Son of Rome di ArtemisiaSando (/viewuser.php?uid=134075)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo Primo ***
Capitolo 2: *** Capitolo Terzo ***
Capitolo 3: *** Capitolo Secondo ***
Capitolo 4: *** Capitolo Quarto ***
Capitolo 5: *** Capitolo Quinto ***
Capitolo 6: *** Capitolo Sesto ***
Capitolo 7: *** Capitolo Settimo ***
Capitolo 8: *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo 9: *** Capitolo Nono ***
Capitolo 10: *** Capitolo Decimo ***
Capitolo 1 *** Capitolo Primo ***
"Son of
Rome"
Il
fuoco distrugge, il fuoco divora la terra, lascia cenere e polvere
sotto i
calzari, sotto i piedi nudi di chi non può più
vedere, di chi non può più
parlare. Odore di fumo che brucia la gola, odore di legna riarsa, di
tizzoni
spenti dal vento delle montagne. Fuoco che ruggisce, imbrigliato in un
cerchio
di pietre taglienti come i volti affilati, scavati, di chi intorno a
quel fuoco
è sempre vissuto.
Nei
suoi
ricordi passi di danza intorno al bivacco, ritmi incalzanti per chi non
ha più
orecchie per sentire, senza paura incatenando la bestia dalle mille
spire,
salutandola come sorella, rispettandola come padre severo.
La
memoria
svanisce negli occhi bruciati, rimane impressa nella terra, nella
polvere sporca,
dietro gli occhi di chi è rimasto indietro. Trema il
deserto, tremano le
montagne nel rombo di un dimenticato silenzio che inghiotte, nasconde
ricordi
lontani. Ricordo di un tempo che era e mai più
sarà.
Voci
di festa, voci di guerra, voce del vento che spazza la terra. Cancella,
dimentica, ma non tu, non tu che di questa terra devi ancora portare
memoria.
Capitolo Primo
Roma.
I suoi antenati la chiamavano “nido
dell’aquila” quella terra immersa nel sole,
tinta nel verde di mille vallate. Aquile per una terra dolce, generosa,
come
leoni feroci i suoi avi erano stati per le aspre montagne, per gli
immensi
deserti dei suoi ricordi. Denti affilati, cuori taglienti per quella
loro terra
ingrata, madre severa eppure tanto amata.
Aquile,
sì, colpivano e svanivano, dilaniavano e poi tornavano in
alto, in quel loro
covo di grazia e bellezza, rifugio sicuro per chi del sangue ha sporche
le
mani.
Estel
aveva solo quindici anni quando arrivò alla famiglia Titus.
Aveva viaggiato a lungo, lontana da ciò che più
aveva amato e pure dalle terre e dagli uomini che le avevano tolto ogni
cosa.
Aveva
perso la propria famiglia, la libertà e la propria casa in
pochi giorni, aveva masticato polvere e sangue per non cedere anche un
solo istante al dolore, al conforto della morte. Aveva continuato a
lottare aggrappandosi a quella dignità e a quello spirito di
fuoco che da sua madre aveva ereditato.
Eppure
nonostante lo sconforto, la solitudine e la schiavitù la sua
bellezza non era mai sfiorita, una bellezza in cui sua madre poco prima
di morire aveva riposto le sue ultime speranze, augurandosi che
l’avrebbe protetta da quella vita da schiava che invece era
toccata in sorte a molte delle donne del villaggio.
Arrivò
a Roma in un carro. Non imprigionata, ma sedendo a cassetta con lo
straniero che si era incaricato di trattare con le nobili famiglie
della città.
Parlava
un arabo stentato e non la guardò mai negli occhi,
né osò sfiorarla durante il lungo viaggio dalla
Siria. Non che Estel vi avesse prestato molta attenzione.
Ciò che vide in quella città non assomigliava a
nulla che si trovasse impresso nei suoi ricordi di bambina.
Le
donne passeggiavano vestite come regine su quelle strade lastricate di
pietre incredibilmente bianche, i loro gioielli d’oro
tintinnavano e splendevano come soli sui loro volti, sulle braccia
delicate. Persino le schiave vestivano porpora e avevano fili
d’oro intrecciati nelle chiome scure.
Alcuni
uomini vestivano come donne, mollemente seduti in scomode portantine.
Quelli di loro che camminavano a piedi erano circondati da stormi di
ragazze, erano alti, capelli scuri, occhi più chiari di
quelli che era abituata a vedere. Poteva scorgere cicatrici sottili
sulle braccia muscolose e sulle mani rozze, rovinate.
Vide
statue alte come colline, colonne così ampie che sarebbero
serviti tre uomini adulti per abbracciarne il fusto. Sentì
più voci di quante sarebbe riuscita a coglierne in una vita
intera, mentre gli odori si confondevano in una strana armonia che le
diede quasi alla testa.
Il
carretto si allontanò velocemente dal centro della
città, spostandosi dove ancora i campi erano verdi e dove le
terre più ampie appartenevano a chi aveva combattuto guerre
in onore della patria. Uno di quegli uomini era Leontius Titus.
Ritirato
nella pace di quella sua enorme villa alle spalle del Colosseo,
necessitava di ancelle per la sua figlia più giovane,
Giulia. Lo schiavista la istruì su come avrebbe dovuto
comportarsi di fronte alla famiglia, di non parlare né
alzare lo sguardo se non interpellata, regole che facilmente la ragazza
avrebbe potuto seguire visto il suo stentato latino e la totale
mancanza di conoscenze sulla vita di quella enorme, viziata
città.
Il
colloquio fu breve. Contrariamente a quanto avrebbe dovuto fare, Estel
tenne lo sguardo ben alto una volta entrata nella villa lastricata di
marmi bianchissimi e forse fu proprio questo a regalarle la sincera
simpatia del padrone di casa. Un uomo rude, non avvezzo a cortesie e
cerimoniali, la guerra era stata la sua casa, la sua legione la sua
famiglia per troppo tempo ed il corpo stanco né portava
tutt’ora i segni.
Leontius,
oltre la bellissima moglie Septima, possedeva due giovani figli che
Estel guardò, durante tutto il colloquio, con malcelata
curiosità. Giulia aveva la sua stessa età, bella
nell’abito bianco da vergine, i grandi occhi scuri distratti
dai gioielli al proprio polso. Alla destra di suo padre il primogenito,
Marius sembrava già pronto a valicare il fronte di guerra.
Non
c’era tenerezza nei chiari occhi verdi, mentre la osservava
dall’alto di tre scalini di pietra, i corti capelli scuri da
soldato, il viso squadrato, bello e maturo, già appena
sfigurato da leggeri tagli di lama.
Negli
occhi del ragazzo Estel vide la propria rovina, la solitudine a cui era
stata destinata. Conclusero l’affare, decidendo della sua
vita come più loro aggradava e per una volta la ragazza
cedette alla rassegnazione. Era ormai lontana dalle terre di fuoco in
cui era nata, lontana dalla sabbia e dal vento. Non c’era
nulla per lei su quelle verdi colline, solo rimpianto.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Capitolo Terzo ***
Capitolo Terzo
Estel
si tenne alla larga dal peristilio più a lungo che
poté nei due mesi che
seguirono, né Marius diede segno di volerle parlare una
seconda volta. La vita
riprese tranquilla nella fastosa villa romana, Estel poteva ancora
sentire il
clangore delle spade quando attraversava le stanze adiacenti al
ginnasio e
questo le era più che sufficiente.
A
volte
lo vedeva durante i pasti familiari ed i banchetti per gli ospiti, ma
non seppe
mai dire se i chiari occhi verdi ricambiassero il suo sguardo.
Più lontano il
giovane Marius rimaneva da lei, meglio sarebbe stato per entrambi.
Arrivò
l’autunno e con sé portò un fermento
che a stento la ragazza riuscì a
comprendere appieno. All’improvviso Giulia aveva
costantemente bisogno di lei,
riusciva a trascinarla intere giornate nei mercati di stoffe, cercando
la più
morbida, la più colorata da adattare a nuove vesti
invernali. Le cucine
traboccavano di cibo ed ogni singolo servo era impiegato in una
meticolosa
pulizia della villa, ogni tenda andava lavata, cambiata, inamidata.
Ogni
pavimento lustrato a lucido, liberato dalle foglie morte che
s’intromettevano
guidate dal vento che scendeva dalle colline.
Estel
adorava l’autunno, i suoi colori, i profumi, per questo a
volte si attardava
nel cortile rabbrividendo alla brezza della sera, incurante delle
foglie che
s’intrecciavano ai suoi capelli, della polvere che sporcava i
calzari.
Era
una fredda mattina di novembre quando septa Livia la pizzicò
con le stoffe
sbagliate, mentre immergeva fugacemente i piedi nell’acqua
fredda del laghetto nel
peristilio, ormai coperto di foglie sbiadite. Le gridò
talmente forte da farle
dolere le orecchie, mentre le strappava di mano i panni puliti, ma la
ragazza
quasi non l’ascoltava. Avrebbe voluto dirle di ascoltare il
vento invece, di
guardare il cielo limpido di quella mattina piuttosto che concentrarsi
su cose
futili come le stoffe per l’inverno, e la donna
sembrò intuire quella sua
impudenza perché, prima che Estel potesse sottrarsi, aveva
già sollevato la
mano per colpirla.
-
Come osi alzare lo sguardo? Sciocca ragazzina! Barbara impudente!
Capisci
quello che ti sto dicendo? –
Non
chiuse gli occhi, pronta a ricevere il colpo, ma con sua sorpresa la
mano
rimase sospesa a mezz’aria come trattenuta da una forza
invisibile. Quella
forza non era altro che la solida presa di qualcuno, qualcuno con mani
rozze,
grandi, rovinate dall’elsa del gladio e dal legno dei pilum.
-
Non colpirla. – esordì tranquilla la voce che
Estel aveva imparato a conoscere
nei mesi passati alla villa, una voce profonda, raspante eppure gentile
allo
stesso tempo.
In
quel momento dopo mesi di sguardi rubati i profondi occhi verdi del
ragazzo
incontrarono quelli di lei ed Estel quasi si pentì di essere
stata tanto
vigliacca, di aver anteposto le proprie paure ai sentimenti che aveva
provato
quel giorno.
-
Le
barbare portano guai, signore. E questa più di altre! Troppo
bella, l’ho detto
a tua madre, ma non vuole ascoltarmi. È una ribelle, una
piantagrane! E quel
che è peggio non capisce la metà delle cose che
le chiedo! – continuò a
sbraitare la septa agitando il polso nella solida stretta di Marius,
eppure
Estel non aveva orecchie che per il leggero respiro che lasciava il
petto forte
di lui.
-
Sciocchezze e superstizioni. Mia sorella non si è mai
lamentata e tu dovresti
fare altrettanto. Cosa le avevi chiesto? – si
accigliò, ma lo sguardo era fermo
mentre apriva le dita liberando il braccio della donna, segni rossi
dove la
mano si era chiusa qualche istante prima.
-
Un’anfora e lino … LINO, non cotone! –
sbottò lei in risposta massaggiandosi il
polso, gli occhi scuri ancora fissi nei suoi, sfidandola ad aprire
bocca. Marius
non si lasciò impressionare dalla furia della septa,
piuttosto si allontanò di
qualche passo, recuperando un vaso malconcio dal bordo della vasca di
marmo.
-
Ecco la tua anfora. Dirò a qualcun altro di portarti il lino
e ora vai. – la
voce dell’uomo era di nuovo sicura mentre porgeva
l’oggetto alla septa Livia,
congedandola definitivamente. Lei sembrò sul punto di
ribattere, ma gli occhi
verdi di lui, fissi ed orgogliosi sembrarono farla desistere.
-
Si, signore. – biascicò abbassando lo sguardo e,
come era arrivata, tornò sui
propri passi, sparendo nelle stanze aperte.
Estel
guardò il cortile tornare tranquillo e silenzioso, mentre il
ragazzo, più alto
e possente dell’ultima volta che le era stato così
vicino, si accostava a lei.
-
Mi
spiace, non conoscevo la parola. E distinguere le stoffe mi riesce
ancora
difficile. – sussurrò Claudia, lo sguardo dorato
che vagò per un istante fra i
propri occhi e l’acqua sporca ai loro piedi. Sembrava
più bella dell’ultima
volta che l’aveva vista così da vicino,
osservò Marius con un certo disagio.
Eppure non le avrebbe permesso di scappare, non una seconda volta.
-
Non fa niente. Non è colpa tua. La septa sa essere una donna
terribile quando
vuole, ti consiglio di non sfidarla. – rispose lasciandosi
scappare un sorriso,
se non fosse stato troppo grande era sicuro che Livia avrebbe
volentieri dato
qualche scapaccione anche a lui.
-
Non è mia intenzione essere impudente, ma mio padre mi ha
insegnato a non
abbassare mai lo sguardo di fronte a nessuno. –
soffiò sollevando i brillanti
occhi d’oro sui suoi e di nuovo Marius sentì
distintamente il cuore fallire un
battito.
-
Tuo padre è un uomo saggio. – sorrise dissimulando
la tensione, c’era qualcosa
in lei, qualcosa che non esisteva in nessuna delle figlie degli altri
generali
o senatori. Non era solo bella, selvaggia, era anche forte, sveglia e
Marius
era sicuro che nascondesse più doti di quante una vita da
schiava avrebbe mai
potuto permetterle di dimostrare.
-
Lo
era. – annuì la ragazza ed i folti capelli ramati
brillarono di nuovi colori
alla luce del mattino.
-
Quando hai un dubbio chiedi pure a me, non aspettare che alla septa
prudano le
mani. – sorrise lui e ad Estel sembrò il sorriso
più bello e sincero che avesse
mai visto. Lo guardò nei begli occhi verdi e seppe di aver
trovato qualcosa di
più importante del proprio dolore, di più
profondo della paura, più vero della
solitudine.
-
Si. Grazie … – rispose dopo un poco, ma il sorriso
di lui non era scomparso.
Sentì il tintinnio dei bracciali ai propri polsi, ma per una
volta non se ne
curò, era la prima persona a guardarla e non vedere altro
che lei, non una
donna, non una schiava, non un corpo, né denaro.
Estel
sentì nella gola il sapore amaro delle lacrime, ma le
ricacciò indietro. Non
poteva ricambiare quella sua gentilezza, forse non avrebbe mai potuto.
-
Dovere. –
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Capitolo Secondo ***
Capitolo Secondo
La
ragazza si chiamava Estel. L’uomo raccontò che
veniva dalla Siria, l’aveva
strappata alle grinfie di un temibile mercante di schiavi concludendo
un buon
affare.
Disse
che era figlia di uno dei guerrieri che ad est chiamavano Leoni di
Persia, che
era una creatura rara, spirito di vento e fuoco, difficile da domare,
ma Marius
stentò a credere ad una sola parola che uscì
dalle labbra sdentate dell’uomo. Era
bella, bellissima, forse più bella di qualsiasi donna avesse
mai visto a Roma e
quei lunghi capelli color rame, gli occhi grandi e allungati di quel
curioso
colore dell’oro dovevano essere l’unico motivo per
cui aveva rischiato di
essere venduta ad un costoso lupanare.
Come
era d’abito sua madre le diede un nuovo nome latino,
più facile da pronunciare
e da quel momento la ragazza dai grandi occhi d’oro, fra le
mura della villa, rispose
al nome di Claudia.
Non
la vide per giorni dopo la notte del colloquio. Come le altre ancillae
se ne
stava rinchiusa nella parte femminile della casa, comparendo accanto a
sua
sorella solamente durante le ore dei pasti senza mai sedersi alla loro
tavola.
Eppure
Marius sentiva le altre serve mormorare. Barbara la chiamavano
attraverso le
stanze, occhi da sirena e capelli di fuoco portavano sciagura sotto il
loro
tetto, ma Giulia sembrava non badare alle dicerie ed il ragazzo le fu
tacitamente grato. Così com’era sempre stato
insofferente alla politica tanto
lo era nei riguardi della schiavitù. Non aveva visto nulla
del mondo, suo padre
aveva ragione, ma sapeva di popoli che vivevano liberi, senza senatori
né
imperatori, senza schiavi né gladiatori.
Combatteva
perché doveva. Perché era stato deciso prima che
lui nascesse. Diventare centurione,
generale, poi senatore dovevano essere le sue uniche ambizioni. Trovare
una
moglie, darle figli maschi.
Sua
madre rideva ora quando si fermavano ospiti con figlie femmine. Al
ritorno
dalla guerra, diceva sognante, ma le giovani donne restavano lontane,
oltre il
sangue che ribolliva nell’arena, oltre il clangore
dell’acciaio, oltre il
battito assordante del cuore. Guardava i loro gioielli, i capelli
intrecciati
d’oro e si chiedeva quali fossero i loro doveri, se era
sincero l’interesse che
mostravano per lui o solo un compito gravoso.
Arrivò
l’estate ed il suono della voce della ragazza era ancora
sconosciuto alle sue
orecchie, la vedeva aggirarsi nel peristilio durante il giorno, sua
madre le
aveva regalato vesti bianche come quelle che indossava sua sorella
Giulia, ma
c’era un solo fermaglio di bronzo scuro ad ornarle i capelli
lunghissimi.
Aveva
provato più volte ad accostarsi a lei, sapeva di non poterle
parlare, non
avrebbe capito una sola parola ed era certo che Claudia non parlasse
latino. Più
per istinto che per pura consapevolezza, Marius aveva preso
l’abitudine di
lavarsi nel peristilio dopo gli allenamenti con il gladio, dove era
sicuro che
lei passasse ogni giorno.
Una
mattina, sotto il sole d’Agosto, sua sorella Giulia si
accorse di lui. Non
parlavano molto da quando Marius aveva compiuto diciotto anni, eppure
un tempo
erano stati bambini insieme, avevano giocato in quello stesso chiostro
fino a
cadere addormentati nell’erba. Ora lei era una donna in
età da marito e Marius
non aveva che il compito di preservare la sua purezza, uccidendo
chiunque
avesse osato sottrargliela, ma non poteva più ridere con
lei.
-
Che disastro, fratello! – esclamò trattenendo una
risata, forse deridendolo per
la polvere di cui era coperto, ma gli occhi scuri volarono sul taglio
sottile
al suo braccio sinistro.
-
Quella ferita sembra seria, lasciati dare un’occhiata.
– lo rimproverò a labbra
strette, aveva lo stesso volto di sua madre, lo stesso sguardo severo.
-
Non preoccuparti, sorella, è solo un graffio … -
cercò di stemperare il suo
cipiglio, ma già la ragazza stava chiamando la sua ancella
attraverso le
stanze. Colto da un improvviso disagio, Marius si guardò
attorno sperando di
trovare una via di fuga che tardò di un istante a
presentarsi.
Claudia
già avanzava lungo il lastricato di pietra che collegava le
stanze al piccolo
lago del peristilio, se fosse sorpresa da quella strana richiesta non
lo diede
a vedere, continuò invece a guardare entrambi con cauta
curiosità.
-
Claudia, per favore, occupati delle ferite di mio fratello. Sono in
ritardo per
le lezioni con il magistro. – sorrise e quella fu la prima
volta che Marius la
vide ricambiare il sorriso con uno altrettanto bello, altrettanto
sincero.
-
Sei in buone mani, caro fratello. Claudia ha dimostrato una particolare
attitudine come guaritrice. – sorrise Giulia, prima di
scappare in un tintinnio
di costosi gioielli, lasciandolo solo con la ragazza straniera ancora
in piedi
di fronte a lui.
Sembrava
ancora una bambina a guardarla bene, così minuta e delicata,
quasi i lunghi
mesi di prigionia non fossero riusciti a scalfire quella naturale
bellezza.
Tanto esile che le proprie braccia avrebbero potuto cingerla
completamente,
spezzarla se solo Marius avesse voluto.
-
Io
… mi chiamo Marius. – esordì nel
silenzio leggero che si era creato, appena
stordito da quel sorriso che ancora aleggiava sulle labbra piene e
rosee della
ragazza.
-
Conosco il tuo nome, signore. – rispose lei in un latino
insicuro, una voce
delicata come il ruscello dell’acqua più limpida,
le labbra che si schiudevano
sui denti bianchissimi quasi a canzonarlo.
Marius
fece fatica a guardarla nei grandi occhi d’oro, belli come il
sole al tramonto e
quasi non si accorse del rispetto che avrebbe dovuto esigere da lei,
della
differenza fra le loro condizioni. Sembrava ancora libera, fiera
nonostante i
bracciali da schiava e i sandali sporchi di chi non cammina solo sul
marmo.
-
Ma
certo. – sorrise sedendosi sulla stretta panchina di pietra
ai piedi della
bassa fontana, aspettando che la ragazza lo seguisse. Vide il lino
morbido
muoversi sulle curve del suo corpo e per un istante si
vergognò di aver
immaginato che cosa nascondesse.
Non
parlarono ancora mentre la ragazza bagnava con poca acqua uno dei panni
bianchi
che aveva portato con sé, passandolo con attenzione sulla
ferita aperta alzando
lo sguardo di tanto in tanto come ad accertarsi che non gli stesse
facendo del
male.
Era
la prima volta che Marius poteva osservarla con attenzione dopo mesi
che
abitavano sotto lo stesso tetto, e quasi se ne pentì.
Era
davvero bella, pensò sbirciando la linea delicata del collo,
il viso appena più
scuro di quello delle altre donne romane. C’era qualcosa di
selvaggio e al
tempo stesso elegante nella lunga, folta chioma ramata, ricadeva con
naturalezza oltre le spalle strette, il viso libero grazie al piccolo
fermaglio
in semplice bronzo, eppure sembrava ancora la più bella fra
le regine mentre le
labbra piene si schiudevano piano ad ogni respiro.
Poteva sentirlo su di sé, lambire la spalla
nuda, più delicato di qualsiasi vento primaverile.
La
ragazza aveva lo stesso odore dei piccoli fiori selvatici che
crescevano
intorno all’arena, così fragili
all’apparenza eppure avevano la capacità di
nascere e fiorire anche fra le pietre che lastricavano le vie di Roma.
La
guardò quietamente, a lungo, prendersi cura di quelle sue
ferite. Non aveva
bisogno di parlarle, voleva solo che rimanesse seduta su quella
panchina,
ancora un po’.
Quante
volte l’aveva osservato di soppiatto lavarsi nel peristilio,
chiedendosi che
odore avesse la sua pelle, quale fosse il rumore del suo respiro ed ora
che era
lì, Estel faceva fatica a sollevare lo sguardo.
Nonostante
quei bracciali ai propri polsi non provava risentimento verso di lui
come lo
aveva provato verso il mercante che l’aveva comprata o verso
gli schiavisti che
per mesi l’avevano tenuta prigioniera. Marius Titus era un
uomo onesto e
coraggioso, poteva vederlo in quei chiari occhi verdi, pieni di una
fiducia che
non esisteva il giorno in cui lo vide la prima volta.
Non
era solo bello, era alto, forte, fiero eppure le mani ruvide di chi
impugna
solo la spada giacevano abbandonate sulle cosce seminude quasi
stentassero ad
afferrare le sue. Per un folle attimo pensò di toccarle,
prenderle fra le
proprie, ringraziarlo per quel respiro tranquillo, quello sguardo pieno
di
tenerezza, invece rimase concentrata sulla sottile ferita al braccio
sinistro
del ragazzo.
La
pulì attentamente, in silenzio, accertandosi di non fargli
del male e solo
quando ebbe finito lo sguardo volò involontariamente sul
resto del corpo forte
e piazzato. Fu solo per caso che notò un secondo taglio che
sanguinava sul
petto, all’altezza del cuore.
Lo
sfiorò istintivamente, con la sola punta delle dita, ma
quello che sentì bastò
a farla desistere. Sarebbe scappata immediatamente se solo il giovane
soldato
non avesse allacciato lo sguardo al proprio.
Colto
in fallo da quel contatto improvviso, Marius non riuscì
più a nascondere il martellare
del cuore iniziato nel momento in cui la ragazza si era seduta
delicatamente
accanto a lui.
Sembrò
sinceramente sorpresa nel momento in cui, retraendo immediatamente la
mano,
incontrò il suo sguardo. Aveva gli occhi più
strani ed al contempo più
incredibili che Marius avesse mai visto. Sapeva che alcune barbare
avevano
iridi del colore del cielo, alcune addirittura color ametista, ma non
sapeva di
nessuno che possedesse occhi del colore dell’oro puro.
Brillarono
come stelle alla luce del mattino, mentre il viso si colorava appena.
Per un
attimo pensò che trattenerla, prenderla fra le braccia fosse
la cosa giusta da
fare, ma qualcosa nel fondo di quelle iridi confuse lo convinse del
contrario.
Non
durò che un istante, eppure Estel era sicura di aver
distintamente percepito
sotto la punta delle dita le forti pulsazioni del cuore di lui. Non
seppe dire
se a spaventarla di più fossero state le conseguenze di quel
gesto o il fatto
che lo stesso tumulto si fosse impossessato anche del suo cuore, ma
l’istinto
di scappare fu più forte di quei gentili occhi verdi e in un
attimo stava già
attraversando a ritroso il sentiero del chiostro, lontana ormai dalla
panchina
di pietra.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** Capitolo Quarto ***
Capitolo Quarto
S’incontrarono
molte volte nei mesi che seguirono. Durante le ore morte, con il freddo
e con
la pioggia, presero l’abitudine di vedersi nel cortile,
lontani da occhi
indiscreti. All’autunno seguì l’inverno,
all’inverno un’altra primavera ed
un’altra estate ancora.
Marius
le insegnò più parole di quante la ragazza avesse
mai potuto immaginare di
poter imparare in una sola vita e lei le regalò il suo
tempo, i suoi sorrisi e
la sua dedizione. Imparò a conoscerlo, a leggere qualsiasi
cosa attraverso i
chiari occhi verdi e così lui
l’ascoltò, in silenzio, senza paura la
lasciò
parlare di sé, del proprio passato, di quello che voleva
ricordare.
Tutto
il proprio tempo libero dagli allenamenti con suo padre Marius lo
passava con
lei, dimenticò l’esistenza delle altre donne,
perse interesse verso le loro
abitudini frivole, i gioielli tintinnanti ed i capelli raccolti. La
guardava e
sapeva di aver trovato un compagno, qualcuno che capisse a fondo i suoi
doveri
e le proprie paure.
A
volte leggeva per lei, insegnandole quando poteva e la ragazza lo
lasciò
entrare, lo lasciò guardare i tesori che nascondeva. Non lo
rifiutò la notte
che, per caso, la scoprì a cantare nel peristilio desolato
canzoni imparate
durante le lezioni di sua sorella Giulia. Si abituò alla sua
presenza, cantò
per lui più volte di quante il ragazzo riuscisse a
ricordare, i piedi immersi
nell’acqua fredda del laghetto e lui sdraiato sulla panchina
alle sue spalle.
La
sua voce, prodigiosamente delicata quanto quella di sua sorella era
stentata e
sofferente, leniva le sue preoccupazioni, allontanava il dolore
pungente dei
muscoli e dei tagli sul corpo. Vedeva la linea gentile del collo oltre
la
treccia ramata e riusciva ad illudersi che sarebbe durato per sempre,
che
sarebbe rimasta al suo fianco. Se solo glielo avesse chiesto.
S’innamorò
di lei prima di potersene accorgere.
L’amò
in silenzio per mesi, con una tranquillità che il suo cuore
non aveva mai
conosciuto. Non seppe mai dire quando i suoi sentimenti erano diventati
tanto
veri, tanto profondi, ma di nuovo la primavera era tornata per la terza
volta
da quando si erano conosciuti e l’allenamento di Marius era
volto al termine.
Aveva
sempre saputo di dover partire, di dover dire addio a tutto
ciò che aveva
sempre amato e conosciuto, e, nonostante l’emozione di poter
finalmente servire
l’impero come suo padre prima di lui, la salutò
con la morte nel cuore.
-
Parto domani mattina. – le disse una calda notte di maggio,
la voce più roca di
quanto ricordasse.
-
Lo
so. – sorrise dolcemente la ragazza al suo annuncio, quasi
fosse sempre stata
pronta, ma Marius poteva vedere un’ombra leggera nel fondo
delle iridi d’oro,
qualcosa che Claudia non avrebbe mai confessato.
Non
erano mai stati così vicini come ora che si sarebbero
separati per un tempo
indefinito, Marius avrebbe voluto toccarla, prenderla fra le braccia,
ma aveva
paura di un suo rifiuto più di qualunque gladio affilato.
-
Starò bene. Ma tu promettimi di impegnarti, di dare tutto te
stesso. Sei l’uomo
più forte e coraggioso che abbia mai conosciuto, dimostralo
al mondo. –
continuò con un filo di voce, stava sorridendo, ma poteva
sentirla tremare.
-
Lo
prometto. – sussurrò Marius, curiosamente vicino
alle labbra rosee della
ragazza, per la prima volta il respiro di lei scaldò le sue
labbra, aveva
aspettato anni per quel bacio anche se cosciente che, una volta dato,
non
sarebbe mai più tornato indietro. Sarebbe rimasto con lei,
insieme a quel suo
cuore che batteva disperato nel petto.
Estel
quasi si abbandonò a quel calore, alla luce ardente dietro i
profondi occhi
verdi, ma non gli avrebbe mai fatto qualcosa di tanto crudele. Non
l’avrebbe
legato a sé per scoprire di non poterlo avere, di doverlo
guardare vivere e
morire inseguendo qualcosa di effimero, di inaccettabile. Nutriva
troppo
rispetto per Marius e per la sua famiglia.
Lo
amava così forte eppure era l’unico uomo che non
sarebbe mai stato suo.
-
No
… non possiamo. Non sarebbe giusto. – sorrise
appena, faceva male, ma guardò
gli occhi di lui abbassarsi, un sospiro lasciare le labbra chiare e
piene. Lo
sapeva, lo sapevano entrambi.
-
Hai ragione. – rispose il ragazzo con la voce bassa, profonda
da uomo qual’era
diventato ed Estel si stupì di quanto quelle parole
l’avessero ferita. Che cosa
si aspettava? Che andasse contro tutto ciò che conosceva per
amarla? Di nuovo
stava solo sognando.
-
Addio … Estel. Ti prego, abbi cura di te e di questa casa.
– si allontanò a
malincuore, nonostante riconoscesse l’assennatezza di quelle
parole non poté
negare quanto profondamente l’avessero ferito. La ragazza non
rispose,
limitandosi ad annuire, un sorriso che ancora aleggiava sulle labbra
rosee ora
distanti come erano sempre state.
Lo
guardò darle le spalle e allontanarsi dal cortile fino a
sparire all’interno
della villa. Quelle spalle larghe, forti, sembrava potessero sopportare
il peso
del mondo intero ed Estel sapeva che sarebbe stata l’ultima
volta che le
vedeva.
-
Addio … - ma non poté fermare le lacrime
ascoltando i passi decisi degli
schinieri sul marmo, lo stava lasciando andare.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** Capitolo Quinto ***
Capitolo Quinto
Non
gliel’avrebbe mai detto, ma quell’addio velato di
lacrime Marius riuscì a
sentirlo e lo portò con sé negli anni a venire
come un amuleto, un tesoro che
nessuno avrebbe più potuto sottrargli.
Partì
sotto il sole di Maggio, la famiglia che lo salutava dai pochi gradini
di marmo
del cortile esterno dopo aver distribuito a ciascuno un lungo
abbraccio, tranne
lei. La vide sorridere in uno sguardo fugace dietro le spalle di sua
sorella
Giulia, i brillanti occhi d’oro chiari come pietre al sole
del mattino, ma non
disse una parola. Sollevò una sola mano per salutarlo forse
per anni, forse per
sempre.
Cosa
poteva dirle se non poteva neppure confessarle quel suo amore mancato?
Avevano
compiuto una scelta.
Marius
trascorse tre lunghi inverni come legionario del terzo reggimento nella
provincia a cui era stato assegnato. Tenne fede alla promessa che le
aveva
fatto distinguendosi per forza e dedizione, guadagnandosi il rispetto
di
compagni e superiori con le proprie doti di soldato e con la saggezza
che suo
padre gli aveva trasmesso.
Alcuni
giorni erano buoni, altri meno. Nonostante stesse finalmente mettendo
le prime
pietre sulla strada che sempre per sé aveva voluto costruire
sentiva la
lontananza diventare via, via più pesante. Riceveva molte
lettere da sua madre,
ma nessuna recava mai il nome di Claudia, né lasciava
intuire che fosse ancora
con loro.
L’amore
che pazientemente, per anni aveva custodito come un gioiello prezioso
stava
cedendo il posto al dubbio. Cercò di prepararsi al peggio,
mentendo
spudoratamente pur di nascondere l’inquietudine, eppure si
sentiva a disagio
quando i suoi compagni parlavano dell’amore lasciato in
patria, delle mogli ad
attenderli nel talamo. Marius aveva amato una sola donna, ed era anche
l’unica
che non sarebbe mai stata sua.
La
notizia del suo temporaneo congedo arrivò una mattina di
Giugno. Prima di
venire riassegnato ad Alessandria d’Egitto avrebbe ottenuto
un mese di congedo
per tornare in famiglia, premio per la condotta eccellente e la
straordinaria
dedizione.
Per
prima cosa scrisse a suo padre comunicandogli la notizia che sarebbe
tornato a
breve, poi poté finalmente tornare a sperare.
Approdò
a Roma verso la fine del mese e, con l’armatura ancora
indosso si diresse verso
la villa. Era tutto proprio come lo aveva lasciato tre anni prima,
persino le
porte incautamente aperte sulla strada.
Vide
suo padre di spalle sulla soglia e per attimo assaporò
l’istante in cui
l’avrebbe riconosciuto. Quasi mise mano al gladio Leontius
nel voltarsi,
cipiglio che mutò in sorriso quando Marius avanzò
nella luce del mattino.
-
Padre … -
-
Marius? – esclamò l’uomo in risposta,
quei tre anni non erano stati clementi
con lui, sembrava più vecchio, più stanco.
-
E’
bello rivederti. Allora, come ti sembro? Un vero soldato romano?
– ghignò
Marius facendosi avanti, l’elmo ancora sotto il braccio
destro.
-
Ti
trovo bene, figlio mio. Bentornato a casa. Bentornato a casa.
– sottolineò con
un abbraccio strappandogli un largo sorriso, non c’era nulla
al mondo che
avrebbe potuto ripagarlo più dell’orgoglio di suo
padre. L’uomo che più aveva
stimato ed amato. Si lasciò guardare un istante assaporando
ancora quello
sguardo, sapeva quanto fosse fiero di lui e non poteva che esserne
grato.
-
Sai già dove sarai riassegnato? –
-
Alessandria. – rispose con un cenno d’assenso, non
che ne andasse davvero
fiero.
-
Ah, Alessandria. È una provincia piuttosto pacifica. Tua
madre ne sarà felice.
– sorrise suo padre riprendendo a camminare, quella scelta lo
irritava, era
difficile nasconderlo.
-
Non mi sono arruolato per crogiolarmi al sole, padre. Voglio
combattere. Come
hai fatto tu. Per l’Impero. – si
affrettò a dire, ma Leontius sembrò quasi
preoccupato nonostante il fiero sorriso sul volto stanco.
-
A
tempo debito, figlio mio. A tempo debito. – sorrise
afferrando saldamente il
suo braccio, avvicinandosi come a sussurrare qualcosa.
-
Ricorda, non tutti i nemici si trovano sul campo di battaglia.
–
-
Padre? – questa volta Marius rimase sinceramente stupito, suo
padre sembrava
sapere più di quanto in realtà non volesse
raccontare e la cosa lo preoccupò
non poco.
Passi
leggeri sul marmo tirato a lucido allontanarono l’attenzione
di entrambi
dall’argomento. Marius non trattenne un largo sorriso vedendo
sua madre
affrettarsi attraverso il cortile, chiamando il suo nome quasi fosse
stata la
sua gemma più preziosa.
La
tenne stretta per un lungo istante quando la donna si gettò
fra le sue braccia
aperte, inspirandone il familiare profumo d’olio di lavanda,
il suo preferito
sin da quando era bambino.
-
Lasciati guardare. – sorrise percorrendo avidamente il suo
corpo con i chiari
occhi nocciola, a differenza di suo padre quel suo temperamento solare
ed
aggraziato non era mutato in quei lunghi anni d’assenza.
-
Così attraente … - ammiccò poi con un
cenno del capo, la mano piccola e tiepida
che già volava verso il suo viso, una carezza per cui Marius
ormai si sentiva
troppo maturo, con un fine che non era più compatibile con i
propri sentimenti.
-
Madre, ti prego … - si schermì rimproverandola
con dolcezza, allontanando la
mano di lei dal suo viso, cosa che non sembrò disturbarla.
-
Tua sorella sarà ansiosa di vederti. –
continuò afferrando saldamente le dita
di Marius fra le proprie, costringendolo per un istante al proprio
passo,
almeno finché suo padre non la fermò.
-
La
vedrà presto, amore mio. Per adesso vorrei parlare con
nostro figlio, da solo.
– sorrise, ma il suo tono era perentorio, qualcosa a cui
Marius sapeva non
potevano seguire repliche.
-
Bene. Andrò a cercare tua sorella. Sono sicura che anche
Claudia sarà felice di
vederti. – annuì gentilmente, regalandogli uno
spiacevole tuffo al cuore. La
guardò allontanarsi con una sensazione che nulla aveva mai
evocato prima negli
ultimi tre anni.
-
C’è qualcosa che ti turba, padre? –
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Capitolo Sesto ***
Capitolo Sesto
Septima
irruppe nella stanza del cucito con una foga che, nonostante il
sorriso,
raramente la contraddistingueva. Guardò Giulia negli occhi
scuri, le labbra
rosee aperte sui denti bianchissimi.
-
Tuo fratello Marius è tornato. – il tonfo sordo
della spola sfuggita alle dita
di Estel non sembrò turbare nessuna delle due donne della
famiglia, invece
risuonò ad una strana lentezza nella mente della ragazza.
Fu
difficile nascondere il martellare del cuore sotto la leggera veste
azzurra,
mentre Giulia scoppiava in un risolino di gioia andando ad unirsi
all’impazienza
della madre.
-
Dov’è ora? –
-
In
cortile, sta parlando con tuo padre. – esclamò
Septima sistemando i folti
capelli scuri della figlia dietro un orecchio, rischiando di rovinare
la
delicata acconciatura. Le parole giunsero ovattate alle orecchie di
Estel, lui
era lì. Tre anni era trascorsi, tre anni di lontananza, di
sentimenti nascosti,
d’immensa solitudine.
Eppure
per un curioso istinto di sopravvivenza la paura, il dubbio presero
immediatamente il posto dell’emozione, dell’attesa.
Aveva
passato mesi a convincersi che Marius non sarebbe tornato, che nulla
l’avrebbe
riportato da lei, ed ora che si trovava più vicino di quanto
non fosse stato
nei suoi sogni, Estel si sentì perduta. Quei tre anni erano
stati estremamente
lunghi, così lunghi che non poteva che averla dimenticata.
-
Claudia. Claudia! Non stare lì immobile! Vieni a salutare
mio fratello. Gli
farà di sicuro piacere rivederti. – la
esortò Giulia con quel sorriso ancora da
bambina, avrebbe voluto accontentarla, ma il cuore che batteva
all’impazzata
quasi impediva ai piedi di muoversi.
-
Si, arrivo subito. – sorrise in risposta mentre loro la
precedevano verso il
cortile. Sembrò infinito quel tragitto che separava il
gineceo dall’ingresso,
eppure non abbastanza da permetterle di pensare a qualcosa di adatto da
dire.
Poi
le stanze si aprirono sulla luce del mattino, sui gradini dove tre anni
prima
gli aveva detto addio. Giulia e sua madre si trovavano già
ai piedi delle scale
di marmo bianco nascondendole per un istante la forma alta e piazzata
che ben
ricordava.
-
Claudia … - la chiamò poi con un sorriso e quasi
la ragazza dimenticò il
dolore, la solitudine che l’avevano accompagnata nei lunghi
anni d’attesa.
-
E’
bello rivederti. – la salutò Marius con un nodo in
gola senza saziarsi di
guardarla. Quei tre anni le avevano regalato una grazia ed una bellezza
che a
stento l’uomo riuscì a comprendere appieno.
-
Lo
stesso vale per me. –
Il
cuore batteva al ritmo di cento colpi di scudi, ma nel leggero sorriso
sulle
labbra chiare e piene di lei non riuscì a cogliere i
sentimenti dai quali era
animato tanto fugace fu lo sguardo che poté riservarle.
-
Vieni, Marius. Sarai affamato, faccio preparare il pranzo. –
lo esortò sua
madre, le dita di nuovo aggrappate al suo avambraccio, ma non
riuscì a muovere
i piedi improvvisamente diventati piombo di fronte alla donna che per
anni
aveva animato i suoi sogni.
-
Fate strada, sono subito dietro di voi. – sorrise dolcemente,
tornando a posare
lo sguardo sulle brillanti iridi d’oro. Per un istante
temette che Claudia li
avrebbe seguiti, lasciandolo solo, invece rimase immobile sul ciglio di
quell’ultimo basso gradino.
-
Bentornato. – rise appena, ma Marius poteva sentire la voce
delicata di lei
tremare mentre le mani si stringevano nervosamente l’una
nell’altra. Era
talmente bella, così tanto l’aveva desiderata che
quasi cedette all’impulso di
darle quel bacio che gli era stato negato al loro addio.
La
guardò per un lungo istante godendosi quel leggero silenzio,
i sentimenti di
cui era impregnato e capì che sarebbe stato impensabile
partire ancora senza
averle detto ciò che aveva agitato il suo cuore in quegli
anni.
-
Marius … - lo chiamò con un filo di voce, la mano
che già, esitante sfiorava il
suo viso, i capelli più corti, meno curati, la barba
incolta. Questa volta non
si sottrasse alle carezze di quella mano piccola e tiepida, ma si
abbandonò a
quel tocco, al suo calore.
-
Sei davvero tu. Sembri … diverso … -
Rise
appena. Osservò il corpo più alto, più
muscoloso nell’armatura da legionario,
la guardò riflettere i raggi del sole e non poté
che chiedersi se l’avrebbe
protetto abbastanza.
Doveva
essersi rotto il naso durante l’apprendistato,
notò con un sorriso. La barba non
era rasata tanto accuratamente come quando viveva a Roma, i capelli
erano
leggermente più corti, più ribelli eppure gli
occhi, quei profondi occhi verdi,
di cui per primi Estel si era innamorata, erano rimasti gli stessi.
Ardenti,
impazienti ed allo stesso tempo gentili, pieni di una tenerezza che
nessun
altro uomo a parte suo padre le aveva mai riservato.
-
E
tu sei ancora più bella dell’ultima volta.
– ribatté Marius, forse in maniera
troppo ardita, ma il cuore della ragazza già stava correndo
nel petto quando
l’uomo coprì leggermente la sua mano con la
propria, grande e calda.
Attirandola a sé, al proprio petto.
Nonostante
il freddo dell’acciaio Estel poté avvertire
distintamente il tepore del corpo
di lui, le forme ampie e forti adattarsi alle proprie, il petto
prendere
respiri più profondi mentre la stringeva delicatamente.
-
Mi
sei mancata. – sussurrò nell’incavo
della sua spalla e di nuovo la ragazza poté
godere di quel respiro tiepido, intenso sulla pelle dopo anni di sogni
e vane
promesse.
Schiuse
le labbra per rispondere, per non rendere vano il battere frenetico nel
petto
di lui, ma la voce di Giulia la costrinse ancora una volta a rinunciare.
-
Fratello? Fratello, sbrigati! – lo chiamò
attraverso le stanze, sciogliendo
l’abbraccio, lasciandola di nuovo sola con i propri
sentimenti. Gli occhi verdi
dell’uomo la guardarono esitanti, forse aspettando parole che
non vennero mai.
-
Va
da lei. - sorrise
invece abbassando lo
sguardo dorato, ma poteva sentire la propria voce tremare appena,
troppo a
lungo aveva atteso per quell’abbraccio rubato, troppo a lungo
aveva lasciato
che quei sentimenti crescessero ed erano l’unica cosa che
avrebbe potuto
ferirlo davvero.
Non
rivide Marius quel giorno. Preferì non assistere al pranzo
della famiglia Titus
e non volle passeggiare nel chiostro durante il resto della giornata,
assistendo invece Giulia nelle sue mansioni quotidiane non
più disturbate dalla
presenza del fratello.
Di
nuovo la ragazza sentì tintinnio d’acciaio
provenire dal ginnasio e per un lungo
istante rimase in ascolto. Appiattita contro una delle fredde colonne
in marmo
ascoltò Leontius incitare calorosamente il figlio, il
cozzare sordo degli
scudi, il rumore degli schinieri sul marmo, il respiro pesante
dell’uomo che
amava e per un istante pensò che il cuore sarebbe scoppiato.
Non
c’era altra cosa al mondo che desiderasse, ed al contempo che
la facesse
soffrire allo stesso modo. Se non fosse stata tanto egoista avrebbe
pregato per
la sua felicità, perché la sua vita fosse sicura,
non avrebbe trattenuto il
respiro dietro quella colonna cercando d’ingoiare quelle
amare lacrime.
_________________________________________________________________________________________
Scusate
se fino ad ora sono stata solo ad osservare senza farmi sentire, ma non
sono avvezza a prendermi questi piccoli spazi. Volevo però
ringraziare dal prondondo del cuore tutti i miei lettori e coloro che,
seppur silenziosamente, hanno inserito la mia storia fra le seguite o
le preferite. So che questo è un fandom quasi del tutto
sconosciuto (soprattutto al pubblico italiano) quindi ci tenevo molto a
ringraziare tutti quelli che mi stanno ancora sopportando! Spero la
storia vi stia piacendo, ma soprattutto che stia riuscendo a
coinvolgervi e appassionarvi. Con tutto il mio affetto, grazie.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Capitolo Settimo ***
Capitolo Settimo
La
villa era ormai buia e silenziosa, quasi abbandonata quando decise di
tornare
nel peristilio. L’acqua del laghetto tiepida intorno ai suoi
piedi nudi, non
c’erano foglie sulla superficie argentata, nulla che facesse
rumore oltre il
proprio respiro, fin quando passi leggeri alle sue spalle non la
costrinsero a
voltarsi.
Il
tempo sembrò riavvolgersi sulla figura in ombra accanto alla
panchina di pietra
bianca, quegli anni non erano ancora trascorsi se non sulle spalle
larghe, sul
petto forte, sul volto più maturo.
Eppure
le vesti rimanevano le stesse, quel rosso carminio così
intonato al chiaro
verde degli occhi di lui.
-
Non speravo più di trovarti qui. – sorrise appena,
le labbra piene che si
aprivano sui denti bianchissimi, eppure le braccia ancora abbandonate
lungo i
fianchi stretti.
-
Sono sempre stata qui, non me ne sono mai andata. – rispose
in un soffio,
consapevole di quello che il suo cuore aveva voluto comunicare,
lasciandolo
andare per una volta. Lo guardò avvicinarsi di un passo, i
brillanti occhi
verdi fissi nei propri alla luce tenue della sera. Le tese una sola
mano,
quelle dita ferite, rovinate eppure così familiari che
avrebbe potuto narrarne
a memoria forma e calore.
L’afferrò
senza esitazione, lasciandosi aiutare, lasciando che quel tepore
tornasse
dov’era sempre stato, nel più profondo del suo
cuore.
Erano
di nuovo vicini, come la notte in cui si erano detti addio, lo stesso
silenzio,
gli stessi miti sentimenti eppure questa volta le labbra di Marius
erano
distese in un gentile sorriso. Avrebbe preferito non tenere per
sé quei
segreti, lasciarlo entrare eppure per ogni tocco che lasciava sul suo
viso
sentiva il proprio cuore allontanarsi, non tornare mai più.
Lo
ascoltò respirare per un lungo istante, osservò
il petto largo alzarsi ed
abbassarsi come un mantice, poi senza poter resistere permise ancora
una volta
alla propria mano di raggiungere le guance ispide, tiepide anche alla
brezza
della sera.
-
Hai più cicatrici di quando sei partito. –
osservò con un sorriso solcandole
piano con le dita, una ad una, piccole venature chiare ora
attraversavano il
dorso del naso, la guancia destra, il mento deciso ed il sottile labbro
superiore.
Marius
non si sottrasse al tocco delicato delle dita di lei, lo stesso che
ricordava,
lo stesso di quella mattina d’agosto. Anni fa le avrebbe
raccontato ogni cosa,
ogni storia dietro quelle sottili cicatrici, ma ora il cuore gli
impediva di
parlare. Voleva solo che non finisse, che la ragazza non allontanasse
la mano
dal suo viso.
-
Credevo che non ti avrei rivisto mai più … temevo
che mi avessi dimenticata. –
la sentì sussurrare, la voce delicata tremava appena mentre
le dita tiepide di
lei percorrevano il suo volto, le sue labbra.
-
Non
ho fatto altro che pensare a te in questi tre anni, Estel …
- gracchiò
prendendo un respiro, era difficile parlare di quei suoi sentimenti
troppo a
lungo annegati nella polvere e nel sangue.
Godette
per un istante dell’espressione sorpresa di lei, dei grandi
occhi d’oro
diventare brillanti di lacrime e sentimenti. Non c’era
più nulla ormai che
avrebbe potuto allontanarla dal suo cuore.
-
Io
… ti avrei aspettato per sempre … Marius.
– l’uomo osservò le labbra rosee
schiudersi ad ogni parola e faticò a tenere a bada
l’istinto di stringerla a
sé, eppure allungò a sua volta una mano verso di
lei, verso i lunghi capelli
ramati.
Rimase
quasi ferito dalla reazione della ragazza quando quella si ritrasse
appena,
rifiutando il suo tocco.
-
Hai paura di me? – chiese accigliato, la mano ancora sospesa
a mezz’aria,
quella di lei sul proprio petto.
-
Ho
paura perché so che se tu mi toccassi ora, non tornerei
più indietro. –
sussurrò scuotendo appena il capo, gli occhi di lupo velati
di lacrime che non
caddero mai quando istintivamente, in un battito di ciglia, Marius
premette le
labbra su quelle di lei, calde come le aveva sempre immaginate,
affondando le
dita nei morbidi capelli ramati.
La
baciò a lungo, istintivamente, profondamente, con
un’urgenza che non era mai
esistita in nessuno dei suoi pensieri. Lasciò che i respiri
della ragazza si
confondessero ai propri, avvertì il corpo esile di lei
adattarsi al suo più
alto, più forte, scoprendo quanto di lei poteva sentire,
ogni respiro, ogni
battito del cuore.
Era
strano quanto quel bacio, seppure a lungo atteso, rubato, sembrasse
stranamente
naturale, quasi fosse sempre esistito solo che nessuno di loro poteva
ricordarlo. Estel chiuse gli occhi d’oro lasciando che quel
profumo
s’insinuasse a fondo in posti dimenticati del suo cuore e
della sua memoria.
Le
mani di lui scottavano sulle sue spalle nude, fra i capelli sciolti,
ruvide
eppure delicate nello stesso tempo, quelle mani che troppo a lungo
aveva
esitato a stringere fra le proprie.
Lo
ascoltò respirare, sempre più in fretta mentre la
lingua calda raggiungeva la
propria, leccandola lentamente, disperatamente. Si strinse alla schiena
ampia,
forte e per un istante credette che sarebbe durato per sempre, che ci
sarebbe
stato posto anche per lei in quella sua vita da soldato, da uomo del
popolo.
-
Chi è là? – l’eco
dilagò come acqua nel silenzio del piccolo cortile facendola
sussultare. La rauca voce femminile proveniva dalle stanze del gineceo
immediatamente affacciate sul peristilio, costringendoli ad
interrompere il
bacio.
-
La
septa … ci avrà sentiti parlare. –
sussurrò Estel sulle labbra di lui, eppure
non riuscì a trovare nei suoi occhi, sul suo volto la stessa
preoccupazione che
stava animando i suoi pensieri. Possibile che Marius fosse pronto a
mostrare al
mondo ciò che la ragazza aveva paura di confidare persino a
se stessa?
-
Corri. – fiottò lui afferrandole la mano,
costringendola a tenere il suo passo,
eppure Estel avrebbe giurato di aver visto l’ombra di un
sorriso sulle labbra
chiare.
Corsero
attraverso le stanze aperte sul peristilio, ma in direzione
diametralmente
opposta dalla quale era giunta la voce della septa Livia. La ragazza
non era
mai stata nella parte maschile della villa, eccetto poche occasioni.
Mentre
correvano l’architettura le sembrò la stessa del
gineceo dove aveva trascorso
quei lunghi anni al servizio della famiglia Titus, ma con dei dettagli
differenti.
Gli
affreschi non ritraevano più gloriosi banchetti, aggraziate
danzatrici o scene
di vita quotidiana, ma uomini battersi per la gloria, per la giustizia,
per la
vittoria. Dei immobili vigilavano su eroi insanguinati, qualcosa che
istintivamente le trasmise una strana repulsione.
Si
fermarono in fondo al lungo corridoio di marmo, nell’unica
stanza non più
affacciata sul cortile ma sull’intera città.
Sentì Marius riprendere fiato,
mettersi in ascolto, più divertito che realmente spaventato,
eppure il suo
sguardo era stato ormai rapito da ciò che, in silenzio, si
stagliava contro i
drappeggi della finestra.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Capitolo Ottavo ***
Capitolo ottavo
Aveva
visto molte volte il Colosseo accompagnando Giulia durante le sue
passeggiate,
ma mai da quella distanza. Era bellissimo ed angosciante allo stesso
tempo,
troppo sangue veniva sparso ogni giorno nell’arena polverosa,
troppo a lungo i
cittadini avevano osservato divertiti poveri uomini dilaniarsi per
riavere una
libertà che spettava loro di diritto.
-
Avevo dimenticato quanto bella fosse la vista. - sorrise Marius alle
sue
spalle e d’un tratto Estel capì. Molte volte in
quegli anni si era chiesta che
cosa pensasse il ragazzo nella solitudine di quella stanza ed ora che
era lì si
sentì perduta. Quante cose non sapeva di lui, quante non ne
aveva volute
conoscere e se ne accorse guardandosi intorno. La mobilia era semplice,
spartana, come si era sempre immaginata.
Accanto
all’entrata una serie di pilum faceva bella mostra di
sé, seguita da un unico
ripiano di pregiato marmo nero su cui erano appoggiati in perfetto
ordine una
serie di gladi. Il più piccolo e consumato era in scuro
legno di ciliegio,
l’ultimo era quasi di una spanna più grande, di
perfetto acciaio levigato.
Sulla
stessa parete tre scudi giacevano appesi, il primo rotondo, scheggiato,
poi
via, via più grandi fino all’ultimo, squadrato,
enorme, con cui l’aveva visto
più volte tornare dal ginnasio prima della sua partenza.
Il
letto era ampio, ma semplice, in legno laccato con drappeggi color
porpora, ma
senza gli intarsi che decoravano quello di sua sorella Giulia, ai piedi
del
quale si trovava un unico grande baule dai lati rinforzati.
Avrebbe
voluto chiedere molte cose ed al tempo stesso scappare, impedirgli di
spezzarle
il cuore con promesse che nessuno dei due avrebbe potuto mantenere,
eppure
nient’altro che un sorriso salì alle sue labbra
quando si voltò per incontrare
ancora i chiari occhi verdi di lui.
-
Perché avevi paura della septa, Estel? – chiese
poi accigliato ed Estel capì
che anche questa volta non avrebbe mai potuto ricambiare quel suo
coraggio,
quella sua gentilezza.
Marius
vide le mani di lei stringersi istintivamente ai bracciali di bronzo,
lo
sguardo dorato che si allontanava per tornare fisso nella notte
stellata. Quel
gesto pesò sul suo cuore come un macigno, non
c’erano parole che avrebbero
potuto cambiare la sua condizione, ma forse quel suo amore, si,
qualcosa ancora
poteva farla.
-
Perché tu non ne hai? Se ci vedessero insieme …
ti rovinerei la vita. – sospirò
ed i bracciali ancora tintinnavano, l’avrebbe liberata se
solo avesse potuto,
se fosse stato abbastanza forte, invece quella sua rassegnazione lo
feriva
tanto a fondo da scatenare una rabbia senza nome.
Cosa
avrebbe potuto dirle se non una bugia? Estel era troppo intelligente
per
credere anche ad una sola delle menzogne che avrebbe potuto
raccontarle. Forse
per questo lasciò che il suo corpo parlasse per lui, si
avvicinò alla schiena
esile di lei, coprendola con la propria, sperando che non lo
rifiutasse.
Ispirò
il profumo delicato della ragazza, le mani che lentamente scivolavano
sui
fianchi stretti, eppure Estel non si sottrasse. La sentì
sussultare appena,
immaginò le labbra rosee schiudersi appena per sospirare, ma
le dita esili
raggiunsero le proprie in una strana armonia. Erano talmente piccole e
lisce
rispetto alle sue, abituate solo all’acciaio del gladio ed al
legno dello
scudo, eppure per un attimo Marius si lasciò cullare
dall’illusione che quella
fosse l’unica donna che avrebbero mai potuto sfiorare.
Avvicinò
le labbra alla linea gentile del collo, la stessa che per mesi aveva
osservato
in silenzio dalla panchina di pietra, ascoltò la ragazza
tremare, il respiro
farsi appena più svelto, le dita tiepide aggrapparsi alle
proprie come mai
prima di quel momento.
Marius
avrebbe voluto poterle parlare di ciò che stava provando, di
quanto il cuore
stesse correndo nel petto al solo pensiero di poterla avere per
sé solo, ma non
era altro che un soldato, le parole non erano mai state il suo forte.
Liberò
gentilmente le mani dalla sua stretta, sperando fossero abbastanza
gentili,
abbastanza calde mentre sfioravano appena le spalline della leggera
tunica
color lavanda. Si accorse di tremare solo quando le dita incespicarono
liberando la stoffa dalle semplici spille di bronzo, l’unico
materiale che le fosse
permesso indossare.
Estel
non disse una parola mentre l’uomo accompagnava
silenziosamente il lino leggero
nella discesa dal corpo di lei, cadendo ai loro piedi in un sommesso
fruscio. Eppure
avvertì il respiro di entrambi diventare più
svelto, sovrapporsi curiosamente
nel silenzio della stanza. Solo allora, prendendo una certa distanza da
lei,
Marius osò guardarla come aveva sempre voluto.
Osservò le curve gentili dei
fianchi e del fondoschiena, le spalle strette, la pelle brunita e
levigata, le
cosce esili e tornite stagliarsi contro il chiarore della notte.
Ma
qualcosa, sulla schiena nuda di lei, gli spezzò il respiro,
serrò le sue
mascelle in uno schiocco sordo. Tre cicatrici, lunghe, sottili la
percorrevano
per metà lunghezza, intrecciandosi fra loro in un
angosciante disegno.
Solo
allora Marius capì quanto di lei non sapeva, quanto non
aveva voluto sapere e
per un istante se ne vergognò. Allungò la mano
istintivamente, sfiorandole con
la sola punta delle dita, quasi avesse dovuto farle del male.
E
per la prima volta Estel si sottrasse, fu scossa da un sussulto leggero
e le
mani piccole corsero lungo il ventre raggiungendo la schiena.
-
No! Ti prego Marius, ti prego … non … non
guardarmi. – fiottò tentando invano
di coprirsi, la voce di lei così spezzata affondò
il suo cuore. Non capiva
quanto l’amava? Non sarebbero state quelle cicatrici a
cambiare i suoi
sentimenti, avrebbe solo voluto dirglielo.
-
Non coprirti … sei bellissima, Estel. Più di
quanto avessi mai immaginato. – quella
voce profonda e gentile di nuovo raggiunse posti del suo cuore che la
ragazza
avrebbe preferito dimenticare. Sentì le mani di lui sui
propri fianchi, le
braccia forti cingerla completamente in un abbraccio da cui non voleva
scappare, non più.
Assaporò
il contatto della pelle abbronzata di lui con la propria scoprendo che
vi si
adattava perfettamente, godette dei respiri profondi, lenti, del cuore
battere
veloce sotto i pettorali tesi, contro la sua schiena e seppe che non
c’era
altro uomo a cui si sarebbe voluta donare.
Si
voltò nella stretta tenace e gentile insieme dei suoi
bicipiti, guardò nei
chiari occhi verdi e
vide che avevano
bisogno di lei, che la stavano pregando di restare.
Fu
lei questa volta ad avvicinare le labbra a quelle chiare e piene di
lui,
accogliendone il tiepido respiro, inspirando il profumo della barba
ispida,
della pelle abbronzata dal sole caldo delle province. Durò
solo qualche istante
eppure non riuscì a dire una parola, una volta allontanate
le labbra perché con
sua sorpresa Marius la sollevò gentilmente da terra.
Non
resistette all’abbraccio e si lasciò depositare
sul letto di fresco lino
bianco, un letto che Septima aveva continuato a far tenere in ordine
nonostante
l’assenza del figlio. La stava guardando di nuovo a quel
modo, con quella
cieca, immutabile fiducia nei brillanti occhi verdi. Avrebbe voluto
dargli di
più, molto di più di quello che era, molto
più di quello che mai sarebbe potuta
essere in quella vita.
-
Sei bellissimo, Marius. L’uomo più bello che abbia
mai visto. - sorrise
sfiorando il viso squadrato, le guance ispide e le parole volarono
fuori dalle
labbra come uccellini da una gabbia aperta, per la prima volta Estel lo
vide
cambiare colore.
Un
battito di ciglia e l’uomo fu chino su di lei, le labbra
premute sulle proprie,
le mani grandi, ruvide che percorrevano lentamente il suo corpo. Chiuse
gli
occhi lasciandosi guidare dal suo tocco, dalle dita sui seni generosi,
sui
fianchi stretti, giù fino all’inguine.
Marius
non aveva mai toccato una donna e l’idea che avesse potuto
farle del male si
affacciò ai suoi pensieri nonostante le dita si muovessero
in maniera
istintiva, con un urgenza mai conosciuta prima. Più toccava
di lei, più voleva
toccare.
Guardò
il viso arrossato, i lunghi capelli ramati sparsi sulle lenzuola di
lino, gli
occhi d’oro appena nascosti dalle ciglia scure e
capì che voleva di più.
Percorse con la lingua la linea del collo, le clavicole, soffermandosi
sul seno
sodo, morbido come niente avesse mai toccato in vita sua.
Inspirò
il leggero profumo della pelle di lei, godette del cuore che batteva
veloce
sotto la propria lingua, sotto la punta delle dita strette al seno,
l’ascoltò
respirare freneticamente, pronunciare il suo nome di quando in quando
finché
l’erezione non divenne dolorosa sotto la vecchia tunica
porpora.
Percorse
con la lingua il ventre ed i fianchi, giù sino
all’inguine. Spesso aveva
sentito i suoi compagni parlare di donne, di quello che con loro
avevano
sperimentato e sperò di poterle dare altrettanto piacere, di
compensare con
l’intraprendenza ciò che difettava in esperienza.
Preso
dall’istinto insinuò gentilmente la mano fra le
cosce della ragazza scoprendole
più umide di quanto si sarebbe aspettato,
accarezzò il sesso bagnato posandovi
sopra il palmo della mano e la ragazza sussultò. Non stava
ricambiando il suo
sguardo eppure vide le dita di lei aggrapparsi al lenzuolo, il petto
alzarsi ed
abbassarsi freneticamente cercando di calmare la voce.
Marius
si scoprì a sorridere mentre entrava con delicatezza dentro
di lei, dapprima
con un solo dito, cercando di abituarla alla sensazione.
-
Marius … - lo chiamò ancora e l’uomo
capì di volere di più, entrò in lei
con
due dita, lasciando che le anche assecondassero i suoi leggeri affondi.
Solo
allora tornò accanto alla ragazza, accarezzando i lisci
capelli ramati con la
mano libera, premendo ritmicamente le labbra su quelle di lei,
leccandole
appena.
I
gemiti di Estel aumentarono d’intensità via, via
che si faceva strada dentro di
lei, finché non fu più abbastanza.
Allontanò la mano, dandole un istante di
tregua in cui i brillanti occhi d’aquila tornarono ad
incontrare i propri
regalandogli una spiacevole sensazione di vuoto al petto.
Si
sollevò di nuovo sulla ragazza, ma solo per insinuarsi
gentilmente fra le cosce
esili, ancora semi aperte, lo sguardo dorato di lei che vagava ancora
nel
proprio in una strana armonia nel silenzio della stanza.
Afferrò
gentilmente i fianchi stretti, lentamente, il viso stranamente
più caldo mentre
lasciava che le gambe della ragazza si sistemassero sulle proprie
spalle. Estel
sembrò confusa, eppure quando finalmente Marius raggiunse il
sesso di lei con
le labbra la ragazza gridò.
Aveva
il suo stesso profumo, un sapore dolce eppure sconosciuto
osservò l’uomo
leccandola appena, dapprima delicatamente, poi sempre più a
fondo, sempre più
intensamente. Qualcosa che, curiosamente, faceva battere il suo cuore
più di
qualsiasi battaglia, più di qualsiasi scontro.
Sentì
le mani di lei raggiungere i suoi capelli, le braccia. Calde come non
erano mai
state, cercavano qualcosa che l’uomo stentava ancora a
credere di poterle dare.
La leccò a lungo, avidamente, ascoltando la stanza riempirsi
dei gemiti mal
trattenuti di lei, dei propri pesanti respiri e per un momento credette
di non
poter resistere un altro istante.
-
No. Vorrei che fosse con te … - ansimò Estel
all’improvviso,
le dita fra i suoi capelli, fermandolo. Marius sentì il viso
scottare, l’erezione
dolere sotto la tunica e lentamente si lasciò guidare dalle
mani della ragazza.
La lasciò andare, le permise di aiutarlo a sdraiarsi sotto
di lei, le mani
piccole e calde che già correvano sotto il fresco cotone
della veste,
accarezzando il petto, il collo, costringendolo a prendere respiri
più
profondi.
Lasciò
che Estel allentasse la cintura di cuoio, che sfilasse la tunica
porpora
abbandonandola ad un lato del letto. Era la prima volta che si sentiva
così
inerme, così scoperto di fronte a qualcuno. Senza
l’armatura, senza il gladio,
non era più un legionario, ma un uomo. Non poteva difendersi
da lei, dall’amore
che sentiva per la ragazza che sorrideva appena accanto a lui e per un
istante
il pensiero quasi lo spaventò.
Se
fossero andati fino in fondo non sarebbe stato più in grado
di nascondere
quello che era accaduto. L’avrebbe detto al mondo.
Nonostante
il cuore che correva nel petto, Estel si soffermò a
guardarlo. Inspirò l’odore
deciso della pelle abbronzata, sfiorò il viso aperto,
virile, le labbra chiare
e piene, sentì la barba ispida sotto le dita, il calore del
sangue che correva
veloce e capì che non voleva tornare indietro.
Tracciò
con la punta delle dita la linea decisa del collo, la sottile cicatrice
da cui
era percorsa trasversalmente, fino al petto largo, ai pettorali tesi,
sfiorò la
corta peluria con un sorriso, gli occhi che non volevano lasciare i
suoi, verdi
e profondi. Le parole quasi scapparono dalle sue labbra mentre Marius
ricambiava le sue carezze sollevando la mano grande e calda posandola
sul suo
viso, affondando le dita rovinate fra i suoi capelli, la bocca che di
nuovo si
avvicinava alla propria, coprendola con un sospiro.
Durò
solo un istante prima che Estel si sollevasse su di lui, scostando la
treccia
morbida sulla spalla sinistra, per ricambiare i suoi baci, le sue
carezze,
tracciando con le labbra le forme dell’uomo. La mandibola
squadrata, il collo,
giù fino al petto, agli addominali in rilievo.
Godette
del rumore leggero del cuore sotto le labbra, dei battiti forti contro
la
pelle, dei respiri pesanti dell’uomo finché non si
fermò, accostando
l’orecchio.
-
Come ti batte il cuore. - soffiò dolcemente, le labbra
ancora vicine alla
pelle abbronzata e bollente, ed il cuore di lui fallì
clamorosamente una
contrazione.
-
Mi
sembra di morire. – lo sentì ansimare in risposta,
le dita che già
raggiungevano i suoi fianchi, accarezzavano la sua schiena nuda. Si
adagiò su
di lui un istante solo per scoprire che i loro corpi si completavano
perfettamente, quasi avessero aspettato una vita intera solo per quel
momento.
Continuò
ad accarezzarlo in posti di lui che non aveva mai visto, le labbra
corsero fino
all’inguine, le dita scostarono la fasciatura bianca
facendola scivolare lungo
le cosce piazzate, forti.
Entrò in lei delicatamente,
le dita della ragazza che si aggrappavano alla sua schiena, alle sue
spalle,
contraendo i suoi muscoli, accelerando il suo respiro. Non assomigliava
a nulla
che avesse mai provato in vita propria, un tepore più caldo
del fuoco, più
gentile delle fiamme nei bracieri, un calore che sembrava provenire dal
più
profondo dei loro corpi. In un punto imprecisato fra l’addome
ed il cuore di
lei. Faceva bollire il suo sangue, accelerava il battito del cuore come
nient’altro al mondo, tendeva i suoi muscoli in un curioso
concerto.
Marius
prese a muoversi istintivamente, dapprima con delicatezza, poi ad un
ritmo più
sostenuto, il viso della ragazza ancora così vicino da
poterne captare ogni respiro,
ogni rossore sulle guance brunite. Non le era mai sembrata bella come
in quel
momento di assoluta vulnerabilità, la stringeva fra le
braccia e sapeva per
certo di appartenerle, di aver atteso una vita per quel solo momento,
solo per
lei.
La
sentì molte volte sussurrare il suo nome, nel silenzio della
stanza, in una
strana armonia ora che i loro respiri si confondevano nel vago
chiarore, ora
che anche il legionario aveva ceduto il passo all’uomo mentre
le dita
percorrevano il viso caldo, affondavano nei capelli ramati.
Per
minuti interminabili Estel ebbe la strana sensazione di aver perduto i
propri
confini. C’era qualcosa di familiare in lui, nel suo corpo,
nel suo calore che
sembrava aver atteso una vita intera solo per ricongiungersi a lei, per
culminare in quell’unione, in quella stanza.
Si
muoveva gentilmente ed allo stesso appassionatamente dentro di lei, ed
Estel
sapeva di aver fatto la cosa giusta, aveva seguito la voce del cuore e
quella,
ancora una volta, non l’aveva tradita. Le dita grandi e
rovinate la stringevano
in un abbraccio senza fine e la ragazza ebbe come la sensazione che
centinaia
di finestre si fossero spalancate di colpo. Qualcosa dentro di lei era
cambiato
per sempre, per un istante riuscì a dimenticare il dolore,
il vuoto, la
mancanza che aveva sentito in una vita intera e lo lasciò
entrare.
Avrebbe
solo voluto dirgli quanto a lungo l’aveva amato.
La
strinse più forte lasciando il suo ultimo calore dentro di
lei, lo ascoltò
ansimare, sentì i loro respiri sovrapporsi
nell’aria ferma intorno a loro e
sorrise. Le mani del ragazzo l’accompagnarono gentilmente
mentre si sdraiava
accanto a lei, stringendola al petto.
Il
buio tornò silenzioso, rotto solo dal canto lontano di una
civetta, dalla
brezza gentile della sera, rimasero abbracciati per lunghi minuti,
senza poter
dire alcunché. Entrambi sapevano che non c’era
ritorno da ciò che avevano
vissuto, li avrebbe segnati per sempre, avrebbe segnato la sorte di
entrambi.
-
Quelle cicatrici … sono segni di frusta, vero? Chi
… ? – esordì Marius ad un
certo punto, senza poterla guardare negli occhi d’oro.
Sentì le dita di lei
muoversi sul proprio petto, accarezzare appena la corta peluria in un
ritmo
lento, delicato.
-
Quell’uomo è morto. Tempo fa. È stato
ucciso a mani nude da due dei suoi
schiavi … non può più farmi del male.
– quasi sorrise, ma non c’era pietà
nella
sua voce e per un istante l’uomo fu preso da un’ira
senza nome, la stessa che
lo spingeva nell’arena, che lo spronava in battaglia.
-
Marius … – sollevò il capo
dal
suo petto e finalmente gli occhi d’oro incontrarono i suoi,
riaprendo il
sorriso sulle sue labbra.
-
Sono solo … arrabbiato. Eri una bambina, soltanto una
bambina. –
-
Lo
so. Ma è stato tanto tempo fa. - soffiò
ricambiando il sorriso e le dita
volarono sul suo viso, quasi a rimproverarlo.
-
Nessuno usa più la frusta, è una cosa
… - si accigliò il ragazzo, se c’era
una cosa
che suo padre davvero gli aveva trasmesso questa era di certo
l’umanità. Come
avrebbe potuto tollerare l’uso di tali mezzi su una bambina?
-
Da
barbari? – lo interruppe lei bruscamente e per la prima volta
da quando si
conoscevano parve davvero ferita.
-
Non intendevo questo … -
-
E
cosa allora? Era un Alessandrino, un Romano l’uomo che mi ha
fatto questo. E mi
parli di barbari? Avevo solo alzato lo sguardo. Ero così
spaventata, lui
continuava a gridare ed io non capivo una sola parola di quello che
diceva. Ho
osato guardarlo negli occhi e mi è valso tre frustate. Se
due dei suoi non
l’avessero fermato mi avrebbe uccisa. È stato il
dolore più forte che abbia mai
provato … – lo fronteggiava ora, seduta sul letto
accanto a lui, le lenzuola di
lino a coprire il seno brunito. Uno sguardo che non ammetteva repliche,
si
abbassò sulle ultime parole guardando i bracciali di bronzo
scuro.
Marius
si sentì un vigliacco, cosa poteva saperne lui del dolore?
La vita era stata
generosa con lui e con la sua famiglia, non avrebbe mai capito la sua
solitudine, né compreso il coraggio dietro quello sguardo
immobile. La guardò
atterrito per un lungo istante, maledicendosi per essersi lasciato
prendere
dalla retorica. Le avrebbe restituito ogni cosa se solo avesse potuto,
anche in
cambio della propria vita. Avrebbe voluto dirglielo.
-
Mi
spiace … io … non avrei dovuto parlare in quel
modo. Se fosse ancora vivo gli
avrei strappato il cuore dal petto con le mie stesse mani. –
fiottò senza osare
sfiorarla, temendo che questa volta l’avrebbe rifiutato.
Invece la ragazza
sorrise, un sorriso malinconico, pieno di una tenerezza che Marius
stentò a
comprendere fino in fondo.
-
E’
stato tanto tempo fa. Le ferite sono guarite ormai. Non puoi
raddrizzare tutti
i torti del mondo da solo, Marius. – sussurrò
allungando ancora una volta le
dita verso il proprio viso, sfiorando appena i capelli disordinati.
-
E’
vero, ma posso comunque provare a proteggere te, d’ora in
poi. – sorrise l’uomo
in risposta, lasciandosi accarezzare, coprendo la mano piccola e calda
con la
propria, cercando la forza di starle accanto.
-
Non avrei dovuto aggredirti a quel modo, mi dispiace. –
-
No. Hai ragione, avresti tutto il diritto di odiarmi, eppure non
è così. Hai
sempre servito la mia famiglia con lealtà e dedizione.
Perché? Perché non ci
odi? – non le avrebbe lasciato negare il dolore che aveva
provato, ciò che le
era costato arrivare fino a lui.
-
Perché ho imparato a mie spese che non tutti gli uomini sono
uguali. Chi mi ha
venduta era un uomo della mia gente, chi mi trovò dopo che
il villaggio era
stato bruciato era un Romano, un legionario. Ricordo ancora il suo
viso, non
capivo cosa mi stesse dicendo, ma sapevo che era sincero. Fu gentile
con me e
mi avrebbe tenuta con sé, mi avrebbe riportata ad Aleppo da
donna libera, se i
suoi superiori non l’avessero scoperto. E così
è stato per la tua famiglia. Tua
madre non mi ha fatto mai mancare nulla, tua sorella è come
fosse anche mia
sorella e tuo padre mi ha sempre trattata come suo pari. –
sorrise e la
dolcezza nei suoi occhi lo colpì nel profondo. Nonostante la
sottile coltre di
rimpianto nel fondo delle iridi d’oro, per la prima volta da
quando si erano
incontrati la sentì davvero vicina, sentì di
essere nel suo cuore e scoprì che
il solo pensiero lo rendeva stranamente leggero. Avrebbe voluto dirle
quanto
fosse fiero di lei, di quel suo coraggio, ma le sole parole non
sarebbero state
abbastanza, doveva fare qualcosa per lei, qualcosa di reale, di
concreto.
Qualcosa che ripagasse tutto il dolore e la solitudine che
l’avevano
accompagnata in quegli anni.
La
ragazza dovette notare quel suo momento di riflessione
perché rise appena, come
era solita fare di fronte ad ogni suo cipiglio e, di nuovo, si
chinò per posare
leggermente le labbra calde sulle sue.
L’accolse
ancora una volta fra le sue braccia e capì di aver sempre
avuto la risposta che
cercava.
Si
amarono più e più volte ancora quella notte,
sempre più intensamente, più
consapevolmente, nel buio della stanza tornarono a parlare come nei
giorni
passati, trascorsi sul bordo della vasca del peristilio,
finché le prime luci
dell’alba non portarono il sonno agli occhi di entrambi.
Estel
fu la prima a svegliarsi. Non avrebbe potuto rimanere con lui, sapeva
di dover
tornare al lavoro, che prima o poi qualcuno l’avrebbe cercata
per attendere
alle prime mansioni del giorno, eppure il calore che provò
guardando il viso
addormentato di Marius accanto a lei quasi la convinse a rimanere. Non
l’aveva
mai visto a quel modo, tanto inerme come in quel momento e quasi il
tempo
sembrò tornare indietro di anni su quel viso disteso, di
nuovo giovane.
Avrebbe
voluto sorridere, eppure per un attimo la ragazza si sentì
sul punto di cedere
il passo alle lacrime che mai aveva pianto in quegli anni. Cosa ne
avrebbe
fatto ora di quel suo amore? Ora che aveva conosciuto il corpo ed il
cuore
dell’uomo addormentato accanto a lei, come avrebbe potuto
tornare indietro?
Era
stata egoista, aveva allentato la guardia ed ora la reputazione e la
carriera
del ragazzo potevano essere in pericolo. Nessuno avrebbe accettato la
loro
unione, se non ad un prezzo altissimo, il prezzo delle sue aspirazioni.
Avrebbe
preferito essere venduta ancora una volta piuttosto che rovinargli la
vita,
eppure il pensiero della notte passata, delle frasi sussurrate nel buio
non
volevano lasciare il suo cuore.
Aveva
guardato dentro di lui ed aveva visto gli stessi sentimenti che da
tempo
agitavano i suoi pensieri, era difficile ora fare finta che nulla fosse
mai
accaduto.
Passi
improvvisi nel cortile la scossero appena, che spiegazione plausibile
avrebbe
potuto fornire se l’avessero pizzicata fuori dal gineceo?
Lasciò un ultimo
sguardo ed un’ultima carezza sul volto del ragazzo, poi,
raccogliendo ed
infilando di nuovo gli abiti di leggero cotone bianco,
abbandonò in tutta
fretta la stanza affacciata sul Colosseo.
__________________________________________________________________________________________________________________
Salve
a tutti! Bentrovati vecchi lettori ed un caloroso benvenuto ai nuovi!
So di pubblicare capitoli a singhiozzo ma purtroppo la vita
universitaria richiede insistentemente la mia attenzione per ora. Ci
tengo comunque molto a ringraziare sia chi continua a leggere la
storia, sia chi la inserisce fra le seguite o le preferite! Mi stupisce
un pò in realtà dato che non è un
fandom di ampissima diffusione, per questo sono ancora più
contenta. Dal prossimo capitolo in poi stavo seriamente pensando di
inserire delle note storiche qua e là (su usi e costumi
soprattutto), a mio parere potrebbe essere simpatico, che ne pensate?
So che questo capitolo è estremamente lungo ma per motivi di
continuità di trama non potevo proprio sezionarlo, mi
spiace! Spero apprezzerete lo stesso, grazie ancora! Buona lettura!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Capitolo Nono ***
Capitolo Nono
Il
banchetto sembrava essere iniziato da ore interminabili, eppure Marius
non
poteva che essere distratto. Era grato a suo padre per aver voluto
celebrare il
suo ritorno tanto calorosamente, di come lo sentiva raccontare di lui
agli
altri senatori eppure la coppa rimaneva piena di fronte a lui. Le
giovani
figlie dei generali ballavano timidamente al centro della sala in un
fiume
d’oro e così anche sua sorella Giulia.
La
sola a cui forse avrebbe potuto raccontare quello che era accaduto, i
sentimenti che da troppo tempo agitavano il suo cuore eppure al tempo
stesso
non voleva caricarla di quel fardello o forse era solo paura quella che
provava. La sciocca paura di non poterle rimanere accanto.
Padrone
e schiava, una storia vecchia come il mondo. Molti dei soldati che
conosceva
erano figli bastardi nati dal sodalizio fra generali e serve barbare,
eppure
Marius si sentiva rivoltare lo stomaco al solo pensiero che qualcuno
avesse
potuto accusarlo di aver solo voluto scaricare certe pulsioni sulla
ragazza.
L’amava.
Da più tempo di quanto riuscisse a ricordare e non avrebbe
permesso al mondo di
negare quei suoi sentimenti.
Fissò
il lungo tavolo imbandito con occhi vuoti, cosciente del sorriso di sua
madre,
di quello che stava sussurrando all’orecchio della sua
vicina. Avrebbe voluto
vederlo sistemato con una di quelle giovani ragazze e Marius avrebbe
voluto
accontentarla, più di qualsiasi altra cosa, ma ormai non
c’era modo di tornare
indietro.
-
Padre, con il tuo permesso vorrei ritirarmi. –
esordì dopo poco voltandosi
verso Leontius alla sua sinistra, sorrideva, lo sguardo orgoglioso di
chi sta
guardando la propria impresa più riuscita.
-
Ma
certo, Marius. Va pure. – rispose dopo un istante di
esitazione ed il ragazzo
gli fu tacitamente grato per non aver chiesto il motivo di quella sua
momentanea fuga. E per un attimo Marius sembrò cogliere un
lampo di
consapevolezza negli occhi chiari di lui, quasi sapesse.
Lasciò
la sala con discrezione, lanciando un unico fugace sguardo verso sua
sorella
ancora intenta a ballare, senza voltarsi indietro, senza portare con
sé quel
vortice d’oro.
Rimase
a lungo indeciso sul da farsi, non aveva voluto portare con
sé nessuna delle
sfarzose lampade ad olio della sala principale, sperando che il buio
della casa
potesse lenire anche solo per un attimo la sua irrequietezza. Era
sempre stato
così, dacché aveva memoria. Non era mai stato
calmo come l’acqua della vasca
del peristilio nelle lunghe notti d’estate, qualcosa si era
sempre agitato
sotto la superficie.
Era
nato e vissuto nelle passioni, nel sangue e nella polvere aveva mosso i
suoi
primi passi, nulla era mai stato agio e velleità, si era
guadagnato ogni
cicatrice, ogni vittoria. E quegli stessi sentimenti avevano dominato
il suo
amore per la ragazza.
Dentro
gli occhi d’aquila di lei aveva sempre visto quel fuoco che
da una vita guidava
ogni sua azione, poteva sentirne ancora il calore, impresso sulla pelle
e nel
cuore. Le aveva promesso di essere il migliore e lo era stato, ma non
le aveva
mai promesso che sarebbe tornato, eppure lei lo aveva aspettato.
C’era
una strana armonia, un fragile equilibrio in quel loro amore. Si erano
amati
per anni senza mai essere davvero vicini, Marius aveva marcato a fuoco
nel
proprio cuore il nome della ragazza senza che mai fosse stata sua, ed
ora che
quel vuoto, quella distanza erano stati colmati nulla avrebbe potuto
impedirgli
di legarsi a lei. Lo avrebbe detto al mondo, a che prezzo non aveva la
benché
minima importanza.
Senza
accorgersene il ragazzo si ritrovò nel cortile
più remoto della casa, quasi in
disuso dato che a poca distanza suo padre aveva predisposto gli alloggi
della
servitù.
Eppure
non erano le voci e le risate provenienti dalla sala del banchetto a
disturbare
la quiete sopra lo spoglio peristilio. Poteva sentirle mescolarsi alla
melodia
di più di un flauto traverso, un suono più rozzo
di quello a cui era abituato,
più concitato, eppure il ritmo era lo stesso a cui sua
sorella stava ancora
ballando all’interno della villa.
Non
aveva lasciato un festeggiamento per unirsi ad un altro, per di
più uno a cui
di certo non poteva che presentarsi come ospite sgradito, ma non
poté resistere
all’impulso di avvicinarsi.
Si
accostò alla semplice architrave in legno grezzo e
sbirciò all’interno. I
piccoli alloggi erano diventati niente più che un turbinio
di corpi in
movimento, di risate sguaiate, di festeggiamenti sommessi.
-
Fermi, basta, mi gira la testa! – avrebbe riconosciuto la sua
voce fra mille,
il suono leggero della sua risata ed il cuore sembrò
affondare di un poco
quando vide la ragazza comparire fra quella piccola folla, uno dei
bambini
della servitù teneramente afferrato alle mani piccole e
tiepide che solo fino a
qualche ora prima aveva stretto fra le proprie.
-
Allora canta una canzone! – pretese lo stesso bambino, la
tunica grigia troppo
grande per il corpo minuto, il sorriso sdentato da lattante.
-
Si, si ti prego! – intervenne una seconda mocciosa, prima che
la madre potesse
afferrarla già era sgattaiolata ai piedi della ragazza,
aggrappandosi alla
chiara tunica azzurra.
-
Va
bene, va bene. – rise come poche volte aveva riso di fronte a
lui, al resto
della sua famiglia. Avrebbe potuto rimanere nel gineceo quella notte,
godersi
di riflesso il grande banchetto in suo onore come avevano preferito
fare molte
delle ancillae di sua madre. Ma Estel non era come loro, non lo era mai
stata e
questo Marius lo aveva sempre saputo.
Sentì
nascere un sorriso sulle labbra chiare mentre la ragazza si sedeva ad
un lato
della stanza, prendendo a cantare una di quelle vecchie canzoni che
aveva
imparato da sua sorella, un latino più sicuro, la voce
più limpida di una
volta, la stessa che pure Marius ricordava nei suoi sogni.
Non
riuscì guardare il suo viso, l’ascoltò
attentamente, la schiena premuta contro
la pietra fresca della casa, ma preferì non posare lo
sguardo sulle labbra
rosee schiudersi ad ogni parola, sui capelli ramati ondeggiare sulle
spalle
seminude temendo che il cuore sarebbe esploso.
Troppo
tardi si accorse della bambina comparsa accanto a lui, la stessa che
aveva
pregato la ragazza di cantare per loro. Guardò nei grandi
occhi azzurri e non
lesse alcuna paura, solo una sincera curiosità. Non sapeva
neppure se la
bambina sapesse di lui, di chi avesse di fronte mentre la manina
tiepida e
sporca di terra si aggrappava al bordo della sua vecchia tunica virile[1].
La
ragazza stava ancora cantando quando la bambina senza nome
cominciò a
strattonarlo piano, invitandolo ad entrare. Marius avrebbe voluto dire
qualcosa, qualsiasi cosa che avesse potuto convincere la mocciosa a
desistere,
ma si sentiva pure terribilmente a disagio quasi avesse potuto ferirla
anche
solo rimanendo fermo dov’era. Raramente aveva dovuto avere a
che fare con dei
bambini e quasi sempre non v’era stato bisogno di nessun tipo
d’interazione.
-
Stavi guardando. Perché la stavi guardando? –
chiese ad un certo punto,
abbastanza forte da arrivare alle sue orecchie, ma senza sovrastare la
musica,
quasi fosse stata la cosa più naturale del mondo,
lasciandolo spiazzato. Una
domanda semplice, la risposta più difficile della sua vita.
La
ragazzina lo strattonò tanto insistentemente che quasi non
si accorse di essere
entrato, la donna all’angolo della stanza, la stessa che
prima aveva trattenuto
quella che doveva essere sua figlia, raggelò.
La
musica cessò all’improvviso. Parecchi si voltarono
a guardarli, lui, il figlio
maschio del padrone, l’erede di qualunque cosa quegli uomini
e quelle donne
avessero mai avuto, erede persino delle loro stesse vite con un piede
sulla
soglia, la bambina dai biondi capelli arruffati a guidarlo dentro.
Marius
tentò un sorriso, il cuore improvvisamente accelerato, e la
bambina dovette
avvertire il suo disagio tanto che lasciò scivolare la mano
minuscola nella
sua, quasi volesse in qualche modo giustificare la sua presenza.
Estel
si sarebbe aspettata qualunque cosa tranne vederlo comparire a quel
modo.
Eppure per un istante i loro due mondi sembrarono avvicinarsi a
dismisura,
quasi avessero potuto toccarsi. Non riuscì a trattenere un
sorriso vedendo
l’imbarazzo disegnarsi sul volto squadrato, severo che
così bene conosceva.
I
loro sguardi s’incontrarono oltre gli schiavi della famiglia
Titus presenti
nella stanza umile, raffazzonata ed Estel non poté che
riprendere a cantare,
lasciando che la presenza del ragazzo diventasse una gentile certezza.
I
flauti e le lire sghembe ripresero a seguire la sua voce e di nuovo
molti dei
presenti ripresero a sorridere e ballare, quasi
l’interruzione dell’erede fosse
stata solo una parentesi di poca importanza. Estel avrebbe voluto poter
dire lo
stesso, ma la presenza dell’uomo aveva cambiato ogni cosa. Da
quando si erano
incontrati i loro sguardi non si erano più lasciati oltre la
piccola folla e,
per una sola volta, la ragazza si concesse qualcosa che in altri tempi
non
avrebbe mai permesso al proprio cuore.
Lasciò
che le parole morissero fra le note appena stonate e raggiunge Marius
accanto
alla porta nuda, dove ormai il legno laccato della porta era stato
consumato da
pioggia e troppa usura. Non gli avrebbe chiesto perché era
venuto, non voleva
saperlo, voleva solo vivere qualche istante ancora nella certezza che
fosse per
lei, che quella loro unione avrebbe potuto avere un significato
più profondo di
quello che la società in cui era nato e cresciuto poteva
accettare[2].
-
Danza con me. – sorrise porgendogli gentilmente la mano. Vide
una linea sottile
comparire fra le sue sopracciglia mentre valutava la sua proposta,
eppure fu
certa che il respiro si fosse fatto più svelto.
-
Non conosco i passi. – rispose Marius con una delicatezza che
poche volte la
ragazza aveva sentito nella sua voce e di nuovo gli occhi verdi di lui
incontrarono i suoi, sinceri come nient’altro al mondo.
-
Non ha importanza. A volte devi solo imparare ad unirti alla danza.
–
Questa
volta la mano di Marius raggiunse quella di lei in una stretta leggera
e
fiduciosa, lasciandosi guidare verso il centro della stanza.
Afferrò entrambe
le mani del ragazzo fra le proprie impartendo il ritmo ad entrambi, un
ritmo
che le scorreva dentro fin da quando era bambina, lo stesso che per
anni aveva
seguito con sua madre intorno ai grandi bivacchi. Ora avrebbe potuto
insegnarlo
a lui, una danza barbara per uno dei figli patrizi[3]
di Roma.
La
ragazza non lasciò mai le sue mani mentre danzavano sulla
terra nuda, sulla
paglia calpestata al ritmo familiare dei flauti traversi. Erano anni
che Marius
non provava quella leggerezza, era rimasto lontano così a
lungo da riuscire a
dubitare di qualunque cosa avesse lasciato indietro.
Era
tornato ad essere felice di quella familiare felicità che
aveva provato sin da
ragazzino, sapendola accanto a sé. Da quando
l’amicizia si era trasformata in
amore non avrebbe saputo dirlo, eppure si fidava di lei, sapeva che se
solo
glielo avesse chiesto sarebbe rimasta con lui, forse per sempre.
La
guardava sorridere e sapeva che avrebbe dato qualunque cosa pur di
amarla da
donna liberta[4], era facile immaginare un
futuro per entrambi, per
quanto complicato fosse. Avrebbe solo dovuto intraprendere il proprio
cursus
honorum[5], diventare tribuno in pochi anni
assicurando ad entrambi
una vita tranquilla, lontana dalla schiavitù che da sempre
li aveva divisi.
Sorrise,
lasciandosi guidare, lasciando che la polvere sporcasse i calzari, che
il
sudore impregnasse i capelli corti, la tunica pulita, senza abbandonare
la sua
stretta.
La
risata
della ragazza si confuse a quelle degli altri presenti, alla musica
appena
stridente per un tempo che parve stranamente indefinibile. Il flauto e
la lira
suonavano ancora quando si fermarono, il respiro pesante, avvicinandosi
in uno
strano concerto. Le mani di lei sfiorarono le sue braccia scoperte al
caldo
della sera con un’esitazione che da sempre aveva condizionato
il loro rapporto,
eppure sorrideva ancora oltre il tepore confuso dei loro respiri. Non
le
avrebbe chiesto di baciarlo, non le avrebbe chiesto
alcunché, quello che da lei
aveva ricevuto era già molto più di quanto avesse
mai osato sperare.
-
Non costringeteci ad assistere a qualcosa che non vogliamo sapere. Vi
prego. –
esordì qualcuno alle spalle della ragazza, qualcuno che
Marius riconobbe come
una delle schiave di sua madre. Sorrideva appena interrompendo il loro
scambio
di sguardi, ma il legionario non poté che darle ragione.
Nessuno avrebbe potuto
scambiare quella loro vicinanza per pura lussuria, nessuno avrebbe
potuto
giustificare quello che sarebbe avvenuto in seguito.
Con
un
cenno di gratitudine lasciarono l’alloggio dirigendosi mano
nella mano, come la
notte precedente, verso la parte maschile della villa.
I
rumori
del banchetto, il calore dei grandi bracieri erano ormai un ricordo
lontano
quando il sonno li sorprese ancora una volta fra le stesse lenzuola.
Tutti gli
invitati avevano ormai rovesciato le ultime gocce di vino sul pavimento
come
ringraziamento ai loro déi muti[6],
lasciando la villa immersa in un
vago odore di fiori ed incenso spento, in un tetro silenzio, un
silenzio che ai
due ragazzi era parso come una benedizione. Il buio aveva nascosto il
loro
amore rubato, aveva avvolto i loro respiri in una stasi senza fine,
imprigionandoli per sempre fra quelle mura.
Anche
Marius aveva compiuto un voto quella notte rovesciando la coppa. Un
voto di
fedeltà. Verso quelle quattro mura, quei sussurri nascosti,
quelle ore rubate
alla notte, verso la donna che per due notti si era concessa ed aveva
giaciuto
con lui, la stessa donna che a lui aveva dedicato gli anni
più soli e ardenti
della sua vita.
Si
addormentò
stringendola a sé, ma ancora una volta al suo risveglio la
ragazza se n’era già
andata.
NOTE
[1]
= La toga virilis veniva indossata per la prima volta a 16
anni per fare il primo ingresso nel foro con un rito di passaggio
dall'adolescenza alla maturità.
[2]
= Non erano rari nell'età Romana, ed in
particolare quella Imperiale, i figli nati da rapporti extraconiugali
fra schiave e padroni, anzi era quasi considerato sano intrattenere
certi tipi di rapporti per un uomo romano. Un uomo poteva
avere più di un'amante (lo stesso non valeva per le donne
ovviamente anche se in età Imperiale i costumi si
erano già in parte logorati dando alle donne molta
più libertà sessuale rispetto al passato), poteva
avere con tali amanti figli bastardi, addirittura alcuni degli schiavi
erano deputati appositamente oltre che alla cura estetica dei padroni
anche a soddisfare i loro capricci sessuali.
[3]
= Per Patrizi si intende l'elite romana, i ricchi e potenti del tempo
per intenderci.
[4]
= I liberti erano schiavi liberati col denaro. Potevano essere i
padroni a liberarli dopo anni di fedele servizio, oppure loro stessi
potevano comprare la propria in caso avessero raccolto una
sufficiente somma di denaro.
[5]
= Il cursus honorum era in sostanza la carriera politica che
l'uomo romano poteva intraprendere. Conteneva un insieme di cariche
politiche e militari. Essendo i cittadini divisi in tre
classi (ordine senatorio, equestre e plebei), i membri di ciascuna
classe potevano intraprendere una ben distinta carriera politica.
Essendo Marius un legionario avrebbe sicuramente intrapreso la carriera
nella milizia equestre, il cui grado più alto a cui avrebbe
potuto aspirare sarebbe stato il prefettorio.
[6]
= Come per i Greci un'usanza tipica era quella di rovesciare in terra
le ultime gocce di vino a fine pasto come preghiera o in un certo senso
come buon auspicio. La coppa poteva essere anche vuotata interamente
per compiere un voto, come fatto da Marius.
________________________________________________________________________________________________
Bentornati!
Come promesso in questo capitolo ho inserito delle note :) spero
possano essere interessanti da leggere e che chiarifichino qualche
eventuale dubbio! Questo era un capitolo di passaggio o in un certo
senso di conclusione, si perchè la prima parte della storia
si è ormai conclusa. Dal prossimo capitolo le cose si
faranno davvero movimentate! Spero continuiate a seguirmi ^^ Grazie
ancora a tutti i miei lettori (vecchie e nuovi che siate)!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Capitolo Decimo ***
Capitolo Decimo
Per
anni il ginnasio era stato la sua casa, era vissuto nella spartana
bellezza di
quel pavimento in marmo colorato, di quel colonnato spoglio, pochi
affreschi
per un luogo duro, un luogo che, come era accaduto per suo padre,
l’avrebbe
portato alla grandezza. Il clangore dell’acciaio, il cozzare
sordo degli scudi
l’avevano cullato ed ora, tornare a combattere in quel grande
santuario di
guerra, lo riempiva di una strana leggerezza.
Marius
era sempre stato un animo feroce, nell’arena si era sempre
nutrito di passioni
irose, non si era mai risparmiato, andava fiero delle sue cicatrici, di
come si
erano impresse nella sua carne. Eppure era nervoso quella mattina
fronteggiando
Leontius. Aveva qualcosa da chiedere, qualcosa che forse avrebbe
distrutto
l’immagine della sua famiglia, ma più importante
avrebbe potuto minare il
rispetto che suo padre nutriva nei suoi confronti.
Tentennò
più d’una volta sotto i suoi attacchi, subendo in
silenzio i concitati
rimproveri, sapeva quanto quegli scontri significassero per suo padre,
il suo
mentore e generale, ma non poteva fare a meno di essere distratto.
Vedeva
chiaro l’orgoglio di Leontius scintillare nel fondo delle
iridi azzurre,
nonostante la propria trascuratezza di quella mattina, nonostante lo
scudo
avesse ceduto e tremato sotto i suoi assalti, suo padre non aveva
smesso di
incitarlo, di far leva su quella sua furia.
Per
la terza volta, da quando era tornato, lo sopraffece, eppure sorrideva
Leontius
mentre insieme si accostavano alla rastrelliera in legno spoglio, il
respiro
ancora pesante, abbandonando scudo e gladio.
-
Triste, ma fiero giorno, quello in cui infine il figlio supera il
padre. - sospirò,
lo sguardo ancora saldamente
allacciato al suo mentre Marius liberava la corta zazzera castana
dall’elmo
sudato.
Nonostante
il tumulto che albergava nel suo cuore, il ragazzo non
riuscì a trattenere un
sorriso, infondo doveva a lui quella sua determinazione, la chiara
consapevolezza di volere per lei, e per se stesso, un futuro migliore.
-
Hai di certo destrezza con la spada, ma non avere mai fretta di
sguainarla,
Marius. Porgi sempre la mano prima. – continuò
più dolcemente, riponendo il
gladio con un rispetto che raramente Marius aveva visto negli occhi di
altri
generali con cui aveva prestato servizio.
Annuii, cosciente che era stato un
uomo con gli
stessi principi di suo padre ad aver salvato la donna che amava, ad
averla
condotta da lui.
-
Cammina con me, figlio. – sorrise precedendolo sulle scale in
marmo chiarissimo
che conducevano fuori dal ginnasio, verso la parte superiore della
villa. Era
in quelle stanze che un tempo suo padre aveva ricevuto le alte cariche
dell’esercito e della propria legione, quelle stesse scale
dove Marius aveva
sognato e giocato da bambino, ansioso di poter prendere finalmente
parte a quel
mondo lontano, baciato dalla gloria e dall’onore di mille
battaglie.
-
Ho
sentito voci di grandi cambiamenti a Roma. –
esordì infine seguendolo oltre le
porte inferriate, verso il tablino. Tre inverni erano trascorsi dalla
sua
partenza eppure nulla sembrava essere cambiato, l’armatura di
suo padre era
ancora là, in bella mostra all’entrata dello
studio, vicina come un tempo era
stata enorme, lontanissima ai suoi occhi.
Si
fermò a guardarla con un rispetto che non aveva dimenticato,
i begli occhi verdi
accarezzarono ancora una volta le piastre levigate, le cerniere lucide,
il
cimiero elegante ed il cuore sembrò affondare un poco nel
petto. Non vi sarebbe
stata sconfitta più grande per lui che perdere
l’amore e la stima di suo padre,
quello che per lui avevano significato. Eppure doveva tentare.
Posò
l’elmo sullo stesso ripiano in nero legno laccato, quasi
finalmente a reclamare
un posto per se stesso in quell’olimpo di gloria che un tempo
aveva tanto
bramato e seguì Leontius verso i suoi archivi privati, le
insegne politiche col
suo nome ed il leone ruggente simbolo della sua famiglia ancora esposte
sulle
pareti spoglie.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=2783343
|