David Queen e il ritorno della Notte

di moonknight
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Chi Tartaro sono? ***
Capitolo 2: *** Tutorial: da mortale a non-so-cosa in poche semplici mosse! ***
Capitolo 3: *** Come ne esco più pompato di Hugh Jackman dopo le riprese di Wolverine ***
Capitolo 4: *** Mi do continue pacche sulle spalle e scopro di non avere più così tanti limiti ***
Capitolo 5: *** Mi trovo a non avere più una minima cognizione temporale... credo ***
Capitolo 6: *** Mi piombano addosso verità e figli di Ares ***
Capitolo 7: *** I miei amici mi prendono per pazzo, poi se ne assicurano ***
Capitolo 8: *** Atterriamo a Washington con la David Airlines ***
Capitolo 9: *** Come cercando su Google “terroristi sull’albero alla Casa Bianca” potreste trovare una foto di tre ragazzi inseguiti da un qualcosa ***
Capitolo 10: *** Ci affidiamo alla fortuna (e in questo siamo bravi) per trovare il primo pezzo ***
Capitolo 11: *** Hope ci salva il fondoschiena ***
Capitolo 12: *** Me ne vado in aeroporto con un sorriso ebete in faccia ***
Capitolo 13: *** Il bellissimo tempio e la carne di manzo a metà prezzo ***
Capitolo 14: *** Troviamo passaggi alternativi ***
Capitolo 15: *** Offre la casa ***
Capitolo 16: *** Tra bevande frizzanti e armi di distruzione divina ***
Capitolo 17: *** Combattiamo con le note degli AC/DC in sottofondo ***
Capitolo 18: *** Per l’amor di Zeus, qualcuno che mi spiega che succede? ***
Capitolo 19: *** Festeggiamenti in grande stile ***



Capitolo 1
*** Chi Tartaro sono? ***


1. Chi Tartaro sono?

Ero un mortale; un tranquillissimo ragazzo mortale che viveva la sua vita senza troppe preoccupazioni, oltre che la scuola, ovviamente. A quanto pare, però, ero destinato a cambiare, a diventare qualcos’altro… ma prima di tutto, chi Tartaro sono? Mi presento, sono David Queen, un sedicenne londinese insediato a New York alla tenera età di 3 anni; odio parlare di me, quindi per descrivermi mi sono affidato all’aiuto di degli amici: mi dicono che sono alto, slanciato, e muscoloso, con riccioluti capelli castani e occhi nocciola, coraggioso, intelligente, simpatico e dotato di sangue freddo, qualità per essere un ottimo leader… se lo dicono loro; vivo in un appartamento vicino a Central Park con mia madre Martha e mio padre Christopher, professori all’Università di New York… immaginate solo per un attimo la mia infanzia, ecco. Da ormai una decina di anni praticavo karate, che riusciva a rilassarmi e tenermi occupato ogni volta che ero teso o avevo la mente altrove; a scuola ero un ragazzo davvero intelligente, ma come tutti avevo i miei alti e bassi; alle medie conobbi due ragazzi, e tra noi nacque subito una grande e strana amicizia. Il primo si chiamava Robert Foster, uno spilungone con i capelli neri e gli occhi corvini con delle sfumature particolari, che non avresti esitato a definire viola; era il ragazzo più fortunato che io avessi mai conosciuto: non potevi andartene in giro con lui che subito trovavi soldi, sconti impossibili, promozioni, omaggi, e non c’era scommessa che potevi vincere con Bobby, che sembrava saper piegare al suo volere qualsiasi legge della fisica pur di stracciarti; l’altra si chiamava Hope Glass, una bellissima ragazza magra e abbronzata, bionda e con gli occhi azzurri e curiosi, simpatica e sempre allegra con tanti pensieri che le ronzavano continuamente per la testa. Se non potevi scommettere contro il primo, con lei non ti devi azzardare a sfidarla a una qualche sorta di gioco dove c’entrava la mira: prenderà SEMPRE il bersaglio, SEMPRE, anche se di spalle, una ventina di metri dietro di te, ubriaca, bendata e seduta con i polsi legati ai braccioli. Quando dico sempre, vuol dire sempre. E poi c’ero io che… beh, nulla di speciale.

Devo dire che i miei amici mi sembravano davvero strani, anche perché spesso confabulavano in privato riguardo ad argomenti che allora parevano senza senso: dei, mostri, greci, romani, cibo blu… rimanevo sempre all’oscuro di tutto. Non che fossi geloso del fatto che Hope avesse un segreto in comune con Rob e passassero tutta l’estate insieme in non so che campo estivo lasciandomi sistematicamente fuori, no no, assolutamente.

E già allora credevo di avere una vita strana…



ANGOLO AUTORE
Beh, che dire. Perdonatemi questi primi capitoli di presentazione e introduzione, ma l'idea di utilizzare un mortale come protagonista della storia mi stuzzicava un po', quindi ho bisogno di un po' di tempo per poter sviluppare la sua storia e il suo futuro, ma credo che la prossima settimana avrete già un altro capitolo, yee.
Non ho grandi pretese, ho cominciato a scrivere questa storia perchè, dopo aver letto una ventina di libri e qualche decina di fanfiction in poco più di un mese, non sapevo più come passare il tempo, e mi sono detto "perchè non cominciare a scrivere, allora?". Sia chiaro, ho in mente di continuare questa storia fino all'ultimo rigo, e non mi lascerò fermare dai commenti che potrei ricevere, anche perchè dopo aver visto la faccia di mia madre scandalizzata per il fatto che stessi scrivendo qualcosa che non riguardasse la scuola credo di poter vedere o vivere di tutto. Spero che l'idea vi piaccia, saluti,
- Moonknight
 

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Capitolo 2
*** Tutorial: da mortale a non-so-cosa in poche semplici mosse! ***


Tutorial: da mortale a non-so-cosa in poche semplici mosse!

Era proprio il giorno del mio sedicesimo compleanno, il 9 maggio, quando passeggiavo per il parco: mi erano sempre piaciuti gli spazi aperti, il poter essere libero e vedere tutto quel verde intorno a me. Adoravo anche il contrasto parco/città che tanto si faceva vedere nella Grande Mela, e guardando delle foto dal satellite mi veniva in mente il medaglione dello yin e dello yang, che mostrava che nel bene c’è sempre un po’ di male e viceversa. Una teoria curiosa, ma che ho sempre apprezzato. Su di me il cielo era scuro e pieno di nuvole e si scorgevano dei lampi non molto lontani, mentre intorno a me le persone cominciavano a ritirarsi, timorose di un sempre più probabile acquazzone. Mi sembrava quasi di sentire delle non molto educate imprecazioni provenire dal cielo tra un rombo di tuono e l’altro, e per un attimo l’idea mi fece sorridere, poi accadde. Mi sentii pervadere da una strana energia, sentivo tutto intorno a me bruciare e svanire, mentre venivo accecato da una istantanea luce dorata, mi si offuscava la vista e cadevo di faccia al suolo. Rimasi cosciente pochi altri attimi, il tempo di sentire delle gocce di pioggia colpirmi la pelle come aghi avvelenati e bollenti, e di sentire il cielo rombare un’altra volta, come dispiaciuto di avermi accidentalmente fulminato con un milione di volt mentre perdevo definitivamente la lucidità e piombavo in un profondissimo sonno senza sogni.

Piano piano cominciai a riprendere conoscenza e ad attivare la mia mente, senza aprire gli occhi: dove mi trovavo? Che mi era successo? Da quanto tempo stavo a letto? Con calma delle risposte si insinuarono nella mia testa, come crepe in un muro di ghiaccio, e nel mio cervello cominciò a svilupparsi una mappa: una stanza, tante stanze di ospedale, pazienti, dottori, infermiere e parenti dei malati, la sala d’attesa piena, fuori, per le strade, nelle piazze, nei palazzi di fronte e intorno… tutte quelle persone, e io che con gli occhi chiusi riuscivo a vederle, a sentirle e a leggere i loro pensieri, prima bisbigli, poi urla. Migliaia di voci si affollarono nella mia mente e aprii gli occhi, urlando e mantenendomi la testa tra le mani, e quel movimento mi provocò un’enorme fitta di dolore su tutto il corpo, coperto da bende e scivoloso per chissà che pomate che mi avevano spalmato per le ustioni lasciate dal fulmine. Poi di nuovo silenzio, black out. Mi lasciai andare ricadendo sul letto e sprofondando in un sonno profondo, una grande e tranquilla dormita, mentre un pensiero, solo uno, quello dell’infermiera accanto a me recitava “Sopravvissuto alla Folgore…” con un tono misto tra stupore e spavento.


ANGOLO AUTORE
Eheh, ve lo devo. Non potevo pensare di lasciarvi soli soletti con uno striminzito primo capitolo con solo qualche presentazione dei personaggi, con la suspance a premere. No, okay, non esagerimo. Questa è la mia prima fanfiction e mi sento emozionato, capitemi. Che dire, vedrò di pubblicarvi altri due capitoli il prossimo fine settimana, sperando che l'idea vi piaccia. Un saluto a tutti,
-Moonknight
 

 

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Capitolo 3
*** Come ne esco più pompato di Hugh Jackman dopo le riprese di Wolverine ***


Come ne esco più pompato di Hugh Jackman dopo le riprese di Wolverine

Mi risvegliai tranquillamente nello stesso letto d’ospedale, che era un bene, e quindi non mi avevano preso per pazzo e buttato in un manicomio per la scenata della scorsa volta; le bende erano sparite e avevano lasciato il posto a un pigiama dall’odore inconfondibile di medicine, e la pelle che riuscivo a vedere era pulita, liscia, quasi abbronzata, tranne che per il braccio destro, dove un tatuaggio mi risaliva per il bicipite partendo dal pugno… ma io non avevo nessun tatuaggio. Per un attimo, poi, pensai a una cicatrice, e a quei poveri dottori che mi avevano ricucito il braccio brutalmente esploso. Mi ci volle un po’ per mettere a fuoco e accorgermi che quello era un marchio lasciato dal fulmine: l’avevo già visto sulla pelle di molte altre persone che erano state prese in pieno ed erano ancora vive, e mi era sempre sembrato figo poter avere un tale segno sul corpo. Ovviamente non avevo calcolato il dolore momentaneo e le ustioni prolungate. Giusto un paio di caratteristiche mi colpivano del mio nuovo tatuaggio-cicatrice sui muscoli pompati del braccio: non avevo mai avuto muscoli pompati prima, ero sempre stato un ragazzo mingherlino, e poi era strano il fatto che la scarica fosse partita come dalla mano, arrivata alla spalla e fermata lì. Non ricordavo di avere il braccio alzato quando fui preso, eppure il fulmine mi aveva colpito proprio sul dorso del mio pugno, come se avesse sbagliato mira prima di abbattersi sul terreno. Scacciai subito quei pensieri stupidi e solo allora mi accorsi di tre persone davanti a me: un uomo sulla quarantina, ben piazzato e con dei ridicoli occhiali che consultava un piccolo fascicolo molto attentamente; alla sua destra un ragazzo, sui venticinque anni, biondo e occhi azzurri che faceva rimbalzare il suo sguardo tra me e il fascicolo del dottore -probabilmente era un tirocinante-; alla sinistra dell’uomo, invece, si trovava l’infermiera che mi era sempre stata accanto, una bella ragazza dai riccioli neri, che mi fissava. Riuscivo a sentire i loro pensieri, se mi concentravo un po’: mentre l’uomo non riusciva a capacitarsi di quello che aveva davanti e il ragazzino pensava qualcosa tipo “che figata, è sopravvissuto a un fulmine!”, la ragazza stava facendo lavorare così tanto il suo cervello che riuscii a intercettare solo una parola, quella della scorsa volta, “folgore”. Perché si ostentava a chiamare così il fulmine?

- Quanto tempo ho dormito? - chiesi con la voce rauca facendo sobbalzare il medico ancora concentrato nella lettura del mio fascicolo. - Beh… ti sei svegliato ieri da un coma durato un mese e mezzo e poi urlando ti sei riaddormentato. Durante tutto il tempo che hai passato qua le tue ustioni sembravano non cicatrizzare, ma dopo la dormita di ieri sei come nuovo… non vedo ancora come sia possibile. - articolò il chirurgo soppesando ogni parola come se gli delle fastidio non sapere come e perché fossi guarito di colpo senza le sue cure. - Sai che ti è successo? - chiese titubante il tirocinante mentre osservavo distrattamente un orologio-calendario poco distante notando che era quasi arrivata la fine di giugno. - Intendo, sai perché sei qui? - continuò il ragazzo. - Credo di essere stato colpito da un fulmine, - risposi mentre accarezzavo quella cicatrice sul mio braccio e cercavo di alzarmi in piedi - sono andato in coma e ora sono qua, e mi sento bene. -

Effettivamente, mi sentivo davvero bene. Non era una frase di circostanza per far vedere che potevo tranquillamente tornarmene a casa, ma sentivo in me una nuova energia, insieme a tantissima fame e sete. Chiesi di chiamare i miei genitori, e di portarmi qualcosa di sostanzioso da mettere sotto i denti che non fosse stato un insulso brodo caldo. Tempo qualche ora ed ero di nuovo a casa, più muscoloso, con una cicatrice e una storia in più da raccontare.


ANGOLO AUTORE
Beh, che dire... questi sono ancora dei piccoli capitoli di presentazione, devo pur spiegare cosa è successo al mio pupillo. :3
Ma heeey, dall'ultima volta che ho scritto, tra vacanze e autogestione (incentrata sull'antica arte del Monopoli), sono riuscito a scrivere moolto altro, quindi, per non lasciarvi a bocca asciutta, ho in mente di publicare uno o due capitoli quest'oggi che andranno a competare il quadro generale della storia.
Ciah,
-Moonknight
 

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Capitolo 4
*** Mi do continue pacche sulle spalle e scopro di non avere più così tanti limiti ***


Mi do continue pacche sulle spalle e scopro di non avere più così tanti limiti

Non esagererei nel definire il mio ritorno a casa stravagante: avevo passato le prime tre ore abbondanti ad assicurare mia madre sul fatto che mi sentissi bene mentre mio padre mi osservava chiedendosi come avessi fatto ad andare in palestra durante il coma, e poi avevo per sbaglio sradicato la porta della mia camera dai cardini cercando di aprirla. Probabilmente la cosa più strana fu che riuscii ad aggiustarla in una decina di secondi scarsi mettendo le mani nelle tasche dei jeans e tirando fuori cardini nuovi e un cacciavite, come se fosse tutto normale. Solo quando mi distesi sul letto compresi veramente quello che era successo. Avevo dei poteri. Vorrei dire che fin da subito riuscii a usare tutte le mie capacità indossando un costume e andando a salvare qualche bella ragazza in giro per New York, ma non fu assolutamente così. Mi ci vollero tre settimane di duro lavoro per riuscire a controllare i miei poteri al meglio (o perlomeno, senza distruggere nulla): passavo il tempo sollevando bilancieri di trecento chilogrammi, che mi sembravano pesanti quanto gatti obesi, correndo i cento metri in qualcosa come quattro secondi, avevo smontato, potenziato e rimontato il mio Mac mentre sfogliavo i file governativi dell’FBI dal mio telefono, completamente schermato da qualsiasi virus esistente per trovare gli hacker. Con il tempo, imparai anche a volare, ma per vari motivi (vedi anche: esseri volanti non identificati grandi come cavalli) non mi spinsi mai troppo in alto nei cieli di NY. Pensai che avrei dovuto avere delle armi -sì, insomma, tutti i supereroi migliori hanno delle armi-, ma non sapevo decidermi, e dedicai quarantott’ore piene, senza nessuna pausa, alla produzione di due piccoli cilindri di metallo lunghi una quindicina di centimetri e col diametro di quattro dalle capacità straordinarie. Ero già riuscito a incanalare l’energia fuori dal mio corpo -tanto per rispondere, sì, stavo cercando di fare un’onda energetica alla Dragonball- ma era molto stancante, e decisi di trasferirne un po’ per ogni cilindro, e al solo pensiero di un’arma (spada, arco, mitragliatrice, bazooka, sparatapate e simili) dall’estremità interessata si sviluppava un corpo di energia di un colore verde fluorescente di forma e dimensioni necessarie. Tanto per rendere tutto più pratico, feci in modo che fossero attaccati magneticamente alla cintura dei pantaloni in modo da estrarli facilmente senza dover rimanere necessariamente in mutande, e cosa migliore di tutte: non esplodevano. Mi stavo congratulando con me dandomi pacche sulle spalle e continuando a ripetermi “Che lampo di genio, Dave!”. Lampo, tempesta, fulmine, folgore, dei, mostri, cibo blu, campo, strani cosi volanti in giro per la città, informazioni a caso presero a girarmi per la testa senza una meta precisa, sbandando in modi apparentemente casuali per formare un puzzle sconnesso. Hai presente quando provi a inserire il pezzo di un puzzle al posto di un altro, sai che non entrerà ma DEVE essere così e allora tenti in tutti i modi di farlo entrare anche a costo di deformarlo? Io no, avevo sempre odiato i puzzle da bambino, ma era la metafora migliore per descrivere quello che sentivo in quel momento nella mia testa. Sapevo di dover passare a controllare Robert e Hope a quel loro campo estivo…

ANGOLO AUTORE
Ta-daaah. Eccomi qui con il quarto capitolo della storia: prima di linciarmi per il power-up e per le armi laser, lasciatemi spiegare.
1) Era un mezzo sfigato, dovevo pur potenziarlo un po'.
2) David è solamente un mortale, quindi, non ha contatti o aiuti divini, semidivini o di altri tipi che terminano in -divini, quindi si deve affidare alla SCIENZAH per farsi delle armi. Che poi siao laser, è un'idea che mi è venuta così, a caso, perchè mi piaceva.
3) Perchè delle armi da fuoco (vedi: mitragliatrice, bazooka, sparapatate...)? Beh, perchè no? In fondo, il padre di Annabeth montò delle mitragliatrici sul suo aereo per eliminare i mostri, e quando Piper arrivò al campo, la figlia di Atena nell'armeria le mostrò anche un fucile caricato a bronzo celeste, quindi, why not?
Beh, che dire. Il nostro eroe comincia a fare supposizioni sulla seconda vita dei suoi amici e su questo fantomatico Campo, ma come riuscirà ad entrarci, se la barriera che lo circonda è anche anti-mortali? Non uccidetemi per quello che accadrà, l'idea mi stuzzicava parecchio.
-Moonknight
 

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Capitolo 5
*** Mi trovo a non avere più una minima cognizione temporale... credo ***


Mi trovo a non avere più una minima cognizione temporale… credo

Premettiamo che erano giorni che ero barricato in camera mia a lavorare alle mie armi quasi-non-esplosive, e che quindi non dormivo, mangiavo, bevevo o non facevo un salto al bagno da allora e che avevo impiegato la maggior parte delle mie energie in quel progetto. Chiaro? Ecco. Mi sedetti sul letto e cercai le menti di Robert e Hope tra quelle dei milioni di cittadini newyorkesi, e ci misi un po’ per trovarle, perché parevano quasi schermate da non so che forza. Appena le individuai mi teletrasportai in zona -sì, so teletrasportarmi, ma da solo, per brevi distanze e soprattutto questa cosa mi sfinisce fino al midollo- e mi ritrovai circondato da una ventina di case, tutte diverse l’una dall’altra, nel buio più totale (va bene che ero rimasto chiuso in una stanza per due giorni senza guardare mai l’orologio, ma credevo fosse giorno). Vi aspettate le descrizioni precise e dettagliate di ogni singola costruzione e di ogni filo d’erba che cresceva intorno a me? Mi dispiace non potervi accontentare, ma svenni eroicamente per il gran dispendio di forze cadendo con un tonfo di faccia a terra.

Il giorno dopo… o meglio, dopo (non avevo ancora idea di quanto tempo fosse passato) mi risvegliai in un lettino dell’ospedale, ma intuii di essere ancora in quel campo. Mi alzai in silenzio, e misi mano alla cintura dove i miei amati cilindri erano ancora attaccati. Solo allora, guardando attraverso le finestre, notai che era ancora buio; cercai con lo sguardo un orologio, e ne trovai uno digitale su un armadietto pieno di medicinali… le 16.00. Come era possibile?

- Ti senti bene? - chiese gentilmente una voce alla mia destra, appartenente ad un ragazzo biondo, con gli occhi azzurri, slanciato e con un sorriso vivace sul volto, vestito con un camice, dei pantaloncini e delle infradito. Mi ricordava Hope, sarebbero potuti essere fratelli… aspetta. - Mi chiamo Will, Will Solace, capocabina della casa di Apollo e uno dei medici del campo. - si presentò tendendomi la mano. - David Queen… - risposi ricambiando la stretta un po’ titubante. Avevo migliaia di domande che vorticavano nella mia testa “Che cos’è questo campo? Perché è buio? Come fanno gli dei greci a esistere ancora?” - Hope Glass e Robert Foster… li conosci? - Will sembrò scurirsi per un attimo in viso, come se non si aspettasse una domanda simile, poi tornò alla sua solita espressione: - Credo dovresti passare un attimo da Chirone e il Signor D… - e detto questo mi accompagnò fuori verso una delle costruzioni che intravidi appena arrivato, la Casa Grande. All’interno trovai due uomini di mezza età a giocare a pinnacolo, uno sulla sedia a rotelle con una coperta sulle gambe, l’altro con decisamente un pessimo gusto nel vestire, che beveva svogliatamente della Diet Coke.

ANGOLO AUTORE
Il teletrasporto? Sì, sarà molto utile, tutto sommato. Eh eh.
Ma heeeeey, non succede praticamente nulla nel capitolo, datemi un po' di tempo che ve ne pubblico un altro. :D
Come sempre, spero vi sia piaciuto. :3
-Moonknight

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Capitolo 6
*** Mi piombano addosso verità e figli di Ares ***


Mi piombano addosso verità e figli di Ares

Ascoltai con attenzione le spiegazioni di Chirone -che scoprii essere il centauro delle storie- subendomi qualche stupido intervento di quello che capii essere Dioniso, il dio del vino incastrato con la Diet Coke. A una domanda probabilmente scatenai il panico del millenario centauro, ma non lo diede a vedere. - Sai già chi è il tuo genitore divino? Hai dei poteri, delle capacità? - Raccontai tutta la mia storia, dei miei genitori, della mia vita prima del colpo di fulmine, del coma, delle mie capacità, di tutto, insomma, mentre lui e quel dio senza speranza mi guardavano sorpresi e sconcertati. - Mi stai dicendo che sei solo un mortale? - chiese per la trentesima volta quell’ubriacone dalla camicia leopardata - Un mortale che ha guadagnato dei poteri per un errore di Zeus? - e per la trentesima volta mi ritrovavo a rispondere con un cenno della testa. Piombò un silenzio imbarazzante, e poi - Come mai è tutto buio? -; i due mi guardarono straniti, poi il centauro si rabbuiò: - Una dea primordiale, Nyx, la notte, si sta risvegliando, e adesso il sole si vede per non più di poche ore al giorno… oggi ne avrei dovuto parlare ai semidei, per poter iniziare un’impresa, ma è passato poco dall’ultima guerra, e ne sono ancora scossi. Adesso non preoccuparti - continuò Chirone spingendo la sua sedia a rotelle verso di me - fai un giro del campo, vai a cercare i tuoi amici, e questa sera sarai dei nostri alla cena e al falò, quando ti presenteremo ai campeggiatori. Adesso, io e il Signor D dobbiamo parlare di questioni importanti. -

Uscii lasciandomi la Casa Grande alle spalle, osservando per la prima volta e con attenzione il campo, straordinario anche con le poche luci disponibili. Erano ancora le 17.20 (mi ero finalmente procurato un orologio) e decisi di andare a cercare le uniche persone che conoscevo. Mi fiondai nella casa di Apollo, difficile non notarla, contando che forniva luce quanto un faro all’intero campo, e sulla soglia notai Hope, bella come sempre. Quando mi vide le si sgranarono gli occhi e si lanciò in un abbraccio soffocante (eh eh) dicendo frasi sconnesse e senza un grande significato, ma riuscii a capire qualcosa come “O miei dei, stai bene! Io e Rob passavamo sempre a salutarti mentre dormivi (si ostinava a non chiamarlo coma, vabbè) ma non sapevamo che ti fossi ripreso! *parole incomprensibili* Robert è nella sua cabina, vieni!!!”. Solo lungo la strada si accorse di un piccolo particolare: che ci facevo lì? Si fermò di colpo, girando sui tacchi e guardandomi negli occhi, chiedendomi la mia storia.  Dei, quanto era bella. Stavo per dirle di aspettare, che tanto avrei dovuto raccontarla anche a Robert, quando una ragazza dalle movenze di un tenero carro armato mi si fiondò contro in spallata urlando - Un novellino! - con una voce aggraziata quanto una bomba atomica che esplode, mandandomi a terra. Mi rialzai con Hope che cercava di far ragionare quel monster truck chiamato Clarisse mentre altri cinque ragazzi mi accerchiarono. - Dalla delicatezza con cui attaccate, dovete essere figli di Ares. - dichiarai in tono di sfida. Allungai la mano alla mia destra e un cilindro mi volò nella mano (sì, un bell’effetto scenico) mentre un’intensa luce verde si sviluppava da un’estremità andando a formare una spada di novanta centimetri affilata come un rasoio formata di energia pura. Il trucchetto doveva averli sorpresi, perché indietreggiarono tutti di un passo (tranne Hope che ne fece una decina pur di allontanarsi da quello che preso sarebbe diventato un massacro) mostrando facce sorprese. Nel migliore stallo alla texana che avessi mai vissuto (e forse l’unico), Clarisse affondò la lancia verso il mio petto, ma riuscii agilmente a deviarlo col piatto della lama, poi, girando su me stesso, caricai un colpo tagliando in due la sua arma. Non ebbi il tempo di bearmi della sua faccia che lo scagnozzo n.1 (faccio prima così) tentava un fendente verso la mia testa: abbassandolo lo schivai, tirandogli un potente calcio alla bocca dello stomaco, facendolo rovinare a terra; Clarisse aveva sfoderato la spada e col suo silenzio caratteristico da mammut mi si avvicinava alle spalle pronta a colpirmi mentre abbattevo uno scagnozzo dopo l’altro con un calcio al volto, un pugno allo stomaco, un colpo col pomo del manico della lama (anche quello di energia) e con un fendente che tagliava i pantaloni lasciando il malcapitato in mutande. Avevo sempre sognato di farlo da quando avevo visto Goemon, il compagno di Lupin, umiliare nemici con la sua katana. Et voilà, il gran finale: un’istante prima dell’affondo alla schiena della non-molto-leale Clarisse mi ero teletrasportato al suo fianco puntandole la spada alla gola. Dalle grida e dagli insulti lanciati al vento capii di aver fatto colpo.

ANGOLO AUTORE
Dai, gli scontri contro Clarisse appena arrivati al campo sono un clichè, non potevano mancare.
Cooomunque, permettetemi quella stupida citazione di Goemon, ma da bambino ero fissato con Lupin e volevo a tutti i costi fare qualcosa di simile. :3
Tanto per sapere, si vede per caso che David e Hope sono fatti uno per l'altra? Tanto per, volevo un parere. :D
Visto che siamo sotto Natale e non so se potrò pubblicare sabato prossimo e siamo tutti più buoni, tempo 10 minuti e vi regalo anche il prossimo caitolo, dove scopriremo i piani di Nyx, come fermarla e chi partirà anche se è scontato per posti a caso dell'America, alla ricerca di...
-Moonknight

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Capitolo 7
*** I miei amici mi prendono per pazzo, poi se ne assicurano ***


I miei amici mi prendono per pazzo, poi se ne assicurano

Raggiungemmo Robert alla cabina di Tyche (ma dai, quello sciagurato, figlio della dea della fortuna) circondati da decine di occhi che mi fissavano. Gli unici che si avvicinarono furono due ragazzi sui diciotto anni: si presentarono come Percy e Annabeth, ed era chiaro che fossero fidanzati. - Fratello, sei stato straordinario! Quando arrivai io al campo la affogai nel gabinetto, ma questa è classe! - mi disse con entusiasmo il ragazzo, come se mi conoscesse da una vita, battendomi il cinque. Quando mi presentai, mi chiese chi fosse il mio genitore divino: lo guardai e sorrisi, dicendo - Tieniti forte stasera al falò, Percy. Ne sentirai delle belle. - Mi stava già simpatico.

Capivi di starti avvicinando alla cabina di Tyche dalla quantità di monetine e gratta-e-vinci che trovavi lungo la strada. Salutai Bobby con un cenno, che ricambiò. Poi sembrò non capire, e si fiondò a cercare spiegazioni, che non tardarono ad arrivare. Avevo in programma di raccontare tutto dopo, al falò, una volta sola, ma non potevo dire di no agli occhi da cucciolo di Hope, e vuotai il sacco. Finii di raccontare in tempo per la cena, mentre i due mi guardavano ancora sconvolti.

Mangiai al tavolo della Casa Grande, perché, a quanto pare, avevano rigide leggi sul dove ti dovevi sedere. Solo allora notai quanti fossero i semidei e come fossero diversi a gruppi: a parte il tavolo di Ermes, che era pieno di persone dalle caratteristiche diverse (mi spiegarono che andavano lì i semidei non ancora riconosciuti), notai la serietà del tavolo di Atena, dove ognuno mangiava con gli occhi su un libro diverso, o quelli di Efesto, che finivano in fretta e furia di mangiare per finire i loro progetti, quelli di Dioniso che tracannavano qualsiasi bevanda possibile dai loro boccali, e quelli di Apollo, che scherzavano e sorridevano, chi col camice da medico, chi con l’arco in spalla.

Finita la cena ci spostammo tutti nella zona del falò: nonostante i canti allegri, il centauro Chirone se ne stava in disparte, e per la prima volta lo vidi con il suo corpo equino, a testa bassa e con la coda saettante a destra e sinistra per il nervoso. Il fuoco era di un rosso acceso, luminoso e caldo, ma con piccole fiammelle più scure: mi stavo concentrando sul braciere quando fecero il mio nome e mi alzai, prendendo posto davanti a tutti i semidei. Raccontai la mia storia, la mia vita. Mi aprii a loro senza problemi, come se stessi parlando con i miei migliori amici, e continuai nonostante tutte le occhiatacce, gli sbuffi e i ringhi provenienti dai figli di Ares e le facce stupite degli altri semidei. Per un istante mi sentii come a casa, quando mamma e papà ordinavano la pizza e mangiavamo tutti insieme, vicino al camino guardando un bel film. Quando finii di parlare e tornai al mio posto, notai nella folla le facce di Percy e Annabeth: il primo a bocca aperta, occhi spalancati, mi sembrava di vedere il criceto nella sua testa correre sempre di più per cercare di capire se fosse veramente possibile tutto ciò; Annabeth invece sembrava scavarmi nel profondo dell’anima con quei suoi occhi grigi, mentre la bocca era contratta in un sorriso curioso, come se fosse contenta di poter sapere sempre più cose del mondo che la circondava.

Dove poco prima mi trovavo io, adesso c’era Chirone, e tutti gli sguardi si puntarono su di lui, fissi e silenziosi; dopo qualche secondo di quiete, dove solo il fuoco si sentiva scoppiettare, il centauro prese la parola: - Campeggiatori, ho brutte notizie da darvi. Avrete sicuramente notato che adesso il sole si vede poche ore al giorno, e ogni volta la sua luce dura sempre di meno. Purtroppo ci troviamo senza l’aiuto delle profezie, ma gli dei, che hanno di recente tenuto un consiglio di emergenza, non hanno dubbi: Nyx, la divinità primordiale della Notte, risiedente nel Tartaro, si sta risvegliando preparandosi a una guerra. - a quelle parole il caos si diffuse tra i mezzosangue, e vidi il panico sui volti di Percy e Annabeth. Il centauro, poi, battendo uno zoccolo sul suolo, richiamò l’attenzione dei semidei, e continuò: - Abbiamo bisogno di un’impresa. Secondo una leggenda, in tempi lontani, Emera e Etere, figlie della Notte e dee del giorno e della luce, costruirono una fiaccola con i loro poteri, ma quando vennero scoperte dalla madre, furono costrette a dividere lo strumento in tre parti; secondo gli dei, queste si trovano in tre grandi città americane: Washington, Nashville e Atlanta, molto probabilmente negli edifici più importanti e con un maggiore valore storico. - A quel punto, proseguire era necessario, ma Chirone non voleva chiedere troppo ai suoi eroi. - Ci sono volontari? - concluse con lo sguardo fisso a terra.

- Io. - dissi, alzandomi e sostenendo lo sguardo del centauro. Avevo di nuovo centinaia di paia di occhi fissi su di me, e girandomi a guardare notai le facce sconvolte dei miei amici Robert e Hope, che dopo un muto accordo si alzarono, completando la squadra. Chirone ci stava fissando, cercando di capire il perché delle nostre azioni, e dopo un gran sospiro, dichiarò che il falò era concluso, che tutti sarebbero dovuti andare a dormire, e che i diretti interessati sarebbero stati accompagnati la mattina seguente all’aeroporto. Un’orda di semidei sciamò verso le proprie case, ma io rimasi lì, seduto e con gli occhi puntati al focolare, che piano piano prendeva colorazioni sempre più scure. Quando mi passarono davanti Hope e Rob li guardai negli occhi, e per un lungo attimo, il tempo parve fermarsi. - Siete sicuri di voler venire con me? - il figlio di Tyche sorrise divertito, poi aggiunse - Avrai bisogno di fortuna, amico mio. E poi, siamo una squadra. - concluse tendendo la mano col palmo verso terra; ci appoggiai sopra la mia, poi fissammo Hope, che con un sospiro e un - Se non ci fossi io, finireste ammazzati nel giro dei primi venti minuti. - appoggiò la mano sulla mia. - Compagni fino alla fine. -

Abbracciai quei matti e li augurai buonanotte, dirigendomi verso la Casa Grande dove avevano allestito un letto vicino la testa di leopardo viva solo per me, quando una mano mi si posò sulla spalla, e girandomi notai la mia ship coppietta felice preferita. I due mi guardarono attentamente con un misto di gratitudine e preoccupazione, e dato che il silenzio si stava facendo imbarazzante (come al solito, qui al campo) infilai le mani in tasca e mi guardai la punta delle converse pensando a cosa dire. - Percy, Annabeth… quando vi ho conosciuti, guardando nei vostri occhi ho visto quello che avete passato: la folgore, il mare dei mostri, il labirinto, la guerra contro Crono, i Sette della Profezia, la battaglia contro Gea, il Tartaro… quando Chirone ha parlato di un’impresa ho visto il panico sui vostri volti, ma sapevo che se nessuno si fosse fatto avanti voi vi sareste buttati nella mischia. Il fatto è che il Campo ha bisogno di voi. Nyx ha un esercito, e anche se la nostra impresa dovesse riuscire perfettamente, il Campo sarebbe comunque in pericolo; non vi prometto di evitare la guerra, ma giuro sullo Stige che farò di tutto pur di diminuire le perdite… Buonanotte, ragazzi, preparate i semidei ad un’ultima grande guerra. -

ANGOLO AUTORE
Abbiamo capito chi partirà, dove andranno i nostri eroi e cosa stanno cercando, è tutto proto per l'avventura, no? *musichetta eroica in sottofondo.*
Percy e Annabeth. Allora. Credo si sia capito che la mia amata Percabeth non se ne starà in disparte durante la battaglia solo perchè non andrà in missione; tutt'altro, loro due hanno il compito di preparare il Campo ad un attacco dell'esercito di Nyx, che, inutile dirlo, arriverà e sarà devastante.
I nostri tre matti, invece, all'alba partiranno per Washington. Quanti problemi avranno durante il viaggio?
-Moonknight

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Capitolo 8
*** Atterriamo a Washington con la David Airlines ***


Atterriamo a Washington con la David Airlines

All’aeroporto trovammo un jet privato ad aspettarci, gentilmente offerto da Zeus (forse per scusarsi di avermi quasi ucciso tra atroci sofferenze), ricoperto di fulmini e scariche elettriche. Sia chiaro, non le scritte e i disegni attaccati agli aerei come si fa di solito, ma veri fulmini e vere scariche elettriche, che percorrevano tutto il mezzo, un po’ come la cicatrice sul mio braccio. Diciamo che il viaggio fino all’aeroporto era stato più o meno tranquillo: certo, eravamo stati attaccati da una decina di dracene e un paio di segugi infernali che abbattemmo rimanendo a bordo dell’auto, Hope con un arco regalatole dal padre, resistentissimo e leggero che prendeva la forma di un braccialetto di cuoio quando non veniva usato, io alternando un fucile da cecchino a un arco o ad una mitragliatrice, ma suppongo fossero solo azioni ordinarie per dei semidei. Ancora una volta mi stupii che le mie armi non avessero preso fuoco o non fossero esplose: ormai ne ero certo, sarebbero durate in eterno. L’aereo, comunque, era totalmente vuoto, non ci furono turbolenze e delle brezze fresche ci portarono qualsiasi nostra ordinazione. Poi, ovviamente, il jet esplose. Figuriamoci. Due Gorgoni entrarono a razzo nell’abitacolo, tranciando di netto il mezzo, e fummo tutti scaraventati fuoribordo, qualche centinaio di metri sopra Washington. Okay. Avevo tempo. Recuperai gli zaini che precipitavano accanto a noi e evocai due grossi guantoni da baseball grandi come divani “alla Lanterna Verde maniera” per prendere i miei amici, poi, presi un cilindro dalla mia cintura trasformandolo in un arco e sparai due dardi verso le Gorgoni corazzate che ci venivano in contro, disintegrandole in breve tempo. A quel punto usai tutta la mia energia residua per fermare la caduta, e fu così che atterrammo delicatamente su un albero della Casa Bianca.


ANGOLO AUTORE
Buon natale a tutti, semidei e non!
Okay, ho fatto la mia buona azione. Comunque, rieccomi. Mi perdonerete (spero) per la citazione di Green Lantern nel capitolo, ma amo quel personaggio. :D
Pensate che avevo in mente di usare dei cannoni/mitragliatrici da aereo/missili contro le gorgoni, ma mi sembrava troppo. C:
Nonostante tutto, i giorni liberi e i cenoni vari sono serviti a qualcosa, perchè ho un altro capitolo da pubblicare già pronto.
-Moonknight
 

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Capitolo 9
*** Come cercando su Google “terroristi sull’albero alla Casa Bianca” potreste trovare una foto di tre ragazzi inseguiti da un qualcosa ***


Come cercando su Google “terroristi sull’albero alla Casa Bianca” potreste trovare una foto di tre ragazzi inseguiti da un qualcosa

Dai, il titolo è piuttosto esplicito. Comunque, per correttezza, devo raccontarvi tutte le mie eroiche gesta e tutte le volte che mi sono trovato a salvare Hope dalle grinfie di un famelico mostro… Okay, la faccio finita. Chiariamo che non capita spesso che tre ragazzi atterrino da non si sa dove su un albero nel cortile della Casa Bianca, ecco. Scoppiò l’allarme rosso, la camera del Presidente venne blindata e spuntarono in giardino apparendo da non so dove uomini armati in tenuta anti sommossa o in borghese, mentre nella strada di fronte una folla di curiosi si era affacciata per cercare di capire il motivo del trambusto. Un agente tra tutti attirò la mia attenzione: aveva un cane poliziotto, di quelli grandi e feroci con la pettorina scura che mi fissava ringhiando. Noi che, sinceramente, avevamo già problemi con i mostri, e non volevamo averne con le autorità locali, scendemmo dall’albero e cominciammo a spiegare -con un piccolo trucchetto di Foschia, coff coff- che ci trovavamo lì già da un po’, che era il nostro punto di ritrovo… cose così insomma, di quelle inventate sul momento. Credo sia il momento di rivelarvi un piccolo segreto: prima di passare dalla cabina di Apollo per salutare Hope, appena finito il mio discorsetto sulla fine del mondo imminente con Chirone e quel dio panciuto, una bellissima e simpatica ragazza di un anno più piccola di me chiamata Skyler si era proposta di spiegarmi le basi del mondo dalla parte dei semidei, e mi aveva parlato di questa Foschia. Mi aveva detto che nascondeva i fatti come stavano rendendoli comprensibili agli umani e che poteva essere manipolata; lei, essendo figlia di Ecate, ci riusciva facilmente, e si era proposta di spiegarmi come fare in quel tratto di strada Casa Grande-Cabina di Apollo. Ovviamente ero riuscito quasi subito a farle apparire un cono gelato di foschia in mano, e lei ne era rimasta seriamente colpita, tanto da chiedersi se il sottoscritto novellino sarebbe stato un figlio della dea della Magia. Prima di salutarla le avevo chiesto se sapeva qual era la cabina di Tyche, dato che sarei dovuto passare a salutare Robert: a quel nome era arrossita di colpo e, abbassato la testa, aveva indicato una capanna poco lontana. Non diedi molta importanza a quel gesto, quindi la ringraziai e la salutai. Dov’è il segreto? Oh, beh, a parte che Hope non aveva visto nulla e che quindi non volevo parlare di belle ragazze davanti ad un’altra bella ragazza, volevo spiegarvi come riuscii a fregare gli agenti. Tutto qui.

Fu così che in breve la maggior parte dei poliziotti era sparita raccomandandoci di non farlo mai più, ritornando nei luoghi oscuri e misteriosi dai quali provenivano, e la folla di gente attaccata ai cancelli scemava. Anche l’agente col cane voleva andarsene, ma l’animale rimaneva fermo, in punta, fissandomi con i suoi occhi quasi dorati… sinceramente non saprei dire come, ma tempo sbattere le palpebre e mi ritrovo il Leone di Nemea pronto a saltarmi addosso: probabilmente i mortali vedevano solo un cane rabbioso, ma noi tre sapevamo che quel mostro sarebbe stato capace di sfondare la porta blindata della Casa Bianca anche solo con una zampata, volendo. Vecchi miti riaffiorarono alla mente, e non portavano grandi notizie. Il leone aveva una pelliccia indistruttibile ed Eracle aveva usato i suoi stessi artigli per ucciderlo, dopo averlo legato… Vidi accanto a me Hope premere un pulsante sul suo bracciale facendo apparire il suo arco, mentre Robert prendeva un dado dalla tasca del pantalone e premeva con un dito su una delle facce trasformandolo in una spada di bronzo; io invece tirai fuori i miei due cilindri, facendo apparire due lunghe fruste di energia.

- La sua pelliccia è indistruttibile, dovremmo usare i suoi stessi artigli per ferirlo! - urlai mentre schivavo una zampata di quel gatto troppo cresciuto e facendo schioccare la frusta proprio sotto al suo naso. Nello stesso momento, mentre delle ragazze scattavano foto alla scena, una freccia gli si piantò in un orecchio, confondendolo giusto il tempo per lanciare le mie fruste verso le zampe del leone, e tirando, questo finì con la schiena a terra, dolorante. Liberai l’animale dalla morsa per un secondo, giusto il tempo di usare le mie fruste per legare tutti e quattro gli arti, mentre frecce su frecce lo colpivano agli occhi e in bocca, troppe per essere lanciate da una sola persona, infatti fu solo in quel momento che notai che anche Rob adesso aveva un arco, probabilmente vedendo l’inutilità della spada e trasformando la sua arma in altro. Feci percorrere l’energia delle mie fruste da una forte corrente elettrica, stordendo l’animale, poi lanciai uno sguardo a Robert che recepì il messaggio, fiondandosi addosso al Leone e usando le sue zampe per squarciargli il petto. Il mostro svanì con la solita polverina, lasciando al suo posto un mantello di pelle che, a scelta unanime, sacrificammo agli dei.


ANGOLO AUTORE
Il Leone di Nemea. Solo a me fa venire in mente Nemo? No, okay, la smetto. Che bello, il primo combattimento serio, una spoglia di guerra importante, e ovviamente le danno fuoco. Che se ne fanno gli dei di un giubotto antiproiettile? Bah, vabbè.
Spero come sempre che vi piaccia, adesso vado, miei cari. Battete un colpo se ci siete,
-Moonknight.

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Capitolo 10
*** Ci affidiamo alla fortuna (e in questo siamo bravi) per trovare il primo pezzo ***


Ci affidiamo alla fortuna (e in questo siamo bravi) per trovare il primo pezzo

Notammo che si era fatta sera quando uscimmo dal giardino della Casa Bianca, e decidemmo così di andare a cenare da qualche parte. Approdammo in un Mc Donald poco lontano, forse uno dei più grandi Mc che abbia mai visto in vita mia. Chiariamo, a New York sono tantissimi i fast food e la maggior parte sono di dimensioni spropositate, ma raramente mi capitava di mangiare fritto o hamburger 25% carne e 75% non-lo-voglio-sapere. La struttura in sé era a due piani: quello di sotto era formato dalle cucine, pochi metri quadri di macchinari e freezer stipati con decine di addetti, poi c’era una vastissima superficie di tavoli, tavolini e banconi, una marea di sedie a non finire e tante, tantissime persone, così tante che sembrava di essere ad un concerto degli AC/DC. Le due parti del piano, poi, erano separate dalle casse, cinque o sei, così poche per tutta quella gente, ma che avevano la stessa funzione di argini di contenimento. Il piano di sopra era relativamente più calmo, diviso in due ali speculari di tavoli e banconi inchiodati al terreno e alle pareti, con al centro le scale che lo collegavano al pian terreno. Robert prese un hamburger a tre strati che definì “delizioso”, Hope ed io chiedemmo un panino con la cotoletta senza salse, probabilmente stavamo andando sul sicuro. Circondammo il tutto con delle patatine fritte, bevemmo delle bibite annacquate e durante il pasto decidemmo sul da farsi. - Chirone ci ha detto che probabilmente i pezzi si trovano su monumenti di importante valore storico, ma qui a Washington potrebbero essere tantissimi. - cominciò Hope. Robert si guardò intorno, scrutando pensieroso il cielo scuro dalla finestra accanto al nostro tavolo, poi parlò, senza distogliere lo sguardo dall’orizzonte, per quanto fosse possibile vederlo: - Direi che abbiamo un 50 e 50, e credetemi, me ne intendo. Il pezzo che cerchiamo, potrebbe trovarsi o al Lincoln Memorial, magari proprio sulla statua, oppure al Washington Monument, sull’obelisco. Io, direi di fare così, - disse tirando fuori lo stesso dado del combattimento - pari Lincoln Memorial, dispari Washington Monument. Che ne dite? - Hope ed io ci guardammo un po’ spaesati e incuriositi, ma non avendo idee migliori, accettammo con un cenno del capo. Il ragazzo ci sorrise, chiuse il dado nella mano pronunciando in silenzio alcune parole, probabilmente una preghiera alla madre per far sì che ci consigliasse bene, e poi lo lanciò sul tavolo.

Non credo fossi abbastanza preparato a quello che vidi, perché sulla faccia superiore c’era un bel 43, mentre una proiezione olografica mostrava il Washington Monument in blu pochi centimetri sopra il dado, con la punta di oro. Per un momento mi immaginai Robert ad un compito in classe a lanciare i dadi o a fare testa o croce per rispondere ai vari quesiti, cosa che probabilmente faceva spesso. - Allora credo che dovremmo agire stanotte, così da non destare troppi sospetti. - concluse il moro con il suo solito sorrisetto, recuperando il dado dal tavolo unto. Anche stavolta, non avendo nulla da obiettare ci accontentammo di un cenno, e uscimmo per respirare un po’ di aria fresca e dirigerci verso il parco dove sapevamo ci avrebbe aspettato un’importante sfida.


ANGOLO AUTORE
Buon anno a tutti, semidei! La ricerca del primo pezzo è ormai ufficialmente iniziata, abbiamo scoperto uno dei poteri del nostro figlio di Tyche e siamo quasi sicuri su dove andare. Rimanete qui, adesso vi pubblico il secondo capitolo della settimana, recensite in tanti, commenti positivi e negativi, voglio assolutamente sapere cosa ne pensate. Buona giornata a tutti,
-Moonknight

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Capitolo 11
*** Hope ci salva il fondoschiena ***


Hope ci salva il fondoschiena

Giungemmo all’obelisco in pietra che era quasi mezzanotte, e decidemmo di accamparci sul prato, poco distanti dal monumento, fin quando le strade non fossero state completamente deserte e la città non si fosse addormentata… lì seduto, con Hope sdraiata sull’erba e la testa appoggiata alle mie gambe, la magia di Morfeo stava cominciando a prendere il sopravvento sul mio corpo e sulla mia mente, quindi decisi di concentrarmi su qualcosa che non fosse il viso della mia bellissima compagna di viaggio. Non c’è molto che si può dire sul monumento… sembrava alto, massiccio, monumentale(?). Una base quadrata era l’origine di quattro pareti di marmo, leggermente inclinate verso l’interno; in cima, una piramide chiudeva la costruzione, con due piccole finestrelle su ogni faccia, e la punta brillava di una fioca luce dorata.

Aspettammo fino alle tre, alternandoci a turni per riposare, fin quando non decidemmo di entrare in azione. Da vicino l’obelisco era DAVVERO enorme, maestoso, e irradiava energia. - Quasi 170 metri in altezza di marmo, granito e arenaria, ci vollero quarant’anni per costruirlo tutto. - mormorò Robert rompendo il silenzio, leggendo da un volantino che aveva trovato a terra. Non ci furono risposte, non era proprio il momento per parlare di architettura e storia, quindi accartocciò il foglietto e lo gettò nel cestino più vicino con un tiro ad occhi chiusi, che fece una perfetta carambola su un palo della luce per poi atterrare nella busta di plastica del contenitore in metallo. Pff, la solita fortuna.

Eravamo ormai a pochi passi dal grande cerchio di pietra al cui centro si estendeva il monumento, quando, da una pozza di fango pochi metri alla nostra sinistra, una testa e un corpo sinuoso partirono verso l’alto, avvicinandosi all’obelisco e attorcigliandocisi sopra. Era un serpente lungo circa duecento metri, con le fauci abbastanza grandi da inghiottirmi per intero anche di traverso e la livrea verde mimetico; gli enormi occhi gialli incutevano terrore e davano l’idea di aver visto di tutto al mondo, combattendo sempre dalla parte del male. Era un enorme pitone, anzi. Era IL Pitone, il mostro che inseguì Latona, madre di Apollo e Artemide finché gli fu possibile, per poi insediarsi a Delfi e occupare il posto dell’Oracolo, fino alla sua morte per mano del dio del sole. Impugnai il cilindro ordinandogli di trasformarsi in spada, mentre Robert usava il suo dado per farne apparire una sua, e Hope imbracciava terrorizzata il suo arco. Le tremavano le mani mentre il pitone la osservava e annusava l’aria oscillando la sua lingua sopra e sotto, sopra e sotto… nell’insieme era veramente ipnotico, con la sua pelle colorata, il movimento oscillante della testa e gli occhi dritti nei tuoi. “Mh-h, chi abbiamo qui?” si domandò il serpente. La sua voce era calda e melliflua, del tipo che se avesse provato a vendermi un’escursione nelle sue fauci per le meraviglie naturalistiche del bioparco-stomaco avrei accettato senza problemi, ma non muoveva la bocca, parlava alle nostre menti senza pronunciare nessun suono. E, cosa più inquietante, non aveva la classica s strisciante dei serpenti dei cartoni. Quasi ci rimasi male. “Un figlio di Tyche, un… mortale? Oh, e una gustosissima figlia di… Apollo.” pronunciò l’ultima parola con un curioso e spaventoso mix di emozioni: rabbia, paura, gioia, stupore, e, se la fame fosse stata un’emozione, anche la fame. - Suppongo dovremmo farti a fette per poter prendere quello che cerchiamo, no? - chiesi ostentando un falso coraggio. Sentii dei sibili, come di una corda trascinata tra dei cespugli, che molto probabilmente in serpentese sarebbe stata una grassa risata. Con una velocità che non credevo potesse avere fece schioccare la coda, colpendo Hope e mandandola a terra molti metri indietro. Vederla lì, stesa immobile mi fece morire un urlo di rabbia in gola. Mi voltai verso Robert, dicendogli di portare dell’ambrosia alla ragazza mentre io tenevo occupato quel mostro il più a lungo possibile, poi, mi lanciai all’attacco. Schivai un altro colpo di coda del pitone, e trasformando l’altra arma in una seconda spada lo ferii arpionandomi al suo corpo; istintivamente, quello tirò la coda indietro con me appresso, che atterrai con un calcio sul muso della bestia, stordendola il necessario per tentare un fendente diretto alla testa, ancora sospeso in volo, che venne facilmente schivato. Ogni mio attacco andava a vuoto, e il mostro era spesso in grado di contrattaccare con testate potenti quanto colpi di ariete che mi lanciavano metri indietro. Sentii un sordo urlo di battaglia circa 170 metri più in basso, e notai con la coda dell’occhio Rob alle prese con la coda del serpente, ferendola ad ogni fendente e schivando (specialmente a fortuna, ma era quella la sua specialità, in fondo) tutti i colpi che essa le riservava. Riuscimmo a mettere alle strette il pitone, incapace di combattere contro due eroi alla volta, ma il vantaggio non durò a lungo perché con un doppio colpo ci scaglio entrambi a terra, uno accanto all’altro, esausti e doloranti. Fu in quel momento che vedemmo il serpente in tutta la sua grandezza: si staccò dall’obelisco, srotolandosi e alzandosi nel cielo nero sopra le nostre teste. Incuteva terrore, paura, e simboleggiava la forza dell’inganno e della persuasione. Guardandolo ti veniva in mente di sdraiarti e osservarlo ucciderti dolorosamente per quanto era convincente. “In genere uccido le mie vittime stritolandole prima, ma, vedete, mi state simpatici. Vi mangerò vivi e tutti interi, così che potrete sentire la vostra pelle e i vostri organi bruciare a contatto con gli acidi del mio stomaco.” Terminò la frase con così tanta calma che mi prese alla sprovvista quando me lo ritrovai fauci aperte a meno di un metro dalla mia faccia.

Poi, troppe informazioni. Una stella cometa passò sopra la mia testa, no, anzi. Un proiettile. No. Una freccia infuocata. Anzi, meglio. Una freccia infuocata con la benedizione di Apollo. Ottimo, direi… Allora, una freccia infuocata con la benedizione di Apollo mi passò a pochi centimetri dalla testa entrando nella gola del serpente e uscendo dalla parte opposta della coda, continuando a volare nel cielo fin quando non scorsi più la sua luce. Robert ed io ci girammo sorpresi, e lì vedemmo Hope ancora con l’arco in mano puntato verso la polverina di serpente; poi lei svenne, accasciandosi di lato. Prendemmo dell’ambrosia e del nettare (che, avevo scoperto, non mi mandavano in autocombustione come con i soliti mortali) e volai fino alla punta dell’obelisco: mettendoci la mano sopra, dieci centimetri di pietra si svitarono, atterrandomi in mano, mentre un’altra punta partiva dal basso e prendeva il posto della prima, per evitare di lasciare un pezzo mancante alla costruzione, a quanto pare. Immaginai i notiziari nazionali nel panico per cercare di capire chi avrebbe mai potuto vandalizzare un monumento simile a quasi duecento metri da terra, e magari, nelle riprese di alcune telecamere, avrebbero visto tre ragazzi combattere contro una biscia ai piedi dell’obelisco, e sorrisi all’idea. Mentre scendevo notai che la piramide che avevo nel palmo aveva cambiato forma, e adesso era un cono, di oro e ricordava un cesto di vimini intrecciati. Aspettammo che Hope riprendesse conoscenza, e ci dirigemmo verso un albergo, desiderosi di poter passare quel che restava della notte a dormire in dei letti veri.


ANGOLO AUTORE
Eccoci qua! Le eroiche azioni di David e Robert devono aspettare, perchè è Hope la vera eroina in questo capitolo: ha sfidato il nemico giurato di suo padre, il grande Pitone, riuscendolo a sconfiggere con solo una freccia, benedetta dal dio del sole. Una gran figata, direi.
Grazie a tutti quelli che hanno letto il capitolo e spero che qualcuno abbia voglia di commentare, recensioni positive o negative che siano, per sapere un po' cosa ne pensate della storia.
Tanti saluti,
-Monknight
 

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Capitolo 12
*** Me ne vado in aeroporto con un sorriso ebete in faccia ***


Me ne vado in aeroporto con un sorriso ebete in faccia

Quando approdammo in un albergo che sembrava sul punto di crollare, alle quattro di notte circa, l’uomo nella hall (se così la si poteva chiamare) ci aveva guardati male a lungo prima di capire che potevamo pagare. La costruzione era un fatiscente  palazzo che stonava con le bellezze architettoniche della grande città che lo circondava, di tre piani al massimo, intonaco e carte da parati rovinati dal tempo e dalle intemperie, ma le stanze erano sobriamente pulite e ordinate. C’era un’unica camera disponibile, con un letto singolo e uno matrimoniale (che cliché) e non appena entrati eravamo dell’idea di decidere chi avrebbe dormito con chi, ma Robert collassò senza nemmeno cambiarsi sul letto singolo, e dato che non c’era modo per muoverlo (o almeno, non con le nostre forze) Hope ed io decidemmo di dormire nello stesso letto. Quando mi risvegliai, circa quattro ore dopo, gli altri stavano ancora dormendo, Robert stravaccato sul suo letto, Hope sulla mia spalla. Aspetta, aspetta, aspetta. HOPE SULLA MIA SPALLA. I suoi ricci biondi incasinati dalla notte passata sul cuscino le incorniciavano in modo così carino il viso, dai lineamenti delicati, sottili. Il braccio sinistro sotto il cuscino, a reggere la testa, il destro sul mio petto, come se fossi stato l’ancora di salvezza nei suoi incubi. I suoi occhi azzurro cielo erano ancora chiusi, e con un gesto leggero e fulmineo le stampai un bacio in fronte, beandomi del buon odore di rose che emanavano i suoi capelli e scostandone una ciocca più ribelle delle altre dietro l’orecchio. Girai la testa con lo sguardo verso la finestra, dalla quale vedevo il sole nel cielo cominciare il suo ciclo mattutino. Chissà se Apollo in questo momento ci vedeva, ma fui contento di non essere stato colpito da una freccia nel sonno, prova che, se osservava, non aveva nulla in contrario. Ritornai con lo sguardo sulla figlia del Sole, che stropicciava gli occhi guardandomi, come per rendersi conto di quanto quello che aveva davanti agli occhi fosse reale o parte del suo sogno. Ci vollero altri pochi istanti prima che si accorgesse di essere parzialmente appoggiata su di me e si spostasse di scatto, imbarazzata, con le guance che cominciavano a colorarsi con un leggero rossore. - Tranquilla, non mi dava fastidio - mormorai in modo che solo lei potesse sentirmi, alzandomi sui gomiti. Non ricevetti risposta, solo altro rossore e un’occhiata dritta verso il basso, per non incontrare il mio sguardo. A questo punto, all in, me la giocai tutta: mi avvicinai lentamente, tenendole lo sguardo fisso nei suoi bellissimi occhi, e così sembrò fare anche lei. Eravamo ormai a pochi centimetri, i nostri nasi quasi a toccarsi, quando… - WHOAH! Che mi sono perso? - ci chiese Robert ancora assonnato, alternando una parola ad uno sbadiglio (sbadiglio, sbadiglio, sbadiglio. Vi ho fatto sbadigliare?). Game over, mi sentii nel cervello la musichetta di quando Pac-Man viene preso dai fantasmi e sembra sciogliersi in una pozzanghera. Ci bloccammo, ancora indecisi sul da farsi, poi Hope tirò il busto indietro, allontanandosi da me. - Credo… credo che andrò in bagno a cambiarmi. Dovremmo andare a fare colazione da qualche parte e dovremmo andare all’aeroporto, dobbiamo arrivare a Nashville il prima possibile. - dissi, cercando inutilmente di nascondere un po’ di delusione e chiudendomi in bagno. Sentii dall’altra parte della porta un tonfo sordo, come di testa che si lascia andare e sbatte contro il cuscino, un sonoro e “sbadiglioso” - Ho interrotto qualcosa? - di Robert, ancora visibilmente assonnato e un mugolio ovattato che poteva essere interpretato con qualcosa come “Ritornatene a dormire, Robert!” o con sinonimi meno gentili. Una decina di minuti dopo avevamo pagato con una miracolosa quanto misteriosa carta di credito chiamata Lotus Card gentilmente offerta dalla mia OTP da Percy e Annabeth nel campo prima della partenza, ed eravamo per strada, cercando di chiamare un taxi. Nonostante non fossi riuscito a baciarla, ero euforico: sapevo che significavo qualcosa per lei, e che, molto probabilmente, provava qualcosa per me. Raggiungemmo l’aeroporto giusto in tempo per prenotare un volo per tre per Nashville, e poi, tutti a bordo dell’aereo diretti verso una nuova probabile avventura suicida!


ANGOLO AUTORE
Non ho molto da dire su questo capitolo, è incentrato sulla mia ship e non accade nulla di sensazionale in termini di avventura.
Oggi, mi rivedo più in Robert che si alza sbadigliando e non capisce assolutamente nulla di ciò che lo circonda a meno che qualcuno non gliela sbatta davanti ai propri occhi. Sto collassando sulla tastiera.
Tra poco pubblico l'altro capitolo, ci si rivede,
-Moonknight

P.S. Ho sbadigliato sonoramente ogni volta che dovevo scrivere "sbadiglio" o "sbadigliare" o "sbadiglioso" o simili, spero l'abbiate fatto anche voi e abbiate diffuso il virus-sbadiglio nelle vostre case, nei vosri quartieri, nelle vostre città e infine nel mondo. :D
Alla prossima.

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Capitolo 13
*** Il bellissimo tempio e la carne di manzo a metà prezzo ***


Il bellissimo tempio e la carne di manzo a metà prezzo

Atterrammo a Nashville senza troppi problemi, e soprattutto, con l’aereo ancora intero, probabilmente grazie al tanfo di medicinali che emanava la vecchietta accanto a me che occultava l’odore dei miei amici semidei.
Verso le undici e trenta circa eravamo fuori dall’aeroporto, ordinando una Coca-Cola ad un bar per il caldo torrido, e decidendo sul da farsi: - Dove ti nasconderesti se fossi un pezzo di un’arma capace di esiliare una dea della notte nel Tartaro? - chiesi con fare ironico. - Sbaglio, o qui a Nashville c’è una copia del Partenone? - si domandò Hope; - Giusto! - esclamò Robert schioccando le dita e allungando una mano in tasca, tirando fuori il suo dado e lanciandolo sul tavolo. Come la volta precedente, una mappa tridimensionale si sviluppò a partire dal cubo, andando a formare una copia in scala del Partenone della città. Muovendo le mani come se stesse usando un touch-screen girò la struttura e ingrandì l’immagine, visualizzando l’interno del tempio. Nella mano destra della dea Atena c’era un piccolo angelo ricoperto di alloro -Nike, sicuramente- e la sua corona brillava d’oro anche nella riproduzione.
- Con un po’ di fortuna, - proseguì Robert col suo solito sorriso - troveremo lì il prossimo pezzo. Entreremo durante la pausa che fanno all’ora di pranzo, quando saremo sicuri di non trovare nessuno, - non come aveva fatto qualcuno in un film neanche lontanamente vicino alla realtà, *coff coff* - prenderemo il pezzo che ci serve e ce ne andremo felici e contenti ad Atlanta a prendere il prossimo. Che ne dite del piano? - Accettammo senza problemi, in fondo, almeno così, non avremmo dovuto aspettare le quattro di notte come la scorsa volta, e, dopo aver pagato la nostra bibita, ci dirigemmo verso il nostro prossimo obbiettivo.

Dicendo “bello”, “magnifico”, “enorme” o altri aggettivi simili non riuscirei a definire come è il Partenone. Se fossi un figlio di Atena, adesso sarei qui a descrivervi ogni singolo centimetro cubo del marmo bianco usato per la costruzione, lo stile delle colonne, ogni singola trave e architrave o qualsiasi argomento che possa riguardare l’architettura, ma non me ne intendo per niente. Posso solo dire che ti lasciava senza fiato per la sua bellezza e maestosità. Pareva di essere appena ritornati nella Grecia dell’età d’oro, se non per il curioso contrasto tra le forme della costruzione e la musica rap di sottofondo che alcuni ragazzi ascoltavano da grandi stereo sdraiati sull’erba del parco circostante.

Tempo un’oretta di attesa ed eravamo dentro con solo un pizzico di foschia e qualche innocente bugia bianca. La statua di Atena si innalzava nei suoi 13 metri di fronte a noi, vestita d’oro, e nel suo scudo era rappresentata la Gigantomachia, la guerra degli dei contro i giganti. Per un attimo pensai alla nostra, di battaglia, dipinta all’interno di uno scudo. Già mi vedevo, dipinto in un’opera d’arte, massacrato da un mostro o, perché no, investito dal carro di Nyx. Come previsto, nella mano destra della dea, Nike sfoggiava la sua corona di alloro, secondo pezzo della fiaccola che stavamo tentando di ricostruire.

Mentre ci guardavamo intorno per controllare un’ultima volta se ci fosse qualcuno, sentimmo un verso diffondersi tra le arcate, facendoci rimbombare anche le ossa. Un secondo, e un terzo, sempre più vicini, sempre più comprensibili. - Mooooo! -. Quando lo vedemmo, il Minotauro stava già caricando contro di me. Mi ricordai per un istante di un affresco in un palazzo di Cnosso, di atleti che saltavano tori in corsa usando le loro corna per darsi una spinta: pensai che fosse impossibile, che il 90% di loro fosse rimasto incornato o spiaccicato tra un muro e la fronte del toro, ma lo trovai quasi facile quando l’altra alternativa era farsi prendere in pieno da un uomo con la forza di una locomotiva. Atterrai in piedi dietro di lui dopo aver eseguito una perfetta capriola in volo, degna del migliore atleta di ginnastica artistica e mi voltai giusto in tempo per vedere il toro sbattere violentemente la testa contro una colonna, far vibrare l’edificio e barcollare confuso e stordito. In una frazione di secondo avevamo tutti sguainato le armi e Hope aveva cominciato a bersagliare il corpo del Minotauro di frecce, che parevano non arrecargli poi tanti danni. Io e Robert ci lanciammo in un attacco in doppio combattendo il mostro su due fianchi, riuscendo a ferirlo sempre di più: graffi, tagli sempre più grandi; poi, evidentemente stufo della situazione mi tirò una manata nello stomaco, lanciandomi ai piedi di Hope che, per controllarmi, aveva smesso di scoccare frecce. Il colpo era stato tanto forte da svuotarmi i polmoni e incrinarmi le costole: ogni movimento era doloroso, come anche solo il tentativo di respirare, mentre l'aria che inalavo bruciava come se fosse fuoco.
Robert era ormai solo. Strinse più forte la sua spada, sbiancandosi le nocche, schivando un gancio del toro e una carica buttandosi di lato e rotolando. Fece roteare la sua spada in mano, mentre con l’altra fece segno al Minotauro di avvicinarsi (era diventato pazzo tutto di un colpo?): non ho mai pensato che quando i tori si arrabbiassero sputassero fumo dalle narici, come succedeva sempre nei cartoni, ma per un istante vidi proprio questo. Il mostro caricò un’ultima volta e Robert corse incontro alla bestia veloce come un fulmine (sì, era decisamente impazzito) per poi abbassarsi in scivolata all’ultimo secondo, squarciare il polpaccio dell’avversario con un rapido gesto della spada, rimettersi in piedi e, sfruttando una colonna vicina come muro di arrampicata, saltare raggiungendo la testa di toro, per poi infilare la spada tra il collo e la clavicola. A quel punto il mostro si dissolse, e il nostro amico, stremato come mai, si accasciò per terra per riprendere fiato. Prendemmo tutti dell'ambrosia e del nettare, e dopo le debite congratulazioni, mi fiondai a prendere quello per cui eravamo venuti, e, come l’altra volta, la corona si trasformò in un grande anello di vimini d’oro, e dal buco che avevo lasciato era spuntata un’altra corona di alloro. "Felici e contenti" ce ne scappammo veloci più della luce per evitare le reazioni dei visitatori di quando avrebbero trovato polvere dorata ovunque, colonne incrinate e tracce di sangue sparse per la sala.


ANGOLO AUTORE
Ed eccoci qui all'ultimo capitolo della storia...
Naah, siamo appena al secondo pezzo, come potrei interromperla.
Ora è il turno di Robert, può sembrare un po' uno sfigato, ma invece è un grande eroe.
Che dire, commentate in tanti. Ve se ama,
-Moonknight

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Capitolo 14
*** Troviamo passaggi alternativi ***


Troviamo passaggi alternativi

Dopo le nostre avventure e possibilità di morte mattutine, approdammo in un parco dove potemmo riposarci e pranzare con un hot dog, rilassandoci all’ombra di un albero e ammirando le meraviglie della vita, magari eliminando un segugio infernale o due ogni volta che cercavano di azzannarci conquistando la cena, ma nulla di speciale, in fondo. Fu Robert a rompere il silenzio, domandandosi come avremmo fatto adesso per raggiungere Atlanta, se treno o aereo. Io sorrisi, e per un momento pensai che ci fossimo scambiati i ruoli. - Lascia fare a me. - e detto questo, fischiai. Sentii il mio eco rimbombare da lontano, e nel giro di due minuti, tre grandi figure alate planarono dall’alto, atterrando davanti a noi. Ora vi chiederete, se sono rimasto al campo senza svenire per sì e no tre ore, come diamine avevo avuto il tempo di fare amicizia con un pegaso? A quanto pare, lo avevo avuto. Non chiedete.

- Ragazzi, vi presento Shazam. - dissi accarezzando il muso ad un pegaso dal manto e dalle ali totalmente neri, tranne che per i fianchi dove erano situate due macchie di pelliccia bianca, simili a due fulmini. Mi aveva incuriosito fin da subito, forse perché anche lui aveva un fulmine disegnato addosso, diciamo. Hope mi guardò confusa: - Mi stai dicendo che lo hai chiamato come l’applicazione che riconosce le canzoni? - Robert la guardò sconcertato, per poi portarsi una mano alla fronte, come se quello che stesse per dire fosse tra le cose più ovvie di questo mondo: - Ma no! Il pegaso si chiama Shazam come il supereroe! - Hope sembrò non capire, e allora Rob continuò: - Dai, quello della DC, che è un bambino e quando urla il suo nome da battaglia si trasforma in un superpalestrato supereroe in grado di controllare i fulmini! Dai! E’ una delle più famose forme con cui Zeus si è fatto rappresentare negli ultimi decenni! Nulla? Bah, io mi arrendo. - concluse avvicinandosi ad un altro bellissimo animale dal manto bruno-rossastro e dalle ali dello stesso colore e striate di nero, con gli occhi circondati da due ovali neri verticali. - AH AH! Tu sei Deadpool, amico mio! - esultò accarezzandogli il muso e battendomi un cinque. Scrutandoci confusa e divertita, Hope si avvicinò al terzo pegaso, dal manto chiaro e dalle ali candide, accarezzandolo sulla fronte. - Che ne dici di Sunshine, eh, bella? - Bella? Era davvero femmina? Come aveva fatto Hope a capirlo così, al volo? E poi come si chiama la femmina di pegaso? Pegasa?

Odio le questioni lasciate irrisolte dalla scienza (o da qualsiasi altra materia che si occupa di cose simili al sesso dei pegasi).

 

- Ci potreste portare ad Atlanta, vero? - domandai al mio fedele destriero, che rispose con una scrollata di capo, che interpretai con un “Altrimenti che saremmo venuti a fare qui secondo te?”. - Bene, allora. Si parte! -

ANGOLO AUTORE
Buon pomeriggio, lettori di EFP!
Ho da poco finito una relazione di fisica che ha a dir poco minato le mie facoltà mentali, con paradossi temporali, quesiti di fisica quantistica e toeria della relatività, non so quanto potrei ragionare adesso che devo fare latino. :c
Ma HEEEEEY, vediamo i lati positivi del mondo! Scrivere questo capitolo mi ha fatto divertire come pochi altri: sono un fan sfegatato di Marvel e DC nel caso non si fosse capito :D e quindi perchè non mettere un pizzico di fandom nel fandom?
Se non conoscete Deadpool o Shazam, fatevi una cultura.
Buona giornata :3
-Moonknight (altro eroe Marvel, lool.)
 

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Capitolo 15
*** Offre la casa ***


Offre la casa

Una volta in volo, non ci bloccava più nessuno, circa: ci fermammo una sola volta, in una cittadina in Tennessee chiamata Chattanooga, per far riposare i pegasi e sgranchirci le gambe, e nel giro di una mezz’ora, fummo di nuovo in volo. Arrivammo ad Atlanta che era ormai sera, così salutammo i nostri amici e andammo a cenare in una pizzeria vicina al centro della città. Mentre gustavamo affamati la nostra cena, eravamo tutti troppo distratti per parlare. Solo alla fine, dopo aver pagato il conto, ci rendemmo conto che non avevamo la minima idea su dove andare, così chiedemmo a Robert di usare il suo dado e pregare la madre per un buon consiglio, ma non accadde nulla - Questa volta non ci aiuterà, dovremmo cavarcela da soli. Forse, una volta che saremo molto vicini, ci darà qualche segno indicandoci la direzione da seguire, ma non è sicuro. - ci disse. Per decisione unanime ci dirigemmo in un albergo dopo aver comprato diverse cartine e depliant turistici della città che avremmo attentamente studiato appena giunti in camera. Trovammo un piccolo albergo che pareva essere del tipo che cercavamo noi: semplice e non costoso, di quelli che hanno i letti e un bagno nelle stanze, ma i cui addetti non si preoccupano di metterti la mentina sul cuscino o di rimboccarti le lenzuola ogni volta che ti rigiri, né quelli che trovi le cimici nel letto o l’acqua corrente marrone. Non chiedevamo troppo, in fondo, no?
Quando entrammo, ad accoglierci dietro un bancone c’era un omone pelato infilato in una canotta sudicia e dei pantaloni marroni con le bretelle, lasciate penzolanti verso il pavimento, intento a lavorare al computer; quando ci notò ci sorrise calorosamente, nello stesso modo in cui io sorrisi poco prima alla mia pizza, pensai. - Salve! Dei clienti! Come posso essere utile? - ci chiese stringendoci la mano uno ad uno. Quando la strinse a me e notò la cicatrice sul mio braccio, per un attimo sembrò preoccuparsi, ma qualsiasi cosa gli fosse passata per la mente, doveva aver cambiato subito idea, perché tornò istantaneamente alla sua solita espressione “amichevole”. Le sue mani erano grandi e callose, ruvide come carta vetrata e sporche di fuliggine come i vestiti di uno spazzacamino, strano solo per il fatto che eravamo in piena estate. - Vorremmo una camera, per favore. Con tre letti singoli. - chiesi lanciando un’occhiata a Hope che ricambiò con un sorriso imbarazzato nascondendosi il volto nei capelli. - Certo! Fatemi controllare… - disse osservando lo schermo del computer - ecco, sì. Fanno cinque dracme a testa per notte, okay? - Feci per infilarmi la mano in tasca e prendere il portafogli, quando mi bloccai. Dracme? La figura dell’omaccione barcollò un poco, rivelandosi più alto, con un grande ed unico sopracciglio e con un solo occhio al centro della fronte. Tirai indietro i miei amici e sguainai la spada, seguito da Robert e Hope che prese l’arco e mirò all’occhio del mostro. Il ciclope ruggì piegandosi di scatto, schivando una freccia e afferrando la sedia su cui era seduto poco prima, lanciandola contro Hope, ma fui più veloce perché riuscii a colpirla in volo deviandone la traiettoria e mandandola contro un tavolino della zona ristoro, che finì in mille pezzi.
- MEZZOSANGUE! - urlò il mostro lanciandosi verso di noi con le braccia aperte. Per fortuna era alto sì e no due metri, altrimenti sarebbe stato veramente difficile batterlo. Con un perfetto lavoro di squadra io e Robert passammo sotto le braccia del mostro, assestandogli due bei fendenti tra le costole, e girandoci avevamo praticato un’affondo nella schiena del mostro, che cadde in ginocchio e si sbriciolò in polvere, colpito in fronte anche da una freccia di Hope. Fu così che alle medie riuscimmo a battere un bullo, certo, cambiando fendenti e affondi con calci e pugni, ma il risultato era stato quello. Per un attimo mi chiesi se avessi aiutato Rob ad uccidere un mostro, quella volta. - Suppongo che per stasera offrirà la casa. - concluse Bob, prendendo la strada delle scale.


ANGOLO AUTORE
Un capitolo più di passaggio di così, non esiste. 
Perdonatemi, ma dovevo farlo: siamo più o meno verso la fine del racconto, e dalla prossima settimana arriveranno i capitoli con più avventura, suspance, dolore, azione e emozione!
Si spera.
Si ringraziano i gentili lettori, le uscite di emergenza sono davanti, sulla destra e la sinistra e dietro, a destra e a sinistra. Vi auguro un buon volo,
-Moonknight

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Capitolo 16
*** Tra bevande frizzanti e armi di distruzione divina ***


Tra bevande frizzanti e armi di distruzione divina

Passammo la serata a studiare mappe e luoghi di interesse della città, trovando quattro possibili attrazioni dove si sarebbe potuto nascondere il pezzo: l’High Museum of Art, l’Atlanta History Centre, l’area del Centennial Olympic Park e il Georgia Aquarium. Dopo esserci sistemati per la notte e aver preparato il necessario per il giorno dopo andammo a dormire. Certo, quella notte non dormii nel letto con Hope, ma diciamo che prima di coricarci ci eravamo scambiati un… bacio della buonanotte, rigorosamente sulla guancia. Ero comunque felicissimo come una Pasqua, non mi importava di altro.

Passammo l’intera mattinata a setacciare un noiosissimo museo d’arte e uno sulla storia della Georgia senza trovare nulla se non qualche mostro solitario amante della cultura, e dopo un pranzo leggero ci dirigemmo verso il Centennial Olympic Park, dove il dado di Robert cominciò ad emanare calore e ad illuminarsi flebilmente: - Deve essere vicino! - ci aveva detto. Controllammo ogni centimetro del parco, giocando a fuoco fuochino con quel dannato cubo che si illuminava di più o cominciava a spegnersi in base alla direzione che prendevamo, che ci portò verso nord, oltre Baker street in un’altra parte del parco: alla nostra sinistra si estendeva il Georgia Aquarium. - Ci scommetto la cena che si trova lì dentro! - ci urlò Robert mettendo in tasca il dado e cominciando a correre in direzione della struttura.

Diciamo solo che il biglietto sarebbe stato ben speso se fossi stato un turista e non un eroe in missione per salvare il mondo. Non trovammo assolutamente nulla lì dentro, e quando controllammo il dado, notammo che si era totalmente spento.
Quando uscimmo, sconsolati più che mai, notammo altre due costruzioni di fronte a noi: sulla sinistra, un altro noiosissimo museo su non-voglio-nemmeno-sapere-cosa e di fronte a noi il World of Coca-Cola. - DEVE essere in quel museo laggiù. - disse Hope, più stufa di girare a vuoto che speranzosa di essere quasi arrivata a destinazione. - Sì, probabilmente… - continuò Robert con lo stesso tono della ragazza. Io, invece, senza togliere lo sguardo dal World of Coca-Cola di fronte a me, chiesi a Rob di tirare fuori il suo dado e di puntarlo verso i due musei. Entrambi mi guardarono confusi e scorsi nei loro pensieri incasinati cose come “Adesso perché un pezzo di un’arma si dovrebbe trovare in un museo della Coca-Cola? Certo che è proprio bello, ma alcune volte non lo capisco… se azzecca anche stavolta giuro che gli salto addosso. E poi, perché si dovrebbe trovare in quello della Coca-Cola e non della Fanta, o della Pepsi?”. Okay, lo ammetto. I pensieri mi arrivarono così, tutti insieme, quindi non sono ben sicuro di chi fossero, ma sono praticamente certo dell’eterosessualità del mio amico Robert, mentre non sono assolutamente sicuro sul fatto che Hope potesse mettersi a fare battutine stupide tutto di un colpo. Lasciai andare l’argomento quando Bob tirò fuori la sua arma magica puntandola verso le due strutture, prima a sinistra, poi a destra, sinistra e destra, sinistra e destra, spento e acceso, spento e acceso… il dado puntava davvero verso la casa della Coca-Cola! Mi feci scappare una risata mentre gli altri due mi guardavano confusi e Hope sembrava concentrata sul trattenersi dal fare qualcosa di impellente necessità… purtroppo per me fu molto attenta, perché non si mosse di lì. - Chi vuole una Coca? - chiese Robert dirigendosi verso il museo; - Hope ed io ne vorremmo una, magari insieme alla cena che ci devi! - gli gridai dietro, ricordandogli la scommessa persa di poco prima.


ANGOLO AUTORE
Heeeeeeeeey. Buon sabato a tutti, come va? Che state facendo? Tutto bene? Attualmente mi trovo a fare più cose contemporaneamente oltre il pubblicare questo nuovo capitolo, quindi se trovate prodotti notevoli, espressioni algebriche varie o imprecazioni estremamete fantasiose in quello che ho scritto, prendetevela con i miei compiti di matematica e con il fumetto di Deadpool... ah, il mio caro Deadpool.
Comunque, recensite e ditemi un po' che ne pensate, ve se ama
-Moonknight
 

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Capitolo 17
*** Combattiamo con le note degli AC/DC in sottofondo ***


Combattiamo con le note degli AC/DC in sottofondo

Come riconoscemmo la stanza che nascondeva il Pezzo che stavamo cercando? Attenzione, seguitemi bene, perché le mie tecniche investigative potrebbero stupirvi, lasciarvi indietro, o farvi venire il mal di testa come la voce di fine pubblicità di un medicinale per il mal di testa.
Diciamo che incappammo in un’enorme sala con colonne e decorazioni greche che non poteva fisicamente stare all’interno del museo, con al centro una statua di una bottiglia di Coca-Cola in marmo bianco alta dieci metri e col tappo palesemente d’oro, circondata da una trentina di uomini vestiti totalmente di nero e protetta da… beh, sì, insomma… un idra a 15 teste. Tutto normale, no? Non so se certe capacità deduttive fossero più da figlio di Tyche o Dioniso, ma dico solo che Robert, nonostante l’idra, sembrò non afferrare al primo colpo l’idea che fossimo arrivati.
Eravamo dietro il muro accanto alla porta che permetteva l’ingresso della sala, indecisi sul da farsi: insomma, avevamo l’obbiettivo, i nemici, un campo da battaglia… era stano non essere attaccati e non dover eliminare gli avversari che cercavano di ucciderti: per una volta, dovevamo essere noi a scendere in capo e sconfiggere il nemico. E allora, perché non farlo in grande stile? Girammo l’angolo con le armi sguainate, io che facevo roteare le mie spade di energia pura, dietro di me uno spilungone armato di una spada di bronzo celeste e una bellissima bionda che aveva già incoccato una freccia nell’arco. Probabilmente mi prenderete in giro, ma mi sembrava di sentire le note iniziali di Back in Black degli AC/DC in sottofondo e mi venne subito in mente Ares con uno stereo a mille a godersi il combattimento dall’alto dell’Olimpo. Il ragionamento filava.

Davanti a noi gli uomini vestiti di nero cambiarono: indossavano delle armature in stile greco lucenti e avevano in mano delle spade dai riflessi argentati, mentre il loro corpo e il loro volto diventavano bui come la notte.

- All’idra ci penso io! - urlai lanciandomi in combattimento disarmando ed eliminando quei pochi servi della notte che si mettevano di fronte al mio cammino: schiva, rotea, devia e affonda, mi ripetevo. La musica cambiò, letteralmente: ora sentivo Thunderstruck (“Fulminato”, ovviamente) nelle orecchie. Ares doveva divertirsi proprio tanto per mettersi a fare giochi di parole con la mia vita e gli AC/DC. Mentre mi lanciavo nell’attacco rivedevo tutto quello che sapevo sull’idra: tagliando una testa senza dare fuoco al moncone ne ricrescevano altre due, c’è una testa immortale e, tagliata quella, il mostro dovrebbe svanire. Oh, giusto. Ogni testa spara un potentissimo acido in grado di bruciare le carni. Ottimo. Mentre mi avvicinavo al mostro sorrisi. Ero finalmente in grado di usare uno dei gadget che le mie lame riservavano: mentre correvo le due spade presero fuoco, e a quella vista l’idra fece un passo indietro, spaventato; mi alzai in volo, raggiungendo l’altezza delle teste che cominciarono ad attaccarmi, senza sosta, senza tregua, con morsi, testate e sputi acidi, che riuscii ad evitare agilmente mozzando tutti i capi serpentini che mi arrivavano addosso.
Nel giro di cinque minuti di combattimento avevo tagliato sette teste, aumentando ogni volta l’intensità del calore delle mie spade per abbrustolire le gole monche e bloccare la crescita di nuovi nemici, poi, durante un affondo, volsi lo sguardo verso i miei amici, messi alle strette da una manciata di soldati-ombra: Hope aveva la faretra vuota, e il suo arco era ritornato ad essere il solito bracciale di cuoio di sempre, mentre teneva in mano un pugnale a cui non era abituata; Robert accanto a lei, la spada stretta nella mano fino a sbiancare le nocche, a gettarsi in degli ultimi disperati attacchi. I miei amici avevano bisogno di aiuto! Mi girai, troppo tardi per poter schivare una palla di acido che mi volava dritta verso la faccia, e me la ritrovai subito negli occhi. Ero più resistente di un mortale, forse anche più di un semidio, ma sentivo comunque il mio volto bruciare e percepivo un intensissimo dolore. Caddi in ginocchio, le spade accanto a me: ero cieco. Non potevo vedere la mia faccia in quel momento, ma ne avevo una vaga idea: lembi di pelle accavallati come bende, acido che colava dalle pieghe del mio viso. Non sapevo se ero in grado di aprire gli occhi, ogni mio movimento o espressione bruciava, faceva male. Con ogni probabilità i miei occhi sarebbero risultati vitrei, come biglie lasciate all’esterno, sotto le peggiori intemperie per mesi, anni, colorati di un bianco sporco che avrebbe potuto incutere terrore.
Mi immaginavo un po’ come la parte sfigurata di Harvey Dent, il cattivo di Batman, alias Due Facce. Mi venne in mente, quasi per caso, la frase che lo contraddistingue come un marchio impresso a fuoco: “O muori da eroe, o vivi tanto a lungo da diventare il cattivo”. No, non sarei morto, non qui, non ora, e soprattutto non avrei cambiato partito, schierandomi col nemico e combattendo contro i miei stessi amici… Non vedevo più nulla intorno a me, ma dovevo aiutarli.

Feci come la prima volta che scoprii i miei poteri (no, non quando sradicai la porta della mia camera) creando una mappa con ogni suono e ogni pensiero intorno a me: ogni sospiro, ogni verso, ogni parola sviluppava nuove parti di questa mappa che andava oltre il 3D, oltre ogni dimensione. Mi alzai in piedi, sentendo il cuore del mostro di fronte a me battere più forte, confuso e spaventato. Il cuore, non i cuori. Ce n’era uno solo, nella testa immortale. Individuarla non fu difficile, era la penultima da sinistra. Lanciai una spada in direzione dei miei amici senza voltarmi, trapassando elmo e cranio di un guerriero-ombra e conficcando l’arma nel muro accanto a Hope. Lei recepì il messaggio, e brandendola si sentì subito più sicura. Sentii i nostri tre cuori battere all’unisono, sospinti da emozioni pure e potenti: il coraggio, la forza, la speranza.
Armati di nuova energia ci battemmo tutti e tre andando all’attacco, loro decimando ad ogni colpo i guerrieri, io, con una spada, fendendo ogni testa che mi attaccava, dirigendomi lentamente verso quella immortale, che mi fissava stando in disparte. L’idra non aveva possibilità, percepivo ogni impulso nervoso partire dai cervelli e attraversare i nervi per arrivare ai muscoli e preparare l’attacco, sapevo le sue azioni prima che agisse. Tempo due minuti ed eravamo solo io e lei, l’ultima testa: quella sputò una seconda palla di acido che deviai con decisione con la spada mandandola verso il corpo del mostro, e con un colpo deciso tagliai il collo all’idra. Sentii la bestia distruggersi in tantissime particelle e percepii la testa cadere a terra con un suono sordo e venire assorbita dal suolo come con delle sabbie mobili, come era accaduto anticamente con Ercole. Mi diressi in volo verso l’ultimo pezzo: svitando il tappo questo si trasformò in un anello di tralci (probabilmente d’oro, difficile riconoscere i colori da cieco) con al centro una semisfera che doveva rappresentare dei viticci cosparsi di catrame, il miglior modo per costruire una torcia all’epoca, mentre notai che non c’era un nuovo tappo al posto del vecchio. Forse non serviva, in fondo una Coca-Cola è sempre una Coca-Cola anche senza un tappo, oppure perché quella stanza era semplicemente off-limits per ogni mortale e nessuno se ne sarebbe accorto.
Tirai fuori dal mio zaino gli altri due pezzi, e non appena li appoggiai al suolo essi si librarono in aria, e roteando si fusero, formando la Torcia, un cono alto sì e no una quarantina di centimetri, completamente d’oro. Robert e Hope mi raggiunsero, come la mia spada che si assicurò al mio fianco, e quando videro il mio volto sfigurato sentii i loro cuori perdere un battito. Senza scompormi afferrai con decisione la Fiaccola che ancora galleggiava nell’aria come se fosse senza peso: probabilmente avrei preso fuoco, sai, situazioni dèi-mortali che dovrebbero impedire a delle persone a caso di impadronirsi di un’arma divina, ma non lo feci, quasi. Impugnandola sentii una piccola fiammella nascere sulla punta della fiaccola, diventare sempre più grande: il suo calore era dolce come quello del sole nei primi giorni d’estate, o del camino a Natale. Ripeto, ERA.


ANGOLO AUTORE
Ta-daaaah! Non avete la minima idea di quanto io mi sia divertito a scrivere questo capitolo, uno fondamentale nella storia, ormai quasi finita. Eh, già, solo altri due capitoli e questa fanfiction avrà fine.
Non ho altro da dire, torno ad algebra e a Deadpool *-*.
-Moonknight

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Capitolo 18
*** Per l’amor di Zeus, qualcuno che mi spiega che succede? ***


Per l’amor di Zeus, qualcuno che mi spiega che succede?

La piccola fiammella che ardeva alla punta della torcia si espanse in un attimo, raggiungendomi la mano, scalando la mia cicatrice e incendiandomi tutto il corpo, e mi sentii come quando fui colpito dal fulmine, se non peggio: ogni mio muscolo era in tensione, sentivo i tagli sulla mia pelle e su quelle dei miei amici rimarginarsi e cicatrizzare, ogni cellula del nostro corpo ricaricarsi di nuova energia, la mia faccia guarire, la mia vista tornare. Dopo il dolore iniziale mi sentii bene come se l’impresa non fosse mai iniziata, come se fosse tutto normale. Il calore riportò alla luce bei ricordi lontani: mia madre che per mandarmi a dormire mi raccontava del “mito” di Odisseo e Polifemo per la millesima volta, le serate con i miei migliori amici a ridere, scherzare e giocare ai mimi di film impossibili e sconosciuti come se non ci fosse un domani, il quasi-bacio con Hope, poco tempo prima. Quando la fiamma tornò a dimensioni normali, mi ritrovai con la Torcia nella mano destra, potente più che mai: guardando i miei amici mi accorsi che i nostri vestiti, tremendamente rovinati da giorni di combattimento, erano come nuovi e freschi di bucato, mentre mi sembrava di sentire un vago odore di mora e muschio nell’aria. Sbaglio o erano i miei capelli?
Quando Hope mi vide, tornato bello e sexy come prima mi saltò addosso, cingendomi in un tenero abbraccio  e affondando la testa nel mio petto, cercando di trattenere i singhiozzi. Mi risposi automaticamente a due domande: non erano i miei capelli a profumare in quel modo, ma i nostri, e Hope provava qualcosa per me.
Quando si staccò, presi un cilindro dalla mia cintura, donandoglielo: le si illuminarono gli occhi mentre questo prendeva il suo posto atterrando al suo fianco. Allungai la mano nello zaino che portavo sulle spalle, tirando fuori un terzo cilindro costruito per le emergenze e lanciandolo verso Robert: - Come potevo lasciarti senza regalo, eh? - Ridemmo di gusto mente anche la sua arma prendeva posto alla sua cintura. 

La fiamma della torcia non bruciava anche se ci mettevi la mano sopra, ed era un bene dato che ce l’avevo praticamente incollata alla mano destra e che sarebbe stato piuttosto sconveniente prendere fuoco durante il combattimento finale. A quel pensiero la fiamma cominciò a mandare immagini provenienti da un luogo ben preciso, che conoscevamo bene: il Campo era in guerra.

Per una volta, mi sentii in grado di fare qualcosa di estremamente straordinario senza dover necessariamente svenire. Allungai la mano verso i miei amici, esortandoli a coprirla con le loro. C’erano così tante cose che sarebbero potute andare male e per cui non si sarebbero mai dovuti fidare dei miei poteri in quel momento, ma a quanto pare li avevo convinti: prima Hope, poi Robert appoggiarono la loro mano sulla mia. - Si scende in battaglia, ragazzi. Siete i migliori eroi con cui avrei mai potuto combattere. Abbiamo la Torcia, vinceremo. -

Ci teletrasportammo una decina di metri sopra al campo di battaglia, atterrando con un sonoro tonfo e una potentissima onda d’urto che silenziò i rumori della battaglia intorno a noi. Ci rialzammo senza un graffio, potenti come mai prima d'ora, e io stesi il mio braccio con la torcia in direzione di una nera figura quasi mimetizzata nel cielo scuro: alle redini di un enorme carro nero intarsiato e finemente decorato trainato da quattro stalloni dello stesso colore, grandi come carri armati, imbrigliati con la luce delle stelle, c’era Nyx in persona, dea della Notte, pallidissima in quel suo vestito scuro come il cielo sopra di noi e seria in viso. Mi fissò con aria di superbia e scoppiò in un'acuta e arrogante risata, una risata che ruppe il silenzio che aleggiava sul campo: semidei, centinaia di semidei, e uomini-ombra, migliaia di uomini-ombra, avevano interrotto i loro combattimenti per osservare la dea deridere un trio di eroi armati della Torcia che l’avrebbe dovuta eliminare.
- Ma non dovrebbe averla già relegata nel Tartaro? - chiese con voce tremante Robert alle mie spalle, indicando la Fiaccola. Un’ondata di pensieri partì dalla fiamma, riempiendomi il cervello con ricordi e visioni: vidi dei ciclopi lavorare attentamente alla Torcia, e i poteri di Emera e Etere confluirne all’interno, il piano scoperto dalla dea della Notte che, non potendo distruggere l’arma, la divise in tre parti, nascondendole nel mondo. - A quanto pare, la Torcia la dola non può fare nulla da sola... è solo un mezzo. - dissi a denti stretti.
Mi alzai in volo, lento, dirigendomi verso il carro della dea, la quale continuava a sogghignare mentre mi avvicinavo.
La torcia nella mia mano cambiò forma, trasformandosi in una bellissima spada che brillava di luce propria: un metro di luce pura di lama a doppio taglio, una xiphos a forma di foglia, così affilata da poter tagliare un capello per la sua lunghezza; sul piatto c’era un’incisione di un sole stilizzato, e sopra, la scritta
“luce” leggibile in ogni lingua del mondo: greco antico, latino, inglese, spagnolo, francese, italiano, russo… il significato era profondo e diceva che la luce che abbraccia la terra è unica, una sola per tutti, e che gli uomini devono solo imparare ad apprezzarla (poetico anche fino all'ultimo secondo, eh). Di fronte a me, Nyx cambiò espressione, sfoggiando il suo migliore volto serio, deciso, carico di rabbia: il suo carro si disintegrò in una polvere nera, e accanto alla mano della dea il buio si increspò, prendendo la forma di una sciabola di un metro e mezzo, leggermente incurvata con la lama tagliente solo da un lato, ma non per questo meno pericolosa; al manico pendeva una cordicella rossa, come ad un’arma orientale, mentre la lama era più nera del ferro dello Stige, tanto buia da sembrare un buco nero, gocciolante di un liquido scuro velenoso come pochi altri.

Quando vi dico che sentivo ancora gli AC/DC avevo ragione, perché anche gli altri semidei, gli uomini-ombra e Nyx vennero presi un po’ alla sprovvista quando un leggero assolo di chitarra partì in sottofondo, proveniente dall’alto: a quanto pare Ares si stava veramente divertendo.

Quando mi lanciai all’attacco e le nostre lame si incontrarono, un clangore metallico si diffuse per tutto il campo, seguito da urla e altri suoni provenienti dal basso: la guerra era ricominciata.
Io e la dea ci fronteggiavamo con fendenti, affondi e finte riuscendo ogni volta a ferirci superficialmente, ognuno incapace di colpire bene l’altro per mandarlo al tappeto: la cicatrice sul mio braccio riluceva, come se la mia pelle, in quel punto resa più sottile, fosse un guscio per trattenere una grande energia; il sangue saturo di veleno che sgorgava dai miei tagli ribolliva nero come la notte, impregnandomi la maglietta e sembrandomi ogni secondo più pesante da sostenere, mentre le ferite sul volto e sul corpo di Nyx mandavano un bagliore dorato, più lucente del solito icore, che sembrava bruciarle la pelle ogni volta che colava. Intorno a noi, il cielo si faceva sempre più scuro, sempre più buio, e mentre la dea sembrava giovarne, io mi sentivo sempre più stanco ed impotente di fronte al suo potere. Tentai un fendente verso la sua spalla, ma Nyx riuscì agilmente a bloccarlo e, tirandomi a sé, sguainò un kriss, un affilatissimo e ondulato coltello arabo e me lo piantò nella spalla sinistra: un enorme dolore mi esplose lì dove ero stato appena colpito e sentivo già il veleno che andava in circolo. Non sapevo da quanto stavamo combattendo, ma ero certo di una cosa: stavo perdendo.

Sulla terra la guerra non stava andando tanto bene per tutti gli altri semidei: si distinguevano i figli di Ares che caricavano in battaglia come delle furie con spade e lance, abbattendo decine di nemici alla volta; la parte della casa di Apollo che non era occupata a curare i feriti era sostenuta da quelle che individuai come Cacciatrici, tutti appollaiati sui tetti delle varie case, sugli alberi, sui punti più alti delle colline, abbattendo ad ogni freccia scoccata un numero non ben definito di nemici, che si sgretolavano in polvere come cenere; la cabina di Atena era smistata tra la prima linea e la tenda di comando; quelle di Ecate e Tyche che collaboravano con magia e fortuna; nella mischia rividi anche Percy e Annabeth, sostenuti da un ragazzo sui quattordici anni, vestito di nero e un’aura scura e potente; i nemici erano ancora troppi, però, e i loro rimasugli sembravano sgusciare lentamente verso gli angoli all’ombra delle loro linee per riformarsi.

Dei furgoni neri parcheggiarono quasi in sgommata all’ingresso della Collina Mezzosangue e da questi uscirono decine, centinaia di ragazzi in tenuta militare, armati fino ai denti con scudi, pilum e gladius. I Romani erano arrivati. Tempo dieci secondi e l’intero esercito si era sistemato a falange, e avanzava con le lance dritte verso gli avversari, con a capo cinque ragazzi che sembravano più a loro agio degli altri qui al Campo: uno biondo con una leggera cicatrice sul labbro stava letteralmente volando in battaglia; alla sua sinistra una bellissima ragazza dai tratti nativo-americani dava ordini e consigli all’esercito, che la seguiva come se incantato; al centro dei cinque una ragazza dal volto serio e con una coda di cavallo infondeva coraggio ai compagni; una ragazza dalla pelle scura e i capelli ricci a cavallo di uno stupendo stallone stava invece evocando dal terreno pietre e gemme, lanciandole contro più nemici possibile; il ragazzo alla sua sinistra si era invece appena trasformato in un leone ed era saltato sugli avversari più vicini facendoli istantaneamente a brandelli. Secondo me (se fossimo sopravvissuti) saremmo potuti diventare amici.

Sentendo le mie difficoltà, la lama mi diede tutta la sua fiducia, e una nuova scarica di energia mi attraversò il corpo, curando il mio sangue e instillandomi il coraggio di cui avevo bisogno, ricoprendomi di un’aura luminosa. Delle parole mi passarono per la mente, suggerite dalla spada, e le ripetei, conscio del fatto che sarebbero servite per il mio scopo: - In nome della luce, del giorno, della speranza… io ti relego nelle profondità del Tartaro, regina della Notte e serva del Male. - Mi lanciai in un ultimo attacco che venne parato con il piatto della sciabola; ruotando tentai un fendente verso il collo della dea, anche questo parato con maestria. Seguì un contrattacco dell’avversario, che con un calcio mi mandò metri indietro, ma con un ultimo scatto riuscii a infliggere un rapido affondo nello stomaco della divinità: le ferite sul suo corpo brillarono come il magma che ricopre il sole e i suoi occhi, fissi nella mia direzione e colmi di rabbia e stupore divennero come fari, inondando il mondo di luce, di nuovo, dopo tanto tempo. Dopo di che, la dea sparì insieme ai suoi guerrieri-ombra.

Atterrai al suolo, mettendomi in ginocchio per riprendere fiato, nel silenzio più assoluto. Alzai la spada al cielo, che stava lentamente ritornando alla sua forma di torcia e lanciai un grido, subito seguito da centinaia di semidei, Greci e Romani insieme. Avevamo vinto, la guerra era finita. Mi accasciai a terra, a pancia in sù, a osservare il cielo azzurro sopra di me come se fosse la prima volta, sorridendo.


ANGOLO AUTORE
Sigh, quasi mi viene da piangere. Questo è il penultimo capitolo, gentee. Non sapete quanto mi sono divertito a descrivere i combattimenti, sono felicio. c:
A tra poco per i festeggiamenti,
-MoonKnight

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Capitolo 19
*** Festeggiamenti in grande stile ***


 Festeggiamenti in grande stile

Non rimasi molto tempo lì sdraiato, perché tempo due minuti e i miei amici Hope e Robert erano passati a prendermi per portarmi in infermeria e farmi riprendere le forze, aiutandomi a camminare appoggiandomi alle loro spalle. Mi stupii per quanto vuoto fosse quell’angolo del campo: appena una ventina di letti erano occupati, e i semidei lì sdraiati non sembravano nemmeno gravemente feriti. La guerra era veramente andata bene. Mentre mandavo giù un po’ di ambrosia e nettare dallo stesso sapore dei biscotti alla Nutella che faceva la mamma quando ero piccolo, due ragazzi in armatura mi raggiunsero correndo, con gli elmi sotto braccio. Mi metteva sempre di buon umore vedere quella coppia affiatata come poche, e in versione “combattimento mortale” con i vestiti strappati e qualche ferita superficiale, devo dire che facevano un certo effetto. Mi chiesi se anche io avessi un aspetto simile, al momento. Percy mi strinse la mano, congratulandosi per l’ottimo lavoro, poi diede il cinque a Rob e Hope, Annabeth invece ci abbracciò uno ad uno, e quando arrivò alla ragazza le bisbigliò qualcosa all’orecchio con fare complice che la fece arrossire di colpo, mentre Percy mi tirava delle gomitate tra le costole con una faccia simile a quella di uno stupratore seriale che credo volesse dire qualcosa come “provaci stasera, imbecille”.

Fu così che sparii dal campo per un paio d’ore, giusto il tempo per avvisare i miei che ero ancora vivo, raccontare loro tutte le mie avventure, convincerli del fatto che non fossi impazzito di colpo e chiedere a mia madre come fare per conquistare una ragazza in tempo record.
Quella sera, prima che tutti i semidei Greci e Romani potessero avviarsi verso il padiglione della mensa, pregai Afrodite per uno dei suoi miracoli, e quando vidi uscire Hope dalla sua cabina, la raggiunsi a grandi passi, prendendola per un braccio e tirandola verso la spiaggia. - Ma la mensa è là! - diceva tra una risata e l’altra indicando verso il padiglione. - Non la nostra, bellezza. - le dissi un’ultima volta prima di arrivare sulla costa. Il vento leggero increspava il bordo di una tovaglia elegantemente ricamata posizionata su un tavolino che affondava le sue gambe nella sabbia. Al centro del tavolo un lume rischiarava la serata, facendo brillare i calici di cristallo, le posate e i piatti di ceramica alla luce della luna. Chiusi gli occhi, li riaprii e vidi il miracolo di Afrodite che tanto speravo: ero elegantemente vestito con una camicia bianca, dei pantaloni ed una giacca neri, ma vedere Hope mi fece perdere la testa; indossava un bellissimo vestito senza spalline di un colore candido che rifletteva la luce della luna, i capelli sciolti le ricadevano in dolci boccoli sulle spalle, il volto leggermente truccato. Mi lasciai scappare un fischio di approvazione mentre spostavo la sedia da bravo gentiluomo quale sono per farla sedere, e lei sorrise divertita ed imbarazzata. La cena andò perfettamente, e tra una risata e l’altra mangiammo benissimo, bruciando parte della nostra cena in un braciere poco distante, e alla fine, seduti sulla sabbia e con i piedi bagnati dall’acqua del mare, ci scambiammo il nostro primo vero bacio. Indimenticabile.

Quando uscimmo dalla radura, i nostri vestiti tornarono quelli di prima (tanto per evitare le occhiatacce da parte dei campeggiatori e gli sguardi dei figli di Afrodite) e ci dirigemmo, mano nella mano, al falò, dove avremmo potuto raccontare le nostre avventure. Le espressioni sui volti dei semidei erano impagabili mentre raccontavamo ogni esperienza e pericolo del viaggio e notai con piacere che Robert lanciava spesso lo sguardo in direzione di una certa figlia di Ecate, Skyler, che rispondeva ogni volta con timidi sorrisi. Diedi una pacca sulla spalla al mio amico, congratulandomi per la scelta, mentre ricevevo un leggero pugno dalla mia ragazza e scoppiavamo tutti a ridere; in lontananza, sopra la porta della Casa Grande, la Torcia rischiarava la notte.


ANGOLO AUTORE
:')
Ve se ama,
-MoonKnight
 

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