
“Quindi dovrò fare una vita da stronzo per il resto dei miei giorni?” rilevò Bonnie. Ruthie alzò le spalle e sorrise, come per dire cosa vuoi che sia. Il ragazzino ne aveva abbastanza, sbuffò e annunciò “Vado a fumare” e afferrò il pacchetto di sigarette australiane che aveva appoggiato sul comò. La scatola era sporca di sangue, il suo sangue, e forse anche di quello di Houn, ma le sigarette erano asciutte.
Uscì in terrazza a piedi nudi, mezzo nudo sotto il sole battente. Inaspettatamente, Città del Messico, nella sua zona più centrale, sembrava quasi una metropoli europea. Bonnie non era mai stato in Europa, ma aveva visto le foto delle vacanze di Alice, che c’era stata in vacanza. Gli piaceva Alice, per quanto fosse una stronzetta troppo ricca per lui, però si era imboscata con lui sulla spiaggia un paio di volte.
Comunque, il caldo era insopportabile. Bonnie odiava il freddo, ma anche l’umidità era intollerabile. Si domandò se gli sarebbe toccato di stare così tanto a lungo in quel posto.
Il ricordo di Houn gli tornò alla mente come un pugno. Si distraeva a volte, ma poi lui tornava, era come se il fantasma di Houn lo seguisse e non gli permettesse di dimenticarlo. Fece schioccare lo zippo e lo accostò alla sigaretta che aveva in bocca, facendo scivolare poi, sia quello che il pacchetto di sigarette, nella tasca dei pantaloncini di Tinkerbell.
Forse avrebbe potuto accenderla usando un dito, era riuscito a dare fuoco alla propria mano quasi senza accorgersene, ma non aveva voglia di riprovare.
Sbuffò fumo e chiuse gli occhi alzando la testa per sentire i raggi del sole sulla faccia.
 Quando rientrò, di nuovo sudato nonostante la doccia, trovò Tinkerbell con un asciugamano legato in vita e uno in testa a strofinarsi i capelli. Ruthie era in bagno a farsi la doccia cantando pezzi sconnessi delle canzoni delle Spice Girls. Bonnie non volle sapere di che roba si trattasse.
“Devi essere il più fortunato, tu, tra i geni” esordì Bonnie, in piedi sulla soglia della portafinestra. Tinkerbell smise di strofinarsi i capelli e lo guardò perplesso “Perché?”
“Beh, sei l’unico che ha qualche posto dove infilare” commentò, a braccia conserte, appoggiandosi allo stipite. Tinkerbell si tolse l’asciugamano dalla testa e lo appoggiò sul letto, guardandolo, con le sopracciglia aggrottate.
“Che?” fece solo, più sospettoso che confuso.
“Diamine, Ruthie. Ha delle belle tette” disse semplicemente, aveva ancora la voce da ragazzino, squillante.
Bonnie vide l’espressione di Tinkerbell cambiare, diventando una smorfia incredula. La bocca era ricurva in giù e gli occhi sgranati “Ruthie è il mio famiglio” disse, quasi disgustato. Gli dava un po’ fastidio che Bonnie avesse messo gli occhi sulla sua assistente.
“E quindi?” domandò sprezzante il ragazzino. “E quindi niente effusioni di carattere sessuale col tuo famiglio. Se così fosse  Septum dovrebbe intendersela con una pantera e avremmo già dovuto chiamare il WWF” spiegò, scocciato, riprendendo l’asciugamano per tamponarsi i capelli, non tanto perché ce ne fosse bisogno, tanto perché aveva bisogno di fare qualche cosa.
Con quel caldo i capelli di Bonnie erano già asciutti e avevano acquistato la loro consueta consistenza della paglia.
Il ragazzino biondo fece una smorfia tra la delusione e lo schifo “Quindi…niente?”
“Niente” sbottò Tinkerbell mettendosi le mani sui fianchi, con aria vagamente minacciosa. Non era un ragazzo altissimo, ma superava Charlie di almeno dieci centimetri.
“Sei gay?” chiese poi, a bruciapelo. Tinkerbell si accigliò “Il fatto che non voglia mettere le mani su Ruthie significa che sono gay?” domandò. Bonnie alzò le spalle “Direi di sì. O ne hai delle altre, di donne?” chiese poi.
Tinkerbell fece una smorfia, non gli piaceva nemmeno un po’ quell’argomento “Qualcuna, prima che Ruthie diventasse il mio famiglio. Ogni tanto è capitato, ero sempre da solo, non amo molto gli animali, è per quello che non avevo un assistente, prima di lei” spiegò, mordendosi le labbra.
Bonnie si passò la lingua sui denti e lo guardò, strafottente “Quindi in pratica l’arrivo di Ruthie è quasi peggio, insomma, solo sesso-fai-da-te…”
Tinkerbell alzò gli occhi esasperato “Cielo, Bonnie!”
“Che c’è?” chiese lui a voce alta, abbastanza divertito “È piccoletta ma è piuttosto carina, secondo me è una che ti fa dimenticare anche il tuo nome, se ci si mette d’impegno. È un po’ uno spreco nelle tu mani”
“Non ci crederai, Bonnie, ma Ruthie sa rendersi molto utile anche da vestita, senza bisogno che nessuno si dimentichi il proprio nome” fece lui, calmo, mentre Ruthie stonava sulle note di Material Girl, da sotto la doccia. Clay ringraziò il cielo che non potesse sentirli.
“Come dici tu” commentò il ragazzino, con un’espressione furba in faccia. Tinkerbell decise di ignorarlo, mettendosi a cercare la propria maglia nello zaino.
“Dici che il mio coso potrebbe prendere fuoco come ha fatto la mia mano?” chiese poi Bonnie e Tinkerbell quasi si strozzò con la saliva.
“Di grazia, perché mai dovresti fare una cosa del genere?” urlò, esasperato. Bonnie alzò le spalle “Così, per sapere”
Il viso di Tinkerbell era una maschera di perplessità mista al disgusto, ma rispose comunque, stancamente “Immagino di sì, dovresti chiederlo a Skog, conoscendolo ci ha provato sicuramente”
Il cellulare di Bonnie vibrò sul comò della stanza da letto, sullo schermo apparve il nome di sua madre. Il ragazzino rifiutò la chiamata con faccia truce e Tinkerbell fece finta di non vedere che si era rabbuiato.
Quasi per distrarsi, tornò di nuovo a guardarlo con quell’aria strafottente e fastidiosa“Quindi niente sesso con Ruthie?” chiese ancora senza mollare l’osso. “No” ribatté Tinkerbell per l’ennesima volta, scocciato.
“Cos’è, una legge non scritta?” continuò, imperterrito. Tinkerbell ebbe bisogno di pensarci “No, ma è comunque la mia assistente. Per noi va bene così” protestò, piegandosi di nuovo sullo zaino a cercare i propri vestiti.
“Allora posso provarci io” disse, tranquillo. Non era una domanda, era proprio un progetto che intendeva realizzare. Tinkerbell, che gli dava la schiena, si voltò lentamente e lo guardò storto “Ti stacco la testa” minacciò, solamente e Bonnie avrebbe voluto ribattere, ma venne colpito allo stomaco dal calcio del ricordo di  Houn e gli venne da vomitare.
 
***
 
Cloris stava fissando il mare, impaziente “Non hai portato la tua sirena?” domandò a Diablo, che sedeva davanti a lei.
“L’ho portata, ma ha preferito stare in acqua” spiegò lui, accennando al mare sotto di loro. Ebén era poco distante, ma sembrava non vederli. Il resto del suo equipaggio stava preparando una scialuppa da calare in mare.
L’unicorno di Cloris nitrì, ma la sua padrona lo ignorò. Il ponte della Kensington Gardens era abbastanza vasto da poter ospitare l’intera Seconda Guardia, cavallo compreso.
Rosette appoggiò sul tavolo quadrato un piatto pieno di spiedini di calamaro. Cloris le sorrise. Rosette era stata un pirata, lei e suo marito avevano navigato per anni sulla stessa nave, nel loro equipaggio c’era anche la vecchia Jollah dai capelli magenta, decisamente più vecchia del proprio capitano.
Rosette e suo marito avevano dedicato la propria vita alla Seconda Guardia, ma non erano più nel fiore degli anni.
“Grazie” fece Diablo, concedendole un sorriso. Diblo era un tipo che sorrideva spesso, a tutti, non era chiaro chi preferisse, era sempre piuttosto caloroso. Rosette, con i capelli rosso chiaro arruffati, annuì piano, prima di allontanarsi. Era una donna bassa e rotondetta, con degli occhiali da sole tondi con la montatura dorata e i vestiti e fiori.
“Dovresti essere carino con lei” lo redarguì Cloris, appena la donna se ne fu andata. “Io sono carino. Sono carino con tutti”  ribatté lui, offeso, tenendo bassa la voce. Cloris si accigliò “Appunto per questo” lo rimbeccò lei, accavallando le gambe. La tovaglia a quadri svolazzò, mentre la ciurma della Flying Horn si assiepava attorno a un telo bianco sotto il quale era nascosto qualche cosa.
“Tu sei una stronza, ed è chiaro quando prendi in simpatia qualcuno” brontolò, prendendo in mano uno spiedino di calamaro.
“È tua madre! E il punto è che non te ne frega granché di lei. Si vede che lei soffre di questo tuo disinteressamento” lo sgridò avvicinandosi a lui per non farsi sentire dal resto dei presenti.
Intanto Big Jim chiedeva all’equipaggio della Flying Horn se volevano una mano a caricare il corpo di Coli sulla scialuppa. I due capitani lo ignorarono.
“Sono disinteressato. Non ho niente contro di lei, mi ha ignorato per la maggior parte della mia vita, non credo che basti dirmi ehi, sai sono tua madre, per essere mia madre” disse lui, guardandola negli occhi. Era arrabbiato.
“Lei e tuo padre sono stati insieme tutta la vita ed ora lui nemmeno la riconosce più” aggiunse Cloris, mantenendo lo sguardo, ma ritrovandosi d’un tratto incerta.
“Sono molto dispiaciuto” sbottò Diablo, serio e disinteressato. La ragazza batté il pugno sul tavolo e si voltò verso il mare, rabbiosa “E allora suona la tua cacchio di scatola di latta. È un funerale, questo” sbottò, incrociando le braccia e guardando l’orizzonte, mentre l’equipaggio della Flying Horn calava la scialuppa in acqua. Ebén stava in piedi accanto al corpo morto di Coli, coperto dal lenzuolo bianco.
Diblo respirò forte, stizzito e prese in mano il proprio hangdrum, che portava a tracolla, attaccato a una stringa di cuoio.
Cloris chiuse gli occhi e rimase ad ascoltare, il suono prodotto dalle dita di Diablo sul metallo.
Sentì la testa sgombra da ogni pensiero, risuonare come una carcassa vuota.
Alih, in piedi sul ponte guardava l’acqua scura. Il cielo stava tramontando e la luce mandava riflessi colorati contro il legno con cui era costruita la Kensington Gardens. Sorrise quando vide una testa di capelli neri a pelo d’acqua. Intravide un occhio e una scia di squame sulla schiena. In un attimo Bianca sparì di nuovo sott’acqua, ma Alih l’aveva vista. Il Grande Mare pullulava di sirene, ma nessuno le vedeva mai.
Big Jim, il grasso e gigantesco cuoco della Rainbow Dancer, la nave di Cloris, e le batté una mano sulla spalla, dicendole silenziosamente di allontanarsi dal bordo.
Tutti si erano seduti, Alih corse dietro di loro quasi senza emettere alcun suono, non c’erano più sedie libere. Sulle prime, quelle attorno al tavolo, stavano Cloris, Diablo e la vecchia Jollah. Rosette, che era la madre di Diablo, oltre che consigliera del Re, avrebbe dovuto stare davanti con loro, ma si era messa infondo, subito davanti a Jim, che portava il suo solito cappello a tesa larga. I suoi uccellini verdi erano immobili e silenziosi accucciati sulla sua testa, stregati dal suono metallico dell’hangdrum di Diablo.
Ronnie e Beirei stavano seduti dietro, Beirei messo a gambe larghe e appoggiato allo schienale della seggiola di legno chiaro su cui stava, con l’aria di potersi perdere nel suono metallico che impregnava l’aria, Ronnie, fermo, piegato un po’ in avanti, con le mani tra le ginocchia e gli occhi vispi, in ansia. La vecchia Jollah, in piedi, incartapecorita, coi capelli magenta troppo lunghi che volavano nel vento e la pelle della stessa consistenza di una vecchia quercia. Un ragazzino piuttosto gracile con i capelli color topo spettinati e due occhi enormi e acquosi tirò su col naso, ma nessuno lo notò.
Lo sguardo di tutti era alla scialuppa che si allontanava verso il tramonto. Ebèn era in piedi, un po’ barcollante. Ogni tanto si vedeva la piccola imbarcazione oscillare, ma il capitano della Flying Horn rimaneva in piedi.
Diablo non guardava e Cloris fissava passivamente l’orizzonte, il sole era troppo brillante, ma la zona rosata intorno ad esso pareva diventata incredibilmente interessante.
D’un tratto la scialuppa prese fuoco, il ragazzino con gli occhi acquosi si coprì gli occhi, mentre la figura di Ebén si confondeva nel rogo, la barca avvampò di fiamma impazzita, perdendosi nel sole e il suono metallico che invadeva l’aria, armonioso, parve diventare ancora più forte.
Tutti rimasero a fissare la scialuppa che si consumava nella fiamma finché Cloris non si alzò, mettendo fine anche al suono dell’hangdrum di Diablo. L’uomo coi capelli rossi alzò la testa e guardò il resto degli spettatori che sembrarono ridestarsi dal loro torpore. La barchetta, in mare, sembrò aver perso d’un tratto tutta la propria luminosità, proprio come aveva fatto nell’accendersi. Il sole era sceso oltre la superficie dell’acqua, lasciando dietro di sé solo un leggero alone rosa.
L’unicorno di Cloris nitrì. “Grazie per il tuo requiem, Diablo, adesso abbiamo altro a cui pensare” sentenziò alzandosi, e tutto il suo equipaggio la seguì, come se fossero stati soldatini.
Rosette si fece avanti lentamente per prendere il piatto di spiedini di calamaro ormai freddi e portarli via “Credo che sia ora che io vada” disse e si perse tra la folla. Diablo sapeva che stava tornando dal proprio marito, poco importava che lui non si ricordasse di lei. Nessuno disse nulla e la donnina rotondetta venne inghiottita dalla folla. L’unicorno di Cloris nitrì di nuovo.
“Sua Maestà aveva orribilmente ragione” esordì poi la ragazza coi capelli magenta, vestita di colori sgargianti come sempre, indicando un punto in cielo.
Diablo sbadigliò, la rabbia che gli era montata in petto per colpa di Cloris e della sua opinione sul rapporto madre-figlio era sparita. Alzò lo sguardo per vedere cosa la donna indicava.
La Torre dell’Acqua era ben visibile davanti a loro, seppur lontana. Aveva l’aspetto di un gigantesco tronco d’albero intrecciato, senza foglie. L’immane colonna raggiungeva il cielo e, proprio dal punto in cui incontrava l’empireo, partivano una mezza dozzina di crepe nere, che fendevano il cielo.
La calotta del loro mondo si stava crepando, se fosse caduta anche la seconda Torre, dopo quella del Riso, l’intero Grande Mare sarebbe stato schiacciato da se stesso.
Ebén riemerse dall’acqua e il ragazzino con gli occhioni lo aiutò a trascinasi fin sulla Kensington Gardens. Era bagnato fino alle ossa, ma il fuoco non l’aveva toccato. Riservò un’occhiata bieca a Cloris che gli dava le spalle, insieme a buona parte dei presenti, e si rifugiò sotto coperta, non vedeva l’ora di tornare sulla Flying Horn.
Cloris stava parlando ad alta voce, in piedi sul tavolo con la tovaglia a quadri, in modo da essere vista da tutti.
“Andiamo a prenderci questi semi d’Ortica e facciamo in modo che il cielo non ci caschi in testa” urlò, e una serie di grugniti diedero il loro assenso. Alih sorrise e guardò Big Jim che le teneva la mano. Voleva entrare assolutamente nella Seconda Guardia.
 
***
 
Quando Ruthie si svegliò era bagnata di sudore. Aveva sognato si strappare la pelle dalla faccia si Tinkerbell, con le unghie e con i denti, mentre lui la bruciava, la voleva uccidere e lei voleva uccidere lui, assolutamente.
Rimase qualche secondo sdraiata su un fianco, cercando di capire dove si trovava.
Dalle imposte della finestra filtrava la luce del mattino, l’alba doveva essere passata da un pezzo.
Davanti a lei stava Tinkerbell, che dormiva su un fianco, con solo i pantaloni addosso e la schiena scoperta. Ruthie ne studiò le braccia, il collo, le scapole, per assicurarsi che la pelle fosse ancora tutta al suo posto. Tinkerbell stava bene, il suo era stato solo un sogno. Sospirò e voltò un poco la testa dietro di sé: Bonnie dormiva in posizione fetale raggomitolato verso di lei, con le labbra schiuse e i capelli davanti agli occhi. Ancora una volta si stupì di quanto fosse magrolino, Tinkerbell in confronto era un orso.
Rimise di nuovo la testa sul cuscino e sospirò.
“Cosa c’è?” domandò Tinkerbell, a bassa voce, rimanendo immobile. Ruthie non lo poteva vedere, ma sapeva che non aveva nemmeno aperto gli occhi.
“Niente. Fa caldo” si lamentò lei, in un sussurro. “E poi siamo qui da tre giorni, non abbiamo ancora trovato niente. Non è mai successo” disse, con voce più concitata.
“Lo so” ringhiò Tinkerbell tra i denti, altrettanto arrabbiato. Non era mai successo e lui non sapeva cosa fare. Nessun disordine, nessuna questione irrisolta, niente di niente, sembrava che non ci fosse nessuna bestia in quel posto.
“Bonnie sta iniziando a stancarsi” aggiunse Ruthie a bassa voce avvicinandosi così tanto alla sua schiena da toccarlo con la fronte.  Tinkerbell rimase immobile, anche se aveva aperto gli occhi “Non me ne frega niente di quello” ringhiò.
“Oh, lo so” commentò la voce squillante di Bonnie, alle loro spalle.  Ruthie si voltò, Tinkerbell invece rimase dov’era.
Il ragazzino la stava guardando coi suoi occhi azzurro slavato e l’espressione truce. Era sdraiato su un fianco e teneva una mano tra la testa e il cuscino, mentre gli angoli della sua bocca puntavano verso il basso.
“Non mi sembra che sia colpa mia se questo qui non trova niente, ‘sto posto mi fa schifo!” sbottò, increspando le labbra e in uno schiocco era giù dal letto e sbatteva la porta della stanza.
Ruthie si ritrovò seduta sul letto senza nemmeno accorgersene, avrebbe pagato oro per un impianto di aria condizionata funzionante, ma probabilmente era chiedere troppo. Sospirò pesantemente, quella convivenza stava diventando pensate.
 
Aki_Penn parla a vanvera: non so come scusarmi per questo incredibile ritardo e questo misero capitolo. T.T Purtroppo il capitolo venti, che è un po’ più lungo di questo, mi ha davvero fatto sudare sette camicie! Spero davvero che questo capitolo diciannove non sia così male! È stato un’agonia anche questo. XD
È il problema di questa bestia, non mi piace per niente e quindi faccio fatica a scriverne la storia, ma conto di riprendermi in fretta una volta che avrò lasciato perdere la questione messicana. Scusate ancora per i tempi biblici di aggiornamento e grazie per aver letto. <3
 

Ritorna all'indice


Capitolo 20
*** Il boia e la regina ***


Make a wish -
Capitolo venti -
Il boia e la regina –
 
La Mosca Bianca era monco. ‘Leandra lo sapeva perché le era stato detto da Vostra Grazia suo marito, il Re.
Tra nobili non stava bene far vedere quanto si era in grado di allungare le proprie braccia, questo a volte ‘Leandra lo dimenticava spesso ed era l’unica, alla Torre di fuoco, ad allungarsi e inerpicarsi con i suoi viticci per tutta la lunghezza del palazzo reale.
C’erano Ortiche molto meno dotate di lei, questo ‘Leandra lo sapeva, ma la Mosca non ne era capace. Nascondeva le proprie braccia sotto una tunica blu e sorrideva, mesto.
Re Rubus si fidava di quell’uomo dallo strano soprannome, ‘Leandra si chiedeva come si potesse vivere senza avere la libertà di arrampicarsi coi propri tralci ovunque si volesse, o come ci si potesse costringere a non farlo.
‘Leandra sorrise alla Mosca, che si inchinò poggiando un ginocchio sul legno del pavimento bollente.
L’uomo sembrava provato, vestito sempre di tessuto.
La Torre di fuoco era il palazzo reale, era una bestia abbastanza prospera, nell’Altro Mondo, Re Rubus contava che sarebbe durata secoli. Ci volevano anni e anni prima di riuscire ad avere una torre del genere.
La bestia del secolo nasceva una volta ogni secolo, circa, ed era la dimore del sovrano, ci voleva un sacco di tempo e un sacco di lavoro per farne crescere una. L’unica bestia che non può essere uccisa, se fosse giunta alla conclusione della propria trasformazione da umano a bestia nessun genio avrebbe potuto sconfiggerla e niente avrebbe demolito la Torre di Fuoco.
‘Leandra odiava quel posto, era nata dal lato opposto del Campo d’Ortiche, lontano chilometri, in una torre altrettanto longeva, ma fatta di ghiaccio. In quel luogo era costretta a usare vestiti di tessuto, ma a corte le bastava vestirsi di sé stessa, con un vestito di foglie.
“Maestà” salutò la Mosca. ‘Leandra sorrise “Buongiorno, Mosca”
“Il Re vuole incontrarla” annunciò. ‘Leandra annuì, bonaria, domandandosi per quale motivo ci fosse bisogno di fare tante cerimonie quando Rubus doveva conferire con lei, come se non condividessero la stessa stanza e non passassero tutta la notte a scalciare sotto le coperte e a tirarsi le lenzuola.
‘Leandra si lasciò condurre lungo le scale a chiocciola della torre. Era inaspettatamente larga per essere un torrione, c’era spazio per ampie stanze e corridoi. La sala dei ricevimenti era in grado di ospitare un lungo tavolo e una quantità impressionante di ospiti. ‘Leandra odiava comunque il caldo infernale che vi faceva all’interno, come odiava la torcia che bruciava alla sua sommità, a contatto col cielo.
La Mosca rimase in silenzio per tutto il tragitto, la giovane regina avrebbe preferito che parlasse, che cercasse almeno di intavolare una conversazione, ma l’uomo se ne rimase zitto e sorridente, nella sua tunica blu  troppo larga, che strisciava per terra.
La Mosca era un uomo dall’aspetto abbastanza ordinario, occhi scuri, capelli scuri, sopracciglia folte e ben curate, di certo più di sua maestà suo marito, naso e mento a punta. Le dita delle mani erano lunghe e ossute. Per il resto, ‘Leandra non era in grado di farsi un’idea di come fosse fisicamente il consigliere di Rubus, tutto veniva nascosto dall’enorme tunica.
Qualche tempo e un’enormità di gradini dopo, la Mosca si fermò davanti a un colossale portone. ‘Leandra conosceva quel posto, c’era stata solo una volta, ma lo ricordava fin troppo bene. Non vi erano finestre, là dentro. La Mosca aveva visto quel luogo solo da fuori, se smaniava per sapere cosa si nascondeva all’interno, non lo dava a vedere.
La Mosca sembrava non avere sentimenti, mai una lamentela, mai un richiamo, mai nulla di nulla.
Il consigliere si appropinquò al gigantesco portale e iniziò a tirare i grandi anelli che ne consentivano l’apertura. ‘Leandra rimase a guardare per un po’ la scena patetica. L’uomo tirava gli anelli con tutta la forza che aveva in corpo, ma non c’era verso di spostare l’anta di un solo millimetro.
La ragazza si passò la lingua sulle labbra, imbarazzata “Lascia che ti aiuti, Mosca” disse infine, stanca, ma mantenendo un tono di voce piuttosto pacato.
Alzò di poco il suo vestito di foglie verdi, tanto che la Mosca poté vedere per qualche secondo i piedi nudi della regina sul pavimento di legno. In un secondo le gambe della regina si erano trasformate in due tronchi esili e nodosi. Se la Mosca fosse rimasto a guardare avrebbe potuto distinguere l’osso della caviglia trasformato in legno, con piccole macchie di muschio.
Le dita dei piedi si allungarono in rami esili punteggiati in qua e in là da foglie verdi. ‘Leandra sorrise guardando i propri viticci attorcigliarsi attorno ai due grossi anelli dorati e spalancare la porta. Non le importava se Rubus lo trovava maleducato, lei avrebbe continuato a fare quello che voleva, coi suoi rami.
La Mosca strinse i denti, ma non disse nulla, mentre le ante si spalancavano, rivelando una stanza buia.
Re Rubus li stava aspettando. Era un uomo gigantesco, largo quanto alto, biondo, con una lunga barba dello stesso colore dei capelli.
Portava dei pantaloni che parevano fatti di corteccia e forse lo erano proprio, mentre il petto vastissimo era nudo. In testa portava un bizzarro copricapo che terminava con due ramoscelli spauriti, che lo facevano sembrare un gigantesco cervo biondo.
Il Re arricciò il grosso naso nel vederli e i suoi baffi chiari ondeggiarono come una piccola spatola giallastra.
L’attenzione della Mosca però non andò a lui. Era al servizio del Re da anni, la sua statura e il suo copricapo non erano più una novità. La Mosca alzò lo sguardo oltre il sovrano. Appesi al soffitto c’erano due enormi crisalidi incartapecorite. Dentro avrebbe potuto esserci un uomo. Deglutì e si domandò che razza di creatura potesse aver tessuto un bozzo del genere. La Mosca era bravo con gli insetti, anche se a Rubus non era dato saperlo, ma non conosceva niente che appartenesse al Grande Mare o al Campo d’Ortiche che potesse tessere un bozzolo simile.
Uno dei due era rotto a metà, qualche cosa doveva esserne fuoriuscito, lasciando per terra una scia vischiosa di muco trasparente.
L’uomo rimase impassibile, erano anni che viveva al Campo di Ortiche, aveva imparato a nascondere bene i propri sentimenti.
“Puoi andare, Mosca” lo congedò il Re. La Mosca si inchinò brevemente, prima di voltare le spalle al gigantesco portone che veniva chiuso. Accelerò il passo verso le proprie stanze, aveva vari compiti da svolgere alla torre di fuoco. Con gli anni Re Rubus gli aveva affidato sempre più incarichi, ma la Mosca aveva qualche cosa di più importante da fare, prima di occuparsi della corte di Ortiche.
Aprì la porta in legno massiccio della propria stanza ed entrò. Dimostrava molti meno anni di quelli che aveva, era come se si fosse fermato, quando aveva varcato le porte del Campo d’Ortiche.
Nei primi tempi aveva cercato di cibarsi nello stesso modo in cui lo facevano le Ortiche, ma sole, acqua, sali minerali e birra verde non erano in grado di tenerlo in vita, così aveva iniziato a bere dal mare di sangue che copriva tutto il Campo d’Ortiche, dal quale anche le torri prendevano nutrimento. All’inizio era stato disgustoso, ma non aveva altro modo per rimanere in vita, e la Mosca Bianca desiderava rimanere in vita.
L’idea era semplice: invece che rubare i semi d’Ortica ai geni li si poteva rubare direttamente alle Ortiche, e così la Mosca era andato. Lo chiamavano Mosca Bianca anche quando era un Pirata del Grande Mare, così aveva finito per farsi chiamare in quel modo anche alla corte di re Rubus.
C’erano voluti mesi per convincere il Diacono Brodie a farlo entrare nel Campo d’Ortiche, ma non erano bastati vent’anni per convincerlo a farlo tornare al Grande Mare.
I passaggi tra mondi diversi funzionavano in modo diverso e ce n’era solo uno che collegava il Campo d’Ortiche con l’Altro Mondo, e quel passaggio si apriva proprio nel tugurio del Diacono Redwood Brodie.
L’uomo aprì la grande cassettiera che teneva ai piedi del proprio letto, era stracolma di semi striati, con tutto quel ben di dio, al Grande Mare sarebbero stati a posto per secoli, ma non c’era modo di portarli via di lì. Deacon Brodie lo controllava.
Ne afferrò distrattamente una manciata e li mise in una ciotola che teneva sulla propria scrivania, di fronte alla finestra.  Con il pestello li schiacciò, girando e premendo dentro alla ciotola, fino a quando non ne rimase solo una polvere di colori diversi, la tastò con le dita per saggiarne la consistenza e irrigidì la mascella, constatando che andava bene. Ne prese una quantità maggiore e si massaggiò le mani come se le dovesse lavare sotto un getto d’acqua, riempiendole di polvere. Le batté un paio di volte e parte del pulviscolo ricadde nella ciotola, sulla scrivania e sui propri vestiti. Quando le batté per la terza volta, le mani si distaccarono con più difficoltà, tra le dita erano sorti dei filamenti pallidi e gelatinosi. La Mosca allontanò le mani tra di loro assottigliando i fili, li incrociò e li intrecciò finché non si tesero e poi li strattonò un paio di volte. Come se si fosse trattato si vecchi vestiti polverosi, un paio di falene uscirono dall’intrigo di fili pallidi e fu allora che la Mosca parlò, chiudendo gli occhi stancamente.
“Buonasera, signori”
“Buonasera, Mosca” rispose Cloris. Quando l’uomo riaprì gli occhi si ritrovò davanti tre teste di lucciole, era difficile distinguerne i lineamenti, erano brulicanti d’insetti, ma i capelli mossi di Cloris e il codino di Diablo erano riconoscibilissimi, il terzo era Ebén.
“Ci spiace per l’ultima volta, il mio mozzo è finito il acqua col mio unicorno” spiegò la voce di Cloris. La Mosca aveva sempre pensato che quella donna avesse una bellissima voce.
“Gli unicorni sono animali difficili da gestire” disse la Mosca in tono pacato. “Ah, l’hai detto!” esclamò una voce che non apparteneva a nessuna delle teste. Il consigliere di Re Rubus batté un paio di volte le palpebre, cercando di capire da dove venisse.
“Sta zitta, Alih e tornatene fuori dal gazebo!” sbottò Cloris rabbiosa. La Mosca fece un sorrisetto divertito, mentre le lucciole si affrettavano a comporre una quarta testa.
“È il tuo mozzo?” domandò. “Sì” ringhiò Cloris, dai movimenti dei suoi ricci poteva immaginare che stesse cercando di cacciare la ragazzina fuori dal gazebo bianco.
“Falla rimanere, che male può fare?” disse. Cloris grugnì “Come vuole lei” acconsentì di malavoglia.
“Bene, l’ultima volta il nostro incontro è stato piuttosto magro, mi spiace. Ci sono delle novità, al Campo d’Ortiche” iniziò la Mosca, tenendo le mani sollevate, i filamenti luccicavano alla luce proveniente dall’esterno. La Mosca sapeva che la fiaccola sulla sommità della torre di fuoco illuminava a giorno le vicinanze anche di notte.
“Cosa è successo? E che posto è il Campo d’Ortiche?” esclamò la voce sconosciuta che la Mosca intuì essere di Alih. “Zittisciti, Alih, o giurò che ti butto a mare” ringhiò Cloris tirando la ragazzina per i capelli.
“La smetta capitano, voglio sapere anche io cosa succede!” ribatté la ragazzina con voce squillante e la Mosca aspettò che smettessero di bisticciare.
“Saprai cosa succede coi denti rotti, se non ti zittisci!” imprecò Cloris e Ebén si schiarì la voce, per riportare l’ordine. La Mosca sorrise “Re Rubus si è sposato” annunciò.
“Chi è Re Rubus?” chiese la voce di Alih, si sentì il rumore di uno scapaccione, la Mosca non volle indagare “Re Rubus è il sovrano del Campo d’Ortiche da diversi anni, ma ha trovato moglie solo ultimamente, si chiama ‘Leandra” spiegò. Ebén si schiarì di nuovo la voce e Cloris constatò “Un oleandro”
La Mosca annuì, mentre nel bel mezzo del gazebo bianco la sua faccia spariva dando spazio a un omone dalla barba fatta di lucciole e alla sua piccola consorte. Re Rubus appariva come una visione chiara anche composto d’insetti. Il ventre enorme, le braccia grosse e le gambe non troppo lunghe, ‘Leandra sembrava una piccola cosa, con una lunga treccia che le arrivava fino ai piedi.
“È velenosa” aggiunse la spia “E sa allungare i propri rami come nessuno sa fare qui al Campo d’Ortiche, lui l’ha sposata per questo”
Diablo si umettò le labbra “Quindi è un problema…”
La spia sospirò “È la sua regina e il suo boia”
 
 
***
 
Clay ruotò il volante del pick-up di Glen, svoltando in North Rockhill street. La bocca di Jessie si aprì in un sorriso tutto denti, con il viso così magro e il cranio quasi privo di capelli sembrava che avesse dei denti enormi. Teneva i piedi sul cruscotto, in una posizione pericolosa quanto scomoda, mentre guardava fuori dal finestrino.
“La neve mi piace sempre” ammise. Tinkerbell sorrise a sua volta “È un buon regalo di compleanno, allora” dedusse lui.
“Lo è” concordò sua sorella, che indossava dei leggins a righe bianche e nere che le aderivano perfettamente alle gambe magre. Sopra portava un giubbotto imbottito verde mela e una cuffia di un azzurro spento che le copriva il capo privo di capelli. Le infermiere, prima di dimetterla, le avevano ridato i suoi piercing, e così Jessie ricominciava ad assomigliare alla solita Jessie. Il riscaldamento dell’auto era al massimo, era stata lei ad impostarlo in quel modo, sorda alle raccomandazioni di Tinkerbell, che si lamentava dell’escursione termica.
Il pick-up di Glen svoltò di nuovo a sinistra in Hays Street, fermandosi dopo poco davanti alla villetta bianca della signora Jennings.
La mamma li stava guardando dalla finestra e in un secondo schizzo fuori senza nemmeno mettersi il cappotto, arrancando nel vialetto sui suoi soliti tacchi vertiginosi. Glen aveva pulito il vialetto dalla neve, ma si stava formando una sottile patina di ghiaccio sui ciottoli che portavano alla veranda.
Il cielo era limpido, ma la temperatura davvero rigida, Clay non aveva intenzione di star troppo all’aperto. Sua madre ebbe la stessa premura, prendendo Jessie per un gomito appena fu scesa dall’auto di Glen, conducendola fino in casa con incredibile entusiasmo.
“Perché non ti sei messa dei pantaloni più pesanti?” la sentì domandare Clay, mentre recuperava il borsone della propria sorella.
“Non pensavo che facesse così freddo” spiegò Jessie, colpevole.
“Ma c’è la neve!” esclamò sua madre, esasperata. Tinkerbell sorrise tra sé e chiuse lo sportello di botto avviandosi verso casa.
Quando varcò la soglia, la porta d’ingresso lo accolse con il tintinnio di uno scacciapensieri. Sua madre stava baciando su entrambe le guance Jessie, senza permetterle di togliersi la sciarpa come lei avrebbe voluto fare.
“Buon compleanno, Tesoro!” disse, allontanandola un poco da sé, ma tenendo ancora il viso della figlia tra le proprie mani, per guardarla bene.
“Grazie” biascicò Jessie.
Poi si voltò verso Clay “Buon compleanno anche a te, Clay!” disse, come se si fosse ricordata solo in quel momento di avere due gemelli.
Tinkerbell aggrottò le sopracciglia mentre sua madre gli andava incontro per riservargli lo stesso trattamento che era stato riservato a Jessie.
“Come sei diventato alto” commentò la donna, alzandosi sulle punte per abbracciarlo. “Mamma” iniziò a dire Clay facendo una smorfia perché sua madre lo stava stringendo troppo “sono ventisei anni, quest’anno, è da un po’ che ho smesso di crescere”
“È lo stesso” lo liquidò la signora Jennings non smettendo di tenerlo stretto. Probabilmente l’avrebbe strangolato d’amore se Jessie, perplessa, non avesse chiesto “Ci sono i Ghostbusters in cucina?”
“Oh!” la signora Jennings lasciò il collo del figlio come se scottasse e zampettò verso Jessie col solito ticchettio dei tacchi sul pavimento “Bernie ha mandato un piccione con una cartolina d’auguri di compleanno, ma quell’uccellaccio ha defecato dappertutto e così ho chiamato un’impresa di pulizia” spiegò loro madre.
“Ah, sì, e Bernie vi fa gli auguri, immagino, anche se ho bruciato la cartolina perché era piena di guano”
Tinkerbell fece un sorrisetto senza staccare le labbra l’una dall’altra e poi disse “Tanti auguri a noi, allora”
 
***
 
Il cellulare di Bonnie vibrava sul tavolo del bar dove lui e Ruthie erano andati a fare colazione, sul display troneggiava la parola ‘Mamma’. Bonnie digrignò i denti e rifiutò la chiamata.
“Dovrai dirle dove sei, prima o poi” disse Ruthie, tranquilla, da dietro il quotidiano messicano che stava leggendo.
“Fatti i fatti tuoi” sbottò il ragazzino, rimettendosi a mangiare le sue uova con salsa di pomodoro, cipolla e peperoncino.
Bonnie strizzò gli occhi “Perché il peperoncino anche nella colazione?” piagnucolò esasperato.
“Perché non hai scelto i panini dolci da intingere nel caffè, come ho fatto io, ecco perché. Siamo in Messico, qui” spiegò tranquilla lei, senza abbassare il giornale.
“Mi piacciono le uova fritte per colazione” ringhiò Bonnie, come spiegazione.
“E allora ti tieni il peperoncino” sentenziò lei. Bonnie grugnì ma si rimise a mangiare.
“E dove cavolo è finito Tinkerbell?” domandò il ragazzino, dopo un po’. “È tornato in Kansas per il compleanno di sua sorella” spiegò Ruthie, disinteressata, senza guardarlo.
“E per sua sorella lascia il lavoro?” brontolò lui, arricciando il naso, infastidito dal fatto che Tinkerbell facesse i suoi comodi mentre a lui e Ruthie toccava rimanere a Città del Messico.
Ruthie appoggiò il quotidiano accanto alla propria tazza di caffè, stufa di essere interrotta “È anche il suo compleanno, sono gemelli”
Bonnie fece un’altra smorfia “Non me ne frega niente, siamo qui da una settimana e non abbiamo trovato ancora un bel niente” sbottò, innervosito.
Ruthie mise le labbra in fuori e lo guardò con le palpebre e mezz’asta. “Dato che sei così bravo, trova tu una soluzione” lo rimbeccò lei, poggiando i gomiti sul tavolino della tovaglietta bianca.
Quello dove stavano era un bar dall’ambientazione parigina, il cui cameriere, un uomo di mezz’età, con i capelli lunghi acconciati in una treccia e un paio di baffi foltissimi, stonava un po’. Il cameriere baffuto, un uomo cortese, nonostante l’aria burbera e la minacciosissima macchia di sugo che troneggiava sulla canottiera bianca che indossava, venne a chiedere se era tutto a posto e Ruthie gli sorrise dicendo che era tutto buonissimo, soprattutto il peperoncino nelle uova di Bonnie. Il ragazzino grugnì, infastidito.
“Non lo faccio perché non ho idea di quello che devo fare. Di solito cosa fate? Leggete i giornali e origliate le conversazioni della gente nei bar?” sbottò Bonnie, e l’ultima frase doveva essere sarcastica.
Ruthie alzò le spalle e inclinò gli angoli della bocca verso il basso, in un’espressione di estremo menefreghismo “Sì, quella è la prassi”
Bonnie alzò gli occhi al cielo esasperato.
Un’ora dopo si ritrovarono a camminare in una zona  periferica. Ruthie aveva costretto Bonnie a saltare sui tetti con lei in braccio come faceva Tinkerbell. Lui si era lamentato un bel po’, ma poi l’aveva fatto, non era faticoso e, in fondo, saltare da un tetto all’altro era abbastanza divertente, un tipo di cosa che prima d’allora aveva fatto solo nei sogni.
La seconda parte della mattinata si era dimostrata molto meno emozionante. Ruthie lo aveva portato in giro in lungo e in largo per vicoletti dove affacciavano condomini squallidi, con l’intonaco chiaro scrostato e poi di nuovo lungo strade larghe che passavano in mezzo alla zona industriale. Bonnie era veramente stufo di rincorrere le sottane fiorate di quella minuscola ragazzina. Aveva solo cinque anni in più di lui e dava ordini come se fosse stata sua madre.
“Mi sono rotto, Ruthie…” sbottò a un certo punto, lei si voltò e guardarlo. Stava sudando, anche lei era stanca di camminare sotto il sole, anche fisicamente, oltre che psicologicamente come Bonnie.
Indossava un vestitino a fiori e dei sandali di cuoio che le avevano fatto venire le vesciche, a tracolla aveva una borsa troppo pesante e non aveva niente con cui legarsi i capelli.
Guardò Bonnie e si mise le mani sui fianchi. Prima di andarsene, Tinkerbell gli aveva detto che se avesse fatto del male o disobbedito a Ruthie, lui e il capitano avrebbero provveduto a strappargli le unghie, gli occhi e poi l’avrebbero ammazzato staccandogli la testa.
“Cosa vuoi fare? Vuoi tornare all’albergo? È questo il piano? Forse non hai capito che finché non troveremo questa maledetta bestia non ci muoveremo dal Messico” sbottò Ruthie, acida e affaticata.
Il ragazzino strinse i denti “Ma stiamo girando in tondo? Sono giorni che siamo qui, ma non troviamo nulla!” urlò, esasperato.
“Lo so!” urlò lei di rimando, stringando i pugni, mentre una ciocca di capelli le ricadeva sull’occhio destro.
“E allora?” ruggì Bonnie.
“E allora non lo so, diamine! Non lo so! Non è mai successo che io e Tinkerbell non trovassimo una bestia! Non c’è nessuna bestia qui! E tu, di certo, non mi aiuti con la tua insofferenza!” continuò a strillare lei, e lanciò la borsa per terra, stizzita.
“E allora andiamocene come ha fatto quell’idiota della tua fatina!” ringhiò lui, prima che gli arrivasse uno schiaffo, del tutto inaspettato.
Fece un passo all’indietro, preso allo sprovvista e la guardò negli occhi. Ruthie aveva le labbra strette come i pugni, era stato un gesto inconsulto, se ne stava già pentendo, Bonnie lo poteva vedere dalla sua espressione. Bonnie pensò a come aveva ucciso Houn, magari avrebbe potuto perdere il controllo e uccidere anche lei.
“Piantala, per cortesia” disse Ruthie, con voce più calma. Respirava forte, come se avesse corso.
“È odioso anche per me, non so cosa, stia succedendo, di solito non è così difficile individuare la presenza di una bestia. Magari non è altrettanto facile capire di chi si tratta, ma è sempre stato chiaro fino dall’inizio che qualche cosa non andava. Qui è tutto normale, niente omicidi seriali, niente cose strane, niente di niente. Non mi era mai capitato, non piace neanche a me. Non complicare le cose, questo è anche il tuo lavoro”
Bonnie aspettò qualche secondo prima di rispondere “Non l’ho scelto io” le ricordò.
“Non l’ha scelto neanche Tinkerbell. Non l’ha scelto nessuno, a parte me”
Si guardarono ancora negli occhi per qualche secondo, poi Ruthie si riavviò una ciocca dietro l’orecchio e si chinò a prendere la borsa che aveva lanciato per terra “Facciamo un patto: giriamo qui intorno ancora una mezz’ora e poi torniamo in centro a mangiare una fajita” propose.
“Va bene” acconsentì il ragazzino con un sospiro. Ruthie si rimise in cammino dandogli le spalle e lui ricominciò a seguirla, trascinando i piedi.
Si ricordò di quello che lei gli aveva detto tempo prima: lei cercava una bestia e Tinkerbell le aveva promesso che l’avrebbe uccisa per lei, e per questo Ruthie rischiava di morire standogli accanto. A Bonnie sembrava senza senso.
Bonnie si mise le mani in tasca e alzò gli occhi al cielo, era terso e luminoso, il sole del mezzodì li stava facendo sciogliere. Quando riabbassò la testa non riusciva a vedere più nulla, accecato dalla luce troppo forte. Strizzò le palpebre e si passò le dita sulle sopra, infastidito.
Se li stropicciò fermandosi davanti a un cancello chiuso, mentre Ruthie procedeva a passo stanco.
Fece una smorfia rendendosi conto che la ragazza si era allontanata, ma qualche cosa alla sua destra attirò la sua attenzione.
Si avvicinò al cancello tanto da appoggiare la fronte alle sbarre di ferro, si grattò una clavicola, senza smettere di fissare un punto in particolare. Ignorò Ruthie, quando lei lo chiamò.
“Che diavolo è successo adesso?” domandò, tornando indietro, sbatacchiando la propria borsetta di pelle in giro.
“Guarda la serratura di quella macchina” disse Bonnie, dandole finalmente udienza. Ruthie increspò le labbra, ma poi appoggiò anche lei la testa alle sbarre metalliche del cancello per guardare dentro.
Ruthie alzò un sopracciglio, perplessa “Wow, una serratura. Davvero emozionante, Bonnie, cosa stai cercando di dirmi?” fece, annoiata, senza capire che cosa stesse succedendo.
“Vedi che è un po’ sopraelevata?” chiese, voltandosi verso di lei e appoggiando la spalla al cancello bollente. Ruthie socchiuse gli occhi e si sforzò di notare quel dettaglio “Sì, adesso che me lo fai notare, sì” ammise, ma tornò alla carica, stizzita “E quindi?”
“È stata forzata. Tutte le auto di questa marca si forzano in quel modo, basta fare forza con un cacciavite e l’auto si apre” spiegò “Ho fatto così decine di volte”
Ruthie annuì, ancora piuttosto lontana dal nocciolo della questione “E quindi?” chiese ancora.
“E quindi vado a vedere” decretò lui, e con un salto fu dall’altra parte. Per poco Ruthie non venne colpita dalla katana che il ragazzino le lanciò addosso “Questa tienimela tu!” urlò, saltando su una pila di casse e poi sul tetto a volta.
“Bonnie! Torna qui!” strillò lei, mentre schivava l’arma che le era stata lanciata addosso, ma Bonnie era ormai sparito dalla sua vista.
 
***
 
Bonnie si grattò il collo guardandosi intorno. Il magazzino era piuttosto grande, somigliava un po’ a quello di Houn, ma era più luminoso. Faceva più fresco che all’esterno, probabilmente c’era un impianto di raffrescamento o qualche cosa di simile. Il ragazzino infilò la felpa lucida che aveva legata in vita.
C’erano diversi container depositati all’interno del grande capannone, fece qualche passo in avanti avvicinandosi a quello più vicino. Non c’era nessuna indicazione di che cosa vi fosse all’interno. Senza tante esitazioni afferrò il gigantesco lucchetto che teneva chiuso quello che gli stava più vicino e lo guardò.
Un affare del genere sarebbe stato difficile da rompere anche con un martello e aveva lasciato la katana a Ruthie. Non che una spada servisse granché contro i lucchetti, ma era sempre meglio di niente.
Lo studiò. Aveva un amico che era bravissimo ad aprire i lucchetti: usava una parte dei tergicristalli che rubava alle auto, ma anche se Bonnie avesse avuto un tergicristallo a portata di mano non aveva alcuna idea di come usarlo per forzare un lucchetto.
Lo tirò, stizzito, e la serratura gli rimase in mano. Fece un salto indietro, quando la parte mobile cadde a terra con un gran fracasso. Bonnie lo guardò spiazzato. “Oh” disse soltanto e poi lanciò via anche il pezzo che gli era rimasto in mano, come se scottasse. Anche quello fece un discreto trambusto, ma lui non se ne curò e andò ad aprire il portellone del container. Sarebbe dovuto essere pesantissimo, ma sotto le sue mani si lasciò guidare come lo sportello del frigo della roulotte dove viveva con sua madre.
Appena il portellone fu aperto se ne riversò fuori una caterva di patate. Bonnie spalancò gli occhi, mentre chili di vegetali gli cadevano addosso con un gran frastuono.
Nulla di più losco di un’esorbitante quantità di tuberi.
Il ragazzino sbuffò, una montagna di patate non sembrava poter nascondere dietro di sé una bestia assetata di sangue: quella era l’ennesima pista falsa. Non che quella macchina dalla serratura forzata significasse chissà cosa, ma per un secondo Bonnie era stato davvero convinto che ci sarebbe stato qualche cosa, in quel capannone.
Si guardò di nuovo intorno, mentre alcune patate continuavano a rotolare fino agli angoli più bui. Probabilmente il pavimento era un po’ in pendenza. C’erano altri cinque container nel grande magazzino, probabilmente anche quelli contendevano patate, non valeva la pena guardarci.
Un movimento lo fece voltare di scatto, ma era solo un’altra patata che rotolava via. Tuttavia, Bonnie, finì per guardare di nuovo dentro al cassone che aveva appena forzato. Adesso che quasi tutte la patate erano uscite, in una frana, sembrava che ci fosse qualche cos’altro. Bonnie batté le palpebre un paio di volte, prima di entrare dentro al container.
Spostò con un gesto rapido un’altra manciata di tuberi, fino a ritrovarsi davanti svariate pile di panetti ammassati sotto i vegetali.
Non poté fare a meno di sorridere prendendone in mano uno e soppesandolo. “Bingo” disse tra sé, ma prima che potesse rendersi conto che nulla di tutto ciò lo stava portando alla bestia, una voce parlò alle sue spalle.
“Ehi, tu!”disse e Bonnie si girò, ritrovandosi davanti un colossale messicano, con folti baffi, una cicatrice su un labbro e un mitra.
Il ragazzino non poté far altro che aprire la bocca, come un pesce lesso, e lasciar cadere il panetto che aveva preso in mano.
Il messicano non gli avrebbe di certo sparato finché lui si trovava dentro al container, certa merce valeva troppo per essere sprecata per colpa di un biondino ficcanaso.
In un secondo Bonnie gli fu accanto all’entrata del container. Si guardarono entrambi negli occhi, l’uomo non riusciva a capire come quel bambinetto avesse potuto fare un balzo simile. Gli ci volle qualche secondo per raccapezzarsi, ma quando alzò il fucile verso di lui, Bonnie era già scomparso, saltato sopra a un altro container, con un gran rumore di ferraglia.
L’uomo col fucile urlò qualche cosa di inarticolato e fu allora che un proiettile gli sfiorò la spalla. Bonnie lo scansò all’ultimo, fu come se l’avesse sentito arrivare, forse il rumore, Charlie non avrebbe saputo dirlo.
C’erano altri uomini armati che lo guardavano dal basso.
“Chi cazzo sei, figlio di puttana?” urlò uno di quelli, e un altro gli sparò ancora. Bonnie saltò sulla catena della capriata d’acciaio del capannone. Il tetto era abbastanza alto da permettere a Bonnie di stare in piedi anche in equilibrio sopra la struttura metallica che reggeva il tetto. Gli spararono di nuovo, ma lui balzò sulla terrazza che seguiva come una ‘c’ il contorno del fabbricato, all’altezza delle finestre alte. Corse fino alla prima apertura e la spaccò una con un pugno. Una miriade pezzi di vetro caddero nel cortile e saltò fuori. Urlò nel precipitare di sotto, si sarebbe schiantato!
E invece semplicemente atterrò, poggiando un ginocchio morbidamente a terra. Respirò forte, ancora incredulo: era vivo e non ci poteva credere. Chiuse gli occhi e sorrise, soddisfatto per non sapeva nemmeno lui cosa, ma il sorriso gli si gelò in faccia, quando qualche cosa di metallico lo colpì alla base del collo, rompendogli due vertebre. Bonnie si morsicò la lingua e sputò un grumo di sangue, prima di voltarsi lentamente a guardare il proprio assalitore. Si tenne la mano sulla testa per essere sicuro che non gli cadesse giù dalle spalle, faceva un male atroce, ma questo non gli annebbiava i sensi, come quando aveva incontrato Houn non sveniva come si sarebbe aspettato. Stava lì, lucidissimo e in grado di avvertire tutto il dolore che la ferita sul collo sprigionava.
Davanti a sé c’era un ometto basso, con la barba ispida e il mento a punta, era alto più o meno come Bonnie e altrettanto magno, ma doveva avere, come minimo, trent’anni in più di lui. Se ne stava impietrito davanti al ragazzino brandendo allibito una spranga sporca di sangue, il sangue di Bonnie, ne stava perdendo a fiumi.
Senza pensare oltre, l’uomo lo colpì di nuovo, questa volta il faccia, ancora più forte di quanto aveva fatto prima, Bonnie non schivò e barcollò all’indietro, con la faccia sanguinante, l’occhio destro era esploso ee, in parte, rientrato dentro al cranio. Guardò di nuovo l’uomo che l’aveva colpito, con l’unica pupilla che gli rimaneva, e pensò ad Houn, pensò che avrebbe voluto ammazzarlo. Chiuse l’occhio che era rimasto sano e si lasciò cadere per terra con un tonfo.
 
Aki_Penn parla a vanvera: Ebbene sì, pensavate che fossi deceduta cercando di compiere quest’impresa, invece sono di nuovo qui!
Come vi avevo già detto, prima di pubblicare mi metto avanti con un altro capitolo, questa volta non sono riuscita a farlo, ma stavo ritardando così tanto che ho voluto pubblicare lo stesso; la cosa significa che la prossima volta avrò un capitolo e mezzo da scrivere, ed è probabile che ci metta davvero molto, speriamo di no. In ogni modo mi scuso per questo andamento lento, ma non sono mai a casa. T.T
Anche in questo capitolo non succede nulla di spettacolare, ma almeno Bonnie si mette nei guai: mi piace farlo soffrire. :P
Spero che il capitolo non sia sembrato noioso, avevo bisogno di introdurre un po’ meglio le Ortiche e la Mosca, spero che la situazione sia abbastanza chiara, temo che a volte cose che io do per scontate non siano spiegate benissimo nei capitoli, quindi mi farebbe piacere se mi diceste cosa ne pensate. :D
Inizialmente Re Rubus e ‘Leandra dovevano essere due personaggi comici, ma data la situazione mi tocca sempre di presentarli in modo abbastanza serio, confido nel fatto di riuscire a mettere un po’ di demenza in futuro.
Ultimo ma non ultimo, temo di aver dato il nome ‘Torre di Fuoco’ sia alla torre che si trova nel Campo di Ortiche che a quella che si trova al Grande Mare, è un errore mio, mi scuso, si tratta di due cose diverse.
Come sempre vi ringrazio tantissimo per aver letto, mi riempite di gioia! 

Ritorna all'indice


Capitolo 21
*** Lacrime di coccodrillo ***


Make a wish -

Capitolo ventuno -

Lacrime di coccodrillo –

 
“Certo che tua moglie è bella anche senza capelli! Ha la mia faccia!” esclamò Clay, Richard fece una smorfia e Jessie rise.
“Credo sia ora che vada, non voglio che Metal Dragon stia con la nonna tutto il giorno” disse il ragazzo. Quando era un adolescente portava magliette di gruppi metal e i capelli lunghi fino alla vita, ma crescendo se li era tagliati e lavorava in banca. Non era una cima, ma non era un cattivo ragazzo.
“È proprio un peccato che lui si sia ammalato proprio nel giorno in cui sono stata dimessa” piagnucolò Jessie, triste.
“Non sarà malato per sempre, dopo telefonagli” la rassicurò Richard prima di darle un bacio.
“Fate pure quello che vi pare, io non guardo” esclamò Bernie, con voce appositamente acuta, coprendosi gli occhi, vergognoso.
“Piantala!” ribatté Richard di rimando, indispettito. Bernie adorava fare arrabbiare Richard, perché non riusciva a stare allo scherzo.
Tinkerbell rise e nessuno si accorse della smorfia che arrivò dopo. I bracciali che aveva attorno ai polsi iniziavano a fargli male, succedeva se non adempivi il tuo dovere, raggiungendo e cercando la bestia che ti era stata assegnata, ma Tinkerbell non aveva alcuna intenzione di perdersi il proprio compleanno per correre dietro a un mostro messicano introvabile.
Bernie era arrivato a sorpresa, i gemelli erano convinti che non sarebbe venuto, ma alla fine era apparso come dal nulla e la mamma lo aveva insultato per una buona mezz’ora, per la questione dei piccioni, prima di stritolarlo in un abbraccio. Bernie era grosso due volte lei, ma la mamma rimaneva sempre un’autorità.
Quando Richard se ne fu andato – non prima di averle dato un altro bacio-, Jessie tornò a dare a loro tutta la propria attenzione “Allora, Clay, come va il lavoro?” domandò.
“Tutto bene, c’è un tizio nuovo, il responsabile l’ha appioppato a me, ma è un idiota”
Jessie rise “Perché?”
“È un ragazzino dagli ormoni mossi, mi da un po’ fastidio come guarda Ruthie” Jessie rise ancora “Sei geloso della tua assistente? È carina? Non hai una foto?” chiese, mentre Bernie beveva la propria cioccolata calda.
“Non sono geloso, solo un po’ preoccupato. Non ho una foto, ma è piuttosto piccoletta, se ti interessa saperlo” fece lui, distaccato, bevendo il suo latte caldo. In realtà aveva una foto di Ruthie, nella memoria del cellulare, ma era intenta a farsi rincorrere da un leone nella savana, le aveva fatto una foto prima di salvarla, lei si era arrabbiata da morire. Una foto del genere avrebbe fatto, quantomeno, sorgere qualche perplessità nella testa di sua sorella. Bernie, invece, l’avrebbe trovato sicuramente divertente.
“Sì, sei geloso” rilevò Bernie divertito, guardandolo sottecchi. Clay gli lanciò un’occhiataccia “Tu pensa alla tua ragazza del mistero, piuttosto”
“Che ragazza?” strillò Jessie.
“SShh!” soffiò Bernie, con un dito davanti alle labbra “Non voglio che la mamma lo sappia, lo sai che è una pettegola tremenda!” sussurrò, cospiratorio.
“E cosa devi tenere nascosto? È una spia russa? Una trafficante di droga?” ipotizzò Jessie, emozionatissima.
“Oh, smettila!”  la zittì Bernie accigliato.
“Lavora con te sulla nave da crociera?” domandò Clay, pacato. Bernie scrollò le spalle “Più o meno”
“È una poco di buono?” chiese Jessie cospiratoria.
“No!” rispose Bernie subito e con parecchio entusiamo, un po’ offeso “Voglio solo che la mamma la smetta di fare domande!”
“La mamma vuole che torni a casa” spiegò sua sorella “E anche tu” aggiunse, indicando il gemello “Siete due nomadi, ha lasciato le vostre camere intatte sperando che voi torniate in Kansas, la mia invece l’ha trasformata in un solarium”
“Non voglio che camera mia diventi una spa” commentò Bernie, imbronciato.
“BERNIE! I tuoi maledetti piccioni!” strillò Abigail Jennings dalla cucina. Bernie si alzò di scatto ribaltando la sedia e corse verso la genitrice “Arrivo, Generale Mamma!” durante il tragitto sbatté contro la credenza ribaltando un paio di fotografie incorniciate. Quando riprese a correre
“Smettila di prendermi in giro!” sentirono gracidare Abigail.
Durante il tragitto fino alla cucina, sbatté contro la credenza ribaltando un paio di fotografie incorniciate. Quando riprese a correre le foto guardavano tutte dalla parte sbagliata, verso lui e Jessie, invece che verso il divano. In una c’erano i gemelli, ancora piccoli e indistinguibili, in due impermeabili gialli, in un'altra erano presente tutti e tre e Jessie faceva finta di tirare il naso a Clay, sul dorso della mano destra aveva un tatuaggio ovale, uguale a Bernie.
Jessie ridacchiò, prendendo un sorso del proprio tea.
“Cosa ne pensi?”
“Di cosa?”
“Della fidanzata di Bernie, credi che ce la presenterà, o anche questa è tutto fumo e niente arrosto?”  domandò. Clay alzò le spalle, si sentiva piuttosto disinteressato all’anima gemella di Bernie. “Non ne ho idea. Sei una pettegola come la mamma”
“Non è vero” ribatté Jessie, fingendosi offesa.
“La mamma vorrebbe che tu e lui vi sposaste” aggiunse, rimescolando il contenuto della propria tazza. Tinkerbell grugnì “A me piace fare il rappresentante di tegole, la mamma dovrebbe mettersi il cuore in pace, credo che i nipotini li avrà solo da te” sentenziò, duramente. Jessie se ne stette zitta.
Tinkerbell pescò uno dei marshmellow che galleggiavano nel suo latte caldo e lo buttò nella tazza di tea di Jessie “Non sono sicuro che ti facciano bene, ma so che ti piacciono”
Jessie gli sorrise.
 
***
 
“Ehi!” esclamò una voce, e lo sguardo di Big Jim cadde su un ragazzetto biondissimo dal sorriso largo, che mangiava una strana treccia rosa pallido.
“Ronnie, Jollah” disse il gigantesco uomo, togliendosi il cappello in segno di saluto. La donnina incartapecorita con i capelli color magenta, che accompagnava Ronnie, lanciò un’occhiata a Alih, che avanzava nel mercato affollato seguendo il colossale cuoco della Rainbow Dancer.
Il mercato sul mare era formato da una continuità di navi messe una affianco all’altra, si poteva passare da una all’altra tramite assi di legno appoggiate sui parapetti, se non si stava attenti non era difficile finire in mare, non era raro che qualcuno finisse in acqua.
Alih era nata e cresciuta al mercato sull’acqua e conosceva quel posto come le sue tasche, conosceva le bancarelle coi mercanti più distratti, le assi più cedevoli e i posti migliori dove nascondersi, ma non erano cose che le servissero, da quando Cloris l’aveva accolta di malavoglia nella propria ciurma.
“Siamo qui a cercare gli oli per la tintura per capelli del capitano e anche una spada per Alih” spiegò Big Jim a Jollah e Ronnie. Lo stupore del ragazzo fu lo stesso che si dipinse sul viso della ragazzina “Una spada per me?” domandò incredula “Pensavo fossimo qui solo per la stupida tinta per capelli!” sentenziò. Jollah la guardò assottigliando gli occhi, ma Big Jim ignorò la vecchia e si voltò verso Alih, che non gli arrivava nemmeno alla spalla.
Era una ragazzina alta per la sua età, magra come un chiodo e con muscoli lunghi. Big Jim l’aveva vista camminare sulle mani e fare lavori di fatica, non era fragile come poteva sembrare a prima vista e sembrava un tipino piuttosto ostinato.
“Cloris ha deciso che se devi mangiare pane a tradimento almeno dovrai guadagnartelo venendo con noi per la prossima incursione contro un genio” spiegò il cuoco “Perciò oggi ti prenderemo una spada e poi anche una chiave, ma per quello dovremo interpellare il Diacono Brodie, ci vorrà del tempo” spiegò.
“Quindi niente stupida tinta per capelli?” domandò di nuovo Alih, perplessa. “Siamo qui anche per quella” ribadì Big Jim.
“Credo che imparare a produrre la tinta per capelli di Cloris ti sarà molto più utile di una spada, contro un genio, ragazzina” disse la voce bassa di Jollah, e Alih si ricordò solo in quel momento dei due della ciurma della Kensington Garden che avevano davanti. Ronnie sembrava un tipo simpatico, la vecchia Jollah era un po’ troppo scorbutica.
“Quanti anni hai, ragazzina?” domandò la vecchia megera. Alih, impettita, la guardò negli occhi, prima di rispondere “Quattordici, sono nata sull’isola di Meii” spiegò. E Jollah fece un grugnito d’assenso, la ragazzina non le badò e continuò “Mia madre è morta di sifilide”
“E così ti sei infilata nella Rainbow Dancer per rubare qualche cosa da mangiare, sì, conosco la storia. Vuoi fare il pirata?” domandò poi, a bruciapelo. Alih sgranò gli occhi e si affrettò a rispondere “Sissignora!” mettendosi sull’attenti.
La ragazzina non capì se quello che ne seguì, da parte della vecchia Jollah, fu una risata o un inizio d’asfissia, ma la donna aggiunse solo “Allora è meglio che qualcuno ti insegni a non farti beccare mentre rubi qualche cosa. Commander non sarà gentile come Cloris se ti troverà a frugare tra le sue cose, hai visto cosa è successo a Coli”
Alih annuì compita, dimentica sia di Big Jim che del ragazzino biondo. Fu Ronnie a ricordarle la loro presenza “E quindi Cloris ti arruola, eh?” chiese divertito.
Non era altissimo e non doveva avere più di vent’anni, i capelli erano di un biondo chiarissimo, e a tracolla portava una cinghia alla quale era attaccata una cassetta piena di terra dalla quale spuntavano tre piantine verdi dalle foglie carnose, Alih non aveva mai visto piante del genere, ma ancora più strana era la treccia rosa pallido che il ragazzo stava mangiando.
“Cos’è quella roba che stai mangiando?” domandò, con aria disgustata. Gli occhi azzurrissimi di Ronnie si aprirono per la sorpresa “E’ una treccia di marshmallow!” spiegò Ronnie, come se fosse ovvio. Alih ne sapeva quanto prima “Che roba è?” domandò ancora. Ronnie fece una smorfia e strappò un pezzo dal fondo della treccia rosa e gliela porse “L’ha portata Diablo dall’Altro Mondo, a me piacciono, ci sono nato, io, all’Altro Mondo” disse con semplicità, e Jollah lo colpì con un ceffone sulla nuca.
“Cosa c’è? Tanto lo sanno tutti!” sbottò Ronnie arrabbiato, Jollah doveva essere una facile agli scappellotti.
“Lei non lo sapeva ancora, evidentemente, e meno gente ne è a conoscenza meglio è. Soprattutto sotto questo nuovo Re” disse rabbiosa, ma a bassa voce, in modo che solo Ronnie, Big Jim e Alih potessero sentirla. Attorno a loro, il mercato sull’acqua continuava a essere vivo e brulicante come sempre. Poco più avanti una donna offriva sgombro impastellato e fritto. Un paio di cani di azzuffavano per un avanzo. Un macellaio diede loro un calcio e i due si dispersero uggiolando.
Alih si cacciò il pezzo di marshmallow che il ragazzo dell’Altro Mondo le aveva dato, masticando continuando a fissare i due che litigavano. Ronnie era piegato in avanti per stare all’altezza della minuscola vecchia color magenta, mentre lei gli faceva la ramanzina. “È dolce” constatò rivolta al colossale Big Jim “sembra di mangiare una nuvola”
Ronnie distolse l’attenzione dalla vecchia Jollah per sorriderle “Vero? La prossima volta che andrò a trovare mia nonna ad Amburgo ne prenderò un po’ per te”
Jollah gli tirò un altro scapaccione “Ma mi ascolti quando parlo?”
“Ho solo detto Amburgo” continuò Ronnie, e la vecchia gli piantò il proprio bastone da viaggio sul piede. “Ahi!” protestò il ragazzino e Jollah si decise a lasciarlo stare e tornare a dare attenzione ad Alih e Big Jim.
“Neanche Cloris è con voi, vedo” constatò la donnina.
“È andata a parlare con Rosette, sulla nave del Re e si è portata dietro il cavallo” spiegò il cuoco “Pare che ci siano dei problemi. Al capitano non piace sua maestà” ammise infine Big Jim.
La vecchia Jollah abbassò lo sguardo e fece strisciare il proprio bastone sul ponte della nave su cui sostavano, pensierosa “Non le dispiacerà più di quanto dispiaccia a me e Diablo. Ci siamo messi in un pessimo affare, Big Jim. Fai in modo che questa ragazzina di discutibile bellezza vi serva a qualche cosa, perché avremo bisogno di tutto il possibile perché quel ciccione che sta sul trono non decida di usare i nostri cadaveri, per sorreggere il cielo”
 
***
 
Bonnie aveva sentito ogni loro discorso, nonostante il dolore lancinante era anche riuscito a concentrarsi abbastanza da riuscire a cogliere frammenti di conversazione.
Erano parecchi quelli che gli stavano intorno. Si era finto morto quando l’uomo che l’aveva beccato alle spalle l’aveva colpito per la seconda volta, sopravvivere e restare in piedi a due colpi del genere sarebbe stato più che mai sospetto.
Bonnie aveva pregato che nessuno gli facesse dell’altro male per essere sicuro di averlo fatto fuori, ma evidentemente a nessuno sorse il dubbio, data la perdita di sangue nessuna persona normale avrebbe potuto sopravvivere, ma Bonnie era rimasto venti minuti buoni buttato sul pavimento freddo e lercio di un locale abbastanza stretto e troppo affollato. Non aveva voluto arrischiarsi ad aprire gli occhi per vedere cosa succedesse, ma questo non gli aveva impedito di sentirli discutere su come fosse assurdo che quel ragazzino di merda fosse saltato così in alto.
Probabilmente Tinkerbell avrebbe avuto qualche cosa da dire a riguardo, gli aveva ripetuto un sacco di volte che certe esibizioni di forza davanti alle persone normali andavano evitate, ma Tinkerbell se ne poteva pure andare all’inferno.
“Guarda se ha dei soldi addosso” disse un uomo all’altro. Qualcun altro grugnì e Bonnie sentì il pavimento vibrare impercettibilmente sotto i tonfi sordi dei passi di qualcuno.
Si impose la completa malleabilità, mentre quel qualcuno lo rovesciava malamente sulla schiena e gli infilava le mani nelle tasche dei jeans e della felpa lucida.
“Questo è bello” sentenziò l’uomo, divertito “Lo tengo io” annunciò. Quello che sembrava essere il suo capo non gli badò e Bonnie evitò di stringere i denti ed alzarsi per legnare il tizio che l’aveva derubato del suo cellulare.
Non voleva che glielo prendessero, ma non poteva resuscitare all’improvviso, a meno che non volesse ucciderli tutti, e Bonnie non voleva. Houn gli si presentò di nuovo dietro alle palpebre e gli venne la nausea per il dolore alla nuca.
“Non mi interessa come salta” cominciò quello che doveva essere il capo “non voglio che questo marmocchio ci porti guai, guardalo, sembra americano” sbottò. Gli altri uomini erano usciti dopo averlo depositato per terra, erano rimasti solo il capo e quello che l’aveva derubato.
Il secondo uomo grugnì e Bonnie si fece rapidamente l’idea che non fosse una cima “Dici che sia un turista?”
“E cos’altro? Quando spariscono i turisti è un casino, voglio che scompaia del tutto, se dovessero trovare solo le ossa non lo potrebbero riconoscere… che cazzo, che cosa ci faceva qui?” sbottò, pestando il piede per terra, rabbioso.
“Cesar, spaccagli i denti e il palato e buttalo nelle fogne. Non voglio che lo riconoscano dalle arcate dentali” ordinò, poi aggiunse “E non voglio che affiori in un momento inopportuno, fai in modo che non se ne vada in giro fino al depuratore, cazzo. E state più attenti”
Alla fine anche i denti andarono in pezzi e Bonnie si ritrovò buttato nelle fogne con tre mattoni appesi al piede destro e le mani legate, come se i cadaveri potessero scappare.
Rimase qualche secondo ancora ad occhi chiusi, dopo che i mattoni si furono posizionati sul fondo del canale sotterraneo, poi li aprì.  
I polmoni gli bruciavano come l’inferno, riusciva a respirare sott’acqua, ma era estremamente doloroso. Lo stesso valeva per la vista: l’acqua era torbida e gli occhi gli pizzicavano, ma non ci volle molto perché si rendesse conto che quelle che aveva intorno non erano bizzarre alghe di fogna, ma uomini che avevano avuto la sua stessa sorte. Strattonò i polsi che gli erano stati legati dietro la schiena e si scoprì capace di riuscire a spezzare una catena come se fosse burro. Si passò la mano sui denti e si infilò la mano in bocca per risistemare i danni al palato. Poi si toccò il collo per far rimarginare la ferita e per riconsolidare le vertebre che il messicano gli aveva rotto. Era difficile tenere il collo dritto senza avere la spina dorsale nella giusta posizione.
I piedi erano ancora legati con la corda che l’aveva portato a fondo insieme ai mattoni, ma Bonnie si prese qualche secondo per guardarsi intorno, per quello che poteva. Fece una smorfia e aprì la bocca disgustato dalla vista dei cadaveri in decomposizione, altra acqua gli andò in bocca e lui tossì, tenendosi la gola con la mano.
Il contatto con l’acqua aveva peggiorato la condizione dei cadaveri, molti non avevano nemmeno più un briciolo d’umanità nei volti bluastri pieni di carne putrescente. Bonnie si mise una mano sulla bocca per paura di vomitare, mentre li guardava ancora una volta. Fu in qual momento che si accorse che i vestiti sembrano stracciati, a qualcuno mancavano le braccia, un cadavere poco più in là era privo di testa. Era chiaro che i trafficanti nelle cui mani era anche lui caduto si liberassero dei cadaveri buttandoli nella fogna, era ovvio che una fogna puzzasse, nessuno avrebbe fatto domande, ma Bonnie non vedeva il senso di mutilarli e squarciarli in quel modo. Strizzò gli occhi che gli bruciavano e se li strofinò con i pugni chiusi di entrambe le mani, guardando meglio, nonostante il bruciore ai polmoni e alle iridi, notò che c’erano degli strani segni sui corpi delle altre vittime. Alcune erano parzialmente nude e a Charlie parve di vedere segni di denti.
C’erano degli animali in quelle fogne? Forse dei pesci tropicali? Alzò la testa, dall’alto sembrava venire più luce, ma a un tratto la luminosità si affievolì di nuovo e Bonnie capì che qualche cosa gli stava passando sopra.
Non poté far altro che aprire la bocca per lo stupore, facendo uscire l’aria, e sgranare gli occhi, quando vide di cosa si trattava. Le bolle d’aria stuzzicarono la pancia squamosa del coccodrillo bianco che nuotava a pelo d’acqua.
Bonnie lo guardò senza parole, era proprio un coccodrillo,  non enorme, ma completamente bianco. Il corpo allungato e il ventre liscio, l’ombra della testa era pressoché rettangolare, Bonnie aveva visto un coccodrillo allo zoo, una volta, ma era tutt’altra cosa rispetto a vederselo nuotare sopra la testa. Fu percorso da un brivido sulla schiena: quello era la bestia, era un’improvvisa consapevolezza che non lasciava adito a dubbi. Quello era ciò che stavano cercando.
Furono le bolle a svelare la sua presenza, ci volle un attimo perché la testa allungata del rettile si abbassasse verso di lui.
Bonnie provò a respirare aprendo la bocca, ma ricevette solo altra  acqua che andò a bruciargli i polmoni, in un attimo il coccodrillo bianco gli era addosso e Bonnie aveva ancora i piedi legati ai mattoni sul fondo del canale. Il ragazzino esalò un urlo muto quando la bocca del rettile si serrò attorno alla sua mano destra.
Sentì distintamente i denti dell’animale affondare nella carne del polso, strisciare contro il suo braccialetto argentato e tranciargli la mano di netto. Il rettile scosse la testa come per uccidere la preda e lasciò andare la mano, mentre l’acqua si riempiva di sangue e il rettile si dirigeva ancora più in basso. Bonnie si piegò in avanti digrignando i denti, ricurvo su se stesso, afferrandosi il moncherino con la mano sana, mentre le lacrime si confondevano con l’acqua putrida della fogna. Strizzò gli occhi, dolorante, incapace di fare qualsiasi cosa. Quando ebbe la forza di aprirne solo uno, vide la propria mano tranciata fluttuare nell’acqua. L’animale non si era nemmeno preso il disturbo di inghiottirla, gliel’aveva solo staccata. Bonnie fu preso da un moto d’ira, che venne subito trasformata in paura e sorpresa quando vide la propria mano in preda a spasmi aprire e chiudere le dita. Si passò la mano sulla ferita e questa si rimarginò in un attimo, mentre il ragazzino fissava le falangi della propria mano staccata tendersi in maniera innaturale. Avrebbe dovuto liberarsi i piedi e scappare, i polmoni e gli occhi gli facevano male da morire, ma Bonnie non poté fare altro che aprire di nuovo la bocca, allibito e rimanere a fissare lo spettacolo: la propria mano non somigliava nemmeno più a ciò che era stata quando era ancora attaccata al suo corpo. Il ragazzino si strinse le mani tra di loro, quasi per essere sicuro che quelle sarebbero rimaste al proprio posto, mentre l’altra si ingrandiva, si gonfiava, ed era scossa da tremiti. Le dita erano ormai sparite, al loro posto c’era un pezzo di carne pulsante, come un cuore, rosso e congestionato. Bonnie fece una smorfia schifata, sembrava un fascio di muscoli senza pelle, e faceva schifo.
Urlò quando alla massa di carne informe spuntarono i denti. La trasformazione durò meno di un secondo e il nuovo coccodrillo gli fu addosso. Con un morso gli tolse il respiro, quella volta il rettile non mirò agli arti, ma lo azzannò al busto. Bonnie sentì la poca aria che gli rimaneva nei polmoni uscire, mentre la sua schiena si spaccava con un sinistro scricchiolio di ossa. Urlò ancora, ma non emise alcun suono, mentre l’unica cosa che gli permetteva di rimanere integro erano i denti del coccodrillo che l’aveva azzannato. La presa era poderosa e le zanne affondate nel suo stomaco, era piegato in avanti, mentre la sua spina dorsale era inclinata in maniera innaturale. I denti del rettile sfregavano contro le costole e le scheggiavano, l’acqua si riempì ancora di sangue, mentre Bonnie, intrappolato nella presa ferrea dell’animale cercava di afferrare la corda alla quale erano legati i mattoni. Allungò la mano il più possibile, ma non riusciva a piegarsi più di tanto, mentre il coccodrillo lo strattonava col preciso intento di spaccare il corpo del ragazzino a metà. Bonnie digrignò i denti e si allungò ancora verso la corda, ma qualche cosa si portò via il suo braccio. Il ragazzino urlò di nuovo e si accasciò senza  forza sulla bocca del coccodrillo che lo stava stritolando. Il braccio non c’era più, dalla spalla in giù, deliberatamente strappato, non riusciva a vedere più niente, c’era più sangue che acqua, e l’unica cosa che era in grado di vedere era il rosso del proprio sangue.
Il braccio era stato lasciato andare lungo il canale fognario, Bonnie non fece in tempo a immaginarselo mentre si trasformava in un altro coccodrillo bianco che la bocca enorme di quello che gli aveva straccato il braccio si fece largo nell’acqua rossastra. Gli ci volle una frazione di secondo per rendersi conto che quelle mandibole miravano a staccargli la testa.
Fece forza col braccio superstite sul cranio del coccodrillo che lo stava trattenendo e alzò la gamba in alto finché tutti e tre i mattoni non volteggiarono nell’acqua, seguito con una capriola dolorosa e sgraziata da Bonnie e dal coccodrillo che l’aveva addentato. I mattoni sfondarono il cranio al rettile che stava cercando di azzannargli la testa, e l’altro, confuso dal moto rotatorio, lo lasciò andare, portandosi però dietro un gran pezzo di carne. Metà dell’intestino rimaneva saldo nel ventre maciullato di Bonnie, l’altra metà tra le fauci della bestia.
Il ragazzino venne trascinato giù insieme al coccodrillo che ancora lo stava masticando, strattonandolo per le viscere. I polmoni facevano più male che mai, e il braccio mozzato pulsava. Ebbe solo il tempo di appoggiare la mano superstite sulla spalla distrutta, prima che il coccodrillo aprisse la bocca lasciando andare il lembo di budella di Bonnie, con tutta l’intenzione di staccargli la testa. I capelli gli andavano davanti agli occhi e non aveva ancora fatto in tempo a toccarsi la schiena, che rimaneva rotta a metà. Dato che la mandibola della bestia non lo teneva più saldamente insieme, faceva fatica a gestire la parte inferiore del corpo, ciononostante fermò il morso con le mani, una sopra e una sotto. I denti aguzzi gli trapassarono il palmo e Bonnie ringhiò, ma quello non era niente confronto al dolore che provava al ventre, era tutta carne viva, sanguinolenta e macellata. Se fosse stato ancora il se stesso di un paio di settimane prima sarebbe stato morto da un pezzo. Piantò un pugno sulla lingua della bestia e alzò ancora la mano trapassata dai denti dell’animale. I denti affondarono ancora più profondamente e Bonnie credette davvero che il mostro gli avrebbe portato via la mano per la seconda volta.
Il rettile si rese conto di ciò che il ragazzino stava cercando di fare con la sua bocca e tentò di nuovo di serrare le mascelle cercando di chiuderlo dentro, ma Bonnie aveva già sforzato la mandibola dell’animale abbastanza perché questa si aprisse in maniera innaturale fino a sfaldare anche il cranio. Quando vide la testa del rettile rompersi a metà, Bonnie mollò la presa, lasciando che l’animale morto fluttuasse nel proprio sangue. Tra il suo e quello del coccodrillo non si vedeva più niente. Si passò una mano sulla spina dorsale, aggiustandosela e poi sul ventre, ritornando in possesso di tutte le proprie interiora.
Sapeva che c’erano degli altri coccodrilli oltre la cortina di sangue, era decisamente meglio spostarsi, non voleva che gli staccassero la testa, e nemmeno una mano o un piede.
Nuotò verso l’alto e riuscì ad afferrare il bordo di cemento del canale sotterraneo. Quando finalmente riemerse, sputacchiò acqua e tossì a più non posso. L’aria era fetida e l’odore tremendo, ma finalmente i polmoni erano di nuovo pieni d’aria e non d’acqua, non gli sembrava vero. Rimase qualche secondo attaccato al bordo a respirare profondamente, poi si issò sulle braccia, facendosi forza fino a sollevare anche la vita dall’acqua, ma qualche cosa lo afferrò per il piede e lo trascinò di nuovo giù. Bonnie sbatté il mento sul bordo in cemento e un paio di denti gli si ruppero, ma rimase attaccato con le dita alla banchina, nonostante con la testa fosse finito di nuovo nel canale. Digrignò i denti, con la bocca piena di sangue e ridusse gli occhi a due fessure, mentre si teneva saldo con le dita al bordo e guardava giù sul fondo del canale sotterraneo. Un coccodrillo più piccolo gli stava mordendo il piede, tutta la scarpa era finita dentro la bocca del rettile  Bonnie poteva sentire i denti aguzzi del rettile strisciare contro l’osso della sua caviglia. Non aspettò che l’animale gli staccasse l’arto, ma tirò un poderoso calcio al muro di cemento che delimitava lo scorrere del canale. La testa del coccodrillo, ancora salda al piede del ragazzo, si frantumò contro la parete e Bonnie si fece forza per risalire in superficie, con l’osso del piede dolorosamente scoperto.
Si rannicchiò col fiatone alla parete della fogna. Tinkerbell gli aveva spiegato che era tutta suggestione, tutta questione di cervello, in realtà il suo corpo non era stanco, ma Bonnie si sentiva sfinito e gli sembrava di far fatica a respirare, era stato sott’acqua un tempo che gli era sembrato infinito e quelle ‘cose’ gli avevano staccato tutti i pezzi che potevano.
Stava seduto sul cemento con le ginocchia strette al petto, tenendo ben lontana dall’acqua qualsiasi parte del proprio corpo.
Era stato tanto curioso di sapere com’era fatta una bestia, ma adesso che lo sapeva avrebbe preferito non averne idea. Era stato strano e familiare allo stesso tempo, l’istante in cui si era reso conto che quel coccodrillo era la bestia, ma in realtà tutti i coccodrilli erano la bestia. Non c’era un motivo particolare per cui era arrivato a quella conclusione, lo sapeva e basta.
La fogna in cui era stato buttato era il realtà un canale sotterraneo di acqua putrida, di certo i cadaveri che i trafficanti ci avevano buttato dentro non aiutavano a migliorare la situazione. Bonnie si domandò che cosa potevano aver fatto le altre persone che erano state buttate lì sotto, come lui, ma che erano state più sfortunate.
Il fiatone stava diminuendo, il ragazzino trattenne il respiro, il proprio battito cardiaco rallentò così tanto da non emettere più alcun suono e le pupille si dilatarono, mentre a Bonnie sembrava di aver sentito un suono di qualcun altro che respirava.
Alzò lentamente la testa, preoccupato. Bonnie e il coccodrillo si guardarono per una frazione di secondo, il ragazzino con la schiena appoggiata alla parete di cemento e le braccia strette al petto, il rettile  sul soffitto basso del canale, come se si fosse trattato di un ragno, camminava a testa in giù. Bonnie vide l’essere cambiare la membrana del proprio occhi e una grossa lacrima cadde sul suo viso. Fu allora che Bonnie urlò di nuovo, questa volta non c’era l’acqua putrida della fogna ad attutirne il suono. La lacrima era acida e gli aveva scavato un solco profondo dalla fronte, dove era caduta, fino a metà della guancia, corrodendogli l’occhio destro.
Bonnie si portò subito la mano al viso e il dolore scomparve, ma il coccodrillo era ancora lì, da seduto per terra non poteva fare granché per allontanarsi, così rotolò sulla schiena per qualche metro sulla banchina di cemento. Il coccodrillo cadde dietro di lui, come se d’un tratto non fosse più riuscito a camminare sul soffitto e Bonnie si mise a correre, sconnesso. Non aveva la più pallida idea di come uscire da quel posto.
Lanciò uno sguardo disperato all’acqua grigia e vide solo sagome bianche che lo seguivano a pelo d’acqua, quello che gli aveva corroso la faccia era rimasto indietro. Erano coccodrilli e si muovevano come tali, quella era una buona cosa da tenere a mente!   
Corse sulla banchina, in cerca di un buco dal quale uscire, il coccodrillo che gli aveva pianto addosso lo seguiva a distanza, ma dall’acqua ne uscivano altri e quel condotto sembrava infinito. Da lontano intravide dei ferri sporgere dalla parete di cemento, Bonnie capì che si trattava di una scala, doveva esserci una botola proprio lì. Arrivò di corsa, rischiando di scivolare quando la sua presa su un piolo di ferro arrugginito fermò la sua andatura. In un secondo aveva entrambi i piedi sulla scala, la botola era a un palmo dalla sua testa, mentre un coccodrillo fuoriusciva dall’acqua proprio sotto di lui.
Allungò il braccio e ribaltò il portellone della botola, che cadde sul cemento con un gran fracasso di ferraglia e in un attimo saltò fuori, di nuovo nella periferia di Città del Messico, di nuovo all’aria aperta.
Richiuse la botola proprio mentre uno dei coccodrilli più vicini stava per mettere il muso fuori e ci appoggiò sopra la gamba tesa. Il tombino tremò sotto i colpi della bestia, ma Bonnie strinse i denti e il coperchio non si mosse dalla sua posizione.
La situazione si quietò, ma Bonnie rimase a fissare la  botola, senza osare spostare il piede per paura che qualche cosa uscisse di nuovo dalla fogna.
“Bonnie!” urlò qualcuno da lontano. Il ragazzino, ancora seduto sull’asfalto, con una gamba sul tombino, si voltò verso Ruthie che gli correva incontro.
“Ruthie” disse semplicemente lui, mentre lei cadeva in ginocchio e lo abbracciava da dietro. Durò un secondo, perché lei si sciolse subito dall’abbraccio e si rimise in piedi, riavviandosi i capelli dietro all’orecchio.
“Cosa è successo? Non devi mai separarti dalla tua spada!” esclamò e gliela scaraventò addosso. La spada sbatacchiò sull’asfalto e andò a fermarsi su un ginocchio del ragazzino “Che cosa è successo?” chiese ancora, senza dare a lui il tempo di dire alcunché.
“C’è la bestia, là sotto” disse Bonnie, col fiatone “È un coccodrillo bianco”
“Il coccodrillo bianco delle fogne di New York!” esclamò Ruthie, piegandosi di nuovo accanto a lui. Bonnie si accigliò “Ma siamo in Messico”
Ruthie scrollò le spalle “Chi se ne frega”

Ritorna all'indice


Capitolo 22
*** L'albero magenta ***


Make a wish -

Capitolo ventidue -

L’albero magenta –

 

Tinkerbell respirava piano, con un braccio sotto la testa di Jessie e la tempia appoggiata al cuscino. Non riusciva a dormire, il dolore ai polsi era diventato intollerabile, ma non voleva lasciare Jessie, perfino Bernie si era fatto vedere, a sorpresa, Clay era convinto che si sarebbe limitato a mandare un piccione viaggiatore scagazzante e invece era apparso come dal nulla.

Guardò Jessie, sembrava così tranquilla mentre dormiva, i capelli stavano iniziando a ricrescerle, anche se si mostravano solo come una leggera peluria chiara, forse tra qualche tempo avrebbe potuto smettere di disegnarsi le sopracciglia con il trucco. Si voltò a guardare il comodino dove aveva lasciato il cellulare e pensò che avrebbe fatto bene a chiamare Ruthie. Sfilò piano il braccio da sotto il corpo della propria gemella e si mise a sedere, massaggiandosi i polsi, i bracciali dolevano così tanto che Tinkerbell aveva l’impressione di poter perdere entrambe le mani da un momento all’altro, ma sapeva che non sarebbe successo. Afferrò il cellulare e uscì dalla stanza, Ruthie rispose mentre Clay si chiudeva la porta della propria stanza alle spalle.

“Tinkerbell” disse e Clay sorrise nel sentirla “Scusa per l’ora” fece, avviandosi verso la scala che portava al piano di sotto.

“Non preoccuparti, qui fa un gran caldo, non riuscivo a dormire e mi sono appena rifatta la doccia” spiegò riavviando una ciocca fradicia dietro l’orecchio e stringendosi di più l’asciugamano sul petto, mentre si sedeva sul letto. Bonnie si aggirava senza pace per la camera, facendo la spola tra il bagno, dove ogni tanto infilava la testa sotto il rubinetto, e la terrazza, dove fumava come una ciminiera. Era arrabbiato per via del cellulare che gli avevano rubato, diceva, ma Ruthie era sicura che il suo primo incontro con una bestia non fosse stato dei più divertenti.

“Come sta andando lì? Avete trovato qualche indizio?” domandò Tinkerbell parlando a bassa voce, mentre passava davanti alla camera dove dormivano sua madre e Glen. Sentì Ruthie sospirare dall’altra parte “Sì, Bonnie ha trovato la bestia. È un coccodrillo” disse, concisa. Tinkerbell si accigliò “E l’ha riconosciuto?” domandò concitato. Se l’avesse riconosciuto come genio sarebbe stato un problema, le bestie messe in allarme iniziavano a uccidere con ancora più foga, senza preoccuparsi di poter dare nell’occhio “Aveva con sé la spada, la giacca? Ha visto i bracciali?”

Ruthie si morsicò le labbra “La spada e la giacca le avevo io” fece una pausa “per i bracciali non lo so…io…aveva la felpa, se ben ricordo, quando è ricomparso” disse, incerta. Clay si morsicò il labbro a sua volta, pensieroso “Va bene, l’importante è che non l’abbia riconosciuto” concluse.

“È tutto a posto con lui, però? “ domandò poi, continuando a diffidare del ragazzino, gli dava fastidio aver dovuto lasciare Ruthie in compagnia di un tipo del genere.

Ruthie alzò le spalle “Sì, è tutto a posto” rispose lei, omettendo la vicenda dello schiaffo. “Va bene, se ti fa arrabbiare chiamami, che vengo lì e ci penso io” disse serio e Ruthie ridacchio dall’altra parte “Riesco a tenere d’occhio un sedicenne, anche se è un genio” lo informò, tronfia. Clay aggrottò le sopracciglia e sospirò, ma non ribatté.

“Ci vediamo tra qualche giorno, allora. Voi continuate a indagare su questa bestia ma non avvicinatevi troppo, non voglio che si accorga di Bonnie” ordinò.

“Va bene, papà” rispose lei prendendolo in giro “Buona notte”

Proprio mentre chiudeva la conversazione con Tinkerbell, Bonnie riemerse dal bagno, gocciolante, con i piedi nudi e indosso solo un asciugamano bianco in dotazione all’hotel.

Ruthie si era già fatta la doccia e indossava il pigiama più corto che possedesse, ma questo non l’aiutava ad avere meno caldo. Si guardarono, Bonnie era imbronciato come suo solito, per di più il suo umore era peggiorato dallo scontro ravvicinato con la bestia e dalla perdita del cellulare.

“Tinkerbell è preoccupato che la bestia ti abbia riconosciuto, la giacca e la katana le avevo io, e tu avevi la felpa, vero? Non ti ha visto i bracciali, vero?” cercò di incalzarlo lei, appoggiando il cellulare sul comodino.

Il ragazzino la fissò per qualche secondo prima di rispondere, cominciando con un sospiro “Mi hanno staccato un braccio e una mano” ammise. Non voleva dire niente, ma allo stesso tempo poteva significare tutto. L’espressione di Ruthie si indurì “Domani dobbiamo andare a vedere, se quella bestia ti ha riconosciuto siamo nei guai”

 

***

 

In Kansas, Tinkerbell interruppe la chiamata e si infilò il telefono nei pantaloni del pigiama, la cucina era silenziosa, dalle vetrate del soggiorno arrivava la luce dei lampioni, che non lasciavano mai il piano terra al buio completo.

I polsi gli facevano male, e a pensare a Ruthie e al Messico non sarebbe riuscito a dormire in quella villetta di legno bianco. Era sempre casa sua, ma era un po’ come se da quando era diventato un genio non si sentisse in diritto di stare lì.

Diede un’occhiata fuori, il giardino sul retro era bianco, e la neve donava alla notte una lucentezza che mancava per tutto il resto dell’anno. Era vestito leggero, ma decise comunque di uscire sulla veranda. Inaspettatamente non era solo: Bernie si voltò verso di lui e gli sorrise.

Suo fratello aveva i capelli rossi raccolti nei solito codino sulla nuca e indossava il proprio piumino, più quello leopardato della mamma, messo come se fosse stato un mantello, perché era troppo piccolo e non sarebbe mai riuscito a infilarlo. I piedi erano nudi, un controsenso tipico di Bernie. Glen aveva spazzato, per cui la veranda era pulita, ma i listelli di legno chiaro rimanevano umidi.

“Fatica a dormire?” chiese Bernie, prendendo una boccata dalla propria sigaretta. Tinkerbell scosse le spalle, faceva freddo “Ho chiamato Ruthie, sono un po’ preoccupato per averla lasciata sola con quello nuovo” spiegò Tinkerbell, guardando il giardino imbiancato.

“Come hai detto che si chiama, quello nuovo?” chiese Bernie, distrattamente.

“Bonnie” rispose suo fratello e Bernie ridacchiò “Che nome ridicolo per un uomo” commentò, fu il turno di Clay di sorridere “Non è l’unico ad avere un nome stupido” fece, alludendo al proprio nome da genio, ma Bernie ridacchiò e disse “Hai ragione, io ho un nome da topo. Mi piaceva quel cartone, da piccolo”

“Ti assicuro che nessuno ti ha mai scambiato per un topo, Bernie” commentò Tinkerbell divertito, appoggiandosi alla ringhiera di legno bianco, andando a mettersi accanto al fratello. Bernie era decisamente più alto di lui, lo superva di tutta la testa.

Rimasero in silenzio mentre Bernie prendeva un’altra boccata di fumo. “E tu perché non dormi?”

Bernie alzò le spalle “Sono abituato a dormire in nave, questa casa non dondola” rispose lui tranquillo e Clay sorrise, guardando da un’altra parte. Non si sentiva un rumore, tutta la cittadina stava dormendo, attorno a loro c’era solo neve.

“Secondo me dovresti fidarti di Ruthie” esordì poi il ragazzo alto, totalmente senza un filo logico. Tinkerbell aggrottò le sopracciglia “Mi fido di Ruthie, è Bonnie che non mi convince. È stupido e poi è troppo piccolo”

“Quanti anni ha?” domandò Bernie.

“Sedici” Il fratello maggiore lo guardò e Clay restituì lo sguardo, serio. Bernie fece una smorfia “Non è così piccolo”

“Lo è” ribatté lui, deciso. Bernie si morsicò il labbro e sbuffò fumo “C’è qualche cosa che mi nascondi, Clay?” domandò Bernie a bruciapelo.

“No” rispose Tinkerbell in fretta. Bernie fece una smorfia e si morsicò l’interno delle guance, come uno che non ci crede, ma sapeva che dalle labbra di suo fratello non sarebbe uscito nient’altro. Sospirò e cambiò argomento “Senti, per Jessie…” cominciò, ma Tinkerbell lo interruppe “Non voglio parlare di Jessie” disse duramente, senza guardarlo.

“C’è un sacco di gente che si ammala e poi guarisce” aggiunse, con la mascella contratta, tornando a guardare Bernie.

“O muore” replicò suo fratello, serio. Tinkerbell gli scoccò un’occhiataccia “Jessie non morirà” ribatté freddo, mentre la sigaretta nelle mani del fratello si consumava. Anche Bernie aveva la mascella contratta.

Tinkerbell scosse la testa “Torno a letto” annunciò stancamente, e si voltò verso la porta per rientrare.

“Dovrai pure fidarti di qualcuno, ogni tanto” gli urlò dietro il fratello quando la porta di chiuse alle spalle di Clay.

 

***

 

L’astronave di pixel distrusse due alieni di pixel sparando proiettili di pixel ed emettendo rumori da guerra spaziale, mentre le dita di Bonnie si muovevano veloci sul cellulare di Ruthie, con un continuò bip-bip. Ruthie alzò un sopracciglio, infastidita.

“Hai intenzione di mollare il mio cellulare? Serve per telefonare, non per sterminare popolazioni aliene”

Bonnie grugnì e arricciò il naso, senza degnarsi di alzare gli occhi dallo schermo del cellulare “Quei tizi si sono presi il mio cellulare e ho lasciato il gameboy a Sydney” bofonchiò. Ruthie non ebbe il tempo di ribattere perché il cameriere portò loro la colazione e il quotidiano. “Grazie” fece lei afferrando il piattino con i suoi panini dolci e il giornale, mentre il cameriere appoggiava distrattamente le uova di Bonnie sul tavolo, dato che lui non pareva interessato a dare una mano. Quella mattina si era premurato di richiederle senza peperoncino.

Bonnie afferrò la forchetta alla cieca e infilzò un pezzo di uovo per poi infilarselo in bocca distrattamente, senza togliere gli occhi dallo schermo.

Ruthie afferrò uno dei suoi panini dolci e gli diede un morso, mettendosi a guadare la prima pagina del quotidiano.

Bip-bip, altri cinque alieni erano morti con la raffica di proiettili che Bonnie aveva sparato loro addosso, fece un sorrisetto compiaciuto.

“Bonnie!” esclamò a quel punto Ruthie, il ragazzino sussultò, mentre il giornale veniva sbattuto sul tavolo, con un gran rumore di carta spiegazzata. Charlie alzò le sguardo giusto un attimo per vedere gli occhi vispi della ragazza che lo fissavano accesi di una strana vita, ma un altro rumorino elettronico lo riportò al cellulare “Diamine, sono morto” lamentò e Ruthie grugnì, riprendendosi con uno scatto il proprio telefono.

“Pensa alle cose serie, una volta per tutte!” sbottò lei, piuttosto arrabbiata. Bonnie si accigliò, ma non provò a riprendersi il cellulare.

“Che c’è?” chiese scocciato.

“Questo!” fu la risposta concisa della ragazza, che gli piantò in faccia il giornale che stava leggendo. Bonnie lo prese tra le mani e lo guardò.

“Trovati dieci cadaveri presso l’impianto di depurazione. A tutti i cadaveri sono stati asportati gli arti” lesse con una smorfia di disgusto, prima di alzare lo sguardo di nuovo su Ruthie. Lei non aveva ancora distolto lo sguardo da quella testa bionda.

“Questo non può essere nient’altro se non la nostra bestia. Si è accorta di te” annunciò. Bonnie annuì mesto, non aveva alcuna voglia di incontrare di nuovo i coccodrilli, non gli avevano dato un gran bel benvenuto l’ultima volta.

“Per di più si trovano all’impianto di depurazione, niente è più probabile che muovendosi per le fogne si siano trovati lì, è il luogo più verosimile. Di certo non c’è una grande affluenza di umani, nelle fogne. Fino ad ora non c’eravamo accorti di nulla perché quei trafficanti buttavano nella fogna i propri oppositori, così la bestia si preoccupava solo di loro senza fare alcun male altrove. Con ogni probabilità si trattava di corrieri stranieri e persone senza identità, se no se ne saprebbe qualche cosa” ricapitolò, seria. Bonnie non avrebbe potuto fare un’analisi più accurata e quindi, semplicemente, annuì.

“Quindi?” domandò poi, un po’ incerto.

“Quindi dobbiamo trovare un padrone per Tinkerbell” concluse Ruthie, decisa.

 

***

 

Ronnie diede un altro colpo di remi, mentre la vecchia Jollah se ne stava a guardare l’orizzonte tenendo saldamente tra le mani il proprio lungo e nodoso bastone. La scialuppa era piccola, ma la Kensington Gardens non era lontana dal mercato sull’acqua, anche se con un rematore solo ci si metteva un po’.

“Oh issa!” esclamò Ronnie, stanco, come per farsi forza, o forse solo per attirare l’attenzione della vecchia Jollah, che lo ignorò bellamente. La donna sembrava intenta a fissare un punto indefinito dell’orizzonte con sguardo truce. C’era da dire che la maggior parte degli sguardi della vecchia Jollah erano truci, ma nessuno ci faceva caso.

“Abbiamo visite” sentenziò a un certo punto, a bassa voce. “Mh?” grugnì Ronnie smettendo di remare e allungando il collo per vedere qualche cosa. Tutto ciò che si presentò davanti ai suoi occhi fu un’enorme distesa d’acqua che scintillava al sole, oramai basso.

Poi le visite arrivarono: ci fu uno sbuffò d’acqua, e la scialuppa ondeggiò “C’è Diablo?” chiese una voce, prima che Ronnie riuscisse ad accorgersi di alcunché.

La vecchia Jollah era rimasta impassibile e immobile nonostante l’ondeggiare della piccola imbarcazione.

Ronnie si rimise dritto, prima di guardare Bianca che stava aggrappata al bordo della scialuppa e li osservava con gli occhi lucidi.

Jollah scosse la testa, riservandole uno sguardo torvo “Non c’è”

“Nemmeno sulla Kensington Garden?” domandò Bianca con voce flebile, scendendo un po’ in acqua, come a nascondersi, ma rimanendo aggrappata alla barchetta.

“Non c’è nemmeno lì, non è più in questo mondo” bofonchiò la vecchia Jollah.

Bianca batté le lunghe ciglia “È andato a combattere contro le Ortiche? Ma tornerà, vero?” domandò, vergognosa.

“Non dire cavolate, noi le Ortiche non le abbiamo mai viste” sbottò la vecchia, brusca.

Bianca aprì la bocca e le sue labbra tremarono facendo uscire un sussurrò “Mi scusi” piagnucolò, prima di risprofondare in acqua con uno spruzzo che beccò in faccia Ronnie.

La vecchia sbuffò e si toccò una delle sue ciocche di capelli magenta. La tirò finché non si allungò abbastanza  da toccare la superficie dell’acqua. La radice dei capelli della donna stava diventando bianca, mentre la sua mano grinza raggiungeva l’acqua.

Quando i capelli della vecchia si bagnarono, Ronnie poté vederli ramificarsi sotto la superficie del mare come un albero magenta a testa in giù.

Ci vollero pochi secondi perché un altro albero spoglio ricrescesse dai fluttui; tra i rami magenta stava Bianca, intrappolata come in una rete. Si muoveva a scatti come se fosse stata un pesce. Un paio di cefali rimasti impigliati tra le braccia dell’albero di Jollah guizzarono via, Bianca non poté fare lo stesso per via della sua mole.

“Non dovresti essere così paurosa con gli esseri umani, con quei denti potresti staccare un braccio a un uomo adulto. Vuoi provare a staccare quello di Ronnie? Dopo glielo faccio ricrescere” propose la vecchia, seria. Bianca scosse la testa spaventata, non aveva alcuna intenzione di staccare il braccio a quel biondino e Ronnie sembrava dello stesso avviso. “Per la miseria, no, fa male!” sentenziò, ma la donna lo ignorò.

“Sai far ricrescere le braccia?” chiese Bianca, timida.

“Come se fosse un genio!” esclamò gioioso Ronnie, recuperato tutto il suo entusiasmo, saltando sul suo sedile di legno. Jollah alzò gli occhi al cielo, quel ragazzino era il più rumoroso che le fosse mai capitato.

“Non ho mai visto un genio” ammise Bianca con voce flebile. Aveva smesso di muoversi in modo febbrile tra i rami magenta dell’albero.

“I geni sono una figata!” esclamò ancora Ronnie, così forte che si meritò un colpo di bastone da parte della vecchia.

“Ahi” commentò, dopo essere stato colpito, massaggiandosi la testa.

“Credo che Diablo ti voglia nella nostra ciurma, lo sai, vero?” chiese. Bianca annuì, imbarazzata. Jollah fece una smorfia “Allora dovresti almeno imparare a camminare e a distinguere un genio da un’Ortica”

Bianca annuì di nuovo “La conosci la differenza?” domandò poi più esplicitamente la vecchia e questa volta Bianca scosse la testa. Jollah scosse la testa a sua volta, ma fu di nuovo Ronnie a parlare “I geni sono una figata” ripeté “possono fare tutto! Io ne ho conosciuto uno” esclamò con così tanto entusiasmo che la sirena si appiattì contro la sua gabbia di rami magenta, intimorita. Jollah gli tirò un altro scapaccione “Se non sarà sua Maestà a staccarti la testa per questa tua uscita, sarò io a farlo, ma prima ti cucirò la bocca!” sbottò la vecchia guaritrice e Ronnie s’imbronciò, mettendosi da parte.

“Credo che sarebbe meglio cominciare dal principio: che esistono tre mondi, Diablo te l’ha detto, vero?”

La sirena annuì “Almeno” commentò prima di continuare “Oltre a noi c’è l’Altro Mondo e il Campo d’Ortiche, il più esteso è l’Altro Mondo che è in continua espansione” fece una pausa per assicurarsi che la sirena stesse seguendo il filo del discorso e lei annuì, perciò la vecchia continuò, mentre Ronnie sbuffava annoiato o offeso per lo scapaccione.

“L’Altro Mondo sta schiacciando il Grande Mare e il Campo d’Ortiche, da secoli, ci siamo ristretti incredibilmente. Noi siamo sempre stati i più piccoli, ma adesso ci siamo così ristretti che anche il cielo sta iniziando a incrinarsi” e così dicendo indicò una crepa nera nel cielo. Bianca annuì un po’ spaventata. Era chiaro che certe notizie non arrivassero fin sui fondali dei mari e Diablo non si era impegnato a spiegarle alcunché.

“Le Ortiche posseggono una grande magia e sono in grado di erigere torri come quelle che reggono ora il nostro cielo. A noi ne bastano tre, loro ne necessitano molte di più. La pecca di queste colonne che reggono il cielo è che si devono nutrire di sangue umano per sopravvivere, sono come piante che vanno innaffiate, ma si cibano di tutt’altro” spiegò, sistemandosi sul suo sedile di legno. Era così magra sotto la tunica che le ossa del bacino facevano male a lungo contatto su una superficie dura. Bianca arricciò il naso, visibilmente schifata, ma prese coraggio e chiese “E come fanno a trovare sangue umano?”

Jollah emise un lungo sospiro stanco mentre Ronnie sbuffava, con il viso appoggiato alla mano a coppa.

“Ci pensano le Bestie, noi e i geni le chiamiamo così. Sono, in un certo senso, l’anima delle torri che sorreggono il cielo del Campo d’Ortiche. Tutto è vivo in quel posto, le torri sono vive e somigliano alle loro Bestie. Ho sentito dire che il palazzo reale è una torre di legno che brucia” aggiunse. Bianca si morsicò il labbro inferiore e si torturò le mani guardando Jollah negli occhi. Le squame sulle sue caviglie scintillavano, Ronnie le stava guardando affascinato, nonostante la sirena fosse nuda e ci fosse anche altro da osservare. Bianca sembrava a suo agio con la nudità, le sirene non portavano vestiti.

A ogni torre corrispondeva una bestia che andava a caccia di sangue ne l’Altro Mondo, se la bestia veniva uccisa la torre crollava.

“E…” Bianca indugiò, ma Jollah attese senza incalzarla “ e le nostre torri non bevono sangue?”

Jollah scosse la testa “No, ed è qui che entrano in gioco i geni. Loro uccidono le bestie, che nel loro mondo sono come una pestilenza, e noi della Seconda Guardia, noi pirati intendo, rubiamo i semi d’Ortica ai geni perché non abbiamo modo di raggiungere il Campo d’Ortiche. Per accedere a quel mondo c’è solo un passaggio ed è nell’Altro Mondo, nello scantinato del Diacono Brodie, è lui che crea le chiavi per passare dal Grande Mare all’Altro Mondo” spiegò, Bianca annuì e Jollah continuò “I geni uccidono le Bestie e si tengono i semi d’Ortica, sono quelli che collegano la bestia alla torre che sta nel Campo d’Ortiche, è una magia forte e fragile allo stesso tempo. Quando noi prendiamo i semi dai geni si tratta già di piante morte, che marciranno in fretta, se mai riuscissero a crescere abbastanza da diventare una torre. Purtroppo la maggior parte dei semi non attecchisce, una volta messi nel terreno del Grande Mare, allora noi li usiamo come armi”. Ronnie annuì e diede una pacca benevola alla cassetta con le piccole piante che teneva attaccate a tracolla.

“Armi?” ripeté la sirena, perplessa e preoccupata. La vecchia alzò le spalle “Non necessariamente, anche quest’albero magenta l’ho fatto usando le facoltà di un seme d’ortica. Si può fare praticamente tutto, a Diablo piace dare fuoco alle cose, per esempio” disse seria. Ronnie sghignazzò e si beccò un colpo di bastone su un piede. Il ragazzino soffocò un’imprecazione.

“Tutto chiaro?” chiese poi, inquisitoria. Bianca annuì, lentamente “Bene, allora torna pure a giocare con le tue teste di pesce” e in un secondo i rami dell’albero magenta si dissolsero, facendo precipitare in acqua Bianca, che si dileguò con uno strillo acuto e un tonfo nell’acqua. Né Ronnie né la vecchia la videro riaffiorare a pelo d’acqua, la sirena si era rifugiata sul fondo del mare.

Jollah grugnì, chiudendo gli occhi pensierosa e incrociando le braccia “Ci vorrà del bello e del buono se Diablo la vuole davvero nella nostra ciurma, la dovremo far sembrare una vera donna, se non vuole che il Re o un qualche bracconiere si faccia una corona con quei suoi bei denti aguzzi” sentenziò, mentre Ronnie annuiva compito.

“Beh? Non remi più?” sbottò poi, guardando male il ragazzino. Ronnie sobbalzò e per poco non si ribaltò all’indietro giù dal sedile. “Sì, sì, remo!” si affrettò a rispondere, una volta dopo aver riacquistato la sua posizione e afferrato uno dei remi. La vecchia Jollah si zittì e truce fissò il sole che stava tramontando, era quasi sparito dietro la distesa d’acqua. La ciocca che aveva toccato per creare l’albero-rete era bianca, in mezzo al resto dei capelli che rimanevano color magenta. La magia che ci aveva spalmato sopra si era consumata.

Passò qualche minuto prima che la guaritrice riprendesse la parola, si erano avvicinati alla Kensington Garden, ma non ancora abbastanza da essere uditi dall’equipaggio.

“Ronnie” chiamò, e il ragazzo alzò la testa sulla sua compagna di viaggio “Sì?”

“Sono vecchia, Ronnie, e avrei una proposta da farti” cominciò, e l’altro pirata arrossì visibilmente e spalancò gli occhi, iniziando a boccheggiare “Jo-Jollah, sai che io apprezzo sempre i … favori delle donne, ma…sai…tu non sei proprio il mio genere, ecco, io credo che la differenza d’età e…” il suo discorso strascicato fu interrotto da una bastonata feroce sulla testa.

“Deficiente!” sbottò la vecchia, guardandolo male “Che diavolo hai capito!”

“Ah, scusami, io pensavo…” cercò di scusarsi lui, prima che gli arrivasse un secondo colpo “Quando pensi sei peggio di quando non pensi!” esplose lei. Questa volta Ronnie se ne stette zitto e abbassò un po’ la testa, in attesa che la vecchia continuasse il suo discorso.

“Stavo dicendo” ricominciò, esasperata “sono vecchia, non credo che mi sia rimasto molto da vivere, ma non voglio che certe arti vadano perdute, la Kensington Garden ha bisogno di un guaritore. Non pensavo che l’avrei mai proposto a un ragazzetto venuto dall’Altro Mondo ma…vuoi essere tu il mio successore?” domandò, solenne.

Ronnie la guardò fisso negli occhi. Aveva solo un accenno di barba chiara, gli occhi di un azzurro limpido e le ciglia bionde, diciannove anni da qualche mese.

“Devo per forza tingermi i capelli di quel color magenta?” si informò.

“Sarebbe comodo, ma non necessario” spiegò lei, facendosi più vicino.

“Allora accetto”

 

Aki_Penn parla a vanvera: Ero convinta di essere in super anticipo, invece comunque è già passato un po’ di tempo dall’ultima volta che ho aggiornato, quindi niente, ma almeno non sono in ritardo! XD

La buona notizia è che credo di aver superato il pezzo di trama che meno mi piaceva, quindi magari (lavoro permettendo) riuscirò ad essere più produttiva d’ora in poi. Speriamo in bene!

Questo è un capitolo un po’ di passaggio, lo so, odio farli, ma dato che avevo capito che fino ad adesso non era chiaro praticamente niente di come funzionassero i mondi, le bestie, le ortiche, i geni e i pirati ho pensato che fosse bene infilarci una spiegazione e ho usato Bianca per questo. Spero che la cosa non sembri forzata e che non vi abbia annoiato a morte. >.<

Poi, dato che siamo in vena di parlare di ritardi, volevo informarvi che – ispirazione permettendo – mi piacerebbe partecipare al P0rn Fest e che, nel caso riuscissi a produrre qualche cosa, ovviamente gli aggiornamenti di Make a Wish ne risentiranno un poco. In ogni modo non sarà nulla di più di una one-shot, quindi non dovrebbe essere un ritardo disastroso.

Come sempre concludo ringraziandovi davvero di cuore per l’appoggio che mi date, siete carinissimi. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 23
*** Il tavolo intagliato ***


Make a wish -

Capitolo ventitré -

Il tavolo intagliato –

 

Il tavolinetto era di forma ovale, con piedini intagliati a forma di fiore e zampe leonine che sembravano quasi radici. Era basso e l’unico modo per poterlo utilizzare era stare in ginocchio. Bloom si era inginocchiato davanti ad esso passando le mani sui bassorilievi. Dietro di lui Veleno faceva il giocoliere con i piatti e incitava un reticente Juanito a fare lo stesso.

Sul tavolinetto erano intagliati i continenti con dovizia di particolari, catene montuose, baie e fiordi, toccandolo con le mani Bloom poteva riconoscere ogni anfratto e arrivare dappertutto. Dal tavolo crescevano, rompendo il legno, alcune piantine dalle foglie carnose. Una era cresciuta qualche giorno prima a Città del Messico, una stava nel bel mezzo del Niger e si attorcigliava come un serpente attorno a un piccolo coltello di metallo che avrebbe potuto sembrare una pedina del monopoli. Un’altra in Cambogia, avvolta attorno a una lancia di metallo.

L’attenzione di Bloom però tornò alla piantina che stava a Città del Messico. L’uomo cercò di ignorare il fracasso che Veleno e Juanito facevano dietro di lui: Veleno schiamazzava e Juanito cercava di mettere ordine tra le ceramiche che il vecchio strabico lanciava in aria.

Tra le spire della piantina nata in Messico c’erano due pedine, una a forma di spada e l’altra a forma di accetta, quella a forma d’accetta sembrava incandescente. Bloom allungò l’indice e sfiorò la pedina che contraddistingueva Tinkerbell. Strinse i denti e ritirò il dito ustionato.

“Che cosa sta combinando Tinkerbell?” domandò quasi a se stesso, sapendo però che Veleno l’avrebbe ascoltato, e così fu. “L’imbecille, come al solito” fu la risposta allegra dell’ex Rettore.

Bloom si accigliò guardando le due pedine soffocate dalla pianta dalle foglie carnose. Veleno si avvicinò e si chinò accanto a lui per vedere la situazione del tavolo. Indicò la piantina che era cresciuta in Messico “Scommetto quello che vuoi che è andato da sua sorella e ha lasciato lì quel piccoletto insieme al suo famiglio. Ruthie si chiama, vero?” chiese conferma. Bloom annuì, il nome del famiglio di Tinkerbell non era importante.

Veleno scosse le spalle, mentre il suo assistente rimetteva a posto i piatti.

“Se fossi in te non me ne curerei troppo. Sentire un po’ di dolore gli farà solo bene” commentò, e proprio in quel momento nel bel mezzo dell’oceano Atlantico, a ridosso del tropico del Cancro, si formò una crepa nel legno e da questa ne sgorgò una pianta verde accesso, con foglie carnose che in un attimo crebbe fino ad arrivare alla dimensione delle altre.

Bloom sospirò ed aprì la mano che teneva in grembo e che conteneva altre pedine metalliche, poi guardò nuovamente la pianta “Cosa ci fa una bestia nel bel mezzo dell’oceano? Uccide i pesci?” domandò Bloom, perplesso.

“Se così fosse non sarebbe un nostro problema” lo rimbeccò Veleno, ma fu Juanito a dare una spiegazione “Si tratta di una nave. Con molte persone a bordo”

“Sarà meglio sbrigarsi, o approderanno a destinazione con la nave vuota. In questi casi le bestie si mettono davvero d’impegno a sterminare. Spazi ristretti, tanta gente… una manna per loro. Chi scegli?” domandò Veleno, fissando la piantina in mezzo all’oceano con suo occhio buono.

Bloom sospirò e prese tra le dita un tridente e se lo rigirò tra i polpastrelli. In quel momento, una pianta che era cresciuta in Nuova Zelanda prese fuoco e scomparve in un turbinio di cenere, una pedina metallica a forma di falcetto ricadde sul tavolo in legno con un tonfo. La crepa che aveva aperto crescendo era sparita lasciando il tavolo alle sue condizioni originali.

Bloom lasciò andare la pedina a forma di tridente che apparteneva a Septum e afferrò il falcetto lasciandolo poi cadere sulla nuova piantina che in un attimo la coinvolse in un abbraccio soffocante con le sue foglie carnose.

 

***

 

Un carlino strabico si avvicinò annusando alla piscina della nave da crociera dove era appena arrivato. Era notte, ma nell’acqua c’era qualche cosa che si muoveva. Il cane si sporse per guardare la massa d’acqua azzurra e un missile a pelo d’acqua gli arrivò contro. Il cane guaì e si fece indietro, mentre il drago d’acqua si appoggiava al bordo con le ali bagnate spiegate.

“Trinidad Scorpion, qui” lo richiamò una voce. Il drago rimpicciolì velocemente e volò tra le braccia del suo padrone, per poi accoccolarsi sulla sua spalla, ridotto all’aspetto di un’iguana.

Duchessa si era intanto rifugiata tra le gambe di Silk “Buonasera, Fatalii” salutò educatamente l’uomo, avanzando claudicante, col suo bastone da passeggio. Dietro di lui veniva un ragazzetto biondo, vestito con una maglietta rossa e un paio di pantaloncini con molte tasche. Aveva una spada corta appesa alla cintura e un’espressione strafottente.

Fatalii piegò la testa rispondendo al saluto “Buonasera Silk…Dirk”. Il ragazzino gli sorrise prima di annunciare “Vado a fare un giro”

“Sì, ma non andarci volando” lo ammonì Silk, mentre Dirk si toglieva la maglietta e dispiegava le ali, volando veloce fino alla cima della nave.

Il genio sospirò “Non mi ascolta mai” commentò, e Fatalii gli sorrise, divertito.

Era notte e sul ponte c’erano solo loro. Fatalii teneva in braccio il suo terzogenito che dormiva, mentre una ragazzina dai capelli scurissimi, raccolti in una treccia, dormiva su una sdraio accanto a lui, in posizione fetale. Aveva la gonna e delle scarpette da ginnastica e anche lei portava gli occhiali da vista come Fatalii.

“Zene” presentò Fatalii, indicando il suo terzogenito con un cenno della testa “e Oumi, la mia secondogenita”

Silk annuì “Non ti presento Duchessa perché la conosci già. Come mai qui?” domandò l’arabo.

Fatalii sospirò gravemente.

“Mia moglie crede che la tradisca, non sono mai a casa, quindi ho pensato che le avrebbe fatto piacere andare in vacanza tutti insieme, per un po’” spiegò “Ma immagino che sarà una vacanza faticosa, se sei qui”

Silk chiuse gli occhi, sedendosi su uno sdraio accanto a quello di Fatalii “Già, c’è una bestia. Ero in Nuova Zelanda solo poche ore fa, temo che Bloom non abbia ancora capito che deve lasciarci un po’ respirare. Dobbiamo tornare a casa ogni tanto” commentò.

Fatalii scrollò le spalle “Non credo che lo capisca, Bloom ha sempre vissuto da solo, come un nomade. Continua a non sembrarmi vero che Veleno abbia ceduto il passo” sentenziò l’uomo, incrociando le gambe lunghe sul lettino.

“Imparerà” rispose Silk speranzoso. Ci fu un attimo di silenzio e Oumi si rigirò sul lettino. Fatalii la guardò, controllando che non si svegliasse.

“Te lo porti sempre dietro, Dirk?” chiese poi, cambiando discorso. Silk sgranò gli occhi, mentre Dirk svolazzava più in alto. “No, ma gli manca stare su una nave, ho pensato che questo posto potesse piacergli” spiegò.

Fatalii annuì “Sì, ma viene dal Grande Mare, Silk” lo ammonì.

“Anche il tuo Trinidad Scorpion viene dal Grande Mare, ma nessuno ha nulla da dire a riguardo. Per lo meno posso affermare con certezza che Dirk non sputi fuoco”

Fatalii si arrese al sorriso, prima di alzarsi in piedi “Meglio che vada, se c’è davvero una bestia, non voglio lasciare mia moglie e la mia figlia maggiore sole in cabina” annunciò. Silk si trovò assolutamente d’accordo.

 

***

 

La finestra si sfondò con uno schianto e Germàn Hernández si alzò di scatto dalla sedia dove stava seduto a leggere il quotidiano. Emise un urlò secco alzando le braccia per ripararsi dalla pioggia di pezzi di vetro. Un secondo dopo l’esplosione della finestra, in mezzo ai vetri rotti s’infilò una figura che atterrò in piedi sulla scrivania di plastica impolverata, con un gran rumore di cocci.

Germàn Hernàndez lanciò via il giornale e imbracciò il fucile che aveva tenuto accanto a sé fino a quel momento, gli avrebbe sparato se Bonnie non avesse afferrato l’arma per la canna strattonandola via dalle mani quell’uomo.

Germàn rimase impietrito a guardare Bonnie che afferrava il fucile con entrambe le mani e lo spaccava a metà come se fosse un rametto secco.

“Bonnie!” urlò qualcuno da fuori, ci fu il rumore di qualche cosa che cadeva e qualche imprecazione.

Il biondino che era entrato dalla finestra in volata si voltò verso la voce, con grande tranquillità, per poi tornare a guardare Germàn.

“Chi cazzo sei?” urlò l’uomo, con le ginocchia lievemente piegate, come se fosse pronto a scappare da un momento all’altro. Le braccia erano ancora un po’ sollevate, per difendersi da eventuali attacchi, ma il suo fucile era stato deliberatamente spaccato a metà e lanciato via, come poteva competere con una bestia del genere?

“Mi chiamo Bonnie” rispose il ragazzino, saltando giù dalla scrivania piena di vetri. Teneva le mani in tasca e lo guardava con aria strafottente, fu in quel momento che Germàn si rese conto di chi fosse Bonnie. Il ragazzino lo vide strabuzzare gli occhi e boccheggiare, guardandolo fisso.

Germàn era decisamente più alto di lui, il cranio liscio come una palla da bowling, il viso senza sopracciglia sembrava quasi lucido, senza nemmeno un po’ di peluria sul mento. Sulla cinquantina, più o meno, Bonnie pensò che l’alopecia sfalsasse la percezione che si aveva di lui. Attorno agli occhi iniziava ad avere qualche ruga d’espressione, il naso era dritto e le labbra sottili, gli occhi castani, sgranati, fissavano Bonnie.

Il ragazzino lo riconobbe dalla voce, come aveva immaginato prima di sfondare la finestra alta e oscurata, quello era lo stanzino dove l’avevano portato da cadavere, e Germàn era l’uomo che aveva dato l’ordine di rompergli i denti.

“Non voglio farti male, a meno che non sia tu a volerlo” fece Bonnie con un sorrisetto cattivo.

Germàn ringhiò, dimentico per un attimo di come Bonnie aveva spezzato a metà il suo fucile, ma il ragazzino appoggiò la mano sulla katana che portava appesa alla cintura, fu solo in quel momento che il messicano si accorse dell’arma e sbiancò.

Fu in quel momento che dalla finestrella spuntò una mano che si aggrappò all’infisso “Ahi!” esclamarono da fuori con uno strillo acuto.

“Ruthie?” chiamò Bonnie, incerto, dando le spalle a Germàn, che arretrò di qualche passo verso la porta. “Tutto bene, tutto bene, non sarà un po’ di vetro a fermarmi” ringhiò la ragazza da fuori. Immaginò che avesse dovuto accatastare diverse casse per riuscire a raggiungere la finestra, dal basso del suo metro e cinquanta.

La mano riapparve e Bonnie udì un grugnito indispettito, mentre Ruthie si issava dentro la stanza, prima una gamba e poi l’altra.

Bonnie intercettò con la mano una delle gambe della sedia che lo stava per colpire in testa ed evitò che questa si schiantasse sul suo cranio. Si voltò con un movimento fluido, sempre tenendo in alto la sedia, e guardò Germàn negli occhi. Lo sguardo dell’uomo era terrorizzato, era la seconda volta che gli strappavano di mano un’arma negli ultimi cinque minuti.

Bonnie digrignò i denti e Germàn pensò davvero che gliel’avrebbe spaccata addosso, ma l’espressione del ragazzino parve rilassarsi e lasciò cadere la sedia per terra con uno schianto. Incrociò le braccia e si avvicinò di un paio di passi con l’andatura a gambe larghe che distingueva i portatori di pantaloni col cavallo basso. Germàn arretrò istintivamente, nonostante Bonnie fosse più basso di lui di quasi venti centimetri.

Un tonfo morbido attirò l’attenzione di entrambi, mentre Ruthie cadeva seduta sulla scrivania piena di cocci ringhiando qualche imprecazione tra i denti e strizzando gli occhi.

Dondolò i piedi, prima di scendere con un balzò. Bonnie allungò una mano verso di lei e Ruthie l’afferrò con entrambe le mani “Hai bisogno di…” cominciò il ragazzino, ma lei lo interruppe prima che potesse formare qualsiasi frase di senso compiuto “Bastano le mani, il sedere me lo tengo così, grazie Bonnie, sono già abbastanza arrabbiata con te per questa incursione” sbottò, mentre Bonnie le stringeva le mani tagliate, tra le sue, curandole.

Germàn era di nuovo arretrato verso la porta, cercando di approfittare della distrazione del ragazzino biondo, ma non andò molto lontano, dato che quando cercò di afferrare la maniglia della porta si trovò davanti proprio Bonnie, che lo guardava fisso. Germàn ritrasse la mano come se il ragazzino scottasse, spalancò la bocca come per urlare, ma boccheggiò e non ne uscì alcun suono. Un secondo prima Bonnie era vicino alla finestra un attimo dopo era a sbarrargli la strada dell’uscita, come aveva potuto spostarsi così velocemente?

Si guardò alle spalle, terrorizzato, e vide soltanto la ragazza minuscola che era entrata dalla finestrella, che lo guardava con aria scocciata tenendo le braccia incrociate sul petto.

“Tu non te ne vai” commentò Bonnie. Non pareva minaccioso, ma Germàn arretrò.

“Cosa volete?” domandò, volandosi di nuovo verso Ruthie; la ragazza aveva una pistola, mentre il suo fucile giaceva a terra inutilizzabile.

“Ti direi di sederti e non rompere, ma la sedia l’ho rotta io togliendotela di mano” ammise Bonnie, colpevole. Così dicendo si sedette con un balzo su una parte di scrivania sulla quale non giacevano copiosi pezzi di vetro.

“Tu eri morto!” berciò a quel punto Germàn, sputando saliva per la rabbia. Bonnie si accigliò “Questo è quello che dici tu, dovrei essere incazzato, mi hai fatto spaccare i denti!” disse lui, indicando i propri incisivi bianchi, al loro posto nella bocca.

“Cosa sei? Il gemello di quello che abbiamo ammazzato ieri?” ringhiò “Faccio ammazzare anche te!” minacciò. Bonnie cambiò sguardo e la sua mascella si contrasse. In un attimo era sceso dal tavolo e aveva afferrato Germàn per il colletto sbattendolo duramente contro il muro. La botta fu così forte che il messicano sentì tutta l’aria uscirgli dai polmoni.

“Chi è che vuoi ammazzare, stronzo?”

“Bonnie?” lo richiamò Ruthie, battendo il piede per terra con impazienza. Capendo l’antifona, il ragazzino lasciò andare il colletto del trafficante e Germàn strisciò come un verme contro al muro.

“A me continua a sembrare una pessima idea, lascialo qua e andiamocene via” propose scocciata.

“No, sono convinto che questo ci possa aiutare” ribatté lui, e per avvalorare la propria tesi gli diede un calcetto sulla coscia. Germàn strizzò gli occhi.

“So che sono morte delle persone” iniziò il ragazzino, mentre Ruthie sbuffava sonoramente. Germàn fece una smorfia “Le hai ammazzati te? Carlos e Esteban? Se devi uccidermi fallo subito, ragazzetto” ringhiò, e così facendo si beccò un altro calcio da parte di Bonnie, questa volta più forte, tanto che urlò di dolore.

Il ragazzino si ritrasse di un passo, mentre Germàn si stringeva la gamba spezzata.

Bonnie sgranò gli occhi e strinse i pugni, le braccia tenute rigide parallele al corpo.

“Bonnie, che diamine!” sbottò Ruthie, piegandosi in avanti per dare un’occhiata all’espressione dolorante del messicano.

Vide il ragazzino contrasse di nuovo la mascella, preso dal panico. Alzò le mani in segno di resa e le sventolò come per farsi notare “È la posto, è a posto, ci penso io” sentenziò.

“No, Bonnie, no!” sbottò Ruthie, capendo cosa aveva intenzione di fare, ma Charlie si era già piegato in avanti e aveva afferrato la gamba spezzata con entrambe le mani. Germàn ebbe un tremito e sgranò gli occhi, guardando Bonnie allibito. Boccheggiò e cercò di spalmarsi ancora di più contro il muro, con l’intenzione di allontanarsi il più possibile da quel ragazzino con i capelli color paglia.

“Non voglio farti male” ripeté lui. Gliel’aveva già detto e non aveva mantenuto la promessa, ma credeva davvero di potercela fare, se quell’uomo credeva in lui.

“Che razza di mostro sei?” soffiò Germàn.

“Sono un genio” rispose il ragazzino, con semplicità. Ruthie alzò gli occhi al cielo e Germàn esplose in una risata isterica “Mi stai prendendo per il culo, ragazzino?” domandò, quasi divertito.

Bonnie scrollò le spalle “Questo non ha importanza”  disse “C’erano un sacco di cadaveri giù nella fogna, li avete gettati tutti voi?” domandò, cauto.

La risposta si fece attendere, ma alla fine Germàn ammise “Immagino di sì. Vuoi  rompermi tutte le ossa del corpo e poi denunciarmi?”

Bonnie ignorò la provocazione e continuò “Quando mi ci avete buttato, là sotto, ho visto anche qualche cosa d’altro, non solo cadaveri. Qualche cosa di cattivo, che non avrebbe dovuto essere qui, non è di questo mondo”

Germàn rise ancora, così forte che Ruthie si preoccupò che non lo sentissero dalle altre stanze.

“Mi prendi per idiota, stronzetto? Pensi che creda alle fatine e a i mondi paralleli?” sbottò.

Bonnie alzò la mano, come se avette dovuto battere cinque a qualcuno, e la sua mano prese fuoco all’istante. Germàn urlò, ricominciando a scalciare per allontanarsi da quella specie di mostro, ancora chino su di lui.

“Di questo cosa pensi? È di questo mondo?”domandò, serio. Bonnie chiuse le dita a pugno e le fiamme si estinsero, mentre Germàn cercava di riprendere un battito cardiaco normale. Si guardò intorno, in cerca di qualche cosa di familiare, ma trovò solo Ruthie, che lo guardava storto.

“Okay, okay, ti credo” cedette in fine, senza guardarlo negli occhi. Charlie stava seduto sui calcagni davanti a lui, e lo fissava “Credo che quella cosa sia risalita dalle fogne attraverso la botola dalla quale avete buttato giù me” ipotizzò il ragazzino australiano.

“Allora sigilliamola” propose il trafficante, ancora con il respiro accelerato. Bonnie scosse la testa “No, dobbiamo scendere giù, e tu verrai con me”

L’uomo fece un sorrisetto nervoso “Scherzi?” chiese. Bonnie si voltò verso Ruthie e ordinò “Esci”

La ragazza aggrottò le sopracciglia “Cosa? Scherzi? No, assolutamente no!”

“Ho detto ‘Esci’. Voglio lui” ripeté Bonnie, il suo sguardo era diventato cattivo. Ruthie digrignò i denti, ma a passo svelto raggiunse la porta e ne uscì chiudendosela alle spalle. Bonnie fece in tempo a sentirla imprecare “Fottuto cretino!”

Germàn e Bonnie si guardarono ”Come ti chiami?” domandò il più giovane.

Il messicano fece una smorfia “Germàn” confessò, scocciato.

“Io esaudisco i desideri, mi servono i tuoi per uccidere quella cosa che vive nella vostra fogna” spiegò, guardandolo fisso negli occhi. Germàn pensò che avesse una faccia da schiaffi incredibile.

“Sei una specie di fatina buona?” chiese, divertito.

“Ti ho detto che sono un genio. Ma anche io ho un desiderio” aggiunse. Germàn lo guardò torvo “E sarebbe?”

“Rivoglio il mio cellulare” 

L’uomo rise sonoramente “Il tuo cellulare, piccolo? Dirò a quel caprone di Diego di ridarmelo. Quindi, a parte questo cosa vuoi fare? Cosa devo fare per liberarmi di questa seccatura?”

Bonnie di chiese se con ‘seccatura’ intendesse la bestia o il genio, ma non chiese e disse solo “Mi chiamo Charlie Martinelli, hai diritto a tre desideri”

 

***

 

Clay alzò il volume del televisore, mentre Bernie prendeva un'altra manciata di popcorn. “Secondo me, muore” commentò Jessie, con la consueta bandana in testa, guardando lo schermo.

Tinkerbell si chinò un po’ in avanti, avvicinandosi alla sorella, per prendere la sua parte di popcorn “È un classico” concordò il gemello. Bernie sgranocchiò rumorosamente e prese un’altra manata di popcorn, di seguito al fratello. “Io spero che gli strappi le budella” aggiunse il maggiore dei tre, seduto sul divano con le ginocchia vicino al petto. Essendo così enorme, in quella posizione faceva uno strano effetto. Clay si accigliò e gli riservò un’occhiataccia “Bernie, è un giallo, non un film dell’orrore” puntualizzò il genio. Bernie sgranocchiò e aggrottò le sopracciglia continuando a guardare lo schermo, pensieroso “Allora perché siamo qui a cercare di indovinare che sarà la vittima? Non dovremmo cercare un assassino?” domandò.

“Poi cercheremo di indovinare anche l’assassino” lo rabbonì il fratello minore.

“È una palla se non li sbudellano nemmeno” precisò ancora Bernie. “Si divertiranno quando sbudelleranno te, allora” commentò Clay, senza pensarci.

“Dici che corro il rischio?” domandò Bernie divertito, mentre Jessie guardava male entrambi. Tinkerbell scrollò le spalle “Non si può mai sapere cosa può capitarti mentre fai pianobar su una nave da crociera”

Bernie ridacchiò, guardandolo sottecchi e mettendosi in bocca un altro popcorn.

“Avete finito?” chiese Jessie inacidita. A volte aveva l’impressione che quei due la tagliassero fuori, come se ci fosse qualche cosa che lei non sapeva. Erano sempre stati lei e Clay, quasi una stessa cosa, due pezzi dello stesso corpo.

“Scusaci” fece Tinkerbell rimettendosi a sedere stravaccato sul divano, per nulla preoccupato.

“Comunque, per me, muore la bionda” rincarò la dose Jessie.

“Nah, è il tizio col panciotto a lasciarci le penne” commentò da dietro il divano mamma Jenning con il cesto del bucato in braccio. I tre figli si voltarono a guardarla, accigliati e lei scrollò le spalle “Io e Glen siamo andati a vedere questo film l’anno scorso al cinema all’aperto, lui ha dormito tutto il tempo, non so come dato che le sedie di quel posto sono la cosa più scomoda del mondo” iniziò a blaterare, per poi aggiungere “Volete che vi dica anche ci è l’assassino?” domandò.

Ci fu un coro di ‘No’ indignati e tutti si voltarono di nuovo verso lo schermo mentre Abigail Jennings se ne andava a stendere il bucato.

Glen si unì sorridendo a loro, dicendo che lui e la loro madre erano andati a vedere quel film, ma le seggiole del cinema all’aperto erano così comode che aveva finito per addormentarsi, ma che era curioso di vederlo con loro.

I tre annuirono pregando che non russasse troppo dopo essersi addormentato, perché sapevano che si sarebbe addormentato anche quel giorno.

Fuori aveva ricominciato a nevicare, anche se non troppo forte e la figlia del vicino era uscita per fare un pupazzo di neve. Jessie l’aveva guardata desiderosa di uscire, Clay l’aveva stretta a sé e aveva sorriso mentre lei si appoggiava alla sua spalla.

“Secondo me, l’assassino è il maggiordomo” proruppe Bernie continuando a masticare. Era incredibile la quantità di popcorn che quel ragazzo era capace di ingurgitare. Mamma Jennings aveva già portato tre ciotole e Glen russava già da una quarantina di minuti quando Bernie afferrò il telecomando con una delle sue mani tatuate e mise il film in pausa, causando un coro di protesta che comunque non svegliò Glen.

“Pausa pipì!” esclamò Bernie, scattando in piedi e correndo su per le scale. Jessie sbuffò “Proprio sul più bello, diamine!”

Clay ridacchiò “Non credo che ci metterà molto” si costrinse a sorriderle, mentre i bracciali che aveva ai polsi bruciavano come l’inferno. Jessie fece una smorfia e gli prese la mano destra appoggiando la testa allo schienale del divano a fiori, Glen russava sonoramente. Le dita di Jessie erano tatuate come quelle del fratello maggiore, Clay sembrava l’unico a essere scampato alla dilagante mania per l’inchiostro.

“Sono felice che tu sia qui, ci vediamo così poco. Dovresti tornare a stare in Kansas” sentenziò, stancamente. Anche se era vestita si vedeva quanto fosse magra.

“Sembri la mamma”

“Manchi anche a lei” Clay le sorrise, ma in un secondo il suo sorriso si gelò e il viso sbiancò. Jessie se ne accorse e alzò la testa dallo schienale “È tutto a posto?” domandò, preoccupata.

Tinkerbell deglutì evitando di guardarla “Sì, è tutto a posto” rispose lui mentre stringeva tra le sue le dita della sorella.

I polsi non gli facevano più male.

 

***

 

Ruthie mandò giù la saliva piena di sangue. Aveva un occhio pesto e non riusciva nemmeno più ad aprirlo, mentre in bocca le mancavano la maggior parte dei denti.

Respirò piano, voltando piano il collo per guardare Germàn appoggiato con la schiena al muro di cemento della fogna. Anche lui la guardò e fece una smorfia di dolore. Aveva urlato mentre uno dei coccodrilli bianchi che aveva divorato i suoi compagni gli strappava entrambe le gambe dal ginocchio in giù. Anche la mano sinistra se n’era andata. Ruthie non era messa molto meglio. Il braccio destro le era stato reciso all’altezza del gomito, e la gamba sinistra mancava a partire dalla coscia. Il suo inguine era un ricettacolo di sangue e dolore, sotto la gonna a fiori strappata.

Ruthie strinse i denti e ruotò la testa verso l’alto, mentre dal basso venivano i rumori umidi dei coccodrilli che si spartivano le carni di Bonnie.

“Finché mangiano lui non mangeranno noi” sentenziò Germàn, sputando un grumo di sangue.

“Dopo mangeranno anche noi, dopo averci fatto soffrire. Dovevi per forza sprecare i tuoi due primi desideri per quelle cavolate? Cosa ti serve essere l’uomo più…” ansimò per il dolore, la coscia le faceva un male atroce, così come il braccio, era sicura che sarebbe svenuta entro poco “ …l’uomo più ricco di Città del Messico, se poi morirai in una fogna divorato da un coccodrillo?”

Se il dolore non fosse stato così allucinante, Germàn avrebbe riso alla battuta “Si fa presto a giudicare, dopo. Non ho mai preso sul serio questo ragazzino…” spiegò, strizzando gli occhi.

Ruthie respirò forte, cercando un modo per separare la sensazione di dolore dal cervello, ma era troppo forte per riuscire a distrarsi, ma poi il messicano parlò di nuovo “Non hai un’altra fatina buona da chiamare, perché venga in aiuto al biondino?” chiese. Ruthie fece un debole sorriso, rimanendo ad occhi chiusi e annuì “Ne ho proprio una di Fatina, ma il cellulare non prende dentro a questa fogna” sussurrò debolmente.

“Quindi siamo fottuti?” tradusse Germàn; la sua voce era tremante e affaticata. Ruthie annuì ancora, debolmente, e Germàn semplicemente chiuse gli occhi.

Bonnie, dentro al canale, stava affondando. Un coccodrillo gli aveva portato via una gamba, mentre lui si dibatteva per non farsi staccare la testa da un altro dei rettili. Era acciaio contro denti aguzzi. Bonnie aveva colpito, strappato, morso e tagliato, ma ogni arto staccato a lui e agli altri due era un animale in più, e l’acqua stava diventando acida, le guance gli si stavano corrodendo. I coccodrilli piangevano nell’acqua e lo stavano lentamente avvelenando, mentre i vestiti già rovinati dal precedente attacco della bestia rimanevano a brandelli.

Le lacrime acide e il sangue copioso di Bonnie impregnavano l’acqua, mentre lui riusciva appena a passarsi la mano sulla coscia mutilata per farsi ricrescere la gamba per intero.

Un animale afferrò il braccio destro del ragazzo per il gomito e strinse abbastanza da rompere l’articolazione, ma non da staccare l’arto. Il genio ringhiò di dolore e caricò con la mano della spada, puntando all’occhio della bestia, ma un’altra bestia  ingoiò l’intero braccio del ragazzo, compresa l’arma. Bonnie urlò mentre l’acqua gli entrava in bocca e i polmoni dolevano come non mai. La spada, da dentro al mostro, perforò il ventre dell’animale, ma un altro rettile addentò la spalla del ragazzino impedendogli altri movimenti.

Il ragazzino scalciò forsennato cercando di allontanare i coccodrilli, ma una quarta creatura gli afferrò le gambe e le ingoiò fino alle ginocchia, recidendo muscoli e tendini fino in profondità, non abbastanza da staccargli gli arti, ma abbastanza da bloccarlo.

Bonnie ringhiò e poi venne colto da una terribile certezza: era completamente bloccato, e quelle bestie miravano alla sua testa. Atterrito  si voltò indietro, per quanto riusciva, cercò di muovere convulsamente la spada, da dentro il coccodrillo morto, ma non ci furono miglioramenti.

Il ragazzino digrignò o denti, vedendo avvicinarsi a grande velocità il coccodrillo più grande che avesse mai visto nella fogna, era enorme e bianco e puntava alla sua testa. Bonnie cercò di strattonare la presa degli animali che lo tenevano fermo.

Se avesse potuto si sarebbe messo a piangere e urlò silenziosamente quando vide la bestia aprire le fauci. Chiuse gli occhi e aspettò di sentire i denti della creatura che gli strappavano la testa, ma i denti non arrivarono.

Quando li riaprì quello che vide furono pezzi di coccodrillo, carni squarciate, e denti di rettile che galleggiavano nell’acqua corrosiva. Se possibile, Tinkerbell, in mezzo a quel macello, faceva ancora più paura dei coccodrilli.

L’altro genio, completamente immerso nell’acqua, con la giacca a doppio petto e l’accetta in mano, mentre anche la pelle sulle sue dita iniziava a corrodersi, gli cacciò un’occhiataccia capace di uccidere, prima di staccare la testa al coccodrillo che gli teneva stretto il braccio della spada.

Bonnie si liberò del cadavere e piantò la katana nell’occhio del coccodrillo che gli teneva l’altro braccio. Tinkerbell si allontanò da lui e si aggrappò al bordo per risalire sul camminamento della fogna.

Quando Ruthie sentì qualche cosa uscire dall’acqua percepì il proprio cuore sprofondare pensando che si trattasse di un altro coccodrillo venuto a finirli. Non poteva credere che sarebbe morta in quel modo, in una fogna. Ma quando aprì l’unico occhio ancora funzionante, quello che vide fu Tinkerbell che risaliva dall’acqua imprecando.

“Tinkerbell” piagnucolò, mentre lui si inginocchiava accanto a lei e le prendeva il braccio tranciato all’altezza del gomito.

“È tutto a posto, ho dato una mano a quell’imbecille di Bonnie, adesso tornerà a galla anche lui” la tranquillizzò, mentre il braccio le ricresceva. Tinkerbell si girò e falciò a metà il cranio di un coccodrillo intenzionato a risalire sulla banchina.

“E quindi è questa la fatina buona di cui mi parlavi. Dal nome mi aspettavo che almeno avesse le tette” commentò divertito Germàn, per quanto debilitato dalle ferite. Fu allora che Tinkerbell si accorse davvero della presenza dell’uomo, mentre era impegnato a far ricrescere a Ruthie anche la gamba.

“E questo chi è?” domandò alla ragazza, senza perdere tempo a chiedere al diretto interessato.

Ruthie chiuse l’occhio sano e fece un mezzo sorriso, nonostante mezza faccia fosse tumefatta dai lividi “È il padrone di Bonnie, se chiama Germàn e fa il trafficante”

Tinkerbell lo guardò sottecchi e Ruthie aggiunse, mentre lui le appoggiava la mano sulla faccia “E ha sprecato i primi due desideri di Bonnie per arricchirsi”

“Che scelta del cazzo” sbottò Tinkerbell spostandosi e andandosi a inginocchiarsi accanto all’uomo.

“Sei già arrabbiato, fatina?” domandò Germàn, mentre Tinkerbell gli curava le gambe.

“Se non ti zittisci giuro che ti ammazzo e vado a trovare un altro padrone, questa volta per me e non per quell’idiota che ti ha scelto” gracchiò Tinkerbell, decisamente arrabbiato.

“Ruthie, la tua fatina buona ha intenzione di uccidermi”  disse lui, quando anche la mano gli fu ricresciuta.

“Non ci scherzerei troppo” commentò Ruthie che, alzatasi in piedi, lo sovrastava.

 Fu in quel momento che Bonnie riemerse dall’acqua sguazzando e ansimando. Con un colpo di reni si issò sulla banchina senza indugiare ancora a mollo.

Le mani e il viso di Tinkerbell erano rovinati dall’acido diluito nell’acqua, Tinkerbell si passò il palmo sulla guancia, prima di dare una sberla al ragazzino, le cui condizioni erano decisamente peggiori, data la lunga permanenza in acqua.

“Ti avevo detto che questa bestia era mia!” sbottò Clay e Bonnie si strinse nelle spalle “Pensavo che ce l’avrei fatta”

“E invece stavi per rimetterci la testa e stavi per far ammazzare Ruthie” lo rimbeccò, guardandolo rabbioso.

“Ci sono anche io” gli ricordò Germàn.

“Tu potevi anche morire, per quello che mi frega” rispose Tinkerbell, secco, senza neanche voltarsi a guardarlo.

Bonnie deglutì e Germàn spuntò nel canale, ma proprio dove cadde lo sputo emerse un enorme coccodrillo, Ruthie urlò per la sorpresa e si schiacciò contro la parete, presa alla sprovvista; anche Germàn urlò, rauco.

Bonnie si voltò appena in tempo verso la bestia, alla quale prima dava le spalle, per intercettare il morso dell’animale. La lama della sua katana finì tra i denti della creatura e Tinkerbell lanciò le sua accetta dritto negli occhi dell’animale. Il cranio si spezzò a metà e l’arma di Tinkerbell andò a conficcarsi nel muro di cemento dietro di lei. L’animale crollò nuovamente in acqua, ancora con la lama della spada di Bonnie in bocca. Bonnie non lasciò andare l’elsa e venne trascinato di nuovo in acqua emettendo un urlo stridulo.

Tinkerbell ringhiò mentre l’accetta gli tornava in mano “Come si fa a essere così stupidi?” sbottò, prima di correre sul ciglio della banchina. Si voltò verso Ruthie “Tu hai visto cosa fa questa bestia, fagli esprimere un desiderio, deve essere quello giusto, perché è l’unico che abbiamo” ordinò accennando a Germàn, prima di lanciarsi nell’acqua di fogna con uno spruzzo. L’acqua urticante raggiunse Germàn al volto, l’uomo ringhiò, cercando di coprirsi con il braccio. Quando rialzò lo sguardo Ruthie lo guardava, respirava forte, il petto le andava su e giù: aveva paura, poteva vederlo. Anche lui ne aveva.

“Allora, come facciamo ad ammazzare questa merda?” domandò.

Tinkerbell sprofondò nell’acqua seguendo la scia di sangue lasciata da Bonnie e dal coccodrillo a cui lui aveva spaccato la testa.

Lo trovò sul fondo a combattere con le fauci del coccodrillo, la bestia si era rigenerata e teneva stretta tra i denti la lama del ragazzino, mentre Bonnie puntava i piedi sulla bocca della creatura e tirava l’elsa verso di sé.

Tinkerbell diede un calcio al gigantesco cranio del rettile e Bonnie tirò ancora, riuscendo finalmente a liberare la propria lama. I due geni si guardarono “Cos’è questa storia?” chiese Tinkerbell guardando il ragazzino. Non emise nessun suono, ma a Bonnie non fu difficile capire cosa stava dicendo, leggendo il labiale del ragazzo.

“Sono coccodrilli bianchi, le loro lacrime sono acide e se ti strappano un pezzo riescono a trasformarlo in un altro di loro” spiegò il ragazzino, coi capelli che fluttuavano in acqua come alghe bionde.

Clay fece una smorfia e disse qualche cosa che poteva essere un Che? O un Cosa? non molto gentile. Anche Bonnie fece una smorfia, aveva mandato giù una boccata di acqua di fogna acida “Quelle cose si moltiplicano quando ti staccano un pezzo. Ce ne sono molti di più rispetto a ieri, ce ne sono così tanti che anche l’acqua è acida” spiegò. Clay lo stava a sentire, mentre le guance e le mani gli andavano a fuoco. Anche gli occhi e i polmoni bruciavano.

“Tra un po’ diventerai cieco, è successo anche a me, prima. Mi è toccato risalire e infilarmi le dita negli occhi, qui sotto era impossibile” brontolò in un danza di bollicine.

Tinkerbell digrignò i denti “Allora sbrighiamoci ad ammazzarli” propose sempre più rabbioso. Bonnie annuì mesto, guardando in alto, sopra di loro, quasi in superficie, nuotavano un discreto numero di rettili. 

Tinkerbell arricciò il naso e alzò il braccio che teneva l’accetta, squarciando per la lunga il ventre di un coccodrillo che gli passava sopra la testa. Le budella del mostro gli si rovesciarono addosso e Clay si rese conto che anche le interiora e il sangue di quelle creature erano corrosive. In un secondo le guance erano in fiamme e gli occhi non vedevano nulla. Le mani erano un delirio di vesciche e il cranio era rimasto scoperto mentre i capelli semplicemente scomparivano in mezzo al sangue del coccodrillo e la pelle del viso gli si scioglieva.

Bonnie allontanò la carcassa del coccodrillo da Tinkerbell, e la bestia lasciò nell’acqua una scia di sangue corrosivo che andò a peggiorare la situazione. Bonnie era certo che ci sarebbe voluto poco perché anche i suoi occhi smettessero di vedere. Nuotò di nuovo verso Tinkerbell e si trattenne dal vomitare nel vedere com’era ridotto. Gli occhi non c’erano nemmeno più, il viso era ridotto a un insieme di carne livida e putrescente. Quasi gli venne da rimettere, ma Clay si passò una mano sul volto e sul cranio calvo, tornando ad avere di nuovo un aspetto umano, ma quando aprì gli occhi, questi erano azzurri e slavati, con la pupilla bianca.

Bonnie deglutì e lo afferrò per una spalla, Tinkerbell coprì la mano del ragazzino con una delle sue, tanto per fargli capire che l’aveva riconosciuto.

Bonnie ci aveva provato a curarsi gli occhi da sott’acqua, ma era impossibile, non ci sarebbe riuscito senza tornare in superficie, anche Tinkerbell l’aveva capito, perciò rimase fermo, la superficie pullulava di quelle creature infernali.

Inaspettatamente Tinkerbell parlò “Se la bestia è composta da tante bestie, una sola possiede il seme che l’ha fatta trasformare” spiegò e Bonnie stava per chiedere come avrebbe potuto riconoscerla, che Clay aggiunse “Di solito è quella più grossa. Qualsiasi cosa Germàn ti ordini, punta a quella”

Bonnie annuì e poi batté due volte la mano sulla spalla di Tinkerbell, come per fargli capire che aveva capito.

Fu in quel momento che il desiderio arrivò: Bonnie non lo sentì con le orecchie, non poteva, ma fu comunque una certezza, come quando aveva capito che il coccodrillo era la bestia. Sentì i bracciali vibrare contro i polsi e strinse di più l’elsa della spada. Buttò fuori quel poco di ossigeno che gli rimaneva e chiuse gli occhi per un istante, prima di nuotare verso l’alto. Tinkerbell lo seguì a distanza; non poteva vedere, ma riusciva a percepire i movimenti nell’acqua e non gli era difficile distinguere Bonnie dai coccodrilli.

Ci mise poco ad intercettare il suo obbiettivo: il coccodrillo più grosso di tutti, come aveva detto Tinkerbell. Gli andò incontro, nuotando coi piedi e tenendo stretta la spada tra le dita. La bestia era una creatura mostruosa, gigantesca e pallida, con squame grandi come il palmo della mano di Bonnie e occhi rossi che lo fissavano. I denti spuntavano dalla bocca enorme, ancora chiusa. Charlie si disse che uno di quei denti avrebbe potuto trapassargli il cranio da parte a parte.

Gli era ormai davanti quando il mostro spalancò le fauci, Bonnie si ritrasse e la creatura gigantesca richiuse la bocca inghiottendo solo acqua acida. Bonnie si morsicò la lingua dolorosamente e strizzò gli occhi, mettendosi a nuotare in senso contrario, tra le grinfie di un altro coccodrillo, uno qualsiasi andava bene.

Smise di battere i piedi quando vide che un altro rettile gli stava venendo incontro, si fermò nel bel mezzo del canale. Tinkerbell era rimasto a distanza, ma Bonnie non si prese il tempo di cercarlo e chiuse gli occhi sentendo la vista che si annebbiava, l’acido gli stava corrodendo le pupille.

Si rilassò e si mise a studiare i movimenti dell’acqua, entrambi i coccodrilli si stavano avvicinando a lui, Bonnie quasi poteva sentire il dolore che avrebbe provato se quei denti fossero affondati nella sua carne.

Aprì gli occhi, il piccolo rettile gli stava venendo incontro, si voltò e, nonostante la vista compromessa, riuscì a distinguere le fauci dell’altra creatura, così grande che avrebbe potuto entrarci dentro intero.

La bestia più piccola gli addentò il polpaccio sinistro e ormai entrambi si trovavano dentro le fauci del mostro, le mascelle iniziavano a chiudesi. Con un gesto secco tagliò il muso al più piccolo e scartò da un lato. La bocca famelica del mostro si chiuse sul coccodrillo più piccolo.

Bonnie strizzò gli occhi e si allungò per curarsi il polpaccio. Quando guardò di nuovo i due coccodrilli non c’erano più, al loro posto c’era un enorme massa di muscoli e carne sanguinolenta che si contorceva.

Storse la bocca schifato, ma si avvicinò un poco. Fu allora che Tinkerbell rispuntò da dietro di lui. Aveva ancora gli occhi azzurri e Bonnie non l’aveva sentito arrivare, la sua figura era sfocata come tutto il resto, il mondo si stava ingrigendo, la pupilla del suo occhio destro era già diventata bianca.

Senza indugiare oltre, Tinkerbell infilò un braccio nell’ammasso di carne e urlò. L’urlò fu muto, ma Bonnie lo vide strizzare gli occhi e aprire la bocca, disperatamente.

Quando il braccio del genio riemerse dal grumo di carne, era ridotto a brandelli e in molti punti si vedeva l’osso. Tutti i coccodrilli iniziarono ad affondare, come se qualcuno avesse tolto loro l’anima, il grumo di carne aveva smesso di muoversi e Bonnie lo vedeva sempre più grigio, ma non avrebbe saputo dire se era per colpa dei suoi occhi. In un attimo però tutto parve dissolversi e a mollo nella fogna rimasero solo lui e Tinkerbell.

L’altro genio iniziò a nuotare verso l’alto e Bonnie lo seguì.

Quando riemersero, il braccio di Tinkerbell era di nuovo a posto. Ruthie accorse ad aiutarlo a risalire afferrandolo per una mano ed esclamando preoccupata “Cosa è successo ai tuoi occhi?”

Tinkerbell scosse la testa “Nulla di preoccupante” dichiarò, sorridendole e uscendo dall’acqua. Bonnie si aspettava che la ragazza avrebbe chiesto anche a lui come stava, ma non arrivò nessun interessamento. Grugnì tra sé e si infilò le dita negli occhi.

“Bonnie” lo chiamò Tinkerbell. Quando si voltò a guardare l’altro genio, aveva ancora i piedi a mollo nell’acqua torbida del canale, mentre Tinkerbell era già in piedi con gli occhi del colore giusto.

Il ragazzino non ebbe tempo per farsi domande sulle iridi del compagno che questo gli lanciò addosso qualche cosa di molto piccolo. Lo afferrò con uno schiocco di palmi. Quando aprì le mani a coppa per vedere cosa Tinkerbell gli aveva dato vi trovò un grosso seme striato. Alzò la testa e guardò Tinkerbell, interrogativo. Ruthie gli sorrise “Quello è il tuo primo seme d’Ortica: un trofeo”

Tinkerbell ridacchiò.

 

***

 

“Dove cavolo è finito Clay?” domandò Jessie quando Bernie fu tornato dal bagno. La solita colonna sonora era il russare di Glen sul divano. Bernie alzò le spalle “Mi ha detto che gli è venuto male allo stomaco e si è chiuso in bagno” disse, lasciandosi cadere pesantemente al fianco della sorella “Meglio così, più popcorn per noi!” disse e fece ripartire il film.

 

Aki_Penn parla a vanvera: eccomi di nuovo qui! Anche questa volta ci ho messo un po’, ma ci sono riuscita! Yuppiyaye! E finalmente mi sono liberata di questa bestia che mi piaceva poco, spero che il capitolo non vi sia dispiaciuto. Ero abbastanza sicura di avere delle considerazioni a riguardo, ma al momento non me le ricordo. (Senilità incalzante!).

Come sempre, grazie mille per aver letto, non so come ringraziarvi. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 24
*** Il liquore d'alga ***


Make a wish -
Capitolo ventiquattro -
Il liquore d’alga –
 
La Mosca si allontanò un poco, tenendo tra le mani la treccia dorata della regina ‘Leandra, mentre lei vomitava una poltiglia verdastra. L’uomo chiuse gli occhi, quel misto di acidi gastrici, clorofilla e altre cose che non avrebbe saputo definire, gli faceva venire il voltastomaco, ma se avesse vomitato anche lui sarebbe stato un problema, il suo intestino non funzionava come quello delle Ortiche. Un conto era fingere di essere monco, un conto era svelare di essere una creatura completamente diversa.
‘Leandra tossì e vomitò ancora, con la mano appoggiata al muro bollente per reggersi in piedi, il suo vestito color avorio si era sporcato, ma a lei non sembrava importare, piangeva per lo sforzo.
Tossì ancora e si pulì la bocca con il braccio, mentre sentiva le mani della Mosca sorreggerle l’immane treccia dorata. Strizzò gli occhi domandandosi come facesse quell’uomo a essere così fermo e impassibile davanti a un tale schifo, un uomo monco, incapace di allungare i propri rami, era riuscito a mantenere la calma di fronte a quello spettacolo atroce, mentre lei vomitava l’anima in un angolo. Se chiudeva gli occhi riusciva ancora a vedere le mani del maestro guaritore staccare i pezzi della crisalide da quel corpo informe. ‘Leandra vomitò di nuovo.
Il Re suo marito le aveva fatto esprimere tre desideri, tre desideri esauditi da un genio, un genio dell’Altro Mondo e le aveva chiesto di usarli per schiudere una di quelle crisalidi avvizzite che se ne stavano al buio della Torre di Fuoco da anni e cosa era successo? Non era successo niente! Da quel bozzolo era stata espulsa un’immonda creatura informe e sanguinolenta che le faceva venire il voltastomaco. Non era quello che ‘Leandra si aspettava da ‘colui che salverà il nostro cielo’ come aveva detto il Re, ma non era nemmeno ciò che re Rubus si aspettava, era il bozzolo sbagliato.
Avrebbero dovuto aprire l’altra crisalide, quella era inutile, tanto valeva ucciderla subito, aveva pensato ‘Leandra, ma il Re suo marito aveva insistito per curarla. C’erano volute settimane per togliere lo spesso filamento che copriva gli occhi impastati della creatura.  Altre interminabili settimane per riuscire a scoprirle la bocca, re Rubus aveva voluto che lei assistesse all’operazione.
Il maestro aveva strappato quello strato filamentoso che copriva la creatura quando era uscita dal bozzo, ne era uscito pus e un liquido rosso putrescente, simile a quello che alimentava le loro torri, ma più denso. Quasi nero.
‘Leandra vomitò di nuovo e la Mosca la trattenne per un braccio perché non cadesse nel suo stesso vomito. “Che cos’era quella roba, Mosca?” domandò faticosamente, sputando. La Mosca strinse i denti e rimise la regina in posizione eretta, mentre lei tossiva.
“Sangue e pus, maestà, non sono cose che appartengano al nostro mondo” spiegò. ‘Leandra si voltò verso di lui di scatto e per poco l’uomo non si beccò in faccia una sferzata con la grossa treccia della regina. Lo sguardo di lei era acuto e acido, la Mosca lo sentì come una lama e si affrettò ad aggiungere “Ho studiato molto” come a scusare la sua conoscenza di certi argomenti.
Per un uomo non era difficile capire la situazione, aveva servito per anni nella Seconda Guardia prima di provare ciò che nessuno si era mai azzardato a fare: sfidare Deacon Brodie e attraversare il passaggio che l’avrebbe portato al Campo d’Ortiche. Pus, sangue e ferite non erano cose nuove per uno che avesse fatto il pirata.
“Quella cosa non dovrebbe essere qui” ringhiò la regina “Come fai a sopportare quello schifo? Non ha…non ha la pelle, né foglie…è solo carne putrida…” iniziò, rabbiosa, come se fosse colpa della Mosca e cercando di strattonarlo per liberarsi dalla sua presa, ma finì piagnucolando e trattenendo l’ennesimo conato di vomito.
“Maestà?” si azzardò a chiamare il consigliere del re. “Mollami!” strillò la regina strattonandolo per farsi lasciare e così la Mosca fece. ‘Leandra non poteva tollerare che un uomo simile, un monco, riuscisse a resistere a quello schifo mentre a lei toccasse l’umiliazione di vomitare.
“Come ti chiami, Mosca? Il tuo nome vero” comandò. La Mosca perse un battito. Al Grande Mare aveva avuto un nome da uomo, ma lo avevano sempre soprannominato ‘Mosca’, al Campo d’Ortiche si era presentato con un altro nome, ma aveva chiesto di essere chiamato Mosca, al Re non interessava e così l’aveva sempre chiamato.
“Primrose” ammise infine, il nome che aveva detto al Re il suo primo giorno in quel posto. La primula, un fiore innocuo come poteva essere un’ortica monca. ‘Leandra lo guardò con disprezzo.
“’Leandra” chiamò una voce tonante e ben conosciuta da entrambi. La ragazza si voltò a guardare Re Rubus che avanzava verso di loro. Il gigantesco Re diede un’occhiata al proprio consigliere, come al solito vestito di una tunica ingombrantissima nonostante il caldo e annuì chiedendogli di congedarsi. La Mosca fece un profondo inchino e andò a ritirarsi solo dopo aver detto che avrebbe mandato dei servitori a ripulire il pavimento.
‘Leandra e Rubus si guardarono silenziosi per qualche secondo, lo stomaco di lei aveva smesso di gorgogliare e la regina si pulì di nuovo la bocca col braccio, cercando di rendersi presentabile. Il suo vestito bianco era sporco. Sua maestà il re le aveva chiesto di vestirsi di stoffa e non delle proprie foglie come faceva di solito, e lei l’aveva accontentato, ma adesso la sua veste regale era sudicia e inguardabile.
“Mi ha parlato” disse a un certo punto il re del Campo d’Ortiche. Sua grazia era un uomo enorme col ventre ampio e le gambe corte rispetto al busto, nonostante questo rimaneva più alto di qualsiasi individuo alloggiasse alla Torre di Fuoco. Tre volte la sua piccola regina. I capelli erano biondi, di un biondo quasi ocra e i baffi lunghi e folti.
“La creatura” fece eco la moglie; il re annuì, grave. “Le hai detto quello di cui abbiamo parlato? Che ci serve che faccia da nuovo padrone per il genio?” chiese, severa. Le narici erano dilatate e gli occhi sbarrati a fissare il marito.
Re Rubus chiuse gli occhi e immediatamente ‘Leandra capì che qualche cosa non andava. Lo prese per una delle gigantesche braccia muscolose e lo scrollò “Che c’è? Che cacchio c’è?” sbottò, sempre più agitata, rendendo sempre più palese da quale putrido bassofondo provenisse.
“Non abbiamo più il genio” ammise infine il re. Il cuore di ‘Leandra perse un battito. “Co-cosa?” era sbigottita e faceva fatica a deglutire.
“Il genio ha detto che non può più aiutarci. Non potremo chiedergli altri desideri” continuò l’uomo. A ‘Leandra tremavano le labbra, sembrava sul punto di urlare ma allo stesso tempo sembrava non fosse in grado di farlo.
Il gigantesco sovrano si inchinò davanti alla moglie, prendendole la mano sinistra tra le sue “È colpa mia. Quando il genio si presentò a me sprecai il mio primo desiderio. Ci volevano tre desideri per far schiudere una crisalide, lo scoprii col tempo, quella è una magia potente” cominciò a dire Rubus. ‘Leandra sapeva già la storia, Rubus pensava che ripeterla avrebbe reso migliori le cose?
“Ho aspettato tanto perché non potevo rivelare il nome di un genio a una persona qualsiasi, avevo bisogno di qualcuno di cui mi fidassi, ho DOVUTO aspettare te” disse, mentre ‘Leandra arretrava e il suo re finiva con le ginocchia sul pavimento sudicio.
“La creatura avrebbe potuto aiutarci a far schiudere l’altra crisalide, e così avremmo potuto restaurare il cielo che ci sta cadendo addosso ma…” continuò, ma la moglie non gli lasciò finire la frase e urlò “Non può aiutarci o non vuole? Quel fottuto genio?” pianse ‘Leandra.
Rubus scosse la testa, ma sua moglie continuò a urlare “Se non vuole lo dobbiamo costringere! Il cielo ci cadrà addosso! Rimarremo schiacciati sotto!” pianse lei “Sappiamo il suo nome, costringiamolo, costringiamolo!” urlò fuori di sé. Sulla fronte le andavano crescendo, per la rabbia, due piccoli rami che avrebbero potuto sembrare le corna di un cervo.
Re Rubus si mise un dito davanti alla bocca e sussurrò dolcemente un “Ssh. Questo non ci salverà, ‘Leandra. Il genio non ci aiuterà e basta”
‘Leandra si accasciò contro il muro con il fiatone come se avesse corso e guardò il proprio marito con uno sguardo vacuo. Le loro speranze se ne erano andate. La creatura che avevano risvegliato era quella sbagliata, si trattava di un essere debole, privo di utilità.
“La creatura ci aiuterà” disse a quel punto l’uomo. “E come?” chiese la regina, seria. Rubus alzò il dito indice, come per fermare un’obiezione.
“Una cosa, una cosa sola” annunciò “Dammi il tuo dito” ordinò, e ‘Leandra avvicinò lentamente il proprio indice a quello del consorte che si stava trasformando in una grossa spina nera.
“Una goccia di veleno, mia regina” concluse, mentre il pungiglione del re si apriva un varco del dito di ‘Leandra. La ragazza strinse gli occhi e digrignò i denti, ma durò solo un secondo: una goccia di veleno cadde in una foglia che cresceva dalla veste del re.
“La creatura ci aiuterà, ‘Leandra” disse ancora una volta, guardandola negli occhi e ‘Leandra si sentì minuscola rispetto all’enorme sovrano.  Annuì e guardò il proprio marito che tornava nelle stanza della creatura immonda. Chiuse gli occhi e respirò forte.
 
***
 
“E quindi a te il tuo cellulare, come promesso” fece Germàn con un sorriso allegro, porgendo a Bonnie il suo telefono di ultima generazione. “Oh, finalmente! I giochi installati sul cellulare di Ruthie sono una merda” commentò il ragazzino, passando le dita sullo schermo. Ruthie grugnì, ma non disse altro. Tinkerbell fece una smorfia divertita, mentre Germàn si atteggiava da gran padrone accogliente, gioviale e allegro, come se non avesse mai avuto una consistente partita di droga nascosta sotto delle patate e un coccodrillo nella propria fogna.
“E poi, per ringraziarvi, vorrei che sceglieste una qualsiasi delle armi che posseggo” annunciò facendo strada in una stanza sotterranea non troppo grande. I tre lo seguirono e Clay fu l’ultimo ad entrare, alzò un sopracciglio e si fece indietro, vedendo la quantità di fucili e armi da fuoco che stavano in bella mostra attaccate alle pareti. C’era anche una katana. Bonnie fece una smorfia, probabilmente la katana di Germàn aveva un aspetto migliore della sua, ma non c’era paragone in quanto a efficacia.
Tinkerbell sorrise al trafficante e disse gentilmente “Grazie mille, ma a noi non servono armi del genere” era quasi divertito.
Germàn gli sorrise di rimando, aveva i vestiti ancora tutti sbrindellati, ma sembrava di umore così buono che nemmeno Tinkerbell era riuscito a tenere il muso. “Forse a te non servono, ma…” e accennò con la testa a un punto accanto a lui. Tinkerbell si voltò a guardare Ruthie: se fosse stata un cartone animato avrebbe avuto i cuori al posto degli occhi. “Scelgo il Kalashnikov” esclamò la ragazza, sovraeccitata.
“E che cavolo te ne fai?” sbottò Tinkerbell, acido. La ragazza si voltò verso di lui, accigliata “Il mio revolver è caduto nella fogna!” sbotto, offesa.
“Ma…un Kalashnikov? E dove te lo metti? È un fucile d’assalto!” sbottò lui.
“Ho sempre desiderato un Kalashnikov” ribatté Ruthie offesa.
“Che razza di desiderio è?”
Germàn ridacchio e Bonnie alzò gli occhi al cielo, era quasi contento di lasciare quei due, anche se l’idea di dover seguire le sottane della grassona non gli piaceva per niente.
 
***
 
Dirk mandò giù un sorso di Martini e strizzò gli occhi sentendo l’alcol scendere per la gola. Se ne stava seduto sul letto a petto nudo, con le ali al vento. A volte gli dava fastidio tenerle nascoste, la sera quando nessun occhio curioso lo guardava. Duchessa gironzolava per la camera, la moquette bordeaux era pulita come sempre, Dirk si chiedeva spesso chi fosse stato l’inventore di quella roba, era convinto che la signora delle pulizie diventasse matta per dare al pavimento un aspetto decente.
Fu mentre Duchessa gli riservava uno sguardo strabico e pieno d’amore, con la lingua di fuori, che l’armadio di legno lucido si aprì, vomitando un uomo dai capelli rossi e camicia fiorata.
“Buonasera” salutò Diablo chiudendo le ante dell’armadio lucido.
Dirk fece un sorrisetto furbo e alzò il bicchiere come per brindare “Buonasera” rispose, allegro, mettendosi a gambe incrociate.
“C’è Silk?” domandò il pirata. Silk sapeva che Dirk riceveva qualche visita, ma non era comunque bello farsi vedere da lui. Se Ebén aveva smesso di attaccare Silk per rubargli i semi d’Ortica raccolti, lo stesso non avevano fatto gli equipaggi della Rainbow Dancer e della Kensington Gardens che continuavano a presentarsi a casa di Silk con un unico scopo, ma i semi non li portavano addosso né Dirk né Duchessa.
“No, è in giro con Roxanne. C’è un matrimonio importante tra un paio di giorni” spiegò il ragazzo con un sorriso, raddrizzando la schiena.
Diablo inclinò la testa da una parte e strinse le labbra. Dalla bandana gli spuntava la solita treccia con appese perline e conchiglie e un codino di capelli rossi sulla nuca. La chiave del Dicono gli pendeva dal polso sinistro, dove teneva stretta una bottiglia di vetro squadrato. Era liquore d’alga, bevanda tipica del Grande Mare.
L’uomo appoggiò la bottiglia sul comodino nero che stava accanto al letto di Dirk. “Tua madre” disse solamente Diablo, allungandosi, un po’ rigido. Dirk appoggiò la testa alla mano messa a conca e sospirò, mentre le ali fendevano l’aria facendo vento “Come sta mia madre?”
Diablo annuì, tirando un po’ fuori le labbra “Bene” disse, senza guardarlo “Chiede quando torni”
Dirk fece un sorriso un po’ plastico e alzò gli occhi al cielo “Quando vorrò morire, immagino”
Poi si schiarì la voce e disse “Ringraziala per il liquore d’alga e non dirle che preferisco il Martini” commentò alzando il bicchiere, poi continuò “Sei qui per Tinkerbell?”
Diablo fece una smorfia divertita “La prossima volta che andrò a trovare Tinkerbell farò in modo di avere con me tutta la ciurma della Kensington Garden” spiegò, cospiratorio.
Dirk fece un altro dei suoi sorrisetti furbi a labbra strette e lo guardò dal basso. Anche se si fosse alzato dal letto dove stava seduto sarebbe stato molto più basso dell’altro pirata. Diablo si accigliò, rendendosi conto solo in quel momento di quello che aveva detto e con chi l’aveva detto “Te lo terrai per te, vero?” domandò, sospettoso.
“Sono la Svizzera” cantilenò Dirk. Da quando viveva a Dubai si era interessato alla geografia del posto, sulla Svizzera aveva imparato che era neutrale e che produceva il cioccolato. Il cioccolato gli piaceva un sacco, al Grande Mare non l’avevano.
Diablo annuì e si voltò con tutta l’intenzione di tornarsene nell’armadio dal quale era venuto, ma Dirk parlò di nuovo “Sai, ci ho messo un po’ prima di capire quale fosse la connessione tra te e Tinkerbell”  disse. Diablo si voltò di nuovo verso il ragazzino. Dirk aveva la fama di essere un tipo piuttosto sfacciato, lo dicevano quando era il vice della Flying Horn, continuavano a dirlo da quando viveva con Silk. I capelli biondi erano rasati sui lati della testa e lunghi e disordinati sulla sommità.
“Quindi?” domandò Diablo, serio, come per chiedere a che cosa l’altro pirata mirasse con quella frase. Dirk alzò le spalle “Lo sai, vero, il suo nome…?”
Diablo si morsicò l’interno delle guance, scocciato “Ovvio che lo so”
“Lo sai vero che se sua Maestà scopre che conosci il nome di un genio, ti farà sputare sangue per saperlo e poi appena ottenuto il nome ti ammazzerà senza pensarci due volte?” chiese retorico e fintamente divertito, nascondendosi dietro al calice di Martini per bere di nuovo. La mosca di caffè galleggiava mollemente nel liquido trasparente.
“Lo so, ma questo vale anche per te, sei stato il padrone di Silk, anche tu sai il suo nome” gli fece notare Diablo, un po’ strafottente.
Dirk si raddrizzò di nuovo e si tese un poco verso il suo interlocutore “Già, ma la differenza tra me e te è che io vivo qui e tu al Grande Mare” disse con un sorriso che a Diablo sembrò quasi cattivo. Non poté fare a meno di annuire.
“Come vi è potuto succedere?” lo interrogò poi, guardando distrattamente il chicco di caffè che galleggiava nel Martini. Diablo scrollò le spalle stancamente “Nell’unico modo possibile: per caso”
“Chi altri lo sa?” domandò Dirk, tornando pacato.
Diablo fece schioccare le labbra “Jollah, l’ho detto solo a Jollah” rispose. Dirk prese un’altra sorsata del suo Martini fissando Diablo. L’uomo sembrava parecchio intristito “Credo che sia tempo che vada, è da un po’ che non mi faccio vedere alla Kensington Gardens, ho avuto da fare”
Dirk annuì e guardò l’amico voltarsi per tornare nell’armadio, ma prima che Diablo infilasse il secondo piede oltre le ante, tra i vestiti di Silk, parlò di nuovo “Senti, ti ho detto che sono la Svizzera e che non dirò a Tinkerbell che hai intenzione di fargli una sgradita sorpresa, ma sappi che se dovessi scoprire il momento in cui attaccherete Silk, giuro, ti taglierò le gambe. La tengo ancora, la spada, sotto al letto” minacciò, e a Diablo sembrò tremendamente serio. Rise e si chiuse l’armadio alle spalle.
 
***
 
“Siamo qui” esordì Tinkerbell tirando la tenda della doccia. Una boccetta di sapone liquido sfrecciò nell’aria e colpì Bonnie direttamente in faccia, dato che Ruthie e Tinkerbell si erano piegati in avanti per scansarla.
“Devi passare sempre dalla doccia? Non è nemmeno una vera porta!” sbottò una vergognosa Chismes, avvolta in un asciugamano bianco. I capelli bagnati le gocciolavano sulle spalle.
“Scusami” iniziò Tinkerbell, tranquillo “Credo sia un refuso, come il fatto che quando Septum richiama a sé il tridente gli arriva in faccia, anziché in mano” spiegò pratico, mentre aiutava Ruthie a uscire dalla vasca. Bonnie li seguì imbronciato scavalcando il bordo della vasca, mentre il fodero della spada ci sbatteva contro. Era un’arma scomoda, non avrebbe voluto doversela sempre portare dietro appesa alla cintura.
Chismes cacciò loro un’occhiataccia “Passi il fatto che vi piaccia passare per il nostro bagno, ma adesso vorrei finire di asciugarmi. Ci penserà Septum a fare gli onori di casa” disse, un po’ arrabbiata. Tinkerbell le sorrise un po’ strafottente e uscì dal bagno seguito dagli altri due, Ruthie sorridente e Bonnie imbronciato.
Nella stanza attigua stava Septum, stravaccato sul divano a guardare la televisione, alzò gli occhi pigramente, per guardarli. Non aveva messo il gel alla cresta, per cui i capelli gli ricadevano da un lato della testa, mosci. Li accolse con un grugnito.
“Eccolo, il marmocchio” commentò. “Tutto tuo” gli ricordò Tinkerbell contento di liberarsi di quel rompiscatole.
“Mi chiamo Bonnie” ricordò Bonnie, vagamente esasperato, odiava essere appellato come ‘Bonnie’, ma di certo era meglio che ‘marmocchio’. Septum non gli piaceva per niente.
“Abbiamo un solo letto matrimoniale, quindi dormirai in mezzo a me e Chismes, a meno che tu non preferisca stare in terrazza” iniziò, facendo gli onori di casa a modo suo, senza nemmeno alzarsi dal divano.
“Eh?” proruppe Bonnie sporgendosi in avanti. Tinkerbell fece un passo indietro, se doveva godersi la scena di un litigio tra geni preferiva non finirci in mezzo.
Ruthie lo imitò. “Perché non posso stare sul divano?” sbottò, indicando il sedile del genio giapponese. Septum grugnì “Qui ci dorme Nerina” spiegò, guardandolo sottecchi.
“Nerina?” ripeté  Bonnie perplesso, finché una pantera incredibilmente nera spuntò da dietro il sofà e ruggì contro al ragazzino biondo. Bonnie emise un urletto acuto e fece un salto indietro. Si era scordato della pantera di Septum. Lydia, la volpe di Chismes, spuntò da sotto un mobile e gli corse in mezzo alle gambe, per poi ricomparire in direzione della cucina. Nerina ruggì in quella direzione, ma poi sbadigliò e si mise sdraiata ai piedi del suo padrone.
Bonnie aprì la bocca, ma boccheggiò senza riuscire ad emettere alcun suono. Non voleva stare lì, se Tinkerbell era insopportabile Septum era sicuramente peggio.
“Spero che il tuo famiglio non sia fastidioso, se no lo farò mangiare da Nerina” aggiunse, guardandolo male.
“Non ho un famiglio” disse, imbronciato. Septum sbuffò, ma poteva essere anche una risatina.
“Non…non ho idea di come trovarmi un famiglio…” ammise, guardando Septum negli occhi.
Septum arricciò il naso.
“Questa sera io e Chismes andiamo a Napoli a mangiare una pizza, se non ti va bene, non mangi”
Bonnie chiuse gli occhi, avrebbe voluto piangere o uccidere qualcuno. In alternativa strinse i pugni e sospirò.
 
***
 
“Ma quindi dove siamo?” domandò Ruthie perplessa, emergendo da una cavità nella roccia. Era chiaro che in mancanza di porte quello sarebbe stato il loro passaggio.
Il terreno era fangoso e ricoperto di vegetazione e radici. Ruthie alzò lo sguardo e il suo campo visivo fu invaso da un mare di verde. Il cielo era invisibile e la vegetazione era fittissima, c’erano alberi incredibilmente alti con foglie pazzesche. Un uccello colorato le volò sopra la testa, andandosi ad appollaiare gracchiando su un ramo poco distante.
“Wow…” disse poi, d’un tratto quasi disinteressata alla propria posizione geografica.
“Amazzonia” rispose Tinkerbell, calmo. Ruthie voltò lentamente la testa verso di lui, stavano sudando entrambi. Ruthie cercò di asciugarsi la fronte con la manica, prima di togliersi il maglioncino, rimanendo in canottiera.
“Fa un gran caldo” ansimò Ruthie.
“È l’umidità” disse qualcuno che non era Tinkerbell. Entrambi si voltarono di scatto verso la cavità  rocciosa dalla quale erano usciti. Ruthie alzò gli occhi e incrociò lo sguardo con un ragazzo biondo non troppo alto, dalle spalle larghe e il sorriso strafottente.
“Dirk” disse Tinkerbell.
Il ragazzo biondo fece un inchino spiritoso “Già, questo è il mio nome”
Tinkerbell arricciò i lati della bocca mentre Ruthie guardava perplessa il nuovo venuto. Una voce si dipanò alle spalle del pirata. “Dirk, sei il peggior comitato di benvenuto mai scritturato, falli venire qui prima che i moscerini invadano il nostro pranzo”
Ruthie conosceva quella voce, anche se non avrebbe saputo dire a chi appartenesse, Tinkerbell non si fece tanti problemi e con un salto raggiunse Dirk sulla sommità della roccia. Il ragazzo lo accolse con un gran sorriso, prima di lanciare un’occhiata divertita a Ruthie, che era rimasta in basso. Le indicò un albero lì accanto, le radici erano scoperte e arrivavano fino alla base della roccia, le si poteva usare per aggrapparsi e salire.
“Prova per di là” suggerì. Ruthie annuì grugnendo, offesa dal fatto che Tinkerbell non le avesse dato una mano.
Afferrò un paio di grosse radici e cercò di issarsi sulle rocce, intanto anche Dirk era sparito dalla vista.
Quando finalmente riuscì ad arrivare in cima era bagnata di sudore e sporca di fango. Poco più in là era stato posizionato un gazebo mobile in un ristretto spazio senza troppa vegetazione. Il carlino strabico di Silk le corse incontro per leccarla, abbaiando felice. Ruthie gli sorrise e si piegò per accarezzarlo.
“Duchessa, smettila di infastidire gli ospiti, per cortesia” sentenziò Silk, autorevole, poi aggiunse “Ehi, Tinkerbell, ti sembra un comportamento da signore? Si è infangata tutta per salire! Vieni qui, ho una bottiglia d’acqua con cui almeno puoi lavarti le mani” disse, facendole segno di avvicinarsi.
“Scusa, non ci avevo pensato” ammise Clay, per nulla preoccupato, mentre masticava un sandwich al tonno.
“È tutto a posto” rispose Ruthie sorridendo a Silk, che le versò l’acqua minerale sulle mani. Duchessa si posizionò scodinzolando sotto quella cascata fresca.
“Spero che ti piacciano i sandwich, io e Dirk ve ne abbiamo portati un po’” spiegò gentile, sedendosi. Silk era un uomo complicato, così rispettoso e beneducato, col cranio privo di capelli e l’andatura claudicante. Sembrava comunque un tipo bonario. Riguardo a Dirk non aveva idea di che cosa pensare, aveva vagamente sentito parlare di lui, ma non l’aveva mai visto. Le sembrava un tipo piuttosto strafottente, doveva avere più o meno la sua età, qualche anno in più al massimo, ma era sicuramente più giovane di Tinkerbell.
“Sedetevi, su, sedetevi” li incitò Silk, prendendo posto per primo. Dirk lo seguì con quella sua andatura un po’ felina.
Aveva sentito dire che Dirk faceva parte dei pirati e che aveva ingannato Silk diventando il suo padrone, avevano ammazzato insieme una bestia e con l’ultimo desiderio si era fatto dare delle ali, ali che in quel momento Ruthie non vedeva da nessuna parte. Poi era rimasto a vivere a Dubai con Silk, in modo del tutto non programmato. Ruthie si chiese cosa ci facesse con quelle ali invisibili.
“A cosa dobbiamo questa visita?” domandò Tinkerbell, servendosi di un panino al salmone e burro. “Abbiamo anche i falafel, se li vuoi” lo informò Dirk, d’un tratta serio, intento a versarsi dell’acqua nel bicchiere.
Silk chiuse gli occhi e sospirò “Oh, Tinkerbell, prima che arrivasse Ruthie eri un nostro ospite fisso a pranzo. Ci dispiace non vederti più. Anche Skog e Chismes lo dicono” disse l’uomo, versando un po’ d’acqua anche a Ruthie.
“E poi dopo due giorni fa abbiamo concluso un matrimonio importante, preferirei combattere contro cento Bestie piuttosto che contro un’altra cliente del genere. Dirk, stappa lo spumante, per cortesia. Festeggiamo questa liberazione” disse, con un fare esausto, e in un secondo la bottiglia di vino frizzante che Dirk aveva in mano si aprì con un gran botto.
“Vinò?” domandò Dirk a Ruthie, che ringraziò e bevve tutta l’acqua che c’era nel proprio bicchiere, prima di porgerlo al ragazzo.
“Sai che preferirei mangiare segatura pur di non dover tornare a essere ospite di Skog per pranzo” commentò Tinkerbell rifiutando il vino. La birra era meglio, era sempre meglio.
Silk scosse la testa grave, sapendo esattamente a che cosa il ragazzo si riferiva “Secondo me ci mette proprio la segatura nelle sue zuppe. Un falegname ne avrà un sacco da buttare” commentò, accennando un sorriso.
“Cosa pensi di quello nuovo?” domandò poi.
“È un idiota” risposero Ruthie e Tinkerbell in coro. Si guardarono sorpresi di quella contemporaneità. Silk sorrise “L’ho conosciuto anche io, Chismes e Septum mi hanno chiesto di fare il baby-sitter mentre loro andavano a spaventare i figuranti nel tunnel degli orrori di Disneyland” spiegò l’uomo. Tinkerbell alzò un sopracciglio.
“A quale scopo?” chiese, immaginando la risposta.
“Non ne ho idea e non voglio saperlo” lo rimbeccò Silk “comunque mi ha domandato che cosa fosse successo alla mia gamba e si è tanto preoccupato di poter rimanere anche lui mutilato. Eppure a me sono sempre ricresciuti tutti i pezzi e bla bla bla, bla bla bla. Una noia. Non so ancora bene cosa pensare di lui. Per ora non lo manderei da solo contro una bestia” commentò, mentre Tinkerbell ridacchiava.
“In Messico ha fatto un casino quando l’ho lasciato da solo con Ruthie”
“Tu non dovevi lasciarlo da solo, però” commentò Silk, bonario. “Touché”
“Che…” Ruthie esitò “che cosa è successo alla tua gamba? Se non sono indiscreta a chiederlo, ovvio” domandò la ragazza, curiosa e imbarazzata allo stesso tempo. Aveva le guance rosse per il caldo. Silk scrollò le spalle “Niente di più sospetto del fatto che sia nato senza” le spiegò lui, tranquillo. Tinkerbell si chiedeva come potesse sopravvivere in giacca e cravatta. Quel giorno indossava un completo di un arancione sgargiante che attirava i moscerini.
Silk e Tinkerbell si misero a parlare dell’ultima bestia che Silk aveva incontrato, su una nave da crociera, e del fatto che Fatalii avesse dei problemi con la moglie e Ruthie si rimise a mangiare a testa bassa. Davanti a lei Dirk si serviva tranquillamente a occhi bassi. Ruthie lo fissò mentre mordeva un sandwich al tonno e si passò la lingua sulle labbra, indecisa se parlargli o meno.
“Tu sei un pirata, vero?” domandò. Sapeva già la risposta, ma non sapeva come iniziare la conversazione. Dirk alzò gli occhi incuriosito “Lo ero” ammise, poi aggiunse “Sai che cosa e davvero una pirata? Voi ci chiamati così, ma in realtà faciamo parte dell’esercizio…dell’esercito” spiegò lui, masticando piano, poi iniziò a elencare “C’è la Prima Guardia, che fa la sicurezza del Re, e la Seconda Guardia, che è la sezione dell’esercito che ha l’impegno di raccogliare i semi d’Ortica che i geni prendeno dalle Bestie”
Ruthie si mise un ciuffo di capelli dietro l’orecchio e prese un pezzo di frittata “Tu parli strano” aggiunse poi, circospetta. Dirk la guardò tirando in fuori le labbra, divertito “Beh, questa non è la mia lingua mia. Quanti pirati hai conosciato fino ad ora?”
Ruthie scosse la testa “Diablo, solo lui. Lui parla bene inglese”
Dirk sbuffò, infastidito “Ah, quello è un raccomandato. Ha un piede qui, uno al Grande Mare e uno nella fossa, a parer mio. Se non la smetta di fare l’idioti”
Ruthie alzò le sopracciglia perplessa e Dirk continuò “Diablo è figlio dell’arte, dico. Di solito chi è della Seconda Guardia evita di avere figli. Non facciamo uno voti, ma sai, è un lavoro pericoloso, non sai mai se torni a casa intero, non sai mai se torni a casa. L’ultimo è stato Coli, Silk ha detto che Commander l’ha portato al Palazzo in aria” disse. Ruthie si sentiva un po’ a disagio, Dirk aveva uno sguardo decisamente penetrante, sembrava poter ridere di ogni sua debolezza. Si fece un po’ indietro sulla sedia da campeggio, mentre il pirata si schiariva la voce “Beh, in ogni modo ad Albe e Rosette non andò così. Albe è famosi nell’ambiente, non so se Tinkerbell ti ha mai parlati di lui”
Ruthie scosse la testa mentre Dirk lanciava un’occhiata a Tinkerbell. Clay stava ancora  discutendo con Silk, erano finiti di nuovo a parlare di Bonnie.
“Albe è l’unico pirata che ha mai ucciso un genio. È una cosa grossi, sai… mai successo né prima né dopo di lui” spiegò, guardandola divertito. Ruthie si rabbuiò e Dirk si affrettò a continuare “Ma non pensare che io sono qui per uccidere qualcuno. A noi non interessa uccidere i geni, a noi serve solo i semi. Uccidere i geni è un rischios che porta solo a  non-vantaggi, a… svantaggi, svantaggi! È successo, Albe non era granché orgoglioso” scrollò le spalle “In ogni modo, la cosa non è questa. Diablo lo hanno avuto quando Rosette aveva già superato in quaranta, uno sbaglio, un errore e una cosa abbastanza non usuale. Lo hanno mollato all’Altro Mondo, senza grandi rimpianti, dico”
“Oh” fu l’unico commento di Ruthie, ma il ragazzo non le badò “Sono invecchiati insieme e bla bla bla, finché Albe non ha iniziato a dimenticare le cose, Rosette compresa, ovviamente”
“In che senso?” chiese Ruthie, perplessa. La ragazza vide Dirk fare un discreto sforzo di memoria “Voi lo chiamate…lo chiamate…Alalzaimer” disse, per poi aggiungere “Credo”
“Alzheimer” lo corresse Ruthie, un po’ perplessa.
“Quello!” esclamò Dirk, per poi aggiungere “Più o meno. Ma mi hai capito, no?” Silk si era voltato per dare un’occhiata al ragazzo, ma poi era tornato a parlare con Tinkerbell.
Ruthie annuì e Dirk continuò, mentre anche Tinkerbell gli dava uno sguardo, tanto per controllare che si comportasse bene con il suo famiglio.
“In ogni modo, Rosette ha deciso che non poteva vederi la propria famiglia rotta così e ha deciso di andare a riprendersi Diablo, ecco. A lui non è piaciuta molto, la cosa” spiegò addentando l’ennesimo panino.
“Oh, capisco…quindi cosa ha fatto qui per tutti quegli anni?”
Dirk scrollò le spalle “Boh, non so, ma non mi interessa ché. Oh, tienlo Duchessa” disse, allungando una fetta di salame al carlino.
“Non è la bellissima?” domandò, Ruthie si fece prendere un po’ alla sprovvista, Dirk sembrava essersi fatto carino tutto in una volta.
“Eh?”
“Duchessa! Non è la bellissima? Da noi non abbiamo cani che hanno stati padellati sul muso” sentenziò.
“Non credo che l’abbiano presa a padellate”
“È la bella lo stesso” contestò Dirk, offeso.
Ruthie annuì per non indispettirlo ulteriormente, fu Silk a interrompere del tutto la conversazione, alzandosi dal tavolo.
“Su, Dirk – anche tu, Duchessa – è ora di andare, Bloom ha deciso che è di nuovo il mio turno” bofonchiò, massaggiandosi i polsi con le mani. Le catene iniziavano a pulsare.
“Vengo anche io?” domandò Dirk, speranzoso. Silk scosse la testa “Solo io e il mio famiglio, tu resti a casa, Dirk, la nave da crociera è stata un’eccezione e poi andiamo al nord, sono sicuro che il freddo non ti piacerebbe nemmeno un po’”
Il ragazzo grugnì ma non disse nulla di più e in un secondo Silk aveva smontato il gazebo e il tavolo da campeggio e si avviava a scendere per entrare nella grotta dalla quale Ruthie e Clay erano usciti, con un rotolo di tela cerata e bastoni sotto il braccio. Dirk lo seguiva trasportando il tavolo da campeggio e un paio di sedie, mentre Duchessa trotterellava loro dietro con la lingua di fuori.
Silk si appoggiò al proprio bastone da passeggio e sorrise a Ruthie “È stato un piacere incontrarti di nuovo, spero che un giorno verrete a cena da noi, a Dubai”
“I vicini hanno del gran buon Martini” commentò Dirk, divertito, Ruthie non capì la battuta, ma Silk si indispettì dandogli una bottarella sul ginocchio con il bastone sul quale si appoggiava.
“Basta molestare i vicini, Dirk!” il ragazzo sbuffò di nuovo, anche se divertito e saltò giù dalla sporgenza rocciosa seguendo Silk che, nonostante la menomazione, si era rivelato agile tanto quanto Tinkerbell.
“Arrivederci, Silk, e grazie del pranzo” sentì dire a Clay, alle proprie spalle. Silk e Dirk sparirono e Ruthie si voltò di nuovo verso Clay per chiedergli quale fosse il piano e per poco non stramazzò giù dalla roccia quando lo vide stare in mutande intento ad appendere i propri abiti a un ramo basso.
“Che cosa fai?” sbraitò allarmata. Tinkerbell alzò un sopracciglio, perplesso, e scrollò le spalle “Mi svesto” disse. La cosa era ovvia anche per Ruthie, la questione era un’altra “Perché?” sbottò.
“Ci andiamo nudi!” sentenziò Tinkerbell come se si stesse discutendo di ovvietà, e si tolse anche le mutande.
 
 
Aki_Penn parla a vanvera: Scusatemi, scusatemi, scusatemi! So di averci messo un’eternità, ma sono stata presa da varie cose e ho avuto poco tempo per scrivere, mi scuso in anticipo anche per il prossimo capitolo perché sarà cortissimo. Volevo per forza aggiornare questa sera perché è passato un sacco di tempo dall’ultimo capitolo che ho pubblicato e quindi  non sono riuscita a scrivere il prossimo come volevo. Cercherò di fare meglio in futuro.
Ebbene, siamo arrivati qui, è un capitolo di chiacchiere, un sacco, ma ci sono anche delle rivelazioni, probabilmente troppe, sono stata indecisa fino alla fine se pubblicare certe cose o no, ma alla fine ho ceduto. Spero che non sia troppo male, dato che probabilmente mi sono bruciata un paio di colpi di scena.
Grazie a tutti per aver letto, siete sempre carinissimi. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 25
*** Il dio nudo ***


Make a wish -

Capitolo venticinque -

Il dio nudo –

 

 

“Perché diamine dovrei togliermi i vestiti?” sbottò Ruthie, piuttosto inacidita, guardandolo negli occhi. Il fatto che fosse nudo la metteva un po’ a disagio, Tinkerbell invece sembrava tranquillissimo.

Alzò le braccia e indicò quello che li circondava “Vedi dove siamo?” chiese, retorico. Ruthie annuì, scocciata e con ovvietà. Un uccello tropicale gracchiò, mentre nel fitto del bosco sembrava sempre scorrere l’acqua. L’atmosfera era umidissima, si sudava da star fermi.

“Pensa un po’, chi sono gli unici umani che vivrebbero in un posto simile? Una bestia non si nutre di moscerini e rane velenose, stiamo cercando delle persone, Ruthie” le ricordò lui, guardandola, divertito. La ragazza chiuse gli occhi e respirò “Non mi svesto”

“Ruthie!” sbottò ancora Clay, piegando le ginocchia, esasperato. “Per la miseria, non voglio che tu ti faccia trovare dagli indios con quelle calze coi cuori addosso” sentenziò.

“Quelle me le sarei tolta comunque, fa troppo caldo” ribatté lei, contrita.

Ci fu di nuovo qualche secondo di silenzio, durante il quale Ruthie si guardò bene dal non abbassare lo sguardo sotto l’ombelico di Clay.

“Non ci confonderemo lo stesso con gli indigeni, Tinkerbell” sentenziò lei, guardandolo dal basso. Tinkerbell era in piedi su una radice piuttosto grossa. Piegò la testa da una parte “Non ho detto che dobbiamo confonderci. Su, smettila di protestare e fai come ti dico”

Ruthie sbuffò sonoramente e si tolse la condottiera con uno strattone scocciato e la appese sopra una foglia piuttosto larga. Il seno, stretto nella biancheria intima sobbalzò e la ragazza andò a slacciarsi con stizza anche la gonna. Tinkerbell smise di guardarla e alzò lo sguardo. Il cielo si vedeva appena, tra le fronde verdi degli alberi. Tronchi enormi e altri più piccoli che si attorcigliavano loro intorno. Piante rampicanti e ciuffi di vegetazione che si estendevano attorno a loro come tende. Era tutto umido vivo e gocciolante. Clay chiuse gli occhi, cercando di sentire tutti i rumori che lo circondavano, probabilmente c’era anche qualche animale più pericoloso dell’uccello del paradiso: giaguari, tigri e leopardi.

“Posso tenere le scarpe?” sbottò Ruthie, scocciata.

“Non credo che gli indigeni abbiano le scarpe” commentò lui, voltando di poco la testa per guardarla.

“Non ti voltare, cacchio” strillò lei. Un gruppo di uccelli spiccarono il volo spaventati. Clay alzò le mani come se si trovasse davanti alla polizia, sempre dandole le spalle “Come vuoi, ma se poi dobbiamo andare in giro e tu stai dietro senza che io mi possa girare, un giaguaro potrebbe azzannarti senza che io me ne accorga” disse, divertito.

“Non dire cavolate!” sbottò Ruthie, scontenta, levandosi anche le scarpe. Il terreno era umido per colpa della pioggia frequente. Sentì il fango tra le dita e fece una smorfia, quella era la cosa più scomoda e imbarazzante che le fosse mai toccato fare. Aveva lasciato anche il fucile appoggiato a un grosso tronco pieno di muschio.

“Ho fatto, possiamo andare…” fece una pausa, non aveva idea di dove dovessero andare “… dove ti pare, non ho idea di dove, sono tutti alberi…”

Ruthie se ne stava dignitosamente con una mano a coprire i seni e una tra le gambe e lo guardava storto. Clay alzò le sopracciglia “E i semi d’Ortica dove li hai messi?”

Ruthie si accigliò e lo guardò contrariata, rimanendo nella sua posizione un po’ plastica con l’intenzione di proteggersi alla vista del ragazzo “Non ho tasche, dove vuoi le li abbia messi? Li ho lasciati nei vestiti”

Tinkerbell scosse la testa “Non puoi mica lasciare qui i semi, ce li ruberebbero in un secondo!”

Ruthie grugnì “E quindi quale sarebbe la tua idea geniale? Devo tenerli in mano per tutto il tempo” chiese, indispettita.

“Te li leghi al polso con il laccio di una scarpa” fu la risposta tranquilla di lui. Ruthie sbuffò mentre Tinkerbell le passava di fianco, superandola, per andare a raccattare semi e scarpe.

Non ne poteva già più di quel posto: era sporco, umido e imbarazzante. Fu difficile convincere Ruthie e offrire un polso a Tinkerbell, perché la cosa avrebbe significato lasciare scoperto qualche cosa, alla fine se ne stette tutto il tempo con una gamba sollevata come un fenicottero, mentre con il braccio libero si copriva il petto, sdegnosa.

“Come diavolo fai a essere così a tuo agio, da nudo?” sbottò, acida.

“Sono nato nudo, non vedo quale sia il problema”

Ruthie lo guardò storto. “Ehi, non mi guardare così, lo so che non sono Schwarzenegger, è mio fratello il bello della famiglia, io sono quello rachitico” ridacchiò.

“Non ti stavo guardando male per quello” disse lei, un poco più buona nei suoi confronti, mentre Tinkerbell finiva di allacciare il laccio della scarpa al suo polso, subito prima di avventurarsi sorridente nella boscaglia.

Ruthie lo seguì di malavoglia, sbuffando, mentre Clay afferrava foglie e fiori con l’intenzione di legarseli attorno ai polsi per nascondere i due anelli d’argento. Non ci volle molto perché Ruthie rimanesse in dietro. Tinkerbell camminava distrattamente cercando di allacciarsi le foglie addosso, ma zampettava sicuro da una radice all’altra, senza nemmeno curarsi di guardare dove metteva i piedi, per Ruthie ogni passo era un’impresa. Scavalcare quelle enormi radici, evitare i rami bassi, passare sopra i tronchi degli alberi caduti e rischiare di scivolare nel fango, rallentavano di molto la sua marcia.

Tinkerbell, in bilico su una sporgenza rocciosa si mise a guardarla annaspare, a braccia conserte. Stava cercando di scavalcare un tronco caduto, completamente ricoperto di muschio, aggrappandosi a un ramo per non perdere d’equilibrio. Era una macchia bianca nel folto della foresta verde. Una preda facile per chiunque, incredibilmente semplice da uccidere, per lui più di chiunque altro, mentre avanzava a passo lento nella natura.

Aveva avuto sette o otto ragazze in tutto, tra prima e dopo essere diventato un genio. La più bella era sicuramente Susie Collins, che era stata anche la prima, profonda come una pozzanghera, ma per niente antipatica. Si erano infilati dentro a un cespuglio nel cortile dietro la scuola, una sera dopo essere stati alla fiera del quartiere.  Quell’amplesso imbarazzante e poco soddisfacente gli era costato la testa nel gabinetto da parte da Mark Green che corteggiava Susie dai tempi delle medie, ma Tinkerbell era sempre rimasto dell’idea che ne fosse valsa la pena.

A ventisei anni, Tinkerbell, se avesse dovuto scegliere tra Susie -che era stata poi la reginetta della scuola e che continuava a vincere concorsi di bellezza comunali- e Ruthie, avrebbe scelto la seconda senza esitazioni.  Tra i motivi c’era anche quello che lei, dal basso del suo metro e mezzo, lo facesse sentire altissimo.

Lui e Jessie erano fatti tutti di tendini, nervi e muscoli lunghi, Ruthie era di placido burro. I fianchi erano larghi e morbidi, le gambe tornite e la pancia piatta e tenera. Il seno era pieno e sodo, abbondante addosso a una donnina di quelle dimensioni, ma non abbastanza da essere sproporzionato. Tinkerbell pensò che fosse della grandezza giusta per stare nella sua mano. Strinse il pugno come se volesse fare una prova concreta, acchiappando solo aria.

“Stai attenta a non scivolare” disse infine, decidendo di avvicinarsi. Ruthie, questa volta, non ebbe nulla da ridire sul fatto che fossero nudi, era chiaro che si fosse arresa all’evidenza.

“Grazie” rispose solo, lei, facendosi prendere per mano e aiutare. “Se vuoi ti porto in braccio” propose, serio. Ruthie scosse la testa decisione “È a posto così, tu non correre però”

Clay annuì, ma poi si guardò in giro circospetto, con la mascella contratta.

“Che c’è?” domandò lei, a bassa voce, facendosi ansiosa “La bestia?”

“No” disse lui brevemente, un secondo prima di afferrare con la mano una freccia che sfrecciava in direzione della nuca di Ruthie. Un’altra cosa che avrebbe potuto uccidere Ruthie era sicuramente il popolo della foresta. Lasciò cadere la freccia tra le foglie morte che ricoprivano il terreno e con un balzo saltò sulla sommità di una roccia ricoperta di vegetazione e si guardò intorno, gli ci volle un attimo per localizzare gli individui che lo circondavano, tre, quattro, cinque, sei. Erano nudi e armati, tutti e sei lo guardavano dal basso, senza distogliere gli occhi da lui, sembrava che si fossero dimenticati di Ruthie.  

Erano tutti uomini, uno solo aveva un arco provvisto di frecce, ma lo teneva abbassato, non stava mirando a loro. Gli altri erano armati di lance e coltelli, avrebbero dovuto avvicinarsi per colpire, questo gli avrebbe dato il tempo di evitare che colpissero Ruthie.

“Buongiorno, signori. Avvicinatevi, per favore” disse, guardandoli dall’alto.  Con un altro salto scese di nuovo a mettersi accanto al proprio famiglio. Ruthie se ne stava immobile, di nuovo con le mani a coprire le parti intime, e si guardava intorno, sudata e ansiosa. In un secondo sei persone emersero dal fitto della foresta, mostrandosi a entrambi nella loro nudità.

I lineamenti erano marcati, il naso largo e la pelle scura. Alle orecchie erano appesi particolari monili di legno e piume, i capelli erano scuri e sciolti sulle spalle. I tre che stavano davanti a loro erano armati di lancia, la punta era ornata da piume verdi, blu e gialle. Le tenevano basse, ma Ruthie non poteva fare a meno di respirare forte. Gli sguardi truci non la mettevano a proprio agio, né la fissità degli occhi dei nuovi venuti, né le narici dilatate dalla tensione. Tinkerbell rimaneva zitto e immobile accanto a lei, senza cercare di coprirsi alla loro vista, né di afferrare l’accetta che portava legata al polpaccio.

“Io sono Tinkerbell” si presentò, serio, e poi aggiunse, del tutto fuori da ogni logica “e sono un Dio”

In un secondo tutte le lance scattarono e Tinkerbell se ne trovò due a un palmo dal naso. La terza si appoggiò lievemente, ma non abbastanza da non ferire, sul petto di Ruthie. La ragazza strizzò gli occhi e cercò di rimanere ferma, mentre la piccola ferita all’altezza dello sterno iniziava a sanguinare.

Tinkerbell alzò lentamente le mani in segno di resa “Sono un Dio” ripeté “ma vengo in pace”

“Che idea di merda” piagnucolò Ruthie, tra i denti, mentre sentiva un’altra lama appoggiarsi alla propria schiena.

 

 

***

 

Il Diacono la guardò fisso e Alih si impegnò a non battere le palpebre e a fissarlo a sua volta.

“Una chiave, eh, Cloris?” ripeté, senza distogliere lo sguardo dalla ragazzina. Alih sentiva il peso della sua nuova spada attaccata alla cintura: le dava sicurezza. Non aveva mai avuto una vera spada, aveva avuto un coltello, quello sì, ma Big Jim gliel’aveva tolto di mano in un secondo quando l’aveva trovata in cambusa. Accapigliasi al mercato era un conto, accapigliarsi con un membro della Seconda Guardia era un suicidio, l’aveva imparato a proprie spese. Non era stato Big Jim a disarmarla, era stata una pianta rampicante, Alih non le aveva viste spesso, era uno di quei sortilegi che si facevano con la polvere dei semi d’Ortica.

“Sì, è lei. È il nuovo membro della Rainbow Dancer, si chiama Alih” spiegò Cloris, appoggiata in un angolo del tugurio polveroso in cui viveva il Diacono Brodie. Un paio di fiorellini bianchi sbocciarono nella barba dell’uomo, mentre non smetteva di fissare la ragazzina.

Alih abbassò lo sguardo per vederli, ma cercò di non farsi vedere stupita, Jim le aveva raccontato delle cose.

Redwood Brodie era un diacono esiliato, un’Ortica, una pianta, non era detto che si presentasse nella sua forma umana, non lo faceva sempre. Alih aveva visto la mano del diacono trasformarsi in un pezzo di legno con rampicanti senza foglie, ma per il resto non aveva mai perso la figura del vecchio canuto.

Non c’era nessun altro, oltre ai diaconi del Campo d’Ortiche, che potesse creare una chiave per passare da un mondo all’altro, Redwood Brodie donava di buon grado chiavi ai pirati, i pirati gli piacevano, si sentiva come se fossero tutti sulla stessa barca.

“Credi sia un buon elemento?” domandò ancora, allontanandosi dalla propria scrivania sporca di terriccio e girando attorno alla ragazzina che, ferma in mezzo alla stanzetta, trattenne il fiato. Aveva i capelli legati in una coda di cavallo molto corta le cui punte erano di un color magenta acceso.

Il diacono si tormentò le mani in grembo studiando la figura slanciata di Alih, aveva quattordici anni, era magra come un chiodo, ma più muscolosa di quanto si potesse pensare. Aveva saltato, corso e scavalcato qualsiasi ponte avesse potuto, durante l’infanzia, scappando e rubacchiando.

Cloris fece una smorfia “Potrebbe andare peggio” disse, con aria di sufficienza “In ogni modo non c’è molta gente che ha il fegato di unirsi alla Seconda Guardia e lei è agile” spiegò. Alih chiuse gli occhi cercando di ignorare il fatto che le parole di Cloris non fossero del tutto lusinghiere. Big Jim le aveva detto che ci sarebbe voluto un po’ di tempo prima di piacere a Cloris, e magari non le sarebbe mai piaciuta, ma l’importare era avere il suo rispetto e probabilmente quello non era impossibile  da ottenere.

“E gli avete dato dei semi d’Ortica?” domandò, studiando le punte dei capelli della ragazzina. Cloris grugnì “Solo un po’, abbastanza da colorarseli un po’ di magenta” spiegò, nonostante il diacono potesse vedere benissimo ciò che era stato fatto.

“Li sai usare?” domandò. Alih si irrigidì, era la prima volta che in diacono si rivolgeva direttamente a lei e non al suo capitano. Cloris incrociò le braccia e per un secondo penso di poter appoggiare la schiena al muro, invece che alla sedia, ma poi si ricordò di quanto era lercio quel posto e non lo fece.

“Ehm… sì…no…un po’” iniziò a balbettare Alih.

“Non le abbiamo ancora insegnato granché, ma Big Jim si è offerto di farle vedere come si fa” spiegò il capitano, guardando il diacono sottecchi.

“E mi vuoi fare vedere?” chiese ancora. Era un uomo magro ma molto alto. Alih non era bassa per la sua età, ma l’Ortica la sovrastava di parecchi centimetri.

Annuì e afferrò una delle ciocche, strisciò la mano contro i capelli e sentì tutta la polvere di semi d’Ortica attaccarsi alle proprie dita. Quando se la portò davanti agli occhi per vedere cosa era successo, le dita andavano a fuoco, ma non era doloroso. Il diacono si ritirò di scatto, preso alla sprovvista, guardando il fuoco con occhi accesi e sgranati.

“Con tutte le magie che ci sono, proprio il fuoco?” domandò, severo, riprendendo la sua solita solennità. Alih aprì la bocca per rispondere, ma la voce fu comunque quella di Cloris, che fece qualche passo verso l’uomo.

“Il fuoco non spaventa solo voi Ortiche, spaventa soprattutto voi Ortiche, ma fa male a tutti, anche ai geni. È il trucco migliore da imparare. Ad Alih piace. Le darai la chiave?” chiese. Gli era arrivata accanto e lo guardava dal basso con aria strafottente. Il diacono guardò prima il variopinto capitano e poi la ragazzina secca e bruttina che stava in piedi davanti a lui. Annuì e allungò la mano verso il viso di Alih. La ragazza dovette fare un grande sforzo per non ritrarsi.

Il dito del vecchio si fece scuro e pieno di segni, i segni si fecero più profondi, come se fossero cicatrici, ci volle qualche secondo prima che Alih si rendesse conto che quella era corteccia. Il dito si allungò, come un rampicante che godesse di vita propria, rimanendo però sottile come il dito ossuto del vecchio.

Il viticcio si intrecciò su se stesso, come uno svelto serpente di legno. Alih non riusciva a staccargli gli occhi di dosso, un po’ perché era estasiata, un po’ perché ne aveva paura.

Il legno si fece più sottile e più liscio finché la ragazzina non lo vide prendere la forma di una chiave di legno dall’impugnatura arzigogolata. Era rimasta appesa al dito di corteccia dell’uomo con un filo sottile che poteva sembrare un picciolo di mela.

Deacon Brodie scrollò la mano, scocciato, e la chiave di legno cadde per terra con un rumore metallico. Alih guardò il vecchio negli occhi e poi abbasso lo sguardo tra le proprie gambe. Ai suoi piedi, per terra, sulle assi di legno sudice, stava una chiave d’oro. Non era più di legno, sembrava proprio come la chiave che Cloris teneva attaccata alla cintura, quella che avevano usato per venire nell’altro mondo.

La ragazzina guardò di nuovo il diacono e lui annuì, grave. Annuì pure lei, prima di piegarsi in avanti e afferrare la chiave e stringerla nel palmo.

Da quel momento era un pirata a tutti gli effetti.

 

***

 

Una piantina dalle foglie carnose si fece strada in una crepa del tavolino intagliato che stava davanti a Bloom. L’uomo si schiarì la gola, mentre Veleno, vestito con la sua solita tunica bianca e grezza, si inginocchiava accanto a lui. La casacca era chiusa da un grosso bottone in madreperla a forma di baccello: un monile fine, che per nulla si adattava al vestiario dell’uomo. Il vegliardo sembrava particolarmente in forma per la sua età, le gambe erano magrissime e la pelle incartapecorita come una pergamena antica, ma la vitalità c’era ancora tutta.

La piantina crebbe vigorosa, raggiungendo la grandezza delle altre già adulte, fermandosi con un tremito sfacciato, o almeno, a Bloom sembrava sfacciato, come a dire “Prova a uccidermi, se hai il coraggio”. Aveva ucciso bestie per quasi tutta la vita, adesso sceglieva chi sarebbe stato a ucciderle, non c’era troppa differenza, ma le piantine continuavano ad essere sfacciate.

Bloom si schiarì di nuovo la gola e aprì la mano dove teneva le pedine metalliche: un ombrello, un tridente, un arco, una lancia e una spada. Silk, Skog e Tinkerbell erano già al lavoro con le altre bestie.

Bloom si rigirò tra le dita il piccolo ombrello, come per saggiarne la consistenza, mentre fissava la nuova venuta. Alla fine allungò il braccio e lasciò cadere l’oggettino tra le foglie della bestia, che lo circondò con un soffocante abbraccio. Poggiò la piccola spada sulla cornice del tavolo, dove non potevano crescere piante: Bonnie sarebbe andato con Chismes. Fu in quel momento che un’altra pianta crebbe in Groenlandia. Bloom grugnì, mentre anche Veleno fissava, assorto e serio, il tavolo intagliato.

Il Rettore afferrò il tridente e stava già per lasciarlo cadere sulla piantina quando il vecchio strabico gli mise una mano sul braccio.

“Aspetta” lo fermò “immagino che Septum abbia piacere di seguire Chismes in Cina, lascialo seguire lei e Bonnie e interepellalo solo in caso di estremo bisogno. Devi iniziare a imparare le problematiche di tutti” sentenziò. Bloom si voltò a guardarlo, mentre ancora stringeva il tridente di Septum in mano.

“Ad esempio: Fatalii è un padre di famiglia, dice in casa che è a fare un viaggio di lavoro, quindi è meglio se lo fai stare via due o tre settimane di seguito e poi lo lasci stare altrettanto tempo a casa, invece che fargli fare aventi e indietro ad intermittenza. Se dal Sud Africa dice di andare in Giappone non può certo tornare dopo tre giorni” spiegò. Bloom annuì e Veleno continuò “Septum non sa cucinare, quindi evita di lasciarlo a casa da solo quando Chismes non c’è. In questo caso, però, credo che voglia anche lui tastare terreno con Bonnie, prima di lasciarlo a lei” deglutì e abbassò lo sguardo prima di continuare con la sua lista “Per quanto riguarda Skog e Tinkerbell non c’è bisogno di riguardi particolari, ma ricordati che la sorella di Tinkerbell è malata e a lui fa sempre piacere farle visita, lo fa tutte le volte che può. Se non gli dai una pausa se la prenderà da solo, come ha fatto con la bestia del Messico. Intesi?”

Bloom annuì ancora una volta. Si domandò per quanto tempo Veleno fosse stato Rettore, Bloom aveva sempre visto lui a presidiare la congrega dei geni.

“Devi imparare a conoscerli per bene e a capire cosa è meglio, puoi anche non farlo, ovviamente, ma è bello avere qualche riguardo” disse Veleno. Il Rettore non era abituato a sentirlo parlare così e si rese conto solo in quel momento di quanta cura aveva avuto Veleno in quegli anni.

“Certo. Grazie”

“Figurati” aggiunse, alzandosi.

 

 

Aki_Penn parla a vanvera: Eccomi di nuovo, quasi non in ritardo. Mi spiace che questo capitolo sia così corto, anche il prossimo non sarà lunghissimo, ma non mi va di far passare un mese tra un capitolo e l’altro. L’inconveniente di tutto ciò è che finisco per scrivere capitoli dove non succede quasi nulla, ma che devo mettere lo stesso per l’interezza della storia, quindi non sono del tutto felice della scelta. Dovrei smettere di lavorare per poter scrivere. U.U

A parte queste chiacchiere inutili, scusatemi per il titolo, sembra una bestemmia, ma mi sembrava molto adeguato.

Mimi18, che non legge questa storia ma che ho interpellato per un consiglio riguardante questo capitolo (e che quindi ringrazio molto), mi ha detto che Tinkerbell sembra Black*Star quando dice di voler superare dio (Voi lettori di Soul Eater sapete di cosa sto parlando). Ho sputato un polmone quando me l’ha detto, ma spero davvero che non sia la prima cosa che vi è venuta in mente leggendo. Vi assicuro che dietro c’è un piano, forse non uno dei più riusciti, ma c’è.

Spero anche che nessuno si sia sentito a disagio per la parte dove Tinkerbell guarda Ruthie, per me è stata una sofferenza, ma ci tenevo a inserirla. Confido nel fatto che non sembri un viscido. In ogni modo, dopo questo capitolo vi sarà chiaro di come io shippi i miei stessi personaggi. Sono pessima! XD

Come sempre: grazie a tutti voi che leggete e mi lasciate le vostre bellissime recensioni, vi sono davvero grata!

Ritorna all'indice


Capitolo 26
*** La città in fiamme ***


 

Make a wish -

Capitolo ventisei -

La città in fiamme –

 

 

 

“Che idea di merda” ringhiò di nuovo Ruthie strizzando gli occhi, indignata. Tinkerbell sospirò, molto più rilassato dell’amica.

“Beh, adesso siamo qui” commentò lui, tranquillo. “Già” sentenziò Ruthie, acida “siamo qui, nudi e legati ad un palo e, secondo me, sta anche per piovere!” sbottò. Clay strizzò un occhio e con l’altro guardò il cielo, piegando la testa da una parte. La notte era luminosa, la luna quasi piena. “È un classico, siamo nella foresta pluviale”

“Ha già piovuto due volte da quando siamo legati qui!”

Era chiaro che Ruthie non gliel’avrebbe fatta passate liscia. Gli indigeni li avevano scortati fino al loro villaggio – un ammasso di capanne in mezzo a quel verde soffocante - e li avevano legati a un palo con le mani dietro la schiena. Si davano le spalle, seduti nudi sulla terra umida, Ruthie rabbrividiva dallo schifo, Tinkerbell invece sembrava completamente a suo agio, come sempre. C’era da chiedersi se il fatto di essere un genio lo rendesse più tollerante, ma a giudicare dal carattere di Commander e Septum doveva essere una cosa che andava al di là del loro compito, era proprio Clay a essere rilassato di natura.

“Pensi davvero che sia un problema il fatto che io sia legato?” chiese Tinkerbell svagato, cercando di sporgersi un po’ indietro, per quanto riusciva.

“Ahi!” esclamò Ruthie strizzando di nuovo gli occhi, sentendo che Clay le tirava le dita con le sue, legate lì accanto.

Tinkerbell ridacchiò, divertito, del tutto disinteressato all’ostilità degli abitanti del villaggio e a quella di Ruthie. Era notte, ormai e tutti si erano rintanati nelle proprie case, lasciando Ruthie e Tinkerbell legati al palo che stava in mezzo allo spiazzo. Il villaggio era costituito da una serie di capanne disposte a semicerchio, con il tetto fatto di foglie secche. Nel buio sembravano figure informi e spaventose.

“Che cosa ti hanno detto?” domandò lei, poggiando stancamente la testa contro il palo di legno. Le erano già finite un paio di schegge nella mano destra, ma era troppo stanca per sforzarsi di stare dritta. Sperò di non beccarsene altre sulle spalle nude.

“Che ci terranno per offrirci a Mahi” disse Tinkerbell tranquillo. Ruthie annuì e anche se lui non poteva vederla, continuò “Quindi, o questo Mahi è una fiera domestica, ma credo che l’unico che si diverta ad addestrare pantere sia Septum, oppure è la nostra bestia. Questa sarebbe una buona cosa, diciamo, almeno sappiamo come farci portare da lei. Temo che la venerino, però” spiegò. Ruthie sbuffò e lasciò ciondolare la testa in avanti, esasperata.

“È per quello che ti sei presentato come dio?” domandò a voce bassa. Tinkerbell mise le labbra all’infuori e fece una smorfia pensierosa “Pensavo che stupire un popolo indigeno fosse più facile che con la civiltà contemporanea nella quale viviamo noi. Il loro mondo è ristretto… ma probabilmente mi sbagliavo, mi sa che dovrò ricorrere ai soliti trucchetti. Però posso sempre continuare a cercare di convincerli che la loro bestia sia un falso dio, il che, effettivamente, è anche vero”

“Anche tu sei un falso dio” gli fece notare Ruthie, saccente, tirandosi su un’altra volta, senza darsi pace. Allungò le gambe per stirarsele  e inarcò un poco la schiena. Le faceva un po’ male.

“Sì, forse io non sarò un dio, ma almeno non voglio ucciderli” rimbrottò lui, un po’ offeso. Poi aggiunse “Giusto perché tu lo sappia: la capanna in mezzo, quella più grande, è praticamente il loro tempio, ci possono entrare solo gli uomini. La punizione per le donne che ci entrano è lo stupro di gruppo…” non fece in tempo a finire la frase che venne interrotto da un “Eh?” piuttosto acuto e stridulo.

“Sh!” le intimò Tinkerbell, accigliato “Evita di svegliarli e di farli uscire di nuovo dalle capanne, va a finire che se fai casino ci sgozzano all’istante come se fossimo dei capretti!” brontolò Clay, facendosi più cupo e piegando le gambe, cercando di mettersi in una posizione più comoda.

“Hai detto che mi vogliono stuprare!” lo rimbeccò lei.

“Non ho affatto detto questo” ribadì lui, perdendo la pazienza “Ho solo detto che non devi entrare in quella capanna, se devi gironzolare fallo lontano da lì. Era un utile avvertimento!” sbuffò. Non capiva perché lei dovesse prendersela tanto, lui cercava solo di avvisarla dei pericoli a cui andava incontro. Era un  posto nuovo e strano anche per lui, non sapeva bene cosa pensare.

Le capanne erano chiuse da grandi foglie intrecciate tra loro che fungevano da tende. Anche quella centrale era chiusa, ma lui aveva badato a osservare i movimenti degli abitanti e aveva potuto vedere che lì non dormiva nessuno, mentre nelle altre capanne sembrava ci si dividesse in famiglie, con una o due mogli per ogni marito, oltre che uno sciame di figli.

“Chi pensi che sia il capo?” domandò Tinkerbell scivolando un po’ in avanti con il sedere, ancora alla ricerca di una posizione quasi comoda, nonostante si ritrovasse con le mani legate dietro la schiena.

Ruthie chiuse gli occhi e aggrottò le sopracciglia “E cosa ne so? Sei tu quello che capisce la loro lingua, mica io” sentenziò, rimanendo ad occhi chiusi. Per un secondo aveva anche pensato che sarebbe stata capace di dormire anche in quella posizione, ma forse era una vana speranza.

“Sì, lo so, dimmi la tua opinione da fuori. Sesto senso femminile, quelle robe lì” insistette Tinkerbell, prendendole di nuovo le dita tra le sue, per come poteva.  Ruthie fece una smorfia “Mi prendi in giro?” chiese, ma poi continuò “Secondo me, il capo villaggio è quello con la barba più lunga”

“Sì?” chiese Tinkerbell stupito, lasciando andare le dita di lei. Ruthie annuì.

“Avrei detto che il capo fosse quel tipo con i capelli tagliati a scodella” commentò e lei fece una smorfia, anche se il genio non poteva vederla.

“Secondo me, quello è lo stregone, lo sciamano, quello che vuoi. Ha delle piume appese alle orecchie e fuma roba strana, mi sa di uno che abbia dei compiti spirituali… o una roba così” fece lei, e sembrava quasi più un brontolio che un’opinione vera e propria.

Tinkerbell si passò la lingua sui denti “Non ci avevo pensato…forse sarebbe quasi meglio se andassi da lui…” propose. “Per dirgli cosa?” domandò lei, curiosa, non aveva davvero idea di come il genio volesse affrontare la situazione, adesso che erano loro prigionieri.

“Beh, pensavo di continuare a cercare di convincerli che sono dio” rispose, sporgendosi in po’ e passando il peso su una parte del corpo, cercando di girarsi per vederla.

“Sei stupido? A me è sembrato proprio un buco nell’acqua. Si sono offesi un bel po’. Ci hanno legati a un palo, se non te ne sei accorto!” sbottò lei. Tinkerbell scrollò le spalle “Secondo me, era una buona strada, andava solo approfondita” sentenziò convinto, rimettendosi composto, sempre dandole la schiena.

Ruthie sgambettò, scocciata “E cosa dirai loro, di me? Che sono una dea? Non solo molto credibile”

“No, tu sei la vergine che ho portato nel caso abbiano bisogno di sacrificare qualcuno” ammise lui, tranquillo.

“Ma sei uno stronzo!” sbottò lei, avrebbe voluto dargli un calcio, ma da quella posizione era impossibile. Tinkerbell ne fu piuttosto soddisfatto.

“E poi non sono vergine!” ci tenne a precisare.

“Oh, spero non si formalizzeranno” ribatté lui, tranquillo, e Ruthie grugnì, mentre Clay si metteva a ridere. “Sto scherzando, dirò loro che sei il mio famiglio e basta. Ignoro se le loro divinità abbiano famigli o cose simili, male che vada sarai una novità divina” spiegò, decidendosi finalmente a slegare le corde che gli costringevano i polsi, ed ad alzarsi.

Ruthie scrollò le spalle, disinteressata “Fai quello che ti pare, a me interessa solo essere slegata da questo palo” disse, scocciata.

“Oh, no, tu rimani lì, mentre io vado” la rimbeccò lui.

“Eh?” sbottò lei, con un urletto stridulo.

“Shh!” fu la risposta di Tinkerbell “Vuoi svegliare tutto il villaggio?” chiese, arrabbiato.

“Non puoi lasciarmi qui, da sola!” esclamò lei, anche se a bassa voce, mentre lui circumnavigava il palo per guardarla in faccia.

“Non voglio che qualcuno svegliandosi notasse l’assenza dei due prigionieri. Se vedono te magari potrebbero non fare caso al fatto che manco io, mentre vado a parlare con lo sciamano” spiegò lui, duro.

“E se arriva un giaguaro?” soffiò Ruthie, offesa.

“Non arriverà un giaguaro ma, nel caso, urla” sbottò lui, scocciato, mettendosi le mani sui fianchi.

“E se mi stacca la testa prima che faccia in tempo a urlare?” chiese ancora lei, mentre Clay si allontanava.

“Smettila di rompere e non muoverti di lì” concluse lui, senza voglia di replicare ancora.

“No che non mi muovo, non posso, cacchio!” la sentì lamentarsi, quando ormai le dava le spalle. Si avviò a passo tranquillo verso la capanna dove aveva visto andare lo sciamano. Scostò le foglie che fungevano da tenda e vi entrò silenziosamente. Sul terreno si disegnò una striscia di luce lunare, che si affievolì subito dopo che Clay ebbe lasciato andare le foglie che coprivano l’entrata.

All’interno era buio, ma Tinkerbell poteva distinguere le figure presenti senza problemi, tra cui lo sciamano, o qualunque cosa fosse, rannicchiato in un angolo della capanna fatta di foglie e rami, in posizione fetale, con i capelli tagliati a scodella e dei particolari monili di legno e piume appesi alle orecchie, come grossi orecchini tribali, nudo, come tutti gli altri. Al centro stavano due donne dal ventre flaccido, la più vecchia russava come se fosse stata un trattore, attorno a loro uno stuolo di sette bambini tra i quattro e gli undici anni.

Con qualche passo accurato scavalcò la banda di ragazzini ed evitò di pestare i capelli neri delle due donne, fino ad arrivare affianco all’uomo che cercava. Si chinò accanto alla sua testa, inginocchiandosi nel poco spazio disponibile nella capanna. Lo guardò dormire per qualche secondo, scrutandolo a occhi socchiusi, mentre ancora teneva la corda con cui era stato legato al palo, attorcigliata alla mano sinistra.

Etu si svegliò di soprassalto, con un pezzo di corda messo di traverso per la bocca, tentò di mettersi seduto, ma ci riuscì solo per metà, perché la corda che aveva in bocca lo riportò giù, come se fosse una briglia per cavalli, e la sua schiena incontrò un ginocchio ossuto.

Etu cercò di afferrare le braccia del proprio aggressore, ma non vi riuscì, fendendo l’aria senza meta, finché non riuscì ad aggrapparsi ai capelli di Tinkerbell, con tutta l’intenzione di strapparglieli.

“Buonasera, Etu” lo salutò, a voce bassa, sibilante. Aveva sentito dire quel nome da un altro, mentre li scortavano al villaggio. L’uomo boccheggiò, mentre un filo di bava gli colava dalla bocca, con quella corda tra i denti riusciva solo a mugugnare senza emettere nessun rumore abbastanza forte da svegliare qualcun altro nella capanna. Il russare della moglie sovrastava tutto.

“Non mi piaceva stare legato e non mi piace nemmeno non essere preso sul serio. Chi è questo Mahi a cui volete darci in dono?” domandò con voce fredda e calma. Etu scalciò e fu proprio in quel momento che si sentì un urlo acuto provenire da fuori. Non era troppo forte, nessuno si svegliò nella tenda, ma rimbombò comunque agghiacciante nella testa di Tinkerbell.

In un secondo aveva mollato Etu al proprio destino e si era fermato sulla soglia della capanna, con uno scatto decisamente improprio per un essere umano. Ruthie era sola e lo guardava, ancora legata al palo, per come poteva, allungandosi per non dargli le spalle. Sembrava tutto tranquillo.

“Cosa c’è?” chiese brusco, ma a bassa voce.

“Niente” ammise lei, sfacciata “Volevo solo vedere la tua velocità di reazione al pericolo giaguaro” sentenziò.

“Ma sei stupida?” sbottò lui, esasperato. Avrebbe voluto imprecarle contro, la qualche cosa gli perforò da parte a parte l’ascella. Era chiaro che Etu, nel buio e preso dal panico, non era riuscito a prendere la mira per bene. Tinkerbell gli fu grato; se avesse centrato il cuore sarebbe stato molto più doloroso. Afferrò la punta della lancia e tirò fino a strapparla dalle mani dello sciamano. Strattonò e tutta l’asta passò attraverso la ferita, accompagnata da un dolore angosciante.

Etu emise un singulto animale, terrorizzato. Prima ancora che potesse dire o fare qualche cosa l’asta della lancia era sotto il suo collo e premeva contro il pomo d’Adamo, quasi soffocandolo.

“Allora, Etu, questo è stato scortese da parte tua. Penso che io e te dovremmo fare una chiacchierata approfondita” e così dicendo allontanò di poco la stecca dalla gola dell’uomo che tossì e prese aria come se stesse per soffocare.

“Come hai fatto, con la lancia? Come hai fatto a strapparmela di mano? E poi…e poi ti muovi troppo velocemente…” gracchiò, senza fiato. L’arma era ancora piena del sangue di Tinkerbell e la ferita alla spalla faceva un gran male, ma Clay cercò di non farci caso.

“Sono un dio, te l’ho detto. Sono venuto qui perché credo che ci sia qualche cosa che non va. Chi è questo Mahi? Rispondimi o, ti assicuro, questa volta ti strangolo” minacciò.

“Mahi è il nostro dio, non tu!” sputò Etu, gracchiando, ancora annaspando tra le braccia di Tinkerbell. “Lui ci protegge dalle malattie e dalla fine del mondo e in cambio noi gli offriamo dei tributi per la nostra gratitudine” spiegò, faticosamente.

“Che tipo di tributi?” domandò Clay, allentando di poco la stretta e assottigliando gli occhi. L’ascella faceva ancora un gran male. Aveva una vaga idea di che tipo di sacrifici desiderasse quel fantomatico Mahi, ma voleva sentirlo dire da Etu.

“Persone, da mangiare. Il dio Mahi si deve nutrire per riuscire a proteggere noi e gli altri villaggi. Quando il mondo finirà noi continueremo a vivere” disse, invasato, scalpitando. Rimaneva eretto solo perché Tinkerbell lo teneva per il collo e le spalle.

“Noi siamo felici di offrirci a lui, nessuno lo fa controvoglia” continuò Etu, con voce flebile.

“È un inganno, quello è un mostro, non un dio” sentenziò Clay a bassa voce.

“Come puoi dire un’eresia simile?” ringhiò ancora Etu. Tinkerbell lo lasciò andare e lo costrinse a girarsi verso di lui. Etu si chinò tossendo, finalmente libero. Sputò e tossì, cercando di riprendere fiato, poi alzò lo sguardo su Tinkerbell, più alto di lui, anche se non di molto. Digrignò di denti e lo indicò come se lo volesse maledire, ma fu in quel momento che la mano di Tinkerbell prese fuoco.

Etu urlò e arretrò, inciampando sul corpo della propria moglie, che giaceva dormiente per terra.  La donna sobbalzò e alzò lo sguardo sul genio, che si stagliava ancora in piedi nel bel mezzo della capanna, mentre Etu arretrava come poteva strisciando le mani e i piedi per terra.

La donna, di mezza età, col ventre flaccido e lunghi capelli scuri che le ricadevano sui seni, aprì la bocca per urlare, ma Tinkerbell le mise un piede sulle labbra, non abbastanza forte da farle male, ma abbastanza forte da impedirle di emettere alcun suono.

“Mi scusi signora, io e Etu non volevamo svegliarla nel bel mezzo della notte. Se sposto il piede mi promette di non urlare?” domandò, pratico, come se nulla fosse. Lo sciamano e la moglie non riuscivano a distogliere gli occhi dalla fiamma che sgorgava dalla mano sinistra di Tinkerbell, nella destra teneva ancora la lancia, e la spalla era ancora sanguinante, slabbrata e dolorante.

I due rimasero immobili ad aspettare e Clay spostò il piede dalla faccia della donna. Era stata una cosa molto poco cortese, ma non aveva altre mani con cui zittirla.

“Chi sei tu?” chiese di nuovo Etu, accucciandosi accanto alla moglie e prendendola tra le braccia per rassicurarla. “Il dio Colibrì? Il dio Anaconda?” domandò, con voce tremante. Tinkerbell alzò un sopracciglio, preso alla sprovvista “Già…no…sono…un loro amico” concluse, senza nemmeno sforzarsi di essere convincente, ormai erano assolutamente affascinati dal suo fuoco.

“Cosa sei venuto a fare qui?” domandò poi la donna. Si chiamava Abequa, anche quel nome gli era giunto alle orecchie solo di sfuggita.

“Sono qui per liberarvi da una piaga, una piaga che dice di essere un dio e vi chiede dei tributi umani per dimostrare la vostra gratitudine” spiegò Tinkerbell, solenne. “Quando verrà a prendersi la sua nuova preda?” domandò Tinkerbell, serio. Fu Etu a rispondere quella volta “Tra tre giorni”

Il genio annuì “Offritegli Ruthie, la ragazza che avete legato qua fuori. L’ho portata apposta” sentenziò e poi chiuse la mano a pugno e le fiamme si estinsero. Si voltò e uscì dalla capanna a passo deciso.

 

***

 

La prima a uscire fu Chismes, seguita da un Septum imbronciato e un Bonnie accigliato.

“Che roba è?” sbottò Bonnie, richiudendo dietro di sé una porta di cantina arrugginita “Sembra di stare in mezzo ad un incendio!” esclamò. A Septum invece sembrò di essere entrato in un acquario, a Lisbona non era così umido.

“Siamo a Hong Kong, ed è capodanno” spiegò Chismes, tranquilla. Attorno a loro si apriva una strada sui quali lati si assiepavano alti grattacieli.

“Capodanno? Ma è quasi finito gennaio!” sentenziò il ragazzino, mentre Septum si toglieva la giacca, già sudato.

“L’anno cinese è un anno lunare. Il capodanno si festeggia in coincidenza della seconda luna nuova dopo il solstizio d’inverno” spiegò Chismes. Bonnie grugnì, faceva molto più caldo lì che in Portogallo, dove erano stati fino ad allora, era troppo umido anche per i suoi gusti, oltre che per quelli di Septum. La spiegazione sul capodanno cinese gli era già sembrata troppo complicata, l’avrebbe presa per buona senza sforzarsi di capirne il meccanismo.

Fecero qualche passo lungo il marciapiede gremito di gente e solo in quel momento il ragazzino si rese conto del senso della tenuta di Chismes: un vestito sbracciato e fasciante che metteva in mostra le braccia grassocce, rosso fuoco con un drago orientale ricamato su un fianco. Le scarpe erano rosse e dal tacco altissimo.

A Bonnie non interessava granché come si vestivano le ragazze, ma stando a casa di Chismes e Septum non aveva potuto fare a meno di notare l’improbabile scarpiera di Chismes. C’erano scarpe col tacco a forma di croce, altre con i  fiocchi, altre ricoperte di paillettes, un paio avevano perfino un drago intagliato sopra. le scarpe che aveva scelto quel giorno erano incredibilmente sobrie, per i suoi standard.

La città era addobbata a festa, lanterne cinesi e festoni erano appesi ovunque, i marciapiedi erano pieni di gente di rosso vestita che si spintonava per passare e il traffico era fermo, nella sera calda. La città sembrava infiammata da festoni scarlatti.

“Sono stato a Hong Kong, una volta” iniziò Septum, passandosi una mano sulla fronte prima di allungare il braccio per indicare un punto indefinito dietro a Bonnie e Chismes “Di là dovrebbe esserci il centro della città. Tra poco è mezzanotte, immagino che la parata si farà nella strada principale. Possiamo iniziare da lì e poi cercare un hotel, anche se sarà un bel casino la notte di Capodanno!” spiegò. Chismes annuì senza fare tante storie, mentre Bonnie aggrottò le sopracciglia “Andiamo nel mezzo del caos? Ma che idea del cavolo, come potremo capire qualche cosa?” sbottò.

“Più gente c’è più sarà facile colpire, per una bestia” rispose Septum stancamente.

Il cellulare squillò dentro la tasca del ragazzino, Bonnie ci infilò dentro la mano e lo estrasse: sullo schermo c’era scritto, in lettere maiuscole, Mamma. Chiuse gli occhi, sospirò forte e rifiutò la chiamata, rimettendosi il telefono nella tasca dei pantaloni.

“Sai come funzionano le bestie, Bonnie? Tinkerbell te l’ha spiegato?” domandò Chismes, allegra, mentre lei e Septum lo prendevano di peso per le braccia e lo conducevano dove volevano. Bonnie scalciò e i due lo lasciarono di nuovo andare. Quei due tendevano a trattarlo come un marmocchio.

Grugnì e si mise le mani in tasca, cercando di darsi un tono.

 “Mi ha detto che vogliono uccidere la gente e che bisogna ammazzarle prima che ne facciano fuori troppe” sbottò Bonnie, imbronciato, stirandosi la felpa lucida con le mani. La sua vecchia felpa e i pantaloni erano andati in malora nella fogna di Germàn, così Charlie era passato a sgraffignare qualche cosa al supermercato in fondo alla strada di Lisbona dove vivevano.

“Oh, devo ammettere che a Tinkerbell non manchi il dono della sintesi, oppure sei tu che sei pessimo coi riassunti” disse Chismes, ridanciana, facendosi strada nella folla, e afferrando al volo per un braccio una vecchina che stava per cadere per terra.

“Le ortiche creano le bestie infilandoci dentro uno dei loro semi. Non sappiamo esattamente quale sia il processo di inserimento, ma funziona così. Il seme ci mette un po’ a prendere possesso della persona che intacca, durante questo periodo che può essere lungo o corto, senza un motivo particolare, la bestia si presenta a intermittenza. Se dovessi incontrare il tuo nemico quando è in forma umana non lo riconosceresti come bestia. Non funziona per tutti come i coccodrilli che hai trovato in Messico” spiegò lei, camminando con una leggiadria insospettabile, vista la sua mole. Teneva il proprio immancabile ombrello appeso al gomito, come di consueto.

“A Città del Messico hai trovato una bestia già completamente formata, prima di diventare un coccodrillo quella era una persona” spiegò ancora. Bonnie fece una smorfia ripensando ai coccodrilli. Gli veniva quasi da vomitare.

“In quel caso la bestia e l’umano sono indivisibili, anzi, dell’umano non rimane praticamente più nulla, ma c’è anche il caso di incontrare una bestia ancora in stallo, la quale non ha ancora finito il processo di trasformazione, quei casi sono un po’ più complicati” continuò, senza guardarlo, mentre Bonnie la seguiva imbronciato e Septum sbadigliava.

“Quindi?” chiese Bonnie, apatico. “Quindi…” cantilenò Chismes, sorridendogli bonaria. Non poteva fare a meno di pensare che quel nome da genio fosse adatto a lui, Bonnie era proprio carino anche così imbronciato “…quindi devi stare attento a non ammazzare l’umano, ma solo la bestia, se lo colpisci quando è umano muore sia la bestia che l’uomo, se lo colpisci e lo uccidi quando è una bestia muore solo il mostro. Capita la questione?” domandò. Bonnie annuì, con aria disinteressata “E per quella bestia strana? La bestia secolare, o come diamine si chiama…?” si informò.

“La bestia del secolo, sì, quella è tutta un’altra storia” iniziò a dire la donna, ma fu Septum a continuare “Quella devi ucciderla senza pietà. Nel suo aspetto umano. Non c’è altro da fare” sentenziò rabbioso e Bonnie scartò di lato, preso alla sprovvista. Chismes ridacchiò “Tutti speriamo che non ci capiti, ma a qualcuno capiterà di sicuro prima di dieci anni, è da un po’ che non se ne vede una” esclamò spensierata.

“Beh, speriamo capiti al Capitano, lui non si fa grandi problemi” aggiunse, affrettando il passo fino ad arrivare alla strada principale. Una gran folla si assiepava ai bordi della strada, per guardare il passaggio della parata, e Chismes ci si infilò in mezzo entusiasta “Voglio vedere i vestiti!” esclamò.

“Siamo qui per una bestia” ricordò Septum, annoiato, grattandosi la parte rasata del cranio. Chismes non lo ascoltò e corse avanti allungando il collo per vedere la parata. “Se ti vesti così per andare a fare la spesa faccio finta di non conoscerti” la minacciò lui, andandole dietro, mentre Bonnie li seguiva sbuffando.

“E’ carina, quella” disse a un certo punto, mentre la sua attenzione si distoglieva dalla parata per volare in mezzo alla folla scarlatta.

“Chi?” sbottò Septum, inacidito. Bonnie gli indicò spudoratamente la ragazza che stava guardando. Septum fece una smorfia “Nah, quella è tutta ossa, a me piacciono più in carne” lo informò, sdegnoso. Bonnie scrollò le spalle “A me, le ragazze, piacciono tutte”. Septum si accigliò “E poi cosa cacchio mi fai guardare? Potrebbe essere mia figlia!” sbottò il giapponese, voltandosi dall’altra parte, scontroso.

“Allora, Bonnie, non credere che io stia solo guardando i vestiti della gente – oh, guarda che scarpe ha quella! – ovviamente è una buona idea approfittare del marasma per studiare chi potrebbe essere il mio padrone. È sempre meglio avere un padrone che sia stato colpito dall’azione della bestia, che ha perso un parente o un amico, ad esempio. Oh, che bel rosso sgargiante ha quella gonna! Dicevo: è una buona occasione per provare a fare due chiacchiere, io di solito attacco discorso parlando di…Bonnie? Bonnie, mi ascolti?” Chismes, si girò finalmente per guardare il suo interlocutore, dato che fino a quel momento gli aveva parlato senza distogliere gli occhi dalla parata, e lo trovò, un paio di metri più in là, piuttosto coinvolto in un bacio passionale insieme a una ragazzina cinese.

“Bonnie!” tuonò, e in un secondo aveva preso entrambi per la collottola e li aveva separati. Septum grugnì, non si capì bene se in segno di approvazione o altro.

“Guarda che a baciare gente sconosciuta si rischia di beccarsi la mononucleosi!” esclamò Chismes, continuando a tenerli entrambi per il colletto della maglia, alla massima distanza che le era possibile, senza che i due avessero neanche l’opportunità di guardarsi in faccia.

“Io l’ho avuta a undici anni, la mononucleosi. Alan Anderson mi ha starnutito in faccia!” esclamò Bonnie, cercando di non soffocare, in completa balia di Chismes.

“Non stavo parlando con te!” lo rimbeccò lei. La ragazzina singhiozzò e il donnone lasciò entrambi andare, per poi afferrare l’orecchio sinistro di Bonnie e trascinarlo via. “Chiamami!” le urlò il ragazzino simulando una cornetta con la mano, mentre la sua nuova amica tossiva, provata dall’esperienza e Chismes spariva con lui e Septum in mezzo alla folla.

 

Aki_Penn parla a vanvera: Credo di essere quasi in tempo, questa volta. Non sono convintissima di come è uscito questo capitolo, ma non saprei come sistemarlo in modo migliore, quindi spero mi scusiate e spero anche che non faccia troppo schifo. T.T

Giusto perché lo sappiate: la questione dello stupro di gruppo e del dio Colibrì e Anaconda le ho sentite spiegare in un documentario che ho guardato per documentarmi sull’ambiente. Ovviamente ho usato solo alcune cose senza parlare troppo di altre tradizioni, più che altro perché avrebbero finito per ingarbugliare ancora di più la storia, che già faccio fatica a tenere sul binario giusto.

Ho anche voluto inserire il dialogo tra Bonnie e Chismes perché mi sono resa conto di aver sempre fatto intendere la questione senza mai spiegarla a chiare lettere, spero che non sia stato noioso.

Come sempre, grazie mille per aver letto fino a qui. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 27
*** I quattro Cardinali ***


Make a wish -

Capitolo ventisette -

I quattro cardinali –

 

“Ronnie? Ronnie?” chiamò la vecchia Jollah con un sibilo rabbioso. In tutta risposta, il ragazzo biondo grugnì qualche cosa nel sonno, rimanendo seduto sui talloni con gli occhi chiusi.

La donnina coi capelli magenta sgranò gli occhi, strinse i pugni e i denti, mentre le pupille rimpicciolivano lasciando spazio all’iride.

Ronnie fu colpito da una poderosa gomitata che si sarebbe detto impossibile effettuare per una donnina così vecchia. Il ragazzo si svegliò di colpo, sbilanciato da una parte e dolorante, rischiando di andare a cadere addosso alla ragazzina che stava inginocchiata accanto a lui. “Scu-scusa…” balbettò febbrile, voltandosi verso la ragazza e alzando le mani in segno di resa o di scusa, rosso per l’imbarazzo. Lei gli sorrise e si coprì la bocca, civettuola, mentre ridacchiava. Doveva avere un paio di anni in meno di lui, da sotto il fazzoletto bianco che portava legato in testa usciva qualche ricciolo castano. Ronnie annuì, con le labbra contratte e si girò verso Jollah, che, tutt’altro che civettuola, lo guardava con un occhio mezzo chiuso e un’espressione più che mai arcigna.

“Non si dorme al Tempio” sentenziò, sempre sottovoce, per non disturbare il servizio. Ronnie si grattò le testa, i capelli erano ancora bagnati.

Non era la prima volta che andava al tempio ma, di solito, cercava di sedersi lontano da Jollah. Diablo non c’era mai, la vecchia guaritrice aveva qualche cosa da ridire, ovviamente, ma Diablo, per quanto succube come tutti della vecchia, era il capitano della Kensington Gardens e faceva quello che gli pareva.

Ronnie era più che mai sicuro che il Tempio del Grande Mare stesse sott’acqua perché sulla terra ferma non c’era posto, dato che in tutto quel mondo c’erano solo una manciata di isole di dimensione ridotta e la maggior parte degli abitanti viveva sulle navi.

Il tempio era un posto strano: vi si accedeva da una scala di roccia ricoperta di cozze e coralli che partiva da una caletta dell’isola di Midaa, l’isola dove si trovava il palazzo reale. Gli abitanti del Grande Mare sembravano capaci di scendere senza finire a galla col sedere, come succedeva invece a lui. Anche aprire gli occhi nell’acqua salata era un’impresa, non vedeva quasi niente, per Jollah, invece, era un gioco da ragazzi. A quanto aveva capito, c’era un metodo che consisteva nello restringere volontariamente le pupille, cosa che rendeva più facile riuscire a vedere sott’acqua, Ronnie –ovviamente- non ci riusciva. Per scendere al tempio si era dovuto attaccare al corrimano e a un certo punto aveva perfino rischiato di tornare a galla e Jollah gli aveva rifilato un colpo di bastone sulle costole. “Quanto si vede che non sei di qui” aveva sentenziato una volta entrati nel tempio.

Il tempio era un posto magico, da fuori sembrava una vecchia pietra piena di alghe e granchi. C’erano stati bassorilievi e statue a ornarne le pareti, ma ormai era tutto levigato dall’azione dell’acqua e coperto di alghe e coralli, mentre i pesci nuotavano intorno al rudere che ormai faceva parte dell’ambiente da secoli. La vera magia però era all’interno: all’entrata pareva esserci una cascata, ma una volta messo riede all’interno vi era di nuovo aria. Sembrava una grande grotta sotterranea, umida e bagnata. In qua e in là vi erano pozze d’acqua salata e il fatto che la gente entrasse con i vestiti umidi dopo la discesa in mare, non aiutava a rendere migliore l’ambiente. Per di più, l’odore salmastro unito all’incenso formava uno strano mix. Ronnie si era chiesto varie volte come facessero ad accendere l’incenso, dato che per portarlo lì sotto dovevano bagnarlo, ma la risposta era probabilmente nei semi d’Ortica, come sempre.

“Non si dorme al tempio, Ronnie” sibilò, arrabbiata e così dicendo rifilò una gomitata nelle costole anche a Beirei. Il ragazzo singhiozzò e si mise composto “Guarda che ho visto che dormivi anche tu,  Beirei” sbottò Jollah, sempre sottovoce. Beirei, tossicchiò, cercando di darsi un tono “Stavo pregando intensamente” mentì in modo spudorato. Jollah grugnì, ma tornò a guardare Ronnie, mentre Beirei si risistemava seduto sui calcagni e si scusava con l’omone che pregava accanto a lui, per averlo urtato.

“Jollah…mi annoia a morte questa roba. Mia nonna è cristiana protestante e io non ci credo, perché dovrei credere ai vostri dei?” domandò sottovoce anch’egli, per non farsi sentire dal resto dei presenti. Non era un credente, ma non era nemmeno stupido. La mano ossuta della donna lo prese per un gomito “Perché noi sappiamo che il nostro non è l’unico mondo, come invece credete voi dell’Altro Mondo. Ho ragione di credere che possiamo avere ragione anche su qualche cosa d’altro, no?” sibilò.

Ronnie sospirò, il ragionamento non era male, ma non ci credeva lo stesso. “Non credo finché non vedo” sentenziò guardando davanti a sé. Erano in fondo al tempio, quasi all’entrata, se si fosse voltato avrebbe potuto vedere il muro d’acqua dal quale erano venuti. Davanti a sé una distesa di persone sedute sul pavimento e, in fondo, illuminate dai fuochi e confuse nel fumo dell’incenso, quattro statue dai bordi indefiniti: i quattro Cardinali, li chiamavano.

“La Madre che tutto ha creato” disse Jollah, indicando la prima statua a sinistra “ e i suoi tre figli, che vegliano sui nostri tre mondi: la Vita, la Morte e la Speranza”  spiegò, prendendolo per i capelli, nonostante fossero corti, e facendolo voltare a turno verso ognuna delle statue.

“Lo so, lo so” sospirò, esasperato, con le lacrime agli occhi per i capelli che tiravano. La vecchia Jollah gli aveva spiegato quelle cose una marea di volte, ma non erano mai state convincenti.

Diablo non ci credeva, per sua stessa ammissione, non aveva mai indagato sulle sue propensioni religiose di quando viveva all’Altro Mondo, ma non gli interessava un granché.

Jollah lasciò andare i capelli del ragazzo e lasciò che scrollasse le spalle, scocciato, mentre Beirei sbadigliava. Gli rifilò un'altra gomitata nelle costole per ricordargli la sua presenza. Beirei, un ragazzotto in carne con il naso largo, le guance rovinate dall’acne e gli occhi a mandorla, strizzò le palpebre e grugnì “Basta, Jollah”

“Smettila di sbadigliare, screanzato” lo sgridò la vecchia. Ronnie soffocò una risatina e Jollah colpì anche lui, questa volta col bastone da viaggio, dritto sulla testa bionda.

“Ahi” squittì Ronnie, un po’ troppo forte. Quella volta fu la ragazzina col fazzoletto bianco a soffocare una risata, e si risparmiò una bastonata solo perché Jollah non era abbastanza in confidenza da imporle la giusta disciplina.

Ronnie e la ragazzina si guardarono, lui con aria di scuse, lei divertita, finché il viso di lei non mutò in un’espressione di panico, quando si sentì sfiorare da qualche cosa di umido. “Oh, scusa” fece Ronnie, spostando la scatola piena di terriccio dove teneva una pianta dalle foglie carnose, che si muoveva, come guardandosi intorno. La ragazza guardò stupita il vegetale e poi riportò lo sguardo su Ronnie che sorrise, allusivo. Lei arrossì e si rimise a guardare per terra.

“Hai finito di fare il Don Giovanni?” domandò Jollah, in un sibilo cattivo. C’era da dire che, a forza di sgridare a destra e a manca, era quella che seguiva meno di tutti il servizio.

“Non stavo facendo niente”

“Tieni d’occhio quella pianta, la dobbiamo piantare per terra appena farà i fiori, sperando che sia buona per diventare una nuova torre di quelle che sorreggono il cielo. In ogni modo, se la nostra prossima incursione all’Altro Mondo va male, avrai la tua prima lezione da guaritore, che consisterà nel guardarmi lavorare senza che ti venga voglia di vomitare” spiegò, arcigna. Beirei ridacchiò sotto i pochi baffi che aveva e – giustamente- si beccò uno scapaccione in piena collottola. “Cos’hai da ridere? Tu svieni alla vista del sangue, non c’è proprio nulla da prendere in giro. Come quella volta che Commandar ha staccato un orecchio a Himen e abbiamo dovuto soccorrere anche te perché hai perso i sensi!” lo sgridò lei, arrabbiata.

Beirei strizzò gli occhi, schifato al ricordo “Non me lo ricordare, non me lo ricordare…” piagnucolò.

“Siete due maledette capre, come il vostro capitano” sentenziò Jollah, parlando quasi solo a se stessa.

“È anche il tuo” le fece notare Beirei, riprendendosi tutto d’un tratto. Come era possibile immaginare, si beccò un'altra sberla.

 

***

 

Ruthie sbatté le mani contro il legno dell’armadio. Il caldo era diventato soffocante, non riusciva a respirare, il buio era incandescente e sua madre era là fuori a bruciare. “Mamma!” urlò, mentre le lacrime le scendevano lungo le guance: erano bollenti anche quelle. Gli occhi bruciavano per il calore e sentiva i polmoni piedi di fumo “Mamma! Mamma!” urlò ancora. Qualcosa che non riusciva a vedere la colpì al viso. Ruthie urlò e chiamò di nuovo la madre. Quell’entità invisibile la colpì di nuovo al viso, più forte, e quella volta qualcuno chiamò il suo nome: per un secondo tutto sembrò fermarsi. I polmoni facevano ancora male per il fumo e gli occhi bruciavano, ma la voce che la chiamava le mise addosso tranquillità, come se avesse saputo che si sarebbe sistemato tutto. “Ruthie?”

Durò un secondo, ma per quel secondo Ruthie, chiusa dentro l’armadio, si rese conto che tutto ciò non poteva essere reale. I pompieri l’avevano trovata dentro l’armadio, ma Ruthie non si ricordava nulla di ciò che era successo, non ricordava di esserci entrata dentro, non si ricordava di aver pianto, e nemmeno di aver chiamato la madre, stordita dal fumo le immagini dell’incendio, nella sua testa, erano sempre state vacue e confuse.

Un secondo dopo era sveglia e guardava Tinkerbell negli occhi “Tua madre non c’è, ci siamo solo noi e un villaggio pieno di indigeni che ci farebbero volentieri la pelle. Buongiorno, comunque” la salutò Clay, spostandosi subito dopo liberandole la visuale sul cielo. Era l’alba, le luci erano ancora tremolanti e Ruthie riusciva a vedere solo uno spicchio di cielo arancione, tra le fronde nere.

Batté un paio di volte le palpebre rimettendo i pezzi insieme: Tinkerbell, la sera prima, si era infilato nella capanna dello sciamano del villaggio e aveva finito per accapigliarsi con lui. Era tornato da lei a slegarla con la spalla trapassata da parte a parte, ma non ne sembrava troppo preoccupato, avevano preso un accordo di qualche genere. Alla fine si erano sdraiati su un giaciglio di foglie che Tinkerbell aveva improvvisato appena fuori dal villaggio. Non era comodo ma, quantomeno, non erano legati a un palo. La nudità di Tinkerbell le dava un po’ meno fastidio al buio.

Clay si mise in posizione semi-seduta accanto a lei, mentre Ruthie rimaneva sdraiata sulla schiena a guardare in alto.

“Ho sognato l’incendio” disse lei, con calma. Tinkerbell, appoggiato sui palmi delle mani per tenersi eretto alzò le spalle “È normale” sentenziò.

“È normale cosa?” chiese lei, voltandosi verso il ragazzo e lasciando perdere la fronde degli alberi. Tinkerbell scrollò di nuovo le spalle “Per te è un trauma, no? Immagino sia normale sognarlo, allora. Hai sentito tuo padre ultimamente?” domandò ancora. Ruthie annuì “Ci siamo sentiti per telefono, ma non ho avuto tempo di andare a trovarlo” spiegò e fu il turno di Clay per annuire “Ti ci porto appena abbiamo finito qui in Amazzonia. Io voglio fare un altro salto da Jessie” fece lui, svagato, stiracchiandosi.

L’attenzione di entrambi venne attirata da un uomo con i capelli tagliati all’altezza delle orecchie e la camminata a piedi aperti, da papera, che si avvicinava a loro velocemente. Tinkerbell si mise seduto con le gambe rannicchiate. Il ragazzo gli sorrise beffardo, mentre anche Ruthie si metteva dritta, cercando di coprirsi più che poteva con le foglie. “Buongiorno, Etu” salutò.

“Buongiorno a voi” rispose Etu, arcigno. Ruthie non riusciva a capire quello che diceva l’uomo, ma si impegnò a studiarne i tratti somatici. “Mi sono riunito con gli anziani del villaggio e abbiamo deciso che potrete rimanere, ma devi dimostrarci di non essere ostile, vivendo in comunione con noi per questi giorni, poi darai in sacrificio la ragazzina al nostro dio. Ve la vedrete tra di voi, ma attenzione, se Mahi si adirerà con noi, saremo noi a ucciderti” minacciò Etu. Ruthie pensò che l’uomo sembrasse arrabbiato, poteva immaginare che lo scontro con Tinkerbell, la sera prima, non fosse stato simpatico, ma non aveva idea di cosa stesse dicendo. Del canto suo, Clay sembrava piuttosto divertito. Ruthie si voltò di nuovo verso l’indios, mentre il genio rispondeva “Mi pare un buon accordo, ma rivoglio la mia arma”. Gliela aveva consegnata quella mattina, in segno di pace, prima che Ruthie si svegliasse.

“Assolutamente no” rispose Etu, secco. Senza nemmeno aver aspettato davvero la risposta, Tinkerbell alzò il braccio, tenendo in alto la mano aperta e l’accetta gli arrivò dritta tra le dita, fendendo l’aria. Etu saltò da una parte, terrorizzato. L’arma non l’avrebbe colpito comunque, ma l’uomo non poté fare a meno di scartare di lato. Guardò intensamente prima l’ascia nelle mani del ragazzo e poi Tinkerbell, che ricambiò lo sguardo, piuttosto divertito.

“Scusate, devo aver bucato una capanna, richiamandola a me, non dovevate mettere la mia accetta dentro qualche cosa che poteva essere rotte, ve l’ho detto. Cosa dobbiamo fare per compiacervi?” domandò tranquillo, alzandosi. Ruthie chiuse gli occhi, c’erano troppi uomini nudi vicino a lei.

“Tu devi essere un demone” disse Etu, con il viso contratto. Tinkerbell era più alto di lui, seppur di poco. Alzò le spalle “Io non voglio il sangue di nessuno di voi…mi basta questo vostro falso dio”

“Ci proteggerai dalle malattie, quando Mahi se ne sarà andato?” domandò lo sciamano, fissando Clay negli occhi, intensamente.

“Non c’è nessuna malattia dalla quale Mahi vi stia proteggendo. Dopo potrete tornare a pregare il dio Anaconda, il dio Colibrì o chi per loro. Insisto: Cosa vuoi che facciamo?” domandò di nuovo. Ruthie, ancora seduta per terra con lo sguardo in alto, passò gli occhi da uno all’altro.

“La femmina starà con le altre donne a preparare la manioca. Tu verrai con noi a caccia e poi a cercare legna. Credi di esserne capace?” domandò, brusco. Tinkerbell chiuse stancamente gli occhi “Non c’è problema, lasciami accompagnare Ruthie dalle altre donne, lei non capisce cosa dite” spiegò. Etu annuì, dando la sua approvazione “Ma sbrigati, uomo da cortile” aggiunse. Tinkerbell annuì e prese Ruthie per mano portandola verso dove si assiepavano le capanne.

 

***

 

Chismes si passò una linea di eyeliner sulla palpebra, perfettamente uguale a quella che stava sull’altra. Alla fine avevano trovato una camera minuscola nella periferia di Hong Kong. Come a casa loro a Lisbona, avevano dovuto dormire tutti e tre in un letto matrimoniale: lei vicino alla finestra, Septum dalla parte della porta e Bonnie in mezzo. Bonnie piangeva di notte, Septum e lei avevano avuto modo di accorgersene. Perfino il giapponese, di solito piuttosto insofferente a quel tipo di cose, aveva fatto finta di niente. La prima volta che era successo era stata la sua seconda notte in Portogallo. Chismes se ne stava con la retina in testa a fare le parole crociate in camicia da notte, nella sua parte di letto, Septum ascoltava musica metal con le cuffie addosso e suonava una chitarra invisibile. Bonnie era in mezzo a loro, solo coi pantaloni del pigiama, a petto nudo (in casa, per qualche difetto dell’impianto di riscaldamento, c’era sempre una temperatura tropicale), con il tatuaggio a forma di stella deforme in bella vista. Fissava il soffitto, apatico, quel giorno aveva ricevuto una decina di chiamate da parte di sua madre, ma non aveva risposto a nessuna. Chismes non aveva mai indagato su cosa avesse intenzione di fare con la propria genitrice, sapeva solo che era sparito senza dire nulla e che probabilmente quella povera donna aveva chiamato la polizia e chissà chi altro.

Nessuno dei due aveva detto niente quando Bonnie aveva iniziato a piangere silenziosamente, emettendo qualche singhiozzo sommesso, rimanendo fermo, sdraiato sulla schiena coi pugni stretti. Septum aveva finito per voltarsi e prendere un fazzoletto di carta dal comodino per poi passarlo a lei che, come se nulla fosse, gli aveva asciugato le guance strofinando come se fosse stato un bambino piccolo. Bonnie aveva chiuso gli occhi e non aveva detto niente mentre Chismes chiedeva “Quindici verticale: Fu ucciso da Enea”

“Turno” rispose Septum, distrattamente, rimettendosi a suonare.

“E chi cacchio è, Turno?”

“Non ne ho idea, ho letto le soluzioni prima” commentò Septum, acido. E Bonnie era rimasto zitto a occhi chiusi ad ascoltare il loro bisticcio.

“Cosa volete mangiare per colazione?”  domandò Chismes dal bagno, pettinandosi i capelli neri.

“Io voglio dei baozi e del caffè, se si trova da qualche parte” rispose scorbutico Septum, intento a infilarsi i pantaloni neri, del tutto indifferente ai festeggiamenti del luogo.

“E tu, Bonnie?” domandò di nuovo Chismes. Fu di nuovo Septum a rispondere, mentre lei sfoderava il mascara dalla sua pochette per i trucchi “Credo che sia in bagno”.

La donna alzò gli occhi fissando lo sguardo sul proprio riflesso. Un’altra Chismes lo ricambiò, basita “Ci sono io in bagno, Septum” gli fece sapere, parlando lentamente. In un secondo dopo aprì la porta della toilette, fiondandosi fuori, e incontrò lo sguardo altrettanto accigliato del giapponese.

“Dove si è cacciato adesso, quel maledetto marmocchio!” esclamò Septum buttando la propria maglia per terra, con stizza.

In quello stesso istante Bonnie stava svoltando l’angolo di una strada in una zona meno centrale di Hong Kong.

“Scusami se ti faccio fare questo giro, mio fratello è sparito di nuovo e mia madre è preoccupato che gli sia successo qualche cosa” spiegò Nai-Jian. Gli aveva mandato un messaggio la sera prima e lui si era precipitato da lei appena si era fatto giorno. Nai-jian aveva quindici anni e tre fratelli, dei quali il più piccolo era scomparso. “Mi sarebbe piaciuto stare un po’ in giro con te, questa mattina, ma i miei sono così preoccupati” gli spiegò guardandolo negli occhi. Bonnie scrollò le spalle “Non ti preoccupare, non è un problema”. In realtà avrebbe voluto andare a pomiciare da qualche parte, ma si era arreso a cercare il piccolo Tai, così si chiamava il bambino scomparso.

“Hai idea di dove si possa trovare?” domandò poi. Nai-Jian annuì con decisione. Era una ragazzina magra, con due gambette sottili e i capelli neri e lucenti, lunghi quasi fino alla vita. In testa portava un cerchietto con una grossa rosa rosa piuttosto leziosa. Il viso tondo, gli occhi a mandorla e le sopracciglia sottili.

“Sì, lo so, è sempre nello stesso posto, quando sparisce” spiegò, poi allungò un braccio indicando un cancello chiuso e aggiunse “di qua”.

Doveva essere il cortiletto di un magazzino in disuso. C’erano delle casse vuote sull’asfalto. Diversamente dalle aspettative il cancello era solo appoggiato e la porta si aprì senza difficoltà. Nai-Jian lo oltrepassò con passo felino e Bonnie fece lo stesso, avvicinando di nuovo la grata dopo essere entrato.

“Che vuoi?” disse una voce dal fondo del cortile. Erano nove metri quadrati in tutto, ma Bonnie non aveva notato nessuno, entrando. Aguzzò la vista e, proprio in quel momento, una testa emerse da dietro una catasta di cassette per la frutta marce e vuote, probabilmente accatastate lì da parecchio tempo.

“Tai!” esclamò Nai-Jian correndo incontro al ragazzino. Bonnie si avvicinò a sua volta a passo lento. Il ragazzino uscì da dietro la catasta di casse e il genio poté farsi un’idea più chiara di chi aveva davanti. Doveva avere all’incirca undici anni, naso largo, occhi a mandorla e fronte alta. I capelli erano tagliati così corti da far pensare che fosse stato completamente rasato poco tempo prima. Era piccoletto e vestito di scuro, il viso era piuttosto magro, come quello della sorella, ma a Bonnie parve di indovinare molta più grasso sotto i vestiti larghi e sporchi. Se ne stupì, per quello che lui e Nai-Jian si erano detti gli era parso di capire che appartenessero a una famiglia mediamente benestante, non davvero ricchi, ma di certo con un reddito migliore della media.

“Chi è questo?” chiese brusco Tai, guardando Bonnie negli occhi. Nai-Jian si voltò a guardarlo boccheggiando come se, per un secondo, si fosse scordata dell’amico che si era portata dietro.

“Mi chiamo Bonnie, sono amico di Nai-Jian. Ciao” rispose il genio, mettendosi le mani sui fianchi e allungando la gamba destra. Lo sguardo era un po’ strafottente, abbastanza tipico di Bonnie e a Tai non piacque.

“Perché l’hai portato?” chiese poi arrabbiato, rivolto alla sorella. Si mise le mani sui fianchi e ciabattò con le infradito di plastica più vicino a Nai-Jian che si sporgeva oltre le casse.

“Dovevamo uscire questa mattina, ma poi tu sei sparito e la mamma era preoccupatissima e le ho detto che ti venivo a cercare. Guarda che se non la pianti la prossima volta che dico che tuo nascondiglio”. Tai tirò un calcio stizzito a una cassetta marcia che stava in un angolo. “Sei una stronza Nai!” sbottò, incrociando le braccia e grugnendo, prima di sparire di nuovo dietro al mucchio di cassette.

“Che ha?” domandò Bonnie, che stava iniziando a scocciarsi. Era uscito per pomiciare e si ritrovava a discutere con un ragazzino scorbutico e un po’ sporco.

Nai-Jian non rispose alla domanda che le veniva fatta, ma domandò “Ti piacciono i conigli?”

“Eh?”

“Ti piacciono i conigli?”

“Boh…sì, credo di sì…” rispose Bonnie, non capendo bene quale fosse il nesso.  Nia-Jian gli fece segno di avvicinarsi e seguì il fratello dietro alla barricata di cassette, piegandosi in po’ in avanti. Bonnie la seguì accigliato, sempre con le mani in tasca. Allungò il collo per vedere oltre le teste dei due fratelli: Tai si era inginocchiato per terra in mezzo al sudiciume. C’era insalata marcia, foglie, carote, tutto umido e sporco. Non era difficile capire perché i vestiti del ragazzino fossero lerci.

“Ma che cav…?” esclamò Bonnie. Dentro una cuccia improvvisata fatta di pezzi di cartone, una scatola di plastica blu e della paglia, stava il coniglio più enorme che avesse mai visto.

“Cosa vuoi ancora, tu?” sbottò Tai, girandosi brevemente a guardarlo, per poi rimettersi a imboccare quella creatura enorme. “È il mio coniglietto” sentenziò, offeso.

“Coniglietto? Sarà un coniglio mannaro, come minimo” commentò Bonnie, piuttosto divertito. Nai-Jian ridacchiò civettuola.

“Smettetela. Non ti voglio qui, chi cavolo sei?” sbottò Tai, smettendo di imboccare il coniglio con la carota per voltarsi a guardare Bonnie, che stava decisamente più in alto di lui. Non era una sensazione che gli capitasse spesso di provare. “Te l’ho già detto, mi chiamo Bonnie”

“Sì, lo so, ma che cosa ci fai a Hong Kong e come fai a parlare così bene cinese? Di certo non sei di qui, sei biondo” constatò Tai, scorbutico. “Tai, piantala” lo sgridò Nai-Jian debolmente, ma poi si voltò verso Bonnie anche lei presa dagli stessi dubbi. Bonnie aggrottò le sopracciglia, a disagio. Deglutì e si schiarì la voce “Mia madre è argentina e mio padre è giapponese…” i due fratelli lo guardarono coi solo occhi scuri “…ma parla anche cinese…me l’ha insegnato…io però sono stato adottato…in Australia” terminò, un po’ a disagio. Era una spiegazione ai limiti dell’assurdo, ma aveva cercato di mettere insieme tutti i pezzi in poco tempo, organizzando una storia credibile, ma non gli era venuto molto bene. “Siamo qui in vacanza” rincarò poi la dose. I due fratelli lo guardarono battendo le palpebre un paio di volte, con due espressioni indecifrabili, per poi dargli di nuovo le spalle e mettersi a guardare il coniglio. Era chiaro che fossero un po’ perplessi, ma probabilmente non erano interessati a indagare oltre.

“Allora, come si chiama questo coniglio?” domandò, avvicinandosi e chinandosi un po’ su quell’animale dalle dimensioni mostruose.

Tai sospirò “Non ce l’ha un nome. Io e Wen l’abbiamo trovato insieme quando era piccolo…più piccolo, intendo, né mia madre né la sua lo volevano in casa, papà ha minacciato di metterlo nella zuppa, ma io e Wen lo volevamo tenere, allora gli abbiamo costruito una cuccia qui” spiegò. Bonnie alzò un sopracciglio, gli sembrava che Tai non avesse risposto alla domanda giusta “E chi diavolo è Wen?”

“Il mio migliore amico!” sbottò Tai, ancora inginocchiato davanti al coniglio, voltandosi per tirargli un’occhiataccia. “Noi avevamo deciso che gli avremmo dato un nome quando saremmo stati d’accordo entrambi su come chiamarlo, ma…” tirò su col naso, Bonnie pensò che stesse piangendo, ma gli occhi del ragazzino erano asciutti “…ma tre mesi fa è sparito nel nulla. Ho paura che non lo rivedrò più” concluse e la voce gli tremava mentre allungava le braccia per afferrare il grosso coniglio e prenderlo in braccio.

Bonnie strinse i denti e i pugni nelle tasche: voleva pomiciare con una ragazza e si era ritrovato dritto nel raggio d’azione della bestia.

 

***

 

Etu l’aveva fatto salire su una spartana imbarcazione a remi con l’intenzione di portarlo a pescare. Le coltivazioni e la cucina erano cose da donne, agli uomini toccavano la pesca, la caccia e la raccolta della legna da ardere. Gli avevano chiesto se si sentiva abbastanza uomo per andare a caccia e lui aveva risposto che sì, non c’erano problemi, se volevano una pelle di giaguaro gliel’avrebbe portata volentieri. Nessuno aveva riso e allora Tinkerbell aveva tenuto per sé le battute e si era seduto sul fondo della barca con il viso appoggiato alle mani messe a coppa.

Ahiga, il capo villaggio, stava avanti con l’arco teso e la freccia incoccata.

“Quando vuoi pescare i pesci devi mirare un poco più sotto del punto che vuoi colpire, il riverbero dell’acqua falsa la tua percezione della posizione della preda” spiegò Etu mentre remava dandogli la schiena. Per tutta risposta Tinkerbell aveva infilato un braccio in acqua, senza neanche guardare e aveva afferrato un paio di pesci per la coda, per poi lanciarli distrattamente dentro l’imbarcazione, proprio davanti a Etu. Lo sciamano si ritrasse, preso alla sprovvista e Ahiga, in piedi davanti a loro, per poco non cadde in acqua.

Entrambi si voltarono a guardarlo, boccheggiando. “Va bene così?” domandò lui, stancamente.

Per la caccia, la cosa era andata più o meno allo stesso modo, Clay aveva lanciato la propria accetta contro un uccello colorato che cantava appollaiato a qualche albero di distanza da loro e il pennuto era caduto stecchito nel sottobosco. Si era poi dimostrato un animale composto prevalentemente da penne e piume e da molta poca carne ma, in ogni modo, era morto in meno di cinque secondi.

Dopo l’episodio, Etu e Ahiga avevano deciso che preferivano lasciarlo a raccogliere la legna poco lontano dal villaggio, a cacciare ci avrebbero pensato loro, sentivano che quell’incredibile superiorità stava uccidendo il loro orgoglio.

Tinkerbell si era fatto due risate e si era messo ad accettare rami secchi e non, tutto ciò che poteva essere utile da ardere. Il sottobosco era vivo e viscido, le fronde si muovevano e a volte parevano parlare tra loro, mentre in lontananza si sentivano le grida delle scimmie e i canti degli uccelli.

“Voglio un desiderio” disse, a un certo punto, una voce alle sue spalle. Tinkerbell non ebbe bisogno di voltarsi per sapere a chi apparteneva.

“I desideri vengono solo in pacchetti da tre e tu li hai già avuti” rispose Tinkerbell tranquillo, girandosi a guardare il suo interlocutore, dopo aver piantato la propria accetta nel tronco di un albero.

Diablo lo guardava da poco distante, seduto su una roccia piena di muschio, con le gambe accavallate. “Già, tre desideri di merda” commentò il pirata, annoiato. Tinkerbell fece un sorrisetto, appoggiandosi al tronco dell’albero dove aveva inchiodato la propria arma “Non è con me che te la devi prendere, sei tu ad avere espresso”

“Infatti non ce l’ho mica con te” ribadì l’uomo. Aveva, come al solito, il suo hangdrum appeso a tracolla, la camicia a fiori, la treccina di capelli rossi e le scarpe di tela. Si alzò e fece qualche passo verso Tinkerbell, con molta tranquillità.

“Ce ne servirebbe solo uno” continuò Diablo, facendosi sempre più vicino. Clay alzò di poco lo sguardo, il pirata era decisamente più alto di lui. “Ti ricordo di nuovo che tu ne hai già avuti tre” continuò i genio.

Diablo sbuffò, decisamente scocciato, distogliendo lo sguardo come per fare in modo di non perdere la pazienza “Ne abbiamo già parlato. Potrei dire il tuo nome a Bianca” suggerì. D’un tratto l’espressione di Tinkerbell si fece più dura. “Assolutamente no. E poi chi cacchio è questa Bianca?” domandò. La sua voce si era fatta più aspra ed era evidente la sua poca disponibilità ad avere un dialogo. Aveva toccato un punto dolente.

“La mia fidanzata” spiegò Diablo, come se fosse ovvio. Tinkerbell si passò una mano sugli occhi affaticato “È del Grande Mare?” domandò stancamente, senza guardarlo.

“Ovvio. È una sirena” aggiunse Diablo, con un improvviso slancio.

“Eh?” sbottò Clay esterrefatto. Sembrava aver ritrovato la voglia di bisticciare. “Una sirena? Ma sei scemo? Ha la coda di pesce?” si informò.

“No!” esclamò Diablo, sdegnoso “Ha le gambe e un po’ di squame. E anche le branchie…sì, ha anche quelle”

“Cielo…”

“Cosa c’è?” domandò ancora il pirata, ad alta voce.

“Niente, niente, va bene, non mi interessa…” fece Tinkerbell, ansioso di cambiare discorso. Certe discussioni con Diablo gli facevano venire il mal di testa.

“Quindi è un sì?” cercò di capire Diablo, speranzoso. “Quindi è un no, mi pare chiaro. È sempre stato un no!” ribatté Clay, pratico.

“Non posso dirlo nemmeno a Jollah?” tentò ancora.

“No!”  sbottò Tinkerbell.

“Perché?”

“Perché no!”

“Non ti fidi di me?”

“Mi fido di te. Non mi fido degli altri” ribatté Tinkerbell, secco, e il suo sguardo incontro quello fisso del pirata “e non mi fido nemmeno di come giudichi gli altri, se è per quello” precisò, con la mandibola contratta.

“Potresti chiedere a Ruthie” provò ancora Diablo.

“Nemmeno Ruthie” ribadì Clay, senza lasciare adito a dubbi per quanto riguardava la sua decisione a riguardo.  Diablo sbuffò e fu in quel momento che a Tinkerbell venne un dubbio “Ruthie” ripeté, quasi a se stesso.

“Cosa?” fece Diablo, che si era appoggiato a un tronco, stancamente.

“Sei venuto da solo?” chiese Tinkerbell febbrile.

“Certo” rispose semplicemente Diablo, troppo in fretta. Le pupille del genio si rimpicciolirono e la bocca gli si aprì in una smorfia “Ci sono anche gli altri: mi hai distratto e li hai mandati da Ruthie” concluse. Diablo era tranquillo e sorridente davanti al genio “Mi spiace usarlo per questo, spero che non si rovini” disse soltanto. Tinkerbell non capì a cosa si stesse riferendo finché l’uomo non gli sbatté l’hangdrum in piena faccia, tenendolo stretto per la cinghia. Tinkerbell strinse i denti nel sentire il proprio naso che si rompeva sotto il metallo dello strumento musicale. Era stato preso alla sprovvista ed era finito con il sedere a terra. Prima che riuscisse a rialzarsi o a passarsi la mano sulla faccia per curarsi il naso, Diablo gli era volato addosso. Il pirata gli piantò un ginocchio tra le clavicole, Tinkerbell si sentì soffocare. L’hangdrum  era di nuovo al suo posto a tracolla, anche se ammaccato.

“Mi avevi detto che volevi un desiderio e invece volevi i semi che ha Ruthie!” ringhiò Tinkerbell, bloccato a terra ancora per un secondo. Diablo era umano gli ci sarebbe voluto un secondo per ribaltarlo, lo sapevano sia lui che il pirata.

“Volevo entrambi” rispose lui, più serio che mai. Tinkerbell gli afferrò la mano sinistra e la strattonò “Sei un fottuto bastardo!” urlò, mentre il braccio si sradicava dal resto del corpo all’altezza della spalla, come un’erbaccia dal prato. Diablo urlò e Tinkerbell lo colpì con una testata.

Ci volle un secondo perché il genio, con uno scatto, sparisse tra il fogliame. Diablo strinse i denti e si girò sul fianco integro ringhiando e piangendo, cercando di mettersi in piedi.

In un secondo Tinkerbell fu di nuovo al villaggio, arrivando in un vortice di foglie strappate. Atterrò in mezzo alle donne che si erano radunate in un capannello attorno a Ruthie. Tinkerbell appoggiò un ginocchio per terra, atterrando proprio davanti a lei, facendo spostare le altre donne per lo spavento.

Ruthie era sudata e aveva i capelli davanti alla faccia. Lei se li mise dietro all’orecchio e lo guardò: aveva gli occhi lucidi, ma non sembrava che avesse pianto. Sudava ed era visibilmente arrabbiata.

“Coma stai?” chiese lui, guardandola serio negli occhi, mentre lei cercava di rimettersi a sedere composta. “Mi hanno rubato i semi”  ammise, alzando il polso al quale era legato il laccio di scarpe, che era scomparso “Sono spuntati dal nulla un tizio con l’accento tedesco e un altro con gli occhi a mandorla…”

“Ronnie e Beirei” dedusse Tinkerbell “Ti hanno fanno male?”

Ruthie scosse la testa “Sto bene” ribatté Ruthie, sempre piuttosto arrabbiata.

“Non ti preoccupare” disse lui, alzandosi “L’importante è che non ti abbiano fatto niente. Che se li tengano, quei cacchio di semi”

 

Aki_Penn parla a vanvera: Eccomi, eccomi, eccomi! Come sempre mi sono fatta desiderare! Spero che il capitolo sia valsa l’attesa anche se non ci sono dei grandi colpi di scena.

Momento cultura indios: l’appellativo ‘uomo da cortile’ viene dato a un uomo che passi molto tempo vicino alle capanne, insieme alle donne, perciò Etu chiama così Tinkerbell, che non vuole lasciare da sola Ruthie.

Per quanto riguarda la scena del tempio, spero che non sia stata troppo noiosa, quando ho iniziato a scrivere la storia avevo pensato di lasciare fuori da questione ‘religione’, ma poi mi sono accorta del fatto che mi fosse indispensabile, e così ho finito per inserire i quattro cardinali solo adesso. Li ho chiamati così per colpa di una canzone dei Marta sui tubi, la canzone non c’entra niente, ma mi piaceva come nome da dare ai miei dei.

Diversamente dal solito non ho ancora finito di scrivere il capitolo ventotto, perciò è più che probabile che impiegherò di nuovo parecchio tempo prima di aggiornare. Scusatemi per la mia lentezza e grazie mille per aver letto, mi fate davvero felice. So che lo dico sempre ma, davvero, grazie. 

Ritorna all'indice


Capitolo 28
*** Il gabbiano d'alghe ***


Make a wish -

Capitolo ventotto -

Il gabbiano d’alghe –

 

“Avresti almeno potuto recuperare il braccio prima di tornare qui. Far ricrescere è molto più doloroso che riattaccare” sentenziò Jollah, scocciata.

Diablo increspò le sopracciglia, dolorante, sdraiato su un tavolo di legno coperto da un lenzuolo. La comodità non era contemplata quando Jollah doveva far ricrescere gli arti, come se il processo non fosse già tremendo di per sé. “Jollah” disse lui, aspro “se fossi riuscito a recuperarlo l’avrei fatto, Tinkerbell lo ha lanciato in mezzo al fogliame e ho cercato di tornare qui il prima possibile, senza perdere tempo a cercarlo” spiegò. Il moncherino pulsava dolorosamente, sempre a ricordargli di come Tinkerbell gli avesse deliberatamente strappato l’arto dalla spalla. Diablo deglutì, mentre la vecchia spostava la stoffa dalla ferita. Aveva smesso di sanguinare così copiosamente, ma rimaneva piuttosto brutta da guardare, il sangue si era raggrumato ai bordi, lasciando chiazze liquide qua e là.

Beirei, in fondo alla stanza, vicino alle finestre, si era curato di non guardare la ferita, sapeva che avrebbe finito per vomitare. Ronnie invece si era avvicinato a guardare da sopra la spalla di Jollah. Non era altissimo, ma la vecchia donnina era piuttosto minuta.

“Beh, Ronnie, devi essere davvero fortunato, stai già facendo la tua prima lezione” sentenziò lei, brusca.

“È andata un po’ peggio a me” grugnì Diablo, dal suo posto in orizzontale, un po’ inacidito.

“Zitto tu” sbottò la vecchia, voltandosi verso il tavolino accanto al letto “Che cosa gli hai fatto per farlo arrabbiare così tanto?” domandò “Ronnie, hai macinato i semi d’ortica che ti avevo dato?” domandò poi, scrutando Ronnie, che annuì, per poi tornare a guardare Diablo.

“Gli ho chiesto un desiderio” rispose, mentre la donna toccava la carne con una delle sue dita ossute. Diablo strinse i denti e sussultò, emettendo un rumore simile a un sibilo. Strizzò gli occhi, gli veniva da piangere. Jollah si rimise dritta, per nulla colpita da quell’esibizione di dolore “Cosa ti aspettavi? Gli hai fatto credere di essere lì per il desiderio e invece eri lì con Ronnie e Beirei per rubargli i semi” sentenziò, per poi voltarsi verso Beirei che se ne stava con la fronte appoggiata alla finestra. Dentro la stanza era caldo e l’odore della ferita era nauseabondo, c’era pericolo che il ragazzo vomitasse lì vicino a loro.

“Beirei, fuori di qui, per la miseria. E portati dietro anche lei” sbottò, indicando Bianca, che se ne stava seduta immobile dove l’avevano messa, neanche fosse stata una bambola.

Bianca non aveva ancora imparato a camminare, anche stare seduta su una sedia senza i braccioli le dava delle difficoltà, perciò, da quando Ronnie l’aveva depositata su quel duro sedile di legno, lei non aveva mosso un muscolo. I piedi nudi, con le dita palmate erano appoggiati per terra e le mani strette alla seduta per essere sicura di non cadere.

Si sbilanciò un po’ in avanti, per poi ondeggiare subito indietro rendendosi conto che rischiava di cadere di faccia sul pavimento, ed andando a sbattere contro lo schienale.

“Voglio rimanere” sentenziò, come se stesse per soffocare, con quella sua voce sgocciolante che a Diablo piaceva tanto.

Lui fece una smorfia “Sto bene, Bianca, per favore, se Jollah deve farmi ricrescere il braccio preferisco che tu non veda” disse, faticosamente. Bianca si ammutolì, abbassando la testa e guardandosi le mani. Le squame sui suoi polsi splendevano alla luce che veniva dalla finestra.

“Va bene” piagnucolò con gli occhi asciutti, mentre Beirei si avvicinava a lei, oscurandole il sole. Bianca alzò la testa per guardarlo. Era un ragazzo in carne, non troppo alto, ma piuttosto largo, con il naso ampio, i capelli lisci e scompigliati.

“Andiamo” disse lui, e la sirena annuì, lasciandosi prendere in braccio senza lamentarsi. Era leggera, sembrava fatta di niente.

“A dopo” sbottò poi pratico Beirei, utilizzando un tono del tutto diverso da quello che aveva usato per Bianca. La sirena sembrava così delicata da potersi spezzare solo alzando la voce.

Diablo si rilassò un poco, sapendo che Bianca non era più lì a guardare. Era la sua fidanzata, non voleva che lo vedesse urlare, imprecare e digrignare i denti e sapeva che se Jollah doveva fargli ricrescere il braccio, avrebbe urlato e imprecato.

“Ronnie, vai a prendere dell’acqua” ordinò Jollah e il ragazzo scattò verso la porta dalla quale era uscito Beirei per poi chiudersela alle spalle.

“In ogni modo” ricominciò Diablo, quando furono rimasti soli “volevo anche quel desiderio, lo voglio davvero. Più di lui, penso, a volte”  disse, concludendo la frase con una smorfia. Il moncherino gli aveva provocato una fitta acuta.

“Non ne dubito” rispose Jollah, distrattamente, prendendo in mano la ciotola dove Ronnie aveva pestato i semi d’ortica fino a farli diventare una polverina color magenta.

“Gli ho chiesto se posso dirti il suo nome e farlo desiderare a te o a Bianca, ma non si fida” aggiunse, chiudendo gli occhi. Sudava freddo, era caldo, ma il dolore lo faceva gelare.

“Io so già il nome di Tinkerbell” gli ricordò la donna e Diablo annuì “Lo so”

“Potrei esprimere il desiderio senza che lui se ne accorga” propose, seria. Non lo stava sgridando o prendendo in giro, per una volta. Lui deglutì ed annuì “Un genio si accorge sempre dei desideri che esaudisce, anche di quelli per i quali non deve muovere un dito. Per una cosa del genere non si fiderebbe mai più di me”

“Non mi sembra molto dell’idea di farlo nemmeno da adesso, a giudicare dalle condizioni del tuo braccio” sentenziò lei, rigida, se Diablo fosse stato solo un poco più in forze gli avrebbe rifilato una bastonata in testa.

“È un’altra cosa. Dire il suo vero nome in giro è una questione ben diversa dall’ingannarlo per qualche seme” rispose lui semplicemente, mentre Ronnie rientrava con una brocca d’acqua e annunciava raggiante “Eccomi qui”

“Shh!” lo zittì Jollah, e Ronnie si fece silenzioso, avvicinandosi al capezzale del proprio capitano cercando di fare il meno rumore possibile. Diablo aprì un occhio per guardarlo, mentre aiutava la vecchia Jollah a mettere l’acqua nella ciotola con la polvere di semi d’ortica. Insieme impastarono a quattro mani, nella ciotola, con Jollah che sbuffava e Ronnie che si scusava e si mordeva il labbro. Diablo li guardò di nuovo mentre Ronnie passava la polvere impastata con l’acqua sui capelli candidi della vecchia, che divennero magenta com’erano solitamente. Il capitano chiuse gli occhi e voltò la testa verso il muro, sapeva cosa sarebbe successo. L’attesa era straziante, non era la prima volta che la vedeva, il braccio gli faceva male, ma dopo sarebbe stato perfino peggio.

“Ma quindi lo posso fare solo con i capelli?” domandò Ronnie, calmo. Jollah sbuffò “Me lo hai chiesto due milioni di volte, sei il ragazzino con la testa più dura che abbia mai visto” sbuffò lei “Ti ho detto che è solo più comodo, ma dato che, a quanto ho capito, non ne vuoi sapere di farti crescere i capelli, farai senza. Per oggi guarda me e stai zitto!” lo redarguì.

“Diablo, sei pronto?” domandò poi, un po’ più gentilmente di come fosse il suo tono solito. “No” rispose lui, senza voltarsi verso di lei. Aveva i muscoli delle gambe in tensione e i capelli rossi scompigliati sul tavolo. Non sarebbe mai stato pronto, lo sapevano tutti e tre.

“Farà male” lo avvertì Jollah, prendendo uno sgabello e sedendosi accanto al pirata, rimboccandosi le maniche. Ronnie indietreggiò di qualche passo, come se i suoi due compagni stessero per esplodere.

La vecchia si prese i capelli magenta tra le mani grinze e ossute e li appoggiò attorno al moncherino di Diablo, e lui urlò. Dalla ferita ricominciare a sgorgare sangue, più sangue di quanto un corpo umano potesse contenere, i capelli e i vestiti della vecchia si inzuppavano mentre Diablo scalciava e cercava di allontanarsi.

“Tienilo fermo!” ordinò a Ronnie, che si era coperto la faccia con le mani, disgustato.

Nonostante tutto, corse in aiuto alla vecchia, anche se la cosa significava finire in un lago di sangue. In un secondo anche le sue mani erano zuppe i pantaloni erano diventati rossi. Diablo urlava e piangeva, battendo i piedi nudi sul tavolo, cercando disperatamente di allontanarsi, mentre Jollah modellava un braccio acerbo, ancora troppo corto per essere definito tale, che usciva dallo strappo all’altezza della spalla.

Uno schizzo di sangue arrivò in faccia Ronnie, ma lui tenne aperto un occhio per guardare la vecchia donnina che plasmava l’arto come su un tornio per modellare la creta.  Chiuse gli occhi e spinse di nuovo Diablo con la schiena contro il tavolo.

 

***

 

“Accenderesti tu il fuoco?” domandò Etu guardando Tinkerbell. La notte stava arrivando ed era ora di cenare e di radunarsi davanti al falò. Diversamente dalle aspettative, non era cosa che gli dispiacesse fare. “Ai bambini piace tanto quando sei tu a farlo” aggiunse poi Abequa, la moglie dello sciamano. Tinkerbell sorrise e annuì, uscendo dalla capanna dove era stato sistemato insieme a Ruthie. Due famiglie del villaggio si erano proposte per condividere una sola capanna e lasciare al dio e alla sua assistente un posto dove dormire tranquilli. Tinkerbell non aveva nemmeno provato a rifiutare. Ruthie si era lamentata un po’ per la vicinanza e la nudità, ma alla fine si erano accordati per dormire schiena contro schiena su un giaciglio di foglie. Appena fu fuori dalla capanna che condivideva col proprio famiglio, un nugolo di bambini gli si lanciò contro di corsa.

“Questa banda di folletti ama le fatine” sentenziò lui, divertito, voltandosi a guardare Ruthie, con un fascio di rametti umidi in braccio. Ruthie scosse la testa e se ne andò alzando gli occhi al cielo.

Nel bel mezzo del semicerchio costituito dalle capanne, le donne stavano preparando il fuoco. Tinkerbell velocizzò il passo togliendosi di dosso il nugolo di bambini nudi, che lo rincorse ridendo e cadendo nel fango che aveva lasciato una pioggia passeggera.

Tinkerbell alzò entrambe le mani all’altezza della propria testa, tenendole chiuse a pugno, mentre i bambini trattenevano il fiato e si spingevano per vedere. Quando le aprì, quelle presero fuoco dai polsi in su, bruciando le foglioline con le quali copriva diligentemente i bracciali, di solito. Vi fu uno scroscio di ira e strilli, con bambini che scappavano e altri che si accalcavano per vedere meglio. Qualcuno gli toccò una gamba.

Si chinò e prese un ramo tra le mani. Quello prese immediatamente fuoco, di una fiamma rossa e gialla piuttosto vivace. Tinkerbell lo fece ricadere sulla catasta che le donne avevano preparato e l’intera pira avvampò in pochi secondi, molto più velocemente di come avrebbe fatto in condizioni normali, con il legno ancora umido per l’ultima pioggia. Ci furono fischi e risate, mentre dietro di lui lo scalpitio dei bambini non accennava a fermarsi.

Tinkerbell richiuse le dita e la fiamma tra le sue mani si estinse, con un brusio indispettito proveniente dalle sue spalle “Spettacolo finito, folletti. La fatina è stanca”. Ci furono un po’ di lamentele e un paio di pizzicotti ai polpacci, ma in un attimo tutto il fragore si dissipò e Clay poté andarsene a sedere su un tronco usato come sedile che la tribù teneva accanto al fuoco da prima che Tinkerbell e Ruthie arrivassero. Ruthie se ne stava seduta sul ciglio del tronco, con gli occhi chiusi e i gomiti appoggiati alle ginocchia. Lui le si accomodò così vicino da urtarla e farla vacillare. Per poco non cadde per terra a gambe all’aria. Si riscosse dal suo torpore e lo guardò negli occhi, stralunata. “Mi fa male tutto” lamentò con un sospiro. Tinkerbell fece una smorfia divertita. Ruthie non l’aveva mai visto con la barba, ma da quando erano lì era stato obbligato a farsela crescere. La ragazza batté un paio di volte le palpebre per metterlo bene a fuoco, non si era ancora abituata alla novità. Di certo la barba e i baffi lo facevano quantomeno sembrare il ventiseienne che era. Non era una barba folta, parzialmente rossastra e rada, pareva quella di un adolescente, a Clay sembrava non piacere molto.

Allungò le gambe e si stiracchiò un poco “Ho i piedi pieni di vesciche e con le donne abbiamo lavorato la manioca tutto il giorno, non ne potevo più”

Tinkerbell ridacchiò di nuovo, lui era fresco come una rosa, come sempre. “A te non manca la doccia?” brontolò lei, passandosi la mano tra i capelli.

“Ho fatto il bagno nello stagno” si difese lui. “Non è la stessa cosa!” esclamò lei, accigliata. La stava prendendo in giro, come al solito.

“Tinkerbell” chiamò la voce di Abequa. Entrambi si voltarono a guardare la moglie dello sciamano che portava loro un paio di pesci per cena. Entrambi li aveva pescati Tinkerbell quella mattina, prima dello sfortunato incontro con Diablo. A Ruthie non aveva raccontato granché, non gli andava che sapesse di come il pirata l’aveva distratto. Ronnie e Beirei si erano presi tutti i loro semi, gli scocciava, ma non era una cosa poi così terribile. Tinkerbell sorrise e ringraziò, prendendo in mano la sua porzione e quella di Ruthie, per poi passarla a lei. I due pesci erano adagiati su foglie verdi che fungevano da piatto. Ruthie sorrise e basta, quella lingua era assurda. Aveva fatto domande sulla grammatica, ma Tinkerbell non sapeva come rispondere, lui chiacchierava in inglese e gli altri gli rispondevano come pareva a loro. Non gliene fregava nulla della grammatica.

“Etu vorrebbe sapere se potevamo sederci accanto a voi per mangiare” domandò poi la donna. Aveva le gambe grosse e il seno gonfio, la pelle scura e dura. I capelli invece erano lunghi, neri e lucenti. Tinkerbell le fece un sorrisetto accondiscendente e batté la mano sul tronco “Altroché, è il vostro albero, non il mio”. Piuttosto compiacente, per essere un dio.

Ruthie, sporgendosi un po’, guardò Abequa andare a chiamare il marito e si domandò che tipo di donna sarebbe stata se fosse nata in Connecticut, come lei.

Etu si accomodò alla destra di Tinkerbell, mentre lui e Ruthie si stringevano per fare posto anche ad Ahiga, il capo villaggio, e a sua moglie. Ruthie iniziò a pulire il pesce con le dita. La pelle era abbrustolita e l’interno ancora bianco. Sentì Tinkerbell confabulare con Etu e Abequa, ma non fece loro molto caso, finché Clay non si voltò verso di lei a parlarle porgendole qualche cosa sulla mano aperta.

“Abequa ti offre il suo, dice che è la parte più buona” spiegò, Ruthie abbassò lo sguardo sull’occhio di pesce che Tinkerbell teneva morto e trasparente, sul palmo.

“Scherzi?” sussurrò lei, serissima.

“Per niente” sussurrò lui in risposta. Ruthie prese l’occhio tra le dita, come se fosse una biglia e si sporse un po’ per vedere Abequa in faccia, che si chinava a sua volta in avanti per riuscire a vederla dietro a Tinkerbell. Ruthie sfoderò uno dei suoi più falsi e radiosi sorrisi, annuendo, come per dire qualche cosa, anche se lei e la donna non potevano capirsi. Abequa mormorò qualche cosa, senza pretendere che Ruthie capisse davvero e poi si rimise composta a mangiare la propria razione di pesce.

Ruthie mantenne ancora per qualche secondo il proprio sorriso plastico, poi lanciò via, non vista, l’occhio, in mezzo alla boscaglia, seguito dai due che aveva il suo pesce, prima che qualcuno la vedesse non mangiarli.

Tinkerbell si voltò di nuovo verso Etu, sperando che nessuno gli offrisse degli occhi di pesce, ma lo sciamano non sembrava dell’idea di cedere i suoi, dato che li aveva entrambi già mangiati.

“Tinkerbell, sai, io e Ahiga abbiamo parlato, quando siamo tornati al villaggio…” cominciò.

“Ti riferisci all’incursione dei due uomini? Ruthie mi ha detto che non hanno toccato nessuno al villaggio, hanno solo preso a lei cose che mi appartenevano” lo interruppe Tinkerbell, ansioso di scusarsi, sperando che l’arrivo di Ronnie e Beirei non avesse rovinato il rapporto che stava instaurando con Ahiga e lo sciamano.

Etu scosse la testa “No, non è quello. Non vogliamo immaginare quali sporchi affari spingano qualcuno a sfidare un dio” spiegò Etu, e Tinkerbell annuì cercando di capire quale fosse il punto della situazione.

“Abbiamo visto come ti muovi, come cacci, come peschi e ti abbiamo visto in cima a un albero a parlare con altri dei” disse lo sciamano, ignorando per un po’ la propria cena, preso dal discorso.

In realtà, Tinkerbell stava parlando al telefono con Jessie, il suo cellulare riusciva a prendere se si arrampicava in alto sulle fronde degli alberi. Era davvero bestiale.

“Sì” disse soltanto, in attesa che Etu continuasse.

“Quindi, noi davvero iniziamo a pensare che sia tu il vero dio e Mahi un impostore. Sai accendere il fuoco con le sole mani e non sappiamo cos’altro puoi fare, Mahi non ha mai fatto nulla del genere. Mahi non è sempre stato così, un giorno il dio si è impossessato di lui, cadeva in trance e il dio ci parlava attraverso il suo corpo. Se n’è andato a vivere solo in una capanna solitaria nel bel mezzo della foresta e noi dobbiamo portargli le offerte perché lui le mangi e ci protegga”

“Lui mangia le persone che gli portate?” domandò Tinkerbell, inespressivo.  Etu annuì, come se la cosa gli costasse fatica. Non si era ancora voltato a guardare Clay da quando aveva iniziato a parlare, teneva gli occhi fissi sul fuoco, come se avesse avuto qualche cosa di magico.

“Quello che volevo dirti…” ricominciò, come se quella fosse stata la cosa più difficile “è che, al villaggio, avremmo davvero bisogno di un dio, qualcuno come te, so che è sfacciato e…” Tinkerbell lo interruppe “Te l’ho già detto, io e Ruthie siamo qui solo per Mahi, dopo che ci saremo occupati di lui ce ne andremo, ci sono un sacco di falsi dei, in giro, mi devo occupare di tutti loro”

Etu scosse la testa “Certo, ma non intendevo questo. Ecco, non ci serve avere davvero te, ci basterebbe qualcuno che ti somigli” continuò, imbarazzato, guardandosi i piedi. Tinkerbell alzò un sopracciglio, perplesso “Non ti seguo”

“Qualcuno che sappia fare quello che sai fare tu, un dio come te, un pezzo di te…”

“Etu, cosa stai cercando di dirmi?” cercò di tagliare corto, Tinkerbell, sospettoso.

“Concederesti un figlio a mia moglie?” sputò tutto d’un tratto lo sciamano, non sopportando più l’imbarazza di dover parlare con un dio in quei termini.

“Assolutamente no” fu la risposta immediata di Tinkerbell.

“Neanche alla moglie di Ahiga? Lei è giovane”

“Ho detto: assolutamente no” ribatté Tinkerbell “La questione è chiusa” e così dicendo si accovacciò, con uno scatto, come poteva accanto a Ruthie, con la guancia contro la coscia morbida di lei.

“Che cosa fai?” sbottò Ruthie indispettita, sgomitando contro la testa del ragazzo.

“Salvami, vogliono stuprarmi” fu la risposta sussurrata e cospiratoria.

“Sei un demente” fu la conclusione di lei e si affrettò a mettere in bocca un altro pezzo di pesce.

 

***

 

“Quindi hai trovato la bestia” fece Chismes, dal bagno. Bonnie, stravaccato sul divano, annuì, portandosi la sigaretta quasi consumata alle labbra, per prendere un’altra boccata di fumo.

“Già, ma non sono sicuro che sia proprio una bestia…insomma…boh…però è probabile, no? Forse è quel coniglio obeso”

“L’hai percepito come bestia?” domandò la voce acuta di Chismes, sempre dal bagno. Bonnie scosse la testa “Nah…” disse svogliato. “Allora non è lui quello che stiamo cercando. Solo gli umani vengono presi di mira, almeno che io sappia. Non siamo mai certi di niente” spiegò la donna, uscendo dal bagno, ben truccata.

Bonnie, a petto e piedi nudi, alzò gli occhi per guardarla “Allora non ho idea”

“Allora devi indagare” lo spronò Chismes. Bonnie fece una smorfia “E come?” chiese scocciato. Chismes alzò gli occhi al cielo “Segui questi due ragazzini, fai domande, fai congetture. Questo è quello che devi fare. Io ti seguirò” disse, avvicinandosi e chinandosi sul divano per guardare il ragazzino.

“Mi seguirai?” ripeté Bonnie con una smorfia “Mentre esco con Nai-Jian?” si informò. Chismes annuì con un sorriso “Dobbiamo cacciarla insieme, questa bestia, Bonnie” gli ricordò la donna.

“Per la miseria? E cosa dovrei fare? Presentarti a lei come mia madre? È da sfigato!”

“Non devi sembrare un figo, devi uccidere una bestia, e non mi fido a lasciartelo fare da solo, non mi sembri assolutamente in grado di occupartene per conto tuo” sentenziò.

Bonnie si voltò sulla pancia “Non ti voglio con me. Seguici a distanza” disse. Chismes alzò un sopracciglio curato, le dava fastidio che Bonnie insistesse così tanto, ma seguirli a distanza non cambiava nulla per lei. Fece una smorfia scocciata, tirando in fuori le labbra e acconsentì “E va bene”

Bonnie sorrise soddisfatto “E non intervenire se riesco a baciarla di nuovo, l’ultima volta siamo andati a cercare suo fratello e non ho concluso nulla” aggiunse, sentendosi la situazione in pugno.

“Interverrò soprattutto se cercherai di baciarla, Bonnie, non siamo qui per questo. E poi dovresti proprio farti portare dal ragazzino, è lui ad essere amico di qualcuno che è scomparso, non Nai-Jian, ci sarà molto più utile” lo redarguì, e Bonnie si lasciò cadere con la faccia sul bracciolo del divano.

“Ma che palle!” sbottò, con la voce attutita dalla stoffa.

“E portati dietro la katana, questa volta” continuò lei, impietosa. Bonnie alzò di nuovo la testa, come se fosse stato colpito dal un pugno doloroso “Eh? Ma scherzi? Non posso portarmi in giro una katana, cosa penserà Nai-Jian? Che la voglio sgozzare?” sbottò, a voce acuta.

Chismes sospirò alzando gli occhi al cielo “Le persone normali vedono le nostre armi ma non le notano davvero finché tu non fai notare loro che le hai, usandole, ad esempio” spiegò “Tinkerbell non ti ha detto proprio nulla”

Bonnie scosse la testa, preso alla sprovvista, pensandoci, effettivamente, quando erano arrivati a Hong Kong, lui teneva la sua katana attaccata alla cintura e Septum il tridente appeso di traverso  sulla schiena, ma nessuno aveva fatto caso a loro. Solo in quel momento fu colto da un atroce dubbio “E la tua arma cos’è? Non l’ho mai vista, non te la porti mai” accusò. Chismes lo guardò negli occhi “Cosa dici? Questa è la mia arma!” esclamò, sfoderando il suo onnipresente ombrello.

Bonnie alzò un sopracciglio “Quello è un fottuto ombrello, non un’arma!” esclamò ad alta voce.

Chismes gli fece un sorrisetto divertito “Stiamo a vedere. Ora chiama la tua donzella, io vi seguirò a distanza e, se proprio dovete baciarvi, niente lingua, diamine, se non vuoi che ti ficchi il mio ombrello in gola!”

 

***

 

Bonnie si guardò indietro per vedere se Chismes lo seguiva, c’era gente per strada, ma un donnone occidentale non sarebbe passato inosservato nonostante il caos.

“È tutto a posto?” si informò Nai-Jian, un po’ preoccupata. Bonnie era carino, parlava bene cinese ed era gentile, non sembrava che suo fratello l’avesse preso granché in simpatia, ma lui le aveva chiesto se potevano tornare a vedere il coniglio, promettendo che non avrebbe provato a cucinarlo. Nai-Jian aveva riso e Bonnie l’aveva presa per mano. Si era aspettata che provasse a baciarla, ma non aveva fatto nulla del genere, le aveva raccontato cose confuse sul viaggio che stava facendo coi suoi. Era rimasto sul vago, come se non avesse troppa voglia di parlarne e poi, si voltava spesso indietro, come se fosse preoccupato dal fatto che qualcuno potesse seguirli.

“Sì, tranquilla” rispose lui, con un sorriso, velocizzando il passo. La katana gli sbatteva sul fianco e Bonnie si era stupito a provare una strana forma di famigliarità nei confronti della spada, come se fosse stata appesa alla sua cintura da quando era nato. Nai-Jian non si era accorta dell’arma, proprio come aveva detto Chismes.

Parlarono del più e del meno, mentre camminavano in direzione di Tai e del suo coniglio obeso. Bonnie si chiese tutto il tempo se Chismes sarebbe davvero intervenuta se avesse provato a baciare Nai-Jian. Svoltarono in una strada più stretta e Bonnie realizzò che erano ormai arrivati, se non l’avesse baciata in quel momento avrebbe avuto in mezzo anche Tai, oltre che Chismes.

Lei stava chiacchierando di ciò che sua madre era solita preparare a capodanno per festeggiare. Sua madre, in Australia, gli faceva mangiare quello che mangiava tutto l’anno anche il giorno di capodanno, ma non era una cosa che gli interessasse granché, ma questo a Nai-Jian non lo disse. Le si avvicinò con un sorriso e lei alzò la testa a guardarlo, mentre continuavano a camminare.

Bonnie la vide chiudere gli occhi e avvicinarsi un po’ a lui, fu in quel momento che sentì un movimento d’aria e una voce squillante ben conosciuta. Era come se Chismes fosse caduta al cielo. Entrambi si voltarono verso la donna che li salutava, Bonnie rabbioso e Nai-Jian perplessa.

“Ciao, Chi…mamma…lei è mia madre, l’altro giorno non ho avuto occasione di presentartela” spiegò Bonnie, piuttosto indispettito. D’un tratto Nai-Jian si ricordò di aver già visto la donna alla parata, era lei che era prontamente intervenuta a dividerli. Istantaneamente avvampò, mentre Chismes, disinvolta, le stringeva la mano.

“Anche mia madre parla cinese” le fece lui, prendendola di nuovo per mano, strappandola a quella di Chismes, e continuando per la sua strada, mentre il genio li seguiva quieta, sulle sue scarpe dai tacchi vertiginosi.

Nai-Jian gli sorrise imbarazzata, mentre si fermavano davanti al cancello del cortiletto dove di solito si trovava Tai. “Come mai tua madre è qui?” domandò, piano, mentre Chismes, qualche metro più indietro, sorrideva allegra. Bonnie alzò le spalle “Chissà, lei è così, un po’ di qui, un po’ di lì”. Avrebbe anche aggiunto Vorrei ammazzarla, ma non lo fece. Gli venne in mente Houn, ma durò solo un secondo.

Sopra il tetto piatto del magazzino sfitto, Alih, Cloris, Jim e Big Jim se ne stavano seduti con la schiena appoggiata a un lucernaio. Alih stringeva forte la sua spada e guardava davanti a sé, in ansia. Big Jim appoggiò una delle sue enormi mani sul suo ginocchio nudo, attirando la sua attenzione. Alih si voltò a guardarlo, con un sussulto, e Big Jim sorrise. “Andrà tutto bene” sussurrò. Alih gli sorrise di rimando, ma non fece in tempo a rispondere qualche cosa, perché Cloris la chiamò con voce ferma. La ragazzina sussultò ancora e si voltò a guardare il capitano, che guardava dall’altra parte. Alih gattonò fino a trovarsi davanti a lei e Cloris, finalmente, si degno di guardarla. Fece un cenno verso il bordo del tetto e ordinò “Sporgiti e guarda cosa succede”

Alih annuì e fece per alzarsi, ma Cloris l’afferrò per il polso. “Striscia” ordinò, fissandola con uno sguardo gelido. E Alih annuì, rimettendosi in ginocchio, per poi fare come le veniva detto.

“Guarda ma non fare niente” le disse. Fu un sussurro flebile ma piuttosto autoritario.

Alih strisciò con le ginocchia e i gomiti sulla guaina impermeabile del tetto. Sporgendosi poté vedere una donna grassa, vestita di rosso e i capelli neri, che se ne rimaneva fuori dal cancello in attesa, Alih non sapeva bene di cosa. si domandò se per caso non sapesse della loro venuta. Cloris le aveva detto che Chismes teneva i semi nel reggiseno, del ragazzino biondo, invece, non ne sapevano niente, era nuovo e non poteva avere più di un seme, con sé. In ogni modo era urgente scoprire dove li tenesse, in modo da trovare il suo punto debole.

“Che succede?” domandò Cloris, da dietro al lucernaio. Uno degli uccellini di Jim cinguettò, e il pirata lo nascose sotto il cappello, per zittirlo.

“Chismes è fuori dal cortile e quello nuovo è dentro intento a guardare un coniglio gigantesco” sussurrò, voltandosi verso il lucernaio, anche se, da quella posizione, non poteva vedere chi vi era nascosto dietro.

Alih estrasse un fazzoletto dalla propria tasca e lo aprì delicatamente estraendone un’alga essiccata. Si strappò poi un capello, la quale punta era dipinta di magenta, grazie ai semi d’ortica.

Lo avvolse nell’alga essiccata e questa sembrò prendere vita, attorcigliandosi attorno al capello nascendo di nuova elasticità. Alih la guardò muoversi nella sua mano, faceva una strana impressione vedere quella cosa muoversi. Non riusciva davvero a capire se fosse una cosa viva o meno. La fissò finché non fu pronta e poi la prese in mano, quando ormai aveva preso la consistenza di lucida stoffa di un verde lucente, misto a un bianco madreperla e magenta, per due lembi, con le punte delle dita. Sembrava quasi l’interno di una conchiglia.

La ripiegò come se dovesse fare un origami con un foglio di carta. Ne venne fuori una figura aerodinamica, lucente e calda al tatto. Alih la teneva sollevata con le dita, appoggiata con i gomiti e la pancia sulla guaina impermeabile della copertura del magazzino. Si alzò sulle ginocchia, abbastanza per poter mirare a Bonnie. Se il genio avesse alzato la testa l’avrebbe sicuramente vista, ma lui non si voltò nella sua direzione, rimanendo chino sul coniglio gigante.

Alih mirò e lanciò. L’alga che aveva piegato fino ad assumere una vaga forma di uccello, scese verso il ragazzo. Alla ragazza sembrò quasi, per un attimo, che l’origami battesse le ali.

Il gabbiano d’alghe si appoggiò sulla cintura di Bonnie e prese fuoco, un fuoco fatuo che non divampò né diede al ragazzo segno della sua presenza. Alih fece una smorfia, il seme era lì. Era probabile che l’avesse cucito all’interno della cintura.

“Hai visto dove li tiene?” domandò la voce pacata di Big Jim. Alih annuì “Sì”

“Allora torna qui” ordinò Cloris, scorbutica. Alih si voltò a guardare il lucernaio e poi di nuovo Bonnie. Le stava dando le spalle, poteva essergli addosso senza che nemmeno lui se ne accorgesse. Non aveva visto l’origami prendere fuoco, non aveva notato la sua presenza né quella del resto della ciurma.

“Non mi sta guardando” sussurrò Alih.

“Non importa. Non attacchiamo due pirati alla volta, volevamo sapere solo dove teneva i semi. Torna indietro” ordinò Cloris, aspra, in un sussurro.

Alih guardò di nuovo Bonnie che le dava la schiena, non aveva nemmeno idea di come fosse fatto in faccia. Non l’avrebbe potuta vedere, aveva rubato per anni al mercato del grande mare. Nessuno l’avrebbe notata e lei sarebbe scappata via in un battito di ciglia.

Il ragazzino cinese coi capelli corti stava commentando “Credo che tu gli piaccia”. Il gigantesco coniglio era andato ad accucciarsi sui piedi di Charlie e non sembrava volersi spostare di lì. Lui aveva finito per accarezzarlo, infilando le dita nel morbido pelo dell’animale.

Ci fu un movimento dietro di lui. La mano di Bonnie scivolò attraverso il pelo morbido del coniglio, gli toccò dolcemente le lunghe orecchie che puntavano al cielo, la mano si levò, mentre Bonnie raddrizzava il busto e finì ad afferrare l’impugnatura della spada giapponese. La katana emerse dal fodero con uno scintillio e Bonnie la strinse nella mano, tenendo la lama verso l’alto mentre ruotava il busto, senza muovere i piedi per non ribaltare il grosso coniglio.

Si voltò appena in tempo perché la lama dritta della spada incontrasse la mano aperta di Alih. Il genio e la ragazzina si guardarono negli occhi mentre la lama si infilava nel suo palmo, tagliando la mano a metà, per poi farsi largo lungo il braccio, spezzando l’osso in due parti, per il lungo. Alih non sentì il dolore finché la punta della spada non le uscì dal gomito, dopo averle tranciato a metà tutto l’avambraccio, solo allora urlò, mentre uno schizzo di sangue caldo finì addosso a Bonnie. Il ragazzo alzò il piede facendo saltare in aria il coniglio e lo afferrò con la mano libera, stringendoselo al petto, mentre con il ginocchio colpiva in faccia Alih, chinata, in preda al dolore straziante al braccio. Il colpo le ruppe la mandibola, dalla parte sinistra, frantumando i denti e lo zigomo, mentre veniva scaraventata sull’asfalto, cadendo sull’altro braccio. Tai e Nai-Jian urlarono alle sue spalle e Bonnie si ricordò di loro solo in quel momento. Avrebbe voluto voltarsi per chiedere scusa, provare a spiegare o qualche cosa del genere, ma si avventarono su di lui in massa, Bonnie vide una agglomerato di capelli fucsia e poi una vampata di fuoco. Stava per voltare la schiena alla fiammata per proteggere il coniglio che aveva in braccio, ma la sua vista venne oscurata da un cerchio rosa. Ci mise qualche secondo per rendersi conto del fatto che fosse un ombrello. La stoffa dell’ombrello andò a fuoco, ma Chismes lo richiuse e facendo una piroetta colpì con forza alla mandibola un uomo col cappello. Il copricapo volò via e ne uscirono  un gruppo di uccellini verdi rumorossissimi, che si avventarono su di lui e sul coniglio. Bonnie li colpì col piatto della spada, rintontendoli e sbattendoli a terra con violenza, mentre Chismes piantava la punta del suo ombrello nella spada di un uomo grassissimo. L’ombrello penetrò per metà nel corpo dell’uomo e si aprì, letteralmente sradicando il braccio dal corpo del pirata. La spada di Bonnie fendette di nuovo l’aria, ritrovandosi davanti la donna con i capelli color magenta. Prima che lui decidesse che cosa fare, lei si era già tirata una ciocca di capelli fucsia e questa si era allungata come una corda color porpora. Cloris la impugnò come  una frusta e la scagliò sul volto di Bonnie. La frusta fendette l’aria con uno schiocco, abbattendosi dolorosamente sul viso del ragazzo che coprì con la mano il muso del coniglio, per paura che la frusta colpisse anche lui. Il colpo lasciò un lungo segno sanguinante diagonale dall’occhio sinistro al lato destro della bocca, si trovò le labbra spaccate. Cloris alzò di nuovo la frusta, ormai non era più questione di recuperare i semi, era chiaro che non fosse possibile. Se Bonnie avesse avuto occhi per qualcun altro che non fosse il capitano della Rainbow Dancer, avrebbe visto Big Jim, seppur con un braccio solo, che si trascinava verso la ragazzina che aveva colpito per prima, per portarla via. La frusta di Cloris si abbatté nuovamente su di lui, questa volta senza fare male, la corda gli si infilò in bocca come dotata di vita propria, arrotolandosi attorno alla lingua. Al genio sembrò di soffocare, ma la sua spada calò sul braccio della donna, tranciandolo di netto e sfiorando di striscio l’occhio sinistro. Cloris urlò e la frusta si dissolse della bocca di Bonnie, come una pastiglia effervescente.

Big Jim urlava, Tai urlava, Nai-Jian urlava, Cloris urlava. Bonnie chiuse gli occhi e si ricordò di Houn.

 

 

 

Aki_Penn parla a vanvera: credo che le scuse non possano bastare per questo ritardo atroce. Sto passando un periodo un po’ difficile, non brutto, ma impegnativo, quindi, anche quando ho tempo, ho il cervello decisamente in pappa e faccio fatica a scrivere. Per di più sono tormentata da nuove idee per nuove storie e perdo tempo a fantasticare su quelle invece che scrivere Make a wish, accidenti a me.

Mi spiace che in questo capitolo non succeda granché, spero davvero di riuscire ad aggiornare in tempi umani, ma non ve lo garantisco.

Come sempre, grazie mille per aver letto e per aver avuto la pazienza di aspettare questo lentissimo aggiornamento!

Ritorna all'indice


Capitolo 29
*** Il trono di legno ***


Make a wish -

Capitolo ventinove -

Il trono di legno –

 

“Hanno detto che vogliono te come sacrificio” disse Tinkerbell, serio, guardandola degli occhi. Con la barba aveva un aspetto più autorevole, non che si fosse mai sottratta a quello che le veniva chiesto, ma con quell’aspetto da selvaggio aveva un’aria un po’ più minacciosa. Ruthie, nuda davanti a lui, incrociò le braccia, con un sospiro. “Va bene” disse soltanto, guardando in basso.

Etu e gli altri avevano lasciato loro un po’ di intimità nella loro capanna. Tinkerbell fece qualche passo in avanti e chinò un poco la testa per vederla meglio in faccia.

“Ehi, non ti lascio mica morire” le ricordò. Ruthie alzò il viso scocciata, guardandolo seria, la mandibola era contratta. Tinkerbell si era avvicinato così tanto che i loro nasi potevano quasi toccarsi.

Si fissarono negli occhi per qualche secondo prima che lei si umettasse le labbra e dicesse “Promettimi una cosa però, se devo fare da esca: cerca di fare in modo che mi faccia il meno male possibile” pregò. A Tinkerbell sembrò quasi avesse gli occhi lucidi, ma forse era solo un riverbero della luce.

“Sì, ci proverò” promise. Ruthie annuì e girò i tacchi uscendo dalla capanna. Si sentiva diversamente dalle altre volte. Non si faceva sempre male quando arrivava una bestia: con il kraken se l’era cavata con un bernoccolo e in Germania con un braccio rotto, era stato doloroso, ma non comparabile a quando si era immersa nell’oro fuso fino alla cintola o quando i coccodrilli le avevano staccato letteralmente dei pezzi di carne.

Sentì la terra sotto i piedi, le erano venuti i calli, i piedi erano pieni di ferite e sanguinavano. Non si lavava per bene da giorni e stavano per farla di nuovo a pezzi, nella migliore delle ipotesi.

Vicino al cerchio di pietre che circondavano il fuoco, dentro al quale in quel momento si trovavano solo ceneri, sostavano tutti gli uomini del villaggio, le donne erano rimaste dentro le capanne, era la tradizione. L’alba era passata da poco e Ruthie si sentì quasi rabbrividire anche se non era freddo. Etu le fece segno di avvicinarsi e lei gli si avvicinò. Per terra era appoggiata una portantina con una sedia rudimentale fatta di rami legati con delle corde. Il sedile, con lo schienale abbastanza alto da consentire a Ruthie di appoggiare la testa, stava appoggiato su due grossi rami paralleli che sarebbero dovuti essere sollevati da quattro uomini. Ruthie non aveva mai visto quel trono primitivo, suppose che lo tenessero nel tempio, la capanna destinata agli uomini.

Etu indietreggiò e indicò il trono di legno a Ruthie, come se non fosse stato abbastanza chiaro che quello fosse il suo posto. Annuì e si avviò con disinvoltura dove le veniva richiesto, non faceva nemmeno più caso al fatto che attorno a lei fossero tutti nudi. Mise un piede sul primo ramo per issarsi sulla sedia, di poco sollevata da terra dall’impalcatura della portantina, e sentì una scheggia di legno infilarsi nella pianta del piede. Arricciò il naso infastidita ma non fece niente, sedendosi silenziosamente sul suo trono della morte. Era scomodo e duro, oltre che vagamente umido, c’era anche un po’ di muschio sullo schienale. Si domandò quanta gente si fosse seduta su quella portantina.

Le sembrò passata un’eternità quando finalmente Tinkerbell emerse dalla capanna e si unì al gruppo “In quanti vi presentate, di solito?” domandò Tinkerbell guardando Etu. Ruthie, con la testa appoggiata allo schienale, si voltò leggermente per osservare Tinkerbell che non la guardava. Continuava a farle uno strano effetto con la barba, pensava gli stesse bene, ma glielo faceva percepire un po’ più estraneo dello sbarbatello con il quale era abituata ad avere a che fare. Si volse di nuovo davanti a sé, chiedendosi come mai pensava alla barba di Tinkerbell quando si sarebbe dovuta confrontare con una bestia di lì a poco.

“Io, che sono il sacerdote, il sacrificio e i portatori, quattro di solito. In questo caso, se tu vuoi stare con noi, possono essere tre più te” propose Etu, ma Tinkerbell scosse la testa. “Io vi seguirò dall’alto, è meglio” disse, indicando le alte fronde degli alberi ed Etu non protestò anche se non gli era del tutto chiara la dinamica.

“Rimanete ad osservare il sacrificio, di solito?” domandò poi, incrociando le braccia sul petto. Etu scosse la testa “No, torniamo a riprendere il trono e le ossa un paio di giorni dopo” spiegò e Tinkerbell annuì, grato della spiegazione. “Ottimo, non voglio gente in mezzo ai piedi. Voi quattro” e si voltò verso i portatori, che gli diedero subito attenzione “tornatevene di corsa al villaggio appena questo Mahi vi congederà. Tu, Etu, invece, non ti allontanare troppo dopo aver lasciato Ruthie, verrò a prenderti io e tu mi aiuterai a uccidere Mahi”

Etu boccheggiò “Ma io…ma io non…”

“Non devi fare quasi nulla, se non ascoltare quello che io ti dirò e darmi ordini” disse Tinkerbell sbrigativo, senza preoccuparsi del fatto che le sue parole fossero piuttosto criptiche.

“Ordini?” ripeté Etu, stralunato.

“Te lo spiegherò più tardi” rispose Tinkerbell, disinteressato. Etu sembrava intenzionato ad aggiungere qualche cosa, ma Ahiga lo zittì dicendo “Fai quello che ordina il dio” ed Etu chinò il capo ubbidiente.

“Ruthie?” chiamò, voltandosi verso la ragazza. Il famiglio non lo guardava, ma fissava invece inespressiva un punto indefinito davanti a sé. “Ricordati cosa mi hai promesso” si limitò a dire lei.

“Me lo ricordo” la rimbeccò Tinkerbell, vagamente scocciato. La guardò per qualche secondo, mentre lei lo ignorava, poi fece una smorfia divertita e l’afferrò per il mento, obbligandola a girarsi verso di lui. Ruthie non avrebbe voluto, ma non le era fisicamente impossibile opporsi a Tinkerbell.

Clay le schioccò un bacio scherzoso sulla fronte e le sorrise “Dai, smettila di fare la scontrosa, andrà alla grande, te lo prometto”. Ruthie grugnì poco convinta ma non replicò e lui tornò a dare attenzione agli uomini del villaggio.

“Ci vediamo dopo, non una parola sulla mia presenza” li redarguì di nuovo Tinkerbell, prima di arrampicarsi su un albero vicino.

Etu batté le palpebre un paio di volte, Clay gli era sparito da davanti agli occhi in meno di un secondo. Riprese fiato e si affrettò a dirigere gli altri, perché legassero i polsi di Ruthie ai braccioli della sedia. Ruthie non protestò e rimase ferma a guardare mentre un uomo del villaggio le fermava le braccia. Poco dopo, i quattro portatori si issarono i bastoni della portantina sulle spalle e si avventurarono nel fitto della foresta. Ruthie si sentiva sballottata in qua e in là. Anche se le era stata risparmiata la marcia rischiava di venire colpita in faccia dai rami più bassi. Le stava venendo un po’ la nausea a causa di quell’ondeggiare, in più, lo stomaco le si era stretto in una morsa, si sentiva la bocca asciutta, sapeva che stava andando incontro a qualche cosa di doloroso, lo sapeva con più consapevolezza delle volte precedenti.

Il suo cuore perse un battito quando la portantina si fermò, c’era un piccolo spazio davanti a loro, non largo come quello che ospitava il villaggio di Etu, ma abbastanza perché ci fosse posto per una piccola capanna e un fuoco. Le braci erano spente, c’era cenere e un filo di fumo, ma null’altro faceva presagire la presenza di qualcuno in quel luogo.

“Mahi!” chiamò Etu. Disse anche qualche cosa d’altro, in tono ossequioso, ma Ruthie non comprendeva la loro lingua. Non arrivò nessuna risposta, ma si sentì un tramestio venire dall’interno della capanna. Ruthie respirò forte, come presagendo già il dolore che le sarebbe stato riservato. Deglutì a fatica, senza distogliere lo sguardo dalla porta del tugurio e quando la tenda di foglie si scostò strinse i pugni e i denti, come se fosse stata punta da un’ape.

Ciò che ne uscì era un personaggio davvero inatteso: Mahi aveva le sembianze di un ragazzino, doveva avere quindici anni, più o meno. Il viso liscio, il sorriso allegro e i capelli lunghi fino al mento, scompigliati e un po’ sporchi. Il ragazzino la guardò e le sorrise. Aveva la pelle scura e gli occhi neri, il mento a punta e un neo proprio sulla punta del naso. A differenza degli altri portava una specie di pezzuola appesa ai fianchi, cosa che, a parere di Ruthie, lo rendeva molto più civilizzato.

Mahi si accostò a Etu e i due si misero a discorrere nella loro lingua. Sembravano chiacchierare del più e del meno, Mahi elargiva larghi sorrisi, Etu era un po’ teso. Ruthie si chiese se lo fosse sempre, al momento di un sacrificio, o se fosse Tinkerbell a renderlo insicuro.

I quattro portatori, si tolsero dalle spalle la portantina, appoggiandola per terra, non senza qualche scossone. Ruthie sbatté la testa contro lo schienale, ma Etu e Mahi non sembravano fare caso a lei.

Tinkerbell li guardava dall’alto, non visto. Le fronde lo nascondevano, ma lui poteva agevolmente sapere cosa succedeva a terra.

Mahi non gli dava nessuna sensazione, non era la bestia, o meglio: non lo era ancora. Era uno di quei casi in cui il seme non ha ancora preso completo possesso del corpo del suo ospite, questo voleva dire che se fosse tornato normale all’improvviso avrebbe dovuto stare attento  a non ucciderlo. Fece un sospiro, non facendo davvero troppo caso a cosa i due si dicessero. Ruthie era immobile sulla sua sedia di legno.

Rimase accucciato sul ramo dove aveva trovato rifugio, continuando a guardare in basso, finché Etu e i quattro portatori non si allontanarono camminando lentamente e incerti. Sembravano quasi restii a lasciare lì Ruthie sul suo trono di morte. Mahi sostò un poco accanto alla ragazza, continuando però a guardare gli uomini che si allontanavano perdendosi tra le fronde. Era ancora umano e aveva un’aria piuttosto innocua.

Clay fece un altro sospiro stanco e si mise in piedi, l’accetta era sempre legata alla gamba, come consueto. Saltò da un ramo a un altro, scendendo a passo rapido più in basso, con una mano che strisciava piano contro il tronco del grande albero, come per essere sicuro di non allontanarsi mai da lui. Con una carezza.

Atterrò con un tonfo e un fruscio di foglie, proprio davanti a Etu, che per poco non cacciò un urlo per lo spavento. Si era allontanato dalla capanna di Mahi, ma non di troppo, lasciando tornare indietro i quattro che lo accompagnavano, come Tinkerbell l’aveva istruito.

“Sei tu” disse Etu, senza fiato.

“Hai visto Mahi?” domandò lo sciamano. Tinkerbell annuì “Può darsi che dovremo aspettare un po’, prima di intervenire” sentenziò, non aveva intenzione di attaccare il ragazzino finché fosse stato nella sua versione umana.

“Lascerai morire la ragazza?” domandò Etu, con un singulto. Clay scosse la testa, stancamente “Credo che ci metterà un po’ di tempo prima di mettersi all’opera, per ora Ruthie è al sicuro”

Etu annuì, compito.

“Io esaudisco i desideri” esordì poi Tinkerbell, dopo un attimo di silenzio. Etu alzò la testa, guardandolo perplesso, Clay lo sovrastava di qualche centimetro e lo guardava con aria annoiata, aveva fatto quel discorso centinaia di volte, gli altri continuavano a stupirsi, per lui era routine, ma non era facile fare intendere le cose al primo colpo a chi aveva scelto come padrone.

“Puoi esprimerne tre solo se conosci il mio vero nome, i tuoi desideri mi saranno necessari per uccidere la parte cattiva di Mahi” spiegò, tranquillo. Etu pareva confuso “Vero nome?” boccheggiò.

“Mi chiamo Clay Jannings” tagliò corto Tinkerbell, voltando un po’ la testa per guardarsi intorno. La foresta era viva, nonostante non ci fosse nulla di più pericoloso di se stesso e Mahi nell’arco di chilometri, non poteva fare a meno di guardarsi le spalle.

“Che nome bizzarro” commentò Etu, vergognoso. “Da che pulpito arriva la predica!” lo rimbeccò Tinkerbell, non troppo preoccupato, in realtà. Lo sciamano parve non aver sentito e continuò con le domande, sempre tenendo gli occhi bassi. Clay gli sembrava d’un tratto più minaccioso.

“Cosa intendi per parte cattiva di Mahi?” chiese.

Tinkerbell sbuffò, scocciato. “Voglio dire che qualche cosa si è impossessato di Mahi. Mi avete detto che d’un tratto è stato posseduto da una potenza divina, no?”

Etu annuì lentamente, senza distogliere gli occhi dal genio. Tinkerbell se ne compiacque e continuò, avvicinando il proprio viso a quello di Etu, tanto vicino che per poco i loro nasi non si toccarono “Voglio uccidere solo il dio che ha dentro, con gli umani non mi immischio.” Disse, quasi scandendo le sillabe. “Bene, ora nasconditi e stai a guardare, mi servirai dopo” e così dicendo fece un salto all’indietro, così veloce che Etu quasi non lo vide risalire sull’albero da dove sbirciava prima.

Sospirò, gli tremavano le mani. Non sapeva più se aveva più paura di Tinkerbell o di assistere a uno dei sacrifici di Mahi. Per un secondo aveva pensato che Tinkerbell facesse davvero terrore, avrebbe potuto ucciderlo con lo stesso movimento semplice e fluido con cui aveva pescato i pesci nel fiume. Capì subito che la sua vescica non avrebbe retto.

Ruthie intanto guardava Mahi. Sembrava un ragazzo tranquillo. Le aveva rivolto la parola, ma lei non riusciva a capire nulla di ciò che lui le diceva, ma lui le aveva sorriso benevolo. Si era agitata sulla sedia, ma Mahi non l’aveva nemmeno guardata, non mostrava segni di impazienza. Si era chinato su una ciotola piena d’acqua e aveva bevuto qualche sorso, con calma, mentre Ruthie fremeva a qualche metro da lui. Si pietrificò quando il ragazzino si rialzò e le andò incontro, con passo tranquillo e misurato. I capelli erano lunghi e lucidi, gli occhi di un nero penetrante, la pelle olivastra e il corpo snello.

Si sentì, d’un tratto, più nuda di quanto si fosse mai sentita in quei giorni al villaggio. Si domandò se Tinkerbell la stesse guardando, si domandò se avrebbe evitato che si facesse male, deglutì faticosamente, mentre Mahi si lasciava cadere in ginocchio accanto a lei.

Era una situazione strana, sembrava osservarla con una sorta di ammirazione, dal basso, fissandola con quei suoi occhi neri, il cervello di Ruthie si svuotò, per un secondo non si ricordò più nemmeno del fatto che Tinkerbell stesse vegliando su di lei dall’alto di un albero.

Mahi disse qualche cos’altro di incomprensibile, sembrava dolce e preoccupato, non riusciva davvero a capire come quella potesse essere una bestia, ma si accigliò quando lui appoggiò un indice sul suo ginocchio. Rabbrividì, sentendo come d’un tratto le costrizioni dei polsi farsi più strette. Le gambe erano libere di muoversi, ma le sentiva pesantissime. Le formicolavano i piedi, come se migliaia di insetti le brulicassero sulle dita.

Mahi cominciò a parlare dolcemente, come se le stesse raccontando una favola, la sua voce era suadente, da ragazzino, aveva smesso di guardarla negli occhi, si concentrava solo sul suo ginocchio, mentre parlava in quella sua lingua incomprensibile.

Ruthie continuò a guardarlo finché, a metà della frase, le parole diventarono comprensibili anche a lei.

Makei khalami dei…vieni da lontano, vero?” domandò, alzando di colpo la testa. Ruthie si sentì come se qualcuno le avesse infilato un palo nel cuore.

Tinkerbell, dall’alto, perse un battito. Mahi si era trasformato nel suo se stesso-bestia. Non aveva bisogno di sentirlo parlare per saperlo. Chiuse gli occhi per un secondo e strinse la mano attorno al manico dell’accetta: si cominciava.

Ruthie guardò Mahi negli occhi, stringendo la mascella, quasi le fecero male i denti, ma non riuscì a rendersene conto, adesso gli occhi di Mahi le facevano davvero paura anche se, fondamentalmente, non era cambiato nulla nel suo aspetto.

“Va bene, non mi interessa” decretò.

Ruthie urlò ancor prima che il ragazzino le mordesse la gamba. In un secondo, la sua bocca si era riempita di zanne appuntite, zanne che affondarono nella carne bianca della coscia di lei.

Ruthie urlò, scalciando, come poteva con la gamba ancora illesa, ma sembrava non servire a niente. Mahi, le afferrò la caviglia della gamba libera, con un gesto brusco, mentre dall’altra gamba si intravedeva l’osso. Il muscolo era irrimediabilmente rovinato, non c’era modo che Ruthie potesse muoverla. Il viso era bagnato dalle lacrime e dal sudore, la frangia appiccicata alla fronte, mentre lei stringeva i denti e guardava Mahi negli occhi. La bestia ricambiò lo sguardo, seria, il mento era sporco di sangue che gli gocciolava sulla tunica. A bocca chiusa non si sarebbe detto che possedesse delle zanne, ma Ruthie le aveva viste, le aveva sentite.

“Lasciami andare!” piagnucolò, sbavando. I polsi erano ancora immobilizzati al trono di legno: non poteva fare niente.

Il ragazzo le strattonò la gamba buona e Ruthie urlò di nuovo, mentre le si rompevano i legamenti, come se fosse stata una bambola. Si piegò in avanti, piangendo con la faccia bagnata e congestionata. L’urlo era quasi muto, così flebile che Etu, nascosto poco distante, riusciva a sentire solo un fioco lamento.

“Tinkerbell” piagnucolò piano, mentre Mahi la scrutava serio, subito prima di chinarsi di nuovo in avanti e affondare le zanne nel fianco di Ruthie, subito sotto le costole. La ragazza inarcò la schiena sbattendola contro il trono di legno e ricominciando a urlare disperata, nel folle tentativo di levarsi dalle grinfie della bestia.

Emise un altro urlo inarticolato, quando Mahi aprì le fauci per affondare i denti più a fondo nella sua carne. “Tinkerbell!” urlò ancora, con la voce rotta dai singhiozzi e gli occhi pieni di lacrime, tanto da non riuscire a vedere niente “Me l’avevi promesso, me l’avevi promesso…TINKERBELL!”

Clay rimase a fissare la scena dalla sua posizione nascosta. Chinato, sulle punte dei piedi, guardava attentamente verso il basso, inespressivo. Si domandò se la bestia avesse azzannato qualche organo vitale, nel caso non avrebbe avuto molto tempo per salvarla. Rimase lì a guardare, trattenendosi dal saltare giù e salvare Ruthie dalle grinfie di Mahi. Strinse la mano attorno all’accetta, nervosamente, ma non distolse lo sguardo dalla scena sanguinaria che si stava svolgendo più in basso.

Etu, nascosto poco distante dal trono di legno di Ruthie, era caduto in ginocchio, incapace di distogliere lo sguardo dalla ragazza, sanguinante e agonizzante. Lei continuava a urlare, aveva smesso di chiamare Tinkerbell, il suo lamento si faceva sempre più flebile, come se si stesse spegnendo. La vescica non aveva retto, sulle gambe gli si era riversato un rivolo di liquido caldo, ma non ci aveva quasi fatto caso. Ciò che gli stava davanti era allucinante: era successo questo a tutte le precedenti vittime sacrificali? Era stato complice di una cosa simile?

Boccheggiò, l’aria era calda, sudava, ma si sentiva gelare le ossa, le mani erano fredde e strette a un ramo basso, se avesse stretto solo un poco di più avrebbe potuto romperlo. Non poteva rimanere lì a guardare, non poteva, non un attimo di più; Tinkerbell, o Clay, o chiunque fosse, lui l’avrebbe aiutato!

Senza pensare scattò in avanti entrando con gambe tremanti nello spiazzo e urlò “Salvala, lo voglio, salvala!”

Mahi, che aveva addentato il collo di Ruthie, che ormai giaceva sul trono, esamine, alzò la testa e lo guardò. Per una frazione di secondo Etu si domandò se tutto quello che Tinkerbell gli aveva detto non fosse una grande sciocchezza, perché un dio come lui avrebbe dovuto mettersi a servizio di uno come Etu?

Ansimò ed arretrò, come sperando di poter tornare nel suo nascondiglio senza essere visto, mentre Mahi non distoglieva gli occhi dal suo e, appoggiandosi ai braccioli del trono, si metteva in piedi.

Arrivò in quel momento, come  un fulmine o una folata di vento. Il piede di Tinkerbell colpì Mahi alla testa così forte che la bestia andò a sbattere contro un albero qualche metro più in là, la botta creò uno spostamento d’aria tale che scompigliò i capelli di Etu che, trasognato, fissò Tinkerbell con gli occhi sgranati. Tinkerbell passo distrattamente una mano sulle ferite di Ruthie, quasi come se non fosse lui a decidere che cosa fare: era il desiderio.

“Non c’era bisogno di sprecare un desiderio, l’avrei salvata lo stesso” sbottò, un po’ arrabbiato e si voltò a guardare Mahi, che si rialzava piano da dove era caduto e si scrollava la polvere dallo straccio che teneva in vita, come se niente fosse.

“Io non potevo vederla così e…” cominciò Etu, con voce tremante.

“Non mi interessa, ora stai zitto finché non ti viene in mente un desiderio che mi aiuti” ordinò, voltandogli le spalle e avanzando verso Mahi. La bestia gli sorrise, con un’espressione un po’ viscida.

Etu si prese il tempo per guardare Ruthie, il petto si sollevava e abbassava, era sporca di sangue, ma non sembrava avere ferite. L’uomo non poté far altro che trovarlo sbalorditivo. Si avvicinò piano, come per non far rumore, chinato in avanti, come se fosse stato meno visibile, in quel modo, e mise una mano su quella di Ruthie. Era morbida e delicata. C’era odore di sangue, nell’aria. Etu carezzò il fianco di lei, pulendolo un poco dai grumi di sangue, ma sotto trovò la pelle integra e perfetta, come quando lui e gli altri uomini del villaggio l’avevano depositata. Sobbalzò quando sentì il proprio nome uscire dalle labbra di Mahi. Il tono era lascivo, a Etu sembrò quasi un serpente, non era lo stesso Mahi con cui era abituato a parlare, era qualche cosa di crudele e oscuro. Gli si drizzarono i peli sulle braccia.

“Etu, hai portato tu quest’uomo da me?” domandò. Lo sciamano boccheggiò, lasciando andare la mano di Ruthie, che ancora teneva nella sua. Il braccio della ragazza cadde penzolante come se fosse stato morto.

“Una serpe in seno” aggiunse Mahi, sempre tranquillo “Vorrà dire che prima mi mangerò il genio, poi la ragazza e poi… te”. Quel ‘te’ suonò così squillante da rimbombare nella testa dell’uomo per qualche secondo. Il suo stordimento non durò molto però, Tinkerbell si lanciò in avanti con l’accetta, gli sfiorò il mento, dal quale non uscì più di una goccia di sangue, e tagliò una ciocca di capelli, Mahi si era scansato a una velocità incredibile. A quel punto fu Tinkerbell a venir colpito, da un arto che fino a qualche secondo prima non c’era.

Il terzo braccio di Mahi si fece vivo dal gomito sinistro, come se fosse stata la diramazione di un albero. Era un’escrescenza ossea lunga e appuntita, terminante con quello che poteva sembrare un uncino d’avorio. S’infilò in bocca a Tinkerbell, rompendogli diversi denti, e lo arpionò come un pesce all’amo, bucandogli la guancia destra. Clay arretrò con uno strattone e un fiotto di sangue. Saltò indietro, sputando sangue, da quello che rimaneva della sua bocca, e si passò la mano sulla gota lesa, facendola tornare normale. Mahi aveva fatto un paio di passi indietro anch’egli, ma molto più tranquillamente. Il braccio d’avorio era stato riassorbito dal gomito e il suo aspetto era del tutto normale, anche i denti erano di una forma e una dimensione adeguata a un essere umano. Tinkerbell grugnì, infastidito, Mahi gli sorrideva e sembrava quasi prenderlo in giro, quasi elegante nel suo straccetto fradicio di sangue, contro un genio nudo.

Mahi rise forte, senza distogliere lo sguardo da quello cupo di Tinkerbell. Etu, qualche metro più in là, arretrò cercando di nascondersi dietro allo scranno dove stava Ruthie, priva di sensi. Clay si era quasi scordato della sua presenza e anche la bestia non sembrava granché interessata allo sciamano, Tinkerbell sembrava molto più intrigante.

Con un balzo gli fu di nuovo addosso, Clay quasi non se ne accorse, ma Mahi aveva di nuovo le zanne e le affondò nel suo petto, staccando la clavicola dal resto del corpo. Tinkerbell sentì distintamente i denti che si infilavano sopra e sotto l’osso, subito prima di tirare. Trattenne un urlo di dolore, mentre Mahi lo guardava compiaciuto. C’era ancora un lembo di pelle che collegava la clavicola che la bestia teneva in bocca, al petto di Tinkerbell. Si guardarono per un secondo, poi Clay gli piantò l’accetta nell’occhio. Il bulbo oculare parve esplodere in una poltiglia lattiginosa, ma la clavicola di Clay rimase salda nelle fauci della bestia e si staccò dal corpo di Tinkerbell con un ultimo spasmo. Clay digrignò i denti e strizzò gli occhi, mentre Mahi barcollava allontanandosi da lui e tenendosi la mano sull’occhio ferito. Quando, si voltò di nuovo a guardarlo, l’occhio era come nuovo, e in bocca, come un grosso stuzzica denti, giocherellava con l’osso di Tinkerbell, completamente pulito da ogni traccia di carne o sangue. Lo sputò per terra con sdegno, mentre Clay si passava la mano sulla ferita, facendola scomparire. Ossa e carne erano di nuovo al loro posto.

Fu Tinkerbell a fare la prima mossa, lanciandosi in avanti con l’intenzione di staccargli la testa dal corpo con una decisa falciata, ma Mahi gli afferrò il polso prima che l’accetta potesse raggiungere il collo. Mosso dalla forza della spinta Tinkerbell gli arrivò comunque addosso alzando un ginocchio e colpendolo in piena faccia. La testa di Mahi si piegò da una parte, innaturalmente, il collo era rotto, come buona parte dei denti, ma la cosa non serviva a niente, se a Clay non veniva chiesto un desiderio.

“Aiutami, Etu, pensa a qualche cosa da chiedermi!” ordinò, rabbioso, mentre Mahi cadeva all’indietro, e Tinkerbell lo seguiva, finendogli addosso.

Caddero a terra uno sopra l’altro e Tinkerbell fece forza sul tallone, per terra, per rialzarsi, ma la sua accetta era ancora salda nella presa di Mahi. In un secondo, anche la testa di Clay fu salda tra le mani della bestia. Dal gomito sinistro del ragazzo erano scaturite, quasi come un ventaglio d’avorio, altre tre braccia d’osso, munite di falangi fuse tra loro. Le braccia si strinsero attorno al collo e alla testa di Tinkerbell, costringendolo a piegarsi in avanti. L’accetta era ancora bloccata nella mano di carne di Mahi.

“Etu!” urlò ancora Tinkerbell, mentre il collo della bestia tornava in posizione normale, e la schiena di Tinkerbell piegava sempre di più verso il terreno.

Spostò la gamba per riuscire a cambiare posizione ed alzarsi, ma qualche cosa di sottile e affilato gli si ficcò nella caviglia, frantumando l’osso. Tinkerbell urlò, un’altra sporgenza ossea spuntava dal ginocchio della bestia e puntava verso il basso, piantandosi dritta nella gamba del genio. Clay ansimò, dolorosamente. “ETU!” urlò per la terza volta. Lo sciamano guardava terrorizzato da dietro lo scranno di Ruthie.

I denti di Mahi erano tornati zanne e gli occhi fissavano Tinkerbell famelici e Clay capì cosa stava per succedere. Chiuse gli occhi inconsciamente, quando le zanne del mostro si fecero strada nella carne del suo fianco. Tinkerbell urlò di nuovo, sentendosi in colpa per Ruthie, per lei doveva essere stato anche peggio. Aprì la bocca, ansante e strattonò di nuovo l’accetta che Mahi teneva stretta in mano. Non servì a niente, un’ulteriore braccio d’ossa lo assicurò ancora alla sua posizione quasi raso al suolo. Con il braccio libero afferrò Mahi per i capelli e lo strattonò all’indietro fino a staccarselo di dosso. Insieme a Mahi se ne andò anche un grosso pezzo di carne che rimase incastrato tra le fauci sanguinanti del mostro. Tinkerbell represse un ennesimo urlo. Non stette nemmeno a pensare che pezzo avesse perso, forse una parte di un rene. La bestia masticava il pezzo di carne rubato a Tinkerbell, continuando a fissarlo negli occhi, con aria folle. Clay fu costretto a voltare lo sguardo.

Finì per incontrare quello di Etu. Era ancora rannicchiato dietro lo scranno, con entrambe le mani appoggiate al bracciolo della sedia. Le ginocchia per terra. Si guardarono per un lungo secondo, Tinkerbell rabbioso, Etu spaventato.

Lo sciamano boccheggiò, poi sussurrò “Soffocalo. Voglio che lo soffochi”. Fu un filo di voce flebile, ma era sicuramente un desiderio.

“Che desiderio di merda!” ringhiò, guardando di nuovo Mahi, che aveva mandato giù l’ultimo pezzo del suo rene.

Lasciò andare i capelli della belva e quella si scagliò nuovamente in avanti, con l’intenzione di azzannarlo alla gola, ma Tinkerbell non glielo lasciò fare. La mano libera fu davanti alla gola come per ripararla. Mahi spalancò le fauci con la precisa intenzione di ingoiare anche quella e farsi spazio verso la testa, ma, a differenza di ogni aspettativa, Clay infilò intenzionalmente tutta la mano in bocca a Mahi, seguita da avambraccio e braccio. Le zanne si chiusero dolorosamente sulla spalla di Tinkerbell, tranciandogli via l’arto. L’intero braccio era bloccato nella gola della bestia, che non riusciva a masticarlo e stava iniziando a tossire e rigurgitare sangue a fiotti. Tinkerbell mollò la presa sull’accetta e, con l’unica mano che gli era rimasta, strappò via dal piede l’escrescenza ossea che usciva dal ginocchio di Mahi. Tutte le mani di Mahi si allontanarono dal genio per stringersi attorno al manico dell’accetta. Con un salto, Clay si allontanò, dolorante e ansante. A pochi metri da lui, Mahi era in ginocchio a tossire, mentre una selva di braccia bianche sventolavano l’accetta di Tinkerbell, come se fosse stato un premio.

Il genio alzò la mano in alto e aprì le dita della mano che gli era rimasta “A me!” ordinò, e in un secondo l’accetta si liberò dalla presa delle mani, rompendo irrimediabilmente falangi e polsi. Quando sentì di nuovo il legno dell’arma sotto i polpastrelli sospirò, un po’ sollevato. Il fianco e la spalla gli facevano parecchio male, ma non vi badò e fece qualche passo in avanti, fino ad arrivare proprio davanti alla bestia in ginocchio. Le braccia in più erano sparite e gli occhi erano rossi e lucidi. Tinkerbell lo guardò rabbioso, dall’alto, prima di ficcargli in bocca l’ascia, e tagliare buona parte della guancia, per quanto non fosse già stata inumanamente dilatata, per allargarla ancora. Lasciò cadere l’accetta e, con l’unica mano che gli rimaneva, afferrò il proprio braccio, infilato nella bocca del mostro, per estrarlo di nuovo.

La bestia stava soffocando, ma cercò comunque di stringere le mascelle per impedire a Tinkerbell di riprendersi il braccio. Clay piantò un piede in fronte  per farsi forza e con l’altra mano tirò il proprio braccio mozzato fuori dalla bocca deformata di Mahi.

Con uno schizzo di sangue e saliva il braccio di Tinkerbell si sfilò e cadde per terra con un tonfo umido. Clay spostò il piede dalla faccia della bestia e questa cadde in avanti, priva di sensi.

In un attimo era accanto al proprio braccio, la mano, insanguinata, era chiusa a pugno. Si aprì, senza che Tinkerbell muovesse un muscolo. Anche se era staccato dal corpo, il braccio godeva della propria mobilità.

Sul palmo della mano c’era un seme d’ortica. Tinkerbell sorrise soddisfatto e raccolse da terra il proprio braccio, mentre la mano si chiudeva di nuovo a pugno.

Etu gli corse incontro, trafelato, circumnavigando il corpo di Mahi. La bocca era tornata normale, ma il ragazzo non aveva ancora ripreso i sensi. Quando arrivò accanto a Tinkerbell lui si stava riattaccando il braccio.

Clay, concentrato sulla propria spalla, alzò la testa con un movimento così repentino da spaventarlo, così che Etu facesse un paio di passi indietro inciampando su una radice e finendo col sedere per terra. Tinkerbell lo guardò per qualche secondo e poi, scaricata la tensione del momento, proruppe in una grossa risata.

Allungò la mano per aiutarlo a rimettersi in piedi e Etu l’afferrò, ancora tremante per lo spettacolo al quale gli era capitato di assistere. Tinkerbell gli sorrise per rassicurarlo e dopo un secondo si rese conto che l’uomo aveva la faccia sporca di sangue che fino a un momento prima non c’era.

Gli ci volle qualche attimo per capire che il sangue che Etu aveva in faccia era il proprio, glielo aveva sputato addosso lui. Il dolore arrivò un secondo dopo.

Tinkerbell abbassò la testa e vide il proprio cuore sbalzato fuori dal petto, stretto in una mano che gli aveva passato il busto da parte a parte.

 

 

Aki_Penn parla a vanvera: Ah, sono tornata, non ho nemmeno voluto vedere quanto tempo ci ho messo questa volta. Ho aggiornato senza aver davvero finito di scrivere il prossimo capitolo, ma poco ci manca, quindi spero di farcela in tempi umani.

Questo capitolo è stato un po’ stronzo da scrivere, non so se leggendolo fa lo stesso effetto, Tinkerbell, sicuramente è abbastanza un bastardo, cercate di scusarlo. Non è che voglia mandare OOC i miei stessi personaggi, ma ho le mie buone ragioni. U.U

Spero che il capitolo non vi sia dispiaciuto, ultimamente ho un po’ d’ansia da prestazione (no, è una menzogna, l’ansia da prestazione l’ho sempre avuta! XD). La storia sta diventando parecchio lunga, e quindi confido nel fatto che non iniziate a trovarla troppo ripetitiva, vi prego di farmi sapere cosa non vi piace, non si capisce o vi annoia, cercherò di migliorarmi nei prossimi capitoli. Col fatto che mi sia ritrovata a scrivere una storia fatta fondamentalmente a ‘episodi’ mi è un po’ difficile capire se sta diventando una rottura o funziona ancora, perché è strutturata così. Prometto che presto ci saranno degli sviluppi degni di essere chiamati tali. (Sarebbe anche ora, dato che siamo al capitolo trenta, ormai) U.U

Vi auguro un buon primo maggio e vi ringrazio tanto per aver letto. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 30
*** Vecchi difetti ***


Make a wish -

Capitolo trenta -

Vecchi difetti –

 

Tinkerbell chiuse gli occhi e si prese il tempo per sospirare. Etu, davanti a lui, era paralizzato dal terrore.

Con un movimento fluido si mise il seme d’Ortica in bocca e con l’altra mano spinse di nuovo il proprio cuore all’interno della gabbia toracica, insieme al braccio che gliel’aveva strappato. La ferita si rimarginò solo davanti, ma Tinkerbell non esitò ancora e si voltò di scatto di centottanta gradi e colpì Ruthie in faccia col braccio teso.

Lei venne colpita in pieno e volò un metro più in là, il braccio incastrato nella schiena di Tinkerbell aveva inizialmente rallentato l’accelerazione.

Clay strinse i denti, cercando con la lingua il seme che si era messo in bocca per non essere perso. Cercò di toccarsi la schiena con le dita, ma Ruthie era già in piedi davanti a lui, che lo guardava spiritata e digrignando i denti. I capelli fluttuavano come fiamme, e un secondo dopo lo diventarono. Ruthie afferrò il braccio di Tinkerbell e lui si sentì bruciare.

Urlò, mentre Ruthie diventava un’unica fiaccola incandescente, i peli del braccio presero fuoco e la carne iniziò a sciogliesi. Ebbe il tempo di aprire l’altra mano e richiamare l’accetta ancora accanto al corpo esanime di Mahi e la strinse tra le dita, appena la sentì di nuovo con sé.

Urlarono insieme quando Tinkerbell tranciò il braccio di Ruthie all’altezza del gomito. La mano rimase attaccata al braccio ustionato di Tinkerbell ancora per qualche secondo, prima di spegnersi e Ruthie ringhiò facendo un salto indietro, sfiorandosi la ferita per far ricrescere l’arto, senza mai distogliere lo sguardo dal genio.

Le fiamme si spensero per un secondo, mentre si arrampicava con soli due balzi in cima all’albero dove prima stava Tinkerbell e lo guardava dall’alto.

Etu era di nuovo per terra e cercava di arretrare retrocedendo sui gomiti, senza poter smettere di fissare Ruthie. I lineamenti erano sempre quelli della ragazza che avevano accolto al loro villaggio, ma gli occhi erano gli stessi, cattivi, di Mahi.

Tinkerbell rimase a guardarla dal basso, indeciso sul da farsi. La schiena e il braccio erano di nuovo a posto, l’accetta stretta in mano e il seme tra i denti.

D’un tratto Ruthie prese di nuovo fuoco  e, con lei, in un solo secondo, tutto l’albero sopra il quale si era appollaiata. Etu urlò e Tinkerbell strinse i denti, mentre Ruthie si sporgeva in avanti, tenendosi a un ramo che si sarebbe consumato in meno di un minuto, a contatto con la sua fiamma.

“Spegnila!” urlò Etu “Spegnila, voglio che tu la spenga!” strillò, ma in un altro attimo tutto finì e Ruthie cadde dall’albero a peso morto.

Subito dopo, ma già in ritardo, si mise a piovere. Il desiderio di Etu non serviva già più. Tinkerbell corse incontro al corpo di Ruthie che se ne stava in una pozza di sangue ai piedi dell’albero che stava iniziando a spegnersi, sotto la pioggia torrenziale.

“Ruthie!” chiamò, sapendo che non gli avrebbe risposto. Arrivò in scivolata, fermandosi con le ginocchia accanto a lei. Cadendo dall’albero aveva sbattuto la testa, ma respirava ancora, il cuore batteva. Le prese la testa tra me mani, chiudendo subito la ferita che aveva sul cranio, per poi andarla a toccare sulle braccia, il polso era rotto, la clavicola, passò le mani sulle costole e sul bacino, mentre la pioggia gli attaccava i capelli alla fronte. Non c’era niente di sensuale in tutto ciò, stava solo cercando di aggiustare tutte le ossa rotte prima che si svegliasse e dovesse sentire altro dolore. Passò la mano anche su entrambi i piedi e sospirò. Anche la caviglia era rotta. Si chinò in avanti a guardarla. Sembrava dormisse, anche se aveva i capelli incrostati di sangue e fango. Anche lui era sporco. Si sentiva svuotato e stanco, il cervello era vuoto. Le ossa di Ruthie erano tutte a posto, lui era stanco e sporco e la pioggia cadeva incessante.

Il passo di Etu alle sue spalle lo riscosse dal suo torpore. Si voltò verso l’uomo, ancora con la testa di Ruthie tra le mani e le ginocchia nel fango.

Lo sciamano lo guardava con occhi stralunati, la bocca aperta e le pupille enormi.

“Allora è un mostro anche lei!” esclamò, scioccato e arrabbiato.

Tinkerbell aveva ritrovato il suo solito contegno, lo guardò sorridendo stancamente e aggiunse “Sono solo vecchi difetti” come se, davvero, non fosse niente.

“Questi non sono vecchi difetti, questa è un mostro, come Mahi!”

Tinkerbell si fece serio e freddo. La traccia del sorriso che aveva avuto in faccia svanì in un attimo, con la mandibola contratta, proruppe “Ruthie non è affar tuo”.

In un movimento così veloce che Etu fece quasi fatica a scorgerlo, Clay prese in braccio Ruthie, afferrandola sotto le ginocchia e dietro le spalle e guardò lo sciamano dall’alto.

“Ora porta al villaggio Mahi e trattatolo come avete sempre fatto, lui non ha colpa di tutto quello che è successo. A Ruthie ci penso io, credi di poterti impicciare negli affari di un dio?” domandò, quasi con rabbia.

Etu abbassò lo sguardo e Tinkerbell fece lo stesso. La mano di Ruthie penzolava a peso morto.

“Buona fortuna, Etu” disse infine, prima di allontanarsi nella pioggia. L’accetta era di nuovo attaccata al suo polpaccio.

Ruthie riprese conoscenza, con un vago torpore, quando ormai erano arrivati a dove avevano lasciato i vestiti il loro primo giorno in Amazzonia.

“Hai ammazzato Mahi?” domandò flebilmente, quasi in dormiveglia.

“Sì, ho già finito, come passa il tempo quando ci si diverte!” esclamò Tinkerbell allegro, mentre smetteva di piovere.

Ruthie si accoccolò contro il suo petto, ancora intorpidita, e si lasciò trasportare.

 

***

 

La prima volta che Tinkerbell aveva visto Ruthie, Ruthie era nella sua versione di bestia. Il signor Jackson aveva urlato, quando Ruthie era apparsa dal nulla come quasi un petardo, scendendo dal cielo, in una scintilla infuocata.

La donna ragno aveva guardato Ruthie e anche Tinkerbell l’aveva fatto. Non gli ci era voluto nemmeno un secondo per capire che quella era la Bestia, la peggiore di tutti, quella che nessuno avrebbe mai voluto incontrare nella sua vita di genio.

Ma era davvero durato tutto pochissimo, come una miccia troppo corta, la ragazza infuocata era caduta poco più in là e Tinkerbell non aveva perso altro tempo e si era affrettato a tranciare, con la sua accetta, una delle gambe scheletriche della donna-ragno, ancora distratta dalla strana cometa umana. Lei aveva urlato, mentre l’arto le si scioglieva in una melma verdastra e rivoltante.

Anche il signor Jackson era tornato in sé e alla fine aveva espresso il suo terzo desiderio.

Tinkerbell staccò la testa alla donna con particolare furore e afferrò il seme d’Ortica che la bestia possedeva. Quando il cadavere iniziò a disintegrarsi, Clay stava già correndo verso i bidoni dove era caduta Ruthie, con l’accetta in mano.

Quando era diventato un genio, era stato Commander ad andare a prenderlo, era stato traumatico, per forza di cose, ma almeno nessuno gli aveva staccato la lingua o cose del genere, com’era successo a Bonnie.

Quando gli avevano detto che avrebbe dovuto uccidere la bestia del secolo quando era umana, non aveva battuto ciglio. Se poteva uccidere le bestie poteva uccidere anche gli uomini. In ogni modo, la bestia sarebbe stata qualcuno che non conosceva, non vedeva dove potesse esserci un inghippo. Aveva la giusta dose di menefreghismo e di sangue freddo per uccidere; non gli importava poi tanto chi o cosa, quello era diventato il suo lavoro e lui l’avrebbe fatto.

Saltò a piedi pari oltre i bidoni dell’immondizia e atterrò accanto al corpo della ragazza che aveva visto pochi minuti prima. Aveva i vestiti bruciacchiati, ma per il resto sembrava stare bene, anche se aveva la faccia voltata dall’altra parte e lui non poteva vederla. Clay non si preoccupò neanche di guardare se il petto le si alzasse e abbassasse col ritmo del respiro, alzò l’accetta sopra la testa con l’intenzione di farla ricadere sul collo della ragazzina. Doveva essere piccola, ma non ci pensò troppo.

Fu allora che Ruthie urlò. Clay si fermò con l’accetta a mezz’aria e per poco non gli scivolò dalla mano. La ragazzina aveva già ripreso i sensi quando lui le era arrivato accanto, c’era voluto qualche secondo prima che girasse la testa, ancora intontita, ma quando l’aveva fatto si era ritrovata addosso un tizio con un’accetta, così aveva urlato. La cosa aveva finito per prendere Tinkerbell di sorpresa e, quasi, spaventarlo.

Preso alla sprovvista, Clay si era messo l’accetta dietro la schiena, con un movimento loschissimo che Ruthie era riuscita a vedere solo di sfuggita, ciò non toglieva che fosse sicura di quello che aveva appena visto.

“E tu chi shei?” urlò, mettendosi un po’ più dritta, appoggiandosi sui gomiti.

“Signor Tinkerbell!”  esclamò qualcuno da dietro i bidoni. Il signor Jackson spuntò da dietro una pila di sacchi dell’immondizia. Clay lo guardò con aria gelida “È tutto a posto, signor Jackson, ci penso io qui”

Ruthie, con i denti davanti tutti rotti e la faccia insanguinata, guardò il signor Jackson. Era un uomo di mezza età, quasi calvo, vestito con un completo blu e una cravatta a righe, sembrava timido, le metteva sicurezza, sicuramente di più del tizio che stava inginocchiato accanto a lei. Era davvero un’accetta quella che aveva visto?

Se ci guardava più attentamente, la maglietta grigia del ragazzo era sporca di qualche cosa che poteva sembrare melma verde, ma più inquietante. Lo fissò accigliata, i denti le facevano un gran male, non riusciva neanche a parlare per bene e non riusciva ricordarsi come se li era rotti.

A dirhe il verho preferhirhei che rhestasshe…(A dire il vero preferirei che restasse)” biascicò Ruthie, cercando di essere il più autorevole possibile, mettendosi a sedere eretta. Non voleva rimanere da sola con quel tipo che avevano chiamato Tinkerbell, come l’amica di Peter Pan. Per quanto avesse un nome così fatato, lo trovava piuttosto losco. I palmi delle mani erano sbucciati e i vestiti bruciacchiati, una delle spalline della canottiera era così lisa che si era spezzata, insieme al reggiseno.

Tinkerbell l’aveva guardata di nuovo e si era accigliato, vedendola bene in faccia “Ti porto io in ospedale” annunciò, mentre il signor Jackson si allontanava mesto e un po’ preoccupato per la ragazzina.

Tinkerbell non aveva bene idea di che cosa avrebbe potuto fare, avrebbe dovuto ammazzarla, quello era certo, ma non gli riusciva di riprendere l’accetta e staccarle la testa. Non era perché era una ragazza, non era perché era piccola (meno di quanto credesse all’inizio, in realtà), ma perché era inconsapevole.

Tinkerbell doveva ucciderla per una colpa che fondamentalmente non aveva e, per di più, si era rotta tutti i denti davanti. I denti erano un vecchio punto debole di Clay, da quando gli era stato rotto uno dei suoi preziosi incisivi.

“Non crhedo di volerh venirhe con te…(Non credo di voler venire con te)” disse lei, restia, sputando un grumo di sangue. Fu il momento di Clay per accigliarsi “Via, non ti posso mica lasciare qui in mezzo all’immondizia. Su, alzati, ti sei rotta altro, oltre ai denti?” domandò, prendendola per un braccio per aiutarla ad alzarsi.

Ruthie grugnì, ma si lasciò aiutare. Tirò su come poteva la spallina bruciacchiata, l’ultima cosa che ci voleva era che le uscisse un seno dalla maglia.

“No, sholo i denti, il rheshto è a posto. Cosha è shuccessho? (No, solo i denti, il resto è a posto. Che cosa è successo?)” domandò, più scontrosa che poté, mentre Tinkerbell la guardava preoccupato, più sul da farsi con lei che per le sue condizioni di salute. Avrebbe potuto guarirla seduta stante, ma portarla all’ospedale gli avrebbe concesso del tempo per pensare.

Lui alzò le spalle “Non lo so” disse “Come ti chiami?” aggiunse.

Ruthie scrollò le spalle, tirandosi su, di nuovo, la spallina, come poteva. Si guardò in giro, la sua borsa era sparita. “Mi chiamo Rhuthie” biascicò, riavviandosi i capelli sporchi di sangue dietro a un orecchio.

Sputò per terra un altro grumo di sangue e poi guardò di nuovo Tinkerbell, in cagnesco “La mia borsha è shparita, l’hai presha tu?” domandò.

Clay alzò entrambe le mani mostrando i palmi, quasi in segno di resa “Niente borse, ma posso aiutarti a cercarla” propose, allegro.

Ruthie fece una smorfia, ma fu dolorosissimo. Si portò una mano sulla bocca, le veniva quasi da piangere. Scosse la testa “Voglio sholo andare in oshpedale, mi sono rotta tutti i denti…” disse, guardando in basso e dondolandosi sui piedi.

“Credo che il pronto soccorso sia…” iniziò lui, guardandosi intorno, cercando di ricordare dove l’avesse visto.

“Qui dietro, in Feeney Road. Non sei di qui, vero?” domandò a quel punto Ruthie, dandogli le spalle, e decidendosi a uscire da dietro ai bidoni, decisa ad arrivare all’ospedale sulle proprie gambe. Tinkerbell scrollò le spalle “È la mia prima volta in Connecticut. Tu abiti qui?” domandò. Ruthie scrollò le spalle a sua volta e si avviò verso la strada principale. Non aveva voglia di parlare ancora, la bocca le faceva un male allucinante.

Tinkerbell incrociò le braccia sul petto. Quella tizia non sembrava proprio aver voglia di fare conversazione, forse, se avesse avuto tutti i denti al proprio posto, sarebbe stata più socievole, o forse era stata colpa dell’accetta. Aveva lasciato l’arma sotto un bidone. Aveva fatto tutto così velocemente che Ruthie aveva potuto pensare che Tinkerbell non avesse mai avuto niente in mano, ciò nonostante sembrava aver mantenuto una certa ostilità nei suoi confronti, come se avesse saputo che stava per staccarle la testa dal corpo.

La lasciò andare via, con un’andatura un po’ ingobbita, e allungò il braccio, aprendo la mano. In un attimo l’accetta fu tra le sue dita.

Quando Ruthie si voltò per controllare se Tinkerbell la seguiva, non vide nessuno.

Clay era già saltato su un tetto vicino scalpitando sulle tegole bollenti, sotto il sole estivo. L’accetta l’aveva infilata nei lacci che teneva attaccati al polpaccio. Si guardò in giro, voleva ritrovare la borsa della ragazza, probabilmente era caduta da qualche parte quando la bestia del secolo aveva preso il sopravvento. Se fosse riuscito a individuarla avrebbe saputo quanta strada aveva fatto prima di arrivare da lui, e quanto tempo all’incirca fosse durata la trasformazione. Saltò da un tetto a un altro. Lo scenario predominante era una distesa di case basse con giardino. Nei cortili c’erano giocattoli sparsi e biciclette a misura di bambino.

L’estate era calda, Clay ringraziò di aver indossato dei pantaloncini corti e larghi, con i jeans sarebbe stato un caldo terribile.

Si guardò in giro, saltando da un camino all’altro, non visto dai passanti distratti, finché non notò una cosa marrone abbandonata a lato in una stradina. Con un ennesimo balzo fu in ginocchio accanto al suo tesoro.

Aveva girato in tondo, la stradina era una parallela di quel vicolo dove lui e il signor Jackson avevano incontrato la donna ragno. La trasformazione di Ruthie doveva essere durata al massimo un minuto. Non c’era niente di bruciato, lì intorno, fatta eccezione per la borsa che un po’ fumava e aveva il manico un po’ annerito.

Era una borsa da tenere a tracolla, di pelle morbida e un po’ vecchia. Tinkerbell ci infilò le mani dentro, giusto per accertarsi che appartenesse davvero alla bestia che aveva visto. Cercò il portafoglio e ne estratte il documento d’identità.

Ruth Cicely Romano, nata a Hartford il 20 febbraio 1992. Aveva solo quattro anni in meno di lui, non era piccola come aveva creduto vedendola. Se Ruthie non voleva parlare di sé, l’avrebbero fatto di certo i suoi documenti. Frugò ancora nella borsa. C’erano delle gomme da masticare, qualche foglio, una biro dal cappuccio mangiucchiato e un porta carte di credito. Quasi senza accorgersene lo aprì per guardarci dentro.

Rimase qualche secondo a fissarlo, per poi mettersi a ridere; nessuna delle carte portava il nome di Ruthie Romano.

Chiuse tutto e rimise la roba nella borsa, continuando a ridacchiare, doveva essere un tipino tutto pepe.

Dieci minuti dopo, Tinkerbell fece cadere pesantemente la borsa in grembo a Ruthie, che sobbalzò, presa alla sprovvista. Come le era già successo, non l’aveva visto arrivare.

L’avevano fatta stendere su un lettino lungo il corridoio, c’era un bastone per la flebo, attaccata alla barella, ma nessun tubo. Ruthie aveva alzato un po’ lo schienale per stare semi seduta. Il suo caso era meno urgente di altri, perciò le avevano lasciato una sacca di ghiaccio e l’avevano messa in attesa.

Tinkerbell le sorrise e acchiappò una sedia, sistemandosi seduto al contrario, con i gomiti appoggiati allo schienale, accanto al capezzale di Ruthie.

La ragazza, con la bocca riempita dal sacchetto del ghiaccio sintetico, lo guardava con aria interrogativa. Aveva ancora le guance sporche di sangue.

“Belle le tue carte di credito, non ne ho vista nemmeno una che fosse tua, però” sentenziò, allegro. Ruthie sbarrò gli occhi e strattonò il manico della borsa verso di sé, come se già non fosse sua. Clay non mosse un muscolo, ma continuò a guardarla con il suo tipico sorrisetto strafottente.

“Che diavolo vuoi da me?” biascicò togliendosi il sacchetto dalla bocca. Tinkerbell scrollò le spalle, divertito.

“Ti sei rotta molti denti?” domandò poi, cambiando discorso. Ruthie spostò di nuovo il sacchetto e aprì la bocca come poteva, mostrando le gengive insanguinate.

“Quashi tutti quelli davanti” biascicò. Tinkerbell annuì, guardandole la bocca. Doveva solo ammazzarla, non era difficile, era una ragazzina, faceva parte del suo lavoro, aveva promesso che avrebbe ucciso la bestia del secolo nella sua forma umana e così avrebbe fatto. Non c’era niente di difficile.

Doveva solo aspettare che uscisse dall’ospedale, doveva convincerla a seguirlo.

Ruthie si accigliò e indicò i polsi di Tinkerbell “Chi shei, Wonder Woman, con quei braccialetti?” domandò. Tinkerbell alzò un sopracciglio: lo stava prendendo in giro?

Si immusonì e cercò di coprirsi i polsi con le mani, guardandola sottecchi. Ruthie rise un poco, per poi coprirsi la bocca con la mano, in una smorfia dolorosa.

Tinkerbell la guardò intensamente, per qualche secondo, poi, senza pensare le afferrò la mano e mise la sua sulle labbra di Ruthie. La ragazza sgranò gli occhi e lo scansò, sbrigandosi a mettere entrambe le mani sulla propria bocca: era ancora sporca di sangue, ma i denti erano intatti.

Ansimò forte, il cuore le batteva all’impazzata, scalciò e per poco la borsa non le cadde per terra.

“Che cosa hai fatto?” esclamò un po’ troppo forte. Un paio di persone si voltarono incuriosite, ma una volta visto che non era nulla di grave tornarono alle loro occupazioni.

Tinkerbell le sorrise, mefistofelico “Vieni fuori con me?” domandò. Ruthie non se lo fece ripetere due volte e saltò giù dalla barella, seguendolo fuori dall’edificio.

L’avrebbe uccisa, questo era indubbio, doveva solo trovare il coraggio di farlo. Quel giorno non l’aveva avuto, e nemmeno quello dopo.

Si disse che prima o avrebbe avuto una buona occasione, magari una bestia l’avrebbe uccisa al posto suo. L’aveva fatta inseguire dai leoni, l’aveva mandata da sola tra le grinfie della signorina Böhm, l’aveva chiusa in un armadio dentro la casa con buco nel tetto, a Praga, seppur chiuso con la sua accetta, ma ogni volta si faceva prendere dal senso di colpa e l’aveva salvata. Aveva cercato di farla uccidere da Mahi, ma Etu aveva espresso un desiderio che la risparmiasse, e Tinkerbell non poteva opporsi a un desiderio.  Si era detto che, almeno, se nel frattempo stava accanto a lui non poteva combinare troppi danni.

Ruthie gli aveva raccontato la sua storia, un’infanzia da sogno e un’adolescenza da incubo. Qualche anno dopo l’arresto del padre, la madre era rimasta uccisa in un incendio, Ruthie era sicura che fosse stata opera di una bestia, Tinkerbell le aveva detto che non era possibile, nessuno aveva dato la caccia a una bestia con poteri simili, in quel periodo. Non aveva avuto il coraggio di dirle che la bestia era lei.

Qualche anno dopo era andata a fuoco la casa famiglia dove viveva, il colpevole non era stato trovato e, per fortuna, non c’erano stati morti.

Quando Ruthie gli fece promettere che avrebbe ucciso la bestia che aveva ammazzato sua madre, Clay aveva annuito, promettendo di nuovo, come aveva fatto il giorno che era diventato un genio, sapendo che era un giuramento con molte conseguenze.

La terza trasformazione in bestia era stata mentre Tinkerbell combatteva con il kraken, la quarta con Mahi, la vicinanza delle due ultime apparizioni era impressionante, contando che le prime tre erano avvenute a distanza di anni. Stare vicino a un genio velocizzava il processo, sarebbe stato sempre peggio.

All’inizio aveva pensato di lasciarla nelle grinfie di Commander, colpevole o non colpevole, lui non si sarebbe fatto scrupoli ad ammazzarla, ma si era detto che se il capitano poteva ucciderla, allora poteva farlo anche lui, ma non ce l’aveva fatta.

Poi era diventato sempre peggio, gli piaceva stare con Ruthie, per certi versi era un po’ come passare del tempo con Jessie, con la sola differenza che non gli era mai capitato di voler prendere tra le mani il seno di sua sorella, cosa che con Ruthie capitava abbastanza spesso, invece.

Negli anni, nessuno era mai riuscito a togliere il seme d’Ortica da una bestia del secolo, doveva ammazzarla, doveva ammazzarla e basta.

 

 

Aki_Penn parla a vanvera: ebbene sì, il colpo di scena più banale della storia. So che il fatto che Ruthie sia la bestia era abbastanza prevedibile, spero solo che non aveste capito che, fondamentalmente, Tinkerbell stesse cercando di ammazzarla. Con Mahi c’era quasi riuscito, tra l’altro. XD

E’ da così tanto tempo che volevo scrivere questo capitolo, che mi pare sia venuto fuori uno schifo, spero che lo apprezzerete un po’, lo stesso.

Mi era stato chiesto diverse volte come Ruthie avesse conosciuto Clay, ebbene, è questo, per loro sfortuna. Fin dall’inizio avevo intenzione di raccontarlo in questa circostanza.

Immagino non ve ne possa fregare di meno, ma ‘Vecchi difetti’ è una canzone dei Marta sui tubi che mi piace molto, da quando l’ho sentita è diventata il titolo del capitolo, anche se non c’entra una cippa! XD

Se qualcuno sente la mancanza di Bonnie (io sì, in realtà), non temete, nel prossimo capitolo ci sarà anche lui, non l’ho lasciato soccombere ai pirati, ma mi premeva finire di descrivere la questione ‘Amazzonia’.

 

In ogni modo, Rehara (adorabile!! *-*) mi ha fatto un fanmade per Make a wish, che è la cosa più carina del mondo. <3 <3 <3 Lo linko qua sotto:

https://www.youtube.com/watch?v=PoptN0nv0DU

E già che ci sono, vi linko anche questo, sempre suo:

http://fangirlpercaso.blogspot.it/

Ritorna all'indice


Capitolo 31
*** Il veleno della regina ***


 

Make a wish -

Capitolo trentuno -

Il veleno della regina –

 

Il palazzo reale era un posto caldo ma, a volte, alla creatura sembrava ancora di avere freddo. Era sola in una stanza quasi vuota. C’era solo una finestra alta e stretta dalla quale entrava un po’ di luce. I muri ribollivano del caldo del fuoco che bruciava sulla sommità della torre, a contatto col cielo, ma la creatura sentiva ancora freddo, ogni tanto, sotto le bende.

Seduta tra i cuscini del suo letto, con le braccia abbandonate sulla coperta di foglie intrecciate, avvertì un fruscio. Trasalì, muovendo gli occhi alla ricerca del nuovo venuto, ma non vide niente. La porta non si era aperta, la finestra era sigillata. La creatura boccheggiò e, proprio mentre abbassava gli occhi sulla sua coperta di foglie, la vide gonfiarsi e trasformarsi in qualche cosa d’altro. Avrebbe voluto urlare, ma il grido le uscì muto dalla bocca. Dalla coperta, come se riemergesse dall’acqua, affiorò ‘Leandra, avanzando carponi, con lentezza e fissando la creatura negli occhi.

La creatura si sentì gelare, da sotto le bende, strinse le mani a pugno e fissò la regina, boccheggiando.

“Buonasera” sibilò, con una dolcezza fasulla, mentre i viticci dei suoi capelli si attardavano ad accarezzare le guance fasciate della creatura. Lei deglutì, senza poter distogliere lo sguardo dalla donna, bella e terribile.

“Re Rubus non vuole che io venga qui, dice che non mi piaci” disse, con voce dolce e strascicata. “E infatti non mi piaci!” terminò, con voce aspra, stringendo le lenzuola tra le mani.

La creatura trattenne il respiro e cercò di appiattirsi sempre di più contro i cuscini.

“Però…” continuò ‘Leandra, tornando calma “…ci sei capitata tu, anche se ti trovo piuttosto disgustosa” disse, guardandola. Poteva immaginare cosa ci fosse sotto quelle bende, di certo non della corteccia o delle foglie.

“Mi dispiace” riuscì solo a dire la creatura, tremante.

“Noi volevamo la Speranza e invece sei arrivata tu” continuò ‘Leandra, sedendosi con le gambe piegate da una parte. I piedi non si vedevano, erano ancora fusi con la coperta di foglie.

La creatura annuì, grave. “Tutti sanno la leggenda delle due crisalidi nel palazzo reale, ma nessuno ci crede davvero. Non mi aspettavo che esistessero sul serio. Nessuno che non sia il Re se lo immagina. Non sono nata qui, la mia Torre è quanto di più lontano ci sia da qui” spiegò, allungando la mano verso la testa fasciata della creatura. C’erano due aperture libere dalle bende per permetterle di vedere. ‘Leandra afferrò un lembo e lo alzò di poco per vedere cosa c’era sotto, la creatura non si azzardò a protestare neanche quando la regina lasciò andare la benda con un certo disgusto.

‘Leandra si guardò in giro, quasi dimentica della presenza della creatura, poi la fissò di nuovo e continuò “Un genio è stato al servizio di mio marito per anni, e noi abbiamo espresso solo sei desideri, perché lui era troppo spaventato all’idea di svelare a qualcuno il nome del genio. I geni sono potenti, ma cosa servono se siamo troppo spaventati per usarli a nostro favore?” domandò. La creatura sapeva che la sovrana non si aspettava davvero una risposta da lei.

Il labbro di ‘Leandra fremette, quasi rabbioso. “…ma poi Rubus se l’è fatto scappare. Non so perché, ma il nostro genio non asseconderà più i nostri desideri” spiegò. Ci fu un altro attimo di silenzio, ma continuò subito dopo, con quello che sembrava quasi un sibilo “Rubus dice che tu vuoi … puoi trovarci un genio”

La creatura annuì, lentamente, come se, se l’avesse fatto troppo bruscamente, ‘Leandra avrebbe potuto decidere di azzannarla.

Le accarezzò di nuovo il volto, con una mano “Ti ho dato il mio veleno” cominciò. La sua voce era bassa e dolce, ma le sue sopracciglia si aggrottarono mentre sulla sua fronte spuntavano un paio di corna legnose, come due rami con qualche foglia sparuta “spero che ne farai buon uso, se no lo userò su di te” minacciò con un sorriso viscido, mentre la sua presa sul viso della creatura si faceva quasi dolorosa.

“Tu non sai chi sono io” boccheggiò la creatura, quasi senza fiato.

“Oh, spero di scoprirlo presto” disse ‘Leandra, con un ghigno.

 

***

 

Alih batté le palpebre, infastidita dal sole al tramonto che filtrava da una delle finestre della Rainbow Dancer. La mandibola era spaccata, non riusciva ad aprire la bocca. Sulle gengive aveva metà dei denti che possedeva il giorno prima. Lo zigomo era rotto e gli occhi erano sempre pieni di lacrime, piangeva in silenzio e faceva fatica a respirare con il naso, per colpa della lacrimazione, ma la bocca era un’agonia, era impossibile aprirla. Nonostante tutto rimaneva ferma seduta sul suo sgabello, in un angolo della stanza. Sulle ginocchia aveva un asciugamano che era stato bianco, dove aveva appoggiato il braccio mutilato. Quella era la parte più dolorosa di tutte, il braccio, tagliato a metà per il lungo. Come era potuta essere così stupida da credere di riuscire a fregare un genio?

Accanto al braccio, stava il pezzo che le era stato tagliato: Big Jim l’aveva recuperato per lei e Alih non abbassava lo sguardo per paura di vomitare. Sembrava un pezzo di carne di quelli che vendevano al mercato, eppure era un pezzo del suo braccio.

Chiuse gli occhi e un paio di calde lacrime le scesero sulle guance, mentre sentiva, in fondo alla sala, Cloris inveire nei suoi confronti. Aveva fatto una stupidaggine, aveva mandato a monte il piano del capitano e li aveva mandati al massacro. Non sapeva come risolvere quella situazione, non ci sarebbero state scuse che bastassero, ma, anche volendo, con la mandibola in quella situazione, non riusciva nemmeno a parlare.

“Non la voglio nella mia nave!” stava strillando, mentre Big Jim, con un sorriso doloroso, cercava di rimetterla a sedere su uno sgabello, in un angolo.

“Buttatela a mare, te l’avevo detto, Big Jim, che quella ci avrebbe portato solo dei guai!” ringhiò. A entrambi mancava un braccio e l’occhio di Cloris era cieco, dopo il colpo di striscio ricevuto da Bonnie. Nonostante questo sembrava che la rabbia superasse il dolore.

Alih sospirò di nuovo, pesantemente, senza avere il coraggio di guardare verso il capitano della Rainbow Dancer. Fu in quel momento che entrarono nella stanza, come l’eruzione di un vulcano, cinque o sei persone, aggiungendo caos al caos.

“Quanti siete a esservi fatti male? Big Jim, spero che non farai la lagna e ci darai una mano a curare gli altri, anche se hai un braccio solo. Tu, Ronnie, vai là e vedi di non fare del casino con la mandibola di quella ragazzina. Ricordati di controllare quanti denti le sono saltati via!” ordinò una donnina minuscola e piuttosto vecchia, che avanzava nella stanza battendo il bastone sul pavimento di legno.

“Cloris, tu siediti, ci penso io a te. Stai zitta e non opporre resistenza, se no ti lego e ti prendo a bastonate sulla testa!”

Alih alzò gli occhi solo il quel momento, appena in tempo per vedere Cloris, guercia e coi capelli incrostati di sangue, ingoiare un’imprecazione e mettersi a sedere. Non ci poteva fare niente, voleva essere curata e non poteva farlo da sola.

“Se devo essere curato da qualcuno, voglio la bella bionda con la gonna lunga” disse Jim, dolorosamente, alzandosi un poco dal tavolo dove l’avevano adagiato. Chismes l’aveva colpito al costato, e non era nemmeno in grado di stare seduto. Alih era convinta che avrebbe perso i sensi da un momento all’altro, eppure lui riusciva a trovare il tempo per fare il marpione.

Himen, il guaritore della Flying Horn, si voltò verso Jim, guardandolo con un cipiglio astioso, lisciandosi la barba caprina.

“Sono io, non un bella bionda, per la miseria, Jim!” sbottò. L’espressione di Jim si fece, se possibile, ancora più dolorosa di quanto non fosse prima.

“Himen, perché diamine hai la gonna?” domandò, risentito.

“Non è una gonna! Sono pantaloni larghi!” sbottò l’interessato, alzando un poco una gamba, mostrando il cavallo dei propri calzoni, mentre la sua lunga treccia bionda dondolava sulla schiena. In ogni modo, dopo un po’ di bisticci, Himen finì per dare un’occhiata alla ferita. L’ultima cosa che Alih sentì era Jim che diceva che quello stronzetto biondo, il genio nuovo, aveva colpito i suoi uccellini col piatto della spada, erano intontiti, ma per fortuna, tutti vivi.

“Ehi!” disse il ragazzino biondo che aveva visto prima, inginocchiandosi accanto al suo sgabello. Alih sobbalzò vedendolo improvvisamente davanti a sé, e la mandibola fece male.

“Io sono Ronnie” si presentò allegro, poggiando una ciotola di roba che somigliava tanto alla tinta per i capelli di Cloris ai piedi di Alih. La ragazzina guardò prima la scodella, e poi il ragazzo. Non era altissimo e doveva avere meno di vent’anni. I capelli erano biondi e  piuttosto corti, di barba ce ne sarebbe stata poca anche se non se la fosse rasata, occhi azzurri, corporatura media. Si ricordava di lui, era il ragazzo che le aveva dato i marshmallow al mercato sull’acqua, quello che veniva dall’Altro Mondo. Probabilmente non l’aveva nemmeno riconosciuta.

Chiuse gli occhi e altre lacrime calde le scivolarono lungo le guance, viscide di sangue.

“Hai avuto uno scontro ravvicinato con un genio, mi hanno detto” iniziò Ronnie, mescolando la purea fucsia che aveva nella ciotola, come se stesse impastando una torta.

Alih annuì, mentre Diablo, che era entrato insieme a Ebén, sulla scia di Jollah, Ronnie e Himen, si andava a mettere accanto alla vecchia e Cloris. Aveva un braccio tutto fasciato, dalla spalla in giù, ma lo muoveva senza difficoltà.

“Mi hanno detto che avete conosciuto il nuovo genio!” continuò, allegro, come se, in quel posto, tutti si stessero divertendo.

“Sì, era con Chismes, e avrei fatto a meno di conoscerlo così approfonditament…” Cloris non finì la frase perché Jollah le piantò una ciocca di capelli nell’occhio cieco e lei urlò di dolore.

“Via, via, non è niente rispetto al resto che ti aspetta” sbottò Jollah, come se il capitano della Rainbow Dancer la stesse infastidendo apposta.

“Cloris, non mi dire che non hai recuperato il tuo braccio, farlo ricrescere fa davvero un gran male, a me è success…” continuò a dire Diablo, per nulla preoccupato per la sofferenza dell’altro capitano, prima che Cloris non lo interrompesse con una specie di ringhio, tentando di dargli una testata. Jollah la riprese e la sbatté di mala grazia sul suo sgabello. “Certo che Cloris sa che deve riportare il braccio, ma questa volta non c’è riuscita. E, adesso, vai a insolentire qualcun altro, se non vuoi che ti prenda a bastonate nel deretano, Diablo. Guarda Ebén se ne sta in un angolo e non rompe le scatole a nessuno, impara da lui e non venire qui a infastidire chi lavora!” e così dicendo gli diede comunque un colpo di bastone sulla testa. Cloris non disse niente, limitandosi a coprire l’occhio ferito con la mano ed ansimare pesantemente, per il dolore.

“Jollah è la mia insegnante” spiegò Ronnie a bassa voce, dopo essersi voltato per vedere la vecchia guaritrice fare la ramanzina a Diablo.

“Ronnie, meno chiacchiere e più cure! Vedi di non far crescere a quella ragazzina un naso di troppo!” esclamò Jollah, acida.

“Non sono così scemo!” esclamò Ronnie, un pochino offeso. Poi si voltò verso Alih, un po’ immusonito, continuando a mescolare la sua brodaglia, con rinnovato entusiasmo “Non l’ascoltare, non ti farò crescere della roba in più” disse, mesto.

Alih annuì piano. Non aveva paura di Ronnie, di certo non poteva succederle peggio di quello che le era già accaduto.

Ronnie di sporse a guardare la sua fetta di braccio e fece una smorfia. “Avete fatto bene a recuperarlo, far ricrescere gli arti è dolorosissimo. Qui dovrò solo incollartelo, diciamo. Lo stesso vale per la mascella. Coi denti è un altro discorso, bisogna farli ricrescere per forza, a meno che tu non ti sia fermata a raccoglierli” spiegò.

Alih scosse la testa, guardandolo fisso negli occhi. Ronnie annuì “Fa male, ma non così tanto. Resisterai, tranquilla. Me ne sono dovuti far ricrescere parecchi anche io!” sorrise di nuovo, ritrovando il buon umore.

Ronnie le infilò una mano in bocca, e se non le fosse stato impossibile, Alih avrebbe urlato per il dolore.

“Allora, dicono che sia stata tu a fare tutto il casino, però abbiamo scoperto dove Bonnie tiene i suoi semi, di certo è un passo avanti. Nella cintura, vero?” non si aspettava una risposta, Alih stava piangendo in silenzio, per il dolore. Il braccio di Ronnie era bagnato di lacrime. “Lo sai dove tengono i semi gli altri geni?” Alih non rispose, ma Ronnie continuò “Tinkerbell li ha dati al suo famiglio, ma noi glieli abbiamo presi qualche giorno fa, se ti interessa saperlo. Il capitano ci ha rimesso un braccio, però” spiegò, dondolando la testa.

“Chismes li tiene nel reggiseno, e questo è un problema, avrà una settima, vai a cercarli dei semi in un posto del genere” esclamò alzando un dito indice come per attirare l’attenzione di Alih sul nocciolo della situazione. Alih avrebbe riso, se le gengive non fossero state in fiamme.

La faccia stava riprendendo un aspetto normale. Ronnie toccò un’ultima volta le labbra della ragazzina, con le dita sporche di sangue e saliva. La mandibola era a posto, mentre lo zigomo era ancora rotto, e questo dava un fastidioso senso di asimmetria al viso della ragazzina.

“È colpa mia” piagnucolò piano, Ronnie non capì subito.

“Quello che è successo, è colpa mia. Cloris non mi vorrà più sulla sua nave” disse, piano. Ronnie allungò la mano e le accarezzò la guancia, per poi stringere tra le dita lo zigomo fratturato e spingerlo e plasmarlo di nuovo per farlo tornare com’era prima.

“Sono sicuro che si metterà tutto a posto, Alih” cercò di rassicurarla lui, abbassando però lo sguardo, poco convinto. Cloris non era un tipo accondiscendente come Diablo.

“Devo fare qualche cosa” squittì e Ronnie aprì la bocca per replicare, ma Alih continuò “Devo andare da Commander e rubare i semi a lui, così le dimostrerò che non faccio schifo come sembra. Dove tiene lui, i semi?” piagnucolò, mordicchiandosi il labbro inferiore.

Ronnie la guardò intensamente negli occhi, poi abbassò di nuovo lo sguardo “Non dire stupidaggini, sai bene cosa è successo all’ultimo che è andato dal Capitano” poi si azzardò ad aggiungere “Se Cloris non ti vuole più con lei…posso chiedere a Diablo di prenderti sulla Kensington Gardens, possiamo dividere la mia amaca. Va bene?” domandò. Alih, si guardò la mano sana, stretta a pugno. Il brandello di braccio era ancora sulle sue gambe, ma lei quasi non lo vide.

“Va bene” sospirò. Ronnie annuì “Adesso alza la testa, ti devo far ricrescere i denti”

 

***

 

Tai urlò, quando Bonnie atterrò accanto a lui con un salto dall’alto. Il ragazzino si sbilanciò all’indietro e finì per cadere sulla rudimentale cuccia preparata per il suo immane coniglio.

L’animale guardò Bonnie, annusò l’aria con suo naso rosa e si mosse lentamente, a causa della mole, fino ad accucciarsi sulle scarpe del genio. Bonnie non si mosse, finché Tai non si rialzò, spaventato come se avesse visto un fantasma, e rischiando di incespicare ancora nelle cassette della frutta accatastate lì intorno.  Non voleva distogliere lo sguardo da quello azzurrissimo di Bonnie.

“Che cosa vuoi? Che cosa vuoi da me?” strillò Tai con voce strozzata “E lascia stare il mio coniglio!” aggiunse, cercando di afferrare l’animale per le zampe, senza dover avvicinarsi troppo al genio.

“Io non ho fatto niente al tuo coniglio, è lui che ama starmi addosso” ribatté Bonnie, un po’ offeso, mettendosi le mani sui fianchi. Violento sì, ma molestatore di conigli giganti no!

Capendo che non c’era verso di spostare il suo cucciolo dalle scarpe di Bonnie, Tai arretrò da solo, nascondendosi come poteva dietro a una catasta di casse.

“Ho visto cosa hai fatto a quei tipi. Hai tagliato a metà il braccio di quella ragazza. Cosa vuoi da me?” domandò, con le gambe che gli tremavano.

Bonnie sbuffò, un po’ offeso “A quest’ora le sarà già anche ricresciuto, non ti preoccupare per lei!” spiegò, scocciato. Chismes gli aveva spiegato che anche i pirati avevano i loro metodi per guarire al meglio le ferite, meno veloci di quelli dei geni, ma piuttosto efficaci.

“Non dire sciocchezze, gli arti non crescono! E poi, perché hai una spada, tu? E chi era quella cicciona con l’ombrello?” chiese, rabbioso. Era tutto nascosto dietro le casse, Bonnie poteva vedere solo un occhio nero che lo spiava. Fece una smorfia “Quella è mia madre… e non chiamarla cicciona, brutto maleducato. E la mia spada è bella!” concluse, apparentemente senza un senso.

“Cosa vuoi da me?” domandò di nuovo Tai, dato che il genio non aveva risposto.

“Volevo chiederti se mi potevi portare da tua sorella, mi spiace che si sia fatta una brutta idea di me” spiegò, non fece quasi in tempo a finire la frase che Tai urlò “Col cavolo!”

Bonnie alzò il piede e prese il coniglio gigante sotto braccio. L’animale non ne sembrò turbato, nonostante i conigli avessero notoriamente paura delle altezze, solo si strinse di più al ragazzo strusciandogli addosso il muso. Bonnie nemmeno lo notò, e fece due passi avanti verso il ragazzino, che arretrò ancora da dietro le casse, emettendo un urletto acuto.

“Ehi, cosa succede?” domandò una voce forte e arrabbiata. Sia Tai che Bonnie sobbalzarono.

Un uomo coi baffi e i capelli brizzolati li guardava da dietro la ringhiera del cortiletto, con un’aria truce. Bonnie boccheggiò, preso alla sprovvista.

“Tai, questo tizio ti sta dando fastidio?” domandò l’uomo, guardando il ragazzino, con aria paterna e arrabbiata allo stesso tempo.

Bonnie passava lo sguardo da uno all’altro, indeciso sul da farsi. “Maestro!” strillò Tai, correndo incontro al nuovo venuto, mentre il professore apriva il cancello per far passare il bambino.

Bonnie mandò giù un boccone amaro e si fece avanti a sua volta, con un passo un po’ incerto e il gigantesco coniglio sotto un braccio, come se fosse stato uno scatolone. L’animale non si lamentava, accettava la sua sorte pazientemente, gli piaceva stare con Bonnie, anche se questo voleva dire stare ‘appeso’.

L’uomo lo metteva un po’ a disagio, probabilmente la cosa derivava dal suo naturale odio per le istituzioni o dal fatto che avesse passato più tempo a fare fuga da scuola che ad andarci.

Per la causa si avvicinò un altro po’, mentre il maestro faceva da scudo a Tai, che aveva fissato gli occhi vagamente spaventati, su Bonnie.

“Ehi, non gli stavo dando fastidio, volevo solo chiedergli una cosa” esclamò, un po’ offeso. Di Tai non gliene fregava granché, voleva solo che sua sorella non lo credesse uno psicopatico.

“Ha tagliato un braccio a una ragazza e mi ha rubato il coniglio!” strillò Tai, nascondendosi dietro le gambe del professore.

“Questo non è vero!” sbottò Bonnie, offeso “È il tuo coniglio che vuole stare con me. Cosa me ne faccio di un coniglio così, scusa?”

Il maestro non stava davvero seguendo il discorso, ma, infastidito, mise una mano sul petto di Bonnie, che ormai gli stava davanti, impedendogli di uscire dal cortile.

Bonnie si accigliò “Senta, ma lei crede davvero che volessi fare male a quel ragazzino? Lo guardi: sta benissimo!” proruppe, inacidito, mentre l’uomo abbassava la mano e si voltava a guardare Tai.

“Cosa è successo davvero, Tai, con questo ragazzo? Ti stava dando fastidio?” domandò il professore, pacato. Bonnie poté però scorgere una certa tensione nella mascella, mentre parlava con il bambino.

Tai gonfiò le guance e si morsicò il labbro inferiore, come per prepararsi a qualche cosa di grosso “Questo tizio è un violento! Ho visto che picchiava della gente! Ha una katana!” disse, tutto d’un fiato, senza respirare e stringendo i pugni. In un’altra situazione, a Bonnie sarebbe sembrato il personaggio di un cartone animato, ma in quel momento era troppo arrabbiato.

Il maestro si voltò di nuovo verso il ragazzo biondo, questa volta un po’ perplesso, la parte della katana era piuttosto bizzarra.

Fu allora che Bonnie avvertì il cambiamento, ma non fece in tempo a muoversi e un corno del mostro gli si infilò nello stomaco uscendo sulla schiena come se la sua carne fosse stata burro.

Tai urlò e arretrò, inciampando nei propri piedi.

Bonnie, con una mano stretta al cancello e una a tenere il gigantesco coniglio, aprì un occhio, li aveva chiusi senza quasi accorgersene. Davanti a lui, al posto del maestro baffuto e brizzolato, c’era una bestia orrenda e corazzata, con una criniera leonina dalla quale spuntavano tre corna. Quella centrale piantata saldamente nelle viscere del genio.

Bonnie strizzò gli occhi e afferrò il corno con la mano. Era venuto per pomiciare e, di nuovo, trovava una bestia. La Cina non gli piaceva per niente.

 

Aki_Penn parla a vanvera: Sì, lo so, tutto questo tempo per questo capitoletto. Mi dispiace, ma spero non vi abbia fatto troppo schifo! Grazie mille per aver letto! <3

Ritorna all'indice


Capitolo 32
*** Il terzo corno ***


Make a wish -

Capitolo trentadue -

Il terzo corno –

 

Bonnie e la bestia si guardarono negli occhi, entrambi ignorando Tai, che urlava come un matto, cercando di arretrare in strada.

“Il nian!” piagnucolò il bambino, senza riuscire a rimettersi in piedi. Le ginocchia gli tremavano.

“Il che?” singhiozzò, ma non fece in tempo ad aggiungere altro, perché la bestia alzò la testa e Bonnie, infilzato nel corno come un macabro spiedino, si ritrovò con i piedi che non toccavano più la terra.

Il mostro lo sbatté sulla traversa metallica del cancelletto. Vanificando ogni possibilità che le ossa della schiena che non erano state rotte dal corno, rimanessero intatte.

Bonnie urlò, al terzo colpo, contro la sbarra di ferro, ma non mollò la presa sul coniglio gigante. Afferrò uno degli altri due corni, indeciso su cosa fare, doveva riuscire a sfilarsi di dosso a quella bestia se non voleva che lo disintegrasse in un modo così stupido.

La creatura lo sbatté nuovamente contro la traversa e Bonnie urlò, fu allora che, dal cielo, come una Mary Poppins sanguinaria, discese Chismes. In un attimo richiuse l’ombrello e piantò la punta nella schiena del mostro.

La bestia ruggì e sbatté Bonnie a destra e sinistra contro i lati della porta, tanto che il cancello si piegò come se un tir ci fosse finito contro.

Dalla sua posizione, Bonnie, in lacrime, riusciva a vedere solo la schiena del nian, sembrava fosse corazzata, ricoperta da un’armatura squamata verde, con i riflessi dorati, e una criniera arancione, ormai sporca del proprio sangue e di quello del genio. Le corna erano nere e ritorte, come se qualcuno le avesse rigirate su se stesse.

“Muoviti di lì, Bonnie!” urlò Chismes, in ginocchio a piedi nudi sulla schiena del nian, che si agitava, mentre l’ombrello rimaneva saldo nelle sue carni, e lei attaccata a quello.

“Come?” piagnucolò lui, non gli sembrava di aver più un osso intatto.

“Hai una katana!” gli ricordò, mentre la bestia scalciava e la scaraventava via. Bonnie ansimò, la mano gli tremò quando la staccò dal corno del mostro, in quel modo tutto il suo peso gravava sul corno che aveva piantato nello stomaco. Con uno sforzo sovrumano, estrasse la spada dal fodero e tranciò di netto il corno della bestia, infilando la lama tra il proprio stomaco, ormai a brandelli, e la testa del mostro. A Tai sembrò quasi che  il genio stesse per fare harakiri, ma non ci pensò troppo, paralizzato com’era dal terrore.

Bonnie cadde a terra, sbattendo il sedere, con il corno tranciato ancora ficcato nelle budella. Mollò la presa sull’enorme coniglio, che rotolò poco distante, finendo in mezzo a della frutta marcia rimasta in quel posto da giorni.

Il nian ruggì del il dolore e si impennò come un cavallo imbizzarrito, battendo la testa contro la traversa.

Bonnie ansimò e afferrò il corno per sfilarselo di dosso, mentre il mostro smetteva di dimenarsi e si accasciava per terra, strisciando la testa contro l’asfalto, come se fosse un metodo bizzarro per attenuare il dolore di un corno tagliato.

Chismes, inginocchiata da sopra il tetto del magazzino su cui si erano nascosti Alih e gli altri pirati il giorno del loro sfortunato incontro coi geni, saltò giù con un balzo incredibilmente aggraziato, per i suoi centotrenta chili.

Si avvicinò al mostro il punta di piedi, intenzionata a riprendersi l’ombrello, ancora incastrato nella schiena della bestia, ma proprio in quel momento il nian si rialzò, pareva essersi ripreso. Il corno centrale si era rigenerato, mentre l’ombrello di Chismes era ancora ficcato nel suo dorso. La creatura ruggì, mostrando le fauci leonine e colpì la donna con una testata. Il genio volò per dieci metri e finì per sfracellarsi contro il muro del magazzino, rompendo diversi vetri. Tai sembrò aver recuperato la voce e ricominciò a urlare, disperato, fu allora che il mostro si ricordò di lui, ruggì ancora e si lanciò all’attacco verso il ragazzino.

“Bonnie!” strillò Chismes,  rialzandosi, e la lama della katana del ragazzo, passò da parte a parte il collo corazzato del nian, poco prima che la bestia incornasse anche Tai, ancora disteso per terra, terrorizzato. La bestia sbandò, e Bonnie le finì addosso, mentre la katana rimaneva incastrata nel corpo del nian.

Chismes, qualche metro più in là, alzò la mano aperta, come per salutare, e l’ombrello, con un rumore orribile e uno schizzo di sangue, che sporcò l’asfalto e la schiena del mostro, tornò nelle sue mani. La bestia ringhiò, mentre con uno sfrigolio, la ferita che aveva sulla schiena si chiudeva. Bonnie estrasse la lama dal mostro, con una smorfia, e quello cercò di rimettersi il piedi, con le gambe che facevano fatica a reggere il peso del suo corpo.

Allungò il collo e per un pelo non azzannò il braccio di Bonnie, che si ritrasse giusto in tempo e ficcò la spada nell’occhio del mostro. Il nian ruggì inferocito e sollevò la testa, Bonnie, saldamente stretto alla propria katana, venne di nuovo sbalzato in alto, come una bambola. Chismes, corse davanti al mostro, con l’ombrello aperto, a difendere Tai, e urlò “Bonnie! Qui ci penso io, prendi il ragazzino!”

Il genio piantò un ginocchio tra le tre corna della bestia e fece forza per sfilare la lama dall’occhio della creatura poi, con un salto, atterrò in strada, su un ginocchio. La maglia che indossava aveva un buco, proprio nel punto dove il corno l’aveva trapassato poco prima. Con uno scatto afferrò Tai sotto le ascelle e lo portò via. Il ragazzino chiuse gli occhi e si aggrappò alla maglia insanguinata di Bonnie, finché il genio non lo scaricò sul tetto di un magazzino, senza troppi riguardi. Cadendo si sbucciò entrambi i gomiti, ma era così spaventato per quello che aveva visto che nemmeno se ne accorse. Ansimò, con le lacrime agli occhi e guardò Bonnie che, in piedi accanto a lui, lo sovrastava.

“Tai…” esordì Bonnie, cercando di essere il più gentile possibile, ma il ragazzino lo interruppe come se nemmeno avesse fatto davvero caso a lui.

“Dov’è il coniglio?” strillò. Solo in quel momento Bonnie si ricordò dell’immenso coniglio che aveva fatto rotolare via quando era caduto con il corno ficcato nello stomaco. Come aveva fatto a dimenticarsene? Gli piaceva quel coniglio.

Tai e Bonnie si affacciarono e guardarono giù, ciò che videro fu Lydia, la volpe famiglio di Chismes, che  correva attorno alla bestia, facendola infuriare. Il nian scattò in avanti, con l’intenzione di azzannarla, ma Chismes si parò tra il mostro e la volpe, intercettando la bocca e infilandoci dentro l’ombrello. Quando si aprì, la testa del mostro esplose in un vortice di denti e peli arancioni.

Più in là, una palla di pelo bianco stava immobile in mezzo alla spazzatura.

“Eccolo!” piagnucolò Tai. Bonnie non fece domande e si lanciò giù dal tetto, lasciando il ragazzino a bocca aperta. Saltò sopra il nian, al quale stava ricrescendo lentamente la testa e filò dritto dentro il cortiletto dove si nascondeva sempre Tai.

“Che diavolo fai?” sbottò Chismes, che fissava il mostro intento a ricomporsi, stringendo in mano il proprio ombrello. Non poteva ucciderlo senza avere un desiderio, ma poteva attaccarlo d nuovo poco prima che fosse di nuovo in grado di attaccarla, impedendogli di sferrare un nuovo colpo.  

Si voltò e lo seguì, indispettita, Bonnie non si chiese nemmeno dove avesse messo le scarpe.

“Recupero il coniglio, Tai non mi aiuterà se non salvo prima il suo animaletto” sentenziò Bonnie, deciso, mentre Chismes si appoggiava al cancello, piuttosto indispettita.

“Sbrigati, diamine, non posso mica distrarlo per sempre mentre tu fai i tuoi comodi!” sbottò, e proprio il quel momento, il mostro sfondò la rete ed entrò nel cortiletto, ruggendo.

“Vai!” gli intimò di nuovo Chismes, mentre Lydia arrivava, uggiolando.

Bonnie, con il coniglio gigante stretto in mano, salto sul cancellò sfondato e lo superò con un solo balzò, atterrando in strada e correndo poi, veloce, verso il tetto su cui stava Tai ad attenderlo.

Arrivò appoggiando le ginocchia sul tetto ricoperto dalla guaina plastica e si rovinò un po’ i jeans. In ogni modo, l’animale che teneva in braccio respirava ed era tutto intero.

“E’ vivo!” esclamò Tai, lamentoso, correndogli incontro.

Bonnie annuì, mentre saltava per raggiungere il ragazzino aveva controllato e aggiustato un paio di costole. Il coniglio era come nuovo. Tai lo prese in braccio piangendo di gioia.

“Tai…” cominciò di nuovo Bonnie, mentre il bambino affondava il viso nella pelliccia morbida del suo gigantesco animaletto.

Il ragazzino lo guardò “Cosa è successo al maestro? Tu lo sai, vero?”

Il suo sguardo era deciso e penetrante, tanto che il genio si sentì quasi a disagio. Entrambi erano inginocchiati sul tetto piatto del magazzino, occhi negli occhi, con solo la mole dell’enorme coniglio a dividerli.

Il ragazzo annuì e Tai si incupì “In realtà, sono qui per lui fino dall’inizio. È più che probabile che sia stato lui a uccidere il tuo amico” cominciò a spiegare, domandandosi quale fosse il modo migliore di convincere il ragazzino.

Si voltò a guardare Chismes che se la vedeva con la bestia e poi tornò a fissare Tai, che non si era mosso di un millimetro.

“Per lavoro” ricominciò “do la caccia a questi mostri…” Tai lo interruppe “Mostri come il nian?” domandò. Bonnie alzò un sopracciglio e indicò la bestia con il pollice, senza girarsi “Il nian sarebbe quello? I nomi non mi interessano, di solito” si scusò il genio. Tai annuì “Il nian appare una volta all’anno per mangiare i bambini, ma ha paura del rosso e dei fuochi d’artificio” spiegò il bambino, per poi sporgersi un po’ a guardare la battaglia che imperversava in strada, tra Chismes e la bestia. “Ma forse è una leggenda, tua madre è vestita di rosso ma il nian non si spaventa” poi sgranò gli occhi, come se se ne rendesse conto solo in quel momento “Ma sta combattendo con un mostro del genere? Deve scappare!” strillò.

Bonnie lo spinse di nuovo indietro, impedendogli di vedere cosa stesse succedendo più in basso. “Tranquillo, lei è come me” disse e sollevò la maglia, mostrando il torace intatto. Tai si ricordò in quel momento che il ragazzo era stato incornato dal mostro e quasi si rimise a piangere “Che razza di creatura sei?” chiese, tirandosi indietro.

Bonnie sospirò profondamente “Io esaudisco i desideri, mi serve un desiderio per uccidere quel mostro, mi dovresti aiutare, Tai, pensi di poterlo fare?” domandò, dolcemente.

Tai annuì, deciso, anche se aveva ancora gli occhi lucidi.

“Bene, hai solo tre possibilità, quindi stai attento. Il mio vero nome è Charlie Martinelli, ma è un segreto” si mise un dito sulle labbra, come per intimargli il silenzio “Lascia qui il coniglio e vieni con me”

Lo prese tra le braccia e saltò giù dal tetto.

La bestia si scagliò subito su di loro, Chismes si scansò appena in tempo per non essere investita dalla furia del mostro.

“Stai fuori dalla portata del mostro!” urlò Bonnie, lanciandosi contro alla bestia. Il suo tallone impattò violentemente subito sopra l’occhio del mostro. La lama del ragazzo si infilò tra le fauci delle bestia, la quale addentò la spada come se fosse stata uno stuzzicadenti e finì per sbilanciare il genio, che venne disarcionato e fatto cadere per terra.

Il nian caricò subito, una zampa sulla spada e una sul gomito del ragazzo, che si ruppe sotto il peso del mostro. Bonnie, col petto schiacciato sull’asfalto, urlò di dolore. Chismes afferrò la bestia per le corna e la tirò indietro per levarla di dosso a Bonnie che urlava, mentre il nian, gli piantava il suo corno centrale nella schiena.

Il mostro si impennò, muovendo le zampe anteriori nel vuoto e lasciando il tempo a Bonnie di rialzarsi dolorante  recuperare la spada e ricucirsi il buco sulla schiena.

“Esprimi un desiderio!” intimò a Tai, che si era nascosto dietro all’angolo di un edificio.

Tai boccheggiò, senza sapere cosa dire, ma poi sbottò “Fallo volare! Fallo volare via da qui! Lo voglio!”

Bonnie ringhiò e circumnavigò il nian, ancora impegnato a lottare con Chismes, lo afferrò per la coda e, deliberatamente, lo lanciò in aria, come se fosse stato un giocattolo. La bestia volò senza ostacoli per un centinaio di metri, per poi andarsi a schiantare con un gran botto e una scia di sangue, contro la parete di un palazzo.

Bonnie si voltò di scatto, con aria omicida e urlò “E quello che razza di desiderio era?”

Tai, fece un paio di passi indietro, incerto “Non sapevo cosa fare!” strillò impaurito. Bonnie sbuffò e si mise le mani sui fianchi. Non era davvero arrabbiato, chiuse gli occhi e sospirò “Quell’affare sarà qui in un paio di minuti al massimo, tu pensa a qualche cosa di buono” fece.

Chismes guardò nella direzione in cui il nian si era involato e disse, a nessuno in particolare “Con gli anni ho notato che sono più che altro le bestie a uccidere le bestie”. Bonnie alzò un sopracciglio, con l’intenzione di chiedere qualche spiegazione su quella frase enigmatica, ma Chismes aggiunse “Vado a vedere dove è finito. Tornerà a cercarci, ma non voglio che uccida qualcuno, nel frattempo” e così dicendo saltò su un tetto e poi su un altro, scomparendo.

“Che cosa voleva dire?” domandò Tai, timoroso, asciugandosi le mani sudate sui pantaloni.

Bonnie scosse la testa e alzò le spalle “Non ne ho la minima idea”

Ci fu qualche secondo di silenzio, Tai girò in tondo e diede un calcio a una cassetta mezza rotta. Tornò dentro il cortiletto dove un tempo giocava col suo migliore amico e diede un calcio leggero al corno del nian che Bonnie gli aveva tagliato quando era stato incornato la prima volta.

Lo afferrò e lo avvicinò al viso, come per chiedersi se fosse vero. Deglutì, poi si decise a rivolgersi di nuovo al genio “Quindi il maestro ha uccido Wei?” chiese, tristemente.

Bonnie grugnì, un po’ scocciato “Non proprio. Il tuo maestro non sa di essere la bestia. È stato il mostro a uccidere il tuo amico, non lui. Quando tornerà normale non dovrai parlargli di questa cosa” spiegò, appoggiandosi alla rete metallica, dandogli le spalle. Tai strinse forte il corno nella propria mano. “E questa cosa finirà?” domandò ancora Tai, serio.

Il genio alzò di nuovo le spalle “Se non dovesse finire non sarà più un nostro problema” e così dicendo si voltò verso Tai e si passò il pollice sul collo, emettendo un rumore secco.

Tai si irrigidì e fece un salto indietro, prima di strillare offeso “Smettila!”

Bonnie rise di gusto, finché la voce di Chismes non urlò “Arriva!”

Bonnie si voltò appena in tempo per scansare la carica del mostro, che sfondò quel poco di recinzione che era rimasta in piedi.  Il mostro frenò la sua corsa a mezzo metro da Tai, che arretrò, terrorizzato, tenendo stretto a sé il corno, come se fosse stato un porta fortuna.

La bestia ruggì con la sua bocca leonina e allungò la zampa per colpire. Gli artigli lasciarono tre grossi solchi sul braccio destro del ragazzino e la seconda zampata gli avrebbe staccato di certo la testa, se Bonnie non fosse letteralmente piovuto dal cielo e avesse inchiodato a terra la zampa, con la propria spada.

La bestia ringhiò in agonia, mentre Tai si accasciava, sanguinante e dolorante, piangendo disperatamente.

La seconda zampata, la prese in pieno Bonnie, ancora fermo senza aver staccato le mani dall’elsa della propria spada. Gli artigli affondarono nella pelle del viso del genio, portando via un occhio e buona parte del naso. Bonnie non urlò nemmeno, estrasse la spada dal cemento e pestò la zampa ferita col il piede, si passò una mano sul viso e con lo stesso movimento fluido mozzò la zampa sana. Chismes spuntò dal nulla e prese tra le braccia Tai, in lacrime, passandogli le mani sulle braccia dilaniate.

La bestia ruggì e colpì Bonnie in faccia, tenendosi in equilibrio su tre zampe, con la coda, facendolo volare via, come se fosse stato una bambola di pezza.

Il nian e Chismes si guardarono intensamente negli occhi. Il bambino, ancora tra le braccia dell’enorme signora, urlò come un matto, anche se ormai le ferite non gli facevano più male. Chismes si alzò e aprì l’ombrello davanti a sé, some se fosse stato uno scudo di tessuto e il nian, al quale era ricresciuta la gamba mozzata, caricò di testa.

Le tre corna lacerarono la stoffa e per poco non colpirono Chismes che chiuse di scatto l’ombrello, imprigionando il mostro per i corni. Stringendo la presa sul manico e sulla punta lo sollevò deliberatamente e lo sbatté per terra sulla schiena, ma il mostro si rialzò subito non dando nemmeno a Chismes e Tai il tempo di spostarsi. Ringhiò e con un balzo saltò loro incontro, ma poi barcollò, le pupille si rovesciarono indietro e la bestia crollò per terra, riprendendo la sua forma umana.

Ci fu un secondo di silenzio, e poi Bonnie riapparve, atterrando leggiadro accanto al corpo del maestro, riverso per terra. Se non fosse stato in mezzo alla strada devastata, sarebbe sembrato un uomo che sta tranquillamente dormendo.

“Co-cosa è successo?” domandò Tai, timidamente, nascondendosi dietro a Chismes, ma tenendo stretto il corno del nian.

La donna fece una smorfia, mentre Bonnie molestava la mano del professore con qualche colpetto dato con la punta della scarpa. A Chismes ricordò suo fratello quando era piccolo e trovava una medusa morta sulla battigia.

“Non stargli troppo vicino” lo redarguì la donna, seria. Bonnie grugnì e la guardò, ma non si spostò. Fu Tai a prendere di nuovo la parola “Non dovreste colpirlo adesso? Ha ucciso Wei, no?” domandò il bambino.

Chismes scosse la testa “Non è colpa dell’uomo, noi vogliamo la bestia” sentenziò, voltandosi a guardare il ragazzino che sbiancò e ricominciò a urlare. Chismes e Bonnie si voltarono di scatto mentre il nian si ricomponeva e balzava addosso al genio, schiacciandolo sull’asfalto. Bonnie strizzò gli occhi, mentre il mostro gli rompeva di nuovo il braccio.

“Taglialo, taglialo a metà!” strillò Tai, indietreggiando in preda al panico. Non sapeva se scappare o rimanere, aveva paura di fare entrambe le cose, mentre Chismes divaricava un po’ le gambe e piegava le ginocchia, come un portiere che dovesse difendere la propria porta.

Bonnie infilò la katana nello stomaco della bestia, con un movimento quasi involontario e spostò la lama in avanti. L’arma si mosse nel corpo del nian come se fosse stato fatto di burro. Tranciò ossa, carne e tendini, fino a tranciare a metà anche il corno centrale del mostro che, vivo ma diviso in due parti sanguinanti, si accasciò sul suo aggressore, ricoprendolo con le proprie viscere.

“È morto?” piagnucolò Tai, mentre il mostro si ricomponeva velocemente con Bonnie in mezzo, avviluppandolo con l’intestino come i tentacoli di un polipo. Bonnie scavava tra le membra del mostro alla ricerca del seme.

“Non c’è!” gridò a Chismes, mentre il mostro cercava di sopraffarlo.

Il bambino spalancò gli occhi e lanciò il corno addosso a Bonnie “Trovalo!” ordinò.

Il genio lo afferrò al volo, slanciandosi come poteva, le gambe erano ormai bloccate letteralmente dentro al nian, dalla schiena del mostro fuoriusciva solo il mezzo busto del ragazzo.

Bonnie piantò il corno nel cranio dell’animale, che ormai si era ricomposto. Le viscere della creatura stringevano attorno alle sue gambe e al suo busto. Sferrò un altro colpo vicino al proprio busto, con l’intenzione di liberarsi almeno un po’. La bestia lo frustò con la coda e Bonnie ringhiò, mentre il braccio destro, che reggeva la spada, rimaneva sempre più incastrato nel corpo del mostro.

Il genio colpì di nuovo la testa con il corno tranciato, uno, due, tre volte finché sulla nuca del mostro non vi fu aperta una voragine. La bestia si voltò e gli ruggì contro, aprì le fauci con l’intenzione di staccargli la testa con un morso, ma Bonnie colpì di nuovo, questa volta nell’occhio, che esplose, come un uovo rotto male.

Bonnie infilò due dita nella cavità che si era formata, mentre la bestia scalpitava e cercava di colpirlo, senza riuscirci. Tutto si calmò quando, finalmente, Bonnie sentì tra le dita la consistenza del seme d’Ortica, nascosto dietro al bulbo oculare del mostro.

Chismes corse ad aiutarlo, aprendo uno squarcio nella schiena del mostro usando l’ombrello, per permettergli di uscire da quella trappola di carne, corazza e criniera.

Tai rimase a distanza, sbalordito, a guardare.

 

***

 

Clay sorrise “Non c’era bisogno che mi accompagnaste” disse, scrollando le spalle. Richard piegò la testa da una parte “Figurati, a Jessie fa piacere stare un po’ di più con te, e poi non ci sei quasi mai” disse, accennando a Jessie, che si era allontanata un poco per telefonare.

Tinkerbell si voltò verso il tabellone delle partenze e pregò che non notassero che non vi era alcun aereo per il Canada, a quell’ora.

“Sta meglio” aggiunse poi, d’un tratto, senza guardare Clay. Tinkerbell lo fissò e poi fissò la propria sorella, che camminava avanti e indietro per l’atrio dell’aeroporto.

Annuì “Sì, anche la mamma me l’ha detto. Credo anche io che stia meglio” disse. Richard annuì “Anche il dottore dice che ci sono stati ottimi miglioramenti”

Si guardarono e sorrisero, mentre Jessie, vestita di tutto punto per non prendere freddo, si avvicinava a loro, pimpante. I primi capelli avevano iniziato a ricrescere sulla testa, ma lei teneva ancora la cuffia.

“Mamma chiede se hai notizie di Bernie, dice che non scrive da un po’” fece lei, tranquilla, guardando il fratello. Tinkerbell si incupì “E io cosa ne so, di quello lì?” sbottò, arcigno.

Jessie alzò le sopracciglia, divertita  “Avete bisticciato?” domandò. Clay grugnì, ma non rispose e Jessie gli sorrise di nuovo, prima di abbracciarlo forte “Su, ci vedremo presto e vedrai che la prossima volta ti batterò anche a braccio di ferro” commentò, appoggiando il mento sulla spalla del gemello.

“Non dire cavolate, non ci riesci più da quando abbiamo compiuto dodici anni”

“Andrò in palestra a fare pesi”

Clay ridacchiò e si sciolse dall’abbraccio “Grazie ancora, a presto”

Jessie e Richard, lo salutarono con la mano, mentre Tinkerbell si voltava per andare verso il terminal. Appena svoltò l’angolo si infilò nel bagno delle donne, ma dall’altra parte non c’era un gabinetto ad aspettarlo, ma uno scaffale pieno di detersivi mai usati e un sacco di polvere.

Tinkerbell si infilò una mano nella tasca ed estrasse il cellulare, avviò la chiamata e dopo un paio di squilli, dall’altra parte risposero “Rosticceria Carmen & Carmen, come posso esserle utile?”

“Ruthie? Sono nel tuo ripostiglio dei detersivi. Se esco, potresti evitare di spararmi addosso?”

“Vieni dentro” accolse Ruthie, stancamente e Clay aprì la porta sulla cucina della casa dove la ragazza viveva in Connecticut. Ruthie era appoggiata al banco, vicino al lavello, con indosso delle culottes a righe e una maglia a maniche corte con scritto ‘I’m from 90’s, bitch’, a piedi nudi, che mangiava pane e marmellata.

“Dove andiamo, questa volta?” domandò, masticando, con aria di sufficienza.

“In Canada” rispose lui, con un sorriso, a Ruthie non piaceva il freddo, ma non c’era niente da fare, era abbastanza sicuro che dopo tutto il caldo sofferto in Amazzonia, un po’ di neve avrebbe fatto piacere anche a lei.

“Giusto in tempo per festeggiare, domani è il mio compleanno” disse poi, leccandosi il pollice sporco di marmellata di albicocca.

 

***

 

Re Rubus si inchinò, mentre la creatura si alzava dal suo giaciglio “Altezza” disse e la creatura abbassò lo sguardo “Si alzi, maestà, non sono io il vostro Protettore” sentenziò a bassa voce.

La creatura, finalmente privata delle bende, aveva assunto un aspetto che poteva essere scambiato per quello di un’Ortica qualsiasi.

“Un’Ortica monca, come la Mosca” aveva sottolineato ‘Leandra, ma Rubus non aveva ribattuto.

Mentre il re si inchinava, la moglie se ne era rimasta in disparte, tra i diaconi incaricati di andare all’Altro Mondo a inseminare le nuove bestie. Guardava la scena tenendo le braccia conserte e lo sguardo truce.

La creatura allungò la mano per aiutare re Rubus ad alzarsi “Con l’aiuto del veleno della regina vi ridarò il vostro protettore e il vostro genio” fece una pausa “e poi farò rotta per il Grande Mare”

Il re strinse le mani della creatura nelle sue ed annuì, grato.

Fuori dalla finestra, non visto, si teneva in equilibrio la Mosca bianca, tenuto sospeso sulla parete verticale della torre di fuoco da otto zampe di ragno color magenta che gli spuntavano dalla schiena.

Doveva stare attento a non farsi vedere con quell’impalcatura addosso, sarebbe stato chiaro che quella fosse opera di un pirata, le Ortiche non si preoccupavano di sfruttare la magia dei semi d’Ortica che, nel loro mondo, crescevano in natura, a differenza del Grande Mare.

Una volta al giorno scendeva nel mare di sangue con una caraffa, per prelevarne un po’. Quella era praticamente l’unica cosa di cui riusciva a cibarsi in quel mondo, fatta esclusione per le foglie che ogni tanto perdeva il vestito di madama Sipuli (NdA: cipolla in finlandese), la dama di compagnia della Regina ‘Leandra.

Stava tornando cautamente nella sua stanza quando si era accorto della riunione di diaconi e della creatura. Aveva tutto un altro aspetto, ma era chiaro che fosse proprio la creatura eruttata dal bozzo. Di tutta la scena tutto ciò che carpì fu che le Ortiche volevano attaccare il Grande Mare. Chiuse gli occhi e sospirò, prima che le sue zampe di ragno lo riportassero in camera sua.

Doveva avvertire al più presto il suo paese.

 

Aki_Penn parla a vanvera: Eccomi di nuovo, questa volta quasi in tempi brevi, so che anche questa volta c’è poco Ruthie/Tinkerbell e molto Bonnie, speravo di cavarmela in fretta con il nian, ma sono sempre prolissa e quindi ho fatto slittare al capitolo trentatré le altre scene che coinvolgono Tinkerbell. So che è lui il protagonista ma, come al solito, mi perdo in chiacchiere! Spero che la scena delle Ortiche non sia stata una rottura. Avrei voluto imbastirla un po’ di più, ma non volevo che diventasse una mega rottura quindi l’ho un po’ sintetizzata, spero che il risultato non sia troppo sbrigativo!

Come sempre, grazie per aver letto e lasciato i vostri preziosi commenti, non sapete quanto mi rendete felice! <3

Ritorna all'indice


Capitolo 33
*** La chiave e la neve ***


WARNINGS: se avete letto fino a qui, probabilmente, siete abituati a budella, sangue e tante altre belle cose, metto comunque l’avvertimento perché, nonostante questo capitolo sia meno violento di altri, lo trovo un po’ peggio, per via del contesto. Spero che nessuno ne rimanga turbato. U.U

Make a wish -

Capitolo trentatré -

La chiave e la neve –

 

“Non posso tenerlo io” sentenziò Tai, mentre Chismes si rimetteva le sue scarpe rosse e piumate. “L’ho sempre saputo… ma adesso che non c’è più Wei non so neanche se voglio tenerlo” fece Tai, sconsolato.

Il maestro era riverso a terra poco più in là. L’avevano spostato da in mezzo alla strada, ci mancava solo che passasse un camion e lo investisse. Si sarebbe svegliato entro poco, ignaro di tutto quello che era accaduto. Tai aveva promesso di tenere il segreto per sé.

“Lo volete tenere voi?” chiese poi, alzando, sconsolato, lo sguardo dal gigantesco coniglio che stava dormicchiando con la testa sulle sue ginocchia. Gli piaceva accarezzarlo, aveva la pelliccia morbida.

Bonnie grugnì, studiando l’animale e Chismes, eccitatissima, gli diede una gomitata “È carino” esclamò. Lydia, che le faceva da collo di volpe, sbadigliò e si rimise a dormire.

“Non voglio che Nerina cerchi di mangiarselo” commentò. “Non se lo mangerà” rispose Chismes scocciata, alzando gli occhi al cielo.

“E va bene!” accettò in fine Bonnie, come se la cosa gli costasse una gran fatica. Tai sorrise “Gli piaci tanto!” rincarò, mentre il coniglio si svegliava e andava ad accoccolarsi sui piedi del genio. Bonnie arrossì, non era abituato a piacere così tanto a qualcuno.

“Però devi dargli un nome carino!” aggiunse poi il bimbo, accigliandosi e alzandosi in piedi.

“Carino tipo? Fiorellino? È un coniglio immenso, non posso dargli un nome carino!” rimbrottò il genio.

“E come lo vuoi chiamare, scusa?” chiese Tai, un po’ offeso. Bonnie fece una smorfia e afferrò il coniglio per i fianchi, alzandolo abbastanza perché si potessero guardare negli occhi. Si fissarono per qualche secondo, poi Bonnie decretò “Beh, sembra un coniglio mannaro, credo che lo chiamerò Werebunny!”

“Ma è un nome orrendo!” piagnucolò Tai. Chismes ridacchiò.

 

***

 

Ruthie strinse la mano attorno alla propria pinta di birra e guardò Tinkerbell con sguardo vacuo. Si guardò pensierosa in giro e poi disse “Non ho mai rischiato di morire sbranata da un leone”. E alzò il boccale prendendo una lunga sorsata. Quando lo riappoggiò sul tavolo era vuoto.

Tinkerbell alzò le sopracciglia “Era una frecciatina, quella?”

Ruthie alzò un sopracciglio, alticcia “Sono troppo ubriaca per fare frecciatine. Tu perché diamine non ti ubriachi mai?” sbottò, offesa. Tinkerbell fece un sorrisetto divertito, mentre guardava gli occhi lucidi della ragazza che dondolava un po’ la testa.

“Lo sai che non posso ubriacarmi”

“E perché?” sbottò, puntando i gomiti sul tavolo e tirando in fuori il labbro inferiore. Tinkerbell alzò gli occhi al cielo e stava per dire che era perché era un genio e le solite cose, ma Ruthie si era già dimenticata di lui e aveva alzato la mano per chiamare la cameriera. Era mezza sdraiata sul tavolo, ma la ragazza l’aveva ascoltata ed era scappata al banco a prendere la nuova birra che le era stata ordinata.

Ruthie appoggiò pigramente il mento sulla tavolo e guardò Tinkerbell dal basso, sembrava un po’ un cane durante la cena dei propri padroni.

“La cameriera ha le tette rifatte” sentenziò, piatta.

Tinkerbell scosse le spalle, disinteressato “Le tue tette sono più belle”

Ruthie si rimise dritta così di scatto che per poco non cadde dalla panca “Mi hai guardato le tette, in Amazzonia! Avevi promesso che non l’avresti fatto!” disse, alzando un po’ la voce. Tinkerbell rise di gusto e aggiunse “Ho guardato quelle di tutte”

Ruthie arricciò il naso e scosse la testa, la testa era sia leggera che pesante, non riusciva a capire. Il pub era tranquillo, c’erano altri clienti, ma tutti parlavano tranquilli, l’unica persona che ogni tanto alzava un po’ la voce era proprio Ruthie, che aveva finito per bere un po’ troppo. La cameriera tornò di gran carriera e appoggiò un’altra pinta di birra davanti a Ruthie, prima di sorridere a lei e a Tinkerbell e scappare di nuovo via.

La ragazza si voltò a per guardarla andare via, ma Clay non aspettò oltre e sentenziò “Non ho mai fatto a botte quando andavo a scuola”, prima di bere una lunga sorsata dal suo boccale.

Ruthie si voltò di nuovo verso di lui, scocciata dal dover bere di nuovo “Io però ho ancora tutti i denti, mammoletta” disse, prima di imitarlo. Tinkerbell ridacchiò, per nulla offeso. Ruthie appoggiò il bicchiere sul tavolo, senza mollare la presa, però, e adagiò la testa su una mano, guardandolo con occhi vacui. Era chiaro che ormai non sarebbe più stata in grado di camminare dritta. Si guardarono per qualche secondo, poi Ruthie si rimise dritta con uno scatto e disse, prima di prendere un'altra boccata “Non ho mai fatto sesso alla fermata dell’autobus”

Tinkerbell fece una smorfia “Ma che schifo, Ruthie”, ma poi afferrò il boccale, impedendole di finire l’intero bicchiere in una sorsata.

“Adesso basta, però” le intimò, mentre lei deglutiva e gli puntava l’indice contro “Non farmi la predica, Tinkerbell, ho avuto un’adolescenza difficile, io, a differenza tua” e per poco con cascò di lato, giù dalla panca. Clay l’acchiappò appena in tempo, per una spalla. “Stai lì” le intimò, come se la cosa bastasse a renderla meno ubriaca. Ruthie lo guardò e fece una smorfia annoiata, mentre Tinkerbell tirava fuori il cellulare dalla tasca e guardava l’ora: mezzanotte e un minuto del venti febbraio.

“È ora di festeggiare: buon compleanno!” e così dicendo alzò il pollice, come per dire ‘okay’, ma sulla parte più alta, sull’unghia, c’era una fiammella, come se fosse stata una candelina. Ruthie abbassò lo sguardo sulla mano di Clay e boccheggiò perplessa, non sapendo bene cosa fare.

“Soffiaci sopra, prima che il resto dei clienti si accorga che mi sta andando a fuoco la mano destra!” le ordinò sottovoce e lei soffiò sulla sua rudimentale candela. Tinkerbell batté rumorosamente le mani ed esclamò “Tanti auguri!”. Dal tavolo affianco al loro qualcuno aggiunse, timidamente “Auguri”, ma Ruthie guardò di nuovo il genio, con uno sguardo vacuo e appoggiò la fronte sul tavolo “Portami a letto, Tinkerbell, per favore” piagnucolò.

Un minuto dopo, il genio stava salendo pesantemente le scale con Ruthie su una spalla, come un sacco di patate. “Sei ubriaca marcia” ridacchiò, divertito.

“E tu sei sobrio marcio!” esclamò lei, offesa, sgambettando a vuoto. Clay ridacchio e aprì la porta della loro stanza. Fu una lotta lavarsi i denti e mettersi il pigiama ma, alla fine, mentre anche Tinkerbell si infilava la felpa con cui di solito dormiva, Ruthie si era messa in posizione fetale, sulla coperta, a tremare.

“È freddo. Perché il Canada è così a nord?” piagnucolò. Clay alzò un sopracciglio e con un balzo saltò sul letto. “Probabilmente, se ti mettessi sotto le coperte, andrebbe meglio” la redarguì lui, divertito. Ruthie mosse pigramente il braccio sinistro, palpando in giro, senza nemmeno aprire gli occhi “Non la trovo”

Clay fece una smorfia “Ci sei sopra” e strattonò la coperta finché sia lui che Ruthie non furono sotto. Ruthie grugnì “Perché non mi hai portato in un posto caldo, invece che in Canada. Il freddo mi fa schifo. Mi fa schifo” sussurrò, sempre più piano, come se si stesse già addormentando.

Tinkerbell le passò una mano sul fianco e appoggiò la testa tra le scapole di lei. Ruthie gli dava le spalle. “Non arroventarmi come se fossi una panchina” biascicò, stringendo la mano di lui, con la sua, gelida. Un secondo dopo si era già addormentata.

“Come faccio a ucciderti?” disse Tinkerbell, tra sé e sé.

 

***

 

Non era riuscita a farsi dire da Ronnie dove Commander teneva i suoi semi d’Ortica. Pareva che nessuno lo sapesse, ma questo non l’aveva fermata. Aveva aperto la porta dello studio di Cloris, con la sua nuova chiave d’oro, quella che le aveva dato il diacono Brodie, e si era ritrovata a uscire da un vecchio armadio che odorava di naftalina.

Era in fondo a un corridoio, in una casa silenziosa. Dall’altra parte del corridoio c’era una finestra con gli scuri aperti e Alih poteva vedere fuori. Rimase qualche secondo a fissare i vetri.

C’era qualche cosa di strano in quel posto. Fuori dalla finestra era notte, questo era evidente, il cielo era nero, ma, allo stesso tempo, era una notte luminosa.

Si era ripromessa di rimanere in quel posto il meno possibile, ma non poté fare a meno di attraversare tutto il corridoio ignorando le porte chiuse dietro le quali poteva nascondersi Commander, per andare a guardare oltre il vetro di quella finestra.

Ciò che vide fu la cosa più sorprendente della sua vita: un mare bianco dal quale spuntavano alcuni alberi, neri nel buio, ma anche quelli soccombevano al bianco che stava coprendo tutto. Pioveva, ma non era acqua: quelli che cadevano dal cielo sembravano tanti piccoli pezzi di zucchero filato, come quello che le aveva fatto assaggiare una volta Ronnie. Le aveva detto che quella roba veniva dall’Altro Mondo, ma non le aveva detto che cadesse dal cielo. Quello era un mare dolce!

Per un secondo pensò quasi di uscire e mangiarne un po’ e così pensando appoggiò quasi senza rendersene conto, la mano contro il vetro. La ritrasse come se bruciasse e, per un secondo, le era quasi sembrato di provare bruciore: il vetro era così freddo da fare male. Non aveva mai toccato qualche cosa di così gelido, al Grande Mare. Si ritrasse, tenendosi la mano gelata nell’altra, calda. Solo allora si rese conto di sentire freddo.

Aveva i pantaloni corti e una camicia vecchia di Cloris, a cui Big Jim aveva tagliato le maniche all’altezza delle spalle, e aveva la pelle d’oca. Gli stivali, che la facevano sudare quando era sul ponte della Rainbow Dancer, sembravano adatti più per un posto del genere che per il grande mare. Con la mano strinse la chiave d’oro che portava al collo, se se la fosse vista brutta sarebbe tornata di corsa al Grande Mare e non avrebbe detto niente della sua avventura, se fosse riuscita a rubare tutti i semi a Commander, allora, forse Cloris l’avrebbe perdonata e non avrebbe più minacciato di buttarla a mare.

Tornò indietro, aveva lasciate aperto le ante dell’armadio dal quale era uscita. Fece qualche passo e, nel buio, passò accanto a un vecchio specchio ovale, in bella mostra su una cassettiera antica. Il mobile era pulito, sembrava che qualcuno spolverasse tutti i giorni, diversamente da ciò che succedeva alla Rainbow Dancer, ma le maniglie dei cassetti erano arrugginite.

Alih si passò le mani sulle braccia e guardò il proprio riflesso, le punte dei capelli che aveva legato in una coda di cavallo, erano tinte di magenta. Si toccò la mandibola, grazie a Ronnie aveva di nuovo tutti i denti e il braccio era tornato normale. Pregò di non dover più provare un dolore del genere.

Distolse lo sguardo dallo specchio e si guardò in giro, c’erano quattro porte, due a destra, due a sinistra, tutte uguali a ben guardare, Alih non aveva idea di dove avrebbe potuto trovare il Capitano e i suoi semi d’Ortica.

Tornò davanti all’armadio e chiuse entrambe le ante, poi fissò la porta alla propria destra. Le quattro porte erano completamente identiche, non c’era nulla che le facesse pensare che una fosse quella giusta, quindi sospirò ed estrasse la propria spada dal fodero, poi poggiò la mano libera sulla maniglia e aprì la porta.

Subito fu accolta da un forte odore di muffa. La stanza era perfino più fredda del corridoio, nella penombra poté intravedere la sagoma di un letto, non sembrava vi fossero lenzuola, né coperte, solo un materasso vecchio e nudo. C’erano varie scatole impilate alla rinfusa nella camera, ma nessuna forma di vita. Nessuno entrava in quella stanza da parecchio tempo, dedusse Alih, chiudendo lentamente l’uscio. Non aveva staccato la mano dalla maniglia nemmeno un secondo. La serratura scricchiolò quando Alih accostò di nuovo la porta, ma lei non ci fece caso e si voltò verso l’altra camera, esattamente di fronte alla porta che aveva appena chiuso.

Prese un altro lungo respiro: se ce ne fosse stato bisogno avrebbe aperto tutte quelle porte, Commander era in quella casa, da qualche parte.

In due passi fu davanti alla porta speculare e l’aprì il più silenziosamente possibile. Diversamente dalla prima, quella si aprì senza un solo cigolio, scivolò come se nemmeno esistesse, doveva essere stata oliata da poco.

La stanza, a differenza della precedente, era più calda del corridoio. C’era odore di lenzuola appena lavate, c’era un vecchio armadio e un grande letto, sotto le coperte c’era qualcuno, Alih poteva vederne la sagoma, sentirne il respiro.

Avvicinò la porta, in modo che nella stanza filtrasse solo una striscia di luce, abbastanza da permetterle di vedere nella penombra.

Si avvicinò al grande letto, dove la magra striscia di luce andava a morire e vi girò attorno, senza staccare gli occhi dalla sagoma che intuiva essere sotto le coperte. Non aveva mai visto il Capitano, si chiese come fosse, era sempre stata sicura che sarebbe stata in grado di riconoscerlo. Lo descrivevano come un uomo violento, ma come distingui un uomo rissoso e violento da un altro, mentre dorme?

Si fermò davanti alla figura nascosta, proprio accanto al comodino, e strinse entrambe le mani all’elsa della spada. Avrebbe potuto ucciderlo e prendere indisturbata i semi, aveva sentito dire che il padre di Diablo, una volta, aveva ucciso un genio. Sul cuscino doveva esserci la testa, Alih la mirò, senza chiedersi davvero come sarebbe stato uccidere una persona. Non lo vedeva nemmeno come un uomo, non aveva mai ucciso nessuno, come sarebbe stato dopo aver tagliato la testa a Commander?

Un soffio di vento, che non avrebbe dovuto esserci, chiuse la porta sbattendola. Alih alzò la testa dal suo bersaglio col cuore in gola, senza davvero rendersi conto di cosa stesse succedendo.

Fu come un’eruzione, il letto esplose, le coperte volarono via e in un attimo la ragazzina si trovò sbattuta per terra. La lama della lancia di Commander sfrecciò sotto gli occhi di lei e si piantò nel pavimento in legno. Alih urlò per il dolore, la lancia le aveva tagliato la faccia a metà. Calde lacrime iniziarono a sgorgarle dagli occhi. Le aveva tagliato il naso? Le aveva tagliato il naso? Alih non riusciva a capirlo, tutta la faccia, dagli occhi a scendere, era un inferno doloroso.

La spada le era sfuggita dalle mani, quando cercò di allungare il braccio per riprenderla, il piede di Commander calò come un martello sulle sue dita e Alih urlò di nuovo, mentre le ossa si sbriciolavano. Singhiozzò e pianse, tra le lacrime cercò di alzare la testa per vedere il faccia il suo aggressore, ma la lama era ancora ficcata per terra accanto alla sua faccia. Il movimento peggiorò solo le cose, la lama tagliò di nuovo la carne e lei singhiozzò di nuovo, senza avere nemmeno la forza di urlare.

Fu Commander a staccare la lancia del pavimento, di malagrazia, facendola di nuovo passare sul viso di Alih, evitando l’occhio destro per un soffio.

“Chi sei, stronzetta?” domandò una voce tranquilla, ma profonda. Ad Alih fece più paura di qualsiasi altra cosa al mondo. Lei sbavò e sputò, ma non rispose. Commander non aspettò un secondo in più e piantò il manico di legno dietro al ginocchio della ragazzina, rompendo l’articolazione. Alih urlò di nuovo, disperata, singhiozzò e sbavò sul pavimento, mentre la faccia era ormai fradicia di lacrima e sangue.

“Mi-mi chiamo Alih” biascicò con la bocca impastata dal dolore. Il capitano si chinò e la prese per la camicetta, letteralmente sollevandola. La ragazzina non ebbe nemmeno la forza di opporre resistenza, cercando di scalciare. Le faceva male tutto, e fu ancora peggio quando il genio la sbatté contro la finestra, il corpo di Alih sfondò il vetro e poi gli scuri.

Lei urlò di nuovo, il vetro si infranse stracciandole la camicetta e riempiendola di tagli, l’impatto con il legno degli scuri le incrinò due costole, la cosa peggiore fu però l’impatto col terreno. Quel mare di zucchero filato bruciava. Era così gelido che Alih sentì la pelle quasi ustionata. La gamba batté sul terreno e il dolore fu lancinante. Cercò di rimettersi un poco dritta, facendo forza sui gomiti. Tutte le dita della mano che il capitano aveva pestato erano storte in una posizione innaturale, Alih la guardò, tremante.

Lo zucchero filato era morbido e freddo, ma non era davvero zucchero. Davanti agli occhi vedeva vermi di luce intermittenti, il dolore al naso e alla gamba non la abbandonava, sommato a quello alle costole. In quel momento si rese conto che non sarebbe tornata più a casa.

Sopra la finestra della camera del capitano, quella con gli scuri sfondati, c’era una luce da esterno, era estremamente bianca, e rifletteva sullo zucchero bianco che pioveva dal cielo. Un fiocco di zucchero si appoggiò sul mento e si sciolse. La sua pelle bruciava a contatto con il ghiaccio.

Alih batté le palpebre due e tre volte quando la luce sopra la finestra si oscurò in parte. Commander era uscito dal buco lasciato dal corpo della ragazzina, scavalcando il davanzale senza difficoltà. La ragazzina non riusciva davvero ad analizzare la situazione, stava perdendo sangue e la testa le faceva male, i gomiti, affondati nello zucchero freddo iniziavano a bruciare.

Quando il capitano si fermò, Alih non poteva vedere davvero i suoi lineamenti in ombra, ma era un uomo enorme, se fossero stati in piedi vicini, dubitava di potergli arrivare alla spalla. Alzò faticosamente la testa e lo fissò, con gli occhi pieni di lacrime.

“Pensavo che i pirati si sarebbero convinti che non era il caso di venirmi a disturbare” disse, piano, girandole attorno e Alih, poté vederlo in volto. Aveva i capelli completamente rasati e una brutta cicatrice sulla tempia. In mano aveva una lunga lancia, quella che aveva usato per tagliarle il naso.

“Non sono un pirata” biascicò Alih, in preda al panico. Gli occhi del genio si dilatarono e la ragazzina aprì la bocca per urlare, ma lui si era già chinato sul di lei. La prese per la testa, per poco un dito non le si infilò in un occhio, in compenso spinse dolorosamente nella ferita fresca sotto gli occhi. Alih urlò di nuovo, quando il capitano le strappò una ciocca di capelli sulla nuca, con rabbia.

“Non sei un pirata, stronza? Non sei un pirata con questa merda che hai in testa?” chiese, adirato, facendo fatica a contenere la rabbia. Afferrò la lancia che aveva lasciato cadere e le tagliò tutti i capelli rimasti, come se stesse pelando una patata, tagliando e strappando senza riguardi. Parecchie volte Alih sentì la lama sfiorarle la testa, cercò di divincolarsi come poteva, nonostante le costole doloranti e la gamba colpita, che sembrava morta, in posizione innaturale, in mezzo alla neve e al sangue, ma il capitano la teneva così stretta per il collo che sentiva l’aria mancarle. Pianse forte allungando le mani nella neve, fino a che il capitano non la lasciò di nuovo caracollare per terra di mala grazia. Si alzò a guardarla, sanguinante e inerme. La sua spada giaceva ancora nella camera del genio, completamente inutile. Non aveva nemmeno pensato a usare la polvere di semi d’Ortica che stava nei suoi capelli, prima che lui glieli tagliasse via tutti.

“Chi ti manda?” domandò “Diablo? Ebén? Cloris?”

Ad Alih sembrò che il nome di Cloris fosse più marcato degli altri. Respirò forte e tossì, prima di singhiozzare “Non mi manda nessuno… nessuno…” era vero, era lì perché voleva dimostrare a Cloris che anche lei valeva qualche cosa, anche se con Bonnie e Chismes aveva combinato un casino. Ma lei non valeva niente e sarebbe morta uccisa dal capitano, come era capitato a chiunque avesse cercato di derubarlo.

Commander annuì e con slanciò le strappò dal collo la collana alla quale teneva appesa la chiave d’oro che le aveva regalato Deacon Brodie.

“Quindi nessuno si aspetta di vederti tornare” constatò, con un certo divertimento. Alih si rese conto che quello era l’unico mezzo che aveva per tornare a casa, e l’aveva in mano il genio.

“La chiav…” iniziò a dire lei, ma rimase a bocca aperta, spaventata, quando la mano dell’uomo prese fuoco.

“Non ci torni sulle tue gambe, al Grande Mare, stronza” disse, allungando il pugno verso di lei, ma tenendolo sempre in alto.

La ragazzina non capì subito cosa stesse accadendo, per qualche secondo non successe niente, ma poi, una grossa goccia dorata scivolò dalla mano a pugno dell’uomo, atterrando sfrigolante sul  suo seno destro.

Alih urlò come non aveva mai urlato, mentre il resto della chiave fusa le pioveva addosso. qualche goccia finì sul braccio destro, mentre il suo seno si scioglieva come burro al sole in un delirio di sangue, dolore e carne putrescente.

Il capitano si allontanò di un passò, mentre Alih si contorceva nella neve. Inarcò un sopracciglio, sentendo i polsi pulsare in modo fastidioso. Si passò la lingua sulle labbra, senza distogliere gli occhi dalla ragazzina, poi le si avvicinò di nuovo e avvicinò le labbra al suo orecchio.

“Ci penserà l’inverno, a ucciderti” e così dicendo si rialzò e le diede un calcio al ginocchio rotto. Alih non urlò nemmeno più, rivoltandosi nella neve, ormai troppo annebbiata dal dolore.

Un attimo dopo il genio era sparito e lei era sola nella neve luminosa.

 

Aki_Penn parla a vanvera: a scrivere questo capitolo mi sono divertita un bel po’. È corto ma, a parer mio, è abbastanza denso, quindi ho deciso di tagliarlo qui. Spero che vi siate divertiti a leggerlo come io mi sono divertita a scriverlo.

Si capisce che Ruthie e Clay stanno giocando a ‘Non ho mai’? XD

Credo che la scena finale sia un po’ cattiva, dopo più di trenta capitoli immagino che nessuno si ritrovi impreparato davanti a un po’ di sangue, ma visto che in questo caso si tratta di un uomo adulto che se la prende con una quattordicenne, spero davvero che nessuno si prenderà male. Grazie a Kuro per essere il mio motore di ricerca quando io non trovo quello che cerco o solo ho paura di cercarlo. In questo caso, entrambe le cose!

(Il capitolo trentaquattro è stato faticosissimo da scrivere ed è venuto pure corto, spero che col trentacinque mi riprenderò!)

Come sempre, grazie a tutti quelli che leggono, siete degli amorini. <3

Ritorna all'indice


Capitolo 34
*** Il destino del consigliere ***


Make a wish -
Capitolo trentaquattro -
Il destino del consigliere –
 
La mattina dopo, Tinkerbell scese in fretta le scale di legno per andare a far colazione, seguito da Ruthie, stordita dai postumi della sbornia.
“Non correre” fece lei, massaggiandosi le tempie, seguendolo, mentre Clay era ormai alla fine delle scale. Lui alzò lo sguardo su di lei e sorrise.
Da fuori entrava un sole luminoso che lo metteva di buon umore. Ci aveva pensato molto, quella notte, mentre cercava di dormire abbracciato alla ragazza, ci sarebbe voluto ancora un po’ perché Ruthie si ritrovasse ad avere una nuova ‘crisi’ come le chiamava lui, almeno un mese senza che si trasformasse di nuovo in una bestia.
Tra il giorno in cui si erano conosciuti e la battaglia con il kraken era passato ben più di un mese. Tra il kraken e l’Amazzonia molto meno, però. Tinkerbell aveva motivo di pensare che i tempi si sarebbero sempre più accorciati.  
“Dai, sbrigati, non vorrai passare tutto il tempo in albergo” fece lui, saltellando sul posto, per farle fretta. Portava le sue scarpe di tela preferite. Gli scarponi li avevano lasciati all’ingresso. I pavimenti dell’albergo a gestione familiare erano in legno, come le pareti e i mobili. L’ambiente era accogliente e il buffet della colazione decisamente soddisfacente, Ruthie avrebbe fatto meglio a mettere qualche cosa sotto i denti, ma aveva decretato con stizza di non avere fame. Lo stomaco era in subbuglio e la testa dolente. Tinkerbell non poteva curare quel tipo di malessere come faceva con le ferite, quindi Ruthie l’aveva adocchiato con stizzadisappunto.
“Non voglio passare tutto il giorno in albergo e smettila di urlare” chiese, infastidita, finendo di fare le scale.
“Non sto urlando” disse lui, pacato, mentre Ruthie si metteva le mani sulle orecchie.
“Sì che lo stai facendo. Ho male alla testa” piagnucolò. Proprio in quel momento una mandria di cinque bambini dai quattro ai dodici anni scorrazzarono giù dalle scale di legno urlando e spintonandosi, divertiti, seguiti da due sorridenti genitori, che salutarono e si scusarono per il caos.
Ruthie fece una smorfia e lasciò cadere le braccia lungo i fianchi. Clay la prese per mano e la trascinò letteralmente attraverso la sala della colazione, dove un paio di ragazze con un grembiule bianco si avvicendavano per servire i tavoli.
Li salutarono cordialmente, sorridendo, e Clay sorrise a sua volta mentre Ruthie alzava un sopracciglio, infastidita. Dallo stato dei suoi capelli si sarebbe potuto pensare che fosse appena uscita da una centrifuga.
Una ragazza con un grembiule bianco come quello delle altre cameriere li sorpassò, trascinandosi dietro un enorme sacco della spazzatura nero.
“Mary, attenta che gocciola sul tappeto!” esclamò una ragazza con i capelli stretti in una crocchia, alzando i piedi per non pestare le chiazze che il sacco dell’immondizia stava lasciando sul pavimento di legno e sui tappeti.
La ragazza fece una smorfia tra lo schifato e lo scocciato “Oh, accidenti!” sbottò. Era abbastanza alta, anche se non come la maggiorata che Ruthie aveva adocchiato la sera prima, la pelle era bianca e i capelli scurissimi e legati in un concio. Il viso era ovale e il mento a punta. Il naso alla francese e gli occhi dalle ciglia lunghe. Portava un rossetto di un rosso scuro, gli occhi invece erano privi di trucco, scuri e intensi.
Dalle maniche della camicia nera spuntavano un paio di mani dalle dita affusolate e le unghie curate. Clay le guardò le scarpe, l’orlo della gonna e l’espressione, serio, poi afferrò si sacco e lo sollevò senza fatica.
“Ti do una mano io” sentenziò e le sorrise. Mary sgranò gli occhi, presa alla sprovvista, tossì “Non… non c’è bisogno” si riavviò una ciocca dietro i capelli e sorrise a Tinkerbell “Non voglio mica farmi aiutare dai clienti”.
Clay scrollò le spalle, nonostante Mary stesse temporeggiando, il sacco della spazzatura era ancora in mano a lui.
“Nessun disturbo, ti aiuto volentieri, per me non è pesante” disse, guardandola. Quel sacco non sarebbe stato troppo difficile da sollevare neanche se fosse stato ancora umano “Se mi dici dove sono i bidoni, ti ci accompagno”
Mary annuì “Allora ti ringrazio” accettò. Sembrava un tipo alla mano e gli fece un largo sorriso. Ruthie, accanto a Tinkerbell, sbadigliò.
Mary afferrò la propria giacca da sci, appesa all’attaccapanni accanto alla porta, e la infilò con un movimento deciso. Ai piedi, nonostante indossasse gonna e calzamaglia, portava scarpe adatte per la neve. Fu allora che si accorse che le calzature di Tinkerbell invece erano di tela.
“Non uscirai mica così?” fece lei, perplessa, mentre apriva la porta di legno e vetro. Attraverso le trasparenze si poteva vedere fuori. Era un giornata luminosa e il sole si rifletteva sulla neve.
“È a posto” la rassicurò Clay tirando dritto attraverso la porta che Mary teneva aperta.
“Esibizionista” grugnì Ruthie, mentre si appoggiava al muro rivestito di legno, per mettersi gli stivali che aveva lasciato vicino alla porta, come gli altri avventori.
Mary lasciò che la porta le si chiudesse alle spalle e raggiunse Tinkerbell sul vialetto. Qualcuno aveva spazzato, e si intravedeva un po’ di ghiaia, anche se comunque la neve rimaneva persistente sul loro percorso.
“Non hai freddo?” domandò lei. Clay scrollò le spalle “Non troppo” rispose. Il realtà stava gelando, ma non voleva che quella ragazza gli scappasse mentre si metteva il cappotto. Magari avrebbe sofferto un po’ di freddo, ma di certo non si sarebbe ammalato. “Tanto facciamo in fretta, no? Dove sono i bidoni?” chiese tranquillo, evitando di tremare per il freddo. Mary si allacciò la cerniera del giubbotto, guardandolo un po’ dubbiosa. “Di qua, dietro la casa” spiegò e indicò il percorso con il dito indice.
“Non aspettiamo la tua ragazza?” domandò, voltandosi a guardare la porta da dove erano usciti. Attraverso il vetro potevano vedere Ruthie che si affannava ad allacciarsi gli stivali.
“Non è la mia ragazza, è la mia assistente. Faccio il rappresentante di tegole” sentenziò Clay, impettito. Mary lo guardò perplessa. Tinkerbell indossava una felpa aperta con il cappuccio, dei jeans a vita bassa e delle scarpe da basket in tela rossa, non aveva un’aria molto formale.
Clay si accigliò, vedendo che Mary lo squadrava “Ehi, alle riunioni non ci vado vestito così. Guarda che ti mollo qui col sacco della spazzatura!” minacciò scherzosamente. La ragazza rise e si fece strada nella neve, indicandogli la via. Se qualcuno aveva spazzato il vialetto principale, nessuno aveva pensato di spalarne anche un po’ per consentire un facile approdo ai bidoni sul retro.
“Io e Ruthie pensavamo di attardarci un po’ qui, oltre i nostri impegni di lavoro” iniziò a dire Tinkerbell, mentre camminava al fianco della cameriera. Era di turno anche la sera prima, se la ricordava, ma non aveva fatto troppo caso a lei.
In quel momento, qualcuno attirò la loro attenzione ed entrambi si voltarono a guardare Ruthie che li raggiungeva a grandi passi, per quanto potessero essere grandi i passi di Ruthie. Aveva ancora il viso provato dai bagordi della sera prima, ma sembrava che l’aria fresca la facesse stare meglio.
“Ci sono anche io” sentenziò, raggiungendoli. Tinkerbell le sorrise e poi sorrise a Mary ed tutti e tre continuarono sulla loro strada.
“Stavo chiedendo a Mary che cosa avremmo potuto visitare per non sprecare il nostro tempo qui” la informò Clay “tra un impegno e l’altro da rappresentante di tegole” aggiunse. Ruthie sentì la voce di Tinkerbell pronunciare la parola tegole in modo complice e Ruthie si schiarì la voce, come per iniziare un discorso adatto alla segretaria di un rappresentante commerciale, ma Mary la interruppe iniziando a chiacchierare del più e del meno.
“Beh, questo è un paesino piccolo, ma essendo una località turistica invernale ci sono un sacco di piste da scii. Non so se sapete sciare” chiese, passando lo sguardo da lui a lei. Tinkerbell annuì, disinteressato, Ruthie annuì un po’ assonnata, aveva ripreso un’aria poco sobria.
“Per il resto non c’è molto altro” concluse, tirando dritta verso i bidoni “Eccoli” annunciò. Si avvicinò velocemente, per poi fermarsi di botto. Tinkerbell non capì e la raggiunse in fretta, accigliato, con le scarpe di tela completamente bagnate dalla neve.
Mary stava fissando un punto accanto ai bidoni, quando Clay abbassò lo sguardo si rese conto che era una striscia di sangue.
Tinkerbell respirò forte e la superò con uno scatto: se c’era qualche cosa preferiva essere lui il primo a trovarla. Circumnavigò i bidoni e si ritrovò davanti a un intrico di capelli e budella. Clay si voltò per bloccare Mary che stava aggirando i bidoni per vedere cosa c’era dall’altra parte, ma la cameriera scansò la mano del genio con un gesto stizzito e si fece avanti arrancando nella neve.
Tinkerbell la vide portarsi le mani al volto e urlare. Era un urlo stridulo e disperato, Clay era abituato alle morti cruente e alle budella. Solo qualche giorno prima Ruthie gli aveva deliberatamente estratto il cuore dalla cassa toracica, non era un tipo impressionabile, ma quella era un’amica di Mary.
La cameriera fece dietrofront e si mise a correre verso l’hotel, senza smettere di urlare e piangere. Tinkerbell non provò nemmeno a fermarla, mentre lei arrancava, incespicando nella neve.
Tinkerbell si voltò a guardare Mary che correva via, mentre Ruthie spuntava, guardinga, da dietro i bidoni, cercando di non avvicinarsi abbastanza da vedere quello che aveva tanto spaventato la cameriera.
“Cosa c’è?” domandò, guardando il genio negli occhi.
Tinkerbell si voltò di nuovo a guardare il cadavere, doveva essere lì da qualche ora: c’era sangue ovunque, capelli strappati, segni di denti.
“La cameriera di ieri sera, quella che ci ha servito” fece un sospiro “La nostra bestia ha le zanne” aggiunse.
Ruthie alzò gli occhi al cielo “Le hanno sempre” commentò, girando i tacchi e avviandosi verso l’albergo, come aveva fatto Mary, ma con passo estremamente più tranquillo.
Tinkerbell guardò il cadavere della ragazza ancora una volta e poi seguì il proprio famiglio “Questa volta ci abbiamo messo fin troppo poco a trovarla”
 
***
 
Cloris arrivò galoppando sul proprio unicorno sulla banchina che portava al gazebo bianco. Scese dalla groppa dell’animale prima che questo si fermasse scalpitando, davanti al gazebo. Ebén la stava aspettando sulla banchina, dondolandosi da un piede all’altro, con le mani in tasca. La salutò distrattamente, quando poggiò i piedi per terra e si avviò dentro al gazebo. “Non abbiamo tempo per aspettare Diablo, non so neanche se verrà” commentò e Cloris annuì, senza avere nulla da dire. Lo seguì senza batter ciglio e lo aiutò a chiudere le tende: in un attimo erano dentro, separati dal resto del mondo. L’unica fonte di luce erano le lucciole dentro a un barattolo di vetro posizionato al centro del tavolo. Cloris sentì il proprio unicorno nitrire, mentre Ebén apriva il coperchio del barattolo con impazienza.
Gli insetti si sparpagliarono nell’ambiente angusto e Cloris guardò lo spettacolo di luce con lo sguardo serio. La convocazione era stata così urgente che non c’era da aspettarsi buone notizie. In poco tempo, le lucciole tornarono ad unirsi, formando un volto umano. Una testa che si muoveva come quella di una persona, fluttuante a mezz’aria.
Ebén si posizionò accanto a Cloris e guardò la testa, che si chinò un poco in avanti, come per salutarli “Buonasera” esordì la testa. Cloris ed Ebén chinarono il capo allo stesso modo “Buonasera, Mosca”
La testa non li fece attendere ancora e  continuò “Vi contatto con grande urgenza”
I due capitani non lo interruppero “Ho sentito per puro caso una conversazione tra il Re e… e…” la Mosca non sapeva come descrivere la creatura espulsa dal bozzolo, quindi bypassò “Vogliono attaccare il Grande Mare. Le Ortiche. Non sono riuscito a capirne il motivo” biascicò. Ci fu una pausa, né la Mosca né i due pirati riuscirono a emettere alcun suono. Ebén deglutì faticosamente, mentre Cloris rimaneva a bocca semiaperta a fissare la testa di lucciole che aveva dato loro quella notizia allucinante.
La potenza delle Ortiche non era nemmeno paragonabile a quella dell’esercito del Grande Mare. Gli abitanti del Grande Mare erano numericamente inferiori ed erano, neanche a dirlo, peggiori combattenti. Usando i semi d’Ortica avrebbero forse potuto fermarli per un po’, le Ortiche avevano paura del fuoco, ma i semi non erano tanti e solo la seconda Guardia era in grado di usarli in modi alternativi a quello medico. L’unica via erano i draghi d’acqua del Re, ma era una vana speranza alla quale attaccarsi.
“Ci sono leggende, da queste parti, su due crisalidi. Leggende antiche. Ora, una di queste crisalidi si è schiusa e…” la voce della Mosca si interruppe e i due pirati, con orrore, videro la testa sfaldarsi, trasformandosi in due figure distinte: una delle due pareva longilinea e sembrava avere dei capelli legati in una lunga treccia, l’altra era enorme rispetto alla prima, sembrava un uomo barbuto, le lucciole non erano abbastanza per fare una dettagliata ricostruzione di entrambe le figure come invece potevano fare con una cosa piccola come la sola testa della Mosca. Le due figure stavano immobili sul tavolo e parevano guardare dritto davanti a sé, oltre Cloris ed Ebén.
Lontano dal gazebo bianco, nel Campo d’Ortiche, la Mosca si voltò lentamente verso i nuovi venuti. Re Rubus e ‘Leandra avevano appena varcato la porta della stanza del consigliere. La Mosca sapeva che l’avevano sentito, ma anche se non fosse stato così non aveva nessuna scusa per spiegare le ragnatele che aveva sparso per la stanza per contattare la Seconda Guardia nel Grande Mare. Quella non era magia che appartenesse alle Ortiche, nessuna di loro si sarebbe azzardata a usare i semi in quel modo.
Re Rubus sorrise e sfiorò lentamente uno dei fili di ragnatela, mentre la Mosca se li staccava dalle mani, per interrompere la connessione con il Grande Mare, se gli era rimasta una possibilità era meglio che non vedessero i pirati o potessero avere un canale aperto verso di loro.
“Carina questa impalcatura, non avrei mai sospettato che potessi fare una cosa del genere, quando mi hai detto di essere monco” disse, sorridente, come se stessero chiacchierando amabilmente dei tempi andati.
‘Leandra fissava il consigliere da dietro il marito, il suo sguardo era gelido e gli angoli della bocca piegati all’ingiù. Era tanto bella da fare paura, la treccia bionda le ricadeva sul petto, scivolava verso il basso accompagnando le gambe e si accumulava a terra in un mucchietto dorato.
La Mosca si alzò dalla propria sedia, strisciando le dita sul bordo della tazza che aveva usato per mescolare la polvere di semi d’Ortica, ne era rimasta un poco e lui la raccolse con i polpastrelli, senza che il sovrano facesse caso a lui.
“Questa non è magia del nostro mondo” disse infine il Re, fissandolo con uno sguardo severo. Si voltò lentamente verso la moglie “’Leandra?” chiamò.
 
***
 
Il famoso conduttore televisivo Antonio De Santos Alvaros stava per aprire la busta dove gli veniva comunicato il risultato del televoto. Il viso dello showman venne però oscurato da una cosetta rachitica in pantaloncini da basket.
“Dato che l’alcol non mi sballa più, posso almeno andare in discoteca a rimorchiare?” chiese Bonnie, strafottente, con le braccia incrociate sul petto nudo e la sigaretta accesa, tra le labbra.
Chismes, in vestaglia rosa a pois bianchi, alzò gli occhi sul ragazzino. Lo stesso fece Septum, che se ne stava stravaccato sul divano accanto all’altro genio, che con quella vestaglia sembrava una mortadella.
“Non dire cacchiate, tu non vai da nessuna parte!” esclamò Septum, e così dicendo afferrò il proprio tridente che aveva posizionato ai piedi del divano. Nerina, con la grossa testa appoggiata sulle ginocchia del padrone, sbadigliò.
“Io e tuo padre non siamo d’accordo” rispose Chismes, in tono deciso, con voce più acuta del solito, stringendo in mano la tazza di latte che beveva mentre guardava il suo programma preferito.
“Io non sono il padre di nessuno!” esclamò Septum, punto sul vivo, poi guardò di nuovo Bonnie e gli assestò un colpo di tridente su un fianco, spostandolo da una parte, in modo da avere di nuovo un buon punto di visione del televisore. “E adesso spostati che stiamo guardando Canta con noi!”
Bonnie se ne andò borbottando, lamentandosi di quanto fosse noiosa la vita in quella casa e di quanto facesse caldo. Il termostato doveva essere sicuramente rotto, dovevano starci attenti o avrebbero avuto una bolletta con cifre stellari, ma gli altri due stavano già applaudendo per la meritatissima vittoria di Pedro Martines, anche se Chismes doveva ammettere che pure Andreina Lopes Caetano era stata molto brava.
Il ragazzino si lasciò cadere stancamente sulla sua brandina sfatta, ai piedi del letto matrimoniale che condividevano Septum e Chismes, e abbracciò Werebunny che si accoccolò sulla sua pancia.
Il suo cellulare suonò, lui non lo guardò nemmeno e mise il muto alla chiamata. Sua madre continuava a telefonargli, ma lui non le aveva ancora risposto, non sapeva come spiegarle che era diventato una specie di ridicolo mostro.
 
Aki_Penn parla a vanvera: Ciao a tutti, questo aggiornamento è piuttosto deludente, se pensiamo che ci ho messo venti giorni a scriverlo, ma voi non pensateci. :P Purtroppo temo che il prossimo capitolo, se lo volete in tempi ragionevoli, sarà ancora più corto. Purtroppo non ho molto tempo da dedicare a Make a wish, ultimamente. Vorrei dire che quando sarò in ferie mi ci dedicherò, ma confido di andare un po’ in campeggio, è quindi escluso che riesca a fare qualche cosa. D: Chiedo venia, siete troppo carini, davvero, e mi dispiace rifilarvi robaccia, farò del mio meglio perché l’aggiornamento venga al meglio nel minor tempo possibile!
Aggiungo anche una cosa: apprezzo sempre che mi facciate notare gli errori in quello che scrivo, ho in programma di rileggere e sistemare questa storia, quando l’avrò finalmente conclusa, quindi, per ora, non ho ancora modificato nulla in ciò che ho già pubblicato, ma non è perché vi snobbi, semplicemente pensavo di darmi alla revisione in un unico momento finale.
Per il resto, credo di non aver molto da aggiungere sul capitolo, spero l’abbiate trovato, se non interessante, almeno non noioso!
Grazie mille per aver letto. <3 

Ritorna all'indice


Capitolo 35
*** Il lupo e il topo ***


Make a wish -

Capitolo trentacinque -

Il lupo e il topo –

 

Ruthie, seduta sui calcagni, in mezzo al letto matrimoniale della loro stanza dell’hotel, lo guardò con occhi supplichevoli “Ho il ciclo e ho male alla testa: non mi va di uscire” piagnucolò, ancora inguaiata nel suo pigiama di pile.

Tinkerbell, già vestito di tutto punto, la guardò con le mani sui fianchi e inarcò un sopracciglio, vagamente divertito “Siete sempre così voi donne, a inventarvi scuse perché non avete voglia di venire a uccidere mostri”.

Ruthie strizzò gli occhi e appoggiò la testa al materasso “Non mi puoi far passare il male alla testa?” domandò ignorando Tinkerbell, che faceva dell’umorismo becero.

Tinkerbell scosse la testa “Ti servirebbe un desiderio per quello” le fece sapere, e lei girò la testa fino ad aver la faccia nascosta nella trapunta.

“Non hai nemmeno una pastiglia di qualche cosa?” domandò ancora lei, con la faccia nascosta, mentre Tinkerbell si allontanava, diretto alla porta della loro stanza.

“A me non viene mai male alla testa, a meno che non me la rompano con qualche oggetto scagliato con una certa veemenza” ridacchiò lui “Vestiti, ti aspetto giù” sentenziò, e si chiuse la porta alle spalle.

Ruthie sbuffò con la faccia nella coperta e rimase lì un po’, col sedere per aria.

Scendendo le scale, Tinkerbell sentì un discreto brusio al piano terra. C’era un certo chiacchiericcio anche il giorno prima, ma quella mattina la situazione era diversa, più concitata.

Scese gli ultimi gradini lentamente, studiando la scena che gli appariva davanti. La sala della colazione era stata rivoltata, rispetto al giorno prima: i tavoli erano stati messi da un lato e il tavolo del buffet era vuoto.

Le sedie erano allineate in file ordinate messe in modo da permettere agli  avventori di guardare la finestra, la quale era oscurata da una piantina della zona. Tinkerbell si inoltrò nella stanza senza distogliere gli occhi dalla mappa. Era piuttosto particolareggiata, mostrava calanchi, alture, edifici e gli impianti sciistici.

Nessuno, nel trambusto generale, si accorse della sua presenza, a parte Mary, seduta nella fila più lontana dal centro della discussione, la prima vicino alla scala di legno dalla quale era sceso Clay. I due si guardarono per un secondo, poi la cameriera si spostò sulla sedia accanto a quella dove stava seduta e batté un paio di volte la mano su quella che aveva lasciato libera, incitandolo ad unirsi a lei. Tinkerbell si accomodò e Mary non accennò nemmeno un sorriso. Era vestita di nero, come il giorno prima, ma senza grembiule, Clay ebbe la netta sensazione che il servizio fosse stato sospeso.

“Coma va?” domandò lui, facendo un sorriso un po’ imbarazzato. Mary si strinse nelle spalle e si guardò le scarpe “Io e Monique non eravamo amiche da tanto tempo, ma è non è una bella cosa trovare” Mary si bloccò e fece un sospiro faticoso “…trovare una tua collega in una pozza di sangue” .

Monique era la ragazza con il seno rifatto che aveva servito lui e Ruthie la sera del loro arrivo, la stessa che avevano trovato la mattina prima, dilaniata dietro ai bidoni dell’immondizia. Clay aveva anche finito per notare traccia delle due protesi di silicone, in mezzo a quel disastro, ma aveva evitato di parlarne con Ruthie, che si era tenuta a distanza per non dover vedere il cadavere.

Sarebbe stato bello se avessero trovato Monique solo in una pozza di sangue, purtroppo era stata anche dilaniata in una maniera rivoltante.

Clay annuì, era abituato a certe cose, ma era sempre difficile cercare di consolare chi rimaneva. Mary deglutì e si torturò le mani in grembo, senza alzare gli occhi su Tinkerbell. Guardò invece la mappa che stava affissa di fronte a lei, dall’altra parte della stanza. “Mio padre e gli altri stanno organizzando una battuta di caccia per stanare il lupo” aggiunse. Tinkerbell alzò le sopracciglia.

Il giorno prima erano state chiamate le forze dell’ordine che avevano interrogato tutti superficialmente. I documenti che Ruthie aveva preparato in caso di necessità erano bastati a convincerli del fatto che lei e Tinkerbell fossero lì per lavoro. Ad un esame più approfondito non avrebbero trovato nessuna industria di tegole denominata ‘Carmen & Carmen’, ma nessuno aveva sospettato che loro potessero c’entrare qualche cosa con la vicenda, per cui erano stati lasciati in pace.

Le ferite sul corpo della vittima erano state procurate chiaramente da denti e artigli, nessuna arma da taglio avrebbe avuto un affondo di quel tipo e la salma era in una tale condizione – parzialmente mangiata – da far pensare obbligatoriamente a un predatore, un lupo, nello specifico.

Tinkerbell si grattò la testa “Sono sicuri che sia una buona idea? Quell’animale ha deliberatamente fatto a pezzi Monique” fece notare lui. Mary annuì e lo guardò di nuovo in viso “Sì, ma lei era tranquilla e disarmata, il gruppo si sta preparando con armi adatte alla caccia e sono pronti per quello che li aspetta” disse, risoluta. Clay avrebbe voluto ribattere qualche cosa, dato che quello che stavano andando a combattere era decisamente più pericoloso di un lupo, ma non poteva ribattere. Intanto, nella sala, il chiacchiericcio si faceva più concitato: la maggior parte dei clienti era deliberatamente scappata appena la polizia l’aveva permesso, erano rimasti solo i residenti, per la maggior parte uomini e donne di mezza età. Nella sala c’erano parecchi uomini che avevano già iniziato a perdere i capelli.

“Ti consiglio di non andare in giro in questi due giorni. Né tu, né Ruthie, mi spiace che siate dovuti capitare qui in questo periodo, di solito è un posto tranquillo”

Tinkerbell annuì “Non ti preoccupare, sono abbastanza sfortunato, in questo senso”

Mary fece il primo sorriso della mattina e Tinkerbell la imitò.

 

***

 

Il Topo stava ancora remando nella direzione della banchina quando, nel buio, sentì rumore di zoccoli. L’unicorno di Cloris sfrecciò correndo sulle assi di legno del molo. Cloris cavalcava senza sella, su il destriero più veloce del Grande Mare. Gli unicorni erano animali imbattibili nella corsa, ma, purtroppo, molto rari; Cloris considerava il suo un tesoro.

Tirò le briglie solo quando arrivarono nelle vicinanze della Kensington Gardens. La nave di Diablo era illuminata da candele e lampade ad olio appese sul ponte, che rischiaravano l’imbarcazione con una fioca luce giallastra.

Il destriero proseguì lentamente ancora per un paio di metri, quando, d’un tratto, le assi del molo si alzarono a formare un muro di legno. L’unicorno s’impennò spaventato e , per poco, Cloris non cadde in acqua. Tirò le redini e lo accarezzò “Buono, bello, buono. Non è niente” lo tranquillizzò, mentre il cavallo riappoggiava tutti e quattro gli zoccoli per terra. L’unicorno si era allontanato di qualche passo e, se ne stava a scrutare la barriera di legno con ostilità.

Dalle assi di legno, sovrapposte in verticale, fuoriuscì una testa sei volta più grande del normale, che sembrava fosse stata creata da un viso sbattuto sulle assi, che ci avesse lasciato l’impronta in basso rilievo.

“Chi sei?” domandò una voce, da dietro alla barriera di legno, mentre il viso di legno muoveva le labbra. Cloris grugnì e con un salto discese dalla propria cavalcatura “Sono il capitano Cloris, imbecille” sbottò la donna, tenendo ben salde le briglie del proprio animale. Dalla Kensington Garden venne un singulto e qualche cosa che suonò tanto come un mi scusi strozzato. In un secondo la faccia nel legno scomparve e le assi tornarono al loro posto, consentendo alla visitatrice di raggiungere l’imbarcazione.

Ronnie si affrettò trafelato a calare la passerella per permettere a Cloris di salire a bordo, seguita dal suo destriero.

Il ragazzino le fece segno di avvicinarsi e lei non se lo fece ripetere due volte, camminando a passo lento verso la nave. “Sto cercando Diablo” dichiarò, in tono di comando.

Ronnie annuì, trafelato, guardandosi intorno. La vecchia Jollah sedeva rigida su uno sgabello sotto l’albero maestro, con i capelli color magenta che le ricadevano sul petto e sulle ginocchia. La vecchia lo guardava arcigna, come sempre.

“Il capitano è… è impegnato…” cercò di dire l’apprendista guaritore. Cloris si accigliò, mentre il suo cavallo metteva il primo zoccolo sopra la passerella che l’avrebbe condotto sulla nave pirata. “Ti assicuro che qualsiasi cosa stia facendo non è più importante di quello che ho da dirgli io” sbottò, con rabbia. Ronnie fece un passo indietro e annuì.

“Va bene, lo vado a chiamare. Vi potrete incontrare nel suo studio” disse, con voce incerta. Cloris annuì in approvazione e poi diede un’occhiata alla vecchia Jollah, che non le aveva tolto gli occhi di dosso da quando era salita sulla nave.

“Posso lasciare qui il mio cavallo, mentre parlo con Diablo?” domandò. Cloris aveva molti anni in meno di Jollah, ma nonostante quest’ultima fosse rattrappita dall’età, il capitano della Rainbow Dancer non la superava di molto in altezza. Come sempre era vestita in modo eccentrico e colorato, come se volesse intonare le proprie vesti alla variopinta criniera del proprio unicorno.

“È un bell’esemplare, ma nessuno qui è interessato agli unicorni” sbottò la vecchia. Cloris fece un sorrisetto storto e la vecchia continuò “Sei qui per la Mosca Bianca?” domandò.

Cloris annuì “Certe cose vanno peggio di quello che pensiamo”

Nello stesso istante, Ronnie correva sotto coperta. La Seconda Guardia non era composta da molte persone, per cui l’equipaggio di ogni nave era di un gruppetto di pochi temerari. La ciurma dormiva in uno stanzone con le amache appese al soffitto, ma Diablo era riuscito ad accaparrarsi, oltre a uno studiolo dove aveva posizionato una scrivania dai piedi leonini inchiodati a terra, anche una piccola stanzetta dove stava una vasca da bagno e un letto non troppo grande, dal quale, il capitano, finiva per rotolare giù, quando il mare era troppo mosso.

Il ragazzo aprì la porta della stanza di Diablo senza pensare e soffocò un’esclamazione, quando lo trovò a dormire vestito nella vasca da bagno, con le testa che ciondolava da una parte.

Fece due passi indietro, guardandosi in giro, indeciso se entrare nella stanzetta o chiudere la porta e tornare da Cloris, ma a quel punto, Diablo si era già svegliato e si guardava in giro, spaesato, come se non si ricordasse perché si trovava lì. Il capitano e Ronnie si guardarono negli occhi per un lungo istante.

L’uomo se ne stava, completamente vestito, con la solita camicia floreale e i pantaloni di tela leggera, immerso nella vasca piena d’acqua. Accucciata su di lui, in posizione fetale, nuda come si addice a una sirena, stava Bianca, ad occhi chiusi. La vasca era troppo piccola per Diablo, quindi le gambe, dalle ginocchia in giù, penzolavano nel vuoto, come la testa fino a un memento prima.

“A Bianca fa male stare troppo tempo lontano dall’acqua fresca, ma mi dispiace lasciarla andare in mare sola, ora che ha accettato di unirsi a noi. La popolazione delle sirene non vede di buon occhio questa sua scelta. Questo è l’unico modo per farla dormire” spiegò, guardando prima lui, poi la sirena. Ronnie annuì, silenzioso, attento a non svegliare Bianca.

“Avevi bisogno di me?” domandò poi Diablo, tranquillo, e Ronnie si ricordò, d’un tratto, perché era lì.

“C’è Cloris. Chiede urgentemente di vederti. Questioni importanti, pare” spiegò. Diablo annuì stancamente, poi piegò di più le ginocchia e infilò i piedi nella vasca.

“Aiutami ad alzarla e a rimetterla nella vasca senza che si svegli” disse.

Poco lontano, Cloris stava aspettando da un quarto d’ora nello studiolo di Diablo, quando il capitano arrivò, completamente fradicio e a piedi nudi.

“Ti sembra l’ora di presentarsi sulle navi degli altri?” domandò Diablo, scherzoso.  Cloris non sembrava affatto dello stesso avviso.

“Non sarei stata costretta a venire fin qui, se solo ti fossi presentato all’appuntamento con la testa di lucciole. Sei uno dei capitani della Seconda Guardia, è un tuo dovere” lo redarguì. Diablo le sorrise, un po’ stancamente e, appoggiandosi con la mano alla scrivania posizionata nel mezzo dell’angusto studiolo, si mise a sedere di fronte a lei e incrociò le braccia.

“Suppongo che ci siano delle urgenze” immaginò. Cloris fece una smorfia “Non so se definirle tali, ma di certo sono cose che devi sapere” spiegò.

Diablo alzò le sopracciglia “Certo, ma prima un drink. Ho preso delle cose, l’ultima volta che sono stato all’Altro Mondo, prima che Tinkerbell mi staccasse il braccio. A proposito, come sta il tuo occhio?” domandò, chinandosi ad aprire uno dei cassetti della scrivania.

Cloris indicò l’occhio che le era ricresciuto “Noti differenza da prima?” chiese. Diablo scosse la testa “Jollah è un’artista” e così dicendo appoggiò pesantemente un sacchetto di plastica sul piano d’appoggio. Cloris allungò il collo per vedere di che cosa si trattasse. Il pirata posizionò tra loro anche un paio di bicchieri e una bottiglia con un’etichetta scritta in una lingua dell’Altro Mondo.

Cloris sapeva parlare un inglese maccheronico, ma non aveva idea di come si leggesse o scrivesse né quello né qualsiasi altra lingua che non fosse quella parlata nel Grande Mare.

“Che roba è?” domandò, brusca.

“Orsetti di gomma. So che ti piacciono, sono colorati” disse, allegro. Cloris guardò Diablo e poi il proprio bicchiere. Il capitano della Kensington Gardens ci riversò dentro una discreta quantità di caramelle gommose a forma di orsetto e poi ci versò dentro un po’ del liquido che stava nella bottiglia che aveva tirato fuori.

“Devo ammettere che gli alcolici li fate meglio voi dell’Altro Mondo” ammise Cloris, guardando la vodka che scivolava tra gli orsetti.

“Tecnicamente, io sono di qui, ma il liquore d’alghe fa schifo” disse. Cloris annuì, afferrando uno degli orsetti di gomma tra le dita e mettendoselo in bocca.

“Abbiamo incontrato la Mosca” iniziò poi, andando al punto dolente, e anche Diablo di mise in ascolto, compunto “ma è successo qualche cosa” continuò, seria. Diablo si accigliò “Che tipo di cosa?”

“E’ stato come… interrotto. Non so se sai come la Mosca si mette in contatto con noi…”

Diablo fece una smorfia pensierosa “Ne ho un’idea vaga” ammise. Cloris sospirò “Usa i semi d’Ortica, ovviamente, nel Campo d’Ortiche ne trova a bizzeffe, con quelli crea una rete, simile a quella di un ragno, con la quale riesce a mettersi in contatto con noi, tocca i fili e le lucciole si muovono a sua immagine e somiglianza” spiegò. Diablo annuì “Quella l’ho sempre trovata una cosa strabiliante”

“Poco importa” lo interruppe, brusca, lei “E’ apparso qualcos’altro, anzi, qualcun altro: un uomo e una donna, da quello che abbiamo sentito dire, dalle descrizioni che la Mosca ci ha fatto, sembrano i sovrani del Campo d’Ortiche. Questo vuol dire che, se sono apparsi nella nostra visione di lucciole, quei due hanno toccato la ragnatela della Mosca e per farlo devono aver, per forza, averlo visto mentre comunicava con noi. Questo potrebbe averlo portato a conseguenze molto gravi. Ebén è estremamente preoccupato”

Diablo la guardò perplesso e Cloris si affrettò ad illuminarlo “La Mosca è suo padre. Non sei l’unico figlio d’arte nella Seconda Guardia” lo schernì e Diablo sorrise. Cloris, invece, rimase seria e continuò il suo discorso “Ma la cosa più grave non è nemmeno questa. La Mosca ha fatto in tempo a dirci qualche cosa, prima che il nostro collegamento si interrompesse: pare che le Ortiche ci vogliano attaccare”

“Perché?” sbottò Diablo, d’un tratto in ansia, allungandosi sulla scrivania per avvicinarsi a Cloris, come se vederla meglio negli occhi potesse migliorare la situazione. La donna scosse la testa “Non ne ho idea, non ne aveva una nemmeno la Mosca. Ha parlato di profezie, di crisalidi e di qualche cosa che ne è scaturito. Non sappiamo nient’altro” spiegò, per poi zittirsi e infilarsi in bocca altri tre orsetti alla vodka.

“Ma… quindi…” blaterò Diablo, rimasto senza parole. Cloris si strinse nelle spalle, tenendo saldo il proprio bicchiere in mano e poi si alzò dalla sedia e girò i tacchi.

“Ehi!” la richiamò l’uomo, concitato. Lei si girò a guardarlo, sottecchi “Dovevo dirti solo questo, non so altro. Sia io che Ebén pensavamo fosse giusto tenerti informato” e così dicendo uscì chiudendosi la porta alle spalle. Il pirata si accorse solo il quel momento che si era portata via anche il bicchiere con gli orsetti gommosi.

Rimase a fissare il vuoto, senza sapere davvero cosa pensare e poi si versò un bicchiere di vodka. Preferiva il rum, ma non era il momento di stare a sindacare. In realtà, non badava nemmeno molto a ciò che stava facendo, gli sembrava assurdo che le Ortiche volessero attaccare il Grande Mare. Il Grande Mare e il Campo d’Ortiche erano nella stessa barca, il cielo stava cadendo loro addosso ed entrambi avevano bisogno di colonne che lo sorreggessero, non c’era motivo per il quale le ortiche dovessero avere vantaggi ad attaccare loro, Diablo non capiva.

Cominciò a rigirarsi il bicchiere tra le mani e fu proprio allora che la porta si spalancò, lasciando entrare una donna con i capelli color magenta come quelli di Cloris, ma molto più vecchia.

Jollah e Diablo si guardarono negli occhi per qualche secondo, poi lei chiuse la porta e andò a sedersi sulla sedia di fronte quella del suo capitano.

“Strana storia” esordì. Diablo stava per chiedere come facesse a saperlo, ma lei lo zittì dicendo “Ho origliato” e la questione fu così conclusa.

“Non mi immagino per quale motivo le Ortiche debbano essere interessate a noi. Probabilmente c’è qualche cosa che non sappiamo, qualche cosa che ci sfugge” disse, guardando negli occhi il ragazzo. Diablo annuì serio e Jollah sospirò, strappandogli il bicchiere di mano “C’è un’altra cosa che mi turba, però. Ne abbiamo già parlato, ma la tua tranquillità sull’argomento rende me incredibilmente inquieta: smettila di parlare di te. Smettila di far sapere che sei cresciuto all’Altro Mondo. Smettila”

Diablo la guardò stupito, battendo le palpebre. “Cloris è, più o meno, mia amica. Conosce molte cose…” cercò di dire, e la donna si alzò e gli prese il viso tra le mani “Cloris è Cloris, ma le voci girano. Sia tu che quel demente di Ronnie sprizzate da tutti i pori la parola intruso. Sarai anche figlio di due pirati, ma non appartieni davvero a questo mondo. Cosa succederebbe se il Re scoprisse che non ti chiami davvero Diablo, che sai come si chiama Tinkerbell, che IO so come si chiama Tinkerbell?” lo guardò fisso negli occhi e il ragazzo non poté far altro che boccheggiare. “Jollah” sospirò, ma lei non lo fece finire e gli stampò un bacio sulla fronte ancora bagnata “Ti voglio bene come se fossi figlio mio, anche se sei un imbecille” disse e a Diablo parve quasi che avesse gli occhi lucidi.

Poi, in un lampo color magenta, scese dalla sedia e corse via con un’agilità che non si confaceva affatto a una signora della sua età.

Diablo si accasciò sulla sedia e si massaggiò stancamente le tempie, era stata una serata difficile.

Fuori dalla finestra ad oblò, dello studiolo, stava il Topo, immerso nel buio, col fiato corto. Si era arrampicato sulla nave con l’aiuto dei semi d’Ortica che gli avevano fatto da corda e aveva finito per ascoltare tutta la conversazione tra Cloris e Diablo e poi quella con Jollah. Era allibito, non sapeva cosa pensare.  

Si era presentato alla Kensington Garden sotto ordine di Ebèn che gli aveva detto di informare Diablo su ciò che era accaduto al gazebo bianco, durante il colloquio con la Mosca e si era ritrovato a scoprire che un capitano della Seconda Guardia e la sua guaritrice erano due traditori. Il Topo scese di nuovo fino alla sua piccola imbarcazione e, col cuore in gola, si defilò nella notte.

 

Aki_Penn parla a vanvera: Yeee! Eccomi qui, con un capitolo super corto e in super ritardo, come di consueto. Come tutti sono stata un po’ in vacanza, quindi, per un bel po’, non ho potuto scrivere, essendo lontana dal mio pc.

Non so bene cosa stia succedendo in questo periodo se non mi piace molto questo periodo della storia o solo sono poco ispirata, ma purtroppo, sia questo che il prossimo capitolo sono di tre paginette, più o meno la metà rispetto al mio standard. Vorrei scriverne di più lunghi, ma questo significa un’attesa più lunga. Ditemi voi se preferite capitoli più corti ma più frequenti o se sia meglio aspettare. U.U

In ogni modo, grazie mille per aver letto, siete sempre un amore! <3

 

Ritorna all'indice


Capitolo 36
*** La caccia e l'iguana ***


Make a wish -

Capitolo trentasei -

La caccia e l’iguana –

 

La prima cosa che Alih pensò, quando di svegliò, fu di essere morta, ma tutto le faceva troppo male per trattarsi del sonno eterno.

Quando aprì gli occhi era tutto troppo bianco, così bianco che gli facevano male anche gli occhi. Aveva qualche cosa sul naso, faceva un po’ fatica a respirare, ma riusciva comunque a sentire odore di morte. Ci mise un po’ a capire che si trattava proprio di se stessa.

Riuscì ad aprire gli occhi solo dopo un po’. Studiò la stanza dove era stata depositata: aveva un’aria familiare, ma non riusciva a capire dove l’avesse già vista, né riusciva a capire come poteva esserci arrivata. Gli ultimi ricordi che aveva erano quelli di Commander che se ne andava lasciandola a morire nella neve ma, a quanto pareva, in quel momento, giaceva fasciata e pulita su un letto con le lenzuola lavate di fresco. La stanza era calda e qualcuno le aveva messo addosso un paio di coperte vecchie, ma morbide.

Il suo cuore perse un battito quando si rese conto che quella era la prima stanza che aveva aperto quando era arrivata a casa di Commander: quella fredda, vuota a buia.

Qualcuno l’aveva pulita, aveva messo la biancheria al letto e l’aveva depositata lì. Gli scuri erano aperti e dalla finestra entrava una forte luce invernale. Alih non sapeva davvero come fosse l’inverno, ma una luce così forte, per il riflesso dato dalla neve, non l’aveva mai vista. Cercò di alzare la mano e sentì un atroce dolore al petto, dove il capitano le aveva sciolto la chiave addosso, cercò di sporgersi in avanti, ma il seno era coperto da una casacca sotto la quale si intravedeva una fasciatura. La buona notizia era che, anche se le faceva male, era riuscita a sollevare il braccio, il metallo fuso non era andato a intaccare muscoli e ossa, a quanto pareva.

La mano dove Commander le aveva rotto le dita era incapsulata in una specie di contenitore bianco rigido. Alih non capiva che cosa fosse, ma non c’era modo di levarselo, così appoggiò di nuovo la testa sul cuscino e guardò il soffitto. Come diavolo era finita lì?

Rimase da sola ancora diverse ore, prima di avere contatti con un solo essere umano.

In quel posto non parlavano la sua lingua, ma l’uomo che le si avvicinò nel pomeriggio doveva essere un guaritore, le spiegò che la sua gamba sarebbe rimasta dritta. La rottura del ginocchio era stata tale da non permettere di essere risistemato correttamente, sarebbe stata zoppa per il resto della sua vita.

I capelli le erano stati rasati, nel tagliarglieli Commander le aveva procurato diverse ferite, per non parlare della ciocca che le era stata strappata di netto, alla base della nuca, lì i capelli non sarebbero più ricresciuti.

Il guaritore, un uomo con una casacca di tweed e uno strano aggeggio appeso al collo, le aveva indicato il seno e, sempre parlando nella sua lingua incomprensibile, le aveva alzato il braccio e aveva sollevato un po’ la casacca per farle vedere la fasciatura. Da quello che poteva capire, il suo seno era quasi completamente sciolto, ma per il resto, la parte superiore del suo corpo era completamente funzionale.

L’ultima buona notizia consisteva nel fatto che il naso non le fosse stato tranciato di netto come aveva temuto.

Il guaritore le aveva dato uno specchio con la cornice di un materiale liscio e bianco che non aveva mai visto e lei si era guardata in faccia. Non era mai stata bella, ma poteva immaginare di esserlo ancora meno, anche sotto il grosso cerotto che correva da una parte all’altra della sua faccia, subito sotto gli occhi. I capelli non c’erano e sul cranio aveva vari cerotti più piccoli a nascondere le ferite da taglio. Le faceva tutto male.

Il guaritore era accompagnato da una donna anziana che profumava di lavanda. Doveva aver superato la settantina da un po’ e aveva un’aria dolce. I capelli erano folti e bianchissimi, le arrivavano di poco sotto il mento. Era una donna piccola, ma in carne, coperta con due o tre maglioni e uno scialle lilla, mentre ai piedi portava un paio di pantofoline consunte. Le aveva stretto la mano sana nella sua, rugosa. Portava un anello sottile all’anulare sinistro e sembrava avere tutte le intenzioni di prendersi cura di lei.

 *** 

La sala da pranzo del bed & breakfast era praticamente vuota. Dopo il ritrovamento del cadavere di Monique, l’amica di Mary, la maggior parte degli ospiti se ne era andata. Solo i residenti e qualche temerario era rimasto, perciò quella sera si respirava un’aria a metà tra il preoccupato e il confidenziale.

Mary appoggiò la seconda tazza di cioccolata calda davanti a Ruthie che la ringraziò, mentre la cameriera rimaneva lì, senza tornarsene al bancone, sperando di fare due chiacchiere con lei, o col vecchio Sullivan e suo nipote. Al bar non c’era granché da fare, non c’era quasi nessun cliente e le luci erano ancora accese solo perché tutti erano preoccupati per la spedizione.

“Non sta esagerando un po’ con quella cioccolata, signorina?” domandò il vecchio Sullivan, vagamente divertito, per quello che poteva.

“Questa è la mia settimana della cioccolata” rispose Ruthie, un po’ scortese, ed afferrò la tazza per prenderne una sorsata. Si bruciò la lingua, ma resistette, stoica, senza farlo notare.

Il vecchio Sullivan era il nonno di Mary, viveva in paese tutto l’anno, come lei, era un uomo piuttosto vecchio, con il cranio calvo e  macchiato, con una lunga barba grigia e sembrava incapace di separarsi dal proprio nipotino, un bambino di sette anni che non si allontanava mai dal proprio Gameboy. Ruthie aveva fatto l’abitudine a quella fastidiosa musichetta. Sia Sullivan che il bambino abitavano in due diverse casette di legno nel paese, ma, con l’emergenza, la famiglia aveva deciso di passare la nottata al bed & breakfast. Il padre di Mary e quello del suo cuginetto, che però non sembrava essersi davvero reso conto della situazione, erano partiti quel pomeriggio per la caccia al lupo.

“Dov’è Tinkerbell?” domandò Mary, che aveva voglia di fare conversazione. Quella serata era davvero stressante per lei. Ruthie fece una smorfia stanca. Aveva ancora un po’ male alla pancia, ma aveva voluto rimanere a dare un’occhiata alla sala della colazione, come le aveva chiesto Clay.

“In camera, gli è venuto un gran male alla testa e ha preferito andare a letto presto” mentì, in modo incredibilmente convincente. Neanche a dirlo, Tinkerbell si era messo sulle tracce della bestia e dei suoi cacciatori. Il suo intento non era davvero quello di salvare delle vite, Ruthie aveva capito da tempo che Clay era tutt’altro che un supereroe. Il fine giustifica i mezzi, se dovevano morire un altro paio di persone, per farlo arrivare alla bestia, andava bene lo stesso.

Ruthie sospirò e pensò alla prima volta che l’aveva visto. Per un secondo aveva davvero avuto l’impressione che le volesse staccare la testa con un colpo di accetta, ma poi si era convinta che fosse stata un’impressione. Aveva sbattuto la testa e si era rotta tutti i denti, non era al massimo della forma e ci aveva messo un bel po’ per fidarsi di Tinkerbell, anche se le aveva aggiustato i denti.

Non era uno scherzo abituarsi all’idea di avere a che fare con una specie di micidiale superuomo che dava la caccia ai mostri e che le aveva promesso che avrebbe vendicato la morte di sua madre. Appena Ruthie aveva sentito delle bestie era stata sicura che sua madre fosse stata uccisa da una di queste, poco importava cosa diceva Tinkerbell a riguardo, gliel’aveva spiegato proprio lui che alcune bestie potevano continuare a uccidere per anni prima che i geni le notassero. Sua madre era stata uccisa da una bestia e Ruthie voleva che Tinkerbell la uccidesse per lei.

Nonostante questo, non poteva fare a meno di pensare che, se l’avesse incontrato a una festa del college, ci sarebbe stata. In realtà, Ruthie, sia al liceo che al college, aveva la reputazione di una che non diceva di no, ma Tinkerbell le piaceva proprio. Era divertente e, a parer suo, riusciva a essere allo stesso tempo il ragazzo che avresti presentato a tuo padre, rimanendo comunque un indicibile impertinente.

Forse non era alto, ma tanto la sovrastava di venticinque centimetri buoni, rispetto a lei era alto chiunque, e le piaceva anche se era gracilino. Quando portava le magliette a maniche corte poteva vedere i muscoli accennati, sotto la pelle delle braccia.

Sospirò, faceva comunque strano pensare a Tinkerbell in quel modo, Tinkerbell era una macchina da guerra, non era per nulla sicura che avesse qualche interesse nei suoi confronti.

Mary fece un altro sospiro, riportando Ruthie alla realtà “Stiamo per chiudere il bar, volete qualcos’altro?” domandò, cortese, tormentandosi il lembo del grembiule nella mano. Ruthie scosse la testa e il vecchio Sullivan fece lo stesso “Non preoccuparti, chiudi la baracca e vai a dormire, stare ansiosi non aiuterà tuo padre e gli altri a cavarsela meglio. Pensa comunque che sono un gruppo di uomini preparati e armati non…” esitò, poi continuò “non una camera che viene colta di sorpresa mentre va a buttare fuori la spazzatura. Torneranno a casa integri, non stare in pensiero. È solo un animale”

Mary annuì, il ragionamento aveva senso, ma lei era in ansia lo stesso. Ruthie le sorrise e annuì a sua volta, sapendo però che, se la bestia avesse voluto attaccarli, un fucile da caccia non sarebbe servito a un bel niente.

 *** 

Un’ora dopo che Ruthie fu andata a letto, Tinkerbell mosse qualche passo su un grosso ramo innevato. Era notte fonda e il freddo era pungente, in mezzo agli alberi. Aveva ricominciato a nevicare e la luna era quasi piena, in una zona aperta il riflesso del ghiaccio e della neve avrebbero illuminato la notte, ma nel fitto del bosco era difficile vedere a un palmo dal proprio naso, se non si era dotati di una torcia o se non si era un genio.

Più in basso, sotto gli occhi vigili di Tinkerbell, inguaiato in un cappotto pesante e scarpe da inverno, la ronda notturna proseguiva, senza nessuna novità. Gli uomini erano affamati e infreddoliti, qualcuno iniziava a dire che era meglio tornare alla baita, se non avessero incontrato il lupo avrebbero rischiato di essere uccisi dal freddo e la cosa era quasi peggiore. I fucili, per di più, rischiavano di incepparsi più facilmente, e un fucile bloccato non serviva molto contro le zanne di un lupo.

Clay li aveva seguiti da poco lontano da quando era partita la spedizione, saltando da un ramo a un altro, qualche albero più indietro rispetto alla loro marcia.

Gli uomini si fermarono in un piccolo spiazzo tra gli alberi che consentiva loro di vedere uno spicchio di cielo, guardando in alto, ma nessuno lo fece, e Tinkerbell si sedette stancamente su un ramo, appoggiando la schiena al tronco.

Non era la marcia ad affaticarlo, era scocciato, era da ore che camminavano senza una meta, Clay iniziava a chiedersi se seguirli fosse stata una buona idea, non avrebbero mai trovato la bestia e, con buone probabilità, nessun mostro avrebbe attaccato un gruppo così folto di persone, andava contro il loro metodo. Per quanto gli omicidi fossero seriali, non erano mai eclatanti. Tinkerbell non aveva idea se dietro al ragionamento ci fosse una logica, ciò di cui era certo era che non sarebbe successo nulla, quella notte, al massimo si sarebbero fatti divorare da un lupo vero. Si sentì un cretino e si rialzò, deciso a tornare indietro. Con un paio di balzi si fu già allontanato, facendo cadere un po’ di neve dai rami che usava come appoggio. Non aveva fatto nemmeno cento metri nella direzione dalla quale era venuto che sentì qualche cosa. Chiuse gli occhi e si voltò nella direzione dalla quale aveva udito il rumore, sembrava un fruscio, ma poi si rese conto che era un urlo, così lontano che per gli uomini che erano usciti in spedizione con lui era impossibile sentirlo.

Tinkerbell scattò verso il richiamo di aiuto, sapeva di non poter fare niente e anche se avesse potuto se ne sarebbe rimasto in disparte. Non si sentiva in colpa nel dire che la sua copertura valesse di più di una vita umana. Se si faceva scoprire e non riusciva a uccidere la bestia a tempo debito sarebbe morta molta più gente.

Atterrò con un balzo nella neve fresca. Dal cielo continuava a cadere e l’aria era silenziosa. Tinkerbell, atterrato su un ginocchio, alzò la testa a guardare la luna. La luce filtrava a malapena tra i rami degli alberi, ma Clay riuscì a identificare benissimo la scia di sangue che usciva da una larga insenatura nella roccia. Era abbastanza grande per fare entrare due uomini adulti, a patto che strisciassero sul terreno. Tinkerbell non poteva vedere cosa c’era oltre l’apertura ma supponeva vi fosse una cavità più larga. La striscia di sangue partiva da lì e si perdeva nel bosco davanti a lui, in direzione della baita dove alloggiavano lui e Ruthie. Per un secondo si domandò se per caso la bestia non avesse preso proprio Ruthie, perse un battito prima di ricordarsi che la cosa sarebbe andata completamente a suo favore.

Era improbabile, però, che Ruthie si fosse avventurata fuori di senza avvertirlo, soprattutto perché era l’unica a sapere che quello che mieteva vittime non era un lupo, ma un vero e proprio mostro.

Si arrampicò di nuovo su un albero innevato e corse seguendo la traccia di sangue, saltando da un ramo a un altro, senza preoccuparsi di fare poco rumore, non c’era un solo rumore nella foresta, sembrava quasi morta.

Arrivò alla baita con il fiatone, non era davvero stanco, ma il respiro gli si condensò, bianco, davanti alla faccia, mentre fissava la baita, con i pugni stretti e le gambe lievemente divaricate. La neve gli arrivata quasi a metà polpaccio e continuava a cadere gentile, con fiocchi radi, sulla coltre già candida.

Il bed & breakfast teneva le lampade esterne accese tutta la notte, sotto il tetto di legno, e le luci si riflettevano sulla neve. Una striscia quasi  nera partiva dalla foresta per poi trascinarsi fin sotto le finestra della stanza che lui e Ruthie dividevano.

In meno di un secondo, Tinkerbell percorse i trecento metri che lo separavano dall’edificio: riverso nella neve, c’era un uomo senza testa. Il capo del cadavere era rotolato diversi passi più in là. Tinkerbell aguzzò la vista per riconoscerlo: non ci aveva mai parlato, ma, per quello che riusciva a capire nonostante il viso fosse quasi sfigurato, doveva essere uno degli uomini che erano partiti per la spedizione. Probabilmente era rimasto un po’ indietro e la bestia l’aveva preso. Non l’aveva ucciso subito, a quanto pareva. Clay indovinò fosse stata una morte dolorosa, il mostro aveva prima iniziato a mangiarlo e poi gli aveva staccato la testa. In fin dei conti era stato un gesto quasi caritatevole.

Si soffermò di nuovo a guardare la scia di sangue, per l’uomo non c’era più nulla da fare, e lui di certo non aveva intenzione di essere di nuovo quello che ritrova il cadavere. La striscia di sangue partiva dal bosco e terminava con il cadavere dell’uomo senza testa, da lì, poi, Tinkerbell poté notare le impronte insanguinate della bestia allontanarsi. Se non avesse avuto una salma accanto, avrebbe quasi sorriso, sembravano proprio quelle di un lupo, come avevano detto gli abitanti del paese. Aggrottò le sopracciglia quando si accorse che, però, le impronte, dopo un po’, iniziavano a cambiare forma.

Clay seguì la strada che il mostro aveva fatto, tutto intorno alla baita. Il peso dell’accetta attaccata alla gamba lo aiutò a restare calmo, si sentiva stranamente inquieto, quella sera.

Dopo una ventina di passi le impronte del lupo si trasformavano in quelle di piedi umani e poi, di nuovo, in quelle di un animale.

Clay chiuse gli occhi e sospirò: doveva trovarsi un padrone al più presto e uccidere quella cosa.

In un attimo fu dentro la propria stanza, infilato sotto le coperte, accanto a Ruthie che, abbracciata a una borsa dell’acqua calda, dormiva.

 

***

 

Sarah Chambers strizzò gli occhi per il dolore e squittì come un topo in trappola, così che Oumi facesse una smorfia e alzasse gli occhi su di lei.

“Vuoi che smetta?” domandò la ragazzina.

Oumi aveva dodici anni e aveva la mano ferma. “Non voglio che tu smetta, voglio che faccia meno male” disse Sarah, indispettita. Oumi si accigliò e tirò in fuori le labbra, mentre guardava la sua migliore amica da dietro gli occhiali dalla montatura nera.

“Non posso farti meno male, lo vuoi o no, il tatuaggio?” sbottò la ragazzina, indispettita.

Sarah voleva una stellina tatuata sulla caviglia, sapeva che sua madre non le avrebbe mai dato il permesso prima di compiere i sedici anni, ma lei la voleva così tanto e Oumi si era proposta di farlo con ago e china.

Avevano passato un’ora buona a disegnare la stella esattamente come Sarah la voleva con il pennarello nero, cancellandola con il sapone quando non veniva bene, poi, Oumi, era andata a frugare nel kit del cucito della propria madre per prenderne un ago. Non sapeva esattamente se ne servisse uno fatto in modo particolare, ne aveva preso uno a caso e l’aveva disinfettato con l’alcol. Sarah aveva rubato della china a suo fratello ed entrambe si erano nascoste nel garage di Oumi. Sua madre era fuori a fare la spesa, infatti il grosso fuori strada non era al suo solito posto e suo padre era in Marocco per lavoro. Non sapeva quando sarebbe tornato, non lo sapeva mai. Suo padre era una persona strana, sapeva che i suoi genitori avevano dei problemi per via del suo lavoro, si era parlato di divorzio, ma poi era arrivato il terzo figlio e sembrava che le cose andassero un po’ meglio, ma suo padre continuava a passare settimane all’estero per lavoro, senza saper mai dire in anticipo quando sarebbe partito e quando sarebbe tornato.

“Allora, vuoi che continui?” continuò Oumi, guardando l’amica dal basso. L’aveva fatta sedere su un tavolo da lavoro che era stato del padre di sua madre e che nessuno usava più da anni. Sarah annuì, con le sopracciglia bionde aggrottate e lei si rimise al lavoro. Oumi era una ragazzina mulatta piuttosto alta per la sua età, aveva una criniera di capelli neri e crespi che le arrivavano come una nuvola corvina sotto le scapole e un’importante miopia che la costringeva da anni a portare gli occhiali.

La ragazzina si rimise a lavorare, in silenzio, mentre Sarah, sopra il tavolo da lavoro, faceva smorfie addolorate e, per poco, Oumi non tracciò una linea sbagliata quando, da fuori il garage, sentirono un rumore di metallo, come di qualche cosa che cadeva a terra.

Le amiche si guardarono e Sarah si tirò giù la gamba dei pantaloni, in modo da coprire il lavoro incompleto.

“Vado a vedere” sussurrò Oumi e, furtiva, si avviò verso l’uscita. Aprì di poco la porta in lamiera del garage che cigolò lievemente ed accostò l’occhio alla fessura. Una ventina di metri più in là stavano suo padre, un uomo alto, dalla pelle scura vestito elegante , in compagnia di un altro uomo, un tipo enorme coi capelli chiari legati in una coda bassa, che indossava una camicia scozzese. Doveva essere stato lui a fare rumore, dato che stava raccogliendo una delle sedie in ferro battuto di sua madre. Sembravano entrambi sorridenti. Oumi non aveva mai visto quell’uomo, non gli pareva fosse del posto, per di più, non si aspettava che suo padre sarebbe tornato così presto.

Si voltò verso Sarah, che contraccambiò il suo sguardo, e poi tornò a sbirciare dalla fessura. Batté le palpebre più volte, l’uomo con la camicia scozzese era scomparso. Oumi era allibita: non ci aveva messo più di cinque secondi per voltarsi verso Sarah e poi tornare a sbirciare il proprio padre, tempo assolutamente insufficiente all’uomo per uscire dal campo visivo di Oumi, dalla posizione in cui si trovava.

Oumi allontanò di poco l’occhio dalla fessura e si fermò a riflettere. Suo padre stava seduto al tavolino in ferro battuto del giardino, con le gambe accavallate, vestito elegante come al solito, sorseggiava quello che poteva essere un succo di frutta e guardava la strada. Oumi non poteva vedere bene la sua espressione, ma tutto nel suo comportamento pareva rilassato.

Possibile che l’uomo con la camicia scozzese fosse stato solo frutto della sua mente? Le pareva impossibile, ma allo stesso tempo era fisicamente impossibile che fosse sparito nel nulla. Si grattò la testa e si apprestò a chiudere di nuovo il portone del garage, quando qualche cosa si intrufolò nella fessura che Oumi stava chiudendo.

La ragazzina si accigliò, quando un rettile variopinto, non troppo grande, le si arrotolò al polpaccio. “Trinidad Scorpion!” esclamò.

Quando tornava suo padre, tornava sempre anche il suo bizzarro animaletto da compagnia.

L’iguana variopinta si arrampicò su per la gamba magra della ragazzina, dribblò la gonna, si aggrappò alla canottiera giallo pallido che indossava e andò a posizionarsi sulla sua spalla, premendo il muso contro la guancia di Oumi. La ragazzina sorrise e gli accarezzò la testa “Anche io sono felice di rivederti, bello” ridacchiò, improvvisamente dimentica dell’uomo con la camicia scozzese.

Sarah si tirò di nuovo su la gamba dei pantaloni sotto la quale era nascosta la stella fatta con la china.

“Ho sempre pensato che quell’iguana fosse strana, sembra più un cane che un rettile” commentò, guardando l’animale. Oumi rise divertita, mentre accarezzava la coda di Trinidad Scorpion. “Lo so” ammise. 

 

Aki_Penn parla a vanvera: Eccomi qua, lo so, sono orribile e manco da ben quattro mesi, non potevo davvero crederci, quando me ne sono accorta (sinceramente pensavo fosse passato solo un mese, dall’ultimo aggiornamento).

Sono davvero dispiaciuta per essere sparita per così tanto. Questo è un capitolo che avevo in cantiere da un po’. Come avevo detto tempo fa, nelle mie chiacchiere super poco importanti, pubblico sempre quando ho già finito di scrivere il capitolo successivo, ecco, questo è il capitolo che tenevo in tasca come riserva, quindi non una cosa nuova, ora come ora, non ho più nulla in attesa di essere postato e spero davvero che mi torni la voglia di scrivere questa storia. Non so bene quale sia il problema, ma nonostante continui a fantasticarci, non ho voglia di scriverla e non credo che qualcuno possa divertirsi a leggere qualcosa che io non mi sono divertita a scrivere.

In ogni modo, ringrazio tutti per avermi seguito fino ad adesso e se vi siete scocciati per l’attesa non posso fare altro che darvi ragione. U.U Ringrazio chi mi ha sostenuto e chi mi ha chiesto notizie di Make a wish in questi mesi di silenzio. E grazie a Dede per avermi consigliato di pubblicare questo capitolo nonostante tutto, spero che, anche se non è un granché, possiate godervelo almeno un po’!

A presto, spero!

 

(E sì, Alih è banalmente sopravvissuta! XD)

Ritorna all'indice


Capitolo 37
*** Bestie e brioches ***


Make a wish -

Capitolo trentasette -

Bestie e brioches –

 

“Almeno è stata una serata tranquilla, ieri” disse Ruthie, grattandosi la testa. Clay, a sedere sui calcagni sul loro letto sfatto, annuì, con aria vaga “Sì, non male. Non ho incontrato nessuno, ma c’è un cadavere sotto la nostra finestra” spiegò.

Ruthie cacciò un urlo “Cosa?” tuonò, così forte che Clay si ritrasse, vagamente infastidito dal tono di voce. Alzò le braccia in segno di resa “Mica l’ho ucciso io. Era già qui quando sono tornato, ieri sera”

“E perché non hai detto niente?” sbottò Ruthie, ancora in pigiama, saltando giù dal letto. Il malessere del giorno prima era passato.

Tinkerbell l’afferrò per un braccio prima che raggiungesse la finestra e lei si sbilanciò all’indietro, rischiando di finire per terra.

“Non voglio essere di nuovo io, quello che trova il cadavere” disse, fermamente, e Ruthie non poté far altro che annuire, rimettendosi mestamente a sedere sul letto, con le mani appoggiate alle cosce.

“Quindi cosa facciamo?” domandò, guardandolo negli occhi. Tinkerbell alzò le spalle, con un sospiro “Come prima cosa, andiamo di sotto facendo finta di niente, prima o poi qualcuno girerà attorno all’edificio e lo troverà. In ogni modo, ho visto delle impronte, la bestia è ancora trasformata a metà. C’erano sia orme di animale che orme di uomo, potremmo essere ancora in tempo per impedirne la trasformazione. Voglio agire oggi, ho trovato quello che potrebbe essere un usuale nascondiglio” illustrò. Ruthie annuì, pensando che fosse una buona idea “Sai già chi vuoi per padrone?” domandò. La risposta arrivò subito, senza indugi “Mary. Mi piace Mary”

Ruthie gli sorrise “Piace anche a me. Non farle troppa paura”

Tinkerbell ridacchiò, divertito “Nah!”.

Neanche tre minuti dopo, Tinkerbell stava scendendo le scale di legno della baita dove alloggiavano, mentre  si chiudeva la porta alle spalle aveva sentito Ruthie, dal bagno, dire qualche cosa come “Come diavolo fai ad essere già pronto? Aspettami!”. Lui l’aveva ignorata ed era sceso nella sala della colazione.

Nella stanza c’era un gran trambusto, le sedie erano sparse per la sala senza un senso logico. Il vecchio signor Sullivan se ne stava seduto in un angolo, lontano dall’azione. Quando sentì Tinkerbell scendere si voltò a guardarlo e gli sorrise “Missione compiuta” lo informò. Tinkerbell non capì subito di cosa stesse parlando, ma poi vide, oltre il marasma, quello che pareva un animale steso su un tavolo.

Tinkerbell si accigliò, senza nemmeno rispondere al vecchio Sullivan, si avvicinò piano al capannello di persone che discutevano. Uno degli uomini, ancora vestito da neve, si voltò e incrociò lo sguardo perso di Clay. Si guardarono per una frazione di secondo e poi l’uomo, un tipo grosso con pochi capelli, ma una folta barba, allungò le braccia e lo strinse in un abbraccio. “Questa storia è finita! Abbiamo preso il fottuto lupo!” urlò, accompagnato da un boato e fischi di approvazione. Nel trambusto, nonostante l’uomo lo tenesse saldamente, riuscì a vedere il cadavere di un lupo disteso sul tavolo. Si sentì male al pensiero che l’avessero ucciso credendolo il colpevole di tutte quelle morti.

Sorrise ai presenti e si allontanò dalla confusione, indietreggiando, cauto. Nessuno fece caso a lui, erano tutti impegnati a battersi pacche sulle spalle e a complimentarsi l’un l’altro.

Individuò subito Mary, che stava arrivando, sorridente, nella sua direzione. “Tinkerbell!” lo chiamò, prima che lui riuscisse a dire alcunché.

 “Mi ero scordata di te e Ruthie, non prepariamo più il buffet perché tanto, dopo l’ennesima morte, tutti gli ospiti se ne sono andati. Ti piacciono le brioche alla crema? Preferisci quelle alla marmellata di fragole? Ne ho alcune qui nel retro, mia madre ne ha fatte un sacco sia per me che per Sullivan e…” disse, in un fiume di parole. Tinkerbell suppose che non stesse nemmeno respirando. Le prese una mano e la strinse quasi troppo forte nella sua.

“La crema va benissimo, grazie” disse, intenzionato a cambiare subito argomento e a seguirla nel retro per poi convincerla a diventare il suo padrone. “E Ruthie?” si informò Mary.

“Crema anche per lei e…” stava per invitarla a seguirlo quando la porta della stanza si spalancò e un uomo trafelato e spaventato si lanciò dentro, urlando e inciampando nei propri piedi.

“Edgar, cosa succede?” domandò il vecchio Sullivan, alzandosi di scatto dalla sedia, perdendo tutta la tranquillità che aveva dimostrato un secondo prima, quando Tinkerbell era sceso dalle scale. Clay teneva ancora stretta la mano di Mary nella sua, lei sembrava quasi non essersene accorta.

Edgar rantolò, sconvolto, cercando di rimettersi in piedi. Un paio di uomini robusti accorsero per aiutarlo ad alzarsi. L’uomo boccheggiò, mentre lo mettevano seduto su una sedia di legno. Respirò forte guardandosi in giro, spaventato “Ha ucciso George… ha ucciso anche George!” disse, prima piano, poi urlandolo. Si allungò verso il tavolo dove stava il lupo e cercò insensatamente di tirargli un pugno. Gli altri lo presero e lo rimisero a sedere, Edgar era visibilmente sotto shock.

“Edgar, spiegaci cosa è successo” lo invitò un uomo con voce calma, anche se la sua preoccupazione era evidente.

Edgar si coprì il volto con la mano e respirò faticosamente, mentre le spalle venivano scosse da un tremito. “Quella bestia ha ucciso George. Gli ha staccato la testa. Il suo…corpo… è là fuori. Ha fatto in tempo ad ammazzare anche George” spiegò, iniziando a singhiozzare incontrollato. Nella stanza si diffuse un certo brusio, poi qualcuno alzò la voce e un gruppo di persone uscì fuori a controllare se quello che Edgar diceva era tristemente vero.

“George” ansimò Mary, strattonando la mano in quella di Clay. Si mosse in avanti con l’intensione di uscire, ma

Tinkerbell la trattenne con una stretta di mano così forte che quasi le fece male.

“Portami dove tieni le paste alla crema” disse lui, guardandola negli occhi. Mary boccheggiò, presa alla sprovvista. Non capiva che cosa volesse Tinkerbell, in un momento del genere. Era morto George, chi se ne fregava della colazione. Nonostante le sue perplessità, Clay la trascinò nel retro, senza quasi accorgersene Mary si ritrovò nel magazzino. Una fila di paste alla crema stavano sul bancone, accanto a un tostapane e un forno a microonde. Clay si chiuse la porta alle spalle, con uno schiocco di serratura. Le finestre della stanzetta erano chiuse e il locale era illuminato solo dalla luce asettica della lampada al neon. Per un secondo, Mary si sentì in trappola. Clay l’aveva sbattuta lì dentro quasi senza che lei volesse e senza che lei riuscisse minimamente a opporre resistenza.

“Fammi uscire!” ordinò, un po’ intimorita. Non avrebbe saputo dire cosa la preoccupasse di lui ma, d’un tratto, le faceva paura.

“Tra un po’” ribatté lui, con la mano sulla maniglia di ottone. Mary avvertì uno scricchiolio, come di legna sul fuoco e una linea di fumo scuro alzarsi dal pomello stretto in mano di Tinkerbell. Lui la guardava dritto negli occhi. Quando spostò la mano, la maniglia era di un insolito colore giallo e rosso, quasi luminescente.

Senza pensarci davvero, scattò in avanti e si fiondò a mettere la mano sul pomello per aprirlo, ma questo era davvero arroventato.

Mary urlò mentre la pelle della mano si cuoceva e si riempiva di vesciche, il palmo si screpolava e lei sentiva la mano andarle a fuoco.

Tinkerbell se la tirò addosso, una mano andò a tapparle la bocca e l’altra a prendere la mano ustionata nella sua. La mano smise istantaneamente di fare male, le lacrime a mezz’aria scesero sulle guance di Mary e sulle dita di Tinkerbell, che la costringevano al silenzio.

“Adesso non puoi uscire, dobbiamo prima parlare di una cosa” disse, calmo e intransigente.

“Non mi uccidere” piagnucolò Mary, con un singhiozzo che spezzò a metà la frase. Tinkerbell fece una smorfia, vagamente divertita “Non sono qui per uccidere, sono qui per chiedere aiuto” spiegò. Mary respirò forte, la voce di Tinkerbell sembrava essere calda e  terrificante allo stesso tempo.

“C’è qualche cosa che non è umano là fuori, sono qui per prenderlo. È il mio lavoro” disse. Mary inarcò le sopracciglia, mentre le guance si imporporavano “Che diavolo stai dicendo?” domandò, con stizza, a voce più alta.

Poi Mary lo vide cadere in ginocchio davanti a lei e guardarla con un sorrisetto furbo, era l’ultima cosa che si immaginava avesse fatto “Mi chiamo Clay Jennings, hai tre desideri da esprimere” disse.

Mary lo guardò con le sopracciglia aggrottate, chiedendosi se per caso, quel tipo, non fosse matto, le era sembrato una persona così affabile nei giorni precedenti.

Continuò a pensare che fosse matto, finché non soffiò fuori dalla bocca un filo d’aria che, in un attimo si incendiò. Mary urlò e si ritrasse col cuore in gola e le mani sul petto, cercando di calmare il respiro, mentre Tinkerbell si rialzava, pulendosi i pantaloni dalla polvere del pavimento. Sembrava piuttosto divertito.

“Sei…sei un mangiafuoco?” domandò, senza fiato.

Clay scosse la testa “Sono un genio”

***

 

Mary si era fatta spiegare la storia due volte. Ciò che uccideva in quel luogo non erano i lupi, ma una creatura indefinibile alla quale Tinkerbell dava la caccia. Non le era ben chiaro se qualcuno lo pagasse per fare un lavoro del genere e nemmeno che razza di creatura fosse lui, in realtà, ma il fatto che sputasse fuoco le sembrava un metodo convincente per farle intendere che non scherzava.

Si era lasciata convincere a farsi portare nel luogo dove Tinkerbell era convinto si trovasse il mostro. Con loro era venuta anche Ruthie, quella ragazzina piccolissima che accompagnava Clay. Avanzava nella neve imprecando per il freddo e alzando le ginocchia. Era decisamente più piccola di Tinkerbell, ma era più piccola anche di lei.

Mary si era infilata un coltello da cucina nel giubbotto, prima di uscire, Tinkerbell l’aveva vista. Era evidente che non si fidasse del tutto di lui e Tinkerbell non si sentiva di darle torto. Sperò solo che non cercasse di utilizzarlo sulla trachea di Ruthie, in un raptus di follia, lei non avrebbe potuto avere una reazione così fulminea.

Tinkerbell faceva strada, davanti, tenendo tese le orecchie, subito dietro di lui veniva Mary e poi Ruthie per ultima. Ogni tanto si guardava in giro, circospetta, non aveva assolutamente voglia di essere attaccata alle spalle da quella bestia spaventosa, ma sapeva anche che non avrebbe potuto fare nulla per evitarlo, se non sperare che Tinkerbell la salvasse.

Non era nemmeno riuscita a portarsi dietro il kalashnikov. Fu quasi un sollievo ritrovarsi davanti a un’apertura nella roccia, ricoperta di neve, con Tinkerbell che si fermava, annunciando che quella era la tana del nemico.

In quel punto, la neve era un pochino meno spessa e a Ruthie arrivava solo fino a metà del polpaccio.

“Cosa dobbiamo fare?” domandò Mary, cupa, avvicinandosi a Tinkerbell, incrociando le mani sul petto, cercando di farsi un po’ più caldo. La temperatura era davvero bassa lì in mezzo agli alberi. Erano sperduti nel nulla.

“Se fuoriesce ora, ci ucciderà” disse poi. Tinkerbell sentì la sua voce tremare e si voltò verso di lei con un sorrisetto strafottente “Mary, siamo qui per uccidere, non per venire uccisi. Ti ricordi cosa devi fare?” domandò, mentre Ruthie gironzolava in giro, un po’ in ansia. Sapeva che prima o poi la bestia si sarebbe apparsa. Forse era in forma umana ed era rimasta alla baita, oppure era già trasformata e si aggirava nei boschi. In ogni modo, sperava che non le strappasse una gamba o un braccio come accadeva spesso.

Tinkerbell avanzò un altro po’, fino ad essere a un metro scarso dall’imboccatura dell’apertura. “Penso che staccherò un pezzo di roccia per vedere se la bestia è qui dentro. Non mi azzardo a scendere lì senza di te e non voglio nemmeno trascinarti in un posto così stretto. Okay?” fece, girandosi di nuovo verso Mary, in cerca di sostegno.

Fu allora che la bestia si avventò su di lui, mirando alla faccia. Tinkerbell sapeva che voleva staccargli la testa. Non l’aveva nemmeno sentita arrivare. I suoi artigli erano affondati nel collo, così profondamente da staccargli subito una clavicola, mentre le zanne si erano avventate sulla faccia. L’occhio destro era finito divorato in un secondo.

Tinkerbell si pentì amaramente di non aver tirato fuori subito la propria accetta. Sentì l’urlo terrorizzato di Ruthie rimbombargli nella testa.

Afferrò la zampa che gli aveva strappato via la clavicola e che stava continuando a tenerlo bloccato per terra e scaraventò la bestia lontano da sé. In un attimo si passò la mano sul petto e sull’occhio, mentre si rimetteva in piedi.

“Ruthie?” chiamò, appena ci vide di nuovo da tutti e due gli occhi. La intercettò subito, mentre arretrava nella neve con gli occhi puntati sulla bestia, riversa su uno spuntone di roccia.

Tinkerbell si guardò di nuovo intorno, allarmato, rendendosi conto che qualche cosa non andava “Dov’è Mary?” urlò a Ruthie, ancora piuttosto lontana da lui, mentre la bestia si rimetteva in piedi sulle quattro zampe e si scrollava la neve di dosso.

Era un lupo gigantesco, con gli occhi azzurri e il pelo bianco e grigio. Gli artigli e le zanne, però, erano qualche cosa di mai visto addosso a un canide.

Ruthie alzò il braccio e indicò il licantropo, con il dito indice che le tremava e i denti che battevano, forse per la paura, forse per il freddo “È lei, è lei la bestia!” disse. Anche la voce le tramava.

Tinkerbell si sentì come se una valanga di mattoni gli cadessero sulla testa. Se quella bestia era Mary, fondamentalmente, il suo padrone era anche il suo nemico: non poteva ucciderlo e, per di più, non poteva infliggergli danni con l’accetta. Il padrone era protetto dal patto stretto coi desideri e non poteva essere ucciso dal proprio genio. Boccheggiò, mentre il lupo si rimetteva in piedi sulle quattro zampe e ringhiava.

Tinkerbell scattò verso Ruthie e la tolse dalla traiettoria del lupo, appena prima che esso le corresse incontro. Afferrò la ragazza per i fianchi e Ruthie sbatté il naso contro la spalla del genio, ma in un attimo erano in cima all’albero.

La bestia frenò la propria corsa nella neve, spargendo attorno a sé la coltre bianca, ed alzò il muso per cercare Clay, che si muoveva da un ramo all’altro. Ruthie strinse nella mano la stoffa del giubbotto di Tinkerbell.

Non sapeva bene come, nel salto che l’aveva portata a diversi metri da terra, aveva perso il guanto sinistro e le dita iniziavano già a farle male. Si strinse ancora, per quanto poteva, addosso a Clay. Era certa che lui non l’avrebbe lasciata cadere, ma questo non le impediva di farle girare la testa e di farle temere il peggio, mentre si spostavano da un albero all’altro.

“Che padrone del cavolo che ti sei scelto!” esclamò, digrignando i denti, mentre Tinkerbell saltava di nuovo e la bestia li rincorreva, procedendo velocemente, vari metri più in basso.

Tinkerbell non ne sapeva molto di lupi, e di animali in generale, ma era abbastanza certo che un lupo non si potesse arrampicare in alto come  faceva lui, ma ogni supposizione poteva facilmente essere errata: quello non era un lupo, ma una bestia.

L’unica via di salvezza era scappare, non poteva combattere quel licantropo, per di più, con Ruthie in braccio; non si azzardava a lasciarla in giro con una bestia contro la quale non poteva fare quasi niente.

“Dobbiamo tornare indietro” disse, voltandosi verso Ruthie. Fu in quel momento che sentì il proprio braccio avvampare e incrociò gli occhi di fuoco di Ruthie, avvolta in una fiamma che ardeva, rossa.

Tinkerbell urlò, mentre Ruthie, senza distogliere gli occhi da lui, aprì la bocca e addentò il braccio che la sosteneva. Il ragazzo alzò la gamba e la colpì allo stomaco con un calcio ben assestato e Ruthie volò di sotto, portando con sé il braccio di Clay, reciso all’altezza della spalla.

Tinkerbell, con le lacrime agli occhi per il dolore, rimase a guardare la caduta di Ruthie, dal ramo su cui si trovava, per essere sicuro che non si trasformasse subito in essere umano finendo in un attimo tra le grinfie del licantropo. Ma Ruthie atterrò su un ginocchio e subito alzò il capo per guardarlo, coi capelli infuocati che le svolazzavano dietro la testa, come sospinti dal vento. Tinkerbell digrignò i denti e si passò la mano sul braccio mozzato, mentre il suo famiglio lasciava cadere nella neve il braccio incenerito.

Non ebbe molto altro tempo per pensare perché, in un attimo, il licantropo era balzato sullo stesso grosso ramo sul quale stava in equilibrio lui, facendo cadere al suolo la poca neve che era rimasta su di esso dopo lo scontro con Ruthie. A terra, la ragazza si scostò da una parte per evitare che la coltre bianca le cadesse addosso. Rimase in basso facendo solo qualche passo, mentre il licantropo ringhiava e si lanciava di nuovo verso Clay. Tinkerbell scattò su un altro ramo per evitare i denti della bestia, mentre Ruthie li guardava da terra, i suoi vestiti invernali si incenerivano e la neve si scioglieva ai suoi piedi.

Il ragazzo constatò che, finché il licantropo si dedicava a lui, Ruthie non aveva nulla da temere e decise di lasciare che se la cavasse da sola. Mary nelle sue vesti di licantropo gli dava già abbastanza problemi.

Come avrebbe fatto a uccidere la bestia lo avrebbe deciso in futuro, per quel momento voleva essere solo sicuro di arrivare vivo al momento in cui Mary sarebbe tornata umana.

Saltò sull’abete innevato accanto a quello su cui stava la bestia e l’albero si mosse facendo cadere gran parte delle neve che lo ricopriva. Ne venne completamente spogliato quando il licantropo lo seguì con un balzo agile e, senza che Tinkerbell potesse fare in tempo a scansarsi, gli addentò un fianco e lo sbatté contro il tronco grosso. Per poco, Clay non scivolò dal ramo su cui stava. La superficie bagnata era scivolosa e il ramo troppo sottile perché Tinkerbell potesse tenere vicini tutti e due i piedi.

Strinse la labbra per non urlare, mentre i denti della bestia gli affondavano nelle budella. Il lupo era enorme, molto più grande di un normale lupo, con una pelliccia grigia e bianca che riluceva nella neve. La bocca era enorme e il sangue di Tinkerbell gli sporcava la pelliccia fino agli occhi. Anche il naso dell’animale era scomparso tra le viscere del genio.

Clay alzò la mano e la strinse tremante sul muso della bestia, cosa che fece arrabbiare ancora di più il licantropo che riaprì la mascella e addentò di nuovo lo stomaco di Tinkerbell che, questa volta, urlò. La sua voce rimbombò per tutta la vallata e Clay appoggiò la nuca al tronco dell’albero digrignando i denti e chiudendo gli occhi. Dalle palpebre chiuse scendevano copiose le lacrime, mentre il sangue gli sporcava i pantaloni.

La mano era ancora stretta al muso dell’animale e forse la pressione delle dita di Tinkerbell faceva anche un po’ male, ma di certo non come le zanne nel lupo piantate nella sua carne. Il lupo non riusciva ad addentare più a fondo, ma Tinkerbell non riusciva a staccarselo di dosso.  

Clay riaprì gli occhi e respirò con la bocca aperta, anche il naso gli colava e il collo era bagnato dal sudore, nonostante il freddo del febbraio canadese.

Respirò forte e si piegò in avanti per quanto riusciva. Per afferrare l’accetta dovette alzare anche un po’ il ginocchio perché la massa della bestia gli impediva di piegarsi come avrebbe voluto.

Sapeva che non avrebbe tagliato, ma l’arma si abbatté comunque sul cranio del lupo, stretta nella mano libera di Tinkerbell. La bestia si staccò da lui con un ringhio infastidito, con ancora in bocca parte dell’intestino di Clay. Tinkerbell mollò la presa sul muso dell’animale e afferrò e strattonò le proprie budella fino a mutilarsi e a liberarsi da ciò che lo legava al mostro poi, con un balzo saltò su un albero accanto, ancora con parte dell’intestino che gli penzolava nauseabondo dallo squarcio che aveva sul ventre.

Si rimise a posto le viscere con un solo rapido movimento, e dallo squarcio immane nei suoi vestiti sporchi di sangue si vide solo pelle nuova e perfetta, da metà del ventre quasi fino al pube. Il pericolo di perdere i pantaloni era più che reale, dato che la cintura era stata rotta irrimediabilmente, ma già il fatto di essersi liberato del mostro poteva considerarsi un buon risultato. Il lupo era rimasto, quasi perplesso a guardarlo, da un ramo lì affianco, senza interrompere il contatto dei loro sguardi.

Fu in quel momento, mentre decideva su che altro albero saltare, che per la vallata si diffuse una musichetta familiare.

Tinkerbell strinse i denti e si cacciò una mano in tasca, prima di riprendere la sua corsa da un albero all’altro, scuotendo rami e strappando foglie. “Jessie!” esclamò, schiacciandosi il cellulare contro l’orecchio, mentre correva all’impazzata lungo un ramo particolarmente grosso. Il lupo ringhiò, dietro di lui, molto più veloce di quanto Clay avrebbe preferito.

“Come stai?” domandò Jessie allegra, dall’altra parte. Clay si schiarì la voce e singhiozzò quando, per un attimo, non scivolò fa un ramo rischiando di fare un volo di diversi metri. “Tutto a posto, Jessie. Tu?” domandò, trafelato, schivando per un pelo la zampata di Mary.

“Oh, mi stanno ricrescendo i peli, sono così contenta. Non mi farò mai più la ceretta!” proruppe così allegra che Clay non ebbe il cuore di riattaccare, ma per fortuna lei s’informò “Ti ho beccato in un brutto momento? Stai ansimando” fece notare. Tinkerbell tossì, aggrappandosi a un tronco, con le unghie e roteandoci intorno, deciso a tornare indietro per vedere come stava Ruthie.

“Sì, ehm…Jessie, sto facendo jogging… posso telefonarti più tardi?” chiese, mentre faceva dietrofront e per poco non si schiantava contro il muso insanguinato della bestia. Il licantropo, per riflesso condizionato, lo scansò e scivolò giù dal ramo dove entrambi stavano in equilibrio. Precipitò per diversi metri, prima di riuscire ad affondare le unghie nel tronco dell’abete. I solchi lasciati dagli artigli nella corteccia dell’albero erano profondi e paralleli tra di loro, squarciavano la coltre bianca che ricopriva il tronco.

Tinkerbell non si lasciò scappare l’occasione di avere un po’ di vantaggio e, rimessosi il cellulare in tasca, scattò in avanti, deciso a tornare dove aveva lasciato Ruthie. Fu però Ruthie a venire verso di lui, planando dall’alto e mancandolo per un pelo con un calcio infuocato che, oltre a bruciargli la pelle, gli avrebbe anche staccato la testa, se l’avesse colpito.

Tinkerbell saltò ancora sull’albero vicino, mentre la Ruthie di fuoco, atterrava leggiadra sul ramo dove un secondo prima stava correndo Clay, con un equilibrio, un’agilità e una noncuranza che il famiglio di Tinkerbell, nella sua versione umana, si sarebbe sognata. I vestiti erano diventati neri e le suole di gomma degli stivali si erano sciolti.

La ragazza rimase in quella posizione a fissare Tinkerbell per neanche un secondo, ma l’albero alla quale si era appoggiata stava già prendendo fuoco. Clay si morsicò le labbra, se la foresta avesse preso fuoco sarebbe stato un grosso problema. Incurante di dove potesse essere finita Mary, il genio ricominciò a scappare, deciso a non farsi bruciare dal proprio famiglio. Era imbarazzante quanto Ruthie sembrasse veloce e leggiadra rispetto a lui.

Tinkerbell era abituato ad essere sempre la creatura più potente nel raggio di chilometri, essere messo contro a due bestie contro le quali non poteva combattere gli faceva mancare il fiato, ma era certo, non aveva alcuna intenzione di morire schiacciato da due bestie e, soprattutto, voleva riportare Ruthie a casa tutta intera.

Lei lo seguiva senza difficoltà, saltando da un ramo all’altro come una fatina della distruzione, lasciandosi dietro una scia di fuoco.

Gli animali parevano essere scomparsi, terrorizzati, nel folto nella foresta, lasciandolo da solo contro i due mostri.

Tinkerbell non aveva guardato bene il panorama, mentre scappava a nord, fuggendo da Mary, ma era certo di aver visto qualcosa, nel bel mezzo del candore, che avrebbe potuto tornargli utile.

Saltò ancora e scorse davanti a sé un abete più giovane che si ricordava di aver visto nella sua prima corsa, deviò a destra, lasciando il sentiero sospeso che stava seguendo in linea retta e atterrò sull’abete giovane che oscillò sotto la spinta con cui Tinkerbell batté contro il suo tronco, con entrambi i piedi.

Ruthie lo seguì, appoggiando i piedi piccoli, ormai senza scarpe sulla punta di un ramo poco robusto, che si bruciò al suo passaggio, mentre lei avanzava verso l’interno dell’albero e Tinkerbell si lasciava cadere nel vuoto senza cercare alcun appiglio.

Sentì la crosta di ghiaccio, ormai grosso, rompersi sotto il suo piede destro, puntato in avanti. Il ruscello era ghiacciato e le sue rive erano così coperte di neve bianca che si faceva fatica a intravedere che in primavera in quel solco scorreva l’acqua.

Tinkerbell atterrò di punta, deciso a scendere a valle liberando tutta l’acqua ancora intrappolata sotto la coltre di ghiaccio. Un’ondata di liquido gelido si alzò, perfino più alta delle aspettative, sormontando, in altezza, diverse decine di alberi in fiamme.

Tinkerbell frenò con una piroetta, bagnato fradicio. Incredibilmente, dopo essersi trovato per così tanto tempo a contatto con fiamme e sangue, l’acqua gelida sulla pelle nuda del ventre era una sensazione piacevole.

Gli alberi fumavano e le ultime fiammelle si spegnevano sotto la neve, ma Tinkerbell non ebbe il tempo di complimentarsi con se stesso perché, con un balzo felino, Ruthie atterrò, fradicia, accanto a lui, appoggiandosi sul ginocchio destro.

Lo guardò digrignando i denti e i suoi capelli bagnati, ripresero fuoco in meno di un secondo, come una fenice che ritorna alla vita risorgendo dalle proprie ceneri.

Clay non ci pensò due volte, non aveva tempo per scappare e l’accetta era ancora stretta nella sua mano destra. Con un movimento fluido e feroce del braccio l’abbatté sulla testa della bestia, tenendo stretta l’impugnatura con entrambe le mani, come se fosse stata una mazza da baseball.

Il cranio di Ruthie di spaccò a mezz’aria come un cocomero, spargendo intorno a sé sangue e materia grigia.

Il corpo esile di Ruthie si piegò all’indietro come quello di una contorsionista ubriaca e si accasciò per terra, rimanendo immobile nel proprio liquame.

Tinkerbell ringhiò, fissandolo. Si guardò in giro, per assicurarsi che Mary non fosse nei dintorni, poi si piegò e recuperare i pezzi della calotta cranica di Ruthie, imprecando e risistemandoli insieme come se fossero stati un puzzle.

Non gli ci volle molto per ridare alla ragazza un aspetto umano, seppur senza scarpe, coi vestiti bruciati e riversa in una pozza di sangue, ma evidentemente fu abbastanza perché il licantropo tornasse indietro e gli si scagliasse contro.

Clay rotolò a destra, con i denti della bestia inchiodati al braccio, l’accetta era rimasta accanto alla salma di Ruthie, ancora riversa nella neve gelida.

Scaraventò via la bestia con un calcio e si fermò un secondo, con il fiatone, per vederla schiantarsi contro una roccia, prima di girarsi, recuperare l’accetta con una mano e infilare l’atra sotto le ascelle di Ruthie per poi mettersi a correre all’impazzata verso la baita.

A un certo punto non sapeva nemmeno più se Mary lo stava seguendo, ma era fondamentale che riportasse Ruthie al bed & breakfast, prima di tornare indietro a prendersela con il licantropo. Il suo famiglio, a quel punto, non si sarebbe più trasformata in una bestia e lasciarla alla mercé di tutti gli animali selvatici e, soprattutto, di Mary, non era nei piani di Tinkerbell.

***

Mary strinse forte la mano di Tinkerbell, dal suo giaciglio improvvisato accanto al camino della sala comune “Mi sono sentita male?” sussurrò, stancamente, mentre il vecchio Sullivan le passava una mano rugosa sulla fronte.

Mary era più pallida del solito, le labbra non erano più blu come le aveva trovate Clay quando era tornato indietro a cercarla e l’aveva trovata nuda, in forma umana, riversa nella neve, con un principio di congelamento.

Clay alzò le sopracciglia e ricambiò la stretta alla mano “Immagino di sì, stavo facendo una passeggiata e ti ho ritrovato nella neve in mezzo al bosco”

Con sua grande fortuna, i vestiti di Mary, a differenza di quelli di Ruthie, andati bruciati, erano intatti e lui aveva potuto recuperarli e farglieli indossare. Ritrovare una donna nuda che si ricorda di essersi addentrata con lui nella foresta avrebbe potuto creargli dei problemi. Per qualche minuto aveva anche valutato l’idea di lasciarla nella neve da sola, ma se Mary avesse parlato di lui, sarebbe stato ancora di più nei guai, quindi aveva deciso di riportarla alla baita in braccio. A quel punto, però, era necessario che non si ricordasse nemmeno dell’incontro che avevano avuto in cucina. Se la Mary umana avesse iniziato a desiderare cose, sarebbe stato un problema.

“No, no, mi hai portata nel bosco e…” continuò Mary, agitandosi. Il vecchio Sullivan alzò uno sguardo arcigno su Tinkerbell, che capì immediatamente che le cose si sarebbero messe male entro poco.

“No, Mary, io e Ruthie siamo usciti dopo un po’ che non ti si vedeva più in giro e ti abbiamo ritrovata nel bosco” si precipitò a dire Tinkerbell, senza lasciare la sua mano.

“Dov’è la tua amica, adesso?” chiese un tizio con barba e baffi rossicci, avvicinandosi, minaccioso. Per Tinkerbell, le uniche vere minacce nell’arco di chilometri erano Mary e Ruthie, ma quel tono gli piacque davvero poco.

“Sta dormendo” replicò Tinkerbell, infastidito. L’uomo fece una smorfia e si allontanò di nuovo di qualche passo.

Anche se Tinkerbell non lo stava guardando, si sentiva addosso gli occhi del vecchio Sullivan.

“Sì, mi hai portata in cucina e… e… mi hai detto del mostro e mi hai bruciato una mano e…” piagnucolò, guardando Clay e agitandosi, perché lui non le confermava quella versione dei fatti.

Tinkerbell scosse la testa, negando. Si stava facendo prendere dal panico, se i presenti si fossero abbattuti contro di lui avrebbe potuto tranquillamente allontanarli senza neanche avere il fiatone, ma una situazione del genere sarebbe stata inspiegabile e solo il cielo sapeva quanto Veleno odiasse che i geni creassero situazioni inspiegabili. Che al posto di Veleno adesso ci fosse Bloom, non gli passò nemmeno per la testa, ma quella situazione andava risolta senza che lui dovesse acchiappare Ruthie al volo e infilarsi nella prima porta disponibile.

“L’hai bruciata?” urlò Sullivan, perdendo tutta la propria naturale pacatezza e alzandosi scacciando Tinkerbell dalla ragazza.

Il vecchio prese le mani della nipote tra le proprie, rugose, e le studiò, alla ricerca di segni, che non trovò.

“No, non l’ho fatto, Mary. Siamo andati in cucina solo a scegliere la brioche che avrei voluto mangiare!” disse Clay, con la voce un pelo più acuta del solito, mentre gli abitanti del paese si stringevano attorno a lui.

“Ma tu mi hai parlato del mostro e poi hai sputato fuoco” piagnucolò, poi si girò verso Sullivan, che si era bloccato con le mani della nipote ancora strette tra le proprie “Nonno, Tinkerbell mi ha portato nel bosco per dare la caccia a un mostro. Quella cosa che sta uccidendo le persone non è umana e neanche Tinkerbell lo è. Lui sputa fuoco e… e…” piagnucolò ancora, con le guance rigate dalle lacrime.

Il vecchio Sullivan alzò gli occhi su Tinkerbell, incerto, mentre gli altri uomini si guardavano in imbarazzo. Clay li guardò a sua volta e strinse le labbra, prima di dire “Deve essere stato un sogno, Mary” sperando che fosse la cosa giusta.

Sullivan annuì e fece cenno a Tinkerbell di andarsene.

Il ragazzo risalì veloce la scale, quella era stata una giornata tremenda. Gli era già capitato di aver a che fare con Ruthie trasformata contemporaneamente a una bestia, ma non gli era mai capitato di perdere in quel modo un padrone e ritrovarsi a combattere contro una bestia che non poteva ferire. Il problema era grosso: la bestia sapeva il suo nome e quindi poteva esprimere dei desideri. Quello era l’incubo di qualsiasi genio.

Aprì la porta di legno della stanza che condivideva con Ruthie senza farla cigolare. La camera era immersa nel buio e lui non si preoccupò di accendere la luce, l’oscurità non era un problema. Poté trovare senza problemi il pigiama anche così. Lanciò i propri indumenti per terra e se lo infilò, subito prima di sgattaiolare sotto le coperte, accanto a Ruthie. Non era propriamente stanco, non era fisicamente possibile che fosse stanco, ma si sentiva così e l’unica cosa di cui aveva voglia era stare sdraiato a letto affianco a Ruthie, vestita del suo pigiama di pile. A Mary avrebbe pensato il giorno successivo.

Ruthie fece una smorfia e mugugnò, nel sentir il letto flettersi quando Tinkerbell appoggiò sopra il ginocchio per salire.

Brontolò di nuovo, abbastanza sveglia da voler far capire a Tinkerbell che non stava più dormendo, ma non abbastanza da formulare una frase di senso compiuto.

“Ehi” disse sottovoce, per non turbare troppo il suo dormiveglia. Ruthie mugugnò ancora e si rotolò su un fianco fino a ritrovarsi a guardarlo in faccia. Nel buio poteva solo intuire che lui fosse davanti a lei. Allungò una mano e gli toccò un orecchio, per accertarsi che fosse davvero lui e non un ammasso di coperte parlanti.

“Come va?” chiese ancora Tinkerbell, sempre sottovoce. Ruthie, stanca, si passò una mano sulla faccia e si stropicciò gli occhi, mentre lui le si avvicinava così tanto che quasi avrebbe potuto toccarle la punta del naso con la propria.

Ruthie non rispose alla domanda, ma ne fece un’altra “Dov’è Mary?”

Tinkerbell, con la testa appoggiata al cuscino, si morsicò l’interno delle guance “È di sotto. Me la sono cavata per un pelo. Si ricorda del fatto che io le abbia detto il mio nome, ma ha tirato fuori la storia che posso sputare fuoco. Sullivan era inizialmente convinto che fossi stato io a maltrattarla, ma dopo che ha detto questo si è convinto che si trovasse solo in stato di choc” raccontò.

“Se Mary continuerà a parlare di questa cosa probabilmente la gente inizierà a sospettare comunque del fatto che tu sia coinvolto…” gli fece notare lei, con voce strascicata, coprendosi meglio la spalla che era sfuggita da sotto il piumone.

Tinkerbell appoggiò distrattamente la mano sul suo braccio e Ruthie sentì che era calda “Lo so, ma spero di riuscire ad andarmene prima che questo accada. Il vero problema è un altro: Mary sa il mio nome, la bestia sa il mio nome. Se si fosse trattato della signorina Böhm sarebbe stato un bel casino. Per fortuna la bestia in cui si trasforma Mary non è coscienziosa. Potrebbe anche diventarlo quando si trasformerà definitivamente, chi può dirlo. Dobbiamo trovare una soluzione in tempi brevi” spiegò in un sospiro, mentre Ruthie, in posizione fetale, chiudeva di nuovo gli occhi.

Tinkerbell fece scivolare la mano sulla schiena di lei e chiuse gli occhi a sua volta, esausto. “Il problema è che non la puoi toccare, finché la bestia è il tuo padrone, anche se te ne trovassi un altro, vero?” sussurrò Ruthie, sull’orlo del sonno, con la mano calda di Tinkerbell sulla schiena che la intorpidiva.

“Già” sussurrò Tinkerbell, stancamente. Ci fu qualche secondo di silenzio immobile, mentre il braccio di Clay rimaneva abbandonato addosso alla ragazza. Sentendo il cigolio, Ruthie non aprì nemmeno gli occhi, pensando che si trattasse di Tinkerbell che si muoveva nel letto, ma notò che la mano bollente di lui, d’un tratto, riprendeva una temperatura umana e i muscoli del braccio s’irrigidivano. Rimase immobile in attesa, mentre lo stomaco le si contraeva.

“Rimani ferma” sussurrò pianissimo lui, a un centimetro dalla sua faccia. Ruthie annuì, ancora con la testa appoggiata al cuscino.

Ci fu un frusciò impercettibile e la ragazza sentì Tinkerbell che si sollevava e si sporgeva in avanti con un movimento repentino, fino a ritrovare il suo ginocchio all’altezza del proprio petto, poi un colpo forte dietro di lei e un urlo.

La luce si accese e Ruthie si rese conto di essere intrappolata tra le ginocchia di Tinkerbell, sporto dall’altra parte del letto con la mano stretta al manico dell’accetta.

Accetta era piantata nel muro di legno, proprio nel centro della mano di Jim, l’addestratore di uccelli che viaggiava con Cloris. L’uomo, dopo il grido iniziale si era messo la mano illesa sulla bocca, per non continuare a strillare.

Tinkerbell, con grande dignità, per uno che in pigiama si trova a cavalcioni di una ragazzina, lo guardò negli occhi, serio “Non è davvero un buon momento, questo, Jim”

“Lo è mai?” ebbe la forza di dire, con un sorrisetto affaticato. Tinkerbell lo guardò rabbioso per un paio di secondi, prima di rispondere “No” e rigirare la lama dell’accetta nella mano di Jim, già attraversata da parte a parte. Jim si chinò in avanti in preda a un dolore sordo, Ruthie, dalla sua posizione, individuò anche una lacrima.

Il muro era sporco di sangue e lo fu ancora di più quando Jim decise deliberatamente di sfilare la propria mano da sotto  la lama dell’accetta di Tinkerbell, anche a costo di tagliarsi ulteriormente.

La lama recise uno spesso pezzo di carne e, anche se questo non era stato l’intento iniziale, il dito medio. Uno spruzzo di sangue sporcò il cuscino di Ruthie e la maglietta del pigiama di Tinkerbell, mentre la lama dell’accetta rimaneva attaccata al muro e Jim si stringeva la mano lesa con quella buona.

Ruthie chiuse gli occhi quando vide Tinkerbell scattare in avanti spostandosi da sopra di lei. Il letto oscillò e il ragazzo atterrò a piedi pari sul pavimento di legno, giusto in tempo per incrociare la lama con quella sottile che Jim aveva sfoderato dalla cintura. La mano martoriata continuava a perdere sangue e gli uccellini verdi rimanevano rifugiati sotto suo cappello mentre lui fermava faticosamente i colpi di accetta di Tinkerbell con la propria spada sottile. Dopo tre schiocchi prodotti dal metallo che batteva contro altro metallo, Clay decise che ne aveva abbastanza e, senza il minimo sforzo, tirò un calcio al ginocchio dell’avversario, facendolo cadere all’indietro. Con un balzo gli fu addosso, atterrando con il ginocchio a ridosso del pomo d’Adamo. Jim rantolò, sentendosi soffocare, mentre il piede destro di Tinkerbell pressava la sua gabbia toracica. Forse gli aveva rotto una costola.

Con un inaspettato guizzo di vita e una manovra piuttosto ardita, Jim rialzò la propria spada e ficcò la punta della lama dritta nel centro dell’occhio sinistro di Clay, trapassandogli la testa da parte a parte. Ruthie, strizzò gli occhi, mentre il pavimento si riempiva di macchie ematiche. Il bulbo oculare sinistro di Tinkerbell piangeva sangue, ma lui non poté far altro che strizzare l’occhio, stringendo la lama sotto la palpebra. A quel punto avrebbe solo avuto voglia di tagliar via la mano a Jim, solo per ripagarlo del dolore che stava provando, ma qualche cosa iniziò a suonare e vibrare nella tasca del pigiama.

I due ragazzi si guardarono in faccia, poi Tinkerbell gli fece un sorrisetto un po’ tirato “Puoi scusarmi un attimo? Tra un secondo potremo tornare a mutilarci” disse, prima di infilarsi la mano in tasca, controllare con l’unico occhio che gli era rimasto, di chi fosse la chiamata e attaccarselo all’orecchio “Sì, Jessie?”

 

Aki_Penn parla a vanvera: Dopo un anno e mezzo, circa, non credo di aver scuse di alcun tipo. Non riuscivo a scrivere questo capitolo e, sinceramente, non so quando riuscirò a scriverne un altro, anche se è già in lavorazione (ho buttato giù qualche cosa).

Non posso far altro che scusarmi e ringraziarvi tantissimo di aver letto questo nuovo capitolo fino a qui, sperando che possa esservi piaciuto. Un bacio!

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=1818433