Salus

di madelifje
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - La ladra ***
Capitolo 2: *** Le regole del gioco ***
Capitolo 3: *** Segreti ***
Capitolo 4: *** In volo ***
Capitolo 5: *** Peryth, iniziazione ***
Capitolo 6: *** Marchi visibili e invisibili ***



Capitolo 1
*** Prologo - La ladra ***


Se sapeste da quanto tempo lavoro a questo progetto e quanto sia importante per me, forse capireste la mia ansia all'idea di pubblicare. Dopo praticamente un anno di ricerche apparentemente assurde, di schemi, di elenchi puntati, di appunti, di continue riscritture... eccomi qua. Lo dico sempre, ma stavolta ho davvero davvero davvero bisogno dei vostri pareri perché è in assoluto il progetto più grande e ambizioso in cui mi sia mai lanciata. Per assurdo, penso che potrebbe funzionare. Saranno capitoli lunghi, ci saranno vari personaggi e var pov. Non sono George Martin, ma ci voglio provare. Non sarà facile, lo so, ma mi sono già affezionata a tutti questi personaggi e voglio arrivare fino alla fine. La struttura di questa realtà diventerà più chiara già a partire dal prossimo capitolo, ma in questo prologo ci sono un sacco di elementi fondamentali. 
Per iniziare a orientarvi:
Alles è composto da quattro regni: la Terra Ignjs, abitata dal popolo del fuoco - la Terra Crèhl, del popolo della terra - la Terra Vaya, popolo dell'aria - la Terra Laekur, popolo dell'acqua. Ogni regno ha la sua capitale, forma di governo e lingua, ma sono tutti sotto la Città Indipendente di Frey, governata dagli otto consiglieri, in cui le etnie si mischiano.
Quando dicevo che è lunga non scherzavo affatto, vi ho avvertiti.
Detto questo, mettetevi comodi e buona lettura :)

  




Prologo: La ladra
 



 
Se qualcuno fosse passato davanti al numero 48 della via principale di Flahm, in quella tiepida sera di settembre, non avrebbe notato nulla di strano. Probabilmente non avrebbe nemmeno degnato di una seconda occhiata quella grande villa che sovrastava tutte le altre. Una coppia di doberman vigilava attenta all’ingresso, il vialetto era illuminato da piccole lanterne e il prato sembrava essere stato appena tagliato. Tutto pareva assolutamente normale. Dopotutto, l’intrusa sapeva fare bene il suo lavoro.
Era passata dal retro, arrampicandosi su per il muretto e saltando giù, senza fare il minimo rumore. Non sapeva dell’esistenza di un terzo cane, che sonnecchiava sulla terrazza, ed eluderlo era stata la parte più difficile. Ci era riuscita, ovviamente. Il popolo del fuoco chiamava quelli come lei senka plesak, “danzatori dell’ombra”, il silenzio era il loro marchio distintivo. A quel punto aveva raggiunto una delle finestre del seminterrato e si era accinta a scassinare la persiana. Lì erano iniziati i problemi.
Doveva assolutamente entrare prima delle sette e mancava un minuto.
Funzionava così.
Non importava cosa tu stessi facendo, quanto importante fosse o quante precauzioni prendessi. Le sirene iniziavano a ululare alle sei e cinquanta, come promemoria – benché inutile – prima dell’assoluto silenzio delle sei e cinquantanove.  Immediatamente tutti spegnevano le luci e sbarravano porte e finestre. Se, malauguratamente, ti trovavi ancora per strada, riuscivi a vedere il cielo tingersi di rosso. Allora sapevi di non avere scampo. Non potevi pensare di contrastarla senza le giuste armi e alle sette tutte le raygun smettevano di funzionare. La maggior parte delle persone incolpava la Nebbia. Rossa, impregnata di magia, calava sulle città lasciandosi dietro solo il nulla. Il nulla e la paura.
Era lo squillo di trombe che annunciava il loro arrivo, si sapeva. Le sirene erano una precauzione, la Nebbia l’ultimo avvertimento. Scappa, diceva.
Alle sette passava la Caccia Selvaggia.
Il pugnale non le sarebbe servito a un granché. Era una questione psicologica, tenerlo nella tasca interna del giaccone le dava sicurezza. Suo padre le aveva insegnato a usarlo quando aveva appena dieci anni e passava i pomeriggi a lavorare con lui in officina. “Solo se sei veramente in pericolo” le aveva detto. Otto anni dopo, non aveva mai avuto il coraggio di usarlo. Ogni giorno si riproponeva di cercarsi un nuovo lavoro, spacciandola per un’impresa facile. Probabilmente non ne avrebbe trovato uno altrettanto redditizio – ti pagano bene, se corri costantemente il rischio di farti ammazzare o peggio – ma almeno avrebbe potuto evitare di girare armata.
Quella sera era iniziata male. Quando era uscita, la Nebbia era già calata quasi del tutto e le sirene stavano per iniziare a suonare. In strada c’era qualche altro ritardatario, che aveva dato per scontato che quella figura incappucciata stesse saggiamente correndo al rifugio e non l’esatto opposto.  Lei contava di arrivare alla residenza del consigliere per le sei e cinquantaquattro e di riuscire a entrare in circa due o tre minuti. Le cose non stavano andando secondo i piani.
La casa di Poljak non era lontana dalla sua, perciò non si spiegava come avesse fatto a metterci così tanto. Il proprietario era uno dei consiglieri del re, un uomo importante, che in quel momento avrebbe dovuto trovarsi a palazzo, per il Concilio della festa del dio Vulkan. In teoria. Ammesso che il suo segretario le avesse detto la verità. Sarebbe stato il colmo riuscire a sopravvivere alla Caccia solo per ritrovarsi tra le braccia delle guardie del corpo di Poljak.
Non appena si fu inginocchiata davanti alla finestra, le sirene tacquero. La Nebbia divenne improvvisamente più densa e il cuore della ladra mancò un colpo. Stavano arrivando. 
A Frey aveva comprato una specie di grimaldello che, a detta dell’inventore, era in grado di scassinare qualsiasi cosa. Finora aveva sempre funzionato e la ragazza non aveva un piano di riserva. Peccato che adesso non riuscisse a trovarlo.
Provò ancora a frugare nella sacca, ma era troppo buio perché riuscisse a vedere qualcosa. Avrebbe affrontato la Caccia Selvaggia armata solo di un pugnale.
Dèi, si sentivano già le trombe.
Avvertì un’ondata di panico, accompagnata dal fischiare delle orecchie e dal tremare delle mani.
Le urla di guerra erano sempre più vicine… Imprecando, la ladra rovesciò il contenuto della sacca per terra. L’artiglio, come lo chiamava lei, rimbalzò sulla punta dei suoi scarponi, lo afferrò in una frazione di secondo e si mise subito al lavoro.  A questo punto non le importava più di non fare rumore e i cani erano troppo impegnati ad abbaiare per curarsi di lei. Quando la persiana cedette, colpì più volte il vetro della finestra con il gomito fino a mandarlo in frantumi; infilò dentro la mano, fece scattare la maniglia e aprì. Buttò la sacca sul pavimento del seminterrato e saltò giù, proprio mentre i guerrieri della Caccia raggiungevano il giardino di villa Poljak.
La danzatrice dell’ombra tirò un mezzo sospiro di sollievo.
 
Si avventurò in un paio di stanze prima di trovare le scale. Schizzò al piano terra e quindi proseguì fino al primo. Se le piantine che si era procurata non erano errate, lo studio del proprietario avrebbe dovuto essere lì. E la cassaforte avrebbe dovuto essere nascosta da una libreria, sul lato opposto alla finestra. Lo sapeva bene, spiava la villa da settimane.
Trovò lo studio in pochissimo tempo, nonostante la casa fosse immensa. Corrugò la fronte davanti a una spia rossa che lampeggiava nel corridoio, ma sapeva di non avere abbastanza tempo per occuparsi anche di quello. Entrò nello studio. Era in perfetto ordine, senza fogli accartocciati sulla scrivania o libri fuori posto. C’era odore di legno e di cuoio e la brace del camino non era ancora del tutto spenta. L’unico problema era la libreria. La stessa libreria per cui lei era venuta fin lì.  La libreria che avrebbe dovuto coprire la cassaforte, non essere addossata all’angolo della stanza. Che Poljak, il paranoico consigliere Poljak, si fosse dimenticato di rimetterla al suo posto? Era altamente improbabile, ma poteva essere. Grazie a una telecamera posta nell’angolo della finestra dello studio, aveva avuto modo di memorizzare la combinazione, per cui non avrebbero dovuto esserci problemi. Le avevano fatto risparmiare un po’ di tempo.
Inserì il primo numero, solo allora capì.
Capì che Poljak non avrebbe mai lasciato in bella vista la sua cassaforte segreta, che la spia rossa nel corridoio poteva essersi attivata per un solo motivo e che quella storia non sarebbe andata a finire bene.
Tutti i sensori smettono di funzionare durante la Caccia Selvaggia, quindi la spia – che serviva appunto per le emergenze – doveva essersi attivata prima. Qualcun altro si era introdotto nella villa quella stessa sera. Quel qualcuno aveva fatto scattare l’antifurto. Poi era iniziato il coprifuoco delle sette, l’allarme doveva essersi confuso con le sirene, prima di cessare a causa della Nebbia. Nell’arco di tempo compreso tra il momento in cui Poljak era uscito di casa – cioè le sei e quarantasei – e le sette di sera, l’intruso aveva trovato la cassaforte. Quindi era iniziata la Caccia ed era arrivata lei.
L’intruso non poteva avere avuto il tempo di uscire.
Ciò significava che la danzatrice dell’ombra non era sola al numero 48 della via principale di Flahm.
Un brivido le attraversò tutta la colonna vertebrale. Tirò fuori il pugnale, lasciò perdere la cassaforte e agguantò tutte le cose che sembravano avere un minimo di valore, quindi corse fuori dalla stanza e giù per le scale.
Successe tutto troppo in fretta. La colpirono agli stinchi e cadde in avanti. Cercò allora di girarsi in posizione supina, in modo da potersi difendere meglio, ma qualcuno le stava immobilizzando le gambe. Provò con i calci e uno andò a segno. Si sentì un’imprecazione in lingua créhl e una voce maschile che gridava al compagno di non mollare la presa. La ladra si dibatté ancora, ma il suo avversario era troppo forte e la teneva schiacciata contro il pavimento. 
«Non si arrende, ‘sta stronza», borbottò il créhl. Lei si preparò a tirare un altro calcio, ma l’altro la colpì alla nuca e tutto sprofondò nell’oscurità.
 

 
***


 
Nioclàs era riuscito a conquistare un divanetto di pelle, zigzagando tra la massa di corpi che ballava, rideva e beveva. Si era seduto reggendo un cocktail in una mano e il comunicatore nell’altra. Non aveva ancora trovato la persona che stava cercando, ma era solo questione di tempo. Era sulle tracce di quella ragazza da due settimane e finalmente aveva qualcosa di concreto: la conferma all’invito della festa di tale Boran Matic, un ragazzo ignjs, la sera del dodici settembre. Lui, l’invito, non ce l’aveva, ma sperava che nessuno glielo chiedesse. Bastava mimetizzarsi e magari bere qualcosa a scrocco. La ragazza sarebbe arrivata. Doveva arrivare.
 
 
 
Dilara Eirdottir arrivò alla festa di Boran Matic con soli diciassette minuti di ritardo, sicura che non se ne sarebbe accorto nessuno. Sventolò l’invito davanti all’automa che fungeva da buttafuori e si tuffò nella mischia. La sua amica Kaj le aveva tirato pacco, così non le restava che individuare Hilma e Lorcàn.
La festa era nell’attico del ragazzo, il quale, da bravo ignjs, voleva rendere omaggio a modo suo al dio Vulkan. A dire la verità, lui e Dilara non si erano mai rivolti la parola. Aveva ricevuto l’invito per vie traverse – Hilma – e aveva accettato solo perché non aveva niente di meglio da fare.
Trovò i suoi amici dopo neanche cinque minuti. Erano all’angolo bar, con un altro automa che serviva loro un drink. Lorcàn vide Dilara e le fece degli ampi cenni con le braccia per attirare la sua attenzione, come se lei non li avesse visti, e la invitò a raggiungerli.
«Dilara!» Hilma la baciò sulla guancia. «Ci sono tre consumazioni gratis! Tre!»
Dilara rise per il suo entusiasmo e si fece servire della birra, quella buona ma dagli ingredienti incerti che producevano gli elfi.
Il locale era fantastico. Ampie vetrate dai telai in piombo decoravano le pareti altissime, la luce però non era sufficiente, così gli ignjs avevano dovuto ricorrere alle lampade a etere. Etere. Quanti soldi devi avere per sprecare l’etere nelle lampade? Nel suo appartamento, Dilara poteva a malapena permettersi l’olio. Nell’aria c’era odore di alcol e fumo, si vedevano già persone che si facevano aria con le mani per scacciare il caldo. Non erano ancora arrivati tutti i partecipanti, infatti c’erano ancora dei divanetti in pelle liberi. Dopotutto, Dilara non era così in ritardo.
«Kaj?» domandò Lorcàn.
Dilara roteò drammaticamente gli occhi. «Indovina», borbottò, «lavora.»
«Pensavo avesse superato quella fase…»
Anche Dilara, ma non lo disse. Kaj ultimamente era più introversa del solito e lei non osava tirare fuori L’Argomento. Sapeva quanto fosse difficile per la sua amica, tuttavia non riusciva a mettersi nei suoi panni. Era stata sfortuna, forse, qualcosa che nessuna di loro due poteva cambiare. Kaj doveva solo imparare ad accettarsi.
Hilma spostò i capelli da un lato, rivelando il simbolo laekur tatuato sul collo di cui andava tanto fiera, e Dilara si chiese se avrebbe mai visto Kaj compiere un movimento del genere.
Decisa a togliersi quei pensieri tristi dalla testa, si lasciò travolgere dalla musica. Non ballava benissimo, ma non le importava. In quel genere di feste nessuno stava a guardare come si muovevano gli altri.
Hilma si dimenava a tempo lì vicino, con il suo solito sorrisone stampato sulle labbra. Dilara la imitò. Forse poteva smettere di pensare a Kaj e godersi quella che si preannunciava la festa dell’anno. Forse. Quello che Dilara non sapeva era che quella festa le avrebbe cambiato la vita.
 
 
Nioclàs l’aveva vista passare di sfuggita, diretta probabilmente all’angolo bar, e non aveva avuto dubbi. Quella era la ragazza che stava cercando e per lui era arrivato il momento di agire.
 

 
***


 
La sconosciuta giaceva addormentata su una sedia di metallo, polsi e caviglie legati, all’interno della stanza degli interrogatori. I capelli neri e mossi le arrivavano circa alle spalle e coprivano solo in parte il suo volto. Era magra, lo si intuiva dai pantaloni aderenti neri, dal corpetto stretto e dal modo in cui la giacca grigia e larga le ricadeva sul busto. Ai piedi portava un paio di anfibi e uno dei due ragazzi – quello biondo con gli occhi di ghiaccio – si chiese se non avesse copiato quel tipo di abbigliamento dalle storielle che giravano sui ladri. Ridicola.
Lui e Klaus la tenevano d’occhio dall’altra parte del vetro antiproiettile, aspettando con una certa impazienza che si risvegliasse.
«Continuo a non capire perché tu l’abbia portata qui», buttò lì Klaus. Vide, dal riflesso sul vetro, le labbra di Lambert incresparsi in un sorriso enigmatico. Chissà cosa gli passava per la testa. Klaus si accese una sigaretta.
«Allora non l’hai guardata bene», fu la solita risposta sibillina.
«Cos’avrei dovuto guardare?»
«Il tatuaggio sul collo. Visto che non l’hai fatto, te lo dico io: è grigio». Klaus si accigliò, perfettamente consapevole di cosa significasse. Perché Lambert avrebbe dovuto catturare una Bandita di neanche vent’anni?
«Perché catturare una Bandita di neanche vent’anni?», domandò, stavolta a voce alta.
«Questa Bandita è riuscita a entrare nella casa del consigliere del re ignjs durante la Caccia Selvaggia e sarebbe anche riuscita a fare piazza pulita dei soldi, se non fossimo intervenuti noi».
Klaus finalmente capì, mentre l’espressione di Lambert mostrava tutta la sua soddisfazione.
«La vuoi reclutare», stabilì Klaus. «Ma cosa ti dice che non stesse facendo nella villa di Poljak quello che stavamo facendo noi?»
«Non lo so, Kalus», fece l’altro, serafico, «cosa è più probabile che stesse facendo una Bandita di neanche vent’anni nella villa di un uomo ricchissimo?»
Secondo Klaus, era stata ingaggiata da qualcuno. Lambert ammise che fosse possibile, l’aveva catturata anche per quello. Le avevano somministrato un sonnifero bello potente; la ragazza era rimasta fuori combattimento per tutto il volo da Flahm a Frey.
«Però con il Capo te la vedi tu», sbuffò infine Klaus. Lambert sorrise, stavolta per davvero, e gli diede una spallata.
«Come al solito, intendevi dire».
Klaus non fece in tempo a borbottare nulla, perché, con un lieve lamento, la prigioniera si svegliò.


 
***
 
 
Era già in quella fase della serata in cui la testa iniziava a pulsarle e i piedi le urlavano di fermarsi. Dilara però non voleva smettere di ballare. Probabilmente era colpa della birra che continuava a bere e di quell’automa che non la smetteva di mettere bella musica. C’era anche Lorcàn che baciava una ragazza con i capelli blu – mai vista prima – e Hilma che si disperava perché non riusciva a trovare nessuno. Una festa come le altre, quindi. Dilara le adorava.
A Hilma si avvicinò finalmente un ragazzo con i capelli chiari e Dilara prese la geniale decisione di lasciarli un po’ da soli. Si spostò verso il centro della pista e lì riprese a ballare, sentendo l’adrenalina scorrere nelle vene. Senza alcun dubbio una delle sensazioni più belle del mondo.
Un ragazzo alto e magro le si avvicinò un po’ troppo. «Vuoi ballare?», chiese con un sorrisetto. Dilara annuì. Lui le appoggiò le mani sui fianchi, intimandole di rilassarsi. Era carino, con dei bei lineamenti e due occhi piccoli ma espressivi. Si spostarono verso il lato opposto della sala rispetto a quello da dove Dilara era venuta, così lentamente che lei non se ne rese conto. Per cui, quando si ritrovò oltre gli ultimi divanetti, rimase interdetta per un secondo. Il ragazzo l’aveva prese per un polso e la stava trascinando lontano dagli altri. Aprì una portafinestra che Dilara non aveva notato e i due si ritrovarono su un piccolo terrazzo. Alla faccia dello spirito di iniziativa.
«Qui staremo più tranquilli», commentò il ragazzo. Schioccò le dita due volte e tutti i rumori provenienti dall’interno dell’attico sparirono. Dilara iniziò ad agitarsi.
«Come diamine hai fatto?» chiese, cercando di stare calma.
«È facile, se vuoi ti insegno», borbottò lo sconosciuto. Improvvisamente i modi di fare da “voglio baciarti fino a rimanere senza fiato” erano spariti, sostituiti da un’ansia e una fretta che spaventavano Dilara ancora di più, se possibile.
«Devi ascoltarmi», iniziò l’altro. «Mi chiamo Nioclàs Berne. Non sono stato invitato alla festa, non mi sono avvicinato a te perché mi piaci e non ho intenzione di farti del male. Quello che sto per dirti ti sembrerà assurdo, ma devi ascoltarmi senza interrompere fino alla fine. Chiaro?»
Dilara si chiese come avesse fatto a passare dalla festa a… quello, qualsiasi cosa fosse. Poi annuì. Non aveva esattamente altre alternative.
«Devi scappare. Lascia la città, cambia nome e non contattare la tua famiglia e i tuoi amici per nessuna ragione. Se vengono a cercarti, non andare dai Soldati».
«Ma chi dovrebbe-»
«Ascolta! Hanno trovato il ragazzo vaya. La prossima potresti essere tu. Se hai bisogno di me, questo è il mio numero». “Nioclàs” le passò un foglietto bianco con un numero di comunicazione stampato sopra. «Memorizzalo, poi assicurati di distruggere il messaggio. Se mi chiami, nascondi il tuo numero».
«Sei pazzo!» sbottò Dilara. «Non so di cosa tu stia parlando, forse ti sei solo sballato un po’ troppo. Di sicuro questo non ti autorizza a dirmi certe cose e-»
«Mi avevano detto che probabilmente non ne sapevi niente. Ma questo non è un gioco e non c’è più tempo. Devi andare via!»
«No! Io non vado da nessuna parte e, se provi ancora a rivolgermi la parola, mi metto a strillare». Dilara si divincolò dalle mani di Nioclàs e aprì la portafinestra, prima che lui potesse fare un altro dei suoi “giochetti”. I rumori erano ancora leggermente ovattati, ma iniziavano ad aumentare. Perché i tipi del genere dovevano per forza venire da lei? Dio, era tremendamente seccante. Si passò una mano tra i capelli, improvvisamente secchi e umidicci, e cercò di non apparire troppo sconvolta. Poi si buttò nuovamente nella massa.
Trenta secondi dopo aveva trovato Lorcàn, l’aveva separato dalla ragazza coi capelli blu e gli aveva detto di stare tornando a casa.
Il foglietto bianco con il numero di comunicazione sarebbe rimasto in tasca per molto tempo, lontano anni luce dai pensieri della ragazza.
Poverina, era solo l’inizio e non lo sapeva.
 
 
***


A Kaj faceva male la testa. Si trovava in una stanza asettica dai muri grigio chiaro, arredata solo da un tavolo di metallo e dalla sedia grigia a cui lei era legata. C’era poi uno specchio appeso a una delle pareti più lunghe e la ragazza era sicura che al di là di esso ci fosse qualcuno che la osservava. All’inizio non ricordava come fosse finita in quella situazione, poi le immagini della villa di Poljak le riaffiorarono alla mente. Era stata trovata dal padrone di casa? L’avevano arrestata? Oppure l’avevano catturata gli sconosciuti che si erano introdotti nella villa?
«E-Ehi! Lo so, c-che c’è q-qualcuno!» La ladra, la senka plesak, la Bandita che fingeva di non aver paura di niente balbettava. Non molto e non con le persone con cui era più in confidenza, ma era una cosa che odiava. Aveva imparato ad aspettare prima di parlare, quando era sicura che la propria voce non avrebbe esitato. Quella volta non fu così fortunata e, sicuramente, chiunque la stesse osservando pensò che fosse molto più spaventata di quanto desse a vedere – e non era vero, non ancora.
«V-Venite fuori!»
Nessuna risposta. Kaj cercò allora di liberarsi, scoprendo che quelle che le circondavano i polsi erano due manette piuttosto resistenti. Si dimenò, infiammandosi i polsi, e fu costretta a mordersi il labbro inferiore per non lamentarsi. Riuscì a far dondolare la sedia ma, invece di ritrovarsi in piedi, finì per cadere su un fianco. La porta si aprì cigolando.
«Cattiva idea», commentò il più alto dei due ragazzi che erano entrati. Aveva i capelli biondi non troppo corti e gli occhi più chiari che Kaj avesse mai visto. Era magro, con un giubbotto di pelle che metteva in risalto le spalle larghe. L’altro era più basso e minuto, con i capelli castani, la carnagione pallida e un paio di brillanti occhi verdi.
«Liberatemi», ringhiò Kaj.
«Quanta fretta!»
«Non vuoi neanche sapere chi siamo, Bandita?» Kaj si irrigidì a quell’appellativo. Cosa diavolo volevano da lei?
«Chi siete?» domandò allora con più calma, balbettando solo un po’ sulla “c”.
«L’Agenzia», rispose il castano.
«Tecnicamente per il Governo non esistiamo, in pratica lavoriamo per loro. Mai sentito parlare dei Servizi Segreti?» spiegò l’altro, con l’aria annoiata di chi ha ripetuto la stessa solfa decine di volte.
Perché le stavano raccontando tutto?
Kaj deglutì, chiamando a raccolta tutto il poco coraggio che possedeva. La situazione era anche più assurda del previsto, le conveniva pensare in fretta a un modo per fuggire.
Nel frattempo, decise che era meglio farli parlare. «Quest’agenzia non ha un nome?»
«Ce l’ha», disse pacatamente Occhi Verdi. «“Agenzia”. Non serve chiamarla in nessun altro modo. Immagino che anche tu abbia un nome…»
Kaj non sapeva cosa rispondere. Sembravano abbastanza sinceri, addirittura troppo. Che senso aveva portarla lì, legarla a una sedia e poi raccontarle la storia delle loro vite?
«Anna», rispose. Pessimo. Troppo, troppo comune e semplice.
Capelli Biondi sorrise. Non le credeva, Kaj avrebbe potuto giurarci.
«E cosa faceva una brava ragazza come te nella casa di Poljak, quattro ore fa?»
Quattro ore? Era passato davvero così tanto tempo? Il tranquillante doveva essere davvero potente.
«Mi hai chiamato “Bandita”, prima. Immagino tu lo sappia già», ribatté.
«In effetti sì», confessò lui. «Proprio per questo volevo proporti un patto».
Occhi Verdi lo guardò, forse stupito dalla sua franchezza. Sicuramente si erano preparati una linea d’azione e, altrettanto sicuramente, Capelli Biondi non la stava rispettando.
«Vieni a lavorare per noi». Kaj aprì la bocca e la richiuse immediatamente, per evitare di balbettare troppo. Quella era in assoluto l’ultima cosa che si sarebbe mai aspettata.
«Non penso che là fuori ci sia una fila di persone disposte ad assumerti, Anna», continuò l’altro, con quello che era veramente un colpo basso. «Allora?»
«N-Non lo so…» C’era sotto qualcosa. Doveva esserci sotto qualcosa. Non la conoscevano nemmeno!
«Perché io?» riuscì a chiedere.
«P-Perché, ragazzina», la scimmiottò, «se andassimo in giro a raccontare quello che è successo stasera, tu passeresti dei guai. Però, siamo impegnati in un progetto piuttosto serio e il tuo aiuto ci farebbe comodo».
Kaj rifletté. Avevano un secondo fine, quello era ovvio, per lei era fin troppo conveniente. Si era ridotta a rubare, santo cielo. Non aveva assolutamente nulla da perdere. Non avrebbe mai trovato niente di meglio. Non lei, non con quel tatuaggio sul collo.
«Potrei voler accettare», disse lentamente.
A Occhi Verdi scappò una risatina.
«Noi siamo Lambert», indicò il compagno, «e Klaus. Benvenuta.»
«State cercando di f-fregarmi?»
«Hai un debole per le domande ovvie, ragazzina».
La voglia di tirare un pugno sulla faccia pallida di Capelli Biondi aumentava ogni secondo di più. «Ok. Ci sto. Mi fate firmare un contratto?»
Probabilmente adesso sarebbero venuti a liberarla, ignorando la sua ironia. «Qual è questo progetto?» chiese Kaj a bruciapelo. Lambert tirò fuori una chiave e aprì le manette che la tenevano legata alla sedia. «Corri troppo, Anna.»
«Kajdena», mormorò lei.
«Come?»
«Il mio vero nome è Kajdena Jozic».
Il sorriso sul volto di Capelli Biondi si allargò trionfante.








 

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Capitolo 2
*** Le regole del gioco ***




Parte prima: L’Agenzia





La Guerra è finita. Alles ne è uscito sanguinante e sconfitto, ma le sue genti potranno finalmente vivere in pace.
Questa mattina sono stati firmati gli ultimi trattati, nella sala concili della Torre dei Consiglieri, nella città di Frey.
Sono state stabilite le seguenti condizioni di pace: un rappresentante del popolo elfico presenzierà a tutti gli effetti nel concilio, incluso il diritto di voto – diamo il benvenuto a Jahriel – i territori che distano oltre sessanta miglia dalla costa di Alles sul Mare delle Nuvole saranno d’ora in avanti amministrati dagli elfi; infine, per tutti i territori eccetto la città di Frey, ogni sera alle sette passeranno le schiere elfiche.
L’esercito demoniaco – in parte proveniente dal Mondo Inferiore – si presenterà in tenuta da guerra, avvolto da una nebbia rossa, e sarà autorizzato a saccheggiare i territori che incontrerà al suo passaggio.
Viene istituito un coprifuoco per gli abitanti delle quattro Terre, per preservare la loro sicurezza.

Queste sono le condizioni imposte dagli elfi. In sede non ufficiale, i consiglieri sostengono che un giorno il nostro mondo risorgerà.

– dagli annali della Torre dei Consiglieri, a cura dell’Intendente Iago Vreic






Capitolo uno – Le regole del gioco

 
 
 
Prendere l’ascensore non era stata una buona idea.
Gli altri la stavano aspettando sul tetto del palazzo, ma Kaj aveva l’impressione che non ci sarebbe mai arrivata.
Quella sera l’Empire Plaza Hotel di Frey era più affollato del solito. L’ascensore si fermava a ogni piano per far salire ricchi uomini e donne che chiacchieravano animatamente, mentre Kaj sentiva quelle voci concitate provenire dalla tromba delle scale e si sentiva male. La stavano raggiungendo. Schiacciò ancora il tasto dell’ultimo piano, ormai inutilmente.
Quando arrivarono al trentesimo livello, le persone che aspettavano di salire erano cinque, di cui una con le stampelle. All’interno dell’ascensore erano già in sei. Non ci sarebbero mai stati e avrebbero perso un’infinità di tempo per decidere chi dovesse salire. La mano di Kaj si avvicinò al tasto di chiusura delle porte. Dal fondo del corridoio spuntarono due uomini vestiti di nero che la guardarono dritta in faccia. La mano di Kaj schiacciò quel pulsante.
«Ma cosa fa?» domandò una delle donne nell’ascensore.
«Fermatela!» gridò uno degli uomini in nero. Grazie agli dèi non fecero in tempo e le porte si richiusero.
La ragazza allora si voltò verso i propri compagni di viaggio, con un sorrisetto amaro. «Tra tre piani dovete scendere tutti. Possibilmente in fretta».
«Ma noi-»
«È un consiglio da amica, non una richiesta», puntualizzò Kaj.
“Phoenix, che fine hai fatto?”
Le persone sull’ascensore la guardavano allibite. Kaj ordinò loro di spostarsi, poi prese la rincorsa, appoggiò un piede sulla parete per darsi la spinta e si aggrappò alla botola sul soffitto. Un attimo dopo stava guardando gli altri passeggeri – sempre più sconvolti – dalla buia gabbia dell’ascensore. Appoggiò la preziosissima valigetta di cuoio e socchiuse la botola. Forse a quegli uomini non sarebbe venuto in mente di controllare là sopra.
Per fortuna nessuno aveva prenotato l’ascensore per i successivi sette piani, cosa che diede a Kaj un certo vantaggio sui suoi inseguitori. Quando finalmente loro salirono, al quarantesimo, trovarono la cabina vuota. Kaj, sopra di loro, aveva paura persino a respirare.
Phoenix?”
Gli uomini si guardarono intorno. Come facevano a non sentire gli assordanti battiti del suo cuore? Credeva di svenire da un momento all’altro. Si piegò in avanti e guardò giù da uno degli spiragli della botola socchiusa.
«È scesa», disse uno di loro. Gli altri imprecarono nella lingua comune. Erano di Frey. Il più alto dei cinque, quello che a pelle le sembrava più intelligente, colpì la parete dell’ascensore con un pugno.
«A quest’ora starà già tornando giù dalle scale di emergenza…»
«Oppure sta salendo», replicò qualcuno. Il cervello di Kaj lavorava in fretta. Se fosse piombata addosso a uno di loro, avrebbe avuto a suo favore l’effetto sorpresa. Dubitava però che sarebbe riuscita a scamparla contro cinque uomini. Prima aveva commesso un errore madornale e adesso temeva che loro se ne potessero accorgere. Decise di aspettare, sforzandosi di respirare silenziosamente. L’uomo più magro propose di scendere, sostenendo che fosse impossibile scappare dal tetto. Poverino, pensò Kaj, quasi con tenerezza. Gli altri accolsero positivamente la sua idea e fecero per scendere dall’ascensore; ma quello più alto, che alla fine era davvero l’unico con un briciolo di cervello, rimase indietro.
«Ehi», li richiamò, «qualcuno ha prenotato l’ascensore per l’ultimo piano».
Indicò il quadro dei pulsanti, dove il numero 62 era illuminato. Kaj si sentì morire.
Avrebbero guardato su, avrebbero notato la botola e allora per lei sarebbe stata la fine.
“Phoenix, si può sapere che diavolo succede?”
«Magari l’ha fatto per distrarci», ipotizzò qualcuno. Kaj sperava che la sopravvalutassero abbastanza da crederci. Il tizio più alto propose di dividersi. Tre sarebbero scesi e due, tra cui lui, rimasti in ascensore.
«Saliamo», disse al suo compagno dopo che gli altri se ne furono andati. Kaj infilò una mano negli stivali ed estrasse il suo fedelissimo pugnale, che era ancora inutilizzato. Poi si alzò e valutò le opzioni. Lo spazio tra l’ascensore e le pareti della gabbia era troppo stretto per anche solo pensare di infilarcisi. Il tetto sul quale si trovava non offriva molti nascondigli. Però loro non potevano mica salire tutti insieme, giusto? Forse aveva qualche possibilità, a patto che non si mettessero a sparare…
L’ascensore salì di due piani. 
Sono in due. Puoi farcela. Se apri la botola e finisci sulla testa del primo, ti dovrai occupare solo di uno di loro. E, se lo cogli di sorpresa, puoi riuscirci. Non hai altre alternative.
Fece il respiro più profondo della sua vita, serrò le dita intorno al manico del pugnale e aprì la botola già socchiusa con un calcio. Poi, mentre da sotto arrivavano esclamazioni di sorpresa, saltò.
Atterrò sulla schiena dell’uomo più alto, il quale non riuscì a reggere anche il suo peso e crollò a terra. Le porte si aprirono proprio mentre lei si lanciava sull’altro ed entrambi finirono nel corridoio dell’hotel. Kaj fu la prima a rimettersi in piedi. Corse in direzione delle scale, scivolando appena sugli stivali col tacco, mentre gli altri due si lanciavano all’inseguimento.
«Sono sulle scale, preparatevi!» urlò la ragazza, iniziando a salire.
“Ricevuto. Ma che fine avevi fatto?”
Le facevano male le gambe e la milza pulsava, ma non poteva nemmeno pensare di fermarsi. I due uomini erano più lenti di lei e perdevano anche tempo a urlare agli altri di raggiungerli tramite l’auricolare.
Dopo quella che sembrò un’eternità, finalmente le scale finirono. Kaj si buttò a peso morto contro la porta antipanico che dava sul tetto e un secondo dopo il vento provocato dallo zeppelin le stava scompigliando i capelli corvini. Salì in fretta la scaletta  e crollò da parte ai suoi colleghi, mentre Klaus gridava al pilota di partire.
«Hai la valigetta?» domandò allora Lambert.
Kaj annuì, ancora a corto di fiato, e il ragazzo sorrise.
«Bel lavoro, Jozic».
 
 ***
 
Era passato un mese dalla festa di Boran Matic, trenta lunghi giorni che Dilara Eirdottir aveva trascorso convincendosi sempre di più che quel Nioclàs fosse pazzo. Le aveva rovinato quello che − a sentire Lorcàn − era stato l’evento dell’anno, riempendole la testa di storielle assurde che l’avevano terrorizzata e le avevano rovinato il sonno. Perché proprio di storielle si trattava, dato che in quasi cinque settimane non era successo assolutamente niente di strano.
Certo, si disse la ragazza mentre usciva dal suo appartamento, non è successo niente di strano perché non c’è proprio nessuno che ti sta cercando.
Si stava recando in centro perché – udite udite – Kajdena Jozic l’aveva invitata a pranzo. La sua migliore amica, che sembrava mettere il naso fuori casa solo per lavorare, l’aveva chiamata sul comunicatore quella mattina, chiedendo se avesse da fare a mezzogiorno. Inizialmente Dilara credeva che stesse scherzando, ma l’altra aveva ribattuto che no, assolutamente, era serissima. Non se l’era fatto ripetere due volte.
Ultimamente Kaj le era sembrata più felice del solito. Non aveva ricevuto spiegazioni per questo improvviso cambio di umore, se non  di “aver capito che la sua situazione non le impediva di essere felice”. Dilara non ci credeva. Erano passati quasi quattro anni da quando “la situazione” era diventata ufficiale – anni che Kaj aveva passato in un isolamento autoimposto – perciò un cambiamento così improvviso grazie a una motivazione così stupida semplicemente non stava in piedi. No, Dilara era convinta che ci fosse dell’altro, tipo un fidanzato segreto.
Evitò per un pelo di scontrarsi con un uomo biondo che indossava una bizzarra giacca blu elettrico e salì sul tram, controllando quante fermate mancassero prima di arrivare in centro.
Il vagone era quasi vuoto. Dilara riuscì a trovare un posto libero e si sedette, provando immediatamente un incredibile sollievo ai piedi. Forse aveva esagerato a mettere i tacchi. Per ammazzare un po’ il tempo, decise di leggere il giornale. Il titolo diceva: “Il Gran Maestro vaya in visita alla Torre dei Consiglieri, dopo quasi quindici anni”. Stando all’articolo, era stata invitata anche la Somma Sacerdotessa del Monastero laekur, che tuttavia aveva rifiutato. Dilara non faticava a crederci: Ilaenys non si sarebbe scomodata tanto facilmente. I laekur venivano sempre accusati di essere sciovinistici  ed era una cosa che la mandava in bestia. Che male c’era a essere orgogliosi del proprio popolo? Lei era fiera di essere laekur, nonostante i suoi genitori si fossero trasferiti da tempo nella città indipendente di Frey. La sua migliore amica era ignjs, questo non faceva di lei una persona dalla mentalità aperta?
La ragazza alzò gli occhi al cielo. Non sapeva nemmeno perché stesse pensando a certe cose, la politica non era proprio nei suoi interessi. Il tram aveva quasi raggiunto la sua fermata. Dilara infilò il giornale nella borsa e si alzò.

 
*** 
 
Faceva fin troppo caldo per essere ottobre. Jalena e Darko ci erano abituati, essendo della Terra Ignjs, e in quel momento Rosaleen li invidiava tantissimo. Si faceva aria con un foglietto che si era trovata in tasca e sperava che l’incontro formale finisse presto, o lei si sarebbe sciolta come ghiaccio al sole. Quelli messi peggio erano sicuramente i guardiani, obbligati a rimanere immobili sotto il sole cocente nelle loro pesanti uniformi scure. Avrebbe sicuramente offerto loro un sorso d’acqua, se non fosse stato completamente fuori luogo.
L’unico all’apparenza per nulla toccato dal caldo era l’elfo. Rosaleen aveva sempre considerato Galion, il membro elfico del consiglio, come un regalo di guerra. Non era assolutamente di nessuna utilità alla politica di Alles: raramente prendeva parola durante i concili e i suoi interventi non erano mai mirati a fornire consigli o proposte. Forse era proprio per quello che cora Rosaleen ne aveva una paura maledetta. Galion non interveniva, non suggeriva, non si mostrava in pubblico. Semplicemente osservava. Galion osservava e, se lo faceva, era perché qualcuno gli aveva ordinato di riferire.
«Saranno qui tra cinque minuti, signori». L’Intendente aveva detto la stessa identica cosa diciassette minuti prima, tutti gli altri iniziavano a perdere le speranze. Senan fece una smorfia e roteò gli occhi in direzione dell’Intendente. Rosaleen provò a soffocare una risata, ma fallì, facendo sì che lo sguardo indagatore dell’uomo si posasse su di lei.
«Cora Rosaleen, signora?»
«Nulla, Intendente, mi scusi».
Grazie a dio, in quel momento un’automobile nera e lucida comparve all’inizio del lungo vialetto. Mentre l’attenzione generale si spostava sulla macchina, Senan fece in tempo a lanciare a Rosaleen un’occhiata di scuse.
Il Gran Maestro vaya si era portato una ventina di persone come seguito e tutte scesero dalla macchina prima di lui. Il vecchio rifiutò l’aiuto del maggiordomo e raggiunse da solo l’Intendente, che lo aspettava con un sorriso a trentadue denti. Era basso e magro, con i capelli rasati ma una folta barba bianca che nascondeva parte della bocca. Quando si avvicinò per stringerle la mano, Rosaleen incontrò due occhi scuri e luminosi. Decise che il Gran Maestro le piaceva.
Era probabilmente l’uomo più potente di tutta la Terra Vaya. Il popolo dell’aria credeva nella potenza di un’energia, L’Energia, l’atmay. Il Gran Maestro era l’unico in grado di far confluire l’energia in qualcosa di concreto, mentre per tutti gli altri fedeli – come li chiamava Eyros, con una punta di disprezzo – era limitata a un livello spirituale. Quell’uomo non lasciava la città di Meegha da quindici anni, eppure quell’anno aveva accettato l’invito nella Torre dei Consiglieri, a Frey.
«Gran Maestro», intervenne l’Intendente, «tutti e otto i Consiglieri di Alles ed io le diamo il nostro più caloroso benvenuto. Siamo onorati di averla qui. Ad accoglierla ci sono cor Aryun e cora Saesha, della Terra Vaya; cor Darko e cora Jalena, Terra Ignjs; cor Senan e cora Rosaleen, créhl; infine cor Veigar e cora Eyros, i consiglieri laekur. Qui con noi c’è anche Galion, il rappresentate del Mondo degli Elfi».
Il Gran Maestro si affrettò a dire che l’onore era tutto suo e i saluti formali si protrassero ancora per un po’. Non aveva ancora finito il giro delle strette di mano: dopo aver salutato con particolare calore Saesha, si rivolse a Veigar. Qui si bloccò. «Gli unici già in carica al tempo della mia ultima visita erano i consiglieri Aryun e Saesha, eppure il vostro volto mi è familiare. Ci siamo già incontrati?»
Fu Eyros a rispondere, dopo aver appoggiato una mano sull’avambraccio del compagno. «Al tempo della sua ultima visita, Gran Maestro, Veigar ed io vivevamo già nella Torre dei Consiglieri come apprendisti. È probabile che ci siamo incontrati in quell’occasione».
Il Gran Maestro si accarezzò la barba per un istante, poi sorrise. «Suppongo abbia ragione lei, cora. Se mi permettete, sono molto stanco…»
Il gruppo si avviò verso l’ingresso della Torre. Il Gran Maestro rallentò il passo, lasciandosi superare, e attese fino a quando un’altra figura non fu scesa dall’automobile. Era una ragazzina minuta con lunghi capelli scuri e lisci. Corse fino al Gran Maestro e gli si affiancò, leggermente a corto di fiato.
«Che dici», il Gran Maestro le sorrise, «ce l’avranno preparato, un banchetto di benvenuto?»
Rosaleen fu tentata di andare a presentarsi, per scoprire chi fosse la nuova arrivata, ma percepì Senan passarle accanto sussurrando “Che tipo, eh?”.
Sorrise, assolutamente d’accordo.
Quando si fu voltata di nuovo, la ragazzina non c’era più.
 
 ***
 
Dilara non sapeva nemmeno perché stesse perdendo tempo arrabbiandosi. Non era forse scontato? Non succedeva forse ogni maledetta volta? Era colpa sua che continuava a sperare in un qualche cambiamento.
Kaj aveva chiamato all’ultimo secondo per rimandare il pranzo. Doveva lavorare. Davvero? Peccato che fosse successo anche la volta prima. E quella prima ancora. Dilara si era stancata.
Quasi quattro anni prima, Kaj era stata bandita dalla comunità ignjs. Le avevano colorato di grigio il tatuaggio sul collo e l’avevano sbattuta fuori. Si era trasferita a Frey perché rimanere in mezzo al popolo del fuoco sarebbe stato umiliante e, da allora, i contatti con la famiglia erano stati minimi. Sua sorella si sarebbe sposata tra pochi mesi e l’unica ad andare alle nozze sarebbe stata Dilara. Il punto era che i Jozic avevano anche fatto lo sforzo di invitare Kaj, ma lei non si sarebbe mai presentata.   
Della causa scatenante Kaj non aveva mai voluto parlare. Era successo in una fredda sera di novembre, Dilara stava leggendo a casa sua, quando era arrivata la chiamata sul comunicatore. Kaj piangeva e “È finita”, “M-mi hanno cacciato”, balbettava. Dilara non aveva capito, non subito. Aveva chiesto spiegazioni e l’altra aveva imprecato.
“Sono stata b-bandita!”
Si erano conosciute due anni prima durante una gita scolastica di Kaj nella città autonoma di Frey e mai, mai, Dilara aveva sentito la ragazza ignjs piangere.
“Oh dea. Oh dea! Kaj, che cazzo hai fatto?”
Fuori pioveva. Così forte che Dilara non credeva che i vetri delle finestre avrebbero retto: vedeva già una pozza d’acqua vicino a quella della cucina. La voce di Kaj si perdeva nella pioggia e lei pregava di aver capito male. Perché, se non fosse stato così, sarebbe stata veramente la fine. Avrebbe dovuto lasciare la sua casa, la città, la scuola, l’Ordine dei senka plesak – Oh dea, non l’Ordine! – tutto.
Fuori continuava a piovere e Dilara aveva capito bene.
Kaj a quel punto aveva singhiozzato.
“Vengo a Frey. Non posso stare q-qui”. E aveva chiuso la comunicazione.
Anche nei quattro anni seguenti, non c’era stato verso di farsi raccontare cosa fosse successo.
Kaj si era trasferita a Frey, nella zona povera della città, e aveva cominciato lentamente a isolarsi. Usciva solo per lavorare, non parlava con nessuno, non scriveva a nessuno, aveva paura a mostrarsi in pubblico perché il suo tatuaggio era grigio e si vedeva.
Adesso, Dilara era stanca. Non era lei quella senza amici, non era obbligata a compiere degli sforzi. Era stata comprensiva. Era merito suo se Kaj aveva conosciuto Hilma e Lorcàn, se a volte veniva invitata alle feste e se…
Si accorse di avere raggiunto un parco. Non si era neanche accorta di stare vagando senza meta per la città. Era l’ora di pranzo eppure in giro non c’era quasi nessuno. Dilara individuò un grande albero in cima a una collinetta, stabilì che sarebbe stato il posto ideale per leggere e mangiare il suo panino e iniziò la scalata. Decisamente non aveva le scarpe adatte per una scampagnata, ma era così immersa nei suoi pensieri che non le importava di rovinarle. Una ventina di imprecazioni contro Kaj dopo, aveva raggiunto la cima. Lasciò cadere la borsa vicino alle radici dell’albero e si sedette. Ai piedi della collina c’era un uomo che portava a spasso il cane. Poco più in là, una ragazza discuteva animatamente con qualcuno tramite il comunicatore. Fatta eccezione di loro e Dilara, nel parco non c’era nessuno. La ragazza distese le gambe in avanti e aprì il libro.
 
Non saprebbe dire quanto tempo fosse passato. Forse si era addormentata, forse quel bel romanzo d’amore l’aveva coinvolta troppo, chi poteva dirlo. Sta di fatto che, quando distolse lo sguardo dalle pagine ingiallite, ebbe un brutto presentimento. A volte le succedeva. Una specie di brivido lungo la colonna vertebrale, una strana vibrazione nell’aria, Dilara non sarebbe stata in grado di descriverlo. Li aveva sempre ignorati, dopotutto non significavano niente, ma, per qualche strana ragione, quel giorno decise di non farlo. Appoggiò il libro e diede uno sguardo attento a ciò che la circondava. C’era un silenzio quasi innaturale, rotto solo dal fruscio delle fronde sopra la sua testa. All’inizio pensò di essersi lasciata suggestionare troppo. Era sempre stata una persona molto paranoica, ma nell’ultimo mese era addirittura peggiorata – grazie, Nioclàs.  Poi però lo vide.  
Ai piedi della collina. Fermo. Le mani in tasca. Una sigaretta tra le labbra. Lo sguardo perso nel vuoto. Vestiti quasi eleganti, assurdamente fuori luogo in quel parco.  È un semplice passante. Anche tu indossi un paio di tacchi, che razza di ragionamenti sono. Vai a casa, che è meglio.
Dilara gli gettò un’ultima occhiata, storcendo il naso alla vista della giacca blu elettrico, si alzò, raccolse le sue cose e si incamminò nella direzione da cui era venuta.
Un passo. Tre, cinque, nove, quindici.
Quell’uomo indossava un’orrenda giacca blu elettrico.
Blu elettrico.
Dove l’aveva già vista?
Diciotto passi.
Si bloccò.
Aveva già visto un uomo con un’orrenda giacca blu elettrico quella mattina, in stazione, quando ci era andata a sbattere contro.
Con il cuore che batteva a mille, Dilara si voltò. Fu attraversata dalla testa ai piedi da una vampata di calore, perché ai piedi della collina non c’era più nessuno. Lo sconosciuto era circa quattro metri dietro di lei.
Da qualche parte nella sua mente comparve l’immagine di Nioclàs, l’ultimo pensiero razionale prima che l’istinto prendesse il sopravvento.
Si accorse di aver aumentato il passo solo quando i piedi iniziarono a fare male. Sfilò i tacchi e cercò di farli stare nella borsa. L’erba era umida sotto i suoi piedi scalzi. In seguito ringraziò di essersi fermata, perché, se non l’avesse fatto, non avrebbe mai sentito i passi svelti alle proprie spalle. Passi di qualcuno che non stava solo camminando.
E allora Dilara iniziò a correre.
Si dirigeva verso il cancello, cercando di mettere più distanza possibile tra lei e quell’uomo, con i piedi nudi che calpestavano sassi e la borsetta, scivolata lungo il braccio, che sbatteva fastidiosamente contro il ginocchio. Andava piano, troppo piano. Aveva la gola secca e la milza che pulsava, ma non poteva assolutamente rallentare. Il rumore dei passi dell’uomo diventava sempre più vicino, spaventosamente vicino, mentre passava sempre meno tempo tra un colpo sul terreno e l’altro. Il cancello le apparve davanti come un miraggio. Si precipitò fuori, schivò una macchina e si fiondò in un pub. Rimase sulla soglia del locale, completamente senza fiato e scalza. L’uomo con la giacca blu non si vedeva.
Dilara riuscì a trovare il coraggio di uscire da lì solo dopo un’ora e un quarto.
 
***
 
Il sole aveva raggiunto lo zenit e Kaj era sul punto di morire di caldo. Ogni muscolo del suo corpo stava lavorando. I piedi rimanevano ancorati alla roccia mentre le mani cercavano appigli sempre più in alto, poi i ruoli si invertivano. A volte la ragazza si fermava, solo per gustarsi quella fantastica sensazione con un sorriso deliziato stampato sulle labbra. Non era una vera montagna, quella che stava scalando, ma pazienza.
Gli incontri avvenivano sempre in luoghi pubblici. Lambert lo reputava più sicuro e dover raggiungere la base ogni volta per Kaj era scomodo. Viveva nella Colluvies, lei.
Così lui aveva iniziato a raggiungerla in palestra, al pub o al parco. Le si affiancava e iniziavano a parlare come due perfetti estranei che scambiano due chiacchiere o come due amici, non era importante. L’unica cosa che contava era che gli altri non sospettassero nemmeno il vero argomento di quelle conversazioni.
Quel giorno Kaj aveva scelto la parete da arrampicata.
Era alta centro metri, difficoltà media, circondata da vetrate che davano su un parco e fatta di vera roccia. Kaj la adorava. Spesso andava ad arrampicarsi di notte, quando le lampade a etere illuminavano la parete quanto bastava per non cadere. Era uno dei suoi posti preferiti al mondo.
«Ciao, Jozic».
Il piede destro mancò l’appiglio, Kaj scivolò e si ritrovò appesa solo per una mano. Con un colpo di addominali riuscì a trovare la presa e per un po’ rimase immobile, schiacciata contro la roccia, a riprendere fiato.
«Non. Farlo. Mai. P-Più», scandì.
«Avresti dovuto vederti», sghignazzò Lambert. Kaj si voltò in direzione della voce e gli mostrò il dito medio. Il biondino se ne stava seduto su uno sperone roccioso che Kaj avrebbe potuto giurare di non avere mai visto, circa due metri alla sua destra.
«Non ti fa impressione?» domandò, mentre la ragazza trovava una sporgenza su cui sedersi. «Essere sospesa a cento metri d’altezza senza neanche una protezione? Sapere che basterebbe un niente per farti cadere giù? Sarebbe una morte rapida, sai, probabilmente non-»
«Smettila, mi metti ansia», borbottò lei. «P-Piuttosto, perché mi hai fatto venire qui? E ti sei anche presentato in ritardo...»
«Mi hanno trattenuto alla base». Lambert minimizzò l’imprevisto con un gesto della mano e Kaj corrugò la fronte. «Ti ricordi la sera in cui ci siamo conosciuti?» Lei annuì. «Ti ho parlato di un progetto per cui ci serviva il tuo aiuto. Bene, supera questa missione ed entrerai ufficialmente nella squadra».
Non immaginava da quanto Kaj stesse sperando di sentire quelle parole.
«Presentati questa notte alle nove e mezza all’Ellerton. Adesso ti va qualcosa da bere?»
 
 ***

Dilara chiuse la porta del suo appartamento con quattro giri di chiave. Quella sera avrebbe trovato una scusa per dormire da Hilma, a sei isolati da lì, ma prima doveva fare una cosa.
Ritornò con la mente alla festa di Boran Matic. Rivide le vetrate, Hilma e Lorcàn che la salutavano, se stessa che ballava. Cercò di focalizzarsi sui propri vestiti: gonna nera morbida, corpetto senza maniche, guanti lunghi.
Dovette buttare all’aria mezzo armadio prima di trovare la gonna, quella a cui aveva fatto cucire una tasca interna, e recuperare il biglietto che le aveva dato Nioclàs. Era stato lavato insieme alla gonna, perciò alcune cifre non erano leggibili, ma era la sua unica possibilità.
Ad esempio, il secondo numero era un uno o un sette? Provò col sette, ma la segreteria apparteneva a tale Mary Anne. Procedette così fino a quando non fu sicura di tutte le cifre, quindi nascose il proprio numero e armeggiò con le manopole del comunicatore fino a comporre un messaggio.
Dobbiamo parlare. Vediamoci stasera alle nove alla stazione centrale – Dilara
Solo dopo realizzò di non avergli mai detto il proprio nome.



 
 


Ecco qua il primo capitolo :)
È arrivato in ritardo perché ero in vacanza e senza computer, spero che non vi abbia deluso. 
È ambientato un mese dopo gli avvenimenti del prologo. Kaj ha iniziato a lavorare per l'Agenzia, nonostante non abbia ancora ricevuto le risposte che cercava. Dilara ha cercato di ignorare gli avvertimenti di Nioclàs fino all'ultimo, ma adesso non è più possibile. Infine, incontriamo Rosaleen.
Due precisazioni:
- Non so se avete notato, ma ho tolto l'avvertimento steampunk. La storia è nata come steampunk, ma poi - come al solito -  ha preso una sua strada e un corso piuttosto indipendente dalla mia volontà. Ho tolto l'avvertimento per essere più sicura, perché per ora non riesco a inserirla in una categoria
- Il capitolo inizia con un "documento". Credo che sarà sempre così, per aiutarvi a orientarvi in Alles e per aiutare me con una sorta di fonti scritte :) 
Continuate a farmi sapere cosa ne pensate, questo progetto è davvero ma davvero importante!
A settimana prossima,

madelifje

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Capitolo 3
*** Segreti ***






Questa notte un elfo maschio e adulto ha bussato alla nostra porta. 
Era ferito, con un profondo taglio sul fianco destro da cui fuoriusciva sangue nero come la notte.
Purtroppo i nostri guaritori non sono riusciti a salvarlo. Prima di spirare, l'elfo continuava a ripetere qualcosa a proposito di un "veleno nero".
Sembrava quasi un avvertimento. Secondo i guaritori, si trattava di semplici deliri dovuti alla febbre.

- dal diario di Ilaenys, Somma Sacerdotessa laekur


 


Capitolo due – Segreti
 
 
 


La base era sotterranea.
Vi si accedeva tramite la stazione di Ellerton Lane, nome con cui ci si riferiva anche alla base stessa, superando il cancelletto che vietava l’accesso ai non autorizzati e procedendo per lo strettissimo camminamento fiancheggiante i binari. Una volta arrivati davanti alla botola – pressoché invisibile – bisognava aprirla e calarsi per un tunnel angusto che era l’incubo di Kaj; poi si attraversava un corridoio e ci si trovava davanti alle tre porte della base.
Kaj non sapeva quanti agenti operativi contasse l’Agenzia né quanti di essi avessero come base l’Ellerton. La loro squadra era composta da soli sei membri. Oltre a Klaus, Lambert e lei, c’erano Raavi Narayan, il genio vaya che gestiva la parte tecnica delle operazioni; Simon Tyosh e il direttore Cole. Quest’ultimo era forse la persona più taciturna che Kaj avesse mai incontrato, la personificazione della professionalità. Era passato un mese e ancora le incuteva tantissima soggezione, ma si era resa conto di rispettarlo. 
I rapporti tra Kaj e i suoi compagni di squadra erano ancora un po’ forzati. Tutti sembravano un po’ diffidenti nei suoi confronti, soprattutto Simon e Klaus. Simon, che aveva perso il braccio sinistro in un incidente parecchi anni prima, adesso viveva con una protesi metallica progettata da Raavi, che – stando all’inventore – funzionava anche meglio di un arto vero. Raavi era la persona più amichevole del mondo. Con i ricci capelli neri e gli occhi verdi, sarebbe stato anche un bel ragazzo, se non fosse stato per l’occhio. Sosteneva di essersi costruito da solo quella sorta di monocolo, in grado di ingrandire gli oggetti e conferire la vista notturna. Secondo Simon era inquietante da morire, Klaus lo trovava geniale e Lambert non si esprimeva. Lambert. Lambert era indecifrabile. Non sembrava in confidenza con nessuno, tranne forse Klaus, portava a termine le missioni con un’aria insofferente che spesso faceva venire a Kaj una voglia incontenibile di prenderlo a schiaffi. Lambert non era gentile, non era altruista e non gliene sarebbe potuto importare di meno di quello che gli altri pensavano di lui, ad eccezione di Klaus. Si vedeva che avrebbe fatto di tutto per non deludere l’amico e Kaj era sicura che la cosa fosse reciproca. Klaus cercava sempre di essere gentile con lei quando Lambert era nei paraggi e doveva ancora capire il perché. C’erano poi una cascata di altre sensazioni che Kaj associava a Lambert, ma quelle erano fin troppo complicate.
La ragazza era convinta che col tempo tutti si sarebbero aperti un po’ di più, ma ci sarebbe voluto un po’. Dopotutto, lei non era la persona più socievole del mondo, non poteva aspettare che gli altri si comportassero in modo diverso.
Lavorava all’Agenzia da un mese. Un mese di domande trattenute e di compromessi impliciti: non sapeva ancora perché avessero reclutato proprio lei e nemmeno cosa ci facessero Lambert e Klaus a Villa Poljak, proprio quella sera. L’unica volta che aveva tentato di porre una domanda, si era sentita dire di dare tempo al tempo. Non ci aveva più riprovato. Quel lavoro le piaceva troppo. Da ex ladra, non aveva nessun diritto di lamentarsi per qualche segreto.
Quel giorno era arrivata alla base in leggero ritardo, accompagnata da Lambert. Tutti gli altri erano già in sala riunioni, ad aspettare che arrivasse anche Cole.
Lambert spostò una sedia tra Klaus e Simon e ci si sedette sopra, mentre Kaj trovava un posto libero vicino a Raavi. Ricevette dei veloci cenni di saluto e Simon le offrì distrattamente una mela.
«C’è un laekur ricchissimo che mi ha invitato nel suo attico per la Festa d’Autunno», stava dicendo Klaus.
«E da quando tu vieni invitato alle feste?»
«Da quando non ci sei tu che fai scappare i miei amici, Lambert».
«Questa era cattiva», commentò Simon.
«Aye», fece Raavi.
Lambert fece finta di non averli sentiti. «Per la cronaca: i tuoi amici mi adorano
«Oh certo, ti amano alla follia».
«Fai poco il sarcastico, Valrosson, hai mai provato a parlare di me a quella ragazza castana… Come si chiama? Marianne?»
«Marie». Klaus sembrò particolarmente irritato da quell’ultimo commento.
«Ecco, proprio lei!»
«Comunque, volevo solo dire che siete tutti invitati a quella festa. Sì, Lambert, anche tu. Venite?»
«Ma certo!», si affrettò a rispondere Raavi, entusiasta come al solito. Lambert scrollò le spalle e Simon borbottò che sicuramente avrebbero dovuto lavorare. A detta di tutti, le vacanze all’Agenzia erano un evento raro.
«Kaj?» A dire il vero non era sicura che l’invito fosse esteso anche a lei, per cui si sentì sorridere istintivamente. «Vengo volentieri, grazie».
«Ci sarà anche Marie?» infierì Lambert. Qualsiasi insulto Klaus fosse sul punto di gridargli, venne stroncato sul nascere dall’ingresso del direttore Cole.

 
***
 

Quando Nioclàs raggiunse la stazione, Dilara era già lì. Si trovavano vicino al binario tre. Erano gli unici due esseri umani presenti, la loro unica compagnia consisteva in un gatto che dormiva placidamente su una panchina. Dilara era vestita in modo sobrio, con un abito lungo e un cappello blu scuro. Continuava a sfilare e infilare l’anello che portava al dito, mentre camminava nervosamente avanti e indietro e pregava che Nioclàs decidesse di presentarsi. E lui arrivò. In ritardo di sedici minuti, con la luna che già brillava nel cielo, ma arrivò.
«Sapevo che mi avresti chiamato», iniziò, senza neanche salutarla. «Era solo questione di tempo».
«Un uomo mi ha seguita, oggi. Come faccio a sapere che non l’hai mandato tu?»
«Lo sai e basta», disse Nioclàs con un sorriso. E il lampo di paura che attraversò gli occhi di quella ragazzina bionda glielo confermò.
Lei si infilò le mani in tasca e camminò fino alla banchina, dandogli le spalle. «Mi vuoi dire cosa diavolo sta succedendo?»
«Probabilmente non ci crederai nemmeno adesso, ma poco importa. Vado dritto al punto o vuoi che ti addolcisca la pillola?» scherzò.
«Niente giri di parole». Uno zeppelin passò proprio sopra le loro teste. Qualsiasi parola sarebbe stata coperta dal rumore, perciò Dilara colse l’occasione per osservare il suo interlocutore. Aveva un nome créhl, ma il tatuaggio della città di Frey. Era in grado di rubare i suoni di un’intera città con uno schiocco di dita ed era venuto a cercare proprio lei. Che misteri nascondeva?
Nioclàs, intanto, non faticava a indovinare cosa le passasse per la testa. Il suo sorriso si allargò. Quella ragazza non sapeva davvero niente.
«Come vuoi. Mia cara, c’è qualcosa che non va in te».

 
***
 

«Quello che vi propongo oggi è un incarico semplice ma importante», esordì il direttore Cole. Simon fece scrocchiare sonoramente le dita. «Dovete arrestare un pirata. Si fa chiamare Nicodemus e nessuno finora è stato in grado di fornire una sua descrizione fisica. Sappiamo solo che è al comando di una nave chiamata Aquila Reale e che il suo secondo ufficiale è un uomo di nome Zanna». Sullo schermo comparve l’immagine di un volto. Aveva il mento a punta, i capelli neri e gli occhi marrone scuro. Kaj non sarebbe stata in grado di dargli un’età. «I nostri informatori sanno per certo che domani alle tre del pomeriggio si troverà al porto della città di Eyjan, nella Terra Laekur, pronto a salpare per il Mondo degli Elfi. Ovviamente, dobbiamo fare in modo che non ci arrivi mai».
«Che carico trasporta?» domandò Lambert, nonostante fosse abbastanza intuibile.
«Etere», rispose infatti Cole. «Jozic e Kane, spero che non abbiate preso impegni: si parte alle nove del mattino. Più tardi riceverete i dettagli». Kaj era tornata da appena tre giorni, ma non si lamentò: amava andare in missione. E poi, non era mai stata nella terra natale di Dilara.
Cole si guardò rapidamente intorno, poi si sedette. «Bene, Kane, Valrosson, Narayan e Tyosh… potete trattenervi per un paio di minuti?» Cos’è, una specie di scherzo? Kaj si guardò intorno: nessuno sembrava sorpreso. Era l’unica a essere stata congedata. Umiliata, guardò un’ultima volta Lambert e Cole e poi uscì. Detestava essere la nuova arrivata. Sperò che quello che le aveva detto Lambert fosse vero, che dopo quella missione tutti i misteri sarebbero stati svelati. 

 
***
 

«Cosa?! Ascoltami, Nioclàs, ho deciso di darti una seconda possibilità solo perché è successa una cosa seria e sinceramente non ho tempo per le tue idiozie. Convincimi che non sei pazzo come quel maniaco che mi inseguiva oggi pomeriggio e forse potrei anche decidere di non denunciarti».
«Denunciarmi per cosa, esattamente?» Nioclàs alzò gli occhi al cielo e iniziò a camminare in circolo. Dilara rimase ferma a osservarlo. Sembrava preoccupato, in ansia. Aveva qualcosa di serio da dirle, era evidente; la cosa più spaventosa, però, era che Nioclàs Berne sembrava assolutamente lucido e non un folle, come Dilara aveva inizialmente pensato. «Ultimamente gli elfi non sono tranquilli», iniziò il ragazzo di Frey.
«Cosa c’entrano gli elfi?»
«Il bello del non interrompere gli altri, è che ti eviti un sacco di domande inutili», ribatté aspramente lui. Dilara credeva seriamente di detestarlo.
«Sono stati registrati dei grossi movimenti di denaro tra loro e gli abitanti delle Isole Sospese, spie nella città di Frey e un preoccupante numero di ritorni in patria da parte degli elfi che vivevano qui. È possibile che stiano formando un esercito. C’è un gruppo, l’Hawk, che vuole approfittarne per mettere fine una volta per tutte al dominio elfico. Ma hanno bisogno di un’arma. Risale alla Grande Guerra ed è composta da persone. Quattro, per la precisione, i portatori del gene della magia. Sono gli unici esseri umani di Alles in grado di praticare la magia. Il gene è dovuto a un errore, eppure il popolo dell’aria è riuscito a risalire alla data di nascita di queste persone tramite dei calcoli matematici e da lì stiamo lentamente arrivando ai nomi». Finalmente Nioclàs si degnò di guardarla con quegli occhi scurissimi e piccoli. Dilara sapeva quale fosse il proprio ruolo in tutta questa faccenda, l’aveva intuito, eppure aveva bisogno di sentirselo dire.
«E io sarei…»
«La Portatrice laekur, sì».

 
***
 

«Spero c-che sia stato interessante».
Lambert sollevò appena lo sguardo dal fascicolo con i dettagli della missione imminente, che stava cercando di studiare. Kaj si era appoggiata alla sua scrivania e lui non l’aveva nemmeno sentita arrivare. Quello che si diceva sui senka plesak, i danzatori dell’ombra, era vero – in un mese aveva avuto modo di accertarsene. Era anche riuscito anche a capire qualcosa del complicato carattere di Kajdena Jozic, ma in quel momento non sapeva proprio dove volesse andare a parare. Per non rischiare, era meglio fare il finto tonto.
«A cosa ti riferisci?»
Gli occhi grigi di Kaj si assottigliarono. «Alla riunione. Q-quello vera», precisò. Lambert alzò gli occhi al cielo. Non aveva tempo per i complessi di inferiorità di qualcuno che non aveva ancora superato l’adolescenza, lui e Klaus dovevano andare fuori a bere. In più, Kaj da arrabbiata tendeva a balbettare molto di più, cosa che avrebbe allungato i tempi di quella conversazione già snervante.
«Sei una novellina. Te l’ho già detto: ancora una missione. Considerala come la prova del nove delle tue abilità. Credi di poter resistere, Jozic?»
L’irritazione di lei era così palese che Lambert dovette compiere uno sforzo sovrumano per non scoppiarle a ridere in faccia. Una ragazzina, c’erano volte in cui Kajdena Jozic sembrava proprio una ragazzina.
«P-perché mi hai reclutato? E non dire che non sei stato tu, perché K-klaus non mi reputa in grado neanche di a-allacciarmi le scarpe». Ecco, quella era una domanda che non si aspettava. Dentro quella testa corvina c’era un bel cervello, non lo poteva negare. La sua proprietaria avrebbe solo dovuto imparare a usarlo meglio.
«Sono stato io», confermò. «Solo perché qualcuno che riesce a portare a termine un furto durante la Caccia Selvaggia è sicuramente degno di nota. So che ce l’avresti fatta, se nella villa non ci fossimo stati noi». Avrebbe dovuto tenere per sé l’ultima frase, perché adesso Kaj avrebbe posto quella domanda e, in fondo, Lambert non voleva ferirla negandole un’altra risposta. Non c’era gusto.
Si alzò, proprio mentre lei apriva la bocca per parlare. «C’è Klaus che mi aspetta. Ci vediamo domani». E se ne andò.
Klaus in effetti lo stava aspettando, seduto sulla solita panchina della stazione di Ellerton Lane. Sembrava minuscolo, se posto a confronto con i quarantacinque metri di altezza delle pareti della stazione. Ogni tappa della rete ferroviaria di Frey aveva un colore diverso – la Centrale, ad esempio, era tutta di platino – e quello di Ellerton Lane era l’ottone. Gli immensi lampadari a olio riflettevano sul pavimento di marmo lucido, facendo apparire l’ambiente ancora più luminoso. Nonostante l’ora, era molto affollato. Creature appartenenti a tutte le razze e perfino automi si affrettavano a raggiungere i binari, completamente ignari di ciò che succedeva sotto i loro piedi, nella base. Era bella, la stazione, soprattutto di notte.
Un uomo delle Isole Sospese con due lunghissime gambe meccaniche evitò per un soffio di travolgere Lambert, distraendo il ragazzo sai suoi pensieri. Imprecò, si passò una mano tra i capelli e attirò l’attenzione di Klaus con un cenno della mano. Il laekur sorrise. «Andiamo?», chiese, alzandosi.
«Dipende: non aspettiamo Marie?»
Klaus scoppiò a ridere e gli diede un leggero spintone.

 
***
 

«Quindi è l’Hawk che mi sta cercando? E tu come mi hai trovato?»
«C’è un rituale che permette di unire le coscienze dei quattro Portatori. È stato tentato per la prima volta durante la Guerra e ha triplicato la forza del nostro esercito. È quello a cui mira l’Hawk. Io faccio parte di un gruppo vaya che vuole salvarvi la vita evitando in tutti i modi possibili che il rituale abbia luogo. I vostri poteri potrebbero essere sfruttati per il bene della società, per il progresso. Cerchiamo di impedire una guerra, Dilara».
«Tu non sei un vaya».
«No, ma ho passato abbastanza tempo con il popolo dell’aria da capire che hanno ragione. Voi non sopravvivreste al rituale e scoppierebbe una guerra. Per questo dobbiamo trovare i Portatori prima dell’Hawk».
«E ci siete riusciti?»
«Il ragazzo vaya è sparito. L’ignjs è con noi, mentre dobbiamo ancora localizzare il créhl, ma ce la faremo. Adesso devo portare te al sicuro».
«Perché accidenti dovrei credere a quello che dici? Potresti esserti inventato tutto o, peggio, potresti essere uno di loro
«Però, chissà come mai, stasera hai avuto paura e ti sei rivolta a me».
«Alla festa di Boran Matic… hai fatto quella cosa che ha annullato i rumori. Se sono io quella con il gene della magia, tu come hai fatto?»
«Imparerai tutto, ma adesso non c’è tempo. Ti devo portare via».
«Un’ultima cosa. Hai detto che durante la Guerra i Portatori hanno triplicato la forza dell’esercito. Non potrebbe essere sufficiente? Non potremmo davvero sbarazzarci degli elfi una volta per tutte?»
«Peccato che Alles, alla fine, la Guerra l’abbia persa».

 
 ***
 

Quando Kaj arrivò nella Colluvies, era mezzanotte. La stazione di ossidiana era il capolinea e sembrava appartenere a un altro universo. Alla sua destra Frey, in tutta la sua magnificenza, con la Colluvies che si estendeva sui restanti lati e la prateria che si intravedeva guardando a sud. Oltre, la Terra Ignjs. Una pugnalata al cuore, per la ladra.
C’era tanta gente, a dispetto dell’ora, anche se i più erano mendicanti o senzatetto che dormivano negli angoli bui. Chiedevano l’elemosina nella zona più povera della capitale, aggrappandosi disperatamente a tutti quelli che avevano l’aria di possedere un minimo di denaro. Kaj non sembrava certo benestante: avvolta in quel vecchio mantello nero sbiadito, si muoveva per i vicoli furtiva e immateriale come un’ombra – una senka plesak – scivolando silenziosamente verso casa. Ricordava la prima volta che era stata lì. Il degrado e la povertà l’avevano lasciata a bocca aperta. Si era barricata nel nuovo appartamento, ancora privo di mobili, si era seduta sul pavimento e aveva iniziato a piangere. Ogni volta che pensava al suo vecchio quartiere, a Flahm, le veniva da vomitare. Poi, molto lentamente, si era abituata. Chiudeva sempre la porta a chiave, non girava mai senza pugnale, rivolgeva la parola ai vicini solo se strettamente necessario e faceva del suo meglio per essere ignorata. Fino a quel momento aveva sempre funzionato.
Nella Colluvies vivevano anche elfi, gente delle Isole Sospese e creature provenienti dall’altra parte del Mare delle Nuvole. Quelli che, per qualche motivo, avevano dovuto lasciare la propria terra. Gli esclusi.
Come lei.
Per arrivare dalla stazione a casa di Kaj bisognava attraversare il quartiere degli elfi. Era un tragitto che la ragazza aveva fatto innumerevoli volte, abbastanza da non lasciarsi più ingannare dalle apparenze. Kajdena Jozic non si fidava degli elfi. Suo padre li chiamava “maestri degli inganni”. Kaj li aveva sempre disprezzati – per la Caccia Selvaggia, soprattutto – o almeno, fino a quando non era stata bandita. Allora le cose erano cambiate. Poteva continuare a detestare tutti coloro che saccheggiavano le quattro terre ogni sera alle sette, ma nella Colluvies vivevano solo gli esclusi. Probabilmente il Mondo elfico li reputava nocivi tanto quanto il re ignjs aveva considerato pericolosa lei, quindi odiarli semplicemente non aveva senso. Non erano più nessuno, solo ombre sbiadite di cui tutti si erano dimenticati. Kaj ce l’aveva con gli elfi, non con i fantasmi.
Le due razze non andavano d’accordo. La guerra era finita da tanti anni, si coesisteva, erano stati stabiliti addirittura degli accordi. I politici parlavano di pace, ma i politici vivevano a Frey.
A Frey la Caccia Selvaggia non passava.
Quella non era pace e loro semplicemente non ne avevano idea.
 
Kaj si tuffò nella folla, con le mani infossate nelle tasche e lo sguardo dritto davanti a sé. Nessuno fece caso a lei, fino a quando non percepì qualcosa ostruirle il cammino.
«Regalo per la signorina», gracchiò una voce. Era umana. La sua proprietaria era una donnina, quasi sicuramente senzatetto, che gestiva una delle tante bancarelle che vendevano orrendi soprammobili. Come se gli abitanti della Colluvies avessero soldi da buttare. Kaj si chiedeva spesso se davvero quelle persone sperassero di vendere qualcosa. Una cosa era certa: niente era mai in regalo.
«Mi dispiace, vado di fretta».
«Non ci vuole niente ad accettare un regalo». La donnina allungò una mano scura e rugosa da cui pendeva la catenina di una collana.
Kaj si fermò, ancora titubante. «È davvero gratis?»
«È quello che ho detto, no?»
La giornata era stata così disastrosa che forse una stupida collana non le avrebbe fatto male. Le mani chiare di Kaj si scontarono con quelle della sconosciuta e un attimo dopo vennero a contatto con la catenina, riscaldata dal calore corporeo della donna.
Ci volle solo una manciata di secondi.
Kaj ritirò mano e gioiello in tasca, fece quattro passi verso casa sua e realizzò di non aver visto nessun tatuaggio sul collo della venditrice ambulante.
Quando si voltò, però, non c’era più nessuno.
 

 
***
 

Il banchetto di benvenuto al Gran Maestro vaya era pressoché interminabile. Rosaleen se ne stava seduta tra Senan e Saesha, domandandosi quando le portate avrebbero finalmente avuto una fine. Finora ne aveva contate sei, ma gli automi che reggevano i vassoi continuavano a comparire e la conversazione procedeva così piacevolmente che nessuno pareva accorgersene. Il Gran Maestro raccontava della Terra Vaya, del bellissimo palazzo nella città di Meegha in cui si teneva il Congresso e dei preparativi per l’imminente festa dell’atmay.
Rosaleen aveva studiato la società vaya prima di diventare consigliera e ricordava di esserne rimasta affascinata. La capitale su un altopiano, Meegha, la città con le diciotto biblioteche più fornite di Alles; l’immensa fontana di etere che di notte brillava e il palazzo del concilio, situato sulla cima di una montagna. Le sarebbe piaciuto anche imparare la lingua, tuttavia, con tutte le doppie vocali e le parole lunghissime, risultava fin troppo complicata per qualcuno abituato a parlare in créhl o nel linguaggio comune.
«Vorrei tanto vedere Meegha», sospirò cora Jalena. «Flahm è così… monotona».
Aryun non era d’accordo. «Ci sono stato due volte e non volevo più andare via. Una sera eravamo andati a cena sulla terrazza, da là si vedeva il sole tramontare sulla prateria ed era bellissimo».
«Certo», commentò Jalena, «se hai il coraggio di uscire subito dopo la Caccia». Si rese conto di quello che aveva detto dopo neanche due secondi, ma era comunque troppo tardi. Calò un silenzio di tomba. Jalena avvampò. Rosaleen smise di mangiare. Invece di fare finta di niente, i presenti lanciarono occhiate poco discrete a Galion, tuttavia l’elfo continuò a bere il suo vino senza battere ciglio.
«La Caccia non rappresenta un vero e proprio pericolo, cora Jalena», tentò l’Intendente. Rosaleen vide un muscolo contrarsi sul vecchio volto del Gran Maestro.
«Mi permetta di contraddirla, Intendente». Cora Eyros non aveva aperto bocca per tutta la durata del banchetto; se non fosse stata seduta di fronte a lei, Rosaleen avrebbe potuto tranquillamente dimenticarsi della sua presenza. «Il coprifuoco è stato istituito per un motivo: trovarsi fuori da casa durante la Caccia Selvaggia non è piacevole». Ma lui era un figlio della città di Frey, che avrebbe fatto di tutto per difendere il precario equilibrio con gli elfi che chiamavano pace. Non aveva mai provato la Caccia sulla pelle e, Rosaleen glielo augurava, non sarebbe mai stato in grado di capire veramente cosa significasse. Era ciò che pensavano tutte le persone sedute al tavolo, ma solo Eyros probabilmente avrebbe avuto la faccia tosta di dirlo ad alta voce, se Senan non l’avesse anticipata. «È mai stato a Theàri, Gran Maestro?»
 
All’una meno un quarto l’Intendente congedò i presenti e augurò la buona notte. Dopo aver salutato tutti, cora Rosaleen dalla Terra Crèhl tirò un sospiro di sollievo.
I piani della Torre adibiti alle residenze degli otto consiglieri erano quattro, dal trentesimo al ventisettesimo. Il banchetto si era tenuto al numero trentaquattro, occupato interamente dal Gran Maestro e dal suo seguito. Quella sera Rosaleen non tornò diretta nei propri alloggi, ma fece una piccola deviazione per recuperare il libro che stava leggendo, dimenticato quella mattina in biblioteca.
In seguito se ne sarebbe pentita.
Aveva preso l’ascensore fino al venticinquesimo piano, poi si era incamminata su per le scale – sperava di smaltire tutte le portate del banchetto, le sembrava di aver preso tre chili buoni. Fuori dalle ampie vetrate che decoravano la scala a chiocciola, c’era la luna piena. Rosaleen saliva con un libro sottobraccio e l’ampio vestito verde scuro che frusciava contro i gradini in pietra. La crocchia in cui aveva raccolto i capelli ramati era leggermente scesa, ma non aveva voglia di sistemarla. Pensava al banchetto, all’atmosfera rilassata della prima parte e all’allegria forzata delle ultime portate. Il loro equilibrio era davvero così fragile? L’Intendente si era affrettato a minimizzare il commento di Jalena come se temesse lo scoppio di una nuova guerra contro gli elfi. Era solo lui ad avere una tale paura? Allora perché anche Rosaleen si era irrigidita, nel sentire quelle parole?
Era così immersa in quei pensieri da non accorgersi della presenza di Galion, che procedeva in senso opposto.
«Cora Rosaleen». Sussultò così tanto che dovette appoggiare una mano alla parete di pietra e pregò il dio Carrày che lui non se ne fosse accorto.
«Galion», si toccò nervosamente un orecchio, «non l’avevo sentita arrivare».
I capelli viola gli ricadevano sciolti sulle spalle. Un paio di occhi scurissimi risaltavano sulla carnagione a metà tra il giada e il bianco. Era più alto di Rosaleen di una spanna buona, ma pareva leggero come l’aria. Perché la metteva così tanto a disagio?
«Dicono che la mia gente abbia il passo più silenzioso di quello dei lupi, ci crede?» Eccome, ma fortunatamente era una domanda retorica.
«Una bella serata, non trova?» Come conversazione di circostanza era un po’ debole, tuttavia Rosaleen si accontentò.
«Più che altro, una notte interessante», fu l’enigmatica risposta. «A domani, cora». Rosaleen rispose al saluto quando l’elfo aveva già ripreso a scendere le scale.
La Torre dei Consiglieri godeva di un proprio generatore di corrente elettrica. Erano diffuse anche le lampade a etere, tuttavia producevano una luce più soffusa, poco adatta a illuminare i grandi ambienti della Torre. Essendo un generatore autonomo, i sovraccarichi di tensione non capitavano quasi mai. Per questo, quando tutte le luci si spensero, cora Rosaleen capì che qualcosa non andava.
Rimase ferma immobile, aspettando che la luce tornasse, diventando sempre più inquieta man mano che il tempo passava. Udì del trambusto al piano di sopra. Fece per andare a raggiungere chiunque ci fosse lassù, chiedendo spiegazioni, quando venne travolta da qualcuno che si precipitava giù dalle scale. Rosaleen usò il muro come sostegno. Lo sconosciuto non fu così fortunato e rovinò sulla pietra del pianerottolo. Anche quando i raggi della luna la illuminarono, Rosaleen ci mise un po’ a riconoscere la misteriosa ragazzina arrivata con il Gran Maestro. Portava un abito grigio ghiaccio, tipicamente vaya, e sembrava terrorizzata. Si alzò, posando per la prima volta gli occhi su Rosaleen.
«Ma… ma lei è una cora! Mi dispiace averla urtata, signora, andavo di fretta e non-»
«Va tutto bene, tranquilla». Le tese una mano. «Sono cora Rosaleen dalla Terra Créhl. Tu sei…?»
«Minali Chande», rispose la ragazzina, afferrando titubante la mano. Sul collo magro si intravedevano delle intricate spirali blu, il tatuaggio vaya.
«Come mai non ti ho vista, questa mattina?» Normalmente nemmeno Rosaleen avrebbe mentito, ma sentiva che era l’unico modo per arrivare alla vera identità della ragazzina.
«Cora, mi perdoni, devo davvero andare via. Dovrebbe farlo anche lei, non è sicuro stare qui».
«Tu sai cos’è successo, Minali? Forse dovremmo aspettare, la luce tornerà presto».
«La luce non tornerà affatto, cora». Minali le rivolse un sorriso malinconico e corse via. Solo dopo Rosaleen si accorse che non aveva mai risposto alle sue domande.
Dopo quei due incontri, la consigliera non vedeva l’ora di rifugiarsi nei suoi alloggi e dormire, ma, al tempo stesso, aveva bisogno di capire cosa stesse succedendo. Nel dubbio rimase dov’era.
Dal piano di sopra i rumori si era fatti più agitati. Passi, soprattutto, qualcuno che piangeva e una voce maschile piuttosto adirata. Poi tutto tacque. Era come se qualcuno avesse spento tutti i rumori del mondo, a eccezione del respiro di Rosaleen. Infine, passi sulla rampa di scale proprio sopra di lei. Erano veloci, Rosaleen non fece nemmeno in tempo a pensare di nascondersi  che quel qualcuno l’aveva già raggiunta.
«Per gli dèi, Leen!» Non era mai stata così felice di vedere il cor della Terra Ignjs in tutta la sua vita. «Mi hai fatto paura». Darko aveva il fiatone. Indossava ancora il completo porpora del banchetto, ma la giacca era aperta e la camicia stropicciata, come se avesse corso a lungo.
«Corri nei tuoi alloggi senza entrare nel piano dei laekur e non uscire», le intimò. «Probabilmente ci saranno dei guardiani a proteggerti».
«Proteggermi? E tu dove stai andando? Dio, Darko, cosa succede?»
La fissò dritto negli occhi, spaventato. «Non trovo Jalena».
«Magari è nelle sue stanze… Senan?»
«Con gli altri. Fidati di me, Rosaleen, vai via».
Lei non demordeva e, siccome Darko insistette per accompagnarla, procedettero entrambi fino al piano dei laekur. Qui, dalla porta aperta, uscì Senan. «Eccoti! Vieni, è meglio se ti fai vedere dall’Intendente e dal generale Noymerin». Senan la trascinò per un avambraccio e finalmente lei capì cosa stesse succedendo e perché fossero tutti così spaventati.
Il colore predominante degli alloggi laekur era sempre stato il blu. Entrando, sembrava di trovarsi sul fondo di un lago. Ragion per cui la macchia scarlatta sul pavimento candido risaltava così tanto. Sulla porta alle spalle di Rosaleen apparve Jalena, affannata pallida come un cencio. Erano tutti lì, compreso il Gran Maestro vaya. No, non tutti. Hai visto Galion andare via. Aryun misurava a grandi passi la stanza, privo della sua solita calma. Saesha, invece, era seduta accanto alla cora della Terra Laekur. Tutti i pezzi andarono al loro posto solo quando Rosaleen vide Eyros, che tutti chiamavano “donna di ghiaccio”, piangere disperata. Perché c’era qualcun altro che mancava all’appello.
«Senan», inizio Rosaleen, «ti prego, cosa succede?»
Fu l’Intendente a rispondere. «Questa notte cor Veigar dalla Terra Laekur è stato ucciso».

 



 

Wow. Questo mi è uscito davvero lunghissimo. Chiedo scusa, non era mia intenzione, sono stata sul punto di dividerlo fino all'ultimo secondo, ma poi ho realizzato che gli avvenimenti più importanti succedono nell'ultima parte. E poi, separarlo avrebbe sballato tutta la mia bella scaletta :) Quindi faccio i complimenti agli eroi che si sono sorbiti 4k e passa parole, veramente. 
Capitolo importante. Nioclàs smette di essere così enigmatico e racconta alla povera Dilara tutto (o quasi, chissà). Piccolo appunto per quanto riguarda la storia dei Portatori: non sono una grande fan delle profezie a proposito di un Prescelto che tira tutti fuori dai guai. Proprio per niente. So che questo - e anche il prossimo - capitolo potrebbero implicare una storyline già vista migliaia di volte, quindi ci tengo a precisare che non è lì che voglio andare a parare. La profezia è una parte importante della storia, è vero, ma si tratta di una delle tante. Spero di tirarne fuori qualcosa di originale, ma si vedrà :)
Non sottovalutate né l'omicidio di Veigar né la nuova collana di Kaj, perché saranno piuttosto importanti.
Non mi dilungo oltre perché altrimenti viene fuori l'Iliade, quindi vi saluto. Fatemi sapere cosa ne pensate!
Grazie se siete arrivati fin qui e alla prossima!


Gaia

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Capitolo 4
*** In volo ***


 
Ieri una nave mercantile proveniente da Theàri è stata brutalmente saccheggiata da un vascello pirata. I membri dell’equipaggio hanno riportato gravi ferite e sono stati derubati di tutto il loro carico. Gli otto consiglieri, oggi riunitisi per discutere sull’accaduto, hanno apportato delle modifiche alla condanna per pirateria:
- tutte le imbarcazioni e i beni materiali diventeranno immediatamente proprietà della città di Frey;
- i membri dell’equipaggio dovranno scontare una pena da dieci ai quattordici anni nelle carceri della capitale;
- il comandante del vascello potrà scegliere tra l’amputazione della mano della spada e quattordici anni di reclusione nel Lys, il deserto di ghiaccio.
- dagli annali della Torre dei Consiglieri, a cura dell’Intendente Jon Kristinson



 
Capitolo tre – In volo


 
 
La missione era iniziata male. Lo zeppelin era partito in ritardo a causa di qualche problema all’elica, di cui ovviamente si erano accorti all’ultimo minuto. Naturalmente lui aveva chiesto di essere presente come supervisore. Dopo un po, però,’ il pilota aveva finito per cacciare Lambert - “mi mette ansia” - e aveva completato il lavoro con una lentezza a dir poco snervante. Come se avessero tempo da perdere. Cinque ore dopo erano atterrati nella città di Eyjan, capitale della Terra Laekur, ben quarantacinque minuti oltre il previsto.
No, le cose non andavano bene.
«Tu sai dove stiamo andando, v-vero?»
«Sì. Quindi smettila di comportarti da turista e aumenta il passo». Kaj lo fulminò con lo sguardo ma obbedì. Era la sua prima volta nella Terra del popolo dell’acqua e se ne sarebbe accorto anche un idiota. La ragazza camminava piano, con la bocca aperta e lo sguardo che si perdeva in quella città immensa.
A Lambert la capitale della Terra Laekur non aveva mai fatto impazzire, era troppo innamorato dei profumi e dei colori della sua Theàri, così si limitava a camminare con le mani in tasca, cercando di ricordare la via più rapida per il porto.
Il viaggio in zeppelin era stato interminabile – Lambert ricordava che la città fosse molto più vicina – eppure Kaj non sembrava affatto stanca. Anzi. Cercava puerilmente di nascondergli la propria meraviglia, come una ragazzina troppo orgogliosa. Dopotutto, Eyjan era pur sempre la città dei trecento ponti. Era costruita in mezzo al delta del fiume Aorta, il più lungo di Alles, che si divideva in numerosi rami prima di tuffarsi a cascata nel Mare delle Nuvole. Tutto sembrava essere stato edificato in funzione dell’acqua. Probabilmente, né Eyjan né i suoi abitanti avrebbero potuto esistere senza i fiumi.
Se quella ragazzina ignjs era rimasta abbagliata dai trecento ponti e dai palazzi antichi, probabilmente il porto le avrebbe dato il colpo di grazia.
E così fu.
Per prima cosa le voci. I laekur non erano un popolo particolarmente  vario dal punto di vista delle etnie, perfino le loro caratteristiche fisiche erano simili: pelle molto pallida e capelli chiari, oppure carnagione scura come l’ebano e chiome riccissime. Come si divertiva a dire Klaus, non c’erano vie di mezzo. Al porto di Eyjan, invece, si sentivano parlare tutte le lingue. Alcuni scherzavano, altri discutevano animatamente; fuori da una locanda c’era un gruppo proveniente dalle Isole di Ur che improvvisava canzoni a cappella. Erano come le tessere di un mosaico colorato, incastrate in modo da non far sembrare nessuno fuori posto.
Probabilmente tutti gli anni passati a Frey avevano abituato Kaj alle folle, ma niente potrà mai anche solo avvicinarsi al Mare.
Lambert la udì imprecare in lingua ignjs, mentre abbassava il cappuccio del mantello e lasciava che il vento le scompigliasse i capelli.
«Che te ne pare?»
«Oh dèi», sussurrò, troppo sbalordita anche per balbettare.
Ai moli erano legati immensi vascelli, il più piccolo grande quattro volte uno zeppelin. I loro alberi si innalzavano alti nel cielo e le polene dettagliatissime erano appese decine di metri sopra le teste dei passanti.
Lambert e Kaj erano giunti al porto seguendo uno degli affluenti dell’Aorta, lo Yuraen, che sfociava a estuario nel Mare delle Nuvole. Dalla loro posizione riuscivano a sentire il rombo delle acque che si tuffavano a cascata oltre il porto. Se si fossero avvicinati avrebbero addirittura percepito gli schizzi dell’acqua vaporizzata sulla pelle, ma Kajdena Jozic sembrava pietrificata. Sì, perché oltre i moli c’era il nulla. I vascelli galleggiavano a mezz’aria, assicurati ai moli da robuste cime, mentre gli equipaggi si servivano di passerelle per salire e scendere. Poi salpavano e volavano a nord, affrontando i venti più forti che si potessero immaginare, volando in quel cielo immenso che suscitava paura ed estasi allo stesso tempo. Era la città di Eyjan, del popolo dell’acqua, lì Alles finiva e incominciava il cielo.
All’orizzonte si intravedevano le prime isole, che sembravano non più grandi di un acino d’uva. Era lì che le navi erano dirette. A nord, verso il Mondo degli Elfi; a est, verso le Isole Sospese; oppure a ovest, verso l’arcipelago di Ur. Oltre, l’ignoto. I marinai più intrepidi avevano oltrepassato i confini del mondo conosciuto, ma nessuno era mai tornato a raccontare cosa avesse visto. Probabilmente non c’era nemmeno, qualcosa da vedere.
«Chiudi la bocca, o ti entrerà una mosca», disse Lambert. Kaj annuì, ma la sua mandibola sembrò non obbedire.
«Senti, se ce la sbrighiamo in poco tempo, possiamo fare un giro. Piacerebbe anche a me. Adesso però dobbiamo lavorare, hai presente?»
Nessuna risposta.
La afferrò per una spalla e la scosse. «Dio, Jozic!»
Lei si ricosse. «È c-che… non p-pensavo che fosse così. Proprio per n-niente».
Suo malgrado, Lambert sorrise.
 
***
 
 
«Ehi Lambert», Kaj gli appoggiò una mano sul braccio, «q-quello non è Z-zanna, il secondo del nostro pirata?»
Lambert seguì la linea del suo sguardo e non ci mise molto a individuare quel volto magro e spigoloso che usciva da una locanda. Lanciò un’occhiata a Kaj, la quale annuì, ed entrambi si tuffarono con Zanna nel porto.
Il pirata sembrava avere una certa fretta. Teneva un passo spedito e scivolava agile tra la folla, praticamente invisibile, all’apparenza ignaro della presenza delle due spie. Lambert, tuttavia, si allarmò veramente solo quando lo vide dirigersi verso gli ultimi tre pontili a sinistra, tutti occupati da navi mercantili delle Isole Sospese. Dov’era l’Aquila Reale?
«Siamo troppo vicini», sibilò Kaj.
«C’è troppa gente e rischiamo di perderlo. Evita uscite del genere e comportati come se non stessi pedinando qualcuno».  Non sembrava convinta.
«Lambert, c-che fine ha fatto la nave?»
Bella domanda.
Zanna aveva quasi raggiunto il penultimo pontile, quando vennero fermati.
L’uomo aveva l’accento di Ur e la carnagione scura. Indossava una strana casacca bianca e un cappellino grigio, probabilmente tipici della sua terra. Si parò davanti a Lambert con un sorriso a trentadue denti e tese una mano. Fantastico. Lambert si chiese se sarebbe bastato un pugno a tramortirlo, o se gli avrebbe solamente rotto qualche dente bianchissimo. Valeva la pena tentare.
«Buonasera. Mi chiamo Daharo e ho una semplice domanda da farvi: voi non credere che la meccanica e il vapore possono fare magie? No? Ebbene, il qui presente Daharo ne ha la dimostrazione-» Per tutta risposta, Lambert lo spinse da una parte e continuò a camminare. Daharo non si arrese e gli trotterellò dietro. «Voglio mostrare voi uno degli oggetti più straordinari di tutti i mondi! Voi vedere questo piccolo scarabeo di metallo? Questo no semplice scarabeo, questo fa tutto! Potete spiare vostri nemici o anche solo registrare voi mentre cantate, scarabeo lo fa!»
«Daharo, non ce ne frega assoluta-»
«Fa’ vedere». Kaj allungò una mano verso il piccolo oggetto che Daharo le tendeva. Lambert le diede una gomitata.
«Voglio so-solo vedere», ribatté lei, con una strana intonazione nella voce. La mano era ancora tesa verso lo scarabeo, ma i due occhi di ghiaccio non si schiodavano da Daharo. In effetti, l’uomo sembrava leggermente agitato. Si guardava intorno con una certa fretta e continuava a spostare il peso da un piede all’altro. Come se stesse… Lambert sollevò lo sguardo su Zanna proprio mentre Kaj gridava «Sono d’accordo!»
Daharo tentò di ostruire loro il passaggio, ciò nonostante bastò uno spintone per toglierselo di mezzo. Si lanciarono all’inseguimento del pirata, ma Zanna aveva un vantaggio non indifferente. Li guardò dritti in faccia prima di correre lungo uno dei due moli. Arrivato al bordo si fermò. Lo videro aprire le braccia e, con esse, spiegare un ampio paio di ali meccaniche.
Lambert gridò un’imprecazione in lingua crèhl. Accelerò, ma, quando ebbe posato il primo piede sul molo, Zanna si girò di spalle e saltò nel vuoto.
«Che cazzo fa?» urlò Kaj, dietro di lui.
«Ci deve essere una sorta di grotta sotto di noi. È lì che è ormeggiata l’Aquila Reale».
Ne ebbero la conferma una volta raggiunto il bordo del pontile. Sotto di loro, uno dei più grandi vascelli che Lambert avesse mai visto si preparava a spiccare il volo. Aveva tre alberi e un ampio ponte. Dalla sua posizione riusciva a vedere i membri della ciurma al lavoro e Zanna che atterrava sul ponte.
Erano troppo in alto per pensare di saltare e li avrebbero ammazzati comunque. No, ci doveva essere un altro modo.
«Ci serve una nave», annunciò.
«S-seguimi», fu l’inaspettata risposta. La ragazzina ignjs non aspettò un qualsiasi tipo di conferma e cominciò a correre verso un altro pontile, da cui stava salpando una piccola nave con un solo albero. Sempre imprecando, Lambert fece come gli era stato detto.
«Questa è L-lysa», gli comunicò Kaj, brandendo un’oggetto simile a una pistola. Lambert stava per chiedere qualcosa riguardo l’utilità di “Lysa”, quando la sua collega mirò alla nave e sparò. Dalla canna di Lysa partì una sorta di arpione di ferro legato a una fune, che andò a incastrarsi al parapetto della nave. Kaj non perse tempo e si aggrappò forte a Lambert, poi entrambi si sollevarono da terra.
«Ma-»
«Re-reggiti!»
Tirando una leva che si trovava dove avrebbe dovuto esserci il cane, la fune si riavvolse nell’oggetto, trascinando Lambert e Kaj verso la nave. Meno di cinque secondi dopo, erano sul ponte.
Per qualche istante Lambert fu troppo scioccato per poter formulare una frase di senso compiuto, cosa che lo infastidì non poco. Kaj, d’altro canto, ripose tranquillamente Lysa e si sistemò il mantello.
«Cazzo, tu sei completamente fuori di testa», articolò alla fine.
«P-prego. Lysa è utile sia per scalare i muri che p-per scappare dai soldati».
C’erano giorni in cui Lambert malediceva la notte in cui aveva reclutato quella ladra e altri in cui ringraziava il dio Carrày per averlo fatto. In quel momento non avrebbe saputo decidere.
Decise di recuperare un minimo di dignità con una battuta tagliente, ma venne stroncato sul nascere dal rumore di un fucile che veniva caricato.
Quella missione era iniziata male e sarebbe finita anche peggio.
Entrambi si voltarono lentamente verso la fonte del rumore. Un uomo teneva il fucile puntato alla testa di Lambert, mentre l’altro si limitava a osservare la scena con le braccia conserte. Era più alto e possente, perfino i suoi vestiti sembravano irradiare una certa autorità. Il capitano, pensò Lambert, e tutti e due sono ignjs.
«Chi siete?», ringhiò l’uomo col fucile. Domanda legittima. Peccato che, se avessero risposto, probabilmente dopo avrebbero dovuto mettere a tacere quegli uomini per sempre.
«Capisco la vostra curiosità», iniziò, «ma, credetemi, non siamo una minaccia. Abbiamo bisogno del vostro aiuto. Lavoriamo per il Governo di Alles e dobbiamo assolutamente seguire quel vascello». Al posto dei due uomini non avrebbe di certo acconsentito, ma poteva sempre sperare. 
«Stai perdendo t-tempo», bisbigliò Kaj.
«In realtà sto evitando che questi ci piantino un pallottola in testa. E, visto che questa bella idea è stata tua, che ne dici di collaborare?»
«Non ringraziarmi, m-mi raccomando».
«Ringraziarti?! Jozic, è stata una follia!»
«Sì m-ma se non-» Il Capitano si schiarì rumorosamente la gola.
«Perché dovremmo aiutarvi?», domandò.
«Perché dobbiamo impedire che l’Aquila Reale consegni il carico che trasporta agli elfi». Lambert contava sull’odio viscerale tra elfi e umani per convincere l’uomo, ma temeva che Kaj avesse ragione: stava perdendo tempo e la nave pirata si allontanava.
«Hai detto Aquila Reale? Dovrei rischiare di essere saccheggiato da una nave pirata per due intrusi che sono piombati sul ponte della mia nave? Sentiamo, io cosa ci guadagno?»
Lambert sospirò. «La consapevolezza di aver aiutato il Governo di Alles». Quella frase suonava così idiota che ringraziò che Klaus fosse rimasto a Frey, o l’avrebbe preso in giro fino alla morte.
«Nudjmo zlatno». Qualsiasi cosa Kaj avesse detto, ottenne l’attenzione dei due uomini. Il Capitano rispose. Kaj ci pensò un attimo, prima di dire «Dvadeset».
Il Capitano rise. «Stou!»
Perfetto, stavano contrattando. Se Lambert si fidasse del buon senso di Kaj? Assolutamente no. In quel momento avrebbe venduto una gamba per capire l’ignjs.
«Vedeset».
Il Capitano tacque. Il suo compagno annuì e, dopo quella che sembrò un’eternità, il comandante della nave si rivolse a Lambert.
«D’accordo».
I due uomini diedero loro le spalle senza aggiungere altro. Lambert si voltò verso Kaj. «Cosa gli hai offerto?»
«Oro». Naturalmente.
«Quanto?»
«C-cinquanta».
«Uno di questi giorni t’ammazzo».
Kajdena Jozic scrollò le spalle.
 
***
 
La nave ignjs Mirja seguiva l’Aquila Reale a una distanza sufficiente a non destare sospetti. I membri dell’equipaggio ignoravano completamente le due spie, cosa di cui Lambert fu particolarmente felice. Kaj, d’altro canto, non ci fece nemmeno caso. Rimase per tutto il tempo – quattro ore e mezza – sul ponte, alternando momenti in cui stava seduta a giocherellare con una collana ad altri in cui si sporgeva dal parapetto e guardava giù. Lambert si annoiava, quindi decise di fare un’eccezione alla sua politica del menefreghismo e andò da lei.
«Non è i-incredibile?» Sotto di loro, per centinaia e centinaia di chilometri, c’era solo cielo. Un cielo così azzurro da sembrare finto, interrotto ogni tanto da nuvole candide e piccole isole. Sì, forse era davvero incredibile.
«A me viene l’ansia. Se ti spingessi giù, troverebbero il tuo cadavere nel Mondo Inferiore». Kaj aumentò la stretta sulla balaustra. «Secondo te com’è? Cosa dicono gli ignjs sul mondo di sotto?»
«Non dicono niente. E io sto b-bene anche senza saperlo».
Le leggende del popolo della terra, al contrario, narravano di un’eterna notte e di demoni che si nutrono di altri demoni. Erano storie che si raccontavano a i bambini per spaventarli, perché di fatto non si sapeva niente.
Forse quella era la cosa più spaventosa di tutte. Era meglio non pensare che sotto di loro ci fosse un intero continente praticamente inesplorato, abitato solo da creature oscure. Alles si trovava sopra. Dovevano preoccuparsi solo degli elfi.
«Come mai quella collana?»
«Me l’ha r-regalata una mendicante».
 
***
 
La Mirja si sbarazzò dei due passeggeri indesiderati scaricandoli sulle coste del mondo elfico, senza nemmeno attraccare. Ovviamente il capitano pretese di essere pagato, lasciando Kaj praticamente al verde. Se non fossero riusciti a trovare Nicodemus, Lambert le avrebbe sicuramente chiesto di essere risarcito, poco ma sicuro. Quel giorno sembrava particolarmente di cattivo umore.
Si trovavano su una costa rocciosa a mezz’ora di cammino dal porto. Secondo Lambert era meglio passare inosservati e il comandante avrebbe fatto di tutto per evitare di attirare l’attenzione dei pirati. Così dovettero farsi tutta la strada a piedi.
Il cielo sopra il mondo degli elfi era di una tonalità vicina allo smeraldo, che diventava turchese solo all’alba e al tramonto. Erano più o meno le sette di sera, quindi avevano ancora più di un’ora di luce. Speravano che sarebbe bastato. Non era facile orientarsi in una foresta con alberi alti più di cinquanta metri, perciò Kaj suggerì di procedere vicino al mare. Non era tranquilla. dal momento in cui aveva messo piede sul suolo elfico, aveva iniziato a sentirsi poco bene. Le faceva male la testa e aveva assurdamente caldo, le sembrava di soffocare. La collana che portava al collo era diventata improvvisamente pesantissima e incandescente, tanto che avrebbe voluto strapparsela via e gettarla in mare. Ma non lo fece – primo perché la collana le piaceva, secondo, non era certo colpa di quel ciondolo se lei si stava ammalando.
Si diede della stupida e lasciò la collana esattamente dov’era, senza darle troppa importanza.
Se l’avesse fatto, tutta la sua vita sarebbe stata completamente diversa.
 
 
Per raggiungere il mercato nero bisognava trovare il passaggio nascosto alle pendici di una collina. L’erba alta e i cespugli lo celavano agli sguardi indesiderati, ma Lambert – che sosteneva di averlo già oltrepassato due anni prima con Klaus – sapeva dove trovarlo.
«Oh, a-assolutamente no!», esclamò Kaj, quando vide lo strettissimo tunnel in cui si stavano per addentrare.
«Resta qui, allora, rendi inutile tutto quello che abbiamo fatto oggi».
«Ma n-non c’è un’altra via?»
«No, perché il mercato è sotterraneo. Muoviti», aggiunse, dandole una leggera spinta in avanti.
La ignjs sbuffò e si incamminò lungo il tunnel. Sembrava essere stato scavato nella terra, probabilmente con la magia, ed era in pendenza. Bisognava fare attenzione a non scivolare e a seguire sempre la strada indicata dalle torce. Sui numerosi cunicoli che si intersecavano a quello principale, Lambert non sapeva niente.
In alcuni punti il terreno era più fangoso – Lambert dichiarò che si sarebbe fatto ripagare le scarpe dal direttore Cole, assolutamente – e in altri dovettero addirittura saltare delle spesse spaccature del suolo, ma riuscirono ad arrivare fino in fondo.
Il mercato nero si parò davanti a loro in un’esplosione di suoni, profumi e colori. Il tempo di goderselo però non c’era: avevano fatto troppa strada per anche solo pensare di abbandonare la missione. Erano due spie dell’Agenzia e avrebbero portato a termine il loro lavoro.
 
***
 
Se avessi del d-denaro comprerei tantissime cose”.
«Il tuo denaro adesso è nelle tasche del capitano della Mirja», le ricordò. Non era da lui essere così serio e ligio al dovere. Lui e Klaus erano famosi per riuscire a divertirsi anche durante una missione, perciò non capiva come mai quella volta non ci riuscisse. Dio, perfino Kaj sembrava più rilassata di lui!
Lambert si trovava tre file di bancarelle dietro di lei e si fingeva interessato a dei veleni rari e pericolosissimi. Ogni tanto Kaj faceva dei commenti attraverso il dispositivo di comunicazione − un aggeggio inventato da Raavi che teoricamente funzionava grazie al magnetismo – e lui rispondeva più o meno gentilmente, eppure non riusciva a togliersi di dosso la sensazione che ci fosse qualcosa che non andava.
 “Freccia, lo vedo”.
Il bisbiglio di Kaj interruppe i suoi pensieri. Lambert si voltò. Zanna era a una bancarella, insieme ad altri tre uomini. Probabilmente il restò della ciurma era rimasto sull’Aquila Reale, valutò Lambert, il che era senza dubbio una fortuna. La loro merce era esposta su un telo, ma la maggioranza dell’etere era nascosto dentro a delle casse. Non era difficile capire chi fosse il capo del gruppo: era l’unico a non muovere un dito. I capelli scurissimi e lisci gli ricadevano sulle spalle e la pelle diafana era priva di qualsiasi tipo di imperfezione. Era alto e muscoloso; avrebbe benissimo potuto passare per umano se non fosse stato per le orecchie a punta e i grandi occhi bianchi.
Lambert si avvicinò senza dare nell’occhio e imprecò sottovoce. Nicodemus, il pirata che stavano cercando, era un mezzosangue. Mezzo uomo e mezzo arkaos. Non ne erano rimasti molti e, soprattutto, quasi nessuno avrebbe affrontato un viaggio fino ad Alles e al Mondo degli Elfi.
Com’era possibile che il Capo non gliel’avesse detto?
«Distraggo Zanna. Phoenix, non farti vedere da lui per nessuna ragione. Ci conosce, chiaro?» Non aspettò la sua conferma e si buttò tra la folla. Attirare il secondo ufficiale lontano dal resto della ciurma non sarebbe stata un’impresa facile. Lambert si stava ancora scervellando, quando la fortuna decise di dargli una mano. «Ehi Zanna!», gridò un uomo che vendeva animali rari. «Questo qui mi vuole pagare in gioielli, io dico che sono falsi. Scommettiamo?»
Zanna andò a dare un’occhiata e Lambert lo seguì. L’avrebbe colpito prima che riuscisse a tornare da Nicodemus, in modo da non far saltare la copertura della Jozic.
Kaj nel frattempo aveva approcciato i pirati e aveva dichiarato di voler comprare dell’etere. Nicodemus le aveva riso in faccia. Kaj sosteneva di avere abbastanza soldi, ma i pirati non le credevano.
“Vuoi farmi credere che hai duecento ori? Chi sei, la figlia del re ignjs?” stava dicendo uno dei pirati.
“Ve ne p-posso dare cinquanta”.
“E secondo te io quanto l’ho pagato?”
Neanche un soldo, probabilmente.
D-dubito che l’abbiate pagato. Ve ne v-vorrete sbarazzare, q-quindi non vi do più di settanta”.
Non era stupida, quella ignjs. Solo tremendamente incosciente.
“Potremmo andare d’accordo, ragazzina”.
Zanna aveva quasi finito di osservare i gioielli. La Jozic doveva darsi una mossa.
“Ragazzina, dove hai preso quella collana?” domandò a un tratto Nicodemus. Era la prima volta che apriva bocca e Lambert dovette sforzarsi per non rimanere incantato dalla sua voce. Era melodiosa, morbida come il velluto ma allo stesso tempo baritonale e dura. Si chiese come sarebbe stato sentirlo cantare e maledisse gli arkaos per l’effetto che avevano su di lui. Gli ibridi, poi… Evitati dai propri simili perché impuri e dagli uomini perché troppo intelligenti, troppo belli, troppo scaltri e troppo poco umani. Secondo Lambert Kane, non esisteva razza peggiore.
Intanto, Kaj non rispondeva.
“Se è per quella che sei qui, mi dispiace ma l’etere non ti servirà a niente”.
“Ma di cosa stai parlando?”
“Ragazzina, andiamo. Vuoi forse fingere con me?”
Probabilmente Kaj sarebbe riuscita a strappargli qualche informazione, se da una bancarella isolata non fosse comparso Daharo, l’uomo degli scarabei meccanici.
«Phoenix, abbiamo un problema».
Zanna abbandonò i gioielli nelle mani del venditore, concordando con lui sulla loro falsità, e fece per tornare indietro.
Maledizione.
«Phoenix, abbiamo due problemi».
Daharo aveva quasi raggiunto i compagni. Era solo questione di secondi, prima che riconoscesse Kaj.
Ti hanno incastrato, umana”.
La missione era iniziata male e sarebbe finita malissimo.
Lambert aveva aspettato abbastanza. Non gli interessava nemmeno sapere di cosa stessero parlando, non c’era più tempo. Lasciando perdere Zanna, corse verso i pirati. Daharo però arrivò prima e non ci mise molto a riconoscere Kaj. Quando Lambert li raggiunse, i pirati stavano accerchiando la Jozic e le due spie si ritrovarono presto schiena contro schiena, circondati.
Erano sei contro due, potevano ancora farcela.
«Lysa non ha un’amica che potrebbe aiutarci?», sibilò Lambert.
«Una daga». Meglio di niente.
«Segui il piano, d’accordo?»
Nel frattempo dal mercato erano sbucati altri due membri della ciurma. Dovevano agire in fretta.
«E d-da quando noi avremmo u-un piano?!», rispose Kaj a denti stretti.
«Perché non ci dite chi siete?», propose Nicodemus.
«Allora assecondami, Jozic».
«Aye».
Nicodemus fece un passo in avanti, come per afferrare la collana di Kaj. Lambert scattò e un secondo dopo gli stava puntando la pistola alla tempia. La canna lucida adesso toccava la testa del mezzosangue e il ragazzo l’aveva afferrato per una spalla, immobilizzandolo. Kaj sfoderò il pugnale e lo raggiunse.
«Un altro passo e gli faccio saltare la testa», disse Lambert ai pirati. «Se eviterete sciocchezze, ve la caverete con l’arresto Altrimenti, ai miei capi dirò che è stata legittima difesa e lei confermerà». Kaj annuì, ancora confusa.
«E chi cazzo sono i tuoi capi?», ansimò il mezzosangue.
«Il Governo di Alles».
Senza abbassare la pistola, Lambert usò l’altra mano per infilare le manette a Nicodemus. Sarebbe stato tutto perfetto, se solo avessero avuto un piano per tornare all’aria aperta, dove li aspettava una nave dell’Agenzia. I pirati però non lo sapevano e continuavano a guardarlo inorriditi. L’unico apparentemente calmo era Nicodemus.
«Non è una buona idea, ragazzo. Io posso esservi utile».
«Ah sì?», fece Lambert, scettico.
«Tanto per dirne una, so cosa sta succedendo alla tua ami-»
Prima che potesse terminare la frase, Kaj lanciò un grido di dolore e crollò a terra.




 

// primo cliffhanger! //
Ecco qua! Bene, è leggermente più corto dello scorso, quindi spero che non vi siate sparati un colpo in testa a metà :) In più, mi sono divertita un sacco a scrivere questo capitolo in particolare, quindi spero davvero che appreziate. È stato sfortunato, perché ho dovuto correggere e impaginare tutto circa quattro volte - alla fine sapevo a memoria gli errori di battitura - quindi, se adesso un cataclisma si abbattesse su casa mia, potrei dare di matto.
Non mi voglio trattenere troppo perché credo (spero) che il capitolo parli da solo :) È incentrato sulla missione e il duo Kaj/Lambert perché è in sostanza il punto di partenza della storyline di Kaj. Gli altri personaggi ritorneranno presto!
E niente, fatemi sapere cosa ne pensate, perché la storia diventa sempre più complessa e ho davvero bisogno dei vostri pareri.
un bacione,
Gaia

 

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Capitolo 5
*** Peryth, iniziazione ***





Capitolo quattro – Peryth, Iniziazione



 
Ed è allora che sul corpo compare il simbolo di Peryth. […]
La runa nera, semplice, stilizzata, che dona un’idea di apertura solo apparente. […] Così è superata Peryth,
l’inizio della fine, la prima delle tre fasi, l’Iniziazione.

- da “La desolazione di Arkaydia”, autore sconosciuto;
frammento di una delle pochissime copie ancora esistenti
 
 



 
Osservava la scena dall’alto, mentre il dolore sembrava essersi assopito. Vedeva un corpo grottescamente simile al suo giacere prono su un suolo grigio e arido, spaccato da crepe superficiali. Vedeva creature oscure volare intorno a esso, le loro ali da pipistrello che le mantenevano sospese a mezz’aria e lunghe vesti nere che coprivano gli arti inferiori. Eppure niente, in quel panorama, era nemmeno lontanamente terrificante quanto l’odore di sangue. Si faceva strada attraverso le narici e proseguiva fino alla gola, dando un inspiegabile sapore di viscido e di metallico che le faceva attorcigliare lo stomaco. Non se ne andava, non senza far girare la testa e appannare la vista. 
Era forse suo, quel sangue? Perché allora all’esterno non ve n’era traccia?
«Lo vuoi, non è così?»
Le creature mostruose planarono verso il corpo. Iniziarono a strappare i vestiti, a graffiare la carne pallida con i loro artigli, lanciando grida agghiaccianti.
«So che lo vuoi».
«F-fateli smettere».
Ed ecco il sangue, sgorgare fuori dalle ferite fino a bagnare il terreno grigio. Ai lamenti sempre più atroci si aggiunse un canto. Era una voce maschile, la più bella e melodiosa che avesse mai ascoltato. Dapprima sussurrava, poi gridò parole in una lingua che lei non capiva, formule che sembravano quasi invocazioni, preghiere.
Ma i mostri non smettevano.
«Forza».
«B-b-b-basta, per f-favore!»
La voce gridava, le creature ululavano, quei suoni terribili si disperdevano in un cielo violaceo, sotto lo sguardo atterrito di una ladra.
«Bevi, Kaj».
Apparve una figura. Riuscì a mettere a fuoco solo il polso, olivastro, proteso verso di lei. Un rivolo di sangue lo attraversava in diagonale.
«No!»
«Bevi e tutto si fermerà».
«No, per favore!»
«Stai morendo, Kaj. Bevi».
Uno dei mostri affondò l’artiglio nel petto del corpo della ragazza. Kaj chiuse gli occhi, afferrò l’avambraccio della sconosciuta e bevve.
Se avesse avuto abbastanza coraggio, avrebbe visto un sangue nero come la pece.
Poi tutto tacque.
 
 
***
 
 
«Se lei muore, ti taglio la gola».
«L’hai già detto, crèhl, ben quattro volte».
«Sai com’è, arkaos, voglio assicurarmi che il concetto ti sia ben chiaro».
Il sole tramontava presto sul Mondo degli Elfi. Era già scomparso dietro una montagna altissima, quando Lambert, il pirata e una Kaj priva di conoscenza raggiunsero il bosco. Nicodemus sosteneva che la ragazzina avesse “bisogno di aria”, Lambert temeva solo che volesse portarli in un posto in cui nessuno avrebbe sentito le loro urla.
Come se un elfo si sarebbe mai sprecato ad aiutarli.
«Perché non la pianura, allora?», aveva domandato, sperando di coglierlo in fallo.
«Non voglio dare spettacolo».
Così eccoli lì, in mezzo al fogliame, vigilanti. Si erano sistemati su un tronco caduto, in un piccolo spiazzo tra i cespugli. Lambert si era tolto il mantello per dare a Kaj una sorta di cuscino, mentre Nicodemus fumava. Dal momento del loro arrivo erano passati circa quaranta minuti, durante i quali nessuno aveva aperto bocca.
«Visto che abbiamo tempo da perdere, perché non mi dici finalmente cosa sta succedendo alla mia collega?», sputò, non più in grado di sopportare il silenzio.
«Cosa si dice sul mio popolo, dalle tue parti?» La domanda non sembrava pertinente. Lambert fece per ribattere, ma cambiò idea: cosa sapeva sugli arkaos?
Che erano un popolo nettamente superiore sia a loro che a quei bastardi degli elfi. Che avevano conoscenze scientifiche che gli altri non potevano nemmeno immaginare. Che vivevano molto a lungo. Che non era mai stato visto un essere puro, solo i meticci che si confondevano tra gli umani di Alles e la gente delle Isole; perché non importava quante generazioni passassero: il gene di Arkaydia era sempre dominante.
«Che gli arkaos esistono da molto prima di noi. Che abbiamo cercato una via per il loro mondo per secoli, soprattutto durante la Guerra, ma non l’abbiamo trovata. Che si sono divertiti a guardare gli elfi che ci massacravano, senza prendersi il disturbo di fare qualcosa», disse invece, senza cercare di nascondere il proprio ribrezzo.
«C’è una ragione per tutto, umano. Voi siete semplicemente troppo ottusi per capirlo, ci arriverete solo quando sarà troppo tardi. E, te lo posso assicurare, non manca poi così tanto. C’è una minaccia, molto più grande di quanto possiate immaginare. Proviene dal Mondo Inferiore, noi lo chiamiamo Veleno Nero e questo», accennò a Kaj, «è il peggiore dei suoi effetti. È per proteggerci da esso che abbiamo bloccato ogni via per Arkaydia, per evitare che arrivasse fino alle nostre porte. Voi e gli elfi non siete stati altrettanto furbi e, adesso, ne pagate le conseguenze».
La solita supponenza. Alzò gli occhi al cielo. «Cosa fa il Veleno Nero?»
Nicodemus tacque per un instante, perso in chissà quali pensieri. Iniziò a parlare lentamente, con un’inespressività che inquietò Lambert molto di più di quanto non diede a vedere. 
«La trasformazione si divide in tre fasi. Le puoi riconoscere dai marchi che compaiono nella parte interna dell’avambraccio. La tua amica sta entrando nella prima, Peryth, l’Iniziazione». Guardava in alto. Le sue iridi bianche riflettevano l’oscurità del cielo elfico.
«Verranno poi Othila, la Separazione, e infine Doygaz, la Trasformazione finale. Dopo, ti assicuro che della tua amica non sarà rimasto più nulla. Diventerà in tutto e per tutto una di loro, una Mara’el come tanti demoni del Mondo Inferiore, una belva che non augurerei a nessuno di incontrare. Ti consiglio di ucciderla allora, sempre che non ci abbia già pensato il Veleno nel corso della trasformazione. Prima che tu me lo chieda, non c’è cura».
Mara’el. Le creature demoniache del Mondo Inferiore, che popolavano i racconti dell’orrore e gli improperi della gente di Alles. Rabbrividì.
“Che i Mara’el ti mandino nel Mondo di sotto”, gli diceva sempre Klaus, quando Lambert lo prendeva in giro. “Se non metti in ordine la tua stanza, ti mando dai Mara’el”, lo minacciava sempre sua madre, quando era un bambino. Era sempre stata una beffa, un’offesa tra amici o un’esclamazione. Adesso era ciò che stava uccidendo Kaj.
«Perché salvarla, allora?» Lambert desiderò, per quella che doveva essere la millesima volta della giornata, che al suo posto ci fosse Klaus. Lui semplicemente non era in grado di prendere le decisioni giuste, quella situazione assurda ne era la prova.
Il pirata ignorò la domanda. «Il Veleno ha effetti diversi a seconda della razza che colpisce. Solo noi andiamo incontro alla trasformazione: sugli elfi assume le caratteristiche di un morbo fatale, mentre gli umani muoiono nel giro di poche ore, dilaniati da un dolore lancinante. Ho mandato un mio uomo alla ricerca di un arkaos, affinché la tua amica possa bere poche gocce del suo sangue. Questo le salverà la vita e darà inizio a Peryth. È tutto quello che possiamo fare».
«E perché non il tuo, di sangue?»
«Al momento non ti interessa». Lambert non disse più niente, per non rischiare di farlo incazzare e distruggere l’unica possibilità che aveva di aiutare Kaj. Era assurdo come fossero passati dall’inseguire un pirata per il porto di Eyjan a… quello.
I passaggi erano un po’ confusi: dopo che Kaj era caduta, Lambert ricordava di essersi scagliato contro Nicodemus, il quale – tra una battuta sarcastica e l’altra – aveva fatto capire di poterli aiutare. Ovviamente, aveva specificato, non l’avrebbe fatto per la gloria.
 
 
«Crèhl, la tua amica è stata infettata dal Veleno».
Una frase completamente priva di senso alle orecchie Lambert. Il suo viso dovette trasmettere perplessità, perché gli occhi da arkaos di Nicodemus si assottigliarono con una punta di soddisfazione e disprezzo.
Dio, se solo non fosse stato per Kaj…
«Cosa significa?», domandò invece, spazientito.
«Che sta morendo», fece Nicodemus con voce piatta. «Posso aiutarla e ti dirò tutto quello che so, ma in cambio devi lasciar andare me, i miei uomini e la nostra merce. Devi giurare».
Per quello che ne sapeva lui, il pirata poteva stare bluffando. Se davvero li stava ingannando, Kaj sarebbe morta comunque e Nicodemus sarebbe stato libero. Valeva davvero la pena di rischiare? Si trovò a desiderare più che mai che al suo posto ci fosse Klaus, lui avrebbe sicuramente saputo come comportarsi. La risposta di Lambert a una proposta del genere non era scontata. Non quando implicava affidarsi completamente a un nemico e abbandonare la missione. Si potevano dire tante cose su di lui – quasi nessuna positiva – ma non che fosse un codardo e che non portasse sempre a termine i suoi compiti. Ad ogni costo, soleva dire.
«Non ci posso credere», esclamò Zanna, «ci stai davvero pensando!»
Kaj ruotò dolorosamente la testa e fissò le iridi chiare in quelle di Lambert, tradita. Lambert, quegli occhi, li aveva già visti. Erano di colore diverso e la circostanza era un’altra, ma non se li sarebbe mai dimenticati. Erano con lui quando respirava, mangiava, dormiva. Non poteva permettere che alla lista dei suoi incubi si aggiungessero anche quelli di Kaj
«D’accordo», gridò. «D’accordo!»
«Devi dirlo», disse Nicodemus, tendendogli una mano.
«Se le salvate la vita, stavolta vi lasceremo andare. Giuro».
«Quindi ce l’hai, un cuore».
Si strinsero la mano.
Lambert Kane e Nicodemus il pirata avevano un patto.
 
 
L’occhiata che Kaj gli aveva lanciato continuava a trapanargli il cranio come un’emicrania. Poi lei aveva perso i sensi e Nicodemus se l’era caricata in spalla.
Ed eccoli lì, ad aspettare che un uomo dell’Acquila Reale arrivasse con un arkaos da usare come donatore di sangue. Un pirata che canticchiava, una spia priva di sensi e un'altra che, nonostante tutto, stava morendo di fame. Gli veniva il vomito; ogni volta che gli occhi di ghiaccio cadevano su Kaj, Lambert si sentiva senza cuore.
Lui e la ignjs non erano amici, non esattamente – checché ne dicesse Kalus. Si trattava solo di un’irritante balbuziente che aveva come unico pregio l’essere accettabile nel lavoro che faceva (quando non si faceva infettare da antichi veleni del mondo di sotto) e, in fondo, lo faceva preoccupare. Per Carrày, l’avrebbe presa a pugni. Quella stupida ragazzina era sotto la sua responsabilità, non l’aveva mica autorizzata a farsi ammazzare.
Klaus gli avrebbe dato del cinico. Avrebbe cercato di indovinare cosa gli passasse per la testa – non lo faceva sempre? – per poi ridere delle sue assurde considerazioni. Non l’aveva mai giudicato. Preso a insulti sì, anche piuttosto pesantemente, ma era il solo che avesse saputo guardare oltre la sua maschera. Non si era sentito intimidito da lui. Sin dal primissimo momento aveva intuito che dietro a Lambert Kane c'era di più. Non l’aveva guardato con ammirazione, non aveva pensato che alla base del suo caratteraccio ci fossero stronzate come un’infanzia problematica, no. Klaus era stato l’unico ad averlo accettato esattamente così com’era. Quasi l’unico. Diamine, era una delle due sole persone per cui Lambert Kane avrebbe dato via un rene.
In quel momento, per quanto odiasse ammetterlo, aveva davvero bisogno di lui. Si stava giusto domandando cosa stesse facendo in quel momento, quando udì chiaramente dei passi tra i cespugli. Scattò in piedi, mentre Nicodemus allungava le gambe e faceva scrocchiare le dita delle mani. «Era ora», grugnì.

 
***
 

Se fosse stato per lei, avrebbe già ammazzato l’uomo di guardia da un pezzo.
Sarebbe stato anche un modo per mettersi alla prova, per verificare di essere in grado di centrare in pieno la giugulare anche da quella distanza. Scudo, tuttavia, era di un’altra opinione. C’erano volte in cui si rammaricava di non aver addestrato un cane, al posto di quel giovane dai capelli d’argento.
Doveva ammettere però che, quella sera, non avesse tutti i torti; Caser era stato chiaro: non dovevano dare nell’occhio per nessuna ragione al mondo.
Era stanca e intorpidita. Il suo corpo non funzionava come quello dei normali esseri umani, eppure le gambe iniziavano a formicolare. Il muretto della terrazza dietro al quale si stavano nascondendo li costringeva ad assumere una posizione innaturale, pur offrendo un’ottima visuale su ciò che accadeva svariati metri sotto di loro.
Era passata solo mezz’ora e Scudo dava già segni di nervosismo.
«Che i Mara’el mandino Caser nel mondo di sotto», bofonchiava.
«Probabile che ci sia già stato».
«Sicuro. Sai bene che nessuno è mai tornato dal Mondo Inferiore, R-»
«Quante volte ti ho detto di non usare il mio vero nome? E abbassa la voce, ‘ché non voglio marcire al Lys fino alla fine dei miei giorni». Qualcuno era tornato dal Mondo Inferiore. Scudo, però, non aveva bisogno di saperlo. Ripresero a guardare giù. La guardia faceva avanti e indietro sul ballatoio che conduceva agli appartamenti della Somma Sacerdotessa. Canticchiava una filastrocca che i laekur insegnano ai bambini, con una mano fissa sul fodero della pistola.
Sì, una freccia sarebbe bastata a ucciderlo. Sapeva di essere brava in ciò che faceva. Aveva dalla sua l’esperienza, che le permetteva di offrire i propri servigi ai potenti, tenendo però il coltello 
sempre dalla parte del manico. La Tessitrice.
«Aracnide? Cosa stiamo aspettando?»
Poveri, stupidi, impazienti umani. Fece per rispondere, ma un rumore proveniente dal parco la precedette. Lo sentì anche la guardia, che pensò bene di chiamare a gran voce il nome del compagno addetto a quella zona. Non ottenendo risposta, commise il secondo grande errore della serata: andò a controllare.
Così facile da risultare noioso.
«Tieniti pronto», sibilò Aracnide.
«Da quando usi dei diversivi?»
Gli angoli della bocca si piegarono in una sorta di sorriso. «Ah, Scudo. Non sono stata io, ma lui».
La porta degli appartamenti della Sacerdotessa si aprì, lasciando uscire una sagoma scura chiaramente maschile.
Da te mi aspettavo di meglio, Airlis.
Saltò, dandosi la spinta con il muretto e atterrando proprio davanti all’obiettivo. Nessun umano sarebbe stato in grado di eseguire quella mossa con la stessa eleganza. A giudicare dall’ombra di terrore che attraversò il volto dell’uomo, dovette averlo realizzato anche lui.
«Nottata fresca, trovi?» Questi fece per estrarre la pistola; un gesto della mano e Aracnide si ritrovò a impugnarla, tenendola puntata alla testa di lui. Si chiese perché non dotassero i confratelli di strumenti più avanzati, visti i tempi che correvano.
«Come ti chiami». Lo disse come un'affermazione e il brav'uomo si guardò bene dal rispondere.
Aracnide osservò la pistola. «Carica, molto bene. È anche piuttosto lucida, la tieni bene».
«Stoffel».
«Un bravo confratello di Gaemal, che esce dagli appartamenti della sua Sacerdotessa nel cuore della notte». Stoffel doveva aver capito che non sarebbe morto – non subito – ma non sembrava affatto più tranquillo.
«Ho giurato di proteggere la Signora e tutte le sorelle di Kona», dichiarò, con un’ombra innaturale di spavalderia.
«E sono certa che tu offra gli stessi servigi a tutte le consacrate alla dea...» Passo in avanti. La corporatura del guerriero era imponente, non proprio il tipo della cara Airlis.
Aracnide si rese conto che avrebbe dovuto provare almeno una certa inquietudine.
Invece, il nulla.
«...O è una prerogativa della Signora?» Stoffel non negò. Il loro giuramento di totale onestà rendeva i confratelli di Gaemal estremamente indifesi, da quel punto di vista. «Cosa volete?» Almeno andava subito al punto.
«I nomi», disse Aracnide, altrettanto pragmatica.
«Non ne so niente». Scudo, alle sue spalle, sospirò. La mancanza di pazienza poteva essere un problema nel loro lavoro. Aracnide era sicura che Stoffel avrebbe parlato. Chissà se, finalmente, Caser avrebbe smesso di mettere in discussione i suoi metodi. Avvicinò la pistola alla fronte del guerriero.
«Ti racconto una storia. C’era una volta un giovane confratello di Gaemal il quale, come il suo protettore, voleva essere il consorte di Kona. Dovette però accontentarsi dell’incarnazione della dea, la Somma Sacerdotessa del Monastero di Iride. Questa relazione fece sì che il buon confratello venisse a conoscenza di informazioni riservate, di cui una molto molto importante. Un giorno il comandante dell’ordine ricevette una soffiata. Si trattava di una storiella interessante, a cui però mancava il finale; l’indomani il nostro eroe fu giustiziato. Sai come avrebbe potuto avere salva la vita?» Non ci fu realmente bisogno di una risposta. «Dicendo alla Tessitrice esattamente ciò che voleva sapere».
«Non so a cosa ti riferisca», mormorò, evitando di guardarla direttamente negli occhi.
«Non puoi mentire, Stoffel. Neanche gridare aiuto, perché tu non dovresti essere qui. Lo sai bene, infatti ti sei guardato dal farlo».
Lo vide deglutire. «Il mio confratello tornerà presto».
«Forse non così tanto», intervenne Scudo. Almeno sapeva obbedire agli ordini.
«Adesso i nomi».
«A-Airlis non me li ha mai detti». Naturale. Fino a prova contraria, non era un’idiota.
«Ti permette però di chiamarla per nome. Quindi…», lo incoraggiò.
«Hanno agganciato la laekur», sputò, trasudando disgusto per se stesso.
«Quanto in là si sono spinti?»
«U-un certo Nioclàs l’ha convinta a scappare». Aracnide imprecò mentalmente. «Sa tutto, credo».
Non riuscendo a trattenersi, gli scoppiò a ridere in faccia: ad Alles erano solo in due a sapere tutto. Nemmeno lei faceva parte degli eletti, figuriamoci una bambina del popolo dell’acqua. Il povero Stoffel però ci credeva davvero. Probabilmente pensava anche che Airlis l’amasse – ciò faceva ridere Aracnide ancora di più, se possibile.
«Ho un messaggio per la nostra comune amica, Stoffel. Di’ alla Signora che, se i suoi alleati faranno progressi, per lei sarà impossibile tenere nascosto quel piccolo segreto. Dille che aiutarci è nel suo interesse. Sappiamo che è l’unica a conoscere tutti i nomi». Se il confratello di Gaemal era veramente innamorato di Airlis, gliel’avrebbe riferito. Aracnide ci contava. «Dov’è la laekur?»
«A Frey», rispose senza più opporre resistenza. Aracnide ritirò la pistola.
Fu questione di un attimo, un guizzo, i suoi artigli saettarono sullo zigomo destro di Stoffel, lasciandosi dietro una scia scarlatta e una smorfia di dolore. Un messaggio che sarebbe arrivato forte e chiaro agli occhi del destinatario.
«Bravo, bravo guerriero». Fece un passo indietro. «Di’ ad Airlis che la Tessitrice la saluta, in attesa di incontrarla personalmente».
Con un gesto della mano si dissolse nella notte, ombra tra le ombre.
 
 
***
 

Nicodemus aveva sperato che, tra tutti i purosangue che bazzicavano il Mondo degli Elfi, quell’incompetente di Fabbro non sarebbe andato a scegliere proprio lei. Visti i recenti avvenimenti, Nicodemus avrebbe fatto meglio a evitare di attirare la malasorte con certe speranze inutili. Purtroppo, non imparava facilmente dai propri errori.
Odessa era davanti a lui, accompagnata dal pirata, in tutto il suo splendore. Diede una rapida occhiata al crèhl, per verificare i propri sospetti, e notò con piacere di avere ragione. Quegli occhi di ghiaccio non riuscivano a celare il fascino suscitato da quella donna bellissima. I capelli verde scuro che ricadevano sulle spalle magre in morbide onde, gli occhi rosati, la pelle olivastra e priva di ogni imperfezione… erano solo alcune delle prove evidenti che dimostravano la natura non umana di Odessa.
Il suo sguardo, invece, garantiva il disgusto che provava per quella razza.
«Interessante», esordì. «Questo pirata ha dimenticato e di farmi il tuo nome e di accennare a un’umana. Come dovrei reagire?»
La voce melodiosa e squillante nel corso degli anni si era abbassata di un semitono, l’espressione di Odessa era più matura e i capelli acconciati in una pettinatura diversa. Incredibilmente, a Nicodemus sembrava che quegli anni non fossero mai passati.
«Dipende», si leccò le labbra sottili, «vuoi rendere vano il tuo viaggio fin qui?»
Le occhiate infuocate del crèhl gli trapassavano la schiena. Era tra i più fastidiosi che avesse mai incontrato, sicuramente il più malfidente. Possibile che fosse così barbaro da realizzare che, siccome Nicodemus aveva giurato sul proprio onore, non lo avrebbe tradito? Gli umani avevano davvero una considerazione così bassa delle promesse solenni?
Ma guarda un po’ in che situazione ti sei andato a cacciare. Avresti potuto benissimo lasciarla morire, il crèhl sarebbe stato troppo sconvolto per portare a termine la sua missione.
Sul momento, però, non era riuscito a ideare un piano migliore.
Ormai era comunque troppo tardi per pentirsene.
«Pochi giochi di parole, vecchio amico. Perché stai aiutando una Bandita umana?»
«Ho dato la mia parola». E questo, lo sapeva, sarebbe bastato.
Non gli sarebbe potuto importare di meno della salute della ragazza, era palese. Anzi, Nicodemus non era nemmeno assolutamente certo di farle un favore, aiutandola: al suo posto avrebbe fatto di tutto per evitare una vita del genere.
Immagini si fecero strada nella mente di Nicodemus. Un terremoto. Famiglie terrorizzate che cercavano una via di fuga da un cielo dello stesso colore della cenere. Ed era proprio cenere, quella che si posava sui corpi che giacevano ai lati delle strade, nascondendo gli orribili segni che sfiguravano i loro volti.
Ma non era quello che quel Lambert Kane aveva sperato di sentirsi dire, mentre implorava implicitamente il suo aiuto. Non sapeva niente, lui, credeva ancora che per la sua collega ci fosse una speranza. Era convinto che lei 
ancora esistesse.
Nicodemus aveva visto una persona supplicarlo di porre fine alle sue sofferenze, mentre il marchio sul suo braccio assumeva la forma di Doygaz. Non era stato abbastanza misericordioso da fare come diceva lei e suo fratello era morto.
Un altro aneddoto da non condividere con il crèhl.
«Non voglio prendermi la responsabilità di una simile creatura», tenne a precisare Odessa. Tipico di lei.
«Ovviamente no. Tu farai quello che va fatto e poi ognuno andrà per la sua strada. Non ci vedremo più, nessuno di noi».
«Finalmente una buona notizia», fu il commento acido dell’umano. Nicodemus lo guardò con la coda dell’occhio: il suo sguardo semitrasparente era sempre fisso su Odessa, ma – e questo rese felice il pirata – non v’era traccia di desiderio. Per lei sarebbe stata una disfatta totale.
Il crèhl li esortò a fare in fretta. Odessa annuì, rivolse il polso verso Nicodemus e attese che lui praticasse l’incisione. Dovette procurarle dolore, ma non batté ciglio. Non sarebbe stato degno di un’arkaos. Si avvicinarono dunque alla ragazza, ancora priva di sensi. Mentre Nicodemus le sorreggeva la testa, Odessa avvicinava il polso ferito alle labbra ormai violacee. L'umana dovette percepirne l’odore, perché improvvisamente si irrigidì.
«Come si chiama?», chiese il pirata a Lambert.
«Jo-Kaj. Si chiama Kaj». Per la prima volta da quando era iniziata tutta quella faccenda, sembrava veramente preoccupato. Il pirata si rivolse alla Bandita.
«Bevi, Kaj». Lei si agitò tra le sue braccia.
«No!», rantolò lei. Odessa sospirò.
«Bevi e tutto si fermerà».
«No, per favore!» Poteva solo immaginare cosa il Veleno le stesse mostrando, tuttavia non riusciva a provare né pena né empatia nei suoi confronti. Per lei sarebbe stato molto meglio morire. Comunque, non era affar suo. Nicodemus doveva fare solo in modo che quella faccenda si risolvesse presto.
Strinse la presa sulla ragazza.
«Stai morendo, Kaj. Bevi».
Quello sembrò funzionare. Dopo un tremito, le mani pallide si mossero istintivamente verso il braccio di Odessa.
La ignjs bevve.





 

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Capitolo 6
*** Marchi visibili e invisibili ***


Sono viva! 
Reduce da un periodo infernale, ma viva. Probabilmente vi siete dimenticati di Salus, oppure speravate di non doverla incontrare mai più. 
È un capitolo meno cupo del precedente, anche se non meno lungo ahaha 
Ricompaiono personaggi che non si vedevano da un po' e si scoprono cose in più su quelli nuovi. Spero che non sia troppo confusionario
Ditemi cosa ne pensate, è la prima volta che mi cimento in una cosa del genere!
madelifje




 


Capitolo cinque – Marchi visibili e invisibili

 
 
Questa notte è avvenuto un tremendo fatto senza precedenti.
Verso le dodici è stato brutalmente assassinato il nostro consigliere della Terra Crèhl, cor Niall.
Temo che Alles stia inesorabilmente andando incontro alla guerra. Che gli dei ci aiutino.

- dagli annali della Torre dei Consiglieri, a cura dell’Intendente Vladjmjr Tavic
 
 



C’erano giorni in cui a Kaj sembrava ancora di percepire il marchio ignjs tatuato sul collo. Ricordava quanto sembrasse ruvido al tatto e quanto fosse effettivamente rigido, quando provava a piegare il collo da quella parte. I giorni successivi alla cerimonia non aveva fatto altro che toccarlo, saggiando la resistenza dell’inchiostro nero alle sue unghie. Ne era maledettamente fiera. La fiamma stilizzata degli ignjs era il migliore dei marchi, poco ma sicuro, Dilara poteva anche tenersi le onde dei laekur. I capelli corvini non avrebbero mai coperto il tatuaggio, voleva che tutta Alles vedesse.
E poi l’avevano bandita.
Nessuno diceva mai ai bambini quanto fosse dolorosa la procedura di decolorazione del marchio. Forse avrebbero dovuto, in una sorta di azione preventiva. Ci passava sopra i polpastrelli e non sentiva niente, la sua pelle era tornata morbida come prima, era rimasta solo un’ombra grigia che gridava a tutti la sua condanna. Aveva iniziato a coprirsi, ad avere paura di raccogliere i capelli, a sentire costantemente su di sé lo sguardo accusatore di tutti, anche quando sapeva benissimo che non potevano riconoscerla.
Kaj era stata una persona completamente diversa, prima.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per un nuovo tatuaggio. Per assurdo, il dio Vulkan l’aveva accontentata.
Il simbolo di Peryth era leggermente in rilievo. Il suo nero intenso spiccava sulla carnagione lattea di Kaj come un corvo sulla neve. Si chiese se ci fosse un modo per sbarazzarsene.
Il treno fermò alla stazione Ambra. Un uomo in piedi vicino a lei si spostò per lasciar passare una vecchia e buttò casualmente gli occhi sul braccio di Kaj, che lei si stava sfiorando. Con nonchalance, la ragazza tirò la manica un po’ più giù.
Avrebbe capito? Quell’uomo era salito alla Colluvies esattamente come lei, poteva anche non essere completamente estraneo alle maledizioni. In ogni caso cosa avrebbe potuto fare, chiamare i soldati? L’avrebbero tempestata di domande, costringendola a raccontare tutta la faccenda e facendo sì che arrivasse tardi al lavoro. La reazione del direttore Cole sarebbe stata violenta.
Come diavolo faceva a scherzarci su? Aveva solo due alternative: diventare uno dei mostri del mondo di sotto o morire. Punto. Niente lieto fine, per la Bandita della Terra Ignjs. Non sapeva nemmeno perché non le avessero piantato direttamente una pallottola nel cranio, invece di prolungare all’infinito questa agonia.
Si alzò in piedi un secondo prima che le porte si aprissero sulla stazione di Ellerton Lane.
 
***
 
Cora Rosaleen non ricordava di aver mai preso parte a tre concili in tre giorni. Capiva il terrore dell’Intendente, davvero, ma nessuno credeva più che in quella maniera sarebbero riusciti a risolvere qualcosa. Era il terzo giorno dalla morte di cor Veigar dalla Terra Laekur e la notizia non era stata ancora resa pubblica. Rosaleen capiva anche questo: in tutta la storia di Alles, era la seconda volta che accadeva un fatto simile. La precedente era avvenuta appena quattro mesi prima dello scoppio della Grande Guerra; diffondere una simile notizia avrebbe sicuramente scatenato il panico. Ovviamente gli abitanti di Alles sarebbero stati informati, ma non prima che il colpevole fosse saltato fuori. Peccato che tutti stessero prendendo un grandissimo abbaglio.
«Jalena è stata l’ultima persona a essere vista con… Veigar… mentre lui era ancora… Poi è sparita per ore e perché, per Kona, a nessuno è venuto in mente di interrogarla?» Cora Eyros dalla Terra Laekur aveva posto la medesima domanda anche nelle due sedute precedenti, sempre senza ottenere risposta. Eppure era ovvio. Jalena era una cora e l’Intendente un vigliacco. Ecco la spiegazione. Non che Rosaleen incolpasse davvero la povera Jalena. Quando era stata informata della morte di Veigar, un solo nome mancava all’appello. Il nome di qualcuno che lei, quella notte stessa, aveva visto.
«Senan, ci stiamo sbagliando», disse all’amico.
Fu attenta a sussurrare, in modo che la sua voce non rimbombasse nella sala circolare. L’Intendente sedeva al centro, nello scranno più basso, e godeva di un ottimo udito.
«Ho incontrato Galion quella sera. Scendeva le scale e si comportava in modo stano. Casualmente, dopo non s’è più visto. Credi che sia stata una coincidenza?»
Senan le afferrò un avambraccio. «Per dio, Leen, già che ci sei alzati e diglielo in faccia!»
L’elfo sedeva un paio di scranni sotto di loro, qualche metro alla destra di Sennan. Era l’unico della sua fila e, come al solito, non aveva emesso suono.
Rosaleen fulminò il suo compagno con lo sguardo. «Non mentire, neanche tu ti fidi di lui. Mi ha detto che quella notte sarebbe successo qualcosa di terribile. Come lo saprebbe, se fosse innocente?»
«Preveggenza? Lo sa solo il dio Carrày, che poteri abbia quell’elfo». Rosaleen voleva chiedere per quale motivo allora non si fosse più fatto vedere, ma i toni sempre più alti di Eyros glielo impedirono.
«Cor Veigar merita giustizia!» stava dicendo.
Poverina. Leen non riusciva nemmeno a immaginare come si sarebbe sentita se fosse successo qualcosa a Senan. Eyros era stata allontanata da casa a dodici anni, come tutti loro, dopo essere stata segnalata come possibile candidata dagli insegnanti dell’accademia. Aveva raggiunto Frey insieme a due bambini e una bambina laekur, venendo poi accoppiata a Veigar tramite dei test. Erano cresciuti insieme, erano stati eletti insieme, avevano pronunciato all’unisono i fatidici giuramenti. Insieme avevano rinunciato all’amore e a futuri figli. Insieme avevano abbandonato la propria casa, la propria terra e il proprio cognome per i titoli di cor e cora. Veigar, il legame con la sua terra, il suo migliore amico, era morto.
«Ha ragione, cora, ma non possiamo improvvisarci esperti in faccende del genere». A parlare era stato il generale Noymerin, l’uomo ignjs che comandava le truppe dei guardiani della Torre.
«Allora cosa facciamo? Non possiamo informare i soldati», obiettò cor Aryun dalla Terra Vaya.
«Cora Eyros, mia signora», l’Intendente tossì. «Qual era il nome dell’altro possibile consigliere, il ragazzino che fu scelto insieme a lei?»
«Maelor Lisson», soffiò.
«Sia contattato. Ormai è lui il cor di diritto».
«Era Veigar il cor di diritto». E nessuno seppe cosa rispondere. «Voglio solo che sia fatta giustizia».
Ma una Terra doveva avere due consiglieri. Sempre. Rosaleen tenne a lungo lo sguardo su Galion, prima di sentire se stessa dire «Richiediamo l’intervento dell’Agenzia».
«Possiamo fidarci?», domandò Noymerin.
Rosaleen sapeva che Eyros la stava guardando. Lo sentiva. Si erano sempre trattate con educazione, in tutti quegli anni, senza mai concedersi troppa confidenza. Non sapeva nemmeno se ci fosse davvero fiducia nel loro rapporto, non fino a quel punto. La morte di Veigar, tuttavia, era un fatto troppo grave per perdere tempo con simili sciocchezze.
«Sì. So a chi chiedere, generale».
Tutti annuirono. «E sia», disse cora Eyros.
 
 
***
 
Il suo mentore all’Ordine dei senka plesak soleva dire che il coraggio si manifesta in svariati modi: non è la spada a fare l’eroe. Kaj ricordava allenamenti durante i quali aveva combattuto con le mani legate dietro la schiena, oppure bendata; situazioni in cui aveva davvero guardato la morte in faccia ed era stata costretta a lottare con le unghie e con i denti per uscirne viva. A diciotto anni aveva assaggiato il sapore della paura molte volte.
Eppure mai, mai, un terrore così sordo, irrazionale, animalesco.
Kaj aveva creduto nei senka plesak. In fondo lo faceva ancora. Prima che cadesse tutto a pezzi, era convinta che quella fosse la sua strada. Non era la più dotata dei cadetti, gli esercizi non le riuscivano con facilità, ma era evidente che ci stesse mettendo l’anima. I compiti che le venivano affidati erano un onore, seppur pericolosi, un modo per servire l’Ordine con tutta se stessa e rendere fiero il mentore. Aveva avuto paura, sempre, anche con la felicità che accompagnava ogni singolo livido.
Adesso Kaj non aveva un compito, stava semplicemente morendo.
“Non c’è cura”, aveva detto Nicodemus, "morirai"; perfino il direttore Cole si era impietosito e le aveva concesso la bellezza di  un giorno di riposo.
Lambert le aveva dato una pacca sulla spalla.
Kaj era arrivata alla Colluvies e si era seduta sul divano di casa sua. Non avrebbe saputo dire cosa fosse successo in quelle ventiquattr’ore, ricordava solo di essersi alzata per prendere un po’ d’acqua, poi un ammasso di immagini confuse e di suoni, come se parte di un sogno. Non aveva certo avuto modo di riposarsi. Il sole aveva completato il solito ciclo e lei stava tornando alla base di Ellerton Lane.
«Ci vediamo dopodomani».
«Sì, capo».
“Passerai il tempo che ti resta a servire Alles, non hai molta scelta”.
Quelle parole non dette bastavano a far tremare le gambe di Kaj anche al solo pensiero di rimettere piede là dentro. Però eccola lì, a trascinare i piedi sul pavimento lucido della stazione. Eccola spingere la porta della base. Eccola portare avanti quella messinscena che era diventata la sua vita.
Aveva salutato Simon. Si era fermata a scambiare due chiacchiere con Raavi, che era riuscito a non fare domande circa il suo stato di salute. Klaus non s’era visto, mentre la presenza di Lambert era fin troppo evidente. Pareva essere inchiodato alla scrivania, la nuca rivolta verso di lei, con la schiena che sembrava irradiare una sorta di campo di forza. Kaj dovette fare uno sforzo fisico per non avvicinarsi.
«Il capo dice che gli serve il tuo rapporto», la avvisò Simon. Lambert si accorse della sua presenza e ruotò lievemente la testa. No, non doveva vederla. Non doveva parlarle. Non doveva assolutamente pensare che andasse tutto bene.
«M-me ne o-o-occupo subito». Sono anni che non balbetti così tanto, ci hai fatto caso?
«Glielo d-darò per p-pranzo».
Invece andò in palestra.
 
 
«Patti chiari e amicizia lunga, Kajdena: ti trovi nel bel mezzo del mio rifugio».
Kaj l’aveva vagamente sentito arrivare. Avrebbe voluto suggerire a Klaus di mettere un lucchetto alla porta, già che c’era, ma la base era frequentata principalmente da individui che avrebbero saputo scassinarlo a occhi chiusi. Non era il caso.
«C-credevo fosse pubblica», obiettò. Il laekur l’aveva sorpresa nel bel mezzo di un affondo. Era ancora in quella posizione, gli occhi fissi sul sacco da boxe, quindi non aveva idea di cosa Klaus stesse facendo.
«Quella grande è di tutti, qua vengo solo io. Gli altri dicono che sia una “fonte di distrazione” o qualcosa del genere». Probabilmente alludeva alle grandi pareti a vetrata che davano sul fondo del lago Ellerton. In quel caso, sarebbe stato comprensibile.
«I senka p-plesak si allenano in stanze a m-mosaici colorati. Un danzatore deve imparare a-a non distrarsi m-mai». “Spesso gli occhi stanno dalla parte dei nostri nemici. Per questo dobbiamo saperli ingannare. Devi poterti fidare dei tuoi sensi, cadetto”.
Quella risposta sembrò soddisfare Klaus. Buttò a terra la sacca e stappò una bottiglia d’acqua. «Purtroppo questo rimane il mio rifugio».
«Q-quindi non ti manda L-lambert? Mandalo a c-cagare, se lo vedi».
Ripose il pugnale nel fodero e si sedette. Klaus la guardava divertito, facendole venire voglia di togliergli quel sorrisetto a suon di pugni.
«Se può consolarti, lo faccio già di mio. E no, non mi manda lui. È probabile che non si sia neanche accorto che te la sei presa». Sembrava che il pensiero lo facesse ridere. Le si sedette di fronte, incrociando le gambe.
«Tu sì?»
Inarcò il sopracciglio. «Mi ha raccontato brevemente cos’è successo. Al tuo posto chiunque si sarebbe incazzato, Lambert però proprio non ci arriva. Sprechi il tuo tempo, Kajdena».
«Lui era disposto a lasciarmi m-morire pur di a-arrestare un pirata. Non hai visto come mi ha g-guardato, Klaus, ha davvero riflettuto attentamente sulla p-proposta e tu mi dici che non dovrei p-prendermela?». Klaus la guardò con qualcosa di maledettamente simile alla pena e Kaj desiderò ardentemente di poterlo picchiare.
«Aye. A Lambert Kane importa solo di Lambert Kane. Lascialo perdere».
«Oh d-dèi, strano. C-credevo fosse t-tuo amico».
Ogni tipo di sorriso scomparve dal volto pallido di Klaus. «Lo è. Non credo però che questi siano affari tuoi».
Un ipocrita, come tutti i laekur. «P-però sono affari tuoi se i-io mi arrabbio con lui? L-logico».
Klaus si alzò di scatto e marciò verso la porta. «Sai», disse senza voltarsi, «Raavi mi ha raccomandato di essere accondiscendente con te, ma non credevo fosse giusto. Adesso ho cambiato idea: scivola pure nell’autocommiserazione e incolpa gli altri, se vuoi, sappi però che ti credevo diversa».
Qualcosa scattò dentro di Kaj. Se sul suo braccio non ci fosse stato Peryth, forse avrebbe lasciato correre. Purtroppo per Klaus, non era una giornata sì. Il ragazzo aveva già una mano sulla maniglia quando si ritrovò la manica inchiodata al legno della porta. Per un po’ si sentì solo il vibrare del pugnale di Kaj, ben incastrato tra le venature, poi la ragazza si alzò e andò a riprenderselo. «Scusa, Valrosson. Mi è scappato», disse, orgogliosa di non aver balbettato. Staccò il pugnale dalla porta e lo infilò nel fodero. Klaus parlò con lentezza. «Potevi colpirmi», fece notare. «No. Non colpisco m-mai». Non aveva ancora ferito nessuno con il pugnale di suo padre, non vedeva perché iniziare con quel laekur.
Si era aspettata un insulto, una sfuriata con tanto di uscita plateale. Invece, Klaus si mosse rapido come un’aquila: immobilizzò il polso destro di Kaj con una mano e agguantò il manico del suo pugnale con l’altra. Un momento dopo glielo stava puntando alla gola.
«S-sei pazzo?»
«No. Fammi vedere come combatte uno di quei senka plesak».
 
***
 
«Signore? Il suo Caro Amico è qui per vederla». Era in ritardo. A Caser i ritardatari non erano mai piaciuti e col passare del tempo era addirittura peggiorato. Si celava qualcosa dietro il ritardo dell’Amico? O era solo mancanza di organizzazione? Caser poteva davvero permettersi di sottovalutarlo?
La risposta probabilmente sarebbe stata no, ma quel giorno non aveva le forze di indagare: i rimedi contro l’emicrania non avevano funzionato e sembrava che la testa gli si stesse spaccando in due. In più, era da quella mattina che un fastidioso ticchettio lo disturbava e Caser non riusciva a capire da dove venisse. Aveva chiesto agli adepti, che sostenevano di non sentire nulla. Si era dunque arrangiato da sé, senza però trovare niente. Stava forse impazzendo?
Il Caro Amico entrò nello studio. Pronunciò le parole di rito, raddrizzò la schiena e chiese come mai la luce fosse spenta. Caser rispose di lasciarla com’era; per caso sentiva un ticchettio? No? Allora poteva passare subito al punto, preferibilmente in fretta. L’altro iniziò a parlare con calma, soffermandosi sugli avvenimenti degli ultimi giorni senza mai indugiare. Fu assurdamente dettagliato e impersonale, come al solito. Caser si era interrogato spesso in proposito, turbato soprattutto dalla totale mancanza di sentimenti. Si chiedeva come fosse possibile, se fosse saggio affidarsi a lui per un compito tanto importante? In passato gli era tornato utile e non l’aveva mai tradito, era innegabile, ma ormai non si sentiva più in grado di reggere altre cattive notizie. Sentendo crescere un forte senso di nausea, congedò quasi subito il Caro Amico e chiese affinché gli mandassero Aracnide.
 
Al solito, la Tessitrice aspettava già fuori dalla porta. Caser allontanò leggermente la sedia dal tavolo.
«Servio ut intellegam».
«Sectaris ut servaris, Aracnide». Ogni volta che qualcuno pronunciava la foruma di saluto dell’Hawk, Caser si sentiva lievemente meglio. Era come musica, denso di significato e grondante tutto ciò in cui lui credeva. Aveva un effetto positivo anche se a recitarlo era qualcuno come Aracnide.
I capelli magenta ricadevano scalati poco più su delle spalle. La pelle era perfino più incolore di come Caser la ricordava, tanto da tendere quasi al grigio.  Aspettò che iniziasse il rapporto che le aveva richiesto, invece lei indugiava. Gli occhi scurissimi erano ancora inchiodati sulla porta.
«Non mi fido», disse infine.
«Del nostro Caro Amico?» Aracnide che parlava di fiducia, quella sì che era bella. La Tessitrice annuì.
«Pensi che non creda negli ideali dell’Hawk? È questo che stai insinuando?»
«No, signore, penso che ci creda troppo».
Quindi se n’era accorta anche lei.
«Finché avrà qualcosa da perdere, Aracnide, non ci tradirà. Mi addolora non poter dire lo stesso di te». Questo sembrò scatenare un minimo di reazione. Gli occhi scuri saettarono su di lui, tradendo un lampo di pura antipatia. Caser non voleva piacerle. Aracnide era la più importante tra i suoi alleati, sarebbe stato uno sciocco a sottovalutarla, la simpatia era l’ultima cosa che desiderava da lei. No, a Caser bastava il rispetto. Il timore. Sapeva di avere entrambi, almeno in parte.
«Parlami dell’Isola di Iride e del Monastero».
«Una notizia buona e una cattiva, signore».
«Sentiamo».
«La notizia buona è che abbiamo un nuovo paio di occhi e orecchie al Monastero. Qualcuno di molto vicino alla Somma Sacerdotessa Airlis. Quella cattiva è che gli altri hanno trovato la laekur prima di noi. Pare si trovi a Frey».
Non andava bene, per niente.
«Ci hanno risparmiato un po’ di fatica. Adesso dovremo mobilitarci prima che tentino di farle lasciare la città. Perché lo faranno, come ben sai».
«Certamente. Temo anche che avverrà presto, signore, hanno mandato quel Nioclàs». Caser dovette trattenere un’imprecazione.
«I tuoi contatti nella città autonoma non ne sanno niente?»
«No. Parlano solo di uno certo movimento nella Torre dei Consiglieri. Qualcosa di grave, anche se non hanno ancora rilasciato nessuna comunicazione».
C’erano cose che Aracnide sapeva ma non gli riferiva. Avrebbe potuto giurarci. Avrebbe tanto voluto poter fare a meno di lei.
«Andrai a Frey. Cerca di scoprire il più possibile sulla Torre, non tornare senza notizie. Pare che l’Agenzia abbia una Mara’el». Questo la sorprese. Caser non condivise tutti i dettagli che il Caro Amico gli aveva fornito, solo le informazioni più essenziali. Era certo che Aracnide avrebbe capito l’importanza della questione, infatti così fu. Sarebbe partita quella notte stessa.
Non attese un suo congedo e mosse qualche passo verso la porta. Arrivata quasi alla soglia, si fermò.
«Signore? Cos’è questo ticchettio?»
 
***
 
Qualcuno bussò furiosamente alla porta di casa sua. Distolse lo sguardo dal disegno quasi finito e raddrizzò la schiena, attenta a ogni rumore.
Se è Nioclàs, gli sbatto la porta in faccia. Erano giorni che se lo trovava costantemente tra i piedi. Quel benedetto ragazzo non aveva, tipo, una qualche abitazione?
Evidentemente quella volta era innocente, perché i colpi cessarono dopo qualche secondo. Lui non si sarebbe arreso così in fretta, poco ma sicuro.
Sospirò. Non le piaceva la vita da reclusa che le era stata imposta – le continue visite erano in realtà dei controlli – e avrebbe dato qualsiasi cosa per un giro nella zona commerciale di Frey. Nioclàs però era stato irremovibile: niente gite fino a quando le acque non si sarebbero calmate. Dilara aveva provato a chiedere quando, esattamente, sarebbe successo, ma aveva ricevuto soltanto un’occhiata truce in risposta. Quel ragazzo aveva parecchi problemi – paranoia, un complesso da supereroe, un accento irritante, un pessimo gusto nel vestire e una fastidiosa tendenza da motivatore delle folle – ma al tempo stesso riusciva a farla sentire quasi al sicuro. Forse era un male. Forse significava che l’aveva condizionata così tanto da farle credere di avere bisogno di lui. Per la Dea, l’aveva addirittura convinta a lasciare la città per fuggire chissà dove!
E a cosa stava pensando lei mentre accettava?
Il comunicatore appoggiato sul tavolo vibrò, urtando una delle matite. Dilara lo guardò con odio, decisa a ignorarlo, e tornò al suo disegno. Stava ricopiando la copertina di un libro di leggende laekur, il terzo di una lunga raccolta. Aveva già disegnato Kona e il suo consorte Gaemal, doveva solo perfezionare i capelli della Dea prima di passare allo sfondo. Purtroppo per lei, chiunque fosse dall’altro capo del comunicatore non sembrava avere di meglio da fare.
Irritata, lo agguantò. «Finalmente», gracchiò la voce meccanizzata di Nioclàs.
«Cosa vuoi?»
«Sapere se hai iniziato a fare le valige».
Ringraziò la Dea che il ragazzo non fosse presente, o gli avrebbe tirato un pugno in piena faccia.
«A questo proposito, Nioclàs…», iniziò titubante. «Vorrei chiedere una proroga».
«Una proroga», ripeté lui, come se non conoscesse il significato della parola.
«Ho bisogno di tempo per pensarci», disse con più decisione. Si era preparata per bene il discorso, il fatto che non dovesse nemmeno affrontarlo di persona giocava a suo favore. Sapeva infatti che Nioclàs avrebbe contrattato con una battuta finalizzata a spaventarla, che infatti arrivò: «Dirai così anche a quelli dell’Hawk? "Non potete catturarmi, devo prima riflettere sulla situazione?"»
Dannatamente prevedibile.
«Magari funziona», rispose, colorando un occhio a Gaemal.
Adesso punterà sul senso di colpa.
«E non pensi alle conseguenze? In questo gioco sono coinvolte più persone di quanto tu non possa i-»
Dilara venne distratta da altri colpi sulla porta. Cos’era, una specie di scherzo?
«Perché continui a usare il comunicatore se sei fuori dalla-»
«D-Dilara? Ci sei?»
Solo che non era Nioclàs.
«Devo andare», bisbigliò. Lui protestò, intimandole di non riattaccare, e Dilara l’avrebbe veramente mandato al mondo di sotto, se la testa corvina di Kaj non fosse comparsa nel suo campo visivo un nanosecondo prima.
«La porta era aperta», spiegò. Se Nioclàs l’avesse saputo, gli sarebbe venuto un infarto.
«Hilma, ci riaggiorniamo!», trillò un po’ troppo allegramente, poi chiuse la comunicazione. Kaj si era già seduta sul divano e aveva sollevato dal tavolino uno dei libri della raccolta. «Hilma, sempre la solita ipocondriaca. Adesso crede di aver preso una rara infezione dell’arcipelago di Ur. Sai com’è», si sentì in dovere di spiegare Dilara. Evidentemente Kaj lo sapeva, perché sorrise.
«Come mai questa visita?»
«Ho un p-paio di ore libere e sono passata di qua». Due ore libere per Kaj erano una novità, soprattutto nell’ultimo periodo. Erano settimane che Dilara non riusciva a vederla per più di mezz'ora di fila. Quando la vedeva.  Cogliendo l’occasione, ebbe modo di osservarla meglio. Solo allora notò un segno rossastro sul mento, stranamente simile all’inizio di un livido. Kaj però dichiarò di avere avuto un incidente in palestra e lei ci credette. C’era qualcosa di strano nella sua amica. Aveva lo sguardo spento e la voce forzata, come se stesse recitando una parte. Le continue domande di circostanza ne erano una prova.
«Tu, piuttosto? Non dovresti essere all’accademia superiore?»
Sì, se non fossi agli arresti domiciliari.
«Ho dimenticato di puntare la sveglia e mi sono pesa una piccola vacanza». Proprio in quel momento ebbe la netta sensazione che stessero mentendo entrambe. Com'erano arrivate a quel punto?
«Hai impegni per la Festa d’autunno? C’è questo mio c-collega che ha invitato tutti a un evento e… se vuoi vieni, ecco, visto che non usciamo da tanto». Era la frase più lunga che le sentisse pronunciare da tanto tempo. Dilara ci pensò. Nioclàs l’avrebbe reputata una pessima idea, peccato che non fosse né suo padre né il suo guardiano. Kaj, invece, era la sua introversa migliore amica.
«Un collega?»
L’altra alzò gli occhi al cielo. «Non fare quella faccia. È pieno di uomini, in azienda». Già, l’azienda. Il misterioso posto che occupava la vita di Kaj, impegnandola in chissà quali scambi commerciali in ogni angolo di Alles. Probabile che non si occupasse direttamente delle vendite, essendo una Bandita, ma che sfruttassero ugualmente la sua conoscenza dell'ignjs.
«È carino?»
«Ma possibile che pensi solo a quello?»
Dilara si finse offesa. «Non è vero! Semplicemente non ho delle fette di salame sugli occhi, io».
«Come il famoso v-vaya coi capelli ricci? Quello che “no, Kaj, non puoi capire?”»
Decise di sorvolare sulla pessima imitazione dell’accento laekur, che lei tra l’altro non aveva nemmeno, perché per un attimo le era sembrato di rivedere la vecchia Kaj.
«È perché non l’hai ancora visto. Altrimenti fidati che mi daresti ragione».
«Guarda, se non dicessi così tutte le volte f-forse ti crederei».
«Qui stiamo divagando. Non stavi forse parlando di un certo collega di sesso maschile?»
«No».
«Dea, Kaj, sei impossibile!»
«E lui è t-tutto tuo, se vuoi».
«Non ci fai neanche un pensierino?»
«Non è lui ch-» Kaj sembrò rendersi conto solo in quel momento di quello che stava dicendo e avvampò.  Cercò disperatamente di cambiare argomento, ma il danno ormai era fatto.
«Cos’hai detto?! Kajdena…?»
Scattò in piedi come una molla. «Devo tornare al lavoro!»
«Non fare un passo! Ci sarà anche lui alla festa?» La sua amica si avviò verso la porta a grandi passi.
«Verrò, Kaj, eccome se verrò!»
«Ciao, Dilara
«Quasi quasi mi sei mancata!»
E sentì la porta sbattere.
Sorrise. Kajdena Jozic che la invitava a una festa, il mondo aveva iniziato a girare al contrario.
Non le restava che avvisare Nioclàs del piccolo cambio di programma…





 

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