E' vero o non è vero, che l'università ti cambia la vita?

di ilcircozen
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I nostri giorni indimenticabili ***
Capitolo 2: *** Il Fronoxidis ***
Capitolo 3: *** Swing in town ***
Capitolo 4: *** Ave Maria ***



Capitolo 1
*** I nostri giorni indimenticabili ***


CAPITOLO 1
I NOSTRI GIORNI INDIMENTICABILI
Ovvero come due ragazze non troppo sveglie e non troppo organizzate cominciano la loro nuova vita
 
(Sofia)
Anche se eravamo già a metà settembre, la stazione di Bologna era calda come un forno a legna. Tutta quell’afa non mi aiutava certo a placare il mio umore già di per se piuttosto iracondo. Ero reduce da tre ore di viaggio in treno, ero arrivata con 45 minuti di ritardo, ero piena d’angoscia per l’università che avrei cominciato di lì a pochi giorni e, come se non bastasse, non avevo la più pallida idea di come raggiungere il mio nuovo appartamento. Sbuffai sonoramente, rigirandomi in mano la cartina geografica che avevo comprato per la bellezza di quattro euro all’ufficio turistico. Serena, accanto a me, canticchiava senza sosta. Cose ci fosse da stare allegri, non mi era dato di saperlo, ma d’altronde Serena era arcinota per il suo buonumore pressoché inesauribile. Ed estremamente snervante, aggiungerei.
«Per amor del cielo, Serena, vuoi chiudere il becco? Qui la gente matura starebbe cercando di concentrarsi!»
Inutile dire che la mia cosiddetta migliore amica non mi degnò di uno sguardo e continuò imperterrita a martoriare una qualche canzone comunista nel suo spagnolo raffazzonato. Era sempre stata una fuori di testa, ma partire per tre mesi alla volta del Perù subito dopo la maturità per un “ritiro spirituale” decisamente non aveva giovato alla sua già di per sé precaria sanità mentale. Anche se c’erano come minimo quaranta gradi all’ombra, non dava nessun segno di volersi togliere il cappello di lana che diceva di aver filato con le sue stesse mani durante una scarpinata sulle Ande. Spesso e volentieri mi chiedevo cosa mi fosse passato per la testa quando avevo deciso di sceglierla come coinquilina.
«Guarda che luce incredibile, Sofia! Sembra quasi che i binari luccichino! Non vorresti scriverci poesie, su questo posto?»
Mio malgrado, nonostante il pessimo umore, mi sfuggì un sorriso. Ecco la risposta alla mia domanda, ecco perché avevo scelto Serena. L’avevo scelta perché lei era la personificazione del lato positivo.
«E’ bellissima», le risposi, cercando di mantenere un tono sarcastico giusto per il gusto di non darla vinta al buonumore.  «Ma al momento abbiamo altro a cui pensare. Dobbiamo trovare l’appartamento.»
Serena si abbassò gli occhiali da sole sul naso (ebbene si, il suo outfit assieme al cappello di lana comprendeva anche quelli) in un’espressione assolutamente ebete.
«Come pensi che possa aiutarti? Lo sai che ho imparato la strada per andare a scuola alla fine della quinta liceo.»
Maledissi il senso dell’orientamento inesistente della mia amica e la pessima idea di affittare un appartamento alla cieca. Anche questa, neanche a dirlo, era stata un’idea di Serena. Al momento della ricerca di una sistemazione a Bologna (che risaliva circa a tre mesi prima, prima che lei partisse e diventasse ancor più folgorata di quanto già non fosse), ci eravamo dilettate a cercare un appartamento su internet e a neanche due minuti dal login avevamo trovato due ragazzi di Bergamo, matricole come noi, che cercavano due coinquilini per un appartamento in centro ad un prezzo ridicolo.
«Prendiamoli!», aveva strillato Serena, cliccando duecento volte sul mouse e facendo produrre al computer un inquietante ronzio.
«Ma sei matta? Così, alla cieca? Senza neanche aver visto la casa?»
«E’ in centro, a due passi dall’università, e costa pochissimo! E’ la nostra occasione Sofia, non dobbiamo aspettare un secondo di più!», aveva replicato, scuotendomi ferocemente per le spalle con stampata in viso un’espressione da totale invasata.
«Lo dici solo perché odi usare il computer e vuoi finire il prima possibile! E i coinquilini, scusa? Non pensi che dovremmo quanto meno vederli prima di andare a vivere con loro?»
«E di che ti preoccupi? Avremo un sacco di tempo per conoscerli!»
Avevo tentato di replicare in mille modi, ma per ognuno di essi Serena aveva avuto una replica, che se non era convincente era talmente assurda che non cedere a tanta fantasia sarebbe stato impossibile. Era un’abile sofista ed aveva poteri di persuasione infiniti, questo dovevo concederglielo. Per farla breve, mi ero arresa ed avevamo preso in affitto l’appartamento. Pessima idea, dal momento che a due dall’inizio dell’università non avevo la più pallida idea né di dove fosse, né di come fosse fatto, né di chi ci abitasse.
«Ok, credo di aver capito in che direzione è la piazza. Mi sembra un ottimo punto di partenza. Ci incamminiamo?»
Serena annuì, carica di entusiasmo, e così prendemmo le nostre valige e ci facemmo strada sgomitando tra la folla. Il mio trolley sembrava pesare due quintali. Rimpiansi di tutto cuore il momento in cui avevo rifiutato il passaggio gentilmente offertomi dai miei genitori. Volevo dimostrarmi pronta a tutto, fare l’emancipata, l’indipendente. Si, indipendente un corno. Improvvisamente, l’idea di mio padre che mi portava la valigia, mi trovava la casa e risolveva i miei problemi non mi sembrava poi così male. Serena, accanto a me, saltellava baldanzosamente sotto gli archi rossi di Bologna, fotografava tutto con lo sguardo, non sudava e sembrava infaticabile. Sentii di odiarla.
«Hai sentito Massimo?», le chiesi, tanto per distrarmi dalla fatica. Massimo era il fratello gemello di Serena ed erano la coppia più affiatata che avessi mai visto. Due terremoti umani con gli stessi capelli rossi, le stesse lentiggini, la stessa risata inesauribile. Assieme erano contemporaneamente uno spettacolo e la peggior disgrazia del mondo. Non c’era occasione in cui non riuscissero a combinare qualche disastro. Anche Massimo avrebbe studiato a Bologna, ma il suo appartamento era fuori città, a Castel Maggiore.
«Lui è sceso già la settimana scorsa. Se la passa alla grande, non c’è che dire. In appartamento sono in cinque e lui è l’unico maschio. Ci verrà presto a trovare, comunque. A proposito, hai più sentito i Bergamaschi?»
«Serena, dobbiamo finirla di chiamarli i Bergamaschi. E’ stato bello, ci siamo divertite, ma è tempo di darci un taglio. Si chiamano Amedeo e Lorenzo.»
Durante l’estate io e Lorenzo ci eravamo scambiati qualche mail, ma si era trattato solo di informazioni strettamente pratiche. Una volta, a luglio, aveva proposto di incontrarci, ma al tempo Serena era ancora a spasso per il Sudamerica e non me l’ero sentita di andarci da sola. Ero decisamente troppo timida per certe cose, così avevo accampato una scusa qualunque ed avevo declinato la proposta. Lorenzo non aveva più accennato alla cosa, quindi presumevo che si fosse accontentato di questo.
«Comunque, Lorenzo mi ha mandato una mail la settimana scorsa. Loro sono già arrivati da qualche giorno. A quanto pare ci sono quattro camere da letto, così grazie al cielo non dovrò condividerla con te.»
Per quanto volessi bene a Serena, dormire nella sua stessa stanza era un autentico inferno. Era inspiegabile come riuscisse a sopravvivere, fatto sta che dormiva circa due ore a notte e passava le restanti o a parlare a vanvera, o a fare ginnastica, o facendo ogni sorta di attività tutt’altro che silenziose. Come se non bastasse, nei sacrosanti momenti in cui si addormentava, spesso e volentieri scoppiava a ridere nel sonno. Ma, attenzione, non si trattava affatto di una risatina tenera da grasso angioletto coi boccoli addormentato. Era un autentico ghigno folle, che la faceva somigliare ad una iena ridens assatanata.
«Oh, finiscila, solo perché sono un po’ insonne.»
«No, Serena, essere “un po’ insonni” è un’altra cosa. Tu non sei un essere umano. E’ diverso. E adesso chiudi il becco per cinque secondi. Penso che a questo punto dobbiamo svoltare a sinistra.»
Piazza Maggiore si spalancava davanti a noi. Nonostante il caldo e la mia palese irritazione, non potei fare a meno di notare quanto fosse bella Bologna. La luce del pomeriggio faceva brillare il profilo della chiesa di San Petronio di un luccichio magico, che sembrava quasi opera di fate. Mi ritrovai a sorprendermi davanti all’immensità di quella basilica, che, bianca ed imponente, sembrava volermi dare il benvenuto in quella che da lì in poi sarebbe stata la mia nuova città.
«Wow», commentai, a mezza voce.
«Poteva andarci peggio», convenne Serena, che subiva la fascinazione di quello spettacolo incredibile almeno quanto me. Tirò fuori dallo zaino un taccuino e senza mai staccare gli occhi dalla basilica, scrisse qualche appunto. Serena ci sapeva fare, con le parole. Non avrebbe potuto scegliere facoltà più azzeccata di lettere moderne. Era talmente ovvio, che aveva scelto la strada giusta. Ed io, invece? Avevo deciso di prendere psicologia, perché sapevo di essere introspettiva, intuitiva e brava a capire gli stati d’animo delle persone, ma sarebbe bastato?
«Ci aspettano grandi cose, Sofia. Stiamo per cominciare a vivere i nostri giorni incredibili.»
Annuii. Quel giorno come non mai, Serena aveva ragione.
Dopo aver rimirato la piazza per una quantità di tempo che ritenemmo sufficiente, svoltammo a sinistra, dietro a Palazzo dei Banchi, alla ricerca di via Pigarelli 7, che di lì a poco sarebbe diventato il nostro nuovo indirizzo. Man mano che ci addentravamo per la città, mi accorgevo che le strade non erano poi così belle come quelle del centro. Anzi, per meglio dire, erano lo squallore più assoluto. Quando, dopo circa mezz’ora di futili scarpinate sotto archi tutti uguali che stavo già iniziando decisamente a detestare, trovammo il nostro numero civico nella via più sporca, più imboscata e più orrenda che avessimo visto fino a quel momento, ero tentata di mettermi ad urlare.
«Oh, stai scherzando! Mi stai dicendo che andiamo a vivere qui?!», esclamai con tono leggermente isterico, senza rivolgermi a nessuno in particolare.
«Che c’è di male? Io lo trovo pittoresco!»
Lanciai uno sguardo assassino a Serena, che aveva un evidente bisogno di rivalutare la sua concezione della parola “pittoresco”.
«Vedi un po’ te quanto sarà pittoresco essere accoltellata se solo ti azzardi ad uscire la sera dopo le otto e mezza!»
«Sei la solita esagerata. Neanche fossimo nel bronx. E’ solo una stradina un po’ difficile da trovare.»
«Proprio tu, parli?! Non ti orienti nemmeno dalla cucina al bagno, come pensi che farai ad imparare la strada per arrivare fin qui?!»
«Amo l’avventura!»
Senza nemmeno volerlo (ok, forse un po’ lo volevo), emisi un ringhio gutturale. Serena sarebbe stata in grado di condurre chiunque all’esasperazione.
«Adesso, Serena, fammi il piacere di chiudere il becco. Stiamo per conoscere i nostri futuri coinquilini, con cui con tutta probabilità condivideremo cinque anni della nostra vita. Cinque anni sono tanti, e noi non vogliamo sembrare due psicopatiche fin dal primo istante, non è vero?»
«Tu mi dici continuamente che sono una psicopatica e il nostro rapporto funziona alla grande.»
Le scoccai l’ennesima occhiataccia.
«Facciamo così. Tu non parlare, limitati a sorridere, annuire ed emettere qualche “oh” ed “ah” di tanto in tanto.»
«Non funzionerebbe. Sei troppo timida per fare tutto da sola. Hai bisogno che io sia la solita vecchia stramba, perché essere messa a confronto con una persona tanto bizzarra ti fa sentire più sicura di te.»
Si abbassò gli occhiali da sole sul naso e nei suoi occhi verdognoli lessi la classica espressione di chi la sa lunga. Ecco un’altra cosa che odiavo di Serena: aveva sempre regione.
«D’accordo, allora sii semplicemente te stessa, ma cerca di moderarti, di non parlare a sproposito e soprattutto di non menzionare il Perù ed il tuo allevamento di alpaca. Va bene?»
«Cosa c’è che non va nei miei alpaca? Sono adorabili!», esclamò, risentita.
«Non mi interessa. Non nominarli. Neanche per sogno.»
«Neanche Dandolina? Non posso nemmeno far vedere le fotografie dei ponchos che ho fatto io? Non posso nemmeno raccontare la storia di quando Giselle ha fatto i cuccioli? E’ stato un momento magico, così surreale, un vero…»
«Ecco, vedi? E’ esattamente per questo che non puoi parlare dei tuoi alpaca.»
«E allora tu non puoi parlare dei tuoi gatti!»
«Cosa? I gatti sono belli, e soprattutto sono normali animali domestici!»
«Anche gli alpaca!»
«Non è vero!»
«Si che è…»
«Hey, voi due!»
Sobbalzammo ed alzammo la testa di scatto, in direzione di quella voce inaspettata. Affacciato dalla finestra dell’ultimo piano c’era un ragazzo dai capelli scuri, che ci guardava con uno sguardo tutt’altro che velatamente ironico.
«Siete per caso Sofia e Serena?»
«Si, perché?»
«Che ne dite di venire di sopra invece che continuare ad urlare al ritmo di ottocento parole al minuto? Potete continuare il discorso sugli alpaca, se volete!»
Fu in quel momento che realizzai che la persona alla finestra non poteva essere nientemeno che uno dei nostri due coinquilini. Mi sentii arrossire fino alla punta dei capelli. Mentre armeggiavo con la chiave nella serratura, tirai un calcio negli stinchi a Serena.
«E’ tutta colpa tua!», le sibilai tra i denti.
«Mia?! Ma se sei stata tu a tirare fuori gli alpaca!»
Questo le costò un altro calcio.
«Ahia! E va bene, va bene, ho capito. Chiudo la bocca.»
Salimmo le scale in religioso silenzio, io davanti, ancora paonazza dall’imbarazzo, e Serena dietro, già dimentica dell’accaduto e spensierata come sempre. Quando finalmente arrivammo al quarto piano (naturalmente vivere al pianterreno sarebbe stato chiedere troppo) trovammo sulla porta dell’appartamento 7F due ragazzi che ci aspettavano. Erano entrambi piuttosto carini, bisognava ammetterlo, uno biondo, con tante lentiggini e due occhi verdi dall’espressione gelida, e l’altro, quello che ci aveva chiamate dalla finestra, dai capelli castani, gli occhi azzurri ed un grande sorriso coinvolgente. Fu lui il primo a parlare.
«E così, le ragazze degli alpaca sono proprio le nostre Sofia e Serena!», esclamò. La sua solarità pareva inesauribile. Con una sola occhiata a Serena, capì che le era piaciuto fin da subito: amava le persone allegre. Al contrario, il ragazzo biondo alzò gli occhi al cielo e parlò con un tono profondamente sarcastico, a tratti quasi maligno.
«Per favore. Coesisto con questo folle dalla prima elementare, speravo che almeno le nuove coinquiline fossero due persone sane di mente. Comunque piacere, io sono Lorenzo e lui è il mio amico Amedeo.»
Mi porse la mano per stringermela, alzando appena l’angolo destro della bocca in un mezzo sorriso a metà tra lo strafottente ed il terribilmente affascinante. Mi sentii arrossire leggermente. Quel ragazzo dallo sguardo cupo appena conosciuto mi attraeva in maniera singolare.
«Sofia», mormorai. «Ed anche io coesisto con una pazza da una vita.»
Lui si girò verso Serena, che in quel momento era intenta a cercare (senza successo e senza nessuna eleganza) di disincastrare il manico del suo trolley dalla ringhiera delle scale. Lo sguardo di Lorenzo era a metà tra il perplesso ed il vagamente disgustato, ma era incredibile come le emozioni negative donassero al suo viso lentigginoso.
«Perché ha un cappello di lana?», chiese, senza rivolgersi a nessuno in particolare. Lei in un battibaleno lasciò perdere il suo trolley per rispondere.
«L’ho fatto io, quest’estate, sulle Ande.»
«Ecco spiegato come mai è così brutto.»
Non riuscii a trattenere un risolino. Serena (che se la prendeva parecchio difficilmente) mi scoccò il suo sorriso di chi aveva previsto tutto: per l’ennesima volta, il suo bizzarro carattere mi era tornato utile per catalizzare su di me le simpatie del bel Lorenzo. Infatti lui mi sorrise, e mi parve che in quel sorriso ci fossero le basi di una complicità che iniziava a costruirsi.
«E’ un piacere, Sofia. Lascia che ti dia una mano con le valige.»
Mentre mi aiutava a trascinare le mia cose nell’appartamento, scoccai un’occhiata entusiasta a Serena, che stava chiacchierando fitto fitto con Amedeo di un qualche argomento che aveva tutta l’aria di essere completamente privo di senso. Mi rispose con il suo luccicante sorriso a trentadue denti di quando sta andando fin troppo bene. Per l’ennesima volta dovetti a malincuore dare ragione a Serena: stava andando tutto fin troppo bene.
 
 
 
NdA:
Buona domenica a tutti! Sono approdata qui su EFP in cerca di nuove esperienze, anche se a dirla tutta non so bene come riuscirò a gestire la cosa (conoscendomi, piuttosto male). Ma comunque. Dicono che nella vita bisogna buttarsi, carpare il diem e tutto il resto, quindi mi sembra il caso di provarci. No?
Giusto per darvi qualche informazione tecnica:
1: l’idea è quella di aggiornare ogni domenica (buon proposito che sicuramente fallirà ma io ci provo), scuola e tempo permettendo. Nel frattempo avete tutto il tempo di tempestarmi di recensioni (fiducia in sé stessi is the way) e di farmi sapere cosa ne pensate di ogni capitolo. Che ne pensate dei personaggi?
2: non tutta la storia è vista dal punto di vista di Sofia: circa la metà dei capitoli vedranno come narratore Serena e ce ne saranno anche alcuni raccontati dal punto di vista di altri personaggi. Spero che la cosa non vi crei troppa confusione.
3: non c’è due senza tre quindi il punto tre andava messo per forza.
Non ho assolutamente nient’altro da dirvi. Grazie a chi leggerà e recensirà la storia e ci vediamo domenica prossima!
Il Circo Zen

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Capitolo 2
*** Il Fronoxidis ***


CAPITOLO 2
IL FRONOXIDIS
Ovvero come un terremoto vivente riesce ad essere pasticcione ovunque metta piede
 
(Serena)
I primi giorni bolognesi furono straordinari. Il trasloco finì in fretta e non fu nemmeno difficile come Sofia non aveva fatto che pronosticare per settimane. Il camion arrivò senza problemi e con l’aiuto di Amedeo e Lorenzo (più che altro di Amedeo, dal momento che Lorenzo non aveva fatto altro che stare in piedi come un generale nazista ad urlare ordini a destra e a manca mentre noi sfacchinavamo) ce la cavammo in un pomeriggio soltanto. La casa nuova era meravigliosa, le giornate continuavano ad essere belle e soleggiate, di lì a poco sarebbe cominciata la vera e propria vita universitaria ed io non avrei potuto essere più eccitata. Nonostante fossi molto allegra, però, mi rendevo conto della presenza di fattori negativi, che, come quei mosconi neri recidivi che d’estate non fanno che andare a sbattere contro i vetri delle finestre, rischiavano di intaccare le mie giornate meravigliose. In primo luogo c’era Lorenzo, il nuovo coinquilino con troppi capelli biondi, troppe lentiggini in faccia ed assolutamente troppo pieno di sé. Dal nostro arrivo praticamente non avevamo fatto altro che punzecchiarci e palesare senza troppi scrupoli una reciproca antipatia. Cosa mai gli avessi fatto, per me restava un mistero.
«Il punto è che sei troppo felice», aveva cercato di spiegarmi una volta, con il suo solito tono di voce scontroso simile più che altro al ringhio di un cinghiale. Io avevo giustamente obiettato che non c’è assolutamente niente di male nella felicità, ma la discussione era degenerata fino a concludersi con lui che lanciava il mio cappello peruviano dal balcone ed io che per ripicca mi infilavo in bocca tutti i suoi disgustosi biscotti per celiaci (come i difetti non fossero già stati abbastanza, era pure celiaco) in una volta sola. Insomma, non si poteva dire che il nostro rapporto fosse dei migliori. Ma non era lui la principale fonte della mia preoccupazione. A turbarmi veramente era Sofia, che mi sembrava agitata come non mai. Quando decisi di approfondire la questione era passata circa una settimana dal trasloco. Era una bellissima giornata ed io e lei eravamo uscite per un caffè in piazza, da vere cittadine quali eravamo diventate (il fatto che per raggiungere il bar ci fossimo perse circa sei volte era del tutto irrilevante). L’idea era quella di starsene tranquille a godersi la bella giornata, ma Sofia non si stava godendo un bel niente. Nel giro di due ore aveva finito un pacchetto intero di sigarette ed ora, in mancanza d’altro, si stava rosicchiando le unghie tanto in profondità da fare concorrenza ad un castoro.
«Dai, dimmelo», proferii. Lei mi scoccò un’occhiata interrogativa.
«Di cosa stai parlando?»
Sofia era sempre stata una pessima bugiarda. Tutte le volte che mentiva iniziava a muovere convulsamente la mascella e a guardarsi attorno, come se la conversazione non la riguardasse. Le tirai un piccolo calcio sotto il tavolino con la punta del piede.
«Guarda che lo vedo, che sei preoccupata.»
Ora mi scoccò un’occhiata fiammeggiante.
«Beh, naturalmente, e mi sorprende che tu non lo sia!»
Questa era un’altra delle tipiche reazioni di Sofia. Ogni volta che le capitava di avere un momento di debolezza, in lei scattava una sorta di meccanismo di autodifesa che le imponeva di arrabbiarsi con chiunque le stesse attorno. Forse per questo inizialmente sembrava a tutti una persona chiusa ed un po’ scontrosa: stava tutto nell’abbattere i suoi muri. Aspettai che proseguisse.
«Tra una settimana cominceremo l’università e non lo so, io sono terrorizzata! Ho una paura folle di trovarmi a studiare la cosa sbagliata, di scoprire che non amo veramente quello che faccio, di avere nostalgia, di pentirmi…»
«Sofi, tu sei nata per la psicologia! Se non ti piace puoi sempre cambiare e per la nostalgia ci sono io.»
Le rivolsi un largo sorriso che avrebbe dovuto essere rassicurante, ma vista la sua reazione non ottenne propriamente l’effetto desiderato.
«Sarà… parlando di nostalgia, quando arriva Massimo?»
Mi battei una mano sulla fronte.
«Massimo!»
«Tra tutte le altre cose hai dimenticato persino tuo fratello?»
«Oh, cielo, Massimo arriva questo pomeriggio!»
«Dove? A Bologna?»
«Macchè! Nel nostro appartamento! Tra venti minuti!»
Non riuscivo a crederci. Come avevo potuto dimenticarmi di mio fratello? E dire che ne parlavamo da giorni, che ogni sera ci sentivamo al telefono eccitatissimi per il giorno in cui sarebbe finalmente venuto a trovarmi nella mia nuova casa. Come accidenti avevo potuto dimenticarmelo?
«Oh, Sofia, è un disastro!», esclamai, strattonandola per un braccio ed obbligandola ad alzarsi. Lei si divincolò con fare stizzito.
«Ma che ti prende? Cosa vuoi che succeda? Gli apriranno Amedeo e Lorenzo e tutt’al più finiranno tutta la birra che c’è in frigo davanti alla partita!», provò a ribattere, mentre la trascinavo prima alla cassa a pagare (dodici euro per due aperitivi! Decisamente dovevo ancora abituarmi alla vita in città), poi di nuovo fuori dal bar. Scossi la testa con foga.
«Ti prego Sofia, devi andare a casa ad accoglierlo come si deve.»
Mi fissò con tanto d’occhi.
«Ma che, sei matta?!»
«Oh, ti prego Sofia! Questo pomeriggio Amedeo non c’è e lo sai anche tu che Lorenzo mi detesta! Non voglio che Massimo si senta sgradito, ma so che quel troglodita lo farà sentire la più immonda delle creature solo perché condivide il mio stesso DNA!»
Sofia continuava a sembrare perplessa, ma sapevo di aver toccato i tasti giusti. La sua infatuazione per il tremendo Lorenzo (cosa mai ci trovasse non mi era dato di saperlo) era piuttosto palese per un attento occhio femminile, e sapevo che passare del tempo assieme a lui si profilava davanti ai suoi occhi come una prospettiva tutt’altro che spiacevole. Provò un’altra volta a protestare, ma con molto meno impeto rispetto a prima.
«Ma scusa, perché non ci vai tu?»
«Non posso assolutamente. Ho un impegno irrimandabile.»
«Serena, sei pessima. E incorreggibile, anche. Non riuscirai mai a gestire la vita universitaria se non riesci neanche ad organizzarti un pomeriggio.»
Le rivolsi il più bello e studiato del mio arsenale di sorrisi smaglianti.
«Ed è per questo che mi vuoi bene! Devo scappare adesso. Grazie, grazie, grazie, sei la miglior amica che si possa immaginare, una margherita nel deserto, una stella in una notte d’inverno, un…»
«Ho capito, adesso chiudi il becco. Degnati almeno di tornare per cena però!»
Ci stavamo già avviando in direzioni opposte quando sentii la sua voce richiamarmi indietro. Quando mi girai, vidi che mi stava guardando con stampato in faccia un sorriso tutt’altro che rassicurante, il genere di sorriso che Sofia fa quando crede di aver capito tutto mentre in realtà brancola nel buio.
«Cosa c’è?»
Ancora quel sorrisetto.
«Hai appena detto che questo pomeriggio Lorenzo è a casa da solo, il che significa che Amedeo è fuori, ed anche tu te ne vai in un posto misterioso, sola soletta, senza dare spiegazioni a nessuno… non è che voi due malandrini vi vedete di nascosto?»
Come volevasi dimostrare.
«Non sentivo la parola malandrino dalla quinta elementare…»
«Guarda come cambi argomento!», esclamò lei, battendo le mani tutta soddisfatta.
«Sofia, sei matta, e soprattutto guardi troppe telenovele. Non c’è nessuna storia d’amore segreta tra me ed Amedeo! Quella con la cotta per il coinquilino sei tu!»
Sofia diventò rossa come una ciliegia matura.
«Io non ho affatto una cotta per Lorenzo!»
«Ah no? Allora perché hai capito subito che parlavo di lui?»
Aprì la bocca per ribattere, poi la richiuse e mi lanciò uno sguardo talmente assassino che se si potesse uccidere con gli occhi mi avrebbe certamente incenerita.
«Mi sembrava che avessi un impegno urgente, tu!»
«Vado, vado!», le risposi. Mi ci volle qualche minuto per riuscire a smettere di ridere.
 
Quando finalmente arrivai a destinazione, correndo come una dannata per non fare tardi, mi sentivo agitata come non mai. Era vero che avevo mantenuto il silenzio più totale sul mio misterioso appuntamento di quel pomeriggio, ma non aveva nulla a che vedere con un uomo misterioso, come Sofia sospettava. No, il motivo della mia fuga era ben diverso.
Arrivai davanti ad un edificio gigantesco, tutto bianco e grigio, dall’aspetto tutt’altro che accogliente. Il sole bolognese cominciava a calare e così il profilo del palazzo sembrava colorarsi di arancione, conferendogli un aspetto ancor più austero. Deglutii faticosamente. Ero arrivata a destinazione, ossia davanti alla redazione del Fronoxidis, un famoso mensile culturale bolognese a cui avevo inviato il mio curriculum ancor prima di arrivare a Bologna. Ecco spiegato il mio impegno misterioso: ero in cerca di lavoro, per la precisione, cercavo di accaparrarmi il posto che sognavo fin dalla prima superiore. La critica letteraria.
Entrai nell’edificio silenziosissimo in punta di piedi e fui immediatamente travolta da un esercito di persone che correvano in tutte le direzioni, con le braccia straripanti di documenti, le espressioni preoccupate e tintinnii di tacchi alti e scie di profumo al seguito di ogni figura femminile. Soppesai per un attimo i miei jeans e le mie infradito. Ops. Forse non avevo scelto l’abbigliamento più adatto in assoluto.
Chiesi informazioni per l’ufficio del direttore ad una donna con uno chignon strettissimo che mi rispose molto vagamente e senza guardarmi in faccia per nemmeno un millisecondo. Cominciavo ad agitarmi sempre di più. Mi sentivo totalmente fuori luogo, una ragazzina di campagna capitata per caso in un covo di professionisti che non avevano nulla a che vedere con me e con il mio stile di vita. Ma sapevo che non dovevo lasciarmi intimidire: il direttore mi aveva mandata a chiamare ed io dovevo affrontarlo, indipendentemente da quali fossero le sue notizie. Arrivai davanti alla porta del suo ufficio, contrassegnata dalla targhetta D. Santolini – Direttore. Mi chiesi per cosa stesse quella D. Daniele? Demetrio? Passò qualche minuto prima che mi rendessi conto che stavo perdendo tempo come al mio solito.
«Coraggio, Serena. Ce la puoi fare.»
Bussai e subito una voce giovanile mi invitò ad entrare. Feci il mio ingresso in un ufficio asettico ed impersonale, dalle grandi finestre e con una scrivania gigantesca che torreggiava nel bel mezzo. Alla scrivania era seduto un… ragazzo. Non avrei saputo come definirlo altrimenti, dal momento che non poteva avere più di venticinque anni. Indossava camicia e pantaloni neri, aveva capelli ricci e scuri, grandi occhi verdi ed un sorriso leggermente beffardo stampato in volto. Lo vidi chiaramente soppesare con lo sguardo le mie infradito, i miei capelli ricci ed immancabilmente fuori posto che spuntavano a ciocche disordinate dal cappello peruviano, la borsetta gigantesca gonfia di una serie di oggetti allo stesso tempo completamente inutili e strettamente indispensabili.
«La signorina Serena Leopardi?»
«E… esattamente», balbettai. Quell’uomo mi intimidiva.
«Si sieda, prego. Piacere, Davide Santolini, direttore del Fronoxidis e giornalista per la rubrica dello sport. Sono lieto di averla qui, signorina Leopardi.»
«Può chiamarmi Serena», esclamai, come al solito, un secondo prima di ricordarmi di tenere a freno la lingua e di non dire idiozie. Come mi era venuto in mente, in un contesto formale come quello, di proferire in un’uscita del genere? Lo sguardo che mi rivolse in effetti era profondamente ironico.
«Molto bene… Serena. Dunque, vediamo un po’.»
Si mise a sfogliare un fascio di carte che riconobbi con orrore come il mio curriculum. Non pensando che nessuno leggesse veramente quella roba, l’avevo scritto senza troppa attenzione, infilandoci dentro le informazioni più svariate senza il benché minimo criterio. Invece evidentemente il direttore del Fronoxidis l’aveva letto, e sembrava avere tutta l’intenzione di parlarne con me.
«Età… diciott’anni?»
Quanto sembravano improvvisamente pochi gli anni che per tutta la quinta superiore mi avevano fatta sentire la regina del liceo!
«Ne faccio diciannove a fine dicembre», ci tenni a precisare. Lui fece un risolino impossibile da interpretare. Era divertito o sarcastico? Era un buon segno o un cattivo segno?
«Redattrice per il giornale scolastico del liceo Sarpi Il Sarpi in Molliche. E’ esatto?»
Maledissi mentalmente il nome terribilmente ridicolo del giornalino del mio ex liceo.
«Si, è esatto. Mi occupavo principalmente della rubrica letteraria, insomma, recensioni di libri appena usciti ed amati dai giovani, ma in realtà ho scritto un po’ di tutto.»
Non aggiunsi che il motivo di tanta attività era che Il Sarpi in Molliche era il giornalino meno letto della storia dei giornali scolastici e che a lavorarci eravamo solo in tre per circa sei rubriche. Non mi sembrava il genere di pubblicità più adatta da fare a sé stessi quando si vuole essere assunti da qualche parte. Daniele Santolini non commentò.
«Qui c’è scritto che ha vissuto tre mesi in Perù. Si occupava di qualcosa in ambito giornalistico o letterario?»
Oh, cielo, ma lo aveva letto proprio tutto, quel dannato curriculum? Come avrei potuto rispondere a qualsivoglia domanda sul Perù senza sembrare una totale psicopatica?
«Ehm… in realtà ho lavorato in una fattoria.»
«In una fattoria?»
La sorpresa del direttore era evidente. Le sopracciglia scure si incurvarono sugli occhi verdi in un’espressione perplessa decisamente accattivante. Oh, basta, accidenti, dovevo smetterla di mangiarmelo con gli occhi!
«Si, esatto. Mi occupavo delle api e degli alpaca. Le api non sono aggressive come sembrano e gli alpaca… beh, sono animali adorabili. Questo cappello l’ho fatto io!»
Ecco. Avevo detto esattamente il genere di cose che mi avrebbero garantito un biglietto di sola andata verso la disoccupazione. Il direttore mi fissava con tanto d’occhi. Rimase ad occhi sgranati per una decina di secondi per poi… scoppiare a ridere. Rimasi ferma immobile mentre lui si sganasciava dalle risate sulla sua sedia, con le lacrime agli occhi ed il fiato corto. Non mi ero mai resa conto di essere così spiritosa.
«Serena», biascicò quando riuscì a smettere di ridere. «Lei è un tipo decisamente… particolare
Eccoci di nuovo nel bel mezzo dell’ambiguità più assoluta. Particolare. Che cavolo significava particolare? Era un complimento o un insulto? Ritrovata la serietà, l’espressione del direttore si fece nuovamente imperscrutabile.
«Sarò sincero con lei, signorina. Le sue referenze sono un tantino deboli e la sua giovane età e la relativa inesperienza rappresentano degli altri punti a suo sfavore.»
Eccoci arrivati al dunque, pensai. Stavo per essere sbattuta fuori ancor prima di aver cominciato.
«Tuttavia, ho letto gli articoli che mi ha inviato e, va detto, il suo stile è singolare. Le sue recensioni sono fresche, scorrevoli, frizzanti, per dirla in una parola sola, lei scrive veramente bene, e cosa è più importante per una giornalista? Motivo per il quale ho deciso di assumerla in prova per i prossimi tre mesi. Ovviamente la paga sarà un po’ più bassa del previsto ma…»
Ma io non lo ascoltavo più. Assunta! Ero stata assunta! Avevo un lavoro, anzi, non un lavoro qualunque, proprio il lavoro dei miei sogni! Ero ufficialmente una giornalista del Fronoxidis! Poteva forse andare meglio di così?
«Signorina, mi sta ascoltando?»
«Oh, grazie Dav… volevo dire, signor Santolini, grazie di cuore! Non se ne pentirà! Farò di tutto per non deluderla, lo prometto!», esclamai balzando in piedi con tanta energia da farlo sussultare dalla sorpresa. Mi sorrise, e questa volta sul suo viso non c’era la sfumatura canzonatoria di prima. Sembrava proprio che ridesse di cuore.
«Non ne dubito… Serena. Può iniziare a partire dal primo lunedì dì ottobre. Ci vediamo in ufficio.»
Si alzò e mi strinse la mano. Era una mia impressione o aveva indugiato più a lungo da quanto richiesto dall’educazione? Comunque fosse, non m’importava, non in quel momento. Lo salutai con la mano come una bambina di otto anni alla quale è stata appena regalata una fornitura annuale di caramelle ed uscii dal suo ufficio praticamente saltellando di gioia. Il tragitto a piedi dalla redazione a casa era piuttosto lungo, ma ero talmente emozionata che mi sembrò quasi di percorrerlo volando. Serena Leopardi, giornalista del Fronoxidis, nonché sottoposta di Daniele Santolini, il direttore più attraente dell’intero universo! Poteva forse andare meglio di così? Feci gli scalini di casa a due a due ed entrai con tanto impeto che per poco non scardinai la porta.
«Miei carissimi amici», gridai «ho grandi notizie per voi!»
La mia notizia non fu accolta con l’entusiasmo sperato, anzi. Nell’atrio c’era solo Lorenzo, che mi scoccò uno sguardo assassino.
«Anche noi abbiamo una notizia per te. E’ arrivato un ospite per te, un ospite che ti somiglia in maniera preoccupante, sia esteticamente sia caratterialmente.»
Probabilmente avrebbe continuato ad insultarmi spassionatamente, se non fosse stato per la persona che giunse nella stanza in quel momento. La persona in questione aveva i miei stessi riccioli rossi, le mie stesse lentiggini, i miei stessi occhi verdi e, soprattutto, il mio stesso identico modo di fare da uragano in attività.
«La mia sorellina!», esclamò, spalancando le braccia.
«Massimo!»
Decisamente, ora la mia giornata era perfetta.
 
 
 
NdA:
Salve a tutti, sono tornata! Questo ritardo dell’arrivo del capitolo lo ritengo perdonabile, perché essendoci il ponte è come se fosse domenica da tre giorni e quindi, teoricamente parlando, io ho pur sempre aggiornato di domenica. No?
Che ne pensate del punto di vista di Serena? Vi piace o preferite quello di Sofia? E vi piacciono le due protagoniste? Oh, dovrei smetterla con le domande e darvi un po’ di tregua. In fondo siamo solo al secondo capitolo, accidenti. Grazie di cuore a tutti i recensori dello scorso capitolo, spero di poterne ringraziare di nuovi sotto al prossimo! Baci e abbracci,
Il Circo Zen

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Capitolo 3
*** Swing in town ***


CAPITOLO 3
SWING IN TOWN
Ovvero come anche le accoppiate di gemelli più incontenibilmente possono nascondere dei segreti
 
(Sofia)
Massimo era il genere di persona in grado di migliorare qualsiasi giornata storta. Era un ragazzo decisamente divertente, dall’aspetto particolare. Aveva gli stessi lineamenti delicati e fanciulleschi di Serena: il naso piccolo e all’insù, le lentiggini, il viso ovale, gli occhi grandi. Mentre alla sorella conferivano un incredibile aspetto di cucciolo smarrito da proteggere a costo della vita (anche se bastava rivolgerle la parola per accorgersi che l’unica cosa da cui proteggersi in realtà era proprio lei), su di lui erano buffi, quasi ridicoli. Il fatto che avesse stuoli di ragazze ai suoi piedi era dovuto al fatto che compensava con dei modi di fare straordinariamente coinvolgenti tutto quel che non aveva in bellezza. Massimo era in grado di conquistare chiunque, indipendentemente da sesso, età ed orientamento sessuale. Era arrivato a casa nostra da meno di un’ora ed aveva ottenuto effetti sorprendenti: il mio malumore era ormai nient’altro che un lontano ricordo, Serena era al settimo cielo, Amedeo sembrava aver trovato il suo nuovo idolo e persino Lorenzo aveva tutta l’aria di esserne conquistato, per quanto si sforzasse di non farsi vedere così ammaliato da qualcosa che avesse a che fare con la sua acerrima nemica Serena.
Massimo era arrivato il sabato prima dell’inizio dell’anno universitario, completamente incurante della mole immensa di lavoro che ci aspettava e con tutta l’intenzione di fermarsi per un weekend di grande festa. Si era portato appresso nient’altro che un sacco a pelo («ho condiviso la camera con mia sorella per diciott’anni, dormire sul suo divano per una notte non sarà certo un problema!») ed una bottiglia di vino rosso, che aveva stappato nell’allegria generale all’arrivo a casa della sorella. Ecco un’altra caratteristica di Massimo: era un grande amante del vino, di cui fingeva spudoratamente di essere un intenditore quando in realtà, in mancanza d’altro, era capace di bere anche un Tavernello dimenticato in frigo da due settimane. Non che sua sorella fosse da meno, in realtà. Per questo la prospettiva di trascorrere un sabato sera con entrambi i fratelli Leopardi mi spaventava non poco: se già presi singolarmente erano inarrestabili, in due diventavano un vero e proprio cataclisma umano.
«E allora, Serena, ho conosciuto i tuoi coinquilini», esclamò, mentre riempiva generosamente il bicchiere della sua felicissima gemella. Eravamo seduti tutti e cinque, io, la coppia esplosiva, Lorenzo ed Amedeo, al tavolo della nostra nuova cucina e l’atmosfera, ingentilita dal vino e da un posacenere già mezzo pieno al centro del tavolo (tutte le obiezioni di Lorenzo sul fumare in casa erano state fermamente respinte) , era decisamente piacevole.
«Oh, sono stata fortunata vero?», commentò Serena bevendo una lunga sorsata di vino e rivolgendo ad Amedeo e Lorenzo il più luccicante dei suoi bianchi sorrisi da pubblicità della Mentadent. I due ricambiarono, il primo sincero ed incantato, il secondo vagamente perplesso.
«Altrochè! Questi due non sono niente male, e poi hai sempre la meravigliosa Sofia dalla tua parte.»
Mi sorrise ed io arrossii. Sapevo che Massimo mi voleva bene quasi quanto a sua sorella, e lui non aveva mai mancato di dimostrarmelo.
«Tu, invece, come te la passi?», gli chiese Amedeo, incuriosito.
«Oh, anche a me è andata bene, non c’è che dire. Abito un po’ fuori città assieme a quattro ragazze a dir poco… deliziose.»
Ridacchiammo tutti quanti. Massimo non faceva certo segreto della sua predilezione per le storie poco serie e per il sesso femminile in generale. Se si fosse trattato di un qualunque altro ragazzo probabilmente lo avrei disprezzato e definito un superficiale, ma essendo Massimo l’imputato in questione, qualsiasi peccato era perdonabile.
«Anche le nostre ragazze sono deliziose. Chi più, chi meno», non potè trattenersi dal commentare Lorenzo, che non si lasciava mai sfuggire l’occasione di lanciare frecciatine a Serena e, mi sembrava con mia immensa gioia, lusinghe a me. Arrossii, mentre Serena continuava a sorridere, impossibile da turbare ora che la sua metà umana era arrivata.
«A proposito, Serena!», esclamò Amedeo, battendosi una mano sulla fronte. «Quando sei entrata non avevi detto di avere una grande notizia?»
Serena si illuminò e saltò in piedi, rischiando quasi di rovesciare il bicchiere di Lorenzo con il ginocchio.
«Ma vuoi stare attenta? Certo che tu sei veramente un impiastro!»
«Oh, smettila di cercare di demolire il mio buonumore, Lorenzo caro, oggi non ce la faresti neanche con tutto l’impegno del mondo», trillò lei, accarezzandogli i capelli nella parodia di un gesto affettuoso. Lorenzo si scostò, leggermente schifato.
«Comunque, è vero, ho una notizia straordinaria! Ho trovato un lavoro come critica letteraria ad un giornale locale, il Fronoxidis! Non lo trovate eccitante?!»
La stanza si suddivise in due reazione diametralmente opposte. Da un lato, Massimo ed Amedeo, che saltarono in piedi urlando, sollevarono Serena sulle spalle ed iniziarono a cantare a squarciagola la canzone della Champions League (molto male, per chiunque dovesse essere interessato), portandola in trionfo in giro per la stanza. Dall’altro, io e Lorenzo, che guardammo allibiti prima Serena, poi i due festaioli, poi l’uno con l’altro.
«Serena, ma sei impazzita?», cercai di farla ragionare. «Non riuscirai mai a gestire un lavoro e la vita da matricola contemporaneamente! Ma se neanche due ore fa ti sei dimenticata persino tuo fratello! Impazzirai!»
Ero io che parlavo o la gelosia? A me non era proprio venuto in mente di cercarmi un lavoro, per lo meno, non subito. E Serena, invece, a neanche una settimana dal nostro trasferimento era felice, sicura delle sue scelte e forte del lavoro dei suoi sogni che era riuscita a trovarsi. Perché non riuscivo semplicemente a condividere la sua felicità?
«Ma hai idea di che orari allucinanti farai?», rincarò la dose Lorenzo.
«We are the champions, my friends!»
«E di quanto siano sottopagati e sfruttati i giornalisti tirocinanti?»
«And we’ll keep on fighting ‘till the end!»
«E di quanto ci sia da studiare per le matricole universitarie?!»
«We are the champions, WE ARE THE CHAMPIONS!»
«Ma mi state almeno ascoltando, voi tre?»
«NO TIME FOR LOSERS, ‘CAUSE WE ARE THE CHAMPIONS!»
«Oh, io ci rinuncio», sbottò infine, scoccandomi uno sguardo di biasimo e ributtandosi a sedere, non prima di aver finito di scolarsi il suo vino fino all’ultima goccia.
«Ragazzi, qui urge festeggiare!», gridò Massimo, brandendo la bottiglia ormai vuota come la fiaccola della Statua della Libertà.
«Evvai!», esultarono Serena ed Amedeo, la prima sulle spalle del secondo che già barcollava, un po’ per il vino, un po’ per il dolce peso della neogiornalista.
«Per festeggiare io ci sono sempre», commentai, sapendo già che avrei finito per pentirmene. Come già detto, la prospettiva di una serata con Serena e Massimo insieme non lasciava mai presagire nulla di buono.
«Andiamo, Lorenzo, non puoi non venire!»
Sorpreso di vedersi così caldamente invitato dalla stessa Serena, Lorenzo rimase spaesato.
«Beh, io suppongo che… ma si, perché no?»
«NO TIME FOR LOSERS, ‘CAUSE WE ARE THE CHAMPIONS!»
Quando finalmente tutti si furono ricomposti, fu Massimo a prendere la parola.
«Questa sera all’Estragon fanno una serata swing anni ’20. Che ve ne pare?»
«SI!», esclamò subito Serena, battendo le mani.
«Ma io non so ballare lo swing!», protestò Lorenzo.
«Nemmeno io, ma che importanza ha?»
«Non abbiamo i vestiti adatti!»
«Hai ragione!»
Serena si incupì, ma durò solo per un istante.
«Ottima ragione per andare a fare shopping!»
«Io adoro lo shopping!», cinguettò Massimo con la voce da perfetto gay che sapeva tirar fuori all’occorrenza. Ancheggiando vistosamente, afferrò un divertito Amedeo ed un alquanto perplesso Lorenzo per le braccia e sfarfallò un po’ le ciglia in direzione della sorella.
«Io mi occupo di loro, tu prendi Sofia. Ci vediamo davanti al locale alle dieci e sciagura a noi se non saremo tre perfetti Gatsby con le rispettive Daisy!»
Serena, quasi commossa, gli scoccò un bacio sulla guancia.
«Sei il fratello migliore che ci sia!»
 
Allo scoccare delle dieci io e Serena eravamo, ovviamente, ancora in alto mare. Guardandomi con fare imbronciato nello specchio del camerino (dovevo ancora abituarmi ai centri commerciali aperti fino a tardi delle grandi città), emisi uno sbuffo di pura insoddisfazione.
«Che c’è, Sofia?», gridò Serena dalla sua postazione fuori dal camerino. Lei, neanche a dirlo, aveva trovato al primo colpo un meraviglioso tubino nero con le frange che la faceva sembrare davvero direttamente sbucata dal film del Grande Gatsby. Io, invece, ovviamente, sembravo un gigantesco palloncino a frange. Mi sembrava che il vestito bianco che avevo scelto mi facesse difetto da tutte le parti.
«Non uscirò mai e poi mai di qui! Lasciami qui a morire sola e soffocata dal mio stesso grasso corporeo in eccesso!», strepitai, provando una malsana invidia per quelle ragazze dai corpicini minuscoli a cui ogni vestito calza senza una grinza.
Ovviamente, la mia lamentela fu del tutto vanificata da Serena, che, senza farsi il minimo scrupolo, spalancò la porta del camerino ed entrò assieme a me, costringendomi a stringermi come un’acciuga ed ignorando completamente la mia espressione di palese sbigottimento.
«Stai invadendo la mia privacy!», sbottai.
«Se Maometto non può andare dalla montagna, sarà la montagna ad andare da Maometto», replicò lei, prima di cominciare ad analizzarmi attentamente da capo a piedi, incurante del mio evidente imbarazzo.
«Ma cosa accidenti ti lamenti? Stai benissimo, Sofia! Il bianco s’intona perfettamente con la tua carnagione e lo spacco laterale ti fa sembrare ancora più slanciata!»
Le lanciai un’occhiata a metà tra il diffidente e tra il colpito dalle sue neo acquisite doti da fashion blogger.
«Ma mi sento così a disagio, e grassa, e brutta, e deforme…»
Ma prima che potessi terminare il mio monologo, Serena aveva già tirato fuori da chissà dove il telefono e mi aveva scattato una foto a tradimento, accecandomi con un flash potentissimo ed assolutamente non necessario.
«Ma che stai facendo?!»
«Se non ti fidi di me, vediamo se l’opinione di Lorenzo ti farà sentire meglio!»
«Fermati subito! Non osare inviargli quella schifezza!», provai a replicare, cercando disperatamente di strapparle di mano il cellulare. Ma era troppo tardi: lei si era già scansata e, con stampato in faccia un ghigno demoniaco, mi mostrò con fare trionfante il messaggio ormai già inviato.
«Serena, sei una maledetta piccola serpe!»
«Piccola serpe? I tuoi insulti si fanno sempre più creativi ultimamente…»
«Chiudi quella boccaccia! Anzi no, prima dimmi che cosa risponde, ma da lì in poi per me sei morta, Serena Leopardi! Hai capito?! Morta!»
«E quindi l’opinione di Lorenzo ti interessa, eh?», commentò maliziosamente, senza levarsi dalla faccia per un solo istante quel sorrisetto maligno che la faceva sembrare un misto tra Lucifero ed una totale psicopatica.
«Comunque, se ti può interessare, dice che stai benissimo. Si è anche imbestialito perché io ho il suo numero di telefono, ma se non altro tu gli piaci un sacco!»
Cercai di fulminarla con lo sguardo, ma mi uscì soltanto un sorrisetto gongolante. Serena sembrò ancor più soddisfatta.
«E quindi, lo compri?»
«E va bene, va bene, se è il prezzo da pagare per renderti meno maligna! Ma devo toglierlo, rimetterlo sulla gruccia e…»
«Non dire sciocchezze!», mi interruppe, con un gesto sbrigativo della mano. «Nelle grandi città funziona come in Sex and the City: si esce dai negozi già vestite di tutto punto per saltare dritte tra le braccia del divertimento! Vieni con me!», e mi trascinò fuori dal camerino con il vestito ancora addosso, completo di boa di struzzo e collana di perle in plastica da annodare attorno al collo.
Ovviamente Serena si sbagliava sul funzionamento dello shopping nelle grandi città, ma quando cercò di spiegare alla commessa il parallelismo tra le nostre vite ed una sitcom americana, quella rimase talmente esterrefatta che accettò di farci pagare i vestiti senza farceli togliere. Uscimmo in pieno centro agghindate come due perfette idiote capitate per caso nell’epoca sbagliata, io letteralmente bordeaux dalla vergogna, Serena del tutto spensierata e con un sorriso che andava da un orecchio all’altro.
«Prossima tappa, Estragon!»
 
Arrivammo a destinazione in abissale ritardo, come d’altronde c’era da aspettarsi. L’Estragon era un locale gigantesco ed in coda c’era un sacco di gente, tutta rigorosamente vestita anni ’20. Sospirai di sollievo ed iniziai a sentirmi decisamente più sicura di me. Amedeo, Lorenzo e Massimo ci stavano aspettando, abbigliati come tre perfetti dandy, con tanto di bombette in testa e bastoni da passeggio.
«Ma siete meravigliose!», gridò Massimo correndoci incontro e brandendo una bottiglia di vino recuperata chissà dove. Amedeo annuì concitato, mentre Lorenzo si limitò a guardarmi e sorridere. Mi sentii il cuore balzare in gola. Mi aveva notata! Proprio me! Cercai di dissimulare l’imbarazzo agguantando la bottiglia e bevendone circa metà in un sol sorso.
«Ti vedo, carica, Sofia», commentò Massimo, assai compiaciuto.
«Siete pronti, ragazzi? Si va in scena!»
 
Alle tre e un quarto del mattino ero letteralmente collassata su uno dei divanetti del locale. Massimo e Serena ballavano senza sosta un improbabile swing, imitati non senza fatica da un esausto Amedeo, che stava duramente mettendo alla prova sé stesso per reggere gli impossibili ritmi dei gemelli Leopardi. Erano uno spettacolo incredibile: si erano dati alla follia ed all’ignoranza più totale per l’intera serata. Massimo aveva collezionato i numeri di una dozzina di ragazze, era salito sul palco a ballare la macarena assieme alla band, aveva fatto surf sulla folla e rubato persino un paio di maracas, da cui non si era mai più separato. Per quanto riguardava Serena, era stata abbordata da un paio di ragazzi che l’avevano convinta ad iscriversi al partito comunista ed ero piuttosto certa che ad un certo punto avesse anche adottato a distanza un pinguino di una specie in via d’estinzione. Eppure erano ancora lì, gli immortali della festa, scatenati in mezzo alla pista senza dare nessun segno di cedimento. Semplicemente folli. E fantastici.
Per quanto riguardava me, nel frattempo avevo fatto in tempo ad ubriacarmi, smaltire la sbornia ed ubriacarmi una seconda volta. Giacevo sul divanetto praticamente in fin di vita, augurandomi che quei due si stancassero presto per poter finalmente andare a casa a dormire. Ad un certo punto qualcuno si lasciò cadere accanto a me con grazia elefantiaca, rischiando pericolosamente di schiacciarmi la testa. Alzai lo sguardo e mi accorsi che si trattava di Lorenzo, anche lui considerevolmente ubriaco e considerevolmente stanco.
«Quei due… sono… infaticabili», ansimò, evidentemente reduce da una sessione di ballo sfrenato assieme ai gemelli. Mi issai a sedere,compiendo uno sforzo ai limiti dell’umano. Cercai di ignorare il fatto che invece di un solo Lorenzo ne vedevo ben tre, i quali continuavano a girare vorticosamente in maniera piuttosto nauseante.
«Sono così da quando li conosco. Una coppia che scoppia», commentai, cercando disperatamente di assemblare le parole in modo che sembrassero sensate. Non che Lorenzo fosse esattamente nelle condizioni di farci caso: aveva chiuso gli occhi e sembrava anche lui prossimo al collasso.
«Davvero. Mi domando che razza d’infanzia abbiano avuto per diventare così. Devono essere cresciuti nel bel mezzo di una tribù Pellerossa o roba simile. E poi, sono una specie di incesto ambulante. Mai visti prima d’ora due fratelli così simbiotici!»
Per quanto potessi essere sbronza, quelle frasi mi fecero rabbrividire. Mi sentii improvvisamente più lucida. Pensai che c’erano delle cose che, indipendentemente da quanta antipatia potesse provare per Serena, Lorenzo doveva sapere. Dal momento che dubitavo che lei avesse intenzione di parlargliene, supposi che il compito spettasse a me.
«Lorenzo… c’è una cosa importante che devo dirti.»
Aprì gli occhi e mi sembrò di leggere nel suo sguardo una sorta di aspettativa. Peccato che di lì a poco lo avrei tremendamente deluso.
«La mamma di Serena e Massimo è morta quando loro avevano dodici anni.»
Rimase in silenzio, ma sgranò gli occhi e si irrigidì sullo schienale. Anche nel suo caso, gli effetti dell’alcool sembravano essere svaniti in un batter d’occhio. Decisi di proseguire.
«Loro ne parlano raramente, ma è stato un duro colpo per la loro famiglia. Erano molto legati. Loro padre è una brava persona, ma ha dovuto lavorare molto per riuscire a mantenere due figli adolescenti da solo e di conseguenza hanno dovuto imparare ad arrangiarsi fin da piccolissimi. Si sono praticamente cresciuti a vicenda, ed il risultato, beh… è questo.»
Lorenzo rimase in silenzio per una durata di tempo che mi parve interminabile. Poi alzò lo sguardo su Serena, che in quel momento stava volteggiando a braccia spalancate sulle spalle del fratello, cantando a squarciagola una canzone che probabilmente non aveva mai sentito prima di quel momento. Sembrava il ritratto della spensieratezza, il dipinto dell’allegria. Sembrava la solita Serena di sempre.
«Non lo si direbbe mai», commentò Lorenzo, con un filo di voce. Anche lui sembrava aver smaltito la sbronza nel giro di un istante.
«Serena si è costruita un equilibrio fragilissimo, un equilibrio che ha Massimo come punto focale. Per questo, per quanto ti possa sembrare un tipo strano e leggermente fuori di testa, ti prego, cerca di accettarlo. Che tu lo voglia o no, Serena ora fa parte della tua vita, e di conseguenza ne fa parte anche Massimo. Fallo per lei. E, beh… per me.»
Lorenzo mi guardò e fece un sorriso un po’ triste. Posò una mano sulla mia.
«Sarai una bravissima psicologa, Sofia. Serena ha trovato l’amica migliore che potesse desiderare.»
Restammo in quella posizione per un tempo che parve interminabile.
 
 
 
NdA:
…..buonasera a tutti. Avete presente il “meglio tardi che mai”? E il “dulcis in fundo”? Ecco, mi appello a questi detti per farmi perdonare del fatto che sono in ritardo di circa (ehm) due mesi con l’aggiornamento. A mia discolpa posso dire soltanto che la scuola mi uccide, che i miei amici mi tormentano rifiutandosi di lasciarmi alla mia abituale misantropia e che la mia vita è un incredibile disastro straripante di imprevisti. Scuse accettate?
Grazie infinite ai recensori per i meravigliosi commenti che mi hanno lasciato, e scusatemi se i sono fatta attendere tanto. Spero abbiate sempre e comunque voglia di leggermi e che la storia continui a piacervi. A presto (giuro!) per le prossime avventure di Sofia, Serena e tutta la crew! Un’infinità di abbracci,
Il Circo Zen

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Capitolo 4
*** Ave Maria ***


CAPITOLO 4
AVE MARIA
Ovvero gli innumerevoli sistemi esistenti per combattere l’ansia e la relativa capacità che hanno alcuni di scegliere sempre e comunque il peggiore
 
(Serena)
Ero abituata ad essere sempre la prima ad alzarmi al mattino, ma quando, il lunedì del nostro primo giorno da universitarie, mi svegliai allo scoccare delle cinque e mezza, con il consono sorriso già pronto sulle labbra, mi sorpresi parecchio nel trovare Sofia già in piedi, seduta al tavolo della cucina, in penombra, con davanti a sé un posacenere già pieno a metà.
«Sofia, che ci fai già sveglia?», domandai, sbigottita.
«Esattamente lo stesso che ci fai tu», ringhiò in tutta risposta, tirando una boccata lunghissima dalla sigaretta. Decisi di non insistere. Sospettavo che ce l’avesse con me dal giorno prima, quando, proprio mentre lei era nel bel mezzo dei postumi di una sbornia colossale, avevano fatto capolino in casa una dozzina di ragazzi vestiti in rosso con falce e martello ricamata sui colletti, per congratularsi con me per la mia adesione al partito comunista, cercare di convincere ogni singolo presente in casa ad iscriversi a sua volta ed avvertirmi dell’imminente ritiro annuale a Santa Clara. A me erano sembrati innocui ed anche piuttosto divertenti, ma Sofia aveva totalmente dato di matto, cominciando ad urlare e cacciandoli di casa brandendo una scopa, con grande approvazione del suo paladino Lorenzo. Poi, sempre urlando, mi aveva dato della “folle sconsiderata incosciente” per essere entrata in politica in condizioni di totale ubriachezza ed infine aveva aggiunto che se solo avessi provato ad andarmene a Cuba mi avrebbe tolto il saluto per sempre, non prima di avermi ammazzata a martellate. Non mi aveva più parlato da quel momento, cosa che mi faceva dedurre che probabilmente serbava ancora un filino di rancore.
Iniziai a preparare il caffè in silenzio, aspettando pazientemente. Conoscevo Sofia, e sapevo perfettamente che quando era angosciata non c’erano musi che tenessero: doveva per forza parlarne con qualcuno. La sentivo già sbuffare alle mie spalle, impaziente di esplodere ma troppo orgogliosa per farlo senza prima lasciarmi attendere il giusto.
«Serena, come fai a non essere agitata?! Io mi sto letteralmente mangiando le mani!», gridò infine, totalmente dimentica dei nostri coinquilini addormentati.
«Sofia, te l’ho già detto, devi stare tranquilla. Andrà tutto benissimo e ti accorgerai di aver preso la decisione giusta. Non hai motivo di essere così agitata!», le ripetei per l’ennesima volta.
«Non sarà il tuo continuo ripetermi di non agitarmi che mi farà sentire meglio! Anzi! Peggiori solo la situazione! E non dimentichiamo che in fatto di decisioni tu sei l’ultima ad avere diritto di parola!»
«Ammettilo, ce l’hai ancora con me per l’episodio di ieri!»
«Certo che ce l’ho con te! Ma ti sembra normale vedersi la casa invasa dai comunisti alle tre del pomeriggio?! E per la cronaca, tu a Santa Clara non ci vai!»
«Ma certo che ci vado! Ho già dato l’adesione!»
«Non ci provare nemmeno!»
«Guarda che non sei mica mia madre!»
«Chiudi il becc…»
«Buongiorno ragazze!»
Sobbalzammo entrambe, io rovesciandomi sulla mano metà del caffè bollente, Sofia trattenendo a malapena uno strillo. Amedeo aveva fatto capolino sulla porta della cucina con il suo pigiama a pappagalli (Amedeo aveva un’alquanto affascinante passione per i pigiami) ed un sorriso ingenuamente gaio stampato in faccia. Apprezzavo parecchio come quel ragazzo sembrasse vivere perennemente in un universo tutto suo a circa tre metri dalla terra. Lorenzo una volta mi aveva detto che ero esattamente la sua versione femminile. Lo classificai come il primo complimento che mi avesse mai fatto.
«Amedeo, che ci fai in piedi a quest’ora?», chiese Sofia, stizzita per essere stata interrotta nel bel mezzo di una sgridata. Amedeo, dal canto suo, non sembrò minimamente accorgersi del suo fastidio e non perse il buonumore.
«Vi ho sentite parlare, allora ho pensato di uscire a fare colazione con voi, perché devo dire una cosa a Serena.»
Rivolse lo sguardo su di me ed io gli feci un sorriso incoraggiante. Mi dispiaceva che già di prima mattina fosse stato così impunemente bistrattato, anche se non aveva dato nessun segno di essersene accorto.
«Ieri tuo fratello, quando è partito, ha lasciato una cosa sotto il divano ed io l’ho trovata. Volevo mandargliela per posta ma non ho il suo indirizzo, e poi non ho ben capito di che si tratta, quindi ho pensato che forse è meglio darla a te…»
Detto questo si tirò fuori dalla tasca una bustina in plastica ermetica, piena fino all’orlo di foglioline verdi essiccate, che emanavano un odore talmente forte che sospettai che addirittura i vicini potessero sentirlo. Ci fu un istante in cui calò un silenzio tombale. Io ero pietrificata. Sofia era pietrificata. Amedeo… beh, Amedeo continuava ad agitare il suo ritrovamento, con l’aria di chi non ha la più pallida idea di cosa sta succedendo.
«Ma tu cosa diamine hai nel cervello?!?»
Fu Sofia a rompere il silenzio, balzando verso Amedeo e strappandogli con ferocia di mano l’oggetto incriminante (letteralmente parlando), per poi infilarselo precipitosamente in tasca.
«Per posta! Voleva mandarglielo per posta! Che Dio ce ne scampi! Serena, non credevo che avrei mai pronunciato queste parole, ma sappi che al mondo esiste una persona più folgorata di te!»
«Che cos’ho fatto?», chiese Amedeo, perplesso da tanta cattiveria che in realtà era del tutto giustificata. Cercai di essere gentile ed allo stesso tempo di non sconvolgerlo troppo.
«Ehm… vedi, Amedeo, non so bene come spiegartelo, ma devi sapere che in quel sacchettino c’è della… insomma, quella cosa che si fuma nelle cartine lunghe, che fa ridere ininterrottamente per quattro ore di fila e mangiare come uomini delle caverne che non vedono cibo da settimane. Ecco. Quello.»
«Mi stai dicendo che quella è DROGA?!», strillò Amedeo, sgranando gli occhi. In un battibaleno, Sofia gli si avventò addosso, tappandogli la bocca con entrambe le mani e nel frattempo riempiendolo di calci sugli stinchi.
«Ma perché non lo urliamo un po’ più forte allora?! Non sono sicura che in Messico ti abbiano sentito bene!»
Non riuscii a trattenermi dallo scoppiare a ridere, nascondendomi la faccia tra le mani nel tentativo di passare inosservata. Non servì a nulla: sentendomi, Sofia si ricordò che originariamente ero io quella con cui era furibonda, così si girò e cominciò a prendere a calci me, ed anche piuttosto forte.
«Ehi! Mi stai facendo male!»
«E’ tutta colpa tua! Pensavo che tuo fratello avesse superato la fase spaccio, ed invece mi ritrovo con una partitina d’erba dimenticata sotto il divano! Pensa se l’avesse trovata qualcun altro! O peggio, pensa se quest’imbecille avesse avuto l’indirizzo di Massimo! Lo troveresti divertente allora?! Divertente quanto un assalto comunista?! Eh, lo troveresti divertente?!»
Non la smetteva un attimo di dimenarsi e di mollare pedate. Il mix tra angoscia preuniversitaria, la sbronza di due giorni prima e questo episodio di eclatante stupidità da parte di Amedeo doveva essere stato un colpo fatale, per lei. Fu proprio pensando a questo che un’idea cominciò a farsi strada nella mia mente.
«Ferma! Ferma! Fermi tutti! Ragazzi… ho avuto un’idea.»
Amedeo mi guardo incuriosito e Sofia, grazie al cielo, fece una pausa dalla sua crisi di violenza isterica.
«Che cosa? La buttiamo nei bidoni comuni e diamo la colpa allo psicopatico con la gamba di legno che vive al pianterreno?»
«Meglio ancora: la fumiamo noi. Adesso.»
Per la seconda volta ci fu un attimo di silenzio tombale.
«Che cosa?!», esclamarono poi all’unisono i miei baldi compari, destando altri grugniti dalla camera del bell’addormentato Lorenzo. Prima che potessero replicare, mi affrettai ad esporre i punti a mio favore.
«Pensateci, ragazzi! E’ il nostro primo giorno di università e c’è chi è un po’ agitato – no Sofia, non mi sto riferendo precisamente a te, tranquilla –, e cosa, più di uno spinello, potrebbe aiutarci a smaltire la tensione? So che non è il metodo più politically correct in assoluto, ma dai, che volete che sia? Per una volta? Una sola e basta?»
Conclusi la mia epopea con un sorriso gigantesco ed un infinito sbattimento di ciglia, nella speranza che bastasse. La verità è che lì per lì pensavo davvero che fosse un’idea brillante, per non dire la migliore. Probabilmente era vero che, come non faceva che ripetermi Sofia, avevo un senso di responsabilità del tutto inesistente.
«Serena, ma sei matta?! E’ il nostro primo giorno di università, dannazione, e tu vuoi che ci andiamo da strafatti? Tu devi esserti bevuta il cervello!», sibilò Sofia, puntandomi addosso uno dei suoi indici ossuti come quelli di una vecchia.
«Ma io non ho mai fumato! E poi, ragazze, sapete che credo sia illegale?», borbottò il povero Amedeo, confuso come non mai.
«Potrebbe farmi chissà quale effetto, non faccio niente del genere da tantissimo!»
«E’ il giorno sbagliato per comportarsi in modo strano…»
«E’ un’idea pessima, ecco cos’è!»
«Dobbiamo assolutamente sbarazzarcene.»
«E’ fuori discussione che la usiamo. No, no e no. Mai e poi mai. Mi hai sentita, Serena? Ho detto mai.»

Quando Lorenzo entrò in cucina erano ormai le otto ed io, Sofia ed Amedeo eravamo semisdraiati sul tavolo, con davanti a noi i resti di tutto il cibo che avevamo trovato in casa. Cercai di darmi un contegno e quasi mi ribaltai dalla sedia, causando un attacco di ridarella isterica da parte di Sofia. Avrei tanto voluto che Amedeo la smettesse di cantare l’Ave Maria, canzone decisamente tanto poco appropriata quanto poco implicita in quel momento.
Lorenzo ci guardò aggrottando un sopracciglio, a metà tra il disgustato ed il perplesso.
«Che state combinando, voi tre?»
«Colazione», risposi, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. Lui scoccò un’occhiata al tavolo.
«Con il polpettone di ieri sera? E le bacche del cespuglio del terrazzo dei dirimpettai?»
Sofia mi salvò dall’incombenza di dare una risposta che non sarei mai stata in grado di giustificare, saltando in piedi ed inchinandosi davanti a Lorenzo senza nessuna ragione al mondo.
«Buongioooorno Lorenzo», cantilenò, con voce strascicata. «Questa mattina sei bellissimo, un vero principe, arrivato direttamente dal Medioevo cavalcando un bianco destriero.»
Finito il monologo si sedette di nuovo, improvvisamente attratta dalle briciole di torta che erano rimaste sul tavolo, delle quali si dedicò ad un’attenta e minuziosa ispezione. Lorenzo si guardò attorno con la stessa espressione di chi è inaspettatamente capitato in un manicomio e viene attaccato con delle lamette da un’orda di psicopatici.
«Ma che avete voi due? Non avete il primo giorno di corsi oggi? E perché quello lì non la smette di cantare le canzoni della messa? Mi vuoi spiegare che sta succedendo in questa casa?»
A quel punto capii che era giunto il momento di dare una spiegazione intelligente, chiara, sagace, di dire il genere di frase che, dopo averla ascoltata, si vive un momento di estasi emotiva di fronte a cotanta perfezione. Animata dalle migliori intenzioni, presi un lungo sospiro e dissi:
«Non mangiare mai nulla che sia più grande della tua testa.»

Uscimmo di casa sfrecciando in sella alle nostre biciclette (Sofia, in quanto maniaca dell’ecologia, aveva insistito perchè ci muovessimo con quelle), con i libri nelle borse che ancora profumavano di carta appena stampata e l’adrenalina a mille. La giornata era bellissima, la più soleggiata e splendente degli ultimi dieci anni. Se fosse davvero così o fossi io ad idealizzarla nel mio cervello totalmente inebriato, non mi è dato saperlo. Io e Sofia pedalavamo fianco a fianco, sfidandoci in velocità e facendo slalom tra i risentiti pedoni sui marciapiedi. Arrivammo davanti all’università in quello che sembrò un minuto e, arrivate al momento di separarci, ci scambiammo un lunghissimo abbraccio, senza smettere un secondo di sghignazzare.
«Buona giornata, psicologa!»
«Buona giornata, professoressa!»
Ridemmo come se fossero le battute più spiritose del mondo e poi ci separammo, dirette ognuna alla propria facoltà. Rimasta sola, mi resi conto di un dettaglio che fino a quel momento avevo del tutto trascurato: non avevo la più pallida idea di dove fosse la mia aula. Iniziai a girare a vuoto per i corridoi, che pullulavano di studenti che correvano da ogni parte, tutti più affaccendati che mai. Il mio cervello, ora che non avevo nessuno con cui interagire, stava trasmettendo un incontrollato film mentale in cui tutte le persone attorno a me erano formiche ed io un gigantesco ed impacciato calabrone che si era spezzato un’ala proprio davanti al loro formicaio. Le formiche venivano verso di me, mi fissavano coi loro occhietti assetati di sangue, sfregavano le zampette tra di loro e…
«Signorina Serena, che piacere incontrarti qui!»
Feci un salto di circa tre metri, convinta che la Formica Regina mi avesse appena trovata e fosse sul punto di divorarmi. Quando mi voltai, però, non mi imbattei in nessuna gigantesca formica, bensì nel mio capo, il mio bellissimo, irresistibile capo dai ricci scuri e gli occhi dello stesso verde delle foglioline appena germogliate, che mi guardava con il solito sorrisetto sarcastico. Ero strafatta al mio primo giorno di università e, giusto per dimostrare che al peggio non c’è mai fine, incontravo pure il mio capo. Un classico. Grazie, karma.
«Oh, ehm, buonasera, cioè, volevo dire, buongiorno Formi… scusi, cioè, scusa, insomma, buongiorno… capo.»
Continuava a sorridere, come se mi trovasse incredibilmente divertente. Oppure incredibilmente stupida.
«Puoi chiamarmi Davide, se vuoi. Te l’ho già detto.»
«Oh, si, beh, sai, in realtà preferisco capo, è una parola così altisonante, dà un’aria autoritaria, importante, professionale…»
Dovevo assolutamente smettere di farfugliare, così decisi di dire la prima cosa che mi venne in mente.
«Sai per caso dov’è l’aula 118 del professor Menegatti?»
«Si», rispose, con una nota di sorpresa nella voce. «Siamo in ottimi rapporti, io e Vittorio Menegatti. Tengo molte conferenze per lui, una anche questo venerdì. Ero un suo alunno. Non sapevo frequentassi il suo corso, mi fa molto piacere saperlo. Vieni, ti accompagno.»
Detto questo mi prese per un braccio (mi prese per un braccio!) e mi fece strada lungo i corridoi labirintici dell’edificio, sfrecciando tra gli insetti, volevo dire gli studenti, senza la benché minima esitazione.
«Conosci bene il posto», dissi, disposta a farmi coinvolgere in qualunque tipo di conversazione noiosa pur di togliermi dalla testa l’ immagine di me stessa in veste di calabrone sodomizzato dall’avvenente regina delle formiche.
«Ho studiato qui, sono stati i cinque anni migliori della mia vita», rispose lui, evidentemente compiaciuto dalla domanda. «Beh, eccoci, siamo arrivati.»
L’aula 118 era davanti ai miei occhi. Lo ringraziai, cercando di evitare che mi guardasse negli occhi e notasse in che condizioni ero realmente.
«Beh, allora buona lezione, Serena. Ci vediamo venerdì alla conferenza.» Mi sorrise. «Sai, di solito prima di venire all’università mi fermo a fare colazione al bar 1984, proprio qui davanti. Anche questa volta credo che farò così. Sarò lì dalle otto alle nove… giusto perché tu lo sappia.»
Mi rivolse un vago sorriso, mi battè una mano sulla spalla e se ne andò, lasciandomi davanti alla classe in preda alla più totale estasi. Mi sembrò di entrare dalla porta volando.

Io e Serena avevamo appuntamento a pranzo in un bar di Piazza Maggiore, per uno scambio di opinioni sul nostro ingresso nella vita da adulte. Quando arrivai lei era già lì, con l’espressione più beata che mai ed una sigaretta tra l’indice e il medio, che si portava alle labbra non nel solito modo morboso, bensì con una tranquillità incredibile. Mi sedetti, elettrizzata al pensiero di raccontarle la mia giornata, di sentire la sua, di passare del tempo con la migliore amica che avevo al mondo.
«E allora», chiesi, accomodandomi. «Com’è stato?»
Mi sorrise.
«Sai cosa? E’ andata bene. E’ stato meraviglioso. Sembra esattamente ciò che ho sempre desiderato.»
Sorrisi a mia volta, e lei sospirò.
«Scusami se ti ho stressata in questi giorni. Sarai stata preoccupata anche tu, ma io ero troppo occupata a pensare a me stessa.»
Sollevai le spalle.
«Non fa niente.»
«E grazie per oggi. E’ vero, non sarà stato il metodo più ortodosso di sempre, ma mi ha davvero aiutata. E si, Serena, è stato geniale, ma sappi che lo ammetto soltanto perché sono ancora un po’ fatta.»
Ridemmo assieme nel caldo sole del mezzogiorno bolognese. Quella risata era il suono dei sogni che, piano piano, iniziavano a prendere forma.

Quella sera, a casa, mentre Lorenzo e Sofia preparavano romanticamente la cena assieme, mi chiusi nella mia stanza e telefonai a Massimo.
«Sorellina! Mi manchi già! Abitare a Castel Maggiore è una fregatura!»
«Non disperare, ci vedremo sicuramente nei prossimi giorni! E, Massimo, a proposito…»
«Sì?»
«Grazie per il regalino sotto al divano. Deliziosa. E non provare a fingere di non averlo fatto apposta, ti conosco troppo bene.»
Dall’altro capo del telefono arrivò la calda risata di mio fratello. Sentii una fitta di nostalgia. Era strano, non averlo più accanto tutti i giorni. Era tutto molto più difficile. Stavo per dirglielo, ma venni distratta da una serie di urla provenienti dalla cucina.
«Razza di deficiente! Idiota! Troglodita! Io con te non voglio avere più nulla a che fare! Tu vai a vivere sotto ad un ponte!»
Salutai frettolosamente Massimo e mi precipitai in cucina, dove Lorenzo, paonazzo, sbatacchiava il mestolo ovunque mentre Sofia cercava di calmarlo.
«Che sta succedendo qui?»
«Giudica tu stessa!», tuonò Lorenzo, indicando con il mestolo qualcosa alle mie spalle.
Mi voltai. Sulla porta c’era Amedeo, con dipinta in viso l’espressione di chi è colpevole e si è appena reso conto di aver commesso una colossale idiozia. In mano aveva una cesta e nella suddetta c’era un gigantesco gatto, spelacchiato, guercio, con un orecchio smozzicato, che non appena mi vide iniziò a soffiare come un ossesso.
«Ed ecco spiegato che fine aveva fatto Amedeo…»
 
 
 
NdA:
Attenzione lettori, quello che sto per scrivere è molto importante. NON prendete come esempio Sofia, Serena ed Amedeo: sono ovviamente dei deficienti e niente di quel che combinano è da scegliere come modello d’intelligenza o genialità. Questa storia non è un’istigazione alle droghe e confido nella vostra capacità di saper riconoscere l’ironia. Nel caso non ne aveste, beh, adoro litigare coi moralisti, quindi fatevi vivi in tanti! Un abbraccio,
Il Circo Zen

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