Cenerentola non lucidava palloni da rugby

di MadAka
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Matt ***
Capitolo 2: *** Danni ***
Capitolo 3: *** Matt ***
Capitolo 4: *** Danni ***
Capitolo 5: *** Matt ***
Capitolo 6: *** Danni ***
Capitolo 7: *** Matt ***
Capitolo 8: *** Danni ***
Capitolo 9: *** Danni ***
Capitolo 10: *** Matt ***
Capitolo 11: *** Danni ***
Capitolo 12: *** Matt ***
Capitolo 13: *** Danni ***
Capitolo 14: *** Danni ***
Capitolo 15: *** Matt ***
Capitolo 16: *** Danni ***
Capitolo 17: *** Matt ***
Capitolo 18: *** Matt ***
Capitolo 19: *** Danni ***
Capitolo 20: *** Matt ***
Capitolo 21: *** Danni ***
Capitolo 22: *** Danni ***
Capitolo 23: *** Matt ***
Capitolo 24: *** Danni ***
Capitolo 25: *** Danni ***
Capitolo 26: *** Matt ***
Capitolo 27: *** Danni ***
Capitolo 28: *** Matt ***
Capitolo 29: *** Danni ***
Capitolo 30: *** Jamie ***



Capitolo 1
*** Matt ***


– Uno –

 

Matt

 

 

Non capisco come sia successo. Non ho visto l’attimo, né il frangente, né il gesto che ha scatenato tutto. Vedo solo Scott avventarsi sull’altro, afferrarlo per la maglia e tirarlo minacciosamente verso di sé. Poi tutto accade in pochissimo tempo. Alcuni nostri compagni di squadra si avvicinano per dividere i due – intenti a provocarsi e strattonarsi reciprocamente – imitati da alcuni dell’altra squadra.

Mi avvicino anche io:

«Scott, smettila» dico, prendendo per la spalla il mio amico, che mi guarda e si libera subito, tornando a concentrarsi sul suo rivale. Ed è quest’ultimo a prendersela con me praticamente subito. Avvinghia il colletto della mia maglia:

«Stanne fuori» esclama, spingendomi indietro.

Lo screzio ormai è degenerato. Altri giocatori – maglie azzurre contro bianche – si provocano a vicenda, altri ancora tentano di dividerli; le grida del pubblico fanno da cornice al tutto, a cui si unisce anche l’arbitro con il suo fischietto, suonano praticamente all’altezza del mio orecchio.

«Adesso basta. Smettetela subito o sanzionerò qualcuno»

Altri due richiami simili e tutto si interrompe, le squadre si dividono e l’arbitro chiama a sé i due capitani, per far loro il suo discorsetto. So già cosa sta dicendo loro, di informare i giocatori che quello non è il comportamento da tenere, che la prossima volta ci saranno anche dei cartellini gialli. Ma nel nostro sport, il rugby, queste scaramucce sono abbastanza frequenti, soprattutto se il match non è ancora ruotato a favore di una delle squadre e si è sullo zero a zero al trentaquattresimo minuto di gioco. Mi avvicino a Scott:

«Che ti è preso?» gli chiedo.

Lui mi squadra, poi allarga le braccia:

«Mi ha provocato, non l’hai visto?»

Scuoto la testa:

«No, non l’ho visto. Comunque sia hai fatto male a reagire. Se l’arbitro chiama il TMO1 è la volta buona che ti cacciano fuori»

Fa una smorfia:

«Non siamo in nazionale oggi, non sta a te farmi discorsi da capitano»

«Non ti sto facendo discorsi da capitano, ma da compagno di squadra» gli faccio notare.

Lui farfuglia qualcosa e mi dà le spalle per allontanarsi, mostrando il numero tre impresso sulla maglia rigata azzurro-blu. Scott Williams è sempre stato una testa calda e di certo non avevo alcuna intenzione di fargli una ramanzina poco fa. Volevo solo fargli notare che non ha senso rischiare un giallo per uno strattone o per qualunque altra cosa sia successa. Rimanere in quattordici contro quindici, soprattutto quando i nostri rivali sono i nordirlandesi dell’ Ulster, sarebbe la fine.

L’arbitro fa riprendere la partita, fischiando. Annuncia che è calcio di punizione per loro e il numero dieci irlandese ci ricaccia, con un potentissimo sinistro, nei nostri ventidue2. Raggiungo insieme agli altri il punto esatto da cui il gioco ripartirà con una touche3 e aspetto che tutto sia pronto. Appoggio le mani sui fianchi, mentre giocherello distrattamente con il paradenti. Mi sento la gola bruciare e le spalle già indolenzite. Sette mischie4 solo nel primo tempo – che per di più non si è ancora concluso – sono davvero tante e le sto sentendo tutte sul mio corpo. Ma la pioggia che continua a scendere, fine, fredda e tagliente, ha reso il pallone maledettamente scivoloso; schizza fra le mani come una saponetta e tenerlo stretto è complicatissimo. Di conseguenza il fallo più frequente che si commette è il passaggio in avanti, con successiva ripresa del gioco da una mischia.

I primi otto uomini si dispongono per la touche e mi infilo fra il mio numero sei e il quattro, pronto. Il silenzio che caratterizza questo momento del gioco è sempre inverosimile, solo fuori dal campo provengono delle voci, quelle dei tifosi. Il tallonatore dell’ Ulster afferra l’ovale, scambiando un’occhiata d’intesa con il suo capitano. Questi, di rimando, guarda il numero cinque, schierato praticamente accanto a me, che inizia così a dare le indicazioni per il lancio. Il fischio dell’arbitro sovrasta le voci, frettoloso, e, con quel segnale, il gioco riprende.

 

*

 

Il medico osserva la ferita, tiene il mio braccio fra le mani, il suo pollice sinistro preme appena sulla pelle, come se volesse accertarsi che quella stessa ferita non possa ricominciare a sanguinare. La pioggia che ha continuato a scendere per tutto il match l’ha lavata come ha potuto, facendo scorrere rivoli prima rossi intensi, poi sempre più dilavati e scialbi. Alla fine l’uomo pare convincersi, comincia a tamponare il mio taglio con del cotone imbevuto di disinfettante. Lo pulisce meglio che può da erba, terra e vaselina, in silenzio. Io lo guardo distrattamente, pensando alla partita.

«Ti brucia, Matt?» chiede.

Scuoto la testa e gli sorrido; acqua ossigenata sulle ferite l’ho già provata numerose altre volte.

Il fatto di dovermi sottoporre a questa operazione anche ora, al termine della partita, è dovuto ad una lacerazione da tacchetti da scarpe, avvenuta durante una ruck5. Raggruppamento a terra, io che tento di rubare il pallone e pedata che arriva volontaria sul mio braccio destro, lacerandomi la carne. Fallo antisportivo. Cartellino giallo per loro e calcio di punizione per noi, che purtroppo Mike non è riuscito a centrare, mancando i tre punti che ci sarebbero tanto serviti per la vittoria.

Il medico finisce di passare il disinfettante e comincia a fasciarmi con la garza la ferita ora pulita.

Abbiamo perso per due, dannati, punti. La cosa mi fa rabbia, ma se ripenso al match sono comunque orgoglioso della squadra. Abbiamo lottato alla pari con l’ Ulster per più di settanta minuti, inseguendo il loro punteggio e avendoli a portata di tiro sempre. Non ci siamo mai arresi e sento che avremmo potuto vincere se la prima meta fosse stata nostra. Ma dopo quella touche, quella touche regalata loro anche dalla reazione di Scott che ha provocato quegli screzi, i primi sette punti dell’incontro sono stati segnati sul tabellone dal lato irlandese.

«Ho finito» annuncia l’uomo.

Mi alzo e lo ringrazio, guardando un momento la fasciatura, poi esco, diretto agli spogliatoi. Sento ancora tutto il peso della partita addosso. Il prato pesante, fradicio di pioggia, in cui le scarpe affondavano e correre diventava faticoso il doppio. Gli impatti fisici, i placcaggi e le mischie. Tutto si ripercuote su di me; ho il collo indolenzito, per non parlare delle spalle e della schiena. Sento che se non immergo subito il corpo in acqua ghiacciata domani sarò ricoperto di ematomi. Ma prima mi serve una doccia; sono totalmente infreddolito e la mia divisa, che ancora indosso, umida e sporca, non mi aiuta di certo.

Raggiungo gli spogliatoi, ma prima che possa appoggiare la mano sulla maniglia per poter entrare, la porta si apre e ne esce il nostro allenatore.

«Ah, eccoti qui Matt» dice.

Si chiude la porta alle spalle e mi posa una mano sul braccio, facendomi capire che vorrebbe mi allontanassi un po’ dagli spogliatoi.

«Come va il braccio?» mi chiede, appena terminiamo di compiere quei quattro, cinque passi, che, ho capito, voleva facessi.

Guardo la fasciatura:

«Va benone, è solo scena» dico.

«Ho già parlato con i ragazzi» riprende: «E non penso di avere qualcosa da dirti che tu non sappia»

Annuisco tentando di guardarlo saldamente in faccia. So che è il mio allenatore ed è un uomo per cui nutro profonda stima, ma sono esausto. Vorrei solo cambiarmi, fare una doccia e sedermi da qualche parte per lasciar riposare il mio corpo.

«Per quel che ti riguarda, Matt, hai giocato un’ottima partita, davvero. Non ho assolutamente niente da rimproverarti, al contrario» Sorride: «Anzi, sto già pensando a come faremo senza di te durante i test match di novembre»

Anche io sorrido:

«Cosa le fa pensare che possa venire convocato in nazionale a novembre?» chiedo.

«Perché non dovrebbero farlo? Non solo verrai convocato, ma sarai sicuramente nominato capitano, proprio come le ultime volte. Hai la stoffa per queste cose»

Alzo le spalle. Non mi sono mai né sentito né visto come un leader e quando sono stato nominato capitano della nazionale gallese, ormai due anni fa, mi è sembrata un’idea totalmente assurda, soprattutto perché nei Cardiff Blues non lo sono, ma sono una semplice terza linea.

«Lei esagera» dico.

Il coach mi dà una sonora pacca sulla spalla, ridendo:

«La tua modestia è una dote rara ed è una delle altre cose che ti rendono una buona guida per la tua nazionale. Fidati di me. Se Jones non dovesse convocarti per i test match se ne pentirebbe e basta. Sarebbe stupido e ti garantisco che lui, stupido, non è. Sono io quello che dovrà fare a meno di te in quel mese»

«In squadra ci sono ottimi giocatori. Hanno già vinto molte partite anche senza di me»

Posa entrambe le mani sulle mie spalle e mi guarda, sorridendo:

«Va' a cambiarti» dice infine. Poi si allontana.

Lo guardo un momento, dopodiché entro in spogliatoio, finalmente.

L’umore che si percepisce nella stanza lascia trapelare chiaramente la delusione per la sconfitta appena subita. Parlano in pochi, gli sguardi sono bassi e solo alcuni incrociano il loro con il mio. Probabilmente tutti stanno pensando la stessa cosa, ossia che avremmo potuto vincere. Ci saremmo potuti riuscire davvero questa volta, è un peccato che non sia andata così, ma in fin dei conti è solo il primo turno del nuovo anno di campionato, abbiamo ancora tempo per perfezionare il gioco.

Mi sfilo la maglia, non sopportando più di tenerla addosso. Mentre cerco le cose per andare a farmi una doccia Brian, il capitano, mi raggiunge. Indossa anche lui solo la parte inferiore della divisa.

«Hai incontrato il coach, vero?» mi chiede.

Annuisco, sistemandomi l’asciugamano sulla spalla:

«Perché?» domando.

«Era per sapere se serviva dirti quello che ci ha detto oppure no. Ma direi di no» conclude, poi guarda il mio braccio destro: «Come va?»

Anche io poso lo sguardo sulla fasciatura e sorrido a Brian:

«Non morirò di certo»

Mi dà un paio di pacche sulla schiena e si allontana. Io mi passo una mano fra i capelli e, infine, mi avvio verso le docce.

Tutta una serie di pensieri cominciano ad accavallarsi nella mia testa. È solo il cinque settembre e il mio allenatore ha già cominciato a parlare dei test match6 di novembre. Avrei preferito non dover cominciare a pensarci così presto, ma ora non riesco a fare altro. Ci aspettano tre fra le squadre più forti del mondo: Australia, Sud Africa e, soprattutto, Nuova Zelanda e se il mio ed coach ha ragione – e di rado si sbaglia – toccherà a me guidare il Galles contro queste tre forze.

Non devo pensarci, ho ancora tempo e prima devo concentrarmi sulle altre partite del campionato di Pro12. La verità è che, per quanto mi senta onorato ad essere il capitano della nazionale gallese, ammetto che, a volte, vorrei essere solo uno dei tanti giocatori che in pochi considerano. Tuttavia, per qualche motivo che a me sfugge tuttora, io sono l’esatto opposto di quei giocatori. Da un paio di anni a questa parte vengo etichettato come un’ icona del rugby gallese, il giocatore di talento che però continua a giocare in un club locale senza accettare i contratti esteri che gli vengono proposti. I giornalisti continuano a cercare di attribuirmi motivazioni per la mia permanenza a Cardiff che non hanno praticamente mai avuto senso. Io amo la mia città e amo giocare a rugby, per fare tutto questo non ho bisogno di allontanarmi, mi basta restare nello stesso club da cui ho cominciato. Voglio una vita tranquilla, con una famiglia normale, non mi importa di correre dietro a contratti prestigiosi o a città estere. Ma la stampa pare non arrivarci e il gossip ancora meno. Si inventano storie su di me, mi affibbiano frasi che non ho mai detto, opinioni che non ho mai espresso. Qualche settimana fa i tabloid mi hanno attribuito un’ ipotetica relazione sentimentale con una modella con cui ho parlato una sola sera e ho trovato la cosa completamente assurda. Ho cercato di capire come fosse stata possibile una cosa simile e sono venuto a scoprire che lei aveva detto ai giornali che io avevo flirtato. Il concetto di flirtare per le modelle deve essere particolare dato che, quella sera, mi ero limitato ad annuire ai suoi discorsi bevendo birra.

«Uno come te farebbe meglio a rimanere single il minor tempo possibile» mi aveva detto il mio caro amico Paul – trasferitosi per giocare in Francia – a cui avevo spiegato la cosa qualche giorno dopo l’accaduto. Aveva concluso suggerendomi di mettermi con una qualsiasi, giusto per acquietare i tabloid e riprendermi un po’ della mia pace. Ero scoppiato a ridere e gli avevo detto di lasciar perdere. Non sono il tipo. Se mi dovessi mettere con qualcun’altra, qualcun’altra dopo Meg, deve essere perché lei è quella giusta.

Apro l’acqua e lascio che questa scivoli calda sul mio corpo. Troppi pensieri, troppe preoccupazioni tutte insieme. C’è ancora tempo per i test match, almeno un altro mese. Non devo pensare ora a come dovremo affrontarli e, oltretutto, non è detto che io sarò sul campo del Millennium Stadium quei giorni; non devo dare per scontata la mia presenza in nazionale.

Le voci nello spogliatoio cominciano a farsi più alte, qualche risata scoppia qua e là. I ragazzi devono essere sulla buona strada per ritrovare il loro ottimismo e il fatto che si stia avvicinando il terzo tempo7 li aiuta sicuramente. Anche io dovrei unirmi alla loro ricerca della felicità, dovrei lasciare da parte tutto ciò che si è accavallato nella mia mente in così poco tempo. Dovrei dimenticarmi dei tabloid e dei loro gossip, lasciar perdere i test match di novembre, non pensare alle mie spalle che continuano a farmi malissimo per colpa di tutte le mischie della partita. Ce la posso fare, ce l’ho sempre fatta.

Mi serve solo una birra.

 

 

 

 

 

 

 

Era da un po’ che avevo voglia di scrivere una nuova long, una storia a più capitoli per poter tornare a pubblicare qui su Efp in modo non occasionale.

Chi ha letto altri miei lavori, probabilmente, ha capito quanto io ami il rugby, uno sport che seguo da alcuni anni e che continua ad appassionarmi sempre di più.

In questa storia, questo sport, non si limiterà a fare da cornice, ma sarà un legante, forse il legante.

Perciò mi sento in dovere di dire questo: se odiate il rugby, o non vi appassiona per niente, questa storia non fa per voi.

Ma se vi incuriosisce, anche solo appena, allora continuate a leggere.

Io, nel mio piccolo, spero che questa nuova storia possa appassionarvi sotto tutti i punti di vista.

MadAka

 

 

 

Note:

1 TMO: Television Match Official. Durante partite di rugby di un certo rilievo può essere presente; ha il compito di verificare se un'azione in area di meta ha portato o meno ad una segnatura valida, o a verificare se è effettivamente stato commesso un fallo. Viene chiamato in causa dall’arbitro.

2 Ventidue: linea che indica i ventidue metri dalla metà campo.

3 Touche: rimessa laterale. Rimessa in gioco della palla dal punto, lungo la linea laterale (o linea di touche, dal francese), in cui la palla era precedentemente uscita. La rimessa spetta alla squadra che non ha causato l'uscita della palla, tranne in alcune eccezioni.

4 Mischia: situazione di gioco che si viene a creare sia spontaneamente, durante fasi di gioco aperto (mischia aperta) che per ordine dell'arbitro per riprendere il gioco quando esso è stato interrotto per qualche irregolarità (ad esempio un "passaggio in avanti involontario").

5 Ruck: termine inglese per indicare un raggruppamento a terra.

6 Test match: partita ufficiale di nazionale che non rientra nei tornei internazionali (come Sei Nazione, Mondiali).

7 Terzo tempo: il tradizionale incontro dopo-gara tra i giocatori delle due squadre. Inteso come momento conviviale pomeridiano (in inglese: After-match party o drink ) oppure serale (After-match dinner ), il terzo tempo è sempre stato visto come momento di socializzazione tra i giocatori, cui spesso partecipano anche le loro famiglie e, talora, anche i tifosi; nel mondo anglosassone si svolge in genere presso la Club House della squadra che ospita l'incontro.

 

 

 

Un’ultima cosa. Vi consiglio vivamente di dare un’occhiata a questo:

 

https://it-it.facebook.com/media/set/?set=a.525673340792210.137884.137009629658585&type=1

 

Si intitola Rugby per neofiti, realizzato da Laura Guglielmo, e, a parer mio, è una bellissima guida completa su ruoli e storia – per quanto breve – di questo sport, con tanto di ottime illustrazioni.

 

 

 

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Capitolo 2
*** Danni ***


– Due –

 

Danni

 

 

Mi sistemo nuovamente i capelli, rifacendomi una coda di cavallo per la terza volta in poco tempo. Quando devo stare piegata sul cesto dei palloni, cercando di afferrare quelli sul fondo senza tuffarmici dentro, i capelli legati mi infastidiscono sempre. Il loro non essere né lisci né ricci – ma, il più delle volte, orrendamente gonfi per via dell’umidità gallese di Cardiff – li rende fastidiosi da sopportare. Torno a concentrarmi sul lavoro; afferro anche l’ultima palla da rugby e la infilo nel sacco che ho con me, infine chiudo il tutto e mi avvio verso il campo da gioco. Quando arrivo fuori mi guardo un momento intorno, ascoltando il silenzio. Sul prato di Arms Park1 ci sono solo due degli allenatori della squadra under18 del Cardiff Blues, in attesa dell’arrivo dei ragazzi per l’allenamento in vista dell’imminente partita di domani. L’assenza dei giocatori si sente. Di solito questo prato è pieno di persone che si allenano, uomini che fanno mischie, raggruppamenti, passaggi e altri esercizi. Le loro voci si sovrastano sempre e rimanere a guardarli mentre pulisco gli spalti – insieme alle altre ragazze delle pulizie – è un piacere, soprattutto per me che amo il rugby e tifo Cardiff e Galles da quando avevo cinque anni – ossia vent’anni fa. Ma la squadra titolare oggi non è qui; è a Belfast a sfidare l’Ulster per il primo turno di Pro12. Una partita complicata che, a giudicare dall’orario, ormai sarà terminata.

Raggiungo l’allenatore e poso il sacco accanto a lui:

«Ecco i palloni» gli dico.

Annuisce con la testa, facendomi un cenno di ringraziamento, per poi tornare a parlare con il suo collega. Saluto entrambi a mezza voce e mi avvio. Torno negli spogliatoi e mi ricongiungo alle mie colleghe, intente a pulire da cima a fondo le docce.

«Ok, ci sono» dico appena le raggiungo.

Eleanor, la collega poco più grande di me e quella con cui vado più d’accordo, mi allunga una scopa:

«Se sistemi lì dall’uscita siamo a posto»

Annuisco, andando ad eseguire.

Mentre pulisco cerco di pensare a qualcosa, di distrarmi. Spero che concentrandomi su altro – lavoro o pensieri a caso – mi possa riprendere dal sonno che ormai mi attanaglia dalla mattina. Ho passato buona parte della notte a cercare di studiare, di approfondire e ripetere quello che dovrei sapere per l’esame di lunedì prossimo. Non so dire se mi sento preparata oppure no, di sicuro sono preoccupatissima. Mi sembra, come sempre, di non aver studiato abbastanza, che potrei approfondire di più, solo che spesso mi mancano tempo e voglia per provare a fare questo. Tuttavia è piuttosto complicato – specie per me – conciliare vita da single, università e lavoro; ma un lavoro mi serve altrimenti, oltre che per le rette dell’università, dovrei ammorbare i miei genitori chiedendo loro anche i soldi per affitto e spese varie. Non posso farlo e non voglio nemmeno. In fin dei conti fare la donna delle pulizie ad Arms Park, lo stadio dei Cardiff Blues, non è poi così male, pur non trattandosi di un lavoro molto ben retribuito. Inoltre, lavorando quattro giorni a settimana, solo il pomeriggio, ho anche il tempo di recuperare Jamie – il mio nipotino – quando ha gli allenamenti dell’under 12 qui allo stadio. E, come se non bastasse, le mie amiche – Jenna, la mia migliore amica soprattutto – mi ripetono costantemente che, lavorando qui, ho la perenne possibilità di vedere e conoscere i giocatori della prima squadra, quelli titolari, e alcuni anche nazionali.

Inutile dire che non ne ho mai conosciuto uno che sia uno. Io sono solo la donna delle pulizie, cosa gliene può importare a quelli di me? È già tanto se mi salutano quando ci incrociamo nei corridoi, il più delle volte sono perfettamente invisibile.

Finisco di spazzare e torno da Eleanor.

«Fatto» le dico.

Lei sorride:

«Allora direi che abbiamo finito. Facciamo una pausa?» domanda rivolgendosi a me e alle nostre due colleghe.

Annuiamo tutte e tre e ci avviamo verso una delle uscite sul retro. Appena siamo fuori due si accendono una sigaretta; Eleanor si sistema vicino a me, contro al muro. Mi nota mentre controllo rapidamente l’orario e prende immediatamente parola:

«Come pensi sia andata?» mi chiede.

Si riferisce alla partita Cardiff Blues – Ulster, a Belfast. Alzo le spalle senza rispondere.

Dire che spero che i Blues abbiano vinto è scontato. Tuttavia non so quante chance di vittoria avessero i ragazzi contro questa squadra, temo non molte.

In venti anni ho imparato ad analizzare in modo oggettivo le partite di rugby. Dopo il sei nazioni di quest’anno temo proprio che l’Ulster sia una delle squadre da battere, per quanto mi piacerebbe sbagliarmi.

«Non saprei. Spero che i ragazzi abbiano vinto, ovviamente» rispondo alla fine.

Eleanor si china fino al pavimento, intrecciando poi le mani sopra le ginocchia:

«Beh, questo direi chiunque. Che fregatura, però, non aver potuto vedere la partita»

Annuisco. Mezza Cardiff sarà rimasta sicuramente davanti ai televisori per assistere all’incontro. Questo è indubbiamente uno dei problemi del fatto di dover lavorare il sabato pomeriggio.

«Volete sapere il risultato?» ci chiede una delle nostre colleghe, smartphone alla mano.

«Spara» la incita Eleanor.

«Venti a ventidue per l’Ulster»

Subito io e Eleanor ci guardiamo:

«Stai scherzando?» esclama lei, alzandosi improvvisamente in piedi.

L’altra le allunga il telefonino:

«Controlla tu stessa se non ti fidi»

Ma lei non le dà ascolto e si volta verso di me:

«Venti a ventidue» dice: «Ti rendi conto? Avrebbero potuto vincere»

Annuisco, alzando impercettibilmente le spalle. Eleanor ha ragione, avrebbero potuto vincere. Tuttavia ci sono tutta una serie di fattori da tenere presenti. Dire che “avrebbero potuto vincere” è semplice; una sconfitta va analizzata sotto molti punti di vista. Può esserci una disfatta onorevole o una vittoria da poco. Bisogna vedere se il punteggio rispecchia davvero l’andamento totale della partita o se una delle due squadre è stata più fortunata, o meno, dell’altra. Un risultato può dipendere dal numero di falli commessi, da un intercetto fortuito, da una mischia ingaggiata male, da tutto. Per questo, per me, il risultato finale è buono solo ai fini della classifica.

Esprimo queste opinioni a Eleanor che mi ascolta e subito dopo mi guarda storta:

«Perché questi discorsi non li fai con i giocatori?»

Sbuffo:

«Sì, certo. Cosa ti fa pensare che potrebbero avere voglia di mettersi a parlare delle loro partite con me?»

«Non vedo perché no. Ne sai parecchie di robe sul rugby»

«Forse. Ma non penso che a loro interessi» concludo.

Eleanor continua a guardarmi, dubbiosa. Sta per ribattere, ma fortunatamente una nostra collega, rimasta in disparte a fumare finora, interviene:

«Ci conviene rimetterci al lavoro o non finiremo mai»

Annuiamo tutte e, in silenzio, rientriamo nella struttura. Ringrazio mentalmente la mia collega per aver interrotto il discoro; così facendo ha impedito ad Eleanor di ricordarmi che lavoro a stretto contatto con i giocatori della mia squadra del cuore: so che era sul punto di dirlo. Anche Jenna lo fa sempre; mi dice di farmi avanti, provare a salutarli, fare due chiacchiere con loro. Tuttavia per me è impossibile riuscirci. Sono sempre psicologicamente bloccata dalla posizione che ricopro, dal fatto di essere una delle ragazze che puliscono gli spogliatoi che poi loro andranno a sporcare nuovamente di erba e fango a fine partita. So che non dovrei ragionare così, lo so, ma purtroppo è più forte di me. Non frequento neanche il terzo tempo per questo stesso e stupido motivo.

Forse è ora che io cresca, che smetta di preoccuparmi per una cosa talmente priva di senso. In fin dei conti il mio lavoro qui mi serve per pagarmi gli studi; credo che questa sia una cosa da ammirare abbastanza, dopotutto.

Sospiro. Devo smetterla di prendermi in giro. Alcuni ragazzi che giocano in questa squadra sono anche gli stessi che giocano in nazionale. Molti di loro sono conosciuti a livello mondiale e sono in lizza per diventare future leggende del rugby gallese. Anche se riuscissi ad avvicinarli, anche se a loro non importasse più di tanto il fatto che sono una delle addette alle pulizie, non so in quanti possano essere realmente interessati alla mia storia.

Probabilmente nessuno.

 

 

 

 

Note:

1 Arms Park: stadio del rugby della squadra dei Cardiff Blues.

 

 

 

 

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Capitolo 3
*** Matt ***


– Tre –

 

Matt

 

 

La radiosveglia si avvia con la canzone sbagliata, decisamente. La spengo, infastidito. Non mi sono ancora deciso a cambiare la stazione radio con cui essa si avvia in automatico ogni mattina, ma la sera sono sempre troppo stanco o sovrappensiero per ricordarmi di fare una cosa del genere.

Mi alzo, cerco di sistemarmi un po’ lavandomi la faccia, per poi andare in cucina a mangiare qualcosa.

Mi sento a pezzi. Sebbene la partita sia stata due giorni fa i postumi degli scontri cominciano a farsi sentire soltanto ora. Collo e spalle sono le parti che stanno peggio e anche sul fianco ho un punto che mi fa parecchio male. Fortunatamente gli allenamenti del lunedì tengono presente la situazione traumatica post partita dei giocatori: analisi video del match trascorso dalle dieci alle quattordici, poi risposo fino alle diciannove, dove ci attende semplicemente una sessione di allenamento nella palestra attrezzi.

Apro il frigorifero in cerca di qualcosa con cui prepararmi la colazione. Il contenuto dell’elettrodomestico, però, è desolante. Non devo solo decidermi a cambiare la stazione radio con cui svegliarmi, ma anche a fare la spesa. Solo che ho poco tempo e, il più delle volte, quando ne ho mi manca la voglia. Vivere da solo per me è un casino. Anche se avere una casa interamente per sé è ottimo per diversi motivi – come invitare amici o, magari, una ragazza – per altri è solo un enorme impegno. C’è da amministrare tutto, dalle spese settimanali alle incombenze amministrative. Oltre a queste c’è anche il fatto che rientrare a casa la sera e trovarla buia e vuota non sempre è piacevole. Vorrei avere con me almeno Shuna – il mio alano – ma non potendo accudirla adeguatamente l’ho lasciata ai miei genitori, trasferitisi in campagna.

Alla fine riesco a prepararmi una colazione dignitosa dando fondo a tutto ciò che era rimasto nel frigorifero. Mi sistemo a tavola e accendo il portatile. Sono rimasto indietro con gli episodi di Breaking Bad e devo assolutamente mettermi in pari. Ho tutto il tempo che mi serve per vedere almeno un episodio. Alla spesa penserò questo pomeriggio.

 

*

 

L’analisi video della partita è andata esattamente come avevo previsto. Il coach ha sottolineato più volte come la partita fosse stata equilibrata e di quanto noi ci siamo impegnati per renderla tale.

“Sono fiero di voi ragazzi, ma…”

E la spiegazione di quel ma è durata ore, è andata avanti un’intera mattina. In mischia non siamo stati sempre dominanti, un paio di decisioni sbagliate sono state prese, in più occasioni non abbiamo conteso il pallone come avremmo dovuto, in altre abbiamo commesso fallo inutilmente e il coach ha sorvolato sulla reazione di Scott perché aveva usato già abbastanza parole sabato scorso.

Controllo l’orario. Mancano pochi minuti alle quattordici e non vedo l’ora che le lancette si fermino perfettamente sul numero dodici e sul numero due. Ho lo stomaco che brontola per la fame, la concentrazione agli sgoccioli e stare seduto nella stessa posizione non è minimamente di conforto alle mie spalle, che mi fanno sempre più male. Fortunatamente, come se avesse letto i miei pensieri, l’allenatore spegne il proiettore e ci guarda:

«Questo è tutto, direi. Per la partita di sabato voglio lavorare maggiormente su difesa e mischia. Dal video si è visto bene che, in queste due cose, siamo ancora troppo prevedibili. Ora vi lascio, ci vediamo questa sera»

Detto ciò un vocio sommesso si leva, divenendo via via più forte. Ci alziamo tutti e cominciamo ad avviarci fuori dalla sala video. Appena sono in corridoio qualcuno mi chiama dandomi un colpo sulla spalla. Dal punto in cui ha posato la mano parte una fitta che si arrampica lungo il collo fin su, alla nuca. Istintivamente alzo un braccio, come per difendermi. Mi volto e noto Mark – ala dei Blues e della nazionale gallese – che mi guarda con aria colpevole, le mani alzate.

«Ti prego non farlo più» gli dico, in tono amichevole.

Sorride:

«Sei messo male, eh?»

Annuisco. Lui si affianca a me e riprendiamo a camminare.

«Ho le spalle e il collo che mi fanno malissimo» dico, massaggiandomi, come posso, proprio il collo.

Mark mi guarda dall’alto del suo metro e novantanove, ovvero dieci centimetri più su della mia testa.

«Pensa che io avrei detto che la parte messa peggio di te fosse il braccio destro» ammette.

Abbasso istintivamente lo sguardo sull’arto in questione, osservandolo un momento. Mi ero dimenticato della ferita. A parte questa mattina – dove l’ho notata mentre mi vestivo – non ci ho praticamente più fatto caso, nascosta com’è sotto le maniche lunghe della maglia. La lacerazione si sta rimarginando bene, ogni tanto prude ma per il resto è sulla buona strada per guarire perfettamente. In fin dei conti non era una ferita così profonda; abbastanza lunga, questo sì, e necessitava certamente di essere disinfettata e medicata subito dopo la partita, ma per il resto non ha bisogno di ulteriori attenzioni.

Scuoto la testa:

«Non è niente di grave, sta già guarendo» rispondo.

Faccio appena in tempo a terminare questa frase che qualcuno mi urta. Mi colpisce al braccio, proprio il destro, in modo piuttosto forte. Tuttavia non mi fa assolutamente male, ma mi preoccupo immediatamente che l’altro se ne sia fatto. Sento uno “scusa” mormorato a mezza voce mentre sollevo entrambe le braccia per fermare la persona con cui mi sono scontrato – nel caso stesse perdendo l’equilibrio o cose simili dopo il contatto – ma non c’è più nessuno. Mi volto e vedo che si sta allontanando lungo il corridoio. È una donna, una di quelle che si occupano della pulizia dello stadio. A giudicare dal fisico asciutto deve essere una delle più giovani, ce ne sono un paio che vi lavorano, se non ricordo male. I capelli legati in una coda le oscillano a tempo, ondeggiando al suo passo veloce. Procede ancora lungo il corridoio, infilandosi infine in una delle stanze senza voltarsi.

«Stai bene?» mi chiede Mark appena riprendiamo a camminare. «Ti ha beccato proprio il braccio sbagliato»

Sollevo il braccio in questione per far vedere al mio amico che sta benone:

«Non mi ha fatto niente. É più facile che si sia fatta male lei»

Fa schioccare la lingua:

«Questo senz’altro» acconsente.

«Ma, che dici, secondo te non ci ha visto?» chiedo.

Lui si volta, guardandomi con un’espressione sarcastica molto esaustiva:

«Dubito che non ci abbia visti»

In effetti Mark non ha tutti i torti. Fra tutte le cose che si possono dire dei giocatori di rugby certamente il termine invisibile non figura. Non importa, può succedere. Sono anche abituato a scontri fisici; una ragazza che peserà si e no la metà di me non può farmi molti danni.

«Tu come ti senti nel post partita?» chiedo a Mark, riprendendo la conversazione interrotta prima.

Alza le spalle:

«Sto fin troppo bene» ammette: «Con quelle condizioni meteo non ho fatto praticamente niente»

Annuisco. Con un campo come quello di sabato le ali diventano quasi inutili. A parte un intercetto fortuito di Shane, che lo ha portato in meta, nessun’altro che non facesse parte dei primi dieci uomini è riuscito a compiere qualcosa di notevole. Mark è uno di questi. Qualche pallone recuperato al volo, diversi placcaggi, ma per il resto nulla di eclatante. Il che è un vero peccato, perché è un’ala incredibile. Il suo posto in nazionale se lo è guadagnato per i suoi meriti; è un giocatore eccezionale, veloce come pochi, reattivo, efficace e con tantissima voglia di lottare fino all’ultimo. Non l’ho mai visto arrendersi in una partita, anche se il punteggio lasciava presagire solamente la sconfitta.

«Mi rifarò sabato, se gioco. Le previsioni meteo sono piuttosto incoraggianti» dice.

Conclude questa frase proprio mentre usciamo dall’ingresso sul retro, superando il cancelletto e fermandoci nello spiazzo di asfalto in cui arrivano, solitamente, i pullman delle squadre alle partite. Ci fermiamo entrambi. Poso le mani sui fianchi e Mark si infila il cappello. Il clima è ancora più che mite e invita puntualmente a passare del tempo fuori di casa, ma Mark ha sempre un cappello in testa, con qualunque situazione climatica.

«Mettono sole, quindi?»

«Ebbene sì, e parecchio»

«Siamo ancora a lunedì» gli faccio notare.

Sorride:

«Sì, lo so. Ma sono ottimista. Se proprio non deve esserci il sole mi va benissimo una giornata come quella di oggi»

Apre le braccia, guardando in alto. Una giornata come questa andrebbe bene anche a me. Anche se il cielo è velato lo è comunque in modo lieve, qua e là le nuvole – sottilissimi agglomerati grigi – perdono coesione e si lasciano sfuggire i raggi del sole, che scaldano ancora meravigliosamente; l’aria, leggermente umida, ha la temperatura ideale.

«Se però fosse proprio soleggiato sarebbe meglio» conclude, alla fine.

«Staremo a vedere» dico.

«Oh sì. Anche perché sicuramente, con la fortuna che ho, se sabato ci sarà una giornata bellissima io non giocherò»

Sorride e io faccio lo stesso. Dopodiché Mark si sistema meglio il cappello in testa e mi fa un cenno:

«Ci vediamo stasera, dai»

«Certo. A stasera»

Mi dà le spalle e si allontana. Rimango a guardarlo mentre cammina verso la propria auto con quel suo passo caratteristico. Mi metto lo zaino su entrambe le spalle, mi passo una mano fra i capelli e mi decido ad avviarmi.

Il mio programma, ora, è semplice. Mi chiudo da Arnold’s – il mio pub preferito – per un buon pranzo a base di carne e birra, poi vado a fare la spesa e per finire me ne torno a casa a guardare un altro episodio di Breaking Bad. Direi che è perfetto.

Fino a stasera non ne voglio più sapere di rugby e quant’altro.

 

 

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Capitolo 4
*** Danni ***


– Quattro –

 

Danni

 

 

Rimango immobile a fissare la mia immagine riflessa allo specchio. Sono un disastro, da cima a fondo. Le occhiaie che ho potrebbero essere paragonabili solo a quelle di persone che non vedono il loro letto da anni, o agli occhi neri di un panda. Sono esausta e non sono sicura di riuscire a reggere fino a stasera.

Ho passato l’intera nottata – più o meno – sopra i libri per l’ultimo ed estremo ripasso dell’esame di questa mattina. Gli esami il lunedì mattina dovrebbero essere proibiti, a parer mio. Ho dormito davvero poco e stavo quasi per crollare in classe davanti al test. Fortunatamente non è successo niente del genere; ho resistito, sono rimasta concentrata e credo che, in fin dei conti, lo scritto sia andato piuttosto bene. Alcune cose le ho sbagliate, ne sono certa, ma era davvero impossibile ricordarsi tutta la marea di nozioni che c’era da sapere. Ora non mi rimane che aspettare i risultati finali dell’esame, così da vedere se la mia maratona di studio intensivo è servita a qualcosa oppure no.

Il turno di lavoro è iniziato da meno di mezz’ora e già mi sento a pezzi, spero vivamente che il resto della giornata trascorra via il più velocemente possibile. Vorrei davvero che finisse in fretta, che il pomeriggio trascorresse così da recuperare Jamie agli allenamenti e poi scappare filata a casa, tirarmi la coperta fin sopra alla testa, il gatto acciambellato sopra, a guardare qualcosa – qualunque cosa – alla tv.

Purtroppo, però, sono solo le quattordici e trenta e per altre quattro ore devo fare il possibile per resistere. L’unica nota positiva della mia giornata – tralasciando il test perché credo solo che mi sia andato bene – è il fatto che ho incrociato i giocatori mentre entravo nello spogliatoio e loro uscivano dalla sala video lì vicino.

A ripensarci bene però non è stato un granché. Mi sono letteralmente schiantata contro Matthew Evans. Non uno qualunque: Matthew Evans. Decisamente questa non è una nota positiva; lo sarebbe stata se gli fossi sfilata accanto con grazia e leggerezza, non come se volessi portarlo via afferrandolo per le costole.

Mi porto una mano alla fronte, sempre guardando il mio riflesso che rimanda, via via, tutti i cambi di espressione che la mia faccia esegue a causa dei miei pensieri.

Chissà cosa ha pensato, per chi mi ha presa. Scommetto che non ha neanche sentito quello “scusa” mormorato che ho pronunciato senza guardarlo nemmeno. Avrà sicuramente pensato che sono pazza.

Ma proprio non ce l’ho fatta a guardarlo in faccia dopo il modo in cui gli sono andata addosso. È ovvio che non l’ho fatto apposta ma potrebbe benissimo aver pensato il contrario. Anche se, in fin dei conti, sono parecchie le ragazze che hanno un debole per lui, sicuramente cose del genere ad opera di qualcuna di loro devono essergli capitate almeno una volta prima di oggi.

Matthew Evans è in assoluto uno dei giocatori più forti e popolari del momento, in Galles. Qui a Cardiff, soprattutto, trovare la sua immagine su striscioni, schermi televisivi o quant’altro è decisamente frequente, in particolar modo ora che si avvicinano i test match di novembre. Nonostante qui nei Blues sia “solamente” una terza linea, quando viene convocato in nazionale è, da ormai due anni, capitano e lo è per ottimi motivi. Oltre al fatto che è pieno di talento è un ragazzo giovane e dotato di carisma, lo si nota dal modo in cui si comporta sul campo da rugby. L’immagine che traspare di sé è quella di una persona determinata che sa perfettamente quello che vuole e dal suo account Twitter – che ammetto di seguire – ho l’impressione che sia anche un ragazzo simpatico, ma comunque intenzionato a mantenere le distanze dalla stragrande maggioranza delle persone che non popolano il mondo del pallone ovale. Io sono proprio una di quelle persone. Non lo conosco e quasi sicuramente non lo conoscerò mai e l’unico ricordo che avrò legato a me e lui insieme è quello di poco fa, ovvero io che gli vado addosso mentre lui cerca di uscire dalla struttura. Molto bene.

Sento la porta aprirsi, mi volto di scatto come se fossi stata colta in flagrante. Davanti a me trovo Eleanor, che mi guarda abbastanza sorpresa:

«Ma allora sei qui» dice.

Mi guardo un momento intorno, come se improvvisamente non ricordassi più niente del posto in cui mi trovo:

«Già» rispondo.

«Che stai facendo?»

«Niente di eccezionale, pensavo» sintetizzo.

Mi guarda perplessa un momento, infine alza le spalle:

«D’accordo allora. C’è da sistemare la sala video e pulire a modo la palestra attrezzi per stasera»

Annuisco. Mi avvio verso la porta, ancora bloccata da Eleanor che non si è spostata da lì davanti da quando è entrata.

«Hai davvero una brutta cera» mi dice, dopo avermi analizzata attentamente.

«Trovi?»

Scuote la testa in un esaustivo cenno di assenso: «È colpa dell’esame?»

«Già. Fortunatamente stamattina ho fatto il test e credo di essere a posto, finalmente»

«Sicuramente è andato bene. Sei molto brava, lo sai» mi sorride.

Anche io sorrido per ringraziarla e ci avviamo lungo il corridoio.

«Vorrà dire che ti lascerò sistemare la sala video, allora. Va bene?» domanda lei quasi subito.

«Va benissimo» rispondo.

Siamo quasi arrivate alla sala in questione e lei, come se si fosse ricordata la cosa improvvisamente, dice:

«A proposito. Li hai visti i giocatori?»

Mi volto a guardarla e noto che sta ammiccando.

Sospiro appena e scrollo le spalle:

«Sì, li ho visti»

Li ho visti fin troppo bene.

 

*

 

Esco da Arms Park alla fine del mio turno con dieci abbondanti minuti di anticipo sulle diciannove. Come ogni volta in cui devo recuperare Jamie esco direttamente dall’ingresso sul retro, quello destro, poiché è poco frequentato dai genitori degli altri bambini. Non voglio mi facciano domande, o che provino ad interagire con me raccontandomi la loro giornata lavorativa o, ancora, i successi del figlio alla partita della settimana prima. Mi è già successo e la cosa mi ha snervata. Non sono il tipo da fingere interesse per i traguardi ottenuti da qualcuno che non conosco, specie se i traguardi in questione non sono loro ma dei loro figli. Per questo ho iniziato ad aspettare Jamie a questa uscita; alla peggio incontro al massimo due genitori e qualche giocatore. A pensarci bene stasera potrei incontrare veramente qualche giocatore. I nuovi orari fanno coincidere l’inizio dei loro allenamenti serali del lunedì con la fine di quelli dell’under12. Chissà, magari sto solo facendo supposizioni campate in aria. Spero di sbagliarmi; dopo lo scontro di oggi con Matthew Evans non avrei il coraggio di guardarlo in faccia se dovessi incontrarlo.

Quando raggiungo effettivamente l’uscita sul retro, mi blocco. Di genitori non ce n’è traccia, ma fermo poco prima del cancelletto aperto c’è uno dei giocatori del Cardiff. Tiene in mano lo smartphone, che osserva con un leggero sorriso in volto. La luce delle schermo gli illumina il viso, facendo quasi risplendere nel tramonto la chioma di capelli biondi e drittissimi che si ritrova, corti e spettinati come quelli di un ragazzino. È Shane O’Bannon, il ventiduenne irlandese giunto a Cardiff quest’anno.

Mi avvicino al cancello – in modo che Jamie possa notarmi subito – cercando di non prestare attenzione a Shane. Guardo fisso davanti a me sperando che oggi l’allenatore decida improvvisamente di far uscire prima i bambini, oppure che Shane O’Bannon si decida ad entrare dentro lo stadio subito. Solitamente non rimangono mai fuori così, senza un apparente motivo.

Non so davvero come comportarmi; avrei l’occasione ideale per parlare con lui, con un giocatore, ma so già che non ci riuscirei. Non saprei cosa dirgli per non apparire un’idiota. Si creerebbe sicuramente quel silenzio imbarazzante dopo il mio “Ehi, ma tu sei Shane O’Bannon” e la sua risposta – sicuramente monosillabica – e io non saprei cosa dire, o fare, per recuperare. Quindi è meglio se me ne rimango qui, zitta e buona.

«Ehi, buonasera» sento pronunciare a Shane.

Mi volto appena, preoccupata. Si sta rivolgendo a me?

Ma quando punto gli occhi su di lui noto che sta sorridendo a qualcuno che non riesco a vedere. Quando questo qualcuno entra nel mio campo visivo, però, vorrei sprofondare.

È Matthew Evans. Lo stesso Matthew Evans numero sette dei Cardiff Blues, lo stesso con cui mi sono scontrata oggi. Mi sento avvampare al pensiero di questa mattina, ma non riesco a fare a meno di continuare a guardare i due giocatori con la coda dell’occhio. E pensare che mi basterebbe così poco per interagire con loro. Dovrei solo avvicinarmi, scusarmi per il disturbo e provare a scambiare due chiacchiere; non dev’essere così difficile, ma so già che non ci riuscirei.

Noto Matthew voltarsi appena verso di me e subito abbasso lo sguardo, come se il pavimento fosse la cosa più interessante del mondo al momento. Do un’occhiata all’orologio e vedo che mancano ancora cinque minuti alle diciannove. Mi ritrovo a sperare che tutti quei secondi passino in fretta, molto in fretta.

Fortunatamente l’orario di uscita dell’under12 arriva e sono consapevole che mi rimane da attendere solo una manciata di minuti prima dell’arrivo di Jamie. Tuttavia Matthew e Shane non accennano a muoversi dal punto in cui si trovano; rimangono fermi a parlare di non so cosa e ogni tanto scoppiano, all’unisono, in qualche sonora e contagiosa risata.

Quando vedo Jamie sbucare dall’uscita, il borsone in spalla a sbilanciarlo, mi sento infinitamente sollevata. Lui mi raggiunge, sorriso in volto, e posa il borsone accanto a sé, fermandosi.

«Ciao» dice, asciugandosi del sudore immaginario dalla fronte.

«Com’è andata?» gli chiedo.

Strabuzza gli occhi:

«Sono esausto. Il coach ci ha fatto fare un super allenamento oggi»

«Non ti sembra di esagerare?»

Scuote la testa:

«Io non esagero mai»

Esagera sempre, invece. È proprio per il suo essere esagerato ed esagitato che mia sorella – Rachel – si è decisa ad iscriverlo a rugby. Lei non è appassionata di rugby quanto me, ma suo marito sì; io e lui abbiamo cercato di farle vedere i pregi che si ottengono praticando questo sport e la disciplina è uno di questi. Jamie è un demonietto estroverso e incontrollabile, ma da quando gioca qui, ad Arms Park, ha molto più controllo di sé ed è anche molto più tranquillo. Alla fine anche Rachel ha dovuto ammettere che lasciarlo giocare a rugby è stata la scelta giusta e sono felice di ciò.

«Che dici, vogliamo andare? Scommetto che sei affamato» dico, invitandolo a seguirmi con un gesto.

Annuisce e recupera il suo borsone – non ha mai voluto che fossi io a portarglielo – ma si blocca prima ancora di cominciare a camminare. Mi accorgo che ha notato i due giocatori e io, immediatamente, comincio a pregare ogni divinità, esistente o no, che il piccolo non dica una sola parola.

Probabilmente ho rivolto le mie preghiere alle divinità sbagliate, anzi, sicuramente è andata così.

«Hai visto chi c’è?» esclama Jamie, con un tono tutt’altro che basso.

Indica i giocatori puntando contro di loro il dito. Sono sul punto di rispondere, di spiegare che indicare così le persone non va bene e che forse dovrebbe lasciarli stare anziché importunarli, ma non serve a niente. Shane sta già guardando il bambino, divertito e, praticamente subito, Matthew si gira, un sorriso ancora in volto ed è un sorriso bellissimo.

Abbasso lo sguardo su Jamie, imbarazzata. Lui è ancora fermo con la bocca mezza spalancata e, con lo stesso timbro vocale di poco prima, dice:

«Sono Shane e Matt, grande!»

Torna a posare il borsone a terra e si avvicina a loro, pronunciando frasi su quanto sia pazzesco incontrare dei veri giocatori. I due giocatori in questione lo guardano e sorridono, Matthew si china per riuscire a vedere meglio Jamie.

Ci mancava solo questa. Mio nipote doveva essere il mio biglietto di uscita per allontanarmi il più in fretta possibile da qui, non doveva essere la mia condanna ad ulteriori momenti di imbarazzo. A volte detesto proprio il fatto che i bambini facciano le cose senza pensare alle conseguenza, nonostante Jamie, con i suoi dieci anni, dovrebbe già cominciare a preoccuparsene.

Sospiro, cercando di non farmi notare. Ma chi voglio prendere in giro? Jamie non può certo sapere che vorrei sprofondare o scappare a gambe levate invece di stare qui a guardarlo mentre parla con due giocatori della sua squadra del cuore. Scommetto che è convinto che anche io sia esaltata quanto lui di questo incontro, sa quanto ami il rugby: andavamo sempre allo stadio insieme nella passata stagione e certo replicheremo anche quest’anno. Tuttavia, ora, vorrei solo tirarmi fuori da questa situazione.

«Jamie, dai, andiamo. Non è carino infastidire così i giocatori. Scommetto che se sono qui è perché hanno allenamento» dico, sempre mantenendo le distanze.

Shane alza gli occhi su di me, le mani in tasca:

«Non c’è problema» dice, lanciandomi un sorriso.

Il problema invece c’è. Si chiama Matthew Evans e riguarda la figuraccia che ho fatto con lui proprio all’inizio del mio turno lavorativo. Torno a guardare Jamie che continua a parlare con il numero sette di quanto sia stata mitica la partita di sabato.

«Avrei voluto che la vedesse anche Danni» esclama, indicandomi.

Matthew mi guarda e il piccolo riprende:

«Ma lei lavorava e quindi l’ho guardata con mio padre»

Il giocatore, che ha continuato a guardarmi sorridendo per tutta la durata della frase, torna a concentrarsi su Jamie, che non accenna a smettere di parlare.

Non credo uscirò viva da questa situazione.

 

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Capitolo 5
*** Matt ***


– Cinque –

 

Matt

 

 

La ragazza afferra il borsone del bambino – Jamie, a quanto pare si chiama così – e si avvicina. Mi sembra abbia l’espressione un po’ annoiata; sicuramente vorrebbe solo recuperare questo piccoletto e allontanarsi. Magari è convinta che io e Shane ci sentiamo importunati dall’intromissione di Jamie, ma non è così. So come comportarmi con i bambini. Nei miei due anni da capitano del Galles, o in rappresentanza dei Cardiff Blues, ne ho incontrati parecchi e per i motivi più disparati. Alla fine, direi che mi piacciono.

Quando lei si ferma, proprio dietro a Jamie, adagia la borsa in terra e intreccia le mani all’altezza del ventre. La guardo. È concentrata sul bambino, la sua espressione ora si è fatta indecifrabile. Tiene i capelli raccolti in una specie di chignon dove, qua e là, qualche ciocca color cioccolato, con iridescenze dorate come miele, prova a sfuggire alla morsa dell’elastico. L’acconciatura lascia intravedere la linea sinuosa e morbida del collo, interrotta, però, dall’arrivo immediato della felpa che indossa per proteggersi dal freddo, che sta arrivando insieme alla sera. Si accorge che la sto guardando e le sorrido. Lei abbozza il suo, distogliendo lo sguardo come imbarazzata, impedendomi di percepire le sfumature dei suoi occhi.

Davanti a me Jamie continua a parlare di quanto gli sia piaciuta la partita di sabato:

«Non mi importa se avete perso» dice: «È stata una partita fantastica!»

Si concentra su Shane, ora:

«Avrei voluto farla io quella meta» esclama, apparendo più esaltato che mai.

Si riferisce alla meta di intercetto dell’irlandese, una segnatura bellissima, in assoluto la più spettacolare dell’incontro.

«Beh, ti ringrazio» risponde Shane, poi continua: «Magari un giorno riuscirai a fare una meta ben più bella della mia»

«Sarebbe mitico» esulta.

È un ragazzino davvero agitato, non c’è che dire, ma le sue esultanze mettono tenerezza. Da piccolo non ero certo come lui, non avevo il suo stesso interesse per il rugby. Ho cominciato ad appassionarmi a questo sport intorno ai sedici anni; ma me ne sono innamorato perdutamente, cominciando a mettere anima e corpo negli allenamenti. Se Jamie si allena duramente e continua a provare tutto questo amore per la palla ovale, diventerà certamente un ottimo giocatore, forse uno di quelli fondamentali per la squadra.

«In che ruolo giochi?» gli chiedo.

Lui torna a guardarmi:

«Ancora non lo so»

Mi volto verso Shane e gli lancio un’occhiata perplessa, lui sorride:

«Fino ai quattordici anni non giocano a rugby come noi1» mi spiega.

Avendo iniziato a giocarci più tardi di lui non ero al corrente di questa cosa, o se lo ero me ne sono completamente dimenticato.

«Beh, allora, mettiamola così. In quale ruolo ti piacerebbe giocare?» chiedo, rigirando la domanda.

I vivaci occhi azzurri del bambino paiono illuminarsi ulteriormente.

«Vorrei essere un numero sette2» risponde prontamente.

Sento Shane scoppiare a ridere e la ragazza, rimasta in silenzio finora, sussulta leggermente.

«Un numero sette, sul serio?» chiedo divertito al piccolo. «E perché mai?»

Nuovamente la sua risposta non tarda ad arrivare:

«Perché voglio fare le mischie e placcare gli avversari»

Indico il mio compagno di squadra con il pollice:

«Ma anche lui placca gli avversari» gli faccio notare.

Jamie ci pensa un attimo:

«È vero, ma non fa le mischie e io voglio farne»

Rido:

«Quando dovrai farne tante in una sola partita non sarai della stessa idea»

«Perché?»

«Perché ti stanchi e il giorno dopo hai male ovunque»

«Davvero, credigli» interviene Shane.

Il bambino guarda prima uno, poi l’altro:

«Non importa» dice. «Sopporterò. Per diventare ottimi giocatori bisogna fare dei sacrifici. Mio padre me lo dice sempre»

«Ha ragione» ammetto.

Mi alzo in piedi perché la mia schiena ha cominciato a risentire parecchio della posizione assunta per parlare meglio con Jamie: le mischie di sabato scorso si fanno sentire ancora tutte.

«Comunque ci sono anche altri ruoli importanti in mischia, molto più del suo» dice Shane.

Jamie lo guarda:

«E quali?» chiede, incuriosito.

«Beh, i piloni, ad esempio»

«E ancora più di loro, il tallonatore» concludo io, provando ad inserire un leggero alone di mistero. «Di tallonatori ce n’è solo uno in partita ed è uno dei giocatori più importanti. Tutta la mischia serve a sorreggere lui» concludo.

Jamie mi guarda, torvo:

«Non è che mi state prendendo in giro?»

«Assolutamente no, è tutto vero» risponde Shane, mentre io acconsento con il capo.

Torno ad inginocchiarmi accanto al bambino:

«Facciamo così. Se sabato vieni al terzo tempo ti presento uno dei tallonatori della squadra. Anzi, te li presento tutti. Così potrai chiedere a loro se io e Shane ti abbiamo detto la verità oppure no»

«Davvero?»

Annuisco. Lui si volta verso la ragazza:

«Ci andiamo al terzo tempo sabato? Per favore»

Lei lo guarda un momento, poi sorride:

«Va bene, ci andiamo»

Jamie torna subito a concentrarsi su di me, lei posa una mano sulla testa del bambino e attorciglia uno dei suoi riccioli neri intorno all’indice.

«Dobbiamo andare adesso, però. Scommetto che loro sono in ritardo per l’allenamento» dice, il tono affettuoso.

«Ve bene, d’accordo» risponde lui, poi si rivolge a me: «Allora ci vediamo sabato» esclama.

Gli faccio l’occhiolino e sorrido:

«Contaci» detto ciò ci salutiamo tutti. Jamie e la ragazza – probabilmente sua sorella, mi pare troppo giovane per esserne la madre – si allontanano.

«Che tipetto» sentenzia Shane quando li perdiamo di vista.

«Già. Mi sembra un ragazzino piuttosto agitato»

«Sono d’accordo»

Rimane in silenzio un momento, poi dice:

«Lei è carina»

Lo guardo:

«Sì, lo è» rispondo.

Ripenso alla ragazza; al suo sguardo tenuto basso, forse per colpa dell’imbarazzo, alle sue mani dalle dita affusolate, al suono della sua voce, premuroso e avvolgente. Mi sembra ancora di notare davanti a me le sfumature color miele disciolte nei suoi capelli castani come il cioccolato e di rivedere il suo sorriso, quell’abbozzo di dolcezza che avrei voluto conoscere meglio.

«L’hai già adocchiata?» chiedo a Shane, maliziosamente, allontanando in fretta il ricordo.

Gli indico l’ingresso dello stadio, per fargli capire che è molto meglio se ci decidiamo ad entrare. Lui scoppia a ridere e, mentre mi risponde, si incammina accanto a me:

«No, direi di no. Sono fidanzato, lo sai»

Alzo le spalle:

«Le fidanzate vanno e vengono» gli faccio notare, scherzando.

Si sistema meglio il borsone in spalla, con fare disinvolto.

«È vero. Ma al momento la mia storia pare funzionare. Perciò me la tengo stretta» sorride. «Piuttosto, dovrei essere io a fare questo discorso a te. Sei single da parecchio tempo, ormai»

Lo guardo perplesso:

«E tu come lo sai?» chiedo.

Non ci conosciamo da molto, è impossibile che lui sappia di Meg.

Fa spallucce:

«I tabloid non ti lasciano stare molto spesso, ho visto. Qui sei una specie di sex symbol»

Allargo le braccia, ridendo:

«Hai detto bene, una specie. Non mi preoccupo più di tanto di quello che la gente pensa di me. Soprattutto se si tratta di gossip»

«Allora dev’essere questo tuo disinteresse a far crescere l’alone di mistero che, dicono, ti circonda»

«Lascia pure che pensino di me che sono uno stronzo. Non ho mai cercato la popolarità. Voglio solo giocare a rugby»

Shane mi guarda, sorridendo:

«Amen, fratello. Non ho mai sentito parole più belle» scherza.

Scoppio a ridere e gli do un’amichevole pacca sulla spalla:

«Una sera di queste dobbiamo andare a prenderci una birra insieme» dico.

Acconsente con il capo:

«Molto volentieri»

Raggiungiamo gli spogliatoi ed entriamo. Siamo praticamente gli ultimi e i ragazzi ci accolgono con qualche saluto e qualche amichevole offesa, come si fa fra uomini, per intenderci.

 

 

 

 

Note:

1: la frase di Shane si riferisce al fatto che, per regolamento, fino ai quattordici anni il rugby non prevede la suddivisione in ruoli specifici. Inoltre non vengono eseguite mischie, touche e placcaggi al di sopra della vita.

2: il numero sette è denominato anche terza ala, terza linea o avanti. Per maggiori dettagli riguardo ai ruoli vi rimando al bellissimo Rugby per neofiti di Laura Guglielmo, che trovate a questo link:

 

https://it-it.facebook.com/media/set/?set=a.525673340792210.137884.137009629658585&type=1

 

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Capitolo 6
*** Danni ***


– Sei –

 

Danni

 

 

Jenna rimane imbambolata a guardarmi, gli occhi sbarrati, la bocca spalancata e il coltello del pane stretto in mano.

Come ogni martedì sono a casa sua, per il nostro consueto pranzo insieme. Per via della mia università e di entrambi i nostri lavori riusciamo a vederci sempre poco, per questo motivo abbiamo battezzato il martedì come il giorno del nostro “stare insieme”. Io non lavoro, non ho lezione e il turno che ha lei, al negozio di vestiti in cui fa la commessa, le permette di avere a disposizione tempo a sufficienza per pranzare con calma in mia compagnia.

«Jenna la vuoi smettere di guardarmi in quel modo?» chiedo esasperata, dopo essermi sentita fin troppo osservata.

Sbatte gli occhi un paio di volte, poi mi punta contro il coltello:

«Vorrai scherzare, vero? Ieri hai conosciuto Matthew Evans e Shane O’Bannon e me lo dici soltanto ora? Io ti dovrei ammazzare»

«Dire che li ho conosciuti mi sembra un po’ eccessivo. Jamie ha semplicemente parlato con loro» puntualizzo.

Posa il coltello – per fortuna – e riprende ad assemblare le varie parti del pranzo.

«Sì, ma tu eri lì. Li hai visti» Mi guarda: «Hai interagito con loro» Infine mi punta contro un dito: «E me lo dici solo ora. Bell’amica che sei»

Sbuffo. Sapevo che avrei dovuto chiamarla la sera stessa, ma mi è passato di mente. O meglio, ogni tanto mi veniva in mente, ma poi ripensavo ai due giocatori e finivo catapultata in una lotta interiore fra la gioia di essere stata loro così vicina e l’innegabile imbarazzo che ho provato. Così ho finito con il raccontarlo a Jenna soltanto oggi, con finta noncuranza, e lei si è abbastanza alterata per aver scoperto il tutto soltanto ora.

«Oh, andiamo. Cosa sarebbe cambiato se te lo avessi detto ieri?» le chiedo, cercando di difendermi.

Appoggia i piatti pronti sulla tavola apparecchiata della sua piccola e accogliente cucina, invitandomi a sedermi con un cenno.

«Che avrei avuto la notizia subito, ecco cosa sarebbe cambiato»

Mi accomodo a tavola, proprio di fronte a lei e rimango a guardarla mentre infilza una foglia di insalata. Sospiro:

«Ok, mi dispiace. La prossima volta vedrò di informarti subito se mai dovesse succedermi un’altra cosa del genere»

Solleva lo sguardo dal piatto, puntandomi contro, questa volta, la forchetta con tanto di foglia di lattuga:

«Sarà meglio per te» sbotta.

Infine, come se non fosse successo nulla, si illumina e mi chiede:

«Allora, com’è?»

Finisco di masticare, guardandola perplessa:

«Com’è cosa?» domando.

Alza gli occhi al soffitto:

«Ma come: com’è cosa? Matthew Evans»

La seconda forchettata di cibo per poco non mi va di traverso. Bevo un sorso d’acqua, mentre una lacrima mi punge l’occhio destro pretendendo di essere lasciata libera.

«C’era anche Shane, devo ricordartelo?»

Fa spallucce, come a dire che lo sapeva perfettamente:

«Che c’entra? Lui è fidanzato» dice, come se fosse la risposta più ovvia del mondo. «E poi vuoi farmi credere che, a te, l’aitante Matthew Evans non piaccia? Andiamo, ti conosco e so che non è così» mi incalza.

Rimango a guardarla, lei mi fissa di rimando con un sopracciglio perfettamente inarcato. Vorrei ribattere ma non mi escono le parole. Jenna mi conosce fin troppo bene, mi ha messa alle strette. Ma non è che Matthew mi piaccia, non lo conosco nemmeno. Tutto quello che so di lui l’ho letto sui giornali, oppure ho provato a carpirlo dalle cose che gli vedo fare o scrivere su Twitter. Per il resto, per me, rimane un perfetto sconosciuto. Jenna è convinta che abbia un debole per lui solo perché una volta ho ammesso che è un ottimo giocatore – uno dei miei preferiti, questo sì – che sono felice sia il capitano della nazionale e che, ok, è molto, molto bello. Ma tutto si esaurisce qui, a queste considerazioni che ho di lui. Diciamo che forse, forse, potrebbe affascinarmi. Ecco, sì, mi affascina. Mi affascina il modo in cui gioca a rugby, il modo in cui la divisa segue fedele le forme del suo corpo statuario, il modo in cui si concede – anche se non sembra farlo sempre volentieri – ai giornalisti per le interviste a fine partita, il modo in cui stringe la mano agli avversari e sorride loro. Sono tutte queste piccole cose a renderlo interessante ai miei occhi; se poi ci aggiungiamo che è esteticamente perfetto – o quasi – che sembra simpatico e premuroso con i bambini, allora è fatta. Ma non direi che mi piace, questo no. Perché io possa dire una cosa del genere di qualcuno, di questo qualcuno deve piacermi soprattutto il carattere. È con questo che devi trascorrere il resto della vita, non con il fisico di una persona, ma con la sua personalità, la sua anima.

Lo ricordo a Jenna, intenta a spazzolarsi l’insalata dal piatto. Lei solleva lo sguardo e subito introduce la risposta con un’alzata di spalle:

«E allora? Quando vi sarete conosciuti meglio vedrai che ti piacerà tutto di lui. Scommetto che non è uno stronzo come i giornali vogliono farci credere»

Su questo sono d’accordo anche io. Non penso sia davvero come lo dipingono i tabloid, tuttavia sospetto fortemente che non sia minimamente interessato a stringere legami particolari con persone come me. Mi dà più l’idea di essere uno che ama circondarsi di persone a lui simili, gente che conosce la sua situazione, che la condivide. E per quanto a me piaccia il rugby non sono una di queste persone. Non so cosa si prova vicino ai giornalisti, come ci si sente sul prato del Millennium Stadium, né tantomeno cosa vuol dire essere il testimonial di qualcosa.

«D’accordo. Fatto sta che non penso possa essere interessato a me» dichiaro alla fine.

«Perché?» mi chiede la mia amica, il tono piatto.

«Perché io sono una delle donne delle pulizie. Cosa ti fa pensare che Matthew Evans, capitano della nazionale gallese, si faccia vedere in giro con quella che pulisce i bagni?» chiedo, indicandomi.

Nuovamente Jenna fa spallucce, tornando a gesticolare con la forchetta in mano:

«E allora? Devo ricordarti che, alla fine della fiaba, Cenerentola se la spassa con il principe?»

Sollevo le sopracciglia per l’assurdità del paragone appena fatto. La vita vera e i film Disney sono incomparabili, a mio giudizio.

«Sì ma lei aveva una fata madrina dietro. E, vorrei farti notare, che Cenerentola non lucidava palloni da rugby» rispondo.

Lei sorride:

«Appunto. Tu hai il rugby. Quale giocatore non vorrebbe una donna che ama lo sport da lui praticato? Se ti mettessi a parlare con Matthew di rugby cadrebbe ai tuoi piedi»

Beve un sorso d’acqua, in attesa della mia risposta. Io poso lo sguardo sulla mia insalata, prendendo a giocarvici distrattamente. Non ho mai parlato di rugby con un giocatore professionista; chissà cosa potrebbe pensare uno di loro, di me, se lo facessi. Magari rimarrebbe colpito dallo scoprire che conosco i termini tecnici, i falli e i campionati di mezzo mondo. Ma mi ricordo che qui siamo a Cardiff e che il Galles è uno dei capisaldi del rugby europeo e mondiale.

Guardo Jenna:

«Non penso faticherebbe a trovare un’altra ragazza esperta di rugby quanto me ma con un lavoro retribuito meglio»

Lei lascia cadere la forchetta, sbuffando:

«Sei davvero impossibile, Danni» esclama. «Come puoi buttarti già così, da sola, ogni volta?»

Abbasso lo sguardo, senza sapere cosa rispondere. Non lo so perché sono così, davvero non lo so, ma è più forte di me. Sono perfettamente consapevole di preoccuparmi troppo di quello che le persone pensano di me, quando non dovrei assolutamente interessarmi della cosa. Sono rimasta delusa tante di quelle volte, in passato, che ho completamente smesso di aspettarmi qualsiasi cosa dalla vita. Per non parlare delle mie relazioni sentimentali; sono andate una peggio dell’altra e quando ho creduto di trovare l’uomo giusto per me, quello mi ha lasciata. Per tutti questi motivi parto prevenuta su ogni cosa e lo sono verso ogni avvenimento. Semplicemente evito di farmi illusioni; se non mi aspetto grandi cose, le piccole che riceverò mi renderanno una persona felice.

Sospiro:

«Senti, Jenna, lo sai che sono fatta così, perché ti innervosisci tanto?»

«Perché sei una persona stupenda e odio sentirti sempre dire che sei un caso perso»

La ringrazio abbozzandole un sorriso. Non è la prima volta che mi rivolge simili parole, ma sempre, quando lo fa, riesce a farmi sentire speciale.

Ma ora non ha finito e riprende subito parola:

«Non puoi privarti della possibilità di conoscere, o frequentare, i giocatori dei Blues solo perché sei una delle donne di servizio dello stadio, è assurdo. Il tuo lavoro è importante e utile come quello di tante altre persone e chi non la pensa così è sicuramente un idiota» conclude.

La guardo negli occhi, in quei suoi occhi castani così scuri da apparire neri. Posso percepire perfettamente il bagliore di determinazione che risplende nelle sue iridi e che mette quasi paura. Ho sempre invidiato la sua sicurezza, devo ammetterlo. Jenna sa sempre quello che vuole e sa sempre come ottenerlo; da questo punto di vista non ci assomigliamo molto. Io so cosa vorrei me non ho assolutamente idea di come potrei ottenerlo.

«Lo sai che la penso così anche io» comincio. «È solo che non riesco ad assimilare appieno l’idea. Penso sempre che i giocatori e tutto lo staff mi reputino inferiore. A malapena mi salutano quando ci incrociamo per i corridoi»

Lei mi guarda di traverso, raccogliendo gli ultimi avanzi di pollo rimasti nel piatto, mentre il mio risulta pieno ancora per metà.

«Scommetto che questo è dovuto al fatto che non hai il coraggio di guardarli in faccia quando li incontri» risponde con tutta la sicurezza del mondo.

Beccata. Mi sento improvvisamente affondare come una nave. Apro bocca per ribattere ma non so cosa dire, così finisco per rimanere zitta mentre Jenna mastica il suo ultimissimo boccone, fissandomi con aria di superiorità. Sospiro, affondando infastidita la forchetta nella mia insalata. Jenna scoppia a ridere:

«Ti conosco, che credi? Non hai segreti per me» dice.

«Ti odio» sbotto a bocca piena; ma poi finisco inevitabilmente con il mettermi a ridere a mia volta.

Dopo un po’, quando mi sono ricomposta, la mia amica riprende parola:

«Comunque sia, ti rifarai sabato»

«Sabato?» domando, sperando che non stia per dire ciò che temo.

Annuisce con la testa:

«Al terzo tempo. Perché ci andrai»

È esattamente quello che temevo dicesse.

«No, non posso andarci. Non ci sono mai andata» farfuglio.

«Sì invece, devi. L’hai promesso a Jamie» mi ricorda.

Credo sia più corretto dire che Matthew Evans ha costretto Jamie a farmelo promettere.

«Jamie potrebbe andarci con Norman» riprendo io.

Mi rendo conto che sto tentando l’ignobile via della scappatoia. L’idea del terzo tempo, dei giocatori insieme ai tifosi, di andarci con Jamie che parla di tutto con chiunque mi terrorizza già ora che è solo martedì.

«Ma lui non vuole andarci con suo padre, Danni, vuole andarci con te» sottolinea Jenna.

Ha perfettamente ragione, lo so. Il rugby è la cosa che più lega me e quel piccolo demonietto di Jamie. Fin da quando ha cominciato a muovere i primi passi con il pallone ovale in mano, io gli sono stata vicina, spiegandogli regole, principi e ideali. Quando si parla di rugby Jamie vuole soltanto me e sarà sicuramente così anche sabato. Non posso neanche sperare che si dimentichi, per le cose a cui tiene ha una memoria incredibile.

«Pensi che ce la farò?» domando a Jenna dopo un po’, riferendomi a me a confronto con i Cardiff Blues durante il terzo tempo. Non serve specificare niente di tutto ciò: lei ha già capito. La vedo dipingersi un enorme, perfetto, sorriso in volto:

«Oh sì che ce la farai» dice, divertita. «Ma questa volta voglio gli aggiornamenti in tempo reale» conclude, portandosi uno dei suoi lunghissimi riccioli color mogano dietro all’orecchio, ci ha messo anni perché le diventassero tanto lunghi. Alzo le mani:

«Farò del mio meglio» dichiaro.

Mi sorride e le rispondo alla stessa maniera, infine lei prende a parlare di tutt’altro e io tento di terminare il mio pasto. Mi si è chiuso lo stomaco. A quanto pare parlare del terzo tempo di sabato non mi fa sentire così rilassata, o indifferente alla cosa. Anzi, direi che è il contrario: mi agita. So perfettamente di aver promesso a Jamie che sarei andata con lui dopo la partita, ma ora vorrei non averlo mai fatto. Passare la serata in mezzo ai giocatori e ai tifosi, con birra ovunque e persone che discutono della partita appena trascorsa. A pensarci bene questa è la parte migliore del terzo tempo, il lato bello. Quello che – stupidamente, va detto – mi preoccupa è il fatto di venire additata dai presenti come “quella che pulisce i bagni”. Deglutisco, guardando un momento la mia migliore amica, sempre intenta a parlare, ignara del fatto che io non la stia realmente ascoltando. Ripenso a quello che mi ha detto, alle parole che ha speso per ricordarmi che il mio è un lavoro come quello di tanti altri e che merita uguale rispetto. A venticinque anni dovrei smetterla di comportarmi come una liceale timida e introversa, è ora di crescere. Non c’è niente di male nel modo in cui conduco la mia vita, assolutamente niente e Jenna ha ragione. Sabato andrò al terzo tempo, manterrò la promessa fatta a Jamie e, magari, riuscirò a parlare con qualcuno dei giocatori. In fin dei conti il rugby è anche una parte del mio mondo.

 

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Capitolo 7
*** Matt ***


– Sette –

 

Matt

 

 

Sorrido un’ultima volta all’obiettivo fotografico, stringo la mano dell’uomo che mi ha dato il premio, lui mi sorride e mi saluta con un’amichevole pacca sulla spalla. Mi avvio lungo il corridoio, un mormorio sommesso continuo a fare da sottofondo, con il mio nuovo riconoscimento stretto in mano. Sono stato nominato Man of the match1 in questa partita. Ho dovuto ringraziare coloro che mi hanno attribuito la nomina, sorridere a chi mi ha premiato, infine ritirare il titolo e concedere un’intervista. Quest’ultima è stata la più noiosa delle cose da fare. I giornalisti non vogliono che tu risponda, vogliono solo che tu ripeta le parole che loro ti mettono in bocca. Le loro domande sono ciò che vogliono sentirti dire, basta ripeterle facendole apparire affermazioni e il gioco e fatto: ti trattengono poco e non insistono su nulla.

Raggiungo gli spogliatoi e, come entro, il chiasso dei miei compagni di squadra mi accoglie. C’è chi urla, chi ride, chi canta; tutti sono felici e dannatamente soddisfatti. La partita di oggi è andata bene, il primo match giocato in casa è stato vinto. Anche se con uno scarto di soli sette punti, siamo riusciti ad uscire vittoriosi dal primo dei derby gallesi. Contro di noi oggi c’erano i Newport Gwent Dragons; molti di loro sono anche nostri compagni di squadra in nazionale. Sono giocatori eccellenti e, indubbiamente, è stata una partita piacevole e intensa. Considerando che si tratta dei Dragons, sicuramente anche il terzo tempo sarà piacevole, come una sorta di rimpatriata fra compagni di squadra.

«Ehi, Man of the match» mi incalza Mark come chiudo la porta, altri gli danno corda con qualche schiamazzo.

Mark è felice, parecchio. Lo si capisce dal gigantesco sorriso che non ne vuole sapere di scomparire dal suo volto. Come sperava ha potuto giocare la partita di oggi e il tempo è stato davvero clemente. Sul campo di Arms Park splendeva un sole limpido e particolarmente caldo, sembrava quasi anomalo. E sul prato morbido e perfetto del campo da gioco, Mark ha corso come un dannato, segnando due mete. Direi che la sua euforia ci sta tutta.

Raggiungo il punto della panca su cui il mio borsone aspetta e comincio a tirare fuori le cose per farmi una doccia. Indosso ancora la divisa della squadra; sulla maglia rigata azzurro-blu ho macchie di erba e di colorante bianco, ma per il resto niente di particolare. Mi sento incredibilmente rilassato, non ho male da nessuna parte, praticamente, e l’adrenalina che ho scaricato durante tutta la partita, ora che è sparita, mi ha lasciato solo un senso di pace; o forse quest’ultimo è merito della vittoria, chi può dirlo. So solo di stare davvero bene.

«Gran bella partita la tua, Matt» esordisce Brian, tallonatore e capitano della squadra.

Sorrido:

«Ti ringrazio»

«Se non avessi fatto che placcaggio alla fine, ci saremmo sicuramente presi la meta del pareggio. Spero non avremo bisogno di altri interventi all’ultimo da parte tua come quello di oggi mentre sarai ad allenarti per i test match di novembre» ridacchia.

Lo guardo, serio, cominciando a chiedermi per quale motivo, ogni qualvolta rientro negli spogliatoi al termine di una partita, qualcuno debba tirare in ballo i test match. Trovo sia ancora presto per parlarne e vorrei evitare che la gente cominciasse a caricarmi di responsabilità e aspettative che, non è detto, debba soddisfare.

Brian mi guarda, leggermente sorpreso.

«Sto… sto cercando di non pensarci più di tanto a quelle partite» ammetto.

«Per quale motivo?»

«Beh, siamo ancora a settembre. Annunceranno i convocati fra quasi un mese e non voglio dare per scontata la mia presenza in nazionale. Per me è un onore vestire la maglia del Galles e non voglio convincermi di essere così importante per la squadra da pretendere che il numero sette sia mio anche questa volta»

Il mio capitano acconsente con il capo:

«Ci vorrebbero decisamente più giocatori con i piedi per terra come te» dice, infine si allontana, prendendo a parlare con qualche altro nostro compagno di squadra.

Il mio senso di quiete se n’è appena andato, perfetto. È già la seconda volta, al termine della partita, che qualcuno tira in ballo il mio ruolo nei test match di novembre; considerando che abbiamo giocato solo due partite direi che una media di due su due non è male.

Sospiro, abbassando la lampo del porta abito che contiene la tenuta della squadra per il terzo tempo: un completo scuro decorato con lo stemma dei Cardiff Blues e camicia bianca.

Ho proprio bisogno del terzo tempo. La settimana scorsa mi è stato molto utile per dimenticarmi dei test match è annegare i pensieri in una pinta di birra; sospetto che replicherò oggi. Spero solo di non incontrare nessun tifoso che abbia voglia di parlarmi delle partite di novembre. Correrei il rischio di dover affogare me stesso in pinte di birra, non solo i miei pensieri.

 

*

 

Come sospettavo il terzo tempo è fortemente d’aiuto se si vuole smettere di pensare a qualcosa. Da quando ho messo piede dentro la club house della cittadella di Arms Park – non troppo grande, accogliente, tutta in legno e con cimeli del rugby appesi ovunque – tutte le preoccupazioni sono scomparse. Ho incontrato alcuni fra i miei più cari amici, nonché compagni di squadra in nazionale, e ci siamo persi in chiacchiere per non so quanto tempo. Se non parlo con dei giocatori, allora, incontro i tifosi, faccio qualche foto, firmo qualche autografo e, perlopiù, ricevo complimenti. Manca ancora un’oretta al termine di questa festa – quindi anche prima della tradizionale cena del terzo tempo con la squadra avversaria e i dirigenti – e sono indeciso se concedermi un’altra birra oppure no. Finisco di bere l’ultimo sorso di quella rimasta nel mio boccale, dopodiché appoggio il bicchiere sul bancone, proprio alle mie spalle. Mike, il barista, nota il mio gesto, afferra il boccale vuoto e mi sorride:

«Altro giro, Matt?»

«Mi tenti» rispondo. «Ma penso che aspetterò qualche minuto»

«Come vuoi. Sai dove trovarmi» conclude.

Mi metto a ridere e torno a voltarmi verso la sala gremita, fra giocatori e tifosi. Faccio mente locale sulle persone che non ho ancora avuto modo di salutare, provando a cercarle in mezzo alla folla che riempie il pub. Alla fine noto Aaron, storico mediano di mischia della nazionale, tornato a giocare in Galles quest’anno dopo una parentesi di tre stagioni passate in Francia. Mi avvio verso di lui per sentire come sta e riprendere la conversazione che avevamo interrotto sul campo al termine della partita. Comincio a farmi strada fra le persone, sorridendo qua e là a coloro che mi fanno un cenno o mi salutano, ma ad un certo punto qualcuno mi chiama a gran voce. Mi giro, non notando nessuno, ma come abbasso lo sguardo mi trovo davanti un bambino. Riconosco quasi subito quei riccioli neri, gli occhi azzurri e l’espressione furbetta di Jamie, il bambino che ha parlato con me e Shane lunedì scorso. Non sono mai stato bravo a ricordare i nomi delle persone, ma questo piccoletto proprio non sono riuscito a dimenticarlo: mi sta simpatico.

«Ti ho trovato» esordisce, sorridendo.

Mi chino verso di lui, in modo da riuscire a sentire bene quello che vuole dire.

«Ehi, Jamie. Come stai?» gli chiedo.

Pare non fare caso alla mia domanda:

«Ti ricordi il mio nome? Pazzesco. I miei compagni di squadra non mi crederanno mai» esclama.

Sorrido:

«E perché no?»

Non fa in tempo a rispondere. Fra la moltitudine di persone accorse al terzo tempo compare la ragazza che era insieme al bambino la sera in cui l’ho conosciuto. È come la ricordavo; anche se ora tiene i capelli sciolti la frangetta è sempre tagliata pari sulla fronte, i riflessi miele ancora presenti nei capelli color cioccolato che le ricadono morbidi e leggermente ondulati fin sotto le spalle. Anche se in parte coperta dalla chioma, la linea sinuosa e delicata del collo è perfettamente intuibile.

«Jamie non provare mai più a scapparmi in questo modo, intesi?» dice, rivolta al più piccolo, appena arriva. Io mi alzo.

«Scusa, ma avevo visto Matt e volevo fermalo» spiega Jamie, il tono colpevole.

Lei mi guarda come se non mi avesse ancora notato e, finalmente, riesco a percepire il colore dei suoi occhi. Sono verdi, davvero verdi e leggermente sfumati di bruno.

Rimane ferma a osservarmi per un po’, dopodiché posa lo sguardo sul più piccolo e sospira:

«D’accordo. Ma non farlo mai più, va bene?»

Jamie annuisce con la testa, visibilmente mortificato. Abbassa lo sguardo sul pavimento e prende a tormentarsi le piccole mani che possiede. Vorrei intervenire in qualche modo, almeno per cercare di risollevare appena il clima da poco formatosi.

«Ehm… io» comincio, rendendomi però conto di non sapere assolutamente cosa dire, fortunatamente ci pensa lei:

«Mi dispiace. Ogni tanto fa così, prende e scompare. Ero solo preoccupata»

«Ci credo» sorrido.

Sorride anche lei; ha un sorriso dolce e noto che, quando lo fa, le si formano due graziose fossette sulle guance. Shane ha ragione: è davvero carina.

Lei torna a rivolgersi a Jamie, gli posa una mano sulla testa:

«Forza, ora che lo hai trovato chiedigli quello che vuoi sapere»

Il bambino ha ancora l’aria colpevole ma, come mi abbasso nuovamente vicino a lui, la perde e i suoi occhi cominciano a brillare:

«È vero che mi presenti un tallonatore?» chiede, euforico.

Scoppio a ridere:

«Certo, te li presento tutti»

«Davvero?»

«Eccome. Basta riuscire a trovarli»

Detto ciò, una voce famigliare subentra nella conversazione:

«Guarda, guarda. Chi si rivede»

Jamie si gira verso chi ha appena parlato:

«Shane» esclama.

L’ala irlandese saluta il piccolo e quest’ultimo riprende parola:

«Matt ha detto che mi presenta i tallonatori»

«Ah, allora hai deciso cosa vuoi fare da grande?» domanda l’altro.

Il bambino scuote la testa:

«In verità non lo so. Il mio allenatore dice che è ancora presto per decidere»

«Ho capito» taglia corto Shane, poi allunga una mano verso Jamie: «Vieni con me, allora. Ti faccio conoscere qualche giocatore»

«Davvero?» domanda il piccoletto, sempre più esaltato.

«Sicuro»

La ragazza, rimasta in silenzio finora – proprio come lunedì sera – interviene:

«Veramente…»

Ma Shane non la lascia finire:

«Oh, non preoccuparti, te lo riporto subito» le fa l’occhiolino.

Lei abbassa lo sguardo su Jamie, che già tiene Shane per mano.

«Posso?» chiede lui alla ragazza, più speranzoso che mai.

La ragazza guarda prima il bambino poi l’irlandese, infine sospira:

«Va bene»

«Faremo presto, tranquilla» incomincia Shane. Io torno ad alzarmi in piedi.

«Tanto se rimani con Matt non ci vorrà molto a trovarvi» conclude, indicandomi.

Lei ci guarda entrambi per un lungo momento, dopodiché dà il suo definitivo permesso con un cenno di assenso del capo.

«Grazie Danni» esclama Jamie e, insieme a Shane, scompare fra le persone.

Rimango a guardare la ragazza mentre continua ad osservare il punto esatto in cui i due sono spariti. Mi sembra preoccupata e, in fin dei conti, non saprei come darle torto. Ma Shane è affidabile, ormai ho imparato a conoscerlo, anche se giochiamo nella stessa squadra da poco tempo. L’unica cosa che posso fare ora è rimanere con lei finché l’irlandese non torna insieme al piccolo.

«Non ci metteranno molto, vedrai» le dico per provare a rompere un po’ il ghiaccio.

Lei mi guarda, sorpresa, come se si fosse appena ricordata della mia presenza al suo fianco.

«Dici?» mi chiede.

Annuisco:

«Sì, non preoccuparti. Bevi qualcosa? Sai, mentre aspettiamo. Il barista mi sta ancora aspettando per il secondo giro»

Rimane a fissarmi, temporeggiando un po’. Dopodiché mi accorgo che rilassa appena le spalle, sorride e risponde:

«Ma sì, dai. Prendo qualcosa anche io»

Le sorrido, le faccio cenno di seguirmi e ci avviamo insieme verso il bancone.

 

 

 

 

Note:

1 Man of the Match: riconoscimento che viene dato al giocatore che, secondo una giuria, è stato il migliore in campo durante la partita.

 

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Capitolo 8
*** Danni ***


– Otto –

 

Danni

 

 

Osservo ancora un po’ la schiuma della mia birra, le cui bollicine crescono e scoppiettano qua e là. Fra poco scompariranno del tutto, mostrando in superficie il liquido dorato che ora stanno coprendo. Anche se il boccale è ghiacciato continuo a tenerlo in mano, guardando distrattamente il suo contenuto e pensando a tutt’altro. Chissà se ho fatto bene a lasciare Jamie con Shane; non è che non mi fidi del ventiduenne, sembra un bravissimo ragazzo, è solo che non mi piace non avere mio nipote sott’occhio quando dovrei essere io a badare a lui, la cosa mi agita. E, come se non bastasse, ad agitarmi ulteriormente c’è il fatto che la birra che ho in mano – da cui ho appena bevuto un gelido e squisito sorso – mi è stata offerta da Matthew Evans in persona. Se Jenna fosse qui impazzirebbe; devo assolutamente ricordarmi di dirle quello che sta succedendo, appena recupero Jamie. Se non dovessi farlo anche questa volta la ragazza mi potrebbe certamente riservare lo stesso trattamento di martedì sera, facendomi la predica puntandomi contro oggetti contundenti.

Alzo lo sguardo su Matthew, intento a parlare con il barista; dopo tutti i terzi tempi trascorsi qui dentro mi pare più che normale che i due si conoscano. Il giocatore è stato davvero gentile ad offrirmi da bere, nemmeno ci conosciamo. Ha detto che avremmo dovuto aspettare insieme il ritorno di Shane e Jamie, perché l’irlandese avrebbe cercato lui per riuscire a trovare me. Tutto questo mi fa uno strano effetto. Innanzitutto perché per me è già strano essere qui, e poi perché devo praticamente rimanere in compagnia del capitano gallese. Devo assolutamente evitare di fare brutte figure; non sarà semplice, se mi agito sono un disastro. Matthew non si è ancora accorto del fatto che sono imbambolata a fissare il suo profilo, ma è più forte di me. A guardarlo più da vicino mi accorgo che ha qualche lentiggine sul viso, una piccola cicatrice rosata al lato sinistro del labbro inferiore e le sopracciglia abbastanza folte che, nonostante siano chiare, ne caricano l’espressività. Ma per il resto sembra uscito da uno di quei sogni proibiti per single affamate di telefilm. Ha un profilo perfetto, la mascella leggermente accentuata, il sorriso sicuro e luminoso e ha uno dei tagli d’occhi più bello che abbia mai visto. Il tutto coronato da corti e spettinati capelli biondo cenere dove, qua e là, spunta inaspettata qualche ciocca rame. Ringrazia il barista quando quest’ultimo finisce di preparargli la birra e si volta verso di me. Ci guardiamo un momento e vedo che ha gli occhi azzurri, di una bellissima sfumatura celeste. I contorni delle iridi sono blu e sfumano fino a scomparire nel mare colore del cielo che le ricopre. Solleva il suo boccale di birra e mi sorride; io faccio lo stesso, ma, come mi rendo conto della situazione in cui mi trovo, sento il mio imbarazzo crescere terribilmente.

«Grazie per la birra» tento di dire, provando a non lasciarmi condizionare dalla timidezza.

«Non c’è problema. Almeno ci beviamo qualcosa mentre aspettiamo Shane e Jamie»

Saluta un suo conoscente con la mano e riprende a parlare:

«Quel bambino ha una gran energia, ho visto. Mi piace»

«Sì, è un demonietto. Non riesce a stare fermo un minuto» rispondo.

Lui sorride e fa segno di sì con la testa, come a farmi capire che ha inteso:

«È tuo fratello?» mi chiede poi.

Mi sbrigo a rispondergli:

«No, no. È mio nipote. Jamie è il figlio di mia sorella maggiore»

«Ah, ho capito. Sospettavo non fossi sua madre, saresti troppo giovane»

«Sì, beh, avrei dovuto partorire a quindici anni»

Mi rendo subito conto di quello che ho detto e mi maledico per averlo fatto. Sto davvero parlando di gravidanze precoci con quest’uomo? Mi sento avvampare e spero vivamente che lui non se ne accorga. Invece si mette a ridere, lasciandomi vagamente perplessa:

«Non saresti stata la prima, però» dice.

Gli do ragione annuendo con la testa, ma poi non so che altro aggiungere. Siamo arrivati al punto morto in cui ho sempre paura di finire; principalmente perché non so mai come venirne fuori. Invece, ora, eccoci qui: lui che beve un altro sorso della sua birra e io che mi guardo intorno, chiaramente imbarazzata.

«Ah, che stupido» lo sento dire.

Mi volto a guardarlo, convinta che stia per dirmi qualcosa sul fatto che deve incontrare assolutamente un suo amico e che quindi mi lascerà sola. Tuttavia mi accorgo che mi sta tendendo la mano.

«Matt» dice, appena l’afferro.

Sento come un brivido scuotermi dentro quando le nostre mani si toccano. Deve sicuramente essere colpa dell’assurdità del momento; stento ancora a credere che stia succedendo veramente tutto questo.

«Lo so» mi viene spontaneo dirgli.

Lui sorride:

«Lo immaginavo, ma è comunque buona educazione presentarsi» risponde.

Anche io gli sorrido, trovando il suo gesto davvero carino.

«Io sono Danielle»

Le nostre mani si separano soltanto ora.

«Ah, allora è per questo che Jamie ti chiama Danni» dice, spettinandosi i capelli già sufficientemente scompigliati e non ancora perfettamente asciutti, sicuramente per colpa della doccia che deve essersi fatto a fine partita.

«Sì, è per questo. I miei amici mi chiamano Danni dalle scuole elementari»

«La stessa cosa vale per me. Sono Matt, da sempre, per tutti. A volte anche i giornalisti mi chiamano così» Allarga le braccia: «Ma lo preferisco. Matt suona molto meglio di Matthew»

Nuovamente torna il silenzio fra noi, ma per poco. Questa volta sono io a interromperlo; voglio sfruttare appieno l’occasione che mi si è presentata di poter conoscere un giocatore della squadra per cui tifo, e non uno qualsiasi, ma Matthew Evans.

«Non sono mai venuta al terzo tempo, sai?»

Lui mi guarda, sorpreso:

«Sul serio? E come mai?»

La risposta è semplice: perché sono una stupida e ho sempre temuto di venire derisa per il mio lavoro appena posato piede qui dentro. Ma non rispondo così, anzi, scuoto appena la testa e dico:

«Non lo so»

Un po’ è vero. Non so perché sono sempre stata tanto stupida. Mi sono sempre e solo creata da sola più problemi di quanti in realtà ne ho incontrati. E ora mi viene spontaneo chiedermi per quale motivo io abbia sempre rinunciato all’occasione di passare così piacevolmente il mio tempo dando, invece, retta a tutti i miei “problemi”. Se non mi fossi mai fermata troppo a preoccuparmi di quello che la gente avrebbe potuto pensare di me, forse questa che ho in mano non sarebbe la prima birra offertami da Matt. Tutte le persone che sono qui dentro sono qui per lo stesso identico motivo: festeggiare e coronare al meglio un pomeriggio di buon rugby. A nessuno di loro importa se sono una delle donne di servizio, è già tanto se a qualcuno interessa sapere di me. La verità è che le mie insicurezze mi hanno sempre sconfitta finora, ma non accadrà più.

«E questo primo terzo tempo ti piace?»

Matt mi risveglia dai miei pensieri con questa domanda. Ogni volta che lo guardo, che penso al fatto che si sta rivolgendo davvero a me, quasi non mi sembra vero. Se non sto sognando devo ricordarmi di ringraziare Jamie e Jenna, perché è decisamente merito loro. Da sola non ce l’avrei di certo fatta, mi sarei sabotata molto prima.

«Sì, molto. Mi stavo giusto chiedendo perché ho aspettato tanto a decidermi a venirci»

Si mette a ridere e io rimango imbambolata a guardarlo mentre si ricompone. Mi rendo conto che quando ho pensato che Matthew Evans mi affascina, ho pensato solo la verità. Ora che gli sono davanti, che l’ho visto in più occasioni interagire con Jamie, che lo vedo socializzare con le persone e con me, ammetto che è davvero un ragazzo interessante. È completamente diverso da come il gossip lo dipinge: non è affatto sfuggente, né di poche parole. È proprio vero che i giornali rigirano le cose come vogliono loro.

Matt beve un altro sorso di birra, dopodiché appoggia il boccale al bancone e io lo imito. Si passa nuovamente una mano fra i capelli:

«Mi fa piacere saperlo. Allora significa che comincerai a venirci più spesso?» mi chiede.

Lo guardo, leggermente sorpresa. Mi sento vagamente arrossire perché i suoi occhi celesti sono lì ad osservarmi:

«Direi di sì» rispondo, fingendo nonchalance.

Pare aver funzionato e, prima che lui possa dire qualcos’altro, approfitto della mia finta tranquillità per continuare:

«Complimenti per la partita, comunque»

Sorride, distogliendo un momento lo sguardo:

«Grazie»

«Hai giocato davvero bene, sul serio. Scommetto che te lo hanno già detto praticamente tutti, ma il placcaggio che hai fatto all’ultimo è stato provvidenziale»

Sento che il mio fiume di parole è appena straripato. Alle volte mi capita, sempre quando c’è di mezzo il rugby. Attacco a parlare più rilassata che mai e riuscire a fermarmi mi è quasi impossibile.

Incomincio ad analizzare alcuni dettagli della partita appena trascorsa e Matt continua ad ascoltarmi, sempre con il sorriso in volto. La cosa che più mi sorprende, però, è che pare davvero interessato a quello che sto dicendo. Credo sia sul punto di pronunciare qualcosa, ma sento il mio nome esclamato a gran voce e qualcuno afferrarmi per la vita: è Jamie. Poco dopo di lui ricompare anche Shane e io torno a ricordarmi di essere alla cittadella di Arms Park in mezzo a centinaia di persone e non sola con Matt chissà dove.

«Rieccoci» dice Shane come ci raggiunge.

«Ho conosciuto un sacco di giocatori, Danni, sai?» esclama Jamie, lasciandomi libera e fermandosi fra me e l’irlandese.

«Sul serio?» gli chiedo, felice nel vederlo così allegro.

Annuisce energicamente e comincia ad elencarmi i nomi dei giocatori in cui si sono imbattuti. Lo interrompo:

«Calma, calma. Perché non me li dici stasera, quando incontriamo tuo padre?»

Il piccolo mi dà ragione, dopodiché vedo Shane richiamare l’attenzione di Matt dandogli un leggero colpo sulla spalla.

«Ho incontrato Aaron. Mi ha chiesto di te» gli dice.

Matt alza gli occhi al cielo:

«Cavolo, è vero. Vado subito a salutarlo» Poi si rivolge a me: «È stato un piacere conoscerti»

«Anche per me» rispondo.

«Ci vediamo, Jamie» saluta anche il più piccolo, che risponde con un “Ciao” e la mano alzata.

Guardo Matt allontanarsi e successivamente poso lo sguardo su Shane, che mi sorride.

«Vado anche io» mi dice.

«Ah, sì. Grazie di tutto» rispondo.

Lui alza le spalle:

«Ci mancherebbe. Alla prossima»

Saluta sia me che Jamie e si immerge fra la folla.

Ora che tutto è finito mi sento strana, devo ammetterlo. Ho parlato con Matthew Evans, sono riuscita a rimanergli vicina e a non farmi influenzare dall’imbarazzo che ho provato. Sento un sorriso comparirmi in volto, uno di quelli che non si riesce in alcun modo a fermare. Non vedo l’ora di raccontarlo a Jenna; so che mi dirà che sapeva sarebbe successo un giorno e che se mi fossi sbrigata prima sarebbe stato meglio, ma posso sopportare di sentirglielo dire. Gliene voglio assolutamente parlare, devo parlarne con qualcuno. Più ci penso, più tutto mi sembra ancora più incredibile.

 

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Capitolo 9
*** Danni ***


– Nove –

 

Danni

 

 

Finisco di riordinare le ultime cose e do una rapida occhiata all’orologio. Le diciannove sono passate da un po’; fortunatamente ho praticamente finito quello che dovevo fare. Vado a riporre in sgabuzzino le scope e il secchio, per poi dirigermi, piuttosto stancamente, verso lo spogliatoio. Il mio turno del mercoledì pomeriggio è finito, per mia gioia. Come inizio di settimana non è stato un granché; lunedì devo aver compiuto qualche movimento sbagliato, al lavoro, che mi ha provocato un gran mal di schiena: è due notti che dormo male, ormai. Ovviamente tutto questo si ripercuote sul lavoro e sullo studio. Il test della scorsa settimana è andato piuttosto bene, devo ammetterlo, ma ne ho già un altro in programma fra quindici giorni e non posso di certo rilassarmi. Come se non bastasse non ho più incontrato né Matthew Evans, né Shane O’Bannon dopo sabato e mi sono resa conto, con mia sorpresa, che la cosa mi dispiace. Per fortuna almeno il pranzo di ieri con Jenna è andato benone; non mi ha puntato contro alcun oggetto pericoloso e sospetto che ciò sia dovuto al fatto che mi sono ricordata per tempo di dirle quello che è successo al terzo tempo di sabato. Jenna era così su di giri quando le ho raccontato di Matt, che ha contagiato anche me e siamo finite a ridere al telefono continuando a ripetere “Mio Dio, non ci credo” come due stupide. Tutto ciò è durato una buona mezz’ora, il tempo necessario per spiegarle, per filo e per segno, tutto l’accaduto, o quasi. Ma le note più positive di questo inizio di settimana si esauriscono qui.

Come entro nello spogliatoio incontro Eleanor, intenta ad afferrare la sua borsa e le ultime cose. A lei non ho raccontato niente di sabato e del terzo tempo. Per quanto noi due andiamo d’accordo, ammetto di non fidarmi totalmente di lei, per tale motivo non mi va molto a genio il fatto che conosca tutto di me e di ciò che mi succede. Che sappia di come mi sono sentita prima, durante e dopo un esame mi va bene, ma che conosca quello che ho provato avendo davanti uno coma Matt, questo no.

«Ah, ciao» mi saluta, quando, voltandosi, mi vede entrare.

«Ciao» rispondo.

Guarda un momento intorno a sé:

«Vuoi che ti aspetti? Immagino che non ti ci vorrà molto»

«No, no, non preoccuparti, vai pure. Credo che ci impiegherò un po’, invece»

«Devi aspettare Jamie? Perché non mi sembra di aver sentito gli allenamenti dei bambini»

«Infatti non ci sono. Jamie ha allenamento fino alle diciannove solo il lunedì e qualche venerdì»

«Ho capito. Beh, allora se non vuoi che ti aspetti, io vado. Devo uscire con Richard stasera»

«Sì, vai pure. Ci vediamo» la saluto.

Lei risponde allo stesso modo e si avvia, lasciandomi sola. Mi cambio con calma, cercando di non fare movimenti bruschi con la schiena che continua a farmi male.

Quando esco dallo stadio controllo l’orario sul telefono. Sono le 19:28 e ho anche un messaggio non letto da parte di Jenna. Sorrido, chissà cosa vuole adesso.
Mi avvio a grandi passi verso casa – vado sempre ad Arms Park a piedi, dista poco più di dieci minuti da casa mia – pensando al fatto che non vedo l’ora di infilarmi il pigiama, prepararmi qualcosa di sfizioso e gustarmelo in tutta tranquillità sul divano con una buona birra. Il classico programma serale di una studentessa-lavoratrice single. Fortunatamente ogni tanto riesco a variarlo, altrimenti sento che, un giorno, ne morirei. Ho appena raggiunto il parcheggio degli autobus vicino all’uscita sul retro quando, sollevando gli occhi dal mio telefonino, vedo Matthew Evans.

Automaticamente mi blocco, improvvisamente senza sapere cosa fare. Matt è fermo, il borsone da allenamento ancora sulla spalla, lo sguardo basso sul telefono cellulare che sembra osservare senza alcun interesse. La squadra titolare dei Cardiff Blues aveva una sessione in palestra fino alle diciannove; non dovrei essere così sorpresa di trovarlo qui, tuttavia lo sono. Lo sono soprattutto perché è passata più di mezz’ora da quando loro avrebbero dovuto finire. Vorrei fare dietrofront e alzare i tacchi, ma se voglio arrivare a casa mia in tempi ragionevoli devo passare di qui. Respiro a fondo due, tre volte, decidendo di

riprendere a camminare. Succederà quello che deve succedere. L’unico problema è che, mentre mi avvio verso di lui – o meglio, mentre mi avvio per superare lui – mi rendo conto di non sapere davvero come comportarmi.

Lo saluto? E se poi non si ricorda di me che mi invento? E se, invece, tirassi dritto, fingendo di non vederlo – cosa impossibile perché parliamo di un metro e ottantanove per centocinque chili – e lui mi notasse e riconoscesse, che gli dico?

Continuo a respirare profondamente, in preda al panico più totale, mentre mi avvicino sempre più a Matt. Improvvisamente striscio il piede sull’asfalto, prendendo male le misura dal suolo; è un rumore così forte che chiunque lo avrebbe sentito, infatti il giocatore solleva la testa, notandomi. Ci guardiamo e mi sembra quasi di sentire il tempo fermarsi; il silenzio pare più intenso che mai, sento solo il mio cuore che batte all’impazzata per l’ansia e qualcos’altro che, al momento, mi sfugge proprio.

Il volto di Matt si distende in un sorriso, uno di quelli bellissimi che lui possiede:

«Ciao» dice.

Io sono ancora ferma nell’esatto punto in cui non ho sollevato il piede poco prima.

Mi ha davvero salutata, quasi non mi sembra vero; sicuramente ho uno dei suoi compagni di squadra alle mie spalle. Ma i suoi occhi celesti puntano dritti nei miei, ciò significa che si sta decisamente rivolgendo a me. Mi sento avvampare e mi rendo conto che dovrei rispondergli: rimanere imbambolata a guardarlo non mi sarà d’aiuto.

«Ciao» rispondo alla fine, cercando di apparire il più naturale possibile e coronando il tutto con un sorriso.

Matt infila in tasca il cellulare e si avvicina:

«Danielle, giusto?»

Annuisco:

«Esatto. Ma preferirei Danni»

«Ah, è vero, me lo avevi detto. Scusami ma con i nomi sono un disastro le prime volte»

«Nessun problema»

«Che ci fai da queste parti? Jamie ha allenamento?»

Scuoto la testa per rispondere alla sua domanda, ma poi non so che altro fare.

Che scusa mi potrei inventare per non dirgli che sono una delle donne delle pulizie, ma riuscire ugualmente a motivare la mia presenza qui?

Ma poi ripenso a Jenna e a tutte le belle cose che mi dice sempre per aiutarmi a sentirmi più orgogliosa di me stessa. Non importa quello che penserà di me Matthew Evans, Jenna ha ragione; il mio lavoro ad Arms Park è importante quanto quello di tanti altri, mentire non mi servirà a niente. Oltretutto, ora che so che lui mi conosce, prima o poi mi avrebbe incrociata e riconosciuta nei corridoi o da qualche altra parte. Meglio essere sinceri fin da subito ed evitarsi così imbarazzanti figure in seguito.

«Ero al lavoro» rispondo infine.

«Dove?» mi chiede lui, apparendo quasi molto interessato.

Indico lo stadio alle mie spalle con il pollice:

«Ad Arms Park»

Matt solleva le sopracciglia:

«Sul serio?»

Annuisco con la testa:

«Già. Sono una delle donne di servizio» ammetto, ritrovandomi a sperare con tutta me stessa che non si ricordi in alcun modo del nostro incontro-scontro lungo il corridoio e che, in caso contrario, non mi abbia riconosciuta.

«Ah, ma dai. Allora una delle più giovani sei tu» dice.

Non è esattamente la reazione che mi ero aspettata. Mi immaginavo sarebbe scoppiato a ridere o che avrebbe fatto qualche commento fuori luogo. Ancora una volta Matthew Evans è riuscito a sorprendermi.

«Eh sì, una delle “giovani” sono io» gli rispondo, facendo segno di virgolette.

Lui sorride e io riprendo a parlare:

«Certo, come lavoro non è un granché, ma…»

«È meglio di niente» concludiamo all’unisono.

Lo guardo, sentendomi vagamente arrossire, uno di quei rossori percepibili solo a me, che, fortunatamente, non si manifestano mai in modo appariscente.

«Fate un bel lavoro, credimi. Ho visto come lasciamo gli spogliatoi a fine partita; sembrano un campo di battaglia» dice, spettinandosi i capelli.

Mi metto a ridere:

«A volte» gli dico. «Altre volte invece non sono messi così male»

«Intendi quando giochiamo in un altro stadio, giusto?»

Scoppio a ridere, cercando di ricompormi il più in fretta possibile. Quando ci riesco mi accorgo che Matt mi sta guardando, sorridendo.

Distolgo lo sguardo, cercando qualcosa da dire:

«Tu come mai sei qui? Credevo finiste alle diciannove» riesco a pronunciare infine.

«Infatti» Attacca a tormentarsi i capelli. «È solo che non mi andava di tornare subito a casa e sto cercando un modo per ammazzare il tempo. Da soli, però, non passa mai»

«Ho capito. Temporeggiavi»

«Proprio così»

Cala il silenzio. Comincio a guardare intorno a me, non sapendo che altro poter dire o fare.

«Senti…»

Mi volto verso Matt quando riprende parola. Anche lui si guarda intorno, ma alla fine punta lo sguardo su di me con incredibile sicurezza:

«Ti andrebbe di venire a bere qualcosa? Facciamo due chiacchiere. Ma se hai da fare lo capisco, non sentirti obbligata solo perché sono alla ricerca di compagnia» dice, facendomi l’occhiolino.

Devo aver capito male. O peggio, devo aver battuto la testa da qualche parte e adesso sto vaneggiando. Mi ha davvero invitata a prendere una birra? Ha davvero chiesto a me, la donna di servizio che ha appena ammesso di essere tale, di accompagnarlo a bere qualcosa?

Non posso accettare, non posso. È un’occasione troppo ghiotta per il karma: io e Matt che beviamo qualcosa insieme. Mi conosco troppo bene e so per certa che se qualcosa deve andare storto lo farà sicuramente.

Ma poi mi ritrovo a pensare al fatto che dovrei imparare a non lasciarmi più scappare simili occasioni. È un po’ come la questione del terzo tempo: non ci sono mai voluta andare perché ero preoccupata – di cosa poi non si sa – e la prima volta che vado trascorro due ore incredibili. Se Jenna fosse al mio posto avrebbe risposto di sì minuti fa, mentre io ancora non mi capacito dell’occasione che sto avendo.

Al diavolo la mia cena, la mia birra e la mia schifezza alla tv, io vado.

«Si può fare, sì. Vengo volentieri» riesco a dire infine.

Ormai è troppo tardi, anche volendo non potrei più tirarmi indietro senza apparire una lunatica.

«Ottimo, grazie» risponde.

Mi fa cenno di avviarci e ci incamminiamo uno accanto all’altra.

«Conosci Arnold’s? È il mio pub preferito, pensavo di andare lì»

Lo guardo, sorpresa:

«Certo che lo conosco, ci abito sopra»

Anche lui si volta sorpreso verso di me, gli occhi celesti sgranati:

«Sul serio abiti sopra ad Arnold’s

Annuisco:

«Non esattamente sopra. Una casa più in là. Ma se voglio farmi una birra devo solamente scendere»

Lui si mette a ridere:

«Fantastico. È uno dei sogni della mia vita quello di abitare sopra a un pub»

«Ah sì?»

«Già»

«Ti accontenti di poco, vedo» provo a scherzare.

«Sì infatti» conclude lui, sorridendo.

Prendo forza e mi azzardo a chiedergli come procede il campionato e, a due partite ormai trascorse, come vede i Cardiff Blues quest’anno. Lui risponde sorridendo, in modo davvero esaustivo e attacca a raccontarmi quelli che sono i retroscena di una squadra di rugby, in particolare gli allenamenti e tutte le fasi di analisi. Mentre parla mi rendo conto che non mi stancherei mai di ascoltarlo; non solo perché sta affrontando un tema che personalmente amo, ma anche perché la sua voce ha un suono meraviglioso.

Quando arriviamo da Arnold’s lui mi sta ancora spiegando come il coach analizza le partite; si interrompe, apre la porta e mi lascia passare. Come sospettavo il locale è pieno: Arnold’s è sempre pieno. Quasi tutti i tavolini sono occupati da persone che parlano, bevono, mangiano e si divertono e anche sugli alti sgabelli davanti al bancone in noce la situazione è la medesima. Cimeli rugbistici e marittimi coronano alla perfezione l’atmosfera da ritrovo di vecchi amici tipica di questo locale, accentuata ancora di più da legno ovunque e luci soffuse.

«Ehilà, Matt»

Una voce alla nostra destra chiama il giocatore. Ci voltiamo e davanti a noi, il corpo per metà coperto dal bancone, c’è il proprietario del locale.

«Ciao Peter» lo saluta il giocatore e i due si scambiano una vigorosa stretta di mano.

«Come stai?» chiede il barista.

«Tutto bene, tu?»

«Bene, bene. Ti serve un tavolo, vero? Qualcosina c’è rimasto»

«Sì, per due»

Matt si sposta appena, permettendo a Peter di vedermi; io sorrido e saluto. Subito l’uomo chiama a gran voce una delle cameriere, Liz, e come lei ci raggiunge le dice:

«Vedi se riesci a trovare un tavolo per due»

«Subito. Venite con me» conclude, rivolta a noi.

Ancora una volta Matt lascia andare me per prima e mentre seguo la cameriera lo sento salutare qua e là qualcuno. Raggiungiamo il tavolo – tutto in legno come gli altri, adagiato al muro – e Liz ci lascia i menù. Io e Matt ci sediamo e, non sapendo che fare, mi metto subito a guardare l’elenco delle birre. Cerco di concentrarmi sulle descrizioni di quest’ultime dato che mi piacerebbe provarne una nuova anziché la solita questa volta, ma non ci riesco. La verità è che sono in balia del più totale panico. Ho paura di dire la cosa sbagliata, quella che, anche senza farlo apposta, sarebbe meglio non pronunciare assolutamente. Sono davvero preoccupata di gestire male questa occasione che, va detto, è uno dei più grandi colpi di fortuna che mi siano mai capitati.

Respiro a fondo un paio di volte, nascondendomi dietro al menù. Se non mi agito andrà tutto bene. Non mi conviene sprecare questa opportunità, potrebbe essere l’inizio di qualcosa; di un’amicizia, niente di più sicuramente: solo in un universo parallelo uno come Matt potrebbe interessarsi di una come me.

«Penso che prenderò una Rhymney» dice lui, all’improvviso.

Mi riprendo dai miei pensieri. Abbasso il menù:

«Io direi una Brains» La stessa di sempre.

Pochi minuti dopo la cameriera è già al nostro tavolo e prende l’ordine. Appena si allontana, però, uno di quei silenzi seri e profondi scivola fra noi. Mi guardo distrattamente le mani cercando qualcosa da dire. Alla fine, per fortuna, mi viene in mente:

«Comunque devi ancora finire di raccontarmi quello che mi stavi dicendo prima» gli dico, sorridendo.

Lui pare perplesso, almeno in un primo momento, poi se ne ricorda:

«Ah giusto» esclama, battendosi la fronte con la mano.

Dopodiché riprende da dove si era interrotto e io rimango ad ascoltarlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 10
*** Matt ***


– Dieci –

 

Matt

 

 

Liz appoggia la mia seconda birra sul tavolo e si allontana dopo essersi lasciata ringraziare. Non ne bevo subito un sorso, mi rigiro solo il bicchiere fra le mani, osservandone il contenuto ambrato. Sollevo lo sguardo su Danni, sempre seduta di fronte a me, intenta a parlare. Si scosta appena la frangetta e sorride mentre racconta di com’era sembrata, vista da fuori, la meta assurda del mio amico Paul contro la Scozia nello scorso torneo Sei Nazioni. Il suo boccale di birra è ancora mezzo pieno e mi piace che mentre parli, di tanto in tanto, lo sfiori con le sue mani affusolate ma non troppo curate. La sua compagnia si sta rivelando molto più piacevole del previsto. Quando prima le ho chiesto se le andava di venire a bere qualcosa sapevo perfettamente che avrei dovuto fare il possibile per evitare che la conversazione scemasse; in fin dei conti non ci sarebbe stato niente di sconvolgente nella cosa: io e lei non ci conosciamo ancora. Non sono riuscito a rinunciare all’occasione di avere della compagnia con qui trascorrere qualche ora e non è male riuscire ad approfondire, al contempo, la conoscenza con questa ragazza. Al terzo tempo, sabato, Danni mi ha fatto davvero una buona impressione, quindi non ho capito perché lasciarsi scappare l’opportunità di vedere se questa mia prima impressione su di lei fosse giusta o sbagliata.

Al momento sono contento che abbia accettato il mio invito; è socievole, alla mano e ne sa davvero parecchio di rugby. Oltretutto non ha ancora fatto alcun tipo di domanda fuori luogo, ovvero riguardanti i test match di novembre.

Si mette a ridere ricordandosi un aneddoto della sua amica – una certa Jenna – accaduto lo stesso giorno di quella partita. La imito e subito dopo le dico:

«Certo che ne sai davvero parecchie di cose sul rugby»

Si stringe nelle spalle:

«Sono un’appassionata, tutto qui»

«Da quanto lo segui?»

«Beh, guardavo le partite con mio padre già a cinque anni, perciò direi che sono venti anni che seguo questo sport»

«Però. Questo spiega molte cose» le dico, sorridendo.

Anche lei sorride, ma non replica, così sono nuovamente io a prendere parola:

«Hai mai pensato di giocarci?»

«A rugby?»

Annuisco:

«Sì. Ce ne sono svariati di club femminili qui in giro»

Si sbriga a rispondere; pare quasi che abbia pensato di aver fatto la domanda sbagliata:

«Lo so. Comunque sia, ci giocavo, quando ero piccola. Poi, quando non era più possibile avere le squadre miste, mio padre ha preferito che io non giocassi più. Così mi sono buttata sulla lettura»

«Davvero?»

«Già. Per lui “squadra femminile” era sinonimo di “rugby serio” e non voleva che tornassi a casa con qualche cosa di rotto. Dato che la quota di iscrizione la pagava lui e io ero poco più che una bambina, ho dovuto sottostare alle sue decisioni»

«Capisco. Io invece ho fatto un po’ il processo inverso» comincio, dopo aver bevuto un sorso di birra e sentendo il bisogno di renderla partecipe della cosa: «I miei genitori volevano che giocassi a calcio e per un po’ l’ho fatto. Ma, personalmente, odiavo quello sport, non faceva per me. Così, a sedici anni, sono riuscito a convincerli a lasciarmi giocare a rugby e, per fortuna, hanno accettato»

«Hai un talento innato per questo sport, allora» dice, alzando le spalle.

«Trovi?» le chiedo.

«Beh, cominciare a giocare a sedici anni ed esordire in nazionale maggiore a venti direi che, sì, è talento»

Sorrido:

«Grazie»

Rimaniamo in silenzio un attimo; lei beve un sorso dal suo boccale e a me viene in mente cosa potrei chiederle:

«Del tuo lavoro che mi dici?»

Solleva lo sguardo dal bicchiere, poiché stava ancora bevendo, e mi osserva; quei suoi occhi verdi sono un incanto. Si asciuga le labbra e mi chiede:

«In che senso?»

«Non so, hai deciso di lavorare ad Arms Park proprio per via della tua passione per il rugby o c’è dell’altro?»

«C’è dell’altro»

«Quindi, il fatto che si tratti di Arms Park non è tutto» la incalzo.

Lei annuisce, tranquillamente. Il livello della birra nel suo bicchiere sta diminuendo, sicuramente come il tempo che ci è rimasto da trascorrere insieme.

«Avevo bisogno di un lavoro per pagarmi gli studi. So che essere una donna delle pulizie non è il massimo, ma gli orari mi permettono di avere tempo per studiare e lo stipendio è sufficiente. Poi, l’hai detto anche tu: è Arms Park» mi sorride.

Ricambio il suo gesto, dopodiché le chiedo:

«Che cosa studi?»

«Storia dell’arte»

«Interessante. E come va? Tutto bene?»

«Direi di sì. Ho cominciato a ventidue anni l’università, se è questo che ti stai chiedendo. Prima di decidermi se continuare gli studi o meno ho lavorato un po’ e ho fatto un anno da ragazza alla pari in America»

Mi esibisco in un’espressione ammirata:

«Complimenti. Sono scelte di vita interessanti, le tue» le dico e lo penso davvero.

Danni è ammirevole per ciò che ha appena detto. Lavorare e studiare contemporaneamente non è semplice e dimostra, a parer mio, quanto lei abbia a cuore la sua stessa cultura e quanto trovi importante costruirsi il proprio futuro passo dopo passo. Anche per me è stato così: mi sono sacrificato e impegnato molto per arrivare dove sono. Sicuramente io ho incontrato meno ostacoli di lei per lavorare in modo da inseguire la mia passione – il mio lavoro è la mia passione – per questo il modo di ragionare di Danielle mi piace, provo molta stima per coloro che non si arrendono facilmente.

«Dopo la laurea sai già cosa ti piacerebbe fare? Vorresti insegnare?»

Scuote la testa:

«Vorrei fare la guida turistica in un museo» ammette.

Abbassa lo sguardo, sembrando addirittura imbarazzata. Rimango a guardarla per vedere se ha altro da dire, mentre lei riprende a sfiorare il boccale di birra con l’indice destro. Quando mi sembra che non sappia che cosa aggiungere faccio per parlare, ma lei alza lo sguardo e dice:

«Ho sempre voluto lavorare in un museo, fin da piccola»

A quest’ultima frase mi pare sia arrossita leggermente.

«Beh, dev’essere un bel lavoro. Sei perennemente circondato dall’arte»

«Sì. E, in fin dei conti, è un lavoro tranquillo. E una vita tranquilla è quella a cui punto» abbozza un sorriso e abbassa nuovamente lo sguardo.

«Anche io» le dico.

Torna a puntare gli occhi su di me, sorpresa; io sollevo le spalle e le sorrido. Danni sembra pensare se dire o meno una cosa, poi pare convincersi:

«Scusa se mi permetto, ma… sì, insomma, sentire una cosa del genere da Matthew Evans fa uno strano effetto, in un certo senso»

Capisco cosa intende, si riferisce sicuramente alla mia fama, al fatto che la mia faccia sia esibita più o meno ovunque qui a Cardiff e, sicuramente, anche alla pressione mediatica che ricevo. Ha ragione, non c’è niente di tranquillo in tutto questo; ma personalmente credo che sia dovuto solo all’importanza che gli si dà.

«So cosa intendi» comincio: «La verità è che non do molto peso a stampa, gossip e quant’altro. Voglio dire, io sono grato dell’opportunità che sto avendo, sono grato di poter vivere facendo ciò che amo e, ancora di più, sono grato di poter guidare la nazionale gallese. Ma non ho mai voluto che tutto questo mi impedisse di avere una vita tranquilla e, non dandoci più importanza di quanta ne abbia, ti posso garantire che non influisce più di tanto sulle mie giornate: lo prendo come il mio lavoro. Partecipo di rado a nottate da bagordi, guardo delle serie tv come tutte le persone e, quando incontro i miei famigliari, parliamo e giochiamo a carte. È perché non voglio cambiare niente di questa mia vita che sono rimasto a Cardiff anche se ho ricevuto richieste da Francia, Scozia e Irlanda. La mia vita qui è bellissima così com’è e, credimi, è semplice»

Sorride, dolcemente, e beve dal suo boccale:

«Mi fa piacere sapere che la pensi così» dice dopo.

«Grazie»

«Quindi devo dedurre che non hai intenzione di andare a giocare all’estero»

«No, infatti. Finché ne ho l’occasione rimarrò a Cardiff. Perché questa domanda?»

Schiude le labbra per parlare, ma poi sembra quasi ripensarci. Alla fine scrolla le spalle e dice:

«Così. Giusto per sapere quanto ancora i Cardiff Blues possono fare affidamento su di te»

La guardo, chiedendomi se nella sua domanda di poco fa ci fosse più di quanto lei ha ammesso. Danni segue con gli occhi la coppia che è appena passata accanto al nostro tavolo e si schiarisce la gola.

«Se sono fortunato, possono contare su di me ancora per un bel po’» dico infine, in risposta alla ragazza.

Lei sorride, dopodiché beve il suo ultimo sorso di birra e rimane ad osservare il boccale vuoto.

«Ne vuoi un’altra?» le chiedo.

«Oh, no, no, grazie. Mi fermo qui per stasera»

Controllo rapidamente l’orario: le ventuno sono passate da un po’. Pensandoci bene io e Danni siamo rimasti insieme per più di un’ora. Proprio come sabato ho trovato la sua compagnia molto piacevole e sono contento di aver approfondito la nostra conoscenza. Chissà che non possa evolversi ancora, prossimamente.

Fra un sorso e l’altro finisco rapidamente la mia birra, senza sapere che altro dire. Non voglio fare ulteriori domande a Danni, non voglio che pensi che devo assolutamente sapere tutto di lei; per conoscerla meglio c’è tempo, semplicemente quello che avevamo a disposizione questa sera si è esaurito.

«Sono già le 21:25?» chiede.

Torno a concentrarmi su di lei e annuisco.

«Forse è meglio che vada. Devo sistemare delle cose a casa»

«Sì, anche io» dico.

Ci alziamo entrambi, avviandoci alla cassa. Appena arriviamo lascio a Peter il biglietto per il conto e mi accingo a pagare il tutto, quando Danni mi chiede:

«Quanto ti devo?»

«Cosa? Assolutamente niente» le rispondo.

«No, Matt. Lasciami pagare la mia»

Scuoto la testa, ridendo. Lei insiste finché non allungo le sterline esatte a Peter, il quale risulta piuttosto divertito dalla scena. Alla fine la ragazza si arrende:

«Beh, allora grazie»

«Prego»

Usciamo dal locale – la sera si è fatta più fresca per via della brezza che sale dalla baia – e ci incamminiamo, ma quasi subito lei mi ferma:

«Io abito qui»

Mi volto verso il pub da cui siamo appena usciti. È proprio vero che ci abita vicino, l’ingresso disterà sì e no dieci metri.

«Allora abiti davvero sopra ad Arnold’s» le dico.

Lei sorride, divertita:

«Te l’avevo detto» poi si guarda intorno: «E tu da che parte vai?»

Indico più avanti lungo la via, dopo la sua casa:

«Di solito lascio l’auto al parcheggio che c’è là e vado allo stadio a piedi»

«Meno traffico?»

«Molto meno»

Ci guardiamo un attimo, dopodiché riprendo a parlare:

«Grazie per la compagnia, comunque. Mi ha fatto piacere»

«Oh, beh grazie a te per la birra. Anche per me è stato un piacere»

«Ci vediamo ad Arms Park, allora»

«Già, ci vediamo là»

Detto ciò ci salutiamo e io riprendo a camminare verso la mia macchina. Stranamente non ho fame. Dev’essere perché ormai è tardi e il mio unico pensiero fisso, ora, è quello di andare a riposare per riprendermi al meglio in vista degli allenamenti di domani. Però devo ammetterlo, questa breve uscita con Danni è stata piacevole. Ho passato una bella oretta in compagnia anziché a casa da solo e proprio stasera che, di stare solo, davvero non ne avevo voglia. Danielle è un’ottima compagna di bevute, ne sono sicuro.

 

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Capitolo 11
*** Danni ***


– Undici –

 

Danni

 

 

Sono ancora appoggiata di peso contro la porta d’ingresso. Mi sembra di avere le gambe molli, ma so perfettamente che non è vero e che, al contrario, mi sorreggono benissimo. Un “è successo veramente?” mi balena in testa e me la riempie completamente, l’unica mia certezza è che il sorriso che ho in faccia non se ne andrà tanto presto. Sono uscita con Matthew Evans; con lui, uno dei miei giocatori preferiti e uno dei ragazzi più belli – a parer mio – in cui mi sia mai imbattuta. Ora, non siamo proprio usciti, ma abbiamo bevuto una birra insieme e lui mi ha espressamente invitata, senza giri di parole o mezze frasi. Mi ha chiesto se mi andava di fargli compagnia, io ho detto di sì e ora eccomi qui. Dopo averlo avuto davanti e aver parlato con lui per più di un’ora e mezza torno a casa e mi sento come quando, a sedici anni, uscivo con il mio primo fidanzato. Per carità, non penso Matt potrà diventare un giorno il mio ragazzo, è molto improbabile, ma, sul fatto che stasera lui mi abbia pagato da bere non ci piove.

Respiro a fondo un paio di volte, cercando di darmi un contegno.

Stasera è stato tutto un caso. Un caso che lui cercasse compagnia per passare qualche ora e un caso che io capitassi di lì. Con molta probabilità non avrà un seguito o una replica la birra di stasera. Posso solo reputarmi fortunata per aver preso da bere con il capitano gallese e per il fatto che forse, d’ora in poi, lui mi saluterà quando ci incontriamo allo stadio.

Devo dirlo a Jenna.

Salgo in fretta la rampa di scale del mio piccolo appartamento con ingresso indipendente. Il mio gatto mi raggiunge, fermandosi a guardarmi: il suo sottile messaggio per farmi capire che è alla ricerca di cibo. Lo guardo, lanciandogli un’occhiata nella speranza che intuisca che, al momento, non posso perdere neanche un secondo, ma che devo assolutamente fare la mia chiamata.

«Ceniamo insieme appena finisco» gli dico. Lui mi guarda, interrogativo.

Afferro il cordless e digito il numero di Jenna, che ovviamente conosco a memoria, rimanendo ad aspettare che la mia amica risponda: uno squillo, due, tre.

«Pronto?»

«Jenna, sono io» dico, immediatamente.

«Sì, Danni, lo so» risponde.

«Puoi parlare ora o ti disturbo?»

«Sono quasi le dieci, certo che posso parlare. Dove vuoi che sia?» domanda, in modo ovvio.

Scommetto che si è seduta sul letto, come fa sempre quando la chiamo; mentre io, invece, mi rendo conto di non riuscire a stare ferma. Cammino avanti e indietro dalla mia stanza al soggiorno con angolo cottura, sempre sotto lo sguardo perplesso del mio gatto, ancora alla ricerca di cibo. Respiro a fondo pensando alle parole migliori per dire alla mia amica, il più seriamente possibile, ciò che mi è appena successo, benché io sia perfettamente consapevole che, seria, non riuscirò mai ad esserlo.

«Tu non hai idea di quello che mi è successo poco fa» esordisco infine, sentendo quel bisogno impellente di sorridere tornare alla carica.

«Oddio» comincia Jenna e sono sicura che ha appena avvicinato il telefono all’orecchio per evitare che le possa sfuggire una qualche parola. «Che diavolo hai fatto?» chiede.

«Sono stata per più di un’ora da Arnold’s, in compagnia di Matthew Evans» dichiaro.

La sento soffocare un grido, ma alla fine esplode in un:

«Mi prendo in giro?»

«No» rispondo e, ora, quel suo grido soffocato lo sento anche io, fin troppo bene, tanto da dover allontanare il telefono per evitare di essere assordata.

«Oh mio Dio» scandisce accuratamente. «Devi assolutamente dirmi cosa cavolo è successo» esclama.

Scoppio a ridere, divertita. Io e Jenna abbiamo questo tipo di conversazioni fin dalle scuole superiori. Ci siamo sempre raccontate tutto e ogni volta che succede qualcosa di incredibile e inaspettato – come quello che è successo a me prima – a qualcuna di noi due, le telefonate iniziano sempre in questo modo, da anni.

«Perché ridi? Non perdere tempo, avanti racconta» mi incalza.

«Ok, ok» le dico.

Comincio a raccontarle quello che è successo, tutto quanto. Le dico dell’incontro con Matt nel parcheggio, del fatto che io abbia apertamente ammesso di essere una delle donne di servizio e le racconto di come lui mi abbia invitata a bere una birra senza troppi giri di parole. A quest’ultima parte Jenna non replica immediatamente e so già che è sul punto di perforarmi il timpano per la seconda volta.

«Non farti strane idee, sia chiaro. Cercava solo un po’ di compagnia» la anticipo.

Lei sbuffa:

«Ecco che torni alla carica con il tuo immancabile pessimismo. Se te l’ha chiesto c’è sicuramente dell’altro, altrimenti non lo avrebbe fatto. Anche io ogni tanto ho voglia di compagnia, ma non invito fuori degli estranei»

«D’accordo, ma non è che ci conosciamo poi così tanto. Al terzo tempo abbiamo semplicemente fatto due chiacchiere» le ricordo.

«Avete comunque interagito. Magari gli hai fatto una bella impressione e voleva conoscerti meglio; perché non può essere così?»

«Perché parliamo di Matthew Evans»

«Ancora con questa storia? È un essere umano, Danni, non un Dio. Non vederlo come tale solo perché è il capitano del Galles» mi rimprovera.

Sospiro. Fra me e Jenna finisce sempre così; io cerco di non farmi troppe illusioni, per evitare di starci male, e lei mi rimprovera questo mio modo di fare. Una volta ero come lei, ma le troppe delusioni sentimentali che ho avuto mi hanno decisamente fatta cambiare sotto questo punto di vista. A Jenna, ovviamente, la cosa non va a genio.

«Personalmente penso che quello che ti è successo stasera non sia da sottovalutare come fai sempre tu» mi dice lei, dopo un po’.

«Trovi?»

«Ma sì. Ascolta, fidati di me, cosa che per altro non fai mai. Se lui ti ha invitato fuori significa che la prima impressione che hai fatto su Matt è stata positiva, altrimenti non ti avrebbe mai invitata. Ok che era in cerca di compagnia, ma solo un idiota sarebbe uscito con qualcuno che non sopporta pur di non rimanere solo. E Matt non mi dà l’impressione di essere idiota»

Annuisco con la testa, anche se Jenna non mi può vedere. In effetti ha ragione, io non avrei mai invitato a bere qualcosa qualcuno che non conosco o che non mi ispira simpatia o fiducia. Se anche Matt ha ragionato così vuol dire che al terzo tempo non gli ho fatto una cattiva impressione, dopotutto. Anche stasera abbiamo chiacchierato e scherzato, bevendo, e mi sembra che lui si fosse trovato a proprio agio. Chissà, forse riuscire a diventare sua amica, nonostante il lavoro che svolgo ad Arms Park, potrebbe non essere più una mera utopia. La cosa mi farebbe uno strano effetto, ma mi renderebbe certo parecchio felice, va ammesso.

«In effetti hai ragione» le dico dopo aver riflettuto a modo.

«Oh, grazie al cielo lo ammetti una buona volta» esclama.

Scoppio a ridere:

«Sai come sono»

«Sì che lo so, ma ti voglio bene lo stesso» scherza.

La ringrazio, dopodiché decido di affidarmi a lei per un consiglio, come faccio spesso:

«Senti ma, secondo te che cosa dovrei fare?»

«Beh, è abbastanza semplice» comincia. «Intanto smettila di fare finta di non vederlo quando vi incrociate per i corridoi»

«Questo senz’altro, non ho più scuse, praticamente»

«Ecco, brava. E poi, ora che hai visto che riesci a parlargli, fai un po’ di conversazione. Quando lo incontri da solo chiedigli come sta, come vanno gli allenamenti eccetera eccetera»

«Più o meno è quello che avevo già pensato di fare io» le faccio notare.

«Allora vuol dire che, una volta tanto, hai pensato bene»

Mi metto a ridere:

«Grazie, eh»

«Prego, ci mancherebbe»

Sto per riprendere a parlare, ma Jenna mi precede:

«A parer mio questa è la tua grande occasione, Danni. Potresti riuscire a diventare la ragazza di una futura leggenda del rugby gallese»

«Non ti sembra di esagerare?» domando.

Lei bofonchia qualcosa di incomprensibile, poi dice:

«Staremo a vedere»

Sorrido, perché ormai è dall’inizio della nostra conversazione che, praticamente, non faccio altro. Per quanto mi piacerebbe che ciò che ha appena detto Jenna si avverasse so benissimo che, in realtà, sarebbe molto, molto complesso. Per conquistare uno ai livelli di Matt dovrei frequentare maggiormente i suoi ambienti, non solo incontrarlo al terzo tempo e, di tanto in tanto, ad Arms Park. Mi rendo conto di mordermi il labbro mentre ripenso a lui, alla sua voce, al modo in cui chiacchierava tranquillamente, al suo sorriso e a quel suo modo di fare così alla mano. La verità è che, sì, sarebbe davvero bello riuscire a conoscere ancora meglio uno come Matt.

 

*

 

Ormai è passata una settimana. Un’intera settimana, sette giorni tondi tondi dalla birra che ho bevuto insieme a Matt. Mi rendo conto che mi dispiace, che vorrei che le cose andassero in modo diverso o, meglio, che fossero andate in modo diverso. Quando lunedì ho aspettato Jamie davanti ad Arms Park mi sono ritrovata a sperare di veder comparire Matt. Già mi immaginavo lui he mi saluta, io che rispondo e una conversazione qualsiasi partire immediatamente; ma nulla di tutto ciò è successo. Quando Jamie è arrivato da me, di Matt non c’era traccia. Abbiamo incrociato solo Shane, che ci ha salutati prima di entrare nello stadio. Jamie, ovviamente, non è rimasto deluso quanto me per la mancanza del numero sette dei Cardiff. Da quando ha conosciuto diversi giocatori al terzo tempo è perennemente su di giri; gli basta anche solo vedere qualcuno di loro di sfuggita per essere felice. Io, invece, ho commesso l’enorme errore di illudermi ancora una volta, cioè di convincermi del fatto che avrei incontrato di nuovo Matt e che lui si sarebbe fermato a conversare con me. Tutto ciò ovviamente non è successo e, naturalmente, ci sono rimasta male. Non dovevo farmi convincere troppo dalle parole di Jenna, avrei dovuto saperlo. Ho intravisto Matt solo di sfuggita durante i suoi allenamenti e lui non mi ha degnata di uno sguardo. In fin dei conti come dargli torto? Sono semplicemente quella che pulisce i bagni, perché dovrebbe farsi vedere insieme a me?

Sospiro, ricacciando indietro i pensieri; li caccio addirittura schiaffeggiando l’aria, come se potesse servire a qualcosa. Il mio turno del mercoledì pomeriggio è finito. Sono più stanca del solito, il fatto che manchino ancora due giorni lavorativi – nel mio caso giovedì e sabato – non mi rincuora più di tanto. Vorrei restarmene in pigiama tutto il giorno. Il maltempo si sta accanendo sul Galles, piove quasi ininterrottamente da domenica e un clima del genere per me è perfetto per studiare e riposarmi; il fatto di dover lavorare rende le giornate ancora più pesanti, se possibile. Finisco di cambiarmi con più tranquillità di quanta me ne serva. Anche oggi sono l’ultima. Eleanor e le altre sono già uscite, salutandomi in gran fretta. Io, invece, non ho voglia di scappare, probabilmente perché non devo attraversare mezza Cardiff per tornare a casa, o forse perché, dopotutto, lavoro pur sempre ad Arms Park, splendido stadio di rugby all’ombra del ben più mastodontico Millennium Stadium.

Finisco di raccogliere le mie cose, mi infilo la giacca e mi avvio verso l’uscita, ombrello alla mano. Come sono fuori mi rendo conto che non piove più, così mi incammino con calma verso casa mia. Sono a malapena a metà del parcheggio che sento dei passi alle mie spalle, perfettamente riconoscibili per via del rumore che provocano quando calpestano l’asfalto bagnato.

«Danielle» sento.

Mi volto immediatamente, chiedendomi se davvero qualcuno mi abbia chiamata o se mi sono semplicemente immaginata tutto. Tuttavia si stavano rivolgendo proprio a me, perché come mi giro vedo Matt venirmi incontro.

«Ehi, ciao» lo saluto, vagamente confusa.

Non l’ho visto per una settimana, non mi ha considerata per una settimana e ora mi chiama così, all’uscita dello stadio.

Va bene lo stesso.

Quando mi raggiunge si ferma, il borsone da allenamento aggrappato alla spalla e i capelli leggermente umidi.

«Come stai? È un po’ che non ci vediamo» mi chiede.

Sette giorni. Sì, è da un po’.

«Io sto bene, grazie. Tu?»

Alza le spalle:

«Tutto a posto, direi. Questa settimana non ti ho proprio vista, nemmeno dentro» dice, indicando alle sue spalle, su Arms Park.

Penso un momento se quanto ha appena detto sia vero o meno. In realtà io, allo stadio, l’ho visto più di una volta, sempre mentre era concentrato ad eseguire i suoi allenamenti, ma, effettivamente, non ci siamo mai realmente incrociati. L’unica spiegazione plausibile è che non mi abbia notata, cosa che, al contrario, ho fatto io. Vorrei dire qualcosa, ma non mi viene in mente niente. Per fortuna ci pensa Matt, come ha già fatto in più occasioni.

«Immagino tu stia andando a casa»

«Esatto. Anche per oggi ho finito»

Mi sorride:

«Ti dispiace se facciamo un tratto di strada insieme?» domanda.

Lo guardo, ripetendo mentalmente quanto ha appena detto. Vorrei che lo dicesse ancora una volta, anche solo per sentire accuratamente il suono che fanno quelle parole.

«Hai parcheggiato nello stesso posto di mercoledì scorso?» gli chiedo.

Annuisce:

«Parcheggio sempre là» ammette.

Mi aggiusto la borsa sulla spalla:

«Beh, allora andiamo» concludo.

Ci incamminiamo insieme verso la mia casa e la sua auto. Mi ritrovo a sorridere fra me e me per quello che è appena successo. Non avrei mai pensato di ricevere un’altra proposta del genere da Matt, devo ammetterlo. Magari Jenna ha ragione davvero questa volta: forse ho fatto su di lui una buona impressione. Lo spero, lo spero davvero tanto.

Anche se ora so che starò con Matt per poco più di dieci minuti decido di sfruttarli meglio che posso:

«Allora, che mi racconti?» gli chiedo.

Lui solleva le spalle, si sistema meglio il borsone e comincia a parlare.

 

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Capitolo 12
*** Matt ***


– Dodici –

 

Matt

 

 

L’acqua calda che scivola lungo il corpo è una sensazione unica. Mi rilassa completamente, mi aiuta a distendere i muscoli e riesce a farmi sentire in pace con me stesso. Al termine di una partita, o di un allenamento, non c’è niente che possa eguagliare una bella doccia; o forse c’è una sola cosa, ovvero una birra ghiacciata. Berrei volentieri una bionda, ora.

«Ehi Matt, sei in meditazione lì sotto?» mi bacchetta Mark, alludendo velatamente al fatto che sono sotto la doccia da parecchio, ormai.

«Sto riflettendo sul significato della vita» scherzo.

«Beh, fallo mentre ti vesti, allora. Io dovrei lavarmi»

Chiudo l’acqua, recupero le mie cose, mi infilo un asciugamano e lascio libera la doccia per Mark, che borbotta qualcosa su quanto sia assurdo il fatto di dovermi chiedere una cosa del genere. Raggiungo il mio borsone ridacchiando, ripesando al mio amico. Mentre mi rivesto faccio due chiacchiere con Scott, che inizia a chiedere i miei pareri sull’imminente partita di domenica contro gli scozzesi di Glasgow, partita che avremo la fortuna di giocare qui, nella nostra Cardiff. Cerchiamo di affrontare l’argomento nella maniera più oggettiva possibile: proveniamo da due sconfitte consecutive e, su cinque partite, ne abbiamo vinte soltanto due. Dall’altra parte, invece, ci sono gli scozzesi, che di vittorie ne hanno quattro. Personalmente non mi sono mai fatto impressionare dai numeri, dalle statistiche e dai pronostici. Anche se sulla carta siamo più deboli non è detto che verremo sconfitti.

Lo dico a Scott, che sorride e risponde:

«Sono d’accordo, lo sai»

Cominciamo a parlare di altro mentre finiamo di vestirci e quando sono pronto le diciannove sono passate da una decina di minuti. Afferro il borsone con dentro le mie cose, saluto i ragazzi rimasti e mi avvio verso l’uscita sul retro di Arms Park. Considerando che, per via della doccia, ho ancora i capelli piuttosto umidi, mi infilo il cappellino dei Cardiff Blues per sicurezza, il logo della squadra bene in vista. Esco dallo stadio, supero il cancelletto e come raggiungo il parcheggio trovo Danielle ad aspettarmi.

Da due – tre con questa – settimane io e lei abbiamo preso l’abitudine di andare a casa insieme nelle due sere in cui entrambi finiamo alle sette, cioè il mercoledì e il giovedì. Le ho chiesto io se le andava, rendendomi conto che, anche se sono solo poco più di dieci minuti a piedi, preferisco fare un tratto di strada in sua compagnia anziché da solo. Danni è socievole, alla mano, parla ma sa anche ascoltare. Quando torniamo a casa insieme ormai troviamo sempre qualcosa di diverso di cui parlare, dopo gli iniziali, e ovvi, silenzi delle prime volte.

«Spero di non averti fatto aspettare troppo» le dico appena la raggiungo.

Scuote la testa:

«Sono appena uscita anche io. Eleanor doveva assolutamente raccontarmi le sue novità e io avevo paura a fermarla» ammette, sorridendo.

Cominciamo ad avviarci insieme verso casa sua, con l’abituale calma che ormai caratterizza i nostri rientri a fine giornata. Perché ormai sono diventati anche questo, una sorta di consuetudine. A parte i primi due giorni le nostre passeggiate hanno assunto particolarità uniche, con un personale modo di camminare e conversazioni che esulano volutamente dalle classiche domande su giornate lavorative o allenamenti. Reciprocamente ci si chiede come va, dopodiché ci si racconta qualcosa l’un l’altro, in modo semplice, fra amici. Con Danni tutte queste sfaccettature sono comparse con naturalezza. Mi ha detto che il suo lavoro non ha nulla di emozionante di cui raccontare, che parlare degli esami le mette ansia e perciò preferisce dirmi aneddoti sul suo gatto o parlare del libro che sta leggendo. Tutto questo mi mette a mio agio perché anche io posso fare lo stesso; smettere di essere Matthew Evans, quello che tutti tempestano di domande su dei test match che neanche sa se giocherà, ed essere semplicemente Matt.

«Che mi racconti?» chiede, mentre usciamo dal parcheggio e imbocchiamo la lunga via in cui le abita.

«Niente di eccezionale. Io e Scott ci siamo messi a parlare della partita di sabato e abbiamo scoperto di essere fra i più positivi. Con molta probabilità neanche giocheremo»

«Non vedo perché non dovresti, contro Glasgow serve la formazione migliore»

Le sorrido:

«Così mi lusinghi»

«Prego» risponde.

Si sistema meglio i capelli, che porta sciolti, e rimango ad osservarla mentre lo fa.

«Comunque, possiamo parlare d’altro? Perché non mi dici qualcosa di interessante tu?»

Scrolla le spalle:

«Perché non ho niente di interessante da dire, stavolta. Nemmeno il mio gatto ha fatto qualcosa di cui vale la pena parlare»

«Niente niente? neanche un salto con atterraggio sbagliato?»

Scuote la testa:

«Neanche. È stato molto noioso» ammette.

«Ho capito. Beh, allora non saprei. Che programmi hai per stasera?»

Si volta subito verso di me, dopodiché sembra pentirsi di averlo fatto e torna a guardare davanti a sé, tormentando il manico della borsa con la mano.

«Nulla di che. Credo che mi cucinerò del riso e leggerò. Oppure guardo un film, non saprei. Comunque sia mi abbandonerò alla pigrizia. Perché?»

«Così, per sapere» le dico.

«Tu invece che fai? Sai, mi ha sempre incuriosito scoprire cosa fanno gli sportivi di professione la sera» sorride.

Anche io le sorrido:

«Facciamo quello che fanno tutti se davvero lo vuoi sapere. Ad esempio io appena torno a casa mi cucino del pollo e mi bevo una birra»

«Come le persone normali, quindi»

«Già, come le persone normali»

«Lo immaginavo, stavo solo scherzando. È che i giornali parlano di voi sportivi come se non aveste vita al di fuori del campo da gioco»

«Lo so, è snervante» comincio. «I giornali alterano la realtà da questo punto di vista. Capita spesso che ci attribuiscano cose non vere»

Danni abbassa lo sguardo, probabilmente pensando a qualcosa. Passa almeno un minuto prima che riprenda parola; sospetto che abbia pensato di aver toccato l’argomento sbagliato tirando in ballo i giornali, ma non è così. Quello che i quotidiani scrivono ormai non mi importa più, ho imparato a ignorare ciò che dicono.

«Perciò pollo stasera, eh? Fatto come?» domanda, voltandosi a guardarmi.

Questo argomento esula completamente dall’altro ed è perfetto; il cibo è uno dei miei grandi amori.

«Sale e pepe. Molto semplice» le svelo il segreto del mio piatto.

Lei mi guarda nuovamente, perplessa stavolta:

«Non lo sfumi neanche con del vino?»

«Perché, tu sì?»

Alza le spalle:

«Dipende. Lo cucino in tanti modi»

«Beh, io ti ho appena svelato il segreto della mia ricetta. Ti va di ricambiare il favore?» la incalzo, scherzando.

Lei si mette a ridere e comincia ad elencarmi le sue varianti preferite, alcune conosciute e altre completamente inventate. Mi descrive spezie, accostamenti e combinazioni, facendomi venire una gran fame. Tuttavia è piacevole parlarne con lei, mi ha fatto venire voglia di provare ogni sua ricetta appena arrivato a casa.

«Pochi giorni fa ho anche provato a farlo con il porro» dice, poi, probabilmente per terminare il suo elenco.

«Con il porro?»

Annuisce:

«Va insaporito un po’, ma il risultato non è male»

«Mi hai incuriosito» dichiaro.

Lei sorride e alza le spalle:

«Beh, se vuoi un giorno te lo preparo»

Si ferma e io mi volto a guardarla. Fra una chiacchiera e una ricetta siamo arrivati a casa sua e non me ne sono nemmeno reso conto.

«Ah, devi andare»

Fa sì con la testa mentre io riprendo parola:

«Con tutto quello che mi hai appena detto penso proprio che stasera proverò una delle tue varianti, altro che sale e pepe»

Danni si mette a ridere, contagiandomi con la sua risata davvero graziosa.

«Fai come preferisci. Poi mi racconti com’è venuto» dice, ma subito dopo continua: «Comunque, uno di questi giorni mi piacerebbe che mi parlassi un po’ dell’alimentazione che seguite voi rugbisti»

«Perché?»

«Così. Mi ha sempre incuriosita. Vorrei sapere cosa dovete fare per mantenervi in forma»

Alzo le mani:

«Ok, nessun problema. È per Jamie che vuoi saperlo?» scherzo.

Sorride:

«Per Jamie c’è ancora tempo»

«Ne possiamo parlare sabato, al terzo tempo. Vieni?»

«Oh sì, sì. Avevo già in programma di passare»

«Ottimo. Allora ci vediamo sabato»

«A sabato»

Ci salutiamo, dopodiché lei entra in casa e io mi avvio verso l’auto. Tutto il nostro parlare di cibo mi ha davvero aperto lo stomaco. Penso proprio che stasera proverò una delle ricette di Danni.

 

*

 

Questa volta a sanguinarmi è il labbro, tanto per cambiare. Non riesco mai a venire via dal campo di gioco senza qualche taglio, graffio o botta che mi porterò avanti per un po’. Ma, in fin dei conti, questo è dovuto al fatto che gioco e faccio il mio dovere. Guardare i lividi e i graffi che mi sono, o mi hanno, provocato, il giorno dopo, mi fa sentire stranamente vivo, proprio come mi sento durante la partita. Correre da una parte all’altra del campo, placcare l’avversario o cercare di superarlo, a seconda di chi ha l’ovale, con il corpo pieno di adrenalina, mi dà una sensazione che nient’altro sarebbe in grado di trasmettermi, indipendentemente dal risultato finale; esattamente come per il match appena concluso. Al terzo tempo, oggi, c’è una strana atmosfera. La partita contro gli scozzesi di Glasgow si è conclusa in un pareggio: tredici per loro, tredici per noi. Per il nostro coach la prestazione che abbiamo fatto è stata lodevole. Nel suo consueto discorso negli spogliatoi, al termine degli ottanta minuti di gioco, ci ha tenuto a complimentarsi per “la mentalità che abbiamo mantenuto sempre”. In fin dei conti sono soddisfatto anche io; con oggi portiamo a casa due punticini per la classifica e una nuova iniezione di fiducia, che non ci fa male.

Il pareggio, ovviamente, si è ripercosso sul dopo partita, rendendo il tutto, appunto, quasi strano. In entrambe le squadre ci sono giocatori delusi dal risultato e altri soddisfatti, così come per i tifosi. Personalmente faccio parte dello schieramento dei soddisfatti e, con molta probabilità, buona parte del merito è anche del terzo tempo che, con quel suo clima unico, riesce sempre a mettermi di buon umore.

Mi slaccio la giacca dell’abito, quello per le formalità con lo stemma dei Cardiff Blues, e raggiungo il bancone del bar, dove Mike è indaffarato a servire clientela. Nell’attesa tasto un po’ il punto del labbro che mi sono tagliato. Ha smesso di sanguinare quasi subito, ma ora si è gonfiato, com’era prevedibile.

Come torno a puntare lo sguardo su Mike vedo che è praticamente davanti a me, libero da impregni e fermo ad osservarmi, sorridendo.

«Che hai fatto alla faccia?» chiede, indicandomi con un rapido cenno.

«Indovina» rispondo.

Il suo sorriso si allarga:

«Placcaggio alto. Ne hai preso uno oggi, no?»

«Sì, ma non è per questo»

«E allora cosa?»

«Testata in ruck»

Lancia una monosillabica esclamazione e afferra un boccale, cominciando a spillarmi una bionda.

«Non male. Anche se sei passato di qui in condizioni peggiori»

Mi allunga il boccale e io lo afferro, ringraziandolo.

«Questo sì» dico.

«Bevici sopra. Aiuta a non sentire»

Annuisco e lo saluto, dopodiché comincio a girare fra le persone presenti al terzo tempo. Non ho ancora incontrato Danni; aveva detto che avrebbe partecipato oggi, ma non sono ancora riuscito ad incontrarla. So che non avevamo niente di eccezionale da dirci – anche se le ho promesso che le avrei raccontato del mio regime alimentare, nonostante io non riesca a capire come mai la incuriosisca tanto – tuttavia, a forza di tornare a casa insieme e di approfondire la nostra conoscenza, trovo ogni giorno la sua compagnia più piacevole. Danni è il tipo di ragazza che non si prende troppo sul serio, perfettamente consapevole che per arrivare dove vuole deve allenare il cervello; l’ho capito quando siamo stati da Arnold’s la prima volta.

Saluto con un cenno uno dei giocatori di Glasgow, che risponde alzando il boccale di birra. Riprendo a farmi strada fra le persone che, anche se sono ancora numerose, sono leggermente calate rispetto a prima. Alla fine, fra la gente, scorgo Danielle. È proprio di fronte a me, ma più avanti di dove mi trovo io, intenta a conversare con un uomo ben vestito e, sicuramente, più grande di lei. Sorride, posando una mano sul braccio dell’altro, che tiene una birra, il quale continua a chiacchierare, scuotendo la testa divertito. Rimango a guardarli un momento, a osservare il loro affiatamento. Probabilmente non dovrei interromperli, a me non piacerebbe affatto essere disturbato in una situazione del genere. Tuttavia è più forte di me; senza rendermene quasi conto mi incammino verso di loro e li raggiungo. Prima ancora che io mi sia fermato Danni mi nota e sorride, mostrando le fossette che le si formano sulle guance:

«Ciao» mi saluta, semplicemente.

L’uomo che è con lei comincia ad osservarmi, in silenzio. Di certo per me non ha un volto noto, è sicuramente la prima volta che lo vedo; o, forse, lo noto soltanto ora che è con Danni.

«Ehi» rispondo infine, concentrandomi solo sul viso della ragazza.

«Come va il labbro?» mi chiede, accennando un sorriso.

Tocco appena il punto incriminato:

«Va bene, grazie. È molto gonfio?»

Scuote la testa:

«Non più di tanto, credimi»

Sto per ribattere con una battuta, ma Danni prende parola prima di me, voltandosi verso l’uomo che è con lei e posando, nuovamente, una mano sul suo braccio:

«Lascia che ti presenti Norman» esordisce, mentre lui già mi tende la mano. «È mio cognato»

Mi volto a guardare la ragazza, sorpreso. Spero che lo stupore non si noti troppo sul mio viso, ma davvero questa non me l’aspettavo. Quando io e Norman ci diamo la mano Danielle ne approfitta per confermare il sospetto che si è appena insinuato nella mia testa:

«È il padre di Jamie» dice.

Non avevo dubbi, i riccioli neri sono gli stessi, anche se quelli dell’uomo sono più corti e meglio tenuti.

«È un piacere conoscerti, Matthew» dice Norman, sorridendomi.

«Chiamami Matt, per favore. Lo preferisco»

«D’accordo, non c’è problema»

Guardo un momento sia lui che Danni:

«Ma Jamie oggi c’è?» chiedo.

Mi risponde il padre del piccolo:

«Sì, è da qualche parte con mia moglie» Dopodiché allunga la sua birra a Danni e riprende a parlare: «Anzi, se volete scusarmi penso che andrò a cercarli»

Sia io che la ragazza gli diamo il via libera con lo stesso gesto; Norman ci saluta e si allontana fra le persone. Mi volto verso Danni, intenta a bere:

«Devo dire che gli somiglia» dico, riferito chiaramente a Jamie e Norman.

Lei annuisce:

«Sì, infatti. Jamie ha preso ben poco da mia sorella»

«Come sia chiama tua sorella?»

«Rachel»

Acconsento con la testa, per dimostrarle di aver assimilato quel nome.

«Come stai?» le chiedo poi, per avviare la conversazione.

«Bene, dai. Tu? Come ti senti dopo questa partita?»

Sorrido:

«Io mi sento bene. Personalmente trovo il risultato finale molto positivo»

«Anche io. È stata una bella partita e un pareggio contro Glasgow è comunque un segnale importante, o sbaglio?»

Mi piace il suo modo di leggere questo sport, è molto diverso da quello dei tanti che vogliono solo che si vinca. Danni guarda all’insieme, a quello che può significare per la squadra, come me.

«Non sbagli affatto» le dico.

Appoggia il boccale di birra quasi vuoto su uno degli alti tavolini che abbiamo vicino.

«Quindi, stasera, tu sei uno di quelli che festeggia» dice, il tono leggermente malizioso.

Mi metto a ridere:

«Oh sì, stasera sì»

Lei mi sorride.

«Tu invece cosa fai?» chiedo.

Scrolla le spalle:

«Lavoro» e abbozza un sorriso.

«Come? Sul serio?»

«Beh, sì. Quando ci sono le partite in casa qualcuno dovrà pur pulire lo stadio»

«Mi stai dicendo che tutte le volte, a fine partita, poi tu e le tue colleghe dovete ripulire tutto? Ma davvero tutte le volte?»

«Tutte no, abbiamo i turni. Ma questa volta tocca al mio gruppo»

Mi passo una mano fra i capelli, imbarazzato. Le ho decisamente fatto una serie di domande patetiche, scommetto che mi sta dando dell’idiota.

«Non vi invidio per niente» mi esce infine, spontaneamente, ma me ne pento subito.

Fortunatamente Danni si mette a ridere:

«Sì, è orribile. Ma è il mio lavoro»

«Ok, giuro che smetterò subito di farti domande stupide come quelle di poco fa» le dico, per cercare di riguadagnare punti.

Lei ride nuovamente:

«Perché stupide? Sono curiosità più che legittime» risponde.

Rimango a guardarla un momento, mentre si scosta appena la frangetta, che torna a riposizionarsi immediatamente nello stesso modo.

«Mi fa piacere vedere che hai deciso di passare il tuo tempo qui prima di andare a lavorare. Quando mi avevi detto di non aver mai partecipato al terzo tempo credevo fosse perché non ti piaceva» riprendo, dopo un po’.

Danni apre bocca per parlare, schiude le labbra leggermente, allontanando lo sguardo; noto che si morde appena il labbro inferiore, sembra quasi combattuta se dire o meno qualcosa.

«Non so perché non ho mai deciso di venire qui» riprende infine. «So solo che ora sono più che felice di trascorrere così alcuni dei miei sabati. Anche se solo un’ora prima di dover lavorare»

Mi lancia un’occhiata indecifrabile, ma sicura, con quei suoi meravigliosi occhi verdi. Abbozzo un sorriso, ritrovandomi leggermente spaesato.

Lei guarda rapidamente l’orario sul telefonino, dopodiché alza gli occhi al cielo, sospirando:

«A proposito di lavoro. È meglio che vada, il mio turno inizia fra venticinque minuti e devo salutare Jamie, Rachel e Norman»

Annuisco:

«Ho capito»

Si stringe appena nelle spalle:

«Mi spiace non aver potuto fare due chiacchiere con te» dice e mi accorgo che dispiace anche a me.

Solleva una mano per salutarmi, ma l’anticipo:

«Se vuoi possiamo andare a bere qualcosa una sera di queste. E, magari, anche a mangiare un boccone»

La sua mano si abbassa, tornando a sistemarsi al suo fianco e la ragazza irrigidisce appena le spalle.

«Intendi… proprio andare a prendere qualcosa insieme?» domanda, titubante.

«Sì. Come quando siamo andati da Arnold’s. Giusto per parlare un po’ senza doversi preoccupare di impegni, lavoro o di essere arrivati a casa»

Sbatte le palpebre un paio di volte, guardandomi. Infine sorride, evidenziando le fossette che, personalmente, trovo tanto graziose.

«Sì, volentieri. Ma quando?»

Ci penso un momento:

«Che ne dici di martedì? Finisco alle venti»

«Ma io non lavoro il martedì»

«Sì, lo so. Ti passo a prendere e andiamo da Arnold’s. Ormai so dove abiti» concludo, facendole l’occhiolino.

Lei sorride ancora una volta:

«D’accordo, vada per martedì» dopodiché indica verso l’uscita: «Ora, però, dovrei proprio andare»

«Oh, sì, scusami. Buon lavoro, allora. E salutami Jamie» concludo.

Lei acconsente, mi saluta un’ultima volta e si avvia. Rimango a guardarla mentre si allontana, aprendosi con garbo la strada fra i presenti. Come la perdo di vista mi ricordo di avere ancora la birra in mano e ne bevo un lungo sorso. Sospiro, sentendomi strano. Non so cosa mi sia preso, né tantomeno cosa mi stia ronzando in testa. L’unica cosa che so è che sono deluso dal fatto di non aver potuto passare un po’ di tempo con Danielle, mi sarebbe piaciuto poter parlare ancora un po’ con lei.

Mi rifarò martedì, avremo molto tempo per conversare quella sera. Osservo il liquido ambra contenuto nel boccale che ho in mano; ora come ora è meglio berci su e pensare ad altro.

 

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Capitolo 13
*** Danni ***


– Tredici –

 

Danni

 

 

Sono distesa sul letto a gambe e braccia aperte, formando una stella. Accanto a me il cellulare in vivavoce continua a vomitare parole con la famigliare voce della mia amica Jenna. Io l’ascolto in silenzio, fissando il soffitto, pronta per uscire.

Martedì 14 ottobre è arrivato e sono consapevole che le otto in punto sono comparse su ogni orologio di casa mia già da un po’. Jenna ha voluto chiamarmi per essere partecipe di ogni singolo minuto precedente alla mia uscita con Matt di questa sera. È da un po’ che va avanti ricordandomi il comportamento più idoneo che devo mantenere, come se non avessi mai interagito prima d’ora con quel ragazzo.

Alla fine sbuffo:

«Jenna, Jenna» la interrompo. «Non serve che mi ricordi tutte queste cose, ormai conosco Matt»

Si zittisce, per almeno cinque o sei secondi.

«Ti sto solo dando dei consigli. Già ti ho detto che faresti meglio a cambiarti» ribatte.

Mi guardo un momento, perplessa. Indosso un paio di jeans e un dolcevita, cosa c’è che non va?

«So già che non lo farai, per questo ti sto consigliando di non fare brutte figure» continua lei.

Mi giro sulla pancia, afferrando il telefono e avvicinandolo alla mia bocca per parlare, sempre mantenendo il vivavoce:

«Ti ho già detto che non serve. Ormai conosco Matt, siamo amici. Il nostro non è un appuntamento, usciamo solo a bere qualcosa insieme»

Replica immediatamente:

«Ma sei davvero sicura di questo? Voglio dire, non è che tu ti sei convinta che sia semplicemente un’uscita da amici perché hai paura di agitarti troppo vedendola in maniera differente? E se per entrambi fosse tutt’altro, ma tu negassi la cosa?»

Sgrano gli occhi:

«Ma di che stai parlando?» domando, quasi sconvolta.

Non riesco a capire la direzione che sta prendendo la nostra conversazione, o meglio, quella che lei sta cercando di farle prendere.

«Andiamo, Matt ti piace. È inutile che fai finta che non sia vero, ormai l’ho capito»

Apro bocca per parlare, ma mi esce solo un verso insensato. Nelle mie orecchie riesco ancora a sentire esattamente le parole pronunciate da Jenna, con quel timbro rugginoso provocato dal frizzare del vivavoce.

«Matt non mi piace» esclamo alla fine.

«Sul serio? E allora perché mi parli continuamente di lui?»

Jenna sta partendo alla carica con la sua arma più micidiale, comincia a lanciarmi frecciatine al veleno perché vuole che mi ponga delle domande, così da guardarmi dentro in cerca di risposte. Purtroppo nel fare questo è bravissima, mentre io non so mai come uscirne illesa.

«Te ne parlo perché è un ragazzo simpatico. E anche perché non avrei mai creduto di riuscire a conoscerlo» cerco di difendermi.

«Ti aspetti che me la beva?» chiede, dopo aver fatto schioccare la lingua. «Sei completamente presa da lui e faresti meglio ad approfittare di ogni occasione»

Sto per ribattere, inacidita, quando il campanello di casa trilla:

«È Matt» dico, il suo nome che si soffoca leggermente fra le mie labbra.

«In bocca al lupo. E aggiornami appena rientri» si affretta a dire Jenna, chiudendo la chiamata subito dopo.

Afferro la giacca, infilandola lungo le scale. Come sono davanti all’ingresso respiro a fondo una sola volta, prendo la borsa e apro la porta. L’alta figura di Matt è proprio davanti a me, lui si volta a guardarmi quando sente scattare la serratura e mi regala uno di quei suoi sorrisi perfetti. Sento una morsa stringersi dentro di me, imbrigliare il cuore. I polmoni si dimenticano per un secondo di compiere la loro funzione vitale e il ciao che farfuglio è la cosa peggiore che mi sia mai uscita di bocca. In testa ho ancora la conversazione con Jenna e maledico mentalmente quest’ultima per il dubbio che ha fatto nascere dentro di me.

«Ciao Danni» mi saluta il ragazzo quando mi chiudo la porta alle spalle.

«Com’è andato l’allenamento?» riesco a chiedergli, la voce leggermente rotta.

Non mi riconosco, non riesco a mantenere la calma. Quella che mi sta assalendo è ansia, l’ansia di sbagliare, di fare una brutta figura, di giocarmi per sempre la possibilità di costruire qualcosa con Matt. E temo sia tutta colpa di Jenna e della conversazione di poco fa. Davvero non riesco a capire come ci riesca, come faccia, ogni volta che apre bocca, a stravolgere tutte le mie sicurezze – “a fin di bene”, come dice lei.

«Come al solito» risponde Matt alla mia domanda, che quasi mi ero dimenticata di avergli posto. «Tu come stai?»

«Bene» dico, tagliando corto.

Ci avviamo verso Arnold’s, compiendo quel breve tratto di strada nel più totale silenzio. Come entriamo nel pub Peter ci saluta e intavola una conversazione con Matt mentre aspettiamo la cameriera. Quando quest’ultima arriva e raggiungiamo il nostro posto, mi siedo e prendo ad analizzare il menù come se fosse la cosa più preziosa al mondo. Mi nascondo letteralmente dietro alle sue pagine, senza sapere che fare. Ho lo stomaco ribaltato e il cuore si sta scavando una fossa da solo per quanto batte veloce. Se possibile mi sento quasi più imbarazzata oggi che la prima volta in cui sono venuta qui con Matt. È passato un mese da allora e io e il giocatore abbiamo approfondito la nostra conoscenza in questi giorni, siamo diventati amici, non dovrei sentirmi tanto agitata, non dovrei avere paura di dire cose sbagliate ora che so di cosa parlare, e come poterlo fare, con Matt. Allora perché mi sento così nervosa? Perché è bastato tanto poco a Jenna per distruggere le mie convinzioni? Davvero ho lasciato intendere che provo qualcosa per Matt? Ma, soprattutto, sul serio lui mi piace?

«Cosa prendi?»

La voce del ragazzo mi risveglia dai miei pensieri. Abbasso frettolosamente il menù, sperando di non avere espressioni strane in viso.

«Penso che prenderò un hamburger e una Guinnes» dico, quasi in un solo fiato.

Matt solleva le sopracciglia e sorride:

«Grande» sentenzia.

La cameriera ci raggiunge e le lasciamo la nostra ordinazione. Come se ne va, però, il silenzio precipita sul nostro tavolo. Dentro di me la situazione non accenna a migliorare, reprimo a fatica l’istinto di alzarmi e scappare come una vigliacca. Se non voglio rovinare tutto solo perché non so se mi piace o meno Matt – ed è questo il dubbio che mi agita tanto – devo calmarmi e fare chiarezza.

Il giocatore prende fiato per parlare, ma lo precedo:

«Ti dispiace se vado un momento al bagno?»

Mi guarda sorpreso un attimo, dopodiché risponde:

«No, assolutamente. Vai pure»

Mi alzo dal tavolo, cercando di raggiungere la toilette senza apparire una persona in fuga durante un inseguimento. Come arrivo mi chiudo la porta alle spalle, girando la chiave nella toppa e mi precipito davanti allo specchio. Mi guardo; sembro normale, per fortuna. Non ho rossori imbarazzanti sulle guance, la sottile linea di eyeliner non è tremolante, né sbavata e i capelli non si sono gonfiati più del solito. Sono io, come Matt mi ha sempre vista.

Allora perché non riesco a stargli davanti?

Chiudo gli occhi, iniziando a respirare a fondo. Continuo a non capire che mi sta succedendo; o meglio, credo di aver capito. È stata Jenna. Sono state le sue parole a rendermi improvvisamente insicura. È riuscita a instillare in me il dubbio, a costringermi a farmi una domanda che non avevo ancora preso in considerazione: cosa provo per Matt?

Espiro a pieni polmoni una, due, tre volte. Finalmente i ritmi del mio corpo si stanno regolarizzando. Se voglio riuscire a trovare una risposta a questa domanda devo essere il più lucida possibile questa sera e non lasciarmi influenzare da niente. Devo essere me stessa, come ho sempre fatto, e prestare attenzione anche al più insignificante segnale o stimolo. Allo stesso tempo, però, devo tenere presente che per Matt potrei rappresentare una semplice amica, una compagna di bevute. Potrei banalmente essere una di quelle che non vale la pena presentare ai propri amici perché non abbastanza interessante. Perciò mi conviene smettere di costruire castelli in aria e agitarmi inutilmente.

Quando sento di essermi calmata a sufficienza decido di rientrare, così da poter iniziare questa serata che non è ancora realmente partita. Mi avvio fuori dal bagno, rientro nella sala dove c’è il nostro tavolo, ma mi blocco praticamente subito. Proprio dove dovrei andare io si staglia l’alta figura di Mark Jones, numero quattordici di Cardiff Blues e nazionale gallese. Sta parlando con Matt – che non sembra avere problemi a rimanere seduto nonostante i quasi due metri del suo interlocutore – tenendo le mani in tasca e lo sguardo fisso sull’amico.

Sono combattuta. Non so se fare dietrofront e aspettare, oppure se tornare al mio posto e vedere quello che accade. Non ci penso a lungo; riprendo a camminare fino a raggiungere il tavolo. Come arrivo i due uomini si voltano contemporaneamente verso di me; lancio un sorriso a Mark.

«Ah, lei è Danielle» Matt mi presenta all’altro, che mi tende subito la mano.

«Ciao» dice e rispondo solo con un nuovo sorriso, non sapendo cosa dire.

Mark torna a rivolgersi a Matt:

«Vi lascio in pace, allora. Ci vediamo domani» ci saluta.

«Ciao, buona serata» risponde il suo compagno di squadra.

Anche io saluto mentre il giocatore si appresta ad allontanarsi. Mi siedo, finalmente sentendomi a mio agio. Noto che, mentre ero in bagno, la mia birra e quella di Matt sono arrivate e che lui deve averne sicuramente bevuto un sorso. Mi sento un po’ in colpa per il comportamento che ho tenuto da quando il giocatore è venuto a prendermi, perciò decido di iniziare subito ad instaurare un dialogo, così da fargli capire che non è colpevole di niente – non si sa mai che si fosse posto simili domande.

«Quindi anche Mark frequenta Arnold’s» dico.

«Già, ma non è il solo. Buona parte della squadra viene qua» risponde. «Non hai mai incrociato nessuno?»

Scuoto la testa. Per quanto spesso io venga qui, il più delle volte è solo per una veloce birra in compagnia. Di rado ho intravisto qualche volto conosciuto. Lo dico a Matt.

«Capisco. Beh, se ti capita la prossima volta facci caso» dice, facendomi l’occhiolino.

«Allora, che novità hai?» domando, appena finisco di assaporare la tostatura della mia Guinnes.

«Niente di nuovo. Gli allenamenti procedono bene e sono in pari con gli episodi di Breaking Bad»

«Ottimo»

Beve un altro sorso dal suo boccale e io rimango a guardarlo, pensando. Dopodiché gli chiedo:

«E della nazionale cosa mi sai dire?»

Mi guarda subito, gli occhi celesti sgranati, anche se solo per un secondo.

«Cosa intendi?» domanda.

Alzo le spalle, cominciando a chiedermi se sto indirizzando la conversazione nella direzione giusta.

«Beh, i test match si avvicinano, no? Non ne avete ancora parlato?»

Ticchetta appena con l’indice sul tavolo, distogliendo lo sguardo. Ora sì che sono sicura di avergli fatto la domanda sbagliata.

«Io… sto cercando di non pensarci, diciamo» comincia, poi torna, finalmente, a guardarmi. «Non fraintendermi. So che ci saranno a breve e spero vivamente di poter giocare, ma, ora come ora, voglio solo concentrarmi sul campionato di Pro12. Se penso anche ai test match mi carico di tensioni inutili»

Annuisco e lui riprende parola:

«Un sacco di persone continuano a tempestarmi di domande su queste partite. Mi mettono sotto pressione e io neanche so se davvero giocherò. È solo per questo»

«Mi spiace essere stata una di queste persone» mormoro.

«Tranquilla» mi sorride. «Se per te va bene possiamo parlarne dopo l’uscita delle convocazioni effettive, quando si vedrà se sarò in campo o meno. Perciò direi da dopo il ventuno. Prometto che poi risponderò a tutte le tue domande»

«Andata»

Ci guardiamo un momento. Ora che so quanto l’argomento test autunnali sia spinoso prima del ventuno ottobre, non c’è pericolo che lo tiri nuovamente in ballo. Non mi sarei aspettata una cosa del genere da Matt, va ammesso. Non credevo tenesse tanto alla maglia rossa da avere paura di non vestirla. Eppure il suo posto in nazionale è sicuro anche quest’anno, così come il ruolo da capitano, ne sono certa. Il suo talento, il carisma e la leadership che possiede, uniti alla modestia che, ogni giorno, dimostra sempre più di possedere, ne fanno una pedina importante per la squadra dei dragoni. Come numero sette e capitano del Galles ha sempre dato prova delle sue capacità e non ha mai deluso.

Abbasso lo sguardo sulle mie mani mentre penso a tutto questo.

«In facoltà stai affrontando qualcosa di nuovo?»

La domanda mi coglie impreparata. Alzo gli occhi su Matt e subito incontro i suoi.

«Parli di esami?» chiedo.

Lui sorride, scuotendo la testa:

«No, di corsi che stai seguendo. So che per te l’argomento esami è come quello test match per me: meglio accantonarlo quando è possibile»

«Stai cercando di farmi pesare qualcosa?» gli chiedo, scherzando e guardandolo di sbieco.

Lui scoppia a ridere divertito e rimango ad osservarlo incantata finché non si ricompone.

«No, niente del genere. Non potevi sapere la questione dei test di novembre, non te ne ho mai parlato»

Il suo sorriso perfetto non accenna a spegnersi dal suo viso.

«Volevo soltanto sapere come ti va l’università»

Mi fa piacere che mi abbia chiesto qualcosa di me, cosa che, per altro, fa spesso. Matt non ha manie di protagonismo, nemmeno le più misere. Parla di sé solo se glielo si chiede e per il resto ascolta e fa conversazione. Non sarebbe difficile rimanere stregati da un ragazzo come lui, sia per il fascino che possiede che per i suoi modi di fare unici.

Sfioro appena con le dita il bicchiere della mia Guinnes, quel gesto quasi nervoso che orami tengo sotto controllo e che ho reso mio.

Sì, ho iniziato un nuovo corso all’università. So di cosa potremmo parlare.

 

 

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Capitolo 14
*** Danni ***


– Quattordici –

 

Danni

 

 

Lunedì mattina di relax, finalmente. Dopo tanti giorni di studio e lavoro ho deciso di prendermi qualche ora per me, una volta tanto, e non fare assolutamente niente. Accoccolata sul divano del mio appartamento continuo la lettura di Crypto, più avvincente di quanto mi fossi aspettata, con il gatto a scaldarmi in grembo, che si muove appena di tanto in tanto, preda dei sogni. Sfoglio una nuova pagina, sempre più presa dalla lettura. Sono arrivata ai capitoli cruciali, il responsabile sta per essere svelato e io non vedo l’ora di scoprire se il mio sospetto è fondato o meno. Ma il campanello di casa suona improvvisamente; sia io che il gatto sussultiamo, strappati entrambi dalla profondità di lettura e sonno in cui eravamo precipitati. Mi alzo controvoglia, dirigendomi al citofono.

«Chi è?» chiedo, afferrando l’apparecchio.

«Sono Jenna» è la risposta.

Le apro la porta sorpresa e rimango a osservare, dall’alto delle scale, la mia amica che entra in casa, si sfila la giacca e posa l’ombrello bagnato sullo straccio che preparo sempre per l’evenienza.

Solleva la testa:

«Ehilà» mi saluta, iniziando a salire le scale.

«Che ci fai qui?» le chiedo come mi raggiunge.

«Ero nei paraggi e ho pensato di passarti a trovare» risponde, facendosi strada verso il mio soggiorno e salutando il gatto con qualche carezza. La guardo di traverso, sospettosa. Le improvvisate di Jenna in casa mia hanno sempre un secondo fine; di rado passa a salutarmi solo per il gusto di farlo. Si siede sul divano, il gatto le si avvicina per accaparrarsi qualche altra carezza.

«Solo per questo? Sei passata così, giusto per un saluto» la incalzo, il tono volutamente diffidente.

Lei si stringe nelle spalle, lo sguardo vivace, tenta di reprimere un sorriso, ma invano.

«Com’è andata ieri sera?» domanda, esaltandosi.

Sapevo che c’era dell’altro nella sua visita a casa mia, conosco Jenna fin troppo bene. Le avrei raccontato più tardi di ieri sera, più o meno mentre mi sarei preparata il pranzo prima di dirigermi a lavoro. Ma la curiosità l’ha sconfitta anche questa volta, la sconfigge sempre.

Vuole sapere della mia uscita con Matt, la secondo in una sola settimana. Dopo che martedì scorso sono riuscita a rilassarmi, a smetterla di farmi domande, problemi e quant’altro, il tempo è trascorso nel migliore dei modi. Io e Matt abbiamo parlato di quante più cose possibili, affrontando le conversazioni più disparate e rimanendo insieme fin dopo la mezzanotte. Nel nostro consueto rientro a casa del giovedì sera, Matt mi ha chiesto se mi andava di replicare la serata di martedì, magari di domenica, e ho detto di sì. Così ieri siamo usciti di nuovo e tutto è stato una perfetta e piacevolissima imitazione dell’uscita precedente. Nelle due intere serate che ho trascorso con lui sospetto di aver fatto chiarezza sui dubbi che continuavo a pormi dopo che Jenna era riuscita a instillarli in me. Matt è un ragazzo sorprendente, simpatico, alla mano e umile; è un ottimo amico e non penso di vederlo in un modo differente da questo. Così come sospetto di essere vista in uguale maniera da lui. Non c’è malizia nel modo in cui si rivolge a me o negli sguardi che mi lancia e non ha mai compiuto alcun atto che possa lasciare intendere che io gli interessi in quel senso. Ovviamente Jenna non è minimamente d’accordo. Per lei io e Matt siamo fatti per stare insieme – anche se nessuno dei due l’ha ancora capito – e abbiamo solo bisogno di tempo.

«Cosa vuoi sapere, esattamente?» le chiedo infine, dopo aver lanciato un lungo sospiro, per niente di nascosto. Mi siedo accanto a lei.

«Beh, direi tutto» è la risposta. «Devi raccontarmi che cosa è successo, che vi siete detti, come vi siete salutati quando ti ha riaccompagnata a casa»

«Non è successo niente di ciò che immagini» esordisco, preparandola già a quello che sarà il succo del discorso. «A cena abbiamo parlato di rugby, libri, film e argomenti simili. E quando mi ha riaccompagnata a casa ci siamo semplicemente salutati»

Le cadono visibilmente le braccia:

«Mi prendi in giro?»

Scuoto la testa, dopodiché mi alzo per andare a versarmi un po’ d’acqua.

«Ma… com’è possibile? È il vostro secondo appuntamento e ancora niente?» domanda, farfugliando appena nella prima parte.

Allargo le braccia, poi le mostro la bottiglia che tengo in mano:

«Hai sete?» chiedo.

«No, ti ringrazio»

Torno a sedermi, il bicchiere stretto in mano, sotto lo sguardo attento di Jenna, che sta certamente cercando la più minima sbavatura nei miei modi di fare per poter tornare alla carica. Bevo, impassibile, in attesa della sua prossima mossa.

«Non è che hai mantenuto le distanze? O che gli hai fatto intendere che non ti interessa?»

Inarco un sopracciglio, perplessa. Poso il bicchiere vuoto sul tavolino e torno a guardare la mia amica, i cui riccioli scuri sono raccolti in un’improbabile, quanto bella, acconciatura.

«Sono sempre stata me stessa con Matt, fin dalle prime volte. Se neanche sapevo se lui mi piaceva o meno, come puoi pretendere che gli lasciassi intendere che ero interessata?» domando.

Jenna non ribatte subito come suo solito e io aggiungo immaginariamente un punto dalla mia parte: siamo uno a zero per me.

«Ma almeno adesso sai se ti piace o no?» mi chiede.

Alzo le spalle:

«Ormai lo conosco, ma ammetto di non essermi mai fermata a pensare seriamente a noi due come coppia. Ora, dall’alto della tua esperienza, cosa mi sai dire al riguardo?»

Sbuffa, aggrottando la fronte infastidita:

«Dico che non hai le idee chiare» sentenzia.

«Come sarebbe a dire?» esclamo.

Lei mi guarda, con quel suo sguardo sicuro, fiero e determinato.

«Mi hai chiesto il mio parere e io te l’ho dato. Sei confusa, ecco come la penso»

«E cosa te lo farebbe dire con tutta questa certezza?»

«Il fatto che ti conosco fin troppo bene. Stai facendo quello che hai fatto nelle tue ultime due relazioni: temporeggi»

Abbasso lo sguardo, ma Jenna ne ha ancora. Riprende a parlare, sempre accarezzando il gatto, cosa che la rende parecchio simile al cattivo di un cartone animato.

«Tu sospetti che Matt non provi niente per te, per questo motivo hai fatto il possibile per autoconvincerti di non essere interessata a lui. Così facendo, se davvero Matt non prova niente per te, non ci rimarrai male poiché sei già preparata alla cosa. E direi che questo è sufficiente a far capire quanto tu sia presa da lui»

«E tu ne sei davvero così convinta?» sbotto.

Jenna è sul punto di frantumare le mie certezze ancora una volta. Acconsente fieramente con il capo, rimanendo a guardarmi. Sta cercando il mio cedimento, quello al quale aggrapparsi per affondarmi definitivamente. Respiro a fondo, dopodiché prendo parola:

«D’accordo. Mettiamo che tu abbia ragione e che io abbia fatto il possibile per convincermi di non provare niente per Matt, per i motivi che hai appena elencato…» Cerco di esporre in maniera sensato la domanda, perfettamente consapevole del fatto che non riuscirò mai nell’intento. Jenna continua a guardarmi, in attesa.

«Se, però, scoprissi davvero di non provare nulla per lui? In fin dei conti potrebbe benissimo essere così»

«Ah, questo sì. Ma sono sicura di avere ragione»

Alzo gli occhi al cielo, quasi nella più totale esasperazione. Vorrei sapere dove vuole andare a parare la mia amica. Ma, soprattutto, vorrei capire cosa le fa credere di conoscere i miei sentimenti meglio di me.

«Come fai a esserne così convinta?» domando, sull’orlo dello sfinimento.

«Ma ti sei mai sentita mentre parli di lui?» chiede, prontamente.

Io mi blocco, senza sapere come controbattere. Scuoto impercettibilmente la testa e subito Jenna ricomincia:

«Tu parli di lui come persona, non come capitano del Galles. Ogni volta che mi racconti cosa vi siete detti mentre tornavate a casa insieme a fine giornata mi parli di Matt, non di Matthew Evans. C’è differenza, Danni»

Ripenso a quello che ha appena detto per qualche secondo.

«Ma non può essere semplicemente dovuto al fatto che sono felice di aver conosciuto proprio lui?» concludo infine, ma il modo in cui mi esce di bocca è piuttosto insicuro.

Jenna mi sorride, dolcemente, e soltanto ora capisco che ho fatto il suo gioco. È riuscita a costringermi a guardarmi dentro.

Un punto per lei. Ora siamo uno a uno.

«Beh, può essere. Ma sai come la penso» risponde, lasciandomi di stucco.

Il fatto che non sia ripartita alla carica lascia perfettamente intendere che è consapevole di avermi smosso dentro. Questa ragazza è un genio del male.

Controlla rapidamente l’orologio che tiene al polso destro:

«È meglio che vada, ho diverse commissioni da fare» dice, adagiando delicatamente il gatto sul divano, che però rimane infastidito dal gesto e si allontana.

«Come devi andare?» domando, dopo essermi ripresa dal momento di nulla che mi ha assalita poco fa.

Jenna si alza in piedi:

«Purtroppo sì. Te l’ho detto, ero passata solo per sapere come stai»

La guardo di traverso:

«No. Sei passata solo per sentirti dire che avevi ragione riguardo a Matt»

Mi pento subito di quanto appena detto. Jenna scoppia a ridere, poi mi punta un dito contro:

«Allora, alla fine, lo ammetti che il ragazzo ti piace»

Mi stringo nelle spalle:

«Non lo so» mormoro, abbassando lo sguardo.

«Un “non lo so” è molto più vicino al sì che al no» risponde lei, avviandosi verso le scale.

Scatto in piedi:

«Ehi, aspetta…»

Si volta a guardarmi:

«Scusa Danni, ma devo davvero andare»

Sospiro appena e lei subito mi abbraccia:

«Possiamo parlarne domani» dice dolcemente, riferendosi al nostro tradizionale pranzo del martedì.

Annuisco con la testa quando lei si stacca da me e le sorrido.

«A proposito» si illumina. «È domani che annunciano i convocati per i test match della nazionale?»

«Sì, alle undici»

«Perfetto. Così avremo qualcos’altro di cui parlare» esclama, iniziando a scendere le scale.

La guardo mentre si riveste e recupera l’ombrello, dopodiché mi manda un bacio, io la saluto ed esce di casa. Rimango ad osservare la porta chiusa per non so quanto, finché non sento il gatto strusciarsi contro le mie gambe. Lo prendo in braccio e lui subito parte con il suo concerto di fusa, avvicinando il muso al mio volto.

Mi sento confusa per la milionesima volta nella mia vita. Tuttavia sono perfettamente consapevole che Jenna non ne ha colpa. Se a lei basta tanto poco per disgregare le mie certezze, significa che, quest’ultime, tanto salde non erano affatto. Proprio per questo motivo non riesco ad arrabbiarmi con la mia amica. Anche se a volte il suo atteggiamento è snervante so che lo fa perché vuole che io sia felice. Lei sa perfettamente quanto sia testarda, infatti non mi costringe ad accettare le sue opinioni, ma mi fa analizzare la cosa affinché sia io stessa a trovare la risposta. E riesce sempre a farmi stare meglio.

 

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Capitolo 15
*** Matt ***


– Quindici –

 

Matt

 

 

La conferenza stampa è iniziata da quasi dieci minuti. Seduti davanti a me, nelle file di sedie ordinate preparate per l’occasione, gli inviati delle più svariate testate giornalistiche ascoltano, in silenzio. L’unico rumore proveniente dalla sala è quello delle macchine fotografiche che scattano insistentemente per catturare quanti più momenti possibili. Alla mia destra Rhys Jones, ct della nazionale gallese, snocciola uno a uno quelli che sono i nomi dei miei compagni di squadra per gli imminenti test match; i trentuno giocatori che, insieme a me, cominceranno ad allenarsi per poter vestire la maglia rossa del Galles.

E di cui io sono il capitano ancora una volta. La felpa della Welsh Rugby Union1 ricopre il mio corpo, le tre piume del principe di Galles, simbolo della squadra, cucite sul petto all'altezza del cuore. Jones prosegue nell'elencare i nomi, dividendo semplicemente gli avanti da mediani e trequarti; il suo tono è pacato, come sempre, sicuro di quanto dice. Appena avrà finito di esporre i convocati il silenzio surreale della sala cesserà, sostituito dalle voci dei giornalisti e dalle loro numerose domande. Le conferenze stampa sono sempre così, ormai ho perso il conto del numero di occasioni simili a cui ho partecipato.

«Questi sono i nomi dei giocatori. Come avete potuto sentire anche voi, sono quattro i ragazzi alla prima convocazione assoluta in nazionale. Sono certo che saranno in grado, fin da subito, di fare del loro meglio»

Il coach conclude così il suo intervento. I nomi sono stati fatti, così come le possibili formazioni sono già perfettamente intuibili.

«Ci sono domande?»

La richiesta di Jones è molto semplice e scatena subito la quasi totalità dei giornalisti presenti. Alzano la mano, pregando con gli occhi che venga data loro la parola. Il mio allenatore li accontenta. Ciascuno di loro, quando viene interpellato, dice il proprio nome e il giornale per il quale lavora, esponendo infine la domanda. Jones li ascolta e risponde. I quesiti si susseguono, così le risposte, in un teatrino che ormai conosco perché si ripete ad ogni conferenza stampa, cambiando solo di qualche virgola a ogni replica.

Una nuova giornalista prende parola dopo essersi presentata:

«Avrei una domanda per Matt»

Annuisco appena con la testa, rimanendo a guardarla.

«Come capitano riconfermato cosa ti aspetti da questa squadra?»

Deglutisco:

«Quello che mi aspetto ogni volta. Trattandosi di giocatori che hanno già giocato insieme in più occasioni a questi livelli parliamo comunque di una squadra rodata che ha basi solide su cui lavorare per migliorare. Per quanto riguarda gli esordienti posso solo dire che sono certo sapranno fare del loro meglio. Di rado i giovani hanno deluso»

La ragazza mi ringrazia e torna a sedersi, mettendosi poi a digitare qualcosa sul suo tablet. Un altro prende parola, un uomo sulla cinquantina:

«Quattro esordienti in una squadra che ha in programma partite contro Fiji, Australia, Sud Africa e Nuova Zelanda non sono troppi?»

La domanda non è rivolta a nessuno di specifico, Jones mi guarda, lasciandomi intendere che vuole sia io a parlare. Penso un momento a cosa poter dire, infine mi avvicino al microfono:

«No. Giocatori giovani hanno sempre portato quella ventata di freschezza in più per cui la nostra nazionale è rinomata. Certo, l'esperienza è fondamentale e, fortunatamente, in squadra ne abbiamo tanta, ma non possiamo basare il nostro gioco solo su questo. Nel rugby bisogna osare, avere fantasia e inventiva. Di queste i giovani sono pieni»

Il coach prosegue:

«Inoltre bisogna tenere presente che dopo questi test match sarà necessario ragionare in ottica Sei Nazioni2 e poi mondiali, che ci saranno fra un anno. Bisogna trovare quante più alternative valide possibili e tutti voi sapete che ho sempre puntato su ragazzi giovani con voglia di dimostrare ciò che sono in grado di fare»

Le domande continuano a susseguirsi, si fanno sempre più dettagliate, specifiche e, lentamente, finisco con l'estraniarmi. Ora che so di essere nuovamente il capitano della nazionale non posso più fingere che i test autunnali non esistano, non posso più ignorare il fatto che novembre sarà un mese, un lungo mese, alla ricerca di una conferma da parte di noi giocatori. Non mi spaventa essere a capo del Galles su un campo da rugby, quello che provo, ogni volta che la fascia da capitano mi viene immaginariamente ceduta, è la preoccupazione di non essere all'altezza. Mi chiedo spesso cosa Jones abbia trovato in me da spingerlo a credere nelle capacità che posseggo fino al punto di rendermi il faro della squadra. L'unica cosa che posso fare, anziché pormi domande, è impegnarmi al massimo così da onorare la maglia rossa che mi è stata concessa.

«La domanda è per Evans»

Sento il mio nome. Torno a concentrarmi sulla conferenza stampa, facendo il possibile per allontanare immediatamente dubbi e tensioni.

«Sì» rispondo, rimanendo in ascolto.

L'uomo riprende a parlare, guardandomi negli occhi come a sfidarmi:

«Match davvero importante è sicuramente quello contro i campioni del mondo, gli All Blacks. Cosa puoi dirci di loro e, soprattutto, del capitano Sean Darren?»

Distolgo lo sguardo, incontrando quello di Jones. Pare darmi fiducia perché subito apro bocca:

«Tutti noi sappiamo quanto gli All Blacks siano forti» comincio e il silenzio sembra farsi molto più intenso come nomino i tutti neri. «Sono da tre anni leader incontrastati di questo sport e primi nel ranking mondiale; meritatamente, aggiungerei. Con loro è fondamentale non perdere mai la concentrazione, non lasciare troppi spazi né ai loro trequarti né agli avanti e rispondere al gioco al piede che sono in grado di fare con altrettanta precisione»

Respiro a fondo, il suono del mio gesto che si propaga sommessamente dal microfono alla sala:

«Per quanto riguarda Sean Darren, non posso fare altro che lodare le qualità di questo giocatore. È il capitano perfetto per la Nuova Zelanda e un uomo di tutto rispetto. Rientra con la maglia degli All Blacks dopo un grosso infortunio e sicuramente farà il possibile per dimostrare di essere rimasto il numero sette di altissimo livello che è. Sarà una sfida entusiasmante. Ma prima bisogna concentrarsi sui prossimi due incontri in programma. Dobbiamo incontrare Australia e Fiji prima di All Blacks e Sud Africa. Ogni sfida va affrontata per tempo e con la giusta mentalità» concludo.

L'uomo mi ringrazia e torna a sedersi, lasciando la parola ad un altro.

 

*

 

Quando metto piede fuori dalla sede della Welsh Rugby Union, proprio adagiata al Millennium Stadium, le quattro di pomeriggio sono passate da un pezzo. La luce del sole comincia a virare verso caldi toni aranciati e, dalla baia, la brezza della sera si avvicina timidamente. La conferenza stampa si è protratta fino all'una, a seguire un rinfresco, poi ancora domande, finora.

Chiudo gli occhi, respirando a pieni polmoni il profumo di Cardiff, la mia città da sempre. In preda ai più tormentati pensieri sfioro appena il logo della nazionale cucito sulla felpa, rendendomi conto che è tutto vero anche questa volta. Sono stato nominato capitano del Galles ancora, sarò nuovamente io ad avere l'onore di guidare i miei compagni. Se da un lato la cosa mi riempie di gioia e lusinga, dall'altro mi agita fortemente, come mi succede ogni volta che questa carica mi viene data, ovvero da due anni, ormai.

Comincio a camminare, diretto verso l'auto, parcheggiata al solito posto.

Lunedì 3 novembre cominceranno gli allenamenti per i match autunnali. Già da giovedì prossimo, primo giorno del raduno dei convocati, rivedrò molti dei miei amici, giocatori abili con cui amo condividere il campo. È sempre quando ci riuniamo la prima volta che le mie tensioni scivolano via, liberandomi e rendendomi sicuro di me stesso. Quando incontro i miei compagni e so che saranno sul prato del Millennium Stadium a sostenermi e a giocare con me, allora capisco di non essere solo ad affrontare prove e stress e diventare la loro guida, quella che Jones vuole che sia, diviene quasi naturale. Ma fino ad allora i miei pensieri saranno certamente contrastanti, le ansie crescenti e le tensioni opprimenti.

Quando supero Arms Park, situato proprio sotto il monumentale stadio della nazionale, mi fermo un momento a guardarne la struttura. Sento dei rumori provenire dal campo, su quel prato alcuni si stanno allenando in vista di partite prossime.

Proseguo, provando a pensare ad altro in cerca di serenità. Le conferenze stampa mi stancano come nient'altro a questo mondo. Mi sento sempre analizzato, sotto processo e studiato da tutti quelli che ho davanti, perfettamente consapevole che la frase, o anche solo la parola sbagliata, se dovesse uscire dalle mie labbra, verrebbe resa dai giornalisti un'arma pericolosa; cercare di evitare tutto questo è sempre parecchio snervante.

Un passo alla volta raggiungo Arnold's, la mente completamente distante, contesa fra pensieri positivi e altri avvilenti. Anche qui mi fermo, rimanendo a guardare la porta in legno e vetri colorati del pub sempre aperto. Potrei entrare e bermi una birra, una gelida bionda spillata perfettamente. Tuttavia mi rendo conto che non mi va – circostanza rara per me. Mi capiterà si e no quattro volte in un anno.

Prima ancora di ricominciare a camminare, sempre in direzione della mia macchina, punto lo sguardo sull'ingresso della casa di Danni, poco più avanti. È un gesto che mi esce istintivo, quasi inaspettato, ma che lascia perfettamente intuire quanto, ora, mi piacerebbe parlare con lei.

Arrivo fino alla sua porta, bloccandomi davanti a essa, pensando. Non conosco gli orari della ragazza al di fuori di quelli lavorativi, per cui non so se, suonando il campanello, riuscirei a trovarla o meno. Vorrei davvero farlo, vorrei suonarle e incontrarla per poterle parlare di quanto mi è appena successo. Mi piacerebbe sentire se, anche stavolta, possiede parole di incoraggiamento di cui, ho scoperto, è piena e sentire se anche ora è in grado di distrarmi. Come riesca a essermi di conforto ogni volta, anche a sua insaputa, davvero non lo so, eppure sento che ora lei sarebbe in grado di aiutarmi come nessun'altro, ricordandomi cose che, anche se so, è bene che rammenti: ovvero che l'ho già fatto e sono in grado di riuscirci ancora una volta.

Sempre immobile continuo a osservare il numero civico di casa sua, incollato al centro della porta. Sollevo la mano, chiusa a pugno, con l'intenzione di bussare, ma la fermo a mezz'aria. Espiro e torno ad infilare la mano in tasca.

Vedrò Danni domani, al termine degli allenamenti. Non penso sia il caso di ammorbarla con le mie – ovviamente inutili – preoccupazioni. È meglio per me restare solo per un po'.

 

 

 

 

 

Note:

1 Welsh Rugby Union: l’organismo di governo del rugby XV in Galles.

2 Sei Nazioni (torneo delle sei nazioni): il più importante torneo internazionale di rugby a 15 dell’emisfero settentrionale. Attualmente vi partecipano Francia, Galles, Inghilterra, Irlanda, Italia e Scozia.

 

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Capitolo 16
*** Danni ***


– Sedici –

 

Danni

 

 

Non riesco a fare a meno di tormentare il manico della borsa. Lo colpisco, lo graffio e lo maltratto con indice e pollice come se mi avesse appena fatto il più grande torto della mia vita. Mi sento agitata, completamente scossa da qualcosa di invisibile che mi punzecchia all'altezza dello stomaco. Nel parcheggio di Arms Park, preda della sera, alcune persone si allontanano per proseguire la loro giornata; sono giocatori, membri dello staff. Le diciannove sono passate da un po', ormai, e davanti al cancelletto dell'uscita sul retro aspetto Matt. È da due giorni che non lo vedo, da domenica sera, e dopo tutto quello che ho passato per colpa di Jenna, sia lunedì che martedì, la reazione che potrei avere alla sua vista mi preoccupa: perché è un'incognita. Non so come reagirò, cosa penserò, cosa dirò, non so niente. Le risposte che mie ero data dopo l'uscita di domenica si sono dissolte in una bolla, lasciando spazio solo a confusione e domande.

Sospiro, cercando di calmarmi, perfettamente consapevole che, agitandomi, non risolverei nulla. All'improvviso dall'uscita della palestra vedo comparire Matt. Si guarda intorno mentre avanza con il suo passo sicuro, un mezzo sorriso in volto e le mani in tasca. Mi saluta prima ancora di raggiungermi e quando mi sorride presto particolare attenzione alle reazioni del mio corpo: ho solo una strana sensazione alla bocca dello stomaco, che può essere qualsiasi cosa, inclusa la fame.

«Come stai?» mi chiede il ragazzo, fermandosi in tutta la sua statura proprio davanti a me.

«Sto bene. Tu?»

Ascolto attentamente la mia voce quando gli rispondo, notando che non trema ma che, al contrario, è rilassata come lo è sempre quando mi sento a mio agio.

Ci avviamo uno accanto all'altra come ormai è nostra abitudine fare, iniziando a parlare. Matt prende parola, comincia a raccontarmi di quello che gli è successo questo pomeriggio mentre si dirigeva ad Arms Park. È tranquillo come suo solito, come se tutto nella sua vita fosse rimasto lo stesso. Eppure ieri è stato nominato capitano della nazionale gallese ancora una volta. Quando ho erroneamente affrontato l'argomento, martedì scorso da Arnold's, Matt mi aveva dato l'impressione di essere preoccupato, teso e leggermente insicuro di quello che sarebbe stato il suo ruolo nei test match. Eppure, ora che conosce il suo ruolo, quasi sembra non aver assimilato la notizia. Probabilmente non vuole dare a vedere quello che è il suo reale stato: gli uomini orgogliosi sono fatti così.

Schiocco appena la lingua quando penso a quest'ultima cosa. Matt si gira, sorride e dice:

«Esatto» riprendendo poi a parlare.

Mi rendo conto che non lo stavo ascoltando, ma che ho miracolosamente detto la cosa giusta al momento giusto. Alla fine mi concentro, facendo il possibile per assimilare il discorso che il ragazzo sta portando avanti nonostante ne abbia perso una buona metà. Quando credo di aver capito Matt si ferma e si volta a guardarmi. Sovrappensiero com'ero non mi sono neanche accorta di essere arrivata a casa mia.

Il giocatore abbozza un sorriso:

«Se mai finisco di raccontartelo domani» dice, sistemandosi il borsone più comodamente sulla spalla.

Rimango a guardarlo un momento. Mi sto a malapena rendendo conto di ciò che è accaduto. Ero talmente presa dai miei pensieri che non so neanche di cosa Matt mi abbia parlato; l'unica cosa che so è che non ho voglia di salutarlo perché non mi sembra di aver trascorso con lui un solo minuto.

«Ah, beh, devi... devi andare?» domando, dopo una discreta quantità di tempo.

Lui mi guarda sorpreso:

«Beh, siamo arrivati a casa tua. Direi che è più facile sia tu a dover andare»

Lancio un'occhiata alla porta d'ingresso. Torno a guardare Matt ed è il mio corpo a prendere l'iniziativa, o almeno così mi pare.

«Ma, se vuoi, puoi fermarti a cena. Così finisci di raccontarmi tutto con calma»

Sorride, mettendo in mostra la dentatura perfetta:

«Non è che disturbo?» chiede, senza allontanare un solo momento gli occhi celesti.

Alzo le spalle:

«Affatto. Ma mi sento in dovere di dirti fin da subito che dovrò inventarmi qualcosa per cena in base a ciò che ho nel frigorifero» Faccio una smorfia dopo essermi resa conto di quanto ho appena detto. «Non è un gran invito, eh?»

Sorride nuovamente:

«È perfetto» risponde. «Se per te va bene, comunque, mi fermo volentieri»

«Se non mi andasse bene non ti avrei invitato»

Comincio a frugare nella borsa per cercare le chiavi. Mentre apro la porta d'ingresso Matt ne approfitta per concludere l'aneddoto che, da più di dieci minuti, mi stava spiegando ma che io non ho minimamente compreso. Mi metto solo a ridere, sperando sia la mossa giusta, e fortunatamente pare funzionare. Entriamo in casa, prima di avviarci verso il soggiorno indico a Matt dove lasciare borsone e giacca. Faccio strada lungo le scale, introducendolo infine in quello che, a grandi linee, è il grosso di casa mia: un piccolo soggiorno con angolo cottura.

Lui si guarda intorno:

«È carina» sentenzia.

Lo guardo:

«Lo dici tanto per dire, vero?»

Scoppia a ridere:

«No, perché? Hai un ingresso indipendente e una casa che, anche se piccola, è ben arredata e accogliente. A me piace»

«Grazie. Do un'occhiata a cosa potrei preparare per cena»

Apro il frigorifero, iniziando a scrutarne il contenuto. Fortunatamente ho fatto la spesa proprio questa mattina, quindi qualcosa di elaborabile e commestibile c'è, anche se in dosi sicuramente ristrette per un giocatore di rugby.

«Ah, ecco il tuo gatto» sento esclamare a Matt.

Tolgo la testa dall'elettrodomestico e mi volto verso il ragazzo. Il gatto è saltato, come fa sempre, sull'ultima parte della ringhiera delle scale, la parte che fa angolo prima di venire inglobata nel muro. Matt è chinato, il viso vicino a quello del felino e i rispettivi nasi che si toccano; li trovo adorabili entrambi.

«Direi che gli piaci» dico.

Matt si volta a guardarmi, sorridendo.

«Come si chiama? Non te l'ho mai chiesto»

«Puk»

Solleva un sopracciglio:

«Puk?» domanda, dubbioso.

Sorrido:

«Sì. Jamie gli ha scelto il nome»

«Capisco. E quanti anni aveva Jamie quando glielo ha scelto?»

Mi metto a ridere:

«Ne aveva cinque»

Il giocatore torna a guardare il gatto, facendogli qualche carezza.

«Hai un gatto anche tu?» gli chiedo.

Scuote la testa:

«No, io ho un cane. Anche se è più corretto dire che ora è dei miei genitori. Non potevo più prendermi cura di lei come si meritava»

«Ho capito. Di che razza è?»

«È un alano. Si chiama Shuna» risponde, senza smettere di coccolare Puk, sempre più soddisfatto di tutte quelle attenzioni.

«È un nome particolare. È bello»

«Ti ringrazio. Ci ho messo molto a trovarle quel nome»

Mi limito a sorridergli, dopodiché mi ricordo della cena:

«Comunque, per la cena, se per te va bene ho del pollo»

Matt mi guarda, illuminandosi in volto; probabilmente si è ricordato di quella volta che abbiamo affrontato l'argomento sul come cucinare del pollo, mentre tornavamo a casa.

«Va benissimo. In che versione?»

Sorride e io lo imito, sollevo le spalle:

«Ho del porro»

«Andata» risponde immediatamente, facendomi un cenno di approvazione con indice e pollice.

Torno all'angolo cottura, cominciando a estrarre gli ingredienti dal frigorifero.

«Purtroppo temo di non potertene offrire in grandi quantità. Ma se dovessi avere ancora fame ho dell'altro» dico.

«Oh, non preoccuparti. Mi adatterò a quello che offri tu» risponde.

Sussulto leggermente quando mi rendo conto che lui è praticamente al mio fianco; non l'ho capito solo dal punto in cui è provenuta la sua voce, ma anche dal suo profumo che, ora che la sua giacca è sfilata, si propaga leggero nella stanza, avvolgendomi nella sua aroma. Alzo lo sguardo alla mia destra e trovo Matt proprio dove mi ero immaginata che fosse.

«Posso aiutarti?» chiede.

Rimango a fissarlo per un momento prima di riprendere parola:

«Se ti va, certo»

Gli faccio tagliare la carne, dicendogli di farne dei bocconcini, mentre io affetto tutto il porro per farlo saltare in padella. Durante la fase di preparazione la conversazione si è spostata automaticamente sull'argomento cucina. Matt mi racconta qualcosa che già so – ovvero che gli piace cucinare anche se spesso gli manca la voglia – ma rimango ad ascoltarlo perché stasera è più loquace del solito e sentirlo parlare mi piace.

Mentre gli ingredienti sfrigolano insieme nella padella, per gli ultimi minuti di cottura, Matt prende a sbirciare per la casa. Sono concentrata a mescolare pollo e porro quando sento della musica provenire dal mio piccolo soggiorno, proprio dove ho lo stereo. Mi volto, trovando il giocatore davanti alla radio, la custodia di un cd stretta in mano e l'indice, il dito incriminato, ancora adagiato al pulsante play. Non ci sarebbe stato niente di strano in tutto questo, almeno per me, se non fosse che la traccia da cui il disco è partito è You Don't Know Me. Mi sento vagamente arrossire mentre le parole della canzone riempiono la stanza:

 

“I watch you walk away, Beside the lucky guy, You'll never never know, The one who loves you so”

 

Matt si rigira fra le mani la custodia del disco:

«Ti piace Michael Bublé, vedo» mi sorride. «Scusa se mi sono permesso, ero solo curioso» conclude, alludendo al fatto di aver acceso lo stereo senza permesso.

«Tranquillo. Se mai abbassa solo un po' il volume»

Esegue, rimanendo in ascolto.

«Effettivamente ha del talento» dice dopo un po', prendendo a ondeggiare leggermente, seguendo il ritmo.

«È il mio preferito» gli rivelo. «Mia madre è una grande fan di Sinatra. Sono cresciuta ascoltando swing e così, come ho incontrato Michael, è stato subito amore»

Sollevo lo sguardo su di lui, sta sorridendo.

«E tu? Cosa ascolti prima di scendere in campo?» chiedo infine, cercando di modificare la strana aria che si è formata, anche per colpa della musica.

«Mumford & Sons» è la risposta, pronta. «Prima di scendere in campo ascolto solo Not With Haste. La conosci?»

Scuoto la testa:

«Conosco i Mumford & Sons, ma la canzone no»

«Ti presterò il cd, allora. Potrebbero piacerti»

«Si può fare» rispondo, poi mi ricordo della cena. «Comunque, direi che è pronto»

«Fantastico»

Spegne lo stereo e mi raggiunge ai fornelli, portando sulla tavola apparecchiata i piatti pronti che gli allungo. Ci sediamo uno di fronte all'altra, ma subito dico:

«Vuoi una birra?»

Mi guarda, dopodiché sorride:

«No, non serve. Va benissimo l'acqua, grazie»

Insisto, ma lui fa lo stesso e tutto si conclude con un nulla di fatto. Come cala il silenzio e lui affonda la forchetta nella carne, mi rendo conto di essere piuttosto tesa. Ho invitato Matt a cena agendo d'impulso e ora spero vivamente che ciò che ha nel piatto gli piaccia, altrimenti farei davvero una pessima figura; e proprio con lui.

Mangia il primo boccone, gli occhi bassi sul piatto, io che continuo a osservarlo. Finisce di masticare, deglutisce e mi guarda:

«È davvero buono»

«Grazie» rispondo, accorgendomi che quel suo semplice complimento mi ha fatto incredibilmente piacere.

Finiamo di cenare, Matt racconta qualcosa nel mentre, intavolando una conversazione nata per essere breve. Quando il piatto del giocatore si vuota provo a offrirgli qualcos’altro, ma lui rifiuta garbatamente, limitandosi a mangiare un paio di fette del pane in cassetta. In un momento di silenzio, quello inevitabile che si forma al termine di un dialogo, afferro la forchetta cominciando a giocare distrattamente con i pochi brandelli di porro rimastimi nel piatto. Sollevo lo sguardo su Matt che si sta osservando intorno, l’espressione soddisfatta in volto. Mi chiedo se vale la pena affrontare l’argomento test match e chiedergli qualcosa, oppure se evitare di correre rischi e cercare altro di cui parlare. Non vorrei che, chiedergli di raccontarmi delle partite della nazionale, lo infastidisse. Tuttavia mi aveva promesso che avremo potuto parlarne dopo il ventuno – e oggi è il ventidue – e la mia curiosità non può più essere fermata.

«Posso farti una domanda?»

Si volta subito a guardarmi, il mio cuore accelera i battiti quando i suoi occhi celesti si fermano sui miei.

«Certo»

«Ora posso chiederti qualcosa riguardo ai test match?»

Sorride, distogliendo leggermente lo sguardo. Quando torna a guardarmi ha ancora il suo sorriso luminoso e perfetto, la sua espressione soddisfatta pare non volerne sapere di scomparire.

«Puoi. Ti avevo promesso che dopo il ventuno avrei risposto a tutte le tue domande»

Appoggia i gomiti al tavolo, i miei occhi cadono quasi istintivamente sulle maniche della polo nera che indossa, che si tendono per via dei bicipiti.

«Cosa vuoi sapere?»

Nella sua voce c’è solo curiosità, non c’è nervosismo, fastidio o preoccupazione. Alzo le spalle:

«Solo cosa ne pensi, niente di più»

Torna ad appoggiarsi con la schiena alla sedia, grattandosi il collo:

«Beh, sono un po’ teso, lo ammetto. Ma è anche vero che sono emozionato all’idea di affrontare queste quattro partite e di misurarmi con giocatori come quelli che andremo a incontrare» Mi guarda attentamente: «È la risposta che ti aspettavi?»

Rispondo subito:

«È quella che speravo»

Sorride nuovamente:

«E tu, cosa ne pensi?»

Si versa dell’acqua e beve, asciugandosi le labbra.

«Io sono sicura saranno quattro bellissimi match. E poi, gli All Blacks, sono una delle mie squadre preferite. Per me Galles-All Blacks è un po’ la partita dell’anno»

«Sospetto lo sia per molti» mormora.

Faccio per parlare, ma Matt mi precede:

«Perciò sei una fan degli All Blacks» lascia cadere la frase, chiaramente in attesa che io la completi.

Annuisco:

«Esattamente. Seguo anche il Rugby Championship. Mettevo la sveglia al mattino e mangiavo latte e cereali davanti allo streaming della partita»

Ripenso a quanto appena detto. Il Rugby Championship è il campionato rugbistico dell’emisfero australe. Ogni anno vede scontrarsi Nuova Zelanda, Sud Africa, Australia e Argentina in alcune delle partite più belle che abbia mai visto. Purtroppo, per via del fuso orario, il più delle volte questi incontri si svolgono quando qui sono le otto di mattina; per questo solitamente imposto la sveglia e faccio colazione guardando la partita. Spero che Matt non mi abbia preso per una fanatica.

Invece lui sorride, per l’ennesima volta:

«Un buon modo di iniziare la giornata»

«Per me è perfetto»

«Giocatore preferito degli All Blacks?»

«Ti sembrerò prevedibile, ma direi Sean Darren»

Fa schioccare la lingua, come a dire che se lo aspettava. Probabilmente è una risposta scontata, ma è quella vera. Darren, il ventinovenne capitano degli All Blacks da ormai sei anni, è considerato il miglior giocatore al mondo e non sono mai riuscita a trovarmi in disaccordo su questo. È un leader, un capitano nato e nel suo modo di giocare non vi è la più minima sbavatura.

«Lo trovi scontato, vero?» chiedo a Matt, senza scompormi.

Fa un’espressione vaga, gesticolando con la mano destra:

«Dev’essere il sangue maori a renderlo così»

Sollevo un sopracciglio, osservando il giocatore:

«Sean è un pakea» dico, con convinzione.

«Un cosa?»

Sorrido:

«Un pakea. È il termine che i nativi maori usano per indicare i bianchi. Lui non ha discendenze maori. Anzi, se davvero lo vuoi sapere, la sua famiglia è di origini scozzesi» concludo.

Lui mi guarda, l’espressione appagata scolpita in volto.

«Però» dice. «Ne sai di cose. Ti va di dirmi altro?»

Ho capito cosa intende.

«Vuoi che parliamo degli All Blacks, della squadra di rugby?»

«Se ti va. Vorrei che mi dicessi come trovi il loro modo di giocare»

«Sul serio?»

«Sì. Tu ne capisci di rugby, Danni. E lo guardi da fuori, a differenza di me. Potresti aiutarmi a farmi una precisa idea del modo di giocare dei tutti neri. A me piace molto il tuo modo di analizzare il gioco, perché guardi all’insieme, non solo al risultato finale come fanno in molti»

Rimango a fissarlo un momento. Come assimilo appieno le parole risento il suo “a me piace molto” nelle orecchie; e mi lusinga. Abbasso lo sguardo, sentendomi leggermente in imbarazzo.

«Mi fa piacere sentire che la pensi così» dico, il tono più basso del dovuto.

Eppure Matt non si scompone, continua a guardarmi, in attesa. Aspetta che io inizi a parlare, che gli illustri ciò che conosco e vedo del modo di giocare della nazionale neozelandese, così che lui possa unire il tutto alle sue informazioni e farsi un quadro completo. Sento il mio fiume di parole esondare. Appena respiro per cominciare a parlare un mare di nozioni e aneddoti sui tutti neri affiora, bramando di essere narrato. Racconto a Matt tutto quello che so su questa squadra, quello che sospetto e quello che suppongo. Lui pende quasi dalle mie labbra, mi ascolta attentamente, spesso annuisce, come a dire che già sapeva o che sospettava. Quando non so più che altro dire mi zittisco, serro le labbra e rimango a guardare il ragazzo.

«Ne sai davvero parecchio» sentenzia.

Io sorrido semplicemente, in segno di ringraziamento. Lui riprende a parlare:

«È stata una gran bella chiacchierata, si vede proprio che è una delle tue squadre preferite»

Dà un’occhiata all’orologio, dopodiché si stiracchia e si passa una mano fra i capelli spettinati.

«Sono le dieci e quaranta. È meglio che vada»

Rimango sorpresa da ciò che ha appena detto. Non mi sono praticamente resa conto del tempo che è passato.

«Ah, sì. In effetti è un po’ tardi» dico, alzandomi quasi di scatto dal tavolo. Anche Matt si alza, osservando la tavola con ancora i piatti sporchi della cena.

«Aspetta, ti aiuto a ripulire» dice, ma lo fermo immediatamente.

«No, non preoccuparti. Ci penso io con calma. Metto su un po’ di musica»

«Sei sicura?»

Annuisco:

«Sicura»

Accompagno il ragazzo all’ingresso. Lo guardo di sottecchi mentre si riveste con la giacca e recupera il borsone, sistemandoselo su una spalla. Si volta a guardarmi:

«Grazie ancora di tutto»

«Figurati. Mi ha fatto piacere avere ospiti»

«La prossima volta possiamo fare a casa mia» scherza.

Reprimo a fatica l’istinto spontaneo di mordermi il labbro a quanto ha appena detto.

«Potrei prenderti in parola» rispondo.

«Fallo» conclude, sempre con quella sicurezza totalmente sua che lo contraddistingue.

Ci guardiamo un momento, dopodiché lui mi ringrazia ancora una volta, mi augura la buonanotte ed esce chiudendosi la porta alle spalle. Rimango a fissare l’ingresso per svariati secondi, poi, istintivamente, mi ci appoggio contro con la testa.

Mi piace. Matt mi piace. Non posso più fare finta che non sia vero, non riuscirei a convincermi ancora a lungo del fatto che tutte le strane sensazioni che provo in sua presenza non siano direttamente correlabili a lui.

Mi copro il volto con le mani, nel vano tentativo di reprimere un sorriso affiorato automaticamente al pensiero della serata appena trascorsa.

Approfondendo la conoscenza con Matt l’ho trovato sempre più interessante e la sua compagnia sempre più piacevole. Questa serata è stata quella decisiva per aiutarmi a capire, ne sono certa. Averlo in casa mia, cucinare per lui, mi hanno mostrato la possibilità di noi due come coppia, mi hanno fatto interrogare su come sarebbe se fosse così sempre. E il fatto di non essermi accorta del tempo che passava perché ero troppo presa a parlare con lui, è il segnale decisivo. È sempre stato quest’ultimo fattore a farmi capire che provavo qualcosa di serio per qualcuno.

Sospiro, sempre addossata alla porta.

Ormai non posso davvero più ignorare la cosa. Jenna aveva ragione: mi serviva solo del tempo per riordinare le idee.

 

 

 

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Capitolo 17
*** Matt ***


– Diciassette –

 

Matt

 

 

Sento il click della radiosveglia e quella subito si attiva, cominciando a suonare le note di una canzone che non conosco. Avrei potuto spegnerla minuti fa anziché lasciarla suonare: sono sveglio da almeno un’ora. Ho aperto gli occhi poco prima delle sette questa mattina e non sono più riuscito a prendere sonno, continuando a rigirarmi nel letto alla ricerca della posizione più comoda per rimettermi a dormire, inutilmente. Così mi sono arreso, accettando di rimanere sdraiato a pancia in su, le mani dietro la nuca, a osservare il soffitto in attesa delle otto.

Spengo la radiosveglia e scendo dal letto, distendendo bene ogni articolazione prima di alzarmi in piedi. Dopo essermi rinfrescato raggiungo la cucina, prendo il necessario per fare colazione e mi siedo al tavolo, dove un foglietto tutto scarabocchiato mi attende con il preciso compito di ricordarmi gli impegni dei prossimi giorni.

È l’ultimo martedì di ottobre. Questo giovedì tutti i convocati per i test match di novembre si riuniranno alla sede della Welsh Rugby Union, al Millennium Stadium, per le fotografie di rito e i consueti discorsi da parte del ct Jones, dei vari tecnici e, infine, da parte mia. Lunedì 3 cominceranno gli allenamenti veri e propri, quelli che porteremo avanti fino all’esordio, fino al primo match di quello che viene denominato “Autunno internazionale”, ossia la partita Galles-Australia di sabato 8.

Ma fino a giovedì continuerò a partecipare agli allenamenti dei Cardiff Blues, per questo motivo stamattina devo raggiungere Arms Park. Sul foglietto che ho in mano è segnato tutto questo nel tentativo di fare ordine fra tutti i miei impegni che, con il raduno della nazionale alle porte, si accavallano terribilmente. L’unica certezza che ho è che farò il possibile per non prendere impegni per questa domenica, così da poter andare alla stadio e godermi Cardiff Blues-Edinburgh, una partita che so già non giocherò proprio perché da giovedì non sarò più schierabile per la mia squadra essendo considerato in ritiro per la nazionale.

Adagio il foglietto sul tavolo appena finisco di riordinare mentalmente gli impegni e comincio a fare colazione nel totale silenzio del mio appartamento. La luce del mattino inizia a penetrare dagli scuri semichiusi delle finestre, con l’intento di scacciare la penombra. L’avvento della luce nella stanza, graduale e lento, è sempre stato una specie di piacevole orologio naturale per me, che spesso prendo a riferimento per gestire al meglio i tempi prima di uscire di casa.

È passata una settimana da quando Jones ha pubblicamente esposto i convocati della nazionale, una settimana dalla mia nuova nomina a capitano. In questi sette giorni il mio stato d’animo è notevolmente migliorato, risanandomi. Ho risentito alcuni fra i giocatori che rincontrerò nella squadra del Galles, primo fra tutti Paul, il mio caro amico con cui perdere i contatti mi è impossibile. Sentire il sostegno dei miei compagni di squadra, la loro voglia di mettersi in gioco e di dimostrare quanto meritano un posto da titolare, mi ha ridato energia, restituendomi quella consapevolezza di potercela fare, di poter essere capitano e numero sette, che avevo bisogno di ritrovare.

Ma credo che il merito sia anche di Danielle. Dopo la cena a casa sua abbiamo preso a parlare spesso dei test autunnali, soprattutto via messaggio poiché ci vediamo fisicamente solo poche volte nell’arco della settimana. Danni mi è stata d’aiuto come davvero poche altre persone che conosco. Non so neanche se lei si è resa conto di questa cosa, se ha compreso quanto parlarle e anche solo sentirla via sms mi facesse stare meglio. Mi sono ritrovato a pensarla spesso dopo la cena del ventidue, quasi a mia insaputa. Quella sera è scivolata via piacevole e rilassante come non mi succedeva da tempo. Parlavo di continuo perché mi sentivo perfettamente a mio agio e, quando abbiamo iniziato a discutere di rugby, non riuscivo a distogliere lo sguardo dai suoi occhi verdi, resi ancora più brillanti dalle sfumature brune che posseggono. Quando ci siamo salutati e sono uscito da casa sua avrei voluto fare dietrofront e chiederle di poter restare ancora un po’ con lei, anche solo per sentire la sua voce o vedere il suo sorriso, reso tanto speciale dalle sue graziose fossette sulle guance.

A distanza di una settimana ho finalmente capito quello che tutto questo significa. Sto cominciando ad affezionarmi particolarmente a Danielle. Sento che l’amicizia che mi lega a lei, che si è consolidata in fretta nei due mesi di nostra conoscenza, è sul punto di evolvere, di diventare qualcosa di più forte. L’ultima volta che mi sono sentito così, che le mie sensazioni ci hanno messo del tempo per stabilizzarsi dentro di me, è stato quando ho incontrato Meg.

Finisco di bere il latte ancora contenuto nella mia tazza, tirando poi un lungo sospiro.

Sta succedendo tutto nel momento sbagliato. Ogni volta che gli impegni con la nazionale subentrano mi rimane sempre poco tempo da dedicare a me stesso e ai miei sentimenti; sembra sempre che, in quanto a capitano del Galles, non possa provare emozioni. Ho cercato di fare chiarezza dentro di me – di afferrare appieno quello che provo per Danni e di ritrovare la mia sicurezza come giocatore e guida – nell’arco di tutte le notti trascorse, spesso fissando il soffitto per ore e addormentandomi quando davvero non riuscivo più a continuare. Ma alla fine sono riuscito nel mio intento e ora che ho trovato sicurezza e risposte mi sento decisamente bene. Ma, appunto, sta succedendo tutto nel momento sbagliato. Ora come ora non so se avrebbe senso cercare di approfondire ulteriormente quello che provo per Danielle, vedere se, avendo ancora a che fare con lei, davvero i miei sentimenti potrebbero evolversi. Gli impegni della nazionale mi tolgono tempo e non potrei dedicarmi alla ragazza come vorrei. In fin dei conti novembre è solo un mese, trenta semplici giorni. Superati questi avrò il tempo necessario per sistemare la mia situazione. Penso che farò così, credo sia la soluzione migliore, anche per rispetto nei confronti di Danni che non si merita affatto un trattamento privo di riguardi.

Rimango a osservare la cucina, in cui la luce aumenta mano a mano, continuando a pensare a tutto questo. Come mi rendo conto della quantità di tempo che è trascorsa mi alzo rapidamente dal tavolo, senza tentare di riordinare le stoviglie, terminando di prepararmi molto più in fretta di quanto non faccia abitualmente. Esco di casa in leggero ritardo sulla mia tabella di marcia, pensando che sarebbe meglio smettessi di spremermi le meningi in cerca di risposte o soluzioni proprio alla mattina, il momento della giornata in cui sono meno produttivo in assoluto e ogni piccola azione richiede il doppio dello sforzo.

Dopo essere salito in macchina, accertandomi di avere portato come me tutto il necessario per gli allenamenti, inserisco il cd dei Mumford & Sons nel lettore – un disco ormai consumato per il numero di volte che lo faccio girare ogni singolo giorno – e premo play, lasciando che Babel riempia con le sue note l’abitacolo. Raggiungo il posteggio dove sono solito parcheggiare e, trovato un buco per l’auto, mi fermo e scendo, afferrando in borsone e avviandomi verso Arms Park per la sessione di allenamento mattutina. Non avendo incontrato traffico sono riuscito a recuperare il mio ritardo, finendo addirittura con l’essere in anticipo, per questo motivo cammino senza fretta, osservando le case di Cardiff, che a forza di vedere ogni giorno ormai conosco a memoria ma che trovo sempre particolarmente belle.

Come i miei occhi si fermano sul civico trentasette, però, mi blocco. Smetto di camminare, facendo addirittura scivolare a terra il borsone. La porta di ingresso è quella di casa di Danni. Rimango a guardarla per un po’, indeciso. Come ho visto casa sua un’ idea mi è subito comparsa in testa. Potrei suonarle, vedere se la trovo e, in quel caso, invitarla fuori a cena per trascorrere un’altra di quelle serate serene e piacevoli che, ho visto, riesco sempre a passare in sua compagnia.

Una parte di me vorrebbe davvero farlo ma l’altra, al contrario, è bloccata. Tutti i ragionamenti che ho fatto questa mattina – e per cui ho rischiato di fare tardi – a cosa mi sarebbero serviti se ora decido di proporre a Danni di uscire per vedere se realmente sono interessato a lei? Sul serio mi conviene tentare di far coincidere le pressioni da giocatore, ora così intense fino a fine novembre, con sentimenti caotici che spesso richiedono tempo e attenzioni particolari per chiarirsi?

Chiudo gli occhi respirando a fondo una paio di volte, ricercando la stessa sicurezza in me che cerco prima di scendere in campo per un match.

Se non fossi stato in grado di far convivere vita sentimentale e lavoro – sport, nel mio caso – probabilmente non sarei arrivato fin qui. Anche se le cose con Meg sono andate male, per un periodo tutto ha funzionato perfettamente; perché con Danni la storia dovrebbe ripetersi identica? Con lei potrebbe finire tutto bene, potrebbe essere quella giusta. Alla fine non è neanche detto che fra di noi nasca qualcosa. Può anche darsi che non sia minimamente interessata a me e che io finisca con il rendermi conto di volerle solo particolarmente bene ma niente di più.

Riapro gli occhi, trovando la risposta. Devo vederla. In un modo o nell’altro sento che non potrei aspettare fino a dicembre.

Mi avvicino all’ingresso di casa sua e alzo la mano per suonare il campanello. Non faccio neanche in tempo ad appoggiare il dito che la porta si apre, accompagnata da una voce femminile che parla concitatamente. Mi volto verso l’uscio, trovandomi davanti Danni. Come mi vede si blocca immediatamente, gli occhi verdi spalancati:

«Matt» dice.

La ragazza che è insieme a lei, quella che stava parlando, si zittisce e cala il silenzio. Danielle è ancora sulla porta, la borsa appena adagiata sulla spalla.

«Che ci fai qui?» mi chiede.

Apro bocca per rispondere, ma la sua amica mi precede. Sospinge appena Danni in avanti, così da poter uscire di casa e si sistema i lunghi capelli ricci:

«Ci vediamo più tardi. Devo andare adesso»

Lancia un bacio all’amica, sorride a entrambi e si incammina in gran fretta. Sia io che Danni ci voltiamo un momento a guardarla. Sento la ragazza sospirare, indica verso l’amica che si sta allontanando e dice:

«Beh, lei era Jenna»

«Vi ho interrotte?» chiedo.

«No, direi di no. È passata un momento perché era sulla strada, tanto ci vediamo dopo, per pranzo»

«Ho capito»

«Vai verso Arms Park?»

Si chiude la porta alle spalle mentre chiede questo. Avvicinandosi di un passo. Torna a guardarmi appena le rispondo:

«Sì. Fino a domani continuo gli allenamenti con i Blues»

L’espressione del suo volto si fa sorpresa:

«Quindi, giovedì niente abituale rientro a casa insieme?»

La domanda mi coglie impreparato. Soprattutto perché mi sembra di sentire una leggera nota di dispiacere nel suo timbro di voce. Abbozzo un sorriso:

«Ti faccio sapere. Non so ancora bene gli orari che facciamo con la nazionale. Scoprirò tutto proprio giovedì»

«D’accordo, allora mi saprai dire. Tanto il mio numero ce l’hai»

Le sorrido:

«Senz’altro. Ma comunque per domani è tutto come al solito»

«Perfetto» Si guarda un momento intorno, poi riprende a parlare: «Comunque, mi stavi cercando?»

Riordino in fretta i pensieri, cercando di formulare rapidamente nella mia testa la domanda che volevo farle, così da non smascherare il fatto che ho deciso tutto all’improvviso.

«Ehm, sì. Mentre passavo di qua ho pensato di vedere se riuscivo a trovarti in casa. Direi che ho fatto appena in tempo»

Le faccio l’occhiolino e lei sorride:

«Esatto, appena in tempo. Stavo uscendo per fare la spesa»

Annuisco con la testa, alla fine decido di smetterla di girare intorno all’argomento:

«Comunque sia, volevo semplicemente chiederti se ti andava di uscire a cena una sera di queste»

Sgrana gli occhi, ma solo per un momento, tanto che me ne rendo a malapena conto.

«Vuoi andare da Arnold’s?» chiede.

«Non lo so. Magari questa volta possiamo cambiare posto. Conosco dei bei ristoranti qui a Cardiff»

Schiude le labbra per parlare, ma non risponde subito. Annuisce con la testa e dice:

«Certo. Volentieri. Quando?»

A questo non avevo pensato. Sollevo le spalle, decidendo di non portare la serata troppo avanti. Se gli impegni con la nazionale dovessero farsi troppo intensi – e per me che sono il capitano spesso è così – rischierei di invitare fuori Danielle e poi dover disdire tutto.

«Domani? È troppo presto?»

«Dopo il lavoro e l’allenamento? È proprio come quando siamo andati da Arnold’s»

«Sì, più o meno»

Mi passo una mano fra i capelli, leggermente nervoso. Aspettare che mi risponda all’invito che le ho fatto non mi ha mai messo addosso una tensione come quella che provo adesso. Decido di dire qualcosa:

«Se hai da fare, possiamo fare un altro giorno, non…»

Ma lei mi interrompe:

«No, no. Va benissimo»

«Sicura?»

«Certo. Vada per domani»

«Hai preferenze sul posto?»

Scuote la testa:

«Scegli tu, mi fido. Io a Cardiff frequento praticamente i soliti posti»

«Ok»

Lei rimane a guardarmi, sempre sorridendo. Tiene i capelli legati in una coda di cavallo, le iridescenze miele paiono risplendere per la luce del mattino. La giacca semiaperta lascia intravedere la linea del collo e, come i miei occhi vi scivolano sopra, sento un leggero tremito muoversi dentro di me.

Mi schiarisco la gola, tornando a tormentarmi i capelli.

«Devo andare, altrimenti farò tardi per l’allenamento. Ci manca solo che mi faccia notare gli ultimi giorni di permanenza nei Blues prima dello stop per via della nazionale»

Acconsente con il capo, divertita:

«Già. Non credo che al tuo coach farebbe piacere. Ci vediamo domani, allora»

«Sì. Ci vediamo domani»

Dopo esserci salutati ci separiamo. Lei si incammina nella direzione da cui sono venuto io, verso il supermercato che ha vicino a casa, io proseguo per Arms Park, sentendomi dannatamente bene.

 

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Capitolo 18
*** Matt ***


– Diciotto –

 

Matt

 

 

Sentire la mia voce nel più totale silenzio mi fa sempre uno strano effetto. In quanto a dilatazione dei pensieri trovo che assomigli tutto a una sorta di infiltrazione nella mia testa da parte di altri, naturalmente consenziente, dato che sono proprio io stesso a parlare.

Davanti a me ci sono i miei compagni di squadra, numerosi tecnici della nazionale e l'immancabile Rhys Jones. Come prevedibile, alla fine, anche giovedì è arrivato e con lui il primo raduno dei convocati gallesi. Tradizione vuole che ognuna delle figure con i ruoli più rilevanti tenga un discorso di benvenuto e incoraggiamento verso tutti i giocatori, discorsi ripetitivi, sentiti e risentiti, che sono ormai divenuti formalità, ma proprio per questo irrinunciabili.

Il primo a parlare è stato Rhys Jones, con il suo tono calmo e i suoi modi di fare paterni. Essendo nostro head coach da tre anni sa sempre cosa dire perchè l'arrivo sia il migliore in assoluto. Dopo di lui è stato il turno dei vari tecnici – che allenano trequarti e avanti – e, alla fine, è toccato a me. Per quanto sia un evento già conosciuto, per quanto si tratti del primo giorno di incontro per preparare i test match, che comunque non hanno lo stesso identico valore del torneo delle Sei Nazioni o dei mondiali, è sempre un momento molto solenne. Gli sguardi dei miei compagni di squadra sono rispettosi, così come lo è il silenzio; mi guardano negli occhi e ascoltano attentamente. Credo sia dovuto proprio a questo se mi sento sempre un po' sotto processo. Se poi aggiungiamo il fatto che parlare in pubblico non è mai stata la mia passione, è facile intuire come sto. Gesticolo mentre parlo, ascoltando il suono delle mie parole come se fossi seduto proprio accanto ai miei compagni. Non suonano male, sembrano addirittura essere convincenti, per quanto alla fine siano già state dette.

Come concludo il mio intervento mi zittisco, osservando i miei amici, in attesa. Qualcuno fa qualche cenno di approvazione, ma nulla di più; è una formalità, questa, e la nazionale gallese ci ha insegnato che nelle formalità vale più un rispettoso silenzio che un complimento mascherato da battuta. Jones si avvicina a me, mi posa una mano sulla schiena lanciandomi un sorriso e un'occhiata e lasciandomi così il via libera perchè io possa tornare a sedermi.

Respira a fondo e ci guarda tutti:

«Non sarà facile, ragazzi miei, e lo sapete. Ma ho sempre creduto nelle vostre qualità ed è questo il motivo per cui vi ho voluti qui. Ognuno di voi sarà perfettamente in grado di dimostrare il proprio valore anche contro le avversarie che andremo ad incontrare»

Nessuno fiata. Il silenzio è surreale, ricorda tanto quello piombato alla conferenza stampa per l'annuncio dei convocati nel momento esatto in cui ho cominciato a parlare degli All Blacks. Anche ora, anche se indirettamente, sono proprio i tutti neri a rendere il silenzio quasi spettrale, sono loro una delle avversarie a cui Jones si riferisce. Sfidare i neozelandesi preoccupa e al contempo eccita tutti noi, è inutile fingere che non sia così. Misurarsi con loro è senz'altro un onore, ma anche una grossa responsabilità per coloro che vestiranno la maglia rossa il 22 novembre.

«Ma per farlo sarà necessario anche tanto esercizio e, vi garantisco, che da lunedì sarà così» Jones termina con queste poche parole il suo intervento.

Ci guarda negli occhi, uno a uno, sorridendo.

«Direi che per oggi abbiamo concluso. Vi aspetto tutti qui domani mattina, per le foto, interviste e... beh, già sapete»

Dopo un lungo momento di silenzio le voci cominciano a levarsi. I ragazzi iniziano a guardare negli occhi chi hanno seduto accanto, a lanciare sorrisi qua e là, a darsi pacche sulla spalla in segno di ben ritrovati. Ci alziamo in piedi, le sedie stridono, il volume delle parole aumenta e i primi commenti sui discorsi appena ascoltati inizia a farsi largo nella stanza. Jones saluta tutti, uscendo dalla stanza in cui siamo chiusi da più di un'ora, seguito dai tecnici. Io mi guardo un momento intorno rendendomi improvvisamente conto di essere felice di trovarmi qui. Ogni volta che ritrovo questi miei compagni, ogni volta che varco la soglia della Welsh Rugby Union, che penso che avrò l’opportunità di vestire nuovamente la maglia della nazionale, capendo di aver raggiunto un traguardo davvero importante per me, mi sento emozionato come la prima volta. Era questa la sicurezza che avevo bisogno di ritrovare, la certezza che sarà incredibile anche questa volta, qualunque siano i risultati che raggiungeremo.

«Il tuo è stato un bel discorso»

Mi volto per vedere chi si sta rivolgendo a me, nonostante tono e voce siano perfettamente riconoscibili. Paul è proprio davanti a me, la barba a mezza via, la mascella da pugile – come gli altri si divertono a descriverla – e l’espressione di chi è maledettamente felice di stare al mondo dipinta in volto.

Gli sorrido. Anche se ci siamo già salutati prima dell’inizio dell’incontro, è sempre un piacere trovarselo davanti. Io e Paul siamo maturati insieme fra le file dei Cardiff Blues, io come terza linea, lui come centro, un esplosivo centro. È stato il primo a congratularsi con me per la mia nomina a capitano ed è sempre riuscito a essermi d’aiuto nei momenti critici. Poi, un anno fa, ha accettato un contratto di tutto rispetto per giocare in Francia, ed è volato dall’altra parte dello stretto.

«Ti ringrazio» mi limito a dire, per rispondere al suo complimento di poco fa.

«Trovo che tu sia migliorato anche a parole. Stai crescendo»

«Considerando che ho ventisei anni sarebbe anche ora» scherzo.

Lui annuisce semplicemente, facendo un’espressione vaga. Infila le mani in tasca e torna a guardarmi:

«Il coach ci ha dato il pomeriggio libero, come alle gite scolastiche. Andiamo a mangiare qualcosa?»

Controllo l’orario, è quasi l’una. Nella sala da ricevimento della sede in cui siamo hanno certamente preparato qualcosa, al termine di questi incontri è sempre previsto un rinfresco. Tuttavia so perfettamente che Paul non si riferisce a questo, ma a un pasto solo noi due, con birra e carne, per raccontarsi reciprocamente qualcosa senza i pixel di Skype o la mancanza di segnale dei telefoni cellulare.

«Questa sera?» gli chiedo.

Annuisce:

«Torniamo in quella birreria, quella che mi piace tanto, hai presente? …Dio, non mi ricordo il nome»

«Parli di quella in Chathedral Road, vero?»

Schiocca le dita:

«Esattamente» Si illumina: «Che ne dici? Io, te, una tagliata di manzo e una pinta di birra. Scommetto che non hai mai ricevuto invito migliore»

«Effettivamente ne ricevo pochi di inviti del genere»

«Perfetto, allora stasera sei impegnato. Abbiamo diverse cose di cui parlare, ora che abbiamo la possibilità di farlo»

Acconsento con il capo, per poi rendermi conto che, così facendo, con molta probabilità non avrei occasione di fare l'ormai abituale tratto di strada insieme a Danielle. Ieri sera, quando siamo usciti, le ho detto che l'avrei informata sugli orari di oggi e delle prossime settimane. In fin dei conti il Millennium Stadium è proprio alle spalle di Arms Park, se ce ne fosse stata l'occasione, magari di tanto in tanto, sarebbe stato bello poter rincasare insieme anche con gli incontri della nazionale alle porte. Parlarne con lei finora mi è servito. Le manderò un messaggio dicendole di non aspettarmi stasera, se sono fortunato, forse, riuscirò a incontrarla lungo il tragitto.

 

*

 

A quanto pare il locale è proprio come se lo ricordava Paul. L'ho capito perché non si è guardato intorno a lungo, limitandosi ad acconsentire con il capo sentenziando un "È proprio lui" appena varcata la soglia. Quando giocavamo insieme venivamo spesso qui, anche se Arnold's era sempre la prima scelta.

Sono le otto e mezza. La sera è calata sul mio primo giorno da capitano riconfermato e, con sé, ha portato la pioggia; spero solo che non sia una sorta di segnale premonitore. Purtroppo non sono riuscito a incontrare Danni a fine giornata ma, quando le ho mandato un messaggio per dirle di non aspettarmi, abbiamo cominciato a scriverci, cosa che si è protratta per un po'. Mi ha fatto gli auguri per l'inizio di questo mio nuovo capitolo da capitano, dicendomi anche che se mai avessi voglia di un'altra chiacchierata come quella di ieri sera mi basta farglielo sapere. Un sorrisetto affiora sulle mie labbra ripensando a questo, Paul, seduto davanti a me in attesa della cena, a quanto pare se ne accorge.

«A che stai pensando?» chiede, risvegliandomi dai miei pensieri.

Scuoto la testa:

«Niente di che» mi limito a rispondere.

Rimane a guardarmi, certamente ha intuito che la risposta che ho dato poco fa non era quella vera. Considerando che anche oggi, durante il pranzo alla sede della Welsh Rugby Union al termine degli incontri, siamo praticamente rimasti sempre insieme, le domande che ci sono rimaste da porci reciprocamente sono ben poche e sento che lui sta per partire all'attacco. Fortunatamente il cameriere ritarda di qualche secondo l'affondo del mio amico, raggiungendo il tavolo e servendoci le nostre portate. Paul osserva quasi estasiato il suo piatto:

«Questo mi era mancato» dice.

«Non ti piace il cibo francese?» gli chiedo, pur conoscendo la risposta.

«Neanche un po'. Praticamente mangio sempre le stesse cose»

Annuisco, bevendo un sorso di birra. Il mio amico rigira un paio di volte il piatto sul tavolo, come a cercare l'angolazione più invitante, visibilmente soddisfatto della sua decisione.

«Comunque, non credere di scapparmi» riprende poi, mentre io ho già affondato la forchetta nel mio contorno.

«In che senso?» domando, confuso.

Mi lancia un'occhiata:

«Parlo di ragazze, Matt. Te ne sei trovato una oppure continuerai a farti rincorrere dai tabloid in eterno?»

Sorrido, distogliendo lo sguardo. La risposta che darò ora a Paul sarà una risposta anche per me, per questo motivo apro bocca e lascio che le parole escano spontanee.

«Diciamo che... c'è qualcuna»

Mi guarda, portando immediatamente gli occhi su di me, smette addirittura di salare la carne.

«Sei serio?» domanda.

Abbozzo un sorriso, pensando a Danni:

«Beh, sì»

«E che diavolo aspettavi a farmelo sapere?» sbotta.

Alzo le spalle, decidendomi a mangiare la zucchina ancora infilzata sulla mia forchetta.

«Perché è tutto piuttosto recente»

Riprende a salare la carne:

«Lei come si chiama?»

«Danielle»

«E come vi siete conosciuti?»

«Ad Arms Park»

Non aggiungo altro e Paul subito mi guarda per farmi capire che le informazioni spicciole che gli ho dato non gli bastano: vuole, e deve, sapere di più.

Lo accontento:

«Lavora ad Arms Park. È una delle donne di servizio. Lo fa per pagarsi gli studi»

«Studi in?»

«Storia dell'arte»

Schiocca la lingua:

«Perciò, fammi capire. Questa, Danielle, giusto?»

Acconsento e lui riprende:

«Ecco. Lavora ad Arms Park per pagarsi gli studi universitari in storia dell'arte?»

Nuovamente annuisco e lui inizia a tagliare il suo filetto.

«Però. Te ne sei trovato una intelligente. Sei sicuro che valga la pena rischiare?»

Mi strappa un sorriso, soprattutto per la sua espressione, un miscuglio perfetto di provocazione e lode.

«È proprio perché è intelligente che non riesco a togliermela dalla testa» dico, quasi in un solo fiato, rendendomi conto che è la verità.

Il mio amico rimane a guardarmi per un momento, dopodiché comincia a gustarsi la sua cena, un sorriso amichevole stampato in faccia.

«E lei questo lo sa?» chiede poco dopo, questa volta tenendo gli occhi bassi sul suo piatto.

«No. Direi di no»

Cala il silenzio sul nostro tavolo, evito attentamente di incrociare lo sguardo con quello di Paul che si sta preparando per un nuovo affondo, sicuramente quello decisivo.

«Cos'è che ti ferma? Sai di non piacerle o è fidanzata?» domanda.

«Nessuna delle due»

«Allora cosa?»

Mando giù il mio boccone, sempre sotto lo sguardo di Paul, che osserva alternativamente il suo piatto e la mia faccia. Sospiro:

«È solo che...» comincio, ma non so come continuare.

So cosa mi blocca ma non so come spiegarlo e, inoltre, non so se il mio amico mi crederà. Prima che possa continuare, però, lui prende parola:

«Si tratta di Meg? Pensi ancora a lei?»

Subito lo guardo, stupito. Sentivo avrebbe tirato in ballo la mia ultima relazione, quella che credevo essere la storia perfetta. Meg e io siamo stati insieme per quattro anni prima che tutto cessasse, prima che ponessi fine a quella storia. Ma le cose fra noi non funzionavano più, si erano arenate in un mare di pretese e incomprensioni. Quando sono stato nominato capitano del Galles per la prima volta, la prima vera volta, Meg era accanto a me a sostenermi. Con il passare del tempo, però, gli impegni sempre più incombenti, tutto è crollato. Lei voleva che dedicassi molto più tempo alla nostra storia, voleva che rinunciassi a seguire tanto diligentemente i miei impegni da giocatore, che mi prendessi maggior cura di lei. Quando mi sono reso conto che non aveva compreso cosa significasse il rugby per me, quando ho capito che non condivideva il mio stile di vita e non sosteneva la mia più grande e importante passione, l’ho lasciata. Ma è stato comunque difficile porre fine a quell’amore, difficile superare i giorni, le settimane e i mesi successivi, anche se ora so perfettamente di aver superato la cosa. Tuttavia sono stati i miei impegni da giocatore sempre più pressanti a complicare e distruggere poco a poco il mio legame con Meg ed è questo a spaventarmi. Temo possa succedere anche con Danni, per tale motivo continuo a rimandare. Anche se Danielle comprende e condivide la mia visione del rugby, non significa che lei sia disposta a stare con uno come me, che nei periodi importanti per la nazionale vorrebbe stare accanto alla propria ragazza ma è impossibilitato a farlo.

«Meg non c’entra» rispondo infine. «Ormai è passato più di un anno, ho superato quella storia»

Il mio compagno di squadra rimane a guardarmi, con il preciso intento di farmi capire che ora, però, vuole una risposta degna di essere chiamata tale. Provo a sistemare nella mia testa le parole, tentando di farle combaciare perfettamente fra loro in una risposta sincera ed esaustiva.

«Te l’ho detto, è tutto piuttosto recente. Con gli impegni della nazionale di ora non sono sicuro che valga la pena farmi avanti con lei. A che scopo chiederle se è disposta a mettere in piedi una relazione con me se poi, proprio nelle prime settimane, io sono il primo ad essere assente e a trascurare la cosa?»

«Ok, su questo non hai tutti i torti, lo ammetto»

Beve un goccio di birra, il suo piatto che si svuota velocemente.

«Tuttavia, lei sa questo? Che tu sei capitano, di tutti i tuoi impegni, gli allenamenti, eccetera?»

Annuisco e mi ritrovo a raccontargli di Danni mentre finiamo di cenare. Gli dico quello che è successo in questi due mesi, il modo in cui ci siamo conosciuti, i nostri rientri abituali, le uscite da Arnold’s, i discorsi sul rugby. Cerco di descriverla meglio che posso, anche per far capire al mio amico cosa mi abbia colpito tanto, e tanto in fretta, in lei. Quando concludo aspetto la risposta di Paul, ma lui sembra non avere intenzione di dire niente senza aver prima ordinato una seconda birra. Ferma un cameriere e ordina – alla fine anche per me – dopodiché torna a guardarmi.

«Ho perso un passaggio. Quando vi siete visti l’ultima volta?»

«Siamo usciti a cena ieri sera»

Assume una posa da pensatore, acconsentendo ripetutamente con il capo:

«Ciò significa che sa dei tuoi impegni da capitano. Sbaglio?»

«Sì che lo sa. Te l’ho anche detto»

«Beh, allora è fatta» conclude, schioccando le dita.

Inarco un sopracciglio:

«Non è la stessa cosa. Sa dei miei impegni, non vuol dire che è disposta ad accettarli»

Fa un’espressione strana, una delle più assurde che gli abbia mai visto fare.

«Perciò che vorresti fare?» chiede, scettico.

Distolgo lo sguardo, pensando a una risposta. Non mi viene in mente niente e finisco con il rispondere con un’alzata di spalle, una di quelle palesemente insicure. Paul mi guarda:

«Ragionando così non si cava un ragno dal buco, lo sai. Sarai capitano del Galles ancora a lungo, prima o poi dovrai affrontare ciò che ti preoccupa tanto»

«Come fai a esserne sicuro?» chiedo, riferito alla questione riguardante la durata della mia nomina.

Si illumina, come se non stesse aspettando altro:

«Perché sei il più indicato» dice. «Fidati di me. Personalmente non vorrei avere un capitano diverso da te»

Gli sorrido in segno di ringraziamento. Ma è anche vero che Paul ha sollevato una questione importante. Anche ieri sera, con Danni, non ho concluso praticamente niente. La serata è stata rilassante e piacevole, proprio come immaginavo. Avrei voluto chiedere alla ragazza di vederci di nuovo, ma sono stato frenato dalla marea di impegni della nazionale. Non me la sono sentito di chiedere a Danielle di replicare ancora, magari vedendo l’appuntamento futuro sotto un’ottica diversa, come si guardano le uscite di coppia con il preciso intento di costruire qualcosa che superi l’amicizia.

Sospiro, per poi bere un lungo sorso di birra. Al nostro tavolo è calato il silenzio e io so che Paul sta aspettando che mi chiarisca le idee da solo. Se il mio amico ha ragione, se davvero il mio impegno da capitano è portato a durare nel tempo – e, personalmente, lo reputo un tale onore che non riuscirei mai a rinunciarvi – la questione con Danni si protrarrebbe e basta se mi ostino a ragionare come sto facendo. Portare tutto questo avanti nel tempo mi farebbe solo correre il rischio di perdere la ragazza e sento che non è ciò che voglio.

Alzo gli occhi su Paul:

«Sai di avere ragione» dico.

Lui sorride:

«Io penso che se Danielle è disposta a provarci adesso, durante la tua chiamata in nazionale, starà con te per sempre» rende il suo gesto più romanzesco bevendo dal suo boccale.

Mi limito ad abbozzare un sorriso, in cerca di altro di cui poter parlare; sicuramente il nostro discorso, giunti a questo punto, è considerato concluso. Alla fine sono d’accordo con il mio amico, come gli ho già detto. Protrarre la cosa non servirà a niente e, mi rendo conto, che non è neanche quello che voglio. Avere a che fare con Danielle mi piace e non riesco neanche ad accantonarne l’idea. Ora, l’unico problema, è che con gli allenamenti della nazionale in arrivo – che oltretutto si svolgono fuori Cardiff – non so quando avrò l’occasione di rivedere la ragazza.

Fortunatamente ho il suo numero.

 

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Capitolo 19
*** Danni ***


– Diciannove –

 

Danni

 

 

 

In casa è calato il silenzio. Teniamo tutti gli occhi puntanti sullo schermo del televisore che mostra il primo piano di Luke Davies, estremo gallese. Al Millennium Stadium non fiata un’anima, anche attraverso la tv lo si riesce a capire perfettamente e Luke, che respira a fondo, lo sguardo fisso sui pali, si appresta a calciare. Un involontario “ohsfugge dalla bocca di Jamie, che poi non proferisce più parola fino a che l’ovale non va oltre, assegnando i due punti. Allora il bambino esplode in un grido di soddisfazione, agitando in aria il suo peluche – un draghetto rosso che gli ho regalato diversi anni fa a natale e che continua a tenere con sé durante le partite come fosse piccolo amuleto. La partita riprende dalla metà campo, palla in mano ai Wallabies1.

Nel mio piccolo appartamento siamo io, Jamie e Jenna. Inizialmente dovevamo essere solo io e mio nipote, ma alla fine Jenna ha chiesto di unirsi a noi poiché non aveva voglia di assistere alla partita al pub insieme al suo ragazzo e ai suoi amici.

Il primo dei quattro test match è arrivato. In questo primo sabato di novembre la nazionale gallese sta affrontando quella australiana e la partita, al ventiquattresimo minuto, è sul quattordici pari. Personalmente trovo che i Dragoni2 stiano giocando bene. Non si tirano indietro né in attacco né in difesa, stanno facendo un ottimo gioco di squadra e, nei momenti più complicati, stanno dimostrando di essere in grado di improvvisare alla ricerca di una soluzione. Con un atteggiamento come quello che stanno tenendo vincere non sarebbe impossibile, ma è anche vero che gli avversari con cui si stanno misurando sono i Wallabies, gli australiani; fra le loro file ci sono dei veri monumenti, giocatori abituati a misurarsi con squadre quali All Blacks e Springboks3. Tuttavia questo non significa niente. La mia teoria sul rugby è sempre stata che, finché l'arbitro non fischia la fine del match, niente è stabilito.

Guardo un momento Jamie, incredibilmente preso dalla partita, quasi più del solito. Vedere la nazionale giocare gli piace sempre tantissimo, per lui i Dragoni sono la squadra migliore che si possa guardare lottare per la vittoria. Come se non bastasse da quando ha conosciuto alcuni dei giocatori – Matt in particolare – dice che vedere il Galles è ancora più emozionante.

Anche a me fa effetto pensare a questo. L'idea di essere uscita con Matt, il capitano, in più occasioni, di averlo addirittura avuto in questa casa e ora di vederlo in televisione, la maglia numero sette addosso, a lottare con i suoi compagni per inseguire la vittoria, mi pare talmente assurdo da non sembrare vero, come se avessi sognato tutto. Eppure non ho sognato assolutamente niente, sono perfettamente consapevole che tutto ciò che è successo con Matt è vero, che quello che provo per lui è vero.

Lancio istintivamente un'occhiata a Jenna, anche lei concentrata sulla partita. Come comprensibile le ho raccontato tutto, le ho detto della cena a casa mia, di quello che ho capito quando lui è uscito; le ho raccontato il motivo per cui Matt si è presentato da me quella mattina è di tutto ciò che è accaduto l'ultima sera che siamo usciti insieme. Jenna si è impettita mano a mano che le raccontavo ogni cosa, l'espressione soddisfatta che le si allargava in volto, perfettamente consapevole del fatto di avere sempre avuto ragione su di me. Per fortuna ho come l'impressione che, ora che ho ammesso di essere stata dalla parte del torto, si sia fatta meno insistente su tutta questa storia. Ciò può essere anche dovuto al fatto che, da ormai sei giorni, non ho quasi più avuto a che fare con Matt. L'ultima volta che ci siamo visti è stata domenica scorsa, il due, alla partita fra Cardiff Blues e Edinburgh, al terzo tempo. Aveva assistito al match dalla tribuna, non potendo giocare, ed era venuto al terzo tempo come un tifoso qualsiasi. Abbiamo chiacchierato, bevuto qualcosa insieme e, nuovamente, non ho percepito il passare del tempo.

Ma poi nient'altro. In quest'ultima settimana non abbiamo praticamente quasi mai avuto a che fare, a eccezione di qualche messaggio qua e là, qualcosa di breve, non approfondito. Inutile dire di esserci rimasta male, anche particolarmente delusa, ma sono consapevole del fatto che i suoi impegni da capitano richiedano attenzioni e, di certo, io non sono tanto importante per lui da diventare una priorità o quel "qualcosa" per cui vale la pena ritagliarsi almeno dieci minuti nell'arco di una giornata. «Accidenti»

Jamie urla questa parola, facendomi sussultare. Torno a concentrarmi sulla partita, cosa che non stavo facendo. Uno dei giocatori dell'Australia si sta tuffando oltre la linea di meta, solo quattro minuti dopo la segnatura del nostro Mark Jones. Ora siamo quattordici a diciannove per loro. Non so neanche come sia successo, vorrei chiederlo a Jamie o a Jenna, ma smaschererei il fatto che ero concentrata su altro. Rimango a guardare lo schermo. Realizzo ciò che è successo dal replay che viene proposto più volte dalla regia, mentre il calciatore prepara l’ovale. Il numero dieci dei Wallabies calcia la trasformazione e i punti per gli australiani diventano così ventuno. Ma la partita non è finita e gli sguardi dei gallesi, ripresi a tratti dai cameraman, lasciano perfettamente intuire la loro determinazione nel rimettersi in gioco per rimanere sotto nel punteggio il minor tempo possibile.

Mi concentro esclusivamente sulla partita, come stanno facendo tutti in casa, osservando attentamente ogni azione, passaggio e placcaggio da parte di entrambe le squadre. Sullo scadere del tempo gli otto uomini di mischia gallese sono dominanti; dalla rimessa laterale costruiscono un raggruppamento e avanzano, sempre più vicini alla linea di meta. Il Millennium Stadium è una bolgia di urla di sostegno e incitamento, finché il fischietto dell’arbitro non squarcia tutto quanto. Assegna meta ai Dragoni, proprio al quarantesimo, ultimo minuto di gioco del primo tempo. Come nello stadio anche nel mio soggiorno esplode il tifo e Luke, con apparente semplicità, riporta la nazionale in pareggio: ventuno punti per ciascuna squadra. Sarà un secondo tempo davvero interessante, ne sono certa.

«Gran bella partita, finora» sentenzia Jenna, alzandosi dalla sedia su cui sta e stirandosi per bene.

«Proprio vero» le dico, anche se sono consapevole di essermi persa quattro minuti – fra l’altro fondamentali per la realizzazione di una meta – perchè intenta a pensare ad altro; ma per il resto mi sono proprio goduta la prima metà del match.

«Jamie tu cosa ne pensi?» domando, guardando mio nipote.

Stacca gli occhi dal televisore, voltandosi verso di me:

«Stanno giocando bene. Hai visto che bella la meta di Mark?» esclama.

Annuisco sorridendogli, per dargli ragione. Il primo tempo lo ha fatto esaltare, lo si capisce dallo sguardo che ha. Quando una partita è avvincente i suoi occhi azzurri brillano più del solito e vederlo così mi rende sempre particolarmente felice. Mi alzo dal divano:

«Ti va di mangiare qualcosa?» domando, rivolta a Jamie.

Acconsente con il capo e io lo prendo come il giusto via libera per sbucciargli una mela; a differenza di molti bambini, fortunatamente, a lui la frutta piace. Raggiungo l’angolo cottura, come sono là arriva anche Jenna, che era andata un momento in bagno. Mi volto a guardarla:

«Ne vuoi una anche tu?»

Posa lo sguardo sulle mie mani, impegnate a sbucciare il frutto:

«Volentieri, dove le trovo?»

Gliele indico e mentre lei si mette a pelare la sua mela io allungo quella appena sbucciata a Jamie, concentratissimo sui replay delle sei mete che hanno animato la prima parte del match. Torno da Jenna, intenzionata a mangiare una mela anche io. Come la raggiungo, però, lei mi allunga la metà appena sbucciata del suo frutto:

«Grazie» dico.

Termina ciò che sta facendo, dopodiché si volta, la schiena appoggiata al ripiano della cucina e mi guarda:

«Allora, cosa ne pensi?» chiede, lanciando un rapido gesto in direzione del televisore. Allude alla partita.

«Stanno giocando davvero bene. Credo che un esordio migliore di questo potevamo solo immaginarcelo»

«Sono d’accordo»

«Come mai non sei voluta andare con Rhys a vedere la partita?» domando, ripensando al momento in cui ha chiesto di unirsi a me e Jamie questa mattina. Spero che fra loro due sia tutto a posto.

Fa spallucce:

«Non c’è un motivo particolare. Solo che oggi non mi andava di starmene in mezze a gente che beve birra, canta Delilah4 a squarciagola e urla»

«Solo per questo?» la incalzo, provando a fare ciò che a lei riesce sempre perfettamente con me.

«Sì, solo per questo. Fra me e Rhys va tutto bene, non preoccuparti»

Alzo le mani, come ad arrendermi all’evidenza. Prima che possa parlare la voce di Jamie mi precede, leggermente alterata dalla bocca piena di frutta:

«Hai sentito, Danni?»

«Che cosa?» chiedo, voltandomi a guardarlo. Sto anche per dirgli che parlare a bocca piena non è un granché – anche se lo sa – ma è ancora lui a prendere parola per primo, con la sua esuberante soddisfazione:

«Hanno detto che Matt sta giocando benissimo. Lo sapevo, si vede proprio. Secondo me possono vincerla questa partita»

«Beh, stiamo a vedere»

«Sì, sì, vedrai» conclude, tornando a dedicarsi al televisore che propone gli ultimi commenti tecnici prima dell’inizio del secondo tempo. Torno a rivolgermi a Jenna, che sta sorridendo:

«Direi che è molto preso da questo match» dice.

«Oh sì. Da quando ha conosciuto alcuni dei giocatori, specialmente Matt, vedere le partite gli piace il doppio, se è possibile»

Sorride nuovamente:

«Vale anche per te?» esordisce. «Voglio dire, è una mia impressione o sei concentrata sulla partita molto più del solito?»

La guardo, sbalordita. Non riesco a capire per quale motivo sia ripartita alla carica proprio ora. Avrei dovuto sapere, effettivamente, che il suo disinteresse – se così lo si può chiamare – per la “questione Matt” era sospetto.

Sospiro:

«Perché è un bel match, per questo sono tanto concentrata» rispondo.

Fa un gesto vago, dopodiché abbassa il tono della voce:

«Ah, non lo metto in dubbio. Ma devi ammettere che anche il numero sette gallese non è niente male» ammicca.

Sussulto leggermente:

«Ti pare il caso di parlare di questo in presenza di Jamie?» chiedo, assecondando il suo tono di voce.

«Secondo te perché ho parlato piano?»

La scruto attentamente, alla fine butto fuori dai polmoni quanta più aria possibile e riprendo a parlare:

«Cosa vuoi sentirti dire ancora? Devo ripeterti che avevi ragione?» sbuffo.

Lei si impettisce, un sorrisino beffardo dipinto sul viso:

«È stupendo sentirtelo dire. Ora, giuro che la smetto» conclude.

Rimango a osservarla ancora per un po’, alla fine mi volto verso Jamie, proprio nel momento esatto in cui la tv riprende la diretta dal Millennium Stadium. Il bambino solleva il peluche in aria:

«Ricomincia la partita» ci informa.

Faccio per avviarmi verso di lui ma Jenna mi ferma:

«Non vi siete più sentiti, quindi?»

Scuoto la testa:

«No, te l’ho detto. Qualche messaggio qua e là, ma roba da poco»

Si fa pensierosa.

«Ha ben altro a cui pensare, adesso» preciso. «Quando i test match saranno finiti probabilmente torneremo a vederci, chi può dirlo»

Mi dà ragione con un cenno ed entrambe torniamo a sederci nei rispettivi posti.

Non so neanche se io stessa credo a quello che ho appena detto a Jenna. In totale onestà trovo difficile anche solo sospettare che lui possa essere interessato a me se in questo periodo ha praticamente smesso di cercarmi. È evidente che mi considera un’amica – di questo ormai non dubito più – ma probabilmente niente di diverso. Proprio mentre penso a tutto questo la telecamera regala un primo piano di Matt, lo sguardo determinato nell’incitare i compagni di squadra, e una fastidiosa morsa afferra il mio stomaco.

Jamie si appoggia a me, distogliendo la mia concentrazione da tutto questo:

«Sei pronta?» domanda, riferendosi all’inizio del secondo tempo.

Poso gli occhi su di lui e sorrido:

«Ovvio che lo sono»

Il fischio dell’arbitro risuona dallo stadio al televisore e, insieme alle voci dei commentatori, il gioco riprende.

 

 

 

Note:

1Wallabies: il soprannome attribuito alla nazionale australiana.

2 Dragoni: il soprannome attribuito alla nazionale gallese.

3 Springboks: il soprannome attribuito alla nazionale sudafricana (alle volte vengono anche chiamati Bokke)

4 Delilah: la canzone di Tom Jones. Per i tifosi gallesi è tradizione cantare questa canzone al termine degli inni nazionali e prima dell’inizio del match, soprattutto fra le mura del Millennium Stadium.

 

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Capitolo 20
*** Matt ***


– Venti –

 

Matt

 

 

Non è ancora finita. Non è ancora finita. Finché avrò forza mi ostinerò a continuare a correre.

La gola brucia tantissimo, i muscoli sono sul punto di essere assaliti dai crampi, eppure continuo a correre. Sono riuscito a penetrare fra le file difensive avversarie come solo il mio amico Paul sarebbe in grado di fare. Lui è proprio dietro di me, continua a correre inseguendomi, pronto a ricevere l'ovale se le cose dovessero andare per il verso sbagliato. Sono quasi sulla linea dei ventidue avversaria quando vengo fermato dall'estremo australiano; essendo più minuto di me mi placca bloccandomi per le gambe. Passo il pallone a Paul prima di finire a terra e rimango a guardarlo mentre corre come un dannato verso la linea di meta. Anche lui è esausto, non riesce più ad essere veloce come nei primi minuti di gioco; infatti non ce la fa. Le ali dei Wallabies lo raggiungono all'altezza dei cinque metri1. Undici e quattordici lo portano a terra e cercano di rubargli il pallone. Paul è solo, mi rialzo a fatica per andargli in aiuto, il resto dei giocatori che finalmente sopraggiunge, ma è tardi. Commette infrazione pur di non lasciare l'ovale. Il gioco si interrompe, calcio di punizione per gli australiani.

È tutto da rifare e siamo al settantasettesimo minuto. Il punteggio è di ventotto a trenta per gli avversari. Ognuno dei miei compagni di squadra è consapevole che ci basterebbe poco, davvero poco, per battere la nazionale australiana. Sarebbe sufficiente un drop2, un calcio di punizione, per superarli e poi schierarsi in difesa con l'intenzione di proteggere strenuamente la nostra metà campo negli ultimi minuti di gioco – che solitamente non passano mai. Tuttavia la rimessa laterale che verrà giocata ora è in favore degli avversari, il che significa che se vogliamo vincere non solo dobbiamo fare punto, ma dobbiamo prima recuperare palla.

Raggiungo i miei compagni nel posto da cui riprenderà il gioco e li osservo tutti:

«Non è finita» li incoraggio.

Loro mi guardano, acconsentono determinati: nessuno si è ancora arreso. Il gioco riparte, i secondi scorrono concitati, gli australiani attaccano e noi difendiamo meglio che possiamo, consapevoli di avere ancora una possibilità.

Improvvisamente l'arbitro fischia. Mi volto subito a guardarlo, più preoccupato che mai. Tiene il braccio disteso in direzione del territorio dei Wallabies, il fallo che ha appena fischiato, lo ha fischiato contro di noi. Vorrei aver visto male, ma non è così; il gesto che fa lascia intuire che il placcatore non è rotolato via dal giocatore placcato3. Mi avvicino al punto in cui si trova, per cercare di capire. Gareth, pilone gallese, si sta alzando in piedi, scuotendo la testa sconsolato. La nazionale australiana decide di andare per i pali, la posizione è favorevole, così facendo avrebbero tre punti in più da aggiungere al loro tabellone.

Il silenzio del Millennium Stadium è inverosimile mentre il giocatore si prepara a calciare e, quando il pallone passa dai pali, si può quasi percepire la delusione che aleggia nell'aria.

Jonathan, apertura dei Dragoni, recupera in fretta l'ovale per poterlo rimettere in gioco subito ma, come calcia, il tempo scade e l'australiano che recupera palla la spedisce fuori dalla linea di confine, sancendo il termine della partita.

Ora sì, che è finita. Ventotto a trentatré per loro, l'Australia ci ha battuti.

Non so neanche dire cosa provo, come ci si senta a essere tornati in campo, sotto al tetto del Millennium Stadium, ed essere stati vicini, così maledettamente vicini, a vincere contro una squadra di tale livello.

È il momento delle strette di mano, i giocatori si cercano reciprocamente, australiani e gallesi, ci si complimenta per la vittoria, la determinazione e ci si scambia qualche veloce parola prima di ritrovarsi alla cena del terzo tempo, fra poche ore.

Appena termino di stringere mani e non ho più nessuno davanti, mi chino per allacciarmi la scarpa. Probabilmente la delusione prende il sopravvento, perchè mi siedo sul prato del campo da gioco senza neanche terminare il nodo ai lacci e, un attimo dopo, mi ritrovo disteso su quella stessa erba.

Non so se fuori piove ancora. Il tetto dello stadio oggi ci ha protetto dall'acqua e ha donato alla partita quell'atmosfera magica che ho amato dal primo momento in cui ho posato piede qui dentro, anni fa.

Quando il tetto del Millennium Stadium è chiuso, non riesci a sentire nemmeno il suono dei tuoi pensieri.

Oggi tutto era amplificato: il tifo del pubblico, Delilah, la nostra determinazione. Ognuno ci ha creduto fino all'ultimo, consapevole che nulla era perduto. Sono così fiero dei Dragoni che domani, passata l'amarezza del risultato finale, ripenserò a oggi come a una buona giornata per ritrovare i miei compagni e la maglia rossa che reputo sempre un autentico onore indossare.

Chissà cos'ha pensato tutta quella parte della nazione che ha guardato la sfida al televisore, quella che non è potuta essere qui, insieme a noi. Fra di loro ci sono alcuni dei miei famigliari, dei miei amici e anche Danielle.

Incrocio le mani sulla pancia, come se stessi osservando un cielo pieno di stelle e non la copertura di acciaio e lamiera che ho effettivamente sotto gli occhi.

Negli ultimi giorni io e la ragazza non ci siamo praticamente mai visti. Di tanto in tanto qualcuno inviava messaggi all'altro, ma non è la stessa cosa. Gli impegni con la nazionale sono stati, effettivamente, numerosi come avevo previsto – fra allenamenti, ritiri e conferenze stampa – e questa settimana mi è servita come linea guida per sapere cosa aspettarmi esattamente anche nei prossimi giorni, almeno fino a dicembre. Non mi è impossibile ritagliare del tempo da dedicare a Danni, anche se non è molto. Potrei chiederle di vederci un giorno di questi, sempre se la mia è reputabile come una buona idea. Tuttavia anche ora, al termine di questa partita, il fatto di essermi ritrovato a pensare a lei significa certamente qualcosa. Ho davvero voglia di vederla.

Qualcuno si siede accanto a me:

«Gran bella partita la tua, amico» dice.

È Paul. Torno a sedermi anche io, notando che il suo respiro si è regolarizzato prima del mio. La gola mi brucia ancora un po' e i muscoli, ora che l'adrenalina è scivolata via, cominciano a cedere. Ma proprio come ogni altra volta che un match si conclude e io so di aver fatto tutto quello che era in mio potere, mi sento più vivo che mai.

«Grazie. Lo è stata anche la tua» rispondo, dandogli una pacca sulla schiena, proprio in corrispondenza del numero dodici bianco stampato sulla maglia.

«A cosa pensi?» mi chiede.

Scuoto la testa:

«Solo al fatto che eravamo davvero vicini, questa volta»

«Già» acconsente.

Stavolta è lui a dare una pacca a me, porta una mano sulla mia testa, spettinandomi i capelli zuppi di acqua e sudore, sorridendo; da qualche parte, certamente, un fotografo ha immortalato questa nostra scena fraterna. Paul sospira, rialzandosi in piedi:

«È ora delle interviste, capitano»

Porto gli occhi verso il bordo campo, i giornalisti sono in attesa, di me e di altri giocatori, e si guardano intorno, microfono alla mano, aspettando di riuscire a fermare qualcuno. Mi alzo, avviandomi al fianco del mio amico. Gli impegni da capitano chiamano ancora una volta e nella mia testa comincio a pensare a cosa poter dire a chi mi intervisterà. Tutto il resto, ora, è costretto a passare in secondo piano.

 

*

 

Il Vale Resort è come una casa adottiva, è qui che ci alleniamo durante i ritiri con la nazionale, in vista di qualsiasi partita. Ogni giocatore della squadra, membro dello staff, o personalità vicina alla Welsh Rugby Union lo conosce perfettamente, sa dove portano i corridoi, quali stanze si trovano a quale piano, da che parte dirigersi per raggiungere il parco o i campi da gioco. Da tempo immemore questo luogo è la seconda casa dei Dragoni.

Questa mattina il cielo è terso, limpido e il sole sembra non avere ancora capito che ormai è il 12 novembre, continua a scaldare o, meglio, ci prova con tutte le sue forze.

La sessione di allenamenti del mercoledì mattina è terminata da una ventina di minuti e siamo rientrati quasi tutti al Resort. Abbiamo lavorato molto sull’attacco e il sostegno ai compagni di gioco, in vista del secondo test match novembrino contro la nazionale delle Fiji, questo sabato.

I figiani non sono giocatori con cui scherzare. Sono grossi, possenti e hanno trequarti veloci, agili e scattanti. Il loro è un gioco di scontri potenti, sia in attacco che in difesa. Jones ci sta preparando tenendo conto di tutto questo. Se nell’uno contro uno noi siamo più leggeri e meno d’impatto, allora il sostegno dei compagni diventa fondamentale. In due o si supera l’avversario giocando d’astuzia o gli si va contro, dritto per dritto, con il doppio della potenza.

Seduto nella hall estraggo lo smartphone, decidendo di dare un’occhiata al mio profilo Twitter. Qua e là qualche mio compagno di squadra passa, chiacchierando di qualcosa con altri. Una delle cose che preferisco dei ritiri con la nazionale è proprio la possibilità di approfondire rapidamente la conoscenza con gli altri giocatori, avendoli sotto lo stesso tetto per giorni interi. È questo che accresce il legame fra compagni di squadra; anche se ci sarà sempre qualcuno con cui si va più d’accordo, nell’insieme tutti siamo come fratelli.

Twitter oggi è parecchio noioso. Non ci sono notizie interessanti, solo cose di poco conto – anche se il social vive quasi esclusivamente di questo. Finisco con il ritrovarmi a leggere il botta e risposta di due giornalisti, un uomo e una donna, che si attaccano reciprocamente a ogni commento, ripetendo la stessa cosa, solo scritta in modo differente. Penso proprio che smetterò di leggere e cercherò qualcos’altro da fare.

«Perché non la chiami?»

La voce si rivolge a me. Non mi serve alzare lo sguardo per capire che si tratta di Paul.

«Non penso di essere interessato a sapere come finisce questa storia» rispondo, riferendomi al battibecco su Twitter, guardando il mio amico solo ora.

Si fa perplesso:

«Ma di che stai parlando?» domanda, sedendosi sulla poltrona alla mia sinistra.

Rivolgo a lui lo schermo del mio telefonino; quando lo vede, sbotta:

«Bah. E io che credevo stessi scrivendo a Danielle»

«No. Spiacente»

Infilo in tasca il cellulare, tornando poi a guardare il mio amico in faccia. Nessuno dei due dice nulla per un po’. È Paul il primo a riprendere parola:

«Quindi che hai intenzione di fare?»

Non ho bisogno di chiedergli di cosa stia parlando, so che si riferisce a Danni. Per qualche motivo che probabilmente mi sfugge ha preso particolarmente a cuore questa storia. Mi passo istintivamente una mano fra i capelli, appoggiando poi i gomiti sulle ginocchia.

«È da un po’ di giorni che pensavo di chiederle di uscire»

«Oh, finalmente» esclama.

Lo guardo storto. Lui allarga le braccia:

«Cosa?» chiede. «È da quando mi hai parlato di lei che mi ostino a ripeterti di invitarla a cena. Sono contento tu mi abbia ascoltato»

«Avevo solo bisogno di vedere se sono in grado di incastrare tutti i miei impegni» dico, cercando di giustificarmi.

«Facciamo finta che sia così. Ci riesci?»

Annuisco:

«Sì, direi di sì. Solo devo pensare a dove portarla e quando. Poi bisogna tenere presente che anche lei avrà sicuramente le sue cose da fare»

«Senti quando ha tempo e portala qui»

Guardo immeditatamente Paul:

«Qui?»

«Sì, non vedo perché no. Così ce la presenti» risponde, come fosse la cosa più ovvia del mondo.

«Oh, certo. Non usciamo da due settimane, più o meno, e quando le chiedo di tornare a vederci la catapulto al Vale Resort in mezzo alla nazionale gallese. Non fa una piega» concludo, in tono sarcastico.

Il mio amico fa spallucce:

«Che male c’è? Scommetto che le farebbe piacere conoscere noi giocatori. Se tifa Galles incontrare la proprio squadra preferita è una bella emozione»

Sto per ribattere, ma mi blocco. Un lumicino piccolo piccolo compare nei meandri della mia mente, trasformandosi, infine, in un’idea.

«Aspetta un secondo. Hai ragione» sentenzio.

Paul si esibisce in un’espressione più che soddisfatta, come a dire di aver sempre saputo di essere un genio.

«Anziché invitarla fuori in un qualsiasi ristorante o da Arnold’s, potrei chiederle di venire con me alla cena del terzo tempo»

Il mio amico sgrana gli occhi:

«Aspetta… fai sul serio?»

«Sì»

«Mi hai appena detto che è un’idea stupida invitarla qui al Vale Resort e poi, tu, la vuoi addirittura invitare alla cena del terzo tempo?»

Lo blocco con una mano aperta prima che possa continuare.

«Su questo ti do ragione. Ma poi hai anche detto che le farebbe piacere incontrare i giocatori della sua squadra preferita, no?»

Mi dà ragione e io continuo:

«Danni è una grande fan degli All Blacks. Segue tutto il Rugby Championship. Potrei invitarla alla cena del terzo tempo della partita contro la Nuova Zelanda»

Il sorriso sul mio volto non ne vuole sapere di andarsene. Mi sembra quasi di aver trovato la soluzione migliore. Così facendo avrei la possibilità di avere Danielle accanto, mostrarle quali sono alcuni dei miei impegni da capitano e vedere se è disposta a costruire qualcosa con me accettando quelli che sono i miei doveri. Al contempo lei avrebbe la possibilità di incontrare alcuni dei suoi giocatori preferiti, di incontrarli veramente.

Paul continua a guardarmi, un po’ basito, senza proferire parola.

«La trovi un’idea stupida, vero?» chiedo.

Ora si fa confuso:

«No, non è stupida. È proprio un’idea… da te» conclude.

Scoppio a ridere e lui riprende a parlare:

«Pensi che accetterebbe?»

«Non lo so» rispondo ed è la verità.

Danni è una ragazza a cui non piace stare sotto i riflettori o in luoghi troppo affollati, ormai l’ho capito. Ma se fra di noi dovesse nascere davvero qualcosa, ogni tanto cose simili le capiterebbero. Invitarla alla cena del terzo tempo è la soluzione ideale per farle vedere a cosa potrebbe andare incontro stando con me e, se non dovesse accettare la cosa, capirei che fra di noi non potrebbe funzionare a lungo; proprio come con Meg. Spiego al mio amico il motivo della mia scelta, lui mi ascolta in silenzio, per poi darmi ragione.

«E se non accettasse di venire con te alla cena Galles-All Blacks?» domanda infine.

Rimango un momento a guardarlo. Sorrido:

«Beh, in quel caso allora spero che accetti di venire a bere una birra una sera di queste. Per le serate formali c’è sempre tempo»

Anche Paul sorride:

«Ti piace davvero, eh?»

Abbasso un momento lo sguardo sul pavimento della hall, per poi tornare a guardare il mio amico:

«Penso proprio di sì»

Lui non risponde e io non so che altro aggiungere. Sono i nostri compagni di squadra a intervenire:

«Ehi, ragazzi» ci chiama uno di loro.

Ci voltiamo entrambi a guardarli, riconoscendo Jonathan, al suo fianco c’è Luke.

«Noi andiamo a farci una nuotata, volete venire?»

Guardo Paul:

«Vogliamo andare?» chiedo.

«Ovviamente sì»

 

 

 

Note:

1 Linea dei cinque metri: l’indicazione segnata sul campo che indica la distanza di cinque metri dall’area di meta.

2 Drop: il drop consiste nel calciare il pallone fra i pali. Vale tre punti.

3 Il placcatore…giocatore placcato: questo tipo di infrazione avviene quando il placcatore non rilascia il placcato una volta averlo portato a terra. Nel rugby, infatti, quando un giocatore ne placca un altro lo devo immediatamente liberare per permettergli di rimettere in gioco il pallone.

 

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Capitolo 21
*** Danni ***


– Ventuno –

 

Danni

 

 

Parte prima la vibrazione della suoneria. È un rumore talmente fastidioso e forte che praticamente mi fa sussultare. Sollevo la testa, guardandomi intorno ancora intontita. Ci metto svariati secondi a elaborare il tutto e ricordarmi cosa stavo facendo. Davanti a me il tavolo è pieno di dispense, appunti, evidenziatori, penne e qualche libro. Mi sono certamente addormentata mentre studiavo, compiendo l'insano gesto di chiudere un momento gli occhi. Per fortuna, come se avessi saputo in anticipo che sarebbe andata a finire così, ho impostato una sveglia per sicurezza in modo da non rischiare di non andare a prendere Jamie ad allenamento. Sbadiglio, tentando di riprendermi in fretta, cercando anche di riordinare il tavolo meglio che posso. Manca meno di una settimana al mio prossimo esame e, come sempre, mi sembra di non stare dedicando tempo a sufficienza allo studio. Non lo faccio apposta, cerco di ritagliarmi ogni momento possibile per ripassarmi le cose, ogni giorno, ma temo ancora che non basti. Oltretutto ormai il sabato è tabù. Domani – eccezione fatta per la mattina – non ho assolutamente intenzione di studiare. Gli ultimi quattro sabati di novembre sono interamente dedicati alla nazionale gallese e ai suoi test match. Spero arrivi presto il giorno dell'esame; qualunque sia l'esito voglio togliermelo di torno.

Impilo rapidamente le dispense una sull'altra, dando un aspetto dignitoso, nell'insieme, al tavolo su cui stavo studiando. Con altrettanta fretta mi cambio e mi sistemo meglio che posso, per poi uscire di casa diretta ad Arms Park. Avendo fatto tutto tentando di impiegare il minor tempo possibile, appena sono sul marciapiede in direzione dello stadio mi accorgo di essere fortemente in anticipo. Controllo l'orario un paio di volte e, alla fine, rallento il passo così da non arrivare troppo presto.

Di rado Jamie ha allenamento il venerdì, ma oggi invece sì. Andare ad Arms Park di venerdì pomeriggio gli piace particolarmente perché, in concomitanza con i suoi, ci sono gli allenamenti della squadra maggiore e per lui questo è più che sufficiente a rendere il tutto speciale. Anche se non lavoro sono sempre io ad andare a prenderlo quando finisce e, come per gli altri giorni, lui rimane con me finché mia sorella non passa a recuperarlo.

Mentre cammino mi soffermo a osservare le vetrine dei negozi, sempre le stesse, rendendomi conto che compio questo stesso tratto di strada da più di un anno, ormai. Le case sono sempre uguali, con i medesimi colori e mattoni. Quelle che ho intorno a me sono sempre le solite cose che incontro abitualmente mentre torno a casa. Tutto è rimasto uguale se non fosse che negli ultimi due mesi almeno un paio di giorni a settimana, accanto a me c'era Matt. Inevitabilmente mi ritrovo a pensare a lui e alla quantità di giorni che sono trascorsi dall'ultima volta che l'ho avuto davanti in carne e ossa. Sono passate quasi due settimane. È vero che di tanto in tanto ci sentiamo, ma ho dovuto ammettere a me stessa che non è uguale all’averlo vicino. Matt ovviamente non ne ha colpa. Gli allenamenti della nazionale si svolgono fuori Cardiff e l’autunno internazionale1, si sa, è un periodo di forte intensità per tutti i giocatori, perciò è normale abbia altro a cui pensare. È già tanto che trovi il tempo per scrivermi un messaggio di tanto in tanto, in fin dei conti non rappresento niente di speciale per lui. Solo che ho davvero voglia di rivederlo, al momento è l’unica certezza che ho.

Arrivo ad Arms Park in anticipo di dieci minuti, più o meno. Come solito raggiungo il parcheggio sul retro, fermandomi davanti al cancelletto in attesa. I miei occhi si posano inevitabilmente sul Millennium Stadium, la tana dei Dragoni. È una struttura monumentale, un colosso e sovrasta in modo quasi minaccioso il piccolo Arms Park ai suoi piedi. Sabato 22 anche io sarò fra le mura del Millennium, sotto il suo tetto, a incitare la nazionale gallese nella speranza riesca a vincere contro i tutti neri della Nuova Zelanda. Non avrei mai potuto perdermi un match di tale rilevanza per me; l’occasione di vedere due delle squadre che ammiro di più, l’una contro l’altra, era così importante che non potevo lasciarmela sfuggire. Il giorno stesso dell’inizio delle vendite sono andata ad Arms Park ad acquistare cinque biglietti per me, Jamie, Norman, Jenna e Rhys. Spero davvero possa essere una partita memorabile. Sono sicura che i Dragoni, guidati da Matt e sostenuti dalla loro nazione, faranno il possibile per lasciare il campo di gioco a testa alta.

Controllo l’orario: sono le diciannove, Jamie dovrebbe uscire a breve.

Pensando alla partita sono entrata in una sorta di trans e non ho percepito i minuti passare. Sempre dentro questa specie di estraniazione sento qualcuno pronunciare il mio nome, ma quasi non me ne accorgo.

«Danni» ripete.

Mi rendo conto di non essermi immaginata nulla e mi volto in direzione della voce. Quando vedo chi mi ha chiamata, nel momento esatto in cui i nostri sguardi si incrociano, il cuore mi arriva dritto in gola: è Matt. Non mi aspettavo assolutamente di incontrarlo qui, è una cosa talmente inaspettata che mentre il ragazzo continua ad avvicinarsi io ancora stento a credere sia realmente lui. Alla fine sorrido e lui si ferma proprio accanto a me.

«Ehi, come stai?» mi chiede.

«Bene, grazie. E tu?»

Il mio cuore non ne vuole sapere di rallentare i battiti e, come se non fosse sufficiente, sento un leggero rossore affiorarmi in viso, fortunatamente ormai c’è già buio quindi non dovrebbe notarsi più di tanto.

«Tutto a posto» risponde.

«Scusa se ci ho messo un po’ a riconoscerti, ma non mi aspettavo di trovarti qui» ammetto.

Lui sorride, mettendo in mostra quel suo sorriso perfetto; la cosa, ora come ora, non mi aiuta affatto.

Indica dietro di sé con il pollice, verso l’immenso Millennium Stadium:

«Ero alla sede della Welsh Rugby Union. Avevamo una conferenza stampa in vista della partita di domani»

Annuisco con il capo:

«Come sta andando la preparazione?» domando, riferendomi proprio al match di questo sabato.

«Mah, direi bene. Abbiamo lavorato a trecentosessanta gradi dopo la disfatta con l’Australia e non ci rimane che vedere se gli allenamenti che abbiamo fatto daranno i loro frutti domani»

«Ho capito» mi limito a rispondere.

Avevamo già parlato dell’esito finale della sfida con i Wallabies via messaggio e non penso di dover aggiungere altro. Non credo che ai giocatori piaccia sentirsi dire troppo spesso dove hanno peccato e dove, al contrario, sono stati impeccabili, hanno già lo staff tecnico che ricorda loro frequentemente questo tipo di cose.

Matt abbozza un sorriso, distoglie brevemente lo sguardo per poi ripuntarlo su di me più sicuro di prima. Respira, preparandosi a dire qualcosa, ma non fa in tempo.

«Danni!»

Ci giriamo entrambi, giusto in tempo per vedere Jamie venirci incontro, sbilanciato come al solito dal borsone enorme. Ci raggiunge, posa a terra il borsone con fare scenico e alza gli occhi sul giocatore:

«Ciao Matt» esclama.

«Ehilà, Jamie. Come stai?»

Il piccolo si impettisce, strappandomi un sorriso:

«Benone» risponde.

«Ottimo, mi fa piacere. E gli allenamenti? Continui ad ambire a diventare un numero sette?»

«Eccome. Il mio allenatore dice che posso diventare qualsiasi cosa»

Matt si esibisce in un “Ah” di ammirazione, cosa che fa impettire ulteriormente Jamie. Prima che mio nipote possa riaprire bocca – perché so per certo che non vede l’ora di tempestare Matt di domande sulla nazionale, avendone l’occasione – mi rivolgo al giocatore:

«Tu adesso cosa fai?» chiedo.

Fortunatamente la domanda mi esce con l’intonazione giusta e sembra pura e innocente curiosità. Il ragazzo mi guarda un momento, poi lancia una rapida occhiata a Jamie:

«Beh, se… se state andando verso casa tua possiamo fare un tratto di strada insieme. Se vi va»

Sorrido:

«Per me va bene» Mi rivolgo a Jamie: «Tu cosa ne dici?»

Lui si illumina:

«Certo, andiamo» esclama.

Torna a caricarsi il borsone in spalla, guardandosi bene dal farsi aiutare e si incammina. Io e Matt lo raggiungiamo e, come il giocatore gli è accanto, Jamie attacca subito a parlare delle partite della nazionale. Esplode letteralmente in un’esaltazione del primo test match, raccontando quanto è stato bello assistere al ritorno dei Dragoni sul campo del Millennium Stadium e di quanto sia stato emozionante rivedere alcuni dei suoi giocatori preferiti indossare ancora una volta la maglia rossa. Matt lo ascolta, il suo sorriso luminoso in volto, gli occhi celesti che di tanto in tanto si spostano dal piccolo a me e i capelli leggermente smossi dall’immancabile brezza serale di Cardiff. Jamie continua a parlare per tutto il tragitto che unisce Arms Park a casa mia e quando arriviamo alla mia porta di ingresso lui si ferma, si piazza davanti a Matt e dice:

«Domani andrà bene, vedrai»

Il giocatore scoppia a ridere, dopodiché lo guarda:

«Spero tu abbia ragione»

«Fidati di me»

Fra di noi cala il silenzio; il fatto che Jamie non dica nulla fa capire che, per oggi, non sa che altri aneddoti trovare e di cui poter parlare. Matt si schiarisce la voce rapidamente, per poi guardarmi:

«Avrei bisogno di parlarti un momento» dice.

Mi coglie impreparata. Lo guardo certamente sorpresa, cominciando a chiedermi cosa aspettarmi da quanto ha appena detto, anche se con molta probabilità vuole solo un paio di informazioni, magari sui Cardiff Blues o Arms Park.

«Sì, certo» rispondo infine.

Noto che, però, Matt esita appena. Infatti è Jamie a parlare:

«Vi devo lasciare da soli?» chiede.

Il giocatore lo guarda:

«Se non ti dispiace, sì. Solo per qualche minuto» gli fa l’occhiolino.

Il bambino acconsente, poi si rivolge a me:

«Posso accendere lo stereo?»

«Ma certo che puoi»

Frugo nella borsa alla ricerca delle chiavi e quando le trovo apro la porta d’ingresso, permettendo al bambino di entrare. Come si chiude l’uscio alle spalle torno a concentrarmi su Matt.

«Anche lui ascolta Michael Bublé?» mi chiede.

Mi metto a ridere, tornando con la mente alla sera in cui lui è rimasto a cena da me, quando aveva acceso lo stereo incuriosito.

«No. Ascolta semplicemente la radio»

Sorride:

«Sono contento che il primo test match gli sia piaciuto»

«Lo ha adorato» gli confido.

Sorride nuovamente, poi prende fiato e torna a guardarmi:

«Comunque, prima, ti stavo cercando» esordisce.

È la seconda volta che mi coglie impreparata nel giro di pochissimi minuti. Non sono riuscita a ignorare la scossa che mi ha attraversata alle sue parole, per quanto rapida.

«Ah, sì?»

«Già. Sam mi ha detto che l’Under12 aveva allenamento. Così, finita la conferenza stampa, sono passato da Arms Park per vedere se riuscivo a incontrarti e così è stato»

Abbasso istintivamente lo sguardo sulle mie scarpe, senza avere la più pallida idea di come sentirmi. So solo che reprimo a fatica un sorriso.

«Mi cercavi per cosa?» domando poi, provando a mantenere un tono rilassato.

Non gli serve molto tempo per rispondere. È invidiabile il modo in cui Matt riesca sempre a sapere cosa dire, sembra non abbia mai bisogno di cercare le parole giuste.

«Beh, pensavo che è da un po’ che non usciamo e qualche giorno fa mi è venuta in mente una cosa che vorrei proporti»

Continuo ad ascoltarlo, cominciando seriamente a incuriosirmi. Lui allontana lo sguardo un solo momento, ma quel frangente non mi sfugge.

«Volevo solo sapere…» riprende. «Se ti andrebbe di venire con me alla cena del terzo tempo dopo la partita con gli All Blacks»

Questa volta la mia espressione incredula la nota certamente anche lui. Rimango a fissarlo, gli occhi spalancati, senza la più pallida idea di cosa poter dire. Comincio addirittura a sospettare di aver frainteso o di aver interpretato la cosa talmente male da essermi inventata tutto. Tuttavia le sue parole sono state semplici e chiare. Mi decido a reagire, apro bocca per rispondere ma mi esce solo un “Ehm” di dubbia natura. Alla fine riesco a ricompormi, guardo Matt:

«Dici… dici sul serio?» domando.

Lui sorride; sospetto di essere stata piuttosto buffa nei miei secondi di caos generale, mentre cercavo di assimilare a fatica le semplici parole che ha pronunciato.

«Sì, sul serio. Possiamo portare una persona con noi alla cena. Speravo a te andasse di venire con me»

Non riesco a capacitarmi del fatto che mi abbia seriamente invitata a un evento di tale portata. Le cene del terzo tempo sono sempre momenti molto solenni e formali. È vero che il clima è amichevole e di festa, ma tutto è completamente differente dal terzo tempo delle squadre di club come i Cardiff Blues. Alla cena della nazionale non hanno accesso tutti, ma soltanto arbitri, staff tecnico, figure di rilievo, giocatori e rispettive partner. L’idea di andare là come accompagnatrice di Matt è quasi surreale, forse ancora di più dell’idea di essere a contatto con la nazionale gallese e quella neozelandese contemporaneamente.

Sono in silenzio da troppo tempo, ormai. Matt dev’essersi stufato di aspettare la mia risposta e riprende a parlare:

«Non devi sentirti obbligata. Voglio dire, se non ti va di venire non c’è problema, so che non è una… cena qualsiasi, diciamo così» Respira: «In ogni caso, mi piacerebbe andassimo a bere qualcosa una sera di queste»

Lo guardo:

«No»

Lui si zittisce e subito ricomincio a parlare, prima di correre il rischio di vedere il mio “no” interpretato nel modo sbagliato:

«No vengo… vengo volentieri alla cena» dico.

«Davvero?» mi chiede, apparendo quasi sorpreso della mia risposta.

Un sorriso si appropria forzatamente del mio volto. Ora che ho assimilato l’invito di Matt non riesco a fare a meno di sorridere.

«Certo. Insomma, è un’occasione più unica che rara, non posso rifiutare una simile offerta. Poi è da un po’ che noi due non passiamo del tempo insieme»

Abbasso lo sguardo sull’ultima parte, sentendomi improvvisamente in imbarazzo; avrei dovuto chiudere la bocca una frase prima.

«Hai ragione, è da un po’» risponde. «E grazie per aver accettato»

Torno a guardarlo:

«Scherzi? Grazie a te»

Lui mi sorride e rimango letteralmente incantata a osservarlo. Dentro di me ora ho solo caos, quello che in un modo o nell’altro si può ricondurre a un solo sentimento. Mi era mancato avere Matt davanti a me.

Mi schiarisco la gola nella speranza di riuscire così a riacquistare il pieno controllo di tutte le mie emozioni.

«È una cena formale, giusto?» chiedo.

Abbozza un sorriso:

«Già, lo è. È proprio una di quelle cene serie con tutte le figure importanti che ruotano attorno alle squadre. Come puoi immaginare prevede giacca e cravatta» dice, indicando se stesso con la mano. «E abito» conclude, stavolta indicando me.

«Non c’è problema» lo rassicuro. «Sarà divertente»

«Per tutti i dettagli sull’organizzazione eccetera ti faccio sapere la prossima settimana, d’accordo? Perché ancora non so dirti a che ora ci sarà. Quasi sicuramente alle nove, ma ti do conferma»

«Va bene, mi farai sapere»

«Ti servono biglietti per la partita? Ne ho un paio»

«Oh no, no, grazie. Secondo te non lo ho comprati il giorno stesso in cui hanno iniziato a venderli?»

Sorride:

«Ah, ottimo. In effetti devo ammettere che sarei rimasto sorpreso se mi avessi detto di non avere i biglietti per venire a vedere la partita al Millennium» scherza.

«Dopo tutto quello che ti ho detto non potevo perdermi Galles-All Blacks»

Si limita a sorridermi, dolcemente, e io non so che altro dirgli. Vorrei fargli un sacco di domande, oppure chiedergli semplicemente di raccontarmi qualcosa, ciò che vuole. Mi sembra passata una vita dall’ultima volta in cui abbiamo avuto tempo a sufficienza per stare insieme a parlare. Ma sono perfettamente consapevole che questo stasera non accadrà. Matt deve tornare al Vale Resort per gli ultimissimi preparativi in vista del match di domani: il capitano non può allontanarsi dalla sua squadra alla vigilia di una partita. Io, invece, devo occuparmi di Jamie, preparargli la cena e stare con lui finché Rachel non passa a prenderlo.

Come se mi avesse letto nella mente Matt controlla il suo orologio:

«È meglio che vada. Non voglio costringere Jamie ad aspettarti a lungo. Appena so tutto per la cena ti chiamo, ok?»

«Certo, ci sentiamo»

Fa per salutarmi, ma si ferma:

«Mi stavo dimenticando…»

Si toglie lo zaino di spalla, cominciando a cercarvi dentro qualcosa. I miei occhi cadono istintivamente sullo stemma della nazionale gallese, le tre piume che ogni giocatore, in campo, porta cucite sulla maglia in corrispondenza del cuore. Dopo aver cercato per bene fra le sue cose, Matt estrae una custodia in plastica, che riconosco subito come quella di un cd.

«Ti ho portato questo, se ti va di ascoltarlo» dice, riferendosi a ciò che ha in mano, ovvero l’album dei Mumford & Sons.

Afferro il disco:

«Ah, grazie. Lo ascolto volentieri» rispondo.

«Puoi restituirmelo quando vuoi. Ce l’ho digitalizzato ovunque in pratica» si mette a ridere.

«Terrò presente quanto hai appena detto, sappilo» scherzo.

Lui non cancella il suo sorriso dal volto, ma poi mi saluta sul serio:

«Ti lascio andare ora» comincia. «Ci sentiamo per il 22. Salutami Jamie»

«Senz’altro. Allora a presto» rispondo.

Mi saluta un’ultima volta e si avvia, nella stessa direzione verso cui prosegue come ogni altra volta che ci siamo lasciati davanti al mio ingresso di casa. Guardo il cd che mi ha appena dato, ancora stretto fra entrambe le mie mani. Immediatamente leggo il titolo di una delle canzoni: Not With Haste. È questa la traccia di cui Matt mi ha parlato una volta, quella che ascolta prima di ogni partita per poter ritrovare se stesso.

 

 

 

 

Note:

1 autunno internazionale: il nomignolo attribuito (in Italia soprattutto) ai test match di novembre.

 

 

 

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Capitolo 22
*** Danni ***


– Ventidue –

 

Danni

 

 

Jenna mi sta mettendo fretta; e ansia, molta ansia. Continua a farmi segno di raggiungerla e di darmi una mossa nel farlo, ma io continuo a temporeggiare guardandomi intorno, quasi facendolo apposta.

Dopo che ieri, nel nostro consueto pranzo del martedì, le ho raccontato per filo e per segno le ultime cose che ci siamo detti io e Matt – ovviamente la sera di venerdì ho avvertito subito la mia amica dell’invito del giocatore, così da evitarmi possibili minacce verbali – Jenna ha insistito affinché andassimo alla ricerca insieme dell’abito che dovrei mettere alla cena del 22, ovvero fra soli tre giorni.

Non sono mai stata una fan dello shopping, ma è anche vero che in casa mia non ho abiti da serate formali, eccetto quello che ho indossato il giorno del matrimonio di Rachel – e che con molta probabilità non mi entrerà neanche più dato che all’epoca avevo sedici anni.

Raggiungo Jenna:

«Questo negozio è perfetto. Non costa troppo e ha bellissimi modelli. Sono sicura che troveremo l’abito giusto» dice, spingendomi oltre l’ingresso.

Tutta questa storia l’ha fatta esaltare. Quando venerdì al telefono le ho detto dell’invito di Matt mi ha letteralmente sfondato il timpano, dicendomi di non prendere la cosa sottogamba e che un invito del genere non si fa a una persona qualsiasi: secondo lei Matt è davvero interessato a me. Io non so se sia vero o meno, certo è che questa cosa non mi aiuta a tranquillizzarmi. La settimana scorsa l’idea di partecipare alla cena del terzo tempo mi sembrava la cosa migliore mi potesse capitare, ora invece sono sempre più convinta del fatto che dire di sì a Matt sia stata una pessima mossa. Non so come farò a gestire lo stress e l’ansia di essere in mezzo ai giocatori della nazionale, soprattutto se sono in compagnia di Matt. Mi faranno sicuramente domande e già so che per riuscire a rispondere faticherò un sacco.

«Che ne dici di questo?»

Mi volto verso Jenna, guardandola sorpresa:

«Che cosa?» chiedo.

«Di questo, Danni. Ti ho chiesto cosa pensi di questo vestito» risponde, mettendomi sotto il naso l’abito.

«Non mi stavi ascoltando, vero?» sbotta.

«Scusami»

«Dai, che ne dici?» domanda, riferendosi sempre al capo d’abbigliamento.

Lo guardo:

«Mio Dio no. Troppo scollato»

«Non è troppo scollato»

«Sì, invece. È una cena formale non un ballo di gala. Anche Matt ha detto di vestirsi bene ma non troppo» dico.

Ripenso alle parole del ragazzo, effettivamente erano proprio queste. Ci siamo sentiti lunedì, in serata, via telefono. Mi ha chiamata per informarmi esattamente di come fare per la fatidica cena. Matt era ancora felice per via della vittoria contro le Fiji nel secondo test match – diciassette a tredici per i Dragoni – e abbiamo finito con il rimanere al telefono per quasi un’ora.

Se ci ripenso non mi sembra vero. Tutto quello che mi è successo da settembre non mi sembra vero.

Jenna torna a sistemare il vestito al suo posto:

«Va bene, d’accordo» dice. «Però mettiti a cercare qualcosa anche tu. Mi sembra tu abbia la testa da un’altra parte, sbaglio?»

La guardo per un po’, senza rispondere. Sa di avere ragione, sono palesemente sovrappensiero. Questa settimana è iniziata in un modo totalmente differente da quello che per me si può considerare abituale. Lunedì sera c’è stata la telefonata di Matt, che per quanto sia stata bella da ricevere ha certamente contribuito ad accrescere la mia tensione per la cena del terzo tempo. Martedì mattina ho finalmente dato il mio esame – che, grazie al cielo, è andato più che bene – e oggi questo, lo shopping, ovvero una delle cose che mi riesce peggio. È ovvio che sia da un’altra parte con la testa; la settimana è iniziata da tre giorni e ognuno mi ha messo addosso più ansia del precedente.

Sospiro:

«Scusami. È che sono terrorizzata» ammetto.

«Da cosa?» mi chiede Jenna.

«Dalla cena»

«Oh, ma non devi preoccuparti. Andrà benone, vedrai. Dopotutto sei con Matt»

«Ah, questo sì. Peccato però che sia con lui ma in mezzo ai giocatori di Galles e Nuova Zelanda»

«Su, rilassati. Secondo me ti stai facendo solo un sacco di problemi in più. Sei sempre stata brava a socializzare con le persone. Anche se sarai in mezzo a giocatori professionisti non devi dimenticare che sono dei comuni esseri umani»

Annuisco leggermente con la testa.

«Rimettiamoci a cercare il tuo vestito, ora» conclude.

Mi metto anche io a dare un’occhiata in giro, decidendo di dare retta al consiglio della mia amica. In fin dei conti è vero: farmi prendere dall’ansia non mi aiuterà di certo.

Continuo a cercare fra gli abiti esposti ma non trovo niente di mio gradimento; alcuni mi sembrano troppo ricercati, altri invece pare siano usciti da serie tv di dubbio gusto. Rimetto al suo posto l’ennesimo capo scartato senza neanche provarlo, dopodiché, voltandomi, i miei occhi si fermano su un abito davvero bello, per quanto semplice. Il fatto che sia appeso lo lascia vedere completamente: è un vestito a collo alto, sbracciato, il busto pare essere piuttosto aderente, la vita è poco sotto al seno e la gonna, che probabilmente si ferma appena sopra le ginocchia, è visibilmente morbida.

«Jenna, vieni a vedere» chiamo.

Lei arriva subito e prima che possa dire qualcosa le indico il vestito. Lo analizza attentamente un paio di volte, da cima a fondo.

«Niente affatto male» sentenzia. «Perché non lo provi?»

Mi dico d’accordo. Non impiego neanche molto tempo a trovare la mia taglia, dopodiché mi infilo in una cabina di prova e indosso l’abito. Come chiudo la lampo sul collo rimango a osservare la mia immagine riflessa allo specchio. Il vestito è veramente bellissimo. Il collo alto lo rende elegante, la vita è comoda e la gonna è morbida proprio come appariva da appesa. Ma ora che l’ho indosso e tutto sembra più concreto di prima, come mio solito vengo assalita dai dubbi. Scosto la tenda della cabina di prova, come Jenna mi vede si illumina.

«Che ne pensi?» chiedo.

«È stupendo, ti sta davvero bene»

Mi do un’altra occhiata, visibilmente perplessa, e la cosa a Jenna non sfugge:

«Che c’è che non va?» domanda.

«Non saprei. Forse dovrei provare qualche altro modello»

«Perché? Non ti piace quello?»

«No, no, non è che non mi piaccia. Anzi, è proprio bello. È solo che… è rosso» spiego.

Aggrotta le sopracciglia:

«E quindi?»

«Non posso andare alla cena del terzo tempo con il capitano del Galles indossando un vestito rosso. È come se entrando dicessi: Ehi, guardatemi, sono con Matthew Evans»

La mia amica continua a guardarmi, dubbiosa. Fa schioccare la lingua:

«Innanzitutto, questo è un problema stupido che ti sei fatta tu ora. Ragionando così allora le compagne degli All Blacks non dovrebbero vestirsi di nero, che è il colore più elegante che esista ed è perfetto per cene importanti. Uno dei pochi lussi che possiamo permetterci noi donne in serate formali è proprio quello di indossare un po’ di colore, dovresti approfittarne. Quel vestito ti sta benissimo, sembra cucito apposta per te, fidati»

Tono a guardarmi allo specchio, osservando Jenna attraverso di esso quando ricomincia a parlare:

«E poi quello non è rosso, è corallo. Non è lo stesso colore»

«Forse per te è corallo. Ma gli uomini non guardano a queste sfumature, per loro sarà sicuramente rosso»

«Magari hai ragione. Ma, personalmente, dubito che al terzo tempo, davanti a tavole imbandite di cibo e belle donne, dopo aver giocato una partita intera, i giocatori perderanno tempo a vedere di che colore hai il vestito. Per le donne, invece, indossi un abito corallo»

Sorrido e lei riprende a parlare:

«Se proprio vuoi possiamo sentire se lo hanno di un altro colore, ma non mi pare»

Ferma una delle addette che lavora al negozio e lei conferma: è rimasto solo il colore che ho indosso.

Jenna mi guarda:

«Che vuoi fare?»

Mi prendo tempo necessario per pensare e, probabilmente, me ne prendo parecchio. Continuo a osservare la me stessa che ho di fronte, sempre più convinta che Jenna abbia ragione. Non credo di essermi mai sentita così a mio agio con indosso un vestito. Guardo la mia amica:

«Prendo questo» dico.

«Anche se è rosso?» chiede, solo per prendermi in giro.

«Va al diavolo» rispondo e tiro la tenda del camerino per togliermi Jenna da davanti agli occhi.

La sento scoppiare a ridere e, inevitabilmente, finisco con l’essere contagiata dal suo gesto. Prima di sfilarmi l’abito mi do un’ultimissima occhiata. Devo ammettere di essere soddisfatta della mia scelta, molto soddisfatta. Ma non riesco assolutamente a ignorare la sensazione opprimente che si è annidata al centro del mio petto, proprio sotto lo sterno. Ogni volta che penso a sabato sera questa morsa ricompare, facendosi sempre più intensa. Spero che Matt non si senta così ogni volta che deve affrontare una partita importante, perché non so davvero come possa resistere a tutta quest’ansia. Perché è ansia quella che provo e, giuro, non ho ancora trovato un modo efficace per farla passare.

 

*

 

Venerdì è arrivato. Come abbia fatto una settimana a passare tanto in fretta non riesco a capirlo. Mi sembra ieri che Matt mi ha invitata alla cena del terzo tempo del dopo partita con gli All Blacks, invece sono già passati sette giorni. È da stamattina che continuo a pensarci, a tal punto da non riuscire nemmeno a concentrarmi, prima a lezione e ora a casa. Ho la testa appoggiata sul libro da tanto di quel tempo che sospetto fortemente mi siano rimaste impresse in fronte le parole e delle poche righe che ho letto non ricordo assolutamente nulla. Dentro di me c’è un conflitto che ha del ridicolo. Da una parte sono eccitata all’idea di tornare al Millennium Stadium dopo mesi per vedere scontrarsi due delle squadre che più ammiro; dall’altra, invece, il pensiero che dopo quella partita mi aspetti la cena del terzo tempo come partner di Matt mi agita e non poco. Il problema è che, fra le due fazioni, è proprio l’agitazione che sta avendo la meglio da diverse ore. Spero che mi passi tutto, alla fine è solo una cena.

Sospiro, decidendo di provare a rimettermi a studiare. Torno a legarmi i capelli, mi do un paio di colpi in fronte, afferro la penna e ricomincio a leggere, decidendo di concentrarmi seriamente, questa volta.

Meno di un minuto dopo, però, il citofono suona e mi fa sussultare. Guardo l’orario per cercare di capire chi possa essere, ma sono quasi le quindici e non mi viene in mente nessuno che conosco. Sbuffo, alzandomi dalla sedia. Raggiungo il citofono:

«Chi è?» domando, il tono piatto e vagamente infastidito.

Sento l’apparecchio frizzare – probabilmente è passata un’auto in strada – e poi una voce risponde:

«Sono Matt»

Il mio cuore salta un colpo. Puk balza sulla ringhiera delle scale e mi guarda, mentre io rispondo sentendo la bocca farsi asciutta:

«Ciao. Ti apro»

Apro l’ingresso di casa e rimango ad aspettare il ragazzo in cime alle scale, proprio accanto al gatto. Mi sistemo meglio che posso in quei brevissimi secondi di tempo che mi rimangono, giusto per non apparire la classica studentessa single a casa il venerdì pomeriggio. Appena la porta si apre mi ricordo dell’imbarazzante t-shirt che ho indosso, macchiata di sugo, e tiro su la lampo della felpa per evitare che Matt la veda.

Come entra solleva lo sguardo verso di me, sorridendo.

«Ciao. Ho portato del caffè» dice, alzando i due contenitori da caffè d’asporto che tiene in mano.

Si incammina su per le scale e quando arriva in cima si volta verso il gatto:

«Ehilà Puk»

Il felino lo guarda solo un momento, con aria di superiorità, dopodiché salta giù dalla ringhiera e va a sistemarsi sul divano. Matt lo segue con lo sguardo, poi torna a rivolgersi a me tendendomi uno dei due bicchieri che tiene in mano:

«Spero di non disturbare»

Afferro il bicchiere, il calore del caffè che si propaga attraverso di esso fino alle mie mani:

«No, nessun disturbo»

Indico il tavolo alle mie spalle, che non è altro che un ammasso di dispense evidenziate e libri; da qualche parte temo ci sia anche una brioche smangiucchiata:

«Stavo tentando di studiare»

Matt guarda il tavolo da sopra le mie spalle:

«Oh. Se vuoi passo in un altro momento»

Lo interrompo praticamente subito:

«No, no. Anzi, mi serviva giusto un caffè»

Sorride e io faccio lo stesso. Alla fine cerco di riordinare il tavolo, invitando Matt a sedersi.

Mi sistemo nella sedia accanto a lui:

«Grazie per il caffè» dico, dopo averne bevuto un sorso.

«Figurati. Non è carino presentarsi a casa di qualcuno a mani vuote se si è senza invito» risponde.

«Eri di passaggio?»

Annuisce:

«Già. Stavo andando al Millennium Stadium. Fra un’ora abbiamo la conferenza stampa per la partita di domani»

«Sei nervoso?» gli chiedo.

Mi sono appena resa conto che, ora che l’ho davanti e che mi sono ripresa dalla sorpresa della sua improvvisata, mi sento più rilassata. Matt è riuscito a mettermi a mio agio. Anche se ha parlato della partita di domani, anche se dopo la partita c’è la cena e quindi il nostro appuntamento, mi sento improvvisamente tranquilla, come se tutto quanto fosse normale.

Lui alza le spalle, abbozzando un sorriso:

«Un po’, devo essere sincero. È vero che un test match non è fondamentale ai fini di qualcosa. È semplicemente un’amichevole, l’esito non ci aiuta a vincere alcunché. Ma è comunque una partita e non si può prendere sottogamba una partita» ammette.

«Mi trovi d’accordo»

Lui ricomincia subito a parlare e questa volta il suo sorriso non è soltanto un abbozzo:

«E poi sono gli All Blacks, i campioni del mondo in carica. Scontrarci con loro ci metterà davanti ai nostri limiti. Potremo scoprire se siamo o meno in grado di giocare alla pari con la prima al mondo, se possiamo ambire o meno alla Rugby World Cup1 il prossimo anno»

Mi strappa un sorriso vederlo così. Le sue parole hanno appena smascherato il fatto che, anche se è preoccupato, al contempo è emozionato all’idea del prossimo match – e probabilmente anche a quello dopo – che attende la sua squadra. Sono certa che domani Matt saprà guidare al meglio i Dragoni, diffondendo loro la stessa voglia di dimostrare il proprio valore che ora lui sta mostrando a me. Matt sta davvero facendo vedere che la scelta di farlo capitano, da parte di Jones, è proprio azzeccata.

Bevo un altro sorso di caffè mentre lui si ricompone, si muove appena sulla sedia, come pentendosi della sua improvvisa esuberanza. Ci guardiamo un momento, dopodiché dico:

«Beh, hai ragione. Dev’essere una bella emozione per te»

«Lo è, in effetti. Te l’ho detto, da un lato sono preoccupatissimo, non posso negarlo. Sono consapevole del fatto che si tratta di un match tutt’altro che semplice. Dall’altro lato, invece, devo ammettere di essere davvero eccitato all’idea»

Lo capisco perfettamente, che ci creda o meno. È la stessa situazione in cui mi trovo io, a metà fra il panico e la felicità, ma preferisco non dirglielo: la sua motivazione è decisamente più comprensibile della mia.

Mi accorgo che Matt mi sta guardando:

«Spero non ti dispiaccia che io sia piombato qui e abbia cominciato a parlare di domani»

«No, figurati. Sai che mi piace parlare di rugby» lo rassicuro.

Lui sorride, dolcemente:

«Avevo bisogno di parlarne con qualcuno anche per tentare di vedere la partita sotto un’ottica differente»

«Per me possiamo discuterne finché vuoi»

Il suo viso si illumina, gli occhi celesti sembrano quasi risplendere:

«Tu cosa ne pensi?» domanda, bevendo dal suo bicchiere e senza perdere il sorriso né prima, né dopo.

Alzo le spalle:

«Non credo serva a qualcosa farti un’analisi completa del loro modo di giocare, vero?»

Acconsente, sembra quasi stia cominciando a esaltarsi:

«Jones ci ha detto quello che dovevamo sapere. Ma poi parecchie cose si sapevano già»

«Quindi sei perfettamente a conoscenza della loro pressione difensiva, l’attacco organizzato e le loro capacità in fase statica2, immagino» dico, sollevando un dito per ciascuna delle tre cose appena pronunciate.

Lui fa lo stesso, rispondendo:

«Sì, sì e sì»

Sorrido, cominciando seriamente a divertirmi. È stupendo poter intavolare una simile conversazione con lui:

«Beh, allora c’è poco altro che posso dirti» ammetto. «Lascia solo che ti dia un consiglio, anche se forse non ne hai bisogno perché già sai»

«Dimmi tutto»

«Hanno una mediana3 ben rodata, domani. Ho visto la formazione. Sono capaci di adattare perfettamente il gioco agli avversari che hanno di fronte e a muovere i trequarti a loro favore. Non dovete mostrare loro il fianco, altrimenti…» concludo simulando una decapitazione con la mano.

Matt fa sì con la testa:

«Hai ragione» dice. «Sean Darren è quello più pericoloso, no?»

Una risatina sprezzante mi esce spontanea di bocca e noto il ragazzo sorridere:

«Sono tutti pericolosi» dico. «Sean lo è in modo particolare, certo. È il capitano e sa come trascinare i suoi uomini per renderli pericolosi per tutti gli ottanta minuti di gioco. È un gran placcatore e per fermarlo ci vuole un po’, ma queste cose già le sai, immagino»

Annuisce nuovamente e io riprendo parola: il mio fiume è appena straripato.

«Prestate particolare attenzione a quando gioca in coppia con Noomu»

«Il numero otto?»

«Sì. Giocano insieme da parecchio, anche nel Super Rugby4. Per capirsi basta loro un’occhiata, un respiro. Avere il tetto del Millennium Stadium chiuso domani non impedirà comunque loro di fare alcune delle giocate migliori che conoscono»

Lui rimane a guardarmi, parendo davvero interessato a ciò che posso raccontargli. Inizio ad esporre alcuni esempi delle giocate Darren-Noomu a cui mi riferisco e lui mi ascolta, ricordandosene alcune.

Continuiamo a parlare per non so quanto, in un botta e risposta che a quanto pare si dimostra stimolante per entrambi, mentre terminiamo di bere i nostri caffè un sorso alla volta.

A un certo punto Matt controlla rapidamente l’orologio, dopodiché sospira e io già intuisco cosa sta per dirmi:

«Devo andare, non posso far tardi alla conferenza» inizia. «Però mi spiace dover interrompere così la nostra conversazione, mi piace parlare con te di queste cose»

Sorrido, sperando che il ragazzo non si sia accorto della leggera scossa che mi ha attraversata alle sue parole.

«Il lavoro chiama» dico.

«Già, hai ragione»

Si alza in piedi sistemandosi i vestiti, faccio lo stesso anche io.

«Grazie ancora per avermi accolto prima» riprende lui, avviandosi verso le scale.

«Oh, nessun problema. Avevi portato il caffè» scherzo.

Si mette a ridere e prima che possa scendere le scale mi ricordo di una cosa:

«Aspetta un momento» lo fermo.

Si volta a guardarmi, sorpreso. Io raggiungo lo stereo, per poi tornare da Matt con il suo cd dei Mumford & Sons stretto in mano:

«È davvero bello» gli dico, restituendogli l’album.

Lui lo afferra:

«Mi fa piacere saperlo»

Rimane a guardarmi un momento, tamburellando appena con le dita sulla custodia in plastica.

«Per domani è tutto a posto, vero?» chiede alla fine.

«Parli della cena?»

«Sì, esatto. Non so, c’è qualcosa che non ti è chiara, domande che vorresti pormi?»

Ci penso un momento, ma non molto. Non ho domande, anzi è tutto perfettamente chiaro. È proprio perché tutto è così chiaro che questa cena mi mette addosso tanta ansia.

«No, direi di aver capito tutto perfettamente» confermo.

«D’accordo. In ogni caso, non esitare a chiamarmi»

Mi fa un cenno di saluto e si avvia lungo le scale. Quando raggiunge la porta d’ingresso solleva lo sguardo verso di me:

«Ci vediamo, allora»

Annuisco con la testa:

«In bocca al lupo per domani»

Sorride:

«Crepi»

Mi saluta un’ultima volta e si avvia fuori di casa. Come la porta si chiude rimango immobile un momento, nello stesso posto in cui mi sono fermata per salutare Matt. Respiro a fondo un paio di volte, poi ancora, nel vano tentativo di reprimere quell’impellente bisogno di sorridere che mi sta assalendo anche ora. Alla fine non ci riesco, perché è più forte di me. Come potrei rimanere indifferente all’improvvisata che Matt ha fatto e alla conversazione che ne è seguita?

Mi volto verso il tavolo, dove i bicchieri del caffè sono rimasti, vuoti entrambi. Dovrei rimettermi a studiare, anche se manca più di un mese al mio prossimo esame portarmi avanti con lo studio non può che farmi bene. Ma so già che non riuscirei mai a concentrarmi, sia per quello che è successo in quest’ultima ora, sia per quello che accadrà domani.

 

 

 

 

 

Note:

1 Rugby World Cup (RWC): i campionati mondiali di rugby a XV. La competizione vede la partecipazione di venti squadre, dodici delle quali già qualificate e otto decise tramite le qualificazioni continentali e intercontinentali. L’edizione del 2015 viene disputata in Inghilterra.

2 Fase statica: nel rugby vengono definite fasi statiche le azioni come mischia e touche.

3 Mediana: la mediana di una squadra di rugby a XV è costituita dai numeri 9 e 10, rispettivamente mediano di mischia e mediano di apertura. Loro compito è “unire” avanti e trequarti e impostare il gioco tattico.

4 Super Rugby: il Super Rugby è la competizione professionistica di rugby a XV che si svolge su base annuale tra quindici squadre di Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica.

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Capitolo 23
*** Matt ***


– Ventitré –

 

Matt

 

 

Sapevo sarebbe andata a finire così. Sapevo che prima di scendere in campo sarei stato assalito dall'ansia. Ho come un vuoto dentro di me, tremendo e fastidioso. I muscoli sono tesi tanto quanto lo sono io e la mente tenta invano di ricordare musica e parole di Not With Haste, nonostante l'abbia appena ascoltata. Sollevo lo sguardo sui miei compagni di squadra, sparpagliati nello spogliatoio. Ognuno sta cercando di trovare calma e concentrazione con il proprio metodo: c'è chi ascolta musica, chi è in raccoglimento con se stesso, chi parla con qualcun'altro.

Manca poco alla partita contro gli All Blacks, il fischio d'inizio è alle porte. Jones ci ha già detto quanto dobbiamo sapere prima di iniziare a giocare e ha già lasciato lo spogliatoio per raggiungere le tribune, cedendomi il compito di dire le ultime parole alla squadra prima dell'effettivo inizio del match.

La porta si apre ed è il chiaro messaggio che dobbiamo andare. Mi alzo in piedi, respiro a fondo e chiamo a me i giocatori:

«Ragazzi»

Tutti e ventidue mi raggiungono formando al centro dello spogliatoio, uno stretto all'altro, un cerchio. Il silenzio è totale e io li guardo uno a uno:

«Il coach ha detto tutto quello che c'è da sapere sulla partita che stiamo per affrontare» inizio, alcuni annuiscono. «Non voglio ripetervi le stesse cose. Perciò vi dirò solo questo: ci siamo allenati duramente in vista di questa partita e se ognuno di noi darà il massimo potremo giocarcela fino alla fine»

Allungo una mano al centro del cerchio, i miei compagni fanno lo stesso:

«Ho fiducia in voi» concludo.

Il grido di "Wales" si solleva nella stanza, dopodiché mi avvio fuori dagli spogliatoi, i giocatori mi seguono ordinatamente in fila. Davanti al corridoio per l'ingresso in campo, ancora chiuso, i quindici titolari della Nuova Zelanda sono già pronti a iniziare la partita. Di fronte a me Sean Darren guarda fisso un punto imprecisato, immobile. La divisa nera fascia il suo corpo, mettendone in mostra il fisico possente. Anche se il numero che portiamo stampato sulla schiena è lo stesso, Darren è più massiccio di me; ha polsi e ginocchia fasciati, la barba folta, ben tenuta, nasconde quasi completamente la bocca e gli occhi, che ora appaiono scuri quasi quanto i capelli, non lasciano minimamente trapelare quello che l'uomo prova. Sembra un'altra persona rispetto al giocatore che ho incontrato ore fa. In quell'occasione ci siamo stretti la mano e scambiati un sorriso, abbiamo conversato un po' e, alla fine, lui ha augurato buona fortuna per il match. Ma l'uomo che ho di fronte ora sembra davvero essere qualcun'altro; è serio e risoluto, certamente determinato a portare la sua squadra alla vittoria. Il suo carisma si può quasi toccare.

Uno dello staff gli dà il via, il momento di scendere in campo è arrivato. Darren si incammina, i compagni di squadra lo seguono, alcuni lanciandoci una sporadica occhiata. Si sentono gli applausi del pubblico, il Millennium Stadium è pieno questa sera.

Poco dopo fanno segno anche a me di andare e io mi avvio, pallone alla mano, seguito dal resto dei Dragoni. Il boato dei tifosi ci accoglie, è così che loro ci dimostrano fin da subito di essere pronti a sostenerci per i prossimi ottanta minuti, in vista di una delle partite più dure dell’anno. Il tetto dello stadio è chiuso anche questo pomeriggio e tutto rimbomba attraverso la struttura in acciaio, dando vita a quell’atmosfera magica, unica, che si respira solo fra le mura del Millennium, la nostra tana gallese.

Eppure anche se sono sul prato che più amo, che più mi mette a mio agio facendomi sentire sicuro di me, questa sera non riesco a trovare tranquillità. Mi sento ancora teso, i miei muscoli sono ancora tesi. Quella che sta per avere inizio è una partita troppo importante per la squadra e il confronto che sto per avere con Darren è importante per me.

Continuo a osservare il capitano neozelandese, che pare talmente a suo agio da non sembrare neanche vicino a iniziare una partita contro la nostra squadra. Ma so perfettamente che non è così; anche lui si sta concentrando, preparandosi a guidare i titolari che sono al suo fianco. Rimango a guardarli mentre si riuniscono, sistemandosi uno accanto all’altro, preparandosi a cantare il loro inno. Infine lancio una rapida occhiata al tetto dello stadio, buttando fuori tutta l’aria che ho in corpo, consapevole che manca sempre meno.

Raggiungo i miei compagni di squadra, anche loro disposti in fila, gli sguardi alti come a fissare negli occhi i tifosi seduti in tribuna. Per un momento mi domando dove possa essere Danielle, anche lei è qui oggi, ma sono talmente nervoso che neanche pensare alla ragazza riesce a distrarmi. Andare a trovarla ieri è stata una scelta improvvisata che rifarei ancora. Avevo voglia di vederla, di parlare con lei di questo pomeriggio, di questo match che sta per avere inizio. E come sospettavo la cosa mi è stata d’aiuto. Parlare con Danni mi ha dato conferma che so chi sono i miei avversari e che, io e i Dragoni, possiamo affrontarli alla pari. Il fatto che loro siano primi nel ranking mondiale non significa niente, ogni partita di rugby è una battaglia a sé stante.

Paul mi cinge le spalle quando mi sistemo accanto a lui e io faccio lo stesso, afferrando la stoffa della sua felpa che ancora nasconde la parte superiore della divisa da gioco rossa. Con la coda dell’occhio noto che mi sta osservando; probabilmente sta pensando che se riesco a mantenere il sangue freddo e a trasmetterlo alla squadra la partita potrà essere equilibrata. Al contempo, però, sono certo che sta percependo perfettamente la tensione che ho addosso. Anche per qualcuno che non mi conosce bene quanto lui il mio stato d’animo è comprensibile.

Lo speaker annuncia che è giunto il momento degli inni nazionali e il silenzio cala fra ognuna delle anime presenti nello stadio. Si parte con quello degli ospiti, come sempre, e mentre le note risuonano i neozelandesi iniziano a cantare. Io e i miei compagni di squadra rispettiamo l’inno in silenzio, attendendo che finisca. E quando termina è il momento del nostro inno alla nazione. La musica inizia e fra il pubblico Land of My Fathers si leva tutt’intorno a noi. Chiudo gli occhi, per poter venire interamente assorbito da questo momento. Canto appena, le parole mi escono come un sussurro fra le labbra, venendo immediatamente inglobate dalla magia del momento. Non saprei neanche descrivere cosa provo, ogni volta che il nostro inno viene cantato qui, dai nostri tifosi fra le mura del Millennium Stadium, l’emozione che sento è paragonabile a quella che ho provato la prima volta che ho indossato la maglia rossa della nazionale.

Quando il canto termina e gli applausi coronano il tutto mi sento rinato. Il nostro pubblico è con noi, prontissimo a sostenerci. I vincitori di questa partita non sono ancora stati decretati e farò del mio meglio perché i Dragoni possano trionfare.

Pochi minuti dopo io e i miei compagni di squadra siamo nuovamente uno al fianco dell’altro, ma questa volta ci fermiamo al centro del campo, rivolgendo gli sguardi verso i tutti neri.

È di nuovo il loro momento, è il momento della Haka1. L’antica danza maori da anni viene eseguita dai ventitré giocatori prima dell’inizio della partita in segno di sfida e contemporaneamente viene accolta e rispettata silenziosamente dalla formazione avversaria.

È una tradizione e, nel rugby, le tradizioni sono sacre.

I neozelandesi si dispongono nel loro schieramento, i tifosi già iniziano a incitare consapevoli di quanto sta per accadere. Fra le maglie nere solo il numero venti cammina avanti e indietro, guardandoci negli occhi, nello stesso modo in cui fanno i suoi compagni di squadra. Inizia a urlare i comandi, gli ordini, come un vero condottiero e in coro i restanti giocatori cominciano a eseguire la Kapa o Pango2, considerata la versione della Haka più minacciosa da rivolgere agli avversari.

In pochi fiatano nello stadio, anche i tifosi hanno sempre rispettato questo rituale. Noi Dragoni siamo immobili, osserviamo i nostri avversari senza abbassare lo sguardo, seri.

Quando i neozelandesi terminano la loro danza un boato esplode sugli spalti. I giocatori degli All Blacks ci guardano un’ultima volta con occhi determinati e severi, per poi darci le spalle e disporsi nella propria metà campo. Solo uno di loro rimane fermo davanti a noi: il mediano d’apertura, ovvero colui che darà inizio ai giochi.

Come per rispondere agli All Blacks, come per sottolineare che questo è lo stadio del Galles, i nostri tifosi cominciano a cantare Delilah, che con la sua sonorità ci accompagna mentre prendiamo il giusto posto nel campo da gioco.

Il mediano neozelandese è sempre nello stesso punto, quando mi volto lo vedo chinarsi per afferrare il pallone, le dita che scorrono sulla sua superficie, sotto lo sguardo vigile dell’arbitro di giornata. Il giocatore scambia appena un’occhiata con Darren, annuisce impercettibilmente con il capo, dopodiché, gli occhi fissi sui pali, calcia il primo pallone.

 

*

 

Mi tremano le mani. Se provassi a sollevare qualcosa ora so per certo che non ce la farei. In campo ho speso tutto quello che potevo, ho fatto il massimo per lottare fino alla fine, per tutti gli ottanta minuti di gioco, ma invano.

Gli All Blacks non a caso sono i primi al mondo, non a caso sono temuti, rispettati e ammirati da chiunque si interessi di rugby.

Prima abbiamo giocato alla pari con loro per sessantacinque minuti. Ma come la nostra stanchezza si è fatta vedere, anche solo da piccoli segni – passaggi sbagliati, accelerazioni non più brucianti, difesa meno d’impatto – i neozelandesi hanno alzato il gioco, dandoci tre mete in poco più di dieci minuti.

A niente è servito il sostegno del pubblico o l’ultimo colpo di reni che abbiamo tentato sul finale e io, giuro, non riesco a capire dove gli All Blacks abbiano trovato tutte quelle forze per concludere così il match. Non sembravano nemmeno stanchi, era come se avessero in corpo energia a sufficienza per continuare ancora.

Io e la mia squadra abbiamo lottato al massimo delle nostre capacità, spendendo tutte le nostre energie; abbiamo sbagliato in più occasioni, certo, ma abbiamo davvero fatto il possibile per non essere sovrastati da quella marea nera.

Quel trentaquattro a sedici in favore degli All Blacks, però, fa davvero male.

Anche se ci abbiamo messo tutto il nostro impegno, consapevoli che abbiamo perso contro una squadra più forte di noi, una sconfitta è sempre una sconfitta e come tale brucia.

Sto ancora pensando alla partita, sto cercando di trovare il momento, il frangente di rottura, l’attimo in cui abbiamo mostrato il fianco.

Indubbiamente è stata la stanchezza ad abbatterci. I neozelandesi sono abituati a giocare un rugby di alto livello per ottanta minuti, hanno semplicemente saputo mantenere quel ritmo fino a schiacciarci. Tutto ciò è la dimostrazione che dobbiamo ancora crescere, che se vogliamo ambire a vincere la coppa del mondo il prossimo anno dobbiamo darci ancora da fare.

Discorso analogo vale anche per me, sia come terza linea che come capitano. Darren, il mio alter ego neozelandese, durante il match è stato impeccabile. Ha giocato al pieno delle sue capacità, ha aggredito la nostra difesa e contribuito magistralmente a proteggere la propria linea di meta e il suo carisma in tutto ciò era più che evidente. Mi sembra ancora di vedere il momento esatto in cui ha interrotto la lite scoppiata nel secondo tempo fra alcuni dei suoi giocatori e i miei. Si è semplicemente avvicinato loro, dicendo ai suoi compagni coinvolti di smetterla, cosa che hanno fatto immediatamente senza proferire parola.

Questo è solo uno degli esempi che dimostrano quanto la mia leadership sia lontana dalla sua. Per tutto il match Darren è stato in grado di mantenere i suoi giocatori psicologicamente determinati e in grado di fare male agli avversari. Al contrario, quando la nostra squadra ha iniziato a essere schiacciata dagli All Blacks, io non sono stato in grado di aiutare i miei compagni a rialzarsi.

Sulla panca dello spogliatoio accanto a me si siede qualcuno. Tengo ancora gli occhi bassi sulle mie mani, i gomiti appoggiati alle ginocchia. Praticamente sotto al mio naso viene allungata una bottiglia di birra, la persona che mi sta accanto apre bocca:

«Può interessarti?» chiede, chiaramente riferendosi alla birra.

È Mark. Lo guardo e sorrido, afferrando la bottiglia; le mie mani non tremano molto ora, ma i muscoli fanno già male. Battiamo fra loro i colli delle bottiglie, la mia e quella tenuta da Mark, bevendone un sorso entrambi.

Anche il mio amico non sembra essere particolarmente soddisfatto dell’esito del match. In due occasioni è stato sul punto di andare in meta, ma la difesa avversaria è riuscita a bloccarlo entrambe le volte. Vorrei dirgli qualcosa, ma non so cosa.

Al termine della partita tutti noi ci siamo riuniti al centro del campo da gioco; ho fatto loro un discorso, quello che sul momento mi è uscito spontaneo ripensando al match appena concluso. Ma ora proprio non saprei cosa dire. La partita è finita da troppo poco tempo perché io abbia già ritrovato la mia consueta voglia di darmi da fare. Non ho bisogno di essere consolato, ho solo bisogno di distrarmi.

Dopo essere rientrato qui al termine della partita, dopo essere stato accanto a Jones mentre lui ci diceva com’era apparsa la nostra squadra ai suoi occhi, ho semplicemente preso posto su questa panca senza più spostarmi. Seduto in raccoglimento con me stesso ho aspettato che il respiro si regolarizzasse, che la gola smettesse di bruciare, che il cuore tornasse a battere a ritmi normali e che la mente accettasse l’esito del match. L’ultima di queste cose deve ancora realizzarsi, ma vedere i miei compagni di squadra che parlano fra loro, che mi lanciano sguardi e si sorridono, mi sta aiutando, così come il gesto appena compiuto da Mark. Mi volto verso quest’ultimo, sorridendogli:

«Grazie» dico, alludendo alla birra.

Lui solleva la sua bottiglia e fa un cenno:

«È andata» risponde, riferendosi certamente alla partita.

Annuisco appena con la testa e lui riprende a parlare:

«Non pensare troppo all’esito finale, Matt. Tu stesso ci hai sempre detto che quello non è tutto e io ti ho sempre creduto. Abbiamo fatto del nostro meglio, su questo non ci piove, che non sia stato sufficiente è un altro discorso»

«Sono d’accordo. Ma devo ammettere che al termine del primo tempo ho davvero creduto che potessimo farcela»

Mark si alza, bevendo un lungo sorso di birra.

«Quello anche io, non posso negarlo. Ma ora non ti crucciare per il risultato, ci penseremo lunedì. Adesso abbiamo il terzo tempo ed è sempre stato utile a lasciarsi le cose alle spalle per un paio di ore»

Si allontana, raggiungendo altri nostri compagni di squadra. Abbasso un momento lo sguardo sulla mia birra, pensando. Mark ha ragione e io sono davvero d’accordo con lui. Oltretutto passare il dopo partita a rimuginare su come è andata non è nemmeno da me e non devo certo iniziare a fare una cosa del genere proprio questa sera. Alla cena del terzo tempo mi aspetta Danielle e so per certo che anche solo vederla mi sarà d’aiuto.

 

 

 

 

Note:

1 Haka: la danza tipica del popolo Maori, l’etnia originaria della Nuova Zelanda. Spesso considerata semplicemente – ma erroneamente – una danza di guerra. È stata resa celebre, nello stile della Ka Mate dagli All Blacks.

2 Kapa o Pango: lo stile più recente della Haka neozelandese, ideata dagli All Blacks per le occasioni speciali. È stata creata insieme a un gruppo di esperti delle tradizioni maori e ci è voluto quasi un anno per completarla. Più che sostituire la Ka Mate, questa Haka la completa. Le parole della Kapa o Pango fanno più esplicitamente riferimento al team di rugby perché parlano di “guerrieri in nero con la felce argentata”. È considerata molto più aggressiva della Ka Mate e con un più spiccato senso di sfida agli avversari.

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Capitolo 24
*** Danni ***


– Ventiquattro –

 

Danni

 

 

Sospetto di essere sul punto di svenire. Come sia possibile che non sia ancora in iperventilazione onestamente non lo so, ma se continuo così potrei finirci a breve. L’ansia mi ha assalita di nuovo e ho come il sospetto che questa volta non se ne andrà molto presto.

La partita fra Galles e Nuova Zelanda è terminata e ora tutto ciò che mi rimane da fare è partecipare alla cena del terzo tempo, a cui manca davvero poco. Fino a dieci minuti fa ero tranquilla, ho parlato con Jenna della partita, salutato Jamie, Rachel e Norman, ripensato più e più volte al fatto che avevo appena visto gli All Blacks giocare nella stupenda cornice del Millennium Stadium. Poi io e Jenna siamo arrivate a casa mia, dove ho dovuto iniziare a preparami affinché fossi presentabile alla cena. E come mi sono infilata l’abito per stasera e mi sono guardata allo specchio mi sono innervosita tutto d’un tratto.

Jenna ricompare nella mia camera, un bicchiere d’acqua stretto in mano.

«Lo hai preso per me?» le chiedo, distogliendo lo sguardo dallo specchio da cui l’avevo vista entrare e voltandomi verso di lei.

«No. Ma se vuoi vado a prenderne un altro»

«No, lascia stare. Non ho sete»

Torno a rivolgermi alla me stessa riflessa, raccogliendo i capelli per poterli acconciare, nel vano tentativo di pensare ad altro.

«Danni, respira. Finirai con lo svenire da qualche parte se continui così» riprende parola dopo un po’ la mia amica.

«Si vede molto che sono nervosa?» chiedo.

«No, macché. Ho tirato a indovinare e ci ho preso» risponde Jenna, il tono sarcastico.

Appoggia il bicchiere sul mobile, avvicinandosi poi a me. Come mi raggiunge posa entrambe le mani sulle mie spalle, guardandomi negli occhi attraverso il riflesso dello specchio:

«Rilassati, andrà tutto bene. È solo una cena»

«Lo so. Ma sono preoccupatissima. Ho paura di fare una pessima figura. O, peggio, di farne più di una»

«Se ti agiti come stai facendo ne farai di certo» risponde lei, senza troppi peli sulla lingua, come suo solito. Ma Jenna sa perfettamente che per smuovermi ho bisogno di questo. Essere rassicurata e tranquillizzata va bene, ma essere smossa mi ha sempre aiutata molto di più.

«Dici che posso farcela?» domando dopo un po’.

«Certo che puoi. Non è la prima volta che esci con Matt»

«Sì ma non ci sarà solo lui stasera» le ricordo.

«D’accordo. Ma ho come il sospetto che ciò che ti preoccupa di più non sia la cena in sé, ma il fatto di andarci con Matt»

Tento di ribattere, ma non so cosa dire. Forse Jenna ha ragione – non sarebbe la prima volta – ma sono certa che il solo fatto di uscire con Matt non potrebbe mettermi addosso una tale agitazione; anche se devo ammettere che il suo invito e il modo in cui ha affrontato l’argomento ogni qualvolta ne abbiamo parlato, hanno mostrato un atteggiamento differente dal suo solito.

«Penso che andrò a truccarmi» dico infine, dirigendomi poi verso il bagno.

La voce di Jenna mi raggiunge come entro nella stanza:

«Brava ragazza» la sento pronunciare.

A truccarmi impiego davvero poco tempo; non ho mai messo nient’altro al di fuori di eyeliner e matita e a passarli entrambi impiego meno di cinque minuti. Rimango nuovamente immobile a osservarmi allo specchio, passando un momento le dita fra la frangia, così da pettinarla il più omogeneamente possibile.

«Pensavo di tagliarmi la frangia. Magari potrei farmi un bel ciuffo» dico, il tono sufficientemente alto così che possa sentirmi anche Jenna.

«Potresti, ma non stasera. Che se non viene come ti eri immaginata poi ti agiti ulteriormente» risponde.

Mi strappa un sorriso e alla fine lascio stare i capelli, rendendomi conto di aver terminato di prepararmi. Torno nel mio piccolo soggiorno, Jenna si volta a guardarmi, scansionandomi accuratamente dalla testa ai piedi:

«Sei pronta?»

Annuisco:

«Direi di sì»

Lei continua a osservarmi, seria, ma poi non riesce più a trattenersi e si esalta visibilmente:

«Sono così emozionata per te» esclama.

«Non hai idea di quanto lo sia io» mormoro.

«Oh no, lo so. Lo si vede perfettamente. Ma te l’ho detto, non ti preoccupare, andrà tutto bene. E poi, sei stupenda»

Le sorrido per ringraziarla di tutto e lei si avvia verso le scale:

«Andiamo, ti accompagno»

La seguo fino all’ingresso, afferro la borsa – una pochette da sera che Jenna mi ha prestato, dato che nel mio guardaroba mancano simili accessori – e mi infilo il cappotto, respirando a fondo una sola volta prima di uscire di casa in compagnia della mia amica.

La serata è piuttosto fresca, il cielo si è annuvolato nel primo pomeriggio ma non ha mai dato segno di voler piovere, mi auguro solo non inizi ora.

Io e Jenna procediamo una accanto all’altra, in silenzio. La cena si svolgerà in un hotel a cinque stelle proprio vicino ad Arms Park, per questo ci stiamo andando a piedi.

Anche solo la location mi mette ansia, non sono mai entrata in un albergo del genere.

Cerco di non pensare a niente, ma chiaramente il mio tentativo si dimostra vano. Neanche potendo riuscirei a non pensare a quello che sta per succedere. Anche la semplice idea di essere stata invitata mi agita, pensare che là incontrerò una moltitudine di giocatori che ammiro contribuisce ad agitarmi ulteriormente. Per non parlare del fatto che si tratta a tutti gli effetti di un appuntamento con Matt. Dopo più di due settimane torniamo a uscire insieme in mezzo ad altre persone. Jenna ha ragione a dire che io e Matt siamo già usciti in più occasioni e che so come comportarmi in sua presenza, ma questa volta è tutto differente. Ci sono i suoi amici, i suoi compagni di squadra. E più penso al suo invito, al modo in cui si è guardato intorno prima di formularlo – anche se solo per un momento – ho sempre più il sospetto che non si sia trattato del consueto invito a bere qualcosa ma di una proposta più seria. Tuttavia può benissimo essere che mi stia sbagliando; considerando la testa che gli ho fatto a furia di parlare degli All Blacks magari mi ha semplicemente invitata per farmi contenta.

Sospiro, il gesto non sfugge a Jenna:

«A che pensi?» mi chiede.

Scrollo le spalle:

«Lo sai a che penso»

Mi sorride:

«Andrà bene. Quante volte devo ripetertelo?»

«Sospetto un’infinità»

Ci fermiamo entrambe: siamo arrivate nella zona degli stadi. Qua e là ci sono ancora tifosi di entrambe le fazioni – gallese e neozelandese – che bevono e scherzano, probabilmente ricordando ancora la partita conclusasi. Ci dirigiamo subito verso l’albergo in cui avrà luogo la cena e, come lo raggiungiamo, mi volto verso Jenna. Lei mi sorride:

«È il tuo momento» prova a incitarmi.

Non voglio che mi ripeta per l’ennesima volta che andrà tutto bene, in fin dei conti so che una volta preso parte a questo evento, se riesco a rilassarmi, non potrò che essere felice di esserci stata.

«Grazie per avermi accompagnata fin qui. E per avermi sopportata. Soprattutto per avermi sopportata» le dico.

Lei mi fa l’occhiolino:

«Quando vuoi. Ora, però, vedi di entrare»

Annuisco:

«Vado»

Ci salutiamo e mi avvio dentro l’hotel. Come entro l’addetto alla reception mi dà il benvenuto, fermandosi a guardarmi:

«È qui per la cena?» chiede.

«Sì»

«Lei è?»

«Danielle Philips»

Controlla una lista, poi torna a rivolgersi a me:

«Molto bene, può andare. In fondo al corridoio e poi a destra, incontrerà un altro addetto»

Lo ringrazio e mi incammino lungo il corridoio in questione. La prima parte è andata come mi aveva detto Matt, ossia che avrei dovuto dare prima il nome alla reception e poi sarei potuta entrare. Direi che è andata bene. Incontro l’addetto di cui il receptionist mi aveva parlato, un giovane, ovviamente ben vestito, che mi accoglie con un sorriso. Anche lui chiede il mio nome, controlla, dopodiché prende il mio cappotto per portarlo nel guardaroba e mi lascia entrare, augurandomi una buona serata.

Il salone da ricevimento in cui entro è immenso, sembra essere sconfinato, ed è già parecchio popolato. Matt mi aveva detto anche questo, che qui, dove c’è anche il bar, si passa gran parte del tempo a parlare e bere, prima e dopo la cena, che si svolge nella sala da pranzo affianco.

Guardandomi intorno riconosco svariati giocatori, membri dello staff e altre persone ancora. Qualcuno di loro si volta a lanciarmi un’occhiata come mi vede entrare, ma il fatto che non sembrino sorpresi della mia presenza mi aiuta a tranquillizzarmi. Mi incammino verso il centro del salone, alla ricerca di Matt. Anche se è alto quasi un metro e novanta la cosa non aiuta molto ora: parecchi dei presenti sono alti quasi quanto lui. Finalmente trovo il ragazzo; sta conversando con due membri dello staff tecnico, poco più avanti di me. È vestito in maniera impeccabile, con giacca e cravatta, e i capelli, leggeri e luminosi, gli stanno meravigliosamente spettinati in testa. A vederlo trattengo un attimo il respiro, ma poi mi ricompongo, avvicinandomi a lui. Mi rendo conto che a ogni possa che compio mi sento sempre più tesa e non ne capisco esattamente il motivo. Quando gli sono accanto lui subito si volta, probabilmente sentendomi, e appena i nostri sguardi si incrociano sorridiamo entrambi.

«Ciao» dice.

«Ciao» replico io, sentendo i muscoli rilassarsi.

Aver raggiunto Matt mi ha improvvisamente tranquillizzata, anche la tensione che provavo pochi secondi fa è scivolata via.

Matt torna a rivolgersi ai suoi interlocutori:

«Vi presento Danielle» dice loro.

I due uomini mi stringono la mano, sorridono e fanno qualche veloce commento, dopodiché ci lasciano soli, allontanandosi.

«Come stai?» mi chiede il ragazzo appena siamo soli.

«Bene, tu?»

«Tutto a posto. Non hai avuto problemi ad arrivare qui, vero?»

«No, nessuno. Sono stati molto educati e disponibili. È praticamente andato tutto come avevi detto»

«Meglio così. Avrei voluto passare a prenderti ma sono stato piuttosto tirato con i tempi. Sono arrivato qui poco più di cinque minuti fa»

«Non preoccuparti, alla fine ce l’ho fatta»

Lui non risponde, rimane a guardarmi osservandomi accuratamente dall’alto al basso. Fingo di non averlo notato, riportando lo sguardo su di lui solo quando lo sento ricominciare a parlare:

«Quel vestito ti sta davvero bene»

Gli sorrido, sperando di non essere arrossita per il complimento, che ho chiaramente gradito.

«Grazie»

Anche lui sorride, dolcemente, i suoi occhi celesti non accennano ad allontanarsi dai miei. Alla fine però lo fanno e Matt solleva un dito in direzione del centro della sala:

«Vieni, ti presento un po’ di persone»

E si incammina, facendomi strada.

 

*

 

Non so dire quante mani ho stretto prima di sedermi a questo tavolo. Non è passata neanche un’ora da quando sono arrivata all’hotel e credo di aver incontrato già più di venticinque persone diverse fra giocatori, staff tecnico e quant’altro. Matt mi ha presentato ognuno di loro, dicendo chi ero e, quando necessario, lui ha detto a me chi erano loro. Nonostante abbia incontrato quasi una ventina di giocatori gallesi e neozelandesi che ammiro, mi sento stranamente tranquilla. Sospetto fortemente che ciò sia dovuto al fatto che non ho ancora assimilato totalmente ciò che sta succedendo, perché altrimenti non si spiegherebbe nemmeno il fatto che sia tanto rilassata anche ora, seduta al tavolo per la cena. Il tavolo in questione è uno di quelli rotondi, pensati apposta perché ogni presente possa riuscire a guardare in faccia ognuna delle altre persone sedute. In quanto accompagnatrice di Matt sono accanto a lui, allo stesso tavolo in cui sono seduti gli allenatori e i due preparatori tecnici di entrambe le squadre e Sean Darren con la rispettiva compagna.

Matt me lo aveva anticipato, ci aveva tenuto a precisare che alla cena si sarebbe dovuto sedere al tavolo delle rappresentanze – quello “noioso” come lui stesso lo aveva definito – e io insieme a lui. Ma mi è bastato stare anche per poco a questo terzo tempo per capire che il ruolo di Matt come capitano non si limita al solo campo da gioco. Lui viene preso da esempio dai compagni di squadra, per tale motivo è importante che il suo atteggiamento sia adeguato anche in questi eventi formali.

Da quando sono arrivata ha scambiato parola e saluti con tutti, come fosse il padrone di casa, sapendo sempre cosa dire. Anche queste piccole cose dimostrano quanto sia adatto nel suo ruolo e la cosa non può certo essere ignorata.

Eppure come mi sono resa conto di tutto questo, di quanto durante i periodi di impegno con la nazionale gallese i suoi ritmi siano sempre costantemente scanditi dal ruolo di rappresentanza che ricopre, mi sono improvvisamente sentita lusingata. Ho ripensato al fatto che di tanto in tanto lui mi mandava qualche messaggio, mi sono tornati alla mente i due venerdì in cui lui è venuto a cercarmi. Mi è venuto il sospetto che quel tempo da dedicare a me lui se lo fosse volutamente ritagliato fra la moltitudine dei suoi impegni. Se così fosse Jenna avrebbe ragione, Matt potrebbe davvero essere interessato a me e, certamente, ormai non potrei chiedere di meglio. Ma non è il caso di costruire castelli in aria, o di convincermi di qualcosa se ho solo qualche sporadico indizio – per di più se sono stata io stessa a definirli tali – perché ogni volta che mi sono convinta da sola dei sentimenti che qualcuno poteva provare per me nulla è mai andato a buon fine.

Sollevo un momento lo sguardo su Matt, si sta osservando intorno, come alla ricerca di qualcosa. Si accorge che lo sto guardando, sorride e si avvicina a me:

«Come va?» chiede.

Lo fa sussurrando al mio orecchio e la cosa aumenta notevolmente il mio battito cardiaco. Sembra che il mio cuore stia facendo più rumore del dovuto e ho paura che Matt possa accorgersi di quello che mi sta succedendo. Fortunatamente non è così e riesco a rispondere con perfetta nonchalance:

«Tutto bene, direi. Continuo a chiedermi com’è possibile che io riesca a rimanere calma, ma per il resto va tutto alla grande»

Lui sorride nuovamente:

«Perché non provi a fare due chiacchiere con Darren?» propone, sempre tenendo il tono di voce sotto controllo.

«E secondo te ne sarei capace?» domando scettica.

Solleva le spalle:

«Beh, secondo me sì. Il più è iniziare»

«Appunto»

«Ci penso io»

Provo a fermarlo, ma invano. Matt ha già staccato gli occhi da me, puntandoli su Sean. Lo chiama, ponendogli una domanda banale ma perfetta per iniziare a intavolare un discorso:

«Non ti ho ancora chiesto come sta andando la tua permanenza qui» dice.

Sean sorride, rispondendo.

Io me ne rimango immobile e silenziosa mentre i due si mettono a parlare, argomenti da tutti i giorni, come se fossero amici da una vita. Matt mi ha già presentato il capitano degli All Blacks, ha già detto a lui qual è il mio nome, ma ora che avrei l’occasione di parlare un po’ con il neozelandese non so cosa dire. Rimango a guardare Sean, anche lui vestito di tutto punto, la felce argentata cucita a sinistra sul taschino della giacca da cerimonia. La barba curata lo fa apparire ancora più maturo di quanto sembri quando non la porta, i capelli devono essere freschi di taglio e gli occhi castani caratterizzano il suo sguardo rassicurante. La donna accanto a lui, la sua compagna, è Samantha Barkley. La loro storia è piuttosto famosa anche al di fuori della Nuova Zelanda; forse perché lui è il capitano della squadra di rugby più forte al mondo e lei fa parte dello staff medico degli All Blacks. È come se Matt si mettesse con la sua fisioterapista. Farebbe notizia, anche se non sarebbe il primo a fare una cosa del genere.

E spero anche che non lo faccia.

«Danielle ne sa parecchio sull’argomento»

È proprio Matt a risvegliarmi dai miei pensieri. Mi sono distratta per pochi minuti ma pare siano stati sufficienti a perdere il filo del discorso. Mi volto verso il ragazzo ma, appena lo faccio, parla Sean, costringendomi a guardarlo:

«Davvero?» chiede.

È Matt a rispondere per me:

«Sì. Sta studiando storia dell’arte all’università. Chi meglio di lei può parlarti del Cardiff Castel, stasera?»

Sean mi guarda negli occhi. Ha uno sguardo sicuro e carismatico, impossibile da ignorare.

«Quindi tu puoi dirmi qualcosa a riguardo. Sai, ogni volta che vengo qui vado a visitarlo e lo trovo sempre più bello» mi confida.

«Sì, certo. Posso dirti quello che vuoi»

Lancio un’occhiata a Matt, per ringraziarlo di avermi dato la possibilità di parlare con Sean Darren. A quanto pare lui lo capisce, perché risponde al mio sguardo e mi sorride.

 

 

 

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Capitolo 25
*** Danni ***


– Venticinque –

 

Danni

 

 

Intorno a me c’è un vocio continuo. È un mormorio costante che non è di disturbo ed è allegro, chiaramente soddisfatto. In verità basterebbe guardare in faccia ogni presente al terzo tempo per capire che tutto sta andando per il verso giusto. La cena è trascorsa senza alcun tipo di problema, le pietanze erano ottime e le porzioni abbondanti – perfette per dei giocatori di rugby. Poi, un po’ alla volta, tutti i presenti sono rientrati nella sala da ricevimento, passando dal bar a prendere qualcosa da bere.

Anche io e Matt abbiamo fatto così. Siamo tornati in questa sala per prendere qualcosa da bere, ritrovandoci poi a conversare con alcuni dei suoi compagni di squadra. Il tutto è continuato finché un paio di giornalisti non sono venuti a chiamare Matt, chiedendogli del tempo per un’intervista. Come glielo hanno chiesto, il giocatore si è voltato verso di me, scusandosi. Io gli ho semplicemente sorriso, dandogli il via libera, consapevole che il suo era un impegno al quale non si poteva sottrarre.

Lui si è allontanato, seguendo i giornalisti e io mi sono seduta dove sono ancora, ovvero su uno degli alti sgabelli disposti davanti al bancone del bar. Ho posato davanti a me il mio vodka Lemon, rimanendo a giocare con i cubetti di ghiaccio, bevendone un sorso di tanto in tanto fino a finirlo.

Sto resistendo a stento all’impulso di estrarre il cellulare dalla pochette e rimettermi a guardare le foto che abbiamo scattato prima, perché la cosa mi farebbe sentire davvero una ragazzina stupida.

Matt mi ha scattato una foto insieme a Sean Darren e poi ad altri giocatori della nazionale neozelandese fra i miei preferiti. All’inizio l’idea mi metteva molto in imbarazzo, ma poi Matt mi ha fatto notare che al terzo tempo sono moltissime le persone che fanno ciò e che la cosa è considerata normale dai giocatori; per tale motivo, alla fine, mi ha convinta.

Anche l’ultimo cubetto di ghiaccio si è sciolto. Rimango a osservare l’acqua depositata sul fondo del bicchiere, mescolandola distrattamente con la cannuccia.

Matt dev’essersi allontanato da quasi dieci minuti. Quando si è scusato per dover seguire i due giornalisti mi era parso abbastanza restio all’idea di doverlo fare, come se non volesse lasciarmi sola. Anche io avrei preferito che rimanesse qui, insieme a me, ma sono consapevole dei suoi impegni. Non deve essere semplice ricoprire il ruolo di capitano, ma lui ci riesce in modo egregio, a parer mio, proprio perché rispetta i suoi impegni nel migliore dei modi. Il rugby è la sua vita, la sua carica di capitano gallese un grande onore – lui stesso me lo ha detto – e io non potrei mai pretendere che rinunciasse a tutto questo solo perché voglio che mi faccia compagnia.

Qualcuno raggiunge il bancone alla mia destra. Istintivamente punto lo sguardo in quella direzione, trovandomi accanto una ragazza. Come tutte le presenti anche lei indossa un abito elegante, beige. Nonostante sia di profilo il caschetto di capelli neri lisci mi aiuta notevolmente a riconoscerla: è la ragazza di Mark. Io e Matt abbiamo già incontrato la coppia nell’arco della serata.

Si accorge che la sto guardando; in un primo momento mi pare sorpresa, poi, probabilmente riconoscendomi, mi sorride:

«Danielle, giusto?»

Mi volto completamente verso di lei, accorgendomi solo ora che alle sue spalle c’è proprio Mark.

«Sì, esatto» rispondo, sorridendole a mia volta.

Se non ricordo male si chiama Deborah, ma avendo paura di sbagliare preferisco stare zitta.

«Matt dov’è?» chiede.

«Ah sono… sono venuti a cercarlo per un’intervista. Sospetto che a breve sarà di nuovo qui»

«Poverino. Non lo lasciano stare neanche al terzo tempo. Tu che ne pensi?»

Chiama in causa Mark, che si introduce nella conversazione:

«Sì, è vero. Ma lui sa che è così»

«Immagino, ma dev’essere snervante ugualmente»

La ragazza si accorge dell’arrivo del barista e ordina da bere, tornando poi a rivolgersi a me:

«Come sta andando la serata?»

«Bene, grazie»

«Ne sono contenta. Mi ricordo la prima volta che sono venuta a un terzo tempo della nazionale: mi sentivo un pesce fuor d’acqua» ride, lanciando un occhiata al suo ragazzo, che risponde al suo sguardo sorridendole.

Riprende parola:

«È solo questione di abituarsi, vedrai. Dalla prossima volta in poi sarà sempre più semplice»

Il barista ricompare, appoggiando al bancone i drink ordinati, la coppia lo ringrazia o ognuno afferra il proprio bicchiere. Io non replico, non sapendo esattamente cosa dire e rimanendo vagamente disorientata dal suo “vedrai che dalla prossima volta in poi”. È nuovamente lei a ricominciare a parlare – fortunatamente, perché io davvero non so che dirle.

«Se posso ti do solo un consiglio» esordisce, rivolgendosi poi al ragazzo: «Tu, Mark, non ascoltare»

Lui alza gli occhi al cielo, certamente ha già intuito cosa sta per dirmi la ragazza:

«Ancora con questa storia?»

«Sì, ancora» risponde lei. Dopodiché torna a guardarmi: «Fai solo attenzione a Paul Roberts e a Aaron Williams. Sei talmente carina che, finché Matt non torna, potrebbero tentare di abbordarti»

Spalanco gli occhi, sorpresa sia dal fatto di “rischiare” di essere abbordata da due giocatori – fra l’altro Paul è il migliore amico di Matt – sia per il complimento appena ricevuto. Ma è la prima delle due cose a sorprendermi maggiormente.

«I-in che senso?» chiedo perplessa.

Lei risponde subito, parendo eccitata, probabilmente il gossip è uno dei suoi argomenti preferiti:

«Beh, di Aaron si sa abbastanza bene del suo interesse costante per le belle ragazze. Cambia accompagnatrice spesso e il fatto che stasera sia solo lascia perfettamente intuire che, al momento, non sta con nessuna. Per quanto riguarda Paul, è single da parecchio e sicuramente è in cerca»

Apro bocca ma non mi esce alcuna parola ed è Mark a intervenire:

«Deb, smettila» Si rivolge a me: «Non è vero, stai tranquilla. Sanno che sei con Matt»

«No, ma guarda che ho ragione» insiste lei.

Lui si limita a guardarla di traverso e la ragazza scoppia a ridere:

«Va bene, ok» Si volta verso di me: «Mi saprai dire. Buon proseguimento»

Mi fa l’occhiolino, mi saluta con la mano e si avvia; Mark la segue dopo avermi augurato una buona serata. Io rimango immobile a guardare il punto in cui sono scomparsi fra le persone, pensando seriamente che, quella appena conclusasi, è stata davvero una conversazione bizzarra. E, soprattutto, mi ha lasciata interdetta la parte che riguardava Aaron e Paul. Non so se è vero quanto la ragazza di Mark mi ha detto, ma anche se così fosse non vedo perché dovrebbero provarci entrambi con me. Non sono l’unico essere di sesso femminile presente e, in più, Mark ha ragione: si sa – o, almeno, si dovrebbe sapere – che sono in compagnia di Matt stasera. Anche se noi due non stiamo insieme non è esattamente carino fare delle avance all’accompagnatrice di un tuo amico.

Mi rendo conto di incominciare a innervosirmi, penso che prenderò un altro cocktail.

Tuttavia, appena mi giro verso il bancone, prima di poter fermare il barista, una voce proviene alla mia sinistra:

«Disturbo?»

Mi volto, finendo inevitabilmente con il sussultare come inquadro il volto del ragazzo che si è appena rivolto a me: Paul Roberts.

«Ahehm, no. Nessun disturbo» riseco a dire alla fine, dopo essermi ripresa dalla sorpresa iniziale.

Paul non si siede, rimane fermo in piedi accanto a me. Distolgo lo sguardo, sentendomi improvvisamente in imbarazzo. È sicuramente colpa di quanto mi è appena stato detto se mi sento a disagio ora, perché incontrare Paul non mi avrebbe mai potuto fare un simile effetto dato che lui è uno dei tanti giocatori che ammiro.

«Come procede il terzo tempo?» chiede poco dopo.

Torno a concentrarmi su di lui, puntando il mio sguardo nei suoi occhi nocciola che, noto, virano leggermente al verde. Mi prendo un momento per rispondere, sufficiente perché io possa ritrovare la stessa tranquillità che ho stranamente mantenuto tutta sera:

«Sta andando bene, grazie»

«Ottimo, mi fa piacere saperlo. Non avevamo ancora avuto modo di incontrarci noi due, stasera. Cercavo Matt ma è scomparso»

«Sì. È dovuto andate a fare un’intervista»

«Lo immaginavo. Riesce sempre a beccarsene un paio anche qui. Ma vedrai che tornerà presto» mi sorride.

Rispondo al suo gesto allo stesso modo e lui subito mi tende la mano:

«Sono Paul»

Gli stringo la mano:

«Sospetto che dirti che lo sapevo già non serva a niente, vero?» chiedo.

Annuisce con il capo:

«Infatti. Trovo sia buona educazione presentarmi. Poi ho già incontrato più volte persone che non hanno idea di chi sia, quindi non mi illudo mai che tutti mi possano conoscere»

Gli do ragione, dopodiché decido di presentarmi io:

«Io sono Danielle»

«Lo so» risponde, senza esitare.

Rimango sorpresa da quanto ha appena detto. Non avrei mai pensato di sentire una cosa del genere da lui, o da un qualunque altro giocatore.

Probabilmente, accorgendosi che la sua affermazione mi ha sconvolta, Paul riprende a parlare, lasciando la presa dalla mia mano solo ora:

«Matt mi ha parlato di te»

«Oh, certo» dico, forse apparendo più delusa di quanto non sia. «Non ci avevo pensato»

«Sì, mi aveva detto che sarebbe venuto con te questa sera» Si guarda un momento intorno, appoggiando poi un gomito al bancone: «Se per te non è un problema posso rimanere io a farti compagnia finché lui non torna. Non sarebbe carino lasciarti sola»

Lo guardo, cercando di capire se nella sua voce ci sia o meno una nota di malizia, o qualcosa di simile, che possa essermi sfuggita, ma non noto niente del genere, così come non ne vedo traccia nel suo sguardo.

«Se a te va di fare due chiacchiere, accetto. Poi, comunque, sono sicura che Matt arriverà a breve»

«Sì, sicuramente. Scommetto che è da qualche parte ad accontentare dei giornalisti che non vogliono lasciarlo in pace. Altrimenti non ti avrebbe mai lasciata sola»

Apro bocca per parlare, ma come afferro totalmente quello che Paul ha appena detto mi blocco nuovamente per la sorpresa. Ci metto un paio di secondi pieni per riprendermi:

«Sì, beh… Sapevo già che sarebbe successo, me lo aveva anticipato. In fin dei conti anche questo fa parte del vostro ruolo di giocatori. Anche il terzo tempo non piò essere solo svago» rispondo, sperando si intuisca che l’ultima parte era in tono scherzoso.

Pare di sì, perché Paul sorride, ma non accenna a dire nulla senza prima avermi osservata attentamente:

«Sono d’accordo» dice infine, poi mi indica in direzione del barista: «Ti va di bere qualcosa?»

«Volentieri. Stavo giusto per prendere un drink»

Paul chiama a sé il barista, mi chiede cosa voglio e dà entrambe le nostre ordinazioni, dopodiché, mentre aspettiamo, torna a rivolgersi a me:

«Matt mi ha detto che studi storia dell’arte, giusto? È interessante»

«È vero»

«Posso chiederti se c’è un motivo particolare per cui hai fatto questa scelta o è semplice passione?»

Ci penso un momento, ma non a lungo; ormai so cosa rispondere a quanti mi fanno questa domanda:

«Direi passione. Sono sempre stata interessata all’arte, così, quando ho deciso di continuare gli studi, mi è sembrata la scelta più indicata per me. Ogni tanto gli esami mi fanno impazzire ma non mi sono mai pentita della mia scelta»

Il barista torna con le nostre bevande e io e Paul lo ringraziamo all’unisono. Mentre lui beve il suo primo sorso dal boccale di birra io ne approfitto per fargli una domanda:

«La tua permanenza in Francia, invece, come va?»

Si mette a ridere, come se non si aspettasse la domanda e, riceverla, gli avesse fatto più piacere del previsto. Si asciuga le labbra prima di rispondere e, quando la fa, ha ancora un sorriso amichevole in volto:

«Va bene, non posso certo lamentarmi. A Parigi si vive bene ed è davvero bella. Se proprio devo trovare dei difetti, però, posso dirti che i miei compagni di squadra francesi scherzano sul mio accento e che la cucina, almeno per me, non è il massimo»

«Parli francese?» chiedo, veramente incuriosita.

Paul ha raggiunto la Francia solo quest’estate, sarebbe ammirevole se avesse già imparato a parlare in francese senza problemi.

«So conversare, diciamo così. Faccio ancora qualche errore, questo senz’altro, ma idiozie non ne dico più»

Beve nuovamente e, questa volta, lo imito anche io. Passato il momento di sorpresa iniziale e l’ansia che mi ha assalita dopo quello che Deborah mi ha detto su di lui, ora, in presenza di Paul, comincio a sentirmi a mio agio. In fin dei conti stiamo conversando, il nostro è un semplice e reciproco botta e risposta in attesa di Matt, non c’è niente di male o di malizioso in tutto questo.

«Hai anche parlato della cucina, prima» riprendo.

Lui annuisce:

«Sì, l’ho fatto»

«E come mai non ti piace?»

«Beh, per svariati motivi. Innanzitutto, a me non piacciono i formaggi»

«Giustamente la Francia non è famosa per i formaggi» intervengo, scherzando.

Ride:

«Esattamente, vedo che hai capito. E poi, paradossalmente, hanno un pane che è la fine del mondo»

Lo guardo, leggermente confusa:

«Cosa c’è che non va in questo?» domando.

«Il fatto che i carboidrati sono una delle poche cose che dobbiamo tenere sotto controllo nella nostra dieta» conclude, esibendosi in un’ironica espressione rassegnata.

Sorrido:

«Sfortuna, direi»

«Già. Poi ci sono anche altre cose, ma non voglio stare qui a farti l’elenco. Ti basti sapere che, in quanto a cibo, preferisco la mia terra»

Acconsento, indecisa se raccontargli o meno della mia esperienza americana, giusto per fare un paragone. Anche io, dopo il mio anno negli Stati Uniti, sono tornata in Galles e mi sono ritrovata ad apprezzare la mia nazione ancora più di prima. Anche se, nel caso di Paul, si parla solo della cucina, è già qualcosa. Decido di dirglielo, sperando di non apparire esibizionista per questo. Tuttavia non sembra che lui risulti infastidito o disinteressato da quello che prendo a raccontargli e finiamo per conversare tranquillamente per diversi minuti. Dopo un po’, però, qualcuno raggiunge il mio interlocutore, appoggiandosi a lui di peso, mettendogli il braccio sinistro intorno alle spalle e tendendo il destro verso di me, un bicchiere stretto in mano. È Aaron Williams.

«Buonasera» dice, guardandomi attentamente.

Paul si volta verso di lui, un sorriso non troppo convinto in volto:

«Aaron» si limita a dire, semplicemente.

Aaron non accenna a distogliere lo sguardo da me, continua a scrutarmi con i suoi occhi azzurri, talmente chiari da sembrare fatti di ghiaccio e che risaltano ancora di più per via dei capelli scuri, quasi neri. La cosa mi sta mettendo a disagio, anche perché il suo fascino da “cattivo ragazzo” – come i giornali di gossip si divertono a etichettarlo – non è semplice da ignorare perfino per me, che non l’ho mai considerato il mio tipo.

«Noi non ci siamo ancora presentati» dice, rivolgendosi a me. «Sei la ragazza di Matt?»

Sussulto leggermente, affrettandomi a rispondere:

«No. Io e Matt non stiamo insieme»

La sua espressione si fa interessata tutta d’un tratto, ma prima che lui possa replicare, Paul interviene.

Sospira:

«Aaron si può sapere perché ti sei intromesso?» chiede, liberandosi dal braccio dell’ amico, ancora sulle sue spalle.

L’altro lo guarda, stupito:

«A che ti riferisci? È tutta sera che la vedo in compagnia di Matt e mi sono posto una domanda più che legittima. Poi ho pensato fosse buona educazione venire a presentarsi»

Afferra il bicchiere con la mano sinistra, tendendomi la destra:

«Aaron»

Gli stringo la mano, questa volta risparmiandomi la trafila in cui ammetto di sapere già il suo nome:

«Danielle»

«Matt è via da parecchio, non ti pare?» domanda, rivolgendosi a me.

«Matt tornerà a breve» risponde Paul, pur non essendo stato chiamato in causa.

Io rimango immobile, senza sapere come comportarmi. Questa situazione sta assumendo strani risvolti, totalmente inattesi. Ho come l’impressione che Aaron non sia venuto qui solo per presentarsi e che Paul stia facendo il possibile perché lui mantenga le distanze da me. Magari mi sbaglio – sicuramente mi sbaglio – ma questa è proprio l’impressione che ho al momento.

Aaron si volta verso Paul:

«Tu allora perché sei qui?»

«Le sto semplicemente facendo compagnia mentre aspetta. Non volevo lasciarla sola»

L’altro allarga le braccia, il contenuto ambrato del suo bicchiere oscilla pericolosamente.

«Beh, rimango con voi»

Paul si prepara a ribattere, ma dalla sua bocca esce solo un leggero sbuffo d’aria. Mi guarda:

«Ti dispiace se…?» chiede, indicando un punto qualunque della sala.

Sospetto intenda dire che si vuole allontanare un momento. Gli do il via libera con un gesto, rimanendo a guardarlo mentre sospinge l’amico. Aaron non sembra gradire particolarmente la cosa e segue l’altro controvoglia dopo avermi lanciato un’ultima, lunga, occhiata.

Li osservo farsi largo fra le persone; come raggiungono una certa distanza Paul si volta verso Aaron, attaccando a dirgli qualcosa, finché non scompaiono alla mia vista.

«Assurdo» mormoro fra me e me, bevendo poi un sorso, e subito dopo un altro, del mio drink.

Noto che la birra di Paul è rimasta abbandonata sul bancone, accanto a me. Ciò significa che, quasi sicuramente, lui tornerà indietro a riprenderla. La cosa mi sta bene, avere ancora modo di parlare con lui è una prospettiva piacevole: nei minuti che abbiamo trascorso insieme mi sono trovata bene. La stessa cosa non penso di poterla dire anche per Aaron. I suoi modi di fare mi hanno messa abbastanza a disagio in brevissimo tempo e sono scattata sulla difensiva, anche se non ho avuto modo di dimostrarlo perché Paul lo ha allontanato da me. Scommetto che quello che teneva in mano non era esattamente il suo primo drink, anche se mi pareva perfettamente in grado di intendere e di volere.

Sospiro, per poi bere nuovamente. Ripensare a ciò che è appena successo mi fa tornare automaticamente in testa quanto la ragazza di Mark mi ha detto prima. È come se lo avesse saputo, come se se lo fosse immaginata. Tuttavia non so se avesse esattamente ragione, se i due uomini mi abbiano raggiunto per attuare ciò a cui lei mi aveva preparata – Paul non mi ha dato questa impressione, al contrario – fatto sta che sono successe abbastanza cose impensabili troppo in fretta e io non ci sono abituata. Magari fra un po’ di tempo forse, ma stasera proprio no.

Sospiro, bevendo l’ennesimo sorso dal mio bicchiere.

Spero che Matt torni presto.

 

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Capitolo 26
*** Matt ***


– Ventisei –

 

Matt

 

 

Quando il giornalista mi dà la mano dopo aver annunciato la fine dell’intervista quasi non mi sembra vero. Me ne avevano già fatte svariate di interviste a un terzo tempo, ma lunga quanto questa mai. Dev’essere dovuta al fatto che siamo nel post partita del match contro gli All Blacks, ma onestamente non trovo che questa sia una scusa sufficiente per farmi stare tanto tempo lontano da Danni proprio stasera. Mi alzo, dando un ultimo saluto ai due giornalisti presenti e mi avvio fuori dalla stanza sistemandomi giacca, camicia e cravatta. Nella sala da ricevimento continuano a esserci un gran numero di persone, ciò è sufficiente a spiegare il caldo che c’è e che mi ha assalito come ho rimesso piede qui dentro. Mi incammino verso il bar, in modo da potermi ricongiungere con Danielle che temo di aver lasciato sola per un po’ troppo tempo. Certo, con questo si sarà sicuramente resa conto di quelli che sono i miei impegni e del fatto che anche quando vorrei festeggiare in compagnia l’esito di una partita non sempre riesco a farlo. Se lei ha compreso tutto questo e fosse comunque disposta a provare a iniziare qualcosa con me sarebbe fantastico. Tuttavia temo di averla sottoposta a troppe cose in poco tempo. Spero solo che le cose positive accadute questa sera siano ben superiori a quelle negative. Penso di sì, comunque; nell’arco della cena l’ho vista aprirsi, sentendosi sempre più libera di parlare con Darren e la sua compagna. Ha avuto modo di incontrare numerosi giocatori che vestono la maglia degli All Blacks e anche con loro, dopo un primo momento di imbarazzo più che comprensibile, ha conversato tranquillamente. Sono contento di averla invitata qui stasera, non solo perché a vederla emozionata mentre stringeva le mani dei vari giocatori era davvero stupenda, ma anche perché, dopo tanto, abbiamo avuto modo di stare nuovamente insieme per una sera. Anche se non siamo stati sempre solo Danielle e io, lei era comunque al mio fianco e tanto mi è bastato.

Finalmente riesco a intravedere il bar e, nel punto in cui mi aspettavo di trovare Danni, la vedo. Tiene gli occhi bassi sul bicchiere che ha davanti, ticchettando sul vetro con entrambe le mani. Mi fermo a guardarla, come incantato. L’abito rosso che porta questa sera fa brillare ancora di più i riflessi dorati dei suoi capelli e dalla sua acconciatura qualche ciocca è scivolata via leggera. Si inumidisce appena le labbra, poi solleva lo sguardo, come se si fosse resa conto che la sto osservando. Riprendo a camminare per raggiungerla, ma come compio il primo passo qualcuno mi afferra per il braccio, trascinandomi via e facendomi indirettamente capire che pretende di essere seguito. Riconosco la più che famigliare figura di Paul.

«Ehi» provo a chiamarlo, ma sembra che lui non mi senta.

Mi porta fino a uno degli angoli più vuoti della sala, bloccandosi. Si volta verso di me ma gli impedisco di parlare per primo:

«Che c’è?» chiedo.

«Quanto è durata quell’intervista?»

Sbuffo:

«Troppo» taglio corto. «Si può sapere perché mi hai trascinato qui?»

«Stavi andando da Danielle?» domanda lui.

«Ci stavo provando»

Mi dà una pacca sulla spalla:

«No, ehi, tranquillo. Adesso ti lascio andare, dovevo solo dirti un paio di cose»

Faccio un ampio cenno con la mano per cercare di fargli capire che se vuole dirmi qualcosa gradirei che lo facesse in tempi ragionevoli.

«Sono andato a parlare con Danielle» inizia.

«Ah, sì?»

«Sì, tu non arrivavi più»

«Non è stata colpa mia»

«Lo so, tranquillo» si zittisce.

Rimaniamo a guardarci un momento, sollevo le sopracciglia, non capendo per quale motivo il mio amico abbia smesso di parlare.

«E quindi?» domando alla fine.

Lui si stringe nelle spalle:

«No, niente. É adorabile»

«Vero?»

«Sì. Insomma, ha senso dell’umorismo, è alla mano ed è davvero bella»

«Sono d’accordo, ma non ti allargare»

Si mette a ridere:

«Non preoccuparti»

«Beh, comunque, mi hai trascinato qui solo per dirmi questo?» chiedo, rendendomi conto che stanno trascorrendo altri minuti in cui sto lasciando sola Danni.

Paul risponde subito:

«No, non solo per questo. Volevo anche dirti di stare attento a Aaron. Danni gli ha fatto scoprire che voi due non fate esattamente coppia e lui, stasera, è un po’ alticcio»

Sospiro, spettinandomi i capelli con una mano. Voglio bene a Aaron, sul serio, ma farebbe bene a iniziare a tenere sotto controllo la sua passione per le donne e a decidere di sistemarsi dato che ha quasi trent’anni. Non si fa molti problemi a provarci con le ragazze, soprattutto quando scopre che sono libere e quando lui non ha pseudo relazioni in piedi.

Guardo Paul:

«Ti prego dimmi che ora sta con qualcuna»

Il mio amico scuote la testa. Alzo gli occhi al cielo, sospirando.

«Lui adesso dov’è?» domando, più per sicurezza che per altro. So che non è con Danielle, ho appena visto la ragazza e lei è sola.

«L’ho affibbiato a Jonathan» risponde.

Lo guardo:

«È te che devo ringraziare?»

Si dipinge un sorriso soddisfatto in viso, come se avesse appena vinto uno dei premi più importanti della sua carriera. Ciò è più che sufficiente per farmi capire che, sì, è proprio lui che devo ringraziare. Espiro buona parte dell’aria che mi è rimasta in corpo, sentendomi decisamente sollevato: se ci ha pensato Paul so che posso stare tranquillo.

«Grazie» dico infine.

Il mio amico sorride:

«Per così poco?» Dopodiché si fa improvvisamente serio: «Ora, però, vedi di andare» dice, indicando in direzione del bar.

Acconsento con il capo, avviandomi. Non serve aggiungere altro con Paul; la nostra conversazione, per quanto breve, mi è bastata per avere un rapido riassunto di quanto successo in mia assenza. Paul si era accorto che stavo tardando e ha ben pensato che lasciare sola a lungo Danni non fosse molto carino, così ha deciso di fare due chiacchiere con lei in attesa del mio ritorno. Però è subentrato Aaron, probabilmente semplicemente incuriosito e poi, forse, interessato. Tutto quanto si è concluso con Paul che “scarica” Aaron a Jonathan, in modo che non possa dedicare troppe attenzioni a Danielle. Tuttavia, in tutto questo, Danni è rimasta nuovamente sola. Se ora lei mi mandasse a quel paese lo capirei benissimo. Finalmente riesco a raggiungerla, senza interruzioni e senza che qualcuno mi intercetti per portarmi da qualche parte. Mi fermo accanto a lei e, come mi sente, si volta. Non appena mi riconosce sorride, evidenziando le fossette sulle guance che, anche se ora conosco alla perfezione, trovo sempre particolarmente graziose.

«Scusami» dico subito, prima che lei possa proferire qualsiasi parola.

Mi guarda, inclinando leggermente la testa di lato:

«Per cosa?» chiede.

Non sembra essere minimamente infastidita dal mio ritardo. Quando ho seguito i due giornalisti per l’intervista le avevo detto che sarei stato assente per una decina di minuti al massimo, invece sono stato via più del doppio del tempo.

«Per averci messo tanto» spiego, nonostante sia sicuro che non ce ne sia bisogno.

«Ma figurati, non preoccuparti. Me lo avevi detto»

Rimango a guardarla, leggermente sorpreso. Davvero non pare essere infastidita dal fatto di essere rimasta sola in mezzo a persone che non conosce nonostante io dovessi farle compagnia.

«Sicura? Insomma, sono rimasto via un po’»

Annuisce:

«Sì, davvero, non è stato un problema. Nell’attesa ho parlato con Deborah, Mark, Paul e ho preso un altro drink» risponde, con leggerezza.

Le sorrido:

«Per fortuna. Sai, non avrei mai pensato di metterci tanto e, come mi sono reso conto del tempo in cui sono stato via, mi sono subito sentito in colpa per averti lasciata sola» ammetto.

Anche lei sorride, abbassando un momento lo sguardo:

«Lo apprezzo» dice. «Ma, sul serio, non è stato un problema. Me lo avevi anticipato e già immaginavo ti saresti dovuto allontanare per un po’»

Qualcuno ci raggiunge. Io e Danielle ci giriamo contemporaneamente per vedere di chi si tratta e ci troviamo davanti Paul. Lui alza una mano:

«Scusate. Ho dimenticato qui la birra» Si allunga per recuperare il boccale, poi si rivolge a Danielle: «Ce l’ha fatta a tornare alla fine» ammicca, chiaramente riferendosi a me.

Mi strappa un sorriso e i miei occhi si fermano sulla ragazza che, prima di rispondere a Paul, mi lancia uno sguardo, coronando tutto con un sorriso:

«L’ho sempre saputo»

Il mio amico solleva la birra, proprio in mezzo a noi:

«Buon proseguimento, allora. Ci vediamo nell’arco della serata»

Detto ciò ci dà le spalle e si incammina, lasciando me e la ragazza da soli.

 

*

 

Il tempo passa quasi senza che me ne renda conto. Io e Danni continuiamo a parlare di tutto quello che ci passa per la testa, senza interromperci quasi mai. Quando controllo l’orario, solo per cercare di capire per quale motivo nella sala ci siano sempre meno persone, mi accorgo che è quasi la mezza.

Danni nota il mio gesto e, probabilmente, anche l’espressione che ne è conseguita:

«Che ore sono?» chiede, interrompendo il suo discorso.

«Mezzanotte e venticinque» rispondo.

«Sul serio?»

«Già»

«Mmh, ora capisco perché c’è sempre meno gente»

«Immagino che molti siano già andati in discoteca»

«Andate anche in discoteca dopo la cena?» domanda, sorpresa.

«Beh, sì. Chi ha voglia sì. Personalmente non sono tipo da discoteca, quindi ci sarò andato tre o quattro volte al massimo»

«Non lo avrei mai pensato, se posso essere sincera. Voglio dire, dopo una partita di rugby fare anche nottata diventa lunga, sospetto»

«Abbastanza, in effetti. Ma di solito il giorno dopo la sveglia non suona prima dell’una»

Sorride:

«È comprensibile» dice, senza poi aggiungere altro.

Si muove appena sulla sedia, cercando una posizione quanto più comoda possibile. Mi accorgo che i suoi occhi cominciano a essere leggermente lucidi e la sua postura e i ritmi dei suoi gesti smascherano il fatto che, ormai, Danni comincia a essere stanca. Anche io lo sono abbastanza; il mio corpo mi sta mandando segnali da un po’, i muscoli cominciano a tirare e il collo mi fa male in qualsiasi posizione stia. Credo sia giunto il momento di concludere la serata, di riaccompagnare Danielle a casa e poi tornare qui, dai pochi rimasti al terzo tempo, per un ultimo saluto.

«Sei stanca?» domando alla ragazza, osservandola mentre tiene gli occhi bassi sul piano dove il suo bicchiere, vuoto, è rimasto immobile finora.

Mi guarda e abbozza un sorriso, sollevando impercettibilmente le spalle.

«Aspetta, riformulo la domanda» mi correggo. «Cosa vuoi fare adesso?»

Danni prende una lunga boccata d’aria, silenziosamente, come in cerca delle parole migliori per dirmi quello che sospetto:

«Non saprei. Sono abbastanza stanca, in effetti. E, purtroppo, domani non posso svegliarmi all’una» sorride.

Ricambio il suo gesto allo stesso modo.

«Se vuoi ti riaccompagno a casa» propongo.

«Sì, grazie»

Acconsento e mi alzo dalla sedia. Danni fa lo stesso e si affianca immediatamente a me, seguendomi verso il guardaroba. Lungo il tragitto incontriamo e salutiamo alcuni dei giocatori rimasti, fra cui Darren e compagna. Danielle sembra emozionarsi ancora mentre stringe la mano un’ultima volta al giocatore e questo mi basta per capire veramente quanto lei lo ammiri. Ci fermiamo un momento anche con Paul, che conversa animatamente con Jonathan.

Si volta subito appena lo raggiungiamo, smette di parlare e ci accoglie con un sorriso:

«State andando?» domanda.

«Sì. Riaccompagno a casa Danielle poi torno a salutarvi come si deve» rispondo.

Paul tende la mano alla ragazza, che gliela stringe sorridendo:

«È stato un vero piacere conoscerti. Spero di rivederti presto» le dice.

«Anche per me»

«Vado a prenderti il cappotto. Torno subito» intervengo, dirigendomi poi verso il guardaroba e lasciando la ragazza in compagnia dei miei amici.

Come raggiungo il guardaroba cerco la giacca di Danni, scorrendo uno dopo l’altro tutti i cappotti appesi. Quando la trovo e mi volto per ritornare dalla ragazza mi trovo Paul praticamente in faccia.

«Che ci fai qui?» chiedo, non riuscendo a spiegarmi la sua presenza alle mie spalle.

«Devo solo darti un consiglio» dice, alzando le mani come per calmarmi.

«Del tipo?» chiedo, inarcando un sopracciglio.

«Riguarda Danielle» inizia. Mi posa una mano sulla spalla e si avvicina ulteriormente, abbassando anche il tono della voce: «Sposala»

Mi strappa un sorriso e riprende a parlare subito:

«No, guarda che non sto scherzando. È perfetta per te»

«Apprezzo che tu la pensi così, sul serio. Ma ci avrai parlato sì e no dieci minuti»

«Sono stati sufficienti, a parer mio»

Non rispondo e il mio amico torna subito alla carica:

«Guarda che se quando torni dopo averla riaccompagnata a casa non hai concluso niente te la faccio pagare» dice e mi punta contro l’indice destro.

«Ok, ok. Non c’è bisogno che mi minacci» gli faccio notare.

Paul si allontana da me e mi guarda, improvvisamente serio:

«Temporeggiare non ti servirà a niente. Sono certo che lei ricambia i tuoi sentimenti»

«E cosa te ne fa essere così certo?»

Alza le spalle:

«Il fatto che non abbia degnato Aaron di uno sguardo»

«Aaron sarebbe il tuo metro di giudizio?» domando scettico.

«Beh, uno dei tanti. Ma se vuoi essere sicuro del fatto che io abbia ragione allora devi dirle quello che provi»

Abbasso lo sguardo sul cappotto di Danielle, pensando. Cerco di riordinare i miei pensieri al meglio e, quando torno a guardare Paul, inspiro una buona quantità d’aria prima di rispondergli:

«Hai ragione»

Sorride:

«Bravo ragazzo» Dopodiché mi dà una pacca sulla schiena e iniziamo a incamminarci per tornare dove eravamo prima: «Poi, quando torni, mi dici com’è andata»

Arriviamo praticamente subito da Danni, ancora in compagnia di Jonathan, con il quale parla tranquillamente. Le allungo il cappotto e lei mi ringrazia.

«Vogliamo andare?» le chiedo.

Acconsente con il capo, saluta un’ultima volta sia Jonathan che Paul e mi segue verso l’ingresso dell’hotel.

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Capitolo 27
*** Danni ***


– Ventisette –

 

Danni

 

 

Cardiff è stranamente silenziosa. Per essere quasi l’una della notte fra sabato e domenica c’è più calma di quanta me ne fossi aspettata. Probabilmente la maggior parte delle persone sono ancora nella zona del Millennium Stadium a riempire pub, locali e ristoranti che ne popolano il perimetro.

Io e Matt ci siamo lasciati alle spalle il mastodontico stadio senza neanche passarvi vicino e ci stiamo dirigendo verso la mia casa, con calma. Matt sembra non avere fretta e a me sta bene così, perché non ho voglia di separarmi da lui, non ancora. Ho accettato di essere riaccompagnata a casa solo perché sono davvero stanca e domani, al mattino, ho un impegno con mio padre. Ma penso che anche Matt abbia bisogno di staccare un po’ dalla serata e, senza la mia presenza, sarà libero di fare quello che reputa più consono per sé. È stanco, visibilmente stanco. Considerando il pomeriggio che ha trascorso è più che comprensibile; sul campo da rugby ha certamente speso tutto ciò che aveva, ogni briciolo di energia di cui era in possesso è rimasto sul prato del Millennium Stadium. Anche le forze di riserva che ha usato per la cena del terzo tempo devono essere vicine a esaurirsi. Ha davvero bisogno di riposarsi un po’.

Sollevo gli occhi su di lui, che cammina da qualche minuto con lo sguardo fisso sulla strada che ha davanti, in silenzio. Si accorge del mio gesto e mi guarda, gli occhi celesti resi più scuri dalla poca luce della notte. Sorride:

«Allora com’è andato il terzo tempo?» chiede.

Non ho bisogno di pensare a una risposta. Se torno con la mente a quanto è successo solo poco fa quasi non mi sembra vero. Sono certa che Matt lo sa, che sappia perfettamente quanto sia stata felice della sua proposta e della serata che abbiamo appena trascorso. È stato tutto diverso da quanto mi fossi aspettata fino a questo pomeriggio ma è stato tutto quanto decisamente migliore di ciò che mi ero immaginata.

«È stato incredibile, dico davvero» inizio.

Il sorriso di Matt si fa più dolce e per ricominciare a parlare distolgo lo sguardo, così da riuscire a continuare il mio discorso senza perdermi nei suoi occhi:

«Se ci ripenso mi chiedo se è successo tutto veramente»

Mi viene quasi da ridere mentre concludo la frase. Mi sento esaltata, totalmente soddisfatta da ogni minuto che ho vissuto in questa giornata. Perfino ripensare allo stato di ansia che avevo addosso prima di arrivare alla cena contribuisce a rendere ancora più speciale il risultato finale. Non avrei mai creduto potesse accadere una cosa simile a me e solo ora che tutto si è concluso e sto tornando a casa in compagnia di Matt mi rendo conto di quanto io sia stata fortunata.

«Sono contento che tu abbia passato una bella serata» dice lui.

«Grazie ancora per avermi invitata»

Istintivamente mi sciolgo i capelli, rimasti intrappolati troppo a lungo nella morsa dell’elastico. Li sento ricadere sulle mie spalle nonostante il cappotto e li muovo leggermente con la mano. È come se li volessi usare come scudo, come protezione per nascondere il mio volto, sentendomi improvvisamente in imbarazzo per quanto ho appena detto e il modo in cui l’ho fatto. Matt non risponde subito, continua a camminare al mio fianco, senza fretta, in tutta la sua statura. Improvvisamente le sue dita sfiorano le mie. Sussulto leggermente, sorpresa, mentre la sua mano pare acquistare sempre più sicurezza, fino ad afferrare la mia. Il suo tocco è delicato mentre richiude dolcemente la stretta intorno alle mie dita. Ma non posso fare a meno di notare la pelle dura e i calli presenti sulla sua mano. Le sue sono le mani di chi è abituato a stringere palloni fra di esse, di chi respinge avversari affrontandoli direttamente, fermandoli; la sua è la pelle di chi è abituato a cadere e rialzarsi dalla terra che spunta fra i fili d’erba. Le mani di Matt sono quelle di uno sportivo, ma la delicatezza che usa in questo momento è l’innegabile attenzione di un uomo premuroso. Per un lungo momento mi manca il respiro; lo riacquisto solo quando sento il ragazzo prendere fiato, riuscendo quasi a percepire perfettamente il suono che fa mentre inspira l’aria.

«Puoi venire ogni volta che vuoi» dice in risposta alle mie parole.

Abbasso lo sguardo sulle nostre mani, le cui dita sono perfettamente intrecciate. Come sollevo gli occhi noto che Matt mi sta guardando, l’angolo della bocca incurvato in un leggero sorriso. Sorrido a mia volta, tornando poi a puntare lo sguardo sulla strada che abbiamo davanti. Vorrei avvicinarmi ancora di più a lui, vorrei stringermi al suo corpo, camminare stretti l’uno all’altra come le coppie delle pellicole dei vecchi film. Tuttavia me ne manca il coraggio, non sono in grado di rendere concreta l’idea che mi si è appena presentata in testa. Matt riprende a parlare:

«Che mi dici di Darren?» chiede, lanciandomi un’occhiata.

«In che senso?»

Solleva le spalle:

«Come ti è sembrato. Te lo immaginavi così?»

Ci penso un momento, ma non a lungo:

«Effettivamente è come lo immaginavo. È un uomo davvero dotato di carisma e, addirittura, più disponibile e alla mano di quanto mi fossi aspettata»

Il ragazzo annuisce con il capo:

«Sì è ammirevole. Io l’ho già incontrato più di una volta ed è sempre stato degno di stima»

«Ancora non mi sembra vero di aver parlato con lui, è davvero pazzesco» mi zittisco appena mi rendo conto di aver ripetuto per l’ennesima volta la stessa identica cosa.

«Scusa. Ormai ne avrai le scatole piene di sentirmi ripetere che è stato tutto incredibile» riprendo, scimmiottando me stessa.

Matt si volta a guardarmi:

«No, anzi. Sono contento che la serata sia stata di tuo gradimento. Mi preoccupava un po’ il fatto di sottoporti a una simile sera così, di punto in bianco»

«Beh, allora, se può servire a rassicurarti, sappi che sono stata benissimo. E comunque dicevo sul serio ogni volta che ti ho detto di non preoccuparti, stasera. Anche se hai dovuto lasciarmi sola a un certo punto ho trovato qualcuno con cui parlare»

Lui si volta a guardarmi, prima con un’espressione confusa poi, sicuramente capendo a chi mi riferisco, con una divertita:

«Ah, giusto» dice, facendo schioccare la lingua. «Paul e Aaron sono stati molto invadenti?»

Sollevo le spalle, ripensando alla breve ma piacevole conversazione con Paul, interrotta dall’arrivo di Aaron.

«Direi di no. In verità con Aaron non ci ho parlato molto, ma con Paul ho fatto una bella chiacchierata, anche se non è durata a lungo»

«Di cosa avete parlato?»

«Della Francia. E dell’America»

«America?»

«Sì, del mio anno che ho trascorso là»

«Ah, già. È vero. Poi basta?»

«Sì. Poi è subentrato Aaron. Oltretutto Paul sapeva già cosa studio, mi ha detto che gli hai parlato di me»

Provo a punzecchiarlo per vedere se, con questa mia ultima frase, qualcosa dentro Matt si smuove. Non c’è niente di strano a parlare a qualcuno di un’altra persona, ma qualcosa dentro di me vorrebbe sentirsi dire da Matt che il motivo per cui ha parlato di me al suo amico è perché non riusciva a farne a meno; esattamente come è successo a me con Jenna riguardo a lui. Tuttavia il ragazzo non si scompone, neanche minimamente. Mi guarda negli occhi mentre risponde, talmente sicuro e tranquillo da sembrare già consapevole delle parole che avrei pronunciato.

«È vero, gli ho parlato di te»

Il tono con cui pronuncia la risposta e il modo in cui lo fa, senza esitare un solo attimo, mi fanno sentire improvvisamente in imbarazzo, soprattutto perché, come a farlo apposta, la mia mente torna a concentrarsi sul tepore della mano di Matt, ancora stretta alla mia. Interrompo il contatto visivo, rendendomi conto che non riuscirei a portarlo oltre. Come punto gli occhi davanti a me, però, mi accorgo che siamo praticamente arrivati a casa mia. Non avevo fatto caso alla via, alle case che scorrevano accanto a noi, a Arnold’s, con la sua porta a vetri colorati. Ero troppo presa da Matt, dalla sua voce, dal suo passo lento e rilassato, dal tocco delle sue dita. Anche se sono stanca e ho bisogno di riposare vorrei che questa strada continuasse all’infinito, che ogni volta che raggiungiamo la porta di casa mia quella si spostasse fino all’orizzonte. Tuttavia Matt si ferma proprio davanti al mio ingresso che se ne sta lì, immobile. Lui si gira verso di me in modo da avermi proprio di fronte, sotto agli occhi. Lo vedo scrutare per un momento la facciata di casa mia, vagando con lo sguardo per un po’ su di essa, per poi tornare a guardare me.

Sorride:

«Siamo arrivati» dice.

Anche io sorrido, rendendomi conto che il mio è più che altro un abbozzo. Fra di noi cala il silenzio; non so dire se la situazione mi stia mettendo più in imbarazzo o a disagio. Sembra quasi che nessuno dei due voglia staccarsi dall’altro. A quest’ultimo pensiero abbasso lo sguardo sulle nostre mani, sempre una nell’altra, senza farlo apposta ma d’istinto.

«Danni»

Come sento Matt chiamarmi torno a guardarlo subito. Lui temporeggia un momento, prende una lunga boccata d’aria prima di ricominciare a parlare:

«Prima che tu vada ho bisogno di dirti una cosa»

Acconsento con il capo, cercando di rimanere tranquilla. Matt sembra improvvisamente più agitato del solito, come se stesse cercando il modo migliore per concentrarsi nel tentativo di prepararsi ad affrontare qualcosa. Mi accorgo che deglutisce, che la sua cassa toracica si alza per un lungo momento per via dell’aria che respira. Poi, all’improvviso, torna a puntare i suoi occhi nei miei e tutta la sicurezza di cui dispone mi si presenta davanti.

«Tu sei una ragazza intelligente e sono certo che sai già perfettamente quanto sto per dirti»

Scandisce accuratamente ogni parola, con sconvolgente tranquillità. Le sue esitazioni di pochi secondi fa sono scomparse, anche volendo non riuscirei a trovarne traccia. Cerco di mantenere lo sguardo saldo su di lui, ma a fatica. Quanto ha appena detto mi ha bloccata, ha fatto perdere un paio di colpi al mio cuore e ha reso improvvisamente la mia bocca asciutta. Ciò che sta per dirmi si palesa ora nella mia testa, anticipata dal suo gesto di prendermi per mano. Sono quasi sicura di quello che vuole farmi sapere e, davvero, non vedo l’ora che lo faccia per sentirmi morire. Tuttavia una piccolissima parte di me si ostina a ripetermi di non farmi illusioni e di aspettare a cantare vittoria per quella che sarebbe la perfetta conclusione di una serata incredibile.

«Eviterò i giri di parole perché proprio non sono il tipo»

Quando il ragazzo riprende a parlare trattengo involontariamente il fiato; dopo quel primo tuffo iniziale il mio cuore ha preso a battere a ritmi sfrenati e non accenna a rallentare.

«Tu mi piaci. Ecco tutto»

Spalanco gli occhi.  Le sue parole hanno un suono così dolce e inatteso che non so neanche come reagire. Rimango a guardare Matt fino a rivivere nella testa ciò che è appena successo, sentendo infine un sorriso affiorarmi in volto. Non sapendo cosa dire l'unica cosa che riesco a pronunciare è un insignificante:

«Ah sì?» che strappa un sorriso al ragazzo. 
«Già»
Fatico a resistere oltre, porto entrambe le mani sul mio volto, per nascondere il sorriso che si ostina ad allargarsi sempre più,  perdendo la presa dalla mano di Matt, che lascia scivolare la mia con tranquillità. 
«Non riesco a crederci» mormoro. «Oddio scusa, mi sento un'idiota»

Torno a guardare il ragazzo che è sempre fermo davanti a me, calmo.

«É solo che non avrei mai pensato di sentirtelo dire» ammetto.

È la verità. Da quando mi sono resa conto di ciò che provo per Matt ho sempre pensato  che farsi illusioni su una possibile storia fra di noi fosse un gigantesco errore. Anche se pochi minuti prima avevo già sospettato quello che lui mi ha poi detto,  sentire pronunciare quelle parole da lui stesso ha dato un altro sapore alla cosa. 
«Ciò significa che se ora ti chiedessi di cominciare a fare con me tutta quella serie di cose che fanno le coppie, accetteresti?»
Mi perdo letteralmente nei suoi occhi mentre rispondo:
«Non esiterei un momento a dirti di sì»
Matt sorride, con dolcezza:
«Grande» sussurra.

Continuiamo a guardarci. Mi sembra quasi di essere isolata dal resto della città che continua a vivere intorno a noi in un modo o nell’altro. Ho un tale ammasso di emozioni dentro di me che vorrei mettermi a gridare la mia felicità al mondo, correndo da un capo all’altro di Cardiff, eppure, al contempo, non riesco più a staccarmi dagli occhi di Matt. È nuovamente lui a fare la prima mossa, con quella sicurezza che lo contraddistingue, con quella tranquillità invidiabile che lo rende così unico. Il suo sguardo scivola un solo secondo sulla mia bocca e ho già capito cosa sta per fare; infatti, subito dopo, si china verso di me e si avvicina sempre più, portando le sue labbra sulle mie. È un contatto leggero, morbido, che si fa via via più concreto. Gli occhi mi si sono istintivamente chiusi mentre vengo avvolta dal profumo, anche se flebile, della sua colonia e faccio il possibile per memorizzare al meglio il suo sapore. Respirare quasi non ci serve più. La sua aria diventa la mia, così come la mia diviene sua. I pensieri si azzerano e tutto passa in secondo piano: siamo solo io e Matt. Lo sento mentre fa scorrere la mano lungo il mio collo, fino alla nuca, facendosi strada fra i capelli ora sciolti.

Quando lui si allontana da me ci lanciamo una occhiata, per accertarci entrambi che tutto è realmente successo, che il sapore che ognuno ha sulle labbra sia effettivamente quello dell’altro. E quando ci rendiamo conto che, sì, è andato tutto nel modo in cui lo abbiamo vissuto, finiamo inevitabilmente con il sorridere.

Tuttavia io non so che altro fare; vorrei dire a Matt tante di quelle cose, vorrei porgli tante di quelle domande su ciò che è successo e succederà da questo momento in poi che mi si accavallano a tal punto da non riuscire più ad affiorare dalla mia bocca. Così il mio corpo si muove da solo, avanzando di un solo passo, fino a posarmi contro il suo. Il ragazzo mi cinge con le braccia, in silenzio, dandomi un leggero bacio sulla testa. Mi sento così bene qui, in questa sera novembrina di Cardiff, che non vorrei mai separarmi da lui. Tuttavia sento Matt prendere fiato e, prima ancora che inizi a parlare, sollevo lo sguardo su di lui. Siamo talmente vicini che mi basterebbe alzarmi in punta di piedi per baciarlo una seconda volta.

«Di’ un po’, domani mattina posso chiamarti?» chiede con tranquillità, come sempre.

«Puoi chiamarmi tutte le volte che vuoi» rispondo.

«Non darmi troppe libertà» mi confida, sussurrandolo.

Gli sorrido, separandomi da lui:

«D’accordo. Allora vada per domani mattina»

Rimane a guardarmi, un leggero sorriso ad addolcire ulteriormente il suo volto. È venuto il momento di separarci e, anche se sempre più controvoglia, devo decidermi a salutarlo. In fin dei conti, ora, non mi servono scuse o preghiere a qualsivoglia divinità per sperare di tornare a uscire con Matt. Dopo questa sera, questa serata magica che è migliorata sempre più ogni minuto che passava, mi bastano una semplice chiamata o un messaggio.

«Grazie ancora per tutto» dico.

«Dovrei essere io a ringraziare te per aver accettato di venire e…» si interrompe, compiendo un gesto vago con la mano. Ho come l’impressione di aver visto Matt improvvisamente alle prese con un leggero imbarazzo e il fatto che gli sia successo proprio ora, nonostante prima sia riuscito a dirmi con sicurezza quello che prova, fa decisamente tenerezza.

«Quindi ci sentiamo domani?» domando, inclinando leggermente la testa di lato.

Annuisce:

«Ci sentiamo domani»

Si avvicina a me, dandomi un nuovo bacio. Con molta probabilità dura anche più del precedente e io faccio il possibile per assaporarlo al meglio, alla ricerca di qualcosa che, in quello di prima, potesse essermi sfuggita.

Come ci separiamo Matt mi guarda subito:

«Buonanotte» mormora.

Gli sorrido:

«Buonanotte»

Apro la porta di casa, salutando il ragazzo un’ultima volta. Come mi chiudo l’ingresso alle spalle prendo una lunghissima boccata d’aria, resistendo a stento all’impulso di scoppiare a ridere. Mi passo le mani sul volto, sempre respirando a fondo. Non ricordo neanche l’ultima volta che mi sono sentita così, che mi sono sentita come se nulla, nella mia vita, potesse andare per il verso sbagliato. Guardo verso il piccolo soggiorno di casa mia, in cima alle scale. Jenna è rimasta da me, questa sera, perché voleva sapere seduta stante l’esito del terzo tempo. Temo che non andrò a letto molto presto se dovessi decidere di dirle subito quello che è appena accaduto con Matt, ma voglio assolutamente farlo. Voglio condividere con lei la mia gioia e la mia incredulità per la fine di questa serata, così da poter crollare a letto, subito dopo, felice.

 

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Capitolo 28
*** Matt ***


– Ventotto –

 

Matt

 

 

Dovrei rimettermi a camminare. Dirigermi verso l’albergo per tornare al terzo tempo a salutare i miei amici, così da poter rientrare nel mio appartamento per buttarmi finalmente nel letto, ancora vestito, concludendo la serata come ho già fatto altre volte.

Tuttavia non riesco a muovermi, continuo a rimanere impalato, gli occhi fissi sulla porta di casa di Danielle, dove lei è appena entrata dopo essersi voltata un’ultima volta sorridendo.

Mi passo una mano fra i capelli al pensiero di quanto lei fosse bella stasera, con il suo abito rosso, i capelli raccolti e il trucco leggero. Ripenso automaticamente a tutti gli sguardi e i gesti che ha compiuto mentre le dicevo – con le parole più immediate e, probabilmente, insignificanti che conosco – quello che sento per lei; mi sono accorto che ha sussultato impercettibilmente, che la presa sulla mia mano si è fatta più serrata, che le sue spalle si sono irrigidite. Per me, tutti questi, sono stati segnali sufficienti a farmi capire che Danni aveva intuito ciò che stavo per dirle e che, al contempo, desiderava che lo facessi.

Faccio un lungo respiro e mi sembra di sentire ancora il profumo della ragazza, mischiato dolcemente all’odore di Cardiff. Ho fatto il possibile per memorizzarlo mentre saliva delicatamente dai suoi capelli quando il suo corpo era vicino al mio. Così come ho fatto il possibile per assaporare fino in fondo il gusto custodito sulla sua bocca.

Sento un leggero fremito percorrermi al pensiero del bacio scambiato con Danni, a quel contatto lieve che lei non ha esitato a ricambiare, schiudendo le labbra affinché il suo respiro potesse incontrare il mio. Ho percepito perfettamente i suoi muscoli che si rilassavano mentre facevo scorrere la mia mano lungo la linea sinuosa del suo collo, fino a raggiungere i suoi capelli. E lo sguardo che ci siamo scambiati appena ci siamo separati è stata la conferma che nulla era rovinato ma che tutto può solo migliorare.

Io e Danni abbiamo appena iniziato una relazione. Dovremo affrontare l’argomento a quattr’occhi, chiarire determinate cose, ma non penso che dopo stasera tutto resterà come i giorni precedenti. Non posso desiderare altro. Da quando l’ho conosciuta fino a oggi sono passati quasi tre mesi, non è molto tempo, ne sono consapevole, eppure non mi sembra di avere mai preso una decisione sbagliata che la riguardasse in tutti questi giorni in cui ho avuto a che fare con lei. Danni è una ragazza semplice, indipendente e intelligente, un mix letale e problematico per chiunque sia alla ricerca di una donna che lo assecondi e basta. Invece non è ciò che cerco io, quello che speravo di trovare in una ragazza è la capacità di essere continuamente in grado di stimolarmi, sotto qualsiasi punto di vista. Sono sempre stato un amante del confronto e del dialogo e non c’è niente che mi attiri di più in una ragazza che la prospettiva di avere a che fare con qualcuna che non ti stanca mai, che troverà sempre un modo o l’altro per aiutare a far passare il tempo.

Dev’essere stato questo ad attirarmi fin da subito in Danielle. Fin da quel primo terzo tempo in cui lei è rimasta con me mentre aspettavamo il ritorno di Jamie. Ho capito che con lei ci sarebbe sempre stato qualcosa di cui parlare, per tale motivo l’ho invitata a bere qualcosa solo pochi giorni dopo. Con il passare del tempo le nostre conversazioni, per quanto brevi nei semplici rientri a casa, sono diventate qualcosa di talmente piacevole che mi sentivo sempre più a mio agio. Con Danni potevo – e posso – essere semplicemente Matt, il ventiseienne che ama giocare a rugby e guardare serie tv, e non Matthew Evans, il capitano gallese. Non so se sa quanto questo ha significato per me. Ripensare a lei, al nostro legame che si rafforzava fino a sfociare in ciò che è successo stasera, mi fa battere il cuore come a un ragazzino. Non riesco a smettere di sorridere, sono certo che Paul capirà da solo quanto è appena accaduto, gli basterà guardarmi in faccia.

Mi incammino per tornare al terzo tempo, dopo aver frenato a forza il mio corpo dall’impulso di suonare il campanello di casa di Danielle per chiederle di stare ancora un po’ con me.

Strada facendo ripenso alla giornata di oggi, alla partita, al Millennium Stadium, ai tifosi che ci hanno sostenuto fino alla fine, credendo profondamente nelle nostre capacità. Mi torna alla mente il clima negli spogliatoi e il mio stato d’animo che, ora, ricordo a malapena. E ripenso anche al terzo tempo, a tutto quello che è successo, finendo inevitabilmente con il tornare coi pensieri a Danni. Devo ancora abituarmi all’idea che ora potrò vederla ogni volta che voglio, che potrò sentirla appena ne avrò bisogno, che potrò andare a trovarla senza un vero motivo, solo per stare con lei; ci metto sempre un paio di giorni ad adattarmi alle novità che subentrano nella mia vita.

Smetto di camminare, sollevando lo sguardo sull’albergo che mi si para davanti: sono arrivato, è giunto il momento di raccontare tutto quanto al mio amico Paul. Al solo pensiero mi viene quasi da ridere, perché sono certo di sapere già quello che mi dirà appena mi vedrà, le espressioni che assumerà durante il mio racconto e, quasi certamente, anche quale sarà il suo commento alla fine. Non per niente siamo come fratelli.

Mi avvio, rientrando nell’albergo. Saluto il receptionist e proseguo fino alla sala da ricevimento, ormai vuota in gran parte. Scruto fra le persone ancora presenti, sia per vedere chi è rimasto al terzo tempo, sia per riuscire a scovare Paul; dubito che il mio amico se ne sia già andato, non avrebbe mai lasciato la festa senza prima aver atteso il mio ritorno, non stasera almeno. Lo trovo vicino al bancone del bar, intento a conversare allegramente con uno dei piloni neozelandesi. Lo raggiungo, camminando con calma, ripetendo mentalmente a me stesso di evitare di assumere qualsivoglia espressione che possa smascherare al mio amico quanto è successo prima con Danielle: voglio che sia una sorpresa e che lui fatichi, e parecchio, per scoprirla.

Quando sono accanto ai due uomini mi fermo, rimanendo in silenzio in attesa di venire considerato da entrambi o da uno dei due. Non devo aspettare a lungo: come arrivo si voltano. Paul si dipinge in volto un gran sorriso e Kieran, il suo interlocutore, mi accoglie con un cenno.

«Già di ritorno?» mi punzecchia immediatamente il mio compagno di squadra.

«Sì, già di ritorno» replico, cercando di non lasciargli intravedere nulla su quanto successo. «Non volevo interrompervi, scusate. Se dovete finire di parlare ripasso dopo»

Paul e Kieran si scambiano un’occhiata ed è quest’ultimo a riprendere parola:

«No, non preoccuparti. In totale onestà sospetto fossimo giunti alla fine»

«Esatto» conferma Paul.

«Vado a vedere cosa stanno combinando gli altri. Ci vediamo più tardi»

Il neozelandese si congeda con queste ultime parole, dopo aver atteso che noi ricambiassimo il saluto. Mi volto verso Paul, notando che lui mi sta guardando, un sopracciglio alzato e un sorriso vittorioso in volto:

«Allora?» domanda.

«Allora cosa?» chiedo di rimando.

«Oh, andiamo» sbotta. «Sai perfettamente a cosa mi riferisco, non fare il finto tonto. Non ti caverò a forza le parole di bocca, stasera, quindi faresti meglio a iniziare a raccontarmi tutto quanto»

Mi strappa un sorriso e, alla fine, scuoto la testa divertito. Non posso pretendere che si trovi le risposte da solo, questa volta gli racconterò com’è andata. Ma alla prossima occasione lo farò penare senz’altro.

«D’accordo, ok. Allora…» attacco, ma lui mi interrompe, piazzando una mano aperta davanti al mio naso.

«Ah-ah, aspetta, non ancora. Prima prendiamoci qualcosa da bere. La narrazione è più fluida con una bionda fra le mani»

Detto ciò si volta verso il bar, chiamando a sé il barista con un cenno. Ordina due birre e non si azzarda a dire una parola prima che queste arrivino. Appena gli vengono servite Paul torna a concentrarsi su di me, allungandomi uno dei due boccali. Solleva il suo:

«Mi auguro di essere in procinto di brindare a qualcosa» dice, alludendo, non troppo velatamente, a quello che ho cercato di dirgli solo pochi minuti fa.

Mi limito a guardarlo, tentando di rimanere serio, per quanto impossibile. Infatti non ci riesco, un sorriso affiora sulle mie labbra e, a giudicare dall’espressione che il mio amico assume, non è così invisibile.

«Lo sapevo, lo sapevo» esclama, esaltandosi. «Vedi che hai fatto bene a seguire il mio consiglio?»

«Ma di che stai parlando?» domando, al solo scopo di provocarlo un po’.

«Non prendermi in giro. Chi è stato a dirti di darti una mossa?»

Indica la sua faccia con un eloquente gesto, poi sembra riflettere un momento:

«Glielo hai detto, vero?»

«Sì, gliel’ho detto. Ma non dovevo essere io a raccontarti tutto senza che tu mi cavassi le parole di bocca?» cito, guardando Paul di sbieco.

Lui si blocca:

«Hai perfettamente ragione»

Mi lascia il via libera con un cenno dopo avermi pregato di evitare i particolari più melensi – che, comunque, non glieli avrei certamente detti – e inizio a raccontargli, finalmente, tutto. Sono il più sintetico possibile, sia perché non sono bravo a romanzare qualcosa, sia perché conosco Paul e so perfettamente che lui non vuole che si giri troppo a lungo intorno al succo della questione. Per questi motivi il mio resoconto si limita al rientro a casa di Danielle, a me che le dico semplicemente quello che sento, a ciò che ci siamo detti dopo e al bacio che ci siamo dati a conclusione di tutto. Il mio amico rimane ad ascoltare in silenzio, senza interrompermi una sola volta. Di tanto in tanto beve un sorso della sua birra, sollevando le sopracciglia e incurvando l’angolo della bocca nei momenti salienti, ma sempre senza aggiungere nulla di più. Quando termino il mio racconto mi zittisco, attendendo che sia lui il primo a dire qualcosa. Paul non si fa aspettare a lungo; si mette a ridere di soddisfazione, sbandierando una delle sue esultanze più contagiose. Mentre parlavo sono riuscito a rimanere serio proprio perché anche lui lo era, ma ora, davanti al sorriso che mi propone e che mi ricorda che con Danni è davvero successo tutto quanto, non posso fare a meno di imitarlo.

Allarga le braccia:

«Sono davvero, davvero, contento per te» inizia. Si avvicina a me e mi abbraccia, lasciandomi abbastanza perplesso: «Te lo meriti, amico mio. Anzi, ve lo meritate entrambi» continua.

Appena si stacca da me lo guardo, indicando poi la birra che tiene in mano:

«Quante ne hai bevute di quelle?» chiedo.

Ride:

«Non quante ne pensi. È che sono seriamente felice per te. Quella ragazza ti piace davvero, l’ho capito dalla prima volta in cui me ne hai parlato»

Mi limito a sorridere, senza replicare.

«Domani vi vedete?» chiede Paul, dopo un po’ di silenzio.

Alzo le spalle:

«Direi proprio di sì. Domani la chiamo e sento cosa vuole fare. Abbiamo un paio di cose di cui parlare»

«E che non avete affrontato stasera»

«No, infatti. Danni era davvero stanca, si vedeva. Almeno, ora, posso dire che abbiamo tempo per parlarne con calma, io e lei»

«Senz’altro. Sei stanco anche tu, vero?»

Il suo tono si fa più premuroso a quest’ultima domanda. Annuisco con il capo, abbozzando leggermente un sorriso. Paul ha ragione, sono stanco. Come ho rimesso piede qui dentro ho sentito il mio corpo cedere improvvisamente, pareva quasi avesse mantenuto le ultime energie per permettermi di dire a Danielle quello che provo, poi, una volta fatto, le forze mi hanno completamente abbandonato. Resisto per inerzia, solo perché il mio corpo ci è già passato e so con che ritmi procedere.

«Andiamo a sederci, allora» propone Paul.

Io acconsento e lo seguo verso uno dei tavoli della sala. Finita la birra me ne tornerò a casa per poter finalmente dormire, lasciandomi cullare da tutti i pensieri che, certamente, mi riempiranno la testa prima di prendere sonno. Ma non sarà un problema, perché sono certo che questa volta saranno positivi nonostante la sconfitta contro gli All Blacks. Stanotte è il rugby a passare in secondo piano.

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Capitolo 29
*** Danni ***


– Ventinove –

 

Danni

 

 

Matt mi cammina davanti di qualche passo, si volta verso di me, sorride e mi tende la mano:

«Vieni» dice appena gliel’afferro.

Proseguiamo per il corridoio e come dà sull’esterno una luce bianca quasi mi acceca. I miei occhi si abituano in fretta a questo improvviso bagliore, Matt smette di camminare e così faccio anche io. Lascio scorrere lo sguardo tutto intorno a me, facendomi sfuggire una monosillabica espressione di sorpresa appena mormorata fra le mie labbra.

Sono al Millennium Stadium, sul prato del Millennium Stadium e vi sono appena entrata attraverso il corridoio che i giocatori imboccano ogni volta che devono prepararsi a giocare la loro partita. Sto avendo la possibilità di ammirare uno dei mostri sacri degli stadi rugbistici completamente vuoto a eccezione di me e Matt. Sembra tutto quanto surreale, quasi magico. Non ho mai visto questo stadio senza persone, tutte le volte che ho messo piede qui dentro l’ho sempre fatto quando ogni posto a sedere era occupato da qualcuno, quando Delilah rimbombava ovunque fra queste mura. Invece ora c’è solo silenzio, silenzio dappertutto. Sembra davvero un altro posto, pur essendo lo stesso mi sembra di essere entrata in un luogo in cui non avevo mai messo piede prima. Per me è un’emozione unica, proprio come unico è il fatto di poter fare questa esperienza in compagnia di Matt, che ora posso definire a tutti gli effetti il mio ragazzo.

Domenica scorsa, il giorno dopo la partita fra Galles e Nuova Zelanda, il giorno dopo quel terzo tempo, io e Matt ci siamo visti per chiarire diverse cose riguardo la relazione che eravamo in procinto di iniziare. Il ragazzo mi ha raggiunto a casa mia, appena arrivato ci siamo dati un lungo bacio, probabilmente ben più lungo dei due che lo hanno preceduto e davanti a un caffè abbiamo semplicemente parlato di ciò che speriamo e ci aspettiamo di vivere in compagnia dell’altro. Nessuno dei due vuole una relazione superficiale. Essendo entrambi più vicini ai trent’anni che ai venti pensiamo che la nostra storia debba essere affrontata da persone mature ed è esattamente così che abbiamo deciso di portarla avanti. Ognuno di noi ha bisogno dei propri spazi, dei propri momenti da trascorrere con gli amici o in solitudine. Matt non ha esitato a dirmi di rispettare il mio volermi sentire emancipata e indipendente, così come io gli ho garantito che avrà sempre il mio sostegno e la mia comprensione per quanto riguarda la sua carriera rugbistica. So perfettamente che non sarà tutto semplice, perfetto e bellissimo, che ogni tanto qualche battibecco fra di noi ci sarà sicuramente, che scelte infelici potrebbero essere prese da parte di entrambi, ma sono pronta a correre il rischio, se così lo possiamo chiamare. Matt mi piace veramente, ora non ho più dubbi.

Smetto di guardarmi intorno, accorgendomi che lui mi sta osservando, sorridendo:

«Che te ne pare?» chiede.

«È incredibile. Mette quasi i brividi» rispondo, lanciando un’ultima occhiata in giro, sugli spalti vuoti.

«Vero. Anche se lo preferisco pieno di gente, devo ammettere che in questo stato mi rilassa notevolmente»

Avanzo di qualche passo, affondando appena con le scarpe nel prato del campo da rugby. Alla fine, un passo dopo l’altro, arrivo al centro dello stadio. Mi volto verso Matt, rimasto fermo sulla linea di bordocampo. Lui ricambia il mio sguardo e subito dopo si avvia, raggiungendomi e fermandosi di fronte a me.

«Pronto per domani?» gli chiedo non appena l’ho vicino.

Si volta un momento, osservando il corridoio di ingresso al campo. Domani lo attende l’ultimo dei test match di novembre, contro la nazionale sudafricana. Gli Springboks sono secondi nel ranking mondiale e certo non sono avversari semplici contro cui misurarsi. Sono certa che Matt lo sappia meglio di me e sospetto che uno dei motivi per cui abbia deciso di venire qui oggi sia quello di tentare di trovare un po’ di pace prima della partita.

Torna a guardarmi:

«Sì. Direi proprio di sì» risponde, con quella sua sicurezza unica.

Gli sorrido, felice nel vederlo così. Domani sarà un’altra prova importante per lui e la nazionale gallese e certamente ogni giocatore darà il massimo per chiudere questo Autunno Internazionale nella maniera migliore, dando l’ennesima prova di determinazione e orgoglio che certo non manca ai quindici che scenderanno in campo da titolari.

«Con chi verrai a vedere la partita?» chiede Matt quasi subito.

Due giorni fa mi ha regalato due biglietti per il match, quelli che la squadra concede abitualmente ai propri giocatori. Matt mi ha detto che gli avrebbe fatto piacere avermi sugli spalti e potermi vedere anche prima del terzo tempo a cui questa volta parteciperò a tutti gli effetti come la ragazza del capitano – appellativo che, ho scoperto, mi era stato attribuito dalla ragazza di Mark al termine della scorsa cena.

«L’ho dato a Jamie» gli confido.

Sorride:

«Ero convinto ci saresti venuta con Jenna»

«No, lei può benissimo vederla a casa con il suo fidanzato. Per Jamie invece vivere le partite della nazionale al Millennium Stadium è sempre un’emozione unica. Non potevo lasciargliela sfuggire dopo l’opportunità che mi hai dato»

«Allora Jamie sarà contento»

«Lo è già»

«Mi fa piacere»

Mi limito a sorridere, aspettando che lui continui la conversazione, abbastanza sicura che a breve Matt aprirà bocca per dire qualcos’altro. Tuttavia nulla di tutto questo succede; il ragazzo non fiata, si limita a inumidirsi appena le labbra, protraendo ulteriormente il silenzio.

«Sei davvero sicuro che sia tutto a posto?» domando poi, notando che il suo sguardo vaga sugli spalti in modo sempre più incerto.

«Sì, certo. È solo che sono un po’ nervoso. Lo sono sempre prima di un match, specie se importante quanto quello di domani»

Penso il più in fretta possibile a cosa potergli dire per tranquillizzarlo, ma lui riprende parola prima che possa pronunciare qualsiasi cosa:

«È solo che, il più delle volte prima di una partita, mi trovo sempre a chiedermi cosa spinga Jones a ogni convocazione a riconfermarmi» Si stringe nelle spalle: «Non mi riferisco solo al mio ruolo di capitano, ma anche a quello di numero sette. Davvero in tutto il Galles non esiste un terza linea migliore di me?»

Rimango a osservarlo, colpita dalle sue parole. Matt mi ha appena rivelato una delle sue insicurezze più grandi e non so quante persone ne siano a conoscenza poiché lui non parla molto di sé di sua spontanea volontà. Fatto sta che questa volta so perfettamente cosa rispondergli, perché ho avuto modo di osservarlo come semplice tifosa prima e come amica e ragazza dopo.

Alzo appena le spalle:

«Beh, probabilmente, da qualche parte, un numero sette migliore di te può esserci. Tuttavia, ammesso che esista, non si è ancora fatto vivo»

Abbozza un sorriso e io riprendo parola:

«Jones non è uno sprovveduto, ha sicuramente i suoi buoni motivi per darti fiducia ogni volta e, sai, io sono perfettamente d’accordo con lui. Semplicemente tu sei il più indicato sia come terza linea che come capitano, al momento non c’è in giro nessuno in grado di sostituirti in uno di questi due ruoli. Se c'è una cosa che ho imparato in tutti questi miei anni da tifosa del Galles, è che tutti i mille sessantanove uomini che hanno vestito quella maglia prima di te erano testardi e orgogliosi, esattamente come lo sei tu»

Respiro, guardando il ragazzo dritto negli occhi:

«Tu sei un Dragone. E se mi dicessi di nuovo che non sei sicuro di questo io non ti crederei»

Lui sa perfettamente di cosa sto parlando. Sulla maglia della sua divisa da giocatore, proprio sotto il simbolo della nazionale, vi è cucito con del filo bianco il numero 1070. È un monito, una promemoria: serve a ricordare che, prima di lui, altri mille sessantanove uomini sono stati giocatori del Galles e che tutti loro hanno onorato e rispettato la maglia rossa nell’esatto modo in cui ora lo sta facendo Matt. Il suo sorriso si fa più convinto, torna a essere sicuro e luminoso, così come il suo sguardo si fa fiero.

«Grazie» dice.

Replico con un sorriso, sentendomi soddisfatta dell’esito che le mie parole hanno portato al giocatore. Credo fortemente in tutto ciò che gli ho appena detto e sono contenta di essere riuscita a confessarglielo, anche se certamente non può valere quanto una dichiarazione d’amore. A quest’ultimo pensiero mi viene spontaneo schiarirmi la gola, come preoccupata che Matt possa aver sentito quanto ho appena pensato.

Punto con il dito su uno degli spalti, più o meno all’altezza della quinta fila di sedie:

«Domani, a quest’ora, io sarò lì» dico.

Sono consapevole che non c’entri nulla con quanto stavamo dicendo prima io e il ragazzo, ma forse cambiare argomento pur continuando a parlare di rugby e della partita di domani, ci eviterà di infilarci in conversazioni troppo profonde per cui devo ammettere di non sentirmi ancora pronta. Io e Matt stiamo insieme da soli cinque giorni e, qualunque cosa possano pensare gli altri, cinque giorni per riuscire a gettarsi totalmente in una storia non sono sufficienti. Anche se ora posso permettermi maggiori libertà con il ragazzo, esternare il mio lato più sentimentale mi fa sempre sentire in imbarazzo e, ciò che gli ho detto poco prima, almeno per me, non sono state parole semplici da mettere in fila.

Matt porta lo sguardo sul punto che ho appena indicato, dopodiché controlla rapidamente l'orologio e torna a rivolgersi a me, sorridendo:

«Io invece sarò qui»

Entrambi abbassiamo lo sguardo sul campo da gioco, la cui erba è perfettamente tagliata. Nessuno di noi dice più nulla, quando sollevo lo sguardo su Matt mi accorgo che continua a tenere gli occhi fissi sul prato, apparendo pensieroso.

«Non ti ho mai visto tanto preoccupato» gli dico.

Torna immediatamente a guardarmi, gli occhi celesti si posano subito sui miei e sul suo viso affiora un sorriso, prima un semplici abbozzo, quasi intimidito, che si fa via via più dolce:

«Non mi hai mai visto prima di una partita, in effetti» confida.

Rimango a guardarlo, pensando un momento alle parole giuste da potergli dire. Reprimo l'istinto di avvicinarmi a lui e baciarlo, per il semplice fatto che il nostro reciproco scambio di sguardi, al centro del Millennium Stadium, mi sta dando sufficienti emozioni.

«Domani andrà bene, vedrai»

«Come fai a esserne sicura?» domanda, sollevando quasi impercettibilmente le sopracciglia.

«Me lo ha detto Jamie»

Matt sfodera l'ennesimo sorriso, scuotendo appena il capo:

«Mi piace quel piccoletto» ammette in tono divertito.

«Jamie piace a tanti ora che ci penso» confermo.

Il ragazzo lancia un'occhiata in direzione del corridoio, il punto da cui siamo entrati:

«Forse è meglio se andiamo. In realtà non dovremmo essere qui ora, se ci dovessero trovare potrebbero non essere pienamente d'accordo»

«Anche se sei il capitano del Galles» domando scherzosamente.

«Sì, anche se sono il capitano del Galles» risponde lui, sempre tenendo gli occhi sull'ingresso.

«D'accordo. Ma prima voglio fare una cosa»

Come termino la frase mi siedo immediatamente sul prato del campo da rugby, per poi distendermici sopra. Ho sempre desiderato sapere cosa si prova stando sdraiati su un vero campo da gioco, uno di quelli che viene calpestato, violentato dai tacchetti delle scarpe, eppure, allo stesso tempo, amato come fosse un suolo sacro da chi su questi stessi fili d'erba si sente a casa.

«Del tipo?»

Matt pronuncia queste parole tornando a voltarsi verso di me. Mi accorgo che non mi vede, assume un'espressione sorpresa che poi diventa divertita quando vede dove sono finita. Si mette a ridere, finendo poi per imitarmi e sdraiarsi accanto a me:

«Era questo che volevi fare?» chiede.

«Già e sono contenta di aver avuto la possibilità di farlo. Mi spiace solo che non ci sia il tetto aperto ora» dico, gli occhi fissi sulla copertura in acciaio della struttura.

Matt non replica, quando mi volto appena per vedere cosa sta facendo mi rendo conto che anche lui continua a osservare il tetto che abbiamo sopra. Rimaniamo in silenzio uno al fianco dell'altra per diversi minuti, dopodiché, convinta di dover essere io a dire basta, mi muovo per rialzarmi:

«Ok, sono soddisfatta. Possiamo andare»

Matt mi afferra la mano, fermandomi:

«No, aspetta. Rimaniamo un altro po'»

Mi guarda negli occhi e io non riesco più a dire nulla. Torno a sistemarmi vicino a lui, senza lasciare la presa dalla sua mano. Fra di noi cala una specie di silenzio di raccoglimento, uno di quelli quasi reverenziali che nessuno ha mai il coraggio, o la voglia, di spezzare. Nonostante il passare dei minuti Matt continua a essere sempre concentrato sul soffitto di lamiera, sicuramente sovrappensiero. Il suo respiro comincia a farsi sempre più profondo e regolare. Non ho il coraggio di dire o fare nulla perché mi rendo conto che, finalmente, lui è riuscito a tranquillizzarsi. In qualche modo Matt è riuscito a ritrovare sé stesso e la calma di cui è sempre in possesso. Non so a cosa stia pensando, che cosa stia vedendo in realtà invece di ciò su cui ha gli occhi, ma sono certa che le preoccupazioni che lo attanagliavano prima sono quasi completamente scomparse. Domani Matt scenderà in campo con la stessa determinazione di sempre, pronto a guidare la sua nazione contro rivali agguerriti e forti come gli Springboks, determinato a fare il possibile perché tutto vada per il meglio. Sono certa che se ora gli chiedessi di dirmi come pensa che andrà domani la risposta sarà un semplice "bene", ma carico di tutta la convinzione che lui possiede.

Mi sistemo quanto più comodamente possibile, ritornando a guardare fisso davanti a me, rendendomi conto di sentirmi in pace. Non ho assolutamente idea di quanto tempo trascorrerà ancora prima che Matt si decida a rialzarsi, ma sono disposta ad aspettare. Perchè alla fine qui, accanto a lui su questo prato, ci sto incredibilmente bene.

 

 

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Capitolo 30
*** Jamie ***


– Trenta –

 

Jamie

 

 

Non so a cosa pensare, non mi viene in mente niente che possa aiutarmi a rilassarmi prima dell’inevitabile fischio d’inizio.

Gli spalti del Millennium Stadium sono pieni, ogni singolo posto a sedere è occupato da un tifoso di una delle due fazioni. Delilah si leva forte fra i sostenitori gallesi, che cantano a squarciagola facendo rimbombare la melodia della canzone fino al tetto chiuso, così che possa vibrare ovunque intorno a noi.

Davanti a me il quindici della rosa, la nazionale inglese, con indosso la loro maglia bianca, immacolata. Rimarrà tale ancora per poco. Anche se il campo da gioco è stato coperto, su Cardiff è piovuto fino a ieri. Nonostante il prato appaia perfetto, morbido e ordinato, l’umidità traspare ugualmente dai suoi fili d’erba. Ho già affrontato la nazionale inglese un’altra volta, ma all’epoca giocavo ancora in U20 e non mi sono misurato con gli stessi uomini che ho di fronte ora.

Mi sento nervoso e veramente terrorizzato. Per i miei famigliari e i miei amici, il mio esordio da titolare fin dal primo minuto con la mia nazionale, durante il Sei Nazioni e proprio contro gli inglesi, significa che le mie capacità sono state riconosciute.

Forse è vero, ma è anche vero che se il giocatore che sostituisco non si fosse infortunato, ora sarei certamente in panchina, a fremere per poter entrare.

Indosso la divisa della nazionale gallese, quella della squadra maggiore, il numero dodici stampato in bianco sulla schiena. Non sono riuscito a diventare niente di quello che avrei voluto quando ero piccolo. Volevo fare mischie, diventare un perno importante per la mia squadra, un ball carrier1 di tutto rispetto, un avanti potente e pericoloso, quello da fermare prima che possa prendere l’ovale in mano. Poi ho scoperto che correre e perforare la difesa avversaria è una delle sensazioni migliori del mondo e non ho più voluto fare altro. Il mio coach, quello che ha continuato ad allenarmi fino a permettermi di esordire nella prima squadra dei Cardiff Blues a diciassette anni, mi ha fatto capire che il ruolo giusto per me è quello di primo centro e io ho capito che ha assolutamente ragione. Da quando ho iniziato a ricoprirlo, da quando sono Jamie Owens, il ventenne centro dei Cardiff Blues, sto così bene nel mio ruolo da non riuscire neanche a spiegare come mi sento. Semplicemente mi sento vivo.

Per arrivare dove sono ora ho seguito fedelmente i consigli di tutti coloro che hanno creduto nelle mie capacità e ho sempre fatto il possibile perché fossero fieri di me. Ho sempre fatto del mio meglio per non deludere i miei genitori e i miei amici più preziosi, inclusi Matt e Danni.

Loro due dovrebbero essere da qualche parte anche ora, seduti in mezzo a questa marea di persone. Fra la bolgia di gente accorsa per il match certamente anche loro stanno cantando Delilah, uno al fianco dell’altra come lo sono stati negli ultimi dieci anni. La loro sì che è una bella storia, una di quelle con il finale già scritto, con il per sempre scontato. Perché è così che sono loro due insieme: perfetti. Hanno portato avanti la loro storia per anni, un giorno alla volta, costruendosi intorno il mondo che volevano.

Danni, una volta finiti gli studi, non è diventata una guida turistica come avrebbe voluto prima di iniziarli. Un giorno, poco dopo la laurea, si è lasciata guidare dal suo istinto dentro la piccola libreria che affaccia sulla strada di casa sua e da lì non è più uscita; o, meglio, ne usciva tutti i giorni al termine del suo turno lavorativo.

Matt, invece, a trentadue anni ha smesso con il rugby giocato e da allora allena. Le sue capacità e il suo nome gli hanno permesso di allenare la nazionale gallese U18 e la squadra di Cardiff di U16, così da guidare i giovani fino a farli diventare grandi giocatori per la squadra dei Cardiff Blues, il club che lui non ha mai lasciato nemmeno per un giorno.

E la loro vita è stata coronata dall’arrivo di una bambina, la piccola Petra, nata quattro anni fa; un’adorabile scimmietta con capelli di cenere dorata e gli stessi occhi della madre. Una Danielle in miniatura che ha afferrato il pallone da rugby prima ancora di afferrare la mano del padre, più o meno. Nel rugby gallese il sesso di una persona non è un limite e io sono più che sicuro che, fra alcuni anni, vedrò quella piccoletta andare in meta in mezzo ai pali con la maglia rossa della sua nazione.

Ma chi pensa che la vita di Danni e Matt insieme sia stata sempre rose e fiori sbaglia di grosso. Perché, si sa, le cose per andare storte ci mettono un solo attimo.

Nell’anno della Rugby World Cup2 in Inghilterra, proprio nell’ultimo dei test match in preparazione a questo importantissimo evento, Matt si è infortunato durante il gioco. La frattura alla caviglia che si è provocato durante una ruck lo ha tenuto fermo per mesi interi. Il dolore maggiore legato a questo infortunio era dovuto proprio al fatto di non poter partecipare ai mondiali che quell’anno, a detta di tutti, Matt avrebbe vissuto da protagonista, guidando come capitano la nazionale gallese. Invece ha dovuto assistere a tutto quanto dalle tribune, vivendo le emozioni della coppa del mondo da spettatore. All’epoca lui e Danni non stavano ancora insieme da un anno e per lei riuscire a trovare le parole giuste da pronunciare ogni volta, così da aiutare Matt a sentirsi meglio, non è stato sicuramente semplice. Anche se avevo undici anni sono comunque riuscito a capire quanto per lei fosse importante fare il possibile per sostenere e aiutare il suo uomo a superare quel lungo periodo di insicurezza fisica e psicologica. Danni è riuscita egregiamente nel suo intento, così, quando Matt è potuto tornare sui campi da gioco più vivo ed emozionato che mai, il loro legame si è saldato ulteriormente e lui ha avuto modo di capire di aver fatto la scelta migliore prendendo Danielle accanto a sé.

Tre anni dopo la mano del destino è tornata ad avventarsi sulla coppia, pretendendo che Matt ripagasse il debito maturato nei confronti della sua partner.

Il padre di Danni e di mia madre, ovvero mio nonno, si è ammalato. Quando gli venne diagnosticato il cancro io non ero più un bambino e ricordo ancora perfettamente che appena mi venne data la notizia l’unica cosa a cui riuscii a pensare fu un orrendo presagio di morte. Per la nostra famiglia furono tempi bui, per mia madre, per Danni e per mia nonna, lo furono ancora di più. Danielle ha fatto il possibile in quel periodo per essere forte a sufficienza anche per il resto delle donne della famiglia, ma i crolli erano inevitabili e, in quei momenti, Matt le era più vicino che mai. Lui l’ha sostenuta ogni giorno nello stesso modo in cui aveva fatto lei anni prima. Le è stato vicino, ha fatto il possibile per cercare di farla sorridere, dimostrandole cosa significasse avere accanto a sé qualcuno disposto a tutto pur di aiutarti.

Per nostra fortuna, alla fine, le cose sono andate per il meglio. Le cure e il tempo hanno aiutato mio nonno a superare la malattia. Quei lunghi mesi hanno permesso a Danni di capire quanto Matt tenesse a lei, così disposto a tutto pur di non vederla infelice. Certo, alti e bassi ci sono stati fra loro, tutte le storie ne vivono e, forse, il bello delle relazioni sta proprio in questo. Tuttavia non hanno mai preso in considerazione l’ipotesi di separarsi e se devo dire come spero di vivere la mia futura vita coniugale – se mai dovesse esserci una futura vita coniugale – mi viene spontaneo rispondere “come quella di Danni e Matt”.

Ma solo perché i miei genitori hanno me in mezzo ai piedi, altrimenti sarebbero loro la prima scelta. Perché la verità è questa: anche la mia famiglia, i miei genitori, insieme sono perfetti, ma ci sono in mezzo io a complicare un po’ – molto – le cose. Perché sono testardo, orgoglioso e determinato come poche altre persone e se per alcuni questi sono ottimi pregi per un rugbista, per tanti altri possono essere discutibili difetti. E io sono consapevole di questi miei difetti, lo sono eccome, ma è grazie a loro se ho il coraggio di correre dritto per dritto contro gli avversari di qualsiasi caratura per schiantarmici letteralmente contro. Proprio per merito dei miei difetti ho fatto alcuni di quei gesti che le persone hanno definito “folli” e “tecnicamente strepitosi” su un campo da rugby ed è sempre a causa loro che ora voglio fare ciò che mi è appena venuto in mente.

Un sorriso si appropria forzatamente del mio volto mentre seguo con lo sguardo il mediano d’apertura del Galles, pronto per calciare il pallone così da dare inizio alla partita, non appena il fischio dell’arbitro si farà largo fra il Millennium Stadium.

È la mia prima vera partita da titolare questa, giusto? Allora il primo ovale dell’incontro voglio recuperarlo io.

 

 

 

 

Prima di lasciarvi alle note, vi prego di leggere fino in fondo alla pagina.

 

Note:

1 ball carrier: per ball carrier vengono solitamente intesi i giocatori (che spesso vestono la maglia numero 6-7-8) in grado di riuscire a superare la linea di difesa anche quando questa è perfettamente schierata e riuscendo a mantenere il possesso del pallone.

Citando un articolo trovato su internet, firmato Roberto Iasoni, “Il ball carrier cade al di là del placcaggio, supera il punto d’incontro, arranca con tutte le sue forze per strappare ancora una zolla agli avversari sotto assedio. Getta non solo il cuore oltre l’ostacolo: pure la testa, le mani, il tronco, le gambe, i piedi. Tutto se stesso. Avanti. Sempre avanti. Magari di pochissimo, ma avanti. Finché si può. E conservando il possesso della palla.”

2 Rugby World Cup: I mondiali di rugby che si svolgono ogni quattro anni. L’edizione a cui faccio riferimento in questa storia è quella del 2015, svoltasi in Inghilterra.

 

 

 

 

 

La storia si conclude qui.

Dopo ventinove capitoli ho deciso di concludere con un punto di vista nuovo, ossia quello di Jamie, sperando di non aver fatto una scelta sbagliata.

Quando ho cominciato la pubblicazione di questa storia non credevo assolutamente di ricevere tante attenzioni quanto quelle che ho ricevuto e, lo ammetto, sono felicissima di vedere che mi sono sbagliata. Molti di voi hanno recensito, aggiunto la storia fra le preferite, le ricordate e le seguite e vi voglio ringraziare di cuore. In fin dei conti questo racconto è, sì, una storia d’amore, ma anche il mio personale tributo a uno sport che amo, il rugby, e a una Nazione e una nazionale da cui sono affascinata, il Galles.

Mi piacerebbe sapere cosa pensate di questa mia storia ora che è finita, ma non voglio comunque obbligarvi a recensire.

Vi chiedo come ultimo favore quello di continuare a leggere al di sotto di queste mie parole, in cui ho inserito alcune curiosità relative al mio lavoro, che spero lo possano rendere un po’ più intrigante e un filo più vero.

Grazie ancora di tutto.

MadAka

 

 

 

 

CURIOSITA’

 

• Matthew Evans non ha un vero e proprio presta volto. Per il suo personaggio mi sono basata su due giocatori della nazionale gallese che ammiro molto, ovvero Dan Biggar – mediano d’apertura, a cui mi sono ispirata maggiormente per l’aspetto – e Sam Warburton – numero sette e capitano del Galles, in assoluto il mio giocatore preferito. È a lui che mi sono ispirata maggiormente per dare forma, caratterialmente soprattutto, a Matt.

Danielle, invece, è totalmente frutto dalla mia fantasia.

 

• Altro omaggio presente nella storia è quello a Jamie Roberts, primo centro del Galles. Spezzettato fra due personaggi – il piccolo Jamie e Paul – è forse il giocatore a cui ho fatto il tributo maggiore.

 

• Sean Darren è il protagonista di un’altra long, pubblicata da me qui su Efp parecchio tempo fa ormai, e intitolata Felce argentata. Così come, sempre in quella long, compaiono anche i personaggi di Samantha e Noomu.

 

• Sempre riguardante Sean Darren, sospetto fortemente che chi segue il rugby abbia indovinato a chi mi sono ispirata per realizzare il personaggio. Ovviamente all’inimitabile Richie McCaw (che, per la cronaca, ha realmente origini scozzesi). Così come il rapporto Darren – Noomu è ispirato a quello McCaw – Read (ossia Kieran Read, numero 8 degli All Blacks).

 

• I test match di cui parlo nella storia sono veramente stati giocati in quell’ordine nel novembre 2014 e gli esiti sono quelli reali, tutti quanti. E, se volete saperlo, il risultato finale della partita Galles – Sudafrica – di cui Matt e Danni parlano nel ventinovesimo capitolo – si è conclusa 12 a 6 per i Dragoni.

 

Land of My Fathers è il titolo inglese dell’inno del Galles. In gallese è Hen Wlad Fy Nhadau (l’inno cantato dalla nazionale prima delle partite è proprio quest’ultimo).

 

• Sulle maglie dei giocatori è realmente cucito un numero e indica proprio la successione dei detentori della maglia.

Es: 1022 sulla maglia significa che quello è il milleventiduesimo giocatore a vestire la maglia della nazionale gallese.

 

• E 1070 è il numero cucito sulla maglia di Sam Warburton.

 

 

 

 

 

 

 

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