Il Bersaglio.

di David89
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 1. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 3. ***
Capitolo 4: *** Capitolo 4. ***
Capitolo 5: *** Capitolo 5. Parigi. ***
Capitolo 6: *** Capitolo 6. ***
Capitolo 7: *** Capitolo 7. ***
Capitolo 8: *** Capitolo 8. ***
Capitolo 9: *** Capitolo 9. Scacchi. ***
Capitolo 10: *** Capitolo 10. Viva gli Sposi. ***
Capitolo 11: *** Capitolo 11. ***
Capitolo 12: *** Capitolo 12. ***
Capitolo 13: *** Capitolo 13. Croissant e Caffè. ***
Capitolo 14: *** Capitolo 14. ***
Capitolo 15: *** Capitolo 15. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 1. ***




Capitolo 1.




Era lì. Potevo ucciderlo, fargli saltare il cranio. Premere il grilletto. Si, era lontano, ma in Russia addestrano anche i migliori cecchini del pianeta. Dicono.
Cosa, cosa m'ha spinto a non ucciderlo? La croce del mio M40 con la sua bella faccia in mezzo.
Vento leggermente da Ovest. Stavo mirando alla donna a fianco a lui, sapendo che tanto avrei colpito la sua fronte, un buco in testa. PUM! Un lavoro pulito. Sarei ora in qualche isola del Pacifico. Sole, caldo, soldi e donne. Cosa potevo desiderare di più?
Avevo affittato una camera di un alberghetto in una città vicina a Los Angeles, che dava proprio sul piazzale del municipio. Una camera spartana, niente di che. Un fottuto curioso alla reception che m'ha fatto domande su cosa ci facevo, cosa m'aveva spinto fin li, e balle varie. Se qualcuno si facesse i cazzi suoi, una volta ogni tanto... Penso che non saprò mai neanche come si mangiava lì, in quella topaia. Avevo preso un panino in un bar poco distante dal mio obiettivo. Cos'era? Insalata e forse della carne dentro, non ricordo. Ehi, però la donna delle pulizie... Un bel balconcino...
Uomo sui 50. Baffi, occhiali da vista. Veste sempre con una giacca blu scuro. Niente cravatta.
Così mi parlò Vlad al telefono. Il mio obiettivo.
Quando arrivai, con il binocolo riuscii ad intravederlo, mentre saliva le scale del municipio, con lui quattro bodyguard.
Vive sotto scorta. Ogni mattina alle 7 esce di casa, e va al lavoro. Esce dal lavoro dai cinque minuti prima ai cinque minuti dopo le 19. Casualmente, a discrezione di chissachì. Sono i bodyguard quasi a portarlo via di forza. E i percorsi fino a casa cambiano sempre, per evitare attentati.
Solo una volta hanno ripetuto lo stesso percorso. Guidava Mark Leby, uno dei migliori uomini.
Lo trovarono morto, la macchina in fondo al fiume.
Non poteva fare due volte lo stesso percorso. Neanche a distanza di una settimana.
Quante cazzo di strade ci sono in quel quartiere? Ho provato a perdermi un giorno, di mia spontanea volontà. Ho percorso vicoli stretti, strade apparentemente senza via d'uscita. E sbucavo quasi sempre davanti al municipio, cazzo. Una volta finii nella strada parallela. Chiesi ad un passante dove mi trovavo.
-E' vicino al Municipio, guardi... E' proprio la via parallela. Neanche due minuti, hombre-.
Gli avrei staccato la testa con un cavatappi. Aveva dannatamente ragione.
Dopo due giorni in quella città mi arrivò una telefonata.
Me la passò quel cazzone del receptionist.
-E' una linea sicura?- mi domandò una voce scura dall'altro capo del filo.
-Si- risposi, ingenuamente.
-Appena uscito dall'albergo, a destra percorri 400 metri. Svolta l'angolo. Sentirai suonare una cabina telefonica.-
Riattaccò.
Scesi e feci come mi disse di fare.
Svoltai l'angolo. Stavo per arrivare al telefono, quando iniziò a suonare. Alzai la cornetta.
-Domani. 19.02. La macchina arriverà neanche un minuto prima. Hai esattamente 15 secondi per dirgli Ciao. Non un secondo di più.-
"Finalmente" pensai.
Riattaccò.

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Capitolo 2
*** Capitolo 2 ***


Il Bersaglio. Capitolo 2

Dedicato a chi ha apprezzato il primo capitolo.

Capitolo 2.



Cling. Cling... cling.
Porca vacca.
I proiettili erano caduti al suolo, producendo quell'inconfondibile rumore metallico. 7.62 mm NATO. 
Piotr, il mio fornitore di fiducia, li chiamava anche “supposte per il culo”.
Dovevo chinarmi dalla sedia e rischiare di capottarmi per dei fottutissimi proiettili? Due li avevo visti, lì davanti ai miei occhi, a fianco del comodino. L'altro chissà dove era finito. Presi quelli a vista. La mano sinistra a reggersi sulla gamba del tavolo. Il terzo era probabilmente rotolato sotto al letto.
Cazzi suoi, pensai, mentre inserivo le supposte dentro la scatola, che prima sbadatamente avevo urtato.
Di fronte a me la mia donna. Il Fucile più bello del mondo, il mio fiorellino. Lo pulivo, ad ogni uso. Lo smontavo, pulendo ogni pezzo, con una cura maniacale. E poi mi divertivo a rimontarlo, come se fossi stato un ragazzino.
A fianco la custodia rigida che mi portavo da quando l'avevo fregata a quel trafficante. Era una valigetta per l'esplosivo, simile a una ventiquattr'ore, solo un po' più grande, ma dentro ci stava benissimo il mio M40, e così non dava neanche nell'occhio.
A sinistra la finestra che dava al municipio. E prima un piccolo parco, dove solitamente vedevo bambini giocare, con le madri nei pressi, a spettegolare come al solito.
Erano le 7.
A quest'ora sarà uscito di casa, pensai, mentre guardavo l'ora sul mio orologio russo al polso.
Le 7.01 in quest'istante, pardon. A quest'ora sarà in macchina.
Staccai il mirino telescopico Unerlt dal fucile, e lo usai a mo' di cannocchiale. Mi affacciai alla finestra. Bambini, strade, alberi, altre persone, macchine, altre macchine.
Erano le 7 e due minuti, ma c'era già movimento fuori.
Dovevo ancora fare colazione, ma volevo aspettarlo. Capire quanto ci metteva ad arrivare al lavoro.
Abbassai le veneziane, e un buio imperversò nella camera. Amavo stare al buio. Solo dei piccoli raggi di luce entravano nella stanza, dalle fessure delle veneziane.
Rimasi a guardare fuori, protetto dalle veneziane, cui facevo uscire appena appena il mirino.
Alle 7.23 arrivò la macchina. Sempre la solita fottuta giacca del cazzo. Blu come anche la giacca dei bodyguard. Se non mi avessero dato la Sua descrizione, probabilmente avrei potuto colpire gli energumeni che lo scortavano. E lui sarebbe rimasto illeso, già al sicuro. E io fottuto, come un coglione.
Basta, ho fame.
Riattaccai il mirino all'M40. Smontai in due parti il fucile, per farlo entrare nella valigetta. La chiusi con la combinazione, e la riposi dentro l'armadio.
Uscii.
Per le strade, la città era come se fosse nell'orario di punta.
Gente che a passi svelti, sbucava da dietro gli angoli, probabilmente per recarsi in tempo al lavoro. Macchine che nel traffico cittadino clacsonavano all'impazzata, imbottigliate negli incroci, con i semafori impazziti. Diamine, neanche a New York c'è un casino così.
Alzai gli occhi al cielo. Era sereno, c'era solo qualche nuvola bianca, appena accennata, appena dipinta su quel blu che stonava con il grigio della città.
Riabbassai gli occhi. Era verde. Attraversai le strisce pedonali, assieme ad altra gente. Gente d'affari, semplici cittadini, qualche barbone che la gente evitava con buffi slalom.
Davanti a me un bar. Varcai la soglia della porta, mentre un campanellino annunciava il mio ingresso, al tocco con quest'ultima.
Alcune facce mi guardarono per qualche istante, d'istinto mosse dalla curiosità di sapere chi entrava. Non ero tra le loro conoscenze: tornarono a quello che facevano prima. Mi avvicinai al bancone.
Caffè e un tramezzino al formaggio. Il menu meno costoso, e quello più preso dai clienti di quel bar.
Sapevo di aver fatto la scelta più giusta, nonostante odiassi il formaggio, per giunta dentro al tramezzino. Ma sapevo quello che facevo, e sapevo che mi avrebbe aiutato, nel futuro.
Il proprietario si apprestò a servirmi, senza obiettare. Mi diede quello che ordinai, e mi guardò, aspettando di essere pagato. Tirai fuori qualche moneta dal portafoglio, e gliela posi sul bancone, senza dire niente.
La mano destra a reggere il caffè, contenuto in un bicchiere della Coca, la sinistra a reggere il tramezzino. Con la punta del piede aprii la porta, infilandola in una piccola fessura. Poi, con un colpo di muscoli, tirai la porta verso di me, e questa si aprii quanto basta per farmi passare, e poi richiudersi immediatamente.
Alternavo il bere e il mangiare, mentre facevo qualche giro per la città, a guardar le vetrine dei negozi, attratto dai manichini femminili, che erano sempre vestiti con un bikini e un reggiseno.
Nessuno che si curava di me, che mi guardasse, anche per qualche secondo, o qualche istante. Ognuno era preso dai suoi pensieri, dai problemi al lavoro, ai problemi in famiglia, al marito, alla moglie, ai figli, allo strozzino a cui dare i soldi, al regalo da fare all'amante.
Li guardavo quasi dall'alto in basso. Io, che stavo con una che era come me, assassina e spietata. Ci sentivamo solo quando non avevamo niente da fare, cioè mai. Quando avevo qualche lavoretto da fare, lei era a riposo; e viceversa. Nessuno di noi portava niente dell'altro. Né una foto, una lettera, un rossetto, un capo di biancheria come ricordo. Per chiunque fosse interessato a noi, io e lei non stavamo assieme, e non lavoravamo per la stessa Agenzia.
Si chiamava Emily. Ma per l'Agenzia era Agente 34E. Ed E non stava per Emily.
Io invece ero l'Agente 12C. E C non stava per l' iniziale del mio nome, ma per Cazzone.
Finii di mangiare il mio tramezzino in fretta, trattenendo una smorfia di disgusto, appena sentii la sottiletta di formaggio tra i denti, e il caffè che era rimasto lo ingurgitai in un colpo solo.
Le 9.56. Avevo tutta la mattinata per me. Potevo comprarmi qualche vestito, andare al parco e guardare la gente che passava. Ero sicuro di essere coperto dal perfetto anonimato. Nessuno in questa città mi avrebbe riconosciuto, in qualche foto segnaletica, o in qualche mio identikit sul giornale. Forse il barista? No, avevo preso il menu più in voga. Quasi tutti lo prendevano, e di certo non si sarebbe ricordato di me. Avevo pagato in contanti ovunque. Non potevano rintracciarmi.
Mi guardai attorno, per decidere sul da farsi, ma preferii tornare in albergo.
Nessuno alla reception. Salii le scale che portavano alla mia stanza. La 34. Era un caso?
Il letto sfatto, la stanza nel completo buio. Avevo dato disposizioni precise, come tutti dell'albergo del resto. Che nessuno faccia niente in camera mia. Ero capitato nel posto giusto, perché quasi tutti i clienti della topaia non volevano inservienti a rovistar nella loro stanza.
Difatti la figa che doveva pulire le camere, se ne stava a spazzar polvere nei corridoi, minacciata dallo stesso proprietario di non azzardarsi ad entrare in nessuna camera dei clienti.
Pensai a lei, e pensai subito a Emily.
Mi distesi sul letto.
Mi addormentai.

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Capitolo 3
*** Capitolo 3. ***




Capitolo 3.




Quando mi risvegliai, erano da poco passate le 16.  Non avevo fame, e l'idea di scendere ancora giù per strada a cercare qualcosa da mangiare non mi allettava.
Mancavano poche ore all'obiettivo, e io ero dannatamente tranquillo. Forse troppo.
Strano. Forse ero abituato ormai, nonostante i miei lavori mi costringessero a cambiare ogni volta città.  Beirut, Mosca, Berlino, Pamplona, Città del Messico.
Tutte persone uccise, con un colpo in testa, sulla fronte. E subito dopo un areoporto, verso un posto dall'altro capo del mondo, in attesa che le acque si fossero calmate. Generalmente un mese di vacanza, con un passaporto falso, una nuova identità provvisoria, una storia da raccontare alle spalle.
Quante mogli che ebbi. Cinque divorzi se non ricordo male. Una madre in carrozzella, una morta, l'altra ultranovantenne. Classiche informazioni da dare ai primi curiosi, a cui non puoi non dare una risposta.
Una volta dissi che avevo dei parenti in Spagna, e tirai fuori un cognome. Con il culo che ebbi in quell'occasione, la persona con cui stavo parlando ce l'aveva identico e mi chiese anche se non fossimo stati mica parenti.
Per fortuna che dovevo ucciderlo.
Mi stiracchiai, e le mie mani andarono a toccare il freddo del pavimento, in cerca delle scarpe. Sentii qualcosa di metallico nella mano. Rotondo, affusolato, la punta appuntita, peso leggero ma consistente. Era il proiettile 7.62 mm NATO. Quello che mi era caduto in mattinata. Lo presi, e lo guardai a fondo, toccandolo e passandolo tra le mie dita.
Freddo, gelido, liscio, appuntito, ma spietato. Con un proiettile così, nelle mani giuste, riesci a uccidere una persona in testa, e dargli una morte nobile, senza troppe sofferenze. In testa, un colpo solo. Una volta riuscii a trapassare 3 angurie, messe una in fila all'altra. Bei tempi quelli, negli ex uffici del KGB, quando passavamo il tempo così io, Piotr e altri agenti, a sparare alla frutta con i nostri fucili, riscaldati dalla buona vodka, dalla pellicce di montone e dal colbacco grigio in testa, il меховая шапка.
E qui invece si moriva dal caldo. Io, abituato alle temperature gelide, venire qua era come soggiornare ai tropici.
Strinsi il proiettile nel pugno mentre mi giravo e infilavo i piedi dentro le scarpe, aiutandomi con l'altra mano, usando l'indice come calzascarpe.
Sul tavolo avevo lasciato la scatola dei proiettili. Dentro ce n'erano 6. Aggiunsi l'ultimo nel mucchio, soddisfatto. Tanto sarei tornato ad averne 6, di nuovo.
Mi avvicinai alla finestra, alzando con un dito le veneziane. Una luce bianca mi colpii gli occhi, tirai indietro la testa, un po' accecato. Poi mi abituai alla luce, e guardai fuori. La giornata era stupenda, e c'erano un sacco di bambini fuori, a giocare.
Andai a rovistare nella mia giacca. Tirai fuori un biglietto aereo di sola andata per Ottawa, in Canada. Lì sarei stato al sicuro per un po', o almeno finchè la polizia non avesse rinunciato nel cercarmi. Era l'aereo delle 19.45.  Avevo mezz'ora per arrivare all'aeroporto. Con il taxi, anche con il traffico più orrendo, ci avrei messo 25 minuti. Tutto calcolato. Tutto studiato nei minimi dettagli.
Lo riposi nella giacca, e mi degnai di rifare il letto. Chiamai quindi, con il telefono della camera, la reception.
-Un taxi, per le 19.00-
-Ve lo prenoto subito, signore. Camera?-
-34. E mi faccia il conto, parto oggi stesso.
-Ma certo.-
Riattaccai.
Due ore mi distanziavano adesso dall'obiettivo. Andai in bagno, e mi feci una doccia per rilassarmi, anche se ero fin troppo tranquillo. Il che mi preoccupava un po'. Forse la facilità dell'uccisione? In fondo quei 15 secondi ero fin troppi. Ero abituato a uccidere bersagli in movimento, anche quando avevo solo 5 secondi di tempo per sparare. Avrebbe camminato, con passo moderato, senza neanche preoccuparsi di un attacco da lontano. Le sue guardie del corpo l'avrebbero protetto ai lati, ma quella scalinata era formidabile. Mi avrebbe dato un bersaglio ampio. Avrei potuto anche sparargli in mezzo alle palle, se avessi voluto.
Chiusi l'acqua calda che mi stava ormai cuocendo. Guardai l'orologio. Quasi le 18.
Mi rivestii in fretta, e scesi giù fino alla reception per pagare. Non trovai nessuno.
"Dove cazzo è finito?" pensai, mentre mi guardavo attorno. Non c'era nessuno nella hall.
Neanche un fottuto campanello per avvisare il receptionist.
Merda, devo ancora montare il fucile. Mettere il colpo in canna. E rilassarmi almeno dieci minuti prima che quel cazzone esca dal municipio.
Le 18.05. Ancora nessuno.
-Eilà! Di casa! - chiamai, sperando che qualcuno mi sentisse.
Niente.
Cazzo.
Battei forte sul bancone con il palmo della mano destra. Una voce giunse da lontano - Arrivo, arrivo.- Finalmente.
-Ah salve, ecco. Il conto.... - mi mostrò una piccola ricevuta, e in basso la cifra da pagare. Tirai fuori le banconote, contate giuste fino all'ultimo centesimo.
-Il vostro taxi sarà qui tra meno di un'ora.-
-Lo spero.-
Sorrisi, per poi salire le scale e aprire la porta della camera.
La chiusi con una mandata, mentre mi apprestavo ad aprire la valigetta con dentro il mio fedele M40.
Combinazione che cambiavo ogni settimana. Me la ricordai al primo tentativo, avevo buona memoria.
Davanti a me il fucile spezzato, da ricomporre. Mi aiutai con una chiavetta che portavo sempre con me, attaccato al portachiavi.
Montai la canna sul corpo del fucile, assicurandolo con dei giri di vite. Sentii sulle mani i 6 chili e mezzo più belli della mia vita.
Lo posai sul tavolo. Tirai fuori da un'altra valigia le gambette che servivano a tenerlo fermo, e a poggiarlo su una superficie, aiutandomi a mirare con più precisione. Click, clack. Adoravo quel rumore, quel rumore metallico, di quando si incastra e si fissa tutto alla perfezione, senza problemi.
Le 18.30.
Perfetto. Lo lasciai lì sul tavolo, mentre prendevo ogni cosa lasciata in camera e la mettevo con cura dentro la valigia. Avevo ancora tempo.
L'obiettivo, il taxi, l'areoporto, Ottawa. Era così semplice, quasi di routine.
Un piccolo brivido mi attraversò la schiena. Era quasi giunto il momento. Non ero più rilassato come prima. Ero leggermente agitato.
Guardai l'ora. 18.50. Dieci minuti per rilassarmi, e prendere confidenza con il fucile.
Presi l'M40, e feci appoggiare le gambette sul bordo di un muretto, che sporgeva appena sotto la finestra.
Presi un proiettile a caso dalla scatoletta, e in silenzio lo inserii nello slot. Ta-Clack. Con un movimento della levetta a fianco dell'Unerlt, preparai il proiettile.
Feci quindi sporgere la canna del fucile appena fuori dalla veneziana, tra gli interstizi di plastica della veneziana, facendo in modo che dal mirino potessi vedere bene. Ero in piedi, chinato a mirar verso il municipio. Ancora non era arrivata la macchina.
Sospirai, mentre adagiavo il polpastrello dell'indice sul grilletto, pronto a sparare.
Era inutile guardare l'ora. Avevo un maxi orologio sul municipio a tenermi aggiornato. Le 19.00.
Quando cazzo arriva? Il mio pensiero andò subito a quel cazzone, che se Vlad era in possesso di informazioni corrette, tra due minuti sarebbe sceso dalle scale.
Scorsi da lontano un macchina. Scura, i vetri offuscati. Non capivo chi era alla guida.
Avevo sotto tiro il guidatore, in qualche modo, sebbene non lo vedessi.
Di risposta spostai la mira sul portone dell'edificio. Uscirono alcune persone incravattate, una donna seguita da un uomo. Eilà, Buongiorno. Spiacente bellezza, ma oggi non sei il mio uomo. Feci un profondo respiro, e quasi senza farlo apposta il mio obiettivo mi comparì nella croce.
Eccolo... Così elegante. I bodyguard che come al solito si guardavano attorno, stretti attorno a lui, con occhi vigili per controllare che tutto andasse per il meglio.
E' il momento.
La sua faccia nel mirino. Ma non l'avrei colpito. Dovevo mirare a qualcuno lì vicino. Il vento spirava da Ovest, leggero.
Stava passando una donna proprio a fianco del coglione.
Qualcuno bussò alla porta della mia camera, insistentemente.
Chi cazzo è?
-Mike, so che sei lì dentro... Cazzo, apri la porta!- Chi cazzo poteva essere?.... - Mike, apri cazzo. Stanno venendo, sei nella merda! Apri questa porta!-
Stavo mirando alla donna. Neanche un secondo e avrai sparato. -Mike, sono Emily...-
Emily? Ma che cazzo...? Sentii una sirena provenire dall'angolo. Il polpastrello iniziò piano a premere sul grilletto. Non potevo aspettare ancora.
-Mike, ti prego, apri questa porta!!-
Un bodyguard si stava apprestando ad aprire la porta posteriore della macchina, per far entrare il mio obiettivo. Era il momento.
-Mike....- Merda... merda!!
Feci scattare la serratura. Emily si riversò in camera, chiudendosela alle spalle. Mi baciò.
Era vestita da turista. Occhiali neri sugli occhi. Camicetta e jeans. Stivaletti neri.
-Stanno venendo a prenderti. Lascia perdere il tuo obiettivo.-
Ormai era andato. Perso.
Com'era sexy.
-Stanno arrivando, una soffiata, non lo so. So solo che devi scappare.
La sirena continuò a suonare, per poi fermarsi nei pressi dell'albergo.
-Ma come... Come sei arrivata fin qua? E chi è che mi cerca?
-La polizia. Probabilmente hai fatto qualche errore. Mike, cazzo, dobbiamo scappare, non abbiamo tempo.
-Devo rimettere l'M40....
-'Fanculo il tuo M40!
Delle voci confuse arrivarono da sotto le scale. Passi lungo il corridoio.
-Stanno arrivando... La finestra, vieni!-
Mi tirò per un braccio. Alzò con velocità la veneziana. Entrò una forte luce, che per poco non m'accecò. Feci in tempo a prendere il mio giaccone.
Il resto era sparso per la camera. Diamine.
-Aprite la porta!! Polizia!!- Erano arrivati.
-Pronto?- mi chiese, guardandomi negli occhi.
Annuì.
Saltammo dalla finestra. In quel momento sentii che la porta della mia camera era stata sfondata.
Atterrammo su dei cumuli d'immondizia. Mi guardai attorno. Eravamo nel retro dell'albergo, vicino alle cucine.
-Presto, seguimi!
Corremmo senza guardare dietro. Giungemmo nei pressi di un parcheggio.
In fondo il blu delle sirene della polizia.
-Di qua! -
Seguii Emily lungo il parcheggio, mentre si stava lanciando verso una Ford nera.
Le mani andarono sulle tasche della giacca. Poi su quelle dei pantaloni. I biglietti. Cazzo. La pistola.
-Merda, ho lasciato la mia Glock in camera, sul termosifone.-
-Aveva freddo?-
Accennai un sorriso. Una battuta pessima. La mia Glock. L'avevo sempre con me. Non l'avevo mai persa. Che cazzo di giornata di merda.
Inserì le chiavi nella serratura.
-Da quanto hai una Ford?-
-L'ho noleggiata.-
Non feci neanche in tempo a chiudere la portiera anteriore che, con una sgasata mai vista, Emily consumò il battistrada delle gomme, sgommando e sfondando il cancello del parcheggio.
-Ascoltami bene. Qui ho un biglietto aereo per Parigi. Sola andata. E' intestato a George Collard. E' il tuo nuovo nome - mi mostrò il biglietto, che io presi senza indugio.
-E tu?-
-Non far domande, cazzo.-
Evitò con un colpo di volante tre auto davanti a lei, sorpassandole tutte. Tagliò la corsia sulla destra, imboccando un sottopassaggio. Eravamo finiti nella strada per l'aeroporto.
-Parte tra 15 minuti. Il tuo fottuto aereo per Ottawa è stato cancellato.-
-Cosa?-
-Non c'è nessun aereo per il Canada per tutta la settimana.-
-Ma com'è possibile?-
-Non lo so.-
-Emily.... - la guardai. Volevo dirle tante cose, ma non sapevo da dove partire. Cosa ci faceva qua? Chi l'aveva informata? Doveva essere a Londra. Non qui. E poi, era così bella.
Un cartello con il simbolo di un aereo mi passò davanti agli occhi. Eravamo arrivati.
-Incontreremo polizia? - le chiesi, appena sì voltò verso di me, sentendosi chiamare.
-Spero di no.-
Fermò la macchina davanti all'ingresso.
Dal bagagliaio tirò fuori un piccolo trolley. Me la lanciò, lo presi al volo.
Entrammo dentro. Un sacco di gente che andava e veniva. Ma niente polizia, al momento.
-Presto, di qua!-
Diedi un'occhiata al tabellone delle partenze. Il volo per Ottawa delle 19.45 era stato cancellato, e tutti quelli successivi. Che cazzo era successo?
Davanti a me un cartello con una freccia verso destra. Departures.
Scendemmo le scale che portavano ai check-in. Io con il trolley in mano. Lei che sembrava conoscere ogni luogo, un po' più davanti a me. Stavamo correndo lungo i corridoi, come pazzi.
Con un dito mi indicò di svoltare. Giungemmo nei pressi di una stanza con i metal detector. Una decina di persone davanti a noi. Finalmente.
Rallentai, e con profondi respiri cercai di calmare il respiro. Mi sorrise.
-Questo è il ticket del bagaglio che è in stiva. Dovresti cavartela per un po'. - Mi diede un foglietto.
Si avvicinò a me, e mi baciò intensamente. La strinsi forte, abbracciandola. Sentii le sue mani sul mio corpo.
-Quando ti potrò rivedere?-
-Spero presto. Io non dovrei essere qui.-
-Lo so... Non vieni con me a Parigi?-
-No. Devo capire cosa è successo, come hanno fatto a trovarti. Nel trolley hai un'agenda. C'è il numero di un mio amico. Abita a Parigi. Si prenderà cura di te.
-"Si prenderà cura di me"? - stavo per riderle in faccia. Ma non lo feci. In fondo mi aveva aiutato a scappare. Senza di lei sarei finito in commissariato, nella merda fino al collo. Quanto l'amavo. Le tolsi gli occhiali, per guardarla in viso. I suoi occhi azzurri mi pietrificarono. Erano stupendi, come lei del resto.
-Sir? Your luggage, please.-
Era giunta l'ora. Misi il trolley nel nastro e passai sotto il metal detector. Suonò.
-Any metal object? Watch, mp3 player, keys?-
Non avevo nessun'arma, o almeno credevo. Posai l'orologio dentro la vaschetta alla mia destra, assieme al portafoglio. Tornai indietro.
Passai di nuovo sotto il sensore. Niente.
Il poliziotto mi sorrise, e io feci altrettanto. Recuperai gli oggetti che avevo lasciato, non appena uscirono dal rilevatore.
Mi girai verso Emily, ma era scomparsa. Probabilmente era già andata via, approfittando del mio momento di distrazione.
The fly 345A for Paris is now landing from Gate B. The fly 345A for Paris is now landing from Gate B.
Non potevo aspettare oltre. Stava partendo adesso. Corsi verso l'uscita B.
Potevo ancora prenderlo. Mi feci strada tra la persone, evitandole il più possibile.
Da lontano potevo vedere l'adetto al controllo dei biglietti, che stava parlottando con un agente di polizia. Alzai una mano per farmi vedere. Ottenni quello che speravo. L'addetto prese la cornetta del telefono e parlò per qualche secondo. Potevo farcela.
Giunsi davanti a loro. Mostrai il biglietto al poliziotto, che mi guardò in attesa di qualcos'altro.
-Your passport, mister Collard.-
Merda, il passaporto. E io ero George Collard.
Alzai il dito indice verso il poliziotto, a dirgli di aspettare un secondo. Misi le mani nella tasca della giacca. Non ci potevo credere.
Tirai fuori il documento, mostrandoglielo.
-Hurry up, mister Collard. Your fly is landing.-
-Grazie.-
Presi il biglietto e il passaporto. Mi lanciai verso il tunnel che portava all'aereo. Svoltai l'angolo.
La hostess davanti al portellone mi lanciò un'occhiataccia. Sorrisi, dandole il mio biglietto.
-Mi scusi, ma c'era traffico...-
-Fila 13, posto 3. Vicino al finestrino.-
-Grazie.-
Ero arrivato. Mi sedei nell'unico posto libero che trovai nel mio percorso. I passeggeri mi guardarono, incazzati per l'attesa, ma sollevati dal fatto che ora si poteva partire. Misi il bagaglio nel porta bagagli, in corrispondenza del mio posto.
Rombi del motore. Iniziammo a muoverci.
Mi sistemai le cinture. Chiusi gli occhi. Decollammo dopo pochi minuti.
Destinazione: Parigi.


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Capitolo 4
*** Capitolo 4. ***


Dedicato ad Andrea Z.

Capitolo 4.




Quando riaprii gli occhi, stavamo sorvolando la Spagna, a detta dell'hostess.
Avevo dormito parecchio. Guardai l'orologio che tenevo al polso: le cinque della mattina. Avevo un leggero mal di testa, forse anche per l'effetto del fuso orario.
Strano, di solito ero abituato a voli transoceanici. Mille cose mi balenavano per la testa, mille pensieri, uno accavallato all'altro.
Emily, il mio obiettivo, la fuga in aeroporto, la corsa per prendere l'aereo. E poi tante altre cose, come l'inspiegabile arrivo della polizia. Una soffiata? No, non potevo aver fatto errori. Pensai alle ultime cose che feci prima di uscire dall'albergo. Niente. Sembrava una così pulita, da manuale.
Avevo perso il mio M40, e la mia fedelissima Glock. Ora ero il signor George Collard, e dovevo costruirmi una storia, un minimo di passato alle spalle.
Mi girai. A fianco a me c'erano due passeggeri. Un lui e una lei, probabilmente sposati. Erano così teneri... Lei aveva messo le braccia attorno al collo di lui, ed entrambi stavano dormendo, tranquilli, assieme, le teste appoggiate l'una sull'altra.
Pensai ad Emily. Ma non riuscivo a visualizzarla come il giorno prima. Sembrava così lontana, così irraggiungibile. Probabilmente era tornata nel mio albergo, a curiosare, a vedere cosa aveva spinto la polizia ad arrivare fin da me.  
Mi stiracchiai un attimo, imprigionato in quel sedile, senza potermi alzare e sgranchire le gambe. Avrei potuto svegliare la coppietta, ma non volli sembrar troppo scortese. Alzai un attimo la testa, oltre la fila dei sedili. Regnava il silenzio. Quasi tutti stavano dormendo, chi in posizioni strane, chi con la bocca semi-aperta, chi racchiuso come un riccio, coperto dalla propria giacca, o dal giornale che stava leggendo prima. Qualche hostess girava, richiamata dai pochi svegli che vestiti da gente d'affari erano già alzati di prima mattina, a lavorar sul proprio Mac, o a leggere le notizie finanziarie.
Guardai fuori dalla finestra.
Bianco. Le nuvole, lente, prendevano forme sempre più curiose, man mano che procedevamo con la rotta. Un po' più sotto potevo scorgere il paesaggio brullo spagnolo, le colline e il verde degli alberi. Qualche lago e qualche fiume dipingeva l'ambiente. Io curioso, come un bambino, guardavo fuori, e volevo poter rimanere qui ancora tanto, dato che mancavano poche ore all'atterraggio su Parigi. Non mi ero preparato adeguatamente ad un piano alternativo. I miei occhi erano già proiettati su Ottawa, e sui meravigliosi boschi che il Canada offriva. Volevo starmene da solo, in qualche chalet sperduto, a pescare, con il freddo pungente della sera. Riscaldato da un camino, o anche da qualche vodka o superalcolico che nelle serate fredde non possono che portar sollievo.
Avevo già prenotato tutto. E non mi andava di disdire un cavolo. Avevo registrato la prenotazione a nome di Mike Martinèz. Un nome inventato, come tutti quelli che mi portavo dietro, del resto. Ero un semplice spagnolo che, dopo esser stato in visita di amici di lunga data a Los Angeles, desiderava trascorrere una bella vacanza al fresco, tra l'incontaminata natura canadese. Non mi avrebbero mai trovato... se tutto fosse andato liscio, certo.
Ora non potevo comunque desiderare di essere lì. E non potevo certo andarci. Avevano cancellato tutti i voli.
Ma com'era possibile? Non riuscii a spiegarmelo.
Premetti il bottone di servizio. Si accese una luce, arrivò l'hostess.
-Oui, monsieur, que est ce que vuos voulez?- Mi domandò con gentilezza, piano, evitando di svegliare la coppietta.
-Ehm, cafè, merci.-
La ragazza, poco più che ventenne, mi sorrise, per poi far cenno con la mano di aspettare.
Presi un giornaletto riposto dietro il sedile di fronte a me, dentro una retina.
Le Figaro. Guardai ancora tra le riviste. Il Times. Niente che poteva interessarmi, al momento.
Diedi comunque un'occhiata al giornale francese. Guardai le pagine d'attualità. Poi mi fermai nel vedere le previsioni del tempo. Grigio, o poco nuvoloso, per un bel po' di giorni. E temperatura dai 10 ai 14 gradi.  Meglio che niente, pensai, mentre lo riponevo nel mucchio. Almeno non morirò dal caldo.
-Monsieur? 
Mi girai. Mi aveva portato il caffè.
-Merci - sorrisi, per poi iniziare a sorseggiarlo. Anche lei sorrise. Mi guardò un attimo, forse incuriosita dal mio aspetto. Poi mi disse che se avevo bisogno di lei potevo chiamarla in qualsiasi orario. Un altro passeggero, un po' più avanti di me, richiedeva la sua assistenza. Mi sorrise di nuovo, prima di raggiungerlo.
Guardai ancora fuori dalla finestra. Riconobbi subito il paesaggio francese. Stavamo arrivando. Il pilota dell'aereo annunciò l'arrivo per le sette.
Iniziai a prepararmi mentalmente per l'arrivo. Qualcuno, al sentire della voce si svegliò, ma poi accortosi che aveva ancora tempo, si riaddormentò, come se nulla fosse successo.
Poggiai il mio caffè nel porta bevande. Socchiusi gli occhi per un attimo, cercando di riposarmi ancora un po'.
Passò circa un'oretta e mezza. Quando mi risvegliai erano le 6.45.
Guardai fuori. Potevo vedere sempre più in maniera definita la capitale parigina. Da lontano la torre Eiffel, l'arco di Trionfo, e poi il paesaggio urbano.
Una metropoli si estendeva davanti ai miei occhi. La mia prossima meta, il mio luogo di rifugio.

Bonjour, Mesdames et Messieurs, bienvenue à Paris.


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Capitolo 5
*** Capitolo 5. Parigi. ***




Capitolo 5.
Parigi.




Appena scesi dalle scalette dell'aereo, una folata di vento mi schiaffò la faccia.
Benvenuto in Francia, mi dissi, scherzando. Iniziamo bene.
Il vento spirava forte, nonostante non ci fosse così tanto freddo. Era ancora buio. Parigi si stava lentamente svegliando.
Percorsi in fretta quel centinaio di metri che mi separavano dall'ingresso. Entrato dentro mi sentivo già meglio. C'era un lieve tepore, che di prima mattina non guastava, specie dopo un soggiorno in un aereo riscaldato.
Aeroporto Charles De Gaulle, uno tra i più famosi d'Europa. Mi guardai attorno, come un turista spaesato. Non c'ero mai stato dentro, e né tanto meno avevo visto Parigi.
Percorsi diversi corridoi. Il francese che avevo studiato in Russia si stava lentamente irrobustendo. Riuscii ad orientarmi come un vero francese. Capitai subito nella zona bagagli.
Non sapevo quale sarebbe stata la mia valigia, probabilmente avrei aspettato che tutti quanti i passeggeri avessero preso la loro. L'unica a girare sul nastro, a vuoto, sarebbe stata la mia.
Ma qualcosa mi diceva che sarei riuscito lo stesso a trovarla, senza cercare di leggere il codice senza senso impresso sul foglietto. Aspettai un po', mentre alcuni si ingegnavano con carrelli per trasportare evidentemente molte più borse delle mie. Qualche valigia iniziò a spuntare. Alcuni a colpo sicuro le presero, per poi allontanarsi verso l'uscita. Altri rimanevano in attesa.
Finalmente arrivarono le restanti. Alcune valigie grandi, altre troppo piccole per essere adatte a me. Sorrisi. Una valigia sportiva mi passò sotto l'occhio. Poteva essere lei. Guardai l'etichetta: G. Collard. Bingo! Era la mia. Non troppo grossa, ma abbastanza capiente. Assomigliava a quelle usate dai giocatori di tennis. Affusolata come una salsiccia, e due prese al centro. Avevo finalmente anche un'identità.
Mi diressi quindi verso la sala principale. Potevo fare colazione al bar, avrei però dovuto cambiare soldi. Dollari per Euro. Appena fuori, un sacco di gente dietro una pseudo transenna. I parenti dei passeggeri, o i colleghi di lavoro, o gli amici dei parenti venuti a prelevare i viaggiatori.
Non ci feci tanto caso, proseguendo dritto. Una voce però attirò la mia attenzione.
-Messer Collard? Messer Collard!-
Ero George Collard. Mi girai.
-Si?-
Un classico francese mi si stava presentando davanti. Occhiali da vista piccoli e rotondi, pettinatura da perfetto idiota.
-Messer Collard, sono Jean Dumont, amico di Emily. -
Niente barba, pelle liscia. Maglioncino blu. Jeans. Scarpe sportive di seconda mano.
-Non appena mi ha detto che sareste arrivato mi sono subito diretto qui. -
Cazzo. Servizio a cinque stelle. Ci mancava solo la limousine.
-Grazie Jean. Sono appena arrivato, infatti.-
-M'ha detto tutto, non vi preoccupate! Date pure a me la vostra valigia, ci penso io, non vi preoccupate!-
Mi strappò di mano il trolley, la valigia più leggera. Rimasi a portare quella più pesante.
-Di qua, da questa parte... Fatto buon viaggio, messer Collard?
-Si, grazie. A parte lo stordimento del fuso orario.
Non mi rispose. Forse non aveva capito bene. O forse Emily non gli aveva detto proprio TUTTO. Allora perché aveva preso la valigia più leggera?
-Ehm, Jean. Dovrei cambiare dei soldi-
-Emily m'ha detto di darvi questo.- Mi diede in mano una busta.
L'aprii soltanto per vedere se era quello che pensavo. Un foglietto lungo. E un po' di zeri. Un assegno. Allora non correvo pericoli, qui a Parigi. Mi rilassai.
Uscimmo dall'aeroporto. Percorremmo diverse centinaia di metri, per poi raggiungere il parcheggio.
Jean smanettò con il telecomando, aprendo le porte di una Renault Clio bianca. Brutta.
Mi mise il trolley nel bagaglio, lasciandomi posizionare la valigia più grossa dove volessi.
La misi sul sedile posteriore.
Ingranò la marcia, e con moderazione uscì dal parcheggio, dirigendosi verso l'autostrada.
-Dove siamo diretti? - guardavo fuori dalla finestra. Il sole stava lentamente sorgendo.
-A casa mia. Sarete mio ospite, messer Collard.- Magnifico.
-Abito in una piccola viuzza, nel centro di Parigi. Citè de Londrès, a pochi passi dagli Champes- Elyseès-
Non sarei comunque riuscito ad arrivarci. Man mano che procedevamo con la strada, e ci addentravamo sempre più a Parigi, i percorsi iniziavano a complicarsi. Sensi unici, strettoie, traffico e continui cambi di direzione. Cercai di prendermi nota di qualche strada percorsa, guardando sui cartelli attaccati ai muri e i sui pali agli incroci. Rue d'Amsterdam fu una delle poche che mi ricordai. Non era difficile ricordarsela.
Il viaggio durò circa una quarantina di minuti. Entrammo in una viuzza stretta, affiancata da numerosi alberi. Alti palazzi ai lati. Si aprì poi in un piccolo spiazzo, dove parcheggiò la macchina. Scesi dall'auto. Erano da poco passate le 8.
Jean tirò fuori il mio trolley, per poi chiudere la macchina, non appena sbattei la porta posteriore, dopo aver preso la mia valigia.
-Per di qua... -
Seguii l'uomo fino ad un palazzo elegantemente costruito. Dipinto di bianco. Il tetto azzurrino. 5 piani. L'interno era ben curato. Non trovai ascensori. A quanto pare non era ancora arrivata la tecnologia fin qua. Cazzo, non voglio farmi i piani a piedi.
-Terzo piano.- Meglio di niente.
Salimmo le scale, per poi arrivare a destinazione. Aprì la porta di casa. Non male, per essere quella di un francese. Mi avevano raccontato di molto peggio.
Davanti a me un piccolo soggiorno. Carta da parati bianca con ricami di piccoli fiorellini azzurri. Di rimpetto due finestre, una vicina all'altra.
-La vostra camera, messer Collard.-
A sinistra un corridoio, che dava a diverse stanze. Una porta aperta appena a destra. La cucina.
Poi una porta di rimpetto ad un'altra.
-Allora, a sinistra c'è il bagno- Aprì la porta. Piccolo ma illuminato. Una vasca, un lavandino e il water. Niente più.
-Qui la vostra camera- Arredamento simile alla sala, mentre entravo, guardandomi attorno. Un letto alla mia destra. Una piccola finestra davanti a me, e uno scrittoio in legno sulla sinistra.
-Se avete problemi mi trovate di là...- mi sorrise, poggiando il trolley vicino al letto.
-Ma voi... Dove dormite?-
-Ah non preoccupatevi per me. Ho un comodissimo divano-letto proprio in soggiorno. Per qualsiasi cosa... sono in soggiorno!- mi indicò la direzione con il dito, prima di chiudere la porta della camera, lasciandomi solo.
Rimasi perplesso dal suo modo di porsi nei miei confronti. Temeva qualcosa? Non voleva fare troppo il curioso? Non mi aveva chiesto niente. Emily gli aveva detto chi ero?
Guardai le valigie davanti ai miei occhi. Mi stavo chiedendo da diverso tempo cosa mai ci poteva essere dentro. Meglio essere sicuri. Aprii piano la porta della camera, guardando da un piccolo spiraglio verso il corridoio. Vidi la sua ombra proiettata sul muro di rimpetto a me. Era in sala.
Non mi presi la briga di chiudere la porta a chiave. In fondo, cosa mai poteva esserci dentro la valigia di così speciale?
Aprii prima quella piccola. Uno spolverino. Blue jeans, due magliette neanche della mia taglia. Un'agenda. La sfogliai velocemente. L'indirizzo di Jean, seguito da un numero di telefono.
Altri numeri di telefono che non capivo, e diversi nomi in francese, a me sconosciuti. Il resto bianco.
Il resto doveva essere nella valigia grossa.
La aprii per il lungo, con due zip unite tra loro da un cordino. Una tuta da jogging. Jeans. Altri pantaloni, più eleganti. Camicia, cravatta, e scarpe nere, lucidate a puntino. Per ogni evenienza.
Sotto, in basso, diversi pezzi dalle forme strane, avvolte in carta da giornale.
Incominciai a scartarli. Pezzi neri, lucidi, di plastica. E poi un caricatore. E dei colpi.
Rimasi un attimo sorpreso. Guardai ancora dentro la borsa, in cerca d'altri pezzi.
Una busta. C'era scritto: “Per G. Collard”.
Guardai dentro, un biglietto. Lo lessi.
“Al mio caro George Collard. Ho pensato di farti un regalino. Buon soggiorno a Parigi. Bacio. Emily.”
Iniziai a montare i pezzi. Sapevo cosa mi aveva regalato. Mi diedi una manata sulla fronte, trattenendo una risata di sorpresa.
Una Glock.

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Capitolo 6
*** Capitolo 6. ***




Capitolo 6.




-Ancora un po' di rane, messer Collard?
Perchè un francese?
Potevo essere un impiegato americano, un pizzaiolo napoletano, un indigeno, un fottutissimo cazzo di eschimese. Ma un francese... Emily mi voleva male.
-Buonissime, veramente. Magari anche un po' di pane...-
Stavo per vomitare.
-Ma certo George... Vino?-
Il mio bicchiere era ancora pieno.
-Ma no, grazie. Basta così....-
Ero cotto.
-Mi stavo chiedendo da dove veniste... Il vostro accento m'ha creato un po' di problemi... Provenza? O Normandia forse?-
E per fortuna che Emily gli aveva detto tutto.
-Normandia- sorrisi, sorseggiando il vino. Meglio che niente, ma speravo in qualcosa di più buono.
-Ci avrei giurato! Infatti c'era qualcosa che mi diceva che non potevate essere del Sud. Vi confesso: forse la Bretagna, ma avevo subito pensato alla Normandia. Emily m'ha detto che giocate a tennis. E' vero?-
-Sono momentaneamente a riposo, sapete... Vacanze... -
-Fate bene... Anch'io vorrei tanto prendermi una vacanza. Sapete: staccare un po' da questo schifo di metropoli. Certi quartieri! -
Annuii. Sapevo poco dell'ordine a Parigi. E francamente me ne interessava poco. Cosa ci facevo esattamente qui? Perché ero capitato proprio a Parigi? Era un caso, o una meta precisa?
Di certo Jean non mi sarebbe stato d'aiuto. Chissà che cosa gli aveva raccontato Emily, di me...
-Qualcos'altro da mangiare? Vi preparo un caffè?-
Apprezzai la sua gentilezza. Non potevo rifiutare. - Merci-
S'alzò in piedi, portando via i piatti su cui avevamo mangiato. Iniziò a smanettare con pentole strane. Lo lasciai fare.
Squillò il telefono. Come un razzo Jean si precipitò in sala. Confabulò qualcosa a distanza, ma non riuscii a capire.
-Messer Collard! Penso che sia per lei!-
Chi poteva mai essere? Mi diressi in sala, tendendo la mano per prendere la cornetta. Unii le prime due dita sul pollice, le altre chiuse a pugno. Scuotei il polso avanti e indietro. Chi era?
-Non si sente bene, la linea è un po' disturbata...-
-Pronto?-
-chhh..... Geor... George... Sono Emily... Io sono... chhh... Dobbiamo parlare... chhhbzzchhue Ubert... Dove c'è l'Opèra. Tra mezz'ora...chhhh.. Al Cafè de... Paixchhhhh...C'è un telef.....chhhzz....-
-P..Pronto? Pronto?-
Aveva riattaccato. Emily...
-Avranno sbagliato numero probabilmente. Ma mi pareva una voce femminile. Chiedeva di voi...- Jean, dalle cucine. Si sentiva un buon profumo di caffè.
-Già... Ascolta... Io adesso avrei bisogno di uscire un attimo fuori. Sai dove posso trovare un tabaccaio?-
-Ehm... Sì, è appena qui fuori.... Uscito dal palazzo, rifate la stradina che abbiamo fatto con la macchina. Sulla destra. E' Rue Saint-Lazare ! Ma il caffè?-
-Un'altra volta magari... Devo andare... Scusatemi! A dopo! - avevo poco tempo. Non potevo fermarmi ancora.
Presi la giacca che avevo appoggiato sulla gruccia. Aprii la porta di casa, richiudendomela subito dopo. Corsi giù per le scale. Dov'era l'Opèra?
Feci lo stesso la strada per il tabaccaio. Forse qualche passante poteva...
-Excuse-moi.- Una donna, probabilmente sui trenta, mi evitò.
-Excuse-moi. L'Opèra di Parigi? Dovrebbe essere da queste parti.-
-Scenda giù per Rue de Caumartin. Quella strada davanti a lei! Al secondo incrocio sulla sinistra. E poi sempre dritto!-

-Merci, merci beaucoup! -
Iniziai a correre. Doveva essere nelle vicinanze, altrimenti Emily non mi avrebbe detto che mi avrebbe richiamato tra mezz'ora. E se era una trappola? Nessuno sapeva che ero qui. Ma ne ero sicuro? Era la sua voce. Probabilmente era ancora lì nei dintorni Los Angeles a cercar informazioni.
Aveva qualche novità, forse. Speravo.
Mi stava venendo un po' il fiatone. Non correvo così da tanto tempo. Schivai un bel po' di persone.
Stavo per rimetterci la pelle, con un cazzo di ciclista.
Dove cazzo sono? Merda, non mi dire che mi sono perso....
-Excuse-moi.L'Opèra?-
Mi indicarono di girar a sinistra.
Rue Aubert. Finalmente! Guardai l'orologio. Erano quasi passati venti minuti da quando aveva chiamato.
Dovevo trovare il Cafè.
Davanti a me si stava delineando sempre più un gigantesco edificio. L'Opèra, pensai. Stavo arrivando. Cazzo di semafori. Rosso. Diamine, non posso rischiare di essere tirato sotto. Quasi mi ascoltò. Diventò verde dopo pochi secondi.
Corsi ancora, per diverse centinaia di metri.
Una piazza. Un traffico di gente e macchine. Sulla sinistra l'Opèra. Cercai di prender fiato. Mi guardai attorno.
A destra un Cafè. Ma la prospettiva non m'aiutava. Mi spostai meglio.
Cafè de la... Paix... Ero arrivato. Avevo notato diverse cabine telefoniche durante la mia corsa. Ma non pensai che Emily si rivolgesse a quelle. Forse il Cafè aveva qualche apparecchio telefonico all'interno.
Non potevo aspettare ancora. Entrai.
Appena varcai la soglia, rimasi stupito dalla sfarzosità e dall'eleganza dell'ambiente. Luogo di borghesia, probabilmente di stampo ottocentesco. Colonne dai lineamenti classicheggianti. Dipinti sulle pareti e sui soffitti.
I miei vestiti stonavano con l'alta classe dei numerosi clienti che addocchiai, intenti a consumare con estremo bon ton il loro pranzo. Dovevo cercare un telefono. Rimasi per un attimo sulla soglia.
-Un tavolo messere?- mi domando uno dei camerieri, elegantemente vestito, passandomi di fronte.
-C'è per caso un telefono pubblico qua dentro? E' abbastanza urgente...- Non conobbi educazione. Nella situazione in cui mi ero cacciato non potevo dilungarmi troppo. Emily mi avrebbe chiamato a momenti.
-C'è un telefono vicino al bagno, ma è riservato ai clienti...- Che coglioni.
-Ascolti. Devo fare una chiamata urgente. Gliela pago anche il doppio se vuole, ma devo farla! Mi capisce?-
-Monsieur, c'è una cabina telefonica pubblica proprio appena uscito da qui, dietro di lei. Se deve fare la sua chiamata la faccia lì.-
Mi stavo innervosendo.
-C'è qualche problema?- un uomo con giacca e cravatta, tirato a nuovo, si intromise nella conversazione. Ben piazzato come fisico, il viso sereno e ben curato. Non un capello fuori posto. Da dove era sbucato?
-Questo gentiluomo vuole fare una telefonata dal telefono del Ristorante. Ma se non è un cliente, non ho il permesso di fargliela fare. - Che pezzo di merda. Fulminai con uno sguardo quel cazzone di cameriere. Il mio occhio scese sull'orologio. Merda. Cinque minuti di ritardo.
-E chi vi ha detto che non è un cliente? - quell'uomo mi guardò, per poi sorridermi. - Ti stavamo aspettando... Dov'eri finito?- Ma che cazzo...
-Traffico... - risposi. La prima scusa che mi passò per la testa.
-Conoscete quest'uomo?- il cameriere era confuso. Io lo ero il doppio.
-Naturale. E non lasciatevi trarre in inganno dal suo abbigliamento poco consono. E' un mio lontano amico. Viene dalla Normandia... Giusto?- Stavo impazzendo. Come cazzo sapeva...?
-Giusto. Purtroppo non ti ho visto, perdonami. Ma dovevo fare questa telefonata. Sai, impegni di lavoro. Dove vi siete messi?- cambiai tono. Feci il suo gioco.
-Proprio lì a sinistra. Vicino alla finestra. Guarda... Lì! Vedi? - mi indicò il tavolo con lo sguardo. Sedute composte altre cinque persone elegantemente vestite. Non sapevo minimamente chi potevano essere...
-Ah si... Si... Si... Vedo....Ah ecco, siete lì...- annuii, come se avessi riconosciuto tutti quanti.
-Beh, se il vostro amico è con voi, io avrei da servire i clienti... - aggiunse il cameriere, notando il cambio di situazione.
-Andate andate.. Abbiamo risolto... Grazie... - l'uomo fece un sorriso quasi esagerato. Appena il cameriere si allontanò, mi sussurrò all'orecchio – Dobbiamo parlare. In fondo sulla destra ci sono delle scale. Portano ai bagni. Ci vediamo tra cinque minuti.-
Non risposi. Semplicemente mi diressi dove mi aveva indicato. Forse sapeva qualcosa di Emily. Forse era un informatore. Avevo ancora qualche speranza.
Attraversai con tranquillità tutto il corridoio, evitando di guardarmi alle spalle. Scesi le scale.
Un piccola saletta. A destra e a sinistra due porte. Signori e Signore. Mi girai un attimo. Un telefono. Era ancora uno di quelli vecchi. La cornetta e il filo. E la ruota con i numeri da girare. 
Rimasi a guardarlo. Forse Emily poteva ancora richiamarmi.
Passi sulle scale. Feci finta di dirigermi verso il bagno, per poi guardare verso le scale. Era lui.
Mi si avvicinò. Portò una mano in una tasca, per poi sorridermi.
-Messere... Abbiamo bisogno di discutere di alcune cose...
Un rapido gesto. Mi abbassai di colpo, mentre sentii un colpo di pistola silenziato bucare la porta dietro di me. Ero disarmato. Altri colpi sui muri, mentre cercavo di evitarli, buttandomi per terra. Mi lanciai verso la porta del bagno, aprendola con una forte spallata. Scivolai per terra, trascinato dalla mia ricorsa. Mi salvo il culo, perché un proiettile sibilò vicino al mio orecchio, spaccando una mattonella di fronte a me. Mi arrotolai su me stesso, spostandomi verso destra. Altri due colpi che andarono a vuoto, bucando il pavimento. Clang... Klang.
Aprii la porta di uno dei wc. Che cazzo stava succedendo?
-E' inutile che si nasconde, messer Collard. Ormai è senza scampo.-
Mi fiondai dall'altra parte, ma a metà strada mi sentii spingere di lato. Mi aveva colpito la spalla. Caddi violentemente per terra. Urtai la porta del wc di fronte, già aperta. Sbattei la testa contro la porcellana del water. Ahhh.... Diamine....
Cazzo.. cazzo.
Mi misi una mano sulla fronte. Sangue. Un dolore lancinante alla spalla. Sperai che mi avesse colpito di striscio. Ma ovunque c'era sangue.
Sentii la porta del bagno chiudersi con una mandata di chiave.
Le sue scarpe facevano scricchiolare i pezzi di mattonella spaccati per terra, man mano che si avvicinava verso di me. Riconobbi la Beretta 92Fs con il silenziatore appena me la mostrò, puntandomela in testa.
-Capolinea, messer Collard.- Forse avevo visto giusto.
Clik.
Con un colpo di reni, gli diedi un calcio sulle gambe, facendolo cadere per terra. Aveva finito i colpi. Li avevo contati. Solitamente sono quindici. Ma la modifica statunitense ne conteneva solo dieci. Mi aveva salvato la vita.
Cercai di riacquistare un po' di forze. Ero ridotto veramente da cani. Gli diedi un altro calcio sulla pancia, poi uno sulla faccia. Svenne per terra.
Alcuni colpi sulla porta. -Aprite! Cosa sta succedendo?- Merda.
Il bagno era un macello. Grondavo di sangue dalla spalla e dalla fronte. Per uscire sarei dovuto passare dall'ingresso. E lì non sarei passato inosservato.
Mi guardai attorno. Nessuna finestra.
Ero in trappola.

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Capitolo 7
*** Capitolo 7. ***




Capitolo 7.




-Cosa succede? Aprite! Aprite! -
Colpi ripetuti sulla porta. Presto sarebbero entrati, in un modo o nell'altro.
Spostai il corpo dell'uomo, facendolo sedere per terra, la schiena contro ad uno dei muri portanti.
Presi un po' di carta igienica, bagnandola e facendola aderire sulla spalla. Trattenni una smorfia di dolore. Diedi un pugno sul muro. Era un dolore insopportabile.
Strinsi i denti, mentre prendevo la giacca dell'uomo, indossandola. Era ancora per terra, tramortito dal mio calcio. Un livido sulla guancia. Mi guardai: giacca elegante e blue jeans. Scarpe sportive. Meglio che niente.
-Chiamiamo la polizia! Aprite questa porta!-
Mi guardai allo specchio. Ero un disastro. Un taglio obliquo all'altezza della fronte. Grumi di sangue rosso sulla ferita, e sangue che continuava a scendere, ancora.
Mi sciacquai la faccia. Cercai di tamponare ciò che potevo. Nessuna garza, nessun cerotto. E il taglio era dannatamente profondo. Cazzo.
-Aprite!! Aprite la porta! Adesso!-
Era la mia unica speranza. Presi la carta igienica, arrotolandola ripetutamente sulla testa, come una fasciatura. Feci un respiro.
Aprii la porta velocemente, per poi richiudermela alle spalle.
-Ma cosa è successo? Cos'erano quei rumori? - due clienti dell'albergo e un cameriere. Stava parlando una signora tutta addobbata d'eleganza. Età sui sessanta.
-Guardate. Spero per voi che non abbiate preso il pollo, perchè... Anche il mio amico lì dentro si è sentito male. Ora è un attimo svenuto. Chissà cosa ci hanno messo dentro...- mi avviai sulle scale, cercando di rassicurarli.
-E cos'è successo alla vostra testa?- La mia fasciatura non era passata inosservata.
-Ehm, sono scivolato e ho battuto la testa sul lavandino... C'è un po' di sangue in giro, ma non preoccupatevi. Stiamo tutti bene. Anzi, magari prima di entrare chiamate qualcuno a pulire...- salii le scale uscendo dalla loro vista. Si sarebbero forse preoccupati dopo meno di un minuto, appena avrebbero visto l'uomo a terra. Non guardai in faccia a nessuno.
Mi diressi verso l'uscita, per poi allungare il passo agli ultimi metri. Nessuno mi aveva fermato.
Varcai l'uscio, per sbucare in strada. Ce l'avevo fatta. Iniziai a correre, dirigendomi verso la casa di Jean. Potevano ancora trovarmi.
Appena abbastanza distante dal Cafè, rallentai il passo, cercando di mischiarmi tra la folla. La testa mi pulsava come una bombardata continua nelle tempie. Il cuore mi batteva all'impazzata. La vista iniziava a diventare sempre più offuscata. Le mie energie di poco prima stavano lentamente scemando.
Stavo barcollando come un ubriaco.
Alcune persone mi stavano guardando, quasi fossero preoccupate del mio stato.
Mi girai. Due persone con giacca nera. Sembravano dirigersi verso di me.
Cazzo... La testa, porca di quella vacca.
Cercai di aumentare il passo, voltandomi a vedere dov'erano. Avevano accellerato il passo anche loro.
Cazzo, cazzo.
Non sapevo cosa fare. Guardai nella loro direzione, ma appena mi voltai andai a sbattere sulla schiena di uno.
-Ma che cosa?...- mi guardò sorpreso, voltandosi, una smorfia sul viso.
-Perdona.. Aiu...- cercai di parlare, invano. Mi misi una mano sulla gola, quasi per far uscire un segnale di soccorso. Mi sentii cadere.
Poi buio.

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Capitolo 8
*** Capitolo 8. ***




Capitolo 8.

















-Si sta svegliando.-
-Dottore, il paziente (...) ripreso...-
-Grazie, dottore...-


Mi sentivo distrutto. Senza forze.
Quando riaprii gli occhi, vedevo un sacco di figure sbiadite.
Luce.
Mi voltai dall'altra parte.

-L'anestesia totale (...)-
-Quando potrà to... (...) -
-Dategli tempo...-


Realizzai che ero in qualche ospedale. Potevo vedere un dottore con il camice bianco. Altre persone sedute vicino a me. Mi voltai verso la luce. Una persona davanti alla finestra.
-Dove... dove sono?- un dolore alla testa pazzesco... Forse mi avevano dato qualcosa.
-Non siamo autorizzati a dirglielo, George Collard. L'importante è che si senta bene....- Chi parlava? Ancora era tutto confuso.
-Ho male alla testa...-
-Effetto dell'anestesia... Non vi preoccupate, finirà presto.-
-
La spalla...-
-Niente di serio per fortuna. Il proiettile s'è fermato prima dell'osso. Siete stato fortunato.-
-Dottore, potete lasciarci da soli con lui? Abbiamo aspettato tanto...-
-Però non esagerate troppo... E' ancora debole... Mi raccomando...-

La porta si chiuse.
Sentii una sedia graffiare sul pavimento.
-Collard? Mi sente?
Voltai la testa a destra. Vicino al mio letto, un uomo. Età sui cinquanta. Pelato. Portava il pizzetto.
Annui debolmente con la testa.
S'avvicinò di più a me, quasi volesse che io sentissi bene il suo discorso.
-Sono Martin Labeau. Agente 45. Vengo per conto di Emily. C'ha detto che eravate a Parigi.. Allora vi abbiamo seguiti.-
Abbiamo? Jean...
-Anche all'aeroporto...- mormorai.
-Non è stato difficile perdere le vostre tracce. Il vostro compare guida fin troppo piano per i nostri gusti....-
-Che cosa gli avete....-
-State tranquillo. Lui sta bene. Non sa niente di voi... Ma abbiamo dovuto avvertirlo del vostro ricovero. Tra poco dovrebbe arrivare...-
-Al Cafè de la....-
-La situazione c'è scappata di mano, purtroppo. Vi abbiamo seguito fino a quando non siete entrato. Poi ci siamo limitati ad osservarvi da lontano... Non potevamo dare nell'occhio...-
-Grazie....-
-Perdonateci... Ma se fossimo entrati, sarebbe successo il finimondo. Poi abbiamo visto che ve la siete cavata, così al momento opportuno vi abbiamo prelevato...-
-Dove.... dove sono?-
-Vi può consolare il fatto che siete al sicuro, per adesso?-
Non sapevo che rispondere. Avrei preferito tranquillizzarmi su dove fossi finito. Ma se non volevano dirmelo, c'era evidentemente un motivo preciso.
-Che cosa... volete... da me?-
-Sincerarci delle vostre condizioni. Come vedete non sono l'unico qui. - voltò la testa verso le altre figure.
Sforzai gli occhi, cercando di mettere a fuoco.
Altri due davanti a me. Uno a sinistra, vicino alla finestra. Vestiti tutti uguali. Giacca e cravatta nera. Parevano dell'FBI.
Sorrisi, cercando di levare quella loro serietà sul viso.
-Solo questo...?- non penso che volevano solo sapere come stavo.
-Non siete ancora guarito del tutto. Pensate a riprendervi... Poi ne riparleremo...-
Bussarono alla porta. Al che uno di quelli di fronte a me s'avvicinò ad essa, per poi aprirla lentamente.
-Dov'è George Collard?... M'hanno detto che è stato ricoverato qui...-
Qualche secondo di silenzio. Poi m'apparve alla vista. Jean.
-Ma cosa ti è successo? Chi sono questi signori?-
-Ehm... Amici di vecchia data.... Comunque sto bene, grazie Jean.-
Voltai un attimo la testa verso Martin. Si era alzato, e tutti quanti stavano ora uscendo dalla stanza.
-Mi ero preoccupato per voi! Miseria, proprio a voi doveva capitare di cadere dalle scale... Guardate che roba alla testa!-
Alzai gli occhi, ma non potevo vedere niente. Evidentemente avevo una grossa fasciatura. Ringraziai il fatto che le coperte coprissero la ferita alla spalla.
-Sto bene per fortuna... Come vedete ho la testa dura! - sorrisi, cercando di sdrammatizzare.
-E ora? Quando potrete ritornare? Stavo così bene in vostra compagnia....-
-Dovete sentire i medici... Spero di poter guarire in fretta... -
-Sapete, pensavo di organizzare una vacanza in qualche zona di campagna. Conosco un agriturismo veramente unico! Quando guarirete potremmo farci un salto, che ne dite?-
-Non sarebbe una cattiva idea...- Non lo era proprio, cazzo. Quanto volevo una vacanza, una vacanza vera... Ero braccato da chissachì. E per giunta non sapevo dove fossi.
-Perfetto, allora quando torno a casa penso a prenotare, che ne dite?-
-Va bene... Ascoltami Jean, sai dove mi trovo?... Dove mi hanno portato?...-
Non feci in tempo a finire la frase, che dalla porta entrò un medico, con un'infermiera al suo seguito.
-Le visite sono visite... Ora il paziente avrebbe bisogno di riposo... E del cambio del catetere...- s'era avvicinato fin troppo a Jean. Gli voleva trasmettere ansia.E io non avevo alcun catetere.
-Ma certo... Perdonatemi... - Jean si scostò da me, dirigendosi verso la porta. Cazzo, no.
-Ci sentiamo presto, va bene? Dovresti avere il mio numero, credo....- chiuse la porta, dopo avermi sorriso. Merda, merda.
Abbandonai la testa sul cuscino, sospirando.
-Pensi a riposare, ora, messer Collard... - il medico stava armeggiando con una siringa. La infilò in un tubicino, collegato al mio braccio.
-Buon riposo...-
Mi si abbassarono le palpebre...
La mia testa s'inclinò sul cuscino.
M'addormentai.

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Capitolo 9
*** Capitolo 9. Scacchi. ***




Capitolo 9.
Scacchi.




Erano passati diversi giorni dalla prima volta che avevo riaperto gli occhi, dopo l'intervento.
Jean non era più venuto a trovarmi, ma l'avevo chiamato io, per dirgli che presto sarei tornato; il giorno in cui sarei stato rilasciato dall'ospedale, m'aveva detto che sarebbe venuto a prendermi.
Evitai di chiedergli dov'ero. Sapevo che controllavano ogni mia conversazione.


Ormai la ferita alla spalla era quasi guarita. E sulla testa avevo solo una cicatrice.
Mi avevano lasciato la possibilità di uscire dalla camera, e fare qualche passeggiata per i corridoi. Guardavo fuori dalla finestra, ma non vedevo altro che alberi. Sembrava una clinica isolata dal mondo.
Non c'erano tanti pazienti. E i pochi che vedevo erano messi molto peggio di me.
I dottori erano però gentili, e sapevano il fatto loro.
Ero continuamente sorvegliato da uno o due agenti, colleghi di Martin a quanto pareva. Non avevamo ancora parlato di niente. La prima e ultima volta che lo vidi fu quando mi svegliai da dopo l'operazione, ancora sotto effetto dell'anestesia.


Sarei dovuto tornare a casa il giorno dopo. Ormai ero lì dentro da almeno due settimane.
Lunedì sarà il giorno del mio “rilascio”, pensai, sorridendo. Neanche fossi stato rapito.
Domenica venne Martin. Ero in camera, assorto a guardare fuori dalla finestra ammirando gli imponenti alberi che circondavano l'edificio.
-Come va?- si presentò così, aprendo la porta.
Ero ancora a guardar la finestra. Poi mi voltai.
-Meglio, grazie.-
-Bene... Aspettavamo questo momento...-
-Avrei bisogno di parlarti...-
-Anch'io... Vieni, seguimi...Usciamo fuori...-
Ero ancora con la vestaglia blu dei pazienti, delle ciabatte ai piedi. Mi misi addosso la mia giacca che era appoggiata su una sedia, sperando che non ci fosse troppo freddo.
Appena fuori dalla camera, due guardie ai lati della porta ci seguirono. Martin davanti, io dietro di lui. Gli agenti ai due lati, dietro di me.
Scendemmo le scale. Appena davanti un bancone di legno lucido, con due infermiere a sbrigare alcune cose al computer. Una reception veramente di lusso.
Aprii le porte, mentre un'aria primaverile m'accarezzava la faccia.
-Lasciateci soli...- si girò Martin, guardando le guardie. Non dissero niente, e tornarono dentro.
Rimasi a guardarli, poi mi girai verso di lui.
Iniziò a parlare -Abbiamo bisogno che...- - Chi era quell'uomo al Cafè? Perchè ha tentato di uccidermi?- lo interruppi ancor prima che finisse la sua frase. Volevo sapere.
Martin mi guardò un po' strano. Poi tirò fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca della giacca, per poi allungarmelo.
-No, grazie. Adesso no.- Non volevo che si divagasse per perder tempo.
Ne tirò comunque fuori una, per se'. Non sembrava nervoso. Forse aveva veramente bisogno di fumare. Prese l'accendino, e dopo due tentativi, vidi il fumo uscire dalla sua bocca.
-Non lo sappiamo. Probabilmente un agente della SSF *. Avrà intercettato la telefonata tra voi ed Emily. Ma non chiedermi come, perché sinceramente non lo so. - un po' di cenere cadde per terra. Lui ci posò il piede sopra.
-Jean Dumont... Posso fidarmi di lui?- chiesi, mentre le domande mi arrivavano alla testa, a cascata.
-Ci credi se ti dico che non lo conosco? Sarà un amico di vecchia data di Emily, ma penso che non sappia assolutamente né di me né di te... Ti ha creato qualche problema?-
-No... Ma pensavo fosse con voi... Un agente sotto copertura, un informatore, un ex agente, che ne so...-
Mi guardò sorridendo. - Ha tenuto i sessanta per tutto il tragitto dall'aeroporto fino a casa vostra...Non credo minimamente sia dei nostri....-
Guardai per terra, sorridendo anch'io. Poi lo guardai.
-Sei un collega di Emily? Sei della nostra stessa Agenzia, giusto?-
-Ho collaborato con Emily in qualche missione secondaria, a sud della Francia, e in Inghilterra. Semplice pedinamento e posizionamento di microspie e cimici. Lavoro a Parigi da 23 anni, presso la tua stessa Agenzia. Ma sai che è difficile che un Agente conosca i suoi colleghi, specie se distanti migliaia di chilometri l'uno dall'altro.
-Già... Mark come sta? -
-Mark vive a New York adesso. Sta a casa, scopa e caga al cesso.-
Scoppiai in una risata. Era veramente dell'Agenzia. Che cazzo di frase di merda per riconoscere i veri Agenti. Allungai la mano destra, per stringergliela.
-Agente 12C. -
-Benvenuto a Parigi, agente 12. - mi strinse la mano con energia, quasi fosse contento che fossi con lui.
-Grazie. Ascolta, hai qualche notizia di Emily? Che cosa voleva dirmi al telefono, lì al Cafè?- chiesi, sperando che potesse sapere qualcosa in più.
-Mi aveva detto che ti avrebbe chiamato, per darti alcune novità sulla tua precedente missione, ma altro non m'ha riferito. E sinceramente non volevo neanche fare troppo il curioso... Appena riesco, vedo di mettermi in contatto con lei. Non ha voluto portarsi il cellulare, per timore di essere rintracciata. Quindi starà comunicando con l'Agenzia con cabine telefoniche...-
-Già... Chissà come hanno fatto a trovarmi... - guardai per terra, cercando di ricordare qualcosa, e spostare qualche pezzo, nella speranza di arrivare ad una conclusione.
-Non ho idea... - rispose secco Martin. Forse non voleva discutere di ciò.
Fece cadere il mozzicone ormai finito della sigaretta per terra, pestandolo con la suola per spegnerlo. Poi mi guardò.
-Ora che abbiamo speso il tempo per i convenevoli, è ora di discutere di affari importanti, se non ti dispiace... So che non sarai al pieno delle tue forze, ma necessitiamo di una tua mano.-
-Ovvero? Di che si tratta?-
-E' da tempo che cerchiamo un cecchino esperto. La cosa è abbastanza semplice. Tra una settimana ci sarà un matrimonio, all'interno di una villa. Gente d'affari, politici, banchieri, diplomatici.
Un'unione mista, tra il figlio dell'ambasciatore Israeliano Musadh e la figlia del Presidente dell' ambasciata ad Israele, Levon. Un modo per ristabilire vecchi legami, e accordi commerciali.
Ma così facendo, l'ambasciatore potrebbe chiudere un occhio su ciò che gli israeliani vogliono fare alla nostra Agenzia a Gerusalemme. Smantellarla. Vogliono tagliare ogni ponte. Hanno in mente qualcosa di losco, e molti dei nostri Agenti sono spariti misteriosamente.
Devi uccidere il figlio. Un avvertimento. Non sanno con chi hanno a che fare...-
-Uhm... Cosa devo fare? Devo infiltrarmi tra gli invitati?-
-Siamo riusciti a procurarci una divisa da gendarme. La polizia francese sorveglierà la festa, in cooperazione con quella israeliana. Dovrai infiltrarti prima come poliziotto, e poi come tecnico delle luci. Il matrimonio si svolgerà nei giardini fuori, e due tecnici sono addetti ai proiettori delle luci, sui balconi della villa. Nessuno presterà attenzione a te. Anche perchè l'altro tecnico è un nostro agente, e s'occuperà di eventuali seccatori, nel caso le cose non dovessero andare per il verso giusto.-
-Sembra semplice.-
-E' semplice. Ma dei dettagli te ne parleremo a breve. Allora, possiamo contare su di te?-
Ci pensai un attimo. Dovevo in qualche modo rifarmi dal fallimento dell'operazione della volta prima. Dovevo rientrare nella partita.
-Certo.-
-Perfetto...-













NOTE:
* : (SSF): Servizi Segreti Francesi (N.d.a)

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Capitolo 10
*** Capitolo 10. Viva gli Sposi. ***




Capitolo 10.
Viva gli Sposi.




Ero lì. Potevo essere un qualunque gendarme francese. Mi avevano truccato alla perfezione. Baffi, parrucca e divisa perfettamente uguale a quella originale. Avevo da sorvegliare il lato ovest della villa, nel giardino, dove c'era la grande tavolata per il buffet.
Tutti noi poliziotti avevamo in dotazione una radio, per tenerci in costante aggiornamento l'un l'altro. La polizia israeliana era invece in borghese, mischiata tra la folla, diversificata da tutti per gli auricolari che gli pendevano dall'orecchio.
Politici, gente d'affari, colossi che soggiornavano ai piani alti della società. Tutti vestiti elegantemente. Le scarpe tirate a lucido, i pantaloni stirati e nuovi per l'occasione. Giacca e cravatta per i signori, vestiti costosi ma neutri per le signore.
Il tutto per far risaltare i due sposi. Lei la vidi solo di sfuggita, appena entrato in villa per un sopralluogo. Abito bianco, veste che scendeva fino ai piedi. Lui invece una giacca nera, con cravatta bianca, e un fazzoletto rosso nella tasca. Lei scopabile; lui un cesso.
A nord della villa si estendeva il giardino, con sedie e un piccolo altare per il matrimonio. Sarebbe dovuto venire il prete. Si, proprio un prete. Matrimonio cattolico, per scelta anche della sposa. Nessun rabbino tra i coglioni... Meglio così.
Ci sarebbe stato prima il ritrovo degli invitati, nella sala del palazzo, ad est, appena entrati in villa sulla sinistra. E poi da lì sarebbero finiti all'esterno, pronti a celebrare il matrimonio. Lì sarei dovuto scattare io, ancor prima dei festeggiamenti.


Erano le 20.30. La cerimonia del matrimonio sarebbe dovuta avvenire alle 21.15 in punto.
Il prete era già arrivato, e si stava preparando al secondo piano della villa, in una delle stanze degli ospiti.
Nella sala c'erano i vari invitati. Io ero costantemente informato dei movimenti degli sposi, e questo era un bene. Ma non ero nel posto giusto. Eravamo solo cinque agenti a sorvegliare il lato più vuoto di tutta l'area. Eravamo solo noi. E saremmo dovuti rimanere fino alla fine. Dopo il matrimonio l'area banchetto si sarebbe riempita, e ci avrebbero supportato altri poliziotti, e altri agenti israeliani.
Ma non sarebbe stato difficile svincolarsi da lì.
Il tempo stava passando, ma della notizia del matrimonio ancora niente.
Dalla radio ci giungeva voce che il prete stesse scendendo dal secondo piano della villa, per dirigersi verso l'altare, scortato da due agenti in borghese.
Presto sarei entrato in scena.
-chhh... Roger, sta scendendo...-
-chh... gli invitati?... - -cch... Ala nord niente da rilevare... Attendiamo istruzioni...-
-chhh... Si stanno preparando... chh...-

Era giunto il momento.
-Qui Patrick, abbandono il posto un attimo, devo andare a pisciare...-
Agente Patrick Landeau. Anni 45. Un gendarme con un bel passato da sbirro alle spalle. Un comune sbirro.
-chh..... Non bagnarti nei pantaloni, Pat... -
-chh... Vedi di non metterci troppo.....-

-Farò in un lampo....-
Con un cenno della testa mi congedai dai poliziotti vicino a me. Poco vicino alle cucine, una porta dava al piano interrato, portando ad una lavanderia.
Entrai dalla porta nord della Villa. Quasi neanche a volerlo mi trovai davanti il prete, assieme ai due agenti. Mi diede un'occhiata strana, quasi potesse vedere oltre il travestimento. Anch'io lo guardai, intensamente, nei suoi occhi marron scuro. Capelli curatissimi, veste inconfondibile. Il tempo sembrò quasi fermarsi. Un occhiata che forse durò neanche tre secondi, ma in quell'istante fu come se fosse durata un'eternità. Voleva come comunicarmi qualcosa, o forse vedeva in me una persona intrusa.
Non risposi con quello che s'aspettava. Continuai a guardarlo, per poi distogliere lo sguardo in contemporanea con il suo.
Proseguii dritto, evitando di voltarmi indietro. Forse neanche lui l'aveva fatto, o forse sì.
Entrai dentro. Davanti a me la sala piena di invitati ed ospiti. Sui muri ed in corrispondenza delle finestre, altri agenti. Ne contai una decina, sparsi. Ma erano anche molti di più, mischati tra la folla, alcuni anche vestiti da camerieri.
Era strano. Sembrava quasi che si aspettassero qualcosa. Troppo dispiegamento di polizia. Forse il matrimonio era potenzialmente un rischio. Si aspettavano un attacco della nostra Agenzia?
Lasciai perdere i pensieri. Questa volta non dovevo fallire.
Scesi le scale che conducevano alla lavanderia. I vestiti dovevano trovarsi dentro una cesta.
Aprii la porta. Davanti una fila di panni stesi. Mi abbassai, cercando di trovare la cesta con sopra i vestiti.
-Dove cazzo... sono... - guardavo a destra e a sinistra.
-Comunque l'ultima volta che...-
Voci. Cazzo. Stavano scendendo dalle scale.
Come un fulmine, mi nascosi dietro una grossa cesta. Rimasi accucciato, sperando che i panni stesi,che occupavano tutta la stanza, rendessero difficile una mia individuazione.
Aprirono la porta. Mi abbassai, per poi voltarmi, la schiena contro la cesta.
-Ultimamente le cose stanno andando bene, eh.. Non pensar male...-
-Si va bene, ma gliel'hai detto alla fine o no?-
-Ma cosa vuoi che gli abbia detto? Non mi ha lasciato neanche il tempo di iniziare...-
-Sei sicuro che magari, sai... Corna o non corna...-

Cazzo. La radio. Era rimasta accesa.
La spensi subito.
-Ma figurati! … Ah, ecco la cesta. Sai, dopo che ho tentato di dirle quella cosa...- -Eh...-
-Mi ha detto: so che vuoi dirmelo, e anch'io avrei voluto dirtelo tempo fa...-
-Dai... Su... Non tenermi sulle spine...-
-Eh che cacchio, portala su tu 'sta cesta... Allora, alla fine mi ha detto: io ti amo però....-

La porta si era chiusa.
Sperai che la cesta che avevano preso non fosse la mia.
Mi alzai, risistemandomi il vestito. Non sentivo nessuna voce. Avevo ancora tempo.
Riaccesi la radio, forse c'era qualche novità.
-Chhh... Gli sposi stanno scendendo.... E gli invitati sono ormai in giardino... ch..-
-Ricevuto.... Ch... Mandate qualcuno di sopra...-

Era il momento. Guardai tra le varie ceste. Cazzo, erano tutte bianche. Nessuna con sopra la divisa. Merda, merda.
Controllai meglio. Diedi un'occhiata vicino ad una lavatrice. Spuntava una cesta di vimini.
Mi fiondai. Bingo! Trovato!
Avevo poco tempo.
Mi tolsi la tunica da poliziotto, appoggiandola sopra la lavatrice. Poi la cintura con la pistola d'ordinanza. I pantaloni e gli scarponi. Il cappello da gendarme.
Misi tutto alla rinfusa dentro la cesta.
La tunica da tecnico delle luci mi era stato fatto su misura. Mi calzava a pennello.
Mi tolsi i capelli e i baffi posticci. Il fucile l'avrei trovato al piano di sopra.
Iniziai a vestirmi da tecnico, indossando con cura la tuta. Mi misi gli scarponcini neri di gomma.
Presi il primo panno pulito che era steso ad asciugare, adagiandolo sopra la cesta, per coprire il travestimento da poliziotto. L'avrebbero scoperto, è vero, ma io sarei stato ormai al sicuro, troppo lontano e distante per essere rintracciato. Nascosi la cesta appena dietro la lavatrice. Prima che potessero venire a controllare, ce ne sarebbe passato di tempo.
Prima di uscire, presi un martello che era appoggiato sopra una sedia, infilandomelo nella cintura.
Salii le scale il più velocemente possibile. Aprii piano la porta. Il corridoio era libero. Nessun poliziotto nei paraggi. Perfetto.
Sgattaiolai fuori, richiudendomi la porta alle spalle.
Salii le scale.
Un fucile Walther WA2000 mi aspettava dentro una valigia, in una camera appena a destra delle scale. Il Fucile per cecchino più corto al mondo, ideali nei luoghi chiusi e nei posti ove è difficile poter usare supporti. Meno di un metro di lunghezza. Proiettili 7.62 mm NATO.
Un gioiello a tutti gli effetti, fatto da mamma Germania.
Appena giunto al secondo piano, una guardia che sorvegliava il corridoio mi bloccò.
-Dove deve andare?-
-Sono il tecnico delle luci, mi sono un attimo allontanato per andare in bagno.
Mi guardò un po' strano, ma non disse niente.
Entrai subito nella stanza sulla destra. Mi lanciai sull'armadio. Sapevo che l'avrei trovato lì. Eccolo.
Valigetta di metallo, simile a quella usata dagli elettricisti per riporre gli attrezzi.
Diedi una rapida occhiata all'interno. Era quasi montato, mancava solo da montare la canna e il mirino telescopico. Richiusi tutto. Sul balcone che dava proprio sul giardino dove c'era l'altare, mi stava aspettando un altro agente dell'Agenzia, che mi avrebbe coperto nel momento in cui sarei stato pronto a sparare. Uscii dalla camera. Il poliziotto non badava a me, quindi con tranquillità mi diressi verso il balcone. Aprendo la porta, salutai con un cenno il tecnico.
-Hanno appena iniziato...Io sono Jack...- esordì, appena lo salutai.
-Perfetto, vedi di occuparti della guardia fuori, e degli eventuali seccatori. Per il recupero?-
-Appena fuori dal cancello, la Ford nera.-
-Vai, devo montare il fucile.-
Senza domandare alcunché, uscì dal balcone, per poi chiudere la porta a vetri.
Aprii cautamente la valigetta, dando le spalle alla ringhiera, per evitare che dall'alto potessero individuarmi. Ero comunque abbastanza tranquillo. Le potenti luci attaccate sul balcone rendevano difficile per chiunque alzare il viso verso di me. E io con le luci a mio favore avevo un'ottima inquadratura del bersaglio.
Iniziai ad avvitare la canna sul corpo del fucile. Ta-clak. Anche il telescopio era montato.
Controllai immediatamente il caricatore. Due colpi, nel caso il primo non fosse andato a segno.
Perfetto.
Il silenzio regnava sovrano, a parte alcuni rumori che potevo sentire provenire dai faretti.
Imbracciai il fucile come se stessi prendendo in mano una Carabina. Era stranamente leggero.
Il prete stava iniziando a recitare dalla Bibbia il suo solito sermone.
Diedi un'occhiata alle guardie. Guardavano da tutti i lati possibili. Ma nessuno che prestava attenzione a me.
Perfetto.
Mi sistemai vicino ad uno dei potenti fari che emanavano una luce color ambra, indirizzata verso l'altare.
Ero praticamente invisibile.
Feci un profondo respiro.
Spostai la mira un po' di volte, per cercare di inquadrare bene il bersaglio. Lo sposo novello.
Mi dava le spalle. La sposa era a fianco a lui, con i testimoni un po' più indietro.
La croce del mirino finì sul capo dell'uomo.
Era giunto il momento.
Il polpastrello iniziò ad inarcarsi verso il grilletto. Il dito iniziò a premere. Sembrava così dura la molla che lo teneva.
Addio.
Un forte scoppio mi fece alzare un attimo il fucile. Il rinculo.
Un po' di fumo usciva ora dalla sua testa, mentre lo vedevo sputare sangue verso il prete. Questi lo vidi per un istante guardare in alto verso di me.
Forse aveva capito chi era stato.
Ma non mi importava.
Il casino regnava sovrano. Anche se sapevo che presto sarebbero saliti al secondo piano.
Uscii di fretta dal balcone. Davanti a me vidi il poliziotto che sorvegliava il piano per terra svenuto, svestito della tunica.
Jack la reggeva in mano.
-Presto, indossala. Impegnati come saranno a capire che cosa è stato, non noteranno la stonatura dei tuoi pantaloni.-
Mi levai subito la tunica da tecnico delle luci, indossando quella da gendarme.
Intanto stava già spostando il corpo in una delle camere, per evitare che fosse notato troppo presto.
-Cosa cazzo aspetti? Vai, diamine. Me la caverò...-
Non aspettai oltre, mentre mi fiondavo dalle scale.
Scesi giù. Qualcuno stava venendo nella mia direzione...
-Cosa è stato? Da dove hanno sparato?-
-E' sopra, credo sia sul balcone. Ha tramortito i due tecnici delle luci... E' armato. Vado ad avvertire gli altri!- risposi, continuando a correre verso l'uscita.
-Va bene! Dai l'allarme a tutti. Adesso lo prendiamo quel bastardo.- mi rispose un gendarme, con la pistola in mano.
Annuì, mentre mi dirigevo a passo svelto verso l'uscita della villa. Altri poliziotti stavano venendo verso di me, ma non dissero niente.
Il cancello davanti a me era aperto.
Incrociai le dita.
Un poliziotto all'ingresso. Merda.
-Dove deve andare? Cos'erano quelli spari?-
-Hanno ucciso lo sposo, porca vacca. Devo avvertire l'ambulanza dalla volante. Le radio danno le bizze, cazzo.-
-Vai...- mi rispose, quasi comprendendo la situazione.
Mi voltai a destra, appena uscito.
Una Ford nera.
I fari s'accesero. Con un tiro di gas incredibile, si indirizzò nella mia direzione.
Neanche sei secondi che si era fermata davanti a me.
La portiera si aprì.
-Allora?- mi domandò Martin, appena mi sedei sul sedile posteriore. Era a fianco di me.
-Penso che la sposa debba già considerarsi vedova- aggiunsi, mentre chiudevo la portiera.
-Vai vai vai!!- alzò la voce, battendo con il pugno sul poggiatesta del guidatore.
La macchina sgommò un'altra volta, dirigendosi velocemente verso il centro di Parigi.

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Capitolo 11
*** Capitolo 11. ***




Capitolo 11.




-Ehi... Ehi...-
Qualcuno mi stava svegliando. Sentivo una mano scuotermi la spalla.
Aprii gli occhi. Era Martin.
-Che cazzo è succ..- Mi voltai dall'altro lato, sistemandomi il cuscino.
-Emily... Al telefono, vuole parlare con te.- sussurrando.
-Emily?- Mi voltai di scatto verso di lui.
Ora ero sveglio.
-Si... E' riuscita a mettersi in contatto con noi... Dai.. Vieni...-
Piegai la testa di lato, scrocchiandomela. Sbadigliai. Avevo sonno.
Guardai l'orologio: le tre e mezza della notte.
Vicino a me, sparsi in una camera con numerose brande, altra gente. Alcuni li conoscevo. Mi avevano preparato alla missione del giorno precedente. Altri li avevo visti solo di sfuggita.
Seguii Martin lungo un corridoio. Il silenzio piombava in tutto la casa, affittata per l'occasione in un appartamento nel quartiere degli Artisti a Parigi.
Mi passò il cordless, mentre si avviava verso il bagno.
-Pronto?...- chiesi, mentre mi avviavo verso la portafinestra che dava ad un piccolo balcone. In lontananza potevo vedere la torre Eiffel.
-Sei tu?...- potevo riconoscere la voce di Emily ovunque. Mi richiusi la porta alle spalle, mentre una brezza mi accarezzava il viso. Si stava bene fuori.
-Si... Mi manchi...-
-Anche tu... Sai, è strano dirlo così, ma in questi giorni non ho fatto che pensare a te...-
-Anch'io... Dove sei ora?-
-In un motel vicino Los Angeles... Ora sono nel parcheggio, dove c'è una cabina telefonica... Così sarà difficile per loro rintracciarmi...-
-Loro... loro chi? Hai qualche novità? Hai scoperto qualcosa?-
Silenzio.
-Emily?...-
-...Ti amo...-
Mi bloccai. Non sapevo cosa rispondere.
-Ti amo anch'io Emily... Ma perché me l'hai detto così?-
Dall'altro capo del telefono potevo sentire un singhiozzo trattenuto.
-Che cosa succede? Emily...-
-E' finita... -
-Finita? Finita cosa??- non riuscivo a capire. E il suo tono di voce così sussurrato e triste, mi metteva in seria preoccupazione.
-Ti amo... Ti amo.. Volevo dirtelo prima, quando magari avevamo tempo per stare un po' assieme, prima che le nostre strade potessero dividerci per sempre... Volevo guardare per l'ultima volta i tuoi occhi, toccare la tua pelle... - stava quasi piangendo - Poterti abbracciare, e baciarti, come quella volta al check-in, all'aeroporto. Ti amo, John...-
Un rumore strano, poi il suono del telefono occupato.
John... Il mio vero nome, prima che io entrassi in Agenzia. Perchè mi aveva chiamato così?
Ero agitato. Piangeva, e io non l'avevo mai sentita o vista piangere.
Perchè? Perchè non mi aveva detto niente della mia missione? E perchè piangeva?
Guardai il telefono, sperando che mi richiamasse. Forse gli era caduta la linea. Andava a gettoni, quindi magari il credito si era esaurito.
Aspettai qualche minuto.
Niente.
Provai a richiamarla io. Dava sempre occupato.
Merda.
Che cosa era successo? L'avevano trovata? Si sentiva di essere braccata? O forse aveva contato i secondi per evitare di essere rintracciata...
Lanciai il telefono sulla sedia a fianco di me.
Mi appoggiai alla ringhiera del balcone. Un'aria fresca mi muoveva gli abiti mentre, assorto nei miei pensieri, guardavo la città dormire. Qualche luce di qualche casa vicino. La torre Eiffel illuminata come un albero di Natale.
Emily...
Non riuscivo che pensare a lei. Cercai il suo volto tra i miei pensieri. Viso sorridente, occhiali da sole a coprire gli occhi. Labbra da baciare. Un corpo stupendo.
Ti amo anch'io, Sarah...

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Capitolo 12
*** Capitolo 12. ***




Capitolo 12.




Perso nel vuoto di una situazione che non pensavo fosse veramente successa.
Avevo tagli profondi alle mani. Ero diventato quasi una furia incontrollabile. Pazzo, schizofrenico, matto. Cazzo!
Erano passate due settimane dall'omicidio del figlio dell'ambasciatore israeliano.
Parigi era coperta di neve.
Io ero fuori, su una stradina stretta che portava fino ad una piccola chiesa.
Il sangue continuava a scendermi dai palmi, colorando il bianco di un rosso scuro.
Calciai un cumulo di neve. Nooooooo!!!
Non poteva essere successo. Perchè? Perchè?
Sembrava quasi che potessi vedere il suo viso, sorridente, impresso nella mia testa. Ripresi dalla tasca dei jeans quell'articolo di giornale che ormai era sporco del mio sangue.
Non potevo crederci, non volevo crederci.
"Trovata morta una donna, dentro ad una cabina telefonica vicino ad un motel a Los Angeles.
Secondo le prime indiscrezioni, potrebbe trattarsi di un killer facente parte di un'organizzazione chiamata Agenzia, già ben nota alle autorità come una delle più pericolose organizzazioni militari che hanno come obiettivo l'uccisione di esponenti politici, banchieri, direttori di multinazionali... La donna, alta un metro e ottanta, sulla quarantina, è stata apparentemente giustiziata con un colpo alla nuca, mentre stava probabilmente chiamando soccorso. E' ancora mistero sulla sua identità, ma il direttore del motel ove lei alloggiava l'ha riconosciuta come una tal Emily Stock.
Il capo della polizia non ha avuto modo di esprimersi sul fatto..."

Accartocciai violentemente l'articolo, stringendolo tra il mio pugno.
Urlai forte, inginocchiandomi per terra dal dolore.
Sarah era morta, e io non potevo farci niente.






















-Sai, credo che non potrei mai stare con uno come te...-
-Ah si?-
-Si...Abbiamo due vite completamente diverse, e poi siamo sempre così lontani... Però ti amo comunque... Non so perché...-
-Ti ricordi quando ci siamo incontrati per la prima volta? Lì in quel locale da quattro soldi, in Russia?-
-Come non dimenticarlo... Eri così ubriaco...-
-Lì ti vidi, eri anche tu entrata nell'Agenzia da poco...E stavi attendendo la tua prima missione. Eri così agitata...-
-Lo sono tuttora, sempre, quando devo uccidere qualcuno...-
-Non mi hai mai mostrato una tua paura verso la morte. Anche quando Igor ti puntò l'Ak davanti agli occhi, e stava per sparare.-
-Quando Dio lo vorrà, io sarò pronta. Ma finché mi tiene in vita, vuol dire che non ho bisogno di lui...-

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Capitolo 13
*** Capitolo 13. Croissant e Caffè. ***




Capitolo 13.
Croissant e Caffè.




Nero. Come piaceva a me.
Non troppo lungo, un po' di latte sopra. L'inconfondibile profumo che m'arrivava sino alle narici.
A fianco una croccante e calda brioche, leggermente imburrata come da tradizione francese.
-Desidera altro, monsieur? -
Ero in un piccolo bar del quartiere degli Artisti, seduto ad un tavolo.
-No, grazie.- La cameriera, con un sorriso, se ne tornò al bancone.
Martin davanti a me. Sapevo cosa m'avrebbe detto.
Fumava, nervoso.
-E' tempo che te la lasci alle spalle. Noi tutti abbiamo sofferto la sua perdita, ma non possiamo farci più niente.-
Sarah ormai era morta. Giustiziata perché forse s'era impicciata troppo del mio caso, e l'avevano scoperta. Non m'aveva detto niente, e forse era l'unica a sapere qualcosa in più. Ormai quella cosa la stavo dimenticando. Ero troppo lontano per pensare di voler tornare lì, a Los Angeles, per chiarire le cose. Mi avrebbero aspettato, e sarei finito nella loro morsa.
Volevo vendicare Sarah, ma al momento non sapevo cosa fare.
Era caldo al punto giusto. Pocciai il croissant dentro la tazza, mangiando poi la pasta imbevuta di caffè. Una delizia per il palato.
-Elmet Musadh è morto, anche se la polizia è ancora sulle nostre tracce. Stanno cercando di risalire alla tua identità, e se pubblicano un identikit con la tua foto, siamo nella merda.-
-Jack?-
-Si è ucciso. Prima che la polizia potesse prenderlo. Ma lo sapeva. Ha voluto cinquantamila bigliettoni per il suo viaggio all'aldilà.-
Era sempre più buono, man mano che lo sorseggiavo.
-Cosa facciamo, ora? - chiesi, tranquillo, per poi posare gli occhi sulla sua sigaretta.
-Adesso dobbiamo aspettare che le acque si calmino un po'... Non fare cazzate in questo periodo, e vedi di non farti vedere troppo in giro.-
-Ha l'aria di una minaccia...-
-Non possiamo permetterci di fare errori. Non demorderanno, e forse non si daranno pace finché non ti troveranno. Ma di questo non dobbiamo preoccuparci. A tempo debito verrai fatto uscire dalla Francia, e portato in luogo più sicuro.-
-Perché non adesso?-
-Perché adesso ti stanno cercando, e anche se le frontiere oramai sono libere, setacceranno gli aeroporti, e faranno controlli a tappeto in tutte le zone. Dobbiamo solo aspettare. Ma credo che qui non sarai al sicuro ancora per molto...-
Pensai per un attimo ad una persona. Mi si illuminò il viso.
-Jean...- proposi.
-Escluso.-
-Non sa niente di me e di te... E finché farò la vita cittadina con lui, non correrò alcun rischio.-
-Ti rendi conto che è da almeno tre settimane che non ti fai vivo? Come minimo avrà avvertito la polizia, e magari gli avrà dato anche il tuo identikit, denunciando la tua scomparsa...-
Rimasi in silenzio. Martin aveva ragione. Non potevo correre rischi inutili. Chissà cosa m'avrebbe detto, vedendomi tornare... Si sarebbe insospettito...
-Merda!-
-Cosa c'è?-
-Merda, merda... Merda!- sbattei il pugno sul tavolo; la tazzina vibrò come se ci fosse stato un piccolo sisma.
-Allora?- Martin mi fissava preoccupato.
-Ho praticamente lasciato tutto da lui... Vestiti, libretto dei contatti che mi aveva dato.. Emily... La mia pistola... Cazzo, la Glock...-
-Ormai avrà già trovato tutto allora... In questo tempo avrà di sicuro sbirciato tra le tue valigie...-
-Non penso, o meglio... Non credo...-
-Devi andare a riprenderle? Sono così importanti per te?-
Annuì, nonostante non avessi niente di così fondamentale, a parte la Glock. Ma era un dono di Sarah, e non potevo abbandonarlo lì.
-Non puoi andarci da solo, e neanche presentarti di persona... Ci andremo questa notte, se ci tieni così tanto... - aggiunse, spegnendo la sigaretta nel portacenere.
-Va bene, grazie. La serratura non dovrebbe essere un problema... Spero solo che non abbia buttato le mie cose, o peggio averle portate alla polizia, o nascoste.-
-Vuoi correre questo rischio?-
-Si... Tentiamo, almeno...-
Mi fece cenno di sì con la testa, per poi alzarsi dal tavolo, prendendo la sua giacca dall'appendiabiti.
Mi alzai anch'io. Avevo finito di mangiare.
Martin andò a pagare, mentre mi rimettevo la giacca che avevo lasciato sulla sedia del mio tavolo.
Guardai fuori. Era una giornata abbastanza tranquilla, gente indaffarata come al solito, immersa nei loro affari o nei loro pensieri.
Mi riabbottonai la giacca, mentre uscivamo dal bar, iniziando a percorrere una piccola salita.
Infilai le mani nelle tasche profonde del mio cappotto, che mi arrivava fino alle ginocchia, guardando per terra, distratto solo dal guardare alcune vetrine che riempivano i lati della strada.
Martin era al mio fianco, e faceva altrettanto.
Passeggiammo per una mezz'oretta, senza dire niente l'un l'altro. Quasi avessimo litigato o chissà cosa.
Giungemmo senza neanche volerlo nei pressi della nostra abitazione.
Guardai verso il portone. Mi irrigidii.
Diedi una pacca sul petto con il dorso della mano a Martin, ancora immerso nei suoi pensieri.
Mi guardò, e io con gli occhi andai a mostrargli quello che potevo vedere davanti a me.
D'istinto portò la mano sulla tasca, ma lo bloccai.
-Cosa facciamo?- mi sussurrò, guardandomi negli occhi.
-Non è che se gli mostri la pistola, risolveremo il problema.-
-Ma... gli altri.. Dobbiamo aiutarli...-
-Ci prenderanno cazzo, Martin. Adesso passiamo davanti a loro tranquillamente, come normali persone. Forse è un controllo, ma non possiamo rischiare...-
Chiuse gli occhi, sbuffando, quasi per cercare di calmarsi.
Quattro volanti della gendarmeria stavano di fronte all'entrata del palazzo che dava al nostro appartamento. Molti poliziotti erano fuori, dispiegati quasi per controllare che nessuno entrasse dentro. Oltre le transenne, numerose persone, incuriosite dal gran trambusto. Più lontano un furgoncino, probabilmente del G.I.G.N. *
Iniziai a camminare, mostrandomi quasi incuriosito di ciò che stava succedendo. Martin era probabilmente dietro di me, che faceva lo stesso gioco.
Il furgoncino era apparentemente vuoto; probabilmente erano già entrati. Cazzo.
Sperai che non avessero reagito al fuoco, ma mi ricredei. Da una finestra potei sentire un colpo secco, esplosivo. Quasi una granata flashbang, o peggio, una Stinger.
Mi avvicinai, incuriosito.
-Cazzo fai?- mi sussurrò alle spalle Martin, ma non gli diedi retta.
Alcuni poliziotti erano impegnati a tenere lontani probabilmente i curiosi.
-Cosa sta succedendo agente? - chiesi, fingendomi preoccupato.
-Niente... Prego, stia lontano... Pierre, dammi una mano...-
Colpi di pistola. Vetri che si rompevano. Era iniziata la battaglia.
-Cosa sono quei colpi? Cos'è successo??- Altre voci si accavallavano, ma gli agenti erano impassibili, impegnati solo a tenere la gente quanto più lontana dalle transenne divisorie.
Non sarei riuscito a ricavare niente. Mi allontanai, raggiungendo Martin che trovai vicino ad una vetrina, dall'altro lato della strada.
-Allora?- mi chiese, appena lo raggiunsi.
-Sono entrati. Non resisteranno a lungo i tuoi...-
-Cazzo... Cazzo! - diede un pugno di sfogo sul muro accanto, incazzato com'era per la situazione.
-Andiamo... Non possiamo fare niente per loro... Dove hai la macchina?-
Mi indicò con il dito lungo la strada. - Laggiù, oltre quel ristorante. Lì c'è un parcheggio. L'ho messa lì...
-Perfetto, vieni, prima che sia troppo tardi. Dobbiamo andarcene.-
Era la prima cosa che mi balenò in testa. Fuggire, magari cercando un luogo dove sistemarsi, temporaneamente. Cosa ci facevamo ancora lì? Ci avrebbero scoperti, e molto presto.
Volevo scappare, non potevamo rimanere ancora in Francia.
Martin accelerò il passo, guardandosi certe volte indietro. Lo seguii, guardando se le nostre mosse non erano state in qualche modo intercettate dai gendarmi.
Nessuna reazione. Percorremmo in tutta fretta la strada, per poi sbucare in un cortiletto, dove erano parcheggiate numerose macchine.
Una Ford Ka nera ci stava aspettando. Era abbastanza orribile, però era piccola, e nel traffico cittadino era ideale. Era anche molto diffusa, e quindi non avremmo dato tanto nell'occhio.
Ci allontanammo abbastanza velocemente dalla zona.
-Dove pensi di andare?- mi chiese Martin, abbassando il finestrino per fare entrare un po' d'aria.
Lo chiedi a me? Pensai, mentre lo guardavo un po' stranito, perso un attimo nel guardare la strada.
-Lo sai dove voglio andare – risposi. Volevo riprendermi la Glock, era troppo importante per me.
-Va bene... Ma stanotte ce ne andiamo via, e dovremo trovare un modo per contattare la sede berlinese dell'Agenzia. Sperando che ci possano dare assistenza.
-Vorresti andare a Berlino?-
-Tu hai altre alternative?-
Lì per lì non me ne venivano, ma qualcosa mi diceva che dovevo tornare a Los Angeles, a cercare qualche notizia in più su Sarah. Tutti l'avevano abbandonata al suo destino, me compreso.
Volevo tornare a Los Angeles. Dovevo tornare a Los Angeles. A costo di finire nelle mani della polizia. Volevo capire cos'era successo. Perchè l'avevano scoperta, perchè l'avevano uccisa.
-Credo che tu debba andare da solo. In caso le cose dovessero mettersi male, ti aspetterò vicino a casa del tuo amico con il motore già in moto. E vedrò di prendere un paio di biglietti per Berlino.-
Guardava la strada, mentre stava affrontando una curva.
-Va bene... Spero di non metterci troppo....- speravo di non incontrare Jean.
-Ti lascio all'incrocio di Rue d'Amsterdam.-
L'unica strada che mi ricordavo.
-Grazie.-





NOTE:
*: G.I.G.N: Groupe de Securite et D'Intervention de la Gendarmerie Nationale. (I NOCS italiani).

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Capitolo 14
*** Capitolo 14. ***




Capitolo 14.




Parigi di notte era qualcosa di tetro e affascinante allo stesso tempo. Le strade principali erano ben illuminate da lampioni posti ai lati della strada, mentre molti dei vicoli interni erano illuminati solo tenuemente dai pochi raggi lunari che riuscivano ad entrare tra gli stretti spazi.
Avvertivo un senso di disagio stare lì, seduto in uno dei tavolini di un bar della zona. Non mi aveva interessato sapere il nome di quel locale. Era ad un chilometro dalla casa di Jean, il mio obiettivo. Quello era l'importante.
Avevo davanti a me un boccale di birra fresca, probabilmente una Carlsberg o una Heineken; sinceramente non mi interessava neanche sapere la marca.
Avevo cenato con una baguette al formaggio e insalata, presa in un chioschetto vicino all'Opèra.
Da lì avevo fatto una passeggiata tra le vie principali, soffermandomi di tanto in tanto a guardare i vestiti di moda appena usciti, o gli articoli di antiquariato che sembravano ogni giorno più vecchi.
Ero solo. Martin mi avrebbe raggiunto tra neanche un'ora. E io ero lì, seduto, a guardare la gente che passava, indaffarata com'era anche a mezzanotte. Africani, cinesi, indiani... Minchia, manco un francese doc che fosse uno. Mi aveva servito un pachistano. E il bar era colmo di ogni etnia possibile immaginabile. Solo qualche vecchio francese passava ancora in quel locale, ma stranamente si soffermava solo il tempo per vedere chi c'era all'interno, e poi andava via.
Vicino a me avevo adocchiato una coppietta francese, l'unica rimasta a mantenere viva la presenza locale in quel bar. Stavano parlando dei figli, del fatto che uno andasse male a scuola, e l'altro invece fosse il pupillo della famiglia, bravo e diligente. Lei carina, bionda, occhi neri. Portava un vestito casual grigio, e stivali neri da troia. Lui invece professionale, con giacca e cravatta. Non sembrava minimamente un dirigente o chissà cosa. Stonava come una nota di Mahler dentro una discoteca di finocchi, io escluso.
Avevano ordinato da bere una birra per lui, e un tè freddo per lei.
Più volte i loro discorsi sembravano interrompersi senza motivo, e un filo di silenzio passava tra di loro. Erano comunque tesi, come me. A disagio forse per stare in quella bettola, o magari era un bar che avevano frequentato da tempo, dove magari si erano anche conosciuti e incontrati per la prima volta. Già mi immaginavo la cenetta a lume di kebab.
Che squallore.
Guardai l'orologio. Mezzanotte e un quarto. Non volevo alzarmi, anche se sarebbe stata la prima cosa che avrei fatto, magari scappando a gambe levate da quel luogo di tossici.
Sembrava che potessi rimanere lì da solo, per poco ancora, ma giusto per passare il tempo senza annoiarmi ad andare a zonzo per la città. Mi ero sbagliato.
-Mi scusi... Signore?- mi girai a destra. Il maritino francese era leggermente proteso verso di me.
-Si?- risposi. Tono neutro, quasi menefreghista.
-Ascolti, sa per caso se hanno cambiato gestione di questo bar, recentemente?-
Cosa me ne importava?
-Direi di si. Un tempo lo gestiva una coppia francese, se non sbaglio.-
-Ah ecco, vedi Cécile? Te l'avevo detto... Qui lo gestivano i Renaud, ricordi?- si era voltato verso la moglie, che l'aveva guardato come per dire: - Va bene, c'hai ragione te.- rassegnata.
-Siete di qua?- chiesi, tanto per non farmi i cazzi miei.
-Siamo di Parigi si, abitiamo vicino alla Torre Eiffel...- Molto vaghi, in fondo stavano parlando con uno sconosciuto – Lei invece?-
-Uh, abito qua vicino, sono andato a trovare un mio vecchio amico. Sto da lui per adesso.-
-Ahh... Vecchi amici ritrovati... - aveva aggiunto lui, quasi con il tono di chi capiva la mia situazione.
-Eh già... - lasciai il discorso incompleto, mentre distoglievo l'attenzione su un vecchio che stava passando. Presi alcune monete dal portafoglio, mentre facevo mente locale su quanto sarebbe costata quella dannata birra. Buttai giù sul tavolo qualche euro. Sarebbero bastati, e anche per un'eventuale mancia.
Guardai di nuovo l'orologio: mezzanotte e ventitré.
Il tempo sembrava non passare mai. Volevo fare una passeggiata per strada: ormai mi stavo stufando a stare lì seduto. Presi la giacca che avevo appoggiato sullo schienale di una sedia a fianco alla mia.
-Buona serata – sorrisi, mentre me la riabbottonavo, iniziando ad allontanarmi.
-A.. Arrivederci... - sentii di sfuggita, mentre ormai ero lontano. Li avevo salutati per educazione, non volevo sembrare troppo scortese.
Martin sarebbe venuto tra una mezz'oretta. E io non sapevo come passare il tempo.
Camminavo, con le mani nelle tasche della giacca, soffermandomi sui palazzi alti e sulla gente che camminava ancora, nonostante la tarda ora. C'era comunque poca gente, e di rado qualche macchina passava per la strada. Ero veramente uno stupido. Se Jean fosse uscito di casa, chissà per quale strano motivo, mi avrebbe visto, e io sarei stato nella merda più assoluta. Ma era strano, perché non me ne curavo affatto. Non pensavo minimamente ad una possibilità del genere. Me lo immaginavo già a letto, o magari in sala a guardare un film, sperando che non finisse troppo tardi.
Non erano passati neanche cinque minuti. E io stavo per strada, come un vagabondo, a camminare per strada senza meta. Negozi chiusi, qualche vetrina illuminata solo per proteggersi da eventuali ladri. La casa di Jean era solo due palazzi oltre quello che stavo guardando. C'era un po' di vento, e non volevo ammalarmi: abbottonai anche i primi bottoni della giacca, a protezione del collo come se avessi avuto una sciarpa. L'aria era fredda, e si mischiava con il caldo che proveniva dalle grate poste sul marciapiede, o da qualche tombino che emanava odori di fogne. Parigi era tetra anche in quell'ora della notte. Mi meravigliai nel non vedere persone fuori da pochi bar aperti. C'era una strana desolazione. Probabilmente da altre parti era diverso. Non me ne fregava niente.
Attaccati a dei muri, alcuni manifesti elettorali, e qualche pubblicità di intimo. Ragazze praticamente nude, vestite solo da un fazzoletto di tessuto a proteggere le tette e la parte sotto. Cazzo, alcune di quelle erano proprio fighe.
Pensai a Sarah, ma non riuscivo ad immaginarla come volevo. Era così come l'avevo lasciata all'aeroporto. E non mi venivano altre sue immagini, nonostante mi sforzassi con la memoria.
Sarah... Appena finito qui a Parigi, verrò a trovarti, e a capire chi ti ha ucciso. Dovevo vendicarla, o almeno capire chi era stato ad ucciderla. La polizia? Qualche cosca mafiosa? Mafia cinese?
Qualsiasi cosa andava bene, e qualsiasi supposizione era peggio di quella di prima.
Era successo tutto così in fretta, che quasi non mi pareva vero. Schiacciai una lattina di aranciata per terra, facendo uscire il residuo che era dentro. Avrei potuto sparare a quel cazzone. Ucciderlo e poi andare via, assieme a Sarah. Invece non l'avevo fatto, sebbene sarebbe costato solo qualche secondo. Ma forse avrei commesso il mio errore, o forse no.
Non sapevo cosa pensare; farmi seghe mentali su cosa era andato storto non avrebbe portato a niente. Ora qui a Parigi ero al sicuro, momentaneamente. Era questione di poco. Forse ancora qualche giorno e sarei apparso su tutti i tabloid e i quotidiani francesi. Speravo che Martin avesse progettato una fuga, e si fosse messo in contatto con l'Agenzia a Berlino. Da lì sarei potuto partire per Los Angeles, e cercare qualche informazione in più. Per ora ero un fuggitivo, che doveva impadronirsi di una pistola lasciata a casa di un francesino del cavolo.
La mia Glock, la mia inseparabile arma. Non ne toccavo una già da troppe settimane. Ero disarmato, completamente nudo, invulnerabile. Potevo comunque far sfoggio della mia abilità con il Ninjutsu,un'arte marziale giapponese che avevo avuto modo di studiare con cura in Russia con il maestro Komoto Shingai. Era praticata essenzialmente dai Ninja, e avevo avuto modo di studiarla in completamento con delle basi di Judo e Aikido. Ma raramente l'avevo usata, e nonostante mi tenessi comunque in allenamento, mi ricordavo solo qualche mossa e qualche parata. L'essenziale comunque per fronteggiare un nemico a mani nude. Preferivo di gran lunga usare pistole, o fucili, se ne avevo uno sotto mano.
Calciai un foglietto di assicurazioni che mi capitò tra i piedi. Alzai lo sguardo al cielo. Qualche nuvola, per il resto sereno. Non vedevo la luna, e difficilmente riuscivo ad intravedere le stelle. Chissà che cappa di smog c'era a Parigi. Quanto volevo farmi una dormita su in Canada, nel mio chalet. Boschi, natura, isolamento totale. Era una cosa che desideravo da troppo tempo.
Senza volerlo, attraversai la strada, non curante del semaforo e del fatto che potesse passare una macchina o meno. Ma c'era così poca gente e poco traffico, che sarebbe stato il colmo essere investiti da una macchina.
Mi stavo avvicinando alla casa di Jean. Misi una mano nella tasca interna della giacca. Una scatoletta dove solitamente tenevo le sigarette e gli attrezzi per scasso. Ancora non avevo fumato una sigaretta da quando ero arrivato qui a Parigi. Mi stavo seriamente preoccupando. Presi la scatola, aprendola. Dieci sigarette intatte, quasi messe lì ad ammuffire. Attaccate sotto il coperchio, delle pinzette, e delle forcine per scassinare le serrature. Era un peccato fumarsi adesso una sigaretta. Ero anche calmo, nonostante sperassi vivamente che Jean dormisse come un orso, e non si accorgesse del mio tentativo di entrare a casa sua. Non mi aveva dato le sue chiavi di casa; sinceramente non ne avevo avuto il tempo. Ero un perfetto estraneo. E la situazione non era delle migliori.
Guardai per l'ennesima volta l'orologio. Mancavano cinque minuti all'una. Entrai quindi nella viuzza che dava all'abitazione. Non mi ero accorto dell'arrivo di Martin. La sua macchina era parcheggiata sotto uno degli alberi del piccolo cortile. Finestrino abbassato per metà, giusto per far uscire il fumo di sigaretta. Cercai di farmi sentire accentuando i passi sulla ghiaia. Notai il suo sguardo sullo specchietto laterale. Non mi fermai a guardarlo, perché in quel momento stava uscendo dal palazzo un'altra coppietta. Non volevo correre rischi. Appena gli passai a fianco, potei sentire sottovoce: - Ti aspetto con il motore acceso. Se non arrivi tra un quarto d'ora, vengo su.-
Annui con la testa, mentre acceleravo il passo, alzando una mano per farmi vedere dai due francesi. Avevano intuito la mia richiesta, ed accostarono il portone, senza chiuderlo.
-Merci... - sorrisi, mentre accentuavo l'affanno della repentina corsa.
I due mi sorrisero, mentre si avvicinavano ad una delle macchine parcheggiate nello spiazzo.
Salii le scale, approfittando del buio che imperversava in tutto il palazzo. Non avevo fretta, ma dovevo andare a colpo sicuro. Cercavo di non far troppo rumore per salire, e una volta raggiunto il terzo piano, i miei occhi si erano ormai abituati all'oscurità.
Tirai fuori dalla scatoletta una sorta di uncino, una stecchetta di ferro a forma di L a punta di mezzo diamante, e una forcina, dritta e appuntita. Avevo imparato a scassinare serrature alcuni anni prima all'Agenzia a New York. Non ero eccellente come scassinatore, ma i miei tempi oscillavano tra i due e i tre minuti, in base anche al buio e alla difficoltà della serratura. Non era male, ma alcuni miei colleghi riuscivano anche in meno di un minuto.
Per fortuna mia, la porta non era blindata, e avevo solo da aprire due classiche serrature, poste una sopra all'altra.
Mi accostai alla porta. Nessun rumore sembrava provenire da dentro casa. Probabilmente stava dormendo.
Infilai la prima stecchetta piegata dentro, mentre con quell'altra cercavo di agire sui pistoncini, spostandoli sopra e sotto per simulare l'entrata della chiave. Era un lavoro di estrema precisione, e di silenzio assoluto. Ogni rumorino di contatto era essenziale per capire a che punto ero. Diedi un leggero colpo a destra, per poi in sincronia ruotare la stecchetta verso sinistra, aprendo così la prima serratura.
M'asciugai il viso, mentre dalla posizione inginocchiata, passavo a una in cui ero mezzo chino. Aspettai qualche secondo, portando l'orecchio sulla porta a sentir che magari non si fosse svegliato, o avesse sentito il rumore sulla porta.
Niente.
Avevo campo libero per la seconda serratura. Guardai il foro, infilandoci poi la forcina. Era leggermente più difficile da aprire. Presi quindi un grimaldello a forma di serpe. Era ondulata e, per il tipo di serratura, faceva al caso mio.
Iniziai quindi a premere il grimaldello, mentre con la forcina cercavo di sollevare i pistoncini. Erano molti di più questa volta, e difficili da sollevare. Premei un attimo di più, spingendo la forcina più in alto possibile. Ero arrivato al secondo, e probabilmente ne avevo ancora quattro davanti a me. Inclinai ancora di più il grimaldello, ma sentii una forza eccessiva premere sulla forcina.
La spostai quindi verso sinistra, ma la serratura mi fregò, per in quell'istante lasciai per un attimo il grimaldello, e la forcina si piegò fino a spezzarsi.
Cazzo. Un rumorino metallico di impatto sul suolo. Tin... Tin... Merda...
Per fortuna che l'altro pezzo non era rimasto troppo incastrato nella fessura.
Alzai il grimaldello, per poi tirarlo verso di me. Anche l'altro pezzettino uscì fuori, e misi la mano appena sotto la serratura per evitare che cadesse per terra.
Dovevo riiniziare da capo.
Presi velocemente un'altra forcina, questa volta un po' più grossa, ma che poteva starci dentro la fessura. Avevo capito come muovermi, quindi la prima fase non durò tantissimo. Poi capii il mio errore precedente, e agii di conseguenza. Girai quindi la mano verso sinistra, abbassando leggermente il grimaldello. Ruotai poi la stecchetta verso destra.
Clack. Rik-Clack.
Bingo! Rimisi celermente gli attrezzi in tasca, mentre piano aprivo la porta. In quel momento una luce si accese dalle scale, e io ne approfittai per sgattaiolare dentro, socchiudendo la porta. Non volevo perdere altro tempo, e quindi aver avuto una porta già aperta per un'eventuale fuga repentina era l'ideale.
Davanti a me la sala. Le finestre chiuse, la casa immersa nella più totale oscurità. Cercai di guardare meglio. Jean era sul divano, che stava dormendo, avvolto in due coperte. C'era caldo in casa, e mi chiedei se non stesse soffocando, così coperto. Ma non mi curai tanto di lui.
Cercando di non far troppo rumore, mi avviai verso quella che doveva essere la mia camera da letto temporanea. Sperai che non avesse rovistato tra le mie cose. Aprii piano la porta.
Tutto era come l'avevo lasciato l'ultima volta. Aveva un che di tetro, quasi Jean non fosse mai entrato lì dentro, o magari avesse dato una sbirciata, per poi pentirsi di averlo fatto.
La pistola l'avevo nascosta in fondo alla valigia grande. Misi la mano all'interno, rovistando la roba.
Niente.
Toccai il fondo plastificato, mentre stavo cercando di pensare a dove potevo averla messa. Doveva essere lì. Provai nelle tasche lateali. Evidentemente avevo una memoria corta. La trovai avvolta nel panno che avevo trovato nella valigia. Perfettamente integra,il caricatore pieno.
La mia Glock, la fedelissima Glock.
Una luce si accese nel corridoio. Merda.
Mi misi dietro la porta, mentre lentamente sentivo dei passi sul pavimento. La porta era a metà aperta. Mi ero dimenticato di chiuderla.
Non potevo farlo adesso. Aspettai alcuni secondi. Un rumore di una porta che si apriva. Probabilmente era entrato in bagno. La camera era praticamente di fronte. Sbirciai un attimo per vedere dove fosse.
Riaccostai il più possibile la porta. Era buio. Non avrebbe dovuto accorgersi di niente.
Stava pisciando.
Acqua che gorgogliava lungo lo scarico. Stava chiudendo la porta del bagno.
Silenzio.
Cercai di capire cosa stesse facendo, ma il vetro sulla porta mi avrebbe tradito. Sentii la sua mano posarsi sulla maniglia della mia camera. Merda.
Merda.
Un clic che fu imprevisto. Accese la luce.
Non potevo attendere oltre.
Mi lanciai verso di lui, portando il più possibile una mano per tappargli la bocca. Con l'altra spensi la luce, ma per la corsa persi l'equilibrio, facendolo cadere per terra. Un tonfo forte sul terreno. Aveva battuto la schiena sul pavimento.
Mugugnò qualcosa, mentre cercava di divincolarsi il più possibile, nonostante la botta.
-Ehi ehi! Jean! Jean sono io, sono George... - gli dissi sottovoce, guardandolo negli occhi.
Altri mugugni. Voleva scappare, ma con il mio corpo sopra il suo non gli lasciavo via d'uscita.
-Jean cazzo! Stammi a sentire!!- alzai un attimo la voce, prendendogli la testa e indirizzandola verso il mio viso.
I suoi occhi quasi si illuminarono. Mi aveva riconosciuto.
-Mhmhmmm-
-Si.. Adesso ti tolgo la mano, ma promettimi di non urlare, intesi?-
Annuì con la testa. Gli tolsi la mano.
-George! Cosa ci fai qui?? Pensavo fossi scomparso! Che fine hai fatto??-
-E' una lunga storia... Ascolta, ora devo andare via... Non preoccuparti per me. Sono venuto qui solo per prendere una cosa. Non voglio farti del male. Non avevo le chiavi, così ho scassinato la serratura... Ma ti darò i soldi per ripararla ok?-
-Ma cosa sta succedendo? George... Che cosa...-
-Ti prego... Non far domande. Di me non ti devi più preoccupare. Tutta quella roba me la porto via io adesso. Vado via di qua... Purtroppo sono successi dei casini che è meglio non ti dica...-
-Ma se sei appena arrivato!-
-Lascia perdere. Problemi miei intesi? Ora mi alzo. Promettimi che non avvertirai la polizia va bene? Sono qui solo di passaggio...
-Ma certo George... Va bene... - il suo tono era impaurito. Era quello che volevo. Non sembrava volesse fregarmi. Mi alzai, dandogli una mano per aiutarlo a tirarsi in piedi.
Iniziai quindi a mettere tutta la roba dentro la valigia alla rinfusa. Avevo poco tempo, e non volevo perderlo.
-Sei veramente strano George... Entri qui dentro senza neanche avvertire, come un ladro. Potevi citofonare... Ti avrei aperto... - mi rispose alle spalle.
-Hai ragione, perdonami. Ma pensavo non fossi in casa, e purtroppo devo partire stanotte stessa.-
-Ascolta, ti preparo qualcosa per il viaggio, che so... un panino?-
-Ma figurati! Troverò qualcosa all'aeroporto...-
-Insisto! Avrai fame immagino... E' questione di poco, non ti preoccupare.- uscì dalla camera con far frettoloso. Guardai dalla fessura della camera. Stava veramente andando in cucina.
Chiusi le borse con la zip. Ero pronto.
Alla fine volevo portarmi solo la Glock, ma per come l'avevo inscenata, dovevo portarmi anche tutto il resto.
Sentii la sua voce nella cucina, mentre aprivo la porta per venirgli incontro – Ecco i...-
Due colpi attutiti. Un forte tonfo sul terreno. Che cazzo era successo?
Uscii di colpo dalla camera, correndo verso la cucina con la Glock in mano.
Jean era a terra, supino. Una pozza di sangue all'altezza della testa. Voltai la pistola verso la figura che vidi con la coda dell'occhio.
Era Martin.
-Ti voleva sorprendere da dietro con un coltello-
Un coltello da carne appuntito era per terra, a fianco del cadavere. A destra invece dei panini vuoti.
-Ma che cazzo hai fatto??- rimasi lì sbalordito. Non credevo ai miei occhi.
-Ti voleva uccidere. Non vedi il coltello? Ringrazia che ti ho salvato la vita, George...-
-Mi stava preparando dei panini per il viaggio, stronzo bastardo che non sei altro! Perchè cazzo gli hai sparato in testa??- mi lanciai verso di lui, per poi prenderlo per il bavero della giacca.
-Avanti, dobbiamo andare... Prendi quello che dovevi prendere e andiamo...-
-E Jean?? Lo vuoi lasciare lì??-
-Hai idee migliori?-
Odiai Martin in quel frangente. Non potevo far altro che andare via. Se avessi avvertito l'ambulanza sarebbe stato peggio. C'erano impronte mie, sue e di Jean dappertutto. Peggio di così non poteva andare.
Mi lanciai verso la camera, prendendo le due valigie. Non potevo lasciarle lì.
Appena tornato, varie cose erano per terra, compresi molti vestiti e le coperte del letto del francese.
-Cosa stai facendo?-
-Ci son stati dei ladri qui. Che però non hanno trovato un cazzo, purtroppo- mi rispose Martin, quasi incazzato.
-Andiamo su...-
Mi seguii subito dopo, mentre scendevamo di gran fretta lungo le scale.
-Nessun problema dai vicini?- chiesi, con le borse in mano.
-No. Perchè cazzo ci hai messo così tanto?-
-Ho trovato Jean. E l'avevo assicurato che mi sarei tolto dalle palle subito. Ma ha insistito per farmi dei panini.-
-Quel coltello non era per tagliare i panini, idiota.-
-Credi che avesse voluto uccidermi?-
-Non credo niente. So solo che non voleva tagliare quei fottuti panini...-
Lasciai perdere, mentre sceso al piano terra, aprivo il portone, per poi dirigermi di fretta verso la macchina. Appena Martin aprì il bagagliaio, ci lanciai dentro le valigie.
-Ho parlato con l'Agenzia, George. Abbiamo via libera per Berlino. Ci hanno assicurato che non ci saranno problemi all'aeroporto. Due biglietti prenotati per sola andata. Parte tra quattro ore. Abbiamo tutto il tempo per fiondarci nell'aeroporto- chiuse quindi la sua portiera, entrando in macchina.
Feci lo stesso, mentre stava già ingranando la retromarcia.
-Ce ne andiamo da questo schifo di posto. A Berlino saremo al sicuro.-
-Lo saremo così come lo eravamo qui?- domandai, girandomi per guardarlo.
-Fidati.-
Uscì dalla strada a tutta velocità. Direzione Aeroporto Charles De Gaulle. Prossima meta Berlino.

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Capitolo 15
*** Capitolo 15. ***




Capitolo 15.




Arrivammo a Berlino verso le sei del mattino. L'aeroporto era stranamente affollato. Berlino-Tempelhof se non andavo errato. Il nome l'avevo visto di sfuggita.
Tedeschi mattinieri, pensai, mentre mi dirigevo verso un bar vicino all'uscita con Martin, per fare colazione.
Caffè nero e brioche. Sana colazione che amavo fare da molto tempo. Ovunque andassi cercavo sempre un bar che servisse brioche e caffè, nero. Tranne quella volta lì in America; tramezzino. Ma era necessario ai fini della missione. Se mi avessero trovato perché avevo preso una brioche, avrei capito; ma non era quello il caso. Un tramezzino e caffè. Andava bene togliermi la brioche, ma non il caffè, cazzo.
-Hans sarà qui a momenti. Ci porterà all'Agenzia. Lì saremo al sicuro per un po'.-
Martin mi aveva parlato bene di Hans, durante la nostra breve traversata con l'aereo.
Era esperto di demolizioni. Aveva lavorato per la polizia per alcuni anni, poi aveva lasciato e aveva preferito ritirarsi per una vita più "tranquilla". In effetti lui aveva il culo parato. Forniva e fabbricava esplosivi d'ogni tipo, ma il suo contributo finiva lì. Chi maneggiava la sua roba erano cazzi suoi. Potevi chiedergli di mettere una bomba su una macchina, ma questa gliela dovevi portare nel suo garage, e assicurarti che nessuno ti avesse seguito nel tragitto. Frustrante forse, ma se fossi stato al suo posto, avrei preteso la stessa cosa.
Hans era il perfetto, classico, stereotipo di tedesco. Grosso, guancia paffute e pancia sporgente da qualche birretta di troppo. Martin ci aveva lavorato per diverso tempo, quando dovevano supportare alcune missioni di 47, uno tra gli agenti più bravi all'Agenzia.
Quando poi potei vedere Hans con i miei occhi, trattenni a stento una risata. Era proprio come me l'aveva descritto Martin. L'omino Michelin. Pacioccone e molto alla mano.
-Martin! George!- stava sventolando la mano come se avessimo vinto il gran Premio. Pensai che forse quella troppa vitalità avrebbe attirato l'attenzione di qualche poliziotto in incognito. Ma erano solo seghe mentali. Eravamo in Germania, e avevamo superato il Check-in dell'aeroporto senza alcun problema. Ormai la Francia era solo un brutto ricordo.
-Eccolo... Hans con tutti i suoi centodieci chili di peso...- sembrava quasi che Martin fosse tornato a casa. Mentre sull'aereo stavamo sorseggiando un succo di frutta, mi aveva parlato che la Germania era diventata la sua seconda casa. Lui ed Hans erano diventati ormai amici, e si erano assicurati protezione l'un l'altro. In caso di problemi a Berlino, Hans sarebbe venuto da Martin; in caso contrario Martin sarebbe venuto da Hans. Proprio come questa volta. Ma forse l'agente 27 non sarebbe tornato più a Parigi. Il che mi dispiaceva molto. La situazione era degenerata in un modo che nessuno aveva previsto. La polizia ci aveva subito trovati. Certo, l'omicidio del figlio dell'ambasciatore non poteva che essere un nostro lavoro, ma non avevano prove, e Jack si era ucciso prima che la polizia potesse interrogarlo. O almeno questo era quello che mi aveva detto Martin.
-Martin! Mio buon amico! - Hans lo aveva abbracciato calorosamente quasi fino a strangolarlo.
-Hans, vecchio ciccione! Come stai? Hai messo su ancora qualche chilo eh?- il francese era riuscito a strapparsi dalla sua morsa.
-Ah, vaffanculo Martin! Ogni volta che ti vedo, non pensi altro che alla mia pancia. E non mi chiedi mai come va con la salute, con le donne...-
-Forse perchè so che va sempre male?- Martin era scoppiato in una risata sarcastica. Io mi ero limitato a sorridere, non sapendo come Hans avrebbe reagito.
-E qui ti sbagli, francesino delle mie palle! Sto frequentando una bella gnoccolona che ho conosciuto in un bar vicino a casa mia... E' veramente dolce, una vera...
-...puttana!- non gli aveva lasciato neanche il tempo di finire la frase, ed era scoppiato subito a ridere.
-Fottiti Martin! - gli aveva dato scherzosamente un pugno sulla spalla -Per una volta che riesco con una donna, tu a spalar merda come un francese del cazzo! Non abbiamo troie che battono i viali degli Champs Elysees. E non sono tutte belle come tua moglie!-
Martin era sposato?
-Sei... - ero rimasto di stucco - Non lo sapevo... - Non pensavo che Martin avesse già famiglia.
-In effetti sarebbe stato difficile per te scoprirlo, se non fosse per la lingua lunga di questo ciccione... - Martin si era girato verso Hans, probabilmente accennando un occhiolino – Non porto la fede, come vedi. E lo faccio per sicurezza mia e per quella di mia moglie. Meno gente sa e meglio è...-
-Hai ragione...- anch'io non avevo niente di Sarah, e forse neanche Martin sapeva della mia relazione con lei.
-Tu sei George se non sbaglio... Benvenuto a Berlino! - il tedesco mi aveva dato una pacca sulla spalla, cogliendomi quasi di sorpresa. - Martin mi ha parlato di te... Abbiamo sentito anche di Emily... Bastardi... C'è dispiaciuto un sacco...-
-Già... - fissai per terra. Sarah...
-Ormai non possiamo farci niente purtroppo. Dai, venite che vi porto nella vostra nuova casetta...-
Hans aveva girato i tacchi, e con le chiavi della macchina che faceva roteare sull'indice della mano, ci stava indicando di seguirlo.
Presi le due valigie che mi ero portato dietro. Martin aveva solo un leggero trolley. Forse qualche giacca, e forse anche il suo notebook. La mia Glock era dentro la valigia grande, e non vedevo l'ora di tirarla fuori e mettermela in tasca.
Mi ero quasi scordato che stesse piovendo. L'acqua cadeva abbastanza fitta, e il cielo era grigio, tutto interamente coperto da nuvoloni color catrame. Nonostante tutto, era comunque piacevole. Ero stato solo una volta a Berlino, circa dieci anni prima. Era una situazione puramente temporanea. Una tappa intermedia, diciamo così.
Ma non sarei rimasto lo stesso tanto lì a Berlino. Al momento opportuno, avrei chiesto all'Agenzia un via libera per tornare là dove Sarah era stata uccisa. A costo di finire nella tana del lupo.
Parcheggiata davanti all'ingresso, una Bmw serie 3 nera. Un gioiello di macchina.
-Bella macchina, amico... - avevo commentato, sincero di fronte a una bellezza simile.
-Grazie... Beh, in effetti è proprio bella... E non hai visto gli interni!- era quasi diventato un bambino, con l'allegria di chi ti fa vedere il proprio giocattolo curato e tenuto benissimo.
Aprì la portiera del guidatore. Colore beige, e le finiture di un grigio lucido. Veramente bella.
-Adesso ti chiederà di... - Martin non fece neanche in tempo di finire la frase – Guarda il motore! -
Hans aveva aperto con un pulsante il cofano della macchina. Dentro una meraviglia per gli occhi.
-Motore Diesel a 6 cilindri... Quasi 3000 cc di Cilindrata. Da zero a cento in sei secondi netti... Poi non parliamo dei consumi, in città faccio i...-
-Dai cazzo Hans! Metti in moto e andiamo! - Martin era già seduto nei sedili posteriori, affacciatosi buffamente dal finestrino.
-Si si va bene...- rispose con un far comico. Nonostante tutto, se ne intendeva di macchine molto più di me. A me non interessavano tanto le prestazioni. Bastava che fosse veloce ed agile.
Mi accomodai sul sedile anteriore, quasi magari evitando di sporcare un gioiello così tenuto a lucido.
-Vai tranquillo George. Tanto devo dargli una pulitina sotto i sedili e lì sul cruscotto. - aveva già messo in moto, e con un rumore roboante si era lanciato quasi follemente nella strada che portava fuori dall'aeroporto.
Mi misi le cinture, mentre si stava dirigendo verso l'autostrada a tutta velocità.
-Dove ci porti Hans?-
-Dove abito io... Kleinmachnow. Un piccolo comune completamente immerso nella vegetazione. Ti piacerà George... Ha un che di quartiere americano. Tutte villette o piccoli appartamenti. L'unica differenza è che qui si fanno tutti i cazzi loro! - aveva attaccato la radio, prima di scoppiare in una risata. Musica rock tedesca... Niente di esilarante.
-Ich schau dich an und du bist unbeschreiblich schoen... Ich koennte ewig hier sitzen und dich einfach nur ansehe... Doch ploetzlich stehst du auf und du bist geh’n… - Hans si era messo a cantarla, anche se in ritardo di parecchio rispetto alla canzone. Capivo diverse parole, ma non era una lingua che conoscevo benissimo.
-Chi sono questi idioti? - Martin si era proteso in avanti, leggermente infastidito dalla musica che stavamo ascoltando.
-Sono i Die Ärzte! Non li conosci? Sono popolarissimi qui in Germania! Weil ich sonst ganz bestimmt ueberhaupt gar nichts sagen kann! Woo-hoo! Woo-hoo! -
-
No... Mi dispiace... Magari se abbassi un po' è anche meglio! - Martin non si faceva scrupoli. Io sapevo adattarmi. Al massimo mi sarei messo su di un fianco e avrei cercato di dormire.
-Woo-hoo! Woo-hoo!- gli aveva risposto a tono Hans, seguendo il testo della canzone. Poi si era messo a ridere, ma aveva abbassato di qualche tacca il volume.
-Tra quanto arriveremo?- mi ero girato verso Martin, sperando che sapesse qualcosa circa il tragitto. E poi non volevo disturbare il tedesco.
-Credo che in mezz'ora dovremmo farcela, sai George? Dipende dal traffico. Dalle fottute lumache che ogni volta mi si mettono tra le palle... - Hans mi aveva sentito, e aveva anticipato Martin.
-Dai cazzo, muoviti a sorpassare! Allora?? Su su... Dai, adesso spostati dai coglioni e fa passare chi sa guidare... Bravo bene... Macchina francese delle mie palle...- stavo osservando tutta la scena. Una Peugeot Coupe bianca che stava sorpassando un camion. Alla guida un uomo elegantemente vestito.
Hans da dietro il volante gliene stava dicendo a bizzeffe.
-Guarda... La vedi la scritta sul mio cofano? B-M-W... Altro che macchinine di merda francesi, che le prendi e appena uscito dal concessionario ti rimane lo sportello in mano! Senza offesa per i francesi, eh Martin!-era veramente esilarante. Mano mano che sbraitava, si faceva sempre più rosso, e sembrava quasi stesse sul punto di scoppiare.
-Vai tranquillo Hans, tanto sai che odio le macchine francesi.- Martin lo assecondava, divertito.
-Ah ecco... Perchè se c'è una cosa.. Ma vaffanculo! Spostati! Idiota! - un colpo assordante di clacson. Quasi mi prese un colpo. - Guarda George... Adesso dimmi se quello alla guida non è un paralitico di un vecchietto ultraottantenne... Dai dai... Guarda! Guarda! Ma si può?? Comunque, se c'è una cosa che non sopporto sono le macchine francesi. Ho sempre preso Bmw, da quando sono nato! Anche quando ero bambino. C'è una foto dove ho un modellino di Cabrio bellissimo. Una meraviglia. Altro che cacche francesi, attaccate con la merda!-
Era una situazione pazzesca. Ero appena arrivato in Germania, e già mi stavano simpatici i tedeschi.

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