Anatomia della Leggerezza

di Jailer
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Esordio su due asini ***
Capitolo 2: *** II. Storia di come il fato mi rubò anche il cappotto ***
Capitolo 3: *** III. La tierra donde cae el Sol ***
Capitolo 4: *** IV. La gatta Angelina: dedica sincera ad una prostituta ***
Capitolo 5: *** V. Caron Dimonio ***
Capitolo 6: *** VI. Fiesta! ***
Capitolo 7: *** VII. Sull'importanza del francese ***
Capitolo 8: *** VIII. Le vent se lève ***
Capitolo 9: *** IX. Un Blasfemo ***
Capitolo 10: *** X. Tierra desolada ***



Capitolo 1
*** I. Esordio su due asini ***


Per un autore c’è una sola cosa più importante del racconto che ha scritto, ed è la storia dietro di esso.
Ho iniziato a scrivere il primo capitolo nel luglio 2014, all’epoca Manigoldo e la sua leggerezza di vivere erano un modello ideale sognato e irraggiungibile.
Poi marzo 2015, la morte di mio padre.
Ed ho scoperto, paradossalmente, che la vita va vissuta ed amata, non senza una certa leggerezza, perché le tragedie non possono che accadere, ma non c’è nulla a cui non si possa sopravvivere.
Manigoldo è diventato uno specchio e un amico.
Questo racconto racchiude lo snodo di una vita, ed è sempre, sempre stata scritto con grande felicità – prima sognavo e poi mi affermavo in un nuovo credo: è la storia di una metamorfosi.
Non c’è motivo per cui voi sappiate tutto questo, ma non ce n’è nemmeno uno per cui non dobbiate saperlo.
Certe cose, semplicemente, a volte fa piacere dirle.

 Questa storia è ambientata in Sicilia e in Grecia, in cui io non sono mai stata.
Riguardo ai luoghi non volevo il realismo, se non per alcuni cenni: perdonate dei possibili errori a tal proposito, ma questi devono diventare paesaggi dello spirito, sul filone dell’Arcadia felix in cui anche Virgilio si è rifugiato durante la stesura delle Bucoliche (Che paragone eccessivo, scusate anche questo).

 Un grazie doveroso va a mughetto nella neve e GioTanner, perché i loro incoraggiamenti su “Anatomia dell’irrequietezza”, mi hanno dato la giusta carica per finire questa storia che mi trascinavo dietro da troppo tempo e alla quale dovevo mettere il punto finale.

 Vi lascio alla lettura, augurandovi che possa essere buona.

 

23 settembre 2015,
Jailer (F.C.)

 

 

 

Anatomia della Leggerezza

 
I
Esordio su due asini, uno dei quali chiamato Bucefalo


 Non abbiate timore: non sono una persona migliore di quello che mi piace apparire.
I banditi che mi hanno strappato infanzia, memoria e notti di sonno non hanno trovato molta umanità in più da portarsi via - parola mia.
Ero un bambino crudele già prima.
Ora sono ancora crudele – ma in maniera più divertita.
Un giorno ho battuto la testa e perso i ricordi. Mi rimangono i dettagli più insignificanti: una farfalla, un asino, qualche notizia di medicina strappata ai manuali di mio padre.
Proprio mio padre, invece, l’ho perso nel buio; ugualmente la voce di mia madre.
Avrei voluto scordare più cose.
Questa è solo una storia che racconto per passare il tempo. Non ha nulla di più, né di meno delle altre: è solamente la mia.

 La mia prima memoria è una piccola crudeltà.
Era una bella farfalla a cui ho strappato le ali, ed è morta un istante dopo. Era un pomeriggio d’estate, frastuono di cicale, un campo di grano.
Vivevo in campagne baciate dal sole, e lontano, in basso, si vedeva pure il mare.
Una farfalla fu la prima anima che vidi. Esplose in un fuocherello blu davanti agli occhi, sul palmo della mia mano.
Poi scomparve.
Ne uccisi un’altra per essere sicuro. Poi una cicala.

 Lo dissi ai miei genitori: “Ho ucciso una farfalla. Poi c’è stato un fuoco blu.”
Mio padre rispose che era solo pressione bassa. Mia madre non disse nulla, e se lo fece non me ne ricordo. Per quello che ne so, aveva una personalità quanto mai insignificante.
Magari l’ho amata, invece, e non lo ricordo più. Ma si può scordare l’amore?

 Sono sempre stato un egocentrico: il fatto di essere stato così poco oggetto di importanza mi ferì.
Non dissi più nulla a nessuno: non ad amici, perché di quelli non ricordo di averne avuti; né ad adulti, perché loro non ascoltano mai niente né tanto meno capiscono.
È colpa dei miei genitori se non so esprimermi bene: se, quando ci provo, nel migliore dei casi risulto offensivo.
Nel peggiore, un idiota.
Sono molto sincero con me stesso. A volte mi rimproverano di essere immaturo, ma io ho solo il cuore aperto, a modo mio.

 

***

 Uccisi diversi animali e scoprii che ognuno aveva una forma d’anima differente.
Mi piaceva vedere le anime: erano deboli e insignificanti, ma meno dei loro corpi vivi. Le anime erano un’unica ma meravigliosa esplosione, un fuoco d’artificio, un istante di pura dignità e bellezza.
Avevo un modo tutto mio di essere un esteta: la morte è estetica, edonismo allo stato puro perché nell’ultimo palpito di vita c’è una sorta di orgasmo. Lo vedo dal sussulto meccanico dei corpi da cui sta per fiorire un’anima. Un brivido, un istante di forza sublime.
La vita era così debole, invece. La vita si mimetizzava, taceva, durava tre giorni – farfalle! - e poi si spegneva nel silenzio.

 Di notte mi piaceva girare per i cimiteri. I fuochi fatui erano belli, ma mi seccava il fatto che potessero vederli tutti.
Vi andavo perché lì dimoravano le anime degli uomini. Si agitavano lì, intorno alle tombe. Inconfondibili.
Azzurrine. Nel buio mi prendeva una bella malinconia, nostalgia di qualcosa, una tristezza esistenziale. Un’amarezza profonda.

Finisce tutto così? Per davvero?
Una biscetta, un lumino che si dibatte: ecco un uomo.

 Ero eccentrico, crudele e facevo giri strani di notte: mi davano del demonio.
Mi divertiva il fatto che lo pensassero.

Credo che mi divertisse, o, almeno, adesso lo farebbe.
Ero sempre solo. Mi piaceva pensare di creare un esercito d’anime per marciare sulla città. Un ridicolo esercito per una ridicola ambizione.
Le anime volteggiavano un po’ e poi sparivano in fretta. Ed io restavo ancora più solo.

 Rimuginavo sulla morte, uccidevo ma non è che pensassi proprio alla morte morte.
Mi spiego: uccidevo una farfalla e ne usciva un’anima, come un pulcino dall’uovo – la morte mi pareva una nuova vita. Non era la morte a rattristarmi, ma la vita a sembrarmi troppo debole.
La vera morte prese forma nella mia mente dopo. La morte esplose nella nube di fumo che arse tutto, anche la memoria.
All’epoca, il mio gesto, l’uccidere, si esauriva in se stesso: uccidere era premere un interruttore per vedere un lumicino.

 

***

 Mia madre era disperata per un tale figlio – è principalmente questo che ricordo di lei.
Mio padre è una memoria senza volto. Forse era indifferente, forse egli si disperava con lei.
Manigoldo, mi chiamavano quelli del villaggio, bestia e demonio, disgraziato.
Il primo era quello che mi piaceva di più – l’ho adottato!
I manigoldi sono quelli che accompagnano il boia: era un po’ grossolano, uccidevo solo insetti e piccoli animali, ma aveva un suo perché ai miei occhi.
Il mio nome però non lo ricordo.
Con questo potrei rispondere alla domanda di prima – Si può scordare l’amore?
Se ho scordato persino il mio nome, sì.
E questo da una parte mi consola: ho amato mia madre, forse. Dall’altra mi rattrista: è così insignificante amare?

 A ben pensarci, non è così inconcepibile che abbia dimenticato il mio nome. Ero sempre solo, e quindi nessuno mi chiamava. Se lo facevano, erano insulti.
Nemmeno mia madre mi chiamava, mi attendeva in silenzio però, e in silenzio mi dava da mangiare. Mio padre era raramente a casa: faceva il dottore, era l’unico della zona e spesso andava in altri paesi, cosa che lo impegnava tutto il giorno.

 Ero iscritto a scuola ma non ci andavo mai.
Imparai a leggere presto, solo con l’aiuto di mia madre e poi cavandomela da me, perché volevo sapere qualcosa sui bagliori che vedevo.
Effettivamente non chiamai le anime “anime” finché Sage non me parlò.Nei libri capii qualcosa dei fuochi fatui.
Erano i volumi di mio padre: a lui non volevo chiedere, ma loro rispondevano, più o meno.
Più meno che più.
Ma qualcosa imparai, e quello mi sarebbe stato utile per il futuro, di medicina almeno.
E un po’ di letteratura.
Sage era scandalizzato poiché avrei potuto essere un chirurgo con i fiocchi ma non sapevo contare oltre le centinaia. E solo perché i volumi erano più o meno di quello spessore.

 
***

 L’ho detto: non andavo a scuola, avevo un sacco di tempo libero e giravo tutto il giorno per le campagne.
Ho detto anche che di amici non ne avevo. Sbaglio: non avevo amici umani.
Avevo un asino. Ed era una bestiaccia nervosa e inservibile al lavoro per il carattere che si ritrovava.
Un giorno volevo andare a controllare qualcosa che non ricordo, in un posto lontano da casa mia. Avrei dovuto portarmi dietro tre tomi abbastanza pesanti.
Troppa strada e troppo peso.

Nel fienile di casa mia c’era quell’asino. Lo avevano rifilato a mio padre in qualche maniera e lui, sebbene non potesse usarlo per nulla e benché l’animale avesse l’unica funzione di trangugiare fieno a tradimento, non se la sentiva di spedirlo al macello.
La cosa da vedere doveva essere parecchio importante se fu un motivo valido a farmi lottare con quella bestiaccia per farla uscire dal fienile. Dio solo sa quanti calci mi sono preso io, e quante bastonate lui.
Scoprii presto che, a fargli svolgere un’attività più gradevole del tirare una macina, anche lui poteva servire a qualcosa.
Era il mio tempestoso destriero e io ne ero fierissimo: lo chiamai Bucefalo, come il cavallo di Alessandro Magno.
Eravamo lo zimbello del paese, ma ci divertivamo.
“A metterli insieme magari un somaro decente lo si ottiene.”
Caro Bucefalo, fedele compagno di troppe ingiustizie - inflitte e ricevute.
Non so chi, fra noi due, si sia preso più legnate in quegli anni.

 

***

 Non avevo mai visto l’anima di un essere umano sfuggire dal proprio corpo, ma volevo poter assistere a quell’evento.
È stato uno dei pochi desideri che ho visto venir esauditi. Ed era il desiderio sbagliato.
Pensai di diventare dottore per poter veder morire qualcuno, ma ci sarebbe voluto troppo tempo.
Un giorno un gruppo di ragazzini mi provocò, e finì in rissa. Non ero realmente arrabbiato quando tirai una sassata in testa ad uno, volevo solo vedere l’anima di una persona. A momenti lo ammazzavo, ma non accadde.
Mi sentii deluso: non era morto, e soprattutto non era morto sul colpo. Se anche lo avesse fatto, dopo sarebbero stati solo gran casini.

 Una volta provai ad annegare un bambino più piccolo che veniva sempre a giocare nei dintorni di casa mia; penso fosse mio cugino.
Fatto sta che quando iniziò ad annaspare e a fare i movimenti convulsi che fanno quelli che non riescono a riprendere aria, mi mancò il coraggio e lo lasciai andare.
Lui non tornò più.
Pensai che fosse meglio aspettare di diventare medico per vedere morire qualcuno.

 

***

 La prima anima umana che mi vidi esplodere davanti fu durante quell’assalto.
Ricordo che soffrii parecchio per la morte di Bucefalo.
Trovai l’asino sventrato in mezzo a quella che era stata la piazza del paese. I cani affamati della zona gli avevano già svuotato ventre e orbite, il sangue che gocciolava, da lui e dai musi eccitati delle bestie, si mescolava alla pioggia.
La sua anima era uno spettacolo insulso, non diceva nulla di Bucefalo, di come era stato – testardo ed egoista.
Capii un’altra cosa: la morte era una scintilla bellissima, ma uguale per tutti. Nella morte Bucefalo era sullo stesso piano di una farfalla o di un topo.
Nella morte, un genio era pari ad un idiota, un eroe ad un codardo.
Di quella notte ricordo poco o niente: passò in una nuvola di fumo nero che avvolse tutto, e che, quando si levò, lasciò tutto a pezzi. Non so se sopravvisse qualcun altro. Non ho incontrato nessuno del mio paese, né allora né per il resto della mia vita.

 Mi sono svegliato sotto le macerie e protetto dal corpo di mia madre. Ricordo il suo viso solo perché lo vidi quel giorno, pallido dove non era mascherato dal sangue, sporco di fuliggine.
Gli occhi erano spalancati, e pensai che li avesse uguali ai miei.
Mi aveva stretto e protetto dal fuoco e dagli uomini. Mi aveva cantato una canzone che non ricordo per tranquillizzarmi quando già tutto ci era crollato addosso. Aveva detto anche il mio nome, ma l’ho dimenticato in mezzo alle macerie.

 Quando riuscii ad alzarmi – un’alba tanto grigia fredda e orrenda da sembrare una presa in giro - vidi intorno a me quello che avevo sempre desiderato: anime, anime ovunque. Un inferno di case scheletrite e pioggia, che si consumava in un silenzio spettrale.
Un tripudio di luce come mai avrei visto in vita mia, che si riversava in ombre spettrali tra i calcinacci, sugli alberi bruciati e anneriti.
Mi guardai intorno e scorsi solo terra bruciata sotto un cielo grigio.
Anime sbocciavano dai sassi di tanto in tanto, evidentemente qualcuno spirava, lì sotto. La morte di una farfalla non era diversa in nulla: gli uomini fanno solo più rumore.

È questa la vita umana? Questo dibattersi in cerchio di un lumino, al termine di una vita miserevole?
Le farfalle soffrivano tre giorni e sapevano volare. Gli uomini conducevano una vita più infelice per un tempo più lungo.

 All’inizio tutto mi sembrò così infelice, brutto e volgare da non poterlo nemmeno definire.
Eppure definire era diventato di vitale importanza per me, mi sentivo un po’ medico e avevo bisogno di consolarmi. I medici danno nomi alle malattie perché non basta elencare i sintomi, le cause e i rimedi. Bisogna dire: è proprio quella cosa lì.
Così sentii di dover fare lo stesso con la malattia che era la vita umana.
Trovai un nome in cui riassumere tutto quando vidi un nugolo di mosche accalcato su un cadavere.

Spazzatura.
Non è proprio un nome scientifico, ma funzionale lo è.
È proprio quella cosa lì. Spazzatura.

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** II. Storia di come il fato mi rubò anche il cappotto ***


II

Storia di come il fato mi rubò anche il cappotto

 

Da quell’alba in avanti le cose diventano un po’ più chiare nella memoria.
Restai a vegliare sulle mie macerie fino a che la fame, il freddo e i miasmi dei cadaveri non mi convinsero ad andar via. Restai lì un’ora o una settimana. Sotto un cielo alto e impietoso, che scaricò pioggia a non finire, mi lasciai consumare dall’inverno per un po’.

 Se vi dicono di desiderare qualcosa di eterno, portateli in posti così, fategli vivere questo.
Quella che ho vissuto è l’eternità, ed è mostruosa.
L’eternità è una sofferenza in cui si perde anche la forza di contare il tempo che scorre. È l’attesa fra le macerie e l’alba che non arriva mai a illuminarle. Il limbo fra un dolore non ancora confermato a causa del buio e la certezza che ancora si ostina ad aggrapparsi alla speranza di un errore.

Forse è per questo che gli uomini hanno inventato gli orologi e i giorni: per fuggire il senso di eternità. Per porsi dei limiti numerici al soffrire e non cadere in braccio all’indefinito.
È per quello che sorge il Sole: per pietà degli uomini.

 È perché ho provato qualche istante di eternità che non me ne importa nulla di morire. Io voglio il confine.
Da affrontare e scavalcare.
Da sfiorare e da fuggire sempre un po’.

 
***

 

Quello che successe nei mesi seguenti non è importante.
Bazzicai per campi, valli e città, rubacchiando negli orti e prendendomi delle gran legnate. A volte destavo pietà in qualche vecchia e mi offriva un tetto sopra alla testa e un piatto caldo per una sera.
Io cenavo, rubavo qualcosa dalla casa e me ne andavo.
Ancora oggi trovo abbastanza fastidioso passare la notte in un posto senza finestre ampie. All’epoca preferivo dormire al freddo piuttosto che sentirmi oppresso fra quattro mura.
Avevo paura, non respiravo. Ogni rumore era per me fuoco che divampa e uomini che uccidono altri uomini.
Sono cose normali, quando ti è capitata una cosa così – dicono.
Io non so quanto ci sia di normale, ma lo prendo come un dato di fatto.

 Camminai a lungo, incappando in aggregazioni urbane sempre piuttosto piccole.
Tuttavia, mi accorsi ben presto che in città era sempre più difficile trovare qualcosa da mettere sotto ai denti. Faceva sempre un freddo terribile, la gente era incattivita, e capitava spesso che mi lanciassero qualche oggetto addosso se durante la notte mi trovavano a dormire vicino a certi palazzi, dove mi rincantucciavo perché erano i posti più riparati.


 Poi giunsi in una città sul mare più grande delle altre, e lì incontrai una ragazzina.
Qui comincia davvero la mia storia – la storia di Manigoldo.

 Andavo vestito con le pezze che qualcuno mi aveva regalato e con quello che ero riuscito a sottrarre a guardaroba, se possibile, ancora più poveri del mio.
Era quasi inverno e cominciava a diventare insostenibile andare in giro solo con una camicia e un maglioncino logoro e perennemente umido addosso.
C’era il mercato e una sbadata e grassa commerciante che aveva esposto un cappotto nero bellissimo.
“Gli abiti più caldi di Messina!”, urlava cantilenando, “Gli abiti più belli di Sicilia!”
Dio, quanto doveva riparare quell’affare. Era anche elegante, con quello addosso avrei smesso di andare in giro con addosso l’insegna “pendaglio da forca in erba”.
Non ho mai avuto una faccia rassicurante, nemmeno da bambino.
Non avevo mai rubato in mezzo a tanta gente e in pieno sole, non conoscevo nemmeno il posto e sarei potuto finire in un vicolo cieco. Mi avrebbero accalappiato in un attimo.

 Poi guardai la camicia, guardai i miei polsi ormai secchi. E allora?
Magari mi avrebbero portato in gatta buia e lì avrei avuto vitto e alloggio gratis, o magari direttamente sulla forca. Allora avrei fatto la parte del martire: una recitazione così commovente sull’ingiustizia della vita che li avrebbe commossi tutti e mi avrebbero lasciato andare e mi avrebbero dato pure un sacco di soldi per scusarsi.
Oppure mi avrebbero ucciso lo stesso, e sarei diventato famoso. Sarei stato un martire del sistema. Oh, che bellezza.
Avevo tanta fantasia. Quando uno non mangia tutto il giorno, l’unica cosa che può fare è guardare per aria e sperare in un miraggio. Ma faceva troppo freddo anche per quelli.

 In alternativa al carcere o alla forca, avrei passato l’inverno sicuramente al gelo e sarei morto in un vicolo puzzolente - come un banale pezzente. E io non ero un accattone.
Un delinquente sì, ma uno di quelli mai.
Non ho mai fatto elemosina, quelli che mi avevano accettato in casa loro lo avevano fatto senza che io gli chiedessi niente. Non sarei morto così.
Allora decisi di andare a prendere il mio cappotto.

 Non ero una mente fine, e non avevo nemmeno tanta pazienza e energia per pianificare qualcosa – diciamo che in quegli anni non ho mai avuto troppa energia per fare qualsiasi qualcosa, mangiando a stento un paio di tozzi di pane al giorno-, quindi aspettai solamente che le strade si svuotassero un poco.
Non sapevo che un’altra mente, un po’ più fine della mia, mi aveva già intercettato e aspettava che io facessi il lavoro sporco per poi farmela sotto al naso.
Mi avvicinai alla mia preda, la proprietaria della bancarella era distratta a ciarlare.
Il cappotto era lì, steso in bella vista. Appena vidi quel bel nero e l’imbottitura interna a quadri (anche a distanza di anni mi sembra l’abito più bello che abbia mai visto), qualora qualche reticenza fosse rimasta, sparì.

 E niente: allungai il braccio e mi misi a correre. Pessima mossa, perché se avessi continuato a camminare facendo finta di nulla, avrei intascato il cappotto e me ne sarei andato tranquillo e tanti saluti.
La donna mi vide correre, vide il cappotto fuggire con me e si mise a urlare.
“Al ladro! Al ladro!”
Non so se corsi per pochi metri o per chilometri. Sbattei contro non so quante persone e le gambe mi facevano un male terribile.
Mi inseguirono all’inizio in quattro o cinque, poi il corteo dietro di me si infoltì enormemente. Fortunatamente ero veloce, leggero e la città era piena di vicoli. A forza di zigzagare tra le vie dispersi i miei inseguitori.
Non si erano affannati particolarmente, alla fin fine. Io sì, però, avevo dato fondo a tutte le riserve di energia che possedevo.
Respiravo malissimo, probabilmente avevo una forma di asma che stava andando via via peggiorando a causa del freddo che pativo sempre: quindi non solo respiravo a malapena, ma ad ogni respiro i miei polmoni generavano un terribile fischio di richiamo. Mi sembravano spugne strizzate.
La crisi non passava, cominciava a girarmi la testa. In più ero angosciato dal fatto che qualcuno potesse sentirmi e trovarmi. Stringevo il cappotto spasmodicamente.
Non ho mai più vissuto una sensazione del genere: se c’era qualcosa di importante in quel momento era quell’abito. Avrei venduto l’anima pur di tenerlo.
Come il Dottor Faust di Marlowe, pensai.
Lo scopo non era meno nobile, dopotutto.
Con il cappotto anche l’asma sarebbe andato meglio. Era lì, il mio cappotto.
Stavo così male ed ero così felice che mi venne da piangere.

 

***

 Blanca arrivò in silenzio.
Adesso anche il mio respiro si stava calmando. Mi ero messo seduto con la schiena contro il muro sudicio e la testa appoggiata alla stoffa della giacca sulle ginocchia.
Mi camminò davanti e afferrò la stoffa da un angolo un po’ più esposto. La tirò nel tentativo di sottrarmela con un candore da risultare imbarazzante.

 Alzai lo sguardo e la guardai sorpreso, senza capire. Era una ragazzetta pallida e magra che doveva avere più o meno la mia età.
 Ne approfittò per tirare più forte e farmi scappare dalle mani il cappotto. Non avevo avuto la forza di stringerlo più forte.
“Grazie!”, disse, “Mi hai risparmiato una gran fatica.”, sorrise.
E con un balzo si buttò nella strada principale e affollata.

 Con il mio cappotto.
Il mio.
Non lo era più.

Scherzi?

 L’asma si calmò dopo poco, ma rimasi anche dopo in quel vicoletto senza muovermi: era una forma di protesta nei miei stessi confronti.
Bravo scemo, mi dicevo, non ho mai maledetto il mio stupido corpo tanto come quel giorno, nemmeno quella volta in cui, durante una missione, per colpa del mio altrettanto stupido ginocchio che cede in continuazione, ho visto la morte in faccia.
Anche lì la storia non era diversa: Blanca mi aveva fatto lo sgambetto, una volta, e in quell’occasione probabilmente immolai i miei legamenti crociati.
In entrambi i casi – storia dell’asma e del ginocchio-, maledissi anche lei. È sempre stata colpa sua.

 Ora dovevo patire il freddo, e me lo meritavo pure.
Forse restai lì anche ad aspettare un po’ la ragazzina, inconsapevolmente.
È un po’ troppo romantica come idea per i miei gusti, ma se si andasse a vedere quello che è successo non è poi così sbagliata.

 Ella, infatti, tornò. Speravo per vergognarsi.
Era notte ed ero ancora lì, perché, dopotutto, il vicolo era riparato e c’era un bel tepore. Mi disse il suo nome non so quando, fatto sta che seppi che si chiamava Blanca.

Non era tornata per scusarsi e restituire ciò che era mio – non era nel suo stile -, ma perché aveva visto che sapevo correre bene.
“Con un piatto caldo al giorno e un tetto sopra la testa quella roba ai polmoni ti passerà in un lampo.”
“Asma…”
“Quella. Me lo ha detto il Rosso.”
“Chi?”
“Vieni, dai!”
“Il mio cappotto dove ce l’hai?”
“Il Rosso ce l’ha. Io non comando mica niente, lì.”

Blanca tese una mano magra e pallida per aiutare ad alzarmi. Anche nel buio aveva iridi così chiare che sembrava avesse solo le pupille. Era un po’ inquietante, ma c’era anche una ferocia così marcata da cane randagio e un’astuzia, quella più felina, da renderla incredibilmente maestosa.
I lineamenti affilati, per natura e per fame, il passo deciso e i capelli corti sotto un berretto di flanella che gli copriva un orecchio più dell’altro. Questa era Blanca.
Blanca non era che una bambina esile e scaltra che assomigliava ad un maschio, eppure con lei vissi la cosa che più assomigliò all’amore in tutta la mia vita.
È per colpa sua che mi piacciono sia gli uomini sia le donne. È sempre colpa di Blanca.

 
***

 

 Dovemmo infilarci in alcuni viottoli luridi e trovare un cimitero, scavalcarne il muricciolo, uscirne, ed entrare in uno scantinato. Lì c’era il Rosso.
Blanca aveva fatto tutta la strada con le mani in tasca e senza dire una parola. Io ero ancora offeso nei suoi confronti, l’avevo seguita solo nella speranza di poter recuperare l’ancora mio cappotto. Il quale, dopo che vidi il Rosso e tutta la sua banda, smise di essere considerato tale.

 Lo scantinato era colonizzato dalle ragnatele e dal buio, smorzato solo dal baluginare da luci di poche lanterne. Pareva una miniera.
Era piacevolmente caldo ma sovraffollato, con quella manica di discolacci che vi entravano e uscivano in continuazione.
Proprio davanti all’entrata, presso la parete direttamente opposta, c’era un enorme sedia, scalcinata ma addobbata come un trono. Tappeti tutti intorno di scarso valore, ma color porpora facevano la loro figura, in quell’angolo di lusso da presa in giro, di maestà dei poveri.
A qualcuno sarebbe sembrato un bordello – a me no, perché le case di piacere le conoscevo solo per nome e non sapevo nemmeno che cosa ci si facesse.

  Quando entrammo nessuno badò a me o a Blanca. Era tutti ragazzetti tra gli undici e i quindici anni intenti a mille attività diverse: erano strani, alcuni impegnati nel gioco delle carte come piccoli adulti logorati dalla vita e dal vizio, altri litigavano per qualche assurdo motivo.
Nel complesso c’era un gran casino, un vociare così confuso che mi sentii girare la testa.

Notai che le altre femmine che erano presenti erano vestite con certi abiti da donne adulte che scoprivano il seno, e avevano la faccia incipriata.
Erano molto belle e molto ridicole al tempo stesso, a me non piacevano.
Quelle se ne stavano in un angolo a parlare tra di loro, e furono le uniche a osservarmi incuriosite.
“Vieni con me.”

 Blanca mi scosse, e mi trascinò verso una porta in un angolo più tranquillo dello stanzone. Entrammo in un corridoio adiacente. Lei mi precedette camminando lentamente e quatta quatta come a cercare di non far rumore.
Poi saltò dentro la stanza con entusiasmo.
“Te l’ho portato!”

 C’era una figura voltata di spalle che contemplava non so che cosa sul lato opposto della stanza.
Era assai esile e i capelli le correvano come sangue lungo la schiena. Pareva una femmina, e anche quando si voltò per un po’ lo pensai davvero. Guardò a lungo Blanca senza dire nulla.
Aveva un viso dai lineamenti finissimi, ma anche ambigui, quasi quanto quelli della bambina.
Quando si decise a parlare, rivolgendosi al mio indirizzo, rivelò una voce profonda e maschile.
Trasalii per la sorpresa e per il modo che aveva di osservarmi.

È un maschio.

“È quello del cappotto?”
“Sì.”
Il parlare di Blanca era un pigolio.
“Corre bene?”
“Ha corso bene.”
“È furbo?”
“Non lo sembrava tanto.”
“Ehi!”
Tirai una gomitata a Blanca, sinceramente adirato e dimentico anche dello sguardo inquisitore del Rosso – era lui.

 “Calmi.”
Si alzò in piedi e si avvicinò al mio indirizzo. Era così magro che sembrava impossibile potesse alzarsi e compiere dei movimenti senza rompersi. Pareva uno strano burattino.
Quell’orrenda macilenza aveva però lasciato intatto il viso, e solo le guance si rivelarono eccessivamente scavate.

“Come ti chiami tu?”
Dovetti pensarci un momento. Era tanto che nessuno me lo chiedeva, da quando mi ero lasciato indietro le campagne, perché in città nessuno mi aveva più offerto ospitalità.
Che cosa rispondevo di solito?
“Non ho un nome.”
“Te l’ho detto che era stupido!”
“Blanca.” La mise a tacere e continuò: “Cosa vuol dire che non ce l’hai?”
“Dei banditi hanno bruciato casa mia e tutto il mio paese, credo di aver battuto la testa e non mi ricordo come mi chiamo.”
“Nessuno ti ha più chiamato con qualche nome?”
“Nessuno mi ha più chiamato per nome, a parte le vecchie, ma loro mi dicono ragazzino e a me non piace. Mi chiamavano Manigoldo una volta, perché ammazzavo le farfalle. Ma non mi va di farmi chiamare così a tempo pieno.”
“A nessuno andrebbe.”
“…”

“Quindi un nome non ce l’ha?” Blanca entrò di nuovo nel discorso. Non era interessata tanto a me quanto ad attirare l’attenzione del giovane. Pendeva dalle sue labbra.
“No.” Risposi.
“E come ti chiamo?” continuò quella.
“Non mi chiamare. Fammi solo un fischio quando vi deciderete a restituirmi ciò che è mio.”

 “Quanto a me, mi chiamano Rosso”, si avvicinò tendendomi la mano secca. La ignorai.
“Posso riavere il mio cappotto?”

“Blanca ti spiegherà cosa fare per guadagnarsi il pane da queste parti. Se guadagnerai abbastanza ti restituirò il cappotto.”
“E se non volessi?”
Il Rosso sorrise sibillino e le labbra si tesero fin quasi agli occhi: era tutto bocca, tanto era magro.
“Quanto pensi di poter andare avanti durante l’inverno?”
Tacqui e abbassai la testa. Mi guardai i polsi, e non mi sembrarono molto meno esili di quelli del Rosso. L’aria mi sembrò improvvisamente fredda e rabbrividii.

 Nelle campagne non ci avevo fatto caso, ma in città la miseria aveva tutto un altro sapore: non era solo avere un po’ più freddo alla notte. Sapeva di sconfitta ed emarginazione.
“Portalo di sopra.”
Blanca mi tirò per il braccio e mi portò via.
Pensai alle mie farfalle dalle ali stracciate in mezzo ai campi d’oro, in cui pareva essere caduto il sole, e, per la prima volta in vita mia, sentii una tristezza che mi pareva senza motivo.
Ora lo so: era solo morire di nostalgia - prima o poi capita a tutti. È fisiologico.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** III. La tierra donde cae el Sol ***


III

La tierra donde cae el Sol


Restai con la ghenga del Rosso poco più di dodici mesi: un pezzo di vita breve, ma memorabile.
Ho già detto di avere i problemi a dormire in posti chiusi: nello stanzone adibito a dormitorio in cui dormiva una parte del gruppo, tra il caldo soffocante dei primi tempi – i primi mesi d’inverno, in cui l’aria non gelava completamente -, la polvere e l’ansia, ho avuto più attacchi d’asma che in tutto il resto della mia vita.
Era un inferno per me, per quelli che volevano dormire, incuranti della mia sorte, e per quei pochi che si preoccupavano che io morissi.
Tra questi, oltre a Blanca, c’erano altri due ragazzini con cui avevo stretto amicizia - o una relazione del genere.
Il Gamba era uno spilungone magro magro che era scappato dall’orfanotrofio poco prima del mio arrivo, e Rob O’Neill, una lingera con la faccia da santo.

Dopo un paio settimana di crisi sistematiche, anche due volte a notte, il Rosso mi lasciò a dormire nello stanzone principale dello scantinato, quello in cui di giorno stavano tutti.
Faceva più freddo, ma essendo estremamente ampio, riuscii finalmente a passare notti tranquille. A volte il Gamba e Blanca venivano giù a farmi compagnia nelle sere di vento, quando nessuno di noi riusciva a dormire.
Mangiavo abbastanza e avevo ricominciato a prendere peso, dopo qualche mese l’asma si affievolì tanto da non rappresentare un problema particolare.

Il lavoro consisteva nel rubacchiare a destra e sinistra, al mercato e nelle tasche delle persone vestite un po’ meglio. Poi si portava tutto al Rosso, e lui portava le cose più preziose da qualcun altro. Per noi teneva le cose che servivano a campare.
Quelle ragazze ben vestite si prostituivano.
Blanca no, perché sembrava un maschio, diceva. E non si capiva se la cosa le desse sollievo o la mettesse incredibilmente in crisi.

Rob aveva fatto del rubare una vera e propria arte: aveva un tocco così leggero e una presenza tanto discreta che sapeva starti seduto vicino, parlarti amichevolmente e rubarti il cibo dal piatto. Mentre lo guardavi.
Mio padre veniva dall’Inghilterra, a Londra il furto è maestria!”, vantava.
Dicevano che una volta avesse provato – e fosse riuscito - a fregare qualcosa anche al Rosso. Solo che poi quello lo aveva preso da parte e chiuso in una stanza con sé.
Rob non aveva mangiato per una settimana e non aveva mai più guardato il Rosso dritto negli occhi.

Fatta eccezione che con il capo, egli aveva un perenne sorrisetto sardonico sul viso.
Quella pelle lattea, gli occhi cilestrini e il ciuffetto biondo che scendeva in mezzo alla fronte gli davano un aspetto così innocente da far venire naturale l’impulso di fargli del male.
Mentivano: se qualcuno avesse veramente a fargli qualcosa, poi lui si sarebbe vendicato. Ed era cattivo.

Non credo di aver mai conosciuto una persona capace di tali e gratuite crudeltà come Rob.
Dicevano che fosse diventato così per colpa di un padre alcolizzato. La leggenda narra che fosse stato buono come il pane una volta.
Rob era stato colui che aveva deciso che io mi sarei chiamato Manigoldo. Perché era un nome tosto, mi stava bene addosso.
Se non fossi abituato a farmi chiamare Rob, ti darei il mio nome e mi prenderei il tuo.
Pure quello si sarebbe fregato, il bastardo.


Il Gamba era un individuo totalmente diverso. Era altissimo, malaticcio per esser cresciuto troppo, troppo in fretta, con quei capelli bruni e sempre sugli occhi, dei quali invece non ho idea di quale fosse il colore.
Era un buon amico, silenzioso, anche se a volte petulante.
Aveva un perenne senso di colpa addosso che gli avvelenava il sangue senza motivo. Aveva la mia età ma sembrava incredibilmente vecchio con quel modo di fare composto e pacato.
Non l’ho mai stimato abbastanza, sebbene fosse di gran lunga migliore di Rob.
Subiva le prese in giro da parte di tutti gli altri tre.
Blanca era la più cattiva di tutti nei suoi confronti, ma solo perché era l’unico su cui potesse accanirsi pure lei.
Lui alzava le spalle: era forte in maniera così discreta da risultare insopportabile.
Era la sua maniera di essere aristocratico.
Gamba faceva il palo, di solito.
Poi andava per conto suo a rubare nelle librerie, ma lo faceva in buona fede: riportava sempre il libro preso dopo uno o due mesi. Per ricordarsi del negozio a cui appartenevano strusciava con il dito sporco su un angolo della prima pagina. A seconda di quale angolo fosse, lui sapeva dove riportarlo.
A volte li prestava a me, con l’imperativo di non rovinarli. Ero arrivato ad ordinargli dei libri precisi, avevamo gusti simili, assecondava le mie richieste, altre volte facevo scegliere lui.
Un’unica condizione: i volumi dovevano essere sottili, chiaramente. Bisognava nasconderli sotto la giacca, altrimenti non poteva farla sotto al libraio, se gli passava davanti con strane escrescenze.


***

I giorni passarono veloci, passarono in strada, tra la confusione, la polvere e il rischio di essere sempre schiacciati dalle carrozze che correvano, correvano tutti il giorno. E chissà dove andavano, così eternamente di fretta, mi chiedevo.
Eravamo sguaiati, fuori luogo, beffardi - piccoli adulti rovinati dalla vita.
Oserei dire che rischiavamo di essere felici.
In realtà devo dire, per quel che mi riguarda, che ero perennemente lacerato da una strana malinconia, una tristezza soffocante, che mi prendeva alla sera nei vicoli in cui baluginavano le fiaccole, o quando mi trovavo in mezzo ad una folla particolarmente densa.
Non so cosa mi mancasse, dato che non ricordavo praticamente niente (recuperai infatti qualche pezzo di memoria solo con gli anni).

Pensavo: farfalle. Ma non ne vedevo.
I ritagli di cielo sopra la città era così risicati che ogni volta che guardavo in alto non riuscivo a provare né pace né deferenza.
Non mi sono mai più liberato di quella sensazione.


***


Quando si preparava ad allungare le mani nelle tasche della gente, Blanca si calcava il cappello in testa con tale forza e concentrazione che sembrava volesse infilarcisi tutta dentro.
Era un rito che le aveva fatto perdere qualche capello. Aveva la frangetta un po’ diradata per le continue frizioni con la flanella.

Non diventi invisibile a schiacciarti il cappello in fronte”, la stuzzicai, “solo calva.”
Non diventi furbo a guardare cosa faccio io, resti solo senza cena.”
Tutto così: lei perdeva veramente i capelli e io restavo senza cena solo a volte.


Una sera eravamo seduti in silenzio su un attracco del molo, Blanca dava le spalle al mare, in favore dei monti. Il buio stava risalendo il cielo a partire da lì.
Alle nostre spalle, bassa sull’orizzonte, Venere.
Mi piaceva quella stella: di notte, fra le altre, mi sembrava a malapena riconoscibile per la sua luce verdina, ma alla sera e al mattino – quando la chiamano Lucifero - era sempre la regina. Quando gli altri astri cedevano il passo al Sole, lei rimaneva lì e si prendeva la sua meritata gloria.
Pensando all’alba mi nacque quella curiosità: “Ma tu, tu da dove vieni?”, le chiesi.

Non sapevo molto di lei.
Blanca restò ancora in silenzio per un istante, poi tese il dito verso nord-ovest, un ovest lontanissimo, e lo mosse lentamente in direzione est, avvicinandolo piano piano a se stessa.
Aveva un’espressione indecifrabile.

Vieni da lontano?"
Rifletté un ultimo istante: “Dalla Spagna”, rispose senza calore, concentrandosi sul lavoro di un pescatore dal viso sporco, che sistemava le reti.
Tuttavia, quando cominciò a parlare, non riuscì a fermarsi: “O almeno da lì viene la mia gente. Io non sono sicura di esserci mai stata. Non la ricordo affatto, eppure per me è davvero la patria a cui tornare.
Capii dal suo racconto – lei non lo disse esplicitamente – che era nata tra i gitani, gli zingari spagnoli.
Era cresciuta girovaga sui loro carri colorati, era sopravvissuta danzando: aveva ballato in ogni piazza per guadagnare soldi e in ogni vicolo per dimenticare la fame.
Aveva indossato le loro gonne lunghe e colorate, con i sonagli attaccati, suonato il tamburello e portato i capelli lunghi.
Confesso che questa immagine di lei mi fece un certo effetto. Se ne accorse, e si calcò meglio il cappello verde sugli occhi.
Il suo primo ricordo erano le coste scoscese e avare – di una bellezza amara e folgorante - del mar Ligure, il vento tremendo che tirava nei caruggi di Genova, un vecchio sdentato a cui aveva fatto l’inchino dalla cima di una
creuza.
Era stata con una carovana fino in Calabria, poi il suo racconto si interruppe bruscamente e seppi solo che, da sola, aveva attraversato lo Stretto.

Ho vissuto qui per sei mesi, altrettanto sola, ed è stata dura.
Un giorno ho cercato di mettere le mani nelle tasche di Rosso.”

A quel punto sorrise, e percepii un terribile tarlo rodermi dentro.
Non ho più parlato direttamente con il Rosso dopo il giorno del mio arrivo, eppure la sua presenza gravava sempre su di noi come un temporale: egli era il nostro salvatore e il nostro terrore. Blanca lo venerava.

Mi ha beccato subito”, continuò: “Un gatto non può fregare una volpe, è stata la prima cosa che mi ha detto.
Mi ha bloccato per il polso. Avrebbe potuto fare qualunque cosa volesse: chiamare la vigilanza o farsi giustizia da solo, tanto qui nessuno protesta per la vita di quelli come noi.
Mi ha detto solo che ero stata brava, mi avrebbe lasciato stare se avessi continuato a fare quello che stavo facendo, ma per lui.
Mi ha salvato la vita.”

Tuttavia, voleva tornare in Spagna - come fosse sicura di voler tornare in un posto in cui non era sicura di essere mai nemmeno stata, proprio non lo so.
Non aveva un cuore gitano, lei voleva un posto in cui tornare e fermarsi, ed era una sognatrice.

So che questa non è casa mia e che quello è l’unico luogo possibile in tutta la Terra.”

La Spagna dei giorni che non tramontano mai, del sole eterno e delle notti giovani; dei fieri cavalli bianchi, delle ballerine di flamenco in abito rosso – volta la carta, un toro squarcia la muleta.
La Spagna lontana, nello spazio e nel tempo, ma non irraggiungibile, l’irresistibile richiamo del sangue.


Quando?”
Quando Rosso non avrà più bisogno di me.”
Quando non sarà più una ragione sufficiente per restare,
pensai.

Aveva percorso a ritroso la strada del sole, da ovest ad est. Ora voleva seguire la giusta linea, tramontare ad ovest, e quando lo disse aveva i brividi.

Ricordo bene la sagoma delle sue spallucce, quella sera. Al lobo destro aveva un anellino dorato, una ciocca le scappava dal cappello.
Io continuavo a guardare Venere, ma ben presto non riuscii più a trovarla – si era fatta tarda sera.
Chissà a cosa pensai quel giorno. L’avrei portata ovunque pur di non lasciarla al Rosso.
L’avrei portata ovunque purché restasse con me, lo giuro.

Ironia della sorte, Blanca finì a tramontare ancora più ad est.






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Capitolo 4
*** IV. La gatta Angelina: dedica sincera ad una prostituta ***


IV
La gatta Angelina: dedica sincera ad una prostituta


Quando non sapevamo cosa fare, io e Rob usavamo gironzolare per il porto inventandoci nuovi modi di imprecare.
Avevamo due categorie: la bestemmia più ridanciana e l'insulto più malevolo – conformemente ai nostri caratteri, io eccellevo nella prima, Rob nella seconda.
Il porto era uno scalo commerciale, e per questo era un formicaio di vita da mane a sera: se ci si fosse annoiati in città, sarebbe bastato andare ai moli e guardarsi intorno, ci si poteva passare il pomeriggio tanto era eterogenea l'umanità che vi bazzicava.
Lo scalo rappresentava la salvezza per quel paesone, ma anche la radice di tutti i mali che vi albergavano.
Messina era come un'operaia: per portare il pane a casa si rovinava la salute.
Io e Rob andavamo lì per guardare i marinai e, sebbene né io né lui lo avessimo mai detto apertamente, volevamo imparare da loro a diventare dei veri uomini - tali ci sembravano -, poiché avevano i tricipiti allenati e tatuati e ululavano le bestemmie più colorite, mentre noi, per partorire scempiaggini del genere, dovevamo starci a pensare un pomeriggio intero.
Ridevamo anche dietro alle prostitute, le prendevamo in giro da lontano.
Un giorno Rob decise di regalare alla puttana più brutta del porto, per deriderla, una rosa bianca, accompagnando il dono con una filastrocca apparentemente dolce, che aveva un osceno finale a sorpresa. Ricette un ceffone che gli ruppe tutti i capillari del lato sinistro della faccia.


A me le prostitute facevano uno strano effetto; ma dovrei esprimermi meglio: tutto ciò che riguardava il sesso mi faceva uno strano effetto.
Ero, per quanto precocemente, nell'età delle scoperte e, se da una parte ne ridevo sguaiatamente con i miei amici, comportandomi da uomo vissuto, tutto quello esercitava in me un inspiegabile sortilegio.
Rob diceva di essere andato già a puttane una volta.
“Con quelle vecchie lì? E come ti si rizza davanti ad una vecchia?!”, chiesi, un po' deridendolo e un po' seriamente interessato alla faccenda.
Mi disse che, se uno aveva qualche soldo in più da spendere, c'erano quelle giovani, poco più grandi di noi.
Costavano tanto perché erano quelle che piacevano anche ai vecchi nobili, ma lui ne aveva qualcuna per amica e riusciva a cavarsela con poco.
Mi disse anche che ce n'era una andata con lui per amore. “E chi è?”, “Mi ha lasciato.”
“Ma chi è?”
“Non te lo dico, non voglio che la conosci, sono geloso.”


***

Un giorno decise che era anche il mio turno, perché non poteva parlare di quelle cose con uno che, in pratica, non ne sapeva nulla.
“Guarda che non c'ho soldi!”
“Offro io!”
A parte i suoi mille difetti, c'era da dire che la spacconeria di Rob aveva anche un che di galante.
“E i soldi dove li hai, tu?” “Non ho soldi, ma un sacco di gente che mi deve un favore”, disse con aria di superiorità.
Quel giorno entrai anche io nel novero di quelli che gli dovevano un favore, e più avanti capii che, ad accettare la sua offerta, avevo fatto un patto con il diavolo.

Una sera lo dicemmo a Blanca e mi guardò con occhi vuoti. Ero già in ansia e mi sentii ancora peggio.
Non mi parlò per una settimana, e, non gliel'ho mai detto, lei fu il motivo per cui, con quella puttana, in realtà non ci feci mai nulla.

Quando Rob mi portò dalla prostituta – una ragazzona simpatica e corpulenta che doveva avere solo un paio d'anni più di me e si faceva chiamare Angelina -, dopo un primo tentativo di provare eccitazione nei suoi confronti, la pregai di lasciare perdere e di non dire nulla a Rob.
Lei, chiaramente, accettò di buon grado: aveva estinto il debito nei suoi confronti senza fare nulla e le stavo simpatico.
Per assicurarmi il suo silenzio, la settimana dopo le regalai un bel fazzoletto viola che avevo rubato ad una vecchia signora.
Fu felice e non mi tradì mai.
In suo onore ho chiamato Angelina una gattina bianca che gironzolava per il Santuario e veniva sempre a chiedermi da mangiare, miagolando davanti alla Casa di Cancer.
Sì, perché i gatti arrivano dove non riescono i combattenti. Angelina era una pioniera.

A Blanca tutto quello non lo dissi mai, ma ben presto avrebbe capito che ero vergine, dato che la prima scopata me la feci con lei, che, a quanto scoprii con un certo disappunto, non lo era più.
Per ripicca nei miei confronti, poco tempo dopo era andata con un tizio a caso, con il quale si era poi trovata bene ed era rimasta per qualche tempo.
Nel frattempo però avrebbe voluto sempre e solo me, mi disse.
“Ma tu eri sempre a fare il braccio di Rob.”
Non le risposi niente ma mi mangiai le mani.


***


Io non so quando iniziò la mia storia con lei. Mi avvicinai a Blanca lentamente.
In un solo anno, il rapporto con lei mutò come muta il rapporto tra uomo e donna nell’arco di un’intera vita.

Fu lei che mi insegnò ad avere la mano leggera e a scomparire nell’ombra di un vicolo. Talvolta, in quei momenti, mi si stringeva talmente forte accanto da farmi sentire le budella tutte fuori posto.
Volevo stringerla a mia volta, ma non aveva senso. E poi non la sopportavo.
O no?

È una sensazione che non mi è mai più capitata, è come un qualcosa che fai molto naturalmente ma non capisci razionalmente.
Malgrado questo, appena ne avevo l’occasione la deridevo con tutta la cattiveria che potessi tirarmi fuori: perché era una femmina, perché sembrava un maschio, lo facevo quando sbagliava e, soprattutto, quando faceva le cose meglio di me.
Lei non era meno fetente, ma il più delle volte si fermava ad una glaciale indifferenza. Talora ad uno sguardo più cupo del solito con delle lacrime che le restavano aggrappate alle ciglia.

Blanca, un bocciolo sul ramo del peccato, quello mai sbocciato, bruciato da un freddo tardivo.
Fu la pena da scontare prima ancora di aver commesso l’errore.
Oserei definirla persino il mio grande amore – quello mai confessato.
L’occasione perduta e il bivio capitale della mia vita.
Ma come tutto, nella mia vita, va preso con estrema leggerezza e una risata.
In sua memoria posso elevare una pinta di birra, non posare un fiore su una tomba, perché lei non avrebbe voluto fermarsi a certi ritualismi.

Ricordo che una notte d'inverno si addormentò nella mia branda perché aveva freddo a stare da sola. Mi strinse la mano e me la avvicinai al petto.
Non ci baciammo, ma avremmo voluto farlo entrambi – quella tensione insoddisfatta fu la sensazione più particolare e bella che abbia mai condiviso con un essere umano.


Ricordo bene il nostro primo bacio, ma non come ci arrivammo.
Eravamo in una piazzetta desolata e pieno di fango, una mattina in cui aveva appena finito di piovere.
L'aria era umidissima e tutta la città invasa da un grigiore invernale; un gabbiano rideva di noi da un tetto.
Fu lei a prendere l'iniziativa, mi prese dal colletto. Fu un bacio orribile, fu il primo e non sapevo dove mettere le mani – sul serio, dovrebbero fare un regolamento per spiegare ai novizi dove debbano stare queste due stupide appendici così importanti.
Blanca era strana: sempre così maschile, ma tra le mie braccia (mai, in pubblico) non era che una bambina.
Mi tirava una gomitata nello stomaco per poi darmi un bacio; dandomi una carezza mi riempiva la faccia di fango.
E io la adoravo, perché non voleva stare su un piedistallo, come mi sembrava fosse per tutte le altre donne. Perché era imprevedibile – un'onda -, perché era acqua viva ma bruciava di una malinconia a cui nemmeno lei sapeva dare un nome.
La adoravo perché non era bella ma era mia, senza mai perdere la propria libertà.
Non ci siamo mai detti ti amo, né ci siamo mai apertamente riferiti alla reciproca attrazione tra noi due.
Abbiamo passato quel poco tempo a respirare a pieni polmoni quello che potevamo darci a vicenda, senza farci troppe domande.
Non guardavamo verso un futuro comune perché non lo vedevamo né ci interessava, a malapena ci fissavamo negli occhi. Il nostro sguardo contemplava lo stesso cielo, eravamo sempre con il naso all'insù.
Un giorno le dissi delle anime, lei tacque e poi rise.
“Non mi credi?”
“Ti credo perché sei tu, ma non riesco a crederti per lo stesso motivo.”
All'epoca mi arrabbiai per la mancata fiducia.
Oggi capisco, ancora di più, che mi conosceva più di chiunque altro.

Se ora vedessi ragazzini di quell'età fare quello che facevamo noi, non potrei che reputarli buffi, troppo giovani. Ma noi vivevamo in un mondo del tutto slegato dal tempo, dalle età.
Eravamo cresciuti in fretta, eravamo ancora stupidi ma una vita da adulti, o quasi, non poteva che essere l'unica possibilità.

Passai al fianco di Blanca gli ultimi mesi con gli altri ladruncoli del Rosso.
I fatti che mi condussero dall'Italia in Grecia furono così stupidi, così impossibili da rischiare di farmi credere che sia stata la Cloth a volere proprio me, che esista il fato, che Blanca dovesse morire per forza.

Non le perdonai mai il cappotto, ma, d'altra parte, non ce ne fu nemmeno il tempo.
Ma adesso è presto per parlare di tutto questo, dopotutto vi sto ancora raccontando degli anni della gloria.
All’inizio fu la mia guida e, per quanto la trovassi insopportabile - e faceva di tutto per risultarlo -, dovetti aggrapparmi a lei – altra cosa che non le perdonerò mai.

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Capitolo 5
*** V. Caron Dimonio ***


V

Su come lo scegliere Caron Dimonio sarebbe stato meglio


Una mattina eravamo con Rob, il Gamba e Blanca al porto, scivolavamo tra le bancarelle rubacchiando qualcosa qui e lì.
Dai ponti dei pescherecci vedevo sollevarsi le anime dei pesci, creavano un buffo alone assieme alla puzza. Capitava che mi fermassi a guardarle e O’Neill, spazientito, mi tirava calci sui garretti.

Si può sapere cosa guardi imbambolato? Come se non avessi mai visto il mare, sembri diventato scemo come il Gamba.”
Si beccò un colpo di ammonimento sul petto: “Cerco un buco per buttarti a mare, cerco, per la prossima volta in cui ti uscirà una stronzata del genere.”

Eccezione fatta per Blanca, non avevo parlato agli altri di quanto vedevo, e, se anche lo avessi fatto, O’Neill non era contemplato tra coloro che lo avrebbero saputo.

All’epoca alla morte non pensavo quasi più: avevo da pensare a vivere – e sopravvivere -, e poi, in città, anche la morte assumeva contorni vaghi, come qualcosa di insignificante, su cui non c’era tempo di soffermarsi.
La morte giaceva nei vicoli strapieni di spazzatura, nell’ombra; non più drammatica, ma solo fastidiosa – intralciava le carrozze, rendeva le strade indecorose, doveva restare relegata in vicoli dimenticati anche da Dio.
Gli uomini andavano a morire in luoghi nascosti, divorati dalla fame e dal freddo, ubriachi di vino e solitudine, accoltellati – e dai quei luoghi mi tenevo ben lontano, perché negli occhi avevo ancora le orbite vuote di Bucefalo e il ventre svuotato di un uomo. Mi bastava.
Quando vedevo il bagliore di un’anima distoglievo lo sguardo e cambiavo strada.

Le osservavo solo sul mare, perché il mare era troppo maestoso e superbo per farmi soffermare sulla miseria di tutto quello che vi stava sopra, dentro e attorno.

***

Rob quel giorno aveva voglia di essere bastardo.
Iniziava la bella stagione, molte navi erano pronte a partire. I marinai, in lunghe file come formiche, caricavano le merci nello scafo.
In tale giornata che cosa sarebbe stato meglio – più furbo – di fare a gara a chi riuscisse a salire sulla nave, portare via qualcosa dalla stiva e tornare dagli altri?


Qualsiasi cosa: comincia tu”, mi provocò Rob. “Comincia tu che ci vedi più lontano di tutti. Noi dopo di te.”

Quel giorno ero irrequieto. Cominciavo a voler andare via da lì, stavo meglio di quando ero arrivato ed ero stanco. Ormai sapevo come campare in una città e me la sarei cavata; non c’era più ragione di restare con il Rosso, tanto più dal momento che, ormai era palese, non avrei mai più rivisto il cappotto.
Ero stufo di Rob e di girare come una biglia per vicoli che ormai conoscevo a menadito, stufo di un gruppo di cui avere sempre qualcosa da temere in caso di errore. Avevo voglia di tornare ad essere solo e adesso conoscevo anche il modo per tirare avanti.

Credo che stessimo semplicemente crescendo, eravamo in quel periodo un po' doloroso in cui si allungano le ossa. Da un giorno all'altro ci era calato uno strano nervosismo addosso.
Chissà dove pensavo di andare, quel giorno. Sicuramente i miei passi si volsero nella direzione opposta – in direzione del sole che sorge, al di sopra del mare, in favore di Maestrale.

Quanto a Blanca, non avevo dubbi sul fatto che, se le avessi chiaramente detto che me ne andavo senza possibilità di ritorno, mi avrebbe seguito (sciocco, lei sarebbe rimasta là con il Rosso tutta un’eternità, perché era lui il vero centro dell’universo).
Ad ogni modo, il problema non si pose mai perché non ci fu data possibilità di scelta – niente di nuovo sotto al sole.

***

Accettai la sfida di Rob perché sentivo il bisogno di uno scossone – e perché ero terribilmente stupido e pecorone.

Ricordo ancora tutto perfettamente: eravamo al molo 6, presso il quale attraccavano le navi che si limitavano ai commerci nel Mediterraneo. Era molto tranquillo, c’erano pochi marinai lì in giro.
Mi incamminai lungo il corridoio di attracchi per scegliere la mia nave.

Ce n’erano molte e sembravano tutte vuote, lessi i nomi per decidere quale mi sembrasse la più interessante.
C’erano tre
Red Saphire, ma non sapevo l'inglese, una Giovanna, ma non suonava bene dire “Ho saccheggiato la Giovanna”, Diana, Alba dell’ovest, Barbaria – non mi convinsero.
Poi il mio sguardo le vide:
Caron Dimonio* e Palinuro**. Portavano il nome di due nocchieri mitici: Caron occhi di bragia, mentre il secondo era il disgraziato timoniere della combriccola di Enea. Quello fregato dal Sonno e finito in acqua.
Il mito sulla lotta di un incapace: giudicai che la
Palinuro fosse la nave adatta – l'epica dei falliti era ancora la mia preferita.

*Non credo servano presentazioni per Caronte... La Divina Commedia, Inferno, III

**Eneide, V
La storia di Palinuro è un po' triste: mentre naviga durante una notte tranquilla, dopo aver affrontato una tempesta,
cade in mare, vittima di Hypnos (Sonno). Il mattino dopo verrà ucciso dagli indigeni dell'isola su cui si era ritrovato.
In realtà, è la vittima richiesta da Nettuno affinché l'equipaggio possa raggiungere indenne il Lazio.

***

L’imbarcazione era una caracca genovese. La croce rossa su sfondo bianco della bandiera ciondolava fieramente in balia del debole vento.
Nel Quattrocento le caracche erano state progettate per solcare l'Oceano: erano ampie e stabili, adatte ad affrontare il mare grosso e la tempesta. Non so che cosa ci facesse nel porto di Messina.
Sicuramente era una nave sciagurata per qualcosa, e per questo l'avevano chiamata
Palinuro.
Dio li fa e poi li accoppia – l'ho sempre vista come la dimensione marinara e triste di Bucefalo.

Essa faceva la spola tra Genova, Messina e Atene per portare granaglie dal Sud Italia ora all’Attica, ora alla Liguria, che ne erano carenti.
Lo scafo era già stato riempito, non sarebbe stato necessario inoltrarsi più di tanto all’interno di quel grosso ventre per portare via qualcosa.

Senza ansia risalii la passerella. Un marinaio che fumava appoggiato al parapetto, mi guardò annoiato, ma non mi chiese nulla, come se la cosa non lo riguardasse.
C’erano un altro paio di uomini intenti a tirare delle corde, nemmeno loro mi prestarono particolare attenzione, probabilmente credendomi un mozzo.

Fu quando dovetti scendere nello scafo che provai una strana angoscia. Mi voltai indietro, e, se quell’ansia non fosse stata tutto ciò che avevo disperatamente cercato in quei giorni, avrei girato i tacchi senza vergogna, tanto forte mi prese l’angoscia.
Il marinaio fumatore continuava a fissarmi con le palpebre pesanti, sembrava uno di quei cani con le orecchie lunghe e gli occhi tristi che non fanno male a nessuno.
Cercai di aprire la porta con la massima naturalezza possibile, anche se mi sentivo le articolazioni di un burattino. Bastò spingere un poco l’uscio e continuare a scendere, immergendomi nel buio.

***

La stiva era illuminata da una sola lanterna all’entrata, ed era stracolma di sacchi di grano impilati l’uno sull’altro, formavano delle torri alte poco più di un uomo adulto, incastrate tra il pavimento e il soffitto, come colonne.
Se avessi voluto prendere qualcosa, avrei dovuto rompere un sacco.
Mi guardai alle spalle con sospetto, ma nessuno si era degnato di venire a controllare che cosa stessi facendo. Allora, mi inoltrai più in profondità nel ventre di
Palinuro.
C’era una pila di merce più bassa delle altre, decisi di provare a rompere la canapa di uno dei sacchi a metà per prendere una manciata di chicchi.
Cominciai a cercare di strappare il sacco con le mani, perché quella mattina avevo dimenticato il coltello sotto il letto.

Passarono i minuti e le mani cominciavano ad arrossarsi, continuavo a voltarmi in direzione dell’entrata, per paura che qualcuno arrivasse e mi scoprisse.
Sapevo di dover aver paura dei marinai, avevo visto cosa avevano fatto ad un altro ragazzino scoperto a rovistare nelle stive.
Quel tipo aveva ancora le cicatrici delle bruciatore dovute allo sfregamento delle corde sulle braccia, e gli mancava un occhio – la cosa peggiore era che non riusciva a ricordare come lo avessero accecato.
Mi avrebbero fatto a fette con i loro bicipiti tatuati, e poi si sarebbero tatuati anche l’iniziale del mio nome come trofeo, nello spazio di pelle tra l’iniziale della mamma e quello della fidanzata.

***

Non so che cosa mi avesse impedito di uscire a dichiarare una ragionevole resa – forse l’insofferenza, ormai totale, verso Rob.
Per l’ansia mi misi a tirare verso di me un sacco intero, avrei portato via quello – tanto, se anche mi avessero visto, non sembravano molto devoti al loro lavoro.
Mossa poco furba: mi cadde addosso l’intera pila di sacchi e anche quella immediatamente dietro. Picchiai la testa contro il pavimento e svenni.

***

Fato volle che nel breve intervallo in cui ero privo di sensi, la nave si fosse preparata a partire – cosa che, in effetti, era in procinto di fare anche quando l’avevo scelta.
Rob e gli altri si erano accorti di quel dettaglio troppo tardi per richiamarmi, e nessuno di loro era intenzionato a lasciarci la pelle per me.
Tutti tranne Blanca - lei salì per portarmi giù. Ma si decise troppo tardi per riuscire a scendere.
Nemmeno quel giorno fu capace di negarmi la sua fedeltà - lo avrebbe voluto con tutta la sua forza, ed in futuro ancora di più. Eppure Blanca salì su quella nave e si lasciò chiudere dentro.
Sapeva che non avrebbe potuto salvare nessuno, né me né lei, sapeva che saremmo finiti nei guai insieme.
Come ogni volta, ce la saremmo cavata.
È la regola della giovinezza – è la fede nell'immortalità, e fu davvero questo a tradirci: l'idealismo.
Palinuro
cominciò il suo viaggio con due passeggeri in più e la stiva tutta in disordine.

C'era una città bianca al di là del mare, e ai suoi piedi un porto che era un nodo di rabbia.
Atene, sulla quale il vento della Storia aveva cessato di tirare, non respirava che la polvere di un mito dimenticato e vi scopriva il sapore del sangue – la Guerra Santa già incombeva.
Atene mi attendeva, lì, da secoli.
Ed io le andavo incontro sul fondo di una nave genovese, privo di sensi – lì è il crocevia del mondo.





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Capitolo 6
*** VI. Fiesta! ***



VI

FIESTA
(Storia su due benedizioni: una perduta e una negata per decenza)


VOS ET IPSAM CIVITATEM BENEDICIMUS
Così mi salutò la Madonnina dal torrione di San Salvatore, come salutava da secoli tutti quelli che partivano per mare.
Lei sa che è sempre meglio dire addio ad un uomo che parte per mare, perché non si sa mai se tornerà.
Non che questi debba necessariamente essere fagocitato dalle onde, semplicemente perché il mare apre mille strade, dimostra che si può correre verso l'orizzonte senza lasciarsi alcuna radice dietro.
Quando si è sul mare, ad un certo la costa scompare: restano un pugno di stelle sulla testa e la promessa di un porto al di là di un orizzonte irraggiungibile.
Un uomo che parte per mare e capisce questo, non torna più.


*

Io la benedizione della Madonnina non potei riceverla perché, quando la costa scomparve, ero ancora svenuto sul pavimento dello scafo della Palinuro con dei sacchi pieni di grano addosso.
Blanca mi svegliò a suon di schiaffi e lacrime.
Mi si era seduta addosso a cavalcioni e piangeva come una disperata, colpendomi sul petto.
“Svegliati, svegliati, maledizione!”

Aveva sentito i marinai attendere il capitano per ritirare la passerella, non aveva avuto il coraggio di lasciarmi lì sopra. Era salita un attimo prima che egli arrivasse, non era riuscita a svegliarmi e a spostare i sacchi in tempo.
Aveva sentito le vele spalancarsi e visto dagli oblò la costa allontanarsi. E piano piano scomparire.

Quando mi ridestai provai un indicibile senso di nausea, aggravato dal suo peso e dai suoi pugni.
Appena notò che avevo riaperto gli occhi, mi tirò un altro schiaffo e scoppiò a piangere più forte sul mio petto. Singhiozzava rumorosamente, come se ogni momento le fosse negato il fiato, e, per ripicca, il suo dolce peso negava anche a me di respirare.
“Che diamine hai fatto!” e i suoi singulti disperati fecero riaffiorare in me la coscienza della situazione attuale.
La spinsi indietro e mi misi seduto: “Aspetta, aspetta, cosa...”
“La nave è partita.”, disse.
“La nave è partita.”, dissi.

Io non so se vi sia mai capitata la disgrazia di leggere per caso su un giornale il necrologio di una persona che conoscevate.
Vi sentirete molto stupidi e molto increduli.
Leggerete “incidente mortale” e analizzerete tutte le possibili accezioni di “incidente mortale”, per concludere che il giornalista stia in realtà intendendo “incidente quasi mortale”, che quella persona stia quasi per morire, o che sia morta ma non morta.
Concluderete che quello non è un necrologio, o che quel tale, che aveva lo stesso nome, lo stesso cognome, i medesimi documenti e tratti somatici del vostro conoscente, probabilmente non è chi dite voi. Solo un sosia fisico e burocratico.
Sai, i casi della vita, direte con il tono di chi la sa lunga. Tuttavia andrete comunque al funerale di questo omonimo sconosciuto, chi sa perché, e lì piangere come vitelli, sbattendo il muso contro la realtà.
Questo è uno dei lati che ho sempre ritenuto sinceramente interessante della morte: l'incredulità – la morte ci perseguita, vive sempre un passo avanti e uno dietro di noi, ma cadremo sempre dal pero quando ci busserà sulla spalla.
Amen.

Ad ogni modo, la mia sensazione fu proprio quella di chi legge un necrologio e non vuole crederci.

La nave è partita.
Partita vuol dire che sta per partire.
Che basta sbrigarsi a scendere, vero?

Mi scrollai velocemente di dosso Blanca e corsi con la testa che stava scoppiando verso un oblò a guardare fuori. E non vidi nulla: mare a destra, mare a sinistra.
Quant'acqua!, pensai istupidito e sinceramente meravigliato.
Non avevo mai visto così tanto azzurro messo insieme, né il sole così brillante e violento, eppure, guardandomi attorno dal piccolo vetro, non potei fare a meno di pensare “campo santo”.

“Quanto tempo è passato?”, chiesi senza forze.
“Cosa vuoi che ne sappia, il tempo di non avere il coraggio di lasciarti qui.”, mi rinfacciò. Aveva le labbra pallidissime e l'espressione di più puro terrore dipinta negli occhi.
Pensava al Rosso, ci avrei scommesso.
“La nave viaggia veloce”, aggiunse sussurrando, “Non possiamo nemmeno provare a tornare indietro a nuoto”.
“Messina...”, iniziai una frase senza saper dire che cosa volessi dire.
Messina.
Un saluto e una preghiera.

Volevo andarmene, ma non così, non così lontano, non portato via da una stupida sfida, non da una nave con un nome sfortunato, non verso un luogo al di là del mare.
Volevo tornare alle campagne di Sicilia, benedette da Sole Iperione, terre scelte per pascere le sue bestie. Scilla e Cariddi* prenderanno anche me, pensai – sperai.
Il tempo di non avere il coraggio di lasciarti qui.
Il destino mi condusse più profondamente nel mito, ad una città sul mare chiamata Atene, fondata e contesa dagli dei.
Non sono un fatalista, ma a certe cose bisogna dare questo nome.
Ero chiuso nella stiva di una nave che andava non sapevo dove, con una persona che non mi avrebbe più perdonato.
Se poi avessi saputo a che cosa sarei andato incontro – diventare Saint, dico -, mi sarei buttato a mare, sicuro.

Non che non mi piaccia la mia vita, ma ancora non ho capito quale concatenazione di fatti mi abbia portato alle soglie della Quarta Casa, né che cosa ci faccia io qui.
Come per ogni cosa, però, ne prendo atto.
A volte prendo in giro la mia armatura.
Mi ci siedo davanti a gambe incrociate, e le chiedo: “Ma a te, chi ti ha voluto?”
Penso che lei mi sorrida in qualche modo, ma non so che espressione sia, se di benevolenza o di beffa.
Le do una carezza: è stata lei a volere me, solo lei avrebbe potuto volere un Cavaliere senza nome che si fa chiamare Manigoldo. Mi sento onorato.
Le sorrido anche io, non so se di gratitudine o di imbarazzo. Ma non posso fare a meno di pensare quanto cara mi sia costata.


*Scilla e Cariddi erano collocati proprio nello Stretto di Messina


*


Decidemmo che, se il viaggio non fosse durato troppo, saremmo scesi al primo attracco senza farci scoprire dall'equipaggio. Nella stiva c'erano sicuramente delle scorte, avremmo attinto a quelle. E bastava nascondersi dietro ai sacchi, se non fosse arrivato nessuno.

Eravamo su una nave che commerciava nel Mediterraneo, non sarebbe stato un viaggio infinito. Eravamo abituati a cavarcela.

Fu con orrore che scoprimmo che le scorte di viveri per l'equipaggio non erano conservate nella stiva assieme alle merci.
Eravamo circondati da sacchi di grano e foraggio, e da bere c'erano solo botti di vino.
Adesso troverei la cosa certamente meravigliosa, ma dovete sapere che la temperatura della stiva a mezzogiorno sfiorava tranquillamente i quaranta gradi.
Provare a dissetarsi con il vino in quelle condizioni fu tremendo.
Non potei tollerare più l'odore dell'alcool per almeno una decina d'anni.

Fu orribile e dolorosissimo essere a stomaco vuoto, essere così disperati da mangiarsi anche un topo che passava di lì – chiaramente crudo – e masticare fieno (l'unica altra cosa commestibili oltre al grano).
Non so che razza di denti abbiano i cavalli, perché un uomo ci mette le mezzore a sminuzzarne un mazzetto e nel deglutire rischia perennemente di strozzarsi.
Non so nemmeno se il fatto di essere perennemente ubriachi per una settimana ci fosse stato d'aiuto o meno.
Collezionai un sacco di interrogativi.

Ricordo che Blanca passava le giornate rannicchiata sul pavimento, pallidissima, senza la forza di alzarsi o dire alcunché.
Io non so che cosa facessi oltre a sentirmi in colpa e farmi guardare con odio da lei.
Non entrò mai nessuno finché non attraccammo.
Ho contato i giorni e le notti perché numerare fu l'unica cosa che mi potesse tenere aggrappato alla vita.
Avevo già sperimentato quella sensazione sulle macerie del mio villaggio, e fu come tornare nel passato, ma ero mille volte più disperato e attaccato alla vita.


*

Il sole sorgeva, ci crepava di caldo e si rituffava nel mare. Fece così per sei giorni.
Benedetto fu il settimo, quando vidi dall'oblò il profilo frastagliato della terra di Grecia.

Non capii immediatamente: stetti a guardarla avvicinarsi per un po', come qualcosa di mai visto.
La terra, il miraggio.
La salvezza.

Sentii la vita rinascere in me con forza. Saremmo tornati al mondo dei vivi, ce l'avevamo fatta.

Corsi a scuotere Blanca, lei mi guardò voltando solo gli occhi senza alcuna energia.
“Blanca! Alzati, svegliati! La terra! La terra!”
Non aveva più la forza di credere o sperare in nulla. Sembrava un somaro azzoppato e incapace di rialzarsi, buttata così sul pavimento. Pensai a Bucefalo.
Aveva la bocca impastata, un colorito giallastro, dovuto al fegato in disordine, aveva perso peso e capelli, stringeva senza forze il suo cappello verde.
“Blanca... Adesso basta davvero saltare giù!”
Non rispose, ma capii che voleva alzarsi, la sostenni fino all'oblò per mostrarle il profilo vago e superbo della costa, “Ce l'abbiamo fatta, ce l'abbiamo fatta”, dicevo – pregavo.

Me la strinsi al petto, lei restava immobile: quegli occhi vitrei rivolti alla costa, verso la scoscesa terra su cui sorge Atene.
Ad oggi mi chiedo ancora se possa essere quello lo sguardo di un essere umano che guarda la sua stessa tomba – lo sguardo di chi è troppo stanco per riuscire a concepire ancora una speranza.
Una lacrima di fatica le rigò una guancia, non le uscì un singhiozzo.
“La terra...”
Tante case bianche impilate una dietro all'altra come lapidi: campo santo, pensai ancora, ed oggi so perché.

Avrei voluto essere più alto e con le spalle più larghe per avvolgerla completamente, per essere più forte e poterle dire: “Scendiamo, scendiamo e torniamo indietro”, per poter ottenere il suo perdono; per poter dire: “Scendiamo, scendiamo, ché ti porto in Spagna”, per sentirmi meno colpevole e regalarci un futuro – non insieme, ma un futuro per entrambi.

La Sicilia sembrava solo alle nostre spalle.
All'epoca ne eravamo certi: sarebbe bastato scendere e voltarsi, salire su una nave che andava in direzione opposta e tornare a Messina.
Non sapevamo dove stessimo sbarcando, ma non ci importava.
Era solo uno scalo, scendere da una nave per salire su un'altra.
E a mai più rivederci.

Non avremmo mai creduto che quella settimana sarebbe stata solo l'anticamera dell'inferno, che quello che ci aspettava sarebbe stato mille volte peggio.
Non realizzammo di essere giunti stranieri in una terra al di là del mare.
Ce ne saremmo accorti presto, e, se lo avessimo saputo, quella mattina avremmo pianto ugualmente, ma non di gioia.
Atene ci sorrideva con il sorriso bianco e tutto denti delle sue case, ma non ci accoglieva. Era il sorriso di chi ti attira a sé per scannarti.
Siamo arrivati,
pensai con sollievo.

Vidi un edificio maestoso e bianco sulla distanza, senza capire cosa fosse – ora so che è il Santuario.
Saluta tutti coloro che vengono dal mare, proprio come la Madonnina di Messina, ma senza benedirli.
E, nel negarmi una benedizione, Atene fu molto decente con se stessa.


*

La Palinuro entrò nel porto solo molte ore dopo, e attraccò nel primo pomeriggio.
Attendemmo che parte dell'equipaggio scendesse a terra e il ponte si svuotasse.
Qualcuno scese ad aprire la porta della stiva, la luce del sole brillava fortissima, e bruciava perché il sole di Grecia è feroce e noi non eravamo più abituati ad alcune fonte luminosa che non fosse la piccola lanterna.
Per quanto l'aria del Pireo potesse puzzare, nulla era paragonabile all'odore che si era creato in quella stiva. Il marinaio fece una smorfia di disgusto e bestemmiò quando quell'olezzo lo investì, scappò di sopra a prendere o riferire qualcosa, dando la colpa ai venditori di cose marce.

Ne approfittammo per sgattaiolare fuori. Eravamo terribilmente malfermi sulle gambe, ma ci sentimmo un unico nodo con la vita che si riaffacciava lì fuori.
Quando risalii all'aria aperta, scoprii che c'era di nuovo tutto: c'era il cielo e una strada da percorrere, c'era un mucchio di gente come in un formicaio, e le bestemmie dei marinai; c'era il mare, ed era alle nostre spalle, non c'era un orizzonte infinito, ed era giusto, perché nemmeno la vita è così.
Sarebbe potuto essere benissimo ancora il porto di Messina, e quella settimana solo un doloroso incubo.
Avrei voluto ridere, le strinsi la mano come se non fossimo nei guai e corressimo solo per fuggire la pioggia.

*

Sul ponte c'era di nuovo il marinaio con la faccia da bracco, fumava la sua sigaretta osservando disinteressato l'acqua verde del porto.
Quando ci vide, ci guardò sorpreso mentre correvamo via, per poi voltarsi incredulo verso la porta da cui eravamo saltati fuori, la paglietta in bilico sul labbro inferiore.
Tuttavia non si scompose più di tanto.

Un altro uomo stava salendo la passerella, fu di riflessi più pronti dell'altro e allungò un braccio per acciuffarci. Non so come lo schivammo, né come lo seminammo – dove trovammo le forze -, poiché per un certo tratto ci inseguì urlandoci dietro qualcosa che non capii.
Ci inoltrammo nei meandri del Pireo, portandoci sempre più nelle viscere della città.
La corale della vita era un ingorgo di persone e puzzava di pesce. Ve lo giuro, fu magnifico.

Il mondo fu meraviglioso quel giorno.

Durante la corsa non capivo le parole della gente, ma diedi la colpa al viaggio. Tenevo Blanca per la mano, la trascinavo dietro senza pietà.
Cercavo di guadagnare distanza, cercavo l'ossigeno e la vita che si spianava davanti a noi, in un bagno di folla, quando fui convinto che fossimo abbastanza lontani dai moli, virai in un vicolo.
Una sete tremenda mi serrò la gola, ma avevo fiducia nelle poche monete che ancora avevo in tasca dalla mattina della nostra partenza.

Ero una gioia disperata, stremato come un uccello migratore.
Fu Blanca a riportarmi con orrore alla realtà, guardandomi con occhi sgranati: “Aspetta, Manigoldo, ma dove siamo finiti?”
Decisi che non aveva importanza e lo comunicai a Blanca, che mi guardò con disgusto.
“Ora voglio solo trovare dell'acqua”, mi giustificai.
“Spiegami come la troviamo, l'acqua. Se non abbiamo i soldi per pagarla, e non sappiamo nemmeno come chiederla.”
“Offri sempre e solo problemi, tu. Mai soluzioni.”, non ero veramente arrabbiato, ma non sapevo cosa dire e, dopo una settimana, non avevo voglia di stare zitto.
“Devo ricordarti chi sia la causa di tutti i problemi?”, Blanca si tormentava una pellicina sul dito e mi guardava dritto negli occhi. Lei non aveva voglia di chiacchierare, il suo colorito sembrava quello di un cadavere di tre giorni.
“Rob, è Rob la causa.”, giustificai alzando le spalle, e chiusi lì.
Non mi rispose, capii che le sarebbe piaciuto se avessi avuto ragione.


In quel momento mi venne da ridere, mi sentii leggero.
Eravamo saltati fuori da un macello per finire in un macello straniero.
Un balzo qua e uno là, pensai, come fanno i gatti.
Pensai che i gatti, troppi crucci, non se ne fanno, non vedevo perché dovessimo farcene noi; che i gatti, buttando giù la sedia, inventavano la pedana per slanciarsi dritti sul tavolo.
“Alla peggio si muore”, dissi.
Lei non capì.

*


Era con la testa altrove, persa nelle sue ansie e in quello che si era lasciata indietro.
Quel giorno conobbi la differenza tra me e lei: stava tutta attaccata al passato, per questo voleva tornare in Spagna. Più indietro scappava, a costo di finire in un tempo che non era nemmeno suo, meglio era.
Io volevo vivere e, in ogni caso, non avrei potuto rintanarmi da nessuna parte.
Non avevo un posto in cui tornare – c'erano solo le macerie di un villaggio e uno scantinato da cui avevo già deciso di andare via –, né possedevo abbastanza ricordi per rimpiangere qualcosa.
La mia Spagna non esisteva.
Una sera d'estate ero partito da quelle case sventrate, mi ero incamminato verso Messina, ed ero sopravvissuto anche lì.
Avevo vissuto una settimana in una stiva mangiando topi e bevendo vino ed ero arrivato in una nuova terra.
Semplicemente, il mio viaggio era ricominciato: era solo più difficile, ma così sarebbe stato per tutta la vita e andava bene.
Ero forte, e dovevo uscirne vivo.

Afferrai Blanca per la spalla e la strattonai con violenza, facendole urtare lievemente un muro con la testa.
“Adesso prendiamo le palle e le portiamo al porto. Troviamo qualcuno che parli la nostra lingua e ci spieghi dove siamo. E troviamo il modo di tornare indietro.”
Mi guardò con diffidenza, alzando leggermente il mento. Sembrava un animale minaccioso.
“Tu vuoi tornare a Messina?”, la incalzai.
Dovette cedere: “Voglio tornare indietro.”, mi rispose, non senza una punta di astio.
“E allora andiamo!”, la liberai e le diedi le spalle, incamminandomi verso il porto.

Andiamo, andiamo. Concedetemi una risata. Andiamo, andiamo.

*

I moli degli scali commerciali sono da sempre delle piccole Babele in terra.
In un porto un uomo può trovare tutto ciò che vuole: la propria libertà o uno schiavo, la ricchezza o una taverna aperta, una moglie di ritorno da un viaggio o una prostituta.
Nei porti si esaudiscono i desideri della gente, basta saper cercare.
Io giunsi al Pireo sognando di trovare una nave per la Sicilia e una caraffa d'acqua. Non seppi mai se avessi cercato male, espresso il desiderio sbagliato, o, e questa è l'ipotesi in cui credo più fermamente, in realtà volessi qualcos'altro.
Qualcos'altro mi sarebbe stato dato -la vita, dopotutto, aveva già esaudito tutti i miei desideri.


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Capitolo 7
*** VII. Sull'importanza del francese ***


VII

Sull'importanza del francese


Ogni tanto, durante la mia vita, accadono questi grandi periodi di cui io dimentico sempre qualche pezzo, perché batto la testa o perché, come in questo caso, sono vagamente ubriaco.
Ma non ne faccio un problema: nella mia testa c'è più spazio per i giorni futuri, e quindi devo vivere ancora moto per poterla riempire.

I miei ricordi di quel periodo in Atene sono un groviglio confuso, come se l'alcool di quella settimana ne avesse impiegate almeno due per essere smaltito.
E probabilmente fu così, perché non riesco a disporre nessun fatto in ordine cronologico.
Fu come vivere un'unica giornata troppo impegnativa in cui tutto si accavallò con tutto.
Ed è una grande confusione.
Tuttavia imparai alcune cose che invece ricordo piuttosto bene e che ho voglia di raccontare.


Ho detto di aver letto un discreto numero di libri, con la conseguenza di essermi fatto una altrettanto discreta cultura.
Una cartina geografica, però, in vita mia, l'avevo vista sì e no due volte, e non l'avevo mai degnata di particolare considerazione. La conseguenza, per dirne una, fu che pensavo che l'India fosse affacciata sul Mediterraneo.
Le questioni geografiche, ad ogni modo, non furono un particolare problema fino a che non mi trovai in un luogo sconosciuto da qualche parte del mare, che sarebbe potuto essere qualsiasi luogo vi fosse affacciato.
I cartelli erano illeggibili e la gente parlava in modo incomprensibile.
Per quel che sapevo io, potevamo essere anche in Russia (sì, da qualche parte sul Mediterraneo anche lei).

Fa troppo caldo per la Russia e sono tutti troppo pallidi perché sia l'India”, mi fece notare Blanca annoiata, sgranocchiando un tozzo di pane rubato chissà dove.
Tu che ne sai? Ci sei mai stata?”
Tuttavia, sapevo che aveva ragione e accantonai l'ipotesi della Russia.

Un giorno stavamo ciondolando presso una fontana con i crampi allo stomaco, e, mentre pensavo ad Alessandro Magno, ebbi quella che reputai per lungo tempo l'intuizione più saggia dell'epoca.
Scommetto che siamo in Macedonia!”, dissi. Blanca mi guardò con occhi dubbiosi, pensandoci un momento. Poi scosse la testa.
La Macedonia dove sta?”
Non lo so.”
E come fai a dire che siamo lì?” Mi guardò con l'aria annoiata di chi non lascia più stupire da niente, come un vecchio professore rassegnato ai capitomboli culturali degli alunni.
A quel punto la guardai con saccente superiorità.
Visto che credevo di sapere tutta la geografia tranne dove fosse la Macedonia, il mio era un sillogismo perfetto.

Tu sai dove siamo noi?”, chiesi con fare da inquisitore.
Le scosse candidamente le spalle: “Non lo so”.

E la Macedonia dov'è?”
Ho detto che non lo so.”
Ecco! Ecco! Vedi, siamo nello stesso posto in cui è la Macedonia!”
Penso che avesse sperato di aver capito male, decise, in ogni caso, di spingermi nella fontana.


Scoprimmo di essere ad Atene qualche tempo dopo, quando, malgrado tutto, in noi si era fatta forte l'idea di essere in Macedonia.
Un marinaio, udito parlare italiano al porto, ci diede la smentita.
Fu Blanca a tenere quell'edificante colloquio.

Sai dove siamo?”
L'uomo fu sorpreso dal sentir parlare la sua lingua, e ci guardò incuriosito. Doveva essere del sud, aveva gli occhi chiarissimi e la pelle olivastra, un bel contrasto che però, unito alle sue pose lasse, gli dava l'aria di uno zingaro.

Al Pireo, ragazzina.”
Dove?”
Ho detto al Pireo.”
Vidi Blanca perdere la pazienza e atteggiarsi a maestrina: “Ho capito che siamo a Pireo. Ma dov'è Pireo?”
Ci guardò con stupore preoccupato, come si guardano quei vecchi preda della demenza che non si ricordano l'anno in cui vivono.

Ad Atene...”
Lei si morse le labbra un istante, incerta sul fare la domanda. Sopra la nostra testa c'era un bel cielo blu con poche nuvole.


Manigoldo, ma allora Atene è in Macedonia?”


*

Gli chiedemmo se conoscesse qualcuno in grado di portarci in Sicilia, non importava in quale porto. Ci interessava passare il mare, possibilmente in modo dignitoso, poi ce la saremmo cavati. Immagino che fosse curioso davanti alle nostre domande, ma che temesse in una storia troppo lunga e difficile dietro.
Non ora”, disse. Aggiunse che lui era di una compagnia di Genova e che veniva dalla Sicilia, ma non sarebbero tornati lì prima dell'anno successivo, e che probabilmente non c'erano altre compagnie italiane che, per il momento, facessero quella tratta.
Nel Mediterraneo le cose non vanno più bene”, constatò con amarezza: “Ormai le navi passano tutte per l'Oceano.”
Annuii. Volevo dirgli che era da un paio di secoli che le cose andavano così, ma tacqui.

Qualcuna che passa di qui va a Venezia”, disse, “Ma fate prima a farvi il mare a nuoto che non a scendere l'Italia da lassù.”
Dopo di che ricominciò a lamentarsi di non avere tempo, e ci lasciò per il suo lavoro terminata una sigaretta.

Ricordo lo sguardo di Blanca di quel giorno. Aveva un paio d'occhi da gatto spaventato, quegli occhi tondi tondi tutti sgranati.
Le chiesi d'aver pazienza, saremmo tornati.
Lei alzò le spalle: “Tanto non ci spero nemmeno più”, sussurrò.


*


Il Greco non lo imparai mai decentemente, nemmeno restando al Santuario, ma, in compenso, i Greci sapevano spiegarsi benissimo.
Quando ci beccavano con le mani nelle loro tasche – vivevamo nell'unico modo che conoscevamo – non si perdevano in inutili urla come usava a Messina: loro iniziavano subito a riempirti di mazzate fino a che non mollavi l'osso. Più erano silenziosi, più forte colpivano.

Il porto invece era una vera e propria Babele, vi si levavano centinaia di voci, accenti e lingue differenti. Pensai che Atene fosse veramente il centro del mondo.
Imparai qualche vocabolo straniero guardando i modi ricorrenti e vistosi dei marinai nel pronunciare alcuni termini.
C'erano molti francesi, e quasi tutti, una volta sbarcati, si accompagnavano a delle donne. Un giorno ne vidi uno che strappò un bacio ad una bella giovane dopo averle detto “
Oh, ma chérie...”.
Tutti i marinai francesi erano con delle donne, tutti dicevano
chérie e le facevano impazzire.
Un giorno tentai a prendere Blanca sotto braccio e a dirle la stessa cosa, ma, un po' per il contatto da camerata, un po' per il suo umore saturnino, non ricevetti alcuna attenzione. Smisi di pensare che quello fosse il vocabolo giusto per le donne e lo accantonai per un lungo periodo.

Esso riemerse un giorno in cui ero al Santuario e Sage mi disse che il francese lì era la lingua veicolare.*
Lo conosci?”
Oui, ma scerì!”, dissi con aria persuasiva, senza pensare a nulla, pur di fregiarmi della mia profonda conoscenza.
Talvolta, quando siamo solo io e lui nella sala delle udienze e gli faccio delle domande sula missione, mi risponde, canzonandomi:
“Oui, ma chérie!”.


*Siamo a inizio Settecento, era quella la lingua colta e usata dagli intellettuali di tutta Europa per comunicare.
Al Santuario, di colti, ce ne sono ben pochi, ma sono in troppi e da troppi paesi, per cui sarà valsa la
même chose .


*

Fu proprio in quei giorni che vidi per la prima volta il Santuario.
Era una mattinata grigia, probabilmente domenica, con poca gente in giro per la città. Le facce erano impigrite, l'aria era elettrica come prima di un temporale.
Ci stavamo passando un mozzicone di sigaretta* trovato per strada mezzo intatto e guardavamo annoiati le volute del fumo confondersi al colore del cielo.
Blanca saltò giù da un muretto con la paglietta ancora tra le labbra, atterrò come se si stesse reggendo su un paio di gambe rotte.

Andiamo alla città vecchia”, mi diede le spalle e si avviò verso l'acropoli senza passarmi più nemmeno un tiro di fumo.
Non era curiosa, voleva solo una scusa per distrarmi e finire da sola la sigaretta. E questo fu il motivo che mi condusse per la prima volta alle soglie del Fato.
Fu come se ci avessi dato una sbirciatina, per poi chiudere subito la porta.

Tra Atene e la sua acropoli c'è una cortina di alberi tra le cui fronde si respira un'aria che ha qualcosa di antico.
Se un uomo si fermasse per sempre in mezzo ad un campo di grano a vedere l'eterno rinnovamento della natura, forse potrebbe capire.
È l'Eterno Ritorno dell'Identico, questa sensazione. L'elettrica giovinezza che emanano le cose che sono più antiche del mondo stesso.
Oltre quel boschetto, una spianata brulla di terra e colonne abbattute, su cui tira un vento epico.
Il mare, sulla distanza, era una distesa mercuriale e immobile, priva di riflessi.

Tira aria di tempesta.”, dissi. Blanca inclinò la bocca tutta a destra, gli occhi rivolti con preoccupazione all'orizzonte.
Tra poco ricominceranno gli acquazzoni, e poi ci sarà l'autunno...”, asserì lei laconicamente, “Chissà com'è l'inverno di qui...”


Volli sfuggire alla malinconia di Blanca, mi guardai indietro: fu allora che la vidi oltre un paio di rocce.
Sotto quel cielo di pietra e la luce livida di quel giorno, sotto quel vento salmastro e dispettoso - le sue pietre gravavano indifferenti sulla terra.
Capii di essere innanzi ad un luogo che nemmeno la Storia avrebbe potuto abbattere.
Erano stati i fasti dell'Atene periclea a porgerne le prime pietre e a innalzarlo, la maestria di Fidia a inciderne la bellezza nella leggenda, e il mito aveva un nome: Athena Parthenos.
La scalata delle Dodici Case, la superba sfida che lanciava la sua quiete immobile.
All'epoca non le diedi nemmeno un nome, risposi semplicemente alla sua potenza.
Fu una tensione irresistibile, mi misi a correre verso di essa. Non ho mai galoppato così veloce in vita mia, sembrava che fosse la terra stessa a respingere le mie gambe, una ventata mi scarmigliò i capelli, scossi la testa e chiusi gli occhi.
In quella corsa sentii la vita fluirmi nelle vene. Ero la terra aspra sotto ai miei piedi, ed ero il vento che tirava sulla spianata, ero il mondo intero che mi assecondava in quella insensata corsa verso degli edifici bianchi.

Non poteva durare a lungo.
Mi rivolsi un istante indietro, per guardare dove avessi lasciato la mia malinconica compagna di viaggio e andai a sbattere contro un addome. Non sembrò troppo turbato dall'impatto.

Vous êtes ici puor faire quoi?”
Uno stentatissimo francese mi riportò alla realtà.
Se ne avvaleva un colosso alto almeno due metri, che sembrava in lotta tra la sua naturale gentilezza e il dovere di fare la guardia.
Lo guardai con rancore, senza capire nulla della sua frase, se non che quello fosse il francese di qualcuno che lo sapeva quanto me.

Anni dopo sarebbe stato lui il primo a riconoscermi.
Sei il ragazzino che non capiva il francese”, mi disse.
Era Aldebaran, ai tempi in cui si chiamava ancora Rasgado ed era solo un gigante buono.

Tu sei quello che lo parlava male”, gli dissi. Mi rispose con una pacca di rimprovero affettuoso.

Vous ne povez pas rester ici!"
A gesti gli spiegai di non capire né il francese, né il greco, né qualsiasi altra lingua estraesse dal suo repertorio.
In realtà, avevo compreso benissimo perché continuava a farmi segno di no e a indicarmi di tornare indietro, ma trovavo esilarante il suo affannarsi.
Continuavo a ripetergli: “No, no. Io italiano. I-ta-lia-no!”
Ad un certo punto, però, perse la pazienza, e si avvalse di un segnale universalmente riconosciuto: batté il taglio della mano destra contro il palmo della sinistra.
Al mio paese si legge: “Smamma”.

Ah, e bastava essere chiari!”
Aprii le braccia con aria illuminata e decisi di andarmene.
Non avevo voglia di buscarmi altre mazzate e mi stava simpatico, per cui decisi di obbedirgli.

Rasgado è una forza tremenda in un abito di gentilezza.
Quel giorno portava un fiore viola tra i capelli, mi sorrise e mi salutò.
Un giorno gli dissi di essere tornato qualche volta per trovarlo, ma che lui non c'era mai; rispose che era stato il suo ultimo turno di vedetta, e per questo si ricordava di me.
Quel pomeriggio avrebbe ottenuto la Cloth di Taurus.


Sei stato l'ultimo ad avermi conosciuto con il nome di Rasgado.”
E questo è buono? Pensa che non sono nemmeno riuscito a chiedertelo.”
Aveva un sorriso sereno, Aldebaran, giocava con uno stelo senza corolla e alzò le spalle.

Era comunque il mio vero nome. Se anche fossi riuscito a farlo, non avrei capito per risponderti.”
Me lo disse perché sapevo quali fossero i tempi del vero nome.
Il confine tra quelli e tutti gli altri giorni è sempre un muro di sangue.
Non credo – o, almeno non lo voglio pensare – che un uomo come Rasgado abbia abbandonato il suo vecchio nome solo per una qualche forma di totale abnegazione.
Penso che fosse un modo di salvare quella parte di se stesso, la più autentica, che l'aveva condotto alla forza. Tutto ciò che sarebbe venuto dopo poteva anche essere in comune alla tradizione dei cavalieri del Toro, ma era stato Rasgado colui che aveva scalato la montagna e l'aveva conquistata. La sua gloria, qualunque cosa potesse succedere dopo, doveva rimanere intatta.

Volevo dirgli che, se questo era l'intento, avrebbe potuto mantenere quel nome, ma non ce n'è stato il tempo né l'occasione.
Io lo invidio un po': ho perso il mio nome prima che potesse valere qualcosa, e quello che possiedo ora non posso certo consacrarlo alla gloria.
D'altra parte la gloria non fa nemmeno per me. Per cui va bene.

Che cosa triste da dire”, sentenziai sul nostro incontro. Lui rise – rideva spesso, Aldebaran, ed era sempre un ottimo modo di rispondere, per questo mi piaceva parlare con lui.


*


Dopo di che, le mie giornate in Atene si perdono nella monotonia esasperante della lotta per la sopravvivenza.
Rasgado fu l'ultima gentilezza, prima della fine di quella che reputo la mia giovinezza.
Se lo avessi saputo, davanti a Taurus mi sarei tolto il cappello e avrei fatto un inchino fino a toccare terra con la punta del naso.
Il fiore che aveva tra i capelli, fu l'ultimo che mi degnai di notare nell'Atene di quell'estate che stava volgendo al termine.


*



*Ho trovato questa chicca meravigliosa che volevo condividere con voi
a proposito delle sigarette nel XVIII sec.:

Nel 1700 anche le donne iniziano a fumare ed alcune dame fondarono l'ordine della Tabacchiera.
Nacque la sigaretta.
Vi si legge:
"Noi Cavalieresse dell'Ordine della Tabacchiera, dichiariamo di non aver trovato fino ad oggi nulla all'infuori del tabacco degno di farsi amare costantemente da noi.
Il tempo ci fa trovare dei difetti nei nostri amanti, dell'ingratitudine nelle nostre amiche, del ridicolo in una moda che noi cambiamo 4 volte all'anno. Solo il tabacco noi troviamo degni di essere amato".

Le Cavalieresse dell'ordine della Tabacchiera, abbiamo trovato i prossimi assaltatori del Grande Tempio.
Perché scrivendo di Manigoldo non si può che finire in degenerazioni del genere.
Grazie Manigoldo, amore mio.
[da: http://www.smettere-di-fumare.info/Storia-del-Fumo/la-Storia-del-Fumo.php]



Ricordo che mi divertii moltissimo a scrivere questo capitolo. A rileggerlo ora, non mi pace più così tanto.
Tuttavia non voglio nemmeno rivorticarlo troppo, almeno in memoria di quel bel giorno in cui lo scrissi, il giorno in cui più di tutti mi sono sentiva vicina alla scrittura.
E perché mi sembra giusto tirare un attimo il fiato prima di incamminarci verso il finale.
Rasgado avrebbe dovuto trovare spazio nelle mie storie. Se scriverò il seguito di questa voglio consacrargli un posto d'onore.
Penso che sia il giusto contraltare di uno come Manigoldo, credo che, in virtù delle loro differenze, lo rispetti molto, peccato che non ci abbiano mai concesso l'opportunità di vederli interagire.
Ringrazio ancora una volta i miei fedeli recensori, anche se non so più come dirlo per farmi credere.



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Capitolo 8
*** VIII. Le vent se lève ***


VIII

Le vent se lève...
(II faut tenter de vivre!)
*



*”Si alza il vento...
Bisogna osare vivere!”,
Paul Valery,
da Il cimitero marino


Nella vita di un uomo ci sono cose, le quali, per quanto se ne sia già lungamente parlato, meritano un capitolo a parte.
Blanca fu esattamente il crocevia di un'esistenza: all'indomani della sua morte, solo un burrone – tutte le strade dovevano cambiare o sprofondare.
Ero rimasto solo, non avevo nulla da perdere e quindi tutto mi era possibile.
Se è aperta ogni possibilità, significa che nulla in questa vita ha poi un grande peso, e, se anche lo avesse, non ci si può fare nulla.
La vita è un atteggiamento, non un evento.
Accettai di diventare Saint perché, se i fatti non contano, percorrere la strada più incompatibile con il mio modo di immaginarmi, sarebbe stato un ottimo modo di prendere la vita.
Devo dire anche questo, dacché ormai siamo in vena di confessioni: speravo in una qualche oscura forma di Resurrezione, una muta spirituale che mi concedesse di dimenticare tutto nel nome di quell'ideale asettico che è il nome di un dio.
Chiaramente non avvenne nulla del genere: era sempre vero il motto latino Nomen omen*, e io continuo a chiamarmi Manigoldo.


*Proverbio latino: il nome è destino


*


Vidi sfiorire Blanca lentamente, e inesorabilmente allontanarsi da me.
Avevo pensato, durante la nostra epoca d'oro, di essere lo slancio di libertà a cui tendeva e tutto ciò di cui avrebbe sempre avuto bisogno. Credevo che, al mio fianco, non le sarebbe mai importato nulla del luogo in cui fossimo, che tutte le altre assenze sarebbero divenute insignificanti.
Ero solo un presuntuoso, ma, all'inizio, non avevo nemmeno così tanto torto a pensarlo.
Poi, un giorno l'avevo portata in una terra troppo lontana dall'uomo che tanto la affascinava e dall'unico posto in cui la sua anima avrebbe potuto trovare riposo.
Imperdonabile, questo sibilavano i suoi occhi quando mi aveva davanti.

I nostri contatti piano, piano diminuirono.
Non c'è nulla di più doloroso e umiliante del vedere un amore o un'amicizia che ti muore fra le dita, quando è impossibile scappare, di dire basta davanti a tutto ciò.
Ero sempre io a iniziare o rubare un bacio; lei si distaccava in fretta, e, se mi restava aggrappata alle labbra, lo faceva in un certo modo insofferente e addolorato. Sembrava una persona che cerca di nascondere una zoppia troppo evidente.

Non dimenticherò mai quando mi trattenne in un bacio lunghissimo solo per impedirmi di vederla piangere. Ricordo bene le sue lacrime sulle mie dita, cercavo di scostarle via, ma continuavano a cadere.
Come puoi asciugare un pianto di cui sei tu il responsabile? Non c'è risarcimento per il dolore.
Tu mi hai ridotta così.*, ecco la sua irrimediabile sentenza. Se anche l'avessi riportata indietro, nulla ci avrebbe salvato.
Non ero la sua salvezza, ma la pietra che l'aveva trascinata sul fondo.
Poi, un giorno, smisi anche di baciarla - non mi sembrava giusto.
Lei, da parte sua, non mi cercò più.


*U. Foscolo, Ultime lettere di Jacopo Ortis


Un giorno, davanti alle sue lacrime, giurai per l'ennesima volta che l'avrei riportata indietro.
Mi arrabbiai, le urlai addosso di imparare a vivere, di smettere di piangere e di farsene una malattia – le urlavo? Bugiardo: la supplicavo con tutta la disperazione che avevo in corpo.
Eravamo in ginocchio l'uno davanti all'altra, stringevo le sue mani fra le mie per farle male.
Sentivo i suoi polsi tremare, si liberò dalla mia presa e mi tirò uno schiaffo che mi costrinse a voltare il capo.
Un ceffone così non l'ho mai ricevuto da nessuno – un simile affronto, d'altra parte, nessun altro avrebbe potuto infliggermelo.

Il tempo di non avere il coraggio di lasciarti qui.

Fu allora che la guardai di nuovo negli occhi dopo tanto tempo – fu un secondo schiaffo, più forte.
Dal giorno in cui l'avevo trascinata con me su quella nave, ero stato divorato dal tarlo del senso di colpa nei suoi confronti.
Tuttavia rimanevo comunque un essere umano, e, per quanto fossero sinceri i miei sentimenti, non mi sarei fatto una malattia per aver stravolto completamente l'esistenza altrui.
Il dolore altrui non si può pagare con il proprio, ed è per questo che la legge del taglione è così profondamente errata alle fondamenta. Ora lo so.
È questa la verità: a me quella vita così casuale, quella prospettiva di un futuro indecifrabile, piacevano.
Mi dispiaceva che lei soffrisse, ma non di essere in quella terra, di aver lasciato tutto alle spalle.
Io ero, se non felice, soddisfatto. D'altra parte, un futuro mi atteva.
Lei, no, il suo rancore lo aveva nutrito giorno per giorno, ed era diventato la bestia ferocissima che le ululava dagli occhi.

“Tu mi odi”, sussurrai senza fiato, lasciai cadere anche l'altra sua mano che avevo continuato a trattenere. Fu come sciogliere un patto di sangue.
E ci mancherebbe altro.”
Non era riuscita a tradirmi, ma non ero abbastanza per tutto quello che la stavo costringendo a vivere.

Da parte sua, il rapporto con me subì il tracollo definitivo.
Smise progressivamente di parlarmi, ma non per presa di posizione: non avevamo più nulla da dirci.
“Tu mi odi”, ecco la nostra verità ultima.
Restammo assieme per sopravvivere e ci ritrovammo in tre: lei, io e il mio senso di colpa.

Sai, Blanca, da quando te ne sei andata, quell'amico che mi hai lasciato è ancora con me.
Ti odio anche io,
sempre tuo
Manigoldo.


*

Il primo temporale di fine estate ne portò con sé molti altri.
Fino ad allora ce l'eravamo cavati bene dormendo all'aperto; anzi, mi piaceva parecchio non avere delle mura attorno.
Le notti divennero progressivamente più fredde, gli scrosci d'acqua più frequenti e prolungati: quando ci pioveva addosso erano dolori ad asciugarsi.

Il primo preoccupante colpo di tosse che Blanca batté, squassò l'aria in una bellissima giornata di sole.
Lo ricordo bene, perché, se già da qualche giorno era stata presa da una febbre strisciante e da una tossetta particolarmente fastidiosa, se da altro tempo perdeva costantemente peso e impallidiva, quel giorno le uscì un rantolo che sembrò provenire dall'inferno. Lo ricordo perché anche a me mancò il fiato.
Non sembrava nemmeno possibile che fosse quel suo torace minuto a produrre un suono tanto cavernoso.

Da quel giorno non smise più di tossire.
Bruciava e sudava di febbre.
“Che diamine ti sta succedendo?”
Una domanda banale, la pronunciai con un ringhio, come se fosse colpa sua.
Io ricordo il suo sguardo. Lo ricordo anche meglio del suo odio.
Il totale smarrimento di un essere umano, il volto stravolto di chi cova in sé la sua fine.
“Non lo so. Non lo so.”

Spaventato da quei fatti, mi impegnai a cercare un rifugio.
La lasciai febbricitante in un angolo di una piazzetta dimenticata, con la promessa di non muoversi.
“Non mi muovo, ma torna presto.”
Torna presto, l'unica e ultima supplica che mi rivolse in vita sua. Ricordo una greve felicità.


*

Mi dovetti portare poco fuori da Atene, in un paesetto nei suoi immediati dintorni. Si chiamava Rodorio, ed era ai piedi della scarpata su cui dominava il Santuario.
Erano tempi duri anche lì: si parlava di continue sparizioni ed uccisioni, di cadaveri ritrovati dilaniati buttati nei fossati, di incursioni.
Ma io questo di certo non lo potevo sapere, perché non capivo il greco. Se anche lo avessi capito, immagino che non sarebbe cambiato granché, comunque.

Piuttosto lontano dal centro, sul limitare di un bosco, c'era una casa che era stata abbandonata. Aggiungerei depredata: la porta era stata forzata, alcune finestre erano rotte e la facciata presentava alcune tracce annerite – bruciature.
Decisi comunque di entrare, ormai tutto ciò era passato.
Tutti i cassetti erano stati aperti e in terra vi erano stoviglie e ceramiche rotte; tuttavia, lo strato di polvere era sottile: si trattava di avvenimenti recenti, non più di due settimane.
Che la casa fosse stata assaltata o abbandonata, comunque, mi importava poco, era ciò che faceva al caso mio.
Vivevo nella beata convinzione secondo la quale un posto in cui è appena successo qualcosa di terribile ha già detto e dato tutto – per cui non può succedere più nulla di brutto per un lungo periodo di tempo.

Mi convinsi che non vi era neppure nulla di strano nei visi tirati e da larva degli abitanti, nulla di losco nascosto dietro alle loro occhiate gravi e tormentate rivolte a qualunque angolo buio.
Erano i tempi duri di sempre, mi dissi.
No, cari miei: era la guerra che già incombeva. E sarebbe stata anche la mia.
Entravo già nel mio futuro: una casa disastrata, una nuvola di fumo, la sensazione di un'inevitabile caduta. Il Santuario là in alto, proprio sopra alla mia testa.
Benvenuto.


*


Io avevo un unico nemico: si chiamava polmonite ed era annidato nel corpo di Blanca.
Non mi importava nulla né delle crisi fra gli Stati, né degli assalti dei pirati musulmani; non mi turbavano la Riforma, la Controriforma, i francesi che decidevano che era ora che basta. Non che in Lombardia arrivassero gli Austriaci, né che il Sud facesse la muffa per i secoli di malgoverno.
Al massimo mi seccava che il Mediterraneo venisse trascurato dai traffici economici, ma a quello avrebbe potuto avviare un pescatore un poco più intraprendente – invece niente di niente.
Non conoscevo, né credevo, né mi sarei fatto turbare da storie di dissidi tra divinità greche litigiose.
E, tra tutte le cose assurde che accaddero in quegli anni, proprio quella mi fregò.
Le divinità greche.


*


Con fatica, portai Blanca in spalla fino a Rodorio. La febbre continuava a divorarla durante la notte, sulle mie spalle era così debole da sembrare un tappeto.
Non pesava più nulla, l'ultimo ricordo che ho del suo corpo sono le sue costole contro la mia schiena.

Durò una settimana.
Di giorno scorrazzavo per la città a cercare di ottenere qualunque cosa potesse esserle utile – e anche il superfluo, perché esso è una gran cura per ogni male.
Ero riuscito a prendere anche un bel cappotto lungo, beige. Dal giorno in cui avevo rubato a Messina per la prima volta erano cambiate tante cose.
Lo portai via senza fatica.
Quel vecchio giorno in Sicilia, alle porte dell'inverno, chi stava per morire a causa dei polmoni ero io, e preparavamo un nuovo inizio.
Adesso mi preparavo ad osservare il finale di quella storia – un finale così amaro che nessuno avrebbe mai potuto immaginarlo.

Tutto ciò che riuscivo a trovare da mangiare lo lasciai a lei, sebbene a malapena lo assaggiasse. Toccavo cibo solo quando i crampi allo stomaco erano eccessivi e rischiavo di non reggermi in piedi per continuare il mio lavoro.
Passavo le notte insonni a cercare di tenerle caldo, ma lei era rovente di febbre ed io mi riducevo ad un bagno di sudore, con la schiena gelata dall'aria circostante.
Era la mia espiazione, pensavo che un giorno sarebbe bastato.

Ricordo la nenia del vento là fuori e il suo trascinarsi indifferente tra le fronde.
Furore fuori dalle finestre, la corsa furente dell'aria che preparava la Storia.
Accanto a me, la tosse angosciante di Blanca squarciava l'ombra.
I muri sembravano schiacciarmisi addosso, il buio diveniva una massa che mi avviluppava e toglieva l'aria.

Talvolta vedevo l'anima di qualche animaletto che ci crepava attorno. Tornai ai pensieri crepuscolari degli anni in cui correvo per i cimiteri – mi scoprii a rimpiangerli.
L'ultima di quelle notti mi chiesi come sarebbe stato guardare la mia lapide.
Come guardare quella di Blanca: un dolore inaccettabile,
mi sfuggì proprio quel pensiero trattenuto con disperazione in un angolo della mia testa.
Sarebbe tutto finito entro la sera successiva.



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Capitolo 9
*** IX. Un Blasfemo ***


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi -
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
(…)


Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.


{C. Pavese}


IX

Un blasfemo


Una volta avevo creduto che vivere in città fosse più difficile che nei piccoli villaggi.
Mi sbagliavo: nei paesi non campi di espedienti, perché la gente parla, e, se ti prendono, ti fanno la festa in gruppo; è questione di un attimo.

Dalla confusione del porto, mi spostai alla rischiosa quiete del bosco.
Rodorio non è un luogo qualsiasi: per la vicinanza con il Santuario è abitato da gente capace di combattere e molto poco propensa a farsi mettere nel sacco.
Io, però, non potevo lasciarmi sfuggire nessuno: passava troppa poco gente di lì.
La pietà è una virtù che la miseria non contempla.
Per Blanca ero già diventato un ladro; sempre per lei mi avrebbero chiamato taglia gole.


*


Ricordo bene il primo uomo che uccisi.
Tempo dopo avrei riconosciuto il suo abbigliamento in quello degli aspiranti Saint, e avrei accolto quella notizia non senza un certo compiacimento.
Sono sempre, sempre stato meglio di tutti gli altri: potevano disprezzarmi, ma la natura mi aveva generato più forte di loro, la vita mi aveva temprato più duramente, le stelle amato più disperatamente – nel bene e nel male -, e mi aveva scelto il più grande di tutti i maestri.

E per questo credi di essere meglio di tutti noi?”, mi disse un giorno un tizio al quale avevo appena spaccato il naso.
Oh no”, risposi. Tirava un vento lento e freddo, indicai le Dodici Case: “Meglio di tutti loro.”
Certo che non lo pensavo. Fu però decisamente esilarante: quella volta l'avevo sparata talmente grossa che nessuno ebbe il coraggio di rispondermi niente.
Da allora presi gusto ad affermare scempiaggini del genere piuttosto regolarmente, tanto la forza mi dava ragione ogni volta e, il giorno in cui mi fosse mancata, mi sarei concesso una risata.

Avevo un coltellaccio rugginoso nella manica, lo tenevo più per farmi coraggio che non altro, perché, per recidere qualsiasi cosa, avrei dovuto usarlo come un'ascia, tanto la lama era smussata.
Un giorno ero nascosto tra gli arbusti del sottobosco e mi passò davanti un ragazzotto dalle spalle larghe, che doveva avere un paio d'anni più di me. Alla cintura portava una piccola bisaccia, che tintinnava in maniera assolutamente irresistibile.
Sembrava uno sprovveduto, pensai che mi stesse porgendo le sue monete su un piatto d'argento. Ma, come accade sempre in queste cose, chi in realtà porgeva qualcosa su di un piatto d'argento ero io, e offrivo la mia testa.
Quando tentai di assalirlo, balzandogli addosso da dietro, egli riuscì ad afferrarmi per il polso e a gettarmi a terra.
Ricordo il sapore metallico del fango e del sangue nella bocca, l'odore di foglie marce sul terreno, la totale umiliazione. Ancora oggi, quando mi offendono, mi sembra di sentire quell'aroma boschivo nel naso.
Mi sollevò il mento con la punta sporca dello stivale: “Ho capito chi sei.”
Non so in che lingua lo disse né come feci a capirlo. Magari ero troppo suggestionato dalle mie ansie e capii quello in mezzo ad una lingua incomprensibile.
All'umiliazione si unì il terrore puro: erano accadute le uniche due cose che non dovevano succedere: mi aveva abbattuto e riconosciuto.
Provai una rabbia feroce verso qualunque cosa di questo mondo: me, lui, Blanca che mi condannava, verso il fango sui miei vestiti e al vento che rideva tra le fronte maledette.

Ero già completamente impotente di fronte alla malattia – non lo sarei stato davanti ad un uomo.
Con la coda dell'occhio lo vidi toccarsi la borsa e ridere. Il suo piede mi comprimeva il torace contro il suolo e il fango mi entrò nei vestiti. Sentii le costole scricchiolare paurosamente e il fiato mancare.

Ho ragione di pensare che il mio cosmo si fosse destato proprio in quell'occasione, e che lo avessi impiegato in tutte le uccisioni successive.
Scoprii in me una forza eccessiva per essere frutto della sola disperazione – se avessi contato sulle energie fisiche di quel periodo, sarei andato ben poco lontano.

Ad oggi non credo che mi avrebbe ucciso, ma al tempo non potevo immaginare nessun'altra possibilità.
La mia testa era completamente alienata dalla morte.
Si trattava della sua vita per la mia.
Spazzatura per spazzatura.
Nessuna vita aveva alcun valore. Io, però, avevo qualcuno da salvare e dovevo ancora vivere quel meglio che ti promettono tutti: sopravvivere mi spettava di diritto e non potevamo entrambi sfamarci a quel banchetto.
Sentenziai proprio così: quest'uomo deve morire.
Le stelle vennero in mio soccorso.


*


Tra le Case dello Zodiaco, la costellazione del Cancro è da sempre la più ambigua.
Il mito dice che l'armatura sorse dall'Etna,che fu forgiata da Efesto in persona all'interno della sua fucina nelle viscere del vulcano.
La bruttezza del dio è fatto conclamato: egli realizzò la Cloth e la donò ad Athena per dimostrarle il suo valore, poiché era stanco del fatto che, sull'Olimpo, si accennasse solo ai suoi difetti fisici e mai ai suoi talenti.
Scelse quella forma pensando al granchio quando sguscia fuori dagli scogli e risale verso la luce: una creatura marina e terrestre, che gioca con l'onda senza che questa la porti mai via.
Il granchio dell'acqua che emerge da un vulcano: Efesto voleva dire che tutte le creazioni gli erano possibili, che anche lui, un giorno, sarebbe uscito di lì per giocare con l'onda, riprendersi il posto che gli spettava nell'Olimpo.
La Cloth è opera del genio e della rabbia amara di un dio, e ha sempre scelto individui piuttosto bizzarri.*

Arrabbiati con la vita”, li definì Sage un giorno.
Anche voi, Maestro?”
Scrollò le spalle e guardò lontano.
Manigoldo, questa armatura è stata ciò che procurò ad Efesto l'eterna gratitudine di Athena: ha guarito questa rabbia. È nata per questo: per guarire.”

Posso dire di non crederci, perché ho deciso di non credere a nulla. Ma vedo i fatti, e per questo posso dire: sì, lo credo.

Anche quel giorno, Cancer si destò in favore di uno di quegli insalvabili.
Estrassi il coltello dalla manica e riuscii ad alzarmi. Il sorriso sul viso del mio nemico si era spento e tramutato in un'espressione di puro orrore.
Vedere il mutamento fu meraviglioso.
Con un balzo gli fui addosso e, gettatolo a terra, affondai la lama nella sua gola.
Una scossa mi percorse dal polso al capo, guardai gli occhi sgranati di quel giovane – avevo ucciso un uomo.


*Questa stupida mitologia l'ho inventata io,
Kurumada è reo solo di aver collocato la Cloth sull'Etna


*

In quei giorni di impotenza, ammazzare nel modo più brutale possibile fu l'unica cosa capace di donarmi entusiasmo.
Mi sentivo forte come non lo ero stato mai ed ero padrone del limite tra i due mondi.

Se sulla vita non avevo alcun potere ed essa continuava a sfuggirmi di mano, se la morte è quell'ombra che chiude ogni possibilità ad un uomo, io presiedevo lo squarcio tra i due cieli.
Ero io ad aprire i cancelli dell'Ade, io ad essere l'unico ad avere la forza e il diritto di restare in vita.
Ero travolto dai fatti dei vivi, ma resistevo, mentre qualcuno doveva stramazzare davanti a me.

Non mi sono mai pentito di quello che ho fatto.
Credo fermamente che, se sono arrivato a tanto, un motivo ci fosse. Tanto mi basta.
Le mie uccisioni diffusero la voce della presenza di un bandito nella zona, e fu così che i passi di Sage si mossero verso di me.

Prendevo le anime sui palmi e le facevo esplodere schiacciandole nel mezzo, come si fa con le zanzare.
Avevo realizzato un sogno: veder sbocciare l'anima di un uomo ed esserne il diretto responsabile.
Fu l'inizio di un incubo: era la definitiva conferma, aggravata dalla malattia di Blanca, della leggerezza della vita umana.

Spazzatura – spazzatura – spazzatura!.


*

Incamminiamoci verso l'epilogo.
Raccontarlo non farà male – la vita è solo un atteggiamento.
Non prendo fiato per paura – sono solo stanco di blaterale.


Anni dopo l'avrebbero chiamata “la strage di Rodorio” e considerata un casus belli.
Un gruppo di cinque Specters doveva assalire il villaggio più prossimo al Santuario per far uscire alcuni Cavalieri e permettere ad altri guerrieri di Hades di penetrare direttamente in territorio nemico.
Era un piano semplice e suicida: i Cavalieri della Morte dovevano entrare al Santuario e uccidere più che potessero, fino a che qualcuno non li avesse uccisi a sua volta, per garantire il massimo dei risultati.
In cambio sarebbero stati resuscitati dal loro signore quando fosse tornato, e avrebbero ricevuto grandi onori da parte di tutto l'esercito.
Nessuna di queste promesse fu mantenuta, ad ogni modo, ma questo non ha importanza.

Accadde in una notte di ottobre inoltrato, l'inverno aveva deciso di bussare alla porta in anticipo e l'aria era molto fredda.
Stavo tremando dietro alla finestra di casa e guardavo verso l'alto le stelle tra le fronde degli alberi.
In lontananza, dalla piazza centrale, una musica e la luce di un falò faceva colare riflessi arancioni per le vie vuote.
Pensavo ai gitani, li immaginai nella fiamma della candela che mi baluginava accanto. La chioma lunga di Blanca in anni migliori e la gonna viola con i sonagli, i fianchi al ritmo del tamburello.
La musica da Rodorio alla Spagna, un ponte dall'alto del quale rivedere la Sicilia.


Ma non aveva più importanza – non c'è nulla che ne abbia.
Da tempo avevo smesso di trovare requie in memoria e in fantasia.
Non credevo più in nulla: la mia vita era ridotta ad un'unica scia di morte – il sangue che versavo io e il morbo di Blanca che incalzava anche me.
Ovunque mi rivolgessi – nel passato, nel presente o nel futuro -, mi sembrava che non ci fosse altro, o che, qualora ci fosse stato, fosse stato fagocitato da quel gorgo nero.

E la morte mi seguiva, si calò a passo felpato nella tenebra di Rodorio in quella notte di quiete e di festa.
Mi ero appena addormentato.


*

Giunsero entrando dalle porte della città lasciate aperte, di soppiatto, come gatti in cucina.
Giunsero come un corteo funebre, in religioso e tragico silenzio; anche i carnefici camminavano verso il loro funerale, e ne erano consapevoli.
Nessuno si accorse della loro presenza in città – il cosmo celato, i mantelli foschi sul capo, il passo leggero degli assassini e dei condannati a morte.

Il loro assalto cominciò con discrezione, dovevano richiamare l'attenzione, ma non volevano fare un gran baccano. Per quel che ne so, sono stati gli ultimi Specters con un briciolo di classe.
Uccisero in silenzio nelle case più periferiche, come a cingere la città di un cordone di sangue.
Sapevano che ogni istante lì era uno di meno della loro vita, sapevano che sarebbero arrivati i Gold e che avrebbero dovuto resistere solo per farsi uccidere.
Avevano addosso l'acciaio delle Surplici: si erano portati dietro il loro catafalco.
Avrebbero appiccato il fuoco, si sarebbero gettati sulla folla in piazza, ormai circondata, e avrebbero atteso.


*

Un'ombra passò sotto la mia finestra. Uno di loro si limitò a passare il fuoco alla tettoria e ad andarsene, l'altro fu attirato dai colpi di tosse di Blanca e decise di entrare.

Fare il boia dove qualcuno sta male ha tutto un altro sapore, parola mia.
Uno si sente così meravigliosamente cattivo che quasi quasi mi viene da perdonare il mio nemico.
Dopotutto, aveva anche lui i suoi problemi e la sua storia, e, alla fin fine, ho fatto praticamente tutto io da solo. Lui si è limitato a guardarmi basito tutto il tempo e a fare le smorfie un paio di volte per farmi paura.

Bu!, ecco tutto ciò che ha fatto.

Ricordo ancora oggi il suono agghiacciante dei suoi tacchi contro le assi di pavimento: lo scricchiolio delle giunture delle Surplici non è di questo mondo – un grattare roco e basso, come le unghie di un carcerato contro le pareti di una cella.
Non aprii subito gli occhi, pensai che fosse solo un topo agonizzante per le trappole che avevo lasciato sotto al letto.
Credo che lo Specter avesse visto Blanca mezza moribonda e avesse deciso di ucciderla – forse era un gesto di pietà, arrivati a quei punti.
Tuttavia, egli non faceva volontariato ed apparteneva a quella razzaccia di guerrieri che non uccidono se non sono guardati da qualcuno.

Quel Lord decise dunque di venirmi a svegliare a titolo informativo.

Proprio nel momento in cui mi si fece vicino, cominciò a diffondersi l'odore del fumo all'interno della casa, fu ciò a destarmi.

Non ebbi nemmeno la forza di urlare per il terrore di quell'apparizione.
Pareva indossare la tenebra stessa ed emergere da essa, quel viso bianchissimo che mi trovai di fronte. Due occhi enormi e sgranati, colpiti dalla luce lunare, le narici dilatate.
Con le labbra tendeva un sorriso che ho sempre definito “blasfemo”: un sorriso tirato e indefinibile, che pare una smorfia rigida e sarcastica. Esso aveva la piega uguale a quella che si impone ai volti dei cadaveri prima di esporli in camera mortuaria per mascherare i lineamenti sconvolti dall'agonia.
Il sorriso di circostanza di chi ferma in gola una bestemmia, ed è costretto ad ingoiarla per una posa.

Credetti per un momento di avere il demonio davanti: oggi so che quello era solo il viso di un uomo che andava a morire, che esorcizzava quel pensiero infliggendo la morte ad altri.
Un viso come il mio.

Guardami, dicevano quelle iridi.

Guardami.”, imperò la sua voce con un sussurro. Aveva un bel timbro, né troppo acuto, né cavernoso.
Guardalo, Manigoldo: conta i tuoi ultimi istanti, lotta contro la morte con tutte le tue forza e poi osserva – osserva bene – come Ella ti toglie tutto in un istante.
Ed è una cosa così semplice che pare sia solo uno sgambetto.

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Capitolo 10
*** X. Tierra desolada ***


X

Tierra desolada


Nero latte dell’alba lo beviamo la sera
lo beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo di notte
beviamo e beviamo scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti”

{P. Celan – Latte nero}



È nel momento in cui la vita appare per fragile e insulsa per quale è, che vi si è più attaccati – è il crudele sentimentalismo dell'istinto di sopravvivenza.
Oltre la finestra, la città cominciava a bruciare.
Si disse che quella notte, guardando la devastazione, Thanatos avesse cantato il Troiae Halosis, come Nerone su Roma in fiamme.*
Ma il falò di Rodorio di superbo non aveva nulla. Quattro pareti lasciate ad annerire, ecco il teatro, ecco l'infima scenografia su cui si elevò la Morte.
Una pila di uomini che non sapevano cosa aspettarsi: ecco i fieri guerrieri di questa guerra.

Morituri te salutant.


Io ricordo.
La tettoia bruciava in fretta, l'odore del fumo calava dalle assi del soffitto come la bruma alla sera. Mi bruciavano gli occhi.
Dopo aver scambiato un lungo sguardo con lo Specters, nel tentativo spasmodico di rizzarmi in piedi urtai la candela. Prese fuoco anche la tenda.
Il nemico mi osservò con una pietà e un sarcasmo che ancora mi insultano.
Ricordo che lanciai una bestemmia vana, e che cercai di spegnere la candela con lo spegni moccolo. Mossa insensata.
Quando me ne accorsi, tirai lo stupido oggetto verso l'uomo. Non so che fine fece.

Una tragedia è sempre un affare così ridicolo, che riderne è un dovere.

Una cortina di fuoco si stava diffondendo alle sue spalle, tra noi e il letto di Blanca.
Ormai le febbri l'avevano ridotta ad una larva, sapevo che rimaneva viva solo perché udivo l'instancabile tosse. Le vidi cercare di alzare il piccolo capo scuro dalle lenzuola.
Lo ributtò contro il cuscino subito dopo.

Tentai di superare l'uomo per prendere Blanca e portarla fuori da quell'inferno; ma, quando corsi in avanti, lo Specter si abbassò piegando le ginocchia e tese le mani davanti a sé, bloccandomi con il suo corpo ed impedendomi di passare. Non mi toccò, non ce n'era bisogno.
Era il suo corpo a farmi paura, l'armatura scura che aveva addosso. Sembrava uscita da un incubo.
L'idea della lotta doveva eccitarlo parecchio, gli vidi nascere sul viso un sorriso malato.

Tentai di spingerlo nel fuoco, ma appena toccai la superficie della Surplice provai un insostenibile senso di nausea che mi costrinse ad abbandonare subito la presa.
Il muro di fuoco era sempre più alto, Blanca non si svegliava, tramortita dal fumo.

In quegli ultimi momenti la ricordo come un fagotto di coperte troppo distante.
Forse piangeva. Sono quasi sicuro di aver sentito un pianto straziante mentre mi allontanavo.
Ma forse era il mio, o quello di chiunque altro in quella città.


*

La grande rabbia che mi porto dietro da quella notte è però solo una: per quanto avessi cercato di ridestare in me la forza atavica e disperata che avevo scoperto di possedere, essa non giunse in mio soccorso.
Cancer mi aveva abbandonato.*
Che fosse lo scotto da pagare per tutti i miei delitti fino ad allora?

Ora lo so: Blanca doveva morire.
Le mie stelle lo hanno deciso: la sua vita per la mia. È la crudele legge dell'ordine cosmico.
Avevo commesso mille colpe e dovevo espiare, ma io, ai cieli, servivo ancora.
Dovevo pagare ma restare vivo; dovevo ricordare che cosa significasse tornare dalla parte degli sconfitti per poi ricominciare a camminare con quel macigno.
Si doveva formare attorno a me la dura scorza del granchio, conoscere il dolore dell'esilio come Efesto. Dovevo avere un buon motivo per cambiare del tutto la mia vita.
Blanca doveva morire.
La sua vita per la mia. L'innocenza per redimere un peccatore.



*”La presa di Troia”, poemetto che Petronio inserisce nel Satyricon,

riprendendo uno scritto di Lucano.

*Volevo un nesso tra Death Mask e Manigoldo.

Entrambi sono stati traditi da Cancer nel momento cruciale,

per permettere la loro redenzione.

In tal senso, vorrei che si capisse, anche per DM, che la Cloth del Cancro

e le sue stelle

sono sempre funzionali al suo Cavaliere.

Non lo abbandonano, ma lo correggono.


*

Le travi del soffitto cominciarono a scricchiolare pericolosamente, la temperatura divenne insostenibile. Lo Specter era avvolto dalle fiamme, ma non sembrava soffrirne, anzi, quel calore lo avvolgeva come acqua calda dopo una giornata tra pioggia e fango.
Un terribile odore di carne bruciata, un lamento debole e già morente.
“Salamander”, disse l'uomo, beandosi di quella sensazione.
Non capii, avevo la nausea, stavo soffocando.
Ricordai il viso di mia madre, ricordai il momento dell'assalto della mia infanzia.
Ma esso era già terminato, la mia vita era di nuovo innanzi ad una nuova desolazione.

Ad un tratto un boato dalla città, una folgore, un'esplosione: erano arrivati.
Salamander - giudico che si fosse presentato e quello fosse il significato delle sue parole - mi guardò con malinconia prima di balzare tra le fiamme troppo alte e correre via, incontro alle sua battaglia.
Si era accontentato della mia espressione.
Nell'ultimo dei suoi atti, non aveva avuto il coraggio di farsi odiare completamente.
Anche Salamander andò a morire.
Morituri te salutant.


*

Quando si fu allontanato, - allora - fu veramente la fine.
Caddi in ginocchio.
Finché lui era stato lì, la rabbia mi aveva tenuto in piedi. Restai così tra il fumo e la puzza di carne bruciata e devastazione, fino a che quell'odore non cominciò a provenire anche da me.
Il calore mi stava piagando la parte destra del corpo. Alle mie spalle, l'unico punto della casa che non bruciava: la finestra da scavalcare, la sopravvivenza.

Volete la verità?
Nemmeno per un momento ho pensato che sarei rimasto lì in quella casa a morire.
Non mi avrebbe avuto, si era già presa troppe cose.
Non mi convincerà a mangiare il suo pasticcio di carne umana putrefatta.*
Con le ultime forza mi buttai sulla finestra e la scavalcai; man mano che mi allontanavo dall'inferno, sentivo l'aria della notte sempre più fredda e viva sulla mia faccia.
Sentivo la terra sotto i miei piedi, il dolore delle ustioni.


*Questa citazione è la mia passione.

Hugo Ball, sulla Prima Guerra Mondiale


*

Ero ancora vivo, vivo, vivo.
Maledettamente vivo. Ero sempre l'ultimo superstite di quella grande tragedia che era la mia vita.
Le fronde ciondolavano gioiose sotto il vento, la città era un falò: la natura, di certo, non piangeva.



*

Mi accasciai contro un albero e guardai da lontano la casa in cui avevo lasciato Blanca bruciare.
Rodorio fu il luogo in cui terminava la mia guerra, in cui ne iniziava un'altra che sarebbe stata altrettanto mia – ma io, questo, ancora non lo sapevo né potevo immaginarlo.
Ho guardato quello spettacolo fino all'alba, quando l'incendio ha cominciato a spegnersi e anche gli Specter hanno cessato di combattere.
Thanatos fagocitava il suo stesso esercito cantando la Caduta di Troia.
Ad averlo saputo, avrei intonato l'Ira di Achille.
Mi addormentai al sorgere del sole, per non vedere sotto la luce tutta quella devastazione.


*

Quando mi svegliai era tardo pomeriggio, le ceneri si erano raffreddate e sparse ovunque.
Camminai lentamente sulle macerie della nostra casa, la cenere mi copriva i piedi fino alle caviglie, era ancora tiepida.
Fu come camminare sulla sabbia rovente alla riva del mare in un mezzogiorno di piena estate, e tuttavia era un'alba d'inverno. Camminavo su case e uomini – polvere.
Mi inginocchiai.

Se avessi conosciuto una preghiera, avrei pregato. Non ne conoscevo nessuna e non lo feci.
Ricordavo però che nella mia infanzia c'era un prete che diceva “Polvere sei e polvere ritornerai”.
Presi una manciata di cenere, la soffiai via
L'anima di Blanca doveva già essere scomparsa. Era tardi anche per quello.
È sempre stato tardi.

Altri lumicini tremolavano lì intorno: ne presi un paio tra le mani, appoggiando le spalle contro il muro di un edificio sventrato dalle fiamme.
“Chi sei tu?”, chiesi.
Era mia madre e mio padre, Bucefalo, Blanca, era cicala e falco, era quel triste uomo che mi aveva fatto visita quella notte, ero io un pugno di anni dopo.

Alle mie spalle un muro abbattuto, come una lapide senza scritte.
Sage aveva letto in quel cielo una veglia funebre all'intera umanità.
Un giorno mi disse: “Ogni morte d'uomo mi diminusce, perchè io partecipo all'Umanità.
E così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana: essa suona per te.
”*
Ed aveva ragione.
L'Eterno ritorno dell'Identico – ecco la chiave di lettura di tutta la mia vita: ero di nuovo in mezzo alle macerie.
Il Tutto che torna al Tutto – ecco la verità del mondo.
Le anime girellano su se stesse come l'Uroboro.**


Fu in quel momento che, davvero, desiderai morire. Non mi era stata concessa nemmeno quella grazia.


Vicino a me sentii dei mugolii.
Due uomini stavano agonizzando vicini, uno portava l'armatura.

“State zitti!”, ruggii, ma chiaramente non cessarono di lamentarsi. Quello con l'armatura continuava ad eruttare sangue dalla bocca.
Avevo la nausea. Guardai un corvo che si posava su un muricciolo sventrato; se fosse stato un'altra creatura, sarei stato certo di vederlo passarsi la lingua sulle labbra.
“State zitti, maledizione!”
La mia voce nell'alba. Una preghiera urlata, un'accusa, una sentenza di morte.
Decisi che non avrebbero smesso, estrassi il mio coltello e glielo piantai nella schiena e nel petto, a seconda di come fossero girati.

Ora c'era silenzio.
Raccolsi le loro anime sulle mie mani, e le lasciai girarmi intorno assieme alle altre.
Pensai che almeno uno dei due avrebbe potuto salvarsi, ma non mi importava.

Lasciai lì i loro cadaveri, e per due giorni rimasi vicino ad essi e alla loro puzza nauseabonda. Ricordo le mosche sopra ai miei occhi e sopra ai loro: spalancati, vuoti e rivolti al cielo. Che cosa vedevano adesso?
Ancora non lo so, perché tanto dovevano morire e dobbiamo morire tutti, non contano né vendetta né giustizia. Basta aspettare il nostro turno.
Blanca sarebbe morta lo stesso, che fosse stata la tosse, il fuoco o il tempo.
Perché siamo spazzatura,
era la risposta che mi diedi quei giorni.
Perché siamo uomini,
dico ora.
A volte mi chiedo ancora quanto siano sinonime le due parole.


*John Donne, frase ripresa da Hemingway

**Il serpente che si morde la cosa, il simbolo dell'Eterno ritorno dell'Identico


*


Sage mi trovò in mezzo a quei due cadaveri e alle loro anime.

Delle parole che mi disse non ne ricordo nessuna. Con la mano sulla mia testa, mi indicò un cielo tanto bello quanto infame e disse che anche io ne ero parte.
Se piansi, non fu perché gli credetti. Al contrario, era tutto troppo crudele e reale perché se ne potesse parlare così.
Piansi perché davvero le stelle sono come le anime, e sentivo il loro sguardo impietoso addosso.

Seguii Sage per farne a pezzi tutte le certezze.
Poi, un giorno, sulla bocca dell'Inferno mi scoprii un convertito.
Il resto lo sapete.
Se anche non lo sapeste, non ha nessuna importanza: il finale è il medesimo per tutti, e la fantasia va usata solo per immaginare il modo in cui ci sia arrivato.

Un balzo qua e uno là: la tragedia è solo un'ipotesi, la crudeltà una posa, la vita una finzione.
Penso che sia così, ma non ne sono sicuro, perché ogni concetto è mobile.
Abbiamo solo una costante, ed è la Morte.
E per questo ho deciso di andarle a fare una sorpresa: perché a me le costanti non piacciono, perché non possono essere ignorate.
Doveva stare ancora a sentire la mia versione dell'Ira di Achille.
E gliel'ho cantata.
Fu come ricambiarle lo sgambetto.





Quanto è difficile concludere una storia così. Questo capitolo è stato riscritto tre volte e corretto per mesi, ma ancora non mi soddisfa.
Comunque, volevo mettere la parola fine a tutto questo. È la storia più importante che abbia mai scritto – un'esperienza quasi catartica.Ringrazio chi c'è sempre stato, con una fedeltà che mi ha davvero commosso: GioTanner e Chocolat95.
E anche chi l'ha aggiunta tra preferite, seguite o ricordate.
Se qualcuno volesse adesso darmi un parere in conclusione, è davvero bene accetto. Questo scritto non lo so proprio valutare oggettivamente, e mi piacerebbero dei riscontri.

Volevo chiarire il perché della scelta di Messina per Manigoldo.
Intanto perché è una città di snodo, tutta proiettata, oserei dire lanciata, verso l'esterno. E già solo questo per Manigoldo andava bene.
In più, come ci insegna Tucidide nel libro VI delle Storie, essa fu fondata da alcuni pirati di Cuma con il nome di “Zancle”, che in siculo significa “falce”. Il nome le fu cambiato dal re Iblone in Messene.
Come Manigoldo, anche questa città cambia il proprio nome.
Non mi sembrava necessario far passare il nostro giovane presso le pendici dell'Etna. La sua armatura, dopotutto, risiedeva ad Atene con Sage.
A tal proposito, prevedo un seguito a questa storia, sull'addestramento vero e proprio, sul rapporto tra maestro e allievo. Non so quando vedrà la luce, ho buttato giù solo qualche bozzetto. Ditemi se vi va l'idea.
L'estate è la stagione in cui mi vedrete di più. Per ora, Jailer prevede di comparire solo saltuariamente.
Grazie ancora,
un abbraccio,
Jailer.

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