Queste non sono le mie memorie

di Daleko
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Pagina 1 ***
Capitolo 2: *** Pagina 2 ***
Capitolo 3: *** Pagina 3 ***
Capitolo 4: *** Pagina 4 ***
Capitolo 5: *** Pagina 5 ***
Capitolo 6: *** Pagina 6 ***
Capitolo 7: *** Pagina 7 ***
Capitolo 8: *** Pagina 8 ***
Capitolo 9: *** Pagina 9 ***
Capitolo 10: *** Pagina 10 ***
Capitolo 11: *** Pagina 11 ***
Capitolo 12: *** Pagina 12 ***



Capitolo 1
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Queste non sono le mie memorie

A ventidue anni dovrei fare altro, non so, qualcosa come trovarmi un lavoro serio invece di quel penoso part-time in libreria che non mi permette di comprarmi una casa mia. Vivo ancora con i miei genitori, ovviamente, e ancora spero di poter avere un futuro con la scrittura. Queste non sono le mie memorie, non sono così folle né ho avuto una vita così interessante, in soli ventidue anni, da poter scrivere una biografia. Chiamiamolo esercizio di scrittura, chiamiamolo sfogo. Non ho molti amici o, per meglio dire, non ne ho; non apprezzo molto compagnie diverse da un buon Hemingway e uno scotch in salotto, con la casa vuota e silenziosa a tenermi compagnia. Sono patetico? Non lo so, non riesco a peccare di superbia e mi rendo conto di scimmiottare, anche in modo piuttosto lezioso, grandi del passato che posso realmente incontrare solo nel mondo onirico quando la fantasia me lo permette.
Tendo a scrivere a mano, magari su fogli sparsi, volanti e mal apprezzati dalla società moderna, per poi ribattere tutto a macchina. Se ve lo state chiedendo posso assicurarvi che non vivo in una casa di montagna di metà novecento; scrivo dal nuovo millennio, in una moderna casa di città con connessione ad internet. Com'è che si chiama la nostalgia di qualcosa di mai vissuto? Non so nemmeno se esiste un termine per definire quel mal di vivere comune a molti scrittori; l'unico che mi viene in mente, l'unico lontanamente simile, è il pessimismo storico di Leopardi... Ma vi assicuro che non sono qui per una lezione di Storia, anzi, lungi da me il pretendere d'insegnare qualcosa a qualcuno anche se amo scrivere romanzi storici, magari ambientati nella fredda Pietroburgo di metà ottocento, nella Parigi settecentesca oppure nell'età dell'oro che amo così tanto.
Sto divagando di nuovo. Non ho ancora completato i miei studi, studio Lettere Moderne all'Università della mia città e mi ci trovo... Beh, mi ci trovo abbastanza bene da credere di riuscire a concludere il mio corso di studi a breve, presumibilmente con il massimo dei voti. "Come Pasolini" suggerisce la mia voce interiore, ma la verità è che sono uno scrittore mediocre che vive sognando un'epoca che non esiste più: ed è per questo che voglio tornare con i piedi per terra, parlarvi del mio presente nella speranza di riuscire ad apprezzarlo tanto quanto apprezzo un presente non più tale da molti decenni.

Il mio nome non credo che sia importante, ma voglio cominciare a descrivere l'ambiente che mi circonda. Di solito tendo a scrivere in camera mia, ché è particolarmente illuminata: i raggi del sole penetrano dolcemente dalla finestra al mattino, essendo la mia camera volta verso oriente, e la illumina per tutta la prima parte della giornata svegliandomi con calma. Nel pomeriggio invece, verso sera, il cielo che posso scorgere dalla mia finestra è il primo a tingersi dapprima di viola, poi di lilla e di rosa fino a volgere al rosso sempre più scuro, finché il blu notte non ricopre tutto con il suo manto stellato. Sotto alla finestra ho posizionato la mia scrivania, quella su cui scrivo e su cui c'è la mia macchina da scrivere, quella che mi accompagna con il suo tipico suono di battitura ad ogni singola lettera fino al termine della storia. Al momento ho un paio di romanzi incompiuti a cui mi dedico alternatamente, entrambi chiusi a chiave nell'ultimo cassetto della scrivania; i racconti brevi e le novelle, invece, vengono catalogati nel cassetto immediatamente sopra e anch'essi vengono chiusi a chiave. La mia adorata scrivania di mogano è il luogo più importante della mia camera, in cui non vi è altro se non un letto, luogo indispensabile dove riposare, una libreria ben fornita e un giradischi, dove posiziono la colonna sonora ideale per i miei pomeriggi di lavoro. Questo ad esempio è un pomeriggio afoso e per quelle che non sono le mie memorie ho scelto il secondo movimento della suite in Re maggiore di Bach, anche conosciuto come Aria sulla quarta corda.
Non credo che per il momento vi sia molto altro da aggiungere, se non che non sono un granché come ragazzo anche se ho fatto del mio meglio per risultare quantomeno accettabile. Ammetto di aver spudoratamente copiato l'aspetto di Hemingway, rifacendomi a quella "lost generation" che non ho mai avuto il piacere di incrociare nemmeno temporalmente, essendo probabilmente i miei nonni di quel periodo e non di certo io. Sono alto circa un metro e ottanta e questo mi basta per sembrare allampanato, forse in aggiunta al mio bere più che mangiare.
Ora è giunto il momento di metter da parte i fogli e riprendere a studiare; forse potrei continuare più tardi ma "tenera è la notte", come scrisse Fitzgerald, e chi sono io per decidere cosa il chiarore lunare deciderà per me?
Per adesso, addio.

 
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Capitolo 2
*** Pagina 2 ***


 
"In the Good Old Summer Time", cantavano gli Hayden Quartet all'inizio del secolo scorso. Mentre il calore del giorno lascia posto all'aria dolce della sera io resto seduto alla scrivania, con un bicchiere d'acqua con ghiaccio accanto a me ad allietare, assieme al variopinto tramonto che vedo al contrario dalla mia camera, dall'alto verso il basso in ogni sua sfumatura, la notte nascente. Nella mia veste da camera rifletto sugli avvenimenti di oggi, mentre il giradischi va suonando voci appartenuti a persone morte almeno sessant'anni fa... Mi sento così stanco a volte, così stanco di vivere avvinghiato con la mente ad un'epoca lontana che non potrà tornare mai più. Qualche tempo fa uscii per una passeggiata al parco; avevo con me "Uomini e topi" nella speranza di rendere le ore della mia esistenza pomeridiana un po' meno dolorose del solito, immergendomi totalmente nella lettura. Poco dopo l'offerta del denaro da parte di Candy per la fattoria fui interrotto nella mia lettura da una forte e allegra risata: nonostante l'alto tono il riso non fu sgradevole, e il mio nervosismo derivava solo dall'essere stato strappato dalla storia di George e Lennie con così tanta forza. Intenzionato a capire da dove derivasse quel suono fastidioso in una giornata così tranquilla alzai gli occhi, incrociando subito quelli di una bambina intenta a guardarmi con aria colpevole. Era graziosa: indossava un vestito bianco decorato da disegni di fiori colorati, un cappello a falde larghe anch'esso bianco e semplici scarpe bianche, di quelle aperte che non necessitano di calze. Ammetto che l'assenza di calze mi colpì particolarmente: il candore della sua pelle era alquanto piacevole alla vista, e impiegai qualche secondo per riportare lo sguardo al suo viso emaciato. "Mi dispiace!" si scusò con un filo di voce, notando forse del fastidio nei miei occhi. Aveva portato le mani a coprirsi le labbra in un'espressione di imbarazzato stupore, e mentre le lasciava ricadere sui fianchi potei notare altri dettagli del suo volto: le labbra pallide e le iridi cineree la rendevano alquanto graziosa ai miei occhi, allietandomi la vista. "Nessun problema" risposi con espressione seria prima di riportare lo sguardo al mio romanzo, intenzionato a riprendere la lettura benché turbato. La bambina non mi lasciò nemmeno il tempo di riaprire il tomo, socchiuso con l'aiuto dell'anulare come segnalibro, che subito corse a sedersi accanto a me. La panchina di pietra non era molto grande, e il suo avvicinarsi scosse la mia tranquillità. "Cosa leggi?" domandò con fare fanciullesco che, a ben pensarci, le si addiceva. Non credevo che la risposta fosse davvero importante; probabilmente non sa nemmeno che cosa sia un libro, riflettei, e risposi "Uomini e topi" con aria di sufficienza senza nemmeno rialzare lo sguardo dalla pagina inchiostrata. "John Steinbech?" ribatté lei ed io, non so se per stupore dato dalla risposta o per irritazione data dall'errore, mi voltai finalmente a guardarla. "Steinbeck" ribattei, lo ammetto, con un filo di ammirazione nella voce. La ragazzina dondolava spudoratamente le gambe nude e mi guardava, mani in grembo, con aria incuriosita. "Lo legge anche mia madre. Dice che Eliot è migliore, però" continuò con la sua voce chiara senza mostrarsi adirata, o almeno dispiaciuta per la mia correzione. Questo particolare mi lasciò alquanto sorpreso: nessuno resta impassibile alle correzioni, nemmeno se date con le migliori intenzioni. Sebbene avessi sempre auspicato in qualcuno una reazione del genere divenni ancor più algido di prima, anche se ancor oggi non so spiegarmene il motivo. Guardavo le sue gambette dondolare come pendoli alternati e la mia irritazione cresceva e cresceva fino a rendersi insopportabile. "Non è buona educazione interrompere una lettura" la rimproverai ancora, alzandomi lentamente e allontanandomi rigido come marmo. "Dove vai!" mi richiamò indietro; provai ad immaginarmela, le mani affusolate strette in grembo e le gambe sotto la gonna che seguono quel movimento a scatti, su e giù, continuamente... Non mi voltai. Mi richiamò ancora una volta: "Ma poi torni, vero?", ovviamente senza che ottenesse alcuna risposta.
Tornato a casa non riuscii a continuare la lettura: a dire il vero non ho più toccato il romanzo, cercando di dedicarmi esclusivamente agli studi. L'episodio mi è tornato in mente perché ieri, seduto come adesso alla scrivania, ho gettato una rapida occhiata alla finestra; lo sguardo mi è caduto in strada, dove ho visto un guizzo bianco e a fiori correre fuori dalla mia visuale. Non credo di averla immaginata, e il cappello m'impediva la vista della persona che si celava al di sotto delle falde. Una strana agitazione mi era montata in petto, e sarei corso in strada per sincerarmi della realtà di quanto visto se solo non fossi stato al primo piano; se fossi corso in strada dopo aver sceso le scale e aver fatto il giro dell'edificio non avrei trovato più nessuno in alcun caso.
Dovrei comprare una pipa, del tabacco, e cominciare a fumare.

 
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Capitolo 3
*** Pagina 3 ***




Marie.
Oh, quanto è dolce questo nome! Si diffonde nell'aere come un suono melodioso, come un raggio d'alba che giunge sul tuo viso.
Marie!
Un nome urlato nel pomeriggio ozioso, il richiamo per il canto di migliaia di uccelli dormienti. In un turbinio di fiori, ecco: ti ho vista...
 
*

Mi sento molto confuso in questi giorni. Non riesco a decidere cos'ascoltare, e mentre mi tormento per capire quale possa essere la scelta migliore fra Satie e Debussy son già finite le Gymnopédie. Perché oggi sono così attratto dai compositori francesi? Non so se davvero lo ignoro o se voglio solo costringermi a farlo; tremo, forse son malato; ignoro anche questo.
Ho riposto "Uomini e topi" e ho deciso di dedicarmi alle poesie de La rocca, ovviamente in lingua originale, di T. S. Eliot. Dev'essere passato molto tempo dall'ultima volta che ho letto delle sue poesie, che ho scoperto trasmettermi una strana agitazione. Sono arrivato alla settima, "In the beginning God created the world", per cui ho intenzione di finirlo prima di riporre anch'esso nella libreria che comincia a prendere polvere. Sì, temo d'esser malato; non riesco più a scrivere, non riesco più a leggere, ho una strana frenesia che mi muove di continuo e m'impedisce il riposo. Ieri l'altro ero tornato al parco con un libro di testo universitario: durante il pomeriggio il sole comincia la sua discesa nel mare e l'ombra è la più piacevole delle scrivanie. Ero tornato alla mia solita panchina con il silenzio e la solitudine complici e avevo finalmente cominciato a studiare con il solo cinguettio degli uccelli, dai nomi a me purtroppo sconosciuti, come vezzosa compagnia.
"Ciao John" mi aveva chiamato d'improvviso una voce cristallina; io mi ero irrigidito, restando col collo teso sul libro di testo. Mi ci è voluto qualche momento per riprendermi dal fiato corto, ché ero stato colto alla sprovvista. "Non mi chiamo John" ho ribattuto con tono forse troppo sgarbato, essendo la mia interlocutrice così animata da buone intenzioni: ho alzato il capo e visto, ovviamente, la ragazzina dell'altro giorno di nuovo ferma davanti a me. Indossava un altro vestito: verde come le gemme non schiuse, corte maniche ricamate e ginocchia scoperte come l'ultima volta. Mi sono fermato a fissare quelle giunture così diafane, irreali quasi nel loro candore: tutta la sua pelle era di quel colore, come se in quel corpo non ci fosse stata nemmeno una singola goccia di sangue. Ho rialzato debolmente lo sguardo e ho visto due occhi grigi scrutare nei miei, mentre un lungo indice affusolato si baloccava nei capelli lucenti che le cascavano sulle braccia. Quant'erano lunghi e lucenti, dello stesso colore del mogano che apprezzo così tanto! "Allora come ti chiami?" mi ha domandato, ma noncurante della risposta sono rimasto a fissare quel dito che, con movimenti circolari, era intento a disegnare ghirigori nell'aria. "John?" mi ha richiamato ancora una volta, questa volta strappando la mia attenzione verso il suo viso. Mentre sorrideva le sottili labbra pallide lasciavano intravedere una fila ordinata di perle bianche; la sua espressione, ch'era quella delle più infantili possibili, mi stava irritando oltremodo. "Quanti anni hai per importunare così gli adulti?" le ho chiesto piccato senza darle l'informazione richiesta; per tutta risposta lei s'è accigliata con un broncio estremamente femmineo. "Ne ho tredici. Non mi hai ancora detto come ti chiami" ha chiesto nuovamente, non demordendo ancora; purtroppo io avevo già deciso di voler ripensare abbastanza a quel momento, così ho ignorato ancora una volta la sua voce gaia e l'ho pregata: "il tuo nome, invece, qual è?"

 
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Capitolo 4
*** Pagina 4 ***




Questa mattina mi sono svegliato molto prima dell'alba; l'unico suono che si udiva all'esterno era il frinire dei grilli che accompagnava le mie notti e che m'induceva a riflettere sul mio stato d'animo così strano, così inusuale per me! Non riuscendo più a tornare nel mondo onirico abbandonato così prematuramente ho deciso di uscire a fare una passeggiata mentre il sole cominciava a far capolino all'orizzonte; così mi sono vestito indossando la mia camicia preferita, bianca di cotone leggero che porto con le maniche rimboccate sui gomiti, e sono sceso in strada a respirare l'aria del giorno che nasce. Ho passeggiato per circa mezz'ora senza meta prima di rendermi conto di dove le mie gambe mi avevano condotto: ero tornato spontaneamente al parco abitato solo dagli uccelli e da qualche sporadico podista. Dopo essermi guardato intorno con crescente confusione, non capendo perché sovrappensiero ero arrivato fin lì, inaspettatamente l'ho sentita di nuovo. "Aspetta! John!" una voce mi aveva richiamato a sé perforandomi con violenza la bocca dello stomaco. Mi sono girato quasi con titubanza e, con sorpresa, mi sono ritrovato davanti un uomo sudato.
Trentasei, trentasette anni circa e grossi baffi bruni portati in modo volgare, un po' più alto di me e davvero, davvero sudato; aveva una fascia da corridore stretta attorno alla fronte, ma dalla quantità di luccichii che emanava la sua pelle non doveva servire a molto. Ho distolto lo sguardo, disgustato, e l'ho portato sulla ragazzina ch'era al suo fianco. "Ciao!" mi ha salutato di nuovo con la medesima allegria; indossava calzoncini bianchi a mezza coscia, un paio di scarpe da ginnastica e una canotta dello stesso colore, ed era sudata anche lei. Ho distolto anche questa volta lo sguardo, riportandolo sull'uomo che mi guardava con aria interrogativa senza sapere come giustificare quella conoscenza. "Salve" ho iniziato in maniera affabile, schiudendo le labbra in un sorriso artificioso senza ottenerne alcuno in cambio. "Papà, questo è quel ragazzo che legge John Steinbeck ed Eliot come mamma" aveva cercato di presentarci la ragazzina; stranamente era riuscita nel suo intento, perché un momento dopo l'uomo mi ha teso la mano destra in un gesto amichevole. "Quindi è lei la persona di cui parla di continuo mia figlia! Che strano incontro, piacere di conoscerla. Io sono il padre di Marie" l'ho sentito scandire come da un altro luogo, un luogo composto soprattutto d'ansia. "Non credevo di meritare cotanta attenzione. Sono Federico" ero stato costretto a presentarmi e lei lo sapeva bene, perché in viso le si era dipinto un ghigno di soddisfazione. "Noi stiamo andando a fare jogging. Vieni con noi?" mi ha chiesto trepidamente la ragazzina dopo quella breve stretta di mano con suo padre. Ho cercato di allargare un sorriso di circostanza ma non credo mi sia riuscito bene quanto avrei voluto; i miei occhi, mio malgrado, vagavano sul suo viso privo di ciocche di capelli tirate indietro in un'elegante coda di cavallo. "Mi dispiace, Marie, non amo molto lo sport" mi sono giustificato brevemente prima di rivolgermi al padre. "Devo lasciarvi, a breve dovrò dirigermi verso casa" mi sono congedato, rivolgendo un ultimo "arrivederci" ad entrambi prima di allontanarmi a passo moderato. L'incontro occasionale non avrebbe avuto ritorsioni particolari sulla mia psiche se solo la ragazzina non mi avesse rivolto un'ultima frase di commiato: "ci vediamo domani, vero? A domani!".
Domattina andrò a comprare la pipa.

 
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Capitolo 5
*** Pagina 5 ***


Ho comprato la pipa. Dopo essermi esercitato un po' con il tiro e aver assaporato a fondo il MacBaren Scottish Blend sono sprofondato nella poltrona in salotto con un buon scotch anch'esso scozzese (tu guarda l'ironia!) e le opere di Belinskij per allietarmi la serata. Il giorno dopo mi sono svegliato di nuovo agitato senza alcun buon motivo, così ho preso la mia pipa, il pesante libro e mi sono incammninato verso l'alba. Questa volta ero intenzionato a dirigermi lontano dal parco; mentre mi godevo la brezza leggera del mattino penetrarmi nella camicia leggera però ci ho riflettuto su, decidendo che sfuggire a quello da cui vorrei allontanarmi non avrebbe portato mai a nulla. I problemi d'altronde non si rifuggono, si affrontano a testa alta!.. E così ho cercato di fare.


"Ciao!"; la voce mi fa sussultare anche se so già a chi appartiene. Alzo lo sguardo dal libro portandolo sulla brunetta con i capelli sciolti sulle spalle. Indossa un fermaglio azzurro come il vestito, semplice ed estivo; le scarpette laccate estremamente anni sessanta mi turbano più di quanto io non lo sia già; la ragazzina mi sorride sorniona, seppur dal suo sorriso traspaia quel tocco di colpevolezza a renderla più adulta ai miei occhi. "Ciao Marie" le rispondo richiudendo il libro e prendendo una boccata dalla pipa. "Ieri non sei venuto, ho pensato che forse non stai più uscendo il pomeriggio perché esci la mattina. Così sono scappata e sono venuta qui di mattina, papà oggi non corre e neanche io. Mamma e Alberto dormono, Alberto è mio fratello ma è più piccolo di me. Molto più piccolo di me. Hai comprato una pipa?" snocciola dondolando su se stessa; ha le mani congiunte davanti alla gonna in una posa alquanto pudica, stoltamente pudica data la lunghezza irrisoria dell'abito. Il mio sguardo scivola sulle sue gambe magre, domandandomi come facesse a correre pur restando così sottile; le sue ginocchia ossute, definite in un contrasto di luci ed ombre estremamente netto, mi mandano in visibilio. Deglutisco a fatica, trattenendo il cuore che mi ha intrapreso una corsa forsennata nel mio petto glabro; rialzo lo sguardo su di lei con espressione impassibile. "Sì, ho comprato una pipa" le rispondo in tono neutro, prendendo un'altra boccata. "Vuoi provare?" le domando dopo un attimo, spostando il bocchino dalle mie labbra per lasciar andare il fumo. Lei continua a guardarmi con i suoi occhi grigi ed io, per la prima volta, noto un particolare che finora mi è sfuggito: sulle gote e sul naso alla francese, alquanto grazioso, vi sono alcune efelidi estremamente delicate, d'altronde come il resto della sua figura.
"Sì" "Come?" "Sì, voglio provare" mi risponde quasi rimproverandomi per quel momento di smarrimento avuto nel guardarla. Si siede accanto a me quasi con un saltello, facendo svolazzare intorno a sé la gonnella azzurra; le ginocchia vengono serrate e le gambe aperte di sguincio. Resto immobile ancora per qualche istante riflettendo sulla situazione, poi le porgo la pipa. "Tieni. Non è facile usarla, ma puoi provare" ribadisco mentre le sue mani sottili mi sfiorano per prendere il piccolo oggetto di legno dalle mie mani. La ragazzina lo prende con delicatezza portandolo alle labbra, sfiorando il bocchino col labbro inferiore prima di appoggiarlo su di esso. Mi perdo: la sua lingua guizza sul fondo del bocchino della pipa, l'espressione curiosa muta verso il fastidio mentre le sua guance s'incavano per ricevere il fumo che tenta di aspirare...
Tossisce, spezza l'attimo ed io, trasalendo, riprendo la pipa dalle sue mani. Il piccolo corpo si accartoccia in un eccesso di tosse; inquietato faccio per batterle il palmo destro fra le scapole, non sapendo se possa servirle a qualcosa, e poggio involontariamente, en passant, la mano sinistra sul ginocchio più vicino alla mia gamba. Lo stringo: è freddo, scarno e posso sentire la forma dell'osso sotto il palmo della mancina sudata: l'accarezzo, ne saggio la consistenza liscia e quasi fragile mentre lei si riprende da sé. "Non mi piace la pipa" conferma la mia ipotesi con voce rauca prima di rialzare lo sguardo su di me. "Ho avuto paura, John" accenna un lamento lezioso che sottolinea sporgendo in fuori le labbra secche. Mi soffermo su di esse per una manciata d'istanti, allontanando lentamente la mia mano dalla sua pelle seppur sfiorandola con piacere ancora un'altra volta; sospiro provato, voltandomi dall'altro lato. "Sei una bambina, le bambine non dovrebbero fumare" mi lascio andare in un'esternazione irritata che non so spiegarmi prima d'alzarmi dalla panchina: ormai il sole è sorto, e una volta recuperato il libro dal mio fianco è giunto il momento d'andar via. "Dove vai? John! John!" cerca di richiamarmi indietro, ma io non mi volto; l'intensità mi ha bloccato il respiro.

 
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Capitolo 6
*** Pagina 6 ***



Beethoven, unica compagnia di quest'oggi.
Ho comprato uno specchio ovale molto grazioso, con una cornice dorata alquanto massiccia decisamente rococò. Ora è appeso in camera mia e non riesco a smettere di lanciare occhiate alquanto stranite verso la mia figura; non sono vanesio né ho mai amato molto il mio aspetto fisico. Sono, come già detto, allampanato e forse questo è l'unico particolare che ritengo in qualche modo piacevole agli occhi; il pallore mortale della mia pelle è dovuto al mio non uscire di casa più del necessario e il mio continuo ricercare, all'esterno, zone ombrate dove riposare. I miei capelli corvini crescono troppo velocemente e li ritrovo, puntualmente, in ciocche disordinate ai lati del mio viso nonostante cerchi di avere sempre una pettinatura ordinata e impeccabile come il mio abbigliamento. Gli occhi acuti, unica parte di me perennemente in movimento, sono del medesimo colore dei capelli e forse un po' troppo in basso rispetto alla fronte alta, quasi greca. Il mio naso, lungo e lievemente aquilino, termina su di un paio di labbra sottili e incolori; non c'è rosa sul mio volto, solo un vago color pesca durante le giornate assolate. Sono quasi completamente glabro, e nonostante i miei tentativi di curare una barba folta e ordinata i pochi, radi peli che crescono sul mio volto mi rendono somigliante più ad uno strano animaletto che ad un ventiduenne in salute; ma non me ne curo, è un vezzo e come tale passerà col tempo.

Insomma, oggi ho comprato uno specchio senza alcun motivo preciso: mi aveva preso una smania d'osservarmi, di guardare il mio viso riflesso in qualcosa e così, pur di non spendere inutilmente il mio tempo, ho deciso di soddisfare la mia improvvisa curiosità appendendo uno specchio nella mia stanza ove posso guardarmi e riguardarmi senza interrompere la mia scrittura. Ogni tanto mi sorprendo ad accarezzarmi il volto, la bocca, gli zigomi pronunciati nella mia magrezza: schiudo le labbra strette e aride e le saggio con i polpastrelli, arrivando agli angoli pungenti per poi smettere. Tremo, tremo! Sono malato, ho la nausea e non riesco a vomitare. Quanto tremo...

Quando questa mattina sono tornato a casa dopo la mia passeggiata ero turbato, così mi sono seduto in salotto. I miei occhi si alternavano fra la pipa di legno che stringevo ancora in mano e il libro poggiato sul tavolino; sprofondavo sempre più nell'alto cuscino vermiglio nella speranza di essere inghiottito, divorato, dilaniato da esso. La pipa mi dava un senso di profondo disgusto e il mio malessere aumentava nel guardarla, ma nonostante ciò non riuscivo a distogliere lo sguardo. L'ho avvicinata alle labbra malgrado il dolore che mi attanagliava lo stomaco; ho respirato a fondo il legno odoroso di tabacco, ho chiuso gli occhi e, disteso in quel modo grottesco nella poltrona, ho continuato a farlo per svariati minuti. Dopo aver quietato il battito accelerato del mio cuore sono tornato a sedermi in maniera compita, ho preso la busta di tabacco poggiata accanto al libro e ho deciso di accendere la pipa. In maniera lenta, estremamente lenta, ho avvicinato il bocchino alle mie labbra. Fremevo! Potevo sentire il sapore della lacca nera nonostante fosse ancora lontana alcuni centimetri, e più l'avvicinavo più scalpitavo. Il sapore che avvertivo era amaro, così amaro e ferroso da farmi temere di star perdendo sangue dalla bocca. Ho saggiato la consistenza della mia lingua con due dita, carezzando il tessuto alla ricerca di tracce rosse che invece non ho trovato. Sono rimasto così, con la pipa in una mano e l'altra bagnata davanti ai miei occhi, a chiedermi cosa stessi facendo; alla fine ho deciso di lasciar perdere quest'elucubrare senza alcun punto d'arrivo e ho finalmente poggiato il bocchino al labbro inferiore per poter aspirare.
Il suo sapore, ecco qual'era: potevo sentirlo arrivare con il MacBaren all'interno della mia bocca, contro la mia gola e fin su tra i pensieri, inebriante come un afrodisiaco. Ho spinto volutamente la pipa verso l'interno, arrivando a sfiorare con la lingua quel bocchino portatore di mali: lo stomaco, stringendosi, mi ha indotto un conato di vomito che mi ha spinto lateralmente sul parquet per non rovinare la mobilia.
Per oggi credo di aver fumato abbastanza.

 
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Capitolo 7
*** Pagina 7 ***


L'hiver, nous irons dans un petit wagon rose
Avec des coussins bleus.
Nous serons bien. Un nid de baisers fous repose
Dans chaque coin moelleux.

Tu fermeras l'oeil, pour ne point voir, par la glace,
Grimacer les ombres des soirs,
Ces monstruosités hargneuses, populace
De démons noirs et de loups noirs.

Puis tu te sentiras la joue égratignée...
Un petit baiser, comme une folle araignée,
Te courra par le cou...

Et tu me diras: "Cherche!" en inclinant la tête,
Et nous prendrons du temps à trouver cette bête
Qui voyage beaucoup...

A. Rimbaud - Rêve pour l'hiver




"Ciao di nuovo"
"Ciao di nuovo". Com'è fresca l'aria quest'oggi, durante quella che è diventata la mia passeggiata mattutina; tutto intorno a me è buio, illuminato solo dai lampioni che tentano di rischiarare il viale. Anche se l'alba è vicina i caldi raggi del sole sono ancora troppo lontani da noi, non riescono ad avvolgere le nostre figure ombrate: la nostra presenza qui è silenziosa ed eterea come un segreto.
"Non è troppo presto per uscire a giocare?"
"Non è troppo buio per leggere qualcosa al parco?" ribatte alle mie parole con un sorriso furbesco ad adornarle il viso. La osservo, mi osserva: com'è piccola, com'è delicata. Se fosse più vicina il suo viso potrebbe sfiorarmi lo stomaco; com'è fragile, la piccola Marie! Potrei stringerla in una morsa, afferrarla, dipingere le sue braccia nivee di fiori violacei con la sola pressione delle mani...
"John?"
Richiama la mia attenzione; mi riscuoto dai pensieri maldresti che mi attanagliano la mente, arrossendo goffamente. Il vestito rosso che le oscilla addosso resta stretto fino ai fianchi, ove si apre come un morbido ventaglio che le arriva, come sempre, a metà delle cosce. I lunghi capelli color del mogano fluttuano, ad ogni suo movimento, intorno alle spalle; solo un fermaglio spezza quella lucida e morbida contuinità, un fermaglio anch'esso rosso stretto sull'orecchio con un fiocco infantile.
"Dai, andiamo sulla panchina!" esclama all'improvviso, forse infastidita dal mio silenzio; mi afferra una mano e cerca di trascinarmi con sé. Il tocco lieve è quasi gelido; solo adesso mi accorgo che anch'io, che non soffro le basse temperature, ho le maniche della camicia abbassate mentre il vestito della ragazzina ne è sprovvisto. Mi acciglio, voglio dire qualcosa e per questo torno a bloccarmi sul lastricato del viale; lei non riesce a tenere la presa su di me e, scivolando via, rovina a terra.
"Ragazzina?" l'appello curiosamente con una vaga preoccupazione; la vedo scossa da un tremito, sento un lamento e mi avvicino cautamente: scorgo del sangue sulle sue dita, il sangue che non ho trovato in me meno di un giorno prima.
"Ti sei fatta male?" domando stoltamente mentre lei, sedendosi sul lastricato, mi mostra il ginocchio destro ferito dalle pietre. Del rosso le scivola lungo la gamba in una densa goccia di sangue che rischia di colorare ancor più intensamente la scarpetta in tinta con il resto, così porto un indice a frenare la sua corsa verso il basso. Il suo sangue m'impregna il dito, l'odore di esso mi arriva con tale forza da stordirmi; risalgo lungo la scia che già comincia a seccarsi sulla sua pelle, arrivando al ginocchio ferito ma senza toccarlo per non aumentare il suo dolore. Osservo il dito con confusione; la goccia di sangue brilla sulla mia pelle e mi sento saturo del suo odore e della sua vista, così la porto alle labbra con desiderio. Ecco qual è il suo sapore, ecco qual è il sapore delle sue carni! Socchiudo gli occhi con un tremito mentre lei torna a lamentarsi con un flebile "John, mi fa male..." nel tentativo di riscuotermi. Risalgo con lo sguardo lungo il suo corpo, fissandomi nelle sue pupille color pece. Vedo il mio riflesso o è solo un mostro quello che mi guarda di rimando? L'angoscia mi assale, mi assale! Non potrò ascoltare mai null'altro all'infuori di Wagner, penso, e torno a sfiorare la ferita con il dito umido. "Non preoccuparti, è solo un taglietto" la rassicuro saggiando i contorni del suo dolore, cancellando il sangue che le sporca la pelle. "Riesci a camminare?" domando senza fiato mentre lei scuote la testa, una risposta infelice che mi porta ad alzarmi con un sospiro.
Tendo le braccia, ho ancora il dito sporco di sangue ma lei non se ne cura; le sue braccia sono verso di me, fiduciose e in attesa; non posso andar via, una mano va sotto le sue gambe mentre l'altra, quella macchiata di peccato, dietro le sue spalle. L'alzo, è mia: fra le mie braccia sento il suo peso, è sollevata da terra e quasi sparisce nel mio petto gracile. Quant'è piccola, oh, quant'è fragile...
"Mi accompagni a casa?" domanda insicura, ma io non riesco a risponderle; non sento più la lingua, le gambe, le braccia. Il cuore mi è impazzito in gola: morrò?
Annuisco lentamente, poi comincio a camminare mentre la sua veste ondeggia nel mio campo visivo. Cerco di non guardarla, ma come si può non guardare qualcosa ch'è davanti ai tuoi occhi? "Mi dispiace" sussurra "non volevo rovinarti la passeggiata. Ti sei sporcato. Accidenti, mi sento così in colpa" continua con voce flebile e melliflua. Avverto un movimento del suo capo verso l'esterno, abbasso lo sguardo su di lei; tende il viso verso la mia mano, scorgo ogni ciglia stagliata contro gli zigomi degli occhi socchiusi, il naso all'insù che mi sfiora la carne, le morbide labbra che si schiudono e avvolgono il mio dito. La sua lingua ruvida guizza sul suo stesso sangue per qualche secondo di troppo: emetto un singulto con occhi acquosi, gonfio il petto per cercare l'aria che ha smesso di arrivare mentre torno a guardare il suo viso pallido ch'era sfumato ai miei occhi per qualche momento. Ha ritratto le sue labbra dal mio dito, ecco, ricompare da quella rosa che ha sul volto: posso sentire il vento intirizzirlo, è umido, è suo. Odora di lei, lo so anche se non l'ho portato al viso: quel sapore metallico che prima impregnava la mia bocca ora è anche il suo. "Marie, piccola Marie!" mormoro fremente mentre sposto la mano sulla sua nuca, sporcando i suoi capelli limpidi e racchiudendo il suo piccolo capo nella mia mano: com'è piccola, com'è minuta! Sfioro con lievi versi di piacere il suo collo sottile con le mie labbra, le mie guance lisce e saggio le sue con le labbra e con i denti, le orecchie nascoste tra i capelli, la sua fronte e il suo naso adornato di efelidi mentre le sue mani fredde si tengono spasmodicamente a me. La vedo, la mia piccola ninfa, saggio il suo essere stringendola a me mentre strofino le mie labbra alle sue, premendocele contro con forza, quanta forza che riesce a sopportare senza emettere un gemito! Sento il suo alito su di me, il mio è in lei: il sapore di sangue che ci accomuna è stato unito con voluttà mentre quelle piccole perle, il segreto della sua bocca, urtavano contro i miei.



"Lasciami sul portico! Papà si arrabbierà" confessa a mezza voce. Il terrore mi attanaglia lo stomaco: mi guarda confusa, aprendosi in un sorriso colpevole. "Non dovevo uscire, era troppo presto" risponde ai miei interrogativi mentre io, sciocco come sono, arrossisco nuovamente. "Ha ragione, le bambine dovrebbero dormire. Sii più obbediente" la rimprovero a mia volta senza sorridere, senza guardarla, voltandomi con l'angoscia che divora ogni più piccola parte di me. Tornato a casa cosa posso fare se non scrivere tutto quello che non riesco ad espellere dalla mente, tutto quello che è rimasto avvinghiato al mio stomaco? Ho la febbre, ho la febbre di nuovo...

 


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Capitolo 8
*** Pagina 8 ***


Tornavo dall'università. Avevo la mia borsa con all'interno il libro di letteratura e una vecchia edizione de I fratelli Karamazov; intenzionato a tornare rapidamente a casa quasi non badavo a dove mettevo i piedi. Era il tramonto, il viale era tinto di rosso e le cicale frinivano con forza nel vento fresco della sera; quasi deserto nel pomeriggio morente non vi era anima viva all'infuori di me, o almeno così pensavo.
"John!"
"John?"
"Marie?"
"Salve!"
Una donna bionda e sottile non troppo più bassa di me mi osservava con un amichevole sorriso dipinto in volto mentre il mio sguardo vagava sulla figura della ragazzina accanto a lei. Si assomigliavano vagamente, non saprei dire quali fossero i particolari in comune: forse la costituzione, il mento, il piccolo naso che punta verso il cielo, chissà? Mi sentivo molto turbato e temevo di risultare troppo evasivo con il mio modo di fare quasi colpevole, così mi imposi di puntare gli occhi dritti in quelli della signora che, scoprii con sorpresa, mi tendeva la mano. "Sono Véronique, la madre di Marie. Mia figlia dice che ha degli ottimi gusti letterari, sembra che abbia trovato un amico molto più grande di lei" lanciò uno sguardo affettuoso alla ragazzina carezzandole i capelli "e spero che non la importuni più del necessario" terminò in tono affabile rialzando lo sguardo verso di me. "Affatto, signora. Marie è una bambina oltremodo educata" risposi sorridendo a mia volta. Evidentemente il mio fascino la colpì abbastanza, perché si ammutolì un attimo e tornò a guardare Marie come riflettendo su qualcosa che avrei scoperto fin troppo presto. "Come Marie le avrà già detto ci siamo trasferiti due settimane fa da Montpellier, sa, mio marito è italiano e ha trovato lavoro qui, così... Sarebbe fantastico socializzare con il vicinato, se volesse venire a cena da noi questo sabato ne sarei molto felice" m'invitò con una tranquillità disarmante che aumentò il disagio che mi attanagliava lo stomaco. Che fare? Mi voltai nuovamente verso Marie, ma la ragazzina racchiusa nell'adorabile vestito a fiori che le avevo già visto indosso teneva gli occhi bassi in una posa estremamente pudica. Deglutii. "Ne sarei onorato" le risposi in maniera affettata tendendo nuovamente la mano. "Ci terrei a specificare che il mio nome è Federico, purtroppo non ho un granché di Steinbeck nonostante l'ostinazione della piccola Marie nel chiamarmi in questo modo" continuai senza interrompere quel sorriso gentile che, stando alla lieve risata della mia interlocutrice, era alquanto gradito. "Allora d'accordo, Federico. Casa nostra è subito dietro quella villetta" la indicò con la mano libera "quella con il gazebo in giardino, non puoi sbagliare; ti aspettiamo per le diciotto, spero che l'arrosto sia di tuo gradimento". Continuò passando al più informale "tu", probabilmente a causa della mia età. Avrei voluto risponderle con un "certo signora, conosco il vostro giardino"... "La troverò senz'altro, aspetto con impazienza di assaggiare della vera rôtisserie française" mi dilungai in quisquilie di buon gusto; lei rideva con me o di me plaudendo il mio francese, mentre Marie ignorando il parlare della madre alzò, improvvisamente, il suo timido sguardo incrociando il mio: lei arrossì mentre io sentivo le gambe cedermi. "Mi perdoni, devo proprio tornare a casa. Ho così tanto da studiare!" mi congedai mentre la madre della ragazzina si ricomponeva, annuendo e ringraziandomi prima di allontanarsi con la figlioletta al seguito. Marie camminava dietro la madre, lanciandomi occhiate che non riuscii a decifrare: era felice? Ne era turbata? Aveva raccontato l'accaduto ai suoi genitori oppure era riuscita a fingere indifferenza nei miei confronti? Cosa stavo facendo, Dio, cos'è che sto facendo?

Oggi è venerdì, solo Rubinstein nel mio giradischi.
A bientôt, Véronique.

 
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Capitolo 9
*** Pagina 9 ***


"Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia."
G. Leopardi


Sabato, diciassette e quaranta; sono già in strada con le viscere attanagliate dall'ansia. Fortunatamente la temperatura comincia ad essere più mite dei giorni scorsi, perché la camicia comincia a mostrare segni di sudore; ho impiegato ore per sistemare il mio aspetto per renderlo il più piacevole possibile e sto per rovinare tutto.
Per l'occasione ho scelto una semplice camicia di tela bianca in doppio ritorto e polso dritto con finta, bottoni spessorati con filo a croce, taschino smussato, collo italiano e, ovviamente, le maniche arrotolate di due giri immediatamente sotto il gomito; è la punta di diamante del mio abbigliamento serale, pronta a valorizzare il blue jeans sbiadito e i mocassini Ivy League di un delicato beige. Senza rendermene conto mi tormento le mani, scruto il cielo con preoccupazione, sospiro in ansia: cammino con la dovuta flemma verso la casa che ho già rivisto più volte durante le mie notti tormentate e, stringendo con la mancina una bottiglia di Brunello di Montalcino di vent'anni fa, entro nel giardino e suono al campanello di Marie alle diciotto in punto, come ovviamente segnalato dal mio Cartier. Mi guardo indietro, ridiscendo mentalmente i tre scalini del patio; ho dimenticato la pipa, ma poco importa.
"Marie, va' alla porta!"
Clack. Il delicato suono della serratura che scatta verso l'interno precede il topino dai capelli castani che, prontamente, infila il viso nella fessura creatasi dall'apertura della porta. Efelidi delicate adornano quel naso delicato che si arriccia verso l'alto, accompagnando il sorriso che si è schiuso sulle sue labbra. Si fa da parte, invitandomi ad entrare senza dire una parola. Dall'esterno riesco a vedere un lungo pavimento in legno rossastro decisamente elegante, accompagnato da muri bianchi e immacolati. Mentre mi soffermo sui particolari scorgo un movimento alla destra della mia visuale: è Véronique che, uscendo da quella che sembra essere la cucina, viene verso di me. "Federico, ciao! Che puntualità!" "Mi spiace, forse mi attendavate più tardi" cerco di scusarmi stringendo con mano ferma quella che mi viene tesa. Noto che anche lei indossa un vestito, seppur molto più adulto di quelli abituali di Marie; evidentemente è un vezzo di famiglia. "Assolutamente, vuoi accomodarti in sala da pranzo? Mio marito è nello studio. Marie, vuoi andare a chiamarlo? Digli che sarà pronto a momenti" avvisa la bambina mentre io, riscuotendomi dai pensieri che mi affollano la mente, ricordo di avere qualcosa per la donna. "Véronique, questo è per lei: è un Brunello di Montalcino del novantacinque" le porgo la bottiglia mentre lei si copre le labbra con una mano, intenzionata a ridere con garbo. "Non dovevi, sei stato gentilissimo! Aspetta, la mettiamo nel ghiaccio... Ah, e dammi del tu!" continua a parlare mentre torna in cucina con la bottiglia tra le mani. Non la seguo, limitandomi a spostarmi verso l'entrata della cucina. "Non sono ancora così vecchia" continua con la sua lieve risata muliebre. La osservo con vaga noia mentre si china per prendere un secchio per il ghiaccio: il vestito azzurro e bianco le fascia il corpo con grazia, mettendo in risalto le sue forme femminili; torno con la mente alla figura del padre di Marie, chiedendomi come un uomo così poco attraente possa sposare una donna oggettivamente avvenente come Véronique. Dopo essermi voltato ed essermi ritrovato a guardare all'interno della sala da pranzo ho trovato la risposta da solo: le porte aperte mi lasciano scorgere all'interno della stanza e già dall'esterno si evince la ricchezza della stessa. Compio qualche passo in avanti, ritrovandomi a passeggiare lentamente su un grande tappeto Bakhtiar, un tappeto persiano di ottima fattura e dal rosso vivido che richiama alla mente il lusso che immaginavo già da qualche minuto. Intorno a me tutto è pregiato: un lampadario di cristallo sovrasta la grande stanza a metà fra l'antico e il tecnologico; sul fondo ci sono due divani in stile classico con cucitura capitonné e rivestiti in pelle e velluto, di fronte ad un televisore non più piccolo di ottanta pollici. Alzo le sopracciglia, sinceramente stupito; le tende che ricoprono le finestre sono pesanti, arricciate e dorate in modo che richiamino le decorazioni sui muri: ghirigori classici d'oro e sull'oro, illuminati da giochi di luci con la complicità del lampadario.
"Ciao" sento una vocina flebile chiamarmi; mi volto e, non vedendo nessuno, abbasso lo sguardo. Un bambino intorno ai quattro anni mi guarda con occhi neri spalancati, il pollice rugoso stretto fra le labbra e i capelli ben pettinati; non faccio caso all'abbigliamento perché, al mio minimo accenno di sorriso, scappa via. Torno a vagare con lo sguardo sulla stanza, notando un particolare che mi era sfuggito: sul tavolo mancano solo le pietanze, ché è già tutto al suo posto. Non riesco a trattenere un lieve schiudersi delle labbra: il tavolo, rigorosamente in mogano così come le sedie, è già coperto da una tovaglia bianca ricamata e completa d'ogni cosa, stoviglie e tovaglioli di stoffa, facendomi sentire quasi a disagio: sul muro di fronte, pronto a fornir calore d'inverno c'è un imponente camino, mentre sul lato vuoto della stanza -non essendo il tavolo centrato- c'è un pianoforte a coda di cui, dalla mia posizione, non riesco a scorgere la marca. Distolgo lo sguardo, quasi imbarazzato da questo posto trasudante lusso, quando sento qualcuno alle mie spalle chiamare il mio nome.
"Federico, ciao! L'altra volta non mi sono presentato, mi chiamo Achille" anche lui mi tende di nuovo la mano. L'afferro con un sorriso di circostanza, accompagnato da un "piacere mio" altrettanto di circostanza. Dietro di lui scorgo Marie che mi lancia qualche occhiata alquanto timida: l'angoscia torna ad afferrarmi le viscere e vengo scosso da un brivido; distolgo lo sguardo per riportarlo sul tavolo, lontano dagli occhi di Marie. "Ti senti bene? Vuoi un'aspirina?" "La ringrazio ma è stato solo un breve malessere passeggero. Ha una casa molto raffinata, ho notato il pianoforte, lei suona?" tento di cambiare radicalmente argomento senza osservare l'uomo; non ho il coraggio di voltarmi né so se riuscirei a dissimulare il terrore che sto soffocando con forza. "Riferirò i complimenti al mio arredatore!" scherza con una risata troppo forte per i miei gusti. Sento le scarpette di Marie allontanarsi correndo; mi volto e l'uomo è solo, con i suoi orridi baffi e, improvvisamente, con un sigaro stretto fra i denti. Mi poggia una mano pesante sulla spalla, piantandomi al suolo con il suo braccio. Rimpicciolisco istantaneamente. "Il pianoforte? Oh, è uno Steinway C-227" riferisce quasi tediato dall'argomento; quasi svengo alla notizia di quale strumento prezioso sia a pochi passi da me. "Te ne intendi, Federico?" "Assolutamente no" "Vuoi un sigaro? È un Louixs" mi informa con tranquillità mentre continua a sorridere. Deglutisco a fatica, quasi strabuzzando gli occhi: ho cercato di colpirli positivamente con un vino costoso e invece mi rendo conto che la mia camicia sartoriale vale meno dei loro tovaglioli. "No, la ringrazio, non fumo" rispondo candidamente mentre il peso sulla mia spalla diventa più pesante. "No? Marie mi ha detto che fumi la pipa. Non è così?" ribatte con tono lievemente più basso; io vorrei rispondere, ma la voce sembra mancarmi. Comincio a sudare copiosamente.

 
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Capitolo 10
*** Pagina 10 ***


 
"Achille, suvvia, lascia stare il ragazzo che è pronto! Avete chiamato i bambini?"
Una voce femminile accorre in mio aiuto: sento la pressione sulla spalla farsi ancor più pesante per un attimo prima che la mano si ritragga battendomi, forse in maniera amichevole, un paio di volte sulla nuca. Mi volto verso l'uomo sorridente, ora con una mano infilata in tasca. Sono ancora a disagio e spero che non si noti troppo: vorrei dire qualcosa per smorzare il silenzio ma per mia fortuna la Donna è un'essere che, di sua natura, non ammutolisce mai.
"Hai visto che gentile che è stato? Ci ha portato una bottiglia di Brunello di Montalcino. Di... Vent'anni fa, dico bene?" "Dici benissimo, Véronique" rispondo garbato accompagnando l'assenso con un lieve sorriso. Non so dove tenere le mani: mi sento artefatto quanto studiato. Osservo l'uomo con la coda dell'occhio, cercando d'imitarne la postura; dopo un momento però mi rendo conto che il padre di Marie è in evidente veste da camera e assumerne gli atteggiamenti potrebbe essere interpretato come segno di maleducazione, forse di sfida; interrompo immediatamente, richiamato anche dalla voce di Véronique che intanto non smette di cicaleggiare intorno al tavolo. "Federico, sii gentile: vorresti chiamare Marie? Dovrebbe essere in camera sua" m'invita con garbo ed io, che non posso esimermi dal compito alquanto modesto, mi sento pronunciare qualche parola di assenso. A quanto dice, o a quanto credo dica dato il mio stato d'animo, la camera di Marie è al piano di sopra, "l'ultima porta in fondo": esco dal salone e, con lo sguardo pesante dell'uomo impresso sulla mia nuca salgo i gradini di legno uno ad uno, lentamente, come un condannato a morte... O all'amnistia.


"Definire il Bello è facile:
è ciò che fa disperare."
P. Valéry


Eccola. La porta schiusa che s'apre al mio tocco, i timidi raggi del tramonto che incendiano la stanza molto più piccola, molto più intima di quel che immaginassi. Un delicato colore ligneo fa da cornice al letto, soffice allo sguardo e permeato di luce grazie al suo essere posizionato sotto alla finestra chiusa; la magnifica vista degli alberi in giardino viene smorzata e resa incolore dalla graziosa figura di una giovane ragazza distesa sul letto, gomiti sulle coperte e viso pallido proteso su di un libro scritto con caratteri troppo minuti per una mente di così giovane età. Il candido vestito serale la fa assomigliare ad una giovane e pacifica Artemide, fasciata da un abito bianco e velato che la rende ancor più bella di quanto non sia già.
"Ciao" mi saluta semplicemente con un sorriso fanciullesco restando con la schiena rivolta verso il soffitto; porta un braccio sul libro, chissà se involontariamente o per coprirmene la vista, e alza una gamba piegandola il ginocchio. Il vestito segue il naturale movimento delle carni, scivolando appena più in basso dei glutei. Cerco di sospirare senza riuscire a trarre aria; socchiudo gli occhi, faccio qualche passo verso di lei. "Chiudi la porta?" mi domanda imterrompendo il mio percorso ed io, voltandomi con lieve turbamento in viso, mi assicuro che resti uno spiraglio senza serrare completamente l'uscio. Fisso per qualche secondo ancora il legno della porta, poi mi decido e tornare a guardare la ragazzina che, intanto, non si è mossa di un millimetro. Finalmente m'avvicino abbastanza da poterle contare le efelidi sul viso: infilo le mani in tasca e finalmente le comunico il messaggio che ho per lei. "La cena è pronta. Dovresti scendere" mi sento pronunciare come in un sogno; avevo quasi dimenticato cosa fossi venuto a fare nella camera da letto e, nonostante il mio compito sia concluso, non riesco più a muovere le gambe. Sono immobile, il battito del cuore è fuori controllo mentre lei affonda entrambe le mani nel materasso, si puntella con i piedi scalzi sul materasso e si alza in posizione eretta sul letto. Si volta a guardarmi, ora è alta quanto me; i capelli castani le contornano il viso, il naso decorato punta verso il mio, gli occhi bigi sono ben fissi nei miei. Non riesco a sfuggire a quello sguardo; l'unico istante di libertà, l'unica tentata fuga mi paralizza sul posto quando i miei di occhi crollano sulle sue labbra pallide e secche, schiuse a mostrare un bizzarro sorriso quasi lezioso. Riporto rapidamente lo sguardo ai suoi occhi, cercando di dire o fare qualcosa per liberarmi dall'incanto; ma lei fa l'errore d'appellarmi con un sospirato "John..." in maniera così adulta, oh, così adulta! Si avvicina ancor più a me, incrociando le braccia al piccolo petto e stringendosi a me per farsi abbracciare. L'accontento; le mie braccia si chiudono dietro alle sue scapole mentre il suo mento s'affossa sulla mia spalla. "Mi sei mancato, John... Non mi piace non vederti. Non mi piace..." continua a sospirare. Il cuore martella dolorosamente; la sposto con delicatezza, intenzionato a dirle che è ora di andare, ma i miei occhi incrociano ancora i suoi adesso acquosi, mesti e fissi nei miei. Tremo come una foglia, non so cosa fare; nell'indecisione la stringo di nuovo a me, e lei stringe a sé le mie labbra in un tiepido bacio. Le sue labbra secche sono tutt'uno con le mie; lei non sa baciare ed io ho paura di farlo. Inumidisco le sue giovani labbra e una mia mano scivola, azzardata, sotto la sua veste: la mia mano calda e adulta sulla sua schiena liscia e morbida, olente di gioventù, mi provoca un moto di disgusto che avverto quasi come una scossa. Ritraggo la mano, impaurito, e d'istinto mi volto verso la porta: quanto tempo è passato?
"...dobbiamo scendere" biascico a mezza voce. "Perché?" mi domanda anche lei in modo piuttosto flebile; deglutisco a fatica, mi volto ed apro la porta per scendere rapidamente. Quanto tempo è passato, quanto?

 

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Note dell'Autore
Mi dispiace per l'attesa. Purtroppo ho molto, moltissimo da fare nel "mondo reale" ed è difficile trovare un momento libero per portare avanti una storia abbastanza difficile come questa; comunque ci stiamo avviando, seppur lentamente, alla conclusione della storia che spero di portare a termine entro la fine dell'anno (impegni permettendo). Vi ringrazio per i messaggi, per il supporto e v'invito a recensire se la storia vi è piaciuta, se non vi è piaciuta, se vi ha confusi... Insomma, se l'avete letta: qualunque tipo di osservazione aiuta sempre a migliorare la propria scrittura.
Grazie mille,
Dal.

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Capitolo 11
*** Pagina 11 ***




Bach, Aria sulla quarta corda.

(Le stelle in fiamme cadono dal cielo... Il mondo finirà o quelli finiti saremo noi?
L'Amore continuerà a vivere o cadrà nell'oblio tra le nostre anime scheggiate dal Peccato?
E tu, tu verrai con me o sarai innalzata al Cielo? Peccatore, peccatrice? Succube?
Moriremo, moriremo! Ma tu sarai al Suo fianco. Tu, Angelo tardivo...)


La tavola era ricolma di delizie; rassomigliava ad un precoce convivio natalizio più che ad una semplice cena informale. Scesi forse con troppa foga, troppo turbamento sul volto perché il padre di Marie m'interpellò chiedendomi, per la seconda volta oramai da quand'ero arrivato, se stessi bene. Annaspai per qualche istante alla disperata ricerca d'un boccone di ossigeno che sembrava non voler arrivare alle mie nari e labbra spalancate; colei che arrivò inaspettatamente in mio aiuto fu Marie. "Scusa papà, gli stavo facendo vedere la cameretta" si annuncia arrivando in punta di piedi, con una colpevole aria contrita e stringendo tra le mani la stoffa della veste che le ricade sul ventre, quasi a chieder scusa per il ritardo. Il padre le sorride, già seduto a capotavola, mentre la madre sposta una sedia all'altro capo del tavolo invitandomi a sedermi; il tutto scatena una reazione nella piccola Marie, che si riscuote con spavento. "Non, maman! Je veux asseoir à côté de Frédéric, asseyez-tu à la tête! ...s'il vous plaît!" esclama con voce triste e quasi implorante lasciandomi alquanto basito. Mi volto a guardarla con ammirazione: credevo che Marie e Veronique fossero vezzi, tradizioni di famiglia. Ci rifletto su; lei non aveva forse specificato la nazionalità del marito? "Non, Marie, Frédéric est l'hôte et l'hôte se assied à la tête. Soyez-bon et ne faire pas des caprices!" la rimprovera la madre con sguardo fintamente cattivo. Marie s'imbroncia, arriccia il labbro umido sporgendolo all'esterno e incrocia le braccia scoperte come flebile rimostranza; infine ribatte debolmente con un "d'accord, mais je m'assois à côté de lui" prima di dirigersi verso il tavolo illuminato. La seguo, guardandola mentre si siede con la leggerezza tipica della sua età. Il tramonto le incendia il vestito candido, il viso niveo su cui spuntano dettagli su dettagli mentre m'avvicino a lei. La supero, i suoi capelli mi solleticano e accarezzano il braccio: si volta a guardarmi ed io faccio lo stesso, credo che qualcuno mi stia parlando ma al momento non riesco a distogliere le mia mente e la mia anima dai suoi occhi luminosi. Si abbassano mentre un sorriso spunta sulle labbra di cui ancora conservo il sapore, le efelidi che le adornano il naso si confondono con l'arancio intenso che proviene dalle finestre. Una di esse si apre per una folata di vento più forte delle altre, facendo svolazzare i suoi capelli nella mia direzione. M'incanto: il sole tra i suoi capelli incendia anch'essi d'un rosso intenso mentre le sue iridi cineree restano piantate come schegge nei miei occhi. Ride, sento il suo profumo portato dal vento: profumo di... Di buono. Per una volta, forse la prima nella mia vita, mi ritrovo davvero senza parole né aggettivi per descrivere un evento. Un miracolo.
"...studiando?" una voce maschile seguita da un artificioso colpo di tosse mi riporta alla realtà. Véronique ha richiuso la finestra, siamo tutti seduti a tavola ed io sono l'unico che non ha ancora toccato il cibo; m'affretto a tagliare un pezzo della carne apparentemente buona nel piatto, nonostante non abbia mai avuto così poca fame come in questo momento. "Scusi, credo di essermi distratto" ammetto con una punta d'imbarazzo mentre porto alle labbra la forchetta. "Mi chiedevo" ripete Achille "che cosa studiassi. Immagino materie umanistiche" torna ad interrogarmi. Aspetto di poter parlare, torno a tagliare lentamente mentre i miei occhi guizzano dal piatto a quelli di Achille ben fissi su di me. "Oh, sì. Studio... Lettere Moderne" rispondo con un sorriso mal tirato. Ho un brivido; il cuore corre nel mio petto come inseguito dalla Morte. Sento la gamba nuda di Marie sfiorare la mia, poi il suo piccolo piede cercare d'infilarsi sotto i miei jeans alla ricerca d'una caviglia da accarezzare. Non dico né faccio nulla, terrorizzato: porto alle labbra il cibo evitando accuratamente lo sguardo dell'uomo che continua a tenere il suo fisso su di me, cercando di concentrarmi sulle bottiglie al centro del tavolo. Sento marito e moglie discutere di qualcosa di poco importante, forse riguardante la mia Facoltà; avverto un movimento alla mia sinistra e scorso Marie sorridermi; torno a guardare il piatto che, persomi nei pensieri, ho quasi terminato. "Federico?" mi sento di nuovo chiamare. Rialzo lo sguardo con aria evidentemente stanca, perché Véronique si rabbuia seppure senza dir nulla. "Oh... Forse ti sembrerò sfacciata, ma..." comincia con una lieve risata, confondendomi più di quanto non lo fossi già. Decido di agire in modo diplomatico; sorrido con quanta più cordialità mi è possibile al momento e pronuncio un pacato "non preoccuparti, chiedi pure". "Ecco, sai, Marie non è molto pratica con l'italiano..." continua in modo enigmatico; mi volto a guardare la ragazzina, che per un motivo a me ignoto abbassa lo sguardo ritraendo il piede dalla mia gamba. "Ci siamo trasferiti qui da poco. Te l'ho già detto?" continua la madre mentre riporto la mia attenzione su di lei. "Sì, me l'ha accennato" rispondo con un turbamento che non riesco a spiegarmi. "Sì, ecco, mi chiedevo se potessi aiutarla con la lingua dato che sembri una persona così a modo..." spiega la sua richiesta mentre io, poco garbatamente, la interrompo scuotendo il capo con modo gentile. "Oh, Véronique, sono lusingato ma non ho l'abilità che richiede l'insegnamento della letteratura per adolescenti" rispondo divertito; la forchetta cade nel piatto di Marie con un rumore che spezza il mio tentativo di quietare il turbamento, pronto a tornare con forza. Mi acciglio nuovamente nel vedere i genitori scambiarsi uno sguardo divertito, poi una risata: "macché adolescente? Ha quasi undici anni, deve frequentare la scuola media al paese vicino; è una fortuna che sappia prendere il treno da sola, non avrei mai il tempo di fare la pendolare!" risponde Véronique senza ancora accorgersi della mia reazione.


 
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Capitolo 12
*** Pagina 12 ***



Dannazione, dannazione eterna su queste parole!

Lacrimosa, Mozart.
Uno sbuffo di pipa, un bicchiere di scotch e il cielo oscuro davanti a me: quanto tempo è che cerco di riportare la mia mente a quel giorno, a quella sera senza ottenere alcun risultato? Buio, mistero, un dolore lancinante: un "perdonatemi" bofonchiato a mezza voce, poi più nulla. Da qualche parte ho rigettato quella cena avvelenata d'inganni, l'ultimo boccone ancora stretto in gola; ricordo d'aver tossito e urlato e tossito e urlato ancora fino a sentire i polmoni mescersi con lo stomaco ardente, la gola lacerata dagli ululati che forse, in preda alla follia, ho emesso con furia.
Silenzio.
Non sentivo, non avvertivo più nulla; un vago fischio crescente mi trapassava le tempie e gl'occhi con dolore, ma null'altro. Ho pensato buffamente e in maniera alquanto alienata che se fosse stato un film, sarebbe piovuto; la sera invece restò tersa e limpida, come uno schiaffo in pieno volto a significare: "vedi? Tutto ciò è reale".



Longilinea, quasi alta mentre le gambe, frenetiche, s'alternavano in una corsa convulsa. I veli dell'abito mostravano tratti di coscia senza pudore, senza alcun pudore!; la magrezza s'alternava tra le ossa e le nervature tutte in un gioco d'ombre in grado d'ammaliare. Ma cos'è che vedo, cos'è che vedo? Una scia di lucido castagno che dondola con agitazione dietro al corpicino, sbattendo con scarsa violenza sulle spalle della ninfetta danzante, un paio d'occhi brillanti e lucidi aperti su di me. Raggelo sul posto, pulendomi le labbra con una manica della camicia sartoriale resa un irriconoscibile cencio. "Aspetta, aspetta!" mi urla. "Federico", e poi: "John, John, aspetta!". Mi strazia il candore che avverto nella sua voce; il mio sguardo si posa con orrore sulle sue gambe lisce da bambina. Rallenta il suo instabile trotto a due passi, un passo da me. M'è così vicina che non posso più respirare, cado a suolo: sono in ginocchio davanti alla mia ninfa, al suo odore, al suo sguardo che non è severo e anzi, ecco la pioggia attesa: piange sulle gote candide che non posso più baciare.
"Mi dispiace per quella bugia, Federico. Scusami!" esclama tra le lacrime e le sue braccia mi circondano il collo. Sento il peso del suo capo sulla mia spalla, il suo respiro sulla mia guancia: ho bisogno di un momento per comprendere cos'è il dolore al petto che non mi permette di ragionare. Il forsennato galoppìo del mio cuore mi stordisce; volto il capo verso di lei e ritrovo quelle labbra proibite a pochi centimetri dalle mie. Ch'io sia Dannato! L'ho baciata di nuovo. Ma l'ho fatto davvero, o forse ho immaginato tra le febbri del dolore anche il solo averla incontrata? No, no: l'ho presa tra le mie braccia ed ho cercato di nuovo il suo sapore, e ancora, e ancora: la sua ruvida lingua sulla mia, le sue labbra morbide schiuse sulle mie. Ma si può, si può davvero scavare sotto il vestito di una bambina, cercare le sue gambe fredde e stringerle con forza, con più forza fino a sentir male alla mano, senza che lei si dolga, senza che lei pianga per altro che non sia il tuo soffrire? Irrigidisco, lo so, lo avverto l'orrore crescente che m'immobilizza e quando comprendo, quando torno in me e vedo, sento la mia mano sfiorarle la carne proibita mi ritiro come sorpreso dal morso d'una vipera. Lei è lì, ingannatrice, con le gote rosse e la bocca libidinosa. Lei è lì, è vicina e si protende verso di me, caduto all'indietro come ferito, palmi al suolo che si spostano con terrore all'indietro e il corpo, tremante, che le segue come un granchio. "Federico..." mormora con gli occhi lucidi: non è più donna, le sue labbra fremono dal pianto e il fischio interrompe nuovamente la mia lucidità; non sento, non comprendo, non voglio farlo. Urlo, forse?; la mia ninfetta, o ciò che ne resta, piange incontrollabile e io mi muovo come un animale, con lo stesso spirito d'una bestia, fuggendo via.



L'ho sognato, forse?
Più tardi deve aver piovuto per davvero, perché la mia camicia è grondante d'acqua. Sopra c'è una macchia di ciò che fu cibo, visibile appena perché lavato dal cielo ormai terso. Ricordo per un attimo quando lo stesso cielo era in fiamme, probabilmente solo poche ore fa; non so più che ore sono o che giorno sia, ma rabbrividisco da febbricitante qual sono e m'accontento delle gocce d'acqua che ancora cadono al suolo per avere un'idea del tempo passato. Dev'essere la notte seguente alla cena nella Sua dimora, se è davvero esistita da qualche parte; non so per quanto ho vagato nella pioggia che mi ha sorpreso nella follia ma non ho ricordi del Sole, quindi il tempo non dev'essere stato clemente con me e questa terribile notte non è ancora scomparsa dalla Terra.




E adesso, Federico?
Non credo ci siano altre domande da porre. "E adesso, Federico?", immagino detto dalla sua voce e un altro conato di vomito risale con forza. "Altro scotch, Federico?" mi chiede ancora; e cos'altro posso rispondere? Qual altro modo ho per concludere queste che, in effetti, non son altro che le mie memorie?
Grazie, Marie. Volentieri.
 
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Attenzione!
Nomi, luoghi e fatti narrati sono totalmente frutto della fantasia dell'autore. Riferimenti a persone, luoghi o eventi realmente accaduti è puramente casuale.

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