Cose da fare prima di morire

di piumafantasma
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Vivere ***
Capitolo 2: *** Agire. ***
Capitolo 3: *** Vivi per caso. ***
Capitolo 4: *** La mia lista. ***
Capitolo 5: *** L'inizio ***
Capitolo 6: *** Rallenta. ***



Capitolo 1
*** Vivere ***


Vivere

Nonna era sempre stata un’amante dell’avventura e questo lo sapevo. Non era mai riuscita a rendersi schiava della routine, non era mai riuscita ad immaginare la sua vita ferma in un solo punto nell’attesa che qualcosa sarebbe cambiato, nell’attesa di qualcuno.
Agire. Questo era il suo motto. Si era resa conto che quella parola le apparteneva quando un giorno, assorta nei lavori domestici, si era fermata un secondo a guardare sua madre e a disprezzare la vita che stava conducendo. Il solito lavoro, i soliti sorrisi, i soliti discorsi. Infondo l’aveva voluto lei. Avere una figlia significa fermarsi, stabilirsi, contenersi. E questo non era ciò che mia nonna voleva, almeno non finché non ne ha sentito il bisogno.
Desiderava partire, vedere il mondo, ma senza niente di lusso in valigia. Sognava di riempirla di stracci, qualche pezzo di pane, pochi spicci e tanti sogni. Tutto qua, nient’altro. Ed è quello che ha fatto. Ascoltarla descrivere tutte le foreste attraversate, tutti i sentieri percorsi, tutte le facce conosciute è sempre stato uno dei miei passatempi preferiti o almeno lo era. Ora che lei è partita alla volta della sua nuova avventura lontana da questo mondo ho deciso di trovarmi un altro hobby, e quale potevo scegliere se non la lettura? Avventura, naturalmente.
A corto di nuovi titoli da esplorare decisi di intraprendere una trasferta a casa della nonna per rivedere ancora una volta le istantanee e le cartine che custodiva gelosamente nei suoi cassetti. È strabiliante quanto una donna possa fare con una Polaroid. Le migliaia e migliaia di posti immortalati sembrano niente a confronto di tutti i volti che comparivano sullo sfondo o nei primi piani. Sono sempre stata convinta che quella santa donna conoscesse il maggior numero di persone che un umano possa raggiungere in una vita. Peccato che i compagni di viaggio sono tali solo durante esso; i diari invece rimangono per sempre. E sono quelli la parte migliore. I diari di bordo. Vecchi, consunti, accartocciati, ingialliti ma di un valore inestimabile. Quello che non sapevo è che mia nonna ha sempre intrapreso i suoi viaggi con una logica strabiliante. Una lista. Cose da fare prima di morire. Un titolo alquanto semplice, un significato estremamente complesso. 

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Capitolo 2
*** Agire. ***


Agire.

Dopo la morte della nonna molte cose erano cambiate. Papà, ormai orfano, era diventato arrogante, pieno di sé. Si trattava di un continuo rinfacciare, mai di un consolare. Di questo se ne era accorta anche mamma, ma lei di forza per lottare contro mio padre non ne aveva mai avuta. Ancora ferma alla convinzione che la donna dovesse sottostare all’uomo e che una buona moglie non facesse altro che assecondare il marito e fargli trovare una pila di calzini puliti sopra il letto tutte le sere, non era mai riuscita a prendere una propria decisione.

Ed io? Io mi ritrovavo semplicemente spaventata. Spaventata dalla possibilità di condurre una vita come quella dei miei genitori. Noiosa, insignificante, terribile. I diciotto infondo avevano rappresentato un gran bel traguardo che aveva segnato la fine della mia adolescenza e l’inizio della gioventù. Quella che aspettavo da tutta la vita, il mio periodo migliore. Ho sempre pensato che tutti i giovani fossero straordinariamente belli, senza tempo, pieni di spirito di avventura e tutto ciò che sognavo era essere come loro. Ma come avrei potuto esserlo in quella famiglia? Non avrei potuto. E l‘unica possibilità che mi si era presentata davanti era quella di partire. Esattamente come aveva fatto la nonna.

Presa la decisione in modo estremamente repentino, non restava altro che prepararsi in modo altrettanto veloce per evitare che i pensieri dei problemi che questa decisione avrebbero arrecato influenzassero l’entusiasmo e la voglia di partire. La gioventù non è il tempo dei pensieri, è il tempo delle azioni. Il piano era semplice: tornare un’ultima volta a casa della nonna per prendere la sua valigia, i suoi diari, i pochi spicci che teneva da sempre nascosti tra le pagine di un libro in cucina che sarebbero dovuti servire per le evenienze e convincersi che tutto sarebbe andato per il meglio.
Quel giorno ero uscita di casa come tutte le mattine da 4 anni a questa parte esattamente alle 7.12, orario che avevo convenuto e sperimentato essere il migliore per prendere la corriera in tempo, con il solito zaino blu. Ultimo giorno di scuola del 4° superiore. Un traguardo importante, ma in realtà solo l’inizio di un cammino nettamente più irto che sarebbe poi culminato con l’esame di stato. In giorni come questi di solito lo zaino rimane più o meno vuoto o pieno soltanto del necessario per un pomeriggio al mare, il primo dell’estate che sarebbe iniziata subito dopo il suono dell’ultima campanella.
 Quel giorno però il mio zaino non conteneva né libri né costumi o creme solari, ma vestiti. Avevo infatti deciso che insieme alla scuola sarebbe terminata anche la mia permanenza lì. Per questo avevo scelto il guardaroba che avrei portato con me nel viaggio. Non essendo ancora sicura di quanto questo sarebbe mai potuto durare mi ero munita di capi adatti a qualsiasi condizione atmosferica: pantaloncini corti, canotte, pantaloni della tuta, felpe e un piumino che avrebbe svolto anche la funzione di un kway. In effetti avevo uno zaino un po’ troppo pieno per passare inosservata, ma la verità è che nessuno l’avrebbe notato, lo sapevo già. Prima di uscire definitivamente da casa mi ero concessa due minuti in più per provare ad immaginare come sarebbe stata la vita dei miei senza di me e mi ero decisa che molto probabilmente ben poco sarebbe cambiato all’interno della loro vecchia routine. Giusto qualche viaggio in meno. Come si sarebbero sentiti però non riuscivo ad immaginarlo.

La corriera, per la prima volta in 4 anni puntuale, era insolitamente vuota, anche se già da Maggio avevo notato una minore affluenza di studenti. Ho sempre amato il moto dolce della corriera, come quello di una culla, ma la cosa che mi aveva sempre affascinato era come il guardare fuori dal finestrino durante quei 20 minuti di viaggio riuscisse a staccarmi completamente dal mondo reale. In quei minuti la mia mente viaggiava, si incantava per poi disincantarsi ad ogni fermata, e immaginava qualsiasi cosa. Di solito però i pensieri variavano a seconda della playlist che la radio proponeva e quel giorno sembrava volesse essere la colonna sonora del viaggio che stavo per intraprendere.
’estate è la libertà. 

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Capitolo 3
*** Vivi per caso. ***


Vivi per caso.

La scuola. La routine per eccellenza. Tutti la odiano, ma infondo tutti la amano e la rimpiangono una volta finita. La scuola ha sempre rappresentato per me una sfida. Avevo creato aspettative: una ragazza in gamba, studiosa, che aveva optato per il Liceo Classico; una scelta che definirei autolesionista, ma che farei altre mille volte. È l’indirizzo più impegnativo certo, ma anche quello che alla fine ti può dare di più, sia culturalmente che umanamente. L’unico neo era senz’altro quello del dopo. Il futuro.

Uscire dal Liceo Classico voleva senz’altro dire università e questo era indubbio, ma quale? Mi ero sempre vista adatta ad una brillante carriera nelle lettere moderne, una professoressa coi fiocchi oserei dire, ma non era quello che volevo in realtà. La preferivo come scelta per il semplice motivo che era l’unica opzione che avessi mai preso in considerazione. Perché non fare beni culturali? Perché non giornalismo? Queste domande mi assillavano da mesi, ma ora improvvisamente svanivano, come se non fossero mai esistite. Non sarei mai potuta entrare in una buona università senza aver preso il diploma di quinto, ma avevo scelto e per una volta mi ero ripromessa di non tornare indietro. Il mio sarebbe stato un viaggio solo in avanti, non sarei mai passata due volte nello stesso punto, due volte nello stesso fiume. Non questa volta. Ritrattare per me era diventato quasi uno sport. Non saprei se definirmi “lunatica” possa essere esaustivo, ma sicuramente ci si avvicina molto. Più che altro amo considerarmi “meteopatica”, per cui sono felice quando c’è il sole e triste e quando piove; arrivati a questo punto credo sia una malattia. Quella mattina il sole era già alto da un pezzo e in cielo non c’era una sola nuvola.

Passai 5 ore di nullofacenza assoluta osservando quelli del 5° svuotarsi addosso bottiglie d’acqua da due litri mandando la bidella su tutte le furie. Come da tradizione ogni classe aveva fatto una maglia con una frase significativa o ironica; di solito la scelta più ovvia era quella di usare il greco. Una delle frasi infatti recitava “λαθε βιοσας” cioè “vivi nascosto” oppure “vivi per caso”, un motto epicureo. Avrei fatto esattamente questo, avrei vissuto per caso, alla giornata. Sarei stata ospite di qualsiasi persona fosse disponibile ad ospitarmi, mi sarei accontentata di qualsiasi cosa.

Al suono della campanella l’euforia fu generale. Dopo essermi risvegliata dal mio letargo ad occhi aperti, mi indirizzai verso l’uscita, cosciente che non avrei forse più varcato quella soglia per cui alla sensazione di estrema libertà si aggiunse una nota di malinconia.
Mi indirizzai immediatamente verso casa della nonna che si trovava proprio sopra la stazione. Era quasi curioso come avesse mantenuto la costante del viaggio anche dopo essersi sposata. La casa sapeva ancora di lei. Tutto in salotto era stato lasciato così come era stato disposto da lei stessa prima del trasferimento in ospedale. Il cellofan sulle poltrone, il telecomando sul tavolo, la bottiglia di coca-cola pronta nel frigo nel caso una delle sue nipoti capitasse all’improvviso. Tutto aveva ancora il suo profumo. Sapevo perfettamente dove teneva la sua valigia preferita, così come sapevo perfettamente che in quel momento mi stava osservando; cosa avrebbe pensato della mia scelta? Mi avrebbe appoggiato?

Aprii la valigia per riempirla di tutto quello che fin ad un momento prima era rimasto stipato all’interno del mio zaino. Poi lo vidi. Un biglietto. Quel pezzo di carta fu la prova che la nonna lo sapeva già da tempo che sarei partita. Più di una volta mi aveva detto che in me ritrovava quella curiosità che aveva segnato la sua vita. Il biglietto non conteneva chissà quale frase elaborata o sdolcinata, non sarebbe stato da lei. C’erano solo sei parole a inizio foglio. “Cose da fare prima di morire”. Ora toccava a me compilare la lista. 

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Capitolo 4
*** La mia lista. ***


La mia lista
 

“Conoscere
Sperimentare
Vivere
Esplorare
Camminare
Amare
Essere felice”

Non importava dove, non importava come.

Volevo conoscere i luoghi, i volti, le meraviglie che mia nonna aveva ammirato e immortalato.
Volevo sperimentare per poter compiere delle scelte sagge, così come lei aveva fatto.
Volevo vivere, non respirare.
Volevo esplorare i boschi, i sentieri.
Volevo camminare, non sarebbe stato un viaggio semplice, ma volevo percorrerlo nella sua intera complessità.
Volevo amare. Non c’erano spiegazioni per questo, non avevo mai amato prima e questo viaggio avrebbe potuto significare un nuovo inizio.
Volevo essere felice e questo era l’unico modo. 

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Capitolo 5
*** L'inizio ***


L’inizio


Ero pronta? La domanda, più che lecita direi, mi sovvenne quando vidi arrivare il treno a tutta velocità che iniziò poi a rallentare, ancora e ancora, per poi fermarmisi davanti. Le porte si aprirono. Ero pronta? Poggiai istintivamente un piede sulle scale. La risposta fu quindi estremamente chiara: ero pronta e anche se la mia testa era ancora intenta a trovare tre miliardi di scuse per non partire, il mio corpo era già posato e rilassato sulla poltrona blu del treno.

Non avevo alcun progetto in mente, neanche una distanza da coprire. La parete fittizia del treno era già sufficiente a farmi sentire libera. La consueta voce della signorina che non si sa mai perché, ma è sempre la stessa su qualsiasi treno tu stia viaggiando, poi mi annunciò che sarei arrivata a Verona entro le 5 del pomeriggio. Il viaggio sarebbe quindi partito da lì.

Una mezz’ora dopo mi resi conto di essermi preparata in quelle poche ore per tutto, ma non per l’attesa che avrei dovuto sopportare durante i viaggi. Era stressante non aver nulla da fare per contrastare la mente. Avrei dovuto portarmi un giornale o un quadernino di sudoku, giusto per ammazzare un po’ il tempo, ma ero stata talmente presa dall’organizzazione del tutto da essermene dimenticata. Nella fretta avevo lasciato addirittura i diari della nonna a casa sopra il tavolo, dove li avevo preparati, ma quando ero uscita era già troppo tardi. Per la prima volta nella mia vita sarei stata sincera fino all’ultimo: un viaggio solo in avanti. Se me ne ero dimenticata vuol dire che non mi sarebbero serviti. Poi lo vidi. Un cruciverba stampato sul giornale del signore che nel frattempo aveva preso posto davanti a me. Non potevo fare altro che puntarlo e cercare di leggere le definizioni, impresa alquanto ardua visto che il giornale era capovolto e devo essere sembrata alquanto disperata perché qualche minuto dopo fu lui stesso a cedermi in giornale dicendo che non ci avrebbe fatto niente.

Arrivata a Verona gettai la rivista che tanto avevo agognato e mi fermai un attimo ad osservare quanto fosse meravigliosa in quel momento la città. Tutto di quel luogo mi ricordava Romeo e Giulietta. Qualche anno prima ero stata a vedere nel teatro della mia città la versione musical dell’opera di Shakespeare e, inutile dirlo, ne ero rimasta estasiata. Tutto di quello spettacolo mi era apparso meraviglioso e ritrovarmi in quel momento nel luogo in cui quella storia aveva, nell’immaginazione di Shakespeare, preso parte era entusiasmante. Decisi così di dedicare questa prima giornata alla visita della casa di Giulietta.
C’erano così tanti biglietti e scritte e lettere attaccati sulla parete esterna della casa che dava sul cortile, che i mattoncini ormai non si distinguevano più. Ognuno aveva qualcosa di speciale. Alcuni erano bagnati da lacrime, altri erano strappati o mezzi accartocciati, il prodotto di un momento di rabbia suppongo, altri ancora portavano dei messaggi rassegnati, altri speranzosi. Una sola cosa li rendeva simili. Tutti iniziavano con lo stesso e identico incipit “Cara Giulietta…”. Tutti volevano una spiegazione, un favore, un consiglio, ma quello che in realtà questa gente faceva nello scriverle era semplicemente sfogarsi di tutte le loro preoccupazioni e sofferenze. Quale occasione migliore per lasciare su carta tutto ciò che di quel viaggio mi assillava. Dopo aver preso un foglietto tra quelli che erano offerti, mi sedetti sulla panchina che offriva la migliore visuale sul balcone di Giulietta e pensai e ripensai a tutto quello che avrei potuto scrivere in quelle poche righe. Infine, passata una mezz’ora abbondante, lasciai il post-it attaccato alla parete e lo osservai.

Anche il mio aveva qualcosa di speciale, qualcosa che lo rendeva diverso da tutti gli altri. C’era solo una parola, ripetuta le volte sufficienti a colmare l’intero spazio. Paura. Era questa la parola che avevo scelto, ma credo che nessun’altro avrebbe potuto capire, visto che la successione ininterrotta aveva reso impercepibile l’inizio della parola e la sua fine, restituendone solo una linea ondulata. Non c’era nessuna richiesta nel mio messaggio, ma solo la consapevolezza che avrei lasciato in quel piccolo spazio tutte le mie paure e che avrei proceduto a testa alta.

Il primo giorno era così terminato. Mi ero sistemata molto selvaggiamente in un parco, nel modo più naturale che potesse esistere. Avrei dormito distesa sull’erba con gli occhi fissi al cielo. Milioni di stelle mi avrebbero fatto da ninna nanna e non c’era al mondo nessuno che fosse più in pace di me in quel momento che ricorderò sempre come un momento eterno. 

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Capitolo 6
*** Rallenta. ***


Rallenta.


Tutto questo è alquanto irrealistico non credete? Una ragazza di appena 18 anni, si allontana per più di due settimane senza aver lasciato notizie di sé e nessuno si allarma di tutto questo. Le possibilità sono due: o non ha nessuno al mondo che la cerchi oppure c’è qualcosa che non sapete. Poiché la prima opzione sarebbe fin troppo surreale persino per una ragazza piuttosto asociale come me, sono costretta a rivelare un dato che avrei voluto lasciare all’ immaginazione del lettore, o semplicemente al mistero.
Vi basti sapere che un telefono ce l’ho anch’ io. Erano bastate alcune semplici parole:
“Sto bene, torno presto”

E sarei tornata veramente, solo che non sapevo quando. Riflettendoci la mia era stata una scelta fatta d’impulso, ma soprattutto una scelta codarda. Partire invece che accettare la propria realtà o cercare di cambiarla è scappare, non credete? Avevano realmente senso quelle parole scritte sulla lista?
I dubbi iniziavano ad assillarmi, cosa alquanto normale se considerate le due settimane passate a viaggiare senza un perché e l’assordante silenzio che mi circondava in ogni momento lontano da una città. Ero sola e l’unica interlocutrice che mi si presentava, a parte qualche amabile vecchietta pronta ad offrirti qualcosa da mangiare, era la mia stessa mente. Cadevo spesso in una sorta di sonno ad occhi aperti e devo ammettere che visto da fuori non deve essere stato un grande spettacolo, ma nel frattempo dentro la mia mente avvenivano certe discussioni e dibattiti che avrebbero fatto invidia a qualsiasi puntata di “Porta a Porta”.
Il tema delle discussioni variava dal panino alla mortadella scaduta che la “gentile” signora mi aveva regalato il giorno prima al senso della mia vita e del mio cammino fino a quel punto. Ma la fine di ogni discorso era sempre la stessa, qualsiasi argomento stessi affrontando: non lo so.

Era veramente avariata quella carne? Non lo so.
Avrò ancora qualche panno pulito? Non lo so.
Riuscirò a terminare questo viaggio? Non lo so.
Terminerà mai? Non lo so.

Piuttosto monotono, non trovate? Avevo bisogno di qualcuno che mi aiutasse a trovare delle risposte a quelle domande per il semplice motivo che mi ero resa conto di non bastarmi. Io non ero sufficiente a me stessa. Inutile dire che prendere coscienza di questo mi aveva fatto cadere in uno stato di tristezza quasi cronica. Era rimasta nello stesso paesino sperduto in Veneto per giorni a cercare di risollevarmi da quello stato di impotenza, finché presi una decisione. Venezia. Sarei andata a Venezia e avrei continuato il mio viaggio ignorando i mie pensieri. Andare avanti.

Venezia è una città meravigliosa. Le gondole, il Ponte dei sospiri, piazza San Marco. Ma è anche una delle città più costose in Europa: un solo caffè preso in piazza San Marco può costare fino a 8 €. Non che io, con le mie ristrette finanze andassi a prendere caffè in piazza San Marco, ma Venezia è una città sull’acqua e come tale necessita di un vaporetto per attraversarla; non potevo certo rimanere ferma sulle scale della stazione per sempre; ma non potevo neanche esaurire i miei soldi lì.

“Giulia…”

La voce mi giunse mentre ero ancora seduta davanti alla stazione. Era la voce di un uomo anziano. Fissava me, ma vedeva qualcun altro. Abbassai lo sguardo, magari aveva solo sbagliato.

“Giulia… sei tu…dopo tutti questi anni…”
“Signore mi dispiace...deve aver sbagliato persona, non mi chiamo Giulia ed è la prima volta che la vedo”
“Oh, mi dispiace ragazza… non volevo infastidirti…”
“Si figuri, capita a tutti di sbagliare persona”
“Hai ragione, è che ad una certa età i ricordi a volte si sovrappongono alla realtà. Vedevo in te un mio vecchio amore, di quando ero giovane”
“Un amore a lieto fine spero”

Il signore si fece immediatamente cupo, avevo forse detto qualcosa di sbagliato?

“Mi scusi non volevo…”
“No no, tranquilla. È stato l’unico amore della mia vita, un amore però che è dovuto finire troppo presto.”

Quell’uomo mi incuriosiva. Dopo le mie scuse, il suo volto si era rasserenato, aveva un viso pacifico. Avrei voluto sapere di quella storia, ma non sapevo se l’avrei infastidito o magari intristito.

“Cosa ci fai un uno zaino così grande?”
“Sto facendo un viaggio… “
“Ti va di raccontarmelo mentre facciamo una passeggiata?”
“Solo se lei prima mi racconta la sua storia d’amore, deve essere stata magnifica”

Al diavolo la riservatezza e la paura. Quell’uomo non mi avrebbe fatto nulla; non so perché ma sentivo che di lui avrei potuto fidarmi. 

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