Anatomia della Leggerezza di Jailer (/viewuser.php?uid=123329)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Esordio su due asini ***
Capitolo 2: *** II. Storia di come il fato mi rubò anche il cappotto ***
Capitolo 3: *** III. La tierra donde cae el Sol ***
Capitolo 4: *** IV. La gatta Angelina: dedica sincera ad una prostituta ***
Capitolo 5: *** V. Caron Dimonio ***
Capitolo 6: *** VI. Fiesta! ***
Capitolo 7: *** VII. Sull'importanza del francese ***
Capitolo 8: *** VIII. Le vent se lève ***
Capitolo 9: *** IX. Un Blasfemo ***
Capitolo 10: *** X. Tierra desolada ***
Capitolo 1 *** I. Esordio su due asini ***
Per
un autore c’è una sola cosa più
importante del racconto che ha scritto, ed è la storia dietro di esso.
Ho iniziato a scrivere il primo capitolo
nel luglio 2014, all’epoca Manigoldo e la sua leggerezza di vivere
erano un
modello ideale sognato e irraggiungibile.
Poi marzo 2015, la morte di mio padre.
Ed ho scoperto, paradossalmente, che la
vita va vissuta ed amata, non senza una certa leggerezza, perché le
tragedie
non possono che accadere, ma non c’è nulla a cui non si possa
sopravvivere.
Manigoldo è diventato uno specchio e un
amico.
Questo racconto racchiude lo snodo di
una vita, ed è sempre, sempre stata scritto con grande felicità – prima
sognavo
e poi mi affermavo in un nuovo credo: è la storia di una metamorfosi.
Non c’è motivo per cui voi sappiate
tutto questo, ma non ce n’è nemmeno uno per cui non dobbiate saperlo.
Certe cose, semplicemente, a volte fa
piacere dirle.
Questa
storia è ambientata in Sicilia e
in Grecia, in cui io non sono mai stata.
Riguardo ai luoghi non volevo il realismo,
se non per alcuni cenni: perdonate dei possibili errori a tal
proposito, ma
questi devono diventare paesaggi dello spirito, sul filone dell’Arcadia felix in cui anche Virgilio si è
rifugiato durante la stesura delle Bucoliche (Che paragone eccessivo,
scusate
anche questo).
Un
grazie doveroso va a mughetto nella neve
e GioTanner, perché i loro incoraggiamenti su “Anatomia
dell’irrequietezza”, mi
hanno dato la giusta carica per finire questa storia che mi trascinavo
dietro
da troppo tempo e alla quale dovevo mettere il punto finale.
Vi
lascio alla lettura, augurandovi che
possa essere buona.
23
settembre 2015,
Jailer (F.C.)
Anatomia
della Leggerezza
I
Esordio
su due asini, uno dei quali chiamato Bucefalo
Non
abbiate timore: non sono una persona
migliore di quello che mi piace apparire.
I banditi che mi hanno strappato infanzia,
memoria e notti di sonno non hanno trovato molta umanità in più da
portarsi via
- parola mia.
Ero un bambino crudele già prima.
Ora sono ancora crudele – ma in maniera più
divertita.
Un giorno ho battuto la testa e perso i ricordi.
Mi rimangono i dettagli più insignificanti: una farfalla, un asino,
qualche
notizia di medicina strappata ai manuali di mio padre.
Proprio mio padre, invece, l’ho perso nel
buio; ugualmente la voce di mia madre.
Avrei voluto scordare più cose.
Questa è solo una storia che racconto per
passare il tempo. Non ha nulla di più, né di meno delle altre: è
solamente la
mia.
La
mia prima memoria è una piccola
crudeltà.
Era una bella farfalla a cui ho strappato
le ali, ed è morta un istante dopo. Era un pomeriggio d’estate,
frastuono di
cicale, un campo di grano.
Vivevo in campagne baciate dal sole, e lontano,
in basso, si vedeva pure il mare.
Una farfalla fu la prima anima che vidi.
Esplose in un fuocherello blu davanti agli occhi, sul palmo della mia
mano.
Poi scomparve.
Ne uccisi un’altra per essere sicuro. Poi
una cicala.
Lo
dissi ai miei genitori: “Ho ucciso una
farfalla. Poi c’è stato un fuoco blu.”
Mio padre rispose che era solo pressione
bassa. Mia madre non disse nulla, e se lo fece non me ne ricordo. Per
quello
che ne so, aveva una personalità quanto mai insignificante.
Magari l’ho amata, invece, e non lo ricordo
più. Ma si può scordare l’amore?
Sono
sempre stato un egocentrico: il fatto
di essere stato così poco oggetto di importanza mi ferì.
Non dissi più nulla a nessuno: non ad
amici, perché di quelli non ricordo di averne avuti; né ad adulti,
perché loro
non ascoltano mai niente né tanto meno capiscono.
È colpa dei miei genitori se non so
esprimermi bene: se, quando ci provo, nel migliore dei casi risulto
offensivo.
Nel peggiore, un idiota.
Sono molto sincero con me stesso. A volte
mi rimproverano di essere immaturo, ma io ho solo il cuore aperto, a
modo mio.
***
Uccisi
diversi animali e scoprii che ognuno
aveva una forma d’anima differente.
Mi piaceva vedere le anime: erano deboli e
insignificanti, ma meno dei loro corpi vivi. Le anime erano un’unica ma
meravigliosa esplosione, un fuoco d’artificio, un istante di pura
dignità e
bellezza.
Avevo un modo tutto mio di essere un
esteta: la morte è estetica, edonismo allo stato puro perché
nell’ultimo
palpito di vita c’è una sorta di orgasmo. Lo vedo dal sussulto
meccanico dei
corpi da cui sta per fiorire un’anima. Un brivido, un istante di forza
sublime.
La vita era così debole, invece. La vita si
mimetizzava, taceva, durava tre giorni – farfalle! - e poi si spegneva
nel
silenzio.
Di
notte mi piaceva girare per i cimiteri.
I fuochi fatui erano belli, ma mi seccava il fatto che potessero
vederli tutti.
Vi andavo perché lì dimoravano le anime
degli uomini. Si agitavano lì, intorno alle tombe. Inconfondibili.
Azzurrine. Nel buio mi prendeva una bella
malinconia, nostalgia di qualcosa, una tristezza esistenziale.
Un’amarezza
profonda.
Finisce
tutto così? Per davvero?
Una
biscetta, un lumino che si dibatte:
ecco un uomo.
Ero
eccentrico, crudele e facevo giri
strani di notte: mi davano del demonio.
Mi divertiva il fatto che lo pensassero.
Credo
che mi divertisse, o, almeno, adesso lo farebbe.
Ero sempre solo. Mi piaceva pensare di
creare un esercito d’anime per marciare sulla città. Un ridicolo
esercito per
una ridicola ambizione.
Le anime volteggiavano un po’ e poi
sparivano in fretta. Ed io restavo ancora più solo.
Rimuginavo
sulla morte, uccidevo ma non è
che pensassi proprio alla morte morte.
Mi spiego: uccidevo una farfalla e ne
usciva un’anima, come un pulcino dall’uovo – la morte mi pareva una
nuova vita.
Non era la morte a rattristarmi, ma la vita a sembrarmi troppo debole.
La vera
morte prese forma nella mia mente dopo. La morte esplose nella nube di
fumo che
arse tutto, anche la memoria.
All’epoca, il mio gesto, l’uccidere, si
esauriva in se stesso: uccidere era premere un interruttore per vedere
un
lumicino.
***
Mia
madre era disperata per un tale figlio
– è principalmente questo che ricordo di lei.
Mio padre è una memoria senza volto. Forse
era indifferente, forse egli si disperava con lei.
Manigoldo, mi chiamavano quelli del
villaggio, bestia e demonio, disgraziato.
Il primo era quello che mi piaceva di più –
l’ho adottato!
I manigoldi sono quelli che accompagnano il
boia: era un po’ grossolano, uccidevo solo insetti e piccoli animali,
ma aveva
un suo perché ai miei occhi.
Il mio nome però non lo ricordo.
Con questo potrei rispondere alla domanda
di prima – Si può scordare l’amore?
Se ho scordato persino il mio nome, sì.
E questo da una parte mi consola: ho amato
mia madre, forse. Dall’altra mi rattrista: è
così insignificante amare?
A
ben pensarci, non è così inconcepibile
che abbia dimenticato il mio nome. Ero sempre solo, e quindi nessuno mi
chiamava. Se lo facevano, erano insulti.
Nemmeno mia madre mi chiamava, mi attendeva
in silenzio però, e in silenzio mi dava da mangiare. Mio padre era
raramente a
casa: faceva il dottore, era l’unico della zona e spesso andava in
altri paesi,
cosa che lo impegnava tutto il giorno.
Ero
iscritto a scuola ma non ci andavo mai.
Imparai a leggere presto, solo con l’aiuto
di mia madre e poi cavandomela da me, perché volevo sapere qualcosa sui
bagliori che vedevo.
Effettivamente non chiamai le anime “anime” finché
Sage non me parlò.Nei libri capii qualcosa dei fuochi fatui.
Erano i volumi di mio padre: a lui non
volevo chiedere, ma loro rispondevano, più o meno.
Più meno che più.
Ma qualcosa imparai, e quello mi sarebbe
stato utile per il futuro, di medicina almeno.
E un po’ di letteratura.
Sage era scandalizzato poiché avrei potuto
essere un chirurgo con i fiocchi ma non sapevo contare oltre le
centinaia. E
solo perché i volumi erano più o meno di quello spessore.
***
L’ho
detto: non andavo a scuola, avevo un
sacco di tempo libero e giravo tutto il giorno per le campagne.
Ho detto anche che di amici non ne avevo.
Sbaglio: non avevo amici umani.
Avevo un asino. Ed era una bestiaccia
nervosa e inservibile al lavoro per il carattere che si ritrovava.
Un giorno volevo andare a controllare
qualcosa che non ricordo, in un posto lontano da casa mia. Avrei dovuto
portarmi dietro tre tomi abbastanza pesanti.
Troppa strada e troppo peso.
Nel
fienile di casa mia c’era quell’asino.
Lo avevano rifilato a mio padre in qualche maniera e lui, sebbene non
potesse
usarlo per nulla e benché l’animale avesse l’unica funzione di
trangugiare
fieno a tradimento, non se la sentiva di spedirlo al macello.
La cosa da vedere doveva essere parecchio
importante se fu un motivo valido a farmi lottare con quella bestiaccia
per
farla uscire dal fienile. Dio solo sa quanti calci mi sono preso io, e
quante
bastonate lui.
Scoprii presto che, a fargli svolgere
un’attività più gradevole del tirare una macina, anche lui poteva
servire a
qualcosa.
Era il mio tempestoso destriero e io ne ero
fierissimo: lo chiamai Bucefalo, come il cavallo di Alessandro Magno.
Eravamo lo zimbello del paese, ma ci
divertivamo.
“A metterli insieme magari un somaro
decente lo si ottiene.”
Caro Bucefalo, fedele compagno di troppe
ingiustizie - inflitte e ricevute.
Non so chi, fra noi due, si sia preso più
legnate in quegli anni.
***
Non
avevo mai visto l’anima di un essere
umano sfuggire dal proprio corpo, ma volevo poter assistere a
quell’evento.
È stato uno dei pochi desideri che ho visto
venir esauditi. Ed era il desiderio sbagliato.
Pensai di diventare dottore per poter veder
morire qualcuno, ma ci sarebbe voluto troppo tempo.
Un giorno un gruppo di ragazzini mi
provocò, e finì in rissa. Non ero realmente arrabbiato quando tirai una
sassata
in testa ad uno, volevo solo vedere l’anima di una persona. A momenti
lo
ammazzavo, ma non accadde.
Mi sentii deluso: non era morto, e
soprattutto non era morto sul colpo. Se anche lo avesse fatto, dopo
sarebbero
stati solo gran casini.
Una
volta provai ad annegare un bambino più
piccolo che veniva sempre a giocare nei dintorni di casa mia; penso
fosse mio
cugino.
Fatto sta che quando iniziò ad annaspare e
a fare i movimenti convulsi che fanno quelli che non riescono a
riprendere
aria, mi mancò il coraggio e lo lasciai andare.
Lui non tornò più.
Pensai che fosse meglio aspettare di
diventare medico per vedere morire qualcuno.
***
La
prima anima umana che mi vidi esplodere
davanti fu durante quell’assalto.
Ricordo che soffrii parecchio per la morte
di Bucefalo.
Trovai l’asino sventrato in mezzo a quella
che era stata la piazza del paese. I cani affamati della zona gli
avevano già
svuotato ventre e orbite, il sangue che gocciolava, da lui e dai musi
eccitati
delle bestie, si mescolava alla pioggia.
La sua anima era uno spettacolo insulso,
non diceva nulla di Bucefalo, di come era stato – testardo ed egoista.
Capii un’altra cosa: la morte era una
scintilla bellissima, ma uguale per tutti. Nella morte Bucefalo era
sullo
stesso piano di una farfalla o di un topo.
Nella morte, un genio era pari ad un
idiota, un eroe ad un codardo.
Di quella notte ricordo poco o niente:
passò in una nuvola di fumo nero che avvolse tutto, e che, quando si
levò,
lasciò tutto a pezzi. Non so se sopravvisse qualcun altro. Non ho
incontrato
nessuno del mio paese, né allora né per il resto della mia vita.
Mi
sono svegliato sotto le macerie e
protetto dal corpo di mia madre. Ricordo il suo viso solo perché lo
vidi quel
giorno, pallido dove non era mascherato dal sangue, sporco di fuliggine.
Gli occhi erano spalancati, e pensai che li
avesse uguali ai miei.
Mi aveva stretto e protetto dal fuoco e
dagli uomini. Mi aveva cantato una canzone che non ricordo per
tranquillizzarmi
quando già tutto ci era crollato addosso. Aveva detto anche il mio
nome, ma
l’ho dimenticato in mezzo alle macerie.
Quando
riuscii ad alzarmi – un’alba tanto
grigia fredda e orrenda da sembrare una presa in giro - vidi intorno a
me
quello che avevo sempre desiderato: anime, anime ovunque. Un inferno di
case
scheletrite e pioggia, che si consumava in un silenzio spettrale.
Un tripudio di luce come mai avrei visto in
vita mia, che si riversava in ombre spettrali tra i calcinacci, sugli
alberi
bruciati e anneriti.
Mi guardai intorno e scorsi solo terra bruciata
sotto un cielo grigio.
Anime sbocciavano dai sassi di tanto in
tanto, evidentemente qualcuno spirava, lì sotto. La morte di una
farfalla non
era diversa in nulla: gli uomini fanno solo più rumore.
È
questa la vita umana? Questo dibattersi
in cerchio di un lumino, al termine di una vita miserevole?
Le farfalle soffrivano tre giorni e
sapevano volare. Gli uomini conducevano una vita più infelice per un
tempo più
lungo.
All’inizio
tutto mi sembrò così infelice,
brutto e volgare da non poterlo nemmeno definire.
Eppure definire era diventato di vitale
importanza per me, mi sentivo un po’ medico e avevo bisogno di
consolarmi. I
medici danno nomi alle malattie perché non basta elencare i sintomi, le
cause e
i rimedi. Bisogna dire: è proprio quella
cosa lì.
Così sentii di dover fare lo stesso con la
malattia che era la vita umana.
Trovai un nome in cui riassumere tutto
quando vidi un nugolo di mosche accalcato su un cadavere.
Spazzatura.
Non
è proprio un nome scientifico, ma
funzionale lo è.
È
proprio quella cosa lì. Spazzatura.
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Capitolo 2 *** II. Storia di come il fato mi rubò anche il cappotto ***
II
Storia
di come il fato mi rubò anche il cappotto
Da
quell’alba in avanti le cose diventano
un po’ più chiare nella memoria.
Restai a vegliare sulle mie macerie fino a
che la fame, il freddo e i miasmi dei cadaveri non mi convinsero ad
andar via.
Restai lì un’ora o una settimana. Sotto un cielo alto e impietoso, che
scaricò
pioggia a non finire, mi lasciai consumare dall’inverno per un po’.
Se
vi dicono di desiderare qualcosa di
eterno, portateli in posti così, fategli vivere questo.
Quella che ho vissuto è l’eternità, ed è
mostruosa.
L’eternità è una sofferenza in cui si perde
anche la forza di contare il tempo che scorre. È l’attesa fra le
macerie e
l’alba che non arriva mai a illuminarle. Il limbo fra un dolore non
ancora
confermato a causa del buio e la certezza che ancora si ostina ad
aggrapparsi
alla speranza di un errore.
Forse
è per questo che gli uomini hanno
inventato gli orologi e i giorni: per fuggire il senso di eternità. Per
porsi
dei limiti numerici al soffrire e non cadere in braccio all’indefinito.
È per quello che sorge il Sole: per pietà degli uomini.
È
perché ho provato qualche istante di
eternità che non me ne importa nulla di morire. Io voglio il confine.
Da affrontare e scavalcare.
Da sfiorare e da fuggire sempre un po’.
***
Quello
che successe nei mesi seguenti non è
importante.
Bazzicai per campi, valli e città, rubacchiando
negli orti e prendendomi delle gran legnate. A volte destavo pietà in
qualche
vecchia e mi offriva un tetto sopra alla testa e un piatto caldo per
una sera.
Io cenavo, rubavo qualcosa dalla casa e me
ne andavo.
Ancora oggi trovo abbastanza fastidioso
passare la notte in un posto senza finestre ampie. All’epoca preferivo
dormire
al freddo piuttosto che sentirmi oppresso fra quattro mura.
Avevo paura, non respiravo. Ogni rumore era
per me fuoco che divampa e uomini che uccidono altri uomini.
Sono cose normali, quando ti è capitata una
cosa così – dicono.
Io non so quanto ci sia di normale, ma lo
prendo come un dato di fatto.
Camminai
a lungo, incappando in aggregazioni
urbane sempre piuttosto piccole.
Tuttavia, mi accorsi ben presto che in
città era sempre più difficile trovare qualcosa da mettere sotto ai
denti.
Faceva sempre un freddo terribile, la gente era incattivita, e capitava
spesso
che mi lanciassero qualche oggetto addosso se durante la notte mi
trovavano a
dormire vicino a certi palazzi, dove mi rincantucciavo perché erano i
posti più
riparati.
Poi
giunsi in una città sul mare più grande
delle altre, e lì incontrai una ragazzina.
Qui comincia davvero la mia storia – la
storia di Manigoldo.
Andavo
vestito con le pezze che qualcuno mi
aveva regalato e con quello che ero riuscito a sottrarre a guardaroba,
se
possibile, ancora più poveri del mio.
Era quasi inverno e cominciava a diventare
insostenibile andare in giro solo con una camicia e un maglioncino
logoro e
perennemente umido addosso.
C’era il mercato e una sbadata e grassa
commerciante che aveva esposto un cappotto nero bellissimo.
“Gli abiti più caldi di Messina!”, urlava
cantilenando, “Gli abiti più belli di Sicilia!”
Dio, quanto doveva riparare quell’affare.
Era anche elegante, con quello addosso avrei smesso di andare in giro
con
addosso l’insegna “pendaglio da forca in erba”.
Non ho mai avuto una faccia rassicurante,
nemmeno da bambino.
Non avevo mai rubato in mezzo a tanta gente
e in pieno sole, non conoscevo nemmeno il posto e sarei potuto finire
in un
vicolo cieco. Mi avrebbero accalappiato in un attimo.
Poi
guardai la camicia, guardai i miei
polsi ormai secchi. E allora?
Magari mi avrebbero portato in gatta buia e
lì avrei avuto vitto e alloggio gratis, o magari direttamente sulla
forca.
Allora avrei fatto la parte del martire: una recitazione così
commovente
sull’ingiustizia della vita che li avrebbe commossi tutti e mi
avrebbero
lasciato andare e mi avrebbero dato pure un sacco di soldi per
scusarsi.
Oppure mi avrebbero ucciso lo stesso, e
sarei diventato famoso. Sarei stato un martire del sistema. Oh, che
bellezza.
Avevo tanta fantasia. Quando uno non mangia
tutto il giorno, l’unica cosa che può fare è guardare per aria e
sperare in un
miraggio. Ma faceva troppo freddo anche per quelli.
In
alternativa al carcere o alla forca,
avrei passato l’inverno sicuramente al gelo e sarei morto in un vicolo
puzzolente - come un banale pezzente. E io non ero un accattone.
Un delinquente sì, ma uno di quelli mai.
Non ho mai fatto elemosina, quelli che mi
avevano accettato in casa loro lo avevano fatto senza che io gli
chiedessi
niente. Non sarei morto così.
Allora decisi di andare a prendere il mio
cappotto.
Non
ero una mente fine, e non avevo nemmeno
tanta pazienza e energia per pianificare qualcosa – diciamo che in
quegli anni
non ho mai avuto troppa energia per fare qualsiasi qualcosa, mangiando
a stento
un paio di tozzi di pane al giorno-, quindi aspettai solamente che le
strade si
svuotassero un poco.
Non sapevo che un’altra mente, un po’ più
fine della mia, mi aveva già intercettato e aspettava che io facessi il
lavoro
sporco per poi farmela sotto al naso.
Mi avvicinai alla mia preda, la
proprietaria della bancarella era distratta a ciarlare.
Il cappotto era lì, steso in bella vista.
Appena vidi quel bel nero e l’imbottitura interna a quadri (anche a
distanza di
anni mi sembra l’abito più bello che abbia mai visto), qualora qualche
reticenza fosse rimasta, sparì.
E
niente: allungai il braccio e mi misi a
correre. Pessima mossa, perché se avessi continuato a camminare facendo
finta
di nulla, avrei intascato il cappotto e me ne sarei andato tranquillo e
tanti
saluti.
La donna mi vide correre, vide il cappotto
fuggire con me e si mise a urlare.
“Al ladro! Al ladro!”
Non so se corsi per pochi metri o per
chilometri. Sbattei contro non so quante persone e le gambe mi facevano
un male
terribile.
Mi
inseguirono all’inizio in quattro o cinque, poi il corteo dietro di me
si infoltì
enormemente. Fortunatamente ero veloce, leggero e la città era piena di
vicoli.
A forza di zigzagare tra le vie dispersi i miei inseguitori.
Non si erano affannati particolarmente,
alla fin fine. Io sì, però, avevo dato fondo a tutte le riserve di
energia che
possedevo.
Respiravo malissimo, probabilmente avevo
una forma di asma che stava andando via via peggiorando a causa del
freddo che
pativo sempre: quindi non solo respiravo a malapena, ma ad ogni respiro
i miei
polmoni generavano un terribile fischio di richiamo. Mi sembravano
spugne
strizzate.
La crisi non passava, cominciava a girarmi
la testa. In più ero angosciato dal fatto che qualcuno potesse sentirmi
e
trovarmi. Stringevo il cappotto spasmodicamente.
Non ho mai più vissuto una sensazione del
genere: se c’era qualcosa di importante in quel momento era
quell’abito. Avrei
venduto l’anima pur di tenerlo.
Come il Dottor Faust di Marlowe, pensai.
Lo scopo non era meno nobile, dopotutto.
Con il cappotto anche l’asma sarebbe andato
meglio. Era lì, il mio cappotto.
Stavo così male ed ero così felice che mi
venne da piangere.
***
Blanca
arrivò in silenzio.
Adesso anche il mio respiro si stava
calmando. Mi ero messo seduto con la schiena contro il muro sudicio e
la testa
appoggiata alla stoffa della giacca sulle ginocchia.
Mi camminò davanti e afferrò la stoffa da
un angolo un po’ più esposto. La tirò nel tentativo di sottrarmela con
un
candore da risultare imbarazzante.
Alzai
lo sguardo e la guardai sorpreso,
senza capire. Era una ragazzetta pallida e magra che doveva avere più o
meno la
mia età.
Ne
approfittò per tirare più forte e farmi scappare dalle mani il
cappotto. Non
avevo avuto la forza di stringerlo più forte.
“Grazie!”, disse, “Mi hai risparmiato una
gran fatica.”, sorrise.
E con un balzo si buttò nella strada
principale e affollata.
Con
il mio cappotto.
Il mio.
Non lo era più.
Scherzi?
L’asma
si calmò dopo poco, ma rimasi anche
dopo in quel vicoletto senza muovermi: era una forma di protesta nei
miei stessi
confronti.
Bravo
scemo,
mi dicevo, non ho mai maledetto il mio stupido corpo
tanto come quel giorno, nemmeno quella volta in cui, durante una
missione, per
colpa del mio altrettanto stupido ginocchio che cede in continuazione,
ho visto
la morte in faccia.
Anche lì la storia non era diversa: Blanca
mi aveva fatto lo sgambetto, una volta, e in quell’occasione
probabilmente
immolai i miei legamenti crociati.
In entrambi i casi – storia dell’asma e del
ginocchio-, maledissi anche lei. È sempre stata colpa sua.
Ora
dovevo patire il freddo, e me lo meritavo
pure.
Forse restai lì anche ad aspettare un po’
la ragazzina, inconsapevolmente.
È un po’ troppo romantica come idea per i
miei gusti, ma se si andasse a vedere quello che è successo non è poi
così
sbagliata.
Ella,
infatti, tornò. Speravo per
vergognarsi.
Era notte ed ero ancora lì, perché,
dopotutto, il vicolo era riparato e c’era un bel tepore. Mi disse il
suo nome non
so quando, fatto sta che seppi che si chiamava Blanca.
Non
era tornata per scusarsi e restituire
ciò che era mio – non era nel suo stile -, ma perché aveva visto che
sapevo
correre bene.
“Con un piatto caldo al giorno e un tetto
sopra la testa quella roba ai polmoni ti passerà in un lampo.”
“Asma…”
“Quella. Me lo ha detto il Rosso.”
“Chi?”
“Vieni, dai!”
“Il mio cappotto dove ce l’hai?”
“Il Rosso ce l’ha. Io non comando mica
niente, lì.”
Blanca
tese una mano magra e pallida per
aiutare ad alzarmi. Anche nel buio aveva iridi così chiare che sembrava
avesse
solo le pupille. Era un po’ inquietante, ma c’era anche una ferocia
così
marcata da cane randagio e un’astuzia, quella più felina, da renderla
incredibilmente maestosa.
I lineamenti affilati, per natura e per
fame, il passo deciso e i capelli corti sotto un berretto di flanella
che gli
copriva un orecchio più dell’altro. Questa era Blanca.
Blanca non era che una bambina esile e
scaltra che assomigliava ad un maschio, eppure con lei vissi la cosa
che più
assomigliò all’amore in tutta la mia vita.
È per colpa sua che mi piacciono sia gli
uomini sia le donne. È sempre colpa di Blanca.
***
Dovemmo
infilarci in alcuni viottoli luridi
e trovare un cimitero, scavalcarne il muricciolo, uscirne, ed entrare
in uno
scantinato. Lì c’era il Rosso.
Blanca aveva fatto tutta la strada con le
mani in tasca e senza dire una parola. Io ero ancora offeso nei suoi
confronti,
l’avevo seguita solo nella speranza di poter recuperare l’ancora mio cappotto. Il quale, dopo che vidi il
Rosso e tutta la sua banda, smise di essere considerato tale.
Lo
scantinato era colonizzato dalle
ragnatele e dal buio, smorzato solo dal baluginare da luci di poche
lanterne.
Pareva una miniera.
Era piacevolmente caldo ma sovraffollato,
con quella manica di discolacci che vi entravano e uscivano in
continuazione.
Proprio davanti all’entrata, presso la
parete direttamente opposta, c’era un enorme sedia, scalcinata ma
addobbata
come un trono. Tappeti tutti intorno di scarso valore, ma color porpora
facevano la loro figura, in quell’angolo di lusso da presa in giro, di
maestà
dei poveri.
A qualcuno sarebbe sembrato un bordello – a
me no, perché le case di piacere le
conoscevo solo per nome e non sapevo nemmeno che cosa ci si facesse.
Quando entrammo nessuno badò a me o a
Blanca. Era tutti ragazzetti tra gli undici e i quindici anni intenti a
mille
attività diverse: erano strani, alcuni impegnati nel gioco delle carte
come piccoli
adulti logorati dalla vita e dal vizio, altri litigavano per qualche
assurdo
motivo.
Nel complesso c’era un gran casino, un
vociare così confuso che mi sentii girare la testa.
Notai
che le altre femmine che erano
presenti erano vestite con certi abiti da donne adulte che scoprivano
il seno,
e avevano la faccia incipriata.
Erano molto belle e molto ridicole al tempo
stesso, a me non piacevano.
Quelle se ne stavano in un angolo a parlare
tra di loro, e furono le uniche a osservarmi incuriosite.
“Vieni con me.”
Blanca
mi scosse, e mi trascinò verso una
porta in un angolo più tranquillo dello stanzone. Entrammo in un
corridoio
adiacente. Lei mi precedette camminando lentamente e quatta quatta come
a
cercare di non far rumore.
Poi saltò dentro la stanza con entusiasmo.
“Te l’ho portato!”
C’era
una figura voltata di spalle che
contemplava non so che cosa sul lato opposto della stanza.
Era assai esile e i capelli le correvano
come sangue lungo la schiena. Pareva una femmina, e anche quando si
voltò per
un po’ lo pensai davvero. Guardò a lungo Blanca senza dire nulla.
Aveva un viso dai lineamenti finissimi, ma
anche ambigui, quasi quanto quelli della bambina.
Quando si decise a parlare, rivolgendosi al
mio indirizzo, rivelò una voce profonda e maschile.
Trasalii per la sorpresa e per il modo che
aveva di osservarmi.
È
un maschio.
“È
quello del cappotto?”
“Sì.”
Il parlare di Blanca era un pigolio.
“Corre bene?”
“Ha corso bene.”
“È furbo?”
“Non lo sembrava tanto.”
“Ehi!”
Tirai una gomitata a Blanca, sinceramente
adirato e dimentico anche dello sguardo inquisitore del Rosso – era lui.
“Calmi.”
Si alzò in piedi e si avvicinò al mio
indirizzo. Era così magro che sembrava impossibile potesse alzarsi e
compiere
dei movimenti senza rompersi. Pareva uno strano burattino.
Quell’orrenda macilenza aveva però lasciato
intatto il viso, e solo le guance si rivelarono eccessivamente scavate.
“Come
ti chiami tu?”
Dovetti pensarci un momento. Era tanto che
nessuno me lo chiedeva, da quando mi ero lasciato indietro le campagne,
perché
in città nessuno mi aveva più offerto ospitalità.
Che cosa rispondevo di solito?
“Non ho un nome.”
“Te l’ho detto che era stupido!”
“Blanca.” La mise a tacere e continuò:
“Cosa vuol dire che non ce l’hai?”
“Dei banditi hanno bruciato casa mia e
tutto il mio paese, credo di aver battuto la testa e non mi ricordo
come mi
chiamo.”
“Nessuno ti ha più chiamato con qualche
nome?”
“Nessuno mi ha più chiamato per nome, a
parte le vecchie, ma loro mi dicono ragazzino
e a me non piace. Mi chiamavano Manigoldo una volta, perché ammazzavo
le
farfalle. Ma non mi va di farmi chiamare così a tempo pieno.”
“A nessuno andrebbe.”
“…”
“Quindi
un nome non ce l’ha?” Blanca entrò
di nuovo nel discorso. Non era interessata tanto a me quanto ad
attirare
l’attenzione del giovane. Pendeva dalle sue labbra.
“No.” Risposi.
“E come ti chiamo?” continuò quella.
“Non mi chiamare. Fammi solo un fischio quando vi deciderete a
restituirmi ciò che è mio.”
“Quanto
a me, mi chiamano Rosso”, si
avvicinò tendendomi la mano secca. La ignorai.
“Posso riavere il mio cappotto?”
“Blanca ti spiegherà cosa fare per
guadagnarsi il pane da queste parti. Se guadagnerai abbastanza ti
restituirò il
cappotto.”
“E se non volessi?”
Il Rosso sorrise sibillino e le labbra si
tesero fin quasi agli occhi: era tutto bocca, tanto era magro.
“Quanto pensi di poter andare avanti
durante l’inverno?”
Tacqui e abbassai la testa. Mi guardai i
polsi, e non mi sembrarono molto meno esili di quelli del Rosso. L’aria
mi
sembrò improvvisamente fredda e rabbrividii.
Nelle
campagne non ci avevo fatto caso, ma
in città la miseria aveva tutto un altro sapore: non era solo avere un
po’ più
freddo alla notte. Sapeva di sconfitta ed emarginazione.
“Portalo di sopra.”
Blanca mi tirò per il braccio e mi portò
via.
Pensai alle mie farfalle dalle ali stracciate
in mezzo ai campi d’oro, in cui pareva essere caduto il sole, e, per la
prima
volta in vita mia, sentii una tristezza che mi pareva senza motivo.
Ora lo so: era solo morire di nostalgia - prima
o poi capita a tutti. È fisiologico.
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Capitolo 3 *** III. La tierra donde cae el Sol ***
III
La
tierra donde cae el Sol
Restai
con la ghenga del Rosso poco più di dodici mesi: un pezzo di vita
breve, ma memorabile.
Ho
già detto di avere i problemi a dormire in posti chiusi: nello
stanzone adibito a dormitorio in cui dormiva una parte del gruppo,
tra il caldo soffocante dei primi tempi – i primi mesi d’inverno,
in cui l’aria non gelava completamente -, la polvere e l’ansia,
ho avuto più attacchi d’asma che in tutto il resto della mia vita.
Era
un inferno per me, per quelli che volevano dormire, incuranti della
mia sorte, e per quei pochi che si preoccupavano che io morissi.
Tra
questi, oltre a Blanca, c’erano altri due ragazzini con cui avevo
stretto amicizia - o una relazione del genere.
Il
Gamba era uno spilungone magro magro che era scappato
dall’orfanotrofio poco prima del mio arrivo, e Rob O’Neill, una
lingera con la faccia da santo.
Dopo
un paio settimana di crisi sistematiche, anche due volte a notte, il
Rosso mi lasciò a dormire nello stanzone principale dello
scantinato, quello in cui di giorno stavano tutti.
Faceva
più freddo, ma essendo estremamente ampio, riuscii finalmente a
passare notti tranquille. A volte il Gamba e Blanca venivano giù a
farmi compagnia nelle sere di vento, quando nessuno di noi riusciva a
dormire.
Mangiavo
abbastanza e avevo ricominciato a prendere peso, dopo qualche mese
l’asma si affievolì tanto da non rappresentare un problema
particolare.
Il
lavoro consisteva nel rubacchiare a destra e sinistra, al mercato e
nelle tasche delle persone vestite un po’ meglio. Poi si portava
tutto al Rosso, e lui portava le cose più preziose da qualcun altro.
Per noi teneva le cose che servivano a campare.
Quelle
ragazze ben vestite si prostituivano.
Blanca
no, perché sembrava un maschio, diceva. E non si capiva se la cosa
le desse sollievo o la mettesse incredibilmente in crisi.
Rob
aveva fatto del rubare una vera e propria arte: aveva un tocco così
leggero e una presenza tanto discreta che sapeva starti seduto
vicino, parlarti amichevolmente e rubarti il cibo dal piatto. Mentre
lo guardavi.
“Mio
padre veniva dall’Inghilterra, a Londra il furto è maestria!”,
vantava.
Dicevano
che una volta avesse provato – e fosse riuscito - a fregare
qualcosa anche al Rosso. Solo che poi quello lo aveva preso da parte
e chiuso in una stanza con sé.
Rob
non aveva mangiato per una settimana e non aveva mai più guardato il
Rosso dritto negli occhi.
Fatta
eccezione che con il capo,
egli aveva
un perenne sorrisetto sardonico sul viso.
Quella
pelle lattea, gli occhi cilestrini e il ciuffetto biondo che scendeva
in mezzo alla fronte gli davano un aspetto così innocente da far
venire naturale l’impulso di fargli del male.
Mentivano:
se qualcuno avesse veramente a fargli qualcosa, poi lui si sarebbe
vendicato. Ed era cattivo.
Non
credo di aver mai conosciuto una persona capace di tali e gratuite
crudeltà come Rob.
Dicevano
che fosse diventato così per colpa di un padre alcolizzato. La
leggenda narra che fosse stato buono come il pane una volta.
Rob
era stato colui che aveva deciso che io mi sarei chiamato Manigoldo.
Perché era un nome tosto, mi stava bene addosso.
Se
non fossi abituato a farmi chiamare Rob, ti darei il mio nome e mi
prenderei il tuo.
Pure
quello si sarebbe fregato, il bastardo.
Il
Gamba era un individuo totalmente diverso. Era altissimo, malaticcio
per esser cresciuto troppo, troppo in fretta, con quei capelli bruni
e sempre sugli occhi, dei quali invece non ho idea di quale fosse il
colore.
Era
un buon amico, silenzioso, anche se a volte petulante.
Aveva
un perenne senso di colpa addosso che gli avvelenava il sangue senza
motivo. Aveva la mia età ma sembrava incredibilmente vecchio con
quel modo di fare composto e pacato.
Non
l’ho mai stimato abbastanza, sebbene fosse di gran lunga migliore
di Rob.
Subiva
le prese in giro da parte di tutti gli altri tre.
Blanca
era la più cattiva di tutti nei suoi confronti, ma solo perché era
l’unico su cui potesse accanirsi pure lei.
Lui
alzava le spalle: era forte in maniera così discreta da risultare
insopportabile.
Era
la sua maniera di essere aristocratico.
Gamba
faceva il palo, di solito.
Poi
andava per conto suo a rubare nelle librerie, ma lo faceva in buona
fede: riportava sempre il libro preso dopo uno o due mesi. Per
ricordarsi del negozio a cui appartenevano strusciava con il dito
sporco su un angolo della prima pagina. A seconda di quale angolo
fosse, lui sapeva dove riportarlo.
A
volte li prestava a me, con l’imperativo di non rovinarli. Ero
arrivato ad ordinargli dei libri precisi, avevamo gusti simili,
assecondava le mie richieste, altre volte facevo scegliere lui.
Un’unica
condizione: i volumi dovevano essere sottili, chiaramente. Bisognava
nasconderli sotto la giacca, altrimenti non poteva farla sotto al
libraio, se gli passava davanti con strane escrescenze.
***
I
giorni passarono veloci, passarono in strada, tra la confusione, la
polvere e il rischio di essere sempre schiacciati dalle carrozze che
correvano, correvano tutti il giorno. E chissà dove andavano, così
eternamente di fretta, mi chiedevo.
Eravamo
sguaiati, fuori luogo, beffardi - piccoli adulti rovinati dalla vita.
Oserei
dire che rischiavamo di essere felici.
In
realtà devo dire, per quel che mi riguarda, che ero perennemente
lacerato da una strana malinconia, una tristezza soffocante, che mi
prendeva alla sera nei vicoli in cui baluginavano le fiaccole, o
quando mi trovavo in mezzo ad una folla particolarmente densa.
Non
so cosa mi mancasse, dato che non ricordavo praticamente niente
(recuperai infatti qualche pezzo di memoria solo con gli anni).
Pensavo:
farfalle.
Ma non ne
vedevo.
I
ritagli di cielo sopra la città era così risicati che ogni volta
che guardavo in alto non riuscivo a provare né pace né deferenza.
Non
mi sono mai più liberato di quella sensazione.
***
Quando
si preparava ad allungare le mani nelle tasche della gente, Blanca si
calcava il cappello in testa con tale forza e concentrazione che
sembrava volesse infilarcisi tutta dentro.
Era
un rito che le aveva fatto perdere qualche capello. Aveva la
frangetta un po’ diradata per le continue frizioni con la flanella.
“Non
diventi invisibile a schiacciarti il cappello in fronte”, la
stuzzicai, “solo calva.”
“Non
diventi furbo a guardare cosa faccio io, resti solo senza cena.”
Tutto
così: lei perdeva veramente i capelli e io restavo senza cena solo a
volte.
Una
sera eravamo seduti in silenzio su un attracco del molo, Blanca dava
le spalle al mare, in favore dei monti. Il buio stava risalendo il
cielo a partire da lì.
Alle
nostre spalle, bassa sull’orizzonte, Venere.
Mi
piaceva quella stella: di notte, fra le altre, mi sembrava a malapena
riconoscibile per la sua luce verdina, ma alla sera e al mattino –
quando la chiamano Lucifero - era sempre la regina. Quando gli altri
astri cedevano il passo al Sole, lei rimaneva lì e si prendeva la
sua meritata gloria.
Pensando
all’alba mi nacque quella curiosità: “Ma tu, tu da dove vieni?”,
le chiesi.
Non
sapevo molto di lei.
Blanca
restò ancora in silenzio per un istante, poi tese il dito verso
nord-ovest, un ovest lontanissimo, e lo mosse lentamente in direzione
est, avvicinandolo piano piano a se stessa.
Aveva
un’espressione indecifrabile.
“Vieni
da lontano?"
Rifletté
un ultimo istante: “Dalla Spagna”, rispose senza calore,
concentrandosi sul lavoro di un pescatore dal viso sporco, che
sistemava le reti.
Tuttavia,
quando cominciò a parlare, non riuscì a fermarsi: “O almeno da lì
viene la mia gente. Io non sono sicura di esserci mai stata. Non la
ricordo affatto, eppure per me è davvero la patria a cui tornare.
Capii
dal suo racconto – lei non lo disse esplicitamente – che era nata
tra i gitani, gli zingari spagnoli.
Era
cresciuta girovaga sui loro carri colorati, era sopravvissuta
danzando: aveva ballato in ogni piazza per guadagnare soldi e in ogni
vicolo per dimenticare la fame.
Aveva
indossato le loro gonne lunghe e colorate, con i sonagli attaccati,
suonato il tamburello e portato i capelli lunghi.
Confesso
che questa immagine di lei mi fece un certo effetto. Se ne accorse, e
si calcò meglio il cappello verde sugli occhi.
Il
suo primo ricordo erano le coste scoscese e avare – di una bellezza
amara e folgorante - del mar Ligure, il vento tremendo che tirava nei
caruggi di Genova, un vecchio sdentato a cui aveva fatto l’inchino
dalla cima di una creuza.
Era
stata con una carovana fino in Calabria, poi il suo racconto si
interruppe bruscamente e seppi solo che, da sola, aveva attraversato
lo Stretto.
“Ho
vissuto qui per sei mesi, altrettanto sola, ed è stata dura.
Un
giorno ho cercato di mettere le mani nelle tasche di Rosso.”
A
quel punto sorrise, e percepii un terribile tarlo rodermi dentro.
Non
ho più parlato direttamente con il Rosso dopo il giorno del mio
arrivo, eppure la sua presenza gravava sempre su di noi come un
temporale: egli era il nostro salvatore e il nostro terrore. Blanca
lo venerava.
“Mi
ha beccato subito”, continuò: “Un
gatto non può fregare una volpe, è
stata la prima cosa che mi ha detto.
Mi
ha bloccato per il polso. Avrebbe potuto fare qualunque cosa volesse:
chiamare la vigilanza o farsi giustizia da solo, tanto qui nessuno
protesta per la vita di quelli come noi.
Mi
ha detto solo che ero stata brava, mi avrebbe lasciato stare se
avessi continuato a fare quello che stavo facendo, ma per lui.
Mi
ha salvato la vita.”
Tuttavia,
voleva tornare
in Spagna
- come fosse sicura di voler tornare in un posto in cui non era
sicura di essere mai nemmeno stata, proprio non lo so.
Non
aveva un cuore gitano, lei voleva un posto in cui tornare e fermarsi,
ed era una sognatrice.
“So
che questa non è casa mia e che quello è l’unico luogo possibile
in tutta la Terra.”
La
Spagna dei giorni che non tramontano mai, del sole eterno e delle
notti giovani; dei fieri cavalli bianchi, delle ballerine di flamenco
in abito rosso – volta la carta, un toro squarcia la muleta.
La
Spagna lontana, nello spazio e nel tempo, ma non irraggiungibile,
l’irresistibile richiamo del sangue.
“Quando?”
“Quando
Rosso non avrà più bisogno di me.”
Quando
non sarà più una ragione sufficiente per restare, pensai.
Aveva
percorso a ritroso la strada del sole, da ovest ad est. Ora voleva
seguire la giusta linea, tramontare
ad ovest, e
quando lo disse aveva i brividi.
Ricordo
bene la sagoma delle sue spallucce, quella sera. Al lobo destro aveva
un anellino dorato, una ciocca le scappava dal cappello.
Io
continuavo a guardare Venere, ma ben presto non riuscii più a
trovarla – si era fatta tarda sera.
Chissà
a cosa pensai quel giorno. L’avrei portata ovunque pur di non
lasciarla al Rosso.
L’avrei
portata ovunque purché restasse con me, lo giuro.
Ironia
della sorte, Blanca finì a tramontare ancora più ad est.
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Capitolo 4 *** IV. La gatta Angelina: dedica sincera ad una prostituta ***
IV
La gatta
Angelina: dedica sincera ad una prostituta
Quando non sapevamo cosa fare, io e Rob
usavamo gironzolare per il porto inventandoci nuovi modi di
imprecare.
Avevamo due categorie: la bestemmia più
ridanciana e l'insulto più malevolo – conformemente ai nostri
caratteri, io eccellevo nella prima, Rob nella seconda.
Il porto era uno scalo commerciale, e
per questo era un formicaio di vita da mane a sera: se ci si fosse
annoiati in città, sarebbe bastato andare ai moli e guardarsi
intorno, ci si poteva passare il pomeriggio tanto era eterogenea
l'umanità che vi bazzicava.
Lo scalo rappresentava la salvezza per
quel paesone, ma anche la radice di tutti i mali che vi albergavano.
Messina era come un'operaia: per
portare il pane a casa si rovinava la salute.
Io e Rob andavamo lì per guardare i
marinai e, sebbene né io né lui lo avessimo mai detto apertamente,
volevamo imparare da loro a diventare dei veri uomini - tali ci
sembravano -, poiché avevano i tricipiti allenati e tatuati e
ululavano le bestemmie più colorite, mentre noi, per partorire
scempiaggini del genere, dovevamo starci a pensare un pomeriggio
intero.
Ridevamo anche dietro alle prostitute,
le prendevamo in giro da lontano.
Un giorno Rob decise di regalare alla
puttana più brutta del porto, per deriderla, una rosa bianca,
accompagnando il dono con una filastrocca apparentemente dolce, che
aveva un osceno finale a sorpresa. Ricette un ceffone che gli ruppe
tutti i capillari del lato sinistro della faccia.
A me le prostitute facevano uno strano
effetto; ma dovrei esprimermi meglio: tutto ciò che riguardava il
sesso mi faceva uno strano effetto.
Ero, per quanto precocemente, nell'età
delle scoperte e, se da una parte ne ridevo sguaiatamente con i miei
amici, comportandomi da uomo vissuto, tutto quello esercitava in me
un inspiegabile sortilegio.
Rob diceva di essere andato già a
puttane una volta.
“Con quelle vecchie lì? E come ti si
rizza davanti ad una vecchia?!”, chiesi, un po' deridendolo e un
po' seriamente interessato alla faccenda.
Mi disse che, se uno aveva qualche
soldo in più da spendere, c'erano quelle giovani, poco più grandi
di noi.
Costavano tanto perché erano quelle
che piacevano anche ai vecchi nobili, ma lui ne aveva qualcuna per
amica e riusciva a cavarsela con poco.
Mi disse anche che ce n'era una andata
con lui per amore. “E chi è?”, “Mi ha lasciato.”
“Ma chi è?”
“Non te lo dico, non voglio che la
conosci, sono geloso.”
***
Un giorno decise che era anche il mio
turno, perché non poteva parlare di quelle cose con uno che, in
pratica, non ne sapeva nulla.
“Guarda che non c'ho soldi!”
“Offro io!”
A parte i suoi mille difetti, c'era da
dire che la spacconeria di Rob aveva anche un che di galante.
“E i soldi dove li hai, tu?” “Non
ho soldi, ma un sacco di gente che mi deve un favore”, disse con
aria di superiorità.
Quel giorno entrai anche io nel novero
di quelli che gli dovevano un favore, e più avanti capii che, ad
accettare la sua offerta, avevo fatto un patto con il diavolo.
Una sera lo dicemmo a Blanca e mi
guardò con occhi vuoti. Ero già in ansia e mi sentii ancora peggio.
Non mi parlò per una settimana, e, non
gliel'ho mai detto, lei fu il motivo per cui, con quella puttana, in
realtà non ci feci mai nulla.
Quando Rob mi portò dalla prostituta –
una ragazzona simpatica e corpulenta che doveva avere solo un paio
d'anni più di me e si faceva chiamare Angelina -, dopo un primo
tentativo di provare eccitazione nei suoi confronti, la pregai di
lasciare perdere e di non dire nulla a Rob.
Lei, chiaramente, accettò di buon
grado: aveva estinto il debito nei suoi confronti senza fare nulla e
le stavo simpatico.
Per assicurarmi il suo silenzio, la
settimana dopo le regalai un bel fazzoletto viola che avevo rubato ad
una vecchia signora.
Fu felice e non mi tradì mai.
In suo onore ho chiamato Angelina una
gattina bianca che gironzolava per il Santuario e veniva sempre a
chiedermi da mangiare, miagolando davanti alla Casa di Cancer.
Sì, perché i gatti arrivano dove non
riescono i combattenti. Angelina era una pioniera.
A Blanca tutto quello non lo dissi mai,
ma ben presto avrebbe capito che ero vergine, dato che la prima
scopata me la feci con lei, che, a quanto scoprii con un certo
disappunto, non lo era più.
Per ripicca nei miei confronti, poco
tempo dopo era andata con un tizio a caso, con il quale si era poi
trovata bene ed era rimasta per qualche tempo.
Nel frattempo però avrebbe voluto
sempre e solo me, mi disse.
“Ma tu eri sempre a fare il braccio
di Rob.”
Non le risposi niente ma mi mangiai le
mani.
***
Io non so quando iniziò la mia storia
con lei. Mi
avvicinai a Blanca lentamente.
In un solo anno, il rapporto con lei
mutò come muta il rapporto tra uomo e donna nell’arco di un’intera
vita.
Fu lei che mi insegnò ad avere la mano
leggera e a scomparire nell’ombra di un vicolo. Talvolta, in quei
momenti, mi si stringeva talmente forte accanto da farmi sentire le
budella tutte fuori posto.
Volevo stringerla a mia volta, ma non
aveva senso. E poi non la sopportavo.
O no?
È una sensazione che non mi è mai più
capitata, è come un qualcosa che fai molto naturalmente ma non
capisci razionalmente.
Malgrado questo, appena ne avevo
l’occasione la deridevo con tutta la cattiveria che potessi tirarmi
fuori: perché era una femmina, perché sembrava un maschio, lo
facevo quando sbagliava e, soprattutto, quando faceva le cose meglio
di me.
Lei non era meno fetente, ma il più
delle volte si fermava ad una glaciale indifferenza. Talora ad uno
sguardo più cupo del solito con delle lacrime che le restavano
aggrappate alle ciglia.
Blanca, un bocciolo sul ramo del
peccato, quello mai sbocciato, bruciato da un freddo tardivo.
Fu la pena da scontare prima ancora di
aver commesso l’errore.
Oserei definirla persino il mio grande
amore – quello mai confessato.
L’occasione perduta e il bivio
capitale della mia vita.
Ma come tutto, nella mia vita, va preso
con estrema leggerezza e una risata.
In sua memoria posso elevare una pinta
di birra, non posare un fiore su una tomba, perché lei non avrebbe
voluto fermarsi a certi ritualismi.
Ricordo che una notte d'inverno si
addormentò nella mia branda perché aveva freddo a stare da sola. Mi
strinse la mano e me la avvicinai al petto.
Non ci baciammo, ma avremmo voluto
farlo entrambi – quella tensione insoddisfatta fu la sensazione più
particolare e bella che abbia mai condiviso con un essere umano.
Ricordo bene il nostro primo bacio, ma
non come ci arrivammo.
Eravamo in una piazzetta desolata e
pieno di fango, una mattina in cui aveva appena finito di piovere.
L'aria era umidissima e tutta la città
invasa da un grigiore invernale; un gabbiano rideva di noi da un
tetto.
Fu lei a prendere l'iniziativa, mi
prese dal colletto. Fu un bacio orribile, fu il primo e non sapevo
dove mettere le mani – sul serio, dovrebbero fare un regolamento
per spiegare ai novizi dove debbano stare queste due stupide
appendici così importanti.
Blanca era strana: sempre così
maschile, ma tra le mie braccia (mai, in pubblico) non era che una
bambina.
Mi tirava una gomitata nello stomaco
per poi darmi un bacio; dandomi una carezza mi riempiva la faccia di
fango.
E io la adoravo, perché non voleva
stare su un piedistallo, come mi sembrava fosse per tutte le altre
donne. Perché era imprevedibile – un'onda -, perché era acqua
viva ma bruciava di una malinconia a cui nemmeno lei sapeva dare un
nome.
La adoravo perché non era bella ma era
mia, senza mai perdere la propria libertà.
Non ci siamo mai detti ti amo, né ci
siamo mai apertamente riferiti alla reciproca attrazione tra noi due.
Abbiamo passato quel poco tempo a
respirare a pieni polmoni quello che potevamo darci a vicenda, senza
farci troppe domande.
Non guardavamo verso un futuro comune
perché non lo vedevamo né ci interessava, a malapena ci fissavamo
negli occhi. Il nostro sguardo contemplava lo stesso cielo, eravamo
sempre con il naso all'insù.
Un giorno le dissi delle anime, lei
tacque e poi rise.
“Non mi credi?”
“Ti credo perché sei tu, ma non
riesco a crederti per lo stesso motivo.”
All'epoca mi arrabbiai per la mancata
fiducia.
Oggi capisco, ancora di più, che mi
conosceva più di chiunque altro.
Se ora vedessi ragazzini di quell'età
fare quello che facevamo noi, non potrei che reputarli buffi, troppo
giovani. Ma noi vivevamo in un mondo del tutto slegato dal tempo,
dalle età.
Eravamo cresciuti in fretta, eravamo
ancora stupidi ma una vita da adulti, o quasi, non poteva che essere
l'unica possibilità.
Passai al fianco di Blanca gli ultimi
mesi con gli altri ladruncoli del Rosso.
I fatti che mi condussero dall'Italia
in Grecia furono così stupidi, così impossibili da rischiare di
farmi credere che sia stata la Cloth a volere proprio me, che esista
il fato, che Blanca dovesse morire per forza.
Non le perdonai mai il cappotto, ma,
d'altra parte, non ce ne fu nemmeno il tempo.
Ma adesso è presto per parlare di
tutto questo, dopotutto vi sto ancora raccontando degli anni della
gloria.
All’inizio fu la mia guida e, per
quanto la trovassi insopportabile - e faceva di tutto per risultarlo
-, dovetti aggrapparmi a lei – altra cosa che non le perdonerò
mai.
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Capitolo 5 *** V. Caron Dimonio ***
V
Su
come lo scegliere Caron
Dimonio sarebbe
stato meglio
Una
mattina eravamo con Rob, il Gamba e Blanca al porto, scivolavamo tra
le bancarelle rubacchiando qualcosa qui e lì.
Dai
ponti dei pescherecci vedevo sollevarsi le anime dei pesci, creavano
un buffo alone assieme alla puzza. Capitava che mi fermassi a
guardarle e O’Neill, spazientito, mi tirava calci sui garretti.
“Si
può sapere cosa guardi imbambolato? Come se non avessi mai visto il
mare, sembri diventato scemo come il Gamba.”
Si
beccò un colpo di ammonimento sul petto: “Cerco un buco per
buttarti a mare, cerco, per la prossima volta in cui ti uscirà una
stronzata del genere.”
Eccezione
fatta per Blanca, non avevo parlato agli altri di quanto vedevo, e,
se anche lo avessi fatto, O’Neill non era contemplato tra coloro
che lo avrebbero saputo.
All’epoca
alla morte non pensavo quasi più: avevo da pensare a vivere – e
sopravvivere -, e poi, in città, anche la morte assumeva contorni
vaghi, come qualcosa di insignificante, su cui non c’era tempo di
soffermarsi.
La
morte giaceva nei vicoli strapieni di spazzatura, nell’ombra; non
più drammatica, ma solo fastidiosa – intralciava le carrozze,
rendeva le strade indecorose, doveva restare relegata in vicoli
dimenticati anche da Dio.
Gli
uomini andavano a morire in luoghi nascosti, divorati dalla fame e
dal freddo, ubriachi di vino e solitudine, accoltellati – e dai
quei luoghi mi tenevo ben lontano, perché negli occhi avevo ancora
le orbite vuote di Bucefalo e il ventre svuotato di un uomo. Mi
bastava.
Quando
vedevo il bagliore di un’anima distoglievo lo sguardo e cambiavo
strada.
Le
osservavo solo sul mare, perché il mare era troppo maestoso e
superbo per farmi soffermare sulla miseria di tutto quello che vi
stava sopra, dentro e attorno.
***
Rob
quel giorno aveva voglia di essere bastardo.
Iniziava
la bella stagione, molte navi erano pronte a partire. I marinai, in
lunghe file come formiche, caricavano le merci nello scafo.
In
tale giornata che cosa sarebbe stato meglio – più furbo – di
fare a gara a chi riuscisse a salire sulla nave, portare via qualcosa
dalla stiva e tornare dagli altri?
“Qualsiasi
cosa: comincia tu”, mi provocò Rob. “Comincia tu che ci vedi più
lontano di tutti. Noi dopo di te.”
Quel
giorno ero irrequieto. Cominciavo a voler andare via da lì, stavo
meglio di quando ero arrivato ed ero stanco. Ormai sapevo come
campare in una città e me la sarei cavata; non c’era più ragione
di restare con il Rosso, tanto più dal momento che, ormai era
palese, non avrei mai più rivisto il cappotto.
Ero
stufo di Rob e di girare come una biglia per vicoli che ormai
conoscevo a menadito, stufo di un gruppo di cui avere sempre qualcosa
da temere in caso di errore. Avevo voglia di tornare ad essere solo e
adesso conoscevo anche il modo per tirare avanti.
Credo
che stessimo semplicemente crescendo, eravamo in quel periodo un po'
doloroso in cui si allungano le ossa. Da un giorno all'altro ci era
calato uno strano nervosismo addosso.
Chissà
dove pensavo di andare, quel giorno. Sicuramente i miei passi si
volsero nella direzione opposta – in direzione del sole che sorge,
al di sopra del mare, in favore di Maestrale.
Quanto
a Blanca, non avevo dubbi sul fatto che, se le avessi chiaramente
detto che me ne andavo senza possibilità di ritorno, mi avrebbe
seguito (sciocco, lei sarebbe rimasta là con il Rosso tutta
un’eternità, perché era lui il vero centro dell’universo).
Ad
ogni modo, il problema non si pose mai perché non ci fu data
possibilità di scelta – niente di nuovo sotto al sole.
***
Accettai
la sfida di Rob perché sentivo il bisogno di uno scossone – e
perché ero terribilmente stupido e pecorone.
Ricordo
ancora tutto perfettamente: eravamo al molo 6, presso il quale
attraccavano le navi che si limitavano ai commerci nel Mediterraneo.
Era molto tranquillo, c’erano pochi marinai lì in giro.
Mi
incamminai lungo il corridoio di attracchi per scegliere la mia nave.
Ce
n’erano molte e sembravano
tutte vuote, lessi i nomi per decidere quale mi sembrasse la più
interessante.
C’erano
tre Red
Saphire, ma
non sapevo l'inglese,
una
Giovanna,
ma non suonava bene dire “Ho saccheggiato la Giovanna”, Diana,
Alba dell’ovest, Barbaria – non
mi convinsero.
Poi
il mio sguardo le vide: Caron
Dimonio* e
Palinuro**.
Portavano il nome di due nocchieri mitici: Caron occhi
di bragia,
mentre il secondo era il disgraziato timoniere della combriccola di
Enea. Quello fregato dal Sonno e finito in acqua.
Il
mito sulla lotta di un incapace: giudicai che la Palinuro
fosse
la nave adatta – l'epica dei falliti era ancora la mia preferita.
*Non
credo servano presentazioni per Caronte... La Divina Commedia,
Inferno, III
**Eneide,
V
La
storia di Palinuro è un po' triste: mentre naviga durante una notte
tranquilla, dopo aver affrontato una tempesta,
cade
in mare, vittima di Hypnos (Sonno). Il mattino dopo verrà ucciso dagli
indigeni dell'isola su cui si era ritrovato.
In
realtà, è la vittima richiesta da Nettuno affinché l'equipaggio
possa raggiungere indenne il Lazio.
***
L’imbarcazione
era una caracca
genovese.
La
croce rossa su sfondo bianco della bandiera ciondolava fieramente in
balia del debole vento.
Nel
Quattrocento le caracche erano state progettate per solcare l'Oceano:
erano ampie e stabili, adatte ad affrontare il mare grosso e la
tempesta. Non so che cosa ci facesse nel porto di Messina.
Sicuramente
era una nave sciagurata per qualcosa, e per questo l'avevano chiamata
Palinuro.
Dio
li fa e poi li accoppia – l'ho sempre vista come la dimensione
marinara e triste di Bucefalo.
Essa
faceva la spola tra Genova, Messina e Atene per portare granaglie dal
Sud Italia ora all’Attica, ora alla Liguria, che ne erano carenti.
Lo
scafo era già stato riempito, non sarebbe stato necessario
inoltrarsi più di tanto all’interno di quel grosso ventre per
portare via qualcosa.
Senza
ansia risalii la passerella. Un marinaio che fumava appoggiato al
parapetto, mi guardò annoiato, ma non mi chiese nulla, come se la
cosa non lo riguardasse.
C’erano
un altro paio di uomini intenti a tirare delle corde, nemmeno loro mi
prestarono particolare attenzione, probabilmente credendomi un mozzo.
Fu
quando dovetti scendere nello scafo che provai una strana angoscia.
Mi voltai indietro, e, se quell’ansia non fosse stata tutto ciò
che avevo disperatamente cercato in quei giorni, avrei girato i
tacchi senza vergogna, tanto forte mi prese l’angoscia.
Il
marinaio fumatore continuava a fissarmi con le palpebre pesanti,
sembrava uno di quei cani con le orecchie lunghe e gli occhi tristi
che non fanno male a nessuno.
Cercai
di aprire la porta con la massima naturalezza possibile, anche se mi
sentivo le articolazioni di un burattino. Bastò spingere un poco
l’uscio e continuare a scendere, immergendomi nel buio.
***
La
stiva era illuminata da una sola lanterna all’entrata, ed era
stracolma di sacchi di grano impilati l’uno sull’altro, formavano
delle torri alte poco più di un uomo adulto, incastrate tra il
pavimento e il soffitto, come colonne.
Se
avessi voluto prendere qualcosa, avrei dovuto rompere un sacco.
Mi
guardai alle spalle con sospetto, ma nessuno si era degnato di venire
a controllare che cosa stessi facendo. Allora, mi inoltrai più in
profondità nel ventre di Palinuro.
C’era
una pila di merce più bassa delle altre, decisi di provare a rompere
la canapa di uno dei sacchi a metà per prendere una manciata di
chicchi.
Cominciai
a cercare di strappare il sacco con le mani, perché quella mattina
avevo dimenticato il coltello sotto il letto.
Passarono
i minuti e le mani cominciavano ad arrossarsi, continuavo a voltarmi
in direzione dell’entrata, per paura che qualcuno arrivasse e mi
scoprisse.
Sapevo
di dover aver paura dei marinai, avevo visto cosa avevano fatto ad un
altro ragazzino scoperto a rovistare nelle stive.
Quel
tipo aveva ancora le cicatrici delle bruciatore dovute allo
sfregamento delle corde sulle braccia, e gli mancava un occhio – la
cosa peggiore era che non riusciva a ricordare come lo avessero
accecato.
Mi
avrebbero fatto a fette con i loro bicipiti tatuati, e poi si
sarebbero tatuati anche l’iniziale del mio nome come trofeo, nello
spazio di pelle tra l’iniziale della mamma e quello della
fidanzata.
***
Non
so che cosa mi avesse impedito di uscire a dichiarare una ragionevole
resa – forse l’insofferenza, ormai totale, verso Rob.
Per
l’ansia mi misi a tirare verso di me un sacco intero, avrei portato
via quello – tanto, se anche mi avessero visto, non sembravano
molto devoti al loro lavoro.
Mossa
poco furba: mi cadde addosso l’intera pila di sacchi e anche quella
immediatamente dietro. Picchiai la testa contro il pavimento e
svenni.
***
Fato
volle che nel breve intervallo in cui ero privo di sensi, la nave si
fosse preparata a partire – cosa che, in effetti, era in procinto
di fare anche quando l’avevo scelta.
Rob
e gli altri si erano accorti di quel dettaglio troppo tardi per
richiamarmi, e nessuno di loro era intenzionato a lasciarci la pelle
per me.
Tutti
tranne Blanca - lei salì per portarmi giù. Ma si decise troppo
tardi per riuscire a scendere.
Nemmeno
quel giorno fu capace di negarmi la sua fedeltà - lo avrebbe voluto
con tutta la sua forza, ed in futuro ancora di più. Eppure Blanca
salì su quella nave e si lasciò chiudere dentro.
Sapeva
che non avrebbe potuto salvare nessuno, né me né lei, sapeva che
saremmo finiti nei guai insieme.
Come
ogni volta, ce la saremmo cavata.
È
la regola della giovinezza – è la fede nell'immortalità, e fu
davvero questo a tradirci: l'idealismo.
Palinuro
cominciò
il suo viaggio con due passeggeri in più e la stiva tutta in
disordine.
C'era
una città bianca al di là del mare, e ai suoi piedi un porto che
era un nodo di rabbia.
Atene,
sulla quale il vento della Storia aveva cessato di tirare, non
respirava che la polvere di un mito dimenticato e vi scopriva il
sapore del sangue – la Guerra Santa già incombeva.
Atene
mi attendeva, lì, da secoli.
Ed
io le andavo incontro sul fondo di una nave genovese, privo di sensi
– lì è il crocevia del mondo.
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Capitolo 6 *** VI. Fiesta! ***
VI
FIESTA
(Storia
su due benedizioni: una perduta e una negata per decenza)
VOS ET IPSAM CIVITATEM BENEDICIMUS
Così mi salutò la Madonnina dal
torrione di San Salvatore, come salutava da secoli tutti quelli che
partivano per mare.
Lei sa che è sempre meglio dire addio
ad un uomo che parte per mare, perché non si sa mai se tornerà.
Non che questi debba necessariamente
essere fagocitato dalle onde, semplicemente perché il mare apre
mille strade, dimostra che si può correre verso l'orizzonte senza
lasciarsi alcuna radice dietro.
Quando si è sul mare, ad un certo la
costa scompare: restano un pugno di stelle sulla testa e la promessa
di un porto al di là di un orizzonte irraggiungibile.
Un uomo che parte per mare e capisce
questo, non torna più.
*
Io la benedizione della Madonnina non
potei riceverla perché, quando la costa scomparve, ero ancora
svenuto sul pavimento dello scafo della Palinuro con dei sacchi pieni
di grano addosso.
Blanca mi svegliò a suon di schiaffi e
lacrime.
Mi si era seduta addosso a cavalcioni e
piangeva come una disperata, colpendomi sul petto.
“Svegliati, svegliati, maledizione!”
Aveva sentito i marinai attendere il
capitano per ritirare la passerella, non aveva avuto il coraggio di
lasciarmi lì sopra. Era salita un attimo prima che egli arrivasse,
non era riuscita a svegliarmi e a spostare i sacchi in tempo.
Aveva sentito le vele spalancarsi e
visto dagli oblò la costa allontanarsi. E piano piano scomparire.
Quando mi ridestai provai un indicibile
senso di nausea, aggravato dal suo peso e dai suoi pugni.
Appena notò che avevo riaperto gli
occhi, mi tirò un altro schiaffo e scoppiò a piangere più forte
sul mio petto. Singhiozzava rumorosamente, come se ogni momento le
fosse negato il fiato, e, per ripicca, il suo dolce peso negava anche
a me di respirare.
“Che diamine hai fatto!” e i suoi
singulti disperati fecero riaffiorare in me la coscienza della
situazione attuale.
La spinsi indietro e mi misi seduto:
“Aspetta, aspetta, cosa...”
“La nave è partita.”, disse.
“La nave è partita.”, dissi.
Io non so se vi sia mai capitata la
disgrazia di leggere per caso su un giornale il necrologio di una
persona che conoscevate.
Vi sentirete molto stupidi e molto
increduli.
Leggerete “incidente mortale” e
analizzerete tutte le possibili accezioni di “incidente mortale”,
per concludere che il giornalista stia in realtà intendendo
“incidente quasi mortale”, che quella persona stia quasi
per morire, o che sia morta ma non morta.
Concluderete che quello non è un
necrologio, o che quel tale, che aveva lo stesso nome, lo stesso
cognome, i medesimi documenti e tratti somatici del vostro
conoscente, probabilmente non è chi dite voi. Solo un sosia fisico e
burocratico.
Sai, i casi della vita, direte
con il tono di chi la sa lunga. Tuttavia andrete comunque al funerale
di questo omonimo sconosciuto, chi sa perché, e lì piangere
come vitelli, sbattendo il muso contro la realtà.
Questo è uno dei lati che ho sempre
ritenuto sinceramente interessante della morte: l'incredulità – la
morte ci perseguita, vive sempre un passo avanti e uno dietro di noi,
ma cadremo sempre dal pero quando ci busserà sulla spalla.
Amen.
Ad ogni modo, la mia sensazione fu
proprio quella di chi legge un necrologio e non vuole crederci.
La nave è partita.
Partita vuol dire che sta per
partire.
Che basta sbrigarsi a scendere, vero?
Mi scrollai velocemente di dosso Blanca
e corsi con la testa che stava scoppiando verso un oblò a guardare
fuori. E non vidi nulla: mare a destra, mare a sinistra.
Quant'acqua!, pensai istupidito
e sinceramente meravigliato.
Non avevo mai visto così tanto azzurro
messo insieme, né il sole così brillante e violento, eppure,
guardandomi attorno dal piccolo vetro, non potei fare a meno di
pensare “campo santo”.
“Quanto tempo è passato?”, chiesi
senza forze.
“Cosa vuoi che ne sappia, il tempo di
non avere il coraggio di lasciarti qui.”, mi rinfacciò. Aveva le
labbra pallidissime e l'espressione di più puro terrore dipinta
negli occhi.
Pensava al Rosso, ci avrei scommesso.
“La nave viaggia veloce”, aggiunse
sussurrando, “Non possiamo nemmeno provare a tornare indietro a
nuoto”.
“Messina...”, iniziai una frase
senza saper dire che cosa volessi dire.
Messina.
Un saluto e una preghiera.
Volevo andarmene, ma non così, non
così lontano, non portato via da una stupida sfida, non da una nave
con un nome sfortunato, non verso un luogo al di là del mare.
Volevo tornare alle campagne
di Sicilia, benedette da Sole Iperione, terre scelte per pascere le
sue bestie. Scilla e Cariddi* prenderanno anche me, pensai –
sperai.
Il tempo di non avere il coraggio di
lasciarti qui.
Il destino mi condusse più profondamente nel mito, ad una città sul
mare chiamata Atene,
fondata e contesa dagli dei.
Non sono un fatalista, ma a certe cose
bisogna dare questo nome.
Ero chiuso nella stiva di una nave che
andava non sapevo dove, con una persona che non mi avrebbe più
perdonato.
Se poi avessi saputo a che cosa sarei
andato incontro – diventare Saint, dico -, mi sarei buttato a mare,
sicuro.
Non che non mi piaccia la mia vita, ma
ancora non ho capito quale concatenazione di fatti mi abbia portato
alle soglie della Quarta Casa, né che cosa ci faccia io qui.
Come per ogni cosa, però, ne prendo
atto.
A volte prendo in giro la mia armatura.
Mi ci siedo davanti a gambe incrociate,
e le chiedo: “Ma a te, chi ti ha voluto?”
Penso che lei mi sorrida in qualche
modo, ma non so che espressione sia, se di benevolenza o di beffa.
Le do una carezza: è stata lei a
volere me, solo lei avrebbe potuto volere un Cavaliere senza nome che
si fa chiamare Manigoldo. Mi sento onorato.
Le sorrido anche io, non so se di
gratitudine o di imbarazzo. Ma non posso fare a meno di pensare
quanto cara mi sia costata.
*Scilla e
Cariddi erano collocati proprio nello Stretto di Messina
*
Decidemmo che, se il viaggio non fosse
durato troppo, saremmo scesi al primo attracco senza farci scoprire
dall'equipaggio. Nella stiva c'erano sicuramente delle scorte,
avremmo attinto a quelle. E bastava nascondersi dietro ai sacchi, se
non fosse arrivato nessuno.
Eravamo su una nave che commerciava nel
Mediterraneo, non sarebbe stato un viaggio infinito. Eravamo abituati
a cavarcela.
Fu con orrore che scoprimmo che le
scorte di viveri per l'equipaggio non erano conservate nella stiva
assieme alle merci.
Eravamo circondati da sacchi di grano e
foraggio, e da bere c'erano solo botti di vino.
Adesso troverei la cosa certamente
meravigliosa, ma dovete sapere che la temperatura della stiva a
mezzogiorno sfiorava tranquillamente i quaranta gradi.
Provare a dissetarsi con il vino in
quelle condizioni fu tremendo.
Non potei tollerare più l'odore
dell'alcool per almeno una decina d'anni.
Fu orribile e dolorosissimo essere a
stomaco vuoto, essere così disperati da mangiarsi anche un topo che
passava di lì – chiaramente crudo – e masticare fieno (l'unica
altra cosa commestibili oltre al grano).
Non so che razza di denti abbiano i
cavalli, perché un uomo ci mette le mezzore a sminuzzarne un
mazzetto e nel deglutire rischia perennemente di strozzarsi.
Non so nemmeno se il fatto di essere
perennemente ubriachi per una settimana ci fosse stato d'aiuto o
meno.
Collezionai un sacco di interrogativi.
Ricordo che Blanca passava le giornate
rannicchiata sul pavimento, pallidissima, senza la forza di alzarsi o
dire alcunché.
Io non so che cosa facessi oltre a
sentirmi in colpa e farmi guardare con odio da lei.
Non entrò mai nessuno finché non
attraccammo.
Ho contato i giorni e le notti perché
numerare fu l'unica cosa che mi potesse tenere aggrappato alla vita.
Avevo già sperimentato quella
sensazione sulle macerie del mio villaggio, e fu come tornare nel
passato, ma ero mille volte più disperato e attaccato alla vita.
*
Il sole sorgeva, ci crepava di caldo e
si rituffava nel mare. Fece così per sei giorni.
Benedetto fu il settimo, quando vidi
dall'oblò il profilo frastagliato della terra di Grecia.
Non capii immediatamente: stetti a
guardarla avvicinarsi per un po', come qualcosa di mai visto.
La terra, il miraggio.
La salvezza.
Sentii la vita rinascere in me con
forza. Saremmo tornati al mondo dei vivi, ce l'avevamo fatta.
Corsi a scuotere Blanca, lei mi guardò
voltando solo gli occhi senza alcuna energia.
“Blanca! Alzati, svegliati! La terra!
La terra!”
Non aveva più la forza di credere o
sperare in nulla. Sembrava un somaro azzoppato e incapace di
rialzarsi, buttata così sul pavimento. Pensai a Bucefalo.
Aveva la bocca impastata, un colorito
giallastro, dovuto al fegato in disordine, aveva perso peso e
capelli, stringeva senza forze il suo cappello verde.
“Blanca... Adesso basta davvero
saltare giù!”
Non rispose, ma capii che voleva
alzarsi, la sostenni fino all'oblò per mostrarle il profilo vago e
superbo della costa, “Ce l'abbiamo fatta, ce l'abbiamo fatta”,
dicevo – pregavo.
Me la strinsi al petto, lei restava
immobile: quegli occhi vitrei rivolti alla costa, verso la scoscesa
terra su cui sorge Atene.
Ad oggi mi chiedo ancora se possa
essere quello lo sguardo di un essere umano che guarda la sua stessa
tomba – lo sguardo di chi è troppo stanco per riuscire a concepire
ancora una speranza.
Una lacrima di fatica le rigò una
guancia, non le uscì un singhiozzo.
“La terra...”
Tante case bianche impilate una dietro
all'altra come lapidi: campo santo, pensai
ancora, ed oggi so perché.
Avrei voluto essere più alto e con le
spalle più larghe per avvolgerla completamente, per essere più
forte e poterle dire: “Scendiamo, scendiamo e torniamo indietro”,
per poter ottenere il suo perdono; per poter dire: “Scendiamo,
scendiamo, ché ti porto in Spagna”, per sentirmi meno colpevole e
regalarci un futuro – non insieme, ma un futuro per entrambi.
La Sicilia sembrava solo alle nostre
spalle.
All'epoca ne eravamo certi: sarebbe
bastato scendere e voltarsi, salire su una nave che andava in
direzione opposta e tornare a Messina.
Non sapevamo dove stessimo sbarcando,
ma non ci importava.
Era solo uno scalo, scendere da una
nave per salire su un'altra.
E a mai più rivederci.
Non avremmo mai creduto che quella
settimana sarebbe stata solo l'anticamera dell'inferno, che quello
che ci aspettava sarebbe stato mille volte peggio.
Non realizzammo di essere giunti
stranieri in una terra al di là del mare.
Ce ne saremmo accorti presto, e, se lo
avessimo saputo, quella mattina avremmo pianto ugualmente, ma non di
gioia.
Atene ci sorrideva con il sorriso
bianco e tutto denti delle sue case, ma non ci accoglieva. Era il
sorriso di chi ti attira a sé per scannarti.
Siamo arrivati, pensai con
sollievo.
Vidi un edificio maestoso e bianco
sulla distanza, senza capire cosa fosse – ora so che è il
Santuario.
Saluta tutti coloro che vengono dal
mare, proprio come la Madonnina di Messina, ma senza benedirli.
E, nel negarmi una benedizione, Atene
fu molto decente con se stessa.
*
La Palinuro entrò nel porto solo molte
ore dopo, e attraccò nel primo pomeriggio.
Attendemmo che parte dell'equipaggio
scendesse a terra e il ponte si svuotasse.
Qualcuno scese ad aprire la porta della
stiva, la luce del sole brillava fortissima, e bruciava perché il
sole di Grecia è feroce e noi non eravamo più abituati ad alcune
fonte luminosa che non fosse la piccola lanterna.
Per quanto l'aria del Pireo potesse
puzzare, nulla era paragonabile all'odore che si era creato in quella
stiva. Il marinaio fece una smorfia di disgusto e bestemmiò quando
quell'olezzo lo investì, scappò di sopra a prendere o riferire
qualcosa, dando la colpa ai venditori di cose marce.
Ne approfittammo per sgattaiolare
fuori. Eravamo terribilmente malfermi sulle gambe, ma ci sentimmo un
unico nodo con la vita che si riaffacciava lì fuori.
Quando risalii all'aria aperta, scoprii
che c'era di nuovo tutto: c'era il cielo e una strada da percorrere,
c'era un mucchio di gente come in un formicaio, e le bestemmie dei
marinai; c'era il mare, ed era alle nostre spalle, non c'era un
orizzonte infinito, ed era giusto, perché nemmeno la vita è così.
Sarebbe potuto essere benissimo ancora
il porto di Messina, e quella settimana solo un doloroso incubo.
Avrei voluto ridere, le strinsi la mano
come se non fossimo nei guai e corressimo solo per fuggire la
pioggia.
*
Sul ponte c'era di nuovo il marinaio
con la faccia da bracco, fumava la sua sigaretta osservando
disinteressato l'acqua verde del porto.
Quando ci vide, ci guardò sorpreso
mentre correvamo via, per poi voltarsi incredulo verso la porta da
cui eravamo saltati fuori, la paglietta in bilico sul labbro
inferiore.
Tuttavia non si scompose più di tanto.
Un altro uomo stava salendo la
passerella, fu di riflessi più pronti dell'altro e allungò un
braccio per acciuffarci. Non so come lo schivammo, né come lo
seminammo – dove trovammo le forze -, poiché per un certo tratto
ci inseguì urlandoci dietro qualcosa che non capii.
Ci inoltrammo nei meandri del Pireo,
portandoci sempre più nelle viscere della città.
La corale della vita era un ingorgo di
persone e puzzava di pesce. Ve lo giuro, fu magnifico.
Il mondo fu meraviglioso quel giorno.
Durante la corsa non capivo le parole
della gente, ma diedi la colpa al viaggio. Tenevo Blanca per la mano,
la trascinavo dietro senza pietà.
Cercavo di guadagnare distanza, cercavo
l'ossigeno e la vita che si spianava davanti a noi, in un bagno di
folla, quando fui convinto che fossimo abbastanza lontani dai moli,
virai in un vicolo.
Una sete tremenda mi serrò la gola, ma
avevo fiducia nelle poche monete che ancora avevo in tasca dalla
mattina della nostra partenza.
Ero una gioia disperata, stremato come
un uccello migratore.
Fu Blanca a riportarmi con orrore alla
realtà, guardandomi con occhi sgranati: “Aspetta, Manigoldo, ma
dove siamo finiti?”
Decisi che non aveva importanza e lo
comunicai a Blanca, che mi guardò con disgusto.
“Ora voglio solo trovare dell'acqua”,
mi giustificai.
“Spiegami come la troviamo, l'acqua.
Se non abbiamo i soldi per pagarla, e non sappiamo nemmeno come
chiederla.”
“Offri sempre e solo problemi, tu.
Mai soluzioni.”, non ero veramente arrabbiato, ma non sapevo cosa
dire e, dopo una settimana, non avevo voglia di stare zitto.
“Devo ricordarti chi sia la causa di
tutti i problemi?”, Blanca si tormentava una pellicina sul dito e
mi guardava dritto negli occhi. Lei non aveva voglia di
chiacchierare, il suo colorito sembrava quello di un cadavere di tre
giorni.
“Rob, è Rob la causa.”, giustificai alzando le
spalle, e chiusi lì.
Non mi rispose, capii che le sarebbe
piaciuto se avessi avuto ragione.
In quel momento mi venne da ridere, mi
sentii leggero.
Eravamo saltati fuori da un macello per
finire in un macello straniero.
Un balzo qua e uno là, pensai,
come fanno i gatti.
Pensai che i gatti, troppi crucci, non
se ne fanno, non vedevo perché dovessimo farcene noi; che i gatti,
buttando giù la sedia, inventavano la pedana per slanciarsi dritti
sul tavolo.
“Alla peggio si muore”, dissi.
Lei non capì.
*
Era con la testa altrove, persa nelle
sue ansie e in quello che si era lasciata indietro.
Quel giorno conobbi la differenza tra
me e lei: stava tutta attaccata al passato, per questo voleva tornare
in Spagna. Più indietro scappava, a costo di finire in un tempo che
non era nemmeno suo, meglio era.
Io volevo vivere e, in ogni caso, non
avrei potuto rintanarmi da nessuna parte.
Non avevo un posto in cui tornare –
c'erano solo le macerie di un villaggio e uno scantinato da cui
avevo già deciso di andare via –, né possedevo abbastanza ricordi
per rimpiangere qualcosa.
La mia Spagna non esisteva.
Una sera d'estate ero partito da quelle
case sventrate, mi ero incamminato verso Messina, ed ero
sopravvissuto anche lì.
Avevo vissuto una settimana in una
stiva mangiando topi e bevendo vino ed ero arrivato in una nuova
terra.
Semplicemente, il mio viaggio era
ricominciato: era solo più difficile, ma così sarebbe stato per
tutta la vita e andava bene.
Ero forte, e dovevo uscirne vivo.
Afferrai Blanca per la spalla e la
strattonai con violenza, facendole urtare lievemente un muro con la
testa.
“Adesso prendiamo le palle e le
portiamo al porto. Troviamo qualcuno che parli la nostra lingua e ci
spieghi dove siamo. E troviamo il modo di tornare indietro.”
Mi guardò con diffidenza, alzando
leggermente il mento. Sembrava un animale minaccioso.
“Tu vuoi tornare a Messina?”, la
incalzai.
Dovette cedere: “Voglio tornare
indietro.”, mi rispose, non senza una punta di astio.
“E allora andiamo!”, la liberai e
le diedi le spalle, incamminandomi verso il porto.
Andiamo, andiamo.
Concedetemi una risata. Andiamo,
andiamo.
*
I moli degli scali commerciali sono da
sempre delle piccole Babele in terra.
In un porto un uomo può trovare tutto
ciò che vuole: la propria libertà o uno schiavo, la ricchezza o una
taverna aperta, una moglie di ritorno da un viaggio o una prostituta.
Nei porti si esaudiscono i desideri
della gente, basta saper cercare.
Io giunsi al Pireo sognando di trovare
una nave per la Sicilia e una caraffa d'acqua. Non seppi mai se
avessi cercato male, espresso il desiderio sbagliato, o, e questa è
l'ipotesi in cui credo più fermamente, in realtà volessi
qualcos'altro.
Qualcos'altro mi sarebbe stato dato -la
vita, dopotutto, aveva già esaudito tutti i miei desideri.
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Capitolo 7 *** VII. Sull'importanza del francese ***
VII
Sull'importanza
del francese
Ogni tanto,
durante la mia
vita, accadono questi grandi periodi di cui io dimentico sempre
qualche pezzo, perché batto la testa o perché, come in questo caso,
sono vagamente ubriaco.
Ma non ne
faccio un problema: nella mia testa c'è più spazio per i giorni
futuri, e quindi devo vivere ancora moto per poterla riempire.
I miei ricordi di quel
periodo in Atene sono un groviglio confuso, come se l'alcool di
quella settimana ne avesse impiegate almeno due per essere smaltito.
E probabilmente fu così,
perché non riesco a disporre nessun fatto in ordine cronologico.
Fu come vivere un'unica
giornata troppo impegnativa in cui tutto si accavallò con tutto.
Ed è una grande
confusione.
Tuttavia imparai alcune
cose che invece ricordo piuttosto bene e che ho voglia di raccontare.
Ho detto di aver letto un
discreto numero di libri, con la conseguenza di essermi fatto una
altrettanto discreta cultura.
Una cartina geografica,
però, in vita mia, l'avevo vista sì e no due volte, e non l'avevo
mai degnata di particolare considerazione. La conseguenza, per dirne
una, fu che pensavo che l'India fosse affacciata sul Mediterraneo.
Le questioni geografiche,
ad ogni modo, non furono un particolare problema fino a che non mi
trovai in un luogo sconosciuto da qualche parte del mare, che sarebbe
potuto essere qualsiasi luogo vi fosse affacciato.
I cartelli erano
illeggibili e la gente parlava in modo incomprensibile.
Per quel che sapevo io,
potevamo essere anche in Russia (sì, da qualche parte sul
Mediterraneo anche lei).
“Fa troppo caldo per la
Russia e sono tutti troppo pallidi perché sia l'India”, mi fece
notare Blanca annoiata, sgranocchiando un tozzo di pane rubato chissà
dove.
“Tu che ne sai? Ci sei
mai stata?”
Tuttavia, sapevo che aveva
ragione e accantonai l'ipotesi della Russia.
Un giorno stavamo
ciondolando presso una fontana con i crampi allo stomaco, e, mentre
pensavo ad Alessandro Magno, ebbi quella che reputai per lungo tempo
l'intuizione più saggia dell'epoca.
“Scommetto che siamo in
Macedonia!”, dissi. Blanca mi guardò con occhi dubbiosi,
pensandoci un momento. Poi scosse la testa.
“La Macedonia dove sta?”
“Non lo so.”
“E come fai a dire che
siamo lì?” Mi guardò con l'aria annoiata di chi non lascia più
stupire da niente, come un vecchio professore rassegnato ai
capitomboli culturali degli alunni.
A quel punto la guardai
con saccente superiorità.
Visto che credevo di
sapere tutta la geografia tranne dove fosse la Macedonia, il mio era
un sillogismo perfetto.
“Tu sai dove siamo
noi?”, chiesi con fare da inquisitore.
Le scosse candidamente le
spalle: “Non lo so”.
“E la Macedonia dov'è?”
“Ho detto che non lo
so.”
“Ecco! Ecco! Vedi, siamo
nello stesso posto in cui è la Macedonia!”
Penso che avesse sperato
di aver capito male, decise, in ogni caso, di spingermi nella
fontana.
Scoprimmo di essere ad
Atene qualche tempo dopo, quando, malgrado tutto, in noi si era fatta
forte l'idea di essere in Macedonia.
Un marinaio, udito parlare
italiano al porto, ci diede la smentita.
Fu Blanca a tenere
quell'edificante colloquio.
“Sai dove siamo?”
L'uomo fu sorpreso dal
sentir parlare la sua lingua, e ci guardò incuriosito. Doveva essere
del sud, aveva gli occhi chiarissimi e la pelle olivastra, un bel
contrasto che però, unito alle sue pose lasse, gli dava l'aria di
uno zingaro.
“Al Pireo, ragazzina.”
“Dove?”
“Ho detto al Pireo.”
Vidi Blanca perdere la
pazienza e atteggiarsi a maestrina: “Ho capito che siamo a Pireo.
Ma dov'è Pireo?”
Ci guardò con stupore preoccupato, come si
guardano quei vecchi preda della demenza che non si ricordano l'anno
in cui vivono.
“Ad Atene...”
Lei si morse le labbra un
istante, incerta sul fare la domanda. Sopra la nostra testa c'era un
bel cielo blu con poche nuvole.
“Manigoldo, ma allora Atene è in
Macedonia?”
*
Gli chiedemmo se
conoscesse qualcuno in grado di portarci in Sicilia, non importava in
quale porto. Ci interessava passare il mare, possibilmente in modo
dignitoso, poi ce la saremmo cavati. Immagino che fosse curioso
davanti alle nostre domande, ma che temesse in una storia troppo
lunga e difficile dietro.
“Non ora”, disse.
Aggiunse che lui era di una compagnia di Genova e che veniva dalla
Sicilia, ma non sarebbero tornati lì prima dell'anno successivo, e
che probabilmente non c'erano altre compagnie italiane che, per il
momento, facessero quella tratta.
“Nel Mediterraneo le
cose non vanno più bene”, constatò con amarezza: “Ormai le navi
passano tutte per l'Oceano.”
Annuii. Volevo dirgli che
era da un paio di secoli che le cose andavano così, ma tacqui.
“Qualcuna che passa di
qui va a Venezia”, disse, “Ma fate prima a farvi il mare a nuoto
che non a scendere l'Italia da lassù.”
Dopo di che ricominciò a
lamentarsi di non avere tempo, e ci lasciò per il suo lavoro
terminata una sigaretta.
Ricordo lo sguardo di
Blanca di quel giorno. Aveva un paio d'occhi da gatto spaventato,
quegli occhi tondi tondi tutti sgranati.
Le chiesi d'aver pazienza,
saremmo tornati.
Lei alzò le spalle:
“Tanto non ci spero nemmeno più”, sussurrò.
*
Il Greco non lo imparai
mai decentemente, nemmeno restando al Santuario, ma, in compenso, i
Greci sapevano spiegarsi benissimo.
Quando ci beccavano con le
mani nelle loro tasche – vivevamo nell'unico modo che conoscevamo –
non si perdevano in inutili urla come usava a Messina: loro
iniziavano subito a riempirti di mazzate fino a che non mollavi
l'osso. Più erano silenziosi, più forte colpivano.
Il porto invece era una
vera e propria Babele, vi si levavano centinaia di voci, accenti e
lingue differenti. Pensai che Atene fosse veramente il centro del
mondo.
Imparai qualche vocabolo
straniero guardando i modi ricorrenti e vistosi dei marinai nel
pronunciare alcuni termini.
C'erano molti francesi, e
quasi tutti, una volta sbarcati, si accompagnavano a delle donne. Un
giorno ne vidi uno che strappò un bacio ad una bella giovane dopo
averle detto “Oh, ma chérie...”.
Tutti i marinai francesi
erano con delle donne, tutti dicevano chérie
e le facevano impazzire.
Un giorno tentai a
prendere Blanca sotto braccio e a dirle la stessa cosa, ma, un po'
per il contatto da camerata, un po' per il suo umore saturnino, non
ricevetti alcuna attenzione. Smisi di pensare che quello fosse il
vocabolo giusto per le donne e lo accantonai per un lungo periodo.
Esso riemerse un giorno
in
cui ero al Santuario e Sage mi disse che il francese lì era la
lingua veicolare.*
“Lo conosci?”
“Oui, ma scerì!”,
dissi con aria persuasiva, senza pensare a nulla, pur di fregiarmi
della mia profonda conoscenza.
Talvolta, quando siamo
solo io e lui nella sala delle udienze e gli faccio delle domande
sula missione, mi risponde, canzonandomi: “Oui,
ma chérie!”.
*Siamo
a inizio Settecento, era quella la lingua colta e usata dagli
intellettuali di tutta Europa per comunicare.
Al
Santuario, di colti, ce ne sono ben pochi, ma sono in troppi e da
troppi paesi, per cui sarà valsa la même
chose .
*
Fu proprio in quei giorni
che vidi per la prima volta il Santuario.
Era una mattinata grigia,
probabilmente domenica, con poca gente in giro per la città. Le
facce erano impigrite, l'aria era elettrica come prima di un
temporale.
Ci stavamo passando un
mozzicone di sigaretta* trovato per strada mezzo intatto e guardavamo
annoiati le volute del fumo confondersi al colore del cielo.
Blanca saltò giù da un
muretto con la paglietta ancora tra le labbra, atterrò come se si
stesse reggendo su un paio di gambe rotte.
“Andiamo alla città
vecchia”, mi diede le spalle e si avviò verso l'acropoli senza
passarmi più nemmeno un tiro di fumo.
Non era curiosa, voleva
solo una scusa per distrarmi e finire da sola la sigaretta. E questo
fu il motivo che mi condusse per la prima volta alle soglie del Fato.
Fu come se ci avessi dato
una sbirciatina, per poi chiudere subito la porta.
Tra Atene e la sua
acropoli c'è una cortina di alberi tra le cui fronde si respira
un'aria che ha qualcosa di antico.
Se un uomo si fermasse per
sempre in mezzo ad un campo di grano a vedere l'eterno rinnovamento
della natura, forse potrebbe capire.
È l'Eterno Ritorno
dell'Identico, questa sensazione. L'elettrica giovinezza che emanano
le cose che sono più antiche del mondo stesso.
Oltre quel boschetto, una
spianata brulla di terra e colonne abbattute, su cui tira un vento
epico.
Il mare, sulla distanza,
era una distesa mercuriale e immobile, priva di riflessi.
“Tira aria di
tempesta.”, dissi. Blanca inclinò la bocca tutta a destra, gli
occhi rivolti con preoccupazione all'orizzonte.
“Tra poco ricominceranno
gli acquazzoni, e poi ci sarà l'autunno...”, asserì lei
laconicamente, “Chissà com'è l'inverno di qui...”
Volli sfuggire alla
malinconia di Blanca, mi guardai indietro: fu allora che la vidi
oltre un paio di rocce.
Sotto quel cielo di pietra
e la luce livida di quel giorno, sotto quel vento salmastro e
dispettoso - le sue pietre gravavano indifferenti sulla terra.
Capii di essere innanzi ad
un luogo che nemmeno la Storia avrebbe potuto abbattere.
Erano stati i fasti
dell'Atene periclea a porgerne le prime pietre e a innalzarlo, la
maestria di Fidia a inciderne la bellezza nella leggenda, e il mito
aveva un nome: Athena Parthenos.
La scalata delle Dodici
Case, la superba sfida che lanciava la sua quiete immobile.
All'epoca non le diedi
nemmeno un nome, risposi semplicemente alla sua potenza.
Fu una tensione
irresistibile, mi misi a correre verso di essa. Non ho mai galoppato
così veloce in vita mia, sembrava che fosse la terra stessa a
respingere le mie gambe, una ventata mi scarmigliò i capelli, scossi
la testa e chiusi gli occhi.
In quella corsa sentii la
vita fluirmi nelle vene. Ero la terra aspra sotto ai miei piedi, ed
ero il vento che tirava sulla spianata, ero il mondo intero che mi
assecondava in quella insensata corsa verso degli edifici bianchi.
Non poteva durare a lungo.
Mi rivolsi un istante
indietro, per guardare dove avessi lasciato la mia malinconica
compagna di viaggio e andai a sbattere contro un addome. Non sembrò
troppo turbato dall'impatto.
“Vous êtes ici puor
faire quoi?”
Uno stentatissimo francese
mi riportò alla realtà.
Se ne avvaleva un colosso
alto almeno due metri, che sembrava in lotta tra la sua naturale
gentilezza e il dovere di fare la guardia.
Lo guardai con rancore,
senza capire nulla della sua frase, se non che quello fosse il
francese di qualcuno che lo sapeva quanto me.
Anni dopo sarebbe stato
lui il primo a riconoscermi.
“Sei il ragazzino che
non capiva il francese”, mi disse.
Era Aldebaran, ai tempi in
cui si chiamava ancora Rasgado ed era solo un gigante buono.
“Tu sei quello che lo
parlava male”, gli dissi. Mi rispose con una pacca di rimprovero
affettuoso.
“Vous ne povez pas
rester ici!"
A gesti gli spiegai di non
capire né il francese, né il greco, né qualsiasi altra lingua
estraesse dal suo repertorio.
In realtà, avevo compreso
benissimo perché continuava a farmi segno di no e a indicarmi di
tornare indietro, ma trovavo esilarante il suo affannarsi.
Continuavo a ripetergli:
“No, no. Io italiano. I-ta-lia-no!”
Ad un certo punto, però,
perse la pazienza, e si avvalse di un segnale universalmente
riconosciuto: batté il taglio della mano destra contro il palmo
della sinistra.
Al mio paese si legge:
“Smamma”.
“Ah, e bastava essere
chiari!”
Aprii le braccia con aria
illuminata e decisi di andarmene.
Non avevo voglia di
buscarmi altre mazzate e mi stava simpatico, per cui decisi di
obbedirgli.
Rasgado è una forza
tremenda in un abito di gentilezza.
Quel giorno portava un
fiore viola tra i capelli, mi sorrise e mi salutò.
Un giorno gli dissi di
essere tornato qualche volta per trovarlo, ma che lui non c'era mai;
rispose che era stato il suo ultimo turno di vedetta, e per questo si
ricordava di me.
Quel pomeriggio avrebbe
ottenuto la Cloth di Taurus.
“Sei stato l'ultimo ad
avermi conosciuto con il nome di Rasgado.”
“E questo è buono?
Pensa che non sono nemmeno riuscito a chiedertelo.”
Aveva un sorriso sereno,
Aldebaran, giocava con uno stelo senza corolla e alzò le spalle.
“Era comunque il mio
vero nome. Se anche fossi riuscito a farlo, non avrei capito per
risponderti.”
Me lo disse perché sapevo
quali fossero i tempi del vero nome.
Il
confine tra quelli e tutti gli altri giorni è sempre un muro di
sangue.
Non
credo – o, almeno non lo voglio pensare – che un uomo come
Rasgado abbia abbandonato il suo vecchio nome solo per una qualche
forma di totale abnegazione.
Penso
che fosse un modo di salvare quella parte di se stesso, la più
autentica, che l'aveva condotto alla forza. Tutto ciò che sarebbe
venuto dopo poteva anche essere in comune alla tradizione dei
cavalieri del Toro, ma era stato Rasgado colui che aveva scalato la
montagna e l'aveva conquistata. La sua gloria, qualunque cosa potesse
succedere dopo, doveva rimanere intatta.
Volevo
dirgli che, se questo era l'intento, avrebbe potuto mantenere quel
nome, ma non ce n'è stato
il tempo né l'occasione.
Io lo
invidio un po': ho perso il mio nome prima che potesse valere
qualcosa, e quello che possiedo ora non posso certo consacrarlo alla
gloria.
D'altra
parte la gloria non fa nemmeno per me. Per cui va bene.
“Che
cosa triste da dire”, sentenziai sul nostro incontro. Lui rise –
rideva spesso, Aldebaran, ed era sempre un ottimo modo di rispondere,
per questo mi piaceva parlare con lui.
*
Dopo di che, le mie
giornate in Atene si perdono nella monotonia esasperante della lotta
per la sopravvivenza.
Rasgado fu l'ultima
gentilezza, prima della fine di quella che reputo la mia giovinezza.
Se lo avessi saputo,
davanti a Taurus mi sarei tolto il cappello e avrei fatto un inchino
fino a toccare terra con la punta del naso.
Il fiore che aveva tra i
capelli, fu l'ultimo che mi degnai di notare nell'Atene di
quell'estate che stava volgendo al termine.
*
*Ho
trovato questa chicca meravigliosa che volevo condividere con voi
a proposito delle sigarette nel XVIII sec.:
“Nel 1700 anche le donne
iniziano a fumare ed alcune dame fondarono l'ordine della Tabacchiera.
Nacque la sigaretta.
Vi si legge:
"Noi Cavalieresse dell'Ordine della Tabacchiera, dichiariamo di non
aver trovato fino ad oggi nulla all'infuori del tabacco degno di farsi
amare costantemente da noi.
Il tempo ci fa trovare dei difetti nei nostri amanti,
dell'ingratitudine nelle nostre amiche, del ridicolo in una moda che
noi cambiamo 4 volte all'anno. Solo il tabacco noi troviamo degni di
essere amato".
Le
Cavalieresse dell'ordine della Tabacchiera, abbiamo trovato i prossimi
assaltatori del Grande Tempio.
Perché scrivendo di Manigoldo non si può che finire in degenerazioni
del genere.
Grazie Manigoldo, amore mio.
[da: http://www.smettere-di-fumare.info/Storia-del-Fumo/la-Storia-del-Fumo.php]
Ricordo che
mi
divertii moltissimo a scrivere questo capitolo. A rileggerlo ora, non
mi pace più così tanto.
Tuttavia non
voglio nemmeno rivorticarlo troppo, almeno in memoria di quel bel
giorno in cui lo scrissi, il giorno in cui più di tutti mi sono
sentiva vicina alla scrittura.
E perché mi
sembra giusto tirare un attimo il fiato prima di incamminarci verso
il finale.
Rasgado avrebbe
dovuto trovare spazio nelle mie storie. Se scriverò il seguito di
questa voglio consacrargli un posto d'onore.
Penso che sia
il giusto contraltare di uno come Manigoldo, credo che, in virtù
delle loro differenze, lo rispetti molto, peccato che non ci abbiano
mai concesso l'opportunità di vederli interagire.
Ringrazio
ancora una volta i miei fedeli recensori, anche se non so più come
dirlo per farmi credere.
|
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Capitolo 8 *** VIII. Le vent se lève ***
VIII
Le
vent se lève...
(II
faut tenter de vivre!)*
*”Si
alza il vento...
Bisogna
osare vivere!”,
Paul
Valery,
da
Il cimitero marino
Nella vita di un uomo ci sono cose, le
quali, per quanto se ne sia già lungamente parlato, meritano un
capitolo a parte.
Blanca fu esattamente il crocevia di
un'esistenza: all'indomani della sua morte, solo un burrone – tutte
le strade dovevano cambiare o sprofondare.
Ero rimasto solo, non avevo nulla da
perdere e quindi tutto mi era possibile.
Se è aperta ogni possibilità,
significa che nulla in questa vita ha poi un grande peso, e, se anche
lo avesse, non ci si può fare nulla.
La vita è un atteggiamento, non un
evento.
Accettai di diventare Saint perché, se
i fatti non contano, percorrere la strada più incompatibile con il
mio modo di immaginarmi, sarebbe stato un ottimo modo di prendere la
vita.
Devo dire anche questo, dacché ormai
siamo in vena di confessioni: speravo in una qualche oscura forma di
Resurrezione, una muta spirituale che mi concedesse di dimenticare
tutto nel nome di quell'ideale asettico che è il nome di un dio.
Chiaramente non avvenne nulla del
genere: era sempre vero il motto latino Nomen omen*, e io
continuo a chiamarmi Manigoldo.
*Proverbio
latino: il nome è destino
*
Vidi sfiorire Blanca lentamente, e
inesorabilmente allontanarsi da me.
Avevo pensato, durante la nostra epoca
d'oro, di essere lo slancio di libertà a cui tendeva e tutto ciò di
cui avrebbe sempre avuto bisogno. Credevo che, al mio fianco, non le
sarebbe mai importato nulla del luogo in cui fossimo, che tutte le
altre assenze sarebbero divenute insignificanti.
Ero solo un presuntuoso, ma,
all'inizio, non avevo nemmeno così tanto torto a pensarlo.
Poi, un giorno l'avevo portata in una
terra troppo lontana dall'uomo che tanto la affascinava e dall'unico
posto in cui la sua anima avrebbe potuto trovare riposo.
Imperdonabile, questo sibilavano
i suoi occhi quando mi aveva davanti.
I nostri contatti piano, piano
diminuirono.
Non c'è nulla di più doloroso e
umiliante del vedere un amore o un'amicizia che ti muore fra le dita,
quando è impossibile scappare, di dire basta davanti a tutto ciò.
Ero sempre io a iniziare o rubare un
bacio; lei si distaccava in fretta, e, se mi restava aggrappata alle
labbra, lo faceva in un certo modo insofferente e addolorato.
Sembrava una persona che cerca di nascondere una zoppia troppo
evidente.
Non dimenticherò mai quando mi
trattenne in un bacio lunghissimo solo per impedirmi di vederla
piangere. Ricordo bene le sue lacrime sulle mie dita, cercavo di
scostarle via, ma continuavano a cadere.
Come puoi asciugare un pianto di cui
sei tu il responsabile? Non c'è risarcimento per il dolore.
Tu mi hai ridotta così.*, ecco
la sua irrimediabile sentenza. Se anche l'avessi riportata
indietro, nulla ci avrebbe salvato.
Non ero la sua salvezza, ma la pietra
che l'aveva trascinata sul fondo.
Poi, un giorno, smisi anche di baciarla
- non mi sembrava giusto.
Lei, da parte sua, non mi cercò più.
*U.
Foscolo,
Ultime lettere di Jacopo Ortis
Un giorno, davanti alle sue lacrime,
giurai per l'ennesima volta che l'avrei riportata indietro.
Mi arrabbiai, le urlai addosso di
imparare a vivere, di smettere di piangere e di farsene una malattia
– le urlavo? Bugiardo: la supplicavo con tutta la disperazione che
avevo in corpo.
Eravamo in ginocchio l'uno davanti
all'altra, stringevo le sue mani fra le mie per farle male.
Sentivo i suoi polsi tremare, si liberò
dalla mia presa e mi tirò uno schiaffo che mi costrinse a voltare il
capo.
Un ceffone così non l'ho mai ricevuto
da nessuno – un simile affronto, d'altra parte, nessun altro
avrebbe potuto infliggermelo.
Il tempo di non avere il coraggio di
lasciarti qui.
Fu
allora che la guardai di nuovo negli occhi dopo tanto tempo –
fu un secondo schiaffo, più forte.
Dal giorno in cui l'avevo trascinata
con me su quella nave, ero stato divorato dal tarlo del senso di
colpa nei suoi confronti.
Tuttavia rimanevo comunque un essere
umano, e, per quanto fossero sinceri i miei sentimenti, non mi sarei
fatto una malattia per aver stravolto completamente l'esistenza
altrui.
Il dolore altrui non si può pagare con
il proprio, ed è per questo che la legge del taglione è così
profondamente errata alle fondamenta. Ora lo so.
È questa la verità: a me quella vita
così casuale, quella prospettiva di un futuro indecifrabile,
piacevano.
Mi dispiaceva che lei soffrisse, ma non
di essere in quella terra, di aver lasciato tutto alle spalle.
Io ero, se non felice, soddisfatto.
D'altra parte, un futuro mi atteva.
Lei, no, il suo rancore lo aveva
nutrito giorno per giorno, ed era diventato la bestia ferocissima che
le ululava dagli occhi.
“Tu mi odi”, sussurrai senza fiato,
lasciai cadere anche l'altra sua mano che avevo continuato a
trattenere. Fu come sciogliere un patto di sangue.
“E ci mancherebbe altro.”
Non era riuscita a tradirmi, ma non ero
abbastanza per tutto quello che la stavo costringendo a vivere.
Da parte sua, il rapporto con me subì
il tracollo definitivo.
Smise progressivamente di parlarmi, ma
non per presa di posizione: non avevamo più nulla da dirci.
“Tu mi odi”, ecco la nostra verità
ultima.
Restammo assieme per sopravvivere e ci
ritrovammo in tre: lei, io e il mio senso di colpa.
Sai, Blanca, da quando te ne sei
andata, quell'amico che mi hai lasciato è ancora con me.
Ti odio anche io,
sempre tuo
Manigoldo.
*
Il primo temporale di fine estate ne
portò con sé molti altri.
Fino ad allora ce l'eravamo cavati bene
dormendo all'aperto; anzi, mi piaceva parecchio non avere delle mura
attorno.
Le notti divennero progressivamente più
fredde, gli scrosci d'acqua più frequenti e prolungati: quando ci
pioveva addosso erano dolori ad asciugarsi.
Il primo preoccupante colpo di tosse
che Blanca batté, squassò l'aria in una bellissima giornata di
sole.
Lo ricordo bene, perché, se già da
qualche giorno era stata presa da una febbre strisciante e da una
tossetta particolarmente fastidiosa, se da altro tempo perdeva
costantemente peso e impallidiva, quel giorno le uscì un rantolo che
sembrò provenire dall'inferno. Lo ricordo perché anche a me mancò
il fiato.
Non sembrava nemmeno possibile che
fosse quel suo torace minuto a produrre un suono tanto cavernoso.
Da quel giorno non smise più di
tossire.
Bruciava e sudava di febbre.
“Che diamine ti sta succedendo?”
Una domanda banale, la pronunciai con
un ringhio, come se fosse colpa sua.
Io ricordo il suo sguardo. Lo ricordo
anche meglio del suo odio.
Il totale smarrimento di un essere
umano, il volto stravolto di chi cova in sé la sua fine.
“Non lo so. Non lo so.”
Spaventato da quei fatti, mi impegnai a
cercare un rifugio.
La lasciai febbricitante in un angolo
di una piazzetta dimenticata, con la promessa di non muoversi.
“Non mi muovo, ma torna presto.”
Torna presto, l'unica e ultima
supplica che mi rivolse in vita sua. Ricordo una greve felicità.
*
Mi dovetti portare poco fuori da Atene,
in un paesetto nei suoi immediati dintorni. Si chiamava Rodorio, ed
era ai piedi della scarpata su cui dominava il Santuario.
Erano tempi duri anche lì: si parlava
di continue sparizioni ed uccisioni, di cadaveri ritrovati dilaniati
buttati nei fossati, di incursioni.
Ma io questo di certo non lo potevo
sapere, perché non capivo il greco. Se anche lo avessi capito,
immagino che non sarebbe cambiato granché, comunque.
Piuttosto lontano dal centro, sul
limitare di un bosco, c'era una casa che era stata abbandonata.
Aggiungerei depredata: la porta era stata forzata, alcune finestre
erano rotte e la facciata presentava alcune tracce annerite –
bruciature.
Decisi comunque di entrare, ormai tutto
ciò era passato.
Tutti i cassetti erano stati aperti e
in terra vi erano stoviglie e ceramiche rotte; tuttavia, lo strato di
polvere era sottile: si trattava di avvenimenti recenti, non più di
due settimane.
Che la casa fosse stata assaltata o
abbandonata, comunque, mi importava poco, era ciò che faceva al caso
mio.
Vivevo nella beata convinzione secondo
la quale un posto in cui è appena successo qualcosa di terribile ha
già detto e dato tutto – per cui non può succedere più nulla di
brutto per un lungo periodo di tempo.
Mi convinsi che non
vi era neppure
nulla di strano nei visi tirati e da larva degli abitanti, nulla di
losco nascosto dietro alle loro occhiate gravi e tormentate rivolte a
qualunque angolo buio.
Erano i tempi duri di sempre, mi
dissi.
No, cari miei: era
la guerra che già incombeva. E sarebbe stata anche la mia.
Entravo
già nel mio futuro: una casa disastrata, una nuvola di fumo, la
sensazione di un'inevitabile caduta. Il Santuario là in alto,
proprio sopra alla mia testa.
Benvenuto.
*
Io avevo un unico
nemico: si chiamava polmonite ed era annidato nel corpo di Blanca.
Non mi importava
nulla né delle crisi fra gli Stati, né degli assalti dei pirati
musulmani; non mi turbavano la Riforma, la Controriforma, i francesi
che decidevano che era ora che basta. Non che in Lombardia
arrivassero gli Austriaci, né che il Sud facesse la muffa per i
secoli di malgoverno.
Al massimo mi
seccava che il Mediterraneo venisse trascurato dai traffici
economici, ma a quello avrebbe potuto avviare un pescatore un poco
più intraprendente – invece niente di niente.
Non conoscevo, né
credevo, né mi sarei fatto turbare da storie di dissidi tra divinità
greche litigiose.
E, tra tutte le
cose assurde che accaddero in quegli anni, proprio quella mi fregò.
Le divinità
greche.
*
Con fatica, portai
Blanca in spalla fino a Rodorio. La febbre continuava a divorarla
durante la notte, sulle mie spalle era così debole da sembrare un
tappeto.
Non pesava più
nulla, l'ultimo ricordo che ho del suo corpo sono le sue costole
contro la mia schiena.
Durò una
settimana.
Di
giorno scorrazzavo per la città a cercare di ottenere qualunque cosa
potesse esserle utile – e anche il superfluo, perché esso è
una gran cura per ogni male.
Ero riuscito a
prendere anche un bel cappotto lungo, beige. Dal giorno in cui avevo
rubato a Messina per la prima volta erano cambiate tante cose.
Lo portai via
senza fatica.
Quel vecchio
giorno in Sicilia, alle porte dell'inverno, chi stava per morire a
causa dei polmoni ero io, e preparavamo un nuovo inizio.
Adesso mi
preparavo ad osservare il finale di quella storia – un finale così
amaro che nessuno avrebbe mai potuto immaginarlo.
Tutto ciò che
riuscivo a trovare da mangiare lo lasciai a lei, sebbene a malapena
lo assaggiasse. Toccavo cibo solo quando i crampi allo stomaco erano
eccessivi e rischiavo di non reggermi in piedi per continuare il mio
lavoro.
Passavo le notte
insonni a cercare di tenerle caldo, ma lei era rovente di febbre ed
io mi riducevo ad un bagno di sudore, con la schiena gelata dall'aria
circostante.
Era la mia
espiazione, pensavo che un giorno sarebbe bastato.
Ricordo la nenia
del vento là fuori e il suo trascinarsi indifferente tra le fronde.
Furore fuori
dalle finestre, la corsa furente dell'aria che preparava la Storia.
Accanto a me, la
tosse angosciante di Blanca squarciava l'ombra.
I muri sembravano
schiacciarmisi addosso, il buio diveniva una massa che mi avviluppava
e toglieva l'aria.
Talvolta
vedevo
l'anima di qualche animaletto che ci crepava attorno. Tornai ai
pensieri crepuscolari degli anni in cui correvo per i cimiteri – mi
scoprii a rimpiangerli.
L'ultima di
quelle notti mi chiesi come sarebbe stato guardare la mia lapide.
Come guardare
quella di Blanca: un dolore inaccettabile, mi
sfuggì proprio quel pensiero trattenuto con disperazione in un
angolo della mia testa.
Sarebbe
tutto finito entro la sera successiva.
|
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Capitolo 9 *** IX. Un Blasfemo ***
Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi -
questa
morte che ci accompagna
dal
mattino alla sera, insonne,
sorda,
come un vecchio rimorso
o
un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno
una vana parola,
un
grido taciuto, un silenzio.
(…)
Per
tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà
la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà
come smettere un vizio,
come
vedere nello specchio
riemergere
un viso morto,
come
ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo
nel gorgo muti.
{C.
Pavese}
IX
Un
blasfemo
Una volta
avevo
creduto che vivere in città fosse più difficile che nei piccoli
villaggi.
Mi sbagliavo:
nei paesi non campi di espedienti, perché la gente parla, e, se ti
prendono, ti fanno la festa in gruppo; è questione di un attimo.
Dalla
confusione del porto, mi spostai alla rischiosa quiete del bosco.
Rodorio non è
un luogo qualsiasi: per la vicinanza con il Santuario è abitato da
gente capace di combattere e molto poco propensa a farsi mettere nel
sacco.
Io, però, non
potevo lasciarmi sfuggire nessuno: passava troppa poco gente di lì.
La pietà è
una virtù che la miseria non contempla.
Per Blanca ero
già diventato un ladro; sempre per lei mi avrebbero chiamato taglia
gole.
*
Ricordo
bene il primo uomo che uccisi.
Tempo
dopo avrei riconosciuto il suo abbigliamento in quello degli
aspiranti Saint, e avrei accolto quella notizia non senza un certo
compiacimento.
Sono
sempre, sempre stato meglio di tutti gli altri: potevano
disprezzarmi, ma la natura mi aveva generato più forte di loro, la
vita mi aveva temprato più duramente, le stelle amato più
disperatamente – nel bene e nel male -, e mi aveva scelto il più
grande di tutti i maestri.
“E
per questo credi di essere meglio di tutti noi?”, mi disse un
giorno un tizio al quale avevo appena spaccato il naso.
“Oh
no”, risposi. Tirava un vento lento e freddo, indicai le Dodici
Case: “Meglio di tutti loro.”
Certo
che non lo pensavo. Fu però decisamente esilarante: quella volta
l'avevo sparata talmente grossa che nessuno ebbe il coraggio di
rispondermi niente.
Da
allora presi gusto ad affermare scempiaggini del genere piuttosto
regolarmente, tanto la forza mi dava ragione ogni volta e, il giorno
in cui mi fosse mancata, mi sarei concesso una risata.
Avevo un
coltellaccio rugginoso nella manica, lo tenevo più per farmi
coraggio che non altro, perché, per recidere qualsiasi cosa, avrei
dovuto usarlo come un'ascia, tanto la lama era smussata.
Un giorno ero
nascosto tra gli arbusti del sottobosco e mi passò davanti un
ragazzotto dalle spalle larghe, che doveva avere un paio d'anni più
di me. Alla cintura portava una piccola bisaccia, che tintinnava in
maniera assolutamente irresistibile.
Sembrava uno
sprovveduto, pensai che mi stesse porgendo le sue monete su un piatto
d'argento. Ma, come accade sempre in queste cose, chi in realtà
porgeva qualcosa su di un piatto d'argento ero io, e offrivo la mia
testa.
Quando tentai
di assalirlo, balzandogli addosso da dietro, egli riuscì ad
afferrarmi per il polso e a gettarmi a terra.
Ricordo il
sapore metallico del fango e del sangue nella bocca, l'odore di
foglie marce sul terreno, la totale umiliazione. Ancora oggi, quando
mi offendono, mi sembra di sentire quell'aroma boschivo nel naso.
Mi sollevò il
mento con la punta sporca dello stivale: “Ho capito chi sei.”
Non so in che
lingua lo disse né come feci a capirlo. Magari ero troppo
suggestionato dalle mie ansie e capii quello in mezzo ad una lingua
incomprensibile.
All'umiliazione
si unì il terrore puro: erano accadute le uniche due cose che non
dovevano succedere: mi aveva abbattuto e riconosciuto.
Provai una
rabbia feroce verso qualunque cosa di questo mondo: me, lui, Blanca
che mi condannava, verso il fango sui miei vestiti e al vento che
rideva tra le fronte maledette.
Ero già
completamente impotente di fronte alla malattia – non lo sarei
stato davanti ad un uomo.
Con la coda
dell'occhio lo vidi toccarsi la borsa e ridere. Il suo piede mi
comprimeva il torace contro il suolo e il fango mi entrò nei
vestiti. Sentii le costole scricchiolare paurosamente e il fiato
mancare.
Ho ragione
di
pensare che il mio cosmo si fosse destato proprio in quell'occasione,
e che lo avessi impiegato in tutte le uccisioni successive.
Scoprii in me
una forza eccessiva per essere frutto della sola disperazione – se
avessi contato sulle energie fisiche di quel periodo, sarei andato
ben poco lontano.
Ad oggi non
credo che mi avrebbe ucciso, ma al tempo non potevo immaginare
nessun'altra possibilità.
La mia testa
era completamente alienata dalla morte.
Si trattava
della sua vita per la mia.
Spazzatura
per spazzatura.
Nessuna
vita aveva alcun valore. Io, però, avevo qualcuno da salvare e
dovevo ancora vivere quel meglio che ti promettono tutti:
sopravvivere mi spettava di diritto e non potevamo entrambi sfamarci
a quel banchetto.
Sentenziai
proprio così: quest'uomo deve morire.
Le
stelle vennero in mio soccorso.
*
Tra
le Case dello Zodiaco, la costellazione del Cancro è da sempre la
più ambigua.
Il
mito dice che l'armatura sorse dall'Etna,che
fu forgiata da Efesto in persona all'interno della sua fucina nelle
viscere del vulcano.
La
bruttezza del dio è fatto conclamato: egli realizzò la Cloth e la
donò ad Athena per dimostrarle il suo valore, poiché era stanco del
fatto che, sull'Olimpo, si accennasse solo ai suoi difetti fisici e
mai ai suoi talenti.
Scelse
quella forma pensando al granchio quando sguscia fuori dagli scogli e
risale verso la luce: una creatura marina e terrestre, che gioca con
l'onda senza che questa la porti mai via.
Il
granchio dell'acqua che emerge da un vulcano: Efesto voleva dire che
tutte le creazioni gli erano possibili, che anche lui, un giorno,
sarebbe uscito di lì per giocare con l'onda, riprendersi il posto
che gli spettava nell'Olimpo.
La
Cloth è opera del genio e della rabbia amara di un dio, e ha sempre
scelto individui piuttosto bizzarri.*
“Arrabbiati
con la vita”, li definì Sage un giorno.
“Anche
voi, Maestro?”
Scrollò le spalle e guardò lontano.
“Manigoldo, questa armatura è stata ciò che procurò ad
Efesto
l'eterna gratitudine di Athena: ha guarito questa rabbia. È nata per
questo: per guarire.”
Posso
dire di non crederci, perché ho deciso di non credere a nulla. Ma
vedo i fatti, e per questo posso dire: sì, lo credo.
Anche
quel giorno, Cancer si destò in favore di uno di quegli insalvabili.
Estrassi
il coltello dalla manica e riuscii ad alzarmi. Il sorriso sul viso
del mio nemico si era spento e tramutato in un'espressione di puro
orrore.
Vedere
il mutamento fu meraviglioso.
Con
un balzo gli fui addosso e, gettatolo a terra, affondai la lama nella
sua gola.
Una
scossa mi percorse dal polso al capo, guardai gli occhi sgranati di
quel giovane – avevo ucciso un uomo.
*Questa
stupida mitologia l'ho inventata io,
Kurumada
è reo solo di aver collocato la Cloth sull'Etna
*
In
quei giorni di impotenza, ammazzare nel modo più brutale possibile
fu l'unica cosa capace di donarmi entusiasmo.
Mi
sentivo forte come non lo ero stato mai ed ero padrone del limite tra
i due mondi.
Se
sulla vita non avevo alcun potere ed essa continuava a sfuggirmi di
mano, se la morte è quell'ombra che chiude ogni possibilità ad un
uomo, io presiedevo lo squarcio tra i due cieli.
Ero
io ad aprire i cancelli dell'Ade, io ad essere l'unico ad avere la
forza e il diritto di restare in vita.
Ero
travolto dai fatti dei vivi, ma resistevo, mentre qualcuno doveva
stramazzare davanti a me.
Non
mi sono mai pentito di quello che ho fatto.
Credo
fermamente che, se sono arrivato a tanto, un motivo ci fosse. Tanto
mi basta.
Le
mie uccisioni diffusero la voce della presenza di un bandito nella
zona, e fu così che i passi di Sage si mossero verso di me.
Prendevo
le anime sui palmi e le facevo esplodere schiacciandole nel mezzo,
come si fa con le zanzare.
Avevo
realizzato un sogno: veder sbocciare l'anima di un uomo ed esserne il
diretto responsabile.
Fu
l'inizio di un incubo: era la definitiva conferma, aggravata dalla
malattia di Blanca, della leggerezza della vita umana.
Spazzatura
– spazzatura – spazzatura!.
*
Incamminiamoci
verso l'epilogo.
Raccontarlo
non farà male – la vita è solo un atteggiamento.
Non
prendo fiato per paura – sono solo stanco di blaterale.
Anni
dopo l'avrebbero chiamata “la strage di Rodorio” e considerata un
casus
belli.
Un
gruppo di cinque Specters doveva assalire il villaggio più prossimo
al Santuario per far uscire alcuni Cavalieri e permettere ad altri
guerrieri di Hades di penetrare direttamente in territorio nemico.
Era
un piano semplice e suicida: i Cavalieri della Morte dovevano entrare
al Santuario e uccidere più che potessero, fino a che qualcuno non
li avesse uccisi a sua volta, per garantire il massimo dei risultati.
In
cambio sarebbero stati resuscitati dal loro signore quando fosse
tornato, e avrebbero ricevuto grandi onori da parte di tutto
l'esercito.
Nessuna
di queste promesse fu mantenuta, ad ogni modo, ma questo non ha
importanza.
Accadde
in una notte di ottobre inoltrato, l'inverno aveva deciso di bussare
alla porta in anticipo e l'aria era molto fredda.
Stavo
tremando dietro alla finestra di casa e guardavo verso l'alto le
stelle tra le fronde degli alberi.
In
lontananza, dalla piazza centrale, una musica e la luce di un falò
faceva colare riflessi arancioni per le vie vuote.
Pensavo
ai gitani, li immaginai nella fiamma della candela che mi baluginava
accanto. La chioma lunga di Blanca in anni migliori e la gonna viola
con i sonagli, i fianchi al ritmo del tamburello.
La
musica da Rodorio alla Spagna, un ponte dall'alto del quale rivedere
la Sicilia.
Ma
non aveva più importanza – non c'è nulla che ne abbia.
Da
tempo avevo smesso di trovare requie in memoria e in fantasia.
Non
credevo più in nulla: la mia vita era ridotta ad un'unica scia di
morte – il sangue che versavo io e il morbo di Blanca che incalzava
anche me.
Ovunque
mi rivolgessi – nel passato, nel presente o nel futuro -, mi
sembrava che non ci fosse altro, o che, qualora ci fosse stato, fosse
stato fagocitato da quel gorgo nero.
E
la morte mi seguiva, si calò a passo felpato nella tenebra di
Rodorio in quella notte di quiete e di festa.
Mi
ero appena addormentato.
*
Giunsero
entrando dalle porte della città lasciate aperte, di soppiatto, come
gatti in cucina.
Giunsero
come un corteo funebre, in religioso e tragico silenzio; anche i
carnefici camminavano verso il loro funerale, e ne erano consapevoli.
Nessuno
si accorse della loro presenza in città – il cosmo celato, i
mantelli foschi sul capo, il passo leggero degli assassini e dei
condannati a morte.
Il
loro assalto cominciò con discrezione, dovevano richiamare
l'attenzione, ma non volevano fare un gran baccano. Per quel che ne
so, sono stati gli ultimi Specters con un briciolo di classe.
Uccisero
in silenzio nelle case più periferiche, come a cingere la città di
un cordone di sangue.
Sapevano
che ogni istante lì era uno di meno della loro vita, sapevano che
sarebbero arrivati i Gold e che avrebbero dovuto resistere solo per
farsi uccidere.
Avevano
addosso l'acciaio delle Surplici: si erano portati dietro il loro
catafalco.
Avrebbero
appiccato il fuoco, si sarebbero gettati sulla folla in piazza, ormai
circondata, e avrebbero atteso.
*
Un'ombra
passò sotto la mia finestra. Uno di loro si limitò a passare il
fuoco alla tettoria e ad andarsene, l'altro fu attirato dai colpi di
tosse di Blanca e decise di entrare.
Fare
il boia dove qualcuno sta male ha tutto un altro sapore, parola mia.
Uno
si sente così meravigliosamente cattivo che quasi quasi mi viene da
perdonare il mio nemico.
Dopotutto,
aveva anche lui i suoi problemi e la sua storia, e, alla fin fine,
ho fatto praticamente tutto io da solo. Lui si è limitato a
guardarmi basito tutto il tempo e a fare le smorfie un paio di volte
per farmi paura.
Bu!,
ecco
tutto ciò che ha fatto.
Ricordo
ancora oggi il suono agghiacciante dei suoi tacchi contro le assi di
pavimento: lo scricchiolio delle giunture delle Surplici non è di
questo mondo – un grattare roco e basso, come le unghie di un
carcerato contro le pareti di una cella.
Non
aprii subito gli occhi, pensai che fosse solo un topo agonizzante per
le trappole che avevo lasciato sotto al letto.
Credo
che lo Specter avesse visto Blanca mezza moribonda e avesse deciso di
ucciderla – forse era un gesto di pietà, arrivati a quei punti.
Tuttavia,
egli non faceva volontariato ed apparteneva a quella razzaccia di
guerrieri che non uccidono se non sono guardati da qualcuno.
Quel
Lord decise dunque di venirmi a svegliare a titolo informativo.
Proprio
nel momento in cui mi si fece vicino, cominciò a diffondersi l'odore
del fumo all'interno della casa, fu ciò a destarmi.
Non
ebbi nemmeno la forza di urlare per il terrore di quell'apparizione.
Pareva
indossare la tenebra stessa ed emergere da essa, quel viso
bianchissimo che mi trovai di fronte. Due occhi enormi e sgranati,
colpiti dalla luce lunare, le narici dilatate.
Con
le labbra tendeva un sorriso che ho sempre definito “blasfemo”:
un sorriso tirato e indefinibile, che pare una smorfia rigida e
sarcastica. Esso aveva la piega uguale a quella che si impone ai
volti dei cadaveri prima di esporli in camera mortuaria per
mascherare i lineamenti sconvolti dall'agonia.
Il
sorriso di circostanza di chi ferma in gola una bestemmia, ed è
costretto ad ingoiarla per una posa.
Credetti
per un momento di avere il demonio davanti: oggi so che quello era
solo il viso di un uomo che andava a morire, che esorcizzava quel
pensiero infliggendo la morte ad altri.
Un
viso come il mio.
Guardami,
dicevano
quelle iridi.
“Guardami.”,
imperò la sua voce con un sussurro. Aveva un bel timbro, né troppo
acuto, né cavernoso.
Guardalo,
Manigoldo: conta i tuoi ultimi istanti, lotta contro la morte con
tutte le tue forza e poi osserva – osserva bene – come Ella ti
toglie tutto in un istante.
Ed
è una cosa così semplice che pare sia solo uno sgambetto.
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Capitolo 10 *** X. Tierra desolada ***
X
Tierra
desolada
“Nero
latte dell’alba lo beviamo la sera
lo
beviamo a mezzogiorno e al mattino lo beviamo di notte
beviamo
e beviamo scaviamo una tomba nell’aria là non si giace stretti”
{P.
Celan – Latte nero}
È nel momento in cui la vita appare
per fragile e insulsa per quale è, che vi si è più attaccati – è
il crudele sentimentalismo dell'istinto di sopravvivenza.
Oltre la finestra, la città cominciava
a bruciare.
Si disse che quella notte, guardando la
devastazione, Thanatos avesse cantato il Troiae Halosis, come
Nerone su Roma in fiamme.*
Ma
il falò di Rodorio di superbo non aveva nulla. Quattro pareti
lasciate ad annerire, ecco il teatro, ecco l'infima scenografia su
cui si elevò la Morte.
Una
pila di uomini che non sapevano cosa aspettarsi: ecco i fieri
guerrieri di questa guerra.
Morituri
te salutant.
Io
ricordo.
La
tettoia bruciava in fretta, l'odore del fumo calava dalle assi del
soffitto come la bruma alla sera. Mi bruciavano gli occhi.
Dopo
aver scambiato un lungo sguardo con lo Specters, nel tentativo
spasmodico di rizzarmi in piedi urtai la candela. Prese fuoco anche
la tenda.
Il
nemico mi osservò con una pietà e un sarcasmo che ancora mi
insultano.
Ricordo
che lanciai una bestemmia vana, e che cercai di spegnere la candela
con lo spegni moccolo. Mossa insensata.
Quando
me ne accorsi, tirai lo stupido oggetto verso l'uomo. Non so che fine
fece.
Una
tragedia è sempre un affare così ridicolo, che riderne è un
dovere.
Una
cortina di fuoco si stava diffondendo alle sue spalle, tra noi e il
letto di Blanca.
Ormai
le febbri l'avevano ridotta ad una larva, sapevo che rimaneva viva
solo perché udivo l'instancabile tosse. Le vidi cercare di alzare il
piccolo capo scuro dalle lenzuola.
Lo
ributtò contro il cuscino subito dopo.
Tentai
di superare l'uomo per prendere Blanca e portarla fuori da
quell'inferno; ma, quando corsi in avanti, lo Specter si abbassò
piegando le ginocchia e tese le mani davanti a sé, bloccandomi con
il suo corpo ed impedendomi di passare. Non mi toccò, non ce n'era
bisogno.
Era
il suo corpo a farmi paura, l'armatura scura che aveva addosso.
Sembrava uscita da un incubo.
L'idea
della lotta doveva eccitarlo parecchio, gli vidi nascere sul viso un
sorriso malato.
Tentai
di spingerlo nel fuoco, ma appena toccai la superficie della Surplice
provai un insostenibile senso di nausea che mi costrinse ad
abbandonare subito la presa.
Il
muro di fuoco era sempre più alto, Blanca non si svegliava,
tramortita dal fumo.
In
quegli ultimi momenti la ricordo come un fagotto di coperte troppo
distante.
Forse
piangeva. Sono quasi sicuro di aver sentito un pianto straziante
mentre mi allontanavo.
Ma
forse era il mio, o quello di chiunque altro in quella città.
*
La
grande rabbia che mi porto dietro da quella notte è però solo una:
per quanto avessi cercato di ridestare in me la forza atavica e
disperata che avevo scoperto di possedere, essa non giunse in mio
soccorso.
Cancer
mi aveva abbandonato.*
Che
fosse lo scotto da pagare per tutti i miei delitti fino ad allora?
Ora
lo so: Blanca doveva morire.
Le
mie stelle lo hanno deciso: la sua vita per la mia. È la crudele
legge dell'ordine cosmico.
Avevo
commesso mille colpe e dovevo espiare, ma io, ai cieli, servivo
ancora.
Dovevo
pagare ma restare vivo; dovevo ricordare che cosa significasse
tornare dalla parte degli sconfitti per poi ricominciare a camminare
con quel macigno.
Si
doveva formare attorno a me la dura scorza del granchio, conoscere il
dolore dell'esilio come Efesto. Dovevo avere un buon motivo per
cambiare del tutto la mia vita.
Blanca
doveva morire.
La
sua vita per la mia. L'innocenza per redimere un peccatore.
*”La
presa di Troia”, poemetto che Petronio inserisce nel Satyricon,
riprendendo
uno scritto di Lucano.
*Volevo
un nesso tra Death Mask e Manigoldo.
Entrambi
sono stati traditi da Cancer nel momento cruciale,
per
permettere la loro redenzione.
In
tal senso, vorrei che si capisse, anche per DM, che la Cloth del
Cancro
e
le sue stelle
sono
sempre funzionali al suo Cavaliere.
Non
lo abbandonano, ma lo correggono.
*
Le
travi del soffitto cominciarono a scricchiolare pericolosamente, la
temperatura divenne insostenibile. Lo Specter era avvolto dalle
fiamme, ma non sembrava soffrirne, anzi, quel calore lo avvolgeva
come acqua calda dopo una giornata tra pioggia e fango.
Un
terribile odore di carne bruciata, un lamento debole e già morente.
“Salamander”,
disse l'uomo, beandosi di quella sensazione.
Non
capii, avevo la nausea, stavo soffocando.
Ricordai
il viso di mia madre, ricordai il momento dell'assalto della mia
infanzia.
Ma
esso era già terminato, la mia vita era di nuovo innanzi ad una
nuova desolazione.
Ad
un tratto un boato dalla città, una folgore, un'esplosione: erano
arrivati.
Salamander
- giudico che si fosse presentato e quello fosse il significato delle
sue parole - mi guardò con malinconia prima di balzare tra le fiamme
troppo alte e correre via, incontro alle sua battaglia.
Si
era accontentato della mia espressione.
Nell'ultimo
dei suoi atti, non aveva avuto il coraggio di farsi odiare
completamente.
Anche
Salamander andò a morire.
Morituri te
salutant.
*
Quando
si fu allontanato, - allora - fu veramente la fine.
Caddi
in ginocchio.
Finché
lui era stato lì, la rabbia mi aveva tenuto in piedi. Restai così
tra il fumo e la puzza di carne bruciata e devastazione, fino a che
quell'odore non cominciò a provenire anche da me.
Il
calore mi stava piagando la parte destra del corpo. Alle mie spalle,
l'unico punto della casa che non bruciava: la finestra da scavalcare,
la sopravvivenza.
Volete
la verità?
Nemmeno
per un momento ho pensato che sarei rimasto lì in quella casa a
morire.
Non
mi avrebbe avuto, si era già presa troppe cose.
Non mi
convincerà a mangiare il suo pasticcio di carne umana putrefatta.*
Con
le ultime forza mi buttai sulla finestra e la scavalcai; man mano che
mi allontanavo dall'inferno, sentivo l'aria della notte sempre più
fredda e viva sulla mia faccia.
Sentivo
la terra sotto i miei piedi, il dolore delle ustioni.
*Questa
citazione è la mia passione.
Hugo
Ball, sulla Prima Guerra Mondiale
*
Ero
ancora vivo, vivo, vivo.
Maledettamente
vivo. Ero sempre l'ultimo superstite di quella grande tragedia che
era la mia vita.
Le
fronde ciondolavano gioiose sotto il vento, la città era un falò:
la natura, di certo, non piangeva.
*
Mi
accasciai contro un albero e guardai da lontano la casa in cui avevo
lasciato Blanca bruciare.
Rodorio
fu il luogo in cui terminava la mia guerra, in cui ne iniziava
un'altra che sarebbe stata altrettanto mia – ma io, questo, ancora
non lo sapevo né potevo immaginarlo.
Ho
guardato quello spettacolo fino all'alba, quando l'incendio ha
cominciato a spegnersi e anche gli Specter hanno cessato di
combattere.
Thanatos
fagocitava il suo stesso esercito cantando la Caduta di Troia.
Ad
averlo saputo, avrei intonato l'Ira di Achille.
Mi
addormentai al sorgere del sole, per non vedere sotto la luce tutta
quella devastazione.
*
Quando
mi svegliai era tardo pomeriggio, le ceneri si erano raffreddate e
sparse ovunque.
Camminai
lentamente sulle macerie della nostra casa, la cenere mi copriva i
piedi fino alle caviglie, era ancora tiepida.
Fu
come camminare sulla sabbia rovente alla riva del mare in un
mezzogiorno di piena estate, e tuttavia era un'alba d'inverno.
Camminavo su case e uomini – polvere.
Mi
inginocchiai.
Se
avessi conosciuto una preghiera, avrei pregato. Non ne conoscevo
nessuna e non lo feci.
Ricordavo
però che nella mia infanzia c'era un prete che diceva “Polvere
sei e polvere ritornerai”.
Presi
una manciata di cenere, la soffiai via
L'anima
di Blanca doveva già essere scomparsa. Era tardi anche per quello.
È
sempre stato tardi.
Altri
lumicini tremolavano lì intorno: ne presi un paio tra le mani,
appoggiando le spalle contro il muro di un edificio sventrato dalle
fiamme.
“Chi
sei tu?”, chiesi.
Era
mia madre e mio padre, Bucefalo, Blanca, era cicala e falco, era quel
triste uomo che mi aveva fatto visita quella notte, ero io un pugno
di anni dopo.
Alle mie
spalle
un muro abbattuto, come una lapide senza scritte.
Sage aveva letto
in quel cielo una veglia funebre all'intera umanità.
Un
giorno mi disse: “Ogni
morte d'uomo mi diminusce, perchè io partecipo all'Umanità.
E
così non mandare mai a chiedere per chi suona la Campana: essa suona
per te.”*
Ed
aveva ragione.
L'Eterno
ritorno dell'Identico – ecco la chiave di lettura di tutta la mia
vita: ero di nuovo in mezzo alle macerie.
Il
Tutto che torna al Tutto – ecco la verità del mondo.
Le
anime girellano su se stesse come l'Uroboro.**
Fu
in quel momento che, davvero, desiderai morire. Non mi era stata
concessa nemmeno quella grazia.
Vicino
a me sentii dei mugolii.
Due
uomini stavano agonizzando vicini, uno portava l'armatura.
“State
zitti!”, ruggii, ma chiaramente non cessarono di lamentarsi. Quello
con l'armatura continuava ad eruttare sangue dalla bocca.
Avevo
la nausea. Guardai un corvo che si posava su un muricciolo sventrato;
se fosse stato un'altra creatura, sarei stato certo di vederlo
passarsi la lingua sulle labbra.
“State
zitti, maledizione!”
La
mia voce nell'alba. Una preghiera urlata, un'accusa, una sentenza di
morte.
Decisi
che non avrebbero smesso, estrassi il mio coltello e glielo piantai
nella schiena e nel petto, a seconda di come fossero girati.
Ora
c'era silenzio.
Raccolsi
le loro anime sulle mie mani, e le lasciai girarmi intorno assieme
alle altre.
Pensai
che almeno uno dei due avrebbe potuto salvarsi, ma non mi importava.
Lasciai
lì i
loro cadaveri, e per due giorni rimasi vicino ad essi e alla loro
puzza nauseabonda. Ricordo le mosche sopra ai miei occhi e sopra ai
loro: spalancati, vuoti e rivolti al cielo. Che cosa vedevano adesso?
Ancora non lo so,
perché tanto dovevano morire e dobbiamo morire tutti, non contano né
vendetta né giustizia. Basta aspettare il nostro turno.
Blanca sarebbe
morta lo stesso, che fosse stata la tosse, il fuoco o il tempo.
Perché siamo
spazzatura, era
la risposta che mi
diedi quei giorni.
Perché siamo
uomini, dico
ora.
A volte mi chiedo
ancora quanto siano sinonime le due parole.
*John
Donne, frase ripresa da Hemingway
**Il
serpente che si morde la cosa, il simbolo dell'Eterno ritorno
dell'Identico
*
Sage
mi trovò in
mezzo a quei due cadaveri e alle loro anime.
Delle
parole che mi disse non ne ricordo
nessuna. Con la mano sulla mia testa, mi indicò un cielo tanto bello
quanto infame e disse che anche io ne ero parte.
Se piansi, non fu
perché gli credetti. Al contrario, era tutto troppo crudele e reale
perché se ne potesse parlare così.
Piansi perché
davvero le stelle sono come le anime, e sentivo il loro sguardo
impietoso addosso.
Seguii
Sage per
farne a pezzi tutte le certezze.
Poi, un giorno,
sulla bocca dell'Inferno mi scoprii un convertito.
Il resto lo
sapete.
Se anche non lo
sapeste, non ha nessuna importanza: il finale è il medesimo per
tutti, e la fantasia va usata solo per immaginare il modo in cui ci
sia arrivato.
Un balzo qua
e
uno là: la tragedia è solo un'ipotesi, la crudeltà una posa, la
vita una finzione.
Penso che sia
così, ma non ne sono sicuro, perché ogni concetto è mobile.
Abbiamo solo una
costante, ed è la Morte.
E per questo ho
deciso di andarle a fare una sorpresa: perché a me le costanti non
piacciono, perché non possono essere ignorate.
Doveva stare
ancora a sentire la mia versione dell'Ira di Achille.
E
gliel'ho cantata.
Fu
come ricambiarle lo sgambetto.
Quanto
è difficile concludere una storia così. Questo capitolo è stato
riscritto tre volte e corretto per mesi, ma ancora non mi soddisfa.
Comunque,
volevo mettere la parola fine a tutto questo. È la storia più
importante che abbia mai scritto – un'esperienza quasi
catartica.Ringrazio
chi c'è sempre stato, con una fedeltà che mi ha davvero commosso:
GioTanner e
Chocolat95.
E anche chi l'ha aggiunta tra preferite, seguite o ricordate.
Se
qualcuno volesse adesso darmi un parere in conclusione, è davvero
bene accetto. Questo scritto non lo so proprio valutare
oggettivamente, e mi piacerebbero dei riscontri.
Volevo
chiarire il perché della scelta di Messina per Manigoldo.
Intanto
perché è una città di snodo, tutta proiettata, oserei dire
lanciata, verso l'esterno. E già solo questo per Manigoldo andava
bene.
In
più, come ci insegna Tucidide nel libro VI delle Storie, essa fu
fondata da alcuni pirati di Cuma con il nome di “Zancle”, che in
siculo significa “falce”. Il nome le fu cambiato dal re Iblone in
Messene.
Come
Manigoldo, anche questa città cambia il proprio nome.
Non
mi sembrava necessario far passare il nostro giovane presso le
pendici dell'Etna. La sua armatura, dopotutto, risiedeva ad Atene con
Sage.
A
tal proposito, prevedo un seguito a questa storia, sull'addestramento
vero e proprio, sul rapporto tra maestro e allievo. Non so quando
vedrà la luce, ho buttato giù solo qualche bozzetto. Ditemi se vi
va l'idea.
L'estate
è la stagione in cui mi vedrete di più. Per ora, Jailer prevede di
comparire solo saltuariamente.
Grazie
ancora,
un
abbraccio,
Jailer.
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