Non brucia solo la pelle

di Dark_Water
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12 ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13 ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


cap.1

Capitolo 1

 

 

 

Si svegliò col lento ticchettio dell’orologio poggiato sul comodino accanto al letto, restando semplicemente immobile mentre gli ultimi residui del sonno scivolavano via dal suo corpo ridandogli un pigro controllo sulle sue membra intorpidite.

John si alzò dal letto scostando elegantemente le lenzuola, portandosi le mani al volto e lasciandole scivolare verso la testa, su nei capelli tirando indietro il suo ciuffo ribelle che, durante la notte, aveva deciso deliberatamente di coprirgli metà faccia; si diresse alla finestra per scostare con un delicato ma rapido gesto lo spesso drappo di velluto blu che fungeva da oscurante per la notte e lasciandosi irradiare completamente dal sole del mattino che si alzava allegro tra i palazzi del circondario. John sospirò,lasciandosi scappare un profondo sbadiglio prima di aprire la finestra e dirigersi verso il bagno.

 

Quando uscì dalla camera da letto fu accolto da un leggero tintinnio di stoviglie con in sottofondo il chiacchiericcio delicato di due voci allegre e familiari. Il tutto accompagnato da un’epifania di profumi che avevano fatto lamentare il suo stomaco vuoto in modo decisamente troppo poco elegante non appena gli avevano inebriato le narici. Bacon, uova strapazzate e sicuramente pan cake alla crema pasticcera. Il suo preferito.

Scese le scale, raggiungendo il soggiorno al pian terreno ed attraversandolo senza fare caso alle valigie ancora adagiate all’ingresso; una era aperta, con alcuni capi d’abbigliamento femminile che disordinatamente si sporgevano verso il pavimento senza cura alcuna di toccarlo ed un tubetto di dentifricio posato in cima a fermarne una eventuale caduta.

Raggiunse la cucina senza fretta, con un sorriso allegro sulle labbra che si allargò quando il suo sguardo si fermò sulla coppia seduta al tavolo intenta a fare colazione e ridere di chissà cosa.

“Buongiorno. La camera era di vostro gradimento, Signori Pond?”

La coppia si voltò verso di lui accogliendolo con un sorriso radioso, o almeno era quello che si disegnava sul volto di porcellana della donna dai lunghi capelli rossi. Sul volto dell’uomo biondo, sulle cui ginocchia era seduta lei, si formò un sorriso di scherno mentre lasciava ricadere il cucchiaio nella scodella di cereali con cui era intento a fare colazione e rispondeva:

“Williams. Signori Williams.”

La donna morse una fetta di pancake, lasciandosi scappare un risolino divertito mentre alternava lo sguardo tra i due, facendo accentuare il fastidio del marito.

“No. Pond. Assolutamente Pond. Amy e Rory Pond.”

Rispose John, sedendosi al tavolo e servendosi la colazione che, sicuramente, era stata Amy a preparare.

Rory sospirò, rassegnato al fatto che a portare i pantaloni in famiglia, per John, non sarebbe mai stato lui ma sua moglie.

“Sono felice che siate qui. Mi siete mancati.”

Le parole di John arrivarono rapide e sincere tra un morso ad una fetta di bacon ed un boccone di uova strapazzate. Ma se anche dette a bocca piena quasi distrattamente, avevano riempito di gioia i cuori dei suoi due amici.

“Però dillo con una faccia più allegra, brontolone. Ecco cosa ti succede a stare troppo tempo da solo, senza di noi. Diventi triste e noioso!”

John sorrise, mentre Rory ingoiava un cucchiaio di cerali e poi continuava.

“Anche tu ci sei mancato. Ci voleva una rimpatriata dopo tutto questo tempo. Manca solo….”

Rory si interruppe forse troppo tardi, lasciandosi sfuggire un pensiero che come un alito gelido di vento si era insinuato tra loro spaccando l’equilibrio che avevano avuto fino a quel momento.

Nei millesimi di secondo immediatamente successivi, Rory si ritrovò un gomito della moglie piantato nel fianco, John invece con la mano ferma a mezz’aria, attraversata da un fremito che si diradò anche attraverso la forchetta che stringeva tra le dita lasciando cadere da essa un piccolo pezzo di bacon sul tavolo. La bocca che si chiuse lentamente senza toccare cibo.

Negli apparentemente interminabili attimi di silenzio che seguirono sembrava che il mondo fosse rimasto sospeso, congelato in un solo momento senza tempo.

“John…”

La voce di Amy era come un eco lontano.

“John…”

Rory restava immobile. La mano di John lentamente discese verso il piatto, lasciando ricadere la forchetta.

“Amy…no.” Fu l’unica sottile ed incorporea parola che gli uscì dalle labbra improvvisamente inaridite, un semplice sussurro.

“Sono passati due anni…”

“Per favore…” Una richiesta semplice e disperata da parte di John.

“Amy… lascia stare.”

“No Rory!” La donna insistette, piegandosi con la schiena in avanti a sporgersi sul tavolo, in direzione dell’uomo seduto all’altro capo. “John… una telefonata. Sono passati due anni, per l’amor di Dio! Dovresti parlarle. Ed anche..”

“Amy. No. Basta.”

Un colpo secco sul tavolo. Il pugno chiuso e tremante. Era bastato a chiudere lì la conversazione.

 

Al ritorno dal lavoro, quella sera, John aveva trovato la casa ancora vuota. Un messaggio in segreteria lasciato da Amy lo avvisava che sarebbero rientrati più tardi del previsto perché la presa in carico del suo nuovo lavoro aveva richiesto più tempo del previsto e Rory l’avrebbe aspettata per rientrare insieme.

John aprì il frigo, cercandovi dentro chissà cosa e richiudendolo pochi istanti dopo senza aver preso nulla dal suo interno. Raggiunse il soggiorno, aprendo la sua ventiquattro ore per tirarne fuori alcuni documenti. Sprofondò sul divano dando uno sguardo distratto al progetto su cui stava lavorando già in ufficio prima di lanciare il fascicolo sul tavolino di fronte.

L’orologio segnava le 19:00, lo sguardo di John si fermò sul telefono mentre si portava una mano al viso contratto in un’espressione meditativa. Lasciò scivolare la mano fino al mento poggiando il gomito sul ginocchio. Sospirò pesantemente mentre il pensiero che Amy a colazione forse aveva ragione gli si insinuava nelle sinapsi.

Pochi istanti dopo, si era allungato verso il cordless e le sue dita digitavano un numero che mai aveva dimenticato, mai avrebbe potuto neanche volendo e, Cristo! Quanto aveva desiderato farlo!

Oltre il ricevitore sentì squillare a vuoto due, tre, quattro volte prima che una voce rispondesse.

“Pronto?”

Il suo cuore si fermò per un attimo, riprendendo poi a battere all’impazzata e facendogli male in un modo disumano. Il torpore in cui aveva vissuto gli ultimi due anni si stava dileguando, bruciandogli le carni dall’interno del petto ed espandendosi disperatamente in tutto il corpo. Pensava di aver superato il trauma. Ma in un solo attimo la fortezza di kevlar che si era creato attorno negli ultimi due anni era caduta su se stessa come fosse stato un castello di carte, la sicurezza che lo caratterizzava da sempre e che in questo lasso di tempo pensava di aver potenziato esponenzialmente si era infranta come un bicchiere di cristallo caduto al suolo.

Quella voce allegra. Cristo quanto gli era mancata!

“Clara..? Clara Oswald?”

La voce incerta, nelle sue orecchie non gli sembrava nemmeno gli appartenesse.

“Si. Sono io… Chi… parla?”

Per un attimo ebbe la sensazione che anche la persona dall’altro lato del telefono sembrasse incerta, un brivido gli attraversò la schiena credendo di avvertire chissà quale recondita emozione che, ondeggiante, si insinuava tra loro. O forse solo si illudeva di… chissà cosa!

“John…John Smith… hemm… sono…”

Clara lo interruppe:

“Ho riconosciuto il numero sul display.”

Ecco perché l’esitazione nella voce di lei che aveva avvertito all’inizio. Chissà cosa aveva pensato vedendolo, se aveva in dubbio di rispondere oppure no. Il cuore gli martellava nelle orecchie, pompando forse troppo sangue al cervello e rendendogli difficile formare pensieri coerenti ed altrettanto difficili da rendere quindi in parole.

“Eleven.”

John tacque, col respiro mozzato al sentire quel soprannome. Era il suo soprannome, quello che Clara usava per chiamarlo. Avvertì il sorriso di Clara in quell’unica parola anche se non poteva realmente vederlo. Lo sentiva nella voce. E tanto bastò a far rilassare in un sorriso anche le sue, di labbra.

 

 

Alcuni  anni  prima…

 

 

Clara Oswald si era fermata ad osservare il giardino innevato che le si mostrava davanti, portandosi la mano sinistra al mento e poggiando il gomito dello stesso braccio sul dorso della mano destra.

Strinse il labbro inferiore tra i denti mentre piegava il polso sinistro in avanti e rileggeva il foglietto che stringeva tra indice e pollice e sul quale vi erano alcune annotazioni.

Non vi era un cancello né reticolati a circondare la proprietà, ma la casa indipendente che le si mostrava davanti sembrava essere proprio quella descritta sula nota. L’indirizzo era sicuramente esatto, non poteva sbagliarsi. Ignorando la neve ed  il freddo pungente, aveva girato un po’ per il quartiere prima di rifermarsi nuovamente davanti alla stessa abitazione, sicura ormai che fosse quella giusta. A suggerirglielo, in particolare, erano quelle due statue di Angeli poste l’una di fronte all’altra ai lati del porticato in modo speculare: le ali ripiegate in posizione di riposo dietro la schiena dritta, la testa piegata leggermente in avanti a nascondere il viso tra le mani, quasi stessero piangendo, nascondendosi i volti l’un l’altro.

Non sapeva dire se quel particolare fosse semplicemente elegante e poetico o estremamente depressivo. Si fece coraggio, però, attraversando il piccolo viottolo, passando poi tra i due angeli col fiato sospeso e raggiungendo la porta. Lesse il nome sulla targhetta dorata posta sul fronte porta, riguardando nuovamente il foglietto che la sua compagna le aveva dato.

Dott. J. Smith

Si. Era la casa giusta.

 

**

 

“Ancora non ho capito perché siete a casa mia…si può spegnere questo stereo?”

John era seduto sul divano, con il tavolino cosparso di appunti e diagrammi ed un libro di Fisica.

Il fuoco del camino si irradiava verso di lui scaldandogli dolcemente la pelle. Il caldo lo aveva costretto a tenere addosso solo i pantaloni della tuta. Il sottofondo musicale appena percettibile di Mozart.

“In realtà, l’unica cosa anomala in tutto questo sei tu. E no. Il sottofondo musicale è rilassante!”

Amy si affacciò dalla cucina, con una fetta di pane tostato nella mano sinistra ed un coltello sulla cui punta sembrava esserci residuo di burro e marmellata nella mano destra.

“Perché? Cos’ho di strano?”

Rispose John, togliendo lo sguardo da un esercizio incentrato sui campi gravitazionali e passandoselo addosso distrattamente.

Rory era seduto sulla poltrona, un po’ più vicino al camino, con una coperta in pile a coprirgli le gambe ed un libro di anatomia umana in grembo:

“John. E’ metà Gennaio, fuori ci sono tre metri di neve e tu indossi solo i pantaloni della tuta.”

“Bè, è fuori che fa freddo. Dentro casa no!”

Rory sospirò, tornando a concentrarsi sui suoi studi ed ignorando il broncio infantile che John aveva messo sul viso in quel momento.

Erano cresciuti insieme, loro tre. Pochi anni di differenza avevano tra loro, John era il più grande ma avevano vissuto gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza sempre insieme come fratelli. Anche quando tra Rory ed Amy le cose si fecero più profonde, il loro rapporto non sembrava averne risentito anzi. Amy e Rory erano la sua famiglia. Fu questo a spingerlo, in età adulta e pronti per il college, ad offrirgli ospitalità a casa sua. Avevano accettato solo con l’intesa che avrebbero diviso le spese di casa e pagato una quota mensile a solo scopo figurativo, ma alla fine John li aveva convinti semplicemente a contribuire per le bollette e viveri di varia natura. In pratica, condividevano tutto.

“Darò in affitto la vostra camera se continuate a disturbare i miei studi. Mozart potrebbe passare, ma il profumo di pane tostato e marmellata… questo è un attentato alla mia concentrazione ed al mio impegno studentesco!”

Amy si lasciò scappare una risata dalla cucina mentre Rory chiudeva il libro e si alzava sospirando. Lanciò uno sguardo a John facendogli poi cenno con la testa di andare in cucina quando i loro sguardi si incrociarono. John sorrise e si alzò accennando un si con la testa.

“Ah. A proposito di affitto…” Si lasciò sfuggire poi Amy. “Mi ero dimenticata di avvertirvi… visto che c’e una camera libera… ho trovato un nuovo coinquilino.”

Mentre Rory si sedeva al tavolo e rubava una fetta di pane tostato dal piatto di Amy, John si fermò sulla soglia con uno sguardo confuso fisso sulla ragazza.

“Cosa? Non abbiamo bisogno di un coinquilino.”

“Oh, andiamo John! Le spese di casa aumentano e nessuno di noi ha un lavoro. Approfittiamo già della tua ospitalità risparmiando sull’affitto, ma non possiamo chiedere sempre soldi ai nostri genitori o… dipendere da te.”

Amy era seria questa volta, con lo sguardo corrucciato mentre spalmava del burro su una fetta un po’ troppo bruciacchiata.

“Sarebbe un’entrata sicura che ci permetterebbe di risparmiare soldi da usare per eventuali emergenze… so che avrei dovuto parlarne con te, ma…”

Rory intervenne dopo aver ingoiato un boccone:

“Ho capito cosa intendi, Amy. Ma metterci un estraneo in casa… non mi piace molto come idea. E credo neanche a John.”

 “Non è un estraneo. Frequenta i miei stessi corsi da quando ho cominciato l’Università, procediamo di pari passo e ci conosciamo quindi da… un anno e mezzo. Vi piacerà, fidatevi! E dovrebbe essere qui tra…”

Il campanello suonò, facendo voltare i tre verso l’uscio della cucina. Non potevano di certo vedere chi fosse da quella distanza e con le pareti ed il salotto da attraversare per raggiungere la porta. Ma il sorriso di Amy spinse entrambi i ragazzi a sospirare.

“Puntuale! Oswald ha spaccato il minuto, come al solito!”

 

Quando John aprì la porta il suo corpo sembrò gelarsi. Non per il freddo pungente che prepotentemente sembrava volersi spingere dentro casa e dissiparne il calore, ma per lo sguardo profondo, sebbene incerto, della moretta che gli si era presentata davanti. Il respiro mozzato mentre la fissava incapace di muoversi.

“Hemm… credo… di aver sbagliato casa.”

Lo sguardo di John ancora incatenato agli occhi sfuggenti di Clara; poteva leggere in quelle pozze profonde di fango l’imbarazzo di… cosa? John non sembrava capire.

“Oswald! Vieni dentro!”

La voce di Amy dall’interno persuase Clara ancora una volta che quella era proprio la casa giusta, convincendola a piegare leggermente la testa di lato e la schiena in avanti mentre con lo sguardo diretto oltre le spalle di John cercava il volto della sua compagna.

“Amy?”

John lasciò cadere le spalle quasi rilassate, mentre cercava di ritrovare la voce.

“Quindi… tu sei Oswald?”

Clara tornò con lo sguardo sul ragazzo alto di fronte a lei, notando quel ciuffo ribelle che era ricaduto chissà quando a coprirgli l’occhio destro.

“Si. E tu sei… nudo. Perché sei nudo?”

John si portò inconsciamente le braccia ad incrociarsi sul petto, le mani che si stringevano sotto le ascelle a voler quasi coprire il torace in una sorta di velato pudore. Ma la sua espressione imbronciata ammorbidì un po’ quella tesa di Clara mentre le rispondeva:

“Che domande… è casa mia! E’ non sono nudo, ho i pantaloni.”

“Come se facesse differenza. Posso tornare, se eravate impegnati in… qualcosa.” La risposta impertinente di Clara lo lasciò in silenzio, con un’espressione quasi sconvolta dall’insinuazione errata ed un calore improvviso che dalle guance si espanse fino alle orecchie.

“Cos..? No! No no no no!”

Cercò di rispondere per dissolvere il malinteso, tirando la schiena indietro e muovendo la mano destra in modo sconnesso e forsennato davanti al viso; cercò qualche altra cosa da dire mentre Amy finalmente lo raggiungeva sul posto e lo spostava bruscamente dall’ingresso. Vide la rossa tendere calorosamente una mano sorridente alla sua compagna di corsi, ignara del fraintendimento.

“John, fa freddo fuori, falla entrare!”

Mentre la Amy trascinava dentro casa la nuova arrivata, John si ritrovò a chiudersi la porta alle spalle e gli occhi puntati sulla schiena della moretta impertinente, con il corpo intorpidito e le guance arrossate. Se fosse per colpa del freddo o del caldo, non sapeva dirlo.

 

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Nota:

Ecco, una AU perchè... perchè si! Mi andava, punto! Per il momento metto rating giallo, ma potrebbe variare a rosso, chi sa. Spero che questo primo capitolo sia stato abbastanza interessante. O anche no. 
Ho una linea da seguire riguardo alla storira, ma non so quanti capitoli durerà, spero pochi, ma la porterò di sicuro a termine. Per il momento, comunque, avverto che l'unica coppia affermata in essa è Amy/Rory, per il futuro di altre ed eventuali.... sappiate che il diavoletto che è in me non ha pace xD è un avvertimento xD

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


2

Capitolo 2

 

 
Per decidere, cominciare a sistemarsi e concludere alcune faccende col suo vecchio alloggio Clara ci aveva impiegato una settimana e mezza.  Periodo in cui aveva avuto modo di parlare e farsi conoscere anche da John.

In pratica - lo aveva informato – al ritorno dalle vacanze di Natale lei e le sue due coinquiline si erano ritrovate sfrattate dall’appartamento che condividevano, senza alcun preavviso. Non perché non pagassero l’affitto, anzi lei era l’incaricata ai pagamenti ed era sempre puntuale con le scadenze; ma a quanto sembrava il vecchio affittuario era morto e l‘erede aveva deciso di impadronirsi personalmente della casa. Avrebbero potuto sporgere denuncia e cercare di recuperare almeno la caparra… ma come potevano delle semplici studentesse affrontare le grane che ne sarebbero seguite, le spese legali ed allo stesso tempo studiare e trovare un nuovo appartamento?

Clara aveva arrangiato soggiornando in una pensione in periferia, come tentativo di riprendere il controllo della situazione e studiare un piano di riserva. Certo l’edificio in cui si era ritrovata era fatiscente… ma in una cittadella universitaria di quei tempo era difficile trovare un appartamento libero e le altre opzioni erano certamente più terrificanti di un tetto umido e gocciolante.

Ogni volta che si incontravano, John le si era presentato ben vestito e con i capelli ordinati, non seminudo o scompigliato come al loro primo incontro. Anche in quel momento John era sicuro di apparire al meglio, sebbene il breve sguardo di Clara fermo sul farfallino che si era messo per l'occasione lo aveva turbato non poco. Cosa c'era che non andava stavolta? Era il farfallino più bello che avesse nel suo cassetto dei farfallini e si intonava con il completo fango che indossava!

Si rilassò quando lei sorrise e commentò con un semplice:

 "Carino."

John le aprì la porta e la lasciò entrare in casa, aiutandola con i bagagli e chiedendosi se la nota impertinente nella voce della ragazza fosse reale o solo frutto della sua immaginazione. Di solito era bravo a leggere le persone, ma con lei... dolce e impertinente al tempo stesso, non capiva mai quando scherzava o diceva sul serio e si trovava a dover combattere con quella strana sensazione di dejá-vù che la circondava. Una settimana non era bastata a fargliela inquadrare e questo era... destabilizzante! Lo scombussolava!

Mentre Amy accompagnava Clara per un tour veloce della casa, John e Rory portarono le sue valigie nella camera che avevano deciso di darle, tornando poi al piano inferiore.

Rory si sedette sul divano, John mise un tronchetto nel camino per ravvivare un pò il fuoco.

"Allora John,cosa ne pensi? Alla fine Clara non é proprio un'estranea. Amy mi aveva fatto preoccupare inutilmente..."

Rory sorrideva, mentre John lasciava vagare lo sguardo per il soggiorno, un'espressione pensierosa sul viso.

"Quindi la conoscevi già anche tu?"

Rory corrucciò le sopracciglia, studiando John che smuoveva la brace con l'attizzatoio facendo rinascere la fiamma.

"Un paio di volte abbiamo anche pranzato con lei alla mensa universitaria..."

John si voltò verso di lui mostrando un’espressione quasi offesa dicendo:

"E perché io non c'ero? Pranziamo quasi sempre insieme e, casualmente, quando c'era lei io mancavo? Perché mancavo?"

Cos’era, avevano voluto tenergliela nascosta? Si era sempre mostrato socievole e simpatico agli altri loro compagni di corso e con i suoi stessi colleghi universitari che lo adoravano. Perché questo mistero attorno a quella ragazza?

Rory sembrava spaesato,fissando l'amico con gli occhi sbarrati e le labbra socchiuse:

"John... tu c'eri..."

"Cosa? "

"Si... avevi sempre la testa sepolta in un libro di Tecnica delle Costruzioni o chissà quale altra materia ingegneristica che non capisco… ma c'eri! Vi siete visti anche al pub in cui lei lavora il fine settimana." Poi Rory si fermò un attimo a pensare prima di continuare:

"Ora che ci penso però. ..in effetti non vi abbiamo mai presentati ufficialmente. Cavolo... ti é praticamente sempre passata di fianco e non l'hai mai notata?"

Il silenzio scese tra loro mentre John si rendeva conto di quanto sembrasse stupido. Trovando finalmente un senso anche a quella sensazione di dejà-vù che avvertiva quando era con lei.

" Davvero tu non l’avevi notata? Insomma… è carina!"

Rory sembrava scioccato. Sperava che John stesse scherzando, ma l’espressione imbarazzata del suo viso gli chiarì che era serio a riguardo.

John si voltò verso il camino, nascondendo il viso all' amico e fingendo di rimettere l'attizzatoio al suo posto, sussurrando a se stesso:

"...si... ed é impossibile!"

"Cosa hai detto?"

"Niente!"

 

***

 

La camera che le avevano preparato odorava di cuoio e legno pregiato. Non vi erano segni distintivi che dimostrassero la sua appartenenza a qualcuno, non sembrava nemmeno vissuta rispetto al resto della casa. Eppure non odorava di chiuso, per nulla. Sulla mobilia in legno scuro non vi era traccia alcuna di polvere, persino lo scaffale colmo di libri addossato alla parete ad angolo tra il grosso armadio e la porta-finestra era lindo e pinto. Clara vi si avvicinò passando distrattamente le dita sulle costine dei libri, rendendosi conto finalmente che l'odore leggero di cuoio proveniva dalle copertine di alcune edizioni limitate di opere della letteratura classica latina. Lei, che studiava letteratura inglese, si ritrovò a chiedersi cosa ci facessero quei tomi così rari e particolari nella casa di uno studente di Ingegneria.

Troppo concentrata nella sua esplorazione, sobbalzò quando sentì Amy entrare nella stanza con alcune lenzuola pulite.

"Ecco. Così cambiamo il letto e puoi cominciare a sistemare le tue cose."

Clara le sorrise incerta, portandosi al centro della stanza mentre la compagna adagiava le lenzuola pulite sulla sedia accanto alla scrivania. Le lenzuola sul letto matrimoniale in realtà le sembravano già fresche di bucato. Il materasso stesso non mostrava alcun segno di utilizzo, rigido come se fosse stato appena comprato.

"Grazie. Amy... sicura che vada bene?" Chiese titubante.

"Cosa?" Amy la guardò confusa mentre tirava via il copriletto.

"Che io resti...insomma. Credevo si trattasse di condividere un appartamento. Da quanto ho capito questa é praticamente casa vostra."

Amy disfece completamente il letto, scostando col piede le lenzuola con un piede in un angolo della stanza.

"É casa di John. Ma anche io e Rory paghiamo la nostra quota per le spese di casa. Sempre meglio che stare in quella pensione fatiscente in cui ti sei ritrovata. Quindi smettila con le tue manie di controllo e per una volta lasciami fare. Ora zitta e aiutami."

Amy prese un lenzuolo pulito e con un rapido gesto lo spiegò cercando di posizionarlo sul materasso. Clara non si sentiva a suo agio con una situazione che sembrava sfuggirle di mano.

"Non sono una maniaca del controllo! É solo che devo...adattarmi!"

La mora incrociò le braccia al petto , cercando inutilmente di rigettare quella sensazione di disagio che non l'aveva abbandonata da quando aveva messo piede in quella casa. Amy si lasciò scappare una risata divertita mentre stendeva con le mani il lenzuolo per sistemarlo adeguatamente sul materasso dal suo lato prima di alzare la schiena e dirle con ironia:

"Quindi...ti faccio io il letto mentre ti adatti?"

Clara sospirò sciogliendo le braccia e portandosi una mano alla testa guardando il disastro che la compagna aveva fatto con un solo lenzuolo: il lato ruvido al rovescio,  gli angoli che non combaciavano con quelli del materasso e troppo lungo sul lato sinistro da toccare il pavimento.

"No. Faccio io."

Amy le fece la linguaccia prima di sorridere e dirle scherzando:

"Ecco. Maniaca del controllo!"

La rossa raccolse le lenzuola dismesse, lasciando il copriletto su richiesta di Clara. Dopotutto era pulito ed il colore grigio scuro non le dispiaceva.

Quando Amy fu fuori, Clara aprì l'armadio a specchio con l'intenzione di studiare il modo migliore di sistemarvi dentro i suoi vestiti. Dall' esterno non l'avrebbe mai detto, ma oltre la spessa struttura antica in legno scuro sembrava esserci uno spazio immenso che probabilmente non avrebbe colmato con tutti i suoi abiti. L'interno profumava di lavanda e muschio, le ricordava la brughiera e le piaceva.

L’armadio era vuoto, meno per una cosa che aveva attirato la sua curiosità e che sembrava farla da padrona in quello spazio sconfinato: un capo d'abbigliamento maschile appeso ad una gruccia sul fondo a sinistra. Era una giacca nera alquanto elegante ma particolare con il risvolto rosso. Per un attimo Clara si chiese se in uno dei cassettoni avrebbe trovato un cilindro con un coniglio. Poi allungò la mano a passarla come una carezza sul tessuto; era morbido e piacevole al tatto. Clara si sporse leggermente in avanti ed allo stesso tempo avvicinò un lembo ella manica al viso, annusando: il profumo che tanto le piaceva e che le solleticava dolcemente le narici veniva proprio da quell’abito. Sorrise, appiattendo la giacca contro il lato interno dell’armadio attenta a non stropicciarla. Aveva deciso di lasciarla lì.

 

*** 

 

Le settimane erano passate velocemente e Clara si era sistemata giusto in tempo per la fine dei corsi ed avere quindi la tranquillità sufficiente ad affrontare gli esami della sessione invernale. L’ultima lezione di approfondimento era finalmente finita, ma quando Amy si voltò verso Clara restò sorpresa a vederla con la testa china e la penna che ancora sfilava sulle pagine del quaderno. La mora sembrava essere immersa in chissà quali pensieri che le avevano tardato la messa in ordine degli appunti.

Amy restò immobile al suo posto, lanciando uno sguardo alla lavagna cosparsa di annotazioni Shakespeariani sconnessi che quella pazza della Professoressa Missy vi aveva tracciato con un gessetto di colore rosso fuoco.

La rossa si chiese per un attimo cosa fosse accaduto se ad uno dei corsi di questa schizzata ci fosse stato un daltonico…

“Ho quasi finito… scusami.”

Amy sospirò, portando le braccia sul banco e poggiandovi la testa sopra rispose con un semplice:

“Tranquilla. Questo era l’ultimo corso da seguire. Adoro il fine settimana!”

Amy non le proponeva di lasciar perdere con la promessa di passarle i suoi appunti non per cattiveria, ma solo perché sapeva che quelli di Clara erano decisamente più completi ed approfonditi dei suoi. A volte si chiedeva come facesse la moretta a ricordare ogni singola parola uscita dalla bocca dei professori ed a tramutarle in adattamenti più coerenti ed ordinati.

La classe era ormai vuota quando Clara aveva finito; Amy digitava qualcosa sul cellulare.

“E’ Rory? Dovevate incontrarvi?”

La moretta pose il suo quaderno per gli appunti nella cartella assieme alla penna, parlando con un tono quasi di scuse per averla fatta tardare ad un eventuale appuntamento con il fidanzato alla fine delle lezioni.

“Si.” Rispose Amy. “ Torna tardi perché deve seguire un seminario di approfondimento sull’infermieristica infantile.”

Si alzarono dal posto per dirigersi verso la porta ed uscire quindi dalla classe.

“Stasera lavori?”

Clara annuì con la testa, continuando:

“Passate al locale, se Rory non è troppo stanco. E dì a John di non mettersi quel fez in testa… è sufficiente il farfallino a farlo sembrare strano.”

Amy scoppiò a ridere, mentre camminavano nel corridoio in cui si attardavano solo gli ultimi studenti in viaggio verso casa.

“Per il fez posso provvedere, ma per il farfallino non prometto niente.”

“Se riesci a convincerlo anche solo per il Fez puoi prendere i miei appunti.”

Clara le sorrise. Amy finse un saluto militare. Entrambe sapevano che John era imprevedibile e che la mora era troppo buona: gli appunti glieli avrebbe passati comunque.

 

Quando Rory tornò a casa erano le nove di sera ed era stanchissimo. Addosso aveva l’odore pungente di antibiotico e disinfettante, ne era quasi nauseato. Gli avevano detto che si sarebbe abituato, ma dopo tre anni di studio e tirocini di fine corso cominciava a dubitare che sarebbe mai accaduto. Almeno faceva ciò che gli piaceva.

Posò la giacca sull’appendiabiti e si fece strada in soggiorno. Amy era sul divano seduta con le gambe incrociate, un libro sulla letteratura vittoriana in grembo ed un saggio sull’influenza della censura letteraria sulle opere del tempo tra le mani. Un incarico apparentemente facile che le dava una discreta libertà di stesura, ma altrettanto facilmente poteva spingerla fuori tema.

Non si era accorta di Rory, concentrata a cancellare forsennatamente un pezzo di tre righe che non la convinceva. Lanciò poi la penna e parte del saggio sul tavolino di fronte a lei ed appallottolò il foglio di carta con la correzione prima di lanciarselo alle spalle.

“Hei! Potevi uccidermi!”

Amy si voltò verso di lui poggiandosi col corpo contro lo schienale; sporse il labbro inferiore in avanti, con le sopracciglia corrucciate. Sembrava una bambina, ma Rory sorrise avvicinandosi e, prendendole il viso tra le mani, le diede un bacio. Le labbra della ragazza si rilassarono immediatamente e si dischiusero per permettere al ragazzo un accesso più profondo. Subito dopo, le mani di Rory erano sulla sua schiena e le braccia di Amy attorno al collo di lui a tirarlo con se sul divano. Le mani della rossa salirono lungo la nuca dell’uomo ad intrecciare le dita tra i capelli biondi, spingendo la testa con una certa urgenza più vicino a lei quando le labbra di Rory le percorsero la mascella e si fermarono sul collo.

“Puzzi di ospedale…”

Rory girò la testa quel tanto che bastava per guardarle il viso.

“Tirocinio. Vado a farmi una doccia.”

Fece per alzarsi, ma Amy lo fermò stringendo la presa su di lui ed allargò le gambe in modo da accogliere i fianchi di Rory contro i suoi.

“Fermo dove sei.” Le mani della rossa si spinsero lungo i fianchi di lui tirandogli via la camicia dai pantaloni, le dita si insinuarono sotto la stoffa sfiorandogli i fianchi e provocando un suono gutturale nella gola dell’uomo prima di raggiungere i bottoni della camicia e aprire i primi due.

“Amy…”

Rory provò a protestare, ma i fianchi di Amy si spinsero maliziosamente contro di lui provocandone una reazione imbarazzante alla quale bisognava porre rimedio il prima possibile.

“Amy… chi c’è in casa?”

Amy sorrise maliziosa:

“Clara lavora. John è in camera sua, credo dorma.”

Rory non aveva bisogno di sentire altro, prima di alzare appena il busto e sfilarle, se non proprio strapparle di dosso, maglia e i pantaloni. Le sfiorò i seni con le dita mentre si adagiava nuovamente tra le sue gambe, spingendo volontariamente i fianchi contro quelli di lei e provocandole un gemito incontrollato. C’era ancora la biancheria a tenerli divisi.

Tra baci, carezze poco caste ed i successivi sospiri, non si accorsero del rumore appena percettibile della porta d’ingresso che veniva chiusa dall’esterno; ma almeno ebbero il buon senso di finire tra le lenzuola del loro letto ciò che avevano cominciato.

 

*** 

 

Non c’era molto lavoro al Clever Boy quella sera, ma buona parte dei clienti erano studenti universitari che in periodo d’esami erano rintanati nelle loro case a studiare come matti.

Dietro al banco bar Clara stava colmando un boccale di birra scura il cui aroma di caffè le pungeva le narici.

“Beamish… quella all’aroma di caffè. Ma se deve essere scura, io preferisco una Chimay. Forte, ma il retrogusto di caramello la… addolcisce!”

Clara fermò il rubinetto evitando che la schiuma fuoriuscisse dal boccale giusto in tempo, voltandosi sorpresa verso il suo nuovo interlocutore. Non lo aveva visto arrivare, ma la sorpresa svanì dal suo volto lasciandolo rilassare in un’espressione tranquilla.

“John!” Lei sorrise, sporgendosi vero di lui, lui si lasciò contagiare e le baciò una guancia.

Clara consegnò il boccale al cliente al banco, tre sgabelli più in là di John prima di tornare da lui.

“La Chimay è buona. Ma è belga. Ti facevo più il tipo da birra Svedese.”

John fece una smorfia, raddrizzandosi sullo sgabello:

“Naaa, per favore! Sono per lo più bionde e a me piacciono le brune. Anche le rosse, ma le brune sono più decise!”

Clara restò in silenzio pesando le parole di John prima di poggiarsi con i gomiti sul bancone e sporgersi appena verso di lui per sistemargli il farfallino:

“Stiamo parlando ancora di birre o di ragazze? Ci stai provando con me per caso, dicendomi in modo velato che ti piaccio in modo diverso da Amy?”

John si pietrificò, sentendosi infiammare le guance: un calore improvviso che gli colorò di rosso il viso fino alla punta delle orecchie mentre scattava sul posto e cercava di giustificarsi:

“Cos.... no… cioè… voglio dire… non intendevo… Oh! Clara!”

La ragazza scoppiò a ridere mentre lui si sistemava imbarazzato e confuso il colletto della giacca. L’espressione imbronciata sebbene sapesse che Clara lo stava soltanto prendendo un po’ in giro, come al solito.

“Va bene campione, questa birra te la offro io.” La ragazza si diresse alla spillatrice e riempì un boccale di una qualche birra scozzese bruna e la offrì all’uomo in segno di pace:

“Carino il farfallino. Nuovo?”

Le parole giuste al momento giusto fecero sorridere John, trasformando la sua espressione imbronciata in quella di un bambino felice di mostrare il suo giocattolo nuovo.

“Si! Amore a prima vista, non ho resistito!”

“Amy e Rory?” Chiese la ragazza vagando con lo sguardo ai tavoli all’interno del locale.

“Sono a casa, erano stanchi. Io invece avevo voglia di uscire.”

Clara lo guardò non convinta.

“Stavano pomiciando sul divano e sei scappato.”
“Esatto.”

Entrambi scoppiarono a ridere, con lo sguardo complice e la stessa immagine sdolcinata ed a tratti anche inquietante che per un attimo attraversò la mente di entrambi.

 

Nei trentacinque minuti successivi, Clara aveva avuto il suo da fare con lo spillare le birre per i clienti nuovi e lavare boccali, così che John ebbe tutto il tempo di ordinare patatine, finire la sua birra ed ordinarne una seconda. Quando Clara tornò da lui il locale si era un po’ svuotato e si era meritata una pausa, accompagnando John ad un tavolo in disparte adattato per lo staff e sedendosi con lui.

Parlarono del più e del meno, di come procedesse lo studio, di quanto fossero difficili i calcoli strutturali per il prossimo esame di John, della loro vita prima dell’università. La cosa che li accomunava, però, era la più improbabile ma anche la più triste: entrambi orfani di madre.

“Quindi… tuo padre si è risposato tre anni dopo la morte di tua madre e a diciotto anni sei andata a vivere da sola. La sua nuova moglie non deve affatto piacerti.”

“Oh… la odiavo! Non riuscivo a capire come mio padre potesse essersene innamorato. Era l’esatto opposto di mia madre. Lei era meravigliosa. Dolce, premurosa, mi spingeva a conoscere il mondo ad ogni passo insegnandomi però che ogni cosa andava affrontata con il dovuto rispetto e precauzioni.” L’espressione di Clara mentre parlava di sua madre era di pura adorazione. “Adesso però… Linda mi è indifferente. Quando a Natale torno a casa non faccio più caso alle sue battutine pungenti sulla mia prolungata crisi adolescenziale oppure ai suoi commenti su quanto sia inadeguata la mia voglia di indipendenza e quanto inutile sia studiare letteratura perché ci sono corsi di studio migliori e più redditizi per il futuro.

“Ma tuo padre con lei sembra felice ed è per questo che ingoi il rospo e vai avanti evitando gli scontri. Nel frattempo stai esplorando il mondo; non come vorresti, ma come tua madre ti ha insegnato. La tua impertinenza è solo una forma di autodifesa.”

Le parole di John la colpirono, costringendola a stare zitta e sospirare. Infine iniziavano a capirsi.

Le labbra di Clara si piegarono in un leggero sorriso mentre il suo sguardo era malinconico.

Incrociò le braccia sul bancone e vi poggiò sopra la testa, guardando distrattamente la schiuma densa sulla parte alta della sua bionda irlandese.

“Tu invece… come mai vivi da solo?”

“Ci sono Amy e Rory con me. Ora anche tu.”

Rispose John evitando il suo sguardo ed immergendo le labbra nel secondo boccale ormai mezzo vuoto.

“Sai cosa intendo. Ma se non vuoi parlarne…” Rispose semplicemente Clara.

John fissò lo sguardo su di lei, poggiando il boccale sul tavolo. Sospirò e si passò la mano sul volto, tirando indietro il ciuffo che gli copriva metà fronte.

“Ecco… quando mia madre morì avevo dodici anni. Non è stato facile affrontare la cosa per me, tantomeno per mio padre. Non mi faceva mancare nulla, si è sempre occupato dei miei bisogni ed era presente nei momenti critici, mi ha cresciuto praticamente da solo. Ma col passare del tempo restava sempre più spesso al lavoro e trascurava tutto il resto. Un giorno, avevo quindici anni, decise che dovevamo trasferirci, che la casa in cui vivevamo per lui era un tormento. Avrei potuto ribellarmi, ma lo capivo. In quella casa c’era ancora il profumo di mia madre, la sua presenza, la sua voce ed il suo viso. Mio padre doveva averla amata tantissimo per non riuscire a superare il trauma della sua morte.” John si prese una pausa, portando la mano destra al mento, il gomito puntellato sul  tavolo, poggiandovi sopra il peso della testa. Clara gli prese l’altra mano stringendola appena tra le sue in un tentativo di confortarlo. Gli diede il coraggio di andare avanti.

“Trovammo questa nuova casa, in una nuova città, in una posizione strategica che mi permettesse di raggiungere facilmente la scuola. Mio padre pensò anche al mio futuro universitario. Le cose però per lui non cambiarono. A volte avrei voluto che la sua vita prendesse una svolta, che incontrasse una donna che avrebbe potuto renderlo un po’ meno triste. Non è mai successo. Cioè… una svolta nella nostra vita c’è stata; ma non come avrei voluto per lui, comunque. Decise di partire come ufficiale medico per non ricordo quale territorio di guerra. Lo sento di tanto in tanto ma… non torna mai a casa. Sono anni che ci incontriamo di sfuggita prima che riparta per chissà dove.”

Clara poggio la testa contro la spalla di John, stringendogli il braccio tra le sue.

“Certo che siamo un disastro, io e te.”

John sorrise, poggiando la guancia contro la sua tempia.

“Naaa. Siamo dei bravi ragazzi. Non facciamo male a nessuno, non ci droghiamo, non ci ubriachiamo…”

Clara si staccò appena per guardarlo e rispondere ironicamente.

“Sull’ultima questione permettimi di dissentire.” Ed indicò i due boccali di birra davanti a lui “Inoltre…  io sono praticamente scappata di casa...”

John sorrise, scuotendo la testa.

“Non sei scappata. Sei diventata indipendente. È diverso.” Clara non rispose. Il suo silenzio improvviso sorprese John, ma la sua espressione rilassata gli faceva capire che in qualche modo lo ringraziava.

“A che ora stacchi?” Alla fine le chiese.

Clara sospirò, portandosi la mano al viso e poggiando il gomito sul tavolo.

“Giorno di paga. Aspetto la chiusura.” Sospirò, scostando la sedia e facendo per alzarsi: “E devo tornare al banco bar.”

“Allora aspetto con te e rientriamo insieme.” Rispose John, scostando anche lui la sedia e facendo cenno di alzarsi con lei in un gesto galante.

“Non è necessario. Ti annoierai se non ti addormenti prima sul tavolo: si farà tardi!”

“A maggior ragione, insisto.”

Clara sospirò, ma si arrese. Amava la sua indipendenza, ma tornare a casa da soli a notte inoltrata un po’ meno e la compagnia di John non le dispiaceva.

“Perfetto. Avremo modo di parlare dell’affitto durante il rientro, allora.”

John la guardò confuso. Aveva pattuito con lei che avrebbero diviso le spese di casa come già faceva con Rory ed Amy, ma la ragazza a quanto pare non ne era ancora del tutto convinta. Diceva che si sarebbe sentita un ‘ospite’ e non una coinquilina e non le piaceva approfittare della situazione.

“Clara…” John sospirò.

“John…”

Quella ragazza era impossibile!

“Devi sempre avere l’ultima parola, vero?”

Clara si strinse nelle spalle mostrando un sorriso innocente. John scosse la testa lasciando cadere le spalle:

“Undici”

“Cosa?”

“Undici”

Clara lo osservò disorientata prima di continuare:

“Si. Ho capito… ma undici cosa?”

“Sterline. Non voglio l’affitto, dividiamo le spese e mi basta. Se però proprio insisti a volermi pagare questo benedetto mensile, allora facciamo così: undici sterline l’undici di ogni mese. Per restare in tema, alle undici precise! Se tardi o anticipi non prendo nulla!”

Clara pesò le parole di John, mutando la sua espressione da turbata a sollevata dedicandogli un sorriso sereno. John era incontrollabile quasi il più delle occasioni, ma stavolta lei sembrava averla avuta vinta.

“ Va bene. Undici sterline l’undici di ogni mese. Alle undici del mattino o di sera?”

“E’ indifferente. Sei tu il capo!”

Da quel particolare della loro vita Clara aveva coniato il soprannome giusto per John. L’undici di ogni mese, alle ore undici (indipendentemente dal fatto che fosse giorno o sera e sempre in base agli impegni della giornata)  consegnava a John una busta con dentro le sterline pattuite ed un bigliettino con su scritto ‘Eleven’.

A volte Clara semplicemente gli saltava alle spalle abbracciandolo e dandogli un bacio sulla guancia mentre ripeteva allegra quella parola. Entrambi erano tranquilli e contenti della complicità che un’unica parola gli aveva fatto conquistare. E non poco contribuiva anche il fatto che, con quelle undici sterline, John riusciva sempre a trovare un regalo adatto da portarle il giorno dopo. Il primo, indimenticabile regalo, fu una targhetta da affiggere alla porta della camera di Clara che riportava la scritta: Ragazza Impossibile.

Clara pensava di avere il controllo, ma forse era l’imprevedibile John ad averlo.

 

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


cap.3

Capitolo 3

 

 

 

Il Dottor Smith era un uomo di poche parole, lo sapevano bene i vicini. Ma quando lo vedevano tornare a casa, evento più unico che raro, non potevano fare a meno di andargli incontro con un sorriso di circostanza e fargli le solite frivole domande di routine:

Come sta?’ oppure ‘Quanto resta questa volta?’ e peggio ancora il blando tentativo del signor Donovan di ironizzare con un ‘Ha più capelli grigi dell’ultima volta, si deve fermare!’

Il Dottore mostrava la sua espressione fredda, non nascondendo affatto le sue origini scozzesi marcando il suo accento mentre rispondeva con un neutro: ‘Sono stanco per il viaggio’ oppure un misero: ‘Il bagaglio pesa.’ o ancora il più brusco ‘Vado di fretta!’ E si dileguava.

Aveva ancora indosso la mimetica, quindi era riconoscibilissimo; eppure quel giorno, nessuno gli era andato incontro nel tentativo di impicciarsi dei fatti suoi e di questo era grato chissà quale forza misteriosa; o semplicemente erano tutti in vacanza da qualche parte. Dopotutto Agosto lasciava poche persone a sciogliersi in città piuttosto che in qualche luogo di villeggiatura marinara o tra le Highlands scozzesi o ancora dove cavolo gli pareva.

Aprì la porta di casa con calma, trascinandosi dentro assieme al borsone militare prima di abbandonarlo pesantemente poco più in là dell’ingresso. Si chiuse la porta alle spalle e si trascinò fino al divano in soggiorno, rilassando la schiena contro lo schienale e chiuse gli occhi, sospirando profondamente.

“John!”

La sua voce rauca riecheggiò tra le pareti, ma nessuno sembrò rispondergli.

“Johnny!”

Chiamò di nuovo, con meno calma ed un tono di voce più alto.

Ancora nessuna risposta.

Il Dottore si alzò, girovagando un po’ per la casa prima di rendersi conto che John non c’era. Si trascinò nuovamente in soggiorno, alzando il telefono per comporre un numero.

Attese quattro, forse cinque squilli prima che dall’altro lato qualcuno rispondesse con un allegro:

“Clara! Sei già tornata?”

Il Dottore corrucciò le sopracciglia allontanando per un secondo il telefono dall’orecchio e dandogli uno sguardo torvo prima di riavvicinarlo al volto e rispondere con un brusco.

“Ho sbagliato numero. Scusi.”.  Riagganciò subito dopo.

Abbassò il cordless tenendolo fermo però nel palmo della mano mentre guardava confuso il display che in quel momento gli mostrava semplicemente il segnale orario e la data. Mosse il pollice cercando l’ultima chiamata in uscita e rilesse il numero che aveva digitato.

Si. Era il numero di cellulare di John. A meno che non lo avesse cambiato con uno nuovo e la compagnia telefonica avesse riassegnato il vecchio a qualcun altro, lo facevano. Ma possibile che suo figlio non lo avesse avvertito? Inoltre, anche la voce che aveva udito era la sua. Non vi era dubbio. Non poteva confondere la voce di suo figlio con quella di un estraneo.

Mentre il Dottore si perdeva nelle sue confusioni mentali, il telefono cominciò a squillare. Sul display illuminato si leggeva lo stesso numero che aveva chiamato lui in precedenza.

Rispose.

“Pronto?”

“Papà? Sei a casa?”

Si, era John. La voce suonava sorpresa, poteva intravedere anche oltre il telefono il viso sbalordito di suo figlio. Il Dottor Smith sospirò, piegando lievemente le labbra in un sorriso sprofondando nuovamente sul divano.

“Si. Dove sei?”

Dall’altro lato silenzio. Stava per parlare quando finalmente John rispose:

“Ecco… Cardiff. Con Amy e Rory per il fine settimana. Dammi un paio di ore per tornare e…”

“No.” L’uomo lo interruppe.

“Resta lì. Ci vediamo tra qualche giorno. Resto fino a metà Settembre. Salutami i ragazzi.”

Ancora silenzio. Ma nel successivo indistinguibile impeto vocale di John poteva capire che suo figlio era contento. Il giovane sarebbe tornato a casa il giorno dopo col primo treno del mattino.

 

 

Il giorno del suo arrivo a casa il Dottor Smith non ci aveva fatto caso, forse per la stanchezza, forse perché era semplicemente distratto… ma la sua camera da letto aveva qualcosa di diverso, a cominciare dai testi universitari di letteratura impilati ordinatamente sulla scrivania, accostati alla parete per continuare con alcuni indumenti femminili invernali che riempivano per metà il suo armadio.

Si grattò la testa distrattamente, ricordando poi che Amy e Rory vivevano lì, occupando la camera degli ospiti. Probabilmente quelli appartenevano alla ragazza. Era incredibile quanto spazio richiedessero i vestiti delle donne! Ne spostò alcuni distrattamente, chiedendosi come avrebbe potuto sistemare la sua mimetica ormai lavata ed asciugata ed alcuni dei suoi vestiti all’interno di esso senza rischiare di sgualcire quelli ‘presunti’ di Amy evitando di incorrere nella sua ira. Si ritrovò però con lo sguardo sorpreso e fisso sulla giacca nera col risvolto rosso, sul fondo. Aveva dimenticato ci fosse ancora.

Era la sua vecchia giacca, quella che indossava quotidianamente quando si recava al lavoro in ospedale. Diceva che era un modo per esorcizzare la tensione e l’aria pesante del posto, più che altro era una giustificazione al suo alquanto discutibile gusto nel vestirsi. La prese e la indossò sulla camicia bianca ed il gilet che già aveva messo su.

Chiuse l’armadio e lasciò la stanza, ma l’odore di gelsomino che inondava le lenzuola del letto in cui aveva dormito sembrò non voler sparire dalle sue narici.

 

John e suo padre si erano dati appuntamento in un ristorante italiano in centro. Era caro, ma gli Smith potevano permetterselo.

John in realtà avrebbe voluto lavorare per mantenersi gli studi, ma suo padre gli aveva sempre risposto che i guadagni delle missioni gli permettevano di provvedere a lui ed alle sue esigenze. Su questo il Dottor Smith non prevedeva alcuna contrattazione. John doveva studiare e pensare al suo futuro, punto.

Quando John raggiunse il Mancini’s Restaurant, trovò suo padre già seduto al tavolo con una bottiglia di acqua già vuota a metà ed una fetta di pane sminuzzato tra le mani, presa dal cestino al centro.

“Scusami, ho perso la coincidenza alla stazione.”

Il Dottor Smith si alzò, sorridendo a suo figlio.

“Tranquillo. Sono appena arrivato anch’io.”

Forse mentiva, forse diceva la verità. A John non importava. Sentì solo l’impulso irrefrenabile di abbracciarlo e dargli il bentornato. Gli era mancato incredibilmente ed averlo lì con lui sembrava un sogno.

La stretta di John era salda, ma non pressante. Eppure non riusciva ad allontanarsi da lui; quella del Dottore, invece, era incerta, impacciata e timida.

“Papà… non ci sai più fare con gli abbracci.”

Risero entrambi. John per l’emozione, suo padre per il nervosismo.

“Hai ragione Junior… ormai non credo più di essere una persona da abbracci.”

La nota triste nella voce del Dottore non era sfuggita a John. Ma entrambi ne capirono il motivo. Un po’ la mancanza di sua moglie, un po’ le esperienze di guerra. Il Dottor John Smith era cambiato e non poco.

“Non chiamarmi Junior, non sono più un bambino.”

John si allontanò, portando le mani sulle spalle di suo padre. Entrambi avevano gli occhi lucidi ma privi di lacrime. Gli uomini Smith non piangono mai, non se lo permettono.

“Sediamoci Junior, ed ordiniamo. Ho fame di cibo vero!”

Ordinarono lasagne e arista di vitello con contorno di patate al forno, accompagnato da vino rosso della casa. Mangiarono parlando del più e del meno, soprattutto del progredire degli studi di John: a Dicembre avrebbe finalmente finito il suo lungo percorso. Sei anni, compreso il dottorato.

John parlò di tutto con tranquillità, senza staccare lo sguardo dal viso di suo padre. Gli anni lo avevano segnato, le rughe sul volto scavate gli davano un’età quasi maggiore di quanto in realtà avesse. Gli occhi tristi sormontati da un paio di aggressive sopracciglia da guerra ed i capelli ormai quasi completamente grigi gli davano quasi un’aria austera, capace di creare soggezione negli estranei, ma John sapeva che quella era solo apparenza.

Il giovane non gli chiedeva mai com’era essere un medico di guerra; non per disinteresse, ma conosceva abbastanza suo padre per capire cosa gli facesse male e cosa no. Se voleva parlarne, lo avrebbe fatto lui.

“Quindi… Clara. E’ la tua fidanzata?”

Il Dottor Smith sorrise, girando un pezzo di carne con la forchetta senza però infilzarlo.

John tossì, cercando di evitare di soffocare con il boccone che quasi gli stava andando di traverso.

“No!” Disse subito dopo aver ripreso aria, tossendo un’ultima volta più per nervosismo che per istinto di sopravvivenza.

“Oh, andiamo John! Il modo in cui sorridi quando parli di lei! Ti piace!”

John abbassò gli occhi verso il piatto, corrucciando le sopracciglia e mostrando un’espressione tanto seria ed intensa da bruciare il tavolo sotto il suo sguardo:

“E’ la mia migliore amica.”

Il dottor Smith rimase ad osservare suo figlio giocherellare con un lembo del tovagliolo spiegato sul tavolo accanto al piatto, studiandone l’espressione prima di infilzare un pezzo di carne e portarselo alle labbra. Ingoiò e portò alle labbra il bicchiere di vino per berne un sorso.

“Rose… non l’hai ancora superata. Sono passati anni, John.”

“Non è questo. Ci siamo feriti a vicenda, ma ormai non provo più nulla per lei. Solo… non ci riesco. A fidarmi ancora, a lasciarmi andare del tutto. Non sono capace.”

“Sei ancora giovane. Avrai altre occasioni per non diventare come me.”

John tornò a guardare suo padre, gli occhi tristi di quando si perdeva nel ricordo di River. Erano uguali loro due, con la differenza che John era più a suo agio con il contatto fisico, forse anche troppo. Ma i loro cuori si capivano come se fossero collegati. Forse lo erano.

“Sono contento che resti, papà.”

Il Dottore ingoiò un’altro boccone, facilitandone la discesa nella gola con un ennesimo sorso di vino prima di rispondere:

“Una pausa in attesa della prossima assegnazione. Forse mi mandano in Tunisia. Solo qualche mese, poi un’altra pausa e di nuovo Afghanistan.”

John sospirò, posando la forchetta nel piatto.

“Mi accontento… anche se vorrei di più. Prima o poi dovrai fermarti. Mi manchi.”

“Anche tu John. Ma… non riesco… a stare fermo in un posto. Dovresti saperlo.”

John annuì, spostando lo sguardo dal volto del padre e versandosi del vino senza parlare.

Si. Loro due erano uguali, non avevano bisogno di parole per capirsi o per dirsi quanto si amavano, cosa provavano.

Finirono il pranzo in silenzio, ma senza alcuna tensione. Poi il Dottor Smith pagò il conto e si diressero verso casa.

 

**

 

Mancava ancora una settimana all’inizio dei corsi, ma Clara aveva deciso di tornare prima. Adorava passare l’estate a Blackpool, con suo padre e sua nonna nella sua vecchia casa. Ma quella volta Linda aveva superato il limite, continuando a discutere delle sue scelte di vita disdicevoli e dandole della irresponsabile per aver infastidito i suoi amici imponendo la sua presenza in una casa che non le apparteneva.

Ma cosa ne sapeva Linda della sua vita? Delle difficoltà che affrontava ogni giorno tra lavoro e studio, di quanto fosse difficile a volte arrivare a fine mese perché la vita era cara ed il suo stipendio da barista misero?

Non che suo padre non la aiutasse, anzi… ma Clara voleva essere indipendente!

Non poteva vivere negli appartamenti del campus perché vi erano regole rigide da rispettare, compresi gli orari di rientro serali che non combaciavano con quelli lavorativi; tanto più che per il fine settimana si sarebbe praticamente ritrovata sola in un campus vuoto, isolata dal mondo. Non una bella prospettiva.

John, Amy e Rory erano stati la sua scialuppa di salvataggio. Sapeva che non era giusto ‘approfittare’, ma John le aveva chiesto rigorosamente di tornare a settembre e lei… non aveva potuto dirgli di no. Dopotutto le mancava un anno per la laurea, non aveva intenzione di proseguire per un dottorato per cui… un solo anno e poi avrebbe trovato un lavoro, cambiato vita, probabilmente anche cambiato città, libera ed indipendente per davvero! E non avrebbe gravato sulle spalle dei suoi amici.

Era mattino presto quando Clara aprì la porta di casa con la copia che John le aveva dato; da essa pendeva il portachiavi a forma di cabina della polizia che lui stesso le aveva regalato. Sorrise, con la parola ‘Eleven’ che le si formava in mente.

Si chiuse la porta alle spalle, spostando la valigia di lato accanto all’appendiabiti, sfilandosi la giacca per riporvela su; poi chiamò il nome del ragazzo ad alta voce.

Nessuna risposta.

“John!”

Alzò la voce, ma niente. Probabilmente dormiva ancora. Bene, lo avrebbe svegliato tirandolo giù dal letto!

Si precipitò verso le scale, fermandosi quando sentì la porta della cucina aprirsi.

Si voltò sorridendo con una mezza giravolta, facendo svolazzare i capelli e le pieghe della gonna che si gonfiarono scoprendo appena un po’ di più le gambe. Poi si bloccò: l’uomo che si trovò di fronte, con una tazza fumante tra le mani, i capelli brizzolati scomposti e la camicia bianca aperta a metà e sfilata dai pantaloni non era John, almeno non il John Smith che conosceva.

Restarono a guardarsi immobili per un tempo indeterminato. Pochi attimi, minuti. Il volto dell’uomo era marmoreo, non traspirava alcuna emozione mentre Clara al contrario… il cuore impazzito per la paura di aver sbagliato casa misto all’imbarazzo di una circostanza che le sembrava inappropriata, incapace di articolare una sola sillaba ed il fastidio di vedersi scivolare dalle dita il controllo della situazione.

“Clara?!”

Si voltò nuovamente, con lo sguardo rivolto alla cima delle scale e John che ne scendeva lentamente, con solo indosso i pantaloncini del pigiama, i capelli arruffati e la faccia di chi si è appena svegliato.

Di male in peggio! Ma cos’hanno gli abitanti di questa casa contro la compostezza?

“John!”

Quando voltò lo sguardo in direzione dell’uomo brizzolato, ormai di lui non c’era più alcuna traccia, solo la porta della cucina che ormai si chiudeva con un leggero rumore.

 

John portò Clara in giardino, un po’ per svegliarsi meglio lui stesso con l’aria dolce ed il sole ancora caldo di Settembre a carezzargli la pelle ed un po’ per far riprendere Clara che sembrava alquanto spaesata.

“Quindi… quello è tuo padre?”

John annuì, sorridendo. Clara si lasciò contagiare sorridendo di rimando, constatando che l’espressione serena del ragazzo era impagabile in quel momento. Probabilmente non lo aveva mai visto così se non in rari casi.

“Non ti dispiace stare nella camera di Amy e Rory per i prossimi giorni,vero?”

Si fermarono nei pressi di un’aiuola posta ai margini del giardino. La staccionata in legno separava la proprietà degli Smith da quella dei Donovan.

Clara sospirò incrociando le braccia al petto:

“Certo che no, John. Ma… forse dovrei cercare un’altra sistemazione. Sai, ci pensavo durante le vacanze e questa sembra l’occasione giusta per..”
“No!”

La voce di John sembrò allarmata ed una tonalità più acuta del solito, tanto da lasciare Clara sorpresa ed impossibilitata a controbattere. Il ragazzo le portò le mani alle spalle, lasciandole salire poi a circondarle il viso in un tocco delicato. Abbassò leggermente la schiena continuando:

“Abbiamo fatto questo discorso milioni di volte e non voglio più rifarlo. Tu resti. Intesi?”

“Non è che mi fai restare perché hai intenzione di sedurmi, vero?”

John si ritrasse come se fosse stato scottato, mostrando la solita espressione sgomenta ed imbarazzata che tanto divertiva Clara.

“Tranquillo, scherzavo! Inoltre, so che se anche fosse vero, preferiresti morire piuttosto che ammetterlo.”

Gli fece l’occhiolino, sorridendo alla mascella di John che si contrasse in una morsa serrata.

Clara allargò le braccia, chiedendo tacitamente un abbraccio in segno di pace al quale John non potette sottrarsi. Non ci riusciva. La strinse tra le braccia, posandole un bacio tra i capelli.

Clara respirò il suo profumo, avvertendo il piacevole calore della pelle di lui quando poggiò il viso contro il suo petto. Poteva sentire il battito tranquillo del suo cuore, la morbidezza tonica della pelle di lui a contatto con il suo viso. Inconsciamente strinse l’abbraccio in un blando tentativo di avvicinare ancora di più il suo corpo a quello di lui, ma quasi istantaneamente John sciolse la sua presa su di lei, portando nuovamente le mani sulle sue spalle ad allontanarla dolcemente.

Clara si sentì stordita, con un improvviso brivido di freddo che attraversò la breve distanza tra loro e che le si insinuò sotto i vestiti, penetrandole nella pelle. John invece sorrideva sereno.

Fu quello il momento in cui videro il Dottor Smith camminare sul selciato con l’evidente intenzione di raggiungerli. Clara restò in silenzio, osservando il modo lento ma elegante di camminare dell’uomo. Aveva i capelli ordinati, le mani sprofondate nelle tasche dei pantaloni neri, sopra indossava una camicia bianca con un gilet che si intravedeva sotto quella ormai familiare giacca dal risvolto rosso. Clara aprì leggermente le labbra smorzando un respiro quando realizzò che era la stessa giacca che per mesi aveva stipato tra i suoi vestiti. Capì da chi John aveva ereditato il gusto alquanto particolare per l’ abbigliamento.

“Così… tu sei Clara.”

L’uomo si fermò a pochi passi di distanza dai due, porgendo la mano verso la ragazza:

“Dottor John Smith.”

“… Clara Oswald.”

Clara portò istintivamente la mano a stringere quella del Dottore con una presa salda ma educata. La presa del Dottore invece era delicata, quasi incorporea, ma calda. Si, la sua mano era piacevolmente calda e morbida.

Ancora confusa dalla situazione e dalla presentazione, Clara lanciò un’occhiata perplessa al John più giovane. Lui sembrò cogliere il significato di quello sguardo rispondendo con una scrollata di spalle ed un semplice:

“Mia madre ha voluto darmi il suo nome.”

In altre occasioni Clara avrebbe pensato ad una sorta di egomania, ma conoscendo la storia di John pensò invece che fosse una cosa dolce. I suoi genitori dovevano essersi amati molto, ma soprattutto sua madre, per decidere di chiamare loro figlio con lo stesso nome del marito, doveva esserne stata davvero molto, molto innamorata. Sorrise.

Fu il Dottore il primo a sciogliere il contatto delle loro mani, continuando con:

“Se la cosa ti crea confusione, però, non chiamarmi Mr. Smith, non vado molto d’accordo con il ‘signore’. Puoi chiamarmi Dottore.”

“Finchè non lo divento io.” Ammiccò John. Chiaro riferimento al titolo che avrebbe acquistato dopo la sua laurea.

“Oppure può chiamare te Junior.”

John mostrò un’espressione di sdegno, arricciando le labbra in un broncio mentre rispondeva:

“Non ci provare! Clara, te lo proibisco!”

Clara annuì, alternando lo sguardo sui due uomini:

“ Dottore sta bene. Sempre meglio di Mr.Smith.” Poi si rivolse a John con tono innocente: “ Ma l’occasione mi autorizza anche a chiamarti Eleven più spesso.”

John arrossì, ma sorrise. Suo padre guardò entrambi con espressione incuriosita mentre ripeteva mentalmente la parola, ma non chiese nulla a riguardo.

“Quindi… lei è nell’esercito? E’ un Ufficiale?”

Il Dottore si irrigidì, stringendo i pugni nascosti nelle tasche. La sua espressione si indurì, lo sguardo di ghiaccio.

John smorzò la tensione intromettendosi nella conversazione:

“No no. Mi sono spiegato male! Mio padre è un Ufficiale Medico, ma non un soldato vero e proprio. Non quel tipo, almeno.”

Lanciò uno sguardo a suo padre chiedendogli tacitamente una spiegazione. Clara mostrava un’espressione confusa mentre cercava di capire l’idea del ‘soldato non soldato’ che John le aveva posto innanzi. Non aveva familiarità con le questioni militari, ma non poteva di certo esistere un modo diverso di intendere la parola Ufficiale, medico o non medico che fosse.

Il Dottore rimase immobile, con lo sguardo privo di emozioni fisso su Clara; la ragazza si sentiva come gelata, attraversata da cristalli di ghiaccio in tutto il corpo, una sensazione intensa che le fermò il respiro. Quell’uomo era in grado di mettere in soggezione con una facilità incredibile, non poteva non essere un soldato.

“Ho seguito un addestramento militare.” La voce profonda del Dottore la scosse, dandole un po’ di calore grazie al fatto che non sembrava trasparire disagio o rabbia, ma il tono usato dall’uomo era tranquillo. “Alla fine mi hanno dato un titolo solo per giustificare la mia presenza tra le linee. Sul campo hanno bisogno di bravi medici, ma hanno anche bisogno di uomini che riescano a sopportare le varie situazioni in cui si può incappare. E che siano anche in grado di difendersi se occorre.”

Clara annuì, rispondendo con un semplice: “Capito.”

Ma un lieve tremore delle sue labbra la tradiva. Un solo secondo in cui le sue labbra si piegarono in un’espressione di dubbio che forse John non colse. Ma suo padre si.

L’uomo sospirò, portando lo sguardo in un punto indefinito del giardino mentre riprendeva la parola:

“Quando ho fatto richiesta per partire come medico di guerra ero troppo vecchio per arruolarmi, avevo un’unica scelta: volontario. Non era quello che volevo. Ma tramite amicizie influenti ed un’esperienza giovanile prima dell’università mi hanno aiutato a saltare alcuni ostacoli. Inoltre, avevo dimostrato di essere un ottimo medico, avevano bisogno di persone come me. Quando vogliono, possono chiudere un occhio sulle questioni burocratiche. Ho seguito un addestramento di un anno, periodo in cui ho dovuto rispolverare le mie conoscenze giovanili sulle milizie ed aggiungere quelle nuove. Ho imparato ad usare fucili, granate, varie armi; ho imparato l’autodifesa e tutto ciò che mi sarebbe occorso. Con me c’erano altri medici che seguivano lo stesso percorso, più giovani; erano dei ragazzini… eravamo partiti in sette. Alla fine dell’addestramento, dopo la ‘prova finale’ eravamo rimasti in tre.” La voce del Dottore si smorzò, i suoi occhi sembrarono scurirsi per una qualche emozione che Clara non era in grado di definire, ma che le fece sobbalzare il cuore nel petto ed amplificare il senso di colpa che cominciava ad avvertire. Si rese conto che aveva riportato alla mente dell’uomo qualche ricordo spiacevole.

“Mi dispiace… non volevo…”

La voce di Clara tremava, John le strinse la mano tra le sue.

Il Dottore spostò lo sguardo sorpreso sul volto della ragazza tornando al presente, chiedendosi come mai si fosse lasciato andare in quel discorso. Non amava ricordare o parlare delle esperienze sul campo, eppure lo aveva fatto almeno in parte. Si schiarì la gola, smuovendo le spalle come per scrollarsi quella sensazione di pesantezza di dosso.

“Forse è il caso di rientrare. Abbiamo molte cose da fare oggi, in primis aiutare Clara a sistemarsi. E John…” L’uomo sospirò: “Va a vestirti!Non sei in piscina o al mare!”

John lasciò la mano di Clara, sospirando:

“Agli ordini… una piscina però potremo anche scavarla in giardino. Pensaci papà!”

Il ragazzo sorrise, lasciando un bacio sulla tempia di Clara e sussurrandole un caloroso:

“Bentornata!” Prima di allontanarsi verso casa a passo svelto.

Clara lo osservò allontanarsi, sorridendo:

“Suo figlio è un ragazzo d’oro. E’ stato gentile con me in un periodo non proprio roseo, gli devo molto.”

Il Dottore sorrise, come segno che apprezzava quel complimento. Fu la prima emozione positiva e sincera che Clara vide sul volto dell’uomo. Continuò ad osservarlo sporgersi verso l’aiuola, strappando una foglia secca da un arbusto; la rigirò tra le dita tenendola per il picciolo mentre rispondeva:

“E’ un po’ troppo espansivo però. Questo lo porta molto spesso ad essere frainteso.”

Clara corrucciò le sopracciglia, avvertendo o immaginando una nota di rimprovero nelle parole dell’uomo.

“Se si riferisce al’abbraccio di prima, stia tranquillo. Non ho intenzione di fraintendere nulla né approfittare della situazione.”

La voce ironica nascondeva una velata nota di prepotenza, chiaro segno che Clara era infastidita dall’insinuazione. Il Dottore portò lo sguardo sorpreso sulla ragazza ritrovandosi con le labbra dischiuse in un’espressione confusa mentre smetteva di giocherellare con la foglia secca. Mosse le labbra come se volesse parlare, prima di chiuderle e spostare lo sguardo. Abbassò il braccio voltandosi completamente verso la ragazza trovando finalmente il coraggio di continuare:

 “E’ una cosa che ha ereditato da me. Essere frainteso.” Il Dottore lasciò cadere la foglia schiarendosi la gola prima di riprendere parola: “Deve essere il mio accento scozzese.”

Clara arricciò le labbra in un’espressione incerta rispondendo:

“Voleva essere una battuta?”

“Bè… credo di non esserci riuscito…”

Un lieve colorito roseo si sparse sulle guance dell’uomo, ma tanto bastò a far rilassare il volto di Clara in un sorriso divertito mentre rispondeva:

“Decisamente no. Ma posso constatare che John non ha ereditato solo questo da lei. Siete più simili di quanto sembra.”

Clara si lasciò scappare una leggera risata che cercò di nascondere girando il viso di lato. Tornò a guardare il Dottore per un attimo facendogli un cenno col capo per congedarsi, prima di girarsi e dirigersi dentro casa. Il Dottore rimase in giardino, lo sguardo fisso sulla schiena della ragazza ed un’espressione indecifrabile sul viso.

Quando Clara fu dentro, il Dottore si abbassò a raccogliere la foglia che aveva lasciato cadere in precedenza. La tenne tra le dita, portandola con se mentre rientrava anche lui.


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Note:

Scrivere questo capitolo non è stato facile. Non perché non avessi ispirazione, ma perché la linea che avevo deciso di seguire sta mutando e prendendo vita propria… in pratica non sono più io a decidere per i personaggi ma sono loro stessi a decidere di fare quel che cavolo gli pare xD la bozza e l’idea originale di questo capitolo era infatti totalmente diversa da quella che avete appena letto. Il risultato… non so come sia, lo ammetto, spero però sia piacevole da leggere.

Per quanto riguarda la confusione dei nomi, John (Eleven) resterà John ed il Dottore (Twelve) resterà il Dottore. Più avanti nella storia spiegherò meglio il perché di questa scelta.

Sulla questione militare invece, qualsiasi cosa abbia scritto o scriverò in futuro proviene da esperienza di vita reale. Ho un conoscente che ha fatto la stessa scelta ivi descritta da Twelve, per motivi però completamente diversi, ed inserirò quindi dalla sua esperienza a riguardo stralci di vita. Credo già nel prossimo capitolo inserirò una parte riguardante la prova finale dell’addestramento militare del Dottore, e sarà effettivamente un pezzo di realtà. Spero continuiate a seguire la storia, io continuerò comunque a scriverla. Grazie a tutti : )

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


cap 4

Capitolo 4

 


Clara fu svegliata dal vociferare sotto la finestra della sua camera. Bè, quella era la camera di Amy in realtà.

Non distingueva le parole con chiarezza, ma riconosceva perfettamente la voce di John ed una più profonda che aveva imparato essere quella di suo padre. Sembravano discutere di qualcosa, mentre si sentiva il rumore di un oggetto pesante che strisciava e sbatteva infine da qualche parte; ogni tanto John si lasciava sfuggire una risata.

Clara si girò sulla schiena, scostando un pò il lenzuolo dal corpo e portò le mani a stropicciarsi gli occhi per svegliarsi.

Dando uno sguardo alla radiosveglia sul comodino vide che mancavano quindici minuti alle sei.

 Le voci dei due uomini all' esterno continuavano a farsi sentire, incuriosendo la ragazza e spingendola ad alzarsi dal letto, anche se controvoglia. Scostò la tenda leggera dalla quale filtrava la prima luce del mattino ed aprì la finestra, non curandosi del fatto che indossasse solo slip ed una leggera canotta bianca. Quando si affacciò scoprì che John ed il Dottore avevano caricato una canoa sul tettuccio della macchina; John la stava assicurando al portapacchi con delle corde.

"Clara! Scusa, ti abbiamo svegliata." John le si rivolse con un sorriso radioso, scorgendola alla finestra proprio nel momento in cui aveva alzato lo sguardo per strattonare un capo di una delle corde e cercare di indirizzarne la linea verso il lato opposto del tettuccio. Il Dottore, invece, le diede semplicemente un rapido e freddo sguardo tornando poi a concentrarsi sui nodi per assicurare bene la canoa.

Clara poggiò le braccia sul davanzale, sporgendosi appena:

"Che state facendo?"

John continuò a tirare la corda, cercando di fissarla all' asta del portapacchi, rispondendo innocentemente:

"Nella valigia hai un costume da mare?"

Clara ci pensò un pò su prima di rispondere incerta:

"Andiamo al mare?"

John fermò il suo lavoro usando un tono leggermente spazientito, ma Clara sapeva che fingeva di esserlo:

"Ce l'hai un costume si o no?"

Clara scosse la testa in segno negativo, arricciando le labbra in una smorfia di disappunto.

"L'ho lasciato a Blackpool....sai, qui non c'é il mare..."

John sbuffò, stringendo alcune cinghie e si diresse sotto la finestra.

"Quindi non hai nemmeno una muta da sub, surf o di qualche tipo?"

Clara corrucciò le sopracciglia fissando John con aria perplessa ed anche innervosita:

"Eleven, mi stai prendendo in giro? Sei serio? Se non ho un costume da bagno come diavolo faccio ad avere una muta!"

"Bé... la muta non é un problema, la troviamo lá... ma sotto dovrai tenere la biancheria intima"

Il ragazzo sembrava parlare più a se stesso che a Clara la quale, poverina, si portò le mani al volto mostrando un' espressione confusa e disperata.

Il Dottore finì di fissare la canoa in sicurezza al posto di John, decidendo di interrompere Romeo e Giulietta e spiegare finalmente alla ragazza le loro intenzioni:

"Partiamo per il fine settimana. Vi porto in Scozia, sul fiume Orchy a fare Kayak."

Clara sollevò la testa ed il busto, osservando John che annuiva contento con la testa prima di fermare lo sguardo perplesso sul volto inespressivo del Dottore.

"Kayak? Ma..." guardò la canoa per un attimo prima di continuare: " Io non so neanche cos'é!"

"Tranquilla!" Rispose John sorridendole: " Io faccio Kayak, tu ed il Dottore, qui…” Ed indicò suo padre con un cenno della mano: “… scenderete il fiume col gommone. Sai, Rafting!"

Il Dottore corrucciò le sopracciglia guardando suo figlio ed incrociò le braccia:

"E chi lo ha deciso? Il kayak che abbiamo caricato é il mio!"

John lo ignorò, parlando ancora alla ragazza:

"Coraggio,vestiti e prepara una borsa con ciò che ti occorre che partiamo!"

Era inutile discutere sulla questione. Inutile anche opporsi all' improvvisata che stavano organizzando lì per lì. Clara sospirò e sorrise. Chiuse la finestra e corse a prepararsi.

 

Ci aveva impiegato mezzora per preparare un borsone con le cose che potevano servirle per unescursione. Si era lavata, aveva indossato dei vestiti comodi e scarpe da ginnastica, infilato in borsa qualche cambio di biancheria intima - forse troppi - un pigiama, pantofole e due cambi di vestiti. Nulla di elegante per la sera. Se andavano a fare escursione sul fiume probabilmente avrebbero campeggiato; dubitava ci fossero locali eleganti nelle Highlands scozzesi!

Era scesa nel vialetto pronta per partire, ma quando raggiunse lauto non vide nessuno.

“John? Dottore?”

“Signorina Oswald! E’ di partenza?”

Si voltò verso sinistra, riconoscendo la voce del Signor Donovan e vedendolo attraversare il vialetto pubblico, oltre la staccionata, diretto chissà dove con il suo cagnolino al guinzaglio. Era un uomo sulla settantina, non molto alto ed un po’ sovrappeso, ma con Clara era sempre stato gentile.

La ragazza lo salutò con un cenno e stava per rispondergli quando l’uomo parlò di nuovo prevenendola:

"Ha trovato un nuovo appartamento ed è venuta a riprendersi le ultime cose?" Indicò con un gesto innocente il suo borsone e poi continuò con un sorriso: “Ha fatto bene!”

Il sorriso della ragazza si spense, sostituito subito da unespressione di fastidio e disagio.

“Mi scusi? Non credo di…”

L’uomo la interruppe, sporgendosi un po’ oltre la staccionata con il viso e quasi sussurrando le disse:

“Sa, Smith è un tipo strano. Davvero, miss Oswald,  non so come faccia a vivere in casa sua. Credo abbia un pezzo di ghiaccio al posto del cuore.”

Sbalordita Clara rispose seria e con un tono leggermente indurito:

“Credo stia parlando di qualche altro Smith, non del meraviglioso ragazzo che conosco io.”

”Io parlavo di suo padre. Ma credo che la cosa possa valere anche per il giovane. Ma se va via non deve più preoccuparsi!”

Poi si allontanò e riprese calmo il suo cammino, senza accorgersi che dalla gola della ragazza era fuoriuscito un suono spiacevole che somigliava quasi ad un ringhio. Il cuore le batteva forte mentre stringeva i pugni. Cercò di rilassare la mascella, serrata a causa del nervosismo, per parlare e non si rese conto di quanto infastidita e dura fosse diventata la sua voce:

“Se lasciasse cadere dagli occhi quel velo di ignoranza e pregiudizio capirebbe quanto è fortunato ad avere questi due uomini come vicini di casa! John è meraviglioso ed il Dottore è un eroe!”

Non si preoccupò di vedere quale risultato avessero avuto le sue parole sul Signor Donovan, aprì semplicemente la portiera posteriore dell’auto e lanciò con rabbia sul sedile il suo borsone, sbattendo la portiera nell’istante successivo. Grugnì ed incrociò le braccia al petto, guardando un punto indefinito della fiancata dell’auto.

“Sai. Forse Donovan non ha tutti i torti.”

Clara sobbalzò, portando lo sguardo verso il lato guidatore. Né lei né Donovan si erano resi conto che alla guida del mezzo ci fosse qualcuno. Il Dottore.

“Io non sono di certo un eroe.”

Clara sbuffò, rispondendo imbronciata.

“Salvi vite su territori di guerra. Metti in pericolo te stesso, aiuti chi è meno fortunato. Eroe o non eroe, certe persone dovrebbero pensare bene prima di aprir bocca e sputare stronzate!”

“Lingua.”

Clara stava per ribattere quello che sembrava essere un rimprovero quasi paternale, ma trovò l’ombra di un sorriso sul volto del Dottore che la costrinse a sorridere di rimando. E non potette rispondergli in altro modo se non con una linguaccia impertinente.

 

***

 

C’era voluta quasi tutta la giornata per raggiungere Dalmally. Questo perché avevano fatto anche un paio di soste in più rispetto a quanto programmato, per godersi un po anche il panorama, scattare qualche foto e sgranchirsi le gambe per il troppo stare in auto.

John ed il Dottore si diedero il cambio alla guida più o meno a metà strada. Erano anche passati vicino Blackpool, ma Clara non aveva voluto deviare per fermarsi e recuperare il costume da bagno, anzi aveva insistito affinché non lasciassero l’autostrada.

“Dai Clara. Si tratta solo di mezzora in più di viaggio!”

“Eleven. No! Se vuoi ci fermiamo al ritorno. Adesso voglio andare dritta alla meta!”

Erano circa le tre del pomeriggio, forse lora era passata da qualche minuto, quando raggiunsero Glasgow e decisero di fermarsi lì per il resto della giornata. Lescursione in fiume era programmata per il giorno dopo e John si era lasciato sfuggire che quella era la città natale di suo padre. Non potevano non visitarla!

Così, era ormai tarda sera quando raggiunsero il piccolo cottage che il Dottore aveva prenotato per il fine settimana e piovigginava già da quando avevano lasciato Glasgow, un paio di ore prima.

Clara era preoccupata per la pioggia, ma John le aveva assicurato che era normale e che non doveva temere nulla. Si separarono per la notte;  il cottage, oltre i servizi, prevedeva anche due camere da letto.

 

Il mattino dopo c'era il sole e l'aria era fresca. Settembre stava dando il meglio di se partendo in gran stile!

Al punto di incontro con la guida c'erano altri gruppi di turisti, tutti emozionati ed ansiosi per la discesa. Molti avevano la propria attrezzatura, altri invece dovettero utilizzare quella fornita dal Centro Kayak & Rafting. Clara era tra quest'ultimi.

Uscì dallo spogliatoio tirando la muta che aderiva in modo fastidioso sulle cosce e con il salvagente, indossato al di sopra della giacca impermeabile, ancora slegato così come il caschetto di sicurezza, storto sulla testa.

“Clara! Sei un disastro!” John le si avvicinò, ignorando il broncio della ragazza e corse a sistemare quel pasticcio. Le chiuse gli agganci del salvagente a gilet stringendo le fibbie ai fianchi e sulle spalle, tirando forte. Qualche volta John si permetteva di indugiare nei movimenti e la guardava per un attimo prima di distogliere lo sguardo. Non le toccava la pelle, troppi strati tra loro, ma a Clara piaceva lo stesso, ed anche a lui.

“Hei! Troppo stretto!” Avvertì la ragazza espirando con forza l'aria dai polmoni alla stretta dell’ultima fibbia.

“Deve essere stretto. É per la tua sicurezza.” Rispose John tranquillo prendendo la misura del caschetto sulla testa della ragazza per poi toglierlo e cominciare a regolare anche quello.

"Riesci a respirare bene?"

"Si."

John quindi le sorrise, le lasciò un bacio sulla fronte prima di posarle nuovamente il caschetto in testa per poi far scattare il gancio sotto il mento e regolare anche quello.

"Ecco. Sei pronta!" Le portò le mani sulle spalle e poi indietreggiò un paio di passi per guardarla ed annuire.

"Quindi... tu scendi con il... kayak!?"

Clara trasudava eccitazione e timore. Non aveva mai fatto nulla del genere e davvero non sapeva cosa aspettarsi dalla situazione. Strinse la mano di John tra le sue per farsi coraggio. Il ragazzo la tirò a se e la abbracciò, o almeno cercò di farlo attraverso gli spessi strati di roba di sicurezza che li coprivano rendendo il loro contatto praticamente nullo ed impacciato.

"Non preoccuparti. Al briefing ti daranno tutte le istruzioni di base per affrontare il fiume e quelle di sicurezza. Fa ciò che ti dirà la guida." Il sorriso di John la tranquillizzò un pò “E se cadi in acqua non avere paura. Il tratto che faremo é tranquillo, cadere in acqua fa parte del divertimento.”

Clara annuì, ma non era del tutto sicura a riguardo. Poi avvertì il richiamo della guida e raggiunse il gruppo per il briefing mentre John preparava il suo kayak per la discesa. Il Dottore era già seduto su un tronco secco, probabilmente ciò che restava di un albero caduto o trascinato dal fiume in piena. Sembrava annoiato ed imbronciato mentre cominciava la spiegazione della guida, forse perché in canoa voleva andarci lui; Clara si sedette accanto a lui e gli sorrise, ma la sua espressione restava preoccupata. Il Dottore le sorrise di rimando e le strinse la mano sinistra con la sua destra per incoraggiarla. Questo gesto la sorprese.

Tra lui e John il risultato però fu soddisfacente: Clara trovò il coraggio necessario per salire su quel maledetto gommone col gruppo!

 

Seguire le istruzioni della guida, posta sul fondo del gommone a tenere sotto controllo tutti, non si era rivelato affatto difficile. In un punto calmo le aveva giocato un brutto scherzo spingendola in acqua con la pagaia – per familiarizzare col fiume, diceva lui -  creandole una mezza crisi respiratoria per quanto l'acqua era fredda, ma erano bastati pochi attimi per abituarsi e ritornata a bordo il movimento le aveva ridato calore. Inoltre la stessa sorte era toccata anche agli altri passeggeri e, tutto sommato, si stava davvero divertendo, godendosi anche il panorama. I boschi intorno erano ancora verdi, il sole caldo ed il cielo azzurro. Ad un bivio, con una piccola isoletta a diramare il corso del fiume, la guida aveva deciso di fermarsi e far osservare i salmoni che risalivano la corrente su una serie di rapide sul lato che non avrebbero percorso. John e Clara si spostarono abilmente su alcuni massi che dalla riva giungevano fino a poco prima delle rapide per guardare meglio la risalita dei pesci.

Quando tornarono alle imbarcazioni, la guida li informò che avrebbero percorso un tratto un pò più impegnativo, una deviazione dovuta ad un albero caduto sul lato che avrebbero dovuto percorrere. Ma i kayak dovevano avanzare prima ed attendere al piccolo laghetto naturale alla fine delle rapide. Poco più avanti c’era lo sbarco.

Clara puntò lo sguardo sulle canoe che già scomparivano dietro la curva del fiume.

"Hei, sta tranquilla. Il tuo fidanzato è tecnicamente preparato. E se voi sul gommone non foste in grado non vi percorrere quel tratto." La guida cercò di tranquillizzare Clara, ma lei sorrise senza rispondere, salendo a bordo e posizionandosi al fianco del Dottore. Le sorrise.

Se era tranquillo lui, allora lo era anche lei.

Raggiunsero il punto indicato dalla guida, seguirono prontamente le sue istruzioni. Le rapide erano tutto un turbinio di acqua che si scontrava con le rocce e creava vortici, onde e faceva impennare l'imbarcazione. Ogni due secondi gli ordini della guida si rinnovavano tra una pagaiata ed un 'dentro' che li richiamava ad accucciarsi all' interno di esso per evitare di essere sbalzati fuori durante un impatto con rocce a fior d'acqua. Erano arrivati a poco più di metà del percorso quando un impatto un pò troppo forte ed un ritardo nell' esecuzione del comando fece sbalzare fuori dal gommone tre persone.

"Clara!"

Fu un attimo, Clara scomparve tra vorticosi flutti biancastri per poi riapparire e lanciare uno sguardo terrorizzato verso l'imbarcazione.

"La corda!" Il Dottore urlò verso la guida, chiedendogli di lanciare la corda di salvataggio, ma il giovane tranquillamente lo ignorò e si rivolse alle persone in acqua:

"Posizione di sicurezza, poco più avanti c'é una morta! Lasciatevi portare dalla corrente!"

Tecnicamente era la cosa giusta da fare, ma Clara... oh, Clara e la sua mania del controllo! Stava facendo l'esatto contrario! Ad ogni tentativo di contrastate la corrente questa la spingeva nuovamente sotto.

Il Dottore sapeva, si lasciò cadere in acqua anche lui, sorprendendo la guida in modo negativo e, lasciandosi portare dalla corrente, cercò di raggiungere la ragazza, aiutandosi con qualche bracciata e trattenendo il respiro quando veniva trascinato sotto. Quando risaliva, cercava di visualizzare nuovamente Clara, finché non la raggiunse. La afferrò per il giubbetto, avvicinandosela con la schiena contro il torace:

"Ci sono! Tranquilla. Rilassati!"

Clara tossì, seguendo poi con un verso indefinibile mentre riprendeva a respirare affannosamente e cercava di non bere altro liquido. Il Dottore le cinse i fianchi in una stretta più serrata, portandola con lui a mettersi in posizione di sicurezza, usando il suo stesso corpo come scudo a quello di lei contro eventuali massi mentre si lasciavano portare dalla corrente verso la morta. I kayak in attesa nel laghetto. Gli altri due passeggeri del gommone dalla morta raggiunsero la riva, ridendo tra loro, non si erano accorti di nulla.

Era capitato tutto in pochi secondi, meno di un minuto; ma a Clara sembrò essere passata un' eternità. Non sapeva dire come si era ritrovata lì, seduta sulla riva con l'acqua fredda a lambirle i fianchi, a farla rabbrividire, con la schiena premuta contro il torace del Dottore e le mani serrate attorno al braccio destro di lui che ancora la stringeva mentre tossiva acqua.

"Ce la fai?"

Il respiro accelerato per entrambi. John col kayak che si dirigeva verso di loro.

"Tu e John... siete dei pazzi! "

"Mi... dispiace..."

La presa del Dottore su Clara si allentò, dispiaciuto per il tono isterico e spaventato che lei aveva usato.

“Siete pazzi! Ma vi direi di nuovo si!”

Clara tossì ancora e poi gli sorrise. Le labbra del Dottore tremarono per un attimo, ma non lasciarono uscire alcun suono dalla bocca.

John li aveva raggiunti, col cuore in subbuglio ed un’espressione preoccupata; sfilò dal kayak arenato sul pietrisco della riva e si inginocchiò accanto alla ragazza e suo padre:

"Clara, tutto bene? Ti sei fatta male?"

Clara negò con la testa, allungando le braccia verso John. Erano entrambi accanto a lei, non c'era un vero e proprio contatto fisico tra loro eppure non li aveva mai sentiti così vicini.

“Papà…” Ora John guardava suo padre.

“Zitto. Lo so.” Aveva sbagliato.

Anche la guida si diresse a passo svelto ed espressione dura verso di loro, il gommone parcheggiato sulla riva poco più avanti:

“Si può sapere cosa credeva di fare? Ha messo tutti in pericolo con la sua…”

“Sono caduto.”

La voce del Dottore era secca, lo sguardo ancora rivolto verso la ragazza davanti a lui che si sistemava il caschetto e John che le prendeva le mani mentre la aiutava ad alzarsi per poi spostarle alcune ciocche di capelli bagnati dal viso.

“L’importante è che nessuno si sia fatto male, no?” Solo allora rivolse lo sguardo freddo verso la guida che, scuotendo la testa esasperato, decise di allontanarsi.

Clara sputò un filo d’erba che le pizzicava la bocca, abbracciò John per un attimo prima di voltarsi con un sorriso verso il Dottore:

“Il signor Donovan aveva torto marcio.”

Clara sorrise. John mostrò un’espressione interrogativa. Il Dottore pensò che non era Donovan ad aver torto, ma lei che lasciava un marchio a fuoco nelle persone senza rendersene conto.

 


Più tardi, nel pomeriggio, avevano acceso un falò al centro di una radura accanto al fiume. Piovigginava ma non abbastanza fitto da spegnere il fuoco ormai alto.

Il Dottore era sparito da un po’, forse mimetizzato tra gli altri avventurieri.

John e Clara sedevano vicini accanto al fuoco, le gambe incrociate sotto di loro.

“Lo fate spesso?” La voce di Clara era dolce e traspariva curiosità.

John sorrise continuando a guardare il fuoco.

“Una volta, si. Lo facevamo spesso. Quando mia madre era viva.”

La moretta lo guardò stupita, ritrovandosi a chiedersi per la prima volta che tipo di persona fosse la signora Smith. Sicuramente sarebbe piaciuta a sua madre, ed anche a lei.

“Tua madre andava in canoa?”

John annuì alla sua domanda, con lo sguardo lucido. Se fosse per le fiamme o per il ricordo di lei Clara non sapeva dirlo, sapeva solo che si ritrovò con la testa poggiata sulla spalla di John mentre le raccontava di lei. Adorava troppo quel ragazzo, forse non sapeva ancora in che misura, ma vederlo stare male faceva male anche a lei.

“Questo è uno sport estremo, non sono molte le donne che lo praticano. Ma mia madre per me è stata la migliore delle madri, anche se non era una che stava ferma a fare la calza, se capisci cosa intendo.”

Clara annuì, attendendo che John continuasse:

“Lei mi ha insegnato le basi del kayak quando ero un bambino; era brava e le piaceva viaggiare. Lei ed il fiume erano come una cosa sola. Il gruppo sportivo a cui apparteneva l’aveva battezzata così: River.”

“Qual’era il suo vero nome?”

Clara realizzò che John non glielo aveva mai detto ed ora che ne parlavano quella domanda le uscì spontanea.

“Melody.” Rispose John.

“Melody. Un nome molto bello.” Clara sorrise.

“Melody Pond.”

“Pond? Come Amy?”

John si lasciò scappare una piccola risata annuendo:

“Si. In effetti io ed Amy siamo parenti alla lontana.” Poi il suo sorriso si spense mentre si lasciava sfuggire la frase successiva: “Sai… mia madre è morta a causa di un incidente in fiume. A volte purtroppo capitano degli imprevisti ai quali non puoi rimediare, nonostante tu possa possedere una tecnica perfetta…”

John si fermò, la voce cominciava a tremargli. Clara si scostò guardandolo in volto con espressione scioccata, intuendo finalmente quanto davvero fosse doloroso per lui e per suo padre essere lì.

“John… allora perché siamo qui? Ti fa male, lo vedo!”

Gli portò le mani al viso, costringendolo a girarsi verso di lei e ne incrociò lo sguardo perdendosi in quegli occhi tristi. John piegò le labbra verso l’alto ma la malinconia del suo sguardo rimase immutata:

“Non ho paura. Non mi fa male ripercorrere i suoi passi. Forse all’inizio si, ma adesso sono sereno. Lei non si è mai pentita di nulla ed anche quando tornava a casa ammaccata, con i lividi addosso  o ricoperta di graffi diceva che era la cosa più bella ed emozionante che avesse mai fatto. Era una dipendenza. E praticando questo sport l’ho capita.”

Clara si sporse verso di lui baciandogli una guancia. John chiuse gli occhi, avvertendo un sussulto al cuore che quasi gli spezzò il respiro quando Clara gli portò le braccia al collo e strinse la presa. Non potette fare altro che portare le mani dietro la schiena di lei, credendo di avvertire il suo calore oltre la giacca impermeabile. Forse neanche lui sapeva in quale misura tenesse a quella ragazza, forse non sapeva neanche quanto profondamente gli fosse penetrata sotto la sua pelle. Sapeva solo che no, non poteva ferirla oltrepassando la linea di confine,  ma non poteva neanche allontanarsi da lei.

Quando si separarono, Clara aveva gli occhi lucidi su di un’espressione sofferente e muoveva le labbra in un tremito incerto ma non parlava. John corrucciò preoccupato le sopracciglia sottili:

“Cosa… ti fa male qualcosa?”

Clara negò con un gesto della testa, cercando il coraggio per parlare:

“E’ per questo che… prima, quando sono caduta in acqua. E’ per questo che tuo padre si è tuffato? Non è caduto… l’ho visto.”

La ragazza poteva solo lontanamente immaginare cosa avessero provato in quel momento entrambi. John le portò la mano destra sulla testa, in una carezza delicata che scese fino alla guancia arrossata.

“Ha semplicemente fatto quello che avrei fatto anch’io. Siamo responsabili per te, sei sotto la nostra protezione.”

Con l’indice le pungolò leggermente il naso, sciogliendo definitivamente il loro contatto e provocandole un gemito di disappunto.

Fu in quel momento che il Dottore ritornò dopo essere sparito per quasi un’ora. Non incrociò lo sguardo con i ragazzi mentre si sedeva e porgeva loro un piatto con della carne da cuocere:

“Ho trovato da mangiare. I ragazzi del Rafting avevano previsto una grigliata con della carne di Angus  e…”

Non finì la frase perché si ritrovò Clara avvinghiata al collo che lo stringeva in un abbraccio serrato ed improvviso e gli sussurrava un tiepido ‘scusami e grazie’ all’orecchio. I muscoli dell’uomo si tesero, rendendolo una statua di marmo rigida mentre John cercava di recuperare il piatto con la carne dalle mani tremanti e smorzava una risata.

“Anche lei è una persona da abbracci. Come me!”

Quando Clara si staccò, l’uomo riprese a respirare sussurrando:

“Clara… non farlo mai più… o almeno avvertimi prima di farlo…”

La ragazza scrollò innocentemente le spalle, lanciando uno sguardo perplesso alla carne:

“Piuttosto… su cosa la mettiamo per arrostirla?”

Non importava cosa avrebbero fatto con quella carne e come lo avrebbero fatto. Quel momento a loro tre appariva perfetto anche nei difetti.

 
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 Note:

Capitolo più lungo degli altri ma anche questo, come il precedente, doveva essere completamente diverso xD Forse è un pò lento, magari si capisce solo il cambiamento di John ... ma avevo bisogno di renderlo così. O magari non si capisce niente e se così fosse vi chiedo scusa.

Prossimo capitolo si cambia un po’. Un po’ tanto forse... e poi.... scusate per l'angst, ma credo peggiorerà con l'avanzare della storia, si si.

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


Cap.5

 
Capitolo 5

I corsi erano cominciati ed anche Amy e Rory erano tornati, trovando una situazione nuova alla quale forse difficilmente si sarebbero adattati.

Il Dottore non aveva ancora ricevuto la sua nuova assegnazione, il che complicava un po’ le cose riguardo alla ‘sistemazione notturna’ ma né a John né a Clara dispiaceva; forse solo ai due fidanzatini che si ritrovarono a dover dormire separati.

Per il resto, John era più euforico ed aperto del solito; Clara invece si sentiva finalmente a casa, completa ed accolta come in una vera famiglia. Nel frattempo, il Dottor John Smith aveva ripreso a lavorare all’ospedale civile, ingannando l’attesa per la sua prossima assegnazione.

John aveva spesso detto a Clara come la sola presenza di suo padre lo facesse sentire protetto e col passare delle settimane, conoscendo meglio quel silenzioso uomo, la giovane ne aveva capito il perché. Non era un uomo espansivo come suo figlio,non amava il contatto e gli abbracci ma era ricco di piccole attenzioni che lo rendevano unico: uno spuntino durante lo studio, la colazione già pronta al mattino, un ciocco di legno nel camino a dare calore alla casa o, meglio ancora, anche solo un sorriso e la frase giusta messa come supporto morale in giornate nere ed interminabili. E quando i turni in ospedale richiedevano tutta la sua presenza la casa ne risentiva invece l’assenza.

 
**** 


 
“John! Togliti quel vestito di dosso!”

“Clara! No!”

Si guardavano negli occhi, Clara con un’espressione arrabbiata e John con un’espressione quasi terrorizzata.

“Non puoi presentarti al colloquio così!!!”

“Perché no!?”

John doveva incontrare l’Ingegnere capo presso il quale cominciare la gavetta. Lui e Clara erano ai rispettivi capi opposti del divano in soggiorno, a studiarsi vicendevolmente come un predatore con la sua preda.  

Clara era la tigre. John la gazzella.

“Perché sembri…Willie Wonka!!”

John indossava un abito vinaccio piuttosto elegante, ma decisamente fuori dal tempo. I pantaloni scuri e la camicia bianca potevano anche andare, ma gli stivali neri, la giacca lunga fino al ginocchio ed il cilindro erano troppo!

“Vuoi dire che somiglio a Johnny Depp? Il nome c’è… e magari faccio colpo sull’Ingegnere e decide di tenermi. E’ una donna!”

John espose un sorriso sexy diretto a Clara, mentre si passava una mano sul viso e poi si sistemava il ciuffo.

“No! Intendevo il Willie Wonka dell’originale Fabbrica di Cioccolato! Non il remake!”

Rory era seduto sul divano, con le gambe stese ed il telecomando in mano mentre cambiava canale alla tv. Sembrava indifferente al piccolo battibecco che stava avvenendo attorno a lui, come se fosse una cosa del tutto normale.

Clara mosse un passo verso sinistra come a voler preparare un eventuale scatto verso di lui; specularmente, John mosse un passo a scopo difensivo: voleva scappare nella direzione opposta a quella di lei. Concentrato sul movimento della moretta, però, non si accorse di Amy alle sue spalle che gli strappò il cilindro dalla testa.

“Cos… no! Amy!”

Si voltò di scatto verso di lei, aggirando il divano dal lato posteriore ed indietreggiando dalla rossa. Clara approfittò di quell’attimo di distrazione per avvicinarsi all’uomo e tirargli il colletto della giacca. Riuscì a sfilargliela solo un po’ oltre le spalle prima che John si ribellasse, girandosi ed allontanandosi da lei imbarazzato mentre si risistemava la giacca. Clara non si arrese.

“No… ferma… Clara… ti prego… non…”

“Smettila di fare il bambino!”

Si intromise Amy, portando le mani sulle spalle di lui e tirandogli via di dosso la giacca con un’abilità e velocità tale da non permettere all’uomo di accorgersene se non troppo tardi.

John mise il broncio, borbottando qualcosa di incomprensibile tra se e se mentre si allontanava al piano superiore per cambiarsi.

Amy sorrise e fece l’occhiolino all’amica, piegandosi la giacca di John tra le braccia ed allontanandosi verso il guardaroba all’ingresso per posarvela dentro.

Clara restò ferma al bordo del divano, con le dita delle mani leggermente poggiate sullo schienale ed un’espressione pensierosa sul volto.

Era passato poco meno di un anno da quando si era trasferita lì, aveva stabilito un ottimo rapporto con tutti e tre loro, ma con John… era diverso. Tra loro c’era sempre quella barriera invisibile che le impediva di avvicinarsi troppo a lui, e non era lei ad averla innalzata. A volte le sembrava che quel muro invisibile ed invalicabile le aprisse le porte, soprattutto quando John si comportava da fidanzato premuroso pur non essendolo, quando la abbracciava o le baciava la fronte. Ma i suoi gesti finivano lì, senza darle modo di capire se c’era effettivamente qualcosa per cui valesse la pena fare il passo decisivo; senza contare che la tensione che si creava tra i loro sguardi incatenati era sempre lui a scioglierla allontanandosi da lei prima di oltrepassare la linea. Questo la confondeva e non le piaceva restare in sospeso. Ma almeno si era difesa imponendosi una regola fondamentale: ‘Non innamorarsi’. Stare lontani durante le vacanze estive l’aveva convinta di esserci riuscita. Ma quando era tornata, qualcosa le si era infiltrato nel cuore. Aveva conosciuto suo padre, aveva capito di più John. Si era sentita accettata, curata ed amata, come in una famiglia. Eppure quella barriera invisibile continuava a ferirla.

Una volta gli aveva chiesto perché non avesse una fidanzata.

John le rispose semplicemente che non ne aveva bisogno, preferiva restare da solo. Poi aveva sorriso tristemente aggiungendo:

 

“Ho avuto le mie delusioni. Mi hanno segnato. Chi mi ama resta inevitabilmente ferito, preferisco proteggerli allontanandomi.”

Lei aveva risposto con impertinenza:

“Ma dai! E’ così che fai? E funziona? Le ragazze ci cascano e ti fanno fare i tuoi comodi senza impegno?”

Clara sorrideva maliziosa, John arrossì imbarazzato e mostrando un’espressione di sdegno:

“Clara!”

Lei rise:

“No. Sei troppo timido ed affettuoso per ferire chi ami. Stai mentendo.”

Lui la guardò per un attimo muovendo le labbra prima di chiuderle e spostare lo sguardo. Poi sorrise appena dicendo:

“Ad Amy e Rory non potrei mai fare del male. Sono la mia famiglia, i miei fratelli. Ora ci sei anche tu.  Neanche a te potrei mai fare del male. Mai, mai mai.”

“Oh, andiamo! Stare con te non può essere così male! Qualsiasi donna sarebbe fortunata! Chi è la stronza che ti ha spezzato il cuore?”

“Chi ti dice debba per forza esserci una lei?”

“C’è sempre una lei stronza quando un uomo come te la pensa in questo modo.”

Sul volto di John c’era ancora un lieve sorriso, ma il suo sguardo era improvvisamente cupo e triste.

“Tutte le cose belle hanno una comune: finiscono presto e fanno un male cane! Credimi Clara. La felicità non è John Smith.”

Clara aveva i suoi dubbi a riguardo, ma si sentiva anche come se John, in quel momento e con quelle parole, le avesse volutamente tarpato le ali.

 

“Clara?”

La voce di Rory la riportò alla realtà, costringendola a voltare lo sguardo vero di lui.

“Tutto bene?”

Notò la sua espressione preoccupata, così decise di smorzare la tensione che le era attorno sorridendo ed annuendo con la testa.

“Invece no. Su, racconta!”

Rory le fece cenno di sedersi accanto a lui, battendo la mano sul divano nel posto accanto al suo.

Clara sospirò, sedendosi accanto a lui e stese le gambe in avanti poggiando i piedi sul tavolino. Le braccia incrociate al petto ed un’espressione imbronciata sul viso.

“E’ solo… non lo so. John con me è diverso.”

“Diverso? In che senso? Non mi sembrava come se steste litigando o altro…” Rory la guardò perplesso.

“No, non intendevo in quel senso. E’ che… forse è solo una mia impressione, ma con voi due lui è diverso. A volte ho come la sensazione che attorno a John ci sia un perimetro che non devo attraversare. Ma in quel perimetro voi invece rientrate.” Clara guardava lo schermo della TV senza però vedere davvero le immagini che si susseguivano su di esso, continuando il suo ragionamento e senza accorgersi di Amy che si era avvicinata: “insomma, con voi è più… sciolto. Con me a volte sembra porre dei limiti e non capisco perché.”

Clara non era stupida. Le sensazioni che provava erano sempre dettate dall’istinto ed il suo istinto non sbagliava mai. Quando aveva provato a togliergli la giacca John era visibilmente a disagio; con Amy invece non aveva battuto ciglio. Negli ultimi tempi questi stati d’animo sembravano essersi accentuati; John passava da momenti in cui appariva il ‘fidanzato’ perfetto a momenti in cui era semplicemente un estraneo e la cosa la faceva preoccupare molto, la feriva.

Amy e Rory si scambiarono uno sguardo d’intesa, senza mutare l’espressione seria che ad entrambi sagomava il viso.

Il biondo le portò un braccio dietro le spalle, portandosela contro il petto e la strinse in un abbraccio mentre cercava di consolarla.

“Tranquilla. E’ solo una sensazione sbagliata. John è semplicemente preoccupato per la nuova occasione che gli si è posta di fronte. Vedrai che non è nulla!”

Clara nascose il viso contro la camicia dell’amico, lasciando uscire un gemito sofferto dalle labbra mentre tirava su col naso.

 Amy non provò gelosia, semplicemente meditava sulla situazione capendo appieno ciò che stava accadendo.

Forse Clara non aveva ancora consapevolezza di se, ma era chiaro che John era un perfetto idiota!

“So io qual è la soluzione!” Esplose Amy, seduta ormai sul bordo del tavolino davanti a loro.

Clara alzò la testa, scostandosi da Rory e guardando la rossa con gli occhi gonfi e lucidi, ma privi di lacrime.

“Ti organizzo un appuntamento! C’è un tipo all’università che spesso mi ha chiesto di te.”

“Oh, buon Dio…” La voce di Rory era uscita in un sospiro sconsolato, lasciando cadere la mano dalla spalla di Clara per portarsela alla fronte mentre si piegava in avanti. Doveva aspettarselo!

“Non ho tempo per uscire. Devo finire gli esami e laurearmi quest’anno!”

Amy la ignorò, portando entrambe le mani al viso della moretta per tirarle le guance:

“Non te lo devi sposare, ci devi solo uscire una volta!”

“Cioè una botta e via? No grazie, non sono proprio il tipo!”

“Ok…. Io me ne vado. Certi discorsi non fanno per me!”

Rory si alzò e si diresse al piano di sopra, salendo a passo pesante le scale non curandosi di nascondere la sua espressione nauseata al povero John che invece le stava scendendo. Amy si lasciò scappare una risatina divertita mentre diceva a Clara di stare tranquilla, ci avrebbe pensato lei!

La moretta non rispose. Ma il suo istinto le imponeva di essere assolutamente ed indubbiamente diffidente.

“Che avete fatto a Rory?”

John tornò in salotto vestito finalmente in modo decente, osservando perplesso le due ragazze sedute al divano e notando che Amy era fin troppo euforica.

“Amy vuole organizzarmi un incontro al buio.” Rispose Clara con una nota di scetticismo nella voce mentre Amy, con lo sguardo fisso sul ragazzo, mostrava invece un’espressione furba ed orgogliosa assieme.

John si bloccò, spalancando la bocca ed avvertendo un blocco allo stomaco che non si seppe spiegare. Gli sembrò quasi di perdere l’equilibrio mentre un “NO!” secco gli usciva dalla bocca sorprendendo sia Amy che Clara e facendole sobbalzare. Provò a rimediare una qualche scusa quando Amy ne uscì con un malizioso:

“Sei geloso?” che fece arrossire John e sorridere Clara.

John sembrò andare in iperventilazione mentre agitava le mani davanti a se in modo sconnesso:

“No. Assolutamente. Semplicemente gli incontri al buio di Amy non sono affidabili.”

“Come sarebbe che non sono affidabile?” Amy mise il broncio mentre John continuava:

“Un solo nome: Tasha Lem!”

“E allora?” Amy scrollo le spalle, non curandosi dell’espressione improvvisamente seria di John.

Clara socchiuse le labbra, chiedendo chi fosse questa fantomatica ‘Tasha Lem’.

John inspirò profondamente prima di esplodere in un terrorizzato:

“Mi è saltata al collo non appena ci siamo incontrati. Mi ha praticamente spinto dentro casa sua e stuprato!”

“E allora? Non mi sembrava ti fosse dispiaciuto all’epoca…”

“Col cavolo! Ha provato a farmi cose che ad un uomo non dovrebbero neanche essere proposte per scherzo!”

Clara si irrigidì, provando un lieve sentore di gelosia acida che le scorreva nella gola improvvisamente secca per bruciare poi nello stomaco; il fastidio più grande era però che sapeva di non dover provare quelle sensazioni.

 
***** 

 
A volte Clara studiava troppo. O almeno era questo che Amy le ripeteva ogni volta che si immergeva in studi non pertinenti ai corsi che frequentava. Ma Clara sorrideva e continuava ciò che stava facendo.

Fuori pioveva e l’orologio alla parete segnava le due di notte. Gli altri dormivano e Clara, per non disturbare Amy con la quale ormai divideva la camera, era seduta in terra nel soggiorno, ai piedi del divano con le gambe piegate sotto di se ed alcuni libri distesi sul tavolino di fronte. Stava annotando qualcosa su un quaderno, alla luce della lampada che aveva tolto dalla sua scrivania quando avvertì una voce ormai familiare alle sue spalle:

“Cosa ci fai ancora sveglia?”

Si voltò verso l’ingresso, trovando il Dottore che si chiudeva la porta alle spalle per poi togliersi l’impermeabile umido dalle spalle.

“Ciao!” Clara lo salutò con un sorriso stanco accompagnato da uno sbadiglio. La ragazza si stiracchiò un po’ prima di continuare:

“Sto solo rimettendo a posto degli appunti. Questo fine settimana devo tornare a Blackpool e non avrò tempo di farlo.”

L’uomo si fece largo nella stanza portandosi le mani nelle tasche chiedendo:

“Hai mangiato qualcosa?”

La ragazza annuì, indicandogli un bicchiere vuoto ed un pacchetto di crackers mezzo vuoto scostati nell’angolo più lontano del tavolo. Il Dottore mosse le labbra in una smorfia, mentre si avvicinava all’improvvisata zona studio per raccogliere bicchiere e salatini prima di sparire in cucina.

La ragazza tornò ai suoi libri, immergendosi nella lettura senza rendersi conto del tempo che riprendeva a scorrere finchè non udì di nuovo la voce dell’uomo:

 “Credevo studiassi Letteratura Inglese.”

Il Dottore era in piedi dietro di lei, con la schiena piegata in avanti e lo sguardo su alcuni dei libri posti disordinatamente sul tavolino. Aveva un vassoio con due tazze di the caldo in una mano ed un piatto con qualche sandwich nell’altra. Poggiò tutto nella zona sgombra del tavolino. Prese per se una delle tazze, ma era chiaro che il resto lo aveva preparato per la ragazza.

Clara non lo aveva sentito arrivare, ma puntò lo sguardo su di lui rilassandosi in un sorriso mentre rispondeva:

“Si, ma non significa che non posso apprezzare anche autori stranieri contemporanei. Tu sei un medico, ma questo non ti impedisce di andare in territori di guerra in divisa militare per svolgere il tuo lavoro.”

“…mhmm… non è proprio la stessa cosa.” Ripose l’uomo in un sussurro, deviando lo sguardo dal viso della ragazza per posarlo su alcuni libri per leggerne il titolo.

“Già. Non lo è. Forse avrei dovuto fare un esempio diverso, del tipo: essere un cardiologo non impedisce di riconoscere una colica renale. Ma di medicina e materie scientifiche non me ne intendo per nulla.”

La voce imbarazzata di Clara costrinse il Dottore a rivolgerle nuovamente lo sguardo e piegare le labbra leggermente verso l’alto.

“E di certo l’ora tarda non aiuta.” Cercò di giustificarla, raccogliendo con la mano libera un titolo che lo aveva attirato già prima e si sedette sul divano. Con l’altra mano si portò la tazza alle labbra e soffiò prima di sorseggiarne piano il contenuto.

Clara fece lo stesso con la sua tazza, lasciando che il liquido le scendesse lungo la gola con un brivido di soddisfazione  prima di voltarsi nuovamente verso l’uomo:

“Ti ringrazio. Ma hai messo troppo zucchero.”

“Lo so. Il cervello di chi studia ha bisogno di zuccheri.” Le linee del suo viso mutarono in un’espressione innocente mentre nascondeva il sorriso dietro la tazza e guardava la ragazza con una luce furba negli occhi. Clara si morse diffidente il labbro inferiore prima di rispondere:

“ La tua espressione mi induce a pensare il contrario… cosa ci hai messo dentro?”

L’uomo si lasciò scappare una lieve risata mentre si sporgeva in avanti a posare la tazza sul tavolo prima di premersi contro lo schienale del divano ed accavallare le gambe. Non si accorse che, nel movimento, il suo corpo aveva praticamente sfiorato quello di Clara, provocandole un brivido inaspettato mentre lei involontariamente ne respirava il profumo.

“Solo zucchero, lo giuro. Ma in questo caso, la sua assunzione potrebbe comportare una riduzione della capacità di attenzione.” Lui rise, lei invece incrociò indignata le braccia al petto rispondendo:

“Volevi distrarmi!”

“Ci sono riuscito?”

“Si!” Clara sospirò, voltandosi verso i suoi libri aperti. Li chiuse spostandoli di lato prendendo un sandwich dal piatto. Si poggiò poi con il fianco contro il bordo inferiore del divano e la testa sul braccio posto sulla seduta, restando in silenzio mentre mordicchiava debolmente il sandwich. Non vi era alcun contatto tra il corpo di Clara e quello del Dottore, ma la presenza dell’uomo al suo fianco era quasi palpabile. Forse era la sua forte personalità, forse era quell’aura invisibile ma intensa che lo circondava o semplicemente la sua essenza che traspirava da ogni poro ad imporsi agli altri senza bisogno di toccare. Clara non lo sapeva. Ma ora capiva perfettamente perché John le aveva sempre detto che ‘lui c’era anche quando era assente’.

Lo osservò mentre stringeva gli occhi e muoveva il libro che aveva preso dal tavolino per leggerne il titolo.

“Il cacciatore di aquiloni…”

Clara sorrise, con gli occhi mezzi chiusi dal sonno ed il tramezzino ormai quasi finito, mentre il Dottore estraeva gli occhiali da lettura dal taschino e li posava sul naso, mostrando un sorriso soddisfatto quando finalmente vedeva chiare le lettere stampate e si concentrò sulla lettura della presentazione in copertina.

Dopo alcuni attimi fu la voce della ragazza ad interrompere il silenzio:

“Era davvero così?”

Il Dottore abbassò il libro in grembo ed alzò lo sguardo verso di lei.

“Cosa, l’Afghanistan?”

L’espressione che gli si dipinse sul viso sembrava triste e sorpresa allo stesso tempo mentre posava nuovamente il libro con cura sul tavolino. Clara si pentì della sua domanda intuendo che non gli faceva piacere ricordare determinati avvenimenti. Sapeva di non dover chiedere, ma era stato più forte di lei.

“Non so cosa ci sia scritto in quel libro. Se l’autore abbia parlato di guerra o altro. Quello che ho visto però è sicuramente infinitamente peggio.” La voce del Dottore era un sussurro roco carico di un’emozione oscura che fece rabbrividire Clara, il suo sguardo fisso in un punto indefinito davanti  a lui e così lontano nella memoria. La ragazza provò a muovere le labbra tremanti per dire qualcosa, ma il Dottore riprese il suo discorso senza guardarla ed una voce innaturalmente fredda:

“L’ultimo giorno di addestramento ci dissero che entro due giorni avremmo saputo la nostra destinazione. Andammo a dormire tranquilli e soddisfatti, ma non ci saremmo mai aspettati di ritrovarci, nel cuore della notte, gettati giù dal letto, battuti e trascinati via con solo quello che indossavamo per la notte, per essere gettati su un furgone senza vetri e portati chissà dove.”

Le raccontò di come degli uomini armati, vestiti in abiti scuri e col viso coperto da passamontagna, li avevano malmenati e chiusi in una specie di prigione in cemento armato senza finestre. Alcuni parlavano arabo, o quello che sembrava essere arabo. Ma lui aveva intuito fossero inglesi. Le raccontò di un giovane medico che cercò di parlare con quei ‘soldati’, per capire la situazione ma non fece altro che guadagnarsi un pugno in faccia:

“Quando provò a reagire, tre di loro gli furono addosso e lo trascinarono fuori dalla cella mentre altri quattro restarono dentro con noi a tenerci d’occhio. Sentimmo uno sparo ed uno degli uomini in nero disse ‘uno andato’.” Il dottore sospirò chiudendo gli occhi.

“Non.. lo avranno mica…” Chiese Clara con il fiato spezzato.

“No. In seguito abbiamo saputo che lo avevano riportato alla caserma; credo lavori in un ospedale nel nord dell’Inghilterra.” Il Dottore deglutì per poi continuare:

“Non ti dico lo shock che provammo noi dentro in quel momento, però. Non so gli altri, ma il mio cuore si era fermato. Ero lontano dalla porta, ma allungai lo stesso il collo per dare uno sguardo fuori e mi ritrovai un fucile puntato al viso ed un ‘no no no’ che mi martellava le orecchie. Ebbi la sfrontatezza di guardare verso l’alto ed incrociare lo sguardo di quello che mi teneva sotto tiro. Doveva averla presa come una sfida, perché mi ritrovai dolorante ed ansante a contorcermi sul pavimento. Mi ero guadagnato un calcio al fianco sinistro. Doveva avermi preso il rene perché mi ritrovai  con tracce di sangue nelle urine per i tre giorni successivi.” Le raccontò di come non riuscivano a quantificare il tempo passato in quella cella, di come dormivano sul pavimento lordo dei loro escrementi, di come all’improvviso due o anche tre di quei soldati entravano urlando in arabo e loro non dovevano guardarli se non volevano essere malmenati o ‘fatti fuori’, descrivendo gli eventi nei dettagli senza rendersene conto. La voce diventava più fioca man mano che proseguiva nel racconto finchè non giunse il silenzio assoluto, gli occhi vitrei mentre altre immagini di guerra gli attraversavano la mente e gli facevano male dentro. A volte si chiedeva perché continuasse a farsi mandare in giro per territori disagiati; si rispondeva che anche una sola vita che salvava in più valeva la pena che scontava; ma per una qualche ragione più egoistica doveva ammettere che l’impegno profuso nella sua missione lo teneva lontano dal pensiero di River che non era più con lui.

Il Dottore si riscosse, scattando con lo sguardo verso Clara nel momento in cui avvertì la mano di lei stringergli il braccio sinistro e ritrovandosela seduta accanto sul divano. I suoi muscoli si tesero a causa del contatto inaspettato e si rese conto che, forse, aveva esagerato nel lasciarsi andare col racconto. Raramente lo faceva, e solitamente solo con suo figlio. Ma era stato così naturale e tonificante parlarne con lei, in quel momento, da lasciarlo sconcertato.

Cercò di sorriderle per farle abbandonare quella piega sofferente che le scavava il viso assonnato, ma non ci riuscì. Fu solo capace di dirle in un tono triste e stanco:

“Anche quello faceva parte dell’addestramento. Una simulazione di un sequestro ad opera dei Talebani. Sai, i medici lì sono bersagli primari. Il tutto era durato settantadue ore, ma a noi sembrarono essere passati settantadue giorni..” Ecco spiegato perché, a partire per la missione, da un gruppo di sette erano rimasti in tre.

 Clara rabbrividì ed il suo corpo intorpidito cominciò inconsciamente a tremare.

“Scusami. Credo di essermi lasciato andare troppo nel raccontare.” La voce del Dottore era tesa, così come il suo corpo sotto quella stretta improvvisa e la realizzazione di aver turbato la ragazza con le sue parole. Incapace di muoversi, si ritrovò a fissarla con sguardo preoccupato mentre pensava ad un qualche modo per cercare di tranquillizzarla. Ma si ritrovò invece con le braccia della ragazza al collo e la tua testa sulla spalla in un abbraccio innocente che aveva lo scopo di consolarlo.

“No… è colpa mia. Non avrei dovuto chiedere... ti ho fatto ricordare cose spiacevoli. Mi dispiace.” La voce spezzata ed appena percettibile della ragazza, assieme al calore dolce del suo corpo, gli sciolse il cuore. Si tolse gli occhiali dal naso con la mano destra per mascherare la sua goffaggine riguardo al contatto fisico, stendendo poi il braccio sul bracciolo del divano. Non si accorse che la sua mano sinistra, invece, si era lentamente mossa da sola finendo col toccare la schiena di lei in una stretta lieve ed impacciata. Quando si rese conto della cosa, osservò la mano tremargli, ma non la rimosse. Percepì appena che la presa di lei era diventata più morbida, avvertendo il suo respiro regolare sul collo. Spostò appena la testa verso sinistra a cercare il volto di lei con lo sguardo e, sospirando, sprofondò ancora di più sul divano nello scoprire gli occhi di lei chiusi dal sonno. Portandosi una mano al viso, incapace ormai di formulare un qualche pensiero pertinente o anche solo alzarsi da lì, chiuse gli occhi anche lui.

 

Alle sei e mezza Clara si risvegliò stesa sul divano. Era sola, ma una coperta di pile la teneva al riparo dal freddo mattutino. Si alzò lentamente, guardandosi intorno nel tentativo di alleviare quella sensazione di smarrimento che la divorava.

Avvertì dei rumori provenire dalla cucina e si chiese chi della casa potesse essersi svegliato tanto presto. Poi il riaffiorare dei ricordi confusi di quella notte le diedero una consapevolezza improvvisa e devastante: aveva addosso l’odore del Dottore. Il suo profumo le impregnava le narici, i capelli ed i vestiti e non le dispiaceva.

Mentre portava le gambe giù dal divano e si sedeva composta, col cuore stretto in una morsa che le faceva male ed un fuoco inestinguibile che le bruciava dentro, Clara realizzò che si trovava decisamente nei casini.

In quel preciso momento espresse per la prima volta il desiderio, se non la necessità, che John ed il Dottore fossero un’unica e sola persona, perché desiderarli entrambi non poteva portare da nessuna parte. E realizzò anche che, forse, Amy aveva ragione: cambiare aria ed uscire con qualcuno avrebbe potuto aprirle una strada diversa, lenire le ustioni che dall'interno le stavano divorando lentamente la carne ed evitare così un disastro assicurato.

 

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Note:

Lo so. E’ un capitolo lunghissimo. Ma siamo quasi alla fine, in teoria, quindi resistete ancora un po’, vi prego :D Grazie comunque a chi segue ancora la storia, so già come finirà e… non date nulla per scontato. Soprattutto dopo aver letto questo capitolo :D

Arrivederci al prossimo capitolo, dunque. Sperando che sarete ancora qui per vedere come proseguirà ^^

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


cap.6

Capitolo 6

 

 

John si ritrovò a girare per casa senza avere una meta precisa. L’ambiente era improvvisamente vuoto, nonostante Amy e Rory fossero sul divano a chiacchierare sull’organizzazione della serata.

John li guardò e storse appena le labbra, improvvisamente consapevole che lui era di nuovo solo.

Dal ritorno di suo padre erano state poste delle regole rigide. I ragazzi potevano restare, ma finchè il Dottore aveva la responsabilità di sorvegliarli e comportarsi da genitore, come era nella sua natura, avrebbero dormito in camere separate. Dopotutto quella era casa sua e vigevano le sue regole. Ecco spiegato il motivo per cui Amy e Clara condividevano l’ex stanza dei fidanzatini e Rory si era ritrovato a dormire nella camera di John. Eppure, quando i turni del Dottore lo impegnavano per la notte o per le 24 ore, la giovane coppia non si faceva sfuggire l’occasione per dormire insieme, rilegando John (o Clara) a dormire nella camera dell’uomo… e quel fine settimana era una di quelle occasioni: un improvviso cambio di turno con un collega ed il Dottore si era ritrovato con quello di 24 ore e rientro la domenica.

Clara non c’era, suo padre nemmeno e quella sensazione di mancanza che John avvertiva ed alla quale, ormai, non era più abituato gli faceva un male cane!

John si diresse dapprima in cucina, aprendo la dispensa e raccogliendo un pacco di biscotti alla crema pasticcera che si rigirò tra le mani prima di riposarlo al suo posto senza neanche aprirlo. Si diresse poi al piano di sopra, fermandosi davanti alla camera delle ragazze. Restò sulla soglia, guardandosi intorno e sentendo il cuore battergli improvvisamente forte quando percepì l’odore di Clara. Forse era solo una sua allucinazione, probabilmente la sua mancanza che si faceva sentire in quel modo; ma doveva ammettere che la presenza soprattutto di Clara era ormai radicata in casa sua e non voleva che la cosa finisse.

Il giovanotto si ritrovò inspiegabilmente a camminare verso il lettino di lei. Si sedette, toccando con la mano il cuscino. Credette di percepire il calore di lei sul guanciale, mentre l’odore di Clara si faceva più intenso nelle sue narici. Il cuore sembrava bruciargli, con la testa frastornata che gli  fece perdere per un attimo equilibrio e cognizione. Si ritrovò steso di traverso sul lettino, con una lacrima che gli scendeva lungo il viso e le labbra imbronciate.

Domenica. Doveva spettare fino a domenica. Due giorni. Due lunghissimi, interminabili e noiosissimi giorni senza la sua Clara.

Si era ripromesso più e più volte di non innamorarsi. Si era ripromesso più e più volte di non fidarsi mai più di nessuno. Si era imposto di porre paletti alla loro relazione ed aveva ormai paura di eliminarli. Si ripeteva continuamente che non gli importava davvero di non poterla toccare in quel senso, purchè Clara rimanesse accanto a lui. Ora si rendeva conto che forse, col suo comportarsi da fidanzato affettuoso, era andato ben oltre i limiti posti da lui stesso e non poteva tornare indietro. Non voleva tornare indietro! Clara era via da solo un giorno ed era sembrato un mese; gli mancava terribilmente, e lui non sapeva cosa fare.

Si alzò di scatto, passandosi una mano sul volto ad asciugare quell’unica lacrima che gli era sfuggita e che ormai era già secca sulla sua guancia. Aveva bisogno di distrarsi e smettere di pensare!

Scese velocemente per le scale ed altrettanto rapidamente attraversò il salotto diretto all’ingresso.

“John?” Chiesero Amy e Rory all’unisono.

“Dove vai? Successo qualcosa?”

John non si fermò, raccolse le chiavi della moto ed il casco per dirigersi velocemente fuori lasciando ai ragazzi un semplice:

“White Water.” E si chiuse la porta alle spalle, ignaro dei due fidanzati che si scambiarono uno sguardo perplesso.

In lontananza, si udì il rombo della moto pronta a portare il giovane al centro sportivo di Londra. Un po’ di allenamento con la canoa da discesa forse lo avrebbe aiutato a disperdere i pensieri tristi.

 

****** 

 

Clara guardava la pagina bianca di word con quel maledettissimo trattino nero intermittente che le stava praticamente facendo venire la nausea. Aveva portato il portatile con se a Blackpool per non restare indietro con lo studio, ma i pensieri sembravano non volere abbandonare la sua mente.

Col Dottore non aveva avuto modo di parlare riguardo alla fatidica notte sul divano e John… Oh, John! Quando l’aveva accompagnata alla stazione per prendere il treno l’aveva salutata con un abbraccio serrato e gli occhi tristi da cucciolo abbandonato, lasciandole il suo dolcissimo calore addosso ed il suo buonissimo profumo di legno e rose. Quell’immagine di John l’aveva distrutta e quasi persuasa a restare, se non fosse stato per l’obbligo di recarsi a Blackpool, probabilmente lo avrebbe fatto.

Sospirando nervosamente, Clara chiuse lo schermo e spinse il portatile un po’ più in là sul tavolo.

Cercò con lo sguardo il cellulare, notando che la lucina delle notifiche messaggi brillava. Lo guardò perplessa ricordando che non aveva spento la suoneria; possibile che fosse così concentrata a far nulla da non sentire il telefono squillare?

Lo prese e lo controllò, notando un messaggio in arrivo di Angie che le chiedeva di vedersi. Clara scattò dalla sedia e le telefonò. Aveva bisogno di aria fresca. Ed anche parlare con un’amica le avrebbe fatto bene.

 

Si ritrovarono al bar, parlando del più e del meno come non facevano da tempo. Clara ed Angie avevano colore diverso della pelle e pochi anni di differenza, ma erano praticamente cresciute insieme come sorelle. Angie aveva lasciato gli studi dopo il diploma e si era sposata giovane, suo marito era un avvocato di dieci anni più grande e la loro precoce unione non era stata vista di buon occhio. Clara invece l’aveva sempre appoggiata ed aiutata. Se c’era amore andava tutto bene, le diceva sempre. Non avevano bambini però, perché ancora non era il momento e volevano godersi un po’ di vita in due, così dicevano. Probabilmente il motivo era un altro e Clara sapeva che Angie, con i suoi ventuno anni, si reputava ancora troppo giovane per diventare madre.

“Dio Clara… certo che ti sei messa proprio in un bel casino!”

Angie la guardava con gli occhi spalancati dalla sorpresa, mentre Clara stringeva la cannuccia tra i denti e con le labbra serrate senza però tirare su alcun sorso del frappè che aveva ordinato.

“Insomma. In una situazione normale… cioè più normale… ti avrei suggerito di frequentarli entrambi e scegliere quello che ti piaceva di più ma in questo caso… cavolo! Padre e figlio? Davvero?”

Clara lasciò andare la cannuccia e si accasciò con la fronte sul tavolo e portandosi le mani alla testa. Non parlò, ma si lasciò sfuggire solo un gemito sofferto e frustrato.

Angie la guardò per un attimo prima di diventare improvvisamente seria; le prese le mani tra le sue cercando di farle alzare la testa per guardarla:

“Clara, posso farti una domanda?” la moretta alzò lo sguardo sull’amica e scrollò le spalle afflitta.

“Cosa provi di preciso per uno e per l’altro? Insomma, deve essercene uno che ti piace di più.”

Clara sospirò, abbassando le spalle e lo sguardo.

“Oh, Angie… io davvero non lo so. Ho provato a capirlo ma… dove manca uno arriva l’altro ed è questo che… mi devasta! Non sai quante volte ho desiderato che fossero una sola unica persona! Quando sono con loro mi sento completa, adesso per esempio mi mancano terribilmente ed avverto un vuoto dentro che fa male…”

“E tu a quale dei due credi di piacere?”

Questa domanda fermò il cuore di Clara. Fissò lo sguardo confuso sul viso olivastro di Angie, facendosi passare per la mente l’immagine sorridente di John e quella seria e triste del Dottore. Quei due uomini erano come il giorno e la notte, ma li adorava entrambi e non poteva farne a meno. Si fermò a pensare ad una risposta chiara e sensata, mentre i secondi passavano in silenzio tra loro.

Infine, Clara respirò profondamente e cercò di formulare una qualche risposta coerente:

“Io… è complicato, Angie… John a volte si comporta da fidanzato apprensivo e premuroso, mi fa sentire speciale come nessuno ha mai fatto; poi scappa come se lo avessi scottato. Il Dottore invece… lui è sempre presente; … è pieno di piccole attenzioni, ma lo fa anche con Amy e Rory in egual maniera, credo…”

Clara fissò lo sguardo oltre la spalla dell’amica come se stesse guardando chissà cosa, ma il suo sguardo era vuoto, perso nel ricordo della fatidica notte:

“ Eppure abbiamo dormito insieme. Cioè lui ha dormito con me. Non è molto a suo agio con il contatto fisico, quindi ogni suo gesto ha un valore inestimabile e… mi sono svegliata al mattino con i vestiti intrisi del suo profumo, significherà qualcosa! Non me lo sono sognato…”

Clara sbuffò, sbattendo nuovamente la fronte contro il tavolo e lamentandosi. Angie poggiò il gomito sul tavolo ed il mento sulla mano dello stesso braccio meditando sulla situazione confusa e decisamente pericolosa in cui si ritrovava la sua amica. In effetti, un uomo disinteressato l’avrebbe lasciata dormire da sola, al limite l’avrebbe portata in camera nel suo lettino indifferentemente. Di certo non avrebbe dormito con lei però.

“Ascolta Clara. Io potrei anche consigliarti come muoverti, ma sono sicura che tu faresti l’esatto contrario ed agiresti di testa tua. Purtroppo comanda il cuore adesso e non la mente.”

Clara piegò la testa di lato, poggiandola sul braccio e lasciò uscire dalla gola un borbottio che aveva l’intenzione di essere una risposta purtroppo affermativa alle parole dell’amica.

“Però… credo dovresti provare a parlare con entrambi. In tempi diversi ovviamente. Cercare di capire se la barriera di John può essere abbattuta e cosa abbia significato quella notte per il Dottore. Mettere in chiaro le cose credo abbia la priorità ora, non pensi?”

Clara guardò l’amica che le sorrideva dolcemente e le stringeva ancora una mano. Portò lo sguardo proprio sulle loro mani unite e si sentì improvvisamente sollevata, senza una particolare ragione. Decise di alzare la testa e portarsi dritta con la schiena restituendo all’amica lo stesso sorriso, anche se i suoi occhi erano tristi. Sapeva che l’amica aveva ragione, ma le appariva tutto così difficile, impossibile quasi, da farle desiderare di scappare lontano. Aveva perso il controllo e lei non lo perdeva mai.

“John ha già detto che non può rendermi felice però. Sarà difficile riprendere lo stesso discorso e fargli cambiare idea…”

La mano di Angie si serrò più stretta attorno a quella di Clara riprendendola con un tono dolce:

“Clara, stando a quanto mi hai raccontato, in quel momento John parlava del perché non aveva una fidanzata. Non parlava specificatamente di te. Ma permettimi una domanda: quante cose sono cambiate nel corso dell’anno? E questa fantomatica barriera di cui parli, la erge anche con altre conoscenze?”

“No… cioè, non con Amy e Rory; e gli altri amici o compagni di università non hanno con lui un rapporto tanto stretto da… renderlo necessario.”

“Ecco. Appunto! C’è qualcosa sotto questa barriera! Quindi va e scoprila! E nel frattempo, mentre pensi a come intavolare la discussione, cerca di capire anche tu quale di questi due uomini ti piace di più.”

Clara sbuffò:

“Facile a dirsi…”

“Lo so che non è facile. E mi dispiace non riuscire ad aiutarti come tu hai aiutato me con Henry e tutto il resto…” La voce di Angie era sincera e con una nota di rammarico: “Ma Clara… solo tu conosci i tuoi veri sentimenti.”

Angie aveva dannatamente ragione, e Clara lo sapeva fin troppo bene. Quella chiacchierata però le era servita: a Londra riuscì a tornarci con l’animo più leggero ed una speranza maggiore di riuscire a risolvere la situazione, in un modo e nell’altro. Doveva solo capire come.

 

****

 

Non appena il treno si fermò alla stazione Clara raccolse la sua tracolla e si catapultò letteralmente fuori dal mezzo. Si guardò in giro, con il viso imbronciato nel rendersi conto che non c’era nessuno ad aspettarla. Non nascose la delusione che avvertiva, avendo sperato che John fosse lì per lei ed invece si era ritrovata sola. Sbuffò e sentì gli occhi gonfiarsi di lacrime, con la mancanza di lui che si faceva di nuovo intensa come quando era a Blackpool.

Poi il suo cuore perse un battito quando due mani conosciute le coprirono gli occhi. Non aveva bisogno di vedere o toccare per capire chi fosse. Il suo sorriso si allargò istintivamente non appena avvertì il profumo di rose e legno alle sue spalle:

“Eleven!”

Le mani di John le lasciarono libero il volto, permettendole di girarsi e saltargli tra le braccia. John la strinse e la sollevò, portandosela dietro mentre girava su se stesso ignaro della gente che si scostava nervosa per non scontrarsi con loro.

Quando la mise giù, girava la testa ad entrambi, ma non riuscivano neanche a smettere di sorridere e guardarsi. Forse il mondo intorno a loro girava vorticosamente, ma in quel preciso momento, erano l’uno il punto fisso dell’altra e tutto il resto non contava.

“Allora. Hai fatto qualcosa di nuovo mentre non c’ero?”

“Bè… ho contato le assi della staccionata in giardino.” Rispose John con un tono serio.

Clara rise aggiungendo:

“Ti sei annoiato a morte!”

John imbronciò le labbra sussurrando un misero “Forse…” Poi ricambio il sorriso di lei, correndo alla panchina accanto ad una colonna per raccogliere due caschi, uno dei quali lo porse alla ragazza.

“Sei venuto in moto?” Clara prese istintivamente il casco, stringendo il gancio nella mano destra giusto in tempo prima che John le prendesse la mano sinistra e la trascinasse via.

“Si ma… non voglio già andare a casa!”

“Tranquilla, nemmeno io!”

 

Si erano fermati lungo le sponde del Tamigi, seduti sull’erba ed un gelato tra le mani. Alcune barche navigavano il corso del fiume, alcuni canoisti si allenavano o semplicemente ‘giocavano’ con il fiume tranquillo.

“Sai John… qualche altra volta dovremmo rifare quella cosa sul fiume. Potresti insegnarmi.”

John le sorrise, dando un morso al gelato prima di parlare:

“Come sta tua nonna?”

Clara sospirò:

“Sta bene adesso. Ma è molto vecchia e… gli acciacchi non mancano di farsi sentire ogni tanto. Ti manda i saluti, dice che le farebbe piacere rivederti.”

Clara sospirò con un  sorriso triste, mentre John si era voltato a guardarla. Al ritorno dalla Scozia, l’estate scorsa, si erano fermati in città per salutare la famiglia di lei.

“Magari qualche volta posso venire con te a Blackpool.”

“Sono sicura che le farebbe piacere. A me di certo.”

“Si, ma solo se mi prometti che non le permetterai di palparmi il sedere.”

 Clara si lasciò scappare una leggera risata che nascose dietro la mano sinistra, rispondendo:

“Tu sei riuscito a scappare l’altra volta. Tuo padre invece… aveva lo sguardo scioccato ed il viso paonazzo!”

“Già, credo l’abbia vissuta come una sorta di molestia… povero papà, è rimasto traumatizzato!”

Sorrisero e si guardarono in un improvviso silenzio. John aveva una dolcezza negli occhi che lasciò Clara senza respiro e le fece battere il cuore all’impazzata.

Erano così vicini che credette si sarebbe chinato a baciarla sulle labbra, ma quel bacio si fermò sulla fronte. Non nascose la sua delusione, sperando che quella barriera di cui aveva parlato con Angie crollasse proprio in quel momento, ma si risollevò quando il braccio di John le circondò la vita e se l’ avvicinò. Clara ricambiò, dando l’ultimo morso al gelato e stringendo le braccia in una morsa serrata attorno al giovane e sprofondando il viso contro la spalla di lui.

“Mi sei mancato, Eleven.”

Si strinse a lui timorosa che da un momento all’altro John si sarebbe allontanato, come faceva sempre in occasioni come quella, ma restò colpita quando invece anche la stretta di lui si fece più dolce e calda: John aveva lasciato cadere il resto del gelato sull’erba e l’aveva stretta a se con entrambe le braccia, lasciandole un bacio tra i capelli:

“Anche tu Ragazza Impossibile. Mi sei mancata da morire.”

Forse Clara avrebbe potuto usare quell’occasione per chiedergli di dare un nome al loro rapporto. Ma la paura di rovinare quel momento tanto raro e prezioso era troppa. Rimasero così per un tempo indefinito, col sorriso sulle labbra ed un dolce tepore che si espandeva dentro di loro.

Forse quella era una di quelle occasioni in cui Clara avrebbe dovuto semplicemente gustarsi le emozioni che John le dava e capire quanto e come tenesse a lui. Chiuse gli occhi e si lasciò andare, respirando appieno il suo profumo. Si godette la tranquillità, il sole che tramontava oltre gli edifici all’orizzonte e si rifletteva rosso sull’acqua in basso, il calore dolce dei loro corpi vicini. Era tutto troppo perfetto e, forse, quel momento prezioso era bene lasciarlo così.

 

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Nota:

Capitolo forse un po’ di transizione. Ma nel prossimo scoppierà l’inferno X’D Siamo quasi alle battute finali ^^ Grazie ancora a chi segue la storia, abbiate ancora un po’ di pazienza per sopportarmi.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Cap.7

Capitolo 7

 

Clara stava parlando con la sua collega al banco bar quando si sentì afferrare da dietro e stamparsi un bacio a schiocco sulla guancia. Il suo cuore perse un battito prima di impazzire e sorridere ampiamente:

“Eleven! Controllati!”

“No!”

John strinse la presa attorno a lei stampandole un altro bacio sull’altra guancia e costringendola a piegarsi all’indietro contro di lui, facendole perdere l’equilibrio volutamente per sostenerla.

La sua collega le fece un occhiolino complice e si allontanò un po’ per servire alcuni clienti, prendendo anche un paio degli incarichi di Clara.

La moretta strinse le mani attorno alle braccia di John, fin troppo contenta di sentirlo così vicino.

Aveva la netta sensazione che qualcosa fosse cambiato da quando era tornata da Blackpool, che John fosse diventato più aperto e disponibile con lei e spesso avvertiva tra loro quell’energia speciale che solo tra due persone innamorate poteva esserci.

Spesso si era ritrovata ad incrociarne lo sguardo e capiva che la stava osservando. La cosa più bella e che la emozionava infinitamente era che lui in quei momenti non rifuggiva i suoi occhi, anzi continuava a fissarla e le sorrideva con quel suo sorriso dolce ed unico.

In quei momenti, Clara si chiedeva se non fosse il caso di parlargli di loro due, chiedergli di provare a valicare il limite dell’amicizia per raggiungere qualcosa di più. Ma erano quelli anche i momenti che più la spaventavano.

Quando John si staccò da lei e la osservò sorridendo, Clara piegò il viso di lato restituendogli uno sguardo carico di tenerezza. John era un bambino incontrollabile che le sfuggiva ogni volta dalle mani, ma quel momento lei sapeva che era totalmente suo e ne era appagata.

“Sono contenta che sei passato a salutarmi. Dove sei stato stasera?”

“A casa. Ad annoiarmi.”

John arrossì, portandosi la mano destra al volto per grattarsi la guancia con l’indice.

“Perché non mi hai chiamata? Mollavo il lavoro e passavamo la serata insieme!”

Clara incrociò le braccia al petto e battè la punta del piede destro sul pavimento con una finta aria imbronciata. John scrollò le spalle rispondendo con un innocente:

“Stiamo già passando la serata insieme, no?”

Clara sospirò:

“Si… in un certo senso. Ma poteva essere meglio.” Concluse sconsolata, ritornando al lavoro dietro il banco bar per riempire alcuni boccali di birra e posarli su un vassoio che una delle cameriere prese poco tempo dopo da portare ai tavoli.

John salì su uno degli sgabelli, ponendosi di fronte a Clara senza perdere il suo buonumore:

“Mi basta stare qui.”

Si alzò appena dallo sgabello sporgendosi verso di lei e le baciò la fronte sorprendendola, tornando poi in posizione seduta e guadandola con quel visino furbo che voleva apparire innocente e non ci riusciva.

“Bè, magari posso chiedere di uscire prima, tanto è solo mercoledì…”

John si voltò verso la sala, dando uno sguardo generale.

“Perché hai preso a lavorare anche nei giorni infrasettimanali? Se è per i soldi…”

“No!” Clara lo interruppe forse con un tono troppo alto, costringendo John a voltarsi verso di lei e guardarla allarmato. Clara arrossì, cercando di sviare:

“Una ragazza si è licenziata. Hanno bisogno di coprire i suoi turni mentre ne trovano una nuova.”

In parte era vero, ma la verità era indubbiamente un’altra. Non erano di certo i soldi il motivo che l’aveva spinta, più che altro, Clara non poteva dirgli che il motivo per cui la sera preferiva stare fuori casa piuttosto che dentro era dovuto al fatto che aveva paura di stare da sola con lui o con il Dottore. Non una paura paralizzante che riguardava una qualche situazione di pericolo mortale, più che altro il contrario: Clara aveva paura di se stessa, di come avrebbe potuto agire lei restando da sola con uno qualsiasi di loro due. Soprattutto, come avrebbe potuto agire nei confronti del Dottore dopo la notte sul divano. Ogni volta che pensava a quell’evento si riscopriva sempre più confusa ed insicura su tutte le sue emozioni.

La giovane sospirò cercando di far deviare i suoi pensieri quando sobbalzò nel vedere John scavalcare rapidamente il bancone e nascondersi sotto di esso, accanto alle sue gambe, terrorizzato da chissà cosa.

“John!” Clara si guardò attorno preoccupata, cercando di inquadrare i proprietari del locale e sperare che non avessero assistito alla scena, prima di piegarsi verso il basso e dirgli:

“Non puoi stare qui! Alzati! Mi farai licenziare…”

Cercò di tirarlo su per un braccio, ma John le rivolse uno sguardo allarmato portandosi l’indice alle labbra :

“Shhh! Non farmi scoprire!”

Clara lo guardò perplessa, cercando comunque di tirarlo su inutilmente.

Poi John le disse:

“La vedi la tipa in piedi al tavolo al centro?”

Clara si mise dritta, dando uno sguardo di scuse alla sua collega confusa dall’altra parte del banco bar. Poi cercò il tavolo indicatole da John, inquadrando una donna sui 35 alta e magra, con un vestito nero sexy ed aderente, coscia da fuori, tacco a spillo e lunghi capelli corvini che sembrava traspirare la parola ‘sesso’ da ogni poro:

“Dici la cavallona alta vestita di nero, tacco cinquanta ed un quantitativo di Eye-liner sugli occhi che puù competere con quello di una Drag Queen?”

John deglutì, annuì e poi sospirò profondamente:

“E’ Tasha Lem. Non voglio che mi veda!”

A quel nome, tutti i recettori di Clara si attivarono, costringendola a fissare lo sguardo su quella donna per giudicarla. La gelosia che aveva provato per quella donna quando ancora non le aveva dato una forma si era trasformata in delusione, prima, e rabbia poi. Come poteva John essersi mischiato con una donna del genere? Poteva davvero preferire una notte di sesso con quella creatura  piuttosto che provare a lasciarsi andare ed innamorarsi di lei?

“Quella!? Davvero ci sei andato a letto? Voi uomini… tutti uguali!”

Non si accorse dell’asprezza della sua voce finchè non incrociò lo sguardo lucido e dispiaciuto di John. In quello sguardo vi aveva letto che la delusione ed una profonda ferita.

E John lo era. Deluso perché aveva deluso Clara. Ferito, perché non voleva che lei lo considerasse uguale agli altri. Era per quello che non voleva innamorarsi, perché all’amore corrisponde anche il dolore e lui non riusciva a sopportarlo.

“Scusami… ho esagerato. Forse ero un po’ gelosa…”

Clara abbassò lo sguardo al pavimento, rendendosi conto che forse aveva confessato qualcosa di troppo. Ma voleva essere sincera e… perché no, provarci anche, tentare, rischiare qualcosa in più. Al peggio, John l’avrebbe ignorata o si sarebbe allontanato come aveva sempre fatto e lei si sarebbe leccata le ferite, ancora una volta, in attesa di una prossima volta.

John avrebbe voluto rispondere qualcosa, ma una voce nota lo aveva fatto sbiancare di colpo e trattenere il respiro: Tasha Lem!

Aveva raggiunto il banco bar e ordinato direttamente lì la birra per lei ed i suoi due amici al tavolo. Il sorriso malizioso che le disegnava le labbra in aggiunta a quello strano sguardo di sfida, troppo intenso per ignorarlo, con cui la stava fissando infastidì Clara ulteriormente. La moretta però non poteva tradire la sua professionalità e le servì quanto ordinato in silenzio.

La donna si fermò a guardare i bicchieri posizionati sul vassoio in silenzio. Clara la studiò dicendole:

“Te li porto al tavolo, ok?”

Tasha la guardò nuovamente con la medesima espressione scuotendo la testa e rispondendole:

“No. Li porto io, grazie. Posso chiederti solo un favore?”

Clara la guardò diffidente, ma non potè fare altro che annuire.

“Dì a Johnny che aspetto il secondo round. Il primo è stato molto interessante!”

John nascose la testa tra le gambe, ormai consapevole che purtroppo era già stato visto. Clara strinse la mascella mentre la donna si allontanava, avvertendo un improvviso raptus omicida salirle dal profondo.

Prese il cellulare dalla mensola dietro al ripiano dei bicchieri ed inoltrò la chiamata verso Amy. Attese qualche squillo prima di sentire la voce della ragazza all’altro capo:

“Amy, accetto quell’appuntamento.”

Quando interruppe la telefonata, si voltò solo per trovarsi da sola dietro al banco. John se n’era andato. Come previsto, aveva deciso di allontanarsi da lei.

 
*****

 Come volevasi dimostrare, la serata organizzata da Amy era stata un vero disastro. Era vero che aveva accettato solo per rabbia e già non si aspettava nulla di buono dalla serata; certo, il ragazzo che le aveva propinato Amy poteva anche risultare simpatico, se non fosse stato per la sua predisposizione a parlare per metafore filosofiche e che fosse addirittura più basso di Clara… e ce ne voleva, per essere più bassi di lei! Senza contare che aveva ordinato porridge per cena e praticamente chiestole quanti figli avrebbe voluto in futuro dopo neanche cinque minuti di conversazione! Clara, disperata, aveva finto un malore dovuto ad una qualche allergia alimentare e se l’era data a gambe dopo aver atteso dieci minuti solo per educazione!!

Erano solo le nove e quindici quando era rientrata in casa!

Aveva trovato le luci al piano terra spente, nel vialetto non c’era la moto di John ma l’auto del Dottore invece si. Si chiese se John fosse uscito con Tasha Lem e quel pensiero la punse nel profondo facendola arrabbiare ancora di più.

Raggiunse il piano superiore spegnendosi man mano le luci alle spalle, notando la porta della camera da letto del Dottore chiusa e quella di John aperta con la luce all’interno accesa. Rory ed Amy erano lì, uno alla scrivania, l’altra sul lettino del fidanzato; entrambi alle prese con lo studio dei rispettivi libri.

Clara bussò alla porta per attirare la loro attenzione, Rory si voltò dandole uno sguardo di solidarietà, capendo già la situazione. Amy invece la guardò perplessa lasciandosi sfuggire un inaspettato:

“Ma come, già sei tornata?”

Clara corrucciò le sopracciglia ed incrociò le braccia sotto al seno esplodendo in un:

“Certo! Ma si può sapere che cavolo di appuntamenti mi vai ad organizzare? Quello voleva portarmi a firmare il contratto di matrimonio!”

“Bè… ma è ricco. Molto ricco! Quindi che problema c’è? Lo sposavi stasera, domattina divorziavi e recuperavi anche una bella quota di mantenimento a vita.”

Ovviamente Amy era ironica, ma Rory si portò le mani al viso esasperato e Clara… si sbatté la porta alle spalle e si diresse a passo nervoso nuovamente verso il piano inferiore.

Raggiunse la cucina, aprì la dispensa e ne prese un pacco di pasta. Non aveva mangiato, ed il nervosismo non le aveva comunque chiuso lo stomaco. Aprì una scatola di sugo già preparato e cercò di metter su qualcosa. Nell’attesa, decise di tagliarsi un po’ di cipolla fresca da aggiungere al sugo.

“Non è andata bene?”

Clara sobbalzò, non aspettandosi di essere raggiunta da qualcuno. Soprattutto non dal Dottore in persona. Lo guardò imbronciata, rispondendo con un isterico:

“Non mi aspettavo comunque niente. Ho accettato solo per far star zitta Amy una volta per tutte!”

L’uomo si avvicinò al centro della stanza, passandosi una mano tra i capelli scompigliati dal sonno e sbadigliando. Clara lo vide ancora leggermente intontito e si sentì improvvisamente in colpa:

“Scusa… ho urlato e ti ho svegliato.”

Il Dottore si accostò al piano di cottura, dando uno sguardo distratto alle pentole appena messe su, in cerca di chissà cosa:

“Uhmm? No. In realtà dovrei andare in ospedale in nottata per il cambio di  guardia, quindi…”

Clara riprese a tagliare la cipolla, senza rendersi conto che ormai l’aveva ridotta ad una poltiglia inservibile con i fumi invisibili che salivano e le facevano bruciare e lacrimare gli occhi. Cercò di rimediare ed asciugarsi una lacrima fastidiosa, ma nel movimento ambiguo che fece con la mano, ebbe come unica conseguenza quella di tagliarsi un dito.

“Ahi!”

Inconsciamente, con la vista annebbiata dalle lacrime incontrollabili, si portò il dito alle labbra per succhiare via il sangue dalla ferita e ‘disinfettare’.

“Ti sei tagliata?”

Il Dottore le si avvicinò e le portò la mano sull’avambraccio, cercando di farle allontanare la mano dalle labbra:

“Sai che la bocca è un’incubatrice naturale per germi e batteri?”

Le prese la mano e l’accompagnò verso la fontana, aprendola e lasciando scorrere l’acqua fredda sul taglio. La lasciò lì andando ad aprire il cassetto delle medicine e prendendone dall’interno acqua ossigenata, garza e cerotti per medicarla.

“Wow… se la metti in questo modo, fai sembrare anche un bacio un qualcosa di… disgustoso!”

Il Dottore si lasciò scappare una risata mentre chiudeva la fontana e le asciugava la ferita, fortunatamente non profonda, con la garza:

“Secondo te come ci si mischia l’influenza o anche solo un raffreddore? Per non parlare dell’orribile herpes labiale! Anche se per quest’ultimo c’è un’altra spiegazione.”

Il tono di voce era ironico ma con quella nota da sapientone che stava ad indicare che aveva comunque ragione, quel tono che esasperava Clara e la faceva sempre sbuffare. Il Dottore prese la boccetta di acqua ossigenata per disinfettarle il dito prima di ricoprirlo con un cerotto. Si avvicinò la mano curata alle labbra e la baciò come si fa con i bambini, dandole la chiara sensazione di una piccola presa in giro.

 “Sai Dottore… penso comunque che il gioco valga la candela.”

Lei sorrise maliziosa, mente con l’altra mano si strofinava gli occhi ancora irritati e lacrimanti a causa dai fumi della cipolla. Non si accorse dello sguardo di lui a quella affermazione, né che il Dottore sembrava aver smesso di respirare.

“Smettila… così li irriti ancora di più…”

Il tono profondo e forse troppo dolce di lui la obbligò a fermarsi, a stringere gli occhi con difficoltà per metterlo a fuoco. Lo intravide aprire la fontana per bagnare qualcosa e poi avvicinarsi nuovamente a lei. Sentì la mano dell’uomo sul viso, col cuore che cominciava a tamburellare violentemente nel petto, e posarle un lembo di un’ altra garza che aveva bagnato prima sull’occhio destro e poi sull’occhio sinistro. Al contatto con la freschezza di quel pezzo di garza bagnato si lasciò scappare un piccolo gemito di sollievo ed un sorriso, godendosi appieno la delicatezza e l’accuratezza con cui il Dottore si prendeva cura di lei. Probabilmente era una deviazione professionale che in quel momento muoveva l’uomo, ma Clara volle assaporarne ogni attimo.

Portò la mano destra sulla sinistra di lui, ancora ancorata al suo viso mentre finiva di pulirle gli occhi. Clara li aprì, avvertendo immediatamente il sollievo e rendendosi però anche  improvvisamente conto di quanto fossero vicini i loro corpi ed i loro volti.

La moretta continuò a guardare il Dottore negli occhi, intrecciando le dita della mano con quelle di lui, col cuore che batteva forte nel rendersi conto che l’uomo non si ritraeva al suo tocco.

L’uomo non parlò, ma i loro sguardi si erano come incatenati l’uno nell’altro. Clara sentì un brivido percorrerle la schiena, sentendo che quello era il momento giusto per parlare, provare se Angie aveva ragione:

“Dottore… l’altra sera…”

La voce le tremò, mentre una punta di insicurezza si impadronì improvvisamente di lei. Il pollice del Dottore sembrò muoversi arbitrariamente andando a carezzarle il dorso della mano mentre le allontanavano dal viso di lei e le diceva:

“Quale altra sera?”

La voce dell’uomo era un sussurro profondo, ma dai suoi occhi Clara poteva dedurre che avesse capito a ‘quale sera’ si riferisse. Si accostò di più a lui, con la gola secca ed il cuore che le stava per scoppiare:

“Sul divano. Credo di essere crollata senza accorgermene e… sei rimasto con me?”

Per un breve attimo la mano che le stringeva la sua si contrasse, mentre lo sguardo dell’uomo si spostava verso un punto indefinito alla sua destra e si lasciava scappare un leggero:

“Si…”

Clara portò l’altra mano al viso dell’uomo, rendendo lo spazio vuoto tra i loro corpi ormai infinitesimale e costringendolo a guardarla:

“Tutta la notte?”

“Si…”

 “Perché?”

Lui non rispose, semplicemente la afferrò per i fianchi alzandola di forza e mettendola a sedere sul ripiano della cucina. I suoi fianchi tra le gambe divaricate di lei, senza però pressarla, mantenendo quel minimo di decente distanza che impediva di compromettersi esponendo l’uno all' altra la reazione alle emozioni del momento.

Clara aveva smesso di respirare, sorpresa e spaventata insieme, incapace di muoversi, con la vertigine al basso ventre che era aumentata di intensità nel momento in cui le mani del Dottore si erano strette su di lei, con se stessa sprofondata nelle iridi dell' uomo divenute di un grigio intenso. Forse era la mancanza di luce nella stanza a renderli più scuri, ma sembravano nubi di un temporale impellente e violento.

La ragazza cercò di respirare, ma i battiti del suo cuore erano così prepotenti da farla singhiozzare

“Clara... che stai facendo...”

La voce calda dell' uomo le solleticò i timpani, assieme al tamburellare del suo cuore ed il fischio alle orecchie le sembrò una melodia.

“Io assolutamente niente...” Si sentiva quasi una bambina ripresa su un misfatto, ma non abbassò lo sguardo:

“Tu, invece?” Continuò a fissare gli occhi del Dottore, seguendo i movimenti istintivi della testa dell' uomo che si avvicinava ed allontanava da lei come se la stesse studiando. Lo vide piegare la testa di lato, avvicinandosi e sfiorarle la guancia col naso ed avvertì il suo respiro irregolare sulla pelle. Poi sentì le mani di lui allentare la presa, lasciarla e poggiarsi, con i palmi aperti, sulla superficie del ripiano, accanto alle sue cosce, mentre si allontanava di nuovo per guardarla.

“Clara... sono pur sempre un uomo. Ma non riesco a radicarmi in un posto, non più. E tu meriti di meglio...”

“Non merito di meglio. Nessuno merita di meglio. Merito ciò che voglio.”

Ed in quel momento lei era sicura al cento per cento di volere lui.

Clara si sporse in avanti, portando le mani al volto del Dottore e spingendolo verso di se in un tentativo furbo di catturare le sue labbra dischiuse. Arrivò solo a sfiorarle, sentendo appena il suo sospiro profondo e tremante prima che tirasse indietro la testa e la guardasse serio:

“Chi vuoi realmente Clara?” La voce perentoria di lui la fece tremare:

“Vuoi John...tu lo ami.”

Clara serrò le labbra, corrucciando le sopracciglia. Portò le mani sulle spalle del Dottore e si sporse nuovamente verso di lui dicendo:

“Tu sei John. Quello è il tuo nome.”

Lasciò salire una mano tra i capelli grigi dell’uomo e l’altra dietro la sua nuca, raggiungendo finalmente il suo scopo ed incastrando le sue labbra con quelle dell’uomo.

Il bacio che si scambiarono fu lento ed intenso. Il respiro si prolungò in una profonda inspirazione per entrambi mentre le loro labbra si legarono. Il Dottore dischiuse le sue inconsciamente, dando a Clara la spinta per portare la lingua nella sua bocca e gustare interamente il sapore dell’uomo. In una vorticosa estasi il Dottore non poté fare altro che assecondare i movimenti della testa di lei. Fu un attimo in cui il cuore sembrò scoppiare ad entrambi; perso in chissà quale frenesia, l'uomo strinse nuovamente la presa delle sue mani sui fianchi di Clara e scontrando quasi rudemente i loro bacini. La sorpresa costrinse Clara a fermarsi per espirare un gemito, lasciando che lui ne approfittasse per invaderle la bocca così come prima aveva osato fare lei. All' ennesimo gemito della ragazza, morto nella gola di lui, il Dottore si fermò, separando le loro labbra tremanti. Un fuoco divampava non solo sulla loro pelle appena umida di un' precoce sudore, ma era dentro l'anima che entrambi bruciavano.

Si guardarono increduli e spaventati, con il respiro veloce ed irregolare rendendosi conto che entrambi i loro corpi tremavano.

“Clara...” la voce del Dottore era un sussurro tremolante. La ragazza continuava a guardarlo senza rispondere.

“Se...” l'uomo deglutì ed inspirò profondamente prima di continuare: “Se adesso facessimo l'amore, riusciresti a guardare John negli occhi con la stessa naturalezza di sempre?”

Se il bacio aveva sorpreso e spaventato Clara, questa domanda l'aveva sconvolta e resa improvvisamente consapevole. I suoi occhi si spalancarono, il suo cuore ed il suo respiro si fermarono. Le labbra dischiuse ebbero un fremito mentre realizzava che no, non avrebbe mai e poi mai avuto il coraggio di guardare John in faccia. Distolse lo sguardo...

“Io nemmeno, Clara…”

Il Dottore si scostò dal corpo improvvisamente gelido di Clara, sorridendo amaramente:

“E se la situazione fosse al contrario, invece? Potresti guardarmi?”

Clara abbassò il viso. Mosse le labbra per parlare e poi le richiuse. Sospirò dicendo in un sussurro:

“Non... lo so...forse si... forse no…” Ammetteva di non averci mai pensato.

Lui sorrise, apparentemente soddisfatto di chissà cosa, come se quella frase senza senso fosse in realtà una rivelazione importante.

“Ci sono diverse forme d'amore a questo mondo, Clara. Io conosco la sofferenza, conosco il dolore di perdere la persona che ami, non voglio che questo accada anche a John. Ha perso già troppo, non posso fargli anche questo. Clara.... tu ed io... entrambi amiamo John di più”

“Dottore... si, io amo John Smith. In ogni sua forma. Ma nessuna forma di John Smith ama me.”

“Ti sbagli Clara... Non hai la minima idea di quanto ti sbagli! John ti ama come non potrebbe fare mai nessun altro in questo mondo!” In quel momento il nome John racchiudeva in se l'essenza di entrambi i suoi portatori. In quel momento John Smith erano due in uno solo.

Clara abbassò lo sguardo mentre la distanza tra loro si faceva più ampia. Man mano che la conversazione proseguiva, il Dottore indietreggiava, col gelido vuoto tra loro a farsi più ampio ed a risucchiarla in un vortice di paura e dolore:

“Clara... io vi amo entrambi. E voglio che siate felici, questo mi basta e mi rende appagato.”

“Ma…” Clara avrebbe voluto contro ribattere qualcosa, ma si ritrovò semplicemente a ripetere le stesse parole di lui, come un automa:

“… entrambi amiamo John di più…” Una lieve nota di amarezza nella voce e poca convinzione che non riuscì a nascondere.

“Si.. entrambi amiamo John di più. Ti prego… parlagli. Il primo passo, devi essere tu a farlo.”

Lui le sorrise triste, prima di lasciarla da sola nella stanza improvvisamente troppo grande, troppo silenziosa, troppo solitaria e decisamente troppo fredda. Quel senso di completezza che sentiva solo quando il Dottore ed il suo Eleven erano con lei ormai scomparso.

Clara lentamente si tirò giù dal ripiano della cucina, si aggiustò la gonna con una mano tenendosi al bordo del ripiano con l’altra mentre le gambe riprendevano a funzionarle. La gola stretta che le faceva un male cane, il respiro improvvisamente diventato faticoso e le lacrime che riprendevano a scorrerle sul viso.

Aveva giudicato male John per una notte con una donna di poco conto quando ancora non si conoscevano, ma lei in quel momento si stava comportando in un modo ben più misero. Amava John ed amava suo padre, due sentimenti che non potevano coesistere e non avevano una soluzione. Si sentì una persona cattiva, colpevole ed ingiusta.

Non poteva amarli entrambi, non doveva, ma non poteva nemmeno evitarlo! Clara si sentì lacerata in mille pezzi, il cuore diviso come non lo era mai stato.

Il pensiero di John nella mente, il sapore del Dottore ancora sulla sua lingua, la scelta che lui aveva compiuto per lei.

Faceva male. Il corpo, l’anima. Faceva male da morire!

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Cap.8

Capitolo 8

 


La moto sfrecciava tra le strade della città ormai deserte, con John che la guidava oltre il limite senza dare alcuna importanza alla segnaletica stradale. Non gli importava passare col rosso, non gli importava violare il limite di velocità, non gli importava neanche violare i divieti di accesso a strade a senso unico né di quella macchina in controsenso (o era lui in controsenso?) spuntata da una curva e  che gli aveva sfiorato la scocca facendolo sbandare.

Si era fermato lungo la sponda del Tamigi, fermando la moto senza spegnere il motore. Si era tolto il casco con un movimento rapido e nervoso, lanciandolo in malo modo al suolo ed ignorando il dolore al braccio ed alla gamba destra feriti; si portò le mani alla testa, sopprimendo un urlo prima di lasciarsi cadere esausto sull’erba della sponda, con la mascella serrata ed il cuore che gli faceva un male cane. Cosa aveva ottenuto da quella notte? Un pò di soddisfazione nei pantaloni ed un buco nero nel torace. Un buco nero che lo stava risucchiando e lo rendeva folle.

Tasha era voluttuosa ed esperta, ma non era Clara. Nessuna sarebbe mai stata anche solo lontanamente simile a Clara.

Quando Tasha lo toccava la sua pelle non veniva attraversata dal formicolio tiepido e piacevole che caratterizzava invece il tocco di Clara.

Il profumo di Tasha non lo stordiva come invece faceva il profumo di Clara.

Clara lo ipnotizzava, lo seduceva, gli faceva perdere la ragione ed il controllo sulla realtà anche solo con il suo sorriso. Clara Clara Clara… che lo chiamava Eleven e lo faceva sorridere, che governava i suoi pensieri ed aveva sciolto quella scheggia di ghiaccio nel suo cuore, che ora lo possedeva e John non poteva più negarlo.

Eppure era scappato, come aveva sempre fatto.

Si ritrovò col viso inumidito da lacrime silenziose e lo scroscio delle acque scure del fiume poco lontano da lui che gli colpiva duramente i timpani. Non sapeva spiegare a se stesso il perché,  ma in quel momento gli sembrava di udire la voce di sua madre che gli urlava contro e gli diceva quanto fosse stato idiota.

Ed aveva ragione. Aveva sbagliato alla grande.

Chi voleva punire? Clara? Se stesso? Aveva ottenuto solo un senso di colpa ed un malessere fisico e mentale che gli stava lacerando corpo e anima.

In quei momenti pensò alla sua adolescenza, a Rose. Alla loro rottura netta e non voluta, alla sensazione di spaesamento ed apatia che si impossessò di lui nei mesi successivi; ma non era niente in confronto a quello che provava in quel momento. Perché questa volta era colpa sua, era stato lui a cercarsela.

Clara non era la sua fidanzata, anche se a volte ne era convinto lui stesso; e non poteva negare il rimorso, la delusione ed il senso di colpa che provava per aver tradito l'amore che provava per lei.

Ci stava provando John, aveva deciso di lasciarsi andare, perché Clara gli era mancata troppo nel suo fine settimana a Blackpool, perché quando Clara non era con lui si sentiva incompleto e solo come non si era sentito da secoli.

Voleva darsi una possibilità John; aveva combattuto, aveva creato opposizione ma alla fine aveva ceduto. Voleva mettercela tutta e costruire qualcosa. Poco alla volta, con piccoli gesti e cautele. Sentiva che quella al pub era la serata giusta per fare il passo decisivo, John lo voleva; aveva sperato, aveva sognato un pò di felicità quando Clara si era annunciata 'gelosa'.

Se solo non fosse arrivata Tasha a rovinare tutto, se solo Clara non gli avesse spezzato il cuore con la telefonata ad Amy. Se solo… se solo…

“Ma a chi vuoi darla a bere idiota! É solo colpa tua...” disse a se stesso sprofondando il volto tra le mani.

L'amore fa fare cose incredibili, ti fa sentire forte e pronto a tutto. La gelosia al contrario uccide e distrugge. E John, quella notte, aveva distrutto se stesso ed aveva paura di tornare a casa.

 
****

 
Clara si era alzata alle sei quella mattina. Amy nel suo lettino l’aveva guardata, aveva chiesto che ore fossero e si era rigirata dall’altro lato senza chiederle niente.

John non era tornato, Clara non aveva dormito, Amy sentiva di aver creato un casino più grande di quanto avesse immaginato.

Sentì Clara cercare qualcosa nell’armadio, ma non si voltò a guardare. Poi sentì il rumore di qualcosa che strisciava sul pavimento, si voltò appena per vedere Clara spingere qualcosa sotto il suo letto. Amy ancora non chiese niente ma restò a guardarla.

Quando Clara ne incrociò lo sguardo, corrucciò le sopracciglia voltandosi e sedendosi sulla sponda del letto per togliersi le pantofole ed infilarsi le scarpe.

La moretta ruppe il silenzio solo per dire:

“Non è colpa tua. Vado prima all’università.”

Amy si alzò col busto, scostando appena le coperte parlando con la voce ancora impastata dal sonno irrequieto:

“Non vuoi parlare un po’? E’ presto… i cancelli saranno ancora chiusi.”

Entrambe sapevano che non era vero, che nel campus la vita studentesca cominciava alle prime luci dell’alba con giardinieri, guardiani e ragazzi che facevano jogging prima delle lezioni.

Clara raccolse la sua borsa con i libri e quaderni per gli appunti ed uscì. Non poteva parlarne con lei.

Passò davanti alla porta della camera di John trovandola chiusa. Passò davanti alla porta della camera del Dottore che invece era aperta. Vi diede un’occhiata dentro, trovandola in ordine e col profumo dell’uomo che aleggiava leggero nell’aria. Scosse la testa bruscamente, uscendo velocemente di casa.

L’auto del Dottore mancava. Anche la moto di John.

 

Clara aveva aspettato un’ora davanti all’ufficio. L’addetta allo smistamento degli studenti sembrava essersela presa con calma, passeggiando per il corridoio con una tazza di caffè fumante tra le mani che sorseggiava di tanto in tanto. Lanciò uno sguardo perplesso alla moretta seduta lì in attesa, ma Clara restituì lo sguardo osservandola aprire le porte dell’ufficio.

Dovevano da poco esser passate le otto, ma i vari uffici (dalla segreteria a quelli dei professori) generalmente in quel periodo dell’anno erano deserti se non per casi del tutto eccezionali.

La donna di colore con cui Clara era intenzionata a parlare si occupava delle assegnazioni delle camere per gli studenti che venivano da fuori o che avevano diritto con la borsa di studio. Clara la seguì senza aspettare che si sedesse alla scrivania e si chiuse la porta alle spalle.

Non appena si voltò, la donna la prevenne esternando le sue chiare intenzioni:

“Tutte le camere sono già state assegnate, non posso fare cambi di destinazione.”

Clara non si demoralizzò, avvicinandosi alla scrivania e sedendosi al capo opposto.

“Non sono qui per un cambio di destinazione.” La donna sembrò sospirare sollevata, ma Clara continuò: “Sono qui per una vera e propria assegnazione.”

“Non hai sentito ciò che ho detto? Le camere per gli studenti all’interno del campus sono tutte già assegnate.”

Non c’era rabbia o nervosismo nella voce della donna, semplicemente una fredda cortesia mentre spiegava a Clara che nulla poteva cambiare la situazione, qualsiasi cosa le fosse capitato.

Clara si era ripromessa di mantenersi composta, di non lasciare trasparire le sue emozioni, di mantenere il controllo. Credeva di esserci riuscita. Sentiva di esserci riuscita.

“Ascolti. Può sempre accettare la mia richiesta. Compilerò qualsiasi documento debba compilare ma… alla fine del primo semestre, o anche dopo le vacanze di Natale c’è sempre qualche studente che si ritira… magari potrei mettermi, che so, in una specie di lista d’attesa!”

La donna tacque, fissando Clara senza espressione, portandosi la mano sinistra al mento e battendo lievemente la penna sul tavolo con la destra in un gesto inconscio.

“Clara Oswald, giusto?”

Con una piccola speranza che si era riaccesa, Clara annuì.

“Non dico che ci sia una lista d’attesa, ma se anche ci fosse sai che non saresti l’unico nome presente?”

L’espressione di Clara si incupì, annuendo con un’incertezza un po’ più marcata in tutto il suo essere.

“Perché dovrei favorirti? Dovremmo seguire l’ordine alfabetico e…. bè il tuo sarebbe praticamente in fondo alla lista, Oswald.”

“A metà della lista, in realtà. Inoltre, avere una borsa di studio ed il massimo dei voti in tutti gli esami finora sostenuti non mi da qualche punto in più?”

La donna continuò a fissarla, interrompendo bruscamente il suo battere la penna sul tavolo. Spinse un foglio formato A4 verso Clara mentre si avvicinava la tastiera del computer e cominciava a digitare qualcosa mentre le parlava formalmente:

“Compili quel documento, Miss Oswald. Ma non le garantisco nulla.”

Clara sorrise, impugnando penna e foglio per la compilazione. Anche una sola piccola speranza, in quel momento, a Clara sembrò bastare.

 
***

 
Il Dottore rincasò con un enorme mal di testa e la stanchezza del turno lungo in ospedale che gli aveva distrutto i muscoli e parte della sua sanità mentale. C’erano state diverse emergenze che avevano richiesto il suo intervento; la sua esperienza traumatologica acquisita in territori di guerra aveva auspicato il prosieguo di vita di due giovani coinvolti in un incidente stradale. Quella notte, tra ubriachi e pazzi scatenati aveva segnato dieci punti sulla scala dei turni da dimenticare.

Fermò l’auto nel vialetto, con il profondo desiderio di mangiare qualcosa, farsi una bella doccia ed andare a dormire per recuperare le energie prima della nuova notte di lavoro da affrontare.

Uscì dall’auto per notare praticamente all’istante i danni della moto di John: scocca fuori asse, fanalino rotto così come la luce di segnalazione laterale, specchietto destro spezzato e diversi graffi sulla fiancata dello stesso lato.

Si precipitò in casa, trovandola deserta al piano inferiore. Visto l’orario ipotizzò che i ragazzi dovessero essere all’università, ma a passo svelto salì le scale dirigendosi direttamente in camera di John. Aprì la porta senza bussare, trovando John disteso sul suo lettino, immerso nel buio e con indosso solo i pantaloni del pigiama, profondamente addormentato.

La luce che filtrava dal corridoio però gli diede visibilità anche su altro: sul braccio destro di John  erano visibili diverse escoriazioni trattate col Betadine e qualche macchia rossa si intravedeva anche sulla gamba dello stesso lato.

Non sapeva se essere arrabbiato o preoccupato, sapeva solo che non voleva rivivere quello che aveva vissuto in passato, che John era l’unico motivo che lo spingeva ad andare avanti, l’unico porto sicuro al quale tornare.

Senza aspettare altro, accese la luce e si diresse verso il lettino del figlio, sedendosi sul bordo; prese il braccio di John e ne controllò lo stato, non curandosi del ragazzo che trasaliva nel sonno ed apriva gli occhi con estrema difficoltà prima di ritrarsi.

Bastò uno sguardo reciproco per capire tutto, per capire quanto fossero simili e quanto fossero stupidi entrambi in determinate situazioni, ma mentre John incupì il volto per poi portarsi il braccio sinistro a coprire gli occhi, suo padre si concentrò sulla sua gamba, tirando delicatamente su la stoffa dei pantaloni a scoprirgli la gamba fino al ginocchio gonfio e livido. Toccò il gonfiore, facendo trasalire e gemere il giovane che si tese sul lettino stringendo le mani a pugno; ma John lasciò fare a suo padre rendendosi pienamente conto che voleva solo assicurarsi non ci fosse nulla di rotto.

“Stai bene?” La voce del Dottore era profonda e perentoria.

“Si. Non è niente, ho perso il controllo e sono scivolato sull’asfalto oleato…”

Non era vero, ma il fatto che avesse gli occhi nascosti allo sguardo di suo padre gli lasciava sperare che lui ci credesse.

Lo sentì sbuffare nervoso, mentre gli afferrava il braccio e lo allontanava dal viso del figlio per poterlo guardare in faccia, accentuando la cadenza scozzese nella sua voce per il nervoso che gli stava improvvisamente salendo:

“Ti ho chiesto se stai bene!”

John fissò lo sguardo annebbiato sia dal sonno sia dalle lacrime invisibili che non riusciva a far uscire sul volto di so padre. Gli occhi di ghiaccio che lo penetravano ed il viso indurito rappresentavano perfettamente il soldato che c’era in lui, l’Ufficiale perentorio che non ammetteva reclami. Non gli stava chiedendo se stavano le sue ferite esterne, ma come stavano quelle dell’anima.

John si portò stancamente le mani al viso, strofinandosi la pelle con forza per eliminare una contrazione involontaria del viso e, costringendosi a non piangere si lasciò sfuggire un penoso:

“…no…”

“Dov’è Clara.”

“Non lo so… all’università, credo. Non c’era nessuno quando sono tornato.”

“Hai passato la notte fuori?” Il terzo grado sembrava interminabile. John che si innervosiva e si sentiva sempre più in colpa man mano che la voce di suo padre, fredda ed incolore, scavava dentro di lui a cercare la sua colpa; il Dottore che, al contrario, cercava forse una redenzione, una colpa che scagionasse la sua. O semplicemente, cercava un modo per poter sistemare le cose nel giusto ordine.

La risposta di John non arrivò, ma d'altronde non aveva bisogno di un ‘si’ per capire la verità:

“Da solo?”

John scosse la testa, chiudendo gli occhi e deglutendo. La gola improvvisamente arida gli bruciava da morire, anche respirare era diventato doloroso.

“Ci ho traditi…” Aveva tradito se stesso. Aveva tradito suo padre. Aveva tradito Clara o si sentiva come se lo avesse fatto:  “…ho rovinato tutto.”

Suo padre gli portò una mano alla fronte, esitando sul punto in cui ancora era visibile una antica e terribile cicatrice, carezzandolo come faceva quando era un bambino. Lo stesso modo in cui lo accarezzava quando cadeva e si feriva, lo stesso modo in cui aveva posato la sua mano sulla sua testa quando sua madre era morta e Rose lo aveva abbandonato. Lo stesso modo in cui gli aveva dato forza e coraggio ogni volta che si sentiva perso e distrutto.

“Si sistemerà tutto John. Te lo prometto.”

Restò accanto a suo figlio finchè non fu profondamente addormentato, poi si recò nel vialetto fuori casa con le chiavi della moto in mano. Girò nel quadro senza avviare il motore e la trascinò all’interno del garage; notò che non solo la scocca era fuori asse, ma anche il manubrio rispondeva male. La parcheggiò sul fondo, inserendo il bloccasterzo per poi nascondersi le chiavi in tasca.

Aveva già rischiato una volta di perdere suo figlio in un incidente stradale; fu quella l’unica volta in cui si era permesso di pregare un qualche Dio affinchè non gli togliesse l’unica cosa buona che gli era rimasta al mondo dopo la morte di River.  Col tempo, gli aveva concesso di riprendere la moto a patto che fosse prudente, e John lo era sempre stato. Quella notte però qualcosa lo aveva scosso.

Quella notte qualcosa aveva scosso tutti e portato a compiere troppi errori.

 

Col passare dei giorni l’aria in casa Smith sembrava farsi sempre più gelida e non perché Dicembre era iniziato e l’inverno era ormai alle porte. Amy e Rory ne parlavano tra loro, ma non riuscivano a parlarne né con John né con Clara.

Non perché non ci provassero, ma semplicemente perché quei due sembravano come perennemente assenti.

Clara seguiva i corsi, pranzava velocemente per poi chiudersi a studiare in biblioteca fino all’ora di chiusura. Tornava a casa per cambiarsi rapidamente e correre al lavoro, restando al pub fino a notte inoltrata; per concludere, la mattina si alzava di buon’ora per correre subito all’università. Il fine settimana era tornata di nuovo a Blackpool come non aveva mai fatto nel corso degli anni precedenti, ed Amy lo sapeva bene. Era partita con un borsone carico di roba e ne era tornata col borsone vuoto esattamente come la volta precedente. Ma il suo armadio non si riempiva di vestiti nuovi e quelli che le erano rimasti le andavano leggermente larghi. Aveva perso peso, il viso era diventato pallido, gli occhi stanchi.

John, dal canto suo, seguitò a studiare per concludere finalmente il suo percorso universitario e mancavano pochi giorni per la consegna della tesi per il suo Dottorato. La mattina la impiegava nei laboratori della facoltà di Ingegneria, il pomeriggio seguiva le indicazioni teoriche e pratiche dell’ Ingegnere Capo presso il quale aveva cominciato a lavorare. La sera tornava a casa esausto, richiudendosi nello studio di suo padre, isolato dal mondo, a completare i suoi lavori.

A volte John usciva dal suo guscio. Cercava Clara con lo sguardo e col corpo, ma quando la ragazza incrociava i suoi occhi li rifuggiva, arrossiva e mordendosi il labbro si allontanava. John la chiamava con la voce interrotta, ma lei si era già richiusa la porta della sua camera alle spalle.

Altre volte, invece era Clara a cercare John, ma quando poi se lo ritrovava di fronte il suo coraggio sembrava sparire e gli occhi tornavano ad essere sfuggenti per entrambi.

Presi da Clara e John e dalla strana situazione che si era creata, nessuno si era accorto dei cambiamenti avvenuti anche nel Dottor Smith.

Forse era per il suo carattere sempre poco predisposto alla socializzazione il motivo per cui nessuno aveva badato ai suoi silenzi, alla sua sempre minore presenza in casa o al fatto che, più volte, aveva dormito in ospedale. Nessuno aveva inoltre notato la sua divisa militare nuovamente stesa a prendere aria.

Nessuno sembrava averlo notato, o meglio: John e Clara fingevano di non averlo fatto. Il primo però ormai vi era abituato. La seconda, invece, si dava la colpa di tutto.

 

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


cap.9

Capitolo 9

 

 

Clara era sempre stata abbastanza razionale nella sua vita, permettendosi solo ogni tanto di sognare di viaggiare per il mondo. Ma anche in quei casi il realismo la faceva da padrone.

Clara era sempre stata razionale anche nei sentimenti. Ma quello che le era accaduto nell’ultimo anno aveva smantellato tutte le impalcature di sostegno che si era costruita intorno.

Aveva deciso di prendersi del tempo, capire bene quali fossero i suoi reali sentimenti. Le era sembrato un assurdo cliché, ma aveva persino provato a redigere una lista dei Pro e Contro per entrambi, rendendosi conto praticamente all’istante che i contro erano persistenti per ambedue i loro nomi e che di pro, invece, non era riuscita ad elencarne nemmeno uno: amava tutti e due e non sapeva il perché.

Clara sentiva il bisogno di allontanarsi, per questo il fine settimana tornava a Blackpool. Persino la presenza della sua matrigna le scivolava addosso come un velo di seta in confronto all’Inferno che le bruciava dentro. Ma più era lontana da Londra più voleva tornarci. Più era lontana dagli uomini che le avevano diviso cuore e anima in due più aveva voglia di vederli e anche solo sfiorarli, sentire la loro voce o la loro presenza accanto.

Ogni volta che i suoi occhi incontravano quelli del Dottore, avvertiva dentro di se un’enorme sensazione di tristezza, una carica di malinconia e rammarico. Ogni volta che invece incrociava lo sguardo di John, a torturarle l’anima c’era quel maledetto senso di colpa che non le dava tregua e tanta, tantissima nostalgia.

Non riusciva ad accettare che il Dottore avesse scelto per lei, ma era anche consapevole che le sue parole erano giuste, che amare John le era necessario tanto quanto respirare e che le mancava terribilmente. Il calore dei suoi abbracci, la morbidezza dei suoi baci tra i capelli, il suo sorriso dolce, tutte cose che ora le sembravano precluse ed il solo pensiero di non poterle più avere le laceravano il cuore.

Poteva dire lo stesso del Dottore? Clara ci aveva pensato.

Cercò dentro di se una risposta, constatando che si, anche lui le mancava. In un modo forse più dolce, con il cuore che le palpitava più svelto nel momento in cui ricordava il sapore della sua bocca, la morbidezza delle sue labbra, il tocco delle sue mani ed il calore della sua pelle. Era diverso da John, forse più impacciato ed ansioso. Ma la scarica elettrica che entrambi le davano, quella non mentiva.

Clara aveva parlato di nuovo con Angie, in un tentativo di dissipare le foschie di follia che le stavano lacerando il cervello. Lei le aveva chiesto quale differenza avvertisse quando a baciarla era l’uno o l’altro. Clara non aveva saputo rispondere. Perché era vero che il bacio del Dottore  era rimasto impresso a fuoco dentro di lei, con il desiderio di fare l’amore con lui ancora persistente nell’intimo; ma John… lui non lo aveva mai baciato sulle labbra. Lo aveva desiderato, molte volte. Ma non sapeva, Clara, quali emozioni avrebbe potuto suscitarle e di quale intensità. Si rese conto, a malincuore, che un vero contatto con lui fondamentalmente non lo aveva mai avuto. Lo aveva ricercato, continuamente. Ma non lo aveva mai davvero avuto.

 
****

 
John non aveva condiviso con nessuno la notizia della consegna della sua tesi finale di Dottorato. Era diventato per lui un evento come tanti che si sarebbe poi gettato alle spalle come se nulla fosse. Avrebbe voluto Clara al suo fianco, avrebbe voluto sorridere con lei, abbracciarla e farla volteggiare, andare a festeggiare e passare un’altra serata sulle sponde del Tamigi come avevano fatto l’ultima volta.

Col passare dei giorni avevano ripreso a parlare, ma qualcosa si era rotto tra loro e lui lo intuiva. Clara a volte lo guardava, apriva la bocca come per dire qualcosa e poi voltava lo sguardo.  Si parlavano, ma non si erano più toccati e John avvertiva un freddo sulla pelle e nelle ossa che lo faceva sentire male. Resisteva alla voglia di stringerla, baciarla come aveva sempre fatto; ed il corpo gli cominciava a tremare di un tremore invisibile, appena percettibile che però lo annientava. Un terremoto di scarsa intensità ma enorme potenza distruttiva.

A volte si chiedeva se Clara gli leggesse addosso la sua mescolanza con Tasha. A volte si chiedeva se, avvicinandosi a lui, la sua Ragazza Impossibile gli sentisse addosso il sentore di lei che la nauseava. In quei momenti il cuore gli si fermava e gli faceva male, rendendogli impossibile guardarla in viso ed era lui a scappare. Sapeva che tutto quello che stava accadendo tra loro era solo colpa sua e delle sue inutili stupide paure.

Con ancora quei pensieri a sconvolgergli la mente, John uscì dal campus. Era a piedi e zoppicava ancora percettibilmente; la moto nascosta in garage, sotto un telo bianco, gli era stata categoricamente proibita e lui non aveva ribattuto, rendendosi conto di aver tradito anche la fiducia che suo padre, per anni, aveva riposto in lui.

Oltrepassò la zona pedonale, stringendosi nel cappotto mentre raggiungeva la strada al di fuori del complesso universitario. Suo padre poggiato alla carrozzeria della sua auto lo attendeva a braccia conserte e gli occhiali da sole a nascondergli lo sguardo. Il cielo era nuvoloso…

Non si dissero nulla, semplicemente si scambiarono un lieve sorriso mentre John saliva sul lato passeggero ed il Dottore si sistemava al posto di guida.

Il viaggio verso casa era cominciato in silenzio, con il solo rumore del vento che si infrangeva contro il finestrino di John aperto a metà e che gli scompigliava il ciuffo ribelle.

Il giovane si portò la mano sinistra al viso, tirandosi i capelli indietro per poi poggiare il gomito sul bordo interno del finestrino. Lanciò un rapido sguardo alla sua destra, inquadrando l’espressione imperturbabile di suo padre alla guida cercando un modo per rompere il ghiaccio.

John deglutì, lasciando poi uscire la voce leggermente rotta:

“Hai tirato fuori la divisa.”

La mascella del Dottore si contrasse per un secondo, ma restò in silenzio.

John sospirò prima di voltare lo sguardo all’esterno e chiedere:

“Quando?”

Suo padre ingoiò un boccone d’aria come per darsi coraggio, ma sapeva che stava solo cercando il modo giusto per addolcire la pillola da mandare giù. Era il momento meno opportuno quello per partire, ma il Dottore sapeva che era anche l’unica cosa giusta che poteva fare.

“Ho due date.” Rispose semplicemente.

Il silenzio stava gelando l’aria, con il cuore di entrambi gli uomini che batteva nervoso e faceva male. Il Dottore sospirò continuando a parlare:

“Una prima di Natale; Afghanistan, di nuovo. L’altra a metà gennaio. Tunisia.”

“Quale hai scelto?”

“Ancora nessuna. Dipende… andrò dove ho bisogno di essere, suppongo.”

John annuì, passandosi la mano sul viso per scacciare via quella sensazione di tristezza che minacciava di farlo piangere. Stava attraversando un periodo di sconforto così profondo, era uno di quei momenti in cui più aveva bisogno del conforto di suo padre, l’unico punto fermo della sua vita sempre presente in momenti come quello a dargli forza e sostenerlo ed ora… lui andava via.

“Perché adesso? Credevo restassi questa volta. Era diverso, tu eri diverso… non è per la mamma. E’ colpa mia? Perché ti ho deluso?”

Le mani del Dottore si strinsero spasmodicamente sullo sterzo, voltando per un rapido momento la testa verso John. Si concentrò nuovamente alla guida, fermandosi ad un semaforo rosso giusto in tempo per non superare la linea dello stop ed essere beccato dalla telecamera. Nessun pedone sulla strada, per fortuna.

Il Dottore si portò una mano tra i capelli spettinandoli nervosamente e cercando poi di rimetterli a posto rispose al figlio:

“No. Non è per la mamma e non è colpa tua.” Si voltò a guardare suo figlio. Un uomo di vent’otto anni che in quel momento gli ricordava quel bambino spaventato e triste per la morte improvvisa di sua madre. Avrebbe voluto abbracciarlo, ma l’unica cosa che riuscì a fare fu quella di posargli una mano sulla spalla in un gesto impacciato che aveva lo scopo di farlo voltare verso di lui:

“Credevo di poter restare questa volta. Ma ho sbagliato i conti. Sono un uomo rotto, John, ma tu sei l’unico che tiene uniti ancora i pezzi. Nessuno a questo mondo può ripararmi completamente se non lo faccio io da solo. Sono come i paesi di guerra in cui vado in missione, distrutto ma con una speranza e quella speranza sei tu John. Ma anche così devastato, se posso salvare anche solo una vita in una delle mie missioni, allora per me è già una vittoria. E’ per questo che vado.”

Non era stato del tutto sincero, questo lo ammetteva: gli aveva raccontato solo una parte della verità. Andava via perché era l’unico modo che conosceva per allontanarsi da Clara e permetterle di dimenticarlo. Dopotutto i giovani dimenticano in fretta le delusioni, bastava darle il tempo di capire che l’amore che provava per John era più sano e giusto di quello che provava per lui e permetterle di dare a lui il suo cuore senza indugi. Per quanto riguardava il suo, invece, di cuore… bè, ormai con le ferite e le sofferenze ci aveva fatto il callo. Aveva amato Melody per anni dopo la sua morte. Ancora la amava adesso e gli mancava terribilmente. Ed amava Clara, quel fiore fresco spuntato a sorpresa ai piedi di una roccia lungo il pendio di un vulcano. Lui era il vulcano pronto ad esplodere e sapeva che un giorno lo avrebbe fatto; avrebbe potuto offuscare la bellezza, la delicatezza e la giovialità di quel fiore, l’avrebbe inaridita e bruciata. L’unico atto d’amore che poteva concederle era lasciarla libera di andare, l’unica cosa giusta da fare era lasciarla libera di amare John. Suo figlio avrebbe saputo curarla, amarla, custodirla. Suo figlio avrebbe saputo valorizzare le sue qualità e prendersi cura di quel fiore delicato come lui non avrebbe mai potuto fare. Perché lui era lava che bruciava, John invece era come sua madre: acqua incontrollabile di un fiume che però portava vita.

Il Dottore portò una mano al volto del figlio in una carezza più sicura e gli sorrise. Poi il semaforo divenne verde e riprese la marcia vero casa.

 
****

 
Quando Clara tornò a casa era ancora giorno. Aveva saltato le lezioni del pomeriggio, ben sapendo che John sarebbe stato in casa da solo e ne voleva approfittare per poter finalmente affrontare con lui il discorso che da troppo tempo stavano rimandando.

Quando mise piede oltre la soglia, trovò John seduto sul divano davanti al camino appena acceso, con in mano garza ed acqua ossigenata mentre cercava di disinfettare la screpolatura residua al braccio. La ferita si era molto ridotta, ma la parte centrale e più profonda si riapriva continuamente in piccole crepe man mano che la crosta si asciugava ed il braccio si muoveva.

Clara lo vide voltarsi verso di lei, scrutandola con uno sguardo sorpreso e, forse, anche un po’ imbarazzato. Non si chiese il perché, ma da dov’era Clara non poteva vedere che, si, John aveva indosso la camicia con le maniche tirate su fino al bicipite, ma i pantaloni infilati solo sulla gamba buona.

“Ciao…”

“Ciao!” Rispose John improvvisamente agitato, lasciando cadere la boccetta di acqua ossigenata per terra mentre si infilava velocemente anche l’altra gamba dei pantaloni, grato al divano di nasconderlo alla vista, continuando:

“Non hai lezioni da seguire?”

Clara sospirò, facendosi strada all’interno del soggiorno e posando infine la borsa accanto alla poltrona di Rory. Non aveva fatto caso al comportamento ed ai movimenti di John, o forse aveva deciso di fingere di non farvi caso. Notò solo il piccolo batuffolo di ovatta con cui il ragazzo si stava pulendo la ferita caduto sul pavimento assieme al disinfettante  e li raccolse, tamponando sul tappetino le poche gocce del liquido che erano sfuggite durante la caduta.

La ragazza continuò a stare in silenzio, mentre John, ormai seduto compostamente, la guardava perplesso. Infine, si sedette accanto a lui fissandogli il braccio:

“Come stai?”

John si spostò appena con il corpo, teso come una corda di violino e lo sguardo al pavimento.

“Zoppico un po’, ma va meglio…”

In realtà era l’opposto. Stava malissimo. Non fisicamente, delle ferite superficiali non gli importava granché. Ma il suo cuore stava sanguinando e da troppo tempo.

Clara sospirò e sorrise tristemente lasciandosi sfuggire un dolce:

“Non è vero…”

John la guardò chiedendole:

“Come lo sai?”

“Io lo so sempre.”

John sorrise ed arrossì, fingendo di concentrarsi sulla ferita residua sul braccio. Clara invece sprofondò sul divano, poggiando la schiena contro il bracciolo pr guardare John al suo fianco; le mani raccolte in grembo con le dita che si intrecciavano nervosamente tra loro mentre diceva:

“John… posso farti una domanda?”

Il ragazzo smise di soffiare sulla ferita, come se stesse spegnendo chissà quale bruciore, per guardare la ragazza  con espressione curiosa:

“Credo di si… chiedi pure.”

Clara abbassò lo sguardo alle mani che continuavano a stringersi tra loro, sospirò pesantemente prima di trovare il coraggio necessario a pronunciare le parole che le martellavano le sinapsi da troppi giorni. Era mai possibile che parlare con John fosse diventato così difficile? Era assurdo il nervosismo, la paura che le era montata su nel momento esatto in cui aveva deciso di chiarire la situazione. Era così difficile trovare le parole giuste, era così difficile cominciare una qualsiasi conversazione, col cuore in gola e la vista che si offuscava innaturalmente. E più passava il tempo più sarebbe stato difficile farlo!

Con il respiro che le si mozzò in gola, un miscuglio di emozioni e la testa improvvisamente vuota di ogni pensiero logico, Clara tentò di mettere insieme una serie di parole coerenti:

“Ecco… tu… stai ancora vedendo Tasha?”

L’aria attorno a loro si gelò improvvisamente. Il cuore di John improvvisamente stretto in una morsa serrata. Clara quindi sapeva, e questo lo feriva ancora di più.

“Tu stai ancora vedendo quel tizio… Porridge?”

“Chi?” Clara strabuzzò gli occhi, raddrizzando la schiena quando capì a chi si riferiva John: “Il tipo dell’appuntamento al buio? Ma scherzi? Il tutto è durato dieci minuti, sono scappata via! Non ricordo nemmeno come si chiama!” Poi Clara realizzò: “Porridge… hai parlato con Amy, vero?”

Il soprannome che John aveva usato lo aveva coniato Amy durante la loro chiacchierata sul disastro che le era capitato.

 John scostò lo sguardo senza risponderle. Clara invece sospirò, lasciandosi scappare un sofferto:

“Perché sei uscito di nuovo con lei?”

John voltò lo sguardo verso la moretta, leggendole negli occhi una sofferenza che gli fermò il cuore. Per un attimo la speranza si fece nuovamente strada nel suo cuore, ma fu solo un attimo incontrollato che venne poi soffocato nuovamente dall’oblio emotivo fatto di confusione e rabbia repressa:

“Tu perché sei uscita con Porridge?” Testardo e capriccioso. Non avrebbe mai ammesso chiaramente ciò che provava. E questo peggiorava la situazione.

Clara spostò lo sguardo sul viso di John. Le labbra tremanti volevano lasciar uscire le parole che non le venivano, con la mente che sembrava bombardata da nozioni ed immagini sconnesse. John non la guardava, con la schiena reclinata in avanti, gli avambracci posati sulle ginocchia e le mani unite davanti a se; il ciuffo ribelle che pendeva verso il basso gli copriva il lato del viso nascosto alla vista di Clara.

“Perché…” Ripetè la moretta come un’eco:

“Eleven …Hai bisogno di chiederlo?”

Nel silenzio che ne seguì Clara non sapeva dire se John avesse capito ciò che la sua domanda in realtà nascondeva. Per lei era stato chiaro quella sera: era gelosa, aveva reagito di conseguenza. E lo aveva ammesso apertamente. John continuò a fissarla, le labbra dischiuse, immobile come una statua di pietra senza respiro.

Clara continuò a parlargli, con gli occhi che le bruciavano e la voce rotta dalle lacrime invisibili che non le rigavano il volto:

“Avrei voluto essere io al suo posto. Avrei voluto essere io al posto di Tasha.”

Con la gola che le bruciava a causa dello sforzo di trattenere il pianto e pronunciare a fatica quelle parole, Clara avvertì il suo cuore impazzire mentre il sangue le raggiungeva troppo velocemente il cervello. I pensieri si spensero, aspettando una qualche reazione di John che non tardò ad arrivare. Lo vide sbattere gli occhi nervosamente prima di fermarsi; immobile, marmoreo e quasi privo di vita finchè la mascella non gli si contrasse in un paio di spasmi prima di parlare:

“Bè,  forse… io avrei voluto essere al posto di… Porridge o… qualsiasi altro ragazzo con cui…”

Il volto di John divenne di un porpora intenso; avrebbe voluto portare la mano tremante a prendere quella di Clara e stringerla, ma aveva paura. Un timore adolescenziale che in un uomo grande e grosso come lui sembrava stonare, ma non poteva fare altrimenti. Non riusciva a combattere le emozioni contrastanti che avvertiva, né la consapevolezza che tra loro una sorta di barriera ormai ci fosse ed era così difficile abbatterla ora!

Non era quello che volevi John? Non eri tu ad erigerle, quelle maledette barriere? Bene… ora prova ad abbatterle, se ci riesci, idiota!

Era quello il pensiero che gli correva nella mente, unico e doloroso e non riusciva a respingerlo. Poi le parole di Clara lo fecero cedere:

“Avrei voluto me lo dicessi prima. Se solo… se solo ne avessimo parlato prima…”

Questa volta una lacrima era sfuggita al suo maniacale controllo e per Clara fu come l’apertura di una diga. Con la prima lacrima ne scese una seconda, poi una terza.

Un brivido percorse la schiena di John, con la mente improvvisamente offuscata e la testa che gli girava. Aveva paura di toccarla, sembrava così fragile in quel momento la sua Ragazza Impossibile che anche solo sfiorarla gli avrebbe dato la sensazione terribile di sentirsela sbriciolare tra le dita. La sensazione terribile che ormai fosse tardi per entrambi, una sensazione così dolorosa e contro la quale John aveva improvvisamente tutto il desiderio e la forza di combattere!

“Clara… tu e Porridge non avete mica...”

“No! Certo che no!” Clara tirò su col naso, assumendo un’espressione quasi disgustata al solo pensiero di un ‘qualcosa’ con quel tipo.

John le prese le mani tra le sue, spostandosi più vicino a lei. Cercò il suo sguardo, con gli occhi pieni di speranza e lucidi anche i suoi di lacrime ancora represse:

“Clara, ascolta!” deglutì e prese un profondo respiro prima di continuare: “Tasha é stata un errore! Siamo ancora in tempo, se solo tu potessi perdonarmi, io...”

Lo sguardo di Clara si fece più cupo, la piega tra le sopracciglia si fece più profonda mentre le labbra le tremavano e posava un indice altrettanto tremante sulle labbra del giovane:

“Non sei il mio ragazzo… cosa dovrei perdonarti?” Era lei a dovergli chiedere scusa! Ah, povero dolce ed ingenuo John che non sapeva quale, invece, fosse la sua di colpa! Una colpa ben più grave che le opprimeva l’anima, gliela bruciava come lava, la divorava dall’interno.

“John...tu ti avvicinavi, io credevo ci fosse qualcosa, l’ho creduto per mesi...”

Il cuore faceva male, John lasciò le mani di Clara per portarle le sue al viso; con i pollici le asciugò le lacrime sulle guancie cercando di sorriderle mentre avvicinava il volto a quello della ragazza. Poggiò la fronte contro quella di lei, muovendo appena la testa come volesse lasciarle un marchio, farle sentire i suoi pensieri, fare entrare le sue emozioni intense dentro di lei con quel gesto. La voce ridotta ad un sussurro sofferto mentre continuava a guardarla in quei profondi occhi marroni, resi ancora più scuri e lucidi dalle lacrime:

“C’era qualcosa, c’é ancora! Ci sarà sempre!”

Clara emise un singulto, chiudendo gli occhi. Portò le mani su quelle di John mentre cercava di parlare tra un singhiozzo e l’altro:

“Però. ...poi mi respingevi e... c’era qualcun altro che invece...”

“...tu e lui...voi avete...”

“No…”  Ma avrebbe voluto.

John strinse la presa sul viso di Clara, allontanandosi appena per perdere il contatto tra le loro fronti ed alzarle appena il viso:

“Allora non é troppo tardi! É solo una svista, come quella che io ho preso per Tasha! Io ti amo Clara, e anche tu mi ami!Vero? Vero?”

Clara annuì,  aprì le labbra per parlare, ma si ritrovò zittita dalle labbra di John premute sulle sue, sulla lingua il suo sapore.

“Clara... mia Clara... non hai idea di quanto tempo ti ho aspettata...”

“John… c’è molto altro da dire…”

“No. Non importa. Non è successo nulla ed è questo che conta. Da adesso in avanti ci siamo io e te. Dimentichiamo. Tasha, Porridge o chiunque altro. Solo tu e io, Clara.” Le sorrise continuando: “Eleven e la sua ragazza impossibile.”

Le labbra di John contro le sue, le sue mani strette sui fianchi di lui a reggersi mentre la spingeva con la schiena contro il divano, il calore ed il peso del corpo del ragazzo a schiacciarla delicatamente. Il suo cuore impazzito, col respiro che, rapido ed irregolare si mischiava a quello del giovane in una serie di gemiti dolci e disperati assieme; la vertigine di emozioni nel ventre che aumentava in modo esponenziale ad ogni tocco, ogni bacio che John le donava. Era tutto così giusto, persino i fianchi che improvvisamente o per istinto, si agganciarono in modo perfetto, facendo maledire ad entrambi i vestiti che li separavano. Nessun altro pensiero nella mente, nessun altro desiderio se non quello di essere solo loro due, per quel momento e per il futuro. Era il momento perfetto, era la situazione perfetta, le giuste emozioni. John era giusto, la sua età era giusta, il suo corpo era giusto. Eppure, in un angolo remoto del suo animo, sebbene cercasse di ignorare la cosa, Clara aveva paura.

Le mani del giovane si insinuarono tremanti sotto la maglia della ragazza, staccandosi appena da lei per sfilargliela e lasciarla cadere sul pavimento.

I loro visi arrossati, gli occhi lucidi e quello sciocco sorriso timido sulle labbra. Clara allungò le braccia verso di lui, andando a sbottonargli esitante i primi bottoni della camicia mentre John faceva lo stesso con lei.

Quando anche quelle furono sul pavimento, John scese nuovamente su di lei, catturando le labbra di Clara tra le sue. Fu un bacio lungo e dolce, mentre le succhiava il labbro inferiore per poi permetterle di fare lo stesso con lui. Le mani di lei che gli percorrevano la schiena, ritrovandosi poi sul suo viso come a voler prolungare quel contatto il più possibile.

Le labbra di John erano diverse da quelle di suo padre. Più morbide, più dolci e timide. Il brivido stesso che il suo sapore sulla lingua le dava era più intenso ed elettrizzante, forse perché Clara avvertiva il calore della sua pelle a contatto con la sua, o forse perché in quel momento aveva paura, forse perché Clara aveva bisogno di credere che fosse giusto. Ma sapeva per certo che non voleva finisse.

Le mani di John corsero lungo i fianchi di lei dandole un brivido intenso; raggiunse la gonna e, alzando il bacino quanto bastava, prese a lavorare per alzarne l'orlo ed insinuarsi con le dita appena oltre l'elastico dei collant, tirandoli lentamente verso il basso.

Fu solo un attimo, John riuscì a spostarli solo di pochi millimetri prima che il rumore della porta che si apriva e richiudeva, seguita dal tintinnio di chiavi, li costringesse a fermarsi.

John si drizzò con la schiena portandosi seduto, il respiro irregolare ed i capelli scompigliati a decorare  lo sguardo sconvolto mentre fissava suo padre che, girandosi verso di lui, si bloccò guardandolo perplesso:

"Tutto bene? Ti ho spaventato?"

Clara premuta ancora contro il divano, nascosta e pallida, con le mani entrambe incrociate su bocca e naso come se cercasse di impedirsi di respirare, gli occhi lucidi non per la passione, ma lacrime che si forzava di non lasciare scappare mentre desiderava di sprofondare il più possibile e non essere vista. Il panico nel cuore e nello stomaco le facevano un male cane.

"Io... stavo..."

L'espressione sconvolta di John si fece confusa quando incrociò per un solo istante lo sguardo fuggente della moretta, con la testa premuta contro il bracciolo del divano, i capelli che le sporgevano oltre e cadevano verso il basso.

Il Dottore fece un paio di passi verso il soggiorno con innocenza continuando:

"Se stavi dormendo scusa, io non...."

Lo sguardo del Dottore si posò su un punto indefinito prima di tremolare e poi incupirsi. L'uomo sembrò bloccarsi, diventare una statua di marmo prima che uno spasmo incontrollato gli scuotesse  le spalle, percorrendogli le braccia costringendolo infine a chiudere la mano a pugno.

"Papà? "

Il Dottore lasciò la stanza senza parlare, incedendo sulle gambe mentre lentamente saliva i primi gradini per dirigersi al piano di sopra. Inutili i tentativi di John che continuava a chiamarlo.

Nello stesso tempo, Clara sgusciò via dalla presa ancora persistente delle loro gambe intrecciate.

John la guardò alzarsi e raccogliere velocemente la maglia ed indossarla di fretta ed al rovescio:

“Clara…”

Lei non lo guardò, semplicemente raccolse anche la camicetta e, con il viso basso e mezzo nascosto dai capelli sussurrò:

“Mi dispiace… io… non posso. Non adesso.” Fece un profondo respiro prima di continuare: “Io… sono un cattiva persona. Perdonami.”

John scatto dal divano definitivamente, allungando un braccio verso Clara ed afferrandole la mano per trattenerla disse:

“Aspetta! Spiegami!”

“Devo andare via, John. Ora è chiaro, non posso restare…”

“Perché? Perché mio padre ci ha beccati? E’casa sua, le regole che ha dato a Rory ed Amy valgono anche per me e per te, ma non per questo devi sentirti in colpa o considerarti una persona cattiva! Gli parlerò e sarà tutto a posto!”

Clara scosse la testa, mostrando a John un’espressione supplichevole:

“No! Eleven, ho perso il controllo; non riesco a gestire più nulla. Ogni azione che compio ferisce qualcuno e… non voglio più continuare a ferire entrambi! Lasciami andare, ti prego… forse se vado via avremo una possibilità!”

“No.. non capisco!” Disse con una confusione nella testa e la rabbia crescente che non gli dava respiro: “Tu te ne vai. Mio padre se ne va… mi abbandonate tutti! Dove ho sbagliato? Cosa ho fatto di così grave?”

“Non è colpa tua John. E’ mia. Tuo padre, questa situazione… è tutto per colpa mia.”

“Cosa intendi… perché dovrebbe…” Poi un pensiero, una domanda gli scivolò incontrollata dalle labbra: “ Chi è?”

“Non chiedere John. Ti prego, fa come ti dico: non chiedere mai!”

“Clara… non farmi questo. Non adesso, non dopo che siamo andati così avanti! Tu più di chiunque altro dovresti sapere quanto è difficile per me…”

Le dita ancora intrecciate che si stringevano in una presa calda, dolce eppure serrata. Il respiro di entrambi irregolare, così come i loro due cuori tumultuosi che battevano nel petto percorso da spasmi.

Clara smise di respirare nel momento in cui finalmente incontrò lo sguardo triste di John, così innocente e carico di speranza. La luce nei suoi occhi brillava come non aveva mai visto, li rendeva due stelle nell’oscurità di un Universo infinito ed incontrollabile di emozioni. In quel momento, Clara ricordò le parole di un libro che aveva letto diversi anni prima:

“Una volta ho letto un libro. L’autore diceva che in alcune vite noi ci dividiamo. La nostra anima si scinde in due, e ciascuna di queste nuove entità si suddivide in altre due. Quando due parti si ritrovano nasce l’amore, un amore infinito ed incontrastabile. Ma diceva anche che potevamo incontrare più parti della nostra anima e quando accadeva l’unico risultato era sofferenza.” Pronunciò con una sincerità ed una dolcezza inimmaginabile quelle parole, poi sorrise avvicinandosi al giovane; gli posò un leggero bacio sulle labbra per poi continuare a parlare:

“Forse non è tardi per noi e so che non mi capirai. Ma se vogliamo darci una possibilità ho bisogno di andare via. Eleven, è meraviglioso che tu esista e so che esisti per me. Tu sei una parte di me. Lo sarai sempre…” ma doveva accadere prima che baciasse il Dottore. Prima che i suoi sentimenti si confondessero in quel modo. Amare John era giusto, ma non lo era in quel momento. E lei non poteva e non voleva spiegargli ‘perché’ e ‘con chi’, lo avrebbe distrutto. Avrebbe distrutto tutti.

Si allontanò di corsa dal ragazzo lasciandolo da solo, in piedi, confuso e ferito come non si era mai sentito. Dentro di lui qualcosa si era rotto per sempre, in modo definitivo. La confusione regnava nel suo animo e nella sua mente; voleva Clara lì con lui, a tenerlo per mano e salvarlo come aveva fatto il giorno in cui si erano incontrati, come il giorno in cui aveva sciolto il suo gelido cuore; ma Clara adesso non lo aveva fatto. Clara lo aveva rigettato in un abisso oscuro e senza uscita.

L’amore divenne dolore, il dolore divenne gelo. Il cuore caldo tornò ad essere una scheggia di ghiaccio sotto un cumulo altissimo di neve.

Se Clara avesse davvero deciso di andare, se Clara avesse davvero deciso di oltrepassare quella porta, lui l’avrebbe chiusa per sempre.

 
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NOTA:

Chiedo scusa per il ritardo immane nel prosieguo di questa storia. Il fatto è che mi sono concentrata sull’ispirazione per l’altra mia storia, sommandoci pure che in questo periodo sto soffrendo di continue emicranie che mi stanno uccidendo visto che le medicine non servono a farmele passare… ne ho una adesso, ma ho voluto forzarmi a correggere il capitolo e prepararlo per la pubblicazione prima di sentirmi ancora più male.

Una piccola nota per la menzione al libro di cui parla Clara a fine capitolo: la teoria esoterica dell’Altra Parte è tutta di Paulo Coelho, rendo omaggio a lui in quelle righe. Nei giorni scorsi mi sono ritrovata con un suo libro tra le mani ed ho pensato che quella citazione stesse bene in questo capitolo, anche se la mia storia non ha nulla a che fare con la spiritualità, l’esoterismo ed il Divino, o con quel romanzo in generale, anzi. Io tessa non ho nulla a che fare con esoterismo e Divino xD

Ma il caso ha voluto, e volevo rendere omaggio ad un libro che mi ha segnato in positivo.

Grazie ancora a chi è arrivato fino a qui e continua a seguire, aggiornerò presto, promesso. Emicranie permettendo ;)

Alla prossima!!

 

 

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Capitolo 10
*** Capitolo 10 ***


Capitolo 10

Capitolo 10

 

Presente….

 

Una cosa che John Smith non era mai riuscito a correggere nel corso degli anni era il suo inesistente senso del tempo: arrivava sempre in ritardo!

Eppure, quella mattina, dopo aver lasciato Rory ed Amy a casa a fare colazione da soli, John aveva battuto se stesso e raggiunto la meta con ben dieci minuti di anticipo!

Aveva ordinato un cappuccino, facendosi accostare accanto una serie di dolcetti della casa. Alternava lo sguardo tra gli altri clienti del bar e la sua colazione, scattando sull’attenti ogni volta che la porta si apriva e faceva suonare lo scacciapensieri appeso appositamente per richiamare l’attenzione. Sempre più spesso guardava l’orologio, sospirando ansioso e ricordando che Clara era sempre stata puntuale, a differenza sua. Il giorno in cui si era presentata per la prima volta a casa Smith, come disse Amy, aveva ‘spaccato il minuto’! Eppure, adesso che l’ora era praticamente giunta, adesso che pochi secondi erano passati dall’ora dell’appuntamento, John cominciò a sentirsi insicuro. Col cuore che prendeva a battere irregolare e fare quasi male, temeva ogni secondo che avanzava, sempre di più.

“Non ci credo! Sono io ad essere in ritardo!”

Il cuore di John si sciolse, riconoscendo quella voce dolce ed impertinente allo stesso tempo. Chiuse per un attimo gli occhi, sorridendo mentre si godeva quei pochi secondi prima di voltarsi. Un’estasi di emozioni gli scaldò il petto mentre riconosceva quella vertigine che gli percorreva l’addome, contento di scoprire che due anni di dormienza emotiva si erano risvegliati e riproposti più intensi di quanto fossero mai stati. Il suo cuore di ghiaccio riprese a sciogliersi come neve al sole, risvegliandosi dall’ibernazione di un lungo inverno freddissimo e triste.

Immaginava il sorriso di Clara sul suo viso tondo e sbarazzino, le fossette ai lati delle labbra ed i capelli castani che le ricadevano ai lati del volto. Si alzò dal suo posto deciso a vederla davvero, voltandosi verso di lei con un sorriso che, era sicuro, su di lui non si lasciava vedere dal giorno in cui… bè, dal giorno in cui tutto era cambiato.

“Ma no, sono appena arrivat…” Clara era sempre uguale ai suoi occhi, bella e solare esattamente come la ricordava, sebbene in realtà fosse più matura di quando l’aveva lasciata. Ma la neve sciolta nel cuore di John tornò ghiaccio ed il sorriso un’espressione di cera quando incontrò gli occhi grigio-azzurri di un bambino piccolo tra le braccia della giovane, con il visino imbronciato, tondo e paffuto incorniciato da radi e sottili riccioli castani che avevano un qualcosa di estraneo e familiare assieme.

Un sorriso amaro solcò le labbra di John, andando a sostituire quello raggiante degli attimi precedenti.

Cosa si aspettava? Dopotutto erano passati due anni o poco più. Lui si era fermato a quel maledettissimo giorno, forse, ma il resto del mondo era andato avanti. Ed a quanto sembrava, era andato avanti in modo inaspettato e crudele.

 
***

 
Passato….

 

Era l’ora di pranzo quando il Dottore era uscito dalla sua camera per andare a farsi una doccia. Aveva finto di dormire fino a tardi, con la scusa di dover recuperare le ore di sonno rubate dal turno lungo, mentre in realtà ne aveva approfittato per compilare la documentazione necessaria all’Ospedale per giustificare la sua prossima partenza. Il Primario si era presentato seriamente dispiaciuto, chiaramente convinto che lui sarebbe rimasto, dandogli un sincero in bocca al lupo e rassicurandolo che, se avesse voluto, una volta tornato in patria e deciso a fermarsi definitivamente un posto per lui tra il personale c’era sempre. Il Dottore aveva sorriso debolmente e lo aveva ringraziato; dopotutto un medico bravo come lui e con la sua esperienza faceva sempre comodo ed il contratto che gli avevano proposto aveva i suoi vantaggi. Aveva anche avuto il sospetto che il Primario lo avesse voluto come suo collaboratore o, addirittura, suo successore. L’idea lo aveva allettato, finché ad allettarlo di più non era giunta un’altra idea decisamente più stupida ed insana.

Mentre si rivestiva, nel silenzio della casa vuota, pensò a quello che gli era capitato da quando era tornato; pensò al dolce vento di primavera che aveva trovato ad accoglierlo a casa, alla foglia trasportata dalla brezza che gli era caduta tra le mani e che lo aveva risvegliato, fatto sentire ancora un uomo vivo. Quella stessa foglia che conservava all’ultima pagina, accompagnata da quell’ultima nota, di quel consunto diario dalla copertina blu in cui aveva appuntato i pensieri di notti insonni sul campo di battaglia e quelli più sereni del ritorno a casa.

Si passò una mano tra i capelli bagnati ed arruffati, aprendo il cassetto della scrivania per raccogliere quel diario. Lo aprì proprio all’ultima pagina, raccogliendo con dolcezza quella piccola foglia ormai secca e diventata così fragile, ruotando il gambo delicatamente tra indice e pollice per farla girare su se stessa. Sorrise rileggendo la nota scritta in obliquo nella sua grafia indecifrabile tipica dei dottori:

L'amore è una promessa. L'amore è un ricordo.

Una volta donato non può essere dimenticato, non può mai scomparire. (John Lennon)”

 Per quanto lo riguardava, quelle parole lo avevano accompagnato per praticamente tutta la sua vita ed era convinto di ogni parola. Le parole di John Lennon, le sue canzoni, la sua musica, in qualche modo erano sempre state per lui fonte di esempio ed ispirazione.

Sobbalzò appena quando sentì bussare alla porta della sua camera, sorpreso nel vedere Clara ferma sulla soglia, tra le mani uno scatolo con le ultime cose, ed un sorriso triste sul viso. Credeva di essere solo, probabilmente non l’aveva sentita rientrare, non aveva importanza. Sapeva solo che il suo cuore aveva perso un battito e lo stomaco sembrava un vortice di sensazioni contrastanti.

Il Dottore chiuse rapidamente il diario, con il viso che gli andava in fiamme, nascondendolo nella valigetta che avrebbe usato per il suo, di viaggio. Senza voltarsi verso di lei, fingendo di sistemare qualche foglio sparso sulla scrivania, disse:

“Sai che puoi restare. Tu e John avete bisogno di stare insieme.”

Clara abbandonò lo scatolo sul pavimento nel corridoio, inoltrandosi nella stanza per fermarsi a metà strada, distante da lui.

“Eleven ha bisogno di te più di me, adesso. E… non posso restare perché non posso continuare a vederti.”

Quelle parole. Il Dottore capiva perfettamente quelle parole. Era lo stesso per lui. Non poteva restare e continuare a vederla; soprattutto, non poteva restare e vederla con John come l’aveva anche solo intravista alcuni giorni prima, su quel divano che già loro due avevano condiviso in precedenza. Non lo avrebbe mai ammesso, ma la gelosia faceva più male di quanto si aspettasse.

“Dottore, hai scelto tu per tutti e… forse è la scelta giusta. Ma… non ce la faccio, non posso continuare così…” A fare del male a lui, a fare del male a John.

Clara sospirò, osservando la schiena del Dottore reclinarsi in avanti mentre l’uomo poggiava lentamente le mani sulla scrivania a sostenersi, senza voltarsi, senza guardarla.

La moretta lanciò uno sguardo all’armadio aperto, notando l’ormai famosa giacca dai risvolti rossi. Si avvicinò inconsciamente, allungando una mano a toccarne il tessuto. Il Dottore piegò appena la testa, osservandola con la coda dell’occhio. Una nuova prospettiva che gli lasciava credere quasi che, con le sue dita delicate, Clara stesse accarezzando lui e non la sua giacca.

“La prima volta che ho visto questa giacca pensavo appartenesse a John. Ne ho respirato il profumo ogni giorno, si era infiltrato persino sui miei vestiti. Mi piaceva.”

Il Dottore questa volta si voltò di lato, raddrizzò la schiena e la guardò, con le labbra dischiuse ma senza voce per dar vita alle parole che gli si ammassavano non nella testa, ma nel cuore.

Clara lasciò andare il tessuto e chiuse lentamente l’anta, poggiandovisi contro con la schiena. Lo sguardo rivolto al pavimento e sempre quel sorriso triste che confondeva:

“Dottore, non so se un giorno ci rivedremo. Forse si, forse no...” Clara alzò la testa e posò lo sguardo in quello del Dottore: “Ma voglio che tu sappia che ti ho amato. Ancora prima che ci conoscessimo e… forse lo farò ancora per molto tempo. Ma se non ti vedo… anzi se non ti ‘sento’ ovunque attorno a me è più facile, o almeno sembra più facile.”

Un fremito attraversò il corpo dell’uomo, le mani si chiusero a pugno in uno spasmo nervoso. Inspirò profondamente, sciogliendo i loro sguardi e posando il suo su un punto indefinito della scrivania al suo fianco. Quella superficie in legno era diventata la sua scialuppa di salvataggio da una situazione che non sapeva come sarebbe andata a finire, mentre cercava di resistere alle emozioni che gli galoppavano dentro:

“Clara… l’amore a volte non basta.”

“Lo so. Me lo hai già detto.” La risposta di Clara fu rapida e sincera: “Volevo solo sapessi.”

Lui annuì, senza smettere di fissare quel punto indefinito sulla scrivania, carezzandone con la mano la superficie levigata. Clara sbuffò, staccandosi con un balzo dall’anta dell’armadio e, tirando su col naso, mentre cercava di soffocare le lacrime invisibili che sicuramente le avevano gonfiato gli occhi disse:

“Allora, non ti chiedo un bacio d’addio. Ma un abbraccio? Che ne dici?”

Clara allargò le braccia, con il Dottore che finalmente la guardò concedendosi un sorriso sincero, dando finalmente voce ai suoi pensieri:

“Se ti baciassi, non credo riuscirei a fermarmi, questa volta.” Il cuore di entrambi sussultò a quella confessione decisamente inaspettata: “Per l’abbraccio… possiamo provare.”

Si avvicinarono lentamente l’uno all’altra, con le braccia che si intrecciavano dolcemente tra loro e si andavano a stringere attorno al corpo dell’altro. Il corpo del Dottore, inizialmente teso, si rilassava nella stretta dolce della ragazza.

Il viso di Clara premuto contro il petto del Dottore, con le narici intrise del suo profumo di muschio e legno umido, il calore della doccia appena fatta ancora sul corpo, percepibile oltre i vestiti. La guancia del Dottore poggiata contro la tempia di Clara, con la schiena leggermente piegata in avanti ad attenuare almeno un po’ la grande differenza di altezza tra loro ed il naso sprofondato tra i capelli di lei, il profumo di gelsomino ad inebriarlo, esattamente come la prima notte del suo rientro a casa, quando non sapeva di dormire tra le lenzuola di lei. Il calore del corpo di uno a confondersi con quello dell’altra per un’ultima volta e con un’intimità così intensa e carica di significato, con un valore immenso, più importante forse persino di una notte d’amore consumato e svuotato della sua purezza.

Non sapevano quanto tempo restarono lì, in piedi, a stringersi e respirarsi. Ma quando Clara si chiuse la porta di casa Smith alle spalle, oltrepassando i due Angeli Piangenti posti a guardia dell’ingresso, avevano l’uno l’odore dell’altra sui vestiti ed il cuore così pesante da far fatica a respirare.

Al piano di sopra, nascosto dietro la tendina della finestra, dopo aver visto Clara attraversare il vialetto senza voltarsi, il Dottore si stese sul suo letto, un braccio a coprire gli occhi ed un formicolio fastidioso che gli attraversava il corpo.

In quel momento pensò a River ed al loro addio mai detto ed alla sensazione costante di lei ancora accanto a lui, come se ci fosse ancora e sempre un domani per loro, un’eco della loro vita che con Clara, invece, non ci sarebbe mai stato.

In quel momento, il Dottore pensò che i finali proprio non gli piacevano.

 

 
Clara attraversò il giardino di casa Smith per metà prima di trovarsi Amy di fronte. L’amica le andò incontro e le raccolse lo scatolone dalle mani con la chiara intenzione di aiutarla. Clara la ringraziò con un tacito cenno della testa ed un mezzo sorriso, Amy le rispose scrollando le spalle e lanciando lo sguardo alla finestra dietro la quale il Dottore ancora si intravedeva. Con un cenno della mano lo salutò, lui rispose con un rapido gesto della testa per poi lasciar cadere rapidamente la tendina e nascondersi all’interno dell’abitazione.

Clara si voltò, ma non lo vide.

“E’ per questo che mi hai chiesto di aspettare fuori?”

Nella voce di Amy non c’era giudizio alcuno, ma nemmeno comprensione. Clara abbassò la testa incamminandosi verso la strada rispondendole con un semplice:

“No.”

Proseguì in silenzio per cinque metri prima di trovare il coraggio di continuare:

“Non sapevo fosse in casa.”

Gwen le aspettava con la sua auto poco distante dalla proprietà. Le vide uscire dal cancello e segnalò con un gesto della mano la sua presenza, andando ad aprire il bagagliaio come mossa cautelativa ed urlando dalla distanza con voce allegra:

“Dove andiamo?”

“Notting Hill.” La risposta incolore di Clara.

“Ah, però!”

“La zona dei mercati…”

“Ah…” La delusione di Gwen, immaginando già il caos del quartiere e l’impossibilità di studiare come si deve. Zona residenziale e rinomata, con prezzi inaccessibili ai più ed appartamenti piccolissimi, di certo non l’ottimale per studenti in via di laurearsi. La ragazza incrociò le braccia al petto controllando lo spazio nel bagagliaio, poi le sciolse per spostare un paio di oggetti e creare spazio per le cose di Clara.

Ritornando ad usare un tono di voce più basso, Clara continuò parlando più a se stessa che a Gwen, ancora distante, o Amy ancora a lei vicina:

“Era l’unica casa libera che accettava come pagamento il soggiorno minimo di due settimane, visto che a Natale torno a Blackpool. Mi è costato 275 sterline…”

“Clara…” Amy si fermò, costringendo anche Clara a fermarsi prima di raggiungere l’auto con la loro amica, ad una distanza ancora abbastanza lunga affinchè lei non potesse sentirle:

“Mi dici cos’è successo?”

Clara si voltò verso Amy senza guardarla:

“A cosa ti riferisci?”

“Non sono stupida Clara.” Amy sbuffò: “Mi sono accorta che qualcosa è cambiato. Tra te e John e tra te ed il Dottore. E li conosco entrambi abbastanza bene per avere i miei sospetti.”

Clara la interruppe sospirando e portandosi una mano alla tempia, spingendo indietro i capelli:

“Amy… non è successo niente, te lo assicuro. Ma non voglio fare più danno di quanto già sia stato fatto…”

“Quindi ho ragione. Mi sembrava strano che il Dottore restasse per così tanto tempo. E va via perché tra voi, in realtà, qualcosa è successo.”

“No.” La risposta di Clara fu rapida e secca, quasi convincente: “ Va via per evitarlo. Ed anch’io. Non voglio ferire John perché… lo sai cosa provo per lui, lo sai quanto per me sia importante; ma non voglio neanche ferire il Dottore perché anche lui è importante. Vado via così lui può restare.”

Amy scosse la testa, riprendendo a camminare mentre diceva più a se stessa che all’amica:

“E pensi di risolverla così? Lui se ne andrà lo stesso. E se lo conosco bene, posso dire tranquillamente che non tornerà per molto, moltissimo tempo.”

Clara riprese a camminare con una morsa che le stringeva il cuore e lo stomaco che le bruciava come un fuoco infernale. Si morse un labbro per trattenere le lacrime e sussurrare:

“Sono una persona cattiva. E’ colpa mia e mi dispiace, ma non ho mai voluto accadesse…  quindi ti prego, non giudicarmi male, io…”

“Sta zitta Oswald… non è colpa tua. I sentimenti non nascono a comando.” Amy le sorrise cercando di addolcire l’espressione del viso e la voce. Ma la tensione della situazione che si era venuta a creare in casa nell’ultimo mese un po’ si era trasmessa anche a lei ed a Rory e non poteva negare di metterla a conoscenza dei fatti:

“ Certo la situazione non mi piace, perché tengo a loro due in modo particolare e tengo a te… ma non posso farti una colpa per qualcosa di cui non so nulla. So solo che stai cercando di porvi rimedio e… sebbene un po’ di fastidio e malessere sia arrivato anche a me e Rory… non posso giudicare se il tuo comportamento o il suo sia giusto o sbagliato; non posso condannare te o uno di loro due, in questo momento. Però, voglio solo che pensi bene a quello che fai.”

Clara avvertì un senso di gratitudine per quelle parole, pensando che Amy era davvero più comprensiva di quanto pensasse. Non sapeva, però, che dietro quelle parole piuttosto neutrali in realtà Amy nascondesse una leggera rabbia. Voleva essere amica di entrambi (John e Clara) e voleva bene allo ‘Zio Smith’. E la guerra che stava combattendo dentro di lei, era sicura, l’avrebbe portata a fare una scelta un giorno o l’altro. Una scelta che già conosceva, ma che le avrebbe fatto molto male.

 
***

 
Erano seduti su di una panchinetta nel giardinetto interno dell’ospedale, Rory che tirava una sigaretta per rilassarsi dalla fatica e John che camminava sfogliando diligentemente alcuni progetti.

Non parlavano da alcuni minuti ma, anche nel silenzio della fredda aria di Dicembre che li costringeva a stringersi nei cappotti, si trovavano a proprio agio l’uno accanto all’altro.

Alla fine, mentre Rory espirava una nuvoletta di fumo che si disperse lentamente nell’aria, confondendosi con i loro respiri condensati, John esplose in un verso euforico nel correggere un paio di formule.

“Ti ho trovato, maledetto errore!”

Rory sorrise, scuotendo appena la testa ma senza dire nulla mentre l’amico riponeva i fogli con i calcoli corretti all’interno della sua ventiquattrore.

“Perché non sei andato a casa? Pensavo volessi passare più tempo possibile con il Dottore prima che partisse.”

La domanda di Rory lo sorprese, più di quanto si aspettasse. Avrebbe potuto tranquillamente tornare a casa a finire i suoi calcoli visto che per il pomeriggio il suo Ingegnere Capo non gli aveva dato impegni né in ufficio né ai cantieri; ma John aveva preferito andare da Rory ed impegnarlo nella sua ‘pausa pranzo’.

“Ti do fastidio?”

“No. Solo che non sei mai venuto a trovarmi durante il tirocinio. Alla facoltà di Scienze Infermieristiche si, ma non qui. Pensavo fosse successo qualcosa…”

John sospirò senza rispondere.

“Il reparto di chirurgia è in subbuglio. Ieri tuo padre ha richiesto i moduli per la sospensione dal servizio. Un paio di infermiere hanno anche pianto!” Rory si lasciò scappare una leggera risata nel tentativo di smorzare l’aria tesa e cercare di capire quale fosse davvero il motivo per cui John gli avesse fatto quell’improvvisata. L’amico si lasciò scappare un sorriso amaro mentre John finalmente trovava il coraggio di parlare:

“Alle improvvise partenze di mio padre sono rassegnato da anni. Non nego che mi dispiaccia e che pensavo restasse, questa volta, ma… mi ci riabituerò. So che tornerà. Ma… Clara…”

Rory espirò un ultima nuvola di fumo prima di spegnere il mozzicone sotto al piede.

“Ti ha detto perché va via?”

“Per darci una possibilità. Ma sinceramente… non la capisco!” John tirò la schiena all’indietro, contro lo schienale e portandosi le mani intrecciate sulla fronte a guardare il cielo plumbeo su di loro che minacciava neve.

“Capisco…” Anche Rory si spinse contro lo schienale della panchina, incrociando le braccia al petto e fissando lo sguardo su un punto indefinito davanti a se. Non si aspettava di certo la successiva risposta di John:

“No che non capisci! Se Amy ti dicesse che vuole cambiare casa perché c’è un altro e… per darvi una possibilità deve andare via!? Assurdo, come faccio a sapere che non è con l’altro quando non è con me? Non voglio che ci sia ‘ l’altro’! E… so che è colpa mia, perché sono stato un’idiota! Ma… adesso non so che fare! La sto perdendo, Rory! Sto cercando una soluzione, ma l’unica che riesco a considerare tale è lei a casa con me!” Era geloso. Maledettamente geloso ed insicuro. Nascondeva le sue emozioni dietro i sorrisi, dimostrandosi affettuoso come sempre quando Clara era con lui. Si concedevano abbracci più dolci e baci più intimi negli ultimi giorni, ma quando lei andava via c’era sempre quel vuoto che John non sapeva come colmare. Quel vuoto che con i minuti, le ore ed i giorni si riempiva di insicurezze e pensieri scoraggianti.

Rory lo stava ascoltando, ma nella sua mente girovagava anche un altro pensiero che si lasciò sfuggire senza controllo:

“Sta sicuro che dov’è adesso non lo vedrà più.”

“Certo che non lo vedrà! E’ a casa nostra a prendere le sue ultime cose, ma casa nostra è il posto in cui dovrebbe essere sempre! E’ lì che è al sicuro, con me!”

Rory spalancò gli occhi, deglutendo e lasciandosi scappare un sonoro:

“Avresti fatto bene a stare a casa, allora. Ah…!”

Il respiro gli si mozzò, con la bocca serrata e la mascella che si contraeva mentre si forzava a non lasciarsi scappare alcun suono, consapevole di essersi lasciato sfuggire qualcosa che non avrebbe dovuto lasciarsi sfuggire. Lanciò uno sguardo furtivo a John che sembrò finalmente metabolizzare il comportamento e le parole dell’amico.

“Rory… tu sai chi è?”

John lo fissò, ma Rory deviò lo sguardo, con un fremito che gli percorse il corpo e lo costrinse a contrarre involontariamente le mani.

“Rory!”

“John…”

 

Nella mezz’ora successiva, Rory si ritrovò a correre tra i corridoi del reparto per raggiungere lo spogliatoio dei tirocinanti. Sbagliò tre volte il codice del lucchetto del suo armadietto ma alla fine, con un calcio mal piazzato ed un pugno che gli gonfiò la mani, riuscì ad aprirlo ed a tirarne fuori il cellulare. Attese che Amy rispondesse prima di farsi prendere completamente dal panico e farfugliare cose sconnesse. Non solo per il senso di colpa per quello che aveva appena combinato, ma soprattutto perché era consapevole che Amy lo avrebbe ammazzato:

“Rory, calmati! Non capisco cosa dici, si può sapere cos’è successo?”

Rory fece un profondo respiro, portandosi la mano al viso e cercò di calmarsi:

“Ecco tesoro…  io… credo di aver fatto un guaio… un grosso guaio!”

 
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Nota:

Come al solito…. Non date nulla per scontato!!! Soprattutto riguardo alla prima parte xD Per il resto… prossimo capitolo in arrivo per il prossimo fine settimana :D

 

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Capitolo 11
*** Capitolo 11 ***


Cap11

Capitolo 11

 

 

John aveva percorso il tratto di strada tra ospedale ed ingresso della metro senza rendersene conto, cercando di controllare la rabbia e la confusione che lo stavano divorando dall' interno. John in quel momento si sentiva lacerato, ridotto in piccoli pezzi di carne putrida appena tritata e pronta per le fiamme e ridotto in cenere. Il suo corpo era gelido, il viso pallido e coperto da un sottile strato di  sudore freddo, ma la sua anima al contrario stava bruciando. Avvertiva un formicolio inspiegabile al capo, come se mille insetti gli stessero camminando tra la calotta cranica ed il cervello, con la vista leggermente sfocata ed il respiro pesante.

Si era ritrovato seduto per caso su uno dei sedili del vagone mezzo vuoto, con le mani morte in grembo e lo sguardo fisso sul viso spiritato che si intravedeva in riflesso sul vetro di fronte a se. Nessuno gli si avvicinava; gli altri pendolari gli lanciavano uno sguardo furtivo e si fermavano a distanza fingendo che non esistesse ed a John non dispiaceva affatto quel comportamento in quel momento. Probabilmente chi gli passava accanto pensava a lui come ad un drogato in crisi d'astinenza, un pazzo che aveva saltato la sua dose di calmanti. Ma nessuno poteva anche solo lontanamente sospettare quanto dolore avesse dentro di se. Nella sua stessa espressione vacua e priva di vita leggeva la disperazione, la delusione.... un malessere così profondo da corroderlo dall’interno ed impedirgli di pensare coerentemente e che non si avvicinava neanche lontanamente a quel piccolo prurito provato quando Clara era uscita con Porridge. Questa volta era peggio, un male elevato alla ennesima potenza.

Aveva voluto credere che per il suo cuore ci fosse speranza, che il sole era tornato a splendere promettendogli una nuova vita piena di giorni lieti. Poi la bocca dell' Inferno gli si era aperta sotto i piedi e lo aveva risucchiato, masticandolo e sputandolo senza grazia in un lago di dolore dalla consistenza melmosa.

Nel momento in cui Rory gli aveva confessato il suo sospetto molte porte si erano aperte, molti veli si erano dissolti e le finestre spalancate gli avevano lasciato vista completa su molti particolari che, messi insieme, gli avevano dato una certezza: l'uomo che per Clara c'era sempre era il Dottore. Era suo padre. E sapeva che non poteva essere altrimenti.

Il cuore gli faceva male, batteva irregolare mostrando una accentuata tachicardia. La testa gli girava, si sentiva stranamente debilitato con un enorme senso di nausea che lo assaliva ad ondate. Nella mente annebbiata passavano sequenziali e senza logica solo immagini insensate:

Clara. Mio padre. Clara. Mio padre.

Clara. L'unica donna al mondo che amava ed alla quale aveva ceduto, racimolando il coraggio necessario ad affidarle il suo cuore ferito e stanco.

Suo padre. L'unico uomo al mondo che amava ed al quale aveva dato sempre e comunque, incondizionatamente, la sua fiducia e di cui era sicuro. Sicuro della sua protezione, sicuro che mai lo avrebbe deluso ne tradito.

Clara e mio padre.

Le due persone più importanti della sua vita lo avevano ingannato. Era uno scherzo di cattivo gusto. Doveva esserlo. A cosa era valso abbassare le difese? A cosa era valso decidere di provare a fidarsi? Un altro proiettile al cuore, un pugno nello stomaco, un colpo in testa e tutto il dolore che arrivava insieme e continuava ad aumentare, sempre più intenso, sempre più profondo!

Si riscosse appena quando sentì la voce registrata della metro avvertire della prossima fermata. Aveva mancato la sua, tre fermate prima.

Si piegò in avanti, portando la testa tra le ginocchia e le mani tra i capelli urlando e piangendo. Non ci fu meraviglia che, nel panico dell’ignoto, in pochi secondi gli altri passeggeri abbandonarono il vagone lasciandolo solo con la sua disperazione.

Nessuno si curava di lui. Non lo faceva Clara, non lo faceva suo padre. Perché avrebbero dovuto farlo degli estranei?

 
***

 “Vengo con te!”

La voce preoccupata di Clara aveva assunto un tono più alto e isterico del solito. Tremava, con tutto il corpo mentre gli occhi le si inumidivano e le si gonfiavano di lacrime non espresse.

Amy portò il braccio in avanti, spingendola sul divano ancora messo di trasverso nel piccolo soggiorno, con scatoloni e cianfrusaglie varie che non valeva la pena di tirare fuori per sole due settimane.

“No!” Fu la risposta secca della rossa. Lo sguardo duro e le labbra strette in un cuscinetto morbido che difficilmente avrebbe fatto capire quanto in realtà la ragazza fosse arrabbiata: “Hai fatto già abbastanza, non credi? Adesso ci penso io!”

Il cuore di Clara si fermò non appena gli occhi di Amy lasciarono i suoi. Si diresse versò la porta, aprendola ed uscendone per metà avvolta nella luce ombrosa del giorno. Fuori preannunciava tempesta.

“Ma, Amy…”

“Ho detto no!” Amy le puntò nuovamente lo sguardo contro continuando in un tono leggermente meno duro, ma non ammorbidì la sua espressione: “Ti chiamo appena si calma la situazione. Conosco entrambi molto più di te. E’ meglio se tu resti qui.”

Un’ondata di panico le mozzò il respiro mentre la vedeva allontanarsi e nasconderle definitivamente lo sguardo, quegli occhi nocciola chiaro che con la luce del giorno assumevano una tonalità quasi rossastra, come i suoi capelli. Amy era lo spiritello scozzese che le metteva sempre il buon umore, che nell’arco della loro conoscenza si era insinuata con estrema facilità e naturalezza nel suo cuore. In quel momento, non sapeva perché, ma le venne da accostare l’immagine dell’amica a quella del Dottore e quel particolare colore grigio degli occhi che con la luce del sole assumevano una tonalità azzurra. Ed ora si rendeva conto che, per colpa della sua stupidità e del suo egoismo, stava perdendo anche lei.

Si accasciò sul divano con la testa tra le mani. Urlò di rabbia contro se stessa prima di afferrare il cellulare e comporre il numero di John.

Urlò per l’ennesima volta quando le rispose la segreteria telefonica. John aveva spento il cellulare.

 
***

 Il Dottore era nel suo studio a sistemare varie documentazioni prima della partenza; la cassaforte aperta con i libretti di risparmio ancora sulla scrivania ed un paio di carte di credito nuove di zecca. Quando John entrò dalla porta semiaperta il Dottore ne riconobbe il passo.

Diede una rapida occhiata al figlio sorridendo mentre diceva:

“John, eccoti. Sono stato in banca, ho tolto la limitazione per i prelievi mensili e puoi…”

Non finì la frase, ritrovandosi con la schiena dolorante premuta contro la libreria, un braccio di John alla gola e la mano stretta attorno alla stoffa della camicia sul petto.

Osservò sconvolto il viso di suo figlio, i cui capelli ribelli gli coprivano metà dello sguardo spiritato su un viso pallido; il Dottore  portò le mani istintivamente sul braccio del ragazzo nel tentativo di alleviare la pressione che gli poneva sulla trachea, trovando difficile respirare e persino parlare.

Furono attimi di silenzio teso durante i quali nessuno dei due riuscì a formulare un pensiero coerente; il viso di John vicinissimo a quello del padre, leggermente rivolto verso l’alto per compensare quei tre centimetri di differenza in altezza che venivano però annientati dal vigore giovanile del ragazzo. Un colpo di tosse proveniente dalla gola contratta del Dottore spezzò il silenzio, costringendo l’uomo a stringere i denti e gli occhi mentre col corpo ormai debilitato cercava un movimento che gli permettesse di liberarsi. Gli anni da militare gli avevano insegnato di certo come reagire e contrattaccare, ma quello di fronte a lui era suo figlio, non un nemico. Non poteva e non voleva fargli del male.

“John… che Diavolo…”

“Eri mio padre!!”

Un urlo disperato e rabbioso che gli assordò le orecchie rimbombandogli nella testa. Il Dottore riaprì gli occhi mentre John spingeva più violentemente contro la sua gola prima di staccarsi bruscamente da lui, lasciandolo accasciarsi su se stesso, con un braccio che si teneva ad una mensola della libreria e l’altra mano alla gola mentre tossiva e riprendeva aria che gli bruciava trachea e polmoni.

“Ma… di che parli…”

Una nuova ondata di rabbia si impossessò di John, costringendolo a scagliarsi nuovamente contro l’uomo più anziano. Lo afferrò per il colletto della camicia, spingendolo nuovamente con la schiena contro il mobile alle sue spalle; alcuni tomi si inclinarono, altri mal sistemati caddero al pavimento urtando prima sul corpo di entrambi, ma i due uomini erano talmente presi dalla situazione da non rendersi conto di dove venivano colpiti e come.

“Di cosa parlo?” Urlò il giovane: “Come hai potuto! Lo sapevi! Sapevi cosa provavo per Clara… sapevi quanto era difficile per me e… eri mio padre, maledizione!”

Lo sguardo di John era disperato, violento, accusatorio. Il Dottore capì: John sapeva.

L’uomo abbassò lo sguardo per un istante, colpito dal senso di colpa che aveva cercato di soffocare per mesi; un dolore lacerante che gli percorse il cuore e gli strappò la carne mentre rispondeva un misero:

“Non l’ho toccata… te lo giuro Johnny. Non l’ho toccata!”

Sperava di risolverla, di calmare l’ardore di quel ragazzo deluso e ferito, quel giovane che per troppo tempo gli aveva ricordato un cucciolo abbandonato e per il quale avrebbe dato l’anima.

Ma quello che il Dottore ottenne fu solo più rabbia ed una reazione del tutto inaspettata.

“Bugiardo. Lo so quando menti!”

Con lo stomaco che gli bruciava per la rabbia repressa, la gelosia, la delusione per il peggiore dei tradimenti subiti, udire quelle parole ed associarle ad un’immagine in cui accadeva l’esatto contrario, per John fu come gettare benzina sul fuoco. Conosceva suo padre e conosceva le sue reazioni e da cosa nascevano le sue decisioni.

Strinse i denti con una pressione talmente alta da sentirli stridere tra loro, mentre tirava il braccio destro indietro per poi impattarlo contro il volto di suo padre. Lo vide accasciarsi definitivamente sul pavimento, incapace di tenersi sulle gambe o persino sostenersi contro la libreria, con i segni dell’età che improvvisamente lo rendevano troppo vecchio e più fragile di quanto in realtà fosse; la guancia arrossata, il labbro spaccato che prendeva a sanguinare copiosamente.

Un brivido di terrore invase il cuore di John, finalmente consapevole di quanto innaturale fosse stata la sua reazione, di quanto quello che aveva appena fatto facesse più male a lui che all’uomo che aveva di fronte, accasciato su se stesso, che si portava una mano al labbro e sputava sangue. Il senso di colpa improvviso che gli fece tremare il corpo lo devastò come il pensiero ‘che cosa ho fatto?’ gli passava nella mente; ma come quel pensiero smise di formularsi ed il senso di colpa sparì non appena una nuova ondata di rabbia si impossessò di lui.

Non sono io a dovermi sentire in colpa! Non sono io a dovermi sentire male!

“ Hai idea? Hai idea di cosa si provi a… Dio! Tu meglio di chiunque altro dovresti capirmi! Tu più di chiunque altro dovresti davvero sapere quanto sia difficile per me fidarmi delle persone! Mi fidavo di Clara e... poi ci sei tu! Mi hai abbandonato per anni! E nonostante questo eri l’unico ad avere tutto di me, incondizionatamente! Come hai potuto?”

Continuava ad urlare contro suo padre, senza sosta e senza remore. Il Dottore assorbiva passivamente ogni attacco, accettando ogni accusa.

 “Ti sei sfogato?” Il Dottore si portò seduto, con la schiena premuta contro il bordo dello scaffale ed un ginocchio piegato, la voce ridotta ad un sussurro. Guardava suo figlio, consapevole che tutto quello che gli stava sputando addosso, compreso il pugno che gli aveva tirato, era dovuto e giustificato.

“Sono ancora tuo padre. Lo sarò sempre.”

“La ami?”

Nessuna risposta per John, costringendolo a riformulare la domanda con maggiore insistenza.

“Papà, tu la ami?”

L’uomo sospirò pesantemente, cercando di rimettersi in piedi fallendo vergognosamente. Le gambe gli cedettero costringendolo a stare ancora seduto ed ingoiare il suo stesso sangue. Il colletto della camicia bianca ormai diventato scarlatto ed umido contro la pelle.

“John… me ne vado via, non la vedrò più. Cosa vuoi che faccia di più?”

“Oh, il grande eroe! Quello che si sacrifica per il bene degli altri! L’Ufficiale che protegge i più deboli! E’ così che vuoi giocartela? Tenerla legata a te in questo modo?”

“Smettila di comportarti come un bambino!” Questa volta era il Dottore ad urlare rabbioso. Un ritrovato vigore con il quale riuscì finalmente a tirarsi in piedi, aiutandosi con le mani che correvano ad afferrare le mensole della libreria man mano che saliva, con le gambe ancora incerte e la testa che gli girava, intontito ancora dal colpo. Con una voce nervosa l’uomo continuò:

“Non fare l’ipocrita ora, non era la tua fidanzata! L’hai tenuta a distanza, in bilico, torturandola per mesi! Se non ci fossi stato io ci sarebbe stato qualcun altro. Qualcuno che di certo non si sarebbe tenuto tutto dentro e sicuramente non te l’avrebbe lasciata!”

“E quindi dovrei anche ringraziarti? Potrebbe essere tua figlia, poteva esserlo! Non ti vergogni?”

“Si!” Quella parola era corsa fuori dalle labbra del Dottore con un vigore violento e penetrante. Entrambi gli uomini restarono in silenzio a fissarsi. John confuso, il Dottore invece finalmente cosciente.

 John perché non sapeva se quel ‘si’ si riferisse alla sua prima accusa o alla seconda. Il Dottore perché aveva realizzato che il dolore che aveva provocato nel ragazzo faceva più male a se stesso che a lui.

“Oh, si…” Continuò il Dottore: “Non ne hai idea, Johnny! Non ne hai idea! Ma ti prego… non dare la colpa a lei. Ti ama più di quanto pensi. Per questo, amala a tua volta, proteggila, rendila felice. Tu puoi farlo.”

 “Ma ti ascolti papà? Come pensi che possa tornare tutto normale? Come pensi che possa continuare a vivere con il pensiero che Clara abbia potuto amarti, che tu e lei abbiate condiviso un qualcosa! Come posso vivere con il terrore continuo che in futuro non potiate di nuovo… provare qualcosa l’uno per l’altra! Io non riesco a pensarlo! E’ qualcosa di innaturale, mi fa impazzire!”

“Va bene, andrà tutto bene invece. Io scomparirò dalla vostra vita, sarà come se non fossi mai tornato…  ormai non ti sono più necessario, lo capisco. Hai Clara, si sistemerà tutto.”

John scrollò le spalle e scosse la testa. Si portò le mani tra i capelli tirandoseli indietro mentre camminava avanti ed indietro come una tigre rabbiosa:

“Cazzo, è uno scherzo! Deve essere uno scherzo... mi viene la nausea anche solo a pensarci!”

Suo padre mosse un passo in avanti, porgendo la mano come ad afferrargli il braccio. John si tirò indietro, portando le mani avanti e scuotendo la testa. Gli occhi sbarrati e rossi, le pupille dilatate:

“Non ti avvicinare, non toccarmi. Non osare neanche pensare di toccarmi! Non voglio più vederti, mi fai schifo!”

John continuò ad indietreggiare e scuotere la testa. Le parole di suo padre gli sembravano incoerenti e prive di ogni significato. Le sue stesse emozioni erano come spente, assopite se non disintegrate sotto il peso di un inganno fin troppo bene ordito. Perché era chiaro come il sole che tra lui e Clara qualcosa doveva essere successo!

Alla fine spinse bruscamente suo padre lontano, portandosi una mano alla bocca come a voler fermare un conato, lasciando uscire dalle labbra un gemito di agonia prima di respirare profondamente e sussurrare:

“Ho bisogno di aria pulita. Devo andarmene da qui… non ce la faccio. Non posso…”

Corse fuori dallo studio, scendendo le scale ad una velocità incredibile, suo padre che lo seguiva incespicando leggermente sugli ultimi scalini:

“John!”

La porta di casa si richiuse rapidamente dando al Dottore la piena vista su una stanza vuota e silenziosa. Si avvicinò lentamente all’ingresso, col sangue che continuava a colargli lungo il collo ed intingergli i vestiti. Riaprì la porta solo per vedere John tirare fuori la moto dal garage, metterla in moto e sfrecciare via lungo il vialetto, senza casco.

Il Dottore si appoggiò stancamente allo stipite della porta con la schiena, lasciandosi scivolare fino a terra. Si portò la testa tra le ginocchia, ignorando il bruciore al viso ed il dolore al labbro ormai gonfio. Ma non era il suo fisico a soffrire,  era abituato a trattamenti decisamente peggiori.

Era il suo spirito che stava cedendo, trascinando il corpo con se.

 
***

 Amy percorse il vialetto di casa Smith di corsa, sorpresa nel notare la porta d’ingresso lasciata semiaperta. Si fermò sull’uscio, scostando appena l’anta per penetrare lentamente nel disimpegno. Notò lo specchio sulla sinistra, accanto all’attaccapanni, frantumato; alcune gocce di sangue rappreso lungo le spaccature ed altre che segnavano un percorso orizzontale sul pavimento. Si chinò a raccogliere alcune cornici con foto di famiglia rovesciate sul pavimento e le ripose sul mobiletto.

“Johnny… Dottore?”

La voce ridotta ad un sussurro mentre seguiva con lo sguardo il lieve percorso di quelle gocce. Si fece strada verso il centro del soggiorno, trovando una testa dai capelli grigi e scompigliati che giaceva contro il bordo dello schienale. Non poteva vedere l’espressione del Dottore, ma con passo lento Amy aggirò il divano.

“Zio John?” Nessuna risposta. Con un tono di voce più alto Amy riprovò: “Dottore?”

L’uomo si scosse, aprendo gli occhi arrossati. Lo sguardo del Dottore vagò senza meta per la stanza prima di posarsi sul volto preoccupato di Amy. La ragazza gli si avvicinò, notando la ferita al labbro dalla quale ormai il sangue aveva smesso di uscire; Amy fermò lo sguardo sulla mano sinistra dell’uomo, avvolta da uno straccio azzurro che aveva riconosciuto come il centrino del comodino posto all’ingresso, sotto le foto di famiglia che ricordava di aver notato appena entrata. Una chiazza scura si allargava sul lato esterno della stoffa, lasciandole pensare che, a rompere lo specchio, era stata quella mano in chissà quale occasione.

Nessuna parola ci fu tra loro, solo uno sguardo triste ed un sospiro esausto da parte della ragazza.

Amy lasciò la stanza per tornarne subito dopo con la cassetta del pronto soccorso tra le mani.

Si sedette accanto all’uomo, versando dell’acqua ossigenata su una garza sterile e cominciando a disinfettare la ferita sul labbro. Il Dottore trasalì, spingendosi più a fondo contro la testiera emettendo un lieve gemito di dolore. Chiuse però gli occhi, lasciando che la ragazza continuasse a disinfettare  per poi passare a pulire il sangue rappreso sul viso e sul collo.

“Lo sapevate tutti?”

Amy rimase in silenzio per alcuni secondi, senza guardare l’uomo negli occhi. Cambiò il pezzo di garza ormai scarlatto con uno pulito:

“Non sapevamo niente.” Sospirò continuando: “C’era qualcosa di strano nell’aria, ma non sapevamo cosa fosse. Poi quando Clara è cambiata… il fatto che entrambi volevate andarvene così improvvisamente ha dato da pensare. E Rory ha detto una parola di troppo quando non doveva, come fa di solito. Ma non prendertela con lui… ci parlerò io ok? Ora però sta zitto e non muoverti.”

Il Dottore rimase in silenzio, lasciando che la ragazza continuasse la sua opera. Una volta finito, Amy prese cautamente la mano del Dottore tra le sue, districandola con delicatezza dal groviglio che lui stesso aveva fatto nel tentativo di fermare il sangue. Sul lato esterno c’era un taglio profondo che riprese a sanguinare non appena Amy tolse il tampone improvvisato.

“Ci vogliono dei punti…” Disse il Dottore con voce incolore e lo sguardo vacuo. Parlava ma era come se la sua mente fosse altrove:

“C’era un pezzo di vetro conficcato… l’ho tolto. Se c’è Rory può ricucirmi lui, ho tutto l’occorrente nella borsa.”

Amy non parlò, ma il Dottore si lasciò scappare una lieve risata nervosa:

“Nella valigetta per il viaggio.” Un sospiro frustrato prima di continuare: “Non ne vale più la pena… tutto quello che ho fatto non è valso a nulla! Forse avrei dovuto cedere, allora avrei tutto il diritto di sentirmi così! John avrebbe tutto il diritto di odiarmi!”

“John non ti odia…”

“Si invece…”

Il Dottore strinse la mano destra a pugno, serrando la mascella ed avvertendo nuovamente  il sapore metallico del sangue nella bocca. Doveva avere un taglio anche all’interno della guancia di cui non si era accorto, ma non gli importava.

“Se avessi ceduto… forse adesso farebbe meno male.”

Amy lo abbracciò, portando il viso del Dottore contro la sua spalla e cominciando a dondolarsi come se lo stesse cullando:

“Shhh. Non dire niente. Niente di cui potresti pentirti.”

Con le mani a stringere il braccio di Amy, in un mezzo abbraccio che avevano condiviso sin da quando lei era una bambina e lo chiamava ‘zio arrabbiato’ per le sue sopracciglia sempre naturalmente corrugate, il Dottore si permise di lasciarsi sfuggire qualche singhiozzo, con le lacrime che scendevano calde lungo il viso e bruciavano sulla pelle lesa.

“… ho fottuto tutto…”

Amy si lasciò scappare una sola lacrima mentre accarezzava i riccioli grigi dello ‘zio arrabbiato’. Non osava immaginare quanto fossero distrutti i due pilastri della sua infanzia, ma avvertiva il suo stesso cuore pesante e faceva male.

“Non è colpa tua. Non è colpa di nessuno.” Spinse appena le spalle del Dottore per poterlo guardare in viso e fargli un sorriso gentile, anche se triste:

“Una volta qualcuno mi ha detto che tutto ciò che viene fatto per amore non é sbagliato. Amare non é mai sbagliato.”

L’uomo alzò lo sguardo verso Amy, sorpreso da quelle parole così stranamente familiari:

“Forse é vero... o dipende.” Si passò una mano sulla parte di viso sana per darsi una contegno prima di riprendere: “In quale occasione ti è stato detto?”

“Bé.... sai... quando io e Rory... la prima volta che... insomma! Mi imbarazza parlarne con te, è come se fossi mio padre!”

“Imbarazza di più me, fidati!”

Amy arrossì, ma cercò di nasconderlo dietro un sorriso sbarazzino prima di esprimersi in una linguaccia impertinente verso l’uomo più anziano, come a voler smorzare l’aria che si era creata attorno a loro. Un lieve sorriso nostalgico, invece, piegò le labbra del Dottore mentre nella mente saliva a galla il ricordo di tre bambini che correvano davanti casa quando ancora vivevano a Glasgow. Poi continuò il discorso:

“Comunque.... River aveva ragione, soprattutto in un momento come quello, suppongo.”

Amy annuì malinconica continuando:

“Sai... ero felice sul momento. Ma dopo... ho provato paura e vergogna. Rory é stato dolce, ha cercato di essere comprensivo. Ma era improvvisamente cambiato tutto! Quando sono scappata... zia Melody mi ha aiutata e... si. Suppongo anch’io che, alla fine, avesse ragione.”

Amy sorrise dando un bacio sulla tempia del Dottore continuando:

“Le sue parole sono state mie per tutto questo tempo. Ora sono tue. E sai meglio di me che la nostra River sbagliava raramente.”

“No. Melody non sbagliava mai. Da quando sei diventata così saggia?”

“Ormai sono una donna adulta, no?”

“Per me sarai sempre quella bambina lentigginosa, con la coda di cavallo alta ed i capelli arruffati,  che si sbucciava le ginocchia nel tentativo di tenere il passo con un monello spericolato.”

Amy lasciò uscire dalla gola un grugnito di protesta, arricciando le labbra in una smorfia offesa. Alla fine sospirò:

“Adesso chiamo Rory. Lo faccio tornare a casa e ci occupiamo di questi tagli.”

Il Dottore chiuse gli occhi, sprofondando nuovamente contro il divano rispondendo:

“Posso ricucirmi da solo. Non deve perdere ore di tirocinio per me.”

Amy contenstò:

“Te lo deve.”

“Non mi deve niente… nessuno di voi mi deve niente.”

“Ci hai accolti in casa tua come figli. Sin da quando eravamo dei bambini. Fidati di me: te lo deve.”

Senza più discutere, Amy raccolse il telefono e compose il numero di Rory. Quando il ragazzo rispose gli ordinò di tornare a casa e che non accettava reclami. Doveva farlo e farlo subito, era un’emergenza incontestabile.

Quando riattaccò, vide il Dottore che cercava di contenere un lievissimo sorriso e sopprimeva una smorfia di dolore:

“Sei testarda... Mi ricordi Melody. Me l’hai sempre ricordata.”

“Bé, abbiamo lo stesso gene Pond, io e lei. Tale zia tale nipote. Mi sembra ovvio!”

Il Dottore non contestò, spingendosi con la schiena contro il divano e chiuse gli occhi, avvertendo su di se un’improvvisa stanchezza. Amy gli strinse la mano destra tra le sue:

“Le cose andranno a posto, zio John.”

Forse nessuno dei due in quel momento ci credeva davvero. Ma la vicinanza ed il calore della famiglia riusciva a lenire almeno superficialmente il dolore in cui la famiglia Smith-Pond sembrava stesse affogando. E dalle labbra del Dottore, con il pensiero ancora rivolto a sua moglie, uscì solo una parola:

“…spoiler…”

 
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Nota:

Chiedo scusa per il ritardo nel postare, ma purtroppo è stata una settimana impegnativa ed il lavoro non mi ha dato tregua. Le prossime due settimane saranno infernali, ma cercherò di aggiornare il prima possibile.

Intanto, spero che questo capitolo sia riuscito abbastanza bene… ci sono due o tre riferimenti anche alla serie che spero siano inseriti bene nel contesto. Mentre scrivevo poi mi sono resa conto che c’era molto, troppo da scrivere per poter sistemare in qualche modo il casino successo ed ho dovuto conservare qualcosa per il prossimo capitolo.

Per quanto riguarda la questione ‘Zio Arrabbiato’ xD Un po’ mi sono ispirata a Kiss me Licia, ma ci sta così bene questo soprannome in riferimento alle sopracciglia di Twelve xD

Per quanto riguarda invece il bambino del capitolo scorso… cercherò di inserire una spiegazione alla sua esistenza nel prossimo aggiornamento.  ;)

Grazie ancora a tutti ed alla prossima ^^

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 12
*** Capitolo 12 ***


Cap.12

Capitolo 12

 

 
Presente….

 
“Quindi, ora sei a tutti gli effetti un Dottore in Ingegneria!”

John serrò la mascella al sentire quel nominativo che per lui aveva un volto effettivo al quale accostarlo. Clara scostò lo sguardo ed annullò il sorriso dolce che le illuminava il viso sin da quando si erano incontrati:

“Scusami… ho scelto la parola meno opportuna…”

“Tranquilla. Ormai è passato tanto tempo.”

Mentiva. La ferita bruciava ancora. Ardeva, faceva male, suppurava sin da quando si erano rivisti. In realtà sin da quando gli occhi di John si erano posati in quelli azzurri ed innocenti del bimbo seduto in grembo alla sua Ragazza Impossibile. E John in quel momento odiava tutto. Soprattutto odiava se stesso per averla mandata via due anni prima, per non riuscire a distogliere lo sguardo dal piccolo e sentirsi male nel considerarlo un ‘prodotto ignobile della natura’ invece di un piccolo innocente.

Eppure, nonostante il suo sguardo fosse diretto più al bambino che a Clara, John non era riuscito a trovare una somiglianza con lei. Ogni tratto di quel bambino, compreso il broncio naturale del suo viso, non facevano altro che ricordargli suo padre.

Clara forse non si era accorta a cosa o chi le attenzioni di John erano rivolte, concentrata sul tenere il ferma-tovaglioli lontano dalle piccole mani di quell’innocente dopo che ne aveva tirato dall’interno almeno una decina.

Avevano avuto comunque il tempo di ordinare, prima che Clara fosse costretta a tirar via dalla borsa le tovagliette imbevute con le quali pulire le mani del piccolo che, non contento del gioco ‘tira il tovagliolo’ aveva deciso di sporgersi e rovesciare il cappuccino di John sul tavolo. Almeno i tovaglioli tirati via in precedenza si erano dimostrati utili…

“Scusami… è che non gli piace stare fermo in un posto.”

John sorrise amaramente, riscontrando una ennesima somiglianza, mentre aiutava Clara a pulire il casino sul tavolo.

“Quanto ha?”

“Diciotto mesi.”

Un anno e mezzo. John strabuzzò gli occhi mentre la sua mente cominciava a fare automaticamente dei calcoli… non tornavano. Due anni distanti. Un anno e mezzo. Questo significava che… i conti decisamente non tornavano. O tornavano nel modo sbagliato! In un modo che lui non voleva credere fosse possibile, non doveva essere possibile perché faceva ancora più male!

 Avrebbe voluto parlare, chiedere altre informazioni ma le parole non gli uscirono.

Il silenzio che si era creato sembrò infiltrarsi tra loro come un parassita fastidioso. John avvertì un’ondata di fuoco che gli bruciava lo stomaco finchè non udì nuovamente la voce di Clara:

“Ancora non parla, non perchè non è capace ma perchè non vuole. E di solito con gli estranei è… più timido. Devi proprio piacergli!”

A quelle parole l’espressione di John divenne perplessa, lasciandogli trovare il coraggio di parlare:

“Davvero? Mi guarda imbronciato… avrei detto il contrario.”

Clara si lasciò scappare una risata sincera continuando:

“Proprio per questo! Di solito tende ad ignorare i nuovi volti per poi dimenticarli! Con te invece è diverso, ti guarda fisso. E sono convinta che entro la fine della giornata sentirai anche la sua voce.”

John aggiunse un ennesimo tovagliolo per asciugare l’ultimo residuo di cappuccino sfuggito alla precedente azione di pulizia; inavvertitamente sfiorò con la sua mano quella di Clara, intenta a mettere da parte la tazzina da caffè ormai vuota, prima di tirarla rapidamente indietro come se fosse stato scottato. Ma Clara sembrò accorgersi del suo disagio, smettendo di respirare nell’udire le successive parole del giovane:  

“Avrà preso dal padre… sarà il richiamo del sangue.”

Clara corrucciò lo sguardo increspando le labbra nel tentativo di capire il senso delle parole di John. Gli appariva confusa, palesemente sorpresa quando i suoi occhi si spalancarono, come se finalmente avesse inteso.

“John… lui…”

“Non mi hai detto come si chiama.”

Le sorrise, sospirando e tendendo un dito verso il piccolo senza lasciare che Clara continuasse. Il piccolo guardò John negli occhi, allungando timido la manina verso l’indice del giovane, avvolgendola attorno alla punta; poi tirò la mano di John portandosi il suo dito in bocca.

John sorrise. E questa volta era un sorriso sincero.

Il cuore sembrò tremargli. E fu quello il momento in cui finalmente trovò la somiglianza che tanto cercava in lui. Sapeva dargli emozioni come solo sua madre era in grado di fare.

 

 
Passato…


Erano passati tre giorni da quando Clara se n’era andata definitivamente. Ed erano passati tre giorni da quando John aveva litigato con suo padre. Aveva dormito in un motel dimenticato di Chesham, nella campagna londinese, passando le giornate a pensare e le sere ad affogare i pensieri del giorno nella birra locale, in un qualsiasi pub di bassa categoria gli capitasse a tiro.

Infine, era tornato a casa un giorno in cui era sicuro non ci fosse nessuno in giro.

Aveva lasciato nuovamente la moto in garage, tirando fuori il suo kayak blu con la scritta TARDIS sulla punta.

Lo aveva caricato sul portapacchi, sul tettuccio della macchina, e lo stava assicurando con le corde quando il cuore cominciò a battergli improvvisamente nel petto, mozzandogli per un attimo il respiro. Ne capì il motivo quando, voltandosi per istinto, vide suo padre sul portico che lo guardava dalla distanza.

Il richiamo del sangue, pensò sarcastico.

John incupì lo sguardo, tirando una estremità delle fibbie di fissaggio per assicurare al meglio il carico.

“Johnny… dove vai?”

“Parto, non vedi?” La voce incolore, quasi meccanica e priva di ogni emozione. Suo padre capì che John aveva chiuso il suo cuore anche e soprattutto a lui. Il Dottore gli si era avvicinato, pur lasciandogli il suo spazio di manovra.

“Per dove?”

John non avrebbe voluto rispondergli, avvertendo un’improvvisa ondata di fastidio salirgli dallo stomaco. Un’ondata di fastidio che lentamente si stava gonfiando dentro di lui come una bolla e che, quasi sicuramente, sarebbe esplosa in una rabbia profonda.

“Che ti frega?”

“John. Sono pur sempre tuo padre e voglio sapere se starai al sicuro.”

John tirò l’ultima cinghia, forse con eccessiva forza facendo avvertire uno scricchiolio proveniente dall’attrezzatura da kayak che aveva appena fissato. Sospirò esasperato, voltandosi infine vero di lui ingiuriando:

“Quando ti fa comodo lo sei, vero? Per altri casi invece si può sorvolare sul particolare!”

Sapevano entrambi a cosa si riferiva con quelle parole. Ma il Dottore continuò a fissarlo serio senza indietreggiare ne abbassare lo sguardo. John raccolse il borsone con gli abiti di ricambio dal selciato e lo caricò nel bagagliaio continuando:

“Scozia, giro dei fiumi. Poi le alpi Francesi o Italiane, forse Austriache… non ho deciso. Forse invece uso finalmente il passaporto e me ne andrò in Nuova Zelanda… è da vedere.”

Il Dottore sospirò, tirando fuori dalla tasca la carta di credito porgendola a John. Il giovane lo guardò freddamente rispondendo:

“Non ne ho bisogno. Ho ricevuto lo stipendio dall’Ingegnere capo. A me stesso ci penso io.”

Il Dottore lo ignorò, aprendo lo sportello al lato del guidatore e, aprendo la visiera parasole posò la carta di credito nel ferma carte all’angolo dicendo:

“Sta attento. Non stare da solo in fiume. Fammi stare tranquillo.”

Perché? Perché, John si chiedeva, quell’uomo continuava ad occuparsi di lui, continuava a mettere a dura prova il suo orgoglio, la sua rabbia, tutte le sue emozioni? Non poteva semplicemente stargli lontano e lasciarlo in pace?

John non sapeva dire se la sua fosse una crisi adolescenziale scoppiata con quasi quindici anni di ritardo o semplicemente astio represso per un padre assente fisicamente. Lo aveva giustificato per troppi anni, compreso per troppi anni…

Poi John realizzò una cosa: che non odiava nemmeno suo padre, ma odiava se stesso. Perché in realtà suo padre si era sempre occupato di lui, delle sue esigenze, dei suoi bisogni. Lo aveva sempre spronato, supportato, fatto sentire speciale; non gli aveva mai fatto mancare niente finchè non gli aveva portato via Clara. E quel pensiero bastava ad annullare tutti gli anni passati, a spezzare il legame di sangue che li univa… Clara, Clara, Clara! La sua Clara!

“Quando torno, se torno, non voglio trovarti qui.”

Il volto del Dottore si contrasse in una smorfia di dolore, ma John finse di non vederlo. Salì al lato guidatore, mise in moto l’auto e partì. Senza ancora una meta precisa, ma tanti pensieri da affogare e lasciar scorrere via nelle fredde acque dei fiumi scozzesi.

 

 Era ormai a due ore da Londra, sull’autostrada verso Glasgow, quando il cellulare cominciò a squillargli. John aveva preso le ferie dal lavoro, ma aspettava comunque un paio di telefonate dall’Ingegnere capo per chiarire alcuni punti di un paio di progetti in via di approvazione. Non si preoccupò di guardare l’identificativo del chiamante prima di rispondere con un tranquillo:

“Pronto?”

“Eleven...”

Il cuore gli si fermò un millesimo di secondo prima di fargli male, stretto in una morsa crudele, in una presa spinosa e serrata.

“Clara...” Un sussurro senza fiato, più simile ad un gemito di agonia. Avvertì il corpo attraversato da un formicolio fastidioso che lo spinse istintivamente a mettere la freccia per potersi fermare nella prima area di sosta possibile: “cosa vuoi?”

“Voglio parlare. Per favore, voglio spiegarti....”

John accostò finalmente, fermando l’auto e portando la fronte contro il volante chiuse gli occhi:

“ Spiegarmi cosa? Come sei finita a letto con mio padre?” La interruppe con un ritrovato vigore ed un tono duro che non poteva essere il suo. Clara si gelò prima di cominciare a tremare nel corpo e nella voce. Al di là del telefono, John poteva accorgersi però solo del secondo particolare:

“Io... non sono andata a letto con lui...” Una nota incerta nella voce della ragazza convinse ancora di più John del contrario:

“Sei una pessima bugiarda. Me ne accorgo quando menti, Clara.”

“Non ho fatto sesso con lui!” E questa volta il tono di Clara era più sicuro e deciso, quasi convincente:

“John, devi credermi.... io voglio stare con te. Io amo te!”

“Forse é vero, forse no. E forse... forse non mi basta. Perché ami anche lui. E lui ama te. Non ci posso convivere con questo.” Sospirò ascoltando il silenzio tra loro prima di continuare:

“Sai, ho creduto che tu potessi salvarmi. Ho voluto fidarmi di nuovo, innamorarmi di nuovo ed é stato....meraviglioso in un certo senso e terrorizzante allo stesso tempo. Ed era eccitante, mi hai fatto sentire di nuovo vivo. Mi hai resuscitato, Clara...” e poteva sentire il principio di un singhiozzo dall’altro lato, Clara non riusciva a parlare e lui continuava: “… ma mi hai anche ucciso. Mi hai dimostrato che alla fine non eri tu ad avere ragione ma io: non mi é concesso di essere felice. Non potrò mai più fidarmi, non potrò mai più innamorarmi. Di nessuno. Non più di te, di certo.”

“John… ti prego, ho bisogno di vederti, di stare con te… non mandarmi via…”

I singhiozzi di Clara si erano fatti più intensi, accompagnati da parole incomprensibili che potevano essere scuse, suppliche o negazioni. John non sapeva dirlo, ma con fredda sorpresa scoprì che non gli importava:

“Clara, io ti lascio andare. Mi hai tolto tutto: ogni sentimento, ogni forma di amore.” Gli aveva sradicato dal cuore anche e soprattutto l'amore per suo padre :

“Non voglio più vederti, non voglio più sentirti... per favore, non chiamarmi più, non costringermi a bloccarti o cambiare numero. Addio Ragazza Impossibile. Mi mancherai.”

Staccò la telefonata senza aspettare una risposta. Mise il telefono in tasca e volse lo sguardo al cielo con la mente vuota da qualsiasi pensiero ed il cuore di ghiaccio privo di ogni emozione. Un formicolio nuovo ed anomalo gli percorse la pelle lasciando il corpo in una sorta di torpore. Avviò nuovamente il motore dell' auto sorridendo  inespressivo alla strada, lo sguardo triste, e nella mente l’immagine di se stesso che percorreva il letto vorticoso di un fiume.

 
***

Clara aprì la porta del suo appartamento provvisorio e restò sorpresa nel trovarsi avanti proprio il Dottore. Aveva gli occhi arrossati, come i suoi. Sul viso lo stesso sguardo che vedeva ogni volta che lei stessa si guardava allo specchio.

Lo lasciò entrare, perché non poteva fare altro.

John era andato via, l’unico che invece sarebbe dovuto restare. Loro due invece erano alle prese con i loro sensi di colpa ed i rimpianti. Forse era un pensiero comune quel ‘e se invece’ silenzioso che si insinuava tra le sinapsi, penetrava nel sistema nervoso e guidava i gesti. Non sapevano dirlo con certezza. Così come non sapevano dire come di preciso erano finiti in camera da letto, Clara schiacciata tra lui ed il materasso, la camicia del Dottore sbottonata, i fianchi di lui incastrati in quelli di lei.

I respiri si scontravano, violenti. I baci erano duri e sapevano di rimpianto. Il corpo di Clara tremava, con la consapevolezza assurda che non era il bisogno ad unirli in quel momento  ma la disperazione. Perché John non c’era per nessuno di loro e, in qualche modo, lo cercavano l’uno nell’altra.

Avevano rinunciato al ‘noi’ e per cosa? John era andato via lo stesso. John aveva deciso di estrometterli dalla sua vita, di spezzare il legame paterno, di non amare Clara… e allora perché resistere ancora? Perché respingersi ancora? Che senso aveva continuare a reprimere le emzioni?

Le carezze si alternavano a baci sempre più amari, con il timore intenso di raggiungere e sfiorare posti più intimi man mano che gli strati di tessuto sui loro corpi si annullavano. La pelle  bruciava, ma il fuoco che li divorava dall’interno era più intenso delle fiamme dell’ Inferno.

I corpi ricoperti di uno strato di sudore freddo accompagnato da una strana foschia che annebbiava lo sguardo. Una nebbia rossa che li circondava come un’illusione, un’allucinazione folle che dava a Clara la sensazione di essere immersa nel cratere di un vulcano, con i fumi di zolfo a stordirla ed il ribollire della lava incandescente sotto di lei che la bruciava.

C’era qualcosa di sbagliato in tutto questo, e lo sapeva. Lo sentivano entrambi. Eppure le mani di Clara si insinuarono oltre il bordo dei pantaloni del Dottore, raggiungendo velocemente il bottone sul davanti. Quelle di lui si insinuarono invece sotto l’orlo del reggiseno, ma se ne tirarono rapidamente via quando la punta delle dita sfiorò la morbidezza delle curve del seno. Sgusciarono via come fossero state ferite, come fossero state ustionate da un fuoco gelido, attraversate da un formicolio doloroso; gli sembrava di aver toccato dell’acido, bruciava, eppure non riusciva a fermarsi, reagendo d’istinto e spingendo ancora se stesso contro di lei.

Un gemito lasciò le labbra di entrambi, quando le loro intimità si scontrarono con i vestiti ancora ad impedirgli di unirsi.

Le labbra si sfioravano, combattevano tra loro gonfie e disperate. I loro sguardi incatenati erano la loro condanna, così magnetico l’uno per l’altra da impedirgli ogni volontà di movimento volontario, lasciando che solo l’istinto li guidasse; desiderosi di unirsi in quell’unico corpo, più uniti di quanto in realtà non fossero mai stati, crogiolandosi nei fumi del piacere e del calore di ciò che gli bruciava la pelle; i cuori indomiti sembrava volessero esplodere, battendo fragorosamente l’uno contro l’altro alternando pause e cadenza in un’unica melodia nei loro toraci ormai nudi che si toccavano.

Le gambe di Clara avvolte attorno ai fianchi del Dottore, le mani di lui ad alzarle l’orlo della gonna mentre lei gli tirava giù la zip e gli spingeva via con forza i lembi dei pantaloni dai fianchi.    

Gli occhi di Clara erano diventati due pozze scure, nel cui calore però era dolce affondare. Quelli del Dottore, invece, erano diventati l’oceano burrascoso di una grigia giornata di pioggia autunnale dalle cui onde però era dolce farsi cullare. Un’oscurità profonda nella quale Clara si sarebbe abbandonata volentieri, senza paura, quegli occhi che tanto, troppo le ricordavano John.

Fu quel breve pensiero a farle battere le ciglia. Un solo millesimo di secondo senza contatto visivo che indusse anche il Dottore a realizzare la complicazione degli eventi che sarebbero derivati dal loro rapporto.

“Clara… fermami…” Col corpo che si muoveva autonomamente, oscillò contro di lei per un istinto che non riusciva a fermare da solo:

“ …per favore... fermami…”L’uomo affondò disperato il volto contro il collo di lei, baciandone la pelle con dolcezza e continuando a pregarla di fermarlo:

“… questo non è giusto…”

Avvertendo la durezza del Dottore che continuava a premersi contro di lei, Clara soffocò un gemito incontrollato, finendo con l’ingoiarlo dolorosamente mentre cingeva la testa del Dottore con le sue braccia. Stese le gambe, lentamente, lasciando la sua presa sui fianchi dell’uomo in un poco utile tentativo di allontanare il contatto tra le loro intimità, ma avvertendolo ancora più duro contro il suo osso pelvico ed il desiderio insoddisfatto che si contorceva alla base del ventre la torturava di più.

Clara strinse l’abbraccio, ingoiando un ennesimo gemito, stavolta però di dolore. Non fisico, ma dell’anima:

“Va bene. Va tutto bene.” E nel frattempo, portò le dita ad intrecciarsi tra i riccioli grigi dell’uomo ad accarezzarlo: “ E’ sbagliato… lo so anch’io. Va bene così.”

Il Dottore sospirò quasi sollevato. Sciolse lentamente la presa delle sue mani sul corpo di Clara, carezzandole prima i fianchi  per poi poggiarsi sugli avambracci ai lati di lei, iniziando un tentativo di spostare il suo peso incombente e lasciarla libera. Si ritrovò invece le mani tremanti di Clara a prendergli il viso ed incatenare di nuovo i loro sguardi, prima di farle scivolare dietro la sua nuca e spingerlo nuovamente contro di se. Le braccia avvolte attorno alla testa di lui, col viso del Dottore sprofondato contro il suo collo.

“No… non muoverti. Voglio sentirmi il tuo peso addosso. Per favore. Solo questo. Dammi solo questo.”

L’uomo non protestò, arrendendosi all’abbraccio della ragazza. Limitandosi semplicemente a spostare i suoi fianchi da quelli di lei e posarsi invece accanto,fianco contro fianco, premendo il bacino contro il materasso.

I loro corpi erano finalmente fermi; freddi in superficie, bruciavano all’interno per un desiderio doloroso, represso e non consumato. Un desiderio sbagliato che ben presto si trasformò in un disagio nauseante per entrambi. Le lacrime del Dottore si mescolarono con il velo di sudore che ricopriva in piccole perle salate la pelle giovane di Clara, o forse erano le lacrime della ragazza che, dai suoi occhi, scendevano lungo il collo e raggiungevano il viso di lui.

Rimasero così, stretti in un disperato abbraccio nel tentativo di farsi forza a vicenda.

Poco importava se l’erezione dell’uomo premuta contro il materasso rientrava lentamente e provocava una compressione fastidiosa che gli doleva notevolmente nel bassoventre. Poco importava se i loro respiri faticavano a stabilizzarsi, scossi da lacrime inespresse per troppo tempo. Ancor meno importava che il peso di lui le impedisse di respirare correttamente. In loro vi era la necessità di prolungare quell’attimo, il bisogno impellente di bruciarsi all’infinito. Per Clara, la sensazione inebriante di sentirsi mancare il respiro con la sua sola vicinanza, sentirlo tremare contro di se. Condividere un dolore che nessun’altro nell’Universo intero avrebbe mai potuto comprendere.

In quell’abbraccio, in quel contatto più intimo di un qualsiasi tipo di rapporto sessuale, entrambi trovarono la risposta al loro dolore. John aveva riempito le loro vite e le aveva svuotate. Nessuno nell’Universo avrebbe potuto sostituirlo, nemmeno l’uno per l’altra potevano compensare quel vuoto lasciato.

Nella penombra della stanza si udivano solo gemiti di pianto soffocato; solo dopo quelle che sembrarono ore i respiri divennero regolari e gli occhi, incrostati di lacrime secche, si chiusero di stanchezza.

 

 
Il mattino si era presentato con nubi scure e la pioggia battente che si frantumava contro il vetro della finestra. Gli oscuranti lasciati aperti la sera prima lasciavano intravedere il cielo plumbeo di Londra ed il vento che soffiava via foglie secche e la spazzatura dei mercati del quartiere.

Clara aprì gli occhi, trovando il Dottore accanto a lei, steso a pancia in su, le mani unite dietro la testa, intento a guardare concentrato il soffitto.

“Buongiorno…”

“Buongiorno dormigliona. Come stai?”

“Non lo so. Un po’ frustrata, forse…” Lei si stiracchiò, sospirando pesantemente. Lui invece si lasciò scappare una leggera risata capendo il senso di quelle parole:

“Già. Ti capisco.”

Clara si mosse nel letto, girandosi di fianco per poter guardare meglio l’uomo. Non provava imbarazzo, ma una strana sensazione di familiarità ed un po’ di nostalgia. Tanta nostalgia.

“Sei sveglio da molto?”

“Si.”

“Sei rimasto…”

“Si.”

“Perché?”

“Perché…” Il Dottore sospirò: “ Ho pensato fosse maleducato andare via senza salutarti. Per la seconda volta.” Le sorrise senza guardarla.

“Non devi andare via.”

“Si, invece. Devo finire di preparare i bagagli.”

“Intendevo… non hai più bisogno di partire. Non devi più andare via.”

“Si invece. Non vado via per John o per te. Vado via perché è quello che sono, te l’ho già detto.”

Clara tirò un po’ le ginocchia verso il corpo, chiudendosi quasi in una posizione fetale e finendo con il sfiorare il fianco della gamba dell’uomo. Avvertì un sussulto del corpo di lui, ma non si tirò indietro dal lieve contatto delle loro pelli.

“Mi dispiace. E’ che… so di aver rovinato tutto. Ho distrutto la tua famiglia e non era quello che volevo.”

“Clara… non è colpa tua. Almeno non è solo colpa tua. E… pensavo potessimo provarci, io e te…”

“Anch’io. Ma non funziona, vero?”

“No.”

“Sai, non mi dispiace. Nel senso, ci sto bene con questo; il non noi intendo.”

“Già… in un certo senso anch’io. Quello che provo per te resta, però. Ed è strano.”

“E’ lo stesso per me. Ma so anche che se ti amassi completamente sarebbe come ieri sera, non lo sentirei giusto e so che per te è lo stesso.”

“Si… vorrei poterci provare, però.”

Quelle parole aleggiarono tra loro come libellule dal volo irregolare e nervoso, nuotavano nel denso silenzio che si era creato e gelava l’aria. Nemmeno i loro respiri si sentivano, nonostante il torace del Dottore si alzasse ed abbassasse regolarmente.

Infine, Clara si costrinse a portarsi lentamente seduta, stringendo il lenzuolo con le mani davanti a se per coprirsi in un improvviso e ritrovato pudore, cambiando totalmente discorso:

“Vuoi fare colazione?”

“Posso usare prima la doccia?” Lui semplicemente rispose, chiudendo gli occhi.

“Certo. Non devi mica chiedermelo. Preparo qualcosa da mangiare, nel frattempo.”

“Va bene.”

Clara si alzò dal letto, indossando una t-shirt presa a caso dalla sedia finita chissà come accanto al letto e si diresse verso la porta. Il Dottore rimase sdraiato sotto le lenzuola continuando a guardare il soffitto come se fosse la cosa più interessante del mondo. Poi quando Clara aprì la porta della camera per uscire in corridoio il Dottore la richiamò:

“Clara.” Si voltò a guardarla nell’esatto momento in cui anche lei si voltò a guardare lui. Le sorrise continuando: “Sai… puoi continuare a stare a casa, se vuoi.”

Casa Smith. Clara lo aveva capito. Guardò verso la finestra scuotendo dolcemente la testa rispondendo:

“No. Dopo le vacanze l’Università mi darà un appartamento provvisorio. A Maggio mi laureo e… poi chissà. Comincia una nuova vita. Forse insegnerò in qualche scuola privata, per cominciare.”

Il Dottore la guardò senza respirare, con il terribile ed acre sapore del sonno che gli rovinava la bocca. Non ripose, limitandosi a pensare che nell’espressione che Clara aveva in quel momento vi leggeva più anni di quanti in realtà la ragazza ne avesse davvero. Era come se improvvisamente fosse diventata più donna, affascinante come sempre ma irresistibile come non mai. Il cuore gli si serrò facendo male, mentre si portava seduto al centro del letto e poggiava i gomiti sulle ginocchia, il lenzuolo a coprirlo fino al bacino e lo sguardo perso chissà dove.

“Vado a preparare la colazione.”

Si alzò solo quando sentì rumori di stoviglie e mobiletti che si chiudevano proveniente dalla cucina. Si lasciò scivolare via dalla pelle ogni residuo di ciò che non avevano consumato durante la notte, rilassando i muscoli tesi sotto il getto caldo.

La colazione fu silenziosa ma piacevole, con quel senso di familiarità che c’era sempre stata anche in casa Smith. Era come se, nel non fare l’amore, avessero trovato un’altra forma di intimità. Il desiderio era ancora forte, chissà finchè sarebbe durata. Ma erano anche consapevoli che non potevano andare oltre, che la loro unione non avrebbe dato risultati fruttuosi. Semplicemente non erano l’uno il destino dell’altra.

Quando Clara accompagno il Dottore alla porta, entrambi si sorridevano ma lo sguardo era triste.

“Tornerò tra sei mesi. Resto pochi giorni prima di una nuova assegnazione.”

Clara annuì senza rispondere.

“Ci vediamo, allora?”

“Va Dottore, e salva il mondo.” Gli sorrise aggiungendo: “E grazie per avermi fatta sentire speciale.”

“Grazie a te per lo stesso motivo.”

Un ultimo abbraccio, questa volta meno teso di qualsiasi abbraccio avessero condiviso in precedenza, prima di dirsi addio.

Nessuno dei due ancora sapeva che quello sarebbe stato l’ultimo.

 
***

 John  avrebbe percorso ogni fiume percorribile in kayak della Scozia, si sarebbe rilassato tra i fiumi alpini del confine Italo-austriaco, avrebbe conosciuto gruppi sportivi con i quali unirsi in avventure estere emozionanti e spericolate. La Nuova Zelanda in particolare gli sarebbe rimasta nel cuore, l’unico posto che davvero era riuscito a strappargli emozioni sincere.

Avrebbe anche conosciuto altre donne; alcune dolci, passionali, alcune voluttuose come e più di Tasha. Ma nessuna di loro però era Clara. Il vuoto nel suo cuore non si sarebbe mai colmato né col sesso né con l’amore di qualsiasi altra donna.

Nessuna sarebbe mai stata come Clara.

Voleva restare lontano da casa solo una quindicina di giorni, inizialmente. Ne sarebbe stato lontano per cinque mesi. E probabilmente non sarebbe tornato per altri sei se non avesse ricevuto quella telefonata.

 

“Pronto?”

“John Connor Smith, figlio di John Duncan Smith?”

“Si, sono io… chi è lei?”

“Capitano Jack Harkness dell’Esercito Britannico. Chiamo per darle notizie di suo padre e… c’è stato un attacco al campo medico in cui era stanziato…”

E tutto l’odio era scomparso.

 

 
Ritorno al futuro…

 
Il primo sorriso del bambino spuntò non appena Clara prese il cucchiaino, raschiò lo zucchero dal fondo della sua tazza di caffè e la portò alle labbra del piccolo.

“Gli piace lo zucchero al caffè.” Clara sorrise inconsciamente mentre osservava il piccolo succhiare il bocconcino dolce, concentrando infine lo sguardo illuminato sul giovane di fronte a lei che le rispose:

“Tu ami il residuo di zucchero sul fondo della tazza… una volta ho provato a rubartelo e mi hai quasi ucciso col cucchiaino… era la tua arma preferita, se ricordo bene! Mi sembra strano vedere che vi rinunci.”

Clara scoppiò a ridere, ricordando l’evento di anni prima e l’immagine particolare di lei che inseguiva John per tutto il soggiorno con un cucchiaino tra le mani come unica arma.

“Si, è vero! Ma con lui ho imparato che… per i figli si può rinunciare a tutto ciò che ami. Per renderli felici sei disposto a tutto. Soprattutto se sei da solo a crescerli.”

Lo sguardo nostalgico negli occhi della ragazza lasciò intuire a John cosa o chi le stesse in quel momento attraversando la mente. Anche lui pensò al Dottore, avvertendo un misto di emozioni represse per troppi anni e con le quali mai aveva voluto fare i conti. La sensazione più strana, però, era che, ad un certo punto, guardando il bimbo, gli sembrò quasi di riuscire a comprendere il concetto prima che gli sfuggisse rapidamente dalla mente lasciandolo nella confusione più totale.

Il silenzio che si era creato sembrò infiltrarsi tra loro come un parassita fastidioso. John avvertì un’ondata di fuoco che gli bruciava lo stomaco finchè non udì nuovamente la voce di Clara, più brava di lui a cambiare o riprendere un discorso:

“Colin. Lo abbiamo chiamato Colin.”

“Un nome scozzese. Ovvio.” Un sorriso inespressivo sul volto mentre continuava: “Senza offesa ma… somiglia più a lui che a te.”

Mentre Colin si lasciava scappare uno sbadiglio, allungando poi le braccia verso John e farfugliando una parola incomprensibile, Clara sospirò cercando di tenerlo in equilibrio:

“Ti sbagli.” Alzò Colin dalle sue gambe e lasciò si sporgesse verso John il quale, senza possibilità di opporsi, non potette fare altro che sporgere anche le sue di braccia e prendere il piccolo mentre Clara continuava:

“Non è tuo fratello, se è questo che pensi. Ce l’ho in affidamento. Non sono io sua madre.”

“Come? Io pensavo..”

Clara si lasciò scappare un sorriso amaro interrompendolo con un tono serio:

“Se ti dicessi che io ed il Dottore non ci abbiamo provato mentirei, ma… non stiamo insieme. Non c’è stato nulla di…fisico tra noi. Avremmo voluto, non lo nego. Ma tu eri sempre lì, in mezzo a noi, a dirci che era sbagliato. Ed avevi ragione.”

Colin si sistemò tra le braccia di John, fissandolo da vicino con i suoi occhietti azzurri e luminosi.

John si sentiva come sospeso a mezz’aria, con una confusione apocalittica nella menste e nel cuore una misera speranza che, come brace sotto la cenere, desiderava solo di essere alimentata. Non sapeva come prendere il discorso di Clara. Non sapeva come fare per osare e chiedere una seconda opportunità e se era il caso di farlo.

Con quel bambino tra le braccia ora più di prima era confuso. Perché quelle somiglianze che aveva visto in lui si erano dimostrare un’illusione eppure erano visibili ancora. Perché sentiva che c’era altro ed aveva paura di chiedere per non soffrire ancora. Erano passati due anni ed era ancora quel ragazzo timoroso delle emozioni.

Nonostante questo, però, non potette fare altro che sorridere ed arrendersi ad un lieve calore che si diramò nel suo petto quando l’espressione imbronciata di Colin si rilassò in un sorriso timido mentre portava le manine sul viso di John.

“Dadada”

“Sembrava essere un po’ indietro con il linguaggio, ma i suoi occhi erano furbi. Forse c’era una qualche spiegazione, doveva solo conoscerlo meglio. Voleva conoscerlo meglio, così come voleva ancora vedere Clara.

“Visto? Avevo ragione. Gli piaci.”

John sorrise concludendo:

“Tu hai sempre ragione.”

E in quelle parole c’era un significato più profondo di quanto sembrasse.

 
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Nota:

 Scusate la lunga attesa, ma il lavoro non mi da tregua, il caldo fa passare la voglia di accendere il pc (nonostante io ami il caldo e sono l’unica a sopportarlo tranquillamente xD) ed ogni volta che apro un foglio di word c’è sempre altro da fare nella vita reale. Ho voluto comunque pubblicare un capitolo più lungo del solito, cercando di dare una spiegazione ed una chiusura ad alcune cose lasciate in sospeso visto che Agosto molto probabilmente lo prendo di pausa ed ad inizio Settembre forse sarò a Londra, chissà xD.

Intanto voglio giustificare il ‘Connor’ ed il ‘Duncan’ aggiunto al ‘John Smith’ di Eleven e Twelve e dico solo: “Mi chiamo Connor ( dopo viene Duncan) McLeod, del clan McLeod e sono l’ultimo degli Immortali.
Perché? Perché si u.u Anche se li ho attribuiti al contrario, Connor è il più vecchio dei due immortali, ma io l’ho dato ad Eleven che il più giovane tra i due Dottori xD
Per il resto della storia: spero non siate rimasti delusi dalla vera origine del piccolo Colin. Non è figlio biologico di Clara, ma devo ancora raccontare qualcosa su di lui. Inoltre, il prossimo capitolo sarà interamente dal punto di vista del Dottore e concentrato totalmente su di lui e ciò che davvero gli accade; quindi come al solito, vi chiedo di non dare nulla per scontato né in questo capitolo né nel prossimo.  

Altra premessa che faccio è questa: credo di aver fatto un pò di confusione con gli appunti che avevo preso per questa storia (pezzi scritti non in ordine cronologico da inserire in capitoli successivi) e che per errore ho preso, modificato ed incollato non ricordo dove in  You're in my Soul e... ho fatto un pò di casino. Quindi se notate qualche somiglianza (non dovrebbero essercene però perchè il contesto è completamente diverso) in alcuni punti Twelve/Clara  con questo capitolo e qualcuno di quella storia, bè.... fa caldo, ho la testa confusa, non ho la pazienza di controllare quale parte ho confuso e non modificato come dovevo. Tanto nel caso ho copiato me stessa xD

Grazie infinite comunque a tutti voi che seguite ancora la storia. Spero che abbiate goduto di questo capitolo. Al prossimo spero ci sarete ancora <3

 

 

 

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Capitolo 13
*** Capitolo 13 ***


13

Capitolo 13

 

 
La casa era immersa nel silenzio mentre il Dottore preparava alcune cose da riporre nel bagaglio per il viaggio. Aveva acquistato un nuovo kit per la sala operatoria, non perché non si fidasse di ciò che avrebbe trovato una volta raggiunta la sua destinazione (e solitamente faceva bene a non fidarsi), ma semplicemente perché con i ferri personalizzati che si adattavano alle sue mani si sentiva più sicuro in un campo in cui l’arte dell’arrangiarsi poteva decidere della vita o della morte di una persona. Dare una mano alla sorte a volte poteva essere un vantaggio. Operare su un campo di battaglia, tra la polvere del deserto ed i germi pronti ad infierire, era del tutto diverso dall’operare nella comodità e tranquillità sterile di una sala operatoria, le infezioni erano all’ordine del giorno e preferiva prendere tutte le precauzioni del caso mentre era ancora in uno Stato civile e fare scorta di tutto l’occorrente necessario. Filo chirurgico in primis, senza risparmiarne affatto perché là, era sicuro, non ne avrebbe trovato.

Aveva riposto tutto in un borsone che aveva adibito a raccogliere tutto ciò che man mano avrebbe deciso di portarsi in viaggio; poi si ritrovò a raccogliere la sua giacca con il risvolto rosso dal letto e stenderla tra le mani. Gli era piaciuto indossarla di nuovo, aveva adorato ogni giorno che aveva vissuto dal suo ritorno come non gli era capitato da anni, avvertendo nella gola un leggero sentore amaro all’idea di dover rinunciare a quei giorni. Raccolse una gruccia per sostenere la giacca e la ripose per l’ennesima volta della sua vita all’interno del suo armadio. La nascose sul fondo, ancora ignaro che non l’avrebbe mai più indossata.

Un volo civile per una base ISAF, missione internazionale della NATO per l’Afghanistan. Da lì volo per Herat.

 

 Il Dottore non aveva acquistato cibo se non un pacco di biscotti al cioccolato per il viaggio di andata. Una volta giunto alla base militare gli diedero un kit di sopravvivenza e quelle disgustose monoporzioni incellofanate ermeticamente che gli davano il voltastomaco, esattamente come si aspettava ogni volta. Il solo pensiero di dover mangiare cibo militare per i prossimi mesi lo nauseava, ma non poteva fare altrimenti. I cuochi non si risparmiavano di certo nel cucinare pasta scotta ed insapore. E per il momento, lo standard militare da viaggio non permetteva altro che fare colazione con quel misero tubetto di latte concentrato ed una monoporzione di marmellata o miele da spalmare con le dita su una galletta che sapeva di cartone bagnato. Mentre attendevano l’aereo che li avrebbe condotti a destinazione, alcuni giovani soldati, scherzando tra loro, le avevano ribattezzate ‘Pane Elfico’. Il Dottore non aveva capito il significato finchè non gli avevano nominato Il Signore degli Anelli. A quel punto, mentre si sedevano a bordo del velivolo, lui aveva partecipato allo scherzo con un impacciato e poco convinto:

“Quindi… noi siamo la Compagnia dell’Anello?”

I ragazzi avevano riso mentre i motori dell’aereo venivano avviati, poi uno di loro gli rispose:

“Dottore, lei sarà il nostro Gandalf!”

Il Dottore non sapeva come rispondere a quella cosa, ma non ne avrebbe mai avuto il tempo: l’aereo cominciò a rollare ed impennò praticamente subito, schiacciandolo nel sedile a causa della pressione. Il decollo tattico, come al solito, gli provocò una pressione ai timpani con un conseguente fischio fastidioso all’orecchio ed un groviglio allo stomaco che si sarebbe portato fino a due ore dopo l’atterraggio. Si pentì subito di aver mangiato quella stupida galletta.

Il volo era stato scomodo, ma avere quei ragazzi al suo fianco gli aveva alleviato il viaggio ed alleggerito il peso che si portava sull’anima.

Aveva scoperto che il ragazzo che lo aveva battezzato ‘Gandalf’ aveva la sua stessa assegnazione iniziale, che era la seconda volta che tornava in Afghanistan e che:

“Non ci credo! Davvero lei è il Dottore? Quel Dottore?”

“Sono il Dottore, punto. Non so se sono lo stesso dottore di cui parli tu.”

“Si fidi, lei è proprio il Dottore di cui parlo, guardi che sul campo di battaglia è famoso!Lei parla il Pashtun ed il Farsi, vero?” In realtà, con gli anni passati a fare missioni internazionali aveva imparato anche un po’ di spagnolo ed italiano. Ma le due lingue ufficiali Afghane, per lui che in Afghanistan c’era stato innumerevoli volte, era d’obbligo conoscerle.

“Quindi, se io sono Gandalf, tu chi saresti invece?” Il Dottore aveva risposto alla domanda con un’altra domanda, per deviare il discorso. E ci era riuscito:

“Legolas!” Rispose il giovane, stringendo a se il suo fucile d’assalto: “Assolutamente Legolas!”

“Ma non sei biondo.” Protestò lui, notando i capelli neri e ricci del giovane e la sua pelle scura.

“Però sono un cecchino di prim’ordine!” Orgoglio negli occhi del ragazzo.

Il Dottore sorrise appena, ma il suo sguardo era distante e triste mentre il silenzio si insinuava denso tra loro, interrotto solo dall’assordante rombo del motore del velivolo. Qualche settimana dopo, nella base operativa di Bagram dove erano solo di passaggio per una nuova assegnazione, quello stesso ragazzo gli avrebbe detto:

“Sa…più che Gandalf, lei in realtà mi ricorda Aragorn.”

Il Dottore aveva sospirato, ma non aveva risposto. Si sarebbero separati da lì a poco.

 

 Dopo le prime settimane di calma, lontano dai campi di battaglia e limitandosi semplicemente a visitare alcuni soldati alle prese con un’epidemia di gastroenterite, finalmente fu assegnato ad una base decisamente più attiva prendendo un passaggio dagli Americani.

Il compito principale che gli fu assegnato, in qualità di Ufficiale Medico, era quello di tenere sotto controllo l’infermeria ed il Gate, al quale accedevano i civili che avevano urgente bisogno di cure.

Più spesso giungevano bambini, fingevano un malessere per farsi dare il sacchetto con la porzione di cibo standard: tubetto di latte condensato, un pacchetto di biscotti, monoporzione di marmellata e le solite gallette. Il Dottore di nascosto aggiungeva qualcosa in più in ogni sacchetto.

I malati ed i feriti che gli portavano erano diversi ogni giorno.  Una volta giunse un bimbo con quattro dita della mano amputate da un ordigno esplosivo, probabilmente un LED, uno di quelli artigianali, ed il Dottore notò che c’era stato un primo tentativo di cura. Fu quello il momento in cui capì  che al villaggio vicino doveva esserci qualcuno che di medicina se ne intendeva. Sapeva benissimo che i Talebani permettevano ai civili di rivolgersi al campo medico militare solo ed esclusivamente per le emergenze.

Comunque, una volta sistemati i monconi e ricucito le ferite con filo chirurgico e quel po’ di pelle rimasta attorno sapeva già che, nonostante l’avvertimento di farsi rivedere il giorno dopo, quel bambino non sarebbe più tornato. I malati andavano una volta, poi sparivano. Parlando con l’uomo che lo aveva accompagnato aveva avuto conferma ai suoi sospetti: tra parole non dette e sguardi nervosi aveva capito che un primo tentativo di cura c’era stato. Gli aveva quindi consegnato degli antidolorifici e qualche antibiotico che si era portato da casa, da far prendere al bambino nei giorni successivi. Lo aveva fatto per coscienza e perché era il suo lavoro, la sua missione. In fondo, però, sapeva già che quelle medicine sarebbero state vendute per procurarsi una dose di oppio.

 
***

 I giorni si alternano ai giorni. Tra visite al Gate e quelle all’infermeria, dove i soldati si rifugiano per lo più per gastroenterite causata dalla maledetta polvere, di cui l’Afghanistan è completamente avvolto, ed i suoi germi.

Un giorno fanno il giro dei villaggi. Aiutano a scavare pozzi, lasciano provviste. Anche a quelli che non vogliono collaborare in nessun modo per paura di ripercussioni da parte dei Talebani: se ne vanno via con l’amaro in bocca, cacciati, ma lasciano le provviste lo stesso. Sempre meglio quelle, che vedere centinaia di bambini uscire da chissà dove e scavare nella loro spazzatura alla ricerca di cibo.

Al ritorno percorrono nuovamente la strada che attraversa i campi di oppio. Papaveri che si espandono a vista d’occhio, teste che si vedono appena un po’ al di sopra dei fiori. Sembrano non dare alcuna attenzione ai mezzi militari di passaggio, agli elicotteri che sorvolano la zona e si esibiscono nel loro Show of Force. Poi arriva via radio l’ordine di fermarsi. Più avanti sono stati avvistati degli uomini che, lungo la strada,  scavano, piazzano e si allontanano. Devono aver seppellito degli ordigni. Una camionetta va in avanscoperta, il Dottore resta nel blindato, con il suo fucile pronto (perché è pur sempre un militare ed ha il suo fucile)  e lo sguardo concentrato sul campo di papaveri che si estende al di fuori del suo oblò, pronto ad avvisare per qualsiasi anomalia. Sembra deserto; in effetti è deserto e nella camionetta si muore dal caldo. Le persone che stavano lavorando nei campi fino a qualche secondo prima sono scomparse ed un silenzio innaturale circonda la zona, interrotto solo dal rumore degli elicotteri che sorvolano rasoterra per il loro Show of Force.

Poi un esplosione. L’ordigno, realizzato con una tanica di benzina, è stato fatto esplodere, ma probabilmente lungo la strada ne sono stati piazzati altri.

Procedono con estrema lentezza, fermandosi continuamente per far brillare gli ordigni fatti in casa. Si fa buio, la copertura aerea viene a mancare. La tensione è alle stelle, ma non viene ingaggiato nessuno scontro. Gli è andata bene.

Ni giorni successivi c’è una calma apparente. Si spara poco, poche esplosioni. I suoi compagni giustificano il tutto con un: “Adesso sono concentrati sulla raccolta dell’oppio! Quando finisce la raccolta si concentreranno su di noi.”

Il Dottore sa che hanno ragione. Ma non parla. Invece, pensa a suo figlio. Pensa a John, che lo ama, gli manca e che vuole rivederlo. Il desiderio di parlargli lo spinge successivamente a cercare un contatto che gli viene rifiutato, ma anche solo sapere che suo figlio sta bene e continua la sua vita gli basta. Fa comunque male, ha bisogno di essere più impegnato per non pensare.

Chiama anche Amy, con lei si sente più spesso che può. A volte su Skype, altre volte solo comunicazione telefonica su una linea sicura. Non le racconta della guerra, finge quasi di non essere lì quando parlano. Lei invece gli racconta dell’Università, di Rory che è tornato a Glasgow per cercare lavoro in una clinica privata, per cominciare; poi vedrà in qualche ospedale. Lei lo raggiungerà appena avrà in mano il certificato di Laurea. Aggiunge che ha un sospetto: Rory è strano, a volte emozionato a volte spaventato; il sospetto è che lui voglia chiederle di sposarla perché è la stessa reazione che aveva quando le ha chiesto di fidanzarsi. Il Dottore sorride, pensando che quei bambini scapestrati che si rincorrevano nel giardino della loro vecchia casa scozzese ormai erano diventati uomini e donne. E piange quando Amy gli dice:

“Zio John, lo sai, vero? Devi tornare per quel giorno. Mi devi accompagnare all’altare. Ho solo te.”

Amy non ha un padre e lui è la cosa più vicina ad una figura paterna che lei abbia mai avuto.

Accetta tra le lacrime, commosso e forse anche stanco di tutto il peso che l’Afghanistan gli ha messo addosso. Anche Amy si lascia scappare qualche lacrima.

Il Dottore le chiede anche di John, ogni volta. Lei risponde sorridendo, gli racconta quello che John le racconta dei suoi viaggi. Gli dice che sta bene, sembra sereno. Il Dottore sorride, triste ma sollevato. Non le chiede di Clara e lei non ne parla. Mai. Non se lo dicono, ma pensano che sia un bene, e va bene così.

Poi arriva la destinazione finale. Riparte.

Mentre sorvolano la zona, il Dottore sembra mostrarsi indifferente alla desolazione, ai villaggi abbandonati o ai campi di papaveri dove alcune teste dei raccoglitori di oppio si intravedono appena, chini sul loro operato. Non pensa molto al fatto che la base in cui si fermerà fino alla fine del suo periodo di permanenza è in un punto caldo. Ma sorride al pensiero che rivedrà ‘Legolas’.

 
***

 Qualche mese dopo, nei pressi di un villaggio tra le montagne aride, nella piccola costruzione diroccata che avevano scelto come obitorio nell’accampamento medico, si ritrovò a togliere le illeggibili piastrine militari dal cadavere di quel ragazzo mentre lo richiudeva in un sacco nero, con il rimorso di non avergli chiesto nemmeno quale fosse il suo nome di battesimo. In quel momento pensò di nuovo a John, al sicuro a casa.

Nello stesso preciso momento pensò anche a Clara, appena laureata, che viveva la sua vita in chissà quale città dell’Inghilterra. Il suo cuore ormai tranquillo quando pensava a lei gli faceva capire che il fuoco si stava spegnendo e non bruciava più. Eppure, non poteva fare a meno di continuare a pensare ad un ‘e se…’. Nella moltitudine di emozioni che, in quel momento, smossero le ceneri ancora calde che coprivano i suoi sentimenti contrastanti, si accorse in ritardo della chiamata all’attivazione, si accorse in ritardo degli spari che provenivano dall’esterno dell’accampamento; si accorse in ritardo delle esplosioni che sembravano sempre più vicine; si accorse in ritardo della parete che crollava e di un violento e troppo caldo spostamento d’aria che gli soffiò addosso prima di sbalzarlo sulla parete opposta. Avvertì solo un improvviso dolore in tutto il corpo, i polmoni che gli bruciavano, la sabbia del deserto tra i denti ed infine il freddo troppo innaturale che improvvisamente gli percorreva la superficie del corpo.

Infine, percepì solo il buio.

 

 
Il rumore degli elicotteri sembrava lontano. Così come erano lontani i colpi di kalashnikov. Sparavano su di loro da una postazione più alta, con una visione sufficiente ad oltrepassare le barriere ed il filo spinato.

Il fischio nelle orecchie invece era fisso ed assordante. Lo sguardo concentrato a focalizzare le figure indefinite che lo circondavano. Sentiva il suo respiro, era faticoso e quasi inutile. Perché il petto gli faceva un male cane ed ad ogni boccata d’aria l’ossigeno sembrava non raggiungere la destinazione. Un polmone era collassato. Il giubbetto tattico lo affliggeva e gli pesava addosso in un modo sconcertante, cercò di toglierselo, ma lo fermarono.

Su di lui si piegavano l’infermiere che lo assisteva durante le uscite ed un altro militare che gli forniva copertura. Sulla targhetta apposta sul suo petto poteva leggerne il cognome, riconoscendo in lui il Brigadiere Lethbridge-Stewart.  L’infermiere era italiano, di passaggio per un paio di settimane ancora, ma masticava l’inglese.

Boccheggiando, il Dottore fece intuire al giovane infermiere che doveva fare lui il lavoro:

“Dottore, non sono un chirurgo, non l’ho mai fatto alla cieca… e se sbaglio?”

Con la vista che si annebbiava nuovamente ed una forza innaturale, il Dottore lo afferrò per il bavero della divisa militare e lo guardò negli occhi. Il giovane intuì:

O mi infili un ago nel petto ora e muoio più tardi, oppure muoio adesso soffocato. Siamo in guerra, non alla Facoltà di Medicina!

L’infermiere non potette fare altro. Aprì quel tanto che bastava il giubbetto tattico, la casacca della divisa e tagliò la t-shirt. Seguì le direttive rapide ma precise dell’uomo che gli indicò il punto sul torace in cui operare. Il Dottore si era ritrovato così con un ago infilato nel petto ed una valvola da aprire ogni quindici minuti per far uscire l’aria che si era formata nello spazio pleurico. Ma almeno poteva respirare meglio.

“Posso durare al massimo tre ore…” Aveva detto con un filo di voce ed il respiro che si stabilizzava. Doveva essere evacuato, portato all’ospedale più vicino e, probabilmente, rimpatriato. Ma erano sotto attacco. Non potevano essere evacuati.

“Non mollare Dottore! Ci sono gli elicotteri che sputano fuoco su quei bastardi! Ti portiamo via!”

Parole dette in un mezzo inglese ed un mezzo italiano dall’accento troppo meridionale. Tra polvere che offuscava la vista e proiettili che radevano rumorosamente il muretto dietro il quale erano riparati, il Dottore sembrò aver improvvisamente dimenticato le lingue che negli anni di esperienza su campo multietnico aveva voluto, più che dovuto, imparare. Cercava con gli occhi il suo fucile, perso chissà dove sotto le macerie della parete che gli era crollata addosso. Cercò di prendere la pistola dalla fondina sul fianco, rispondere al fuoco per istinto di sopravvivenza, ma mentre il Brigadiere al suo fianco continuava a rispondere al fuoco nemico lui doveva concentrarsi a respirare. Era questo che l’infermiere gli ripeteva.

Il brigadiere invece non faceva altro che dargli ordini che capiva e non capiva. Ed ai quali non voleva obbedire, ma si ritrovò costretto a farlo lo stesso:

“Dottore stai giù. Sta calmo che qua ci penso io!”

Per tutta risposta un colpo di fucile, dopo aver attraversato di striscio il muro spesso dietro cui si rifugiavano, lo aveva colpito ad un braccio. La divisa militare si sporcava di rosso.

“Stai sanguinando. Sei ferito!”

“Non ho tempo di sanguinare!” Fu la risposta del Brigadiere mentre alzavo lo sguardo consapevole ed allarmato.

Rosso era diventato anche il cielo. I fumogeni di segnalazione. Erano troppo vicini ad un obiettivo; o l’obiettivo si era avvicinato troppo a loro. I missili dei rinforzi via aria sarebbero arrivati a minuti, forse secondi.

“Via! Via!”

L’urlo del Brigadiere che di forza tirava su il Dottore costringendolo a correre ed inciampare quasi su se stesso; lo trascinava via in una corsa a zig zag interamente fatta a testa bassa per rendere più difficile ai nemici il compito di sparargli alle spalle. Poi un boato, uno spostamento d’aria che lo fece sbalzare in avanti per la seconda volta nel giro di… un’ora? Pochi minuti? Quanto davvero fosse durato quell’attacco non avrebbe saputo dirlo né calcolarlo. Nel silenzio che ne seguì, interrotto subito dalle urla di guerra dei compagni intuì che avevano vinto la battaglia e mantenuto la base.

Infine, di nuovo il buio e stavolta più profondo e definitivo.

 

 ***

 
 
John percorreva a passo molto lento il corridoio sterile dell’ospedale militare. I camici bianchi gli sfilavano accanto come fantasmi, senza toccarlo né prestargli alcuna attenzione. Il tutto aveva un qualcosa di surreale, con la vita che fuori da quell’edificio continuava mentre lì il tempo sembrava fermarsi, come se fosse appena entrato in un mondo parallelo, un universo nascosto.

Un universo tasca piccolo, fragile, bloccato nel tempo ma con un timer sempre attivo pronto ad azzerarsi ed esplodere da un momento all’altro, collassare su se stesso.

Dal vetro in plexiglass che dava sulla camera d’isolamento sterile osservava  suo padre steso su un lettino troppo piccolo. Un sondino infilato nel naso che arrivava giù nello stomaco, un altro che partiva da un buco incerottato sul suo torace, scendeva appena al di sotto del materasso per poi risalire sino ad un sostegno metallico, biforcarsi a metà percorso per poi finire con ogni nuovo capo in due ampolle trasparenti, probabilmente di vetro o chissà cosa. Uno a metà pieno di liquido giallastro. L’altro apparentemente vuoto.

Qualche altro macchinario muoveva qualcosa, una ventola o una sorta di compressore a fisarmonica che si alzava ed abbassava per chissà quale motivo. Non sapeva neanche se fosse collegato a suo padre o al paziente comatoso nel letto accanto. Forse a suo padre. Suppose servisse a dargli aria, o a toglierla dalla pleura; nella confusione mentale in cui si trovava non riusciva a ricordare se il polmone avesse bisogno di aiuto per prendere ossigeno o avesse bisogno di aiuto per toglierlo.

Ricordava appena ciò che il medico gli aveva detto: polmone collassato ed una sorta di cuscino d’aria che si era formato nell’aera pleurica a causa di un forte trauma, doveva essere assorbito.

Ricordava precisamente però le parole ‘attacco nemico’ e ‘quasi morto’.

John si era occupato di tutto. Del rimpatrio una volta stabilizzate le condizione di suo padre, del ricovero e di tutta quella carta straccia necessaria che passava sotto il nome di ‘burocrazia’. Si chiedeva cosa sarebbe accaduto ad un comune essere umano in quelle stesse condizioni se non si fosse trattato di prendersi cura del Dottore. Quel Dottore al quale avrebbero dato una medaglia al valore per i servizi svolti negli anni. Potevano tenersela la medaglia!

Si chiese anche se fossero stati altrettanto scrupolosi se il Brigadiere Lethbridge-Stewart non si fosse interessato quotidianamente di loro, con il suo braccio fasciato e quelle escoriazioni che gli coprivano il resto del corpo.

Aveva chiamato Amy e Rory. Gli facevano compagnia, gli portavano da mangiare. Qualche cambio d’abito e qualche battuta stupida di Rory sempre troppo fuori luogo ma capace lo stesso di procurargli un sorriso, nell’attesa che il Dottore si svegliasse: alternava momenti di veglia confusa a momenti di sonno profondo. I medici dicevano che era colpa delle medicine per la terapia.

Rory a volte arrivava con indosso la sua divisa ospedaliera. Era l’unico modo per avere notizie certe, parlare con i medici e vedere le continue analisi che gli venivano fatte. Piccoli miglioramenti c’erano ogni giorno. Ma a volte si alternavano a crisi respiratorie. Almeno ogni giorno che passava il Dottore era sempre più consapevole di se stesso e cosciente di cosa lo circondava.

Una settimana dopo, sempre dalla finestra in plexiglass, John vide qualcosa che non si aspettava.

Clara stringeva la mano di suo padre. Lui aveva gli occhi chiusi ma sorrideva. Nei secondi successivi la ragazza si voltò verso John e lo guardò, come un istinto improvviso, una chiamata particolare o semplicemente la risposta al suo ‘Clara’ che gli attraversava la mente come un urlo.

Lei gli sorrise, lui restò impassibile prima di allontanarsi.

 
***

 
Quando Clara mise piede in quella camera asettica l’odore di disinfettante le bruciò nelle narici. Le lacrime minacciarono di affacciarsi dagli occhi nel momento in cui inquadrò la figura magra – troppo magra- del Dottore. Si avvicinò lentamente, correndo istintivamente a stringergli la mano tra le sue. Era freddo, forse a causa delle continue flebo che gli gelavano il sangue, e sembrava più fragile del cristallo. Quando l’uomo aprì gli occhi l’azzurro delle sue iridi era diventato un arido grigio. Clara diede colpa alla scarsa illuminazione di quella stanza mentre soffocava un singhiozzo.

Lui le sorrise, salutandola con un ‘ciao’ pronunciato appena in un sussurro. Lei non riuscì a parlare.

“Guarda che per uccidermi ce ne vuole… dammi solo un paio di settimane e rimpiangerai questi momenti.”

“Un paio di mesi, forse! E di certo non rimpiangerò questo.” Rispose finalmente con la voce rotta e tirando su col naso prima di sorridere e continuare: “Almeno adesso penserai bene di fermarti una volta per tutte.”

“Non contarci…” Rispose lui di rimando, lasciandosi sfuggire un sorriso.

“Dovresti, invece.”

“Per favore, non rifacciamo questo discorso…” Riprese respiro, muovendosi appena nel letto: “ Lo sai. Potrei dirti che lo farò, ma mentirei. Non posso negare quello che sono.”

Clara restò in silenzio. Consapevole che non poteva obiettare nulla, e consapevole che non doveva agitarlo come invece stava facendo.

“Sono contento di rivederti.”

“Anch’io. Ma se continui a dimagrire ho paura che sparirai.” La preoccupazione e l’ansia nella voce rotta di Clara era palpabile. Il Dottore guardò i suoi occhi rossi e lucidi di lacrime stringendole appena la mano con quella poca forza di cui era capace.

“Impossibile. Nelle flebo che mi danno ci sono tutti i nutrimenti di cui ha bisogno il mio corpo. Senza grassi e senza coloranti.” Le sorrise, per confortarla e rasserenarla. In realtà era la presenza di Clara a confortare e rasserenare lui.

“Non fare il medico con me. Un po’ di grasso in realtà non ti farebbe male.”

“Preferirei un soufflè…”

“Allora te ne preparerò uno speciale per quando uscirai di qua.” Stavolta erano entrambi a sorridere.

Il successivo silenzio era interrotto solo dal bip bip continuo dell’elettrocardiogramma. Stabile, senza sbalzi. Lasciava intuire che il cuore del Dottore era forte e calmo. Con una nota di orgoglio l’uomo pensò che, con Clara lì a tenergli la mano e parlargli, quella calma poteva solo significare che tutto era passato, che tutto era chiuso e che questo non poteva che essere un bene. Era la prova decisiva per lui, in quel momento lo era per entrambi.

Il momento fu interrotto da un medico di passaggio all’esterno. Aprì la porta richiamando Clara:

“Non può stare qui, signorina. Solo i familiari hanno accesso ai pazienti e non è questo l’orario.”

Il cuore di Clara in quel momento invece perse un battito. Perché non voleva andare ancora via, e perché non le piaceva essere richiamata in quel modo.

“E’ mia figlia.” La risposta del Dottore la sorprese, indubbiamente sorprese anche il medico in questione.

“Non è vero. L’unico nome a cui è consentito l’accesso è John Connor Smith.”

“Infatti. Lei è la fidanzata di mio figlio. Quindi è mia figlia. La lasci stare. Se sta qui mi tranquillizza.” Il Dottore sembrò agitarsi, incupendo lo sguardo fisso sul medico ancora in piedi sull’uscio. Non potendo obiettare e non volendo destabilizzare le condizioni del paziente (conoscendone il carattere particolare per fama) l’uomo non potette fare altro che arrendersi e lasciar stare.

Pochi minuti dopo Clara osò parlare di nuovo:

“Hai mentito.”

Il Dottore riaprì gli occhi quel che bastava per poterla vedere e capire a cosa si riferisse.

“A quel medico? No.”

“Non sono tua figlia. E non sono la fidanzata di John.”

“Non lo hai visto?”

Lei scosse la testa, lo sguardo triste e la sensazione di una morsa stretta attorno al cuore.

Il Dottore chiuse gli nuovamente gli occhi, rispondendo con un filo di voce assonnato:

“Nemmeno io. Ma so che è qui. Va da lui.”

Il Dottore si addormentò nell’istante successivo. Clara avvertì il cuore battere più veloce ed il desiderio incomprensibile di voltarsi.

Erano passati mesi. Ma il calore nel cuore che si scioglieva per poi far male quando vedeva il volto di John non era passato.

 

 
La Ragazza impossibile si ritrovò a rincorrere il suo Eleven tra i corridoi bianchi dell’ospedale. Tutti uguali, tutti puzzavano di disinfettante e tutto attorno a lei ricordava un enorme labirinto senza uscita nel quale sembrava essersi persa.

Infine, trovò John affacciato ad una delle finestre della sala d’attesa, scuro in volto, la mascella serrata che si contraeva in lievi spasmi.

Clara si avvicinò in silenzio, col cuore impazzito e le gambe che le tremavano. Mosse le labbra per parlare, ma John fu più veloce di lei.

“No. Per favore, Clara.”

“Invece dovresti ascoltare.” Fu la risposta di Clara. Secca, disperata ed arrabbiata.

“Non è come pensi! E dovresti ascoltarmi una volta per tutte! Tra me e tuo padre non c’è niente! Sono qui per te, perché voglio starti vicino. Vorrei solo… se tu potessi darmi una seconda possibilità, per favore…”

John scosse la testa interrompendola:

“Clara, se davvero tieni a me. Se davvero ci tieni così tanto a me ed a mio padre come dici, ti prego: va via.”

C’era ancora troppo odio, ancora troppo dolore in lui. Ancora non riusciva a dimenticare, ancora non riusciva a perdonare. E doveva avere un autocontrollo disumano per parlare con calma e senza alzare la voce in nessun momento, mentre continuava:

“Non ci riesco a vedervi vicini. Pensavo di averla superata ma non è così, non lo sopporto. Per favore… va via. O vado via io”

Clara doveva arrendersi. Non poteva fare altro. Il Dottore aveva bisogno di John più che di lei.

“John… qualsiasi cosa sia successa tra me ed il Dottore ormai non ha più senso. Non aveva senso nemmeno prima. L’uno nell’altra cercavamo solo un modo per avvicinarci a te. In lui io vedevo te quando mi tenevi a distanza.  Ed ho sbagliato.”

“Ma guarda… dal ‘non è successo nulla’ siamo passati al ‘qualsiasi cosa sia successa’. Sono oltremodo confuso, Clara.” Il sarcasmo sulle labbra di John aveva un effetto devastante. Sembrava improvvisamente un uomo adulto con troppi anni e troppe delusioni compresse nel corpo di un ragazzo.

“Ho commesso un errore. Lo abbiamo commesso entrambi. Vuoi che sia sincera? Non mi pento di quello che ho provato per lui, perché mi ha fatto capire quanto tengo veramente a te. Quanto tengo a quel ragazzo dallo stile troppo vintage e quel sorriso furbo capace di far sparire le nuvole per dare via libera al sole.”

Gli si avvicinò per stringergli la mano, vedendolo ritrarsi non appena i loro corpi si sfiorarono. Faceva male ad entrambi.

“Io posso perdonarti la notte o le notti folli con Tasha…” Aggiunse Clara con un sussurro per continuare poi con più decisione:

“Ho il volo per Liverpool alle otto di stasera. Amy ha ancora il mio numero, non l’ho cambiato. Spero che un giorno riuscirai a perdonarmi un bacio, Eleven. Niente di più. Quando accadrà chiamami; se anche le nostre vite per quel giorno fossero mutate profondamente,  io resterò sempre la tua Ragazza Impossibile.”

Si alzò sulle punte dei piedi, tirando allo stesso tempo un lembo della giacca in tweed di John per costringerlo a calarsi, per stampargli un rapido bacio all’angolo delle labbra.

Negli istanti successivi, Clara sparì oltre la curva in fondo al corridoio; lo sguardo di John restava fisso su di lei con quel bacio che gli bruciava il viso come acido al sapore di mela sulla lingua che andò istintivamente a toccare l’angolo delle labbra.

Non l’avrebbe più vista nei successivi due anni. E non avrebbe visto più nemmeno suo padre. Si sarebbe occupato di tutto ciò che occorreva al Dottore durante il ricovero, ma non appena fu dimesso non volle più saperne. Non aveva voluto incontrarlo, non aveva voluto parlargli. Nella sua mente un unico pensiero:

Non sono forte abbastanza per sopportarlo.

Persino al matrimonio di Amy e Rory, un anno e mezzo dopo, si sarebbe presentato solo a cerimonia ormai finita.

 
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NOTA:

 
Eccomi. Avevo in mente di pubblicare questo capitolo a settembre, ma visto che è pronto ormai da qualche mese, eccolo qua. In effetti la parte iniziale con il Dottore in Afghanistan, quella era pronta da mesi ed ho dovuto un pò modificarla in un paio di punti. Spiegherò nel prossimo aggiornamento il perchè ed il percome xD

Nel prossimo capitolo si tornerà al presente, probabilmente sarà anche l’ultimo capitolo della storia T.T Mi viene da piangere…. Mi mancherà scrivere di Clara, John e del Dottore T.T Magari faccio una raccolta di One-shot  su avvenimenti da ‘aggiungere’ al corso della storia principale, chissà.

Nel frattempo, spero questo sia un capitolo di vostro gradimento. Avevo detto che sarebbe stato completamente incentrato sul Dottore, ma la parte finale con Clara e John era d’obbligo inserirla.

 

 

 

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Capitolo 14
*** Capitolo 14 ***


Cap.14

Capitolo 14

 

 
John e Clara si ritrovano a passeggiare nel parco, Colin che sgambettava poco distante da loro. Aveva piovuto durante il loro caffè e l’aria era frizzante, chiara dimostrazione che l’estate a Londra non voleva proprio arrivare, quell’anno.  

Colin si fermò ai bordi di una piccola pozzanghera, piegandosi sulle sue malferme gambette per allungare la mano verso l’acqua, ignorando il richiamo di Clara che voleva proibirglielo. Ma che altro poteva fare la donna? La mano del bambino era già a schiaffeggiare la superficie dello specchio d’acqua e le sue risa si espandevano nell’aria. Clara si portò una mano alla fronte, sospirando:

“Adesso dovrò portarlo a casa e cambiargli tutti i vestiti…”

 Non era così disastroso l’aspetto del bimbo, solo qualche macchia di fango sui pantaloni ed un po’ d’acqua sulla maglietta, ma l’esasperazione della giovane madre sembrava quasi d’abitudine.

John invece sorrise prima di fermare lo sguardo sul bambino dicendo:

“Clara… davvero Colin non è..” Si fermò incerto per poi finire: “… vostro figlio?”

“Non mi credi?” Chiese Clara, fissando l’espressione perplessa di John.

“E’ solo… che somiglia così tanto a lui. E così tanto anche a te.”

“Eleven, non riuscirai mai a fidarti di me, vero?” Il sorriso amaro di Clara lo fece sospirare, ma tacque mentre lei continuava:

“Cambia qualcosa se Colin è o non è mio figlio biologico?”

John rimase in silenzio, spostando il peso del corpo su una sola gamba ed incrociando le mani dietro la schiena. Clara raggiunse Colin per prenderlo in braccio, non curante del fatto che le mani bagnate del bambino furono subito su di lei mentre premeva il suo corpicino contro la sua spalla, in un abbraccio. L’ora del pisolino era passata e la stanchezza si stava impadronendo di lui. Clara sorrise, avvertendo la fronte del piccolo e le sue braccia attorno al collo. Cercò dei fazzoletti puliti all’interno della borsa con la mano libera e ne prese alcuni per asciugare un po’ il disastro che il bambino aveva fatto con le sue manine ed i vestitini. Infine si voltò verso John con un’espressione malinconica dicendo:

“Tu non riuscirai mai ad accettare il fatto che tuo padre è una parte importante della mia vita. Non potrai mai conviverci vero?” Non era un’accusa; più che altro una consapevolezza che le permise di mantenere il tono della voce dolce, sebbene si leggesse anche una nota rassegnata:

“John. Perché hai voluto incontrarmi? Ho bisogno di sapere il vero perché.”

E quella domanda era l’unica domanda. Quella alla quale John voleva rispondere ma ancora non lo aveva fatto; l’unica domanda della quale aveva anche paura, anzi ne era terrorizzato.

“Io… credevo di saperlo. Adesso non lo so più…”

Colin cominciò a mostrare i primi segni di cedimento, con gli occhi che gli si stavano arrossando, resi lucidi dai primi segni di un capriccio in arrivo. Clara cominciò inconsciamente a dondolarlo, guardando però John.

“Te l’ho detto, sono stata sincera su questo… abbiamo provato, io e tuo padre; e non è andata. Il nostro rapporto è del tutto platonico, lo è sempre stato. Ma Colin… è comunque tanto suo figlio quanto mio. Biologico o no. Legalmente o meno. Non è il DNA o un documento a farne mio figlio. E non è lui il problema, lo sappiamo entrambi.”

Clara vide John abbassare lo sguardo al selciato su cui stavano passeggiando, gli occhi improvvisamente tristi, le guance arrossate e quel broncio che lei capiva sempre. Gli si avvicinò e gli prese la mano:

“Stai bruciando Eleven…”

“Non è solo la pelle a bruciare, Clara…”

Clara lo sapeva. Ed anche John sapeva cosa significavano davvero le parole di Clara. Ma quello che non sapeva era che quelle parole per Clara erano già fin troppo familiari.

“Sono le stesse parole che tuo padre mi ha detto un anno e mezzo fa, quando si è presentato alla mia porta con lui tra le braccia… tu e lui siete così uguali…” Quelle parole le erano sfuggite dalle labbra senza rendersene conto. Non volevano essere parole dette per ferire, nelle sue intenzioni; al contrario, per lei era un ricordo piacevole che le lasciava intuire quanto i due uomini più importanti della sua vita fossero simili ed allo stesso tempo molto stupidi.

John sospirò, non sicuro di cosa però quelle parole davvero volevano significare. Osservò Colin sbadigliare di nuovo mentre si sistemava meglio contro la donna per poi richiudere gli occhi, con il visino premuto contro la spalla di lei e le piccole braccia attorno al suo collo sottile.

“Clara… ti va di parlarmi di lui?”

Clara sorrise, annuendo:

“Cammina con me verso la metropolitana, ne parliamo durante il tragitto.”

“Ho l’auto, posso accompagnarti io a casa. Oppure ovunque tu voglia…”

“Preferisco camminare. Ti prego Eleven.”

John annuì; Clara invece cominciò la storia del piccolo Colin e di suo padre.

 
***

 Clara aveva trovato un lavoro presso una scuola privata di Liverpool. Aveva lasciato Londra, aveva lasciato il suo appartamento ed aveva lasciato il ricordo di John e del Dottore alle sue spalle.

Era quello che si ripeteva ogni giorno, come un mantra. Era quello in cui voleva credere senza però riuscirci. Il tempo passava monotono ed inconsistente; aveva provato a frequentare un collega di lavoro, ma non riusciva ad avere emozioni per le quali valesse la pena continuare la frequentazione, così aveva deciso di chiudere.

Poi, un giorno di primavera, qualcuno bussò alla sua porta. Qualcuno che non si aspettava di vedere  e che stringeva un fagotto tra le braccia.

Il Dottore le chiedeva aiuto in una situazione complicata, una situazione delicata in cui non lo avrebbe di certo abbandonato: durante una missione umanitaria – non militare – con un’organizzazione a difesa di minori, avevano intercettato un camioncino carico di ‘merci da inserire sul mercato nero’. Le merci in questione erano bambini ed adolescenti tra i dieci ed i diciassette anni. Il ‘mercato’ era quello dei minori assegnati allo sfruttamento della prostituzione. Avevano sventato un tentativo di traffico di umani, ma le condizioni di questi adolescenti erano pietose e.. tra loro c’era Laila. Una dodicenne afghana dai profondi occhi blu, spaventata, sola, giaceva sul fondo del camioncino tra i suoi stessi liquidi amniotici, con un pancione quasi più grande di lei ed una sofferenza fetale in atto.

Il Dottore fece di tutto per aiutarla, parlandole nella sua lingua, tranquillizzandola. Ma Laila chiuse gli occhi nel momento esatto in cui il bambino appena uscito da lei li aprì. Laila emise il suo ultimo respiro mentre Colin prendeva il suo primo. L’uomo provò a rianimarla, ma tutto fu inutile. Ed il momento in cui il Dottore incrociò lo sguardo ancora cieco del neonato fu quello in cui capì che non poteva lasciarlo, che loro due erano in qualche modo legati.

Il Dottore decise di adottarlo, ma le questioni legali e burocratiche erano complesse, soprattutto a livello internazionale; si parlava di un minimo di due anni per avere un’adozione ufficiale, ma l’Afghanistan non avrebbe mai dato il nulla osta per uno dei suoi figli; nemmeno se era stato ritrovato in uno Stato straniero, nemmeno se era afghano solo per metà, perché l’altra metà era di nazionalità ignota.

Quando Clara aprì la porta di casa si ritrovò di fronte un Dottore più magro del solito, malmesso, con un occhio nero ed una labbro spaccato, eppure le ferite sembravano vecchie. Lesse nei suoi occhi che qualcosa lo aveva cambiato, che aveva bisogno di lei. Il Dottore aveva solo Clara, in quel momento era l’unica di cui poteva fidarsi, e lei non si sarebbe rifiutata di aiutarlo.

Non chiese i particolari di quella adozione, sapeva solo che non era del tutto completa; sapeva che, al momento, Colin era una sorta di rifugiato politico e che il Dottore aveva attraversato momenti non del tutto piacevoli per portarlo al sicuro in Inghilterra. Non le avrebbe mai raccontato, né quel giorno né in futuro, cosa gli fosse accaduto per ridursi in quello stato e Clara non glielo avrebbe mai chiesto. Non perché non le importasse, ma solo perché sapeva che non avrebbe ricevuto una risposta, o comunque non la verità completa.

Tre settimane dopo, però, al Dottore fu imposto l’obbligo di vivre a Londra, almeno nella fase iniziale della messa in regola di tutta la burocrazia necessaria a rendere Colin effettivamente Inglese e suo figlio. Ma aveva bisogno di lavorare, aveva bisogno di lasciare la città. E Clara ancora non si tirò indietro, diventando una sorta di affidatario per il bambino.

L’aria di Londra era particolare. Umida e triste, ma anche piena di vita e frizzante, carica di profumi che le erano mancati. I primi mesi avevano tirato avanti solo con lo stipendio del Dottore, ma Clara si sentiva a disagio con questo. Inutili erano le rassicurazioni di lui sul suo impegno con Colin, un impegno che lui non aveva mai voluto imporle, pesarle sulle spalle. Quella fu la sera in cui Clara gli prese per la prima volta la mano da quelli che sembravano secoli, rispondendo:

“Ho scelto io di venire qui con te. Ed ho scelto io di essere la sua affidataria. Non so se sia giusto o meno… ma sento di essere una sorta di madre per lui. Anzi, io sono assolutamente sua madre. Siamo legati, io e lui.”

Il Dottore ritirò la mano portandosela al petto, stringendola con l’altra mentre le dava le spalle:

“Clara… però io non posso esserlo per te. Non posso essere ciò di cui hai bisogno.”

Clara si avvicinò a lui, affiancandolo con la consapevolezza dell’implicazione nascosta nelle parole dell’uomo:

“Se proprio vogliamo rifare questo discorso… una volta mi hai detto che avresti voluto. Ed anch’io volevo. Potrei richiedertelo all’infinito finchè non cederesti. E tu cederesti, ma lo faresti in un momento in cui sarebbe troppo tardi, e lo sai anche tu.”

Il Dottore si voltò verso di lei, muovendo incerto le mani davanti a se prima di lasciarle cadere lungo i fianchi. Clara portò la mano sulla guancia dell’uomo guardandolo negli occhi e sorprendendosi di quanto calda fosse la pelle di lui contro la sua:

“Stai bruciando, Dottore.”

Lui la guardò con uno sguardo triste e pieno di dolore concludendo:

“Non è la pelle a bruciare, Clara. Sono io che sto bruciando. Io in tutto il mio essere.”

 Clara gli sorrise capendo pienamente:

“Lo so. E per essere chiari: non ti sto chiedendo nulla, Dottore. E non lo farò. Solo, lo so.”

E quello fu il momento in cui capirono finalmente entrambi che il legame che avevano era più profondo di un amore corrisposto, era un legame che non aveva bisogno di sfociare in qualcosa di sentimentale, qualcosa di effimero come l’amore romantico o animalesco come il sesso. Era qualcosa di più, qualcosa che poteva essere trascinato per secoli e non affievolirsi ne incrementarsi ulteriormente. Era un tipo di amore diverso, che forse non aveva una definizione vera. Ma era di sicuro un amore per il qual non potevano rendersi completamente felici a vicenda.

Colin nella culla dormiva, era un pezzo in più nella loro vita, qualcosa che li teneva legati. Ma c’era ancora quel pezzo che mancava, quel pezzo che avrebbe completato la felicità del Dottore ed avrebbe dato a Clara l’amore di cui aveva davvero bisogno. Quel pezzo, lo sapevano entrambi, era John.

 
***

 “Quindi lo hai seguito…” Disse Eleven con voce quasi meccanica.

“Si… cos’altro potevo fare?” Clara portò lo sguardo verso Colin che ormai dormiva con il viso premuto contro il suo collo.

Avevano ormai raggiunto l’ingresso della metro, con il cuore di John che batteva sempre più veloce man mano che scendevano le scale verso il basso, il nervosismo e l’ansia ch aumentavano e che gli facevano desiderare sempre di più che il treno tardasse e tardasse ancora, perché non voleva separarsi da lei.

“E’ come se tu e lui aveste questa sorta di dipendenza l’uno dal’altra. Non lo capisco.”

Clara lanciò uno sguardo verso il giovane, senza però interromperlo notando il tremolio delle sue labbra. Conosceva fin troppo bene il suo Eleven per capire che aveva pensieri contrastanti nella mente ai quali stava cercando di dare un senso, e quel tremolio delle labbra stava ad indicare che avrebbe continuato il discorso entro pochi attimi.

“O forse…. forse è solo strano. Come lo era il rapporto che avevo io con lui… solo in modo diverso?”

“Il punto focale è: puoi accettarlo, John?”

Avevano raggiunto i binari, fermandosi nella zona di attesa. Nell’eco della galleria c’erano i rumori più disparati e confusi dell’Universo; c’era il suono del vento che soffiava nella galleria dei treni, lo scalpiccio delle persone che correvano apparentemente senza una destinazione con le loro borse e le loro valigie, le voci degli stranieri che si sovrapponevano a quelle dei residenti ed il fischio di un treno in lontananza. John non sapeva se quello in arrivo era davvero il treno di Clara oppure no, ma si rese conto che il loro tempo stava per scadere. Si fermò a fissarla intensamente, col cuore che gli batteva feroce nel petto e quella sensazione di leggerezza nella testa che gli dava la sensazione di essere sospeso nel tempo e nello spazio mentre affogava nelle pozze scure che erano gli occhi della sua Clara. Abbassò lo sguardo sconfitto, lasciandosi scappare un sorriso triste prima di scuotere la testa in segno quasi di resa.

“Eleven…” La voce triste e rassegnata di Clara lo scosse.

John alzò improvvisamente lo sguardo su di lei, le labbra dischiuse e tremanti. Si fermò con gli occhi in quelli di lei, chiedendosi come potesse, a distanza di anni, quella ragazza leggergli dentro come nessuno aveva mai fatto prima.

Infine John sospirò arrendendosi definitivamente:

“Non so se potrei accettarlo, in futuro. Però Clara… è incredibile!” John avanzò di un passo verso di lei, portando la mano destra a carezzare i capelli scuri di Colin prima di correre con la stessa mano al viso di Clara aggiungendo:

“Dopo tutti questi anni, io non ho mai smesso di amarti! E… non voglio… lasciarti andare.”

Lo sguardo emozionato di John era ancora incastonato in quello sorpreso di Clara. La donna avrebbe voluto parlare, ma il cuore le si era come fermato in gola. Avvertiva nel corpo uno strano contrasto tra il freddo del vuoto attorno a lei ed il caldo della mano dell’uomo che accompagnava il tepore del corpicino di Colin premuto contro una piccola porzione di se. Ed in quel momento si rese conto che avrebbe voluto le braccia di John attorno a lei per poter scacciare via quella sensazione spiacevole, come da completamento ad un guscio protettivo attorno a se; ma sapeva che le cose erano più complicate di come apparivano in quel momento.

“Ed io non ho mai smesso di pensare a te, John. Solo che… dopo tutto questo tempo è difficile, e non riesco ancora a capire: cosa mi stai chiedendo, John?”

In realtà Clara capiva, ma aveva bisogno di certezze, aveva bisogno che John parlasse e mettesse le cose in chiaro una volta per tutte anche con se stesso.

La mano del giovane si mosse dalla guancia per salire un po’ più su e lasciar scivolare le dita tra i capelli di Clara, avvicinando appena il viso a quello di lei. Il fischio delle rotaie segnalavano il treno della metro in arrivo, i freni già attivi per la fermata, ma sia John che Clara decisero di ignorarlo.

“Clara… la prima volta che ti ho chiesto di bere un tè con me, lo ricordi?” John si prese qualche secondo per fissare gli occhi ancora confusi della giovane prima di continuare: “Eravamo a casa, tu stavi preparando una tesina su Jane Eyre. Cosa mi hai detto?”

Lo sguardo di Clara si fece per un attimo vuoto mentre si perdeva nei ricordi di quei giorni a casa di John. Quando quel pomeriggio d’inverno le tornò in mente portò di nuovo lo sguardo verso di lui rispondendo:

“Ti ho detto: Chiedimelo domani.”

John annuì, continuando:

“Io ti ho chiesto ‘perché’. Tu mi hai risposto ‘perché potrei dirti di si’. Ed il giorno dopo mi hai effettivamente detto di si.”

“Si, ma cosa…”

Clara avrebbe voluto chiedergli cosa c’entrava questo con loro due adesso, ma John le portò il dito sulle labbra e gli sorrise dolce, mentre la metro ripartiva lasciandoli con un soffio di vento contro i vestiti:

“Ti sto chiedendo: permettimi di accompagnarti a casa, per oggi. Permettimi di offrirti un tè domani ed una cena dopodomani. Permettimi di recuperare due anni di silenzi ed altri due di cose non dette. E non rimandare a domani.”Sorrise allontanando la mano dal viso della donna per lasciarla cadere lungo il suo fianco:

“Non so cosa potrei essere per Colin…” Lanciò uno sguardo sorridente al bambino prima di fissarlo nuovamente su Clara: “ Ma so cosa potrei essere per te. Non un amico, non un fratello. Voglio essere qualcosa di più: un fidanzato non so se riesco ad esserlo, non sono molto allenato in quello… ma almeno, voglio essere il tuo Eleven.”

Le labbra di Clara si dischiusero ed i suoi occhi si inumidirono di un’emozione troppo forte per esser messa in parole. Il suo cuore sembrava voler uscire dal petto, battendo violento contro la cassa toracica e chiudendole la gola, rendendole difficile non solo parlare, ma anche respirare.

“E con tuo padre? Lui è un punto fisso nella nostra vita.”

“Io… ci proverò. In futuro. Ma devo muovermi un passo alla volta, il primo passo per me sei tu. Dammi solo una possibilità, Clara. La metropolitana puoi prenderla un altro giorno.”

Si rendevano ormai conto entrambi che il tempo trascorso non poteva essere recuperato, che ciò che avevano perso era già troppo, ma era anche così difficile riprendere il filo!

“Non sarà facile, John. E ci vorrà del tempo… Gli ultimi anni sono stati un incubo per me. E se davvero vuoi recuperare qualcosa, devi capire che le cose saranno complicate, ed a volte ci spaventeranno. Io sono spaventata già adesso, devi essere sicuro di voler affrontare tutto questo, perché non voglio illudermi di essere felice e poi vedermi buttata di nuovo nel baratro.”

In quel momento, John capì perfettamente le parole di Clara. Capì che in qualche modo Clara era diventata come lui, ferita nel cuore e nell’anima e con una paura incredibile di legarsi nuovamente a qualcuno. E che era stato lui a renderla così simile a se stesso.

“Sono disposto a provare, assumermi il rischio, Clara. Un passo alla volta.” John si avvicinò ulteriormente e con cautela le prese la mano sinistra:

“ Eleven e la Ragazza Impossibile.”

Clara gli sorrise, rendendosi conto del sacrificio che quel ragazzo stava imponendo soprattutto a se stesso. L’unico che davvero aveva avuto diritto a perdere ogni speranza, ogni tipo di fiducia nel genere umano le stava dando invece la prospettiva di un futuro insieme, anche se incerto.

Non era facile fidarsi di una nuova persona piombata all’improvviso nella propria vita, ma loro due non erano estranei, si conoscevano e sapevano di cosa avevano entrambi bisogno. O almeno volevano credere questo. E la risposta più sensata era che, per essere felici, per essere completi, avevano bisogno l’uno dell’altra.

 

Ci sarebbe voluto tempo, ci sarebbero voluti molti sforzi da parte di entrambi per combattere le paure e le incertezze, accettando infine la consapevolezza che l’amore, in qualsiasi forma si fosse presentata, avrebbe avuto la meglio su tutto. A volte questo effimero sentimento poteva sembrare insufficiente, quando le gelosie si insinuavano nell’anima seminando dubbi e nuove paure, ma sarebbero poi scomparse del tutto il giorno in cui, attraverso una navata, un bambino nei primi anni dell’infanzia avrebbe consegnato un cuscino blu e due anelli dorati ad una coppia di innamorati. Avrebbe dato un bacio alla sua mamma ed un altro al suo papà giovane, correndo poi a seguire il resto di una cerimonia bellissima in prima fila, tra le braccia del suo papà più grande, con gli occhi innocenti e felici di un bambino emozionato che vedeva ingenuamente nel mondo solo la bellezza.

La famiglia Smith poteva sembrare una famiglia strana, agli occhi degli estranei, ma decisamente felice. E dopo tanto dolore e tanti sacrifici, un po’ forse se lo meritavano.

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NOTA:

Eccomi finalmente alla conclusione di questa storia. Ho molto da dire a riguardo, ma innanzitutto devo le mie scuse a chi ha seguito ed atteso pazientemente per questo,  il problema che mi ha bloccata è stato davvero difficile da affrontare: Eleven!

Amo Eleven, l’ho sempre amato e continuo a farlo, ma avevo cominciato a scrivere questa storia whouffle con l’idea di concluderla con un finale Whouffaldi. Colin doveva a tutti gli effetti essere figlio biologico di Clara e Twelve ma…. Ma c’è un ‘ma’:

Avevo scritto il primo capitolo ed avevo scritto già anche il capitolo finale. Ma man mano che la storia proseguiva Eleven diventava sempre più protagonista, sempre più capriccioso e sempre più prepotente nella mia testa. Ha preso il sopravvento, mi ha imposto di lasciargli Clara perché Clara era la sua Ragazza Impossibile e non potevo togliergli tutto in un colpo solo. Eleven ha preso vita propria ed ho avvertito tutta la sua sofferenza in ogni capitolo, in ogni sua parola ed in ogni sua sfumatura. E mi sono resa conto che aveva ragione.

Aveva ragione perchè avevo impostato il suo rapporto con il padre in un modo troppo forte, come una sorta di dipendenza, la stessa dipendenza che Clara e Twelve avevano nella serie TV e riadattata anche in questa storia. Che un rapporto padre/figlio così forte non poteva essere distrutto dalla contesa di una ragazza, non avrebbe avuto il valore forte che volevo dargli e non sarebbe stato giusto perché Twelve è il punto fisso nella vita di entrambi. E mi sono accorta che Clara e Twelve avrebbero funzionato, ed anche bene, si sarebbero curati a vicenda ed avrebbero avuto la loro dose di felicità; ma paradossalmente mi sono accorta soprattutto che Clara ed Eleven avevano bisogno del loro riscatto, che Clara ed Eleven erano la via più giusta, quella che avrebbe spento le fiamme che bruciavano e distruggevano, che insieme avrebbero funzionato come un balsamo rigenerante per tutti i personaggi coinvolti. Ho quindi eliminato la parte del concepimento di Colin, ho eliminato la parte di Twelve e Clara sposati con prole perché ho capito che Eleven non avrebbe mai e poi mai potuto perdonare questo, e non era giusto togliergli tutto, non era giusto togliergli l’amore del padre, non era giusto togliergli l’amore di Clara.

Mi rendo conto che cambiare la storia ha reso le cose più difficili, che l’influenza sui capitoli è stata molta e si nota. Ma ripeto: Eleven ha puntato i piedi per terra, ha urlato, combattuto, anche implorato per tutta la stesura della storia a cominciare dal primo capitolo… ed alla fine non ho potuto fare altro che cedere e dargliela vinta. Non so ancora se inserire un capitolo extra, la tentazione è forte, ma suppongo che anche questo finale possa essere accettabile e forse non è il caso di rovinarlo, non lo so…

Quindi, chiedo scusa a chi ha seguito fin’ora e si sente un po’ tradito. Chiedo scusa a chi ha invece abbandonato disperando che una conclusione non sarebbe mai giunta. Ma spero che almeno a qualcuno questa conclusione abbia dato un po’ di emozione, anche se si trattasse solo di un lieve sorriso o una lacrima di disgusto.

Nel frattempo, grazie e tutti voi che pazientemente avete tenuto la storia da conto, con la speranza di leggerne la fine, e grazie soprattutto a chi ha lasciato un segno con i propri commenti, sono stati per me importantissimi, davvero!

Grazie, grazie, grazie, grazie!!

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