Memento

di Laky099
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** La Stanza Bianca ***
Capitolo 2: *** La Stanza dei Balocchi ***
Capitolo 3: *** La Stanza dell'Amore ***
Capitolo 4: *** La Stanza degli Orrori ***
Capitolo 5: *** La Stanza dei Cuori ***



Capitolo 1
*** La Stanza Bianca ***


Capitolo 1 - La Stanza Bianca
 


Uno strano suonò lo destò, rimbombando fra le pareti come fossero strane e incomprensibili parole. Sembravano appartenere a creature non umane, ancestrali se non persino divine. Rinchiusa in un sonno vuoto e senza sogni, la sua mente riposava come morta al centro del suo piccolo mondo personale.
Quando riaprì gli occhi la testa pulsava ancora con veemenza. L'uomo non poté che sentirsi spaesato, debole. Il dolore lo scosse, facendolo sentire come trascinato dalle invisibili onde del mare in tempesta. Quando i cavalloni immaginari si placarono insieme al suo onirico delirio, cercò di rialzarsi e capire cosa stesse accadendo. La cosa non fu semplice come sperava: non si trovava in un letto d’ospedale o tra le mura domestiche, ma in un luogo tanto bianco da sembrare intangibile, quasi magico. Il candore del vuoto che credeva di aver intorno irretì i suoi occhi, tanto che dovette impiegare ben più di qualche istante per capire come quel luogo non fosse illimitato come aveva pensato inizialmente. Era una stanza, e nemmeno particolarmente grande.  Guardandosi intorno trovò un ambiente opprimente e claustrofobico, tanto che non passarono che pochi istanti prima che il panico prendesse possesso di lui.
Si voltò nervosamente numerose volte, tastò ansimando le pareti nella vana speranza di trovare una porta nascosta, un corridoio o una qualsiasi  via di uscita. Trovò solo sconforto e la rassegnazione. Passarono pochi istanti od interminabili ore, fu per lui impossibile stabilirlo. Il tempo scorreva e fluiva su un binario cieco ai suoi occhi.  Di colpo tutto divenne nero. Era un nero oscuro tanto quanto era candida la stanza in precedenza, anch’esso intangibile ed illimitato. Non era il classico nero della notte, ove la luce della luna rischiara di raggi argentei qualsiasi superficie incroci il suo cammino, ma di un nero privo sia di buio che di luce, nel quale si poteva vedere alla perfezione qualsiasi cosa. Si chinò, osservando con stupore i suoi vecchi jeans strappati ed imbianchiti e fece scivolare lo sguardo verso le sue mani ossute. Un istante ancora passò prima che tutto tornasse bianco. L’uomo si sentì sempre più confuso e spaventato, arrivando al culmine quando sentì una voce provenire da dietro le spalle.
 Era una voce infantile ed acuta, chiaramente appartenente ad una bambina. Aveva detto una sola parola, un cordiale e allegro «Ciao!».
 L’uomo si voltò di scatto, inarcandosi come farebbe un felino ed acquattandosi alla parete che aveva dietro. Ciò che vide, però, non fu che una graziosa bambina intenta a muoversi sullo strano muro bianco.
Quel muro è un display! Dedusse, spaventato ed incuriosito allo stesso tempo. La bambina doveva avere più o meno dodici anni, massimo quattordici. Aveva lunghi capelli biondi legati in due infantili treccine, che le scivolavano dolcemente dietro le spalle e che le contornavano un viso dai tratti molto delicati. La cosa che maggiormente attirò la sua attenzione, però, furono gli occhi. Erano bicromatici, colorati dell’azzurro accesso dell’acqua di lago l'uno e di uno spento verde l'altro. La piccola indossava una veste a fiori, tipicamente estiva, che le arrivava sino al ginocchio fluttuando con delicatezza ad ogni sua mossa.
«Ciao» rispose l'uomo, ancora piuttosto turbato ma felice nel vedere come non ci fossero minacce impellenti. «Chi sei?»
La bambina sorrise dolcemente, ma tra le suelabbra si nascondeva furtivo un qualcosa di leggermente malevolo. «Ironico che tu me lo chieda. Non preferiresti sapere chi sei tu?»
«Come chi sono io? Io... » Fu solo in quel momento che l'uomo capì di non ricordare nulla. Chi fosse, cosa facesse, dove vivesse, cosa amasse e cosa odiasse. Le sue conoscenze erano intatte: sapeva riconoscere gli oggetti, le città, gli animali... Ma non ricordava nulla di sé, delle sue opinioni, le sue esperienze, la sua vita. Trattenne un grido isterico, cercando di mantenere un contegno davanti agli occhi della bimba. Si mise le mani fra i capelli crespi, facendo scivolare le mani tra i nodi disordinati che essi avevano formato. «Cosa... Cosa mi é successo?» Gridò con voce stridula ed impaurita.
«Non so cosa sia successo a te. Posso spiegarti cosa succede in generale»
«Dove siamo?»
«Domanda strana. Alludi forse che io e te ci troviamo nello stesso luogo?»
L'uomo, pur dovendo riconoscere come la bimba avesse ragione, sbuffò spazientito. «Dove sono?»
«Sei nell' M.R.C., Mind Reset Center»
«Mind Reset? É per questo che non ricordo nulla? Come avete osato farmi questo?» Inveì sempre più disperato.
La bambina lo osservò freddamente, per nulla turbata dalla rabbia dell'uomo. La sua espressione rimase ammantata da quell’enigmatico sorriso, che non esprimeva ne gioia ne divertimento, ma solo una pacata cordialità.
«Credo che tu mi stia sistematicamente sopravalutando. Io non posso farti nulla, né voglio farlo. Io sono qui per aiutarti»
«Aiutarmi? Aiutarmi? E come?» Chiese lui sempre più fuori di se, rendendosi sempre più conto di aver perso tutto. Ma tutto cosa? Pensò in un attimo di lucidità.
«Devo aiutarti a ritrovare la tua memoria, od almeno è per questo che sono qui. Non è stata cancellata come credi, è solo in giro da qualche parte ed anche li, proprio dentro di te. Più cose scoprirai su di te, più cose ricorderai, dalle più recenti alle più antiche. Almeno così mi han detto» rispose. Seguì un attimo di silenzio, nel quale l’uomo cercò di realizzare come le parole della bambina potessero avere un senso. Se quel che diceva era vero, allora c’era ancora speranza, possibilità di riprendere la propria vita, sempre che ne valesse la pena.
«Perché sono qui?»
«Non lo so, te l'ho detto. La tua memoria andava resettata e risistemata, forse affinché tu possa assorbire meglio un trauma o prendere in maniera migliore una decioneis. O forse perché c'è qualcosa che devi dimenticare. Personalmente non ne ho idea, ma se scoprirai qualcosa lo scoprirò anche io altrimenti ne sarò all'oscuro.»
L'uomo prese del tempo per ripristinare la calma e placare la rabbia che lo stava assalendo, dopodiché decise di sedersi in terra e ricominciare a parlare.
«Hai un nome?»
«Si, certo. Sono il software di sviluppo ed analisi dei pazienti dell'ufficio 7 della sede X dell' M.R.C. E questa é la mia interfaccia numero ...»
«Chiudi il becco» la interruppe l'uomo  «M.R.C. ... Facciamo che ti chiamerò Mercy e basta»
«Come vuoi!» disse ridendo «Mi piace Mercy! Ora, però, dobbiamo scoprire chi sei tu!».
La vocina infantile ed innocente di Mercy rese ancor più nervoso l’uomo, che avrebbe desiderato solo qualche istante per riflettere.
«Per l'amor di Dio, come diamine faccio a ripristinare la mia memoria chiuso in una stanza bianca senza uscite con una bambina/avatar che non fa altro che chiacchierare?» sbraitò nervosamente.
Nello schermo la bambina mise il broncio, socchiudendo gli occhi e stringendo la bocca al naso.
«Sei cattivo!» Protestò «Hai una porta davanti. Fai quello che vuoi»
Quando l'uomo, colto di sorpresa, si voltò in direzione di una delle due  pareti corte della stanza rettangolare, vide apparire dal nulla una porta. Era di legno marcio e maleodorante, antica e logora come quelle dei bei castelli che dominavano le interminabili valli od i scoscesi dirupi in epoca medievale. L'uomo vi si avvicinò e la spalancò al minimo tocco, provocando un odioso cigolio che risuonò malevolo ed inquietante in tutta la stanza. L’uomo si voltò in direzione dello schermo, osservando la piccola Mercy girata di spalle con le braccia incrociate . Se l’è presa  pensò lui con sostanziale indifferenza. Di fronte a sé, una volta addentratosi nella stanza, vide solo un antico specchio polveroso e finemente decorato, con sfarzose sfaccettature color oro e piccole guglie piramidali che si ergevano verso l’alto con lo sfarzo tipico dello stile gotico. Lo strato di sporcizia dipingeva su di esso trame imperscrutabili e grigie, che facilmente nascondevano la superficie riflettente se non per qualche piccolo, inutile spiraglio. L’uomo cercò di togliere la polvere con la mano, ma non appena vi fu il contatto lo specchio si illuminò. L'improvviso lume rimbalzò come se fosse un raggio di sole tra una parete e l'altra. Quando ebbe compiuto tutto il suo tragitto, una curiosa serie di intrecci luminosi spessi come corde di canapa illuminarono a giorno la stanza, rendendo lo specchio luminoso decisamente troppo brillante per gli inadeguati occhi di un uomo. Sotto un illusorio ma splendido cielo stellato, v'era una lunga serie di grossi specchi adibiti a riflettere sia i raggi che la sua immagine. L’uomo si guardò intorno, comprendendo di essere all’interno di una stanza molto simile ad una caverna, e fu solo in quel momento che, con suo grosso stupore, notò come ogni specchio riflettesse un'immagine diversa e talvolta distorta di sé. Ne imitavano alla perfezione i movimenti ed il vestiario, che consisteva in una anonima t-shirt bianca, una camicia a quadri rossa e nera ed un paio di Jeans scoloriti, ma non nell'aspetto. In alcuni specchi sembrava più giovane mentre in altri più vecchio, in alcuni più basso mentre in altri più alto. Ognuno di essi aveva una gradazione diversa di barba, dal completamente glabro ad un qualcosa di simile ad una sorta di Babbo Natale. L'unica cosa di cui potersi dire sicuro era il fatto di avere i capelli neri e crespi, arrotolati in una riccia ed indecifrabile gazzarra.
«Mercy, a quale dei riflessi somiglio?» Chiese, sperando che potesse sentirlo.
«Non lo so, io sono qui non lì. Non ho nemmeno idea di che riflessi tu stia parlando» rispose lei, la cui voce faceva trapelare uno spiccato nervosismo. L'uomo, dunque, decise di porre una domanda più mirata «Potresti... Descrivermi?»
«Non ci penso neppure» rispose lei. «Mi ha detto tu che parlo troppo no? Bene, ora cavatela da solo!»
La risposta lo lasciò di stucco, basito dal fatto che un'intelligenza artificiale potesse offendersi. Prima di ricominciare a urlare e mandare al diavolo ogni speranza di riuscita, decise di prendere un lungo sospiro e prepararsi per fare ammenda, per quanto trovasse alquanto strano dover chiedere scusa ad un computer.
«Scusa Mercy. Sono stato molto maleducato e brusco, non volevo offenderti. Cerca di capirmi, sono piuttosto nervoso e spaventato.»
«Dici davvero o lo fai solo perché ti serve una mano?» chiese lei, senza nascondere la natura pacifica delle sue parole.
«Dico davvero.»
«Bene!» Disse lei allegramente «Allora ti perdono. Però devi comunque cavartela da solo! Non vorrei che mi avessi preso in giro».
L'uomo, a fatica, resistette alla tentazione di tornare indietro a spaccare lo schermo su cui Mercy si era mostrata. «Devo capire come sono fatto» disse a sussurrò, come convinto che dirlo a voce avrebbe reso la cosa più semplice.
Cominciò ad osservarsi attentamente sui vari specchi, tastandosi il volto allo scopo di farsi un'idea sommaria sul suo aspetto. Capì, osservando i riflessi, di avere all'incirca una trentina d'anni, una folta barba non particolarmente curata, un fisico  piuttosto magrolino e della spalle strette che gli conferivano un'aria deboluccia. Man mano che scopriva nuove caratteristiche del suo aspetto, gli specchi che non le comprendevano si distruggevano al tocco, diventando strani cumuli di materia luminosa che sostituiva il raggio riflesso. Andò a toccare tutti gli specchi “falsi”, partendo da quelli più lontani dal suo vero aspetto e terminando con quelli che erano da considerare dissimili solo per dettagli come la lunghezza del naso, un fisico leggermente più muscoloso od una barba meno anarchica. Proseguì celermente, toccando e quindi distruggendo una trentina di specchi.
Bene, ora sono condannato ad almeno duecento anni di sfortuna pensò ironicamente non appena si rese conto di come, ormai, ne fossero rimasti solo due. Sembravano in tutto e per tutto identici.
Ok, è evidente che deve rimanerne uno soltanto si disse. Analizzò nel dettaglio le due figure, le quali, però, non sembravano avere differenze visibili nemmeno dopo una attenta analisi.
Più scoprirai su di te più cose ricorderai. Le provvidenziali parole di Mercy risuonarono dentro la sua testa, che cercò di capire come queste potessero effettivamente aiutarlo. Ripensò il più possibile al suo corpo e, con suo stupore, si accorse di ricordare perfettamente il suo aspetto. Era un ricordo preciso, naturale, come se fosse sempre stato lì.
Capì che avrebbe dovuto alzarsi i pantaloni poco sopra le caviglie per capire quale fosse, dei due riflessi, quello vero.
Bingo! Pensò, notando come il maestoso specchio dorato di fronte a se non riportasse la grossa cicatrice che si ritrovava sul suo polpaccio . L’uomo lo toccò delicatamente, riducendolo alla ormai solita poltiglia luminosa informe. Da tutti i resti degli specchi, improvvisamente, partirono dei raggi dorati che confluirono maestosamente sullo specchio reale, rendendolo brillante e magnifico. L’uomo si specchiò, soddisfatto dall'essersi riconosciuto ed aver completato quella sorta di “missione”
 Mi hanno sempre detto che sembravo un boscaiolo con la barba e la camicia in questo modo... pensò, per quanto la sua memoria si annebbiasse non appena provava anche solo a chiedersi chi glielo dicesse.
«Magari lo eri davvero, un boscaiolo! » Disse Mercy.
« Aspetta, come... »
«Io ricordo tutto ciò che ricordi tu, te l'ho detto. Quanto più scoprirai di te quanto più saprò anche io, se no come farei ad aiutarti?» disse.
«Come facevi a sapere che stavo pensando proprio quello?» Chiese l’uomo, sospettando che la strana bambina/avatar avesse la sgradevole capacità di leggergli nel pensiero.
«Non lo sapevo. Semplicemente in quel momento ti è venuto in mente quel ricordo e l’ho voluto commentare. Tutto qui» disse. Il tono di voce sembrò molto meno distaccato e più amichevole che in precedenza, sintomo di come la maggior conoscenza nei suoi confronti l’avesse resa più “umana” nei comportamenti. «Dai, ora tocca lo specchio!» lo incitò.
Disorientato, ma anche più sicuro di sè, l'uomo obbedì, sfiorandolo a malapena con un dito. Non appena il suo indice sfiorò la fredda parete riflettente, una forte fitta alla testa lo colpì duramente. Non durò che uno, due secondi, ma bastarono a farlo barcollare e cadere malamente in terra.
Non appena la sua mente placò la confusione parte della fitta nebbia che la ottenebrava si diradò, lasciandolo libero di viaggiare tra alcuni dei suoi ricordi più basilari. In quel momento, come se fosse la cosa più ovvia del mondo, un nome fece capolino nella sua mente. «Io sono... Mark!» Gridò allegramente.
«Ciao Mark!» Lo salutò calorosamente Mercy «É proprio un nome da boscaiolo!»
Mark rise, convenendo che Mark il Boscaiolo suonasse piuttosto bene.
«Cosa faccio ora?» chiese ansioso di proseguire.
«Non è ovvio? Oltrepassa lo specchio! Ti aspetto giù!»
L'uomo, perplesso dalla naturalezza con la quale l’avatar-bambina lo aveva invitato a compiere quella folle azione, obbedì, attraversando lo specchio dapprima con una gamba e poi con il resto del corpo. Mentre lo attraversò noto come esso, invece che essere solido, risultava essere gelatinoso, molle e piuttosto viscido.
Quando anche il suo titubante volto oltrepassò quella misteriosa gelatina, vide di fronte a se una lunghissima scala a chiocciola senza corrimano. Quello in cui si trovava era un luogo decisamente lugubre, completamente nero all’infuori della scala di pietra lavorata che scendeva sino ad una profondità che sfuggiva alla vista. All' esterno, apparentemente sospese nel nulla, erano visibili delle misteriose e fastidiose luci di un verde molto acceso, che per qualche strano motivo lo fecero sentire a disagio.
Scese le scale senza emettere alcun suono. Non importava quanto pesantemente respirasse, quanto violentemente calasse il piede nello scendere di gradino in  gradino. Intorno a se non c'era nulla, solo un cupo e misterioso silenzio che lo fece sentire, di colpo, del tutto indifeso. Scese velocemente, due gradini alla volta, e arrivò di fronte ad una porta del tutto identica a quella della stanza bianca. Non aveva ne veri bordi ne cardini, tanto che risultava a tutti gli effetti appoggiata al nulla. Non c'era nulla dietro, se non il nero intangibile.
«Mercy!» Gridò, senza emettere suono.
Qui dentro non sento nemmeno la mia stessa voce, pensò. 
Aprì la porta con scarsa delicatezza, volendosi lasciare quel macabro silenzio alle spalle. Venne travolto da un forte odore di muffa e dal suono del silenzio, quella rassicurante vibrazione che si ode quando non vi sono altri rumori pronti a sovrastarla . Non c'era alcun suono nella stanza, eppure era un silenzio vero, naturale ed assordante, se paragonato al nulla della scala.
La stanza era piuttosto piccola, costruita in legno e con un tavolo circolare al centro, anch’esso rigorosamente in legno. L'unica finestra, su cui Mark riponeva qualche speranza, dava sul nulla, come se si affacciasse dal bordo della scala. Fece un passo, sentendo scricchiolare il malmesso legno ai suoi piedi, ed alzando lo sguardo spaventato da terra vide due uomini di fronte a se. Il primo era solo un'ombra scura completamente immersa nell'oscurità parziale della stanza, l'altra invece...
Sono io! Pensò.  L'ombra diede uno spintone al Mark della stanza, facendole schiantare violentemente contro il tavolo.
«Cosa stai facendo?» Gridò il vero Mark, cercando di fermarlo. Non appena poggiò la mano sull'uomo-ombra, però, ne percepì l’immaterialità, la sua completa inconsistenza.
Non è reale! Intuì. Deluso, si fermò ad assistere alla scena.
Mark vide L'uomo-ombra colpire brutalmente il suo alterego sul volto, facendolo ruzzolare sul tavolo. L’ombra lo immobilizzò stringendogli il collo e prese un coltellaccio dal tavolo. La vittima lo pregò, supplicò, ma nulla servì a fermarlo. L’arma calò con violenza e, sul petto del bersaglio. una macchia rossa prese a spargersì. L'uomo/ombra imprecò, lasciando Mark in agonia sul tavolo ad un passo dalla morte.
Una luce bianca rischiarò la scena, facendo svanire la stanza di legno e sostituendola con una seconda stanza bianca, in tutto e per tutto identica alla precedente. Mark era nuovamente scosso e spaventato, non in grado di capire come agire e comportarsi.
«Stai bene?» Sentì. Era la voce di Mercy, che mai gli era parsa tanto soave, che riuscì con il suo tono dolce a rassicurarlo ed a calmarlo leggermente.
«S-si» borbottò Mark «che cos'era quello?»
«Scendendo le scale siamo entrati più in profondità nella tua memoria, Mark. Quello era il tuo ultimo ricordo. Pare che qualcuno ti abbia ucciso»

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Capitolo 2
*** La Stanza dei Balocchi ***


Capitolo 2 - La Stanza dei Balocchi



«Io... Io quindi sarei morto? » Chiese Mark allibito.
Si sentì vuoto, come se una gigantesca bolla di nulla gli attraversasse lo stomaco trascinandolo in una fredda apatia. I suoi occhi, ora gelidi ed inespressivi, calarono sul volto pensieroso di Mercy, che sembrava piuttosto preoccupata. Continuò a rigirarsi la barba ispida fra le dita, posseduto da un nervosismo che  rendeva i suoi movimenti goffi e poco fluidi, nonché piuttosto imprecisi.
«Non è detto che tu sia morto» rispose lei, con stampato sul volto una strana espressione che Mark trovò indecifrabile. La piccola per qualche motivo, ciondolava la testa a destra ed a sinistra, come se seguisse un ritmo che non esisteva se non per lei. 
«Ricordi nulla di nuovo?» chiese lei, dopo essersi fermata.
«No, purtroppo. Limitiamoci ad andare avanti, sempre che serva a qualcosa».
Un nugolo di piccoli puntini neri colorano la parete opposta a quella di Mercy, espandendosi come una macchia di inchiostro fino a formare una massa nera omogenea la cui forma rimandava ad una piccola porta ad arco a sesto acuto, i cui battenti, di un nero leggermente più tenue, sembravano essere di un robusto metallo annerito.
«Andiamo!» Disse Mark, come a volersi far forza. Si avvicinò con passo incerto alla porta, che si aprì alla minima spinta emettendo  uno sgradevole cigolio, esattamente come la porta di legno marcio della prima stanza.
Un odore strano, simile a quello della plastica, si infilò debolmente nelle narici di Mark, muovendosi come un sottile strato di fumo invisibile, tanto leggero da non essere di alcun fastidio. Di colpo le luci della stanza si accesero  rivelando a Mark il suo contenuto.
«Cosa vedi cosa vedi?» Chiese Mercy incuriosita.
Una quantità gargantuesca di balocchi di ogni tipo riempiva l’intera stanza, dal pavimento al soffitto. Erano disposti senza alcun ordine o logica, ammassati attorno alle pareti in modo tale da lasciare un angusto sentiero al centro, sentiero nel quale non mancava qualche sporadico giocattolo caduto dalla piccola montagna, ricca di colori e di facce sorridenti.
Peluche, pupazzi, robot trasformabili, costruzioni, macchinine... Non mancava davvero nulla. Mark camminò per il passaggio scavato tra le due ali di giochi, ma la quantità di materia lo annichilì, facendolo sentire debole ed impotente.
«Ho trovato il paradiso» disse, accennando un sorriso sarcastico «il paradiso di un bambino di otto anni»
Mercy ridacchiò, facendosi descrivere la stanza con minuzia di particolari. 
«Che dovrei fare secondo te?» chiese Mark, al termine della lunga e dettagliata spiegazione.
«Sei in una stanza piena di giochi. Gioca!»
«Mercy, a voler essere ottimisti ho trent'anni. Con cosa dovrei giocare?»
«Beh io giocherei con quello che mi diverte di più. Ma non so a trent'anni come funzioni»
«Utilissimo consiglio» le rispose sarcasticamente.  
Mark cercò di rimuginarci sopra, ma non trovò alcuna via d’uscita da quel buffo posto all’infuori della soluzione che l’innocente bambina/avatar gli aveva ingenuamente proposto.
Prese in mano diversi modelli di macchinine, tutte dall'aria sportiva e riccamente colorate. «Ho sempre voluto una macchina come questa!» Esclamò, tenendo fra le mani un modellino particolarmente pregiato. Imitava una macchina di un rosso fiammante, molto bassa e dalle linee affilate, come tipico delle auto sportive o da corsa.
«Come fai a sapere di averla sempre voluta?» Chiese Mercy perplessa, portando alla luce una questione che Mark non aveva considerato.
«Beh... Adesso la vorrei, magari è un gusto che mi porto fin da piccolo»
«Forse» disse lei con tono allegro «avanti, fammi vedere quale preferisci!»
Mark spinse con un pigro gesto della mano l’affascinante macchinina rossa la quale, dimostrando di avere rotelle ben oliate, non arrestò la sua corsa se non dopo aver varcato la soglia che divideva le due stanze.
«Non mi piace!» Protestò Mercy, la cui voce parve delusa «È tutta... affilata!»
«È una Ferrari, non può non piacerti!» Protestò Mark con un tono insolitamente acuto «Le ragazze impazziscono per quelle»
«Sono macchine costose, vero?»
«Molto» annuì lui, cercando di immaginare come sarebbe stato poterne guidare una.
«Allora sicuro che non impazziscano per il portafoglio del padrone della macchina piuttosto che per la macchina stessa?» Mark rimase interdetto, del tutto incapace di argomentare «Vedi? La macchina è solo uno status symbol della ricchezza!» 
Le parole della bambina lo lasciarono di stucco. Era un punto che, molto ingenuamente, non aveva mai considerato. Dovette riconoscere che parlare con una donna del tutto astrusa dal mondo gli avrebbe fatto bene, una volta tornato nel mondo reale
«Parli bene per essere una ba...». Le parole gli si freddarono in gola, ghiacciandosi e fuoriuscendo con occultante  colpo di tosse in modo tale da rendersi incomprensibili. Lei non è una bambina, idiota! Pensò. Notando l’espressione di Mercy, intuì  come il suo tentativo offuscare il finale della frase si fosse rivelato un miserabile fallimento.
 «Scusa» borbottò sommessamente.  La bambina/avatar, ridacchiando, lo invitò a provare altri giocattoli.
Mark trovò vari oggetti che attirarono la sua attenzione: dei pupazzi a forma di panda antropomorfi, delle curiose spade ricurve di gomma ed un pallone da basket, col quale palleggiò dimostrando una certa abilità. Fu in quel momento, mentre la sua palla faceva su e giù rimbalzando tra la sua mano ed il pavimento, che rimembrò un dettaglio della sua vita alla quale era molto legato: il suo amore per il basket. Suo padre, sin da piccino, lo fece avvicinare a questo sport di cui lui stesso era grande appassionato, tanto da essere anche allenatore della squadra per cui Mark giocava alle elementari.  Ogni qual volta ce n’era occasione, due o tre volte l’anno, lo portava a vedere le partite dei Los Angeles Clippers, la squadra che entrambi avevano sempre tifato.
«Hai ricordato qualcosa!» Disse Mercy con voce allegra, mentre Mark bloccò avidamente  il pallone fra le sue mani, cercando di ricordare quali fossero stati gli ultimi risultati della sua squadra. 
«I Clippers, Mercy! Come ho potuto scordarli?»
«Ok, ma cosa sono questi Clippers?»
«Una squadra di basket, giocano in NBA! Davvero non li conosci?»
«No» rispose lei con voce arcigna  «ma mi fa piacere notare come tu sia rimasto sconvolto per aver scordato una squadra di basket, mentre non ti sia minimamente preoccupato della possibilità di avere una famiglia» 
Quelle parole furono per Mark una sorta di pugno nello stomaco, cosa che il tono amareggiato di Mercy non fece che rendere più pesante.
Dopo aver poggiato il pallone nuovamente a terra, una piccola porta, del tutto identica a quella dalla quale era entrato,  si formò sul muro posto di fronte all’entrata. Mark le diede un paio di strattoni, tirando a se la porta con le sue braccia magroline. Il tutto terminò con un brutto ruzzolone in terra, nel quale un piccolo pupazzo gli si  conficcò tra le costole, provocando in lui il desiderio di gridare una qualche imprecazione che per contegno trattenne. Osservò più da vicino la porta, notando come essa avesse , a differenza dell’altra, una minuscola serratura dall’aria arrugginita. Mi serve una chiave!  Pensò Mark.
Cominciò a cercare, guardandosi attorno e lanciando i vari giochi in tutte le direzioni. Non la troverò mai, c’è troppa roba! Si disse, ormai sfiduciato.
«Mi serve una chiave per andare avanti» disse a Mercy, che non sentiva ormai da un po' tempo «ma qui c’è troppa roba. Ci vorrebbero secoli per trovarla»
«Ne sei sicuro, Mark? In che modo una chiave nascosta potrebbe aiutarti a scoprire chi eri?» chiese la bambina/avatar. Mark si sentì lieto del suo conforto e del suo aiuto, che si stava rivelando piuttosto utile.
«Non può… a meno che la sua ubicazione sia legata a qualcosa che mi possa far tornare la memoria»
«Buona idea. Se ci pensi, la porta è comparsa quando hai trovato la palla. Forse la chiave comparirà quando avrai trovato qualcos’altro»
«Potrebbe essere vero, ma cosa?»
«Prova a frugare nella tua memoria, forse troverai qualcosa!» lo incitò Mercy.
Mark chiuse gli occhi, addentrandosi nella cortina grigia e spettrale che  ottenebrava la sua mente, nascondendone i recessi più oscuri e le esperienze più belle e dannate. Cercò di frugare nel suo poco materiale e ricordò un piccolo, insignificante dettaglio della sua infanzia, tanto minuscolo che apparentemente  la nebbia stessa si era dimenticata di stringerlo tra i suoi gassosi tentacoli. Riuscì ad aggrapparsi ad esso con la stessa avidità con cui un pirata si accaparrerebbe un tesoro lungamente cercato. La sua mente ricordò quella piccola informazione, di come da piccolo adorasse le costruzioni maestose, come ponti, grattacieli e strane strutture dalle strane forme. Per lui, ogni singolo viaggio in macchina con il padre diventava una piccola avventura, nella quale cercava di osservare bene quelle strutture per poi replicarle una volta tornato a casa. Si divertiva a renderle più grandi, più particolareggiate, più bizzarre e colorate.
Se da bambino avessi voluto costruire una castello od un ponte, cosa avrei utilizzato? Si chiese, ma l’illuminazione non tardò a giungere.
Aprì gli occhi, cercando quel gioco che già in precedenza aveva visto. La ricerca fu facile, poiché per via del suo insito disordine non si era premurato di risistemare quella piccola bustina rosa al suo posto all’interno della montagna di giochi. Abbassò lo sguardo sul sentiero trovandola lì, pronta ad essere aperta al centro della sala.  Tirò la zip  con un veloce gesto della mano ed una notevole serie di mattoncini colorati, di diverse forme e colori, si riversò in terra,. 
 «I Lego!» esclamò Mark allegramente «Li adoravo quando ero piccolo! Mercy , vuoi vedere cosa riuscivo a costruirci da pi... » prima che potesse finire la frase, sentì quelle parole bloccarsi in gola. Per un attimo sentì la sua testa gonfiarsi ed esplodere. Le immagini nella sua mente si fecero confuse, contorte, mano mano sempre più oscure, finché infine tutto fu nero.
Mark aprì gli occhi dopo un tempo imprecisato, impiegando diversi secondi per schiarire la vista.
«Mark! Mark!» La voce di Mercy, dolce e spaventata, si sparse per tutta la stanza, pugnalando la sua già dolorante testa «Maaaaaark!» Gridò nuovamente, con sempre più vigore.
Mark riuscì, a fatica, a recuperare  lucidità sufficiente per mettersi seduto «Sto bene, sto bene!» Disse con un tono infastidito  «Fammi riprendere, diamine!»
«Ero solo preoccupata per te» obiettò lei «Credo tu abbia ricordato troppe cose tutte insieme»
«Probabile. Lasciami fare un resoconto» disse, rimettendosi in piedi lentamente e traendo un rumoroso sospiro «Io sono Mark, ho circa trent'anni ed ho barba e capelli neri. Sono alto e magro. Mi piacciono le auto sportive, mi piacciono sin da piccolo. Mi piace il basket e tifo per I Los Angeles Clippers e... sono un architetto!»
Mercy emise uno strano suono, simile ad una sorta di "Yuppie!", ma di difficile identificazione. 
«Sono un mucchio di dati!» Disse allegramente «E facevi un lavoro che ti è sempre piaciuto! È una cosa rara al giorno d'oggi»
«Già...» Rispose. Prese in mano un mattoncino di color rosso che,  non appena venne toccato, si trasformò in una strana chiava quadrettata  «E come immaginavo, ecco la chiave» disse.
«Vedi? Ci dovevi ragionare, cercare cose a caso non porta a nulla!» rispose Mercy, con tono soddisfatto
«Hai ragione!» annunciò «Io scendo, a tra poco!».
la bambina/avatar  lo salutò a sua volta, dopodiché Mark, con piglio deciso, superò la porta che, nonostante l’apparenza robusta , si mosse al primo contatto con la sua mano, quasi come se non avesse peso. Si ritrovò sommerso in una sorta di universo blu acceso, dove tanti piccoli pianeti colorati ruotavano intorno a lui.
Sembra di stare in un cartone animato! pensò.
 Scese le scale contornato dall' allegra miriade di colori che lo circondava. Ad ogni suo passo, come a volersi prendere gioco di lui, partivano buffi effetti sonori, che sembravano essere stati messi lì a ridicolizzare ogni suo movimento.
 C'era un solo dettaglio che, in questa strana ambientazione, sembrava stridere. Le lucine verdi, come nella scalinata che l'aveva portato alla seconda stanza bianca, brillavano vigorose lì in alto. Per qualche motivo,  Mark ebbe la sensazione che quelle luci lo fisassero malevole, mettendolo a disagio.
Gradino dopo gradino, sempre prestando molta attenzione a dove mettesse piedi, giunse alla porta che si trovava a pochi metri dall'ultimo gradino. Era una porta normalissima in legno, non diversa da quelle che si trovano in tutte le case.
 Un altro dei miei ultimi ricordi pensò. Fece un lungo, lento sospiro ed aprì la porta.
La stanza che si ritrovò davanti era in penombra. L'argentea luce della luna illuminava debolmente la stanza, filtrando flebile attraverso la raffinata tenda bianca che circondava la grossa porta finestra sul lato della piccola camera. Al centro vide un grosso letto matrimoniale, sopra al quale vide due persone, nude, intente ad abbracciarsi e baciarsi. 
Quello sono io! Intuì. La donna, che ad occhio doveva essere una sua coetanea, era assolutamente splendida. Aveva lunghi capelli rosso scarlatto che le scendevano lungo la schiena, avvolgendosi, ricciolo dopo ricciolo, sulle sue bianche spalle illuminate dalla luna, sino a cadere delicatamente sulle bianche coperte. L'attenzione di Mark fu, inevitabilmente, assorbita interamente dal suo fondoschiena, leggermente pronunciato ma estremamente sodo, esattamente come lui apprezzava maggiormente. 
Tanto fu assorto dalla gradita visione che, inizialmente, nemmeno ascoltò le parole scambiate fra i due.
«Grazie, Caty» disse il Mark del ricordo
«Di nulla, amore» rispose lei dolcemente, facendo imprecare il vero Mark per non aver ascoltato dall'inizio.
«Non devi preoccuparti» disse la donna «hai fatto tutto ciò che dovevi. Che Yulian faccia quel che vuole!»
«Traditore bastardo!» imprecò Mark «con tutto quello che abbiamo fatto per lui»
La donna lo accarezzò sulla guancia muovendo su e giù la sua mano delicata, intervallando le carezze con qualche bacio fugace.
 «Stento a crederci anche io» disse lei  «ma a volte va così. Che ci vuoi fare? Domani vai la, gli ricordi cosa abbiamo fatto per lui e gli chiedi di lasciar perdere la causa»
«Non lo farà» rispose Mark amaramente.
«Probabile. Ma tanto vale provarci, no?»
«Si, anche se saremmo dovuti intervenire prima. Ormai quei quattro tossici abbraccia alberi gli han fatto il lavaggio del cervello. Se solo nostro padre potesse vederlo…»
«Purtroppo tuo padre non c’è più, Mark» lo bloccò la donna, che pareva chiamarsi Caty «Yulian ormai non va più considerato come un fratello. È solo un avvocatello del cazzo corrotto e schiavizzato da quattro ecologisti ritardati per bloccare il progetto più bello che tu abbia mai fatto. Ripeto, non devi preoccuparti, amore. La Silph ha avvocati molto migliori. Li annienteremo» 
Il Mark reale ascoltò con attenzione il dialogo che, se da un lato aprì la strada verso alcune risposte, dall’altro aveva aperto un numero ancora maggiore di interrogativi.
«Hai ragione, Katherine. Ce la faremo» disse il Mark del ricordo, poggiando il volto sul morbido seno della donna coi capelli rossi e facendo desiderare intensamente al vero Mark di essere al suo posto. Pensò solo in un secondo momento a come quell’immagine non fosse che un ricordo di qualcosa realmente accaduto.
La stanza scomparve improvvisamente, sostituita nuovamente dalla solita stanza bianca. Mark, al solo pensare a suo fratello Yulian, provò un moto di disgusto ed odio, tanto forte da prevaricare qualsiasi emozione avesse mai provato da quando si trovava in quello strano posto. Un solo pensiero, ricorrente quasi quanto orribile, si stampò nella sua mente, che lo costrinse a formulare più volte quella frase in modo tale da poterla realmente accettare.
Yulian… che sia stato tu ad attaccarmi?

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Capitolo 3
*** La Stanza dell'Amore ***


Capitolo 3 - La Stanza dell' Amore



"Mercy, è una mia impressione o sei... cresciuta?" Chiese Mark perplesso. Mercy non sembrava più la bambina che aveva conosciuto fino a quel momento e, a vederla adesso, pareva avere più o meno dai sedici ai diciotto anni. Il suo corpo era cresciuto ed i suoi tratti erano diventati molto più particolari e marcati. Indossava un paio di occhiali dalla montatura trasparente, pigramente poggiati poco sopra la punta del suo naso a patata.  I suoi due splendidi occhi dai colori diversi, color smeraldo  quello sinistro ed azzurro pallido quello destro, assunsero un espressione divertita e la ragazza annuì con un cenno della testa, scuotendo la lunga treccia che le cadeva lungo la schiena.
"Forse un pochino" disse "Ho mangiato tanti di quei ricordi che guarda come sono diventata!". Mercy piroettò su se stessa, facendo volteggiare la gonna del bel vestito nero che indossava, il quale turbinò svelando le ginocchia della ragazza, che dopo essersi fermata sorrise, inclinando in avanti il capo e tendendo le mani dietro la schiena.
"Spiace bella" commentò Mark facendo spallucce "ma Caty era di un altro livello". Mercy gli rispose con una pernacchia.
"Andiamo avanti?" Propose lui che, per quanto non lo avrebbe mai e poi mai ammesso, aveva preso gusto nel vedere la sua vita ricostruirsi mattone dopo mattone nella sua memoria "Fai comparire la porta".
Mercy titubò per un istante, come se fosse indecisa.
 "C'è qualcosa che non va?" Chiese Mark dolcemente, sorpreso dal comportamento della ragazza-avatar.
"No è solo... Solo che volevo chiederti una cosa"
"Spara"
"Ora che bene o male ricordi qualcosa... Come va con Caty? Siete una coppia felice?"
"Come mai me lo chiedi?" Chiese Mark perplesso.
"Nulla in particolare, vorrei solo conoscerti meglio"
"Beh, stando a quanto ricordo il nostro era davvero un bel matrimonio. Battibeccavamo spesso, vero, ma di litigi seri ne ricordo uno, forse due. Ora che la la ricordo, non vedo l'ora di riabbracciarla. Mi manca da morire."
Mercy sorrise, annuendo con la testa "Sembrate davvero carini insieme"
"Grazie. Ed a proposito di gente carina, il tizio che entrambi abbiamo scambiato per trentenne ha 38 anni. Sono un figo"
"Avanza, scemo" disse Mercy ridacchiando.
Mark si diresse verso la porta e la aprì delicatamente. Si ritrovò immerso in una stanza buia, caratterizzata solamente da un enorme schermo anteposto ad una comoda poltrona nera, sulla quale Mark si sedette senza esitare. Improvvisamente lo schermo si accese, irradiando di luce bianca la cupa stanza ed accecando Mark, i cui occhi bruni si erano abituati in fretta al buio. Quando finalmente riuscì a riaprire gli occhi, lo schermo era nuovamente completamente nero e, piccola piccola nell'angolo in basso a destra dello stesso, vide una versione cartoonesca di Mercy salutarlo con la mano.
"Che ci fai qui?" Chiese Mark stupito. "Un puntatore che risponde ai comandi vocali ti farà comodo, no?"
Alzando lo sguardo, Mark vide nello schermo la scritta "Nuovo Gioco".
"Mercy, tu ne sai qualcosa?"
"No. Ma credo che dovremmo giocare, no?" Disse, andando a toccare la scritta camminando nello schermo. Partì un lungo filmato nel quale vennero mostrate una scuola e diverse ragazze, terminando sul primo piano di una ragazza con i capelli rossi. Sullo sfondo era rappresentato, sempre disegnato in stile cartone animate giapponese, quello che sembrava un campus universitario americano.  La ragazza dai capelli rossi, che nel filmato era stato spiegato essere un'amica conosciuta da poco, cominciò a parlare. "Non puoi entrare nel Campus vestito in quel modo, Mark. Il regolamento è chiaro" disse, mentre in una nuvoletta in fondo allo schermo comparivano mano mano dei sottotitoli che riportavano qualsiasi cosa dicesse "Sei venuto a studiare architettura in una delle università più prestigiose al mondo e ti presenti con calzoncini e maglietta da basket? Sei un imbecille!"
Al termine del rimprovero, comparvero sullo schermo quattro finestrelle con quattro opzioni diverse.
"Ignorala e vai a lezione, scusati torna a casa e cambiati, mandala al diavolo ed entra, inventa una scusa creativa".
" Ma... È un dannatissimo dating sim!" Commentò basito. Dopo un breve momento di riflessione, Mark capì lo scopo di quella stanza. "Devo rimorchiare mia moglie in un dating sim. Dopo questa, posso di aver visto tutto nella vita" pensò divertito.
"Mercy, dille che torno a cambiarmi"
Mercy annuì allegra e toccò la finestrella selezionata. Mark tornò a casa e scelse degli abiti vagamente dignitosi ma, conseguentemente, fece ritardo e venne sgridato dal professore. A fine lezione, venne messo a studiare un progetto con  un ragazzo suo dirimpettaio. Dopo una lunga sequenza di scelte nella quale Caty non comparve mai ed in cui scelse sempre l'opzione più gentile, partì il filmato finale nella quale vide, appartati in un angolo, la sua futura moglie ed un tizio biondo  baciarsi appassionatamente, dopo di che la schermata tornò nera.
"... Suppongo questo fosse il bad ending" disse Mark irritato.
Mercy annuì e, dopo qualche istante di silenzio, prese la parola. "Mark, davvero torneresti a casa per vestirti meglio se una ragazza che  conosci appena te lo dicesse?"
"No, ma nel modo più assoluto"
" Allora perché lo hai fatto?"
"Pensavo fosse più giusto, no?"
"Idiota!" Inveì Mercy "Lei amava te, no? Perché essere diverso da quel che sei, pregi, difetti e pessimo gusto nel vestire compresi?"
Anche questa volta, capì Mark, per andare avanti era necessario conoscere se stessi. La frase che Mercy le aveva detto nella prima stanza bianca, quanto più saprai di te quanto più ricorderai chi sei, aveva sempre più senso.
"Nuovo gioco. Veloce" disse e Mercy, allegramente, obbedì. Una volta arrivati alla prima scelta, Mark non pensò nemmeno alla risposta. "Mercy, scusa creativa"
"Vado!"
Subito dopo apparvero altre tre opzioni, che Mark lesse a voce alta "Prima: Dille che hai salvato un bambino da un incendio venendo al campus e che la giacca si è bruciata. Seconda: Dille che diversi studi di un' università di cui inventerai il nome, concordano nel dire che la comodità aumenta le capacità di comprensione del 40%. Terza: Dille che ci sono condizioni astrali che non potrebbe capire"
"Hai scelto male" disse Mercy "sono le scuse più assurde che abbia mai letto!"
"Solo due di queste. Metti la seconda"
Mercy, titubante, cliccò la strana scusa.
"Non esiste alcuna università di Papaya, Mark" disse nervosa Caty "mi stai prendendo in giro?"
Le opzioni, stavolta, erano si/no/forse ho letto male.
"Clicca no!"disse Mark e Mercy, sempre più perplessa, fece quanto detto.
"Bene facciamo così: se all' esame di dopodomani prenderai un voto più basso butterai questa maglietta e ti vestirai degnamente. Se no io verrò qui per un'intera settimana vestita come te".
 Le opzioni, ovviamente, erano si e no. Mark accettò e, dopo un rapido filmato riassuntivo, vennero pubblicati i risultati. Mark prese il secondo voto più alto dell'intera scuola, dietro una tale chiamata Maria.
"Eri un mostro all'università" commentò Mercy basita. Mark le sorrise "Avevi dubbi? Mica hai davanti l'ultimo arrivato"
Il gioco proseguì e Mark per la maggior parte del tempo derise Caty per l'abbigliamento a cui era costretta. Tuttavia, come Mercy ebbe premura di notare, piazzò qualche attento complimento strategico qua e la. Il gioco terminò all' ottavo giorno dopo l'esame, giorno in cui Caty venne, nonostante la fine della pena della scommessa, vestita con la maglietta dei Los Angeles Clippers. Al termine della giornata Caty chiese  a Mark di uscire e lui, ovviamente accettò. Partì, a quel punto, il filmato conclusivo, composto da svariate foto in successione che mostravano tutti i ricordi più belli che avevano vissuto insieme da quel momento sino al matrimonio. Ricordare tutte quelle esperienze, quei momenti e quei tempi strappò una lacrimuccia a Mark che, orgoglioso com'era, cercò di non farsi vedere da Mercy. Finita la sequenza, sullo schermo apparve una porta poco lontano dall'angolo da cui era comparsa Mercy "È una vera porta!" Disse lei sorridendo "Vai, ti aspetto giù".
Mark, ancora piuttosto commosso, annuì "Ah una cosa" disse Mercy da lontano, sintomo che fosse già tornata nella stanza bianca "mi sono accorta che stavi piangendo!"
Mark trattenne un imprecazione e varcò la porta. A differenza delle precedenti scalinate, quella in cui si ritrovò era avvolta in un clima oscuro e nefasto. Fredde mura scavate nella pietra circondavano e mantenevano chiuso l'ambiente, tanto basso che Mark dovette chinarsi per passare. Non appena il piede toccò il primo gradino una campana rintoccò vigorosamente, continuando a suonare la classica melodia da funerale. Scendendo le scale notò come le fastidiose luci verdi fossero visibili anche nell'ambiente chiuso, filtrando attraverso le mura come se fossero in grado di superare persino un muro solido. L'aria diventò, dopo pochi passi, stantia, come se quell'orrido corridoio fosse sigillato per decenni. Scese i gradini con paura, un istintivo terrore che si era impossessato di lui come un avido drago si impossessa dell'oro.
Mark cominciò a correre come se stesso scappando da qualche demoniaca creatura, tanto da rischiare più volte di ruzzolare giù dalle scale. Quando finalmente, frastornato dal suono della campana e dalla paura, giunse nello spiazzo antistante la porta notò come questa fosse molto  elegante e ben decorata, per quanto a qual punto glie ne potesse potesse interessare davvero poco. La apri e, per la prima volta, si ritrovò in uno spazio aperto. Il cielo era terso, con molte nubi nere intente a promettere pioggia ed a giustificare la rigida temperatura. Davanti a se vide un nugolo di persone, ognuna delle quali vestita di nero. Capì solo allora di trovarsi in un cimitero, precisamente durante un funerale. Corse verso la folla ma, stranamente, più vi si avvicinava, più il ricordo diventava instabile, mostrando un immagine distorta simile a quella di un televisore non ben sintonizzato. La bara era già nella fossa, col prete che mandava le sue ultime benedizioni. Si voltò e vide se stesso in abito nero ed il viso, nettamente più smunto e magro del solito, profondamente segnato dalle lacrime. Poco distante da lui vide anche Caty, in condizioni anche peggiori. Piangeva sommessamente e  sembrava debole, stanca a tal punto da far fatica a stare in piedi.
"Chi diavolo è morto di così importante?" Si chiese attanagliato dal dubbio "A giudicare dalla folla di persone doveva essere qualcuno di davvero ben voluto".
Si avvicinò alla bara, sperando di leggere il nome della vittima, ma il ricordo si fece tanto instabile da costringerlo a desistere. Sempre più confuso si voltò, vedendo un uomo avvicinarsi a Mark e poggiargli una mano sulla spalla. Lo avevano fatto in molti, ma lui in particolare lo colpì. Portava un elegantissimo completo nero, capelli corti ed una barba folta ma molto curata. Ma, come Mark notò immediatamente, escludendo questi aspetti era in tutto e per tutto identico a lui. "Yulian" capì  "Siamo anche gemelli, quindi" .
Mark e Yulian si abbracciarono, con quest'ultimo che lo incitò a farsi forza.
"Miriel mancherà a tutti noi, Mark" lo consolò fratello "Ma qualunque cosa succeda, qualsiasi cosa ti serva, ricordati: io sono qui per te. Non dimenticarlo mai".
Mark, a quelle parole, singhiozzò ulteriormente e, con la voce spezzata dal pianto, lo ringraziò. L'immagine tutta intorno si dissolse, trasformandosi gradualmente nella classica stanza bianca. Mercy forse disse qualcosa, forse no, Mark non ci fece caso. Nella sua mente c'era spazio solo per un quesito: chi era Miriel?

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Capitolo 4
*** La Stanza degli Orrori ***


Capitolo 4 - La Stanza degli Orrori



“Mark! Mark! Sei ancora fra noi?”
La voce di Mercy, che ormai sembrava decisamente più matura, risuonò e rimbombò nella testa di Mark, destandolo dal suo stato catatonico. Più il tempo passava, meno positiva si faceva la prospettiva di scendere ancor più in basso nei ricordi, che sembravano diventare sempre più oscuri ed amari.
“Scusa” rispose biascicando, cercando di riconnettere il cervello alla sua situazione attuale, reale o meno che fosse.
“Sto bene, sono solo un po’… spaventato”
“Non ti biasimo di certo” annuì Mercy. Il suo corpo era ormai quello di una ventenne: indossava una maglietta leggera e degli shorts, mentre i suoi capelli biondi erano raccolti in una lunga treccia che le calava dietro la schiena, ondeggiando ad ogni suo movimento.  Questa volta, diversamente che in passato, era anche ricoperta da un leggerissimo strato di trucco. Teneva i suoi occhiali, senza montatura e dalle lenti strette, poggiati delicatamente sul naso, cosa che le conferiva l’aria di una che la sa lunga. I suoi occhi, che risplendevano dei loro colori diversi, osservarono Mark lasciando trasparire tutta l’apprensione che poteva provare in quel momento.
“Hai qualche idea?” chiese lei aggiustandosi la treccia.
“Poche, confuse ed a cui preferisco non pensare. Chiunque sia questa Miriel, deve essere stato qualcuno di molto importante per me e Caty. Comunque vada andrà male”
“Probabile” dovette ammettere Mercy “ Però non essere triste, Mark: quel ricordo non era molto recente, eri visibilmente più giovane allora. Qualsiasi cosa fosse, dovresti averla superata”
Non necessariamente  pensò Mark, che però decise di tacere.
“Parlando d’altro, ti piace come sono cresciuta? Ormai sono un adulta!” disse Mercy, cercando di esternare la sua solita contagiosa allegria. La sua voce però, ormai matura ed adulta, se da un lato era  estremamente più melodiosa e seria, dall’altra aveva perso parte del suo candore e della sua innocenza. Quella era una voce senza dubbio splendida, ma non pura, non angelica come quella di una bimba o di una giovane ragazza.
“Molto!” disse Mark sinceramente “Ma fattelo dire, con quegli occhiali sembra quasi che tu voglia tirartela”
“Non è colpa mia se sono miope!” obbiettò Mercy, che ancora una volta non sembrò accettare particolarmente bene le critiche.
“Sei sicura di essere miope?” chiese Mark perplesso. Dopotutto, per quanto sembrasse in tutto e per tutto umana, era pur sempre solo un avatar. Un’intelligenza artificiale programmata probabilmente da un qualche nerd ciccione e peloso disperso in qualche parte del mondo, che ha completato i dialoghi nell’abbondante tempo a disposizione che gli veniva concesso tra una partita ai videogiochi ed una fantasia sulla ragazza più popolare della scuola che, ovviamente, in quanto lui nerd ciccione e peloso, non se lo sarebbe mai filato.
Da quando sono così cattivo?  Si chiese subito dopo, sentendosi parzialmente in colpa per il nerd ciccione.
“Senza non vedo che un mucchio di macchie colorate, fai te. Penso di essere anche gravemente miope”
Mark fece spallucce, ancora basito dalla curiosa malfunzione della sua alleata e compagna di viaggio.
“Vogliamo procedere?” chiese lei, che sembrava non riuscire a frenare il suo solito entusiasmo.
“Si, ma senza troppa fretta” rispose Mark, cercando di apparire il più possibile indifferente per nascondere la sua paura.
“Ok” rispose Mercy “sai, stavo notando una cosa: nella prima prova hai ricordato la tua prima infanzia, ovvero il tuo nome ed il tuo aspetto. Subito dopo ci sono stati i giocattoli, quindi la tua vera e propria infanzia ed adolescenza. Infine hai ricordato l’università, ovvero la post-adolescenza e l’ingresso nell’età adulta. Adesso, qualsiasi cosa succeda…”
“Riguarderà la mia età adulta” completò Mark “Non ci avevo pensato, in effetti. Suppongo che vista dall’esterno sia più facile da analizzare”
“Forse” disse Mercy “Dai, ora andiamo avanti!”
Mark, trovandosi a corto di scuse per rinviare ulteriormente la sua discesa negli anfratti più remoti, drammatici ed oscuri della sua memoria,  decise che non c’era altra scelta se non proseguire.
Una porta calò rumorosamente dall’alto, producendo un frastuono  insopportabile e facendo tremare l’intera sala. Mercy, che ovviamente non poteva percepire il piccolo terremoto che si era formato, era semplicemente basita per la goffa entrata in scena di quello che sembra essere lo sportello di una cassaforte, con tanto di codice da inserire. Prevedibilmente, lo schermo e la tastiera non erano solo a scopo decorativo, ma richiedevano l’immissione di una sequenza di quattro numeri.
“Immagino che tu non sappia il codice, vero Mercy?”
Lei si limitò ad alzare le spalle. Mark provò una lunga serie di combinazioni casuali,che ovviamente andarono a vuoto.
“Sono quattro numeri, per un totale di novemila novecentonovantanove combinazioni” disse Mercy “non si aprirà se riprovi a fare combinazioni a caso”
Mark sorrise, rivolgendo a Mercy uno sguardo sagace e furbetto.
“La password 0511” disse.
“Prova!” lo invitò lei. Dopo aver inserito le quattro cifre, la porta si aprì,  rivelando una stanza le cui luci spente impedivano di vedere qualsiasi cosa.
“Bravo! Come hai fatto?” chiese Mercy
“Semplice, é l’ultima data che ricordo. È da quando ho assistito al ricordo del funerale che quella data, il cinque novembre, mi ossessiona. Se ci pensi ha senso: per sbloccare i miei ricordi devo utilizzare i miei ricordi”
“Vedo che hai imparato!” sorrise lei, invitandolo a proseguire. Come consuetudine, le luci si accesero nella stanza, ma stavolta non corsero nemmeno il rischio di abbagliarlo. L’illuminazione era fornita da una lunga sequela di candele che bruciavano di una macabra fiamma verde, emettendo una luce fioca e funestando la stanza di una putrida cortina di fumo verdastro.  Sotto le candele ed il grosso candelabro centrale, che pareva essere animato da una pila di fuochi fatui, si stagliavano le smorte pareti di pietra grigia alle quali erano appesi quadri rappresentanti ritratti o nature morte. Molte delle espressioni dipinte sulle tele erano austere o melanconiche e per qualche strana ragione sembravano scrutare Mark con odio e disprezzo. Sotto un’ immenso quadro a tema religioso, nella quale era rappresentata la crocifissione di Cristo, v’era una altare ricoperto di una tovaglia bianca, che quasi brillava tanto era candida.
“Sono finito in un film horror” scherzò Mark “poco male. Non basteranno certe due zombie od un fantasmino a spaventarmi”
“Sarebbe divertente vederti fare il Ghostbuster!” disse Mercy allegramente “Hai idea di cosa fare per andare avanti?”
“In vero no” disse Mark, che cercò una porta in quel lugubre posto. Andò ad esaminare con attenzione il quadro, ma non trovò nulla. Almeno finché non si voltò.
Poggiate sull’altare vi erano quattro bambolotti, sporchi e semi distrutti. Avevano uno sguardo sadico ed assettato di sangue, tanto che a due di loro mancava un occhio, sostituito da un oscuro anfratto che avrebbe potuto nascondere un chissà quale legame con un chissà quale mondo oscuro. Mark si sentì mancare il respiro sin quasi a soffocare. Arrancò all’indietro, finendo solo col cadere addosso alla solida parete posta sotto il quadro.  Si rialzò goffamente, ripetendosi mentalmente parole di conforto.
È solo un bambolotto, è solo un bambolotto è solo un fottuto bambolotto. Queste parole, come un mantra, risuonarono nella sua testa. Ma tutto andò in fumo quando la più grossa fra queste bambole, una di quelle senza un occhio, rilasciò una fiumana di un liquido rosso e denso, che colò ed imbrattò la pregiata e candida tovaglia. Mark sbarrò gli occhi, paralizzato dal terrore. La vide muoversi e guardarlo con un espressione agghiacciante. Una voce stridula, macabra ed ossessiva uscì dalla sua bocca immobile “Aiu….taci…” disse con tono strozzato.
Mark, a quel punto, non fu più in grado di controllarsi. Si rialzò di corsa e lanciò un urlo stridulo, acuto e decisamente poco virile. Scappò fino a tornare nella stanza bianca, ove Mercy lo guardò con apprensione.
“Tutto bene Mark?” chiese. Ma lui era ancora troppo terrorizzato per risponderle.
“Non avevi detto che quattro zombie od un fantasmino non era in grado di spaventarti?”
“Q-Quelli no… ma… ma là dentro c’è d-di molto peggio!” balbettò goffamente.
“Vampiri? Ghoul? Chtulu? Cosa ci può essere di tanto orribile?” chiese Mercy perplessa.
“Loro… loro si muovevano e sanguinavano, Mercy. Non ho mai visto nulla di tanto orribile!”
In quel momento un leggero mal di testa scosse Mark, ricordandogli qualcosa che non avrebbe mai voluto ricordare.
Io sono pediofobico.
Alzò lo sguardo nel sentire una risata fragorosa. Mercy era letteralmente piegata in due dal ridere, tanto da arrivare a lacrimare e doversi togliere gli occhiali.
“Non… non puoi… avere paura delle bambole!” lo schernì lei tra uno schiamazzo e l’altro. Come mai da quando era finito lì, Mark si sentì umiliato.
“Va bene, ok, lo riconosco” disse cercando di coprire con il tono della voce gli schiamazzi della ragazza  “È una fobia un po’ desueta, tuttavia si basa su principi psicologici legittimi che sono presenti nel…”
“Ehi Mark” disse, mettendo le braccia ritte dietro la testa, piegando gli indici e i medi come a voler simulare le orecchie di un coniglio “Non chiamarmi mai più… bambola!”
A quelle parole riprese a ridere sguaiatamente, ignorando completamente il disappunto di Mark che dovette riconoscere, nonostante l’umiliazione, che la citazione a Lola Bunny era assolutamente notevole.
“Ok… ok… basta” disse Mercy, la cui espressione era ancora sconvolta dalle risate “Tor… torniamo seri”
“Grazie”  rispose Mark con voce impassibile “Temo di aver capito tutto fin troppo bene, vero?”
“Devi superare le tue paure, per quanto siano… come le hai definite? Desuete?”
“Si. Una di loro mi ha chiesto di aiutarle, ma non so come”
“Avevano qualche particolarità queste bambole? Prima hai detto che sanguinava, o qualcosa del genere”
Mark ripensò con  orrore alla scena, tanto che ebbe un brivido gli percorse la schiena.
“Erano tutte rotte e rovinate… Non mi dire che…”
“Si Mark caro, devi sistemare quelle bambole”
L’uomo scosse la testa, sospinto dal suo istinto di sopravvivenza a non muovere un passo. “oh no no no no!” disse “Non ci penso nemmeno di rientrare in quel fottuto inferno!”
Mercy lo guardò con espressione seria, che venne intervallata da un qualche residuo della risata precedente. “Mark, sei un uomo sposato di trentotto anni. Dimostra un po’ dignità, diamine!”
Quelle parole lo scossero, anche perché nel profondo era ben conscio di come non avesse poi tanta scelta. Rientrò nella stanza e scrutò le bambole, le quali parvero contraccambiare lo sguardo.
Si sono anche voltate nel frattempo. Stronze. Pensò, avvicinandosi di soppiatto.
“P-posso aiutarvi?” chiese.
“Siamo… ferite…” disse la bambola grande, con una voce macabra e gracchiante.
“Come posso curarvi?” chiese Mark, cercando di dissimulare il terrore che provava.
“Portaci… i pezzi... sono nella vaschetta sotto il quadro bruciato”
Mark annuì, cercando con lo sguardo il quadro bruciato di cui aveva parlato la bambola. Lo trovò quasi subito, osservano l’immagine nella quale era rappresentata una coppia di cigni con il becco poggiato l’uno sull’altro. La parte a destra del quadro, alle spalle dei due immacolati uccelli, pareva essere bruciata, distruggendo la metà nella quale avrebbero dovuto stare eventuali cuccioli. Dietro un telo nero, che era sfuggito alla sua precedente perlustrazione della stanza, c’era una sorta di enorme scatola da scarpe, improvvidamente definita vaschetta dall’ orrida bambola.
Non appena tolse il velo, poco mancò che non perdesse i sensi. Un’infinità di teste ed arti di bambole, cosparsi di sangue marcio,lo fissavano con espressione disperata.
Gridavano con voce stridula e sofferente, mentre i loro occhi, per le teste che ancora li avevano, parevano iniettati di sangue. “Aiutami!” diceva la maggior parte di loro, ma c’era anche chi invocava pietà o chiedeva di essere salvata. Mark si sentì sul punto di impazzire. Un fiume di lacrime uscì dai suoi occhi, mentre inseriva la mano nella vaschetta alla ricerca dei pezzi di ricambio.
“Ti prego! Salvami! Queste parole risuonarono nella sua testa, mentre la mano sgusciava tra il viscido calore del sangue e la plastica. Sul fondo della scatola trovò una sacchetta. Non ebbe nemmeno bisogno di aprirla per capire che era esattamente quello che cercava. La tovaglia sull’altare, una volta bianca come la luce di un faro, era ormai vermiglia, imbrattata dall’enorme quantità di sangue che la fuoriusciva dalla bambola grande.
“T-tenete” disse Mark, porgendo la sacchetta a colei che gliel’ aveva chiesta. Il suo cuore cominciò a palpitare incontrollato ma, nel momento stesso in cui la bambola toccò il contenuto della piccola sacca, un bagliore illuminò la stanza. La luce solare filtrò dalle finestre che avevano preso il posto dei dipinti, rendendo quel posto molto meno lugubre. La bambola principale era rimasta nello stesso stato in cui si trovava in precedenza, mentre le altre tre avevano preso le sembianze di bambini in carne ed ossa, dal fisico sano e robusto. Questi, che parevano indossare la classica tunica verde acqua da ospedale, sorrisero dolcemente e svanirono camminando sospesi a mezz’aria verso la luce. La bambola grande lo guardò, pronunciando una sola parola con la sua voce gracchiante “Grazie”.
Per qualche motivo, la sua espressione sembrava essere ora più dolce e gentile, per quanto ancora in tutto e per tutto orrida.
“Perché tu non sei… come le altre?” chiese Mark, il quale la fissava non più con terrore ma con pietà.
“Per me era troppo tardi Mark…” la sua voce, si fece più debole, tanto che sembrava in procinto di affievolirsi sempre più e spegnersi come una candela.
“Tu già lo sapevi, vero? Volevi salvare loro”
“Si” sussurrò con le sue ultime forze “per gratitudine, Mark, ti donerò il ricordo a te più caro. Sii pronto ad accoglierlo, poiché non sarà facile”
Mark annuì, ma prima che potesse rendersi conto di qualsiasi cosa, svenne.
Quando riaprì gli occhi, di ritrovò nella stanza bianca, sotto gli occhi vigili di Mercy.
“Buongiorno! Sei stato pestato da una bambola?”
“Vai al diavolo” rispose Mark, sorridendo  “Come sono finito qui?”
“Ti hanno riportato due bambole. Devo riconoscere che sono piuttosto inquietanti, in effetti”
“Vedi?” la incalzò Mark, cercando di rimettersi in piedi. Dopo essersi dato una debole sberla sul viso come a voler essere sicuro di essersi risvegliato, osservò Mercy, che sembrava sul punto di scoppiare dalla voglia di dire o fare qualcosa. “Qualcosa non va?” chiese.
Lei sorrise. “Sentiamo un po’, come ci si sente ad essere padre?”
Mark ripensò solo in quel momento al dono della bambola, il suo ricordo più prezioso. Lui aveva una figlia, una splendida figlia di nome… Mercy.
“Certo che non hai molta fantasia coi nomi” scherzò la ragazza-avatar, notando la faccia sorpresa di Mark.
“Non può essere una coincidenza”  borbottò lui sommessamente, ma venne immediatamente bloccato dalla sua compagna d’avventura.
“Non lo è infatti. Il tuo legame con tua figlia è troppo forte per essere cancellato da un semplice reset. Non è più qualcosa che appartiene alla tua memoria, ma bensì qualcosa che appartiene a te, molto più in profondità di quanto la tecnologia possa scavare. Se a questo aggiungi che Mercy ha come consonanti M, R e C… è chiaro che tu mi abbia dato quel nome”
Mark dovette riconoscere che la spiegazione avesse perfettamente senso, ma dovette fermarsi per qualche istante per realizzare bene il tutto e ricordare i momenti passati con sua figlia. La cosa che gli diede più solievo, tuttavia, fu proprio il nome. Miriel non è lei!  pensò, dissipando la sua più grande paura.
“Come mai proprio una prova di coraggio, Mark? È strano associare un ricordo del genere a tua figlia”
“Beh… diciamo che quando abbiamo avuto Mercy sia io che Caty andavamo ancora all’università, tanto che lei dovette mollare gli studi per stare appresso alla piccola. All’epoca la paura di non essere all’altezza mi fece quasi dimenticare quella per le bambole”
Mercy annuì con aria seria, mentre Mark ripercorse mentalmente tutti i ricordi che lo legavano a sua figlia, che si fermavano a quando aveva più o meno un anno. Erano ricordi vaghi e sfumati, tanto che non era nemmeno in grado di guardare bene il suo volto o gli ambienti che li circondavano. La paura che aveva attanagliato il suo cuore fino a solo qualche istante prima svanì in un istante, sostituita dalla curiosità di raccogliere maggiori dettagli su di lei. Devo scoprire tutto su di lei! Pensò, recandosi sorridente e felice verso la porta che era comparsa sotto il quadro che rappresentava la crocifissione.
“Ehi Mark” disse Mercy, proprio un istante prima che potesse mettere piede sulle scale.
“Dimmi”
“Questa è… questa è l’ultima scalinata”
“Davvero?” disse Mark “Mi stai dicendo che…”
“Si. Ti manca solo una stanza prima di ricordare tutto ciò che ti manca”
Caty, Mercy… finalmente potrò riabbracciarvi! Pensò lui gioioso “Ti troverò ancora al piano di sotto, vero?”
“Certo, Mark. Io ci sarò sempre” rispose lei. La sua voce parve strana, quasi tremula nel pronunciare quelle parole. Ma Mark non vi diede peso.
Entrò in quella che era l’ultima scalinata, che si mostrò in tutto il suo ossessivo ed inquietante aspetto. Era una stanza delimitata da quattro pareti che parevano essere di vetro, alle quali erano appesi un’infinità di orologi, che contenevano al loro interno altri orologi che sembravano contenerne infiniti altri al loro volta. Il lento scorrere del tempo, scandito dai continui tic-tac-tic-tac, parve viaggiare su binari alternativi, che parevano un momento troppo lenti e quello dopo troppo rapidi. Sullo sfondo nero, che contornava i bordi dorati ed i quadranti bianchi di quegli angoscianti macchinari dediti a segnare tempi che non esistevano, si trovavano ancora quelle due orribili lucette verdi, che sembravano perseguitarlo al mero scopo di infastidirlo.
Devo ricordarmi di chiedere a Mercy se sa cosa siano pensò, mentre scendeva velocemente i gradini. La scala fu particolarmente breve, tanto che vedere la porta che lo avrebbe condotto al ricordo successivo lo sorprese non poco. Era una porta verde acqua a due battenti, con due finestrelle poste in alto.
Entrò in quella che altro non poteva essere altro che una stanza d’ospedale. Dei medici parlavano freneticamente, assiepati intorno ad un lettino. Mark, guardandoli ed udendoli, dedusse che  stavano cercando di rianimare una persona.
“Ti prego, Miriel! Non mollare” sibilò Caty, che si trovava alle sue spalle appoggiata a se stesso, che osservava la scena con sguardo vacuo ed il viso pieno di lacrime.
L’immagine si distorse sempre più, dando ancora una volta l’idea di un televisore sintonizzato male. Tutti i colori si mischiarono e contorsero insieme, facendo comparire Mark in un altro ambiente, appartenente ad un altro ricordo. Era un ufficio piccolo ma elegante, all’interno del quale si trovava, oltre ovviamente a Mark stesso, un uomo di mezz’età dall’aria triste, seduto dal lato opposto di una pregiata scrivania in mogano. L’uomo prese la parola, senza guardare il suo interlocutore negli occhi.
“Sono veramente dispiaciuto, Signor Hardy, ma non c’è nulla che noi possiamo fare. Le mie supposizioni, purtroppo, erano corrette: Miriel soffre di una rara malformazione cardiaca, che le impedisce di avere una respirazione regolare. È la causa del suo continuo ammalarsi nel corso di quest’anno e della debolezza cronica che la affligge. Non so veramente come dirglielo, certi drammi sono terribili da affrontare anche per chi li vede quasi tutti i giorni. Ma è da escludere che Miriel possa continuare a vivere per più di qualche mese ancora. Mi dispiace”
Mark, osservando la scena, sentì una sensazione orribile scuoterlo, lasciandolo quasi del tutto privo di forze. Una parte aveva ricordato quello che più di ogni altra cosa avrebbe voluto dimenticare.
L’immagine tornò dov’era in precedenza. I medici si agitavano intorno al letto, mentre il macchinario dedito a controllare il battito cardiaco continuava a suonare, sovrastando le voci di medici ed infermieri.
Bip… bip… bip…
Mark non aveva più bisogno di ricordare. Ormai sapeva tutto quello che doveva sapere, provava tutto il dolore che doveva provare. Aveva perso tutto, anche la capacità di piangere.
Bip… bip…bip…
L’apprensione nella voce dei medici aumentava ogni istante di più. Caty tremava, sembrava sul punto di svenire. Aprì la bocca come per gridare, ma non uscì alcun suono se non un orrido lamento.
Biiip… biiiip…biiiip…
Il ritmo di quel suono meccanico rallentò, cosa che poteva significare una ed una sola cosa. Si avvicinò al letto, ben sapendo cosa avrebbe visto. Un medico imprecò, segnale dell’ammissione della sconfitta.
Biiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiip…..
Un unico, lunghissimo trillo anticipò l’urlo disperato di Caty. Mark sgusciò tra i medici. Vide lì il cadavere di una bambina, una piccola e tenera entità che non poteva avere più di un anno.
“Ora del decesso?” chiese il medico.
“Otto e ventitre” rispose uno degli assistenti, osservando il suo orologio.
Il medico annotò quanto detto su un foglio, che Mark non poté non leggere. Il nome del paziente, segnato in alto, era chiaro.
Miriel Hardy.
Mark, senza più ombra di dubbio, capì che quella che aveva appena visto morire era sua figlia. Non seppe capire perché la ricordava con un nome diverso, quel nome poi. Ma non aveva voglia di pensarci. Sentiva un senso di vuoto dentro di sé che lo prosciugava e lo inghiottiva come un buco nero. Nulla sembrava avere più importanza di fronte a quel dolore immenso, tanto forte da non portare con sé tristezza, ma distruzione, una bieca distruzione di tutto ciò che un uomo, un genitore può provare.
 La scena si distorse ancora, proiettandolo in nuovo ricordo, ammesso che fosse un ricordo e non una fantasia od un sogno. Era una stanza grigio scuro, illuminata in maniera debole da una  piccola lampada che si trovava sopra un lettino. Una neonata, all’ interno della piccola struttura di legno, gemette. Mark si avvicinò per guardarla meglio, bramando almeno un’immagine stabile e chiara di sua figlia da viva. Si sporse per guardarla bene, vedendo quel piccolo frugoletto dai capelli biondi ed il naso leggermente schiacciato.
La piccola dormiva, ma Mark ebbe un dubbio improvviso, che colpì la sua mente come un pesante maglio da guerra. Sollevò la bimba, stringendola solidamente fra le mani. Miriel, che già sembra in procinto di svegliarsi, aprì molto lentamente gli occhi. Quello che Mark vide gli tolse il fiato, lasciandolo paralizzato mentre pesanti lacrime rigavano il suo volto. I due occhi che lo fissavano erano di colore diverso l’un dall’altro. Azzurro il primo, verde il secondo. 

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Capitolo 5
*** La Stanza dei Cuori ***


Capitolo 5 - La Stanza dei Cuori
 



La bambina, piccola e tenera come solo una neonata poteva essere, lo guardò per qualche istante con aria assente, dopodiché riprese a sonnecchiare placidamente. Mark faceva fatica anche solo a pensare,anche solo a rimanere in piedi. Avrebbe voluto urlare ma non ne aveva la forza, avrebbe voluto piangere ma non aveva più lacrime. Tutto ciò che si era costruito nella sua mente era andato poi distrutto. Sua figlia, la sua unica figlia, che sonnecchiava teneramente davanti ai suoi occhi era andata perduta per sempre, morta per un infame malformazione cardiaca contro la quale nemmeno la moderna medicina poté nulla. Erano passati più di dieci anni da quel giorno ed adesso, improvvisamente, quel dolore era saltato nuovamente fuori, dilaniandolo dall’interno come se un nugolo di cimici affamate lo avesse assaltato senza pietà alcuna.
“Miriel…” biascicò con voce debole e tremula. Si aggrappò al lettino, stringendolo con tutta la poca forza che aveva finché non sentì una vibrazione venire da una delle pareti. In quel momento Mark capì che quella non era che la stanza bianca, resa grigia dal suo processo di smantellamento e dismissione. Il suo viaggio era finito.
Mercy, anche lei con gli occhi resi rossi dal pianto, lo fissava da dietro quello schermo. Il suo volto era sofferente, rigato dalle lacrime e segnato da un dolore profondo e misterioso, quasi arcano. Qualcosa di ambiguo e lontano traspariva dai suoi bizzarri occhi etero cromatici.
“Ciao” disse con un fil di voce. Fu impossibile comprendere immediatamente se non volesse svegliare la bimba o se semplicemente non potesse parlare a voce più alta.
Mark la fissò. Nel suo sguardo ormai vacuo erano passate talmente tante emozioni da averlo reso vuoto, come se fosse esploso lasciando nient’altro che macerie.
“Voglio la verità, Mercy. Almeno ora. Chi sei tu?” la sua voce fu quasi minacciosa, tanto stanca e rotta dal pianto da risultare troppo complessa per essere analizzata.
Mercy, in quello stesso momento, scoppiò a piangere. Ormai, con quegli ultimi ricordi, era diventata un’autentica adulta. Era una splendida donna di circa trent’anni, dai tratti delicati e lo sguardo dolce che ben si sposava con il suo corpo, minuto e ben proporzionato. Sul naso teneva i suoi occhiali privi di montatura mentre i suoi capelli, che avevano preso una leggera sfumatura marroncina, scivolano liberi su un elegante tailleur blu scuro che copriva una candida camicia bianca. Il tutto terminava con una castigata gonna dello stesso colore del soprabito che la copriva sino alle ginocchia.  Il suo aspetto era quello di una autentica donna in carriera.
“Mark, io…” disse, ma lui non aveva più la forza né la volontà di aspettare.
“Che legame c’è tra te e Miriel?” disse, interrompendola con voce leggermente più alta e nervosa.
“S-scusami” borbottò. Era la prima volta che Mercy si trovava in evidente difficoltà. Cercò di parlare, ma le sue parole risuonarono deboli e incomprensibili.
“No, scusa tu Mercy. Non… non ce l’ho con te” la interruppe Mark, che sembrò aver ripreso il controllo di sé stesso “Però voglio sapere chi sei. Davvero”
Mercy, calmandosi, prese fiato. La sua voce risuonò rotta e debole, con frequenti interruzioni dovute al pianto. Prese fiato, come a volersi far forza, ed infine parlò.
“Mark, io sono Miriel”
L’uomo la guardò con un sorriso bieco ed inquieto. Nel profondo, era convinto di averlo capito da molto tempo ormai. “Miriel è morta” disse abbassando gli occhi.
 “Ricordi quanto ti dissi nella prima stanza? Siamo dentro la tua testa, Mark. Io non sono altro che la tua idea di Miriel. Io sono come tu pensavi che sarei… che sarebbe cresciuta. Per questo credevi che tua figlia si chiamasse Mercy, Mark. Inconsciamente hai sempre saputo chi io fossi”
Quelle parole furono per entrambi autentici macigni. Vederla crescere, averla vista bambina, ragazza ed infine persino adulta alimentarono in Mark quel dolore e quel rimpianto che pezzo dopo pezzo lo stavano annichilendo.
“Da quando sai chi sei, Miriel?”
“Da quando la bambola ti ha donato il tuo ricordo di me. Non lasciar trasparire nulla è stato un inferno ma… era ciò per cui sono stata creata”
“L’ M.R.C. può davvero tanto?”
“No, Mark. Sei tu che hai costruito tutto questo. L’M.R.C. lo rende reale e tangibile, ti fa vivere tutto questo e parlare con la tua immaginazione od interagire con i tuoi ricordi. Ma tutto questo è solo una tua creazione”
Mark sorrise istericamente. Ancora non aveva trovato la chiave di tutto, la risposta al perché tutto questo stava accadendo. La figlia che la sua immaginazione aveva creato era una creatura meravigliosa. Aveva la sagacia e la grinta di Caty, ma godeva anche del sarcasmo e del carattere allegro tipico di suo padre.
“Tu non sei mai esistita, Mercy”
“Solo nella tua fantasia”.
Questo spiegava tutti i dubbi che Mark aveva accumulato durante la sua esperienza: il fatto che fosse miope, il sarcasmo, l’avere un carattere così spiccato ed il fatto che provasse emozioni non banali, ma complesse e sincere come quelle di una persona reale.
Mercy piangeva. Sapeva di essere un’entità artificiale, ma scoprire di non essere che una fantasia sembrava esser stato distruttivo anche per lei. Mark la guardò, proiettando su di lei tutto l’affetto che non aveva mai avuto il tempo di provare per sua figlia.
“Io non voglio lasciarti…” disse lui, avvicinandosi sempre più allo schermo. Non poteva toccarla, abbracciarla, proteggerla. Tutto questo lo stava uccidendo dentro.
“No, Mark. Non puoi” disse lei. La sua voce fu decisa, sicura di sé “Io ho svolto il mio compito, non capisci? Devi andare avanti, papà. Per me è finita qui, qui…” la voce le si bloccò in gola, come se avesse bisogno di uno sforzo ulteriore per proseguire “quindici anni fa. Devi riabbracciare Caty, dirle che… dirle che avrei voluto volerle bene”
Mercy non ce la faceva più. Assieme ai ricordi di Mark, aveva ricreato anche l’innato affetto che provava nei confronti di sua madre e di suo padre. Ciononostante smise di piangere, ripristinando un piglio deciso ed una forza di cui solo la figlia di Caty avrebbe potuto disporre.
“Vivi, Mark. Dimenticati di me. Superami. Hai Caty, hai tanti amici e nulla al mondo ti vieta di fare un altro figlio. E finisci quel progetto, fallo per me”
Mark la osservò asciugandosi le lacrime. Ancora una volta Mercy lo aveva contagiato con la sua vivacità, col suo irrefrenabile desiderio di andare avanti col sorriso nonostante tutto e tutti. Era ora di crescere, anche a trent’otto anni.  Annuì con un sorriso. Doveva essere forte, doveva essere lui a guidare sua figlia e non viceversa. “Che progetto?” chiese.
“Lo vedrai tra poco” rispose Mercy sorridendo.
Uno schiocco sonoro, simile al suono di una bottiglia spumante che viene stappata, si propagò dalla parete alle sue spalle, rivelando la presenza di un’anonima porta completamente nera se non per la maniglia, che pareva essere fatta d’ottone.
“È ora di andare” disse la ormai donna da dietro il suo monitor, abbassando gli occhi. Mark annuì e si voltò.
“Ciao, Miriel. E grazie di tutto” disse con voce forte, lucida e paterna.
“Grazie per avermi creato” disse lei. Cercava di nasconderlo, ma aveva ripreso a piangere. Per lei era giunta l’ora di sparire, di tornare ad essere nulla più che un ricordo, un ricordo orribile per altro.
Mark camminò senza voltarsi fino alla porta, fermandosi solo per accarezzare con due dita il frugoletto nel lettino. Non appena toccò la maniglia, Mercy gridò. “Papà!” disse.
Sentirsi chiamare così fu un ennesimo colpo al cuore per lui.
 “Dimmi”
La ragazza sospirò, prima di parlare ancora. La sua voce tradiva l’emozione ed il dolore di cui quelle parole erano infuse. “So che non esisto realmente, so che non sono realmente tua figlia e che forse non avrei nemmeno il diritto di chiamarti papà, però, per quel poco che possa contare… sappi che per me sei un papà fantastico”.
Mark sorrise, senza voltarsi per non correre il rischio di non volersene più andare.
“Ti voglio bene, Miriel” sussurrò, per poi subito dopo varcare la soglia.

Superò l’uscio e la porta sparì, allontanandolo per sempre da Miriel. Era giunto il momento di andare avanti e capire cosa fosse successo negli ultimi giorni, chi lo avesse assalito e perché. Come dopo le lunghe rampe di scale che portavano ai suoi ricordi, un immagine si formò tutto intorno a lui, portandolo all’interno della sua memoria.
Si ritrovò in quella che sembrava essere una sala riunioni, con pulitissime pareti bianche ed una grossa finestra che occupava tutta una parete. Alti grattacieli fendevano il cielo come una pioggia di spade,  mentre una nefasta e cupa coltre di nuvole si estendeva in ogni dove, rendendo l’intera città grigia e triste. Intorno ad un lungo tavolo, anch’esso bianco ma con un’ovale di vetro oscurato al centro, sedevano una dozzina di persone dall’aria assorta che osservavano il Mark del ricordo descrivere nel dettaglio il progetto che stava presentando. Vedersi in giacca e cravatta lo fece sentire ridicolo, tanto poco era abituato ad indossarli.
“Con questo progetto, i nostri cari amici ricercatori della Silph S.P.A. avranno finalmente la possibilità di lavorare in luogo centrale della città, grazie al quale potranno ottenere il prestigio necessario ad ottenere ulteriori finanziamenti da parte delle sponsorship. L’area verde del parco verrà ridotta, ma la società si è impegnata a finanziare l’apertura di due spazi verdi nell’area vicina a Bickury Beach” disse con un piglio ed un carisma di cui, rivedendosi, non si sarebbe mai creduto capace.
Passò poi ad elencare le sezioni in cui sarebbe stato diviso l’edificio, finché non arrivò a parlare di quelli che sarebbero stati gli ultimi piani. Lì si bloccò per qualche istante, come se qualcosa gli impedisse di parlare.
“Gli ultimi piani… gli ultimi piani verranno interamente dedicati allo studio delle malattie e delle  deformazioni cardiache” disse. La sua voce, che era stata fino a quel momento squillante e vivace, si era improvvisamente resa malinconica e profonda . I presenti lo applaudirono, probabilmente conosci della sua sfortunata storia.
L’immagine di colpo si distorse di nuovo intorno a lui, trasportandolo in quello che riconobbe essere il salotto della sua abitazione. Vide sé stesso scompostamente seduto su di un grosso divano nero, intento a guardare il telegiornale e giocare distrattamente al cellulare. Indossava una vecchia maglia da basket sporca di sugo e non si era preso la briga di indossare un paio di pantaloni. Fu chiaro come Katherine non dovesse essere in casa, anche a giudicare dagli avanzi del ristorante take away orientale barbaramente sparsi sul tavolo. Una notizia, improvvisamente, sembrò destare la sua attenzione, tanto da costringerlo a staccare gli occhi dal telefonino.
Circa quattrocento persone provenienti da gruppi ambientalisti hanno manifestato quest’oggi nelle vicinanze di Lincoln Park. I manifestanti, per lo più giovani, hanno protestato contro l’approvazione da parte del comune della costruzione del palazzo della Silph S.P.A., che dovrebbe prendere posto nell’ala est del parco. Il servizio”
Subito dopo le parole della giornalista vennero mostrate le convinte proteste dei  manifestanti, che portavano con loro cartelli e cantavano cori generici contro le cause farmaceutiche. Quello che però né lui né il Mark del ricordo si aspettavano di vedere, fu Yulian, presentato come l’avvocato che avrebbe posto la questione di fronte al tribunale.
Abbiamo qui il legale dei gruppi di protesta, l’avvocato Yulian Hardy. Sig. Hardy, per quale ragione avete deciso di intraprendere le vie legali?” chiese l’inviata.
Per difendere quello che è un diritto di tutti, ovviamente. Non possiamo permetterci di essere divorati dall’inquinamento al mero scopo di finanziare una società farmaceutica. La forza delle lobby sta mettendo nuovamente in secondo piano gli interessi dei cittadini e non sono, io come molti altri per giunta, disposto ad accettarlo”.
La linea tornò allo studio, mentre la sua attenzione venne attirata dalle ingiurie che Mark stava gridando, ricche di rabbia e rancore “Tu, lurido figlio di puttana, su tutti proprio tu… Yulian!”
Lanciò con rabbia il telecomando in terra, mandandolo in frantumi. Si ricordò di quel suo difetto, di come quelle pochissime volte che si arrabbiava sul serio tendesse a lanciare gli oggetti in terra distruggendoli.
Mark ripensò alle parole che Caty aveva detto dopo la stanza con i giocattoli ed al suo astio nei confronti di suo fratello, che improvvisamente gli parve più che giustificato.
 Il  mondo intorno a lui mutò nuovamente ed il vago odore di muffa che infestò le sue narici gli suggerì in maniera chiara dove si trovava. Era una stanza di legno, al cui centro era situato un tavolo circolare dall’aria fragile. Udì sé stesso parlare in maniera concitata, senza tuttavia capire cosa stesse dicendo. Dopo un istante vide comparire dalla porticina di legno il suo alterego insieme a suo fratello.
Sei stato tu a cercare di uccidermi, quindi  pensò con rancore e disprezzo se sarò ancora vivo dopo tutto questo me la pagherai cara, lurido pezzo di merda.
Fu Yulian, che insolitamente era vestito con una sorta di camicetta a fiori e dei bermuda, il primo di cui Mark riuscì a capire distintamente le parole.
“Non importa che tu sia mio fratello. La giustizia deve prevalere”
“Giustizia? Tu la chiami giustizia Yulian? Che ti piaccia o meno, quell’edificio salverà centinaia di persone”
“Persone Mark? Da quando ti interessa delle persone? So perché vuoi quel palazzo. Gli ultimi piani, la ricerca… si fosse trattato di uno studio sulle malattie neurologiche, ad esempio, ci avresti messo la stessa grinta? Staremmo qui a parlare, in quel caso? Sei solo un egoista. Quando mi hai invitato qui nella tua casa al mare, pensavo volessi parlare seriamente della vicenda, non sbraitarmi contro”
“Io egoista? E dimmi, da quando ti interessi dell’ambiente? Nemmeno tre mesi fa hai difeso la Cordox Industries, che hanno avvelenato intere aree in Messico con le loro emanazioni. La dov’era questo tuo spirito ambientalista, eh?”
Yulian sorrise, piegando il labbro da un lato come era solito fare. Quell’espressione emanava un senso di arroganza e superiorità tale da renderlo odioso oltre ogni dire.
 “Oh, noto che hai studiato fratellino. Pensavi davvero me ne importasse qualcosa? Oh, no mio caro. Questo è il mio lavoro! Mi pagano per difendere questa o quella causa ed io lo faccio, nulla più”
“Ed il tuo prestigio è più importante di tuo fratello o… di mia figlia, Yulian?”
“Sei ridicolo. Credi che quello studio possa cambiare le cose? Sì, in un futuro troveranno la cura. Ma tua figlia è morta, Mark. Pensi forse che loro siano in grado di farla tornare in vita? Devi andare avanti. Te lo ripeto, nel caso in quindici anni non te ne fossi ancora accorto” Yulian sospirò, come a prendere fiato. Scandì le parole successive con molta chiarezza, come se temesse di non essere sentito “Miriel è morta”.
A quel punto Mark non fu più in controllo di sé. Spintonò suo fratello, facendolo caracollare sul tavolo, dopodiché lo colpì con un destro sul volto.
“No…” biascicò il vero Mark, assistendo in ginocchio alla scena. Ormai aveva capito.
Yulian fu troppo sorpreso per reagire. Prima che potesse fare qualsiasi cosa, si ritrovò immobilizzato al tavolo con la mano del suo aggressore intorno al collo.
“Non… Non posso essere stato io…” sussurrò nuovamente Mark, ma nulla e nessuno poté sentirlo.
Mark prese un coltellaccio da cucina dal tavolo e lo pugnalò nel ventre.
“Nooooo!” gridò un ultima volta. La vittima che aveva visto nel primo ricordo non era lui, ma il suo fratello gemello.
 Sangue scarlatto colorò la chiara camicia di Yulian, la cui espressione agonizzante segnava sempre più come la fiamma della vita in lui si stava spegnendo.  Mark si sentì divorare dal rimorso mentre, molto lentamente, la stanza di legno diventò sempre più bianca, fino al punto da costringerlo a chiudere gli occhi. Sentì un forte mal di testa, tanto pressante da renderlo incapace di pensare. Infine, tutto svanì nel nero.
“Mark… Mark mi senti?”
Quella che udì era una voce melodiosa, calda ed in qualche modo sensuale. Aprì lentamente gli occhi, come aveva imparato a fare dopo i continui abbagli che lo avevano colpito sino a quel momento.
“Mark, amore mio…”
Riconobbe quella voce. Era Caty. Sentì la sua mano, calda come tendeva ad essere in qualsiasi situazione, accarezzargli il viso. La prima cosa che vide furono due fastidiose lucine verdi, che non faticò a riconoscere. Ad emanare quelle luci era un strano macchinario, che un uomo vestito di una tunica bianca, forse un infermiere, tolse quasi immediatamente. Fu in quel momento che Mark capì di essere tornato nel mondo reale, sdraiato su uno scomodo lettino che da come si muoveva pareva avere delle rotelle alla base. Si guardò intorno, capendo di trovarsi in una sorta di stanza d’ospedale. Ricordava tutto della sua vita, sia quello che era avvenuto dentro la sua testa sia quello che invece era avvenuto nella realtà. Guardò Caty, la quale lo baciò sulla fronte, inumidendo con le lacrime il volto del suo amato.
Mark, con un fil di voce, chiese la prima cosa che gli passò per la mente “Yulian è…”
“Yulian si riprenderà, Mark” disse un uomo dall’aspetto austero e severo, che lo scrutava con profondi occhi neri  “La ferita del coltello è stata poco più che superficiale. Se collaborerai e ti dimostrerai pentito verrai condannato per aggressione a mano armata e non per tentato omicidio, come invece vorrebbe l’accusa. A proposito, non mi sono ancora presentato. Sono Damian Prescott, addetto alla verifica del Reset per il suo caso”
Mark annuì, tendendo debolmente la mano. “Mark Hardy” biascicò “Dove… dove sono? Perché io…”
“Ancora non ha ripreso tutte le informazioni, noto. Non si preoccupi, è del tutto normale, presto ricorderà quanto sto per dirle anche da solo. Abbiamo resettato la sua mente per sua stessa volontà, signor Hardy. Usiamo questo macchinario per verificare, una volta messo il colpevole o presunto tale a contatto con la sua stessa memoria ed i suoi stessi crimini, quanto vi sia il rischio che esso possa reiterare il reato e quanto potessero essere intenzionali le sue malefatte. Grazie a questo gioiellino abbiamo potuto scarcerare in anticipo decine di persone innocenti o che non avrebbero mai recato altro danno alla società. Lei, signor Hardy, direi che è proprio uno di quei casi, per quanto chiaramente dovrà scontare la giusta pena per i suoi crimini”
Sentire quelle parole per Mark fu una liberazione. Un paio di infermieri lo portarono in una piccola stanzetta, dall’aspetto anonimo, con orribili mattonelle bianche e gialle ed un’aria smorta che, per qualche motivo, gli concigliarono il sonno. Sentire la calore della mano di Caty stringere la sua lo fece sentire sicuro e protetto da ogni male.
“Caty” disse debolmente. Aveva sonno, molto più sonno di quanto potesse sopportarne.
“Dimmi amore” rispose lei con voce vivace. Era sempre lei, dei due, quella che incoraggiava l’altro.
“Miriel… ci vuole bene”. Mark chiuse gli occhi sorridendo, lasciando che la sua stanca mente potesse riposare e che l’oscurità lo avvolgesse nel suo soporifero manto .


 
EPILOGO

 
Una folata di vento scompigliò i capelli di Caty, che risplendevano argentei alla luce del sole. Se ne stava appoggiata su Mark, osservando la lapide intestata a “Miriel Hardy”.
 Fece un cenno con la testa e decisero di andare. Era un giorno tiepido e soleggiato, l’ideale per fare una passeggiata al parco. Sapevano entrambi che l’età non era ormai più loro amica e che quel privilegio, quello di immergersi nella natura verde e viva di Lincoln Park, non sarebbe durato ancora per molto.
Camminarono lentamente per diversi minuti, senza aver bisogno di dirsi nulla. Erano ormai passati più di cinquanta anni da quando avevano deciso di unire le loro vite e, nonostante le numerose difficoltà, i momenti drammatici e le inevitabili crisi, nulla era riuscito a separarli.
“Voglio sedermi un po’”disse Mark, avvertendo un fastidioso dolore alla schiena. Giunsero fino ad una panchina di legno, sulla quale si sedettero senza fretta. Non avevano scelto per caso proprio quel posto. Davanti a loro si ergeva il “Mercy Center Building”, il grosso grattacielo di cui Mark stesso era stato l’architetto. Il suo nome era ancora leggibile in una targa davanti l’ingresso.
 “Che ore sono, Caty?”
“Le 12,45. Siamo in anticipo di quindici minuti”
“Meglio così” sospirò Mark, cercando di aggiustarsi la sua inamovibile zazzera grigia, la quale non ne volle sapere di ricomporsi.
Caty rise, osservando il suo goffo tentativo “È da quando ti conosco che ci combatti” disse “non saprei dire se sei più persistente tu od i tuoi capelli”
Mark ridacchiò. “Beh, è facile non arrendersi quando si ha sempre vinto. Ma fosse l’ultima cosa che faccio, giuro che un giorno riuscirò ad avere una pettinatura sensata!”
“Se sono aperte le scommesse, punto tutto quello che ho sui capelli”
“Traditrice!” esclamò Mark, fingendo un tono offeso.
I due anziani coniugi continuarono a schernirsi finché un nugolo di persone non uscì dal palazzo. Il loro parlottare concitato ed allegro era il chiaro segnale di come fosse iniziata la pausa pranzo.
Quasi per ultima, insieme ad un paio di amiche e colleghe, uscì colei che stavano aspettando. Era una ragazza dai capelli neri tagliati corti, un piccolo naso leggermente all’insù e le labbra fine. Indossava una maglietta violacea con una sorta di strano orso disegnato sopra ed un paio di jeans piuttosto stretti. Non appena li vide, la giovane donna parve decisamente sorpresa e li salutò con un cenno della mano, per poi avvicinarsi con passo svelto.
“Ciao!” disse con una vocina volutamente acuta, quasi stridula “che ci fate qui in città?”
“Pensavamo di farti una sorpresa! Pensavi che ci fossimo dimenticati del tuo compleanno?” disse Caty, porgendole un piccola bustina arancione.
“Ehi, grazie!”
La donna li abbracciò con tale foga da fargli male. Aprì la bustina, trovandovi all’interno una piccola scatoletta di colore blu dal bordo vellutato. La aprì con espressione entusiasta rivelando un piccolo anello, con una pietruzza rossa a forma di cuore posta sulla cima.
“È bellissimo… e molto azzeccato!” esclamò sorridendo.
“L’ho scelto apposta scema, certo che è azzeccato” disse Mark “Leggi il bigliettino!”
La giovane frugò nella bustina, trovando un biglietto rosa con su disegnato uno strano  coniglietto dagli occhi grossi e l’espressione tenera.
“Che carino!” disse,  dopodiché lesse a voce alta le parole che Mark, con la sua splendida calligrafia corsiva, aveva scelto e scritto.
Quando un cuore non batte più, quello di qualcun altro batterà ancora più forte. Gli anni passano, portando con loro gioie e dolori. Ma quei cuori batteranno ancora grazie a te, esattamente come i nostri. E finché almeno uno di loro sarà in grado di battere e combattere, essi continueranno a vivere per tutti coloro che hanno ceduto.
Per la nostra Mercy, la migliore cardiologa del mondo.
Con Amore, Mamma e papà

*Beh, questo è quanto. Piaciuto come finale? Piaciuta in generale la storia? Fatemi sapere, ci tengo davvero tanto. Grazie a chi si è preso la briga di recensire tutti i capitoli ed addirittura fare teorie. E' stato davvero divertente, e qualcosa qua e là è stata anche azzeccata.
A breve comincierò una nuova Long (Massimo 10-12 capitoli) che però finirà nel genere Drammatica (perchè invece pure questa è stata una ventata d'allegria in effetti....) per quanto non mancheranno pezzi comici e spensierati. See ya Soon!
-Laky099

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