Cento giorni verso Est

di Aleena
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Qui e ora ***
Capitolo 2: *** Il cocainomane ***
Capitolo 3: *** Il collare ***
Capitolo 4: *** Il demone ***
Capitolo 5: *** La spia ***



Capitolo 1
*** Prologo - Qui e ora ***




This is gospel for the vagabonds, 
ne're-do-wells and insufferable bastards 
Confessing their apostasies 
led away by imperfect impostors

 
(Questo è il vangelo per i vagabondi
Per chi non ne fa una giusta e per i bastardi insopportabili
Che confessano la loro apostasia
Sia guidata da imperfetti impostori)

 
PROLOGO
Qui e Ora ~
 
 
  C’era un giovane tra la nebbia, che camminava con la testa china.
Non era bello, e a dire il vero i segni del passato avevano scavato solchi indelebili sul suo viso, smagrendolo e marchiandolo come un esule.
Eppure non era per questo che la gente lo evitava.
Avanzava con tutta la calma di un turista, apparentemente senza una meta precisa, nella metropoli gelida imbiancata da una folata di neve tardiva - eppure la sicurezza con cui svoltava fra le strade rese anonime dalla nebbia tradiva la sua profonda conoscenza della città.
Percorse gran parte di Wauxhall Walk in compagnia solo del suo passo attutito dalla neve, e poi svoltò in Randall Row quasi distrattamente, senza minimante modificare il passo pigro con cui avanzava. Aveva le mani calate profondamente in una giacca lunga troppo leggera per il clima rigido, che portava slacciata sul davanti.
Pedlars Park era un inferno di scheletri d’alberi morti da anni e fango gelato. Qua e là i cadaveri di vecchie altalene e saliscendi sbucavano fra la nebbia come patiboli abbattuti, i cui contorni cambiavano a seconda della direzione del vento. L’odore salmastro del fiume permeava l’aria, ammorbandola.
Con una scrollata di spalle, il giovane mosse il primo passo nel parco abbandonato, lo sguardo ora attento a calibrare il movimento del piede per non scivolare. Forse per la troppa concentrazione, non vide l’ombra che s’era messa ad avanzare verso di lui dalla panchina seminascosta dal grigiore. Gli fu accanto prima che avesse percorso dieci passi e lo afferrò da dietro, avvicinando la nuca del giovane al suo volto.
«È questo che fai adesso per sopravvivere?» chiese la vittima al suo carnefice, immobilizzandosi. Non sembrava sorpreso dell’aggressione né, a dire il vero, spaventato. Il suo volto, e la sua voce, esprimevano solo un’intensa tristezza, come se quell’incontro pesasse sulle sue spalle come un compito sgradevole.
L’assassino si bloccò, il coltello che aveva fatto scivolare fra le dita tremò mentre questi si allungava oltre la spalla del giovane e fino all’attaccatura dei capelli. Annusò forte una volta, e un’altra ancora, poi affondò il capo nell’incavo della spalla, come un cucciolo che cerchi calore.
«Sei così lontano da casa» disse l’assassino, sorridendo.
«Anche tu.» Per qualche ragione, quel commento aveva avuto l’effetto di amareggiare il giovane molto più della lama che aveva puntata alla pancia.
«Sono felice di vederti» disse il carnefice, ed era sincero.
«Vorrei poter dire lo stesso. Ti stavo cercando.»
«È lui che ti manda?»
«Siamo ancora legati» disse il giovane con semplicità, alzando le spalle di qualche millimetro, come a dire che non aveva poi troppa importanza - e fu come se una serie di sottintesi si fossero insinuati fra loro. Il volto dell’assassino si alzò, scivolando verso l’orecchio della sua vittima.
«La tua voce è più fredda della neve, amico mio.» L’assassino aveva un alito caldo come il fuoco, nonostante l’abbigliamento leggero e la pelle chiara, cianotica. «Dovrei riscaldarti. In fondo, sei mio ospite.»
«Come ai vecchi tempi?»
«Come ai vecchi tempi, amico mio» disse con nostalgia il carnefice, avvicinando di più la sua vittima a sé, possessivo.
«E poi mi ucciderai.»
«E poi dovrò ucciderti. Sei troppo importante per loro.»
«È per questo che ci hai lasciati a morire?» non c’era rimpianto o odio nella voce del giovane, solo dolore. Una tristezza infinita, velata di un sentimento troppo antico per venire da un volto come il suo.
«”Tutto gli uomini devono morire”» citò l’assassino con divertimento.
«Game of Thrones?» domandò il giovane, alzando un sopracciglio con aria scettica.
«Meglio di Dostoevskij, non credi?» disse il carnefice con un sorriso complice.
Contro ogni buon senso, il giovane rise. Fu l’ultimo suono razionale che emise.
Prima che l’eco della risata si fosse spento, l’assassino aveva già piantato la lama tre volte nel petto della sua vittima, che era crollata sulle ginocchia con la testa ancora sollevata al cielo.
Iniziò a nevicare, fiocchi leggeri e gelidi come la morte. Caddero in fili pallidi sui capelli del giovane, ne bagnarono il viso ora ancor più bianco e ne riempirono le cavità contratte nella smorfia di sofferenza estrema.
E mentre l’assassino si cibava della vita della sua vittima, il giovane allargò le braccia e aspettò quel momento di catarsi che si diceva sopraggiungere in punto di morte.
Non arrivò, rimanendo solo un mito. Come molte altre cose nella sua vita.
Quando finalmente il banchetto della creatura che dimorava nel parco fu concluso, questi rialzò il volto macchiato di sangue e prese fra le mani ora non più pallide il viso della sua vittima. Fili di fumo sottili come sogni si levavano dalla ferita mentre il calore defluiva via dal corpo, ma non una singola goccia di sangue bagnava la neve.
L’assassino allora si sporse e depose un bacio rosso e caldo sulle labbra blu della vittima – un bacio passionale, di quelli che solo un amante può donare. Poi lo abbandonò fra la neve e il fango, lasciando che fosse quell’inverno troppo lungo a preoccuparsene.
«Addio mon bien-aimé» disse l’assassino. E poi scomparve fra la nebbia fitta di quella città di fumo.


 

 
Piccolo Spazio-me:
Per ora, solo un’indicazione: tutto è reale. Le strade, i parchi, forse anche le ombre. Diffidate della nebbia, sempre e comunque.
Ci vediamo dall’altra parte (che poi sarebbe il prossimo capitolo).
 
È assolutamente vietato riportare questo scritto, sue parti o, in ogni caso, utilizzare personaggi, situazioni o qualunque altra cosa di questa storia che mi appartenga. 

 
Sottofondo consigliato > Orchestra
Nel banner: > Eun-su
All'inizio: This is Gospel, Panic! At the Disco

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Capitolo 2
*** Il cocainomane ***


We're damaged people
Drawn together
By subtleties that we are not aware of
Disturbed souls
Playing out forever
These games that we once thought we would be scared of1



Capitolo I
Il cocainomane
 
 
 


Fu solamente quando la catena cominciò a graffiargli il collo che Uriel si rese conto di essere fottuto.
Non che finora la situazione fosse stata tutta rose e fiori: era rinchiuso da almeno dieci giorni in una cella che puzzava di fumo e di piscio, un odore che gli si era piantato in gola e vi era rimasto, contaminando ogni singolo, nauseabondo pasto avesse provato a mandar giù. Non ne migliorava l’aroma. Con sua disperazione, aveva dovuto constatare che la leggenda secondo cui ai cattivi odori prima o poi ci si assuefa non era altro che questo: una cazzata. Come quella che gli aveva raccontato Antòn.
Quel russo del cazzo lo aveva incastrato. E il bello era che Uriel gliel’aveva lasciato fare.
Qualcuno gli aveva detto di stare zitto, mentre gli legava le mani dietro la schiena e lo trascinava, quasi di peso, dentro un’auto così lucida da sembrare nuova. Come in un film di serie b. Lui non aveva protestato, sapeva che non sarebbe servito: si era limitato a lasciarsi trascinare, il corpo abbandonato come un sacco privo di vita in equilibrio precario sulle gambe sottili, fin dentro la stazione e fra file di schiavi infagottati in divise nere. Non aveva fatto caso a loro. Qualcuno gli aveva chiesto le generalità e Uriel, alzando gli occhi scuri e appena vacui, aveva risposto «Fottiti!» con calma, quasi annoiato.
Il suo primo livido l’aveva collezionato lì, seduto davanti a quella scrivania di compensato nero. Un cartone dritto nello stomaco, appena sotto lo sterno, che gli aveva tolto il respiro e fatto risalire il misto di anfetamine e corn-flakes che aveva ingerito per colazione. Mordendosi la lingua, aveva rialzato lo sguardo solo per incontrare il sorriso sardonico del poliziotto.
«Ti fa male? Con tutto quello che devi avere in corpo, mi sorprende che riesci ancora a sentire qualcosa.»
Qualcuno dietro di lui aveva riso. Poi c’era stato un click sordo e la puzza del fumo, così invasiva da rischiare di soffocarlo. La ciminiera che gi stava dietro aveva soffiato un fiotto di fumo appena sopra la sua testa, avvolgendolo per un istante in una nauseabonda nuvoletta. Poi una mano era calata sulla sua spalla e l’aveva carezzata, quasi con affetto. Aveva aspettato solo un attimo, stringendo e pesandogli addosso, poi era scesa delicatamente fino al polso e quindi alla manica della giacca di pelle troppo larga, mentre l’uomo si chinava su Uriel, ammorbandolo. E poi, inaspettatamente, l’aveva sollevata, mettendo in mostra l’incavo del gomito. Bianco, liscio e intatto.
«Non è ancora del tutto andato. Ripulitelo.» Aveva ordinato con una voce arrochita che suonava familiare, lasciando andare il braccio di Uriel, che aveva ripreso a respirare. Poi era uscito, lasciandolo alle cure dei suoi schiavi – che lo avevano ammanettato e trascinato fra le file di sbarre tutte uguali e più giù, nel sotterraneo che gli ricordava tanto quei “livelli speciali” di alcuni giochi per la Xbox. Gli avevano stretto una cinghia al collo come a un cane randagio e sostituito le manette con una più pratica catena di acciaio, che gli teneva le mani boccate dietro la schiena e, con un mezzo giro che abbracciava la vita, le gambe e le palle come un serpente di ghiaccio, scendeva a bloccargli le caviglie. Così, ogni volta che respirava più forte – o urlava, o le crisi d’astinenza lo facevano tremare – le braccia si muovevano e rischiava di diventare femmina. Non era molto comodo nemmeno per mangiare: doveva strisciare verso il piatto come un maledetto gatto randagio e leccare quella merda che gli davano.
Aveva provato a lamentarsene coi suoi carcerieri: «Garçon, il servizio qui è davvero scadente, e c’è del topo nella mia minestra.» aveva detto, ridendo come un folle. Non aveva ottenuto risposta. Quelle guardie erano silenziose come sordomuti… o forse non erano nemmeno lì quando aveva parlato. Non era sicuro di cosa fosse successo durante i giorni dell’astinenza. Quando non aveva provato un dolore da farlo andare fuori di testa era sprofondato in una sorta di catalessi piena di sogni strani e visioni. Tutte ovviamente a tema prigione, morte, sangue e altre belle cose simili. Non riusciva a distinguerle dalla realtà, e nemmeno adesso era molto chiaro quali fossero sogni e quali avvenimenti. Eppure, nonostante il dolore e la puzza e la testa che faceva tilt ogni due per tre, non aveva mai pensato di essere veramente fottuto. Non come adesso.
Due poliziotti lo tenevano per le ascelle, trascinandolo più che trasportarlo, mentre un terzo dettava il ritmo della marcia con strattoni alla catena che gli stringeva il collo. Camminavano lungo un corridoio dalle pareti ocra – e come gli fosse venuto in mente il nome preciso di quell’orrendo colore neppure Uriel lo sapeva – che era troppo luminoso per essere quello di un sotterraneo di una dannatissima prigione. Illuminava vividamente le uniformi nere nei poliziotti, brillando sulle giacche lunghe e sui pantaloni scadenti. Metteva a nudo ogni cosa, e Uriel cominciò a pensare a come sarebbe sembrato a quegli agenti sotto quella luce. Un ragazzino biondo con gli occhi da bambino, il nome da angelo e il sorriso da stronzo, così lo aveva descritto una volta Antòn.
Russi del cazzo.
Sarebbe sembrato un coglione completo, lo sapeva: l’ennesimo adolescente che si fa beccare nella casa di un bravo compagno a rubare tutto quello che gli sembrava vendibile, tutto quello che poteva permettergli di farsi ancora per un giorno. Forse uno di cui approfittare, che avrebbe senza problemi dato via il culo per una sniffata -  Uriel sapeva bene che nelle carceri può succedere. Lo dicevano alla tv, no? E chissenefrega che era l’America quella che vedeva nei telefilm, se si odiavano tanto forse era perché in Russia le cose non andavano diversamente, no? Forse era proprio lì, in qualche misteriosa alcova da tortura, che lo stavano portando. O forse volevano solo sparargli un colpo in testa e buttarlo in mezzo alla neve. Succede, a volte, o così dicevano in giro.
La porta che aprirono era in tutto e per tutto anonima, e fu questo a dare il brivido lungo la schiena di Uriel. Non cigolò né si aprì su una stanza buia, ma rivelò solo un piccolo ufficio ingombro di scrivanie e catalogatori, con una bella mappa dell’ex URSS che copriva quasi del tutto la parete di fondo. Una ventola sul soffitto mandava un lieve sibilo gracchiante, certo per lo sforzo di eliminare dalla stanza l’odore del fumo – che era soffocante e pesante, troppo simile a un velo grigio. Uriel cominciò a tossire violentemente non appena l’uscio fu aperto, e puntò i piedi per terra, cercando di sottrarsi a quella tortura. «Se… se avete deciso di uccidermi questo… non è certo il… il modo… più umano.» disse, mentre suo malgrado le labbra si piegavano ad un sorriso ironico. «Tiratemi… un colpo fra le palle degli occhi e… alla prossima vita.»
Nessuno rispose, né accennò anche solo di averlo sentito. La figura che gli stava davanti era di spalle, intenta ad osservare la cartina. Aveva una giacca di un bel cotone nero lunga fino al sedere, che ne fasciava le forme asciutte, e capelli bianchi come la neve.
I due schiavi alle sue spalle cominciarono a spingerlo dentro con più forza e Uriel riprese a divincolarsi ferocemente. Allora il poliziotto che lo teneva per il collo diede uno strattone alla catena e gli altri due mollarono la presa, lasciando Uriel senza sostegno. Cadde a terra, a faccia avanti, sbattendo il naso sulla catena ancora tesa. Mentre imprecava, le due guardie dietro di lui batterono i tacchi all’unisono e uscirono, lasciando la porta aperta. L’ultimo poliziotto tese con fare marziale la catena al superiore e, quando questi ebbe allungato una mano pallida come quella di un cadavere, batté i tacchi a sua volta e uscì che Uriel era ancora a terra, cercando di trovare un filo d’aria in mezzo a tutto quel fumo, polvere e dolore.
L’uomo dietro la scrivania si sedette ed attese, accavallando le gambe come uno che stesse nel salotto di casa sua, bello rilassato, a guardare il telegiornale con la moglie. Non disse una parola.
Uriel, dal canto suo, non aveva alcuna fretta di alzarsi. Puntellò le spalle a terra con un movimento lento, cercando di far forza sullo stomaco, ma non aveva abbastanza fiato. E poi non voleva cedere per primo. Che quel bastardo si sporcasse pure le mani con lui! Se lo voleva, doveva venire a prenderlo.
Non lo fece. Si limitò ad aspettare e poi a spingere un tasto e sollevare un foglio. Poi silenzio, ancora per un minuto buono, prima che cominciassero a risuonare i passi in corridoio.
L’ombra che apparve sulla porta era massiccia, ma non in senso negativo. Si fermò al limitare della soglia per un tempo abbastanza lungo e poi afferrò la catena al collo di Uriel, usandola per sollevarlo. Il respiro si mozzò nella gola del ragazzo, che annaspò, ora fisicamente incapace di respirare.
Non durò molto. Il nuovo arrivato lo depositò quasi immediatamente sulla sedia davanti alla scrivania e lo lasciò a boccheggiare.
«Testa di cazzo.» sputò come ringraziamento Uriel. Aveva la bocca impastata di cenere e saliva, e la stanza che gli girava intorno lentamente. Stava male quasi come nei primi giorni d’astinenza, quindi non notò il fucile che pendeva dalla spalla del nuovo arrivato… almeno, non fino a quando lui glielo puntò alla tempia sinistra.
 «Non facciamo più tanto gli stronzi adesso, eh?» domandò il militare. Aveva una voce dura, da persona abituata a dare ordini e a non avere pietà. Tolse la sicura dell’arma e rimase fermo e pronto a colpire, aspettando un cenno dall’uomo dietro la scrivania. Che non si era mosso dalla sua posizione storta per metà, il viso nascosto dietro un foglio coi buchi da tutti e due i lati, di quelli che si usavano per i fax.
«Sono i risultati?» chiese il militare, allungando il collo. Girandosi appena, Uriel notò che aveva capelli lunghi e lisci che gli arrivavano fino alle spalle, di un marrone scuro su cui spiccavano ciocche bianche. Era giovane, trent’anni al massimo, e portava un bel paio di Ray-Ban neri.
L’uomo dietro la scrivania non rispose, limitandosi a far scorrere il foglio fra le dita per almeno due minuti buoni. Poi improvvisamente calò la carta sul tavolo, rivelando il proprio volto.
«Che cazzo ci fai tu lì?» urlò Uriel, muovendosi in avanti con foga. Improvvisamente non gli importava più del fucile o del fatto di essere legato come un cane: una rabbia cieca si era impossessata di lui non appena aveva posato gli occhi su quel viso attraente incorniciato dai capelli color platino, su quegli occhi leggermente allungati che sembravano volerti leggere l’anima e giudicarti una merda, su quella bocca che, con la sua piega beffarda, sembrava costantemente prenderti per il culo.
«Felice di rivederti ancora in vita, Uriel.» disse Antòn, sorridendo a mezza bocca. Un sorriso affascinante come quello di una modella e pericoloso come quello di uno squalo. Uriel ne rimase ammaliato e interdetto, come sempre da quando aveva conosciuto lo sgherro.
No, la spia, si corresse mentalmente.
«Voi russi siete tutti delle teste di cazzo, lo sapete vero? E tu sei uno stronzo e un figlio di puttana!» rispose Uriel, urlando con tanta forza che goccioline di saliva volarono dappertutto. Il soldato che gli teneva il fucile puntato alla testa scattò, pronto a farlo fuori, ma Antòn lo fermò con un secco cenno della mano. «Perché cazzo mi hai spedito dentro?»
Per tutta risposta, Antòn afferrò la catena ancora poggiata sulla scrivania e la tirò con violenza. Uriel venne trascinato in avanti, col petto poggiato al legno scuro e la testa appena rialzata. La nuca cominciò a fargli male, mentre vecchie croste di piaghe ormai chiuse si rompevano, lasciando uscire sangue nuovo.
«Perché sei un piccolo idiota cocainomane che ha qualcosa che vogliamo.» rispose Antòn con quella sua voce bella e pericolosa. Fece un cenno e il militare immobilizzò Uriel con un gomito sulla schiena, mentre Antòn estraeva una boccetta di polvere celeste da una tasca della giacca costosa.
«Quindi i risultati sono positivi?» domandò il militare.
«Sulla carta, è perfetto. L’unico suo difetto è la coca, ma dovremmo avergliela fatta smaltire quasi tutta. In ogni caso, lo scopriremo subito.» disse Antòn e si abbassò, mentre una mano scivolava sotto il mento di Uriel e gli stringeva la mascella con forza, impedendogli di muoversi. Con l’altra mano gli mise la boccetta sotto il naso. Uriel smise di respirare all’istante, ma il militare gli diede un colpo con un ginocchio appena sotto le costole che lo fece inspirare violentemente.
La polvere era fredda come ghiaccio nelle narici di Uriel, e bruciava. Sembrava farsi strada come una marea di aghi di ferro. Il ragazzo poteva sentirla penetrare nei tessuti e dà lì nel circolo sanguigno, dai capillari alle arterie dietro la testa, giù per la spina dorsale e su per il cervello. Il cuore accelerò.
«Cosa cazz…» provò a chiedere Uriel, ma non concluse. Il cervello smise per un secondo di funzionare al ritmo normale e poi accelerò, catapultandolo in una visione molto più sconvolgente di qualsiasi avesse mai avuto durante i suoi trip passati.
«Droga, amico mio. Una droga migliore di qualunque altra tu abbia mai provato.» disse Antòn lasciandolo andare. Lui e il militare si spostarono, avvicinandosi quasi spalla contro spalla. In piedi, si vedeva chiaramente la differenza d’altezza fra i due: Antòn, col suo metro e ottantasei, arrivava circa alla spalla del militare, che era più alto di lui di tutta la testa.
«Quanto ci metterà a tornare indietro?» domandò il militare, rimettendosi il fucile in spalla.
«Dipende da quanta coca ha ancora in corpo. Se ce n’è poca farà resistenza per un po’, e la visione tarderà ad arrivare. Se invece è troppa, andrà in contrasto con l’Ireinina. Il che vuol dire infarto o ictus, a seconda di cosa viene colpito prima… e l’inizio di una nuova caccia all’uomo.» tra le opzioni, quella che sembrava infastidire di più Antòn era proprio l’ultima.
«Dovevamo aspettare.» disse il militare, abbassando gli occhiali da sole per osservare meglio il ragazzino steso sul tavolo. Aveva la bocca mezza aperta e gli occhi spalancati che si muovevano velocemente, come se avesse una crisi epilettica.
«Non sono io che comando, lo sai. Non vuole più aspettare e ha dato l’ordine, scavalcandomi completamente. Non ero d’accordo, ma a chi interessa quello che voglio?» disse con teatrale dispiacere Antòn, buttandosi sulla sedia della scrivania come se la scarsa considerazione che gi veniva riservata lo ferisse a morte. Il militare sorrise, un ghigno da rapace.
«Non ti buttare giù così, Antòn.» gli disse scherzando. L’altro si limitò ad indicare una sedia piena di fogli di carta ingiallita.
«E tu vieni a sederti invece, Ivan. Bene che vada, ci vorrà almeno tutta la notte.»



 
1 Siamo persone danneggiate 
Radunate insieme 
Da sottigliezze di cui non siamo coscienti 
Anime disturbate 
Che reciteranno fino in fondo per sempre 
Questi ruoli che una volta pensavamo ci avrebbero fatto paura 
(Damaged People, Depeche Mode)

 
Piccolo Spazio-me:
Bene, eccoci. Innanzitutto vorrei ringraziare chi ha messo la storia fra le seguite e le preferite *-* e chi si interessa a questo piccolo viaggio che amo alla follia :D
Come avrete forse intuito, il prologo è un evento distante qualche tempo nel futuro :D Mi piaccino le storie che cominciano come finiscono :D Inoltre sto tentando un piccolo esperimento: vorrei dare ad ogni capitolo un'impronta diversa a seconda del narratore, che sarà a turno uno dei cinque protagonisti (quelli del banner nel prologo). Mi piacerebbe quindi sapere se notate gli abbinamenti "stile/linguaggio/personaggio" o no :D 
Inoltre, se avete qualche domanda/indicaizone/suggerimento/ipotesi/voglia di farmi un ciao, io sono qui che aspetto ;) non serve che vi dica quanto è utile a un'autorice ricevere anche due righe, di qualunque natura esse siano :D Su, sostenetemi :P
Come al solito:
 
È assolutamente vietato riportare questo scritto, sue parti o, in ogni caso, utilizzare personaggi, situazioni o qualunque altra cosa di questa storia che mi appartenga. 

Il banner è preso dalla galleria di Eun-su. Fate un salto a quel link, quell'artista è di una bravura assurda!

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Capitolo 3
*** Il collare ***


I see a river
It's oceans that I want
You have to give me everything
Everything's not enough
1



Capitolo II
Il collare
 
 
 


C’era un universo in technicolor nella sua testa, più grande di quanto avrebbe mai potuto sognare. Più grande di qualunque visione la coca gli avesse mai dato.
Forme sfocate facevano da sfondo a colori mai esistiti, mentre la voce lontana echeggiava da un mondo all’altro, sussurrandogli verità che non avrebbe dovuto conoscere. Parlavano con un accento monotono e affascinante, scandendo parole senza una pausa o un filo logico. Come la visione di un oracolo.
Uriel sapeva che era così, l’aveva già sperimentato da bambino. Era il motivo per cui si era fatto la prima canna, la ragione che l’aveva portato a passare a qualcosa di più… potente.
Ma mai, nella sua vita
Pensieri e voci si mischiarono all’improvviso, straziando l’io di Uriel in mille e mille frammenti, che si persero nella moltitudine di cose che aveva nella testa. Troppe lingue diverse gli parlavano, troppe mani colorate gli indicavano immagini sfocate, lo strattonavano, cercavano di portarlo con sé – e poi non furono solo mani, ma occhi e braccia e… labbra.
La ragazza coi capelli macchiati di sangue prese corpo da quelle labbra chiare e scacciò col bacio tutti i fantasmi che gridavano e pregavano, allontanando tutti i grotteschi universi che gli gettavano contro, lasciandone uno solo. Il suo.
Allora Uriel vide la strada e gli uomini che la percorrevano, e seppe cosa c’era da fare.
La ragazza sorrise; il mondo vacillò, ondeggiando su linee di terremoto. E mentre il ghigno bestiale si allargava fino a inghiottire la visione, un dolore più grande di qualunque avesse mai provato gli infiammò gli occhi, e Uriel urlò.
 
«Non va.» disse secco Ivan sollevando la zip della giacca fin sotto il collo arrossato, con mani tremanti. Si era alzato di scatto al primo grido e ora girava attorno ad Uriel come un cane alla preda, pronto a balzare.
«Respira. È già una vittoria.» Antòn non sembrava preoccupato. Aveva allungato le gambe sul tavolo e steso la schiena, la suola macchiata delle nere e costose scarpe a meno di un centimetro dalla faccia di Uriel.
«Sono quasi due ore che non si muove. Non ha più emesso un suono. Gli altri…» cercò di spiegare Ivan, infiammandosi. Antòn lo guardò e scosse il capo, indirizzandogli un mezzo sorriso che era in parte condiscendente, in parte divertito.
«Gli altri erano troppo oltre. Vecchi, minati dentro. No, se avesse dovuto ucciderlo sarebbe già morto. E invece sogna. Forse questa volta…» Antòn si fermò, schioccando le labbra in un gesto eloquente. Aveva il volto compiaciuto, gli occhi vacui e il sorriso di chi sia completamente, veramente appagato.
«Te la godi, vero?» Ivan si era fermato, e ora fissava l’altro con una rabbia che non si sforzava di nascondere dietro le lenti dei Ray-Ban, calati per metà sul naso aquilino.
«Ogni secondo.» la voce di Antòn era estasiata, sognante quasi. Aveva socchiuso le palpebre e reclinato il capo all’indietro, tendendosi sulla sedia. «Oh, non oso immaginare cosa sarà questo viaggio. Una tale…»
«Non essere ingordo.» disse il militare, secco e tagliente. Stringeva le mani con una forza tale che non solo le nocche erano sbiancate, ma sul collo vene e muscoli sembravano sul punto di esplodere.
«Non scioglierò l’accordo, Ivan. Tu sei fondamentale per tutto questo.» disse Antòn, colpendo nel segno come ogni volta. Ivan si rilassò, arricciando le labbra in una smorfia divertita, che mascherava il senso di sollievo. «Sta per svegliarsi.» annunciò poi, senza accennare un movimento o un’occhiata.
Uriel aveva effettivamente ripreso a respirare con forza, inalando zaffate di aria carica dell’odore di sigaretta. Non ci volle molto prima che cominciasse a tossire violentemente, la testa bionda che sbatteva a tratti contro le scarpe di Antòn. Nessuno dei carcerieri si mosse per sostenerlo – Ivan, anzi, imbracciò il fucile e, con il gesto fluido di chi sia abituato a sparare come a respirare, lo puntò nuovamente sul ragazzo.
«Cerca di non morire per crisi respiratoria ora. Sarebbe di un’ironia insostenibile.» disse Antòn, annoiato.
Come rispondendo ad un ordine, Uriel chiuse la bocca e cercò di trattenere la tosse, soffocandola fra i denti. Puntellò le mani e subito il gelo della canna del fucile gli si piantò alla tempia. Non gli prestò attenzione, troppo concentrato a tirarsi indietro.
Ssshh. Il fruscio metallico della catena che strisciava sul tavolo divenne ben presto l’unico suono. Trovando un equilibrio precario, Uriel alzò la testa - occhi arrossati e spenti, labbra cianotiche - e guardò Antòn con tutto l’odio che era in grado di provare. L’altro non se ne rese conto: aveva ancora gli occhi chiusi.
«Bentornato.» disse il russo, respirando profondamente.
«E chi si è mosso?» Antòn sollevò un sopracciglio, con eloquenza. «Potrei ripeterti ogni parola che avete pronunciato.» aveva la voce strozzata, ed era evidente che cercasse di usare il meno possibile quell’aria infetta.
«Oh, non dubito che tu abbia sentito o visto qualcosa, ma presto dimenticherai. Funziona sempre così, per voi. È questo che vi rende dannatamente perfetti.» con lentezza Antòn spostò le gambe e recuperò la postura marziale che aveva quando Uriel era stato sbattuto in quella stanza.
Il ragazzo non ripose, limitandosi a fissare il russo. Antòn notò che qualcosa nel suo sguardo era cambiato: c’era una sicurezza che non gli si addiceva, annidata nell’incavo delle labbra e tra iride e pupilla. Lo faceva sembrare più maturo, più adulto - più forte, forse.
Il suo viaggio deve essere andato meglio di quanto previsto constatò Antòn, annotando l’informazione in quella parte della sua mente in cui conservava le armi. Era segretamente compiaciuto, ma non lo diede a vedere. «Uriel, quell’atteggiamento superiore non ti si addice. Vieni dalla merda, e lo sai.» disse invece, lasciando che dalle parole fuoriuscisse la giusta dose di orgoglio e veleno.
Uriel reagì come aveva previsto: il suo volto si rabbuiò e parte di quell’ardore adolescenziale che non aveva mai veramente perso gli oscurò i lineamenti. «Chiedimelo e basta!» urlò il ragazzo.
«Perché? Muori già dalla voglia di dirmelo.» disse Antòn, sorridendo al nuovo mutamento del giovane. «Tieni la testa bassa, cucciolotto. Non mi servi per la caccia.»
«Vaffanculo.»
«Ivan, la catena.» disse Antòn, accogliendo il commento con uno di quei suoi mezzi sorrisi, affascinanti come il ghigno di una pantera. Ivan abbassò il fucile e prese la chiave che Antòn gli aveva allungato sul tavolo. Senza una parola, il militare afferrò i capelli all’altezza della nuca di Uriel e infilò la chiave nel piccolo gancio che teneva catena e collare uniti, separandoli. Il metallo cadde a terra, colpendo la scarpa destra di Uriel – che non vi fece caso, troppo preso dal doloroso addio al crine e dal dolore sordo che si allentava lentamente.
«Vaffanculo. E anche a te.» ripeté Uriel una volta libero accogliendo ora Ivan, che aveva ripreso a tenerlo sottotiro, ora Antòn nel suo insulto.
«Abbassa anche il fucile. Non lo sa ancora, ma non può più mordere.» ci fu il rumore di un sasso che cade nell’acqua, e Antòn estrasse il cellulare. «Ora Ivan ti toglierà le manette. Questo…» senza staccare gli occhi dal messaggio, il russo estrasse uno dei fogli dal cassetto della scrivania e lo lasciò cadere sul legno. «è il tuo lasciapassare. Sai leggere, vero?» Ivan ridacchiò. Si era appoggiato al muro, le mani strette al petto, il fucile vicino alle gambe, troppo simile a un’imitazione del soldato. «Dice che sei libero. Pulito. E altre stronzate del genere.»
«Cazzo, ti piace proprio tanto il suono della tua voce, eh?» disse Uriel con una smorfia di disgusto, ma si affettò a prendere il foglio. Solo quando l’ebbe al sicuro nella tasca posteriore dei jeans domandò «Questo?» indicando con l’indice il collare che ancora indossava.
«Quello resta a te. Consideralo come un regalo.» Antòn aveva il volto corrucciato. Chiuse il telefono di scatto e scambiò una lunga occhiata col militare, che strinse le labbra, risollevando i Ray-Ban.
«Starebbe meglio sul tuo cane. Compraglielo rosa.» suggerì Uriel, indicando con il pollice Ivan.
«Il mio cane lo indossa già. Ma se preferisci posso fartelo colorare.»
«Dove cazzo pensi che possa andare con questo addosso?» Il ragazzo aveva il respiro affannato e le pupille ancora dilatate che si muovevano frenetiche, cercando di tenere ogni cosa sotto controllo.
«Dove vuoi. Sei libero. È questa la chiave del gioco.»
«Un collare? Ti sei fottuto il cervello con quella roba, Antòn.» Uriel adesso gridava, cercando di sovrastare la risata bassa di Ivan.
Sta crollando pensò Antòn, e allargò il sorriso, avvicinandosi al ragazzo.
«È un po’ come per il matrimonio: un pezzo di metallo non ti impedisce di fare quel che desideri, ma ammonisce gli altri sulla tua condizione. Vuoi che te lo dica in maniera più elementare? Sei libero di andartene, ma non è detto che fuori trovi la stessa cura che ti riserveremo noi.» Spiegò Antòn con calma, girandogli intorno come un compratore intento a valutare uno schiavo. La maniera eloquente con cui aveva sollevato la bustina di droga non lasciava dubbi sul genere di cura che avrebbero avuto per lui.
«Mi spieghi quand’è di preciso che ci siamo sposati?» Domandò Uriel girandosi a seguire il russo con lo sguardo. Era evidentemente in tensione: una serpe pronta a scattare al minimo accenno di pericolo. Nonostante questo, il tono rimaneva strafottente, un misto di derisione e divertimento. «Hey, non è che dobbiamo anche consumare, eh, tesoro mio? No, perché se è così puoi anche ammazzarmi subito, eh. Io non me lo faccio sbattere…»
Antòn si fermò e con un gesto rapido azzerò le distanze fra sé e il ragazzo. Gli occhi grigi si addolcirono, socchiudendosi appena mentre la bocca si piegava in un mezzo sorriso, tanto affascinante quanto appagante. Il russo sollevò una mano chiara e passò il dorso sulla guancia di Uriel, sfiorandola appena. Scese lentamente mentre il volto si avvicinava ancora un po’, quanto bastava perché il calore del respiro infiammasse l’angolo destro della bocca del ragazzo. Uriel non si mosse: qualunque obiezione fisica o morale avesse mai avuto era stata cancellata, spazzata via da quegli occhi troppo magnetici, da quelle labbra così invitanti, da quel mezzo sorriso, dal desiderio.
Senza accorgersene, Uriel sollevò il capo, esponendosi a quella carezza capace di fargli tremare la pelle. Le dita di Antòn scesero dolcemente fino alla mascella, carezzarono l’orlo del collare e poi, fulminee, ci si insinuarono sotto, stringendo con crudeltà. In un attimo l’incantesimo fu spezzato e Uriel, a metà di un sospiro, si trovò col fiato troncato dalle implacabili morse delle dita di Antòn.
«Tu ti farai fare qualunque cosa io vorrò farti. Tu non sei altro che un cane, o una bambola. E io sono più forte di te. Ti è chiaro?» il tono suadente non aveva ancora del tutto abbandonato la voce di Antòn, che guardava Uriel con un’ingannevole calma in volto.
Il ragazzo non rispose. Annaspava, il petto che si alzava asincrono; si teneva un polso con l’altra mano cercando forse di ritrovare il filo della realtà fra i battiti accelerati del cuore. Non dovette riuscirci perché si lasciò andare con un gesto secco, scuotendo il capo. «Se è così perché ti servo?» domandò, cercando di suonare spavaldo. Aveva ripreso a tossire.
«Ma è davvero così coglione?» domandò Ivan, esasperato. Ora erano lui e Antòn a scuotere il capo, sui visi due identiche espressioni di disprezzo mascherate da pena. Il militare recuperò l’arma e se la portò alla spalla, mentre l’altro russo fece tre passi avanti, affiancando Uriel. Sollevò una mano e gliela posò sulla parte anteriore della spalla, in un gesto che sapeva di vecchia, consolidata amicizia.
«Tu non mi servi. Io servo a te.» disse Antòn, e Uriel chiuse gli occhi di scatto, cercando di allentare la morsa della scia di ghiaccio che li aveva attraversati come una scintilla, lasciandosi dietro l’impronta di un volto.
Un ricordo della droga.
«Ok.» disse Uriel, più a sé stesso che ai russi. «Ok. Andiamo a prendere la sibilla rossa?»




 
1 Vedo un fiume
Sono gli oceani che voglio
Devi darmi tutto
Ma tutto non è abbastanza 
(I Want It All, Depeche Mode)

 
Piccolo Spazio-me:
Bene, eccoci. Nuovamente vorrei ringraziare chi ha commentato e messo la storia fra le seguite e le preferite *-* 
In questo capitolo conosciamo un po' meglio il trio iniziale... che ne pensate di loro? Io ho una certa simpatia per uno, in particolare, ma non ve lo svelerò ancora, dato che ne mancano ancora due all'appello :D
Spero che questa storia vi incuriosisca e che vogliate continuare a seguirla! E, lo sapete, se avete qualche domanda/indicazione/suggerimento/ipotesi/voglia di farmi un ciao, io sono qui che aspetto ;) 
Come al solito:
 
È assolutamente vietato riportare questo scritto, sue parti o, in ogni caso, utilizzare personaggi, situazioni o qualunque altra cosa di questa storia che mi appartenga. 

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Capitolo 4
*** Il demone ***


I'm still recovering
Still getting over all the suffering
More known for my anger
Than for any other thing1



Capitolo III
Il demone
 
 
 


Aveva parcheggiato l’auto di traverso, occupando per buona misura almeno tre posti.
I poliziotti gli passavano vicino, guardandolo con la ferina impotenza di chi sia abituato a farsi portare rispetto. Non questa volta, amico! pensava il ragazzo, guardando gli agenti attraverso lo sportello mezzo aperto e sentendosi stranamente simile a un cowboy da film. Sapevano chi era, per chi lavorava: era intoccabile, e questo disturbava tanto loro quanto lui.
Non c’è divertimento. Mai.
Dire che li odiava era un eufemismo, ma che poteva farci? Aveva bisogno di soldi e loro pagavano bene.
Certi vizi non si possono semplicemente ignorare, gli aveva detto una volta il Capo. Una delle sacrosante verità che avrebbe dovuto ascoltare.
Sacrosante… per l’inferno, che ironia. Quali delle sue parole non lo erano? Non gli andava a genio il sarcasmo – o meglio, lo odiava almeno quanto detestava trovarsi lì, ora, ad aspettare quel testa di cazzo di Andreevič. Che ritardava, come al solito, costringendolo a mettersi in mostra.
Non che gli dispiacesse farlo.
L’unica cosa buona che i suoi vizi gli avevano portato era quell’auto, e gli piaceva sfoggiarla: modello straniero, bassa in maniera così meravigliosamente inadatta alle strade gelate e nera come il peccato, spiccava fra i camioncini bianchi della polizia come un neo sulla pelle di una bella donna. O di una brutta - per lui non c’era differenza, fintantoché avevano quello che gli interessava.
Teneva il motore accesso da più di un’ora, il riscaldamento al massimo per combattere il gelo che saliva dai cumuli di neve e ghiaccio, che brillavano allegri della luce della mattina insolitamente limpida.
Nonostante i -12 gradi segnati dal computer di bordo, però, il ragazzo indossava solo jeans neri e una canotta color vinaccia, che lasciava intravvedere la rete di tatuaggi che gli copriva spalle, braccia, collo e volto. Simboli e intrecci che qualunque guardia carceraria – o ex prigioniero – avrebbe riconosciuto.
Mafija. Almeno tre diverse Organizacija.
Scommetto che si chiedono che c’entro io con loro. Non avrebbero di certo fatto rapporto, ma questo non significava che la cosa non li incuriosisse. Continuavano a lanciargli occhiate parlando a mezza bocca, come imitando scarsi ventriloqui. Sorridendo, sollevò una mano e salutò il più vicino degli agenti, un ragazzo talmente brutto che perfino la morte l’avrebbe rifiutato. Quello arrossì, stringendo le labbra fino ad una linea sottile, ma non abbassò lo sguardo. Che stronzo pensò, piegando le labbra in un bacio lento e volgare, mentre la mano sinistra scendeva indolente verso il pacco.
Forse il ragazzo lo avrebbe attaccato – o chissà, avrebbe magari gradito l’invito, costringendolo a un’esperienza che non intendeva ripetere. Non a breve, almeno.
O forse sarebbe stato costretto a tirare fuori il coltello, e che si fottesse l’universo! Non sarebbe stato certo il suo sangue a far compagnia alla neve grigiastra.
Dal sedile del passeggero la donna si sporse velocemente in avanti, allungando un braccio esile e nudo verso la maniglia interna della portiera, tirandola a sé con uno scatto.
Il metallo gelido lo colpì a un ginocchio, trasmettendogli una scarica di dolore che gli fece stringere le dita in un riflesso incontrollato. Lei non mollò, continuando a tirare la portiera e colpirlo; tremava, forse non solo per il clima, e lui poteva sentirlo chiaramente.
Trattenendo il respiro per il dolore bruciante che si irradiava dal ginocchio e dalle palle, scacciò la ragazza e tirò dentro le gambe. La portiera le seguì, docile come un gattino, isolandoli dal mondo là fuori.
Sarà per la prossima volta, tesoro pensò con quella teatrale ironia che era il marchio distintivo del suo viso.
Si assestò al posto di guida, guardando la ragazza al suo fianco fare altrettanto. Era rossa in viso, le labbra quasi cianotiche.
C’è qualcosa di dannatamente affascinate in lei pensò. Forse erano le spalle nude, o il petto fasciato nel corpetto nero da darkettona… o magari quegli occhi carichi in ugual modo di sfida e pianto, che sembravano giudicarlo peggio ogni secondo di più.
No, non affascinante. Eccitante.
«È un po’ presto per cominciare ad essere gelosa, non trovi? Ci conosciamo appena.» disse, smorzando l’ilarità della voce con la mano, che scovolò sulle gambe fasciate di morbido tessuto a rete larga. Lei si irrigidì ma non si mosse – non poteva. «O forse nell’attesa vuoi farmi un pompino qui, davanti a tutti? Che bimba cattiva sei!» la provocò, allungando la carezza fin quasi all’incavo della coscia. Lei si mosse, cercando di imporre una distanza fra loro, gli occhi che saettavano rapidi da una parte all’altra del veicolo, come in cerca di aiuto.
Tac.
Rumore di metallo e vetro. Qualcuno bussò un colpo al finestrino, poi un altro. Pervaso da un moto d’ira, si voltò solo per trovarsi davanti il mezzo sorriso dello stronzetto albino.
Che attentava all’integrità della sua auto picchiando quel suo dito esangue e inanellato contro il vetro oscurato.
«Cazzo.» disse mentre la mano si abbassava, al ritmo del finestrino, fino alla vita e al coltello. Accanto a lui, la ragazza tirò un sospiro di sollievo. «Andreevič, togli quel dito del cazzo dalla mia macchina o giuro che te lo taglio.» disse, puntando l’arma contro l’altro a mo’ di saluto. «E tu tieni giù il fucile. Posso aprirti dalla bocca alle palle prima che tu abbia solo pensato di sparare.»
«È sempre un piacere vederti, Rybakov.» Ivan fece un cenno con l’arma.
«Si vede che non ne sai un cazzo di cose piacevoli, tu.» gli rispose col tono più sprezzante che riuscì a tirare fuori.
«Il tuo buonumore è un balsamo per tutti noi.» commentò il cecchino. Andreevič sorrideva in quel modo calmo e condiscendente che era in grado di farlo incazzare come poche altre cose – tutte quelle che faceva l’albino, in effetti.
Senza tirare indietro la mano sbloccò con l’altra la portiera e, fulmineo, la spalancò, sperando di sfasciare almeno la metà dei denti di quel coglione pallido.
Non lo prese che di striscio, ovviamente. Ma sognare la sua faccia coperta di sangue era comunque piacevole. Chissà se il suo cagnolino vestito da soldato avrebbe strillato come una bambina isterica, vedendolo cadere…
«Dì, abbiamo interrotto qualcosa o sei solo particolarmente felice di vedermi?» domandò Andreevič appoggiandosi con fare lascivo all’auto, e una vena prese a pulsargli sul collo mentre l’albino accarezzava il cofano distrattamente. «Chi è la tua amica?»
«So che sei così abituato alle prostitute che pensi che ogni donna lo sia, ma questa fa eccezione. O almeno così dicono ai piani alti.» rispose, lanciando un’occhiata alla darkettona – che stava cercando di far scivolare via la mano esangue dalle manette. «Non ci pensare.» le disse, morendo in realtà dalla voglia di vederla correre via. Quanto c’avrebbe goduto! «Tu invece ti sei fatto un nuovo amico, Andreevič?» Domandò, cercando di deviare i pensieri dalla via umida e scivolosa che stavano prendendo e indicando con un cenno della testa il ragazzino biondo col collare.
«Non uno di quelli che pensi tu. O almeno, non ancora.» disse, con il tono più laido e sensuale che gli avesse mai sentito usare… e dire l’aveva interrotto in parecchie situazioni molto più delicate di questa.
«È giovane. Cazzo, mi fai sempre più schifo.»
«La cosa è reciproca, lo sai.» Andreevič lo guardava come era solito osservare le sue prede: occhi leggermente socchiusi, labbra lievemente aperte appena piegate all’infuori… e quella voce del cazzo!
Sembra che abbia un orgasmo, ogni volta che parla così!
«Togli quel tono viscido quando ti rivolgi a me. Mi fa vomitare.» disse, cercando di mettere in quelle parole tutto l’odio che gli era possibile. Non che gli fosse difficile, in realtà. «Come ti chiami, bimbo?» chiese, allungando il braccio sinistro – quello con la mano ancora libera da coltelli – oltre lo sportello dell’auto, su cui s’era appoggiato.
«Uriel.» si presentò il ragazzetto allungando il braccio a sua volta, con quella tipica, violenta indifferenza che tutti i bambini cresciuti per strada si portavano dietro come un marchio di fabbrica.
«Non gli somigli affatto.» disse scuotendo il capo. «Kas’yan Rybakov. E il tuo come finisce?»
«Lepont.» sbottò il nano, irritato.
«Siete andati lontani a pescarlo.» disse, ed era sinceramente sorpreso. Lasciò andare la mano e fece un cenno del capo verso l’auto, lasciando che gli altri capissero pure quello che volevano. Sarebbe stato più che felice di lasciarne qualcuno lì, a gelarsi il culo.
«Ci è capitato.» rispose Andreevič, scivolando lentamente nel posto alle sue spalle e allungando il volto verso di lui. Una zaffata del suo odore lo raggiunse – misto di sesso e fumo, non c’era altro modo per definirlo, e che Dio lo stramaledisse! Quella puzza lo nauseava. «Dunque, chi è la ragazza?» Vicino, troppo… come avrebbe resistito alla tentazione di ammazzarlo?
«Una utile. Dobbiamo portarcela dietro.» rispose a mezza bocca, inserendo le chiavi nel cruscotto. Ivan si sedette e chiuse la portiera, violentemente. «Sbatti tua madre la prossima volta!» Urlò, cercando di non pigiare il piede sull’acceleratore e lanciarsi verso il bel muro della stazione di polizia, portandosi dietro per buona misura anche un paio di quei corrotti figli di puttana in divisa.
Forse sarebbe valsa la pena sacrificare la vita sua e di quei due poveri imbecilli che avevano avuto la sfortuna di salire in quell’auto assieme all’albino e al suo gorilla… ma la macchina! Gli piangeva il cuore al solo pensiero di vederla ridotta a un ammasso di lamiera fumante.
Andreevič era scivolato in mezzo, fra il bimbo e il suo cagnolino, che sembrava non riuscire a staccarsi dal fucile. Ci scopi anche, con quello? Stava per chiedere, ma non era sicuro di voler sapere la risposta. «Lo usi per impressionare le donne, il fucile, o per convincerle? Compensa la scarsità là sotto?» domandò invece, alzando la temperatura fin quasi ai trentotto e abbassando il finestrino. Vicino a lui, la ragazza cominciò a sbiancare.
«Utile a cosa?» domandò Andreevič. Lanciando un’occhiata allo specchietto, vide l’albino alzare una mano davanti alla faccia di Ivan. Gli dice di stare calmo come lo direbbe a un cane. Diavolo, che razza di uomo è uno che si fa mettere i piedi in testa così? E ci rideva anche, l’idiota. Ovvio che si nascondesse sempre dietro gli occhiali: l’imbarazzo era il minimo accettabile.
«Chiediglielo.» rispose semplicemente, svoltando e immettendosi nel traffico, al tramonto più intenso.
Era a suo agio, ora: guidare era una delle poche cose che riuscissero a calmarlo veramente.
Senza aprire bocca l’albino si sporse, premurandosi di strusciare una di quelle sue mani bollenti sul suo viso, in una carezza che lui sopportò, stoico: sapeva che quel contatto non era piacevole per nessuno dei due e che, se si fosse girato a morderlo, avrebbe avuto il sapore del suo sangue in bocca per giorni… e questo lo allettava molto meno di uno sfiorarsi passeggero.
Andreevič si allungò con il busto quanto gli serviva per arrivare al viso della ragazza, mezza rannicchiata contro la portiera del passeggero e bianca come un cadavere. Le prese la mascella fra le dita e strinse, talmente forte che quella prese ad agitarsi, improvvisamente rianimata. Cercò di liberarsi, aprendo e chiudendo la bocca come un pesce rosso, in una muta commedia talmente squallida da deprimerlo. Stava quasi per tirare fuori il coltello e piantarlo nel gomito dell’albino maledetto quando questo la lasciò andare, ritirandosi lentamente indietro con quel sorriso del cazzo stampato in faccia.
«È muta?» domandò con calma, cercando il suo sguardo nello specchietto retrovisore. Lui lo evitò.
«No, vuole scherzare. Ha sentito che a te piacciono quelle silenziose e i collari, e vuole far colpo. Certo che a te proprio non sfugge niente. Sei una volpe.» rispose col suo migliore tono neutro, frenando bruscamente appena dopo un autovelox. Sentì il tonfo di tre corpi che si schiantavano contro le cinte di sicurezza bloccate, e le imprecazioni del nano biondo. Questa sarà bella salata pensò, con soddisfazione. Il conto non è mai abbastanza caro, per Anton Andreevič? Vedremo se è vero.
«Che ne dobbiamo fare?» gli domandò l’albino. Non si era spostato nemmeno di un centimetro. Previdente. Deve davvero fare il bullo anche con la fisica?
«Io eseguo gli ordini e non faccio domande. Lo dovresti sapere, ormai.»
«E i tuoi capi non ti hanno detto proprio niente?»
«Lei non viene dai miei, ma dai vostri.» disse, alzando le spalle e il riscaldamento, per contrastare l’aria gelida che arrivava dal finestrino della ragazza, ora spalancato.
«Interessante.» commentò l’albino, osservandola ora con un accenno di genuina curiosità. «Che mi dici di lei?»
«Primo, quel tono da “qui comando io” te lo levi, o te lo tiro fuori io assieme alle corde vocali. Secondo, come cazzo pensi che dovrei fare a…»
«Se chiudete quei cazzo di finestrini ve lo dico io. Russi del cazzo! Volete farci morire assiderati?» il nano si era messo a urlare. Si stringeva nella giacca cercando di scaldarsi, ma a quella velocità era impossibile. L’aria doveva avergli gelato anche le palle, ormai. Quella giacca!... leggera, di uno che non sta qui abbastanza da notare il freddo. E quegli occhi… droga. Eroina? Merda, perché ho accettato?
Lo sapeva troppo bene. Non poteva rifiutare, non questa volta.
«Mamma e papà parlavano, ragazzino.» si limitò a dire mentre allungava le dita ai comandi nascosti dietro il volante. Click. Senza preavviso, l’auto si riempì del suono elettrico di una tastiera. «C’è una coperta dietro, Lepont. Allungati. E, se dovete dire altre stronzate, state zitti. Queste sono le sole voci che voglio sentire per le prossime nove ore.»
La voce di Dave Gahan, assordante, riempì l’abitacolo. Davanti a lui la strada era libera, ora: viaggiava a duecentosettatta sull’ultima corsia, superando vecchie macchine del periodo sovietico e utilitarie straniere con un piacere che poco altro gli dava.
Nessuno fiatò e, per un momento, tutto fu perfetto.
Poi, lì dietro, il nano si strinse all’albino, le mani che scavavano frenetiche nella giacca nera del suo completo da riccone del cazzo. Prestando un’ultima volta attenzione a loro, lo sentì implorare.
«Dammene un po’. Questo viaggio è già troppo lungo.»
Rise, e cominciò a cantare sguaiatamente, accelerando.
Oh, c’era qualcosa di più meraviglioso al mondo che inacidire Anton Andreevič?




 
1 Sto ancora recuperando
Ancora superando tutte le sofferenze
Più noto per la mia rabbia
Che per qualsiasi altra cosa
(The sinner in me, Depeche Mode)

 
Piccolo Spazio-me:
Perdonatemi! Ci sto mettendo una vita ad aggiornare questa storia, nonostante abbia i capitoli già in parte scritti =_=' purtroppo ho avuto problemi col pc (è ufficiale: odio gli Asus!!) e dall'Ipad pubblicare è improponibile =_=' presto risponderò anche ai commenti (sono rimasta indietro anche lì e me ne vergogno da morire). Vorrei provare a promettervi un capitolo ogni due settimane, per il momento, e spero davvero di poter accorciare il tempo di attesa, università permettendo :(
Comunque, ecco a voi tutti i personaggi principali, finalmente :D Devo dire che scrivere di Kas'yan mi ha divertita parecchio: quando l'ho immaginato lo vedevo come una sorta di personaggio secondario, la "spalla" del gruppo - e mi sono davvero stupita di come abbia cercato di emergere, nonostante la mia pianificazione! Credo che sia uno dei personaggi che più di tutti, in questa storia, si è dimostato vero, e questo me l'ha fatto amare particolarmente... e voi che ne pensate? Come lo trovate?
E la ragazza? (che ha un nome, giuro, ma in questo capitolo non sono riuscita a farlo stare, nonostante tutti i miei tentativi... maledetto teppista rosso, ha monopolizzato la scena >_<)
Ok, torno nel mio angolino a premere tasti, sperando di tirarvi fuori qualcosa di buono :D 
Vi amo, sappiatelo, per la pazienza - e spero che ci siate ancora, dopo questa mia dichiarazione :D e grazie, grazie, grazie per i commenti *-* 
Come al solito:
 
È assolutamente vietato riportare questo scritto, sue parti o, in ogni caso, utilizzare personaggi, situazioni o qualunque altra cosa di questa storia che mi appartenga. 

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Capitolo 5
*** La spia ***


In the shape of things to come
Too much poison come undone
'Cause there's nothing else to do1




Capitolo IV
La spia
 
 
 



  C’era una vena elettrica in quel suo nuovo sogno.
Avvolto dalle spire di un mostro ronzante, il ragazzo viaggiava ad una velocità che nessuna macchina sportiva avrebbe mai potuto eguagliare. Accanto a lui un cielo blu coperto di stelle immobili, infinito. Uriel osservava in silenzio, gli occhi talmente spalancati da bruciare, incapace di staccarsi da quello spettacolo immenso e sconvolgente.
Le onde sonore scivolavano sulla sua pelle in correnti feroci che aprivano larghe ferite nere. Poteva vederle graffiare l’aria stessa, con una violenza tale da lacerare il tessuto del cielo. Ampie voragini si aprirono improvvisamente attorno a lui, i lembi sfilacciati al margine della ferita che si agitavano a quel vento elettrico, facendo danzare intere costellazioni come fossero lucciole impazzite.
Il turbine elettrico aumentò il suo ronzio, curvandosi per spalancare quelle aperture – e improvvisamente i riflessi di infiniti panorami brillarono dietro quella tela scura, come quadri nascosti. Persone, città, prati immersi nella luce del sole o stanze avvolte dall’oscurità.
Uriel si mosse, affascinato, galleggiando in quel cielo come un pesce; nuotò accanto alla corrente elettrica, a un passo dalla sua distruttiva forza, e allungò una mano per toccare quella ferita, affascinato.
“È quella sbagliata.” disse una voce alle sue spalle. Uriel chiuse gli occhi e spinse avanti la faccia, annusando un vuoto che sapeva di pane appena fatto – poi si sentì tirare indietro, trascinato da un filo che premeva contro l’ombelico fino a un altro strappo, lontano anni luce. “È da qui che sei nato.”.
Uriel si voltò e solo allora riconobbe nella voce i toni di una donna. Lei, la ragazza che aveva parlato, era giovane e triste. Aveva corti capelli di un rosso artificiale e violento, che si allungavano nell’aria come scie di sangue, coagulato alla radice.
Avrebbe voluto chiederle come faceva a parlare ma lei non glielo consentì. Strattonando il filo invisibile che gli teneva serrato l’addome, la donna lo costrinse a girarsi verso la ferita nello spazio, oltre la quale una macchina nera era parcheggiata di sbieco su una piazzola di sosta innevata. Due uomini pisciavano al lato della strada, dandogli le spalle. Parlottavano in tono complice, lanciando occhiate ai tre ancora in macchina.
“È ora di tornare?” chiese lei, divertita.
“Tu sei già lì.” Le fece notare Uriel, indicandola.
La ragazza seguì con lo sguardo la sua mano, attirata come un gatto da un puntatore. Poi gridò, un suono feroce come quello che aveva lacerato lo spazio, e Uriel sentì le lame del suo orrore trapassargli la carne ancora e ancora, in un supplizio gelido che non voleva avere più fine...

«Il nano vuole morirmi in macchina!» Rybakov si sporgeva dal finestrino del passeggero, pressando la ragazza muta senza curarsene troppo. Ivan si girò a lanciargli un’occhiata ma Anton lo ignorò, continuando a osservare intorno con calma. Alberi spogli e neve sporca accolsero il suo sguardo, restituendogli una sensazione di disgusto. Altrove, in un’altra vita, quello sarebbe stato un presagio e decine di uomini si sarebbero interrogati sulla sua influenza; ora, in questo tempo degenerato, gli era stato dato solo un ragazzino che era in grado di fornire unicamente risposte a metà.
Anton aveva sempre odiato gli oracoli. Se eri abbastanza fortunato da inciampare in uno che avesse veramente il dono, la maggior parte delle volte ti ritrovavi con un catorcio dal cervello ormai andato, capace solo di mettere due parole in fila – spesso neanche correlate. Una volta aveva avuto a che fare con una donna che sapeva di possedere il dono ed era abbastanza intelligente da sfruttarlo: aveva servito la causa per anni, chiedendo sempre di più in cambio della sua consulenza, finché qualcuno ai piani alti non si era stancato. Anton poteva ancora sentirla agitarsi, là in fondo, ma era solo un ricordo sbiadito ora, fastidiosa e impotente.
Come tutti.
«Devi dargli un’occhiata.» La voce di Ivan era fredda e distaccata – un campanello d’allarme. Dalla mano del militare, stretta sulla sua spalla, si irradiava un bruciore intenso; Anton lo seguì a ritroso, scivolando sulla pelle di Ivan e poi nell’aria fredda, fino alla macchina scura. Sedili in tessuto grigio lucido e odore di fumo, il suo... E poi le grida, basse e trattenute, che rimbalzavano lungo le arterie del ragazzino e fino al cuore, sovreccitato ma ancora vitale.
«È solo un incubo.» sentenziò Anton con una scrollata di spalle che fece ritratte Ivan in fretta, interrompendo la sua lettura.
Anton lo lasciò andare, cercando di riprendere le fila di un ricordo amaro che, dovette constatare con fastidio, era svanito. Tentare di rintracciarlo fra le miriadi di pensieri che urlavano per la sua attenzione richiese meno di un secondo – un tempo troppo lungo. Rybakov se ne accorse e il fantasma del suo sorriso irridente lo seguì, gelido, anche dopo che la piazzola di sosta fu a diversi chilometri alle loro spalle.
Uriel si svegliò un’ora dopo, riemergendo dal sogno con un rantolo sordo. Annaspò in cerca di aria mentre le dita affondavano nella gola e nelle braccia, come se cercasse di cacciare via qualcosa dalle vene. Non dovette trovarlo, perché si arrese con uno sbuffo impotente.
«Chi è?» domandò piano Anton al ragazzo, senza nemmeno girarsi. Uriel chiuse gli occhi e trattene un conato, respirando faticosamente. Anton allungò una mano verso l’avambraccio del giovane e piantò le dita pallide nella pelle, affondandovi le unghie. Uriel si lasciò cadere di peso sul sedile e gettò indietro la testa, ma non parlò.
«Possiamo saperlo anche noi o hai bisogno di un altro minuto a tu per tu con le tue seghe mentali, Andreevič?» gridò oltre la musica Rybakov, accelerando di un’altra decina di chilometri orari. Anton lo guardò, lasciando andare bruscamente la mano di Uriel.
«Non mostrarti troppo interessato, amico mio. Alle donne non piace» commentò Anton con un sorriso laido mentre estraeva dalla tasca la confezione di plastica di un fazzoletto disinfettante. Prese a strofinarsi distrattamente la mano con cui aveva toccato Uriel, senza staccare gli occhi dal guidatore.
«Non è molto credibile, detto da uno che deve drogarle per farsel.» disse Rybakov, allungando una mano alla coscia della darkettona. «Facciamo come all’asilo, mh? Dovrebbe suonarti familiare. O condividi o giochi da solo. Quindi, se non vuoi raccogliere i tuoi dall’asfalto con un cucchiaino, ti suggerisco di metterci al corrente.»
«È una messaggera, va bene? Una cazzo di messaggera del cazzo, ok? Ora rallenta, stramaledetto russo» gridò Uriel. Tremava ancora, violentemente, e quando si allungò per strappare il fazzolettino umido ad Anton quasi gli affondò le dita nella gola, tanto era disorientato.
«Ecco, così mi piace. Vedi? Anche il bimbo ha capito come funziona.» Kas’yan abbassò la musica di una o due tacche, lasciandola comunque assordante. «Allora, Lepont, come pensi che dovremmo fare a capire quello che dice?» domandò al ragazzino, che si passava la salvietta sulla fronte con forza, lasciando una scia sempre più rossa sulla pelle.
Per tutta risposta, Anton socchiuse gli occhi e si passò un dito sulle labbra, lentamente, disegnandone il contorno con meticolosità prima di allungare quella stessa mano verso la ragazza. Kas’yan sterzò violentemente, mancando di poco una Peugeot stracarica di marmocchi che viaggiava in prima corsia. Finì nella carreggiata di emergenza con uno stridore di freni che somigliava troppo al lamento di un demone per essere un buon segno, ma sembrò non farci caso.
«Ah, ti piacerebbe, vero, Andreevič?» sibilò l’autista, estraendo di nuovo il coltello. «Col cazzo che te lo faccio fare! Non me ne frega un cazzo degli ordini o della...»
«Se il tuo cervello retto e limitato è in grado di fornire una soluzione migliore, prego.»
«Il nano. Che ce lo stiamo portando dietro a fare, altrimenti? Per il piacere della sua lucida compagnia?»
«Chi comanda, Rybakov?»
«È una tregua, albino del cazzo. Una stramaledetta tregua, e vedi di mettertelo in testa! Finché ci sarò io, non te lo permetterò. Né con lei, né con nessun altro, per gli Dei! E poi è stata data a me. Lei mi appartiene.»
«Allora insegnale a parlare prima che decida che è arrivato il momento di fare a modo mio. E comunque, la mia era una domanda, non una provocazione. Ti ricordi ancora qual’é la differenza, vero? Bisogna avere ben chiara una gerarchia se non vogliamo finire come nel tuo Ordine. Chi comanda, qui? E dove andiamo?» domandò Anton, abbassando la voce. Cominciava ad averne abbastanza e Rybakov doveva essersene accorto, ma al momento gliene importava poco. Mancavano ancora più di cinque ore al tramonto, e fino ad allora poteva fare ben poco.
Kas’yan aveva preso ad armeggiare col computer di bordo. Usò due dita per ingrandire la mappa e lesse, ad alta voce: «55.793455 e 37.149219.»
«Ora si che è chiaro» commentò Ivan, abbassandosi gli occhiali per lanciare uno sguardo al navigatore. «E cosa c’é di così importante li?»
«Neve dura e terra fredda, immagino. Forse qualche lupo.»
«Vediamo di farla facile, Rybakov: che ordini hai?» disse Anton, in un sussurro gelido. E che quel maledetto ridesse pure: era il suo tempo quello che era agli sgoccioli! Che se lo godesse.
«Di portarvi a fare una gita.»
Anton si slacciò le cinte e si allungò verso la parte anteriore della macchina in un movimento fluido e rapido. Con due dita restrinse la visuale della mappa nel navigatore e si spostò fino a Mosca e ritorno, osservando. Gelido silenzio riempì l’abitacolo per lunghi minuti mentre studiava la mappa, stringendo le labbra.
«Quasi quattro ore per arrivare da Mosca a un campo che una vecchia Volga raggiungerebbe in quarantacinque minuti?» domandò a Kas'yan, glaciale.
«Beccato» rispose il guidatore, sollevando le mani. Il coltello brillò per un secondo del riflesso solare, sostituendo la faccia di Kas'yan con una lama di calda luce. Anton strizzò gli occhi e l’aria dell’abitacolo si fece più fredda. «Ora non farne un dramma, però.» Rybakov riaccese il motore e sterzò violentemente, catapultando nuovamente la macchina sulla strada. «Gli ordini erano di prendere lei, voi e di portarvi qui.» Con la mano che stringeva il coltello, il rosso picchiò le nocche delicatamente sul display del navigatore. «Di notte.»
«Neanche i tuoi si fidano più di te... mh? O, a forza di ammazzare mafiosi su commissione, hai perso il tocco?» chiese Anton in un soffio gelido.
«Qui la carne da cannone sei tu, non io. E io che pensavo ci arrivassi anche da solo! Io non sono mai stato sacrificabile.» Kas'yan scrollò le spalle e allungò il collo a un cartello segnaletico, studiandolo. Nonostante la calma, Anton poteva sentire il sangue pulsare appena più veloce lungo le arterie del collo, evidenziandole. Si avvicinò di più all’altro e gli sussurrò all’orecchio, bene attento che il soffio del suo fiato sfiorasse una buona parte del suo viso:
«Tu non servi a niente, Rybakov. Per questo c’é la tregua. Dimmi, quante volte ancora puoi fallire?»
«Tu quanti ragazzini puoi ancora farti prima di finire male?» domandò con disprezzo Kas’yan, imboccando l’uscita a centoventi chilometri orari.
«Ti ha punto sul vivo, Rybakov?» ridacchiò Ivan, replicando per un lungo istante l’espressione ferina di Anton.
«E a te fa più male il culo o la testa, Vasilijev? Perché non capisco più con quale il tuo padrone ti fa ragionare.»
Ivan non si scompose. Allungò una mano verso Anton, che lo seguì quasi senza accorgersi di cosa facesse. Forse stava davvero invecchiando, meditò.
«Potevamo partire più tardi, no? Se dovevamo arrivare di notte...» bofonchiò Uriel, con la bocca impastata e la voce roca.
«Mai visto uno che rimpiangesse le galere di Andreevič.»
Uriel sussurrò qualcosa che suonava come “roba a casa” e poi lasciò stare. Anton lo registrò appena.
«Rispondi alla domanda» ordinò.
«Cosa non hai capito di “quel tono di merda devi togliertelo?”»
«Se non stai attento, prima o poi ti strapperò l’anima e l’aggiungerò alla mia collezione, Rybakov.»
«Piano con le lusinghe, tesoro, o il tuo cagnolino si ingelosisce.» Kas'yan aveva recuperato un po' del suo buonumore, ora. «Siamo partiti prima perché hai una talpa, Andreevič. Una bella spia, proprio sotto il tuo onnisciente nasino. Che soddisfazione! O vi portavo via stamane, o la mia missione sarebbe diventata quella di scortare i vostri resti alla più vicina fossa comune. Non che l’idea non mi tentasse, eh!»
Anton non rispose. Percepiva la tensione di Ivan, al suo fianco, ma non poteva allontanarsi abbastanza da escluderlo... né avrebbe ottenuto altre pause. E comunque ormai erano in viaggio, mascherati agli occhi dei più dalla forza residua di Rybakov. Avrebbe dovuto smettere di tentarlo, almeno per ora...
La strada correva fuori dal finestrino, alternando vie sempre più scure a cittadine mezze morte e campi bianchi come lastre tombali.
Poi fu il tramonto, e la macchina rallentò fino a fermarsi fra le ombre allungate di una macchia di conifere. Non c’era nulla, lì attorno, solo neve e alberi lontani.
«Nel bagagliaio c’é qualcosa per scavare, credo» disse Kas'yan, indicando col pollice dietro di sé. «Vi augurerei buona fortuna, ma so che i bastardi sopravvivono sempre, quindi non vi serve.»
«Puoi fare di meglio, e lo sai.» Anton spinse Uriel verso lo sportello, schiacciandolo finché il ragazzo non riuscì ad aprire e scivolare fuori, quindi lo seguì nel gelo del crepuscolo russo. Ivan fece il giro ed estrasse fucile e attrezzi dal portabagagli, caricandoseli in spalla con quella fredda efficenza che lo rendeva così indispensabile ad Anton. Perfino la ragazza si mosse, ma venne bloccata ai polsi da Kas’yan. «Oh, no. Tu resti qui con me. Abbiamo un discorso da finire.»
«Coglione» sibilò Ivan, scendendo lungo il ciglio della strada fino al terreno incolto che era la loro meta. Scivolò e le sue gambe lunghe scomparvero per un ampio tratto nella neve alta e fresca. Anton spinse avanti a sé Uriel, tenendolo per il collare come un cane. Non avrebbe avuto problemi nella neve, lui: poche cose potevano fermarlo quando il suo regno calava.
Percorse qualche metro prima che la voce di Kas'yan lo raggiungesse, sovrastando il rombo del vento gelido.
«Ah, Andreevič!» gridò, sventolando un braccio nudo e tatuato fuori dal finestrino. «Facciamo a metà, da bravi bambini. Io di giorno, tu di notte. Che ne dici?»
Anton si voltò e chinò il capo di un millimetro, sorridendo languidamente.
«E se la missione va in merda non ti preoccupare: farò sapere a tutti che è successo quando comandavi tu!»




 
1 Nella forma delle cose che verranno
Viene liberato troppo veleno
Perché non c’è nient’altro da fare

(Every me Every you, Placebo)

 
Piccolo Spazio-me:
Perdonatemi! Ancora una volta in ritardo... di troppo, senza se e senza ma. Lascio stare il fatto di avere due pc portatili inutilizzabili per via della tastiera e dò la colpa a me, che non riuscivo a uscire da una buca piuttosto grossa nella quale mi ero arenata. Ora n e sono fuori, fermamente convinta che questa sia una delle storie a cui potrei legarmi di più. La amo, e amo tutti i personaggi che vivono in questo fantasy troppo vicino alla realtà.
Spero di non avervi perso e di trovarvi ancora con noi, in viaggio verso l'Est!
fatevi sentire, mi raccomando.
Come al solito:
 
È assolutamente vietato riportare questo scritto, sue parti o, in ogni caso, utilizzare personaggi, situazioni o qualunque altra cosa di questa storia che mi appartenga. 

Il banner è preso dalla galleria di Eun-su. Fate un salto a quel link, mi raccomando!

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