Rosso Dolore

di Michan_Valentine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Partenza ***
Capitolo 2: *** Prima Fermata ***
Capitolo 3: *** Seconda Fermata ***
Capitolo 4: *** Terza Fermata ***
Capitolo 5: *** Capolinea ***



Capitolo 1
*** Partenza ***


Autore: Michan_Valentine
Titolo: Rosso Dolore
Fandom scelto: Final Fantasy VII
Prompt scelti: Rosso, Binari, Immagine 1Immagine 2 Citazioni, "Vuoi passare il resto della tua vita a vendere acqua zuccherata, o vuoi avere la tua occasione per cambiare il mondo?”
Personaggi principali: Vincent Valentine, Yuffie Kisaragi
Genere: Commedia, Introspettivo, Sentimentale
Rating: Giallo
Avvertimenti: Missing Moments, What If?
Introduzione: La nascita e l'evoluzione di un rapporto in cinque momenti diversi della vita. Il viaggio di una ragazza alla scoperta di se stessa.
Note dell'autore: Si vede che non avevo assolutamente idee per l’introduzione? xD 
A parte ciò sono contenta di aver portato a termine questo piccolo progetto e intanto ti ringrazio per avermi dato l’opportunità, tramite il tuo contest, di mettermi alla prova e d’infrangere il periodo d’inattività, causato ovviamente da un calo spaventoso d’ispirazione. 
Premetto che partecipo a pochissimi contest e non sono bravissima con i prompt, per cui sono già preparata all’eventualità di non averli saputi ben usare o amalgamare alla storia. Lol. Mea culpa! xD
I binari sono stati intesi come “strada da percorrere”, “viaggio”, “svolte" e anche “evoluzione” in qualche modo, giacché l’atto stesso di viaggiare è in fondo mettersi in gioco e affrontare quanto s’incontra sul cammino. Ho tentato d’inserire il concetto come filo conduttore durante tutta la narrazione, ma, ahimè, non sono affatto sicura del risultato. E infatti sono qui a spiegarmi. xD
La prima immagine, quella delle nuvole, mi ha rimandato al wallpaper di Dirge of Cerberus. Questo  per la precisione. Da lì, nel quarto capitolo, mi è venuto automatico associare l’immagine a quella di un angelo.
La seconda immagine invece compare sotto forma di citazione nel terzo capitolo, una battuta effettuata da Yuffie in riferimento alle quattro diverse entità che albergano in Vincent. Non è stata ben sviluppata, ovviamente, ma dato che c’era addirittura la possibilità di escludere una delle due immagini dai prompt ammetto di non essermi scervellata troppo su come adoperarla. ^^’’’
La citazione scelta è quella di Steve Jobs che appare nella lista dei prompt, ma  ho voluto comunque inserire una seconda citazione presa dalla stessa pagina wiki: “La morte con tutta probabilità è la più grande invenzione della vita. Spazza via il vecchio per far spazio al nuovo”. Ed è ripresa nel terzo e nel quinto capitolo, amalgamandosi al discorso dell’evoluzione, del cambiamento. 
La coppia in analisi è forse una delle più improbabili, ma personalmente trovo che siano divertenti, oltre che affascinanti, se posti l’uno accanto all’altra. Ciononostante non ho voluto calcare la mano assecondando i miei gusti e ho dato finale alla storia nella maniera che ritengo oggettivamente più plausibile. 
L’avvertimento “missing moments” si riferisce ai primi tre capitoli. Il "what if?” è invece per il quarto capitolo, che vede Yuffie presso la caverna di Lucrecia al posto di Shelke. L’ultimo capitolo rappresenta ovviamente un ipotetico futuro.
Purtroppo temo che per rendere la parlata e la caratterizzazione di Yuffie io abbia commesso un mucchio di errori grammaticali, ma… Amen. Spero che ne sia valsa la pena e sia almeno divertente! xD
Bene, credo che sia tutto! °A° Grazie ancora e buon lavoro per le valutazioni! xD


  Capitolo 1 - Partenza

Yuffie si approssimò alla porta con estrema nonchalance. Controllò che il corridoio dell’inn fosse sgombro e che dall’interno provenisse il silenzio. Quindi scassinò la serratura con eleganza e una buona dose di sicurezza, certa di avere campo libero. E per un lungo attimo s’illuse che fosse così.
Schiuse l’ingresso di uno spiraglio e sgusciò all’interno. Sulle prime furono i lampi ad accoglierla, proiettando bagliori violacei sulla discutibile mobilia della stanza. Non che fosse mai stata così ingenua – o paurosa – da credere alle storie di fantasmi, ma se c’era un posto in cui poteva mettere in discussione le sue certezze era proprio quello. Ed era più che certa di aver visto qualcosa giocare a scacchi nella hall dell’albergo solo qualche ora prima, quando i suoi compagni avevano deciso di pernottare al Gold Saucer.
Forse per questo passò in rassegna l’inquietante arredamento, prima ancora di dedicarsi a ciò che l’aveva condotta lì.
Un flagello stava abbandonato a terra, sulla moquette rosso scuro, mentre una piccola ghigliottina in scala faceva bella mostra di sé sulla sommità del tavolino. E quella nell’angolo in alto a destra non era forse una vergine di ferro? Senza contare il manichino inquietante posto accanto alla finestra e quella specie di candelabro a forma di demone che la fissava malvagiamente dalla parete accanto, con le fauci arricciate in un sogghigno e gli occhi accesi come due tizzoni ardenti. Un brivido le risalì lungo la schiena. Un attimo soltanto; poi corse a frugare nei cassetti, negli zaini incustoditi e perfino sotto i letti alla ricerca del prezioso bottino: le Materia di Cloud Strife e co.
E in quel momento il manichino le parlò.
“Che stai facendo?”
Balzò sul posto come una molla e urlò a squarciagola come se da questo dipendesse la sua stessa esistenza. E pensò: “i fantasmi esistono!” E, un po’ più a fondo nel subconscio: “sono fottuta. Ma tanto.” Eppure quando Yuffie si voltò, stretta nelle minute spalle e tutta tremante, ravvisò nella figura del manichino i tratti di quello nuovo. Il tipo assurdo – e da brividi – che Cloud si era trascinato dietro da Nibelheim. E di cui fino a quell’istante aveva dimenticato perfino l’esistenza. Mai come in quel momento la cupa figura avvolta di rosso le parve un succhiasangue a tradimento.
“Eeer… Valentine, giusto? Giusto,” rispose da sé; tanto l’altro non parlava quasi mai e quando lo faceva sembrava quasi seccato. E a lei seccava che lo fosse. “Lo sai? Sarà il mantello, sarà l’incarnato pallido, l’espressione truce o lo sguardo fisso – e un po’ vacuo – ma i lampi ti stanno d’incanto! Altroché. Pensavo che fossi parte integrante della tappezzeria, pensa un po’! E mi hai fatto venire un infarto. Sai che ti dico? Che dovresti provare a fare domanda, magari ti assumono come gargoyle o vampiro a tempo indeterminato. Il lato positivo è che in questo modo nessuno penserà che sei fuori di testa se dormi in una bara – e non penso aaaaaassolutamente che tu sia fuori di testa. Chi, io? No, no.”
Non diceva tanto per dire; dal cimitero nel cortile alla tortuosa e fatiscente scalinata d’ingresso, dalla hall oscura e un po’ stantia a quella raccapricciante stanza da letto, l’inn del Gold Saucer sembrava essere stata progettata e costruita su misura per lui. Peccato che Valentine non fosse interessato al posto di lavoro, perché assottigliò le palpebre e perseverò sulle sue posizioni, in un silenzio gravido d’accuse. E stava ancora aspettando risposta. Perciò Yuffie gli mostrò la dentatura completa e ripose accuratamente lo zaino di Strife lì dove l’aveva trovato, premurandosi addirittura di distenderne le pieghe.
“Ok, ok, ho capito. Lo so a cosa stai pensando,” convenne quindi. Con un saltello fronteggiò lo spaventapasseri in rosso e lo puntò con l’indice. “Ma ti sbagli. È un… malinteso, sì. MA-LIN-TE-SO. Capisci? E posso spiegare tutto, ovviamente.”
Il silenzio seguì l’affermazione, se possibile ancora più greve. A braccia incrociate, Valentine se ne stava immobile in prossimità della finestra, carezzato dal riverbero delle saette. E la fissava dritto coi suoi occhi scarlatti: uno sguardo che riusciva a metterla a disagio per un mucchio di motivi diversi e che, a dispetto del colore, esprimeva una freddezza quasi intollerabile. Non era a lei che guardava ma all’idea che si era fatto di lei. E sembrava trapassarla.
S’imbronciò.
“Ti ringrazio per il beneficio del dubbio, eh,” continuò; e incrociò le braccia al petto anche lei.
“Non mi piacciono i ladruncoli.”
“Beh, a me non piacciono gli sputasentenze. E comunque questa è la tua versione dei fatti. Sì, sì. E dubito che i tuoi più intimi amici, l’inquietante candelabro e la terrificante vergine di ferro, siano ansiosi di confermala. Perciò,” ribatté, dondolandosi spavaldamente sui piedi, “ufficialmente io sono qui per… controllare che sia tutto a posto. Sto fornendo un servizio pubblico. Perché fidarsi è bene e non fidarsi è meglio! E perché l’occasione fa l’uomo ladro, etc, etc. E Highwind si sta sbronzando con Wallace al bar, Cloud è sulla gondola a tubare con Aeris e Tifa… Tifa è da qualche parte a piangersi addosso, quando sono io quella che non è stata nemmeno considerata per l’appuntamento! E sono incastrata qui a giustificarmi con te, l’uomo della bara che non sa dove sia di casa il divertimento. Il che è davvero avvilente, credimi.”
Soprattutto perché nel caso specifico la particolare indole dell’interlocutore le aveva dato uno svantaggio tattico a dir poco compromettente, piazzandolo nel posto sbagliato al momento sbagliato – e che si fosse dimenticata di lui rappresentava solo un piccolo, microscopico dettaglio. Perché se per mettere le mani sul prezioso bottino poteva contare sulla distrazione degli altri compagni – quelli che sapevano ancora estorcere attimi di svago al destino tiranno – di certo non poteva fare altrettanto con lo stoccafisso lì presente, il cui unico scopo nella vita – ammesso e non concesso che potesse definirsi vivo – era fare… nulla? A parte starsene lì impalato con la maschera dell’impassibilità e della rettitudine calcata sul viso. A giudicarla, probabilmente. Il che la faceva innervosire tanto quanto il colore rosso delle sue iridi. O del vestiario che sfoggiava con così tanta disinvoltura – o menefreghismo – nonostante al di fuori di una festa in maschera risultasse a dir poco ridicolo.
Lo odiava.
Dubitava che a Valentine importasse, comunque. O che ci fosse qualcosa al mondo in grado di accendere in quegli occhi un barlume di coinvolgimento, di calore. E odiava ancora di più il fatto che non la vedesse affatto, se non attraverso le lenti dell’indifferenza. E di una moralità tanto rigida quanto sterile che in definitiva si addiceva poco a entrambi.
Non aveva ben chiaro come lo stoccafisso fosse finito nei sotterranei di Nibelheim e perché – le storie lunghe e noiose non erano adatte alla sua mente giovane e iperattiva, sempre in cerca di nuovi stimoli – ma sapeva quale oscuro obbiettivo l’aveva spinto a strisciare fuori dal feretro per unirsi all’allegra brigata di Cloud e co. E di fronte al silenzio ostinato, al viso inespressivo trincerato dietro i lembi scarlatti degli indumenti, Yuffie sciolse la morsa delle braccia e serrò invece i pugni lungo i fianchi.
“Pensa quel che ti pare, non m’interessa,” stabilì quindi. “La verità è che tu non sai niente di me. Né sei migliore della sottoscritta. Perciò non hai il diritto di giudicarmi.”
“Vale lo stesso per te.”
Yuffie serrò le labbra, sorpresa dalla stoccata. Doveva rettificare: a dispetto delle apparenze – e dell’evidente fastidio che gli provocava trasformare i pensieri in parole – Vincent Valentine aveva la lingua tagliente almeno quanto la sua. Solo in piccolo – cioè con l’ausilio del minor numero di sillabe possibili. Da quel punto di vista poteva quasi considerarsi il genio assoluto delle battute!
Si strinse nelle spalle.
“Beccata! Non ho fatto i compiti a casa,” convenne; e si portò le mani sui fianchi. “E sì, mi ero perfino dimenticata che esistessi – anche se qui la colpa è tua, che te ne stai sempre in disparte col muso lungo. Ma c’è una bella differenza fra me e te. Io ho uno scopo, anzi, un’ambizione. Qualcosa per cui valga la pena lottare e mettere un piede davanti all’altro. Qualcosa di nobile. Niente a che vedere con la vendetta, comunque. Che cosa c’è alla fine del binario? Niente. Non c’è alcuna speranza in un simile proposito, solo la fine. Caput. The End. Capolinea, fine della corsa, siete tutti pregati di scendere e di togliervi dalle balle. E sai che ti dico? Magari non ti piace il modo in cui svolgo il mio… servizio pubblico, ma di questi tempi la gente ha bisogno di sperare. Io ne ho bisogno.”
Ciò detto sollevò anche il mento, gli occhi d’onice fissi nei cupi e freddi rubini che tanto l’irritavano. In qualche modo lo stava sfidando. O forse non stava sfidando Vincent Valentine, ma tutto ciò che rappresentava col suo distacco, con la sua morale, col suo desiderio di morte. Col colore scarlatto che l’avvolgeva da capo a piedi, come una fiamma. E che bruciava…
L’interlocutore scosse appena il capo e le cinghie del mantello scarlatto – troppo scarlatto – tintinnarono. Seguì un breve sospiro. Una manifestazione che la diceva assai lunga. Ragazzina, le risuonò nella coscienza. Valentine non aveva ancora parlato, ma il messaggio le era arrivato ugualmente forte, chiaro… e insopportabile, perché per un attimo si sentì proprio così – e non nella maniera figa e spensierata che solitamente intendeva lei, sempre pronta a rinfacciare ad Highwind gli anni in più.
“La speranza è all’opposto della disperazione. Ma entrambe potrebbero accecarti,” commentò infine lo spaventapasseri, con la voce cavernosa e vagamente atona.
Yuffie fremette da capo a piedi e proprio come una ragazzina, le sopracciglia inarcate e le labbra tese in una linea dura. Specie perché avrebbe preferito che a reagire così fosse l’altro, non lei; e il solo pensarlo la faceva incazzare di più.
“Disse il filosofo di ‘sto paio di peri!” sentenziò infine; poi inclinò il capo, fece spallucce e sfoderò un sorrisino irriverente. Col cavolo che gli avrebbe dato la soddisfazione di vederla perdere le staffe! Anche se era più probabile che a Valentine non facesse né caldo né freddo. “Che altro potevo aspettarmi da uno stramboide che veste rosso dolore come niente fosse? Il colore del sangue, delle fiamme che bruciano e anneriscono ogni cosa. Il colore della guerra,” e solo a dirlo sentì il fumo graffiarle la gola. Deglutì. “Di certo non che potesse capirmi. Ma chi se ne frega? Parlare col muro sarebbe più interessante, sì sì. Potrei quasi trovarlo simpatico, il muro! Ma tu resta sul tuo binario, tieniti stretta la disperazione che al resto ci penso io. Anzi, dacché sei qui a contemplare l’atmosfera rassicurante dei lampi e delle candele tremolanti pensa tu a badare agli zaini, non sia mai che qualcuno faccia sparire qualcosa mentre Cloud e co. sono fuori a divertirsi, eh! E in quel caso t’informo che la colpa sarebbe soltanto tua, perché io – la ragazzina cieca di speranza – sarò lontana mille miglia da te e da tutto ciò che ti riguarda. Questa è una promessa. Un giuramento solenne, altroché. Una missione di vita! Perciò addio, stoccafisso triste e saccente. SAC-CEN-TE! E, ripensandoci, lascia perdere l’impiego come tappezzeria dell’albergo. Hai mai pensato alla vita monastica? Solitudine, rigore da castigati e tante – ma taaaaaante – seghe mentali!”
E non era certa che nell’ambiente le seghe si limitassero alla sola mente. Ma ci stava bene in ogni caso – ammesso e non concesso che Valentine avesse impulsi sessuali di qualche tipo. E ne dubitava, per quanto le interessasse.
Ciò stabilito girò i tacchi e se ne andò a passo di marcia, il naso rigorosamente per aria: aspettare una risposta sarebbe stato superfluo. Innanzi tutto non aveva intenzione di prolungare ulteriormente la conversazione. Secondariamente era certa che almeno su quel punto si trovassero perfettamente d’accordo.
Imboccò l’uscita quando il secondo sospiro di Valentine andò a sussurrarle nuovamente alle orecchie “ragazzina”. Accusò un tremito ai lineamenti. Forse per questo si rischiuse la porta alle spalle con più violenza del previsto. E dentro di sé pensò: È esattamente ciò che sono, problemi? Ma non ebbe il coraggio di gridarlo ai quattro venti.

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Capitolo 2
*** Prima Fermata ***


  Capitolo 2 - Prima Fermata
Yuffie sollevò il capo e fissò il crepaccio dal basso.
I bordi irregolari della roccia si stagliavano sul cielo grigio e indaco, a tratti scosso da strali di energia verdastra che sembravano tagliarlo di netto per brevi, intensi istanti. Lifestream? Forse. O forse era solo la manifestazione del potere di Sephiroth. O entrambe le cose indissolubilmente legate.
Rabbrividì e rilasciò un piccolo fiato che si trasformò in una nuvoletta di vapore. Ma se fosse il freddo o il timore a stringerla in una morsa non seppe dirlo. Si allacciò le braccia al corpo e seguitò a fissare il cielo, in cerca di una risposta. In cerca di certezze. Beh, una ce l’aveva: aggirarsi per il Northern Crater in top e pantaloncini non poteva considerarsi propriamente la furbata dell’anno! E il naso congelato – lo sapeva, lo sentiva – le si sarebbe presto staccato dalla faccia per lasciare un… cratere, manco a farlo apposta.
Una macchia rossa in lontananza, appena tratteggiata dalla vista periferica, la richiamò all’attenzione.
“Ehi,” chiamò.
Si morse le labbra l’istante seguente. Le era venuto spontaneo e se n’era già pentita; ma quando il proprietario di quel colore continuò dritto per la sua strada senza degnarla di uno sguardo, fu l’indignazione a dar fiato al successivo e non contemplato richiamo – nonché indubbiamente più stridulo del precedente.
“Eeeeeeehi! Pronto? C’è nessuno in casa? Toc, toc! Pianeta chiama Vincent Valentine!”
La macchia s’arrestò.
Dalla sua postazione protetta – il vento era troppo, troppo gelido per chi come lei indossava i suddetti pantaloncini – Yuffie osservò lo stoccafisso guardarsi attorno. Perciò allungò la mano oltre le pareti di roccia per rivelare la posizione e gli fece cenno di avvicinarsi alla frattura.
Il fossile – quello che aveva circa un milione di anni e ne dimostrava solo due – restò piantato come un chiodo in mezzo alle intemperie per un lunghissimo momento, il mantello rosso che fluttuava da una parte all’altra a seconda della corrente. Poi – sorpresa delle sorprese – la raggiunse.
“Per Leviathan, sei venuto davvero! Se non fossi surgelata fin nel midollo potrei quasi saltare dallo stupore! E solo per oggi credo di poter affermare con certezza che trovo assai affascinante – e allettantissima – la tenda rossa che ti porti sempre dietro, sì sì. Sei contento? Dovresti ringraziarmi. Ti ho fatto un… complimento, sì. Più o meno,” esordì.
Chiuso tanto nel silenzio quanto nelle cinghie del mantello, Vincent Valentine guardò a lei dall’alto e batté le palpebre. Yuffie roteò gli occhi al cielo, sbuffò clamorosamente e s’ingobbì. Se non avesse avuto così freddo avrebbe anche lasciato penzolare le braccia in avanti, tanto lo sconforto.
“Tu sì che sai sempre come togliere la gioia da ogni piccola cosa, vero?” osservò; e inarcò il sopracciglio.
“Credevo che la tua missione di vita fosse starmi lontana,” ribatté lo stoccafisso monocorde, peraltro insensibile alle sue proteste.
Colta alla sprovvista – e clamorosamente sul vivo – Yuffie saltò effettivamente sul posto, puntò Valentine con l’indice e spalancò la bocca… senza tuttavia trovare una pronta e brillante risposta che avrebbe ribattuto l’illazione al mittente. Specie perché si era beatamente dimenticata di quella sua vecchia affermazione. E di quanto lo spaventapasseri in rosso fosse pignolo e saccente.
“Eeeer…” esitò, mentre il tempo scorreva e alimentava l’imbarazzo – nonché il rossore sulle guance. “È colpa tua. Ovviamente,” disse infine, senza sapere di preciso dove andare a parare. “Sì. Perché… perché sei stato tu a infrangere le distanze. Ah-ha! Beccato! Certo, io ti ho chiamato… ma potevi ignorarmi, se non sbaglio. Perciò i conti tornano e il responsabile… Ah!” esclamò; e quasi gl’infilò l’indice accusatore nel naso. “Non ti azzardare a sospirarmi in faccia come al solito. No, no. E poi no! So che stavi per farlo, te l’ho visto scritto in fronte – anche se tecnicamente la tua fronte è coperta dalla fascia rossa e non si vede, ma il punto non è questo e mi stai facendo perdere il filo...”
Con uno svolazzo da parte del mantello, Valentine le diede le spalle e si allontanò nella direzione da cui era venuto.
“Aspetta, aspetta, aspetta!” gli strillò dietro, agitando le braccia per aria come se dovesse far atterrare un’aereonave. “Cazzo, Valentine! Il mondo sta per finire, c’è una meteora grossa quanto il culo di Godo sulle nostre teste e tu non hai niente da dire? Io ne ho un pacco grooooosso così di cose da dire!” strepitò; e a dispetto del freddo divaricò completamente le braccia per sottolineare la quantità. “Cose da capire, anche, ora o mai più. Mai, mai e maaaaaai più. Specie se Sephiroth ci affetta tutti come prosciutti! Ad esempio, perché quella volta al Gold Saucer non hai fatto la spia?”
Lo stoccafisso chinò leggermente la testa, senza tuttavia voltarsi a guardarla.
“Sarebbe venuto fuori comunque, prima o poi,” rispose quindi.
Era stato spicciolo e neutro. In sostanza una vera e propria delusione. Dato il momento critico si era forse aspettata di più, una confessione, un segreto. Qualcosa, almeno. E invece niente. Ciononostante evitò di soffermarsi sulla natura di quell’inaspettato languore.
Yuffie richiuse la bocca e incrociò le braccia al petto.
“Beh, è proprio da te,” convenne quindi, annuendo fra sé. “Ma, ammettiamolo, così è stato più divertente. Certo, Cloud e co. non sanno stare agli scherzi – e bada bene che si è trattato solo di uno scherzo, un piccolo e innocente scherzetto – ma giocare ad acchiapparello per le strade di Wutai non ha prezzo! Ovviamente vi avrei restituito tutte le Materia, sarebbe stato una sorta di… prestito, diciamo. Siete voi che avete pensato male. E che siete dei tirchi. Tirchissimi, altroché!”
Valentine non si mosse, né replicò. Eppure attese, forse aspettando di capire se avesse altro da dirgli. In qualche modo se ne stupì.
“E comunque,” riprese, “quel tizio gibboso, la scimmia brutta con gli occhiali, lo scienziato pazzo che ha fatto ‘kaboom’ sul Sister Ray. Insomma, quello! Ecco… lui… meritava di morire,” affermò. “Sai, il mondo sta per finire, magari domani non ci sarà più Lifestream né gelato alla nocciola… e ti ho già specificato le dimensioni di quella Meteora? Beh, in ogni caso… ecco… Volevo dirtelo,” soggiunse; e si passò le dita tra i capelli alla base del collo.
Il silenzio seguì l’affermazione. Come sempre quando si parlava con Valentine – ovvero si eseguivano monologhi degni del palcoscenico. E degli oscar, pure! Soltanto il vento che s’infilava fra i crepacci andava, di tanto in tanto, a interrompere la quiete col suo sordo fischio.
Nondimeno Yuffie notò le spalle dell’altro incurvarsi sotto il peso delle parole – e del concetto che esprimevano. Non si stupì quando lo spaventapasseri scarlatto voltò il capo e l’adocchiò da sopra la spalla. Il suo profilo si disegnò tagliente sull’ambiente circostante, a dispetto dell’ampio e alto collo del mantello con cui spesso e volentieri si trincerava. E a ben vedere il rosso spiccava sulla neve caduta di fresco – e sulla pelle del suo viso – come una dolorosa e pulsante macchia di sangue…
“Gli altri si sono già allontanati,” le disse. “Dovresti andare anche tu.”
Yuffie fece spallucce.
“Tecnicamente – permettimi d’imitarti e di fare la pignola – Cloud e Tifa sono ancora lì a turbare come due candidi colombi,” precisò. “E poi la fa facile lui, il porcospino biondo, ci manda a spigolare allegramente per i campi e si aspetta pure che torniamo per partecipare briosi alla fine di… tutto? Cazzo, io ho solo sedici anni! Sedici anni e la fine del mondo sulle spalle. Che culo! E che cosa dovrei fare, io?” domandò; al vento, a Valentine. A se stessa.
Per la prima volta da che si era rintanata in quel crepaccio a guardare il cielo scuro sopra di sé, Yuffie si accorse di aver paura e che il tremore alle mani e alle ginocchia non dipendeva unicamente dal gelo pungente. Niente a che vedere con l’interlocutore che si ergeva innanzi a lei. Insensibile alle intemperie, al tono incrinato della sua voce, all’incertezza del domani.
Insensibile a tutto, probabilmente.
Andare, restare. Vivere, morire. Per chi non aveva niente – o aveva passato trent’anni in una bara – non doveva poi essere una scelta difficile. O spaventosa. Ed entrambe le opzioni erano accettabili. Per un attimo Yuffie si chiese dove l’uomo in rosso stesse andando, da chi; e l’immagine di una donna racchiusa in un cristallo – di una salma tanto bella quanto fredda –le balenò alla mente.
“Non ho una risposta che possa piacerti,” disse lo spaventapasseri.
“Tornerai per combattere al fianco di Cloud?”
Ancora una volta a risponderle fu il fischio del vento.
“Lo immaginavo,” commentò Yuffie; e arricciò le labbra in un sogghigno. “Anch’io avevo tutt’altri progetti quando mi sono unita al gruppo di allegri avventurieri. Non m’importava niente di voi o di cosa inseguivate. Ma viaggiare assieme è stato… fico, sì. Più o meno. Insomma, tu ad esempio fai paura e sei strano – ma strano forte! – e Cloud ha le sue emicranie e Cid mi manda sempre a quel paese, per cui…” ridacchiò; poi le labbra assunsero le sfumature di una smorfia. “Non mi sarei mai aspettata che le cose sarebbero andate a finire in questo modo, né che lei sarebbe morta… o che io mi sarei sentita… così…”
Era una guerriera, non un’eroina, una martire come Aeris. Aveva uno scopo nella vita, anzi, un’ambizione che le bruciava nel cuore e nella mente da che era bambina. Una speranza per il suo paese devastato dalla guerra e per l’orgoglio della sua gente tutta, costretta a chinare il capo innanzi all’esigenza e all’invasore. Un obbiettivo che avrebbe raggiunto a qualsiasi costo, a dispetto di quello che Valentine o gli altri compagni avrebbero potuto pensare di lei. Anche se era difficile. Anche quando faceva male.
Strinse i denti e i pugni.
“Accidenti!” sbraitò. “Dovrei darmela a gambe, altroché! Non so nemmeno che ci faccio qui, col naso per aria a rimirare i lampi spaventosi che deturpano il cielo – o in alternativa a parlare da sola con te! Ho delle responsabilità, io, un sacco di cose da fare e tutta la vita davanti – e sono sicura che se Cloud riesce a gestire la sua chioma puntuta in tempi come questi può battere Sephiroth anche con una benda sugli occhi e un braccio legato dietro la schiena! Perciò io me la squaglio. VA-DO. Mi dileguo. Addio. È stato un piacere, arrivederci a mai più. Buona morte a voialtri fessi!”
Richiuse la bocca, il petto che le si alzava ed abbassava in cerca d’aria per via del dire impetuoso – o a mitraglietta, come diceva sempre Wallace. Tuttavia gli attimi si protrassero all’infinito e restò piantata coi piedi per terra, perché i passi da compiere per rispettare i propositi millantati erano troppo pesanti perfino da concepire. Così scosse la testa e ridacchiò di sé.
“Ok, ok,” ammise; e sollevò le mani in segno di resa. “Stavo… bluffando, sì, per vedere la faccia che avresti fatto – cioè la solita. Ci sei cascato? Io dico di sì, con tutta la mantella, l’artiglio di metallo e le simpatiche – e confortevoli – scarpine appuntite,” scherzò. Dirimpetto Valentine ricacciò dalla bocca una nuvoletta di vapore e non cambiò espressione, né si mosse. Tipico. “Lo sai? Il punto è che mi sono ricordata di una cosa e non so perché ora non riesco a togliermela dalla testa,” riprese. “Quand’ero piccola anche il cielo di Wutai era sfregiato. C’erano sempre delle colonne di fumo scuro che risalivano dai villaggi. E case annerite, divorate dalle fiamme,” disse. “Ogni giorno la brava gente faceva del suo meglio per ricostruire quanto la Shinra aveva distrutto, col sudore sulla fronte, i calli nelle mani e il vuoto nel cuore. E fidati che a Wutai, d’estate, può fare davvero – daaaaaavvero – caldo!”
I lineamenti le si distesero lievemente al ricordo della patria e quasi le sembrò di sentire il tepore del sole sulle guance. Sorrise; stavolta senza malizia. Forse solo con un pizzico di nostalgia.
“Così, ingenuamente, presi l’abitudine di portare granita fresca a tutti. Alla mela, alla fragola… alla menta!” elencò, tenendo il conto con le dita; poi s’illuminò ed effettuò un saltello sul posto. “La menta è fica perché poi la lingua diventa tutta verde e puoi fingere di essere un mostro di muffa sbavante – e scommetto che a te che piace il rosso non ti è mai venuto in mente che il verde potesse essere fico!” disse, guardando all’interlocutore come se potesse trasmettergli il proprio entusiasmo – e la propria passione per il verde. Fece spallucce. “Ma, ehi, mi accorsi in breve che la granita si scioglieva con la stessa rapidità dei sorrisi che riusciva a strappare. Forse è stato allora che ho deciso di diventare più forte, di fare di più… di tutto per rendere alla mia gente e alla mia terra la sua antica fierezza – poi Godo ha trasformato Wutai in una meta turistica, anche se questa è un’altra storia e ci sto ancora lavorando... ma, ecco, se ora voltassi le spalle a Cloud e co. che senso avrebbero gli sforzi compiuti finora? Se io tornassi a casa da mio padre e il mondo finisse domani, a che sarebbe servito ribellarsi e combattere? Le miglia percorse finora equivarrebbero a nulla, come se il treno scorresse al contrario sui binari della mia esistenza. E la domanda continua a rimbombarmi nel cervello, ora come in passato, senza tregua: Vuoi passare il resto della tua vita a vendere acqua zuccherata, o vuoi la tua occasione per cambiare il mondo?”
“Credo che tu abbia già la tua risposta,” osservò Vincent Valentine, secco e preciso come al solito.
Annuì. In qualche modo era sempre stata lì, faceva parte di lei, del suo modo di affrontare il mondo; e nel realizzarlo – nel riscoprire la propria determinazione – persino il tremore agli arti si affievolì.
Lo spaventapasseri non attese oltre. Le offrì la schiena e proseguì lungo il cammino senza dire una parola di commiato, diretto chissà dove. Probabilmente dai fantasmi del suo passato.
Yuffie si portò le mani sui fianchi e sorrise, non vista.
“Grazie tante, eh!” gli urlò dietro, portandosi le mani ai lati della bocca. “Pensavo che una persona della tua età – un vecchio noioso e spocchioso, parliamoci chiaro – fosse più sapiente! Chessò, avesse dei consigli, delle perle di saggezza per gli aitanti e confusi giovincelli! E invece mi sbagliavo, a dormire per trent’anni in una bara s’impara solo a riconoscere la tappezzeria per interni – anche se, lo ammetto, parlare da sola con te è stato molto illuminate! E a tal proposito lascia che te la dica io una cosa, signor mi-vesto-rosso-dolore-e-non-so-che-pesci-pigliare: dovresti tornare anche tu!”
Il suono stridulo della sua voce si spense, come assorbito dalle pareti di roccia del Northern Crater. Ciononostante era certa che il messaggio fosse arrivato ugualmente forte e chiaro alle orecchie dell’interlocutore – anche quando quest’ultimo faceva finta di non sentire. O di non curarsene. Ciò pensando si passò l’indice di traverso sotto il naso e lo guardò sparire in lontananza, tra la foschia e il nevischio dell’ambiente: poco ma sicuro, avrebbe rivisto quel babbeo entro sera.

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Capitolo 3
*** Seconda Fermata ***


  Capitolo 3 - Seconda Fermata
Tuuu, tuuu, tuuu.
Con l’orecchio poggiato al telefono e la schiena adagiata sulla parete del vicolo – abbastanza sudicio e isolato da poter essere definito equivoco – Yuffie attese, beandosi degli scorci di vita che Edge le offriva: ragazzini che giocavano a palla, persone indaffarate che si susseguivano lungo i marciapiedi e venditori ambulanti che gridavano a squarciagola per rifilare questo o quel prodotto ai gonzi in piazza. Come se il Geostigma e il trio di Kadaj fossero già un lontano ricordo – e dire che solo qualche giorno prima c’aveva quasi rimesso l’osso del collo e tutte le sue Materia! Tsk. E tante grazie a Bahamuth Sin ed evocatore annesso!
Dall’altra parte della cornetta il suono s’interruppe in favore di un mesto – mestissimo, a dir poco– sospiro. Di rimando faticò a mantenersi seria, immaginandosi di già l’espressione spenta e il muso lungo dell’interlocutore.
“Sai,” esordì invece con assoluta nonchalance, come se stesse facendo una comunicazione di servizio, “stavo pensando – e con questo intendo che non ci ho dormito tutta la notte – che hai messo il fiocco rosa sul braccio sbagliato, sì sì. SBA-GLIA-TO. Non capisco se dipenda da un’incomprensione, da una questione stilistica o cos’altro, ma pure Wallace – che non sa distinguere fra destra e sinistra – ha piazzato il fiocco al posto giusto, cioè… qualcuno – che NON sono io, eh – potrebbe pensare che ti sei rincoglionito, che la vecchiaia è carogna, etc!”
“Yuffie…”
“O forse è perché non vuoi uniformarti al resto del gruppo. L’ennesimo tentativo di fare l’asociale, di tenerci a distanza, di sottolineare che sei quello diverso – certo, sei diverso, ma il punto è che non frega più a nessuno. Da un botto. Perfino Marlene trova il suo pupazzo Moguri più spaventoso di te!” precisò; e ciò l’indusse a riflettere sull’ultimo punto esposto. “Ah!” esclamò quindi; e accompagnò la realizzazione con uno schiocco di dita. “Oppure è proprio questo il problema: con un fiocco rosa il tuo braccio mostruoso non sarebbe più abbastanza mostruoso! E qualcuno potrebbe pensare che sei, orrore degli orrori, abbordabile – anche se, tranquillo, lo sguardo truce fa ancora il suo porco effetto!”
“Yuffie,” continuò monocorde l’interlocutore.
Batté le palpebre e gli concesse il beneficio del dubbio.
“Cosa?”
“È sul braccio sinistro per una questione di comodità,” rispose lo stoccafisso dall’altra parte della cornetta; e le attaccò il telefono in faccia senza tante – a dire il vero nessune – cerimonie.
Yuffie si accigliò, gonfiò le guance e si portò l’apparecchio davanti agli occhi. Ohibò, la telefonata era durata addirittura due minuti e ventitré secondi! E se si parlava di Valentine – che era rimasto all’epoca dei piccioni viaggiatori – poteva considerarsi un vero e proprio record, con tanto di medaglia e podio al primo classificato!
Pigiò il tasto di chiamata e si portò nuovamente il telefono all’orecchio.
Tuuu, tuuu, tuuu.
Di lontano, nella piazza che teneva d’occhio, i bambini avevano formato un cerchio e si lanciavano la palla da una parte all’altra, mentre al centro la ragazzina sfigata di turno cercava di afferrarla saltando di qua e di là. Yuffie sorrise e gli angoli degli occhi le si arricciarono. A volte si sentiva esattamente come quella bambina, con le mani protese verso l’alto nell’atto di afferrare...
Il segnale acustico s’interruppe, sicché si schiarì la voce.
“Stavo pensando – sì, di nuovo, e sì, io penso, checché ne dica quel cazzone di Highwind – che bisogna approfittare del tuo slancio d’intraprendenza. Sai, cavalcare l’onda, caricare a testa bassa verso la modernizzazione globale – e non sai quanto avrei voluto godermi la scena di te al negozio di telefonia mobile. Certo, c’è la possibilità che, considerando lo sguardo truce di cui sopra e il cannone a tre teste alla cintura, il povero commesso abbia direttamente alzato le mani sopra la testa pensando a una rapina, ma...”
“Yuffie, arriva al punto,” l’ammonì il musone all’altro capo del telefono.
La ninja mandò gli occhi e il braccio libero al cielo.
“Ok, ok. Dov’ero rimasta?” convenne poi; e con rassegnazione lasciò ricadere l’arto lungo il fianco. “Ah, sì. La morte è con tutta probabilità la più grande invenzione della vita. Spazza via il vecchio per far spazio al nuovo. Ma, ehi, si fa quel che si può, dico giusto? Perciò dato che hai comprato il telefono direi di fare il passo successivo: cambiare il guardaroba. Innanzi tutto le scarpe che porti sono fuori moda da… sempre, ne sono sicura – e ora che l’ho detto sento di aver fatto pace col Pianeta tutto. Anche una spuntatina ai capelli non ci starebbe male! E non so se te ne sei accorto, ma il mantello s’è strappato da schifo. Ed è sporco. Insomma, il rosso è un bel colore, ci sei affezionato, ma è ora di…”
“Pensavo che il rosso dolore non ti piacesse.”
Yuffie mancò un battito e si passò i denti sul labbro inferiore. Colpita e affondata. Decisamente: parlava troppo e nemmeno se ne rendeva conto. E lui ricordava sempre…  tutto. Per la precisione qualsiasi cosa potesse usarle contro. Una vocina le urlò nella testa: “pignolo, PI-GNO-LO. Pignooooolo!” Tuttavia restò in silenzio, a corto di fiato oltre che di parole. Il cuore le rimbombava nelle orecchie. Le strilla dei bambini e il brusio dei passanti, invece, facevano da imbarazzante sottofondo alla comunicazione.
Yuffie trasse un profondo respiro, mentre gli attimi di silenzio si susseguivano inesorabilmente. Insopportabilmente.
“N-non ci provare,” sputò quindi, ansiosa di dire qualcosa – qualsiasi cosa. “Restiamo concentrati sul tuo look da vagabondo trasandato, ok? Ecco! Un giorno potremmo uscire per fare un po’ di shopping! Ci portiamo dietro quel casinista piantagrane di Cid, giriamo due, tremila negozi e poi ci scoliamo una birretta tutti assieme al Seventh Heaven. Sai il divertimento? DI-VER-TI-MEN-TO! È ora che facciate le presentazioni tu e lui, magari ti sta pure simpatico – anche se non giurerei il contrario!”
“Non dovresti bere e io sono a posto così,” rispose lo spaventapasseri perbenista; e le riattaccò il telefono in faccia.
Yuffie inarcò il sopracciglio e tornò fissare con scetticismo l’apparecchio, portandoselo innanzi al naso con un gesto secco – e altamente stizzito. Che, per sbaglio aveva composto il numero di Godo? O in alternativa quello del “pronto-intervento-ramanzine”…
Gonfiò nuovamente le guance e rilasciò l’aria sotto forma di sommo sbuffo. C’era un che d’irritante nella maniera in cui Valentine la trattava. E se aveva smesso d’ignorarla, di trapassarla con lo sguardo per guardare oltre – e lontano da lei – non aveva smesso di considerarla una mocciosa. E l’inflessione nella voce, nonché la raccomandazione esplicita, le rimandavano a un padre in pena per la figlia monella. Masticò la frustrazione fra i denti e richiamò.
Tuuu, tuuu, tuuu.
Piegò il ginocchio e poggiò il piede contro il muro. Dall’altra parte lo stoccafisso in rosso rispose alla chiamata dopo i tre, canonici squilli d’attesa. Come se avesse di meglio da fare, poi!
“Lo sai come mi fa sentire questo? Incazzata,” esordì quindi, senza peraltro aspettare risposta. “Non ci vediamo da un botto di tempo, i tre porcellini devastano Edge sotto il naso da fattorino di Cloud al solito – noioso, banale e ritrito, praticamente un cliché – urlo di battaglia di ‘madre qui, lì e pure là”, un mucchio di Materia saltano in aria come fuochi d’artificio assieme alla testa di chocobo di cui sopra e tu nemmeno mi fai le condoglianze per la dolorosa perdita!”
“Condoglianze, Yuffie,” ribatté l’altro, col sentimento di una trota lessa.
“Non riattaccare!” strepitò quindi; e piantò di nuovo il piede a terra. “Mica ho finito! Perché poi che fai? Chiedi a Tifa – a Tifa – dove puoi andare a comprare il telefono. E poi chiami Cloud e gli dici che io – io, la sottoscritta, me medesima, l’unica Rosa Bianca di Wutai, la più figa fra le fighe, non so se mi spiego – non ho il diritto di chiamarti!”
Il sospiro di Valentine le arrivò all’orecchio più profondo che mai – e forse anche un po’ spazientito. Di rimando, in quel momento come in passato, il messaggio implicito le punzecchiò la coscienza. Ragazzina.
“Per chiamare dovresti avere un motivo. Un buon motivo. Ma tu non ne hai mai uno, pertanto non hai il diritto di chiamare,” le spiegò. E le riattaccò il telefono in faccia.
Stavolta Yuffie aggrottò entrambe le sopracciglia. Cioè, quindi se il Pianeta girava indisturbato sul suo asse e non c’erano pazzoidi col complesso di Edipo che minacciavano l’umanità tutta non poteva chiamarlo? Stupido Valentine. Così sminuiva l’importanza del cazzeggio! E dell’orrore – non da poco, eh – costituito dalle sue scarpine metalliche!
Scosse la testa con condiscendenza, si distaccò dal muro e percorse il vicolo equivoco in cui si era rintanata. Nel mentre pigiò ancora una volta il tasto di chiamata e si portò il cellulare all’orecchio.
Tuuu, tuuu, tuuu.
Poco dopo, come da consuetudine, il segnale s’interruppe. Seguì del silenzio, inframmezzato unicamente dal respiro regolare di Valentine, probabilmente interdetto dall’altra parte della cornetta – nondimeno puntuale come un orologio. Dettaglio di cui molto probabilmente ignorava l’importanza implicita. Yuffie trattenne la soddisfazione e cercò di dimostrarsi il più neutra possibile, invero preparandosi a ribattere al mittente la pignoleria. Nemmeno se ne accorse, ma sollevò il mento per aria.
“Sai una cosa, Vince?” disse quindi, serafica; mentre sboccava sulla piazzetta in cui i bambini giocavano e si dirigeva dall’altra parte dello slargo, sfrecciando agilmente fra i passanti. “Per essere uno che non vuole essere contattato da me rispondi alle mie chiamate con impeccabile tempismo. Sempre.”
Il silenzio, se possibile, divenne ancora più austero. Colpito e affondato! Di rimando sul viso le si spalancò un sorriso enorme; e quasi dovette mordersi la lingua per non scoppiare a ridere. Un lieve “pff” le sfuggi comunque dalle labbra.
La bambina al centro invece non si trattenne. Afferrò la palla che la ninja stava sfilando accanto al cerchio di ragazzini ed esultò, strillando il proprio successo ai quattro venti. Bella per noi, pensò Yuffie; e continuò lungo la propria strada, gli occhi fissi all’obbiettivo innanzi a sé.
“È il tuo turno. Questo come ti fa sentire?” domandò.
Il silenzio perseverò dall’altra parte per qualche istante ancora.
Arrabbiato,” fu il lugubre e conciso commento che seguì.
Stavolta Yuffie ridacchiò, fermandosi sul ciglio del marciapiede. Due autovetture le frecciarono innanzi rombando sonoramente. Appena possibile attraversò la strada, raggiunse la macchia rossa che si stagliava sul livore di Edge e picchiettò con l’indice sulla spalla del diretto interessato, ancora col telefono all’orecchio.
“Un’emozione! Oh, oh! Facciamo progressi, ma sono sicura che puoi fare di mooooolto meglio, Vince!” disse, mentre l’altro si girava, abbassava il braccio e richiudeva la conchiglia con un unico, fluido movimento. Gli occhi rossi le si piantarono addosso dall’alto; e Yuffie fu certa di percepire nelle sue iridi la frustrazione di cui parlava. E forse anche un po’ di rassegnazione.
“Ah-ha! Tu non ucciderai! Dillo anche a quegli altri lì con te!” disse, puntandogli l’indice in faccia a mo’ di rimprovero.
Dopodiché sorrise, compì una piroetta a braccia divaricate e soggiunse: “Piuttosto… che ne dici di una coppa di gelato? Non è birra ed è sicuro anche per i bambini al di sotto dei sei mesi!”

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Capitolo 4
*** Terza Fermata ***


  Capitolo 4 - Terza Fermata
Yuffie sollevò il capo, in attesa. Il tepore del sole andò a scottarle le gote. La brezza, invece, le faceva ondeggiare blandamente i vestiti, portando con sé piccole goccioline d’umidità che le si depositavano sulla pelle, refrigerandola appena.
I capelli le solleticavano la fronte e la nuca, le estremità della lunga fascia le sfioravano la schiena, mosse dal vento. E il rombo costante e poderoso delle cascate l’avvolgeva, coprendo gli altri rumori. Perfino il battito del suo cuore.
Assottigliò le palpebre e si schermò il viso con la mano, spingendo lo sguardo più su. Le nuvole si susseguivano nel cielo, inframmezzando di bianco la distesa azzurra. E sospinte dalla corrente assumevano le forme più disparate. Eccola! Quella bombata con due lunghe e arcuate protuberanze sulla sommità aveva tutta l’aria di un batuffoloso coniglietto! Sorrise, elettrizzata come una bambina, e corse a cercare la figura successiva. Un Tomberry, indubbiamente. Un cumulo di nubi piccolo, basso e arrotondato che stringeva qualcosa di oblungo. La mannaia, naturalmente. E ciò pensò che stridesse terribilmente – e inquietantemente – col povero coniglio, specie quando il secondo, coltellaccio alla mano, incombeva sul primo per posizione.
Scacciò quell’immagine, chiuse gli occhi e inspirò l’aria balsamica del luogo. Intrecciò le dita dietro i fianchi, si sollevò impercettibilmente sulle punte dei piedi e tese ciascuna fascia muscolare, stiracchiandosi. Un mugolio le abbandonò le labbra, disperdendosi in breve nell’ambiente. Qui e lì sul corpo temprato poteva ancora sentire i segni della battaglia – l’ennesima – tirare e dolore.
Che noia. Un altro po’ e si sarebbe addormentata in piedi, complice il tepore del sole. L’avevano mandata lì – gli altri, perché lei che dopo il fattaccio l’aveva cercato in lungo e in largo senza successo era ancora arrabbiata con lui – e al diretto interessato probabilmente non importava. E la faceva pure aspettare. Mica aveva tutta l’eternità a disposizione come qualcuno, lei! Che l’altro non immaginasse di trovarla lì era un piccolo e ininfluente dettaglio, ovviamente.
Yuffie inarcò le sopracciglia e s’imbronciò ad occhi chiusi. L’immagine dello spaventapasseri perdigiorno le si profilò suo malgrado nella mente al cospetto di lei, la donna tanto bella quanto fredda che ne possedeva il cuore – per qualche insano motivo che proprio non riusciva a capire, nonostante si fosse fatta raccontare la storia per filo e per segno da Tifa almeno… trenta volte. Un motivo in più per considerarlo il più grosso allocco sentimentale di sempre. Eppure c’era una vocina irritante – e petulante – che continuava a sussurrarle che l’unica, vera e inimitabile allocca era proprio lei, che si era pure lasciata convincere dagli amici ad aspettarlo lì impalata, quando invece avrebbe solo voluto – e dovuto – strozzarlo con la sua beneamata tenda rossa.
Inspirò a fondo, riempiendosi i polmoni con gli effluvi delle piante che crescevano sulle creste rocciose dell’insenatura. Cercò di rilassarsi, di godersi il sole e la brezza, ma il pensiero tornò nuovamente lì, subdolo e traditore. Chissà che cosa stava sussurrando Vincent Valentine alla luce soffusa dei cristalli, chissà con quali occhi stava guardando a ciò che aveva perso e infine ritrovato…
Un tremito intaccò l’immobilità dei suoi tratti, fino a quel momento rivolti con spensieratezza al sole e al cielo sopra di sé. Yuffie deglutì dolorosamente, schiuse le palpebre al baratro che le si apriva innanzi, oltre il bordo roccioso, e si portò ambo le mani ai lati della bocca.
Urlò. E urlò ancora, mentre la cascata inghiottiva ogni cosa col suo rombo impetuoso. Prima fra tutte la frustrazione non desiderata.
Il rumore metallico appena percettibile – di ferraglia inutile, come diceva lei – preannunciò l’arrivo di Valentine. Yuffie s’irrigidì appena, colta in flagrante a strillare ai quattro venti come una pescivendola. Lentamente, con la testa incassata nelle spalle e la schiena curva, voltò il capo e lo puntò da sopra la spalla.
Lo vide sgusciare dall’ombra della caverna e farsi largo fra la cortina d’umidità, passo deciso e cadenzato. A dispetto degli anni passati – delle miglia percorse lungo le rotaie della vita – Vincent Valentine era sempre lo stesso, con i capelli troppo lunghi, le occhiaie troppo marcate e il mantello troppo sdrucito. Troppo rosso. Uguale eppure diverso, realizzò, perché sul suo viso non ravvedeva le ombre grevi del passato. Schiuse le labbra e trattenne il respiro per lo stupore.
L’altro sollevò lo sguardo e la notò invero soltanto in quel momento, arrestando immantinente il passo. Yuffie inarcò il sopracciglio.
“Embé?”
Valentine batté più volte le palpebre e riservò il silenzio per qualche istante ancora.
“Non mi aspettavo di trovarti qui,” rispose quindi.
Yuffie lasciò penzolare le braccia in avanti e s’ingobbì ulteriormente. Tipico.
Eccerto,” replicò, riacquistando posa eretta con un balzo, “mica potevi immaginare che qualcuno potesse preoccuparsi per te – gli altri, mica io! No, no. Assolutamente. Nisba. Nada. Manco per niente!” strepitò, gesticolando furiosamente. “In fondo sei solo sparito su nel cielo in una nuvola di Lifestream. BOOOM! Polvere di stelle! E tanti cari saluti a chi se ne stava col naso per aria ad aspettare che riportassi quel culo secco – e fasciato di deliziosa pelle nera – a casa! E, dato che siamo in tema, essendo io la tua partner – socia al cinquanta percento nella salvezza del mondo, eh – e avendo io messo al sicuro il suddetto culo dalla pazza psicopatica degli Tsviet, credevo di avere una certa percentuale di diritti su di esso. E invece niente. Ciao ciao all’Omega Waepon e ai vassalli annessi e connessi, dico giusto? E senza manco un sms alla fantasmagorica socia – figa, fighissima, il non plus ultra della figaggine, mica poco!”
Ciò detto incrociò le braccia al petto, ferma sulle proprie posizioni e già pronta ad essere investita da occhiate di disapprovazione o da insofferenza varia ed eventuale. Dirimpetto, invece, Valentine arricciò leggermente le labbra verso l’alto e continuò a fissarla in silenzio, il vento che gli faceva gentilmente ondeggiare i capelli e il mantello. E gli occhi cremisi che la scrutavano dall’alto non le erano mai sembrati così… caldi.
Stavolta toccò a Yuffie battere ripetutamente le palpebre. Doveva aver visto male. Oppure si trattava di un’allucinazione. Troppo sole in testa! O magari le avevano sostituito il socio durante l’esplosione megagalattica, rimpiazzandolo con uno spaventapasseri fasullo e – peggio ancora – vagamente socievole! O stava semplicemente sognando, perché a quanto era evidente Vincent Valentine – l’amante del rosso dolore, delle bare e dei musi lunghi – non si era ancora profuso in sospiri – talmente profondi da privare dell’ossigeno il Pianeta tutto, probabilmente. Nemmeno uno. Nemmeno piiiiiiiccolo così.
“Ok,” convenne, frapponendo le mani nel mezzo e agitandole nervosamente. “È probabile che io abbia le traveggole, ma togliti quel mezzo sorriso dalla faccia che mi fai… impressione, sì. Come se ci fosse qualcosa da ridere, poi! Hai idea del tempo che mi hai fatto perdere? E mentre io ero qui fuori a beccarmi un’insolazione coi fiocchi tu te ne stavi beatamente al riparo nella grotta in compagnia della tua bella! Senza contare che non hai avvisato nessuno e…”
“Dovevo riordinare i pensieri. E ringraziarla di tutto ciò che ha fatto per me,” l’interruppe lo stoccafisso; e per poco Yuffie non lasciò cadere la mandibola a terra, tanto lo sgomento. Decisamente, non aveva capito un tubo e necessitava della trentunesima spiegazione da parte di Tifa. E stavolta si sarebbe fatta fare dalla barista pure uno schema dettagliato e dei disegnini esplicativi – giusto per capire in quale universo parallelo l’essere scaricati per un cesso fuori di testa e manipolati geneticamente fossero cose per cui ringraziare. “E dirle addio,” soggiunse l’altro, inaspettatamente.
Yuffie percepì un tremito alle ginocchia e una stretta alla bocca dello stomaco, letteralmente senza fiato. E per la prima volta il pensiero la sfiorò: Vincent Valentine non era l’unico ad essere cambiato. Anche lei era diversa, sebbene ignorasse il momento preciso in cui il mutamento era cominciato. Richiuse la bocca e deglutì una, due volte, mentre le cascate riempivano il silenzio e la realizzazione acquisiva man mano di concretezza. E intimoriva.
Non resistette oltre, complici quegli occhi rossi che la fissavano intensamente. Tornò a voltarsi verso il cielo, le dita incrociate dietro i fianchi e le punte dei piedi leggermente sollevate. Il sole le baciò il viso e si costrinse a pensare che il calore insopportabile alle gote dipendesse unicamente da questo.
“E comunque,” riprese, “non ti stavo aspettando. Macché. Proprio no. Sono stati gli altri a mandarmi qui. GLI ALTRI! Io sono venuta solo per… il panorama, ecco. E per le nuvole! Da qui si vedono bene. Benissimo! Ed è divertente indovinarne le forme, lo facevo sempre da bambina, appollaiata sulla cima del Da Chao. Guarda!” strillò; e puntò l’indice verso un cumulo di nubi stratificato. “Quella è una torta a tre piani con tanto di ciliegina. E mi sta venendo pure la bavetta, perciò non montarti la testa. Capito?”
Valentine non replicò, ma il bruciore alle guance non scemò.
“Ti stanno aspettando tutti, ma sono certa che lo sai già,” soggiunse, inspirando a fondo; poi scosse la testa e ridacchiò. “Chi l’avrebbe mai detto che proprio tu, Vincent-ignavo-Valentine, avresti salvato il mondo?”
“Pensavo che avessimo smesso di vendere acqua zuccherata,” fu la rapida e sicura risposta.
Yuffie accusò un battito più esasperato dei precedenti e il petto le si gonfiò d’emozione. Lo conosceva da anni, eppure riusciva ancora a sorprenderla, a prenderla alla sprovvista con la sua insospettabile attenzione ai dettagli e la sua – odiosa – memoria da elefante. Sentì gli occhi pungerle, ma il sorriso le si delineò sulle labbra; e si sentì immensamente grata che a fronteggiarla ci fosse unicamente il vuoto dello strapiombo.
I passi cadenzati e metallici di Vincent ne preannunciarono gli spostamenti. Yuffie non si stupì quando l’altro le si posizionò accanto; una macchia rossa e nera nell’angolo più estremo della sua vista periferica. La ninja non si scompose e continuò a fissare il cielo sopra di sé.
“Certo, dal riservato e noioso – tanto noioso – Vincent Valentine non mi sarei mai aspettata tutti quei fuochi d’artificio! Che pagliaccio,” lo redarguì; e tornò a schermarsi gli occhi con la mano, il naso per aria. “Guarda, hai addirittura appeso un manifesto nel cielo!”
Yuffie lasciò scorrere le iridi sulla sagoma dell’Omega Weapon, che s’intravvedeva in lontananza al di sopra delle nubi, lì dove qualche giorno prima c’era stato lo scontro decisivo. L’ultimo atto di una battaglia cui aveva solo potuto assistere, col cuore in gola e con gli occhi colmi di speranza.
Per un attimo l’oppressione al petto andò a ricordarle ciò che aveva provato allorché Chaos era scomparso assieme alla Weapon nell’esplosione di Lifestream. Inspirò a fondo e cercò di scacciare quelle sensazioni. Lo smarrimento, il timore… Il languore profondo…
“Gli sbarbatelli della WRO non parlano d’altro, ormai. Sono tuoi fan sfegatati, sai? Potremmo quasi catalogarlo come un fenomeno d’isteria di massa. Piangono, si strappano i capelli, cose così. Credo che Reeve non avesse considerato la tua pagliacciaggine latente quando ti ha coinvolto nella lotta contro i Deepground – anche se da uno che veste rosso pugno in un occhio c’era da aspettarselo, è la vena da pignolo e spocchioso che inganna,” scherzò; e adocchiò in tralice il silenzioso interlocutore.
Fermo accanto a lei, Vincent Valentine sollevò leggermente le spalle, scosse appena il capo e si concesse un piccolo sbuffo divertito. Una visione e una consapevolezza che bastarono a dissipare i vecchi crucci. E il sorriso appena accennato dell’altro contribuiva a rendere uguale eppure diverso il viso che aveva imparato a conoscere, a dispetto dell’ampio collo del mantello che spesso e volentieri gli copriva i tratti. E le piaceva più di quanto volesse ammettere.
“Ti trovo bene. Più… leggero,” commentò quindi, senza sbilanciarsi; e tornò a puntare il cielo e le nuvole sconfinati con rinnovata tranquillità. “Ah! Là, proprio là! La vedi?”
Tutta eccitata indicò un gruppo di nuvole in lontananza. Il sole s’infrangeva sulle sagome bianche e grigie, proiettando luminose strie di luce che s’irradiavano tutt’attorno al cumulonembo. Andò con lo sguardo dal cielo a Vincent; e ancora da Vincent al cielo, senza tuttavia ravvisare nel socio in rosso segni d’intesa. Gonfiò le guance.
“Eddai, Vince, possibile che non ti dice niente? Se strizzi un po’ gli occhi, inclini la testa in questo modo e usi taaaaaaanta fantasia si nota subito che ti assomiglia!” sbottò, mani sui fianchi e capo innaturalmente piegato verso destra.
Valentine batté le palpebre e lanciò una seconda occhiata al cielo, senza peraltro cambiare espressione.
“Sono solo nuvole, Yuffie.”
La ninja roteò gli occhi e scosse la testa. Decisamente: uguale eppure diverso. E se da un lato sembrava aver fatto i conti col proprio passato – imparando addirittura la mirabolante arte di arricciare le labbra all’insù – dall’altro restava il solito, ineguagliabile babbeo di sempre.  Sospirò.
“Certo,” convenne quindi, descrivendo le forme nel cielo con sguardo vispo, “da lassù la prospettiva doveva essere assai differente. Ma io ero sul campo di battaglia insieme ai cadetti WRO, fra il sangue e la polvere. So cos’ho visto. E quando la situazione sembrava disperata mi bastava sollevare gli occhi per scorgere la tua sagoma vegliare su di noi.” Lo guardò, dritto in quelle iridi cremisi che tanto aveva detestato, e sorrise. “E, che tu lo capisca o meno, quella nuvola ha indubbiamente la forma di un angelo, Vincent Valentine.”

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Capitolo 5
*** Capolinea ***


  Capitolo 5 - Capolinea
Spinse con ambo le braccia e l’uscio del Seventh Heaven le si schiuse innanzi. Lo scroscio dell’acqua l’accolse a braccia aperte, l’umidità che le frustava la pelle e i piedi che affondavano nelle pozzanghere, mentre alle spalle il caloroso eco di risa e voci familiari si spegneva. Il gelo divenne più pungente. Interiore.
Si strinse nelle spalle, allacciò le braccia al corpo e sollevò il viso. Fronteggiò la distesa plumbea. Il cielo piangeva senza posa e rovesciava sulle gote indifese il proprio cordoglio. Condivise le lacrime, celandole agli altri e a se stessa.
La risata fragorosa di Barret la raggiunse anche attraverso la porta, ormai serrata alle sue spalle. Seguì la pronta e volgare bestemmia di Cid, cui in altre circostanze avrebbe sicuramente fatto eco, aggiungendo questo o quest’altro. Qualsiasi cosa. Da condividere assieme alla compagnia e a una buona tazza di cioccolata calda, amorevolmente preparata da Tifa – perché nonostante fosse una buona forchetta lei proprio non era capace di cucinare, né di essere altrettanto gentile. Ma era così che funzionava. Era il suo ruolo, il suo posto. E Cloud avrebbe scrollato la chioma bionda con bonaria rassegnazione. L’avrebbe pungolato, per questo. Forse Cid le avrebbe perfino dato manforte, ma fra le risate e i commenti i suoi occhi sarebbero corsi nell’angolo più dimesso, dove avrebbe incontrato i rubini di Vincent Valentine, incastonati fra la fascia rossa e l’alto collo del mantello. E si sarebbe illusa, certa che stessero aspettando lei.
L’oppressione al petto crebbe e si sentì soffocare, la gola stretta in un nodo. Avrebbe voluto urlare, far uscire quanto le stava dentro e inseguire il riverbero del tuono o il fragore del fulmine. Invece si portò la mano alla bocca e premette, intrappolando i singhiozzi. Non le spettavano, dopotutto. Anzi, era strano che la consapevolezza l’avesse colta così d’improvviso – e più intensamente di quanto potesse sopportare – quando era da sempre sua inseparabile compagna.
Il rumore metallico s’insinuò inaspettatamente fra lo scrociare della pioggia, strappandole un sussulto. Voltò il capo da quella parte, gli occhi grandi e i capelli gravidi d’acqua attaccati al viso. Tremò quando sprofondò in quegli stessi occhi rossi che aveva immaginato con tanta intensità solo una manciata di secondi prima. Trattenne il respiro, perché l’aveva dimenticato. Ancora.
Vincent Valentine se ne stava poggiato alla parete, sotto il cornicione del palazzo, avvolto dal mantello rosso. A braccia incrociate l’osservava con l’espressione seria e un po’ cupa che lo contraddistingueva da sempre, forse appena spenta. E le emozioni faticavano ad emergere, trattenute dai tratti immutabili del viso sempre giovane. Un dato di fatto che spesso lasciava a languire, forse in quel momento più che mai.
Eppure, messa faccia a faccia con l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare, Yuffie raddrizzò le spalle, sciolse la morsa delle braccia e sfoderò un ampio sorriso, come se a lambirle le gote fosse il sole e non la pioggia.
“Ci risiamo, Vinnie Valentine,” disse, scrollando il capo. “Ricordi quella volta al Gold Saucer? Quando eri appena uscito dalla bara e mi stavi pesantemente sul cazzo, per intenderci. Beh, non mi ero accorta che fossi lì. Caspita, hai mai pensato di buttare via il cannone e d’imbracciare il Conformer? Saresti un ninja provetto!” Fece spallucce. “Certo,” indicò, “con quel rosso è come avere scritto target in fronte, ma…”
“Che cosa succede, Yuffie?”
La domanda improvvisa – e ferma – tagliò il discorso, attraversò lo scrociare dell’acqua e le si conficcò nella coscienza, lasciando piccole e dolorose crepe dietro di sé. Non poteva fregare Vincent Valentine nella stessa misura in cui Vincent Valentine non poteva fregare lei. Le sopracciglia accusarono un tremolio più del dovuto, mentre la maschera si sgretolava. E per un attimo Yuffie si chiese se perseverare nella farsa valesse ancora la pena.
Richiuse la bocca, abbassò le braccia e puntò lo sguardo altrove, rifuggendo gli occhi attenti – e penetranti – che la fissavano senza indecisioni. Con una calma che, ora lo sapeva, non era indifferenza. O Freddezza.
“Non succede niente. NI-EN-TE! E se ho l’espressione… seria, è solo perché ho un annuncio da fare. Sì, sì. Ma Wallace fa troppo chiasso e parlare è impossibile. Mica per altro!” continuò, stringendosi nelle spalle. “E Highwind ha appena proclamato con orgoglio l’arrivo del suo secondogenito, perciò… Gioisci! Quello che ho da dire può anche aspettare un momento migliore.”
Tornò a puntare l’interlocutore e ne incontrò le iridi rosse. L’aspettavano, proprio come aveva immaginato. E volevano risposte. Tipico. Dopotutto Vincent Valentine sapeva essere assai eloquente anche nel silenzio più assoluto.
S’irrigidì innanzi a tanta fermezza. A tanta ostinazione. Strinse i pugni lungo i fianchi e serrò la mandibola, messa alle strette da quegli occhi. Da quel colore e da ciò che significava per lei. Forse pungolata da ciò, indurì l’espressione, schiuse le labbra e sputò quanto l’altro desiderava ascoltare.
“Mio padre si ritira. Pensionamento, diciamo. L’ho sempre chiamato decrepito, ma ehi, il tempo passa davvero e ora decrepito lo è sul serio,” disse; e un sorriso sghembo le tagliò il viso. “Ci pensi? Diventerò Imperatrice di Wutai e, chissà, magari troverò pure marito. T’immagini la scena? Godo è fuori di sé dalla gioia alla sola prospettiva di un pargolo o due in giro per la pagoda.”
Ridacchiò, ma se di se stessa o della situazione non seppe dirlo, mentre le parole appena pronunciate rendevano tutto più reale. Concreto. Disegnando una linea di confine fra la Yuffie che era stata e la Yuffie che sarebbe diventata. Il vecchio che lasciava spazio al nuovo; e una parte di lei sarebbe probabilmente perita nel divenire. Una prospettiva che raggelava ancor più della pioggia e che tagliava fuori legami, abitudini e persone fino a quel momento ovvi. Pilastri di un’intera esistenza.  
Tremò sotto il peso del temporale e del domani, gli occhi fissi in quelli dell’interlocutore. Ma non c’era sorpresa nello sguardo di Vincent Valentine, solo consapevolezza e cupa determinazione. La stessa che forse avevano condiviso da che si erano incontrati, camminando fianco a fianco lungo il tragitto.
“Non sei sorpreso,” constatò.
“No,” fu la rapida e lapidaria risposta.
Si era aspettata una reazione diversa, un rifiuto, una confessione o delle parole d’incoraggiamento. Anche un semplice commento. Qualcosa. E invece lo spaventapasseri in rosso la fissava di lontano, ammantato di una quiete quasi dolorosa. Per lei così poco avvezza alla rassegnazione di sicuro. E un po’, in quel momento come in passato, lo odiò per il suo silenzio.
“È normale,” continuò quindi, infrangendo la stasi e lo scroscio dell’acqua. “Dopotutto è il mio destino, non è così? Insomma, prima o poi avrei dovuto appendere lo shuriken al chiodo, mettere la testa a posto e bla, bla, bla. Robe così. Beh, almeno Highwind la smetterà di prendermi per il culo. Avrò un titolo – e che titolo! – e fra due settimane è il mio compleanno. Ventott’anni. Non potrà più darmi della ragazzina stracciapalle, non trovi?”
La domanda sfumò nuovamente nella pioggia e nella certezza che per alcuni, a dispetto del rango e degli anni compiuti, sarebbe sempre stata una bambina. La Yuffie Kisaragi che s’infilava nelle stanze apparentemente incustodite per sgraffignare Materia, che s’ingozzava di granita alla menta, che parlava a mitraglietta, indovinava la forma delle nuvole col naso all’insù e che soffriva il mal d’aria sulle ali della Shera – dopo aver mangiato non meno di due uova fritte e due etti di pancetta bella croccante, perché la speranza era sempre l’ultima a morire.
Eppure senza accorgersene era rimasta accecata dallo stesso sentimento che l’aveva sostenuta e guidata, proprio come l’uomo della bara aveva ammonito tempo addietro. Si era illusa di avere tempo, più di quanto fosse. E che il futuro per il quale aveva combattuto – per il quale era saltata sul treno in corsa, dritta verso la sua meta – fosse tutto ciò per cui valesse la pena desiderare, stringere i denti e sospirare. Ma ora che l'inganno era sbiadito nella consapevolezza degli anni e che il suo destino stava per compiersi non era mai stata più insicura. Più spaventata.
Deglutì, immobile sotto la pioggia, col sorriso tirato, i vestiti attaccati al corpo e i capelli grondanti, gravidi quasi quanto il suo cuore.
“Parlare da sola con te è sempre un piacere,” scherzò. Poi fece spallucce e soggiunse: “Ripartirò per Wutai domattina.” Seguì lo scroscio dell’acqua e un tremito che la percorse da sopra a sotto, facendo esitare labbra, parole e perfino le intenzioni. “Oppure potremmo scappare. Lontano, io e te, in questo stesso momento. Chessò, potremmo rubare due chocobo e fare il giro del mondo – e sì, lo so che l’idea di rubare qualcosa manda in pappa il tuo cervello da pignolo, ma potremmo considerarla l’eccezione che conferma la regola. Ci pensi?” domandò; e allargò le braccia sotto la pioggia. “Correremmo liberi lungo le pianure o lungo le coste, vedremmo il sole sorgere e tramontare. Andremmo a trovare Red e c’intrufoleremmo lungo i cunicoli più bui e inesplorati di Cosmo Canyon.” Una lacrima le scivolò rapidamente lungo la gota e si mescolò alla pioggia che le delineava il viso. “E alla sera ci siederemmo attorno al fuoco a parlare di tutto e di niente, dormiremmo all’addiaccio e perderemmo le ore e il conto delle stelle sopra di noi, senza un solo pensiero… come se… come se al mondo non esistesse altro…”
Il fiato le si strozzò in gola e le impedì di proseguire, mentre una seconda e una terza lacrima si univano alla precedente. Chinò il capo e trattenne nuovamente i singhiozzi, i denti serrati sulle labbra. Si nascose, succube dello sguardo sopra di sé. Che la giudicava una sciocca ragazzina piena di sogni e d’inutile speranza, probabilmente.
Gli stivali di Vincent tintinnarono. Seguì scalpiccio di passi nella pioggia e la consapevolezza delle distanze sempre meno influenti. Yuffie trattenne il respiro, colta alla sprovvista. Poi le dita guantate dell’altro le afferrarono le spalle nude, bagnate e fragili con un trasporto che non avrebbe mai immaginato. Non dal silenzioso e riservato Vincent Valentine. E che avrebbe potuto spezzarla perfino nell’animo.
Percepì un tremito propagarsi dal contatto. Un languore, forse. Sentì il metallo acuminato del braccio mostruoso premere e graffiare. E la stretta decisa – disperata – le sembrò fuoco sulla pelle. Sollevò il capo e lo guardò, le sopracciglia corrucciate e le labbra dischiuse, avide d’ossigeno e di qualcos’altro che non aveva mai osato ammettere neppure a se stessa. Non prima di allora.
Chino sotto la pioggia, coi capelli appesantiti dall’acqua e le spalle curve, Vincent Valentine non era mai stato così stravolto. Né così vicino. E gli occhi rossi la fissavano dall’alto con un’intensità – una vividezza – che sapeva di braci incandescenti. Pericolose, voluttuose…  
Yuffie fremette e scese con le iridi sulla bocca dell’altro, tradendo la propria debolezza e presagendo quella dell’altro. Deglutì, assaggiò la pioggia e attese, ascoltando il battito esasperato del suo cuore. Ma nello stiracchiarsi degli attimi niente di ciò che si era figurata accadde; e la realizzazione la colpì con la violenza di un pugno, lasciandola a boccheggiare sotto il temporale. Perché Vincent Valentine non l’avrebbe mai baciata, né pretesa per sé. Perché era Chaos ed era eternamente giovane – o vecchio, a seconda dei punti di vista –  e giusto. E stupido insieme – o forse proprio per questo. Perché non l’aveva mai toccata prima di allora ed era per dirle addio, ligio alla propria ottusa e ingombrante rettitudine. La stessa che gli impediva di approfittare dell’occasione e di… rubarla.
“Non hai motivo di temere. Sei una donna forte e piena di risorse, Yuffie Kisaragi. Sarai un’imperatrice altrettanto grandiosa,” disse lo stoccafisso.
Il tocco di lui divenne più accorato e meno impetuoso, come le parole spese; e sotto quelle dita si riscoprì finalmente la donna che avrebbe voluto essere e di cui l’altro parlava. Di rimando i singhiozzi che aveva trattenuto fino a quel momento irruppero incontrollati. Le lacrime si mescolarono alla pioggia, i gemiti allo scroscio dell’acqua. La corsa era terminata, capolinea, ma quelle parole rendevano il proseguo del viaggio su binari distinti più facile e più arduo al contempo.
Fece un passo avanti e poggiò il capo sul petto della persona dirimpetto. Inspirò l’odore dell’umidità e l’essenza del vento, assaporò il profumo di lui, e strinse spasmodicamente le dita alla stoffa del mantello. Rosso come la passione. Come l’amore, ora lo sapeva. Sorrise.
“Sai una cosa, Vinnie Valentine? Per quanto abbia imparato ad amare il rosso, fa sempre male. Così male da togliere il respiro.”

Salve a tutti e grazie infinite per essere giunti al termine di questa fanfic. Suppongo che a questo punto qualcuno voglia randellarmi, ma... MA! Nella mia testa Vincent ci ripensa e va a Wutai direttamente per rapire Yuffie! xP Lol. Quindi, per chi come me è un'inguaribile romanticona e amante del lieto fine, può benissimo immaginare questa piccola clausola aggiuntiva alla storia! xD
Pooooi chiedo venia alla cara Manila che da tempo desidera Yuffie e Vincent nello stesso letto. E ovviamente io continuo a deluderla. E ancora, chiedo venia alla preziosa Lady 666 per le risposte mancate agli mp. Chiedo venia a tutti quelli che aspettano il quarto capitolo de "I 5 Modi, etc" che continua a essere rimandato per mancaza d'ispirazione e a quelli che meritano i ringraziamenti per il tempo e le parole spesi nelle recensioni. Insomma, chiedo venia a tutti, ma la vita ultimamente mi sta strappando l'anima oltre che le energie, per cui, al solito, spero di farmi sentire presto e di ottemperare a tutto ciò che ho lasciato in sospeso. Non vi ho dimenticati! çOç
Detto ciò, smammo prima di prendermi sedie, pomodori e insalate in faccia. oo' Alla prossima!

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