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Non
capisco come sia successo. Non ho visto l’attimo, né il frangente, né il gesto
che ha scatenato tutto. Vedo solo Scott avventarsi sull’altro, afferrarlo per
la maglia e tirarlo minacciosamente verso di sé. Poi tutto accade in pochissimo
tempo. Alcuni nostri compagni di squadra si avvicinano per dividere i due –
intenti a provocarsi e strattonarsi reciprocamente – imitati da alcuni
dell’altra squadra.
Mi
avvicino anche io:
«Scott,
smettila» dico, prendendo per la spalla il mio amico, che mi guarda e si libera
subito, tornando a concentrarsi sul suo rivale. Ed è quest’ultimo a prendersela
con me praticamente subito. Avvinghia il colletto della mia maglia:
«Stanne
fuori» esclama, spingendomi indietro.
Lo
screzio ormai è degenerato. Altri giocatori – maglie azzurre contro bianche –
si provocano a vicenda, altri ancora tentano di dividerli; le grida del
pubblico fanno da cornice al tutto, a cui si unisce anche l’arbitro con il suo
fischietto, suonano praticamente all’altezza del mio orecchio.
«Adesso
basta. Smettetela subito o sanzionerò qualcuno»
Altri
due richiami simili e tutto si interrompe, le squadre si dividono e l’arbitro
chiama a sé i due capitani, per far loro il suo discorsetto. So già cosa sta
dicendo loro, di informare i giocatori che quello non è il comportamento da
tenere, che la prossima volta ci saranno anche dei cartellini gialli. Ma nel
nostro sport, il rugby, queste scaramucce sono abbastanza frequenti,
soprattutto se il match non è ancora ruotato a favore di una delle squadre e si
è sullo zero a zero al trentaquattresimo minuto di gioco. Mi avvicino a Scott:
«Che
ti è preso?» gli chiedo.
Lui
mi squadra, poi allarga le braccia:
«Mi
ha provocato, non l’hai visto?»
Scuoto
la testa:
«No,
non l’ho visto. Comunque sia hai fatto male a reagire. Se l’arbitro chiama il
TMO1 è la volta buona che ti cacciano fuori»
Fa
una smorfia:
«Non
siamo in nazionale oggi, non sta a te farmi discorsi da capitano»
«Non
ti sto facendo discorsi da capitano, ma da compagno di squadra» gli faccio
notare.
Lui
farfuglia qualcosa e mi dà le spalle per allontanarsi, mostrando il numero tre
impresso sulla maglia rigata azzurro-blu. Scott Williams è sempre stato una
testa calda e di certo non avevo alcuna intenzione di fargli una ramanzina poco
fa. Volevo solo fargli notare che non ha senso rischiare un giallo per uno
strattone o per qualunque altra cosa sia successa. Rimanere in quattordici
contro quindici, soprattutto quando i nostri rivali sono i nordirlandesi dell’
Ulster, sarebbe la fine.
L’arbitro
fa riprendere la partita, fischiando. Annuncia che è calcio di punizione per
loro e il numero dieci irlandese ci ricaccia, con un potentissimo sinistro, nei
nostri ventidue2. Raggiungo insieme agli altri il punto esatto da
cui il gioco ripartirà con una touche3 easpetto che tutto sia pronto. Appoggio le
mani sui fianchi, mentre giocherello distrattamente con il paradenti. Mi sento
la gola bruciare e le spalle già indolenzite. Sette mischie4 solo
nel primo tempo – che per di più non si è ancora concluso – sono davvero tante
e le sto sentendo tutte sul mio corpo. Ma la pioggia che continua a scendere,
fine, fredda e tagliente, ha reso il pallone maledettamente scivoloso; schizza
fra le mani come una saponetta e tenerlo stretto è complicatissimo. Di
conseguenza il fallo più frequente che si commette è il passaggio in avanti,
con successiva ripresa del gioco da una mischia.
I
primi otto uomini si dispongono per la touche e mi infilo fra il mio numero sei
e il quattro, pronto. Il silenzio che caratterizza questo momento del gioco è
sempre inverosimile, solo fuori dal campo provengono delle voci, quelle dei
tifosi. Il tallonatore dell’ Ulster afferra l’ovale, scambiando un’occhiata
d’intesa con il suo capitano. Questi, di rimando, guarda il numero cinque,
schierato praticamente accantoa me, che
inizia così a dare le indicazioni per il lancio. Il fischio dell’arbitro
sovrasta le voci, frettoloso, e, con quel segnale, il gioco riprende.
*
Il
medico osserva la ferita, tiene il mio braccio fra le mani, il suo pollice
sinistro preme appena sulla pelle, come se volesse accertarsi che quella stessa
ferita non possa ricominciare a sanguinare. La pioggia che ha continuato a
scendere per tutto il match l’ha lavata come ha potuto, facendo scorrere rivoli
prima rossi intensi, poi sempre più dilavati e scialbi. Alla fine l’uomo pare
convincersi, comincia a tamponare il mio taglio con del cotone imbevuto di
disinfettante. Lo pulisce meglio che può da erba, terra e vaselina, in
silenzio. Io lo guardo distrattamente, pensando alla partita.
«Ti
brucia, Matt?» chiede.
Scuoto
la testa e gli sorrido; acqua ossigenata sulle ferite l’ho già provata numerose
altre volte.
Il
fatto di dovermi sottoporre a questa operazione anche ora, al termine della
partita, è dovuto ad una lacerazione da tacchetti da scarpe, avvenuta durante
una ruck5. Raggruppamento a terra, io che tento di rubare il pallone
e pedata che arriva volontaria sul mio braccio destro, lacerandomi la carne.
Fallo antisportivo. Cartellino giallo per loro e calcio di punizione per noi,
che purtroppo Mike non è riuscito a centrare, mancando i tre punti che ci
sarebbero tanto serviti per la vittoria.
Il
medico finisce di passare il disinfettante e comincia a fasciarmi con la garza
la ferita ora pulita.
Abbiamo
perso per due, dannati, punti. La cosa mi fa rabbia, ma se ripenso al match
sono comunque orgoglioso della squadra. Abbiamo lottato alla pari con l’ Ulster
per più di settanta minuti, inseguendo il loro punteggio e avendoli a portata
di tiro sempre. Non ci siamo mai arresi e sento che avremmo potuto vincere se
la prima meta fosse stata nostra. Ma dopo quella touche, quella touche regalata
loro anche dalla reazione di Scott che ha provocato quegli screzi, i primisette punti dell’incontro sono stati segnati
sul tabellone dal lato irlandese.
«Ho
finito» annuncia l’uomo.
Mi
alzo e lo ringrazio, guardando un momento la fasciatura, poi esco, diretto agli
spogliatoi. Sento ancora tutto il peso della partita addosso. Il prato pesante,
fradicio di pioggia, in cui le scarpe affondavano e correre diventava faticoso
il doppio. Gli impatti fisici, i placcaggi e le mischie. Tutto si ripercuote su
di me; ho il collo indolenzito, per non parlare delle spalle e della schiena.
Sento che se non immergo subito il corpo in acqua ghiacciata domani sarò
ricoperto di ematomi. Ma prima mi serve una doccia; sono totalmente
infreddolito e la mia divisa, che ancora indosso, umida e sporca, non mi aiuta
di certo.
Raggiungo
gli spogliatoi, ma prima che possa appoggiare la mano sulla maniglia per poter
entrare, la porta si apre e ne esce il nostro allenatore.
«Ah,
eccoti qui Matt» dice.
Si
chiude la porta alle spalle e mi posa una mano sul braccio, facendomi capire
che vorrebbe mi allontanassi un po’ dagli spogliatoi.
«Come
va il braccio?» mi chiede, appena terminiamo di compiere quei quattro, cinque
passi, che, ho capito, voleva facessi.
Guardo
la fasciatura:
«Va
benone, è solo scena» dico.
«Ho
già parlato con i ragazzi» riprende: «E non penso di avere qualcosa da dirti
che tu non sappia»
Annuisco
tentando di guardarlo saldamente in faccia. So che è il mio allenatore ed è un
uomo per cui nutro profonda stima, ma sono esausto. Vorrei solo cambiarmi, fare
una doccia e sedermi da qualche parte per lasciar riposare il mio corpo.
«Per
quel che ti riguarda, Matt, hai giocato un’ottima partita, davvero. Non ho
assolutamente niente da rimproverarti, al contrario» Sorride: «Anzi, sto già
pensando a come faremo senza di te durante i test match di novembre»
Anche
io sorrido:
«Cosa
le fa pensare che possa venire convocato in nazionale a novembre?» chiedo.
«Perché
non dovrebbero farlo? Non solo verrai convocato, ma sarai sicuramente nominato
capitano, proprio come le ultime volte. Hai la stoffa per queste cose»
Alzo
le spalle. Non mi sono mai né sentito né visto come un leader e quando sono
stato nominato capitano della nazionale gallese, ormai due anni fa, mi è
sembrata un’idea totalmente assurda, soprattutto perché nei Cardiff Blues non
lo sono, ma sono una semplice terza linea.
«Lei
esagera» dico.
Il
coach mi dà una sonora pacca sulla spalla, ridendo:
«La
tua modestia è una dote rara ed è una delle altre cose che ti rendono una buona
guida per la tua nazionale. Fidati di me. Se Jones non dovesse convocarti per i
test match se ne pentirebbe e basta. Sarebbe stupido e ti garantisco che lui,
stupido, non è. Sono io quello che dovrà fare a meno di te in quel mese»
«In
squadra ci sono ottimi giocatori. Hanno già vinto molte partite anche senza di
me»
Posa
entrambe le mani sulle mie spalle e mi guarda, sorridendo:
«Va'
a cambiarti» dice infine. Poi si allontana.
Lo
guardo un momento, dopodiché entro in spogliatoio, finalmente.
L’umore
che si percepisce nella stanza lascia trapelare chiaramente la delusione per la
sconfitta appena subita. Parlano in pochi, gli sguardi sono bassi e solo alcuni
incrociano il loro con il mio. Probabilmente tutti stanno pensando la stessa
cosa, ossia che avremmo potuto vincere. Ci saremmo potuti riuscire davvero
questa volta, è un peccato che non sia andata così, ma in fin dei conti è solo
il primo turno del nuovo anno di campionato, abbiamo ancora tempo per
perfezionare il gioco.
Mi
sfilo la maglia, non sopportando più di tenerla addosso. Mentre cerco le cose
per andare a farmi una doccia Brian, il capitano, mi raggiunge. Indossa anche
lui solo la parte inferiore della divisa.
«Hai
incontrato il coach, vero?» mi chiede.
Annuisco,
sistemandomi l’asciugamano sulla spalla:
«Perché?»
domando.
«Era
per sapere se serviva dirti quello che ci ha detto oppure no. Ma direi di no»
conclude, poi guarda il mio braccio destro: «Come va?»
Anche
io poso lo sguardo sulla fasciatura e sorrido a Brian:
«Non
morirò di certo»
Mi
dà un paio di pacche sulla schiena e si allontana. Io mi passo una mano fra i
capelli e, infine, mi avvio verso le docce.
Tutta
una serie di pensieri cominciano ad accavallarsi nella mia testa. È solo il
cinque settembre e il mio allenatore ha già cominciato a parlare dei test match6
di novembre. Avrei preferito non dover cominciare a pensarci così presto, ma
ora non riesco a fare altro. Ci aspettano tre fra le squadre più forti del
mondo: Australia, Sud Africa e, soprattutto, Nuova Zelanda e se il mio ed coach
ha ragione – e di rado si sbaglia – toccherà a me guidare il Galles contro
queste tre forze.
Non devo pensarci, ho ancora tempo e prima
devo concentrarmi sulle altre partite del campionato di Pro12. La verità è che,
per quanto mi senta onorato ad essere il capitano della nazionale gallese,
ammetto che, a volte, vorrei essere solo uno dei tanti giocatori che in pochi
considerano. Tuttavia, per qualche motivo che a me sfugge tuttora, io sono
l’esatto opposto di quei giocatori. Da un paio di anni a questa parte vengo
etichettato come un’ icona del rugby gallese, il giocatore di talento che però
continua a giocare in un club locale senza accettare i contratti esteri che gli
vengono proposti. I giornalisti continuano a cercare di attribuirmi
motivazioniper la mia permanenza a
Cardiff che non hanno praticamente mai avuto senso. Io amo la mia città e amo
giocare a rugby, per fare tutto questo non ho bisogno di allontanarmi, mi basta
restare nello stesso club da cui ho cominciato. Voglio una vita tranquilla, con
una famiglia normale, non mi importa di correre dietro a contratti prestigiosi o
a città estere. Ma la stampa pare non arrivarci e il gossip ancora meno. Si
inventano storie su di me, mi affibbiano frasi che non ho mai detto, opinioni
che non ho mai espresso. Qualche settimana fa i tabloid mi hanno attribuito un’
ipotetica relazione sentimentale con una modella con cui ho parlato una sola
sera e ho trovato la cosa completamente assurda. Ho cercato di capire come
fosse stata possibile una cosa simile e sono venuto a scoprire che lei aveva
detto ai giornali che io avevo flirtato. Il concetto di flirtare per le modelle deve essere particolare dato che, quella
sera, mi ero limitato ad annuire ai suoi discorsi bevendo birra.
«Uno
come te farebbe meglio a rimanere single il minor tempo possibile» mi aveva
detto il mio caro amico Paul – trasferitosi per giocare in Francia – a cui
avevo spiegato la cosa qualche giorno dopo l’accaduto. Aveva concluso
suggerendomi di mettermi con una qualsiasi, giusto per acquietare i tabloid e
riprendermi un po’ della mia pace. Ero scoppiato a ridere e gli avevo detto di
lasciar perdere. Non sono il tipo. Se mi dovessi mettere con qualcun’altra,
qualcun’altra dopo Meg, deve essere perché lei è
quella giusta.
Apro
l’acqua e lascio che questa scivoli calda sul mio corpo. Troppi pensieri,
troppe preoccupazioni tutte insieme. C’è ancora tempo per i test match, almeno
un altro mese. Non devo pensare ora a come dovremo affrontarli e, oltretutto,
non è detto che io sarò sul campo del Millennium Stadium quei giorni; non devo
dare per scontata la mia presenza in nazionale.
Le
voci nello spogliatoio cominciano a farsi più alte, qualche risata scoppia qua
e là. I ragazzi devono essere sulla buona strada per ritrovare il loro
ottimismo e il fatto che si stia avvicinando il terzo tempo7 li
aiuta sicuramente. Anche io dovrei unirmi alla loro ricerca della felicità,
dovrei lasciare da parte tutto ciò che si è accavallato nella mia mente in così
poco tempo. Dovrei dimenticarmi dei tabloid e dei loro gossip, lasciar perdere
i test match di novembre, non pensare alle mie spalle che continuano a farmi
malissimo per colpa di tutte le mischie della partita. Ce la posso fare, ce
l’ho sempre fatta.
Mi
serve solo una birra.
Era
da un po’ che avevo voglia di scrivere una nuova long, una storia a più
capitoli per poter tornare a pubblicare qui su Efp in
modo non occasionale.
Chi
ha letto altri miei lavori, probabilmente, ha capito quanto io ami il rugby,
uno sport che seguo da alcuni anni e che continua ad appassionarmi sempre di
più.
In
questa storia, questo sport, non si limiterà a fare da cornice, ma sarà un
legante, forse il legante.
Perciò
mi sento in dovere di dire questo: se odiate il rugby, o non vi appassiona per
niente, questa storia non fa per voi.
Ma
se vi incuriosisce, anche solo appena, allora continuate a leggere.
Io,
nel mio piccolo, spero che questa nuova storia possa appassionarvi sotto tutti
i punti di vista.
MadAka
Note:
1
TMO: Television Match Official. Durante
partite dirugbydi un certo rilievo può essere presente; ha il
compito di verificare se un'azione in area di meta ha portato o meno ad una
segnatura valida, o a verificare se è effettivamente stato commesso un fallo.
Viene chiamato in causa dall’arbitro.
2 Ventidue: linea che indica i ventidue
metri dalla metà campo.
3 Touche: rimessa laterale. Rimessa in gioco della palla dal punto, lungo la linea
laterale (o linea ditouche, dal francese), in cui la
palla era precedentemente uscita. La rimessa spetta alla squadra che non ha
causato l'uscita della palla, tranne in alcune eccezioni.
4 Mischia: situazione di gioco che si viene a creare sia spontaneamente, durante
fasi di gioco aperto (mischiaaperta) che per ordine dell'arbitroper riprendere il gioco quando esso è stato interrotto
per qualche irregolarità (ad esempio un "passaggio in avanti
involontario").
5 Ruck: termine inglese per indicare un
raggruppamento a terra.
6 Test match: partita ufficiale di nazionale che non rientra nei
tornei internazionali (come Sei Nazione, Mondiali).
7 Terzo tempo: il tradizionale
incontro dopo-gara tra i giocatori delle due squadre. Inteso come momento
conviviale pomeridiano (in inglese: After-match partyodrink ) oppure serale (After-match dinner ),
il terzo tempo è sempre stato visto come momento di socializzazione tra i
giocatori, cui spesso partecipano anche le loro famiglie e, talora, anche i
tifosi; nel mondo anglosassone si svolge in genere presso laClub
Housedella squadra che
ospita l'incontro.
Un’ultima cosa. Vi consiglio
vivamente di dare un’occhiata a questo:
Si intitola Rugby per neofiti, realizzato da Laura Guglielmo, e, a parer mio, è
una bellissima guidacompleta su ruoli e
storia – per quanto breve – di questo sport, con tanto di ottime illustrazioni.
Mi
sistemo nuovamente i capelli, rifacendomi una coda di cavallo per la terza
volta in poco tempo. Quando devo stare piegata sul cesto dei palloni, cercando
di afferrare quelli sul fondo senza tuffarmici dentro, i capelli legati mi infastidiscono
sempre. Il loro non essere né lisci né ricci – ma, il più delle volte,
orrendamente gonfi per via dell’umidità gallese di Cardiff – li rende
fastidiosi da sopportare. Torno a concentrarmi sul lavoro; afferro anche
l’ultima palla da rugby e la infilo nel sacco che ho con me, infine chiudo il
tutto e mi avvio verso il campo da gioco. Quando arrivo fuori mi guardo un
momento intorno, ascoltando il silenzio. Sul prato di ArmsPark1 ci sono solo due degli
allenatori della squadra under18 del Cardiff Blues, in attesa dell’arrivo dei
ragazzi per l’allenamento in vista dell’imminente partita di domani. L’assenza
dei giocatori si sente. Di solito questo prato è pieno di persone che si
allenano, uomini che fanno mischie, raggruppamenti, passaggi e altri esercizi.
Le loro voci si sovrastano sempre e rimanere a guardarli mentre pulisco gli
spalti – insieme alle altre ragazze delle pulizie – è un piacere, soprattutto
per me che amo il rugby e tifo Cardiff e Galles da quando avevo cinque anni –
ossia vent’anni fa. Ma la squadra titolare oggi non è qui; è a Belfast a
sfidare l’Ulster per il primo turno di Pro12. Una partita complicata che, a
giudicare dall’orario, ormai sarà terminata.
Raggiungo
l’allenatore e poso il sacco accanto a lui:
«Ecco
i palloni» gli dico.
Annuisce
con la testa, facendomi un cenno di ringraziamento, per poi tornare a parlare
con il suo collega. Saluto entrambi a mezza voce e mi avvio. Torno negli
spogliatoi e mi ricongiungo alle mie colleghe, intente a pulire da cima a fondo
le docce.
«Ok,
ci sono» dico appena le raggiungo.
Eleanor,
la collega poco più grande di me e quella con cui vado più d’accordo, mi
allunga una scopa:
«Se
sistemi lì dall’uscita siamo a posto»
Annuisco,
andando ad eseguire.
Mentre
pulisco cerco di pensare a qualcosa, di distrarmi. Spero che concentrandomi su
altro – lavoro o pensieri a caso – mi possa riprendere dal sonno che ormai mi
attanaglia dalla mattina. Ho passato buona parte della notte a cercare di
studiare, di approfondire e ripetere quello che dovrei sapere per l’esame di
lunedì prossimo. Non so dire se mi sento preparata oppure no, di sicuro sono
preoccupatissima. Mi sembra, come sempre, di non aver studiato abbastanza, che
potrei approfondire di più, solo che spesso mi mancano tempo e voglia per
provare a fare questo. Tuttavia è piuttosto complicato – specie per me – conciliare
vita da single, università e lavoro; ma un lavoro mi serve altrimenti, oltre
che per le rette dell’università, dovrei ammorbare i miei genitori chiedendo
loro anche i soldi per affitto e spese varie. Non posso farlo e non voglio
nemmeno. In fin dei conti fare la donna delle pulizie ad Arms Park, lo stadio
dei Cardiff Blues, non è poi così male, pur non trattandosi di un lavoro molto
ben retribuito. Inoltre, lavorando quattro giorni a settimana, solo il
pomeriggio, ho anche il tempo di recuperare Jamie – il mio nipotino – quando ha
gli allenamenti dell’under 12 qui allo stadio. E, come se non bastasse, le mie
amiche – Jenna, la mia migliore amica soprattutto – mi ripetono costantemente
che, lavorando qui, ho la perenne possibilità di vedere e conoscere i giocatori
della prima squadra, quelli titolari, e alcuni anche nazionali.
Inutile
dire che non ne ho mai conosciuto uno che sia uno. Io sono solo la donna delle
pulizie, cosa gliene può importare a quelli di me? È già tanto se mi salutano
quando ci incrociamo nei corridoi, il più delle volte sono perfettamente
invisibile.
Finisco
di spazzare e torno da Eleanor.
«Fatto»
le dico.
Lei
sorride:
«Allora
direi che abbiamo finito. Facciamo una pausa?» domanda rivolgendosi a me e alle
nostre due colleghe.
Annuiamo
tutte e tre e ci avviamo verso una delle uscite sul retro. Appena siamo fuori
due si accendono una sigaretta; Eleanor si sistema vicino a me, contro al muro.
Mi nota mentre controllo rapidamente l’orario e prende immediatamente parola:
«Come
pensi sia andata?» mi chiede.
Si
riferisce alla partita Cardiff Blues – Ulster, a Belfast. Alzo le spalle senza
rispondere.
Dire
che spero che i Blues abbiano vinto è scontato. Tuttavia non so quante chance
di vittoria avessero i ragazzi contro questa squadra, temo non molte.
In
venti anni ho imparato ad analizzare in modo oggettivo le partite di rugby.
Dopo il sei nazioni di quest’anno temo proprio che l’Ulster sia una delle
squadre da battere, per quanto mi piacerebbe sbagliarmi.
«Non
saprei. Spero che i ragazzi abbiano vinto, ovviamente» rispondo alla fine.
Eleanor
si china fino al pavimento, intrecciando poi le mani sopra le ginocchia:
«Beh,
questo direi chiunque. Che fregatura, però, non aver potuto vedere la partita»
Annuisco.
Mezza Cardiff sarà rimasta sicuramente davanti ai televisori per assistere
all’incontro. Questo è indubbiamente uno dei problemi del fatto di dover
lavorare il sabato pomeriggio.
«Volete
sapere il risultato?» ci chiede una delle nostre colleghe, smartphone alla
mano.
«Spara»
la incita Eleanor.
«Venti
a ventidue per l’Ulster»
Subito
io e Eleanor ci guardiamo:
«Stai
scherzando?» esclama lei, alzandosi improvvisamente in piedi.
L’altra
le allunga il telefonino:
«Controlla
tu stessa se non ti fidi»
Ma
lei non le dà ascolto e si volta verso di me:
«Venti
a ventidue» dice: «Ti rendi conto? Avrebbero potuto vincere»
Annuisco,
alzando impercettibilmente le spalle. Eleanor ha ragione, avrebbero potuto
vincere. Tuttavia ci sono tutta una serie di fattori da tenere presenti. Dire
che “avrebbero potuto vincere” è semplice; una sconfitta va analizzata sotto
molti punti di vista. Può esserci una disfatta onorevole o una vittoria da
poco. Bisogna vedere se il punteggio rispecchia davvero l’andamento totale
della partita o se una delle due squadre è stata più fortunata, o meno,
dell’altra. Un risultato può dipendere dal numero di falli commessi, da un
intercetto fortuito, da una mischia ingaggiata male, da tutto. Per questo, per
me, il risultato finale è buono solo ai fini della classifica.
Esprimo
queste opinioni a Eleanor che mi ascolta e subito dopo mi guarda storta:
«Perché
questi discorsi non li fai con i giocatori?»
Sbuffo:
«Sì,
certo. Cosa ti fa pensare che potrebbero avere voglia di mettersi a parlare
delle loro partite con me?»
«Non
vedo perché no. Ne sai parecchie di robe sul rugby»
«Forse.
Ma non penso che a loro interessi» concludo.
Eleanor
continua a guardarmi, dubbiosa. Sta per ribattere, ma fortunatamente una nostra
collega, rimasta in disparte a fumare finora,interviene:
«Ci
conviene rimetterci al lavoro o non finiremo mai»
Annuiamo
tutte e, in silenzio, rientriamo nella struttura. Ringrazio mentalmente la mia
collega per aver interrotto il discoro; così facendo ha impedito ad Eleanor di
ricordarmi che lavoro a stretto contatto con i giocatori della mia squadra del
cuore: so che era sul punto di dirlo. Anche Jenna lo fa sempre; mi dice di
farmi avanti, provare a salutarli, fare due chiacchiere con loro. Tuttavia per
me è impossibile riuscirci. Sono sempre psicologicamente bloccata dalla
posizione che ricopro, dal fatto di essere una delle ragazze che puliscono gli
spogliatoi che poi loro andranno a sporcare nuovamente di erba e fango a fine
partita. So che non dovrei ragionare così, lo so, ma purtroppo è più forte di
me. Non frequento neanche il terzo tempo per questo stesso e stupido motivo.
Forse
è ora che io cresca, che smetta di preoccuparmi per una cosa talmente priva di
senso. In fin dei conti il mio lavoro qui mi serve per pagarmi gli studi; credo
che questa sia una cosa da ammirare abbastanza, dopotutto.
Sospiro.
Devo smetterla di prendermi in giro. Alcuni ragazzi che giocano in questa
squadra sono anche gli stessi che giocano in nazionale. Molti di loro sono
conosciuti a livello mondiale e sono in lizza per diventare future leggende del
rugby gallese. Anche se riuscissi ad avvicinarli, anche se a loro non
importasse più di tanto il fatto che sono una delle addette alle pulizie, non
so in quanti possano essere realmente interessati alla mia storia.
Probabilmente
nessuno.
Note:
1 Arms Park: stadio del
rugby della squadra dei Cardiff Blues.
La
radiosveglia si avvia con la canzone sbagliata, decisamente. La spengo,
infastidito. Non mi sono ancora deciso a cambiare la stazione radio con cui
essa si avvia in automatico ogni mattina, ma la sera sono sempre troppo stanco
o sovrappensiero per ricordarmi di fare una cosa del genere.
Mi
alzo, cerco di sistemarmi un po’ lavandomi la faccia, per poi andare in cucina
a mangiare qualcosa.
Mi
sento a pezzi. Sebbene la partita sia stata due giorni fa i postumi degli
scontri cominciano a farsi sentire soltanto ora. Collo e spalle sono le parti
che stanno peggio e anche sul fianco ho un punto che mi fa parecchio male.
Fortunatamente gli allenamenti del lunedì tengono presente la situazione
traumatica post partita dei giocatori: analisi video del match trascorso dalle
dieci alle quattordici, poi risposo fino alle diciannove, dove ci attende
semplicemente una sessione di allenamento nella palestra attrezzi.
Apro
il frigorifero in cerca di qualcosa con cui prepararmi la colazione. Il
contenuto dell’elettrodomestico, però, è desolante. Non devo solo decidermi a
cambiare la stazione radio con cui svegliarmi, ma anche a fare la spesa. Solo
che ho poco tempo e, il più delle volte, quando ne ho mi manca la voglia.
Vivere da solo per me è un casino. Anche se avere una casa interamente per sé è
ottimo per diversi motivi – come invitare amici o, magari, una ragazza – per
altri è solo un enorme impegno. C’è da amministrare tutto, dalle spese
settimanali alle incombenze amministrative. Oltre a queste c’è anche il fatto
che rientrare a casa la sera e trovarla buia e vuota non sempre è piacevole.
Vorrei avere con me almeno Shuna – il mio alano – ma
non potendo accudirla adeguatamente l’ho lasciata ai miei genitori,
trasferitisi in campagna.
Alla
fine riesco a prepararmi una colazione dignitosa dando fondo a tutto ciò che
era rimasto nel frigorifero. Mi sistemo a tavola e accendo il portatile. Sono
rimasto indietro con gli episodi di Breaking
Bad e devo assolutamente mettermi in pari. Ho
tutto il tempo che mi serve per vedere almeno un episodio. Alla spesa penserò
questo pomeriggio.
*
L’analisi
video della partita è andata esattamente come avevo previsto. Il coach ha
sottolineato più volte come la partita fosse stata equilibrata e di quanto noi
ci siamo impegnati per renderla tale.
“Sono
fiero di voi ragazzi, ma…”
E
la spiegazione di quel ma è durata
ore, è andata avanti un’intera mattina. In mischia non siamo stati sempre
dominanti, un paio di decisioni sbagliate sono state prese, in più occasioni
non abbiamo conteso il pallone come avremmo dovuto, in altre abbiamo commesso
fallo inutilmente e il coach ha sorvolato sulla reazione di Scott perché aveva
usato già abbastanza parole sabato scorso.
Controllo
l’orario. Mancano pochi minuti alle quattordici e non vedo l’ora che le
lancette si fermino perfettamente sul numero dodici e sul numero due. Ho lo
stomaco che brontola per la fame, la concentrazione agli sgoccioli e stare
seduto nella stessa posizione non è minimamente di conforto alle mie spalle,
che mi fanno sempre più male. Fortunatamente, come se avesse letto i miei
pensieri, l’allenatore spegne il proiettore e ci guarda:
«Questo
è tutto, direi. Per la partita di sabato voglio lavorare maggiormente su difesa
e mischia. Dal video si è visto bene che, in queste due cose, siamo ancora
troppo prevedibili. Ora vi lascio, ci vediamo questa sera»
Detto
ciò un vocio sommesso si leva, divenendo via via più forte. Ci alziamo tutti e
cominciamo ad avviarci fuori dalla sala video. Appena sono in corridoio
qualcuno mi chiama dandomi un colpo sulla spalla. Dal punto in cui ha posato la
mano parte una fitta che si arrampica lungo il collo fin su, alla nuca.
Istintivamente alzo un braccio, come per difendermi. Mi volto e noto Mark – ala
dei Blues e della nazionale gallese – che mi guarda con aria colpevole, le mani
alzate.
«Ti
prego non farlo più» gli dico, in tono amichevole.
Sorride:
«Sei
messo male, eh?»
Annuisco.
Lui si affianca a me e riprendiamo a camminare.
«Ho
le spalle e il collo che mi fanno malissimo» dico, massaggiandomi, come posso,
proprio il collo.
Mark
mi guarda dall’alto del suo metro e novantanove, ovvero dieci centimetri più su
della mia testa.
«Pensa
che io avrei detto che la parte messa peggio di te fosse il braccio destro»
ammette.
Abbasso
istintivamente lo sguardo sull’arto in questione, osservandolo un momento. Mi
ero dimenticato della ferita. A parte questa mattina – dove l’ho notata mentre
mi vestivo – non ci ho praticamente più fatto caso, nascosta com’è sotto le
maniche lunghe della maglia. La lacerazione si sta rimarginando bene, ogni
tanto prude ma per il resto è sulla buona strada per guarire perfettamente. In
fin dei conti non era una ferita così profonda; abbastanza lunga, questo sì, e
necessitava certamente di essere disinfettata e medicata subito dopo la partita,
ma per il resto non ha bisogno di ulteriori attenzioni.
Scuoto
la testa:
«Non
è niente di grave, sta già guarendo» rispondo.
Faccio
appena in tempo a terminare questa frase che qualcuno mi urta. Mi colpisce al
braccio, proprio il destro, in modo piuttosto forte. Tuttavia non mi fa
assolutamente male, ma mi preoccupo immediatamente che l’altro se ne sia fatto.
Sento uno “scusa” mormorato a mezza voce mentre sollevo entrambe le braccia per
fermare la persona con cui mi sono scontrato – nel caso stesse perdendo l’equilibrio
o cose simili dopo il contatto – ma non c’è più nessuno. Mi volto e vedo che si
sta allontanando lungo il corridoio. È una donna, una di quelle che si occupano
della pulizia dello stadio. A giudicare dal fisico asciutto deve essere una delle
più giovani, ce ne sonoun paio che vi
lavorano, se non ricordo male. I capelli legati in una coda le oscillano a
tempo, ondeggiando al suo passo veloce. Procede ancora lungo il corridoio,
infilandosi infine in una delle stanze senza voltarsi.
«Stai
bene?» mi chiede Mark appena riprendiamo a camminare. «Ti ha beccato proprio il
braccio sbagliato»
Sollevo
il braccio in questione per far vedere al mio amico che sta benone:
«Non
mi ha fatto niente. É più facile che si sia fatta male lei»
Fa
schioccare la lingua:
«Questo
senz’altro» acconsente.
«Ma,
che dici, secondo te non ci ha visto?» chiedo.
Lui
si volta, guardandomi con un’espressione sarcastica molto esaustiva:
«Dubito
che non ci abbia visti»
In
effetti Mark non ha tutti i torti. Fra tutte le cose che si possono dire dei
giocatori di rugby certamente il termine invisibile
non figura. Non importa, può succedere. Sono anche abituato a scontri fisici;
una ragazza che peserà si e no la metà di me non può farmi molti danni.
«Tu
come ti senti nel post partita?» chiedo a Mark, riprendendo la conversazione
interrotta prima.
Alza
le spalle:
«Sto
fin troppo bene» ammette: «Con quelle condizioni meteo non ho fatto
praticamente niente»
Annuisco.
Con un campo come quello di sabato le ali diventano quasi inutili. A parte un
intercetto fortuito di Shane, che lo ha portato in meta, nessun’altro che non
facesse parte dei primi dieci uomini è riuscito a compiere qualcosa di
notevole. Mark è uno di questi. Qualche pallone recuperato al volo, diversi
placcaggi, ma per il resto nulla di eclatante. Il che è un vero peccato, perché
è un’ala incredibile. Il suo posto in nazionale se lo è guadagnato per i suoi
meriti; è un giocatore eccezionale, veloce come pochi, reattivo, efficace e con
tantissima voglia di lottare fino all’ultimo. Non l’ho mai visto arrendersi in
una partita, anche se il punteggio lasciava presagire solamente la sconfitta.
«Mi
rifarò sabato, se gioco. Le previsioni meteo sono piuttosto incoraggianti» dice.
Conclude
questa frase proprio mentre usciamo dall’ingresso sul retro, superando il
cancelletto e fermandoci nello spiazzo di asfalto in cui arrivano, solitamente,
i pullman delle squadre alle partite. Ci fermiamo entrambi. Poso le mani sui
fianchi e Mark si infila il cappello. Il clima è ancora più che mite e invita
puntualmente a passare del tempo fuori di casa, ma Mark ha sempre un cappello
in testa, con qualunque situazione climatica.
«Mettono
sole, quindi?»
«Ebbene
sì, e parecchio»
«Siamo
ancora a lunedì» gli faccio notare.
Sorride:
«Sì,
lo so. Ma sono ottimista. Se proprio non deve esserci il sole mi va benissimo
una giornata come quella di oggi»
Apre
le braccia, guardando in alto. Una giornata come questa andrebbe bene anche a
me. Anche se il cielo è velato lo è comunque in modo lieve, qua e là le nuvole
– sottilissimi agglomerati grigi – perdono coesione e si lasciano sfuggire i
raggi del sole, che scaldano ancora meravigliosamente;l’aria, leggermente umida, ha la temperatura
ideale.
«Se
però fosse proprio soleggiato sarebbe meglio» conclude, alla fine.
«Staremo
a vedere» dico.
«Oh
sì. Anche perché sicuramente, con la fortuna che ho, se sabato ci sarà una
giornata bellissima io non giocherò»
Sorride
e io faccio lo stesso. Dopodiché Mark si sistema meglio il cappello in testa e
mi fa un cenno:
«Ci
vediamo stasera, dai»
«Certo.
A stasera»
Mi
dà le spalle e si allontana. Rimango a guardarlo mentre cammina verso la
propria auto con quel suo passo caratteristico. Mi metto lo zaino su entrambe
le spalle, mi passo una mano fra i capelli e mi decido ad avviarmi.
Il
mio programma, ora, è semplice. Mi chiudo da Arnold’s – il mio pub preferito – per un buon pranzo a base di
carne e birra, poi vado a fare la spesa e per finire me ne torno a casa a guardare
un altro episodio di Breaking Bad. Direi che è perfetto.
Fino
a stasera non ne voglio più sapere di rugby e quant’altro.
Rimango
immobile a fissare la mia immagine riflessa allo specchio. Sono un disastro, da
cima a fondo. Le occhiaie che ho potrebbero essere paragonabili solo a quelle
di persone che non vedono il loro letto da anni, o agli occhi neri di un panda.
Sono esausta e non sono sicura di riuscire a reggere fino a stasera.
Ho
passato l’intera nottata – più o meno – sopra i libri per l’ultimo ed estremo
ripasso dell’esame di questa mattina. Gli esami il lunedì mattina dovrebbero
essere proibiti, a parer mio. Ho dormito davvero poco e stavo quasi per
crollare in classe davanti al test. Fortunatamente non è successo niente del
genere; ho resistito, sono rimasta concentrata e credo che, in fin dei conti,
lo scritto sia andato piuttosto bene. Alcune cose le ho sbagliate, ne sono
certa, ma era davvero impossibile ricordarsi tutta la marea di nozioni che
c’era da sapere. Ora non mi rimane che aspettare i risultati finali dell’esame,
così da vedere se la mia maratona di studio intensivo è servita a qualcosa
oppure no.
Il
turno di lavoro è iniziato da meno di mezz’ora e già mi sento a pezzi, spero
vivamente che il resto della giornata trascorra via il più velocemente
possibile. Vorrei davvero che finisse in fretta, che il pomeriggio trascorresse
così da recuperare Jamie agli allenamenti e poi scappare filata a casa, tirarmi
la coperta fin sopra alla testa, il gatto acciambellato sopra, a guardare
qualcosa – qualunque cosa – alla tv.
Purtroppo,
però, sono solo le quattordici e trenta e per altre quattro ore devo fare il
possibile per resistere. L’unica nota positiva della mia giornata –
tralasciando il test perché credosolo che mi sia andato bene – è il fatto
che ho incrociato i giocatori mentre entravo nello spogliatoio e loro uscivano
dalla sala video lì vicino.
A
ripensarci bene però non è stato un granché. Mi sono letteralmente schiantata
contro Matthew Evans. Non uno qualunque: Matthew Evans. Decisamente questa non è una nota positiva; lo sarebbe
stata se gli fossi sfilata accanto con grazia e leggerezza, non come se volessi
portarlo via afferrandolo per le costole.
Mi
porto una mano alla fronte, sempre guardando il mio riflesso che rimanda, via
via, tutti i cambi di espressione che la mia faccia esegue a causa dei miei
pensieri.
Chissà
cosa ha pensato, per chi mi ha presa. Scommetto che non ha neanche sentito
quello “scusa” mormorato che ho pronunciato senza guardarlo nemmeno. Avrà
sicuramente pensato che sono pazza.
Ma
proprio non ce l’ho fatta a guardarlo in faccia dopo il modo in cui gli sono
andata addosso. È ovvio che non l’ho fatto apposta ma potrebbe benissimo aver
pensato il contrario. Anche se, in fin dei conti, sono parecchie le ragazze che
hanno un debole per lui, sicuramente cose del genere ad opera di qualcuna di
loro devono essergli capitate almeno una volta prima di oggi.
Matthew
Evans è in assoluto uno dei giocatori più forti e popolari del momento, in
Galles. Qui a Cardiff, soprattutto, trovare la sua immagine su striscioni,
schermi televisivi o quant’altro è decisamente frequente, in particolar modo
ora che si avvicinano i test match di novembre. Nonostante qui nei Blues sia
“solamente” una terza linea, quando viene convocato in nazionale è, da ormai
due anni, capitano e lo è per ottimi motivi. Oltre al fatto che è pieno di
talento è un ragazzo giovane e dotato di carisma, lo si nota dal modo in cui si
comporta sul campo da rugby. L’immagine che traspare di sé è quella di una
persona determinata che sa perfettamente quello che vuole e dal suo account
Twitter – che ammetto di seguire – ho l’impressione che sia anche un ragazzo
simpatico, ma comunque intenzionato a mantenere le distanze dalla stragrande
maggioranza delle persone che non popolano il mondo del pallone ovale. Io sono
proprio una di quelle persone. Non lo conosco e quasi sicuramente non lo
conoscerò mai e l’unico ricordo che avrò legato a me e lui insieme è quello di
poco fa, ovvero io che gli vado addosso mentre lui cerca di uscire dalla
struttura. Molto bene.
Sento
la porta aprirsi, mi volto di scatto come se fossi stata colta in flagrante.
Davanti a me trovo Eleanor, che mi guarda abbastanza sorpresa:
«Ma
allora sei qui» dice.
Mi
guardo un momento intorno, come se improvvisamente non ricordassi più niente
del posto in cui mi trovo:
«Già»
rispondo.
«Che
stai facendo?»
«Niente
di eccezionale, pensavo» sintetizzo.
Mi
guarda perplessa un momento, infine alza le spalle:
«D’accordo
allora. C’è da sistemare la sala video e pulire a modo la palestra attrezzi per
stasera»
Annuisco.
Mi avvio verso la porta, ancora bloccata da Eleanor che non si è spostata da lì
davanti da quando è entrata.
«Hai
davvero una brutta cera» mi dice, dopo avermi analizzata attentamente.
«Trovi?»
Scuote
la testa in un esaustivo cenno di assenso: «È colpa dell’esame?»
«Già.
Fortunatamente stamattina ho fatto il test e credo di essere a posto,
finalmente»
«Sicuramente
è andato bene. Sei molto brava, lo sai» mi sorride.
Anche
io sorrido per ringraziarla e ci avviamo lungo il corridoio.
«Vorrà
dire che ti lascerò sistemare la sala video, allora. Va bene?» domanda lei
quasi subito.
«Va
benissimo» rispondo.
Siamo
quasi arrivate alla sala in questione e lei, come se si fosse ricordata la cosa
improvvisamente, dice:
«A
proposito. Li hai visti i giocatori?»
Mi
volto a guardarla e noto che sta ammiccando.
Sospiro
appena e scrollo le spalle:
«Sì,
li ho visti»
Li
ho visti fin troppo bene.
*
Esco
da Arms Park alla fine del mio turno con dieci abbondanti minuti di anticipo
sulle diciannove. Come ogni volta in cui devo recuperare Jamie esco
direttamente dall’ingresso sul retro, quello destro, poiché è poco frequentato
dai genitori degli altri bambini. Non voglio mi facciano domande, o che provino
ad interagire con me raccontandomi la loro giornata lavorativa o, ancora, i
successi del figlio alla partita della settimana prima. Mi è già successo e la
cosa mi ha snervata. Non sono il tipo da fingere interesse per i traguardi
ottenuti da qualcuno che non conosco, specie se i traguardi in questione non
sono loro ma dei loro figli. Per questo ho iniziato ad aspettare Jamie a questa
uscita; alla peggio incontro al massimo due genitori e qualche giocatore. A
pensarci bene stasera potrei incontrare veramente qualche giocatore. I nuovi
orari fanno coincidere l’inizio dei loro allenamenti serali del lunedì con la
fine di quelli dell’under12. Chissà, magari sto solo facendo supposizioni
campate in aria. Spero di sbagliarmi; dopo lo scontro di oggi con Matthew Evans
non avrei il coraggio di guardarlo in faccia se dovessi incontrarlo.
Quando
raggiungo effettivamente l’uscita sul retro, mi blocco. Di genitori non ce n’è
traccia, ma fermo poco prima del cancelletto aperto c’è uno dei giocatori del
Cardiff. Tiene in mano lo smartphone, che osserva con un leggero sorriso in
volto. La luce delle schermo gli illumina il viso, facendo quasi risplendere
nel tramonto la chioma di capelli biondi e drittissimi che si ritrova, corti e
spettinati come quelli di un ragazzino. È Shane O’Bannon, il ventiduenne
irlandese giunto a Cardiff quest’anno.
Mi
avvicino al cancello – in modo che Jamie possa notarmi subito – cercando di non
prestare attenzione a Shane. Guardo fisso davanti a me sperando che oggi
l’allenatore decida improvvisamente di far uscire prima i bambini, oppure che
Shane O’Bannon si decida ad entrare dentro lo stadio subito. Solitamente non
rimangono mai fuori così, senza un apparente motivo.
Non
so davvero come comportarmi; avrei l’occasione ideale per parlare con lui, con
un giocatore, ma so già che non ci riuscirei. Non saprei cosa dirgli per non
apparire un’idiota. Si creerebbe sicuramente quel silenzio imbarazzante dopo il
mio “Ehi, ma tu sei Shane O’Bannon” e la sua risposta – sicuramente
monosillabica – e io non saprei cosa dire, o fare, per recuperare. Quindi è
meglio se me ne rimango qui, zitta e buona.
«Ehi,
buonasera» sento pronunciare a Shane.
Mi
volto appena, preoccupata. Si sta rivolgendo a me?
Ma
quando punto gli occhi su di lui noto che sta sorridendo a qualcuno che non
riesco a vedere. Quando questo qualcuno entra nel mio campo visivo, però,
vorrei sprofondare.
È
Matthew Evans. Lo stesso Matthew Evans numero sette dei Cardiff Blues, lo
stesso con cui mi sono scontrata oggi. Mi sento avvampare al pensiero di questa
mattina, ma non riesco a fare a meno di continuare a guardare i due giocatori
con la coda dell’occhio. E pensare che mi basterebbe così poco per interagire
con loro. Dovrei solo avvicinarmi, scusarmi per il disturbo e provare a scambiare
due chiacchiere; non dev’essere così difficile, ma so già che non ci riuscirei.
Noto
Matthew voltarsi appena verso di me e subito abbasso lo sguardo, come se il
pavimento fosse la cosa più interessante del mondo al momento. Do un’occhiata
all’orologio e vedo che mancano ancora cinque minuti alle diciannove. Mi
ritrovo a sperare che tutti quei secondi passino in fretta, molto in fretta.
Fortunatamente
l’orario di uscita dell’under12 arriva e sono consapevole che mi rimane da
attendere solo una manciata di minuti prima dell’arrivo di Jamie. Tuttavia
Matthew e Shane non accennano a muoversi dal punto in cui si trovano; rimangono
fermi a parlare di non so cosa e ogni tanto scoppiano, all’unisono, in qualche
sonora e contagiosa risata.
Quando
vedo Jamie sbucare dall’uscita, il borsone in spalla a sbilanciarlo, mi sento
infinitamente sollevata. Lui mi raggiunge, sorriso in volto, e posa il borsone
accanto a sé, fermandosi.
«Ciao»
dice, asciugandosi del sudore immaginario dalla fronte.
«Com’è
andata?» gli chiedo.
Strabuzza
gli occhi:
«Sono
esausto. Il coach ci ha fatto fare un super allenamento oggi»
«Non
ti sembra di esagerare?»
Scuote
la testa:
«Io
non esagero mai»
Esagera
sempre, invece. È proprio per il suo essere esagerato ed esagitato che mia
sorella – Rachel – si è decisa ad iscriverlo a rugby. Lei non è appassionata di
rugby quanto me, ma suo marito sì; io e lui abbiamo cercato di farle vedere i
pregi che si ottengono praticando questo sport e la disciplina è uno di questi.
Jamie è un demonietto estroverso e incontrollabile, ma da quando gioca qui, ad
Arms Park, ha molto più controllo di sé ed è anche molto più tranquillo. Alla
fine anche Rachel ha dovuto ammettere che lasciarlo giocare a rugby è stata la
scelta giusta e sono felice di ciò.
«Che
dici, vogliamo andare? Scommetto che sei affamato» dico, invitandolo a seguirmi
con un gesto.
Annuisce
e recupera il suo borsone – non ha mai voluto che fossi io a portarglielo – ma
si blocca prima ancora di cominciare a camminare. Mi accorgo che ha notato i
due giocatori e io, immediatamente, comincio a pregare ogni divinità, esistente
o no, che il piccolo non dica una sola parola.
Probabilmente
ho rivolto le mie preghiere alle divinità sbagliate, anzi, sicuramente è andata
così.
«Hai
visto chi c’è?» esclama Jamie, con un tono tutt’altro che basso.
Indica
i giocatori puntando contro di loro il dito. Sono sul punto di rispondere, di
spiegare che indicare così le persone non va bene e che forse dovrebbe
lasciarli stare anziché importunarli, ma non serve a niente. Shane sta già
guardando il bambino, divertito e, praticamente subito, Matthew si gira, un
sorriso ancora in volto ed è un sorriso bellissimo.
Abbasso
lo sguardo su Jamie, imbarazzata. Lui è ancora fermo con la bocca mezza
spalancata e, con lo stesso timbro vocale di poco prima, dice:
«Sono
Shane e Matt, grande!»
Torna
a posare il borsone a terra e si avvicina a loro, pronunciando frasi su quanto sia
pazzesco incontrare dei veri giocatori. I due giocatori in questione lo
guardano e sorridono, Matthew si china per riuscire a vedere meglio Jamie.
Ci
mancava solo questa. Mio nipote doveva essere il mio biglietto di uscita per
allontanarmi il più in fretta possibile da qui, non doveva essere la mia
condanna ad ulteriori momenti di imbarazzo. A volte detesto proprio il fatto
che i bambini facciano le cose senza pensare alle conseguenza, nonostante
Jamie, con i suoi dieci anni, dovrebbe già cominciare a preoccuparsene.
Sospiro,
cercando di non farmi notare. Ma chi voglio prendere in giro? Jamie non può
certo sapere che vorrei sprofondare o scappare a gambe levate invece di stare
qui a guardarlo mentre parla con due giocatori della sua squadra del cuore. Scommetto
che è convinto che anche io sia esaltata quanto lui di questo incontro, sa
quanto ami il rugby: andavamo sempre allo stadio insieme nella passata stagione
e certo replicheremo anche quest’anno. Tuttavia, ora, vorrei solo tirarmi fuori
da questa situazione.
«Jamie,
dai, andiamo. Non è carino infastidire così i giocatori. Scommetto che se sono
qui è perché hanno allenamento» dico, sempre mantenendo le distanze.
Shane
alza gli occhi su di me, le mani in tasca:
«Non
c’è problema» dice, lanciandomi un sorriso.
Il
problema invece c’è. Si chiama Matthew Evans e riguarda la figuraccia che ho
fatto con lui proprio all’inizio del mio turno lavorativo. Torno a guardare
Jamie che continua a parlare con il numero sette di quanto sia stata mitica la partita di sabato.
«Avrei
voluto che la vedesse anche Danni» esclama, indicandomi.
Matthew
mi guarda e il piccolo riprende:
«Ma
lei lavorava e quindi l’ho guardata con mio padre»
Il
giocatore, che ha continuato a guardarmi sorridendo per tutta la durata della
frase, torna a concentrarsi su Jamie, che non accenna a smettere di parlare.
La
ragazza afferra il borsone del bambino – Jamie, a quanto pare si chiama così –
e si avvicina. Mi sembra abbia l’espressione un po’ annoiata; sicuramente
vorrebbe solo recuperare questo piccoletto e allontanarsi. Magari è convinta
che io e Shane ci sentiamo importunati dall’intromissione di Jamie, ma non è
così. So come comportarmi con i bambini. Nei miei due anni da capitano del
Galles, o in rappresentanza dei Cardiff Blues, ne ho incontrati parecchi e per
i motivi più disparati. Alla fine, direi che mi piacciono.
Quando
lei si ferma, proprio dietro a Jamie, adagia la borsa in terra e intreccia le
mani all’altezza del ventre. La guardo. È concentrata sul bambino, la sua
espressione ora si è fatta indecifrabile. Tiene i capelli raccolti in una
specie di chignon dove, qua e là, qualche ciocca color cioccolato, con
iridescenze dorate come miele, prova a sfuggire alla morsa dell’elastico. L’acconciatura
lascia intravedere la linea sinuosa e morbida del collo, interrotta, però,
dall’arrivo immediato della felpa che indossa per proteggersi dal freddo, che
sta arrivando insieme alla sera. Si accorge che la sto guardando e le sorrido.
Lei abbozza il suo, distogliendo lo sguardo come imbarazzata, impedendomi di
percepire le sfumature dei suoi occhi.
Davanti
a me Jamie continua a parlare di quanto gli sia piaciuta la partita di sabato:
«Non
mi importa se avete perso» dice: «È stata una partita fantastica!»
Si
concentra su Shane, ora:
«Avrei
voluto farla io quella meta» esclama, apparendo più esaltato che mai.
Si
riferisce alla meta di intercetto dell’irlandese, una segnatura bellissima, in
assoluto la più spettacolare dell’incontro.
«Beh,
ti ringrazio» risponde Shane, poi continua: «Magari un giorno riuscirai a fare
una meta ben più bella della mia»
«Sarebbe
mitico» esulta.
È
un ragazzino davvero agitato, non c’è che dire, ma le sue esultanze mettono
tenerezza. Da piccolo non ero certo come lui, non avevo il suo stesso interesse
per il rugby. Ho cominciato ad appassionarmi a questo sport intorno ai sedici
anni; ma me ne sono innamorato perdutamente, cominciando a mettere anima e
corpo negli allenamenti. Se Jamie si allena duramente e continua a provare
tutto questo amore per la palla ovale, diventerà certamente un ottimo
giocatore, forse uno di quelli fondamentali per la squadra.
«In
che ruolo giochi?» gli chiedo.
Lui
torna a guardarmi:
«Ancora
non lo so»
Mi
volto verso Shane e gli lancio un’occhiata perplessa, lui sorride:
«Fino
ai quattordici anni non giocano a rugby come noi1» mi spiega.
Avendo
iniziato a giocarci più tardi di lui non ero al corrente di questa cosa, o se
lo ero me ne sono completamente dimenticato.
«Beh,
allora, mettiamola così. In quale ruolo ti piacerebbe giocare?» chiedo,
rigirando la domanda.
I
vivaci occhi azzurri del bambino paiono illuminarsi ulteriormente.
«Vorrei
essere un numero sette2» risponde prontamente.
Sento
Shane scoppiare a ridere e la ragazza, rimasta in silenzio finora, sussulta
leggermente.
«Un
numero sette, sul serio?» chiedo divertito al piccolo. «E perché mai?»
Nuovamente
la sua risposta non tarda ad arrivare:
«Perché
voglio fare le mischie e placcare gli avversari»
Indico
il mio compagno di squadra con il pollice:
«Ma
anche lui placca gli avversari» gli faccio notare.
Jamie
ci pensa un attimo:
«È
vero, ma non fa le mischie e io voglio farne»
Rido:
«Quando
dovrai farne tante in una sola partita non sarai della stessa idea»
«Perché?»
«Perché
ti stanchi e il giorno dopo hai male ovunque»
«Davvero,
credigli» interviene Shane.
Il
bambino guarda prima uno, poi l’altro:
«Non
importa» dice. «Sopporterò. Per diventare ottimi giocatori bisogna fare dei
sacrifici. Mio padre me lo dice sempre»
«Ha
ragione» ammetto.
Mi
alzo in piedi perché la mia schiena ha cominciato a risentire parecchio della
posizione assunta per parlare meglio con Jamie: le mischie di sabato scorso si
fanno sentire ancora tutte.
«Comunque
ci sono anche altri ruoli importanti in mischia, molto più del suo» dice Shane.
Jamie
lo guarda:
«E
quali?» chiede, incuriosito.
«Beh,
i piloni, ad esempio»
«E
ancora più di loro, il tallonatore» concludo io, provando ad inserire un
leggero alone di mistero. «Di tallonatori ce nè solo uno in partita ed è uno
dei giocatori più importanti. Tutta la mischia serve a sorreggere lui»
concludo.
Jamie
mi guarda, torvo:
«Non
è che mi state prendendo in giro?»
«Assolutamente
no, è tutto vero» risponde Shane, mentre io acconsento con il capo.
Torno
ad inginocchiarmi accanto al bambino:
«Facciamo
così. Se sabato vieni al terzo tempo ti presento uno dei tallonatori della
squadra. Anzi, te li presento tutti. Così potrai chiedere a loro se io e Shane
ti abbiamo detto la verità oppure no»
«Davvero?»
Annuisco.
Lui si volta verso la ragazza:
«Ci
andiamo al terzo tempo sabato? Per favore»
Lei
lo guarda un momento, poi sorride:
«Va
bene, ci andiamo»
Jamie
torna subito a concentrarsi su di me, lei posa una mano sulla testa del bambino
e attorciglia uno dei suoi riccioli neri intorno all’indice.
«Dobbiamo
andare adesso, però. Scommetto che loro sono in ritardo per l’allenamento»
dice, il tono affettuoso.
«Ve
bene, d’accordo» risponde lui, poi si rivolge a me: «Allora ci vediamo sabato»
esclama.
Gli
faccio l’occhiolino e sorrido:
«Contaci»
detto ciò ci salutiamo tutti. Jamie e la ragazza – probabilmente sua sorella,
mi pare troppo giovane per esserne la madre – si allontanano.
«Che
tipetto» sentenzia Shane quando li perdiamo di vista.
«Già.
Mi sembra un ragazzino piuttosto agitato»
«Sono
d’accordo»
Rimane
in silenzio un momento, poi dice:
«Lei
è carina»
Lo
guardo:
«Sì,
lo è» rispondo.
Ripenso
alla ragazza; al suo sguardo tenuto basso, forse per colpa dell’imbarazzo, alle
sue mani dalle dita affusolate, al suono della sua voce, premuroso e
avvolgente. Mi sembra ancora di notare davanti a me le sfumature color miele
disciolte nei suoi capelli castani come il cioccolato e di rivedere il suo
sorriso, quell’abbozzo di dolcezza che avrei voluto conoscere meglio.
«L’hai
già adocchiata?» chiedo a Shane, maliziosamente, allontanando in fretta il
ricordo.
Gli
indico l’ingresso dello stadio, per fargli capire che è molto meglio se ci
decidiamo ad entrare. Lui scoppia a ridere e, mentre mi risponde, si incammina
accanto a me:
«No,
direi di no. Sono fidanzato, lo sai»
Alzo
le spalle:
«Le
fidanzate vanno e vengono» gli faccio notare, scherzando.
Si
sistema meglio il borsone in spalla, con fare disinvolto.
«È
vero. Ma al momento la mia storia pare funzionare. Perciò me la tengo stretta»
sorride. «Piuttosto, dovrei essere io a fare questo discorso a te. Sei single
da parecchio tempo, ormai»
Lo
guardo perplesso:
«E
tu come lo sai?» chiedo.
Non
ci conosciamo da molto, è impossibile che lui sappia di Meg.
Fa
spallucce:
«I
tabloid non ti lasciano stare molto spesso, ho visto. Qui sei una specie di sex
symbol»
Allargo
le braccia, ridendo:
«Hai
detto bene, una specie. Non mi
preoccupo più di tanto di quello che la gente pensa di me. Soprattutto se si
tratta di gossip»
«Allora
dev’essere questo tuo disinteresse a far crescere l’alone di mistero che,
dicono, ti circonda»
«Lascia
pure che pensino di me che sono uno stronzo. Non ho mai cercato la popolarità.
Voglio solo giocare a rugby»
Shane
mi guarda, sorridendo:
«Amen,
fratello. Non ho mai sentito parole più belle» scherza.
Scoppio
a ridere e gli do un’amichevole pacca sulla spalla:
«Una
sera di queste dobbiamo andare a prenderci una birra insieme» dico.
Acconsente
con il capo:
«Molto
volentieri»
Raggiungiamo
gli spogliatoi ed entriamo. Siamo praticamente gli ultimi e i ragazzi ci
accolgono con qualche saluto e qualche amichevole offesa, come si fa fra
uomini, per intenderci.
Note:
1: la frase di Shane si
riferisce al fatto che, per regolamento, fino ai quattordici anni il rugby non
prevede la suddivisione in ruoli specifici. Inoltre non vengono eseguite
mischie, touche e placcaggi al di sopra della vita.
2: il numero sette è
denominato anche terza ala, terza linea o avanti. Per maggiori dettagli
riguardo ai ruoli vi rimando al bellissimo Rugby
per neofiti di Laura Guglielmo, che trovate a
questo link:
Jenna
rimane imbambolata a guardarmi, gli occhi sbarrati, la bocca spalancata e il
coltello del pane stretto in mano.
Come
ogni martedì sono a casa sua, per il nostro consueto pranzo insieme. Per via
della mia università e di entrambi i nostri lavori riusciamo a vederci sempre
poco, per questo motivo abbiamo battezzato il martedì come il giorno del nostro
“stare insieme”. Io non lavoro, non ho lezione e il turno che ha lei, al
negozio di vestiti in cui fa la commessa, le permette di avere a disposizione
tempo a sufficienza per pranzare con calma in mia compagnia.
«Jenna
la vuoi smettere di guardarmi in quel modo?» chiedo esasperata, dopo essermi
sentita fin troppo osservata.
Sbatte
gli occhi un paio di volte, poi mi punta contro il coltello:
«Vorrai
scherzare, vero? Ieri hai conosciuto Matthew Evans e Shane O’Bannon e me lo
dici soltanto ora? Io ti dovrei ammazzare»
«Dire
che li ho conosciuti mi sembra un po’ eccessivo. Jamie ha semplicemente parlato
con loro» puntualizzo.
Posa
il coltello – per fortuna – e riprende ad assemblare le varie parti del pranzo.
«Sì,
ma tu eri lì. Li hai visti» Mi guarda: «Hai interagito con loro» Infine mi
punta contro un dito: «E me lo dici solo ora. Bell’amica che sei»
Sbuffo.
Sapevo che avrei dovuto chiamarla la sera stessa, ma mi è passato di mente. O
meglio, ogni tanto mi veniva in mente, ma poi ripensavo ai due giocatori e
finivo catapultata in una lotta interiore fra la gioia di essere stata loro
così vicina e l’innegabile imbarazzo che ho provato. Così ho finito con il
raccontarlo a Jenna soltanto oggi, con finta noncuranza, e lei si è abbastanza
alterata per aver scoperto il tutto soltanto ora.
«Oh,
andiamo. Cosa sarebbe cambiato se te lo avessi detto ieri?» le chiedo, cercando
di difendermi.
Appoggia
i piatti pronti sulla tavola apparecchiata della sua piccola e accogliente
cucina, invitandomi a sedermi con un cenno.
«Che
avrei avuto la notizia subito, ecco cosa sarebbe cambiato»
Mi
accomodo a tavola, proprio di fronte a lei e rimango a guardarla mentre infilza
una foglia di insalata. Sospiro:
«Ok,
mi dispiace. La prossima volta vedrò di informarti subito se mai dovesse
succedermi un’altra cosa del genere»
Solleva
lo sguardo dal piatto, puntandomi contro, questa volta, la forchetta con tanto
di foglia di lattuga:
«Sarà
meglio per te» sbotta.
Infine,
come se non fosse successo nulla, si illumina e mi chiede:
«Allora,
com’è?»
Finisco
di masticare, guardandola perplessa:
«Com’è
cosa?» domando.
Alza
gli occhi al soffitto:
«Ma
come: com’è cosa? Matthew Evans»
La
seconda forchettata di cibo per poco non mi va di traverso. Bevo un sorso
d’acqua, mentre una lacrima mi punge l’occhio destro pretendendo di essere
lasciata libera.
«C’era
anche Shane, devo ricordartelo?»
Fa
spallucce, come a dire che lo sapeva perfettamente:
«Che
c’entra? Lui è fidanzato» dice, come se fosse la risposta più ovvia del mondo.
«E poi vuoi farmi credere che, a te, l’aitante Matthew Evans non piaccia?
Andiamo, ti conosco e so che non è così» mi incalza.
Rimango
a guardarla, lei mi fissa di rimando con un sopracciglio perfettamente
inarcato. Vorrei ribattere ma non mi escono le parole. Jenna mi conosce fin
troppo bene, mi ha messa alle strette. Ma non è che Matthew mi piaccia, non lo
conosco nemmeno. Tutto quello che so di lui l’ho letto sui giornali, oppure ho
provato a carpirlo dalle cose che gli vedo fare o scrivere su Twitter. Per il
resto, per me, rimane un perfetto sconosciuto. Jenna è convinta che abbia un
debole per lui solo perché una volta ho ammesso che è un ottimo giocatore – uno
dei miei preferiti, questo sì – che sono felice sia il capitano della nazionale
e che, ok, è molto, molto bello. Ma tutto si esaurisce qui, a queste
considerazioni che ho di lui. Diciamo che forse, forse, potrebbe affascinarmi. Ecco, sì, mi affascina. Mi affascina
il modo in cui gioca a rugby, il modo in cui la divisa segue fedele le forme
del suo corpo statuario, il modo in cui si concede – anche se non sembra farlo
sempre volentieri – ai giornalisti per le interviste a fine partita, il modo in
cui stringe la mano agli avversari e sorride loro.Sono tutte queste piccole cose a renderlo
interessante ai miei occhi; se poi ci aggiungiamo che è esteticamente perfetto
– o quasi – che sembra simpatico e premuroso con i bambini, allora è fatta. Ma
non direi che mi piace, questo no. Perché io possa dire una cosa del genere di
qualcuno, di questo qualcuno deve piacermi soprattutto il carattere. È con
questo che devi trascorrere il resto della vita, non con il fisico di una persona,
ma con la sua personalità, la sua anima.
Lo
ricordo a Jenna, intenta a spazzolarsi l’insalata dal piatto. Lei solleva lo
sguardo e subito introduce la risposta con un’alzata di spalle:
«E
allora? Quando vi sarete conosciuti meglio vedrai che ti piacerà tutto di lui.
Scommetto che non è uno stronzo come i giornali vogliono farci credere»
Su
questo sono d’accordo anche io. Non penso sia davvero come lo dipingono i tabloid,
tuttavia sospetto fortemente che non sia minimamente interessato a stringere
legami particolari con persone come me. Mi dà più l’idea di essere uno che ama
circondarsi di persone a lui simili, gente che conosce la sua situazione, che
la condivide. E per quanto a me piaccia il rugby non sono una di queste
persone. Non so cosa si prova vicino ai giornalisti, come ci si sente sul prato
del Millennium Stadium, né tantomeno cosa vuol dire essere il testimonial di
qualcosa.
«D’accordo.
Fatto sta che non penso possa essere interessato a me» dichiaro alla fine.
«Perché?»
mi chiede la mia amica, il tono piatto.
«Perché
io sono una delle donne delle pulizie. Cosa ti fa pensare che Matthew Evans,
capitano della nazionale gallese, si faccia vedere in giro con quella che
pulisce i bagni?» chiedo, indicandomi.
Nuovamente
Jenna fa spallucce, tornando a gesticolare con la forchetta in mano:
«E
allora? Devo ricordarti che, alla fine della fiaba, Cenerentola se la spassa
con il principe?»
Sollevo
le sopracciglia per l’assurdità del paragone appena fatto. La vita vera e i
film Disney sono incomparabili, a mio giudizio.
«Sì
ma lei aveva una fata madrina dietro. E, vorrei farti notare, che Cenerentola
non lucidava palloni da rugby» rispondo.
Lei
sorride:
«Appunto.
Tu hai il rugby. Quale giocatore non vorrebbe una donna che ama lo sport da lui
praticato? Se ti mettessi a parlare con Matthew di rugby cadrebbe ai tuoi
piedi»
Beve
un sorso d’acqua, in attesa della mia risposta. Io poso lo sguardo sulla mia
insalata, prendendo a giocarvici distrattamente. Non ho mai parlato di rugby
con un giocatore professionista; chissà cosa potrebbe pensare uno di loro, di
me, se lo facessi. Magari rimarrebbe colpito dallo scoprire che conosco i
termini tecnici, i falli e i campionati di mezzo mondo. Ma mi ricordo che qui
siamo a Cardiff e che il Galles è uno dei capisaldi del rugby europeo e
mondiale.
Guardo
Jenna:
«Non
penso faticherebbe a trovare un’altra ragazza esperta di rugby quanto me ma con
un lavoro retribuito meglio»
Lei
lascia cadere la forchetta, sbuffando:
«Sei
davvero impossibile, Danni» esclama. «Come puoi buttarti già così, da sola,
ogni volta?»
Abbasso
lo sguardo, senza sapere cosa rispondere. Non lo so perché sono così, davvero
non lo so, ma è più forte di me. Sono perfettamente consapevole di preoccuparmi
troppo di quello che le persone pensano di me, quando non dovrei assolutamente
interessarmi della cosa. Sono rimasta delusa tante di quelle volte, in passato,
che ho completamente smesso di aspettarmi qualsiasi cosa dalla vita. Per non
parlare delle mie relazioni sentimentali; sono andate una peggio dell’altra e
quando ho creduto di trovare l’uomo giusto per me, quello mi ha lasciata. Per
tutti questi motivi parto prevenuta su ogni cosa e lo sono verso ogni
avvenimento. Semplicemente evito di farmi illusioni; se non mi aspetto grandi
cose, le piccole che riceverò mi renderanno una persona felice.
Sospiro:
«Senti,
Jenna, lo sai che sono fatta così, perché ti innervosisci tanto?»
«Perché
sei una persona stupenda e odio sentirti sempre dire che sei un caso perso»
La
ringrazio abbozzandole un sorriso. Non è la prima volta che mi rivolge simili
parole, ma sempre, quando lo fa, riesce a farmi sentire speciale.
Ma
ora non ha finito e riprende subito parola:
«Non
puoi privarti della possibilità di conoscere, o frequentare, i giocatori dei
Blues solo perché sei una delle donne di servizio dello stadio, è assurdo. Il
tuo lavoro è importante e utile come quello di tante altre persone e chi non la
pensa così è sicuramente un idiota» conclude.
La
guardo negli occhi, in quei suoi occhi castani così scuri da apparire neri.
Posso percepire perfettamente il bagliore di determinazione che risplende nelle
sue iridi e che mette quasi paura. Ho sempre invidiato la sua sicurezza, devo
ammetterlo. Jenna sa sempre quello che vuole e sa sempre come ottenerlo; da
questo punto di vista non ci assomigliamo molto. Io so cosa vorrei me non ho assolutamente idea di
come potrei ottenerlo.
«Lo
sai che la penso così anche io» comincio. «È solo che non riesco ad assimilare
appieno l’idea. Penso sempre che i giocatori e tutto lo staff mi reputino
inferiore. A malapena mi salutano quando ci incrociamo per i corridoi»
Lei
mi guarda di traverso, raccogliendo gli ultimi avanzi di pollo rimasti nel
piatto, mentre il mio risulta pieno ancora per metà.
«Scommetto
che questo è dovuto al fatto che non hai il coraggio di guardarli in faccia
quando li incontri» risponde con tutta la sicurezza del mondo.
Beccata.
Mi sento improvvisamente affondare come una nave. Apro bocca per ribattere ma
non so cosa dire, così finisco per rimanere zitta mentre Jenna mastica il suo
ultimissimo boccone, fissandomi con aria di superiorità. Sospiro, affondando
infastidita la forchetta nella mia insalata. Jenna scoppia a ridere:
«Ti
conosco, che credi? Non hai segreti per me» dice.
«Ti
odio» sbotto a bocca piena; ma poi finisco inevitabilmente con il mettermi a
ridere a mia volta.
Dopo
un po’, quando mi sono ricomposta, la mia amica riprende parola:
«Comunque
sia, ti rifarai sabato»
«Sabato?»
domando, sperando che non stia per dire ciò che temo.
Annuisce
con la testa:
«Al
terzo tempo. Perché ci andrai»
È
esattamente quello che temevo
dicesse.
«No,
non posso andarci. Non ci sono mai andata» farfuglio.
«Sì
invece, devi. L’hai promesso a Jamie» mi ricorda.
Credo
sia più corretto dire che Matthew Evans ha costretto Jamie a farmelo
promettere.
«Jamie
potrebbe andarci con Norman» riprendo io.
Mi
rendo conto che sto tentando l’ignobile via della scappatoia. L’idea del terzo
tempo, dei giocatori insieme ai tifosi, di andarci con Jamie che parla di tutto
con chiunque mi terrorizza già ora che è solo martedì.
«Ma
lui non vuole andarci con suo padre, Danni, vuole andarci con te» sottolinea
Jenna.
Ha
perfettamente ragione, lo so. Il rugby è la cosa che più lega me e quel piccolo
demonietto di Jamie. Fin da quando ha cominciato a muovere i primi passi con il
pallone ovale in mano, io gli sono stata vicina, spiegandogli regole, principi
e ideali. Quando si parla di rugby Jamie vuole soltanto me e sarà sicuramente
così anche sabato. Non posso neanche sperare che si dimentichi, per le cose a
cui tiene ha una memoria incredibile.
«Pensi
che ce la farò?» domando a Jenna dopo un po’, riferendomi a me a confronto con
i Cardiff Blues durante il terzo tempo. Non serve specificare niente di tutto
ciò: lei ha già capito. La vedo dipingersi un enorme, perfetto, sorriso in
volto:
«Oh
sì che ce la farai» dice, divertita. «Ma questa volta voglio gli aggiornamenti
in tempo reale» conclude, portandosi uno dei suoi lunghissimi riccioli color
mogano dietro all’orecchio, ci ha messo anni perché le diventassero tanto
lunghi. Alzo le mani:
«Farò
del mio meglio» dichiaro.
Mi
sorride e le rispondo alla stessa maniera, infine lei prende a parlare di
tutt’altro e io tento di terminare il mio pasto. Mi si è chiuso lo stomaco. A
quanto pare parlare del terzo tempo di sabato non mi fa sentire così rilassata,
o indifferente alla cosa. Anzi, direi che è il contrario: mi agita. So
perfettamente di aver promesso a Jamie che sarei andata con lui dopo la
partita, ma ora vorrei non averlo mai fatto. Passare la serata in mezzo ai
giocatori e ai tifosi, con birra ovunque e persone che discutono della partita
appena trascorsa. A pensarci bene questa è la parte migliore del terzo tempo,
il lato bello. Quello che – stupidamente, va detto – mi preoccupa è il fatto di
venire additata dai presenti come “quella che pulisce i bagni”. Deglutisco,
guardando un momento la mia migliore amica, sempre intenta a parlare, ignara
del fatto che io non la stia realmente ascoltando. Ripenso a quello che mi ha
detto, alle parole che ha speso per ricordarmi che il mio è un lavoro come
quello di tanti altri e che merita uguale rispetto. A venticinque anni dovrei
smetterla di comportarmi come una liceale timida e introversa, è ora di
crescere. Non c’è niente di male nel modo in cui conduco la mia vita,
assolutamente niente e Jenna ha ragione. Sabato andrò al terzo tempo, manterrò
la promessa fatta a Jamie e, magari, riuscirò a parlare con qualcuno dei
giocatori. In fin dei conti il rugby è anche una parte del mio mondo.
Sorrido
un’ultima volta all’obiettivo fotografico, stringo la mano dell’uomo che mi ha
dato il premio, lui mi sorride e mi saluta con un’amichevole pacca sulla
spalla. Mi avvio lungo il corridoio, un mormorio sommesso continuo a fare da
sottofondo, con il mio nuovo riconoscimento stretto in mano. Sono stato
nominato Man of the match1
in questa partita. Ho dovuto ringraziare coloro che mi hanno attribuito la
nomina, sorridere a chi mi ha premiato, infine ritirare il titolo e concedere
un’intervista. Quest’ultima è stata la più noiosa delle cose da fare. I
giornalisti non vogliono che tu risponda, vogliono solo che tu ripeta le parole
che loro ti mettono in bocca. Le loro domande sono ciò che vogliono sentirti
dire, basta ripeterle facendole apparire affermazioni e il gioco e fatto: ti
trattengono poco e non insistono su nulla.
Raggiungo
gli spogliatoi e, come entro, il chiasso dei miei compagni di squadra mi
accoglie. C’è chi urla, chi ride, chi canta; tutti sono felici e dannatamente
soddisfatti. La partita di oggi è andata bene, il primo match giocato in casa è
stato vinto. Anche se con uno scarto di soli sette punti, siamo riusciti ad
uscire vittoriosi dal primo dei derby gallesi. Contro di noi oggi c’erano i
Newport GwentDragons;
molti di loro sono anche nostri compagni di squadra in nazionale. Sono
giocatori eccellenti e, indubbiamente, è stata una partita piacevole e intensa.
Considerando che si tratta dei Dragons, sicuramente
anche il terzo tempo sarà piacevole, come una sorta di rimpatriata fra compagni
di squadra.
«Ehi,
Man of the match» mi incalza Mark come chiudo la porta, altri gli danno corda
con qualche schiamazzo.
Mark
è felice, parecchio. Lo si capisce dal gigantesco sorriso che non ne vuole
sapere di scomparire dal suo volto. Come sperava ha potuto giocare la partita
di oggi e il tempo è stato davvero clemente. Sul campo di Arms Park splendeva
un sole limpido e particolarmente caldo, sembrava quasi anomalo. E sul prato
morbido e perfetto del campo da gioco, Mark ha corso come un dannato, segnando due
mete. Direi che la sua euforia ci sta tutta.
Raggiungo
il punto della panca su cui il mio borsone aspetta e comincio a tirare fuori le
cose per farmi una doccia. Indosso ancora la divisa della squadra; sulla maglia
rigata azzurro-blu ho macchie di erba e di colorante bianco, ma per il resto
niente di particolare. Mi sento incredibilmente rilassato, non ho male da
nessuna parte, praticamente, e l’adrenalina che ho scaricato durante tutta la
partita, ora che è sparita, mi ha lasciato solo un senso di pace; o forse
quest’ultimo è merito della vittoria, chi può dirlo. So solo di stare davvero
bene.
«Gran
bella partita la tua, Matt» esordisce Brian, tallonatore e capitano della
squadra.
Sorrido:
«Ti
ringrazio»
«Se
non avessi fatto che placcaggio alla fine, ci saremmo sicuramente presi la meta
del pareggio. Spero non avremo bisogno di altri interventi all’ultimo da parte
tua come quello di oggi mentre sarai ad allenarti per i test match di novembre»
ridacchia.
Lo
guardo, serio, cominciando a chiedermi per quale motivo, ogni qualvolta rientro
negli spogliatoi al termine di una partita, qualcuno debba tirare in ballo i
test match. Trovo sia ancora presto per parlarne e vorrei evitare che la gente
cominciasse a caricarmi di responsabilità e aspettative che, non è detto, debba
soddisfare.
Brian
mi guarda, leggermente sorpreso.
«Sto…
sto cercando di non pensarci più di tanto a quelle partite» ammetto.
«Per
quale motivo?»
«Beh,
siamo ancora a settembre. Annunceranno i convocati fra quasi un mese e non
voglio dare per scontata la mia presenza in nazionale. Per me è un onore
vestire la maglia del Galles e non voglio convincermi di essere così importante
per la squadra da pretendere che il numero sette sia mio anche questa volta»
Il
mio capitano acconsente con il capo:
«Ci
vorrebbero decisamente più giocatori con i piedi per terra come te» dice,
infine si allontana, prendendo a parlare con qualche altro nostro compagno di
squadra.
Il
mio senso di quiete se n’è appena andato, perfetto. È già la seconda volta, al
termine della partita, che qualcuno tira in ballo il mio ruolo nei test match
di novembre; considerando che abbiamo giocato solo due partite direi che una
media di due su due non è male.
Sospiro,
abbassando la lampo del porta abito che contiene la tenuta della squadra per il
terzo tempo: un completo scuro decorato con lo stemma dei Cardiff Bluese camicia bianca.
Ho
proprio bisogno del terzo tempo. La settimana scorsa mi è stato molto utile per
dimenticarmi dei test match è annegare i pensieri inuna pinta di birra; sospetto che replicherò
oggi. Spero solo di non incontrare nessun tifoso che abbia voglia di parlarmi
delle partite di novembre. Correrei il rischio di dover affogare me stesso in
pinte di birra, non solo i miei pensieri.
*
Come
sospettavo il terzo tempo è fortemente d’aiuto se si vuole smettere di pensare
a qualcosa. Da quando ho messo piede dentro la club house
della cittadella di Arms Park – non troppo grande, accogliente, tutta in legno
e con cimeli del rugby appesi ovunque – tutte le preoccupazioni sono scomparse.
Ho incontrato alcuni fra i miei più cari amici, nonché compagni di squadra in
nazionale, e ci siamo persi in chiacchiere per non so quanto tempo. Se non
parlo con dei giocatori, allora, incontro i tifosi, faccio qualche foto, firmo
qualche autografo e, perlopiù, ricevo complimenti. Manca ancora un’oretta al
termine di questa festa – quindi anche prima della tradizionale cena del terzo
tempo con la squadra avversaria e i dirigenti – e sono indeciso se concedermi
un’altra birra oppure no. Finisco di bere l’ultimo sorso di quella rimasta nel
mio boccale, dopodiché appoggio il bicchiere sul bancone, proprio alle mie
spalle. Mike, il barista, nota il mio gesto, afferra il boccale vuoto e mi
sorride:
«Altro
giro, Matt?»
«Mi
tenti» rispondo. «Ma penso che aspetterò qualche minuto»
«Come
vuoi. Sai dove trovarmi» conclude.
Mi
metto a ridere e torno a voltarmi verso la sala gremita, fra giocatori e
tifosi. Faccio mente locale sulle persone che non ho ancora avuto modo di
salutare, provando a cercarle in mezzo alla folla che riempie il pub. Alla fine
noto Aaron, storico mediano di mischia della nazionale, tornato a giocare in
Galles quest’anno dopo una parentesi di tre stagioni passate in Francia. Mi
avvio verso di lui per sentire come sta e riprendere la conversazione che
avevamo interrotto sul campo al termine della partita. Comincio a farmi strada
fra le persone, sorridendo qua e là a coloro che mi fanno un cenno o mi
salutano, ma ad un certo punto qualcuno mi chiama a gran voce. Mi giro, non
notando nessuno, ma come abbasso lo sguardo mi trovo davanti un bambino.
Riconosco quasi subito quei riccioli neri, gli occhi azzurri e l’espressione
furbetta di Jamie, il bambino che ha parlato con me e Shane lunedì scorso. Non
sono mai stato bravo a ricordare i nomi delle persone, ma questo piccoletto
proprio non sono riuscito a dimenticarlo: mi sta simpatico.
«Ti
ho trovato» esordisce, sorridendo.
Mi
chino verso di lui, in modo da riuscire a sentire bene quello che vuole dire.
«Ehi,
Jamie. Come stai?» gli chiedo.
Pare
non fare caso alla mia domanda:
«Ti
ricordi il mio nome? Pazzesco. I miei compagni di squadra non mi crederanno
mai» esclama.
Sorrido:
«E
perché no?»
Non
fa in tempo a rispondere. Fra la moltitudine di persone accorse al terzo tempo
compare la ragazza che era insieme al bambino la sera in cui l’ho conosciuto. È
come la ricordavo; anche se ora tiene i capelli sciolti la frangetta è sempre
tagliata pari sulla fronte, i riflessi miele ancora presenti nei capelli color
cioccolato che le ricadono morbidi e leggermente ondulati fin sotto le spalle.
Anche se in parte coperta dalla chioma, la linea sinuosa e delicata del collo è
perfettamente intuibile.
«Jamie
non provare mai più a scapparmi in questo modo, intesi?» dice, rivolta al più
piccolo, appena arriva. Io mi alzo.
«Scusa,
ma avevo visto Matt e volevo fermalo» spiega Jamie, il tono colpevole.
Lei
mi guarda come se non mi avesse ancora notato e, finalmente, riesco a percepire
il colore dei suoi occhi. Sono verdi, davvero verdi e leggermente sfumati di
bruno.
Rimane
ferma a osservarmi per un po’, dopodiché posa lo sguardo sul più piccolo e
sospira:
«D’accordo.
Ma non farlo mai più, va bene?»
Jamie
annuisce con la testa, visibilmente mortificato. Abbassa lo sguardo sul
pavimento e prende a tormentarsi le piccole mani che possiede. Vorrei
intervenire in qualche modo, almeno per cercare di risollevare appena il clima
da poco formatosi.
«Ehm…
io»comincio, rendendomi però conto di
non sapere assolutamente cosa dire, fortunatamente ci pensa lei:
«Mi
dispiace. Ogni tanto fa così, prende e scompare. Ero solo preoccupata»
«Ci
credo» sorrido.
Sorride
anche lei; ha un sorriso dolce e noto che, quando lo fa, le si formano due
graziose fossette sulle guance. Shane ha ragione: è davvero carina.
Lei
torna a rivolgersi a Jamie, gli posa una mano sulla testa:
«Forza,
ora che lo hai trovato chiedigli quello che vuoi sapere»
Il
bambino ha ancora l’aria colpevole ma, come mi abbasso nuovamente vicino a lui,
la perde e i suoi occhi cominciano a brillare:
«È
vero che mi presenti un tallonatore?» chiede, euforico.
Scoppio
a ridere:
«Certo,
te li presento tutti»
«Davvero?»
«Eccome.
Basta riuscire a trovarli»
Detto
ciò, una voce famigliare subentra nella conversazione:
«Guarda,
guarda. Chi si rivede»
Jamie
si gira verso chi ha appena parlato:
«Shane»
esclama.
L’ala
irlandese saluta il piccolo e quest’ultimo riprende parola:
«Matt
ha detto che mi presenta i tallonatori»
«Ah,
allora hai deciso cosa vuoi fare da grande?» domanda l’altro.
Il
bambino scuote la testa:
«In
verità non lo so. Il mio allenatore dice che è ancora presto per decidere»
«Ho
capito» taglia corto Shane, poi allunga una mano verso Jamie: «Vieni con me,
allora. Ti faccio conoscere qualche giocatore»
«Davvero?»
domanda il piccoletto, sempre più esaltato.
«Sicuro»
La
ragazza, rimasta in silenzio finora – proprio come lunedì sera – interviene:
«Veramente…»
Ma
Shane non la lascia finire:
«Oh,
non preoccuparti, te lo riporto subito» le fa l’occhiolino.
Lei
abbassa lo sguardo su Jamie, che già tiene Shane per mano.
«Posso?»
chiede lui alla ragazza, più speranzoso che mai.
La
ragazza guarda prima il bambino poi l’irlandese, infine sospira:
«Va
bene»
«Faremo
presto, tranquilla» incomincia Shane. Io torno ad alzarmi in piedi.
«Tanto
se rimani con Matt non ci vorrà molto a trovarvi» conclude, indicandomi.
Lei
ci guarda entrambi per un lungo momento, dopodiché dà il suo definitivo
permesso con un cenno di assenso del capo.
«Grazie
Danni» esclama Jamie e, insieme a Shane, scompare fra le persone.
Rimango
a guardare la ragazza mentre continua ad osservare il punto esatto in cui i due
sono spariti. Mi sembra preoccupata e, in fin dei conti, non saprei come darle
torto. Ma Shane è affidabile, ormai ho imparato a conoscerlo, anche se
giochiamo nella stessa squadra da poco tempo. L’unica cosa che posso fare ora è
rimanere con lei finché l’irlandese non torna insieme al piccolo.
«Non
ci metteranno molto, vedrai» le dico per provare a rompere un po’ il ghiaccio.
Lei
mi guarda, sorpresa, come se si fosse appena ricordata della mia presenza al
suo fianco.
«Dici?»
mi chiede.
Annuisco:
«Sì,
non preoccuparti. Bevi qualcosa? Sai, mentre aspettiamo. Il barista mi sta
ancora aspettando per il secondo giro»
Rimane
a fissarmi, temporeggiando un po’. Dopodiché mi accorgo che rilassa appena le
spalle, sorride e risponde:
«Ma
sì, dai. Prendo qualcosa anche io»
Le
sorrido, le faccio cenno di seguirmi e ci avviamo insieme verso il bancone.
Note:
1 Man of the Match: riconoscimento che viene dato al giocatore che,
secondo una giuria, è stato il migliore in campo durante la partita.
Osservo
ancora un po’ la schiuma della mia birra, le cui bollicine crescono e
scoppiettano qua e là. Fra poco scompariranno del tutto, mostrando in
superficie il liquido dorato che ora stanno coprendo. Anche se il boccale è
ghiacciato continuo a tenerlo in mano, guardando distrattamente il suo
contenuto e pensando a tutt’altro. Chissà se ho fatto bene a lasciare Jamie con
Shane; non è che non mi fidi del ventiduenne, sembra un bravissimo ragazzo, è
solo che non mi piace non avere mio nipote sott’occhio quando dovrei essere io
a badare a lui, la cosa mi agita. E, come se non bastasse, ad agitarmi
ulteriormente c’è il fatto che la birra che ho in mano – da cui ho appena
bevuto un gelido e squisito sorso – mi è stata offerta da Matthew Evans in
persona. Se Jenna fosse qui impazzirebbe; devo assolutamente ricordarmi di
dirle quello che sta succedendo, appena recupero Jamie. Se non dovessi farlo
anche questa volta la ragazza mi potrebbe certamente riservare lo stesso
trattamento di martedì sera, facendomi la predica puntandomi contro oggetti
contundenti.
Alzo
lo sguardo su Matthew, intento a parlare con il barista; dopo tutti i terzi
tempi trascorsi qui dentro mi pare più che normale che i due si conoscano. Il
giocatore è stato davvero gentile ad offrirmi da bere, nemmeno ci conosciamo.
Ha detto che avremmo dovuto aspettare insieme il ritorno di Shane e Jamie,
perché l’irlandese avrebbe cercato lui per riuscire a trovare me. Tutto questo
mi fa uno strano effetto. Innanzitutto perché per me è già strano essere qui, e
poi perché devo praticamente rimanere in compagnia del capitano gallese. Devo
assolutamente evitare di fare brutte figure; non sarà semplice, se mi agito
sono un disastro. Matthew non si è ancora accorto del fatto che sono
imbambolata a fissare il suo profilo, ma è più forte di me. A guardarlo più da
vicino mi accorgo che ha qualche lentiggine sul viso, una piccola cicatrice
rosata al lato sinistro del labbro inferiore e le sopracciglia abbastanza folte
che, nonostante siano chiare, ne caricano l’espressività. Ma per il resto
sembra uscito da uno di quei sogni proibiti per single affamate di telefilm. Ha
un profilo perfetto, la mascella leggermente accentuata, il sorriso sicuro e
luminoso e ha uno dei tagli d’occhi più bello che abbia mai visto. Il tutto coronato
da corti e spettinati capelli biondo cenere dove, qua e là, spunta inaspettata
qualche ciocca rame. Ringrazia il barista quando quest’ultimo finisce di
preparargli la birra e si volta verso di me. Ci guardiamo un momento e vedo che
ha gli occhi azzurri, di una bellissima sfumatura celeste. I contorni delle
iridi sono blu e sfumano fino a scomparire nel mare colore del cielo che le
ricopre. Solleva il suo boccale di birra e mi sorride; io faccio lo stesso, ma,
come mi rendo conto della situazione in cui mi trovo, sento il mio imbarazzo
crescere terribilmente.
«Grazie
per la birra» tento di dire, provando a non lasciarmi condizionare dalla
timidezza.
«Non
c’è problema. Almeno ci beviamo qualcosa mentre aspettiamo Shane e Jamie»
Saluta
un suo conoscente con la mano e riprende a parlare:
«Quel
bambino ha una gran energia, ho visto. Mi piace»
«Sì,
è un demonietto. Non riesce a stare fermo un minuto» rispondo.
Lui
sorride e fa segno di sì con la testa, come a farmi capire che ha inteso:
«È
tuo fratello?» mi chiede poi.
Mi
sbrigo a rispondergli:
«No,
no. È mio nipote. Jamie è il figlio di mia sorella maggiore»
«Ah,
ho capito. Sospettavo non fossi sua madre, saresti troppo giovane»
«Sì,
beh, avrei dovuto partorire a quindici anni»
Mi
rendo subito conto di quello che ho detto e mi maledico per averlo fatto. Sto
davvero parlando di gravidanze precoci con quest’uomo? Mi sento avvampare e
spero vivamente che lui non se ne accorga. Invece si mette a ridere,
lasciandomi vagamente perplessa:
«Non
saresti stata la prima, però» dice.
Gli
do ragione annuendo con la testa, ma poi non so che altro aggiungere. Siamo
arrivati al punto morto in cui ho sempre paura di finire; principalmente perché
non so mai come venirne fuori. Invece, ora, eccoci qui: lui che beve un altro
sorso della sua birra e io che mi guardo intorno, chiaramente imbarazzata.
«Ah,
che stupido» lo sento dire.
Mi
volto a guardarlo, convinta che stia per dirmi qualcosa sul fatto che deve
incontrare assolutamente un suo amico e che quindi mi lascerà sola. Tuttavia mi
accorgo che mi sta tendendo la mano.
«Matt»
dice, appena l’afferro.
Sento
come un brivido scuotermi dentro quando le nostre mani si toccano. Deve
sicuramente essere colpa dell’assurdità del momento; stento ancora a credere
che stia succedendo veramente tutto questo.
«Lo
so» mi viene spontaneo dirgli.
Lui
sorride:
«Lo
immaginavo, ma è comunque buona educazione presentarsi» risponde.
Anche
io gli sorrido, trovando il suo gesto davvero carino.
«Io
sono Danielle»
Le
nostre mani si separano soltanto ora.
«Ah,
allora è per questo che Jamie ti chiama Danni» dice, spettinandosi i capelli
già sufficientemente scompigliati e non ancora perfettamente asciutti,
sicuramente per colpa della doccia che deve essersi fatto a fine partita.
«Sì,
è per questo. I miei amici mi chiamano Danni dalle scuole elementari»
«La
stessa cosa vale per me. Sono Matt, da sempre, per tutti. A volte anche i
giornalisti mi chiamano così» Allarga le braccia: «Ma lo preferisco. Matt suona
molto meglio di Matthew»
Nuovamente
torna il silenzio fra noi, ma per poco. Questa volta sono io a interromperlo;
voglio sfruttare appieno l’occasione che mi si è presentata di poter conoscere
un giocatore della squadra per cui tifo, e non uno qualsiasi, ma Matthew Evans.
«Non
sono mai venuta al terzo tempo, sai?»
Lui
mi guarda, sorpreso:
«Sul
serio? E come mai?»
La
risposta è semplice: perché sono una stupida e ho sempre temuto di venire
derisa per il mio lavoro appena posato piede qui dentro. Ma non rispondo così,
anzi, scuoto appena la testa e dico:
«Non
lo so»
Un
po’ è vero. Non so perché sono sempre stata tanto stupida. Mi sono sempre e
solo creata da sola più problemi di quanti in realtà ne ho incontrati. E ora mi
viene spontaneo chiedermi per quale motivo io abbia sempre rinunciato
all’occasione di passare così piacevolmente il mio tempo dando, invece, retta a
tutti i miei “problemi”. Se non mi fossi mai fermata troppo a preoccuparmi di
quello che la gente avrebbe potuto pensare di me, forse questa che ho in mano
non sarebbe la prima birra offertami da Matt. Tutte le persone che sono qui
dentro sono qui per lo stesso identico motivo: festeggiare e coronare al meglio
un pomeriggio di buon rugby. A nessuno di loro importa se sono una delle donne di
servizio, è già tanto se a qualcuno interessa sapere di me. La verità è che le
mie insicurezze mi hanno sempre sconfitta finora, ma non accadrà più.
«E
questo primo terzo tempo ti piace?»
Matt
mi risveglia dai miei pensieri con questa domanda. Ogni volta che lo guardo,
che penso al fatto che si sta rivolgendo davvero a me, quasi non mi sembra
vero. Se non sto sognando devo ricordarmi di ringraziare Jamie e Jenna, perché
è decisamente merito loro. Da sola non ce l’avrei di certo fatta, mi sarei
sabotata molto prima.
«Sì,
molto. Mi stavo giusto chiedendo perché ho aspettato tanto a decidermi a
venirci»
Si
mette a ridere e io rimango imbambolata a guardarlo mentre si ricompone. Mi
rendo conto che quando ho pensato che Matthew Evans mi affascina, ho pensato solo
la verità.Ora che gli sono davanti, che
l’ho visto in più occasioni interagire con Jamie, che lo vedo socializzare con
le persone e con me, ammetto che è davvero un ragazzo interessante. È
completamente diverso da come il gossip lo dipinge: non è affatto sfuggente, né
di poche parole. È proprio vero che i giornali rigirano le cose come vogliono
loro.
Matt
beve un altro sorso di birra, dopodiché appoggia il boccale al bancone e io lo
imito. Si passa nuovamente una mano fra i capelli:
«Mi
fa piacere saperlo. Allora significa che comincerai a venirci più spesso?» mi
chiede.
Lo
guardo, leggermente sorpresa. Mi sento vagamente arrossire perché i suoi occhi
celesti sono lì ad osservarmi:
«Direi
di sì» rispondo, fingendo nonchalance.
Pare
aver funzionato e, prima che lui possa dire qualcos’altro, approfitto della mia
finta tranquillità per continuare:
«Complimenti
per la partita, comunque»
Sorride,
distogliendo un momento lo sguardo:
«Grazie»
«Hai
giocato davvero bene, sul serio. Scommetto che te lo hanno già detto
praticamente tutti, ma il placcaggio che hai fatto all’ultimo è stato
provvidenziale»
Sento
che il mio fiume di parole è appena straripato. Alle volte mi capita, sempre
quando c’è di mezzo il rugby. Attacco a parlare più rilassata che mai e riuscire
a fermarmi mi è quasi impossibile.
Incomincio
ad analizzare alcuni dettagli della partita appena trascorsa e Matt continua ad
ascoltarmi, sempre con il sorriso in volto. La cosa che più mi sorprende, però,
è che pare davvero interessato a quello che sto dicendo. Credo sia sul punto di
pronunciare qualcosa, ma sento il mio nome esclamato a gran voce e qualcuno
afferrarmi per la vita: è Jamie. Poco dopo di lui ricompare anche Shane e io
torno a ricordarmi di essere alla cittadella di Arms Park in mezzo a centinaia
di persone e non sola con Matt chissà dove.
«Rieccoci»
dice Shane come ci raggiunge.
«Ho
conosciuto un sacco di giocatori, Danni, sai?» esclama Jamie, lasciandomi
libera e fermandosi fra me e l’irlandese.
«Sul
serio?» gli chiedo, felice nel vederlo così allegro.
Annuisce
energicamente e comincia ad elencarmi i nomi dei giocatori in cui si sono
imbattuti. Lo interrompo:
«Calma,
calma. Perché non me li dici stasera, quando incontriamo tuo padre?»
Il
piccolo mi dà ragione, dopodiché vedo Shane richiamare l’attenzione di Matt
dandogli un leggero colpo sulla spalla.
«Ho
incontrato Aaron. Mi ha chiesto di te» gli dice.
Matt
alza gli occhi al cielo:
«Cavolo,
è vero. Vado subito a salutarlo» Poi si rivolge a me: «È stato un piacere
conoscerti»
«Anche
per me» rispondo.
«Ci
vediamo, Jamie» saluta anche il più piccolo, che risponde con un “Ciao” e la
mano alzata.
Guardo
Matt allontanarsi e successivamente poso lo sguardo su Shane, che mi sorride.
«Vado
anche io» mi dice.
«Ah,
sì. Grazie di tutto» rispondo.
Lui
alza le spalle:
«Ci
mancherebbe. Alla prossima»
Saluta
sia me che Jamie e si immerge fra la folla.
Ora
che tutto è finito mi sento strana, devo ammetterlo. Ho parlato con Matthew
Evans, sono riuscita a rimanergli vicina e a non farmi influenzare
dall’imbarazzo che ho provato. Sento un sorriso comparirmi in volto, uno di
quelli che non si riesce in alcun modo a fermare. Non vedo l’ora di raccontarlo
a Jenna; so che mi dirà che sapeva sarebbe successo un giorno e che se mi fossi
sbrigata prima sarebbe stato meglio, ma posso sopportare di sentirglielo dire.
Gliene voglio assolutamente parlare, devo
parlarne con qualcuno. Più ci penso, più tutto mi sembra ancora più
incredibile.
Finisco
di riordinare le ultime cose e do una rapida occhiata all’orologio. Le
diciannove sono passate da un po’; fortunatamente ho praticamente finito quello
che dovevo fare. Vado a riporre in sgabuzzino le scope e il secchio, per poi dirigermi,
piuttosto stancamente, verso lo spogliatoio. Il mio turno del mercoledì
pomeriggio è finito, per mia gioia. Come inizio di settimana non è stato un
granché; lunedì devo aver compiuto qualche movimento sbagliato, al lavoro, che
mi ha provocato un gran mal di schiena: è due notti che dormo male, ormai.
Ovviamente tutto questo si ripercuote sul lavoro e sullo studio. Il test della
scorsa settimana è andato piuttosto bene, devo ammetterlo, ma ne ho già un
altro in programma fra quindici giorni e non posso di certo rilassarmi. Come se
non bastasse non ho più incontrato né Matthew Evans, né Shane O’Bannon dopo
sabato e mi sono resa conto, con mia sorpresa, che la cosa mi dispiace. Per
fortuna almeno il pranzo di ieri con Jenna è andato benone; non mi ha puntato
contro alcun oggetto pericoloso e sospetto che ciò sia dovuto al fatto che mi
sono ricordata per tempo di dirle quello che è successo al terzo tempo di
sabato. Jenna era così su di giri quando le ho raccontato di Matt, che ha
contagiato anche me e siamo finite a ridere al telefono continuando a ripetere
“Mio Dio, non ci credo” come due stupide. Tutto ciò è durato una buona
mezz’ora, il tempo necessario per spiegarle, per filo e per segno, tutto
l’accaduto, o quasi. Ma le note più positive di questo inizio di settimana si
esauriscono qui.
Come
entro nello spogliatoio incontro Eleanor, intenta ad afferrare la sua borsa e
le ultime cose. A lei non ho raccontato niente di sabato e del terzo tempo. Per
quanto noi due andiamo d’accordo, ammetto di non fidarmi totalmente di lei, per
tale motivo non mi va molto a genio il fatto che conosca tutto di me e di ciò
che mi succede. Che sappia di come mi sono sentita prima, durante e dopo un
esame mi va bene, ma che conosca quello che ho provato avendo davanti uno coma
Matt, questo no.
«Ah,
ciao» mi saluta, quando, voltandosi, mi vede entrare.
«Ciao»
rispondo.
Guarda
un momento intorno a sé:
«Vuoi
che ti aspetti? Immagino che non ti ci vorrà molto»
«No,
no, non preoccuparti, vai pure. Credo che ci impiegherò un po’, invece»
«Devi
aspettare Jamie? Perché non mi sembra di aver sentito gli allenamenti dei
bambini»
«Infatti
non ci sono. Jamie ha allenamento fino alle diciannove solo il lunedì e qualche
venerdì»
«Ho
capito. Beh, allora se non vuoi che ti aspetti, io vado. Devo uscire con
Richard stasera»
«Sì,
vai pure. Ci vediamo» la saluto.
Lei
risponde allo stesso modo e si avvia, lasciandomi sola. Mi cambio con calma,
cercando di non fare movimenti bruschi con la schiena che continua a farmi
male.
Quando
esco dallo stadio controllo l’orario sul telefono. Sono le 19:28 e ho anche un
messaggio non letto da parte di Jenna. Sorrido, chissà cosa vuole adesso.
Mi avvio a grandi passi verso casa – vado sempre ad Arms Park a piedi, dista
poco più di dieci minuti da casa mia – pensando al fatto che non vedo l’ora di
infilarmi il pigiama, prepararmi qualcosa di sfizioso e gustarmelo in tutta
tranquillità sul divano con una buona birra. Il classico programma serale di
una studentessa-lavoratrice single. Fortunatamente ogni tanto riesco a
variarlo, altrimenti sento che, un giorno, ne morirei. Ho appena raggiunto il
parcheggio degli autobus vicino all’uscita sul retro quando, sollevando gli
occhi dal mio telefonino, vedo Matthew Evans.
Automaticamente
mi blocco, improvvisamente senza sapere cosa fare. Matt è fermo, il borsone da
allenamento ancora sulla spalla, lo sguardo basso sul telefono cellulare che
sembra osservare senza alcun interesse. La squadra titolare dei Cardiff Blues
aveva una sessione in palestra fino alle diciannove; non dovrei essere così
sorpresa di trovarlo qui, tuttavia lo sono. Lo sono soprattutto perché è
passata più di mezz’ora da quando loro avrebbero dovuto finire. Vorrei fare
dietrofront e alzare i tacchi, ma se voglio arrivare a casa mia in tempi
ragionevoli devo passare di qui. Respiro a fondo due, tre volte, decidendo di
riprendere
a camminare. Succederà quello che deve succedere. L’unico problema è che,
mentre mi avvio verso di lui – o meglio, mentre mi avvio per superare lui – mi rendo conto di non
sapere davvero come comportarmi.
Lo
saluto? E se poi non si ricorda di me che mi invento? E se, invece, tirassi
dritto, fingendo di non vederlo – cosa impossibile perché parliamo di un metro
e ottantanove per centocinque chili – e lui mi notasse e riconoscesse, che gli
dico?
Continuo
a respirare profondamente, in preda al panico più totale, mentre mi avvicino
sempre più a Matt. Improvvisamente striscio il piede sull’asfalto, prendendo
male le misura dal suolo; è un rumore così forte che chiunque lo avrebbe sentito,
infatti il giocatore solleva la testa, notandomi. Ci guardiamo e mi sembra
quasi di sentire il tempo fermarsi; il silenzio pare più intenso che mai, sento
solo il mio cuore che batte all’impazzata per l’ansia e qualcos’altro che, al
momento, mi sfugge proprio.
Il
volto di Matt si distende in un sorriso, uno di quelli bellissimi che lui
possiede:
«Ciao»
dice.
Io
sono ancora ferma nell’esatto punto in cui non ho sollevato il piede poco prima.
Mi
ha davvero salutata, quasi non mi sembra vero; sicuramente ho uno dei suoi
compagni di squadra alle mie spalle. Ma i suoi occhi celesti puntano dritti nei
miei, ciò significa che si sta decisamente rivolgendo a me. Mi sento avvampare
e mi rendo conto che dovrei rispondergli: rimanere imbambolata a guardarlo non
mi sarà d’aiuto.
«Ciao»
rispondo alla fine, cercando di apparire il più naturale possibile e coronando
il tutto con un sorriso.
Matt
infila in tasca il cellulare e si avvicina:
«Danielle,
giusto?»
Annuisco:
«Esatto.
Ma preferirei Danni»
«Ah,
è vero, me lo avevi detto. Scusami ma con i nomi sono un disastro le prime
volte»
«Nessun
problema»
«Che
ci fai da queste parti? Jamie ha allenamento?»
Scuoto
la testa per rispondere alla sua domanda, ma poi non so che altro fare.
Che
scusa mi potrei inventare per non dirgli che sono una delle donne delle
pulizie, ma riuscire ugualmente a motivare la mia presenza qui?
Ma
poi ripenso a Jenna e a tutte le belle cose che mi dice sempre per aiutarmi a
sentirmi più orgogliosa di me stessa. Non importa quello che penserà di me
Matthew Evans, Jenna ha ragione; il mio lavoro ad Arms Park è importante quanto
quello di tanti altri, mentire non mi servirà a niente. Oltretutto, ora che so
che lui mi conosce, prima o poi mi avrebbe incrociata e riconosciuta nei
corridoi o da qualche altra parte. Meglio essere sinceri fin da subito ed evitarsi
così imbarazzanti figure in seguito.
«Ero
al lavoro» rispondo infine.
«Dove?»
mi chiede lui, apparendo quasi molto interessato.
Indico
lo stadio alle mie spalle con il pollice:
«Ad
Arms Park»
Matt
solleva le sopracciglia:
«Sul
serio?»
Annuisco
con la testa:
«Già.
Sono una delle donne di servizio» ammetto, ritrovandomi a sperare con tutta me
stessa che non si ricordi in alcun modo del nostro incontro-scontro lungo il
corridoio eche, in caso contrario, non
mi abbia riconosciuta.
«Ah,
ma dai. Allora una delle più giovani sei tu» dice.
Non
è esattamente la reazione che mi ero aspettata. Mi immaginavo sarebbe scoppiato
a ridere o che avrebbe fatto qualche commento fuori luogo. Ancora una volta
Matthew Evans è riuscito a sorprendermi.
«Ehsì, una delle “giovani” sono io» gli
rispondo, facendo segno di virgolette.
Lui
sorride e io riprendo a parlare:
«Certo,
come lavoro non è un granché, ma…»
«È
meglio di niente» concludiamo all’unisono.
Lo
guardo, sentendomi vagamente arrossire, uno di quei rossori percepibili solo a
me, che, fortunatamente, non si manifestano mai in modo appariscente.
«Fate
un bel lavoro, credimi. Ho visto come lasciamo gli spogliatoi a fine partita;
sembrano un campo di battaglia» dice, spettinandosi i capelli.
Mi
metto a ridere:
«A
volte» gli dico. «Altre volte invece non sono messi così male»
«Intendi
quando giochiamo in un altro stadio, giusto?»
Scoppio
a ridere, cercando di ricompormi il più in fretta possibile. Quando ci riesco
mi accorgo che Matt mi sta guardando, sorridendo.
Distolgo
lo sguardo, cercando qualcosa da dire:
«Tu
come mai sei qui? Credevo finiste alle diciannove» riesco a pronunciare infine.
«Infatti»
Attacca a tormentarsi i capelli. «È solo che non mi andava di tornare subito a
casa e sto cercando un modo per ammazzare il tempo. Da soli, però, non passa
mai»
«Ho
capito. Temporeggiavi»
«Proprio
così»
Cala
il silenzio. Comincio a guardare intorno a me, non sapendo che altro poter dire
o fare.
«Senti…»
Mi
volto verso Matt quando riprende parola. Anche lui si guarda intorno, ma alla
fine punta lo sguardo su di me con incredibile sicurezza:
«Ti
andrebbe di venire a bere qualcosa? Facciamo due chiacchiere. Ma se hai da fare
lo capisco, non sentirti obbligata solo perché sono alla ricerca di compagnia»
dice, facendomi l’occhiolino.
Devo
aver capito male. O peggio, devo aver battuto la testa da qualche parte e
adesso sto vaneggiando. Mi ha davvero invitata a prendere una birra? Ha davvero
chiesto a me, la donna di servizio
che ha appena ammesso di essere tale, di accompagnarlo a bere qualcosa?
Non
posso accettare, non posso. È un’occasione troppo ghiotta per il karma: io e
Matt che beviamo qualcosa insieme. Mi conosco troppo bene e so per certa che se
qualcosa deve andare storto lo farà sicuramente.
Ma
poi mi ritrovo a pensare al fatto che dovrei imparare a non lasciarmi più
scappare simili occasioni. È un po’ come la questione del terzo tempo: non ci
sono mai voluta andare perché ero preoccupata – di cosa poi non si sa – e la
prima volta che vado trascorro due ore incredibili. Se Jenna fosse al mio posto
avrebbe risposto di sì minuti fa, mentre io ancora non mi capacito
dell’occasione che sto avendo.
Al
diavolo la mia cena, la mia birra e la mia schifezza alla tv, io vado.
«Si
può fare, sì. Vengo volentieri» riesco a dire infine.
Ormai
è troppo tardi, anche volendo non potrei più tirarmi indietro senza apparire
una lunatica.
«Ottimo,
grazie» risponde.
Mi
fa cenno di avviarci e ci incamminiamo uno accanto all’altra.
«Conosci
Arnold’s? È il mio pub preferito,
pensavo di andare lì»
Lo
guardo, sorpresa:
«Certo
che lo conosco, ci abito sopra»
Anche
lui si volta sorpreso verso di me, gli occhi celesti sgranati:
«Sul
serio abiti sopra ad Arnold’s?»
Annuisco:
«Non
esattamente sopra. Una casa più in là. Ma se voglio farmi una birra devo
solamente scendere»
Lui
si mette a ridere:
«Fantastico.
È uno dei sogni della mia vita quello di abitare sopra a un pub»
«Ah
sì?»
«Già»
«Ti
accontenti di poco, vedo» provo a scherzare.
«Sì
infatti» conclude lui, sorridendo.
Prendo
forza e mi azzardo a chiedergli come procede il campionato e, a due partite ormai
trascorse, come vede i Cardiff Blues quest’anno. Lui risponde sorridendo, in
modo davvero esaustivo e attacca a raccontarmi quelli che sono i retroscena di
una squadra di rugby, in particolare gli allenamenti e tutte le fasi di
analisi. Mentre parla mi rendo conto che non mi stancherei mai di ascoltarlo;
non solo perché sta affrontando un tema che personalmente amo, ma anche perché
la sua voce ha un suono meraviglioso.
Quando
arriviamo da Arnold’s lui mi sta
ancora spiegandocome il coach analizza
le partite; si interrompe, apre la porta e mi lascia passare. Come sospettavo
il locale è pieno: Arnold’s è sempre
pieno. Quasi tutti i tavolini sono occupati da persone che parlano, bevono,
mangiano e si divertono e anche sugli alti sgabelli davanti al bancone in noce
la situazione è la medesima. Cimeli rugbistici e marittimi coronano alla
perfezione l’atmosfera da ritrovo di vecchi amici tipica di questo locale,
accentuata ancora di più da legno ovunque e luci soffuse.
«Ehilà, Matt»
Una
voce alla nostra destra chiama il giocatore. Ci voltiamo e davanti a noi, il corpo
per metà coperto dal bancone, c’è il proprietario del locale.
«Ciao
Peter» lo saluta il giocatore e i due si scambiano una vigorosa stretta di
mano.
«Come
stai?» chiede il barista.
«Tutto
bene, tu?»
«Bene,
bene. Ti serve un tavolo, vero? Qualcosina c’è rimasto»
«Sì,
per due»
Matt
si sposta appena, permettendo a Peter di vedermi; io sorrido e saluto. Subito
l’uomo chiama a gran voce una delle cameriere, Liz, e come lei ci raggiunge le
dice:
«Vedi
se riesci a trovare un tavolo per due»
«Subito.
Venite con me» conclude, rivolta a noi.
Ancora
una volta Matt lascia andare me per prima e mentre seguo la cameriera lo sento
salutare qua e làqualcuno. Raggiungiamo
il tavolo – tutto in legno come gli altri, adagiato al muro – e Liz ci lascia i
menù. Io e Matt ci sediamo e, non sapendo che fare, mi metto subito a guardare
l’elenco delle birre. Cerco di concentrarmi sulle descrizioni di quest’ultime
dato che mi piacerebbe provarne una nuova anziché la solita questa volta, ma
non ci riesco. La verità è che sono in balia del più totale panico. Ho paura di
dire la cosa sbagliata, quella che, anche senza farlo apposta, sarebbe meglio
non pronunciare assolutamente. Sono davvero preoccupata di gestire male questa
occasione che, va detto, è uno dei più grandi colpi di fortuna che mi siano mai
capitati.
Respiro
a fondo un paio di volte, nascondendomi dietro al menù. Se non mi agito andrà
tutto bene. Non mi conviene sprecare questa opportunità, potrebbe essere
l’inizio di qualcosa; di un’amicizia, niente di più sicuramente: solo in un
universo parallelo uno come Matt potrebbe interessarsi di una come me.
«Penso
che prenderò una Rhymney»
dice lui, all’improvviso.
Mi
riprendo dai miei pensieri. Abbasso il menù:
«Io
direi una Brains» La stessa di
sempre.
Pochi
minuti dopo la cameriera è già al nostro tavolo e prende l’ordine. Appena si
allontana, però, uno di quei silenzi seri e profondi scivola fra noi. Mi guardo
distrattamente le mani cercando qualcosa da dire. Alla fine, per fortuna, mi
viene in mente:
«Comunque
devi ancora finire di raccontarmi quello che mi stavi dicendo prima» gli dico,
sorridendo.
Lui
pare perplesso, almeno in un primo momento, poi se ne ricorda:
«Ah
giusto» esclama, battendosi la fronte con la mano.
Dopodiché
riprende da dove si era interrotto e io rimango ad ascoltarlo.
Liz
appoggia la mia seconda birra sul tavolo e si allontana dopo essersi lasciata
ringraziare. Non ne bevo subito un sorso, mi rigiro solo il bicchiere fra le
mani, osservandone il contenuto ambrato. Sollevo lo sguardo su Danni, sempre seduta
di fronte a me, intenta a parlare. Si scosta appena la frangetta e sorride
mentre racconta di com’era sembrata, vista da fuori, la meta assurda del mio
amico Paul contro la Scozia nello scorso torneo Sei Nazioni. Il suo boccale di
birra è ancora mezzo pieno e mi piace che mentre parli, di tanto in tanto, lo
sfiori con le sue mani affusolate ma non troppo curate. La sua compagnia si sta
rivelando molto più piacevole del previsto. Quando prima le ho chiesto se le
andava di venire a bere qualcosa sapevo perfettamente che avrei dovuto fare il
possibile per evitare che la conversazione scemasse; in fin dei conti non ci
sarebbe stato niente di sconvolgente nella cosa: io e lei non ci conosciamo
ancora. Non sono riuscito a rinunciare all’occasione di avere della compagnia
con qui trascorrere qualche ora e non è male riuscire ad approfondire, al
contempo, la conoscenza con questa ragazza. Al terzo tempo, sabato, Danni mi ha
fatto davvero una buona impressione, quindi non ho capito perché lasciarsi
scappare l’opportunità di vedere se questa mia prima impressione su di lei
fosse giusta o sbagliata.
Al
momento sono contento che abbia accettato il mio invito; è socievole, alla mano
e ne sa davvero parecchio di rugby. Oltretutto non ha ancora fatto alcun tipo
di domanda fuori luogo, ovvero riguardanti i test match di novembre.
Si
mette a ridere ricordandosi un aneddoto della sua amica – una certa Jenna –
accaduto lo stesso giorno di quella partita. La imito e subito dopo le dico:
«Certo
che ne sai davvero parecchie di cose sul rugby»
Si
stringe nelle spalle:
«Sono
un’appassionata, tutto qui»
«Da
quanto lo segui?»
«Beh, guardavo le partite con miopadre già a cinque anni, perciò direi che
sono venti anni che seguo questo sport»
«Però.
Questo spiega molte cose» le dico, sorridendo.
Anche
lei sorride, ma non replica, così sono nuovamente io a prendere parola:
«Hai
mai pensato di giocarci?»
«A
rugby?»
Annuisco:
«Sì.
Ce ne sono svariati di club femminili qui in giro»
Si
sbriga a rispondere; pare quasi che abbia pensato di aver fatto la domanda
sbagliata:
«Lo
so. Comunque sia, ci giocavo, quando ero piccola. Poi, quando non era più
possibile avere le squadre miste, mio padre ha preferito che io non giocassi
più. Così mi sono buttata sulla lettura»
«Davvero?»
«Già.
Per lui “squadra femminile” era sinonimo di “rugby serio” e non voleva che
tornassi a casa con qualche cosa di rotto. Dato che la quota di iscrizione la
pagava lui e io ero poco più che una bambina, ho dovuto sottostare alle sue
decisioni»
«Capisco.
Io invece ho fatto un po’ il processo inverso» comincio, dopo aver bevuto un
sorso di birra e sentendo il bisogno di renderla partecipe della cosa: «I miei
genitori volevano che giocassi a calcio e per un po’ l’ho fatto. Ma,
personalmente, odiavo quello sport, non faceva per me. Così, a sedici anni,
sono riuscito a convincerli a lasciarmi giocare a rugby e, per fortuna, hanno
accettato»
«Hai
un talento innato per questo sport, allora» dice, alzando le spalle.
«Trovi?»
le chiedo.
«Beh,
cominciare a giocare a sedici anni ed esordire in nazionale maggiore a venti
direi che, sì, è talento»
Sorrido:
«Grazie»
Rimaniamo
in silenzio un attimo; lei beve un sorso dal suo boccale e a me viene in mente
cosa potrei chiederle:
«Del
tuo lavoro che mi dici?»
Solleva
lo sguardo dal bicchiere, poiché stava ancora bevendo, e mi osserva; quei suoi
occhi verdi sono un incanto. Si asciuga le labbra e mi chiede:
«In
che senso?»
«Non
so, hai deciso di lavorare ad Arms Park proprio per via della tua passione per
il rugby o c’è dell’altro?»
«C’è
dell’altro»
«Quindi,
il fatto che si tratti di Arms Park non è tutto» la incalzo.
Lei
annuisce, tranquillamente. Il livello della birra nel suo bicchiere sta
diminuendo, sicuramente come il tempo che ci è rimasto da trascorrere insieme.
«Avevo
bisogno di un lavoro per pagarmi gli studi. So che essere una donna delle
pulizie non è il massimo, ma gli orari mi permettono di avere tempo per
studiare e lo stipendio è sufficiente. Poi, l’hai detto anche tu: è Arms Park»
mi sorride.
Ricambio
il suo gesto, dopodiché le chiedo:
«Che
cosa studi?»
«Storia
dell’arte»
«Interessante.
E come va? Tutto bene?»
«Direi
di sì. Ho cominciato a ventidue anni l’università, se è questo che ti stai
chiedendo. Prima di decidermi se continuare gli studi o meno ho lavorato un po’
e ho fatto un anno da ragazza alla pari in America»
Mi
esibisco in un’espressione ammirata:
«Complimenti.
Sono scelte di vita interessanti, le tue» le dico e lo penso davvero.
Danni
è ammirevole per ciò che ha appena detto. Lavorare e studiare contemporaneamente
non è semplice e dimostra, a parer mio, quanto lei abbia a cuore la sua stessa
cultura e quanto trovi importante costruirsi il proprio futuro passo dopo
passo. Anche per me è stato così: mi sono sacrificato e impegnato molto per
arrivare dove sono. Sicuramente io ho incontrato meno ostacoli di lei per
lavorare in modo da inseguire la mia passione – il mio lavoro è la mia passione – per questo il modo
di ragionare di Danielle mi piace, provo molta stima per coloro che non si
arrendono facilmente.
«Dopo
la laurea sai già cosa ti piacerebbe fare? Vorresti insegnare?»
Scuote
la testa:
«Vorrei
fare la guida turistica in un museo» ammette.
Abbassa
lo sguardo, sembrando addirittura imbarazzata. Rimango a guardarla per vedere
se ha altro da dire, mentre lei riprende a sfiorare il boccale di birra con
l’indice destro. Quando mi sembra che non sappia che cosa aggiungere faccio per
parlare, ma lei alza lo sguardo e dice:
«Ho
sempre voluto lavorare in un museo, fin da piccola»
A
quest’ultima frase mi pare sia arrossita leggermente.
«Beh,
dev’essere un bel lavoro. Sei perennemente circondato dall’arte»
«Sì.
E, in fin dei conti, è un lavoro tranquillo. E una vita tranquilla è quella a
cui punto» abbozza un sorriso e abbassa nuovamente lo sguardo.
«Anche
io» le dico.
Torna
a puntare gli occhi su di me, sorpresa; io sollevo le spalle e le sorrido.
Danni sembra pensare se dire o meno una cosa, poi pare convincersi:
«Scusa
se mi permetto, ma… sì, insomma, sentire una cosa del genere da Matthew Evans
fa uno strano effetto, in un certo senso»
Capisco
cosa intende, si riferisce sicuramente alla mia fama, al fatto che la mia
faccia sia esibita più o meno ovunque qui a Cardiff e, sicuramente, anche alla
pressione mediatica che ricevo. Ha ragione, non c’è niente di tranquillo in
tutto questo; ma personalmente credo che sia dovuto solo all’importanza che gli
si dà.
«So
cosa intendi» comincio: «La verità è che non do molto peso a stampa, gossip e
quant’altro. Voglio dire, io sono grato dell’opportunità che sto avendo, sono
grato di poter vivere facendo ciò che amo e, ancora di più, sono grato di poter
guidare la nazionale gallese. Ma non ho mai voluto che tutto questo mi
impedisse di avere una vita tranquilla e, non dandoci più importanza di quanta
ne abbia, ti posso garantire che non influisce più di tanto sulle mie giornate:
lo prendo come il mio lavoro. Partecipo di rado a nottate da bagordi, guardo
delle serie tv come tutte le persone e, quando incontro i miei famigliari,
parliamo e giochiamo a carte. È perché non voglio cambiare niente di questa mia
vita che sono rimasto a Cardiff anche se ho ricevuto richieste da Francia,
Scozia e Irlanda. La mia vita qui è bellissima così com’è e, credimi, è
semplice»
Sorride,
dolcemente, e beve dal suo boccale:
«Mi
fa piacere sapere che la pensi così» dice dopo.
«Grazie»
«Quindi
devo dedurre che non hai intenzione di andare a giocare all’estero»
«No,
infatti. Finché ne ho l’occasione rimarrò a Cardiff. Perché questa domanda?»
Schiude
le labbra per parlare, ma poi sembra quasi ripensarci. Alla fine scrolla le
spalle e dice:
«Così.
Giusto per sapere quanto ancora i Cardiff Blues possono fare affidamento su di
te»
La
guardo, chiedendomi se nella sua domanda di poco fa ci fosse più di quanto lei
ha ammesso. Danni segue con gli occhi la coppia che è appena passata accanto al
nostro tavolo e si schiarisce la gola.
«Se
sono fortunato, possono contare su di me ancora per un bel po’» dico infine, in
risposta alla ragazza.
Lei
sorride, dopodiché beve il suo ultimo sorso di birra e rimane ad osservare il
boccale vuoto.
«Ne
vuoi un’altra?» le chiedo.
«Oh, no, no, grazie. Mi fermo qui per
stasera»
Controllo
rapidamente l’orario: le ventuno sono passate da un po’. Pensandoci bene io e
Danni siamo rimasti insieme per più di un’ora. Proprio come sabato ho trovato
la sua compagnia molto piacevole e sono contento di aver approfondito la nostra
conoscenza. Chissà che non possa evolversi ancora, prossimamente.
Fra
un sorso e l’altro finisco rapidamente la mia birra, senza sapere che altro
dire. Non voglio fare ulteriori domande a Danni, non voglio che pensi che devo
assolutamente sapere tutto di lei; per conoscerla meglio c’è tempo,
semplicemente quello che avevamo a disposizione questa sera si è esaurito.
«Sono
già le 21:25?» chiede.
Torno
a concentrarmi su di lei e annuisco.
«Forse
è meglio che vada. Devo sistemare delle cose a casa»
«Sì,
anche io» dico.
Ci
alziamo entrambi, avviandoci alla cassa. Appena arriviamo lascio a Peter il
biglietto per il conto e mi accingo a pagare il tutto, quando Danni mi chiede:
«Quanto
ti devo?»
«Cosa?
Assolutamente niente» le rispondo.
«No,
Matt. Lasciami pagare la mia»
Scuoto
la testa, ridendo. Lei insiste finché non allungo le sterline esatte a Peter,
il quale risulta piuttosto divertito dalla scena. Alla fine la ragazza si
arrende:
«Beh,
allora grazie»
«Prego»
Usciamo
dal locale – la sera si è fatta più fresca per via della brezza che sale dalla
baia – e ci incamminiamo, ma quasi subito lei mi ferma:
«Io
abito qui»
Mi
volto verso il pub da cui siamo appena usciti. È proprio vero che ci abita
vicino, l’ingresso disterà sì e no dieci metri.
«Allora
abiti davvero sopra ad Arnold’s» le
dico.
Lei
sorride, divertita:
«Te
l’avevo detto» poi si guarda intorno: «E tu da che parte vai?»
Indico
più avanti lungo la via, dopo la sua casa:
«Di
solito lascio l’auto al parcheggio che c’è là e vado allo stadio a piedi»
«Meno
traffico?»
«Molto
meno»
Ci
guardiamo un attimo, dopodiché riprendo a parlare:
«Grazie
per la compagnia, comunque. Mi ha fatto piacere»
«Oh,
beh… grazie a te per la birra. Anche
per me è stato un piacere»
«Ci
vediamo ad Arms Park, allora»
«Già,
ci vediamo là»
Detto
ciò ci salutiamo e io riprendo a camminare verso la mia macchina. Stranamente
non ho fame. Dev’essere perché ormai è tardi e il mio unico pensiero fisso, ora,
è quello di andare a riposare per riprendermi al meglio in vista degli
allenamenti di domani. Però devo ammetterlo, questa breve uscita con Danni è
stata piacevole. Ho passato una bella oretta in compagnia anziché a casa da
solo e proprio stasera che, di stare solo, davvero non ne avevo voglia.
Danielle è un’ottima compagna di bevute, ne sono sicuro.
Sono
ancora appoggiata di peso contro la porta d’ingresso. Mi sembra di avere le
gambe molli, ma so perfettamente che non è vero e che, al contrario, mi
sorreggono benissimo. Un “è successo veramente?” mi balena in testa e me la riempie
completamente, l’unica mia certezza è che il sorriso che ho in faccia non se ne
andrà tanto presto. Sono uscita con Matthew Evans; con lui, uno dei miei
giocatori preferiti e uno dei ragazzi più belli – a parer mio – in cui mi sia
mai imbattuta. Ora, non siamo proprio usciti, ma abbiamo bevuto una birra
insieme e lui mi ha espressamente invitata, senza giri di parole o mezze frasi.
Mi ha chiesto se mi andava di fargli compagnia, io ho detto di sì e ora eccomi
qui. Dopo averlo avuto davanti e aver parlato con lui per più di un’ora e mezza
torno a casa e mi sento come quando, a sedici anni, uscivo con il mio primo
fidanzato. Per carità, non penso Matt potrà diventare un giorno il mio ragazzo,
è molto improbabile, ma, sul fatto che stasera lui mi abbia pagato da bere non
ci piove.
Respiro
a fondo un paio di volte, cercando di darmi un contegno.
Stasera
è stato tutto un caso. Un caso che lui cercasse compagnia per passare qualche
ora e un caso che io capitassi di lì. Con molta probabilità non avrà un seguito
o una replica la birra di stasera. Posso solo reputarmi fortunata per aver
preso da bere con il capitano gallese e per il fatto che forse, d’ora in poi,
lui mi saluterà quando ci incontriamo allo stadio.
Devo
dirlo a Jenna.
Salgo
in fretta la rampa di scale del mio piccolo appartamento con ingresso
indipendente. Il mio gatto mi raggiunge, fermandosi a guardarmi: il suo sottile
messaggio per farmi capire che è alla ricerca di cibo. Lo guardo, lanciandogli
un’occhiata nella speranza che intuisca che, al momento, non posso perdere
neanche un secondo, ma che devo assolutamente fare la mia chiamata.
«Ceniamo
insieme appena finisco» gli dico. Lui mi guarda, interrogativo.
Afferro
il cordless e digito il numero di Jenna, che ovviamente conosco a memoria,
rimanendo ad aspettare che la mia amica risponda: uno squillo, due, tre.
«Pronto?»
«Jenna,
sono io» dico, immediatamente.
«Sì,
Danni, lo so» risponde.
«Puoi
parlare ora o ti disturbo?»
«Sono
quasi le dieci, certo che posso parlare. Dove vuoi che sia?» domanda, in modo
ovvio.
Scommetto
che si è seduta sul letto, come fa sempre quando la chiamo; mentre io, invece,
mi rendo conto di non riuscire a stare ferma. Cammino avanti e indietro dalla
mia stanza al soggiorno con angolo cottura, sempre sotto lo sguardo perplesso
del mio gatto, ancora alla ricerca di cibo. Respiro a fondo pensando alle
parole migliori per dire alla mia amica, il più seriamente possibile, ciò che
mi è appena successo, benché io sia perfettamente consapevole che, seria, non
riuscirò mai ad esserlo.
«Tu
non hai idea di quello che mi è successo poco fa» esordisco infine, sentendo
quel bisogno impellente di sorridere tornare alla carica.
«Oddio»
comincia Jenna e sono sicura che ha appena avvicinato il telefono all’orecchio
per evitare che le possa sfuggire una qualche parola. «Che diavolo hai fatto?»
chiede.
«Sono
stata per più di un’ora da Arnold’s, in
compagnia di Matthew Evans» dichiaro.
La
sento soffocare un grido, ma alla fine esplode in un:
«Mi
prendo in giro?»
«No»
rispondo e, ora, quel suo grido soffocato lo sento anche io, fin troppo bene,
tanto da dover allontanare il telefono per evitare di essere assordata.
«Ohmio Dio» scandisce accuratamente. «Devi
assolutamente dirmi cosa cavolo è successo» esclama.
Scoppio
a ridere, divertita. Io e Jenna abbiamo questo tipo di conversazioni fin dalle
scuole superiori. Ci siamo sempre raccontate tutto e ogni volta che succede
qualcosa di incredibile e inaspettato – come quello che è successo a me prima –
a qualcuna di noi due, le telefonate iniziano sempre in questo modo, da
anni.
«Perché
ridi? Non perdere tempo, avanti racconta» mi incalza.
«Ok,
ok» le dico.
Comincio
a raccontarle quello che è successo, tutto quanto. Le dico dell’incontro con
Matt nel parcheggio, del fatto che io abbia apertamente ammesso di essere una
delle donne di servizio e le racconto di come lui mi abbia invitata a bere una
birra senza troppi giri di parole. A quest’ultima parte Jenna non replica
immediatamente e so già che è sul punto di perforarmi il timpano per la seconda
volta.
«Non
farti strane idee, sia chiaro. Cercava solo un po’ di compagnia» la anticipo.
Lei
sbuffa:
«Ecco
che torni alla carica con il tuo immancabile pessimismo. Se te l’ha chiesto c’è
sicuramente dell’altro, altrimenti non lo avrebbe fatto. Anche io ogni tanto ho
voglia di compagnia, ma non invito fuori degli estranei»
«D’accordo,
ma non è che ci conosciamo poi così tanto. Al terzo tempo abbiamo semplicemente
fatto due chiacchiere» le ricordo.
«Avete
comunque interagito. Magari gli hai fatto una bella impressione e voleva
conoscerti meglio; perché non può essere così?»
«Perché
parliamo di Matthew Evans»
«Ancora
con questa storia? È un essere umano, Danni, non un Dio. Non vederlo come tale
solo perché è il capitano del Galles» mi rimprovera.
Sospiro.
Fra me e Jenna finisce sempre così; io cerco di non farmi troppe illusioni, per
evitare di starci male, e lei mi rimprovera questo mio modo di fare. Una volta
ero come lei, ma le troppe delusioni sentimentali che ho avuto mi hanno
decisamente fatta cambiare sotto questo punto di vista. A Jenna, ovviamente, la
cosa non va a genio.
«Personalmente
penso che quello che ti è successo stasera non sia da sottovalutare come fai
sempre tu» mi dice lei, dopo un po’.
«Trovi?»
«Ma
sì. Ascolta, fidati di me, cosa che per altro non fai mai. Se lui ti ha
invitato fuori significa che la prima impressione che hai fatto su Matt è stata
positiva, altrimenti non ti avrebbe mai invitata. Ok che era in cerca di
compagnia, ma solo un idiota sarebbe uscito con qualcuno che non sopporta pur
di non rimanere solo. E Matt non mi dà l’impressione di essere idiota»
Annuisco
con la testa, anche se Jenna non mi può vedere. In effetti ha ragione, io non
avrei mai invitato a bere qualcosa qualcuno che non conosco o che non mi ispira
simpatia o fiducia. Se anche Matt ha ragionato così vuol dire che al terzo
tempo non gli ho fatto una cattiva impressione, dopotutto. Anche stasera
abbiamo chiacchierato e scherzato, bevendo, e mi sembra che lui si fosse
trovato a proprio agio. Chissà, forse riuscire a diventare sua amica,
nonostante il lavoro che svolgo ad Arms Park, potrebbe non essere più una mera
utopia. La cosa mi farebbe uno strano effetto, ma mi renderebbe certo parecchio
felice, va ammesso.
«In
effetti hai ragione» le dico dopo aver riflettuto a modo.
«Oh, grazie al cielo lo ammetti una buona
volta» esclama.
Scoppio
a ridere:
«Sai
come sono»
«Sì
che lo so, ma ti voglio bene lo stesso» scherza.
La
ringrazio, dopodiché decido di affidarmi a lei per un consiglio, come faccio
spesso:
«Senti
ma, secondo te che cosa dovrei fare?»
«Beh, è abbastanza semplice» comincia. «Intanto
smettila di fare finta di non vederlo quando vi incrociate per i corridoi»
«Questo
senz’altro, non ho più scuse, praticamente»
«Ecco,
brava. E poi, ora che hai visto che riesci a parlargli, fai un po’ di
conversazione. Quando lo incontri da solo chiedigli come sta, come vanno gli
allenamenti eccetera eccetera»
«Più
o meno è quello che avevo già pensato di fare io» le faccio notare.
«Allora
vuol dire che, una volta tanto, hai pensato bene»
Mi
metto a ridere:
«Grazie,
eh»
«Prego,
ci mancherebbe»
Sto
per riprendere a parlare, ma Jenna mi precede:
«A
parer mio questa è la tua grande occasione, Danni. Potresti riuscire a
diventare la ragazza di una futura leggenda del rugby gallese»
«Non
ti sembra di esagerare?» domando.
Lei
bofonchia qualcosa di incomprensibile, poi dice:
«Staremo
a vedere»
Sorrido,
perché ormai è dall’inizio della nostra conversazione che, praticamente, non
faccio altro. Per quanto mi piacerebbe che ciò che ha appena detto Jenna si
avverasse so benissimo che, in realtà, sarebbe molto, molto complesso. Per
conquistare uno ai livelli di Matt dovrei frequentare maggiormente i suoi
ambienti, non solo incontrarlo al terzo tempo e, di tanto in tanto, ad Arms
Park. Mi rendo conto di mordermi il labbro mentre ripenso a lui, alla sua voce,
al modo in cui chiacchierava tranquillamente, al suo sorriso e a quel suo modo
di fare così alla mano. La verità è che, sì, sarebbe davvero bello riuscire a
conoscere ancora meglio uno come Matt.
*
Ormai
è passata una settimana. Un’intera settimana, sette giorni tondi tondi dalla birra che ho bevuto insieme a Matt. Mi rendo
conto che mi dispiace, che vorrei che le cose andassero in modo diverso o,
meglio, che fossero andate in modo diverso. Quando lunedì ho aspettato Jamie
davanti ad Arms Park mi sono ritrovata a sperare di veder comparire Matt. Già
mi immaginavo lui he mi saluta, io che rispondo e una conversazione qualsiasi
partire immediatamente; ma nulla di tutto ciò è successo. Quando Jamie è
arrivato da me, di Matt non c’era traccia. Abbiamo incrociato solo Shane, che ci
ha salutati prima di entrare nello stadio. Jamie, ovviamente, non è rimasto
deluso quanto me per la mancanza del numero sette dei Cardiff. Da quando ha
conosciuto diversi giocatori al terzo tempo è perennemente su di giri; gli
basta anche solo vedere qualcuno di loro di sfuggita per essere felice. Io,
invece, ho commesso l’enorme errore di illudermi ancora una volta, cioè di
convincermidel fatto che avrei
incontrato di nuovo Matt e che lui si sarebbe fermato a conversare con me.
Tutto ciò ovviamente non è successo e, naturalmente, ci sono rimasta male. Non
dovevo farmi convincere troppo dalle parole di Jenna, avrei dovuto saperlo. Ho
intravisto Matt solo di sfuggita durante i suoi allenamenti e lui non mi ha
degnata di uno sguardo. In fin dei conti come dargli torto? Sono semplicemente
quella che pulisce i bagni, perché dovrebbe farsi vedere insieme a me?
Sospiro,
ricacciando indietro i pensieri; li caccio addirittura schiaffeggiando l’aria,
come se potesse servire a qualcosa. Il mio turno del mercoledì pomeriggio è
finito. Sono più stanca del solito, il fatto che manchino ancora due giorni
lavorativi – nel mio caso giovedì e sabato – non mi rincuora più di tanto.
Vorrei restarmene in pigiama tutto il giorno. Il maltempo si sta accanendo sul
Galles, piove quasi ininterrottamente da domenica e un clima del genere per me
è perfetto per studiare e riposarmi; il fatto di dover lavorare rende le
giornate ancora più pesanti, se possibile. Finisco di cambiarmi con più
tranquillità di quanta me ne serva. Anche oggi sono l’ultima. Eleanor e le
altre sono già uscite, salutandomi in gran fretta. Io, invece, non ho voglia di
scappare, probabilmente perché non devo attraversare mezza Cardiff per tornare
a casa, o forse perché, dopotutto, lavoro pur sempre ad Arms Park, splendido
stadio di rugby all’ombra del ben più mastodontico Millennium Stadium.
Finisco
di raccogliere le mie cose, mi infilo la giacca e mi avvio verso l’uscita,
ombrello alla mano. Come sono fuori mi rendo conto che non piove più, così mi
incammino con calma verso casa mia. Sono a malapena a metà del parcheggio che
sento dei passi alle mie spalle, perfettamente riconoscibili per via del rumore
che provocano quando calpestano l’asfalto bagnato.
«Danielle»
sento.
Mi
volto immediatamente, chiedendomi se davvero qualcuno mi abbia chiamata o se mi
sono semplicemente immaginata tutto. Tuttavia si stavano rivolgendo proprio a
me, perché come mi giro vedo Matt venirmi incontro.
«Ehi, ciao» lo saluto, vagamente confusa.
Non
l’ho visto per una settimana, non mi ha considerata per una settimana e ora mi
chiama così, all’uscita dello stadio.
Va
bene lo stesso.
Quando
mi raggiunge si ferma, il borsone da allenamento aggrappato alla spalla e i
capelli leggermente umidi.
«Come
stai? È un po’ che non ci vediamo» mi chiede.
Sette
giorni. Sì, è da un po’.
«Io
sto bene, grazie. Tu?»
Alza
le spalle:
«Tutto
a posto, direi. Questa settimana non ti ho proprio vista, nemmeno dentro» dice,
indicando alle sue spalle, su Arms Park.
Penso
un momento se quanto ha appena detto sia vero o meno. In realtà io, allo
stadio, l’ho visto più di una volta, sempre mentre era concentrato ad eseguire
i suoi allenamenti, ma, effettivamente, non ci siamo mai realmente incrociati.
L’unica spiegazione plausibile è che non mi abbia notata, cosa che, al
contrario, ho fatto io. Vorrei dire qualcosa, ma non mi viene in mente niente.
Per fortuna ci pensa Matt, come ha già fatto in più occasioni.
«Immagino
tu stia andando a casa»
«Esatto.
Anche per oggi ho finito»
Mi
sorride:
«Ti
dispiace se facciamo un tratto di strada insieme?» domanda.
Lo
guardo, ripetendo mentalmente quanto ha appena detto. Vorrei che lo dicesse
ancora una volta, anche solo per sentire accuratamente il suono che fanno
quelle parole.
«Hai
parcheggiato nello stesso posto di mercoledì scorso?» gli chiedo.
Annuisce:
«Parcheggio
sempre là» ammette.
Mi
aggiusto la borsa sulla spalla:
«Beh, allora andiamo» concludo.
Ci
incamminiamo insieme verso la mia casa e la sua auto. Mi ritrovo a sorridere
fra me e me per quello che è appena successo. Non avrei mai pensato di ricevere
un’altra proposta del genere da Matt, devo ammetterlo. Magari Jenna ha ragione
davvero questa volta: forse ho fatto su di lui una buona impressione. Lo spero,
lo spero davvero tanto.
Anche
se ora so che starò con Matt per poco più di dieci minuti decido di sfruttarli
meglio che posso:
«Allora,
che mi racconti?» gli chiedo.
Lui
solleva le spalle, si sistema meglio il borsone e comincia a parlare.
L’acqua
calda che scivola lungo il corpo è una sensazione unica. Mi rilassa
completamente, mi aiuta a distendere i muscoli e riesce a farmi sentire in pace
con me stesso. Al termine di una partita, o di un allenamento, non c’è niente che
possa eguagliare una bella doccia; o forse c’è una sola cosa, ovvero una birra
ghiacciata. Berrei volentieri una bionda, ora.
«EhiMatt, sei in meditazione lì sotto?» mi
bacchetta Mark, alludendo velatamente al fatto che sono sotto la doccia da
parecchio, ormai.
«Sto
riflettendo sul significato della vita» scherzo.
«Beh,
fallo mentre ti vesti, allora. Io dovrei lavarmi»
Chiudo
l’acqua, recupero le mie cose, mi infilo un asciugamano e lascio libera la
doccia per Mark, che borbotta qualcosa su quanto sia assurdo il fatto di
dovermi chiedere una cosa del genere. Raggiungo il mio borsone ridacchiando,
ripesando al mio amico. Mentre mi rivesto faccio due chiacchiere con Scott, che
inizia a chiedere i miei parerisull’imminente partita di domenica contro gli scozzesi di Glasgow,
partita che avremo la fortuna di giocare qui, nella nostra Cardiff. Cerchiamo
di affrontare l’argomento nella maniera più oggettiva possibile: proveniamo da
due sconfitte consecutive e, su cinque partite, ne abbiamo vinte soltanto due.
Dall’altra parte, invece, ci sono gli scozzesi, che di vittorie ne hanno
quattro. Personalmente non mi sono mai fatto impressionare dai numeri, dalle
statistiche e dai pronostici. Anche se sulla carta siamo più deboli non è detto
che verremo sconfitti.
Lo
dico a Scott, che sorride e risponde:
«Sono
d’accordo, lo sai»
Cominciamo
a parlare di altro mentre finiamo di vestirci e quando sono pronto le
diciannove sono passate da una decina di minuti. Afferro il borsone con dentro
le mie cose, saluto i ragazzi rimasti e mi avvio verso l’uscita sul retro di
Arms Park. Considerando che, per via della doccia, ho ancora i capelli
piuttosto umidi, mi infilo il cappellino dei Cardiff Blues per sicurezza, il
logo della squadra bene in vista. Esco dallo stadio, supero il cancelletto e
come raggiungo il parcheggio trovo Danielle ad aspettarmi.
Da
due – tre con questa – settimane io e lei abbiamo preso l’abitudine di andare a
casa insieme nelle due sere in cui entrambi finiamo alle sette, cioè il
mercoledì e il giovedì. Le ho chiesto io se le andava, rendendomi conto che,
anche se sono solo poco più di dieci minuti a piedi, preferisco fare un tratto
di strada in sua compagnia anziché da solo. Danni è socievole, alla mano, parla
ma sa anche ascoltare. Quando torniamo a casa insieme ormai troviamo sempre
qualcosa di diverso di cui parlare, dopo gli iniziali, e ovvi, silenzi delle
prime volte.
«Spero
di non averti fatto aspettare troppo» le dico appena la raggiungo.
Scuote
la testa:
«Sono
appena uscita anche io. Eleanor doveva assolutamente raccontarmi le sue novità
e io avevo paura a fermarla» ammette, sorridendo.
Cominciamo
ad avviarci insieme verso casa sua, con l’abituale calma che ormai caratterizza
i nostri rientri a fine giornata. Perché ormai sono diventati anche questo, una
sorta di consuetudine. A parte i primi due giorni le nostre passeggiate hanno
assunto particolarità uniche, con un personale modo di camminare e
conversazioni che esulano volutamente dalle classiche domande su giornate
lavorative o allenamenti. Reciprocamente ci si chiede come va, dopodiché ci si
racconta qualcosa l’un l’altro, in modo semplice, fra amici. Con Danni tutte
queste sfaccettature sono comparse con naturalezza. Mi ha detto che il suo
lavoro non ha nulla di emozionante di cui raccontare, che parlare degli esami
le mette ansia e perciò preferisce dirmi aneddoti sul suo gatto o parlare del
libro che sta leggendo. Tutto questo mi mette a mio agio perché anche io posso
fare lo stesso; smettere di essere Matthew Evans, quello che tutti tempestano di
domande su dei test match che neanche sa se giocherà, ed essere semplicemente
Matt.
«Che
mi racconti?» chiede, mentre usciamo dal parcheggio e imbocchiamo la lunga via
in cui le abita.
«Niente
di eccezionale. Io e Scott ci siamo messi a parlare della partita di sabato e
abbiamo scoperto di essere fra i più positivi. Con molta probabilità neanche
giocheremo»
«Non
vedo perché non dovresti, contro Glasgow serve la formazione migliore»
Le
sorrido:
«Così
mi lusinghi»
«Prego»
risponde.
Si
sistema meglio i capelli, che porta sciolti, e rimango ad osservarla mentre lo
fa.
«Comunque,
possiamo parlare d’altro? Perché non mi dici qualcosa di interessante tu?»
Scrolla
le spalle:
«Perché
non ho niente di interessante da dire, stavolta. Nemmeno il mio gatto ha fatto qualcosa
di cui vale la pena parlare»
«Niente
niente? neanche un salto con atterraggio sbagliato?»
Scuote
la testa:
«Neanche.
È stato molto noioso» ammette.
«Ho
capito. Beh, allora non saprei. Che
programmi hai per stasera?»
Si
volta subito verso di me, dopodiché sembra pentirsi di averlo fatto e torna a
guardare davanti a sé, tormentando il manico della borsa con la mano.
«Nulla
di che. Credo che mi cucinerò del riso e leggerò. Oppure guardo un film, non
saprei. Comunque sia mi abbandonerò alla pigrizia. Perché?»
«Così,
per sapere» le dico.
«Tu
invece che fai? Sai, mi ha sempre incuriosito scoprire cosa fanno gli sportivi
di professione la sera» sorride.
Anche
io le sorrido:
«Facciamo
quello che fanno tutti se davvero lo vuoi sapere. Ad esempio io appena torno a
casa mi cucino del pollo e mi bevo una birra»
«Come
le persone normali, quindi»
«Già,
come le persone normali»
«Lo
immaginavo, stavo solo scherzando. È che i giornali parlano di voi sportivi
come se non aveste vita al di fuori del campo da gioco»
«Lo
so, è snervante» comincio. «I giornali alterano la realtà da questo punto di
vista. Capita spesso che ci attribuiscano cose non vere»
Danni
abbassa lo sguardo, probabilmente pensando a qualcosa. Passa almeno un minuto
prima che riprenda parola; sospetto che abbia pensato di aver toccato
l’argomento sbagliato tirando in ballo i giornali, ma non è così. Quello che i
quotidiani scrivono ormai non mi importa più, ho imparato a ignorare ciò che
dicono.
«Perciò
pollo stasera, eh? Fatto come?» domanda, voltandosi a guardarmi.
Questo
argomento esula completamente dall’altro ed è perfetto; il cibo è uno dei miei
grandi amori.
«Sale
e pepe. Molto semplice» le svelo il segreto del mio piatto.
Lei
mi guarda nuovamente, perplessa stavolta:
«Non
lo sfumi neanche con del vino?»
«Perché,
tu sì?»
Alza
le spalle:
«Dipende.
Lo cucino in tanti modi»
«Beh,
io ti ho appena svelato il segreto della mia ricetta. Ti va di ricambiare il
favore?» la incalzo, scherzando.
Lei
si mette a ridere e comincia ad elencarmi le sue varianti preferite, alcune
conosciute e altre completamente inventate. Mi descrive spezie, accostamenti e
combinazioni, facendomi venire una gran fame. Tuttavia è piacevole parlarne con
lei, mi ha fatto venire voglia di provare ogni sua ricetta appena arrivato a
casa.
«Pochi
giorni fa ho anche provato a farlo con il porro» dice, poi, probabilmente per
terminare il suo elenco.
«Con
il porro?»
Annuisce:
«Va
insaporito un po’, ma il risultato non è male»
«Mi
hai incuriosito» dichiaro.
Lei
sorride e alza le spalle:
«Beh,
se vuoi un giorno te lo preparo»
Si
ferma e io mi volto a guardarla. Fra una chiacchiera e una ricetta siamo
arrivati a casa sua e non me ne sono nemmeno reso conto.
«Ah,
devi andare»
Fa
sì con la testa mentre io riprendo parola:
«Con
tutto quello che mi hai appena detto penso proprio che stasera proverò una
delle tue varianti, altro che sale e pepe»
Danni
si mette a ridere, contagiandomi con la sua risata davvero graziosa.
«Fai
come preferisci. Poi mi racconti com’è venuto» dice, ma subito dopo continua: «Comunque,
uno di questi giorni mi piacerebbe che mi parlassi un po’ dell’alimentazione
che seguite voi rugbisti»
«Perché?»
«Così.
Mi ha sempre incuriosita. Vorrei sapere cosa dovete fare per mantenervi in
forma»
Alzo
le mani:
«Ok,
nessun problema. È per Jamie che vuoi saperlo?» scherzo.
Sorride:
«Per
Jamie c’è ancora tempo»
«Ne
possiamo parlare sabato, al terzo tempo. Vieni?»
«Oh
sì, sì. Avevo già in programma di passare»
«Ottimo.
Allora ci vediamo sabato»
«A
sabato»
Ci
salutiamo, dopodiché lei entra in casa e io mi avvio verso l’auto. Tutto il
nostro parlare di cibo mi ha davvero aperto lo stomaco. Penso proprio che
stasera proverò una delle ricette di Danni.
*
Questa
volta a sanguinarmi è il labbro, tanto per cambiare. Non riesco mai a venire via
dal campo di gioco senza qualche taglio, graffio o botta che mi porterò avanti
per un po’. Ma, in fin dei conti, questo è dovuto al fatto che gioco e faccio
il mio dovere. Guardare i lividi e i graffi che mi sono, o mi hanno, provocato,
il giorno dopo, mi fa sentire stranamente vivo, proprio come mi sento durante
la partita. Correre da una parte all’altra del campo, placcare l’avversario o
cercare di superarlo, a seconda di chi ha l’ovale, con il corpo pieno di
adrenalina, mi dà una sensazione che nient’altro sarebbe in grado di
trasmettermi, indipendentemente dal risultato finale; esattamente come per il
match appena concluso. Al terzo tempo, oggi, c’è una strana atmosfera. La
partita contro gli scozzesi di Glasgow si è conclusa in un pareggio: tredici per
loro, tredici per noi. Per il nostro coach la prestazione che abbiamo fatto è
stata lodevole. Nel suo consueto discorso negli spogliatoi, al termine degli
ottanta minuti di gioco, ci ha tenuto a complimentarsi per “la mentalità che
abbiamo mantenuto sempre”. In fin dei conti sono soddisfatto anche io; con oggi
portiamo a casa due punticini per la classifica e una nuova iniezione di
fiducia, che non ci fa male.
Il
pareggio, ovviamente, si è ripercosso sul dopo partita, rendendo il tutto,
appunto, quasi strano. In entrambe le squadre ci sono giocatori delusi dal
risultato e altri soddisfatti, così come per i tifosi. Personalmente faccio
parte dello schieramento dei soddisfatti e, con molta probabilità, buona parte
del merito è anche del terzo tempo che, con quel suo clima unico, riesce sempre
a mettermi di buon umore.
Mi
slaccio la giacca dell’abito, quello per le formalità con lo stemma dei Cardiff
Blues, e raggiungo il bancone del bar, dove Mike è indaffarato a servire
clientela. Nell’attesa tasto un po’ il punto del labbro che mi sono tagliato.
Ha smesso di sanguinare quasi subito, ma ora si è gonfiato, com’era
prevedibile.
Come
torno a puntare lo sguardo su Mike vedo che è praticamente davanti a me, libero
da impregni e fermo ad osservarmi, sorridendo.
«Che
hai fatto alla faccia?»chiede,
indicandomi con un rapido cenno.
«Indovina»
rispondo.
Il
suo sorriso si allarga:
«Placcaggio
alto. Ne hai preso uno oggi, no?»
«Sì,
ma non è per questo»
«E
allora cosa?»
«Testata
in ruck»
Lancia
una monosillabica esclamazione e afferra un boccale, cominciando a spillarmi
una bionda.
«Non
male. Anche se sei passato di qui in condizioni peggiori»
Mi
allunga il boccale e io lo afferro, ringraziandolo.
«Questo
sì» dico.
«Bevici
sopra. Aiuta a non sentire»
Annuisco
e lo saluto, dopodiché comincio a girare fra le persone presenti al terzo
tempo. Non ho ancora incontrato Danni; aveva detto che avrebbe partecipato
oggi, ma non sono ancora riuscito ad incontrarla. So che non avevamo niente di
eccezionale da dirci – anche se le ho promesso che le avrei raccontato del mio
regime alimentare, nonostante io non riesca a capire come mai la incuriosisca
tanto – tuttavia, a forza di tornare a casa insieme e di approfondire la nostra
conoscenza, trovo ogni giorno la sua compagnia più piacevole. Danni è il tipo
di ragazza che non si prende troppo sul serio, perfettamente consapevole che
per arrivare dove vuole deve allenare il cervello; l’ho capito quando siamo
stati da Arnold’s la prima volta.
Saluto
con un cenno uno dei giocatori di Glasgow, che risponde alzando il boccale di
birra. Riprendo a farmi strada fra le persone che, anche se sono ancora
numerose, sono leggermente calate rispetto a prima. Alla fine, fra la gente,
scorgo Danielle. È proprio di fronte a me, ma più avanti di dove mi trovo io,
intenta a conversare con un uomo ben vestito e, sicuramente, più grande di lei.
Sorride, posando una mano sul braccio dell’altro, che tiene una birra, il quale
continua a chiacchierare, scuotendo la testa divertito. Rimango a guardarli un momento,
a osservare il loro affiatamento. Probabilmente non dovrei interromperli, a me
non piacerebbe affatto essere disturbato in una situazione del genere. Tuttavia
è più forte di me; senza rendermene quasi conto mi incammino verso di loro e li
raggiungo. Prima ancora che io mi sia fermato Danni mi nota e sorride,
mostrando le fossette che le si formano sulle guance:
«Ciao»
mi saluta, semplicemente.
L’uomo
che è con lei comincia ad osservarmi, in silenzio. Di certo per me non ha un
volto noto, è sicuramente la prima volta che lo vedo; o, forse, lo noto
soltanto ora che è con Danni.
«Ehi»
rispondo infine, concentrandomi solo sul viso della ragazza.
«Come
va il labbro?» mi chiede, accennando un sorriso.
Tocco
appena il punto incriminato:
«Va
bene, grazie. È molto gonfio?»
Scuote
la testa:
«Non
più di tanto, credimi»
Sto
per ribattere con una battuta, ma Danni prende parola prima di me, voltandosi
verso l’uomo che è con lei e posando, nuovamente, una mano sul suo braccio:
«Lascia
che ti presenti Norman» esordisce, mentre lui già mi tende la mano. «È mio
cognato»
Mi
volto a guardare la ragazza, sorpreso. Spero che lo stupore non si noti troppo
sul mio viso, ma davvero questa non me l’aspettavo. Quando io e Norman ci diamo
la mano Danielle ne approfitta per confermare il sospetto che si è appena
insinuato nella mia testa:
«È
il padre di Jamie» dice.
Non
avevo dubbi, i riccioli neri sono gli stessi, anche se quelli dell’uomo sono
più corti e meglio tenuti.
«È
un piacere conoscerti, Matthew» dice Norman, sorridendomi.
«Chiamami
Matt, per favore. Lo preferisco»
«D’accordo,
non c’è problema»
Guardo
un momento sia lui che Danni:
«Ma
Jamie oggi c’è?» chiedo.
Mi
risponde il padre del piccolo:
«Sì,
è da qualche parte con mia moglie» Dopodiché allunga la sua birra a Danni e
riprende a parlare: «Anzi, se volete scusarmi penso che andrò a cercarli»
Sia
io che la ragazza gli diamo il via libera con lo stesso gesto; Norman ci saluta
e si allontana fra le persone. Mi volto verso Danni, intenta a bere:
«Devo
dire che gli somiglia» dico, riferito chiaramente a Jamie e Norman.
Lei
annuisce:
«Sì,
infatti. Jamie ha preso ben poco da mia sorella»
«Come
sia chiama tua sorella?»
«Rachel»
Acconsento
con la testa, per dimostrarle di aver assimilato quel nome.
«Come
stai?» le chiedo poi, per avviare la conversazione.
«Bene,
dai. Tu? Come ti senti dopo questa partita?»
Sorrido:
«Io
mi sento bene. Personalmente trovo il risultato finale molto positivo»
«Anche
io. È stata una bella partita e un pareggio contro Glasgow è comunque un
segnale importante, o sbaglio?»
Mi
piace il suo modo di leggere questo sport, è molto diverso da quello dei tanti
che vogliono solo che si vinca. Danni guarda all’insieme, a quello che può
significare per la squadra, come me.
«Non
sbagli affatto» le dico.
Appoggia
il boccale di birra quasi vuoto su uno degli alti tavolini che abbiamo vicino.
«Quindi,
stasera, tu sei uno di quelli che festeggia» dice, il tono leggermente
malizioso.
Mi
metto a ridere:
«Ohsì, stasera sì»
Lei
mi sorride.
«Tu
invece cosa fai?» chiedo.
Scrolla
le spalle:
«Lavoro»
e abbozza un sorriso.
«Come?
Sul serio?»
«Beh, sì. Quando ci sono le partite in casa
qualcuno dovrà pur pulire lo stadio»
«Mi
stai dicendo che tutte le volte, a fine partita, poi tu e le tue colleghe
dovete ripulire tutto? Ma davvero tutte le volte?»
«Tutte
no, abbiamo i turni. Ma questa volta tocca al mio gruppo»
Mi
passo una mano fra i capelli, imbarazzato. Le ho decisamente fatto una serie di
domande patetiche, scommetto che mi sta dando dell’idiota.
«Non
vi invidio per niente» mi esce infine, spontaneamente, ma me ne pento subito.
Fortunatamente
Danni si mette a ridere:
«Sì,
è orribile. Ma è il mio lavoro»
«Ok,
giuro che smetterò subito di farti domande stupide come quelle di poco fa» le
dico, per cercare di riguadagnare punti.
Lei
ride nuovamente:
«Perché
stupide? Sono curiosità più che legittime» risponde.
Rimango
a guardarla un momento, mentre si scosta appena la frangetta, che torna a
riposizionarsi immediatamente nello stesso modo.
«Mi
fa piacere vedere che hai deciso di passare il tuo tempo qui prima di andare a
lavorare. Quando mi avevi detto di non aver mai partecipato al terzo tempo
credevo fosse perché non ti piaceva» riprendo, dopo un po’.
Danni
apre bocca per parlare, schiude le labbra leggermente, allontanando lo sguardo;
noto che si morde appena il labbro inferiore, sembra quasi combattuta se dire o
meno qualcosa.
«Non
so perché non ho mai deciso di venire qui» riprende infine. «So solo che ora
sono più che felice di trascorrere così alcuni dei miei sabati. Anche se solo
un’ora prima di dover lavorare»
Mi
lancia un’occhiata indecifrabile, ma sicura, con quei suoi meravigliosi occhi
verdi. Abbozzo un sorriso, ritrovandomi leggermente spaesato.
Lei
guarda rapidamente l’orario sul telefonino, dopodiché alza gli occhi al cielo,
sospirando:
«A
proposito di lavoro. È meglio che vada, il mio turno inizia fra venticinque
minuti e devo salutare Jamie, Rachel e Norman»
Annuisco:
«Ho
capito»
Si
stringe appena nelle spalle:
«Mi
spiace non aver potuto fare due chiacchiere con te» dice e mi accorgo che
dispiace anche a me.
Solleva
una mano per salutarmi, ma l’anticipo:
«Se
vuoi possiamo andare a bere qualcosa una sera di queste. E, magari, anche a
mangiare un boccone»
La
sua mano si abbassa, tornando a sistemarsi al suo fianco e la ragazza
irrigidisce appena le spalle.
«Intendi…
proprio andare a prendere qualcosa insieme?» domanda, titubante.
«Sì.
Come quando siamo andati da Arnold’s.
Giusto per parlare un po’ senza doversi preoccupare di impegni, lavoro o di
essere arrivati a casa»
Sbatte
le palpebre un paio di volte, guardandomi. Infine sorride, evidenziando le
fossette che, personalmente, trovo tanto graziose.
«Sì,
volentieri. Ma quando?»
Ci
penso un momento:
«Che
ne dici di martedì? Finisco alle venti»
«Ma
io non lavoro il martedì»
«Sì,
lo so. Ti passo a prendere e andiamo da Arnold’s.
Ormai so dove abiti» concludo, facendole l’occhiolino.
Lei
sorride ancora una volta:
«D’accordo,
vada per martedì» dopodiché indica verso l’uscita: «Ora, però, dovrei proprio
andare»
«Oh,
sì, scusami. Buon lavoro, allora. E salutami Jamie» concludo.
Lei
acconsente, mi saluta un’ultima volta e si avvia. Rimango a guardarla mentre si
allontana, aprendosi con garbo la strada fra i presenti. Come la perdo di vista
mi ricordo di avere ancora la birra in mano e ne bevo un lungo sorso. Sospiro,
sentendomi strano. Non so cosa mi sia preso, né tantomeno cosa mi stia ronzando
in testa. L’unica cosa che so è che sono deluso dal fatto di non aver potuto
passare un po’ di tempo con Danielle, mi sarebbe piaciuto poter parlare ancora
un po’ con lei.
Mi
rifarò martedì, avremo molto tempo per conversare quella sera. Osservo il
liquido ambra contenuto nel boccale che ho in mano; ora come ora è meglio berci
su e pensare ad altro.
Sono
distesa sul letto a gambe e braccia aperte, formando una stella. Accanto a me
il cellulare in vivavoce continua a vomitare parole con la famigliare voce
della mia amica Jenna. Io l’ascolto in silenzio, fissando il soffitto, pronta
per uscire.
Martedì
14 ottobre è arrivato e sono consapevole che le otto in punto sono comparse su
ogni orologio di casa mia già da un po’. Jenna ha voluto chiamarmi per essere
partecipe di ogni singolo minuto precedente alla mia uscita con Matt di questa
sera. È da un po’ che va avanti ricordandomi il comportamento più idoneo che
devo mantenere, come se non avessi mai interagito prima d’ora con quel ragazzo.
Alla
fine sbuffo:
«Jenna,
Jenna» la interrompo. «Non serve che mi ricordi tutte queste cose, ormai
conosco Matt»
Si
zittisce, per almeno cinque o sei secondi.
«Ti
sto solo dando dei consigli. Già ti ho detto che faresti meglio a cambiarti»
ribatte.
Mi
guardo un momento, perplessa. Indosso un paio di jeans e un dolcevita, cosa c’è
che non va?
«So
già che non lo farai, per questo ti sto consigliando di non fare brutte figure»
continua lei.
Mi
giro sulla pancia, afferrando il telefono e avvicinandolo alla mia bocca per
parlare, sempre mantenendo il vivavoce:
«Ti
ho già detto che non serve. Ormai conosco Matt, siamo amici. Il nostro non è un
appuntamento, usciamo solo a bere qualcosa insieme»
Replica
immediatamente:
«Ma
sei davvero sicura di questo? Voglio dire, non è che tu ti sei convinta che sia
semplicemente un’uscita da amici perché hai paura di agitarti troppo vedendola
in maniera differente? E se per entrambi fosse tutt’altro, ma tu negassi la
cosa?»
Sgrano
gli occhi:
«Ma
di che stai parlando?» domando, quasi sconvolta.
Non
riesco a capire la direzione che sta prendendo la nostra conversazione, o
meglio, quella che lei sta cercando di farle prendere.
«Andiamo,
Matt ti piace. È inutile che fai finta che non sia vero, ormai l’ho capito»
Apro
bocca per parlare, ma mi esce solo un verso insensato. Nelle mie orecchie
riesco ancora a sentire esattamente le parole pronunciate da Jenna, con quel
timbro rugginoso provocato dal frizzare del vivavoce.
«Matt
non mi piace» esclamo alla fine.
«Sul
serio? E allora perché mi parli continuamente di lui?»
Jenna
sta partendo alla carica con la sua arma più micidiale, comincia a lanciarmi
frecciatine al veleno perché vuole che mi ponga delle domande, così da
guardarmi dentro in cerca di risposte. Purtroppo nel fare questo è bravissima,
mentre io non so mai come uscirne illesa.
«Te
ne parlo perché è un ragazzo simpatico. E anche perché non avrei mai creduto di
riuscire a conoscerlo» cerco di difendermi.
«Ti
aspetti che me la beva?» chiede, dopo aver fatto schioccare la lingua. «Sei
completamente presa da lui e faresti meglio ad approfittare di ogni occasione»
Sto
per ribattere, inacidita, quando il campanello di casa trilla:
«È
Matt» dico, il suo nome che si soffoca leggermente fra le mie labbra.
«In
bocca al lupo. E aggiornami appena rientri» si affretta a dire Jenna, chiudendo
la chiamata subito dopo.
Afferro
la giacca, infilandola lungo le scale. Come sono davanti all’ingresso respiro a
fondo una sola volta, prendo la borsa e apro la porta. L’alta figura di Matt è
proprio davanti a me, lui si volta a guardarmi quando sente scattare la
serratura e mi regala uno di quei suoi sorrisi perfetti. Sento una morsa
stringersi dentro di me, imbrigliare il cuore. I polmoni si dimenticano per un
secondo di compiere la loro funzione vitale e il ciao che farfuglio è la cosa peggiore che mi sia mai uscita di
bocca. In testa ho ancora la conversazione con Jenna e maledico mentalmente
quest’ultima per il dubbio che ha fatto nascere dentro di me.
«Ciao
Danni» mi saluta il ragazzo quando mi chiudo la porta alle spalle.
«Com’è
andato l’allenamento?» riesco a chiedergli, la voce leggermente rotta.
Non
mi riconosco, non riesco a mantenere la calma. Quella che mi sta assalendo è
ansia, l’ansia di sbagliare, di fare una brutta figura, di giocarmi per sempre
la possibilità di costruire qualcosa con Matt. E temo sia tutta colpa di Jenna
e della conversazione di poco fa. Davvero non riesco a capire come ci riesca,
come faccia, ogni volta che apre bocca, a stravolgere tutte le mie sicurezze –
“a fin di bene”, come dice lei.
«Come
al solito» risponde Matt alla mia domanda, che quasi mi ero dimenticata di
avergli posto. «Tu come stai?»
«Bene»
dico, tagliando corto.
Ci
avviamo verso Arnold’s, compiendo quel breve tratto di strada nel più
totale silenzio. Come entriamo nel pub Peter ci saluta e intavola una
conversazione con Matt mentre aspettiamo la cameriera. Quando quest’ultima
arriva e raggiungiamo il nostro posto, mi siedo e prendo ad analizzare il menù
come se fosse la cosa più preziosa al mondo. Mi nascondo letteralmente dietro
alle sue pagine, senza sapere che fare. Ho lo stomaco ribaltato e il cuore si
sta scavando una fossa da solo per quanto batte veloce. Se possibile mi sento
quasi più imbarazzata oggi che la prima volta in cui sono venuta qui con Matt.
È passato un mese da allora e io e il giocatore abbiamo approfondito la nostra
conoscenza in questi giorni, siamo diventati amici, non dovrei sentirmi tanto
agitata, non dovrei avere paura di dire cose sbagliate ora che so di cosa
parlare, e come poterlo fare, con Matt. Allora perché mi sento così nervosa?
Perché è bastato tanto poco a Jenna per distruggere le mie convinzioni? Davvero
ho lasciato intendere che provo qualcosa per Matt? Ma, soprattutto, sul serio
lui mi piace?
«Cosa
prendi?»
La
voce del ragazzo mi risveglia dai miei pensieri. Abbasso frettolosamente il
menù, sperando di non avere espressioni strane in viso.
«Penso
che prenderò un hamburger e una Guinnes» dico, quasi
in un solo fiato.
Matt
solleva le sopracciglia e sorride:
«Grande»
sentenzia.
La
cameriera ci raggiunge e le lasciamo la nostra ordinazione. Come se ne va,
però, il silenzio precipita sul nostro tavolo. Dentro di me la situazione non
accenna a migliorare, reprimo a fatica l’istinto di alzarmi e scappare come una
vigliacca. Se non voglio rovinare tutto solo perché non so se mi piace o meno
Matt – ed è questo il dubbio che mi agita tanto – devo calmarmi e fare
chiarezza.
Il
giocatore prende fiato per parlare, ma lo precedo:
«Ti
dispiace se vado un momento al bagno?»
Mi
guarda sorpreso un attimo, dopodiché risponde:
«No,
assolutamente. Vai pure»
Mi
alzo dal tavolo, cercando di raggiungere la toilette senza apparire una persona
in fuga durante un inseguimento. Come arrivo mi chiudo la porta alle spalle,
girando la chiave nella toppa e mi precipito davanti allo specchio. Mi guardo;
sembro normale, per fortuna. Non ho rossori imbarazzanti sulle guance, la
sottile linea di eyelinernon è
tremolante, né sbavata e i capelli non si sono gonfiati più del solito. Sono
io, come Matt mi ha sempre vista.
Allora
perché non riesco a stargli davanti?
Chiudo
gli occhi, iniziando a respirare a fondo. Continuo a non capire che mi sta
succedendo; o meglio, credo di aver capito. È stata Jenna. Sono state le sue
parole a rendermi improvvisamente insicura. È riuscita a instillare in me il
dubbio, a costringermi a farmi una domanda che non avevo ancora preso in
considerazione: cosa provo per Matt?
Espiro
a pieni polmoni una, due, tre volte. Finalmente i ritmi del mio corpo si stanno
regolarizzando. Se voglio riuscire a trovare una risposta a questa domanda devo
essere il più lucida possibile questa sera e non lasciarmi influenzare da
niente. Devo essere me stessa, come ho sempre fatto, e prestare attenzione
anche al più insignificante segnale o stimolo. Allo stesso tempo, però, devo
tenere presente che per Matt potrei rappresentare una semplice amica, una
compagna di bevute. Potrei banalmente essere una di quelle che non vale la pena
presentare ai propri amici perché non abbastanza interessante. Perciò mi
conviene smettere di costruire castelli in aria e agitarmi inutilmente.
Quando
sento di essermi calmata a sufficienza decido di rientrare, così da poter
iniziare questa serata che non è ancora realmente partita. Mi avvio fuori dal
bagno, rientro nella sala dove c’è il nostro tavolo, ma mi blocco praticamente
subito. Proprio dove dovrei andare io si staglia l’alta figura di Mark Jones,
numero quattordici di Cardiff Blues e nazionale gallese. Sta parlando con Matt
– che non sembra avere problemi a rimanere seduto nonostante i quasi due metri
del suo interlocutore – tenendo le mani in tasca e lo sguardo fisso sull’amico.
Sono
combattuta. Non so se fare dietrofront e aspettare, oppure se tornare al mio
posto e vedere quello che accade. Non ci penso a lungo; riprendo a camminare
fino a raggiungere il tavolo. Come arrivo i due uomini si voltano
contemporaneamente verso di me; lancio un sorriso a Mark.
«Ah,
lei è Danielle» Matt mi presenta all’altro, che mi tende subito la mano.
«Ciao»
dice e rispondo solo con un nuovo sorriso, non sapendo cosa dire.
Mark
torna a rivolgersi a Matt:
«Vi
lascio in pace, allora. Ci vediamo domani» ci saluta.
«Ciao,
buona serata» risponde il suo compagno di squadra.
Anche
io saluto mentre il giocatore si appresta ad allontanarsi. Mi siedo, finalmente
sentendomi a mio agio. Noto che, mentre ero in bagno, la mia birra e quella di
Matt sono arrivate e che lui deve averne sicuramente bevuto un sorso. Mi sento
un po’ in colpa per il comportamento che ho tenuto da quando il giocatore è
venuto a prendermi, perciò decido di iniziare subito ad instaurare un dialogo,
così da fargli capire che non è colpevole di niente – non si sa mai che si
fosse posto simili domande.
«Quindi
anche Mark frequenta Arnold’s» dico.
«Già,
ma non è il solo. Buona parte della squadra viene qua» risponde. «Non hai mai
incrociato nessuno?»
Scuoto
la testa. Per quanto spesso io venga qui, il più delle volte è solo per una
veloce birra in compagnia. Di rado ho intravisto qualche volto conosciuto. Lo
dico a Matt.
«Capisco.
Beh, se ti capita la prossima volta facci caso» dice, facendomi l’occhiolino.
«Allora,
che novità hai?» domando, appena finisco di assaporare la tostatura della mia Guinnes.
«Niente
di nuovo. Gli allenamenti procedono bene e sono in pari con gli episodi di Breaking Bad»
«Ottimo»
Beve
un altro sorso dal suo boccale e io rimango a guardarlo, pensando. Dopodiché
gli chiedo:
«E
della nazionale cosa mi sai dire?»
Mi
guarda subito, gli occhi celesti sgranati, anche se solo per un secondo.
«Cosa
intendi?» domanda.
Alzo
le spalle, cominciando a chiedermi se sto indirizzando la conversazione nella
direzione giusta.
«Beh,
i test match si avvicinano, no? Non ne avete ancora parlato?»
Ticchetta
appena con l’indice sul tavolo, distogliendo lo sguardo. Ora sì che sono sicura
di avergli fatto la domanda sbagliata.
«Io…
sto cercando di non pensarci, diciamo» comincia, poi torna, finalmente, a
guardarmi. «Non fraintendermi. So che ci saranno a breve e spero vivamente di
poter giocare, ma, ora come ora, voglio solo concentrarmi sul campionato di
Pro12. Se penso anche ai test match mi carico di tensioni inutili»
Annuisco
e lui riprende parola:
«Un
sacco di persone continuano a tempestarmi di domande su queste partite. Mi
mettono sotto pressione e io neanche so se davvero giocherò. È solo per questo»
«Mi
spiace essere stata una di queste persone» mormoro.
«Tranquilla»
mi sorride. «Se per te va bene possiamo parlarne dopo l’uscita delle
convocazioni effettive, quando si vedrà se sarò in campo o meno. Perciò direi
da dopo il ventuno. Prometto che poi risponderò a tutte le tue domande»
«Andata»
Ci
guardiamo un momento. Ora che so quanto l’argomento test autunnali sia spinoso
prima del ventuno ottobre, non c’è pericolo che lo tiri nuovamente in ballo.
Non mi sarei aspettata una cosa del genere da Matt, va ammesso. Non credevo
tenesse tanto alla maglia rossa da avere paura di non vestirla. Eppure il suo
posto in nazionale è sicuro anche quest’anno, così come il ruolo da capitano,
ne sono certa. Il suo talento, il carisma e la leadership che possiede, uniti
alla modestia che, ogni giorno, dimostra sempre più di possedere, ne fanno una
pedina importante per la squadra dei dragoni. Come numero sette e capitano del
Galles ha sempre dato prova delle sue capacità e non ha mai deluso.
Abbasso
lo sguardo sulle mie mani mentre penso a tutto questo.
«In
facoltà stai affrontando qualcosa di nuovo?»
La
domanda mi coglie impreparata. Alzo gli occhi su Matt e subito incontro i suoi.
«Parli
di esami?» chiedo.
Lui
sorride, scuotendo la testa:
«No,
di corsi che stai seguendo. So che per te l’argomento esami è come quello test
match per me: meglio accantonarlo quando è possibile»
«Stai
cercando di farmi pesare qualcosa?» gli chiedo, scherzando e guardandolo di
sbieco.
Lui
scoppia a ridere divertito e rimango ad osservarlo incantata finché non si
ricompone.
«No,
niente del genere. Non potevi sapere la questione dei test di novembre, non te
ne ho mai parlato»
Il
suo sorriso perfetto non accenna a spegnersi dal suo viso.
«Volevo
soltanto sapere come ti va l’università»
Mi
fa piacere che mi abbia chiesto qualcosa di me, cosa che, per altro, fa spesso.
Matt non ha manie di protagonismo, nemmeno le più misere. Parla di sé solo se
glielo si chiede e per il resto ascolta e fa conversazione. Non sarebbe
difficile rimanere stregati da un ragazzo come lui, sia per il fascino che
possiede che per i suoi modi di fare unici.
Sfioro
appena con le dita il bicchiere della mia Guinnes,
quel gesto quasi nervoso che orami tengo sotto controllo e che ho reso mio.
Sì,
ho iniziato un nuovo corso all’università. So di cosa potremmo parlare.
Lunedì
mattina di relax, finalmente. Dopo tanti giorni di studio e lavoro ho deciso di
prendermi qualche ora per me, una volta tanto, e non fare assolutamente niente.
Accoccolata sul divano del mio appartamento continuo la lettura di Crypto, più avvincente di quanto mi fossi
aspettata, con il gatto a scaldarmi in grembo, che si muove appena di tanto in
tanto, preda dei sogni. Sfoglio una nuova pagina, sempre più presa dalla
lettura. Sono arrivata ai capitoli cruciali, il responsabile sta per essere
svelato e io non vedo l’ora di scoprire se il mio sospetto è fondato o meno. Ma
il campanello di casa suona improvvisamente; sia io che il gatto sussultiamo,
strappati entrambi dalla profondità di lettura e sonno in cui eravamo
precipitati. Mi alzo controvoglia, dirigendomi al citofono.
«Chi
è?» chiedo, afferrando l’apparecchio.
«Sono
Jenna» è la risposta.
Le
apro la porta sorpresa e rimango a osservare, dall’alto delle scale, la mia
amica che entra in casa, si sfila la giacca e posa l’ombrello bagnato sullo
straccio che preparo sempre per l’evenienza.
Solleva
la testa:
«Ehilà»
mi saluta, iniziando a salire le scale.
«Che
ci fai qui?» le chiedo come mi raggiunge.
«Ero
nei paraggi e ho pensato di passarti a trovare» risponde, facendosi strada
verso il mio soggiorno e salutando il gatto con qualche carezza. La guardo di
traverso, sospettosa. Le improvvisate di Jenna in casa mia hanno sempre un
secondo fine; di rado passa a salutarmi solo per il gusto di farlo. Si siede
sul divano, il gatto le si avvicina per accaparrarsi qualche altra carezza.
«Solo
per questo? Sei passata così, giusto per un saluto» la incalzo, il tono
volutamente diffidente.
Lei
si stringe nelle spalle, lo sguardo vivace, tenta di reprimere un sorriso, ma
invano.
«Com’è
andata ieri sera?» domanda, esaltandosi.
Sapevo
che c’era dell’altro nella sua visita a casa mia, conosco Jenna fin troppo
bene. Le avrei raccontato più tardi di ieri sera, più o meno mentre mi sarei
preparata il pranzo prima di dirigermi a lavoro. Ma la curiosità l’ha sconfitta
anche questa volta, la sconfigge sempre.
Vuole
sapere della mia uscita con Matt, la secondo in una sola settimana. Dopo che
martedì scorso sono riuscita a rilassarmi, a smetterla di farmi domande,
problemi e quant’altro, il tempo è trascorso nel migliore dei modi. Io e Matt
abbiamo parlato di quante più cose possibili, affrontando le conversazioni più
disparate e rimanendo insieme fin dopo la mezzanotte. Nel nostro consueto
rientro a casa del giovedì sera, Matt mi ha chiesto se mi andava di replicare
la serata di martedì, magari di domenica, e ho detto di sì. Così ieri siamo
usciti di nuovo e tutto è stato una perfetta e piacevolissima imitazione
dell’uscita precedente. Nelle due intere serate che ho trascorso con lui
sospetto di aver fatto chiarezza sui dubbi che continuavo a pormi dopo che
Jenna era riuscita a instillarli in me. Matt è un ragazzo sorprendente,
simpatico, alla mano e umile; è un ottimo amico e non penso di vederlo in un
modo differente da questo. Così come sospetto di essere vista in uguale maniera
da lui. Non c’è malizia nel modo in cui si rivolge a me o negli sguardi che mi
lancia e non ha mai compiuto alcun atto che possa lasciare intendere che io gli
interessi in quel senso. Ovviamente Jenna non è minimamente d’accordo. Per lei
io e Matt siamo fatti per stare insieme – anche se nessuno dei due l’ha ancora
capito – e abbiamo solo bisogno di tempo.
«Cosa
vuoi sapere, esattamente?» le chiedo infine, dopo aver lanciato un lungo
sospiro, per niente di nascosto. Mi siedo accanto a lei.
«Beh,
direi tutto» è la risposta. «Devi raccontarmi che cosa è successo, che vi siete
detti, come vi siete salutati quando ti ha riaccompagnata a casa»
«Non
è successo niente di ciò che immagini» esordisco, preparandola già a quello che
sarà il succo del discorso. «A cena abbiamo parlato di rugby, libri, film e
argomenti simili. E quando mi ha riaccompagnata a casa ci siamo semplicemente
salutati»
Le
cadono visibilmente le braccia:
«Mi
prendi in giro?»
Scuoto
la testa, dopodiché mi alzo per andare a versarmi un po’ d’acqua.
«Ma…
com’è possibile? È il vostro secondo appuntamento e ancora niente?» domanda,
farfugliando appena nella prima parte.
Allargo
le braccia, poi le mostro la bottiglia che tengo in mano:
«Hai
sete?» chiedo.
«No,
ti ringrazio»
Torno
a sedermi, il bicchiere stretto in mano, sotto lo sguardo attento di Jenna, che
sta certamente cercando la più minima sbavatura nei miei modi di fare per poter
tornare alla carica. Bevo, impassibile, in attesa della sua prossima mossa.
«Non
è che hai mantenuto le distanze? O che gli hai fatto intendere che non ti
interessa?»
Inarco
un sopracciglio, perplessa. Poso il bicchiere vuoto sul tavolino e torno a
guardare la mia amica, i cui riccioli scuri sono raccolti in un’improbabile,
quanto bella, acconciatura.
«Sono
sempre stata me stessa con Matt, fin dalle prime volte. Se neanche sapevo se
lui mi piaceva o meno, come puoi pretendere che gli lasciassi intendere che ero
interessata?» domando.
Jenna
non ribatte subito come suo solito e io aggiungo immaginariamente un punto dalla
mia parte: siamo uno a zero per me.
«Ma
almeno adesso sai se ti piace o no?» mi chiede.
Alzo
le spalle:
«Ormai
lo conosco, ma ammetto di non essermi mai fermata a pensare seriamente a noi
due come coppia. Ora, dall’alto della tua esperienza, cosa mi sai dire al
riguardo?»
Sbuffa,
aggrottando la fronte infastidita:
«Dico
che non hai le idee chiare» sentenzia.
«Come
sarebbe a dire?» esclamo.
Lei
mi guarda, con quel suo sguardo sicuro, fiero e determinato.
«Mi
hai chiesto il mio parere e io te l’ho dato. Sei confusa, ecco come la penso»
«E
cosa te lo farebbe dire con tutta questa certezza?»
«Il
fatto che ti conosco fin troppo bene. Stai facendo quello che hai fatto nelle
tue ultime due relazioni: temporeggi»
Abbasso
lo sguardo, ma Jenna ne ha ancora. Riprende a parlare, sempre accarezzando il
gatto, cosa che la rende parecchio simile al cattivo di un cartone animato.
«Tu
sospetti che Matt non provi niente per te, per questo motivo hai fatto il
possibile per autoconvincerti di non essere interessata a lui. Così facendo, se
davvero Matt non prova niente per te, non ci rimarrai male poiché sei già
preparata alla cosa. E direi che questo è sufficiente a far capire quanto tu
sia presa da lui»
«E
tu ne sei davvero così convinta?» sbotto.
Jenna
è sul punto di frantumare le mie certezze ancora una volta. Acconsente
fieramente con il capo, rimanendo a guardarmi. Sta cercando il mio cedimento,
quello al quale aggrapparsi per affondarmi definitivamente. Respiro a fondo,
dopodiché prendo parola:
«D’accordo.
Mettiamo che tu abbia ragione e che io abbia fatto il possibile per convincermi
di non provare niente per Matt, per i motivi che hai appena elencato…» Cerco di
esporre in maniera sensato la domanda, perfettamente consapevole del fatto che
non riuscirò mai nell’intento. Jenna continua a guardarmi, in attesa.
«Se,
però, scoprissi davvero di non
provare nulla per lui? In fin dei conti potrebbe benissimo essere così»
«Ah, questo sì. Ma sono sicura di avere
ragione»
Alzo
gli occhi al cielo, quasi nella più totale esasperazione. Vorrei sapere dove
vuole andare a parare la mia amica. Ma, soprattutto, vorrei capire cosa le fa
credere di conoscere i miei sentimenti meglio di me.
«Come
fai a esserne così convinta?» domando, sull’orlo dello sfinimento.
«Ma
ti sei mai sentita mentre parli di lui?» chiede, prontamente.
Io
mi blocco, senza sapere come controbattere. Scuoto impercettibilmente la testa
e subito Jenna ricomincia:
«Tu
parli di lui come persona, non come capitano del Galles. Ogni volta che mi
racconti cosa vi siete detti mentre tornavate a casa insieme a fine giornata mi
parli di Matt, non di Matthew Evans. C’è differenza, Danni»
Ripenso
a quello che ha appena detto per qualche secondo.
«Ma
non può essere semplicemente dovuto al fatto che sono felice di aver conosciuto
proprio lui?» concludo infine, ma il modo in cui mi esce di bocca è piuttosto
insicuro.
Jenna
mi sorride, dolcemente, e soltanto ora capisco che ho fatto il suo gioco. È
riuscita a costringermi a guardarmi dentro.
Un
punto per lei. Ora siamo uno a uno.
«Beh,
può essere. Ma sai come la penso» risponde, lasciandomi di stucco.
Il
fatto che non sia ripartita alla carica lascia perfettamente intendere che è
consapevole di avermi smosso dentro. Questa ragazza è un genio del male.
Controlla
rapidamente l’orologio che tiene al polso destro:
«È
meglio che vada, ho diverse commissioni da fare» dice, adagiando delicatamente
il gatto sul divano, che però rimane infastidito dal gesto e si allontana.
«Come
devi andare?» domando, dopo essermi ripresa dal momento di nulla che mi ha
assalita poco fa.
Jenna
si alza in piedi:
«Purtroppo
sì. Te l’ho detto, ero passata solo per sapere come stai»
La
guardo di traverso:
«No.
Sei passata solo per sentirti dire che avevi ragione riguardo a Matt»
Mi
pento subito di quanto appena detto. Jenna scoppia a ridere, poi mi punta un
dito contro:
«Allora,
alla fine, lo ammetti che il ragazzo ti piace»
Mi
stringo nelle spalle:
«Non
lo so» mormoro, abbassando lo sguardo.
«Un
“non lo so” è molto più vicino al sì che al no» risponde lei, avviandosi verso
le scale.
Scatto
in piedi:
«Ehi,
aspetta…»
Si
volta a guardarmi:
«Scusa
Danni, ma devo davvero andare»
Sospiro
appena e lei subito mi abbraccia:
«Possiamo
parlarne domani» dice dolcemente, riferendosi al nostro tradizionale pranzo del
martedì.
Annuisco
con la testa quando lei si stacca da me e le sorrido.
«A
proposito» si illumina. «È domani che annunciano i convocati per i test match
della nazionale?»
«Sì,
alle undici»
«Perfetto.
Così avremo qualcos’altro di cui parlare» esclama, iniziando a scendere le
scale.
La
guardo mentre si riveste e recupera l’ombrello, dopodiché mi manda un bacio, io
la saluto ed esce di casa. Rimango ad osservare la porta chiusa per non so
quanto, finché non sento il gatto strusciarsi contro le mie gambe. Lo prendo in
braccio e lui subito parte con il suo concerto di fusa, avvicinando il muso al
mio volto.
Mi
sento confusa per la milionesima volta nella mia vita. Tuttavia sono
perfettamente consapevole che Jenna non ne ha colpa. Se a lei basta tanto poco
per disgregare le mie certezze, significa che, quest’ultime, tanto salde non
erano affatto. Proprio per questo motivo non riesco ad arrabbiarmi con la mia
amica. Anche se a volte il suo atteggiamento è snervante so che lo fa perché
vuole che io sia felice. Lei sa perfettamente quanto sia testarda, infatti non
mi costringe ad accettare le sue opinioni, ma mi fa analizzare la cosa affinché
sia io stessa a trovare la risposta. E riesce sempre a farmi stare meglio.
La
conferenza stampa è iniziata da quasi dieci minuti. Seduti davanti a me, nelle
file di sedie ordinate preparate per l’occasione, gli inviati delle più
svariate testate giornalistiche ascoltano, in silenzio. L’unico rumore proveniente
dalla sala è quello delle macchine fotografiche che scattano insistentemente
per catturare quanti più momenti possibili. Alla mia destra Rhys Jones, ct della nazionale gallese, snocciola uno a uno quelli che
sono i nomi dei miei compagni di squadra per gli imminenti test match; i
trentuno giocatori che, insieme a me, cominceranno ad allenarsi per poter
vestire la maglia rossa del Galles.
E
di cui io sono il capitano ancora una volta. La felpa della Welsh Rugby Union1
ricopre il mio corpo, le tre piume del principe di Galles, simbolo della
squadra, cucite sul petto all'altezza del cuore. Jones prosegue nell'elencare i
nomi, dividendo semplicemente gli avanti da mediani e trequarti; il suo tono è
pacato, come sempre, sicuro di quanto dice. Appena avrà finito di esporre i
convocati il silenzio surreale della sala cesserà, sostituito dalle voci dei
giornalisti e dalle loro numerose domande. Le conferenze stampa sono sempre
così, ormai ho perso il conto del numero di occasioni simili a cui ho partecipato.
«Questi
sono i nomi dei giocatori. Come avete potuto sentire anche voi, sono quattro i ragazzi
alla prima convocazione assoluta in nazionale. Sono certo che saranno in grado,
fin da subito, di fare del loro meglio»
Il
coach conclude così il suo intervento. I nomi sono stati fatti, così come le
possibili formazioni sono già perfettamente intuibili.
«Ci
sono domande?»
La
richiesta di Jones è molto semplice e scatena subito la quasi totalità dei
giornalisti presenti. Alzano la mano, pregando con gli occhi che venga data
loro la parola. Il mio allenatore li accontenta. Ciascuno di loro, quando viene
interpellato, dice il proprio nome e il giornale per il quale lavora, esponendo
infine la domanda. Jones li ascolta e risponde. I quesiti si susseguono, così
le risposte, in un teatrino che ormai conosco perché si ripete ad ogni
conferenza stampa, cambiando solo di qualche virgola a ogni replica.
Una
nuova giornalista prende parola dopo essersi presentata:
«Avrei
una domanda per Matt»
Annuisco
appena con la testa, rimanendo a guardarla.
«Come
capitano riconfermato cosa ti aspetti da questa squadra?»
Deglutisco:
«Quello
che mi aspetto ogni volta. Trattandosi di giocatori che hanno già giocato
insieme in più occasioni a questi livelli parliamo comunque di una squadra
rodata che ha basi solide su cui lavorare per migliorare. Per quanto riguarda
gli esordienti posso solo dire che sono certo sapranno fare del loro meglio. Di
rado i giovani hanno deluso»
La
ragazza mi ringrazia e torna a sedersi, mettendosi poi a digitare qualcosa sul
suo tablet. Un altro prende parola, un uomo sulla cinquantina:
«Quattro
esordienti in una squadra che ha in programma partite contro Fiji, Australia,
Sud Africa e Nuova Zelanda non sono troppi?»
La
domanda non è rivolta a nessuno di specifico, Jones mi guarda, lasciandomi
intendere che vuole sia io a parlare. Penso un momento a cosa poter dire,
infine mi avvicino al microfono:
«No.
Giocatori giovani hanno sempre portato quella ventata di freschezza in più per
cui la nostra nazionale è rinomata. Certo, l'esperienza è fondamentale e,
fortunatamente, in squadra ne abbiamo tanta, ma non possiamo basare il nostro
gioco solo su questo. Nel rugby bisogna osare, avere fantasia e inventiva. Di
queste i giovani sono pieni»
Il
coach prosegue:
«Inoltre
bisogna tenere presente che dopo questi test match sarà necessario ragionare in
ottica Sei Nazioni2 e poi mondiali, che ci saranno fra un anno.
Bisogna trovare quante più alternative valide possibili e tutti voi sapete che
ho sempre puntato su ragazzi giovani con voglia di dimostrare ciò che sono in
grado di fare»
Le
domande continuano a susseguirsi, si fanno sempre più dettagliate, specifiche
e, lentamente, finisco con l'estraniarmi. Ora che so di essere nuovamente il
capitano della nazionale non posso più fingere che i test autunnali non
esistano, non posso più ignorare il fatto che novembre sarà un mese, un lungo
mese, alla ricerca di una conferma da parte di noi giocatori. Non mi spaventa
essere a capo del Galles su un campo da rugby, quello che provo, ogni volta che
la fascia da capitano mi viene immaginariamente ceduta, è la preoccupazione di
non essere all'altezza. Mi chiedo spesso cosa Jones abbia trovato in me da
spingerlo a credere nelle capacità che posseggo fino al punto di rendermi il
faro della squadra. L'unica cosa che posso fare, anziché pormi domande, è
impegnarmi al massimo così da onorare la maglia rossa che mi è stata concessa.
«La
domanda è per Evans»
Sento
il mio nome. Torno a concentrarmi sulla conferenza stampa, facendo il possibile
per allontanare immediatamente dubbi e tensioni.
«Sì»
rispondo, rimanendo in ascolto.
L'uomo
riprende a parlare, guardandomi negli occhi come a sfidarmi:
«Match
davvero importante è sicuramente quello contro i campioni del mondo, gli All
Blacks. Cosa puoi dirci di loro e, soprattutto, del capitano Sean Darren?»
Distolgo
lo sguardo, incontrando quello di Jones. Pare darmi fiducia perché subito apro
bocca:
«Tutti
noi sappiamo quanto gli All Blacks siano forti» comincio e il silenzio sembra
farsi molto più intenso come nomino i tutti neri. «Sono da tre anni leader
incontrastati di questo sport e primi nel ranking mondiale; meritatamente,
aggiungerei. Con loro è fondamentale non perdere mai la concentrazione, non
lasciare troppi spazi né ai loro trequarti né agli avanti e rispondere al gioco
al piede che sono in grado di fare con altrettanta precisione»
Respiro
a fondo, il suono del mio gesto che si propaga sommessamente dal microfono alla
sala:
«Per
quanto riguarda Sean Darren, non posso fare altro che lodare le qualità di
questo giocatore. È il capitano perfetto per la Nuova Zelanda e un uomo di
tutto rispetto. Rientra con la maglia degli All Blacks dopo un grosso
infortunio e sicuramente farà il possibile per dimostrare di essere rimasto il
numero sette di altissimo livello che è. Sarà una sfida entusiasmante. Ma prima
bisogna concentrarsi sui prossimi due incontri in programma. Dobbiamo
incontrare Australia e Fiji prima di All Blacks e Sud Africa. Ogni sfida va
affrontata per tempo e con la giusta mentalità» concludo.
L'uomo
mi ringrazia e torna a sedersi, lasciando la parola ad un altro.
*
Quando
metto piede fuori dalla sede della Welsh Rugby Union, proprio adagiata al Millennium
Stadium, le quattro di pomeriggio sono passate da un pezzo. La luce del sole
comincia a virare verso caldi toni aranciati e, dalla baia, la brezza della
sera si avvicina timidamente. La conferenza stampa si è protratta fino all'una,
a seguire un rinfresco, poi ancora domande, finora.
Chiudo
gli occhi, respirando a pieni polmoni il profumo di Cardiff, la mia città da
sempre. In preda ai più tormentati pensieri sfioro appena il logo della
nazionale cucito sulla felpa, rendendomi conto che è tutto vero anche questa
volta. Sono stato nominato capitano del Galles ancora, sarò nuovamente io ad avere
l'onore di guidare i miei compagni. Se da un lato la cosa mi riempie di gioia e
lusinga, dall'altro mi agita fortemente, come mi succede ogni volta che questa
carica mi viene data, ovvero da due anni, ormai.
Comincio
a camminare, diretto verso l'auto, parcheggiata al solito posto.
Lunedì
3 novembre cominceranno gli allenamenti per i match autunnali. Già da giovedì
prossimo, primo giorno del raduno dei convocati, rivedrò molti dei miei amici,
giocatori abili con cui amo condividere il campo. È sempre quando ci riuniamo
la prima volta che le mie tensioni scivolano via, liberandomi e rendendomi
sicuro di me stesso. Quando incontro i miei compagni e so che saranno sul prato
del Millennium Stadium a sostenermi e a giocare con me, allora capisco di non
essere solo ad affrontare prove e stress e diventare la loro guida, quella che
Jones vuole che sia, diviene quasi naturale. Ma fino ad allora i miei pensieri
saranno certamente contrastanti, le ansie crescenti e le tensioni opprimenti.
Quando
supero Arms Park, situato proprio sotto il monumentale stadio della nazionale,
mi fermo un momento a guardarne la struttura. Sento dei rumori provenire dal
campo, su quel prato alcuni si stanno allenando in vista di partite prossime.
Proseguo,
provando a pensare ad altro in cerca di serenità. Le conferenze stampa mi
stancano come nient'altro a questo mondo. Mi sento sempre analizzato, sotto
processo e studiato da tutti quelli che ho davanti, perfettamente consapevole
che la frase, o anche solo la parola sbagliata, se dovesse uscire dalle mie
labbra, verrebbe resa dai giornalisti un'arma pericolosa; cercare di evitare
tutto questo è sempre parecchio snervante.
Un
passo alla volta raggiungo Arnold's,
la mente completamente distante, contesa fra pensieri positivi e altri avvilenti.
Anche qui mi fermo, rimanendo a guardare la porta in legno e vetri colorati del
pub sempre aperto. Potrei entrare e bermi una birra, una gelida bionda spillata
perfettamente. Tuttavia mi rendo conto che non mi va – circostanza rara per me.
Mi capiterà si e no quattro volte in un anno.
Prima
ancora di ricominciare a camminare, sempre in direzione della mia macchina,
punto lo sguardo sull'ingresso della casa di Danni, poco più avanti. È un gesto
che mi esce istintivo, quasi inaspettato, ma che lascia perfettamente intuire
quanto, ora, mi piacerebbe parlare con lei.
Arrivo
fino alla sua porta, bloccandomi davanti a essa, pensando. Non conosco gli
orari della ragazza al di fuori di quelli lavorativi, per cui non so se,
suonando il campanello, riuscirei a trovarla o meno. Vorrei davvero farlo,
vorrei suonarle e incontrarla per poterle parlare di quanto mi è appena
successo. Mi piacerebbe sentire se, anche stavolta, possiede parole di
incoraggiamento di cui, ho scoperto, è piena e sentire se anche ora è in grado
di distrarmi. Come riesca a essermi di conforto ogni volta, anche a sua
insaputa, davvero non lo so, eppure sento che ora lei sarebbe in grado di
aiutarmi come nessun'altro, ricordandomi cose che, anche se so, è bene che
rammenti: ovvero che l'ho già fatto e sono in grado di riuscirci ancora una
volta.
Sempre
immobile continuo a osservare il numero civico di casa sua, incollato al centro
della porta. Sollevo la mano, chiusa a pugno, con l'intenzione di bussare, ma
la fermo a mezz'aria. Espiro e torno ad infilare la mano in tasca.
Vedrò
Danni domani, al termine degli allenamenti. Non penso sia il caso di ammorbarla
con le mie – ovviamente inutili – preoccupazioni. È meglio per me restare solo
per un po'.
Note:
1 Welsh Rugby Union: l’organismo di
governo del rugby XV in Galles.
2 Sei Nazioni (torneo delle sei nazioni): il più
importante torneo internazionale di rugby a 15 dell’emisfero settentrionale.
Attualmente vi partecipano Francia, Galles, Inghilterra, Irlanda, Italia e
Scozia.
Non
riesco a fare a meno di tormentare il manico della borsa. Lo colpisco, lo
graffio e lo maltratto con indice e pollice come se mi avesse appena fatto il
più grande torto della mia vita. Mi sento agitata, completamente scossa da qualcosa
di invisibile che mi punzecchia all'altezza dello stomaco. Nel parcheggio di
Arms Park, preda della sera, alcune persone si allontanano per proseguire la
loro giornata; sono giocatori, membri dello staff. Le diciannove sono passate
da un po', ormai, e davanti al cancelletto dell'uscita sul retro aspetto Matt.
È da due giorni che non lo vedo, da domenica sera, e dopo tutto quello che ho
passato per colpa di Jenna, sia lunedì che martedì, la reazione che potrei
avere alla sua vista mi preoccupa: perché è un'incognita. Non so come reagirò,
cosa penserò, cosa dirò, non so niente. Le risposte che mie ero data dopo
l'uscita di domenica si sono dissolte in una bolla, lasciando spazio solo a
confusione e domande.
Sospiro,
cercando di calmarmi, perfettamente consapevole che, agitandomi, non risolverei
nulla. All'improvviso dall'uscita della palestra vedo comparire Matt. Si guarda
intorno mentre avanza con il suo passo sicuro, un mezzo sorriso in volto e le
mani in tasca. Mi saluta prima ancora di raggiungermi e quando mi sorride
presto particolare attenzione alle reazioni del mio corpo: ho solo una strana
sensazione alla bocca dello stomaco, che può essere qualsiasi cosa, inclusa la
fame.
«Come
stai?» mi chiede il ragazzo, fermandosi in tutta la sua statura proprio davanti
a me.
«Sto
bene. Tu?»
Ascolto
attentamente la mia voce quando gli rispondo, notando che non trema ma che, al
contrario, è rilassata come lo è sempre quando mi sento a mio agio.
Ci
avviamo uno accanto all'altra come ormai è nostra abitudine fare, iniziando a
parlare. Matt prende parola, comincia a raccontarmi di quello che gli è
successo questo pomeriggio mentre si dirigeva ad Arms Park. È tranquillo come
suo solito, come se tutto nella sua vita fosse rimasto lo stesso. Eppure ieri è
stato nominato capitano della nazionale gallese ancora una volta. Quando ho
erroneamente affrontato l'argomento, martedì scorso da Arnold's, Matt mi aveva dato l'impressione di essere preoccupato,
teso e leggermente insicuro di quello che sarebbe stato il suo ruolo nei test
match. Eppure, ora che conosce il suo ruolo, quasi sembra non aver assimilato
la notizia. Probabilmente non vuole dare a vedere quello che è il suo reale
stato: gli uomini orgogliosi sono fatti così.
Schiocco
appena la lingua quando penso a quest'ultima cosa. Matt si gira, sorride e
dice:
«Esatto»
riprendendo poi a parlare.
Mi
rendo conto che non lo stavo ascoltando, ma che ho miracolosamente detto la
cosa giusta al momento giusto. Alla fine mi concentro, facendo il possibile per
assimilare il discorso che il ragazzo sta portando avanti nonostante ne abbia
perso una buona metà. Quando credo di aver capito Matt si ferma e si volta a guardarmi.
Sovrappensiero com'ero non mi sono neanche accorta di essere arrivata a casa
mia.
Il
giocatore abbozza un sorriso:
«Se
mai finisco di raccontartelo domani» dice, sistemandosi il borsone più
comodamente sulla spalla.
Rimango
a guardarlo un momento. Mi sto a malapena rendendo conto di ciò che è accaduto.
Ero talmente presa dai miei pensieri che non so neanche di cosa Matt mi abbia
parlato; l'unica cosa che so è che non ho voglia di salutarlo perché non mi
sembra di aver trascorso con lui un solo minuto.
«Ah,
beh, devi... devi andare?» domando, dopo una discreta quantità di tempo.
Lui
mi guarda sorpreso:
«Beh,
siamo arrivati a casa tua. Direi che è più facile sia tu a dover andare»
Lancio
un'occhiata alla porta d'ingresso. Torno a guardare Matt ed è il mio corpo a
prendere l'iniziativa, o almeno così mi pare.
«Ma,
se vuoi, puoi fermarti a cena. Così finisci di raccontarmi tutto con calma»
Sorride,
mettendo in mostra la dentatura perfetta:
«Non
è che disturbo?» chiede, senza allontanare un solo momento gli occhi celesti.
Alzo
le spalle:
«Affatto.
Ma mi sento in dovere di dirti fin da subito che dovrò inventarmi qualcosa per
cena in base a ciò che ho nel frigorifero» Faccio una smorfia dopo essermi resa
conto di quanto ho appena detto. «Non è un gran invito, eh?»
Sorride
nuovamente:
«È
perfetto» risponde. «Se per te va bene, comunque, mi fermo volentieri»
«Se
non mi andasse bene non ti avrei invitato»
Comincio
a frugare nella borsa per cercare le chiavi. Mentre apro la porta d'ingresso
Matt ne approfitta per concludere l'aneddoto che, da più di dieci minuti, mi
stava spiegando ma che io non ho minimamente compreso. Mi metto solo a ridere,
sperando sia la mossa giusta, e fortunatamente pare funzionare. Entriamo in
casa, prima di avviarci verso il soggiorno indico a Matt dove lasciare borsone
e giacca. Faccio strada lungo le scale, introducendolo infine in quello che, a
grandi linee, è il grosso di casa mia: un piccolo soggiorno con angolo cottura.
Lui
si guarda intorno:
«È
carina» sentenzia.
Lo
guardo:
«Lo
dici tanto per dire, vero?»
Scoppia
a ridere:
«No,
perché? Hai un ingresso indipendente e una casa che, anche se piccola, è ben
arredata e accogliente. A me piace»
«Grazie.
Do un'occhiata a cosa potrei preparare per cena»
Apro
il frigorifero, iniziando a scrutarne il contenuto. Fortunatamente ho fatto la
spesa proprio questa mattina, quindi qualcosa di elaborabile e commestibile
c'è, anche se in dosi sicuramente ristrette per un giocatore di rugby.
«Ah,
ecco il tuo gatto» sento esclamare a Matt.
Tolgo
la testa dall'elettrodomestico e mi volto verso il ragazzo. Il gatto è saltato,
come fa sempre, sull'ultima parte della ringhiera delle scale, la parte che fa
angolo prima di venire inglobata nel muro. Matt è chinato, il viso vicino a
quello del felino e i rispettivi nasi che si toccano; li trovo adorabili
entrambi.
«Direi
che gli piaci» dico.
Matt
si volta a guardarmi, sorridendo.
«Come
si chiama? Non te l'ho mai chiesto»
«Puk»
Solleva
un sopracciglio:
«Puk?» domanda, dubbioso.
Sorrido:
«Sì.
Jamie gli ha scelto il nome»
«Capisco.
E quanti anni aveva Jamie quando glielo ha scelto?»
Mi
metto a ridere:
«Ne
aveva cinque»
Il
giocatore torna a guardare il gatto, facendogli qualche carezza.
«Hai
un gatto anche tu?» gli chiedo.
Scuote
la testa:
«No,
io ho un cane. Anche se è più corretto dire che ora è dei miei genitori. Non
potevo più prendermi cura di lei come si meritava»
«Ho
capito. Di che razza è?»
«È
un alano. Si chiama Shuna» risponde, senza smettere
di coccolare Puk, sempre più soddisfatto di tutte
quelle attenzioni.
«È
un nome particolare. È bello»
«Ti
ringrazio. Ci ho messo molto a trovarle quel nome»
Mi
limito a sorridergli, dopodiché mi ricordo della cena:
«Comunque,
per la cena, se per te va bene ho del pollo»
Matt
mi guarda, illuminandosi in volto; probabilmente si è ricordato di quella volta
che abbiamo affrontato l'argomento sul come cucinare del pollo, mentre
tornavamo a casa.
«Va
benissimo. In che versione?»
Sorride
e io lo imito, sollevo le spalle:
«Ho
del porro»
«Andata»
risponde immediatamente, facendomi un cenno di approvazione con indice e
pollice.
Torno
all'angolo cottura, cominciando a estrarre gli ingredienti dal frigorifero.
«Purtroppo
temo di non potertene offrire in grandi quantità. Ma se dovessi avere ancora
fame ho dell'altro» dico.
«Oh,
non preoccuparti. Mi adatterò a quello che offri tu» risponde.
Sussulto
leggermente quando mi rendo conto che lui è praticamente al mio fianco; non
l'ho capito solo dal punto in cui è provenuta la sua voce, ma anche dal suo
profumo che, ora che la sua giacca è sfilata, si propaga leggero nella stanza,
avvolgendomi nella sua aroma. Alzo lo sguardo alla mia destra e trovo Matt proprio
dove mi ero immaginata che fosse.
«Posso
aiutarti?» chiede.
Rimango
a fissarlo per un momento prima di riprendere parola:
«Se
ti va, certo»
Gli
faccio tagliare la carne, dicendogli di farne dei bocconcini, mentre io affetto
tutto il porro per farlo saltare in padella. Durante la fase di preparazione la
conversazione si è spostata automaticamente sull'argomento cucina. Matt mi
racconta qualcosa che già so – ovvero che gli piace cucinare anche se spesso
gli manca la voglia – ma rimango ad ascoltarlo perché stasera è più loquace del
solito e sentirlo parlare mi piace.
Mentre
gli ingredienti sfrigolano insieme nella padella, per gli ultimi minuti di
cottura, Matt prende a sbirciare per la casa. Sono concentrata a mescolare
pollo e porro quando sento della musica provenire dal mio piccolo soggiorno,
proprio dove ho lo stereo. Mi volto, trovando il giocatore davanti alla radio,
la custodia di un cd stretta in mano e l'indice, il dito incriminato, ancora
adagiato al pulsante play. Non ci
sarebbe stato niente di strano in tutto questo, almeno per me, se non fosse che
la traccia da cui il disco è partito è YouDon't Know Me. Mi sento vagamente arrossire mentre le
parole della canzone riempiono la stanza:
“I
watch you walk away, Beside the lucky guy, You'll never never
know, The one who loves you so”
Matt
si rigira fra le mani la custodia del disco:
«Ti
piace Michael Bublé, vedo» mi sorride. «Scusa se mi sono permesso, ero solo
curioso» conclude, alludendo al fatto di aver acceso lo stereo senza permesso.
«Tranquillo.
Se mai abbassa solo un po' il volume»
Esegue,
rimanendo in ascolto.
«Effettivamente
ha del talento» dice dopo un po', prendendo a ondeggiare leggermente, seguendo
il ritmo.
«È
il mio preferito» gli rivelo. «Mia madre è una grande fan di Sinatra. Sono
cresciuta ascoltando swing e così, come ho incontrato Michael, è stato subito
amore»
Sollevo
lo sguardo su di lui, sta sorridendo.
«E
tu? Cosa ascolti prima di scendere in campo?» chiedo infine, cercando di
modificare la strana aria che si è formata, anche per colpa della musica.
«Mumford & Sons» è la
risposta, pronta. «Prima di scendere in campo ascolto solo Not With Haste. La conosci?»
Scuoto
la testa:
«Conosco
i Mumford & Sons, ma la
canzone no»
«Ti
presterò il cd, allora. Potrebbero piacerti»
«Si
può fare» rispondo, poi mi ricordo della cena. «Comunque, direi che è pronto»
«Fantastico»
Spegne
lo stereo e mi raggiunge ai fornelli, portando sulla tavola apparecchiata i
piatti pronti che gli allungo. Ci sediamo uno di fronte all'altra, ma subito
dico:
«Vuoi
una birra?»
Mi
guarda, dopodiché sorride:
«No,
non serve. Va benissimo l'acqua, grazie»
Insisto,
ma lui fa lo stesso e tutto si conclude con un nulla di fatto. Come cala il
silenzio e lui affonda la forchetta nella carne, mi rendo conto di essere
piuttosto tesa. Ho invitato Matt a cena agendo d'impulso e ora spero vivamente
che ciò che ha nel piatto gli piaccia, altrimenti farei davvero una pessima
figura; e proprio con lui.
Mangia
il primo boccone, gli occhi bassi sul piatto, io che continuo a osservarlo.
Finisce di masticare, deglutisce e mi guarda:
«È
davvero buono»
«Grazie»
rispondo, accorgendomi che quel suo semplice complimento mi ha fatto
incredibilmente piacere.
Finiamo
di cenare, Matt racconta qualcosa nel mentre, intavolando una conversazione
nata per essere breve. Quando il piatto del giocatore si vuota provo a
offrirgli qualcos’altro,ma lui rifiuta
garbatamente, limitandosi a mangiare un paio di fette del pane in cassetta. In
un momento di silenzio, quello inevitabile che si forma al termine di un
dialogo, afferro la forchetta cominciando a giocare distrattamente con i pochi
brandelli di porro rimastimi nel piatto. Sollevo lo sguardo su Matt che si sta
osservando intorno, l’espressione soddisfatta in volto. Mi chiedo se vale la pena
affrontare l’argomento test match e chiedergli qualcosa, oppure se evitare di
correre rischi e cercare altro di cui parlare. Non vorrei che, chiedergli di
raccontarmi delle partite della nazionale, lo infastidisse. Tuttavia mi aveva
promesso che avremo potuto parlarne dopo il ventuno – e oggi è il ventidue – e
la mia curiosità non può più essere fermata.
«Posso
farti una domanda?»
Si
volta subito a guardarmi, il mio cuore accelera i battiti quando i suoi occhi
celesti si fermano sui miei.
«Certo»
«Ora
posso chiederti qualcosa riguardo ai test match?»
Sorride,
distogliendo leggermente lo sguardo. Quando torna a guardarmi ha ancora il suo
sorriso luminoso e perfetto, la sua espressione soddisfatta pare non volerne
sapere di scomparire.
«Puoi.
Ti avevo promesso che dopo il ventuno avrei risposto a tutte le tue domande»
Appoggia
i gomiti al tavolo, i miei occhi cadono quasi istintivamente sulle maniche
della polo nera che indossa, che si tendono per via dei bicipiti.
«Cosa
vuoi sapere?»
Nella
sua voce c’è solo curiosità, non c’è nervosismo, fastidio o preoccupazione.
Alzo le spalle:
«Solo
cosa ne pensi, niente di più»
Torna
ad appoggiarsi con la schiena alla sedia, grattandosi il collo:
«Beh, sono un po’ teso, lo ammetto. Ma è
anche vero che sono emozionato all’idea di affrontare queste quattro partite e
di misurarmi con giocatori come quelli che andremo a incontrare» Mi guarda
attentamente: «È la risposta che ti aspettavi?»
Rispondo
subito:
«È
quella che speravo»
Sorride
nuovamente:
«E
tu, cosa ne pensi?»
Si
versa dell’acqua e beve, asciugandosi le labbra.
«Io
sono sicura saranno quattro bellissimi match. E poi, gli All Blacks, sono una
delle mie squadre preferite. Per me Galles-All Blacks è un po’ la partita
dell’anno»
«Sospetto
lo sia per molti» mormora.
Faccio
per parlare, ma Matt mi precede:
«Perciò
sei una fan degli All Blacks» lascia cadere la frase, chiaramente in attesa che
io la completi.
Annuisco:
«Esattamente.
Seguo anche il Rugby Championship. Mettevo la sveglia al mattino e mangiavo
latte e cereali davanti allo streaming della partita»
Ripenso
a quanto appena detto. Il Rugby Championship è il campionato rugbistico
dell’emisfero australe. Ogni anno vede scontrarsi Nuova Zelanda, Sud Africa,
Australia e Argentina in alcune delle partite più belle che abbia mai visto.
Purtroppo, per via del fuso orario, il più delle volte questi incontri si
svolgono quando qui sono le otto di mattina; per questo solitamente imposto la
sveglia e faccio colazione guardando la partita. Spero che Matt non mi abbia
preso per una fanatica.
Invece
lui sorride, per l’ennesima volta:
«Un
buon modo di iniziare la giornata»
«Per
me è perfetto»
«Giocatore
preferito degli All Blacks?»
«Ti
sembrerò prevedibile, ma direi Sean Darren»
Fa
schioccare la lingua, come a dire che se lo aspettava. Probabilmente è una
risposta scontata, ma è quella vera. Darren, il ventinovenne capitano degli All
Blacks da ormai sei anni, è considerato il miglior giocatore al mondo e non
sono mai riuscita a trovarmi in disaccordo su questo. È un leader, un capitano
nato e nel suo modo di giocare non vi è la più minima sbavatura.
«Lo
trovi scontato, vero?» chiedo a Matt, senza scompormi.
Fa
un’espressione vaga, gesticolando con la mano destra:
«Dev’essere
il sangue maori a renderlo così»
Sollevo
un sopracciglio, osservando il giocatore:
«Sean
è un pakea»
dico, con convinzione.
«Un
cosa?»
Sorrido:
«Un
pakea. È il
termine che i nativi maori usano per indicare i bianchi. Lui non ha discendenze
maori. Anzi, se davvero lo vuoi sapere, la sua famiglia è di origini scozzesi»
concludo.
Lui
mi guarda, l’espressione appagata scolpita in volto.
«Però»
dice. «Ne sai di cose. Ti va di dirmi altro?»
Ho
capito cosa intende.
«Vuoi
che parliamo degli All Blacks, della squadra di rugby?»
«Se
ti va. Vorrei che mi dicessi come trovi il loro modo di giocare»
«Sul
serio?»
«Sì.
Tu ne capisci di rugby, Danni. E lo guardi da fuori, a differenza di me.
Potresti aiutarmi a farmi una precisa idea del modo di giocare dei tutti neri.
A me piace molto il tuo modo di analizzare il gioco, perché guardi all’insieme,
non solo al risultato finale come fanno in molti»
Rimango
a fissarlo un momento. Come assimilo appieno le parole risento il suo “a me
piace molto” nelle orecchie; e mi lusinga. Abbasso lo sguardo, sentendomi
leggermente in imbarazzo.
«Mi
fa piacere sentire che la pensi così» dico, il tono più basso del dovuto.
Eppure
Matt non si scompone, continua a guardarmi, in attesa. Aspetta che io inizi a
parlare, che gli illustri ciò che conosco e vedo del modo di giocare della
nazionale neozelandese, così che lui possa unire il tutto alle sue informazioni
e farsi un quadro completo. Sento il mio fiume di parole esondare. Appena
respiro per cominciare a parlare un mare di nozioni e aneddoti sui tutti neri
affiora, bramando di essere narrato. Racconto a Matt tutto quello che so su
questa squadra, quello che sospetto e quello che suppongo. Lui pende quasi
dalle mie labbra, mi ascolta attentamente, spesso annuisce, come a dire che già
sapeva o che sospettava. Quando non so più che altro dire mi zittisco, serro le
labbra e rimango a guardare il ragazzo.
«Ne
sai davvero parecchio» sentenzia.
Io
sorrido semplicemente, in segno di ringraziamento. Lui riprende a parlare:
«È
stata una gran bella chiacchierata, si vede proprio che è una delle tue squadre
preferite»
Dà
un’occhiata all’orologio, dopodichési
stiracchia e si passa una mano fra i capelli spettinati.
«Sono
le dieci e quaranta. È meglio che vada»
Rimango
sorpresa da ciò che ha appena detto. Non mi sono praticamente resa conto del
tempo che è passato.
«Ah,
sì. In effetti è un po’ tardi» dico, alzandomi quasi di scatto dal tavolo.
Anche Matt si alza, osservando la tavola con ancora i piatti sporchi della
cena.
«Aspetta,
ti aiuto a ripulire» dice, ma lo fermo immediatamente.
«No,
non preoccuparti. Ci penso io con calma. Metto su un po’ di musica»
«Sei
sicura?»
Annuisco:
«Sicura»
Accompagno
il ragazzo all’ingresso. Lo guardo di sottecchi mentre si riveste con la giacca
e recupera il borsone, sistemandoselo su una spalla. Si volta a guardarmi:
«Grazie
ancora di tutto»
«Figurati.
Mi ha fatto piacere avere ospiti»
«La
prossima volta possiamo fare a casa mia» scherza.
Reprimo
a fatica l’istinto spontaneo di mordermi il labbro a quanto ha appena detto.
«Potrei
prenderti in parola» rispondo.
«Fallo»
conclude, sempre con quella sicurezza totalmente sua che lo contraddistingue.
Ci
guardiamo un momento, dopodiché lui mi ringrazia ancora una volta, mi augura la
buonanotte ed esce chiudendosi la porta alle spalle. Rimango a fissare
l’ingresso per svariati secondi, poi, istintivamente, mi ci appoggio contro con
la testa.
Mi
piace. Matt mi piace. Non posso più fare finta che non sia vero, non riuscirei
a convincermi ancora a lungo del fatto che tutte le strane sensazioni che provo
in sua presenza non siano direttamente correlabili a lui.
Mi
copro il volto con le mani, nel vano tentativo di reprimere un sorriso
affiorato automaticamente al pensiero della serata appena trascorsa.
Approfondendo
la conoscenza con Matt l’ho trovato sempre più interessante e la sua compagnia
sempre più piacevole. Questa serata è stata quella decisiva per aiutarmi a
capire, ne sono certa. Averlo in casa mia, cucinare per lui, mi hanno mostrato
la possibilità di noi due come coppia, mi hanno fatto interrogare su come
sarebbe se fosse così sempre. E il fatto di non essermi accorta del tempo che
passava perché ero troppo presa a parlare con lui, è il segnale decisivo. È
sempre stato quest’ultimo fattore a farmi capire che provavo qualcosa di serio
per qualcuno.
Sospiro,
sempre addossata alla porta.
Ormai
non posso davvero più ignorare la cosa. Jenna aveva ragione: mi serviva solo
del tempo per riordinare le idee.
Sento
il click della radiosveglia e quella
subito si attiva, cominciando a suonare le note di una canzone che non conosco.
Avrei potuto spegnerla minuti fa anziché lasciarla suonare: sono sveglio da
almeno un’ora. Ho aperto gli occhi poco prima delle sette questa mattina e non
sono più riuscito a prendere sonno, continuando a rigirarmi nel letto alla
ricerca della posizione più comoda per rimettermi a dormire, inutilmente. Così
mi sono arreso, accettando di rimanere sdraiato a pancia in su, le mani dietro
la nuca, a osservare il soffitto in attesa delle otto.
Spengo
la radiosveglia e scendo dal letto, distendendo bene ogni articolazione prima
di alzarmi in piedi. Dopo essermi rinfrescato raggiungo la cucina, prendo il
necessario per fare colazione e mi siedo al tavolo, dove un foglietto tutto
scarabocchiato mi attende con il preciso compito di ricordarmi gli impegni dei
prossimi giorni.
È
l’ultimo martedì di ottobre. Questo giovedì tutti i convocati per i test match
di novembre si riuniranno alla sede della Welsh Rugby Union, al Millennium
Stadium, per le fotografie di rito e i consueti discorsi da parte del ct Jones, dei vari tecnici e, infine, da parte mia. Lunedì
3 cominceranno gli allenamenti veri e propri, quelli che porteremo avanti fino
all’esordio, fino al primo match di quello che viene denominato “Autunno
internazionale”, ossia la partita Galles-Australia di sabato 8.
Ma
fino a giovedì continuerò a partecipare agli allenamenti dei Cardiff Blues, per
questo motivo stamattina devo raggiungere Arms Park. Sul foglietto che ho in
mano è segnato tutto questo nel tentativo di fare ordine fra tutti i miei
impegni che, con il raduno della nazionale alle porte, si accavallano
terribilmente. L’unica certezza che ho è che farò il possibile per non prendere
impegni per questa domenica, così da poter andare alla stadio e godermi Cardiff
Blues-Edinburgh, una partita che so già non giocherò
proprio perché da giovedì non sarò più schierabile per la mia squadra essendo
considerato in ritiro per la nazionale.
Adagio
il foglietto sul tavolo appena finisco di riordinare mentalmente gli impegni e
comincio a fare colazione nel totale silenzio del mio appartamento. La luce del
mattino inizia a penetrare dagli scuri semichiusi delle finestre, con l’intento
di scacciare la penombra. L’avvento della luce nella stanza, graduale e lento,
è sempre stato una specie di piacevole orologio naturale per me, che spesso
prendo a riferimento per gestire al meglio i tempi prima di uscire di casa.
È
passata una settimana da quando Jones ha pubblicamente esposto i convocati
della nazionale, una settimana dalla mia nuova nomina a capitano. In questi
sette giorni il mio stato d’animo è notevolmente migliorato, risanandomi. Ho
risentito alcuni fra i giocatori che rincontrerò nella squadra del Galles,
primo fra tutti Paul, il mio caro amico con cui perdere i contatti mi è
impossibile. Sentire il sostegno dei miei compagni di squadra, la loro voglia
di mettersi in gioco e di dimostrare quanto meritano un posto da titolare, mi
ha ridato energia, restituendomi quella consapevolezza di potercela fare, di
poter essere capitano e numero sette, che avevo bisogno di ritrovare.
Ma
credo che il merito sia anche di Danielle. Dopo la cena a casa sua abbiamo
preso a parlare spesso dei test autunnali, soprattutto via messaggio poiché ci
vediamo fisicamente solo poche volte nell’arco della settimana. Danni mi è
stata d’aiuto come davvero poche altre persone che conosco. Non so neanche se
lei si è resa conto di questa cosa, se ha compreso quanto parlarle e anche solo
sentirla via sms mi facesse stare meglio. Mi sono ritrovato a pensarla spesso
dopo la cena del ventidue, quasi a mia insaputa. Quella sera è scivolata via
piacevole e rilassante come non mi succedeva da tempo. Parlavo di continuo
perché mi sentivo perfettamente a mio agio e, quando abbiamo iniziato a
discutere di rugby, non riuscivo a distogliere lo sguardo dai suoi occhi verdi,
resi ancora più brillanti dalle sfumature brune che posseggono. Quando ci siamo
salutati e sono uscito da casa sua avrei voluto fare dietrofront e chiederle di
poter restare ancora un po’ con lei, anche solo per sentire la sua voce o
vedere il suo sorriso, reso tanto speciale dalle sue graziose fossette sulle
guance.
A
distanza di una settimana ho finalmente capito quello che tutto questo
significa. Sto cominciando ad affezionarmi particolarmente a Danielle. Sento
che l’amicizia che mi lega a lei, che si è consolidata in fretta nei due mesi
di nostra conoscenza, è sul punto di evolvere, di diventare qualcosa di più
forte. L’ultima volta che mi sono sentito così, che le mie sensazioni ci hanno
messo del tempo per stabilizzarsi dentro di me, è stato quando ho incontrato Meg.
Finisco
di bere il latte ancora contenuto nella mia tazza, tirando poi un lungo
sospiro.
Sta
succedendo tutto nel momento sbagliato. Ogni volta che gli impegni con la
nazionale subentrano mi rimane sempre poco tempo da dedicare a me stesso e ai
miei sentimenti; sembra sempre che, in quanto a capitano del Galles, non possa
provare emozioni. Ho cercato di fare chiarezza dentro di me – di afferrare appieno quello che provo per
Danni e di ritrovare la mia sicurezza come giocatore e guida – nell’arco di
tutte le notti trascorse, spesso fissando il soffitto per ore e addormentandomi
quando davvero non riuscivo più a continuare. Ma alla fine sono riuscito nel
mio intento e ora che ho trovato sicurezza e risposte mi sento decisamente
bene. Ma, appunto, sta succedendo tutto nel momento sbagliato. Ora come ora non
so se avrebbe senso cercare di approfondire ulteriormente quello che provo per
Danielle, vedere se, avendo ancora a che fare con lei, davvero i miei
sentimenti potrebbero evolversi. Gli impegni della nazionale mi tolgono tempo e
non potrei dedicarmi alla ragazza come vorrei. In fin dei conti novembre è solo
un mese, trenta semplici giorni. Superati questi avrò il tempo necessario per
sistemare la mia situazione. Penso che farò così, credo sia la soluzione
migliore, anche per rispetto nei confronti di Danni che non si merita affatto
un trattamento privo di riguardi.
Rimango
a osservare la cucina, in cui la luce aumenta mano a mano, continuando a
pensare a tutto questo. Come mi rendo conto della quantità di tempo che è
trascorsa mi alzo rapidamente dal tavolo, senza tentare di riordinare le
stoviglie, terminando di prepararmi molto più in fretta di quanto non faccia
abitualmente. Esco di casa in leggero ritardo sulla mia tabella di marcia,
pensando che sarebbe meglio smettessi di spremermi le meningi in cerca di
risposte o soluzioni proprio alla mattina, il momento della giornata in cui
sono meno produttivo in assoluto e ogni piccola azione richiede il doppio dello
sforzo.
Dopo
essere salito in macchina, accertandomi di avere portato come me tutto il necessario
per gli allenamenti, inserisco il cd dei Mumford
& Sons nel lettore – un disco ormai consumato per
il numero di volte che lo faccio girare ogni singolo giorno – e premo play, lasciando che Babel riempia con le sue note
l’abitacolo. Raggiungo il posteggio dove sono solito parcheggiare e, trovato un
buco per l’auto, mi fermo e scendo, afferrando in borsone e avviandomi verso
Arms Park per la sessione di allenamento mattutina. Non avendo incontrato traffico
sono riuscito a recuperare il mio ritardo, finendo addirittura con l’essere in
anticipo, per questo motivo cammino senza fretta, osservando le case di
Cardiff, che a forza di vedere ogni giorno ormai conosco a memoria ma che trovo
sempre particolarmente belle.
Come
i miei occhi si fermano sul civico trentasette, però, mi blocco. Smetto di
camminare, facendo addirittura scivolare a terra il borsone. La porta di
ingresso è quella di casa di Danni. Rimango a guardarla per un po’, indeciso.
Come ho visto casa sua un’ idea mi è subito comparsa in testa. Potrei suonarle,
vedere se la trovo e, in quel caso, invitarla fuori a cena per trascorrere
un’altra di quelle serate serene e piacevoli che, ho visto, riesco sempre a
passare in sua compagnia.
Una
parte di me vorrebbe davvero farlo ma l’altra, al contrario, è bloccata. Tutti
i ragionamenti che ho fatto questa mattina – e per cui ho rischiato di fare
tardi – a cosa mi sarebbero serviti se ora decido di proporre a Danni di uscire
per vedere se realmente sono interessato a lei?Sul serio mi conviene tentare di far coincidere le pressioni da
giocatore, ora così intense fino a fine novembre, con sentimenti caotici che
spesso richiedono tempo e attenzioni particolari per chiarirsi?
Chiudo
gli occhi respirando a fondo una paio di volte, ricercando la stessa sicurezza
in me che cerco prima di scendere in campo per un match.
Se
non fossi stato in grado di far convivere vita sentimentale e lavoro – sport,
nel mio caso – probabilmente non sarei arrivato fin qui. Anche se le cose con Meg sono andate male, per un periodo tutto ha funzionato
perfettamente; perché con Danni la storia dovrebbe ripetersi identica? Con lei
potrebbe finire tutto bene, potrebbe essere quella giusta. Alla fine non è
neanche detto che fra di noi nasca qualcosa. Può anche darsi che non sia
minimamente interessata a me e che io finisca con il rendermi conto di volerle
solo particolarmente bene ma niente di più.
Riapro
gli occhi, trovando la risposta. Devo vederla. In un modo o nell’altro sento che
non potrei aspettare fino a dicembre.
Mi
avvicino all’ingresso di casa sua e alzo la mano per suonare il campanello. Non
faccio neanche in tempo ad appoggiare il dito che la porta si apre,
accompagnata da una voce femminile che parla concitatamente. Mi volto verso
l’uscio, trovandomi davanti Danni. Come mi vede si blocca immediatamente, gli
occhi verdi spalancati:
«Matt»
dice.
La
ragazza che è insieme a lei, quella che stava parlando, si zittisce e cala il
silenzio. Danielle è ancora sulla porta, la borsa appena adagiata sulla spalla.
«Che
ci fai qui?» mi chiede.
Apro
bocca per rispondere, ma la sua amica mi precede. Sospinge appena Danni in
avanti, così da poter uscire di casa e si sistema i lunghi capelli ricci:
«Ci
vediamo più tardi. Devo andare adesso»
Lancia
un bacio all’amica, sorride a entrambi e si incammina in gran fretta. Sia io
che Danni ci voltiamo un momento a guardarla. Sento la ragazza sospirare,
indica verso l’amica che si sta allontanando e dice:
«Beh,
lei era Jenna»
«Vi
ho interrotte?» chiedo.
«No,
direi di no. È passata un momento perché era sulla strada, tanto ci vediamo
dopo, per pranzo»
«Ho
capito»
«Vai
verso Arms Park?»
Si
chiude la porta alle spalle mentre chiede questo. Avvicinandosi di un passo.
Torna a guardarmi appena le rispondo:
«Sì.
Fino a domani continuo gli allenamenti con i Blues»
L’espressione
del suo volto si fa sorpresa:
«Quindi,
giovedì niente abituale rientro a casa insieme?»
La
domanda mi coglie impreparato. Soprattutto perché mi sembra di sentire una
leggera nota di dispiacere nel suo timbro di voce. Abbozzo un sorriso:
«Ti
faccio sapere. Non so ancora bene gli orari che facciamo con la nazionale.
Scoprirò tutto proprio giovedì»
«D’accordo,
allora mi saprai dire. Tanto il mio numero ce l’hai»
Le
sorrido:
«Senz’altro.
Ma comunque per domani è tutto come al solito»
«Perfetto»
Si guarda un momento intorno, poi riprende a parlare: «Comunque, mi stavi
cercando?»
Riordino
in fretta i pensieri, cercando di formulare rapidamente nella mia testa la
domanda che volevo farle, così da non smascherare il fatto che ho deciso tutto
all’improvviso.
«Ehm,
sì. Mentre passavo di qua ho pensato di vedere se riuscivo a trovarti in casa.
Direi che ho fatto appena in tempo»
Le
faccio l’occhiolino e lei sorride:
«Esatto,
appena in tempo. Stavo uscendo per fare la spesa»
Annuisco
con la testa, alla fine decido di smetterla di girare intorno all’argomento:
«Comunque
sia, volevo semplicemente chiederti se ti andava di uscire a cena una sera di
queste»
Sgrana
gli occhi, ma solo per un momento, tanto che me ne rendo a malapena conto.
«Vuoi
andare da Arnold’s?» chiede.
«Non
lo so. Magari questa volta possiamo cambiare posto. Conosco dei bei ristoranti
qui a Cardiff»
Schiude
le labbra per parlare, ma non risponde subito. Annuisce con la testa e dice:
«Certo.
Volentieri. Quando?»
A
questo non avevo pensato. Sollevo le spalle, decidendo di non portare la serata
troppo avanti. Se gli impegni con la nazionale dovessero farsi troppo intensi –
e per me che sono il capitano spesso è così – rischierei di invitare fuori
Danielle e poi dover disdire tutto.
«Domani?
È troppo presto?»
«Dopo
il lavoro e l’allenamento? È proprio come quando siamo andati da Arnold’s»
«Sì,
più o meno»
Mi
passo una mano fra i capelli, leggermente nervoso. Aspettare che mi risponda
all’invito che le ho fatto non mi ha mai messo addosso una tensione come quella
che provo adesso. Decido di dire qualcosa:
«Se
hai da fare, possiamo fare un altro giorno, non…»
Ma
lei mi interrompe:
«No,
no. Va benissimo»
«Sicura?»
«Certo.
Vada per domani»
«Hai
preferenze sul posto?»
Scuote
la testa:
«Scegli
tu, mi fido. Io a Cardiff frequento praticamente i soliti posti»
«Ok»
Lei
rimane a guardarmi, sempre sorridendo. Tiene i capelli legati in una coda di
cavallo, le iridescenze miele paiono risplendere per la luce del mattino. La
giacca semiaperta lascia intravedere la linea del collo e, come i miei occhi vi
scivolano sopra, sento un leggero tremito muoversi dentro di me.
Mi
schiarisco la gola, tornando a tormentarmi i capelli.
«Devo
andare, altrimenti farò tardi per l’allenamento. Ci manca solo che mi faccia
notare gli ultimi giorni di permanenza nei Blues prima dello stop per via della
nazionale»
Acconsente
con il capo, divertita:
«Già.
Non credo che al tuo coach farebbe piacere. Ci vediamo domani, allora»
«Sì.
Ci vediamo domani»
Dopo
esserci salutati ci separiamo. Lei si incammina nella direzione da cui sono
venuto io, verso il supermercato che ha vicino a casa, io proseguo per Arms Park,
sentendomi dannatamente bene.
Sentire
la mia voce nel più totale silenzio mi fa sempre uno strano effetto. In quanto
a dilatazione dei pensieri trovo che assomigli tutto a una sorta di
infiltrazione nella mia testa da parte di altri, naturalmente consenziente,
dato che sono proprio io stesso a parlare.
Davanti
a me ci sono i miei compagni di squadra, numerosi tecnici della nazionale e
l'immancabile Rhys Jones. Come prevedibile, alla fine, anche giovedì è arrivato
e con lui il primo raduno dei convocati gallesi. Tradizione vuole che ognuna
delle figure con i ruoli più rilevanti tenga un discorso di benvenuto e incoraggiamento
verso tutti i giocatori, discorsi ripetitivi, sentiti e risentiti, che sono
ormai divenuti formalità, ma proprio per questo irrinunciabili.
Il
primo a parlare è stato Rhys Jones, con il suo tono calmo e i suoi modi di fare
paterni. Essendo nostro head coach da tre anni sa sempre cosa dire perchè
l'arrivo sia il migliore in assoluto. Dopo di lui è stato il turno dei vari
tecnici – che allenano trequarti e avanti – e, alla fine, è toccato a me. Per
quanto sia un evento già conosciuto, per quanto si tratti del primo giorno di
incontro per preparare i test match, che comunque non hanno lo stesso identico
valore del torneo delle Sei Nazioni o dei mondiali, è sempre un momento molto
solenne. Gli sguardi dei miei compagni di squadra sono rispettosi, così come lo
è il silenzio; mi guardano negli occhi e ascoltano attentamente. Credo sia
dovuto proprio a questo se mi sento sempre un po' sotto processo. Se poi
aggiungiamo il fatto che parlare in pubblico non è mai stata la mia passione, è
facile intuire come sto. Gesticolo mentre parlo, ascoltando il suono delle mie
parole come se fossi seduto proprio accanto ai miei compagni. Non suonano male,
sembrano addirittura essere convincenti, per quanto alla fine siano già state
dette.
Come
concludo il mio intervento mi zittisco, osservando i miei amici, in attesa.
Qualcuno fa qualche cenno di approvazione, ma nulla di più; è una formalità,
questa, e la nazionale gallese ci ha insegnato che nelle formalità vale più un
rispettoso silenzio che un complimento mascherato da battuta. Jones si avvicina
a me, mi posa una mano sulla schiena lanciandomi un sorriso e un'occhiata e
lasciandomi così il via libera perchè io possa tornare a sedermi.
Respira
a fondo e ci guarda tutti:
«Non
sarà facile, ragazzi miei, e lo sapete. Ma ho sempre creduto nelle vostre
qualità ed è questo il motivo per cui vi ho voluti qui. Ognuno di voi sarà
perfettamente in grado di dimostrare il proprio valore anche contro le
avversarie che andremo ad incontrare»
Nessuno
fiata. Il silenzio è surreale, ricorda tanto quello piombato alla conferenza
stampa per l'annuncio dei convocati nel momento esatto in cui ho cominciato a
parlare degli All Blacks. Anche ora, anche se indirettamente, sono proprio i
tutti neri a rendere il silenzio quasi spettrale, sono loro una delle
avversarie a cui Jones si riferisce. Sfidare i neozelandesi preoccupa e al
contempo eccita tutti noi, è inutile fingere che non sia così. Misurarsi con
loro è senz'altro un onore, ma anche una grossa responsabilità per coloro che
vestiranno la maglia rossa il 22 novembre.
«Ma
per farlo sarà necessario anche tanto esercizio e, vi garantisco, che da lunedì
sarà così» Jones termina con queste poche parole il suo intervento.
Ci
guarda negli occhi, uno a uno, sorridendo.
«Direi
che per oggi abbiamo concluso. Vi aspetto tutti qui domani mattina, per le foto,
interviste e... beh, già sapete»
Dopo
un lungo momento di silenzio le voci cominciano a levarsi. I ragazzi iniziano a
guardare negli occhi chi hanno seduto accanto, a lanciare sorrisi qua e là, a
darsi pacche sulla spalla in segno di ben ritrovati. Ci alziamo in piedi, le
sedie stridono, il volume delle parole aumenta e i primi commenti sui discorsi
appena ascoltati inizia a farsi largo nella stanza. Jones saluta tutti, uscendo
dalla stanza in cui siamo chiusi da più di un'ora, seguito dai tecnici. Io mi
guardo un momento intorno rendendomi improvvisamente conto di essere felice di
trovarmi qui. Ogni volta che ritrovo questi miei compagni, ogni volta che varco
la soglia della Welsh Rugby Union, che penso che avrò l’opportunità di vestire
nuovamente la maglia della nazionale, capendo di aver raggiunto un traguardo
davvero importante per me, mi sento emozionato come la prima volta. Era questa
la sicurezza che avevo bisogno di ritrovare, la certezza che sarà incredibile
anche questa volta, qualunque siano i risultati che raggiungeremo.
«Il
tuo è stato un bel discorso»
Mi
volto per vedere chi si sta rivolgendo a me, nonostante tono e voce siano
perfettamente riconoscibili. Paul è proprio davanti a me, la barba a mezza via,
la mascella da pugile – come gli altri si divertono a descriverla – e
l’espressione di chi è maledettamente felice di stare al mondo dipinta in
volto.
Gli
sorrido. Anche se ci siamo già salutati prima dell’inizio dell’incontro, è
sempre un piacere trovarselo davanti. Io e Paul siamo maturati insieme fra le
file dei Cardiff Blues, io come terza linea, lui come centro, un esplosivo
centro. È stato il primo a congratularsi con me per la mia nomina a capitano ed
è sempre riuscito a essermi d’aiuto nei momenti critici. Poi, un anno fa, ha
accettato un contratto di tutto rispetto per giocare in Francia, ed è volato
dall’altra parte dello stretto.
«Ti
ringrazio» mi limito a dire, per rispondere al suo complimento di poco fa.
«Trovo
che tu sia migliorato anche a parole. Stai crescendo»
«Considerando
che ho ventisei anni sarebbe anche ora» scherzo.
Lui
annuisce semplicemente, facendo un’espressione vaga. Infila le mani in tasca e
torna a guardarmi:
«Il
coach ci ha dato il pomeriggio libero, come alle gite scolastiche. Andiamo a
mangiare qualcosa?»
Controllo
l’orario, è quasi l’una. Nella sala da ricevimento della sede in cui siamo
hanno certamente preparato qualcosa, al termine di questi incontri è sempre previsto
un rinfresco. Tuttavia so perfettamente che Paul non si riferisce a questo, ma
a un pasto solo noi due, con birra e carne, per raccontarsi reciprocamente
qualcosa senza i pixel di Skype o la mancanza di
segnale dei telefoni cellulare.
«Questa
sera?» gli chiedo.
Annuisce:
«Torniamo
in quella birreria, quella che mi piace tanto, hai presente? …Dio, non mi
ricordo il nome»
«Parli
di quella in Chathedral Road, vero?»
Schiocca
le dita:
«Esattamente»
Si illumina: «Che ne dici? Io, te, una tagliata di manzo e una pinta di birra.
Scommetto che non hai mai ricevuto invito migliore»
«Effettivamente
ne ricevo pochi di inviti del genere»
«Perfetto,
allora stasera sei impegnato. Abbiamo diverse cose di cui parlare, ora che
abbiamo la possibilità di farlo»
Acconsento
con il capo, per poi rendermi conto che, così facendo, con molta probabilità
non avrei occasione di fare l'ormai abituale tratto di strada insieme a
Danielle. Ieri sera, quando siamo usciti, le ho detto che l'avrei informata
sugli orari di oggi e delle prossime settimane. In fin dei conti il Millennium
Stadium è proprio alle spalle di Arms Park, se ce ne fosse stata l'occasione,
magari di tanto in tanto, sarebbe stato bello poter rincasare insieme anche con
gli incontri della nazionale alle porte. Parlarne con lei finora mi è servito.
Le manderò un messaggio dicendole di non aspettarmi stasera, se sono fortunato,
forse, riuscirò a incontrarla lungo il tragitto.
*
A
quanto pare il locale è proprio come se lo ricordava Paul. L'ho capito perché
non si è guardato intorno a lungo, limitandosi ad acconsentire con il capo
sentenziando un "È proprio lui" appena varcata la soglia. Quando
giocavamo insieme venivamo spesso qui, anche se Arnold's era sempre la prima scelta.
Sono
le otto e mezza. La sera è calata sul mio primo giorno da capitano riconfermato
e, con sé, ha portato la pioggia; spero solo che non sia una sorta di segnale
premonitore. Purtroppo non sono riuscito a incontrare Danni a fine giornata ma,
quando le ho mandato un messaggio per dirle di non aspettarmi, abbiamo
cominciato a scriverci, cosa che si è protratta per un po'. Mi ha fatto gli
auguri per l'inizio di questo mio nuovo capitolo da capitano, dicendomi anche
che se mai avessi voglia di un'altra chiacchierata come quella di ieri sera mi
basta farglielo sapere. Un sorrisetto affiora sulle mie labbra ripensando a
questo, Paul, seduto davanti a me in attesa della cena, a quanto pare se ne
accorge.
«A
che stai pensando?» chiede, risvegliandomi dai miei pensieri.
Scuoto
la testa:
«Niente
di che» mi limito a rispondere.
Rimane
a guardarmi, certamente ha intuito che la risposta che ho dato poco fa non era
quella vera. Considerando che anche oggi, durante il pranzo alla sede della
Welsh Rugby Union al termine degli incontri, siamo praticamente rimasti sempre
insieme, le domande che ci sono rimaste da porci reciprocamente sono ben poche
e sento che lui sta per partire all'attacco. Fortunatamente il cameriere
ritarda di qualche secondo l'affondo del mio amico, raggiungendo il tavolo e
servendoci le nostre portate. Paul osserva quasi estasiato il suo piatto:
«Questo
mi era mancato» dice.
«Non
ti piace il cibo francese?» gli chiedo, pur conoscendo la risposta.
«Neanche
un po'. Praticamente mangio sempre le stesse cose»
Annuisco,
bevendo un sorso di birra. Il mio amico rigira un paio di volte il piatto sul
tavolo, come a cercare l'angolazione più invitante, visibilmente soddisfatto
della sua decisione.
«Comunque,
non credere di scapparmi» riprende poi, mentre io ho già affondato la forchetta
nel mio contorno.
«In
che senso?» domando, confuso.
Mi
lancia un'occhiata:
«Parlo
di ragazze, Matt. Te ne sei trovato una oppure continuerai a farti rincorrere
dai tabloid in eterno?»
Sorrido,
distogliendo lo sguardo. La risposta che darò ora a Paul sarà una risposta
anche per me, per questo motivo apro bocca e lascio che le parole escano
spontanee.
«Diciamo
che... c'è qualcuna»
Mi
guarda, portando immediatamente gli occhi su di me, smette addirittura di
salare la carne.
«Sei
serio?» domanda.
Abbozzo
un sorriso, pensando a Danni:
«Beh,
sì»
«E
che diavolo aspettavi a farmelo sapere?» sbotta.
Alzo
le spalle, decidendomi a mangiare la zucchina ancora infilzata sulla mia
forchetta.
«Perché
è tutto piuttosto recente»
Riprende
a salare la carne:
«Lei
come si chiama?»
«Danielle»
«E
come vi siete conosciuti?»
«Ad
Arms Park»
Non
aggiungo altro e Paul subito mi guarda per farmi capire che le informazioni
spicciole che gli ho dato non gli bastano: vuole, e deve, sapere di più.
Lo
accontento:
«Lavora
ad Arms Park. È una delle donne di servizio. Lo fa per pagarsi gli studi»
«Studi
in?»
«Storia
dell'arte»
Schiocca
la lingua:
«Perciò,
fammi capire. Questa, Danielle, giusto?»
Acconsento
e lui riprende:
«Ecco.
Lavora ad Arms Park per pagarsi gli studi universitari in storia dell'arte?»
Nuovamente
annuisco e lui inizia a tagliare il suo filetto.
«Però.
Te ne sei trovato una intelligente. Sei sicuro che valga la pena rischiare?»
Mi
strappa un sorriso, soprattutto per la sua espressione, un miscuglio perfetto
di provocazione e lode.
«È
proprio perché è intelligente che non riesco a togliermela dalla testa» dico,
quasi in un solo fiato, rendendomi conto che è la verità.
Il
mio amico rimane a guardarmi per un momento, dopodiché comincia a gustarsi la
sua cena, un sorriso amichevole stampato in faccia.
«E
lei questo lo sa?» chiede poco dopo, questa volta tenendo gli occhi bassi sul
suo piatto.
«No.
Direi di no»
Cala
il silenzio sul nostro tavolo, evito attentamente di incrociare lo sguardo con
quello di Paul che si sta preparando per un nuovo affondo, sicuramente quello
decisivo.
«Cos'è
che ti ferma? Sai di non piacerle o è fidanzata?» domanda.
«Nessuna
delle due»
«Allora
cosa?»
Mando
giù il mio boccone, sempre sotto lo sguardo di Paul, che osserva
alternativamente il suo piatto e la mia faccia. Sospiro:
«È
solo che...» comincio, ma non so come continuare.
So
cosa mi blocca ma non so come spiegarlo e, inoltre, non so se il mio amico mi
crederà. Prima che possa continuare, però, lui prende parola:
«Si
tratta di Meg? Pensi ancora a lei?»
Subito
lo guardo, stupito. Sentivo avrebbe tirato in ballo la mia ultima relazione,
quella che credevo essere la storia perfetta. Meg e
io siamo stati insieme per quattro anni prima che tutto cessasse, prima che
ponessi fine a quella storia. Ma le cose fra noi non funzionavano più, si erano
arenate in un mare di pretese e incomprensioni. Quando sono stato nominato
capitano del Galles per la prima volta, la prima vera volta, Meg era accanto a me a sostenermi. Con il passare del
tempo, però, gli impegni sempre più incombenti, tutto è crollato. Lei voleva
che dedicassi molto più tempo alla nostra storia, voleva che rinunciassi a
seguire tanto diligentemente i miei impegni da giocatore, che mi prendessi
maggior cura di lei. Quando mi sono reso conto che non aveva compreso cosa
significasse il rugby per me, quando ho capito che non condivideva il mio stile
di vita e non sosteneva la mia più grande e importante passione, l’ho lasciata.
Ma è stato comunque difficile porre fine a quell’amore, difficile superare i
giorni, le settimane e i mesi successivi, anche se ora so perfettamente di aver
superato la cosa. Tuttavia sono stati i miei impegni da giocatore sempre più
pressanti a complicare e distruggere poco a poco il mio legame con Meg ed è questo a spaventarmi. Temo possa succedere anche
con Danni, per tale motivo continuo a rimandare. Anche se Danielle comprende e condivide
la mia visione del rugby, non significa che lei sia disposta a stare con uno
come me, che nei periodi importanti per la nazionale vorrebbe stare accanto
alla propria ragazza ma è impossibilitato a farlo.
«Meg non c’entra» rispondo infine. «Ormai è passato più di
un anno, ho superato quella storia»
Il
mio compagno di squadra rimane a guardarmi, con il preciso intento di farmi
capire che ora, però, vuole una risposta degna di essere chiamata tale. Provo a
sistemare nella mia testa le parole, tentando di farle combaciare perfettamente
fra loro in una risposta sincera ed esaustiva.
«Te
l’ho detto, è tutto piuttosto recente. Con gli impegni della nazionale di ora
non sono sicuro che valga la pena farmi avanti con lei. A che scopo chiederle
se è disposta a mettere in piedi una relazione con me se poi, proprio nelle
prime settimane, io sono il primo ad essere assente e a trascurare la cosa?»
«Ok,
su questo non hai tutti i torti, lo ammetto»
Beve
un goccio di birra, il suo piatto che si svuota velocemente.
«Tuttavia,
lei sa questo? Che tu sei capitano, di tutti i tuoi impegni, gli allenamenti,
eccetera?»
Annuisco
e mi ritrovo a raccontargli di Danni mentre finiamo di cenare. Gli dico quello
che è successo in questi due mesi, il modo in cui ci siamo conosciuti, i nostri
rientri abituali, le uscite da Arnold’s,
i discorsi sul rugby. Cerco di descriverla meglio che posso, anche per far
capire al mio amico cosa mi abbia colpito tanto, e tanto in fretta, in lei.
Quando concludo aspetto la risposta di Paul, ma lui sembra non avere intenzione
di dire niente senza aver prima ordinato una seconda birra. Ferma un cameriere
e ordina – alla fine anche per me – dopodiché torna a guardarmi.
«Ho
perso un passaggio. Quando vi siete visti l’ultima volta?»
«Siamo
usciti a cena ieri sera»
Assume
una posa da pensatore, acconsentendo ripetutamente con il capo:
«Ciò
significa che sa dei tuoi impegni da capitano. Sbaglio?»
«Sì
che lo sa. Te l’ho anche detto»
«Beh,
allora è fatta» conclude, schioccando le dita.
Inarco
un sopracciglio:
«Non
è la stessa cosa. Sa dei miei
impegni, non vuol dire che è disposta ad accettarli»
Fa
un’espressione strana, una delle più assurde che gli abbia mai visto fare.
«Perciò
che vorresti fare?» chiede, scettico.
Distolgo
lo sguardo, pensando a una risposta. Non mi viene in mente niente e finisco con
il rispondere con un’alzata di spalle, una di quelle palesemente insicure. Paul
mi guarda:
«Ragionando
così non si cava un ragno dal buco, lo sai. Sarai capitano del Galles ancora a
lungo, prima o poi dovrai affrontare ciò che ti preoccupa tanto»
«Come
fai a esserne sicuro?» chiedo, riferito alla questione riguardante la durata
della mia nomina.
Si
illumina, come se non stesse aspettando altro:
«Perché
sei il più indicato» dice. «Fidati di me. Personalmente non vorrei avere un
capitano diverso da te»
Gli
sorrido in segno di ringraziamento. Ma è anche vero che Paul ha sollevato una
questione importante. Anche ieri sera, con Danni, non ho concluso praticamente
niente. La serata è stata rilassante e piacevole, proprio come immaginavo.
Avrei voluto chiedere alla ragazza di vederci di nuovo, ma sono stato frenato
dalla marea di impegni della nazionale. Non me la sono sentito di chiedere a
Danielle di replicare ancora, magari vedendo l’appuntamento futuro sotto
un’ottica diversa, come si guardano le uscite di coppia con il preciso intento
di costruire qualcosa che superi l’amicizia.
Sospiro,
per poi bere un lungo sorso di birra. Al nostro tavolo è calato il silenzio e
io so che Paul sta aspettando che mi chiarisca le idee da solo. Se il mio amico
ha ragione, se davvero il mio impegno da capitano è portato a durare nel tempo
– e, personalmente, lo reputo un tale onore che non riuscirei mai a rinunciarvi
– la questione con Danni si protrarrebbe e basta se mi ostino a ragionare come
sto facendo. Portare tutto questo avanti nel tempo mi farebbe solo correre il
rischio di perdere la ragazza e sento che non è ciò che voglio.
Alzo
gli occhi su Paul:
«Sai
di avere ragione» dico.
Lui
sorride:
«Io
penso che se Danielle è disposta a provarci adesso, durante la tua chiamata in
nazionale, starà con te per sempre» rende il suo gesto più romanzesco bevendo
dal suo boccale.
Mi
limito ad abbozzare un sorriso, in cerca di altro di cui poter parlare;
sicuramente il nostro discorso, giunti a questo punto, è considerato concluso.
Alla fine sono d’accordo con il mio amico, come gli ho già detto. Protrarre la
cosa non servirà a niente e, mi rendo conto, che non è neanche quello che
voglio.Avere a che fare con Danielle mi
piace e non riesco neanche ad accantonarne l’idea. Ora, l’unico problema, è che
con gli allenamenti della nazionale in arrivo – che oltretutto si svolgono fuori
Cardiff – non so quando avrò l’occasione di rivedere la ragazza.
In
casa è calato il silenzio. Teniamo tutti gli occhi puntanti sullo schermo del
televisore che mostra il primo piano di Luke Davies, estremo gallese. Al
Millennium Stadium non fiata un’anima, anche attraverso la tv lo si riesce a
capire perfettamente e Luke, che respira a fondo, lo sguardo fisso sui pali, si
appresta a calciare. Un involontario “oh”
sfugge dalla bocca di Jamie, che poi non proferisce più parola fino a che
l’ovale non va oltre, assegnando i due punti. Allora il bambino esplode in un
grido di soddisfazione, agitando in aria il suo peluche – un draghetto rosso
che gli ho regalato diversi anni fa a natale e che continua a tenere con sé
durante le partite come fosse piccolo amuleto. La partita riprende dalla metà
campo, palla in mano ai Wallabies1.
Nel
mio piccolo appartamento siamo io, Jamie e Jenna. Inizialmente dovevamo essere
solo io e mio nipote, ma alla fine Jenna ha chiesto di unirsi a noi poiché non
aveva voglia di assistere alla partita al pub insieme al suo ragazzo e ai suoi
amici.
Il
primo dei quattro test match è arrivato. In questo primo sabato di novembre la
nazionale gallese sta affrontando quella australiana e la partita, al
ventiquattresimo minuto, è sul quattordici pari. Personalmente trovo che i Dragoni2
stiano giocando bene. Non si tirano indietro né in attacco né in difesa, stanno
facendo un ottimo gioco di squadra e, nei momenti più complicati, stanno
dimostrando di essere in grado di improvvisare alla ricerca di una soluzione.
Con un atteggiamento come quello che stanno tenendo vincere non sarebbe
impossibile, ma è anche vero che gli avversari con cui si stanno misurando sono
i Wallabies, gli australiani; fra le loro file ci sono dei veri monumenti,
giocatori abituati a misurarsi con squadre quali All Blacks e Springboks3.
Tuttavia questo non significa niente. La mia teoria sul rugby è sempre stata
che, finché l'arbitro non fischia la fine del match, niente è stabilito.
Guardo
un momento Jamie, incredibilmente preso dalla partita, quasi più del solito.
Vedere la nazionale giocare gli piace sempre tantissimo, per lui i Dragoni sono
la squadra migliore che si possa guardare lottare per la vittoria. Come se non
bastasse da quando ha conosciuto alcuni dei giocatori – Matt in particolare –
dice che vedere il Galles è ancora più emozionante.
Anche
a me fa effetto pensare a questo. L'idea di essere uscita con Matt, il
capitano, in più occasioni, di averlo addirittura avuto in questa casa e ora di
vederlo in televisione, la maglia numero sette addosso, a lottare con i suoi
compagni per inseguire la vittoria, mi pare talmente assurdo da non sembrare
vero, come se avessi sognato tutto. Eppure non ho sognato assolutamente niente,
sono perfettamente consapevole che tutto ciò che è successo con Matt è vero, che
quello che provo per lui è vero.
Lancio
istintivamente un'occhiata a Jenna, anche lei concentrata sulla partita. Come
comprensibile le ho raccontato tutto, le ho detto della cena a casa mia, di
quello che ho capito quando lui è uscito; le ho raccontato il motivo per cui
Matt si è presentato da me quella mattina è di tutto ciò che è accaduto
l'ultima sera che siamo usciti insieme. Jenna si è impettita mano a mano che le
raccontavo ogni cosa, l'espressione soddisfatta che le si allargava in volto,
perfettamente consapevole del fatto di avere sempre avuto ragione su di me. Per
fortuna ho come l'impressione che, ora che ho ammesso di essere stata dalla
parte del torto, si sia fatta meno insistente su tutta questa storia. Ciò può
essere anche dovuto al fatto che, da ormai sei giorni, non ho quasi più avuto a
che fare con Matt. L'ultima volta che ci siamo visti è stata domenica scorsa,
il due, alla partita fra Cardiff Blues e Edinburgh,
al terzo tempo. Aveva assistito al match dalla tribuna, non potendo giocare, ed
era venuto al terzo tempo come un tifoso qualsiasi. Abbiamo chiacchierato,
bevuto qualcosa insieme e, nuovamente, non ho percepito il passare del tempo.
Ma
poi nient'altro. In quest'ultima settimana non abbiamo praticamente quasi mai
avuto a che fare, a eccezione di qualche messaggio qua e là, qualcosa di breve,
non approfondito. Inutile dire di esserci rimasta male, anche particolarmente
delusa, ma sono consapevole del fatto che i suoi impegni da capitano richiedano
attenzioni e, di certo, io non sono tanto importante per lui da diventare una
priorità o quel "qualcosa" per cui vale la pena ritagliarsi almeno
dieci minuti nell'arco di una giornata.«Accidenti»
Jamie
urla questa parola, facendomi sussultare. Torno a concentrarmi sulla partita,
cosa che non stavo facendo. Uno dei giocatori dell'Australia si sta tuffando
oltre la linea di meta, solo quattro minuti dopo la segnatura del nostro Mark
Jones. Ora siamo quattordici a diciannove per loro. Non so neanche come sia
successo, vorrei chiederlo a Jamie o a Jenna, ma smaschererei il fatto che ero
concentrata su altro. Rimango a guardare lo schermo. Realizzo ciò che è
successo dal replay che viene proposto più volte dalla regia, mentre il
calciatore prepara l’ovale. Il numero dieci dei Wallabies calcia la
trasformazione e i punti per gli australiani diventano così ventuno. Ma la
partita non è finita e gli sguardi dei gallesi, ripresi a tratti dai cameraman,
lasciano perfettamente intuire la loro determinazione nel rimettersi in gioco
per rimanere sotto nel punteggio il minor tempo possibile.
Mi
concentro esclusivamente sulla partita, come stanno facendo tutti in casa,
osservando attentamente ogni azione, passaggio e placcaggio da parte di
entrambe le squadre. Sullo scadere del tempo gli otto uomini di mischia gallese
sono dominanti; dalla rimessa laterale costruiscono un raggruppamento e
avanzano, sempre più vicini alla linea di meta. Il Millennium Stadium è una
bolgia di urla di sostegno e incitamento, finché il fischietto dell’arbitro non
squarcia tutto quanto. Assegna meta ai Dragoni, proprio al quarantesimo, ultimo
minuto di gioco del primo tempo. Come nello stadio anche nel mio soggiorno
esplode il tifo e Luke, con apparente semplicità, riporta la nazionale in
pareggio: ventuno punti per ciascuna squadra. Sarà un secondo tempo davvero
interessante, ne sono certa.
«Gran
bella partita, finora» sentenzia Jenna, alzandosi dalla sedia su cui sta e
stirandosi per bene.
«Proprio
vero» le dico, anche se sono consapevole di essermi persa quattro minuti – fra
l’altro fondamentali per la realizzazione di una meta – perchè intenta a
pensare ad altro; ma per il resto mi sono proprio goduta la prima metà del
match.
«Jamie
tu cosa ne pensi?» domando, guardando mio nipote.
Stacca
gli occhi dal televisore, voltandosi verso di me:
«Stanno
giocando bene. Hai visto che bella la meta di Mark?» esclama.
Annuisco
sorridendogli, per dargli ragione. Il primo tempo lo ha fatto esaltare, lo si
capisce dallo sguardo che ha. Quando una partita è avvincente i suoi occhi
azzurri brillano più del solito e vederlo così mi rende sempre particolarmente
felice. Mi alzo dal divano:
«Ti
va di mangiare qualcosa?» domando, rivolta a Jamie.
Acconsente
con il capo e io lo prendo come il giusto via libera per sbucciargli una mela;
a differenza di molti bambini, fortunatamente, a lui la frutta piace. Raggiungo
l’angolo cottura, come sono là arriva anche Jenna, che era andata un momento in
bagno. Mi volto a guardarla:
«Ne
vuoi una anche tu?»
Posa
lo sguardo sulle mie mani, impegnate a sbucciare il frutto:
«Volentieri,
dove le trovo?»
Gliele
indico e mentre lei si mette a pelare la sua mela io allungo quella appena
sbucciata a Jamie, concentratissimo sui replay delle sei mete che hanno animato
la prima parte del match. Torno daJenna, intenzionata a mangiare una mela anche io. Come la raggiungo,
però, lei mi allunga la metà appena sbucciata del suo frutto:
«Grazie»
dico.
Termina
ciò che sta facendo, dopodiché si volta, la schiena appoggiata al ripiano della
cucina e mi guarda:
«Allora,
cosa ne pensi?» chiede, lanciando un rapido gesto in direzione del televisore.
Allude alla partita.
«Stanno
giocando davvero bene. Credo che un esordio migliore di questo potevamo solo
immaginarcelo»
«Sono
d’accordo»
«Come
mai non sei voluta andare con Rhys a vedere la partita?» domando, ripensando al
momento in cui ha chiesto di unirsi a me e Jamie questa mattina. Spero che fra
loro due sia tutto a posto.
Fa
spallucce:
«Non
c’è un motivo particolare. Solo che oggi non mi andava di starmene in mezze a
gente che beve birra, canta Delilah4
a squarciagola e urla»
«Solo
per questo?» la incalzo, provando a fare ciò che a lei riesce sempre
perfettamentecon me.
«Sì,
solo per questo. Fra me e Rhys va tutto bene, non preoccuparti»
Alzo
le mani, come ad arrendermi all’evidenza. Prima che possa parlare la voce di
Jamie mi precede, leggermente alterata dalla bocca piena di frutta:
«Hai
sentito, Danni?»
«Che
cosa?» chiedo, voltandomi a guardarlo. Sto anche per dirgli che parlare a bocca
piena non è un granché – anche se lo sa – ma è ancora lui a prendere parola per
primo, con la sua esuberante soddisfazione:
«Hanno
detto che Matt sta giocando benissimo. Lo sapevo, si vede proprio. Secondo me
possono vincerla questa partita»
«Beh,
stiamo a vedere»
«Sì,
sì, vedrai» conclude, tornando a dedicarsi al televisore che propone gli ultimi
commenti tecnici prima dell’inizio del secondo tempo. Torno a rivolgermi a
Jenna, che sta sorridendo:
«Direi
che è molto preso da questo match» dice.
«Oh
sì. Da quando ha conosciuto alcuni dei giocatori, specialmente Matt, vedere le
partite gli piace il doppio, se è possibile»
Sorride
nuovamente:
«Vale
anche per te?» esordisce. «Voglio dire, è una mia impressione o sei concentrata
sulla partita molto più del solito?»
La
guardo, sbalordita. Non riesco a capire per quale motivo sia ripartita alla
carica proprio ora. Avrei dovuto sapere, effettivamente, che il suo
disinteresse – se così lo si può chiamare – per la “questione Matt” era
sospetto.
Sospiro:
«Perché
è un bel match, per questo sono tanto concentrata» rispondo.
Fa
un gesto vago, dopodiché abbassa il tono della voce:
«Ah,
non lo metto in dubbio. Ma devi ammettere che anche il numero sette gallese non
è niente male» ammicca.
Sussulto
leggermente:
«Ti
pare il caso di parlare di questo in presenza di Jamie?» chiedo, assecondando
il suo tono di voce.
«Secondo
te perché ho parlato piano?»
La
scruto attentamente, alla fine butto fuori dai polmoni quanta più aria
possibile e riprendo a parlare:
«Cosa
vuoi sentirti dire ancora? Devo ripeterti che avevi ragione?» sbuffo.
Lei
si impettisce, un sorrisino beffardo dipinto sul viso:
«È
stupendo sentirtelo dire. Ora, giuro che la smetto» conclude.
Rimango
a osservarla ancora per un po’, alla fine mi volto verso Jamie, proprio nel
momento esatto in cui la tv riprende la diretta dal Millennium Stadium. Il
bambino solleva il peluche in aria:
«Ricomincia
la partita» ci informa.
Faccio
per avviarmi verso di lui ma Jenna mi ferma:
«Non
vi siete più sentiti, quindi?»
Scuoto
la testa:
«No,
te l’ho detto. Qualche messaggio qua e là, ma roba da poco»
Si
fa pensierosa.
«Ha
ben altro a cui pensare, adesso» preciso. «Quando i test match saranno finiti
probabilmente torneremo a vederci, chi può dirlo»
Mi
dà ragione con un cenno ed entrambe torniamo a sederci nei rispettivi posti.
Non
so neanche se io stessa credo a quello che ho appena detto a Jenna. In totale
onestà trovo difficile anche solo sospettare che lui possa essere interessato a
me se in questo periodo ha praticamente smesso di cercarmi. È evidente che mi
considera un’amica – di questo ormai non dubito più –ma probabilmente niente di diverso. Proprio
mentre penso a tutto questo la telecamera regala un primo piano di Matt, lo
sguardo determinato nell’incitare i compagni di squadra, euna fastidiosa morsa afferra il mio stomaco.
Jamie
si appoggia a me, distogliendo la mia concentrazione da tutto questo:
«Sei
pronta?» domanda, riferendosi all’inizio del secondo tempo.
Poso
gli occhi su di lui e sorrido:
«Ovvio
che lo sono»
Il
fischio dell’arbitro risuona dallo stadio al televisore e, insieme alle voci
dei commentatori, il gioco riprende.
Note:
1Wallabies: il soprannome attribuito alla nazionale australiana.
2Dragoni: il soprannome
attribuito alla nazionale gallese.
3 Springboks: il soprannome attribuito alla nazionale sudafricana
(alle volte vengono anche chiamati Bokke)
4Delilah: la canzone di Tom Jones. Per i
tifosi gallesi è tradizione cantare questa canzone al termine degli inni
nazionali e prima dell’inizio del match, soprattutto fra le mura del Millennium
Stadium.
Non
è ancora finita. Non è ancora finita. Finché avrò forza mi ostinerò a
continuare a correre.
La
gola brucia tantissimo, i muscoli sono sul punto di essere assaliti dai crampi,
eppure continuo a correre. Sono riuscito a penetrare fra le file difensive
avversarie come solo il mio amico Paul sarebbe in grado di fare. Lui è proprio
dietro di me, continua a correre inseguendomi, pronto a ricevere l'ovale se le
cose dovessero andare per il verso sbagliato. Sono quasi sulla linea dei ventidue
avversaria quando vengo fermato dall'estremo australiano; essendo più minuto di
me mi placca bloccandomi per le gambe. Passo il pallone a Paul prima di finire
a terra e rimango a guardarlo mentre corre come un dannato verso la linea di
meta. Anche lui è esausto, non riesce più ad essere veloce come nei primi
minuti di gioco; infatti non ce la fa. Le ali dei Wallabies lo raggiungono
all'altezza dei cinque metri1. Undici e quattordici lo portano a
terra e cercano di rubargli il pallone. Paul è solo, mi rialzo a fatica per
andargli in aiuto, il resto dei giocatori che finalmente sopraggiunge, ma è
tardi. Commette infrazione pur di non lasciare l'ovale. Il gioco si interrompe,
calcio di punizione per gli australiani.
È
tutto da rifare e siamo al settantasettesimo minuto. Il punteggio è di ventotto
a trenta per gli avversari. Ognuno dei miei compagni di squadra è consapevole
che ci basterebbe poco, davvero poco, per battere la nazionale australiana.
Sarebbe sufficiente un drop2, un calcio di punizione, per superarli
e poi schierarsi in difesa con l'intenzione di proteggere strenuamente la
nostra metà campo negli ultimi minuti di gioco – che solitamente non passano
mai. Tuttavia la rimessa laterale che verrà giocata ora è in favore degli
avversari, il che significa che se vogliamo vincere non solo dobbiamo fare
punto, ma dobbiamo prima recuperare palla.
Raggiungo
i miei compagni nel posto da cui riprenderà il gioco e li osservo tutti:
«Non
è finita» li incoraggio.
Loro
mi guardano, acconsentono determinati: nessuno si è ancora arreso. Il gioco
riparte, i secondi scorrono concitati, gli australiani attaccano e noi
difendiamo meglio che possiamo, consapevoli di avere ancora una possibilità.
Improvvisamente
l'arbitro fischia. Mi volto subito a guardarlo, più preoccupato che mai. Tiene
il braccio disteso in direzione del territorio dei Wallabies, il fallo che ha
appena fischiato, lo ha fischiato contro di noi. Vorrei aver visto male, ma non
è così; il gesto che fa lascia intuire che il placcatore non è rotolato via dal
giocatore placcato3. Mi avvicino al punto in cui si trova, per
cercare di capire. Gareth, pilone gallese, si sta alzando in piedi, scuotendo
la testa sconsolato. La nazionale australiana decide di andare per i pali, la
posizione è favorevole, così facendo avrebbero tre punti in più da aggiungere
al loro tabellone.
Il
silenzio del Millennium Stadium è inverosimile mentre il giocatore si prepara a
calciare e, quando il pallone passa dai pali, si può quasi percepire la
delusione che aleggia nell'aria.
Jonathan,
apertura dei Dragoni, recupera in fretta l'ovale per poterlo rimettere in gioco
subito ma, come calcia, il tempo scade e l'australiano che recupera palla la
spedisce fuori dalla linea di confine, sancendo il termine della partita.
Ora
sì, che è finita. Ventotto a trentatré per loro, l'Australia ci ha battuti.
Non
so neanche dire cosa provo, come ci si senta a essere tornati in campo, sotto
al tetto del Millennium Stadium, ed essere stati vicini, così maledettamente
vicini, a vincere contro una squadra di tale livello.
È
il momento delle strette di mano, i giocatori si cercano reciprocamente,
australiani e gallesi, ci si complimenta per la vittoria, la determinazione e
ci si scambia qualche veloce parola prima di ritrovarsi alla cena del terzo
tempo, fra poche ore.
Appena
termino di stringere mani e non ho più nessuno davanti, mi chino per
allacciarmi la scarpa. Probabilmente la delusione prende il sopravvento, perchè
mi siedo sul prato del campo da gioco senza neanche terminare il nodo ai lacci
e, un attimo dopo, mi ritrovo disteso su quella stessa erba.
Non
so se fuori piove ancora. Il tetto dello stadio oggi ci ha protetto dall'acqua
e ha donato alla partita quell'atmosfera magica che ho amato dal primo momento
in cui ho posato piede qui dentro, anni fa.
Quando
il tetto del Millennium Stadium è chiuso, non riesci a sentire nemmeno il suono
dei tuoi pensieri.
Oggi
tutto era amplificato: il tifo del pubblico, Delilah, la nostra
determinazione. Ognuno ci ha creduto fino all'ultimo, consapevole che nulla era
perduto. Sono così fiero dei Dragoni che domani, passata l'amarezza del
risultato finale, ripenserò a oggi come a una buona giornata per ritrovare i
miei compagni e la maglia rossa che reputo sempre un autentico onore indossare.
Chissà
cos'ha pensato tutta quella parte della nazione che ha guardato la sfida al
televisore, quella che non è potuta essere qui, insieme a noi. Fra di loro ci
sono alcuni dei miei famigliari, dei miei amici e anche Danielle.
Incrocio
le mani sulla pancia, come se stessi osservando un cielo pieno di stelle e non
la copertura di acciaio e lamiera che ho effettivamente sotto gli occhi.
Negli
ultimi giorni io e la ragazza non ci siamo praticamente mai visti. Di tanto in
tanto qualcuno inviava messaggi all'altro, ma non è la stessa cosa. Gli impegni
con la nazionale sono stati, effettivamente, numerosi come avevo previsto – fra
allenamenti, ritiri e conferenze stampa – e questa settimana mi è servita come
linea guida per sapere cosa aspettarmi esattamente anche nei prossimi giorni, almeno
fino a dicembre. Non mi è impossibile ritagliare del tempo da dedicare a Danni,
anche se non è molto. Potrei chiederle di vederci un giorno di questi, sempre
se la mia è reputabile come una buona idea. Tuttavia anche ora, al termine di
questa partita, il fatto di essermi ritrovato a pensare a lei significa
certamente qualcosa. Ho davvero voglia di vederla.
Qualcuno
si siede accanto a me:
«Gran
bella partita la tua, amico» dice.
È
Paul. Torno a sedermi anche io, notando che il suo respiro si è regolarizzato
prima del mio. La gola mi brucia ancora un po' e i muscoli, ora che
l'adrenalina è scivolata via, cominciano a cedere. Ma proprio come ogni altra
volta che un match si conclude e io so di aver fatto tutto quello che era in
mio potere, mi sento più vivo che mai.
«Grazie.
Lo è stata anche la tua» rispondo, dandogli una pacca sulla schiena, proprio in
corrispondenza del numero dodici bianco stampato sulla maglia.
«A
cosa pensi?» mi chiede.
Scuoto
la testa:
«Solo
al fatto che eravamo davvero vicini, questa volta»
«Già»
acconsente.
Stavolta
è lui a dare una pacca a me, porta una mano sulla mia testa, spettinandomi i
capelli zuppi di acqua e sudore, sorridendo; da qualche parte, certamente, un
fotografo ha immortalato questa nostra scena fraterna. Paul sospira,
rialzandosi in piedi:
«È
ora delle interviste, capitano»
Porto
gli occhi verso il bordo campo, i giornalisti sono in attesa, di me e di altri
giocatori, e si guardano intorno, microfono alla mano, aspettando di riuscire a
fermare qualcuno. Mi alzo, avviandomi al fianco del mio amico. Gli impegni da capitano
chiamano ancora una volta e nella mia testa comincio a pensare a cosa poter
dire a chi mi intervisterà. Tutto il resto, ora, è costretto a passare in
secondo piano.
*
Il
Vale Resort è come una casa adottiva,è
qui che ci alleniamo durante i ritiri con la nazionale, in vista di qualsiasi
partita. Ogni giocatore della squadra, membro dello staff, o personalità vicina
alla Welsh Rugby Union lo conosce perfettamente, sa dove portano i corridoi,
quali stanze si trovano a quale piano, da che parte dirigersi per raggiungere
il parco o i campi da gioco. Da tempo immemore questo luogo è la seconda casa
dei Dragoni.
Questa
mattina il cielo è terso, limpido e il sole sembra non avere ancora capito che
ormai è il 12 novembre, continua a scaldare o, meglio, ci prova con tutte le
sue forze.
La
sessione di allenamenti del mercoledì mattina è terminata da una ventina di
minuti e siamo rientrati quasi tutti al Resort. Abbiamo lavorato molto
sull’attacco e il sostegno ai compagni di gioco, in vista del secondo test
match novembrino contro la nazionale delle Fiji, questo sabato.
I
figiani non sono giocatori con cui scherzare. Sono grossi, possenti e hanno
trequarti veloci, agili e scattanti. Il loro è un gioco di scontri potenti, sia
in attacco che in difesa. Jones ci sta preparando tenendo conto di tutto
questo. Se nell’uno contro uno noi siamo più leggeri e meno d’impatto, allora
il sostegno dei compagni diventa fondamentale. In due o si supera l’avversario giocando
d’astuzia o gli si va contro, dritto per dritto, con il doppio della potenza.
Seduto
nella hall estraggo lo smartphone, decidendo di dare un’occhiata al mio profilo
Twitter. Qua e là qualche mio compagno di squadra passa, chiacchierando di
qualcosa con altri. Una delle cose che preferisco dei ritiri con la nazionale è
proprio la possibilità di approfondire rapidamente la conoscenza con gli altri
giocatori, avendoli sotto lo stesso tetto per giorni interi. È questo che
accresce il legame fra compagni di squadra; anche se ci sarà sempre qualcuno
con cui si va più d’accordo, nell’insieme tutti siamo come fratelli.
Twitter
oggi è parecchio noioso. Non ci sono notizie interessanti, solo cose di poco
conto – anche se il social vive quasi esclusivamente di questo. Finisco con il
ritrovarmi a leggere il botta e risposta di due giornalisti, un uomo e una
donna, che si attaccano reciprocamente a ogni commento, ripetendo la stessa
cosa, solo scritta in modo differente. Penso proprio che smetterò di leggere e cercherò
qualcos’altro da fare.
«Perché
non la chiami?»
La
voce si rivolge a me. Non mi serve alzare lo sguardo per capire che si tratta
di Paul.
«Non
penso di essere interessato a sapere come finisce questa storia» rispondo,
riferendomi al battibecco su Twitter, guardando il mio amico solo ora.
Si
fa perplesso:
«Ma
di che stai parlando?» domanda, sedendosi sulla poltrona alla mia sinistra.
Rivolgo
a lui lo schermo del mio telefonino; quando lo vede, sbotta:
«Bah.
E io che credevo stessi scrivendo a Danielle»
«No.
Spiacente»
Infilo
in tasca il cellulare, tornando poi a guardare il mio amico in faccia. Nessuno
dei due dice nulla per un po’. È Paul il primo a riprendere parola:
«Quindi
che hai intenzione di fare?»
Non
ho bisogno di chiedergli di cosa stia parlando, so che si riferisce a Danni.
Per qualche motivo che probabilmente mi sfugge ha preso particolarmente a cuore
questa storia. Mi passo istintivamente una mano fra i capelli, appoggiando poi
i gomiti sulle ginocchia.
«È
da un po’ di giorni che pensavo di chiederle di uscire»
«Oh,
finalmente» esclama.
Lo
guardo storto. Lui allarga le braccia:
«Cosa?»
chiede. «È da quando mi hai parlato di lei che mi ostino a ripeterti di
invitarla a cena. Sono contento tu mi abbia ascoltato»
«Avevo
solo bisogno di vedere se sono in grado di incastrare tutti i miei impegni»
dico, cercando di giustificarmi.
«Facciamo
finta che sia così. Ci riesci?»
Annuisco:
«Sì,
direi di sì. Solo devo pensare a dove portarla e quando. Poi bisogna tenere
presente che anche lei avrà sicuramente le sue cose da fare»
«Senti
quando ha tempo e portala qui»
Guardo
immeditatamente Paul:
«Qui?»
«Sì,
non vedo perché no. Così ce la presenti» risponde, come fosse la cosa più ovvia
del mondo.
«Oh,
certo. Non usciamo da due settimane, più o meno, e quando le chiedo di tornare
a vederci la catapulto al Vale Resort in mezzo alla nazionale gallese. Non fa
una piega» concludo, in tono sarcastico.
Il
mio amico fa spallucce:
«Che
male c’è? Scommetto che le farebbe piacere conoscere noi giocatori. Se tifa Galles
incontrare la proprio squadra preferita è una bella emozione»
Sto
per ribattere, ma mi blocco. Un lumicino piccolo piccolo
compare nei meandri della mia mente, trasformandosi, infine, in un’idea.
«Aspetta
un secondo. Hai ragione» sentenzio.
Paul
si esibisce in un’espressione più che soddisfatta, come a dire di aver sempre
saputo di essere un genio.
«Anziché
invitarla fuori in un qualsiasi ristorante o da Arnold’s, potrei chiederle di venire con me alla cena del terzo
tempo»
Il
mio amico sgrana gli occhi:
«Aspetta…
fai sul serio?»
«Sì»
«Mi
hai appena detto che è un’idea stupida invitarla qui al Vale Resort e poi, tu,
la vuoi addirittura invitare alla cena del terzo tempo?»
Lo
blocco con una mano aperta prima che possa continuare.
«Su
questo ti do ragione. Ma poi hai anche detto che le farebbe piacere incontrare
i giocatori della sua squadra preferita, no?»
Mi
dà ragione e io continuo:
«Danni
è una grande fan degli All Blacks. Segue tutto il Rugby Championship. Potrei
invitarla alla cena del terzo tempo della partita contro la Nuova Zelanda»
Il
sorriso sul mio volto non ne vuole sapere di andarsene. Mi sembra quasi di aver
trovato la soluzione migliore. Così facendo avrei la possibilità di avere
Danielle accanto, mostrarle quali sono alcuni dei miei impegni da capitano e
vedere se è disposta a costruire qualcosa con me accettando quelli che sono i miei
doveri. Al contempo lei avrebbe la possibilità di incontrare alcuni dei suoi
giocatori preferiti, di incontrarli veramente.
Paul
continua a guardarmi, un po’ basito, senza proferire parola.
«La
trovi un’idea stupida, vero?» chiedo.
Ora
si fa confuso:
«No,
non è stupida. È proprio un’idea… da te» conclude.
Scoppio
a ridere e lui riprende a parlare:
«Pensi
che accetterebbe?»
«Non
lo so» rispondo ed è la verità.
Danni
è una ragazza a cui non piace stare sotto i riflettori o in luoghi troppo
affollati, ormai l’ho capito. Ma se fra di noi dovesse nascere davvero qualcosa,
ogni tanto cose simili le capiterebbero. Invitarla alla cena del terzo tempo è
la soluzione ideale per farle vedere a cosa potrebbe andare incontro stando con me e, se non dovesse accettare la
cosa, capirei che fra di noi non potrebbe funzionare a lungo; proprio come con Meg. Spiego al mio amico il motivo della mia scelta, lui mi
ascolta in silenzio, per poi darmi ragione.
«E
se non accettasse di venire con te alla cena Galles-All Blacks?» domanda
infine.
Rimango
un momento a guardarlo. Sorrido:
«Beh,
in quel caso allora spero che accetti di venire a bere una birra una sera di
queste. Per le serate formali c’è sempre
tempo»
Anche
Paul sorride:
«Ti
piace davvero, eh?»
Abbasso
un momento lo sguardo sul pavimento della hall, per poi tornare a guardare il
mio amico:
«Penso
proprio di sì»
Lui
non risponde e io non so che altro aggiungere. Sono i nostri compagni di
squadra a intervenire:
«Ehi,
ragazzi» ci chiama uno di loro.
Ci
voltiamo entrambi a guardarli, riconoscendo Jonathan, al suo fianco c’è Luke.
«Noi
andiamo a farci una nuotata, volete venire?»
Guardo
Paul:
«Vogliamo
andare?» chiedo.
«Ovviamente
sì»
Note:
1Linea
dei cinque metri: l’indicazione segnata sul campo che indica la distanza di
cinque metri dall’area di meta.
2 Drop: il drop consiste
nel calciare il pallone fra i pali. Vale tre punti.
3 Il placcatore…giocatore
placcato:
questo tipo di infrazione avviene quando il placcatore non rilascia il placcato
una volta averlo portato a terra. Nel rugby, infatti, quando un giocatore ne
placca un altro lo devo immediatamente liberare per permettergli di rimettere
in gioco il pallone.
Parte
prima la vibrazione della suoneria. È un rumore talmente fastidioso e forte che
praticamente mi fa sussultare. Sollevo la testa, guardandomi intorno ancora
intontita. Ci metto svariati secondi a elaborare il tutto e ricordarmi cosa
stavo facendo. Davanti a me il tavolo è pieno di dispense, appunti,
evidenziatori, penne e qualche libro. Mi sono certamente addormentata mentre
studiavo, compiendo l'insano gesto di chiudere un momento gli occhi. Per
fortuna, come se avessi saputo in anticipo che sarebbe andata a finire così, ho
impostato una sveglia per sicurezza in modo da non rischiare di non andare a
prendere Jamie ad allenamento. Sbadiglio, tentando di riprendermi in fretta,
cercando anche di riordinare il tavolo meglio che posso. Manca meno di una
settimana al mio prossimo esame e, come sempre, mi sembra di non stare
dedicando tempo a sufficienza allo studio. Non lo faccio apposta, cerco di
ritagliarmi ogni momento possibile per ripassarmi le cose, ogni giorno, ma temo
ancora che non basti. Oltretutto ormai il sabato è tabù. Domani – eccezione
fatta per la mattina – non ho assolutamente intenzione di studiare. Gli ultimi
quattro sabati di novembre sono interamente dedicati alla nazionale gallese e
ai suoi test match. Spero arrivi presto il giorno dell'esame; qualunque sia
l'esito voglio togliermelo di torno.
Impilo
rapidamente le dispense una sull'altra, dando un aspetto dignitoso,
nell'insieme, al tavolo su cui stavo studiando. Con altrettanta fretta mi cambio
e mi sistemo meglio che posso, per poi uscire di casa diretta ad Arms Park.
Avendo fatto tutto tentando di impiegare il minor tempo possibile, appena sono
sul marciapiede in direzione dello stadio mi accorgo di essere fortemente in
anticipo. Controllo l'orario un paio di volte e, alla fine, rallento il passo
così da non arrivare troppo presto.
Di
rado Jamie ha allenamento il venerdì, ma oggi invece sì. Andare ad Arms Park di
venerdì pomeriggio gli piace particolarmente perché, in concomitanza con i
suoi, ci sono gli allenamenti della squadra maggiore e per lui questo è più che
sufficiente a rendere il tutto speciale. Anche se non lavoro sono sempre io ad
andare a prenderlo quando finisce e, come per gli altri giorni, lui rimane con
me finché mia sorella non passa a recuperarlo.
Mentre
cammino mi soffermo a osservare le vetrine dei negozi, sempre le stesse,
rendendomi conto che compio questo stesso tratto di strada da più di un anno,
ormai. Le case sono sempre uguali, con i medesimi colori e mattoni. Quelle che
ho intorno a me sono sempre le solite cose che incontro abitualmente mentre
torno a casa. Tutto è rimasto uguale se non fosse che negli ultimi due mesi
almeno un paio di giorni a settimana, accanto a me c'era Matt. Inevitabilmente
mi ritrovo a pensare a lui e alla quantità di giorni che sono trascorsi
dall'ultima volta che l'ho avuto davanti in carne e ossa. Sono passate quasi
due settimane. È vero che di tanto in tanto ci sentiamo, ma ho dovuto ammettere
a me stessa che non è uguale all’averlo vicino.Matt ovviamente non ne ha colpa. Gli allenamenti della nazionale si
svolgono fuori Cardiff e l’autunno internazionale1, si sa, è un
periodo di forte intensità per tutti i giocatori, perciò è normale abbia altro
a cui pensare. È già tanto che trovi il tempo per scrivermi un messaggio di
tanto in tanto, in fin dei conti non rappresento niente di speciale per lui.
Solo che ho davvero voglia di rivederlo, al momento è l’unica certezza che ho.
Arrivo
ad Arms Park in anticipo di dieci minuti, più o meno. Come solito raggiungo il
parcheggio sul retro, fermandomi davanti al cancelletto in attesa. I miei occhi
si posano inevitabilmente sul Millennium Stadium, la tana dei Dragoni. È una struttura
monumentale, un colosso e sovrasta in modo quasi minaccioso il piccolo Arms
Park ai suoi piedi. Sabato 22 anche io sarò fra le mura del Millennium, sotto
il suo tetto, a incitare la nazionale gallese nella speranza riesca a vincere
contro i tutti neri della Nuova Zelanda. Non avrei mai potuto perdermi un match
di tale rilevanza per me; l’occasione di vedere due delle squadre che ammiro di
più, l’una contro l’altra, era così importante che non potevo lasciarmela
sfuggire. Il giorno stesso dell’inizio delle vendite sono andata ad Arms Park
ad acquistare cinque biglietti per me, Jamie, Norman, Jenna e Rhys. Spero
davvero possa essere una partita memorabile. Sono sicura che i Dragoni, guidati
da Matt e sostenuti dalla loro nazione, faranno il possibile per lasciare il
campo di gioco a testa alta.
Controllo
l’orario: sono le diciannove, Jamie dovrebbe uscire a breve.
Pensando
alla partita sono entrata in una sorta di trans e non ho percepito i minuti
passare. Sempre dentro questa specie di estraniazione sento qualcuno
pronunciare il mio nome, ma quasi non me ne accorgo.
«Danni»
ripete.
Mi
rendo conto di non essermi immaginata nulla e mi volto in direzione della voce.
Quando vedo chi mi ha chiamata, nel momento esatto in cui i nostri sguardi si
incrociano, il cuore mi arriva dritto in gola: è Matt. Non mi aspettavo
assolutamente di incontrarlo qui, è una cosa talmente inaspettata che mentre il
ragazzo continua ad avvicinarsi io ancora stento a credere sia realmente lui.
Alla fine sorrido e lui si ferma proprio accanto a me.
«Ehi,
come stai?» mi chiede.
«Bene,
grazie. E tu?»
Il
mio cuore non ne vuole sapere di rallentare i battiti e, come se non fosse
sufficiente, sento un leggero rossore affiorarmi in viso, fortunatamente ormai
c’è già buio quindi non dovrebbe notarsi più di tanto.
«Tutto
a posto» risponde.
«Scusa
se ci ho messo un po’ a riconoscerti, ma non mi aspettavo di trovarti qui»
ammetto.
Lui
sorride, mettendo in mostra quel suo sorriso perfetto; la cosa, ora come ora,
non mi aiuta affatto.
Indica
dietro di sé con il pollice, verso l’immenso Millennium Stadium:
«Ero
alla sede della Welsh Rugby Union. Avevamo una conferenza stampa in vista della
partita di domani»
Annuisco
con il capo:
«Come
sta andando la preparazione?» domando, riferendomi proprio al match di questo
sabato.
«Mah,
direi bene. Abbiamo lavorato a trecentosessanta gradi dopo la disfatta con
l’Australia e non ci rimane che vedere se gli allenamenti che abbiamo fatto
daranno i loro frutti domani»
«Ho
capito» mi limito a rispondere.
Avevamo
già parlato dell’esito finale della sfida con i Wallabies via messaggio e non
penso di dover aggiungere altro. Non credo che ai giocatori piaccia sentirsi
dire troppo spesso dove hanno peccato e dove, al contrario, sono stati
impeccabili, hanno già lo staff tecnico che ricorda loro frequentemente questo
tipo di cose.
Matt
abbozza un sorriso, distoglie brevemente lo sguardo per poi ripuntarlo su di me
più sicuro di prima. Respira, preparandosi a dire qualcosa, ma non fa in tempo.
«Danni!»
Ci
giriamo entrambi, giusto in tempo per vedere Jamie venirci incontro,
sbilanciato come al solito dal borsone enorme. Ci raggiunge, posa a terra il
borsone con fare scenico e alza gli occhi sul giocatore:
«Ciao
Matt» esclama.
«Ehilà,
Jamie. Come stai?»
Il
piccolo si impettisce, strappandomi un sorriso:
«Benone»
risponde.
«Ottimo,
mi fa piacere. E gli allenamenti? Continui ad ambire a diventare un numero
sette?»
«Eccome.
Il mio allenatore dice che posso diventare qualsiasi cosa»
Matt
si esibisce in un “Ah” di ammirazione, cosa che fa impettire ulteriormente
Jamie. Prima che mio nipote possa riaprire bocca – perché so per certo che non
vede l’ora di tempestare Matt di domande sulla nazionale, avendone l’occasione
– mi rivolgo al giocatore:
«Tu
adesso cosa fai?» chiedo.
Fortunatamente
la domanda mi esce con l’intonazione giusta e sembra pura e innocente
curiosità. Il ragazzo mi guarda un momento, poi lancia una rapida occhiata a
Jamie:
«Beh,
se… se state andando verso casa tua possiamo fare un tratto di strada insieme.
Se vi va»
Sorrido:
«Per
me va bene» Mi rivolgo a Jamie: «Tu cosa ne dici?»
Lui
si illumina:
«Certo,
andiamo» esclama.
Torna
a caricarsi il borsone in spalla, guardandosi bene dal farsi aiutare e si
incammina. Io e Matt lo raggiungiamo e, come il giocatore gli è accanto, Jamie
attacca subito a parlare delle partite della nazionale. Esplode letteralmente
in un’esaltazione del primo test match, raccontando quanto è stato bello
assistere al ritorno dei Dragoni sul campo del Millennium Stadium e di quanto
sia stato emozionante rivedere alcuni dei suoi giocatori preferiti indossare
ancora una volta la maglia rossa. Matt lo ascolta, il suo sorriso luminoso in
volto, gli occhi celesti che di tanto in tanto si spostano dal piccolo a me e i
capelli leggermente smossi dall’immancabile brezza serale di Cardiff. Jamie
continuaa parlare per tutto il tragitto
che unisce Arms Park a casa mia e quando arriviamo alla mia porta di ingresso
lui si ferma, si piazza davanti a Matt e dice:
«Domani
andrà bene, vedrai»
Il
giocatore scoppia a ridere, dopodiché lo guarda:
«Spero
tu abbia ragione»
«Fidati
di me»
Fra
di noi cala il silenzio; il fatto che Jamie non dica nulla fa capire che, per
oggi, non sa che altri aneddoti trovare e di cui poter parlare. Matt si
schiarisce la voce rapidamente, per poi guardarmi:
«Avrei
bisogno di parlarti un momento» dice.
Mi
coglie impreparata. Lo guardo certamente sorpresa, cominciando a chiedermi cosa
aspettarmi da quanto ha appena detto, anche se con molta probabilità vuole solo
un paio di informazioni, magari sui Cardiff Blues o Arms Park.
«Sì,
certo» rispondo infine.
Noto
che, però, Matt esita appena. Infatti è Jamie a parlare:
«Vi
devo lasciare da soli?» chiede.
Il
giocatore lo guarda:
«Se
non ti dispiace, sì. Solo per qualche minuto» gli fa l’occhiolino.
Il
bambino acconsente, poi si rivolge a me:
«Posso
accendere lo stereo?»
«Ma
certo che puoi»
Frugo
nella borsa alla ricerca delle chiavi e quando le trovo apro la porta
d’ingresso, permettendo al bambino di entrare. Come si chiude l’uscio alle
spalle torno a concentrarmi su Matt.
«Anche
lui ascolta Michael Bublé?» mi chiede.
Mi
metto a ridere, tornando con la mente alla sera in cui lui è rimasto a cena da
me, quando aveva acceso lo stereo incuriosito.
«No.
Ascolta semplicemente la radio»
Sorride:
«Sono
contento che il primo test match gli sia piaciuto»
«Lo
ha adorato» gli confido.
Sorride
nuovamente, poi prende fiato e torna a guardarmi:
«Comunque,
prima, ti stavo cercando» esordisce.
È
la seconda volta che mi coglie impreparata nel giro di pochissimi minuti. Non sono
riuscita a ignorare la scossa che mi ha attraversata alle sue parole, per
quanto rapida.
«Ah,
sì?»
«Già.
Sam mi ha detto che l’Under12 aveva allenamento. Così, finita la conferenza
stampa, sono passato da Arms Park per vedere se riuscivo a incontrarti e così è
stato»
Abbasso
istintivamente lo sguardo sulle mie scarpe, senza avere la più pallida idea di
come sentirmi. So solo che reprimo a fatica un sorriso.
«Mi
cercavi per cosa?» domando poi, provando a mantenere un tono rilassato.
Non
gli serve molto tempo per rispondere. È invidiabile il modo in cui Matt riesca
sempre a sapere cosa dire, sembra non abbia mai bisogno di cercare le parole
giuste.
«Beh,
pensavo che è da un po’ che non usciamo e qualche giorno fa mi è venuta in
mente una cosa che vorrei proporti»
Continuo
ad ascoltarlo, cominciando seriamente a incuriosirmi. Lui allontana lo sguardo
un solo momento, ma quel frangente non mi sfugge.
«Volevo
solo sapere…» riprende. «Se ti andrebbe di venire con me alla cena del terzo
tempo dopo la partita con gli All Blacks»
Questa
volta la mia espressione incredula la nota certamente anche lui. Rimango a
fissarlo, gli occhi spalancati, senza la più pallida idea di cosa poter dire.
Comincio addirittura a sospettare di aver frainteso o di aver interpretato la
cosa talmente male da essermi inventata tutto. Tuttavia le sue parole sono
state semplici e chiare. Mi decido a reagire, apro bocca per rispondere ma mi
esce solo un “Ehm” di dubbia natura. Alla fine riesco a ricompormi, guardo
Matt:
«Dici…
dici sul serio?» domando.
Lui
sorride; sospetto di essere stata piuttosto buffa nei miei secondi di caos
generale, mentre cercavo di assimilare a fatica le semplici parole che ha
pronunciato.
«Sì,
sul serio. Possiamo portare una persona con noi alla cena. Speravo a te andasse
di venire con me»
Non
riesco a capacitarmi del fatto che mi abbia seriamente invitata a un evento di
tale portata. Le cene del terzo tempo sono sempre momenti molto solenni e
formali. È vero che il clima è amichevole e di festa, ma tutto è completamente
differente dal terzo tempo delle squadre di club come i Cardiff Blues. Alla
cena della nazionale non hanno accesso tutti, ma soltanto arbitri, staff
tecnico, figure di rilievo, giocatori e rispettive partner. L’idea di andare là
come accompagnatrice di Matt è quasi surreale, forse ancora di più dell’idea di
essere a contatto con la nazionale gallese e quella neozelandese
contemporaneamente.
Sono
in silenzio da troppo tempo, ormai. Matt dev’essersi stufato di aspettare la
mia risposta e riprende a parlare:
«Non devi sentirti obbligata. Voglio dire, se
non ti va di venire non c’è problema, so che non è una… cena qualsiasi, diciamo
così» Respira: «In ogni caso, mi piacerebbe andassimo a bere qualcosa una sera
di queste»
Lo guardo:
«No»
Lui
si zittisce e subito ricomincio a parlare, prima di correre il rischio di
vedere il mio “no” interpretato nel modo sbagliato:
«No
vengo… vengo volentieri alla cena» dico.
«Davvero?»
mi chiede, apparendo quasi sorpreso della mia risposta.
Un
sorriso si appropria forzatamente del mio volto. Ora che ho assimilato l’invito
di Matt non riesco a fare a meno di sorridere.
«Certo.
Insomma, è un’occasione più unica che rara, non posso rifiutare una simile
offerta. Poi è da un po’ che noi due non passiamo del tempo insieme»
Abbasso
lo sguardo sull’ultima parte, sentendomi improvvisamente in imbarazzo; avrei
dovuto chiudere la bocca una frase prima.
«Hai
ragione, è da un po’» risponde. «E grazie per aver accettato»
Torno
a guardarlo:
«Scherzi?
Grazie a te»
Lui
mi sorride e rimango letteralmente incantata a osservarlo. Dentro di me ora ho
solo caos, quello che in un modo o nell’altro si può ricondurre a un solo
sentimento. Mi era mancato avere Matt davanti a me.
Mi
schiarisco la gola nella speranza di riuscire così a riacquistare il pieno
controllo di tutte le mie emozioni.
«È
una cena formale, giusto?» chiedo.
Abbozza
un sorriso:
«Già,
lo è. È proprio una di quelle cene serie con tutte le figure importanti che
ruotano attorno alle squadre. Come puoi immaginare prevede giacca e cravatta»
dice, indicando se stesso con la mano. «E abito» conclude, stavolta indicando
me.
«Non
c’è problema» lo rassicuro. «Sarà divertente»
«Per
tutti i dettagli sull’organizzazione eccetera ti faccio sapere la prossima
settimana, d’accordo? Perché ancora non so dirti a che ora ci sarà. Quasi
sicuramente alle nove, ma ti do conferma»
«Va
bene, mi farai sapere»
«Ti
servono biglietti per la partita? Ne ho un paio»
«Oh
no, no, grazie. Secondo te non lo ho comprati il giorno stesso in cui hanno
iniziato a venderli?»
Sorride:
«Ah, ottimo. In effetti devo ammettere che
sarei rimasto sorpreso se mi avessi detto di non avere i biglietti per venire a
vedere la partita al Millennium» scherza.
«Dopo
tutto quello che ti ho detto non potevo perdermi Galles-All Blacks»
Si
limita a sorridermi, dolcemente, e io non so che altro dirgli. Vorrei fargli un
sacco di domande, oppure chiedergli semplicemente di raccontarmi qualcosa, ciò
che vuole. Mi sembra passata una vita dall’ultima volta in cui abbiamo avuto
tempo a sufficienza per stare insieme a parlare. Ma sono perfettamente consapevole
che questo stasera non accadrà. Matt deve tornare al Vale Resort per gli
ultimissimi preparativi in vista del match di domani: il capitano non può
allontanarsi dalla sua squadra alla vigilia di una partita. Io, invece, devo
occuparmi di Jamie, preparargli la cena e stare con lui finché Rachel non passa
a prenderlo.
Come
se mi avesse letto nella mente Matt controlla il suo orologio:
«È
meglio che vada. Non voglio costringere Jamie ad aspettarti a lungo. Appena so
tutto per la cena ti chiamo, ok?»
«Certo,
ci sentiamo»
Fa
per salutarmi, ma si ferma:
«Mi
stavo dimenticando…»
Si
toglie lo zaino di spalla, cominciando a cercarvi dentro qualcosa. I miei occhi
cadono istintivamente sullo stemma della nazionale gallese, le tre piume che
ogni giocatore, in campo, porta cucite sulla maglia in corrispondenza del
cuore. Dopo aver cercato per bene fra le sue cose, Matt estrae una custodia in
plastica, che riconosco subito come quella di un cd.
«Ti
ho portato questo, se ti va di ascoltarlo» dice, riferendosi a ciò che ha in
mano, ovvero l’album dei Mumford & Sons.
Afferro
il disco:
«Ah,
grazie. Lo ascolto volentieri» rispondo.
«Puoi
restituirmelo quando vuoi. Ce l’ho digitalizzato ovunque in pratica» si mette a
ridere.
«Terrò
presente quanto hai appena detto, sappilo» scherzo.
Lui
non cancella il suo sorriso dal volto, ma poi mi saluta sul serio:
«Ti
lascio andare ora» comincia. «Ci sentiamo per il 22. Salutami Jamie»
«Senz’altro.
Allora a presto» rispondo.
Mi
saluta un’ultima volta e si avvia, nella stessa direzione verso cui prosegue
come ogni altra volta che ci siamo lasciati davanti al mio ingresso di casa.
Guardo il cd che mi ha appena dato, ancora stretto fra entrambe le mie mani.
Immediatamente leggo il titolo di una delle canzoni: Not With Haste. È questa la traccia di cui
Matt mi ha parlato una volta, quella che ascolta prima di ogni partita per
poter ritrovare se stesso.
Note:
1autunno
internazionale: il nomignolo attribuito (in Italia soprattutto) ai test
match di novembre.
Jenna
mi sta mettendo fretta; e ansia, molta ansia. Continua a farmi segno di
raggiungerla e di darmi una mossa nel farlo, ma io continuo a temporeggiare
guardandomi intorno, quasi facendolo apposta.
Dopo
che ieri, nel nostro consueto pranzo del martedì, le ho raccontato per filo e
per segno le ultime cose che ci siamo detti io e Matt – ovviamente la sera di
venerdì ho avvertito subito la mia amica dell’invito del giocatore, così da
evitarmi possibili minacce verbali – Jenna ha insistito affinché andassimo alla
ricerca insieme dell’abito che dovrei mettere alla cena del 22, ovvero fra soli
tre giorni.
Non
sono mai stata una fan dello shopping, ma è anche vero che in casa mia non ho
abiti da serate formali, eccetto quello che ho indossato il giorno del
matrimonio di Rachel – e che con molta probabilità non mi entrerà neanche più
dato che all’epoca avevo sedici anni.
Raggiungo
Jenna:
«Questo
negozio è perfetto. Non costa troppo e ha bellissimi modelli. Sono sicura che
troveremo l’abito giusto» dice, spingendomi oltre l’ingresso.
Tutta
questa storia l’ha fatta esaltare. Quando venerdì al telefono le ho detto
dell’invito di Matt mi ha letteralmente sfondato il timpano, dicendomi di non
prendere la cosa sottogamba e che un invito del genere non si fa a una persona
qualsiasi: secondo lei Matt è davvero interessato a me. Io non so se sia vero o
meno, certo è che questa cosa non mi aiuta a tranquillizzarmi. La settimana
scorsa l’idea di partecipare alla cena del terzo tempo mi sembrava la cosa
migliore mi potesse capitare, ora invece sono sempre più convinta del fatto che
dire di sì a Matt sia stata una pessima mossa. Non so come farò a gestire lo
stress e l’ansia di essere in mezzo ai giocatori della nazionale, soprattutto
se sono in compagnia di Matt. Mi faranno sicuramente domande e già so che per riuscire
a rispondere faticherò un sacco.
«Che
ne dici di questo?»
Mi
volto verso Jenna, guardandola sorpresa:
«Che
cosa?» chiedo.
«Di
questo, Danni. Ti ho chiesto cosa pensi di questo vestito» risponde, mettendomi
sotto il naso l’abito.
«Non
mi stavi ascoltando, vero?» sbotta.
«Scusami»
«Dai,
che ne dici?» domanda, riferendosi sempre al capo d’abbigliamento.
Lo
guardo:
«Mio
Dio no. Troppo scollato»
«Non
è troppo scollato»
«Sì,
invece. È una cena formale non un ballo di gala. Anche Matt ha detto di
vestirsi bene ma non troppo» dico.
Ripenso
alle parole del ragazzo, effettivamente erano proprio queste. Ci siamo sentiti
lunedì, in serata, via telefono. Mi ha chiamata per informarmi esattamente di
come fare per la fatidica cena. Matt era ancora felice per via della vittoria
contro le Fiji nel secondo test match – diciassette a tredici per i Dragoni – e
abbiamo finito con il rimanere al telefono per quasi un’ora.
Se
ci ripenso non mi sembra vero. Tutto quello che mi è successo da settembre non
mi sembra vero.
Jenna
torna a sistemare il vestito al suo posto:
«Va
bene, d’accordo» dice. «Però mettiti a cercare qualcosa anche tu. Mi sembra tu
abbia la testa da un’altra parte, sbaglio?»
La
guardo per un po’, senza rispondere. Sa di avere ragione, sono palesemente
sovrappensiero. Questa settimana è iniziata in un modo totalmente differente da
quello che per me si può considerare abituale. Lunedì sera c’è stata la telefonata
di Matt, che per quanto sia stata bella da ricevere ha certamente contribuito
ad accrescere la mia tensione per la cena del terzo tempo. Martedì mattina ho
finalmente dato il mio esame – che, grazie al cielo, è andato più che bene – e
oggi questo, lo shopping, ovvero una delle cose che mi riesce peggio. È ovvio
che sia da un’altra parte con la testa; la settimana è iniziata da tre giorni e
ognuno mi ha messo addosso più ansia del precedente.
Sospiro:
«Scusami.
È che sono terrorizzata» ammetto.
«Da
cosa?» mi chiede Jenna.
«Dalla
cena»
«Oh, ma non devi preoccuparti. Andrà
benone, vedrai. Dopotutto sei con Matt»
«Ah,
questo sì. Peccato però che sia con lui ma in mezzo ai giocatori di Galles e
Nuova Zelanda»
«Su,
rilassati. Secondo me ti stai facendo solo un sacco di problemi in più. Sei
sempre stata brava a socializzare con le persone. Anche se sarai in mezzo a
giocatori professionisti non devi dimenticare che sono dei comuni esseri umani»
Annuisco
leggermente con la testa.
«Rimettiamoci
a cercare il tuo vestito, ora» conclude.
Mi
metto anche io a dare un’occhiata in giro, decidendo di dare retta al consiglio
della mia amica. In fin dei conti è vero: farmi prendere dall’ansia non mi
aiuterà di certo.
Continuo
a cercare fra gli abiti esposti ma non trovo niente di mio gradimento; alcuni
mi sembrano troppo ricercati, altri invece pare siano usciti da serie tv di
dubbio gusto. Rimetto al suo posto l’ennesimo capo scartato senza neanche
provarlo, dopodiché, voltandomi, i miei occhi si fermano su un abito davvero
bello, per quanto semplice. Il fatto che sia appeso lo lascia vedere
completamente: è un vestito a collo alto, sbracciato, il busto pare essere
piuttosto aderente, la vita è poco sotto al seno e la gonna, che probabilmente
si ferma appena sopra le ginocchia, è visibilmente morbida.
«Jenna,
vieni a vedere» chiamo.
Lei
arriva subito e prima che possa dire qualcosa le indico il vestito. Lo analizza
attentamente un paio di volte, da cima a fondo.
«Niente
affatto male» sentenzia. «Perché non lo provi?»
Mi
dico d’accordo. Non impiego neanche molto tempo a trovare la mia taglia,
dopodiché mi infilo in una cabina di prova e indosso l’abito. Come chiudo la
lampo sul collo rimango a osservare la mia immagine riflessa allo specchio. Il
vestito è veramente bellissimo. Il collo alto lo rende elegante, la vita è
comoda e la gonna è morbida proprio come appariva da appesa. Ma ora che l’ho
indosso e tutto sembra più concreto di prima, come mio solito vengo assalita
dai dubbi. Scosto la tenda della cabina di prova, come Jenna mi vede si
illumina.
«Che
ne pensi?» chiedo.
«È
stupendo, ti sta davvero bene»
Mi
do un’altra occhiata, visibilmente perplessa, e la cosa a Jenna non sfugge:
«Che
c’è che non va?» domanda.
«Non
saprei. Forse dovrei provare qualche altro modello»
«Perché?
Non ti piace quello?»
«No,
no, non è che non mi piaccia. Anzi, è proprio bello. È solo che… è rosso»
spiego.
Aggrotta
le sopracciglia:
«E
quindi?»
«Non
posso andare alla cena del terzo tempo con il capitano del Galles indossando un
vestito rosso. È come se entrando dicessi: Ehi,
guardatemi, sono con Matthew Evans»
La
mia amica continua a guardarmi, dubbiosa. Fa schioccare la lingua:
«Innanzitutto,
questo è un problema stupido che ti sei fatta tu ora. Ragionando così allora le
compagne degli All Blacks non dovrebbero vestirsi di nero, che è il colore più
elegante che esista ed è perfetto per cene importanti. Uno dei pochi lussi che
possiamo permetterci noi donne in serate formali è proprio quello di indossare
un po’ di colore, dovresti approfittarne. Quel vestito ti sta benissimo, sembra
cucito apposta per te, fidati»
Tono
a guardarmi allo specchio, osservando Jenna attraverso di esso quando
ricomincia a parlare:
«E
poi quello non è rosso, è corallo. Non è lo stesso colore»
«Forse
per te è corallo. Ma gli uomini non guardano a queste sfumature, per loro sarà
sicuramente rosso»
«Magari
hai ragione. Ma, personalmente, dubito che al terzo tempo, davanti a tavole
imbandite di cibo e belle donne, dopo aver giocato una partita intera, i
giocatori perderanno tempo a vedere di che colore hai il vestito. Per le donne,
invece, indossi un abito corallo»
Sorrido
e lei riprende a parlare:
«Se
proprio vuoi possiamo sentire se lo hanno di un altro colore, ma non mi pare»
Ferma
una delle addette che lavora al negozio e lei conferma: è rimasto solo il
colore che ho indosso.
Jenna
mi guarda:
«Che
vuoi fare?»
Mi
prendo tempo necessario per pensare e, probabilmente, me ne prendo parecchio.
Continuo a osservare la me stessa che ho di fronte, sempre più convinta che
Jenna abbia ragione. Non credo di essermi mai sentita così a mio agio con
indosso un vestito. Guardo la mia amica:
«Prendo
questo» dico.
«Anche
se è rosso?» chiede, solo per
prendermi in giro.
«Va
al diavolo» rispondo e tiro la tenda del camerino per togliermi Jenna da
davanti agli occhi.
La
sento scoppiare a ridere e, inevitabilmente, finisco con l’essere contagiata
dal suo gesto. Prima di sfilarmi l’abito mi do un’ultimissima occhiata. Devo
ammettere di essere soddisfatta della mia scelta, molto soddisfatta. Ma non
riesco assolutamente a ignorare la sensazione opprimente che si è annidata al
centro del mio petto, proprio sotto lo sterno. Ogni volta che penso a sabato
sera questa morsa ricompare, facendosi sempre più intensa. Spero che Matt non
si senta così ogni volta che deve affrontare una partita importante, perché non
so davvero come possa resistere a tutta quest’ansia. Perché è ansia quella che
provo e, giuro, non ho ancora trovato un modo efficace per farla passare.
*
Venerdì
è arrivato. Come abbia fatto una settimana a passare tanto in fretta non riesco
a capirlo. Mi sembra ieri che Matt mi ha invitata alla cena del terzo tempo del
dopo partita con gli All Blacks, invece sono già passati sette giorni. È da
stamattina che continuo a pensarci, a tal punto da non riuscire nemmeno a concentrarmi,
prima a lezione e ora a casa. Ho la testa appoggiata sul libro da tanto di quel
tempo che sospetto fortemente mi siano rimaste impresse in fronte le parole e
delle poche righe che ho letto non ricordo assolutamente nulla. Dentro di me
c’è un conflitto che ha del ridicolo. Da una parte sono eccitata all’idea di
tornare al Millennium Stadium dopo mesi per vedere scontrarsi due delle squadre
che più ammiro; dall’altra, invece, il pensiero che dopo quella partita mi
aspetti la cena del terzo tempo come partner di Matt mi agita e non poco. Il
problema è che, fra le due fazioni, è proprio l’agitazione che sta avendo la
meglio da diverse ore. Spero che mi passi tutto, alla fine è solo una cena.
Sospiro,
decidendo di provare a rimettermi a studiare. Torno a legarmi i capelli, mi do
un paio di colpi in fronte, afferro la penna e ricomincio a leggere, decidendo
di concentrarmi seriamente, questa volta.
Meno
di un minuto dopo, però, il citofono suona e mi fa sussultare. Guardo l’orario
per cercare di capire chi possa essere, ma sono quasi le quindici e non mi
viene in mente nessuno che conosco. Sbuffo, alzandomi dalla sedia. Raggiungo il
citofono:
«Chi
è?» domando, il tono piatto e vagamente infastidito.
Sento
l’apparecchio frizzare – probabilmente è passata un’auto in strada – e poi una
voce risponde:
«Sono
Matt»
Il
mio cuore salta un colpo. Puk balza sulla ringhiera
delle scale e mi guarda, mentre io rispondo sentendo la bocca farsi asciutta:
«Ciao.
Ti apro»
Apro
l’ingresso di casa e rimango ad aspettare il ragazzo in cime alle scale,
proprio accanto al gatto. Mi sistemo meglio che posso in quei brevissimi
secondi di tempo che mi rimangono, giusto per non apparire la classica
studentessa single a casa il venerdì pomeriggio. Appena la porta si apre mi
ricordo dell’imbarazzante t-shirt che ho indosso, macchiata di sugo, e tiro su
la lampo della felpa per evitare che Matt la veda.
Come
entra solleva lo sguardo verso di me, sorridendo.
«Ciao.
Ho portato del caffè» dice, alzando i due contenitori da caffè d’asporto che
tiene in mano.
Si
incammina su per le scale e quando arriva in cima si volta verso il gatto:
«Ehilà
Puk»
Il
felino lo guarda solo un momento, con aria di superiorità, dopodiché salta giù
dalla ringhiera e va a sistemarsi sul divano. Matt lo segue con lo sguardo, poi
torna a rivolgersi a me tendendomi uno dei due bicchieri che tiene in mano:
«Spero
di non disturbare»
Afferro
il bicchiere, il calore del caffè che si propaga attraverso di esso fino alle
mie mani:
«No,
nessun disturbo»
Indico
il tavolo alle mie spalle, che non è altro che un ammasso di dispense
evidenziate e libri; da qualche parte temo ci sia anche una brioche
smangiucchiata:
«Stavo
tentando di studiare»
Matt
guarda il tavolo da sopra le mie spalle:
«Oh.
Se vuoi passo in un altro momento»
Lo
interrompo praticamente subito:
«No,
no. Anzi, mi serviva giusto un caffè»
Sorride
e io faccio lo stesso. Alla fine cerco di riordinare il tavolo, invitando Matt
a sedersi.
Mi
sistemo nella sedia accanto a lui:
«Grazie
per il caffè» dico, dopo averne bevuto un sorso.
«Figurati.
Non è carino presentarsi a casa di qualcuno a mani vuote se si è senza invito» risponde.
«Eri
di passaggio?»
Annuisce:
«Già.
Stavo andando al Millennium Stadium. Fra un’ora abbiamo la conferenza stampa
per la partita di domani»
«Sei
nervoso?» gli chiedo.
Mi
sono appena resa conto che, ora che l’ho davanti e che mi sono ripresa dalla
sorpresa della sua improvvisata, mi sento più rilassata. Matt è riuscito a
mettermi a mio agio. Anche se ha parlato della partita di domani, anche se dopo
la partita c’è la cena e quindi il nostro appuntamento, mi sento
improvvisamente tranquilla, come se tutto quanto fosse normale.
Lui
alza le spalle, abbozzando un sorriso:
«Un
po’, devo essere sincero. È vero che un test match non è fondamentale ai fini
di qualcosa. È semplicemente un’amichevole, l’esito non ci aiuta a vincere
alcunché. Ma è comunque una partita e non si può prendere sottogamba una
partita» ammette.
«Mi
trovi d’accordo»
Lui
ricomincia subito a parlare e questa volta il suo sorriso non è soltanto un
abbozzo:
«E
poi sono gli All Blacks, i campioni del mondo in carica. Scontrarci con loro ci
metterà davanti ai nostri limiti. Potremo scoprire se siamo o meno in grado di giocare
alla pari con la prima al mondo, se possiamo ambire o meno alla Rugby World Cup1
il prossimo anno»
Mi
strappa un sorriso vederlo così. Le sue parole hanno appena smascherato il
fatto che, anche se è preoccupato, al contempo è emozionato all’idea del prossimo
match – e probabilmente anche a quello dopo – che attende la sua squadra. Sono
certa che domani Matt saprà guidare al meglio i Dragoni, diffondendo loro la
stessa voglia di dimostrare il proprio valore che ora lui sta mostrando a me.
Matt sta davvero facendo vedere che la scelta di farlo capitano, da parte di
Jones, è proprio azzeccata.
Bevo
un altro sorso di caffè mentre lui si ricompone, si muove appena sulla sedia,
come pentendosi della sua improvvisa esuberanza. Ci guardiamo un momento,
dopodiché dico:
«Beh,
hai ragione. Dev’essere una bella emozione per te»
«Lo
è, in effetti. Te l’ho detto, da un lato sono preoccupatissimo, non posso
negarlo. Sono consapevole del fatto che si tratta di un match tutt’altro che
semplice. Dall’altro lato, invece, devo ammettere di essere davvero eccitato
all’idea»
Lo
capisco perfettamente, che ci creda o meno. È la stessa situazione in cui mi
trovo io, a metà fra il panico e la felicità, ma preferisco non dirglielo: la
sua motivazione è decisamente più comprensibile della mia.
Mi
accorgo che Matt mi sta guardando:
«Spero
non ti dispiaccia che io sia piombato qui e abbia cominciato a parlare di
domani»
«No,
figurati. Sai che mi piace parlare di rugby» lo rassicuro.
Lui
sorride, dolcemente:
«Avevo
bisogno di parlarne con qualcuno anche per tentare di vedere la partita sotto
un’ottica differente»
«Per
me possiamo discuterne finché vuoi»
Il
suo viso si illumina, gli occhi celesti sembrano quasi risplendere:
«Tu
cosa ne pensi?» domanda, bevendo dal suo bicchiere e senza perdere il sorriso
né prima, né dopo.
Alzo
le spalle:
«Non
credo serva a qualcosa farti un’analisi completa del loro modo di giocare,
vero?»
Acconsente,
sembra quasi stia cominciando a esaltarsi:
«Jones
ci ha detto quello che dovevamo sapere. Ma poi parecchie cose si sapevano già»
«Quindi
sei perfettamente a conoscenza della loro pressione difensiva, l’attacco
organizzato e le loro capacità in fase statica2, immagino» dico,
sollevando un dito per ciascuna delle tre cose appena pronunciate.
Lui
fa lo stesso, rispondendo:
«Sì,
sì e sì»
Sorrido,
cominciando seriamente a divertirmi. È stupendo poter intavolare una simile
conversazione con lui:
«Beh,
allora c’è poco altro che posso dirti» ammetto. «Lascia solo che ti dia un
consiglio, anche se forse non ne hai bisogno perché già sai»
«Dimmi
tutto»
«Hanno
una mediana3 ben rodata, domani. Ho visto la formazione. Sono capaci
di adattare perfettamente il gioco agli avversari che hanno di fronte e a
muovere i trequarti a loro favore. Non dovete mostrare loro il fianco,
altrimenti…» concludo simulando una decapitazione con la mano.
Matt
fa sì con la testa:
«Hai
ragione» dice. «Sean Darren è quello più pericoloso, no?»
Una
risatina sprezzante mi esce spontanea di bocca e noto il ragazzo sorridere:
«Sono
tutti pericolosi» dico. «Sean lo è in modo particolare, certo. È il capitano e
sa come trascinare i suoi uomini per renderli pericolosi per tutti gli ottanta
minuti di gioco. È un gran placcatore e per fermarlo ci vuole un po’, ma queste
cose già le sai, immagino»
Annuisce
nuovamente e io riprendo parola: il mio fiume è appena straripato.
«Prestate
particolare attenzione a quando gioca in coppia con Noomu»
«Il
numero otto?»
«Sì.
Giocano insieme da parecchio, anche nel Super Rugby4. Per capirsi
basta loro un’occhiata, un respiro. Avere il tetto del Millennium Stadium
chiuso domani non impedirà comunque loro di fare alcune delle giocate migliori
che conoscono»
Lui
rimane a guardarmi, parendo davvero interessato a ciò che posso raccontargli.
Inizio ad esporre alcuni esempi delle giocate Darren-Noomu
a cui mi riferisco e lui mi ascolta, ricordandosene alcune.
Continuiamo
a parlare per non so quanto, in un botta e risposta che a quanto pare si
dimostra stimolante per entrambi, mentre terminiamo di bere i nostri caffè un sorso
alla volta.
A
un certo punto Matt controlla rapidamente l’orologio, dopodiché sospira e io
già intuisco cosa sta per dirmi:
«Devo
andare, non posso far tardi alla conferenza» inizia. «Però mi spiace dover
interrompere così la nostra conversazione, mi piace parlare con te di queste
cose»
Sorrido,
sperando che il ragazzo non si sia accorto della leggera scossa che mi ha
attraversata alle sue parole.
«Il
lavoro chiama» dico.
«Già,
hai ragione»
Si
alza in piedi sistemandosi i vestiti, faccio lo stesso anche io.
«Grazie
ancora per avermi accolto prima» riprende lui, avviandosi verso le scale.
«Oh,
nessun problema. Avevi portato il caffè» scherzo.
Si
mette a ridere e prima che possa scendere le scale mi ricordo di una cosa:
«Aspetta
un momento» lo fermo.
Si
volta a guardarmi, sorpreso. Io raggiungo lo stereo, per poi tornare da Matt
con il suo cd dei Mumford & Sons
stretto in mano:
«È
davvero bello» gli dico, restituendogli l’album.
Lui
lo afferra:
«Mi
fa piacere saperlo»
Rimane
a guardarmi un momento, tamburellando appena con le dita sulla custodia in
plastica.
«Per
domani è tutto a posto, vero?» chiede alla fine.
«Parli
della cena?»
«Sì,
esatto. Non so, c’è qualcosa che non ti è chiara, domande che vorresti pormi?»
Ci
penso un momento, ma non molto. Non ho domande, anzi è tutto perfettamente
chiaro. È proprio perché tutto è così chiaro che questa cena mi mette addosso
tanta ansia.
«No,
direi di aver capito tutto perfettamente» confermo.
«D’accordo.
In ogni caso, non esitare a chiamarmi»
Mi
fa un cenno di saluto e si avvia lungo le scale. Quando raggiunge la porta
d’ingresso solleva lo sguardo verso di me:
«Ci
vediamo, allora»
Annuisco
con la testa:
«In
bocca al lupo per domani»
Sorride:
«Crepi»
Mi
saluta un’ultima volta e si avvia fuori di casa. Come la porta si chiude
rimango immobile un momento, nello stesso posto in cui mi sono fermata per
salutare Matt. Respiro a fondo un paio di volte, poi ancora, nel vano tentativo
di reprimere quell’impellente bisogno di sorridere che mi sta assalendo anche
ora. Alla fine non ci riesco, perché è più forte di me. Come potrei rimanere
indifferente all’improvvisata che Matt ha fatto e alla conversazione che ne è
seguita?
Mi
volto verso il tavolo, dove i bicchieri del caffè sono rimasti, vuoti entrambi.
Dovrei rimettermi a studiare, anche se manca più di un mese al mio prossimo
esame portarmi avanti con lo studio non può che farmi bene. Ma so già che non
riuscirei mai a concentrarmi, sia per quello che è successo in quest’ultima
ora, sia per quello che accadrà domani.
Note:
1 Rugby World
Cup(RWC): i campionati mondiali di rugby a XV. La competizione vede la partecipazione di
venti squadre, dodici delle quali già qualificate e otto decise tramite le
qualificazioni continentali e intercontinentali. L’edizione del 2015
viene disputata in Inghilterra.
2Fase statica: nel rugby vengono definite
fasi statiche le azioni come mischia e touche.
3Mediana: la mediana di una squadra di
rugby a XV è costituita dai numeri 9 e 10, rispettivamente mediano di mischia e
mediano di apertura. Loro compito è “unire” avanti e trequarti e impostare il
gioco tattico.
4 Super Rugby: il Super Rugby è la competizione
professionistica di rugby a XV che si svolge su base annuale tra quindici
squadre di Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica.
Sapevo
sarebbe andata a finire così. Sapevo che prima di scendere in campo sarei stato
assalito dall'ansia. Ho come un vuoto dentro di me, tremendo e fastidioso. I muscoli
sono tesi tanto quanto lo sono io e la mente tenta invano di ricordare musica e
parole di Not With Haste,
nonostante l'abbia appena ascoltata. Sollevo lo sguardo sui miei compagni di
squadra, sparpagliati nello spogliatoio. Ognuno sta cercando di trovare calma e
concentrazione con il proprio metodo: c'è chi ascolta musica, chi è in
raccoglimento con se stesso, chi parla con qualcun'altro.
Manca
poco alla partita contro gli All Blacks, il fischio d'inizio è alle porte.
Jones ci ha già detto quanto dobbiamo sapere prima di iniziare a giocare e ha
già lasciato lo spogliatoio per raggiungere le tribune, cedendomi il compito di
dire le ultime parole alla squadra prima dell'effettivo inizio del match.
La
porta si apre ed è il chiaro messaggio che dobbiamo andare. Mi alzo in piedi,
respiro a fondo e chiamo a me i giocatori:
«Ragazzi»
Tutti
e ventidue mi raggiungono formando al centro dello spogliatoio, uno stretto
all'altro, un cerchio. Il silenzio è totale e io li guardo uno a uno:
«Il
coach ha detto tutto quello che c'è da sapere sulla partita che stiamo per
affrontare» inizio, alcuni annuiscono. «Non voglio ripetervi le stesse cose.
Perciò vi dirò solo questo: ci siamo allenati duramente in vista di questa
partita e se ognuno di noi darà il massimo potremo giocarcela fino alla fine»
Allungo
una mano al centro del cerchio, i miei compagni fanno lo stesso:
«Ho
fiducia in voi» concludo.
Il
grido di "Wales" si solleva nella stanza, dopodiché mi avvio fuori
dagli spogliatoi, i giocatori mi seguono ordinatamente in fila. Davanti al
corridoio per l'ingresso in campo, ancora chiuso, i quindici titolari della
Nuova Zelanda sono già pronti a iniziare la partita. Di fronte a me Sean Darren
guarda fisso un punto imprecisato, immobile. La divisa nera fascia il suo
corpo, mettendone in mostra il fisico possente. Anche se il numero che portiamo
stampato sulla schiena è lo stesso, Darren è più massiccio di me; ha polsi e
ginocchia fasciati, la barba folta, ben tenuta, nasconde quasi completamente la
bocca e gli occhi, che ora appaiono scuri quasi quanto i capelli, non lasciano
minimamente trapelare quello che l'uomo prova. Sembra un'altra persona rispetto
al giocatore che ho incontrato ore fa. In quell'occasione ci siamo stretti la
mano e scambiati un sorriso, abbiamo conversato un po' e, alla fine, lui ha augurato
buona fortuna per il match. Ma l'uomo che ho di fronte ora sembra davvero
essere qualcun'altro; è serio e risoluto, certamente determinato a portare la
sua squadra alla vittoria. Il suo carisma si può quasi toccare.
Uno
dello staff gli dà il via, il momento di scendere in campo è arrivato. Darren
si incammina, i compagni di squadra lo seguono, alcuni lanciandoci una
sporadica occhiata. Si sentono gli applausi del pubblico, il Millennium Stadium
è pieno questa sera.
Poco
dopo fanno segno anche a me di andare e io mi avvio, pallone alla mano, seguito
dal resto dei Dragoni. Il boato dei tifosi ci accoglie, è così che loro ci
dimostrano fin da subito di essere pronti a sostenerci per i prossimi ottanta
minuti, in vista di una delle partite più dure dell’anno. Il tetto dello stadio
è chiuso anche questo pomeriggio e tutto rimbomba attraverso la struttura in
acciaio, dando vita a quell’atmosfera magica, unica, che si respira solo fra le
mura del Millennium, la nostra tana gallese.
Eppure
anche se sono sul prato che più amo, che più mi mette a mio agio facendomi
sentire sicuro di me, questa sera non riesco a trovare tranquillità.Mi sento ancora teso, i miei muscoli sono
ancora tesi. Quella che sta per avere inizio è una partita troppo importante
per la squadra e il confronto che sto per avere con Darren è importante per me.
Continuo
a osservare il capitano neozelandese, che pare talmente a suo agio da non
sembrare neanche vicino a iniziare una partita contro la nostra squadra.Ma so perfettamente che non è così; anche lui
si sta concentrando, preparandosi a guidare i titolari che sono al suo fianco.
Rimango a guardarli mentre si riuniscono, sistemandosi uno accanto all’altro,
preparandosi a cantare il loro inno. Infine lancio una rapida occhiata al tetto
dello stadio, buttando fuori tutta l’aria che ho in corpo, consapevole che
manca sempre meno.
Raggiungo
i miei compagni di squadra, anche loro disposti in fila, gli sguardi alti come
a fissare negli occhi i tifosi seduti in tribuna. Per un momento mi domando
dove possa essere Danielle, anche lei è qui oggi,ma sono talmente nervoso che neanche pensare
alla ragazza riesce a distrarmi. Andare a trovarla ieri è stata una scelta
improvvisata che rifarei ancora. Avevo voglia di vederla, di parlare con lei di
questo pomeriggio, di questo match che sta per avere inizio. E come sospettavo
la cosa mi è stata d’aiuto. Parlare con Danni mi ha dato conferma che so chi
sono i miei avversari e che, io e i Dragoni, possiamo affrontarli alla pari. Il
fatto che loro siano primi nel ranking mondiale non significa niente, ogni
partita di rugby è una battaglia a sé stante.
Paul
mi cinge le spalle quando mi sistemo accanto a lui e io faccio lo stesso, afferrando
la stoffa della sua felpa che ancora nasconde la parte superiore della divisa
da gioco rossa. Con la coda dell’occhio noto che mi sta osservando;
probabilmente sta pensando che se riesco a mantenere il sangue freddo e a
trasmetterlo alla squadra la partita potrà essere equilibrata. Al contempo,
però, sono certo che sta percependo perfettamente la tensione che ho addosso.
Anche per qualcuno che non mi conosce bene quanto lui il mio stato d’animo è
comprensibile.
Lo
speaker annuncia che è giunto il momento degli inni nazionali e il silenzio
cala fra ognuna delle anime presenti nello stadio. Si parte con quello degli
ospiti, come sempre, e mentre le note risuonano i neozelandesi iniziano a
cantare. Io e i miei compagni di squadra rispettiamo l’inno in silenzio,
attendendo che finisca. E quando termina è il momento del nostro inno alla
nazione. La musica inizia e fra il pubblico Land
of My Fathers si leva tutt’intorno a noi. Chiudo gli occhi, per poter
venire interamente assorbito da questo momento. Canto appena, le parole mi
escono come un sussurro fra le labbra, venendo immediatamente inglobate dalla
magia del momento. Non saprei neanche descrivere cosa provo, ogni volta che il
nostro inno viene cantato qui, dai nostri tifosi fra le mura del Millennium Stadium, l’emozione
che sento è paragonabile a quella che ho provato la prima volta che ho
indossato la maglia rossa della nazionale.
Quando
il canto termina e gli applausi coronano il tutto mi sento rinato. Il nostro
pubblico è con noi, prontissimo a sostenerci. I vincitori di questa partita non
sono ancora stati decretati e farò del mio meglio perché i Dragoni possano
trionfare.
Pochi
minuti dopo io e i miei compagni di squadra siamo nuovamente uno al fianco
dell’altro, ma questa volta ci fermiamo al centro del campo, rivolgendo gli
sguardi verso i tutti neri.
È
di nuovo il loro momento, è il momento della Haka1. L’antica danza maori da anni viene eseguita dai
ventitré giocatori prima dell’inizio della partita in segno di sfidae contemporaneamente viene accolta e rispettata
silenziosamente dalla formazione avversaria.
È
una tradizione e, nel rugby, le tradizioni sono sacre.
I
neozelandesi si dispongono nel loro schieramento, i tifosi già iniziano a
incitare consapevoli di quanto sta per accadere. Fra le maglie nere solo il
numero venti cammina avanti e indietro, guardandoci negli occhi, nello stesso
modo in cui fanno i suoi compagni di squadra. Inizia a urlare i comandi, gli
ordini, come un vero condottiero e in coro i restanti giocatori cominciano a
eseguire la Kapa o Pango2, considerata la
versione della Haka
più minacciosa da rivolgere agli avversari.
In
pochi fiatano nello stadio, anche i tifosi hanno sempre rispettato questo rituale.
Noi Dragoni siamo immobili, osserviamo i nostri avversari senza abbassare lo
sguardo, seri.
Quando
i neozelandesi terminano la loro danza un boato esplode sugli spalti. I
giocatori degli All Blacks ci guardano un’ultima volta con occhi determinati e
severi, per poi darci le spalle e disporsi nella propria metà campo. Solo uno
di loro rimane fermo davanti a noi: il mediano d’apertura, ovvero colui che
darà inizio ai giochi.
Come
per rispondere agli All Blacks, come per sottolineare che questo è lo stadio
del Galles, i nostri tifosi cominciano a cantare Delilah, che con la sua sonorità
ci accompagna mentre prendiamo il giusto posto nel campo da gioco.
Il
mediano neozelandese è sempre nello stesso punto, quando mi volto lo vedo
chinarsi per afferrare il pallone, le dita che scorrono sulla sua superficie,
sotto lo sguardo vigile dell’arbitro di giornata. Il giocatore scambia appena
un’occhiata con Darren, annuisce impercettibilmente con il capo, dopodiché, gli
occhi fissi sui pali, calcia il primo pallone.
*
Mi
tremano le mani. Se provassi a sollevare qualcosa ora so per certo che non ce
la farei. In campo ho speso tutto quello che potevo, ho fatto il massimo per
lottare fino alla fine, per tutti gli ottanta minuti di gioco, ma invano.
Gli
All Blacks non a caso sono i primi al mondo, non a caso sono temuti, rispettati
e ammirati da chiunque si interessi di rugby.
Prima
abbiamo giocato alla pari con loro per sessantacinque minuti. Ma come la nostra
stanchezza si è fatta vedere, anche solo da piccoli segni – passaggi sbagliati,
accelerazioni non più brucianti, difesa meno d’impatto – i neozelandesi hanno
alzato il gioco, dandoci tre mete in poco più di dieci minuti.
A
niente è servito il sostegno del pubblico o l’ultimo colpo di reni che abbiamo
tentato sul finale e io, giuro, non riesco a capire dove gli All Blacks abbiano
trovato tutte quelle forze per concludere così il match. Non sembravano nemmeno
stanchi, era come se avessero in corpo energia a sufficienza per continuare
ancora.
Io
e la mia squadra abbiamo lottato al massimo delle nostre capacità, spendendo
tutte le nostre energie; abbiamo sbagliato in più occasioni, certo, ma abbiamo
davvero fatto il possibile per non essere sovrastati da quella marea nera.
Quel
trentaquattro a sedici in favore degli All Blacks, però, fa davvero male.
Anche
se ci abbiamo messo tutto il nostro impegno, consapevoli che abbiamo perso
contro una squadra più forte di noi, una sconfitta è sempre una sconfitta e
come tale brucia.
Sto
ancora pensando alla partita, sto cercando di trovare il momento, il frangente
di rottura, l’attimo in cui abbiamo mostrato il fianco.
Indubbiamente
è stata la stanchezza ad abbatterci. I neozelandesi sono abituati a giocare un
rugby di alto livello per ottanta minuti, hanno semplicemente saputo mantenere
quel ritmo fino a schiacciarci. Tutto ciò è la dimostrazione che dobbiamo
ancora crescere, che se vogliamo ambire a vincere la coppa del mondo il
prossimo anno dobbiamo darci ancora da fare.
Discorso
analogo vale anche per me, sia come terza linea che come capitano. Darren, il
mio alter ego neozelandese, durante il match è stato impeccabile. Ha giocato al
pieno delle sue capacità, ha aggredito la nostra difesa e contribuito
magistralmente a proteggere la propria linea di meta e il suo carisma in tutto
ciò era più che evidente. Mi sembra ancora di vedere il momento esatto in cui
ha interrotto la lite scoppiata nel secondo tempo fra alcuni dei suoi giocatori
e i miei. Si è semplicemente avvicinato loro, dicendo ai suoi compagni
coinvolti di smetterla, cosa che hanno fatto immediatamente senza proferire
parola.
Questo
è solo uno degli esempi che dimostrano quanto la mia leadership sia lontana
dalla sua. Per tutto il match Darren è stato in grado di mantenere i suoi
giocatori psicologicamente determinati e in grado di fare male agli avversari.
Al contrario, quando la nostra squadra ha iniziato a essere schiacciata dagli
All Blacks, io non sono stato in grado di aiutare i miei compagni a rialzarsi.
Sulla
panca dello spogliatoio accanto a me si siede qualcuno. Tengo ancora gli occhi
bassi sulle mie mani, i gomiti appoggiati alle ginocchia. Praticamente sotto al
mio naso viene allungata una bottiglia di birra, la persona che mi sta accanto
apre bocca:
«Può
interessarti?» chiede, chiaramente riferendosi alla birra.
È
Mark. Lo guardo e sorrido, afferrando la bottiglia; le mie mani non tremano
molto ora, ma i muscoli fanno già male. Battiamo fra loro i colli delle
bottiglie, la mia e quella tenuta da Mark, bevendone un sorso entrambi.
Anche
il mio amico non sembra essere particolarmente soddisfatto dell’esito del match.
In due occasioni è stato sul punto di andare in meta, ma la difesa avversaria è
riuscita a bloccarlo entrambe le volte. Vorrei dirgli qualcosa, ma non so cosa.
Al
termine della partita tutti noi ci siamo riuniti al centro del campo da gioco;
ho fatto loro un discorso, quello che sul momento mi è uscito spontaneo
ripensando al match appena concluso. Ma ora proprio non saprei cosa dire.La partita è finita da troppo poco tempo
perché io abbia già ritrovato la mia consueta voglia di darmi da fare. Non ho
bisogno di essere consolato, ho solo bisogno di distrarmi.
Dopo
essere rientrato qui al termine della partita, dopo essere stato accanto a
Jones mentre lui ci diceva com’era apparsa la nostra squadra ai suoi occhi, ho
semplicemente preso posto su questa panca senza più spostarmi. Seduto in
raccoglimento con me stesso ho aspettato che il respiro si regolarizzasse, che
la gola smettesse di bruciare, che il cuore tornasse a battere a ritmi normali
e che la mente accettasse l’esito del match. L’ultima di queste cose deve
ancora realizzarsi, ma vedere i miei compagni di squadra che parlano fra loro,
che mi lanciano sguardi e si sorridono, mi sta aiutando, così come il gesto
appena compiuto da Mark. Mi volto verso quest’ultimo, sorridendogli:
«Grazie»
dico, alludendo alla birra.
Lui
solleva la sua bottiglia e fa un cenno:
«È
andata» risponde, riferendosi certamente alla partita.
Annuisco
appena con la testa e lui riprende a parlare:
«Non
pensare troppo all’esito finale, Matt. Tu stesso ci hai sempre detto che quello
non è tutto e io ti ho sempre creduto. Abbiamo fatto del nostro meglio, su
questo non ci piove, che non sia stato sufficiente è un altro discorso»
«Sono
d’accordo. Ma devo ammettere che al termine del primo tempo ho davvero creduto
che potessimo farcela»
Mark
si alza, bevendo un lungo sorso di birra.
«Quello
anche io, non posso negarlo. Ma ora non ti crucciare per il risultato, ci
penseremo lunedì. Adesso abbiamo il terzo tempo ed è sempre stato utile a lasciarsi
le cose alle spalle per un paio di ore»
Si
allontana, raggiungendo altri nostri compagni di squadra. Abbasso un momento lo
sguardo sulla mia birra, pensando. Mark ha ragione e io sono davvero d’accordo
con lui. Oltretutto passare il dopo partita a rimuginare su come è andata non è
nemmeno da me e non devo certo iniziare a fare una cosa del genere proprio
questa sera. Alla cena del terzo tempo mi aspetta Danielle e so per certo che
anche solo vederla mi sarà d’aiuto.
Note:
1Haka: la danza tipica del popolo Maori, l’etnia originaria
della Nuova Zelanda. Spesso considerata
semplicemente – ma erroneamente – una danza di guerra. È stata resa celebre,
nello stile dellaKa Mate dagli All Blacks.
2Kapa o Pango: lo stile più recente della Hakaneozelandese, ideata dagli All Blacks per le occasioni
speciali. È stata creata insieme a un gruppo di esperti delle tradizioni maori
e ci è voluto quasi un anno per completarla. Più che sostituire la Ka Mate, questa Haka la completa. Le parole della
Kapa o Pangofanno
più esplicitamente riferimento al team di rugby perché parlano di “guerrieri
in nero con la felce argentata”. È considerata molto più aggressiva della Ka Mate e con un più spiccato senso di
sfida agli avversari.
Sospetto
di essere sul punto di svenire. Come sia possibile che non sia ancora in
iperventilazione onestamente non lo so, ma se continuo così potrei finirci a
breve. L’ansia mi ha assalita di nuovo e ho come il sospetto che questa volta
non se ne andrà molto presto.
La
partita fra Galles e Nuova Zelanda è terminata e ora tutto ciò che mi rimane da
fare è partecipare alla cena del terzo tempo, a cui manca davvero poco. Fino a
dieci minuti fa ero tranquilla, ho parlato con Jenna della partita, salutato
Jamie, Rachel e Norman, ripensato più e più volte al fatto che avevo appena
visto gli All Blacks giocare nella stupenda cornice del Millennium Stadium. Poi
io e Jenna siamo arrivate a casa mia, dove ho dovuto iniziare a preparami
affinché fossi presentabile alla cena. E come mi sono infilata l’abito per
stasera e mi sono guardata allo specchio mi sono innervosita tutto d’un tratto.
Jenna
ricompare nella mia camera, un bicchiere d’acqua stretto in mano.
«Lo
hai preso per me?» le chiedo, distogliendo lo sguardo dallo specchio da cui
l’avevo vista entrare e voltandomi verso di lei.
«No.
Ma se vuoi vado a prenderne un altro»
«No,
lascia stare. Non ho sete»
Torno
a rivolgermi alla me stessa riflessa, raccogliendo i capelli per poterli
acconciare, nel vano tentativo di pensare ad altro.
«Danni,
respira. Finirai con lo svenire da qualche parte se continui così» riprende
parola dopo un po’ la mia amica.
«Si
vede molto che sono nervosa?» chiedo.
«No,
macché. Ho tirato a indovinare e ci ho preso» risponde Jenna, il tono
sarcastico.
Appoggia
il bicchiere sul mobile, avvicinandosi poi a me. Come mi raggiunge posa
entrambe le mani sulle mie spalle, guardandomi negli occhi attraverso il
riflesso dello specchio:
«Rilassati,
andrà tutto bene. È solo una cena»
«Lo
so. Ma sono preoccupatissima. Ho paura di fare una pessima figura. O, peggio,
di farne più di una»
«Se
ti agiti come stai facendo ne farai di certo» risponde lei, senza troppi peli
sulla lingua, come suo solito. Ma Jenna sa perfettamente che per smuovermi ho
bisogno di questo. Essere rassicurata e tranquillizzata va bene, ma essere
smossa mi ha sempre aiutata molto di più.
«Dici
che posso farcela?» domando dopo un po’.
«Certo
che puoi. Non è la prima volta che esci con Matt»
«Sì
ma non ci sarà solo lui stasera» le ricordo.
«D’accordo.
Ma ho come il sospetto che ciò che ti preoccupa di più non sia la cena in sé,
ma il fatto di andarci con Matt»
Tento
di ribattere, ma non so cosa dire. Forse Jenna ha ragione – non sarebbe la
prima volta – ma sono certa che il solo fatto di uscire con Matt non potrebbe
mettermi addosso una tale agitazione; anche se devo ammettere che il suo invito
e il modo in cui ha affrontato l’argomento ogni qualvolta ne abbiamo parlato,
hanno mostrato un atteggiamento differente dal suo solito.
«Penso
che andrò a truccarmi» dico infine, dirigendomi poi verso il bagno.
La
voce di Jenna mi raggiunge come entro nella stanza:
«Brava
ragazza» la sento pronunciare.
A
truccarmi impiego davvero poco tempo; non ho mai messo nient’altro al di fuori
di eyeliner e matita e a passarli entrambi impiego meno di cinque minuti.
Rimango nuovamente immobile a osservarmi allo specchio, passando un momento le
dita fra la frangia, così da pettinarla il più omogeneamente possibile.
«Pensavo
di tagliarmi la frangia. Magari potrei farmi un bel ciuffo» dico, il tono
sufficientemente alto così che possa sentirmi anche Jenna.
«Potresti,
ma non stasera. Che se non viene come ti eri immaginata poi ti agiti
ulteriormente» risponde.
Mi
strappa un sorriso e alla fine lascio stare i capelli, rendendomi conto di aver
terminato di prepararmi. Torno nel mio piccolo soggiorno, Jenna si volta a
guardarmi, scansionandomi accuratamente dalla testa ai piedi:
«Sei
pronta?»
Annuisco:
«Direi
di sì»
Lei
continua a osservarmi, seria, ma poi non riesce più a trattenersi e si esalta
visibilmente:
«Sono
così emozionata per te» esclama.
«Non
hai idea di quanto lo sia io» mormoro.
«Oh
no, lo so. Lo si vede perfettamente. Ma te l’ho detto, non ti preoccupare,
andrà tutto bene. E poi, sei stupenda»
Le
sorrido per ringraziarla di tutto e lei si avvia verso le scale:
«Andiamo,
ti accompagno»
La
seguo fino all’ingresso, afferro la borsa – una pochette da sera che Jenna mi
ha prestato, dato che nel mio guardaroba mancano simili accessori – e mi infilo
il cappotto, respirando a fondo una sola volta prima di uscire di casa in
compagnia della mia amica.
La
serata è piuttosto fresca, il cielo si è annuvolato nel primo pomeriggio ma non
ha mai dato segno di voler piovere, mi auguro solo non inizi ora.
Io
e Jenna procediamo una accanto all’altra, in silenzio. La cena si svolgerà in
un hotel a cinque stelle proprio vicino ad Arms Park, per questo ci stiamo
andando a piedi.
Anche
solo la location mi mette ansia, non sono mai entrata in un albergo del genere.
Cerco
di non pensare a niente, ma chiaramente il mio tentativo si dimostra vano.
Neanche potendo riuscirei a non pensare a quello che sta per succedere. Anche
la semplice idea di essere stata invitata mi agita, pensare che là incontrerò
una moltitudine di giocatori che ammiro contribuisce ad agitarmi ulteriormente.
Per non parlare del fatto che si tratta a tutti gli effetti di un appuntamento
con Matt. Dopo più di due settimane torniamo a uscire insieme in mezzo ad altre
persone. Jenna ha ragione a dire che io e Matt siamo già usciti in più
occasioni e che so come comportarmi in sua presenza, ma questa volta è tutto
differente. Ci sono i suoi amici, i suoi compagni di squadra. E più penso al
suo invito, al modo in cui si è guardato intorno prima di formularlo – anche se
solo per un momento – ho sempre più il sospetto che non si sia trattato del
consueto invito a bere qualcosa ma di una proposta più seria. Tuttavia può
benissimo essere che mi stia sbagliando; considerando la testa che gli ho fatto
a furia di parlare degli All Blacks magari mi ha semplicemente invitata per
farmi contenta.
Sospiro,
il gesto non sfugge a Jenna:
«A
che pensi?» mi chiede.
Scrollo
le spalle:
«Lo
sai a che penso»
Mi
sorride:
«Andrà
bene. Quante volte devo ripetertelo?»
«Sospetto
un’infinità»
Ci
fermiamo entrambe: siamo arrivate nella zona degli stadi. Qua e là ci sono
ancora tifosi di entrambe le fazioni – gallese e neozelandese – che bevono e
scherzano, probabilmente ricordando ancora la partita conclusasi. Ci dirigiamo
subito verso l’albergo in cui avrà luogo la cena e, come lo raggiungiamo, mi
volto verso Jenna. Lei mi sorride:
«È
il tuo momento» prova a incitarmi.
Non
voglio che mi ripeta per l’ennesima volta che andrà tutto bene, in fin dei
conti so che una volta preso parte a questo evento, se riesco a rilassarmi, non
potrò che essere felice di esserci stata.
«Grazie
per avermi accompagnata fin qui. E per avermi sopportata. Soprattutto per
avermi sopportata» le dico.
Lei
mi fa l’occhiolino:
«Quando
vuoi. Ora, però, vedi di entrare»
Annuisco:
«Vado»
Ci
salutiamo e mi avvio dentro l’hotel. Come entro l’addetto alla reception mi dà
il benvenuto, fermandosi a guardarmi:
«È
qui per la cena?» chiede.
«Sì»
«Lei
è?»
«Danielle
Philips»
Controlla
una lista, poi torna a rivolgersi a me:
«Molto
bene, può andare. In fondo al corridoio e poi a destra, incontrerà un altro
addetto»
Lo
ringrazio e mi incammino lungo il corridoio in questione. La prima parte è
andata come mi aveva detto Matt, ossia che avrei dovuto dare prima il nome alla
reception e poi sarei potuta entrare. Direi che è andata bene. Incontro
l’addetto di cui il receptionist mi aveva parlato, un giovane, ovviamente ben
vestito, che mi accoglie con un sorriso. Anche lui chiede il mio nome,
controlla, dopodiché prende il mio cappotto per portarlo nel guardaroba e mi
lascia entrare, augurandomi una buona serata.
Il
salone da ricevimento in cui entro è immenso, sembra essere sconfinato, ed è
già parecchio popolato. Matt mi aveva detto anche questo, che qui, dove c’è
anche il bar, si passa gran parte del tempo a parlare e bere, prima e dopo la
cena, che si svolge nella sala da pranzo affianco.
Guardandomi
intorno riconosco svariati giocatori, membri dello staff e altre persone
ancora. Qualcuno di loro si volta a lanciarmi un’occhiata come mi vede entrare,
ma il fatto che non sembrino sorpresi della mia presenza mi aiuta a
tranquillizzarmi. Mi incammino verso il centro del salone, alla ricerca di
Matt. Anche se è alto quasi un metro e novanta la cosa non aiuta molto ora:
parecchi dei presenti sono alti quasi quanto lui. Finalmente trovo il ragazzo;
sta conversando con due membri dello staff tecnico, poco più avanti di me. È
vestito in maniera impeccabile, con giacca e cravatta, e i capelli, leggeri e
luminosi, gli stanno meravigliosamente spettinati in testa. A vederlo trattengo
un attimo il respiro, ma poi mi ricompongo, avvicinandomi a lui. Mi rendo conto
che a ogni possa che compio mi sento sempre più tesa e non ne capisco
esattamente il motivo. Quando gli sono accanto lui subito si volta,
probabilmente sentendomi, e appena i nostri sguardi si incrociano sorridiamo
entrambi.
«Ciao»
dice.
«Ciao»
replico io, sentendo i muscoli rilassarsi.
Aver
raggiunto Matt mi ha improvvisamente tranquillizzata, anche la tensione che provavo
pochi secondi fa è scivolata via.
Matt
torna a rivolgersi ai suoi interlocutori:
«Vi
presento Danielle» dice loro.
I
due uomini mi stringono la mano, sorridono e fanno qualche veloce commento,
dopodiché ci lasciano soli, allontanandosi.
«Come
stai?» mi chiede il ragazzo appena siamo soli.
«Bene,
tu?»
«Tutto
a posto. Non hai avuto problemi ad arrivare qui, vero?»
«No,
nessuno. Sono stati molto educati e disponibili. È praticamente andato tutto
come avevi detto»
«Meglio
così. Avrei voluto passare a prenderti ma sono stato piuttosto tirato con i
tempi. Sono arrivato qui poco più di cinque minuti fa»
«Non
preoccuparti, alla fine ce l’ho fatta»
Lui
non risponde, rimane a guardarmi osservandomi accuratamente dall’alto al basso.
Fingo di non averlo notato, riportando lo sguardo su di lui solo quando lo
sento ricominciare a parlare:
«Quel
vestito ti sta davvero bene»
Gli
sorrido, sperando di non essere arrossita per il complimento, che ho
chiaramente gradito.
«Grazie»
Anche
lui sorride, dolcemente, i suoi occhi celesti non accennano ad allontanarsi dai
miei. Alla fine però lo fanno e Matt solleva un dito in direzione del centro
della sala:
«Vieni,
ti presento un po’ di persone»
E
si incammina, facendomi strada.
*
Non
so dire quante mani ho stretto prima di sedermi a questo tavolo. Non è passata
neanche un’ora da quando sono arrivata all’hotel e credo di aver incontrato già
più di venticinque persone diverse fra giocatori, staff tecnico e quant’altro.
Matt mi ha presentato ognuno di loro, dicendo chi ero e, quando necessario, lui
ha detto a me chi erano loro. Nonostante abbia incontrato quasi una ventina di
giocatori gallesi e neozelandesi che ammiro, mi sento stranamente tranquilla.
Sospetto fortemente che ciò sia dovuto al fatto che non ho ancora assimilato
totalmente ciò che sta succedendo, perché altrimenti non si spiegherebbe
nemmeno il fatto che sia tanto rilassata anche ora, seduta al tavolo per la
cena. Il tavolo in questione è uno di quelli rotondi, pensati apposta perché
ogni presente possa riuscire a guardare in faccia ognuna delle altre persone
sedute. In quanto accompagnatrice di Matt sono accanto a lui, allo stesso
tavolo in cui sono seduti gli allenatori e i due preparatori tecnici di
entrambe le squadre e Sean Darren con la rispettiva compagna.
Matt
me lo aveva anticipato, ci aveva tenuto a precisare che alla cena si sarebbe
dovuto sedere al tavolo delle rappresentanze – quello “noioso” come lui stesso
lo aveva definito – e io insieme a lui. Ma mi è bastato stare anche per poco a
questo terzo tempo per capire che il ruolo di Matt come capitano non si limita
al solo campo da gioco. Lui viene preso da esempio dai compagni di squadra, per
tale motivo è importante che il suo atteggiamento sia adeguato anche in questi
eventi formali.
Da
quando sono arrivata ha scambiato parola e saluti con tutti, come fosse il
padrone di casa, sapendo sempre cosa dire. Anche queste piccole cose dimostrano
quanto sia adatto nel suo ruolo e la cosa non può certo essere ignorata.
Eppure
come mi sono resa conto di tutto questo, di quanto durante i periodi di impegno
con la nazionale gallese i suoi ritmi siano sempre costantemente scanditi dal
ruolo di rappresentanza che ricopre, mi sono improvvisamente sentita lusingata.
Ho ripensato al fatto che di tanto in tanto lui mi mandava qualche messaggio,
mi sono tornati alla mente i due venerdì in cui lui è venuto a cercarmi. Mi è
venuto il sospetto che quel tempo da dedicare a me lui se lo fosse volutamente
ritagliato fra la moltitudine dei suoi impegni. Se così fosse Jenna avrebbe
ragione, Matt potrebbe davvero essere interessato a me e, certamente, ormai non
potrei chiedere di meglio. Ma non è il caso di costruire castelli in aria, o di
convincermi di qualcosa se ho solo qualche sporadico indizio – per di più se
sono stata io stessa a definirli tali – perché ogni volta che mi sono convinta
da sola dei sentimenti che qualcuno poteva provare per me nulla è mai andato a
buon fine.
Sollevo
un momento lo sguardo su Matt, si sta osservando intorno, come alla ricerca di
qualcosa. Si accorge che lo sto guardando, sorride e si avvicina a me:
«Come
va?» chiede.
Lo
fa sussurrando al mio orecchio e la cosa aumenta notevolmente il mio battito
cardiaco. Sembra che il mio cuore stia facendo più rumore del dovuto e ho paura
che Matt possa accorgersi di quello che mi sta succedendo. Fortunatamente non è
così e riesco a rispondere con perfetta nonchalance:
«Tutto
bene, direi. Continuo a chiedermi com’è possibile che io riesca a rimanere
calma, ma per il resto va tutto alla grande»
Lui
sorride nuovamente:
«Perché
non provi a fare due chiacchiere con Darren?» propone, sempre tenendo il tono
di voce sotto controllo.
«E
secondo te ne sarei capace?» domando scettica.
Solleva
le spalle:
«Beh,
secondo me sì. Il più è iniziare»
«Appunto»
«Ci
penso io»
Provo
a fermarlo, ma invano. Matt ha già staccato gli occhi da me, puntandoli su
Sean. Lo chiama, ponendogli una domanda banale ma perfetta per iniziare a
intavolare un discorso:
«Non
ti ho ancora chiesto come sta andando la tua permanenza qui» dice.
Sean
sorride, rispondendo.
Io
me ne rimango immobile e silenziosa mentre i due si mettono a parlare,
argomenti da tutti i giorni, come se fossero amici da una vita. Matt mi ha già
presentato il capitano degli All Blacks, ha già detto a lui qual è il mio nome,
ma ora che avrei l’occasione di parlare un po’ con il neozelandese non so cosa
dire. Rimango a guardare Sean, anche lui vestito di tutto punto, la felce argentata
cucita a sinistra sul taschino della giacca da cerimonia. La barba curata lo fa
apparire ancora più maturo di quanto sembri quando non la porta, i capelli
devono essere freschi di taglio e gli occhi castani caratterizzano il suo
sguardo rassicurante. La donna accanto a lui, la sua compagna, è Samantha
Barkley. La loro storia è piuttosto famosa anche al di fuori della Nuova
Zelanda; forse perché lui è il capitano della squadra di rugby più forte al
mondo e lei fa parte dello staff medico degli All Blacks. È come se Matt si
mettesse con la sua fisioterapista. Farebbe notizia, anche se non sarebbe il
primo a fare una cosa del genere.
E
spero anche che non lo faccia.
«Danielle
ne sa parecchio sull’argomento»
È
proprio Matt a risvegliarmi dai miei pensieri. Mi sono distratta per pochi
minuti ma pare siano stati sufficienti a perdere il filo del discorso. Mi volto
verso il ragazzo ma, appena lo faccio, parla Sean, costringendomi a guardarlo:
«Davvero?»
chiede.
È
Matt a rispondere per me:
«Sì.
Sta studiando storia dell’arte all’università. Chi meglio di lei può parlarti
del Cardiff Castel, stasera?»
Sean
mi guarda negli occhi. Ha uno sguardo sicuro e carismatico, impossibile da
ignorare.
«Quindi
tu puoi dirmi qualcosa a riguardo. Sai, ogni volta che vengo qui vado a
visitarlo e lo trovo sempre più bello» mi confida.
«Sì,
certo. Posso dirti quello che vuoi»
Lancio
un’occhiata a Matt, per ringraziarlo di avermi dato la possibilità di parlare
con Sean Darren. A quanto pare lui lo capisce, perché risponde al mio sguardo e
mi sorride.
Intorno
a me c’è un vocio continuo. È un mormorio costante che non è di disturbo ed è
allegro, chiaramente soddisfatto. In verità basterebbe guardare in faccia ogni
presente al terzo tempo per capire che tutto sta andando per il verso giusto.
La cena è trascorsa senza alcun tipo di problema, le pietanze erano ottime e le
porzioni abbondanti – perfette per dei giocatori di rugby. Poi, un po’ alla
volta, tutti i presenti sono rientrati nella sala da ricevimento, passando dal
bar a prendere qualcosa da bere.
Anche
io e Matt abbiamo fatto così. Siamo tornati in questa sala per prendere
qualcosa da bere, ritrovandoci poi a conversare con alcuni dei suoi compagni di
squadra. Il tutto è continuato finché un paio di giornalisti non sono venuti a
chiamare Matt, chiedendogli del tempo per un’intervista. Come glielo hanno
chiesto, il giocatore si è voltato verso di me, scusandosi. Io gli ho
semplicemente sorriso, dandogli il via libera, consapevole che il suo era un
impegno al quale non si poteva sottrarre.
Lui
si è allontanato, seguendo i giornalisti e io mi sono seduta dove sono ancora,
ovvero su uno degli alti sgabelli disposti davanti al bancone del bar. Ho
posato davanti a me il mio vodka Lemon, rimanendo a giocare con i cubetti di
ghiaccio, bevendone un sorso di tanto in tanto fino a finirlo.
Sto
resistendo a stento all’impulso di estrarre il cellulare dalla pochette e
rimettermi a guardare le foto che abbiamo scattato prima, perché la cosa mi
farebbe sentire davvero una ragazzina stupida.
Matt
mi ha scattato una foto insieme a Sean Darren e poi ad altri giocatori della
nazionale neozelandese fra i miei preferiti. All’inizio l’idea mi metteva molto
in imbarazzo, ma poi Matt mi ha fatto notare che al terzo tempo sono moltissime
le persone che fanno ciò e che la cosa è considerata normale dai giocatori; per
tale motivo, alla fine, mi ha convinta.
Anche
l’ultimo cubetto di ghiaccio si è sciolto. Rimango a osservare l’acqua
depositata sul fondo del bicchiere, mescolandola distrattamente con la
cannuccia.
Matt
dev’essersi allontanato da quasi dieci minuti. Quando si è scusato per dover
seguire i due giornalisti mi era parso abbastanza restio all’idea di doverlo
fare, come se non volesse lasciarmi sola. Anche io avrei preferito che
rimanesse qui, insieme a me, ma sono consapevole dei suoi impegni. Non deve
essere semplice ricoprire il ruolo di capitano, ma lui ci riesce in modo
egregio, a parer mio, proprio perché rispetta i suoi impegni nel migliore dei
modi. Il rugby è la sua vita, la sua carica di capitano gallese un grande onore
– lui stesso me lo ha detto – e io non potrei mai pretendere che rinunciasse a
tutto questo solo perché voglio che mi faccia compagnia.
Qualcuno
raggiunge il bancone alla mia destra. Istintivamente punto lo sguardo in quella
direzione, trovandomi accanto una ragazza. Come tutte le presenti anche lei
indossa un abito elegante, beige. Nonostante sia di profilo il caschetto di
capelli neri lisci mi aiuta notevolmente a riconoscerla: è la ragazza di Mark.
Io e Matt abbiamo già incontrato la coppia nell’arco della serata.
Si
accorge che la sto guardando; in un primo momento mi pare sorpresa, poi,
probabilmente riconoscendomi, mi sorride:
«Danielle,
giusto?»
Mi
volto completamente verso di lei, accorgendomi solo ora che alle sue spalle c’è
proprio Mark.
«Sì,
esatto» rispondo, sorridendole a mia volta.
Se
non ricordo male si chiama Deborah, ma avendo paura di sbagliare preferisco
stare zitta.
«Matt
dov’è?» chiede.
«Ah
sono… sono venuti a cercarlo per un’intervista. Sospetto che a breve sarà di
nuovo qui»
«Poverino.
Non lo lasciano stare neanche al terzo tempo. Tu che ne pensi?»
Chiama
in causa Mark, che si introduce nella conversazione:
«Sì,
è vero. Ma lui sa che è così»
«Immagino,
ma dev’essere snervante ugualmente»
La
ragazza si accorge dell’arrivo del barista e ordina da bere, tornando poi a
rivolgersi a me:
«Come
sta andando la serata?»
«Bene,
grazie»
«Ne
sono contenta. Mi ricordo la prima volta che sono venuta a un terzo tempo della
nazionale: mi sentivo un pesce fuor d’acqua» ride, lanciando un occhiata al suo
ragazzo, che risponde al suo sguardo sorridendole.
Riprende
parola:
«È
solo questione di abituarsi, vedrai. Dalla prossima volta in poi sarà sempre
più semplice»
Il
barista ricompare, appoggiando al bancone i drink ordinati, la coppia lo
ringrazia o ognuno afferra il proprio bicchiere. Io non replico, non sapendo
esattamente cosa dire e rimanendo vagamente disorientata dal suo “vedrai che
dalla prossima volta in poi”. È nuovamente lei a ricominciare a parlare –
fortunatamente, perché io davvero non so che dirle.
«Se
posso ti do solo un consiglio» esordisce, rivolgendosi poi al ragazzo: «Tu,
Mark, non ascoltare»
Lui
alza gli occhi al cielo, certamente ha già intuito cosa sta per dirmi la
ragazza:
«Ancora
con questa storia?»
«Sì,
ancora» risponde lei. Dopodiché torna a guardarmi: «Fai solo attenzione a Paul
Roberts e a Aaron Williams. Sei talmente carina che, finché Matt non torna,
potrebbero tentare di abbordarti»
Spalanco
gli occhi, sorpresa sia dal fatto di “rischiare” di essere abbordata da due
giocatori – fra l’altro Paul è il migliore amico di Matt – sia per il
complimento appena ricevuto. Ma è la prima delle due cose a sorprendermi
maggiormente.
«I-in
che senso?» chiedo perplessa.
Lei
risponde subito, parendo eccitata, probabilmente il gossip è uno dei suoi
argomenti preferiti:
«Beh,
di Aaron si sa abbastanza bene del suo interesse costante per le belle ragazze.
Cambia accompagnatrice spesso e il fatto che stasera sia solo lascia
perfettamente intuire che, al momento, non sta con nessuna. Per quanto riguarda
Paul, è single da parecchio e sicuramente è in cerca»
Apro
bocca ma non mi esce alcuna parola ed è Mark a intervenire:
«Deb, smettila» Si rivolge a me: «Non è vero, stai
tranquilla. Sanno che sei con Matt»
«No,
ma guarda che ho ragione» insiste lei.
Lui
si limita a guardarla di traverso e la ragazza scoppia a ridere:
«Va
bene, ok» Si volta verso di me: «Mi saprai dire. Buon proseguimento»
Mi
fa l’occhiolino, mi saluta con la mano e si avvia; Mark la segue dopo avermi
augurato una buona serata. Io rimango immobile a guardare il punto in cui sono
scomparsi fra le persone, pensando seriamente che, quella appena conclusasi, è
stata davvero una conversazione bizzarra. E, soprattutto, mi ha lasciata
interdetta la parte che riguardava Aaron e Paul. Non so se è vero quanto la
ragazza di Mark mi ha detto, ma anche se così fosse non vedo perché dovrebbero
provarci entrambi con me. Non sono l’unico essere di sesso femminile presente
e, in più, Mark ha ragione: si sa – o, almeno, si dovrebbe sapere – che sono in
compagnia di Matt stasera. Anche se noi due non stiamo insieme non è
esattamente carino fare delle avance all’accompagnatrice di un tuo amico.
Mi
rendo conto di incominciare a innervosirmi, penso che prenderò un altro cocktail.
Tuttavia,
appena mi giro verso il bancone, prima di poter fermare il barista, una voce
proviene alla mia sinistra:
«Disturbo?»
Mi
volto, finendo inevitabilmente con il sussultare come inquadro il volto del
ragazzo che si è appena rivolto a me: Paul Roberts.
«Ah… ehm,
no. Nessun disturbo» riseco a dire alla fine, dopo essermi ripresa dalla
sorpresa iniziale.
Paul
non si siede, rimane fermo in piedi accanto a me. Distolgo lo sguardo,
sentendomi improvvisamente in imbarazzo. È sicuramente colpa di quanto mi è
appena stato detto se mi sento a disagio ora, perché incontrare Paul non mi
avrebbe mai potuto fare un simile effetto dato che lui è uno dei tanti
giocatori che ammiro.
«Come
procede il terzo tempo?» chiede poco dopo.
Torno
a concentrarmi su di lui, puntando il mio sguardo nei suoi occhi nocciola che,
noto, virano leggermente al verde. Mi prendo un momento per rispondere,
sufficiente perché io possa ritrovare la stessa tranquillità che ho stranamente
mantenuto tutta sera:
«Sta
andando bene, grazie»
«Ottimo,
mi fa piacere saperlo. Non avevamo ancora avuto modo di incontrarci noi due,
stasera. Cercavo Matt ma è scomparso»
«Sì.
È dovuto andate a fare un’intervista»
«Lo
immaginavo. Riesce sempre a beccarsene un paio anche qui. Ma vedrai che tornerà
presto» mi sorride.
Rispondo
al suo gesto allo stesso modo e lui subito mi tende la mano:
«Sono
Paul»
Gli
stringo la mano:
«Sospetto
che dirti che lo sapevo già non serva a niente, vero?» chiedo.
Annuisce
con il capo:
«Infatti.
Trovo sia buona educazione presentarmi. Poi ho già incontrato più volte persone
che non hanno idea di chi sia, quindi non mi illudo mai che tutti mi possano
conoscere»
Gli
do ragione, dopodiché decido di presentarmi io:
«Io
sono Danielle»
«Lo
so» risponde, senza esitare.
Rimango
sorpresa da quanto ha appena detto. Non avrei mai pensato di sentire una cosa
del genere da lui, o da un qualunque altro giocatore.
Probabilmente,
accorgendosi che la sua affermazione mi ha sconvolta, Paul riprende a parlare,
lasciando la presa dalla mia mano solo ora:
«Matt
mi ha parlato di te»
«Oh,
certo» dico, forse apparendo più delusa di quanto non sia. «Non ci avevo
pensato»
«Sì,
mi aveva detto che sarebbe venuto con te questa sera» Si guarda un momento
intorno, appoggiando poi un gomito al bancone: «Se per te non è un problema
posso rimanere io a farti compagnia finché lui non torna. Non sarebbe carino
lasciarti sola»
Lo
guardo, cercando di capire se nella sua voce ci sia o meno una nota di malizia,
o qualcosa di simile, che possa essermi sfuggita, ma non noto niente del
genere, così come non ne vedo traccia nel suo sguardo.
«Se
a te va di fare due chiacchiere, accetto. Poi, comunque, sono sicura che Matt
arriverà a breve»
«Sì,
sicuramente. Scommetto che è da qualche parte ad accontentare dei giornalisti
che non vogliono lasciarlo in pace. Altrimenti non ti avrebbe mai lasciata sola»
Apro
bocca per parlare, ma come afferro totalmente quello che Paul ha appena detto
mi blocco nuovamente per la sorpresa. Ci metto un paio di secondi pieni per
riprendermi:
«Sì,
beh… Sapevo già che sarebbe successo, me lo aveva anticipato. In fin dei conti
anche questo fa parte del vostro ruolo di giocatori. Anche il terzo tempo non
piò essere solo svago» rispondo, sperando si intuisca che l’ultima parte era in
tono scherzoso.
Pare
di sì, perché Paul sorride, ma non accenna a dire nulla senza prima avermi
osservata attentamente:
«Sono
d’accordo» dice infine, poi mi indica in direzione del barista: «Ti va di bere
qualcosa?»
«Volentieri.
Stavo giusto per prendere un drink»
Paul
chiama a sé il barista, mi chiede cosa voglio e dà entrambe le nostre
ordinazioni, dopodiché, mentre aspettiamo, torna a rivolgersi a me:
«Matt
mi ha detto che studi storia dell’arte, giusto? È interessante»
«È
vero»
«Posso
chiederti se c’è un motivo particolare per cui hai fatto questa scelta o è
semplice passione?»
Ci
penso un momento, ma non a lungo; ormai so cosa rispondere a quanti mi fanno
questa domanda:
«Direi
passione. Sono sempre stata interessata all’arte, così, quando ho deciso di
continuare gli studi, mi è sembrata la scelta più indicata per me. Ogni tanto
gli esami mi fanno impazzire ma non mi sono mai pentita della mia scelta»
Il
barista torna con le nostre bevande e io e Paul lo ringraziamo all’unisono.
Mentre lui beve il suo primo sorso dal boccale di birra io ne approfitto per
fargli una domanda:
«La
tua permanenza in Francia, invece, come va?»
Si
mette a ridere, come se non si aspettasse la domanda e, riceverla, gli avesse
fatto più piacere del previsto. Si asciuga le labbra prima di rispondere e,
quando la fa, ha ancora un sorriso amichevole in volto:
«Va
bene, non posso certo lamentarmi. A Parigi si vive bene ed è davvero bella. Se
proprio devo trovare dei difetti, però, posso dirti che i miei compagni di
squadra francesi scherzano sul mio accento e che la cucina, almeno per me, non
è il massimo»
«Parli
francese?» chiedo, veramente incuriosita.
Paul
ha raggiunto la Francia solo quest’estate, sarebbe ammirevole se avesse già
imparato a parlare in francese senza problemi.
«So
conversare, diciamo così. Faccio ancora qualche errore, questo senz’altro, ma
idiozie non ne dico più»
Beve
nuovamente e, questa volta, lo imito anche io. Passato il momento di sorpresa
iniziale e l’ansia che mi ha assalita dopo quello che Deborah mi ha detto su di
lui, ora, in presenza di Paul, comincio a sentirmi a mio agio. In fin dei conti
stiamo conversando, il nostro è un semplice e reciproco botta e risposta in
attesa di Matt, non c’è niente di male o di malizioso in tutto questo.
«Hai
anche parlato della cucina, prima» riprendo.
Lui
annuisce:
«Sì,
l’ho fatto»
«E
come mai non ti piace?»
«Beh,
per svariati motivi. Innanzitutto, a me non piacciono i formaggi»
«Giustamente
la Francia non è famosa per i
formaggi» intervengo, scherzando.
Ride:
«Esattamente,
vedo che hai capito. E poi, paradossalmente, hanno un pane che è la fine del
mondo»
Lo
guardo, leggermente confusa:
«Cosa
c’è che non va in questo?» domando.
«Il
fatto che i carboidrati sono una delle poche cose che dobbiamo tenere sotto
controllo nella nostra dieta» conclude, esibendosi in un’ironica espressione
rassegnata.
Sorrido:
«Sfortuna,
direi»
«Già.
Poi ci sono anche altre cose, ma non voglio stare qui a farti l’elenco. Ti
basti sapere che, in quanto a cibo, preferisco la mia terra»
Acconsento,
indecisa se raccontargli o meno della mia esperienza americana, giusto per fare
un paragone. Anche io, dopo il mio anno negli Stati Uniti, sono tornata in
Galles e mi sono ritrovata ad apprezzare la mia nazione ancora più di prima.
Anche se, nel caso di Paul, si parla solo della cucina, è già qualcosa. Decido
di dirglielo, sperando di non apparire esibizionista per questo. Tuttavia non
sembra che lui risulti infastidito o disinteressato da quello che prendo a
raccontargli e finiamo per conversare tranquillamente per diversi minuti. Dopo
un po’, però, qualcuno raggiunge il mio interlocutore, appoggiandosi a lui di
peso, mettendogli il braccio sinistro intorno alle spallee tendendo il destro verso di me, un
bicchiere stretto in mano. È Aaron Williams.
«Buonasera»
dice, guardandomi attentamente.
Paul
si volta verso di lui, un sorriso non troppo convinto in volto:
«Aaron»
si limita a dire, semplicemente.
Aaron
non accenna a distogliere lo sguardo da me, continua a scrutarmi con i suoi
occhi azzurri, talmente chiari da sembrare fatti di ghiaccio e che risaltano
ancora di più per via dei capelli scuri, quasi neri. La cosa mi sta mettendo a
disagio, anche perché il suo fascino da “cattivo ragazzo” – come i giornali di
gossip si divertono a etichettarlo – non è semplice da ignorare perfino per me,
che non l’ho mai considerato il mio tipo.
«Noi
non ci siamo ancora presentati» dice, rivolgendosi a me. «Sei la ragazza di
Matt?»
Sussulto
leggermente, affrettandomi a rispondere:
«No.
Io e Matt non stiamo insieme»
La
sua espressione si fa interessata tutta d’un tratto, ma prima che lui possa
replicare, Paul interviene.
Sospira:
«Aaron
si può sapere perché ti sei intromesso?» chiede, liberandosi dal braccio dell’
amico, ancora sulle sue spalle.
L’altro
lo guarda, stupito:
«A
che ti riferisci? È tutta sera che la vedo in compagnia di Matt e mi sono posto
una domanda più che legittima. Poi ho pensato fosse buona educazione venire a
presentarsi»
Afferra
il bicchiere con la mano sinistra, tendendomi la destra:
«Aaron»
Gli
stringo la mano, questa volta risparmiandomi la trafila in cui ammetto di
sapere già il suo nome:
«Danielle»
«Matt
è via da parecchio, non ti pare?» domanda, rivolgendosi a me.
«Matt
tornerà a breve» risponde Paul, pur non essendo stato chiamato in causa.
Io
rimango immobile, senza sapere come comportarmi. Questa situazione sta
assumendo strani risvolti, totalmente inattesi. Ho come l’impressione che Aaron
non sia venuto qui solo per presentarsi e che Paul stia facendo il possibile
perché lui mantenga le distanze da me. Magari mi sbaglio – sicuramente mi
sbaglio – ma questa è proprio l’impressione che ho al momento.
Aaron
si volta verso Paul:
«Tu
allora perché sei qui?»
«Le
sto semplicemente facendo compagnia mentre aspetta. Non volevo lasciarla sola»
L’altro
allarga le braccia, il contenuto ambrato del suo bicchiere oscilla
pericolosamente.
«Beh,
rimango con voi»
Paul
si prepara a ribattere, ma dalla sua bocca esce solo un leggero sbuffo d’aria.
Mi guarda:
«Ti
dispiace se…?» chiede, indicando un punto qualunque della sala.
Sospetto
intenda dire che si vuole allontanare un momento. Gli do il via libera con un
gesto, rimanendo a guardarlo mentre sospinge l’amico. Aaron non sembra gradire
particolarmente la cosa e segue l’altro controvoglia dopo avermi lanciato
un’ultima, lunga, occhiata.
Li
osservo farsi largo fra le persone; come raggiungono una certa distanza Paul si
volta verso Aaron, attaccando a dirgli qualcosa, finché non scompaiono alla mia
vista.
«Assurdo»
mormoro fra me e me, bevendo poi un sorso, e subito dopo un altro, del mio
drink.
Noto
che la birra di Paul è rimasta abbandonata sul bancone, accanto a me. Ciò
significa che, quasi sicuramente, lui tornerà indietro a riprenderla. La cosa
mi sta bene, avere ancora modo di parlare con lui è una prospettiva piacevole:
nei minuti che abbiamo trascorso insieme mi sono trovata bene. La stessa cosa
non penso di poterla dire anche per Aaron. I suoi modi di fare mi hanno messa
abbastanza a disagio in brevissimo tempo e sono scattata sulla difensiva, anche
senon ho avuto modo di dimostrarlo
perché Paul lo ha allontanato da me. Scommetto che quello che teneva in mano
non era esattamente il suo primo drink, anche se mi pareva perfettamente in
grado di intendere e di volere.
Sospiro,
per poi bere nuovamente. Ripensare a ciò che è appena successo mi fa tornare
automaticamente in testa quanto la ragazza di Mark mi ha detto prima. È come se
lo avesse saputo, come se se lo fosse immaginata.
Tuttavia non so se avesse esattamente ragione, se i due uomini mi abbiano
raggiunto per attuare ciò a cui lei mi aveva preparata – Paul non mi ha dato
questa impressione, al contrario – fatto sta che sono successe abbastanza cose
impensabili troppo in fretta e io non ci sono abituata. Magari fra un po’ di
tempo forse, ma stasera proprio no.
Sospiro,
bevendo l’ennesimo sorso dal mio bicchiere.
Quando
il giornalista mi dà la mano dopo aver annunciato la fine dell’intervista quasi
non mi sembra vero. Me ne avevano già fatte svariate di interviste a un terzo
tempo, ma lunga quanto questa mai. Dev’essere dovuta al fatto che siamo nel
post partita del match contro gli All Blacks, ma onestamente non trovo che
questa sia una scusa sufficiente per farmi stare tanto tempo lontano da Danni
proprio stasera. Mi alzo, dando un ultimo saluto ai due giornalisti presenti e
mi avvio fuori dalla stanza sistemandomi giacca, camicia e cravatta. Nella sala
da ricevimento continuano a esserci un gran numero di persone, ciò è
sufficiente a spiegare il caldo che c’è e che mi ha assalito come ho rimesso
piede qui dentro. Mi incammino verso il bar, in modo da potermi ricongiungere
con Danielle che temo di aver lasciato sola per un po’ troppo tempo. Certo, con
questo si sarà sicuramente resa conto di quelli che sono i miei impegni e del
fatto che anche quando vorrei festeggiare in compagnia l’esito di una partita
non sempre riesco a farlo. Se lei ha compreso tutto questo e fosse comunque
disposta a provare a iniziare qualcosa con me sarebbe fantastico. Tuttavia temo
di averla sottoposta a troppe cose in poco tempo. Spero solo che le cose
positive accadute questa sera siano ben superiori a quelle negative. Penso di
sì, comunque; nell’arco della cena l’ho vista aprirsi, sentendosi sempre più
libera di parlare con Darren e la sua compagna. Ha avuto modo di incontrare
numerosi giocatori che vestono la maglia degli All Blacks e anche con loro,
dopo un primo momento di imbarazzo più che comprensibile, ha conversato
tranquillamente. Sono contento di averla invitata qui stasera, non solo perché
a vederla emozionata mentre stringeva le mani dei vari giocatori era davvero
stupenda, ma anche perché, dopo tanto, abbiamo avuto modo di stare nuovamente
insieme per una sera. Anche se non siamo stati sempre solo Danielle e io, lei
era comunque al mio fianco e tanto mi è bastato.
Finalmente
riesco a intravedere il bar e, nel punto in cui mi aspettavo di trovare Danni,
la vedo. Tiene gli occhi bassi sul bicchiere che ha davanti, ticchettando sul
vetro con entrambe le mani. Mi fermo a guardarla, come incantato. L’abito rosso
che porta questa sera fa brillare ancora di più i riflessi dorati dei suoi
capelli e dalla sua acconciatura qualche ciocca è scivolata via leggera. Si
inumidisce appena le labbra, poi solleva lo sguardo, come se si fosse resa
conto che la sto osservando. Riprendo a camminare per raggiungerla, ma come
compio il primo passo qualcuno mi afferra per il braccio, trascinandomi via e
facendomi indirettamente capire che pretende di essere seguito. Riconosco la
più che famigliare figura di Paul.
«Ehi»
provo a chiamarlo, ma sembra che lui non mi senta.
Mi
porta fino a uno degli angoli più vuoti della sala, bloccandosi. Si volta verso
di me ma gli impedisco di parlare per primo:
«Che
c’è?» chiedo.
«Quanto
è durata quell’intervista?»
Sbuffo:
«Troppo»
taglio corto. «Si può sapere perché mi hai trascinato qui?»
«Stavi
andando da Danielle?» domanda lui.
«Ci
stavo provando»
Mi
dà una pacca sulla spalla:
«No,
ehi, tranquillo. Adesso ti lascio andare, dovevo solo dirti un paio di cose»
Faccio
un ampio cenno con la mano per cercare di fargli capire che se vuole dirmi
qualcosa gradirei che lo facesse in tempi ragionevoli.
«Sono
andato a parlare con Danielle» inizia.
«Ah,
sì?»
«Sì,
tu non arrivavi più»
«Non
è stata colpa mia»
«Lo
so, tranquillo» si zittisce.
Rimaniamo
a guardarci un momento, sollevo le sopracciglia, non capendo per quale motivo
il mio amico abbia smesso di parlare.
«E
quindi?» domando alla fine.
Lui
si stringe nelle spalle:
«No,
niente. É adorabile»
«Vero?»
«Sì.
Insomma, ha senso dell’umorismo, è alla mano ed è davvero bella»
«Sono
d’accordo, ma non ti allargare»
Si
mette a ridere:
«Non
preoccuparti»
«Beh,
comunque, mi hai trascinato qui solo per dirmi questo?» chiedo, rendendomi
conto che stanno trascorrendo altri minuti in cui sto lasciando sola Danni.
Paul
risponde subito:
«No,
non solo per questo. Volevo anche dirti di stare attento a Aaron. Danni gli ha
fatto scoprire che voi due non fate esattamente coppia e lui, stasera, è un po’
alticcio»
Sospiro,
spettinandomi i capelli con una mano. Voglio bene a Aaron, sul serio, ma
farebbe bene a iniziare a tenere sotto controllo la sua passione per le donne e
a decidere di sistemarsi dato che ha quasi trent’anni. Non si fa molti problemi
a provarci con le ragazze, soprattutto quando scopre che sono libere e quando
lui non ha pseudo relazioni in piedi.
Guardo
Paul:
«Ti
prego dimmi che ora sta con qualcuna»
Il
mio amico scuote la testa. Alzo gli occhi al cielo, sospirando.
«Lui
adesso dov’è?» domando, più per sicurezza che per altro.So che non è con Danielle, ho appena visto la
ragazza e lei è sola.
«L’ho
affibbiato a Jonathan» risponde.
Lo
guardo:
«È
te che devo ringraziare?»
Si
dipinge un sorriso soddisfatto in viso, come se avesse appena vinto uno dei
premi più importanti della sua carriera. Ciò è più che sufficiente per farmi
capire che, sì, è proprio lui che devo ringraziare. Espiro buona parte
dell’aria che mi è rimasta in corpo, sentendomi decisamente sollevato: se ci ha
pensato Paul so che posso stare tranquillo.
«Grazie»
dico infine.
Il
mio amico sorride:
«Per
così poco?» Dopodiché si fa improvvisamente serio: «Ora, però, vedi di andare»
dice, indicando in direzione del bar.
Acconsento
con il capo, avviandomi. Non serve aggiungere altro con Paul; la nostra
conversazione, per quanto breve, mi è bastata per avere un rapido riassunto di
quanto successo in mia assenza. Paul si era accorto che stavo tardando e ha ben
pensato che lasciare sola a lungo Danni non fosse molto carino, così ha deciso
di fare due chiacchiere con lei in attesa del mio ritorno. Però è subentrato
Aaron, probabilmente semplicemente incuriosito e poi, forse, interessato. Tutto
quanto si è concluso con Paul che “scarica” Aaron a Jonathan, in modo che non
possa dedicare troppe attenzioni a Danielle. Tuttavia, in tutto questo, Danni è
rimasta nuovamente sola. Se ora lei mi mandasse a quel paese lo capirei
benissimo. Finalmente riesco a raggiungerla, senza interruzioni e senza che
qualcuno mi intercetti per portarmi da qualche parte. Mi fermo accanto a lei e,
come mi sente, si volta. Non appena mi riconosce sorride, evidenziando le
fossette sulle guance che, anche se ora conosco alla perfezione, trovo sempre
particolarmente graziose.
«Scusami»
dico subito, prima che lei possa proferire qualsiasi parola.
Mi
guarda, inclinando leggermente la testa di lato:
«Per
cosa?» chiede.
Non
sembra essere minimamente infastidita dal mio ritardo. Quando ho seguito i due
giornalisti per l’intervista le avevo detto che sarei stato assente per una
decina di minuti al massimo, invece sono stato via più del doppio del tempo.
«Per
averci messo tanto» spiego, nonostante sia sicuro che non ce ne sia bisogno.
«Ma
figurati, non preoccuparti. Me lo avevi detto»
Rimango
a guardarla, leggermente sorpreso. Davvero non pare essere infastidita dal
fatto di essere rimasta sola in mezzo a persone che non conosce nonostante io
dovessi farle compagnia.
«Sicura?
Insomma, sono rimasto via un po’»
Annuisce:
«Sì,
davvero, non è stato un problema. Nell’attesa ho parlato con Deborah, Mark,
Paul e ho preso un altro drink» risponde, con leggerezza.
Le
sorrido:
«Per
fortuna. Sai, non avrei mai pensato di metterci tanto e, come mi sono reso
conto del tempo in cui sono stato via, mi sono subito sentito in colpa per
averti lasciata sola» ammetto.
Anche
lei sorride, abbassando un momento lo sguardo:
«Lo
apprezzo» dice. «Ma, sul serio, non è stato un problema. Me lo avevi anticipato
e già immaginavo ti saresti dovuto allontanare per un po’»
Qualcuno
ci raggiunge. Io e Danielle ci giriamo contemporaneamente per vedere di chi si
tratta e ci troviamo davanti Paul. Lui alza una mano:
«Scusate.
Ho dimenticato qui la birra» Si allunga per recuperare il boccale, poi si
rivolge a Danielle: «Ce l’ha fatta a tornare alla fine» ammicca, chiaramente
riferendosi a me.
Mi
strappa un sorriso e i miei occhi si fermano sulla ragazza che, prima di
rispondere a Paul, mi lancia uno sguardo, coronando tutto con un sorriso:
«L’ho
sempre saputo»
Il
mio amico solleva la birra, proprio in mezzo a noi:
«Buon
proseguimento, allora. Ci vediamo nell’arco della serata»
Detto
ciò ci dà le spalle e si incammina, lasciando me e la ragazza da soli.
*
Il
tempo passa quasi senza che me ne renda conto. Io e Danni continuiamo a parlare
di tutto quello che ci passa per la testa, senza interromperci quasi mai.
Quando controllo l’orario, solo per cercare di capire perquale motivo nella sala ci siano sempre meno
persone, mi accorgo che è quasi la mezza.
Danni
nota il mio gesto e, probabilmente, anche l’espressione che ne è conseguita:
«Che
ore sono?» chiede, interrompendo il suo discorso.
«Mezzanotte
e venticinque» rispondo.
«Sul
serio?»
«Già»
«Mmh, ora capisco perché c’è sempre meno gente»
«Immagino
che molti siano già andati in discoteca»
«Andate
anche in discoteca dopo la cena?» domanda, sorpresa.
«Beh,
sì. Chi ha voglia sì. Personalmente non sono tipo da discoteca, quindi ci sarò
andato tre o quattro volte al massimo»
«Non
lo avrei mai pensato, se posso essere sincera. Voglio dire, dopo una partita di
rugby fare anche nottata diventa lunga, sospetto»
«Abbastanza,
in effetti. Ma di solito il giorno dopo la sveglia non suona prima dell’una»
Sorride:
«È
comprensibile» dice, senza poi aggiungere altro.
Si
muove appena sulla sedia, cercando una posizione quanto più comoda possibile.
Mi accorgo che i suoi occhi cominciano a essere leggermente lucidi e la sua postura
e i ritmi dei suoi gesti smascherano il fatto che, ormai, Danni comincia a
essere stanca. Anche io lo sono abbastanza; il mio corpo mi sta mandando
segnali da un po’, i muscoli cominciano a tirare e il collo mi fa male in
qualsiasi posizione stia. Credo sia giunto il momento di concludere la serata,
di riaccompagnare Danielle a casa e poi tornare qui, dai pochi rimasti al terzo
tempo, per un ultimo saluto.
«Sei
stanca?» domando alla ragazza, osservandola mentre tiene gli occhi bassi sul
piano dove il suo bicchiere, vuoto, è rimasto immobile finora.
Mi
guarda e abbozza un sorriso, sollevando impercettibilmente le spalle.
«Aspetta,
riformulo la domanda» mi correggo. «Cosa vuoi fare adesso?»
Danni
prende una lunga boccata d’aria, silenziosamente, come in cerca delleparole migliori per dirmi quello che
sospetto:
«Non
saprei. Sono abbastanza stanca, in effetti. E, purtroppo, domani non posso
svegliarmi all’una» sorride.
Ricambio
il suo gesto allo stesso modo.
«Se
vuoi ti riaccompagno a casa» propongo.
«Sì,
grazie»
Acconsento
e mi alzo dalla sedia. Danni fa lo stesso e si affianca immediatamente a me,
seguendomi verso il guardaroba. Lungo il tragitto incontriamo e salutiamo
alcuni dei giocatori rimasti, fra cui Darren e compagna. Danielle sembra
emozionarsi ancora mentre stringe la mano un’ultima volta al giocatore e questo
mi basta per capire veramente quanto lei lo ammiri. Ci fermiamo un momento
anche con Paul, che conversa animatamente con Jonathan.
Si
volta subito appena lo raggiungiamo, smette di parlare e ci accoglie con un
sorriso:
«State
andando?» domanda.
«Sì.
Riaccompagno a casa Danielle poi torno a salutarvi come si deve» rispondo.
Paul
tende la mano alla ragazza, che gliela stringe sorridendo:
«È
stato un vero piacere conoscerti. Spero di rivederti presto» le dice.
«Anche
per me»
«Vado
a prenderti il cappotto. Torno subito» intervengo, dirigendomi poi verso il
guardaroba e lasciando la ragazza in compagnia dei miei amici.
Come
raggiungo il guardaroba cerco la giacca di Danni, scorrendo uno dopo l’altro tutti
i cappotti appesi. Quando la trovo e mi volto per ritornare dalla ragazza mi
trovo Paul praticamente in faccia.
«Che
ci fai qui?» chiedo, non riuscendo a spiegarmi la sua presenza alle mie spalle.
«Devo
solo darti un consiglio» dice, alzando le mani come per calmarmi.
«Del
tipo?» chiedo, inarcando un sopracciglio.
«Riguarda
Danielle» inizia. Mi posa una mano sulla spalla e si avvicina ulteriormente,
abbassando anche il tono della voce: «Sposala»
Mi
strappa un sorriso e riprende a parlare subito:
«No,
guarda che non sto scherzando. È perfetta per te»
«Apprezzo
che tu la pensi così, sul serio. Ma ci avrai parlato sì e no dieci minuti»
«Sono
stati sufficienti, a parer mio»
Non
rispondo e il mio amico torna subito alla carica:
«Guarda
che se quando torni dopo averla riaccompagnata a casa non hai concluso niente
te la faccio pagare» dice e mi punta contro l’indice destro.
«Ok,
ok. Non c’è bisogno che mi minacci» gli faccio notare.
Paul
si allontana da me e mi guarda, improvvisamente serio:
«Temporeggiare
non ti servirà a niente. Sono certo che lei ricambia i tuoi sentimenti»
«E
cosa te ne fa essere così certo?»
Alza
le spalle:
«Il
fatto che non abbia degnato Aaron di uno sguardo»
«Aaron
sarebbe il tuo metro di giudizio?» domando scettico.
«Beh,
uno dei tanti. Ma se vuoi essere sicuro del fatto che io abbia ragione allora
devi dirle quello che provi»
Abbasso
lo sguardo sul cappotto di Danielle, pensando. Cerco di riordinare i miei
pensieri al meglio e, quando torno a guardare Paul, inspiro una buona quantità
d’aria prima di rispondergli:
«Hai
ragione»
Sorride:
«Bravo
ragazzo» Dopodiché mi dà una pacca sulla schiena e iniziamo a incamminarci per
tornare dove eravamo prima: «Poi, quando torni, mi dici com’è andata»
Arriviamo
praticamente subito da Danni, ancora in compagnia di Jonathan, con il quale
parla tranquillamente. Le allungo il cappotto e lei mi ringrazia.
«Vogliamo
andare?» le chiedo.
Acconsente
con il capo, saluta un’ultima volta sia Jonathan che Paul e mi segue verso
l’ingresso dell’hotel.
Cardiff
è stranamente silenziosa. Per essere quasi l’una della notte fra sabato e
domenica c’è più calma di quanta me ne fossi aspettata. Probabilmente la
maggior parte delle persone sono ancora nella zona del Millennium Stadium a
riempire pub, locali e ristoranti che ne popolano il perimetro.
Io
e Matt ci siamo lasciati alle spalle il mastodontico stadio senza neanche
passarvi vicino e ci stiamo dirigendo verso la mia casa, con calma. Matt sembra
non avere fretta e a me sta bene così, perché non ho voglia di separarmi da
lui, non ancora. Ho accettato di essere riaccompagnata a casa solo perché sono
davvero stanca e domani, al mattino, ho un impegno con mio padre. Ma penso che
anche Matt abbia bisogno di staccare un po’ dalla serata e, senza la mia
presenza, sarà libero di fare quello che reputa più consono per sé. È stanco,
visibilmente stanco. Considerando il pomeriggio che ha trascorso è più che
comprensibile; sul campo da rugby ha certamente speso tutto ciò che aveva, ogni
briciolo di energia di cui era in possesso è rimasto sul prato del Millennium
Stadium. Anche le forze di riserva che ha usato per la cena del terzo tempo
devono essere vicine a esaurirsi. Ha davvero bisogno di riposarsi un po’.
Sollevo
gli occhi su di lui, che cammina da qualche minuto con lo sguardo fisso sulla
strada che ha davanti, in silenzio. Si accorge del mio gesto e mi guarda, gli
occhi celesti resi più scuri dalla poca luce della notte. Sorride:
«Allora
com’è andato il terzo tempo?» chiede.
Non
ho bisogno di pensare a una risposta. Se torno con la mente a quanto è successo
solo poco fa quasi non mi sembra vero. Sono certa che Matt lo sa, che sappia
perfettamente quanto sia stata felice della sua proposta e della serata che
abbiamo appena trascorso. È stato tutto diverso da quanto mi fossi aspettata
fino a questo pomeriggio ma è stato tutto quanto decisamente migliore di ciò
che mi ero immaginata.
«È
stato incredibile, dico davvero» inizio.
Il
sorriso di Matt si fa più dolce e per ricominciare a parlare distolgo lo
sguardo, così da riuscire a continuare il mio discorso senza perdermi nei suoi
occhi:
«Se
ci ripenso mi chiedo se è successo tutto veramente»
Mi
viene quasi da ridere mentre concludo la frase. Mi sento esaltata, totalmente
soddisfatta da ogni minuto che ho vissuto in questa giornata.Perfino ripensare allo stato di ansia che
avevo addosso prima di arrivare alla cena contribuisce a rendere ancora più
speciale il risultato finale. Non avrei mai creduto potesse accadere una cosa
simile a me e solo ora che tutto si è concluso e sto tornando a casa in
compagnia di Matt mi rendo conto di quanto io sia stata fortunata.
«Sono
contento che tu abbia passato una bella serata» dice lui.
«Grazie
ancora per avermi invitata»
Istintivamente
mi sciolgo i capelli, rimasti intrappolati troppo a lungo nella morsa
dell’elastico. Li sento ricaderesulle
mie spalle nonostante il cappotto e li muovo leggermente con la mano. È come se
li volessi usare come scudo, come protezione per nascondere il mio volto,
sentendomi improvvisamente in imbarazzo per quanto ho appena detto e il modo in
cui l’ho fatto. Matt non risponde subito, continua a camminare al mio fianco,
senza fretta, in tutta la sua statura. Improvvisamente le sue dita sfiorano le
mie. Sussulto leggermente, sorpresa, mentre la sua mano pare acquistare sempre
più sicurezza, fino ad afferrare la mia. Il suo tocco è delicato mentre
richiude dolcemente la stretta intorno alle mie dita. Ma non posso fare a meno
di notare la pelle dura e i calli presenti sulla sua mano. Le sue sono le mani
di chi è abituato a stringere palloni fra di esse, di chi respinge avversari
affrontandoli direttamente, fermandoli; la sua è la pelle di chi è abituato a
cadere e rialzarsi dalla terra che spunta fra i fili d’erba. Le mani di Matt sono
quelle di uno sportivo, ma la delicatezza che usa in questo momento è
l’innegabile attenzione di un uomo premuroso. Per un lungo momento mi manca il
respiro; lo riacquisto solo quando sento il ragazzo prendere fiato, riuscendo
quasi a percepire perfettamente il suono che fa mentre inspira l’aria.
«Puoi
venire ogni volta che vuoi» dice in risposta alle mie parole.
Abbasso
lo sguardo sulle nostre mani, le cui dita sono perfettamente intrecciate. Come
sollevo gli occhi noto che Matt mi sta guardando, l’angolo della bocca
incurvato in un leggero sorriso. Sorrido a mia volta, tornando poi a puntare lo
sguardo sulla strada che abbiamo davanti. Vorrei avvicinarmi ancora di più a
lui, vorrei stringermi al suo corpo, camminare stretti l’uno all’altra come le
coppie delle pellicole dei vecchi film. Tuttavia me ne manca il coraggio, non
sono in grado di rendere concreta l’idea che mi si è appena presentata in
testa. Matt riprende a parlare:
«Che
mi dici di Darren?» chiede, lanciandomi un’occhiata.
«In
che senso?»
Solleva
le spalle:
«Come
ti è sembrato. Te lo immaginavi così?»
Ci
penso un momento, ma non a lungo:
«Effettivamente
è come lo immaginavo. È un uomo davvero dotato di carisma e, addirittura, più
disponibile e alla mano di quanto mi fossi aspettata»
Il
ragazzo annuisce con il capo:
«Sì
è ammirevole. Io l’ho già incontrato più di una volta ed è sempre stato degno
di stima»
«Ancora
non mi sembra vero di aver parlato con lui, è davvero pazzesco» mi zittisco
appena mi rendo conto di aver ripetuto per l’ennesima volta la stessa identica
cosa.
«Scusa.
Ormai ne avrai le scatole piene di sentirmi ripetere che è stato tutto incredibile»
riprendo, scimmiottando me stessa.
Matt
si volta a guardarmi:
«No,
anzi. Sono contento che la serata sia stata di tuo gradimento. Mi preoccupava
un po’ il fatto di sottoporti a una simile sera così, di punto in bianco»
«Beh,
allora, se può servire a rassicurarti, sappi che sono stata benissimo. E
comunque dicevo sul serio ogni volta che ti ho detto di non preoccuparti,
stasera. Anche se hai dovuto lasciarmi sola a un certo punto ho trovato
qualcuno con cui parlare»
Lui
si volta a guardarmi, prima con un’espressione confusa poi, sicuramente capendo
a chi mi riferisco, con una divertita:
«Ah, giusto» dice, facendo schioccare la
lingua. «Paul e Aaron sono stati molto invadenti?»
Sollevo
le spalle, ripensando alla breve ma piacevole conversazione con Paul,
interrotta dall’arrivo di Aaron.
«Direi
di no. In verità con Aaron non ci ho parlato molto, ma con Paul ho fatto una
bella chiacchierata, anche se non è durata a lungo»
«Di
cosa avete parlato?»
«Della
Francia. E dell’America»
«America?»
«Sì,
del mio anno che ho trascorso là»
«Ah,
già. È vero. Poi basta?»
«Sì.
Poi è subentrato Aaron. Oltretutto Paul sapeva già cosa studio, mi ha detto che
gli hai parlato di me»
Provo
a punzecchiarlo per vedere se, con questa mia ultima frase, qualcosa dentro
Matt si smuove. Non c’è niente di strano a parlare a qualcuno di un’altra
persona, ma qualcosa dentro di me vorrebbe sentirsi dire da Matt che il motivo
per cui ha parlato di me al suo amico è perché non riusciva a farne a meno;
esattamente come è successo a me con Jenna riguardo a lui. Tuttavia il ragazzo
non si scompone, neanche minimamente. Mi guarda negli occhi mentre risponde,
talmente sicuro e tranquillo da sembrare già consapevole delle parole che avrei
pronunciato.
«È
vero, gli ho parlato di te»
Il
tono con cui pronuncia la risposta e il modo in cui lo fa, senza esitare un
solo attimo, mi fanno sentire improvvisamente in imbarazzo, soprattutto perché,
come a farlo apposta, la mia mente torna a concentrarsi sul tepore della mano
di Matt, ancora stretta alla mia. Interrompo il contatto visivo, rendendomi
conto che non riuscirei a portarlo oltre. Come punto gli occhi davanti a me,
però, mi accorgo che siamo praticamente arrivati a casa mia. Non avevo fatto
caso alla via, alle case che scorrevano accanto a noi, a Arnold’s, con la sua porta a vetri colorati. Ero troppo presa da
Matt, dalla sua voce, dal suo passo lento e rilassato, dal tocco delle sue
dita. Anche se sono stanca e ho bisogno di riposare vorrei che questa strada
continuasse all’infinito, che ogni volta che raggiungiamo la porta di casa mia
quella si spostasse fino all’orizzonte. Tuttavia Matt si ferma proprio davanti
al mio ingresso che se ne sta lì, immobile. Lui si gira verso di me in modo da
avermi proprio di fronte, sotto agli occhi. Lo vedo scrutare per un momento la
facciata di casa mia, vagando con lo sguardo per un po’ su di essa, per poi
tornare a guardare me.
Sorride:
«Siamo
arrivati» dice.
Anche
io sorrido, rendendomi conto che il mio è più che altro un abbozzo. Fra di noi
cala il silenzio; non so dire se la situazione mi stia mettendo più in
imbarazzo o a disagio. Sembra quasi che nessuno dei due voglia staccarsi
dall’altro. A quest’ultimo pensiero abbasso lo sguardo sulle nostre mani,
sempre una nell’altra, senza farlo apposta ma d’istinto.
«Danni»
Come
sento Matt chiamarmi torno a guardarlo subito. Lui temporeggia un momento,
prende una lunga boccata d’aria prima di ricominciare a parlare:
«Prima
che tu vada ho bisogno di dirti una cosa»
Acconsento
con il capo, cercando di rimanere tranquilla. Matt sembra improvvisamente più
agitato del solito, come se stesse cercando il modo migliore per concentrarsi
nel tentativo di prepararsi ad affrontare qualcosa. Mi accorgo che deglutisce,
che la sua cassa toracica si alza per un lungo momento per via dell’aria che
respira. Poi, all’improvviso, torna a puntare i suoi occhi nei miei e tutta la
sicurezza di cui dispone mi si presenta davanti.
«Tu
sei una ragazza intelligente e sono certo che sai già perfettamente quanto sto
per dirti»
Scandisce
accuratamente ogni parola, con sconvolgente tranquillità. Le sue esitazioni di
pochi secondi fa sono scomparse, anche volendo non riuscirei a trovarne
traccia. Cerco di mantenere lo sguardo saldo su di lui, ma a fatica. Quanto ha
appena detto mi ha bloccata, ha fatto perdere un paio di colpi al mio cuore e
ha reso improvvisamente la mia bocca asciutta. Ciò che sta per dirmi si palesa
ora nella mia testa, anticipata dal suo gesto di prendermi per mano. Sono quasi
sicura di quello che vuole farmi sapere e, davvero, non vedo l’ora che lo
faccia per sentirmi morire. Tuttavia una piccolissima parte di me si ostina a
ripetermi di non farmi illusioni e di aspettare a cantare vittoria per quella
che sarebbe la perfetta conclusione di una serata incredibile.
«Eviterò
i giri di parole perché proprio non sono il tipo»
Quando
il ragazzo riprende a parlare trattengo involontariamente il fiato; dopo quel
primo tuffo iniziale il mio cuore ha preso a battere a ritmi sfrenati e non
accenna a rallentare.
«Tu
mi piaci. Ecco tutto»
Spalanco gli
occhi. Le sue parole hanno un suono così dolce e inatteso che non so
neanche come reagire. Rimango a guardare Matt fino a rivivere nella testa ciò
che è appena successo, sentendo infine un sorriso affiorarmi in volto. Non
sapendo cosa dire l'unica cosa che riesco a pronunciare è un insignificante:
«Ah sì?» che strappa un sorriso al ragazzo. «Già» Fatico a resistere oltre, porto entrambe le
mani sul mio volto, per nascondere il sorriso che si ostina ad allargarsi
sempre più, perdendo la presa dalla mano di Matt, che lascia
scivolare la mia con tranquillità. «Non riesco a crederci» mormoro. «Oddio scusa, mi sento un'idiota»
Torno a guardare il
ragazzo che è sempre fermo davanti a me, calmo.
«É solo che non avrei mai pensato di
sentirtelo dire» ammetto.
È la verità. Da
quando mi sono resa conto di ciò che provo per Matt ho sempre pensato che
farsi illusioni su una possibile storia fra di noi fosse un gigantesco
errore. Anche se pochi minuti prima avevo già sospettato quello che lui mi
ha poi detto, sentire pronunciare quelle parole da lui stesso ha dato un
altro sapore alla cosa. «Ciò significa che se ora ti chiedessi
di cominciare a fare con me tutta quella serie di cose che fanno le
coppie, accetteresti?» Mi perdo letteralmente nei suoi occhi mentre
rispondo: «Non esiterei un momento a dirti di sì» Matt sorride, con dolcezza: «Grande» sussurra.
Continuiamo a
guardarci. Mi sembra quasi di essere isolata dal resto della città che continua
a vivere intorno a noi in un modo o nell’altro. Ho un tale ammasso di emozioni
dentro di me che vorrei mettermi a gridare la mia felicità al mondo, correndo
da un capo all’altro di Cardiff, eppure, al contempo, non riesco più a
staccarmi dagli occhi di Matt. È nuovamente lui a fare la prima mossa, con
quella sicurezza che lo contraddistingue, con quella tranquillità invidiabile
che lo rende così unico. Il suo sguardo scivola un solo secondo sulla mia bocca
e ho già capito cosa sta per fare; infatti, subito dopo, si china verso di me e
si avvicina sempre più, portando le sue labbra sulle mie. È un contatto leggero,
morbido, che si fa via via più concreto. Gli occhi mi si sono istintivamente
chiusi mentre vengo avvolta dal profumo, anche se flebile, della sua colonia e
faccio il possibile per memorizzare al meglio il suo sapore. Respirare quasi
non ci serve più. La sua aria diventa la mia, così come la mia diviene sua. I
pensieri si azzerano e tutto passa in secondo piano: siamo solo io e Matt. Lo
sento mentre fa scorrere la mano lungo il mio collo, fino alla nuca, facendosi
strada fra i capelli ora sciolti.
Quando
lui si allontana da me ci lanciamo una occhiata, per accertarci entrambi che
tutto è realmente successo, che il sapore che ognuno ha sulle labbra sia
effettivamente quello dell’altro. E quando ci rendiamo conto che, sì, è andato
tutto nel modo in cui lo abbiamo vissuto, finiamo inevitabilmente con il
sorridere.
Tuttavia
io non so che altro fare; vorrei dire a Matt tante di quelle cose, vorrei
porgli tante di quelle domande su ciò che è successo e succederà da questo
momento in poi che mi si accavallano a tal punto da non riuscire più ad
affiorare dalla mia bocca. Così il mio corpo si muove da solo, avanzando di un
solo passo, fino a posarmi contro il suo. Il ragazzo mi cinge con le braccia,
in silenzio, dandomi un leggero bacio sulla testa. Mi sento così bene qui, in
questa sera novembrina di Cardiff, che non vorrei mai separarmi da lui.
Tuttavia sento Matt prendere fiato e, prima ancora che inizi a parlare, sollevo
lo sguardo su di lui. Siamo talmente vicini che mi basterebbe alzarmi in punta
di piedi per baciarlo una seconda volta.
«Di’
un po’, domani mattina posso chiamarti?» chiede con tranquillità, come sempre.
«Puoi
chiamarmi tutte le volte che vuoi» rispondo.
«Non
darmi troppe libertà» mi confida, sussurrandolo.
Gli
sorrido, separandomi da lui:
«D’accordo.
Allora vada per domani mattina»
Rimane
a guardarmi, un leggero sorriso ad addolcire ulteriormente il suo volto. È
venuto il momento di separarci e, anche se sempre più controvoglia, devo decidermi
a salutarlo. In fin dei conti, ora, non mi servono scuse o preghiere a
qualsivoglia divinità per sperare di tornare a uscire con Matt. Dopo questa
sera, questa serata magica che è migliorata sempre più ogni minuto che passava,
mi bastano una semplice chiamata o un messaggio.
«Grazie
ancora per tutto» dico.
«Dovrei
essere io a ringraziare te per aver accettato di venire e…» si interrompe,
compiendo un gesto vago con la mano. Ho come l’impressione di aver visto Matt
improvvisamente alle prese con un leggero imbarazzo e il fatto che gli sia
successo proprio ora, nonostante prima sia riuscito a dirmi con sicurezza
quello che prova, fa decisamente tenerezza.
«Quindi
ci sentiamo domani?» domando, inclinando leggermente la testa di lato.
Annuisce:
«Ci
sentiamo domani»
Si
avvicina a me, dandomi un nuovo bacio. Con molta probabilità dura anche più del
precedente e io faccio il possibile per assaporarlo al meglio, alla ricerca di
qualcosa che, in quello di prima, potesse essermi sfuggita.
Come
ci separiamo Matt mi guarda subito:
«Buonanotte»
mormora.
Gli
sorrido:
«Buonanotte»
Apro
la porta di casa, salutando il ragazzo un’ultima volta. Come mi chiudo l’ingresso
alle spalle prendo una lunghissima boccata d’aria, resistendo a stento
all’impulso di scoppiare a ridere. Mi passo le mani sul volto, sempre
respirando a fondo. Non ricordo neanche l’ultima volta che mi sono sentita
così, che mi sono sentita come se nulla, nella mia vita, potesse andare per il
verso sbagliato. Guardo verso il piccolo soggiorno di casa mia, in cima alle
scale. Jenna è rimasta da me, questa sera, perché voleva sapere seduta stante
l’esito del terzo tempo. Temo che non andrò a letto molto presto se dovessi
decidere di dirle subito quello che è appena accaduto con Matt, ma voglio
assolutamente farlo. Voglio condividere con lei la mia gioia e la mia
incredulità per la fine di questa serata, così da poter crollare a letto,
subito dopo, felice.
Dovrei
rimettermi a camminare. Dirigermi verso l’albergo per tornare al terzo tempo a
salutare i miei amici, così da poter rientrare nel mio appartamento per
buttarmi finalmente nel letto, ancora vestito, concludendo la serata come ho
già fatto altre volte.
Tuttavia
non riesco a muovermi, continuo a rimanere impalato, gli occhi fissi sulla
porta di casa di Danielle, dove lei è appena entrata dopo essersi voltata
un’ultima volta sorridendo.
Mi
passo una mano fra i capelli al pensiero di quanto lei fosse bella stasera, con
il suo abito rosso, i capelli raccolti e il trucco leggero. Ripenso
automaticamente a tutti gli sguardi e i gesti che ha compiuto mentre le dicevo
– con le parole più immediate e, probabilmente, insignificanti che conosco –
quello che sento per lei; mi sono accorto che ha sussultato impercettibilmente,
che la presa sulla mia mano si è fatta più serrata, che le sue spalle si sono
irrigidite. Per me, tutti questi, sono stati segnali sufficienti a farmi capire
che Danni aveva intuito ciò che stavo per dirle e che, al contempo, desiderava
che lo facessi.
Faccio
un lungo respiro e mi sembra di sentire ancora il profumo della ragazza,
mischiato dolcemente all’odore di Cardiff. Ho fatto il possibile per
memorizzarlo mentre saliva delicatamente dai suoi capelli quando il suo corpo
era vicino al mio. Così come ho fatto il possibile per assaporare fino in fondo
il gusto custodito sulla sua bocca.
Sento
un leggero fremito percorrermi al pensiero del bacio scambiato con Danni, a
quel contatto lieve che lei non ha esitato a ricambiare, schiudendo le labbra
affinché il suo respiro potesse incontrare il mio. Ho percepito perfettamente i
suoi muscoli che si rilassavano mentre facevo scorrere la mia mano lungo la
linea sinuosa del suo collo, fino a raggiungere i suoi capelli. E lo sguardo
che ci siamo scambiati appena ci siamo separati è stata la conferma che nulla
era rovinato ma che tutto può solo migliorare.
Io
e Danni abbiamo appena iniziato una relazione. Dovremo affrontare l’argomento a
quattr’occhi, chiarire determinate cose, ma non penso che dopo stasera tutto
resterà come i giorni precedenti. Non posso desiderare altro. Da quando l’ho
conosciuta fino a oggi sono passati quasi tre mesi, non è molto tempo, ne sono
consapevole, eppure non mi sembra di avere mai preso una decisione sbagliata
che la riguardasse in tutti questi giorni in cui ho avuto a che fare con lei.
Danni è una ragazza semplice, indipendente e intelligente, un mix letale e
problematico per chiunque sia alla ricerca di una donna che lo assecondi e
basta. Invece non è ciò che cerco io, quello che speravo di trovare in una
ragazza è la capacità di essere continuamente in grado di stimolarmi, sotto
qualsiasi punto di vista. Sono sempre stato un amante del confronto e del
dialogo e non c’è niente che mi attiri di più in una ragazza che la prospettiva
di avere a che fare con qualcuna che non ti stanca mai, che troverà sempre un
modo o l’altro per aiutare a far passare il tempo.
Dev’essere
stato questo ad attirarmi fin da subito in Danielle. Fin da quel primo terzo
tempo in cui lei è rimasta con me mentre aspettavamo il ritorno di Jamie. Ho
capito che con lei ci sarebbe sempre stato qualcosa di cui parlare, per tale
motivo l’ho invitata a bere qualcosa solo pochi giorni dopo. Con il passare del
tempo le nostre conversazioni, per quanto brevi nei semplici rientri a casa,
sono diventate qualcosa di talmente piacevole che mi sentivo sempre più a mio
agio. Con Danni potevo – e posso – essere semplicemente Matt, il ventiseienne che
ama giocare a rugby e guardare serie tv, e non Matthew Evans, il capitano
gallese. Non so se sa quanto questo ha significato per me. Ripensare a lei, al
nostro legame che si rafforzava fino a sfociare in ciò che è successo stasera,
mi fa battere il cuore come a un ragazzino. Non riesco a smettere di sorridere,
sono certo che Paul capirà da solo quanto è appena accaduto, gli basterà
guardarmi in faccia.
Mi
incammino per tornare al terzo tempo, dopo aver frenato a forza il mio corpo
dall’impulso di suonare il campanello di casa di Danielle per chiederle di
stare ancora un po’ con me.
Strada
facendo ripenso alla giornata di oggi, alla partita, al Millennium Stadium, ai
tifosi che ci hanno sostenuto fino alla fine, credendo profondamente nelle
nostre capacità. Mi torna alla mente il clima negli spogliatoi e il mio stato
d’animo che, ora, ricordo a malapena. E ripenso anche al terzo tempo, a tutto
quello che è successo, finendo inevitabilmente con il tornare coi pensieri a
Danni. Devo ancora abituarmi all’idea che ora potrò vederla ogni volta che
voglio, che potrò sentirla appena ne avrò bisogno, che potrò andare a trovarla
senza un vero motivo, solo per stare con lei; ci metto sempre un paio di giorni
ad adattarmi alle novità che subentrano nella mia vita.
Smetto
di camminare, sollevando lo sguardo sull’albergo che mi si para davanti: sono
arrivato, è giunto il momento di raccontare tutto quanto al mio amico Paul. Al
solo pensiero mi viene quasi da ridere, perché sono certo di sapere già quello
che mi dirà appena mi vedrà, le espressioni che assumerà durante il mio
racconto e, quasi certamente, anche quale sarà il suo commento alla fine. Non
per niente siamo come fratelli.
Mi
avvio, rientrando nell’albergo. Saluto il receptionist e proseguo fino alla
sala da ricevimento, ormai vuota in gran parte. Scruto fra le persone ancora
presenti, sia per vedere chi è rimasto al terzo tempo, sia per riuscire a
scovare Paul; dubito che il mio amico se ne sia già andato, non avrebbe mai
lasciato la festa senza prima aver atteso il mio ritorno, non stasera almeno.
Lo trovo vicino al bancone del bar, intento a conversare allegramente con uno
dei piloni neozelandesi. Lo raggiungo, camminando con calma, ripetendo
mentalmente a me stesso di evitare di assumere qualsivoglia espressione che
possa smascherare al mio amico quanto è successo prima con Danielle: voglio che
sia una sorpresa e che lui fatichi, e parecchio, per scoprirla.
Quando
sono accanto ai due uomini mi fermo, rimanendo in silenzio in attesa di venire
considerato da entrambi o da uno dei due. Non devo aspettare a lungo: come
arrivo si voltano. Paul si dipinge in volto un gran sorriso e Kieran, il suo
interlocutore, mi accoglie con un cenno.
«Già
di ritorno?» mi punzecchia immediatamente il mio compagno di squadra.
«Sì,
già di ritorno» replico, cercando di non lasciargli intravedere nulla su quanto
successo. «Non volevo interrompervi, scusate. Se dovete finire di parlare
ripasso dopo»
Paul
e Kieran si scambiano un’occhiata ed è quest’ultimo a riprendere parola:
«No,
non preoccuparti. In totale onestà sospetto fossimo giunti alla fine»
«Esatto»
conferma Paul.
«Vado
a vedere cosa stanno combinando gli altri. Ci vediamo più tardi»
Il
neozelandese si congeda con queste ultime parole, dopo aver atteso che noi
ricambiassimo il saluto. Mi volto verso Paul, notando che lui mi sta guardando,
un sopracciglio alzato e un sorriso vittorioso in volto:
«Allora?»
domanda.
«Allora
cosa?» chiedo di rimando.
«Oh,
andiamo» sbotta. «Sai perfettamente a cosa mi riferisco, non fare il finto
tonto. Non ti caverò a forza le parole di bocca, stasera, quindi faresti meglio
a iniziare a raccontarmi tutto quanto»
Mi
strappa un sorriso e, alla fine, scuoto la testa divertito. Non posso
pretendere che si trovi le risposte da solo, questa volta gli racconterò com’è
andata. Ma alla prossima occasione lo farò penare senz’altro.
«D’accordo,
ok. Allora…» attacco, ma lui mi interrompe, piazzando una mano aperta davanti
al mio naso.
«Ah-ah,
aspetta, non ancora. Prima prendiamoci qualcosa da bere. La narrazione è più
fluida con una bionda fra le mani»
Detto
ciò si volta verso il bar, chiamando a sé il barista con un cenno. Ordina due
birre e non si azzarda a dire una parola prima che queste arrivino. Appena gli
vengono servite Paul torna a concentrarsi su di me, allungandomi uno dei due
boccali. Solleva il suo:
«Mi
auguro di essere in procinto di brindare a qualcosa» dice, alludendo, non
troppo velatamente, a quello che ho cercato di dirgli solo pochi minuti fa.
Mi
limito a guardarlo, tentando di rimanere serio, per quanto impossibile. Infatti
non ci riesco, un sorriso affiora sulle mie labbra e, a giudicare
dall’espressione che il mio amico assume, non è così invisibile.
«Lo
sapevo, lo sapevo» esclama, esaltandosi. «Vedi che hai fatto bene a seguire il
mio consiglio?»
«Ma
di che stai parlando?» domando, al solo scopo di provocarlo un po’.
«Non
prendermi in giro. Chi è stato a dirti di darti una mossa?»
Indica
la sua faccia con un eloquente gesto, poi sembra riflettere un momento:
«Glielo
hai detto, vero?»
«Sì,
gliel’ho detto. Ma non dovevo essere io a raccontarti tuttosenza che tu mi cavassi le parole di bocca?»
cito, guardando Paul di sbieco.
Lui
si blocca:
«Hai
perfettamente ragione»
Mi
lascia il via libera con un cenno dopo avermi pregato di evitare i particolari
più melensi – che, comunque, non glieli avrei certamente detti – e inizio a
raccontargli, finalmente, tutto. Sono il più sintetico possibile, sia perché
non sono bravo a romanzare qualcosa, sia perché conosco Paul e so perfettamente
che lui non vuole che si giri troppo a lungo intorno al succo della questione.
Per questi motivi il mio resoconto si limita al rientro a casa di Danielle, a
me che le dico semplicemente quello che sento, a ciò che ci siamo detti dopo e
al bacio che ci siamo dati a conclusione di tutto. Il mio amico rimane ad
ascoltare in silenzio, senza interrompermi una sola volta. Di tanto in tanto
beve un sorso della sua birra, sollevando le sopracciglia eincurvando l’angolo della bocca nei momenti
salienti, ma sempre senza aggiungere nulla di più. Quando termino il mio
racconto mi zittisco, attendendo che sia lui il primo a dire qualcosa. Paul non
si fa aspettare a lungo; si mette a ridere di soddisfazione, sbandierando una
delle sue esultanze più contagiose. Mentre parlavo sono riuscito a rimanere
serio proprio perché anche lui lo era, ma ora, davanti al sorriso che mi
propone e che mi ricorda che con Danni è davvero successo tutto quanto, non
posso fare a meno di imitarlo.
Allarga
le braccia:
«Sono
davvero, davvero, contento per te» inizia. Si avvicina a me e mi abbraccia,
lasciandomi abbastanza perplesso: «Te lo meriti, amico mio. Anzi, ve lo
meritate entrambi» continua.
Appena
si stacca da me lo guardo, indicando poi la birra che tiene in mano:
«Quante
ne hai bevute di quelle?» chiedo.
Ride:
«Non
quante ne pensi. È che sono seriamente felice per te. Quella ragazza ti piace
davvero, l’ho capito dalla prima volta in cui me ne hai parlato»
Mi
limito a sorridere, senza replicare.
«Domani
vi vedete?» chiede Paul, dopo un po’ di silenzio.
Alzo
le spalle:
«Direi
proprio di sì. Domani la chiamo e sento cosa vuole fare. Abbiamo un paio di
cose di cui parlare»
«E
che non avete affrontato stasera»
«No,
infatti. Danni era davvero stanca, si vedeva. Almeno, ora, posso dire che
abbiamo tempo per parlarne con calma, io e lei»
«Senz’altro.
Sei stanco anche tu, vero?»
Il
suo tono si fa più premuroso a quest’ultima domanda. Annuisco con il capo,
abbozzando leggermente un sorriso. Paul ha ragione, sono stanco. Come ho
rimesso piede qui dentro ho sentito il mio corpo cedere improvvisamente, pareva
quasi avesse mantenuto le ultime energie per permettermi di dire a Danielle
quello che provo, poi, una volta fatto, le forze mi hanno completamente
abbandonato. Resisto per inerzia, solo perché il mio corpo ci è già passato e
so con che ritmi procedere.
«Andiamo
a sederci, allora» propone Paul.
Io
acconsento e lo seguo verso uno dei tavoli della sala. Finita la birra me ne
tornerò a casa per poter finalmente dormire, lasciandomi cullare da tutti i
pensieri che, certamente, mi riempiranno la testa prima di prendere sonno. Ma
non sarà un problema, perché sono certo che questa volta saranno positivi
nonostante la sconfitta contro gli All Blacks. Stanotte è il rugby a passare in
secondo piano.
Matt
mi cammina davanti di qualche passo, si volta verso di me, sorride e mi tende
la mano:
«Vieni»
dice appena gliel’afferro.
Proseguiamo
per il corridoio e come dà sull’esterno una luce bianca quasi mi acceca. I miei
occhi si abituano in fretta a questo improvviso bagliore, Matt smette di
camminare e così faccio anche io. Lascio scorrere lo sguardo tutto intorno a
me, facendomi sfuggire una monosillabica espressione di sorpresa appena
mormorata fra le mie labbra.
Sono
al Millennium Stadium, sul prato del Millennium Stadium e vi sono appena
entrata attraverso il corridoio che i giocatori imboccano ogni volta che devono
prepararsi a giocare la loro partita. Sto avendo la possibilità di ammirare uno
dei mostri sacri degli stadi rugbistici completamente vuoto a eccezione di me e
Matt. Sembra tutto quanto surreale, quasi magico. Non ho mai visto questo
stadio senza persone, tutte le volte che ho messo piede qui dentro l’ho sempre
fatto quando ogni posto a sedere era occupato da qualcuno, quando Delilah
rimbombava ovunque fra queste mura. Invece ora c’è solo silenzio, silenzio dappertutto.Sembra davvero un altro posto, pur essendo lo
stesso mi sembra di essere entrata in un luogo in cui non avevo mai messo piede
prima. Per me è un’emozione unica, proprio come unico è il fatto di poter fare
questa esperienza in compagnia di Matt, che ora posso definire a tutti gli
effetti il mio ragazzo.
Domenica
scorsa, il giorno dopo la partita fra Galles e Nuova Zelanda, il giorno dopo
quel terzo tempo, io e Matt ci siamo visti per chiarire diverse cose riguardo
la relazione che eravamo in procinto di iniziare. Il ragazzo mi ha raggiunto a
casa mia, appena arrivato ci siamo dati un lungo bacio, probabilmente ben più
lungo dei due che lo hanno preceduto e davanti a un caffè abbiamo semplicemente
parlato di ciò che speriamo e ci aspettiamo di vivere in compagnia dell’altro.
Nessuno dei due vuole una relazione superficiale. Essendo entrambi più vicini
ai trent’anni che ai venti pensiamo che la nostra storia debba essere
affrontata da persone mature ed è esattamente così che abbiamo deciso di
portarla avanti. Ognuno di noi ha bisogno dei propri spazi, dei propri momenti
da trascorrere con gli amici o in solitudine. Matt non ha esitato a dirmi di
rispettare il mio volermi sentire emancipata e indipendente, così come io gli
ho garantito che avrà sempre il mio sostegno e la mia comprensione per quanto
riguarda la sua carriera rugbistica. So perfettamente che non sarà tutto
semplice, perfetto e bellissimo, che ogni tanto qualche battibecco fra di noi
ci sarà sicuramente, che scelte infelici potrebbero essere prese da parte di
entrambi, ma sono pronta a correre il rischio, se così lo possiamo chiamare.
Matt mi piace veramente, ora non ho più dubbi.
Smetto
di guardarmi intorno, accorgendomi che lui mi sta osservando, sorridendo:
«Che
te ne pare?» chiede.
«È
incredibile. Mette quasi i brividi» rispondo, lanciando un’ultima occhiata in
giro, sugli spalti vuoti.
«Vero.
Anche se lo preferisco pieno di gente, devo ammettere che in questo stato mi
rilassa notevolmente»
Avanzo
di qualche passo, affondando appena con le scarpe nel prato del campo da rugby.
Alla fine, un passo dopo l’altro, arrivo al centro dello stadio. Mi volto verso
Matt, rimasto fermo sulla linea di bordocampo. Lui ricambia il mio sguardo e
subito dopo si avvia, raggiungendomi e fermandosi di fronte a me.
«Pronto
per domani?» gli chiedo non appena l’ho vicino.
Si
volta un momento, osservando il corridoio di ingresso al campo. Domani lo
attende l’ultimo dei test match di novembre, contro la nazionale sudafricana.
Gli Springboks sono secondi nel ranking mondiale e certo non sono avversari
semplici contro cui misurarsi. Sono certa che Matt lo sappia meglio di me e
sospetto che uno dei motivi per cui abbia deciso di venire qui oggi sia quello
di tentare di trovare un po’ di pace prima della partita.
Torna
a guardarmi:
«Sì.
Direi proprio di sì» risponde, con quella sua sicurezza unica.
Gli
sorrido, felice nel vederlo così. Domani sarà un’altra prova importante per lui
e la nazionale gallese e certamente ogni giocatore darà il massimo per chiudere
questo Autunno Internazionale nella maniera migliore, dando l’ennesima prova di
determinazione e orgoglio che certo non manca ai quindici che scenderanno in
campo da titolari.
«Con
chi verrai a vedere la partita?» chiede Matt quasi subito.
Due
giorni fa mi ha regalato due biglietti per il match, quelli che la squadra
concede abitualmente ai propri giocatori. Matt mi ha detto che gli avrebbe
fatto piacere avermi sugli spalti e potermi vedere anche prima del terzo tempo
a cui questa volta parteciperò a tutti gli effetti come la ragazza del capitano – appellativo che, ho scoperto, mi era stato
attribuito dalla ragazza di Mark al termine della scorsa cena.
«L’ho
dato a Jamie» gli confido.
Sorride:
«Ero
convinto ci saresti venuta con Jenna»
«No,
lei può benissimo vederla a casa con il suo fidanzato. Per Jamie invece vivere
le partite della nazionale al Millennium Stadium è sempre un’emozione unica.
Non potevo lasciargliela sfuggire dopo l’opportunità che mi hai dato»
«Allora
Jamie sarà contento»
«Lo
è già»
«Mi
fa piacere»
Mi limito a sorridere, aspettando che lui
continui la conversazione, abbastanza sicura che a breve Matt aprirà bocca per
dire qualcos’altro. Tuttavia nulla di tutto questo succede; il ragazzo non
fiata, si limita a inumidirsi appena le labbra, protraendo ulteriormente il
silenzio.
«Sei
davvero sicuro che sia tutto a posto?» domando poi, notando che il suo sguardo
vaga sugli spalti in modo sempre più incerto.
«Sì,
certo. È solo che sono un po’ nervoso. Lo sono sempre prima di un match, specie
se importante quanto quello di domani»
Penso
il più in fretta possibilea cosa potergli
dire per tranquillizzarlo, ma lui riprende parola prima che possa pronunciare
qualsiasi cosa:
«È
solo che, il più delle volte prima di una partita, mi trovo sempre a chiedermi
cosa spinga Jones a ogni convocazione a riconfermarmi» Si stringe nelle spalle:
«Non mi riferisco solo al mio ruolo di capitano, ma anche a quello di numero
sette. Davvero in tutto il Galles non esiste un terza linea migliore di me?»
Rimango
a osservarlo, colpita dalle sue parole. Matt mi ha appena rivelato una delle
sue insicurezze più grandi e non so quante persone ne siano a conoscenza poiché
lui non parla molto di sé di sua spontanea volontà. Fatto sta che questa volta
so perfettamente cosa rispondergli, perché ho avuto modo di osservarlo come
semplice tifosa prima e come amica e ragazza dopo.
Alzo
appena le spalle:
«Beh,
probabilmente, da qualche parte, un numero sette migliore di te può esserci.
Tuttavia, ammesso che esista, non si è ancora fatto vivo»
Abbozza
un sorriso e io riprendo parola:
«Jones
non è uno sprovveduto, ha sicuramente i suoi buoni motivi per darti fiducia
ogni volta e, sai, io sono perfettamente d’accordo con lui. Semplicemente tu
sei il più indicato sia come terza linea che come capitano, al momento non c’è
in giro nessuno in grado di sostituirti in uno di questi due ruoli. Se c'è una
cosa che ho imparato in tutti questi miei anni da tifosa del Galles, è che
tutti i mille sessantanove uomini che hanno vestito quella maglia prima di te
erano testardi e orgogliosi, esattamente come lo sei tu»
Respiro,
guardando il ragazzo dritto negli occhi:
«Tu
sei un Dragone. E se mi dicessi di nuovo che non sei sicuro di questo io non ti
crederei»
Lui
sa perfettamente di cosa sto parlando. Sulla maglia della sua divisa da
giocatore, proprio sotto il simbolo della nazionale, vi è cucito con del filo
bianco il numero 1070. È un monito, una promemoria: serve a ricordare che,
prima di lui, altri mille sessantanove uomini sono stati giocatori del Galles e
che tutti loro hanno onorato e rispettato la maglia rossa nell’esatto modo in
cui ora lo sta facendo Matt. Il suo sorriso si fa più convinto, torna a essere
sicuro e luminoso, così come il suo sguardo si fa fiero.
«Grazie»
dice.
Replico
con un sorriso, sentendomi soddisfatta dell’esito che le mie parole hanno portato
al giocatore. Credo fortemente in tutto ciò che gli ho appena detto e sono
contenta di essere riuscita a confessarglielo, anche se certamente non può valere
quanto una dichiarazione d’amore. A quest’ultimo pensiero mi viene spontaneo
schiarirmi la gola, come preoccupata che Matt possa aver sentito quanto ho
appena pensato.
Punto
con il dito su uno degli spalti, più o meno all’altezza della quinta fila di
sedie:
«Domani,
a quest’ora, io sarò lì» dico.
Sono
consapevole che non c’entri nulla con quanto stavamo dicendo prima io e il
ragazzo, ma forse cambiare argomento pur continuando a parlare di rugby e della
partita di domani, ci eviterà di infilarci in conversazioni troppo profonde per
cui devo ammettere di non sentirmi ancora pronta. Io e Matt stiamo insieme da
soli cinque giorni e, qualunque cosa possano pensare gli altri, cinque giorni
per riuscire a gettarsi totalmente in una storia non sono sufficienti. Anche se
ora posso permettermi maggiori libertà con il ragazzo, esternare il mio lato
più sentimentale mi fa sempre sentire in imbarazzo e, ciò che gli ho detto poco
prima, almeno per me, non sono state parole semplici da mettere in fila.
Matt
porta lo sguardo sul punto che ho appena indicato, dopodiché controlla
rapidamente l'orologio e torna a rivolgersi a me, sorridendo:
«Io
invece sarò qui»
Entrambi
abbassiamo lo sguardo sul campo da gioco, la cui erba è perfettamente tagliata.
Nessuno di noi dice più nulla, quando sollevo lo sguardo su Matt mi accorgo che
continua a tenere gli occhi fissi sul prato, apparendo pensieroso.
«Non
ti ho mai visto tanto preoccupato» gli dico.
Torna
immediatamente a guardarmi, gli occhi celesti si posano subito sui miei e sul
suo viso affiora un sorriso, prima un semplici abbozzo, quasi intimidito, che
si fa via via più dolce:
«Non
mi hai mai visto prima di una partita, in effetti» confida.
Rimango
a guardarlo, pensando un momento alle parole giuste da potergli dire. Reprimo
l'istinto di avvicinarmi a lui e baciarlo, per il semplice fatto che il nostro
reciproco scambio di sguardi, al centro del Millennium Stadium, mi sta dando
sufficienti emozioni.
«Domani
andrà bene, vedrai»
«Come
fai a esserne sicura?» domanda, sollevando quasi impercettibilmente le
sopracciglia.
«Me
lo ha detto Jamie»
Matt
sfodera l'ennesimo sorriso, scuotendo appena il capo:
«Mi
piace quel piccoletto» ammette in tono divertito.
«Jamie
piace a tanti ora che ci penso» confermo.
Il
ragazzo lancia un'occhiata in direzione del corridoio, il punto da cui siamo
entrati:
«Forse
è meglio se andiamo. In realtà non dovremmo essere qui ora, se ci dovessero
trovare potrebbero non essere pienamente d'accordo»
«Anche
se sei il capitano del Galles» domando scherzosamente.
«Sì,
anche se sono il capitano del Galles» risponde lui, sempre tenendo gli occhi
sull'ingresso.
«D'accordo.
Ma prima voglio fare una cosa»
Come
termino la frase mi siedo immediatamente sul prato del campo da rugby, per poi
distendermici sopra. Ho sempre desiderato sapere cosa si prova stando sdraiati
su un vero campo da gioco, uno di quelli che viene calpestato, violentato dai
tacchetti delle scarpe, eppure, allo stesso tempo, amato come fosse un suolo
sacro da chi su questi stessi fili d'erba si sente a casa.
«Del
tipo?»
Matt
pronuncia queste parole tornando a voltarsi verso di me. Mi accorgo che non mi
vede, assume un'espressione sorpresa che poi diventa divertita quando vede dove
sono finita. Si mette a ridere, finendo poi per imitarmi e sdraiarsi accanto a
me:
«Era
questo che volevi fare?» chiede.
«Già
e sono contenta di aver avuto la possibilità di farlo. Mi spiace solo che non
ci sia il tetto aperto ora» dico, gli occhi fissi sulla copertura in acciaio
della struttura.
Matt
non replica, quando mi volto appena per vedere cosa sta facendo mi rendo conto
che anche lui continua a osservare il tetto che abbiamo sopra. Rimaniamo in
silenzio uno al fianco dell'altra per diversi minuti, dopodiché, convinta di
dover essere io a dire basta, mi muovo per rialzarmi:
«Ok,
sono soddisfatta. Possiamo andare»
Matt
mi afferra la mano, fermandomi:
«No,
aspetta. Rimaniamo un altro po'»
Mi
guarda negli occhi e io non riesco più a dire nulla. Torno a sistemarmi vicino
a lui, senza lasciare la presa dalla sua mano. Fra di noi cala una specie di
silenzio di raccoglimento, uno di quelli quasi reverenziali che nessuno ha mai
il coraggio, o la voglia, di spezzare. Nonostante il passare dei minuti Matt
continua a essere sempre concentrato sul soffitto di lamiera, sicuramente
sovrappensiero. Il suo respiro comincia a farsi sempre più profondo e regolare.
Non ho il coraggio di dire o fare nulla perché mi rendo conto che, finalmente,
lui è riuscito a tranquillizzarsi. In qualche modo Matt è riuscito a ritrovare
sé stesso e la calma di cui è sempre in possesso. Non so a cosa stia pensando,
che cosa stia vedendo in realtà invece di ciò su cui ha gli occhi, ma sono
certa che le preoccupazioni che lo attanagliavano prima sono quasi
completamente scomparse. Domani Matt scenderà in campo con la stessa
determinazione di sempre, pronto a guidare la sua nazione contro rivali
agguerriti e forti come gli Springboks, determinato a fare il possibile perché
tutto vada per il meglio. Sono certa che se ora gli chiedessi di dirmi come
pensa che andrà domani la risposta sarà un semplice "bene", ma carico
di tutta la convinzione che lui possiede.
Mi
sistemo quanto più comodamente possibile, ritornando a guardare fisso davanti a
me, rendendomi conto di sentirmi in pace. Non ho assolutamente idea di quanto
tempo trascorrerà ancora prima che Matt si decida a rialzarsi, ma sono disposta
ad aspettare. Perchè alla fine qui, accanto a lui su questo prato, ci sto
incredibilmente bene.
Non
so a cosa pensare, non mi viene in mente niente che possa aiutarmi a rilassarmi
prima dell’inevitabile fischio d’inizio.
Gli
spalti del Millennium Stadium sono pieni, ogni singolo posto a sedere è
occupato da un tifoso di una delle due fazioni. Delilah si leva forte fra i
sostenitori gallesi, che cantano a squarciagola facendo rimbombare la melodia
della canzone fino al tetto chiuso, così che possa vibrare ovunque intorno a
noi.
Davanti
a me il quindici della rosa, la nazionale inglese, con indosso la loro maglia
bianca, immacolata. Rimarrà tale ancora per poco. Anche se il campo da gioco è
stato coperto, su Cardiff è piovuto fino a ieri. Nonostante il prato appaia
perfetto, morbido e ordinato, l’umidità traspare ugualmente dai suoi fili
d’erba. Ho già affrontato la nazionale inglese un’altra volta, ma all’epoca
giocavo ancora in U20 e non mi sono misurato con gli stessi uomini che ho di fronte
ora.
Mi
sento nervoso e veramente terrorizzato. Per i miei famigliari e i miei amici,
il mio esordio da titolare fin dal primo minuto con la mia nazionale, durante
il Sei Nazioni e proprio contro gli inglesi, significa che le mie capacità sono
state riconosciute.
Forse
è vero, ma è anche vero che se il giocatore che sostituisco non si fosse
infortunato, ora sarei certamente in panchina, a fremere per poter entrare.
Indosso
la divisa della nazionale gallese, quella della squadra maggiore, il numero dodici
stampato in bianco sulla schiena. Non sono riuscito a diventare niente di
quello che avrei voluto quando ero piccolo. Volevo fare mischie, diventare un
perno importante per la mia squadra, un ball carrier1
di tutto rispetto, un avanti potente e pericoloso, quello da fermare prima che
possa prendere l’ovale in mano. Poi ho scoperto che correre e perforare la
difesa avversaria è una delle sensazioni migliori del mondo e non ho più voluto
fare altro. Il mio coach, quello che ha continuato ad allenarmi fino a
permettermi di esordire nella prima squadra dei Cardiff Blues a diciassette
anni, mi ha fatto capire che il ruolo giusto per me è quello di primo centro e
io ho capito che ha assolutamente ragione. Da quando ho iniziato a ricoprirlo,
da quando sono Jamie Owens, il ventenne centro dei
Cardiff Blues, sto così bene nel mio ruolo da non riuscire neanche a spiegare
come mi sento. Semplicemente mi sento vivo.
Per
arrivare dove sono ora ho seguito fedelmente i consigli di tutti coloro che
hanno creduto nelle mie capacità e ho sempre fatto il possibile perché fossero
fieri di me. Ho sempre fatto del mio meglio per non deludere i miei genitori e
i miei amici più preziosi, inclusi Matt e Danni.
Loro
due dovrebbero essere da qualche parte anche ora, seduti in mezzo a questa
marea di persone. Fra la bolgia di gente accorsa per il match certamente anche
loro stanno cantando Delilah,
uno al fianco dell’altra come lo sono stati negli ultimi dieci anni. La loro sì
che è una bella storia, una di quelle con il finale già scritto, con il per sempre scontato. Perché è così che
sono loro due insieme: perfetti. Hanno portato avanti la loro storia per anni,
un giorno alla volta, costruendosi intorno il mondo che volevano.
Danni,
una volta finiti gli studi, non è diventata una guida turistica come avrebbe
voluto prima di iniziarli. Un giorno, poco dopo la laurea, si è lasciata
guidare dal suo istinto dentro la piccola libreria che affaccia sulla strada di
casa sua e da lì non è più uscita; o, meglio, ne usciva tutti i giorni al
termine del suo turno lavorativo.
Matt,
invece, a trentadue anni ha smesso con il rugby giocato e da allora allena. Le
sue capacità e il suo nome gli hanno permesso di allenare la nazionale gallese
U18 e la squadra di Cardiff di U16, così da guidare i giovani fino a farli
diventare grandi giocatori per la squadra dei Cardiff Blues, il club che lui
non ha mai lasciato nemmeno per un giorno.
E
la loro vita è stata coronata dall’arrivo di una bambina, la piccola Petra,
nata quattro anni fa; un’adorabile scimmietta con capelli di cenere dorata e
gli stessi occhi della madre. Una Danielle in miniatura che ha afferrato il
pallone da rugby prima ancora di afferrare la mano del padre, più o meno. Nel
rugby gallese il sesso di una persona non è un limite e io sono più che sicuro
che, fra alcuni anni, vedrò quella piccoletta andare in meta in mezzo ai pali
con la maglia rossa della sua nazione.
Ma
chi pensa che la vita di Danni e Matt insieme sia stata sempre rose e fiori
sbaglia di grosso. Perché, si sa, le cose per andare storte ci mettono un solo
attimo.
Nell’anno
della Rugby World Cup2 in Inghilterra, proprio nell’ultimo dei test
match in preparazione a questo importantissimo evento, Matt si è infortunato
durante il gioco. La frattura alla caviglia che si è provocato durante una ruck
lo ha tenuto fermo per mesi interi. Il dolore maggiore legato a questo
infortunio era dovuto proprio al fatto di non poter partecipare ai mondiali che
quell’anno, a detta di tutti, Matt avrebbe vissuto da protagonista, guidando
come capitano la nazionale gallese. Invece ha dovuto assistere a tutto quanto
dalle tribune, vivendo le emozioni della coppa del mondo da spettatore.
All’epoca lui e Danni non stavano ancora insieme da un anno e per lei riuscire
a trovare le parole giuste da pronunciare ogni volta, così da aiutare Matt a
sentirsi meglio, non è stato sicuramente semplice. Anche se avevo undici anni
sono comunque riuscito a capire quanto per lei fosse importante fare il
possibile per sostenere e aiutare il suo uomo a superare quel lungo periodo di
insicurezza fisica e psicologica. Danni è riuscita egregiamente nel suo
intento, così,quando Matt è potuto
tornare sui campi da gioco più vivo ed emozionato che mai, il loro legame si è
saldato ulteriormente e lui ha avuto modo di capire di aver fatto la scelta
migliore prendendo Danielle accanto a sé.
Tre
anni dopo la mano del destino è tornata ad avventarsi sulla coppia, pretendendo
che Matt ripagasse il debito maturato nei confronti della sua partner.
Il
padre di Danni e di mia madre, ovvero mio nonno, si è ammalato. Quando gli
venne diagnosticato il cancro io non ero più un bambino e ricordo ancora
perfettamente che appena mi venne data la notizia l’unica cosa a cui riuscii a
pensare fu un orrendo presagio di morte. Per la nostra famiglia furono tempi
bui, per mia madre, per Danni e per mia nonna, lo furono ancora di più.
Danielle ha fatto il possibile in quel periodo per essere forte a sufficienza
anche per il resto delle donne della famiglia, ma i crolli erano inevitabili e,
in quei momenti, Matt le era più vicino che mai. Lui l’ha sostenuta ogni giorno
nello stesso modo in cui aveva fatto lei anni prima. Le è stato vicino, ha
fatto il possibile per cercare di farla sorridere, dimostrandole cosa
significasse avere accanto a sé qualcuno disposto a tutto pur di aiutarti.
Per
nostra fortuna, alla fine, le cose sono andate per il meglio. Le cure e il
tempo hanno aiutato mio nonno a superare la malattia. Quei lunghi mesi hanno
permesso a Danni di capire quanto Matt tenesse a lei, così disposto a tutto pur
di non vederla infelice. Certo, alti e bassi ci sono stati fra loro, tutte le
storie ne vivono e, forse, il bello delle relazioni sta proprio in questo. Tuttavia
non hanno mai preso in considerazione l’ipotesi di separarsi e se devo dire
come spero di vivere la mia futura vita coniugale – se mai dovesse esserci una
futura vita coniugale – mi viene spontaneo rispondere “come quella di Danni e
Matt”.
Ma
solo perché i miei genitori hanno me
in mezzo ai piedi, altrimenti sarebbero loro la prima scelta. Perché la verità
è questa: anche la mia famiglia, i miei genitori, insieme sono perfetti, ma ci
sono in mezzo io a complicare un po’ – molto – le cose. Perché sono testardo,
orgoglioso e determinato come poche altre persone e se per alcuni questi sono
ottimi pregi per un rugbista, per tanti altri possono essere discutibili
difetti. E io sono consapevole di questi miei difetti, lo sono eccome, ma è
grazie a loro se ho il coraggio di correre dritto per dritto contro gli
avversari di qualsiasi caratura per schiantarmici letteralmente contro. Proprio
per merito dei miei difetti ho fatto alcuni di quei gesti che le persone hanno
definito “folli” e “tecnicamente strepitosi” su un campo da rugby ed è sempre a
causa loro che ora voglio fare ciò che mi è appena venuto in mente.
Un
sorriso si appropria forzatamente del mio volto mentre seguo con lo sguardo il
mediano d’apertura del Galles, pronto per calciare il pallone così da dare
inizio alla partita, non appena il fischio dell’arbitro si farà largo fra il
Millennium Stadium.
È
la mia prima vera partita da titolare questa, giusto? Allora il primo ovale
dell’incontro voglio recuperarlo io.
Prima
di lasciarvi alle note, vi prego di leggere fino in fondo alla pagina.
Note:
1ballcarrier: per ballcarriervengono solitamente intesi i
giocatori (che spesso vestono la maglia numero 6-7-8) in grado di riuscire a
superare la linea di difesa anche quando questa è perfettamente schierata e
riuscendo a mantenere il possesso del pallone.
Citando
un articolo trovato su internet, firmato Roberto Iasoni,
“Ilballcarriercade al di là del placcaggio, supera
il punto d’incontro, arranca contutte
le sue forze per strappare ancora una zolla agli avversari sotto assedio. Getta
non solo il cuore oltre l’ostacolo: pure la testa, le mani, il tronco, le
gambe, i piedi. Tutto se stesso. Avanti. Sempre avanti. Magari di pochissimo,
ma avanti. Finché si può. E conservando il possesso della palla.”
2Rugby World Cup:
I mondiali di rugby che si svolgono ogni quattro anni. L’edizione a cui faccio
riferimento in questa storia è quella del 2015, svoltasi in Inghilterra.
La storia si conclude
qui.
Dopo ventinove
capitoli ho deciso di concludere con un punto di vista nuovo, ossia quello di
Jamie, sperando di non aver fatto una scelta sbagliata.
Quando ho cominciato
la pubblicazione di questa storia non credevo assolutamente di ricevere tante attenzioni quanto quelle che ho
ricevuto e, lo ammetto, sono felicissima di vedere che mi sono sbagliata. Molti
di voi hanno recensito, aggiunto la storia fra le preferite, le ricordate e le
seguite e vi voglio ringraziare di cuore. In fin dei conti questo racconto è,
sì, una storia d’amore, ma anche il mio personale tributo a uno sport che amo,
il rugby, e a una Nazione e una nazionale da cui sono affascinata, il Galles.
Mi piacerebbe sapere
cosa pensate di questa mia storia ora che è finita, ma non voglio comunque
obbligarvi a recensire.
Vi chiedo come ultimo
favore quello di continuare a leggere al di sotto di queste mie parole, in cui
ho inserito alcune curiosità relative al mio lavoro, che spero lo possano
rendere un po’ più intrigante e un filo più vero.
Grazie ancora di
tutto.
MadAka
CURIOSITA’
•
Matthew Evans non ha un veroe proprio
presta volto. Per il suo personaggio mi sono basata su due giocatori della
nazionale gallese che ammiro molto, ovvero Dan Biggar
– mediano d’apertura, a cui mi sono ispirata maggiormente per l’aspetto – e Sam
Warburton – numero sette e capitano del Galles, in
assoluto il mio giocatore preferito. È a lui che mi sono ispirata maggiormente
per dare forma, caratterialmente soprattutto, a Matt.
Danielle,
invece, è totalmente frutto dalla mia fantasia.
•
Altro omaggio presente nella storia è quello a Jamie Roberts, primo centro del
Galles. Spezzettato fra due personaggi – il piccolo Jamie e Paul – è forse il
giocatore a cui ho fatto il tributo maggiore.
•
Sean Darren è il protagonista di un’altra long, pubblicata da me qui su Efp parecchio tempo fa ormai, e intitolata Felce argentata. Così come, sempre in
quella long, compaiono anche i personaggi di Samantha e Noomu.
•
Sempre riguardante Sean Darren, sospetto fortemente che chi segue il rugby
abbia indovinato a chi mi sono ispirata per realizzare il personaggio.
Ovviamente all’inimitabile Richie McCaw (che, per la
cronaca, ha realmente origini scozzesi). Così come il rapporto Darren – Noomu è ispirato a quello McCaw –
Read (ossia Kieran Read, numero 8 degli All Blacks).
•
I test match di cui parlo nella storia sono veramente stati giocati in
quell’ordine nel novembre 2014 e gli esiti sono quelli reali, tutti quanti. E,
se volete saperlo, il risultato finale della partita Galles – Sudafrica – di
cui Matt e Danni parlano nel ventinovesimo capitolo – si è conclusa 12 a 6 per
i Dragoni.
•
Land of My Fathers è il titolo
inglese dell’inno del Galles. In gallese è HenWladFyNhadau(l’inno cantato dalla nazionale prima delle
partite è proprio quest’ultimo).
•
Sulle maglie dei giocatori è realmente cucito un numero e indica proprio la
successione dei detentori della maglia.
Es:
1022 sulla maglia significa che quello è il milleventiduesimo
giocatore a vestire la maglia della nazionale gallese.
•
E 1070 è il numero cucito sulla maglia di Sam Warburton.