Rose Malsane di Loop (/viewuser.php?uid=39715)
Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.
Lista capitoli:
Capitolo 1: *** In Viaggio ***
Capitolo 2: *** Florent ***
Capitolo 3: *** Siamo Arrivati ***
Capitolo 4: *** La Fuga ***
Capitolo 5: *** La Villa ***
Capitolo 6: *** Incubi e rose ***
Capitolo 7: *** Calando Le Ombre ***
Capitolo 8: *** Cecìle ***
Capitolo 9: *** Baptiste ***
Capitolo 10: *** Enfern ou Ciél, qui importe? ***
Capitolo 11: *** Come la pioggia ***
Capitolo 12: *** Madrigali ***
Capitolo 13: *** Capitolo XIII ***
Capitolo 14: *** Abissi di Perdizione ***
Capitolo 1 *** In Viaggio ***
capitolo I
Capitolo I
In Viaggio
Le cinque e mezza del
mattino
Pigramente, una graziosa testolina scarmigliata si fece
strada fra un allucinante groviglio di lenzuola azzurro cupo, mentre un braccio
cercava a tastoni di spegnere l’assordante trillo di una sveglia digitale; un
nuovo gentile invito proruppe dalla
cucina, una voce di ragazza irritata gridava affinché il proprietario della
testolina si svegliasse, finalmente: “Razza di abulico figlio dell’indolenza,
lo so che sei ancora sotto le coperte! Muovi il culo o ti lascio qui!”
Con grande sforzo, finalmente il ragazzo si scrollò di dosso il mostruoso
viluppo, tirandosi a sedere sul letto; rimase immobile per qualche minuto
buono, tentando di mettere a fuoco la vista e, stropicciandosi gli occhi, si
trascinò verso il bordo del letto, appoggiando cautamente i piedi a terra; il
contatto con il pavimento freddo gli causò un brivido che gli corse su per la
schiena, cosa che lo aiutò a liberarsi di quella foschia mentale che gli
impediva di rendersi minimamente conto di dove fosse o di come si chiamasse.
“Hey ragazzino, muoviti che Alex si sta adirando” Ricordò Julie, appena
comparsa sulla porta, ridacchiando all’idea di sua sorella adirata. “Uh? Ah…si ecco, un secondo..” tentò di rispondere fra uno
sbadiglio e l’altro; si alzò lentamente, e altrettanto lentamente si diresse
verso la cucina.
Alex lo attendeva già vestita e pronta, sveglia ed energica in modo
inquietante, tenuto conto dell’orario; lei e July avevano già fatto colazione e
ora, sul tavolo, una solitaria tazza di latte e caffè dall’aspetto poco
invitante attendeva il ragazzo ormai quasi semi sveglio. Si sedette lentamente,
prese la tazza calda e l’avvicinò alle labbra, e istantaneamente fu investito
dal vapore profumato di caffè, un odore casalingo, piacevole, intimo:
quell’odore forte gli era sempre piaciuto, anche se il sapore non lo amava
molto, anzi, lo beveva quasi soltanto nel latte; addirittura ne comperava una
qualità aromatizzata alla vaniglia, che aveva scovato in una piccola
erboristeria nel centro, pretendendo che in casa consumassero quello perché aveva un odore rilassante. Per
sfregio Alex aveva continuato a bere quello normale, e lui aveva continuato a
buttarglielo.
“Muoviti” Fu l’invito secco di Alex che attraversò velocemente la cucina,
passandogli accanto, con due grosse valigie nelle mani, diretta all’auto dove
le avrebbe caricate; comparve anche la
madre, che rivolta alla ragazza chiese con un lieve tono di rimprovero “Non
vorrai che si strozzi”; Alex l’aveva giusto guardata di sfuggita, ridacchiando
in modo inquietante, e aveva accennato un “ Ah! Mi hai scoperto” prima di
scomparire sulla porta dell’ingresso.
Julie si era seduta di fronte al fratello, le braccia incrociate sul tavolo, e
lo sguardo fisso sul ragazzo; era rimasta a guardarlo per un poco, poi aveva
detto :“ Sei emozionato? Finalmente si parte”; il ragazzo aveva alzato lo
sguardo dalla colazione, e aveva guardato Julie, che sorrideva allegramente,
chiedendosi una volta in più che parentela potesse esserci tra lei e l’erinni
che stava caricando le valigie in macchina. Mah.
“Julien santo dio vuoi muoverti!? Dovevamo partire cinque minuti fa!”
“Dio.. ecco! Dieci secondi!” si era finalmente deciso a rispondere lui,
esasperato.
Aveva terminato con un sorso la tazza di latte e caffè, e di corsa era andato a
raccattare una maglietta e un jeans, aveva afferrato i due borsoni con la sua
roba compressa dentro e finalmente era uscito di casa.
“Metti la tua roba nel cofano e sali”
“Sissignora”
“Avete preso tutto?” la signora Celéstine era comparsa sull’uscio, e guardava
affranta l’auto già in moto; “Si ma’ abbiamo preso tutto. Ti voglio bene, vedi
di non preoccuparti troppo, ok?” Julie l’aveva avvolta in un abbraccio, e
staccandosi da lei l’aveva baciata, sorridendo; “Mi raccomando, non litigate,
state attenti e chiamate” “Certo ma’. Ci vediamo!” “Si... si, ciao ragazzi!”
salutò mentre Julie saliva in auto, e Alex, per sottolineare che avevano
capito, abbassò il finestrino e sorrise allegramente, sollevando il pollice in
segno di saluto.
“Mon dieu, speriamo non succeda niente…”
pensava Celéstine mentre l’auto si allontanava dal vialetto.
Julien Tournier aveva allora diciassette anni; era
l’ultimogenito della famiglia Tournier, una delle tante di un piccolo paesino
ordinato e abitudinario, situato nel centro sud della Francia.
Non era particolarmente alto, ma molto grazioso di viso: i lineamenti erano
delicate curve appoggiate appena sulla pelle di candida seta cinese, gli occhi,
grandi e fondamentali nell’elaborato ricamo della sua bellezza, erano di
pallida giada screziata, con lunghi raggi di verde più scuro che partivano
dalla pupilla e si perdevano nell’iride, tra i quali il colore s’intensificava,
divenendo quasi – paurosamente – assenzio; il naso era elegante e dritto, non
troppo piccolo o troppo grande, con una collinetta impercettibile sulla cima e
con la punta spavalda rivolta in alto; le labbra, sottili e rosse, spiccavano
quasi volutamente come una piccola e violenta rosa tra due smeraldi, sul viso
d’avorio: quella inferiore, più carnosa della sua vicina, rimaneva talvolta
dischiusa, in una posa involontariamente sensuale, accentuata, se è possibile,
dal colore quasi scarlatto.
Era di costituzione decisamente sottile, tanto che da bambino pareva quasi un
fuscello, e crescendo aveva conservato la delicatezza e la grazia di un
ballerino dell’opera, seppure la sua figura avesse assunto una sfumatura, ai
margini, quasi femminile.
Mangiava poco e amava la lettura e la musica: in un ammirevole slancio di
patriottismo, era riuscito a leggere quasi tutte le opere di Dumas e Hugo; ma
la sua passione rimanevano le poesie di Verlaine e dei Maudits, le meravigliose
poesie intrise di fuoco e morte, tragiche e romantiche a loro modo, a volte
scabrose, a volte semplicemente tristi.
Riguardo il suo secondo amore, lo aveva coltivato sin da bambino, con l’aiuto
di maman e di un simpatico zio, insegnante di un conservatorio poco lontano dal
paesino natale: possedeva un innegabile talento per gli strumenti a corde,
suonava eccellentemente violino, violoncello e contrabbasso, e anche se non
aveva un passione particolare per quest’ultimo strumento, il pianoforte.
Prediligeva Debussy, con le sue melodie di vetro soffiato, i notturni di
Chopin, Bach per la perfezione delle sue opere e Tchaikovsky, con le
meravigliose melodie complesse e armoniose, che sapevano emozionare,
sconvolgere, catturare. Si stupiva ogni volta, ad ascoltarlo, di quanti
strumenti, quante armonie, quanto caos fosse riuscito a domare e armonizzare
nelle sue creazioni.
Una cosa singolare nella vita di Julien erano le sue sorelle: Alexandra e
Juliette. Come capita spesso fra i gemelli, pur essendo fisicamente speculari,
caratterialmente erano completamente diverse; non che fossero l’una il
contrario dell’altra, ma qualcosa di ancora più lontano, che in qualche modo
singolare, si congiungeva immancabilmente in tutto.
A differenza del fratello minore, loro possedevano una bellezza di carattere
sudista, bruna e dorata, eredità materna; entrambe avevano lunghi capelli color
ebano, stretti in folti e minuti ricci, morbidi e aggraziati, e la pelle color
bronzo anche in pieno inverno. Soltanto il colore degli occhi, quel verde così
singolare, le accomunava al fratellino.
Alex, la primogenita in assoluto, era la leonessa della famiglia. Possedeva un
carattere radicalmente dominante, un’ascendente a volte persino involontario su
chi gli stava intorno, professori compresi:
i voti vertiginosi erano pienamente meritati, e questo è fuori ogni
dubbio, ma quel particolare tono, quel particolare sguardo che solo lei
possedeva, avevano il potere di intimorire gli insegnanti; gli studi non erano
l’unico campo in cui eccelleva: praticava un numero indeterminato di sport, su
consiglio dei genitori, “per sfogare lo stress…” e una lieve tendenza all’aggressività
che spesso la coglieva nei momenti sbagliati. E, ovviamente, coltivava la
musica. Più per insistenza del fratello che per altro, aveva iniziato a prender
lezioni di canto a undici anni, e aveva così scoperto un piacevole talento
anche per quest’arte.
Juliette era invece una creaturina graziosa e delicata, un’anima antica, saggia
e serena, mai arrabbiata; sembrava vivesse sospesa in un piacevole limbo dai
colori caldi e piccoli fiori esotici dai colori rilassanti, dove ogni cosa era
fatta d’aria e d’acqua, mai troppo solida da poter essere toccata con le mani.
Amava vestire con tessuti naturali, ampie gonne leggere e pantaloni kaki, con casacche
di colori naturali e foulard svolazzanti: nel complesso sembrava una visione d’altri
tempi, una giovane bohemiénne egiziana,
una ballerina delle vie.
Ad accentuare tutta l’esoticità di queste tre creature, i loro lineamenti:
nessuno, nella loro città, possedeva lineamenti simili, il volto, la linea
della mascella, la curva delle labbra, il taglio degli occhi allungato, quel colore, le ciglia folte che
sembravano quasi poste ad una ad una da Caravaggio, per il gioco d’ombre che creava
intorno agli occhi, amplificando o mimetizzando ogni espressione.
E per quanto, almeno nel fototipo, Julien non somigliasse nemmeno vagamente
alle due sorelle, era impossibile non accorgersi del loro stretto legame di
sangue.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 2 *** Florent ***
Capitolo II
Capitolo II
Florent
Dal giorno in cui nacque, a quello in cui fu ammazzato,
Florent non conobbe fortuna; sua madre
l’aveva partorito in un giorno nefasto e sotto una cattiva stella, che fu la
sua unica compagna di vita.
La sua prima sfortuna cominciò ben presto, appena nato; tra tutti i doni degli dèi, a lui toccò
quello più sterile: la bellezza. La
seconda sfortuna, anch’essa determinante nella sua vita, fu quella di nascere
figlio bastardo.
La notte in cui venne alla luce, fu
strappato dal petto materno ancora urlante e grondante sangue, per essere
malamente avvolto in una copertina e, tra le braccia di un uomo che non aveva
idea di come tenerlo, fu trasportato fuori dalla regale dimora natale,
appartenente ad un antico casato di cui la sua sfortunata madre era l’erede, e
consegnato a una povera contadina, in uno sperduto villaggio a miglia e miglia
di distanza. La povera donna era la figlia ultimogenita di una coppia di vecchi
domestici della famiglia materna, che dal marito aveva già avuto un figlio
maschio, Lilian, prima che questi partisse per la guerra, per non tornare mai
più. La creatura era forte e sana, e da poco era stata svezzata, cosicché il
piccolo Florent poté nutrirsi dal seno ancora colmo di questa donna,
suggellando così una fratellanza di latte con il suo vero figlio.
La buona donna aveva cresciuto i due bambini con eguale affetto e severità
all’occorrenza, ma essendo di natura buona e gentile, era poco incline, anche
quando sarebbe stato meritato, a sgridare o a rincorrere i due monelli.
Ai due ragazzi fu ben chiarito da subito, seppur con estrema dolcezza, che non
erano realmente fratelli, ma fino all’adolescenza, per loro non fu un vero
problema. Avevano lo stesso cognome e chiamavano maman la stessa donna. Tanto bastava. Più difficile fu accettare il
fatto che non avessero un padre, la cui mancanza fisica e il cui contributo
economico si fece sentire spesso e volentieri, a volte in modo pressante, ma
che ben presto i due ragazzi impararono a sopperire: se Lilian, più alto e
muscoloso, aiutava la mamma nei campi, Florent, meno robusto, si occupava delle
faccende domestiche, equilibrando così la vita lavorativa e rendendola meno
faticosa per tutti.
Fu subito chiaro che Florent aveva talento nel cucinare, e in genere nel
trafficare con le erbe; andava lui a raccoglierle infatti, o le coltivava
personalmente, occupandosi anche dell’essiccazione e della macerazione. Maman fu così sgravata di un compito in
più, e con piacere gustava le zuppe di verdure che il ragazzo improvvisava,
nascondendone la povertà con spezie e aromi, odori vari e un pizzico di
peperoncino, che nei suoi piatti non veniva mai a mancare.
Dal canto suo, Lilian non era molto contento che il fratellino (s’era deciso,
in base al fatto che Lilian sembrava avere diversi anni in più a Florent, che
lui si sarebbe accollato il ruolo di fratello maggiore e quindi di capofamiglia)
s’occupasse di un’incombenza tanto femminile, ma non si sarebbe mai azzardato a
dirlo ad alta voce, in quanto sapeva che Florent si sarebbe offeso e, dopotutto,
non voleva rinunciare a quei vapori odorosi che si spandevano la sera per casa.
Presto l’infanzia scivolò dai visi e dai corpi dei due ragazzi, trasformandoli
in creature che poco avevano in comune con i lattanti sempre lerci che
scorazzavano per il piccolo cottage familiare; Lilian, a quindici anni, era ormai un uomo, alto e nervoso, con ampie
e armoniose spalle da nuotatore, belle gambe lunghe fasciate in lungo da
muscoli ben sviluppati e al pieno delle loro possibilità, braccia energiche su
cui la notevole collina dei bicipiti si contraeva a ogni movimento, mani da
artigiano, non troppo grandi, dalle dita lunghe e sottili, un collo ben
proporzionato alla testa, da cui si intravedevano i bei tendini che andavano
congiungendosi nell’incavo alla base di esso, perfetti, e di una certa eleganza
anche; e alla prestanza fisica poco
comune, s’aggiungeva un viso dai tratti decisi e attraenti, un naso greco dalla
fiera punta, zigomi alti, occhi grandi celeste intenso, screziato di sfumature turchine,
coronati da lunghe ciglia bionde curve all’insù, il tutto sovrastato da belle
sopracciglia dorate e da ancor più amabili onde di capelli biondo intenso. E le
labbra, che spiccavano sfrontate e rosse sulla pelle candida, carnose ma non
volgari, involontariamente sensuali in ogni piega, erano di certo le più belle
che un ragazzo possedesse forse persino in tutta la regione. Più tardi,
qualcuno avrebbe appurato che erano le più belle di tutta l’Europa.
Florent, alla stessa età, era cambiato, certo, e anche molto,
ma il suo cambiamento era stato fondamentalmente differente da quello del
fratello: da bimbetto grazioso si era trasformato in un giovane dio del
Caravaggio. Era anch’egli alto, ma non quanto Lilian, aveva lunghi arti
flessuosi e naturalmente eleganti, i fianchi stretti e il petto glabro, spalle
armoniose e muscoli che di certo non sfiguravano, ma che non potevano essere
paragonati nemmeno vagamente a quelli del fratello. La sua ossatura era minuta
e elastica, le mani piccole e affusolate, da musicista o da amante; il collo
era sottile e pulito, senza una piega o un neo, e la sua pelle in generale era
perfettamente uniforme nel suo colore bronzeo dai riflessi dorati, senza una
macchia, senza un’imperfezione di qualunque sorta, morbida, invitante, a volte persino
provocante nella curva che prendeva la sua schiena quando, seduto, si sporgeva
in avanti. I lineamenti del suo viso
poi, erano tanto perfetti quanto esotici: la forma ovale perfetta, indurita
appena dalla curva decisa della mascella, i grandi occhi felini di un nero pece,
l’arco delle sopracciglia scure dalla linea perfetta, il nasino femminile e
grazioso, le gote lisce senza ne acne ne barba, velate appena da una invisibile
peluria fulva, le labbra a bocciolo di rosa, che conservavano la serica innocenza
infantile, e infine i folti riccioli rosa, che come una corona barocca,
incorniciavano quel capolavoro naturale.
Questa sua bellezza fuori dal comune, scoprì molti anni dopo, era dovuta alle
diverse razze da cui discendeva per parte di padre, un altrettanto bellissimo
meticcio figlio anch’egli illegittimo di un famoso hidalgo tornato dalle
Americhe e di una splendida creola la cui madre era appartenuta a una di quelle
tribù fiere e selvagge che popolavano la terra vergine, e che era stata
sottomessa a vita coniugale da un nobile ufficiale contro cui s’era battuta in
gioventù.
Il suo sangue, in cui erano mescolati quello spagnolo e
quello indio, gli aveva conferito uno smisurato orgoglio e una tendenza
naturale e degenerante alle passioni violente, e questa fu la sua terza
sventura.
In lui, forse troppo precocemente, la spensieratezza e
l’ingenuità dell’infanzia svanirono, per lasciare strada libera alla libido
degli anni in cui i sensi si svegliano e, violenti, prendono possesso
dell’anima dei giovani, infiammandola e lacerandola; fu qualche mese prima del
suo sedicesimo compleanno, che Florent iniziò a guardarsi più attentamente allo
specchio: osservava la sua pelle, le gote perfette e setose, per nulla
intaccate dalla piaga dell’acne, color bronzo dorato, e le sfiorava con le
nocche, per accertarsi che fossero realmente morbide e ben rasate; si lavava
spesso i folti capelli scuri, affinché fossero soffici e lucidi, e i ricci non
avessero nodi, ricadendo perfetti ad incorniciare l’ovale del viso, e per
questo emanavano sempre un intenso profumo.
Non c’era una ragazza, nel villaggio dove viveva, che non gli avrebbe concesso
su d’un piatto d’argento la sua virtù, in barba all’onore e alla purezza; di certo, quelle che avevano avuto
l’occasione non se l’erano lasciata scappare. Ma ciò che Florent cercava, in
quei dolci e inesperti scambi di tenerezze, non era tanto lo sfogo della
passione, quanto un appagamento dei sensi che conosceva per istinto più che per
altro, e che sapeva di poter raggiungere attraverso l’unione non solo del
corpo, ma anche del puro spirito, nello stesso istante. A volte c’era andato
vicino a quel mistico momento, volatogli fra le dita all’ultimo secondo, ma si
era poi reso conto che esso non era stato altro che mera illusione: giacere fra
le braccia di una contadinella dalle trecce color grano, morbida e profumata,
era certo una cosa meravigliosa, perché
ella concedeva affetto e tenerezza, riparo e calore, oltre a un piacere
concesso giocosamente e con generosità, ma il tutto mancava di qualcosa, una
sorta d’intimità serafica, mancava d’amore, quello vero, quello doloroso e
lacerante, mancava di quella fiamma che dentro di lui minacciava di consumarlo,
mancava della componente tragica che sempre, inconsciamente avrebbe ricercato.
E forse fu questo a spingerlo, un giorno, a fare quel passo decisivo che fu
soltanto il principio della svolta della sua vita.
L’inverno era arrivato, e a novembre tutto il paesaggio
s’era imbiancato come la testa d’un vecchio; faceva freddo, e forse ci sarebbe
stata una stagione più rigida del solito. La notte arrivava in fretta,
costringendo le famiglie in casa, e i campi ormai erano stati abbandonati.
La casa era intrisa del profumo della camomilla lasciata a essiccare in
soffitta, e tutto pareva essere più dolce e più placido; la mamma dormiva
ormai, mentre i due ragazzi, nella loro stanza, s’occupavano delle loro
faccende: Lilian stava sdraiato sul letto, immerso in una muta conversazione
con se stesso, e Florent, davanti all’unico specchio della casa, osservava i
pigmenti scuri dei suoi occhi. Erano belli i suoi occhi, oh si, dolci e
amarognoli come il caramello; i suoi occhi frangiati dalle ciglia lunghe, i
suoi occhi allungati e felini, quei suoi occhi da straniero. Si voltò verso
Lilian, che ora lo guardava, e chiese a bassa voce: “Sono belli i miei occhi?”
“Si, lo sono” rispose il giovane, drizzatosi sulla schiena;
“Ma a te piacciono?” le iridi sembravano immense, e un’espressione
indecifrabile solcava il suo viso, scivolandogli sulle labbra e posandosi su
quella inferiore, socchiudendole come un bocciolo che stia per fiorire;
“Certo. Perché me lo chiedi?” lo guardava perplesso, ingenuamente, e Florent si
faceva sempre più vicino;
“Non so” ormai erano l’uno di fronte all’altro, Lilian, ancora seduto sul
letto, e Florent, in piedi, con gli occhi ardenti che scaldavano la pelle
diafana dell’altro, accendendogli le gote; la mano di Florent si sollevò con
grazia, in un gesto misurato, e scivolò con il dorso sul viso dell’altro, in
una dolce carezza acquosa e vellutata; il fiato di Lilian si era fatto corto,
gli occhi celesti s’erano sgranati, e nel voler dire qualcosa aveva aperto la
bocca, lasciando che Florent potesse posarvi un bacio.
Non ricordava, Florent, quando aveva smesso di vedere in Lilian un fratello;
ormai, conosceva soltanto la bellezza del suo viso, e null’altro. Quante volte
aveva misurato con lo sguardo l’ampiezza delle sue spalle, scivolando sulla
curva della spina dorsale inarcata, quante volte ammirato le braccia forti, che
si contraevano sollevando il bicipite, quante volte gli era saltato il cuore in
gola a vederlo di mattina, con il torace nudo, la splendida vita e i fianchi
stretti, e i piccolissimi peli dorati che si potevano scorgere solo contro la
luce d’una candela, a notte fonda, quando era addormentato sulla pancia e la
coperta era abbandonata in qualche remoto angolo della stanza? Quante volte,
per gioco, lo aveva abbracciato, gli aveva sfiorato i tendini del collo, lo
aveva baciato fraternamente sulle guance morbide e sempre lisce, accostandosi
sbadatamente all’angolo invitante della bocca
Era peccato, certo, perché erano fratelli seppur non di sangue, ma allattati
dallo stesso seno, e cresciuti dalla stessa donna. Era peccato, perché lui era
un maschio, e la sodomia era aborrita dalla cristianità. Era peccato, si, non
vi erano dubbi, ma ormai aveva imparato da parecchio che il piacere ha dimora
nel cuore del peccato.
Ma poteva il fuoco essere un prezzo abbastanza alto per le braccia che ora,
timidamente, gli stringevano la vita? L’inferno era abbastanza buio e terribile
perché valesse come giusto prezzo per la morbidezza di quelle labbra rosse e
calde, l’espressione rapita su quel volto che tornava bambino, dolce, etereo,
quel corpo che s’irrigidiva e si contraeva, bastavano tutti i demoni di quelle
spelonche anguste come aguzzini per l’eternità, per quel piacere che sorgeva da
abissi di coscienza mai sospettati?
I respiri corti e spezzati di Lilian s’infrangevano nelle
orecchie del giovane steso su di lui, che si era fermato a guardarlo; di colpo
era stato spinto via, giù dal piccolo letto di paglia, e Lilian s’era alzato di
scatto, prendendo nervosamente a passeggiare per la stanza;
“No, no! Cosa stavamo facendo? Oh, Vergine benedetta, oh!”
“Calmati! Non stavamo facendo nulla di male. Giocavamo. E tu non sai giocare;
ma posso insegnarti, sai?”
Lilian s’era arrestato, voltandosi di scatto verso di lui; con gli occhi
sgranati e l’espressione esterrefatta cercava di trarre un suono dalla sua gola
secca;
“E’ così? E’ tutto un gioco per te?”
“Io gioco con sincero affetto, e so che tu ne provi per me”
“Ma non così! Tu dovresti cercare le belle ragazze da baciare! Io sono un
maschio, e anche tu lo sei!”
“Shhh! Non urlare, vuoi che maman ci
senta? Lilian, ragazze, ragazzi…è un discorso astratto. Tu mi piaci perché sei
bello, e t’amo perché sei mio fratello. In te non vedo nulla più d’un angelo
biondo, come quella bella statua in chiesa, che ti piace tanto; ti sei mai
chiesto se quello fosse un maschio o una femmina? Per me è lo stesso”
“Ma tu sai che io sono un ragazzo!”
“Ma non importa! Non capisci? La bellezza degli angeli, la tua bellezza, non è
dei maschi tanto quanto non è delle femmine. Lilian, guardami: sono bello?”
“Si che sei bello, non chiedermelo che lo sai”
“E sono belle le mie labbra?”
“Sono belle come il resto, Florent”
“E vorresti baciarmi?”
Il suono che era scaturito dalla gola
del giovane era a metà strada tra un gemito strozzato e un grido agonizzante; la
tentazione sorgeva a ondate violente, che gli spingevano le ossa in avanti, e
non riusciva a fermare i propri muscoli che avanzavano, o il viso che s’abbassava,
o la bocca che si schiudeva su quella dell’efebo bruno che voluttuosamente si
spingeva verso di lui. O la mente, che libera dalle briglie della volontà,
fluttuava.
“Lilian” sussurrava ora Florent, accostatosi all’orecchio finemente cesellato
del giovane, “tu non sei mio fratello per davvero. Ma io t’amo lo stesso”
________________________________________________________________
ANGOLO DELL’AUTRICE
In questo secondo capitolo comincia la storia che s’alternerà a quella di
Julien e le sue sorelle; voglio specificare questa cosa, che m’ha fatto sorgere
seri dubbi: come avrete notato, c’era una lievissima lime shouen ai tra Florent
e Lilian: in realtà non sono fratelli, e ahimè non so se possono essere
definiti fratelli adottivi o fratellastri, non ne ho davvero idea. Se qualcuno
m’aiuta su questo è un bene, ma il problema principale sta nel fatto che temo
la loro relazione possa causare problemi riguardo il regolamento del sito. Poi
beh, non ne ho idea, in fondo non è un vero e proprio incesto. Se dovesse
essere un problema serio, avrò premura di toglierlo subito, in alternativa
lasciate una recensione con le vostre opinioni e le vostre critiche. Grazie
dell’attenzione, e al prossimo capitolo ^^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 3 *** Siamo Arrivati ***
Capitolo III
Capitolo III
Siamo Arrivati
In macchina, Julien guardava
distrattamente le macchie informi che passavano davanti al finestrino, alberi e
case, l’alternanza di fattorie e campi di girasoli, con qualche deviazione per
dolci e tozzi pendii boscosi; Alex guidava
silenziosa, non troppo impegnata, ma assorta, e Juliette andava alla deriva fra
le onde dei suoi pensieri. Nessuno badava al silenzio, perché nessuno lo
sentiva.
Lui aveva messo le cuffie sulle orecchie, e ascoltava distrattamente qualche
vecchia canzone lenta e bassa, a un volume moderatamente alto, che gli
consentiva di isolarsi senza disturbare gli altri; un lieve sopore lo stava
prendendo, e la tentazione di cedergli
lo allettava, ma mentre ormai la musica diventava lontana e sfocata, la melodia
era mutata, un lieve cambio di stile, e una voce familiare lo aveva riportato
alla coscienza, con una sgradevole sensazione di tristezza che improvvisamente
gli era saltata addosso per attanagliargli le viscere.
Era Don’t Cry che ora passava sul
lettore, e la voce bassa e roca era quella di un biondino folle e un po’
esaltato, che però ci metteva il cuore a cantare questa canzone.
“Talk to me softly,
there’s something in your eyes,
Don’t hang your hand in sorrow,
And please, don’t cry..”
Già, non piangere.
Per favore, non piangere.
Ma se le lacrime vengono, come si fa a
fermarle? Non lo sapeva allora Julien,
e non lo sa tutt’oggi.
Si ricordava la prima volta che aveva sentito questa canzone, la prima volta
che qualcuno gliel’aveva presentata, come una vecchia amica; e avevano subito
fatto amicizia, e per tanto tempo, ma forse era stato poco più che un battito
di ciglia, quella canzone era stata la sua migliore amica, la sua confidente,
un po’ di consolazione dal sapore amaro, da concedersi quando fuori è buio e
sai che nessuno accenderà una stella per te.
§§§
Si chiamava Laurent. Lui e Julien andavano alla stessa
scuola, vivevano nello stesso quartiere e conoscevano le stesse persone; e
forse era un miracolo che fossero così vicini, o forse era solo una tragedia,
perché le cose belle quando cadono, di solito si frantumano in mille pezzettini
piccoli piccoli. E questa era stata la loro fine. Mille, piccoli, invisibili pezzettini.
Un volta erano capitati nello stesso banco, alle medie, e da quell’episodio
casuale erano scaturiti anni di solida amicizia; Laurent aveva preso per primo
la parola, presentandosi con quel solito modo di fare confidenziale e un po’
sfacciato, che lo faceva rassomigliare più a un avvocato che a un ragazzetto di
dodici anni; e Julien, sulle prime, s’era scostato imbarazzato. Ma poi si era
ritrovato senza nemmeno accorgersene in un’infiammata discussione di cui ormai
ricordava soltanto il coinvolgimento emotivo, e alla fine gli aveva sorriso, un
po’ sciocco, e aveva inclinato la testa da un lato, chiedendogli se gli andava
di fare i compiti insieme. Certo.
La loro amicizia s’era formata su una base solida: erano due persone dall’animo
puro, due mancati cavalieri templari, fiduciosi, orgogliosi, sognatori e
onesti, ed entrambi innamorati della musica; Laurent suonava l’arpa e la
celeste, e voleva diventare compositore, e di talento di certo ne aveva da
vendere. La determinazione, e il fuoco che aveva negli occhi, così pensava
Julien, lo avrebbero portato lontano, poco ma sicuro. E così fu, ma questa è
un’altra storia.
Alle superiori erano ancora insieme, e ormai la loro amicizia era solida e
invalicabile, stretta a doppio filo dalla complicità della confidenza sincera,
senza ipocrisie; le prime ragazze, i primi baci, le prime strane scosse al
basso ventre, erano venuti più o meno nello stesso periodo per entrambi, e a
differenza di molti adolescenti, s’erano ritrovati a combatterle in due,
sconfiggendo il mostro dell’incomprensione e della solitudine con una doppia
lama. E nonostante tutto, erano rimaste due persone completamente opposte: da
un lato Laurent, che aveva l’anima rossa del cacciatore, l’istinto più affinato
della ragione, i sensi potenti e sensibilissimi, che parlava la lingua del
contatto fisico, per cui esso era indispensabile per saggiare la realtà delle
cose, e dall’altro Julien, con lo spirito blu oltremare, profondo e
impenetrabile, che viveva d’aria e d’idee, un raro esempio di uomo che volendo,
riuscirebbe ad amare platonicamente.
Ed era forse questo, che li univa e li spingeva l’uno contro l’altro, causando
pressione tutt’intorno a loro; e forse per questo, un giorno, mentre se ne
stavano sdraiati sul letto di Laurent e la voce di Axl Rose intonava una
vecchia canzone un po’ triste, qualcosa si alterò, incrinandosi, sciogliendosi,
mescolandosi;
“Julien”
“Mh?”
“Ti posso chiedere una cosa?”;
Julien s’era messo a sedere, facendosi serio nel guardare gli occhi blu dell’amico,
fattisi grandi e bui: “Che c’è?”
“Ti devo chiedere una cosa. E’ un po’ strana, mi prometti che non t’arrabbi?”
“No, non m’arrabbio. Che cosa mi vuoi chiedere?”
“Beh, ecco, è strano, ma mi è venuta in mente proprio adesso, mentre ti
guardavo. Senti, se io, metti caso, se ti baciassi. Sarebbe tanto strano?”
“E perché vuoi baciarmi?”;
Laurent aveva arricciato il naso“Non ho mica detto che voglio. Ma se
succedesse. Se io volessi”
“Va bene, e perché vorresti?” erano domande strane, e Julien si stupiva di
rispondere persino, ma era come un gioco, un gioco di seduzione però. E nessuno
dei due se n’era reso conto.
“Perché hai una bocca molto bella” gli aveva passato il pollice sul labbro
inferiore, in un gesto istintivo che Julien non aveva rifiutato, e al
contrario, si era scoperto a porgere le labbra a quella carezza, avvampando di
rimando.
Laurent era serio, concentrato, e stranamente attraente; aveva il viso ingenuo
di chi si scopre a peccare, e crede d’esser peccatore. Era un bambino, ma lo
era anche Julien.
“Che vuoi sapere? Se ti tirerei un cazzotto?”
Laurent s’era allontanato di scatto, sospettoso e un po’ imbronciato, vistosamente
punto sul vivo;
“Lo faresti?” aveva chiesto a bassa voce, aggiungendo poi con gli occhi: io non lo farei, e so che tu non lo
faresti; ma mi stai dicendo che potresti farlo davvero?
“No,” un sospiro aveva spezzato la frase, dopo di ché s’era aggiunto un
altro “no”, per concludere; aveva alzato lo sguardo, fissandolo negli occhi del
ragazzo che si trovava di fronte a lui; poi era tornato a sdraiarsi, rilassando
i muscoli che involontariamente s’erano contratti in quella manciata di minuti
ch’era durato il discorso. Ora il so sguardo vagava per il soffitto, e un po’
in realtà se l’aspettava, quando Laurent gli saltò sopra, bloccandogli le mani,
e non si agitò neppure; era già successo. Quello che ancora non era successo
mai è che lo guardasse così, con quei grandi occhi blu, e che lentamente
avvicinasse il suo viso dolce al suo, frantumando il respiro e tremando
leggermente, fin quando Julien non gli aveva stretto le mani che poco prima
facevano presa sui suoi polsi, intrecciando le dita alle sue e rassicurandolo,
come sempre, che andava tutto bene. Solo allora Laurent aveva avuto il coraggio
di consumare l’ultimo centimetro di distanza, e gli aveva appoggiato le labbra
sulle sue, con la delicatezza di chi teme di rompere un fiore di cristallo, e
Julien s’era sentito sul viso la morbidezza della sua pelle, i capelli soffici
marroncino chiaro, la punta del naso a sfiorare una guancia, ed era stato tutto
troppo bello per non essere un vero bacio.
Quando Laurent s’era sollevato, guardandolo con gli occhioni blu teneri e
fragili, terrorizzati da un imminente rifiuto che non sarebbe mai venuto,
Julien aveva capovolto le posizioni, portandosi sopra di lui, accollandosi la
responsabilità delle loro azioni, ricucendo il bacio da dove era stato
interrotto, ma senza quella teatrale quanto insoddisfacente delicatezza, affondando
le labbra nella pelle morbida dal profumo salino, accarezzandone ogni angolo e
ogni curva, lasciando che si dischiudesse di sua volontà, aprendosi finalmente
alla lingua, che prima s’era fermata intimidita e un po’ impacciata sull’uscio
delle labbra, e che poi, incoraggiata dalla sua nuova amica, era entrata senza
troppi complimenti, a cercare una scintilla di piacere nel profondo dell’anima,
leccandola via per potersene appropriare.
Nel frattempo, la canzone era quasi finita, e non faceva altro che ripetere di
non piangere stanotte, baby, there’s a
heaven above you, e come un tragico presagio la musica, lentamente, si
spegneva su quella preghiera egoista.
L’amicizia era continuata come al solito, forse più intima
di prima; i baci anche, saltuariamente, ma piano piano sempre più frequenti,
più lunghi, più vicini e colorati. Potevano passare settimane senza un contatto
più stretto che una pacca sulla schiena, ma arrivava sempre quel momento, di
solito verso il tardo pomeriggio, quando ormai stavano per separarsi, in cui lo
sguardo di Laurent si faceva languido, trasparente, lo spazio fra di loro
diminuiva, e una mano scivolava cauta e reverenziale sulla guancia dell’altro,
per poter constatare che non sarebbe scappato; era sempre Laurent che per primo
avvicinava le labbra, pretendendo d’esser conquistatore, ma poi s’abbandonava
all’amico, che protraeva il bacio all’infinito, cercandosi una via sempre più
in profondità, accorto a ogni vibrazione del ragazzo, e insieme facevano una
musica nuova, senza suono, percettibile solo per pelle, la musica più bella
che, anni dopo, Laurent avrebbe ricordato: la melodia dolce e lenta della prima
inesperta passione.
Dopo qualche mese avevano deciso per tacito accordo di tenere solo per loro
quella relazione, ma finchè fosse
durata, avrebbero dovuto rispettare l’altro per quello che era, e non più come
semplice amico; ma il punto era, cos’erano? In realtà era raro che se lo chiedessero,
perché a nessuno dei due importavano molto le parole; esse erano un modo
meschino di spiegare quello che gli stupidi non riescono a capire per intuito,
s’infervorava Laurent, e Julien rideva, sereno, passandogli le dita fra le
lunghe onde brune dei capelli, pensando a come dirgli che ormai i baci non
bastavano più.
Nessuno dei due s’era mai concesso più
di questo, infatti; per paura di rifiuto, per pudore, per rispetto, ma ormai i
fremiti erano palpabili nell’aria, e controllarsi era cosa sempre più ardua.
Julien lo sapeva, Laurent iniziava a rendersene conto quando una sera, chiusi
in camera, mentre i genitori di quest’ultimo erano fuori e la casa era vuota, lo
sguardo scivolò involontariamente sul cavallo dei jeans dell’altro. Julien,
fermo, aveva lasciato che il ragazzo si schiarisse le idee e decidesse sul da
farsi, godendosi l’attenzione e il desiderio con cui studiava le cuciture ocra
sulla ruvida stoffa scura. Finalmente,
dopo quasi due minuti, aveva alzato gli occhi, sicuro di sé, e aveva preso il
volto avorio di Julien fra le mani delicate, baciandolo con più tenerezza del
solito; da lì al finire supini, a terra, era stato poco più che un battito di
ciglia, Laurent con le mani che stringevano convulsamente i polsi inermi di
Julien, mentre le labbra affondavano con violenza, istericamente, pretendendo
ogni goccia di piacere che l’insoddisfazione aveva lentamente detratto; con una
mossa secca, Julien si era portato sopra di lui, guardandolo negli occhi, serio
e deciso, e Laurent s’era rilassato, abbandonandosi al pavimento e socchiudendo
gli occhi, mentre le labbra rimanevano dischiuse – e Julien pensava a quanto
tutto questo fosse involontariamente erotico,a quanto l’amico potesse essere
attraente senza nemmeno rendersene conto.
Il fremito si era protratto fin nei pantaloni, e questa volta, così stretti,
era impossibile nascondere l’evidenza che faceva pressione contro la cerniera,
un formicolio piacevole, un desiderio troppo a lungo soffocato; l’impetuosità
della giovinezza aveva fatto il resto, e Julien non aveva resistito alla
tentazione di far scivolare le dita sotto l’orlo dei jeans, liberando con una
lieve pressione il bottone dall’asola, abbassando con una lentezza estenuante
la cerniera, contando ogni singolo impercettibile click mentre il gancio andava
a fondo, e osservando attentamente ogni mutamento negli occhi di Laurent, che
ora sudava freddo e ansimava vistosamente – pensando a quanto fosse sensibile
questo ragazzino; con l’indice e il medio aveva iniziato a sollevare il bordo
elastico dei boxer di cotone, grigi, che non fecero alcuna resistenza, e mentre
le lunghe dita scivolavano dentro, sentiva la sua esigenza farsi pressante, ma quello non era il momento, non
ancora; le carezze erano cominciate piano, senza fretta, per assaporare ogni
centimetro di pelle, ogni scossone, ogni goccia di sudore fredda e calda che
scivolava lungo la spina dorsale, per prendere velocità e decisione mentre i
mugolii di Laurent cominciavano a distinguersi per quello che erano: gemiti.
Poi l’orgasmo esplose dentro Laurent, oscurandogli la vista; e a Julien era
sembrato quasi buffo, vedere il visetto infantile del ragazzo contrarsi quasi
stesse soffrendo, per poi distendersi mentre un gemito lungo e più forte degli
altri affiorava dalle sue labbra arrossate.
Beh, c’è da dire che il tutto fu molto divertente. Si concessero ancora un po’
di tempo per sperimentare tutto quello che avevano immaginato di fare fino ad
allora, convinti che da lì non si tornasse indietro, e tanto valeva quindi
proseguire; Laurent era portato per quel genere di giochi, aveva una vera e
prorpia inclinazione naturale, e qualcuno, anni dopo, avrebbe detto vero talento, mentre Julien era semplicemente
calmo e padrone dei suoi nervi, cosa che in fin dei conti irritava l’amico non
poco; e per tutta la serata giocarono così, come bambini che scoprono un mondo
nuovo, toccando, esplorando, tracciando mappe che avrebbero accurato nei mesi
seguenti, godendosi il tepore del piacere, cullandosi nella reciproca fiducia,
nella tenerezza, nella sincerità dell’affetto che provavano, nella sicurezza
che tutto quello sarebbe durato per sempre.
E quando giunse la notizia che Laurent avrebbe dovuto trasferirsi in una città
lontana quanto il sole, Julien rimase senza fiato.
La loro ultima sera insieme Laurent piangeva, e Julien lo teneva serrato al
torace, ché forse stringendolo il più possibile, non se ne sarebbe andato, non
sarebbe sfuggito dalle sue dita come l’aria; si presero tempo, quella sera, per
dirsi quello che non avrebbero potuto più dire, e anche se furono poche le
frasi pronunciate a mezza voce, l’intensità di esse li sconvolse fino a
lasciarli tramortiti e distrutti.
Si concessero due ore forse, per fare l’amore per la prima e l’ultima volta,
prima che tutto si sgretolasse senza che si potesse fare niente; Julien lo
sapeva di non poter chiedere a Laurent di aspettarlo, di rimanere con lui, perché
dei due, il giovane con gli occhi blu non era certo quello più forte. Forse lui
ci sarebbe riuscito, ma non poteva costringere l’altro; e non lo fece.
Non si sarebbero mai dimenticati, e forse si sarebbero cercati per sempre,
ritrovandosi, chissà, in un’altra storia, in altre righe, che non sono comprese
qui; e potrà sembrare crudele, ma la verità è che tutto finisce, anche quando
si è ragazzi e il mondo ci sembra eterno.
All’assolo di chitarra, Julien abbassò lo sguardo, incapace di trattenere una
piccola, minuscola, diamantina lacrima che scivolò velocemente sulla guancia,
sparendo fra le labbra come un bacio consolatorio a quelli che non sarebbero
venuti più; ma no, non era il caso di pensare a queste cose tristi, andiamo,
era finalmente cominciata la sua vacanza, meglio godersela il più possibile.
“Julien”
Alex lo stava chiamando. Aveva visto la lacrimuccia, aveva sentito l’impercettibile
sussurro di un don’t cry e aveva capito; con delicatezza aveva pronunciato il
suo nome, per destarlo dall’incantesimo della canzone che lo faceva sempre
piangere, per strapparlo alla tristezza che minacciava dall’orlo dei suoi occhi;
“Mh?” era riuscito a mugolare, asciugandosi in fretta gli occhi, così simili a
quelli della sorella;
“ Siamo arrivati, piccolo” lo aveva detto sorridendo, e il sorriso s’era
impresso nella frase, e Julien ne era contento. Anche Juliette aveva sorriso,
anche lei s’era accorta dell’ombra che aveva abbracciato il fratellino; poco
male, Alex ci aveva già pensato.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 4 *** La Fuga ***
Capitolo IV
Capitolo IV
La Fuga
Per tutto l’inverno Florent aveva continuato a giocare con i
sensi e i nervi di Lilian; all’inizio il giovane, rifiutava tenacemente quelle
sensazioni che gli sorgevano da dentro, considerandole basse e vili, ma ogni
volta che alzava lo sguardo per incrociare i grandi occhi scuri del ragazzo, si
chiedeva come avesse mai potuto pensare cose così brutte. Era combattuto, fra
l’amore e la passione e l’atroce vergogna.
E fu la passione bruciante a sopraffarlo, costringendolo alla resa senza che
egli potesse in alcun modo sottrarsi; e
per un po’ quella lotta tremenda gli tolse l’appetito e il sonno, preoccupando
non poco Florent e maman che proprio
non capiva cosa succedeva a quel suo figliuolo; ma presto aveva riacquistato il
suo colorito roseo, la sua energia da guerriero e l’allegria chiassosa che
aveva ereditato dal padre, che riposi in pace, il tutto la stessa notte in cui
aveva concesso finalmente a Florent di baciarlo di nuovo; e com’è ovvio che
accadesse, Florent l’aveva baciato per tutta la notte, aprendogli le porte di un
nuovo mondo, selvaggio e istintivo, dove l’inverno non arriva mai.
E se la notte la passavano a scoprirsi, il giorno a dimenticarsi, accecati
dalla luce, corrotti dalla colpa; maman
non sospettava niente, e di certo non ci pensava neppure a queste cose, mentre
la domenica assisteva distratta alla messa, totalmente cieca dinanzi ai volti
pallidi dei due figli, che si facevano piccoli piccoli quando il parroco
cominciava ad inveire contro la sodomia
e contro la perversione, esaltando la luce del Cristo che col suo sangue
lava i peccati.
Senza dubbio, Lilian era quello che più ne soffriva, mentre Florent, avvezzo
alle cose amorose, si destreggiava fra i sensi di colpa molto più agilmente; ma
al di là di questi tristi stati d’animo c’era il tarlo del piacere, che aveva
messo radici saldamente sotto la pelle dei due: quando Florent spariva nelle
selve, Lilian lo seguiva, fino a quando, nel cuore boscoso e buio, si
ritrovavano a ruzzare allegramente, felici e leggeri come solo gli amanti
possono essere, fra le felci morbide e le foglie bagnate, in compagnia degli
occhi discreti di insetti e fiori. Alla fine, esausti, rimanevano sdraiati
l’uno nella braccia dell’altro, contemplandosi a volte, o contemplando gli
squarci di cielo che s’intravedevano fra le fronde ombrose, con la mente vuota
e i muscoli distesi.
Per non destare sospetti, continuavano le loro vite come
sempre, il che consisteva per Lilian nell’essere gentile e allegro con tutti,
frequentando sporadicamente i suoi coetanei al villaggio, ma che per Florent
significava dover protrarre le sue relazioni con le belle fanciulle dalle
trecce color grano.
E questo mandava in bestia Lilian, che ogni volta che lo vedeva uscire da
qualche granaio con i vestiti sporchi di paglia, si faceva venire incredibili
travasi di bile che alla lunga gli avrebbero logorato il corpo e lo spirito, se
fosse vissuto abbastanza a lungo.E Florent, seppur dolente, sentiva una sorta
di piacere sottile nel vederlo con l’aria affranta e la schiena incurvata, gli
occhi turchesi chiari e umidi e l’espressione da bambino sconsolata; era uno
dei tanti modi in cui si sentiva amato.
Una volta, mentre veniva trascinato per mano da Lorette, una bella fanciullina
con i capelli rossi e il nasino pieno di lentiggini graziose, nel vecchio
granaio della sua famiglia, si era accorto della presenza di Lilian, che lo
aveva seguito senza averne l’intenzione, più per abitudine che per altro ormai,
e prima di scomparire dietro le assi scure e marcescenti del grosso portone,
non era riuscito a controllarsi e d’impulso lo aveva fissato negli occhi, con
la sua migliore aria provocatoria e un mezzo sorriso che gli sollevava gli
angoli delle labbra, in un’espressione che diceva a chiare lettere “Guardami, lei mi avrà,guardami e soffri”;
quando si rese conto di quello che aveva fatto gli si riempirono gli occhi di
lacrime, e dopo aver consumato frettolosamente la fiamma della giovane, era
corso a casa, angosciato dai sensi di colpa, e aveva trovato Lilian e maman seduti al tavolo, sereni e
sorridenti, che mangiavano zuppa; non
riuscì neppure a scusarsi per il ritardo, ché le parole gli morivano in gola,
mentre fissava il dolce viso chiaro del ragazzo che rideva con sua madre, come se non fosse accaduto niente, e
questo lo colpì allo stomaco facendolo quasi rovinare al suolo, tra gli spasmi
del dolore immaginario.
Finito di cenare si erano ritirati in camera, e quando si sentì la porta di maman chiudersi, Florent spinse al muro
il giovane, fissandolo in cagnesco e ringhiandogli a tre centimetri dal naso;
non gli importava più di lui? Non lo voleva più? Sia chiaro, a lui sarebbe
andato benissimo, oh, di certo l’amore non gli mancava! Ma furono gli occhi
enormi e spaventosamente bui di Lilian a zittirlo bruscamente, nell’esatto
istante in cui incrociarono il suo sguardo. Quegli occhi fatti per la gioia e l’allegria,
quegli occhi sempre bambini e spensierati, erano invecchiati di colpo, si erano
intristiti, e un lieve velo gli si era posato sopra, come la cataratta senile,
mentre piccoli brillanti salati gli scivolavano sulle gote tremanti;
“Perché? Come hai potuto?” riuscì a sillabare tra gli spasmi violenti del
pianto che lo scuotevano senza tregua; e
Florent, allontanatosi, cadde in ginocchio, e per la prima, e l’ultima volta
nella sua breve vita, chiese perdono nella maniera più umile e prosternata
possibile agli uomini.
Lilian continuava a piangere, e ogni lacrima scavava un solco immane nel cuore di Florent; in tutti gli
anni che avevano trascorso prima a giocare e poi ad amarsi, quella era la prima
volta che lo vedeva piangere, e l’impressione fu così violenta che non
dimenticò mai quel viso rigato, incandescente, e quell’espressione di dolore
assoluto. Non riusciva ad alzarsi, non riusciva ad avvicinarsi a lui, e per
quanto desiderasse più di ogni altra cosa poterlo toccare ancora una volta, il
peso della coscienza lo costringeva a terra, come un masso enorme sulle spalle
di un passero.
Passò una settimana intera prima che Lilian riuscisse a guardarlo di nuovo, e
un’altra prima di tornare a fare l’amore, con una nuova promessa sussurrata a
fior di labbra, proprio sulla sua pelle: “Non sarò di nessun’altro se non tuo”
e forse questa frase sancì l’inizio della fine.
Quando iniziò a girare la voce che Florent non seduceva più le fanciulline
ingenue, si disse che finalmente si sarebbe sposato; ma fu preso messa a
tacere, e tutti se ne dimenticarono. Le ragazze però, ormai sospiravano
vanamente.
Florent e Lilian si amavano, finalmente sereni e felici, e quest’ultimo portava
con nuovo orgoglio la sua conquistata fedeltà; a volte, dopo l’amore, quando
nei boschi c’era silenzio e il sole era alto, i due ragazzi andavano a
rinfrescarsi ad una piccola sorgente con una modesta cascata, per lavarsi e
giocare nell’acqua fresca ancora e ancora.
Un pomeriggio d’estate, Lilian suggerì di dirigersi verso quel posto.
Ci arrivarono verso le quattro di pomeriggio, mentre l’arsura era
insopportabile, e spogliatisi frettolosamente, si abbandonarono rabbrividendo
alle dolci acque placide;e Florent, che di giocare non ne aveva mai abbastanza,
era uscito dall’acqua lucido e nudo, buttando un’occhiata distratta alle sue
spalle, un invito palese quanto sfacciato: Lilian lo aveva seguito, allettato
dall’invitante sguardo, e giunto alla riva, era stato assaltato dal ragazzo che
in poco tempo l’aveva immobilizzato a terra, fra l’erbetta lucida e la sabbia
mischiata all’argilla; Florent aveva preso a baciarlo, sula fronte, sulla punta
del naso, ridendo e rinnovando le promesse d’amore, come solo i ragazzi sanno
fare. E procedette per l’orecchio
destro, scivolando sull’incavo tra il collo e la mascella, addentrandosi sempre
più a sud, sul petto, sul ventre, e quando posò le labbra sotto l’ombelico, il
respiro di Lilian si mozzò di colpo, e drizzandosi lo aveva guardato allarmato;
“Cos’è? Hai paura?”
“Che vuoi fare?”
“Ti amo, chiudi gli occhi”; e con quest’imperativo, Lilian per nulla
tranquillizzato s’era sdraiato di nuovo, aspettando il verdetto finale.
Florent, lentamente, aveva fatto scivolare la lingua in una striscia sottile
dall’ombelico fino alla base del pube, e uno scossone contrasse i muscoli di
Lilian, che sudava vistosamente freddo;
e mentre circondava con le labbra il sesso di Lilian, cercava di
trasmettere a quel gesto tutto l’amore che provava, tutta la tenerezza che i
suoi grandi occhi celesti gli causavano, tutta la fiducia incondizionata che
per lui provava.
Se questo Lilian lo colse non lo sapremo mai, ma si abbandonò a quel gesto con
lo stesso amore con cui lo riceveva, a occhi chiusi, nel rosso che brillava
sotto le sue palpebre.
Ma quando sentì l’urlo provenire da dietro le sue spalle, si drizzò di colpo, e
con gli occhi cercò Florent, che al pari si era spaventato, ma che a differenza
sua poteva vedere da dove l’urlo provenisse: l’uomo alle sue spalle si chiamava
Gustave, ed era il padre della contadinella rossa che per ultima era stata
amata da Florent; i suoi occhi disgustati, la sua espressione feroce, e il modo
in cui di colpo si voltò e corse via erano segni palesi: era tutto finito.
Arrivarono di notte, erano circa una dozzina di uomini robusti,
grassi e urlanti; maman non poté far
altro che assistere, sconvolta, al massacro del suo primogenito, che come un
leone difese Florent, senza cedere il passo a nessuno, nonostante fosse ormai
allo stremo delle forze e in gran parte dissanguato dai colpi infami di mannaia;
era bello anche così, non poté fare a meno di pensare Florent, con la mente
sconvolta, mentre lo guardava con gli occhi sbarrati, bello e selvaggio come un
leone, come un dio, e io lo amo, e l’amerò per sempre, lo giuro, quel che
accada accada.
Lilian lo spinse via a forza, ma le gambe non si muovevano, e dovettero
scappare entrambi, con sei o sette di quegli spaventosi mostri che ululavano alle loro spalle tutte le
oscenità di cui avevano memoria; attraversarono la foresta, sicuri di essere in
territorio amico, finché Lilian non stramazzò al suolo, pallido come un cencio,
mentre la vita fluiva fuori dal suo giovane corpo inerme;
“Alzati! Ti supplico, alzati!” gridava in preda al terrore Florent, ma Lilian
non rispondeva, così lo sollevò alla meno peggio, e a stento riprese la corsa,
rallentato notevolmente; finché Lilian non lo fermò, ormai cieco, e gli
sussurrò in un orecchio: “Lasciami qui. Sono quasi morto, non manca molto, ma
ti supplico, tu salvati. No, non rispondere, vattene, scappa, amore mio, e
porta con te il mio ricordo” la sua voce era dolce, roca, triste, e a Florent
scoppiò il cuore in petto, mentre appoggiandolo a terra, sentiva i respiri
farsi radi, il viso perdere colore, il calore svanire; “Per favore, dammi un
bacio mon petit” fece in tempo a
sussurrare; Florent si chinò, e appoggiò le labbra sulle sue, tremanti e
gelide, e sentì che sorrideva, sotto quel bacio, il sorriso che per tante notti
avrebbe riportato alla mente, mentre stanco di vivere vagava senza meta. E per
quante lacrime versò, Lilian rimase rigido: era spirato mentre lo baciava,
sereno.
Un urlo lacerante sconvolse la piccola selva, che quella notte pianse i suoi
amanti.
Voltandosi aveva ripreso a correre, ché Lilian non gli avrebbe perdonato la
resa, e così, senza gettare l’ultimo sguardo a quelle terre familiari, fuggì
via come un ladro, come un criminale, e mai più mise piede in quelle terre di
dolore.
Il corpo di Lilian fu trovato dagli invasati contadini
qualche ora dopo, e gettato in un fossato, privato di ogni rispetto; la dolce maman
impazzì di dolore, e per molti anni si sentirono le sue urla di notte,
squarciare il buio, rosse di sangue. Il venerando parroco, vero colpevole dell’atroce
delitto, si compiacque dei figliuoli che avevano scacciato il demonio, e andò a
festeggiare in un bordello poco lontano dal villaggio, con fiumi di vino e
membra di puttane.
Fu così facile distruggere la bellezza, così distorta la giustizia nell’agire;
un ragazzo, il più bello che quegli uomini avrebbero visto per secoli e secoli,
era stato massacrato dalla viltà e dal pregiudizio, senza nessuna pietà, senza
riguardo per la sua gentilezza, per la sua bontà d’animo.
Florent continuò a scappare per molte settimane, fino a quando, allo stremo
delle forze, giunse in quella che per molto tempo sarebbe stata la sua nuova
casa, e la cosa più vicina alla bocca dell’inferno, il bordello in cui ogni
brandello d’anima gli si consumò fra le dita.
ANGOLO DELL’AUTRICE
Io personalmente detesto mettere note a piè di pagina, ma
questa era necessaria: questo capitolo mi ha straziato. La storia di Florent,
Florent stesso è estremamente tragico, ma non riesco a farmene capace. Sappiate
solo questo: io amo questa storia, l’ho amata da subito, e continuerò ad
amarla, insieme a tutti i suoi personaggi, anche se non la terminerò mai, che
dio non voglia. E voi quattro lettori (se davvero siete in quattro) , io vi
ringrazio, per aver ascoltato questa storia. Al prossimo capitolo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 5 *** La Villa ***
Capitolo V
nota introduttiva:
dedico questo capitolo a tutti coloro che mi seguono, e in particolare a Blackout che mi ha lasciato una bellissima recensione. Buona lettura!
Capitolo V
La Villa
Il viaggio in auto era durato più o meno tre ore, trascorse
in modo singolarmente veloce; ora, Alex girava con l’auto nel vialetto
antistante la pensione dove sarebbero rimasti per tre settimane circa, una
maestosa villa la cui struttura ricordava la regale Versailles, ma in scala. I
ragazzi rimasero stupiti dalla bellezza secolare del complesso, immaginando già
i sontuosi interni e le grandi sale tappezzate di stoffe preziose; Alex fermò
l’auto davanti al portone principale, per scaricare i bagagli; poi parcheggiò
l’auto sotto una piccola veranda ombrosa adibita a posto auto.
Julien guardava incantato l’intricato ricamo di roselline rosso cupo che si
stagliavano lungo tutta la parete frontale della villa, tentando di seguirne il
percorso tracciato, chiedendosi quanto tempo avesse impiegato quella pianta a
crescere fino ad arrivare a quelle dimensioni; dava quasi l’impressione che
nessuno l’avesse mai potata, ma di certo per coltivarla erano stati chiamati
fior fiore di giardinieri, che con chissà quanta delicatezza l’avevano
vezzeggiata per renderla così lussureggiante.
I ragazzi raccolsero ognuno le proprie valigie e si diressero verso il portone,
massiccio e scuro, estremamente pesante; suonarono ad un logoro citofono, e
dopo poco venne ad aprir loro un giovanotto che doveva avere press’a poco
vent’anni, con i capelli di un nero lucido e setoso e simpatici occhi azzurri;
“Benvenuti!” li salutò allegramente “Ma come siete giovani! Dovete essere i
primi clienti sotto i cinquant’anni da prima della guerra!”aveva detto, con il
viso illuminato da una gioia quasi infantile; Julien sorrideva a sua volta, ché
tanta allegria non poteva che far bene, e della stessa opinione era Juliette,
che educatamente si presentò “Ciao, noi siamo i fratelli Gautier, io sono
Juliette, piacere” disse, porgendo amichevolmente la mano, e il giovanotto,
stringendola, rispose “Oh, piacere! Io sono Baptiste, e mia zia gestisce la
pensione..” aveva tentato di spiegare quando si era accordo dello sguardo
sconcertato di Alex; dall’inizio aveva
preso a fissarlo prima con stupore, ma
chi diavolo è questo ragazzino, poi con crescente irritazione, vuole levarsi dai piedi?, fino
all’aperto sconcerto, e mentre stava già sollevando minacciosamente il
sopracciglio destro, il ragazzo aveva abbassato lo sguardo, rosso in volto, e
si era scostato a farli entrare, chiedendo se servisse aiuto con le valigie.
Alla reception, un bancone sistemato alla bene e meglio nel meraviglioso
ingresso barocco, una donnina di forse duecento anni, tutta rugosa e piccina,
che da lontano sembrava una bambola con i capelli di lana bianca, sorrideva ai
nuovi ospiti, con un’aria nobile e gentile, che sembrava serbare tutto il
decoro che al suo giovane parente mancava.
“Bonjourn! Voi dovete essere i
ragazzi Gautier, mi sbaglio?”
“No signora, e buongiorno anche a lei” Alex aveva preso naturalmente la parola,
e con disinvoltura si era portata al bancone, rivolgendosi alla donnina con
tutto il rispetto che la sua età meritava;
“Bene, benvenuti ragazzi, queste” e mostrò loro tre chiavi di un pesante
metallo “sono per le vostre stanze; Baptiste vi accompagnerà al piano di sopra”
annunciò senza smettere di sorridere, gentile e rassicurante.
Il ragazzo li accompagnò su per una delle due maestose rampe di scale di marmo
rosso che all’ingresso facevano bella mostra di sé, circondando l’ambiente sui
due lati; ancora imbarazzato per la presenza di Alex alle sue spalle, non
proferì parola per tutto il tragitto, adempiendo diligentemente al suo compito.
I grandi corridoi ai piani superiori erano singolarmente silenziosi, e
nonostante l’ammirevole pulizia, davano una sensazione di polverosa antichità;
splendidi quadri facevano bella mostra di sé sui muri intonacati di porpora e
decorati d’oro con minuscoli disegni ramificati, alcuni paesaggi e molti
ritratti di graziose fanciulle e gentiluomini dall’aria austera. Piccole
colonne apparivano saltuariamente, ornate da grossi vasi istoriati di
porcellana, e c’erano perfino due o tre armature del ‘500 circa, pesanti ed estremamente
minacciose.
Le due stanze che avevano prenotato si trovavano l’una accanto all’altra; la
prima la presero le gemelle, una bellissima stanza ampia e luminosa, con un
imponente letto a baldacchino di pesante velluto e merletto dalla tonalità
avorio, dove sarebbero tranquillamente state comode cinque o sei persone: per
il prezzo che tutto questo era costato, quel lusso retrò era assolutamente
eccessivo, pensava compiaciuta Alex, immaginando già le belle giornate
trascorse a poltrire allegramente fra quelle trine morbide.
La stanza di Julien non era da meno, e vedendo l’enorme letto gli venne da
pensare che si sarebbe sentito solo, forse.
Baptiste salutò gli ospiti più decorosamente di quanto non avesse ancora fatto
e si congedò alla svelta, un po’ intristito, cosa che non sfuggì a Alex e che
le provoco un lievissimo moto di rimorso, che fortunatamente scomparve quasi
subito.
Julien richiuse la porta alle sue spalle, sospirando lievemente; poveraccio
quel tipo, Alex era riuscita a metterlo ko senza neanche bisogno di parlare.
Quella ragazza stava peggiorando irrimediabilmente. Raccolse le valigie e si
preparò a riporre il tutto nel gigantesco armadio che di fronte al letto
troneggiava, troppo massiccio e troppo alto, e nonostante tutto perfettamente intonato
al resto; lentamente sfilò le maglie, sistemandole senza spiegazzarle sul
letto, facendo mente locale per ricordare se ne avesse dimenticata qualcuna,
quando sollevando una t-shirt nera scoprì una maglietta leggera, a maniche
corte, con stampato in rosso il volto di Jim Morrison. E per un attimo, che
sembrò durare minuti, sentì il cuore comprimersi su se stesso, lo senti quasi
sul punto d’esplodere, ma riuscì tempestivamente a riprendere il controllo
delle sue emozioni, a registrare l’accaduto come una svista e a ignorarlo,
passando avanti. Già. Doveva averla messa dentro senza rendersene conto, per
sbaglio, certo, infilata fra qualche maglietta, nascosta, celata agli occhi e
al cuore. Non ci riuscì proprio a ignorare tutto, e quando si sentì la prima lacrima
scivolargli all’angolo della bocca, era tardi per fermare il pianto. Era lì fermo davanti al letto, con la
maglietta stretta fra le dita, e singhiozzava cercando di non fare rumore.
La prima volta che aveva notato quella maglietta era stato quando la stava
sfilando a Laurent, e quella volta l’aveva amata, perché sotto di essa c’era la
pelle e la carne di lui. Era la stessa notte che si congedarono l’uno
dall’altro, e quando Julien gli chiese di tenerla, Laurent non seppe
rifiutarglielo, e s’accordarono perché ognuno tenesse la stessa maglia che
l’altro indossava quella sera. Il giorno dopo ci pianse sopra, così come i
giorni successivi, le settimane, i mesi. Ci avrebbe pianto tutti i giorni per
sempre, se non fosse stato per il suo orgoglio; un giorno esso s’impose sulla
tristezza, prese il comando e da allora le lacrime cessarono. Nascose la maglia
dove non avrebbe dovuto vederla, dove nessuno l’avrebbe mai presa, e lì la
lasciò per molto tempo, prima della partenza; e no che non se la sentiva di lasciarla
lì, sarebbe stato come andarsene e lasciare il cuore a casa. Protetto, ma
lontano.
E ora, mentre le lacrime avevano finito la loro folle corsa sul suo viso, e
mentre l’ultima timidamente gli accarezzava il collo, senza ch’egli
l’asciugasse, l’idea di chiamarlo, di sentire la sua voce si fece pressante,
insostenibile, tremenda, dolorosa. Non posso, e non devo, se lui non lo fa è
perché m’ha dimenticato, e allora che pianga. Non devo. E mentre pensava a mille motivi per spegnere
il cellulare, ripiegò la maglia con cura, ma prima di posarla in un cassetto,
fra le sue, ci affondò il viso, riscoprendo ancora una volta il suo odore,
immutato, presente, dolce, esattamente come era quello della sua pelle; la
voluttà gli afferrò violentemente lo stomaco, costringendolo a piegarsi, ma la
posò prima di causarsi altro dolore.
Finì di sistemare la sua roba, lentamente, prolungando quell’attività che gli
avrebbe occupato le sinapsi per un po’, e nonostante questo finì troppo
velocemente. Buttò un’occhiata a quel meraviglioso letto, a quelle trine
morbide e invitanti, al lino soffice delle lenzuola estive, e decise che
avrebbe recuperato quel sonno che in macchina proprio non era voluto venire.
Quando il sonno l’ebbe sopraffatto, Julien ebbe per la prima volta l’incubo
rosso.
“Alex” Juliette s’era seduta sul letto, con le mani in grembo, e fissava il
pavimento;
“Che c’è?” la ragazza si voltò verso di lei, il volto lievemente adombrato:
sapeva di cosa avrebbero parlato, e sinceramente non ne era entusiasta;
“Julien” pronunciò il nome con un tono lamentoso;
“Julien sta bene, non preoccuparti; è più forte di quello che sembra”
“Ma l’hai visto anche tu in macchina! Non sta bene, sono preoccupata” si era
alzata di scatto, mostrando l’angoscia nei grandi occhi di giada iridescente;
Alex le era andata vicino, e scompigliandole affettuosamente i riccioli scuri
l’aveva guardata con un sorriso dolce: “Ci siamo noi. Starà meglio, non ti
preoccupare troppo”.
La cosa non l’aveva calmata troppo, ma ora non avrebbe potuto fare altro che
aspettare, e magari tenere occupata la testolina bionda del ragazzo; sospirando
si portò alla finestra, ammirando i cielo, cercando forse fra le nuvole una
buona risposta ai suoi crucci, ma fu adagiando lo sguardo che incontrò una
meraviglia che le tolse il fiato: “Alex! Alex santo cielo vieni a vedere!” “Mio
dio Julie, non farti venire una crisi, eccomi… oh mio dio…” disse a mezza voce,
allibita allo spettacolo di un immenso prato coperto per intero da un manto di
rose posizionate in base al colore, che formavano complicati ricami simili ad
un arazzo ricamato personalmente da Gea, quasi nessuna macchiolina verde e al
centro, oh meraviglia, il cuore del ricamo era in rosso e blu. Un blu vero, che
tornava spesso fra i ricami più esterni, vellutato e scuro. “Ma… esistono
davvero di quel colore?” balbettava Alex; “Evidentemente si. Che dici, me lo
darà un rametto la signora?” “Non credo…” a interrompere la sua frase fu il
trillo del cellulare, gettato malamente fra i cuscini; “Alex, credo sia il tuo”
“Si, è il mio..” sbuffò lei, afferrandolo e portandoselo vicino al viso; il
nome vicino alla piccola cornetta verde fu una sorpresa “Chi è?” “E’… Mathias” rispose, sorpresa delle sue
stesse parole; Juliette si fece seria, e annunciò che sarebbe andata a trovare
la nonnina della reception. E Alex, senza accorgersene, rispose solo quando
sentì la porta chiudersi.
“Pronto?”
“Sono Mathias..ciao Alex”
“Lo so che sei tu, ho il tuo numero sul cellulare” si fece sfuggire
bruscamente, più per abitudine che per altro, non riuscendo però a controllare
quel tono dolce e un po’ roco che gli veniva sempre quando la tenerezza gli
stringeva la gola. “Allora” continuò “Neanche mezza giornata e già ti disperi?”
“Mi stavo disperando già dieci secondi dopo che mi hai detto che partivi”
sussurrò impercettibilmente dall’altro capo della cornetta, borbottando così
infantilmente che a Alex parve di vedere le sue guance incendiarsi. E sorrise,
immaginando il suo volto.
“Non dovresti. Come vanno le cose?”
“Normale. Quando torni?”
“Presto” e sorrise ancora;
“Presto quanto?” e il suo tono iniziava a farsi lamentoso;
“Oh signore presto! Smettila di frignare!”
“Non sto frignando..” sussurrò in tono burbero;
“Allora ci sentiamo, ok?”
“Ok. Non tradirmi, capito?”
“Stai scherzando vero? Qui il cameriere più brutto è alto un metro e novanta e
ha il corpo di un nuotatore agonistico e…”
“Alex dico sul serio…”
“Ma quanto sei scemo”
“Ci sentiamo allora?”
“Certo”
“Ciao”
Alex rimase con il telefonino in mano; aveva riattaccato, senza aspettare un
saluto. Oh, Mathias, dio lo sa se avrei voluto portarti con me, piccolo.
Angolo dell’autrice
Come al solito, ringrazio quelle anime pie che hanno avuto
la pazienza di leggere, ma stavolta un ringraziamento speciale va alla mia
primissima recensitrice, Blackout, che mi ha fatto veramente contenta con una recensione
lunghissima (la prima così lunga in assoluto XD). Grazie di cuore! E che dire,
ti ringrazio (oggi sono ripetitiva..) per i complimenti, e sono felice che ti
sia piaciuta davvero questa storia; io personalmente la adoro, e cerco di
renderla il più bella possibile, anche esteticamente parlando. Per quanto
riguarda i personaggi si, hai ragione, sono troppo belli. Ma quando vengono
fuori io me ne innamoro quasi subito, e come Tolstoj anche io li racconto così
come li vedo, bellissimi. Però per adesso tutto ciò è giustificabile, che
quattro su sei sono parenti (ops °_° questo era uno spoiler…tu ignoralo ù_ù)
quindi si assomigliano. Lo so, è una scusa campata in aria, tu abbi pazienza.
Quando ho letto di Laurent e Julien sulla tua recensione poi, mi sono venuti i
lucciconi agli occhi: mi fanno una tenerezza incredibile, io li immagino
proprio come due bambini che scoprono un mondo nuovo, mano nella mano. E Flò e
Lilian poi, beh, loro sono stati una coppia tragica. Ma a mio parere
bellissima, anche se non credo d’esser riuscita propriamente a rendere del
tutto il loro amore. Loro hanno scoperto cosa significa davvero amare, col
cuore e con la mente, e Flò ahimè ha scoperto anche che vuol dire soffrire.
Lilian è nato innocente e buono, e m’è parso ovvio dal primo momento che ho
scritto il suo nome, che sarebbe morto per amore; era perfetto. E, no, può
sembrare strano ma Lilian è proprio un nome da maschio ^^. Per il dubbio su
loro due poi, grazie, in effetti ancora ci pensavo...
Per concludere, quando ho visto questa recensione mi sono davvero commossa, e
non immagini quanto mi faccia piacere sapere che questo racconto t’ha
emozionato. Per me, come scrittrice e persona è davvero importante. Mi
raccomando, commenta sempre così e non m’abbandonare ^^ al prossimo capitolo!
|
Ritorna all'indice
Capitolo 6 *** Incubi e rose ***
Capitolo VII R.M.
Capitolo VII
Incubi e rose
C’era una candela, accesa, che fiocamente illuminava la
stanza, troppo lontana per essere individuata.
Con la sua luce molle allungava le ombre, che lente
strisciavano fra le pieghe delle lenzuola calde, sfiorando timidamente le curve
di una figura umana, maschile, in bilico tra il sonno e la realtà.
Un profumo pesante di fiori passiti inondava i sensi,
annebbiando la volontà, stremando e avvelenando l’anima del giovane sdraiato
sul grande letto.
Era Julien.
Il ragazzo tentò di alzarsi, ma un’altra persona, accanto a
lui, lo spinse dolcemente indietro, prendendo ad accarezzargli i capelli, con
gentilezza, muovendo le dita in centri concentrici sulla cute; Julien si
distese sotto le dita, abbandonandosi al piacere del tocco delicato, socchiudendo
gli occhi, incapace di pensare, di agire, completamente sopraffatto.
Sotto i bagliori scostanti del piccolo lume, intravide l’oro
liquido e pesante delle iridi dell’altro, e l’attrazione simultanea gli
incatenò lo sguardo in quello dell’altro, senza via d’uscita.
Lentamente, l’altro scivolò sopra Julien, con grazia, privo
di qualunque peso, muovendosi sensualmente fino a coprirlo interamente.
Serrò le gambe attorno ai suoi fianchi, spingendosi col
bacino leggermente in avanti, sfregando contro l’inguine di Julien, che non
riuscì a trattenere un fievole gemito.
Si ergeva aggressivamente sopra di lui, percorrendone
lentamente con lo sguardo la pelle senza difese; Julien riusciva a sentire il
peso dolce di quello sguardo, come di un velo di seta che scivolava lungo il
suo ventre.
Sorridendo, il ragazzo gli sussurrò qualcosa di
incomprensibile, avvicinandosi al suo orecchio, mentre gli serrava i polsi, e
il suo fiato diventava sempre più vicino, sempre più caldo, mentre la stretta
sui fianchi si faceva più convulsa.
Iniziò a sfiorargli le labbra, sussurrando ancora quelle
poche, incomprensibili sillabe, sorridendo, mentre con la punta della lingua
toccava la gola, il mento, le labbra;
Julien lo sentì ansimare un poco fra una sillaba e l’altra, e ancora non
riuscì a comprenderle, a capire di quale lingua si trattasse, quale ne fosse il
senso.
Quando con uno scatto quasi rabbioso, il giovane sconosciuto
gli immerse la lingua in gola, Julien sentì un dolore atroce nel petto, quasi
il cuore gli scoppiasse, e simultaneamente si risvegliò, nel suo letto, bagnato
fradicio di sudore, spaventato a morte e, del tutto fuori luogo,
spaventosamente sveglio a sud.
Ci mise un po’ per ricominciare a respirare normalmente,
calmarsi e fare mente locale.
Alzandosi lentamente dal letto si passò una mano sul viso
umido, e senza troppo pensarci si butto sotto la doccia, costringendosi a
smettere di tremare.
“Julien, che succede?”
“Tutto bene?”
Erano le voci di Alex e Julie, che bussavano alla porta.
Con i capelli umidi e un paio di pantaloni raccattati a caso
andò ad aprire; “Che succede?”
“Dimmelo tu, abbiamo sentito che urlavi”; non se ne era reso
conto, ma nello svegliarsi doveva aver gridato.
“L’ho fatto involontariamente, mi dispiace. Ho avuto….un
brutto sogno. Credo.”
“Credi?” Juliette lo guardò perplessa, e la sua domanda rimase sospesa quando
Alex riprese la parola: “Non hai più cinque anni, dovresti imparare a
controllarti sai? Comunque, hai sistemato la tua roba? Noi volevamo andare a
fare un giro, tu vieni?”
“Oh, no, sono…stanco. Faccio un giro per la villa, appena ho
finito di sistemare i cassetti”
“Va bene, ma stai attento. E non distruggere niente” gli
disse sorridendo, arruffandogli i capelli;
“Si, si, via, sciò” la strattonò fuori, ridacchiando.
Chiudendosi la porta dietro le spalle, il mezzo sorriso si
spense di nuovo.
Del sogno non ricordava nulla, ma un’angoscia pesante gli
era caduta addosso, come un velo di tristezza.
Decisamente, non portarsi dietro almeno il violino era stata
una pessima idea.
Al piano di sotto, qualcuno stava picchiando un pianoforte.
Alex lo aveva sentito dalle scale, e attirata dall’idea di
trovare un piano si era diretta verso il suono, con Juliette che gentilmente
tentava di distoglierla dal proposito di cacciare in malo modo chiunque stesse
suonando.
“Dai, forse è una persona anziana..”
“Macché. E’ quell’idiota, il facchino.”
“Il facchino?”
“Ma si, il ragazzo che chi ha fatto strada”
“Io non credo che fosse esattamente un fac..”
“Hey tu!”
Il ragazzo si voltò lentamente, col sorriso sulle labbra che
gli si congelò quando vide Alex dirigersi verso di lui; in quel momento, un
dejà vu del tutto fuori luogo gli ricordò una scena di Full Metal Jaket.
E stava seriamente per portarsi la mano alla fronte in segno
di saluto, ma si ricordò che probabilmente lei lo avrebbe preso a randellate
col candelabro, e si trattenne.
“Buongiorno signorina”
“Alex.”
“Buongiorno Alex”
Dalle spalle della ragazza, Juliette sorrise divertita al
giovane.
“Cosa stavi suonando?”
“Ah, niente facevo degli esercizi. Sono atroci come
sembrano?”
“No, anzi” rispose prontamente Julie, prima che Alex potesse
fare danni.
“Dici sul serio? No perché di solito mia zia dice che quando
suono le pentole si tappano le orecchie e i raccolti vanno a male, e cose
così..”
“Ma no” stavolta rise di cuore, mentre Alex rideva di
sarcasmo; “E’ solo che dovresti lasciare i polsi più liberi, e arcuare meglio
le dita. Così” posizionò una mano su una scala, facendo tintinnare i
braccialetti.
“Aspetta…così va bene?”
“Si, credo proprio di si”
L’espressione inebetita del giovanotto e i sorrisi dolci di
Julie convinsero Alex ad andare a fare un giro da sola; e in effetti, non aveva
troppa voglia di parlare, in quel momento.
“Julie, che ne dici se tu rimani qui col nostro giovane
amico, e magari gli insegni a non violent…ehm a suonare meglio mentre io vado a
fare una passeggiata in giardino? Tra un po’ si pranza in ogni caso, quindi non
vale la pena andare in paese”
“Ok, ma non perderti, d’accordo?”
“Julie. Quello è Julien. Io ho senso dell’orientamento”
“E hai anche il
cellulare con te?”
“Vuoi che ti picchi col candelabro?”
Baptiste rischiò sul serio di scoppiare a ridere.
Alex si allontanò, senza voltarsi indietro, e con passo
fermo si diresse verso l’ingresso; Julie invece sorrideva ancora al ragazzo:
“Non è davvero un’orsa. Però le piace dare quest’impressione. Dunque, tornando
a noi. Io sono Julie, ma non ricordo il tuo nome…”
“Baptiste. Simon Baptiste Delacroix. Al vostro servizio
mademoiselle”
E sottolineò l’ufficiosità della presentazione con un lieve
inchino; Juliette prese una sedia lì vicino e si sedette accanto al ragazzo,
che di nuovo tentava i suoi esercizi, stavolta con le mani sottili della
giovane che correggevano la postura.
Il profumo delle rose era inebriante.
Tanto forte da coinvolgere tutti i sensi.
Alex ne rimase colpita, tanto che si sedette nell’enorme
giardino, sull’erbetta umida, appoggiandosi ad un tronco di melograno;
chiudendo gli occhi, ripercorse mentalmente i dettagli del viso di Mathias,
cercando di ricordare la sua voce che intonava una delle sue canzoni.
No, non doveva pensarci.
Era partita per questo, per non pensarci.
Ma era partita col suo odore addosso, ed ora liberarsene era
impossibile.
E ora, fra le rose, la sua voce gli inondava le orecchie,
stringendole il cuore, mentre l’odore dei fiori le avvelenava lentamente l’anima.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 7 *** Calando Le Ombre ***
rose 6b
capitolo
Sesto
Calando
le Ombre
Nella notte, Florent aveva trovato il suo rifugio.
Che, quando il sole muore dietro l’orizzonte, le ombre
crescono, divorando il paesaggio, e le lacrime si nascondono meglio, come
d’altronde l’anima stessa.
E per questo motivo decise di finire la sua gioventù nella
casa del crepuscolo, aspettando lo sfiorire di una vita che non voleva più
vivere.
Quando era arrivato per la prima volta nell’immensa Parigi,
lo aveva fatto in condizioni disumane, incrostato di fango, sangue e sporcizia,
affamato e delirante; a soccorrerlo era stata una fanciulla di forse vent’anni,
che proprio nella notte esercitava la sua professione, e che lo aveva portato
con sé nella maestosa villa appena fuori la città, famosa come locale di
divertimento, più ricercata di qualsiasi altro bordello del paese, dove di
notte ella prodigava i suoi servigi a chi ne richiedesse.
Lo aveva fatto non per coscienza o quant’altro, ché a Parigi
di spiantati mezzo morti se ne trovano anche troppi, ma perché sotto lo strato
di sudiciume aveva scorto quella bellezza eccessivamente raffinata per un
qualsiasi morto di fame, il bagliore infiacchito ma pur sempre accecante della
mortale appariscenza del suo viso orientale.
Ma soprattutto, nei suoi occhi dorati aveva scorto il
bagliore del guadagno, più luminoso e accecante di qualsiasi altra cosa.
“Qui avrai un tetto sulla testa e tre pasti, per cominciare”
gli aveva detto conducendolo per i grandi corridoi dai soffitti istoriati,
verso le sue stanze, per ripulirlo e renderlo presentabile agli occhi della
madama Augusta, proprietaria del complesso; “Ma soprattutto qui avrai
ricchezza. Da come guardi questi corridoi si vede che devi essere stato un
poveraccio, ma non devi più temere” gli disse fermandosi, posandogli le mani
sulle spalle e sorridendo gentilmente, “Qui la tua bellezza sarà ricompensata a
peso d’oro. Le cose belle devono stare con le cose belle, sai?”.
Florent la guardava stupito, incapace di controbattere.
Non sapeva dove si trovasse ne chi fosse la ragazza, ma iniziava a capire.
Qualcuno doveva averglielo detto, un tempo, che il suo posto
era in un bordello. Forse mentre viaggiava verso Parigi. Ma i ricordi erano
confusi, sprazzi di nero sul terreno battuto, ombre di uomini e dolori
lancinanti mischiati a fame e debolezza, e distinguerli era impossibile.
E mentre la ragazza favoleggiava sulla sua futura vita,
arrivarono nella sala delle vasche, dove qualche ragazza si stava preparando
per la serata.
La ragazza, che finalmente si era presentata come Eleonore,
lo immerse senza troppi complimenti nell’acqua profumata, e prese a strofinarlo
energicamente per ripulirlo persino della sua stessa pelle.
Florent non pensò nemmeno di protestare, e stringendo i
denti si sottopose al lento scuoiamento, sperando per lo meno di ritrovare poi
il colore della sua pelle intatto.
Quando ebbe finito di scrostargli di dosso la sporcizia,
l’acqua era quasi marrone, e i capelli erano ancora un groviglio impastato.
E intraprendendo una personalissima crociata, Eleonore si
applicò con tutta la sua forza per districargli i nodi, strappando capelli e
parassiti, consumando quasi tutto l’olio profumato per i capelli che le ragazze
usavano in un mese.
Ma quando Florent riemerse finalmente non molto illeso
dall’acqua, Eleonore rimase senza fiato.
Gli si riempirono gli occhi di lacrime, pensando a dove lo aveva portato, e in
un moto di struggimento, si portò una mano alla bocca, e con gli occhi lucidi
sussurrò impercettibilmente un “Mi dispiace” che si perse nell’eco dei soffitti
altissimi.
Florent era tornato il giovane del ruscello, le sue membra
erano tornate pure, lisce, dolci come lo erano sempre state, la sua pelle era
tornata cacao distillato, misto di miele e latte.
Alcune ragazze arrossirono vistosamente, altre si voltarono
dall’altra parte; insolita reazione per
chi è abituato alla nudità maschile.
Florent, da sotto le ciglia, incrociò lo sguardo lacrimoso
dei grandi occhi blu di Eleonore, e dolcemente le disse “No, non dispiacerti.
Qui è il mio posto”; e l’amarezza delle sue parole sconvolse il cielo e la
terra, così come il cuore indurito e calloso della povera Eleonore, che in quel
momento avrebbe voluto piangere tutte le sue lacrime, per la prima ed ultima
volta.
Ma si costrinse ad ingoiare la tristezza, e abbandonando lo
sconforto gli tese un panno con cui coprirsi, e sorridendo, stavolta senza
artificio, di un sorriso materno e malinconico, gli fece strada verso le sue
stanze, dove avrebbero scelto i suoi vestiti.
Camminarono per un po’, di nuovo percorrendo i maestosi
corridoi, senza riuscire ad emettere suoni.
Arrivarono finalmente davanti alla stanza della ragazza, che
aprendo la porta lo fece entrare.
Richiudendo la porta a chiave dietro di sé, evitando così
irruzioni indesiderate, Eleonore si sedette sul morbido letto a baldacchino che
troneggiava a ridosso d’una parete, facendo bella mostra delle sue preziose
stoffe.
Florent rimase immobile, al centro della stanza, con il
panno di lino stretto addosso, a proteggersi dal freddo.
“Ascoltami Florent, ho commesso un errore” disse infine la
ragazza, cercando le parole nel suo scarso vocabolario, ma impregnandole di
tutta la dolcezza che le era possibile, “Non avrei mai dovuto portarti qui. Ma
possiamo rimediare. Ti posso trovare una stanza piccola nel centro, e magari
potrei anche pagarti qualche libro per studiare. Ti piacerebbe studiare? E poi
potrei trovarti un lavoretto, così, per mantenerti. E poi…”
“Eleonore. Va bene così. Ti ringrazio, ma resterò qui. Lavorerò nel posto che
mi spetta, non dovrai preoccuparti per me in alcun modo. Il tuo dovere l’hai
fatto.”
Mi hai portato sulla
mia strada.
Perché è questo che
merito, per non avere il coraggio di seguirti, Lilian.
Eleonore sospirò, sconfitta.
E per quanto le faceva male, oramai non poteva cambiare la
situazione; non c’era rimedio al suo errore.
“Va bene, come vuoi. Ora dobbiamo cercarti qualcosa da
mettere”
Così dicendo andò verso un vecchio armadio in mogano
tarlato, e aprendo l’ultimo cassetto, iniziò a rovistare in cerca di qualche
abito maschile lasciato dall’ultimo ragazzo che aveva lavorato lì.
E qualcosa in effetti trovò.
Un po’ fuori moda, ma andava bene.
Se a madama fosse piaciuto, ci avrebbe pensato lei a
comprargli abiti nuovi.
E come avrebbe potuto
non piacergli?
Fu così che Florent si perse nella notte, volontariamente, senza
voltarsi indietro.
S’addentrò da solo, senza guida, nelle paludi dell’anima.
Dimentico di se stesso, volontariamente suicida.
Le notti passavano frenetiche, frementi, sotto lenzuola di
seta o divani di broccato, scivolando sull’epidermide come gocce d’inchiostro,
raccogliendosi lentamente nell’anima, coagulandosi in una macchia che oscurava
il cuore, annullando la vita.
E come vino, il suo sangue ogni notte era versato in calici
di cristallo, e al miglior offerente veniva offerto su d’un vassoio cesellato
in oro e argento, colmo di fiori e frutti; e lentamente fluiva dal calice alla
gola di un occasionale assassino, volontariamente, senza strenue resistenze che
avrebbero soltanto prolungato un’agonia malata, senza coscienza, senza
desiderio di luce.
Per Florent il sole era morto con Lilian, e con esso la vita
e la speranza; viveva senza voglia, punendosi ogni qual volta gli era
possibile, dannandosi per una bellezza che non voleva sfiorire, ma che si
acuiva dolorosamente con gli anni.
E mentre gli efebici adolescenti crescendo perdono grazia,
divengono ispidi e rozzi, la sua bellezza andava affilandosi giorno per giorno,
assumendo sempre più contorni delicati da giovane uomo, carichi di una virilità
insinuante, sottile, elastica e nervosa.
I suoi passi presero grazia, ad imitazione delle sue dolci
colleghe, e la sua voce divenne roca, sensuale, graffiata dall’alcol e dal fumo
nel periodo dell’adolescenza, addolcita da un timbro morbido e basso.
E i suoi occhi acquisirono una luce nuova, inquietante; i
contorni di zucchero parevano sempre chiarissimi al lume delle candele, oro
colato si sarebbe detto, ma cerchiati di un intenso nero.
E dentro di essi si scorgeva la rabbia e l’aggressività
spaventosa che lo divoravano all’alba, sentimenti nati dalla frustrazione e
dall’abbandono.
A ventitré anni, la leggenda della sua bellezza aveva girato
il mondo.
E proprio a causa di essa, un giorno fatale di fine estate
portò con sé l’aroma di fiori passiti e i capelli d’oro del giovane Cècil.
§§§§§§§§
Note dell’autrice
Sono in un ritardo pazzesco, e giuro che mi dispiace T_T, ad
ogni modo, giusto per scongiurare l’insorgere di altri dubbi, Cécil è un maschio.
Mi auguro di aggiornare il più presto possibile, se così non
fosse, avrete il diritto di inveire violentemente contro di me ù_ù”
Con affetto,
Vale
|
Ritorna all'indice
Capitolo 8 *** Cecìle ***
R.M. VIII
Capitolo VIII
Cecìle giunse in un giorno d’autunno, portando con sé il
gelo dei suoi occhi.
Non era di certo raro che arrivassero giovani dalla cité,
anche molto avvenenti, che non sembravano davvero aver bisogno di pagare una
donna; ma quando tali giovani possedevano un cognome che era sinonimo di lustro
e ricchezza, ed oltretutto erano gli eredi più prossimi in linea di
successione, allora compariva, come un sinistro presagio, la Madama, altissima e
fasciata di nero, ed era lei stessa ad accogliere gli ospiti, tra il massimo
fasto che si potesse simulare con il denaro.
E fu infatti ella ad accogliere il giovane visitatore, con
estrema cortesia, ma senza falsa umiltà negli occhi, portandolo in un salottino
privato, liberato e rassettato in un tempo irrisorio per l’occasione, dove
quasi d’incanto arrivò il miglior vino della casa, fra le mani delle più
splendide fanciulle che si potesse immaginare.
Cecìle le osservò tutte, con lo stesso acume d’un critico
d’arte alla ricerca di un originale tra meravigliosi falsi, e quando ebbe
passato in rassegna tutte le bellissime ragazze, fece segno alla Madama, seduta
accanto a lui, perché s’avvicinasse: le sussurrò qualcosa d’impercettibile in
un orecchio, e lei, annuendo, si apprestò a far uscire le ragazze dalla stanza,
mandando a chiamare i giovinetti.
Arrivarono in fila, con la stessa eleganza delle loro
graziose compagne, ma con un fascino diverso, saturo di una consapevolezza
minore, quasi di ingenuità; e come
graziosi cortigiani, si fecero largo al passaggio del loro principe.
Florent.
Scivolò nella stanza con una grazia innata, ponendosi al
centro dei giovani; flessuoso, alto, meravigliosamente bardato di seta e
broccato, attraeva l’attenzione irrimediabilmente; le gambe lunghissime si
posavano una davanti all’altra, in lunghi e sinuosi passi da acrobata, con un
lento distendersi di muscoli lunghi e sottili.
Ma tutto ciò che vide Cecìle, furono i suoi occhi di fuoco.
Incrociando il suo sguardo, s’era quasi ustionato a contatto
con le iridi di oro liquido, mentre inconsciamente aveva dischiuso le labbra.
E Florent l’aveva imitato, mettendo in mostra tutta la
voluttà della sua rosa perfetta di carne viva, lasciando che il giovane ne
studiasse i contorni, ne accarezzasse col pensiero la consistenza, e prendesse
coscienza di quanto incredibilmente belle e seducenti fossero le sue labbra.
Il tutto, tenendo gli occhi incollati a quelli di Cecìle,
incastrando il suo sguardo in una morsa che avrebbe avvelenato la sua mente per
sempre.
Madame sorrideva compiaciuta, in modo discreto, mentre
Florent sollevava il mento per mostrare al suo nuovo avventore la linea
perfetta e armonica del collo, lasciandolo scivolare lungo i tendini ben
delineati per immaginare di sbottonare l’orlo del colletto di pizzo, per
scoprire nuovi lembi di pelle ancora celati.
La seduzione era il suo più grande talento, e anche il più
naturale.
Nessuno aveva dovuto insegnargli come si attrae lo sguardo
di un gentiluomo, o come lo si rendeva succube dei propri desideri; spesso
erano le ragazze ad imitarlo, qualche volta addirittura tagliandosi i capelli,
o fasciandosi il petto per indossare abiti maschili, aumentando
spropositatamente le entrate della casa e compiacendo immensamente Madama, che
sempre più spesso era di buonumore.
Ed ora, come ella stessa aveva visto accadere mille volte,
di nuovo un uomo stringeva convulsamente i braccioli della poltrona, sgranando
gli occhi sui fianchi di quel Dioniso iberico, sprofondandosi nello schienale
per sostenere il peso della sua bellezza.
Con estrema lentezza riemerse dallo schienale della
poltrona, e chiamando a sé la
Madama, le sussurrò con voce tremante: “Il giovane al centro.
A qualunque prezzo.”
Quante volte l’aveva già sentita, questa frase.
Quanti si erano rovinati per pagare.
Sorrise, socchiudendo gli occhi.
Quasi sentiva il rumore del denaro scivolare nelle orecchie.
Alla luce tenue delle lampade orientali, Florent faceva
strada negli enormi corridoi della villa.
Cecìle lo seguiva senza parlare, con passi silenziosi e
delicati.
Si fermarono davanti ad una porta, e prima di aprirla,
Florent si voltò verso il giovane, sbirciando da sotto le ciglia il suo viso.
Concludendone che, non sarebbe stata una serata noiosa.
Anzi.
Aprì la porta, lasciando entrare Cecìle che lentamente
scivolò accanto a lui; Florent richiuse la porta alle sue spalle, fissando
questa volta con decisione Cecìle, constatando quanto fosse giovane. E
delicato. E pallido.
Senza intenzione costruita gli sfiorò una guancia con il
dorso della mano: era fredda.
Cecìle non avvampava, non sembrava nemmeno respirare, era
spaventosamente consapevole di sé. E controllato. Deciso. Indecifrabile.
Portava delle piccole lenti tonde su montatura dorata.
Le sfilò delicatamente, posandole sul tavolo della toeletta.
Afferrò il polso di Florent, ancora sospeso in aria,
spingendolo contro il muro, con un’eleganza e una delicatezza da far sembrare
quel gesto imperioso un invito dolce, una carezza complice.
Tenendolo fermo per entrambi i polsi, gli si avvicinò,
incastrandolo fra se stesso e la parete; avvicinò cautamente il suo viso a
quello del giovane, e senza una vera intenzione, Florent tese le labbra in
attesa di un bacio, che Cecìle pareva non intenzionato a regalargli.
Con la punta del piccolo naso freddo gli sfiorò il collo,
posando la testa nell’incavo della spalla, aspirando l’odore di gelsomino dei
suoi capelli scuri; inaspettatamente gli lasciò i polsi per avvolgergli la vita
con le braccia, stringendolo.
Florent si rese conto in ritardo che lo stava abbracciando.
E senza artificio ricambiò quel gesto, intriso di una
tenerezza che gli mancava, che non sentiva da tanto, troppo tempo.
E i capelli biondi di Cecìle…così morbidi, così soffici,
color grano; un ricordo soffuso, lontano, minacciò di attanagliargli la gola, e
per scacciarlo non trovò modo migliore che ricacciare ogni sorta di
sentimentalismo indietro, a favore della sottile eccitazione di cui il ragazzo
era protagonista.
Scostò di poco la testa, sfiorando con le labbra il collo
sottile, a saggiare appena la consistenza della pelle bianchissima, dolce e
vulnerabile, così pericolosamente a portata dei suoi denti.
Stavolta fu lui ad afferrargli i polsi.
Con molta poca gentilezza.
E con il profumo di quel collo esile a stordirgli la mente,
lo piantò contro il muro dove poco fa si era trovato lui, insinuando un
ginocchio fra le cosce di Cecìle, che gemette piano, discretamente, mentre
Florent continuava ad annusarlo e a baciargli il collo, le guance, la fronte,
la punta del naso…
“Credevo d’esser stato io a pagarvi, sapete?”
Florent scattò bruscamente all’indietro; per un attimo lo
guardò sorpreso quasi, e dovette attingere ad uno sforzo di volontà per
riprendere possesso della propria mente.
“Ma certo monsieur”
Cecìle lo guardò, sorridendo.
“Che ne dite di stendervi sul letto, amico mio?”
Accompagnò la frase con un gesto, a indicare il letto;
cominciò un lento percorso intorno a Florent, osservandone nel complesso quella
bellezza di cui aveva tanto sentito parlare.
E Florent sorrise, entusiasta all’idea come non gli era
ancora capitato d’essere.
“Ma certo, monsieur”
“Oh, suvvia, certi formalismi non si adeguano all’occasione,
non credete?”
“Avete ragione” La sua voce si fece più morbida, mentre un
lieve roco di fondo acuiva l’effetto vellutato del tono.
E, dopo una breve
pausa, riprese: “Amico mio”
Si diresse verso il letto, con le sue lunghissime gambe una
davanti all’altra, e lentamente sollevò le lenzuola di seta rossa, arcuando
volontariamente la schiena in modo allusivo, lasciando che la camicia leggera
si tendesse sui muscoli tesi della schiena.
Cosa che, Cecìle parve non notare.
Florent si tolse le scarpe, ma nello slacciarsi il foulard
che legava il colletto, fu fermato dalla mano di Cecìle: “Se non vi dispiace,
vi aiuto” sussurrò brevemente, senza volontà di seduzione, senza nessuna
intenzione per la verità, producendo innocentemente un sospiro quasi che urtò in
pieno i nervi tesi di Florent, facendolo sussultare violentemente.
Cecìle sorrise: sentiva l’ansia crescere, mentre l’eccitazione
brillava negli occhi del suo interlocutore.
Il giovane aveva le dita lunghe, da pianista: si
intrecciarono lentamente al foulard, sciogliendo la preziosa spilla ametista, e
poi facendolo scivolare via dal collo, in modo da accarezzare la pelle.
E Florent, che riusciva a sentirne l’alito caldo sul collo,
ne studiò i lineamenti; sembrava quasi un bambino, così concentrato in quello
che faceva, stranamente calmo.
Per un attimo si domandò se la Madama non gli stesse
tirando un brutto scherzo; quel ragazzo era troppo giovane, troppo calmo,
troppo sensuale per essere seriamente un cliente.
No, non era certo il tipo, la signora.
Ma...no. Non poteva essere.
Ma allora chi diavolo era questo ragazzino?
Nel frattempo seguiva con gli occhi ogni movimento del
ragazzo, che aveva sbottonato un poco la camicia, e finalmente lo aveva
invitato a sdraiarsi.
Poi gli si era portato sopra, sedendosi a cavalcioni sopra
di lui,
Premendo, pericolosamente, sopra il suo inguine, anche
troppo partecipe della situazione.
Ora lo studiava dall’alto, ridisegnandone mentalmente i
lineamenti; sollevò una mano, accarezzandogli uno zigomo, e con l’indice prese
a tracciargli i contorni degli occhi, del naso, fino a scendere sulle labbra
dolci, perfette, scivolando fin dentro il cuore di quella rosa di carne, mentre
i sangue gli pulsava nelle tempie, e quasi lo sentiva ribollire.
Cautamente avvicinò il suo viso a quello del giovane; e
Florent rimase immobile, senza la forza di fare niente, completamente in balìa
di quel ragazzo, molle come una bambola di pezza.
Cecìle tirò fuori la punta della lingua, leccando piano,
accarezzando il bocciolo più interno della rosa; Florent chiuse gli occhi, e
quasi gli veniva da piangere mentre sentiva la lingua esplorare le sue labbra,
e senza fare alcuna resistenza la lasciò scivolare all’interno, immobile,
incapace persino di ribellarsi.
Fai di me ciò che vuoi.
Hai pagato, no?
Per tutta la notte non fecero altro; secondo il gusto
innocente e calmo di Cecìle, rimasero ad annusarsi, toccandosi ogni lembo di
pelle, per conoscersi, esplorarsi, senza la necessità del bisogno,
artisticamente quasi.
Quando all’alba, Cecìle lo lasciò, Florent non seppe
trattenersi dal chiedergli se sarebbe tornato.
Lui accennò brevemente con la testa, quasi svogliatamente,
sordo all’eco del vento che gli riportava il suono del cuore di Florent che si
incrinava, schiacciandosi su se stesso.
La notte dopo Florent non poté vedere nessuno, nemmeno i
suoi clienti abituali, nemmeno gli amici.
Fu mandata a chiamare Eleonore, l’unica con cui Florent si
confidasse, quasi provasse per quella donna una sorta d’affetto; quando arrivò
nella sua camera lo trovò delirante, con le coperte fin sopra la testa, e le
lenzuola sporche di rigurgito giallo.
Rimase così quasi tutti i giorni che Cecìle non venne, e se
le notti trascorse col giovane non avessero fruttato quasi quanto una settimana
di lavoro intensivo, madama non c’avrebbe pensato due volte prima di buttarlo
fuori a calci.
Cosa fosse successo, non sapeva spiegarselo nemmeno Florent;
e mentre la febbre saliva, contava silenziosamente il tempo della sua assenza.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 9 *** Baptiste ***
R.M. IX
Capitolo IX
Per quasi due ore, Juliette e Baptiste si erano divertiti ad
improvvisare motivetti sul piano.
Il quale, oltre ad avere qualche tasto zoppo, era anche
parecchio scordato.
Eppure il tempo era volato, tra gli accordi dissonanti del
vecchio e polveroso strumento.
“Sai, penso proprio che tu abbia un buon orecchio” disse
Julie al suo nuovo amico, che incredulo si voltò verso di lei : “Mi prendi in
giro? Ma sono terrificante!”
“Oh, no, ti sbagli. Non hai molta pratica, ma ti lasci guidare dall’ascolto”
“Dici sul serio?” Baptiste era sempre più allibito;
“Si, cero. Cantiamo qualcosa?”
“In quello sono bravo sai?” fu la pronta risposta del
ragazzo, che atteggiando un’aria d’importanza provocò un’altra risata di
Juliette.
“Ma davvero? Sentiamo allora” e iniziò a suonare i primi
accordi di una canzone “Questa la conosci?”
“Oh, si..”
Spostandosi dal piano per far accomodare Julie, si pose alle
sue spalle, in piedi, e dopo qualche accordo iniziò ad intonare dolcemente
l’inizio della canzone.
E la sua voce scivolava dolce, morbida, riempiendo i suoni,
modellandone la forma; e quell’interpretazione così profonda, così sentita,
acuiva l’effetto di incanto che era calato sulla stanza, tanto splendidamente
che persino alcuni vecchietti si erano fermati all’uscio della sala, in ascolto
di quella voce baritonale dall’impressionante estensione, con quel timbro così
amorevole, così perfetto.
E Julie ricordò di colpo un sogno infantile, offuscato e
debole, in cui aveva sentito una voce simile a quella, più forte, più disperata,
un suono che l’abbracciava, stringendola con la forza di una disperazione
sorda, atrocemente triste e straziante.
Ricordò che quella notte aveva pianto, da sola, nel suo
letto, soffocando i fievoli singulti nel cuscino, vedendosi sparire dalla mente
quel volto dolce, i grandi occhi che l’avevano guardata così teneramente, e la
bocca che aveva intonato quel canto così triste.
Ma non aveva voluto dimenticarsi del suono di quella voce, e
ogni qual volta poteva si sedeva al piano, e suonava con lentezza estrema
quella melodia aliena, infantile e tragica che nei suoi sogni aveva intonato la
voce.
E nell’ascoltare quel timbro così simile, così
spaventosamente uguale, una morsa le aveva serrato lo stomaco, riempiendogli di
lacrime gli occhi.
Baptiste però cantava ad occhi chiusi, lasciandosi
trasportare dalla musica, e non si accorse dei brevi sussulti che le mani ferme
dissimulavano.
Dopo lo stupore iniziale, Julie si aggiunse al canto,
laddove doveva sopperire il violino, e le due voci armonizzavano così
perfettamente, così istintivamente che persino Baptiste ebbe un leggero
sussulto, e un’emozione dolce gli accarezzò la gola, aggrappandosi alle note
che ne fuoriuscivano; e pareva davvero che si rivolgesse a lei, in
quell’accorata dichiarazione d’amore assoluto e incondizionato, dal suo
sguardo, dai suoi occhi enormi e celesti come il mare, dal tremore delle
labbra; cosa che i vecchini, accorsi ad assistere a quel meraviglioso canto
inspirato ai canoni classici, ed in particolare le nonnine con i vaporosi capelli
bianchi non mancarono di notare, sorridendosi complici tra di loro.
Anche Alex era arrivata.
E se è vero che tra gemelli con lo stesso corredo genetico
vi è un rapporto speciale, allora quelle che brillavano nei suoi occhi erano le
stesse lacrimuccia timide che illuminavano gli occhi di Juliette.
Julien invece, dopo tanto vagare, aveva finalmente scoperto
la biblioteca.
Era un complesso enorme, illuminato da colossali vetrate e
da una cupola decorata di alabastro al centro del soffitto, da cui filtrava una
tenera luce dorata.
Le pareti erano completamente ricoperte dagli enormi scaffali scuri
rigurgitanti libri; al centro della sala, circondato anch’esso da scaffali, il
camino: enorme, in marmo istoriato, appariva come una bocca gigantesca, buia e
affumicata.
Il soffitto in quella stanza era talmente alto che avrebbe
consentito un altro soppalco oltre ai due che già c’erano, e circondavano per
intero la stanza.
Julien era esterrefatto: gli venne una mezza idea di farsi
adottare dalla padrona, mentre vagava con l’aria persa lungo le pareti,
leggendo qua e là titoli di libri sconosciuti, che a giudicare dalle condizioni
delle copertine rilegate, avevano probabilmente visto un paio di guerre.
La letteratura contemporanea sembrava davvero non aver mai
sfiorato quegli scaffali.
E mentre ciondolava lungo il primo soppalco, le notò.
In effetti, da quando era entrato in quella stanza, si era
vagamente sentito osservato, ma non ci aveva fatto troppo caso, pensando che
qualche vecchietto lo stesse guardando male.
Ma non c’era nessuno nel salone, e in quel momento se ne
rese conto.
Lentamente si avvicinò a quelle figure umanoidi che avevano
attirato la sua attenzione; erano forse una ventina, e dividevano gli scaffali
come colonne.
Quando fu abbastanza vicino da rendersi conto di cosa
fossero, ne rimase estasiato.
Erano figure femminili, ninfe forse, incise nel legno scuro
delle librerie, che facevano da colonne portanti al secondo soppalco.
Sembravano emergere dal legno stesso, in pose languide e
sinuose, sporgendo in avanti il seno, ma senza provocazione, in una elegante
posa di seduzione d’altri tempi.
Tutte le figure avevano dettagli diversi, la posizione, il
leggero peplo di modello diverso, una collanina sottilissima, bracciali,
ricavati dal legno stesso, ma i loro visi erano sempre gli stessi, splendidi
ovali dalle labbra tonde e morbide, minuziosamente intagliati fino a risultare
impressionanti nella loro verosimiglianza.
Ma una in particolare attirò l’attenzione di Julien.
A differenza delle altre, la ventesima ninfa aveva gli occhi
di topazio.
Bellissime gemme incastonate nell’iride della creatura,
inconfondibilmente preziose, parevano quasi brillare di luce propria.
Oro colato
Un lieve capogiro lo prese, nel fissare le gemme; si
appoggiò ad una parete, immaginando un calo di pressione dovuto al caldo, e in
quel momento anche nella biblioteca arrivò, portato dalla brezza, il canto
d’amore intonato dai ragazzi nel salone della musica.
Julien riconobbe immediatamente la voce pulita, limpida e
cristallina di soprano della sorella, di Julie però, che se fosse stata quella
di Alex avrebbe di certo avuto un’impronta più aggressiva.
E, seguendo il suono, uscì dalla biblioteca, mentre la ninfa
di ciliegio continuava a scrutarlo nella sua immobilità.
Arrivando nel salone, fu accolto dallo scroscio di applausi
per l’esecuzione appena eseguita dei ragazzi, e sorrise nel riconoscere il
ragazzo simpatico che li aveva accolti.
“Eri tu a cantare allora?”
Baptiste si voltò allegramente, sorridendogli inebetito : “Oh,
si, ma tua sorella è grandiosa, santo cielo!”
Juliette sorrise, leggermente arrossata in viso, abbassando
gli occhi in un moto di imbarazzo piacevole.
Alex, che era arrivata a metà esecuzione, posò una mano
sulla spalla del ragazzo, con un’energia che era difficile da reggere, con un
sorriso sulle labbra che Baptiste ricordava d’aver già visto in qualche
documentario sulle tigri dai denti a sciabola.
“Allora, chi ha fame?”
“Oh, hai ragione, è ora di pranzo! Su, zia Marguerite di
sicuro avrà preparato qualcosa di buono..”
|
Ritorna all'indice
Capitolo 10 *** Enfern ou Ciél, qui importe? ***
R.M. X
Capitolo X
Enfern ou Ciél, qui importe?
Viens-tu du ciel
profond u sors-tu de l’abime,
O Beaute? Ton regard infernal et divin,
Verse confusément le
bienfait et le crime,
Et l’on peut pour cela
te comparer au vin.
(“Hymne à la Beaute”, XXI - Charles Baudelaire)
Finalmente, dopo due settimane, Cecìle tornò.
Si presentò poco dopo il tramonto, splendido come sempre, e
fu accolto con la stessa magnificenza della sua prima visita.
La Madama
accorse estasiata quando, sentendosi chiamare a gran voce dalla donna che
accoglieva gli ospiti, tale Matilde, aveva sentito il nome del giovane tanto
bramato da tutti, e sorridendo con quel suo sorriso da donna vissuta, fece un
breve inchino, ma prima che lei potesse disporre nuovamente il salotto per una
nuova sfilata di giovani carni, egli la trattenne, chiedendo senza preamboli
dove fosse Florent.
“E’ malato, je suis
desolée, ma ci sono..”
“Abbiate la gentilezza di condurmi da lui, ché la sua salute
mi sta molto a cuore.”
“Mi dispiace ma devo insistere. Se fosse qualcosa di
contagioso no, non potrei permettere che la vostra persona ne risentisse.”
“Mia cara signora, dite qualunque cifra, oggi non sono in
vena di convenevoli.”
A quelle parole la
Madama rimase allibita.
Si fece portare carta e penna, e in pochi secondi riempì il
foglio di intricati calcoli con un filo logico di tutto rispetto.
Voltò il foglietto e, a chiare lettere, scrisse la cifra che
giudicava la più soddisfacente da entrambe le parti; e da brava donna d’affari
si apprestò a proporre una spiegazione del tutto plausibile a quella cifra a
dir poco indecente, qualora il giovane l’avesse richiesta.
E, con grande sbalordimento di tutti, per prima la Madama, tirò fuori da un
sacchetto di broccato dorato su sfondo rosso la cifra richiesta.
Fino all’ultimo centesimo, senza un briciolo di turbamento.
La signora faticò ad apparire calma, quando ricevette il
denaro dalle dita pallide di Cecìle; respirò due o tre volte a fondo,
sforzandosi di non balbettare.
“Come desiderate, monsieur.”
Frettolosamente lo condusse lungo i corridoi illuminati dalle
lanterne turche, fino ad arrivare alla stanza del malato.
Spalancando in malo modo la porta, fece segno a Cecìle di
entrare, e mentre il ragazzo si dirigeva verso il grande letto, richiuse
convulsamente la porta, con un secco rumore di cardini.
Il signore non voleva essere disturbato, mentre
s’intratteneva con Florent.
Il quale, ancora fabbricante, stretto alle lenzuola e scosso
da brividi lungo tutto il corpo, appariva in una luce nuova a Cecìle: se la
priva volta, di lui aveva visto soltanto la forza e la passione, ora ne vedeva
la fragilità e la delicatezza.
Con una smorfia di lieve disgusto, Cecìle si avvicinò al
letto: “Alzatevi, mon amie, questa notte dovrete intrattenermi.”
E nel sentire quella voce, Florent riprese di colpo
conoscenza.
“M-monsieur…siete voi?”
Si mise lentamente a sedere, mentre quasi per incanto le sue
gote si coloravano di bronzo pulito, mentre gli scossoni andavano calmandosi, e
gli occhi schiarendosi, fino a riacquistare il magnetismo dell’oro grezzo.
“Dovreste lavarvi, non credete?”
A quella domanda, Florent avvampò tanto violentemente che la
testa riprese a girargli.
Un odio quasi insopportabile nei confronti del suo odore lo
colse con tanta intensità che desiderò strapparsi la pelle di dosso.
La sensazione de tutto nuova di ripugnare lo assalì senza
pietà per il suo stato, terrorizzandolo e disgustandolo fin nel midollo.
Scivolò fuori dal letto, dirigendosi verso la piccola stanza
da bagno attigua alla sua stanza; ogni passo gli rimbombava nelle ossa come una
martellata, e dovette stringere i denti per sopportare il bruciore del marmo
freddo sotto i piedi bollenti.
Cecìle se ne rese conto, e gli si affiancò per sorreggerlo
lungo la traversata che l’avrebbe portato alla vasca; ma Florent tornava a
impallidire, quindi con gentilezza lo riportò a letto, sorridendo dolcemente
per far tacere le pietose proteste del giovane.
“Non state bene, amico mio. Ho fatto un errore. Rimarrò qui
con voi, a farvi compagnia. Se non vi arreco dispiacere, ovviamente.”
“No, vi prego…vi prego, restate.”
Cecìle si sedette su d’una sponda del morbido letto, accanto
al ragazzo pallido e sudato.
Prese ad accarezzargli la fronte con dolcezza, un gesto tanto
inconsulto che stupì perfino se stesso.
E, lentamente, l’odore di sudore di Florent si faceva sempre
più intenso, sempre più vicino; un odore acre, maschile, che sconvolse i sensi
di Cecìle, abbattendone le difese, e che lo costrinse a piegarsi sul malato,
per affondare il viso nei suoi capelli neri.
Senza rendersi minimamente conto del come fossero arrivati a
quel punto, sentì le labbra di Florent lungo la spina dorsale, in una lenta
digressione verso i suoi lombi, mentre le sue mani percorrevano freneticamente
ogni centimetro di pelle, ritrovandosi nel delirio del nuovo piacere a cercare
di capire dove fossero i suoi abiti.
O quelli di Florent.
Ma la mente non rispondeva, e tutto quello che riusciva ad
intendere era quello che i suoi sensi percepivano, stupefatti e sovraeccitati.
Ormai non ricordava neppure il suo nome, mentre gemendo
pateticamente sentiva l’esplosione più terrificante di dolore e piacere che avesse
mai lontanamente immaginato espandersi lungo tutto il corpo, in un affluire
inconsulto di sangue dappertutto.
Si accasciò esausto, tremante, sfatto fin nelle ossa, mentre
Florent, sopra di lui, continuava lentamente e pacatamente a baciarlo,
scaldandolo col suo fiato; quando si svegliarono, entrambi diverse ore dopo, si
ritrovarono stranamente storditi e con qualche ematoma qua e là.
Ma Florent era guarito: la sua pelle era tornata bronzo
fresco e liscio, e i suoi occhi brillavano spietatamente nell’oscurità con la
stessa intensità di stelle rosse.
Svegliò dolcemente Cecìle, accarezzandogli il collo, e
tenendolo per mano, questa volta fu lui che lo accompagnò nel piccolo bagno,
suonando una piccola campanella perché portassero l’acqua calda.
Che, fatta preparare ore e ore prima dalla Madama, e tenuta
costantemente sui fornelli per un’eventualità del genere, era arrivata
immediatamente, trasportata da due ragazzine troppo ossute per reggere il peso
dei grossi calderoni ma decisamente resistenti.
Florent disciolse nell’acqua le essenze che preferiva,
quelle che oramai si erano mescolate col suo odore naturale, quasi il corpo si
fosse abituato a produrne da sé: acqua di rose, gelsomino, costosissima ambra
grigia, narciso e pino.
Gli aromi affluivano al soffitto in grosse e pesanti volute
di vapore, distendendo la mente e causando disorientamento; Florent s’immerse
per primo, in tutta la perfezione straziante delle sue membra.
Tendendo una mano a Cecìle, leggermente intimidito, lo
invitò a raggiungerlo nella piccola vasca.
La mancanza di spazio benedisse per una volta Florent, che
si trovò premuta contro il petto la schiena bianchissima del giovane,
accapponata per il contatto con l’acqua bollente; gli cinse il busto con le
braccia, restringendo ancora lo spazio fra di loro, mentre Cecìle s’abbandonava
a quella sensazione tenera e inconsulta di trovarsi così vicino ad un altro
essere umano.
Di lì a breve ricominciarono le esplosioni per Cecìle, che
ancora sconvolto dalla prima esperienza questa volta non riuscì a trattenersi
dal gridare senza freno, con la soddisfazione più profonda di Florent, che
sorrise con la faccia premuta contro la sua schiena.
Prima di andarsene, questa volta, Cecìle gli lasciò un
bacio, e la promessa sincera di tornare.
Tornando a casa, sobbalzando allegramente a ogni scossone
della carrozza, Cecìle fece l’agghiacciante scoperta di essersi vilmente
abbandonato ai sentimenti; una sensazione di nausea gli salì lungo la trachea,
ma l’umiliazione gliela fece dimenticare in breve, sostituendola con una rabbia
sorda che gli fece ribollire il fegato.
Non sarebbe tornato.
Se lo impose per quasi tre settimane, diciannove lunghissimi
giorni in cui la febbre delle carni gli trucidò i sensi, beffandolo e
umiliandolo quando nell’aria gli pareva di risentire l’odore di gelsomino e
rose, o quando gli bruciava talmente fra le gambe che era costretto a stringere
un cuscino fra le cosce.
In quei giorni, l’agghiacciante consapevolezza di essere
stato avvelenato dalla sua bellezza divenne quasi un’ossessione; l’inferno e il
paradiso si riflettevano in ogni lembo di pelle di quella creatura mistica,
mentre nei suoi occhi si contorcevano i dannati e sulle sue dita i beati
cantavano inni in preda a perenni orgasmi di luce.
Il veleno che scorreva sotto la sua stessa pelle, che era
stato sangue, gli portò la consapevolezza disarmante che non gli importava di
essere dannato, o di giacere per sempre fra gli angeli.
Tutto ciò che contava era poter toccare di nuovo quella
pelle, poter immergersi di nuovo nei suoi meandri, per rimanerne intrappolato
per sempre.
Il desiderio cieco di essere dannato iniziò a corrodergli il
fegato, con la perizia di un’ulcera.
Ma resistette, strinse i denti e s’impose di ingoiare le
lacrime, per altri tre lunghissimi giorni.
Poi tornò.
Madame non ebbe il coraggio di imporgli un nuovo pagamento;
tutta la sua avidità era stata appagata fino allo sfinimento in una volta sola,
e per quanto la riguardava, Florent avrebbe anche potuto portarselo via per
sempre.
Col ricordo del tragitto fino alla stanza del giovane
marchiato a fuoco nella mente, procedette speditamente verso la porta scura
dove avrebbe trovato la causa delle sue recenti ulcere.
Spalancò la porta con la forza che solo la disperazione
potette imprimere nelle sue braccia delicate, e di nuovo trovò Florent a letto,
stanco e pallido, bello come un dio morente, talmente straziante che gli
vennero le lacrime agli occhi, e per non singhiozzare si dovette tappare la
bocca con entrambe le mani.
Questa volta non si sentiva l’odore acre del suo sudore:
aveva preteso che ogni pomeriggio gli fosse portata acqua calda con cui si
lavava convulsamente, a discapito di una salute infiacchita e spenta. Ma la
mancanza di Cecìle sarebbe stata peggio di morire in preda alle febbri.
Non si sforzava nemmeno di negarlo a se stesso: in lui aveva
trovato l’amore che per tanti anni gli era stato negato.
Ne aveva bisogno come l’aria, come il sangue.
Vivere senza, non aveva significato.
Cecìle abbandonò gli indumenti sul pavimento e, sollevando
le pesanti lenzuola, prese fra le braccia la testa scura di Florent,
stringendolo a sé in un gesto che gli era alieno e familiare, per non averlo
mai ricevuto da nessuno dei suoi genitori, e per essere una cosa così consueta
per ogni specie vivente.
Non desiderava più poterlo schiacciare sotto il suo peso,
non voleva più umiliarlo come gli era parso di essere stato lui, durante il
loro ultimo incontro.
Voleva con tutte le sue forze che il tempo si fermasse, che
niente mutasse in quella stretta talmente innocente da sembrare fraterna.
Quando timidamente, la mattina dopo, Cecìle gli chiese di
seguirlo, Florent non se la sentì, non ancora.
Dopo di allora, Cecìle tornò tutti i giorni, con una
costanza che nauseò la Madama
e intenerì le ragazze, che nei due rivedevano mille storie passate, schiacciate
sotto il peso della vergogna e della società.
Quando comparivano nel salotto, stretti, scambiandosi dolci
sguardi complici, quasi tutte le ragazze si voltavano, e quelle che non
potevano li sbirciavano di nascosto, con gli occhi lucidi e un senso di nostalgia
stretto in gola.
In breve iniziarono ad uscire dalla villa, per girovagare
nel centro e per cercare nuove stanze per le loro fughe.
Cecìle iniziò a regalargli piccoli oggetti, e Florent non
mancava mai di ricambiare in modo personalissimo quelle delicatezze che sentiva
come carezze dolci, un modo come un altro di esprimere l’affetto che
ingigantiva, cambiava colore, e che a breve avrebbe occupato ogni lembo dell’anima
di Cecìle.
Quando Florent gli fece capire di non saper leggere, egli
iniziò lentamente ad insegnargli le nozioni base, che prontamente lui riusciva
a mettere in pratica con una facilità ammirevole.
Allora i dolci, i monili in oro, i liquori e i sigari dei
piccoli doni si trasformarono in libri di narrativa, poesia, persino scienze
pure.
Florent arrivò ad avere un’impressionante collezione di
libri, da vero collezionista, passione che lo accompagnò per tutta la sua breve
vita.
E fu improvvisa, violenta e devastante la notizia che
infranse tutti i sogni dei ragazzi, piombando loro addosso come un masso.
Quando glielo dissero, Cecìle si sentì mancare tanto
violentemente che dovettero sorreggerlo.
E quando fu costretto a dirlo a Florent, sentì il cuore
comprimersi su se stesso, lacerandosi e contorcendosi in preda alle
convulsioni, e un leggero sapore di sangue in bocca.
“Mi sposo.”
A Florent mancò un battito.
Vide il mondo farsi buio, tutto crollare irrimediabilmente.
Angolo dell’autrice:
Miei carissimi lettori, come ve la passate? Di recente sto
aggiornando con una foga convulsa, cosa che mi capita di rado. Quindi, a costo
di spezzarmi le dita, sfrutterò questo momento in cui la musa sosta dalle mie
parti per raccontarvi tutto quello che posso dei miei piccini.
Ad ogni modo, ma fa così schifo questa storia? Ditemelo per
piacere, così per lo meno la smetto di incaponirmi nel volerla continuare.
E’ abbastanza frustrante non ricevere segnali di vita
nemmeno da quei quattro gatti che la leggono…Vabeh su, fatemi un regalo,
perdeteceli cinque minuti, anche solo per dirmi che vi fa profondamente schifo
e che vorreste mettermi al rogo per aver scritto una cosa così brutta.
Vi saluto miei cari,
vostra affezionata
Vale
|
Ritorna all'indice
Capitolo 11 *** Come la pioggia ***
R.M.XI
Capitolo XI
Come la pioggia
“Alej..”
“Mhmpf”
“Alej ti prego..”
“Mhmmmpf non.. domani…”
“Alej su, sii buona..”
Finalmente Alex si era girata, strappandosi malvolentieri
dal meraviglioso sonno della stanchezza; a luci spente, dovette cercare gli
occhi della sorella nel buio, pregando che la sua espressione fosse abbastanza
truce da spaventarla.
“Che c’è?”
Juliette la guardò per un po’, riconoscendo persino
nell’ombra quell’espressione angosciante tipicamente sua.
“Ho fatto un brutto sogno”
Alex socchiuse gli occhi, lasciando svanire l’espressione
truce; cercò l’interruttore della abat-jour, trovandolo a discapito della
sveglia e del cellulare che volarono da qualche parte sul pavimento.
Con la soffice luce dorata le sorrise, passandole un braccio
intorno alle spalle.
“Su, raccontami.”
“Non me lo ricordo bene… però mi ricordo che c’era Julien;
mi sembrava che fosse vestito in modo strano, ma non vedevo bene. E c’erano un
sacco di persone strane. E c’eri anche tu, ma non eri tu… eri di spalle, avevi
i capelli corti, ma poi ti sei girata… e la cosa che mi ha spaventato di più
era che i tuoi occhi non… come dire… erano di un colore strano. Non erano più
come i miei. Erano…non lo so, mi facevano paura. E’ successo qualcosa di
brutto.”
Alex la strinse a sé, lasciando che l’ansia le si
sciogliesse dal corpo; “Su, è stato solo un sogno. Non avere paura…è che sei stanca. E hai cambiato letto.”
“Ne sei sicura?”
“Certo. Lasciamo la luce accesa?”
Juliette fece segno di sì con la testa.
Alex sollevò le coperte per farla scivolare sotto, e ancora
avvinghiata alla sorella, Juliette chiuse gli occhi, cercando un sonno che
ormai era svanito.
Ma di lì a poco riuscì ad assopirsi, respirando piano con la
bocca.
Alex aspettò che Julie fosse completamente addormentata, per
concedersi qualche altra ora di sonno.
E mentre perdeva
coscienza le pareva che le pareti, fiocamente illuminate, cambiassero colore,
iniziassero ad allargarsi, mentre la luce s’intorbidiva e diventava più forte,
più molesta.
Improvvisamente si ritrovò al centro di una sala da ballo,
con un assordante sottofondo di archi, mentre intorno a lei figure umane
vorticavano immerse in stoffe preziose, indecifrabilmente ricche e opulente.
La colse la nausea, e la testa le girava, e nella confusione
le parve di vedere un volto familiare.
Julien?
Accanto a lui un ragazzo alto, bruno, incredibilmente
somigliante a Juliette.
Ma..
Si svegliò di scatto, bagnata fradicia di sudore, con il
viso preoccupato di Julie a dieci centimetri dalla faccia.
“Lo hai visto, vero?”
Il volto era pallido e teso, mentre lentamente si metteva a
sedere.
“Cosa?”
“Il mio sogno. Lo hai visto anche tu, vero?”
“Non… no, calmati. Vado a farmi una doccia.”
Julien, un poco aveva dormito.
Ma per la maggior parte del tempo era rimasto a fissare le
stelle, perfettamente incorniciate dalla finestra.
Persino il blu del cielo sembrava più intenso in quel luogo;
pareva quasi iridescente, screziato, di un blu oltremare perfetto; le stelle
poi, sembravano bruciare.
Pensando, non troppo felicemente, ad una solitudine che gli
chiudeva la gola, e che da qualche tempo non voleva andarsene.
Laurent, poi, non riusciva ad evitarlo; il suo pensiero
arrivava piano, quasi di soppiatto, ingigantendosi nel silenzio, fino a
diventare insopportabile; il suo ricordo era inquinato da una rabbia sorda ed
egoista, la rabbia dell’abbandono, la volontà di non vedere niente oltre il
proprio infantile pensiero.
E il suo volto si distorceva, diventando un groviglio di
colori e linee contorte, mentre la sensazione di star dimenticando il suo volto
si faceva strada, viscida e inaccettabile, e terribilmente realistica.
Il suo viso si stava allontanando, il suo ricordo invece
permeava l’aria.
La sua mancanza, più che altro.
Poi, quando chiudeva gli occhi, il buio più assoluto lo
coglieva, spaventandolo a morte.
Ma era pur sempre meglio delle immagini che colavano dietro
le palpebre, quelle che sapevano di amaro e di rimpianto; quelle che portavano
marchiato il nome di Laurent, e odoravano di maglie pulite e sapone per il
viso.
L’alba lo sorprese così, nel dormiveglia dei ricordi misti
ai sogni.
E il rosa tenue, quel colore di ninfea appena fiorita,
ebbero l’effetto di schiarirgli l’anima, e di farlo assopire come la notte non
era riuscita a fare.
Fu svegliato dai raggi pesanti del sole alto, alle nove di
mattina.
Non troppo felicemente, in effetti.
Ma il buco nello stomaco lo convinse a trascinarsi fino alla
sala da pranzo, ormai deserta.
O quasi.
“Buongiorno Julien!”
Il sorriso allegro di Baptiste illuminò la stanza in un
unico, folgorante lampo di allegria.
“Ciao Baptiste, hai visto le mie..”
“Pensavo fossi morto. Dio quanto sei pigro, ma non ti fai
schifo da solo?”
Lo sguardo feroce di Alex, con le gambe divaricate e le mani
sui fianchi, in una angosciante posizione d’attacco, lo fulminò, troncandogli la
frase a metà.
“Che dolce che sei. Mi illumini la giornata.”
“Ciao Julien” Julie, alle spalle della sorella, sorrise
gentilmente, compensando il trauma di Alex di prima mattina, con poco sonno e
di cattivo umore.
“Ah, meno male, non ti ha mangiata…allora, che si fa oggi?”
“Colazione, prima di tutto”
“Ti ringrazio” le disse di cuore, col rimbombo dello stomaco
vuoto a riempirgli le orecchie di allegri gorgheggi.
Julien si prese la giornata per disegnare.
Lo splendido giardino straripante rose era un accogliente e
meraviglioso luogo d’ispirazione.
E per un moto di puro masochismo, scelse come sottofondo
musicale una allucinogena colonna sonora dei Nirvana.
Giusto per un tocco di stonatura.
Che, messa al posto giusto, non guasta mai.
Cominciò a tracciare linee lungo il foglio bianco, con un
carboncino sottile, morbido, muovendolo a formare l’ovale di un viso.
Mentre le linee s’infittivano, l’immagine diventava nitida,
prendeva corpo, strappata dall’invisibilità dell’etere.
Con una mollica di pane cancellava qua e là, linee a vuoto,
guide per i lineamenti.
Un volto, giovane.
Capelli ricci, scuri.
Gli si strinse la gola mentre tracciava le linee delle
labbra, con un’emozione sconvolgente.
Freneticamente, l’ansia gli cresceva nel petto, raggiungendo
le dita.
Gli ultimi dettagli, brevi sbavature da cancellare.
Ed ecco, perfetto.
Il viso pulito, perfettamente ombreggiato.
Le ciglia che si ramificavano sugli occhi, folte e
lunghissime.
Un volto sospeso tra il maschile e il femminile.
Che somigliava incredibilmente a…
“Cosa disegni?”
Un sussulto. Julie.
“Non lo so”
Seguiva con lo sguardo il volto della ragazza, mentre lei
gli prendeva dalle mani il blocco.
Osservò il disegno, sorridendo dolcemente.
“E’ molto bello.”
Non l’aveva notato.
Rispondendo alla chiamata di Alex, Juliette si allontanò,
baciando prima in fratello.
Non se ne era resa minimamente conto.
Julien tornò a guardare il disegno.
Era identico a lei, e non se ne era nemmeno accorta.
Alex la chiamò ancora una volta.
Non voleva che si allontanasse troppo, Juliette.
Teneva d’occhio anche il fratello, ma a distanza: quando
disegnava voleva stare solo.
Una strana angoscia l’aveva presa fin dal risveglio, e non
era intenzionata ad andarsene.
“Eccomi, scusa”
“Mhmpf”
“Alej…c’è qualcosa che non va? Sei sicura di non aver avuto
brutti sogni?”
“No, sicura.”
“C’entra.. c’entra per caso Mathias?”
Alex si voltò verso la sorella, con l’espressione più triste
che avesse mai avuto; gli occhi erano grandi e stanchi, e sotto il colore bruno
della pelle, un pallore sbiadito le succhiava il sangue.
“Perché non lo vuoi chiamare?”
“Perché me ne sono andata. E mi sento una codarda.”
“Non dovresti. Hai fatto molto per lui.”
“Non mi sembra davvero”
“Eppure è così…su, non abbatterti. Chiamalo, probabilmente
sente la tua mancanza.”
La sua mancanza…
Già.
Mathias era arrivato come la pioggia, facendo un rumore
dolce, lento, quasi sussurrato.
Alex se lo era ritrovato a girare per casa quando Juliette
aveva iniziato a dargli ripetizioni di matematica; i suoi grandi, immensi occhi
neri vagavano per le stanze senza interesse, spenti di qualunque luce.
Spaventosamente vuoti.
Poi avevano incrociato i suoi, e lentamente il velo freddo
si era sciolto, liberando il cuore di catrame di quegli occhi languidi,
scoprendo una luce nuova, una curiosità timida e sottile.
Mathias era anche il suo vicino di casa: lo vedeva spesso
nella veranda, sdraiato sulla poltrona di vimini, con addosso un terrificante
basso nero, a cui carezzava le corde metalliche.
Quando lo vedeva così, una strana sensazione le faceva vibrare
lo stomaco, e di colpo il sangue le affluiva alla testa.
Stordendola dolcemente.
A Mathias capitava lo stesso, ma questo lei non lo sapeva.
Un giorno lo sentì sbattere violentemente il portone di
casa, accompagnato dalle urla di suo padre; lo vide percorrere a testa bassa il
vialetto, fermarsi sul marciapiede, voltarsi verso la finestra a cui era
affacciata e fissarla, per un poco.
Poi le fece un cenno, breve, con la mano.
Era un invito a seguirlo.
Il tempo minacciava pioggia: fu l’unica cosa che notò
nell’afferrare l’ombrello prima di uscire a razzo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 12 *** Madrigali ***
R.M.XII
Capitolo XII
Madrigali
“Para que vayas
gritando
mi nombre hacia los ponientes,
preguntando por mì al agua,
bebiendo triste las
hieles
que antes dejò en el
camino
Mi corazòn al quererte”
(Madrigal Apasionado – Federico Garcia Lorca)
A Parigi, Cecìle e Florent avevano continuato ad incontrarsi
in uno splendido appartamento nel centro della città, finché quest’ultimo non
vi si era insediato in pianta stabile, con la benedizione di Madame e uno
strano senso d’inquietudine di Eleanore, che non aveva mai smesso di occuparsi
di lui.
Cecìle portò personalmente Florent a scegliere l’appartamento, pianificandone sin dall’inizio
il futuro trasferimento, per cui aveva voluto che ogni dettaglio rispecchiasse
il gusto e le necessità del giovane.
L’appartamento era moderatamente ampio, niente di
appariscente, ma discreto e accogliente; aveva ampie vetrate da dove la luce
filtrava senza ostacoli, un moderno e funzionale sistema di riscaldamento, una
bella cucina, una sala da pranzo e un salotto attiguo, due comode stanze e un
enorme bagno, del quale Florent s’innamorò a prima vista, e che per lui, Cecil
fece ristrutturare e decorare in tempi irrisori.
In capo a un mese, il ragazzo aveva salutato le amiche di
sempre e si era trasferito; non era però riuscito a convincere Eleanore, che
continuava a biasimarlo nella sua scelta.
“Finirà male, me lo sento. E questa volta pagherai cara la
tua impulsività.”
“Ti sbagli. Andrà tutto bene, sii felice per me. Troverò un
lavoro onesto, pagherò le mie spese..”
“No Florent, sei tu che stai sbagliando! Ma che diavolo t’è
saltato in testa di assecondare quel ragazzino! Di credere alle sue baggianate
da illuso! Ti supplico, non andare… lui si stancherà di te. Ti dimenticherà.
Sai quante ragazze se ne sono andate allo stesso modo? E sono tornate tutte…
Tutte quelle che non sono morte.”
“Come fai a essere così cattiva? Non lo capisci? Io lo amo,
e lui ama me. Perché dovrebbe finire? Perché non posso avere un briciolo di
felicità anch’io?”
“Perché siete due uomini santo cielo! Fossi stato una
ragazza, avrebbe pure potuto sposarti in un attimo di follia, mandando al
diavolo la sua famiglia e il denaro che ti sostenterà a Parigi, se persevererai
in questa balzana idea. Ma così..”
Florent stava per piangere.
Eleanore aveva irrefutabilmente ragione; era esattamente
così, non si poteva cambiare niente.
Ma anche senza sposarsi, senza vivere insieme, che
importava?
“Non ci sposeremo, e allora? Tanto meglio! Vuol dire che
avremo il buonsenso di non uccidere il nostro amore col tedio di doverci vedere
tutti i giorni!”
“Florent…” si passò una mano sugli occhi, asciugando
disperazione e lacrime; “Ascoltami, in nome del cielo, ascoltami stupido
sciagurato! Invecchierai. Lui si stancherà di te. E quando tutto questo
succederà? Tu, cosa avrai ottenuto? Non avrai denaro, non avrai lavoro. Ti
prego, non costringermi ad essere così dura. Si sposerà tra poco, e se sua
moglie decidesse di non accettare mantenuti?”
Eleanore si prese una pausa; Florent piangeva, enormi
lacrimoni cocenti gli avevano scavato solchi nelle guance.
“E non potrebbe
essere diverso? Non potrebbe amarmi davvero?”
Le parole erano lente, amare, spezzate dai singhiozzi sordi;
guardava con amarezza e rabbia la donna non più giovane, che con tutte le buone
intenzioni stava cercando di farlo ragionare, mentre l’angoscia le cresceva
nell’anima.
“Posso solo augurartelo, a questo punto”
Si strinse le mani al petto, e sollevando il mento si
ritirò, con un’alterigia che si scontrava direttamente con il vestito frivolo
di seta verde che aveva indosso.
Florent non riusciva a capire.
E il dubbio, lentamente, cominciava a scavargli buchi nel
cuore.
Quando, quella sera, Cecil venne come al solito, non riuscì
a parlare, non riuscì nemmeno a simulare un sorriso, preoccupando non poco il
giovane, che con dolcezza gli chiese se si sentisse bene.
“Non molto, mi dispiace.”
“Oh.”
Cecil non era capace di grandi dimostrazioni di affetto. O
di grandi monologhi. Men che meno di consolare o cercare di comprendere l’animo
umano.
Ma lo sforzo che fece quella sera fu esemplare: tanto
commovente da sciogliere ogni dubbio in Florent, tanto accorato che Cecil non
ricordava di aver mai fatto tante moine nemmeno a sua madre.
Impacciato, rosso fin nelle punte dei capelli, sussurrava
dolcemente a Florent versi di vecchie poesie e altri di sua invenzione,
accarezzandolo con delicatezza, con gesti privi di qualunque allusione passionale.
A quella scena, Florent non resistette: intontito dall’affetto
che non aveva ancora mai ricevuto da lui, stupito di meritare così tanti
sacrifici, si prodigò nel ricompensare il più ampiamente possibile quell’amore
timido e inesperto che gli era stato donato.
Ritrovandosi, al mattino, più ammaccato che mai, con ancora
fra le mani un Cecil accartocciato e strapazzato, privo di qualunque energia,
rintronato fin nelle ossa dei suoi stessi gemiti, morsicato qua e là, con un’espressione
beata sul volto fine.
Prima che si svegliasse, prima di rendersi perfino conto di
star pensando, si disse fra sé che era così bello in quelle condizioni, che
avrebbe dovuto ridurcelo più spesso.
Dal canto suo, nessuno nella famiglia di Cecil osava parlare
delle sue nottate fuori; nessuno chiedeva, nessuno voleva sapere.
Il matrimonio si avvicinava, la data era inesorabile: il
padre di Cecil, Gerard, aveva puntato il futuro della propria famiglia sull’unione
con i Belavoir, antico casato del sud, tramite la dolce e accondiscendente
primogenita, Sophie, una cara fanciulla dai capelli dorati e i languidi occhi
grigi.
Cecil sarebbe stato felice, con la dolce sposina, e anche
immensamente ricco.
Gerard era sempre stato smodatamente orgoglioso del suo
primogenito, così sofisticato, così nobile, tanto quanto lui non aveva saputo
esserlo, uomo d’arme impantanato in una vita troppo raffinata per i suoi gusti
spartani; vedeva in Cecil un modello di aristocrazia pulita e alta,
imparagonabile agli altri smodati imberbi che spuntavano dalle famiglie più
altisonanti, degno di una principessa.
E, per tutta la vita, si era ripromesso di procuragliene
una, bella e accondiscendente, che completasse il perfetto quadro aureo che
circondava quel ragazzo.
Ma per quanto
apprezzasse e ammirasse quel giovane così colto, beneducato, quel figlio
perfetto, freddo e cesellato come un diamante, la sua predilezione sentimentale
era per la seconda figlia, Rosalie, uno scapestrato bocciolo che, se fosse
stato maschio, avrebbe soppiantato senza sforzi il fratello.
E per quanto ogni attenzione fosse riversata su Cecil, egli
sentiva immancabilmente una mancanza d’affetto in quei gesti quotidiani, una
scarsa naturalezza nei complimenti così ricercati che gli venivano regalati
spesso a sproposito dal padre; nonostante fosse nella sua natura necessitare di
poche dimostrazioni di calore umano, soffrì ugualmente quella disparità di
amore.
Ne soffrì soprattutto perché sua madre, così simile a lui
persino nei sentimenti, aveva cancellato dal suo cuore ogni desiderio di
affetto, ogni capacità di dolcezza, congelandosi il cuore nella rigidità
aristocratica che le aveva imposto un marito sbagliato e una vita di clausura; il
giorno in cui Cecil passò più tempo con sua madre fu quando lei lo partorì,
dopodiché non la rivide se non sporadiche volte, sempre in presenza di
domestici, sempre da lontano.
Non si chiese mai per quale motivo sua madre non lo amasse,
ma arrivò a considerarlo naturale nel rapporto di ogni figlio, e ripensandoci,
spesso fra le braccia di Florent, si chiese se fosse quello il motivo per cui
preferiva gli uomini.
Nel suo immaginario, le donne sposate erano fredde ed
effimere, figure traslucide coperte di gioielli e vestiti costosi, appagabili
solo attraverso beni materiali.
Anche per questo, l’idea del matrimonio lo terrorizzava
tanto.
L’idea di ritrovarsi a condividere il letto con una donna
che lo avrebbe guardato con una smorfia di disgusto dipinta sulle labbra, e con
cui avrebbe dovuto mettere al mondo dei figli era a dir poco spaventosa.
Agghiacciante.
Evitava di immaginare la sua vita dopo quel tragico evento
che sarebbe stato il matrimonio, pregando almeno di poter sempre tornare da Florent;
e per quanto si sforzasse di provare rimorsi, o sensi di colpa, o disgusto per
quello che faceva, nessun sentimento negativo riusciva ad intaccare la felicità
delirante con cui era accolto nel letto a drappi rossi, e il calore che gli
scaldava il petto nei baci dolci e delicati di Florent.
Quando arrivò il giorno delle nozze di Cecil, Florent tornò
in uno stato pietoso; Eleanore, che aveva previsto questo genere di reazione,
si era premurata di andarlo a trovare, ringraziando il cielo di aver avuto
quest’idea, quando lo trovò riverso sul pavimento, esangue, tremante di febbre.
Per tutta la giornata gli stese pezze fredde sulla fronte,
tenendolo il più possibile al caldo, cercando di fargli mangiare poche
cucchiaiate di brodo, che lui non riusciva nemmeno a ingoiare; mentre correva
da una stanza all’altra cercando acqua e stracci, maledisse col cuore se stessa
e il giorno che lo aveva incrociato.
Sarà la mia punizione, pensò, per la mia vita dissoluta.
E mentre pregava, scagliandosi addosso improperi e
maledizioni, sentiva Florent urlare in preda alla febbre, privo di conoscenza,
probabilmente sul punto di morire; mandò a chiamare un medico dal portinaio,
che prontamente arrivò un’ora dopo al fianco di un barbuto anziano, che rimase
leggermente perplesso dallo sfolgorante luccichio degli abiti di Eleanore, la
quale, adirata e stanca, gli intimò di curarlo, molto poco gentilmente.
Il medico non riuscì a raccapezzarsi in quello strano
guazzabuglio di sintomi, e dopo aver elencato a caso qualche strana e nebulosa
malattia, si decise a prescrivergli qualche farmaco, e consigliò accoratamente
alla stremata Eleonore di tenerlo al caldo e a riposo per una settimana.
Florent, nel frattempo, si era ripreso leggermente; stremato
dalla febbre, stava fermo e immobile nel grande letto intarsiato che Cecil
aveva voluto per entrambi, pensando al giovane, immaginandolo alto e composto,
procedere lungo la navata, raggiungere una sposa ingarbugliata come una madonna
di ricchezze a non finire, sorridere e giurare fedeltà e amore eterno a quella
creatura.
Il pensiero fu talmente straziante che di lì a poco la
febbre cominciò a salire di nuovo, e gli venne una mezza idea di lasciarsi
morie, che se non avesse avuto Eleanore a saltellargli per casa, in preda a
isterismi convulsi, avrebbe attuato volentieri.
In uno slancio di disperazione, trovò la forza di voltarsi
nel letto, rabbrividendo a contatto con le lenzuola fredde, rievocando l’ultima
notte in cui Cecil era stato in quel punto preciso, a soffiargli sul volto
fiato caldo, giocando con i suoi capelli arruffati.
“Domani ti sposi” gli aveva detto piano, senza risentimento.
“Si. Tu mi aspetterai fino a quando non avrò finito?”
“Certo che ti aspetterò”
Lo aveva attirato a sé con un braccio, stringendoselo
addosso, nella disperata ricerca della sua consistenza, del suo calore. Di
nient’altro, solo della sua presenza sottile, ancora un po’ impacciata in
quelle dimostrazioni di affetto.
“Cecil” lo aveva chiamato piano, e il ragazzo era
rabbrividito nel sentire quel nome uscire dalle labbra di Florent; “Si?”
“Rimarrà tutto come prima, quando uscirai dalla chiesa?”
“Me lo chiedi per sapere se continuerò a tornare da te, o se
ti amerò ancora?”
“Entrambi”
“Spero di poter stare con te come adesso, anche di più; ma
non posso essere certo che Sophie mi lascerà tornare. Ma ti amerò sempre, lo
giuro.”
Glielo disse guardandolo negli occhi, con un coraggio e un
fervore che non aveva mai sentito dentro di sé, scandendo ogni parola con
inflessioni tremanti, tenere, che regalavano al tutto un sapore di confessione.
Florent lo strinse ancora più forte, immergendosi nel suo
odore, cercando sulla sua pelle la conferma di quelle parole.
Poi Cecil continuò: “Sai cos’è un Madrigale?”
“Una poesia?”
Cecil annuì.
“Te ne dedicherò uno”
“Te ne dedicherò uno anch’io”
Florent sussurrò di nuovo quelle parole, da solo, nel suo
letto di malato, sperando che quelle parole gli arrivassero, ovunque lui fosse
in quel momento.
Lasciò che la febbre gli scivolasse completamente di dosso,
e che le forze gli ritornassero pian piano, anche quelle appena necessarie per
alzarsi.
Quando si fu ripreso, e Eleanore si fu calmata, scivolò
fuori dalle lenzuola ormai troppo calde e andò a sedersi sulla scrivania, cercando
calamaio e penna.
Poi, iniziò a scrivere.
Quando Cecil sollevò il velo, sull’altare, rimase colpito
dalla dolcezza di quello sguardo.
Non c’era gelo, non c’era risentimento in quegli occhi color
pioggia, che timidamente sorridevano al giovane, al contrario, una gioia
sconosciuta, quasi una riconoscenza le si leggevano sul volto.
Sophie era bella, molto bella, e moto dolce; fu la prima
cosa che pensò Cecil quando la vide per la prima volta.
La festa scivolò lenta e metodica, mentre Cecil e Sophie si
prendevano tempo per scoprirsi negli occhi i dettagli delle loro vite, e forse
nel tanto scrutare, la fanciulla scorse anche il viso di Florent, nelle iridi
celesti di suo marito.
Ma non diede segno di accorgersene, tanto che si lasciò
tenere per mano per tutto il tempo, accarezzando gentilmente col pollice il
dorso della mano di Cecile.
Le nozze si conclusero con un fasto e un’opulenza quasi
pacchiane, ma i giovani parevano estranei al baccano della festa, al clamore
della musica; di soppiatto, quando non si guardavano, si sussurravano appena
qualche parolina, al più una battuta sagace che causava un risolino delicato.
Si assomigliavano talmente tanto, quei due sposini così
pallidi, che un estraneo li avrebbe scambiati per fratelli.
Anche Rosalie, occasionalmente, si univa alle chiacchierate sottovoce
degli sposi, stretta dalla complicità che da sempre la legava al fratello,
felice di aver trovato in quella creatura poco più che bambina una nuova amica,
sincera e buona, come i suoi occhi lasciavano intendere.
Ci furono brindisi, risate, scenette scandalose, come in
ogni matrimonio; e ci fu il riserbo della intimidita coppia che cercava di
conoscersi, fra il frastuono di una vita appariscente che non apparteneva a
nessuno dei due.
Angolo dell’autrice:
Hoilà! Blakie!
Che piacere risentirti! Allora, che ne pensi degli ultimi svolgimenti? Sono
contenta che ti siano piaciuti gli altri capitoli, ma ti prego, sii più severa
con le robe che scrivo, che rileggendo i primi mi sono spaventata all’idea di
averli scritti io ç_ç ad ogni modo, Cecil sta antipatico un po’ a tutti; è perché
è un maledetto asociale, e a fargli sputare qualche parola ti fa buttar sangue.
E dimmi un po’, che ne dici di Sophie? La odi? No, perché io la odio XD No,
scherzo, è una brava figliuola in fondo, solo che fa casini con la sua sola
presenza, ma non ti voglio anticipare niente ò_ò. Mi raccomando, almeno tu fammi sapere se continua a piacerti o se sto
ammorbando!
Cara Marie io
sono contenta che ti piaccia come scrivo, ma non è il caso di angosciarsi
tanto, sul serio. Mi prendo le mie pene com’è giusto che sia, altrimenti non
farei delle cose di qualità con la mia storia, no? Susu, mi prendi troppo sul
serio, mi fai venire l’angoscia XD
E, Mady, sono
felice che ti piaccia questo pastrocchio di storia. Soprattutto sono felice che
tu aderisca al movimento pro Cecil XD che a quanto ho capito non sta simpatico
a molti, povero figlio… Su, cerca di fare commenti meno enigmatici, e fammi
capire di più cosa ti piace e cosa no, come interpreti la storia e cosa ti
dice.
Grazie del sostegno ragazze, spero di fare del mio meglio.
Un bacione, vale ^^
|
Ritorna all'indice
Capitolo 13 *** Capitolo XIII ***
XIII
Capitolo XII
Malìa
Cielo terso, sole pallido all’orizzonte.
L’alba aveva la sorprendente capacità di accarezzarle
l’anima.
A volte si svegliava istintivamente, apriva un poco la
finestra e si godeva lo spettacolo del sole nascente.
Lo faceva anche Mathias; spesso si erano incontrati così, ed
era in quei momenti che senza fare rumore si dicevano le cose più intense.
Solo guardandosi, ognuno alla propria finestra, si
raccontavano le proprie vite, la giornata passata, sospiravano poesie che il
vento portava all’altro, e sognavano insieme i sogni brevi del dormiveglia.
Era quasi un segreto, nemmeno Juliette lo sapeva.
In quei momenti, inondati di luce, erano come nudi, l’uno di
fronte all’altro; e nessuno dei due amava sentirsi così indifeso.
Ma tra di loro, soltanto loro due, allora non avevano paura
di confidarsi niente, e il mondo sembrava bellissimo.
Era così che lentamente, Alex aveva sfogliato la rosa del
suo cuore, petalo dopo petalo, lasciando cadere la forza, l’indifferenza, la
resistenza, la durezza, fino a ché erano comparsi i sentimenti più fragili, con
colori gradualmente meno violenti, fino al bianco.
E non se ne era mai pentita, perché Mathias accoglieva tutto
con un sorriso dolce, discreto.
Comprensivo.
Era stato facile, così, spiegare tutta la rabbia,
l’angoscia, tutta la frustrazione che le stringeva lo stomaco.
Per Mathias non lo era stato altrettanto, ogni petalo che
cadeva gli costava dolore, e fingere che Alex potesse addolcirlo era inutile.
Ma a costo di strapparsi la pelle, continuava a spogliarsi.
Via il nero dei suoi abiti, via le borchie.
Via gli anfibi pesanti.
Via la matita nera sotto gli occhi.
Via l’enorme basso elettrico.
Via tutto.
Fino a mostrarsi per quello che era; una cosa fragile, vetro
soffiato dalle pareti troppo sottili, un cristallo impressionista.
E Alex ne rimaneva affascinata, ad ogni petalo,
l’intravedersi della sua anima era incredibile.
Mathias, al vento, parlava delle sue poesie e parlava della
sua musica, dei suoi disegni, dell’Arte.
Spiegava a Alex come si era lasciato pervadere, come un
giorno la poesia era venuta spontaneamente da lui, e lo aveva toccato con
delicatezza, affondandogli le dita nel petto, senza fargli male.
Un giorno poi, gli aveva raccontato dei suoi amori.
Mathias era il genere di persona capace di amare con ogni
brandello di sé; ma quando non sai comunicare, è difficile dimostrarlo.
I suoi amori passavano così, graffiandolo, sfregiandogli il
cuore, senza che lui gemesse, senza che lui respirasse, quasi.
Per questo, prima di lei, Mathias aveva amato per il
silenzio.
Con Alex, iniziò ad amare per il rumore.
Di essersi innamorato, lo capì quando il suo basso iniziò a
parlargli di lei; gli diceva dei suoi capelli neri, delle sue dita lunghe, del
piccolo neo all’attaccatura dei capelli, dei polsi, delle braccia, delle
ciglia, delle orecchie, del collo, labbra, occhi, cuore.
Poi fu la poesia che gli sussurrò di lei, con dolcezza.
E allora Alex iniziò ad avere sapore di miele aspro, di
iris, di profumo di donna.
Dolce, secco, amaro.
E la sensazione che la sua voce gli bruciasse in gola.
Non avevano bisogno di toccarsi per percepire il calore
dell’altro, non avevano bisogno di chiamarsi per ritrovarsi insieme.
Il loro modo di amarsi era completo: come cresceva il
piacere, accanto cresceva anche il dolore, di pari peso e pari intensità.
Alex imparò a capire Mathias, a comprendere la sua anima
mutevole, ad accettarne le fragilità.
Riuscì a capire quando piangeva senza piangere, quando
succedevano cose che lo ferivano, e allora le sue carezze si facevano più caute,
delicate, materne.
Per Mathias il sesso era autodistruzione nella forma più
violenta; l’abbandonarsi ad un altro, sentirsi realmente indifeso, realmente
vulnerabile in ogni parte del corpo da qualcuno era qualcosa che di rado
accettava.
Per questo, quando facevano l’amore, alla fine lui piangeva
sempre.
Versando lacrime vere, miste alla matita per gli occhi.
Ma la disperazione con cui baciava, l’intensità con cui
toccava ogni lembo di pelle, l’empatia che passava dalla sua pelle a quella di
Alex, creavano una comunione spirituale che lasciava distrutti entrambi.
Ci volle tempo perché lei riuscisse a metabolizzarlo, a
spiegarselo.
Dolore, piacere, insieme, soffocanti.
E mentre ora, nella sua stanza, Alex guardava una solitaria
alba, ripensava a tutto questo, e a quella
cosa di cui Mathias non aveva voluto parlare.
Perché qualcosa era successo, e lei ne era sicura, perché ormai
conosceva Mathias, e sapeva decifrare i piccoli dettagli che denunciavano una
alterazione in lui.
E, per quanto negasse, aveva avuto paura.
Si era spaventata nel vedere un tratto più scuro, più spesso
sotto gli occhi; l’abbigliamento si era appesantito,contro l’essenzialità delle
usuali t-shirt, i silenzi si erano fatti più pesanti, più tossici.
Non si erano nemmeno sfiorati, lungo la settimana che aveva
preceduto la partenza.
E Alex rimpiangeva di non aver insistito.
Risentiva l’angoscia per telefono, e si sentiva corrodere da
un senso di impotenza.
Voleva difenderlo, aveva bisogno di difenderlo, di prendersi
cura di lui.
E il fatto che fosse maledettamente difficile faceva parte
del gioco.
Lei e Mathias erano i perfetti opposti, la loro congiunzione
era perfetta, senza rischio di fraintendimenti.
Ma era anche frustrante, per i silenzi interminabili che
riempivano gli spazi fra di loro.
Durante la notte, Julien aveva terminato il disegno.
Nel giardino gli era sembrato che mancasse poco, ma ad un
certo punto, il braccio si mosse di propria volontà, e la mano che fece
coriandoli del foglio sembrava guardarlo in cagnesco.
Ci lavorò tutto il giorno, con ossessionante perizia.
A volte succedeva che i suoi disegni crescessero come degli
incubi, e questo era uno di quei casi.
Diverso però, più intenso, meno opaco.
Non riusciva a vedere nella sua mente l’immagine; ma le sue
mani la conoscevano come se non avesse disegnato altro per tutta la vita.
Correvano sicure, febbrili, tracciavano, cancellavano,
strappavano, ricominciavano.
I lineamenti sembravano muoversi come onde sul foglio
stropicciato.
Cambiavano, oscillando tra il maschile e il femminile, ma
conservando un’anima fondamentale che andava schiarendosi ad ogni tentativo.
Ora, tra le mani, guardava il disegno terminato.
E non riusciva a riconoscere il suo tratto, la sua mano, su
quell’immagine.
Un viso, giovane.
Occhi grandi, intensi.
E la bocca.
Era come la sua.
Non poteva sbagliarsi, perché l’aveva disegnata mille volte.
A Laurent piaceva molto, la sua bocca.
L’immagine era terribilmente vivida.
La pelle, sul foglio, sembrava muoversi, ondeggiare, avere
una propria consistenza, quasi una sensibilità.
Ma non riusciva a rallegrarsene, perché il viso lo guardava
fisso.
Detestava disegnare soggetti che lo guardassero
direttamente, ma quel viso aveva la sfacciataggine di scrutarlo profondamente,
sondandogli i nervi.
Posò il disegno sullo scrittoio, buttò a terra quello che
aveva addosso, s’infilò il pantalone di un pigiama e cercò di non pensare,
mentre si stendeva sotto le coperte.
Poi si trovò al centro di una sala, con il viso del ritratto
a fissarlo direttamente.
Gli occhi erano gialli, scoprì.
E la pelle scura.
Come quella di Alex e di Juliette.
Il resto non avrebbe voluto nemmeno ricordarlo, e ringraziò
quando la mattina, si dissolsero le immagini sotto le palpebre.
Quella mattina Juliette svenne.
Successe mentre scendeva le scale per andare a fare
colazione.
Fu un colpo di fortuna straordinario, che Baptiste stesse
venendole in contro, e che quindi l’afferrò prima che capitolasse per le scale.
Ad Alex venne un colpo, e poco ci mancò che perdesse i sensi
anche lei.
La portarono a letto, chiamarono il dottore del paesino
limitrofe, aspettarono che si svegliasse.
Quando finalmente aprì gli occhi, era così pallida da far
spavento.
Ma trovò comunque la forza di sorridere a tutti, e di
rassicurarli che aveva avuto soltanto un leggero mancamento.
Quando il medico se ne fu andato, e Baptiste dopo mille
raccomandazioni lasciò la stanza con l’animo oppresso, Juliette fece segno al
fratello di avvicinarsi.
“Mi ha detto di dirti che tu puoi chiamarlo Florent.”
“Chi?”
“Il ragazzo del tuo disegno.”
Ormai aveva ripreso le forze.
Lo guardava con sicurezza e lucidità.
E Julien sapeva che la sorella non stava delirando, perché
era già successo.
Juliette, per quanto diversa da sua sorella, aveva la stessa
salute incrollabile, ed era così raro che avesse la febbre che in pieno inverno
girava con t-shirt per la città; ma capitava, in rare occasioni, che per un
motivo che nessuno riusciva a spiegarsi, di colpo perdesse i sensi.
E poi diceva delle cose.
A dieci anni era svenuta di colpo mentre cenava con la
famiglia; si era svegliata pochi minuti dopo, rosea e allegra come prima, e
aveva comunicato alla famiglia che le sarebbe piaciuto che comprassero un
fuoristrada come nuova macchina.
Il padre, perplesso, chiese perché; e lei lo guardò come se
la cosa fosse ovvia, dicendo che domani avrebbero dovuto cambiare auto.
Nessuno si era stupito troppo quando il giorno dopo una
donna perse il controllo dell’auto, andando a sbattere proprio contro l’auto
parcheggiata nel vialetto della famiglia.
A tredici era svenuta a scuola, e si era svegliata poco dopo
in lacrime.
Sosteneva che il loro gatto, Matisse, gli avesse detto che
se ne andava, ma che aveva voluto tanto bene sia a lei che ai suoi fratelli.
E, tornando a casa, Alex aveva chiesto alla madre dove fosse
Matisse; il povero micione color fumo aveva avuto una brutta indigestione,
perché il suo fegato non era più quello di una volta, ed era volato nel
paradiso dei micioni.
Ce ne sarebbero stati un paio ancora più inquietanti, ma non
ne parlarono mai.
Nemmeno Alex commentò mai gli avvenimenti.
Julien invece detestava quando la sorella sveniva, perché
gli faceva una paura nera sapere cosa avesse visto.
Gli venne la pelle d’oca.
Florent.
Spontaneamente gli sovvenne che era un nome molto grazioso.
Juliette sorrideva fiduciosa, allegra come sempre.
Ma non poteva dirgli più nulla riguardo a quel ragazzo.
|
Ritorna all'indice
Capitolo 14 *** Abissi di Perdizione ***
XIII
Capitolo
XIV
Abissi di
Perdizione
Florent aveva
sempre avuto una forte tendenza all'egoismo.
Più o meno
coscientemente, aveva sempre intuito che il suo posto, ovunque, era
al centro.
E, per quanto questo
risultasse sbagliato, non poteva correggere la sua natura, così
come non si può far scorrere al contrario un fiume, e
fermamente convinto di questo, non aveva mai fatto il minimo sforzo
per migliorare questa tendenza.
Sforzo che, in ogni caso,
sarebbe stato perfettamente inutile.
Ma aveva sempre
disprezzato l'egoismo che l'atto di piangere assumeva in lui.
Perché ogni lacrima
che aveva versato era stata per rabbia, risentimento, tristezza,
dolore, mai per qualcosa che non concernesse lui stesso.
Le sue lacrime potevano
scorrere soltanto all'interno del perimetro della sua persona.
Era un pensiero che lo
coglieva sempre, quando Cecil batteva le lunghe ciglia per scacciare
le lacrime, ascoltando una sinfonia, o davanti ad un tramonto, o ad
un quadro.
O ad una poesia, come ora.
“Sai, a volte.. oh, mi
riesce difficile credere che tutto questo sia stato scritto da un
essere umano. Da un uomo. E' troppo profondo, troppo vero. E' opera
di un Dio.”
“Sei tu che lo senti
così, Cecil. E' un peccato davvero, che tu sia nato nobile.
Hai un'anima troppo artistica. Montmartre reclama il suo principe..”
Cecil non rispondeva mai a
questo genere di provocazione; ma sorrideva impercettibilmente,
sollevando con parsimonia gli angoletti della piccola bocca.
Florent cercò nel
suo profilo quel dettaglio minuscolo, un'ombra appena alterata: ed
eccola lì, dove si trovava sempre, in basso, sulla sua
guancia.
Era rassicurante trovare
quegli indizi sul suo volto, quelle piccole conferme di intimità
che ricompensavano i lunghi silenzi del ragazzo.
Cecil era dolorosamente
effimero, nella sua essenza.
La sua consistenza reale,
la materia di cui era fatto, era impossibile da accertare; la sua
stessa presenza veniva percepita quasi come una impressione, un
sogno, o comunque un'alterazione della realtà.
Spesso Florent, guardando
l'alba con il rumore della porta che si chiude nelle orecchie, si era
chiesto se quella notte Cecil fosse davvero venuto, e loro due
fossero veramente stati insieme.
A volte, nelle più
nere agonie, se fosse realmente
riuscito a toccarlo.
E doveva sempre aspettare
che Cecil tornasse, per scacciare questi incubi, che lo prendesse fra
le braccia e gli poggiasse la testa sul cuore, per chetare i suoi
demoni.
Sei mesi di matrimonio, e
ogni sera era tornato.
A Florent, in quei mesi,
parve di vivere sempre a metà: per tutto il giorno era
contemplazione del vuoto; poi, quando le luci si spegnevano, allora
cominciava a scorrere il sangue, e Cecil varcava la porta
dell'appartamento, sempre fasciato da lunghi pastrani, avvolto nelle
sue pallide sciarpe di seta.
Qualche volta portava una
camelia rossa per abbellire quello strano modo di vivere, altre volte
semplicemente abbandonava sul pavimento gli abiti, e si lasciava
cadere fra le lenzuola ancora calde della notte precedente.
E la vita scorreva
incerta, nebulosa, e una strana incoscienza affogava l'esistenza in
un torpore velenoso, da cui ci si poteva svegliare soltanto all'alba.
“Vorrei sposarmi.”
Cecil si voltò,
guardandolo stupito.
“Tua sorella non ha
ancora pretendenti, non è così?”
Il ragazzo sbarrò
gli occhi, incredulo: “Come?”
“Rosalie. E' ancora
nubile no? Dalla a me.”
“Sei impazzito Florent?
Ti rendi conto di quel che dici?”
Allarmato, Cecil balzò
all'indietro.
E Florent si sentì
ferito, da quella reazione violenta.
“Mi rendo perfettamente
conto. Chiederò la mano di tua sorella. E tu intercederai per
me.”
“No. Non te lo
permetterò. E' una sciocchezza. E poi..”
“E poi cosa?”
Cecil trattenne il fiato,
con gli occhi enormi appena appannati da un velo umido.
“E poi cosa, Cecil?”
“Tu. Sei mio. E io non
ti do il permesso di sposarti.”
Florent gli afferrò
il polso; non ci mise poco a assoggettare quella carne tenera, e
bloccandolo sotto di se, strinse le gambe attorno ai suoi fianchi,
guardandolo dall'alto col busto eretto.
Rise, di una risata amara,
crudele.
“Sei tu che mi
appartieni. E fino ad ora ti ho lasciato anche troppa corda. Tu non
hai capito che su ogni centimetro della tua delicata pelle c'è
marchiato a fuoco il mio nome. E non puoi sottrarti a questo. Farai
come ti dico.”
“Tu non oserai.”
Da sotto di lui, Cecil
fremeva di rabbia e impotenza.
Florent si chinò
per sfiorargli le labbra, con ancora i pugni serrati sui suoi polsi.
E Cecil non sottrasse la
bocca, aprendola mitemente alla richiesta di sensualità
dell'amante.
“Tu.” Sussurrò
Florent, in uno spasimo roco, violento, quasi un rantolo d'agonia,
“Tu mi appartieni. E io sono stanco di poterti avere soltanto da
lontano. Verrò a vivere con te. E ti bacerò ogni volta
che ne avrò voglia. Mi hai trattato anche troppo come una
puttana, quantunque tra noi la sgualdrina sia tu. Sei mio, Cecil, non
di quella bambina.”
Cecil respirava a fatica,
dentro la pelle incandescente.
Florent gli sfiorò
il contorno della mascella con la punta della lingua, disegnandone la
perfetta geometria; lo carezzava piano, con crudeltà mirata,
mischiando sofferenza a piacere che veniva strappato dai meandri
stessi dell'anima, e Cecil sentiva il dolore diffondersi nei muscoli
contratti, nella pelle stessa, partire dal centro esatto di ogni
nervo, come una sinfonia perfetta.
Era così che si
sprofondava, lentamente.
Mentre le luci, intorno,
si spegnevano.
E un rumore cantilenante,
come un ronzio, inquinava l'aria.
E piano si perdevano le
speranze, di emergere da quegli abissi di perdizione.
Sistemare Florent non era
stata un'impresa facile.
Occorrevano documenti,
proprietà, un mestiere.
E soprattutto, molto
denaro.
Eleonor fu
straordinariamente solerte in questo: lasciò che Cecil
disponesse a piacimento dei suoi risparmi, e il giovane si premurò
di investirli laddove avrebbero fruttato maggiormente.
Poi si necessitò di
una casa più grande, al centro della città.
E di inviti alle feste,
che non tardarono ad arrivare con generosità.
L'ingresso in società
di Florent fu a dir poco trionfale; si muoveva con una eleganza
naturale lontanissima dai costruiti e pretenziosi modi della nobiltà
parigina; i suoi colori, la sua esoticità, contrastavano
spietatamente con le pallide e stereotipe bellezze dei
giovani benestanti, i suoi occhi dorati esercitavano un magnetismo
inquietante, nella loro luce trionfale.
Rosalie non ci mise molto
ad innamorarsene, e come lei nemmeno le altre signorine nubili e
qualche attempata ardita signora madre, e
Florent non assecondava né disdegnava le attenzioni delle
dolci creature dagli occhi languidi.
E
se c'era una cosa che sopra tutte lo divertiva, era provocare Cecil.
Spesso,
tirando in causa quella sfortunata donna che era sua moglie.
“Mia
cara Sophie, la luna impallidisce al vostro passaggio.” Sussurrava
piano, calcolando ogni movimento delle labbra, ogni lenta inflessione
della lingua, con lo stesso tono con cui rantolava nell'estasi
dell'orgasmo sulla bocca di Cecil, e il giovane rimaneva
apparentemente impassibile, tentando di dissimulare i brevi fremiti
che lo scuotevano.
“Che
folle sono stato, a non raggiungere prima Parigi. A quest'ora potevo
essere sugli Champs Elisée, con le vostre manine fra le mie,
padrone assoluto del vostro sorriso...”
E
Sophie rideva imbarazzata, con lo sguardo preoccupato, cercando con
gli occhi Cecil.
Che,
immancabilmente, si dileguava in qualche angolo, ad aspettare che le
mani gli smettessero di tremare.
Attendendo,
inconsciamente, che Florent lo raggiungesse.
E
immancabilmente lui arrivava, soffocandolo quasi con la lingua nella
gola, a cercare quei sentimenti oscuri e brucianti nel fondo della
sua anima, per poterglieli strappare e mostrare come trofeo.
Col
rischio, sempre spaventoso, sempre eccitante, di essere scoperti.
Che
Cecil se ne rendesse conto o no, Florent aveva dato inizio ad un
inesorabile gioco di autolesionismo, senza regole ne moralità.
Ogni
occasione era buona per provocarlo, ogni momento di distrazione era
ideale per colpirlo.
E
lasciarlo agonizzante, disteso a terra, col sangue ad abbeverare le
camelie.
Poi
arrivava la notte, e si ritrovavano con più urgenza di prima,
con una violenza nuova però, che li lasciava esausti e
deliranti, in preda ad una felicità feroce, quasi assassina.
Florent
impiegò poco a lasciare che Rosalie si innamorasse di lui, e a
Cecil bastò fare il suo nome due o tre volte alla tavola del
padre, perché questi prendesse provvedimenti, affinché
la figliola prediletta guarisse da quella angoscia che l'amore le
portava.
Volle
conoscere Florent.
Lo
studiò, lo esaminò, e lo valutò un buon partito.
Nonché
un interessante alleato.
Nel
suo lavoro, Florent aveva più volte mostrato una aggressività
che lo aveva distinto, facendolo vincente su tutti i fronti.
Gran
parte della sua fortuna, riuscì a guadagnarla da solo, e Cecil
ne fu sempre segretamente orgoglioso.
Rosalie
osservava dall'uscio della porta suo padre e Florent, fremendo
all'idea dei loro discorsi, morendo di febbre d'amore per quella
strana creatura uscita dalle Mille e una Notte, immaginandone i
contorni netti dei muscoli alla luce delle candele, la forza delle
braccia, la consistenza della pelle, il sapore delle labbra.
Piangendo
di frustrazione, nel sentirsi così schiava di quest'uomo che
non la conosceva neppure.
“Il
matrimonio ormai è cosa fatta.”
“Rosalie
è innamorata di me, lo sai? Hai visto come mi guarda, come mi
brama?”
“Non
credo che questo ti debba interessare.”
“E'
lei che devo sposare no? Suppongo che la cosa dovrebbe interessarmi
in qualche modo.”
“La
ami?”
“E
tu?”
“Che
razza di domanda è?”
“Ti
ho chiesto se la ami. E ora ti chiedo: mi ami?”
Cecil
aprì un poco la bocca, ma non riuscì a trovare l'aria.
Florent
gliela chiuse con le sue labbra, tumide e livide dall'ultimo
incontro.
“Che
male c'è se gioco un po' con la bambina?”
“Non
voglio che Rosalie soffra...”
“Allora
lasciami giocare con tua moglie.”
“Maledetto
traviato..” riuscì appena a sibilare prima di accasciarsi
sui cuscini, con il peso di Florent a premere sulle spalle, e la
pelle lacerata da quel dolore lancinante che provocava l'orgasmo.
“Dimmi
che mi ami. E io la smetterò di provocarti.”
“Pensi
che stia facendo tutto questo per un capriccio, maledetto demonio?”
“Per
quanto ne so, potrebbe anche essere.”
E
la spirale di amore e odio diventava eterna, continua, spaventosa.
Fra
due persone incapaci di amarsi, fra due stelle avverse e contrarie.
L'odore
permeava l'aria, mentre bruciavano insieme, consumandosi l'anima.
Cecil,
ad amare le loro carni, e Florent ad odiarle perché li
dividevano.
Oh,
se solo potessimo essere una cosa sola.
Non
avremmo bisogno di bugie, non avremmo bisogno di ferirci.
Ci
basterebbe esistere, per essere felici.
Forse,
è per questo che respirare sta diventando così
difficile.
|
Ritorna all'indice
Questa storia è archiviata su: EFP /viewstory.php?sid=257280
|