Angeli

di Leonhard
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Servizio Consegne Strife ***
Capitolo 3: *** Riuniti ***
Capitolo 4: *** Esse3 ***
Capitolo 5: *** Dimmi di non farlo ***
Capitolo 6: *** La vera Madre ***
Capitolo 7: *** Angeli ***
Capitolo 8: *** Piume e spade ***
Capitolo 9: *** L'angelo crudele ***
Capitolo 10: *** Come un fiume ***
Capitolo 11: *** Epilogo ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


  1. Prologo
Fissò la sua spada: grondava sangue, che sapeva suo. Non era più abituato a vedere il suo sangue e la cosa lo turbò. Una goccia si staccò da una delle tante chiazze e fece da collegamento con le altre, attingendo abbastanza fluido da continuare la sua corsa. Prima di superare la guardia ed inzaccherargli i guanti, si prese il disturbo di coprire parte di ruggine formatasi nel corso degli anni in cui era stata piantata in cima a quella rupe fuori Midgar, dove più che una spada era stata una lapide.

Che spreco, aveva detto una volta una persona. Non gli portava rancore: non sapeva che quella rupe era qualcosa di più ed il suo commento era stato sincero. Non era nemmeno sicuro che avesse avuto torto: effettivamente, era veramente uno spreco.

Inspirò per ritrovare energia, ma sentì solo una fitta al fianco e gli abiti farsi più caldi ed appiccicosi. A fatica si rialzò, puntellandosi con la spada. Guardò il suo avversario ed ebbe un flash: il flash di un giovane che, non si sa bene con quale forza, scagliava in un reattore un uomo che lo aveva appena trafitto con la sua spada. Vide quell’uomo precipitare verso un ignoto fondo nascosto da una luminosa luce tendente al verdognolo. Lo aveva guardato rimpicciolirsi, diventare delle dimensioni di un piccolo neo e poi anche quel neo era scomparso, ma lentamente, come se stesse continuando a cadere.

Una volta gli avevano detto che il Lifestream circolava all’interno del pianeta, in una giostra continua, un apparato cardiocircolatorio in scala…beh…un po’ più grossa della sua. Si rimise in guardia, cercando di ignorare un dolore che nemmeno il mako mischiato alle cellule Jenova riusciva a far sparire. Decise di tentare il tutto per tutto e strinse l’elsa, come a prepararsi ad una cosa che non aveva assolutamente voglia di fare.

Il suo avversario lo guardava calmo, serafico, quasi divertito, con quegli occhi verdi-azzurri e quelle pupille a taglio. Sorrideva sornione, dai attacca, sembravano dire: non andrà in maniera diversa da come è stata finora questa scaramuccia. Dammi la gioia di portartela via.

Dammi la gioia di portartela via.

Strinse l’elsa tanto da far sparire la circolazione dalle mani. Con un sommesso fruscio ed un’esplosione di piume nere, spiegò l’ala.


 
NOTA DELL’AUTORE: salute a tutti ragazzi. Qui è il vostro Leonhard che vi parla. Lo so, sono stato inattivo per qualche tempo…beh, dire inattivo non è del tutto esatto, ma poco importa: eccomi, sono tornato!
Ok, basta con gli applausi.
Da grande amante della saga non potevo chiudere fuori dalle mie fantasie più o meno razionali il nostro Cloud con tutto il fantastico mondo che si porta appresso: sarebbe stato un motivo più che valido per finire all’inferno. Così, con quattro esami alle porte, ho deciso di iniziare questa fanfic sperando che vi piaccia. Le regole le conoscete: io scrivo ed aggiorno e voi leggete. Detto questo, non mi resta che augurarvi buona lettura.
Leonhard

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Capitolo 2
*** Servizio Consegne Strife ***


  1. Servizio Consegne Strife

Tifa fu svegliata dallo squillo del cellulare. Con un grugnito scocciato si girò dall’altra parte, ma servì a poco: quella suoneria, con il suo incessante, fastidioso suono digitale continuava a penetrarle nel cervello. Scostò bruscamente le coperte e si alzò, senza dare troppo peso al fatto di essere in intimo.

Aveva preso l’abitudine a dormire in reggiseno e mutande e le piaceva. Le piaceva il senso di fresca libertà che le dava dormire con poco più di due tracci a coprirle quelle parti del corpo che un tempo aveva ritenuto troppo femminili per una donna che in certe situazioni faceva parlare i pugni. Non era più riuscita a non vedersi come una donna, una bella donna formosa per di più, quindi si era chiesta se non fosse un delitto coprirsi anche quando si trattava di dormire.

Aveva riconosciuto immediatamente la suoneria del telefono di Cloud. Aveva smesso di ignorare l’apparecchio ma anche lui aveva preso un’abitudine, ed era quella di lasciarlo in giro. Perché diavolo doveva tenersi un telefono se fino all’anno scorso non rispondeva e adesso lo lasciava in giro?

“Pronto, Servizio Consegne Strife” disse, cercando di dare alla sua voce un tono meno ringhioso di quello che aveva quando, pochi secondi prima, aveva mandato a quel paese un assente Cloud. Poteva almeno cambiare quella dannata suoneria, così anonima e comune e DANNATAMENTE fastidiosa. Ecco, si era svegliata di malumore: mondo stai attento, che oggi marca male.

“Buongiorno” salutò la voce dall’altra parte; era pacata, tranquilla, professionale. “Avrei bisogno di parlare con il signor Strife”. La ragazza si grattò la natica destra e sbadigliò, in tutta la sua straripante femminilità, prima di rispondere.

“Non è disponibile in questo momento” disse.

“Ho chiamato un cellulare” fece notare l’individuo dall’altra parte. “E si tratta di una cosa urgente”.

“Mi dispiace” disse lei. “Non appena sarà reperibile, posso farla richiamare…”.

“Se mi apre il bar, posso ordinare la colazione durante l’attesa”.

Il potenziale cliente insoddisfatto, pochi minuti dopo, sedeva tranquillamente al bancone del Seventh Heaven, con una tazza di caffè forte tra le mani. Tifa si era vestita a tempo di record ed aveva aperto il bar: in quel momento, erano solo loro due nella sala e l’aria era satura dell’odore gradevole della bevanda.

“Capita spesso che il signor Strife esca senza portarsi dietro il telefono?” chiese improvvisamente la figura. Era un uomo basso e grassoccio, sulla quarantina, con corti capelli neri ed occhi marroncini. Vestiva con un camice bianco ed un paio di pantaloni color kaki. Tifa sfoderò il suo proverbiale sorriso di circostanza.

“Non lo fa quasi mai, effettivamente” disse, sincera. “Ma ogni tanto succede; una piccola svista capita a tutti”.

“Sicuramente” assentì lui. “Lei è la signora Strife…?”.

“Più o meno…” rispose lei, evasiva. I loro rapporti erano sicuramente migliorati poco dopo la scomparsa del geostigma; per qualche giorno, aveva sospettato che la sua affettuosità malcelata fosse dovuto a qualche effetto collaterale dell’acqua santa di Aerith, a qualche postumo del male che aveva resistito alla cura o addirittura a qualche botta che aveva subito contro Sephiroth, Kadaj o addirittura risalente al suo rocambolesco inseguimento sull’autostrada. Non si era lasciata andare subito: un po’ per vanità femminile ed un po’ come una specie di castigo per averla fatta penare per anni, si era presa un po’ di rivincite finché una notte un Cloud più audacie del solito l’aveva abbracciata e da un abbraccio normale ad un abbraccio da nudi il passo non era stato poi così ampio come avrebbe voluto.

Tra di loro non servivano molte parole: c’era complicità, il sesso non era male da entrambe le parti e c’era affetto, anche se mai una volta si erano detti un ‘ti amo’. Il cliente aggrottò un sopracciglio, ma non indagò oltre.

“Ho letto molto sul signor Strife” disse lui. “L’ho anche visto in azione; non avrei voluto essere quel Bahamuth quando è piombato a terra, ma mi sono accontentato di non essere stato uno che si trovava lì sotto”. Ridacchiò. Il dialogo stava prendendo pieghe talmente banali da essere quasi ridicole: ci mancava solamente che si mettessero a discutere su quanto fosse fastidioso il piovoso autunno di Midgar.

“Se vuole può anticiparmi qualcosa riguardo la consegna che deve fare” disse Tifa, appoggiandosi al bancone. “Capita sovente che lo aiuto quando il lavoro si accumula”. Lo sconosciuto si fece serio.

“È una cosa delicata, molto. La prego di non offendersi se preferirei parlarne direttamente con l’interessato” disse.

(Beh, sì che mi offendo) pensò Tifa, piccata. Si schiarì la voce e continuò.

“Posso almeno sapere dove dobbiamo fare la consegna?” chiese. Per tutta risposta, l’uomo sorseggiò il caffè.

“È molto buono” disse. “Raramente bevo simili prelibatezze”. Tifa strinse convulsamente i bordi del bancone.

(Cloud, torna presto ti prego) pensò: il comportamento evasivo di quell’uomo non giovava al suo umore già guastato in partenza per via del telefono. Quasi come un miracolo, la porta si aprì con un tintinnio.

Fece il suo ingresso un ragazzo dai corti capelli biondi ed occhi talmente verdi da rasentare la fluorescenza. Indossava quella che ad un’attenta analisi era l’uniforme dei SOLDIER 1°Classe, coperta da una lunga giacca nera a colletto alto. Uno spallaccio di rigido cuoio gli copriva la spalla sinistra e pesanti anfibi producevano ritmici suoni secchi ad ogni passo. Per il primo, brevissimo secondo in cui lo vide, il malumore di Tifa scomparve, come sempre felice di vederlo varcare ancora la sua porta, poi si ricordò che era proprio lui il motivo della sua pessima levataccia ed incrociò le braccia.

“Cloud, c’è qui un cliente” disse a mo’ di buongiorno. Il ragazzo si volse verso di lui e dirottò la sua camminata allo sgabello accanto all’uomo.

“Faresti un caffè anche per me Tifa? Per favore?” chiese. Si sedette e scrutò il cliente per qualche secondo, prima di salutarlo con un distaccato buongiorno.

“Signor Strife…” salutò lui.

“Cosa posso fare per lei?” chiese. L’uomo finì il bicchiere di caffè e si passò un tovagliolo sulla bocca.

“Il mio nome è Brandon” disse. “Dottor Brandon. Lavoro alle dipendenze di Rufus Shinra”. Quel tipo già partiva malissimo. “Il mio capo ha bisogno che lei faccia un lavoro per lui”. Cloud si alzò e diede le spalle all’uomo.

“Posso allora sapere perché non è venuto di persona?” chiese, improvvisamente freddo.

“Il mio capo è un uomo impegnato” fu la scusa di turno, prevedibile come il karma. “Ma riconosce il suo valore: ha affermato che lei è l’unico in grado di farlo; ovviamente sarete pagato”.

“Ovviamente…” borbottò lui. “In cosa consisterebbe questo lavoro?”.

“Il mio capo ha bisogno di una cosa da un posto che voi conoscete bene” disse. “Non è una consegna, ma un prelievo: dovete recuperare dal reattore di Nibelheim una parte del corpo di Jenova, le ovaie per la precisione”.

Nel bar piombò il silenzio. Tifa non infranse una tazzina solo perché nella caduta s’infilò nel cestino dei fondi del caffè, mentre il suo cervello si affollava di domande e paure e ricordi. Cloud fu molto più composto: si volse a guardare quell’uomo, senza mostrare alcun tipo di turbamento. Nel suo cervello solo due nomi lampeggiavano in modo preoccupante.

Rufus Shinra e Jenova.

“Non si sa nemmeno se quella cosa ha le ovaie” borbottò il ragazzo. “Ora, se permette, vorrei che lei mi spiegasse il perché di questo compito: se sarà abbastanza convincente, potrei anche decidere di non uccidere lei prima di Rufus”. L’uomo non fece una piega.

“I dettagli purtroppo non li so” disse. “Io sono solo un portavoce e, come si dice, ambasciator non porta pene. Se lei vuole uccidere qualcuno dopo aver estorto qualche tipo di informazione mi spiace dirle che macchierà la sua spada inutilmente: non so dirle di più”.

“Molto bene” replicò Cloud. “In questo caso, mi accompagnerà da Rufus”.

“In questo momento è impegnato”.

“Troverà cinque minuti”.

“Ne dubito”.

“Sarebbe morto da un anno se io allora avessi dato la stessa risposta” fece notare il soldato. “Sono più che sicuro che mi riceverà, volente o nolente”. Fissò con occhi fermi il suo cliente finché lui non si alzò.

“E sia” borbottò infine. “Ma la avverto che potrebbe fare un viaggio a vuoto”.

“Si fidi che non sarà così” replicò Cloud. Si volse poi verso Tifa.

“Mi assento per un po’” disse, come se la cosa non fosse ovvia. La ragazza annuì e gli porse il telefono.

“Almeno portati dietro questo trabiccolo” disse. “E deciditi una buona volta a cambiare quella maledetta suoneria”. Cloud prese l’apparecchio senza trovare la voglia di ridere.

 
Cloud fu in vista di Junon in un tempo relativamente breve. La prima cosa che vide fu la scogliera, poi la sede di quella che una volta era il più grande cannone della storia. Quel cannone era stato distrutto dalle Weapons e ormai giaceva assieme agli altri rottami nei Bassifondi, o perlomeno i pezzi che si erano salvati dai rottamatori. Guidò la sua moto in città e si fermò davanti ad un ristorante: il dottor Brandon gli aveva fissato un appuntamento con l’ex capo di quella che una volta era la più grande e potente società elettrica del mondo.

“Cloud” salutò la voce gelida dell’uomo nell’istante in cui mise piede nel locale. “Ne è passato di tempo”. Il ragazzo si guardò intorno; gli unici tavoli occupati erano quello di Rufus ed il tavolo accanto, in cui riconobbe quattro Turks che mangiavano. Ignorò l’invito dell’uomo a sedersi.

“Cos’è questa storia di Jenova?” chiese. “Ti servono le sue ovaie? Hai finito le donne?”.

“Non finiscono mai le donne, Cloud” fu la risposta.

“Vuoi parlarmi dei tuoi gusti sessuali, Rufus?”.

“È una cosa seria, Cloud. Non avrei chiesto il tuo aiuto in caso contrario”. Quell’ultima frase costrinse il ragazzo a prestare attenzione.

“Non ho accesso alla stanza di Jenova” disse. “I SOLDIER non esistono più”.

“A quanto ne so, non hai mai avuto problemi con le porte chiuse” fu la risposta.

“Mi stai chiedendo una vera e propria irruzione dentro un reattore mako…perché?” chiese Cloud, sempre più sospettoso. Questa volta, Rufus non rispose subito.

“Diciamo che abbiamo un progetto” fu la risposta. “Ma per attuarlo dobbiamo mettere le mani su un pezzo di Jenova”.

“Le ovaie?” commentò il ragazzo. “Che hanno di particolare le ovaie?”.

“Il più alto tasso cellulare del corpo”. La risposta lo lasciò senza parole. “L’incidente alla sede centrale della Shin-ra non ha coinvolto le squadre di ricerca all’interno dei singoli reattori: anche se a rilento, abbiamo continuato gli studi sull’alieno ed abbiamo fatto importanti scoperte. Tuttavia, per adesso rimangono scarabocchi su plichi di carte: abbiamo bisogno delle cellule di Jenova per fare esperimenti”.

“Che genere di esperimenti?”.

“A tempo debito Cloud: una cosa per volta” rispose lui. “Non hai bisogno di sapere tutto e subito”.

“Non credo che tu abbia voluto necessariamente me solo per sfondare una porta blindata” osservò il soldato. “Piuttosto, hai scelto me perché sono l’unico al mondo ad essere ancora legato a Jenova a livello cellulare”. Rufus non si espresse e ciò gli diede tempo di riflettere.

Pensò a Zack, a Genesis, a tutti quelli legati all’alieno che ormai non c’erano più. Pensò a Sephiroth, riflettendo che, caso strano, tutti coloro che avevano avuto a che fare con le cellule Jenova avevano fatto una brutta fine. Tutti. Quello che cambiava erano i modi ed i tempi.

“Non sono ancora morto” borbottò tra sé e sé. Rufus lo sentì, ma fece finta di nulla.

“Naturalmente sarai pagato per il tuo lavoro” disse l’uomo. “L’unica cosa che ti chiedo è di decidere: il tempo vola e potremmo non essere gli unici a volere un pezzo di Jenova”.

“In che senso?” chiese.

“Abbiamo una talpa nel nostro personale di ricerca” informò Rufus. “E sappiamo di un progetto parallelo. Chi ne faccia parte e cosa vogliano fare non lo sappiamo ancora, ma conosciamo il loro nome: si fanno chiamare i Riuniti”. Cloud pensò che fosse un brutto nome: faceva riaffiorare ricordi non proprio piacevoli. “Qualunque cosa vogliano fare, ho deciso di tarpar loro le ali: tu dovrai penetrare nella sala di Jenova, prelevare le ovaie e distruggere il resto del corpo”.

Cloud sospirò, chiedendosi quale fosse la cosa giusta da fare. Non c’era una cosa effettivamente giusta, tutta stava nel suo giudizio: a chi avrebbe dovuto
dare fiducia?

“Vedrò cosa posso fare” borbottò. Senza aspettare una parola in più si volse ed uscì dal ristorante. montò sulla moto e, preso il cellulare, fece una telefonata.

“Tifa?” chiamò quando la telefonata venne presa.

“No, qui Denzel” rispose una voce ingombrata di latte e biscotti dall’altra parte. “Tifa è al bar”.

“Dille che tornerò stasera per cena” disse Cloud. “Ho una consegna da fare”.

“Ok. Buona fortuna” rispose il ragazzo. Chiuse la telefonata e partì sgommando verso il porto.

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Capitolo 3
*** Riuniti ***


  1. Riuniti

Andare in moto gli piaceva e la sua abitudine ad andare senza casco era un modo per sentirsi libero. Il vento, passando per i suoi capelli, gli facevano sentire appieno il senso di ciò che per molti era una cosa ormai normale. Il vento portava via ricordi, ma alle volte glieli faceva tornare e questa era una cosa che aveva la sua importanza: gli permetteva di ricordarsi sempre chi era e chi veramente era.

Il vento gli ricordava di essere un SOLDIER, di essere in grado di fare certe cose, di guidare in un certo modo e di aver avuto a che fare con certe persone. Ma gli ricordava anche la verità: gli ricordava che lui era un semplice fante che si era trovato immischiato in qualcosa più grosso di lui e che solo ultimamente se ne rendeva conto.

Ricordava quella notte a Nibelheim: quando Tifa gli aveva strappato quella promessa tirava un vento leggero e c’erano le stelle. Quando era partito per Midgar per diventare un SOLDIER il vento gli sferzava i capelli.

Poteva anche sentire il calore delle fiamme di quando Sephiroth era impazzito, la corsa al reattore ed anche il viaggio su quel pick-up giallo con Zack, anche se lo ricordava come un sogno. Sopra il treno, sull’aeronave, in moto, saltando da un edificio ad un cantiere nei resti della Shin-ra circa un anno prima: il vento era stato suo compagno di avventure molto più di quanto potesse pensare.

Era una sensazione che poteva paragonare al Lifestream sulla pelle, quando vi era caduto dentro. Aveva sempre avuto altro per la testa e ricordava che le prime volte non lo sentiva nemmeno, a causa del suo maledetto mal d’auto che lo aveva flagellato per gran parte della sua vita.

Ebbene si: c’era stato un tempo in cui Cloud Strife pativa tremendamente quasi tutti i mezzi di trasporto. In quel momento era ironico, quasi uno scherzo, ma comunque una cosa che si prodigava nel cercare di non farlo sapere in giro.

Rifletté sulla consegna: gli era capitato di tutto da quando aveva cominciato il suo lavoro da fattorino. Consegnava e prelevava tutto, ma aveva tre regole: mai trasportare persone, stare lontano dai guai e farsi pagare prima. Aveva già infranto una regola e sperava che fosse l’unica.

Fu con un certo sollievo che rimontò sulla sua Fenrir in vista di Nibel. Cid dal suo Highwind gli fece un cenno che lui non vide e pochi secondi dopo il vento tornò ad accompagnarlo nella sua consegna. Guardò da lontano le case del paese e non se la sentì di entrare; quel posto faceva riaffiorare ricordi inquietanti. Fece il giro e raggiunse direttamente il reattore, nel mezzo delle montagne.

Spense il motore e salì le scale che lo separavano dalla pesante porta blindata. Si fermò e si guardò intorno: ora che i timpani non vibravano più per il rombo del motore, poteva sentire quel silenzio che gli fece alzare quella stessa concentrazione che preannunciava uno scontro. Tornò alla moto e prese dalla rastrelliera una delle lame stipate all’interno della moto. Il peso della spada sulla schiena in qualche modo lo tranquillizzò e tornò davanti alla porta.

Batté due colpi per saggiare lo spesso metallo, ma la mano appoggiata all’elsa rimase dov’era; la porta, al secondo colpi, si aprì leggermente con un piccolo cigolio. Cloud scrutò con occhi insospettiti la serratura intatta e tornò ad ascoltare l’ostinato silenzio della montagna; non pensò nemmeno per un attimo di togliere le mani all’elsa della spada ed entrò.

L’interno era rimasto immutato: le celle ormai vuote, la scalinata di ferro che conduceva ad una porta sfondata con la grossa incisione JENOVA sopra, la parte di corrimano sfondata contro cui era finito uno sconfitto Zack, persino delle gocce solidificate di un leggero colorito violaceo in cima, testimoni di
quell’unica parte del corpo che mancava all’alieno.

Entrò nella sala. L’eco dei suoi passi contro il pavimento metallico era amplificato dall’eco del reattore; il fruscio del mako che lentamente scorreva sotto di loro era testimone del fatto che il tempo non si era fermato nonostante il silenzio facesse pensare altro.

E fu proprio verso il fondo del reattore il primo posto in cui Cloud guardò, quando vide la cella distrutta e tracce del liquido in cui era conservata sparse su tutta la piattaforma. Il panico che per pochi secondi prese il ragazzo fu celato dal pensiero che forse la cella era in quello stato da quando lui e i suoi compagni avevano combattuto i Sephiroth nei loro viaggi. Ma Rufus doveva saperlo, visto che in tal caso le ultime cellule le aveva usate per non farsi ammazzare subito da Kadaj.

E allora perché era lì?

“Sono solo un fattorino” disse. “Non cerco grane”. Le cinque figure dietro di lui non si mossero. Cloud, da sopra la spalla, le scrutò: vestivano tutte con quella che sembrava la divisa dei SOLDIER di seconda classe, le teste erano coperte da elmi e coppie di katana facevano capolino dalle loro spalle. Uno di essi si fece avanti.

“Progetto C?” chiese, con voce ferma e distaccata. “Cloud Strife?”. Il ragazzo aggrottò il sopracciglio: era stato chiamato in tanti modi, ma quello proprio non gli suonava familiare; per tutta risposta appoggiò la mano all’elsa della spada ed affilò i sensi, preparandosi allo scontro che sentiva imminente. Sei avversari…poteva farcela.

Seguì il silenzio; Cloud studiò i suoi avversari, tutti perfettamente identici. Il soldato che aveva parlato prima fece un passo verso di lui.

“Quindi sei tu…” borbottò. “Cloud Strife…”. Non gli piaceva come pronunciava il suo nome; aveva un che di smanioso, una sorta di urgenza, una vibrazione. Soltanto un uomo aveva pronunciato il suo nome con quel tono.

Ciò che accadde subito dopo fu talmente fulmineo che il biondo non si accorse di aver cominciato a combattere. Tre di loro avevano sguainato le spade e gli stavano piombando addosso, mentre le katana di un quarto avevano già trovato la resistenza della sua spada. Cloud si scrollò di dosso l’avversario e scartò di lato. I due rimanenti lo attaccarono, ma finirono entrambi scaraventati nel reattore, precipitando verso quel verde luminoso che nascondeva le fondamenta del pianeta.

Nel giro di pochi secondi neutralizzò tre soldati nemici, poi si diede alla fuga. Stare lontano dai guai. Saltò sulla Fenrir, che rombò quasi a comando; con una sgommata partì per il sentiero montano, lasciandosi alle spalle il reattore.

Quando fu in compagnia del vento, si permise di tranquillizzarsi; erano mesi che non combatteva, mesi passati a far consegne tranquille. Normalmente bastava lasciar intendere che era stato un SOLDIER prima classe per calmare anche gli animi più riottosi, ma quella volta non aveva avuto bisogno di ricorrere a quella bugia.

Quegli individui lo conoscevano, sapevano il suo nome, e l’avevano chiamato Progetto C. Sterzò bruscamente con la Fenrir e vibrò la spada; la gamba del SOLDIER di seconda classe che gli era corso dietro venne tranciata di netto ed il soldato piombò a terra, ruzzolando tra le rocce. Cloud fermò la moto e scese, avviandosi verso il punto in cui si era spento l’ultimo rumore.

La figura si volse verso di lui. Il moncherino della gamba era sanguinolento e parecchie ossa erano rotte per la caduta, ma la sua espressione era seria ed il suo sguardo fermo, come se quel corpo distrutto non fosse suo.

“Perché?” chiese la figura a terra. Tentò di alzarsi, ma il suo tentativo non fece altro che fargli presente che un arto su quattro stava per fare da spuntino agli sciacalli. Guardò il moncherino con occhi incuriositi per pochi secondi, poi lo spettacolo perse d’interesse e tornò con gli occhi su Cloud.

“Le domande le faccio io se non hai nulla da obiettare” rispose il biondo, ponendo mentalmente la stessa domanda allo stesso soggetto. “Chi sei?”.

“Riuniti” rispose semplicemente.

“Non ti ho chiesto per chi lavori” fece presente Cloud, avvicinando lo spadone al suo naso. “Chi sei?”. Il SOLDIER ripeté la stessa parola.

“Non siamo un gruppo” spiegò. “Siamo un aggettivo”.

“Non sei nelle condizioni di fare giochi di parole”.

“Non lo è”.

“Perché mi hai assalito? Tu ed i tuoi compagni?”.

“Perché cercavi Jenova? Dovresti saperlo che il suo corpo non c’è più”. Cloud sentì il bisogno di ripetersi che era lui in vantaggio e toccava sempre a lui porre domande perché era lui quello con le idee chiare: sentì il bisogno di pensarlo una, due, dieci volte, perché in quel momento la sua sicurezza stava rapidamente scomparendo.

“Non hai risposto alla mia domanda” fece presente. Il soldato vestito di viola sospirò e si mise seduto. Il moncherino sanguinolento s’ingrigì della polvere e dei ciottoli delle Wasteland, ma il giovane non fece traspirare nulla.

“Seraph ci impone di tacere” fu la risposta.

“Seraph?” ripeté Cloud. “È il tuo capo?”. Di nuovo silenzio.

Il biondo rimase in attesa per qualche secondo, poi vibrò la spada e, pochi secondi dopo, la figura si accasciò a terra, svenuto per la botta sulla nuca. Rimasto solo, sospirò; guardò la figura a terra, poi la Fenrir, poi nuovamente la figura. Rimase fermo a riflettere, poi rinfoderò la spada e prese il telefono, con una spalluccia.

Quel giorno aveva infranto due delle sue tre regole d’oro: a questo punto, si disse, tanto vale fare trent’uno.

“Pronto Cid?” chiamò nella cornetta.

“Hey Cloud” salutò il macchinista dall’altra parte del microfono. “Dove diavolo sei finito?”.

“È stata un’uscita faticosa; porta in qua l’aeronave e rintraccia Vincent: che si faccia trovare al Seventh Heaven domani mattina”.

“Che è successo?” chiese. “Sei ancora il solito dannato piantagrane? Non riesci più a fare una consegna decente?”.

“Ci vediamo tra un po’” tagliò corto Cloud e, senza aspettare una risposta, chiuse il cellulare. Prese sulla spalle la figura senza sensi e lo caricò sulla Fenrir, ripartendo alla volta di Nibel e pregando che il sangue della gamba che mancava all’appello non gli inzaccherasse troppo la sella.

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Capitolo 4
*** Esse3 ***


4.    Esse3


Il SOLDIER era stato legato ad una sedia in quello che era stato il rifugio segreto della Avalanche. Cloud dubitava che sarebbe servito a qualcosa: i Second non erano trattati in maniera massiccia come i First, ma erano comunque difficilmente gestibili da persone ordinarie ed immobilizzabili con semplici corde: andava male perché in quel caso l'unico in grado di fargli la guardia  era proprio lui.

C'era anche Tifa, ma lui non era mai stato bravo con i bambini. E bisognava controllare che Denzel e Marlene si addormentassero e non sgusciassero fuori dalla camera per giocare in strada.

Cloud si buttò pesantemente sulla sedia davanti al prigioniero e sbuffò, pregustandosi la pessima serata che gli si presentava.

“Progetto C...” constatò la figura. Cloud lo ignorò. “Io sono Esse3”.

“Molto poco lieto: ora sta zitto” replicò il biondo. La figura continuò.

“Hai recuperato la mia gamba?” chiese. Silenzio. “Immagino di no...e poi queste costole rotte...probabilmente anche una spalla lussata...”.

“No la tua spalla sta bene” borbottò Cloud. “Più che altro hai perso parecchio sangue da un'orecchio”.

“Ah...” replicò lui. Il tono era tranquillo, quasi scocciato: evidentemente delle costole rotte, una gmba mutilata ed una probabile commozione cerebrale erano semplice sbucciature. “Aspettiamo qualcuno?”. Il soldato sospirò.

“Se hai tanta voglia di parlare potresti spiegarmi che è successo in quel rettore” disse. “Così, tanto per galanteria”.

“Sei un uomo d'altri tempi” commentò lui. “La galanteria è morta”.

“Tra qualche ora lo sarai anche tu”.

“Sì, può essere...”. Era sempre calmo, così annoiato e disinteressato...

“Hai detto di essere uno dei Riuniti” osservò Cloud. “C'è qualcosa che devo sapere?”.

“Nulla che tu non sappia già”.

“So che volete mettere le mani sulle cellule Jenova” replicò lui. “Mi sfugge il perché...”.

“Chi te l'ha detto?”.

“Non è importante”.

“Potrebbe diventarlo”.

“Non ne dubito”. Cloud si sporse verso di lui. “Senti Violetto: puoi vuotare il sacco con me con le buone oppure aspettare domattina e vuotarlo ugualmente
con metodi non proprio ortodossi”.

“Tu non sei uno a cui piace torturare le persone”.

“Io no...”.

“...ma a Vincent Valentine sì, giusto?”. Quell'uomo la sapeva un po' troppo lunga. Cloud mascherò con uno sbadiglio un sospiro nervoso.

“Beh, se non vuoi dirmi nulla di interessante fai il bravo e sta zitto” sbottò lui, piccato. Esse3 parlo lo stesso.

“Sei convinto di fidarti delle persone giuste?” chiese.

“Io mi fido di chi paga” replicò Cloud.

“Ma non ti hanno ancora pagato”.

“Lo faranno...”.

“Certo...Rufus Shinra è noto per la sua onestà nel saldare i debiti”. Ma porca...!

“Se le cose le sai, perché le chiedi?”.

“Perchè mi annoio”.

“Sapessi io...”.

“Sei sicuro di sapere tutto quello che c'é da sapere?”. Quel tipo saltava da un discorso all'altro come se nulla fosse. Complice il sonno, Cloud certe volte faticava a stargli dietro.

“So quello che serve” rispose. Il SOLDIER annuì.

“Certo, ma non ti chiedi mai se stai agendo per persone oneste? Con te intendo...” disse. “L'ultima volta che hai basato la credibilità di un uomo sul compenso ti sei trovato in qualcosa di discretmente lungo e pericoloso”.

“Storia della mia vita...” commentò Cloud.

Stava parlando di Rufus? Quel tipo sapeva qualcosa in più di lui? Beh, era palese che sapesse più di lui ed altrettanto normale: lui era un cattivo, i cattivi sanno sempre più cose dei bravi.

Il divertente era che ci rimanevano male quando il bravo in questione sventava il loro brillante piano: quando vedeva queste cose nei film si sganasciava dalle risate, si voltava verso una Tifa presissima dalla vicenda e le chiedeva per quale diabolico processo mentale i cattivi spiegavano ai buoni il loro piano e poi se la prendevano così tanto quando finiva puntualmente a schifio.

Perché i buoni vincevano sempre? Perché ad un certo punto un idiota gli avrebbe spiegato nei minimi dettagli cosa il cattivo voleva fare. Elementare.

Rufus aveva parlato di una talpa: il fatto che fossero coinvolte due gruppi segreti il cui oggetto del desiderio erano le cellule di Jenova gli faceva sentire il sordo desiderio di incontrare al più presto l'idiota che gli avrebbe spiegato cosa il cattivo voleva fare. Sbadigliò e si sistemò sulla seggiola: l'aveva scelta scomoda apposta, ma il sonno si faceva sempre più insistente e le sue palpebre più pesanti. Fu tentato dall'idea di chiedere il cambio a Tifa, ma decise di non disturbarla: quella mattina si era svegliata di malumore e lui era stato fuori per tutto il giorno, lasciandola a sbrigare tutte le faccende ed a gestire il bar da sola. Dubitava seriamente che il suo umore fosse migliorato e la sua ragazza di malumore era una delle poche cose che gli facevano veramente paura.

“Mi pare di capire che non hai ancora afferrato la gravità della cosa” osservò Esse3. Cloud lo guardò con curiosità: possibile idiota a ore undici.

“Se tu parlassi più chiaramente...” replicò. “Anzi scusa: se tu parlassi di cose serie e non di fesserie...”. Lui scosse la testa.

“Non c'è bisogno di parlare...” disse. Cloud ne ebbe abbastanza: aveva bisogno di dormire, non si era nemmeno fatto una doccia e quel tipo stava lì a fargli indovinelli. Si alzò e si avvicinò al prigioniero.

“Allora domani urlerai” ringhiò. Lo colpì alla nuca, spedendolo nel mondo dei sogni. Prima di andarsene, legò saldamente polsi e caviglia contro le sedia.

“Non ho molta pazienza quando sono stanco...”.


In parecchi furono delusi il giorno dopo, leggendo il cartello sulla porta del Seventh Heaven che rendeva pubblico il fatto che l'inventario avrebbe tenuto chiuso il bar per mezza giornata. Però, se fossero entrati, avrebbero visto una botola al posto del flipper e, sporgendosi per studiare la singolarità, avrebbero goduto della vista di un tipo con un lungo mantello rosso tutto indaffarato con schiacciapollici e ferri incandescienti attorno ad un tipo legato su una sedia.

Ma non avrebbero sentito nulla.

Vincent era ormai mezz'ora che martoriava quel corpo, ma il SOLDIER non faceva piega né verso.

“Dov'è il Progetto C?” chiese. Vincent lo guardò dritto nel casco.

“Nella tua testa” ringhiò glaciale. “Vorrei solamente capire come fare per tirartelo fuori”.


Cloud non era tagliato per i bambini. Ma nemmeno per le torture: aveva quindi scelto il minore dei mali. Denzel e Marlene lo guardavano incuriositi, mentre apriva la corrispondenza giornaliera. Il pagamento non era ancora arrivato ed il biondo cominciava ad irritarsi. Stava per mollare tutto e saltare sulla Fenrir, quando Denzel prese parola.

“Quindi…il Lifestream è una sorta di sistema sanguigno? La vita del pianeta?” chiese. Cloud sorrise, divertito dal paragone che il bambino aveva appena fatto

"Il Lifestream circola all'interno del Pianeta: vedilo come un corso d'acqua all'interno di un percorso circolare".

"Allora, se io ad un certo punto getto un ramo all'interno del Lifestream, dopo qualche tempo lo vedrò passare nuovamente dal punto in cui l'ho buttato?" ipotizzò dopo un momento. Cloud si prese il suo tempo per rispondere.

"Spero di no..." rispose, ma la faccia era seria, preoccupata: aveva probabilmente colto nel segno, anche se nessuno in quella stanza ancora lo sapeva. Il cellulare trillò nella tasca del SOLDIER; al terzo squillo, rispose.

<. Era Vincent. >.

“Novità? Ha parlato?” chiese. Il silenzio che seguì lo fece deglutire.

<> rispose. La comunicazione si interruppe: Cloud e Vincent erano bravi a fare a gara a chi dei due fosse più
introspettivo ed al momento la partita non vedeva ancora un vincitore nemmeno pronosticato. Scese nel seminterrato e la prima cosa che vide fu l’amico.

“Quindi?” chiese. Vincent non rispose, ma si fece da parte mostrandogli il prigioniero: il casco era a terra e, sotto la chioma di capelli biondi sparati in tutte le direzioni vi era la sua stessa, identica faccia.

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Capitolo 5
*** Dimmi di non farlo ***


5. Dimmi di non farlo


“Oh Cloud” salutò Rufus. “Stavo per convocarti: siamo proprio in sintonia io e te”. Cloud non rispose: era palesemente una provocazione, esattamente ciò che bisognava aspettrsi da un uomo come quello. Scese dalla moto senza posa, avvicinandosi all'uomo e lasciando che il crepuscolo del tramonto di Junon gli desse una tonalità più ambrata ai capelli. Si fermò a qualche metro da lui e lanciò un fagotto ai suoi piedi e dal pacchetto fecero capolino qualche ciuffo biondo insanguinato.

“Presumo che tu mi debba qualche spiegazione” disse Cloud asciutto.

“Da quando decapiti la gente?” chiese.

“Non l'ho fatto io” fu la risposta.

“Ma l'hai trasportata” osservò Rufus, cercando di nascondere un ghigno compiaciuto. “Non ti fermi davanti a nulla, eh?”.

“Non prendermi in giro” ringhiò il giovane. “Questo qui era uno dei Riuniti ed aveva la mia stessa faccia: mi hanno clonato?”. Rufus abbandonò la sua aria sicura e sprezzante: si fece improvvisamente serio e sbattè più volte le palpebre, perplesso.

“Ti aspetti che io lo sappia?” chiese. “Io non c'ero, ma non credere che sia rimasto con le mani in mano”. Si avvicinò al fagotto e ne scostò i lembi: la testa rotolò lievemente di lato, fissando i suoi occhi vitrei su un particolare inesistente del cielo. Il vento scompigliò lievemente i biondi capelli morti, che mal si sposavano sul grigio pallore del volto. “Ho fatto delle ricerche interne ed ho scovato la talpa”.

La talpa: Cloud si era completamente dimenticato di questo particolare. Rimase in attesa, certo che l'uomo sapesse di doverlo mettere al corrente dei suoi spostamenti, così come doveva fare lui. Davanti al silenzio dell'uomo, sbuffò stizzito: odiava chiedere.

“Chi era?”.

“Chi erano” corresse Rufus. Il SOLDIER aggrottò le sopracciglia, poi fu colto da un sospetto. Si guardò intorno, stranito dalla tranquillità e dal silenzio da cui erano circondati: il porto era deserto, solo loro due sulla banchina metallica ed il vociare della città era solo un lontao brusio senza importanza. Dovette chiederlo nuovamente, ma questa volta la stizza fu accompagnata da un sottile brivido freddo lungo la schiena.

“Dove sono i tuoi tirapiedi?” chiese. L'uomo sospirò e continuò a camminare verso di lui, scavalcando la testa che continuava ostinata a guardare l'infinito che c'era tra lei ed il sole.

“Effettivamente non era poi così difficile da capire” disse. “Insomma, i miei ricercatori hanno il divieto di uscire dalle aree di ricerca e tu, beh...tu sei solo un fattorino”. Cloud provò un moto di stizza: lui stesso si definiva solo un fattorino, ma detto da Rufus suonava come un insulto, quasi lo stesse sminuendo. “Nessuna delle persone con cui ho avuto contatti sapeva delle mie ricerche, quindi mi è bastato fare due più due: avrei dovuto farlo prima. Errore mio”.

“Quindi...?” chiese Cloud, anche se aveva capito perfettamente cos'era successo.

“Reno e Rude erano le talpe” confermò l'uomo. “E per precauzione ho sciolto i Turks e zittito i componenti”.

Zittito i componenti. Cloud distolse lo sguardo da Rufus, cercando di metabolizzare la cosa: zittito i componenti. Sciolto i Turks. Reno e Rude erano le talpe. Si chiese se aver vissuto e militato in quel mondo gli desse il diritto di dire di conoscerlo, perché in quel momento si sentiva come catapultato da qualche altra parte. La Shin-ra, i SOLDIER, i Turks: erano l'uno complementare all'altra ed erano tutti ufficialmente spariti. Almeno per quanto riguardava i Turks.

“Ho bisogno del tuo aiuto, Cloud” disse la voce dell'uomo. “Non hai portato a termine il tuo compito, ma rinnovo comunque il tuo contratto: devo chiederti di sostituire i Turks e proteggere la mia persona”.

“Non mi interessa” replicò subito il biondo.

“Beh dovrebbe” osservò Rufus. “Un lavoro non portato a termine non è una bella nota sul tuo curriculum. Un lavoro commissionato da me, poi...”.

“Io sono un fattorino”.

“Ma prima eri un mercenario: per soldi facevi qualsiasi cosa ti veniva chiesta, compreso far saltare reattori Mako e giocare al fidanzato protettivo con una Antica. Sinceramente non capisco perché questo lavoro ti puzzi così tanto”.

“Tu non mi piaci Rufus” ringhiò Cloud. Gli piantò uno sguardo raggelante negli occhi. “Hai combinato un mucchio di casini, hai messo più volte in pericolo me ed i miei amici per non parlare dei tuoi galoppini che sono stati una seccatura nella migliore delle ipotesi. Wutai ti voleva morto, Sephiroth ti voleva morto, persino il pianeta stesso ti voleva morto e quelle Weapon sono state molto chiare su questo punto: sei solo contro tutto il creato ed io dovrei proteggerti?”.

“Tu sei l'unico che può farlo”.

“E non ti soffermi a chiederti se voglio farlo?”.

“Non serve”. Rufus fece ricomparire il sorrisetto strafottente. “Tu lo devi fare: il tuo contratto con me non è stato portato a termine ed io, in qualità di tuo datore di lavoro, ti cambio la mansione. Io posso farlo e tu devi accettare. E per la cronaca...Sephiroth voleva morti tutti: io facevo parte di questo insieme”.

Non aggiunse altro: superò Cloud e si diresse tranquillamente verso il paese. Il SOLDIER si volse verso di lui.

“Rufus...ti stai facendo crescere i capelli?” chiese. Una domanda stupida, ma sentì di doverlo chiedere. L'uomo si volse, sempre con quel sorrisetto stampato sul volto.

“Ti contatterò presto Cloud” rispose. “Tieniti a disposizione”.


Tifa si sedette su una delle poche panche ancora integre della Chiesa. Del campo di fiori di Aerith non era rimasto molto, solo una fossa con poche dita di acqua santa, che riluceva e vibrava, come se fosse costantemente increspata da una brezza sconosciuta. Le era parsa molto strana la chiamata di Cloud: era strano il fatto stesso che l'avesse chiamata. Le aveva chiesto di aspettarlo alla Chiesa dei bassifondi e lei aveva lasciato Marlene e Denzel ad occuparsi del bar: non era la prima volta che lo faceva e i due erano perfettamente in grado di farlo. E poi, quella non era l'ora degli ubriaconi abituali a cui preferiva occuparsi lei stessa, ricoprendo il ruolo di monito su quello che sarebbe accaduto in caso di grane: potevano ubriacarsi quanto volevano, ma le ciucche moleste le si smaltiva fuori.

In lontananza sentì la Fenrir spegnersi, qualche secondo di pausa e poi il portone si spalancò, seguito dai pesanti passi cadenzati di Cloud. La ragazza si volse con un sorriso di benvenuto, che tuttavia mascherava non troppo bene la perplessità di quell'invito e la richiesta di spiegazioni. Il biondo le lanciò il suo solito sguardo penetrante e si fermò accanto a lei.

“Ciao Cloud” salutò, sapendo che lui aspettava quello.

“Hey” replicò lui. “Grazie per essere venuta”.

“Nessun problema” rispose lei. (Ok, i convenevoli sono finiti: potresti spiegarmi che succede per favore?).

“Seguimi” disse semplicemente lui. Si avviò nuovamente verso il portone e lei lo seguì. Il cortile fuori era polveroso e arido ed i rottami del piatto delimitavano l'unica strada che portava alla Chiesa. Dagli squarci nello spesso strato di ferro e tubi sopra di loro filtrava la luce morente del sole. I due si fermarono a qualche metro di distanza l'uno dall'altro.

“Non ti ho sentito tornare ieri sera” buttò lì Tifa, giudicando opprimente il silenzio tra di loro. “E stamattino non ti ho visto uscire”.

“Non sono rientrato ieri sera” rispose lui. “Scusa, dovevo riordinare le idee”.

“Che succede Cloud?” chiese. Il ragazzo sospirò poi si volse verso di lei.

“Tifa...attaccami” disse. La ragazza rintuzzò sorpresa: ammesso che ci fosse mai stata una volta in cui avevano fatto a botte, e lei dubitava seriamente, era talmente lontana che non se la ricordava.

“Cloud...” mormorò. “Che stai dicendo?”.

“Rufus mi ha assoldato come sua guardia del corpo” rispose semplicemente.

“E allora?” chiese, ma fu una domanda inutile: sapeva, capiva la sua riluttanza a ricoprire quel ruolo. “Tu non sei più un mercenario: non lo può fare”.

“Ho fallito il compito del contratto” replicò lui, mettendosi in posizione di guardia, in attesa di un suo attacco. “Ha variato i termini ed io non posso farci nulla se voglio essere pagato”.

“E tu non farti pagare!”.

“Finirà come nota di demerito sul mio curriculum. E poi sappiamo tutti e due che tipo è quello: gonfierà la cosa ed io non avrò più clienti”. La ragazza sospirò, ma si mise in guardia.

“Quindi anziché far gonfiare la cosa da lui vuoi farti gonfiare da me?” chiese, cercando di sdrammatizzare. Lui accennò un sorrisetto.

“Preferisco” annuì. La ragazza lo attaccò: scattò velocissima verso di lui e mosse un diretto al naso. Il biondo scomparve rapidissimo dalla sua visuale, ma istintivamente mosse il braccio di lato, parando un calcio alla spalla. Spazzò la gamba e mosse un secondo diretto, che venne prontamente afferrato; Cloud le torse il braccio, ma lei si liberò abilmente e lo allontanò con un calcio. Il ragazzo barcollò in avanti, ristabilizzandosi con una rotolata in avanti. Tifa lo rincorse ed attaccò nuovamente.

Voleva fare a botte. E tra tutti, proprio a lei aveva chiesto. Capì il perché di tanto mistero: se glielo avesse chiesto per telefono, avrebbe rifiutato sicuramente e non ci sarebbe stato verso di convincerla. Si abbassò per schivare un calcio e rivide davanti ai suoi occhi un ragazzino.

Un ragazzino dall'assurda chioma bionda che faceva a botte in un vicolo con tre ragazzi più grandi e soprattutto più grossi di lui. Ricordò che lì per lì non aveva dato particolare importanza alla cosa ed era passata oltre, lasciando che quei bulli lo gonfiassero per bene. Ricordò una roccia con biondi capelli a punta sulla strada per il reattore, ai tempi in cui lei cercava la madre defunta.

Ricordò la cisterna dell'acqua sotto un cielo stellato.

Spaccò il suo tempo e spazzò con un calcio le gambe di quel ragazzino, che nel frattempo era cresciuto, si era fatto la sua gavetta alla Shin-ra ed era tornato come testimone di quel mondo, con i suoi pro ed i molto più numerosi contro. Cloud, non seppe prevederlo e si ribaltò a terra; la ragazza gli fu sopra in un attimo e, immobilizzatolo con un avambraccio alla gola, caricò un pugno dietro la sua testa.

L'aria stagnò: il combattimento era finito. Il respiro affannato dei due era la sola cosa che fendeva il silenzio assoluto.

“Ti facevi riempire di pugni da tre bulletti a Nibel e pretendi di affrontare me?” chiese.

“Facile così: sei più grande di me” sbottò lui, sconfitto.

“Ma tu sei un uomo!” protestò la donna, senza tuttavia muoversi. “Dovresti proteggermi”.

“E tu dovresti proteggere l'uomo che deve proteggerti!” replicò lui.

“No, l'uomo che protegge dovrebbe proteggersi da solo: la donna deve proteggere sé stessa e non proteggere l'uomo che la deve proteggere!”. Seguì un attimo di silenzio, poi Cloud parlò nuovamente.

“Non so cosa ribattere” borbottò. “E credo anche di essermi perso...”. Tifa scoppiò in una risata e tolse il braccio dal suo collo, senza tuttavia scendere da lui.

“Ti senti meglio?” chiese. Lui annuì.

“Sì: una basta e avanza” replicò. Fece per alzarsi, ma la donna non si mosse.

“Sai...” disse, giocherellando con il colletto della giacca con un sorrisetto malizioso. “Questa scaramuccia mi ha messo un po' caldo...e dentro c'è ancora un po' di acqua santa: fresca e pulita acqua santa”.

“Non è che magari qualcuno si offende?” replicò lui, sorridendo di rimando e stando al gioco. Tifa scrollò leggermente le spalle e gli circondò il collo con le braccia. I loro volti erano sempre più vicini.

“Chissà...” sussurrò. “Non sei un amante del pericolo?”.

“Dipende che genere di pericolo”.

“Beh, mi hai fatto venire qui e ti ho fatto contento: non è il caso, caro il mio marcenario fattorino...di ricambiare il favore? Sai no? Do ut des, queste cose qui...e poi ci sono altre stanze se hai paura di un castigo divino...”. Giocherellò con la zip per qualche secondo poi la abbassò. Lentamente, come piaceva a lui.

Non ci volle tanto: Cloud si alzò e la prese in braccio, correndo all'interno della Chiesa ed ascoltandola ridacchiare eccitata. Fecero l'amore così, cogliendo l'attimo, senza cose come atmosfera, nidi d'amore ed altre smancerie che la ragazza gli avrebbe chiesto la sera stessa, al sicuro nella loro stanza.

Ma quello era il “dopo”, quello era il “più tardi”: ciò che importava era “l'adesso” e l'eccitazione che dava la trasgressione di farlo in una Chiesa, in particolare in QUELLA Chiesa. La trasgressione, il senso del divieto e del proibito e la consapevolezza di disobbedire dava loro una foga. Ad impeto finito i due caddero in ginocchio sul polveroso pavimento della stanza laterale nella quale era piombati, cercando quel pizzico di intimità, requisito minimo ed in quel caso l'unico, che aveva permesso loro di spogliarsi.

“Non credere che sia finita qui, mio bel SOLDIER” ansimò Tifa, rabbrividendo per la serotonina che le correva nelle vene. “Adesso si va a casa: non esiste che una cosetta come questa possa soddisfarmi per più di mezz'ora”. Lui per tutta risposta la abbracciò posandole piccoli baci sulla spalla e sul collo. Lei sorrise e si accoccolò contro di lui, felice, riuscendo a non pensare a lui come guardia del corpo forzata di Rufus Shinra ma solo come ad un uomo. Il suo uomo: quello che aveva aspettato, che aveva inseguito e guarito.

Quello stesso uomo che, ancora non sapeva, da lì a cinque giorni sarebbe morto.

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Capitolo 6
*** La vera Madre ***


6.    La vera madre


Cloud guardava il cielo. Era una bella notte stellata e dalla finestra dell’appartamento sopra il bar lo si poteva apprezzare appieno, senza quelle dannate impalcature che correvano per la città o le macerie di quella che una volta era stata la sede centrale della Shin-ra. Guardava il cielo perché gli piaceva, perché gli dava quel senso di quiete che non riusciva a trovare sulla terra: in cielo nulla poteva andare storto, non c’era povertà e desolazione e pericoli. Niente uomini da proteggere, mostri da uccidere o cloni da decapitare. Nessuna delusione, ferita, senso di inadeguatezza: il cielo era per tutti.

Come ogni sera, Cloud guardava il cielo ed ascoltava il silenzio di Midgar fuori dalla finestra, le pale della ventola sopra il letto che pigre giravano dando solo un’idea di brezza, la sua ragazza che dormiva al suo fianco e già che c’era si beava del lento e regolare suono del suo respiro. Era un vero peccato che Aerith avesse paura del cielo. Ah, ma quello non era un ricordo suo: con tutta probabilità l’aveva confessato a Zack.

Cloud guardava il cielo e pensava a ciò che l’avrebbe aspettato con spirito più sereno, senza stare a farsi troppi pensieri: era notte, quello era un cielo stellato ed anche lui meritava un minimo di riposo. Come gli suggeriva il suo stesso nome, Cloud guardava il cielo.

Con un sospiro, tornò con gli occhi su Tifa: la sua espressione era serena, le labbra erano piene e socchiuse che vibravano ad ogni respiro e solo il lenzuolo nascondeva quel corpo che fino a poche ore prima era stato suo. Non aveva scherzato nella Chiesa e, tornati a casa, aveva mentalmente ringraziato Cid, Yuffie e Barret per aver portato Denzel e Marlene a Costa del Sol per un paio di giorni. Gli scappò un sorriso: se sarebbe sempre finita così, doveva farsi atterrare più spesso da lei.

Le passò un dito sulle labbra delicatamente, lentamente, per non svegliarla. Maledette labbra, così piene, morbide e calde. La donna si mosse con un mugolio ed aprì lentamente gli occhi, cercando stranita Cloud.

“Hei…” sussurrò piano, con un sorriso stanco. “Tutto bene?”. Cloud le posò un piccolo bacio sulla fronte.

“Tutto bene” annuì. “Pensieri”.

“Belli o brutti?” chiese lei, accoccolandosi contro di lui. Lui le accarezzò una spalla nuda.

“Non saprei” rispose. “Solo…pensieri”.

“Vuoi condividere o posso tornare a dormire?” chiese lei con un risolino. Cloud non rispose: la abbracciò e si mise comodo sotto il lenzuolo.

“Meglio dormire” disse. “Domani dovremo lavorare entrambi”. Lei mugolò soddisfazione e si premette contro di lui.

“Allora buonanotte grande soldato” disse. “E sappi che potrebbe non essere molto lusinghiero”.

“Cosa?” chiese lui, a metà tra il curioso ed il disorientato. Sentì il suo sorriso contro il torace.

“Dopo una maratona di almeno tre ore, hai ancora il coraggio di essere sveglio?” chiese. “Non ti è bastato dover rifare il letto due volte prima di decidere che eravamo soddisfatti?”.

“E poi abbiamo scoperto che non lo eravamo” annuì il biondo. “Beh, adesso mi è venuto sonno: non vale come ripiego?”.

“Facciamo finta di sì…” rispose lei, con una risatina divertita. La mente di Cloud fu attraversata da un ultimo pensiero, che tuttavia ebbe il potere di togliergli il sorriso dal viso: dal giorno dopo sarebbe stato alle dipendenze dirette di Rufus in persona. Quell’uomo aveva sempre portato guai e non aveva mai smesso di farlo: la società, tutte le facce di bronzo così servili con il padre e poi pronte a scoprire i denti al minimo cenno di crisi, le Weapon con la loro missione di proteggere il pianeta, Sephiroth che nel suo intento di distruggere il mondo era partito proprio dalla compagnia. Lui avrebbe dovuto proteggere il target di tutto il mondo. Sentì il bisogno di lasciare il segno e lo fece.

“Tifa…” chiamò. “Ti amo…”. La donna perse all’istante quel lieve torpore che le appesantiva le palpebre. Alzò lo sguardo verso di lui, che aveva voltato la testa e guardava il comodino con espressione corrucciata, come se fosse colpevole di chissà cosa. Quando tuttavia il suo sguardo imbarazzato tornò su di lei, boccheggiò scuotendo la testa, senza la minima idea di cosa dire per prima: anche io, oh Cloud, sposami, perché me lo stai dicendo ora era tutti validi candidati ma proprio non sapeva che pesci pigliare.

“Oddio…” mormorò infine. Il ragazzo per un istante credette di aver sbagliato e scosse la testa.

“Scusa se ti ho turbato” disse. “Ma è una cosa che mi sono sentito di dire e…”. Non riuscì a continuare: Tifa si aggrappò stretta a lui e le spalle cominciarono a sussultare, mentre contro il torace una sensazione di umido gli diede la conferma che forse avrebbe dovuto tacere.

Era palese che l’amava: non era mai stato tipo da andare a letto con persone a cui voleva solo bene. Lui amava Tifa e gliel’aveva provato più e più volte durante il loro rapporto o almeno nell’ultimo periodo: l’ultima dimostrazione di questo suo trasporto risaliva a poche ore prima.

“Cloud…” mormorò la donna dal suo petto. “Non…non so cosa dire…è stupido lo so…ma non mi hai turbata e non devi assolutamente scusarti”.

“Tifa che hai?” chiese lui, alzandole la testa. Il volto era arrossato, le lacrime rigavano le guancie e gli occhi scarlatti erano lucidi e tremuli. Ansimava per trattenere un sorriso.

“Nulla Cloud” mormorò. “Sono solo tanto felice”. Il bacio che seguì era umido e sapeva di lacrime, ma fu bello e sentito. Si cercarono e si strinsero in un abbraccio, facendo attenzione a non separare le labbra: era quel salato che lega, quel salato che unisce, quel salato che sapeva di dolce. Tifa staccò le labbra dalle sue il tempo necessario per rispondere.

“Anche io, Cloud: ti amo anche io” soffiò. “Non immagini da quanto tempo…”. Esaurite le lacrime fu la volta del calore: si accoccolò contro di lui, contro il suo uomo ora a tutti gli effetti, e si addormentò, rifiutandosi di far sparire quel sorriso commosso: ogni cosa a suo tempo, ci avrebbe pensato il giorno dopo. Quello era il momento dei sogni, della felicità, dell’amore: i sospetti e la paura sarebbero arrivati, ma in quel momento decise che dovevano mettersi in coda.

Pochi minuti dopo toccò a Tifa guardare il cielo. Non era mai stata dedita alle preghiere: lo trovava stupido e, viste le sue esperienze, anche inutile. Dov’era Dio quando Sephiroth aveva ucciso Aerith? E quando in cielo appariva il profilo rosso della Meteor? E quando Cloud era caduto nel Lifestream? Dov’era Dio ogni volta che lo aveva interpellato, supplicandogli una mano?

In quel momento non seppe resistere e pregò. Lo fece silenziosamente, guardando il cielo: pregò per LEI, per LUI, per quel LORO appena nato. Pregò un futuro per quel LORO, una speranza, un aiuto: chiunque fosse, solo Dio sapeva quanto ne aveva bisogno. Guardò il cielo e istintivamente strinse la mano del suo uomo, fermamente decisa a godersi il tepore del suo corpo, che dal giorno dopo sarebbe stato lontano.

Tifa guardò il cielo e pregò.

Perché quel ti amo sembrava tanto un addio.


Rufus lo aspettava poco fuori Midgar accanto ad un elicottero. Cloud si presentò all’appuntamento in orario, perché la puntualità era uno dei suoi marchi di fabbrica, ma lanciò un’occhiataccia al veicolo alle spalle dell’uomo.

“Salve Cloud” salutò affabile. “In perfetto orario: mi piace”.

“Sì…” borbottò lui, smontando di sella. Rufus non fece caso alla sua riluttanza a parlare con lui e continuò.

“Ho bisogno del tuo intervento come SOLDIER” disse. “Non darti pena: è l’unico incarico che ti darò, poi potrai tornare a casa con il mio pagamento ed il curriculum impeccabile come sempre”. Cloud lo guardò, in ascolto. Odiava chiedere, ma quell’uomo sembrava odiare prendere l’iniziativa.

“Quindi…” cominciò lui, sentendosi quantomeno fuori posto. “Non hai ascoltato quando ti ho detto che ora sono solo un fattorino”.

“Così come tu non hai ascoltato quando ti ho proposto questo lavoro” ribatté l’uomo, scostandosi un ciuffo dalla faccia.

Un attimo…

Cloud fece caso ai capelli di Rufus: erano più lunghi e andavano schiarendosi. La sua pettinatura non era più impeccabile come la ricordava ma più ribelle, con alcune ciocche che ricadevano sul viso.

“Ti ho assunto per un altro lavoro, visto che non sei riuscito a portarmi le cellule di Jenova” continuò lui, come se nulla fosse. “E poi ti chiedo solo un’ultima volta nei panni del SOLDIER. Mi rendo conto che può mettere soggezione essere un First, specialmente a te che non lo sei mai stato…”.

“Se hai finito…” interruppe Cloud. “Io non sono mai stato un First, ma nelle tue file ho steso gente che normalmente addestra i Second”. Rufus sorrise sprezzante.

“Touché Cloud” disse. “Bene, vogliamo andare?”.

“Se ti aspetti che molli la moto in mezzo al deserto stai fresco” constatò il SOLDIER.

“Il fatto è che dobbiamo fare un viaggio oltremare” ribatté Rufus. “E la moto è intrasportabile”.

“Questo è un problema” annuì Cloud.

“Questo è un tuo problema” puntualizzò l’uomo davanti a lui.

“Guiderò fino a Junon e poi salirò sull’elicottero”.

“Come vuoi, basta che non perdiamo tempo: ogni secondo è prezioso”.

“Eppure stiamo qui a discutere nel mezzo del deserto”.

“Appunto: muoviti a montare sulla moto”.

Rufus aveva la sorprendente capacità di irritarlo con poche parole. Salì sulla moto e la spinse alla massima velocità: non gli avrebbe dato la soddisfazione di arrivare prima.


“Tu hai sicuramente sentito parlare di Lucrezia Crescent”: quella di Rufus non era una domanda.

“Dovrei?” mentì. L’uomo annuì, serio come non mai.

“Oh sì che dovresti” rispose. La sua voce era seria, la sua espressione grave: normalmente voleva dire guai in vista. “Era una ricercatrice, collaborava con Hojo ai tempi d’oro della Shin-ra. Mi sorprende che il signor Valentine non ne abbia mai parlato”.

“Devo dirgli di preoccuparsi?” chiese Cloud, volgendo un’occhiata al pilota: pilotava con assoluta serenità, disinteressandosi completamente ai loro discorsi.

“Perché?” chiese Rufus, attirando nuovamente l’attenzione su di sé. “Ha combinato qualcosa che dovrei sapere? Con Underground ha fatto un ottimo lavoro. Ad ogni modo, Lucrezia è la madre naturale di Sephiroth”. Cloud sapeva anche questo, ma la notizia gli procurò comunque una sorpresa che tenne celata: ancora non poteva credere che una calamità come quella di Sephiroth fosse nata come un normale bambino.

Se si poteva definire normale.

“Abbiamo scoperto che la base dei Riuniti è alla caverna in cui lei giace cristallizzata” concluse l’uomo con calma, quasi con noncuranza.

“Abbiamo?” chiese Cloud. “Tu e chi?”.

“Beh, credi veramente che i Turks fossero gli unici miei dipendenti?” chiese lui. “Il mio centro di ricerche, così come le mie spie sono operative e discretamente efficienti: prima si sono occupati della talpa, pardon delle talpe e poi si sono prodigati per trovare il rifugio. Alla fine non è stato poi così difficile”.

(Se non era così difficile, perché non l’hanno fatto prima?) pensò Cloud. (E poi, ci sono riusciti in tempi così brevi?). Rufus sembrò leggergli nel pensiero.

“La tecnologia fa miracoli Cloud” disse. “Il mio centro ricerche non ci ha messo molto ad attivare un vecchio satellite in orbita sul pianeta: abbiamo scansionato con il radar termico il pianeta ed abbiamo scoperto fonti di calore dove non avrebbero dovuto esserci: se poi aggiungi che Lucrezia è la vera madre di Sephiroth e che molto probabilmente i suoi geni sono reperibili anche da lei…beh…ci arrivi da solo o ti serve una spiegazione?”.
Improvvisamente un pizzico sul collo. Non più di una puntura di spillo, ma Cloud si sentì improvvisamente rigido. Istintivamente si volse alle sue spalle: il pilota lo stava guardando attraverso un paio di occhiali, sul volto un sorrisetto soddisfatto, ciuffi biondi facevano capolino da sotto il casco e, attraverso le lenti, due occhi verdi resi quasi fluorescenti dal mako lo guardavano divertiti.

“Rufus…?” biascicò, combattendo contro sé stesso per ogni secondo in più passato a controllare il suo corpo. L’uomo sorrise e scosse la testa.

“Beh, non potevo certo dirti dovevo portarti dai Riuniti per ricostruire la Shin-ra a partire dai SOLDIER, no?” disse, come se fosse una cosa logica. Si sporse in avanti e gli piazzò gli occhi nei suoi.

“La Shin-ra?” ringhiò lui: ormai non riusciva nemmeno più ad aprire la bocca. “I SOLDIER?”.

“Certo” annuì. “Tutti i progetti che la Shin-ra ha fatto servivano per risorgere, nel caso di tempi difficili come questo. Quindi adesso noi ricostruiremo la
Shin-ra a partire da ciò che abbiamo già: il suo braccio armato”.

“Quindi sei tu la talpa”.

“Ho paura di sì, caro mio”. Sul suo volto vi era un’espressione composta che tuttavia celava la vittoria. Decise che se fosse uscito vivo da quel casino, e l’avrebbe fatto, gli avrebbe piantato la spada nel collo alla prima occasione. Nella sua testa tutto sembrò quadrare ed esternò i suoi pensieri.

“Quindi non solo volete resuscitare Sephiroth ma volete anche clonarlo” disse. Con sua sorpresa Rufus scosse la testa.

“Sephiroth è l’ultima persona che voglio tra le mie fila” disse. “Il vecchio Sephiroth sta benissimo morto: ci ha mostrato gli errori che abbiamo commesso durante l’esperimento. Non ho bisogno di lui, ho di meglio”.

“Cioè io?” chiese. “Io dovrei sostituire Sephiroth?” Rufus sorrise senza posa.

“Cloud, tu SEI Sephiroth”.



NOTA DELL’AUTORE: Salve ragazzi. Lo so, vi avevo detto che vi avrei scritto a fine storia, ma devo fare qualche premessa e qualche precisazione: pochi minuti e poi potrete tornare a chiedervi cose come: CLOUD E’ SEPHIROTH? MA CHI E’ IL PUSHER DI ‘STO QUA???!?!?

Allora, i più attenti si saranno accorti che la storia ha avuto un’accelerata pazzesca, ma dovete perdonare questa eresia letteraria. Il fatto è che sto raschiando il fondo perché veramente non ho molte idee, essendo questo un fandom in cui non sono molto abituato a muovermi: parliamo di un’opera che ha avuto talmente tanti spin-off, prequel, sequel ed altre cose che hanno fatto guadagnare soldini a chi di dovere che devo muovermi con i piedi di piombo o va a finire che faccio casini con personaggi, tempi e cose varie.

Venendo a noi, più precisamente a me e voi tutti, ci tenevo a ringraziarvi: è una storia vagamente campata per aria, ma mi avete ampiamente dimostrato con recensioni e addirittura messaggi privati di apprezzarla veramente tanto. È una cosa veramente importante per me e sono veramente molto contento dei giudizi che ho avuto. Quindi sono seriamente intenzionato a scrivere gli ultimi due capitoli in modo che vi tengano con il fiato sospeso e che vi facciano apprezzare il mio lavoro come io ho apprezzato il vostro gradimento. Scusate il piccolo sfogo commosso, ma è una cosa che dovevo dirvi.

Non mi resta che salutarvi. Ci leggiamo a fine storia (stavolta sul serio).

Leonhard.

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Capitolo 7
*** Angeli ***


7. Angeli


Quell'ultima frase di Rufus ebbe il potere di fargli torcere le budella. Lui non poteva essere Sephiroth, ma c'era qualcosa nello sguardo dell'uomo che gli fece accarezzare l'idea che potesse essere la verità. Alla fine Sephiroth chi era? O meglio, COSA era?

Un progetto.

Un esperimento.

Un successo? Un fallimento? Oramai non lo sapeva nemmeno più.

“Sephiroth è una calamità” ringhiò. “Ha quasi distrutto il pianeta; ha tradito, ucciso, terrorizzato il mondo intero. Lui è il male”. Rufus scosse la testa: aveva un sorriso paziente e vagamente divertito, come se stesse spiegando le tabelline ad uno scolaretto.

“Sephiroth non era malvagio” disse. “Sephiroth era pazzo: c'è differenza”. Cloud non si sentì di ribattere. “La follia è stato un effetto indesiderato. Non si poteva prevedere, ma è successo; adesso che il fallimento è stato distrutto, abbiamo avuto modo di apportare le modifiche necessarie, ma ci serviva una cavia per testarle. E l'unico che ancora possiede le cellule di Jenova...”.

“...sono io” concluse il SOLDIER. “Quindi ho trovato l'idiota...” borbottò poi a mezza voce. Volse uno sguardo fuori dall'elicottero e vide con stupore Midgar in lontananza: stavano tornando indietro.

“Sento di doverti delle spiegazioni” osservò Rufus, con noncuranza. Sollevò una siringa a doppio serbatoio: in uno di essi riluceva un liquido rosso e nell'altro uno verde. “Vedi, il tuo sangue è la più grande fonte di cellule Jenova al mondo ormai: è questo serbatoio qui, vedi?” indicò la parte della siringa scarlatta. “Mentre quella verde è il DNA sintetizzato di Jenova che abbiamo reperito dal reattore a Nibel. Ah a proposito grazie per quella scazzottata: abbiamo raccolto dati preziosi mentre affrontavi i miei specchi per le allodole”. Cloud si sentiva ribollire il sangue. “Sono curioso di quello che capiterà iniettandoli entrambi nell'ultima cavia che mi è rimasta”.

A sorpresa afferrò il braccio del pilota e piantò la siringa nell'incavo del gomito. I serbatoi si svuotarono lentamente, inesorabili, mentre le vene del braccio nudo si gonfiavano per accogliere quella sostanza e si tingevano di un viola più scuro, seguendolo nella sua assimilazione.

Cloud agì in un lampo. Sentì le forze tornargli nei muscoli, il sangue invadere impetuoso ogni cellula del suo corpo, il cervello crepitare di quella decisione improvvisa ed immediata. La sua mano saettò verso il portello dell'elicottero e, in una sola mossa, lo aprì e saltò fuori.

Ed il vento torno, dandogli il bentornato con una sferzata ai capelli e seccandogli momentaneamente gli occhi. Sentì la leggerezza, il salto che aveva fatto e che già la gravità stava vincendo. Ma sentì anche un'altra cosa, una cosa che il vento non riuscì a nascondere, una cosa che aveva sperato, pregato di non sentire più.

Una voce.

Una voce nelle orecchie, anzi no: più in profondità. Una voce che rimbombava nella sua testa, una voce glaciale, bassa e leggermente roca. Quella voce che per così tanto tempo gli aveva sussurrato cosa doveva fare e da cui aveva assaporato la libertà per un tempo che sarebbe per sempre stato troppo breve.
 
Perchè stai scappando?

La testa gli diede una fitta e per qualche secondo Cloud temette di perdere l'equilibrio; sentiva come una lama di ghiaccio conficcata nel cervello. Il suolo era sempre più vicino e l'elicottero sempre più lontano, il suono dell'elica era smorzato dal fischiare del vento nelle sue orecchie,
 
Hai paura? È la paura che anima il tuo corpo?

che poco poteva fare per coprire quella maledetta voce
 
E di che cosa precisamente hai paura?

pregna di ricordi terribili ed incubi spaventosi e morti dolorose. Tornò in mente Aerith, il candido volto pieno di speranza mentre pregava nella Città Dimenticata, gli occhi calmi che si sollevavano verso di lui: gli aveva sorriso, nonostante l'avesse sorpreso con la spada puntata verso di lei.
 
Di che cosa può aver paura un semplice burattino?

Ma non era veramente lui: la sua mente, la sua volontà, le sue azioni. In quei pochi secondi era Sephiroth ad avere il controllo. E Sephiroth in quel momento, in quei brevissimi istanti, tutto quello che voleva era la morte di Aerith: aveva fallito con lui e per questo aveva esposto personalmente un clone di Jenova.

Sentì la Masamune conficcarsi anche nel suo di stomaco e la testa pulsare sempre più dolorosamente: si sarebbe sfracellato al suolo, esattamente come doveva finire un burattino.
 
Sei solo un burattino: non sei diverso da quello sull'elicottero, da tutti quelli che hanno partecipato alla Riunione o persino da quelli cresciuti alla Shin-ra. Sei solo un burattino. Vuoto per giunta.

E in quanto tale, si sarebbe rotto.

Lo sapeva: sarebbe andato in mille pezzi nel momento in cui avrebbe toccato terra. Era un dato di fatto e lui da solo non poteva fare assolutamente nulla per fermarlo: non era abbastanza forte.
 
Accettalo, Cloud:

Lui era solo
 
tutto quello che sei

un burattino
 
è un burattino

 
vuoto.

Torse il proprio corpo ed atterrò dolcemente sulla landa desertica poco lontano da Midgar. Sotto il suoi piedi si sollevò una piccola nuvoletta di polvere e nulla più. L’elicottero sopra di lui stallò e perse rapidamente quota; poco prima dell’impatto con il suolo due figure saltarono fuori ed atterrarono poco lontano da lui.

Rufus toccò terra dopo una lenta discesa, mentre l’atterraggio del pilota fu più brusco, ma non riportò nemmeno un graffio. I tre si scrutarono a vicenda, immobili. Cloud percepì la presenza di una grossa spada, una lapide metallica che indicava un luogo vuoto, senza salme o bare e, al di là di quella, la città diroccata che per anni era stata fonte e teatro dell’ascesa e declino della Shin-ra Comporation. Lo scheletro della compagnia si stagliava, curvo come la schiena di un vecchio, contro il cielo plumbeo.

Il vento gli accarezzò i capelli, gli sussurrò nelle orecchie poi si fermò. In quella battaglia era solo e tale sarebbe dovuto rimanere fino alla fine, indipendentemente dall’esito. Rufus gli lanciò un’occhiata e sorrise.

“Non penserai di abbandonare il posto di lavoro prima di aver finito” osservò. “Che fine ha fatto la professionalità?”. Si avviò con passo tranquillo verso la Buster Sword: la lama era coperta di ruggine ed il filo smussato dalle intemperie. “Non l’hai mai sentita veramente tua questa spada, vero?”.

"Ti diverti a giocare a fare Dio, Rufus?” sibilò Cloud. L’uomo lo guardò con un sorrisetto sprezzante, poi afferrò l’elsa della spada e la divelse dal suolo. La lama abbandonò la sua sede nella polvere con un piccolo sbuffo e la punta tornò a vedere la luce.

Usura, graffi e ruggine

“Più o meno quanto ti diverti tu a fare il deicida” replicò. Si volse verso di lui e brandì l’arma: i movimenti erano fluidi, la posizione perfetta, l’impugnatura salda. L’ombra della spada lo copriva quasi completamente, ma non mostrava cenni di fatica nell’impugnarla.

Un’esplosione di piume nere alle spalle di Rufus gli rispose alla domanda che gli vorticava in testa. Un’enorme ala color pece faceva capolino dalla sua spalla destra e si spandeva in tutta la sua fluente e soffice eleganza. Grosse e soffici piume danzavano nell’aria attorno a lui e Cloud ebbe un orrido flashback che lo informò di quello che stava per succedere.

Il Second accanto a lui emise un gorgoglio strozzato e barcollò, mentre il suo corpo veniva invaso da un sottile fumo scuro. Poi lo scoppio, simile ai petardi che Denzel e Marlene scoppiavano sotto la sua finestra, accompagnato da un lampo verde di pochi istanti.

Rufus guardò il SOLDIER leggendario materializzarsi senza cambiare espressione; gli lanciò un’occhiata incuriosita, come se fosse la reazione insolita di un esperimento, poi tornò a guardare Cloud, i cui occhi saettarono verso Sephiroth con un’urgenza che tuttavia era assente nello sguardo.

Uno sguardo glaciale, inespressivo, che invadeva le sue iridi verdi e le pupille verticali.



NOTA DELL’AUTORE: Non che mi soddisfi particolarmente, ma questo è il meglio che posso fare ora come ora.

Anche qui, temo di dover espandere la storia di un capitolo, ma spero che ne varrà la pena. Prossimamente il nuovo aggiornamento, stay tuned.

Leonhard

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Capitolo 8
*** Piume e spade ***


8. Piume e spade

Era vero.

Guardando la Buster Sword essere impugnata da quello che in quel momento era il secondo avversario più pericoloso davanti a lui avrebbe dovuto dargli fastidio, fargli sentire quella stizza che sentiva ogni volta che Marlene o Denzel di avvicinavano troppo alla sua moto, la stessa di quando aveva scoperto che il suo telefono nuovo, che aveva acquistato dopo una difficile ed estenuante scelta, era nato rotto, o anche quella che provava quando Tifa disarmava la sua moto senza dirgli nulla.

Il fastidio venne, ma non fu quello: non fu lo stesso fastidio che provava normalmente quando qualcuno maneggiava le sue cose senza il suo permesso. No, quel fastidio era quello che aveva sentito quando aveva scoperto che Kadaj aveva contaminato di oscurità le acque della Città Dimenticata: era la stessa sensazione di fastidio, come una cavalletta che percorre la spina dorsale con passo lento infischiandosene tranquillamente del solletico che può provocare. Rufus non aveva preso la sua vecchia spada, ma aveva profanato una tomba.

Il fatto che avesse intenzione di usare una lapide a forma di spada come arma lo indispettiva, che quella lapide a forma di spada indicasse la tomba di Zack Fair lo faceva infuriare non poco, ma nessuna traccia del fastidio che sentiva quando qualcuno profanava una cosa sua. Nemmeno l’ombra.

La Buster Sword non era mai stata sua e questo lo sapeva: la sua spada, o meglio LE sue spade erano quelle assemblate sapientemente in una sola, grande lama. L’aveva scelta grande per abitudine, non certo per comodità, ma anche per una questione di scaramanzia: aveva vinto contro Sephiroth per ben tre volte con una spada ingestibilmente grande.

Non aveva giocato alla lotteria, ma in quel momento non gli era sembrato un compito impellente.

Le armi le aveva acquistate e le aveva affidate a Cid perché le modificasse secondo certi progetti che aveva disegnato in qualche angolo della sua testa e così erano nate sei lame assemblabili. Perché sei?

Beh, in realtà il progetto iniziale prevedeva cinque lame. Cinque come i progetti che coinvolgevano Jenova: una lama per ciascuno.

Genesis, Angeal, Sephiroth, Zack. E ovviamente lui stesso.

Quella lama dai mille significati e dai mille utilizzi l’aveva veramente sentita sua: era nata nella sua mente e per anni era stata con lui, servendolo fedelmente e togliendolo un sacco di volte dai guai, salvandolo da tante battaglia che lo davano per spacciato. Quella spada che in quel momento riposava tranquilla nella rastrelliera della sua Fenrir, fin troppo lontana da lui. Non l’avrebbe cavato d’impaccio questa volta.

E la Buster…no, non aveva mai sentito un legame con quella spada: lei gli aveva solamente dato un’eredità, un lascito da rispettare. Lui era il lascito di Zack in parte perché impugnava la Buster Sword. No, quella spada non era la sua.

Per quel motivo l’aveva lasciata lì, sulla rupe del deserto di Midgar, assieme al legittimo proprietario, a qualcuno con tutti i diritti di reclamarla come sua. Non era stato uno spreco, ma la cosa giusta da fare. Il fastidio che sentiva guardando Rufus impugnarla con quell’irritante facilità, con quella fastidiosa tranquillità era dato dal fatto che aveva rubato una spada che non gli apparteneva. La spada di Zack.

Alternava lo sguardo da Rufus a Sephiroth: entrambi erano immobili, a scrutarsi l’un l’altro, a chiedersi chi avrebbe fatto la prima mossa, chi avrebbe dato il via a quel massacro, quella battaglia tra progetti che coinvolgeva anche lui.

“Capisci perché ti ho arruolato, Cloud?” chiese Rufus, sventolando pigramente lo spadone. “Hojo ti ha classificato come esperimento fallito, ma sei un esperimento fallito estremamente stabile. La comparsa dell’ala è il segno che la fissione con le cellule Jenova sta vivendo il rigetto e Sephiroth lo ha scoperto: per questo è stata una mossa eccellente la tua scagliarlo nel Lifestream. Il solo grande mistero è perché continua a tornare”. Si volse verso il SOLDIER leggendario, che non si era mosso di un millimetro, e gli pose la stessa domanda. “Perché continui a tornare?”.

Sephiroth lo stava guardando con il suo sorriso sornione, lo sguardo di ghiaccio, quelle occhiaie nere che delineavano la pazzia che lo corrodeva, sottolineavano l’instabilità della sua mente. Il soprabito era immobile e la Masamune riluceva la poca luce che filtrava attraverso il fumo dell’ammasso di rottami avvolti dalle fiamme che in un passato fin troppo vicino era stato un elicottero.

“Così vuole mia Madre” rispose infine.



Ai suoi occhi non erano nulla più di due infedeli. Avevano usato le cellule di Jenova, sua madre, per cercare di avvicinarsi a lui. Beh, Cloud non l’aveva fatto volontariamente, ma era stato l’unico la cui umanità non gli aveva permesso di riconoscere la missione. La missione era la cosa più importante. Quel pianeta, così piccolo, misero, ma al contempo estremamente potente era la chiave d’accesso per la Terra Promessa, il mezzo per la Terra Promessa.

Ma loro non se ne rendevano conto, oh no, loro erano così attaccati alla loro insignificante involucro da ammutinarsi. Ammutinati erano ed ammutinati erano rimasti. Ribelli, traditori. Rinnegavano la missione, la Terra Promessa, la Madre. Lui era il prescelto e come tale doveva assicurarsi che le cose andassero per il verso giusto, esattamente come era stato scritto. Come la Madre voleva che fosse.

Ma non era importante: no, non lo era. Sua Madre stava piangendo dentro di lui, non avrebbe più pianto. L’avrebbe fatta smettere perché lui era un bravo figlio. Un bravo figlio non fa piangere la madre, oh no: un bravo figlio deve asciugare le sue lacrime, cancellare la preoccupazione dalla sua mente, far tornare il sorriso sulle sue labbra. La sua spada vibrava e riluceva e assumeva quel tocco mistico che si sposava perfettamente con la sua figura di figlio prediletto ma non era ancora il momento di usarla contro il biondo che aveva osato far piangere sua madre: prima c’era quell’altro, quel burattino ribelle

fili avevo ed or non più

che si stava ribellando con tutto sé stesso, rinnegando il suo essere un semplice strumento come aveva fatto Cloud tempo prima. Sapeva che solo il suo pupazzo preferito era degno di possedere un nome: nessun Jenova, nessun pupazzo aveva mai avuto un nome. Solo un numero e la cosa era sempre andata bene a tutti, tranne a lui e non capiva il perché.

“Bello vederti, Cloud” disse.



Il biondo si sentì gelare il sangue; quella voce così stentorea, pacata e fredda come il ghiaccio non era cambiata di una virgola. Sentiva la smania nella sua voce, il desiderio di incrociare le lame con lui e riprendere quel meraviglioso gioco al massacro in cui la testa del perdente sarebbe rotolata nella terra del deserto. Senza la sua spada si sentiva nudo, vulnerabile e piccolo, spaventosamente piccolo. Niente spada, niente vento: era solo contro un titano e mezzo.

Ma non sentiva paura. Nonostante la situazione esigesse un nervosismo che strizzasse l’occhio al panico, era completamente privo della paura. Provava rabbia, quella non mancava mai nell’incrociare gli occhi di Sephiroth; provava un’urgenza di mettersi in campo ed il desiderio di sentire la sua carne lacerarsi, le sue ossa frantumarsi ed il suo respiro estinguersi. Sentiva la voglia matta di guardare i suoi occhi e vedere la vita spegnersi in essi.

Sentiva una voglia matta di fare a pugni e nemmeno una goccia di paura.

Rufus spiegò l’ala e saettò verso di lui, la Buster Sword spianata, i muscoli tesi ed il suo insopportabile sorriso di vittoria stampato in faccia. Scartò di lato e schivò il fendente, che tagliò l’aria con un sibilo; immediatamente dopo percepì la lama girarsi nuovamente verso di lui e si buttò in avanti. Con una capriola ed il suono dell’arma che impattava con l’arida terra nelle orecchie si salvò dal secondo assalto, si volse e scattò contro Rufus.

Il suo intento originale era bloccare il fendente che aveva previsto arrivare afferrando il braccio di Rufus e disarmarlo in qualche modo, ma Sephiroth si mise in mezzo. Il biondo venne sbalzato via dall’ala corvina e le due spade entrarono in contatto con un assordante clangore. Si rimise immediatamente in piedi e corse verso la schiena del SOLDIER, che si abbassò quel tanto che bastava per fornirgli un trampolino. Cloud saltò sulla sua schiena e fu addosso a Rufus, che spiccò il volo. Sephiroth si volse verso Cloud.

“Per una volta, renditi utile Cloud” disse; la voce era fredda, ma lui capiva che si stava divertendo, esattamente come quando combatteva con lui, ed or non più o con Zack.

O come quando aveva combattuto contro Genesis ed Angeal. Si era sempre divertito un mondo. Ma quelli non erano ricordi suoi.

Subito dopo spiccò il volo verso il punto nero in alto nel cielo, lasciandolo a terra a riflettere sul fatto che stavano combattendo insieme. Fu un pensiero fugace che solo per qualche istante attraversò la sua mente, poi svanì per lasciare spazio ad un verde intenso.

(Quelle ali…) pensò. (Le voglio anche io…). Poi si lasciò andare. Lo spallaccio di cuoio saltò via, la divisa fendette l’aria con un piccolo, secco strappo, i muscoli del braccio sinistro s’intorpidirono per pochi secondi appena e poi fu nuovamente in compagnia del vento.

eppur non cado giù

Si trovò accanto a Rufus in pochi istanti e lo sbalzò con un calcio verso la Masamune. L’uomo deviò la traiettoria del suo volo verso l’alto e si fermò a contemplare i due.

“Il nemico del mio nemico è mio amico, eh Cloud?” commentò. I due erano immobili a mezz’aria ed il biondo si stupiva della facilità con cui governava il suo nuovo corpo. Non aveva mai volato ed in quel momento era come se l’avesse fatto per una vita. Attorno a lui una nuvola di piume color pece danzava e la sua ala nera, che faceva capolino imponente e neonata da sotto i resti del suo coprispalla, si palesava agli angeli presenti, facendo presente a tutti che quel burattino vuoto avrebbe trovato il modo di riempirsi.

E l’avrebbe fatto in compagnia del vento, com’era giusto che fosse.

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Capitolo 9
*** L'angelo crudele ***


9. L’angelo crudele


Il combattimento che prese vita nei cieli nelle Wasteland non sembrava prevedere cose astratte ed assurde come pause, pietà e leggerezza; volavano i colpi di spada, esplodevano nuvole di piume, clangori assordanti inquinavano l’aria come i rintocchi disarticolati ed acuti di una campana rotta.

Cloud ascoltava il vento, che gli suggeriva il da farsi; non aveva armi con sé, ma aveva Sephiroth che sembrava ansioso almeno quanto lui di passare a fil di spada prima l’ala di Rufus e poi la testa del suo proprietario.

Le ovaie di Jenova, i Riuniti, l’eliminazione dei Turks: probabilmente avrebbe dovuto capire molto prima che in quella storia qualcosa non quadrava. Anzi, con il senno del poi avrebbe riconosciuto che c’erano più cose strane che elementi a posto, ma anche quel ricordo diventava sfocato ed impalpabile davanti allo scenario che lo vedeva testimone. Quella era una battaglia che non poteva combattere.

Era una battaglia che non voleva combattere.

Quindi sarebbe stato i disparte, avrebbe aspettato il suo turno con una pazienza ed un gelo che non gli erano mai appartenuti. Avrebbe aspettato il momento giusto: sapeva che sarebbe arrivato così come sapeva che avrebbe avuto un’arma da usare e, a giudicare dalla situazione, un’arma che conosceva molto bene.


Sephiroth sogghignava, divertito dai deboli tentativi di quel pupazzo nel cercare di spodestarlo dal suo trono, disarcionarlo dal suo scopo, rimpiazzarsi a lui davanti agli occhi della Madre. In fin dei conti non aveva una reale colpa: era inesperto, in piena crisi adolescenziale, smanioso di avere tutto e subito anche se il tutto non gli competeva.

Rufus attaccava con movimenti lenti ma fluidi e la stazza di quella spada coperta di ruggine colpiva con la stessa violenza di un tempo, quasi non fosse passato nemmeno un giorno dall’ultima volta che le due lame si erano incrociate. Volteggiavano nel cielo, duellando, mentre il terzo burattino, quello con il nome, fluttuava pigramente attorno ai due, cogliendo ogni occasione per entrare in scena e sabotare alternativamente entrambi: una volta era una spallata a Rufus, la volta successiva un calcio sul dorso della Masamune.

Il sorriso presto svanì dalle labbra del SOLDIER, lasciando il posto ad un’espressione accigliata, palesemente stanca di quella situazione di stallo. Un gioco è divertente se breve, gli avevano detto: e quello non era forse un gioco?

Intercettò Cloud volteggiare alle spalle del burattino neonato e riconobbe in quell’istante il momento della chiusura dei giochi. Con un fendente particolarmente violento disarcionò Rufus dal suo precario equilibrio e mezz’aria: barcollò all’indietro di qualche metro e il biondo gli fu addosso. Fu questione di attimi, che si godette appieno.

L’espressione di Rufus contrariata farsi sorpresa e spaventata nell’istante in cui comprese le intenzioni di Cloud, che armeggiava sulle sue spalle con occhi sterili, portandolo nella posizione ideale per fargli molto ma molto male. Afferrò saldamente la base dell’ala e, con un solo movimento, spinse con le gambe la sua schiena.

Ci fu uno strappo unito ad un rivoltante gorgoglio, poi il vento si trovò a trasportare un grosso rivolo rosso e piume ovunque, come se il cielo ne fosse improvvisamente invaso. Afferrò la Buster Sword dalle mani di Rufus, troppo sconvolto, indebolito e dolorante per mantenere una presa salda e lo colpì al fianco con il dorso scagliandolo contro il suolo.

L’angelo mutilato si schiantò contro la roccia, sfondandola con un’esplosione di polvere grigia. Cloud rimase a guardare il polverone sollevarsi, con la Buster stretta in una mano ed un brandello sanguinolento di Rufus nell’altra. Dedicò a quella vista non più di qualche secondo, poi si volse e scagliò l’ala mutilata verso Sephiroth.

Non era propriamente esatto dire che quello spettacolo che aveva appena visto, ciò che aveva appena fatto, gli fosse piaciuto, l’avesse scosso o disgustato: era la cosa giusta da fare e lui l’aveva fatta. Poteva essere null’altro che l’effetto del Mako, ma la capacità di volare aveva cambiato qualcosa in lui. Non stette a pensarci troppo: era una cosa che in quel momento gli tornava sicuramente utile. Fu addosso a Sephiroth e lo costrinse ad arretrare sotto i suoi colpi veloci e violenti. Subì parando con urgente affanno, come se non se li aspettasse, senza il suo caratteristico ghigno che metteva su ogni volta che combatteva contro di lui, come se sapesse già l’esito. Uno stormir di piume e Sephiroth si allontano, ma Cloud non era disposto a rallentare la cosa.

(Che fai, scappi ancora?) pensò, agendo nello stesso istante.

Solo una volta nella sua vita aveva mai lanciato la spada ed era stato durante l’addestramento. Le dimensioni di quella lama le precludevano ovviamente qualunque impiego come arma da lancio e, anche se quella volta aveva trafitto ed ucciso sul posto un mostro, gli altri due del branco aveva dovuto sconfiggerli con le magie delle Materia incastonate nello spallaccio. Ne era uscito vivo, ma nonostante amasse le cose estreme non era tra i suoi ricordi preferiti; in quel momento non aveva nemmeno una Materia, ma sentiva una forza ed una padronanza di sé che non ricordava di aver mai avuto.

Sephiroth afferrò la lama e, per pochi tremendi secondi, sembrò un avversario veramente insuperabile, un vero e proprio Prescelto. Poi Cloud gli fu addosso, trasportato dall’impeto della sua lama. Puntò nuovamente all’ala, ma la lama della Masamune gli sbarrò la strada; deviò fulmineo ed afferrò il polso di Sephiroth, torcendoglielo dolorosamente all’indietro ed indebolendo la presa per qualche istante, tempo sufficiente per appropriarsene. Menò un fendente e sbalzò il SOLDIER verso terra, inseguendolo subito dopo con una serie di attacchi violenti e fulminei.


Sephiroth fissò la spada: grondava sangue, che sapeva suo. Non era più abituato a vedere il suo sangue e la cosa lo turbò. Una goccia si staccò da una delle tante chiazze e fece da collegamento con le altre, attingendo abbastanza fluido da continuare la sua corsa. Prima di superare la guardia ed inzaccherargli i guanti, si prese il disturbo di coprire parte di ruggine formatasi nel corso degli anni in cui era stata piantata in cima a quella rupe fuori Midgar, dove più che una spada era stata una lapide.

Che spreco, aveva detto una volta una persona. Non gli portava rancore: non sapeva che quella rupe era qualcosa di più ed il suo commento era stato sincero. Non era nemmeno sicuro che avesse avuto torto: effettivamente, era veramente uno spreco.

Inspirò per ritrovare energia, ma sentì solo una fitta al fianco e gli abiti farsi più caldi ed appiccicosi. A fatica si rialzò, puntellandosi con la spada. Guardò il suo avversario ed ebbe un flash: il flash di un giovane che, non si sa bene con quale forza, scagliava in un reattore un uomo che lo aveva appena trafitto con la sua spada. Vide quell’uomo precipitare verso un ignoto fondo nascosto da una luminosa luce tendente al verdognolo. Lo aveva guardato rimpicciolirsi, diventare delle dimensioni di un piccolo neo e poi anche quel neo era scomparso, ma lentamente, come se stesse continuando a cadere.

Una volta gli avevano detto che il Lifestream circolava all’interno del pianeta, in una giostra continua, un apparato cardiocircolatorio in scala…beh…un po’ più grossa della sua. Si rimise in guardia, cercando di ignorare un dolore che nemmeno il mako mischiato alle cellule Jenova riusciva a far sparire. Decise di tentare il tutto per tutto e strinse l’elsa, come a prepararsi ad una cosa che non aveva assolutamente voglia di fare.

Il suo avversario lo guardava calmo, serafico, quasi divertito, con quegli occhi verdi-azzurri e quelle pupille a taglio. Sorrideva sornione, dai attacca, sembravano dire: non andrà in maniera diversa da come è stata finora questa scaramuccia. Dammi la gioia di portartela via.

Dammi la gioia di portartela via.


Strinse l’elsa tanto da far sparire la circolazione dalle mani. Con un sommesso fruscio ed un’esplosione di piume nere, spiegò l’ala.

“Non puoi sconfiggermi Cloud” ringhiò gelido. “Io sarò sempre parte del Pianeta. E presto sarò IL Pianeta”. Cloud lo fissava con gelido divertimento; la Masamune nelle sue mani era leggera e, anche se avrebbe preferito combattere a mani nude piuttosto che con quella lama, non poteva non pensare che fosse effettivamente comoda.

Sbatté le palpebre e tornò lentamente in sé, mentre l’ala si ritirava lentamente dalla sua spalla. Gli occhi tornarono seri, le pupille feline tondeggianti e l’espressione che fece quando posò gli occhi sulla lunga spada fu di spaventato disgusto. La lasciò andare con una sottile vena di panico e la guardò cadere nella polvere con un vibrante clangore.

“Perché resisti, Cloud?” sibilò Sephiroth, guardandolo con il suo solito mezzo sorriso. “Non ha senso quello che fai”.

“Sta zitto” ringhiò, studiandosi un modo per riprendersi la sua spada.

Sua spada? E da quando era la sua? Il SOLDIER scosse la testa, quasi come se avesse letto i suoi pensieri.

“Tu sei parte della Madre, non vedi?” osservò, indicando lo spallaccio distrutto. “Non puoi cambiare ciò che sei; la Madre è la vera dea di questo mondo…e noi siamo i suoi figli, i suoi angeli”. Protese una mano verso di lui, in un simbolico invito. “Unisciti alla Madre; unisciti al Pianeta. Smettila di farla piangere”.

“Tu sei pazzo…” borbottò. Già, come se non lo sapesse. Sephiroth sorrise, poi fluttuò lentamente accanto a Rufus; l’uomo era mezzo svenuto contro le rocce sfondate e quando il SOLDIER lo prese per il bavero della giacca si mosse in maniera convulsa, disarmato ed inerme.

“Questo aborto disobbediente verrà con me” disse, parlando quasi a sé stesso. “La Madre saprà cosa fare di lui”. La terra sotto di loro s’illuminò di verde e poi scomparve, lasciando posto ad un buco delle dimensioni di una botola. Al di sotto di essa, il Mako scorreva immenso, come un fiume in piena. Rufus sgambettò, cercando la terra che non c’era sotto i suoi piedi.

“Che stai facendo?” rantolò. Sephiroth sorrise.

“Io sono il figlio prediletto della Madre” disse, annuendo. “Ma non fare l’errore di pensare che tutti gli angeli sono misericordiosi”. Si avvicinò a lui. “Io sono un angelo crudele”.

Lo lasciò andare.

Rufus cadde nel Mako, che rapidamente lo incorporò dentro di sé. L’uomo affondò nel Mako cercando disperatamente un appiglio che non trovò. Annaspò per qualche secondo, poi scomparve sotto la corrente verde fluorescente: nel momento in cui anche le dita furono sovrastate dalla corrente vitale del Pianeta, la terra tornò magicamente a coprire la fessura e fu come se quegli ultimi secondi non fossero mai stati. Un movimento delle braccia e la terra sotto i piedi di Sephiroth s’illuminarono della stessa luce. Cloud non si mosse, pietrificato dalla sorpresa.

“Io sono il Pianeta, Cloud” disse ancora, sorridendo sornione. “Non puoi sconfiggermi: io sono il Pianeta”. Il corpo del SOLDER si disgregò in piccole lucciole verdi, che si dissolsero nell’aria. La Masamune ai piedi di Cloud scomparve in un bagliore verde e la Buster Sword cadde nella polvere con un tonfo metallico.

Nelle Wasteland tornò la pace, il silenzio, il vento. Cloud sbatté un paio di volte le palpebre, accorgendosi con una crescente stizza che Sephiroth non era venuto per lui, ma per Rufus: alla fine quel maledetto ce l’aveva fatta.

Aveva distrutto completamente la Shin-ra. Con un sospiro, il biondo raccolse la spada e, spiegata la sua nuova ala, raggiunse la rupe e la rimise al suo posto, accanto al suo vero, autentico padrone.

Sapeva cosa doveva fare. Sapeva dove doveva andare. Ma prima aveva bisogno di fare una cosa che per tanto tempo aveva rinviato. Prese il volo, sfrecciando verso Midgar e pensando, non senza un sorrisetto divertito, che questa volta Tifa non avrebbe avuto bisogno di un invito per mettergli le mani addosso.

Doveva andare da lei.

Doveva parlarle, farsi menare, fare l’amore con lei.

Doveva dirle addio.

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Capitolo 10
*** Come un fiume ***


10. Come un fiume

Quando Tifa sentì il campanello del bar tintinnare Tifa capì che c’era qualcosa di strano. Non poteva che essere Cloud, su questo non ci pioveva, ma non aveva sentito la moto arrivare e quello le fece aggrottare le sopracciglia. Scese al pian di sotto e trovò il SOLDIER seduto al bancone, impegnato a scrutare lo scaffale delle bottiglie davanti a sé come se fossero colpevoli di qualcosa.

Si sentì le budella torcersi e una vaga sensazione di sfarfallio nello stomaco, ma il buongiorno che gli diede fu contenuto, sobrio. Il ragazzo spostò gli occhi verso di lei e rispose con un cenno della mano.

“Tifa…mi serve qualcosa di forte” disse.

“È quasi ora di pranzo, Cloud” fece notare, ma gli servì ugualmente il drink più torcibudella che trovò. Quando lo vide vuotare il bicchiere con un solo frettoloso movimento, quasi fosse acqua fresca, non poté non sentire una torsione delle budella più forte. “È successo qualcosa?”.

“E successo che devo partire di nuovo” rispose lui, con voce stentata per il bruciore dell’alcol che scendeva per la gola. C’era dell’altro, lo sentiva, ma per il momento lasciò stare. Annuì e ripose il bicchiere nel lavandino: l’avrebbe lavato dopo, decise.

“Cos’è successo?” chiese nuovamente. Cloud sospirò.

“Rufus è morto” disse semplicemente. “Anzi…credo che gli sia successo di peggio”. Raccontò la sua giornata con voce apatica, concludendo con una sbuffata di piume nere. Tifa sussultò all’indietro, guardando la grossa ala corvina nel suo bar come se fosse l’ultima cosa che volesse vedere.

“Cloud...” mormorò, arretrando fino ad appoggiarsi con le schiena allo scaffale. Le bottiglie oscillarono pericolosamente, tintinnando tra loro e minacciando di cadere. Il SOLDIER non si mosse dallo sgabello, guardandola come se nulla fosse.

“Lo so...” borbottò. “Tifa...ho bisogno di un altro giro”.

“Di cosa?” chiese lei.

“Di entrambi” fu la risposta. La ragazza capì al volo: riempì nuovamente il bicchiere del biondo e questa volta rimase accanto al bancone, scrutando l'ala con un'espressione a metà strada tra il sorpreso ed il terrorizzato. Cloud vuotò nuovamente il bicchiere in una sola sorsata e si sporse sul bancone, abbandonandolo direttamente nel lavandino.

Si alzò e si volse, diretto alla porta. Tifa assecondò l'accordo implicito e lo seguì, sfilandosi i guanti dalla cintura.

“Credi che finirà in modo diverso?” chiese, cercando con scarsi risultati di vivacizzare la questione. Lui fece una spalluccia.

“Questa volta parto avvantaggiato” osservò lui.

“Però se voli non vale!” esclamò la ragazza, mettendosi le mani guantate sul fianchi.

“Come no?” commentò lui, allontanandosi leggermente da lei e mettendosi in posizione. “Dammi almeno un po' di vantaggio!”.

“Assolutamente no” replicò lei. “Devi farti pestare, no? E allora fatti pestare”. Non aspetto una risposta che tanto non sarebbe venuta: caricò il biondo preparando una spazzata alle gambe.

Aveva la sua ala, i suoi occhi, il suo sorrisetto. Arrivò a sospettare persino che avesse anche la sua indole ed improvvisamente pensò che il nome Cloud non era appropriato per l'uomo che aveva davanti. La spazzata andò prevedibilmente a vuoto e mosse un braccio a coprire il fianco, impattando contro un calcio. Fu forte, molto forte: la sbilanciò leggermente, ma ebbe la prontezza di approfittarne per muovere una seconda ma non meno inutile spazzata alle sue gambe. Si rimise in piedi parando i pugni, arretrando di qualche passo; era una vita che non le capitava di arretrare durante un combattimento.

Cloud era migliorato, su questo non poteva discutere. Il sospetto di non avere davanti il solito Cloud si faceva sempre più intenso, sempre più forte e vivido.

Reale

Si rifiutò di pensare a quella parola, anche se con tutta probabilità era la parola che meglio di tutte le altre avrebbe espresso il suo dilemma. A sorpresa una spazzata di Cloud le fece piegare le gambe di lato e Tifa si sentì leggera ed allo stesso tempo attratta verso il basso. I riflessi entrarono in azione e si rimise in piedi agilmente, vibrando un calcio nella sua direzione ed obbligandolo a scartare di lato per evitarlo.

La polvere si sollevò, accompagnando la danza dei due che proprio non riuscivano a mandare a segno anche solo un buffetto. Parata ed attacco, seguiti da parata e contrattacco e così via, in una giostra furiosa in cui non era prevista la penna di chocobo per il giro extra.

Lo scontro finì all'improvviso, dal nulla. Cloud sbatté l'ala una sola volta, spedendo la nuvola di polvere che si era sollevata in faccia a Tifa. Momentaneamente accecata, menò un colpo a caso che Cloud afferrò. Le torse il braccio dietro la schiena e la schiacciò a terra, in una leva perfetta.

Tifa sbatté le palpebre, confusa, mentre la terra le baciava le labbra e rendeva la sconfitta secca ed amara.

“Ho perso...” borbottò, incredula. “Non ci posso credere...ho perso”.

“Capita a tutti” osservò la voce di Cloud sopra di lei.

“Hai barato però!” esclamò. “Avevi detto niente ala!”.

“Prima cosa, l'hai detto tu” puntualizzò lui. “E poi avevi detto niente volo: io non mi sono staccato da terra”. La liberò dalla presa e la tirò su, abbracciandola subito dopo. “Tifa...” mormorò, ma lei lo scostò da sé.

“Ah no” disse, incrociando le braccia e dandogli le spalle per nascondere un sorrisetto. “Dovrai fare di più se vuoi qualcosa da me, Cloud”. Attimi di silenzio, poi sentì le braccia forti del biondo avvolgerle delicatamente la vita. Ebbe appena il tempo di sentirsi bene, poi perse il contatto con il suolo e rimase a guardare l'orizzonte farsi più basso e gli anfibi penzolare nel vuoto, mentre il suolo di allontanava sempre più.

“Woah! Cloud, ma che fai?!!” esclamò agitandosi. Il SOLDIER la strinse ancora di più.

“Non volevi qualcosa di più?” le sussurrò all'orecchio. “Che ne dici di farti un giretto sul deserto?”.



Cloud fu nuovamente in compagnia del vento. Le proteste di Tifa sostarono per qualche secondo nelle sue orecchie finché non raggiunse un'altezza sufficiente per un volo tranquillo verso l'esterno della città. Sotto di loro, i bassifondi scorrevano veloci ed il vento copriva quello sgraziato suono di traffico e quel cattivo odore di smog che aveva sempre sentito al risveglio, quando apriva la finestra della camera.

Il vento gli sussurrò parole, come aveva sempre fatto, ricordandogli quello che era stato e quello che sarebbe stato, nel bene e nel male, e si sentì vagamente meglio nel sentire la presa salda e leggermente spaventata di Tifa sul suo braccio.

Sentiva di star condividendo qualcosa con lei.

Qualcosa di diverso da una scazzottata fatta così per fare. Qualcosa di diverso dal sellino della moto. Qualcosa di diverso dalle lenzuola del loro letto, anche se desiderava tanto in quel momento un'altro duello con lei, questa volta in orizzontale.

Un'altra volta; un'altra ancora...

Ma del resto così doveva andare, no? Era anche tempo che lei si rendesse conto di ciò che realmente era l'uomo che aveva detto di amare. Doveva sapere quello che era successo e quello che sarebbe successo e quale miglior narratore del vento per un racconto simile? Tifa lo sentiva e lui sapeva che lei arrivava anche a capirlo.

Tifa smise di contorcersi e si guardò intorno, riscoprendo il mondo su cui viveva; vedendolo dall'alto, con il sole in faccia e gli uccelli svolazzarle a distanza di sicurezza, si rese conto che in fin dei conti non faceva poi così schifo. Il vento tra i capelli non puzzava di muffa, il cielo era di un infinito blu e quello stesso deserto che per anni aveva visto come grigio e spento le apparve luminoso come una grande distesa dorata.

Le si illuminarono gli occhi ed una risatina eccitata sfuggì dalle sue labbra: era tutto troppo bello perché una ragazza come lei potesse apprezzarne la vista. Una ragazza come lei, cresciuta tra i monti di Nibelheim e sbocciata nei bassifondi, dietro al bancone di un bar pregno dell'odore di caffè e tabacco ed alcol.

“Cloud!” esclamò, come se quella semplice parola potesse descrivere tutta la meraviglia, tutta l'immensità di ciò che aveva sotto gli occhi. Il volo fu troppo breve per i suoi gusti e quando vide stagliarsi nuovamente davanti ai suoi occhi la sagoma deforme di Midgar riconobbe che lo sarebbe stato anche se avessero volato per tutto il giorno. Posando nuovamente i piedi nella polvere davanti al bar fu come tornare ad impantanarsi nella melma fino al ginocchio.

“Quelle ali...” mormorò, voltandosi verso il SOLDIER. “...le voglio anche io...”.

“Non dirlo” ammonì lui scuotendo la testa. “Sono molto pesanti da portare”.

“Sai che non potrò mai farti star bene come hai appena fatto tu con me?” mormorò lei, con gli occhi che lucevano commossi. Cloud sorrise e, avvicinatosi, la cinse alla vita con un braccio.

“Oh si che puoi...” sussurrò prima di fondere insieme le loro labbra.



Era arrivata la mattina ed il bianco che filtrava dalle sue palpebre abbassate a provarlo. Tifa mugugnò assonnata, stirandosi e lasciandosi scappare un sorriso nel sentire il lieve, caldo torpore in mezzo alle gambe nude. Cloud aveva avuto ragione: apparentemente l'aveva fatto star bene. E doveva essere per forza così, perché lei stava divinamente.

Si volse verso la parte vuota del letto e si riaddormentò, mancando di sentire il lieve crepitare del foglietto sul lenzuolo.

Il Lifestream scorre come un fiume
Non aspettarmi per cena
Cloud




La chiesa dei bassifondi: lì era cominciata, lì si era giunti alla prima svolta e sempre lì sarebbe finita. Cloud guardava la piccola pozza d'acqua tremolare davanti ai suoi piedi e strinse l'elsa della Buster Sword.

“Non dovrei chiederlo” mormorò. “Ma stammi accanto per quest'ultima battaglia...statemi tutti quanti accanto, perché questa volta avrò bisogno di ben più di un aiuto...”.

Un'esplosione di piume nere e l'ala aggiunse il tocco corvino all'interno della chiesa, che malgrado fosse in rovina quello era l'unico colore che mancava all'appello. Una piuma volteggiò davanti ai suoi occhi e si posò placida sulla polla. L'acqua tremolò leggermente, descrivendo ampi cerchi che s'infransero contro i calcinacci attorno, poi fu invasa da una tonalità verde acida, che scorreva e pulsava come

un fiume

se fosse viva e lo stesse chiamando a sé, a casa, alla guerra. Volse un’occhiata alla chiesa diroccata che un tempo era stata il suo rifugio, quando non c’era modo per lui di fare quello che stava per fare. Davanti a lui, la pozza di Lifestream lo chiamava con il suo quasi impercettibile fruscio. Vieni avanti: non c’è modo di fare quello che vuoi fare senza fare quello che stai per fare.

Lasciò cadere la faretra delle sette spade e chiuse gli occhi, ascoltando il tonfo del cuoio vuoto. Strinse l’elsa della spada e mosse un passo, lasciando che il

fiume

flusso del pianeta gli cingesse le gambe. La sua mente fu attraversata da due ultimi pensieri prima che un abbagliante verde acido la invadesse.

Tifa. Sephiroth.

Chiudiamola…



NOTA DELL’AUTORE: salve a tutti e scusate i molteplici ritardi nella stesura di questa storia. Siamo praticamente alla fine della fic e ci tenevo a ringraziare tutti coloro che l’hanno letta, l’anno commentata ed anche coloro che lo faranno in un futuro. Presto online l’epilogo.

E come sempre, alla prossima, stay tuned

Leonhard

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Capitolo 11
*** Epilogo ***


Epilogo

La chiesa era sempre la stessa. Lo stesso posto dove si era scazzottata con Loz, la stessa chiesa dove aveva scoperto un sacco a pelo ed una cassa di Materia.

Lo stesso posto in cui si era ritrovata un sacco di volte in quell’ultimo anno a cercarlo, ma tutto quello che aveva trovato erano stati la sua imbragatura ed una spaccatura dritta su quello che in un’altra epoca avrebbe dovuto essere l’altare della chiesa.

Si chinò e si lasciò investire dall’odore dei fiori appena sbocciati, che le accarezzarono il naso con un miscuglio di aromi assolutamente unico in tutta Midgar. Non erano mai sbocciati fiori al di fuori di quella piccola aiuola ed era arrivata a credere che difficilmente sarebbe capitato.

Una città troppo marcia dentro per una cosa bella come quella.

Si sedette su una delle panche non distrutte della chiesa e guardò il cielo attraverso lo squarcio nel soffitto. Era azzurro e le nuvole correvano sulle ali del vento disegnando forme che rimanevano solo per qualche fugace secondo.

Era sparito. Da un giorno all’altro era sparito. Solo un biglietto a testimoniare quello che era successo quel giorno e i mesi successivi pregni di ricerche a testimoniare quello che era successo quella notte. Non poteva sinceramente credere che quello che per un attimo, nell’intimo buio delle sue coperte aveva definito il suo uomo, l’aveva lasciata senza un valido motivo.

La chiesa era stato il primo posto in cui aveva cercato e, a distanza di quasi un anno, l’ultimo posto in cui avrebbe controllato prima di gettare la spugna e lasciarsi convincere da quella consapevolezza che le diceva da tempo quello che poteva essere successo.

Sono molto pesanti da portare…

Quanto erano pesanti? Perché in quel momento avrebbe voluto averle, avrebbe sopportato il loro peso se voleva dire ritrovarlo. Rivederlo almeno una volta, almeno un momento; il tempo necessario per mollargliene uno di quelli che l’avrebbe fatto rinsavire. O l’avrebbe ammazzato sul posto: a quel punto andavano bene entrambe le opzioni.

Rimase su quella panchina, immobile, a scrutare il cielo; perse la cognizione del tempo e non si diede la pena di ritrovarlo. Venne distratta solo dal dorarsi del cielo, segno di un tramonto imminente. Con un sospiro si alzò e volse le spalle all’aiuola, quando sentì un fruscio.

Dai fiori si spanse un delicato vapore verde, che invase l’aria sopra di loro come tanti piccoli serpenti. L’aiuola, in pochi secondi sprofondò nel grigio sottosuolo e venne alla luce una vera e propria piscina di Mako.

Dal vaporoso liquido verdastro emerse una figura completamente nera, sormontata da una folta ed incolta zazzera bionda e con una spada spezzata in mano. Tifa sentì le gambe venir meno e fu solo per qualche bizzarro e misterioso miracolo se non stramazzò a terra. Cloud uscì dalla pozza verde ed inspirò profondamente, come a godersi qualcosa da lungo tempo desiderato.

“Aria…” borbottò. Inspirò una seconda volta, prima di voltarsi verso la ragazza poco lontana da lui.

“Cloud…” mormorò. Stava tremando ed era abbastanza sicura che sarebbe crollata a terra se solo avesse tentato di fare un passo. Lui le sorrise.

“Sono tornato” disse semplicemente. Si era irrobustito, ma la divisa era stracciata, la Buster Sword era spezzata e l’occhio destro era chiuso. L’ala era scomparsa ed al suo posto aveva un moncherino invaso da sangue rappreso.

“Sei tornato” ringhiò lei, trovando finalmente le forze per avvicinarsi. “Sei tornato?!! Dopo un anno di assenza, senza tue notizie, con niente altro che un bigliettino hai il coraggio di dire semplicemente questo?”. Vibrò un pugno verso di lui e colpì il suo volto: fu come colpire una tavola di legno.

“Scusa Tifa” disse lui da dietro il suo pugno. “Sono stato un po’ impegnato in tutto questo tempo”. La ragazza si abbandonò contro di lui, combattendo contro le lacrime.

“Spero per te che sia una scusa valida” ringhiò. “Altrimenti ti picchierò talmente forte da farti rimpiangere Sephiroth”.

“È morto” mormorò. Tifa alzò lo sguardo su di lui, che le restituì un secondo sorriso. “Ho dovuto sacrificare la spada, la mia ala ed un occhio, ma alla fine ce l’ho fatta”. La presa sull’elsa si irrigidì. “Ho sradicato quel bastardo dal pianeta una volta per sempre”. Lei finalmente sorrise. Un sorriso bello, sincero, pulito, come quelli che non riusciva a fare da un anno a quella parte.



Quella sera Cloud raccontò di un immenso mondo completamente verde. Lo scontro tra lui e Sephiroth, combattuto senza tregua per un tempo che era parso infinito. La Buster spezzata era appoggiata sul tavolo ed il SOLDIER parlava gettandole rapide occhiate, come se avesse paura che svanisse. Tifa ascoltò e fece domande a cui lui rispose: chiese dell’occhio mancante, dell’ala mozzata e della Buster ridotta in quello stato.

“Qui è passato un anno...” commentò lui. “Nel Lifestream…il tempo sembra fermarsi. Abbiamo combattuto…per un anno intero?”.

“Sì, Cloud…è passato quasi un anno” replicò la ragazza, stringendo in maniera convulsa il bordo del tavolo. Il biondo sospirò.

“Scusa Tifa” disse, abbassando lo sguardo. “Era una cosa che dovevo fare. Sentivo di doverlo fare: lui…mi stava chiamando”.

“Ti stava chiamando?” ripeté lei.

“Sephiroth” puntualizzò lui. “Parlava di una Riunione…per la conquista ed il controllo del pianeta. Per qualche motivo si era convinto che sarei stato dalla sua parte. Ho combattuto Rufus la sotto…era diventato…qualcosa che non avevo mai visto”. S’indicò l’occhio. “Lui mi ha fatto questo”. Tifa indugiò sul suo viso; desiderava sfiorare quell’orbita cava, ma era convinta che se l’avesse fatto la situazione sarebbe precipitata e non era quello il momento. Non ancora. Non lì. E non in quel modo.

“Ha fatto male?” chiese Denzel, guardandolo con occhi preoccupati. Marlene non disse nulla: si limitò a guardarlo con occhi preoccupati mentre si aggrappava al suo braccio, come se cercasse di confortarlo.

“Solo per qualche momento” fu la risposta.

“E l’ala?” chiese Tifa, osservando il moncherino da sopra la spalla.

“Ah fa solo tanta impressione” assicurò lui, coprendolo con una mano. “Ma non credo che ricrescerà…”.

La serata continuò senza feste, cerimonie o bentornati. Solo attimi di silenzio intervallati da qualche parola, sporadiche domande a cui Cloud dette risposte; sorse il sole ed il SOLDIER volse lo sguardo verso i due bambini addormentati sul suo grembo, vittime del silenzio che da qualche ora ormai aveva conquistato la stanza. Tifa stiracchiò un sorriso.

“Hanno sentito tanto la tua mancanza” mormorò. “Tutti noi l’abbiamo sentita…io l’ho sentita”.

“Lo so, Tifa” mormorò. “Avrei voluto svegliarti e spiegarti…ma avevo paura che…”.

“Che te lo impedissi?” chiese lei. Cloud scosse la testa.

“…che venissi con me” corresse. “Era una cosa che dovevo fare io…e poi il Mako…ti avrebbe uccisa”. La ragazza scosse la testa.

“Io sono qui, Cloud” disse infine. Ed il silenzio tornò a regnare tra i due, trasportando parole silenziose ed il respiro ritmico e tranquillo dei due bambini. Cloud sospirò e si alzò, reggendo delicatamente le due piccole figure e muovendosi nella stanza accanto, lentamente per non svegliarli. Li mise ognuno nel proprio letto, rimboccando loro le coperte ed donando ad entrambi una carezza. Si accorse che Tifa l’aveva seguito ed era ferma, appoggiata allo stipite della porta.

“Vorresti venire con me?” chiese lentamente. “Devo ancora fare una cosa”. Lei lo guardò per qualche secondo poi annuì, decisa a godersi ancora quel silenzio così intimo e prezioso e comunicativo.



La Buster, o ciò che ne rimaneva, galleggiò per qualche secondo sulla pozza di Mako della chiesa, poi venne lentamente assorbita ed affondò nel verde pulsare del pianeta. Il Lifestream venne assorbito dalla terra e ciò che rimase fu solamente una fossa vuota.

“Dovremo aspettare che i fiori ricrescano” osservò la ragazza, inginocchiandosi accanto a lui.

“Aspetteremo” commentò Cloud pragmatico, fissando il fondo della fossa come se si aspettasse qualcosa. Si alzò. “Beh, che ne dici di fare colazione? Offro io”.

“Tu che mi offri la colazione?” commentò lei, ridacchiando.

“Di solito te la preparo io”.

“Devo pur cominciare a farmi perdonare, no?” fu la risposta.



NOTA DELL’AUTORE: finita. Vi dirò la verità, non è stata una fic facile ma alla fine ce l’ho fatta nonostante le ere geologiche di attesa.

Ringrazio tutti coloro che l’hanno seguita e commentata, chi l’ha letta e ovviamente chi la leggerà. Spero di incontrarvi anche al di fuori da questo fandom.

Alla prossima, stay tuned

Leonhard

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