Lost soldiers

di Northern Isa
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9 ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1 ***


“We are not friends
Neither lovers
Nor enemies.
Just strangers
Whose hearts speed up a little
Each time our gazes meet.”
 
«Operazioni di recupero avviate» declamò la voce sicura di Maria Hill, mentre le sue dita scorrevano agilmente sullo schermo che aveva di fronte, aprendo files, trasferendo informazioni e dando istruzioni. «Tempo previsto per il recupero?»
L’agente dello S.H.I.E.L.D.  raddrizzò la schiena, risistemandosi l’auricolare in attesa di risposta. Nei muscoli delle spalle e del collo era ancora addensata la tensione causata dagli eventi più recenti relativi ai tre Helicarrier che Capitan America e Falcon si erano attivati per fermare. L’indice della mano destra, che aveva premuto il tasto che le aveva consentito di prendere il controllo dei tre mezzi e portarli alla distruzione, ancora tremava impercettibilmente.
Aveva avuto la finestra temporale di un battito cardiaco per decidere cosa fare, consapevole che Steve era ancora lì, bloccato a oltre mille metri d’altezza, con un pazzo che tentava di ucciderlo. Ma la consapevolezza del suo ruolo aveva indotto Maria a ridurre il ventaglio di opzioni che aveva a disposizione all’unica effettivamente praticabile. Era il protocollo ed era necessario rispettarlo per salvare le vite di milioni di persone. Anche se questo significava sacrificare Cap.
Quando gli Helicarrier erano esplosi, Maria aveva provato la sensazione di aver fatto la cosa giusta, ciò che Steve stesso le aveva chiesto. Ma essa era stata guastata dalla morsa di urgenza che aveva iniziato a provare, accompagnata da un senso di minaccia. L’HYDRA aveva dunque corrotto lo S.H.I.E.L.D., decine, forse centinaia di agenti erano ormai compromessi, e dell’uomo che per primo si era alzato a contrastare i nazisti non c’era più traccia.
Ciononostante, la Hill aveva avviato delle ricerche febbrili che erano durate meno di un paio d’ore.
Quando lo schermo luminoso di fronte a lei aveva emesso un sonoro bip, lo aveva accolto con un moto di sorpresa, anche se minore di ciò che avrebbe immaginato. Del resto avevano a che fare con un super soldato.
Capitan America era ancora vivo, da qualche parte sulle sponde del fiume Potomac; l’agente non perse tempo e diede immediatamente ordine a una squadra di andare a prenderlo.
«Quindici minuti» rispose la voce metallica nell’auricolare di Maria.
«Molto bene» approvò lei, interrompendo la comunicazione. Le sue dita tornarono sui comandi per aggiornare le direttive da inviare agli operativi.
Il super soldato sarebbe tornato presto al Triskelion.
 
«È Capitan America!»
«Rogers! Bentornato.»
«Capitano!»
«Steve, è un piacere vederti.»
Furono queste e altre le frasi che accolsero Steve Rogers al Triskelion. Le sue condizioni, come Maria ebbe modo di valutare a prima vista, non erano gravi: qualche ammaccatura qui e là, un labbro spaccato, un occhio nero. Il Soldato d’Inverno non si era risparmiato con lui, ma Maria conosceva la pasta di cui era fatto Steve. Ad ogni modo gli avrebbe ordinato una serie di esami medici – immaginava che Fury li avrebbe richiesti – così da togliersi qualsiasi dubbio.
Il super soldato si avvicinò all’agente dello S.H.I.E.L.D. con un’aria leggermente sbattuta e l’occhio spento, ma con un lieve sorriso a incurvargli le labbra. Aveva tutte le ragioni per sorridere: quella conseguita quel giorno era un’importante vittoria, ma non avevano che toccato la punta dell’iceberg.
«È andata bene» commentò con quell’espressione semplice e affabile che Maria aveva imparato a conoscere.
La donna gli rispose con un’alzata di sopracciglio.
«Il direttore Fury vuole vederti. Ci sono diverse cose di cui parlare» riferì, badando di essere lontana da orecchie indiscrete.
Maria sapeva di non dargli tregua, ma non potevano cullarsi nel precario senso di sicurezza fornito da quel successo. Gli Helicarrier erano stati distrutti, ma di certo quello non era l’unico asso nella manica dell’HYDRA. Inoltre il Soldato d’Inverno era ancora a piede libero e costituiva una minaccia non trascurabile.
Nonostante la stanchezza che Steve doveva provare, sorrise nuovamente.
«Dov’è?»
 
Il mondo pensava ancora che Nick Fury fosse morto ed era fondamentale che non si scoprisse il contrario: ciò garantiva loro almeno qualche passo di vantaggio sull’HYDRA e ne avevano un bisogno disperato, stante il modo efficace con cui i neonazisti si erano infiltrati nello S.H.I.E.L.D. Il direttore si sarebbe rivelato solo al momento opportuno e Natasha già immaginava le espressioni deformate dalla sorpresa che avrebbe trovato ad accoglierlo. Eppure lei, che lo conosceva bene da molto tempo, sapeva quanto fosse imprevedibile. Scoprendo che Nick era ancora vivo non si era sentita tradita come Steve, avendo compreso le ragioni del direttore. Eppure Rogers era un soldato, doveva avere una certa familiarità con le dinamiche di un esercito in guerra, che non erano tanto lontane da quelle di un’organizzazione spionistica come lo S.H.I.E.L.D. Ma, si disse ancora, a Capitan America mancava un’esperienza come quella che la Vedova Nera aveva fatto nel KGB. Dopo una cosa del genere, la fiducia nel prossimo diventava una favoletta per bambini.
Maria Hill era riuscita a recuperare Steve in tempi rapidi e, senza sprecarne di altro, lo aveva rimesso in sesto il tanto che bastava per metterlo in piedi di fronte al direttore Fury, in una località segreta e accessibile solo a loro. Natasha si trovava al suo fianco, con le braccia incrociate sotto al seno e un angolo delle labbra sollevato.
«È bello vedere che sei vivo, Steve» salutò.
Anche Fury si esibì in qualche frase di circostanza, ma i convenevoli non erano il suo forte, così tagliò corto rapidamente. A guardare la sua corporatura solida, parzialmente coperta dal consueto cappotto di pelle nera, sembrava che non avesse mai subito un intervento chirurgico.
«Dobbiamo metterci immediatamente al lavoro» stava dicendo l’uomo, con il suo tono pratico e spiccio. «L’HYDRA si è infiltrata nello S.H.I.E.L.D., Pierce e Sitwell non possono certo i soli. Dobbiamo passare al setaccio tutto ciò che sappiamo su ognuno dei nostri agenti.»
Mentre Fury proseguiva delineando ciò che aveva in programma, Natasha si ritrovò a riflettere su due dati. Il primo: il direttore Fury non era mai senza un piano; potevano avere appena risolto un problema che lui stava già pensando a come porre rimedio al successivo. Il secondo: Steve non sapeva dissimulare le emozioni. Lì, in piedi di fronte a lei, a Nick Fury e a Maria Hill, osservava il direttore con grande concentrazione, ascoltando parola per parola. Ma che il discorso di Nick non gli andasse completamente a genio era evidente: Natasha lo leggeva nella piega appena indurita delle labbra, nella tensione dei muscoli del collo, nella fronte increspata. Evidentemente però Steve era anche consapevole del fatto che si trovavano di fronte a una emergenza reale e così certe misure drastiche erano necessarie. Perciò non ribatté, lasciando che Fury terminasse di parlare senza interruzioni.
«È tutto» concluse il direttore.
Le due donne annuirono impercettibilmente, archiviando mentalmente le informazioni appena ricevute. Natasha si allontanò di un passo, ritenendosi congedata, quando Steve prese la parola.
«Notizie del Soldato d’Inverno?»
Seguì un prevedibile momento di silenzio. Fu Maria Hill a interromperlo, a un certo punto.
«No. Abbiamo perso le sue tracce.»
Rogers avanzò di un passo verso il direttore, opponendo la sua espressione seria a quella di Fury.
«Se sono vivo, è grazie a lui.»
«Capitano, so che James Barnes era un tuo amico…» iniziò l’altro, puntando l’unica pupilla sul viso di Steve. Quest’ultimo schiuse nuovamente le labbra per ribattere qualcosa, ma Fury lo anticipò, proseguendo la frase. «Ma quello che abbiamo di fronte non è più James Barnes. Il Soldato d’Inverno ha provato a ucciderti. A uccidere Natasha.»
La Vedova Nera si irrigidì appena. Non le piaceva essere chiamata in causa in quella vicenda, ma sapeva che Nick aveva ragione. Almeno in parte.
«Ma, quando l’Helicarrier è esploso ed è finito in acqua, è stato lui a trascinarmi sulla riva» insistette Capitan America, testardo. «So che in lui è riaffiorato qualche ricordo.»
Chi diavolo è Bucky? Nelle orecchie di Natasha risuonò la voce aspra del Soldato d’Inverno mentre si rivolgeva al suo vecchio amico.
«Non ne siamo certi» si oppose Fury, deciso a non demordere. «Quell’uomo ha subito decenni di lavaggi del cervello, la sua mente è stata gravemente danneggiata. Per lo S.H.I.E.L.D. è ancora un nemico.»
Lui e Rogers si osservarono in silenzio qualche attimo ancora, come a sfidarsi reciprocamente ad aggiungere qualcosa sull’argomento, ma nessuno dei due lo fece: il tono di Fury era stato troppo categorico.
«È tutto» ripeté il direttore.
Questa volta, Steve, Maria e Natasha girarono sui tacchi per lasciare la sala.
 
Erano trascorsi alcuni mesi dall’esplosione degli Helicarrier e dalla scoperta della minaccia dell’HYDRA. Come promesso dal direttore Fury, erano iniziate delle indagini molto approfondite su eventuali cellule naziste infiltrate nello S.H.I.E.L.D. ed erano già saltate le prime teste. Natasha non era coinvolta direttamente in quelle investigazioni e i suoi compiti non erano mutati particolarmente. Capitan America aveva continuato a fare domande sul Soldato d’Inverno, ma Fury era stato sempre categorico: non sapevano dove si trovasse e comunque lui era ancora un nemico dello S.H.I.E.L.D. – o almeno di quello S.H.I.E.L.D. che al momento esisteva solo sulla carta. Natasha non sapeva se il direttore stesse mentendo, se davvero non avessero localizzato Bucky Barnes o se quella fosse la versione per Rogers, in modo da stroncare in lui qualsiasi desiderio di cercare il vecchio amico. Dopo qualche tempo, poi, Steve aveva smesso di chiedere.
Natasha aveva altro di cui occuparsi e, quando venne convocata nella località segreta in cui si trovava Fury, pensò che si trattasse di qualche novità sui movimenti dell’HYDRA.
La porta automatica dell’ufficio si richiuse con un soffio dietro di lei, poi la luce di fianco all’interruttore divenne rossa. Inarcando un sopracciglio, la Vedova Nera prese ad avanzare verso la scrivania del direttore. Su di essa erano stati disposti alcuni fascicoli con impresso il sigillo dello S.H.I.E.L.D.; alcuni fogli, pinzati con delle graffette alle copertine di cartone, facevano capolino da esse.
«Siediti, Romanoff» la accolse la voce ruvida di Fury.
Natasha obbedì, prendendo posto su una delle sedie in acciaio e velluto che si trovavano di fronte alla scrivania, e accavallò le gambe.
«Di cosa si tratta?»
Avrebbe anche potuto ingannarsi, ma le parve di leggere qualcosa nell’attimo di esitazione di Nick. Poi le dita del direttore raggiunsero il monitor del suo computer per ruotarlo verso la donna. I suoi occhi videro delle fotografie aeree di alcuni bunker e capannoni: alcune erano recenti, altre sembravano vecchie di qualche decennio.
«Quelli che vedi nelle immagini sono vecchi depositi risalenti alla Guerra Fredda e ufficialmente abbandonati dagli anni Cinquanta. Nei giorni scorsi però è stata registrata dell’attività intorno a essi. Non sappiamo ancora se è stato trafugato qualcosa, ci stiamo lavorando.»
Lo sguardo di Natasha si spostò dal monitor del computer al volto di Fury. La benda che gli copriva un occhio sembrava il sigillo di una maschera impossibile da incrinare.
L’indice della mano destra del direttore premette un tasto sulla tastiera e le immagini sullo schermo vennero sostituite da quello che sembrava il fotogramma di un video. Era un po’ sgranato, ma i lineamenti dell’uomo immortalato erano abbastanza riconoscibili.
«Leonid Novokov.» Fury fece una pausa, forse aspettandosi una qualche reazione da parte di Natasha, ma la donna non batté ciglio.
«Dovrei forse conoscerlo?» ribatté, secca. Quella convocazione stava prendendo una piega che non le piaceva particolarmente e Fury non era ancora arrivato al punto. Il fatto che ci fossero di mezzo dei depositi utilizzati durante la Guerra Fredda poi non prometteva niente di nuovo. Natasha ruotò appena il viso in una posa diffidente.
«Potresti non ricordare questo nome o questo volto, ma Novokov è stato addestrato nella Stanza Rossa. Come te.»
Nessun muscolo volontario della Vedova Nera tradì alcuna reazione. Solo, poco dopo, un fremito sotto l’occhio sinistro, appena percepibile.
Красная Kомната, la Stanza Rossa, era il luogo in cui il KGB aveva addestrato, durante la Guerra Fredda, bambini, ma soprattutto bambine, per farne degli agenti che sarebbero stati utilizzati dallo spionaggio russo. Era stato lì, dopo un lungo e feroce addestramento, dopo numerosi lavaggi del cervello ed esperimenti genetici, che Natasha Romanoff era stata trasformata nella Vedova Nera.
Gli scienziati del KGB avevano avuto l’obiettivo di creare delle macchine da guerra praticamente perfette, senza famiglia, ricordi o scrupoli, fedeli solo all’URSS. Natasha aveva dei ricordi frammentati e distorti di ciò che era accaduto all’epoca: per lungo tempo aveva creduto di studiare danza classica. Sapeva di aver fatto delle cose terribili, prima di unirsi ai Vendicatori; non le piaceva ripensare a quel periodo.
«Quindi cosa dovrei farci, con questo Novokov?» Natasha arretrò col busto fino a raggiungere lo schienale della sedia e incrociò le braccia sotto al seno. La voce avrebbe voluto risuonare sicura e salda come sempre, ma un udito molto allenato avrebbe colto una sottile nota di nervosismo.
Fury proseguì, ignorando la domanda.
«Novokov è uno dei dormienti» specificò, «agenti come il nostro amico Soldato d’Inverno, ficcati dal KGB in una camera di stasi e ripescati quando dovevano svolgere qualche missione. A quanto pare, la camera di stasi che ospitava Novokov è andata distrutta dieci anni fa in un terremoto. Non avevamo idea di che fine avesse fatto l’uomo, poteva anche essere morto, per quanto ci riguarda. Finché non è spuntata questa.»
Con l’indice, Fury picchiettò con impazienza sul monitor.
«Novokov è ancora vivo e, a quanto pare, interessato a vecchi depositi del KGB. Stiamo facendo qualche ipotesi sul perché gli interessino, ma converrai che anche senza saperlo, la cosa non promette nulla di buono.»
Dentro di sé, Natasha conveniva. Ma non voleva avere più nulla a che fare con i servizi segreti russi, con la guerra fredda e con chiunque fosse fuggito dalla Camera Rossa. Ne aveva abbastanza di quel passato, così remoto che ormai sembrava appartenere a un’altra vita, e non aveva nessuna ansia di riviverlo.
«Non ho idea di dove trovare Novokov» rispose, come se questo potesse chiarire che non sarebbe stata di nessuna utilità.
«Non mi aspettavo nulla del genere.» La sedia di Fury arretrò sul pavimento lucido dell’ufficio e l’uomo si alzò. «Ma c’è qualcuno che potrebbe saperlo.»
Natasha si alzò a sua volta, aggrottando le sopracciglia con aria interrogativa.
«Il Soldato d’Inverno.» 



NdA: Eccomi qua, dopo un lungo periodo di assenza da EFP. Complice la mia fuga al Lucca Comics e l'acquisto della serie de "Il Soldato d'Inverno", mi sono messa a scrivere questa FF che trae in parte ispirazione dal fumetto. Il personaggio di Leo Novokov infatti è tratto da lì, sebbene le sue motivazioni e la vicenda che costituisce la trama di questa storia siano una mia invenzione per conciliare il comicverse al movieverse.
       

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Una folata di vento gelido aggredì il cappotto che copriva la figura di Natasha fino a metà polpaccio. Le dita della donna si strinsero intorno al bicchiere di carta che conteneva il suo caffè e ne prese un sorso. Abbassò lo sguardo sull’orologio legato al polso e sciolse le gambe intrecciate.
Dopo qualche istante, il telefono ficcato nella tasca del cappotto iniziò a vibrare. Natasha affondò la mano per portarselo un attimo dopo all’orecchio.
«Direttore Fury.»
«Una lista di indirizzi ti aspetta in una località protetta. A breve ti manderò le coordinate» esordì in tono pratico il capo dello S.H.I.E.L.D.
Natasha fece una pausa.
«Dunque sapevate fin dall’inizio come trovarlo» obiettò dopo un po’, indecisa se esprimere sorpresa o scetticismo. E Steve era stato volutamente tenuto all’oscuro di tutto.
«Certo che sì.» A sentirlo, sembrava quasi che Fury avesse percepito il pensiero inespresso della Vedova Nera. «Come è stato detto anche a Rogers, doveva essere considerato un nemico dello S.H.I.E.L.D.»
«Finché non vi è servito per arrivare a Novokov.»
Era tipico di Nick Fury: nessun agente dello S.H.I.E.L.D. sapeva con esattezza cosa facevano gli altri, né tantomeno di quante informazioni disponesse il direttore. Il sistema funzionava in quel modo e, a sentire il suo capo, non poteva esistere un modo diverso. Era così che Fury proteggeva l’organizzazione. Ora che un’organizzazione ufficiale non esisteva più, tutto questo riserbo appariva necessario. Ciononostante, in quel momento a Natasha sembrò di riuscire a condividere il pensiero di Capitan America su tutta quella segretezza: Fury poteva anche agire per il bene comune, ma alla fine erano tutti pedine nelle sue mani. O almeno era così che lei si sentiva in quel momento.
Lei, il Soldato d’Inverno, erano tutti ingranaggi di un meccanismo ben oliato da una mano sapiente.
«Ricorda quello che ti ho detto, Romanoff.» Il direttore proseguì come se non avesse udito la sua osservazione pungente. «Ti è stata affidata una missione della massima segretezza. Continueremo a muoverci su un campo minato finché non sapremo di chi possiamo fidarci.»
Natasha non era certa se Fury si riferisse al Soldato d’Inverno o alle infiltrazioni dell’HYDRA nello S.H.I.E.L.D.
«Mi sto muovendo con cautela» rispose senza scomporsi, arricciando appena le labbra carnose. «Nessuno sa cosa sto facendo.»
Era quella la ragione, tra le altre, per cui per comunicare con Fury si avvaleva di una linea irrintracciabile estranea a quelle usate dallo S.H.I.E.L.D.
«Non deve saperlo nemmeno il Capitano. Soprattutto lui. È chiaro?»
Natasha trattenne un sospiro.
«Cristallino.»
«Molto bene. Ti ho inviato le coordinate. Quanto tempo ti occorre arrivare?»
Alla Vedova Nera bastò una rapida occhiata alla schermata del telefono, poi al quadrante del suo orologio.
«Un’ora.»
 
Uscendo dal Parco Giochi, una delle ultime roccaforti dello S.H.I.E.L.D., Natasha stringeva in pugno una penna USB contenente tutte le informazioni che Fury era riuscito a procurarle avvalendosi delle risorse dell’organizzazione. Era incredibile quanto a fondo potessero scavare nelle vite delle persone. Persino il Soldato d’Inverno, che in tutti quei decenni era stato da più parti definito un fantasma, ora era diventato potenzialmente rintracciabile. Le informazioni su di lui erano iniziate a spuntare fuori da quando lui si era fatto vedere a New York e si era reso riconoscibile.
I documenti conservati nella pennetta di Natasha servivano a ricostruire tutta la vita di Barnes fino al momento della sua presunta morte: il quartiere d’origine, la base militare di Fort Lehigh, la carriera nell’esercito, le amicizie che aveva stretto in quel periodo e le missioni a cui aveva partecipato al fianco di Capitan America. Gli occhi della Vedova Nera continuavano a vedere il volto impresso sulla fotografia in bianco e nero del suo fascicolo, così diverso da quello con cui l’uomo li aveva affrontati qualche mese prima.
Natasha aveva passato in rassegna la lista di indirizzi fornitale da Fury: vecchi amici, colleghi, lontani parenti. Alcuni di quei luoghi erano stati già controllati dallo S.H.I.E.L.D.  quando Barnes era stato considerato una minaccia, ma valeva la pena dare una nuova occhiata. La ricerca sarebbe potuta risultare più o meno lunga, a seconda della fortuna che avrebbe avuto. Ma Natasha non credeva nella fortuna, così tanto valeva mettersi all’opera.
 
Negli ultimi giorni, Natasha aveva monitorato l’attività intorno alle abitazioni di soggetti che erano stati vicini a Bucky Barnes alla ricerca di tracce del Soldato d’Inverno. La sua osservazione era stata infruttuosa, non che la donna avesse nutrito speranze circa il contrario: con che faccia avrebbe potuto presentarsi ai loro usci un ex soldato che era stato dato per morto, un ex agente del KGB, specialmente dopo i fatti di cui si era reso protagonista, tornando alla ribalta della cronaca insieme all’HYDRA?
Natasha aveva sopportato lunghi appostamenti privi di risultato, resi più frustranti dal fatto che lei doveva occuparsi da sola di tutti gli incarichi che, se avessero fatto parte di una missione ufficiale dello S.H.I.E.L.D., sarebbero stati affidati a più agenti. Aveva fatto però ogni cosa con la pazienza incrollabile che l’aveva consacrata a una delle migliori spie che la Russia avesse mai avuto.
Una pazienza, si riscoprì a riflettere, che rappresentava una delle risorse fondamentali anche per un cecchino. Ma nel momento stesso in cui formulò quel pensiero, si sforzò di ricacciarlo in un angolo recondito della sua mente. Doveva concentrarsi sulla missione affidatale da Fury, non perdere tempo in inutili congetture.
La svolta intervenne nella tarda mattinata di una giornata di dicembre.
Il sergente Jonathan Walker era stato molto amico di James Barnes e Steve Rogers ai tempi della guerra, c’era una lunga serie di fotografie e lettere a confermarlo. Negli ultimi tempi, il signor Walker aveva goduto di cattive condizioni di salute, finché, una notte, un’ambulanza non era andata a prenderlo nella sua abitazione. Successivamente l’uomo era stato ricoverato in ospedale e in una casa di cura; a quanto pareva in città non viveva alcun parente, così la casa era rimasta chiusa e vuota.
Una situazione ottimale per un conoscente senza un posto dove andare.
 
Il fiato di Natasha si condensò in una nuvoletta perlacea, appena visibile sullo sfondo nero dell’edificio attiguo. Il buio calava presto, in quelle giornate d’inverno, ma non era mai assoluto, rischiarato dalle luci della periferia. La spia però sapeva bene come muoversi tra le ombre, evitando i fasci luminosi emanati dai lampioni, dalle finestre dei palazzi, dalle insegne al neon dei locali e dei supermercati aperti ventiquattro ore su ventiquattro.
L’indirizzo del signor Walker era impresso a fuoco nella sua mente; con una serie di lunghe falcate raggiunse il portone del palazzo. Niente portiere o viavai di abitanti, solo un androne stantio di muffa e ricoperto di mattonelle sbeccate.
Natasha si infilò rapidamente nella tromba delle scale, tenendosi lontana dagli usci che si affacciavano sui vari pianerottoli nel caso in cui si fossero aperti all’improvviso, persino a quell’ora di notte.
Seguendo le indicazioni che aveva letto nei file contenuti nella penna USB datale da Fury, Natasha si fermò di fronte a una porta dalla vernice scura leggermente scrostata. L’odore di muffa che proveniva dall’androne si avvertiva ancora più forte in quella parte del palazzo. Era davvero una beffa che un soldato decorato che aveva combattuto la Seconda Guerra Mondiale si fosse trovato a finire i suoi giorni in un luogo così squallido. Né Natasha aveva motivo di credere che la casa di cura in cui era stato ricoverato fosse in condizioni migliori.
La Vedova Nera controllò ancora una volta il perimetro, poi tornò ad avvicinarsi all’uscio. La sua mano guantata avvolse il pomello della porta e lei diede una leggera spinta. La serratura presentava tracce di scasso, sebbene abilmente mascherate. Il sangue iniziò a fluire più rapidamente mentre tutti i sensi dell’agente si tendevano, in previsione di ciò che sarebbe seguito di lì a poco.
Natasha spinse via la porta con la mano libera, mentre l’altra impugnava la pistola, disegnando un sottile spicchio di luce fioca sul pavimento. Quando se la richiuse alle spalle, questa non emise nemmeno un sussurro. Nel silenzio della stanza, il familiare rumore meccanico del cane di una pistola risuonò nettamente.
La donna, che ancora mostrava la schiena a una stanza immersa nell’oscurità, non si mosse.
«Abbassa quell’arma, Barnes. Non ce n’è bisogno.»
Non le rispose alcun movimento.
Non era la prima volta che Natasha si sentiva nel mirino del Soldato d’Inverno; tempo addietro lui non avrebbe avuto alcuna esitazione a premere il grilletto e a eliminare ciò che poteva ridursi a una variabile non considerata all’interno dei suoi piani. Forse Rogers aveva ragione, pensò: forse James aveva davvero iniziato a ricordare qualcosa.
Ruotò pian piano su se stessa, senza movimenti bruschi che potessero allarmare il Soldato d’Inverno. Tuttavia la mano destra stringeva saldamente la sua arma e non l’avrebbe lasciata andare prima di avere la certezza che Barnes avrebbe fatto lo stesso.
Anche lei, in passato, avrebbe prima sparato, poi fatto domande. Ma aveva abbandonato quella vita da molto, molto tempo. Quella sera aveva una missione: l’uomo non era il suo nemico, ma l’oggetto del suo incarico. Non dovevano esserci sprechi di piombo, a meno che non si fosse rivelato strettamente necessario.
La figura di Bucky era immersa nella penombra, solo il suo braccio meccanico risaltava nell’oscurità, riflettendo la debole luce che filtrava dalle finestre. Il resto della figura era vestita completamente di nero e il viso era parzialmente nascosto dai capelli scuri. La protesi bionica sembrava quindi quasi sospesa nel vuoto, con quella spettrale stella rossa dipinta sulla spalla.
Il braccio destro, quello che conservava ancora qualche traccia di umanità, era teso di fronte a lui e impugnava la pistola mirando alla sua testa.
«Barnes. Abbassa l’arma» ripeté senza incrinare il tono. «Sono qui per parlare.»
Il Soldato d’Inverno rimase in quella posizione rigida, ma non sparò. Natasha immaginò quindi che le avrebbe concesso il tempo di spiegarsi.
«Chi sei?» domandò una voce gutturale e impastata.
La domanda non era di facile risposta. Natasha era così tante cose che in alcuni momenti aveva perso di vista se stessa. Nel tempo si era evoluta, diventando a ogni decade la versione migliorata di se stessa, almeno secondo i parametri della gente per cui lavorava. Era stata un’assassina del KGB, una spia russa durante la Guerra Fredda. Era un agente dello S.H.I.E.L.D. e un membro dei Vendicatori. Ma nessuna di quelle risposte, isolatamente presa, era esaustiva. Né il loro insieme valeva a definirla correttamente.
Ma esisteva davvero una definizione corretta per lei? A volte Natasha se lo chiedeva.
«Puoi abbassare quella pistola, Barnes» ripeté per la terza volta. «Lo S.H.I.E.L.D. ha bisogno di te, sono qui per chiedere il tuo aiuto.»
Esisteva ancora uno S.H.I.E.L.D. che potesse avere bisogno di qualsiasi cosa? Natasha archiviò la domanda; non le importava cosa si diceva in giro, Fury era ancora vivo e con lui anche l’agenzia segreta.
Il pugno del Soldato d’Inverno rimase sospeso a mezz’aria, ma poi, dopo qualche istante, iniziò ad abbassarsi gradualmente. Lo sguardo dell’uomo tuttavia rimaneva vigile e determinato, la scrutava in quel modo implacabile che Natasha aveva già sperimentato.
«Lo S.H.I.E.L.D.?» ringhiò, aggrottando la fronte, parzialmente nascosta dai capelli scuri. «Pensavo che avrebbe preferito vedermi morto.»
Natasha si riscoprì a inarcare le sopracciglia e sollevare lo sguardo. Non era totalmente falso, lei non dimenticava il tono duro con cui Fury aveva impartito i suoi ordini circa il Soldato d’Inverno. Tuttavia alcune cose erano cambiate e Barnes doveva saperlo.
«Abbiamo bisogno di trovare un uomo e crediamo che tu possa darci una mano.»
Nel silenzio risuonò un suono basso e roco e solo successivamente Natasha si accorse che James stava ridendo.
«Dovete essere disperati se avete bisogno chiedere il mio aiuto.»
Lo erano, ammise a se stessa la Vedova Nera, ma omise di dargli ragione così apertamente.
«Leonid Novokov. Questo nome ti dice qualcosa?»
Barnes tacque e aggrottò ulteriormente la fronte. Stringeva ancora la pistola, ma Natasha non era più sotto tiro.
«Dovrebbe?» rispose. Ma a giudicare dalla leggera incrinatura del tono, era proprio così.
«È fuggito quando la camera di stasi in cui si trovava è andata distrutta in un terremoto. È stato addestrato nella Stanza Rossa, come me. Ci hai addestrati entrambi, Barnes. Non ricordi?»
Lo aveva fatto. Aveva aperto le porte a un passato che per metà della sua vita si era impegnata a tagliare fuori.
La prevedibile reticenza con cui aveva accolto la missione assegnatale da Fury tornò a manifestarsi e le incollò la lingua al palato. Ora che si trovava di fronte a James, tutto ciò che aveva vissuto in Russia sembrava di nuovo così vivido, nonostante i lavaggi del cervello ai quali era stata sottoposta le avessero messo davanti agli occhi una realtà fittizia.
Se serrava le palpebre, rivedeva una versione più giovane di se stessa, con indosso un tutù e un body teso sulle sue forme ancora acerbe, intenta a eseguire un pas assemblé al Teatro Bol'šoj. Ma a volte la sua memoria veniva come strappata, riportando brandelli di una realtà diversa che era ermeticamente racchiusa nel suo subconscio. E allora non ascoltava più le note di un piano, ma solo voci impostate, rumore di spari, colpi secchi. Ricominciava persino a provare dolore, nonostante le percosse e le lesioni subite fossero ormai remote nel tempo.
Natasha avrebbe preferito che i processi di cancellazione della memoria che aveva subito ad opera del KGB fossero stati definitivi. Invece, come aveva avuto modo di accorgersi, la vera lei restava da qualche parte, nascosta e quasi soffocata dalla personalità soverchiante che le avevano attribuito, ma pronta a riaffiorare, portandosi dietro il peso dei ricordi che era riuscita a preservare.
Con i ricordi, riaffiorava la coscienza, e con essa altro dolore, insieme ai sensi di colpa.
Nick Fury e Steve Rogers potevano dire tutto ciò che volevano sul conto del Soldato d’Inverno, ma nessuno di loro avrebbe saputo veramente cosa aveva vissuto, cosa gli era successo. Natasha, invece, sapeva, perché era accaduto anche a lei.
Non aveva mai staccato gli occhi da Barnes, in attesa di registrare anche la più piccola reazione da parte sua. Aveva portato l’uomo a un bivio, lo stesso al quale lei era stata condotta da Fury. Ricordare o rifiutare. Collaborare con lo S.H.I.E.L.D. o cercare l’oblio.
Natasha non aveva mai avuto una scelta reale. L’organizzazione le aveva fornito tutto ciò di cui aveva bisogno per mettersi alle spalle il passato nei servizi segreti russi.
Se ciò che immaginava su di lui era esatto, nemmeno Barnes avrebbe avuto una scelta. La proposta di Natasha era pura formalità.
«Sì, ricordo» rispose dopo un po’ il Soldato d’Inverno, a voce così bassa che la Vedova Nera ebbe quasi difficoltà a udirla.
Entrambi si erano lasciati quel bivio alle spalle.


NdA: rieccomi con il secondo capitolo di questa storia. Qui ci sono alcuni elementi tratti dalla prima stagione di Agents of S.H.I.E.L.D. (come il Parco Giochi) e dai fumetti. Nei numeri de "Il Soldato d'Inverno" si legge del passato di Bucky e Natasha, della Stanza Rossa e di ciò che è accaduto nella divisione scientifica del KGB. Si tratta di elementi che mi hanno colpita moltissimo, perciò ne infilerò qualcuno anche nei prossimi capitoli.
Un ringraziamento a chi legge e recensisce questa fic!

 

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Capitolo 3
*** Capitolo 3 ***


«Croisé en avant» declamò una voce, secca come il rumore dei suoi passi prodotto sul parquet.
Tante gambette sottili si tesero come mosse da un’unica molla, andando a incrociare l’altra di sostegno. Nell’ampia sala si produsse una serie di sussurri di raso e tulle. Poi, uno schiocco secco.
«Solleva quel braccio!» La verga di legno si abbatté di nuovo sulla mano della giovane ballerina, mentre questa tratteneva a stento un lamento. «Sei sciatta in maniera insopportabile. Fammi vedere un arabesque, allora.»
La voce dell’istruttrice era aspra, ruvida come carta vetrata. Le sue dita si strinsero con forza intorno ai polsi dell’allieva, correggendo anche quella posizione.
«Non ci siamo.» La verga calò di nuovo con uno schiocco. «Ripeti.»
Il volto della ragazza era imperlato di sudore, ma dalle sue labbra non uscì un gemito.
I muscoli dorsali si disegnarono sotto la pelle mentre eseguiva di nuovo l’esercizio.
«Ripeti.»
Le braccia si fletterono mentre un busto più tornito si sollevava dal pavimento, come per eseguire una flessione. Le nocche erano spellate, dalla bocca della ragazza gocciolò del sangue.
«Di nuovo.» Questa volta la voce era quella di un uomo.
La giovane si sollevò con uno scatto repentino; le sue labbra si schiusero per lasciare sfuggire un mezzo ruggito dettato dall’impeto, la sua gamba eseguì una spazzata, intercettando lo stinco dell’istruttore. Qualcosa calò dall’alto: un gomito aguzzo e freddo come l’acciaio colpì in mezzo alle sue scapole, le sue arcate dentali andarono a sbattere l’una contro l’altra.
«Non fermarti.» Il tono dell’istruttore era instancabile.
La sua allieva, invece, era provata; nella bocca avvertiva l’acidulo sapore del sangue e le contusioni che si era procurata nei giorni precedenti avevano ripreso a tormentarla con l’indolenzimento e il dolore. Ma gli ordini erano stati chiari, così, nonostante sentisse i polmoni in fiamme, si gettò in un secondo attacco senza fare una piega. Non c’era spazio per le esitazioni, né per i ripensamenti.
Il braccio nudo della ragazza impattò violentemente con quello bionico dell’istruttore.
 
Una mano callosa, con il dorso percorso da spaccature rossastre causate dal freddo, grattò distrattamente un mento ricoperto da una barba ispida. Leo stese il giornale di fronte a sé, le pagine si spiegarono con un crepitio soffocato. I suoi occhi iniziarono a scorrere rapidamente i titoli in cirillico degli articoli; la sua mente formulava sempre lo stesso pensiero: era tutto così diverso rispetto a come lo ricordava.
La data stampata sulla prima pagina gli ricordava che erano trascorsi già dieci anni da quando si era risvegliato, eppure aveva preso a misurare il tempo solo di recente. Subito dopo essere fuggito dalla camera di stasi in cui era stato conservato, i giorni, le settimane, i mesi, erano sembrati tutti uguali gli uni agli altri. Identici nel vortice di follia e incoerenza in cui lo avevano trascinato.
Quando il vetro che proteggeva la sua forma dormiente si era crepato, andando in frantumi, aveva svelato agli occhi di Novokov un mondo che non era quello che aveva lasciato l’ultima volta che aveva chiuso le palpebre. Era completamente diverso da ciò che aveva conosciuto, i suoni, gli odori, i sapori erano nuovi, persino respirando l’aria ne riceveva l’impressione che avesse ormai una consistenza diversa. Spaesato e con indosso i vestiti di un altro – la guardia del sito, che aveva ucciso con le sue mani – era riuscito a tornare in città, ma era stato peggio. Non era stato in grado di trovare il quartiere in cui era cresciuto, di riconoscere le strade e i negozi. Ovunque era pieno di schermi che trasmettevano immagini colorate di donne dai capelli fluenti e abiti succinti e uomini dalle camicie aperte sui petti glabri che, sulla base di qualche musica martellante e ossessiva, mostravano dei prodotti pronti all’acquisto e assolutamente superflui. I giovani che camminavano sui marciapiedi portavano tute da ginnastica e catene d’oro appese al collo, come le persone sugli schermi. Le radio delle loro auto avevano il volume al massimo mentre loro abbassavano i finestrini in prossimità dei semafori per scambiarsi sguardi e risate.
Sembravano tutti così americani. Leo non poteva crederci: allora era accaduto ciò che più dovevano temere, quello contro cui avevano combattuto. Il diavolo americano aveva vinto, con il suo consumismo, i suoi sorrisi troppo bianchi per essere veri e i suoi orribili vestiti alla moda?
Quando era successo? Come?
Era stato a quel punto che Leo si era chiesto per quanto tempo era rimasto addormentato, ma subito dopo si era reso conto che cercare una risposta a quella domanda non aveva alcun senso. Che importanza poteva avere? Aveva fallito, avevano perso, e non aveva la più pallida idea di che genere di mondo fosse quello in cui si era ritrovato.
Le persone che conosceva erano morte o si erano convertite al demone americano, la sua casa non c’era più. Leo non aveva né un lavoro, né una famiglia.
Era finito allora nell’unico posto che era stato disponibile a prenderlo: i bassifondi della città. Uno scatolone di cartone sudicio era diventato il suo letto, aveva dovuto lottare e uccidere per assicurarsi il posto più riparato, più vicino ai copertoni dati alle fiamme, che diffondevano nell’aria un insopportabile odore di plastica bruciata, ma almeno riuscivano a riscaldare le terribili notti russe.
L’alcol era diventato il suo compagno fisso e, da quando Leo aveva scoperto la vodka a buon mercato, il suo alito era perennemente rancido. Ma nemmeno quelle cose avevano importanza, non più.
Aveva preso a vagare nei bassifondi della sua esistenza senza sapere bene cosa fare, ora che non aveva più uno scopo e non riconosceva più nulla intorno a sé. Poi un giorno era passato per caso di fronte a un negozio di elettrodomestici. L’insegna al neon che incombeva sulla porta era malmessa: un paio di lettere erano fulminate. Un uomo all’ingresso fumava e la brace della sua sigaretta risplendeva come lava mentre piccole nubi di fumo si sollevavano dalla sua bocca. Dietro una vetrina sudicia erano esposti alcuni televisori. Leo non aveva mai avuto interesse in simili oggetti, erano il demonio: veicolavano nelle case della gente immagini legate alla cultura americana, mostravano un’esistenza patinata dall’altro capo del mondo, artefatta, fittizia, dal sapore di plastica e tessuti pregiati. Eppure la gente credeva nelle favole che vedeva dentro lo schermo, si convinceva che quella era la vita a cui doveva aspirare, che doveva emulare. Leo era convinto che i giovani perdigiorno vestiti all’americana, che spendevano i pochi soldi delle loro famiglie per avere oggetti griffati all’ultima moda, sottraendo il pane ai propri genitori e ai propri fratelli, fossero il frutto di ciò che guardavano in televisione. Senza quell’elettrodomestico, in buona sostanza, la Russia sarebbe stata molto meglio.
Quel giorno, quindi, Leo camminava con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni consunti – si era categoricamente rifiutato di portare dei jeans – e la testa incassata tra le spalle, tirando dritto senza guardare gli schermi luminosi nella vetrina del negozio. Tuttavia a un certo punto, con la coda dell’occhio, aveva notato qualcosa. Qualcosa di stranamente familiare.
Era prima volta che capitava una cosa del genere da quando si era risvegliato, così si era fermato e si era voltato verso il negozio: non aveva potuto farne a meno. Le televisioni erano sintonizzate tutte sullo stesso canale e trasmettevano le medesime immagini. Doveva trattarsi di un servizio di un telegiornale o di qualcosa di simile; la videocamera del reporter era riuscita a rubare delle immagini di uno scenario post apocalittico o quasi. Leo si avvicinò ulteriormente, appoggiando un palmo al vetro. Vide un ponte sospeso sul mare e tante automobili moderne, compresse come sardine in una scatoletta. C’era stato un incidente che aveva coinvolto tanti veicoli, dalle cui carrozzerie si sollevavano sbuffi di fumo. L’asfalto era crepato in più punti, la gente che era riuscita a sfuggire dagli abitacoli accartocciati sembrava in preda al panico; c’era chi si teneva la fronte sanguinante, chi stringeva un braccio al petto, chi si comprimeva il ventre e serrava gli occhi per la paura e il dolore. Alle spalle di quella gente, alcuni individui si stavano scontrando. Il giornalista strinse sulle loro figure e a Leo parve di scorgere la chioma rossa di una donna e uno scudo circolare dipinto con i colori della bandiera americana. Poi, a pochi passi da loro, un uomo vestito di nero, con il volto parzialmente nascosto e il braccio meccanico sollevato, pronto a riprendere l’attacco contro gli altri due.
«Il Soldato d’Inverno» aveva allora mormorato Leonid. Poi il tizio che fumava sulla soglia gli aveva ingiunto di andarsene se non voleva comprare niente.
Quella visione era stata per Novokov ispirante al pari di una rivelazione. Allora non tutto era perduto, anche se gli Americani avevano vinto. Qualcuno di loro era rimasto in vita, e non si trattava di un qualcuno qualsiasi, ma del migliore di tutti. Era stato lui a rendere Leonid l’assassino infallibile che aveva operato al servizio del KGB, praticamente gli doveva tutto.
In quel momento, il Russo aveva deciso che se valeva ancora la pena di combattere per qualcosa, lui lo avrebbe fatto.
Da quando aveva visto quel servizio in televisione, Leo aveva passato tutto il tempo a prepararsi. Doveva essere pronto, anche se naturalmente non poteva fare tutto da solo.
Ma era stato in grado di fare molto: aveva individuato i vecchi siti utilizzati durante la Guerra Fredda, erano tutti abbandonati, ma in alcuni erano ancora conservate delle armi e ciò che lui bramava di più: le informazioni. Leo aveva utilizzato i vecchi codici di cui era stato in possesso quando era un agente del KGB e aveva preso tutto ciò che gli serviva. Ora doveva solo trovare il Soldato d’Inverno, per unire la propria missione alla sua.
Ecco perché Leo aveva preso l’abitudine di sfogliare quotidianamente i giornali. Aveva ancora qualche problema con la televisione, ma doveva tenersi aggiornato su ciò che accadeva. Aveva ripreso la coscienza di sé e dell’epoca in cui si trovava: sarebbe stato il suo nuovo campo di battaglia. Si aspettava, un giorno di quelli, di individuare in mezzo alle pagine di un quotidiano la fotografia del Soldato d’Inverno. Ma ancora non era accaduto.
 
«Leonid Novokov» ripeté Barnes.
Non manifestò sorpresa all’idea che fosse ancora vivo, ma Natasha non se ne stupì. Del resto in teoria non doveva esserlo nemmeno il Soldato d’Inverno. In teoria.
James non aveva dato segno di riconoscerla, se non per la donna che lo aveva affrontato di recente insieme a Capitan America, ma la Vedova Nera sapeva che c’era dell’altro a legarli. Era questa, immaginò, la ragione che la spingeva ad alzare gli occhi su di lui ogni volta che l’uomo guardava altrove, ad osservarlo avidamente alla ricerca sul suo viso di qualsiasi segnale potesse suggerirle che il passato stava riaffiorando nella sua mente.
Entrambi, nella Camera Rossa, avevano subito diversi lavaggi del cervello. La loro memoria era stata resettata più e più volte, nelle loro teste erano state infilate tutte quelle idee in cui il KGB voleva che credessero. Ma da quando Natasha era riuscita a sfuggire ai Russi, si era lasciata pian piano tutto alle spalle e la vera lei era tornata ad affiorare. Per quanto riguardava Bucky, probabilmente lo stesso processo era in corso da quando aveva incontrato Steve.
Quando il Soldato d’Inverno l’aveva addestrata, laggiù in Russia, Natasha non aveva avuto idea che si trattasse dello stesso amico d’infanzia di Capitan America. A dire il vero, all’epoca la ragazza non aveva saputo niente nemmeno sul conto di quest’ultimo. Ma quando, qualche mese prima, lei e Rogers si erano trovati ad affrontare la nuova minaccia, aveva scoperto la collisione tra due mondi, tra due epoche, due storie.
Per lungo tempo, Natasha si era sforzata di dimenticare il suo passato nei servizi segreti russi e tutto ciò che esso comportava. Ma adesso la necessità di collaborare con James le aveva fatto realizzare quanto inutilmente si fosse impegnata: il passato trovava sempre un modo per riaffiorare, prima o poi.
«Cosa vi fa credere che io sappia dove trovarlo?»
La voce del Soldato d’Inverno la strappò da quella serie di riflessioni.
Da quando si era introdotta in casa del signor Walker, James non si era mai rivolto a lei personalmente, ma parlava sempre al plurale, come se oltre a Natasha in quella stanza si trovasse almeno metà degli agenti che lavoravano per lo S.H.I.E.L.D.
«Sei la cosa più vicina a Novokov che abbiamo» rispose semplicemente, infilando una ciocca di capelli rossi dietro l’orecchio.
Le rispose il sogghigno sprezzante dell’uomo.
«Non è che siate messi molto bene. Non vedo Novokov da dieci anni almeno.»
Non era certo un buon punto di partenza, ma in qualche modo dovevano riuscire a rintracciarlo. Sarebbe stato molto più difficile ora che non avevano libero accesso ai sistemi dello S.H.I.E.L.D., visto che la missione andava svolta nel più assoluto riserbo, ma Fury confidava in lei e Natasha non lo avrebbe deluso.
«C’è un computer in questa casa?»
Data l’età del proprietario, non era così scontato. Ma James si scostò dal tavolo sul quale si era appoggiato a braccia conserte e la guidò nella stanza a fianco. A giudicare dalla sicurezza con cui si muoveva, doveva essere lì da un po’.
Il salotto aveva proprio l’aspetto che Natasha aveva immaginato pensando a un vecchio militare. C’era un divano spazioso con la seduta affossata, un tappeto che dava un aspetto stantio a tutta la stanza e un tavolino. Niente centrini o altri elementi che facessero pensare a una donna, Walker era vedovo. Sul mobile sotto la finestra però c’erano tante fotografie che ritraevano degli uomini in divisa e una teca di vetro che proteggeva delle medaglie e una bandiera americana ripiegata.
Di fronte al tavolino c’era una televisione e, sulla destra, un mobile con un computer. Walker doveva avere dei nipoti che venivano a trovarlo.
Natasha prese posto di fronte allo schermo e lo accese, avvertendo la presenza di James che incombeva alle sue spalle, silenzioso e scuro come un corvo. Infilò la penna USB e iniziò ad aprire alcuni files.
«Questo è ciò che abbiamo» spiegò.
Mostrò a James le fotografie del bunker e i fotogrammi della videocamera che aveva ripreso Novokov, nonché il fascicolo di quest’ultimo.
«Cosa c’era in quel magazzino?»
«Sei stata un agente del KGB, dovresti saperlo.»
Natasha ruotò appena il collo e sollevò lo sguardo. Il volto di James era duro come al solito, ma un angolo delle labbra era sollevato in una smorfia irriverente. Teneva ancora le braccia incrociate sul petto, come a voler mantenere una barriera tra di loro, e la stella rossa sulla spalla opacizzava l’acciaio lucente dell’arto sinistro.
«Non ne sono certa, ma lo immagino. Armi? Quante e soprattutto quali?»
James si sporse leggermente verso il computer per osservare meglio le fotografie.
«Oh, le solite cose. Bombe a grappolo, qualche granata, munizioni varie. In quali altri vecchi magazzini del KGB è stato Novokov?»
Natasha aggrottò appena la fronte. Evidentemente James dava per scontato che quella non fosse l’unica visita dell’ex agente.
«Devo fare qualche ricerca» rispose iniziando a battere sui tasti. Non era un computer dello S.H.I.E.L.D., ma da lì poteva accedere alle sue banche dati, facendo attenzione a non lasciare tracce informatiche. «Credi che stia cercando qualcosa?»
«Sì.»
Una risposta secca, che non lasciava molto spazio alla fantasia. Natasha doveva capire cosa, ma soprattutto perché. Cosa poteva volere un uomo che aveva trascorso anni in una camera di stasi, senza alcun contatto col mondo, e che si era risvegliato dieci anni prima? Perché, poi, non agire subito ma aspettare tutto quel tempo, qualunque cosa avesse in mente? La Vedova Nera era certa che, se avesse potuto dare una risposta a quelle domande, avrebbe saputo anche dove trovare il suo obiettivo.
«Gli agenti del KGB hanno sempre una missione da svolgere» aggiunse ancora il Soldato d’Inverno.



NdA: rieccomi con un nuovo capitolo. Devo ammettere di essere molto affascinata dalla Stanza Rossa e dal trattamento inumano che personaggi come Nat e Bucky hanno dovuto subire, quindi non ho potuto non inserire il ricordo iniziale della Vedova Nera e, con buona probabilità, ci saranno altri flashback anche nei capitoli successivi.
Compare per la prima volta anche Novokov, spero di avervi messo addosso un po' di curiosità circa le sue intenzioni. Al prossimo capitolo!

 

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Capitolo 4
*** Capitolo 4 ***


Quando sul semaforo dall’altra parte della strada si accese la luce verde, Natasha affondò le mani nelle tasche del cappotto che indossava e iniziò ad attraversare, fendendo a testa bassa la folla di persone che a quell’ora del mattino andava a scuola o al lavoro.
Diede una rapida occhiata alle sue spalle, poi riprese a tirare dritto.
Aveva parlato col direttore Fury, aggiornandolo su ciò che era accaduto: il Soldato d’Inverno si era detto disponibile ad aiutarli e avevano iniziato a lavorare sul caso. Il che non corrispondeva totalmente a verità: lei stava lavorando sul caso, mentre lui si limitava a osservarla a braccia conserte, scucendo una parola di tanto in tanto e solo perché interpellato. Natasha stessa si era chiesta se tutto ciò fosse sufficiente a definire il rapporto instaurato come una collaborazione, ma almeno non avevano finito per spararsi addosso, il che era già un passo in avanti.
Dopo quel breve aggiornamento, Fury aveva risposto che si sarebbe dato da fare per cercare tutto ciò che avevano sugli ulteriori spostamenti di Novokov. In attesa di altre notizie, Natasha non era rimasta inoperosa. Aveva attrezzato a casa di Walker una vera e propria postazione che, pur non potendo competere con le apparecchiature dello S.H.I.E.L.D., era riuscita in qualche modo ad accedere alle loro banche dati. Farlo dal computer del vecchio militare le era sembrata la cosa migliore poiché sarebbe stato ancora più difficile risalire a lei.
Doversi guardare continuamente le spalle era snervante, né lo S.H.I.E.L.D., né tanto mento l’HYDRA dovevano sapere su cosa stava lavorando. Tuttavia quando era nel KGB aveva fatto quello ed altro, era stata abituata a contare solo sulle sue forze e non aveva mai avuto un compagno o collega con cui collaborare.
Si infilò in un alimentari poco frequentato a quell’ora del giorno, gestito da un Pakistano, e comprò qualcosa da mangiare per lei e per James. Quando lo aveva lasciato per la prima volta a casa di Walker, si era chiesta se lo avrebbe trovato ancora lì al suo ritorno. Non poteva ovviamente portarselo dietro: dopo i fatti che lo avevano avuto come protagonista insieme a Rogers, tutti o quasi sapevano chi era e quel braccio bionico era troppo riconoscibile. D’altra parte lei non poteva restare chiusa in quell’appartamento che odorava di muffa a fargli da guardia carceraria: le indagini su Novokov richiedevano la sua partecipazione attiva, dal momento che in pratica era l’unico agente che se ne occupava. Così non aveva avuto scelta; Barnes aveva detto che li avrebbe aiutati e la Vedova Nera non poteva fare altro che fidarsi.
Quando era rientrata nella casa, lo aveva trovato sempre lì, con la sua espressione a metà tra l’irriverente e l’accigliato. Si era detta che non doveva stupirsi troppo: in fondo James non aveva nessun altro posto dove andare. Il KGB gli aveva portato via tutto ciò che era stato, dandogli una nuova identità che era andata sgretolandosi dopo la Guerra Fredda, l’HYDRA poi non aveva fatto altro che continuare a usarlo.
Novokov doveva trovarsi nella stessa situazione, per questo era così difficile localizzarlo. Come si faceva a individuare un fantasma?
Natasha risalì le scale del palazzo in cui aveva abitato Walker, stringendo in pugno il sacchetto degli acquisti; una volta arrivata al pianerottolo del terzo piano, spinse via la porta e si ritrovò nell’appartamento.
James era seduto al computer, alcuni files erano aperti sullo schermo luminoso. Non appena sentì il passo di Natasha alle sue spalle, però, fece sparire tutto, ma non prima che lei fosse riuscita a lanciare un’occhiata ai documenti digitali.
«Nessuna novità» la accolse l’uomo, anticipando qualsiasi osservazione da parte dell’agente.
Natasha inarcò appena un sopracciglio.
«Stavi guardando il mio fascicolo?» chiese con tono neutrale, lasciando cadere la busta col cibo sul tavolino in mezzo alla stanza.
Barnes orientò il viso verso il monitor, che lo illuminò di una luce fredda e tremolante, poi si voltò a guardarla.
«Sì.»
«Cosa ho a che fare con Novokov?» domandò lei, incrociando le braccia e sollevando il mento. Restava ancora concentrata sulla missione, dando per scontato che Barnes stesse facendo lo stesso, ma non riuscì a impedirsi di provare una piccola fitta all’altezza della bocca dello stomaco.
La piega delle labbra del Soldato d’Inverno si indurì.
«Tutti noi abbiamo a che fare con Novokov» replicò, secco.
La donna capiva cosa intendesse. Poteva mettere se stessa nella categoria dei buoni e Leonid in quella dei cattivi, ma la verità era che entrambi erano un prodotto del KGB ed era stato proprio il Soldato d’Inverno ad addestrarli e a renderli ciò che erano.
«Cosa ricordi esattamente di quel periodo?»
Era stato di nuovo Barnes a parlare e nemmeno in quell’occasione Natasha ebbe bisogno di chiedergli cosa intendesse. Si sedette su un bracciolo del divano, lentamente, come se temesse di schiacciare qualcosa, e abbassò lo sguardo sul tappeto. Quando lo rialzò, incrociò di nuovo gli occhi scuri di James.
«Ho dei ricordi confusi. Per molto tempo sono stata convinta di studiare danza classica al Teatro Bol'šoj, poi due realtà diverse hanno iniziato a sovrapporsi. Ancora adesso scopro di avere dei flashback per la prima volta.»
Era capitato appena pochi giorni prima: aveva ricordato un addestramento con il Soldato d’Inverno. Nel rivedere quelle immagini, come se nella testa avesse avuto un minuscolo proiettore, aveva avuto l’impressione che fossero state sempre lì e chissà per quale ragione lei non se ne era mai accorta prima.
Fu sul punto di chiedere a Barnes cosa avessero fatto a lui, ma in realtà lo sapeva già. Sapeva anche come doveva sentirsi: lei aveva provato lo stesso.
«Ricordi di avermi addestrata?» gli chiese invece.
James non rispose subito. Tornò a voltarsi verso il monitor e a osservare lo schermo tremolante, ma nessun file era aperto davanti a lui.
«Adesso sì.»
Natasha avvertì un’improvvisa secchezza della bocca. Un’altra porta si stava aprendo di fronte a lei, come se si trattasse di un livello successivo; non doveva fare altro che varcarne la soglia per avanzare nella direzione del suo passato.
C’erano tante cose che voleva sapere, tantissime domande le affollavano la mente. Per una volta nella vita, si trovava di fronte a qualcuno che avrebbe potuto fornirle le risposte di cui aveva bisogno, eppure Natasha si sentiva ancora frenata. Non sapeva se era perché aveva deciso, già molto tempo prima, di chiudere con quel capitolo della sua vita, o se perché nel suo organismo circolava ancora un po’ di quella robaccia che le era stata iniettata dal KGB e il suo corpo si rifiutava perciò di accedere a certe informazioni. Tutto ciò che fu in grado di fare fu mantenere uno sguardo assente su James.
Fu lui a rompere gli indugi.
«Eri molto promettente fin dall’inizio. Non mi sono stupido quando sei diventata la Vedova Nera.»
«Ho cambiato vita molto tempo fa» precisò lei.
Barnes ricambiò un’occhiata molto intensa. Stava cambiando vita anche lui.
 
I giorni passavano e ancora non sapevano dove trovare Novokov, ma avevano appreso qualche buona notizia: non c’era nulla, nel materiale che lo S.H.I.E.L.D. aveva a disposizione, che facesse pensare che l’uomo fosse in combutta con l’HYDRA. Quello era stato il principale timore di Fury, causato dalla presenza stessa di Barnes: e se l’allievo avesse seguito il destino dell’istruttore anche in quello? Ma le immagini delle videocamere, del satellite e ciò che erano riusciti a scoprire per vie traverse lasciava pensare che Novokov lavorasse da solo, per conto suo. Alla priorità di trovarlo se ne era dunque affiancata un’altra: evitare che cadesse in mano all’HYDRA. Era un assassino micidiale, come aveva confermato lo stesso Barnes, e un soldato abituato a obbedire agli ordini: un soggetto troppo appetibile per quei neonazisti.
Lo S.H.I.E.L.D. era riuscito a seguire le sue tracce fino a un certo punto, poi più niente. Fury aveva deciso che l’ideale era andare a controllare sul posto, così Natasha aveva preso un volo che l’avrebbe condotta in Russia. Si trattava di un aereo con a bordo Maria Hill, formalmente appartenente a una compagnia privata di proprietà di Tony Stark; la Romanoff era partita da sola, vista l’impossibilità di portare James con sé. Era stata via una settimana, senza la minima idea di cosa avrebbe fatto il Soldato d’Inverno nel frattempo. Era però certa che lo avrebbe ritrovato dove lo aveva lasciato nell’appartamento di Jonathan Walker.
Quando Natasha vi ritornò, fu colta da un miscuglio di sentimenti contrastanti. Quel luogo rappresentava una cornice fin troppo tranquilla, nella quale stava turbinosamente tornando a galla il suo passato.
«Natasha.»
La Vedova Nera si richiuse la porta alle spalle, voltandosi per ritrovare di fronte a sé il volto familiare di James. I suoi occhi apparivano impenetrabili come li aveva lasciati, ancora circondati da ombre scure. Le braccia erano sempre conserte sul torace, ma la posa sembrava meno rigida rispetto al loro primo incontro.
«Ho già riferito a Fury del mio rientro» lo aggiornò.
Sfilò una cartellina dalla giacca e la aprì sul tavolo del soggiorno, di fronte allo sguardo attento dell’uomo. Conteneva appunti, pagine di vecchi fascicoli e fotografie.
«Questi sono i luoghi in cui si è registrata un’attività di Novokov» spiegò, indicando le immagini una alla volta. «Tutti luoghi legati al KGB. Ma in zona ve ne sono altri che non sono stati visitati di recente, quindi possiamo escludere che Novokov vi si sia recato. Credi che sapesse già cosa cercare, non è vero?»
James non aveva mai fatto misteri sul punto, eppure fino a quel momento si era rifiutato di rivelare nulla di cui non fosse sicuro. Naturalmente, ciò aveva aumentato la diffidenza di Natasha e, contemporaneamente, quella di Fury, aggiornato su tutto: Barnes stava tentando di proteggere il suo vecchio pupillo? Quel nuovo confronto era cruciale e da lì Natasha avrebbe potuto scoprire la verità.
Il Soldato d’Inverno impugnò tutti i vari documenti e li osservò senza fretta. La sua fronte si corrugò appena durante la lettura e la donna, che lo osservava con l’avidità di chi non vuole farsi sfuggire niente, si domandò su cosa stesse riflettendo.
Non dovette attendere molto per scoprirlo.
«Sai cosa c’era, in questi edifici?»
Natasha scosse la testa.
«Alcuni erano depositi di armi, altri erano laboratori in cui il KGB tentava di sviluppare nuove tecnologie, ma non sono mai stata informata sugli sviluppi.»
E James, invece? Era stato la punta di diamante del KGB, tenuto in grande considerazione dai generali dell’agenzia di sicurezza, almeno fin quando, a seguito di una missione negli Stati Uniti, non era rientrato nei tempi stabiliti e aveva cessato le comunicazioni. Natasha ricordava il disordine che quell’evento aveva causato, all’epoca era stato noto persino a lei. Al rientro di Barnes, i gerarchi del KGB avevano messo a tacere ogni voce, poi avevano rinchiuso il Soldato d’Inverno in una camera di stasi, e lì era rimasto negli intervalli tra una missione e l’altra. La fiducia nutrita nei suoi confronti si era incrinata – sempre che il KGB fosse mai stato capace di nutrire fiducia –, ma forse, fino ad allora, il Soldato d’Inverno era stato maggiormente consapevole dei piani del Comitato.
James corrugò ulteriormente la fronte in un’espressione che avrebbe potuto far pensare a un dolore fisico. Fece scrocchiare le dita, poi finalmente si risolse a parlare.
«Ricordo qualcosa. Un progetto… Il KGB aveva tentato di riprodurre le Gemme dell’Infinito.»
Natasha ne aveva sentito parlare. Sapeva che le sei Gemme, se riunite e controllate dall’unico strumento capace di imbrigliarne il potere, il Guanto dell’Infinito, potevano diventare una formidabile fonte di potere e conoscenza. A quanto sapeva, erano state affidate ad altrettanti prescelti, incaricati di custodirle e proteggerle. Forse il KGB aveva cercato di impossessarsene, per fare proprio il loro potere e, fallendo, aveva tentato di riprodurle? La prospettiva non le piaceva nemmeno un po’.
Le venne spontaneo pensare all’HYDRA e al Tesseract: il suo interesse e quello del KGB si assomigliavano pericolosamente.
«Ci è riuscito?» domandò, temendo la risposta, ma James scosse la testa.
«Non ne ho idea. So che è riuscito a produrre qualche prototipo imperfetto, ma non so che esito abbia avuto il progetto finale.»
Natasha si morse l’interno della guancia.
«E Novokov? Lo sapeva?»
«Non avrebbe dovuto. Eppure questi sono tutti luoghi legati in qualche modo a quel progetto.»
Le dita metalliche della mano sinistra di Barnes sfiorarono le fotografie senza lasciare impronte.
«Dobbiamo assolutamente trovarlo.»
Il tono di Natasha tradì una certa impazienza. In Russia aveva cercato non solo di monitorare gli spostamenti del suo obiettivo, ma anche e soprattutto rinvenire indizi che potessero tradire la sua attuale presenza. Eppure sembrava di avere a che fare, ancora una volta, con uno spettro. Sperava che ciò che avevano saputo fornisse almeno qualche indizio.
James si alzò e si portò al computer. Le pagine ci impiegavano un po’ a caricare e quell’attesa risultò snervante per chi, come Natasha, era abituata ai ben più efficienti strumenti dello S.H.I.E.L.D., ma dovevano accontentarsi. Le finestre iniziarono ad aprirsi una dopo l’altra mentre l’uomo batteva bruscamente sulla tastiera, a intervalli regolari. La Romanoff gli si avvicinò, affacciandosi alla sua spalla per osservare i progressi del suo lavoro.
Sul monitor si aprirono alcune mappe, sia recenti che vecchie di una cinquantina d’anni, e Barnes le studiò per qualche attimo, poi aprì delle fotografie.
«Sergej Ivanovich Smirnov» lesse meccanicamente, irrigidendo le braccia che la sostenevano allo schienale della sedia di James. «Era uno degli scienziati che lavoravano per la divisione scientifica del KGB.»
«È» la corresse Barnes. «È ancora vivo.»
Natasha assottigliò lo sguardo e avvicinò ulteriormente il viso allo schermo.
«Ma questo è il suo fascicolo ufficiale, e c’è scritto che è morto nel 2007.»
«Lo so cosa c’è scritto» replicò seccamente l’altro, «ma so per certo che è ancora vivo, che si nasconde negli Stati Uniti e che ha cambiato nome. Fidati.»
La donna ruotò il capo il tanto che bastava per permetterle di incrociare lo sguardo di James.
Non aveva altra scelta, si disse. A ben pensarci, da quando lo aveva trovato per ordine di Fury non aveva fatto altro che fidarsi di lui.





NdA: finalmente (oddio, siamo al quarto capitolo, non all'ottantesimo) inizia a delinearsi il piano di Novokov. Sì, ci volevo mettere anche le Gemme dell'Infinito, capitemi (?) Un grazie a tutti i lettori di questa storia!

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Capitolo 5
*** Capitolo 5 ***


James fletté le dita e le accartocciò nuovamente contro il palmo: l’unico movimento consentito dalle cinghie che gli bloccavano le braccia dal gomito al polso.
Le tempie pulsavano penosamente, l’uomo aveva la sensazione che il dolore rimbalzasse tra le pareti del suo cranio e la superficie metallica che gli circondava la testa.
Inspirò, ma ogni volta che respirava avvertiva una fitta violenta perforargli i polmoni.
«Еще раз , давайте идти.» *Ancora una volta, andiamo.
Quella voce risuonò mostruosamente distorta attraverso l’interfono; James avvertì un movimento alla sua destra, poi l’insistente scorrere di una penna sul foglio.
«Да, товарищ генерал .» * Sì, compagno generale.
I muscoli del collo di Bucky si irrigidirono mentre tentava di ruotare il capo per vedere cosa stava succedendo, anche se il familiare suono di quelle parole glielo aveva preannunciato in maniera piuttosto chiara. Strattonò le cinghie con tutta la forza che gli era rimasta, tese i tendini fino allo spasmo, ma era saldamente legato. Allora non gli rimase altro che mordere, mordere con forza il pezzo di plastica che gli avevano infilato in bocca per evitare che si staccasse la lingua con i denti.
Una nuova scarica di corrente elettrica gli attraversò il corpo partendo dalla testa; tentò di urlare per il dolore, ma l’ostacolo in bocca gli impedì di emettere alcun suono che non fosse un gemito strozzato.
«Солдат зимой» disse la voce nell’interfono.
Continuavano a ripetergli che era il Soldato d’Inverno, ma in quel momento si sentiva piuttosto una cavia dagli occhi ciechi.
 
Una folata di vento gelido sollevò alcune ciocche di capelli rossi di Natasha mentre svoltava l’angolo insieme a Barnes. Per la prima volta da quando la Vedova Nera lo aveva incontrato, erano usciti insieme dall’appartamento che, momentaneamente, avevano eletto a covo e base per quella missione. L’ora era abbastanza tarda e le due ex spie sapevano come muoversi senza dare nell’occhio.
Naturalmente, il braccio metallico di James era nascosto da un giubbino, mentre un paio di guanti camuffava le estremità meccaniche delle dita. Il volto era parzialmente nascosto da una sciarpa, la cui presenza era perfettamente giustificata dalle temperature rigide di quel periodo dell’anno. Dal canto suo, invece, Natasha indossava la stessa felpa con cappuccio che aveva portato quando si era trovata a lavorare con Steve qualche tempo prima.
James sapeva dove trovare Smirnov; entrambi erano d’accordo che parlargli sarebbe stato fondamentale in quanto solo lui poteva fornire loro i tasselli che li avrebbero portati da Novokov.
In quella parte di America, il vecchio scienziato era conosciuto con il nome di Mark Smith e, a quanto pareva, nessuno era al corrente del suo passato di esponente del KGB.
Un altro che ha cercato di lasciarsi la vecchia vita alle spalle, pensò Natasha. Ma non aveva rimorsi nell’andare a disturbare la pace artificiale che Smirnov si era costruito e in cui si era arroccato. Lei e James non avevano avuto la stessa ipocrisia.
«Il palazzo è questo» giudicò a una prima occhiata Barnes.
Natasha sollevò gli occhi sulla facciata avvolta dalle ombre. Un altro reduce di guerra, un altro condomino che avrebbe odorato di muffa: la sensazione di deja vu fu molto forte.
«Prendiamo la scala antincendio» propose.
Aggrapparsi a uno dei pioli e tirare giù la scala che si arrampicava sulla parte esterna laterale del palazzo senza far rumore fu piuttosto semplice; i loro piedi provocarono una serie di tonfi metallici che loro si sforzavano di attutire man mano che salivano. Giunsero a una finestra del quarto piano senza intoppi, era buia e dava su un ambiente del quale non riuscivano a intravedere i dettagli. Natasha avvicinò il suo viso al vetro, appannandolo appena con il fiato: non si vedeva nessuno. Armeggiò qualche istante con la cornice esterna della finestra, finché non riuscì ad aprirla, gettò un’occhiata di intesa a James e si introdusse nell’appartamento, seguita dall’uomo.
La pistola che aveva con sé premeva, fredda, contro la coscia. La Vedova Nera la estrasse, augurandosi di non doverla usare prima di aver ottenuto le informazioni che cercava. Avrebbero avuto a che fare con un uomo molto anziano che, per altro, non era mai stato un operativo del KGB, ma non avrebbero ugualmente abbassato la guardia: non potevano prevedere cosa quel vecchio demonio avrebbe avuto in serbo per loro. Probabilmente non si aspettava una visita dello S.H.I.E.L.D. – o di qualunque cosa fossero Barnes e la Romanoff in quel momento –, magari lo avrebbero trovato semplicemente addormentato davanti la televisione o nel suo letto, ciononostante Natasha non riusciva a considerare in termini meno astiosi uno dei responsabili della Stanza Rossa. Era per via di uomini come lui che lei e James avevano vissuto quell’esperienza.
Nel formulare quel pensiero, gli occhi chiari della donna si volsero istintivamente verso il profilo pronunciato dell’altro e realizzò che, in quell’occasione, dovevano provare probabilmente le stesse emozioni.
Non immediatamente conscio del peso dello sguardo di Natasha su di lui, James continuò ad avanzare nella stanza scura. Attraverso la porta si vedeva il bagliore freddo di un televisore, mentre la voce di un cronista gracchiava qualche notizia. L’uomo allungò la mano verso il pomello, facendo scattare silenziosamente la serratura. Percorsero rapidamente un corridoio, un attimo dopo si trovarono in un piccolo soggiorno, aggrediti dalla voce petulante della figura luminosa nel televisore, con entrambe le pistole rivolte contro un uomo raggrinzito e dagli occhi cisposi, ma vigili, e con le gambe coperte da un plaid a quadri.
«Il Soldato d’Inverno e la Vedova Nera» esordì con voce catarrosa, senza alcuna ombra di sorpresa nella voce. «Di nuovo insieme.»
Natasha osservò quella figura fragile e canuta, ristretta dall’età. Allo specchio contempleresti un reticolo di rughe come questo, se fossi invecchiata normalmente, disse a se stessa. Invece il siero che le avevano iniettato – tra le altre cose – le aveva concesso un aspetto ben diverso.
Si accorse che James si irrigidì appena accanto a lei, le sue dita guantate stringevano l’impugnatura della sua arma come se volessero scavarla con dei solchi. I suoi occhi non avevano perso di vista Smirnov neanche per un attimo, ma non si trattava solo della vigilanza dell’agente, no. Natasha percepì dell’altro e realizzò di aver commesso un errore: lei e Barnes non potevano provare le stesse cose, lei si era risvegliata molto tempo prima dall’incubo di quegli esperimenti, aveva avuto il tempo di metabolizzare, se non altro. Non così per James.
Gli lanciò un’occhiata in tralice, ma non disse nulla, preferendo rivolgersi direttamente a Smirnov. Sembrava che il vecchio volesse lasciare da parte qualsiasi maschera o finzione, così lei gli ricambiò quella cortesia chiamandolo con il suo vero nome, e non con l’identità fasulla che si era trovato.
«Non siamo qui per te, Smirnov.» Le labbra della donna si incresparono appena in un’espressione di disprezzo. «Vogliamo delle informazioni su un vecchio progetto del KGB. Quando ce le avrai date, ce ne andremo e ti lasceremo alle tue telenovelas.»
Nel frattempo, le immagini alle spalle di Natasha erano cambiate e ora il televisore trasmetteva quello che aveva tutta l’aria di essere uno sceneggiato. Accanto a lei, James non si muoveva. Seguitava a puntare la pistola contro il Russo con l’aria di chi aveva una gran voglia di premere il grilletto.
Non lo farai, James, pensò Natasha. Smirnov era l’unica strada che avevano a disposizione e che li avrebbe condotti da Novokov. Ma un’altra voce, più pungente e decisamente più scomoda, poneva un quesito spinoso alla Vedova Nera: quanto importava a Barnes di quella vicenda e quanto, invece, avrebbe preferito piantare una pallottola in fronte a uno degli uomini che lo aveva ingabbiato, addestrato a obbedire a furia di lavaggi del cervello, costretto a combattere e trasformato in una macchina da guerra senza scrupoli?
Non devi farlo, James, fu, di nuovo, la sua preghiera silente.
Smirnov si espresse con una breve risata rauca, trasformatasi in alcuni colpi di tosse. Accanto alla poltrona su cui era seduto c’era un macchinario su ruote che gli forniva dell’ossigeno tramite un tubicino che si infilava nelle sue narici.
«Immaginavo che saresti spuntato davanti a me, Soldato d’Inverno» rispose ignorando Natasha. «Ti ho visto al telegiornale, sai? Il braccio che ti è stato impiantato funziona ancora molto bene.»
James aggrottò le sopracciglia scure. Il Russo lo guardava come se fosse una sua personale creazione, un progetto a lungo accarezzato, che alla fine supera perfino le aspettative del suo ideatore.
«Basta chiacchiere, Smirnov» si intromise la Vedova Nera. «Dicci delle Gemme dell’Infinito.»
Due occhi opacizzati dalle cataratte vagarono dal Soldato d’Inverno alla donna che aveva parlato. Stancamente, Sergej Smirnov iniziò a infilare una risposta.
«Erano originariamente parte di un’unica entità onnipotente, Nemesis…»
«Non quelle gemme.»
Era la prima volta che James apriva bocca da quando si erano introdotti in quell’appartamento, ma Natasha gli fu grata per aver interrotto Smirnov. Quel vecchio stronzo voleva prendersi gioco di loro, parlando delle pietre originali? Immaginava già dove volessero andare a parare i due intrusi e stava prendendo tempo, oppure si divertiva solo a provocarli?
Ancora una volta, gli occhi della Romanoff saettarono brevemente verso James.
«Sappiamo che il KGB aveva progettato di riprodurle, vogliamo sapere tutto.»
La donna strinse le dita e inspirò, cercando da allontanare da sé qualsiasi sensazione di fastidio. Doveva mantenere la lucidità in ogni condizione, e non era stata solo l’agenzia di sicurezza russa a insegnarglielo.
Smirnov non rispose subito, ma si sporse verso il macchinario al quale era legato, premendo alcuni pulsanti. Per tutta la durata dell’operazione, il suo sguardo era stato ostinatamente puntato sui due agenti.
«Perché credete che io ne sappia qualcosa?»
«Eri uno dei principali scienziati della divisione scientifica.»
«Mi lusinga, signorina Romanoff» rispose l’altro piegando le labbra inaridite. «Allora riformulo la domanda. Perché credete che io vi dirò qualcosa?»
Natasha fu sul punto di replicare, ma James la anticipò. Con una sola falcata si ritrovò a incombere sul vecchio, con il tubicino dell’ossigeno stretto tra l’indice e il pollice della mano bionica.
«James!» esalò Natasha. Non che quel bastardo non lo meritasse, ma la rapidità dell’iniziativa dell’altro la aveva colta in contropiede. Inoltre era preoccupata: quel vecchio era in condizioni di salute evidentemente precarie, sarebbe bastato togliergli l’ossigeno per qualche istante di troppo e lo avrebbero spedito all’altro mondo.
«Uccidimi!»
Smirnov si voltò verso Barnes con espressione stralunata. La pelle giallastra era tesa sulle ossa del teschio, gli occhi erano due sfere allucinate. Le sue dita artritiche si chiusero intorno al polso del Soldato d’Inverno, inaspettatamente forti per un uomo di quell’età, ma comunque incapaci di competere con il suo avversario.
«Uccidimi adesso» berciò ancora l’uomo, «e sarete sicuri che non saprete niente delle repliche delle Pietre dell’Infinito.»
Aveva ragione. Nonostante Natasha provasse il bruciante desiderio di farla pagare a quello scienziato, le serviva. Ma Barnes non lasciava il tubo dell’ossigeno.
«James.»
Il vecchio respirava ora a bocca aperta, ogni volta che inspirava emetteva un rantolo che sembrava provenire da un antro cavernoso. Le labbra riarse si erano ritirate sulle gengive, la pelle era di un colore indecifrabile.
«Lascialo, James!» insistette Natasha.
A quel punto, il Soldato d’Inverno fece un passo indietro.
Smirnov prese all’istante alcune lunghe boccate d’ossigeno, come un uomo sul punto di annegare appena ripescato dalle acque. Persino a Natasha sembrò di tornare a respirare normalmente.
Avrebbe dovuto affrontare James e ricordargli che, in quel momento, lui stava lavorando per lo S.H.I.E.L.D., doveva perciò attenersi ai protocolli dello S.H.I.E.L.D., ma quello non era né il momento, né il luogo. Così si limitò a lanciargli un’occhiata diretta, ma non troppo eloquente: non voleva dare allo scienziato russo l’impressione di essere dalla sua parte.
Attese qualche istante, poi, quando il rantolo originato dai polmoni ormai prosciugati di Smirnov cessò, decise di riprendere a interrogarlo.
«Devi dirci quello che sai, Smirnov.»
Il vecchio aveva perso l’espressione spavalda e ora appariva più fragile che mai, ma non per questo si dimostrò più collaborativo.
«Sapete, negli ultimi anni le cose sono molto cambiate. Non sono più quello che ero un tempo, ora sono solo Mark Smith, un povero invalido che riceve una pensione dal Governo. Ma ecco che, recentemente, il passato è tornato a bussare alla mia porta. Vedete, voi non siete le prime persone che mi cercano per chiedermi di quelle Gemme.»
«Chi altri è stato qui?» domandò James, ma sia lui che Natasha conoscevano già la risposta.
«Non mi aspettavo proprio di rivedere, dopo decenni, qualcuno sfuggito dalla Camera Rossa, ma con voi siamo a quota tre» proseguì Smirnov, come se fosse solo parzialmente cosciente del quesito posto dal Soldato d’Inverno.
Il cervello di Natasha si affrettò ad analizzare quell’informazione, a dissezionarla alla ricerca dei dettagli che il Russo non voleva fornire loro. Confermava i sospetti di James: Novokov cercava proprio quegli oggetti, ma le domane senza risposta erano ancora tante.
«Cosa hai risposto a Novokov?» si inserì.
Smirnov si umettò le labbra e sorrise.
«Quello che voleva sentirsi dire. Che l’Unione Sovietica non è finita, se vivono ancora gli uomini che ne incarnano lo spirito.»
Il suo sguardo indugiò un attimo di troppo su James.
«Credete ancora in favole concluse da tempo?» lo smentì Natasha.
«Oh, non sono concluse, credimi.» Il sogghigno sulla bocca dello scienziato si allargò mentre lui gongolava, come un maestro fiero del suo allievo. «Leonid ha un piano ben congegnato e, sebbene lo abbia iniziato da solo, confido che raccoglierà seguaci e lo condurrà al successo. Eppure di fronte a me ho una variabile che Leo non ha considerato.»
Si riferiva a Barnes, dal momento che i suoi occhi da avvoltoio non lo avevano abbandonato per un istante mentre parlava. Forse Novokov non sapeva era vivo? Ma dopo i fatti di New York, il Soldato d’Inverno si era fatto conoscere di nuovo. Allora forse l’ex dormiente non sapeva degli ultimi risvolti, da che parte stava l’ex istruttore della Stanza Rossa.
«Non potrai avvisarlo delle tue ultime scoperte» osservò Natasha, inarcando un sopracciglio, «sarà lontano.»
«Oh, lui non è così lontano. Anche dopo la caduta del KGB, i nostri uomini non si sono arresi e hanno continuato a lavorare sui loro progetti dopo essere venuti negli Stati Uniti. Alcuni in proprio, altri collaborando con diverse organizzazioni o imprese: l’HYDRA, la Mano, le Stark Industries… Leonid è venuto da me per conoscere qualcosa in più sul loro conto, interessato soprattutto – come avete già capito – alle Pietre dell’Infinito. Gli ho dato tutte le informazioni in mio possesso, ma non vi farò la cortesia di rivelarle anche a voi: dovrete aspettare, aspettare e vedere il mondo che si solleva, a cominciare da New York e poi, via via tutta l’America, per invertire il corso della storia e precipitarla nella sconfitta che meritava di subi-.»
Smirnov si interruppe di colpo, con la bocca ancora spalancata nella sua invettiva, gli angoli imbiancati di saliva. Un fiore rosso si allargò al centro della sua fronte, nel punto in cui il proiettile lo aveva centrato. Il primo rivolo si sangue iniziò a scorrere sulla pelle incartapecorita, ben presto ingabbiato dalle rughe marcate intorno ai suoi occhi vitrei. Solo a quel punto Barnes abbassò, piano, la pistola ancora fumante.
«James!» lo apostrofò Natasha, voltandosi di scatto verso di lui.
La mandibola era rigida, la piega delle labbra stretta, gli occhi impassibili.
«Ci è stato abbastanza utile, non aveva altro da dirci.»






NdA: rieccomi con un nuovo capitolo, che si apre questa volta con un flashback di James. Ulteriori dettagli emergono circa la missione di Novokov.
Un ringraziamento a chi legge e recensisce questa storia!

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Capitolo 6
*** Capitolo 6 ***


«Abbiamo ottenuto quello di cui avevamo bisogno» insistette Barnes, ostinato, mentre chiudeva alle sue spalle la porta d’ingresso di casa di Walker. «Non avevo voglia di sentire i suoi deliri filosovietici.»
Natasha rilassò appena la fronte, osservandolo. Le parole di Smirnov avevano sbloccato in lei altri ricordi, riportandole alla mente tutte le ideologie che il KGB le aveva inculcato a forza di lavaggi del cervello. Rievocare quel genere di discorsi le aveva lasciato addosso una sensazione spiacevole e un sapore di fiele in bocca. Di certo per James non doveva essere stato più gradevole, ma il fatto che lei potesse capirlo non attenuava il disappunto della donna. Era convinta che avrebbero potuto spremere il vecchio scienziato russo in modo da ottenere di più, ma Barnes aveva drasticamente eliminato ogni possibilità di farlo.
«Ripensiamo alle parole di Smirnov, d’accordo?» Il Soldato d’Inverno tornò ad affrontare Nastasha, sollevando i palmi delle mani di fronte a lei. «Ha detto che Novokov gli ha chiesto delle Pietre dell’Infinito e ha detto che non si trova lontano. Leonid non è in Russia, ma è arrivato negli Stati Uniti e sta cercando i depositi che gli ex agenti del KGB avevano qui. Ha parlato di una rivoluzione che inizierà da New York, quindi è qui che dobbiamo cercarlo, una rivoluzione che altererà l’esito della Guerra Fredda. Penso che Novokov non stia cercando tutte le Gemme dell’Infinito, non è interessato all’onnipotenza, vuole solo tornare indietro nel tempo.»
Natasha serrò le labbra, ma mantenne comunque l’ostilità nello sguardo: non gli avrebbe dato ragione troppo in fretta, non quando James aveva deciso di fare completamente di testa sua, dimenticando di dover stare alle regole dello S.H.I.E.L.D.
«Smirnov ha fatto cenno anche a un’altra cosa» disse, incrociando le braccia sotto il seno. «Sta cercando sostenitori e probabilmente sa che sei ancora vivo.»
L’uomo aggrottò le sopracciglia, ma non replicò.
«Sta cercando te, James!» concluse Natasha.
«Non sarà certo Smirnov a dirgli dove trovarmi» concluse l’altro increspando le labbra.
 
Un familiare ronzio avvisò Natasha che la telecamera fissata sul braccio telescopico si era sollevata e la stava inquadrando. Ci mise qualche istante più del solito, ma poi l’ingresso del Parco Giochi le si rivelò e le consentì il passaggio.
«Eric…» salutò la Vedova Nera, passando di fronte all’agente dello S.H.I.E.L.D. tarchiato e dall’aria da bonaccione.
«Sono Billy» la corresse Koenig alzando gli occhi al cielo e scuotendo appena la testa.
Natasha rispose con una scrollata di spalle e proseguì addentrandosi nella base segreta.
«Il direttore non è qui» la informò Billy, caracollandole dietro e prevenendo una sua possibile domanda.
«Non mi serve. Ho bisogno di accedere ad alcuni file secretati dallo S.H.I.E.L.D.»
Ormai la Romanoff aveva dimestichezza con i protocolli dell’agenzia di sicurezza e si muoveva senza problemi tra le procedure e la burocrazia. Tuttavia, quando in casi come quello era l’unica agente informata di una missione e rispondeva direttamente a Fury, non poteva non apprezzare la rinnovata libertà di azione.
Nemmeno l’agente Koenig sapeva nulla riguardo a Novokov e al Soldato d’Inverno; Nick Fury gli aveva riferito che la Vedova Nera era impegnata come tutti gli altri contro l’HYDRA e Natasha non faceva altro che sostenere lo stesso, pur senza dare troppi dettagli. Koenig aveva ricevuto ordine di darle libero accesso a tutto ciò di cui lei aveva bisogno e tanto bastava. Con buone probabilità, non sarebbe stato così collaborativo se avesse saputo che la donna lavorava gomito a gomito con una delle migliori armi che l’HYDRA aveva di recente utilizzato, ma per fortuna il metodo di compartimentazione delle informazioni aveva i suoi vantaggi. Nel formulare quel pensiero, Natasha seppe che se Steve Rogers fosse stato lì, si sarebbe fatto venire in mente qualcosa per contraddirla: probabilmente anche lui avrebbe apprezzato la libertà di azione garantita anche da tutti quei segreti, ma il suo biasimo per tutta quella confidenzialità era troppo forte.
Già, Steve. Nemmeno lui sapeva che Natasha era impegnata in una missione con il suo vecchio amico, ma di certo avrebbe dato qualsiasi cosa per saperlo, considerato l’impegno con cui lo aveva cercato. Era la seconda volta in pochi mesi che la donna si occupava di qualcosa con la precisa indicazione di non condividere con lui alcuna informazione. Non era solo il modo di fare di Fury, era necessario per la buona riuscita della missione: Rogers doveva capirlo.
Allungò la falcata e raggiunse la postazione computer lasciatale libera da Billy. Una ricerca da casa di Walker non sarebbe stata ugualmente efficace, né altrettanto rapida, perciò la donna aveva deciso di avvalersi direttamente degli strumenti dello S.H.I.E.L.D. Con James avevano concordato come orientare la loro ricerca e la Vedova Nera era abbastanza positiva sull’esito dell’indagine.
Infatti mezz’ora dopo la donna aveva già tutto ciò che le serviva. Trasferì i file su una penna USB, che si illuminò una volta inserita nella case del computer ed emise un allegro bip quando venne successivamente sfilata. Aveva completato il suo incarico in maniera piuttosto soddisfacente, ora non le restava che condividere le informazioni con James e concordare un piano d’azione.
 
«Questo è tutto ciò che hai trovato?» volle sincerarsi Barnes.
Sulle sclere leggermente arrossate scorrevano i riflessi dei documenti trasmessi sul desktop del computer di casa Walker.
Natasha si appoggiò al mobile, dando le spalle al monitor, e incrociò le braccia. Conosceva a memoria i file che aveva scaricato alla base dello S.H.I.E.L.D., ora era necessario che li vedesse James.
«Sì, è tutto ciò che ha lo S.H.I.E.L.D.»
C’era tutto quello che gli serviva: andando a ritroso negli anni, l’agente aveva identificato tutti quei luoghi presenti nel territorio dello Stato di New York che erano stati legati alla Mano, all’HYDRA, alle Stark Industries e a tutti quei soggetti citati da Smirnov o assimilabili ad essi. Poi aveva operato delle successive scremature in modo da eliminare quelli che avevano subito delle trasformazioni o che, per altre ragioni, non apparivano dei posti adatti per conservare la Gemma del Tempo o dati relativi ad essa. Alla fine aveva ridotto la lista a una decina di voci.
Natasha teneva lo sguardo fisso su James mentre gli occhi dell’uomo setacciavano quella lista e le sue labbra si muovevano appena, pur senza farsi sfuggire un suono.
Grazie al Soldato d’Inverno, la lista venne aggiornata ancora: vennero eliminati dei nomi e inserite altre località. La Vedova Nera sapeva che Barnes aveva compiuto diverse missioni negli Stati Uniti prima per il KGB, poi per l’HYDRA, ma rimase comunque assorta nel riflettere sulla prontezza con cui l’uomo aggiungeva dettagli, ricordava episodi, scovava legami.
E, a proposito di legami, quanto erano ancora forti i suoi con l’HYDRA? Da quando Natasha lo aveva rintracciato, non aveva potuto non porsi quella domanda più di una volta. Lo stesso Fury si era raccomandato di affrontare la missione con la massima cautela a riguardo, inoltre aveva sostenuto che il Soldato d’Inverno era ancora un uomo dell’organizzazione terroristica. Che lo avesse fatto però per mettere a tacere qualsiasi rimostranza di Cap o perché lo pensasse veramente, non era chiaro.
Dal canto suo, Natasha non aveva bisogno di raccomandazioni per essere guardinga. Non si fidava di nessuno, praticamente mai, e non avrebbe fatto un’eccezione in quel caso.
Aveva trascorso molto tempo a osservare James, a monitorarlo alla ricerca di comportamenti sospetti che avrebbero potuto mettere a rischio la missione, ma non aveva trovato nulla. L’unica volta in cui la condotta dell’uomo era stata un po’ sopra le righe era stato durante il confronto con Smirnov, ma lì la stessa Vedova aveva provato l’impulso di mettere violentemente a tacere quel vecchio scienziato, riusciva quindi a spiegarsi il comportamento di James pensando ai traumi recentemente subiti. Per il resto, tutto ciò che era stata in grado di vedere era un uomo che, nonostante i modi secchi e decisi, era solo un groviglio di pensieri confusi.
Barnes le tese il foglio di carta con la lista, alcune delle voci erano state cerchiate e altre informazioni erano state aggiunte a penna. Natasha allungò le dita e lo afferrò.
«Grazie, James…»
«Quest’altro posto è a Hell’s Kitchen. Smirnov non ha fatto cenno a nulla del genere, ma io penso che potrebbe…»
«Non mi riferivo a questo.»
Natasha non abbassò gli occhi sul foglio, ma continuò a tenerli puntati sul volto di Barnes, i cui muscoli facciali ebbero un’immediata contrazione involontaria. Aveva inteso a cosa si era riferita, ma pensò di dare la risposta che lei non si aspettava.
«Non lo faccio per lo S.H.I.E.L.D., lo faccio per me stesso.»
James digrignò i denti e poi aggrottò la fronte, mentre i capelli disordinati gli oscuravano il volto.
Natasha conosceva quello sguardo. Non era certo la prima volta che lo vedeva, ma ora aveva l’impressione di comprenderlo finalmente, compiutamente. Erano gli occhi di chi cercava vendetta, la donna li conosceva per essere stata scrutata più volte da occhi simili, provenienti dal suo riflesso nello specchio.
Si alzò dal mobile, sciogliendo le braccia lungo i fianchi. Fin dall’inizio di quella storia, aveva avuto l’impressione che ci fosse qualcosa che le sfuggiva, come una saponetta tra le dita, insidiosa e inafferrabile. Si trattava di frammenti del suo passato: più ne venivano a galla e più il quadro completo appariva confuso. Sapere che James doveva provare una confusione ancora maggiore la turbava e attirava insieme.
«Dimmi una cosa» domandò Natasha. «Come credi che tutto questo possa essere per te stesso?» Allontanò le braccia dai fianchi in un gesto vago, abbracciando idealmente il computer, il tavolo, ogni superficie di quella stanza su cui erano ammonticchiati i loro appunti e i loro files.
L’uomo serrò le dita davanti a sé, meditabondo.
«Cerco solo la fine del cerchio.»
«E pensi che esista davvero una fine, per quelli come noi?»
Era un quesito che Natasha si era già posta: a volte pensava di ripetere gesti già compiuti, di subire scelte già imposte. Non erano che particelle insignificanti che continuavano a ruotare intorno alla loro orbita, senza che questa potesse mai intersecare quella di altre particelle. Eppure quell’immagine conosceva una sola potenziale eccezione.
Per tanto tempo aveva cercato di evitare il suo passato, ma ora vi era stata messa prepotentemente in contatto. In ciò, una particella si era avvicinata molto a un’altra che aveva conosciuto una vita simile, ma tanto da entrare in contatto?
Le labbra di James ebbero un fremito di incertezza.
«Ho intenzione di scoprirlo.»
I suoi occhi la setacciarono quasi come se la risposta a quella domanda potesse essere conservata nella sua persona.
Natasha sapeva di avere bisogno di scoprirlo a sua volta. Solo in quel modo sarebbe riuscita a conciliare le due metà di se stessa.
Avanzò di un altro passo in direzione di James, alla distanza in cui si trovava adesso poteva quasi percepire il sapore del suo respiro. Raggiunse le sue mani e le prese tra le sue, il palmo bionico non emanava alcun calore, ma solo un senso di gelido rigore. Lo sguardo di Natasha non abbandonò gli occhi dell’uomo mentre portava le sue mani sui propri fianchi; le sopracciglia di James ebbero un fremito involontario, ma non si ritrasse.
Il contatto era adesso più intimo, le mani della donna premevano sui dorsi di quelle dell’altro, ma il metallo non accennava a intiepidirsi neanche un po’. Anche quando Natasha allentò la pressione, James rimase dov’era.
I suoi occhi la fissavano inespressivi, ma lei percepiva il suo respiro sulla punta del mento e sul collo. Osservò la linea dura della mascella, ricoperta dalla barba di un paio di giorni, le labbra aride appena schiuse sull’arcata dentale, la giugulare palpitante, poi accennò a piegare il busto verso di lui, ma James l’anticipò. Con uno scatto si mise in piedi, le dita strinsero i fianchi della donna, ricercandoli sotto lo strato di tessuto in kevlar, le labbra catturarono la sua bocca con prepotenza.
Natasha avvertì il ritmo del proprio respiro accelerare, subito rubato dalle labbra dure di James. Fece scorrere le mani lungo le braccia di lui – quello umano e quello meccanico –, le strinse intorno alle sue spalle. Trovarono il suo collo, le ciocche di capelli aggrovigliati, le clavicole; non arrestarono la loro corsa nemmeno quando riuscì a liberarlo della giacca.
Il bisogno era tanto, un’esigenza impellente, dispotica come un tiranno, naturale come respirare. Gli indumenti di entrambi iniziarono gradualmente a scivolare a terra come foglie secche dai rami di un albero mentre continuavano a ricercarsi l’un l’altro, senza posa.
Non una parola, solo il respiro rauco esalato da una bocca e morso dall’altra. Natasha sobbalzò al contatto della nuda pelle con l’arto meccanico di James, ma un attimo dopo dimenticò ogni sensazione di gelo. Lo baciò con forza, come a dirgli di restare lì con lei, che avevano bisogno di dare un senso al loro inferno personale insieme, quella sera stessa: non poteva più aspettare.
La schiena della donna aderì contro la fantasia smorta del divano mentre le sue braccia erano sempre aggrappate al collo di James. Ancora per qualche istante il pensiero di Novokov, di Smirnov e della Stanza rossa circolò nella sua mente, ma poi, quando l’uomo la prese, non ci fu spazio per nient’altro.




NdA: è successo, la mia OTP è venuta al mondo. I dubbi sulla mia capacità di rendere l'episodio sono tanti, tantissimi, ma eccolo qui. 

Chi guarda Agents of S.H.I.E.L.D. conoscerà i fratelli Koenig: li adoro e non potevo non inserirli. Ancora un ringraziamento ai lettori di questa storia!
 

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Capitolo 7
*** Capitolo 7 ***


Era tutto pronto. Natasha e James erano riusciti a ridurre la lista di luoghi in cui poteva essere stata conservata la Gemma del Tempo a soli tre nomi, così avevano iniziato i sopralluoghi, grazie i quali ne avevano esclusi altri due. Restava solo un palazzo abbandonato a Hell’s Kitchen, ed era in quello che si erano concentrate tutte le aspettative di Natasha.
Avevano scaricato dalla rete tutti i dati su quell’immobile: piantine, cronistoria e altre informazioni, ed erano riusciti in qualche modo a ricostruirne le vicende, scoprendo che in passato aveva ospitato dei laboratori di un’azienda privata, associata successivamente a nomi poco raccomandabili a causa dei quali aveva conosciuto delle vicende legali lunghe e ingarbugliate. Il palazzo era stato ripetutamente posto sotto sequestro, ma poi, anche quando la polizia aveva tolto i suoi sigilli, non era stato più occupato. Era rimasto chiuso e, in breve tempo, chiunque aveva perso interesse in esso, salvo solo i tossici e le prostitute del quartiere. Era, in sintesi, il luogo ideale nel quale fare irruzione per poter trovare qualche traccia o indizio.
Come le volte precedenti, Natasha e James si prepararono per non lasciare nulla al caso. Sapevano bene che Novokov stava conducendo la loro stessa ricerca e che quindi mirava allo stesso edificio, inoltre Smirnov aveva lasciato trapelare dai suoi modi sibillini che l’ex dormiente fosse anche sulle tracce del Soldato d’Inverno. Le variabili erano molte e gli scenari che avrebbero potuto fronteggiare numerosi. Innanzitutto il palazzo poteva essere vuoto e non contenere alcuna traccia delle vecchie operazioni del KGB o di un recente passaggio di Novokov. Quella era l’ipotesi peggiore per la Vedova Nera, che si sentiva frustrata al solo pensiero: avrebbe significato che avrebbero dovuto ricominciare le ricerche, ma ormai avevano esaurito tutte le opzioni. In alternativa, lei e James avrebbero potuto precedere Novokov oppure seguirlo, sperando che avesse lasciato qualche indizio che li avrebbe resi in grado di prevedere la sua prossima mossa. Ancora, avrebbero potuto sorprenderlo sul posto, il che era forse l’eventualità preferita da Natasha, nonostante magari non la migliore in assoluto. Quanto a ciò che si augurava James, non ne aveva idea. Non si erano scambiati commenti del genere, si erano limitati a lavorare meticolosamente per pianificare ogni cosa nel dettaglio. In quello, essere due ex agenti del KGB aiutava: erano abituati a ragionare secondo gli stessi schemi e ad agire con metodologia simile.
Non avevano parlato nemmeno di ciò che c’era stato tra di loro quella notte. Entrambi avevano chiuso una porta dietro alle loro spalle: non era quello il momento per pensarci. Natasha era concentrata completamente sull’obiettivo, come avrebbe voluto Fury.
Tutto era pronto: il piano, l’equipaggiamento, le munizioni. Non restava loro che aspettare.
 
Alcuni detriti ridotti in minuscoli frammenti scricchiolarono appena sotto la suola degli stivali. I passi dell’uomo erano calcolati e non seguivano alcun andamento frettoloso, non ce n’era bisogno. Ruotò il braccio destro il tanto che bastava per avere una visione fugace dell’orologio allacciato al posto: era da poco passata la mezzanotte. Inspirò profondamente, inalando l’odore di polvere e umidità che aleggiava in quell’edificio abbandonato. Le assi inchiodate alle finestre filtravano la luce artificiale che riverberava dall’esterno, creando uno strano gioco di luci e ombre sul pavimento sbeccato. Ma era quando quei bagliori si infrangevano sull’estremità visibile del braccio bionico di James che realizzavano l’effetto che più di ogni altro catturava la vista.
L’uomo fletté sia le dita artificiali che quelle della sua mano in carne e ossa, per poi stringerle nuovamente e accostarsi con cautela alla finestra. Gli occhi setacciarono il paesaggio urbano che si scorgeva tra le fessure tra le assi alla ricerca di un movimento, una sagoma scura, il fulgore della canna di una pistola, ma fuori tutto taceva.
Alcuni istanti più tardi, fu uno schiocco proveniente dall’interno a indurlo a voltarsi. Ci fu un soffocato rumore di passi, poi una figura alta e massiccia, avvolta in un pesante cappotto militare, comparve nella cornice della porta, allargando le braccia come se fosse attesa.
«Солдат зимой.*» 
James non ascoltava quella voce da una decina di anni almeno, eppure gli parve di riconoscerla, nonostante risuonasse ora più soffocata e rauca di come la ricordava.
Leonid Novokov mosse qualche passo verso di lui, quando giunse in prossimità della finestra, i raggi lunari inargentarono le sue labbra schiuse come una ferita aperta a interrompere il suo profilo duro.
«Sapevo che ti avrei trovato qui» continuò poi, sempre in russo, mentre avanzava ancora.
James ruotò il busto quel tanto che bastava per non perderlo di vista e fissò lo sguardo in un punto in particolare quando l’ex dormiente si arrestò. Era stato addestrato a fare in modo che il volto non trasmettesse nulla che non fosse l’insensibilità della pietra, così né gli occhi, né la piega delle labbra tradirono alcuna emozione. Eppure James provò la sensazione di vedere un fantasma che incedeva verso di lui.
Non rispose nulla, ma Leo non ne sembrò impensierito perché proseguì imperterrito.
«È stato da quando ho saputo che eri ancora vivo, da quando ti ho visto in televisione, che ho sperato di incontrati di nuovo. Sapevo che avresti avuto interesse nel mio lavoro, che avresti capito. Tutto ciò per cui ci siamo impegnati, per cui abbiamo ucciso, diventerà realtà.» Negli occhi del Russo baluginò qualcosa, o fu solo il riflesso delle luci di un’auto che scorreva sulla strada esterna. «Ora che ti trovo di fronte a me, so che non sei qui solo per osservare. Saremo di nuovo parte di un unico piano.»
James assottigliò la piega delle labbra. Era come aveva detto Smirnov: Leo aveva fatto grandissimi progressi da quando il Soldato d’Inverno lo aveva addestrato nella Stanza rossa, tanto da permettersi di prendere iniziative del genere e mettersi a capo di quello che poteva essere considerato come un movimento per la restaurazione del regime sovietico, eppure ancora cercava l’approvazione del suo istruttore.  James lo aveva addestrato, insegnandogli a combattere in modo violento ed efficace, senza esitazioni o scrupoli, trasformandolo nell’arma in cui, a suo tempo, il KGB aveva trasformato lo stesso Barnes, eppure, nonostante fossero passati tanti anni, era come se il Russo fosse ansioso di tornare a collaborare col suo mentore.
«Sì» rispose quindi il Soldato d’Inverno. «Come un tempo.»
Le labbra di Novokov si allargarono in un sorriso.
«Come un tempo» ripeté.
 
Natasha non conosceva i nomi di tutti gli agenti che uscivano dalla Stanza rossa, ma quello di Leonid Novokov si era ben presto diffuso tra i gerarchi e gli scienziati del KGB. Veniva ripetuto di bocca in bocca con un tono che era un misto di soddisfazione e sorpresa, si parlava di lui come di un esperimento particolarmente ben riuscito. Qualcuno aveva fretta di inviarlo in missione, qualcun altro pensava già che potesse essere in grado di sostituire il Soldato d’Inverno nell’ipotesi in cui ve ne fosse stato bisogno.
Nel sentire gli uomini parlare in quel modo, Natasha aveva aggrottato le sopracciglia e morso l’interno della guancia. Non c’era ragione di farsi delle illusioni, era così che funzionava: agli occhi dell’agenzia di sicurezza, erano dei pezzi di carne interscambiabili. A volte, mentre la ragazza si trovava da sola nella sua stanza, magari con le ossa rotte dall’ultimo allenamento o con la testa annebbiata dai farmaci che aveva preso recentemente, cercava di indovinare il valore che il KGB avrebbe attribuito alla sua vita se per caso fossero stati in un unico, grande mercato e qualcuno avesse dovuto attaccarle un cartellino. Alla fine era il protocollo stesso a risponderle: non esistevano – salvo rarissime occasioni – missioni di recupero, gli agenti avevano l’ordine di non cadere vivi nelle mani del nemico e il KGB si interessava a loro solo fintanto che riuscivano a ottenere dei risultati.
Ma ora Natasha non si trovava nella sua stanza e non aveva il tempo di soffermarsi su quelle o su altre riflessioni. Una nuova sessione di addestramento la attendeva, così terminò rapidamente di legare le fasciature intorno ai polsi e iniziò a fare qualche saltello sul posto, tanto per riscaldarsi. A pochi metri da lei, il suo istruttore stava allenando proprio Leonid Novokov. Natasha rimase a osservarli per un po’ mentre attendeva il suo turno, entrambi gli uomini combattevano come se l’altro gli avesse fatto un torto personale. Nessuna esclusione di colpi, nessuna pietà: quello non sembrava affatto un addestramento, ma era così che doveva andare. Leo Novokov venne mandato a tappeto ma, quando Barnes gli voltò le spalle, Natasha poté notare il sangue che gli gocciolava dal naso e dal labbro. I volti di entrambi gli uomini erano pesti, esibivano abrasioni e tagli che, nei giorni successivi, sarebbero stati in buona compagnia di qualche livido. Non ci sarebbe stato molto da stupirsi se si fossero rotti qualcosa, come il setto nasale o il pavimento dell’orbita, e nessuno li avrebbe ricompensati per i colpi subiti.
«Romanoff.»
La voce del Soldato d’Inverno, imperiosa come sempre, riecheggiò nella palestra, non ammettendo repliche. Natasha, che era già pronta, si affrettò a raggiungerlo e, nel farlo, passò davanti a Novokov, che si alzava lentamente.
 
Ed eccoli di nuovo, il Soldato d’Inverno e la sua recluta. Dal punto in cui si trovava, Novokov le dava le spalle, eppure Natasha aveva la possibilità di scrutare il volto di James, illuminato solo in parte, e comunque fiocamente. L’espressione era così seria, sembrava che la comparsa del suo ex allievo non avesse causato in lui né sorpresa, né nessun’altra emozione. Quando poi James aveva rivolto a Novokov le prime parole per quella sera, Natasha non aveva fatto in tempo a reprimere un brivido che le si era annidato dietro la nuca. Era apparso più che convincente, convinto. Probabilmente, se non avessero pianificato tutto insieme, la Vedova Nera avrebbe nutrito qualche dubbio sulla sua fedeltà.
Lei e Barnes avevano deciso che solo quest’ultimo si sarebbe mostrato, nell’eventualità in cui Leonid fosse sopraggiunto sul posto, e non avevano fatto male i loro conti: l’ex spia sovietica era lì, in piedi di fronte a James, due forme molto simili nella penombra, ma il Soldato d’Inverno si distingueva nettamente per via del braccio metallico. Quanto a lei, avevano deciso che la cosa migliore era rimanere nascosta in modo da consentire a Novokov di avvicinarsi liberamente; sarebbe balzata fuori solo al momento opportuno e lo avrebbero arrestato.
C’erano quasi: Natasha iniziava a sentire l’adrenalina defluire lungo gli arti e la familiare sensazione che provava quando poteva andare da Fury e dirgli “missione compiuta”.
Avevano lavorato tanto per rintracciare il loro obiettivo, ma alla fine avevano toccato le corde giuste e lo avevano attirato allo scoperto. La visita da Smirnov quindi non era stata totalmente infruttuosa, non solo perché gli aveva dato degli spunti per localizzare i luoghi a cui Novokov era interessato, ma anche perché, mettendoli a conoscenza del fatto che Leo stava cercando il suo vecchio istruttore, avevano potuto instillare nel Russo un falso senso di sicurezza dato proprio dalla presenza del Soldato d’Inverno. Era andato tutto come previsto: Novokov aveva abbassato la guardia e ora Natasha sarebbe scivolata alle sue spalle.
Restava il problema della Gemma del Tempo. I discorsi di Smirnov sull’argomento erano stati quelli di un visionario fuori di testa, e proprio per quella ragione destavano la preoccupazione della Vedova Nera. Non era solo un agente dello S.H.I.E.L.D., era anche un membro dei Vendicatori ed era sua responsabilità farsi carico anche di quella faccenda. Una volta arrestato Novokov e aggiornato Fury, avrebbero setacciato il posto alla ricerca della Pietra; se la fortuna fosse stata ancora dalla loro parte l’avrebbero trovata proprio in quell’edificio abbandonato.
Natasha spostò il peso dai talloni alle punte dei piedi, la pistola era saldamente stretta tra le sue mani e l’obiettivo era sotto tiro. Accosciata dietro alcune casse, fece vibrare i muscoli delle gambe, pronta a balzare in avanti, verso Novokov che ancora le volgeva le spalle, quando accadde l’imprevisto.
Le porte che davano su quel piano si aprirono, facendo entrare i fasci di luce impolverata delle torce. Delle figure nere irruppero con le braccia ritratte sul petto, nella classica postura di chi regge un’arma. Anche James e Leonid, come Natasha, si erano voltati istintivamente verso gli uomini appena arrivati, sui volti di tutti era dipinta la stessa sorpresa.
In un primo momento, la Romanoff credette che si trattasse degli agenti dello S.H.I.E.L.D. – o almeno di ciò che ne restava – inviati da Nick Fury a supporto di quella missione, ma quando le voci iniziarono a risuonare in quell’ambiente spoglio, ingigantite dall’eco, seppe di essersi sbagliata.
«Leonid Novokov, James Buchanan Barnes, hail HYDRA.»
Non ci fu il tempo né per riprendersi da quella improvvisata, né per pianificare la mossa successiva: nello slancio che si era data verso Novokov, Natasha era emersa da dietro le casse e ora era perfettamente visibile per metà. Bastò una frazione di secondo perché alcuni agenti dell’HYDRA la avvistassero, il loro comandante ordinò all’istante di sparare e iniziarono a dare fondo ai loro caricatori. Prontamente, Natasha tentò di sottrarsi al fuoco balzando di lato, eseguendo quelle mosse che per tanti anni era stata convinta di aver imparato al Teatro Bol'šoj.
Riuscì a mettersi di nuovo al sicuro, senza sapere tuttavia quanto sarebbe durata. Strinse i denti e imprecò sottovoce: l’HYDRA, quel nemico insidioso che si era ingegnata fino a quel momento per evitare, si era fatta viva e proprio sul più bello. Era un pericolo che sapevano di correre: era stato proprio Fury a dirle che, come quell’organizzazione terroristica era stata così interessata al Soldato d’Inverno, avrebbe potuto volere nelle sue fila anche un altro dormiente come lui: un’arma del genere faceva decisamente gola a chi sapeva come usarla. Fin dall’inizio, Natasha aveva preso tutte le precauzioni per evitare che l’HYDRA venisse a sapere della sua missione, ma era stato inutile. Non solo avevano mandato all’aria l’arresto di Novokov, ma ora avrebbero potuto persino sottrarglielo.
Natasha si voltò, sporgendosi oltre la colonna montante dietro la quale aveva trovato riparo, e premette ripetutamente il grilletto, facendo fuoco contro i terroristi. Fu piuttosto sicura di averne colpiti un paio, ma non perse tempo a contare le sue vittime che una nuova raffica di proiettili minacciò di investirla, così fu costretta a ritirarsi di nuovo dietro la colonna. Le pallottole fischiavano intorno a lei, una colpì il cemento della colonna, causando una piccola pioggia bianca sui suoi capelli scarlatti.
Quando anche le ultime armi d’assalto tacquero, la Vedova Nera si preparò a una nuova risposta da parte sua in quel conflitto a fuoco. Tentò di ruotare il capo per avvistare James: anche lui era armato, doveva darle man forte. Ma non fu solo quella la ragione del senso di urgenza con cui Natasha saettava gli occhi alla ricerca del profilo dell’uomo: provò l’inconscio bisogno di saperlo al sicuro.
Eccolo, era lì. James era in piedi praticamente nello stesso punto in cui la Romanoff lo aveva lasciato insieme a Novokov. Gli agenti dell’HYDRA si erano spostati di lato e puntavano le armi verso la colonna montante dietro la quale era nascosta, c’era qualcosa in quella manovra che la impensierì. Avrebbero potuto tentare di colpirla da dove si trovavano inizialmente: anche da quella prospettiva Natasha era sotto tiro. Invece si erano spostati e la ragione non poteva che essere una: non volevano rischiare di danneggiare James e Leonid. La donna lanciò un’ulteriore occhiata fugace nella loro direzione e si accorse che erano perfettamente illesi. A giudicare dai bossoli che riusciva a vedere sul pavimento, nessun proiettile era stato sparato nella loro direzione, e i due ex agenti sovietici avevano ora le spalle coperte da uomini dell’HYDRA.
Qualcosa di più di un sospetto, un’atroce consapevolezza, fendette il cervello di Natasha come un colpo di mannaia.
Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di non contemplare quell’eventualità, ma il modo in cui si stavano svolgendo i fatti parlava da sé. Non era un caso se l’HYDRA si era presentata in quell’edificio abbandonato proprio in quel momento: doveva sapere che lì avrebbe trovato i due dormienti. Nessuno era al corrente di quella missione, nessuno sapeva che quella notte lei e James si sarebbero trovati in quel posto. Solo una persona poteva aver rivelato quell’informazione: Barnes.





*Soldato d’Inverno

NdA: rieccomi con un nuovo capitolo. Ci ho messo un po' per questo aggiornamento, ma sono viva! E... colpo di scena.
Non potevo non ficcarci pure l'HYDRA, concedetemelo.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8 ***


Natasha prese una serie di respiri profondi e distanziati, in modo da indurre il suo corpo a ridurre le pulsazioni. Il pensiero di essere stata tradita da James l’aveva sconvolta più di quanto sarebbe stato lecito ammettere, facendo defluire il sangue con un ritmo più concitato di quello che sarebbe stato accettabile da parte di un agente come lei.
Fury non aveva avuto torto, rifletté la Vedova Nera. Quando, qualche mese prima, Rogers si era intestardito nel sostenere che il Soldato d’Inverno non esisteva più, e che al suo posto era tornato Bucky Barnes, aveva fatto bene a non dargli corda e a tenerlo all’oscuro di quella ultima missione. Fury aveva previsto che Capitan America sarebbe stato troppo coinvolto, invece in quel momento in cui era così difficile capire di chi ci si poteva fidare, avevano più che mai bisogno di lucidità e freddezza. Ecco perché, tra tutti gli agenti a cui il direttore avrebbe potuto affidare la missione, aveva scelto la Romanoff: sapeva che la Russa sarebbe stata professionale o distaccata.
O almeno avrebbe dovuto esserlo.
Natasha si morse con forza l’interno della guancia, dandosi della stupida per aver abbassato in quel modo la guardia. Ma non c’era il tempo per prendersela con se stessa, doveva rispondere al fuoco dell’HYDRA e cercare, almeno adesso, di portare a termine la missione affidatale da Fury nel modo in cui lui si era aspettato. L’obiettivo non era cambiato: doveva impedire all’HYDRA di mettere le mani su Novokov e avrebbe fatto tutto ciò che era in suo potere per riuscirci.
Con un ulteriore slancio delle gambe, balzò fuori dal suo nascondiglio approfittando di un momento in cui i nemici dovevano ricaricare le armi. Stringeva una pistola per mano, tutte e due puntate verso le sagome nere che erano agenti dell’HYDRA; le bocche di metallo esplosero abbastanza proiettili da farle perdere il conto, poi Natasha atterrò agilmente al riparo di quello che sembrava un vecchio tavolo rovesciato.
Aveva contato una quindicina di uomini ancora in piedi, troppi perché potesse sperare di uscire indenne da quel casino, eppure non si sarebbe arresa così facilmente. Ormai non sperava più che James sarebbe intervenuto a darle man forte, nemmeno si augurava che almeno non le andasse contro: si era già illusa una volta e non avrebbe ripetuto lo stesso errore in un frangente così delicato.
Inspirò ancora, poi si sporse nuovamente oltre la barriera costituita da quel tavolo per rispondere al piombo dell’HYDRA. Natasha agiva quasi senza pensare, così abituata a quei ritmi serrati, a quelle dinamiche. Aveva passato quasi tutta la sua vita in mezzo a uno scontro a fuoco e, probabilmente, così avrebbe continuato ad essere. Eppure, nonostante l’abitudine, riusciva a mantenere la lucidità necessaria per realizzare quando una situazione volgeva drasticamente a suo svantaggio, e quella in cui si trovava apparteneva alla categoria.
Altre pallottole fischiarono a pochissimi centimetri da lei, una fischiò quasi rasente all’orecchio, un’altra le colpì di striscio il braccio. Natasha strinse i denti e trattenne un’imprecazione mentre tornava a riparo, con il respiro di nuovo accelerato e la sensazione di avere l’arto in fiamme. Notò che il kevlar della sua tuta era lucido di sangue, ma per fortuna si trattava di ben poca cosa rispetto a ciò che sarebbe accaduto se fosse stata colpita qualche centimetro più in là. Si sforzò quindi di ignorare il danno e di concentrarsi ancora sui suoi nemici, tentando di non fare previsioni su quanto tempo sarebbe passato prima di ricevere un altro foro di proiettile.
Nel coro di spari che stava riducendo a brandelli la quiete di quell’edificio abbandonato, la Vedova Nera non distinse subito alcuni colpi che non provenivano né dalle sue armi, né dai ranghi dell’HYDRA. Seguirono nuovi movimenti, una nuova alternanza di chiaroscuri e altre voci che urlavano, sovrastando il fragore delle detonazioni. Natasha cambiò posizione e tentò di approfittare di quella nuova confusione per portarsi più vicina ai nemici, quando vide altre tute in kevlar, sulle quali spiccava appena il simbolo familiare di un’aquila dai profili bianchi, corredata dalla scritta Strategic Homeland Intervention Enforcement and Logistics Division. Fuori da ogni previsione, lo S.H.I.E.L.D. era lì; Natasha avrebbe potuto chiedersi la ragione della presenza di agenti di supporto non previsti a una missione che fino a quel momento era rimasta segreta, ma al momento tutto ciò che riuscì a fare fu ringraziarli mentalmente.
Un paio di uomini e una donna la raggiunsero, i primi due erano sconosciuti, ma la seconda era Maria Hill. La Vedova Nera era così sorpresa che tutto ciò che riuscì a chiedere fu:
«Che cosa ci fate qui?»
Nella penombra, l’ex vicedirettore dello S.H.I.E.L.D. inarcò un sopracciglio.
«Ordini di Fury» replicò in fretta. I suoi occhi setacciarono la figura di Natasha alla ricerca di eventuali danni, cogliendo subito un dettaglio che indusse Maria a increspare la fronte.
«Sei ferita» constatò.
«Sì, ma non è nulla di serio» tagliò corto l’altra.
Avrebbe dovuto aggiornare la Hill su tutto ciò che era successo fino a quel momento? Oppure lo sapeva già? Il fatto che agisse anche lei secondo gli ordini di Fury sollevava più domande che risposte. Al momento però il fragore degli spari e l’urgenza di reagire, oltre a una generale necessità di non morire, prevalevano su ogni altra cosa: Natasha avrebbe preteso delle spiegazioni, ma in un altro momento.
«Non mi aspettavo la presenza dell’HYDRA» disse soltanto, aggrottando la fronte.
Immancabilmente, il suo sguardo cercò un familiare braccio metallico nel punto in cui l’aveva visto per l’ultima volta. Concentrata com’era su James e sulla sensazione bruciante che, nonostante tutto, continuava a provare al pensiero di essere stata tradita da lui, si accorse con un secondo di ritardo che Maria non aveva risposto subito.
«Ce ne libereremo presto» rispose poi la donna, serrando le labbra in una piega dura.
Un attimo dopo, qualcos’altro sibilò a breve distanza da Natasha, inducendola a ritrarsi ulteriormente contro la barriera momentanea costituita da alcune casse di legno, ma quando con la coda dell’occhio scorse un vortice di colori scoprì che non si trattava di proiettili. Seguirono dei clangori di metallo e lo scudo in vibranio comparve nel suo campo visivo.
Natasha sbatté le palpebre: anche Capitan America era lì, si concentrò allora sul pensiero che quella battaglia poteva volgere ora a loro favore, tentando di ignorare quello relativo a cosa avrebbe pensato Steve se avesse avvistato Bucky tra i ranghi dell’HYDRA.
Lo scudo circolare compì una parabola, colpendo alcuni agenti nemici, facendo saltare le pistole dalle mani e alcuni denti dalle bocche, poi tornò nelle mani del proprietario, che arrivava di corsa proprio alle spalle di Natasha.
«Capitano» lo accolse Maria, come se si fosse aspettata di vederlo spuntare proprio in quel modo e in quel momento.
La Vedova Nera incontrò gli occhi azzurri del super soldato mentre questi le annuì brevemente. Non c’era tempo per altre esitazioni, dovevano sfruttare al meglio il vantaggio guadagnato. L’ex spia russa emerse da dietro le casse di legno il tanto che bastava per prendere la mira e sparare contro i suoi obiettivi, in poco tempo quell’edificio abbandonato si era trasformato in un macello di sangue e piombo, ma ormai era chiaro che l’HYDRA era in rotta. Tuttavia si trovavano ancora in una fase molto delicata e nessuno di loro doveva perdere la concentrazione o cedere a un illusorio senso di sicurezza.
«Novokov è ancora là in mezzo» gridò infatti Natasha, tentando di sovrastare con la propria voce il rumore degli spari.
Non sapeva quanto Steve e Maria sapessero della sua missione, ma immaginava parecchio, visto che si trovavano lì. In ogni caso, la Russa doveva evitare che l’ex dormiente finisse nelle mani dell’HYDRA e ora che erano arrivati i rinforzi era più sicura di potervi riuscire.
Anche James è lì…
Il Soldato d’Inverno tra i ranghi dell’HYDRA era forse una prospettiva peggiore di quella costituita da Novokov in mezzo ai loro nemici, così Natasha si morse la lingua e proseguì.
«E anche Barnes.»
Le sembrò quasi di sentire il tono pratico con cui Maria Hill avrebbe detto che erano entrambi compromessi e che dovevano fare i conti con un cambiamento di programma, ma l’ex vice direttore dello S.H.I.E.L.D. non disse niente, limitandosi a continuare a sparare a breve distanza da Natasha.
I nemici con le tute scure decorate con i profili rossi del simbolo dell’HYDRA stavano ripiegando verso l’esterno, soverchiati ora dagli agenti dello S.H.I.E.L.D. e da due Vendicatori. In particolare, erano due gli individui che continuavano a sparare, coprendo la ritirata degli altri. Uno dei due ricevette un proiettile in fronte da parte di Natasha, l’altro invece venne colpito allo stomaco dallo scudo lanciato da Capitan America. Ridotto il fuoco nemico quasi a zero, la Romanoff balzò in avanti, lasciando il suo riparo. Stringeva sempre la pistola in pugno, ma era ormai pronta a un corpo a corpo. Intercettò infatti prima uno, poi due adepti dell’HYDRA che le correvano incontro e li aggredì entrambi, alternando colpi ben piazzati a schivate degne di un’atleta. Tutti i muscoli dell’agente erano tesi verso un unico obiettivo: neutralizzare il prima possibile gli ostacoli che le si erano parati davanti. Impegnata com’era in uno scontro senza esclusione di colpi, tentava comunque, per quanto fosse possibile, di avvistare Novokov e il Soldato d’Inverno. I suoi occhi vigili setacciarono tutti gli uomini in rotta che le volgevano le spalle alla ricerca del familiare braccio di metallo, ma era impossibile avvistarlo in tutta quella confusione.
Alla fine, così come era iniziato, tutto finì. Natasha percepì che qualcosa era cambiato: l’immobile era tornato quieto e nel silenzio risuonò solo il tonfo dell’adepto dell’HYDRA che aveva appena mandato a terra. Il petto della Russa si alzava e abbassava ritmicamente mentre lei tentava di rimodulare il respiro per farlo tornare alla cadenza consueta, intanto il suo sguardo setacciava l’ambiente o ciò che ne era rimasto. Le pareti di cartongesso consunto erano crivellate di colpi, sul pavimento sbeccato giacevano alcuni corpi i cui arti erano piegati secondo angolature innaturali. Degli agenti dello S.H.I.E.L.D. li stavano afferrando per le braccia o le gambe al fine di portarli via, tracciando dei segni di trascinamento rosso sangue.
«Natasha, tutto bene?»
Una voce la costrinse a voltarsi: Rogers avanzava verso di lei con lo scudo in vibranio già assicurato alla schiena. Aveva riportato qualche graffio, ma era fondamentalmente illeso. Lo sguardo del Capitano indugiò sul braccio ferito di Natasha e anche lei si costrinse a guardare i lembi rossi di sangue della lesione sotto al tessuto strappato. Nella concitazione degli ultimi scontri, con l’adrenalina che montava, se ne era quasi dimenticata.
«Non è niente» tagliò corto prima che Steve potesse proporle di medicarsi. C’erano cose più urgenti di cui discutere in quel momento.
Ma Natasha si trovò improvvisamente a corto di parole quando scorse la sagoma di James alle spalle del Capitano. Resosi conto di aver perso l’attenzione della Vedova Nera, anche Steve si voltò.
Per un pezzo, nessuno disse nulla. Poi vennero raggiunti anche da Maria Hill, aveva riportato un taglio sotto lo zigomo e zoppicava leggermente, ma non sembrava niente di serio.
«Bucky…» disse dopo un po’ Steve, ma Natasha sentì la sua voce come un rumore lontano.
«Tu!» apostrofò a sua volta il Soldato d’Inverno. Le parole le uscirono dalla bocca prima che potesse mordersi la lingua. «Cosa ci faceva l’HYDRA qui? Sono stata attenta a non far trapelare nulla, perché non capissero che eravamo sulle tracce di Novokov, eppure ce li siamo trovati tra i piedi lo stesso!»
Natasha aveva avanzato fino alla figura massiccia dell’ex agente del KGB, quasi volesse affrontarlo di petto. L’occhiata che lui le scoccò fu dura come il marmo.
«Credi che sia stato io ad attirarli qui?»
Sentirsela sbattere in faccia con quel tono rese un’ipotesi perfettamente razionale più vacillante. Ma Natasha era stata già cieca una volta, non avrebbe abbassato la guardia. Nulla in tutta quella vicenda faceva ricadere i sospetti su qualcun altro, solo Barnes doveva aver comunicato i loro programmi ai suoi vecchi amici dell’HYDRA.
La donna schiuse le labbra per ribattere qualcosa di caustico, quando Maria sollevò una mano per interromperla prima che aggiungesse altro.
«Vi meritate una spiegazione.»
«Tu dici?»
La voce di James risuonò sarcastica e sprezzante, le sopracciglia si inarcarono e si aggrottarono un attimo dopo, facendolo tornare l’uomo che aveva addestrato Natasha nella Stanza Rossa.
Maria non distolse lo sguardo, ma lo puntò insistentemente sul viso di ognuno di loro.
«È stato il direttore Fury. Sapeva che l’HYDRA era sulle tracce di Novokov e ha ritenuto di raggiungere un duplice obiettivo.»
Natasha espirò seccamente, sciolse le braccia annodate sotto al seno e modellò le labbra in una smorfia incredula.
Fury. Non aveva pensato a lui, sbagliando: era esattamente il genere di cose che faceva il direttore. Lei lo aveva aggiornato costantemente sui progressi della missione che stava conducendo con Barnes, sapeva benissimo dove si sarebbero diretti quella sera e quando. Aveva dunque teso una trappola all’HYDRA per spingerla allo scoperto? O la trappola l’aveva tesa ai suoi agenti?
Consapevole che gli altri aspettavano altre spiegazioni, il luogotenente di Fury continuò.
«Il direttore ha inviato un messaggio anonimo con le indicazioni di questo luogo, sapevamo che era controllato dall’HYDRA. Ci aspettavamo che se il messaggio fosse intercettato, si sarebbe pensato che proveniva da Barnes.»
James strinse i pugni.
«Quindi lo avete usato, non è così?»
Natasha si era aspettata che James avrebbe replicato rabbiosamente, ma non era stato lui a parlare. Steve aveva le labbra contratte in una piega che solo a guardarla sembrava dolorosa.
«È così che funziona, Capitano» si oppose Maria, ruotando il busto verso di lui. Avrebbe sempre difeso l’operato del direttore, questo era ormai chiaro a Natasha. «Compartimentazione delle inform-»
«Lo so, lo so» ribatté Steve, serrando le palpebre per un secondo. «Segreti, misteri… Fury si fida così poco di noi da usarci come esca per i suoi piani?»
«L’HYDRA non è solo un suo -»
«Avrebbe dovuto dircelo!»
La voce del Capitano risuonò nell’ambiente vuoto come l’eco di una granata e zittì perfino Maria, che rimase a fissarlo con sguardo impenetrabile, senza però obiettare altro.
Di solito Natasha non si schierava dalla parte di Rogers, anzi più volte erano stati in disaccordo su quegli argomenti, non ultimo sulla nave dello S.H.I.E.L.D. che era stata presa d’assalto da Georges Batroc, in quanto la Vedova Nera difendeva quei metodi basati sulla segretezza. Ma quella volta… Fury aveva complicato le cose, esponendo una missione già complessa a un pericolo ancora maggiore, e solo per prendere due piccioni con una fava. Assicurarsi di avere Novokov sarebbe stato già un risultato importante, invece il direttore aveva voluto sferrare contemporaneamente un duro colpo all’HYDRA. Il fatto che Natasha e James avevano rischiato di lasciarci la pelle era un dettaglio marginale per lui?
La Russa tentò di non fare alcuna associazione con i metodi del KGB e cercò lo sguardo di Barnes. Era stato così logico dare per scontato che la colpa ricadesse su di lui, ma James non l’aveva tradita. Il sollievo generato da quella scoperta però fu contaminato da una dolorosa morsa allo stomaco.
La tensione generata dallo scontro verbale tra Rogers e la Hill crepitava ancora nell’aria, quando un agente si avvicinò al gruppetto.
«Dovrebbe vedere una cosa…»
Si era rivolto solo a Maria, ma anche gli altri lo seguirono. Si allontanarono di qualche passo: a terra, vicino alla colonna dietro la quale si era riparata Natasha all’inizio dello scontro a fuoco, con la giubba impregnata di sangue, c’era il corpo riverso di Leonid Novokov.





NdA: eccomi con un nuovo aggiornamento. Arrivano i nostri! Dopo aver infilato l'HYDRA in questa storia, non potevo esimermi dal tirare in ballo anche lo S.H.I.E.L.D. e Steve. Ecco chiarito come mai l'HYDRA è arrivata sul posto, certi metodi non si smentiscono mai.
Con un ulteriore colpo di scena, vi avviso che questo è il penultimo capitolo di questa mini-long. Un ringraziamento a tutti coloro che leggono e recensiscono!

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Capitolo 9
*** Capitolo 9 ***


Un sole pallido rischiarava il cielo a quell’ora del pomeriggio con la scarsa convinzione di chi non sa se uscire allo scoperto o restarsene nascosto dietro le coltri di nubi un altro po’. Un nascondino non pericoloso come quello a cui erano abituati gli agenti di spionaggio, ma per certi versi analogo.
Natasha abbassò lo sguardo sullo schermo del cellulare, in attesa di scorgerlo illuminarsi, ma niente. Controllò le chiamate ricevute, ma l’ultima era sempre quella di Steve risalente a qualche ora prima.
«Nat!»
La Romanoff tornò a infilare l’apparecchio in tasca e volse lo sguardo tutt’intorno, con aria apparentemente casuale. Alla sua destra, la familiare figura di Steve Rogers fendeva la folla diretta verso di lei.
«Steve» ricambiò con accennata cordialità.
«Ti sei già liberata della fasciatura?»
Il Supersoldato si riferiva alla medicazione che Natasha aveva ricevuto per via di quel proiettile nel braccio. L’agente strinse le labbra, come se fosse stato inevitabile.
«La ferita è guarita bene» si limitò a spiegare.
Dopo quel banale scambio di battute, rimasero in silenzio per un po’, evitando persino di guardarsi. Il traffico si muoveva intorno a loro come se fosse un’entità dotata di vita propria, risuonando a intermittenza dei richiami dei clacson.
Natasha e Steve non si erano incontrati dallo scontro a fuoco con l’HYDRA. Non che fosse trascorso molto tempo da allora, alcuni agenti dello S.H.I.E.L.D. si stavano ancora dando da fare per ripulire la zona, ma non avevano ancora avuto modo di parlare delle decisioni del direttore Fury.
Solo dopo qualche istante, la rossa sollevò lo sguardo sul Capitano e, dall’aria sul suo volto, desunse che non ne avrebbero parlato mai.
C’erano però ancora delle cose da sbrigare. Natasha aveva compilato il suo rapporto per Fury, tentando di essere il più obiettiva possibile, ma restavano tante problematiche irrisolte. Innanzitutto, la Vedova Nera non era riuscita a decidere se la morte di Novokov avesse decretato il fallimento della missione o il suo successo. Nick Fury era stato molto chiaro su un punto: l’ex dormiente non doveva cadere nelle mani dell’HYDRA, e il quel modo il pericolo era sicuramente scongiurato. Ma, d’altra parte, la Romanoff non riusciva a convincersi che una missione conclusasi con il decesso del suo obiettivo fosse una missione ben riuscita.
Restava poi l’altro problema, quello che stava impegnando lo  S.H.I.E.L.D. fino all’ultimo uomo. Quando Fury le aveva affidato il compito di rintracciare Novokov, Natasha non aveva avuto idea del fatto che si sarebbe trovava coinvolta in una storia più grande di loro, dai rischi maggiori rispetto a quelli – pur notevoli – connessi a un ex dormiente del KGB nelle mani dell’HYDRA. Tuttavia le scoperte che aveva effettuato insieme a Barnes e le parole di Smirnov non lasciavano dubbi: si trovavano di fronte a un problema molto serio se le Gemme dell’Infinito erano in giro, capaci di attrarre criminali e nemici dell’umanità.
«Novità?» domandò a quel punto Natasha, non sapendo esattamente cosa aspettarsi.
«Nessuna» rispose Steve. «Stanno cercando ovunque, ma non hanno trovato niente.»
La Pietra del Tempo non si trovava, alla donna non restò che annuire.
Del resto, lei e James non avevano avuto la certezza matematica che si trovasse nell’edificio dove si erano scontrati con l’HYDRA, la loro era stata solo un’ipotesi. Nemmeno l’organizzazione terroristica poteva avere una certezza del genere, e se si era recata lì era stato solo perché attirata nella trappola predisposta da Fury. L’unica persona che poteva dire loro qualcosa di più preciso era morta prima che Barnes potesse ricavarne uno straccio di informazione utile. Lo S.H.I.E.L.D. aveva iniziato un’indagine interna per ricostruire la dinamica dell’uccisione di Novokov, al fine di chiarire se fosse stato colpito da fuoco amico o meno, ma Natasha non sapeva a cosa servisse: il quel bailamme di piombo, il rischio di ricevere una pallottola vagante era quasi una certezza.
«Lo sapevo che Bucky sarebbe tornato.»
A parlare era stato Rogers. Il suo profilo venne per un attimo indorato da un raggio solitario che era riuscito a sfuggire alla coltre di nubi, mettendo in mostra così la fronte increspata e gli occhi che guardavano lontano, forse solo parzialmente consapevoli che Natasha era ancora lì con lui.
«Già. Non ho potuto dirti niente…»
«Ordini di Fury» completarono entrambi all’unisono.
La Vedova Nera inarcò un sopracciglio, cercando lo sguardo di Steve. Solo dopo qualche istante lui incrociò i suoi occhi, sul viso era stampata la stessa espressione che doveva aver avuto il ragazzo di Brooklyn degli anni Quaranta. Ma, osservando con più attenzione, Natasha si accorse che nel suo aspetto c’era dell’altro, qualcosa di distante.
La spia non si sarebbe giustificata con il Capitano per aver obbedito agli ordini, così sigillò le labbra e anche lei si volse a osservare il punto lontano fissato da Rogers. Le auto continuavano a muoversi intorno a loro, tra lo strombazzare dei clacson e il rombare dei motori, mentre i marciapiedi erano animati da una folla multicolore che andava sempre di corsa.
«E adesso?» domandò solo dopo un po’.
«E adesso andiamo avanti. Continuiamo a fare quello che abbiamo sempre fatto, l’HYDRA non ha teste a sufficienza per metterci K.O.»
Già, andare avanti. Era l’unica cosa che gli restava, in fondo. Ma di una cosa Natasha era certa: le cose non sarebbero state come prima, quella missione sulle tracce di Novokov aveva causato troppe fratture. Forse quella volta Fury si era davvero spinto troppo oltre; quale che fosse la verità, Steve sembrava non voler più sottostare ai suoi metodi e alle sue manipolazioni, Natasha glielo leggeva nello sguardo. Già lo S.H.I.E.L.D. aveva cambiato volto – o meglio, Nat non era certa che avesse ancora un volto –, probabilmente anche i Vendicatori ne avrebbero risentito. Ma c’era anche un’altra frattura alla quale non riusciva a non pensare. Abbassò lo sguardo e fece schioccare la lingua, incredibilmente riarsa, mentre ripensava al modo neanche troppo velato con cui aveva accusato James di essere sempre stato dalla parte dell’HYDRA.
La Romanoff avrebbe voluto condividere la risolutezza che Steve usava nel parlare di “andare avanti”, ma intorno a lei vedeva solo un mondo che andava man mano complicandosi e facendosi sempre più oscuro. Colleghi e alleati si rivelavano dei voltagabbana, il nemico era ovunque, tanto insidioso quanto invisibile, e non arrivava solo dallo spazio, ma viveva in mezzo a loro, altrettanto mostruoso. C’era poco, in quel quadro, che la facesse ben sperare.
Ma altro non potevano fare, erano l’ultimo baluardo di difesa contro l’oscurità dilagante e, se volevano avere qualche speranza di successo, dovevano quanto meno non essere in rotta con gli unici di cui sapevano con certezza di potersi fidare.
La fiducia, un tasto piuttosto dolente per una spia cresciuta nell’individualismo e nella ricerca dell’obiettivo a ogni costo. Ma ormai Natasha faceva parte di qualcosa di più grande, e aveva preso la sua decisione.
 
La Vedova Nera percorse rapidamente i gradini della rampa di scale che si annodava nel ventre del palazzo in cui aveva abitato il signor Walker, arrestandosi solo di fronte alla porta leggermente scrostata dell’appartamento del vecchio militare. Ricordò come fosse passato ormai del tempo dalla prima volta che si era portata a fronteggiare quella soglia: ora come allora non sapeva con certezza cosa avrebbe trovato dall’altra parte.
Questa volta però Natasha bussò; se James si trovava nell’abitazione le avrebbe aperto, se invece fosse stato altrove lei non avrebbe avuto interesse a entrare in un appartamento vuoto. Nel momento stesso in cui la sua mente formulò quella considerazione, si chiese se fosse davvero così sicura che, una volta conosciuta l’identità di chi era andato a fargli visita, James le avrebbe aperto sul serio. Del resto erano giorni che evitava di rispondere alle sue telefonate.
Gli istanti di attesa sul pianerottolo si dilatavano sempre di più, lasciando uno spazio crescente. Natasha non fu sicura di aver sentito un rumore dall’altra parte della porta, ma tentò lo stesso.
«James» chiamò. «Fammi entrare.»
Aveva tentato di mantenere il tono neutrale, ma non era stato così semplice.
Quando la donna stava iniziando a perdere le speranze, la serratura scattò e la porta si scostò per lasciare intravedere la figura dell’uomo. Probabilmente assomigliava al Bucky che ricordava Rogers più di quanto non avesse mai fatto negli ultimi tempi, complice la semplice t-shirt che indossava e il fatto che il braccio bionico fosse rimasto nascosto dietro una parete. L’espressione sul volto era un discorso a parte: non sembrava appartenere né a Bucky, né al Soldato d’Inverno.
Rimase a squadrarla per qualche istante, poi scostò la porta e si fece da parte, in modo da consentirle l’ingresso. Mentre la serratura scattava alle sue spalle, Natasha si avviò lungo quel corridoio che odorava di stantio e che tante volte aveva percorso negli ultimi tempi. Il budello dall’intonaco gonfio di umidità in alcuni punti si allargò nel salotto; lo sguardo della Russa individuò il computer e le medaglie di Walker esattamente dove le aveva lasciate, e il divano su cui lei e James…
«Non mi aspettavo che saresti venuta.»
La voce di Barnes la costrinse a voltarsi, distogliendo così gli occhi dal mobile e alzandoli su di lui. Più volte, nella sua mente, Natasha aveva cercato di figurarsi il suo confronto con l’ex agente del KGB, ma non era così facile. Era una situazione pressoché nuova per lei: quella di dover riconoscere di aver commesso un errore. E non si trattava di un errore da poco.
Si umettò le labbra, tanto per prendere tempo.
«Dovevo farlo. Dobbiamo parlare, James.»
L’uomo sciolse le braccia che aveva annodato sul petto e piegò appena le labbra, lasciandosi sfuggire uno sbuffo.
«E non temi che l’HYDRA possa spuntare da un momento all’altro? Immaginerai che come minimo inviti ogni sera il barone von Strucker e Daniel Whitehall…»
Natasha roteò gli occhi, per poi aggrottare la fronte, nervosa. Aveva avuto la conferma di ciò che aveva immaginato senza alcuna difficoltà: James ce l’aveva con lei. Non riusciva a biasimarlo, dal momento che lo aveva accusato di avere denunciato la missione al nemico, ma nello stesso tempo credeva di non meritare troppo biasimo nemmeno lei. Aveva agito come un agente, che era esattamente ciò che era. Eppure quella spiegazione non la faceva sentire a posto con la sua coscienza, ed era la ragione per cui si era presentata a casa di Walker.
«Mi dispiace, James.»
Quelle parole caddero in mezzo a loro come un macigno, facendo piombare ogni cosa nel silenzio. Richiesero un costo in orgoglio, ma Natasha sapeva che glielo doveva.
Cosa pensasse Barnes era meno chiaro; aggrottò la fronte e puntò su di lei uno sguardo che non avrebbe concesso a nessuno di guardare altrove. Nonostante la durezza della piega delle labbra, la Romanoff ebbe l’impressione di scorgere un’ombra di dubbio in quell’espressione. Forse James si era aspettato che lei fosse giunta per giustificare la sua scelta, richiamandosi al protocollo o alla concretezza delle apparenze. La Vedova Nera ci aveva pensato, in effetti, ma più spiegava a se stessa i motivi per cui aveva dubitato di James, più vuote le sembravano quelle parole. Così, eliminando tutte le scusanti, le ipocrisie e gli artefatti, restava solo una pura e semplice ammissione di colpa. Omise persino di dire che forse se era saltata a conclusioni affrettate era stato per via della confusione, degli spari tutt’intorno, della ferita che aveva riportato, dei diversi capovolgimenti di fronte, perché Natasha sapeva sarebbe stata una menzogna. Ne aveva dette fin troppe e ne avrebbe dette ancora, ma, per una qualche ragione, non voleva mentire a James. Non più.
«Non ti avrei denunciata all’HYDRA, Nat» rispose l’uomo. Il tono si era ammorbidito, o forse era solo stanco.
«Avrei dovuto saperlo.»
La rossa non aggiunse altro, trovandosi a corto di parole. Si limitò a restare dov’era, in piedi al centro della stanza, con il polso sinistro stretto tra le dita della mano destra. Fu James a muoversi: aggirò il tavolino basso, andando a sedersi pesantemente sul divano. Interpretando quel gesto come un muto invito a fare altrettanto, Natasha lo imitò. L’uomo non si oppose.
Appoggiò le braccia sulle ginocchia, piegando il busto in avanti, mentre le ciocche di capelli scuri andarono ad adombrargli la fronte.
«Non sono più il Soldato d’Inverno» sostenne a bassa voce, ma con una convinzione tale che non avrebbe permesso a Natasha di equivocare quelle parole.
Il braccio sinistro di James, quello meccanico, con ancora la stella rossa dipinta sulla spalla, sembrava dire tutt’altro, ma lei lo ignorò. Quella volta si sarebbe fidata delle parole di Barnes, come avrebbe dovuto fare fin dall’inizio.
«Lo so, James. Steve…»
«Non sono più nemmeno Bucky» la interruppe, prima che potesse dire qualsiasi cosa avesse in mente su Rogers.
Natasha serrò le labbra e annuì in modo impercettibile. James si era liberato dal controllo del KGB prima e dell’HYDRA poi, l’incontro con il suo vecchio amico aveva sbloccato la sua memoria e brandelli di ricordi avevano iniziato a fluire attraverso le maglie dei lavaggi del cervello subiti. Ma sarebbe stato un’illusione puerile sperare che ogni cosa sarebbe tornata come prima, non dopo tutto quello che aveva passato, la Romanoff poteva affermarlo con la stessa certezza che avrebbe avuto se avessero parlato di lei. E un po’, forse, lo stavano facendo, perché Natasha sapeva esattamente cosa si provava. Si aveva la sensazione di essere macchiati per sempre.
«Sei un brav’uomo, James» sostenne con convinzione.
Barnes inclinò appena il volto e un accenno di sorriso lampeggiò oltre la cortina dei suoi capelli.
«Per niente, no. Ma tu sei l’unica a capirlo.»
 
Non ci voleva molto per ripulire la zona in cui si era svolto l’ultimo scontro tra lo S.H.I.E.L.D. e l’HYDRA, o almeno questo era ciò che Maria Hill aveva detto a Randall Thompson, agente di livello uno. Ma, nonostante questo, trascorrevano le giornate e il sito non era stato ancora liberato del tutto. Randall era abituato a essere escluso dalla maggior parte delle informazioni detenute dall’organizzazione spionistica, dalla roba grossa, ma andiamo, si trattava di un edificio abbandonato! Chi avrebbe mai notato le crivellature alle pareti, il cui intonaco si staccava e cadeva a pezzi già da prima? E anche se ci fosse stato qualcuno abbastanza sveglio da farci caso, avrebbe dato certamente la colpa a qualche gang. Ce n’erano parecchie, ultimamente sembrava che si erano svegliati sia gli Irlandesi, sia la mafia russa.
Perché gli agenti di grado superiore stessero perdendo tempo da quelle parti era un mistero e Randall ne aveva abbastanza di pulire le macchie di sangue lasciate dagli agenti dell’HYDRA. Voleva andare altrove, aveva sentito dire che stavano succedendo cose grosse, molto grosse: i telegiornali parlavano di persone che, dalla sera alla mattina, si erano risvegliate scoprendo di poter muovere oggetti col pensiero o di emanare fiamme o cose del genere. Lì era il centro dell’azione, era lì che dovevano darsi da fare, Randall ne era convinto. Così, quando quel pomeriggio Maria Hill lo aveva raggiunto e gli aveva detto di lasciar stare tutto com’era, in quanto sarebbero ripartiti da lì a breve, l’agente aveva a stento trattenuto un sorriso. Era felice di andarsene da quel complesso di edifici abbandonati, così felice che lì per lì non aveva notato l’espressione tirata sul volto di Maria, o il tono più sbrigativo del solito, quasi nervoso.
Quando la donna gli aveva voltato le spalle, lui aveva mimato un gesto di vittoria col pugno. Si era chinato subito per raccogliere la sua attrezzatura, senza nemmeno terminare l’analisi dei campioni di detriti che aveva iniziato. Staccò i cavi delle apparecchiature portatili fornite dallo S.H.I.E.L.D. e conservò tutto in una valigetta, che richiuse con uno scatto.
Prima di lasciare definitivamente l’edificio, diede un’occhiata alle macerie impolverate di fronte a lui e si accosciò, per prendere in mano qualche pezzo di muratura e pietra e farselo scorrere tra le dita. Ridicolo perdere tempo con quella roba.
«Agente Thompson, muoversi!»
La voce secca del superiore lo indusse ad alzarsi in fretta, lasciando cadere quei frammenti di scarso valore senza degnarli di un’ulteriore occhiata. Impugnò la valigetta contenente l’attrezzatura e si affrettò verso l’uscita.
Nel suo incedere rapido, non badò alla piccola pietra rotonda di una spenta tonalità arancio che rotolò adagio sul pavimento impolverato, fino ad arrestarsi contro un blocco di cemento.





NdA: ed eccoci  giunti alla fine di questa mini long. In questo capitolo ho inserito due citazioni dal comic!verse, rivisitate. Tutto è bene quel che finisce bene (più o meno), salvo cliffhanger finale.
Un enorme ringraziamento a chiunque è giunto fin qui, ai lettori silenti, a coloro che lasciano recensioni e alle due persone che hanno alimentato la mia ispirazione, mi hanno aiutata con dubbi di trama e hanno supportato i miei scleri fino alla fine.
Ve se ama.

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