Forse poteva andare peggio: il diario di Kenny

di Luine
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo: Un diario per cominciare ***
Capitolo 2: *** Presentazioni ***
Capitolo 3: *** I Cavalieri della Tavola Rotonda ***
Capitolo 4: *** Vita di caserma ***
Capitolo 5: *** Le persone più a posto ***
Capitolo 6: *** Una prova di resistenza ***
Capitolo 7: *** Hangar 14 ***
Capitolo 8: *** Quando tuo marito va a comprare le sigarette ***
Capitolo 9: *** Avanzi di... galera ***
Capitolo 10: *** Arale Holmes ***
Capitolo 11: *** Domande imbarazzanti ***
Capitolo 12: *** Non c'è mai un attimo di tregua ***
Capitolo 13: *** Una giornata da dimenticare ***
Capitolo 14: *** Il quinto incomodo ***
Capitolo 15: *** Le brutte notizie non arrivano mai da sole... e portano qualcuno a cena ***
Capitolo 16: *** Una gita fuori programma ***
Capitolo 17: *** Casa Satan ***
Capitolo 18: *** Il racconto di Kenpachi ***
Capitolo 19: *** Un brusco ritorno ***
Capitolo 20: *** Pan vuole scappare... e Arale non vuole mollare ***
Capitolo 21: *** Riunione in biblioteca ***



Capitolo 1
*** Prologo: Un diario per cominciare ***


Prologo

Un diario per cominciare


Quando mi hanno regalato questo diario per il mio dodicesimo compleanno, non credevo che mi sarebbe stato tanto utile. Credevo che sarebbe rimasto intonso come quando l'ho scartato. E, invece, eccomi qui a scrivervi sopra e a raccontare la mia (strana) vita.

Mi chiamo Ken Iccijojji, vivo a Tokyo con i miei genitori, Videl e Gohan, e con mia sorella maggiore, Pan.

Cosa c'è da dire su di loro? Bah, un sacco di cose...

Forse dovrei partire col dire che nella famiglia di mio padre, da secoli, si insegnano e si conoscono tutte le arti marziali.

Mio nonno, Goku Iccijojji*, è il migliore del mondo. Ha sempre tentato di far avvicinare mio padre alla sua passione, ma non ci è mai riuscito: papà ha, penso da sempre, una passione sviscerata per tutto quello che è musica e adora il Va’ Pensiero di Verdi, tanto che quando compone lo ascolta e riascolta senza fermarsi mai.

In famiglia detestiamo questo suo pallino: è fastidioso avere a che fare con la stessa solfa per tutta la giornata (tranne quando mangiamo, ma questo è stato un compromesso con la mamma che aveva minacciato il divorzio). E non possiamo nemmeno convincerlo ad ascoltarla in cuffia, perché poi dice che interrompiamo il suo flusso creativo.

«Secondo me,» ha detto Pan una volta che ci eravamo rotti le scatole tutti quanti. «ha bisogno di farsi vedere da uno bravo.»

«Oh, Pan!» l'ha rimproverata la mamma. «Non posso mica portarcelo di peso!»

«Sarebbe un'idea niente male...»

«E poi chi la sente tua nonna?»

Già, nonna Kiki. Nonna Kiki è tutto l'opposto del nonno che è molto comprensivo e cordiale. Lei è ambiziosa e indisponente. E anche un po' isterica.

Non è mai stata molto felice di avere un figlio musicista (ha sempre sognato che il suo primogenito diventasse uno studioso o un letterato). Nei primi tempi in cui papà si è chiuso in conservatorio, non gli ha mai parlato e ha fatto finta di non avere un figlio.

«Non credo» ha detto una volta la mamma. «che tua nonna gli parlerebbe ancora, se nessuno suonasse la roba di vostro padre, io ve lo dico sinceramente.»

«Ma non credo...» avevo tentato di dire, ma mia sorella mi ha sbranato (a parole).

«Certo.» ha risposto, inviperita. «Ecco il buonista della situazione!»

«Che vuol dire buonista?»

Nessuno mi ha risposto e sto ancora col dubbio.

Il nonno, invece, è stato molto meno scontroso della nonna e ha preso la cosa con filosofia. Così non è stato papà ad aver sfondato come lottatore, ma zio Goten sì. Adesso vive in una villa con piscina che non è niente male e si gode tutti i suoi soldi.

I nonni vivono in campagna, in un posto dimenticato da Dio: i monti Paoz. Al contrario di ogni aspettativa, riescono a venire a trovarci una volta l'anno, solitamente per le feste, con grande disappunto di mia madre: non è contenta in nessuna di queste occasioni, perché con nonna Kiki si trova male; litigano sempre per via della casa, dei figli, del marito... insomma, per tutto ciò che riguarda la vita casalinga.

Non sarebbe male se non urlassero come pazze scatenate! Alla fine è normale che io e mia sorella prendiamo le loro brutte abitudini e diventiamo isterici come loro.

Ma non è ancora finita. Perché questi sono solo i parenti di papà!

Ho anche un altro nonno, il papà di mamma (la nonna è morta prima che io nascessi): è il “famoso” combattente di arti marziali Al Satan. In realtà è un fallito, ma nessuno, nemmeno la mamma, glielo fa notare, soprattutto quando si mette a elucubrare, dicendo di essere un grande.

Papà non litiga mai con lui, anzi: si ignorano a vicenda.

Ma anche per questo c'è un motivo: papà e mamma si sono conosciuti alle superiori ed è stato amore a prima vista. Solo che nonno Satan non è mai molto convinto del loro matrimonio, perché papà voleva fare il musicista e il compositore e il nonno è convinto che nella vita bisogna sapersi difendere.

Per evitare che sua figlia vivesse nella paura, ha tirato su Pan a forza di pugni e cazzotti, anche se papà voleva fargli notare che non tutti quelli che tengono famiglia sono cintura nera.

Niente da dire, non c'è mai riuscito.

Pan, però, ha imparato bene la filosofia del nonno, tanto che, all’età di sei anni, era già cintura nera con la forza di un lottatore di sumo sovrappeso.

Io, al contrario suo, non sono mai stato portato per la lotta: la prima volta che ho provato ad avvicinarmi a questa disciplina mi sono spaccato il naso e un braccio, tutto merito dell'“entusiasmo”, come disse il nonno, della mia sorellona.

«Papà!» mi ricordo che la mamma ha gridato, portandomi via dalla mischia. «Che cavolo fai? Kenny è troppo delicato per queste cose! Sei impazzito a fargli fare questi giochi pericolosi?»

Io mi trovavo pienamente d'accordo, ma questo ha decretato la fine dei miei rapporti, non solo con il nonno, ma anche con mia sorella.

Mi sono dimenticato di dire che il nonno, povero in canna, si è sistemato in pianta stabile a casa nostra.

Mia sorella Pan è il tipo più strano di sorella che si possa pensare: odia la scuola e lo studio e dice che tutte le materie sono inutili e uguali, tranne l'educazione fisica.

Anche se è stata bocciata una volta ed è finita nella mia classe, la sua voglia di studiare è ridotta a zero. La mamma, quando ha visto i quadri, ha scoperto la cosa ed è andata dai professori a dire che non avevano mai capito Pan e che erano stati ingiusti con lei.

Il bello è stato che mia sorella stessa aveva ammesso di non aver mai fatto «un cazzo».

Questa è la mia famiglia.

Rileggendo queste poche righe, mi vien da pensare che siamo parecchio strani.

Ma ora passiamo al racconto che volevo fare da che ho aperto queste pagine, che è cominciato non più tardi di due giorni fa: era l’ultimo giorno di scuola e quasi tutti erano in cortile a giocare, tranne la mia classe perché stavamo svolgendo dei questionari che ci servivano per capire quali scuole medie erano più adatte a noi.

I test sono sempre difficili ed è quasi impossibile sperare di passarli con una bassa preparazione. Purtroppo non sono mai stato una cima (soprattutto in matematica e scienze) e mi sono trovato malissimo. Pan, invece, non ha fatto neanche un commento, liquidandomi con il più classico: «Non me ne frega un cazzo della scuola.»

Insomma, due giorni fa ero a scuola, al mio banco in terzultima fila, al centro della classe, e segnavo crocette quasi a caso, spaventato dal giudizio e dallo sguardo del professor Kagetano.

Lui sembra sapere quando non sai niente e ti passa vicino più e più volte, a metterti ansia. Deve avere qualche dote naturale.

Il mio compagno di banco, al contrario mio, è stato velocissimo e ha consegnato il tutto dopo dieci minuti, beccandosi le sue lodi.

Ricordo di aver cercato di guardare sul foglio in mano al professore, ma lui accorgendosene, l'ha nascosto sotto l'ascella, impedendomi di copiare.

Così, assolutamente incapace di svolgere il test, mi sono girato a guardarmi intorno e ho visto Pan, due posti davanti a me, vicino alla finestra.

Non stava facendo niente nemmeno lei, o meglio, qualcosa la faceva, ma non era il compito: lanciava e riprendeva una pallina di carta, con l'aria concentrata di chi sta facendo un esperimento di grande rilevanza scientifica.

«Ma bene, Iccijojji!» ha esclamato il professore, acido, facendomi sussultare. Ma non parlava con me, bensì con Pan. «Dov'è il tuo compito?»

Pan lo ha guardato, incuriosita. «Che?» ha chiesto.

Il professore ha battuto la mano sul suo banco due o tre volte e il resto della classe, incuriosito, ha alzato lo sguardo su di loro.

«Il compito!» ha ripetuto Kagetano, in un ringhio.

«Eccolo!» Pan ha riafferrato per l'ultima volta la pallina e gliel'ha allungata. Non potevo vedere la sua faccia, ma dal sorriso sornione apparso sulla bocca di mia sorella riuscivo a pensare ad una faccia sconvolta.

Ho cominciato a tremare di paura, quando mia sorella si è alzata senza permesso.

Non so se è chiaro il tipo di persona che è il professor Kagetano: un omaccione alto quasi due metri, con spalle larghe uno e una stazza da lottatore di sumo... faccio ben immaginare.

Non consiglierei a nessuno di farlo arrabbiare perché è in grado di lanciare certe urla rilevabili dai sismografi.

Ed è anche in grado di dare punizioni che sfiorano l'assurdo... l'ultima volta ha chiesto a un mio compagno di pulire lo sporco di vernice a terra con l'aiuto di un pennarello, per fargli capire (così disse) cos'era la vera fatica, perché lui, non studiando, dava molto da fare ai professori.

«Dove stai andando, Iccijojji?» ha chiesto, quando Pan lo ha aggirato, ringhiando come un animale rabbioso.

«Fuori!» ha risposto Pan, con estrema tranquillità, come se la domanda fosse stata del tutto fuori luogo.

«Mettiti subito a sedere!» ha ordinato Kagetano, alzando la voce e portandola ad una tonalità che avrebbe potuto rompere la barriera del suono.

«Non ci penso proprio!»

Ricordo che la penna mi tremava in mano e, in tutta la classe, non si sentiva volare una sola mosca. Il fiato di tutti era sospeso, perfino quello del mio compagno di banco, che mi ha lanciato, ricambiato, un'occhiata preoccupata.

«Dici che... adesso urla?» mi ha chiesto.

«Non dirlo!» gli ho risposto, spaventato, portandomi le mani ai lati della testa.

«AL SUO POSTO!» ha gridato il professore, facendo tremare i muri. Tutti, a quel punto, siamo balzati sotto al banco. Ma Pan si era avvicinata ancora di più alla porta, senza preoccuparsi di niente.

Ancora tremando e con le mani sulla testa, guardavo le uniche due paia di piedi che non erano nascoste dai miei compagni sotto i banchi, piedi che si muovevano verso la porta.

«FERMATI SUBITO, PICCOLA PESTE!»

«IL TERREMOTO!» ho gridato, pieno di terrore.

«Non credo che sia il terremoto!» ha detto il mio compagno, ma anche lui con la testa sotto il banco e il volto contratto in una smorfia di paura incontrollabile. «Voglio la mamma!»

Pan, intanto, aveva aperto la porta della classe, ma, a discapito di tutte le mie speranze, Kagetano si è gettato su di lei e l'ha strattonata verso l'interno.

Lei si è divincolata, ha urlato come una pazza e, dopo una breve colluttazione, lo ha preso di peso per il colletto della camicia e per la cintura dei pantaloni. L’ha lanciato sulla cattedra, come si potrebbe fare con una bambola. Il professore ha battuto la testa nello spigolo e non si è più mosso.

L'urlo da sotto i banchi è stato ben udibile, penso, anche da Pechino.

«E' morto!» ha gridato qualcuno.

Una professoressa, sentendo il catafascio della cattedra che si spaccava in due, è arrivata di corsa, cercando di ristabilire l'ordine e la calma. Pan era sparita.

Ci abbiamo messo un po' a rialzarci, tutti quanti. Alcuni piangevano, altri tremavano ancora. Io e il mio compagno ci stringevamo la mano come i primi anni, quando ancora dovevamo uscire a coppie di due e mano nella mano.

E, alzandoci, abbiamo visto il terribile spettacolo provocato da Pan: il povero Kagetano accasciato accanto alla cattedra spezzata e un rivolo di sangue che gli colava dalla fronte.

Quel pover’uomo è stato portato in infermeria dall'infermiere e dal professore di educazione fisica, mentre la professoressa che ci aveva calmati, rimaneva a sorvegliarci, ma ha fatto una fatica madornale per rimetterci tutti a posto.

«Chi è stato?»

Tutti abbiamo abbassato la testa. Io e il mio compagno di banco ci siamo lasciati andare e nessuno dei due osava guardare noi o gli altri.

«Insomma, come ha fatto Kagetano a ridursi in quel modo?» continuava la professoressa.

«E' stata Pan Iccijojji.» è stata la risposta stridula di una mia compagna a primo banco. «L'ha fatto lei...»

«E dov'è adesso?»

«Non lo so...»

Ed effettivamente non lo sapeva nessuno. La professoressa ha mandato due di noi a cercarla.

L'ho trovata io, all'ora di uscita, appoggiata al muro di cinta della scuola, con il walkman alle orecchie, tranquilla e allegra come non la vedevo da tempo.

«Non andiamo a vedere come sta il professore?» le ho chiesto, titubante.

«Ma anche no!» ha risposto, come se avessi detto una grandissima scemenza. «Andiamo, invece di sparare stronzate senza motivo!»

«E se fosse morto?»

«Che palle!» ha detto. «Senti, signor perfettino leccaculo, vuoi muovere quelle chiappe flaccide?»

«E se ci inseguono?» ho insistito. Mi sono guardato alle spalle: mi aspettavo un'orda di poliziotti che ci correva dietro, con i manganelli alzati, le pistole puntate e che ci portava in galera per aver ucciso il professore. Giuro, avevo cominciato a credere che fosse morto e che questa sua decisione di non andarlo a trovare fosse perché sapeva.

Lei ha alzato gli occhi al cielo.

«E piantala!» mi ha preso per una spalla e mi ha trascinato per tutta la strada, fino a casa, anche se tentavo di protestare.

Quando siamo stati sul cancello del giardino della nostra villetta bianca e viola, mi ha finalmente lasciato andare e mi sono dovuto reggere alla staccionata per non cadere.

«Senti, Pan...»

«Che cazzo vuoi?» ha sbottato lei, lasciando inorridite due vecchiette, nostre vicine, che portavano fuori i loro cani.

«Forse avresti dovuto andare dal preside!»

Mi aspettavo uno scapaccione, ma Pan ha solo aperto il cancello.

«Stronzate! Poi mi avrebbe espulso!» La paura che Kagetano fosse morto cresceva sempre di più in me. «Ed essere espulsi l'ultimo giorno di scuola è una gran perdita di tempo!»

«Ma...» ho tentato di parlare, ma Pan mi ha guardato malissimo.

«Ora, se non la pianti di aprire quella fogna, perfettino paraculo, te lo spacco il culo, capito?» mi ha puntato un dito contro. Ho deglutito: lei, essendo più alta di me di ben sei centimetri, mi mette una certa soggezione. Il suo pregio, poi, è che mantiene sempre le promesse.

Così siamo rientrati a casa, ho salutato, mentre Pan ha lanciato un grugnito a cui la mamma ha risposto, dal salotto, con un «ciao, ragazzi» distratto: era l'ora di Beautiful e non si sarebbe persa le vicende di Brook e compagnia nemmeno se le fosse andato in fiamme il divano.

Una volta, prima del suo primo esaurimento nervoso, la mamma era parrucchiera, poi ha liquidato l’attività ed è diventata casalinga a tempo pieno.

In alcuni momenti, è meglio evitare di starle accanto, se non si vuole finire male... e non dico per scherzo. Mia madre è più strana di Pan, il che è tutto dire.

Per fortuna io e mia sorella abbiamo una camera ciascuno e non ci scontriamo mai per questioni di territorio, a parte quando lei entra senza bussare per prendermi i giornalini e per restituirmeli distrutti.

Qualche minuto dopo che ho chiuso la porta, è arrivata una telefonata.

Mi sono fiondato sulle scale: ero convinto che era la polizia e che ci avvertisse della morte del professore.

La mamma, però, non mi ha fatto capire niente di quello che succedeva, ha più che altro ascoltato, perché ha detto poco meno di «Grazie» e «Buonasera».

Quando ha riattaccato, l'ho sentita alzarsi dal divano con passo pesante e si è avvicinata alle scale. Ha cominciato a urlare, tanto che mi sono convinto a scappare in camera mia e a richiudere la porta. Tanto era lo stesso che se fosse stata aperta.

«PAN!»

«Cosa c’è?» ha risposto lei, sbadigliando e uscendo dalla sua camera. «Ti ha morso Sparky?»

Sparky è la sua tarantola che, ogni tanto, lascia libera di muoversi per casa.

«SPARKY?» urlava la mamma. «TE LO DO IO SPARKY! PERCHE’ HAI SPACCATO LA TESTA DEL TUO PROFESSORE, OGGI, EH?»

Era morto. Era ufficiale.

«Ma perché rompeva i cosiddetti coglioni!» ha detto Pan, camminando a passo pesante davanti alla mia porta, avvicinandosi alle scale e difendendo le sue ragioni.

«LUI HA DETTO CHE LUI HA SOLO TENTATO DI FARTI SEDERE! SEI STATA TU A SBATTERGLI LA TESTA NELLA CATTEDRA!»

«MA CERTO! COME NO! ADESSO E’ SEMPRE COLPA DI PAN, QUALSIASI COSA SUCCEDA! PURE SE IL PROFESSORE E’ UN MINCHIONE E NON SA METTERE I PIEDI UNO DAVANTI ALL’ALTRO E’ COLPA MIA! MA GUARDA TU CHE MONDO DI MERDA!»

La mamma non ha voluto sentire ragioni e ha continuato a sbraitare come una matta, mentre Pan tornava in camera sua e si serrava, accendendo lo stereo a tutto volume.

A cena, ho scoperto che papà e mamma sono stati convocati dal preside e che, per fortuna, Kagetano era in piena salute. La notizia mi ha aperto lo stomaco e mi ha dato modo di gustarmi quei panini vuoti che la mamma ci aveva rifilato per punizione.

«Ma perché anche noi?» si è lamentato papà.

«Perché altrimenti che punizione sarebbe?» ha replicato la mamma, lanciandogli occhiatacce.

«La punizione sarebbe se lei mangiasse panini vuoti e noi imbottiti.»

«Ma che ne sai tu di pedagogia, Gohan?» ha sbuffato la mamma. Papà ha fatto spallucce, deciso di non rispondere e si è infilato in bocca il suo panino.

Il nonno, intanto, elogiava il lavoro di mia sorella.

«Andiamo, racconta al tuo vecchio nonno come lo hai steso!»

Pan lo ha guardato con orgoglio. «Semplice! Allora, eravamo insieme in quella giungla. Un serpente al mio fianco e un... ehm... licantropo dall'altro.»

«Un licantropo?» ha replicato papà, una volta inghiottito. «Ma... i licantropi non sono quelle creature mezze uomini e mezze lupi che non esistono?»

«Papà, ma tu che ne sai di giungle?» ha risposto Pan.

Papà ha fatto spallucce, deciso di non rispondere e si è infilato in bocca un secondo panino.

«Pan, ti prego, ora basta!» ha esclamato la mamma, furibonda, quando mia sorella era arrivata a raccontare di due coyote che le mordevano una gamba.

«Che palle!» ha sbuffato lei, prima di riprendere a mangiare l'ultimo panino rimasto in tavola.

Dopo cena, verso le dieci, mentre uscivo dal bagno, ho sentito la mamma e papà che parlavano dalla loro camera da letto. Mi sono accucciato e ho messo un orecchio sulla porta chiusa.

«Tesoro, Pan è in una fase di cambiamento! Forse l’anno prossimo Kenny si comporterà allo stesso modo!» stava dicendo papà. Della cosa ho qualche dubbio: non sono mica tanto convinto di riuscire a prendere di peso un professore! E, soprattutto, quel professore.

«Gohan, non dire sciocchezze!» ha detto, infatti, la mamma. «Pan è in una fase di cambiamento dall’età di tre anni, è possibile che ancora non sia cambiata?»

«Dai, domani andremo a scuola e sapremo qualcosa di più da questo professore... Cagata o come cavolo si chiama!»

«Kagatoma!» ha detto la mamma, con tono di rimprovero. «Possibile che non ti ricordi mai il nome di quel povero professore di lingua?»

Peccato che non si chiami neanche Kagatoma...

«Sì, va bene... Io non so che fare con quella bambina! E' tutta colpa di tuo padre!» ha tagliato corto papà.

«Mio padre non c'entra proprio niente!»

«Come no! Infatti non le ha mai detto di farsi strada a suon di pugni, vero? E stasera non le ha dato del genio!»

«MA COSA NE SAI TU?»

«Che cazzo fai, lingua-a-cotoletta?» ha chiesto mia sorella, vedendomi accovacciato con un orecchio sulla porta. Le ho chiesto di fare silenzio, mettendomi un dito davanti alla bocca, ma lei mi tirato un calcio nel sedere. «Spione!» ha detto e si è accovacciata al posto mio, mentre mi massaggiavo il mio povero sedere.

Ho deciso di dileguarmi in camera mia e di lasciar perdere. Ormai la giornata era finita.


Il giorno dopo...


Ieri mattina, quando mi sono svegliato, ho scoperto che io e Pan eravamo soli in casa. La mamma, che era andata a scuola con papà, aveva messo in forno la colazione perché si mantenesse calda. Nonno Satan, probabilmente, era andato in palestra e quindi eravamo proprio soli.

Pan, che era seduta al tavolo, ha fatto finta di non vedermi e ha continuato a mangiare quello che aveva davanti (che non era poco). Mi sono seduto anche io e ho preso una grossa tazza di muesli; mia sorella, non ho capito perché, non ha gradito il gesto, ha urlato: «Giù le mani!» e ha battuto il pugno sulla tazza piena di latte, schizzandomelo tutto addosso. Purtroppo, il suo colpo è stato così forte da rompere non solo la tazza che mi ero preso, ma anche tutto il tavolo: l'aveva spaccato in due, facendo, in questo modo, cadere rovinosamente a terra tutto quello che c’era stato sopra.

«Simpatico...» ha detto lei, guardandosi la mano arrossata. «Davvero simpatico!»

«E adesso?»

«E adesso ciccia, paramecio!» si è alzata ed è uscita dalla cucina.

E' tornata in camera sua, dove ha messo la sua musica assordante a tutto volume. I vicini la detestano per questo. Ma la follia per la musica è una chiara eredità di papà... anche se papà è molto meno rumoroso.

Sono rimasto un bel po' seduto sulla mia sedia, lo stomaco brontolante e nella mente la domanda più pressante: chi avrebbe rimesso tutto a posto in tempi decenti, in modo che la mamma non venisse a saperne niente?

La mamma è gelosissima della sua cucina: è la sua stanza preferita, quella che non lascerebbe nemmeno se fosse costretta da un incendio. Ma, tra tutte le cose che potrebbe amare della cucina, le stoviglie sono quelle che ama di più.

Non osavo immaginare cosa avrebbe potuto fare, vedendone un paio a terra e in cocci, peraltro.

Mi sono armato di coraggio, palo per lavare, scopa e strofinaccio. Ho cominciato con la scopa, ma ho fatto solo più casino, sporcando anche zone che erano rimaste intonse. E sulle spazzole della scopa erano anche rimasti dei cereali.

Mi chiedo come fa mia mamma a far risplendere tutto come uno specchio, anche quando la casa è ridotta a un letamaio e sembra impossibile da pulire. Avevo fatto il possibile, ma il latte era ora sparso per tutta la cucina e le stoviglie si erano sminuzzate anche di più, perché, mentre tentavo di prenderne qualcuna con le mani, ne spezzavo altre sotto i piedi.

Avevo, tra le altre cose, tentato di portare fuori il tavolo, ma ho ottenuto solo di incastrarlo nella porta che dà sul retro del giardino.

Mentre cercavo di liberarla, sono rientrati i miei genitori. Per la paura, ho tentato di spingere un altro po' il tavolo, sperando che uscisse e, così, una sua gamba mi è rimasta in mano.

«Forse il signor Kagatoma ha ragione: la nuova scuola sperimentale dovrebbe essere buona per Pan!» stava dicendo la mamma. «Speriamo che abbiano mangiato!»

È entrata in cucina e mi ha visto con quella gamba del tavolo in mano, il tavolo incastrato nella porta e il latte cosparso per la sua adorata cucina. La scena potrebbe sembrare divertente, ma era drammatica.

«Che è successo?» ha gridato, sgranando gli occhi, alla vista di quel pandemonio.

«Ecco, vedi...» non sapevo davvero cosa dire. Che potevo inventare? Potevo dirle la verità? Chi mai mi avrebbe creduto?

«Mamma!» ha gridato Pan, scendendo le scale di corsa. Non mi ero neanche accorto che la sua musica assordante si era zittita. «Kenny è un idiota! Si era messo i pattini in casa ed è caduto sul tavolo, mentre io stavo beatamente facendo colazione! Che imbecille sadico! Voleva dare la colpa a me, pure! Che stronzo!»

Dalla faccia che ha fatto, ho capito che la mamma non ha creduto a nemmeno una parola.

«E dove sono i pattini?» ha chiesto, inviperita.

«Chiedilo a lui!» ha risposto Pan, indicandomi. «Io che ne so? Voglio dire... non ho voglia di impicciarmi nei suoi affari! Che ne dici di dargli una bella punizione? Una di quelle che non dimenticherà per il resto della sua vita? E guarda come ha ridotto quel povero tavolo! Ha anche una gamba in mano!»

Pan sorrideva maliziosamente, guardandomi. Ha, quindi, guardato la mamma con finta aria innocente, mentre io gettavo quel pezzo di legno che mi incriminava.

Papà guardava prima Pan, poi me, dubbioso.

«Videl... ma... che è successo?»

«CHE NE SO IO? CHIEDILO AI TUOI FIGLI! C'ERANO LORO IN CASA!»

Papà annuiva, preoccupato. «Sembra che sia passato un ciclone!» ha esclamato. «Come ha fatto il tavolo a finire nella porta?»

«Ma è stato Kenny, chiaramente!» ha detto Pan.

«Non ti credo, Pan!» è stato il commento della mamma.

«Ma... ma se io ero di sopra!»

Ho annuito. «Volevo portarlo fuori!» ho detto. «Era rotto e...»

«E CHI l'ha rotto, Kenny?» mi ha chiesto mia madre, in tono stridulo.

«Ecco...»

«Hai messo i pattini?»

Ho guardato Pan che mi faceva vedere i pugni.

«Noi non li abbiamo nemmeno i pattini, mamma...» le ho ricordato. «Tu non ce li hai mai voluti comprare...»

«Ma...» Pan sembrava un pesce fuor d'acqua e aveva fatto cadere le braccia lungo i fianchi, incredula. Mi ha indicato. «Sta dicendo stronzate! Mamma, sta dicendo un mucchio di stronzate esagerate!»

«No... aspettate... io questa cosa me la ricordo!» ha esclamato papà, grattandosi il mento. «Sì, Videl, Kenny ha ragione! Tu non glieli hai mai comprati i pattini perché avevi paura che si rompessero il sedere e... mi stavo ascoltando per la quattordicesima volta quell'aria divina che è il Va' Pensiero e...»

«VA BENE, VA BENE!» ha gridato mamma. «PAN, KENNY, ANDATE IN CAMERA VOSTRA. SIETE IN PUNIZIONE FINO ALLA FINE DEL SECOLO!»

«Ma...» questa volta abbiamo tentato di protestare entrambi.

«NIENTE MA! ANDATE SUBITO DI SOPRA!»

Stranamente, mia sorella non ha dato in escandescenze e, anzi, ha preferito andare subito di sopra, mentre io ho attraversato la cucina e, una volta sulla porta, la mamma mi ha subito dato uno scapaccione sulla nuca, dicendo che mi dovevo vergognare del mio orribile comportamento.

Mentre salivo, Pan mi ha aspettato su per le scale e mi ha tirato un altro scapaccione sulla nuca. «Idiota!» ha detto e si è di nuovo chiusa in camera.

Ho passato praticamente la giornata a leggere fogli di fumetti andati perduti, mentre mamma e papà discutevano animatamente in cucina. I rumori della porta che veniva liberata dal tavolo e dei cocci che venivano raccolti facevano da contorno alle loro voci decisamente troppo alte. Figuriamoci poi che bel concertino che è venuto fuori, non appena è arrivato il nonno che ha subito preso le difese di Pan, dicendo che ero io ad aver mentito e Pan ad avermi visto coi pattini.

«PAPÀ NON TI CI METTERE PURE TU, ADESSO!» ha gridato mamma. «NON CI SONO PATTINI IN QUESTA CASA!»

Fortunatamente, quando le vivande sono state pronte (ed erano le due e mezza), le urla erano completamente cessate e la pace era tornata in casa Iccijojji. Dopo uno strano pic-nic in cucina, la mamma non ha nemmeno sparecchiato che ha guardato sia me che Pan con aria grave.

«Andate in salotto e sedetevi: devo dire una cosa importante a tutti e due!»

Io e Pan avevamo una faccia abbastanza preoccupata: andare in salotto ci ha sempre messo in soggezione, sarà perché quando ci andiamo tutti insieme per parlare, è per qualcosa di grave o molto solenne, a volte tutte e due le cose, ma insomma, è sempre un po' preoccupante, pure per Pan, anche se tenta di sembrare spavalda.

Ieri ci volevano parlare di quello che il professore aveva detto a lei e papà.

Papà, mamma e nonno si sono seduti sul divano, mentre io e Pan sulle poltrone. Ci guardavano come se avessimo delle bombe in mano e avessimo minacciato di farle esplodere da un momento all'altro. Non mi è piaciuto che i miei genitori mi squadrassero in quel modo: mi sono sentito molto in colpa.

Mamma ha inspirato più volte, poi si è rivolta a mia sorella:

«Pan, sappiamo che fai molta fatica ad ambientarti, ad avere degli amici e ad essere gentile col tuo prossimo. Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Kagatoma...»

«Mamma...» ho cercato di dirle che il prof non si chiama Kagatoma, ma lei mi ha ordinato di non interromperla più. Ho annuito.

«Ha detto che, per le tue attitudini, dovresti frequentare una scuola per ragazzi difficili... me ne ha consigliata una sperimentale. Prendono ragazzi dai dodici anni in su, è una scuola fuori città, aperta già da vent’anni, un po’ fuori mano... un collegio. Sai, dormi, mangi, studi lì nove mesi l’anno e ritorni a casa solo per le vacanze natalizie, pasquali ed estive!»

Pan ha ascoltato fino in fondo questa descrizione con fare scettico. «Quindi... mi stai chiedendo di prendermi baracca e burattini e di andarmene di casa?» ha chiesto, disgustata.

Io sono rimasto perplesso: una scuola per ragazzi difficili? Pan non era esattamente «facile», ma, addirittura mandarla in una scuola simile... mi sono sentito piuttosto inquieto.

«No, che dici?» ha esclamato la mamma, come se Pan l'avesse punta nel vivo. «Non ti mando da nessuna parte: ti faccio frequentare una scuola adatta a te, cara mia! Sarà una bella esperienza, adattissima per una ragazzina come te! Ti abbiamo già iscritto! E, forse, dato che... dato che anche Kenny sta cominciando ad avere i tuoi stessi... ehm... problemi... ho deciso che ci andrà anche lui!»

«Come anch’io?» ho urlato, scattando in piedi. Il misfatto del tavolo e delle stoviglie deve averla convinta a farmi questo. E cominciavo a spaventarmi.

«Certo, caro!» ha risposto la mamma, orgogliosa. «Perché non voglio che tu diventi irrecuperabile come tua sorella!»

«Ma... mamma, io non sono come Pan!» mi è scappato.

«Scusa, che hai detto, paramecio?» ha detto lei, alzandosi anche lei e prendendomi per il colletto della camicia.

«N... niente... Pan, niente!» ho tentato di rimediare, ma è stato inutile.

«Non è vero!» ha gridato lei, stringendo forte il pugno.

«BASTA!» ha ordinato la mamma e tutti e due l'abbiamo guardata. «Lo so, caro, che non sei come lei! Ma, purtroppo... dopo quello che ho visto oggi, è meglio che vada anche tu, credimi!»

«Stronzate!» è stato il commento, stavolta azzeccatissimo, di mia sorella. Solo perché ho tentato di portare via un tavolo, mi ritrovo a dover andare in una scuola per ragazzi disturbati!

Ho paura e anche diversi dubbi, ma non ho potuto dire niente alla mamma che mi guardava con tante aspettative, quasi credesse che, frequentando una scuola simile, avrei potuto diventare imperatore. Ho balbettato qualcosa, ma non sono stato incapace di esprimere la mia rabbia, la mia paura, forse per quello sguardo luccicante di mia madre che non ammetteva repliche.

Pan, comunque, ha cominciato a sbraitare, a battere i piedi.

«QUESTE SONO TUTTE STRONZATE!» ha detto e io, per la prima volta nella vita, ho annuito. «RAGAZZI DIFFICILI? PERCHE'? COME SONO I RAGAZZI FACILI? IO NON VADO DA NESSUNA PARTE!»

Ho annuito ancora, stavolta più vigorosamente di prima.

Anche mamma si è alzata in piedi. «TU CI ANDRAI! E ANCHE TUO FRATELLO!»

«NON CREDO PROPRIO! SE LUI VUOLE ANDARE, LIBERISSIMO DI FARLO! IO ME NE VADO DI CASA, PIUTTOSTO!»

Il nonno si è intromesso. «Andiamo, Videl cara!» ha esclamato, posandole una mano sulla spalla, guardandola con fare paterno. «Se Pan non vuole andare non dobbiamo di certo costringerla!»

«Papà, fatti i cazzi tuoi!» poi si è rivolta a Pan. «E DOVE PENSI DI ANDARE, EH?»

«ME NE VADO DI CASA! ME NE VADO SUI MONTI PAOZ E TI VADO NEL CULO!»

Nonno Satan l'ha guardata con occhi sgranati. Sembrava un pesce lesso, tanto che ho dovuto fare i salti mortali per non scoppiare a ridergli in faccia. Il pandemonio è continuato a lungo. Io e papà ci guardavamo interdetti, mentre nonno, mamma e sorella gridavano a più non posso.

Credo che i vicini non abbiano chiamato la polizia giusto perché ci conoscono...

Non abbiamo concluso niente: tutti sono rimasti dell'idea di cui erano in partenza e, l'unica cosa che è cambiata, è stato il fatto che la mamma ci ha spediti filati in camera.

Mia madre, però, somiglia a mia sorella e, se dice che andremo in quella scuola, so che ci finiremo, volenti o nolenti. Mi chiedo solo come farà a convincere Pan...



*****


*Iccijojji è il cognome di Ken (Digimon 2), nonché protagonista della serie, ma talmente stravolto da essere irriconoscibile.

Ho deciso di estenderlo a tutta la famiglia Son, semplicemente perché all'epoca non sapevo il cognome di Goku (avevo visto solo l'anime di Italia 1). Non l'ho mai cambiato per questioni di affetto verso la mia storia, quindi spero non me ne vogliate.


Ken Iccijojji è diventato Kenny molto tempo fa, per un motivo che non ricordo neanch'io... ma ci sono così affezionata che mi duole il cuore al solo pensiero di doverlo cambiare.


Molti nomi, anche se la storia è ambientata in Giappone, sono inglesi e alcuni anche italiani, ma anche qui, sempre per le motivazioni spiegate più sopra, non saranno cambiati, perché ormai i nomi sono parte di quei personaggi e non sarebbero più loro con un nome diverso.


Personaggi da un po' tutti i cartoni animati, anime e i libri che mi sono piaciuti arriveranno con l'evolversi della storia (ma non aspettatevi caratteri IC).

Alcuni saranno personaggi originali, ma saranno molto esigui (e prima che me lo chiediate: no, non andranno ad Hogwarts, anche se la storia dei sette anni l'ho pescata da lì).


A questo punto, vi sarete posti una domanda: se tutti tutti i personaggi non saranno come nell'originale, perché non scrivere un racconto originale? Sempre per la questione dei nomi spiegata qualche riga più sopra. Per me, purtroppo, un nome è tutt'altro che banale.


Che altro dire? Spero che vi sia piaciuto questo lunghissimo prologo, spero che non vi abbia annoiato e che, anzi, continuerete a leggere anche i prossimi capitoli e che non mi abbandonerete.


Quel che avevo da dire l'ho detto, adesso la parola a voi, lettori.

Luine.

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Capitolo 2
*** Presentazioni ***


Le lezioni al primo anno.

Presentazioni


La mamma, quando ci ha parlato della scuola per ragazzi disturbati e disadattati, non ci aveva detto proprio tutto tutto... ci aveva dato solo qualche assaggio. E anche piuttosto deludente.

Ho passato tutta l'estate ad attendere il mio destino e il primo di settembre, il momento in cui sarei entrato in una scuola piena di... persone come Pan.

Sapevo che sarei diventato il tappetino di altri, se solo mia sorella l'avesse voluto.

E l'estate è volata via, così, come è arrivata e non me la sono goduta minimamente. Agosto, poi, è stato un vero inferno, non solo per il caldo: la mamma ha preteso che cominciassimo a prepararci le valigie.

«Se no, poi, arrivate lì e vi manca un paio di mutande!» ha detto, mentre posava tutte quelle che trovava nel mio borsone da viaggio. Le volevo dire che non sarebbe stato il paio a fare la differenza, ma poi preferivo optare per altre domande, quali parastinchi, parapalle e quant'altro per sopravvivere nella giungla degli energumeni. Ma lei mi rideva in faccia e, come sempre quando le facevo di queste richieste, andava da un'altra parte che, di solito, era la camera di Pan.

La mia sorellona era più irascibile del solito ed era meglio evitare di stare per più di due minuti nella stessa stanza con lei, se non si voleva dire addio a timpani e ossa. Persino nonno Satan non è stato risparmiato: la ferita sul labbro che lei gli ha procurato si deve ancora rimarginare e ce l'ha da due settimane, ormai!

Mamma, comunque, non è mai riuscita a farle cambiare idea: le ha semplicemente preparato le valigie e, dopo le prime due volte in cui Pan le risvuotava, ha imparato a metterle in un «posto sicuro», di cui nessuno ha mai saputo l'esatta locazione.

Ma comunque Pan non è mai scappata. Forse perché detesta cordialmente nonna Kiki e non andrebbe mai a vivere sotto il suo stesso tetto.


1 Settembre


Stamattina mi sono alzato molto presto, svegliato dalla mamma che batteva il mestolo di metallo sul retro di una padella, dal fondo delle scale.

Pan ha sbattuto la porta di camera sua, cominciando a urlare:

«CHE CAZZO C'È?»

Era la stessa domanda che mi stavo facendo io. Mi sono messo seduto e ho sbadigliato sonoramente, mentre lei entrava, ancora sbattendo la porta.

«Sei di una finezza disarmante, Kenny!» ha avuto il coraggio di dirmi. Ho alzato gli occhi per chiederle che stesse dicendo, ma era già corsa in bagno. Dato che, quando entra lei in bagno, ci mette sei quarti d'ora ad uscirne, sono sceso in cucina per la colazione.

Non ho mai visto casa mia in quello stato: il corridoio di fronte alla porta d'ingresso era stivato di valigie e borsoni, quasi dovesse partire uno squadrone, non due ragazzini. La porta era aperta e papà andava e veniva portandone un paio alla volta verso la macchina parcheggiata fuori. Aveva una faccia da funerale, così come il nonno che era seduto sul bordo di una poltrona e aveva anche gli occhi lucidi.

Non l'avevo mai visto piangere.

La mamma, intanto, era ancora in cucina e accarezzava una tovaglietta da colazione e singhiozzava silenziosamente. E' stato il momento più brutto della mia vita: ho realizzato che avrei lasciato la mia famiglia per molti mesi e che li avrei passati in un postaccio terribile. Non riuscivo a trattenere le lacrime, ma ho fatto del mio meglio, peccato che, quando sono entrato in cucina, non ce l'ho fatta e mi sono messo a piangere come un vitellino.

«Oh, Kenny!» piangeva la mamma, alzandosi e venendo ad abbracciarmi. Mi sentivo un condannato a morte. «I miei bambini che se ne vanno di casa! Non vedrò i miei bambini per quattro lunghissimi mesi!»

«L'unica cosa che dovevi fare, mammina cara...» è stata Pan a parlare. Non appena l'abbiamo sentita, io mi sono girato e la mamma ha sciolto il nostro abbraccio. Mia sorella sembrava l'unica a non essere stata affetta da crisi di pianto. «L'unica cosa che dovevi fare era di non iscriverci a quella cazzo di scuola, ma, dopotutto devi avere dei figli che, non appena gli schioppano una frusta poco vicino al culo, devono scattare, per cui...»

Non ha finito la frase, si è seduta e ha cominciato a trangugiare la colazione. Intanto, notavo il suo abbigliamento: era vestita da mare, con il prendisole e le ciabatte, una cosa che fa quando non ha voglia di andare da qualche parte e non la si può convincere del contrario.

Per questo è stata una bella impresa caricarla (nel vero senso della parola) in macchina. Dopo che abbiamo finito tutti di prepararci, pure il nonno, eravamo pronti per partire, solo che, appunto, Pan non voleva salire.

Ero dietro di lei, con a fianco la mamma che continuava ad asciugarsi le lacrime con un fazzolettino di carta, quando mia sorella si ferma davanti alla portiera aperta della macchina e guarda me.

«Su...» mi ha detto, quasi gentile. «Posa le chiappe su questo cazzo di sedile!»

Ho annuito, incapace di contraddirla, ma la mamma mi ha bloccato afferrandomi per una spalla.

«Prima tu, Pan! E smettila di essere volgare!» ha detto, categorica.

«Ma non rompere, mammina cara!» ha risposto lei, ancora usando quel tono falsamente gentile. Non sapevo che pensare... ma sapevo che la faccenda mi preoccupava: Pan non è mai così accondiscendente, a meno che non abbia un piano in mente. E i suoi piani mi spaventano sempre un po', perché sono tutto meno che sicuri. Cioè, sicuri sono, ma per quanto riguarda le costole rotte.

«PAN! UN PO' DI RISPETTO! SONO TUA MADRE!»

«Fai salire Kenny!» Pan mi ha indicato.

«HO DETTO PRIMA TU!»

«E IO TI DICO PRIMA KENNY!»

«PRIMA TU!»

«PRIMA KENNY!»

«TU!»

«KENNY!»

«HO DETTO: TU!»

Mamma ha fatto un balzo avanti, cosa che né Pan né io ci aspettavamo. L'ha afferrata per le spalle, decisa a spingerla dentro.

Il problema è che Pan ha fatto resistenza ed è anche riuscita a girarsi, così che ha potuto afferrare il tettuccio della macchina con le mani e puntare i piedi sulla strada, in modo che, comunque la mamma la spingesse, non potesse entrare.

«NON CI VERRO' MAI IN QUELLA SCUOLA! SCORDATELO!» gridava mia sorella, continuando a opporre fiera resistenza, con la mamma che, da dietro, la spingeva e gridava a sua volta.

«NON FARE STORIE, TESORUCCIO! MUOVITI, ENTRA IN MACCHINA!»

«MAI!»

Papà guardava tutto con fare preoccupato dal posto di guida, mentre il nonno tifava per Pan dal marciapiede. Aveva lasciato perdere le valigie che non erano ancora state caricate e mi sembrava quasi di essere allo stadio. I vicini avevano cominciato ad affacciarsi, credendo ad un rapimento, forse.

Il signor Parker, il nostro dirimpettaio era uscito in giardino come tutte le mattine, aveva aperto il tubo dell'acqua con il quale annaffia i fiori e guardava il tutto come se non credesse ai suoi occhi o come se non ci vedesse molto bene. Ma forse un po' tutti e due.

«Ehm... Videl...» ha chiamato papà, ad un certo punto.

«PERCHE' NON VIENI A DARMI UNA MANO, GOHAN, INVECE DI STARE LÌ A FAR NIENTE? PAN, ENTRA...»

«HO DETTO DI NO!»

Nemmeno il poliziotto che passa tutti i giorni nel nostro quartiere si è fermato... ormai conosce bene la nostra famiglia e nemmeno i vicini inviano più segnalazioni alla polizia, ma, chissà come mai, la nostra zona è famosa per il più basso tasso di vendite immobiliari... comincio a credere che sia colpa nostra.

«Pan, tesoro...» ha cominciato papà, uscendo dall'auto, mentre ero nel bel mezzo di queste elucubrazioni mentali.

«NON MI AVRETE! IMMOLATEMI, PERCHE' IO NON PARLERO'!»

«NON ABBIAMO BISOGNO CHE PARLI! SOLO CHE COLLABORI E TI INFILI IN MACCHINA!» ha continuato la mamma, ancora spingendo con forza. Davvero non sapevo se ridere o nascondermi, se aiutare mia madre o continuare a starmene fermo in quel modo come un cretino. La verità era che mi sentivo davvero un cretino.

«VAI, PAN, CHE SEI FORTE!» questo è stato il grido del nonno.

«PAPÀ, PIANTALA E DAMMI UNA MANO! A TE DÀ ASCOLTO!»

Il nonno, alle parole della mamma, ha smesso di fare il tifo, ma anche di fare qualsiasi altra cosa.

Mamma continuava la sua lotta contro mia sorella che, adesso, si scuoteva come una scimmia, appesa al tettuccio, mentre io tentavo di non ridere. Chi non c'era non può capire l'ilarità, il problema è che credo di essere stato l'unico a coglierla, insieme al dirimpettaio, che continuava a guardare la scena con la bocca e l'acqua aperte, un mezzo sorriso incerto, mentre la vecchia della casa alla destra di quella di Parker aveva chiuso le tende, indignata.

«Ma io non voglio che la mia nipotina mi lasci!» ha spiegato il nonno alla mamma che gli chiedeva perché non faceva niente.

«NONNO, NOI NON CI PIEGHEREMO A QUESTI AMERICANI SCHIFOSI!» gridava mia sorella, allungando un braccio verso di lui. Il nonno non ha capito e ha cominciato a guardarsi intorno.

«Quali americani?»

«BASTA! SIETE TUTTI CONTRO DI ME! KENNY, COMBATTI TU PER ME! IO SONO SCONFITTA!»

Ho fatto una smorfia strana: che avrei dovuto fare? Mi sono guardato intorno più spaesato del nonno, mentre la mamma continuava a chiedere aiuto a papà. Ma Pan era davvero sconfitta: le sue mani non sono riuscite a resistere alle spinte di mamma e, sudando, sono scivolate. Così è entrata in macchina.

Il resto è stato un secondo: non so cosa o chi mi abbia afferrato. Mi sono sentito catapultare in macchina e mi sono ritrovato proprio sopra Pan.

«CHE FAI? MANIACO!» mi ha tirato un pugno sulla testa e poi mi ha spinto con una ginocchiata fin sullo sportello prontamente richiuso dalla mamma. Meglio così, altrimenti mi sarei ritrovato con la testa spaccata sull'asfalto e, questa sera, avrei scritto questa pagina di diario al fianco di San Pietro. Scommetto che Pan non sarebbe stata così dispiaciuta.

Ma nel frattempo mi sono lamentato parecchio.

«Invece di aiutarmi, pensi di finirmi addosso! E tu ti dichiareresti mio fratello! Che schifo!» ha detto, delusa e disgustata, prima di sputare sul sedile davanti, mentre il nonno riapriva la portiera dal suo lato. Ho immaginato un luccichio sinistro negli occhi di Pan, prima del suo nuovo tentativo di fuga: «BRAVISS... MERDA!»

Il nonno era salito prima che lei potesse solo provare a mettere un piede a terra.

«Perché, nonnino?» ha chiesto, a quel punto, Pan, in tono lamentoso. «Perché vuoi abbandonarmi in quella scuola per pazzi? CI GODETE A FARMI SOFFRIRE?»

Il nonno stava di nuovo per farsi venire i lacrimoni agli occhi, cosa che stava facendo commuovere anche me, non solo per via delle stelline che ancora riuscivo a vedere dopo quel colpo in testa.

«Adesso possiamo andare!» ha esclamato la mamma, non appena ha chiuso tutte le portiere con la sicurezza-bambini, per paura che Pan le potesse sfuggire con la macchina in corsa.

Il viaggio è stato indolore. Sì, fino all'autostrada!

Siamo rimasti imbottigliati nel traffico per rimanervi fino oltre le due, con un caldo e una fame che ci stava uccidendo. Perché, come se non bastasse, la mamma non aveva preparato nemmeno un panino, convinta che ci saremmo fermati in qualche autogrill. Almeno ha portato sei bottiglie d'acqua, peccato che Pan se ne sia scolate due e mi sia toccato lottare per avere la terza.

Il nonno continuava a lamentarsi e io ero decisamente andato K.O., non solo per la fame, ma anche per il caldo, perché papà ha comprato la macchina senza l'aria condizionata per via dei costi troppo alti. E non potevamo nemmeno aprire i finestrini: non è il massimo finire asfissiati dallo smog dei tubi di scappamento. Una volta ci abbiamo provato ed è un'esperienza da non ripetere.

Non abbiamo potuto nemmeno entrare in autogrill, perché, anche per entrarci, c'era una fila che non auguro neanche al mio peggior nemico.

«Io lo sapevo che oggi sarebbe stata una fottuta giornata!» diceva Pan, disperata. Anche lei non sembrava messa troppo bene: sudava come un maiale e aveva cominciato a puzzare. «Sapevo che saremmo crepati in questo caldo!»

Fortunatamente, non appena abbiamo lasciato l'autostrada, la strada si era fatta più sgombra e abbiamo potuto aprire i finestrini e far entrare un po' di aria fresca.

La mamma, a un certo punto, ha detto a papà di girare a sinistra al primo svincolo. Giuro che Pan ha dato voce ai miei pensieri, cosa che mi ha lasciato del tutto impreparato:

«Ma... se gira a sinistra, mammina cara, finisce nel covo dei militari. Guarda: c'è un filo spinato e sui cartelli c'è scritto: “Vietato l'ingresso. Zona militare”.»

Io mi chiedo dove ha trovato la forza per parlare, ma l'ha fatto e col tono che si usa coi bambini scemi e la mamma, per una volta che mi ero premunito e mi ero tappato le orecchie, non ha cominciato a urlare, ma, anzi, ha risposto tranquillamente.

«Ho un passy speciale. Me lo sono fatto inviare per posta!»

«Ma quante stronzate che spari!» ha sbuffato mia sorella, spaparanzandosi sul sedile, accanto al nonno che si era scolato l'ultima bottiglia d'acqua.

«IO NON SPARO STRONZATE, MIA CARA FIGLIA MALEDUCATA!»

Vorrei tanto essere come mia madre e mia sorella: con tutto il loro argento vivo. Sono davvero incredibili, anche con lo stomaco vuoto.

«E di chi è la colpa, se sono maleducata?» ha sbottato Pan, sarcastica.

«TACI!»

«Ehm... allora...» ha domandato papà. Il suo tono era abbastanza incerto, ma non posso biasimarlo: la mamma sarebbe capace di farci finire fuori strada, se non si tenta di calmare le acque. «Che faccio? Giro o non giro?»

«GIRA, GOHAN! GIRA!»

«Ehm... sì, okay, giro!» così ha messo la freccia e, dopo qualche metro, ci siamo ritrovati davanti alla cabina della guardia del “covo dei militari” che aveva abbassato la sbarra.

«Buon pomeriggio!» ha detto la guardia, chinandosi sul finestrino, con la mano sopra al tettuccio e guardandoci dubbioso, come a chiederci chi eravamo.

«Abbiamo il passy!» ha esclamato la mamma, tirandolo fuori dalla borsetta e sventolandolo come un fazzolettino.

Pan non ci poteva credere (neanche io, fino a che non l'ho visto, devo essere sincero): come poteva avere un passy per entrare in una zona militare spaziale?

«FAMMI VEDERE!» si è spinta tra i due posti davanti e ha allungato la mano per strappare il passy dalle mani di mamma che, però, non voleva cederglielo e tentava di spingerla indietro a suon di gomitate.

«STAI SEDUTA, PAN! STAI SEDUTA!»

«Vi prego, smettetela!» diceva papà, in tono disperato.

La guardia ci guardava con gli occhi sgranati. Aveva perso tutto il suo contegno militare e io mi vergognavo come un ladro. Il nonno aveva ripreso a fare il tifo per Pan.

«FAMMI VEDERE E MI METTO SEDUTA!» diceva lei, lottando e sventolando quel braccio come per salutare qualcuno molto lontano.

Papà ridacchiava nervosamente. «Le scusi!» diceva al soldato.

«Basta che non mi fanno stare qui tutto il pomeriggio...» ha replicato lui, come se la scena cui assisteva fosse stata normale. «Stanno per arrivare anche i pullman dalla città... e un sacco di altri genitori. Devo ammettere che...» ha guardato me, sul sedile posteriore. «avete fatto piuttosto in fretta... il traffico dell'autostrada è davvero incredibile a quest'ora!»

«Ha ragione...» ha ammesso papà. Ha cercato di intavolare una conversazione, ma non ce l'ha fatta, grazie alle grida di mia madre, di mia sorella e del nonno. Mentre io mi chiedevo come mai quel tizio ci stesse aspettando... e un pensiero orribile si è formato nella mia mente: che la scuola per ragazzini disturbati... fosse... dentro?

«ADESSO BASTA!» gridava la mamma. «GOHAN, PRENDI IL PASSY E DALLO...»

«A ME!» ha risposto Pan.

«ALLA GUARDIA!» l'ha corretta mamma.

«Scusa, Pan...» ho chiesto. Lei ha smesso di lottare con mamma e, senza pensarci un attimo, papà ha afferrato il passy dalle mani di mamma e l'ha ceduto alla guardia che, sospirando, l'ha preso.

«Sei scusato, ma solo se la tua è una domanda intelligente!» mi stava dicendo Pan, intanto. Ero dubbioso: la mia sarebbe stata una domanda abbastanza intelligente? Ho deciso di cambiarla all'ultimo.

«Ecco... ehm... perché volevi il passy?»

La sua espressione, da curiosa, è diventata delusa e disgustata. «MA CHE CAZZO DI DOMANDA È? MA SECONDO TE?»

«Potete andare!» ha detto la guardia, restituendoci il passy.

Papà ha messo in moto, mentre mi beccavo un pugno sulla guancia. Non so come la mia mandibola o i miei denti abbiano retto all'urto, ma sono felice che sia successo. Peccato per il dolore che, se ci ripenso, torna tutto intero.

«Sì, ma... perché?» ho chiesto ancora, mentre seguivamo il grosso viale.

«Perché...» Pan si è sporta di nuovo verso il davanti e, stavolta, è riuscita a strappare di mano a mamma il passy. «Perché volevo vederlo... ma a quanto pare è autentico...»

Ha guardato sospettosa nello specchietto retrovisore, mentre io guardavo il passy della discordia nelle sue mani. C'era solo scritto: Autorizzazione all'ingresso nel distretto militare spaziale, seguito da disegnino dell'aquila che era stato anche sul berretto della guardia. Ora sì che ero preoccupato. Ho deglutito a vuoto un paio di volte, prima di prendere coraggio e di parlare di nuovo.

«Senti, mamma... ma la scuola è... qui

«Ma certo che è qui!»

«COSA?» ha gridato Pan, indignata. «COSA VUOL DIRE CHE LA SCUOLA È QUI? DOVE MI HAI MANDATO?»

«Su, Pan, calmati!» stavolta è stata la mamma a parlare con sufficienza.

«CALMARMI? MI STAI MANDANDO DA QUESTI FASCISTI ASSASSINI!»

«ORA BASTA!»

Eravamo finiti in una zona militare che, a priva vista, era identica alle altre, coi suoi fabbricati grigi, i camion verdi e qualche soldato vestito di nero che guardava passare la nostra macchina rosa.

Il rosa è un colore imbarazzante, soprattutto per una macchina, ma era il colore che costava meno e, quando abbiamo deciso di cambiarla, la mamma non ha voluto sentire ragioni.

Sì, è imbarazzante all'inverosimile, ora che ci penso.

«Avevo capito che era una scuola per ragazzi difficili!» ho detto, sentendomi improvvisamente molto più teso.

«Beh...» ho visto la mamma fare una smorfia dallo specchio retrovisore. «La vita militare è l'unica che può plasmarvi davvero e farvi diventare bravi ragazzi, come voglio che siate.»

Ora sì che volevo davvero scappare.

«Mamma...» ha continuato Pan, inorridita. «Lo sai che mi stai mandando a una scuola di obbedienza, come ai cani?»

«Ma non è una scuola di obbedienza! E' un collegio militare speciale!» credo che la mamma non abbia colto l'ironia di mia sorella, ma non è una novità. Se prima ero stato terrorizzato dai ragazzi difficili e disturbati, lascerei solo immaginare quello che ho provato, non appena ho sentito le parole “collegio militare speciale”. Unire le due cose mi ha riempito del terrore più puro. Credo di sapere cosa prova uno ad avere la pistola puntata alla tempia, perché era così che mi sentivo.

«Che, a casa mia, è sinonimo di scuola di obbedienza!» ha detto Pan, in risposta all'obiezione di mamma.

«Fino a che vivi a casa mia, sarà un collegio militare!» è inutile: la mamma, quando vuole, non capisce l'ironia neanche se la paghi. Pan ha deciso di ignorarla, mentre io meditavo il suicidio.

Dopo un paio di metri, abbiamo trovato un cartello con una freccia che recitava: “Collegio Militare – 100 m”.

«SVOLTA, PRESTO!» ha gridato la mamma. Papà, per la sorpresa, ha cominciato a sbandare e abbiamo preso tutti a urlare, mentre papà, terrorizzato, tentava di riprendere il controllo del mezzo. Giuro, se non me la sono fatta addosso in questa occasione, non me la farò mai più. Non so neanche come non ci siamo cappottati, mentre papà muoveva velocemente il volante e frenava contemporaneamente. Mamma continuava a gridare come una pazza, insieme a me, mentre Pan si reggeva dal manico sopra il finestrino accanto al nonno. Lui sembrava l'unico in grado di apprezzare quello che, più tardi, avrebbe chiamato «grazioso contrattempo».

«MORIREMO!» erano queste le confortanti parole di mia sorella, mentre posava i piedi sopra il sedile davanti, quello di mamma, e la testa sul suo poggiatesta e si metteva a dondolare di qua e di là, nella grottesca imitazione di una scimmia.

Neanche il tempo di dirlo ancora, che la macchina era di nuovo in carreggiata, solo qualche metro più avanti rispetto a dove dovevamo andare. La cosa positiva era il silenzio calato sulla macchina. Papà, ho visto dallo specchietto retrovisore, era incazzato nero e stringeva convulsamente il volante.

«Videl...» ha detto, dopo un po', tremante. «La prossima volta che vedi un cartello... taci! Ci penso io!»

«Certo!» è stato l'acido e leggermente isterico commento di mamma. «Così poi ci fai morire! Se non c'ero io, eravate tutti già all'altro mondo!»

«Mah...» ha sbottato Pan, che continuava a dondolarsi. «Io dico che papà, per una volta, ha ragione e non ha detto le solite stronzate! E tu sei solo un'isterica!»

«IO NON SONO ISTERICA!»

«CAZZO, VIDEL! TACI UNA BUONA VOLTA!»

Il silenzio, poi, è calato davvero sulla macchina: era la prima volta, penso, in tutta la mia vita, che sentivo mio padre urlare a quel modo... e per zittire la mamma! Persino Pan, scioccata, ha deciso di riprendere a fare la persona normale e si è seduta composta. Solo il nonno ha parlato e solo per dire, appunto del «grazioso contrattempo», al quale Pan ha risposto con un «Tu sei tutto scemo!».

Nemmeno una parola, da allora, è volata all'interno della macchina, perché avevamo tutti paura, credo, di sentire papà fare, di nuovo, una cosa così strana come urlare. Se non l'avessi sentito con le mie orecchie, non l'avrei creduto possibile.

Abbiamo girato in tondo per un po', fino a che un soldato caritatevole ci ha indicato la strada giusta.

Incredibilmente, abbiamo lasciato la zona dei fabbricati e ci siamo infilati in una via alberata, in netto contrasto con il panorama precedente. Davanti a noi, una caserma nella caserma, più protetta di Fort Knox. Insomma, all'insegna del benvenuto.

Il muro era grigio, alto e spesso. Credo che, là sopra, ci poteva stare per lungo tutta la macchina di papà e anche molto comodamente. E all'ingresso c'era pure un cancello blindato, ma che per fortuna era aperto. Almeno il passy non è servito di nuovo. Anche perché non c'era manco un sorvegliante.

Ci siamo ritrovati in un cortile di terra battuta, davanti ad un edificio alto, grigio e triste. Pare una scatola, pieno di finestre piuttosto piccole come quelle di una prigione. Il benvenuto trasudava da tutti i pori.

Abbiamo parcheggiato davanti al muro, di profilo, così che si vedesse meglio il colore rosa da qualunque angolazione la si volesse guardare

«La mamma ci ha mandando in un carcere di obbedienza.» continuava a borbottare Pan, che si era stretta nelle spalle e guardava torva il lungo cortile davanti a noi.

Il portone dell'edificio, sempre di metallo, è preceduto da una scalinata spoglia. Ho guardato bene: c'erano tre ragazzi là seduti, tutti vestiti di nero. Non sembravano molto più grandi di me.

Erano tre dei famosi ragazzi disturbati e difficili.

Ho deglutito molto rumorosamente, mentre mi facevo forza e scendevo dalla macchina. Pan mi ha, stranamente, seguito e, come me, guardava tutto con la bocca spalancata.

«E io dovrei venire a vivere qui?» diceva. «Ma tua madre, Kenny, è fuori come un cazzo dalle mutande!»

«Senti, Pan... che ne dici di lasciare i francesismi e di cercare di fare una buona impressione?» ha chiesto papà, gentilmente, chiudendo la macchina con un colpo di telecomando.

«Tanto a che serve? Questa prigione è fatta apposta per farmi smettere di dire certe parole... anche se io intendo far diventare la vita di quelli che ci proveranno un fottuto inferno!» ha risposto lei, guardando quei ragazzi sulle scale che ridacchiavano. Io so perché lo facevano: la macchina rosa. E io mi vergognavo peggio di un ladro.

«Certo, tu potresti anche evitare di...» cercava di dire papà.

«Non scassare il cazzo!» ha tagliato corto Pan.

Papà non ha detto niente davvero. Mi chiedo se avessimo potuto crescere diversamente, se, ogni tanto, ci avesse dato uno scapaccione. Ma lui non l'ha mai fatto: ha sempre detto che non vuole metterci in pericolo e distruggerci con la sua enorme forza. Il bello è che io non l'ho mai visto usare la forza... solo quella volta, quando avevo tre anni, in cui ha sollevato la macchina per prendere il mio ciuccio che era finito là sotto. E, a quel tempo, la macchina non era di certo rosa...

«Su, ragazzi, andate a fare amicizia!» ci ha spronati la mamma.

«Non ci penso proprio!» è stato il commento di Pan, che si è stretta nelle spalle e si è voltata, in modo da darle a quei ragazzi. Anche io ero piuttosto titubante. Uno di loro è entrato nella prigione, mentre gli altri continuavano a osservarci, come se fossimo stati degli animali strani.

«Gohan, tu scarica i bagagli!» ha esclamato la mamma, mentre porgeva un fazzoletto al nonno che aveva ripreso a piangere e a dire che è stata crudele a mandare Pan in una scuola per ragazzi disadattati come questa.

Quelli seduti sulle scale erano vestiti con la stessa uniforme nera della guardia al posto di blocco. Qualcosa mi diceva che anche io, presto o tardi, l'avrei messa... e anche mia sorella e che tutti i vestiti che la mamma ha messo nelle nostre valigie li potevamo usare per accendere il fuoco. Se ci fosse un camino.

Dieci minuti dopo, sono usciti dall'edificio due persone: la prima era uomo alto, coi capelli biondo platino con una maschera che gli copriva la parte superiore del viso; l'altra era una donna. Era più bassa di lui, aveva i capelli castani raccolti in due crocchie ai lati della testa, era brutta e portava degli occhialini tondi che le facevano sembrare gli occhi ancora più piccoli e, cosa ancora più grave, ci guardava come se fossimo delle merde. Entrambi erano vestiti di rosso, avevano molte medaglie e i soliti polsini e colletto a strisce dorate.

«Non hanno un'aria molto raccomandabile...» ha detto il nonno, preoccupato, tanto che ha acceso la curiosità di mia sorella che ha deciso di voltarsi e guardare.

«Che facce di cazzo!» ha esclamato. Fortunatamente, erano ancora abbastanza lontani. La mamma, comunque, le ha dato lo stesso una botta sulla spalla per farla tacere.

I ragazzi sulla porta hanno fatto il saluto militare e, non appena i due in rosso sono passati, si sono rilassati. Già mi preoccupava il dover scattare in piedi ogni volta che vedevo qualcuno: non conoscevo i gradi e non li conosco. Continuo a chiedermi se salutare chiunque o solo qualcuno... di loro due, almeno sono sicuro.

«Benvenuti!» ha esclamato la donna, non appena è stata vicino a noi. Si è fermata in una rigida posa militare, quasi avesse avuto un palo nel sedere. «Sono il Colonnello Une, insegnante e direttrice di questo collegio. Questo è il Colonnello Zack Marquise, uno dei nostri qualificatissimi insegnanti.»

L'uomo con la maschera ha fatto un cenno con la testa.

«Abbiamo parlato con lei al telefono!» ha detto la mamma, allungando una mano che il Colonnello Une ha preso con titubanza. «Siamo la famiglia Iccijojji!»

Le ha mostrato il passy che quella donna ha a malapena guardato.

«Sì, mi ricordo...» ha tagliato corto. «Lei è la signora che voleva iscrivere entrambi i suoi figli!»

«Precisamente!» ha risposto la mamma, orgogliosa che ci si ricordasse di lei. «Bene. I suoi figli possono salire in camera coi loro bagagli, mettersi in divisa e andare dritti in Sala Conferenze, dove il nostro Generale terrà un discorso di benvenuto per il nuovo anno! Seguitemi, prego!»

Ha fatto un mezzo giro su se stessa, imitata dal Colonnello Marquise e si è diretta verso i ragazzi che ancora rimanevano in piedi sulla porta.

«Caporale Yuy!» ha chiamato lei. Il ragazzo che era entrato a chiamarli ha rifatto il saluto.

«A rapporto!» ha detto. Non aveva che qualche anno più di me, forse aveva quindici o sedici anni, i capelli castani e uno sguardo severo e leggermente snob. Il Colonnello Une si è voltato verso di noi e ci ha lanciato certe occhiate che avrebbero fatto rabbrividire un morto: credo che non avremo vita facile con questa donna... fa davvero paura. Pure gli altri si sono portati sull'Attenti. Tutti quanti erano poco più grandi di me. «Scorterà questi due ragazzi nel loro dormitorio, sono i soldati semplici Iccijojji!» ha detto la Une, in tono di comando, al Caporale Yuy.

«Sissignora!» ha esclamato lui, riunendo i piedi. La Une e Marquise sono rientrati, con tutti noi al seguito. Gli altri due ragazzi rimasti si sono messi a borbottare al nostro passaggio, ma non ci hanno seguito.

«Questa caserma si riserva di formare i migliori piloti spaziali del mondo!» ha detto la Une. «Ci vuole disciplina, rispetto delle regole e amore per la patria! E ora, signori Iccijojji, vogliate seguirmi in Sala Conferenze, mentre i vostri figli si cambiano!»

I miei e il nonno non hanno detto niente, mentre a me cominciava a gelarsi il sangue nelle vene: non credo di amare abbastanza la mia patria per poter andare a pilotare un aereo spaziale, magari per qualche guerra coloniale...

Abbiamo seguito il Caporale Yuy fino al quarto piano (non ci sono ascensori, solo scale, tante scale) e lui ha preso un enorme foglio dalla tasca. Sopra c'era un elenco lunghissimo di nomi.

«Iccijojji...» ha sussurrato. «Eccovi... quarto piano, primo anno corso B!»

«Corso B?» ha ripetuto Pan, come se Yuy avesse detto chissà che parolaccia.

«Sì...» ha risposto lui, atono, mentre salivamo le scale e io e Pan ci guardavamo intorno, cercando qualcosa che potesse diventare familiare, come un quadro, una scritta qualsiasi sul muro. Ma niente, tutto era spoglio e freddo. Persino il Caporale Yuy lo era.

«Questa prigione ha anche dei... corsi? Non siamo quattro gatti?» ha insistito mia sorella.

«No...» ha risposto lui, scrutandola. «Siamo molti di più, mi spiace deluderti! Ci sono ragazzi che vengono da tutto il Giappone e anche dalle colonie spaziali.»

«Poveri sfigati!» è stato il commento disgustato di Pan, quando siamo arrivati al quarto piano.

«Direi che ti stai dando della sfigata!» Yuy ha ripiegato il foglio e se lo è rimesso in tasca, prima di guardare di nuovo mia sorella.

«Sì, lo sono, dato che, se non fosse stato per mia madre, io qui non ci stavo!»

«La vostra camera è l'ultima in fondo. C'è scritto “Primo anno corso B”, non potete sbagliarvi!»

Ho guardato Pan, in cerca di coraggio, ma temo che mia sorella sia stata ben lungi dal volermi fare coraggio, infatti non mi ha degnato di un'occhiata. Ci siamo, senza ulteriori indugi, diretti verso la porta indicata da Yuy. Comunque sia, ci ha seguiti.

«I tre piani successivi sono tutti dormitori.» ci ha detto. «E io sono il responsabile di questo, quindi, se succede qualcosa, dovrete chiamare me, chiaro?»

«Quindi tu sei il più rompicoglioni e il più leccaculo qua dentro, ho capito bene?» è stata la risposta di Pan. Ogni tanto vorrei che avesse un po' più di pudore...

Lui non ha risposto, o se l'ha fatto, non l'ho sentito, perché, in quel momento, ho visto una ragazza uscire da una camerata sulla cui porta c'era scritto “Quarto anno corso A”. Ed era una ragazza... una di quelle vere, non come mia sorella che è più un maschiaccio.

«Ma... qui vengono anche le ragazze?» ho chiesto, prima di capire di aver detto un'enorme stronzata.

«Sembra.» è stata la risposta pacata di Yuy. Meno pacata è stata quella di Pan che mi ha tirato uno scappellotto.

«IDIOTA! E IO CHE SONO? UN FUNGO?» ha preparato il pugno e tirato indietro il braccio, pronta a tirare.

«No... scusa, scusa, Pan!» ho detto, proteggendomi la faccia con le braccia: ho troppa paura dei suoi destri... non che coi sinistri la mia paura migliori...

«E sarà meglio!» ha detto, ritirandosi, per mia fortuna. Yuy ci guardava perplesso, come se non capisse, poi, facendo un cenno, ci ha invitato a proseguire.

Una volta dentro, sono rimasto io perplesso... la nostra camerata era... enorme, un appartamento, più che altro. Aveva un piccolo disimpegno e tre porte. Una aveva una piccola targhetta con su scritto “Ragazzi” e, sotto, un foglio attaccato che conteneva un elenco di nomi; sull'altra c'era una targhetta con “Ragazze” e un foglio analogo e, sulla terza, la targhetta recitava “Bagno”.

«Le camerate sono confortevoli. Ogni soldato ha il suo armadietto, biancheria per il letto e per il bagno personali. Naturalmente, il bagno è in comune...» ci ha informato Yuy.

«E io dovrei pisciare dove hanno pisciato...» Pan si è messa a contare il numero di alunni maschi. «Diciassette esseri dotati di cazzo?»

Ho guardato Yuy spaventato, pregando perché non facesse rapporto già dal primo giorno. Ma lui sembrava ragionare su quanto detto da Pan.

«Sì...» ha risposto, senza scomporsi. «Altrimenti ci sono i bagni comuni su tutti i piani, ma, anche quelli vengono usati dagli... ehm... esseri dotati di cazzo... e ora scusa, ma devo parlare con uno di loro...»

Si è avviato verso la porta della camera dei ragazzi e ha aperto senza manco bussare.

«Ramazza?» ha domandato, ficcando la testa dentro. Dal disimpegno non vedevo niente e quasi avevo paura di entrare. «Dov'è Ramazza?»

«Chi cazzo è Ramazza?» è stata la risposta che mi ha spiazzato.

«Lascia perdere, lo aspetto qui!» ha risposto Yuy. Pan, intanto, si è diretta verso la camera delle ragazze e ha aperto la porta, guardando dentro, come se si aspettasse che, una volta dentro, sarebbe stata assalita da un mostro o da uno zombie. Stavo facendo un passo verso la camera dei ragazzi, quando l'urlo disumano di mia sorella e di qualcun altro che non ho riconosciuto mi ha fatto decidere di schizzare là dentro.

«Che c'è?» ho gridato, convinto che lo zombie ci fosse davvero. «Che c'è?»

«TU!» ha gridato Pan, ma non si stava riferendo a me. Indicava una ragazza dai capelli azzurri che stava sistemando il letto vicino alla finestra. «TU CHE CAZZO CI FAI QUI?»

La ragazza si è girata e, non solo lei, ma anche io ho sgranato gli occhi: di tutte le persone che mi aspettavo di trovare, lei era davvero l'ultima.

«Che ci fai qui?» ho domandato, con un filo di voce.

«Kenny...» mi ha chiamato mia sorella, con finta gentilezza. «Questa domanda l'ho già fatta io! VEDI DI FARNE UN'ALTRA!»

«Ehm... sì... scusa...» ho detto, ancora scosso, guardando lei. Non credevo che suo padre avrebbe mai permesso alla sua adorata figlia di fare una cosa come... chiudersi in una caserma.

Bra è la figlia di una grandissima amica di nonno Goku, Bulma, la proprietaria di un’azienda molto importante, la Capsule Corporation. E' anche figlia di Vegeta, amico-rivale del nonno. Lui non mi piace granché... si sente un nobile, ma è solo uno sfigato che vive a scrocco di sua moglie Bulma. Si sente troppo superiore per fare un lavoro come tutti i comuni mortali.

Sua figlia, Bra, che ama tingersi i capelli di blu come sua madre, ha un anno più di Pan e loro due si odiano come mai nessuno si è mai odiato. Pan dice che Bra è una vera troia e Bra dice di Pan che è una sfigata violenta.

Non ho idea se lei sia una troia o no, dopotutto non ci frequentiamo molto... la conosco giusto perché abbiamo frequentato le stesse scuole elementari e per via del nonno. E comunque, dal rosso vestitino striminzito che indossava al momento del nostro arrivo, devo dire che il sospetto che lo sia davvero ce l'ho avuto.

«Chi si vede!» ha detto, stupita, lasciando andare la sua divisa sul letto, guardandoci dall'alto in basso. «Lo sapevo che Pan sarebbe venuta qui... dicono che questa sia una scuola di obbedienza per animali indisciplinati, oltre che una scuola sperimentale per persone normali!»

«Cosa vorresti dire, Bra?» ha chiesto mia sorella, già sul piede di guerra. «Possibile che ogni volta che ci incontriamo non puoi fare a meno di darti tante arie? Lo sai che poi diventi un pallone con la testa di muffa su un cazzo ammazzato dalle pecore in lotta?»

«Eh?» a quelle parole, Bra sembrava disgustata. «Ma che dici? Lasciamo perdere.. piuttosto...» si è rivolta a me. «Ken, lo sai che questa è la camera delle ragazze? Ma già... si dice in giro che sei un po'...» ha fatto una smorfia, ma non ha continuato.

«Un po'...?» l'ho spronata.

«UN PO' FROCIO, PARAMECIO RIGURGITANTE!» ha gridato mia sorella. «BELLE FIGURE CHE MI FAI FARE!»

Sono arrossito per l'imbarazzo. In quel momento avrei voluto avere la forza di mia sorella per spaccare la faccia a Bra.

«E chi... chi lo dice?» ho chiesto, cercando di far finta di niente.

«A scuola lo dicevano tutti...» ha risposto Bra.

Non sapevo più cosa dire. Ho abbassato lo sguardo e stavo per andarmene, quando un'ombra mi ha impedito di continuare.

«Ehi, ma è che questo casino?» mi sono voltato, forse ero ancora rosso come un peperone. Davanti a noi, sulla porta della camera delle ragazze, c'era un ragazzo a torso nudo e i pantaloni della divisa sbottonati che lasciavano intravedere delle mutande tutt'altro che pulite. «Voi dovete essere i miei nuovi camerati...» ha detto, cordiale. Si è avvicinato e ha porto la mano a Pan. Mentre camminava, una ventata puzzolente si è sollevata da non si sa dove: mi ha investito una puzza di sudore così intensa, da farmi credere di essere finito vicino a una discarica. Solo la spazzatura puzza così e solo dopo un bel po' che l'hai lasciata al sole, come è successo una volta a casa mia, quando papà si è dimenticato di buttarla nel cassonetto. «Alex Ramazza, piacere!»

Pan ha fatto la mia stessa smorfia disgustata e Bra non è stata da meno. «Lo sapremo solo vivendo!» ha detto mia sorella, senza provare a muovere un muscolo per stringergli la mano. Alex si è guardato la mano, come chiedendosi se Pan non l'avesse stretta perché era sporca, ma non se l'è presa affatto, almeno così mi sembra di aver capito.

Ha porto la mano a me e a Bra, che ci siamo presentati e siamo stati un po' più educati.

«Allora io vado!» ha detto Yuy, facendo capolino. «Tutti vestiti, gli esseri dotati di... ehm...»

«Topa!» ha concluso mia sorella.

«Sì...» ha risposto lui, piuttosto in imbarazzo. «Okay, io vado, Alex!»

«Certo... e grazie ancora per le sigarette, Heero!»

Non so che espressione avevo in quel momento, ma tutto mi ero aspettato meno che un “rompicoglioni leccaculo” come Yuy potesse essere uno che porta le sigarette di nascosto, perché, come lui stesso ci ha detto dopo, le sigarette sono proibite.

«Acqua in bocca!» ci ha detto. «Altrimenti ci inculano tutti!»

«E vorremmo evitare!» ha ribattuto mia sorella, che ha capito tutto al volo.

«Appunto!» ha annuito Alex.

Lui è un tipo strano, ma sembra molto simpatico, peccato che puzzi come una capra in decomposizione.

Nel momento in cui se n'è andato Heero Yuy, è entrato un ragazzo alto coi capelli neri e corti, un tipo che Bra e Pan hanno guardato come se fosse stato una specie di Dio. Sembrava che quello fosse il primo esemplare maschio che vedevano sulla faccia della terra. E non era neanche tutto questo granché: aveva i capelli neri e due sopracciglia che partivano in due diramazioni verso le tempie... un che di fantastico.

Era seguito da una ragazzina bassa, coi capelli lunghi fin sotto le spalle e dei grossi occhiali dalla montatura bluastra. Aveva un visino simpatico, un po' stralunato, al contrario di lui, che sembrava appena stato portato nella nostra camerata con una lettiga corredata di sventagliatrici.

«Buonasera...» ha detto lui, guardandosi intorno, con noi che eravamo tutti sulla soglia della camera delle ragazze.

«Ciao a tutti!» ha esclamato la ragazzina, tutta denti. «Mi chiamo Arale Norimaki, piacere!»

Ha stretto la mano di tutti, pure quella di Pan che, però, voleva riservare a lei lo stesso trattamento che aveva riservato ad Alex. Non ce l'ha fatta, perché Arale Norimaki l'ha presa e gliel'ha scossa mezz'ora, così come ha fatto con tutti noi.

«E, invece, tu sei...» ha detto Bra, sbattendo gli occhioni in direzione del nuovo arrivato.

«Frank?» ma non è stato il ragazzo a parlare, era stato Alex, che sembrava stupito e anche tanto. Frank ha aggrottato la fronte e guardato Alex come se si chiedesse dove l'aveva già incontrato.

«Sei... Alex Ramazza?» il ragazzo ha cominciato a ridere e ha mostrato una fila di denti bianchissimi e perfetti. «Che diamine ci fai qui?»

Alex ci ha fatto scansare tutti ed è corso ad abbracciare quello che abbiamo intuito tutti essere un vecchio amico.

«Sono secoli che non ci vediamo!» ha esclamato Alex, commosso.

Diciamo che Frank non sembrava proprio contento di essere abbracciato da Alex... mi chiedo come mi sentirei, se abbracciasse me, ma non sono sicuro di volerlo scoprire.

«Due anni...» ha risposto Frank, sciogliendo l'abbraccio e guardandosi intorno. Arale e Bra erano sparite nella camera delle ragazze per cambiarsi. Io e Pan rimanevamo sulla porta.

«Sì, da quando sono entrato qui dentro...» ha risposto Alex, annuendo.

«Cosa ci fai qui dentro da due anni?» ha chiesto Arale. «Non sei del nostro anno?»

«Oh, sì che lo sono!» ha risposto lui, tranquillo, anzi, quasi compiaciuto.

Lei ha inclinato la testa, dubbiosa. «E com'è possibile?»

«Sono stato bocciato due volte. Vieni, Frank, prendiamoci i letti vicini!»

Ho seguito i due amici dentro la camerata dei ragazzi, per riuscire a prendermi un letto prima di ritrovarmi con quello più umido.

La camera sembrava essere stata strappata ad un ospedale: diciassette letti di metallo, come quelli ospedalieri di una volta, disposti su due file uno accanto all'altro. In fondo alla stanza, diciassette armadietti. Era il formato più grande della camera delle ragazze.

Ho trovato il mio armadietto (anche questo di metallo, stretto ed alto, come tutti gli altri), perché sopra c'era una targhetta con il mio nome e dentro una divisa, le lenzuola, delle coperte pesanti e due asciugamani. Fortunatamente era tutto pulito.

Dieci minuti dopo, ero pronto, con la mia divisa un po' più grande della mia taglia, i pantaloni che mi scivolavano sotto le scarpe e una giacca e una camicia dentro cui nuotavo perché erano due volte più grandi della mia taglia. Pan, diversamente, aveva deciso di starsene in completo da mare.

«Non è una buona idea!» ha esclamato Alex, non appena siamo tutti usciti dalla camera, lui con macchie d'unto gigantesche sulla sua giacca della divisa sbottonata a far vedere la camicia che, invece di essere bianca, è gialla. «La Une non ama questo genere di cose...»

«La Une?» ho chiesto, senza capire. Lui mi ha guardato e ha annuito, serio.

«Quella troia della direttrice! E' un'insegnante di storia dei Mobile Suit e ce l'abbiamo per tutto l'anno! Gli insegnamenti pratici li fanno solo dal secondo anno in su, ma è una palla!» ha raccontato, mentre scendevamo le scale. «Con qualcuno si gioca anche!»

«Meglio così!» ha esclamato mia sorella, annoiata.

Bra si è esibita in uno sbuffo sdegnoso, Arale e un altro ragazzo che si è presentato come Trowa Burton hanno ridacchiato.

Alex ha fatto spallucce. «Dopo un po' ti spacchi le palle!»

«E tu ancora non sei fuggito?» gli ha chiesto ancora Pan.

«Macché! Ti portano davanti a una corte per... come si dice...»

«Diserzione?» ha proposto Frank, accanto a lui. La sua divisa, al contrario di quella di Alex, era perfetta, impeccabile e anche il suo modo di indossarla. Non so perché, ma quel tipo non mi piace granché.

«Sì...» ha annuito Alex.

«Allora sei idiota!» è stato il commento gentile di mia sorella. «Chi te l'ha fatto fare di farti bocciare?»

«Non è colpa mia, se non me ne frega un cazzo di quello che succede qua dentro!» ha replicato Alex, con foga. «Sono stato costretto a venire qui.»

«Allora non sono la sola!»

Siamo arrivati al primo piano, sempre seguendo Alex, che ci ha condotto fino alla Sala delle Conferenze. Quella, più che per delle conferenze, sembrava adatta per ospitare una rappresentazione teatrale, perché era esattamente un piccolo teatro. C'erano centinaia di file di poltrone, fino al palco, dalla parte opposta dell'entrata, su cui stavano: la direttrice; un uomo vestito di un'alta uniforme blu chiaro, molto alto e coi capelli biondo scuro; il Colonnello Marquise; due tipi, uno moro e uno biondo, vestiti tutti e due di blu, ma di una tonalità più scura rispetto a quella dell'uomo biondo; un altro tizio piuttosto grasso e, infine, uno smilzo, ma tutti e due erano vestiti di nero.

«Venite, prendiamoci i posti davanti!» ha detto Alex. «Tanto è lì che la Une ci farà stare!»

Pan ha borbottato, ma, alla fine, l'ha seguito anche lei, come abbiamo fatto tutti noialtri.


*****


Salve! Allora, che ne pensate di questo nuovo capitolo? Si cominciano a delineare la storia e a conoscere i personaggi che ci accompagneranno da qui per molto tempo...


Prof: sono felice che il primo capitolo ti sia piaciuto e spero che continui ad essere così, adesso e per i prossimi capitoli. Hai ragione: Pan fa un po' paura e la adoro. XD Chissà che poi non possa migliorare (o peggiorare), così da far felice anche la povera Videl. XD

Una sola domanda: cosa intendi per “ritmo troppo ridondante”? A spero presto. ^^


Un ringraziamento anche a coloro che hanno solamente letto e uno ulteriore a Prof che ha messo la storia nei suoi preferiti.


Saluti,

Luine.



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Capitolo 3
*** I Cavalieri della Tavola Rotonda ***



Le lezioni al primo anno

I Cavalieri della Tavola Rotonda


Più che in un collegio militare, mi sembrava di essere finito a una sagra di paese. L'ambiente non sembrava affatto quello freddo e distaccato di una caserma militare, l'allegria e la confusione regnava sovrano: migliaia di ragazzi, anche se tutti vestiti di una semplice divisa nera, si alzavano e sedevano, salutavano i vecchi amici, ridevano di barzellette e saltavano da una sedia all'altra come se ci fosse la corsa ad ostacoli. Ho ascoltato sprazzi di conversazioni, alcuni chiedevano delle lezioni, altri si raccontavano delle loro vacanze, altri ancora erano primini come me e, nervosi all'inverosimile, schizzavano di qua e di là come palline da ping pong, quando quelli più grandi li prendevano in giro.

Molti salutavano Alex, quasi fosse stato un fratello o il salvatore del loro porcellino d'India e lui rispondeva con un'alzata di pollice.

«Sei famoso, Alex!» gli ha detto Arale, ammirata.

«Solo un po'...» ha minimizzato lui, alzando le spalle.

«E come mai?» ho chiesto, mentre facevo passare una ragazza che camminava in direzione opposta alla nostra, che cercavamo di raggiungere i posti davanti.

«Mah, niente di speciale!» Il nostro compagno di corso si è fermato vicino a una fila e ha fatto passare noi che gli andavamo dietro. «Te lo racconterò, un giorno.»

Mi sono seduto in fondo alla fila, davanti a una ragazza con cespugliosi capelli castani che parlava a raffica con due ragazzi che sicuramente erano più grandi. Dalle medaglie che questi due avevano sul petto, ho capito che non erano del primo anno.

«Ma... dicono che Lady Une sia molto severa... e che il tenente Bristow*, invece, sia un po' più malleabile... anche se le sue lezioni sono difficili...» diceva la ragazza coi capelli castani. Doveva essere una primina, come me. «Ma, faremo anche la Teoria sui Gradi, non è vero? Ho studiato qualcosa a casa, ma non credo di ricordarmi tutto! Oh, cielo... se avessi saputo...»

Studiare qualcosa a casa? Mi sono fatto prendere dal panico: noi non sapevamo di dover studiare qualcosa, dato che la mamma aveva omesso di dirci che ci aveva spediti in una caserma militare...

«Quelli sono due dei secchioni più secchioni e sono anche Caporali maggiori.» ha spiegato Alex, a bassissima voce, tanto che è stato difficilissimo seguirlo, soprattutto in quella penombra. «Leccaculo di merda! Pure Heero non li può sopportare e anche lui è uno che lecca parecchio! Però è a posto.»

«Sì, si vede!» ho risposto. «Ti porta le sigar...»

«Shh!» ha detto Alex, cominciando a muovere su e giù una mano, come per mandar via l'odore di fumo. «Vuoi che mi inculino?»

«Scusa...» ho esclamato, mortificato.

Ma Alex ha fatto spallucce e ha ripreso ad indicare persone vicine e lontane, dicendo i loro nomi.

Arale, però, non sembrava molto interessata a quello che il nostro compagno di classe aveva da dire: raccontava ad una annoiatissima Bra della sua famiglia. Ho deciso di girarmi verso di loro e di intromettermi per evitarmi la lista degli studenti della caserma.

Arale è la vivacità in persona, una che ha l'allegria nel sangue e sembra non stancarsi mai di parlare. Pan non sembrava molto contenta di lei e della sua parlantina: aveva l'aria annoiata mentre la nostra nuova compagna ci raccontava un aneddoto sulla sua famiglia.

«Insomma, mio fratello di elettronica non ci capisce un tubo, ma si crede un genio... alla fine puf è scoppiato tutto l’impianto stereo...» diceva.

«Era costoso?» ha chiesto Alex, che aveva smesso di indicare persone proprio quando ha sentito parlare di impianto stereo.

«Da morire! Mio fratello si sarebbe suicidato se Midori non l'avesse fermato!» ha esclamato Arale, ridendo come una matta.

«Peccato...» ha detto Alex, sinceramente deluso.

«Perché?» ha chiesto l’altro ragazzo, Frank.

«Perché non posso più rubarlo per rivenderlo!»

Arale ha sgranato gli occhi. «Mio fratello?»

«No, lo stereo!»

Io e Arale abbiamo riso. Frank, al contrario, è rimasto serio, ma quasi me lo aspettavo: non sembra uno che ride molto spesso. Comunque nemmeno Alex ha partecipato al momento di ilarità. Bra ha fatto una smorfia snob e Pan ha fatto schioccare la lingua, annoiata.

Alla fine non era male come battuta...

«No, guardate che parlo seriamente! Io sono un ladro vero, eh! E non fatemi rubare le vostre mutante per provarvelo!» ha detto, con fare teatrale Alex. Stavolta, oltre a me e Arale, hanno riso anche Frank e Trowa, che si era sistemato tra il nostro compagno anziano e un altro ragazzo che non conoscevo.

«Stronzate!» è stato il commento di mia sorella.

Mentre Arale riprendeva a raccontare dello stereo, Pan mi ha dato una botta sulla nuca.

«Ahi, ma cosa...»

Mi ha tirato i capelli e mi ha costretto a fissare un punto davanti a noi. E così ho notato la posizione dei nostri genitori, seduti proprio sotto il palco insieme a un altro enorme manipolo di persone, tutti anziani.

«Genitori!» ha spiegato Frank, a cui ho chiesto spiegazioni, essendo il più vicino a me. «Vengono tutti quelli dei ragazzi del primo anno! O quasi, almeno...»

«I tuoi dove sono?» gli ho chiesto.

«Non ci sono. Sono arrivato con i pullman, come la maggior parte degli altri studenti.»

Ho annuito, distrattamente, mentre i miei occhi ricercavano i miei genitori che, comunque, sembravano non preoccuparsi per noi (almeno ci avessero cercato per sapere che fine avevamo fatto), ma parlottavano tra loro. Mi chiedo di che cosa. Il nonno, intanto, stava intrattenendo un paio di ragazze che Alex ci ha detto appartenere al settimo anno.

«Però è forte quel vecchio! Alla sua età pensa ancora alle pollastre!» ha esclamato, con un sorriso sulle labbra, quando il nonno si è messo a ridere come uno sguaiato. Chissà come mai, la bocca gli diventa grande quanto un forno, quando lo fa.

«Per forza!» ha risposto Pan, orgogliosa, alla dichiarazione di Alex. «E' mio nonno!»

Non so perché, ma mi imbarazza sempre un po' dire che quello è mio parente: quando ride lo sentono anche da Pechino, per non parlare di quando urla... diciamo che è un vizio di famiglia...

«Figo tuo nonno!» ha detto anche Arale, con un sorriso a trentadue denti. «Purtroppo io il mio non lo vedo mai...»

«E' perché è crepato?» ha chiesto mia sorella, con il tatto di un elefante.

«Non lo so...» ha risposto, però, Arale, senza scomporsi, anzi continuando a parlare col tono spensierato con il quale è entrata nella nostra camerata. «Mio fratello non mi parla mai di lui... vivo con lui e la moglie!»

«Ah, però...» il tono di mia sorella era molto ironico. Ho avuto l'impressione che Arale non le fosse piaciuta nemmeno un po'. «Come ci si sente ad essere la reggicaccole più bassa del pianeta?»

Vorrei che, ogni tanto, avesse un po' più di delicatezza e la smettesse di insultare chiunque.

Arale, però, sembrava addirittura entusiasta. «Benissimo!»

Il suono stridulo del microfono che veniva spostato si è levato in sala, ci ha distolto dai nostri pensieri, sollevando, tra l'altro, da tutti noi che eravamo seduti, una sonora protesta.

«Seduti, prego!» ha esclamato lady Une, in tono autoritario. Tutti quelli che avevo visto in piedi hanno preso posto e quelli che erano stati seduti sullo schienale scivolavano sul sedile. Le chiacchiere, però, non si sono fermate: si sono solo fatte più sommesse.

«Adesso preparatevi a spaccarvi le palle!» è stato il commento che è arrivato da dietro. Mi sono voltato e ho visto Heero Yuy, seduto accanto a Pan, proprio dietro di me. «Il discorso del Generale dura sempre un po'...»

«Che si sbrighino: ho fame!» è stato tutto quello che ha detto mia sorella, senza preoccuparsi di abbassare la voce. Cominciavo già a sentire parecchi sguardi puntati su di noi, mentre la mia aggraziata sorellona se ne fregava altamente.

«Tanto la cena fa schifo e anche il pranzo e la colazione!» è stata l'informazione preziosa dataci da Alex.

«Ecco...» mia sorella, ma non posso darle torto, sembrava parecchio sconsolata. «Mi tolgono pure i piaceri della tavola, adesso! Ma si può essere più sfigati di me?»

Di nuovo, il microfono ha fatto quel rumore fastidioso e tutti si sono di nuovo lamentati.

«Un po' di silenzio, prego!» ha ripetuto la Une. «Benvenuti, studenti!» ha cominciato, quindi, con una voce dura e altera. «Io sono il Colonnello Une, direttrice di questo istituto sperimentale. Il mio compito, come avete avuto modo di leggere negli opuscoli – «Quali?» è stato il commento a voce alta di mia sorella, al quale è stato risposto con un borbottio da parte di quelli che ci stavano attorno. Avrei preferito che abbassasse la voce, ma non aveva tutti i torti: nessuno ce ne ha mai fatti vedere. - che abbiamo inviato alle scuole elementari, è quello di insegnare le regole, le discipline militari, di fare in modo che i nostri giovani, che rappresentano il futuro della nazione, siano in grado di pilotare i Mobile Suit, le speciali macchine di cui è in dotazione il nostro esercito. Ma non voglio tediarvi troppo, quindi passo immediatamente la parola al nostro Generale, Treiz Kushrenada, l'uomo grazie al quale è nato questo collegio militare sperimentale.»

Mentre cedeva il passo all'uomo in alta uniforme che si è alzato dalla sua sedia sul palco, tutti quelli in platea si sono alzati in piedi e Heero ci ha consigliato di imitarli.

«E' il Generale! Non si può non alzarsi di fronte al Generale! E non siamo a teatro!» ha detto, quando mi ha visto con le mani pronte ad applaudire. Pieno di vergogna, mi sono infilato le mani in tasca e, con la testa bassa, mi sono alzato in piedi.

«Ma i vecchi davanti non fanno un cazzo!» ha esclamato Pan, indignata. «Quindi io non faccio un cazzo!»

Non la vedevo, ma me la potevo immaginare con le braccia conserte e la sua perenne aria di sfida stampata in faccia.

«Fai come ti pare!» ha tagliato corto Heero, ma anche lui era in piedi. Alex, invece, ha seguito l'esempio di Pan... e ha preso a scaccolarsi.

«Ma... non ti alzi?» gli ho chiesto, in un sussurro.

«Ma anche no!» è stata la sua risposta indignata. “E se fossi in voi...” ha continuato, guardando quelli che aveva intorno. “fareste bene a sedervi, tanto il Generale dice solo stronzate!”

La ragazza con i capelli castani di fronte a me si è girata e gli ha lanciato un'occhiataccia, prima di tornare a guardare il Generale, rigida come un palo.

«Grazie, lady Une.» ha cominciato l'uomo in alta uniforme. L'ho guardato meglio e ho visto che aveva un sorriso bianchissimo, come i testimonial delle pubblicità dei dentifrici. Le sopracciglia avevano una doppia diramazione in direzione delle tempie... erano orribili. Secondo me, somigliava a qualcuno che ho visto di recente, ma non mi veniva in mente chi. «Credo che sia inappropriato dare a me tutto il merito per la nascita di questo collegio militare. Infatti, è stato il Ministero della Difesa, in collaborazione con quello dell'Istruzione, a permettere che questi studenti e questi genitori fossero qui oggi, insieme a noi.» ha fatto un ampio cenno con le braccia, indicando così tutti noi. «Questo collegio sperimentale, come già detto dal Colonnello Une, è stato ideato perché i giovani si avvicinino più alla loro patria e promuovano la pace, attraverso gli strumenti che noi daremo loro. Impareranno, in questi sei anni di scuola, la storia, la geografia astronomica e terrestre, verranno loro date nozioni di ingegneria, perché possano costruire e modificare le parti di un Mobile Suit, che sia d'aria, d'acqua, di terra o spaziale. Nel corso dei sei anni che passeranno in questo collegio verranno in contatto con ognuno di questi Suit. Il settimo anno, da sempre, è un periodo di tirocinio sulle colonie spaziali, al termine del quale effettueranno un giuramento che li renderà dei veri e propri soldati dell'esercito spaziale. Quest'anno, abbiamo deciso che gli studenti del settimo partiranno con un mese di ritardo, in quanto non hanno potuto fare prepararsi adeguatamente per il viaggio nello spazio, durante i mesi estivi, per un guasto delle attrezzature che è stato egregiamente riparato dai nostri bravissimi tecnici.

«Ma non voglio entrare in dettagli che gli interessati conoscono fin troppo bene. Vorrei ricordare che il settimo anno è facoltativo. Coloro i quali decideranno di non continuare la loro carriera militare, infatti, riceveranno un attestato e un diploma, equipollente ad una laurea universitaria. Non avranno nessun obbligo con la nostra organizzazione. Sappiano solo che, in caso di colloquio, avrebbero un posto assicurato nell'equipe coloniale di ingegneri che, ogni anno, richiediamo in numero sempre maggiore.

«Naturalmente, coloro i quali diventeranno soldati del nostro esercito a tutti gli effetti, avranno maggiori possibilità di lavoro, sia in ambito terrestre che spaziale. Sono molti, infatti, gli ingegneri richiesti sulla Base Lunare.» ha fatto una breve pausa, proprio mentre Heero, dietro di me, sbuffava.

«Il nostro obiettivo a breve termine» continuava il Generale. «E' quello di dare una formazione culturale a questi giovani, che sono il futuro della nostra nazione. Il nostro obiettivo a lungo termine è quello di formare soldati formidabili e preparati, capaci di difendere questa nazione, di proteggere le colonie e la pace nell'universo conosciuto.

«I ragazzi del primo anno non si spaventino. Alcuni, sono sicuro, sono stati spronati dai genitori a venire qui e potrebbero vedere tutto questo come una punizione. Li esorto a capire che loro sono dei prescelti e dei privilegiati ed hanno modo di essere vicini alla loro nazione in misura molto maggiore rispetto ai loro coetanei!»

«Ipocrita!» è stato il commento a mezza voce di Alex. Frank, come me, si è girato a guardarlo, ma solo io gli ho chiesto come mai lo dicesse: a me sembrava che dicesse cose molto belle.

«Lui è così vicino alla nazione solo quando gli danno uno stipendio da capogiro.» mi spiega il mio compagno di classe. «Non è mai andato in guerra, nemmeno durante l'ultima battaglia sulle colonie! È un pezzo di imbecille: ha fatto lo stesso discorso l’anno scorso e due anni fa, quando sono arrivato io. Non è mai cambiato... due palle così... ma l'anno prossimo, non mi vede di certo!»

Kushrenada ha continuato a parlare a lungo, mentre Pan, a voce abbastanza alta, ma coperta dal rumore della voce amplificata del Generale, rimuginava sulle sue parole.

«Ingegneria?» stava dicendo, come se quella parola fosse particolarmente sporca persino per lei. Non ha urlato, credo, solo perché è rimasta molto, ma molto scioccata. «Cazzo, ho solo tredici anni! Cosa cazzo ne so io dell'ingegneria?»

Alcuni davanti si sono girati, tipo la ragazza coi capelli cespugliosi; ha rivolto a Pan un'occhiata altezzosa, si è risistemata al suo posto e per il resto del discorso del Generale non si è più girata.

Alcuni dei nostri compagni si sono messi a ridacchiare, ma è stato Alex a rispondere:

«Non lo so... però partiamo con la matematica... poi c'è la fisica, la chimica... insomma, due coglioni!»

«Non sono tanto male...» ha replicato Heero.

«Forse per te che ci capisci qualcosa!»

«Oh, no!» ha detto Bra, che stava due posti dopo Pan, portandosi le mani davanti alla bocca. «Ma è terribile!»

«Materie in cui vado forte!» diceva, invece, Arale, tra lei e Pan. «Ti do una mano io, se vuoi! Stai tranquilla!»

«Non parlavo delle materie!» ha esclamato lei, come se avessimo dovuto capirlo subito. «Ma i nastri rosa che ha la direttrice nei capelli: fanno a pugni con la divisa!»

«Ah, questa sì che è una tragedia!» è stato il commento sarcastico di Pan.

Non appena il discorso è finito, distrutti ma felici (perché ci hanno dato il permesso di andarcene), siamo usciti dalla Sala Conferenze, diretti al refettorio.

«Ah, questo me lo ricordo dov'è!» ha esclamato Alex, con un sorriso soddisfatto.

«Facci strada, allora!» ha risposto Arale, piantandosi al suo fianco.

Siamo scesi al pianoterra. La mamma ci è venuta incontro e, praticamente, ci ha travolti con il suo corpo. Ha cominciato a stringerci forte, mentre alcuni, passando, ci indicavano. Avrei voluto sotterrarmi, ma il mio imbarazzo era niente in confronto a quello di Pan che tentava di spingerla via, quasi stesse cercando di allontanare da sé un macigno.

«Sono così orgogliosa dei miei bambini che vanno a difendere la patria!» diceva la mamma, tra le lacrime. «Oh, come sono orgogliosa! Ricopritevi di onore, mi raccomando!»

«Mi sa che ci ricopriranno di terra, se tenti di soffocarmi!» ha ringhiato Pan, riuscendo a liberarsi, solo per finire tra le grinfie del nonno che piangeva come un disperato.

«Mi raccomando, piccola mia, picchia duro!» ha detto, come se ci fosse bisogno di una raccomandazione.

«Come vuoi!» ha risposto lei, anche se poco contenta, dato che la stava abbracciando. E il nonno, soddisfatto della risposta, l'ha lasciata andare, per farla finire tra le braccia di papà. Lo stesso giro l'ho fatto io, saltando il nonno che si ritirato, non appena la mamma mi ha lasciato andare.

Li abbiamo accompagnati alla macchina, anche per evitare lo sguardo delle migliaia di ragazzi che, passando, ci indicavano come se fossimo stati degli animali in gabbia.

Per tutta la strada, mamma ha continuato a parlare a raffica: «Ah, questo è il posto migliore in cui potevo mandarvi! Troverete un posto di lavoro sicuro e ben retribuito, difenderete la vostra patria e siete anche dei privilegiati! Oh, aspetta che lo sappia quella Bulma! Lei e la sua orribile puzza sotto il naso solo perché costruisce capsule inutilissime!»

«Mamma, io non vorrei rovinarti le uova nel paniere...» ha continuato Pan, torva. «C'è pure la sua orribile figlia qui dentro!»

Ma la mamma non ha sentito, o ha fatto solo finta, perché ha continuato a sproloquiare. «E quando lo sapranno le zie Polly e Molly avranno un infarto!»

Le zie Polly e Molly sono le sorelle di nonno Satan, due vecchie megere che abitano insieme nel sud del Giappone e che non vengono mai a trovarci, ma che ci chiamano ad ogni ricorrenza e parlano come se sapessero tutto della nostra famiglia. Personalmente, non so manco che faccia abbiano.

«E poi voi diventerete dei graduati! Kenny diventerà Generale un giorno, ma ve lo immaginate?»

«Sì, certo...» ha esclamato Pan, sarcastica, e per una volta dovevo darle ragione. «Te lo dico io come andrà a finire: ci metteranno nelle truppe d’assalto e il nostro futuro sarà segnato. Morte certa!»

«Sempre la solita tragica!» ha ridacchiato la mamma. «Fate il vostro dovere e non fatemi pentire, altrimenti...» ha stretto gli occhi in modo minaccioso e il groppo che mi si è formato in gola non se n'è andato nemmeno quando ho deglutito. «vi mando a raccogliere pannocchie sui monti Paoz!» ha sibilato, puntandoci un dito contro. Un totale cambiamento rispetto ad una frase prima.

Ci ha abbracciato di nuovo, scoppiando in lacrime e poi, camminando all'indietro, commossa, si è diretta verso il suo posto in macchina. Il nonno urlava istericamente e si soffiava il naso dentro un fazzoletto grosso quanto una tovaglia. Se non fosse stato che dovevo rientrare ed affrontare una mandria di bufali impazziti che erano i miei commilitoni, mi sarei dato anche io al pianto libero.

La macchina rosa era sparita dal cortile prima ancora che avessi il tempo di realizzare che non avremmo dormito nei nostri letti. Mi è subito preso il desiderio di correre loro dietro: non volevo lasciarli andare, non volevo rimanere in questo posto.

Non voglio ripensare a quel momento. Se avessi saputo che era così doloroso, mi sarei fatto abbracciare un po' di più...


La mensa è un altro luogo parecchio affollato: è un enorme salone bianco, dove pure il pavimento è fatto da mattonelle lucenti. I tavoli sono di freddo metallo, rotondi ed enormi. Ho notato che hanno dai diciassette ai venti posti, ognuno. Sul fondo, c'è una porta che, come mi ha detto dopo Alex, dà sulle cucine e, attaccato alla parete accanto, un tavolo lungo e rettangolare sui cui, quando siamo entrati io e Pan, erano appoggiati migliaia di vassoi grandi e carichi di pietanze. Una lunga fila di ragazzi aspettava di servirsi.

«Pure a self service...» ha sbuffato Pan, mentre guardavamo tutto questo. «Che culo!»

«Dove ci sediamo?» ho chiesto, girando gli occhi sulla sala gremita.

«Io il più lontano possibile da te!» mi ha risposto.

«D'accordo...» ho cercato con lo sguardo Heero, Arale e Alex: erano gli unici che conoscevo fino a quel momento e avrei voluto sedermi con loro. Heero, però, era già seduto ad un tavolo ed era circondato da quelli che sembravano tutti suoi coetanei.

Allora ho cercato gli altri due e, fortunatamente, erano seduti vicini ad un tavolo al centro della sala; Alex ha alzato un braccio e ha cominciato a sventolarlo per farsi vedere. Io e Pan ci siamo avvicinati.

«Sedetevi!» ha indicato due sedie vuote proprio di fronte a lui.

Ho accettato molto volentieri l'invito, mentre mia sorella è rimasta in piedi e scrutava quelli che erano seduti con noi.

«Mi dispiace: non mi sederò mai allo stesso tavolo di Bra!» ha spiegato, quando l'ha vista, a pochi posti da Alex, fissandola disgustata. Si è posata le mani sui fianchi. «Se volete scusarmi...»

«Se mi vuole scusare lei, soldato...» ha detto la direttrice, acida. Non ho urlato solo perché il suo sguardo raggelante me lo ha impedito. Si è fermata proprio dietro a Pan che, invece, non si era accorta di niente. «Devo ricordarle che tutti gli alunni devono indossare la divisa e si devono sedere al tavolo del loro anno. Sempre e comunque

Mia sorella si è voltata e ha guardato la direttrice dall'alto in basso, come se non le fossero state rivolte parole molto dure.

«Pure se il tavolo salta in aria?» ha replicato, sfacciata. Mi rendevo conto in quel momento che aveva ancora il completo da mare... e ho represso la voglia di ridere, anche perché, se lo avessi fatto, già mi vedevo ai lavori forzati. E la minaccia di mia madre mi ha definitivamente fatto passare questo desiderio.

«Sì!» è stata la risposta secca della Une. «Non voglio sentire un'altra parola. Da domani, se non avrà la sua divisa, avrà la sua prima nota di demerito!»

«Oh, che paura!» mi sono morso le dita (virtualmente parlando), per il terrore: cosa l'avrebbe costretta a fare, adesso? Perché Pan deve sempre mettersi nei guai, invece di scansarli, soprattutto adesso che siamo in un collegio militare?

«Si sieda immediatamente, soldato!» ha sibilato la Une, facendosi più rigida di quello che è, assottigliando le labbra. «Non le consiglio questo comportamento. Potrebbe avere una vita difficile!»

Pan ha inarcato un sopracciglio, per niente intimidita. «Mi sta minacciando?»

La Une le ha lanciato un'occhiataccia, prima di indicare l'unico posto vuoto a tavola.

«Le regole sono regole!» ha detto, glaciale. «E, finché rimarrà sotto questo tetto, dovrà seguirle ciecamente. La vita militare non è un gioco, né è uguale a quella che ha vissuto finora. Seduta

Sulla faccia di Pan è apparsa una smorfia pensierosa. Quasi quasi riuscivo a sentire le rotelle nel suo cervello lavorare velocemente.

«Va bene...» ha detto, tirando verso di sé una sedia e non senza fare molto rumore e facendomi quasi morire di spavento: da quando in qua, mia sorella si faceva così docile? «Non si scaldi! Poteva dirlo subito!»

Si è seduta e la Une, decisamente compiaciuta, è tornata al tavolo dove stavano tutti quelli che erano stati sul palco per il discorso di inizio anno. Alex mi ha riferito che, a quel tavolo, da sempre, si siedono tutti gli insegnanti e, quando viene, anche il Generale. Non ero molto attento, comunque: ero decisamente sconvolto e ancora spaesato per il comportamento anomalo di Pan perché di solito, quando ubbidisce, non è un buon segno.

«Alcuni, tipo Sark*, ce l'abbiamo solo dal quarto anno in poi...» ha continuato Alex, strappando a grossi morsi le fette di pane al centro della tavolata. «sapete, insegna Fisica Subacquea, per i Cancer, i Suit d'acqua, appunto... è quello biondo con la divisa blu!» L'ho guardato: aveva uno sguardo che faceva paura e ho evitato accuratamente di guardare gli altri. Se erano come quello là, allora volevo tenermi la sorpresa per quando ce li avrei avuti in classe.

Mi sono concentrato sul nostro tavolo, sui miei compagni di classe, cercando di non pensare troppo alle stranezze di Pan che mi facevano saettare lo sguardo su di lei che, invece, sembrava concentrata sul suo piatto.

Nel nostro corso, il B, siamo ventidue in tutto, diciassette maschi e cinque femmine. Il ragazzo che mi è rimasto più impresso di tutti è Matt Ishida: è così pallido e biondo che credevo fosse albino, ma il suo amico, sempre nostro compagno, Tai Yagami, ci ha detto che ha solo avuto, di recente, una carenza di non so che proteine, per cui è poco in forma. Credevo che sarebbe morto durante la cena, se devo essere sincero perché si muoveva avanti e indietro sulla sedia e respirava come un asmatico durante una crisi. Ma Yagami continuava a dire che era normale.

Trowa Burton, ho scoperto, conosceva Heero già da prima perché vengono dalla stessa colonia.

«Non sapevo che venisse gente anche dallo spazio!» è stato quello che ha detto Frank, di cui condividevo le perplessità.

«Viene da dovunque!» è stato il commento di Trowa. «Avrei anche potuto andare a studiare sulle colonie, ma mi affascinava il clima terrestre...»

«Io lo preferirei in qualunque caso!» ha esclamato un altro ragazzo, Joe, che ha tanto l'aria da secchione. «Lo spazio è così sconfinato... mettete che una navetta venga colpita da un asteroide e...»

«Succede una volta ogni milione di anni!» è stato la risposta di Alex.

«E le navette di solito viaggiano in condizioni di estrema sicurezza! Se c'è una previsione minima di meteoriti in avvicinamento, non partono!» ci ha informato Arale.

«Ho sentito dire che ci manderanno sulle colonie, qualche volta, come esercitazione, vero?» ha chiesto di nuovo Tai Yagami.

«Sì, l'ho sentito anche io!» ha risposto Frank. «Ma solo dal terzo anno...»

«Fantastico! Non vedo l'ora... io mi sono iscritta apposta per andare nello spazio su uno di quei robot!» ci ha confidato Arale.

Alcuni, Mimi Takikawa, per esempio, è stata costretta dai genitori ad entrare in caserma, mentre Sora, che è arrivata anche lei dalle colonie, ha fatto fuoco e fiamme per riuscire a convincere i suoi perché vuole conoscere la Terra.

«E tu, Bra?» ha chiesto Pan, annoiata, stretta nelle spalle. «Come mai una principessina, col culo sempre pulito da qualcun altro come te, è finita in un posto dove le regole sono regole

Lei l'ha deliberatamente ignorata e ha continuato a mangiare.

Ho preferito ascoltare, più che parlare. Persino Alex, se si andava in zona colonie, sembrava a disagio quasi quanto me. Tutti sembravano così informati su tutti i fatti che vi accadevano, i collegi, i Mobile Suit, che mi sentivo parecchio da meno.

Pan, invece, sembrava star legando, con nientepopodimeno che Arale, che stava all'altro suo fianco.

«Io picchio perché sì... il nonno ha sempre detto che è un linguaggio universale. Insomma, tutti possono capirsi, picchiandosi...»

«Mah, non lo so...» rispondeva Arale, grattandosi la testa. «Insomma, come puoi dire con un pugno... che ne so, qualcosa come... ti voglio bene?»

Pan ci ha pensato un attimo. «Si può dire!»

«E come?» ha insistito Arale.

Mia sorella ha fatto una smorfia infastidita e, per un istante, ho avuto il terrore che volesse picchiare la nostra nuova compagna di classe. «Che cazzo ne so? E mi vuoi lasciare in pace?» ha ringhiato soltanto, invece. Intimorito, ho guardato verso il tavolo degli insegnanti e ho visto la Une scrutarci con uno sguardo eccessivamente cattivo.

Mi sono di nuovo girato verso il mio piatto pieno di quello che doveva essere brodo di pollo, ma che, in realtà, era acqua sporca. Alex aveva ragione: si mangia da schifo.

Da quel momento, comunque, Arale e Pan non si sono più dette una parola. Forse non si poteva dire davvero che socializzassero...

Quando ormai quasi tutti, a parte i più lenti, abbiamo finito di mangiare una cena da dimenticare, la Une si è alzata di nuovo e, aiutata dall'insegnante biondo che ha accolto me e Pan all'ingresso, ha cominciato a distribuire una busta per ogni tavolo; quando è passata dal nostro ha lanciato un'altra occhiataccia a mia sorella, mentre lei, come tutti noi, guardava quella busta come se potesse contenere dell'antrace pronta a schizzarci addosso.

«Cosa c'è là dentro?» ho chiesto ad Alex.

Lui ha alzato le spalle. «Non lo so proprio...» ha confessato.

«Qualcuno dovrebbe aprirla...» ha detto Bra, con voce acuta. Non mi sembrava spavalda come quando mi aveva dato del frocio quella brutta antipatica. «Un ragazzo forte e aitante!»

Alex ha alzato lo sguardo su di lei e le ha rivolto un sorriso maniacale. «Lo faccio io, se mi lasci il tuo numero di telefono!»

Bra ha risposto con una smorfia che esprimeva solo disgusto.

«Dovrebbe aprirla un ragazzo!» ha rincarato Mimi.

«No, dovrebbe farlo una ragazza...» ha replicato Tai. «Prima le signore...»

«Ma i ragazzi sono più coraggiosi!» ha continuato lei, sbattendo le palpebre.

«Mah...» è stato il commento di Frank.

«I prodi Cavalieri della Tavola Rotonda!» ha detto mia sorella, sarcastica. Ma la sua espressione è cambiata improvvisamente, divenendo di una cattiveria spaventosa. Ha sbattuto un pugno sul tavolo e, per poco, non ho urlato dal terrore di poterlo vedere aprirsi in due. Qualcuno, anche dal tavolo degli insegnanti, ha alzato la testa verso di noi, così come alcuni ragazzi degli altri tavoli, sorridendo in modo complice. «Branco di smidollati che non siete altro! Cosa ci vuole a prendere una stupida busta e ad aprirla, eh?»

Senza dire altro, l'ha presa e tutti abbiamo trattenuto il respiro. Quando l'ha lacerata e gettato il suo contenuto sbattendo di qua e di là le braccia, come per spandere davvero tutto intorno a noi la polvere d'antrace, ci siamo coperti la testa con le braccia, urlando come pazzi. Pure Alex che, dopo due anni, avrebbe dovuto sapere cosa c'era in quella busta.

Risate da ogni dove si sono alzate, mentre la Une cercava di ristabilire la calma. Ma la sua voce era così bassa rispetto al casino di risate ed urla che nessuno se l'è filata. Io l'ho sentita solo perché eravamo abbastanza vicini.

Ho sbirciato da sotto le braccia cosa stava succedendo sopra di me: moltissimi fogli stavano svolazzando sopra le nostre teste e, piano piano, si sono posati sulle nostre braccia, teste e piatti pieni. Alcuni si sono unti, altri sono risultati illeggibili.

Frank, accanto ad Alex e di fronte a me, è stato il primo ad afferrarne uno, finito in uno dei piatti e lui sembrava l'unico a non essersi minimamente scomposto, durante tutto quel trambusto.

«E' solo l'orario delle lezioni!» ha esclamato, con un mezzo sorriso divertito stampato in faccia.

A quelle parole, mi sono fatto coraggio e ho preso il foglio che mi era caduto accanto alla sedia, mentre anche gli altri si facevano coraggio e si allungavano per prendere quelli che erano finiti al centro della tavolata.

«L'anno scorso ce li hanno dati la mattina delle lezioni!» è stato il commento di Alex che scuoteva su e giù il suo orario perché bagnato.

«E noi ci siamo cagati in mano per niente?» ha sbottato mia sorella, che non ha mai avuto intenzione di prendere il suo foglio.

Bra ha fatto una smorfia spazientita. «Potresti evitare di usare certi termini? Mi dai sui nervi!» ha esclamato.

Mia sorella l'ha guardata con disgusto. «Potresti evitare di parlarmi? Mi stai sul cazzo!»

Non so come la Une, in mezzo a tutto questo, abbia deciso di lasciar perdere e di non darci punizioni, ma sono felice che l'abbia fatto.

Comunque sia, ho cominciato a leggere: posso dire tuttora di voler scappare, a casa mia, dai miei genitori, nel mio bel lettuccio comodo. Però voglio ricopiare l'orario del prossimo trimestre quassù, così magari riesco a impararlo prima...



Lunedì

Martedì

Mercoledì

Giovedì

Venerdì

08-09

Matematica (Jack Bristow, aula 10)

Geografia (Lucrezia Noin, aula 21)

Attività motoria (Salvini, palestra)

Matematica (Jack Bristow, aula 10)

Storia (Lady Une, aula 12)

09-10

Matematica (Jack Bristow, aula 10)

Teoria dei gradi (Lady Une, aula 24)

Teoria dei gradi (Lady Une, aula 20)

Matematica (Jack Bristow, aula 10)

Storia (Lady Une, aula 12)

10-11

Teoria dei gradi (Lady Une, aula 12)

Matematica (Jack Bristow, aula 24)

Storia (Lady Une, aula 20)

Matematica (Jack Bristow, aula 10)

Geografia (Lucrezia Noin, aula 21)

11-12

Storia (Lady Une, aula 12)

Attività motoria (Salvini, palestra)

Storia (Lady Une, aula 20)

Storia (Lady Une, aula 12)

Matematica (Jack Bristow, aula 10)

12-13

Pausa pranzo

Pausa pranzo

Pausa pranzo

Pausa pranzo

Pausa pranzo

13-14

Geografia (Lucrezia Noin, aula 21)

Attività motoria (Salvini, palestra)

Attività motoria (Salvini, palestra)

Attività motoria (Salvini, palestra)

Matematica

(Jack Bristow, aula 10)

14-15

Attività motoria (Salvini, palestra)

Teoria dei gradi (Lady Une, aula 10)

Geografia (Lucrezia Noin, aula 21)

Attività motoria (Salvini, palestra)

Storia (Lady Une, aula 12)

15-16

Attività motoria (Salvini, palestra)

Geografia (Lucrezia Noin, aula 21)

Matematica (Jack Bristow, aula 10)

Geografia (Lucrezia Noin, aula 21)

Teoria dei gradi (Lady Une, aula 12)

17-18

Geografia (Lucrezia Noin, aula 21)

Geografia (Lucrezia Noin, aula 21)

Matematica (Jack Bristow, aula 10)

Geografia (Lucrezia Noin, aula 21)

Geografia (Lucrezia Noin, aula 21)


Non appena abbiamo visto questo orario, si possono solo immaginare le reazioni. Più che altro quelle di Alex che, già, conosce i professori...

«Tre ore di Une? Domani?» ha detto, guardando la colonna del mercoledì con occhi sgranati.

«Perché, l'idea bestiale di mettere l'attività fisica subito dopo pranzo, come ti sembra?» ha replicato Frank. A quelle parole, Pan non ha potuto resistere alla curiosità e si è presa l'ultimo foglio rimasto nella zuppiera al centro della tavola.

«E' una cosa che queste bestie hanno fatto... tre giorni a settimana! Ma sono proprio deficienti!» ha detto, disgustata, dopo una rapida occhiata e gettando di nuovo il suo orario nel suo piatto pieno.

«E delle tre ore di matematica filate il venerdì che mi dite, gente?» ha detto Trowa, indignato.

«E cos'è Teoria dei Gradi?» ha chiesto Mimi. Ha guardato Alex.

Tutti abbiamo guardato Alex, l'unico che sappia più di noi. Lui ha lanciato a noi uno sguardo smarrito, poi ha fatto una smorfia, per dirci che non lo sapeva.

«Non l'ho mai capito!» ha ammesso candidamente. «E' un corso che non ho mai seguito e, se l'ho fatto, dormivo!»

«Deve essere molto interessante, allora...» ha detto Frank, ironico. Ho annuito, ricordando che avevo già sentito parlare di Teoria dei Gradi... proprio da quella ragazza coi capelli cespugliosi che se ne stava a due tavoli di distanza e parlava animatamente con un ragazzo biondo dall'aria scontenta. Lei aveva già imparato tutto! Ha detto che non ricordava solo qualcosa...

«Siamo fottuti!» Queste sono state le parole di Pan. E' rude, ma mai come in quel momento, le sue parole hanno rispecchiato i miei pensieri.


*****


* Jack Bristow e Julian Sark sono personaggi di Alias, un telefilm di spionaggio messo in onda su RaiDue un paio di anni fa. Sono due dei miei personaggi preferiti della serie e ho voluto riportarli in questa sede – uno decisamente stravolto e l'altro estremizzato – per farli diventare due dei professori-militari del collegio.


Eccoci alla fine del terzo capitolo. Dal prossimo, si parte con la vita di Kenny e Pan in caserma.


Prof: mi fa molto piacere leggere i tuoi pareri ed impressioni sulla storia e sono anche molto contenta che Kenny sembri un personaggio “vero” e non un semplice spettatore ignaro. Sto cercando in tutti i modi di renderlo parte attiva del racconto, anche se non mi sembra sempre di riuscirci egregiamente. Ti invito a farmi presente quando fallirò. Naturalmente, tra Pan e la Une ci sarà una guerra che durerà lunghi capitoli ed anni... e il loro primo incontro ravvicinato la dice lunga sui loro successivi rapporti. Ammetto che anche a me Videl e Pan piacciono troppo. :) Alla prossima!


Ringrazio coloro che hanno letto la storia, che vorranno leggerla, e, spero, che continueranno a seguirmi.

Tengo molto ad avere vostri pareri, quindi non siate timidi. Critiche di qualsiasi tipo non saranno mai disprezzate. ^^

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Capitolo 4
*** Vita di caserma ***


Le lezioni al primo anno

Vita di caserma



2 Settembre


Alzarsi alle cinque della mattina è faticosissimo, soprattutto se la sera prima si va a letto a mezzanotte. La verità è che, vedendomi fuori casa, mi sentivo libero di fare questo ed altro.

Ci ha svegliati Heero Yuy, urlando e battendo sulla porta, prima di andarsene a svegliare quelli della camera a fianco. Ammetto di aver fatto una scemenza, ma le cinque della mattina è un orario decisamente disumano!

Lamentandomi, mi sono stretto ancora più sotto il lenzuolo e stavo per riaddormentarmi, quando un urlo di Pan mi ha costretto ad aprire gli occhi.

«CHE CAZZO SUCCEDE? ORA NON SI PUO' NEANCHE DORMIRE, PORCA TROIA?»

Ma, dopo questo, non abbiamo più sentito la sua voce, come se quella fosse stata la sua sveglia. La conosco abbastanza bene per dire che si era riaddormentata, senza neanche passare a guardare.

Alex si è seduto sul letto e si è stropicciando gli occhi.

«E si ricomincia!» ha detto, guardandomi con l'unico occhio pesto che riuscivo a vedere. «Se tua sorella fa così tutte le mattine, sarà impossibile ignorare questa routine di merda!»

«Ma perché? Ci svegliamo tutti i giorni a quest'ora?» ha chiesto Frank, dall'ultimo letto dall'altra parte della stanza.

«Eh, secondo te?» Alex si è alzato e si è stiracchiato, sbadigliando sonoramente.

«Ma sono le cinque e cinque!» ho protestato, guardando la sveglia che la mamma mi aveva provvidenzialmente messo in valigia solo l'altroieri.

«Cosa?» ha esclamato Tai Yagami, che mi aveva sentito. «Ma questi sono scemi! Buonanotte, ci vediamo tra qualche ora a colazione!»

«Eh, sì, bravo!» ha esclamato Alex, aprendo la porta della stanza. «Così la salti proprio. Quella troia della Une te la fa fare in piedi, a guardare gli altri, mentre si abbuffano di quelle merdate che ci preparano!»

«Eh?» Frank si è alzato in piedi di scatto, a quelle parole. «Andiamo, muovetevi, tutti a prepararsi!»

Non si sa chi gli abbia dato l'autorità per darci degli ordini, ma, per amor di pace e per via del sonno che ci felpava il cervello, abbiamo ubbidito tutti e preso la strada del bagno che, purtroppo, era chiuso e aveva anche un mucchio di ragazze in fila.

«Ma che è?» ha domandato Trowa Burton, sconcertato.

«Alex si è chiuso in bagno!» ci ha informati Arale Norimaki, che era in fondo alla fila. «Ha detto di dover cagare!»

«Va beh, quanto ci potrà mettere mai?» ha domandato Frank, con leggerezza, stringendosi nelle spalle. «Aspetteremo!»

Ma erano arrivate e passate le cinque e un quarto e Alex non era ancora uscito. Alcuni erano tornati a letto, tipo Bra, Mimi, Tai, Matt e qualche altro ragazzo di cui non so ancora il nome. Arale, come Frank, invece, ha optato per i bagni comuni in corridoio ed è uscita.

«Io mi cambio e basta. Mi laverò dopo.» ha dichiarato Trowa, rientrando nella camera dei ragazzi. L'ho seguito: ci sarebbe stato tutto il tempo per lavarsi, dopo l'alzabandiera. Ma mi sbagliavo di grosso.


Credevo che fossimo arrivati in ritardo, invece, era appena iniziato l'appello. Un uomo grasso, con i capelli brizzolati e la voce monotona stava chiamando un certo Howard James al microfono, proprio mentre stavamo scendendo le scale del portone.

«Cazzo!» ha esclamato Alex. Era dietro di noi, con i pantaloni ancora mezzi sbottonati come la giacca «Sono già al secondo anno corso C! Siamo fottuti!»

«Può dirlo forte, Ramazza!» la voce della Une ci ha investiti come acqua ghiacciata. Si era materializzata davanti a me, che scendevo accanto a Trowa Burton e Mimi Takikawa.

«Tutti quelli che non hanno risposto all'appello, stamattina, non faranno colazione!» ha esclamato, freddamente.

«Questa è un'ingiustizia!» ha replicato Alex, sistemandosi la camicia nei pantaloni. «Io dovevo cagare!»

La Une lo ha incenerito con lo sguardo. «Soldato Ramazza, le ho detto mille volte di usare termini più appropriati a un collegio del nostro stampo.» ha risposto, gelida. «Non è un'ingiustizia: una regola è una regola e lei dovrebbe saperlo, dopo due anni. E ora vada insieme ai suoi compagni. Stiamo per cantare l'inno.»

Ci siamo guardati intorno: c'erano così tanti ragazzi in quel cortile che credevo fossero tutti quelli del mondo.

Alcuni rispondevano «Presente», non appena venivano chiamati dall'uomo grasso con la voce monotona, che ho saputo, da Alex, naturalmente, essere Jack Bristow, l'insegnante di matematica.

Ci è voluto un bel po' perché finisse (siamo sette anni, con cinque corsi ciascuno) e si erano fatte le sei. Solo quando Bristow ha finito, un ragazzo del settimo anno, a sentire Alex, ha alzato la bandiera e la Une ci ha ordinato di portare la mano sul cuore.

«A che servirà mai...» domandava Alex, in un borbottio, senza muovere un muscolo.

Uno stereo, non appena la bandiera è stata alta sull'asta, ha cominciato a suonare la musica dell'inno e, al momento giusto, un coro di voci scompagnate ha cominciato a cantare. Alex mi ha indicato i professori che erano proprio dietro di noi: avevano la mano sul cuore e cantavano come se ne andasse della loro vita, mentre la Une muoveva appena le labbra. Non appena mi ha visto, ha smesso di farlo e mi ha puntato contro un dito.

«Si volti e canti!» mi ha ordinato a voce alta. Mi sono girato di nuovo, spaventato.

Arale, accanto a me, cantava con ardore e un enorme sorriso stampato in faccia, come se non ci fosse stato niente di più bello del cantare un inno a quell'ora indegna della mattina. Alex, all'altro mio fianco, mi ha fatto l'occhiolino.

«Credo che non lo sappia nemmeno l'inno. La Une, intendo...» mi ha informato, con un sonoro sbadiglio che non ha nemmeno coperto con una mano, tutte e due infilate in tasca.

Non ha nemmeno aperto bocca per cantare, mentre io, incerto, cercavo di intonare la seconda strofa.

«Cazzo!» ha detto ancora lui. «Dopo due anni non mi sono ancora abituato a quest'andazzo schifoso!»

Dopo, i professori se ne sono andati e, tutti quelli più grandi, che erano anche davanti a noi, alti come torri, si sono voltati indietro, come una sola persona e hanno fatto il saluto militare. Li ho imitati perché la Une non venisse a sgridarmi di nuovo.

In quel momento non sapevo chi mi faceva più paura, se lei o mia sorella, che non si era proprio presentata in cortile.

Ho guardato verso Alex, che, invece di fare il saluto, voltato di spalle agli insegnanti, guardava il cielo con la bocca semiaperta e un'espressione da catalessi. Dieci secondi dopo, ha starnutito.

«Rompete le righe!» ha esclamato la Une, con la sua solita aria da vipera, prima di andarsene e rientrare.

«Cosa?» ho chiesto ad Alex. «Che vuol dire?»

«E' come "Toglietevi di culo", ma poi non sarebbe abbastanza fine per un collegio di questo stampo, capisci? La finezza è la finezza...» ha risposto lui, guidandoci dentro, insieme a una calca di ragazzi tutti in uniforme che parlavano piano, alcuni anche lamentandosi. E non erano solo primini.

«E adesso?» ho chiesto. «Che succede? Sono quasi le sette!»

«Adesso possiamo tornare a dormire!» ha risposto Alex. Ho inarcato un sopracciglio, incerto.

«A dormire?» ha esclamato Rareba, stupito. «Ma... ci sono le lezioni tra un'ora!»

«Ma ho trovato solo gente ligia al dovere, quest'anno? E va bene:» Alex ha guardato Frank, al suo fianco, mentre ci fermavamo tutti insieme sulle scale. Aveva un'aria di finto interesse. «Che abbiamo alla prima ora, Frankie?»

Lui, forse non capendo la battuta, ha preso il foglio con l'orario e l'ha guardato. «Attività fisica che, dopo colazione, è la morte sua!»

«No, la morte nostra!» è stata Pan a parlare. Scendeva le scale, fresca come una rosa ed indossava l'uniforme come la indossava Alex, cioè in modo sciatto e disordinato; il cappello lo faceva roteare su un dito. «Dove siete stati?» ha chiesto, guardandoci incuriosita.

«All'alzabandiera!» ha risposto Frank. «Tu, piuttosto, dov'eri?»

«Non sono mica una fessa come voi!» ha replicato lei, seria. «Io ho dormito come un angioletto!»

«Ed è proprio per questo che salterà la colazione, al contrario di questi fessi!» ha risposto la Une, che era rientrata, accanto a Zack Marquise e il ragazzo coi capelli neri e con l'uniforme blu che aveva visto l'altroieri sera alla cerimonia.

«Cosa?» ha chiesto mia sorella, inorridita. «Che novità è questa?»

«Mi sembra di averle già spiegato le ragioni, soldato...?»

«Iccijojji, purtroppo.» ha risposto Pan.

«Soldato Iccijojji, e non mi piace dovermi ripetere. Ci sono delle regole e una di queste è la disciplina. Da sempre, in questa scuola, ci si alza alle cinque, si fa l'appello e l'alzabandiera e, chi disubbidisce, non fa colazione e guarda gli altri farla. In piedi!» mentre parlava, il suo tono si è fatto sempre più cattivo. E ha goduto nel dire le ultime due parole.

«Si calmi, signora, si calmi!» ha risposto mia sorella, sarcastica. «Non le fa bene alla pressione, se ce l'ha alta!»

Si è diretta verso la mensa e non ha detto altro. La Une aveva un'aria interdetta, come se nessuno mai avesse provato a parlarle in quel modo.

«Muovetevi!» ha ringhiato, rivolta a noi. E, senza aspettare altro, io, Alex, Frank, Arale, Trowa e gli altri che c'erano con noi, siamo entrati a mensa, in quella giungla di scalmanati che mangiavano, si lanciavano i tovaglioli e urlavano saluti a quelli degli altri tavoli.

«Ma... fanno sempre così?» ho chiesto ad Alex.

«Sì. E' l'unico posto dove possiamo! Ehi, ciao, Ernesto, come stai?» si è fermato con un ragazzo basso e i denti sporgenti, mentre noialtri tornavamo al tavolo centrale, quello del nostro anno. Pan era seduta e si stava imburrando una fetta biscottata.

«Scusa se te lo dico, ma tua sorella ha la faccia come il culo!» mi ha detto Arale, sedendosi accanto a lei, senza smettere di sorridere nemmeno per un attimo. «Buongiorno!»

«Buongiorno un cazzo!» ha abbaiato Pan. Arale ha fatto una smorfia e si è presa la brocca del latte che era sistemata al centro della tavola. Non sapevo cosa fare, dato che avrei dovuto rimanere in piedi, senza colazione e, con Tai e Trowa, ci guardavamo spaesati.

Ma, quando ho visto che anche Alex si sedeva e prendeva da mangiare, ci siamo sentiti in dovere di imitarlo.

«Ma bene!» ha esclamato la Une, venendoci incontro. «Vedo che non avete capito: niente colazione significa che non-dovete-toccare-CIBO!»

Pan ha addentato la sua fetta biscottata, mentre il silenzio calava imbarazzante sulla mensa. La Une la guardava rabbiosa. Sembrava pronta per esplodere.

«Lei!» ha sibilato, puntandole contro il dito. «Finirà in cella di isolamento, prima o poi!»

Pan ha masticato il pezzo di fetta biscottata, come se la cosa non la riguardasse. «E se io la denunciassi per maltrattamenti a minori?» ha chiesto, con la bocca piena e nessuna dignità. «Ho letto tutto sull'argomento, quest'estate!»

Io ho spalancato gli occhi, incredulo, e la Une è diventata ancora più rossa della sua divisa.

«Co-cosa?» ha chiesto, interdetta.

«Lei non può maltrattare dei minorenni!» ha risposto Pan, con semplicità.

«Già...» ha esclamato Alex, scattando in piedi, come se sulla sua sedia ci fosse stato uno spillo. «La sorella di Ken ha ragione! Siamo tutti minorenni a questo tavolo?»

Alcuni hanno annuito, tipo Mimi, ma anche persone che non avrei mai creduto, tipo Frank; altri, tipo me o Joe o Trowa Burton, siamo stati un po' vigliacchi e abbiamo preferito far finta di niente.

«Tu, Ken, sei minorenne, no?» mi ha spronato Alex.

«Ehm... s-sì!» ho balbettato, messo con le spalle al muro.

«Lo siamo tutti!» ha continuato Frank, stringendosi nelle spalle. «Ha visto?»

«Kushrenada!» ha esclamato la Une, indignata. «Proprio lei, tra tutti!»

Tutti quanti, a sentire quel nome, ci siamo girati verso di lui e tutti avevamo gli occhi fuori dalle orbite. Probabilmente, si chiedevano, come me, dove avessero già sentito quel nome.

«Cosa? Sto dicendo le cose come stanno?» ha chiesto lui, alzandosi ed ignorando le nostre teste puntate su di lui. Avrà quattordici anni, ma è più alto della Une di tutta la testa. «Se deve punire la ragazza, allora deve punire tutti gli altri!»

«Ben detto!» ha esclamato Alex, fiero, annuendo con forza.

«Non credo dobbiate essere voi a dirmi come devo procedere! Se non sbaglio, sono io che gestisco questa scuola!» ha replicato la Une, riprendendo un po' del suo contegno.

«Nei limiti e nel rispetto del codice militare istituito dal Consiglio dell'Alleanza!» ha replicato Frank. La Une ha inarcato un sopracciglio, ma non ha ribattuto. Sembrava interessata a ciò che il nostro compagno aveva da dire. «Secondo l'articolo 12 comma C, non tutte le punizioni applicabili ai maggiorenni possono essere inflitte ai soldati di questa scuola, se minorenni. Una delle punizioni bandite è, guarda caso, quella della cella di isolamento. Mio zio ha stilato questo punto di suo pugno!»

L'abbiamo ascoltato tutti a bocca aperta. Ora, le sue parole non sono state precisamente queste, ma ricordo di aver cambiato totalmente idea su di lui.

Bra e Pan sbattevano le palpebre, guardandolo, di nuovo, come se fosse stato Dio. Alex ha applaudito e così tutti quelli dei tavoli vicino che avevano ascoltato e, ben presto, tutta la caserma applaudiva il loro nuovo eroe. Applaudivamo con ardore: ero impressionato dal coraggio che aveva dimostrato nel fronteggiare quella donna così spaventosa.

La Une lo guardava, però, con aria di sufficienza.

«Ha finito?» ha chiesto, quasi annoiata.

Lei e Frank si sono scrutati per alcuni lunghissimi secondi. La tensione si poteva tagliare col coltello. Persino Pan aveva perso l'appetito.

«Bene.» ha continuato la Une. Ha guardato tutti noi con le labbra arricciate. «Kushrenada, voglio avvertirla: lei sarà anche il nipote del Generale, ma io sono il Colonnello Une e sono la direttrice della scuola. Forse alcuni insegnanti le permetteranno di godere di certi privilegi, ma non sarò tra quelli.» ha sorriso dolcemente. «Posso rendere molto difficile la vita ai miei alunni.»

Lui si è morso un labbro. Guardavo da lei a lui e mi batteva il cuore: quella donna fa davvero paura.

«Nei limiti del regolamento, spero!» ha risposto Frank, dopo un secondo, ma tutti abbiamo sentito il tremore nella sua voce.

«Naturale!» ha risposto lei, abbozzando un sorriso velenoso. Se n'è andata, lasciandoci tutti confusi, con lo stomaco serrato e gli occhi fuori dalle orbite. Nessuno, davvero, ha toccato più cibo. Ma, oltre al terrore messoci addosso dalla Une, adesso avevamo qualcosa di cui parlare: Frank.

Era il nipote del Generale Treiz. Ecco dove avevo già sentito il suo cognome. Se si comincia così, con questi vuoti di memoria, mi immagino come farò a studiare le nozioni di ingegneria!

Alex è stato il primo a riprendersi: ha dato delle pacche affettuose sulle spalle di Frank che ha sorriso timidamente.

«Che troia! Beh, almeno qualcuno ha le palle!» ha detto mia sorella, disgustata. Ma poi ha guardato Frank e gli ha dato la mano. «Pan Iccijojji, piacere!»

«Frank Kushrenada!» ha risposto lui, stringendogliela.

«Ah...» ha esclamato Arale, dando voce ai miei pensieri. «Ecco perché il tuo cognome, quando ieri ti sei presentato, mi suonava familiare... sei nipote di quell'ipoc... ops...»

Si è zittita, ma Frank non ha detto niente – non ho capito se se l'è presa oppure no –, mentre Alez si è messo a ridere apertamente.

Solo in quel momento mi è sovvenuto che, alla cerimonia d'apertura, Alex ha dato davvero dell'ipocrita al Generale di fronte a Frank.

«Perché non ce l'hai detto prima?» ha chiesto Bra, sistemandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio e sfoggiando il più smagliante dei sorrisi.

«Perché non me l'avete chiesto...» ha risposto lui, ridacchiando.

«Uno a zero, palla al centro!» ha esclamato Alex, ancora battendogli sulla spalla. «Non tutti riescono a tenere testa alla Une, almeno non al primo anno!»

Pan, a quelle parole, le ha scoccato un'occhiata cattiva. Sono entrato nel panico. Cosa avesse in mente, non potevo saperlo e, se potessi, non vorrei mai saperlo. Ma so già che non sarà così.


La prima lezione di oggi è stata l'attività fisica. Il professore è un Capitano, un tipo così simpatico che ci fa fare tutto quello che vogliamo, a patto che non rompiamo niente e che non lasciamo la palestra.

Gli spogliatoi sono molto grandi e, come nelle camerate, ognuno ha il suo armadietto con dentro un accappatoio e due paia di magliette e di pantaloncini.

«Di là ci sono le docce!» ha detto Alex, indicando una porta che, a scanso di equivoci, aveva attaccata sopra una targhetta con scritto "Docce".

«Grazie, Ramazza.» ha esclamato Trowa Burton, sarcastico. «Meno male che ce l'hai detto tu...»

«Prego!» ha risposto lui, forse senza aver colto l'ironia, andando al suo armadietto. Il brutto era che lui ce l'aveva lontano da noialtri, perché, ci ha spiegato, era ancora vicino ai suoi vecchi compagni che, adesso, stanno al terzo anno.

Il mio era tra quello di Tai Yagami e quello di Trowa.

Una volta che ci siamo cambiati (il mio completo mi sta grande quasi quanto la divisa), siamo scesi nell'enorme palestra della caserma: il pavimento era quello solito delle palestre ed era di un bell'arancione. C'erano diversi campi, due da pallavolo, due da pallacanestro e, fuori, ci stava il campo da calcio.

«Allora... salve! Sono il Capitano Salvini, il vostro insegnante di educazione fisica. Direi di cominciare con dieci giri di corsa intorno alla palestra!» così ha esordito il professore. Era diverso da come me lo aspettavo: era magro, poco più alto di me, i capelli grigi e un viso abbastanza gentile.

«E' uno dei più a posto qua dentro!» ha detto Alex, mentre cominciava a riscaldarsi con un po' di stretching. Poi si è stiracchiato e ha sbadigliato sonoramente, come se si fosse appena alzato. «Muoviamoci, ragazzi!»

Ha fatto i suoi giri in poco più di dieci minuti e Frank ha tenuto il suo tempo. Durante il mio secondo giro solitario, già si stavano sfidando a chi dei due riusciva, in meno tempo, a correre da una parte all'altra della palestra, per lungo.

Mi sono fermato a riposare al quarto e, in quel momento, sono arrivate le ragazze, in branco, vestite come noi. Pan era rimasta indietro e guardava tutto annoiata nella sua divisa due taglie più grandi della sua.

Le ho fatto un cenno di saluto e lei, per un secondo mi ha stupito, perché mi ha risposto, sorridendo anche. Ma poi il suo sorriso si è trasformato in una smorfia e mi ha rivolto gestaccio, congelandomi con la mano a mezz'aria.

«Allora, che dobbiamo fare? Giochiamo a pallavolo?» ha chiesto Bra, guardando le reti.

«No!» il Salvini ha ripetuto quello che ha spiegato a noi.

«Io non lo farò di certo!» è stata la risposta di Pan. E la reazione del professore mi ha fatto capire che è proprio un tipo a posto, come ha detto Alex: ha fatto finta di niente ed è tornato nel suo ufficio, uno stanzino che pare uno sgabuzzino, oltre la scala che porta agli spogliatoi maschili e se n'è fregato di noi per il resto dell'ora.

E' passata molto velocemente e non l'abbiamo nemmeno finita.

«Poi Lady Une mi scuoierebbe vivo!» ha spiegato il professore, rimandandoci negli spogliatoi cinque minuti prima del suono della campanella. Dopotutto, sembra quasi essere a scuola, se non fosse tutto così... militare.

Ridendo della battuta del professore, siamo tornati indietro, a cambiarci e a commentare entusiasti quanto avevamo appena vissuto. Solo Trowa non sembrava contento.

«Credevo che avremmo cominciato con qualcosa per tonificare i muscoli, accelerare i riflessi...» ha esclamato. Alex ha fatto schioccare la lingua.

«Non lamentarti!» gli ha detto. «Meglio che ci sia un'ora così, se non vuoi morire dopodomani! Non hai visto ancora niente di questo posto, te l'assicuro!»

«Adesso ce l'abbiamo dopo pranzo, di nuovo!» ha sbuffato Tai, coprendo il "bah" scocciato del nostro compagno. «Io ve lo dico. Sto seduto e non faccio una mazza!»

«Beh, visto?» ha commentato Alex, indicandolo, ma rivolgendosi a Trowa. «Comunque, Frankie, ho vinto io!»

Frank si è messo a ridere. «Ma se facevi fatica a starmi dietro!»

«Stronzate! Eri tu quello che mangiava la mia polvere!»

«Sì, ok, Alex. Sogna pure.»

«I sogni son desideri...» si è messo a cantare Alex, suscitando l'ilarità generale, mentre si portava un microfono immaginario alla bocca e balzava su una panca, per usarla come un palco.

L'atmosfera era delle migliori, anche se erano già cominciate le lamentele: in tutte le scuole, da sempre, non sono mai stati accontentati tutti gli alunni. Ancora non riesco a capire se mi troverò bene con loro, eppure non mi sembrano antipatici, tutt'altro.

E' stato un vero peccato che abbiamo dovuto abbandonare gli spogliatoi per andare in Aula 20 per la prima vera lezione della giornata.


L'Aula 20 è come la Une: precisa, perfetta e ordinata. Infatti, mi ha spiegato Alex, ogni insegnante è responsabile di alcune aule e la Une lo era di quella.

La direttrice ci aspettava dietro la cattedra, in piedi, in rigida posa militare e ci guardava come se fossimo delle merde. All'insegna del benvenuto.

«Seduti, soldati! E non fate confusione. Da che prenderete i vostri posti, quelli saranno fino alla fine dell'anno. Mi sono spiegata?» così ha esordito, mentre entravamo in una fila tutt'altro che ordinata.

Mia sorella si è seduta in ultima fila, mentre io mi sono messo al centro, con Frank, Alex, Trowa e Rareba. Non ci sono banchi come a scuola, solo alcune sedie e un banchetto laterale che bisogna tirare su.

«Nessuno di voi ha carta e penna!» ha constatato la Une, guardandoci con una smorfia di puro disgusto.

«Perché, servivano?» ha chiesto Alex. La Une lo ha guardato di traverso.

«Ah, ha finalmente deciso di seguire questo corso, soldato Ramazza?» ha chiesto, con una nota di sarcasmo.

«Questi ragazzi sembrano più simpatici di quelli degli altri anni!» ha risposto lui, con un sorriso e i gomiti sulla spalliera.

La Une ha fatto una smorfia indispettita. «Veda di mettersi composto, Ramazza! Qui non siamo al bar!»

«Aspettatevi di sentirlo ogni giorno della vostra vita!» ha borbottato lui, rivolto a me e a Frank, mentre la Une guardava verso le ultime file.

«Lei, Iccijojji...» ho alzato la testa di scatto, ma ce l'aveva con mia sorella che, al contrario mio, continuava a grattarsi dietro le orecchie e a guardare un punto imprecisato del soffitto. «Iccijojji?»

Solo dopo un paio di secondi, Pan ha abbassato la testa verso di lei, ma ha guardato me. «Kenny, cazzo, vuoi rispondere a questa signora che ti sta chiamando? Sei un gran maleducato!» mi ha detto.

«Parlavo con lei, Iccijojji!» ha risposto la Une, acida. «Vorrei che anche lei si mettesse composta.»

«E chi sta facendo niente?»

«La smetta di grattarsi le orecchie e si metta composta!» ha detto la Une, tra i denti.

«Ma io grattavo dietro le orecchie...» ha detto mia sorella, come se non capisse il perché di tutta quella cagnara. Alex si è piegato in avanti per nascondere le sue risate alla vista della Une che sembrava un pesce fuor d'acqua: probabilmente non ha mai avuto a che fare con una persona come mia sorella.

«Allora,» ha cominciato, riducendo la voce ad un sussurro. «Molti di voi si saranno chiesti cosa significhi Teoria dei Gradi, giusto?»

«Veramente... no...» ha replicato Pan. Alex ha ripreso a ridere e Frank gli ha dato una gomitata, per fargli segno di tacere. La Une ha continuato ad ignorare le battute fuori luogo.

«E' presto detto: voi siete del primo anno e dovete imparare i gradi di tutti i militari, in modo da poter portare il dovuto rispetto e, soprattutto, riempire quelle teste ignoranti.»

«Ma che culo!» ha provato di nuovo mia sorella. La Une non l'ha proprio calcolata, mentre mi chiedevo se quella fosse la sua nuova strategia per farsi notare... o se facesse parte di un suo piano.

«Partiamo dal fondamento. Nell'esercito spaziale, oltre alle medaglie, cambiano anche le divise. Voi ne indossate una nera, io una rossa...»

«Ma va'...» ha insistito mia sorella. «Questo l'avevo visto pure io...»

«Iccijojji, vuole essere così gentile da lasciarmi finire un discorso?» ha abbaiato la Une, guardandola in modo feroce. Pan ha alzato le mani, con un'espressione accondiscendente stampata in faccia.

«Partiamo dall'imparare tutti i gradi.» ha, quindi, continuato la Une, facendo come se niente fosse. «Ho preparato delle fotocopie apposta.» ha preso dal cassetto della cattedra un pacco di fogli e ci ha contati, poi ha contato i fogli e li ha distribuiti.

Sopra a tutti, c'era disegnata una tabella con tutte le medaglie e le divise connesse a ognuna. Sul primo riquadro a sinistra non c'erano medaglie, ma solo un'uniforme e sotto la scritta "Soldato".

«Come potete vedere,» ha continuato la Une. «i soldati delle Truppe e i Sottoufficiali, portano la divisa nera, gli Ufficiali Inferiori la divisa blu, gli Ufficiali Superiori, tra cui io («C'è pure bisogno di sottolinearlo!» ha mormorato Alex.), quella rossa e gli Ufficiali Generali quella azzurra, come il nostro Generale Treiz. Ora, voi potete benissimo riconoscervi come Soldati Semplici.

«Nel corso di questi sei anni, potrete aspirare a diventare questo!» ci ha fatto indicato, dal foglio che teneva in mano l'ultima casella della prima riga. «Cioè Caporal maggiore capo scelto. Se proseguirete con i vostri studi militari, cosa che spero, potrete benissimo andare avanti e conquistare molte più medaglie.»

Rareba Winner ha alzato la mano. «Sei anni? Sui depliant c'è scritto che gli anni sono sette!»

«Sì.» la Une ha annuito e ha intrecciato le mani. «E se avesse ascoltato il discorso del Generale, ieri pomeriggio, saprebbe anche perché. Gli anni che dovrete affrontare chini sui libri sono sei. Il settimo è un anno facoltativo di tirocinio sulle colonie spaziali, al termine del quale dovrete superare un test finale e poi, naturalmente, potrete giurare fedeltà al vostro Stato e all'Alleanza!»

Stavolta, la mano l'ha alzata Mimi Takikawa. «E chi, invece, volesse terminare al sesto anno?»

«Alla fine dell'esame del sesto anno, potrà chiedere la licenza.»

«E cosa bisogna fare per prendere le medaglie?» ha voluto sapere Tai Yagami.

«Una lotta con i Pokémon!» ha esclamato Alex, facendo ridere tutta la classe. La Une, però, ci ha urlato di fare silenzio.

«Le sue battute sono del tutto fuori luogo, Ramazza!» ha esclamato, acida. «Le consiglio di studiare quest'anno, se vuole continuare a frequentare questi... ragazzi simpatici!» ha detto le ultime due parole con una smorfia di disgusto, come se non credesse che, davvero, possiamo essere simpatici. «Per rispondere alla sua domanda, soldato...?»

«Yagami!» ha risposto Tai, pronto.

«Per rispondere alla sua domanda, soldato Yagami: servono disciplina, ottimi voti agli esami di fine anno e...»

«Esami di fine anno?» ha gridato Pan. «Che vuol dire esami di fine anno?»

La Une ha sospirato, decisamente sconsolata. «Quello che ho detto.» ha risposto, però, con durezza. «Ci sono degli esami per testare la vostra preparazione e per vedere se siete pronti ad affrontare l'anno successivo.»

«Ma che bel castello, marcondirondirondello, ma che bel castello, marcondirondirondà.» ha cantato, allora, mia sorella, senza nessuna enfasi.

La Une le ha rivolto uno sguardo sconvolto, quindi si è portata una mano alla tempia. «Non è possibile.» l'ho sentita mormorare per quattro volte. «Non voglio crederci!»

Non era la prima ad avere questa reazione, al primo impatto con mia sorella. Ed io, se prima ero preoccupato, in quel momento cominciavo ad essere terrorizzato per ciò che potrebbe esserci nella mente di quella pazza scatenata che è Pan.

Abbiamo ripreso la lezione senza intoppi, comunque. La Une ci ha spiegato che ne avremo fino alla fine del trimestre per Teoria dei Gradi e che avremmo studiato la storia della caserma in queste ore.

Come primo compito per domani, abbiamo avuto da imparare tutti i gradi, da Soldato a Generale, a memoria!

«Ma è crudeltà mentale, questa!» ha protestato Alex, non appena la Une ha finito di parlare.

«Non le pare di esagerare, Ramazza?» ha ribattuto la Une. «Non mi pare che nessuno, prima di lei, si sia lamentato. Lei ha mai sentito i suoi vecchi compagni farlo?»

«Beh, io mi lamento!» ha risposto lui, offeso, stringendosi nelle spalle.

Alla fine, la Une è esplosa, cosa che non riuscivo a credere, per com'era sempre stata composta e impeccabile: «LEI NON DEVE LAMENTARSI, DEVE UBBIDIRE! E adesso cominciamo con la Storia!»

La Storia non ha niente a che vedere con quella della caserma. Ha a che vedere con le colonie, costruite negli anni Sessanta, dopo lo sbarco sulla Luna, che è divenuta una grande base spaziale militare dell'Alleanza, cioè degli eserciti uniti di terra e colonie spaziali.

La Une ci ha anche elencato i vari settori nei quali sono divisi i "territori spaziali", nei quali ci stanno dalle tredici, alle venti colonie, ma non me ne ricordo manco uno, non avendo avuto nemmeno un quaderno per prendere appunti.

Rareba, che ci vive, ha spiegato che le colonie sono come i pianeti, solo costruite dall'uomo, vivibili e che si mantengono nell'orbita solare, grazie a dei dispositivi che, secondo la Une, studieremo solo al sesto anno, se mai ci arriveremo.

Queste specie di Terre hanno cibo e acqua perché vengono forniti dalla Terra.

Durante l'ultima guerra degli anni Ottanta, molte persone sono morte di sete perché tutti i Suit e navicelle-cargo che trasportavano l'acqua, venivano abbattuti dai nemici.

«Ogni settore coloniale appartiene a uno Stato o continente. Per esempio, le colonie appartenenti al settore L74» spiegava la Une. «sono amministrate dal governo giapponese; quelle di Z21, dalla Russia. Una parte di quelle di A80 dalla Comunità Europea...» ha continuato per un po' e non sono nemmeno sicuro dei numeri. E' stata una lezione interessante, di introduzione, soprattutto. E sono passate in fretta anche le due ore, senza che nessuno fiatasse, nemmeno mia sorella, che non ha mosso un muscolo. E il mio terrore cresce, anche adesso che scrivo: mia sorella non è mai stata una che cede così facilmente.


La maggior parte di noi, però, era entusiasta della prima lezione con la Une e, a pranzo, è stata l'argomento principale di conversazione.

«Ma che è successo di tanto interessante?» ha chiesto Pan, servendosi di quello che doveva essere brodo di pollo, ma che sembrava solo acqua gialla. «Io mi sono rotta le palle!»

«E c'era da rompersele!» ha confermato Alex. «Tutte quelle stronzate, quei settori... ma chi se ne frega?»

«Ma che ci sei venuta a fare, se non ti piace?» ha detto Bra, altezzosa, squadrando Pan come se fosse stata una cacca sotto la sua scarpa firmata.

«Perché sono fatti miei!» è stata la risposta rabbiosa di mia sorella.

«Non ha senso che tu sia qui e che faccia la spiritosa in quel modo! Finora non sei stata punita perché è il primo giorno. Ma non vedo l'ora che tu finisca a pulire i cessi con la lingua!»

«Tu finirai su un marciapiede a fare ben altro con la lingua!» ha detto mia sorella. Ho corrugato la fronte e ho guardato Pan in cerca di una spiegazione che non è mai arrivata: certo che, quando ci si mette, fa delle battute che non riesco a capire. Ma Bra sembra averla capita molto bene perché ha risposto:

«Ecco, quando non sai che dire, offendi!»

«Sempre meglio di te che spari solo cazzate!»

«Io dico le cose come stanno!»

«Tu apri la bocca e le dai fiato, sempre che non ci metta un...»

Ma Frank le ha impedito di continuare. Essendo vicino a lei, le ha posato una mano sulla spalla, suscitando la più prevedibile delle reazioni in lei. Beh, prevedibile solo se ci sei vissuto per dodici lunghi anni: ha fatto scattare la testa verso di lui, gli occhi fuori dalle orbite e un'espressione omicida che si estendeva a tutto il suo volto.

«Che cazzo vuoi?» gli ha chiesto, disgustata.

«Ti va di passarmi il sale?» ha avuto la brutta idea di dire Frank.

«Brutto coglione!» è stata la risposta di Pan, infatti. «Non vedi che sto parlando?»

«No, stai solo sparando parolacce!»

Altra cosa da non dire: la verità fa male, ma fa ancora più male se la si dice a Pan. Ero convinto che avrebbe preso una forchetta e che gliel'avrebbe ficcata in una mano, se non in un occhio. Già mi immaginavo le urla, il sangue che schizzava dappertutto e le corse isteriche di tutte le persone colpite. Ho detto ad Alex, al mio lato destro, di mettersi un piatto davanti alla faccia. Stranamente, lui non ha fatto una domanda e, ancora più stranamente, ha preso il piatto. Peccato che fosse pieno di pollo alla birra (sì, è disgustoso! L'unica cosa buona era che di birra non ce n'era) e che gli sia finito sulla divisa, ungendolo dal petto fin sul cavallo dei pantaloni, dove il pollo si è fermato.

Eppure, Pan non si è armata di niente: ha ruttato sonoramente per due volte. E ho visto Bra, da dietro il piatto ancora sollevato sulla mia faccia, curvo sul tavolo e i gomiti appoggiativi sopra, che si allontanava con tutto il suo, di piatto.

In quel momento è arrivata Arale, si è messa alla mia sinistra e guardava me e Alex in quella strana – per chiunque non sappia – posizione.

«Che gioco è?» ha chiesto, curiosa, inclinando la testa da una parte all'altra.

«Non lo so...» ha risposto Alex.

Ho guardato lei da dietro il piatto e le ho fatto un cenno di fronte a me, dove stava seduta Pan. Arale ha capito subito.

«Sì, che c'è?» mi ha chiesto.

«Che fa?» ho sibilato.

«Mangia.» ha risposto lei, come se non ci fosse stato niente di più naturale che essere seduti ad un tavolo a mangiare. Ok, effettivamente non esiste niente di più naturale, ma non quando si tratta di avere mia sorella nei paraggi...

Arale si è seduta e ha cominciato a piluccare il suo pollo. «Avete intenzione di tenervi quei piatti in faccia per tutto il resto della pausa pranzo?» ha chiesto.

«Ehm...» non lo sapevo, a dire la verità: prima avrei preferito sapere se la burrasca era finita. «Non sta lanciando niente, vero?»

«No...» ha risposto lei, dubbiosa.

«Kenny, sei proprio un coglione!» è stato il commento di Pan. «CHE CAZZO CI FAI CON UN PIATTO DAVANTI ALLA FACCIA?»

A quel punto, non potevo più sottrarmi all'evidenza, così ho abbassato il piatto di nuovo sul tavolo. Alex mi ha imitato.

«Ah, abbiamo finito?» ha chiesto. Ho visto Frank scuotere la testa, rassegnato, mentre Pan alzava gli occhi al cielo, esasperata. Arale ha ridacchiato, mentre vedevo che quasi tutti i ragazzi del nostro corso ci stavano guardando, ridendo sotto i baffi.

«Allora,» ha continuato Arale, distogliendo la mia attenzione da quell'imbarazzante situazione. «che ve ne è parso della lezione con la Une?»

«Io non sapevo che le colonie appartenessero agli stati terrestri!» ho detto, velocemente.

«Ma se tu non sai manco come ti chiami!» è stato quello che ha risposto Pan, guardandomi con cattiveria.

«Certo che sono nostre!» ha detto Frank, ignorando mia sorella e guardandomi. «Però, hai sentito la Une, vogliono staccarsi da noi e amministrarsi per conto loro. Purtroppo per acqua e cibo dipendono da noi; le colonie sono artificiali...»

«Ovvieremo anche a questo.» ha replicato Trowa, come se l'avessero offeso personalmente. «Ci stiamo lavorando!»

«Perché non volete essere comandati dalla Terra?» ha chiesto Arale.

«Perché non è giusto: la Terra è la Terra. E le colonie sono al di fuori di essa.» ha risposto Rareba, molto più pacato di Trowa. «Vogliamo solo poterci governare da soli. Non è giusto che la Terra debba controllarci solo perché dipendiamo da lei per cibo e acqua.»

«Ma senza queste cose sareste inchiappettati e morti stecchiti!» ha detto mia sorella, indicandolo con disprezzo. «E' giusto che vi controlliamo! Dovreste esserci grati e basta: non vi facciamo morire di fame e sete, come degli ingrati del genere, meriterebbero!»

«E' per via di persone che la pensano come te che ci sono le guerre nello spazio!» ha protestato Trowa, guardandola in cagnesco. «Migliaia di colonie sono andate distrutte proprio per questo e non solo loro, ma anche gli abitanti. Donne e bambini!»

«Siete solo degli ingrati!» ha ripetuto Pan. «Se vi stavate al vostro posto, niente morti!»

«Iccijojji, gli abitanti delle colonie non si sentono più terrestri!» ha tentato di spiegarle Frank, mentre posava il bicchiere davanti al suo piatto. «Vogliono la loro indipendenza e non possiamo dar loro torto. Ci sono state molte guerre in passato e non è giusto continuare su questa via. Troppi morti, troppi sacrifici!»

«Il vero problema sono i terrestri.» ha replicato Trowa, battendo il pugno sul tavolo. «Non vogliono perdere il controllo sullo spazio, adesso che ce l'hanno! Lo distruggerebbero, pur di non perdere la loro supremazia!»

«Quanto la fate lunga!» ha detto Pan, allargando le braccia, esasperata. «Rompete poco i coglioni e vivrete meglio, niente guerre, niente sacrifici! Visto com'è facile?» La questione sarebbe caduta lì, se lei non avesse continuato con questa frase, rivolta all'agguerritissimo Trowa: «E tu che disprezzi tanto la Terra, perché sei venuto a stare in un collegio militare sulla Terra? Lo sai di essere un povero incoerente, vero?»

«Questo non è solo un collegio militare terrestre.» ha ribattuto lui, inviperito. «E' il miglior centro dove imparare a costruire e pilotare i Mobile Suit. Se fosse stato sulle colonie, credimi, non sarei venuto qui a farmi insultare da te!»

«Ti dicevo le cose come stavano, il mio caro perfettino!»

«Finché le dici tu le cose come stanno, Iccijojji, va tutto bene, vero? Se sono gli altri a dirle a te, allora è tutto sbagliato!» ha ribattuto Bra, acida. «Sei tu l'incoerente, non Burton! Vero, Burton?» ha detto, mielosa. Ma Trowa le ha solo scoccato un'occhiata indifferente e ha ripreso a mangiare, particolarmente corrucciato.

Arale ha fatto una smorfia dubbiosa, mentre io mi chiedevo se era davvero normale morire per una cosa così: se quelli delle colonie vogliono l'indipendenza, perché non ne parlano con i terrestri, invece di fare le guerre?

Il pranzo è finito poco dopo ed eravamo pronti per un'altra ora di educazione fisica, che abbiamo passato tutti negli spogliatoi senza che nessuno ci venisse a chiamare o ci desse note di demerito. Trowa è stato l'unico, insieme a Rareba Winner e pochi altri ad andare in palestra. Frank è rimasto con me, Matt Ishida, Tai Yagami e Alex che ha provato a pulire la divisa, ma ha ottenuto solo di sporcarla di più.

«Che cazzo!» ha sbuffato, arrabbiato.

«Va beh.» ha risposto Frank. «La porti in lavanderia, più tardi!»

«Lavanderia?» ho esclamato, perplesso. «C'è una lavanderia?»

«Secondo te, le cose come le pulisci?» ha ghignato Tai Yagami. «Con lo sputo?»

A dire il vero, non ci avevo proprio pensato.

«Ah, e dove sono?» ho chiesto, rivolto ad Alex. Ma lui ha fatto spallucce. Non lo sapeva, ma, chissà come mai, non sono stato del tutto stupito.


Su Jack Bristow c'è veramente poco da dire. E' una palla mortale: parla in modo così monotono che, quando ha cominciato a spiegare le funzioni, che cos'erano e come funzionavano (che terribile gioco di parole!), mi sono lasciato trasportare dal suo torpore e ho sonnecchiato per tutte e due le sue ore, riprendendomi dalla stanchezza di tutta la giornata.

Ma le nostre ore di lezione, dopotutto, non erano ancora finite: mancava geografia.


Quello che credevo essere un professore, quello con l'uniforme blu e la frangia lunga, lo stesso che, quella mattina, aveva accompagnato la Une e il professore con la maschera, in realtà, è una professoressa, il cui nome è Lucrezia Noin ed è un Tenente. Già questo, ha suscitato non poche perplessità in noi, quando Alex ci ha avvertito.

Ma la cosa che ti colpisce più di tutto è la sua voce: non si sente manco a pagarla.*

«La Noin è uno spasso! E' così simpatica che ci fa addormentare tutti!» ha detto Alex, dal primo banco, vicino a Frank. Io mi ero messo dietro, vicino ad Arale e all'ancora arrabbiatissimo Trowa che non mi ha rivolto la parola per tutto il resto della giornata, come se fossi stato io a parlargli in quel modo delle colonie. «Quanto scommettete che non duriamo per più di dieci minuti?

Non ho capito cosa intendesse, ma poi la Noin è entrata in classe e si è avvicinata alla cattedra con una lentezza allucinante. Si è seduta con altrettanta lentezza e quasi quasi mi chiedevo se non dovessimo ricaricarle le batterie. Quando ha cominciato a parlare, poi, è stato il momento più drammatico della giornata, anche peggio della lite tra mia sorella e Bra a mensa: muoveva la bocca, sì, ma non emetteva suono. C'era un silenzio tale (persino noi eravamo col fiato sospeso) che sembrava avessero tolto l'audio alla stanza. Ma, quando ho sentito Bra, dal posto davanti al mio, dire qualcosa all'orecchio di Mimi Takikawa, mi sono tranquillizzato. Così mi sono sporto in avanti per tentare di captare un suono, ma con scarsi risultati. E ho capito cosa intendeva Alex.

«Non ho capito una parola!» è stato il commento sconcertato di Arale.

«E nessuno ci riuscirà mai!» ha detto Alex, girandosi verso di noi, senza neanche preoccuparsi di abbassare la voce. «Io l'anno scorso seguivo questo corso giusto per vedere i miei compagni dormire e russare come porci!»

La Noin si è accasciata alla cattedra con aria sconsolata e ha cominciato a leggere "a voce alta" dal libro, peccato che, ancora una volta, non si sentisse niente.

«VOLUME!» ha gridato Pan, dall'ultimo banco, suscitando l'ilarità di tutta la classe. Stava sola come un cane e, un po', mi dispiaceva. «Cazzo, ma è sorda, oltre che muta?»

«Più o meno...» ha risposto Alex.

«Ma non potrebbe scrivercelo, signora?» ha chiesto Arale, parlando più gentilmente. «Così capiremmo qualcosa!»

La Noin, nella tua lentezza, si è alzata, ha preso un gesso e ha solo scritto, a lettere cubitali, sulla lavagna dietro di lei: «FATE ATTENZIONE E ZITTI!!!», poi è tornata alla cattedra, si è seduta ed ha ripreso a leggere. Siamo rimasti davvero in silenzio, ma tutto quello che riuscivamo a sentire era il respiro dei nostri compagni di banco.

«Questa sì che è una lezione!» ha esclamato Pan, facendo finta di essere impressionata e rompendo quell'irreale silenzio. «Cazzo, com'è interessante! Dai, VOLUME! ALZA IL VOLUME!» ha cominciato a battere le mani, come per sollecitare un animale a muoversi. «NON SI SENTE UNA MISERIA!»

La povera Noin, che ci aspettavamo reagisse come la Une e cominciasse a gridare come un'isterica, si è alzata in piedi ed è scappata via in lacrime, il tutto molto velocemente. Tutti noi, invece, siamo rimasti seduti, in silenzio e spiazzati. Non avevo mai visto una professoressa così... beh, così. Impossibile definirla altrimenti.

«Ma come ha fatto questa a diventare Tenente?» ha chiesto Arale, guardandola andare via, condividendo i miei pensieri un tantino sconclusionati, in quel momento di massimo scalpore.

«Ma, sai... raccomandazioni ce ne sono tante...» ha risposto Tai, intrecciando le braccia.

«Ecco, sei contenta, Iccijojji?» ha sbottato, acido, Trowa.

«E quanto la fai lunga, pure te!» ha ribattuto mia sorella. Già mi ero preparato all'eventualità che, tra loro due, non sarebbe mai corso buon sangue, e, dopo questo, credo che si odieranno fino a che saremo in classe insieme. «Scommetto che tu sentivi tutto!»

«Se le leggevi le labbra...»

«Oh, beato che te che ci riuscivi!»

«Pan, ma perché non fai un po' di silenzio?» ha chiesto Bra, esasperata. «Non sei mica divertente, lo sai?»

«Ma se stavi ridendo pure te, troietta, quando chiedevo che alzasse la voce? Che ridevate a fare, se non vi va bene, me lo dovete proprio far capire!»

«Io non ridevo!» ha gridato Bra. «Testimoni quelli che erano vicino a me!»

Ma nessun testimone ha confermato o smentito.

«Cazzate!» ha detto mia sorella.

Alex, nel frattempo, incurante di tutte le discussioni in cui si infila Pan (mi chiedo spesso perché non posso farlo anch'io, senza sentirmi un vigliacco e un indifferente) si è alzato.

«Dai...» ha detto, guardando Frank, me e Arale, i più vicini. «Andiamo, che ci stiamo a fare qui? Tanto la cena è alle otto precise e manca ancora un bel po'!»

«Oh, che bello!» ha esclamato Arale, tutta denti, scattando in piedi. «Dove andiamo?»

«A dormire!» ha risposto lui, come se avesse dovuto essere ovvio.

«Ma non ci facciamo un giro?» ha chiesto lei, delusa, seguendolo fuori dalla fila di banchi.

«Io vado a dormire, tu vai pure dove vuoi!»

Se n'è andato dall'aula e Arale si è girata verso di me. Mi ha squadrato a lungo, tanto che mi sono sentito parecchio a disagio: nessuno mi aveva guardato tanto intensamente e per tanto tempo. Mi sono guardato la divisa: magari ero sporco. E invece ero pulito.

Ho rialzato gli occhi su di lei, per chiederle cosa avesse visto di anomalo, ma lei stava sorridendo. Giuro che ero parecchio confuso.

«Che c'è?» mi sono ritrovato a chiedere, con filo di voce, perplesso.

Mi ha fatto cenno di seguirla.

«Vieni?» mi ha chiesto. «Ti chiami Ken, vero?»

«Gli amici mi chiamano Kenny!» ho risposto, con un sorriso incerto. Ma lei era radiosa.

«Allora ti chiamerò così!» ha esclamato, afferrandomi per un polso e tirandomi fino all'uscita dell'aula. Travolgente. Ecco com'è Arale.


*****


Sono tornata!

Scusate l'immenso ritardo, ma non ho avuto il tempo di ricontrollare il capitolo. Sto riscrivendo praticamente tutto e solo pochi capitoli sono davvero buoni. Di questo non sono completamente soddisfatta, ma non saprei davvero come esprimerlo in modo diverso – e migliore – purtroppo.


Prof: leggere i tuoi commenti mi fa un enorme piacere. Sono proprio come piacciono a me, lunghi e schietti! Non ti preoccupare, non sono scoraggiata. :) Sto, appunto, riscrivendo tutto e devo anche finire la fanfiction delle Winx (fortunatamente manca solo un capitolo), prima di dedicarmi completamente a Kenny. Allora, che cosa ne pensi di questo capitolo? Condividi le mie perplessità? Dimmi quello che pensi e non farti scrupoli!

Se inserirò Relena? Questo è sicuro, ma non penso che diventerà una “regular”, sarà più una “special guest”. Poi come la tratterò... io non intendo trattarla male, ma i miei personaggi non so quanto saranno d'accordo. XD

Alla prossima!


Ringrazio coloro che continuano a seguirmi e vi do appuntamento al capitolo successivo!

Luine.

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Capitolo 5
*** Le persone più a posto ***


Le lezioni al primo anno.

Le persone più a posto



«Volevo andare in biblioteca!» mi ha spiegato Arale, quando siamo usciti in corridoio. Era tutto deserto, l'unica cosa che si poteva vedere erano le finestre e i pavimenti luccicanti. «Sai, dobbiamo trovarla e prendere in prestito i libri di testo. Bisognerà anche farci le fotocopie, ma per questo c'è la segreteria. Ho chiesto ieri a quel ragazzo carino che sorveglia il nostro piano, Heero Yuy! Dice che è impossibile passare il primo anno, se non usi i libri, soprattutto con la Noin. E ora capisco perché!»

Arale parla molto e molto velocemente, tanto che ho fatto molta fatica a starle dietro; ma è molto allegra e la sua allegria è contagiosa: riesce in un modo che non sono riuscito a capire, a farti sorridere anche quando dice la cosa più stupida, forse è perché anche i suoi occhi sono sempre sorridenti.

Quando è suonata la campana, nel corridoio si sono riversati tutti i ragazzi che seguivano le lezioni e ho sentito molti di loro, e più grandi, commentare con frasi ben poco rassicuranti. Alcuni, invece, sistemavano i libri in una borsa che tenevano a tracolla, qualche altro li portava a mano. Ma tutti avevano la stessa aria distrutta: già mi vedo, tra qualche anno, a crollare a terra e dormire dove mi capita. Se già ero distrutto all'inizio della mattinata, posso solo immaginare quello che capiterà tra un mese.

«Ancora un'ora...» ho sentito che un ragazzo diceva, in tono devastato, alla tipa che gli camminava a fianco.

«Chiediamo a quel ragazzo laggiù?» Arale mi ha indicato un tizio alto, coi capelli castani, la divisa abbottonata in modo impeccabile. Aveva un'aria leggermente snob e si era sistemato davanti a una finestra per guardare fuori. Non mi piaceva manco un po'.

«E se cercassimo qualcun altro?» ho chiesto, indeciso.

«Ma no!» Arale mi ha preso per mano e mi tirato verso di lui. «Ciao!» lo ha salutato, con un sorriso che le andava da un orecchio all'altro.

Lui ha abbassato lo sguardo su di noi e ci ha rivolto un'occhiata carica di sufficienza. Non si è degnato di rispondere ed è tornato a guardare fuori, come se nessuno gli avesse mai rivolto la parola. Mi è stato subito più antipatico di quanto non fosse successo a prima vista.

Il sorriso sulla faccia di Arale si è spento e, con una smorfia, mi ha guardato.

«Avevi ragione!» ha detto, ma non si è arresa. Ha continuato a trascinarmi e ci siamo fatti strada tra la folla, fino a quando non abbiamo chiesto a una ragazza con lunghi capelli rosso fuoco dove si trovasse la biblioteca.

«E' quella lì!» ha detto, con l'aria di chi non abbia capito se era stata presa in giro o meno, ma ho capito perché girando gli occhi verso il punto che indicava: una porta su cui c'era una grossa targhetta con su scritto a lettere cubitali: “Biblioteca”.

Arale ed io ci siamo scambiati un'occhiata. «Siamo degli emeriti ciechi!» mi ha detto, poi si è rivolta alla ragazza, regalandole uno dei suoi smaglianti sorrisi: «Grazie tante!»

«Certo che quel tipo avrebbe anche potuto rispondere...» mi ha detto, mentre sorpassavamo alcuni ragazzi che andavano nella direzione opposta alla nostra. «E' peggio di tua sorella. Com'è che si chiama?»

«Non lo so.» ho risposto. Cosa ne potevo sapere qual era il nome di quel maleducato?

Lei si è fermata e mi guardava come se fossi stato un alieno. E io non capivo. «Non sai come si chiama tua sorella?» ha chiesto, quindi, con gli occhi fuori dalle orbite.

«Certo che so come si chiama mia sorella!» ho esclamato.

«E allora perché mi hai detto che non lo sai?»

Mi sono grattato la testa, perplesso. «Non volevi sapere il nome di quel ragazzo?» ho chiesto, timoroso di sbagliare.

Lei ha inarcato un sopracciglio. «In realtà, immaginavo che tu non lo conoscessi! Ma se sapessi come si chiama anche il signor Maleducato non sarebbe male... è carino!»

Mi ha sorriso con tutti i denti che ha.

«Ah... ehm... mia sorella si chiama Pan...» ho detto, per evitare di approfondire l'argomento su quel tipo e per evitare di fare altre stupide figurette. «Ma credo che per essere peggio di lei non ci voglia poi così poco...»

Arale ha fatto una smorfia. «Secondo me, tua sorella fa solo la parte della dura, ma nasconde un cuore d'oro!»

«Se è così lo nasconde molto bene!» ho risposto, dubbioso. Perché glielo dicessi, per me era un mistero: la verità è che, con Arale, mi sono trovato subito bene. Non so perché, dato che non la conosco. E' una cosa a pelle... è strano, ma non so davvero spiegarmi altrimenti come mai sia riuscito a parlarci così senza conoscerla.

Ci siamo fermati davanti alla porta della biblioteca, dove, oltre alla targhetta, c'era un foglio stampato che recitava: “SE DEVI ENTRARE, ALMENO FALLO IN SILENZIO!”

Ci siamo lanciati un'occhiata ancora più dubbiosa, poi lei è tornata ad osservare il foglio ed ha fatto spallucce.

«Facciamo silenzio!» ha risposto, pratica, e ha aperto. Dentro è piuttosto piccolo, ma ci sono così tanti scaffali stracolmi di libri che cadono a pezzi, da poterci riempire tranquillamente tutta la mia cameretta, senza lasciare un solo angolo libero.

In fondo, vicino alle finestre, ci sono due tavoli da sei posti e le sedie sotto di essi quasi non si possono spostare per via dello spazio esiguo a loro disposizione.

«Non deve essere molto fornita, eh?» mi ha chiesto Arale, con il naso per aria, verso le lampade al neon sopra le nostre teste.

Non ho risposto, ero ancora piuttosto confuso, mentre mi guardavo ancora intorno, alla ricerca della porta segreta: non avevo mai davvero visto una biblioteca così piccola e così stretta.

Sulla sinistra, dietro l'ingresso e attaccato al muro c'è un altro cartello su cui c'è scritto: “Ufficio del Bibliotecario”. Questo ufficio non è un ufficio: è un banchetto nascosto tra gli scaffali ed è attaccato alla parete dietro la porta. Dietro di essa, c'era un ometto dall'aria gioviale e una pancia che gli sporgeva da sopra la cintura dell'uniforme nera. Non appena siamo entrati, ci ha rivolto un sorriso smagliante a trentadue denti.

Era il bibliotecario, un tipo allegro e vivace, che ci ha salutati come se fossimo stati parenti stretti che non vedeva da tanto tempo.

«Benvenuti!» ha detto, alzandosi per aggirare la scrivania buco e stringendo ad entrambi la mano. «Benvenuti, ragazzi miei! Prego, accomodatevi, prendete tutto quello che volete e firmate questi moduli!»

Ci ha messo tra le mani dei fogli, i soliti della biblioteca, di quando richiedi un libro. Arale, intanto, si guardava intorno.

«Ehm... ecco... signor... signor...» Sulla scrivania c’è la targhetta col nome: Sergente A. Hopkins. «Ecco, signor Hopkins...» ho balbettato, cercando di non farmi cadere la pila di fogli che mi aveva messo tra le braccia.

«Ha libri di geografia?» ha chiesto Arale, mentre io mi inginocchiavo sotto il peso delle scartoffie che il sergente stava impilando sopra i moduli.

«Di che tipo?» ha chiesto lui, fermandosi un attimo.

«Geografia terrestre. Quest'anno facciamo quella!»

«Ah, boh...» ha risposto lui e sia lei che io abbiamo sgranato gli occhi: il bibliotecario che non sapeva cosa c'era in biblioteca?

Alex, solo poco dopo, ci ha detto che lui è un altro che, in caserma, è a posto, anche se un po' svampito e che, qualsiasi libro gli si chieda, è molto probabile che non sappia dove sia.

Quando siamo riusciti a liberarci delle scartoffie e delle gentilezze del sergente Hopkins – ci voleva offrire addirittura una cioccolata calda – siamo tornati in camerata e abbiamo trovato proprio Alex in ginocchio sul mio letto e piegato in avanti, che si sporgeva oltre la finestra aperta e fumava allegramente due sigarette contemporaneamente. Sul proprio letto, c'era Frank che, seduto con le gambe intrecciate l'una sull'altra, leggeva qualcosa che somigliava molto alla fotocopia che ci aveva dato la Une la mattina.

«E se ero nudo?» ha chiesto Alex, vedendo entrare, senza alcun imbarazzo, Arale.

«Ma piantala!» ha risposto lei, ridacchiando.

Mi sono guardato intorno. «E gli altri dove sono?»

Alex ha fatto spallucce. «Non saprei... le ragazze, però, sono di là.»

«E tu non dovevi dormire?» gli ha chiesto Arale, incuriosita, sedendosi sul mio letto, accanto a lui. L'odore di fumo entrava dalla finestra e devo ammettere che era un po' fastidioso.

«Non ci riesco, prima di una buona sigaretta!» ha risposto lui, prendendo un'altra boccata. «Allora, dove siete stati?»

«In biblioteca.» ho risposto, sedendosi davanti ad Arale, sul letto di Alex.

Lui ha scosso la testa, ridendo.

«Ah, avete conosciuto il vecchio Hopkins!» ha esclamato. «E' un grande. Lui e Heero tengono il più grosso traffico di giornalini di tutta la caserma.»

«Traffico?» ha chiesto Frank, alzando per la prima volta la testa da quando eravamo entrati. «Che intendi per traffico?»

«Traffico, Frank...» ha sbuffato Alex, spegnendo le sigarette sul davanzale e richiudendo la finestra, facendo rimanere dentro la puzza di fumo. Si è messo seduto sul mio letto e mi ha guardato, indicando il letto. «Ti dispiace, Ken?»

«Tanto, ormai...» ho risposto, allargando le braccia, rassegnato. Non che mi infastidisse, è solo che Alex puzza un po' e, diciamolo, non mi andava che le mie coperte puzzassero. Ma poi ho pensato ad un altro problema: «Avete visto mia sorella?»

«E' di là!» ha risposto sempre Alex, indicando col pollice verso la camera delle ragazze. «Credo stia dormendo, perché quella coi capelli azzurri si lamentava del suo russare...»

Tipico di Pan: ha problemi respiratori, ma la mamma dice che un po' di sano russare non ha mai ucciso nessuno.

A parte quello che le dorme accanto.

«Insomma, che cavolo vuol dire traffico?» ha chiesto ancora Frank, interrompendo il nostro scambio di battute. Alex aveva aperto la bocca per parlare, mentre qualcuno ha bussato alla porta. Credendo che sarebbe andato ad aprire qualcuno, nessuno di noi si è degnato di fare una mossa.

«Traffico, Frank... contrabbando! Qua ci sono troppe cose proibite e qualcuno dovrà pure guadagnarci su! Io tengo la contabilità.» ha detto, indicandosi fiero.

«Allora sì che possono stare tranquilli i contrabbandieri!» ha sogghignato Frank.

«Ehi, io mi prendo solo la mia parte!» ha risposto Alex.

«Oh sì, mi immagino!» Frank ha sorriso.

Hanno riso insieme e io e Arale ci siamo limitati a scambiarci un'occhiata vacua. Credo che nessuno dei due abbia capito molto, ma almeno mi sono consolato, pensando che, per una volta, non ero stato il solo.

Stavo per chiedere qualcos'altro sul Sergente, così da riportare la conversazione su un piano su cui potessimo discutere tutti insieme, quando una voce mi ha interrotto:

«C'è nessuno? E' mezz'ora che busso! Si può?» era Heero Yuy. Un catafascio terribile ed una sua imprecazione ci ha fatto scattare nel disimpegno come delle molle. «Ahio... chi è il coglione che ha messo per terra un asciugamano?»

«Ah...» Alex, l'unico era rimasto impassibile di fronte al trambusto, è balzato giù dal mio letto e ci ha raggiunti. «Io no... testimoni Arale e Ken!»

«Kenny!» l'ho corretto. Ormai sono troppo abituato a farmi chiamare così e, se mi chiamano Ken, quasi quasi non rispondo.

«Che culo!» ha sbuffato Heero, rialzandosi e raccogliendo l'asciugamano con due dita.

«MA POSSIBILE CHE NON SI RIESCA A DORMIRE NEMMENO DUE MINUTI? CI ALZIAMO ALLE CINQUE DELLA MATTINA E POI NON POSSIAMO NEMMENO FARE IL RIPOSINO POMERIDIANO, CHE CAZZO!» era, naturalmente, mia sorella che ha aperto la porta della stanza, scardinandola. Se fosse stato solo questo, sarebbe stato niente: trattenendola per il pomello, riusciva anche a tenerla sollevata!

«Se non ho capito male, tu ti sei svegliata molto dopo le cinque!» stava dicendo Heero, inarcando un sopracciglio, mentre io ero sconvolto: per quanto conoscessi la forza di Pan, non sapevo che arrivasse a tanto e già me la vedevo, pronta a lanciargli quella porta addosso. Mia sorella, però, ha guardato il responsabile del nostro piano come un cane rabbioso guarda un gatto randagio; gli si è avvicinata come un lottatore di sumo al suo primo incontro e lo ha raggiunto, sempre tenendo la porta in mano.

«Però, è forte, tua sorella!» ha esclamato Arale, impressionata.

«Eh... un pochino...» ho cercato di minimizzare, senza riuscirci peraltro.

«Tu...» stava dicendo Pan, intanto, minacciosa, puntando un dito contro Heero. «fammi incazzare ancora e ti troverai del figlio da torcere, tanto, tanto figlio da torcere!»

«Ehm... Pan?» l'ho chiamata. Lei si è girata di scatto e mi ha guardato con occhi rossi e minacciosi. Ho indietreggiato di un passo.

«Non... non si dice figlio da torcere... si dice filo!» dalla faccia che ha fatto, però, credo che non fosse il momento migliore per correggerla.

«E CHI CAZZO SE NE FREGA, PARAMECIO!» ha gridato, guardandomi con così tanta cattiveria che avrei voluto farmi piccolo piccolo e sparire fino a che la sua furia non si fosse placata. Ma lei, invece di pestare me, ha preferito tornare a guardare Heero. «Hai capito?»

«E io che credevo che il nonnismo lo facessero solo quelli più grandi alle matricole...» ha replicato Heero, ancora più sarcastico. «Dai, Come-ti-chiami, non prendertela con me, ma con chi ha lasciato questo per terra!» ha detto, sventolando su e giù l'asciugamano che ancora teneva stretto. Mi sarei complimentato con lui per il sangue freddo: nessuno è mai riuscito a sfidare Pan per così tanto tempo ed è sopravvissuto per raccontarlo. Cioè, sopravvissuto sarà anche stato, solo che non aveva voglia di dire di essere stato messo a tappeto da una ragazzina.

Comunque, Pan ha guardato l'asciugamano.

«DI CHI CAZZO E'?» ha gridato, allora, strappandolo di mano a Heero e sventolandolo come una bandiera, continuando a trattenere la porta per il pomello. Avevo paura che la rompesse e che la Une ci mettesse davvero in isolamento. «AVANTI, VENGA FUORI IL COLPEVOLE!»

«Ma perché urli?» la voce di Bra ci ha costretto tutti a guardare verso il bagno. Lei stava in accappatoio, ma, per come era (s)coperta poteva anche non averlo.

Ho guardato Alex che aveva gli occhi fuori dalle orbite e una bavetta orrenda che gli colava dall'angolo della bocca; Frank e Heero avevano un'espressione ebete stampata in faccia. Tra i pochi presenti, solo io ero quello imbarazzato e tenevo gli occhi piantati a terra. Arale la guardava con tanto d'occhi, ma, come ha detto dopo, non aveva mai visto tanta sfacciataggine nemmeno in sua cognata.

«Brauccia, dimmi che non sei stata tu a lasciare questa asciugamano schifosa per terra!» ha detto mia sorella, in tono lamentoso, anche lei guardando Bra, come se fosse stata vestita.

«E perché no?» ha chiesto lei, ridacchiando. Ho visto che sollevava una gamba fino al ginocchio, ma non ho osato andare più su.

Pan ha sbuffato dalle narici. Credevo che avrebbe cominciato ad urlare, invece, si è limitata a dire, tra i denti: «Vai a lavarti, Bra. E' meglio per tutti.»

«L'ho fatto solo perché poi avrei macchiato il pavimento...» ha ribattuto lei, come se avesse dovuto essere ovvio.

«NON HAI MACCHIATO IL PAVIMENTO, MA IL MIO SONNO SI', CAZZO! VAI A LAVARTI E NON ROMPERE I COGLIONI!»

«Finezza!» ha replicato Heero, quando Bra è, finalmente, sparita in bagno. Pan lo ha deliberatamente ignorato.

«Però... quella mi sa che la svende!» ha mormorato Alex, asciugandosi la bocca.

«Già...» ha mormorato Frank. Di cosa parlassero, per me rimane un mistero.

«Ah... che volevi, Heero?» ha domandato Alex, scuotendo la testa, per riprendersi davvero.

«Per ora, sistemare quella porta, prima che passi qualcuno!» ha detto, indicando Pan che sembrava non voler lasciare andare la porta. L'unica cosa positiva di quella faccenda era che non stava urlando.

«Spero solo che si possa.» ho esclamato, ma speravo di averlo fatto in modo che lei non sentisse. «Pan è nota per distruggere tutto quello che tocca!»

Ma, a quanto pare, avevo parlato a voce troppo alta: «CHE CAZZO DICI, MAIALE?» ha lasciato andare la porta e, prima che potessi vedere che fine ha fatto, mi ha dato un pugno sul naso e tutto, ma proprio tutto, prima è diventato rosso e poi nero.


«Che gancio impressionante!» il fischio di Alex è stata la prima cosa che ho sentito quando mi sono risvegliato.

Ero disteso da qualche parte, con un dolore lancinante sul naso e due visi preoccupati sopra il mio e un forte, familiare odore di ospedale aleggiava intorno a me.

«Come stai, Kenny?» ha chiesto quella che ho riconosciuto essere Arale.

«Sono stato meglio!» ho borbottato, massaggiandomi il naso. Non sembrava essere rotto o cose del genere. Però quando lo toccato sentivo ugualmente le stelline. Ho tentato di mettermi seduto, mentre aprivo gli occhi per guardare diversi letti ospedalieri, le finestre ampie con le tende tirate. Ero l'unico ospite ed ero nell'infermeria della caserma.

«Non capita mai di avere un visitatore il primo giorno!» ha esclamato una energica voce femminile. Ho guardato verso di lei e Arale si è spostata per farmi vedere chi era: una donna, abbastanza giovane, vestita di un'uniforme bianca coi polsini dorati e, sul petto, appuntato il simbolo dell'esercito spaziale. Al posto dei pantaloni questa aveva una gonna e un cappellino con la croce rossa in testa che le raccoglieva i capelli castani. E' molto carina e ha anche un viso simpatico.

«Lei è Jenny Johnson!» mi ha detto Alex. «L'infermiera. Ti avevo parlato di lei, se non sbaglio. E' a posto!»

«Ciao!» mi ha detto la Johnson, con un sorriso.

«Che mi è successo?» ho borbottato, ancora cercando di mettermi a sedere.

«Beh, chiaramente hai ricevuto un bel colpo sul naso.» ha risposto lei. «Ho due notizie, ma non so se sono buone, cattive o una buona e una cattiva. La prima è che domani puoi andare a lezione, la seconda è che il tuo naso è sanissimo. Il che è ben strano, dato che mi hanno detto che ti hanno dato un bel gancio.» mi ha guardato, aggrottando la fronte con fare inquisitore. Cosa mi avrebbe chiesto? Beh, ero terrorizzato. «Non hai l'aria di uno che fa a botte. Chi è stato? Howard James?»

«Ehm...» la verità è che non sapevo chi fosse Howard James, anche se mi pareva di averlo già sentito nominare.

«È il colosso della caserma, il più grosso ciccione e zuccone che possa capitare al mondo!» mi ha spiegato Alex, dalla sua sedia alla mia sinistra. «È al secondo anno da ben... aspetta... quattro anni?»

La Johnson si è messa a ridere. «Sì, sì! E da quanti è qui?» ha chiesto.

«Almeno sei!» ha risposto lui.

«Ha stabilito il record delle bocciature... peccato che ami così tanto la boxe!» la Johnson ha scosso la testa, sconsolata. «L'anno scorso ho dovuto tenere qui due suoi compagni di dormitorio per un mese! Sei costole rotte. Non potevano andare da nessuna parte e i genitori non hanno mai denunciato nessuno perché non l'hanno mai saputo.»

«E non l'hanno mai espulso a questo energumeno?» ha chiesto Arale, indignata. La Johnson ha sbuffato.

«Ragazzi, suvvia! Non espellerebbero mai qualcuno come James: il suo è un padre famoso...» ha esclamato in tono eloquente, prendendosi una sedia e sedendosi accanto ad Arale. Io sono rimasto con tanto d'occhi: era la prima volta che mi capitava di vedere un'infermiera comportarsi come lei. E io, di ospedali, ne ho visti parecchi...

Arale le ha lanciato un'occhiata perplessa, forse per quel che ho notato io, ma forse per via di Howard James.

«E perché?» ha chiesto, infatti.

«Perché suo padre è un pezzo grosso. E' un diplomatico che intrattiene rapporti con le colonie o qualcosa di simile...» ha risposto Alex per l'infermiera. «Un po' come Frank, che è il figlio del senatore Douglas Kushrenada, l'uomo più ricco del paese.»

«Frank Kushrenada?» ha esclamato la Johnson, con occhi sgranati, piegandosi un poco in avanti. «Tu mi stai dicendo che il figlio di Kushrenada, nipote del Generale dell'esercito spaziale giapponese Treiz, è qui?»

Questa notizia mi ha lasciato vagamente perplesso. Così scoprivo (sì, ricollego le cose per tempo) che Frank, oltre ad essere nipote del Generale, era il figlio del tipo che mamma considerava un uomo affascinante dal grande carisma. Però, avendo sempre trovato la politica una grande noia, non mi ci sono mai interessato più di tanto. E ora, io andavo a scuola con il figlio di quella meraviglia d'uomo.

«Sì... è nel mio corso!» ha detto Alex.

La Johnson ha emesso un leggero fischio. «E che tipo è?» ha chiesto, col tono di una portinaia pettegola, posando il gomito sul materasso dove stavo disteso e appoggiando una guancia sul pugno chiuso.

«Frank è a posto!» ha detto Alex, fiero.

«Sì, lo dici pure di Hopkins che è totalmente andato di cervello e di Salvini, che lo è anche di più!» ha ribattuto scontrosa l'infermiera.

«Se è per questo, lo dico anche di lei, infermiera Johnson!»

«Non mi sento molto lusingata, sai?»

Io e Arale ci limitavamo a seguire quello scambio di battute, anche perché, immaginavo, anche lei fosse nelle mie stesse condizioni.

Sembra che Alex e la Johnson abbiano un rapporto particolarmente stretto, come amici di vecchia data.

«Anche la Noin sarebbe a posto...» ha continuato Alex.

«La Noin?» ha replicato sconcertata la Johnson, balzando in piedi. «Ramazza, se essere a posto significa essere come la Noin, allora preferisco non esserlo!»

«Ma che c'entra? La Noin ha solo un problema di voce!» ha esclamato Alex, come se fosse stato offeso. «Tutti quelli che la Une odia sono tipi a posto, perché vuol dire che fanno qualcosa che a lei non piace e, quindi che hanno un cervello e non una sua sottospecie!»

«Ma anche Heero è a posto!» ha detto Arale, che sembrava essersi inserita perfettamente nel discorso, dopo un attimo di silenzio, durante il quale la Johnson ha fatto una smorfia, tutt'altro che convinta dalle parole di Alex. «Eppure lui è Caporale e anche responsabile del nostro piano. Come la metti?»

«Heero Yuy!» ha ridacchiato la Johnson. «Ah, lui sì che è davvero a posto! E' l'unico che ha capito abbastanza della vita per poter vivere con la Une, dire la sua e non farla arrabbiare!»

«E come fa?» ho chiesto, incredulo.

«Ci vuole arte. Io stessa non ci riesco.» ha esclamato la Johnson, allegramente, come se questa fosse una cosa di cui andare molto fieri. «Hopkins la odia e glielo dice in faccia,» ha cominciato a elencare, alzando ogni volta un dito. «la Noin è una morta con la maiuscola e Salvini non svolge il suo lavoro di mastino. Io faccio il mio, ma non ho peli sulla lingua. Non so dire le cose con classe, è questo il mio grande difetto!»

Si è messa le mani sui fianchi e ci guardava come se fossimo noi a dover dire qualcosa, ma ci siamo limitati a guardarla con con la bocca aperta, Alex incluso.

«Ah...» è stato lui il primo a riprendersi dalla parlantina veloce dell'infermiera. «Lei ha classe, infermiera Johnson, inutile che dice il contrario!»

Lei ha fatto un gesto con la mano, come per scacciare una mosca. «Piantala di adularmi, Ramazza!» ha detto. «Io non posso aumentarti i voti! E ora andate, prima che la Une vi veda e decida di spedirmi chissà dove per avervi tenuto lontano dai vostri letti!» ha tirato la sedia da sotto il sedere di Arale che si è ritrovata con gli occhi fuori dalle orbite e sconcertata esattamente quanto me. «Ci vuole un valido motivo per trasferirmi e ancora non ce l'ha! Forza, fuori di qui! Tranne tu.» mi ha trattenuto a letto, spingendomi energicamente sul cuscino, quando ha visto che volevo alzarmi e seguirli. «Dormi qui e domani mattina lascia perdere la bandiera. Ti scrivo un permesso.»

«Ah, no! Aspettate, ragazzi!» ho esclamato, ricordandomi improvvisamente il motivo per cui ero lì. Alex e Arale si sono fermati sulla porta: dovevo sapere, non potevo rimanere col dubbio per sempre. «Ehm... che... che fine ha fatto la porta della camera delle ragazze?»

«Beh, adesso andiamo a scoprirlo! Tranquillo, ragazzo!» ha risposto Alex, facendomi l'occhiolino. «Buonanotte!»

Se ne sono andati e la Johnson si è subito messa a scrivere il mio permesso. Io, invece, sono rimasto un bel po' a guardare il soffitto e ad ascoltare il dolore al mio povero naso, oltre che a lambiccarmi il cervello per quello che potrebbe succedere se la porta della camera delle ragazze fosse irrimediabilmente rotta. Già mi vedevo con le valigie, pronto a tornare a casa. Non che la cosa mi dispiacesse più di tanto, perché avrei potuto tornare a casa, dalla mia mamma, nel mio caldo lettuccio nella mia cameretta; era più per la mamma che, conoscendola, e vedendoci tornare con la coda tra le gambe dopo un solo giorno, sarebbe rimasta molto delusa... e poi, quella promessa di mandarci a raccogliere pannocchie sui Monti Paoz... mi è corso un brivido lungo la schiena.

Dopo una giornata estenuante come questa, tra questi pensieri, non ero ancora riuscito a prendere sonno e, quando è tornata la Johnson per controllare cosa facevo, ero più arzillo di un vecchio grillo.

Proprio mentre mi stava esortando a dormire un po', si è ricordata della domanda che mi aveva fatto e a cui io non avevo mai risposto: «Aspetta un attimo, chi ti ha rotto il naso?»

Non sapevo se rispondere o no: e se Pan fosse finita nei guai per colpa mia, oltre che per via della porta? Per un secondo, il viso sconvolto dalla rabbia della mamma che ci urlava di andarcene sui monti Paoz mi ha fatto venire un groppo in gola.

«Ecco... non la denuncerà, vero?» ho voluto sapere.

«La?» ha ripetuto, però, l'infermiera, sgranando gli occhi per lo stupore. «Santo Cielo, come sono cambiate le cose! Adesso sono le donne che picchiano gli uomini! E poi parlano di sesso debole, bah. Che le hai fatto, l'hai tradita?»

«Ehm... come si tradisce una sorella?» ho chiesto, incerto.

Lei ci ha pensato un po' su. «Ah, era tua sorella?» ha scosso la testa. «Per caso l'hai messa in ridicolo di fronte ai vostri compagni?»

«No!» ho risposto. «Beh, almeno credo...»

Lei mi ha guardato con fare materno. Solo la mamma mi guarda così e solo quando Pan mi picchia. Mi sono venuto le lacrime agli occhi e li ho serrati, perché l'infermiera non mi vedesse. «Che hai combinato?» ha insistito lei.

«Beh, non lo so... Pan ha sempre un qualche motivo per picchiarmi...»

«Ah! Tua sorella è un tipo orgoglioso, immagino, e tu una povera vittima, giusto?»

«Ecco...» non avevo mai riflettuto su questo punto e non sapevo cosa rispondere. «Non... non so...»

«Ah, ma tu sarai stanco... dai, dormi!» mi ha consigliato. «Ti sveglio io domani mattina!» e così dicendo è di nuovo sparita nel suo ufficio e io, rimasto perplesso dalle ultime parole dell'infermiera, ho continuato a guardare le ombre lunghe e scure della notte sul tetto, fino a che, davvero, non sono riuscito a prendere sonno, consolato dal fatto che la mamma, di questa faccenda, se la Johnson era a posto come diceva Alex, non avrebbe saputo niente.


******


Scusate l'immenso ritardo che ho messo per aggiornare. Avevo detto che avrei, per prima cosa, finito la fanfic sulle Winx, ma ho perso l'ultimo capitolo e quindi devo riscriverlo (so che non ve ne frega, ma mi pareva giusto riferirlo). Poi ho avuto esami e quindi... tutto è andato un po' a farsi friggere. XD

Questo capitolo è un regalino estivo prima delle vacanze vere e proprie, così che non vi dimentichiate di Kenny & company. Spero che sia stato di vostro gradimento e che sia valsa la pena di aspettare così tanto. ^^


Prof: sono molto contenta che il capitolo ti sia piaciuto e che sia realistico (ogni volta ho timore di scrivere cavolate). Ci sto mettendo tutta me stessa per questo lungo e ambizioso progetto, senza contare che mi sto divertendo da morire a scriverlo. Quindi, spero che vorrai commentare anche questo capitolo, lasciandomi le tue dettagliatissime opinioni. Alla prossima! ^^


Un ringraziamento particolare va ad Anonimo9987465 che ha deciso di seguire questa storia.

Alla prossima, allora.

Luine.

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Capitolo 6
*** Una prova di resistenza ***


Le lezioni al primo anno.

Una prova di resistenza



3 Settembre


Dopo una lunga e salutare dormita, tanto che mi ero ripreso da tutte le emozioni della giornata prima, quando sono sceso a colazione, tutti i miei compagni mi guardavano come se fossi stato una bestia immonda, tranne Pan e giusto perché non c'era, Alex e Frank, perché stava mangiando e Arale, perché era girata di spalle.

Bra si è chinata su Mimi Takikawa e le ha detto qualcosa, mentre entrambe mi guardavano; Mimi ha annuito, sorridendo malignamente.

L'unica cosa che sono riuscito a fare, è stato abbassare lo sguardo e sedermi accanto ad Arale.

«E' successo qualcosa?» ho chiesto, a mezza bocca, mentre incrociavo lo sguardo impietoso di Trowa Burton. «Perché tutti mi guardano male?»

Lei ha strappato con l'angolo della bocca un grosso pezzo del suo panino vuoto. «Ma niente, lascia perdere...» ha risposto, con la bocca piena. «Sai, soliti pettegolezzi del cazzo...»

Non ho capito, davvero. Ho insistito, ma ho ricevuto solo una serie di masticazioni in risposta, quindi ho desistito.

«E la porta?» ho domandato, allora.

Arale, a questo, è stata ben felice di rispondere: «Tutto bene... Heero è un genio! E' riuscito a risistemarla e Frank gli ha dato una mano... meno male che c'erano loro, altrimenti...» ha detto, muovendo qua e là il suo panino e lasciando la frase in sospeso, ma facendomi ben capire come sarebbe andata, se loro due non fossero stati capaci a mettere tutto a posto.

Ho scoccato un'altra occhiata a Bra che, adesso, ridacchiava con la sua vicina e continuava a fissarmi.

Ho annuito distrattamente, mentre Arale continuava ad abbuffarsi. Niente da fare, non riuscivo proprio a capire perché tutti ce l'avessero con me.

Ho preso un cucchiaio e l'ho infilato nella mia tazza piena di latte e corn flakes. Mentre lo portavo alle labbra, col latte che grondava nella tazza, ho sentito Bra che schiamazzava dalle risate insieme a Mimi. Ho alzato di nuovo gli occhi e, mentre una batteva forte una mano sul tavolo, l'altra mi indicava e strizzava gli occhi dal troppo ridere.

Ho guardato prima il mio cucchiaio, cercando in lui qualcosa che potesse darmi un aspetto buffo, ma era solo un normale cucchiaio con dentro dei fiocchi di cereali imbevuti di latte... non capivo. Così ho guardato Arale, sperando che, stavolta, mi rispondesse.

«Ma che gli è preso a quelle due?» ho chiesto, facendo un cenno. Arale ha scoccato loro un'occhiataccia prima di dare un altro morso al suo panino.

«Lasciale perdere.» mi ha nuovamente consigliato.

«Ma... perché mi guardano e ridono?» la cosa mi dava parecchio fastidio e, anzi, mi faceva venire voglia di sotterrarmi.

Arale ha deglutito prima di rispondere. «Come dice il vecchio proverbio, il riso abbonda sulla bocca degli sciocchi!»

Alex, che stava chiacchierando con Tai Yagami, sentendo questa frase, si è girato verso di lei e ha chiesto, stupefatto: «Ah, ma non era perché gli stupidi mangiano troppo riso?»

Mi sono sporto davanti ad Arale che, allo stesso tempo, si è girata per guardare il nostro compagno di classe all'altro suo lato. «Alex, ma che stai dicendo?» ha chiesto lei, in tono sconcertato.

Lui ha fatto spallucce. «E che ne so? Pensavo che quella storia del riso riguardasse il cibo.» si è giustificato. Ho visto Frank, a pochi posti da quello di fronte a me, battersi una mano sulla fronte, sconfortato, ma non so se per le risate di Bra e Mimi che continuavano a susseguirsi senza sosta o se per la frase di Alex.

«Perché quelle due stanno ridendo come due galline?» ha chiesto mia sorella, arrivandomi alle spalle e facendomi sobbalzare di paura.

«Pan...» ho sospirato, mettendomi una mano sul cuore che batteva furioso. Lei mi ha lanciato uno sguardo ben poco lusinghiero, quasi disgustato. Pure lei, ma, almeno, questo era normale.

«Ah, sei qui, paramecio!» mi ha detto. «E bravo lui... che ha trovato l'ottimo modo per evitare di svegliarsi presto la mattina!»

Si è seduta accanto a me, mi ha preso la tazza e ha cominciato ad ingurgitare quello che c'era dentro.

«Pan, veramente... era mia!» ho protestato. Lei mi ha lanciato solo uno sguardo obliquo molto minaccioso, prima di riprendere a mangiare come se niente fosse stato. Bra e Mimi hanno ululato ancora più forte e non mi sono mai sentito tanto in imbarazzo come in quel momento.

Ma Pan non ha fatto una piega. Ha alzato gli occhi sulle due e ha continuato a masticare i miei cereali, come per cercare di capire il motivo di tanta ilarità – e se l'avesse capito, mi sarebbe tanto piaciuto saperlo – ma ha solo riabbassato lo sguardo e ripreso a mangiare come se niente fosse stato.

A quel punto non mi rimaneva che una cosa da fare: mi sono alzato e sono andato a prendermi un'altra tazza.

«Bravo, Kenny!» mi ha elogiato mia sorella, stupendomi, ma prendendomi la tazza che mi ero messo davanti. «Come sapevi che ne volevo un'altra?»

L'ha trangugiata prima che avessi il tempo di aprire la bocca per rispondere. Quando ha finito, si è pulita le labbra col dorso della mano e mi ha messo la tazza vuota davanti.

«Ma... veramente...» ho tentato di protestare.

«Già che ci sei, paramecio,» ha chiesto, ben poco gentilmente. «perché non me ne vai a prendere un'altra?»

«Ma...»

«MUOVITI!»

Non ho potuto fare a meno di girarmi verso il tavolo degli insegnanti, ma il volume delle chiacchiere era così alto che era riuscito a coprire il vocione di Pan e a non arrivare alle orecchie della Une.

Sospirando, mi sono alzato e ho deciso di eseguire l'ordine di mia sorella: con un po' di fortuna, sarei riuscito a mangiare pure io e avevo una fame!

Ho fatto come mi ha chiesto, poi, mentre le posavo davanti la tazza, mi sono preso quella che lei ha svuotato e ho fatto per andarmi a servire di nuovo di latte. Peccato che tutto fosse contro di me, questa mattina: Pan mi stava facendo segno di portargliene un'altra, così non ho potuto fare a meno di riempire nuovamente la tazza. Peccato che, subito dopo, mentre adocchiavo l'ultima rimasta sul tavolo del self-service, qualcuno se la sia portata via, lasciandomi a bocca asciutta.

«Beh?» ha chiesto Pan, guardandomi con il consueto disgusto. «Non mi hai portato un'altra tazza?»

Ho aggrottato la fronte. «E questa cos'è?» ho ribattuto, titubante.

«Io te ne ho chieste altre due!»

«Ma... non hai mangiato abbastanza?» le ho chiesto, disperato. Il mio stomaco ha cominciato a brontolare e pure questo ha suscitato molta ilarità, chissà come mai.

«HO FAME!» ha gridato Pan, distogliendo la mia attenzione da tutto questo. Stavolta siamo stati meno fortunati: la Une stava passando di tavolo in tavolo e, scoccando occhiate maligne ad ognuno, passava al successivo.

«Che succede?» ha chiesto, glaciale. Mi sono seduto al mio posto, terrorizzato.

Pan ha guardato da me e a lei. «Che succede?» ha ripetuto, tranquillamente.

La Une ha inarcato un sopracciglio. «Perché ripete a pappagallo quello che dico?»

«Perché ripeto a pappagallo tutto quello che dice?»

La Une le ha lanciato uno sguardo così terribile che, per un attimo, ho creduto che, di Pan, sarebbe rimasto un mucchietto di cenere su quella sedia. Ho deglutito e anche abbastanza rumorosamente.

«Iccijojji?» ha detto la Une, arricciando le labbra.

«Che c'è?» è stata la risposta serafica di Pan.

«Si alzi!» ha ordinato la direttrice, stringendo gli occhi in modo così minaccioso che, se non l'avesse ordinato a Pan, sarei scattato in piedi.

«Perché?»

«PERCHE' SI'! NON MI FACCIA RIPETERE L'ORDINE! SI ALZI!»

L'urlo della Une ha zittito l'intera mensa. Tutti gli occhi erano puntati sul nostro tavolo, di alunni, insegnanti e inservienti vari.

Lei si è piegata un po' su Pan. «Adesso» ha detto, in un sibilo. «lei starà in piedi fino al suono della campane...»

La campanella è suonata.

Sul volto di Pan si è delineato un sorriso furbo. «Ottimo!» ha detto, scivolando via da sotto l'ombra della Une.

«Iccijojji!» ha ringhiato la Une, rimettendosi dritta.

«Beh, l'ha detto lei: in piedi finché non suona la campanella e ora è suonata... vado in classe!» e così dicendo, saltellando, mia sorella è uscita dalla mensa. La Une era a dir poco allibita, ma non era l'unica in quella stanza.

«Muovetevi!» ha ordinato, cercando di riprendere un contegno. «Tutti in classe o vi beccherete una punizione coi fiocchi!»

Non abbiamo perso tempo: tutta la mensa si è sollevata a tempo di record e già eravamo tutti pressati sull'entrata per riuscire a guadagnare il corridoio e arrivare in classe.

Ci aspettava Bristow nell'aula 10, ma io non ricordavo dov'era. Per fortuna c'era Arale con me.

«Ho un gran senso dell'orientamento!» ha confessato, mentre mi portava su una grossa rampa di scale. «Pensa che mio fratello mi usa come navigatore!» Ha riso come una matta. «Ma ci pensi? Io sopra il cruscotto a dire: "girare a destra"!» ha imitato la voce metallica di un robottino ed ha ripreso a ridere.

Tre ore di matematica filate sfiancherebbero più di un sonnifero in quantità industriali. E' così pesante che Alex, dopo mezz'ora dall'inizio, aveva già chiesto una pausa.

«Suvvia, Ramazza.» l'ha rimproverato Bristow, con la sua voce monotona. «Abbiamo cominciato adesso. Adesso... dimostriamo questo teorema.» e così ha ripreso a scrivere sulla lavagna, cancellando tutto quello che era riuscito a scrivere prima e scrivendo complicate formule per me senza senso.

«Eh...» ha sospirato Alex, sconsolato, annuendo e aggrappandosi al suo banco, quasi avesse avuto paura di poter cadere.

Ma Bristow non l'ha più degnato di uno sguardo, molto più preso da quello che stava dicendo e scrivendo su quelle strane lambda, iota e chissà che altri lettere greche di cui dovrei memorizzare i simboli, ma, ogni volta che ci ho provato, mi parevano geroglifici incomprensibili.

Mi sono buttato sul banco al lato della sedia, esausto, benché fino a poco prima dall'inizio delle lezioni fossi stato pimpante e riposato; ho guardato con sguardo vacuo l'unica persona che non sembrava essere stata contagiata dall'aura soporifera di Bristow: Arale. Sul suo quaderno consacrato alla matematica, annotava tutte le formule e le dimostrazioni alla velocità della luce.

«Mi chiedo come fai...» ha sospirato Alex, mentre, in branco, ci spostavamo verso l'aula 12, dove ci aspettava la Une, dopo tre ore estenuanti.

Arale ha sorriso. «La matematica mi piace!»

«Non è una buona ragione per riuscire a seguire Bristow!» ha ribattuto lui. Ha scosso la testa ed ha sbadigliato sonoramente. «Non è umano quello lì!»

In quel momento, mentre svoltavamo, Bra e Mimi, di nuovo insieme, mi hanno guardato ed hanno ricominciato a ridere. Ho cominciato ad arrabbiarmi.

«Si può sapere che hanno?» ho chiesto, quando ormai non erano più a portata d'orecchio. «Perché mi guardano e ridono?»

Pan, che ci passava accanto in quel momento, mi ha lanciato un'occhiata cattiva. «SARÀ PERCHÉ HAI LA PATTA APERTA? DEFICIENTE!»

Mi sono bloccato, facendo sì che quello che avevo dietro mi finisse addosso.

«Attenzione!» ho riconosciuto la voce infastidita di Trowa il quale mi ha sorpassato scoccandomi un'altra occhiata molto simile a quella che mi aveva lanciato a colazione.

Non solo: mentre Pan urlava, in direzione opposta alla nostra stava arrivando un gruppo di ragazze che, sentendola, hanno cominciato a ridacchiare e a guardarmi, perché Pan, non contenta di urlare che avevo la cerniera dei pantaloni abbassata, mi ha anche indicato, così che potessi fare meglio la mia figuretta.

Mi sono sistemato ed ho raggiunto gli altri che si erano già riversati in classe. La Une non c'era e Trowa, Tai, Matt Ishida, Sora e altri ne hanno approfittato per lanciarmi un'altra occhiata perfida.

«Si può sapere che ho combinato?» ho chiesto, in un soffio, ad Alex e Arale, che erano seduti vicini. Mi è sovvenuto che la Une ci aveva detto di sederci come il primo giorno, ma mi è passato di mente, quando Alex ha risposto: «E' perché credono che tu abbia fatto il furbo, ieri sera!»

«Ma... Pan mi ha picchiato!» ho ribattuto, indignato: davvero credevano che ne avessi approfittato per farmi un riposino in infermeria?

Arale ha scoccato un'occhiata torva a Pan, stravaccata in ultima fila, mentre Alex continuava il suo racconto: «Abbiamo cercato di dirlo, ma tua sorella continuava a ripetere che l'avevi fatto apposta per dormire, perché sei uno smidollato e cose del genere.»

Non era molto strano che dicesse queste cose, solo che Alex non lo sapeva ed era indignato. Non ci sono rimasto male, sono rimasto male, invece, perché gli altri ci hanno creduto; ma non posso neanche biasimarli, perché non mi conoscono, ancora. È una situazione davvero strana la mia.

«Heero e Frank hanno provato a difenderti, e anche noi!» ha precisato Arale. «Ma Bra ha dato man forte a Pan, quindi... indovina a chi hanno creduto gli altri...»

La Une è entrata, nel momento esatto in cui tutti si zittivano e il mio stomaco brontolava sonoramente. Ho trattenuto il respiro, già immaginandomi di dover essere punito, ma lei non sembrava essersene accorta, perché ha esordito, a mo' di buongiorno: «Tutti ai vostri posti, mettevi composti e prendere i quaderni!» ha sbattuto sulla cattedra un grosso libro che, sulla copertina aveva scritto a grosse lettere rosse: "Storia delle Colonie Volume I". «Ieri abbiamo fatto una lezione introduttiva, oggi si comincia seriamente. Ascoltatemi fino alla fine e, forse, potrò mandarvi via prima.»

Tutti ci siamo abbassati sulle nostre borse e abbiamo tirato fuori un quaderno, Alex un foglio che Frank ha strappato dal suo e io uno dei tanti quaderni che la mamma mi aveva infilato in valigia, sotto le mutande.

«Vedete di scrivere tutto, perché non ripeterò.» ha dichiarato la Une, prima di cominciare a parlare dello sbarco sulla Luna. Parlava con gli occhi fissi sul libro e, ogni tanto, girava una pagina. Ma non ho potuto farci molto caso, perché scrivevo velocemente per riuscire a riportare tutto quello che diceva. Spesso mi bloccavo, dimenticavo le parole e, dopo le prime volte in cui mi sono perso anche pezzi di spiegazione, ho cominciato a lasciare spazi vuoti. Poi avrei ricopiato da Arale: in un momento di puro sconforto, ho smesso di fare qualsiasi cosa e ho guardato lei che scriveva pari pari quello che la Une un secondo prima aveva detto.

Alex era nelle mie stesse condizioni e, quando mi sono fermato, lui era piegato sul banco, con un braccio a sorreggergli la testa, la bocca aperta e lo sguardo vacuo puntato sulla Une.

Stranamente, Pan non ha detto niente, anzi. Ha lasciato finire la lezione in santa pace, forse perché, appunto, la direttrice ci aveva promesso di farci andare via prima.

Ma la promessa è andata a farsi friggere, perché la Une si è interrotta solo quando la campanella ha suonato la fine delle lezioni della mattina.

Ci siamo alzati, grattando le sedie sui pavimenti, attivando una sonora protesta da parte dell'insegnante.

«Per domani» ha detto, sopra il nostro vociare. «voglio che studiate tutto quello che avete appreso oggi, perché vi interrogo!»

Stavolta, la protesta è stata nostra.

«Abbiamo appena cominciato!» ha esclamato Tai Yagami. «Ci vuole interrogare il terzo giorno?»

«Non vedo perché no, soldato.» ha ribattuto la Une, arricciando le labbra. «Credo che sia mio diritto darvi da studiare, no?»

«Ma...»

«Un altro ma e si ritroverà a dover studiare il doppio rispetto ai suoi compagni!» ha detto la Une, rigida. «Potete andare! Tranne lei, Iccijojji!»

Sia io che Pan ci siamo bloccati. Lei era sulla porta e la stava aprendo, mentre io ero indietro, insieme ad Arale nella nostra fila di banchi.

«Che cos'ho fatto, stavolta?» si è lamentata mia sorella. «Sono stata buona, come voleva. Aveva detto che ci avrebbe fatto uscire prima e, invece, ci ha fregati! Adesso che cosa vuole? Non posso camminare sulle mani!»

La Une ha allargato le narici ed ero quasi sicuro che le sarebbe uscito del fumo nero, tipo drago.

«Non lei, Iccijojji!» ha ringhiato. «Suo fratello!»

A quelle parole, avrei preferito ricevere un pugno nello stomaco e finire ucciso, piuttosto che dover rimanere da solo con la Une. E perché mi voleva parlare? Di cosa? Ero già un bagno di sudore. Lo sapevo che aveva sentito il mio stomaco brontolare! Era per questo che ce l'aveva con me, accidentaccio!

«Ah, e perché non si spiega meglio, allora?»

Pan è riuscita a smorzare la tensione, ma solo per un istante: la Une ha allungato una mano e puntato un dito sulla porta su cui eravamo accalcati. «VADA FUORI!» ha gridato. Mia sorella non se l'è fatto ripetere due volte e, ancora prima che la Une avesse il tempo di terminare la parola "fuori", lei c'era già, insieme a tutti i nostri compagni nel corridoio, pronta per il pranzo che io non avrei mai fatto.

Solo Arale è rimasta indietro e solo per darmi una pacca di incoraggiamento sulla spalla. «Ti aspetto fuori.» mi ha detto. Le sono stato veramente molto grato: avrebbe potuto andare a riempirsi lo stomaco e prepararsi per le due ore di educazione fisica che ci aspettavano dopo e fregarsene di me.

Ma per il momento ero solo, insieme alla Une, nell'aula 12. Io e lei, a fronteggiarci. E solo per il brontolio di uno stomaco.

«Si avvicini.» mi ha ordinato.

Mi sono mosso in fretta e furia, talmente tanta che sono inciampato in una sedia e sono finito a terra. Fortuna che ho messo le mani avanti o sarei dovuto tornare in infermeria col naso rotto e questa volta davvero.

«Si alzi in piedi, soldato!» mi ha detto lei, rigida, portandosi le mani dietro la schiena, come se avessi fatto apposta a cadere. Con il ginocchio e il piede con cui avevo sbattuto doloranti, ho ridotto ancora le distanze tra me e la Une e, più mi avvicinavo, più la vedevo diventare grande come uno spietato drago rosso.

Però, quando le sono stato a pochi passi, è stata lei ad allontanarsi ed ha ripreso il suo posto dietro la scrivania, dove ha chiuso il libro da cui aveva preso la sua spiegazione. «Mi è arrivato un permesso da parte dell'infermeria stamattina, soldato Iccijojji, per via... di un controllo medico.» ha detto le ultime parole come se fossero state disgustose.

«Un... controllo medico?» ho ripetuto, dato che non credevo alle mie orecchie.

«Non ne sa niente?» ha ribattuto, acida, guardandomi con una certa ironia.

«No, cioè... sì, lo so, ma... non ce l'ha con me... ehm... per il mio stomaco?»

Avrei fatto meglio a tacere: la Une mi guardava come se avesse davvero potuto incenerirmi sul posto.

«Fa anche lo spiritoso...»

«No, davvero! Prima il mio stomaco ha brontolato e...»

«SILENZIO!»

Non me lo sono fatto ordinare di nuovo. Accidenti! Mi ero scavato la fossa da solo. Adesso mi avrebbe chiesto per cosa era quel controllo e io avrei dovuto mentire? Avrei dovuto dire la verità? Sentivo un caldo pazzesco, avrei voluto scappare, ma i miei piedi erano saldamente ancorati a terra.

«Ne conosco di tipi come lei, Iccijojji!» mi ha detto, in tono accusatorio. Ho ricambiato il suo sguardo per un paio di secondi, mentre cercavo nella mia testa il significato di "tipi come me": tipi succubi della propria sorella? Tipi che finiscono in infermeria un giorno sì e l'altro pure?

«In... in che senso?» ho avuto il coraggio di balbettare.

«Furbi che credono di poter saltare i propri doveri facendosi aiutare da persone come Ramazza e dall'infermiera Johnson!» la Une ha sbattuto una mano sul tavolo, facendomi sobbalzare. «Ne conosco tanti come lei, glielo assicuro, Iccijojji. E le assicuro anche che non hanno vita facile, con me!» ha stretto gli occhi in modo minaccioso e io mi sono limitato a deglutire, impaurito.

«I-io... io non... faccio il furbo.» mi sono ritrovato a balbettare.

«Ah, no? E come mai la Johnson ha sentito il bisogno di firmarle un permesso?»

Ecco. Era il momento di scegliere: monti Paoz o punizione della Une? Ripensando alla reazione di mamma, forse sarebbe stata meglio la punizione della Une. Per questo sono rimasto zitto.

Il mio sguardo si è abbassato sui miei piedi.

«Bene...» ha continuato la Une, in tono flautato. «Credo che lei abbia bisogno di una punizione, non è d'accordo?»

Non ho risposto.

«Si metta sull'attenti, Iccijojji!»

Ho ubbidito.

«Alzi meglio quella testa, non vede che ce l'ha attaccata al petto?» ha detto, esasperata.

Ho cercato di seguire le sue indicazioni. Molte delle cose che facevo non andavano bene: i piedi non uniti, le braccia troppo ciondoloni, le espressioni che avevo. Quando è stata soddisfatta del lavoro – quando cioè ero in una scomodissima posa da cui non vedevo l'ora di liberarmi – mi ha ordinato: «Rimarrà così per le prossime cinque ore.»

Al che ho perso la posizione e sgranato gli occhi. «C-come?»

«Mi ha capito benissimo.» ha risposto lei, acida. «Adesso si rimetta immediatamente in posizione. SI MUOVA!»

Non me lo sono fatto ripetere due volte. Sudavo come un maiale e, per rimettermi come prima, ho dovuto fare la stessa fatica che ho fatto la prima volta.

La Une, per tutto il tempo, mi ha addirittura impedito di sbattere le palpebre e lei è rimasta con me, seduta dietro la scrivania e io, rigido, dovevo rimanere lì, di fronte a lei. Ci siamo squadrati per non so quanto tempo, lei bella spaparanzata ed io rigido in quella scomoda posizione senza neanche potermi grattare. C'erano momenti in cui ero nel panico più totale, per esempio quando cominciava a prudermi il naso o un tallone. Avrei voluto gridare, spostarmi, ma gli occhi della Une mi perforavano e congelavano.

Il mio respiro si era fatto affannoso solo dopo mezz'ora e le lacrime lottavano per uscire dai miei occhi per il dolore ai polpacci costretti a quello sforzo inumano. Avrei voluto gridare, solo per accorgermi che gridare non sarebbe stato abbastanza. Mi formicolavano le mani e facevano male le ginocchia, oltre al fatto che il mio stomaco continuava a brontolare senza sosta. Cosa avrei dato per sedermi, con tante sedie poco dietro di me! Ma niente, la Une mi guardava, in silenzio, da dietro la sua cattedra e io speravo che si alzasse e dicesse di avere una lezione per cui la punizione era sospesa.

Ma non l'ha mai fatto. Una volta ho flesso le ginocchia, ne avevo bisogno, ma lei se n'è accorta e mi ha dato un'altra mezz'ora di punizione.

«Ad ogni infrazione, le aggiungerò una mezz'ora, che ne dice?»

Avrei voluto risponderle che era una pazza sadica, ma non ho fiatato: credevo che avrei solo risolto di farla arrabbiare ancora di più. Non ho fatto niente. Credevo che, anchilosato com'ero, probabilmente mi sarei soltanto fatto più male o spezzato qualcosa. E un buon odore di pollo aveva anche cominciato ad entrare dalla finestra, rendendo il brontolio del mio stomaco ancora più selvaggio.

Ho atteso ancora. Non sapevo che ore erano, ma ad ogni istante che passavo lì, credevo che fossero passate delle ore. Ogni tanto arrivavo a chiedermi se non fossero già passate e la Une continuasse a tenermi lì. Eppure no, perché la campanella non suonava mai e pregavo perché lo facesse, che scandisse il mio tempo.

Invece, aveva suonato quella della fine del pranzo e di ripresa delle lezioni. Solo un'ora. Era passata un'ora e io ero già stremato, oltre che quantomai affamato.

Non so come ho retto per un'altra ora. Non so perché il mio povero stomaco vuoto non sia stato un buon motivo per la Une per trattenermi ancora, ma sono stato felice che sia stato così, altrimenti, probabilmente non potrei essere qui a scriverne.

Le ho provate tutte, cercavo di distrarmi, di pensare ai miei a casa, alla mamma e ai monti Paoz per darmi maggiore forza, ai miei compagni che giocavano in palestra. Ma niente riusciva a farmi dimenticare il peso sulle ginocchia. Niente riusciva a distogliermi dai miei polpacci brucianti o dalla mia spina dorsale leggermente piegata all'indietro o, ancora, ai piedi formicolanti e decisamente troppo caldi.

Avevo i lacrimoni agli occhi, non solo perché dovevo tenersi sbarrati e non ci riuscivo. Mi pizzicavano e, non appena gli occhi della Une si spostavano di un millimetro, li sbattevo un po' e poi tornavo a fissare intensamente la lavagna sgombra.

Non sono arrivato alla fine della seconda ora. Sono crollato.

«Non ce la faccio.» ho piagnucolato, mortificato. «Mi dispiace, lady Une.»

«Si rialzi subito in piedi, Iccijojji!» ha ribattuto lei. Volevo piangere, volevo andarmene. Perché farmi fare tutto quello?

Mi sono ridotto a supplicare, mentre sentivo i miei muscoli sospirare di sollievo, se i muscoli potessero sospirare, certo. «La prego, lady Une, non ce la faccio!»

Ma lei non ha voluto sentire ragioni. Ero allo stremo, avrei voluto scappare e stavo piangendo come un bambino. Sì, stavo piangendo. E mi vergognavo di me stesso, della mia debolezza, senza che lei ci mettesse quel suo sguardo impietoso e cattivo.

«Si rialzi immediatamente!» mi ha detto. Non l'avrei mai convinta. «E la smetta di piangere. Un vero uomo non piange!»

Già, un vero uomo, forse. Ma io sono solo un ragazzino... ho dodici anni, anche se in quel momento mi sentivo piccolo, un pulcino indifeso, un essere inutile, come mi diceva spesso Pan. Mi ricordavo del nonno, quando mi chiamava "gelatina". Forse è per questo che ho trovato la forza di rialzarmi e, forse, è anche per questo che sono svenuto.


Quando mi sono risvegliato, ero ancora una volta in infermeria. Mi hanno risvegliato delle urla. Era una voce di donna, una voce alterata e irosa.

«Mi chiedo come le sia venuto in mente!» diceva. «Un ragazzo così giovane! Lei è pazza, lady Une! Pazza!»

Sentire quel nome mi ha fatto aprire gli occhi di scatto e mettere seduto. Ero sullo stesso letto dove ho passato la notte precedente e, accanto a me, c'era Arale.

«E tu che...» non mi ha fatto finire. Mi ha semplicemente premuto una mano sulla bocca e fatto cenno di stare zitto.

«Ho il diritto di insegnare ai miei studenti la disciplina, infermiera!» gridava la Une, di rimando, intanto. «Non le permetto di criticare i miei metodi!»

«Lei non può togliere la salute a questi poveri ragazzi! Ma dove ce l'ha il cuore?»

«Ho tutto il diritto di punire i miei studenti per le trasgressioni!» continuava la Une. Dovevano essere nell'ufficio della Johnson, perché l'infermeria era totalmente deserta e scura, se non fosse stato per la presenza di mia e di Arale. Devo ammetterlo: quella ragazza è davvero dolcissima. Si comporta come una vera amica anche se ci conosciamo da così poco. «E lei ha il dovere di fargliele rispettare!»

Ho sentito il rumore di una scrivania che tremava, forse perché la Johnson le aveva dato un pugno. «Io li curo i suoi studenti!» gridava, intanto. «E lei ha il dovere di non farli ammalare con i suoi metodi da caserma militare!»

«Le posso ricordare che questa è una caserma militare?»

«Sono dei ragazzini!» ribatteva con maggiore forza la Johnson. «Sono dei ragazzini, non degli adulti! Lei non può mettere in pericolo la loro salute per punirli! Lo capisce, o no?»

«Il regolamento non vieta di certo di farli rimanere in piedi fermi e zitti, no?»

«Il regolamento vieta di dar loro punizioni che possano attentare alla loro salute! E attentare alla salute, significa farli ammalare in qualunque modo, lady Une!»

«E vieta anche di coprirli e far finta che abbiano malattie inesistenti per avere dei permessi da lei!»

«MA COME SI PERMETTE DI CRITICARE LA MIA PROFESSIONALITA'?» il ruggito della Johnson ha fatto tremare sia me che Arale.

«E' uno scontro all'ultimo sangue...» ha bisbigliato, guardando con aria grave la porta chiusa dell'ufficio. Non ho risposto, mi sono limitato ad annuire e ho pensato che, se la Johnson si esponeva così tanto per un singolo studente, l'ultimo arrivato, allora aveva ragione Alex, a dire che era a posto.

«Lei l'ha sempre fatto!» ribatteva la Une.

«Ora la smetta di offendermi! Sono una persona puntigliosa e scrupolosa!» ha sbottato la Johnson. «Se sento che i miei pazienti hanno bisogno di passare una nottata in osservazione, allora gliela faccio fare e me ne infischio della sua bandiera!»

«Q-questa è...» la Une balbettava. Ebbene sì, l'ho sentita proprio balbettare. Questo credo che sia un evento da ricordare. «QUESTA E' INSUBORDINAZIONE!»

«NO!» ha gridato di rimando la Johnson. «È pararle il culo, mia cara direttrice!»

«Ma... ma che diavolo dice, Johnson?» la Une mi è parsa allibita. «Spero che lei abbia un buon motivo per queste sue parole oltremodo oltraggiose!»

«Sa quante volte ha portato qui alunni, dicendo che non sono stati in grado di reggere alle sue punizioni? Lo sa quanti alunni hanno detto che lei li fa sgobbare come muli e li ricovero per stress ed esaurimento nervoso, eh? Quante volte l'ho denunciata? Quante volte ho mandato al Generale le cartelle cliniche dei suoi studenti? MAI! E le dirò di più: se viene un'ispezione, lei è fottuta, le verrà tolto il posto! E sa che le dico? Che se lo meriterebbe!»

«Johnson, le impedisco di...»

«Le do un ultimo avvertimento, colonnello Une: continui su questa strada e la prossima persona con cui parlerò, sarà il Generale, chiaro?»

Io e Arale ci siamo scambiati un'occhiata carica di ammirazione: la Johnson era la persona più coraggiosa che avessi mai visto in vita mia.

Abbiamo aspettato una risposta che non è mai arrivata. La serratura è scattata e la porta si è aperta. Mi sono ributtato giù sul cuscino e ho serrato gli occhi, mentre Arale cominciava a strizzare un panno dentro la tinozza accanto al mio comodino.

«Per oggi finisce così, Johnson.» ha detto la Une, come se fosse stata lei ad aver avuto l'ultima parola. Un attimo dopo, il suo passo cadenzato si è allontanato da noi e, solo quando la porta dell'infermeria si è richiusa, ho osato riaprire gli occhi.

Ho sentito il pluk del panno che veniva buttato di nuovo in acqua e Arale sospirare.

«Puttana!» ho sentito sibilare alla Johnson, mentre, con passo pesante e marziale, si avvicinava a noi. Mi ha guardato. «Ah, sei sveglio...» ha detto, come se fosse stata una colpa.

Si è messa al mio fianco, dal lato opposto a quello di Arale e ha preso da dentro un armadietto un apparecchio per la pressione. «Devi aver avuto un calo di zuccheri.» mi ha detto, mettendosi lo stetoscopio nelle orecchie. «Non ti ha fatto manco mangiare quella... lady Une!» l'ha detto con un tono così inviperito che mi ha fatto capire che non erano quelle le parole che voleva usare.

«Ma sta bene?» ha voluto sapere Arale, in tono preoccupato.

La Johnson ha alzato la testa e ho visto che aveva gli occhi sgranati. «Certo che sta bene! E chi la ammazza quella?»

«Guardi, infermiera...» ha risposto Arale, titubante. «Che io parlavo di Kenny!»

«Ah.» ha risposto lei, torva, ha cominciato a strizzare quell'aggeggio dell'apparecchio che fa gonfiare la fascia. Poi ha aggiunto, in un soffio: «non ci posso credere!»

Il mio cuore è sobbalzato. «Sto... sto così male, infermiera?» ho chiesto, preoccupato. Lei mi ha guardato, come se mi avesse visto solo in quel momento.

«Ma no!» ha risposto, sgarbata. «Stai benissimo, non mi hai sentito?»

«Ma allora... a cosa non può credere?»

Lei ha smesso di strizzare e la fascia sul mio braccio ha cominciato a sgonfiarsi. Ha soltanto scosso la testa, in risposta. Dopo diversi "pi-pi" prodotti dalla macchina, la Johnson mi ha tolto la fascia.

«Tutto a posto.» ha detto. «Dovrei fare altri esami, ma non posso senza il dottore. Dovrò aspettare la visita medica degli studenti.» ha scosso le spalle e si è messa a sistemare l'apparecchio della pressione nella sua scatola, senza guardare nessuno in particolare.

Mi sono messo seduto, sistemandomi la manica della camicia. «Me ne posso andare?»

Lei, però, non mi ascoltava. Mentre si rimetteva lo stetoscopio dietro al collo, la sentivo borbottare: «Non può andare avanti così per sempre... non può!»

«Ehm... infermiera?»

Niente.

«Infermiera?» ha provato anche Arale.

Ancora Niente.

«Infermiera?» l'abbiamo chiamata insieme e lei si è girata di scatto verso di noi.

«Che c'è?» ha chiesto, come se non avessimo provato a chiamarla così tante volte.

«Posso andarmene?»

Lei ha corrugato la fronte, poi ha annuito, svogliatamente. «Sì, sì... fatti una bella mangiata e una buona dormita...» ha sbuffato. «E smettila di metterti nei guai!»

Ho annuito, chiedendomi, però, come avrei fatto a non mettermi nei guai con mia sorella che ci metteva del suo, unito alla Une che puniva in quei modi terribili.

Con Arale, ci siamo diretti verso la mensa, dalla quale arrivava un odorino niente male. Di nuovo, il mio stomaco ha brontolato.

«Sono qui da due giorni e non vedo l'ora di andarmene!» ho confessato, abbassando lo sguardo. Arale ha alzato lo sguardo su di me. «Non sono tagliato per la vita militare...»

«L'hai detto tu che sei qui da due giorni!» ha ribattuto lei. «Come fai a sapere se sei tagliato oppure no?»

«Andiamo, guarda come sono ridotto! Non riesco neppure a stare in piedi, fermo, per cinque ore!»

«Cinque ore è proibitivo, Ken!» ha sbottato lei, severamente. «Noi siamo ancora piccoli... e nemmeno tanto addestrati.»

«Lo so, ma...» come potevo spiegarle che, per me, era stato umiliante aver addirittura pianto di fronte alla Une? Ho preferito tacere la mia vergogna e tenerla tutta dentro. «Pan ce l'avrebbe fatta!» ho detto, convinto.

«Tu ne sei così sicuro?»

«Pan è fortissima!» ho esclamato, fermandomi sul pianerottolo tra il primo e il secondo piano e costringendola a fare lo stesso. «Andiamo, Arale! Non hai visto che è riuscita a fare? Ha tenuto sollevata una porta con una mano sola! Ha preso di peso un professore delle elementari mesi fa, uno grosso! E ha vinto anche un torneo... uno di lottatori professionisti!» ho specificato. Lo pensavo e lo penso tuttora: «Lei sarebbe capace.»

Arale mi ha guardato tristemente, ma capivo dal suo sguardo che non riusciva a comprendere il mio disagio. Non la biasimavo per questo: lei non aveva avuto per tutta la vita un nonno e una sorella sempre disposti a disprezzarla per la sua poca resistenza. «Mica siete uguali...» mi ha detto.

«A volte vorrei avere metà della sua forza.» ho mormorato, abbassando lo sguardo.

«Ed essere altrettanto prepotente? Scusami, Kenny, se te lo dico, ma secondo me la forza non è tutto nella vita, né la resistenza!»

«Ma non andrò mai avanti qui!»

Lei ha arricciato le labbra. «Senti,» ha detto, appoggiandomi una mano sul gomito. «io non lo so se andrai avanti, ma non puoi mollare senza provarci, no?»

Ho continuato a tenere gli occhi bassi e, per un po', l'unica cosa che riempiva il silenzio, erano i nostri respiri. «Dai, andiamo a mangiare...» ha continuato, abbozzando un sorriso allegro. «Sto morendo di fame! E smettila di tenere il muso. Vedrai che le cose andranno meglio!»

Spero tanto che abbia ragione, perché, per come si stanno mettendo le cose, credo che raccogliere pannocchie sia il minore dei mali.



*****


In mostruoso ritardo come al solito – voglia di lavorare saltami addosso – posto il sesto capitolo. Credo di aver esagerato facendo svenire Kenny, ma è un fatto molto importante per lo sviluppo della trama. Non dico altro, anche se credo di avervi confuso. ^^


Prof: quando dici che accadrà qualcosa che turberà la normale vita accademica, hai perfettamente ragione. L'idea è proprio quella, poi trattandosi di Pan, Alex e Arale puoi metterci la mano sul fuoco. I prossimi capitoli saranno un po' più di passaggio, ma faranno capire qualcosa di più sulla trama – anche se chiamarla trama non è propriamente corretto, almeno per come la sto sviluppando. Il bibliotecario e l'infermiera, sì, sono personaggi miei e sono davvero contenta di essere riuscita a caratterizzarli bene (gli originali mi spaventano sempre un po' XD). Per le tue domande non posso ancora rispondere. Vorrei solo chiederti che cosa ti ha fatto pensare che ad Alex piaccia la Noin. ^^ Aspetto con impazienza i tuoi pareri!


Inoltre, ringrazio _Pan_ che ha inserito la storia tra le sue preferite.


Al prossimo mese (o forse dopo, dipende dal livello di pigrizia XD),

Luine.

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Capitolo 7
*** Hangar 14 ***


Le lezioni al primo anno

Hangar 14



30 Ottobre


Nell'ultimo periodo la mia depressione “da caserma” è andata a periodi alterni: un po' tornava, un po' me ne dimenticavo. Questo è stato soprattutto grazie ad Arale, anche se un po' hanno avuto merito lo studio e le lezioni che mi hanno portato via un sacco di pensieri. Nell'ultimo periodo, che è stato parecchio lungo, dato che è praticamente dal secondo giorno che non scrivo più niente, ho evitato l'infermeria e anche la Une, anche se sono stato costretto a vederla in classe e a farmi interrogare da lei.

La storia dell'alzabandiera continua ad andare avanti. Ormai, riesco a svegliarmi da solo alle cinque e anche a rimanere sveglio alle lezioni di Bristow. Attenzione: rimanere sveglio, non seguirlo. Un grande passo avanti, rispetto ai primi tempi.

Alex, invece, è ancora un po' arrugginito e, se riesce a svegliarsi alle cinque da solo, ha ancora un po' di problemi con Bristow e con la Noin, di cui non segue le lezioni neanche morto. Però, rispetto agli altri anni, almeno a sentire i professori, è molto migliorato.

«E' merito di Arale, che mi fa studiare come un matto!» ha detto, una sera, in biblioteca, al sergente Hopkins che, con una cioccolata calda in mano, ascoltava il tutto con vivo interesse.

Quell'uomo passa un sacco di tempo con il gruppetto di cui faccio parte – formato da Frank, Arale e Alex – ci offre le cioccolate e chiacchieriamo del più e del meno, soprattutto di fumetti o di studio (ma questo molto più di rado).

«Sì, ok...» Arale ha trangugiato l'ultimo sorso della sua tazza, lasciandosi intorno alla bocca, come ricordo, un bel cerchio di cacao, e riuscendo a tagliare il discorso a metà. «Vogliamo ripassare la dimostrazione delle funzioni iniettive e suriettive?»

Alex ha ragione: studiamo come matti. Fosse solo questo, sarebbe una pacchia: ogni tanto, almeno una volta a settimana, siamo costretti ad alzarci nel cuore della notte per rifarci il letto.

«Sono metodi di addestramento...» ci ha confidato Heero Yuy, una sera che era venuto a portare ad Alex un pacchetto di sigarette.

Il fatto è che, se ci rifacessero fare il letto in modo normale, sarebbe molto più facile. Invece, la Une pretende che ci rifacciamo il letto e che le coperte e le lenzuola le mettiamo a cubo. Alex non ci è mai riuscito e io solo ultimamente riesco a fare un qualcosa che gli assomigli.

Il mio amico, ogni volta, fa una palla e la appoggia al centro del suo letto.

«E questa cos'è?» ha chiesto la Une, l'ultima volta, disgustata, quando gli è passata davanti.

«Il cubo, colonnello!» ha risposto Alex, grattandosi un fianco, assonnato.

«Si metta sull'attenti, soldato Ramazza!»

Alex, controvoglia, ha eseguito.

«Insomma, cos'è?»

«Il cubo, colonnello...» ha ripetuto, sospirando.

«E dove sono gli angoli?» ha ringhiato la direttrice.

Alex si è grattato la testa, guardando le sue coperte appallottolate, dubbioso, mentre io, cercando di nascondermi il più possibile per non farmi vedere da lei, sbadigliavo come un disperato. «Beh, sono un po' smussati...»

«Fa anche lo spiritoso? Bene!» la Une ha fatto una smorfia di puro disgusto. «Rimarremo qui, in piedi, Ramazza, finché non farà un cubo come si deve!»

E così ha fatto. Alex ci ha messo tutto se stesso, ma senza risultati. Tutti quanti siamo stati costretti a fare quel cubo schifoso finché non fosse stato, non perfetto, ma quantomeno decente. Finora, gli unici due ragazzi della camerata che ci siano riusciti, sono stati Frank e Trowa Burton.

Insomma, la vita in caserma è un vero schifo.

Pan è l'Alex delle ragazze, imbranata e svogliata esattamente quanto lui, solo che, al contrario suo, invece di ubbidire, protesta ed è per questo che è già finita diverse volte in punizione. L'ultima volta, per esempio, è stata messa in piedi, accanto al suo letto, ferma in piedi, zitta e immobile, mentre le altre potevano tornare a dormire. Ma lei non è mai svenuta e io non mi sono mai sentito così scemo.

«Secondo me,» ha detto Arale, un giorno che eravamo andati a trovare l'infermiera Johnson. «non dovresti farti tante paranoie...»

«No, infatti!» ha confermato la Johnson. «Siete diversi...» Già, la stessa cosa che mi aveva detto Arale, ma io non sono mai riuscito a superare questa cosa, sebbene faccia di tutto per non pensarci.

«Lei è più forte di me. Più resistente!» ho protestato per l'ennesima volta.

«Beh, non è colpa tua!» ha ribattuto Frank, con veemenza. Dato che era amico di Alex e che io e Arale passavamo tanto tempo con lui, abbiamo cominciato a frequentare anche lui. Mi sta molto simpatico, anche se, ogni tanto, ha degli atteggiamenti piuttosto snob. «Piuttosto del Salvini che non ci fa fare la corretta attività fisica!»

La Johnson ha convenuto con lui e si posata le mani sui fianchi. «Hai perfettamente ragione, Kushrenada!» ha sospirato, mentre girava la testa verso una delle ampie finestre. «E sei anche più piccolo di lei.» mi ha ricordato.

«E la Une vuole vederci crollare!» ha aggiunto Alex, rabbioso.

«Sarà... ma se non fa le cose per bene...» la Johnson non ha continuato. Si è semplicemente allontanata, come per impedirsi di dire qualcos'altro.

Già, loro mi hanno appoggiato, ma non Heero, al quale Arale, più che io, ha raccontato quello che entrambi abbiamo sentito il secondo giorno in caserma. Lui, però, non ha avuto la stessa reazione indignata dei miei amici.

Si è seduto sul letto di Alex e si è stretto nelle spalle. Lui ci viene a trovare spesso, ma solo per questioni “contabili”, come dice Alex, o per portare qualcosa che gli chiedono i miei compagni (sono sicura che Sora gli abbia chiesto delle sigarette, la scorsa settimana). «Beh, siamo una caserma militare? Comportiamoci da militari! Questa scuola non è uno scherzo!» è stato il suo commento.

«Ma... ma...» ha protestato Arale, visibilmente scossa. «Qui si tratta della salute degli alunni!»

Lui ha fatto spallucce. «Vedi, Norimaki,» ha detto. «di solito, per intraprendere la carriera militare, si fanno dei test attitudinali, una visita medica... qui queste cose vengono fatte solo per figura, perché tutti quanti i ragazzini giapponesi – e non – possano entrare in questa scuola speciale. Purtroppo, non tutti quelli che entrano, riescono ad arrivare in fondo e si ritirano.» al che, il mio stomaco si è contratto in modo orribile, perché ho capito che anche io, presto o tardi, sarei entrato in quel mucchio. «I metodi duri che usa la Une sono tipici di quelli che hanno ricevuto un addestramento militare. Non la condanno per la sua rigidità, anzi, la capisco: deve formare un esercito, non un gruppo di ballerine!»

«Ma siamo ragazzini!» ha sbottato Arale. «Questo non ha nessuna importanza?»

«No.» ha risposto il responsabile del nostro piano, con tranquillità.

Frank, quando ne abbiamo parlato a cena, è stato d'accordo con lui, provocando l'indignazione sia di Alex che di Arale. Anche io ero piuttosto perplesso: avevo pensato che, appoggiandomi, aveva dato il suo dissenso ai metodi di addestramento della Une e, invece, a quanto pare, parlava solo del fatto che mi sentivo molto indietro rispetto a mia sorella.

«Non ci posso credere!» ha esclamato Arale, alla rivelazione del nostro amico. «Tu, proprio tu che odi Heero Yuy!»

Frank non può vedere Heero e non ho capito perché. Ogni volta che lo vede portare qualcosa di “illegale” in camera nostra, lo guarda torvo e quasi quasi non lo saluta.

«Non è questione di odio o amore!» ha esclamato, infastidito. «E' questione di avere ragione o torto. E lui, stavolta, ha ragione.»

«Ma... insomma, Frank, siamo ragazzini!»

«Tu non avevi idea di quello a cui andavi incontro, quando ti sei iscritta, giusto?» ha chiesto.

«Beh, ecco... io volevo studiare i Mobile Suit!»

«Ecco. Quindi non lo sapevi.» ha esclamato Trowa che era accanto ad Arale, all'altro suo lato. «Vi ho sentito parlare...» così ha giustificato la sua entrata nella nostra conversazione. «Quello che devi capire è che qui, se non sei motivato abbastanza, non resisti e te ne vai. Devi conoscere quello a cui vai incontro! Non si tratta solo di studiare, ma di formare i futuri soldati del Giappone.»

Alex ha sbadigliato sonoramente nel sentirlo parlare così. «Burton, te la posso dire una cosa? Parli come un politico!»

Trowa ha fatto un gesto spazientito. «Non è parlare da politici.» ha ribattuto. «Dicevo solo le cose come stavano per poter essere dei bravi soldati.»

«Ma tu non vuoi essere un soldato giapponese...» gli ha fatto notare Frank, corrugando la fronte.

«No... hai ragione.» ha risposto Trowa, senza alcuna vergogna. «Dico solo che è giusto avere una motivazione forte per poter sopportare la vita militare. E chiunque abbia capito con quale spirito frequentare questa scuola, dirà quello che ho detto io.»

Frank ha sorriso amaramente in risposta. «Già...» ha sospirato. Mi è sembrato molto malinconico, ma non ho capito perché.

«Io non sono d'accordo...» ha replicato Arale, battendo un pugno sul tavolo, più che mai infervorata. Non l'ho mai vista così presa da una discussione come in quel momento. «Possiamo essere bravi soldati anche senza bisogno di venire pressati e umiliati!»

«E' un modo per formare il nostro carattere e non farci fuggire di fronte alla prima difficoltà.» ha risposto Trowa, senza nessuna particolare intonazione. «E' necessario!»

«Bah.» Arale ha girato la testa dall'altra parte ed ha chiuso la conversazione.

Alla luce delle considerazioni dei miei compagni di classe e di Heero, credo di essere fuori posto: la mamma mi ha costretto a venire qui e non mi ha mai detto che quella era la vita militare. La dura vita militare.

Non mi sentivo motivato abbastanza, né all'altezza di gente come Heero, Trowa o Frank...

Ieri, davanti ai miei appunti di storia, seduto sulle scale che portavano al refettorio, ragionavo proprio su tutto questo (è anche per questo che ho deciso di scrivere qualcosa dopo tanto tempo), e non facevo altro che sentirmi sempre più incapace: i miei risultati scolastici non sono eccezionali e quelli militari... beh, meglio lasciar perdere. Riesco sempre a strappare la sufficienza nelle interrogazioni, ma come soldato lascio molto più a desiderare.

«Ehi, ragazzo, che ci fai per le scale?» sono quasi morto di paura, soprattutto quando, alzando la testa, ho visto che, davanti a me, in fondo alle scale, c'era l'uomo con la mascherina che mi ha accolto all'ingresso il primo giorno di scuola: Zack Marquise. Devo ammettere che quel tipo mi inquieta assai.

Mi sono alzato in piedi di scatto, rivolgendogli un rigido saluto militare, come avevo fatto tante volte. «Stavo studiando, signore!»

La sua bocca, l'unica cosa che la maschera non copriva, si è deformata in un sorriso. Ha salito le scale e quando mi ha raggiunto, ha abbassato la testa verso di me. «Forse è meglio se usi la biblioteca, non credi?» mi ha chiesto, gentilmente, ma si vedeva che era un invito a togliermi dalle scatole.

Mi sono rigirato gli appunti tra le mani. «Ecco... io, veramente, vengo da lì.» ho ammesso.

Sorprendentemente, non mi ha sgridato come avrebbe fatto chiunque altro, la Une in prima fila. «Volevi un po' di privacy?» mi ha domandato il colonnello.

«Ehm... sì, più o meno...» la verità era che scappavo da un'altra conversazione sull'essere un buon soldato o meno che Tai Yagami aveva ingaggiato con Arale che sembrava voler ingaggiare una specie di rivolta contro questa vitaccia.

Nell'ultima settimana quello è l'argomento che va per la maggiore nel nostro corso ed è un po' difficile ignorare l'argomento “resistenza”, quando tutti sembrano intenzionati a ricordarmelo. Almeno hanno smesso da un po' di guardarmi male, come se fossi un cane rognoso. Solo Bra e solo ogni tanto, dato che non reagisco, pensa bene di scaricarmi addosso qualche battuta maligna.

Non so cosa mi abbia spinto ad agire. So solo che l'ho fatto: ho richiamato indietro il colonnello, quando lui mi ha sorpassato. Ha abbassato la testa su di me. Quella maschera mi impediva di vedere i suoi occhi e non riuscivo a capire cosa pensasse del mio gesto. Mi sono sentito in soggezione, quasi fosse stata la Une stessa a guardarmi.

«Posso... posso farle una domanda, signore?» ho voluto sapere, chiedendo a me stesso perché volessi fargliene una così personale. Dopotutto, lui era un perfetto estraneo per me. Non era neanche un mio professore!

«Ma certamente.» ha risposto lui, girandosi di nuovo e sorridendo, incoraggiante. Non passava anima viva e c'era uno strano silenzio intorno a noi.

«Ecco... non... non deve rispondere per forza...» ho esordito: effettivamente, non erano neanche fatti miei. «Mi chiedevo, lei... lei è sempre stato molto motivato?»

Ero sicuro che mi guardasse fisso. «A fare cosa?»

«A fare la caserma!»

Marquise ha continuato a fissarmi per un po', poi ha sorriso, forse ridendo di me e del modo in cui gli avevo posto quella domanda. Ma non potevo dirgli “è sempre stato motivato ad essere un buon soldato?”. In quel momento avevo il cervello felpato.

«Perché vuoi saperlo?»

«Ecco... non voglio farmi gli affari suoi...» ho balbettato. Facevo la parte del maleducato a guardarmi le scarpe, invece che lui, ma non avevo il coraggio di alzare gli occhi più di quello. «E'... che...»

«Ho fatto una promessa.» ha detto, senza aspettare la mia risposta.

Stavolta sono stato io a non capire. «Una promessa?» ho ripetuto, riuscendo, per lo stupore, ad alzare lo sguardo sulla sua maschera bianca.

«Sì.» ha confermato, con naturalezza, senza perdere il suo sorriso.

Ho solo annuito, anche se la curiosità mi divorava per sapere che tipo di promessa potesse rendere resistenti e motivati.

«Quindi... per lei... è una motivazione molto forte...»

Nessuna emozione traspariva dalla parte visibile del suo viso. «Immagino di sì...» ha risposto, lentamente. Sembrava soppesare le mie parole e io mi sentivo sotto esame.

«Vede, colonnello, io...» ho deglutito. «Io non credo di essere abbastanza motivato.»

Lui non ha detto niente. Non ha provato a consolarmi come ha fatto Arale, non mi ha attaccato come ha fatto Heero il giorno di quella discussione.

Non parlava. Forse ha semplicemente pensato che ero uno smidollato capitato per sbaglio sul suo percorso. Comunque non se n'è manco andato ed è stato per questo che ho insistito: «Dove posso trovare una motivazione?»

«Non te lo posso dire io.» è stata la sua risposta. Se la sua immobilità fosse stato il suo sguardo, allora avrei detto che mi stava fissando intensamente. «Questa è una cosa che devi sapere tu.»

Lo stomaco mi si è contratto. «O... mollare?»

Lui ha inclinato la testa. «Tu vuoi mollare?»

«I-io... io... no, non lo vorrei, ma...» mi sono fermato.

«Ma?» mi ha spronato, con fermezza. Conosceva sicuramente la risposta, ma credevo che volesse sentirlo uscire dalle mie labbra per mandarmi via più in fretta, magari umiliandomi.

«Ma... sono una schiappa!» l'avevo detto. E nel peggiore dei modi. Anche stavolta, però, la maschera di Marquise mi ha impedito di vedere cosa gli passasse per la testa. Ho abbassato la testa. «Mi scusi...» ho cercato di rimediare.

L'ho sentito sorridere. «Come ti chiami?» mi ha chiesto. La mia testa è scattata verso il punto in cui la maschera disegnava due occhi. I miei erano sgranati, forse facevo l'effetto di uno che non ha capito la domanda. Non era propriamente così. Diciamo che non capivo perché farmi quella domanda.

«Ken Iccijojji. Cioè... sono... sono il soldato semplice Iccijojji.» ho detto, correggendomi: la Une è sempre categorica su questo punto, quando ci mette in fila, davanti al muro ed ognuno deve dire il suo grado e il suo cognome, urlando.

«Va benissimo Ken Iccijojji.» mi ha detto, scendendo di nuovo le scale. Mi ha stupito, ma quello che mi ha fatto del tutto andare in confusione è stato il fatto che mi abbia messo una mano sulla spalla. «Su, vieni con me.» è stato tutto quello che mi ha detto, precedendomi lungo le scale che portavano al cortile.

L'ho seguito, perplesso: perché voleva farmi uscire dalla caserma? Avevo cominciato ad avere paura che volesse legarmi e buttarmi nel retro di un camion e che dicesse al guidatore di portarmi a casa mia. In questo caso avrebbe avuto senso chiedermi il nome.

Ma nel cortile di terra battuta non c'erano camion in cui potermi sbattere o corde con cui potermi legare. L'abbiamo attraversato in silenzio, io che arrancavo alle sue spalle, guardandomi intorno timoroso.

«Colonnello, dove... dove stiamo andando?»

«All'hangar quattordici.» così ha risposto lui. La cosa non mi ha detto niente: non sapevo neanche cosa fosse... così gliel'ho chiesto.

«E' uno degli hangar in cui quelli del sesto anno si esercitano per riparare e costruire parti dei Mobile Suit che progettano.» così ha risposto Marquise, rallentando e permettendomi di camminargli a fianco.

«E perché ci stiamo andando, signore?»

«Perché credo che lì ci sia qualcosa che possa rispondere alla tua domanda, Ken Iccijojji.»

Non ho capito che cosa intendesse e non l'ho nemmeno capito, quando, attraversata una porta incassata nel grosso muro di cinta, ci siamo ritrovati in una specie di capannone rivestito di metallo, pieno di persone vestite di una tuta argentea, col simbolo dell'esercito spaziale appuntato sul petto. Molti erano chini su tavoli sparsi di qua e di là, spesso davanti ad altissime macchine mastodontiche, altri parlavano tra loro a voce molto alta, spesso per sovrastare il rumore di seghe circolari che lavoravano sulle macchine: i Mobile Suit.

Era la prima volta che ne vedevo uno dal vivo. Gli altri erano state illustrazioni portateci dalla Une e neanche tanto accurate, dato che abbiamo una fotocopiatrice vecchia di ventimila anni.

Comunque questi Suit avevano sembianze quasi umane, se non fosse per i musi sostituiti da grate o occhi vuoti ed inquietanti o per le migliaia di fili colorati che uscivano dalle braccia non ultimate.

Capivo, di fronte a loro, come doveva sentirsi una formichina nel vedere un essere umano.

«Ti piace?» ha chiesto Marquise, mentre camminavamo lungo il corridoio principale.

«E'... magnifico.» sono riuscito a dire, ma “magnifico” era limitativo per quelle macchine. «Qui aggiustate i Suit, ho capito bene?»

«Sì, e ne costruiamo di nuovi.»

Ci siamo fermati di fronte ad un Suit tutto bianco, dove stavano lavorando sei persone, tutte nella cabina di pilotaggio, situata nel petto della macchina.

«E questo cos'è?» ho chiesto.

«Si chiama Pioggia di Fuoco. E' uno dei Suit più potenti dell'intero esercito terrestre e spaziale. E' di gran lunga superiore a tutti i Suit in nostro possesso e in grado di tenere testa ad un Gundam.»

Ho girato la testa verso di lui che, invece, aveva gli occhi puntati sul Pioggia di Fuoco.

«Cos'è un Gundam?»

«Un Suit formato di una lega particolare, chiamata Gundanium, ma immagino che la studierai l'anno prossimo, a Materiali per la Costruzione di Macchine.»

Una materia con un nome così altisonante non deve essere niente di facile, ma in quel momento non ci ho pensato: ero tutto preso dal Suit che torreggiava su di me. Dalla mia posizione, proprio davanti ad un tavolo che sorreggeva una gran quantità di progetti dettagliatissimi che raffiguravano parti di Pioggia di Fuoco, non riuscivo a vedergli la testa.

«Chi lo pilota?» ho voluto sapere.

Lui non ha risposto.

«Deve essere molto in gamba: deve essere difficile da comandare.»

Ho creduto di aver detto una cavolata, perché lui ha ridacchiato, ma non mi ha preso in giro, anzi: mi ha posato una mano sulla spalla.

«Ogni volta che si combatte, bisogna sempre avere in mente il perché si combatte, altrimenti viene meno il motivo per cui queste macchine vengono costruite.» ha sospirato, riprendendo un tono serio. Ho abbassato gli occhi, ma cominciavo a capire:

«Chi guida queste macchine, deve anche essere pronto a morire?»

«E ad uccidere.» ha risposto lui, mestamente. Quelle parole mi hanno fatto stringere lo stomaco. «E' per questo che bisogna avere una motivazione forte per poter porre fine alla vita di un uomo o la propria. Bisogna averlo bene in mente.»

«Ma...» ho ribattuto, spaventato. «Noi... noi non dobbiamo andare in guerra... no? Il... il Generale ha detto che potremmo finire al sesto anno e...»

Ho sentito Marquise sospirare ancora, mentre la sua mano si stringeva più forte intorno alla mia spalla. «Non sono molti quelli che frequentano questa accademia e decidono di lasciarla alla fine del sesto anno.»

«E... e sono tutti consapevoli di questo?» ho mormorato, abbassando lo sguardo sulle mie scarpe: non riuscivo più a guardare il Suit.

«Non tutti, purtroppo.» ha risposto, mestamente.

Siamo rimasti in silenzio per un po', poi, dopo che lui ha dato un ordine ad uno con la tuta argentea.

«E chi continua senza aver trovato il suo motivo?»

Marquise ha abbassato la testa, quasi dovesse dare omaggio ad un amico morto da poco. «Sarà relegato alle ultime linee, guarderà i suoi compagni morire e non sarà in grado di reagire.»

Non ho risposto, angosciato com'ero. L'ho imitato e ho abbassato anche io la testa. Mi sentivo in dovere di farlo.

«Il suo pilota si chiamava Milliardo Peacekraft.» mi ha detto, dopo un attimo di silenzio, rotto solo dalla fiamma ossidrica che troncava di netto un grosso pezzo di metallo a pochi metri di altezza da noi, su un'impalcatura fissa ai lati di Pioggia di Fuoco.

«Il pilota di chi?» ho chiesto, stupidamente.

«Di Pioggia di Fuoco.» ha risposto. Non ha mostrato stizza o altro; tenendo lo sguardo fisso di fronte a sé, il corpo rigido, il passo marziale e monotono, ha cominciato a condurmi all'uscita. «Era il principe di Sanc Kingdom, il suo regno, eppure non ha mai trovato una motivazione abbastanza forte per morire per esso.»

Non sapevo neanche di cosa stesse parlando. Mi sono grattato la testa, perplesso.

«E... e quindi?» ho chiesto, non sapendo esattamente cosa aspettarmi.

Lui ha abbassato lo sguardo su di me. «Non ne conosci la storia?»

Ho scosso la testa e lui ha di nuovo sollevato la sua verso la strada per tornare dentro la caserma. Eravamo arrivati nel cortile, dove la luce del tramonto dava alla terra battuta una tonalità rosso sangue.

«Il regno è andato distrutto.» è stato il suo lapidario racconto.

«E... il principe? Cosa gli è successo?» ho voluto sapere. Avevo subito provato una certa simpatia per quel tipo, forse perché mi somigliava tanto, anche se io non ero di certo un principe.

Marquise ci ha messo un po' a rispondere. Sembrava voler mantenere la suspense del momento. «E' morto.» ha detto, dopo quella che mi è parsa un'eternità, in un tono così definitivo che sembrava che io potessi, in qualche modo, confutare le sue parole.

«Oh...» è stata l'unica cosa che ho saputo dire, triste. Era così che mi sarei ridotto, senza una motivazione forte? Era quello che mi voleva dire Marquise? Non l'ho capito.

«E... Pioggia di Fuoco... l'ha preso il nostro esercito?»

Stavolta Marquise ha proprio evitato la domanda e io non ho voluto insistere, anche perché era così freddo che cominciavo a sentire i brividi. Ma lui mi ha di nuovo posato la mano su una spalla e l'ha stretta forte, proprio come dentro l'hangar.

«Mi hai fatto una domanda molto importante, poco fa.» mi ha detto. E io mi lambiccavo il cervello per capire quale fosse. Probabilmente ha capito che me ne ero completamente scordato, così ha ripreso: «Mi hai chiesto come scoprire qual è la tua motivazione... e ti ho detto che solo tu puoi saperlo, giusto?»

Ho annuito, senza capire dove volesse andare a parare.

«Credo di non essere stato esauriente.»

Non ho detto niente: non è carino dire ad uno dei tuoi superiori che avrebbe fatto prima a non rispondere...

«Quindi, per trovare la tua strada, per sapere qual è la motivazione che ti spinge ad andare avanti, devi vivere le tue esperienze.» si è fermato, mentre nel mio cervello cominciavano a vorticare dubbi senza forma che non riuscivo a trasformare in domande. «Hai detto di non voler mollare. Adesso sai a cosa vai incontro. Trova la tua motivazione, tenendo bene a mente quello che ti ho detto oggi.»


Quella sera, appoggiato al davanzale della finestra sopra il mio letto, guardavo le stelle, ascoltando il russare lento di Alex e quello irruente di Pan, attutito dalla porta chiusa della camera delle ragazze.

Non riuscivo a dormire: continuavo a pensare alle parole di Marquise, al fatto di non dover mollare, alla motivazione forte che serve per vivere o morire per la propria patria. Era qualcosa a cui non avevo mai pensato, qualcosa che mi aveva turbato a tal punto da farmi perdere il sonno.

Ora capivo le parole di Trowa e di Heero. Loro sapevano perché vivere o morire, come lo sapeva Frank.

E poi... la storia di Milliardo Peacekraft e del Sanc Kingdom. Marquise non mi aveva voluto spiegare molto, eppure la storia mi incuriosiva: come era morto il pilota di quel magnifico Suit bianco? Non aveva una motivazione forte, ma... l'amore per il suo regno e per i suoi sudditi non bastava? Mi sono reso conto di non averlo chiesto a Marquise e ho subito capito che andare a chiederglielo non era per niente delicato.

Un grugnito più forte degli altri mi ha fatto scattare, spaventato, verso Alex che, adesso, non era più composto sul suo letto, ma piegato su un lato, un piede nudo fuori del materasso. Mi sono seduto sul bordo del mio letto e l'ho guardato. Mi sono chiesto perché lui fosse in quella caserma e cosa lo spingesse a continuare a venire, ogni anno e a ripetere sempre il primo. Non gliene fregava niente davvero come aveva detto il primo giorno? Lo faceva solo perché poi lo avrebbero arrestato?

«Kenny?» la voce di Frank mi ha fatto sussultare. Lui era seduto sul suo letto e, nel bagliore della luce della luna, riuscivo a vedere che aveva gli occhi aperti. «Non è che puoi chiudere quella finestra?»

Ho annuito e, inginocchiandomi di nuovo sul materasso, mi sono voltato per chiudere le imposte. Un secondo peso mi ha detto che lui si era seduto sul mio letto.

«Che c'è?» mi ha chiesto, in un soffio.

«Niente...» ho borbottato, chiudendoci nella più totale oscurità.

«Oggi sei sparito e, a cena, non hai voluto dire dove sei stato... e non sei venuto in biblioteca dopo.»

Ero stato piuttosto in disparte, a mensa e, con mia sorella, sembravamo l'accoppiata dei fratelli asociali: lei non fa molta vita sociale coi nostri compagni di corso, diciamo che la evita, se può.

«E ora non dormi... sono le due di notte!» ha continuato lui, guardando la sveglia sul mio comodino. «Vuoi parlarne?»

Non ero pronto a raccontargli dell'hangar, né delle parole di Marquise.

«Perché sei venuto qui, Frank?» gli ho chiesto, senza preamboli. Lui non ha risposto. Anzi, sembrava quasi che non respirasse proprio.

«Ci sono una serie di motivi...» ha risposto, dopo un po'. «E sono troppi per poterteli spiegare così su due piedi...»

Ho annuito, anche se lui non poteva vedermi: quello era un modo elegante per dirmi che non erano fatti miei, ma era comprensibile. Effettivamente non lo erano.

«Conosci il Sanc Kingdom?» ho domandato, allora. Speravo che mi dicesse di sì e che, l'indomani, ne avremmo parlato, se non subito.

«Ne ho sentito parlare...» mi ha detto, facendomi ben sperare.

«E cosa sai?»

«So che è stato distrutto.»

«E poi?»

Lui ha sospirato. «Come mai tutte queste domande?»

Non sapevo cosa dire: non volevo dirgli che Zack Marquise mi aveva messo una pulce nell'orecchio, non volevo fargli capire che avevo parlato con lui, nel periodo di tempo in cui ero, per così dire, “sparito”. Il mio amico non ha insistito, mi ha solo dato una pacca sulla spalla.

«Ne parliamo domani mattina, Ken. Dai, mettiti un po' a letto, prima che arrivi qualcuno a chiederci di fare strane forme geometriche con le coperte!»

Ho ridacchiato e, mentre lui si rialzava, ho deciso di infilarmi sotto il piumone e cercare di chiudere gli occhi per dormire. Eppure le parole di Marquise sulla guerra e sui Suit mi tenevano sveglio. Dovevo fare le mie esperienze e non mollare. Solo dopo avrei capito cosa volevo fare davvero...

«Frank?» l'ho chiamato, in un soffio. Speravo che non si fosse addormentato.

Lui ha risposto con un mugolio.

«Voglio trovare una motivazione forte.»

«Bravo...» ha borbottato lui, con voce impastata di sonno.

«Ho un po' di tempo per riuscirci, no?»

Altro mugolio.

«Ho sei anni per trovarla.» poi ci ho pensato: «Cinque e mezzo.»

La risposta da parte del mio amico, però, non è cambiata.

Ho chiuso gli occhi davvero, stavolta. «Saprò cosa fare prima del diploma, no?»

Stavolta, Frank non ha proprio risposto.

Ho stretto i pugni sotto il cuscino. «Non voglio mollare. Per una volta, non voglio proprio saperne. Non voglio essere il solito smidollato.»


*****


L'avevo detto che ci saremmo ritrovati dopo un mese. Voglia di lavorare saltami addosso! XD

Capitoletto forse un po' stereotipato, ma l'ho riletto tutto d'un fiato e mi è piaciuto (tra la stesura e la pubblicazione lascio passare diverso tempo, così che possa rivedere ogni capitolo con mente fredda. In questo modo non mi lasci condizionare dalle prime impressioni che, molto spesso, da parte mia, sono errate). ^^ Spero comunque vorrete commentare e darmi le batoste che mi merito. XD


_Pan_: sono contenta che tu abbia deciso di commentare. Vuol dire che la storia ti ha colpito! XD Adoro il personaggio di Alex e, sebbene sia così cattiva, anche Pan è assolutamente tra i miei preferiti. Un giorno (molto lontano), però, si riscatterà di tante cattiverie! XD Alla prossima.


Prof: ero quasi preoccupata che non commentassi più! XD sono troppo affezionata ai tuoi commenti precisi e puntigliosi. Spero di aver spiegato in modo abbastanza esauriente il perché dei comportamenti della Une. Certo che è umana, anche se, all'inizio di questo capitolo, ho dovuto darti ragione in pieno sulle tue impressioni su di lei... ma non dimentichiamo che è dal punto di vista di Kenny che la vediamo e, per adesso, lui vede solo l'aguzzina che è in lei. XD Ora taccio, perché se poi faccio spoiler la storia non la legge più nessuno. XD Per quanto riguarda i verbi, mi trovo sempre un tantino in difficoltà: ci sono delle situazioni che richiedono il presente perché continuano ad accadere anche mentre Kenny scrive sul diario, ma mi rendo conto che stona un po' col resto della frase. D'ora in poi cercherò di stare più attenta. ^^ E dopo questa risposta più lunga del capitolo ti lascio. XD Alla prossima!

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Capitolo 8
*** Quando tuo marito va a comprare le sigarette ***


Le lezioni al primo anno

Quando tuo marito va a comprare le sigarette


9 Novembre


«Sanc Kingdom?» la domanda di Alex ha risuonato sinistra per i corridoi ormai quasi deserti. Ancora lui e Arale non sanno molto dei miei propositi: ho preferito tenere per me questi e le parole di Zack. Credo che i miei amici farebbero fatica a capire e, sinceramente, non mi va che Arale metta su un altro dei suoi comizi sulla durezza dei metodi della caserma. Frank è l'unico che sa qualcosa, ed è l'unico che non fa mai troppe domande; forse è per questo che mi sono confidato con lui. Il fatto è che non sono neanche tanto sicuro che mi sia stato a sentire... mi aveva detto che avremmo parlato del Sanc Kingdom il giorno dopo, ma poi se ne deve essere dimenticato e io, sinceramente, non ho voluto insistere e fare la parte della persona petulante.

Mentre scendevamo all'alzabandiera, stamattina, però non ho potuto più mantenere il segreto. L'argomento Sanc Kingdom mi faceva arrovellare il cervello da troppi giorni, ormai, e speravo che uno dei miei amici sapesse qualcosa su questo regno e il principe Peacekraft. «Che roba è?»

«Era un piccolo stato tra Polonia e Germania.» ha spiegato Frank, mentre scendevamo in fretta e furia le scale. «Ma fu distrutto durante l'ultima guerra coloniale. Ma come ti è venuto in mente, Kenny?»

Non avevo ancora voglia di parlare di Marquise e dell'hangar 14, così ho inventato sul momento che l'avevo letto casualmente su uno dei libri della biblioteca.

«E come si chiamava il testo?» ha insistito Frank, mentre uscivamo all'aria gelida del mattino. Era ancora molto scuro e nel cielo si potevano vedere grossi nuvoloni grigi che mandavano odore di pioggia.

«Non mi ricordo...» ho risposto, evasivo.

«Beh, glielo chiediamo a Hopkins, stasera, dopo le lezioni.» ha tagliato corto Arale, infilandosi in terza fila, quella dedicata agli alunni del corso B. In lontananza, vedevo Marquise al fianco della Une, nelle retrovie. Ho pensato che quella sua maschera, alla luce artificiale del cortile, era ancora più inquietante che in pieno pomeriggio, col sole alto.

Cantava, sì, ma le sue labbra si muovevano appena ed erano curvate verso il basso e la sua faccia sembrava alquanto triste. Se potessi, direi che è la stessa espressione che aveva il giorno in cui mi raccontava di quel misterioso principe Miliardo. Nome strano per una persona, Miliardo, ma forse per un principe non tanto...

Ci ho rimuginato un bel po' sopra, ma ho dovuto interrompermi, quando sono cominciate le lezioni. Oggi è successo un fatto davvero inquietante: la Noin ha cominciato ad interrogare. Farsi interrogare da lei non equivale a farsi venire o un orecchio grosso come un pitone, oppure un mal di testa coi fiocchi, come invece credevo. Sarà che devi stare accanto a lei...

Ha chiamato me e Pan, almeno è quello che è riuscito a capire Trowa, dalla prima fila.

«Sei sicuro che abbia chiamato proprio tutti e due?» ha voluto sapere Arale, sotto mia richiesta, dato che io, con Trowa, non ho tutto questo gran rapporto e ho quasi sempre paura di vedergli arricciare il naso pieno di disgusto, come fa quando incrocio il suo sguardo.

«Ho sentito Iccijojji due volte.» è stata la laconica risposta del nostro compagno. Arale non ha ribattuto e si è stretta nelle spalle. Io mi sono alzato, ma mia sorella no, anche perché non sapeva di essere stata chiamata. Il motivo? Non segue geografia.

«Ehm... tenente?» l'ho chiamata, titubante. Mi tremavano le gambe e non so dire come mai sono riuscito a rimanere in piedi. E non so nemmeno perché fossi così nervoso, dato che si trattava solo della Noin, la donna più placida che conosca, che non si arrabbia mai e, solo qualche volta, scappa via piangendo, quando vede che nessuno la segue o che la guardiamo tutti smarriti e annoiati. Lei ha alzato gli occhi su di me. Le brillavano speranzosi, forse era per questo che stavo sulle spine: mi stava caricando di un grosso peso. Ma io dovevo solo dirle che Pan non era in classe. Lei ha sgranato gli occhi, quando ci sono riuscito. Avevano perso un po' del loro luccichio e, adesso, sembravano terrorizzati. Ha mosso le labbra.

«Chiede dov'è.» ha tradotto Trowa, annoiato.

«Oh, beh... non lo so.» ed effettivamente era vero.

«Chiede ora come si fa.»

Lo chiedeva lei a me? Non sapevo effettivamente cosa dire, né cosa consigliarle. Alla fine è stata la Noin a decidere per tutti: mi ha fatto cenno di avvicinarmi alla cattedra e non ha più parlato di Pan.

Non me lo sono fatto ripetere due volte e tutta la classe aveva lo sguardo puntato su di me. Lo potevo capire: ero l'animale sacrificale. Ho visto Arale, non appena mi sono girato verso la classe, sventolare bandierine immaginarie per farmi coraggio. Non che non avessi studiato (con Arale, Frank e Alex frequentiamo spesso la biblioteca e, con un po' di fortuna, siamo riusciti a trovare libri di geografia terrestre, scritti proprio dalla Noin), ma essere il primo è sempre una prova in più.

Da così vicino, però, la voce piccola della Noin si sente abbastanza bene. Mi ha chiesto di parlarle un po' della conformazione del territorio Giapponese, confrontarlo con quello Cinese e con quello Americano, vantaggi e svantaggi di ognuno. Ho dovuto lavorare molto di memoria, nel senso che ho dovuto solo ripetere a pappagallo quello che c'era scritto nel libro che abbiamo trovato. Per vantaggi e svantaggi è stato peggio, perché il libro non ne descriveva molti. Alla fine ho deciso di parlare di coltivazioni, metodi di irrigazione e cose che lei ha scritto sul libro. Alla fine, mi ha dato un nove pieno. Arale ha ricominciato a sventolare bandierine.

«Sei un mostro, Kenny!» mi ha detto Alex, a cena, impressionato. «Non ho mai visto un nove uscire dalla penna di nessuno dei professori.»

«E' stato tutta una gran botta di culo!» ha esclamato mia sorella, disprezzando così il mio voto. Ma nessuno, in quel momento, sarebbe riuscito a togliermi il buonumore: neanche Heero o le motivazioni che mi mancano.

«Io starei zitta, Iccijojji.» ha borbottato Trowa, addentando un pezzo della sua ala di pollo. «La Noin ti ha dato una nota perché non eri in classe!»

«Non c'era manco Ramazza!» ha ringhiato lei.

«Sì, ma non se n'è accorta.» ha ribattuto Frank.

«E comunque farsi dare una nota dalla Noin vuol dire proprio fare schifo!» ha esclamato Alex.

Pan, per tutta risposta, ha picchiato forte sul tavolo con il pugno, facendo tremare tutte le stoviglie e tutti i brodini nei piatti. «CHE CAZZO VORRESTI DIRE, EH?» ha gridato. «Perché non gliel'avete detto, brutti bastardi, che non c'era manco questo pezzo di merda?»

«Perché non ci piace essere chiamati bastardi!» ha sbottato Mimi, da due posti da lei. «E comunque non siamo spie!»

«Ma andate a fanculo!» Pan ha rimarcato il concetto facendo anche un gesto inequivocabile con il braccio, prima di alzarsi e di andarsene dalla sala mensa. Arale ha scosso la testa, ma non ha detto niente. Solo la sua faccia era molto indignata. Insomma, felice per i miei risultati scolastici, una volta tornati in camerata, stavo per scrivere alla mamma per darle la lieta novella. Il mio proposito, però, è andato a farsi friggere, quando Alex è piombato in camera per dire che, finalmente, aveva trovato un lettore DVD degno di questo nome, per poter, “finalmente” vedere i suoi filmini porno.

«Davvero?» Arale sembrava entusiasta.

«E... e se ci beccano?» ho chiesto, immaginandomi la Une che ci becca a vedere un film. Non sarebbe stata una festa: sicuramente ci avrebbe chiesto se avessimo creduto di essere al cinema, o cose del genere. Lei adora frasi d'effetto simili.

«Kenny, che palle!» ha sbuffato Alex che, per rendere il discorso un po' più enfatico, si è aiutato anche con le mani, scuotendole su e giù. «Dai, Anthony Stevens è uno a posto e non ci faremo manco beccare! Ha un portatile che è una forza. Frankie, vieni anche tu a vederlo?»

Ha sbirciato dentro la camera, mentre Frank era impegnato con gli appunti di Storia. Quando ha sentito qualcuno che lo chiamava, ha alzato gli occhi dal quaderno e ha guardato Alex, annoiato. «Che cosa?»

Alex ha scosso la scatola del DVD e io ho sbirciato il titolo. C'era una donnina completamente nuda e tra le sue gambe ci stava scritto a chiare lettere rosse: “Quando tuo marito scende a comprare le sigarette”. Ho preso il DVD e ho guardato il retro, dove c'era un abbozzo di trama, una cosa del tipo: “Cornelio scende a comprare le sigarette, intanto la mogliettina fa salire il suo amante. Riuscirà a finire il suo appagante lavoro prima che Cornelio ritorni?”. Aveva un che di interessante. Sotto di essa, c'era solo qualche altra immagine un po'... un po' così, ecco, immagini che, nel film, comunque, non ci sono state.

Ci ho pensato su e ho concluso che il titolo era inverosimile: quanto ci mette una persona a far salire l'amante, farci quello che ci deve fare e poi farlo sparire, prima che il marito torni col suo pacchetto di sigarette? C'è un problema di tempistica e ho cercato di farlo notare ad Alex.

«Ma dai, Kenny!» ha sbuffato lui. «Solo tu puoi pensare a queste stronzate stilistiche, parlando di film porno!»

«E che vuol dire?» ho insistito.

«E' un titolo come un altro!» ha risposto lui, leggermente spazientito. «Nei film porno si sa che si fa una cosa sola!»

«Cioè?»

«Eh, se ci muoviamo, lo vedi!»

Frank, intanto, ha declinato l'invito.

«Preferisco studiare.» ha detto, sollevando il quaderno come se avessimo avuto bisogno di vederlo meglio. Tanto il mio quaderno degli appunti mi aspetta minaccioso per il lunedì. Poteva ben aspettare qualche ora!

Alex ha fatto una faccia strana, quasi disgustata. «Contento te...» ha borbottato. Io e Arale l'abbiamo seguito fin nella camerata di questo Anthony Stevens, un tipo del primo anno corso A, figlio di un ministro delle colonie spaziali “col culo foderato di quattrini”, come ha detto Alex, presentandocelo. Stevens non se l'è presa, anzi, si è messo a ridere. È stato anche molto gentile nell'invitare Heero che ci ha permesso di rimanere in camera fin dopo mezzanotte, a patto che lo aspettassimo per fargli godere lo spettacolo. Dopo il suo giro di ronda, eravamo tutti pronti, tutti appollaiati sul letto o seduti a gambe incrociate a terra. Arale era sulle spalle di Alex (tanto è piccola e leggera), mentre io ero a terra, vicino ad un ragazzino dall'aria decisamente poco sveglia di nome Timothy e ad una ragazza di nome Marine, che viene da una colonia russa, come Yuri Ivanov, seduto all'altro suo lato. Yuri è un campione di non so che sport (me l'ha detto Arale) ed ha costantemente un'aria snob stampata in faccia.

Quando è arrivato Heero, erano appena le dieci.

«Siamo tutti pronti?» ha chiesto, buttandosi accanto ad Alex. «Oh, Kushrenada non è dei nostri?»

«No...» ha risposto Alex, con una lieve nota di esasperazione. «Preferisce studiare, il pazzo!»

Heero ha riso. «Dovevo aspettarmelo.»

Non ho chiesto cosa, perché Anthony ha chiesto un po' di silenzio e d'attenzione. Voleva cominciare a fare un discorsetto d'inizio, ma gli è bastato mettersi impettito e schiarirsi la voce perché tutti cominciassero a gridare stizziti: «Metti il film, coglione!»

Insomma, non capivo tutta quell'ostilità: se voleva fare un'introduzione al film, che ben venisse. Mi ricordo che nel “progetto Cinema” della scuola elementare, i professori chiamavano sempre un critico che spiegava un po' il film e quello che avremmo dovuto vedere e poi ci faceva dare le nostre impressioni, una volta finito. Mi ricordo che l'unico che Pan ha visto con un certo interesse è stato “l'Esorcista”, per il quale non ho dormito diverse notti, senza contare che lei voleva esorcizzarmi ogni due per tre e farmi vomitare verde, e che è stata la mamma a farla smettere, minacciandola di metterla a mangiare panna montata finché non avesse avuto la diarrea. E si sa che Pan odia la panna montata, più della diarrea.

Ma, dopo tutte queste proteste, Anthony non ha potuto fare il suo discorso introduttivo e noi ci siamo ritrovati a guardare la stessa foto della copertina del DVD e il titolo che è rimasto sullo schermo per un secondo, dopo che è scomparsa l'immagine. Poi una telecamera ha cominciato ad inquadrare un letto sfatto – e sporco – e una donna in grembiule e un paio di tacchi rossi come lo smalto alle unghie e alle labbra troppo gonfie. Era intenta a lavare i piatti. In sottofondo una musichetta da film dell'orrore.

«Cara, esco a prendere le sigarette!» la prima battuta, detta da un uomo che non si è manco visto. «Torno subito!»

«Sì, ciao Cornelio!» ha risposto lei, prima di sentire lo scatto di una porta che si chiude. «Oh, finalmente!» ha esclamato ancora lei, esibendo un sorriso falso come quello delle pubblicità dei dentifrici.

«Ma che coglioni!» ha sbottato Alex, infastidito, mentre guardavamo tutti lei che si asciugava le mani e si andava ad affacciare alla finestra.

«Quali?» ha subito risposto Arale, da sopra la sua testa. «Ancora non si è vista una mazza!»

«E nel vero senso della parola!» ha rincarato la dose il ragazzo che era accanto a me. Se proprio devo essere sincero, non ho capito di che stessero parlando e perché avrebbero dovuto vedere delle mazze, quando qui si parlava di un film di tutt'altro tipo, che non c'entrava niente con lo sport. Altrimenti si sarebbe chiamato “film sportivo”, non “porno”. Comunque la donna si è tolta il grembiule e, in un secondo, si è ritrovata completamente nuda. Ero un po' perplesso. Dagli altri, invece, si è alzato un boato, come se un calciatore avesse fatto goal. Non ci deve essere molta differenza tra sport e porno, mi ricordo di aver pensato.

«Siete dei maiali!» ha esclamato Arale. «Ha le tette in culo.»

«No, ce l'ha davanti!» ho risposto, cosa che ha suscitato l'ilarità di molti. Diciamo che quel film cominciava a non piacermi: non ho mai apprezzato vedere certe scene di nudo integrali. Mi imbarazzano, ecco. Ma la signora del film se n'è fregata: è addirittura andata alla finestra (che dava sulla strada!) e l'ha aperta. Da lì, è entrato un tizio, anche lui tutto nudo – al che i ragazzi hanno commentato le dimensioni del suo aggeggio e le ragazze ridacchiavano, pure Arale – pieno di muscoli, come i culturisti, solo molto più sudato e abbronzato. Avrei volentieri chiesto di mandare queste scene così indelicate un po' avanti, a quando sarebbero stati tutti e due un po' più vestiti, ma ho avuto paura delle conseguenze che le mie richieste avrebbero portato negli altri, che avevano tutti uno sguardo febbrile rivolto allo schermo del portatile.

L'uomo nudo ha detto un gravissimo: «Ciao» e il film si è concluso. Schermo nero.

Questo ha prodotto le più disparate reazioni: c'era chi urlava parolacce, Alex in particolare lanciava bestemmie a volume supersonico; Heero rideva, tenendosi le mani sul viso. Non sono sicuro se stesse ridendo o piangendo, se devo essere sincero, perché quando si è tolto le mani dagli occhi, ce li aveva rossi e lucidi. Arale scuoteva la testa, incredula, ma non riusciva a staccare gli occhi dallo schermo.

«Ma che cazzo di porno era?» ha gridato Timothy, lanciando lontano una ciabatta. «Ma vaffanculo!»

«Non puoi vedere se è rotto il lettore?»

«No, mi avrebbe dato errore!»

«Controlla il DVD!»

Ma prima che Anthony avesse il tempo di toglierlo, il film è ripreso: la donna stava al lavello, di nuovo col grembiule addosso, e il marito era tornato. Ancora una volta, si è sentita solo la sua voce. «Sono tornato.» ha detto. E sono partiti i titoli di coda.

Un silenzio di tomba è calato sulla stanza e tutti avevano la stessa espressione: occhi sgranati e bocca aperta. «Ehm... un po' ermetico come film, eh?» ho detto, per cercare di stimolarli a riprendere un po' di vita. Sembravano essere stati pietrificati. Mi è tornato in mente The Ring, solo che poi ho pensato che lì c'era una bambina che diceva “tra sette giorni”... non è che loro l'avevano vista e io ero stato l'unico a non aver sentire niente?

«Ermetico?» ha soffiato il ragazzo poco sveglio, indignato, guardandomi come se io gli avessi detto che doveva morire davvero, tra sette giorni. «Ermetico? Non c'era un cazzo!»

«No, ne abbiamo visto uno di sfuggita!» gli ha fatto notare Anthony, prendendo il DVD dal lettore e lanciandolo ad Alex. «Dai, dacci quello vero!» ha chiesto, con un sorriso che somigliava di più ad una smorfia.

«Ma...» Alex era quello che ci stava capendo meno di tutti, pure meno di me, se proprio devo essere sincero. «Era questo quello vero!»

Hanno riso un po' tutti, pure Arale, ancora arrampicata sulle sue spalle. «Dai, non fare il buffone!» lo hanno pregato. Lui cercava di spiegare ancora che non aveva un altro DVD e che, forse, il tipo che gliel'aveva procurato lo aveva fregato, ma tutti continuavano a credere che ci fosse del marcio in quella storia.

A fugare ogni dubbio, è stato Heero, che ha preso la scatola del DVD ed ha cominciato a spulciarla, come se avesse pensato a qualcosa a cui nessun altro sarebbe mai potuto arrivare. Aveva un'aria circospetta, quasi la scatola potesse esplodere e lo sguardo concentrato di chi cerchi una bomba. E l'ha trovata. Non proprio una bomba, ma un unico fogliettino, scritto a mano, tra la custodia e la locandina.

«Ehi, Alex, chi è Martin?»

«Perché?» ha chiesto di rimando Alex, corrugando la fronte e osservando Heero come se avesse osato dirgli che aveva ucciso il Generale.

Heero ha ghignato, alzando di poco il fogliettino, così che potessimo vederlo tutti. «Perché è proprio un tipo simpatico!»

Ora Alex sembrava proprio disorientato, mentre tutti noi eravamo con lo sguardo puntato sull'uno e sull'altro, aspettando il verdetto: cosa c'era scritto su quel biglietto scritto da quel tipo così simpatico di nome Martin? Mi chiedo se solo io ho notato l'espressione omicida di Alex, mentre prendeva il foglietto dalle mani di Heero e lo leggeva.

Arale è scesa da sola dalle sue spalle e gli si è messa davanti e lo guardava con la bocca spalancata, mentre lui fissava con sguardo inceneritore il fogliettino.

«Che coglione!» ha detto, semplicemente, accartocciandolo.

«Che c'era scritto?» ha voluto sapere Arale.

«Che Alex è troppo piccolo per vedere certe immagini e che gli ha copiato il DVD in quel modo di proposito, così impara e non fa pensieri e atti impuri.» Heero ha riso con tutto se stesso.

«Eh, bravo, ridi!» ha sbuffato Alex, improvvisamente spento, quasi quel Martin, con il suo biglietto, fosse riuscito a trovargli il tasto d'accensione.

«E' troppo divertente!» si è giustificato Heero, senza riuscire a smettere di sghignazzare. Alex non ha apprezzato, ma neanche molti altri che, facendo schioccare la lingua, si sono alzati e sono tornati alle loro occupazioni, senza degnare né il DVD, né il computer, né qualsiasi altra cosa appartenente a Anthony Stevens o a noi, di uno sguardo. Le ragazze erano tornate nella loro camera e qualcuno si era anche infilato a letto.

«Che pensieri e atti impuri?» ho chiesto, sempre più confuso, quando ormai, sul letto di Stevens non c'eravamo rimasti che io, Alex, Arale e Stevens stesso. Lui era intento a nascondere il computer, mentre noi stavamo lì, seduti e in silenzio, con Alex che aveva un umore pessimo. Nessuno mi ha risposto.

«Va beh, dai... ci rifaremo la prossima volta!» così ci ha congedato Anthony, dando una pacca sulla spalla ad Alex, in segno di incoraggiamento.

«Eh...» ha borbottato il nostro amico che si è alzato senza protestare, scuotendo la testa. «Mi dispiace. Mi aspettavo una bella serata. Ho combinato un casino!»

Si vedeva che gli dispiaceva da impazzire e a me dispiaceva per lui, perché era la prima volta dopo mesi che lo vedevo in quelle condizioni, così triste, quando lui è il guru della vivacità, un po' come Arale, solo molto più spiritoso e meno petulante, per certi versi.

Heero era l'unico che ancora rideva sotto i baffi, seguito da lei. Io non riuscivo a capire perché quel Martin avesse dovuto tagliare tutta la parte centrale del film. Non è che recitavano nudi tutto il tempo? Vai a sapere... l'ho chiesto ad Arale, ma, di nuovo, ho ricevuto solo un silenzio indifferente.

Siamo tornati in camerata, con Alex che continuava ad essere di pessimo umore ed io che continuavo a non capire.

E, in fin dei conti, mi sono anche dimenticato di Hopkins e del Sanc Kingdom.


*****


Non sono quanto tempo è passato dall'ultima volta che ho aggiornato, ma fa lo stesso. XD

Questo è un capitolo “di passaggio” (e anche demenziale, almeno secondo me, più di quanto fosse nei miei intendimenti, ma quando mi è venuta l'idea non ho resistito), nel senso che ho voluto inserirlo principalmente per smorzare la tensione dei precedenti, sperando di non aver toppato in pieno. La storia è lunga e i propositi di Kenny non si possono realizzare in tre, quattro capitoli. ^^


Prof: davvero è stato così emozionante?! Non posso fare a meno di provare un pizzico di orgoglio di fronte a tanti complimenti. XD Ora è un po' tardi e sono completamente andata, quindi, pigrizia (e memoria!) permettendo, se mi viene in mente qualcosa da aggiungere, lo farò nel prossimo capitolo. ^^ Come al solito, spero che vorrai darmi le tue impressioni su questo. Alla prossima.



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Capitolo 9
*** Avanzi di... galera ***


Le lezioni al primo anno

Avanzi di... galera



10 Novembre


Il pessimo umore di Alex è durato poco. Questa mattina era il solito di sempre: si è comportato normalmente, quando si è alzato, è andato in bagno e ci è rimasto il tempo che bastava perché, di nuovo, noialtri non riuscissimo a fare i nostri bisogni prima dell'alzabandiera. Fortuna che oggi è sabato e che non ci sono lezioni.

«Allora, qual è il programma di studio di oggi?» ho esordito, non appena ci siamo seduti intorno al tavolo della mensa. Pan, che per qualche strana ragione era seduta accanto a me, mi ha guardato con disgusto.

«Ma parli sul serio?» mi ha chiesto.

«Ehm... sì.» ho risposto, dubbioso sul perché mi rivolgesse quella domanda. Dopotutto, tutti i sabato, io, Frank, Arale e Alex ci chiudiamo in biblioteca per fare i compiti per il lunedì.

«Che fottuto secchione!» ha borbottato disgustata e si è seduta dall'altro lato del tavolo, da sola, quasi avesse avuto paura che potessi infettarla con la malattia dello studio. Credo che ne sia immune, sotto certi aspetti.

Il sabato e la domenica, la mensa è un posto molto meno rumoroso. I ragazzi più grandi, come Heero, ne approfittano per visitare la base militare al di fuori delle mura dell'accademia, così la mensa sembra anche molto più vuota, anche se ci sono gli alunni del primo e del secondo anno a popolarla e neanche tutti, perché alcuni prendono la colazione e – senza permesso – la portano in camera, dove la consumano fumando e ridendo tra loro, proprio come fanno Bra, Mimi e Sora, per esempio.

Ho visto di sfuggita Anthony Stevens, che non ci avrebbe rivolto la parola, se non fosse stato per Arale che si era sbracciata un quarto d'ora per salutarlo.

«Insomma, che facciamo oggi?» l'ha incalzata Frank.

«Direi Storia, Matematica e... Geografia, penso che Kenny possa saltarla.» ha ribattuto lei, masticando una fetta biscottata. Effettivamente, dopo una bella interrogazione come quella di ieri, potrei saltarla per il resto dell'anno. Ma poi mi sono ricordato che devo mantenere la media e che la mamma non avrebbe mai e poi mai accettato di vedere un quattro affiancato ad un nove, neanche se fosse per salvare il mondo.

«Intendevo, quando abbiamo finito...»

«Di solito non finiamo poco prima dell'ora di cena!» gli ha ricordato Arale, guardandolo con attenzione, come se il nostro amico avesse detto di voler mettere una bomba sotto il letto della Une.

«E' vero, ma per adesso abbiamo poche cose. Potremmo anche concederci qualche ora libera...» ha continuato Frank, mantenendo un tono disinvolto.

Alex ha corrugato la fronte e gli ha messo una mano sulla fronte. «Eppure non ha la febbre.» ha constatato. Effettivamente, sentire Frank parlare in quel modo dava da pensare: se c'è da studiare, di solito, lui è il primo che si fionda ed è ben strano che cerchi di svicolare proprio ora, a poco più di un mese dal primo congedo della nostra vita.

«Sto benissimo!» ha sbottato il nostro amico, togliendo con malagrazia la mano di Alex dalla fronte.

«E allora perché pensi di disertare i compiti?» gli ha chiesto Arale.

«Non penso di disertare proprio niente!»

«Ma... hai detto...»

Frank ha scrollato le spalle ed ha ripreso a mangiare le sue uova. «Volevo solo fare qualcos'altro...» ha concluso così la nostra conversazione, ma ha lasciato tutti noi col dubbio. Anche quando abbiamo cercato di cavargli qualcosa di bocca, lui continuava a riempirla con uova e pane e a masticare con eccessiva lentezza. «Ragazzi...» ha detto, quando ha inghiottito. «Sto bene.» ha scosso la testa, alzando gli occhi al cielo, come se non riuscisse a credere a quello che stava vedendo.

«Scusa...» ha risposto Arale, per tutti. «E' che... è strano.»

«Più strano di Matt Ishida che si siede a tavola con noi?» ha fatto un cenno alla sua sinistra, distogliendo la nostra attenzione da lui.

Abbiamo guardato tutti verso Matt: effettivamente era proprio seduto e stava mangiando. E' una vera novità saperlo qui: le sue ultime due settimane le ha passate in infermeria per una malattia della pelle che nessuno sa bene quando o dove l'abbia presa. «Non ha un'aria sanissima.» ha constatato Alex, ficcandosi un dito nel naso.

«Alex, non è che puoi...»

Lui, sempre tenendosi il dito nel naso ha guardato Frank con curiosità. «Cosa?» ha chiesto, con naturalezza. Frank si è limitato a scuotere la testa e Alex, facendo una smorfia stordita, si è rimesso composto, attaccando la caccola sul tovagliolo accanto al piatto.

Alla fine dell'ora di colazione, ci siamo diretti in biblioteca, dove ci aspettava un affettuoso sergente Hopkins, che ha stretto la mano a noi ragazzi e ha baciato la mano di Arale.

«Che succede, sergente?» ha chiesto la mia amica, sbattendo le palpebre, come se dovesse cacciare un moscerino. In effetti era strano vedere il sergente comportarsi così.

Lui ha ridacchiato, grattandosi la pelata. «Sto leggendo un libro intitolato “Vecchie storie di cavalieri e dame”. Mi ci sto appassionando. Volete che ve lo presti? Peccato per l'asfissiante assenza di erotismo.»

Mi ha fatto l'occhiolino e io non ho capito. Ho tentato di avere una spiegazione da Arale, ma in questo periodo deve essere di cattivo umore, perché mi guarda male e non dice una parola, quando, invece, io vorrei ricevere spiegazioni.

«Guardi...» ha sbuffato Alex, sedendosi al capotavola, su uno dei due tavoli rimasto libero. L'altro era occupato da una sola persona che, però, aveva preso tutti i posti disponibili: era la ragazza coi capelli cespugliosi che ho incontrato il primo giorno e con cui non ho mai scambiato una parola. L'unica cosa che so è che è del corso D, che si chiama Hermione e che ha un cervello eccezionale. Solo che, di quelli che ho sentito, dicono tutti che sia un bel po' una rompipalle. Non ci ha salutati, ma solo rivolto un'occhiataccia, come se stessimo commettendo chissà quale infrazione. Non stavamo nemmeno parlando a voce così alta! «Lasciamo perdere l'erotismo!»

Il sergente, a quelle parole, ignorando Hermione che guardava male anche lui, si è seduto tra me e Frank, che ha dovuto prendere posto accanto ad Arale, dalla parte del tavolo. Quando siamo stati tutti seduti, un po' scomodi a dire la verità, Hopkins ha chiesto: «Che è successo?»

«Ieri sera ci volevamo vedere un porno.» ha raccontato Alex.

Il sergente ha annuito, interessato. «E...?» lo ha spronato, quando ha visto che il mio amico non aveva intenzione di continuare. Non è riuscito comunque a smuoverlo.

«E il porno non c'era.» ha concluso Arale, aprendo di scatto il quaderno con gli appunti di Storia.

«Ah, vuol dire che era ben fatto e per niente volgare?» ha domandato il sergente, davvero impressionato.

«No, non c'era proprio.» ha ribattuto Alex. Frank ha cominciato a ridere, piegandosi sul tavolo, proprio la stessa reazione che ha avuto ieri sera, quando ce ne siamo tornati con la coda tra le gambe in camera.

«L'hanno spacciato per un porno e poi non lo era?»

«No, signore.» ha risposto Arale, il più educatamente possibile, ma la sua espressione era a dir poco furente. Deve essere davvero di cattivo umore, in questi giorni. «La scena di sesso era stata tagliata da uno spiritosone di nome Martin, un amico di Alex, almeno credo.»

Alex si è rabbuiato, ma è stato solo un breve istante, mentre scoccava un'occhiata a Frank che cercava di soffocare le risate, senza riuscirci. Perlomeno, ho capito cos'è un porno e sono rimasto alquanto imbarazzato: insomma, eravamo andati a vedere un film dove due si mettevano a concepire bambini? La cosa mi ha decisamente turbato e, per evitare di far vedere a tutti come ero diventato rosso, ho pensato anch'io di aprire il mio quaderno di Storia.

Le ultime cose sono parecchio impegnative, anche perché la Une vuole sapere a memoria i nomi di tutti gli astronauti che parteciparono alla Missione Alfa, missione che è servita ad ispezionare il territorio lunare, per vedere se era idoneo ad ospitare vita umana. Insomma, una gran noia. Non è finita: secondo lei, dobbiamo anche ricordare tutta una serie di trattati che sono serviti per mettere d'accordo tutte le nazioni del mondo, una volta che sulle colonie spaziali hanno cominciato ad insediarsi esseri umani.

Il bello è che non ci ha mai parlato del Sanc Kingdom. Pensando a questo, mi sono chiesto come introdurre il discorso a Hopkins, che sembrava molto più interessato alla trama del porno, che a svolgere il suo lavoro di bibliotecario.

La ragazza di nome Hermione, dopo averci scoccato un'altra occhiata di disapprovazione, ha raccolto tutta la sua roba e se n'è andata, non senza borbottare qualcosa sulla maleducazione. Ora capisco, quando sentivo dire che era una vera bacchettona e che, per questo, è la pupilla della Une. Ma nessuno, a parte me, sembrava interessato a lei, più coinvolti nel racconto del sergente, che, gesticolando forsennatamente, cercava di far capire quanto era grande uno dei castelli di cui parlava uno di quei racconti.

«Insomma, c'è una principessa rinchiusa nella torre...» stava dicendo Hopkins. Arale e Frank non lo ascoltano mai quando comincia a sproloquiare. Di solito, gli unici che gli danno udienza siamo Alex (solo che anche lui, oggi, sembrava parecchio annoiato) e io, se non ho la testa altrove. «Non fa niente tutto il giorno, si annoia e aspetta che arriva il suo principe, invece, quello... beh, è un poco di buono: è partito, sì, per andare a liberarla, ma, invece di compiere tutte quelle imprese, sai, quelle epiche e cose del genere, si ferma di osteria in osteria, seduce le cameriere, padrone, persino i cavalli o i gatti, beve come un cammello e poi riparte, per la prossima osteria. Uno schifo...»

«E chi va a liberare la damigella?» ho chiesto, curioso.

«Si libera da sola.» ha risposto lui, come se avesse dovuto essere ovvio. «E si sposa col calzolaio.»

Frank ha alzato gli occhi dal suo quaderno e ha ghignato. «Ma che storie sono queste, sergente?» ha chiesto. «Dame e cavalieri? Sembrano più delle parodie.»

Il sergente ci è rimasto male, ma solo per qualche istante. Si è passato la mano davanti alla bocca e poi ha alzato un indice verso l'alto. Io e Alex abbiamo guardato verso il punto che indicava, ma sul soffitto non c'era niente. «Aspettatemi qui» ha chiesto il sergente, alzandosi in piedi.

La biblioteca era vuota, come al solito: alla gente non piace che Hopkins sia così espansivo, così cerca di prendere quello che gli serve, riempie il modulo e se ne va. Noi quattro rimaniamo, anche perché fa certe cioccolate calde che sono la fine del mondo ed è anche molto simpatico. Solo che stavolta non ci ha portato la cioccolata, ma un libro con la copertina rigida, rosa, al cui centro c'era disegnata la caricatura di un castello. Si intitolava davvero “Vecchie storie di dame e cavalieri”, ma, in piccolo, vi era anche scritto: “Parodie demenziali per inguaribili bambini”. Arale gliel'ha fatto notare.

«Ah, mannaggia alla presbiopia...» ha sbuffato lui, sedendosi di nuovo. «Ecco perché sembravano parodie. Me l'hanno regalato per il mio compleanno.»

«Oh, ha compiuto gli anni?» ha voluto sapere Arale. «Tanti auguri!»

«Sì, un paio di settimane fa. Grazie, comunque, Norimaki.» ha risposto, con un sospiro, come se dircelo lo avesse fatto invecchiare di un altro paio d'anni e ora fosse troppo stanco per parlarne. «I miei nipoti hanno pensato che mi avrebbe fatto piacere e me l'hanno spedito. Che teneri, eh?»

«Oh, sì, bambini davvero di cuore!» ha annuito Arale, intenerita. Ma il sergente le ha rivolto un'occhiata smarrita. «Bambini? No, hanno uno trenta e l'altro quasi trentasei...» ha replicato, quasi offeso. Nessuno è riuscito a commentare di fronte a questa dichiarazione.

Abbiamo chiacchierato un altro po', poi ci ha lasciato studiare, soprattutto perché è entrato il professore biondo di Fisica Subacquea, Sark, l'uomo più spaventoso e freddo di tutto il sistema solare e oltre, che ha chiesto “un altro paio di occhi”, così si è espresso, per cercare un libro.

«Come minimo glieli vuole cavare!» ci ha sussurrato Alex, allarmato, facendomi rabbrividire. «Teniamo gli occhi aperti.»

«Io, invece,» ha ribattuto Arale, mettendogli davanti al naso i suoi appunti. «direi di studiare.»

«Ma se...»

Frank non l'ha fatto finire: «Non farà niente con noi davanti!»

«Potrebbe sempre ucciderci tutti per non lasciare testimoni.»

Ho deglutito. «D-davvero?» ho domandato, guardando Arale pieno di preoccupazione.

«Kenny, non starlo a sentire.» ha tagliato corto lei. «Secondo te, come li nasconde quattro cadaveri?»

Un po' più rincuorato da questo pensiero, ho deciso di abbassare lo sguardo sul mio quaderno. Alla fine, abbiamo studiato fino a mezzogiorno, cimentandoci sulla Storia. Ho cercato disperatamente per tutto il tempo di non pensare al sergente a terra, urlante, in un lago di sangue e con le cavità oculari vuote, mentre Sark se ne usciva tutto contento con un paio di occhi in più.

Alla fine ognuno di noi è riuscito a ricordare tutti i nomi e cognomi di tutti quegli astronauti. Solo io e Alex facevamo ancora un po' di confusione ed accostavamo il nome di uno al cognome di un altro, scambiavamo le date e trattati e loro contenuto. Ma, diciamo che l'impegno c'era stato (non so da parte di Alex, ma da parte mia poca, almeno finché Sark non se n'è andato, senza occhi in più, fortunatamente!), per cui Arale, al suono della campanella per il pranzo, ha decretato che andrà benissimo ripassare domani.

La mensa era più vuota di quanto lo fosse stata questa mattina e gli unici pieni, proprio come a colazione, erano quelli dei primi e dei secondi anni, più quello dei professori.

Ho scorto Marquise che, vedendomi entrare, mi ha rivolto un mezzo sorriso cortese, a cui ho risposto con un cenno della testa. Poi ho incrociato lo sguardo cattivo di Sark e, pensando che non volevo fare la fine che avevo previsto per il sergente, ho salutato anche lui, solo che non mi ha risposto, anzi: è tornato a fissare il suo piatto.

«Ma che bello! Brodino di pollo!» ha sbuffato Arale, buttandosi a sedere e guardando il pentolone al centro del nostro tavolo. Non si era accorta di nulla. «Sono stufa di mangiare sempre le solite cose.»

«Abituati!» le ha consigliato Alex, sedendosi accanto a Frank, di fronte a noi. «Tanto sarà lo stesso per i prossimi cinque anni. Pensa poi se ti bocciassero...»

Frank ha ridacchiato. «Non credo che Arale si farà mai bocciare.»

«Adesso non esageriamo...» ha borbottato lei, prendendomi il piatto e cominciando a riempirlo di brodo.

Pan è arrivata per ultima, quando ormai avevamo quasi finito il secondo; ha grattato la sedia sul pavimento, senza alcun ritegno, mi ha dato una gomitata, che per poco mi faceva finire addosso ad Arale e cadere a terra, e si è servita anche lei di brodo di pollo. In tutto questo, non ha detto una parola.

«Oh, andiamo, Alex!» stava dicendo Arale, che non si era accorta di nessuna delle azioni di Pan, e che stava difendendo a spada tratta Sark, con grande scorno di noialtri. «Forse si comporta così perché è molto timido!»

«Ma se è un torturatore!» ha sbottato Alex, indignato. «Altro che timido! Se quello ti becca...» si è passato un dito sotto al collo, in un gesto tremendamente eloquente.

«Mi sembra che noi e il sergente siamo ancora vivi!» gli ha fatto notare Frank.

«Solo perché non gli abbiamo pestato i piedi in nessun modo!»

Ho deglutito, mentre rabbrividivo di paura, pensando al saluto che gli ho rivolto prima: se l'avesse vista come un'offesa, mi avrebbe rapito e cavato gli occhi davvero. Mi sono girato, preoccupato. Forse speravo di poter capire dal suo sguardo assassino, se avesse intenzione di uccidermi o meno, ma lui se ne stava seduto accanto alla Une e mangiava con indolenza un panino. Lui non guardava né me, né nessuno dei miei amici, ma la Une sì. Per qualche strano motivo, aveva lo sguardo puntato sul nostro tavolo.

Ho capito dopo perché: Pan si era messa con i piedi sulla sedia e si dondolava su di essa, canticchiando una canzone sconcia di cui ricordo solo le parole “cazzo”, “culo” e “barbagianni”. Insomma, quelle che usa più spesso. Ma, con tutte le sue stranezze, non è comunque riuscita a togliermi dalla testa l'inquietudine che mi hanno dato le parole di Alex.

Ho lanciato uno sguardo ad Arale che, adesso, dimentica di Sark, ridacchiava allegramente con Frank. Nessun altro si era accorto di niente, a parte me, neanche Alex, che era impegnato a mangiare una mela senza toglierle la buccia.

«Comunque, dato che siamo stati bravi, che ne dite se oggi pomeriggio ci grattiamo allegramente i coglioni?» ha continuato, masticando sfacciatamente in faccia a Frank.

«Veramente abbiamo fatto solo Storia.» gli ha fatto notare Arale.

«Ma io sono stanco!»

La nostra amica ha sospirato e scosso la testa. «Ti do un'ora per riposarti.» gli ha concesso, dopo averci pensato qualche attimo. Pan, intanto, aveva cominciato a dondolarsi sulle gambe posteriori della sedia, continuando a cantare la strana canzone del barbagianni.

«Un'ora? Io ci metto un'ora solo per addormentarmi!» ha protestato Alex, col tono di uno che ha subito una grossa ingiustizia. Ma stava mentendo e sia io che Frank potevamo confermare che a lui bastava posare la testa sul cuscino per cominciare a russare come un maiale. Devo ammettere che l'ho sempre invidiato per questo.

«O un'ora o niente.» quella era l'ultima offerta di Arale e Alex non ha potuto accettarla perché un terribile tonfo ci ha distolto dalla discussione. Ammetto che ci ho messo un po' per capire, anche se le urla di Pan – sconclusionate e infarcite di parolacce – avrebbero dovuto portarmi sulla strada giusta immediatamente. Solo il fatto che non la vedessi più accanto a me, ma che vedessi le sue scarpe da ginnastica vecchie e sporche, mi ha spinto a guardare a terra, dove lei stava a gambe all'aria, il sedere ancora incollato alla sedia rovesciata.

«Ehm... ti... ti sei fatta male?» le ho chiesto, cautamente, non appena l'invettiva di Pan contro la forza invisibile che l'ha fatta cadere si era quietata. Ma la forza invisibile aveva l'aria di un ragazzino spaurito dai corti capelli castani che la guardava con occhi sgranati, a metà tra il mortificato e il terrorizzato. Avrei voluto dirgli di cominciare a scappare, ma ero interdetto quasi quanto lui per fare qualsiasi cosa che non fosse guardare Pan.

Tutta la mensa si è messa a guardare, la Une si era addirittura alzata e io avevo cominciato a farmela addosso.

«M... mi dispiace.» ha balbettato il povero ragazzo. «L'ho... urtata... per sbaglio... mi... mi dispiace davvero.»

Gli credevo, davvero. Anche ora mi chiedo cosa mi abbia trattenuto dal farlo scappare, troppo preso ad aggrapparmi al sedile della mia sedia, quasi avessi avuto paura che la gravità avesse potuto abbandonarmi da un momento all'altro, mentre anche i miei tre amici si irrigidivano e trattenevano il respiro, in tensione.

«Secondo te, coglione, POSSO STARE BENE?» per smentire le proprie parole, con un balzo, la mia sorellona si è rimessa in piedi e si è fiondata sul tavolo, rabbiosa e veloce quanto il vento. Ha afferrato qualcosa, non sono riuscito a vedere bene, ma era una posata e, incurante del fatto che la Une si stava dirigendo verso di noi, l'ha puntata contro il ragazzo. E non una posata qualsiasi: un coltello e noi, in caserma, ce li abbiamo anche belli affilati!

Atterrita, persino la direttrice si è fermata in mezzo alla sala.

«LO VEDI QUESTO?» per farglielo vedere meglio, ha piantato il coltello sotto il naso di quel povero ragazzo (mi rendo adesso conto che non so neanche come si chiama) e glielo ha premuto contro le narici. «TE LO FICCO SU PER IL...»

«ICCIJOJJI!» mai come in quel momento ho apprezzato le urla della Une.

Tutti i presenti hanno trattenuto il fiato. Non so cosa mi abbia trattenuto dall'urlare, ma ho lasciato che lo facessero le mie nocche per il dolore; i miei polpastrelli non avevano più sensibilità e sapevo anche che, se fossi stato forte la metà di quanto lo è Pan, avrei spaccato la sedia. Ero sicuro che il coltello ben presto sarebbe finito nella carne di quel poveretto e nella mia testa si era già formata una sequenza confusa di immagini in cui lo vedevo a terra, in una pozza di sangue, mentre gli insegnanti correvano di qua e di là per cercare di tamponare le ferite. Per un folle attimo, mi sono visto in un cimitero in mezzo a gente vestita di nero, ma è stato un secondo, prima che i vetri che stanno sulla parte alta delle mura della sala mensa tremassero, quando la Une ha urlato e si è gettata come una leonessa su Pan. Mi ero aspettato una lotta all'ultimo sangue. Ero pronto a tutto quello che avevo pensato, stavolta riferito alla Une, ma mia sorella si è limitata solo a spingerla via, lasciandole il coltello, come un segno di resa o, forse, per far sì che fosse lei a dare al ragazzo la punizione che meritava, secondo lei.

Intorno a noi, tutto era silenzio; il ragazzino è scappato via dalla mensa, per andare in bagno, secondo me. Eravamo immobili esattamente come la Une, le cui palpebre non si muovevano e i cui occhi erano vacui e sgranati. Ho avuto paura che il suo cuore si fosse fermato, tanto quanto ero sicuro che il mio stesse battendo così ferocemente da farmi perdere il respiro.

Persino l'aria sembrava essersi bloccata, atterrita. Pan stessa era completamente annichilita, il che è tutto dire. E anche Sark, ma la cosa non mi dispiaceva più di tanto.

Ma è stato solo un secondo, prima che il grido esplodesse potente dalla bocca della Une, il cui viso si era contratto di un'espressione di puro furore. «ICCIJOJJI!» i vetri hanno tremato di nuovo e dalla mia bocca è uscita una illogica sequenza di suoni, come se fossi stato io ad aver minacciato quel tipo con il coltello. Mia sorella, invece, si è seduta, lentamente, come se quel grido l'avesse privata delle forze. Anche lei aveva gli occhi sgranati esattamente quanto la Une, che si muoveva come una pantera assassina, gli occhi iniettati di sangue, verso di noi. Quando è arrivata a destinazione, Arale e Alex si sono fatti da parte. Guardavano la direttrice come se avessero avuto paura che potesse tirare fuori una pistola e farci fuori tutti. Ma la Une ci ha risparmiato: ha sbattuto il palmo di una mano sul tavolo, fissando mia sorella con uno sguardo omicida; se quello fosse bastato, Pan si sarebbe trovata stecchita all'istante, ma lei, si sa, ha una gran faccia tosta e si è limitata a ricambiare lo sguardo con tranquillità. La ammiro, sotto un certo punto di vista: se fossi stato io al suo posto, sarei morto davvero.

«Mi dica, Iccijojji» la Une ha parlato e la sua voce era ridotta ad un debole sussurro di spavento. «che cosa... aveva... in... mente?»

«Lo stronzo mi ha fatto cadere.» ha risposto mia sorella, con semplicità.

«Lo... l'ha... fatta... cadere...» ha ripetuto la Une, quasi fosse stata un robottino che doveva imparare le parole.

«Sì, e mi sono fatta male.» ha continuato Pan, seria, mostrando il gomito sbucciato.

Mi aspettavo la bomba e, infatti, è arrivata poco dopo: continuando a ripetere queste parole, sempre più velocemente, quasi, ad ogni nuova formulazione diventassero più comprensibili, la Une è arrivata ad un punto in cui ha detto la frase a così alto volume che, ho avuto paura, avrebbe fracassato la barriera del suono. «SI È FATTA MALE, ICCIJOJJI? LE HANNO MAI INSEGNATO A CONTROLLARSI O VIVE IN MEZZO AGLI ANIMALI? POTEVA UCCIDERE QUALCUNO!»

Pan si è guardata intorno, quasi a disagio e la cosa mi ha molto colpito. «Suvvia, non la faccia così tragica! Non è morto nessuno!» ha detto, in quello che ho percepito come un debole borbottio imbarazzato.

La Une ha battuto un pugno sul tavolo. «E' una fortuna che non sia successo!» ha abbassato lo sguardo, mentre tutta la sala calava nuovamente in quel silenzio teso e spaventato. Ho trattenuto il respiro e sentivo Frank, al mio fianco, borbottare parole che somigliavano a “non è possibile” e “non ci posso credere”. La Une, intanto, stava respirando pesantemente. Sembrava una donna incinta in pieno travaglio. «Lei deve imparare a conoscere la pericolosità dei coltelli e l'unico modo che conosco per riuscirci è farglieli maneggiare!» ha dichiarato, tornando a guardare Pan. Avrei voluto protestare, ma non ne ho avuto il coraggio: farglieli maneggiare? E che diavolo aveva fatto fino a quel momento?!

Comunque fosse, il suo tono di voce era tornato quello di sempre, rigido e freddo. Un grande cambiamento, ma era qualcosa che potevo sopportare: non riuscivo a guardare la Une in quello stato isterico. «Passerà il resto del semestre in cucina col cuoco. A partire da stasera!» ha dichiarato.

Pan è sbiancata. Sì, sono sicuro che sia successo, altrimenti ho avuto le allucinazioni. Ma non è stata l'unica ad avere una reazione simile: pure Arale era fuori di sé e i suoi occhi sgranati lo dimostravano in pieno. Gli altri ragazzi, anche agli altri tavoli, si scambiavano delle occhiate allucinate, alcuni erano riusciti a trovare la forza di conversare con gli altri. «Che ha detto?» ha balbettato mia sorella, disgustata.

«Mi ha sentito. E, ogni giorno, vorrò dei rapporti dettagliati da lei, sulle potenzialità pericolose di ogni singolo coltello. È chiaro?»

Pan ha corrugato la fronte. «Non mi espellerà?» ha chiesto. Sembrava triste e non capisco perché, sinceramente, pensando alla mamma ed alla sua ormai famosa promessa.

La Une, comunque, in barba a tutto questo, si è portata in posizione eretta ed ha intrecciato le mani dietro la schiena, mentre le restituiva uno sguardo grave.

«Se lo facessi, vorrebbe dire che sono venuta meno ai miei doveri. Se lo meriterebbe, mi creda. Ma questa scuola ha, da sempre, forgiato i caratteri più duri. E creda anche a questo...» ha creato una pausa, con un sospiro. «riuscirò a forgiare anche il suo!» lo ha detto, come se quella fosse stata la sua missione personale.

«Ne dubito.» è stato il commento di Arale, quando, a pranzo finito, tornavamo in biblioteca. La Une ha concluso che avrebbe chiamato i nostri genitori e poi ha lasciato la sala nel più completo sgomento: il suo discorso ha sconvolto tutti, non solo me e, almeno su questo, mi sono consolato.

«E perché?» ha voluto sapere Alex, che camminava dietro di noi.

«Credo sia perché Pan ha la strada spianata per il riformatorio...» è stato il commento di Frank che, accorgendosi di cosa aveva detto, si è messo una mano sulla bocca, prima di guardarmi con cautela. «Scusa, Ken...»

Gli ho detto di non preoccuparsi: a dire la verità, credo che abbia ragione e che anch'io, inconsciamente, l'abbia sempre pensato. L'ho vista lanciare di peso un professore e attentare alla vita di un ragazzino perché, involontariamente, l'ha fatta cadere. Dopo questo, credo che sarà una sorvegliata speciale e, forse, anche il suo curriculum verrà macchiato in modo permanente. Non basteranno tutti i solventi del mondo per riuscire a far sbiadire questo crimine. Ed è stata quest'ombra che mi ha lasciato distratto per tutto il resto della giornata di studio.

È stato orribile immaginare i vari modi in cui la mamma potrebbe prendere questa faccenda. Magari urlerebbe addosso alla Une, magari per darle ragione. Riuscivo a vederla scendere dalla macchina rosa, mentre prendeva Pan per i capelli, la scuoteva urlando qualcosa del tipo “delinquente patentata! Ora ti porto a raccogliere pannocchie a vita! Anzi: ti mando al riformatorio, dove devono stare gli avanzi di galera come te!”.

Il solo pensiero di avere una sorella galeotta mi ha perseguitato e, tuttora, non sono proprio contento di immaginarmela dietro delle sbarre di ferro. Però, poi, mi sono detto: se la Une riesce a forgiare il suo carattere – qualsiasi cosa abbia voluto dire – forse potrà rimanerne fuori.

«Ma non è detto che ci riesca.» ha commentato Arale, quando abbiamo preso una pausa, verso le cinque e mezza.

«No, infatti.» ha confermato Alex. «Metti Howard James, che lo teniamo solo perché suo padre è un pezzo grosso!»

Ho picchiato il libro di matematica con la penna. «Mio padre non è un pezzo grosso...» ho borbottato, prima di sospirare disperatamente.

«Forse, Kenny, ma la Une non mi sembra il tipo che molla facilmente.» Frank mi ha posato una mano sulla spalla e mi ha sorriso, incoraggiante. L'ho guardato, cercando in lui quella sicurezza che io non avevo.

«Secondo te... ce la farà? Insomma, le eviterà la prigione?»

Lui ha sorriso, mentre Alex rideva apertamente. «Io ce la vedo.» ha ammesso. «Sarebbe un bel capetto, in quel postaccio. Io ci sono finito una volta, ma...»

Lo abbiamo guardato tutti con tanto d'occhi. Arale aveva la bocca spalancata. «Dove sei finito?» gli ha chiesto. Alex ha tossicchiato. Mi è sembrato molto in imbarazzo.

«Beh, è stato tempo fa.» ha tagliato corto.

«Alex, ma... hai tredici anni!» gli ha fatto notare la nostra amica, indignata. «Perché...»

Il difetto di Arale, secondo me, è che quando si fissa su una cosa, andrebbe avanti per giorni finché non ottiene quello che vuole e si vedeva chiaramente che Alex si sentiva a disagio a parlarne. Anche io ero piuttosto sorpreso di scoprirlo e già pensavo a cosa avrebbe detto la mamma, una volta che anche lei avesse appurato che uno di quelli con cui passo più tempo è un ex-galeotto.

«Ho quattordici anni, veramente.» le ha fatto notare il mio amico. «E' successo prima che entrassi in caserma, ma non voglio parlarne.»

Così ha liquidato il discorso, ma Arale non voleva mollare. Ha aperto la bocca per replicare, però stavolta è stato Frank ad intervenire in favore di Alex, che si stava davvero accigliando. «Ora basta. Se ha detto che non vuole parlarne, non dobbiamo costringerlo, ti pare?»

«Ma...»

«Basta, Arale!» ha sbottato Alex. «Non rompere i coglioni!»

E' stato abbastanza triste vedere la nostra amica abbassare il capo, mortificata. Da una parte mi è dispiaciuto davvero per lei, dall'altra... capisco il punto di vista di Alex: sono cose personali, anche se anche io mi sto rodendo di curiosità. Eppure non ho proprio il coraggio di chiederglielo e non credo neanche di essere abbastanza amico suo, per poter pretendere che mi faccia una simile confidenza. A dire il vero, non sono neanche tanto sicuro di volerlo sapere.


*****


Eccomi tornata, ad un mese esatto dalla precedente pubblicazione. Mi sono autoimposta di rispettare le scadenze, stavolta, altrimenti campa cavallo! XD


Prof: hai riso davvero? *.* Per quanto riguarda la Noin... beh, c'è un motivo (non molto nobile) per cui è così: quando nacque questa storia, correva l'anno 2001 o giù di lì e, dato che non riuscivo a sopportarla (mentre adoravo la Une, quasi tutti i cattivi e Heero), le detti questa parte ben poco IC. Da allora non ho mai pensato di cambiarla e non mi è manco passato per la testa. XD Quindi, per adesso, non c'è una vera motivazione per cui è mezza muta, ma forse gliela troverò in futuro. XD Una versione molto meno ricca di questa storia esiste, una versione che non comprende i primi due anni di Kenny in caserma (appartenenti ad una versione ancora più vecchia ed inutilizzabile) che sto riscrivendo in toto, quindi... tutto è possibile!


Infine ringrazio NemoTheNameless per aver deciso di seguire questa storiella.


Prossimo capitolo tra un mese, sempre che non mi ubriachi di spumante. XD Ne approfitto per augurarvi Buone Feste!

Luine.

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Capitolo 10
*** Arale Holmes ***


Le lezioni al primo anno

Arale Holmes



12 Novembre


«Insomma, tu non sei curioso?» mi ha chiesto Arale, quest'oggi, a pranzo. Ci siamo ritrovati da soli, perché Alex e Frank avevano deciso di dare quattro tiri al pallone. In realta, avevano invitato anche me, ma ho preferito andare a mangiare. Ora so che è stata una pessima idea.

«Di cosa?» ho alzato lo sguardo su di lei, per non dover guardare le polpettine di carne cruda che Pan ci aveva propinato. Lei era qualche sedia più in là, coi capelli sporchi di sugo e niente davanti.

«Non mangi i tuoi... manicaretti?» le ha chiesto Tai Yagami, sarcastico.

«FATTI I CAZZI TUOI!» ha abbaiato lei, tornando a guardare in cagnesco il suo piatto vuoto. Non ha preso molto bene la sua punizione e, l'altra sera, in camerata, ha sbraitato un sacco contro la Une, tutti i suoi parenti in vita e pure contro i morti.

Arale, intanto, mi lanciava uno sguardo rabbioso. «Parlo di Alex e del perché è stato in riformatorio!» ha riassunto in modo egregio. A quel punto, non ho potuto fare altro che riabbassare lo sguardo. È stato solo un peccato non poter riempire la bocca col macinato che troneggiava nel piatto.

«Cosa?!» la voce penetrante ed acuta di Bra ha rischiato di perforarmi le orecchie e mi ha fatto sobbalzare. Era appena arrivata ed esibiva un'espressione inebetita sul volto, mentre le sue amiche, Sora e Mimi, che la seguono dovunque, guardavano da me ad Arale con occhi sgranati e decisamente disgustati, come se fossimo stati ricoperti di letame. «Ramazza è stato in galera?» Bra ci ha guardato con quella stessa espressione. «Dovevo proprio aspettarmelo... ehi, Burton, hai sentito?»

Trowa ha alzato gli occhi dalla sua insalata.

Ho cominciato a pensare che volesse diventare vegetariano, vedendogli fare quell'espressione disperata rivolta alle polpettine crude.

«Cosa?» ha chiesto, però, piuttosto annoiato.

«Alex Ramazza è un delinquente!» ha detto Bra, come se avesse dovuto indovinarlo da solo.

«Alex non è un delinquente!» mi è scappato e Trowa è tornato semplicemente a farsi gli affari propri.

Bra ha ridacchiato, portandosi indietro i capelli. «Ah, no? Pensi davvero che non lo sia, uno che è stato in riformatorio? Guarda che l'ha detto la tua amica Norimaki, non me lo sto inventando io!»

Mi ha rivolto uno sguardo trionfante, quando ha visto che non ero capace di difendere il mio amico. Non avrei neanche saputo come fare! Insomma, l'aveva detto lui stesso di essere stato in carcere!

Senza dire nient'altro, intanto, Bra si è andata a sedere al posto che occupa di solito, dall'altra parte del tavolo, in mezzo alle altre due, mentre Arale scoccava loro un'occhiata carica di disapprovazione.

«Beh, devi ammettere che ha ragione...» mi ha fatto notare la mia amica, distogliendo l'attenzione da loro. «Insomma, non sarebbe stato in riformatorio, se fosse stato innocente.»

Non so perché, ma mi dispiaceva davvero sentirla parlare così e mi ha anche un po' infastidito: lei ha sempre passato molto tempo con Alex, esattamente come me e Frank, eppure era già pronta a condannarlo. «Potrebbe anche essere stato messo in mezzo a qualcosa di più grande di lui, no?» le ho fatto notare. Lei mi ha risposto con un cenno condiscendente della testa, cosa che mi ha fatto arrabbiare. «Non puoi credere che...»

«Ti ricordi che cos'ha detto il primo giorno?» mi ha chiesto, picchiettando la punta del dito sulla superficie liscia del tavolo. Ho scosso la testa e, quando me l'ha detto, mi sono rammentato di dover rileggere più spesso ciò che scrivo. «Ha detto che voleva rubare l'impianto stereo di mio fratello. E ha anche aggiunto di essere un vero ladro; è favorevole al contrabbando e tiene la contabilità dei traffici di Yuy e...» si è fermata e guardata intorno, come se qualcuno fosse stato nei paraggi e stesse origliando. «E poi fuma.»

Lo ha detto come se fosse il crimine peggiore che una persona potesse compiere. Non avevo mai pensato ad Alex come ad una cattiva persona solo perché fuma. Evidentemente, per Arale è diverso.

«E allora?»

Lei ha sospirato con fare paziente. «Kenny, fuma ed ha quattordici anni. Per te, non significa niente?»

Ho alzato le spalle. Sinceramente non ci avevo mai pensato e non ho fatto molto altro che balbettare, ma, ora che ci penso, per me non significa davvero niente.

«Che eloquenza!» ha constatato Pan, con fredda ironia, girandosi verso di noi.

«Tu che ne pensi?» ha voluto sapere Arale, ignorandola. Mia sorella ha inarcato un sopracciglio e l'ha guardata con disgusto.

«Riguardo a cosa?»

«Alex.»

Se devo essere sincero, ero davvero molto curioso anche io di sapere cosa potesse dire lei a proposito del fatto che Alex si sia fatto qualche tempo in prigione.

«Che puzza come un caprone in decomposizione e che ha il cervello di un sottaceto andato a male.» ha risposto, senza pensarci neanche un attimo. Ma ad Arale non andava bene: ha alzato gli occhi, esasperata, e non è andata di certo per il sottile, quando ha dichiarato che voleva sapere soltanto che cosa ne pensava del fatto che fosse stato arrestato. «Ah.» ha ribattuto Pan, senza nessuna particolare enfasi, anzi, diciamo che sembrava che si stesse aspettando una domanda del genere. «L'ho sempre saputo che era un rifiuto umano.»

Sono rimasto in silenzio. Trowa e Tai si sono scambiati un'occhiata, ma neanche loro hanno commentato. Mimi, Bra e Sora si sono semplicemente strette di più tra loro ed hanno cominciato a confabulare. È stato il pranzo più squallido che abbia mai fatto e non solo per la mancanza di cibo.

«Secondo me, è un pezzo grosso.» ha continuato Arale, quando ci stavamo sedendo in classe, per la lezione pomeridiana della Une.

«Chi?» ho chiesto ancora una volta, molto stupidamente. Lei ha sbuffato.

«Alex.» ha detto, esasperata. «Di chi sto parlando da più di un'ora?» Almeno, mi sono detto, si rende conto di essere un tantino ossessiva. Non mi piace parlare male degli amici, davvero, e anche scrivere queste cose su di lei non mi fa stare in pace con me stesso, ma non posso farne a meno. Sono arrabbiato. Questo lato di lei mi dà un po' fastidio, ma in quel momento mi sono limitato ad annuire. «Secondo me, fa parte della mafia.» ha continuato.

Le ho rivolto un'occhiata spaventata. «Mafia?» ho ripetuto quella parola come se fosse particolarmente pericolosa solo da pronunciare. Mi sono girato indietro, quasi mi aspettassi di vedere un tizio che metteva una testa di cavallo sulla cattedra. Non è colpa mia, se il film preferito della mamma è “il Padrino”. Arale ha annuito fortemente.

«Certo.» ha esclamato, come se la cosa avrebbe dovuto essere ovvia anche per me. «Pensaci bene: lui non è in galera, ma qui dentro.»

Ho fatto una smorfia preoccupata. «Giuro che non ti seguo.» ho ammesso. Lei ha sospirato.

«Se fosse stato un ladro di polli e fosse stato incensurato, sarebbe finito a casa con una pacca sulle spalle.» ha dichiarato, alzando un dito, per cominciare ad enumerare le sue varie teorie. Ho fatto un po' di fatica a starle dietro, anche perché parlava come un avvocato. «Se l'avesse fatto più volte, sempre nel caso che fosse un ladro di polli, sia ben chiaro, qualsiasi giudice lo avrebbe condannato ai suoi mesi di riformatorio. Se avesse fatto qualcosa di più grave... non sarebbe comunque qui. E, invece...» ha concluso con una smorfia eloquente.

Il suo ragionamento non faceva una grinza e, quando Alex e Frank sono entrati in classe, non sono stato l'unico a girarmi. Tutti i miei compagni lo hanno fatto, si sono zittiti e hanno seguito Alex con lo sguardo, fino a che non si è seduto al suo posto, vicino a Trowa che ha stretto gli occhi in un'espressione sospettosa, ma non ha fatto nessun tipo di commento. Alex, invece, aveva l'aria persa e si guardava intorno confuso. Dopo un po' ha sorriso, in modo sincero, come avrebbe fatto il solito Alex di sempre. E non ho visto proprio un mafioso in lui.

«Che è successo?» ha voluto sapere.

«Sei un rifiuto umano.» ha risposto Pan, con infinito disprezzo. Se si fosse rivolta a me con quel tono, penso che mi sarei sentito veramente mortificato, ma Alex è abituato a queste uscite da parte di mia sorella ed è stato per questo che, secondo me, ha fatto finta di niente.

Mentre la Une entrava in classe, chiedendo il silenzio, mi sono girato verso Arale e le ho dato le mie impressioni sulla faccenda della mafia, rischiando grosso, ma la direttrice era girata di spalle e non mi ha visto, né sentito. Penso che sia stata la prima volta in tutta la mia vita. Avrei festeggiato se non avessi avuto altri problemi per la testa.

«Sono sempre i più insospettabili i colpevoli, non lo sapevi?» ha dichiarato la mia amica, in un sibilo che mi dava tanto l'impressione di essere finito in uno di quei film di spionaggio che ti fanno venire il cuore in gola. Le ho lanciato uno sguardo ancora più preoccupato e lei ha aperto di nuovo la bocca.

«Norimaki, ci dica, cos'ha di così interessante da raccontare?» ha chiesto la Une, glaciale. La mia amica ha alzato gli occhi su di lei e le ha rivolto uno sguardo tranquillo, come io non saprei fare nella stessa situazione. La Une mi fa paura. È innegabile.

«Mi scusi, lady Une.» ha detto Arale, senza perdere la calma. La direttrice ha solo fatto un cenno secco con la testa, per dire che l'avrebbe fatto. Per il resto della lezione, nessuno ha più parlato di Alex e del suo passato in riformatorio. Ho pensato alla mamma e a quello che avrebbe potuto dire: molto probabilmente che non dovrei frequentarlo, anche se a me sta simpatico.

Anche mentre stavo tornando in camerata per prendere i miei appunti di matematica, ci ho pensato e mi sono detto che, se Alex non è mai stato cattivo, non vedevo perché avesse dovuto cominciare ad esserlo adesso che sapevamo che ha passato qualche tempo dietro le sbarre.

Avrei, oltretutto, voluto sapere come comportarmi, se essere il solito di sempre e fare finta di niente o fare come gli altri, che hanno cominciato a scansarlo. Per quel che riguarda Arale, è deciso: lei non vuole più avere niente a che fare con lui. Addirittura ha deciso di dover evitare la biblioteca, anche perché era lì che Alex e Frank si erano messi a studiare, oggi. Quindi mi ha trascinato in un'aula vuota, senza darmi neanche il tempo di protestare.

«Senti, non è per cattiveria.» ha chiarito, quando avremmo dovuto essere concentrati sulle dimostrazioni delle derivate. «E' che... sai, quando si stanno coi poco di buono, e se poi ti fanno i favori...» ha fatto una smorfia. «prima o poi li rivogliono indietro... e poi... è amico di Frank.»

Anche questo l'ha detto come se fosse una prova incontrovertibile del fatto che Alex faccia parte di una famiglia mafiosa. «E che c'entra?» ho chiesto, invece, sempre più confuso.

«C'entra!» ha ribattuto lei, con convinzione. «Perché un ragazzo ricco e viziato, figlio di un famoso senatore e nipote del Generale degli Eserciti Spaziali dovrebbe essere amico di un qualunque ragazzino puzzolente, se non è un mafioso? Sai cosa penso?» mi guardava, come se si aspettasse che io le chiedessi di andare avanti. E l'ho fatto, divorato com'ero dalla curiosità e dalla preoccupazione sempre crescenti. «Penso che Douglas Kushrenada accetti soldi sporchi.»

«Co-cosa?» è stata l'unica cosa che sono riuscito a balbettare. Arale ha annuito di nuovo, quasi io le stessi dicendo qualcosa di innegabile.

«Sì, altrimenti tutta questa amicizia come te la spieghi?»

«Ma Alex non ha mai detto di essere ricco.» le ho fatto notare.

Arale ha fatto spallucce, come se non considerasse la cosa importante. Mi ha mostrato i palmi, quasi lassù vi fosse la verità. «Ma non ha mai neanche detto di essere povero.»

«Ha sempre lo stesso paio di mutande.» le ho ricordato.

«Magari in famiglia sono tirchi.»

«E preferiscono dare soldi agli altri?»

«Certo.» Arale ha annuito ancora. «Perché sa che Kushrenada è un buon investimento.»

Ho scosso la testa. Non sapevo cosa pensare, ero confuso più che mai: Alex poteva essere un esponente della mafia e non solo, il padre di Frank avrebbe anche aver accettato soldi sporchi da quello di Alex. Ora che lo scrivo, mi sembra assurdo, ma in quel momento ero fuori di me dal terrore. «Ma la Une... lo sa?» ho chiesto, infatti.

Arale si è guardata intorno. Ho avuto come l'impressione che cercasse microfoni nascosti o agenti segreti in impermeabile nero e cappello a tesa larga. Con la stessa impressione di essere spiato, ho cominciato ad imitarla.

«Secondo me,» ha continuato la mia amica, quando è stata sicura che non ci fosse nessun altro. «dobbiamo indagare per conto nostro.»

Lo stomaco mi si è contratto. «Che cosa?»

«Dobbiamo andare in fondo a questa faccenda.» ha ripreso lei, puntandomi un dito contro. «Forse Kushrenada non sa di essere in combutta con un mafioso. Dobbiamo inchiodarlo...» ha sbattuto un pugno sul palmo della mano, producendo un sonoro schiocco che mi ha fatto sussultare. «E mandarlo in galera!»



13 Novembre


Le nostre indagini sono cominciate subito dopo colazione. Avevamo il Salvini e questo ci ha dato un enorme aiuto, dato che, in palestra, possiamo fare praticamente tutto quello che vogliamo. Ci siamo sistemati in un angolino della palestra e Arale teneva un taccuino tra le mani e una penna dietro l'orecchio destro.

«Allora,» ha esordito con fare professionale, tanto che io mi sono di nuovo guardato intorno. Gli altri ragazzi stavano giocando a basket e Frank stava andando a canestro con agilità. Ha messo la palla nel cesto e non ho potuto fare a meno di applaudire, contento, prima che Arale mi distogliesse da quello stringendomi il mento tra le mani e costringendo la mia testa a girarsi verso di lei. «la prima cosa da fare è porre delle domande ai testimoni.»

«Te-testimoni?» ho ripetuto, perplesso. Sinceramente non capivo dove potesse trovare dei testimoni (di cosa?), ma lei ha annuito convinta.

«Oh, sì. Ce ne sono un paio molto interessanti, anzi, tre.» ha riposto, scrivendo i nomi nella sua calligrafia precisa: lady Une, Frank e Treiz. Ho fatto una smorfia, dubbioso.

«E come fai a chiamare il Generale? Nessuno ci permetterà mai di prenderci il suo numero personale!»

Lei mi ha aggrottato la fronte. Mi guardava come se avessi detto qualcosa di particolarmente strano, ma a me sembrava logico: se avessimo detto a qualcuno che volevamo indagare su Alex e che Treiz poteva saperne qualcosa, ci avrebbero detto di non scassare, figuriamoci poi se non davamo nessuna spiegazione.

«Kenny, non è questo il problema.» mi ha spiegato Arale, paziente.

«E allora qual è?»

Lei ha sospirato ed ha ripassato la 'a' di lady. Ha lasciato passare diversi secondi, durante i quali Trowa ha sfilato la palla da sotto il naso di un alquanto affaticato Matt Ishida ed ha fatto canestro, facendo sollevare le proteste della squadra di Frank per gioco scorretto.

«Il problema è che, anche se riuscissimo a chiamarlo,» ha continuato Arale, senza riuscire a distogliermi da un fatto molto importante: Alex era in disparte e non giocava con gli altri. E' da ieri che sono tutti particolarmente freddi e schivi con lui. Anche stamattina a colazione, Mimi ha voluto fare a cambio con Matt, per non stargli vicino. Al mio amico non è importato molto, ma, quando lo ha fatto anche Arale, l'ho visto cambiare espressione. Beh, non riesco a biasimarlo. Credo che, anche io, nella stessa situazione, mi stupirei nel vedere una delle persone con cui passo più tempo comportarsi in questo modo. «non ci rivelerebbe niente.»

«Oh, e perché?» la ascoltavo solo a metà. Frank ha richiamato Alex che, con un sorriso, è entrato in squadra, ma nessuno gli ha passato la palla ed ha cercato di tenersi lontano, anche se erano della sua squadra!

Arale ha di nuovo sospirato. «Perché negherebbe!»

«E allora perché l'hai messo nella lista?»

«Perché possiamo arrivare a lui, tramite altri.»

«Ah, sì?»

Lei ha annuito. «La Johnson, per esempio!»

Ho distolto lo sguardo da quella strana e squallida partita. Alex aveva cominciato a camminare svogliatamente su e giù per il campo, scontento, anche se Frank era l'unico che cercava di coinvolgerlo di più.

«La Johnson? Che cosa ne può sapere di Alex? E che legami ha col Generale?»

«Lei e Alex hanno un rapporto abbastanza stretto. Con il Generale non so se abbia davvero dei legami, ma... magari sa qualcosa di qualcuno che potrebbe portarci a lui. Nei film succede sempre!» era convinta di quel che diceva e io non ce l'ho fatta a farle sapere che, i film, non sempre corrispondono alla realtà. «Poi c'è Heero, con cui intrattiene rapporti... illegali. Poi ci sono i suoi ex compagni di classe, di ben due anni!» ha elencato, appuntandosi ognuno di loro ogni volta che li nominava. «Abbiamo una lista ben nutrita.»

«Non credo che...»

Ha strappato il foglietto e ne ha fatto un altro, che mi messo sotto il naso, zittendomi. «Interroga questi, dopo le lezioni, d'accordo?» Sul foglietto c'erano tre nomi: infermiera Johnson, Heero Yuy, Ernesto Taylor (secondo anno corso B). «Io penserò a Hopkins, Frank e la Une... considerati i vostri rapporti, è meglio che vada io...» Ho guardato il foglietto e Arale. Ero appena entrato in un poliziesco, non c'era altra spiegazione. Cioè... io credevo scherzasse, quando diceva che voleva indagare! Dovevo avere una faccia stranita, perché lei ha arricciato le labbra. «Andiamo, Kenny, dov'è il problema? Sono solo domande!»

«Ma...» ho guardato di nuovo quei tre nomi. «Ecco... che cosa dovrei chiedergli?»

«Che cosa sanno di Alex. Annota tutto, pure le facce che fanno.»

Ora io ne stavo facendo una molto preoccupata, dato che mi immaginavo di entrare in infermeria con un quaderno e una penna, oltre all'impermeabile lungo e il sigaro. Lei ha sospirato.

«Non hai ancora capito?»

«Ehm... no, cioè... chi è Ernesto Taylor?»

Arale si è messa le mani in grembo ed ha messo su un'aria saputa. «Te lo ricordi quel ragazzo che Alex ha salutato il primo giorno?»

Ho inarcato un sopracciglio e storto le labbra. «Chi?»

Lei ha sollevato di nuovo gli occhi al cielo, quasi avesse avuto bisogno di una buona dose di pazienza. «Ernesto era suo compagno di classe, l'anno scorso. È quel tipo bassino, con i denti sporgenti, bruttino...»

Non ricordavo nessuno con questa descrizione.

Ho scosso la testa, mostrando tutto il mio rammarico. Mi dispiaceva davvero, anche perché lei sembrava tenerci molto. Così, per non deluderla, le ho promesso che l'avrei cercato e interrogato. Solo che non volevo davvero andare da nessuno per interrogarlo, tanto meno da uno sconosciuto per fare strane domande come “quand'è l'ultima volta che ha visto Alex?”.

Ma, dato che ogni promesso è un debito, ho trattenuto il respiro e mi sono buttato a capofitto nella mia missione.

Dopo le lezioni pomeridiane, mi sono avviato verso l'infermeria con tutta la borsa, in questo modo avrei avuto la scusa per avere dietro sia un quaderno che una penna. Mi arrovellavo il cervello, cercando il momento adatto per prenderli e, alla fine, mentre bussavo, ho deciso che sarei andato a memoria.

Anche il fatto di bussare, in un'infermeria, è davvero la cosa più scema da fare, per questo sono entrato, titubante e in punta di piedi, quasi fossi stato un ladro. Ero così preoccupato che farlo mi ha dato almeno un po' di sicurezza.

I letti erano tutti vuoti, tranne uno, ma era nascosto da un paravento e non ho potuto vedere chi ci era steso.

«Ehm... infermeria?» l'ho chiamata. Anche la mia voce mi sembrava strana e avevo una gran voglia di scappare via e di lasciar perdere. Mi sembrava un'idiozia, soprattutto pensando che dopo dovevo andare da Heero e cercare questo Ernesto Taylor che non avevo neanche idea di come fosse fatto.

«Un attimo!» ha risposto la Johnson, da dietro il paravento. Ho preso una sedia di ferro che, di solito, usano Arale, Alex e Frank, quando vengono a trovarmi, dopo che la mia sorellona usa il suo entusiasmo su di me.

Quando la Johnson è spuntata da dietro il paravento, si stava sistemando lo stetoscopio dietro il collo, ma, vedendomi, si è bloccata.

«Ti ha picchiato di nuovo?» mi ha chiesto, allarmata.

«Chi?» ho ribattuto, educatamente, inclinando la testa da una parte. Lei ha corrugato la fronte e si è subito rilassata.

«Allora perché sei qui?»

Ho deciso di andare subito al sodo, anche perché non sapevo come iniziare. «Ehm... Arale vuole che la interroghi.» Lei mi ha guardato come se fossi impazzito. Mi rendevo conto benissimo che la mia richiesta era alquanto assurda.

«Interrogarmi?» ha ripetuto, lentamente, come se dovesse cercare quella parola sul suo vocabolario mentale. Poi ha inclinato la testa anche lei, improvvisamente incuriosita. «Su cosa?» ha voluto sapere.

«Su... ehm...» ho deglutito. «Su Alex.»

Lei ha inarcato un sopracciglio e si è fatta molto sospettosa. «Alex.» ha ripetuto, come per chiedere conferma.

«Alex Ramazza.» ho precisato.

Si è avviata verso di me, scrutandomi. Arale ha subito detto, quando gliel'ho raccontato, che è stato un comportamento sospetto, ma a me sembrava la solita infermiera di sempre che reagiva in modo piuttosto normale ad una richiesta piuttosto strana.

«E cosa vorrebbe sapere... Arale... su Alex

«Beh, ecco... non lo so bene. Credo che si tratti di qualcosa che riguarda il riformatorio.»

L'infermiera ha chiuso gli occhi e poi li ha riaperti, il tutto contraendo il viso in una smorfia carica del più autentico stupore. «Alex è stato in riformatorio?»

Ho annuito. «Così ha detto lui.»

«E io che c'entro?»

«Beh, Arale pensa che lei possa sapere qualcosa.»

«E perché?»

Mi sono grattato la nuca, a disagio. «Magari...» ho borbottato. «Magari pensa che... dato che siete così in buoni rapporti...»

«Alex è un bravo ragazzo!» ha tagliato corto la Johnson. «E mi piace molto: non ha peli sulla lingua, ma ogni tanto mi sembra un po'...» non ha continuato, forse sperando che io completassi, ma non deve aver capito che, solitamente, non sono un tipo molto ricettivo. Le ho chiesto di spiegarmi come fosse Alex con l'aiuto dello sguardo, ma lei si è limitata a sospirare e a scuotere la testa. «Di' ad Arale di pensare a studiare, invece di mandare te a farmi stupide domande.»

Mi sono alzato: quella era la chiara fine della nostra discussione. La Johnson si stava pure allontanando. «Ma a lei...» ho comunque continuato. «A lei non interessa che Alex... sì, insomma, sia stato in prigione?»

Lei ha corrugato la fronte e non ha risposto. «Vai a studiare, Iccijojji. Devo occuparmi dei miei malati.»

A quel punto, non ho potuto fare molto altro che allontanarmi davvero dall'infermeria. Arale non l'ha presa molto bene e, come ho già detto, crede che l'infermiera sia sospetta.

«Certo che tu...» mi ha detto, quando ci siamo ritrovati nella stessa aula in cui aveva deciso che Alex era un mafioso. «potevi essere più diplomatico! Per esempio: sa, infermeria Johnson, avrei bisogno di un farmaco per il mal di testa e poi, dopo averla ammorbidita, potevi cominciare a parlare del più e del meno e far venir fuori così il discorso di Alex. E comunque non dovevi parlare del riformatorio! Dovevi chiederle come lui e Frank si sono conosciuti, per esempio, chi sono i genitori di Alex, da che famiglia proviene... insomma, queste cose che lui non ci ha mai detto e che dobbiamo scoprire.»

«Scusa, Arale... ma non glielo possiamo chiedere direttamente?» ho voluto sapere, titubante. «Insomma, mi sembra il modo migliore per...»

«Oh, certo! Ma poi vorrà dei favori in cambio!» ha continuato lei, senza darmi peso.

«Per avergli chiesto come si sono conosciuti lui e Frank?»

Lei ha alzato gli occhi al cielo. «No, ma potrebbero sospettare le nostre indagini. Alex cercherebbe di boicottarci!» Non ero convinto del significato della parola “boicottare”, ma, da come suonava, non doveva essere niente di buono. E Arale me l'ha confermato: «Potrebbe anche ucciderci pur di riuscire a mantenere il suo segreto. Pensaci: adesso che tu hai detto all'infermiera che indaghiamo su di lui... siamo già in grave pericolo! Potrebbe mandarci due amici, farci trovare una testa di cavallo nel letto o... magari quella di tua sorella o...» è impallidita. «Quella di mio fratello!»

L'idea mi terrorizzava, anche se non ce lo vedevo Alex a tagliare la testa di qualcuno. Ci vedevo di più Sark e Alex ha paura di Sark, quindi non penso neanche che possa chiedergli di farlo per lui. Non ho comunque potuto fare a meno di deglutire anch'io, mentre nella mia mente si materializzava minacciosa l'immagine della testa mozzata di mia sorella che, magari, mi guardava con una delle sue solite espressioni truci.

Ho scosso la testa, per cacciarmi dalla testa quella terribile visione, ma la visione è diventata reale, quando la testa di Pan, accompagnata da tutto il suo corpo, è entrata come una furia in quell'aula che io e Arale credevamo sterile.

«Pan!» l'ha salutata la mia amica, mettendo su un sorriso molto convincente, molto di più della mia espressione che doveva essere disinvolta, ma che, invece, era terrorizzata, soprattutto perché mia sorella mi guardava come se fossi stato una specie di assassino o traditore, proprio ciò che mi sentivo, nei confronti di Alex.

Che avesse scoperto tutto e che venisse a sgridarmi, a darmi della merda? L'idea mi ha sfiorato, ma se n'è subito andata, quando mi ha sbattuto sul banco quattro fogli bianchi a righe ed una penna.

Ho guardato prima loro e poi lei, chiedendole silenziosamente cosa volesse, soprattutto quando, con un'espressione piena di pretese, si è stretta nelle spalle.

«C'è qualche problema?» ha continuato Arale, educatamente, forse anche lei preoccupata per i miei stessi motivi.

«Scrivi.» mi ha ordinato lei, ignorando la mia amica. Ho deglutito ancora una volta. Mettere i brividi, per lei, non è una definizione che calza, perché lei riesce in qualcosa di peggio che non so descrivere. Mi sentivo come se mi stesse puntando contro il naso un coltello, proprio come è successo qualche giorno fa a quel ragazzino a mensa. Ma, con tutto ciò, ritenevo che non fosse un paragone adeguato.

«Che... che cosa?» ho balbettato.

«La Une vuole quei fottuti temi sui coltelli.» mi ha spiegato, piena di disprezzo. «Gliene devo dare quattro, entro stasera, se no scassa i coglioni. Sono tre giorni che mi insegue, quella troia. E dato che non so che cazzo scriverci, li farai tu.» poi ha aggiunto, stringendo gli occhi in modo minaccioso: «E vedi che li vuole per le otto. Alle sette e cinquantacinque ci vediamo per le scale, tra il primo e il secondo piano.» mi ha preso i capelli ed ha cominciato a tirarmeli. Ho provato a chiederle di smetterla, che mi stava facendo male; persino Arale ha cominciato a protestare, ma Pan ci ha, non ho ancora capito come, ignorati e aggiunto, in modo che potessimo sentirla anche da sopra le nostre parole, ma senza per questo alzare la voce: «Usa una calligrafia decente e cerca di essere convincente.»

E' inquietante. Mia sorella, più tempo passa, più diventa inquietante.

Non solo: è diventata anche più veloce del vento. Infatti, così come è arrivata, se n'è andata e non ho avuto la possibilità di accettare o rifiutare. Mentre mi massaggiavo la testa, guardavo Arale che aveva uno sguardo truce rivolto alla porta, come se fosse stata quella a chiedermi non uno, ma ben quattro temi.

«Non glieli fare.» mi ha consigliato.

Ho risposto con una smorfia. «Se non glieli faccio, finisco in infermeria fino a che campo. In confronto Matt Ishida sembrerà sanissimo.»

«Beh, non puoi dargliele tutte vinte.» mi ha fatto notare lei, con disinvoltura.

Ho afferrato la penna e le ho scoccato un'occhiata di sufficienza; c'è tanta gente che mi ha sempre dato lo stesso consiglio e nessuno sapeva cosa significa stare a contatto con Pan, a venire picchiati e maltrattati senza possibilità di difendersi. Fa schifo, e io stesso mi odio, ma ancora non riesco a trovare un modo per impedirglielo. E, mentre cercavo qualcosa da scrivere sui coltelli, mi sono chiesto: se non riesco neanche ad impormi su mia sorella, sulla sua forza e sul potere che esercita su di me, come posso trovare una motivazione per cui rimanere nell'esercito, per cui uccidere? Il mio pensiero è andato a Zack, al Sanc Kingdom e al principe Miliardo. Ho alzato la testa per confidarmi con Arale, magari si sarebbe dimenticata di Alex e della mafia, ma lei si è alzata subito e mi ha impedito di pronunciare una sola parola.

«Vado a parlare con Hopkins.» mi ha riferito, un po' fredda. Probabilmente si è arrabbiata perché, ancora una volta, stavo eseguendo gli ordini di mia sorella senza fare una piega. «Ci vediamo a cena.»

E così mi sono ritrovato solo, con quattro fogli davanti ed una penna. Quando ho cominciato a scrivere, sentendomi decisamente a terra, erano più o meno le sette. Non ricordo molto bene cosa ho scritto, non so neanche come sono riuscito a riempire tutti i fogli in tempo per la consegna. Ricordo l'ultimo, che ho letto e riletto finché non sono stato completamente sicuro di non aver ripetuto troppe volte lo stesso concetto.


Oggi, per fare contenti i miei commilitoni, ho deciso di cucinare un po' di carne alla brace (in realtà era molto al sangue, quasi cruda e completamente senza sale), anche se non credo che mi sia riuscita molto bene. È stato molto faticoso, anche perché ho dovuto convincere il cuoco (il che non è del tutto falso, dato che ieri sera Pan continuava a gridare contro di lui perché “è un vero negriero di povere Pan indifese”, ma non ha spiegato la ragione per cui lo fosse. Diciamo che mi sono dato un po' di licenza poetica.), ma poi mi sono messa al lavoro e, con timore, ho afferrato il coltello più lungo, quello con la punta e un sacco di denti seghettati (sono dovuto andare un po' ad improvvisazione, ripensando a quei coltelli che la mamma tiene nascosti nei ripiani più alti della cucina, tanto che anche lei ha bisogno della scala per prenderli. Tanto li usa poco, se non per i cenoni di Natale). Dovevo togliere tutto il grasso dalla carne ed avevo una gran paura perché avrei potuto tagliarmi le dita. Il coltello era lungo e ben affilato e io ci mettevo tutta me stessa, stando attenta, insieme alla supervisione del cuoco (a volte è troppo apprensivo), a non fare qualcosa di male, tipo tagliarmi. Mi sarei fatta male, avrei spaventato quel pover'uomo e poi (avevo pensato di cancellare questo pezzo, ma poi mi sono detto che calcare un po' la mano non avrebbe fatto male e che i miei commilitoni mi sarebbero stati grati per averla tolta dai fornelli.) se mi fossi fatta male, quando avrei potuto scrivere? Comunque, a parte quando sono in cucina, non uso mai i coltelli: l'insalata la taglio in cucina, prima di servirla. La metto nelle ciotoline che gli studenti prendono dal tavolo self-service e che condiscono come vogliono. Mangio poca carne ultimamente (perché a lei piace ben cotta e ce la serve sempre cruda), quindi uso solo le forchette e il cucchiaio se serve, tanto mi nutro bene anche senza coltelli, che sono molto pericolosi, se non si è esperti nel maneggiarli. Io sto imparando adesso e sono felice di avere quest'opportunità.

Come conclusione, vorrei esprimere un parere personale, a cui pensavo mentre scrivevo quest'ultimo tema. Nella vita non si può fare a meno dei coltelli: in cucina sono indispensabili, quando bisogna affettare le cipolle, le carote, il sedano, l'insalata di cui parlavo poco fa, o togliere il grasso dalla carne o dal pollo, così mangiamo cibi nutrienti e sani. Non ne possiamo fare a meno, e, se sappiamo come usarli, è anche meglio, così non rischiamo di fare del male a noi e a chi ci sta intorno.


Soddisfatto del mio lavoro, ho guardato l'orologio sulla parete: segnava le sette e cinquantacinque precise. Ho preso i fogli e mi sono diretto al pianerottolo tra il primo e il secondo piano, per il mio incontro con Pan. Lei è arrivata addirittura dopo di me, verso le otto e cinque, sporca di sugo (e secondo me aveva anche del pangrattato nei capelli) e mi ha strappato di mano i fogli. Non mi ha neanche ringraziato; ha lanciato ai temi un'occhiata distratta e poi si è diretta al primo piano. Il tutto senza dire una sola parola.

«Ehi, Pan...» l'ho richiamata. «Non li leggi per sapere se vanno bene?»

Lei ha sollevato i fogli e non si è neanche girata. «Tanto eri un fottuto secchione a grammatica!» mi ha risposto, con leggerezza e anche con un certa allegria. E così è sparita nel corridoio.

In quel momento ho avuto paura che la Une potesse capire che non era stata lei a scrivere i temi e chi, invece, era stato il vero autore. Già mi immaginavo a scrivere lavagne e lavagne con la frase “non devo scrivere i temi al posto di mia sorella, non devo scrivere temi al posto di mia sorella”, mentre Arale, alle mie spalle, mi sorvegliava con l'aria di una che ti sta dicendo: “io te l'avevo detto”.

Invece, Arale era a mensa, seduta dove di solito era sistemata Bra, dalla parte opposta rispetto a dove si trovavano Frank e Alex, che mi ha rivolto un caloroso cenno di saluto e mi ha detto di sedersi vicino a lui. Del tutto istintivamente, lo stavo facendo, quando Arale ha cominciato a chiamarmi verso di lei che, sicuramente, doveva dirmi cosa era successo con Hopkins. Sono rimasto a metà strada per qualche secondo, guardando dall'uno all'altra, indeciso: erano i miei amici, quelli con cui ho passato tre lunghi mesi, con cui ho condiviso paure e perplessità. Ho riso, studiato, parlato con loro, ma la strana immagine della testa di Pan ai piedi del mio letto mi ha fatto di nuovo rabbrividire.

Dovevo avere una faccia strana, perché Frank, corrugando la fronte per scrutarmi, mi ha domandato: «Che c'è, Kenny? Va tutto bene?»

«Ecco... ecco...» ho balbettato, terrorizzato.

«Kenny?» mi richiamava Arale, a voce più alta per farsi sentire da sopra il rumore della sala, picchiettando le dita della mano destra impazientemente sul tavolo. «Muoviti!»

Non potevo scegliere tra i miei amici, qualsiasi cosa avesse combinato uno di loro. Mi sembrava crudele quella discriminazione che tutti stavano compiendo nei confronti di Alex. Lo ammiro, soprattutto pensando che tutti i nostri compagni lo guardano con sospetto e lui se ne sbatte altamente. Addirittura, Bra si è chinata con fare cospiratore su Tai, fissando Alex con astio, quasi con paura, mentre io stavo cercando una soluzione per quella situazione. È stato quello a farmi deglutire, a rendermi così ritroso.

Se avessi potuto, mi sarei seduto lontano da tutti loro. Ma, in quel caso, tutti mi avrebbero chiesto cosa avevo, magari che mi stavo facendo influenzare dalle voci che giravano per la caserma, anche per colpa mia. E Alex avrebbe fatto bene ad odiarmi. Mi sono morso il labbro inferiore, guardato entrambi e poi ho voltato loro le spalle. A tutti. Arale, Frank e Alex.

E sono andato a letto senza cena.


*****


Innanzitutto, buon Anno a tutti!

Poi: ce l'ho fatta! Pubblico in tempo e sono anche sobria. XD Capitoletto "in onore" di Sherlock Holmes che, in questo periodo, è stato anche al cinema (decisamente intrigante il film *sìsì*). Sembra quasi fatto apposta, anche se è stata una coincidenza. XD



Prof: avrei dovuto essere più chiara io, riguardo a Kenny. Riguardo al libro di parodie, avevo anche pensato di scriverci una fanfiction, dopo che hai detto di volerlo leggere... chissà che un giorno non riesca a farlo, se mai mi verrà l'ispirazione, ma già stare dietro ad una fanfiction mi sfianca, figuriamoci due o più. XD E per Alex... beh, credo che dovrai continuare a leggere. Arale non si lascia di certo scoraggiare dalle prime difficoltà! :P

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Capitolo 11
*** Domande imbarazzanti ***


Le lezioni al primo anno.

Domande imbarazzanti.


14 Novembre


«Si può sapere che diamine ti ha preso ieri sera, Kenny?» ha voluto sapere Arale, piazzandosi accanto a me, durante l'alzabandiera, posandosi una mano sul cuore, mentre partiva la musica. «Dovevo parlarti di cose importantissime e tu sei scappato come se avessi le fiamme al culo!»

Ho fatto una smorfia e finta di cantare, così come ieri ho fatto finta di dormire, quando sono tornati tutti dalla mensa: in questo modo sono scampato al terzo grado già da subito. Non avrei saputo come giustificare il mio comportamento: diciamo che non mi sarebbe piaciuto per niente dover dire "ehi, veramente non volevo scegliere tra i miei amici", sarebbe stato un po' come tradirsi da soli e, dato che mi sentivo abbastanza in colpa, ho preferito evitare la discussione.

Ero sicuro che Arale non avrebbe capito il mio punto di vista e non avevo, né ho un modo efficace per spiegarglielo.

«Allora?» ha insistito lei.

«Avevo sonno.» ho buttato lì, improvvisamente folgorato da quella scusa banalissima. In quel momento mi sembrava la migliore che potessi inventarmi. Ho ripreso a far finta di cantare e, teso, ho spinto più forte la mano contro il mio petto. Batteva parecchio forte: era per via di quella discussione, del fatto che mi sentissi un vero verme nei confronti di Alex e, un po', anche in quelli di Frank che, forse, era implicato in faccende losche.

«Senti, lo capisco che tu hai paura!» mi ha detto Arale, dopo un po'. «Ma se ci facciamo mettere i piedi in testa così, non scopriremo mai cosa è successo. E Kushrenada, con la faccenda dei soldi sporchi, la farà franca!» L'ho ignorata e lei ha sbuffato, spazientita. «Kenny, non puoi fare finta di niente per sempre! Devi affrontare la realtà dei fatti e combattere per ciò in cui crediamo.»

«E cioè?» ho chiesto, dubbioso.

«E cioè la libertà e l'onestà.» ha dichiarato lei, subito, pronta. Non ho replicato neanche a questo, decisamente più perplesso di prima: potevo capire l'onestà, ma non me la sentivo proprio di mettermi contro qualcuno che poteva tirarmi il collo senza che io potessi fare qualcosa per impedirlo. Sì, è una cosa abbastanza vigliacca, ma non posso farci niente se tengo tanto al mio collo.

«Fai come ti pare.» ha sbottato, irritata, quando ha visto che non avrebbe ottenuto niente.

«Arale... sono i nostri amici!» ho esclamato, lasciando scivolare la mano dal petto. Subito dopo, mi sono voltato indietro, ma per fortuna, la Une era impegnata a guardare altrove. «E... non me la sento di... scegliere!»

«Scegliere...» ha ripetuto Arale, solo quando ci avviavamo a colazione, come se avesse dovuto ragionare sul significato di quella parola. Ho cercato di mettermi il più lontano possibile da lei e da tutti gli altri, ma non ci sono riuscito: mi seguiva come un'ombra. «Kenny, qua non si tratta di scegliere tra me e loro... si tratta di fare ciò che è giusto.» ha tagliato corto. «Onestà e libertà sono le parole chiave!»

Ho cercato di ignorarla ed ho mangiato come un animale, dato che avevo saltato la cena. Ma qualsiasi cosa mangiassi, andava giù a fatica, come se, invece di mettere in bocca cibo, avessi preso pezzi di ferro e anche parecchio aguzzi. Mi sentivo un mangiatore di chiodi, ma capivo cos'era: era la stessa angoscia che mi aveva preso i primi giorni, prima di incontrare Marquise per le scale.

Mi sentivo proprio come allora, solo che questo problema mi pare insormontabile, più di quanto non fosse capire se essere un buon soldato o meno. Ho guardato il tavolo degli insegnanti e mi sono reso conto che Marquise non c'era. Ero sicuro, in qualche modo, che lui mi avrebbe capito e saputo consigliare. Magari mi avrebbe detto che quella era una delle tante prove alle quali avrei dovuto sottopormi.

La sua mancanza mi ha fatto sentire anche peggio, mi ha chiuso lo stomaco e impedito di finire quel panino croccante e caldo che avevo trangugiato fino a metà (non doveva averlo cucinato mia sorella).

Arale, intanto, aveva continuato a parlare di qualcosa, ma me ne sono reso conto soltanto quando ha concluso con un perentorio: «Hai capito?»

«Cosa?» l'ho fissata confuso e lei ha semplicemente arricciato le labbra.

«Devi parlare con Heero ed Ernesto Taylor.» mi ha ricordato.

«Arale...» ho cominciato a giocare con le molliche di pane che erano cadute sulla tovaglia, indeciso se continuare a fissare loro o lei. «Ecco... non so se lo farò.»

«Ma certo che lo farai!» ha esclamato, battendomi il dorso della mano sulla spalla. «Capisco come ti senti, è normale!» Stavolta ho davvero alzato gli occhi su di lei: non si era fatta molti scrupoli a condannare sia Frank che Alex, ma scoprivo che aveva i miei stessi dubbi.

Lei ha sospirato, con fare saputo ed io sono stato più attento che potevo: «Anche io ho paura di quel che potranno farmi, come tutti quelli che sono stati uccisi per mafia, ma se siamo coraggiosi, saremo ricordati come degli eroi! Onestà e...»

«Libertà.» ho concluso, con un sospiro stanco.

Ha riso divertita, mentre io facevo una smorfia. Non aveva capito niente.

«Dai, andiamo a lezione.»

Me ne sono andato, corrucciato. Sembravo la versione maschile di mia sorella persino a me stesso. Mi sono messo in disparte in tutte le lezioni, a parte in quelle della Une, nelle quali sono costretto a sedermi accanto ad Arale per cause di forza maggiore, dato che la direttrice ci impedisce di cambiare i posti come ci va.

La mia amica ha anche più volte tentato di coinvolgermi nelle sue chiacchiere; mi bastava guardare la Une, scrivere qualcosa sul quaderno mentre interrogava o girarmi dall'altra parte quando Arale cominciava a parlare per riuscire a farla desistere. E alla fine credo di averla fatta davvero arrabbiare, perché dopo la lezione si è allontanata da me senza dire una sola parola.

Mi sono sentito in colpa, ma mai come quando incrociavo lo sguardo di Alex e mi affrettavo a distogliere il mio. Mi sentivo un vero verme, un pessimo amico e anche una persona deprecabile perché preferivo nascondermi ed ignorare piuttosto che discutere apertamente. La verità è che mi spaventa molto il dover parlare con Alex: dire quelle cose potrebbe farmi perdere la sua amicizia e dall'altra, potrebbe essere come dice Arale e Alex, invece di una risata, si farà venire un raptus kennycida.

Il bisogno di confidarmi con qualcuno, a quel punto della giornata, era diventato sempre più impellente, quasi simile a quello di respirare. Volevo parlare con qualcuno che sapesse ascoltarmi, che fosse neutrale. Volevo liberarmi di quel peso e far sì che il qualcuno che mi avrebbe ascoltato mi indirizzasse nella direzione giusta, per sapere come dovevo comportarmi. È stato così che, durante l'ora di pranzo, invece di correre a mensa anche se avevo una gran fame, sono andato alla ricerca di Marquise. Sono sceso al pianoterra, dove sono affissi gli orari di tutti gli insegnanti e, dato che sapevo quale materia insegnava lui, cioè Materiali per la Costruzione di Macchine, mi sono fiondato sulla colonna del mercoledì. Ho visto che aveva avuto lezione con quelli del secondo anno corso B e che avrebbe avuto un'altra ora subito dopo quella di pranzo.

Sono corso nella sua aula, la 19, sperando che non fosse già sceso a mensa. Ma anche quella era vuota, anzi, deserta.

«Ehi, stai cercando qualcuno?» un ragazzo biondo e gli occhi azzurri ha attirato la mia attenzione. Era un primino, anche se era più alto di me di almeno dieci centimetri e sembrava anche più grande. Se non sbaglio, si chiama Ryan, ma non ne sono sicuro. E' in classe con Hermione Granger e dicono che è un secchione quasi quanto lei, ma che alla Une non piaccia perché è uno senza troppi peli sulla lingua. Ha anche uno strano accento, pare americano.

«Ecco... io... cercavo... il professore...» ho borbottato.

«Ah. Non sei l'unico.» ha sorriso lui. «Tutti quelli delle sue classi non l'hanno visto per tutto il giorno.»

Ho sbattuto le palpebre, cominciando a preoccuparmi. «Sta... sta male, per caso?»

Lui ha fatto spallucce. «Non lo so... so solo che c'è stato il caos per il corridoio tutta la mattina. Questo finché non è arrivata la Une a dire che Marquise non si sarebbe presentato a lezione. Vai a sapere...»

L'ho ringraziato e me ne sono andato con la coda tra le gambe. Sono sceso in cortile, al freddo di metà novembre. C'era un vento pungente che faceva muovere le chiome degli alberi esterni alle mura della caserma. Mai come in quel momento questo posto mi è sembrato una prigione. I miei amici erano in guerra tra loro ed io mi sentivo nel mezzo, incapace di prendere una decisione.

Quella situazione era solo un altro colossale dejà vu: mi sembrava di essere tornato indietro, a prima del mio incontro con Marquise e dovevo scegliere da che parte stare.

Mi sono buttato a sedere sulla scalinata d'ingresso, sconfortato. Mi faceva schifo quel comportamento, eppure non facevo niente di diverso da quelli che ignoravano o scansavano uno dei miei amici. Mi sembrava di non avere nessuna scelta e l'unico che poteva aiutarmi a cercare una soluzione sembrava irreperibile.

Poi i miei occhi si sono spostati da soli sul terreno in terra battuta rossa, verso il punto in cui sapevo trovarsi l'hangar 14. Mi sono chiesto se Marquise, per caso, fosse lì e cosa sarebbe successo se avessi percorso quei pochi metri che ci separava. Probabilmente mi avrebbe solo mandato via: se era lì, stava sicuramente dando una mano a sistemare i Suit e Pioggia di Fuoco.

Lui, mi sono ricordato, è un graduato, un insegnante, un importante pilota dell'esercito spaziale e non ha di certo tempo da sprecare per i miei stupidi problemi. Così, sconfortato, ho semplicemente abbassato lo sguardo, sconfitto, sulle mie scarpe sporche. Sono rimasto così, finché una folata di vento più forte delle altre non mi ha convinto a rifugiarmi all'interno.

Neanche stavolta sono andato a mensa. Mi sono diretto in biblioteca senza un motivo preciso, forse lo ritenevo l'unico posto che potesse aiutarmi a ritrovare un po' di buonumore.

In realtà, era deserta; persino Hopkins se n'era andato. Aveva lasciato il suo vecchio Olivetti acceso ed un messaggio sulla sua scrivania che recitava: "torno subito".

Mi sono sentito più solo che mai.

Per un attimo mi sono soffermato a guardare il nostro tavolo, quello dove, ogni fine settimana e momento libero, con Arale, Alex e Frank ci sedevamo per studiare. Mi è sembrato che fosse passata un'eternità dall'ultima volta e, invece, non era stato più tardi di sabato passato. Poco più di quattro giorni fa.

Ho soffocato l'impulso di mettermi a piangere. Dopotutto, mi rendo conto, non c'era neanche un vero motivo per cui dovessi farlo. Mi sentivo sciocco e infinitamente puerile, un vero cagasotto, come avrebbe detto Pan. Ero contento che non fosse nei paraggi. I ragazzi non piangono, di solito... non in pubblico. Anche se non c'era nessuno, però, mi sentivo come spiato, come se non fossi davvero solo.

Ho capito di essere diventato paranoico senza motivo, forse perché ancora aleggiava in me il terrore di Sark che cercava un altro paio di occhi.

Ho fatto un giro nell'angusta biblioteca, guardavo i titoli dei libri senza realmente capirli. Credo che siano inseriti negli scaffali del tutto casualmente, ma mi aspetto questo ed altro dal vecchio sergente. Il giro non è stato particolarmente lungo ed alla fine mi sono ritrovato davanti alla scrivania del sergente, illuminato dalla luce azzurrognola ed inquietante del suo Olivetti e, seduto lì davanti, Heero Yuy.

«Iccijojji.» ha esclamato, la fronte appena appena corrugata, quando mi ha visto.

«Ehi, Heero... che ci fai qui?» mi sono avvicinato.

«Ehm...» lui ha indicato il computer. «Una ricerca... per la Une. Se cerchi Hopkins, è andato in bagno.»

Ho annuito, ancora indeciso sul da farsi: andarmene o non andarmene? L'orologio alla parete mi diceva che l'ora di pranzo stava finendo e che, comunque, sarebbe stata la campanella a decidere per me.

Finché l'immagine spettrale di Arale non ha aleggiato nella mia mente, sentire il ticchettare veloce dei tasti premuti da Heero erano stati una valida compagnia. Ma l'immagine di Arale mi ha fatto ricordare che dovevo interrogare proprio il responsabile del mio piano che stava a pochissimi passi da me, illuminato dalla luce azzurrognola di quel vecchio Olivetti.

«Ehm... Heero?»

Aveva smesso di scrivere, mentre io avevo smesso di respirare, teso. «Che c'è?» è stato allora che ha alzato la testa, lentamente, scoccandomi un'occhiata leggermente infastidita, forse per via della mia interruzione. Diciamo che lui non mi aiutava a dire quello che volevo dire.

«Ehm...» mi sono grattato la nuca, cercando il coraggio. «Hai... ehm... saputo di Alex?»

«Sì.» ha risposto lui, lapidario, tornando a digitare sulla tastiera. Siamo piombati di nuovo nel silenzio e io non avevo idea di continuare: avevo paura che, qualunque cosa avessi detto, avrei suscitato la sua ira.

«E... che ne pensi?»

In effetti, è proprio quello che è successo: ha smesso di scrivere e ha alzato gli occhi su di me. «Penso che sia una stronzata.»

Ho sussultato. «In... in che senso?»

«Nel senso che parlarne non cambierà le cose.»

Mi sono ritrovato a grattarmi nuovamente la nuca. «Che... che vuoi dire?» ho balbettato. Lui ha sospirato e si è passato una mano tra i capelli, sembrava, per qualche motivo, rassegnato.

«Voglio dire che Alex rimane comunque Alex, qualunque cosa possa aver combinato.»

Quelle parole mi hanno colpito, perché somigliavano a quelle che ha detto la Johnson appena qualche giorno fa, sul fatto che, per lei, Alex rimane un bravo ragazzo.

«Ma i mafiosi vogliono i favori indietro e... ti fanno trovare la testa di tua sorella nel letto... o...» mi sono ritrovato a sciorinare le convinzioni di Arale, senza un motivo particolare. Avevo capito poco e niente di ciò che aveva voluto dirmi e quelle parole mi sono uscite di bocca prima che avessi il tempo di fermarmi; in più, lui mi guardava come se fossi impazzito.

«Kenny...» mi ha chiamato per nome, e la cosa mi ha mandato ancora di più in confusione: quella doveva essere la prima, se non una delle rarissime volte in cui l'ha fatto. «ma che cazzo di film hai visto?»

Film? Perché avrei dovuto vedere un film?

«Il Padrino?» ho chiesto, infatti, piuttosto perplesso.

«Ma quale Padrino?»

Sembravamo due dementi. Mia madre parla spesso di fare un "dialogo tra sordi", ma solo in quel momento capivo cosa significasse.

Heero ha ripreso a sospirare. «Senti, non so quanto ci sia di vero nelle voci che sono state messe in giro... non credo nella storia delle sparatorie e nelle altre stronzate. Alex non sarà uno stinco di santo, ma non è né un trafficante d'armi, né tanto meno un mafioso.»

«E tu... come fai ad esserne sicuro?»

«Lo conosco da molto più tempo di te.» ha risposto, risoluto. «Parola, Iccijojji, credevo che fossi un po' più sveglio...»

«Eh?»

Heero ha fatto una smorfia che ritengo tuttora indecifrabile e poi ha scosso la testa, sospirando stancamente. «Niente, niente...»

«Arale pensa che sia invischiato in faccende di soldi sporchi.» ho buttato lì, senza pensarci. Dopo che l'ho fatto, ho capito di aver fatto una sciocchezza: Heero mi ha rivolto uno sguardo torvo, molto più di quanto sarebbe stato necessario. Probabilmente, se ne avessi parlato con lei, mi avrebbe detto che ero stato troppo precipitoso o che lui era sospetto.

E da come mi guardava, mi sembrava di averci azzeccato in pieno: mi faceva paura, Heero, in quel momento, mi metteva la tremarella addosso e già me lo immaginavo a prendere un mitra da sotto la scrivania di Hopkins e puntarmelo addosso, dicendomi: "ora che hai scoperto tutto, non puoi più vivere".

Mentre pensavo alle possibilità che avevo per sbrogliarmi da quella spinosa situazione e trovare il modo di andarmene, la porta della biblioteca si è aperta ed io sono balzato sulla sedia. Ho lanciato un grido di spavento, e sono saltato verso l'interno della biblioteca, mentre Heero è rimasto pressoché impassibile.

«Ehilà, Iccijojji! Siamo nervosetti?» è stata la domanda allegra del sergente, quasi quanto lo era la sua faccia. Poi, quando ha visto che io non gli rispondevo, si è rivolto a Heero e ha fatto un cenno verso di me. Mi sentivo come se non ci fossi. «Ma che ha?»

«Crede che Ramazza sia un poco di buono.» ha risposto Heero, tornando a guardare il computer.

«Ah, anche lui?» Hopkins ha scosso la testa e sospirato con fare stanco. Mi sono chiesto perché. «Povero Ramazza, è un tipo così per bene... è triste vedere che, per una stupida voce, anche i suoi amici non si fidino più di lui... pure la ragazzina bassa... Norimaki...» ha scosso di nuovo la testa, stavolta davvero dispiaciuto. «E' così simpatica... ma ha idee bizzarre, in testa. Pensa che Douglas Kushrenada sia un esponente della mafia.»

Heero ha alzato gli occhi su di lui, un'espressione sconcertata gli ha deformato il volto. «D-davvero?»

«Eh...» ha confermato il bibliotecario. Heero ha nascosto il viso tra le mani, ma, come già un'altra volta, non ho capito se ridesse o piangesse.

Ma la sua reazione ha avuto il potere di farmi sentire anche peggio: ho sempre saputo che avrei dovuto pensare anche io che era una grandissima scemenza, eppure mi ero lasciato abbindolare dal fatto che Alex e Frank fossero amici e che il primo sia stato in riformatorio. Mi ha fatto spaventare e non ho pensato alla cosa più importante: che Alex è un mio amico.

«Sergente, a parte gli scherzi, non ha un programma per aprire gli zip?» ha chiesto Heero, interrompendo il profondo silenzio che si era venuto a creare.

«Mi dispiace, ho solo solo solitari di terza categoria!» ha ribattuto lui e ha rivolto a Heero un sorriso colpevole. «Il Ministero mi impedisce di avere un computer un pelino più potente. Sai com'è... i soldi che mancano. Mancano sempre e quando c'è da tagliare, chi tagliano fuori, eh? Il povero bibliotecario, ecco chi! Uno che di computer ci capisce quanto un dromedario.»

Non ho fatto in tempo a pregare che suonasse la campanella e mi desse la scusa per allontanarmi da quel posto, che il suo suono inconfondibile è esploso quasi a festa. Salutando a malapena, sono corso fuori, in cerca della libertà. Avrei voluto tornare in camerata, in barba a tutte le lezioni (oltretutto c'era educazione fisica), ma Arale mi ha intercettato su per le scale.

«Ah, ti ho trovato! Dov'eri?» ha chiesto, affiancandomi e seguendomi fino al pianerottolo del secondo piano.

«In biblioteca.»

«A fare che?»

«Ho parlato con Heero.»

Lei si è illuminata. «Oh, bravo!» mi ha lodato, con un sorriso radioso. «E che cosa hai scoperto?»

Per esempio che eravamo pessimi amici, ma ho evitato accuratamente di dirlo. «Ehm... non molto.» mi sono limitato a rispondere.

«E cos'è questo... non molto?» ha insistito.

«Heero non crede che le voci che circolano siano vere...»

«E ci credo!» ha ribattuto lei, con convinzione. Mi sono sentito un idiota: perché lei stessa diceva che ci credeva, quando anche lei ha contribuito ad alimentare le voci? «Chi può credere alla storia del falso rapimento di Kushrenada o al fatto che Alex è il figlio segreto del senatore Douglas? Dai...» ha scosso la testa, con indignazione. «sono supposizioni che non reggono!»

Se lo diceva lei ci credevo, anche perché era la prima volta che sentivo dire che Alex è il figlio segreto di Douglas Kushrenada. A dire la verità, non ho ancora ben chiara la faccia di questo senatore.

«Ma no...» ho risposto. «Parlavo delle sparatorie e della mafia.»

«Oh, certo... anche lui non ci può credere... sembra che nessuno ci creda. E la cosa mi puzza assai.» si è grattata il mento, osservando il soffitto illuminato e grigio, mugolando tra sé e sé. «Un vero rompicapo...»

«Arale?» l'ho chiamata, dopo che, arrivati al quarto piano, ci avviavamo verso la nostra camerata. Non ne potevo più di sentirla borbottare cose che non riuscivo ad intendere e che, sicuramente, portavano Alex nella posizione di essere ancora più pericoloso di quanto non credessimo.

«Che c'è?»

«Perché non lasciamo perdere?»

«Onestà e...»

«A parte quelle!»

«Perché dovresti trovare un altro motivo?» ha sbuffato. «Anzi, ce l'ho: la giustizia!» di nuovo, si è battuta il pugno sul palmo; nei suoi occhi c'era una luce sinistra che mi ha fatto una paura enorme. Somigliava a Pan, in uno dei suoi momenti maniacali.

«Ma...»

«Niente ma. Adesso io e te andiamo da Ernesto Taylor e finiamo di raccogliere informazioni.»

«Veramente...»

Non ho potuto ribattere: la mia amica mi ha trascinato fino alla camerata del suo anno ed è entrata senza neanche bussare. La cosa non ha suscitato stupore, ma non in quelli che avrebbero dovuto provarlo: in quella camerata, nella stanza dei ragazzi, insieme ad un gruppo, in cui riconobbi anche Ernesto, c'erano Alex e Frank. Erano tutti intorno ad un letto e, sebbene non potessi vedere cosa ci fosse nel mezzo, vedevo che avevano tutti delle carte tra le mani.

«Oh, Kenny, Arale!» ci ha salutati Alex, con un sorriso smagliante. «Perché non venite a giocare con noi?»

«A che si gioca?» ha voluto sapere lei, con una faccia tosta così incredibile che sono arrivato a chiedermi se tutto quello che è successo nei giorni precedenti non fosse stato altro che un brutto sogno.

«A poker.» ha risposto lui, orgoglioso.

«Sì, ma fasciamo puntate piccole.» ha risposto Ernesto Taylor. A guardarlo da vicino è ancora più brutto di quanto si possa immaginare: non solo ha la faccia costellata di brufoli pieni di pus, ma ha anche i denti gialli e un fiato pestilenziale. Il fatto, poi, che li abbia sempre fuori non migliora le cose.

Ci ho passato tutto il pomeriggio accanto, a giocare a poker e a perdere i pochi spiccioli che mi rimanevano. Immaginavo solo cosa avrebbe detto la Une, nel vederci sperperare il nostro denaro, piuttosto che arricchire le nostre menti. Ho preferito non pensarci, sinceramente, e di godermi quel momento di assoluta tranquillità insieme a tutti i miei amici. Mi hanno dovuto insegnare le regole, ma sarebbe stato più facile insegnarlo ad un muro e questo se le ricorderebbe sicuramente meglio di me. Tutti gli altri giocatori, quando buttavo via delle carte, ululavano come lupi. «Kenny, quella dovevi tenerla!» mi dicevano sempre. L'ultima volta, Alex ha imprecato.

«Ah... ah, sì?»

Arale ha annuito. «Non che ci dispiaccia che l'hai buttata, ma sai... in questo modo perderai tutto...»

«Beh, forse è meglio che mi ritiro, allora...» ho detto, mogio.

«Ah, tranquillo, ti restituiamo tutto.» mi ha consolato Frank.

«Eh, no, Frankie!» ha ribattuto Alex, indignato. «Se io vinco, me li prendo! Lo sai che Heero ha alzato i prezzi delle sigarette?»

«E come mai?» ha voluto sapere Ernesto.

«Perché quella vacca della Une ha qualche vago sentore di questi traffici, a quanto sembra... e Heero ci gioca il culo, ogni volta. È il prezzo del rischio!»

«E come l'ha scoperto?» ho chiesto.

Frank ha lanciato un'occhiataccia ad Alex. «Colpa di qualche coglione che ha buttato il pacchetto vuoto in uno dei cestini in corridoio.»

«E chi è stato?» ho chiesto.

Arale ha alzato gli occhi al cielo, mentre Alex ha sbuffato.

«Io, io sono stato! Sono io il coglione! Porca puttana... è che ho visto una sventola del terzo anno... porcaccia la miseria, aveva due bombe qui davanti!»

«Grazie per la delucidazione, Alex.» ha risposto Arale, piccata.

«Non c'è di che.»

Abbiamo riso tutti quanti, persino Arale che, però, ogni tanto mi lanciava degli sguardi significativi, come per dire che era tutto calcolato o che, in quella partitella tra amici, c'era invece un giro di soldi sporchi o qualcosa di simile.

Ci siamo staccati da lì solo verso l'ora di cena, per scendere tutti insieme. Gettando le carte in mezzo al tavolo, ero pronto a lasciare la stanza e la compagnia di Ernesto, quando proprio lui mi ha afferrato per una spalla. Arale ha notato il gesto e così ha esortato tutti gli altri a sbrigarsi, spingendoli letteralmente fuori dalla stanza. «Su, sbrigatevi! Ho una fame da lupi!»

«Piano, Arale, non spingere!» ha protestato Alex.

«Tu non hai fame?»

«Sì, ho fame, ma hai proprio bisogno di mandarmi col culo per aria?»

«Oh, quanto la fai lunga...»

Nel giro di qualche secondo, io ed Ernesto eravamo soli, in piena intimità. Mi sentivo come una specie di animale braccato. Ho deglutito, particolarmente nervoso.

«Scenti...» ha esordito. «Arale mi ha detto che tua sciorella ha un debole per me.»

La mia prima reazione è stata quella di ridergli in faccia, ma poi mi sono trattenuto: mia sorella, che io sapessi, non aveva un debole per nessuno e, chissà perché, ero convinto che non potesse piacerle Ernesto. Insomma, non rientrava nei suoi canoni di bellezza, o almeno così pensavo, dato che dice sempre che Trunks, il figlio di Bulma e Vegeta, che è tutt'altro tipo di ragazzo, rispetto ad Ernesto, anche se, devo dire, Trunks è anche molto più grande. Anzi, per la verità, dice sempre che è l'unica cosa buona che quei due siano mai stati in grado di fare.

Mi sono salvato in calcio d'angolo con un mezzo sorriso. «Eh?»

«Eh... Arale mi ha detto che io le pascio. Non è incredibile?»

«Sì... sì, abbastanza.»

Ernesto mi ha guardato con un'espressione di educata perplessità. «Scenti, allora... posso chiederti un favore?»

Stava per chiedermi il modo migliore per dirle che non era il caso, che lui amava un'altra o che non era il suo tipo. Già mi figuravo la scena: Ernesto che cadeva a gambe all'aria, il naso sanguinante e mia sorella di fronte a qualche corte marziale, insieme a qualche pannocchia.

Ho deglutito, ma ho annuito, per educazione.

Lui sembrava soddisfatto. «Le puoi dire che sarò felisce di passare la pauscia pranzo di domani con lei? E che, sce vuole, posciamo shtudiare inscieme?»

Sono letteralmente saltato sul posto gridando, cosa che mi ha garantito un'occhiata più che stupefatta da parte sua.

La sola idea di fare una cosa del genere mi faceva pensare a me stesso in una bara. Ebbi l'impulso di dire di no, ma mi fermai di nuovo e stavolta in tempo: avrei fatto la parte dello schifoso maleducato a rifiutare così. Poteva anche non piacermi per via del suo alito o dei suoi brufoli, ma non mi andava di essere la causa dei mali di qualcun altro: dopo aver ammazzato me, Pan avrebbe ammazzato pure il mandante.

«Vedi...» mi sono grattato dietro la nuca, in imbarazzo. «Pan... è... un po'... complicata.» ed era l'aggettivo più carino che mi fosse venuto in mente. Insomma, non ha visto che cosa aveva voluto fare a quel ragazzino, motivo per cui mangiavamo schifezze tutti i giorni?

«In che scenscio?»

«Ehm... nel senso che... ogni tanto... picchia la gente.»

«Oh, lo scio. È per queshto che mi piasce.»

La mamma dice spesso che nessun uomo sano di mente chiederebbe la mano di mia sorella, a meno che non cambi e diventi una perfetta donna di casa, paziente, disponibile e sensibile. Ora ho un dubbio: o Ernesto è completamente matto, oppure mia madre ha torto marcio. Ma io propendo di più per la prima.

«Ti prego, diglielo tu!» ha continuato. «Io sciono troppo timido... poi, quando sono davanti ad una ragazza che mi piasce, divento roscio e balbetto come un idiota. Ma quella è tua sciorella. Sciono scicuro che ti ashcolterà.»

Mi ha preso sottobraccio e, come se fossimo stati amici di vecchia data, mi ha condotto fino alla sala mensa. Abbiamo tenuto lontano l'argomento Pan (io non ho mai neanche accettato di parlarle), e ci siamo concentrati sulle lezioni.

Pare che anche per Ernesto le lezioni di Bristow siano monotone. Mi ha raccontato che, l'anno prima, quando era al primo, si è fatto delle dormite impressionanti. Mi ha anche confidato che per il suo esame di fine anno non mi devo preoccupare e che Bristow dà una mano e che non fa come la Une, che se si è titubanti su qualcosa, ti marca ancora più stretto.

«E come sono quelli del secondo?»

«Sciono più cattivi, ma lo devono escere perché le materie sciono più difficili.»

«E Marquise?»

«Oh, Marquish è fantashtico! Shtudiereshti sciolo la sciua materia per come è interesciante. Sciolo che ci sciono anche le altre. Sciono più pescianti, ma non sciono male. Il primo anno è il più duro, poi ci fai l'abitudine.»

Sono rincuorato solo da questo, perché per il resto...

Quando siamo entrati nella mensa, mi ha stretto, se possibile, ancora di più a lui. «E' belliscima!» ha sospirato. Stavo per chiedergli chi, ma mi è bastato seguire il suo sguardo per capire che stava davvero parlando di mia sorella, seduta di spalle al tavolo del primo anno corso B.

Bellissima, non è l'aggettivo che userei per mia sorella, a meno che non debba farlo sotto una delle sue peggiori torture.

«Se... se lo dici tu...» mi sono ritrovato a borbottare.

«Oh, mi raccomando! Diglielo!»

E così dicendo, mi ha lasciato andare e si è fiondato al tavolo con i suoi compagni. Sono andato al mio e, con lo stomaco che brontolava per la fame, mi sono seduto tra Arale e Tai Yagami, che stava mangiando un pezzo di pane al burro. Dato che tutto quello che c'era nei piatti degli altri era qualcosa di informe e di un improbabile color viola, ho seguito il suo esempio.

«Allora, che ti ha detto?» mi ha chiesto Arale, solo quando ho finito il secondo.

«Che gli piace Pan.» ho risposto, in un sussurro, troppo spaventato che lei potesse sentirmi, a due posti di distanza.

«Ma no! Io parlavo di Alex e Frank!»

«Perché avrebbe dovuto parlarmi di...» mi sono fermato, mentre mi tornava in mente un'informazione. Ho abbassato la voce, stando bene attento a quello che facevano gli altri prima di continuare. Nessuno era interessato a noi: Bra era impegnata a parlare con le altre, Yagami parlottava con Trowa Burton dall'altra parte del tavolo, Alex e Frank non c'erano, Pan mangiava e stava in silenzio, del tutto incurante di quello che le accadeva intorno. «Sei stata tu a mandarlo da me, dicendo che a Pan piace Ernesto!»

Arale ha alzato gli occhi al cielo, esasperata. «Sì, perché volevo che tu lo interrogassi!»

Non credevo di aver capito. «Non sarebbe stato più facile dirglielo e basta?»

Di nuovo, ha mostrato esasperazione. «Kenny, ti prego... connetti il cervello, ogni tanto.» mi ha detto. «Vedi, se gli avessi detto che lo dovevi interrogare su Alex, non pensi che si sarebbe insospettito e gli avrebbe detto qualcosa, che ci avrebbe smascherati? Così ho pensato: diamogli un pretesto per avvicinarsi a Kenny così le nostre teste staranno al sicuro sui nostri colli!»

«Ma... scusa... tu eri vicino a lui, oggi... perché non gliele hai fatte tu, le domande?»

«Oh, che suocera!» ha sbottato lei. «Senti, Kenny, se tu vuoi fare il cagasotto a vita, fai pure. Non vuoi partecipare alle indagini? Bene! Continuo da sola! Stai pure con i tuoi amici mafiosi!» e così dicendo si è presa un altro panino e l'ha trangugiato. Ho abbassato lo sguardo, sentendomi un bel po' in colpa: quello poteva essere considerato l'ennesimo tradimento ad un amico?

Arale sembra pensarlo, perché non mi ha parlato per tutto il resto della sera.


*****


Aggiorno con un mostruoso ritardo, ma spero che sia valsa la pena di aspettare. La verità è che ho proprio avuto un blocco mostruoso con questa storia e solo stasera mi è venuta voglia di riprenderla e di completare questo capitolo, già a buon punto da diversi mesi.



Prof: spero che la mia fedelissima commentatrice non abbia perso le speranze! XD Come ho già detto, ho avuto qualche difficoltà a completare il capitolo, ma spero che ti sia piaciuto ugualmente. Non esitare a farmi notare errori e imprecisioni, anche di trama. >.<

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Capitolo 12
*** Non c'è mai un attimo di tregua ***


Le lezioni al primo anno

Non c'è mai un attimo di tregua


24 Novembre


Arale non mi ha parlato per tutto il resto della sera e pure per tutti i giorni successivi. Ormai sono dieci giorni che non mi calcola neanche di striscio; ci incrociamo di fronte ai bagni e gira la testa dall'altra parte, ci vediamo a lezione e comincia a fischiettare o a cantare oppure si inserisce in conversazioni che fino ad un attimo prima non le erano minimamente interessate. Sembra fare di tutto per evitare me, Alex e Frank, con i quali ho riallacciato i rapporti.

Con loro, mi dispiace ammetterlo, mi trovo meglio, non perché Arale sia antipatica, ma perché evito di pensare a cose strane come mafia e soldi sporchi. Più guardo Frank e Alex e meno mi sembrano i tipi che farebbero cose del genere; sono ragazzi simpatici, con cui si può fare una risata e parlare di qualunque cosa senza preoccuparsi di passare per scemo. Nessuno di loro due mi rinfaccia mai di essere poco perspicace o mi dice di stare attento a questo o a quello; da quando sono con loro, mi sembra di vivere meglio, anche perché non mi sento costretto a nascondermi o a dovermi vergognare come un ladro, parlando male di altri miei amici; anche se ci stavo male perché non eravamo tutti insieme, non dovevo nascondermi come un ladro, in preda alla paura.

Mi sembra che tutte le congetture fatte da Arale siano così strampalate, che mi sono ritrovato a riderne anch'io, nel buio della mia mente: non mi è sembrato giusto rivelarlo ai ragazzi che poi se la sarebbero sicuramente presa con lei. Non mi andava che ci fossero altre inimicizie e crepe, più di quelle che si erano formate.

Arale, adesso, cerca maggiormente la compagnia di Trowa Burton, o di Heero Yuy, ma loro non le danno molta corda e lei se ne va scornata. Mi dispiace e vorrei anche sedermi vicino a lei, ma l'ultima volta che ci ho provato, lei è scattata in piedi e se n'è andata.

Frank, quando ne ho parlato, si è stretto nelle spalle e si è accigliato. «E' lei ad aver spalato merda su Alex, la maggior parte delle volte! Che se ne stia dove vuole!»

Non so come lo abbia scoperto e non gliel'ho chiesto. Mi sono vergognato come un ladro, però: come aveva scoperto di lei, avrebbe potuto scoprire che anche io avevo fatto delle indagini per lei e così, senza quasi accorgermene, ho vuotato il sacco. Tutte le congetture, i vari inseguimenti, Ernesto, la Johnson, Heero, il Sergente. Tutto.

A proposito di Ernesto, mi ha fermato, qualche giorno fa.

«Ehi, sciao. Che ti ha detto Phan?»

Ci ho messo un po' a capire che "Phan" era mia sorella. Non mi sembrava che l'altra volta l'avesse chiamata così, a causa dei suoi dentoni sporgenti.

«Le hai pharlato?»

«Ehm...» ho optato per una bugia e non so neanche come mi sia uscita, al momento giusto. Chissà come mai non mi riesca mai quando mi trovo faccia a faccia con le autorità. «Sì, beh, sai... in questo periodo, con la cucina, lo studio e tutto il resto. Mi ha detto... mi ha detto che... finché non sarà passato, che è meglio... evitare... sì, evitare... di pensare al, ehm, amore.»

Ernesto mi è parso deluso, ma poi mi ha abbracciato e mi ha detto: «Grazie, davvero, scei un amico. Quando il periodo sciarà pasciato, glielo ricorderai, vero?»

Ho annuito, ma avevo già deciso con me stesso che avrei fatto finta di dimenticarmene.

Ma non dovevo parlare di questo. Dicevo di Arale e del fatto che avessi vuotato il sacco con Alex e Frank che, una volta finito il mio racconto, si è alzato di scatto dal suo letto, indignato, strappando anche delle proteste dal moribondo Matt Ishida. Alex no. Alex ha cominciato a ridere come un matto: si è buttato sul suo letto e ha cominciato a scalciare via le coperte, stringendosi la pancia.

«Alex, la vuoi smettere?» ha chiesto Frank. «Guarda che è una cosa seria! Ti rendi conto di quello che...» si è interrotto, quando ha visto che Alex non accennava a smettere.

«E così è stata lei a mettere in giro quella meravigliosa stronzata sulle armi chimiche! Ah, la adoro!»

«Quali armi chimiche?» ho chiesto. Di tutte le cose che lei aveva detto sul suo conto, le armi chimiche mi erano nuove.

«Ah. Non è stata lei?» Alex si è rimesso a sedere, a gambe incrociate, togliendosi dall'occhio destro una lacrima e ancora ridacchiando. «E allora chi è stato? Quella era davvero speciale! Mi piacerebbe stringergli la mano, se lo incontrassi.»

Ma non abbiamo mai scoperto chi potesse essere stato. Arale non parla e neanche le misteriose fonti di Frank che mi ha tenuto il muso per un paio di giorni, prima che Alex lo prendesse da parte.

«Senti, Frankie, io non me la prenderei più di tanto. Arale riuscirebbe a mettere nel sacco anche l'Imperatore. E poi, pensaci, è troppo divertente!»

«Non è divertente un corno! Ci hanno preso per mafiosi.» ha replicato Frank, accigliato.

«Non farla tanto lunga. Se vedono che ti incazzi, lo faranno di più. Cavolo, se avessi saputo che veniva fuori questo casino, l'avrei detto prima di essere stato in riformatorio! Ehi tu!» aveva additato un ragazzino alto poco più di una sedia, anche lui del primo anno, che era trasalito. «Lo sai che sono un ex-galeotto?»

Il ragazzino è scappato via strillando. Alex rideva a più non posso. E io rimanevo sempre più perplesso.

«Frank, dico davvero, smetti di avercela con Kenny. Siamo in caserma e credo che la cosa migliore da fare... come diceva sempre Heero? Sì, dice che dobbiamo essere tutti uniti. Lui lo dice per il contrabbando, ma immagino che sia la stessa cosa. Su, stringetevi la mano e quel che è stato è stato!» ha detto, mettendosi tra noi in posa solenne. Anche Frank era molto impettito e io non sapevo bene cosa fare: mi metteva in soggezione, questo devo ammetterlo, e non riuscivo a guardarlo negli occhi per più di un paio di secondi. Alla fine, ha sospirato.

«E va bene.» ha ceduto. «Ci conosciamo da poco, però sei stato leale: ci hai detto subito come stavano le cose e questo è da apprezzare, in un amico.»

Non sapevo cosa dire, ma sono stato felice di sentire quelle parole uscire dalla sua bocca. Non pensavo neanche di meritarle. Ci siamo stretti la mano e, davvero, mi sono sentito quasi in pace con me stesso.

Se solo Arale avesse deciso di perdonarci, sarebbe tutto andato per il meglio, ma Frank, su questo punto, è stato irremovibile: subito dopo aver sciolto la nostra stretta di mano, si è rivolto ad Alex. «Non intendo perdonare quella voltafaccia, chiaro?»

«Ah, Frank, tu non hai proprio senso dell'umorismo!» ha sbuffato Alex, ma non ha preteso di fare pace anche con Arale.

Credo di aver fatto male a non dire niente, magari avrei potuto ottenere qualcosa, ma forse avrei potuto incrinare la mia appena ritrovata amicizia con Frank e ho evitato di tornarci su. Mi sono comunque ripromesso che, quando le acque si fossero un po' calmate, avrei risollevato la questione: non mi piace che il nostro piccolo gruppo sia così diviso.

Intanto Pan continua imperterrita a preparare piatti immangiabili.

«Invece di migliorare, peggiora.» ha detto Alex, ieri sera, quando a tutti i tavoli è stata servita una zuppa color puffo, chiazzata di bianco (forse formaggio). «Forse ne ha presi un paio, li ha scuoiati e li ha messi qui dentro... sai, ho sempre pensato che somigliasse un po' a Gargamella...»

Al nostro tavolo, abbiamo riso tutti, persino Arale. Sembrava tutto tornato alla normalità, ma quando è finita l'ora di cena, lei se n'è andata per conto suo, proprio come ha fatto Pan a cui tutta la caserma lancia occhiatacce torve.

Studiamo e non mangiamo. Persino la Une sembra deperita e poco reattiva, tanto che non si accorge che sono spesso distratto. Non è colpa sua, come per Bristow che, in questo periodo, sembra essere diventato ancora più soporifero. Sarà che l'inverno è ormai inoltrato per cui i termosifoni sono sempre accesi e in aula c'è un teporino niente male, sarà la sua voce, fatto sta che quando la campanella suona, l'ora sembra essere appena cominciata e sul quaderno degli appunti c'è solo la data del giorno. Ma probabilmente è perché non mangiamo molto.

Se sono distratto con la Une è perché sono accanto ad Arale e, anche se non cerco di fare conversazione, mi arrovello di trovare un modo per riuscire a fare tutti pace. Stamattina ho trovato il coraggio di parlarne con i miei amici; Frank si è stretto nelle spalle, mentre Alex mi ha guardato e ha detto: «Senti, Kenny, te l'ho detto, se mette voci in giro sul mio conto e quello del padre di Frank a me non viene niente... cioè, io mi diverto un mondo e basta. Però, se lei non vuole stare con noi, mica possiamo costringerla, ti pare?» Mi ha rivolto un enorme sorriso. «Peggio per lei. Si perde la compagnia del più farabutto della caserma!»

E si è messo di nuovo a ridere come un matto.

«Ma se voi spiegaste come stanno le cose...» ho detto (e mi è sembrata la soluzione migliore di tutte quelle che mi sono passate per la testa). «Se tu spiegassi il motivo per cui sei finito in galera... la gente smetterebbe di fare congetture e anche Arale!»

Lui ha alzato le spalle. «Ti dirò, questo posto non mi è sembrato così spassoso come quest'anno. Te l'ho detto: vorrei aver scoperto prima che era così! Ma tu che stai facendo?»

Mentre parlavamo, eravamo in biblioteca e Pan mi aveva nuovamente incaricato di svolgere il suo tema giornaliero sui coltelli e stavolta proprio non so che cosa ho scritto. Continuo a scrivere banalità su banalità, ma Pan non si è mai lamentata, anche perché continua a non voler leggere ciò che scrivo. Ma finché va bene alla Une e a Pan, va benissimo pure a me.

Quando l'ho spiegato, Frank si è accigliato proprio come Arale e, proprio come Arale, ha detto che non avrei dovuto farlo. Neanche lui pare voler capire che cosa significa avere a che fare con Pan, sarà che si stanno lontani a vicenda perché non si sopportano, mentre Alex mi ha appoggiato e, anzi, ha deciso che mi avrebbe dato una mano.

Frank ha scosso la testa, contrariato.



14 Dicembre


Sono venti giorni esatti che non scrivo più una riga. Probabilmente se i diari avessero una vita propria, il mio direbbe che lo trascuro un bel po' e probabilmente avrei continuato a farlo, se non fosse successa una cosa che...

Beh, ancora più probabilmente, questo diario direbbe che sono un approfittatore, ma non è colpa mia se dall'inizio di questo mese la nostra routine è diventata ancora più serrata. È cominciata praticamente il lunedì successivo al mio ultimo sfogo, mentre correvamo intorno alla palestra, piegandoci a ogni mezzo giro per toccarci le punte dei piedi.

Il Salvini ci ha detto di dover prendere delle valutazioni per la fine del trimestre e per questo dovevamo cominciare a fare delle prove fisiche di vario genere.

«Ma manca ancora un secolo alla fine del trimestre!» ha protestato Pan. E, per la prima volta dopo mesi, qualcuno si è arrischiato a fare cenni di assenso: Pan non è molto ben vista, in caserma, soprattutto perché ormai è più di un mese che ci affama tutti. «Non crede che sarebbe il caso di farci continuare a non fare una sega?»

«Ehm...» il Salvini sembrava un po' frastornato da quelle parole e si è grattato il capo. «Veramente mancano solo tre settimane... dobbiamo mettervi delle valutazioni da mandare a casa e...»

«Ci fotte una sega!»

In questo periodo, mia sorella è tornata sboccata come un tempo, forse per via dello stress. O così direbbe la mamma, credo.

Jack Bristow è stato molto più impietoso, tanto che ha cominciato a mandarci alla lavagna a spiegargli dimostrazioni piuttosto difficili sui limiti, sui quali siamo dall'inizio del mese perché, secondo lui, dobbiamo aver già acquisito le nozioni di base alle elementari.

Il problema è che, con tutte queste prove scolastiche, più quelle militari in senso stretto, non riusciamo a stare al passo con lo studio. La Une, nell'ultimo periodo, ci fa addirittura preparare gli zaini con i mattoni e ce li fa portare in spalla per diversi chilometri, prima di farci stramazzare davanti alle porte dell'accademia. E lady Une vuole che tutti i voti siano definiti prima del 21!

Persino la Noin vuole che ci diamo dentro in previsione delle interrogazioni di fine trimestre e siamo tutti disperati.

Alex ci ha informato che lei farà un compito scritto, così non dovrà sgolarsi per farci le domande. «L'interrogazione che ha fatto a te, Ken, era per vedere se poteva reggere per diciassette persone. Ma non ce l'ha fatta con dieci, l'anno che sono arrivato io... mi chiedo perché continui a provarci!» ha sospirato.

«Forse sgolarsi significa parlare ad un tono di voce normale per un essere umano...» ha esclamato mia sorella, la sera che il nostro amico ci ha informati della faccenda.

«Si sa che gli alunni vanno col cervello in vacanza prima del tempo...» la Une l'ha detto all'inizio del mese ed ha guardato Pan, lanciandole un'occhiataccia, solo per il fatto che l'aveva interrogata e non aveva saputo rispondere a niente. «E noi dobbiamo non solo consegnarvi le pagelle, ma anche i vostri rapporti comportamentali al dipartimento della difesa. Vi consiglio caldamente di studiare, se non volete fare la fine di Ramazza!»

Il bello è che Alex è allegro come sempre e non sembra volersi mettere sotto. Il fatto è che lo capisco: con tutte le marce che abbiamo avuto in questa settimana è un miracolo se troviamo il tempo per prendere in mano un libro.

«Pan,» ha esclamato Arale, durante la marcia di ieri mattina all'alba, che ha previsto un lungo giro intorno all'accademia a passo di corsa. È una cosa improponibile e Alex ci ha detto di andare piano, dove la Une non vede. Per questo motivo abbiamo trovato il tempo per chiacchierare. Anzi che Arale fosse insieme a noi e Pan rimasta indietro per nascondere i mattoni a ridosso del muro e portare uno zaino vuoto. «lo sai che se non studi rimani qui molto più di Alex?» Ha accennato con la testa al nostro amico e si è rivolta a lui. «E tu, Alex, credi che riuscirai a passare al secondo anno, se continui così?»

Ci è parso così strano che gli parlasse che siamo trasaliti tutti, pure Frank. Ma dopo lo sconcerto iniziale, Alex ha sorriso. «Ora non cominciare a fare la Une, per favore!»

Pan non ha detto niente: in questo periodo è così di malumore che non pensa nemmeno ad insultarmi quando le passo davanti. Mentre io mi sento veramente più leggero: non so cosa abbia spinto Arale a tornare nel nostro gruppo, ma sono felice che siamo di nuovo tutti insieme. Certo, c'è ancora un po' di attrito per via di Frank, ma non mi posso lamentare.

«Che cosa vorrà?» ha chiesto. «Non siamo più tanto mafiosi?»

«La vuoi smettere di essere così burbero, Frankie?» ha sbuffato Alex.

«Perché ha ripreso a parlarci così di punto in bianco?»

«Ma che ne so!»

«Dovremmo chiedercelo, ti pare?»

«A me non importa.» mi sono intromesso.

«Questo è lo spirito!» ha esclamato Alex, battendomi una pacca sulla spalla. Frank ha sbuffato, ma non ha detto una parola. E Arale non ha mai più fatto riferimenti a mafie e cattiverie. Solo che non tutti sono ancora convinti che Alex non sia la cattiva persona che credono che sia e lui continua a spaventare i primini per farci ridere.

Comunque, durante questa settimana, apposta per i ritmi serrati a cui ci sottopongono, Mimi si è fatta prendere da una crisi di nervi e Matt Ishida, stamattina, è svenuto durante un'interrogazione con Bristow.

«Si vede che finge!» è stato il commento cattivo di Bra, durante la lezione della Une.

«Non riesco a credere che tu possa essere davvero così sciocca e superficiale.» ha replicato Trowa. «Sta male davvero ed è davvero ovvio. E' un ragazzo molto fragile, ma come posso pretendere che tu capisca, dato che sei così superficiale?»

Non si sa perché Pan abbia dovuto mettersi in mezzo, ma dove ci sono casini, lei è sempre in mezzo, soprattutto se deve mettersi contro Trowa. «Ma che cazzo vuoi? Chi vuole parlare con te, coglione?»

Lui ha risposto con uno sbuffo sdegnoso. «Ecco, non sai che dire e devi aprire la bocca per insultare.»

E l'unico commento di Pan è stato a suon di pugni, tanto che ha fatto finire il povero Trowa in infermeria. La Une ha deciso che, con questo, le ammonizioni sul curriculum saranno già due.

«Alla terza» ha concluso. «la trascinerò a forza davanti ad una corte marziale, gliel'assicuro!»

Pan l'ha guardata, annoiata. «Tutto questo per dire che...?»

La Une le ha rivolto un'occhiata raggelante; io, al posto di mia sorella, me la sarei fatta nei pantaloni. «Alzi un solo dito su chiunque in questo edificio o entro il perimetro di qualsiasi luogo io comandi e le assicuro che la sbatto in galera! Ah, e dopo le lezioni, voglio che lei e suo fratello mi raggiungiate nel mio ufficio.»

Mi si è gelato il sangue nelle vene nel sentirla parlare in quel modo e, se prima ero preoccupato per una reazione di nostra madre, in quel momento ero terrorizzato: perché ci voleva tutti e due nel suo ufficio? Forse... quei temi che Pan mi costringe a scrivere al posto suo, non sono di suo gradimento, o, ancora peggio, aveva scoperto che ero stato io a scriverli.

Comunque fosse, ho colto la palla al balzo e sono fuggito dalla classe: ho aiutato Frank a portare Trowa in infermeria, solo per accorgerci che non c'erano più posti liberi. L'infermeria era così piena, ma così piena che, se avessi lanciato un fagiolo in aria, non avrebbe toccato terra una volta tornato indietro.

La Johnson correva di qua e di là e urlava ordini a quei ragazzi che non erano seduti sui lettini, li indicava, ne faceva correre con lei altri, mentre quelli che stavano coricati la chiamavano a gran voce e, a volte, anche in coro.

«Che casino!» è stato il commento di Frank. «Infermiera?»

La Johnson ci è passata davanti sei volte almeno, prima di accorgersi della nostra presenza: stavo per cadere a terra, sotto la metà del peso di Trowa, quando, finalmente, si è fermata.

«Ah, che è successo?» ha chiesto, spiccia. «Siate veloci!»

«Pan...» è tutto ciò che ho detto. Lei ha alzato gli occhi al cielo e ha imprecato a voce altissima, tanto che ha riscosso Trowa.

«Che... che è successo... io...» borbottava.

«Non ho letti, ragazzi!» è stato tutto quello che ha detto la Johnson, schizzando via.

«Sì, ma non possiamo...» cercava di gridare Frank sopra al caos che c'era in quella stanza. Ho visto Matt Ishida, disteso su un letto e la testa reclinata quasi fosse stato morto. Devo dire che mi ha fatto davvero impressione, ma non ho potuto ignorare le mie ginocchia che mi chiedevano di sedermi.

«Ragazzi? Lasciatemi...» borbottava Trowa. «Sto bene... le do io una lezione a quella... stron-za. Pan è solo una stron-za.»

Non so perché scandisse così la parola "stronza", mi sono semplicemente piegato e messo in ginocchio, costringendo anche Frank a farlo, per non doversi tenere i tre quarti del suo peso.

«Aspetta, Ken!» mi ha detto. «Appoggiamolo al muro!»

Ho annuito e, con grande sforzo, mentre Trowa continuava a borbottare insulti senza senso contro mia sorella, siamo riusciti a farlo sedere con le spalle al muro. Il bello è che non sono potuto uscire di lì, perché la Johnson mi ha afferrato per un polso e mi ha tirato verso l'armadietto dei medicinali.

«Prendi tutti quelli scritti su questa lista, in fretta!» ha detto, velocemente, mettendomi in mano un foglietto stropicciato che aveva in tasca. Poi mi ha indicato uno scatolone. «Mettili tutti dentro quella scatola e portala vicino a quel ragazzo al letto quattro. Non dargli niente. Posali solo sul suo comodino!» è scappata via, da un malato che la stava chiamando a gran voce. «Solo sul comodino!» ha gridato di nuovo, indicandomi con un senso d'urgenza, non solo nella voce, ma anche stampata sul viso.

Il letto quattro, tanto per la cronaca, era di Matt Ishida.

Ho saltato le ultime lezioni per aiutare l'infermiera e quasi quasi speravo di poter scampare anche l'appuntamento con la Une: ero con la Johnson e questo, speravo, sarebbe valso a qualcosa, ma è stata lei a mandarmi via, dicendo che la Une aveva bisogno di vedermi. E questo bisogno si è dimostrato quantomai impellente, dato che me la sono ritrovata davanti appena fuori dall'infermeria, con un'espressione omicida stampata in faccia e accanto ad un'annoiatissima Pan che mi ha salutato con un: «Ce l'hai fatta, finalmente, paramecio!»

«Seguitemi.» ci ha detto la Une glaciale come solo lei sa essere. Non abbiamo fatto molta strada: abbiamo attraversato il corridoio fino alla sua esatta metà e siamo entrati nell'antro della strega, detto anche Ufficio della Direttrice.

Non è così orribile come me l'ero immaginato, anzi, sarebbe accogliente, se non fosse per quella grossa scrivania e quella poltrona nera al centro della stanza che incutono un certo timore, forse di più corredate di Une.

Mentre lei si sedeva, mi sono guardato un po' in giro, comunque: ai due lati della scrivania, c'erano due grosse librerie, entrambe adibite a schedari scolastici, uno per classe, e alcuni erano dedicati anche agli insegnanti. Il primo che ho individuato è stato quello di Sark e ho avuto i brividi, pensando che quello poteva essere un presagio.

Ma niente è stato come gli occhi della Une che ci hanno trafitto come lance.

«Vi chiederete perché siete qui.» ci ha chiesto, dopo averci fatto accomodare su due sedie imbottite di fronte alla sua scrivania. Pan si è buttata sulla sedia a gambe larghe e un'espressione decisamente strafottente.

«No.» ha risposto.

«Sì.» ho detto io, contemporaneamente, beccandomi un'occhiataccia da parte di mia sorella.

«Sempre il baston contrario, eh!»

«Veramente, Iccijojji, quello è il bastian contrario. Comunque...»

«Bastone, Bastiano, che differenza fa?» ha replicato Pan, interrompendola.

La Une ha sospirato e penso che l'avrei fatto anch'io, se non fossi stato troppo teso. Credo addirittura che mi sarei dimenticato come si respira, se non fosse una cosa che va fatta, volenti o nolenti.

Ma nessuno ha detto altro e un lugubre silenzio che mi è parso fin troppo lungo è calato sulla stanza. Riuscivo a sentire strani ronzii e le chiacchiere di quelli che si affrettavano nella sala mensa. Mi ricordo di essermi chiesto, per un attimo, chi cucinasse, se mia sorella era lì insieme a me, ma il pensiero è stato spazzato via dal gesto della Une che ha preso un pacco di fogli e li ha gettati con un tonfo sulla scrivania, piantandoci sopra un indice.

«Sapete cosa sono questi?» ha domandato.

Sia Pan che io abbiamo scosso contemporaneamente la testa. Penso che questo sia uno delle poche volte che è successo, da che sono al mondo.

La Une si è rivolta a mia sorella. «Lei, Iccijojji, non lo sa?»

«Perché dovrei?»

«Beh, legga lei stessa, così me lo dice.»

Le ha porto il foglio in cima alla pila e Pan glielo ha strappato di mano così violentemente che ancora ora mi viene da chiedermi come mai non si sia strappato. Lo avrei preferito, a dire il vero.

Ho guardato Pan che lo leggeva e ho visto la sua faccia cambiare di colore: da un colorito normale, roseo, diciamo, era improvvisamente sbiancata, poi, mentre il suo volto prendeva un'aria disgustata, è diventata giallina e solo in fondo, quando ha accartocciato il foglio, ringhiando con aria assassina, è diventata rosso pomodoro.

«Chi è stato a scrivere così tante stronzate?» ha sbraitato, centrando il cestino vicino alla porta senza neanche vederlo.

«A quel che ne so, lei, Iccijojji.»

Pan l'ha guardata con aria inebetita. «I-io?»

Ho scoperto così che tutti i miei sospetti erano più che fondati e l'amara verità mi ha colpito come una valanga di mattoni: la Une sapeva chi era che faceva i temi. Ho riconosciuto la mia scrittura, l'avrei riconosciuta dovunque.

«Certo, dato che sono i suoi temi sui coltelli, Iccijojji.»

Pan ha guardato me. «Brutto beota!» ha gridato. «Ti sei fatto scoprire!»

Sono arrossito e ho preso a balbettare frasi sconnesse.

«Bravo! Complimenti! Non potevi fare qualche errore di grammatica, brutto pezzo di idiota?»

«Ma... ma...»

«Non è stata la grammatica, a tradirla, Iccijojji.»

Lei ha smesso di inveire contro di me e ha guardato la Une con sospetto. «Ah, no?»

«No.» ha replicato la direttrice, sistemandosi gli occhiali. «Ho visto il suo ultimo compito in classe e, beh, mi è parso subito chiaro che non è stata lei l'artefice degli altri. E, ora che ci penso, mi sarebbe dovuto sembrare strano, dato il suo comportamento, ricevere quelle parole sui temi sulla pericolosità dei coltelli. Un po' banali, lo ammetto, abbastanza perché fossero di suo pugno, ma non per essere davvero suoi.»

«Che cazzo sta dicendo?»

Ed era quello che mi domandavo anche io, carico di imbarazzo.

«Moderi i termini, Iccijojji. Sto dicendo che avevo già dei sospetti, ma che non potevo provare. Adesso che lo so, credo che dovrò punire entrambi.»

Ho fatto un sobbalzo sulla sedia.

«Era così complicato fare i temi da sola, Iccijojji?»

«Erano delle emerite stronzate e io non perdo tempo a scrivere.» ha risposto lei, stringendosi nelle spalle. «Vatti a fidare dei fratelli, oh!»

«Già, per questo la sua grammatica è penosa. E lei, Iccijojji,» si è rivolta a me. «Perché ha assecondato sua sorella?»

Non ho risposto: potevo dire che era per paura di lei? Di sicuro no. Così ho semplicemente distolto lo sguardo.

«Come dicevo, mi vedo costretta a punirvi: una nota di demerito per lei, Iccijojji Ken, che stanotte aiuterà Heero Yuy nella ronda e pulirà i bagni del suo piano. Tutti quanti. Domani li voglio vedere risplendere. In quanto a lei, Iccijojji Pan: per ogni tema che non ha consegnato, avrà dei nuovi turni in cucina.»

E' stato in quel momento che mi sono svegliato davvero e ho guardato la Une dritto negli occhi. «Per pietà!» ho esclamato, ma forse dovrei dire che ho gridato. «Non potrebbe rifarli e basta?»

«Stai zitto, pezzo di idiota! Le dai pure suggerimenti?»

«E' sottinteso che li debba rifare.» ha ribattuto la Une. «Per i suoi nuovi turni.»

Pan mi ha guardato e non ha parlato, ma ha articolato benissimo poche parole, muovendo solo le labbra: "dopo ti ammazzo".

La Une non si accorta di niente. Si è sistemata di nuovo gli occhiali e ha cominciato a riordinare la scrivania, mentre Pan è diventata la maschera della donna assassina. Quasi quasi sarei rimasto in quell'ufficio ancora un altro po', invece lei ci ha congedato con un solo, sbrigativo cenno della mano.

Sono uscito dalla porta con lo stato d'animo di un condannato che va verso il patibolo, ma Pan ha aspettato ancora un po', prima di affrontarmi. L'ha fatto solo quando eravamo nel corridoio che conduceva a mensa. Era deserto e si sentivano solo gli schiamazzi provenienti dall'interno: nessuno mi avrebbe sentito gridare.

Mi ha preso per il bavero della giacca e mi ha letteralmente sollevato, appiccicandomi al muro e guardandomi con sguardo feroce e assassino.

«Sei un idiota!» ha dichiarato, ringhiando come una bestia.

«M-ma... Pan...» ho provato a protestare. «Tu non hai mai voluto leggere i temi!»

«D'ora in avanti, cercherai di imitare la mia scrittura! Chiaro? E di fare anche gli stessi errori di grammatica!»

«Ma...»

«O ti faccio a pezzi!»

«Che succede qui?»

Quella voce è arrivata come una manna dal cielo, insieme al suo proprietario. Zack Marquise stava scendendo le scale e pareva che, attraverso la sua mascherina, i suoi occhi guardassero verso di noi. Pan mi ha mollato immediatamente e sono atterrato di sedere sul pavimento; lei mi ha guardato per un attimo e mi ha puntato addosso un dito.

«Tu» ha detto. «sei un ragazzo molto fortunato, ma se mi capiti di nuovo sotto mano, sappi che ti faccio a pezzi!»

E se n'è andata, velocemente, dentro la mensa, scomparendo alla nostra vista. Marquise si è fermato vicino a me che mi stavo spazzolando gli abiti dalla polvere del pavimento.

«Va tutto bene?» mi ha chiesto.

Mi sono limitato ad annuire, ma non ho avuto il coraggio di alzare lo sguardo. Lui mi ha solo posato una mano sulla spalla, forse in segno di incoraggiamento o di compassione, ancora non lo so, e poi ha proseguito dritto per la sua strada. A metà, però, si è fermato e si è voltato indietro.

«Ci sono delle battaglie» mi ha detto. «che devono essere combattute anche se non vogliamo.»

Non ho ben capito le sue parole: si riferiva a Pan, o a qualcos'altro? Non lo so. Ho provato ad aprire bocca per chiederglielo, ma anche lui è sparito dentro la mensa e, quando sono entrato anche io, era ormai seduto vicino a Sark, come se avesse capito che non mi sarei avvicinato, se lo avessi visto al suo fianco.

Ero arrivato molto in ritardo: la cena era quasi finita e Alex me l'ha fatto notare molto candidamente. «Ma ti abbiamo lasciato un po' di minestra di miglio! È il miglior pasto che abbiamo fatto in queste ultime settimane!»

E mi ha messo di fronte il piatto, con un sorriso smagliante. Quando ho cominciato a mangiare, ho dovuto dargli proprio ragione: dopo Pan, ho pensato, qualunque schifezza commestibile diventa la cosa più buona del mondo.

E la frase di Marquise mi è totalmente passata di mente.

Mi sono messo ad ascoltare Frank, che parlava con Tai Yagami a proposito di quello che è successo oggi pomeriggio.

«Non sai che casino che c'era in quell'infermeria!» lui era riuscito a svignarsela molto prima di me, non so come.

«La Johnson non ha il tempo per respirare negli ultimi giorni!» ci ha detto Alex. «L'ho vista ieri, ma non mi ha degnato di uno sguardo... è sempre così in questo periodo!»

«Grandi influenze?» ho chiesto, impressionato.

Lui ha schioccato la lingua. «Non essere ingenuo!» mi ha detto. «Sono le prove di fine trimestre a mandare tutti in agitazione!» Ha fatto un cenno verso il tavolo di Heero. «Lo vedi come sta studiando il nostro amico?»

Abbiamo girato la testa davvero e l'abbiamo visto chino sul piatto, con accanto un grosso libro di testo. Non solo: al tavolo del primo anno corso D, Hermione Granger parlava isterica con chiunque le capitasse a portata di voce. Per questo tutti cercavano di svicolare e di fare il giro più largo per non essere costretti a passarle vicino.

Il tavolo più giù, quello del primo anno corso E, come quello di Heero, era quasi vuoto, anche se c'era una confusione del diavolo in quella stanza, anche con la cena ormai quasi giunta alla conclusione.

«Ehi, Kenny» mi ha chiamato Arale, dandomi una gomitata che mi ha fatto cadere di mano il cucchiaio colmo di brodino e sporcare i pantaloni. Fortunatamente, non era troppo caldo. «Ops... scusa... dimmi un po', cosa voleva la Une?»

Ho visto Pan scoccarmi un'occhiata di fuoco dall'altra parte del tavolo. «Ehm... niente di che.» ho risposto. Era meglio che non lo sapesse, ancora, altrimenti mi avrebbe detto che lei l'aveva sempre saputo e, dato che lo sapevo, non mi andava di farmelo rinfacciare.

Una acuta risatina mi ha distolto dai miei pensieri. Era stata Bra che parlottava con Mimi e Sora, gesticolando. Loro tre, stranamente, sono le uniche che apprezzano queste giornate caotiche e sono le uniche che si lamentano come non mai, ogni volta che la Une viene a chiamare noi e tutti quelli del nostro piano per la marcia.

«Lo avete visto quello lì?» stava dicendo Bra a voce decisamente alta. Pan, benché non fosse entrare in conversazione, era diventata molto attenta alla direzione del suo dito puntato. Ma nemmeno io sono rimasto insensibile alla curiosità. E così ho visto un ragazzo, media altezza, capelli nerissimi cortissimi e tratti cinesi che arrivava in direzione opposta a quella presa dallo stesso ragazzo maleducato cui Arale aveva chiesto informazioni il primo giorno.

«Si chiama Wufei...» ha continuato Bra, tutta eccitata. «Ci ho limonato mezz'ora!»

Le sue amiche hanno cominciato a lanciare gridolini estatici, quasi non ci credessero. Mi sono girato verso Alex, al mio fianco sinistro.

«Che vuol dire limonare?» gli ho chiesto. Lui mi ha guardato come se fossi stato una bestia immonda.

«Limonare è... ehm... limonare è limonare!» ha detto, come se non avessi mai dovuto fare una domanda così sciocca. Aveva anche l'aria di uno che stia dicendo: "è ovvio", ma per me non lo era affatto.

«E che significa?»

Arale si è sbattuta la mano sulla fronte, Frank ha, come al solito, fatto finta di niente e Pan ha giunto le mani e alzato gli occhi al cielo per elevare una muta preghiera.

Alex, intanto, mi rivolgeva una smorfia preoccupata. «Fai sul serio?»

Ho annuito, ma ho risolto solo di farlo sospirare: ho avuto come l'impressione che avrei dovuto saperlo, ma non mi sovveniva proprio cosa potesse significare quella parola. Il mio amico sembrava proprio rassegnato, mentre si passava una mano sulla fronte. «Ehm... limonare è... sì, insomma, limonare è...»

«Slinguazzare, imbecille!» è stata la brusca e infastidita risposta di Pan. «Bacio con la lingua, bacio alla francese, sai quelle schifezze che può fare solo quella troia di Bra con un nano cinese e...» si è voltata di nuovo a squadrare il ragazzo che si era seduto accanto a Heero. «Amico di Yuy! Hai capito, paramecio? Dimmi tu se questo non è essere proprio caduti in basso!»

Non ho detto niente, incredulo.

Bra, che ha ascoltato la nostra conversazione come noi abbiamo ascoltato la sua, si è girata e ha guardato Pan, disgustata. E' stato l'inizio della fine.

«Ma che hai?» le ha chiesto. «Sei invidiosa, vero? Hai visto che figo che è?»

«Non mi pare proprio! Mi pare solo un nano magrolino senza spina dorsale e con lo stomaco d'acciaio!» è stata la risposta sarcastica di Pan.

«E come sai com'è il suo stomaco?» ha ridacchiato Mimi, forse credendo di ferire mia sorella. Ma per ferire Pan ci vuole molto altro... si è stretta nelle spalle e ha fatto un cenno verso Bra.

«Beh, ha limonato con lei... vuol dire che è molto forte di stomaco. Ed è anche coraggioso!»

Stavolta è stata Sora ad inveire: «Sicura di non parlare di te, Iccijojji?»

«No, di quella troia di tua madre!»

Indignate, tutte e tre hanno trattenuto il fiato. Beh, anche io, perché già mi immaginavo le urla isteriche e la rissa sul tavolo che si sarebbe tradotta in un'altra avventura in infermeria, seguita dall'espulsione, se non dalla prigione come la Une aveva promesso solo poche ore prima, in classe. Ho guardato Arale e, dall'espressione sul suo volto, ho capito che stavamo pensando la stessa cosa.

«Ma come ti permetti!» ha gridato con voce acuta Sora. «Mia madre è una donna irreprensibile! La tua sta sui marciapiedi la sera e la dà per pochi spiccioli, l'ho vista io!»

«Perché frequenti gli stessi marciapiedi e la dai gratis!» ha replicato Pan, piena di disprezzo, senza curarsi del fatto che stessero offendendo nostra madre, in modi che non capivo (e di cui non ho voluto chiedere per non fare di nuovo la figura dell'idiota).

«Meglio gratis che a pagamento!» si è intromessa Mimi, di nuovo come se fosse stata la più furba. «Almeno chi la dà gratis lo fa solo per divertimento!»

«E chi si fa pagare ci guadagna sopra!» ha ribattuto Pan.

«Quello si chiama essere troie!» è stato il commento altezzoso di Bra.

«No, quello significa prostituirsi.»

Grazie alla spiegazione di mia sorella ho cominciato a capire qualcosa di più su quegli insulti. Il bello era che, se quelle tre si spalleggiavano a vicenda, io rimanevo inerte a seguire quello squallido scambio di battute.

«E ti sembra meglio che andare con qualcuno solo per puro divertimento?» ha continuato Mimi. «Scusami, ma chi è il suo magnaccia?»

«Tuo padre, che va con le puttane e ha preso tutte le malattie veneree possibili e immaginabili!»

«Si vede che è andato con la tua, che alle malattie veneree c'ha l'abbonamento!»

Pan, a quel punto, si è alzata in piedi. Sono sicuro che la discussione si sarebbe tramutata in rissa per davvero, se la Une non si fosse alzata dal tavolo degli insegnanti e ci avesse raggiunto, guardandoci tutti come se fossimo stati sul punto di lanciare una bomba a mano.

«Va tutto bene?» ha chiesto, con una tranquillità che la sua faccia non esprimeva.

«Sì, lady Une, certo!» ha risposto Bra, composta e così educata che non sembrava che, fino a quel momento, non avesse offeso mia madre in quel modo, ma avesse parlato di tutt'altro.

«Lei, Iccijojji, perché si è alzata?» ha continuato la Une. Aveva un'intonazione di voce che faceva capire che sapeva che non tutto stava andando così bene.

«Perché stavo per levarmi di...» mia sorella ha alzato gli occhi da Bra e li ha posati sulla Une che aveva uno sguardo col quale sarebbe stata in grado di uccidere chiunque e, quando dico chiunque, dico anche mia sorella. «Stavo per uscire, insomma.»

La direttrice ha annuito. «Perfetto. Allora si sbrighi.»

E così dicendo, se n'è tornata al suo tavolo. Mentre ci voltava ancora le spalle, Pan si è piegata su Bra: «Non finisce qui, brutta troia!» E poi si è rivolta a me. «Stupido coglione, con te faccio i conti dopo!» detto questo, se n'è andata velocemente, lasciandomi lì, fermo e impietrito di paura.

Ho guardato i miei amici, preoccupato. Frank ha ripreso a mangiare la sua insalata e non ha risposto e Arale l'ha imitato. Alex, invece, si è stretto nelle spalle e ha scosso la testa.

«Kenny...» è stato quello che mi ha detto. «mi sa che sei nei guai, amico mio.»

Ho guardato Bra e le sue amiche, ma non erano interessate a me. Ridevano di Pan e ripetevano le sue battute, sghignazzando come delle sciocche di qualsiasi parola.

«Com'è rozza!» rideva Mimi.

«E com'è volgare!» rincarava Bra, riprendendo a ridere.

«Beh, mi sembra che anche voi abbiate risposto per le rime!» ha sbottato Arale, guardandole in cagnesco. «Non mi pare proprio che vi siate comportate da grandi signore, mentre dicevate che sua madre è una puttana!»

«Ma pensa alla tua di madre, Norimaki!» ha sbuffato Sora. «Se vai in giro a difenderla vuol dire che sei uguale!»

«La sai una cosa?» ha continuato Arale. «Meglio essere come Pan che pecora come te e Mimi che fate solo quello che dice questa stronzetta coi capelli blu!» ha fatto un cenno verso Bra. «Vi dirò una cosa: non è offendendo la madre di Pan che risolverete i vostri problemi!»

«Dillo a Pan, è stata lei a cominciare!» ha risposto Bra, acida, voltando la testa, in modo da dare le spalle alla mia amica.

«Già!» ha ammesso Sora. «Noi le abbiamo solo risposto. Avremmo dovuto farci dare delle troie impunemente?»

«Beh, se vi ritenete superiori a Pan e alla gente come lei, dovreste dimostrarlo usando termini un po' meno scurrili di quelli che usa lei, no?»

«Io non devo proprio dimostrare niente a nessuno!» ha ribattuto Bra, ruotando la testa di scatto e guardando Arale con i suoi occhioni sgranati. Lei e Arale si sono fronteggiate a lungo, prima che la mia amica rispondesse ancora, astiosa:

«E allora non ti permettere di ridere di lei!»

«Tu non mi puoi dire quello che devo fare, Norimaki!»

«Allora sei un'ipocrita!»

«E tu difendi una ragazzina violenta e piena di problemi con un fratello senza palle e pure frocio!»

Al che Arale si è messa in piedi e, con mio grande dispiacere, si vedeva che non riusciva comunque a fronteggiare Bra che, comunque fosse seduta, era molto più alta di lei. «Stai ancora offendendo, Bra.»

Ho abbassato la testa, mortificato e anche un po' arrabbiato: stavano parlando di me come se io non ci fossi. Avrei dovuto dire qualcosa, lo sapevo benissimo, ma non sapevo cosa dire. Avrei semplicemente voluto sprofondare e ritrovarmi nei più bassi recessi della Terra e precisamente al centro, nel magma. Ma sapevo anche che avrei dovuto dire qualcosa, lo dovevo a Pan, alla mamma che era stata offesa così pesantemente. E anche un po' a me. Mi sono alzato, deciso a fronteggiare Bra e le idee confuse.

«Piantala!» le ho detto. «Io... io... io non so che hai detto a mia madre. Ma devi smetterla di offendere la mia famiglia. Perché... perché...»

Lei, per tutta risposta, si è messa a ridere, facendomi sentire ancora più tonto. «Ma lo vedi come balbetti? E pretendi pure che io ti stia a sentire? Ah, sei veramente patetico!»

Ho stretto i pugni: sentivo le guance avvampare. Avrei voluto sprofondare ancora più giù, sciogliermi in quel magma per l'umiliazione, eppure rimanevo fermo, impettito e in piedi. Se solo mi fossi preparato un discorso, non saremmo stati a questo punto e neanche se non fossi stato così scemo, accidenti a me!

Ma stavolta è stato Frank a venire in mio aiuto.

«Brief, ma lo sai di essere veramente sgradevole?» le ha chiesto. «Se tu avessi un po' di rispetto, adesso ascolteresti Kenny e lo lasceresti parlare. Secondo me, fai così perché non vuoi ascoltarlo, per paura che possa dire qualcosa di vero e possa metterti a tacere!»

Lei si scostata i capelli di nuovo dietro le spalle, con un sorrisetto carico di sufficienza. «Dimmi, Kushrenada, l'hai visto?» ha fatto un cenno verso di me con la testa. «Kenny... già uno che si fa chiamare col suo diminutivo non è esattamente uno da prendere sul serio... comunque...» si è alzata e si è rivolta alle sue amiche. «Su ragazze, andiamo... la cena è finita e mi sono stancata di questi sterili discorsi.»

«Sì, è vero!» è stato il commento altezzoso di Mimi.

«E' inutile discutere con certa gente!» ha rincarato la dose Sora.

E così dicendo sono sparite dalla nostra vista, ridendo e scimmiottando le nostre parole, soprattutto i miei insulsi balbettii. Era andata così. Uno sfacelo. Bra e le sue amiche dieci, Kenny e i suoi meno di zero.

Mi sono buttato sulla sedia.

«E dopo questo... anche le botte di Pan!» ho mormorato, sconsolato. Ormai la mensa era quasi vuota e gli ultimi ragazzi si attardavano a parlare con i pochi rimasti. Noi quattro eravamo soli e io lottavo per non piangere.

Quasi quasi tornavo in infermeria, anche senza niente di rotto, per prevenire, come se questo potesse bastare per evitarmi il dolore delle botte.

«Dai, Kenny, non fare così!» ha risposto Arale, sedendosi di nuovo e posandomi una mano sulla spalla, in segno di incoraggiamento.

«L'hai sentita Pan!» ho replicato. «Mi picchierà, non appena rientreremo in camerata! È stata tutta colpa di quei temi.»

Alex mi ha dato una leggera pacca sulla spalla, con fare comprensivo. «Dai, non ti preoccupare!» mi ha detto, ma non mi ha consolato, purtroppo. «Lo sapevamo che sarebbe finita così. E lo sapevi pure tu, solo che non si ascolta mai Arale, eh?»

Ho risposto facendo spallucce.

«Dai, Ken,» ha continuato Frank. «Brief è un'imbecille.»

«Sì, al posto del cervello ha acqua bollita...» ha risposto Alex, annuendo vistosamente.

«Pigne morte!» ha rincarato la dose Arale.

«Prugne secche.» è intervenuto Frank.

«Che fanno anche cagare.»

Abbiamo ridacchiato tutti alla battuta di Alex.

«E non ti preoccupare!» ha continuato il mio amico. «Se per caso dovessi avere dei problemi, conta pure sul tuo amico galeotto!»

Ho trattenuto il respiro. Mi ero aspettato che Arale o Frank dicessero qualcosa, magari che arrivassero alle mani. Invece non è successo niente.

«Dai,» ha detto soltanto, Frank. «E' ora di affrontare la bufera.»

In quel momento mi sono sovvenute le parole di Marquise, a proposito delle battaglie che vanno affrontate anche se non vogliamo. Forse quella era una di quelle. Dovevo farlo. Me l'aveva detto Marquise, qualcosa significava. Eppure, quando siamo tornati in camerata, Pan si è avvicinata e mi ha puntato contro un dito, minacciosa come sa essere lei.

L'unica cosa positiva è che non ho balbettato come una femminuccia, forse perché avevo la lingua secca e incollata al palato. La paura mi aveva congelato e mi sono pietrificato proprio dove mi ero fermato, davanti ai miei amici che, dietro di me, osservavano la scena.

«Dai, Pan... non è il caso di...» stava provando Arale, ma Pan le ha rivolto un'occhiataccia che l'ha zittita e che ha fatto desistere anche gli altri dal tentare nuovamente.

Quindi, è tornata ad osservare me. «Sai che sei un paramecio molto, ma molto fortunato?» mi ha chiesto. «Chiedimi perché!»

Non l'ho fatto: c'era il trabocchetto. Ne ero sicuro.

«CHIEDIMI PERCHE'!» ha gridato lei.

«O-ok...» ho risposto, in tono lamentoso. «P-perché?»

«Perché quella troia di Bra, per quanto troia, ha ragione: se ammazzo di botte lei e le sue amiche puttane e poi te, paramecio, finisco inculata di fronte ad una corte marziale ed è l'ultima cosa che voglio, finire i miei giorni in galera! Quindi, vaffanculo tu e VAFFANCULO A QUELLE TROIE! Ma...» si è fatta più vicino e il suo naso ha premuto contro il mio, mentre i suoi occhi minacciosi si incrociavano per riuscire a vedere i miei. «se si trattasse solo di espulsione... ti ridurrei in briciole le ossa. E IMPEDIREI A BRA DI LIMONARE CON CHIUNQUE SIA DOTATO DI LINGUA!»

Se n'è andata di nuovo in camera sua, declamando al vento i suoi propositi e io mi sono semplicemente lasciato cadere: la tensione che si scioglieva mi impediva di sentire le gambe. I miei amici mi hanno dovuto sorreggere perché non cadessi come una pera cotta.

«Sono... sono salvo!» è stato tutto quello che sono riuscito a far uscire dalla mia bocca.


*****


Ce l'ho fatta! Sono riuscita a finire anche questo, dopo molto, molto, molto tempo. I prossimi due o tre sono già stati scritti un po' di tempo fa, ma penso di mantenere ritmi di aggiornamento piuttosto lenti perché la mia voglia di scrivere Kenny, in questo periodo, è piuttosto scarsa. Diciamo che mi deve venire una voglia fulminante, come è successo oggi. XD

A proposito (grazie a Prof per avermelo ricordato): il Ryan dello scorso capitolo è Ryan (Ryo) Shirogane delle Tokyo Mew Mew.

Dovrei, ogni volta che inserisco un personaggio, specificare da dove viene, ma tra una cosa e l'altra me ne dimentico sempre. Prometto che cercherò di starci più attenta.



Prof: ma che sadica! Kenny è un po' indignato che si rida sulle sue disgrazie. U.U Naturalmente, anche io mi diverto troppo (ma non glielo diciamo! Mwhahaha). E il Sergente ti porge i suoi saluti. È contento di risultare così simpatico! XD Di Marquise e Pioggia di Fuoco ho intenzione di montarci su una storia, ma penso più in là, al secondo/terzo anno di Kenny e ne sarà la colonna portante, se mai riuscirò a scriverlo. XD In questo capitolo non mi sembra che ci sia nessuno da segnalare, in quanto a personaggi, ma se non è così, dimmelo e cercherò di rimediare. Grazie come sempre per la tua recensione. ^^ A (spero) presto!

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Capitolo 13
*** Una giornata da dimenticare ***


Le lezioni al primo anno.

Una giornata da dimenticare



23 Dicembre


Il trimestre è finito e anche il nostro soggiorno in caserma, per adesso. Siamo tornati oggi a casa e ci sono così tante novità che non so da quale cominciare. Quindi, forse è meglio partire dall'inizio senza troppi problemi.

Erano le cinque, quando mi sono svegliato. Heero ha, come al solito, battuto due o tre volte il pugno sulla porta, ci ha urlato di alzarci ed è andato a fare lo stesso alla camera successiva. La solita routine, insomma. Il bello era che, la sera prima, eravamo stati tutti d'accordo nel pensare che, essendo finito il trimestre, fossimo esentati dai nostri obblighi dell'alzabandiera. E così, tutti e cinque, abbiamo disattivato le nostre sveglie.

Alex, che doveva sapere che non era col trimestre che finivano i nostri doveri di soldati, è sempre l'ultimo a sapere le cose, stranamente. Ma forse non più di tanto, ormai.

«Ma che palle!» è stato il commento, condiviso, di ognuno di noi. Pan, per quel che ne sapevo, non doveva aver realizzato che ce ne andavamo per le vacanze, perché non ha proprio fiatato.

Quando mi sono alzato, mi sono affacciato in camera delle ragazze, dove ho visto i comportamenti più disparati e strani: noi ragazzi non teniamo così tanto al nostro aspetto la mattina presto, sembriamo più delle scimmie urlatrici che sbadigliano rumorosamente, scoreggiano e ruttano (non voglio dire che siamo proprio tutti così, ma, ecco, almeno per la mia esperienza, non ci stiamo così attenti).

Bra si stava pettinando davanti allo specchietto sul suo comodino, Mimi si truccava e Sora si stringeva nelle coperte, la faccia nascosta da una maschera verde e alcuni cetrioli. Arale, invece, stava rifacendo il suo letto. Quello di Pan, vuoto, era ancora tutto disordinato.

«Buongiorno, Kenny!» mi ha salutato la mia amica, alzando gli occhi e provocando reazioni che hanno spaventato anche me: Bra e Mimi sono schizzate in piedi, urlando isteriche e lasciando cadere spazzole e trucchi; Sora è balzata a sedere sul letto, stringendosi nelle coperte e, scuotendo la testa, ha cominciato ad urlare a squarciagola: «Aiuto! Aiuto!»

I cetrioli sono caduti sulle sue mani e questo ha provocato nuove ondate di panico. Una scena così era ancora tutta da vedere.

«E PIANTATELA!» così Arale le ha fermate, mentre si richiudeva la porta alle spalle. Confuso, anche se decisamente sveglio, mi sono grattato la testa. Trowa, ripresosi a meraviglia dall'ultima batosta di Pan, mi ha fatto un occhiolino con fare complice, mentre, con uno spazzolino da denti, si dirigeva nel bagno, ormai occupato da Alex. Il suo comportamento nei miei confronti è molto cambiato da che l'ho portato in infermeria aiutato da Frank. Mi ha pure ringraziato, quando si è ripreso.

«Tu non sei come tua sorella.» mi ha anche detto.

«Ehm...» ho balbettato, tornando a guardare Arale. «E Pan?»

«Stavo per venire a chiederlo a te!» mi ha risposto lei, candidamente. La mia prima reazione è stata quella più esagerata. Panico: mia sorella non era nel suo letto, non ronfava come un maiale e non sbraitava nel momento in cui veniva svegliata... c'era decisamente qualcosa di sbagliato. E se fosse stata male?

Sarebbe stato un trauma: Pan non ha mai preso una malattia, da che la conosco. Non ha mai preso la varicella, quando io, per sfiga, l'ho presa due volte; non ha mai preso l'influenza e io ero sempre a letto con la febbre; non ha mai avuto la polmonite e io sono stato mandato a forza da nonna Kiki per due inverni di fila perché avevo “bisogno di aria buona”, almeno secondo il dottore.

Quindi, Pan non poteva stare male. Ma, se così era, che fine aveva fatto? Ho deciso che ci avevo pensato troppo: sono uscito in pigiama ed ho cominciato a correre verso l'infermeria, ostacolato dai vari ragazzi che tentavano di raggiungere i bagni comuni. Le scale non erano mai state tanto intasate ed io non mi sono mai sentito così lento, nel mio tentare di dare una risposta decente alla domanda del giorno.

Quando sono arrivato alla porta dell'infermeria, l'ho spalancata ed ho fatto il mio ingresso, gridando: «PAN!» ma, quando mi sono visto sei paia di occhi puntati addosso, assonnati ed eccessivamente preoccupati, ho deciso di darmi una calmata per non allarmare più di quanto non fossero già quei sei ragazzi.

«Ehm... sapete... sapete dov'è la Johnson?» ho cercato di usare un tono il più calmo possibile, ma ero proprio trafelato.

«E' nel suo ufficio.» ha mormorato, assonnato, lo stesso ragazzo biondo che, tempo fa, mi aveva detto che Marquise non aveva fatto lezione. Si è posato una mano sulla fronte, come per spiegarmi il perché fosse così poco reattivo. «No... svegliarsi col mal di testa è davvero uno schifo!»

Non l'ho ascoltato più di tanto, mi guardavo intorno, alla disperata ricerca di un segno che tradisse la presenza di Pan, ma niente: tutto era troppo al suo posto perché potesse essere passata di lì.

Mi sono fermato di fronte alla porta dell'ufficio dell'infermiera Johnson. Ma era totalmente inutile chiederlo a lei: era chiaro che Pan non c'era. Sono corso fuori, ma non avevo davvero idea di dove andare.

Ero davvero preoccupato: avremmo dovuto partire alle nove precise dalla caserma e lei era sparita. Non sapevo che fine avesse fatto e già mi immaginavo le scene di me che tornavo a casa da solo, in mezzo a persone che si chiedevano quanto me che fine avesse fatto mia sorella, se fosse ancora viva. E mi immaginavo nonno Satan che urlava come un folle che la sua nipotina era sparita; la mamma che urlava isterica e papà che rimaneva ammutolito e smarrito, mentre davo la tragica notizia.

In mezzo a questi tristi presentimenti, mi sono fermato in mezzo al corridoio, fulminato da un pensiero. Le valigie di Pan, quelle che ha preparato ieri sera, prima di andare a dormire. Correndo, sono tornato in camerata, travolto dalla fiumana di persone che si apprestavano ad andare in cortile per l'alzabandiera, percorrendo la strada in senso contrario al mio.

Sono sgusciato sotto il braccio di un ragazzo alto e grosso che stava ridacchiando sguaiatamente e sono scivolato con la pancia tra le gambe di un altro. Non so come ho fatto, ma erano molti che, dopo questa prodezza, mi guardavano e additavano, forse anche per il fatto che ero in pigiama e scalzo, i piedi nudi sul pavimento gelido.

Quando ho spalancato la porta della nostra camera, mi sono guardato intorno: magari mi ero sognato tutto, magari Pan era semplicemente caduta dal letto e nessuno se ne era accorto. Magari non ha neanche sentito le urla isteriche delle Scope: quando dorme non la svegliano nemmeno le cannonate. Ma quando sono rientrato nella camera vuota delle ragazze, solo il letto di Pan era ancora disfatto e il suo borsone era l'unico ancora aperto.

Mi sono fiondato su di esso senza pensarci: speravo di trovarci qualcosa. Ho cominciato a togliere tutto quanto, dalle mutande, ai vari giornalini che aveva comprato dal Sergente Hopkins in tutti questi mesi.

Li ho sfogliati, alla ricerca di un biglietto, di un messaggio che mi portasse a capire dove potesse essersi cacciata. E solo quando avevo perso ogni speranza, nel raccattare dalla borsa l'ultimo giornalino, ho visto l'indizio.

L'ho raccolto: era la scatola bianca e blu di un medicinale. Dentro c'era il foglietto illustrativo, ma non il flacone. Febbrilmente, cercando di far presto, mi sono messo a cercare a cosa servisse, prima di ricordarmi che nonno Satan lo prendeva tutte le sere. Quella che avevo tra le mani, era la scatola di un potente lassativo.

Ma se Pan ce l'aveva, mi sono detto in quel momento di folle lucidità, voleva dire che aveva problemi di intestino. O così speravo. Mi è cascato l'occhio su una frase inequivocabile stampata a chiare lettere sul foglietto illustrativo: ATTENZIONE!, recitava, AD ALTE CONCENTRAZIONI PUO' ESSERE FATALE.

E il terrore, a quel punto, è stato puro. Sono scattato in piedi: adesso sapevo dove andarla a cercare.

Sono scappato fuori dalla camerata, lasciando la porta aperta; ho cominciato ad aprire quelle di ogni bagno che trovavo, chiamandola a gran voce. La conosco abbastanza bene da sapere che mi avrebbe urlato di andarmene e che ero un maniaco. Questo mi avrebbe detto che stava bene e che potevo smettere di preoccuparmi.

Speravo di arrivare in tempo: Pan non ha mai saputo che il troppo stroppia e ha sempre esagerato su tutto, anche sulle medicine. Ogni volta che starnutiva, l'anno scorso, si andava a prendere l'antibiotico, ma, se il foglietto illustrativo diceva di prenderne un misurino da cento millilitri, lei se ne prendeva una sorsata direttamente dalla bottiglietta.

Memore di questo, mi sono messo a guardare sotto ogni cubicolo, ma, ogni volta che erano tutti deserti, passavo al successivo, pure in quello dei maschi: Pan non ha mai fatto distinzioni tra bagni dei maschi e bagni delle femmine.

Ci ho messo due ore, ogni volta ripetendo le stesse operazioni. Erano passate le sette ed era sorto il sole; tutti erano rientrati e si erano diretti in sala mensa per l'ultima colazione del trimestre, ma io ero ancora al secondo piano a controllare il primo dei sei bagni.

Mezz'ora dopo, scendevo le scale, ancora una volta sconfitto. Mi mancavano solo quelli privati dei professori, anche se dubitavo di trovarla lì: insomma, chi mai gliel'avrebbe fatto fare di andare proprio lì, quando ci sono da sempre stati proibiti? Ma si sa, Pan è strana e se le fosse passato per la testa, anche quello era possibile.

Così sono entrato nell'unico bagno del primo piano, il più pulito della caserma, se proprio devo essere sincero. Subito, quello che mi ha colpito, è stata l'ondata di fetore che mi ha aggredito le narici. Sì, quello era l'odore della cacca di nonno Satan, quindi, per ovvie deduzioni logiche, Pan doveva essere lì. Finalmente l'avevo trovata! Un po' del mio groppo in gola si era sciolto.

«Pan?» ho domandato, timidamente.

Nessuna risposta. E il mio groppo si è riannodato saldamente: quella pazza di mia sorella aveva usato dosi troppo elevate. Ma forse potevo fare in tempo e salvarla! L'infermeria non era lontana: l'avrei presa di peso, sotto le ascelle, magari l'avrei anche coperta, se...

Mi sono piegato sul primo cubicolo, poi sul secondo. E, infine, al terzo, l'ho trovata: pantaloni calati e scarpe pulite. Quando avesse avuto il tempo di lucidarle non lo sapevo, ma non mi importava. Mi sono messo in ginocchio e ho allungato una mano.

Ho afferrato la sua caviglia e l'urlo che lei ha cacciato, ha terrorizzato anche me, che ho cominciato a gridare a mia volta, ritirando velocemente la mano e gettandomi all'indietro, seduto a fissare con terrore la porta sprangata.

«Ma allora stai bene!» le ho detto, quando mi sono ripreso.

«Ma chi è?» ha chiesto una voce isterica che non era sicuramente quella di Pan. Mi sono sentito ghiacciare le ossa: non poteva essere...

«Ehm... ecco... lady Une?» ho risposto, incerto.

«SE NE VADA, PRIMA CHE LA FACCIA ESPELLERE, CHIUNQUE LEI SIA!»

Non me lo sono fatto ripetere due volte e sono corso via dal bagno. Ma, adesso, non ne avevo più da controllare. Dovevo accettare l'evidenza: mia sorella era sparita dalla faccia della Terra.

Così, scalzo, in pigiama, con un groppo in gola e senza più un briciolo di forza, mi sono diretto a mensa, sperando che i miei amici potessero aiutarmi.

Mi chiedevo quale fosse il modo migliore per dirlo ai miei e alla Une quando fosse uscita da quel bagno.

«Sa, lady Une, mia sorella è evaporata!», era decisamente sgradevole. E: «Sai, mamma, Pan è scomparsa nel nulla!» mancava di tatto. Cosa avrei dovuto fare?

Sono semplicemente entrato a mensa, dove l'allegria regnava sovrana, il caos sembrava moltiplicato per cento rispetto al solito. Non sembrava che agli altri mancasse Pan, ma io sentivo che non c'era, che era tutto profondamente sbagliato.

Quando mi sono avvicinato al nostro tavolo, mi sono piazzato tra Arale e Frank, che stavano mangiando allegramente, mentre io lottavo per non piangere.

«Kenny!» mi ha accolto la mia amica, gioviale. «Dove diamine sei stato?»

«Già, paramecio! Ti sei perso la miglior alzabandiera del globo! Oh, avessi visto la faccia della Une quando ha visto che al posto della bandiera c'erano un paio di mutandoni!»

«Ma non è vero! Lasciala perdere, Kenny!» mi ha consigliato Arale, ma l'ho ascoltata piuttosto distrattamente.

O avevo le allucinazioni, oppure avevo cercato una persona che era sempre stata sotto il mio naso. Ho alzato lo sguardo e l'ho vista. Lei era lì, seduta scompostamente di fronte ad Arale, una fetta biscottata in una mano e un bicchiere di succo d'arancia nell'altra.

«E tu che ci fai qui?» è stato tutto quello che sono riuscito a dire.

«Però...» ha risposto lei, disgustata. «La tua gioia di vedermi è invidiabile, schifoso verme!»

«NO!» ho gridato, ancora sconvolto. «S-sono felice di vederti! Ma... ti ho cercata tutta la mattina!»

Ho aggirato il tavolo e mi sono messo davanti a lei. «Che fine avevi fatto?»

Lei mi guardava come se fossi stato una cacca nel suo bicchiere e non capivo il perché.

«Che c'è?» ho chiesto. «Perché non parli?»

Lei ha accavallato le gambe. «Kenny, avessi capito un cazzo di tutte le stronzate che hai sparato! Si può sapere di che stai blaterando?»

«Tu...» l'ho indicata. «Tu eri sparita!»

«Ah, sì?» lei si è guardata il petto. «E quando?»

«Ma... ma... prima!»

O lei non capiva, o io non riuscivo a spiegarmi. Ero confuso, decisamente intontito per riuscire a concludere coerentemente una frase.

«Senti, Kenny, diciamocelo: piombi qui in pigiama, scalzo, e deliri pure. Sei sicuro di non aver bevuto qualcosa, preso un allucinogeno...» mi ha chiesto, sarcastica. Mi sono guardato i piedi e solo allora mi sono reso conto che non avevo preso le ciabatte. Cominciavo a pensare di aver preso qualcosa di pesante davvero. Ho guardato Arale, in cerca di aiuto.

«Stamattina... in camera... non c'era!» ho detto.

«E allora?» è stato il momento di Arale di fare le domande a cui non sapevo rispondere.

«E allora?» ho ripetuto, indignato. «Arale, ma... la stavamo cercando! Eravamo preoccupati!»

«Veramente...» ha risposto la mia amica, titubante. «Era all'alzabandiera.» ha aggiunto poco dopo, come se avessi dovuto pensarci da solo.

«Già.» ha confermato Pan, annuendo orgogliosa. «E ho anche preparato la colazione, come da punizione. E ho anche apparecchiato la tavola degli insegnanti!»

Mi sono voltato a guardarla: in quel momento mi ricordavo che la sua punizione si era protratta dato che i temi glieli avevo fatti io.

«Che c'è, paramecio?» ha detto, disgustata, squadrandomi dalla testa ai piedi. Dovevo avere una faccia davvero sconvolta. «Non credi che possa averlo fatto? Non mi ritieni una persona abbastanza seria? Ma guardati tu, che vai in giro scalzo come un barbone! Ah, che gentaglia che c'è in giro!»

Ha dato un morso alla fetta biscottata, mentre io mi sedevo al suo fianco, sconfitto.

Tutti i miei pensieri vorticavano furiosamente nella mia testa. Se avessi pensato a cercare direttamente in cucina o fuori, in cortile, non mi sarei dato tanta pena, non avrei trovato la Une in bagno e...

«Pan, dove l'hai trovato il lassativo?» ho chiesto, attirando l'attenzione dei nostri amici. Lei ha rischiato di affogarsi col succo d'arancia. Mentre tossiva, Alex le dava pacche sulle spalle per aiutarla a riprendere fiato.

«Che cazzo ne sai tu del lassativo?» mi ha aggredito lei.

«L'ho... visto nella tua borsa!» ho risposto, spaventato.

Si è alzata in piedi, furiosa, sbattendo il bicchiere sul tavolo. Credevo che, presto, avrei sentito lo stesso odore che c'era nel bagno della Une, ma questa volta sarebbe provenuto dai miei pantaloni. «HAI FRUGATO, BRUTTO LADRO!» ha gridato, attirando gli sguardi di tutta la sala.

«Oh, cielo, arriva Sark!» ha esclamato Alex, scattando in piedi. Davanti a noi, si è materializzato il professore biondo di cui Alex ci aveva parlato, dicendoci, tra le altre cose, che è un torturatore.

Si è fatto avanti, ma mi ha salvato, perché ha afferrato la mano di Pan, impedendole di darmi un pugno.

«Suvvia, sono sicuro che ci siamo modi più civili per...» ha guardato da lei a me con aria di sufficienza. «Per discutere.»

«Per esempio?» ha ringhiato mia sorella, col pugno pronto a colpire il mio naso.

«Nei paesi arabi, usano tagliare la mano destra dei ladri.» ha continuato Sark, freddamente.

«Professore, non credo che dovrebbe dare certi suggerimenti...» ho sentito dire ad uno spaventatissimo Alex. «Non a Pan, almeno...»

Ma mia sorella aveva già afferrato un coltello. «Buona idea!» ha approvato. Mi aveva afferrato un polso e, balbettando sconclusionatamente, cercavo di sottrarmi: già mi vedevo senza mano destra, urlante e con fiotti di sangue che sgorgavano dal mio povero braccio mutilato.

Inutile. Non aveva imparato la lezione.

Quando era riuscita ad imprigionare la mia mano sul tavolo, il polso teso, pronto per essere sacrificato, Sark ha afferrato quello di Pan.

«Ma...» ha continuato, opponendo fiera resistenza alla forza di mia sorella che, rabbiosa, guardava il mio polso, desiderosa di tagliarlo. «Qui non siamo in un paese arabo, o mi sbaglio?»

«Mi lasci!» ha ringhiato Pan. «Questo disgraziato merita una punizione!»

«Mi sbaglio?» ha ripetuto lui.

Pan ha stretto la sua presa d'acciaio sul mio polso. Il silenzio regnava sovrano nella sala. Sudavo copiosamente, mentre cercavo di tirare via la mano dalla stretta salda di Pan, con scarsissimo successo. Avevamo gli occhi di tutti puntati addosso e non volava una mosca.

«Ha frugato nella mia borsa!»

«Mi sbaglio?»

Perdevo velocemente sensibilità, qualcuno aveva cominciato a borbottare, forse per scommettere su chi dei due, tra Pan e Sark, l'avrebbe avuta vinta. E io già sentivo di rimpiangere il momento in cui credevo che fosse scomparsa.

«Ha invaso la mia privacy!»

«Mi sba-glio?» ha chiesto Sark, facendo maggiore sforzo per trattenerla.

«Cazzo, non sa dire altro?»

Si sono fronteggiati a lungo, squadrandosi in cagnesco, cercando un cedimento da parte dell'altro.

«Mi sbaglio?» ha ripetuto Sark per la centesima volta e speravo davvero che Pan rispondesse e che mi lasciasse andare, se proprio non voleva lasciare andare il coltello.

E, infine, dopo quelle che mi sono parse ore, dopo che avevo pregato tutto il pregabile, dopo aver promesso di lavare tutti i giorni la macchina di papà usando una mano sola, dopo aver promesso di aiutare la mamma col giardinaggio e di non pensare più male di nonno Satan ogni volta che torna a casa ubriaco, Pan ha ceduto, sbuffando.

«Cazzo, ma una soddisfazione, nella vita, me la volete dare?» ha chiesto, mentre il professore le riprendeva il coltello.

«Non qui dentro!» ha risposto, glaciale, rimettendo il coltello sul tavolo. «E ora liberi questo povero... invasore di privacy altrui.» Gli sarò grato per tutta la vita, lo giuro.

Ha aspettato che Pan eseguisse l'ordine, per guardarsi intorno e notare tutti gli sguardi curiosi, mentre io mi allontanavo in fretta dalle sue grinfie.

«Beh?» ha chiesto il professore, a voce alta. «Cosa avete da guardare? Lo spettacolo è finito! Finite le vostre colazioni e tornate a preparare le vostre valigie. Scommetto che i pullman sono già fuori che vi aspettano! E lei...» mi ha lanciato uno dei suoi peggiori sguardi di ghiaccio. «vada a vestirsi. Non credo che l'ultimo giorno del trimestre sia una buona scusa per credere di essere già a casa, non trova?»

Non sapevo cosa rispondere: come potevo raccontare che ero in quelle condizioni perché avevo cercato mia sorella in lungo e in largo, prima di scoprire che non era mai scomparsa?

Lui non ha chiesto; è semplicemente tornato al tavolo degli insegnanti, prima che avessi il tempo di ringraziarlo. Non sono comunque andato a farlo, per paura e per vergogna, ma sono felice che ce l'abbia avuta vinta su Pan, altrimenti ora mi ritroverei con una mano sola.

E' stato con lo stomaco vuoto che, vestito di tutto punto e con le scarpe, mi sono diretto ai pullman, col mio borsone, accanto ad un Alex davvero impressionato.

«Te la sei vista proprio brutta!» mi ha detto.

«Sono con te, amico.» è stato il saluto di Trowa, che mi ha dato una pacca incoraggiante sulla spalla, prima di sparire su uno dei quindici pullman parcheggiati nel cortile. C'erano tutti gli insegnanti con noi, tranne la Une. Alex ha detto che avrebbe dovuto tenere un discorso, ma Zack Marquise ci ha fatto sapere che per “gravi problemi” non avrebbe potuto farlo, ma che mandava tutti i suoi migliori auguri alle famiglie. E io, di quei gravi problemi, ne sapevo qualcosa...

«Buona fortuna!» ha rincarato la dose Tai Yagami, nel frattempo.

«Ci vediamo presto, spero!» mi ha augurato Matt Ishida.

«Non te la prendere!» mi ha detto Frank, mentre sistemavamo la valigia nel vano ai lati del pullman verde militare, forse capendo i miei pensieri. Ci siamo avviati verso la porta e abbiamo aspettato il nostro turno per salire. Arale era ai piedi del pullman, che ci aspettava per salire tutti insieme. Non sembrava molto allegra.

«Non me la prendo!» ho risposto, sconsolato. «Sono dodici anni che vivo così!»

«Aveva già provato a tagliarti una mano?» mi ha chiesto Alex.

«La mano no, ma l'orecchio sì!» ho sospirato, mentre, finalmente, riuscivamo a guadagnare l'entrata del pullman. Abbiamo cercato quattro posti liberi. Mentre ci dirigevamo verso alcuni posti vuoti al centro, ho raccontato la storia: «L'anno scorso, stavamo studiando Van Gogh e la professoressa ci aveva detto di disegnare un qualunque soggetto volessimo con la sua tecnica.» ci siamo seduti, Frank vicino al finestrino, io vicino al corridoio. «Beh, Pan voleva per forza farmi un ritratto dove io ero senza orecchio, ma aveva bisogno che lo fossi davvero perché il suo dipinto trasudasse realismo, almeno così ha detto. Mi ha rincorso per tutta la casa ed è anche riuscita ad acchiapparmi!»

«E chi ti ha salvato?»

«La vicina!» ho sospirato, nel ricordare. «Era venuta a portare una torta alla mamma, sai, se le scambiano... ed è questo che l'ha fermata. Poi mi sono dileguato fino alla sera. Sono tornato solo quando c'erano mamma e papà, quindi non mi ha potuto tagliare l'orecchio... in compenso, è arrivata a scuola senza dipinto!»

Alex ha fischiato, impressionato.

Arale, sistematasi davanti a noi, chiedendo uno scambio di posto ad un ragazzo, che è stato molto gentile a cederglielo, si è messa in piedi sul sedile, con le braccia incrociate sul poggiatesta.

«Mi chiedo perché non l'abbiano espulsa.» ha borbottato.

Frank si è stretto nelle spalle, mentre Alex si batteva un pugno sul palmo aperto dell'altra mano. «Forse perché era l'ultimo giorno!»

«Bah...» è stato il commento di Frank.

«Sì, effettivamente non vedo altre spiegazioni...» ha confermato Arale.

«Io vorrei solo sapere perché ha preso quel lassativo!» ho sospirato, guardandola mentre si liberava la fila facendo a spintoni con tutti quelli che le passavano davanti, nel pullman di fronte al nostro.

«E soprattutto dove l'ha preso!» ha esclamato Alex.

«Veramente, è il come, la cosa interessante!» ha risposto Arale. «L'unico posto dove possa aver preso una medicina è l'infermeria!»

«O Heero Yuy!» ha concluso Frank, scontento.

«No...» Arale ha fatto una smorfia. «Non credo che Heero si vada a rifornire di lassativi. La Johnson non glieli darebbe e gli armadietti dei medicinali sono sempre chiusi a chiave.»

«Avrebbe potuto scassinarli...» le ha fatto notare Frank.

«La Johnson è sempre in corsia.»

«Non ci credo che gliel'ha dato lei!» ha esclamato Alex, con veemenza. Ma poi ha scosso la testa. «La Johnson non ha mai dato medicine al di fuori dell'infermeria!»

«Magari Pan l'ha preso senza che se ne accorgesse!» ho proposto.

«Impossibile!» ha ribattuto Alex. «La Johnson è un mastino, quando si tratta del suo lavoro!»

«Non dimenticare che l'infermeria nell'ultimo periodo era piuttosto affollata! Qualcuno avrebbe anche potuto non vederla!» ci ha fatto notare Frank. Guardava fuori dal finestrino, verso il pullman dentro cui si era sistemata Pan. Sembrava molto concentrato, anzi, direi proprio arrabbiato.

Nel momento stesso in cui l'autista ha messo in moto, provocando la ola di tutti quanti intorno a noi, lui si è riscosso.

«E' stato piuttosto semplice, quindi!» ha detto, mentre dagli ultimi posti dei ragazzi avevano attaccato a cantare una canzone che non conosco. Si è piegato un po' in avanti, guardando prima me, poi Arale ed infine Alex. «Lei ha approfittato della confusione degli ultimi giorni del trimestre. Avete visto tutti quanti! Tu, Ken, l'hai sperimentato: la Johnson era oberata di lavoro e chiunque entrasse in infermeria non veniva notato o comunque la Johnson lo acchiappava per farsi aiutare e prendere le medicine. Mettiamo che Pan sia andata in un momento di maggiore caos, abbia trovato l'armadietto dei medicinali o ce l'abbia mandata la Johnson. Non sarebbe stato difficile farsi scivolare per sbaglio un lassativo in tasca, no?»

Lo seguivamo interessati, appassionati come ad una storia gialla. Peccato che, in questa, ci fossimo dentro anche noi e, soprattutto, mia sorella. «Aveva il modo e i mezzi per riuscire ad “avvelenare” la Une. Non ha chiamato nessuno, è scesa in cucina senza fiatare e non ha neanche urlato per svegliare tutta la camerata! Un comportamento molto sospetto, non trovate?»

Abbiamo annuito.

«Ha apparecchiato, da sola, il tavolo degli insegnanti e poi... beh, ha infilato il lassativo nelle uova della Une. Avete sentito Ken, no? L'ha trovata in bagno...»

Avevo raccontato, a grandi linee, la vicenda durante la nostra discesa verso il cortile, ricordandomi di aggiungere il fatto che la cacca della Une puzza come quella di mio nonno, cosa che ha suscitato l'ilarità di tutti e quattro. Sì, ripensandoci quella è proprio una scena da manuale.

«E se l'è presa perché Kenny, involontariamente, l'aveva scoperta...» ha concluso Arale.

«Già...»

Abbiamo sospirato tutti quanti, all'unisono, mentre quelli in fondo cercavano di coinvolgere il resto del pullman in un'altra canzone.

«Vorrei che la smettesse di comportarsi così!» ha esclamato Frank, proprio mentre attraversavamo a passo d'uomo il muro di cinta dal quale ero entrato in caserma quattro mesi prima, con quell'imbarazzante macchina rosa. Mi sembrava passata un'eternità da quel momento. Ci sono entrato così velocemente e così lentamente me ne stavo andando. Uno strano scherzo del destino... «Che ci guadagna?»

«Bah, non la capisco proprio!» ha risposto Arale. «E non è neanche così stupida, se ha ordito tutto questo!»

«Che ne dite se la smettiamo di parlare di Pan? Senza offesa, Ken, ma...» Frank ha scosso la testa, ma lo capivo. Ho annuito volentieri, mentre il resto del pullman intonava una canzone che conoscevo.

Ho dato fondo alle mie corde vocali e mi sono unito a loro, cercando di non pensare ai terribili momenti che ho passato, mentre Pan quasi mi tagliava una mano. E il bello, ricordavo, era che gliel'aveva suggerito Sark.


Il viaggio è durato quasi quanto quello d'andata, forse un'ora o due in meno: non c'era molto traffico per le strade. I quindici pullman avevano strada libera, solo che dovevano rispettare i limiti di velocità che, su quelle strade, è parecchio basso per i mezzi grossi. Ma tutti siamo stati recapitati alla stazione degli autobus di Tokyo verso le tre e mezza del pomeriggio. La stazione era praticamente invasa da mocciosi in divisa nera.

«Ma non è la stazione civile!» mi ha spiegato Frank, mentre cercavamo disperatamente le nostre valigie nel vano portabagagli. «C'è proprio una zona dedicata ai militari... ecco, tieni, Ken, questa è tua!»

Mi ha passato la mia valigia, ma non mi sono spostato: volevo aspettarlo, così da essere tutti insieme per i saluti e gli auguri. Avevo totalmente perso di vista Pan e la cercavo tra la fiumana di divise nere, ma senza successo: dopo un po', i volti mi sono parsi tutti uguali.

Non appena Frank ha ritrovato il suo bagaglio, ci siamo aperti un varco tra la muraglia di studenti che si accalcavano per riprendersi le loro cose e ci siamo avviati verso l'uscita, dove, ad aspettarci, c'erano Alex e Arale, tutti e due provvisti di un solo zaino.

«E' lì tutto quello che vi serve?» ho chiesto, perplesso, mentre trascinavo la mia borsa a fatica.

«Tanto non è che mi sono portata il guardaroba, in caserma!» ha esclamato Arale, facendo spallucce. Ha squadrato il mio bagaglio. «Tu, piuttosto, dobbiamo stare via due settimane, non due mesi!»

Non potevo dirle che non avevo mai preparato una valigia da solo prima d'ora, quindi ho preferito tacere e distogliere l'attenzione da me.

«E tu, Alex?»

«Io mi faccio prestare qualcosa da mio fratello Martin!» ha risposto lui, con leggerezza. Era così che scoprivo che Alex aveva un fratello. Mi sovviene solo ora che non ha mai parlato della sua famiglia e ho visto, stranamente, Arale scoccargli un'occhiata sospettosa come non accadeva da giorni. L'unica cosa che mi sono ricordato e che ricordo ancora è che lui una volta ci aveva parlato di sua madre e delle ragazze di cui si doveva occupare, ma che non erano le sue sorelle. Sono ancora piuttosto confuso, a riguardo.

Il mio amico si è sistemato meglio lo zaino sulle spalle e ci ha rivolto un mezzo sorriso. «Beh, gente... ci vediamo.» ha stretto la mano a Frank e gli ha dato una pacca sulla spalla; lo stesso ha fatto con me e ha abbracciato Arale. Poi si è diretto all'uscita ed è sparito tra la folla che lo stava imitando.

Non credevo mi sarebbe dispiaciuto così tanto dover salutare un amico, anche se solo per due settimane.

«Beh, vado anch'io.» ha detto, a quel punto, pure Frank, con un mezzo sorriso impacciato. «Credo mi stiano aspettando!»

Ha indicato un uomo alto e smilzo, vestito di scuro, ma, da quel che ho potuto vedere, non era un militare. Sembrava più un uomo d'affari rigido e inflessibile, con quei suoi baffetti perfetti e lo sguardo severo.

«Quello è tuo padre?» ho chiesto, curioso.

«Cielo, Kenny, non hai mai visto Douglas Kushrenada in vita tua?» ha sospirato Arale, sconsolata.

Ho scosso la testa.

Frank, però, ha riso e mi ha dato una pacca sulla spalla. «No, Ken, quello non è mio padre. Quello è Kenzo, il mio autista!»

Gli occhi di Arale sono diventati enormi come palloni, più o meno come la mia bocca spalancata.

«Tu... hai un autista personale?» ha chiesto la mia amica, senza fiato. Io rimanevo sconvolto, mentre ancora squadravo quel tipo di nome Kenzo che si avvicinava a noi con passo cadenzato, quasi quanto quello della Une.

Ci ha fissato a lungo, soprattutto a me che ho mantenuto una faccia da pesce lesso molto più a lungo di Arale. «Signorino Kushrenada, la macchina la attende!» ha detto, compito.

«Sì, arrivo subito... ehm... saluto... i miei amici!» ha risposto Frank, dopo un attimo di esitazione. Sembrava diventato tutt'altra persona rispetto a prima. Ci ha stretto la mano, rigido e formale come non lo era da quando ci siamo conosciuti. «Allora, arrivederci presto. Auguro a voi e alla vostra famiglia tanti auguri di Buon Natale e di felice Anno Nuovo!»

«Ehm... grazie.» ho mormorato, perplesso, facendo, in automatico, un piccolo inchino di ringraziamento. Arale ha fatto lo stesso, molto più allegra.

«Ci sentiamo presto! Anzi, guarda...» ha messo in mano a lui e a me un fogliettino con su un numero di telefono. «Questo è il numero di casa. Chiamatemi, mi raccomando!»

«Non mancheremo.» ha esclamato l'autista per Frank che guardava il foglietto perplesso. Sono rimasto piacevolmente sorpreso e ho guardato Arale, sorridendo.

«Certo!»

«Adesso andiamo, signorino Kushrenada, suo padre la sta aspettando. Deve presenziare al party organizzato da sua madre, per il suo ritorno...»

«Sì, certo...» ha risposto lui e, senza rivolgerci un solo sguardo, se n'è andato. Mentre si allontanavano, però, ho sentito qualcosa che mi ha leggermente infastidito. Il maggiordomo diceva qualcosa che somigliava molto a: «Non dovrebbe farsi vedere in giro con certa gente, signorino Kushrenada, se posso permettermi. Un giovane del suo rango non dovrebbe abbassarsi ad accompagnarsi con gente di tale risma! Uno dei due ha almeno un titolo nobiliare?»

Avrei voluto rispondergli che la mia amica ed io non siamo “gente di tale risma” e che lui era solo un dipendente del giovane di alto rango. Ma non l'ho fatto: un po' per mancanza di coraggio, un po' perché Pan mi ha preso alle spalle, battendovi sopra così forte da farmi lamentare a voce alta.

«Kenny, brutto idiota, se non ci muoviamo, mamma manderà i Caccia bombardieri a cercarci!» mi ha detto. Quello era davvero il modo migliore per dimostrare di non essere plebaglia, ma va beh... si sa che con Pan nei dintorni non bisogna mai fare programmi.

«Ehm... sì.» è stata l'unica cosa che ho risposto, memore di quella mattina. «Ciao, Arale.» ho alzato la mano che ancora stringeva il suo numero di telefono. Ho abbozzato un sorriso in sua direzione. «Ti chiamo, allora!»

Lei è diventata il ritratto della felicità ed ha annuito. «Ci conto, eh!» ma prima che potessi allontanarmi, mi si è gettata al collo. «Ottimo piano, Kenny!» ha detto al mio orecchio. Giuro che sono rimasto molto confuso, finché non ha continuato: «Tenere d'occhio Alex e Frank fingendoci loro amici! È stato un colpo di genio e se l'avessi capito prima, ti avrei dato una mano! Ah, sei così coraggioso! Incastrarli, in questo modo, sarà un gioco da ragazzi! Sei un attore nato, ma anche io non me la sono cavata male!»

«Ma... ma veramente...»

Lei mi ha lasciato andare e mi ha rivolto un sorriso raggiante. «Smettila di fare il modesto. Ci vediamo a gennaio!» mi ha detto, ed è sparita tra la folla, mentre Pan mi ha afferrato per la collottola, come ad un cane.

«Ti sei messo con la tappa della Norimaki?» mi ha chiesto, senza preamboli.

Ho ricambiato terrorizzato il suo sguardo: io mettermi con Arale, con una pazza siderale che crede che io voglia essere amico di Alex e Frank per incastrarli?

«Eh? Ma che dici?»

«Ma no, niente...» ha sbuffato lei, prendendo a guardarsi intorno. «Figurati se tu, con la fama di frocio che hai, potevi metterti con una ragazza!»

Non ho detto niente, ma non è comunque giusto che mi tratti così! Capissi se le ho mai fatto qualcosa di male: l'unica volta in cui sono stato io a vincere contro di lei è stato da bambini, quando dovevamo decidere che cartone animato vedere e poi ha deciso nonno Goku che voleva vedere quello che volevo vedere io.

Un attimo dopo, però, quando stava per riprendere a parlare, li ho visti: i nostri genitori, fermi di fronte alla macchina rosa che avevo visto l'ultima volta andare via dal cortile della caserma. Ci guardavano e non si muovevano, come se avessero avuto paura che potessimo non essere noi. Mi chiedevo se fossimo così cambiati in quattro mesi.

«I NOSTRI VECCHI!» ha urlato mia sorella.

Un attimo dopo mi ha inaspettatamente gettato addosso il suo borsone, facendomi crollare a terra: dentro, sembrava che ci fossero dei mattoni e, invece, erano tutti i suoi giornalini.

Mamma ha cominciato ad urlare, sgranando gli occhi, piena di terrore. «ODDIO!» ha gridato.

Pan, però, incurante, ha cominciato a correre con le braccia tese. «MAMMA, PAPA', DOV'E' NONNO SATAN?»

La mamma l'ha imitata, ma non urlava, guardava verso di me con terrore. Si sono corse incontro, come in quelle scene idilliache che si vedono solo nei telefilm strappalacrime con tanto di musica celestiale in sottofondo. Solo che, stavolta, la musica avrebbe dovuto essere un requiem tragico: tra me che tentavo di rialzarmi da sotto quel peso immane, Pan che correva verso la mamma e la mamma che correva verso di me, credo che ci sarebbe stata proprio bene.

«MAMMA!» ha gridato Pan.

«KENNY!» ha gridato la mamma, sorpassando Pan, senza neanche guardarla. Si è gettata su di me, tirando via il borsone dal mio sterno, poi ha cominciato a stringermi forte, togliendomi il respiro. «IL MIO BAMBINO! COM'E' SCIUPATO IL MIO BAMBINO!»

Nel mio agonizzare, vedevo Pan, a metà strada tra mamma e papà, sconvolta e sconcertata, mentre guardava noi, a terra, abbracciati. E, dopo essersi ripresa, ha cominciato a battere a terra un piede.

«DOVE CAZZO E' MIO NONNO? AVANTI, SALTA FUORI, VECCHIO DI MERDA!» diceva, guardandosi intorno forsennatamente. «MUOVITI, VECCHIA BAVOSA! C'E' LA TUA UNICA NIPOTE QUI!»

Attimi di panico. La mamma ha smesso di stringermi come una piovra e si è alzata. Nei suoi occhi vedevo solo furore.

«PAN!» ha gridato, furiosa. «SMETTI SUBITO DI URLARE! NON TI HO MANDATO IN UNA SCUOLA PER CALMARTI?»

«STAI ZITTA, VECCHIA MEGERA!» è stata la risposta di Pan. «SONO MESI CHE NON CI VEDIAMO E TU VAI AD ABBRACCIARE KENNY!»

La gente aveva cominciato a fermarsi, il traffico era bloccato perché loro erano in mezzo alla strada e le auto cominciavano a suonare i clacson con insistenza. Papà si è avvicinato al campo di battaglia con circospezione, forse per evitare di rimanere ucciso dalle urla.

«STAVI AMMAZZANDO TUO FRATELLO E POI PRETENDI ANCHE CHE TI ABBRACCI!»

«CERTO! ADESSO ANCHE LA PREFERENZA SUI FIGLI! COME MADRE SEI UNA MERDA!»

«NON OSARE, PAN! SE NON LA FINISCI, TI TENGO IN PUNIZIONE FINO A CHE NON TORNI IN CASERMA!»

«OSO! ECCOME SE OSO! LO DEVONO SAPERE TUTTI CHE SEI UNA MERDA!» e così ha cominciato a guardarsi intorno, incrociando gli sguardi terrorizzati di quelli che stavano guardando la scena. Ha indicato la mamma, mentre urlava: «LA VEDETE QUESTA DONNA? E' UNA MERDA CHE PREFERISCE SUO FIGLIO A SUA FIGLIA! CAPITO? E' UNA MERD...»

«ORA BASTAAA!» la mamma, facendomi perdere un battito, si è gettata su Pan. Hanno cominciato ad azzuffarsi sull'asfalto, mordendo e scalciando. Solo a quel punto, papà ha davvero avuto il coraggio di avvicinarsi ed ha strappato Pan dalle grinfie di mamma, tenendola per le braccia; mia sorella si dimenava, scalciava e latrava, i denti digrignati come una belva.

«LASCIAMI! LASCIAMI!» sbavava.

Per tutta risposta, un secondo dopo, è arrivata la polizia a sirene spiegate e ci ha arrestati tutti e quattro.


Dopo quattro ore in centrale, dove ci hanno lasciati tutti e quattro in cella (io e papà in una, mamma e Pan in due separate), un poliziotto è venuto davanti alla nostra cella.

«Nome, prego.» ha esclamato. «Devo fare il verbale! E VOI DUE SMETTETELA!» ha gridato, rivolto a Pan e mamma, che continuavano ad urlare come due forsennate parole che non comprendevo nel rimbombo della stanza. Subito, nel sentire urlare il poliziotto, tutte e due si sono zittite e lo guardavano sconvolte. «Grazie.» ha replicato quello, secco. Poi è tornato a guardare papà. «Insomma, le sue generalità.»

«Ehm... sono... sono Gohan Iccijojji.» ha risposto papà, debolmente. Quello ha inarcato un sopracciglio.

«Mmm... Iccijojji, eh?» ha detto, lentamente.

«Sì.» ha confermato papà, che ne capiva quasi quanto me.

«Bene. Torno subito.» il poliziotto è sparito così com'è arrivato e la mamma e Pan sono tornate alla loro rumorosa lotta verbale. Io e papà ci siamo lanciati uno sguardo sconfitto, silenziosi come quando ci hanno messo le manette ai polsi. Un po' strano che, a dodici anni (tredici, a giugno), un ragazzo sia già stato messo in galera. Ancora più strano che il suddetto ragazzo sia messo in galera insieme a tutta la sua famiglia.

Proprio mentre ero perso in questi pensieri, è arrivato un uomo vestito di marrone, anziano, i baffi pettinati e grigi come i capelli, l'espressione severa e gli occhiali rettangolari.

«Sono l'ispettore Soichiro Yagami.*» si è presentato, fermandosi di fronte alla nostra cella, con le mani dietro la schiena.

«Salve.» ha salutato papà, mentre io mi sono limitato ad un cenno della testa. Yagami... che fosse un parente di Tai o era solo un caso di omonimia? Dovrò chiederlo al mio compagno quando torno in caserma.

La mamma e Pan, intanto, continuavano la loro guerra.

«INSOMMA, SILENZIO!» ha gridato il poliziotto che, prima, ci aveva chiesto il nome. Tutte e due, di nuovo, si sono zittite.

«Grazie.» è stato tutto quello che ha detto l'ispettore Yagami, prima di prendere dalla tasca dei pantaloni una chiave. «E ci scusi, signor Iccijojji. C'è stato un terribile equivoco.»

«E-equivoco?» ha ripetuto papà, sconvolto quasi quanto me, mentre l'ispettore ci apriva la porta della cella. «Po-possiamo andare?»

«Sì, certo, signor Iccijojji.» ha risposto quello, serio. Sembrava quasi scocciato. «Gliel'ho detto, c'è stato un equivoco. Su, venite fuori. Lei,» si rivolse al poliziotto. «liberi le due donne.»

«Sì, signore!»

«Ma...» mentre papà usciva, seguito da me, si è fermato davanti a Yagami. «Ma lei è sicuro che...»

«Le ho detto di andare.» ha risposto quello, diventando improvvisamente glaciale, proprio come Sark. «Un agente vi accompagnerà fuori. Buon Natale, signor Iccijojji.»

«Buon Natale anche a lei, ispettore.» gli ha augurato papà. Yagami lo ha fulminato con lo sguardo.

«Vada, vada!» ha esclamato, allungando un braccio verso la porta. Papà ha annuito: ormai aveva capito anche lui che non siamo graditi neanche in prigione. Credo che il nostro sia l'unico caso di scarcerazione per cattiva condotta.

«Lo sa?» ha cominciato la mamma, puntando un dito accusatore contro l'ispettore Yagami a cui stavano cominciando a tremare i baffi, mentre a me le gambe: ero sicuro che, se mamma avesse offeso un ufficiale di polizia, dalla galera non ci toglievano neanche se cadaveri. «Lei è un gran maled... Gohan!»

Papà l'ha presa per le spalle, ha guardato me e Pan che, per quanto vicini, non ci siamo sfiorati neanche con un dito ed ha esclamato: «Andiamo, cara. Forza, ragazzi, si è fatto tardi.»

Mentre uscivo, sono sicuro di aver sentito distintamente l'ispettore Yagami sospirare. Ed era un inequivocabile sospiro di sollievo.


Siamo saliti in macchina alle sette e mezza di sera. Il viaggio fino a casa è stato silenzioso, ma quantomai teso. Tutti guardavamo fuori dal finestrino, ognuno per conto suo (tranne papà, naturalmente, che guardava la strada), ognuno perso nei propri pensieri, io troppo sconvolto per aver passato quattro ore chiuso in una cella e sbattuto fuori non perché innocente, ma perché casinista! Forse, se il senatore Douglas Kushrenada lo venisse a sapere, non mi darebbe il permesso di respirare la stessa aria che respira suo figlio e Arale penserebbe che sono stato condizionato dalle cattive compagnie.

Quando siamo scesi, però, ho capito subito che c'era qualcosa che non andava, che era cambiato qualcosa: la macchina rossa nel vialetto del garage, per esempio.

«Chi cazzo ha parcheggiato nel nostro garage? Chi è lo stronzo che...» ha cominciato ad inveire Pan, rompendo quel silenzio teso.

«Nessuno stronzo!» ha risposto mia madre, acida. «E' tutto perfettamente normale!»

«E come mai?» ho, finalmente, avuto il coraggio di aprire bocca.

«Ora lo vedrete!» ha tagliato corto lei. E' scesa dalla macchina e, una volta che tutti siamo stati in strada, seguiti dagli occhi indagatori di tutti i vicini, ci siamo diretti verso la porta di casa, riverniciata di uno stranissimo colore viola.

Mi aspettavo di tutto, tranne quello. E non parlo della porta.


*****


* Soichiro Yagami, Death Note


Bene, bene, bene. Ecco qui il capitolo tredici. È un peccato non poter inserire quello natalizio proprio durante questo periodo di festa, dato che comunque ce ne vuole un altro prima di arrivare al cenone cruciale e visto anche che pubblico con una frequenza piuttosto bassa. Comunque, a parte questo, ho inserito anche i personaggi di Death Note che saranno abbastanza marginali, a parte qualcuno, che vedremo nel capitolo di cui ho parlato qualche riga più su. Ora abbiamo solo qualche domanda in più: di chi è l'auto rossa? E cosa dovrà aspettarsi Kenny, una volta varcata la porta di casa?

Spero sia stato di vostro gradimento. ^^

Luine.

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Capitolo 14
*** Il quinto incomodo ***


Vacanze natalizie.

Il quinto incomodo



Beh, sì. La giornata non è ancora finita. Sono successe così tante cose che sembra non possano bastare ventiquattro ore perché possano davvero essersi concentrati tanti fatti tutti insieme. Eppure è così: dopo la sparizione di Pan, i lassativi, la mia mano che stava per lasciarmi e la prigione, adesso anche quello.

Sulle prime, la casa, al suo interno, mi sembrava sempre la stessa; gli stessi mobili, gli stessi quadri e gli stessi tappeti, sia nell'ingresso, che nel salotto. Era solo la persona nella cucina ad essere estranea.

Era un ragazzo, beh, diciamo un uomo, alto, magro, coi capelli di uno strano colore verde acqua e un codino, il viso sfilato e gli occhi sottili e marroni. Stava mangiando dentro uno dei nostri piatti quella che somigliava ad una pizza.

La mia prima sensazione? Panico. Allo stato puro.

Quando siamo entrati, la mamma, in mezzo a me e Pan, ci ha posato una mano ciascuno su una spalla. Non ero pronto a tutto quello, non ad un ladro che pensava bene di cenare da noi, magari dopo aver arraffato il bottino. Il bello, però, era che il ragazzo non aveva nessun sacco con sé. Si è alzato in piedi, non appena ci ha visto.

«Oh, Videl, mi dispiace!» ha esclamato, con aria gentile. Già non mi piaceva. Un ladro falso e ipocrita che conosceva il nome di mia madre. Non ci avevo pensato su molto, in quel momento; non mi ero chiesto come mai quel tizio scialbo conoscesse il nome della mamma. Ero troppo impegnato a pensare ad un modo per stordirlo. «Credevo non sareste tornati per cena e... spero che non ti dispiaccia!»

Okay. A questo punto, pensandoci o meno, ho capito che qui c'era davvero qualcosa di strano: da quando in qua un ladro parla così al padrone di casa, quasi lo conoscesse? Per un po' sono stato convinto che i miei genitori avessero deciso di frodare l'assicurazione su furto e incendio.

«Oh, no, caro! Hai fatto benissimo.» ha risposto, però la mamma, tutta zuccherosa. Ho alzato lo sguardo su di lei che osservava il ragazzo con un certo, mi secca ammetterlo, affetto. «Dopotutto, questa è diventata anche un po' casa tua... ma, Mizar*,» è stata gioviale come non è mai stata (un po' casa sua? Ma stiamo scherzando?). «ti presento i miei figli, Pan e Kenny!»

Gli ho lanciato un'occhiataccia che speravo potesse raggelarlo, ma io non sono bravo come Pan che, disgustata, lo guardava dall'alto in basso e sembrava, con mio grande piacere, riuscire a metterlo in soggezione. Se quello era un ladro, e se la mamma lo conosceva e lo trattava come se fosse uno di famiglia, allora lui era uno di quei truffatori che si insinuano nelle case delle vecchiette per fregare loro la pensione. Ma perché aveva scelto proprio noi, questo mi sono domandato, quando c'era la signora in fondo alla strada? E perché la mamma gli ha aperto la porta e lo ha anche invitato a restare, magari lasciando tempo ai suoi complici di svaligiarci mentre i miei erano alla stazione degli autobus e poi a quella di polizia?

«Ma bene!» ha esclamato, però, mia sorella, distogliendomi da tutte queste teorie cospirative. «Adesso anche il ragazzo alla pari. E poi? Uno stuolo di schiavetti che cospargono la nostra via di petali di rosa e ci spazzolano anche il culo?»

La mamma le ha dato una sonora pacca sulla spalla, mentre stringeva di più la mia. Ho evitato di lamentarmi, concentrato com'ero su quel tipo che, in casa nostra, si mangiava una pizza, rubava le pensioni e... faceva il ragazzo alla pari?!

«Andiamo, Pan! Non è il ragazzo alla pari! Lui è Mizar e viene da Asgard.»

Ecco, appunto. Dopo queste parole, sono stato ancora più convinto della veridicità delle mie teorie.

«E dove cazzo sarebbe?» è stata l'acida domanda di Pan che, per tutto il tempo, non gli ha staccato gli occhi di dosso, minacciosa e battagliera, proprio come avrei voluto sembrare io.

«E' in Norvegia, molto a nord.» ha detto il tizio, con un debole e quantomai falso sorriso. Sembrava a disagio, ma forse perché non si aspettava di poter incontrare due giovani e quantomai agguerriti ragazzini pronti a difendere con le unghie e con i denti la loro casa e i loro ingenui genitori. Più lo guardavo e più mi stava antipatico. E anche adesso, se ci penso, mi viene una rabbia che andrei a prenderlo a cuscinate. DORME NELLA STANZA DI NONNO SATAN, PER LA MISERIA!

«Non te l'ho chiesto.» ha tagliato corto Pan. «Mamma, questo coglione, che cazzo ci fa in casa nostra, se non è il ragazzo alla pari? Vuoi dire che è davvero uno schiavetto?» sul suo viso si è delineato un sorriso sadico.

«Ma no!» ha sbottato la mamma, indignata. «Mizar è un inquilino!»

«Inquilino?» ho ripetuto, cercando nel mio vocabolario mentale il significato di quella parolaccia. Ma mia sorella ha interrotto la mia ricerca con la sua solita finezza:

«Significa che gli piace prenderlo nel culo?»

«PAN, PIANTALA DI ESSERE VOLGARE!» ha gridato la mamma, isterica. Poi si è rivolta a quel faccia-da-triglia, di nuovo zuccherosa: «Scusala tanto, Mizar, ma sai... Pan è un po'... turbolenta

Lui stava per dire qualcosa come un ipocrita «mi dispiace», ma mia sorella l'ha di nuovo fermata sul più bello: «Turbolenta un cazzo!» ha indicato quell'usurpatore, ma fissando rabbiosa la mamma. «Tu mi metti un tipo in casa e devo anche essere contenta?»

«Ehm... non dovremmo... parlarne da un'altra parte?» ha proposto papà, che stava rientrando con i nostri bagagli, ammonticchiati su una spalla.

«No!» ha esclamato il tizio, riprendendo a parlare, dopo le due frasi inutili che si poteva anche risparmiare. «Ehm... credo di... dovermene andare io.»

«Esatto, cocco!» ha confermato Pan, con cattiveria, ma, per una volta, ho approvato in pieno la sua condotta. «Quindi, adesso prendi tutte le tue belle cose, te le ficchi dove vuoi e vai a fanculo.»

Non l'avesse mai detto (anche se, devo ammetterlo, ero più che d'accordo con lei): la mamma non l'ha presa molto bene e, anzi, si è messa ad urlare proprio come ha fatto per strada. Ho pensato che i vicini avrebbero chiamato la polizia e l'ispettore Yagami, stavolta, non sarebbe stato così benevolo, nei nostri confronti.

«NON TI PERMETTO DI PARLARE COSI' AD UN OSPITE!»

«Ma non era un inquilino?»

«FA LO STESSO! CHIEDI SUBITO SCUSA!»

«MAI!»
«CHIEDI SCUSA!»

«NO!»

«SI'!»

«NO!»

«SI'!»

Pan le ha puntato un dito addosso, liberandosi della sua stretta e dando le spalle a quel faccia-da-pesce-lesso che guardava la scena allibito. Ma, per una volta, non potevo dargli torto: quelle due riuscirebbero a spaventare persino Terminator.

«SEI UNA MERDA! PREFERISCI UN ESTRANEO AI TUOI FIGLI!» ha gridato, esattamente come in strada. Non ero pronto ad una nuova performance, ma almeno sono stato contento che “Mizar” lo fosse ancora più di me.

«PROVA A RIPETERLO SE HAI IL CORAGGIO!» ha gridato in risposta la mamma, puntando a sua volta un dito contro Pan che non si è lasciata intimidire neanche per un istante.

«LO DICO E LO RIPETO: SEI UNA MERDA!»

E, per tutta risposta, mamma le ha dato uno schiaffo e Pan ha risposto allo stesso modo. Un secondo dopo, hanno ripreso la stessa scenetta della strada, solo che, al posto dell'asfalto, il campo di battaglia era la cucina e l'unico spettatore ignaro e terrorizzato era Mizar. Bene. Inquilino o meno, sarebbe scappato a gambe levate. Non vedevo l'ora.

Papà è riuscito a sgusciare in cucina, mentre io mi appiattivo contro la parete per evitare di essere messo in mezzo.

«Ehm... non ti preoccupare, ma sai...» ha ridacchiato, nervosamente, rivolto all'“ospite”. Ecco, quindi, se lo tranquillizzava il mio desiderio sarebbe sfumato. «loro fanno spesso così...»

«Ah... ehm... bene.» è stata la risposta sconcertata di Mizar che guardava mia madre e mia sorella a terra che, in un groviglio di gambe e braccia, scalciavano e si picchiavano senza tregua, lanciando acuti come scimmie urlatrici. «E... non sarebbe il caso di fermarle?»

«Sei proprio un ottimista.» è sfuggito dalle mie labbra. Un attimo dopo, mi sarei dato un colpo in testa: familiarizzare col nemico non era esattamente il mio intento e non lo sarà MAI.

«Beh... ehm... io... andrei in camera, allora.» ha mormorato. Ecco: quel prepotente norvegese, dopo che gli avevamo chiaramente detto (beh, Pan almeno) che non era il benvenuto in casa – e la lotta tra Pan e mamma lo confermava – aveva la faccia tosta di dire che tornava in camera! Se fosse stato un altro, avrebbe preso i suoi bagagli e cercato un albergo per non farsi mai più rivedere e, invece...

«Papà...» mi sono avvicinato a lui e gli ho preso la mano, guardando Mizar come se avesse voluto rubarmelo. «Ma, dimmi, dove dorme lui?» ho fatto un cenno verso l'usurpatore, come se neanche fosse presente. Volevo assolutamente che capisse una volta di più di non essere affatto il benvenuto e che ero disposto a tutto – al pari di Pan – per vederlo andare via e ripristinare l'ordine in casa Iccijojji.

«Nella stanza di nonno Satan!» ha risposto papà, con naturalezza.

«Dorme con il nonno?» ho gridato, sconcertato.

Non avrei mai pensato che il nonno potesse davvero condividere il suo regno con chicchessia: persino Pan non era gradita in quella stanza. Perché uno sconosciuto qualunque sì?

Ma queste parole hanno risvegliato Pan che, smesso di lottare con la mamma, è balzata in piedi, guardandosi intorno inferocita. «DOV'E' IL NONNO?» ha urlato, ricordandosi, come me, che non era venuto a salutarla, il che è ben strano, ricordando soprattutto con quale tristezza l'ha lasciata in caserma. «NONNO!» ha gridato, isterica, correndo fuori dalla stanza.

«VIENI SUBITO QUA!» le urlava dietro la mamma, strisciando a quattro zampe fuori dalla cucina, malandata per i colpi ricevuti. Ma Pan, come era prevedibile, non ha ubbidito. Correva per casa, chiamando a squarciagola un nonno che non avrebbe mai risposto.

In cucina, io, papà e quell'usurpatore aspettavamo che la burrasca fosse finita e mi chiedevo se la scomparsa del nonno non fosse simile a quella di Pan di quella mattina. Ma nell'intimo ero anche preoccupato: chi mai tratteneva il nonno dall'andare a salutare la sua nipotina adorata? Che gli fosse successo qualcosa?

«Papà... ma il nonno... che fine ha fatto?» ho chiesto, timoroso di una risposta.

«Se n'è andato.» ha risposto lui, mortificato. «C-cosa?!» mi è crollato il mondo addosso. Non potevo credere che nonno Satan, sempre così energico e pieno di vitalità, potesse essere morto così all'improvviso. «Pe-perché non ce l'avete detto?» ho balbettato, mentre sentivo le lacrime lottare per venire fuori. Non è mai stato un nonno affettuoso con me, ma, a modo mio gli volevo bene e, sono sicuro, anche lui ne voleva un po' a me. In fondo in fondo, anche io ero suo nipote, esattamente come Pan.

«Ma perché ormai era programmato da tempo... ci pensava da un bel po', poi, quando ve ne siete andati... non c'era più niente per trattenerlo qui.» ha risposto lui.

«Ma... ma...» ho cominciato a piangere, incapace di trattenermi, mentre ascoltavo le urla disperate di Pan che, ancora, lo invocava a gran voce. Nessuno più avrebbe urlato con Pan, nessuno che avrebbe aperto la bocca come un forno per ridere a crepapelle, nessuna puzza di cacca che avrebbe infestato il bagno per settimane.

Tutto quello era finito. Per sempre. E non ci avevano nemmeno avvertito!

«Kenny, ma perché piangi?» ha chiesto papà, posandomi una mano sulla spalla. «Non è niente di così grave!»

Come poteva dire che non era grave? Come poteva pensare che la morte del nonno fosse una bazzecola? Non riconoscevo più mio padre.

«Dove cazzo è il nonno?» così Pan ha esordito, rauca, rientrando in cucina. «E perché Kenny piange come una fontana?»

«Non lo so...» ha risposto papà, confuso, mentre mi stringeva una spalla e cercava di scuotermi. Chi l'avrebbe detto a Pan che il suo nonno preferito era passato a miglior vita? Se gliel'avessi detto io, mi avrebbe odiato per sempre e poi, anche il solo pensiero di dirlo, mi metteva un'angoscia ancora più grande di quella che provavo.

«Non sai perché Kenny piange o non sai dov'è il nonno?»

«Il nonno si è trasferito!»

Il mio pianto irrefrenabile e doloroso, a quelle parole, ci ha messo un po' ad interrompersi, confuso com'ero. Ma ricordo perfettamente di aver pensato: come, trasferito?

«Che... che vuol dire?» sono riuscito a chiedere, in tono lamentoso, asciugandomi una lacrima. Mizar mi ha porto un foglio di scottex che io ho prontamente rifiutato. Lui era rimasto lì, come il pesce lesso che è, a guardare la mia scena madre senza fare una piega. Dio, quanto lo odio!

«Vuol dire che ha trovato una casa per conto suo!» ha risposto papà, prendendo il fazzoletto dalle mani di Mizar e passandomelo sugli occhi. «Che avevi capito, sciocchino?»

«Ma... io...» balbettavo, facendomi asciugare le lacrime. «Tu avevi detto che... che... che era morto!»

Papà ha aggrottato la fronte e Pan ha fatto un passo avanti.

«Papà, ma che cazzo di storia è?» ha chiesto, sconcertata.

Lui ha sollevato lo sguardo. «Ma no!» ha esclamato, esasperato. «Il nonno sta benissimo! Sta meglio di me, se proprio devo essere sincero, ma ha deciso di cambiare casa, tutto qui.»

«E chi glieli ha dati i soldi?»

«Li ha vinti alla lotteria!» ha risposto la mamma, che è rientrata, stavolta in postura eretta. «Quello spilorcio non ha sganciato un soldo per noi, perché doveva comprarsi quella palestra!» ha sospirato. Poi ha guardato Mizar e gli è andata incontro. «Mi dispiace, caro, che tu abbia dovuto assistere a questa piccola... ehm... riunione di famiglia così burrascosa. Non siamo sempre così!»

«No, siamo anche peggio!» ha risolto Pan, rivolgendogli un sorriso beffardo e strafottente. «Di solito, quelli che vengono a pranzo da noi, ce lo mangiamo con le patatine. Sai, essere cannibali ha i suoi vantaggi... carne rossa di prima qualità!»

«Cannibali...» ha risposto quello, perplesso.

«Sì. Sai perché mamma ti ha messo in casa e ti permette di mangiare la sua roba? Ti sta mettendo all'ingrasso, cocco.» ha raccontato lei, serafica. «Quando sarai abbastanza in carne, allora cominceremo ad affettarti e ti metteremo nel congelatore. Sai, penso che mangiare una delle tue chiappe mi piacerà. Sono la parte più succosa!»

Abbiamo così archiviato il caso “nonno Satan”, soppiantato dal problema dei cannibali. Almeno sono contento che nonno Satan sia ancora tra noi, sobrio o ubriaco, a donne o solitario. Il nonno è comunque il nonno. Non lo cambierei nemmeno se, in cambio, Pan diventasse la persona più buona del mondo.

«Ma che dici, Pan?» ha ringhiato la mamma. «Non darle retta, Mizar caro (posso detestarla perché gli dà questo stucchevole nomignolo?)! Pan lavora troppo di fantasia!»

Ma Mizar ci guardava come se fossimo stati davvero dei cannibali, anche se non si muoveva dalla posizione che aveva preso al nostro arrivo. Credo che si sentisse come un animale braccato, ma credo anche che, se davvero ci avesse creduto, adesso non starebbe dormendo beato in camera di nonno Satan.

«Al sugo, poi, lo spezzatino di polmone, è la morte sua! O meglio, la tua!» Pan ha sghignazzato. «Beh, amici, vado a farmi una doccia. Mamma, mi prepari la mano alla brace, stasera? Ciao ciao, bel pranzetto!»

E così dicendo è sparita su per le scale.

La mamma scuoteva la testa, indignata. «Bah!» ha esclamato. «Non ti abbiamo nemmeno fatto finire la cena!»

«No, ehm...» Mizar le ha rivolto un sorriso tirato. «Credo... credo che mi sia passata la fame. Torno a studiare in camera mia, se non vi dispiace...»

«No, certo, caro.» ha risposto la mamma, un po' delusa. «Lo studio innanzitutto!»

E così Mizar è sparito dalla circolazione, in camera di nonno Satan, e non ci ha dato fastidio per tutta la sera.

«Mi spiegate perché cavolo vi siete presi quello in affitto?» ho chiesto, a quel punto, incapace di trattenermi. Per una volta, sono stato contento di sentire nella mia voce una nota di risentimento.

Mamma ha sospirato, ma poi mi ha guardato accigliata. «Vedete di essere educati con Mizar. Questa sera siete stati veramente due grandissimi maleducati, tu e tua sorella! Lo avete spaventato a morte e lo avete fatto scappare!» mi ha detto, in tono accusatore. «E' un ospite, paga regolarmente l'affitto ed è uno studente universitario! Un bravissimo ragazzo diligente e studioso come ce ne sono pochi in giro. Vedete di comportarvi bene, altrimenti vi mando sul monte Paoz a raccogliere pannocchie!»

«A me è sembrato un coglione!» ho sbottato.

«KENNY, NON DIRE PIU' QUESTE PAROLE! FILA IN CAMERA TUA!» mentre salivo, sentivo le sue urla e il rumore di piatti spostati: «Sta prendendo le brutte abitudini di sua sorella, Kenny! Ah, io lo sapevo che prima o poi sarebbe entrato in una fase di cambiamento!»

No, ricordo perfettamente che era stato papà a dire che, forse, mi sarei comportato come Pan, un giorno. Ma io non mi sto comportando come Pan. Sto semplicemente dicendo le cose come stanno e, anche se vuol dire essere d'accordo con Pan, per una volta, non vuol dire che stia diventando come lei.

Voglio solo che quello se ne vada. E' così grave?



24 Dicembre

Quando mi sono svegliato, stamattina, ci ho messo un po' per ricostruire gli ultimi avvenimenti, a partire dalla cattiva notizia ricevuta non appena arrivati a casa.

La prima cosa, poi, che ho notato, quando sono arrivato in cucina, era che Mizar era già seduto, con una tazza di muesli sotto il naso. Mi ha salutato cordialmente, mentre osservavo quella sua giacca da camera bordeaux e le ciabatte abbinate. Ho risposto con un «mh» decisamente poco educato, ma molto adatto al mio umore.

La mamma era in piedi, stava infarcendo i cornetti con Nutella e marmellata e li metteva nel forno. Nell'aria si sentiva il delicato aroma della sfoglia che si scaldava.

Sempre così nelle vacanze di Natale: la mamma cucina per un esercito, con o senza ospiti, a colazione, pranzo, merenda e cena. Di solito, prepara anche torte in quantità ed una, stamattina, era già al centro del tavolo.

«Buongiorno, caro.» ha detto, distratta, portando velocemente davanti a me un piatto di cornetti caldi. «Prendine uno e lascia gli altri per Mizar, Pan e papà. Il latte è nel bricco.»

L'ho visto sulla tavola imbandita. Mi stupisco ogni volta di quanta roba riesca a contenere quel tavolo che, a prima vista, mi è sempre sembrato più piccolo di quello rotto da Pan il giugno scorso. Attorno alla torta, oltre al bricco, c'erano la teiera e la caffettiera, insieme a tazze, bicchieri, succo di limone e succo d'arancia, burro di arachidi, marmellate e fette biscottate varie. Davanti ad ogni sedia una bella tovaglietta da colazione con decorazioni natalizie, fatte dalla mamma apposta per l'occasione. Da un anno all'altro non sono mai le stesse. Sopra, vi era una tazza, una piccola zuccheriera piena e un piattino.

Mi sono seduto di fronte a Mizar e ho afferrato un cornetto, l'ho messo sul piattino e mi sono versato del latte.

«Allora, Kenny... giusto?» ha esordito lui, cercando di intavolare una conversazione. Sorrideva impacciato, ma capivo benissimo che fingeva imbarazzo per rendersi più simpatico. Gli ho lanciato un'occhiata che speravo fosse abbastanza fredda. «Videl mi ha detto che tu e tua sorella frequentate una prestigiosa scuola sperimentale. Vi trovate bene?»

«Sì.» ho risposto, senza guardarlo, fingendo concentrazione nel versare un po' di caffè nel latte.

«E cosa studiate, di preciso?»

«Un po' di cose...» ho borbottato, evasivo. Chissà che gliene fregava, poi...

«Vi hanno dato molti compiti?»

«Ne danno sempre.»

«Kenny!» mi ha rimproverato la mamma, che stava sfornando un'altra torta più grande di quella che stava in mezzo al tavolo.

E' stata la prima volta che, in tutta la mia vita, ho fatto davvero finta di niente, in stile Pan: ho preso il cornetto e gli ho dato un grosso morso, stupendo persino me stesso.

«N-no, va tutto bene, Videl!» ha risposto l'ipocrita. Mi ha rivolto un sorriso. «Capisco di essere una specie di intruso, in casa vostra...»

«Ma bravo!» così Pan ha rivelato la sua presenza. «Allora perché sei ancora qui?»

Si è buttata tra me e lui ed ha afferrato due cornetti, uno alla Nutella e uno alla marmellata, mentre Mizar abbassava lo sguardo, in imbarazzo.

«Buongiorno, Pan!» ha sillabato la mamma, arcigna.

«Ciao, ma'. Che cazzo hai preparato di buono, eh?» questa è stata la risposta allegra di Pan, che ha strappato con un morso il cornetto alla Nutella.

«Sapete, i vostri genitori sono stati molto gentili a darmi la loro ospitalità.» ha continuato Mizar, come se qualcuno glielo avesse chiesto. Ho preso a bere il mio caffellatte, deciso com'ero di ignorarlo il più possibile: facendo finta che non esistesse, prima o poi sarebbe sparito davvero. O almeno così speravo.

«Cosa me ne dovrebbe fottere?» ha domandato Pan, girando gli occhi verso di lui.

«Pan, ma la vuoi...»

Lui ha aperto una mano e ha chiesto alla mamma, in quel modo, di lasciar perdere. Detesto che la riesca a comandarla a bacchetta così: noi non abbiamo mai potuto farlo, non che ce ne avesse mai dato l'occasione... «Beh, avevo bisogno di un posto dove stare e...»

«Senti, cocco, esistono tanti hotel, residence eccetera. Perché non te ne vai lì e lasci perdere le famiglie per bene?» ha ribattuto mia sorella. Ho annuito, fortemente convinto che avesse ragione.

«I tuoi genitori - Pan, giusto? - mi hanno offerto una stanza a prezzi molto vantaggiosi... sono nel progetto “Casa dello Studente” dell'università di Tokyo, così li ho trovati e contattati.»

Sospettavo che fossero tutte scemenze.

«E da quando?» ha chiesto mia sorella, ben poco convinta.

«Da poco più di tre mesi!» ha risposto la mamma per Mizar, tranquillamente, come se nessuno pensasse che il suo nuovo ospite fosse, in realtà un pericoloso criminale. Io ne ero convinto: insomma, bastava guardare la sua faccia da (troppo) bravo ragazzo per arrivarci. In quel momento, anche papà ha fatto il suo ingresso in cucina.

«Buongiorno, truppa!» ha esclamato, allegro.

«Buongiorno un cazzo.» è stato il commento di Pan che ha rivolto la sua attenzione alla mamma, lanciandole un'occhiata impietosa e accusatoria. «Che vuoi dire con “più di tre mesi”? Avevi deciso che avevi la casa libera e che dovevi trovarti un rimpiazzo?»

Ho visto la mamma arrossire all'improvviso: era così, quindi? Ci voleva rimpiazzare davvero? Quando Pan l'aveva detto, sulle prime, avevo creduto alla sua solita esagerazione, ma quando la mamma ha reagito in quel modo, la mia sicurezza ha vacillato.

«Sentite...» ha provato ancora Mizar, non interpellato. «io non voglio rimpiazzare nessuno. Io sono qui...»

«Tu stai zitto, cervello d'oca! Non mi pare che tu faccia parte del discorso. Anzi, fai una bella cosa: prendi il tuo culo rotto e sparisci dalla circolazione!»

«Pan!» la mamma le ha dato una botta sulla spalla – a cui mia sorella ha risposto con un sonoro rutto – e poi si è seduta a tavola, accanto a papà di fronte a lei. «Non osare più offendere Mizar, chiaro?»

Pan ha posato i gomiti sul tavolo e i pugni sulle guance, scontenta. «Vaffanculo.» ha borbottato. Mizar, in cocente imbarazzo (e stavolta era sincero, forse per la prima volta nella storia), ha abbassato lo sguardo ed ha finito velocemente il suo tè. E' sparito così in fretta dalla cucina (con un sussurrato: «buon appetito») che, se non fosse stato per quelle stoviglie sporche, avrei creduto di essermelo solo immaginato.

Per un folle attimo, ho sperato che inciampasse e che si spaccasse il naso, che la mamma chiamasse l'ambulanza e che papà si convincesse a cambiare la serratura, così che, quando il nostro cosiddetto ospite fosse stato dimesso, non avrebbe saputo rientrare (ero sicuro che avesse anche le chiavi di casa) e sarebbe rimasto a bocca asciutta.

Purtroppo, è arrivato in camera DEL NONNO sano e salvo.

Poi il silenzio è calato sulla tavola imbandita. Abbiamo continuato a mangiare in quella lugubre atmosfera, così lontana dalla solita rumorosa, allegra e natalizia; dal canto suo, neanche Mizar faceva rumore: anche quando spostava le sedie sembrava che lo facesse in un universo a parte dove i rumori non esistevano. E c'era da dire che, quando era il nonno a spostare le sedie, lo sapeva anche il Primo Ministro! Era veramente triste, tutta quella calma, finché Pan, con un rutto, non ci ha fatto sussultare tutti di spavento e voltare verso di lei.

«Insomma,» ha esordito, afferrando un altro cornetto. «perché ci volete rimpiazzare?»

La mamma ha arricciato le labbra, scontenta. «Finisci di mangiare! Guarda tu se devo avere una figlia che rovina la Vigilia di Natale a tutta la sua famiglia!»

Si è alzata ed è andata a guardare come procedeva la torta nel forno. Pan non ha gradito di essere stata etichettata come «rovina-Natale», così si è alzata – facendo il giusto rumore spostando la sedia – e si è rubata altri due cornetti.

«Me ne vado.» ha dichiarato. «E tu, mamma cara, pensa bene se hai rovinato a tua figlia, il Natale, facendo entrare in casa quel delinquente. Non sai che Natale si passa con i tuoi e non con i tuoi delinquenti? Ah, vedrai che a Pasqua ti porto un paio di mucche e qualche bue! Sarà interessante vedere l'accoppiamento, molto più che guardare quel bellimbusto che ci ruba la famiglia! Lo sai che dorme in calzamaglia?»

Papà era sconcertato, io non sapevo neanche cosa fosse una calzamaglia. La mamma, invece, non si è neanche voltata. «Può dormire come vuole.» ha dichiarato, in un sibilo velenoso.

«E allora perché non mi fai dormire con un pigiama da maschio ma mi devi comprare quelle stupide camice da notte con gli orsetti?»

La mamma si è girata, con fare battagliero. «Ma non te ne dovevi andare?» ha strillato, isterica.

Pan è impallidita. «Ah, già.» e se n'è andata, lasciandoci a finire la nostra colazione, in silenzio. Dopo cinque minuti, ero salito anche io: quell'atmosfera non mi piaceva neanche un po'.


Più tardi, verso le dieci, Pan è entrata in camera mia, dove io avevo insediato la scrivania con tutti gli appunti e i libri che, con Frank, eravamo riusciti a fotocopiare. Devo ammettere che cominciare a studiare non era uno dei miei più rosei pensieri, ma, dato che ci hanno caricati, ho pensato che fosse meglio cominciare subito, così da lasciarmi gli ultimi giorni di riposo. Niente da dire, che appena mi ha visto – è entrata anche senza bussare – se ne sarebbe andata volentieri, ma sono riuscita a trattenerla con un banale «aspetta». Probabilmente voleva dirmi davvero quello che aveva da dirmi, altrimenti se ne sarebbe altamente fregata, qualunque cosa avessi avuto da dire io.

«Senti, paramecio,» ha esordito lei, senza guardarmi, ma lanciando uno sguardo tutto intorno alla mia camera fin troppo ordinata: la mamma aveva fatto pulizie minuziose durante la nostra lunga assenza. Non sono entrato in camera di Pan, ma immagino che non abbia trovato niente di diverso da come l'aveva lasciata, altrimenti avrebbe urlato come una pazza scatenata. «io ti odio.»

Sentirla parlare così mi ha dispiaciuto tanto, ma non si era mai presa la briga di entrare in camera mia, di chiudere la porta e di farmi simili dichiarazioni senza un motivo. Ho annuito, senza sapere cosa altro dire.

«Però...» ha continuato lei, continuando a ignorarmi e avvicinandosi alla finestra che dava sul retro della casa. Si è appollaiata sul davanzale e mi ha guardato con fare grave. «Adesso odio di più qualcun altro.»

«Ah, sì?» mi sono stupito molto di questa sua confidenza e ho sgranato gli occhi, davvero incredulo. «E chi è? Arale?»

Non l'avessi mai detto: la mia sorellona ha stretto i pugni e mi ha guardato con rabbia. «Idiota.» ha ringhiato. «CHE CAZZO ME NE FREGA DI ARALE, PEZZO DI IMBECILLE?»

Mi sono appiattito sullo schienale della sedia, come se questo avesse potuto proteggermi, nel caso in cui avesse voluto stendermi con un destro. «Non lo so...» ho balbettato, preoccupato. «E allora chi odi?»

«Ma quel coglione che gli piace prenderlo nel culo!»

«Eh?»

«QUEL COGLIONE CHE VIENE DAL CULO DEL MONDO!» è stata la sua illuminante risposta. Ho fatto una smorfia preoccupata; la mia testa era inspiegabilmente vuota e non mi veniva in mente nessuno che Pan potesse odiare più di quanto odi me. Sinceramente non avevo capito, finché, compassionevole, mia sorella ha sospirato, esasperata. Ha scosso la testa diverse volte, prima di fermarsi e di guardarmi con quanto più astio potesse. «Mizar, pezzo di idiota!»

Quando me l'ha detto, ho capito la battuta sul prenderlo nel culo: solo ieri sera, aveva detto quella cosa sugli inquilini e me ne sono ricordato solo dopo la spiegazione.

«Oh... sì,» ho detto allora, riprendendomi subito. «lo odio anche io.»

Lei mi è sembrata subito molto più rilassata, anche i pugni erano scomparsi, sostituiti da mani aperte che si massaggiavano le ginocchia. «Ottimo.» ha dichiarato, senza alcuna enfasi. Se posso dirlo, mi è parsa anche un tantinello delusa. «Mi risparmi la fatica di convincerti che quello è un losco figuro.»

Ho annuito fortemente. Se era un losco figuro? Oh, sì che lo era! «Sì, lo so!» ho esclamato, mettendomi in piedi, infervorato. «Dobbiamo fare qualcosa, Pan! Dobbiamo cacciarlo di casa, dobbiamo fare in modo che la mamma...»

«La smetta di considerarlo una specie di Dio in terra.» ha concluso lei, annuendo con forza. Era la prima volta che facevamo un discorso serio e civile assieme, senza sfociare in pugni e cazzotti. Devo dire che, subito dopo averla sentita, la cosa mi aveva fatto davvero molto effetto e avevo cominciato a sentirmi scombussolato, ma anche molto felice: potevo desiderare qualcosa di più di andare d'accordo con lei?

Mi sono limitato ad annuire debolmente, mentre un'altra domanda si affacciava nella mia testa: «E... come pensiamo di fare?»

«Beh, sapevo che eri un tale paramecio monocellulare con un coriandolo per cervello, quindi, invece di dormire, ho messo in piedi un piano a prova di bomba. Tu non devi fare altro che ascoltarlo e approvarlo in toto.» mi ha informato, senza mai riprendere fiato. «Tutto chiaro?» Quando ha finito, io ho sbattuto le palpebre e mi sono seduto lentamente sulla sedia.

Non ero molto sicuro di poter approvare qualcosa organizzato da Pan, anche se chiamare organizzazione quello che ha avuto in mente, è effettivamente troppo. In quel momento, comunque, non ha perso molto tempo a spiegarmelo. Si è fiondata su di me, veloce come un ghepardo e mi ha afferrato per un polso, quindi, come un sacco vecchio, mi ha trascinato fino in fondo alle scale, dove ci siamo fermati, io un gradino più su di lei che, con fare da cospiratrice, si è inginocchiata e ha buttato uno sguardo nel salotto deserto. Dalla cucina, si sentiva un buon odore di frittelle e il rumore delle stoviglie spostate, insieme al canticchiare allegro della mamma. Era cominciato come un giorno strano e mi sentivo come se dovesse capitare la più grossa catastrofe di tutti i tempi.

«Ma che...» ho provato a parlare, ma Pan mi ha fatto segno di tacere. L'ho fatto, senza chiedermi perché o percome, proprio come quando era la Une a darmi lo stesso ordine.

«Ora...» lei si è girata verso di me, prima di tornare a guardare il salotto. Mi ha afferrato per la nuca e mi ha spinto a fare lo stesso. Tralascio il dolore al mio povero cuoio capelluto. «Vedi quei vasi?»

Erano i vasi cinesi di mamma. Una collezione di tre vasi uguali e orrendi che si ostina a tenere in bella mostra sopra al caminetto. Devo ammettere che li ho sempre odiati e questa convinzione attutisce un po' il mio senso di colpa.

Pan mi ha stretto la mano nei capelli e mi ha scosso. «Allora?» mi ha spronato.

«Certo, Pan! Non sono... ahi!»

«E taci, pezzo di cretino!» ha sibilato, scuotendomi ancora. «L'idea è questa: io vado a prendere uno di quei vasi e tu... stai qui a fare il palo.»

L'ho guardata un po' sconvolto. «Perché?» Senza pensarci, mi ha tirato i capelli ancora di più.

«Perché poi ci vediamo davanti alla camera del nonno, d'accordo? Tu fai il palo.»

«Che cosa?»

«Che cosa cosa?»

«Che palo?!» mi sono spiegato. Lei ha alzato gli occhi al cielo, esasperata.

«Il palo! Mi avverti se arriva qualcuno!» e con un cenno della testa, mi ha fatto capire che il qualcuno in questione era la mamma. Ho annuito, ma non ero molto convinto: non capivo a cosa potesse servirci un vaso cinese, a dire il vero. Non ho fatto altre domande, anche perché mia sorella sembrava sul punto di tirarmi un pugno e la mano stretta che teneva premuta contro la parete me la diceva lunga.

«Ottimo.» ha esclamato, quindi, lasciandomi finalmente andare. Lei è sgusciata giù, verso il salotto, mentre io, immobile e seduto sulle scale, sbirciavo giù, portando lo sguardo da lei al corridoio che dava sulla cucina. Non capivo e mi lambiccavo il cervello su quando alzarmi e, soprattutto, per sapere che cosa avesse in mente e che c'entrasse il vaso cinese con l'allontanamento di Mizar da casa nostra. Pensavo a qualcosa di pericoloso, ma il pensiero di poterlo vedere andare via per sempre ha fatto tacere i miei scrupoli; quando mia sorella ha afferrato uno dei vasi, mi sono deciso a raggiungerla, velocemente.

Lei, intanto, si è messa il vaso sotto il maglione.

«Ma che...»

«Stai zitto, pezzo di idiota!» ha sbottato, a voce molto alta, cosa che ha insospettito la mamma, la cui voce ci ha fatto sussultare.

«Ragazzi!» ci ha chiamato. «Che fate?»

«Giochiamo, mamma!» ha risposto Pan, con naturalezza. Se non fossi stato lì, con quel vaso cinese sotto il suo maglione, avrei pensato che stesse dicendo la verità. Anche la mamma deve averci creduto, perché non ci ha detto più niente ed è tornata in cucina.

Entrambi abbiamo sospirato di sollievo e, insieme, ci siamo diretti verso la camera del nonno, la cui porta era chiusa. Se non fosse stato per la situazione pericolosa e senza senso in cui ci stavamo mettendo, mi sarei accorto prima di quanto siamo stati sincronizzati, una cosa fuori del comune, trattandosi di noi.

«Dai, apri.» mi ha esortato, a bassa voce.

«Ma...» ho provato a protestare. «E se fosse chiusa a chiave?»

Lei mi ha ignorato. «Vuoi smetterla di rompere i coglioni? Apri!» ha tagliato corto.

«E se poi è chiusa a chiave? Cosa gli diciamo, se ci apre?»

«Kenny...» mi ha guardato con il suo sguardo minaccioso e, se non mi sono fatto la pipì addosso, è solo perché l'avevo fatta da poco. Ho deglutito, mentre con la mano libera (con quell'altra stringeva il vaso) mi mostrava il pugno. «Ti consiglio di aprire quella fottuta porta, se non vuoi che ti faccia passare dal buco della serratura.»

Ho avuto una brutta immagine di me, incastrato in un buco della serratura. Mi pareva grottesco ed impossibile, ma, trattandosi di Pan, avevo come l'impressione che sarebbe riuscita a mantenere la promessa. Ho annuito e afferrato la maniglia. L'ho abbassata. Speravo quasi che non si aprisse, arrivati a quel punto, e, invece, sfiga nera, Mizar non aveva chiuso. Pan mi ha dato una fiancata e mi ha fatto spostare, in modo che lei fosse di fronte allo spiraglio che avevo aperto. Ho barcollato solo un po', ma mi sono ripreso egregiamente. Dopo qualche attimo, lei mi ha guardato.

«Ha le cuffiette.» mi ha informato. «E non si è accorto di niente, il coglione. Dai, entriamo!»

«Ma...»

Mi ha preso per il colletto della camicia e mi ha spinto dentro, insieme a lei, impedendomi di dire qualsiasi cosa. Comincio a pensare che fosse parecchio infastidita dalle mie continue proteste. «Chiudi la porta.» mi ha ordinato e, stavolta, mi sono fiondato ad eseguire: contestarla ancora non avrebbe fatto altro che farla arrabbiare di più. È stato un secondo, mentre io richiudevo, lei si era sfilata da sotto il maglione il vaso cinese. Mizar, assolutamente preso dal suo libro, di spalle alla porta, non si era accorto di niente, neanche quando Pan aveva alzato il vaso sopra la sua testa. Un attimo dopo, era stramazzato sul libro, svenuto, per via del vaso che Pan gli aveva frantumato sulla nuca. I pezzi hanno cominciato a cadere, si sono incastrati tra i suoi capelli, sono finiti a terra e Pan si è spazzolata le mani.

«Ma... ma...» sono riuscito a balbettare. «Lo... lo hai ammazzato!»

Lei mi ha guardato con insofferenza. «No... dorme come un agnellino.» gli ha gettato uno sguardo sprezzante. «Respira ancora il maledetto!» poi mi ha fatto un cenno. «Adesso tu esci e ti metti sotto questa finestra.»

«Perché?»

«Non fare domande, cazzo!» ha sbraitato. Mi ha fatto un cenno con la mano, come a voler remare all'indietro, da dietro, verso avanti. «Vai, vai, vai!»

Non sono riuscito a dirle di no neanche stavolta. Stavo per scappare fuori dalla stanza, quando hanno bussato alla porta.»Mizar caro?!» era la voce zuccherosa della mamma. Mi sono voltato e ho visto lo sguardo ugualmente terrorizzato di Pan. Doppiamente strano. «Tutto bene? Ma ci sono i miei figli, lì con te?»

Non ho mai guardato così a lungo Pan e lei non mai guardato così a lungo me. Avrei voluto vedere nei suoi occhi la risposta alle domande di mamma. E se fosse entrata e avesse visto il vaso... non immaginavo, e preferisco tuttora non immaginare, cosa avrebbe potuto farci.

«Ehm... sì, mamma, siamo con lui.» ha risposto Pan, improvvisamente, sfoggiando un sorriso ipocrita, ma assolutamente convincente. Sembrava quasi che la mamma potesse vederla. Sono sicuro che Pan non sia mai stata una così grande attrice come oggi.

«Ragazzi! Non date fastidio a Mizar!»

«Ma vogliamo conoscerlo un po' meglio.» ha insistito Pan, poi ha ripreso, contraffacendo la voce in modo che sembrasse più profonda: «Tutto bene, Videl cara. I tuoi... figli... sono bravissimi, soprattutto Pan.»

Come imitazione di Mizar, era pessima. E, soprattutto, nessuno poteva cadere in una trappola del genere, non solo per la voce: chi mai sarebbe il pazzo che direbbe che Pan è bravissima? Ma devo ricordarmi che nessuno, nella mia famiglia, è effettivamente normale. Ma qualche dubbio, non so se per sfortuna o per fortuna, la mamma lo ha avuto: «Mizar caro, sicuro di star bene?» ha chiesto, titubante.

«Tutto benissimo!» ha esclamato Pan, senza smettere di usare quella voce. «Vai pure, cara, chiacchieriamo un po', Pan. Vai bene a scuola, no? Oh, sì, Mizy, benissimo! Sono la cocca dei professori!»

Mi chiedo se la mamma si sia accorta di venire presa in giro, ma penso di no, perché con un «quando ti disturbano, non esitare a cacciarli», si è congedata e se n'è tornata in cucina.

«Okay, Videl! Non ti preoccupare. Sono in buonissime mani!»

In fin dei conti, anche se ora mia sorella cominciava ad esagerare, avevamo scampato il pericolo. Ed è stato solo quando i passi della mamma si sono fermati, che mi sono azzardato ad uscire dalla camera, esortato da una alquanto distrutta Pan che non ha esitato a farmi notare che le buone idee ce le ha sempre lei.

Ancora mi chiedo cosa mi abbia spinto ad uscire addirittura di casa, senza neanche il cappotto, ma credo che, per come sono andate le cose, è stato meglio, soprattutto perché poi ha cominciato a fare caldo, davvero molto caldo.

Comunque mi sono piazzato davanti alla finestra della camera del nonno – l'unica al pianoterra – e l'ho vista aperta. Mi sono guardato intorno, chiedendomi cosa potessero pensare i vicini, se avessero potuto vedermi là sotto, con quell'aria preoccupata e furtiva stampata in faccia. Strano che il signor Parker non fosse nei paraggi ad innaffiare i fiori secchi...

Un attimo dopo, quando ho visto che dalle sue finestre non vi erano movimenti, ho girato di nuovo la testa verso quella della camera del nonno e ho fatto un salto sul posto, quando ho visto i calzini di Mizar (con tutti i piedi!) penzolare giù dal davanzale. «Ma che...» è stato tutto quello che ho avuto il coraggio di dire, per quella che ho creduto essere la trentesima volta. La testa di Pan ha fatto capolino da dietro il suo busto. «Dammi una mano a farlo uscire!» mi ha ordinato. «Che rompicoglioni!»

«Pan, ma mi vuoi spiegare che stai combinando?»

«Non lo vedi? Lo voglio far passare dalla finestra!» ha risposto lei, come se far uscire uno svenuto dalla finestra fosse una cosa di tutti i giorni.

«Questo lo vedo.» ho ribattuto, preoccupato. «Ma... perché?»

«Perché, pezzo di idiota, non vorrei che qualcuno mi vedesse. Dammi una mano, se hai finito di fare domande!»

Ma non mi sono mosso: «Che cosa ci vuoi fare con lui?»

Lei ha sbuffato. «Uffa! Te lo dico, se no non la smetti di darmi il tormento: voglio portarlo fino al cassonetto!» ha risposto, spingendolo più giù. «Afferragli quei cazzo di piedi puzzoni!»

Non ho potuto fare molto altro che ubbidire, ancora guardandomi intorno furtivo, sperando che nessuno si accorgessero dei due ragazzini che stavano facendo scivolare fuori dalla finestra il corpo di un uomo svenuto. Comunque i suoi piedi, tanto per la cronaca, non puzzavano. Più che spingerlo, mi sono assicurato che non battesse i talloni e che non si ferisse le gambe: fuori da casa mia sì, in brutte condizioni o peggio no. Proprio mentre pensavo questo, mi è sovvenuto quello che ha detto mia sorella: cassonetto?! Ho smesso di lavorare e ho guardato verso mia sorella, di cui riuscivo a vedere solo i capelli. «Pan, ma che vuol dire cassonetto?»

«Cassonetto, Kenny.» ha sbottato lei, irritata, mentre spingeva anche il busto di Mizar verso di me, allungando le braccia come se facesse i pesi. Mi sono dovuto appiattire contro di lui per prenderlo sotto le ascelle. Ormai Pan gli teneva solo la testa. «Dove si butta la spazzatura.»

«Ma lui è una persona.»

«Che coglioni!» ha ribattuto lei, affaticata. Mi ha lanciato il corpo e io sono caduto di schiena, con Mizar addosso, poi è saltata sul davanzale come una scimmia. Lui non ha fatto una piega, ma almeno ero sicuro che era vivo perché respirava. Quando anche mia sorella si è ritrovata fuori, ha continuato: «Che cos'è lui? Spazzatura. E dove sta la spazzatura? Nel cassonetto.»

«Pan, ma...» ho cercato di farla ragionare, mentre mi spostavo da sotto il peso di Mizar. «Non credo si possa... insomma, è vietato buttare le persone nella spazzatura!»

«Ti ho detto che lui non è una persona!» ha sbraitato. Ho abbassato lo sguardo e scosso la testa.

«Non posso, Pan.» ho sospirato, a quel punto: non l'avrei aiutata a fare una cosa così orribile.

«Oh, quindi ti pieghi alle prepotenze!» ha ringhiato lei; ho evitato di ricordarle che la più grande prepotente che conosco è lei. «Ma BRAVO! CHE BEL FRATELLO DI MERDA!»

Non mi ha lasciato dire o fare nient'altro: ha preso il corpo di Mizar come se fosse stato un sacco vecchio e se l'è caricato in spalla, guardandomi sprezzante, come a volermi sfidare a fare una cosa simile, ben sapendo che non ne sono in grado.

«Pan...» ho tentato nuovamente, ma lei mi ha deliberatamente ignorato e si è diretta in strada. Per un attimo ho pensato di lasciarla da sola ad affrontare i suoi problemi, ma poi mi sono reso conto che non potevo lasciarla in una situazione simile. Forse non sono il suo ideale di fratello, ma non sono neanche una merda. Magari, pensavo, facendola ragionare, sarei riuscito a combinare qualcosa. A volte, credo proprio di essere un ingenuo.

L'ho inseguita, quindi, e mi sono affiancato a lei.

«Pan, le persone non si buttano nei cassonetti!» ho ripetuto.

«Dici di no? I barboni ci stanno sempre!» ha ribattuto lei, camminando sotto lo sguardo attonito dei vicini. Perché sì, in quel momento i vicini erano tutti col naso appiattito contro il vetro delle loro finestre.

«Ma non è la stessa cosa!»

«Come sei fiscale, però!» ha protestato lei, annoiata. «Ma quanto cazzo è lontano, questo cassonetto del cazzo?»

Era poco più giù, ad un paio di metri, in fondo alla strada, ma camminare con un carico pesante come un uomo di ottantacinque chili (Pan ha detto che non pesava di più) ci rallentava parecchio. Anche io cercavo di fare la mia parte, ma senza molto successo.

Dieci minuti dopo, eravamo in prossimità del cassonetto e, nello stesso istante, abbiamo sentito le sirene della polizia di quartiere.

Niente da dire, siamo finiti di nuovo alla centrale. Io e mia sorella. Galeotti. Pronti per il più volte citato riformatorio e per essere additati da Arale come delinquenti patentati. Non è che ci hanno messo in cella, però: ci hanno fatti accomodare nell'ufficio di Soichiro Yagami, mentre Mizar è stato portato nell'infermeria, dove è stato visitato e rimesso in sesto. E noi, invece, abbiamo aspettato un'eternità, prima che comparisse qualcuno. La cosa più esilarante di tutte, se esilarante si può dire, è stato il momento in cui è comparso sulla porta l'ispettore Yagami. Non appena ci ha visto è sbiancato ed ha fatto dietro-front.

«Dov'è Matsuda*?» ha chiesto, fermando un poliziotto di passaggio. Neanche il tempo di finire di dire quel nome un ragazzo mingherlino, con una faccia gentile e i capelli neri a caschetto, vestito di un doppiopetto grigio, si è materializzato al fianco di Yagami, così velocemente che ho creduto fosse sempre stato lì, soltanto invisibile agli occhi di tutti.

«Eccomi, signore.» ha detto, servizievole.

«Oh, bene.» ha risposto l'ispettore, rigido. «Ti occuperai tu degli Iccijojji.» gli ha passato il fascicolo che aveva tra le mani e se l'è decisamente svignata.

«E lei, ispettore?» lo ha richiamato Matsuda, sollevando la cartellina, come a volergli dire che gli aveva lasciato il suo lavoro a tradimento.

«Io sono in vacanza!» ha risposto, gridando. «Io vado a passare il Natale con la mia famiglia!»

«Oh, grazie, signore. Non se ne pentirà!» e, fischiettando e con un sorriso ebete stampato in faccia, è entrato nell'ufficio ed ha chiuso la porta, proprio come se quel posto gli appartenesse. Ero terrorizzato, mentre Pan, che teneva mollemente le braccia conserte, guardava il tutto con aria strafottente ed annoiata. Ha aspettato che Matsuda sfogliasse il fascicolo e che leggesse quello che la signora Reiko Watanuki, la vicina piena di gatti, aveva raccontato alla polizia per telefono.

«Occultamento di cadavere, eh?» ha letto Matsuda. Ci ha guardati entrambi, impensierito. «Siete dei ragazzini, quanti anni avete?»

Pan si è solo mossa sulla sedia, ma non era a disagio. Diciamo piuttosto che stava scomoda nella posizione precedente.

«Io dodici, mia sorella tredici.» ho risposto, allora, debolmente.

«Voglio un avvocato.» ha tagliato corto mia sorella. «Conosco i miei diritti, agente.»

«Ehm... sono un ispettore.» le ha fatto sapere Matsuda. «E comunque non credo che avrete bisogno di un avvocato.» quindi ha continuato a leggere, lasciandoci ammutoliti. Davvero non ci serviva un avvocato? Cioè... a quel punto ero convinto che ci avrebbero presi, ammanettati e portati in riformatorio per buttare via la chiave. Un attimo dopo, mi sono chiesto perché farci passare tutta quella trafila. «Pan e Ken Iccijojji.» ha detto. «Figli di Gohan Icc...» ha sgranato gli occhi e ci ha guardato con ammirazione. «Il famoso direttore d'orchestra è vostro padre!»

«E allora?» ha voluto sapere Pan, squadrandolo come se lui non fosse alla sua altezza. «Voglio un avvocato.»

«Non hai bisogno dell'avvocato. L'inquilino di casa Iccijojji sta bene ed ha deciso di non sporgere denuncia. Abbiamo chiamato i vostri genitori e stanno venendo a prendervi.»

«Che cosa?» sono balzato in piedi, gridando queste due parole. Ero felice che Mizar stesse bene – non che mi stesse simpatico, ma umanamente ero felice – ma non che mia madre arrivasse di nuovo alla centrale, magari riprendendo lo spettacolino del giorno precedente. Non tanto per lo spettacolino, quando per il motivo per cui eravamo finiti lì dentro.

«Beh, ehm... va tutto bene?»

Mi sono reso conto che la mia reazione è stata esagerata, così mi sono seduto di nuovo. «No, ehm... tutto a posto.»

Sono passati diversi minuti, anche se a me sembravano essere un'eternità, quando Matsuda ha riaperto bocca.

«Posso chiedervi perché l'avete fatto?»

«Perché quello è un truffatore.» ha risposto Pan, prima di me. «Stavamo proteggendo casa nostra. Lo avrebbe fatto anche lei.»

«Eh?» Matsuda sembrava confuso.

Pan ha sospirato, esasperata. Si è piegata un po' in avanti. «Quello è venuto da noi per derubare mia madre. Sa, tipo quelli che rubano le pensioni. Solo che questo vuole fare il colpaccio, ha presente?»

Matsuda ha scosso la testa e Pan ci ha rinunciato. Si è buttata contro lo schienale rigido della sedia e si messa le mani in grembo, cominciando a contemplare l'aria.

«A me...» l'ispettore ha cominciato a sfogliare di nuovo il fascicolo. «a me risulta che Mizar sia un tipo a posto. Ci ho parlato e ho chiesto informazioni alla polizia norvegese. Insomma, un tipo per bene. Sembra che sia anche un pezzo grosso, lì da dove viene lui.» ha sorriso, di fronte alla mia espressione vacua.

«In che senso?» ho voluto sapere.

«Non ci ho capito molto.» mi ha confidato lui. «E' un cavaliere o che so io.»

«Un leccaculo.» ha concluso Pan, mettendo su il tono di quella che ha capito tutto del mondo. Ho annuito, ed ero molto impressionato: Mizar, così giovane, e già cavaliere. A dire il vero, lì per lì sono stato impressionato. Adesso mi rendo conto di non sapere cosa significhi essere un cavaliere...

Mentre pensavo a questo, l'ascensore si è riaperto, e la voce acuta di mia madre ha rimbombato per tutta la centrale di polizia, quasi avesse usato un megafono. Pan ed io ci siamo girati di scatto, così abbiamo potuto vederla uscire. Dopo di lei, seguiva Mizar, che aveva la testa fasciata e l'aria sofferente, ma stava stava bene davvero – camminava da solo, anche se era ancora in calzini – poi papà, che aveva l'aria più mortificata del mondo. Avrei voluto sotterrarmi solo per quello. La mamma, invece, sembrava solo mortalmente preoccupata.

«DOVE SONO I MIEI BAMBINI?» urlava.

A quel punto anche Matsuda si è alzato. «Su, coraggio, ragazzi. È ora di tornare dalla vostra famiglia.»

Ed è stato così che la nostra seconda avventura in due giorni al commissariato era finita.


*****


*Mizar: Saint Seiya, serie di Asgard.
*Matsuda: Death Note.

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Capitolo 15
*** Le brutte notizie non arrivano mai da sole... e portano qualcuno a cena ***


Vacanze natalizie.

Le brutte notizie non arrivano mai da sole... e portano qualcuno a cena.



«Verrete puniti.» ha dichiarato la mamma, quando ci hanno permesso di uscire. Eravamo in macchina, tutti insieme e io ero stivato tra Mizar e Pan, stretto come una sardina. «Non ci posso credere! Tentare di uccidere il povero Mizar. Ma dove... dove siamo finiti? E io che vi ho mandati in una scuola sperimentale per non farvi fare di queste cose! E siete anche usciti in ciabatte!» ha urlato come se quello fosse un crimine ancora più grave.

«Toglici di lì, allora.» le ha consigliato Pan, annoiata, premendo la punta del naso contro il vetro e facendogli fare ancora più condensa di quanta non ce ne fosse già. «Prima non le facevamo queste cose...»

«Piantala, Pan!» le ha consigliato la mamma. Credo di non sentirla così arrabbiata, da quando zio Goten le ha rotto la collezione di piatti con i gatti con lo snowboard perché ci era entrato in casa, senza prestare attenzione a niente. «Ringraziate Mizar, intanto, per non avervi denunciato come meritavate!»

Ho guardato verso di lui, che non parlava e sembrava assorto nei suoi pensieri. Guardava fuori e pareva anche un po' triste. In quel momento mi sono sentito un vero verme, ma non riuscivo ancora a trattenermi dal pensare che ci fosse qualcosa di losco in lui.

«Grazie.» ho borbottato. Non avrei potuto fare altro. Dopotutto, non ero in riformatorio giusto perché lui non lo aveva voluto. Forse proprio perché è un delinquente e sa cosa vuol dire stare in galera! È l'unica cosa che mi veniva in mente per giustificarlo.

Pan non è stata altrettanto comprensiva: «Guarda che non c'è bisogno che tenti di comprarci con queste carinerie!» ha esclamato, scrivendo al contrario volgarità sul vetro appannato della macchina di papà (per farle leggere agli altri automobilisti).

«Non voglio comprarvi.» ha assicurato lui, con voce piatta. «Credo che non sia giusto nei confronti delle due persone che mi hanno accolto in casa loro, far passare loro un cattivo Natale.»

«Ma come siamo gentili...» ha ribattuto mia sorella, sarcastica. «Senti, piantala di fare il leccaculo, tanto non convinci nessuno! Forse solo questi due coglioni davanti.» ha accennato ai nostri vecchi, mentre si rimetteva composta.

«Pan!» l'ha sgridata la mamma. «Un po' di rispetto! Mizar caro, credo che tu sia troppo buono.»

Lui ha risposto con un semplice sorrisetto amaro. Non sembrava neanche lui troppo convinto da questa affermazione.

«Mamma, se non la pianti, questo tra due giorni, ti sbatte fuori di casa.» ha ribattuto Pan, con disprezzo. «Cerca di aprire gli occhi, una buona volta!»

«Pan, non osare! Mi hai fatto passare per stupida, prima, ma se credi che...»

«Videl?» Mizar ha abbassato lo sguardo sulle proprie mani. La mamma ha smesso subito di parlare.

«Sì, Mizar caro?»

Lui ha sospirato. «Non ti posso costringere a scegliere tra me e i tuoi figli. Per cui, domani mattina prenderò i miei bagagli e mi troverò un altro posto dove stare.»

Pan gli ha scoccato un'occhiata diffidente. «E' la prima buona idea che ti viene da tre mesi.» ha dichiarato. La notizia è stata accolta con tristezza dalla mamma. L'ho vista attraverso lo specchietto retrovisore tra lei e papà che non era per niente felice della notizia e mi chiedevo perché. Davvero. Il pensiero maligno che ci volesse davvero rimpiazzare mi ha fatto molto male.

«Non ti posso convincere a non farlo, vero?» ha solo chiesto, cercando di modulare il tono della voce. Ma la conosco troppo bene per non riuscire a capire che, effettivamente, si stava per mettere a piangere.

«No.» ha risposto categorico Mizar.

La conversazione si è chiusa con un semplice, disperato «Okay» della mamma e nessuno ha più detto una parola. Non mi sono mai sentito così depresso in tutta la mia vita: quando siamo andati in caserma, è stata lei ad aiutarci a preparare le valigie, mentre con questo cretino, intruso, sconosciuto, odioso e leccaculo ha fatto tutte queste sceneggiate!


La mattina delle Vigilia di Natale, in casa Iccijojji, è sempre stato un momento di relax, un momento ritagliato per me e la mamma soltanto. Papà e Pan, da che mi ricordo, sono sempre stati mandati a fare la grossa spesa per il cenone di Natale e, di solito, non sono mai tornati prima di mezzogiorno, quando consumiamo un frugale pasto per arrivare con lo stomaco vuoto a cena.

Oggi, non abbiamo proprio pranzato. Mizar si è chiuso in camera del nonno e la mamma si è chiusa in cucina. Papà è entrato in salotto ed ha acceso la sua musica; io e Pan ci siamo relegati di nostra spontanea volontà fin dentro le nostre camere. Lei ne è uscita poco prima di me, quando papà l'ha costretta a seguirlo al supermercato.

«Credo che sia giusto mantenere le tradizioni, dopotutto.» l'ho sentito dire.

«Tanto a tua moglie gliene frega un cazzo delle tradizioni. Probabilmente, se non ci fossimo stati, sarebbe stato lo stesso.» lo ha rimbeccato.

«Su, non dire così.»

Non credo che Pan abbia risposto, anche perché, subito dopo, papà le ha chiesto: «Allora vuoi venire?»

«Ma sì, così mi levo un po' da questa casa di merda.» ha borbottato lei.

Dopo circa un quarto d'ora dalla loro partenza, la mamma ha bussato alla mia porta e mi ha detto, debolmente, di seguirla. Non ho opposto molta resistenza. Effettivamente volevo parlare con lei, capire perché non ci volesse più bene. Era stata molto fredda nel chiamarmi e credevo fosse, non solo perché ormai nel suo cuore c'era solo Mizar, ma anche perché ci avevano portati di nuovo al commissariato.

«Mamma... ecco io... ho tentato di fermarla, ma...» non ho avuto il coraggio di continuare: mi sentivo il fratello pusillanime che cerca di scaricarsi le colpe. Per fortuna, almeno per questo, lei sembra non avermi dato ascolto, anche se una parte di me avrebbe voluto che mi accarezzasse la testa o che mi sorridesse e dicesse: «oh, sì, Kenny, lo so».

Il nostro momento di relax è il fare l'albero insieme, in giardino: io prendo gli scatoloni dal garage e l'albero che lei monta e sistema, mentre io le passo le cose. Non è un granché, ma per me è sempre stato un momento importante. Oggi è stato straziante.

«Non voglio che la prendiate così!» mi ha detto, interrompendo il suo silenzio, quando mi ha visto tornare scontento, mentre trascinavo l'albero dal garage invaso dalla macchina di quel bellimbusto di Mizar, ancora chiuso in camera. «Mizar è un bravo ragazzo!»

«Ma che ci fa in casa nostra?» ho sbuffato, lasciandomi cadere sull'umido divano da giardino. «Insomma... lui non ci torna a casa dai suoi?»

«Tra due settimane ha un esame importante!» ha risposto lei, con fare comprensivo. «E se tornasse a casa, ha detto che avrebbe dovuto partecipare alla festa di palazzo della Regina del suo paese. E addio tempo per studiare, povero ragazzo!»

Ho sbuffato. «Non sapevo che in Norvegia ci fosse la Regina!» ho esclamato, piuttosto acido: penso che sia la prima volta nella mia vita che mi rendo così intrattabile. Lei, comunque, non sembrava stupefatta dalla notizia. Certo... lei lo sapeva già.

«Ma non in Norvegia! Ad Asgard!»

Ho cercato sull'atlante dell'Europa questa regione, senza alcun successo. La mamma, poi, è contraria all'uso di Internet (dice che Pan riuscirebbe a venderle anche la casa, se solo capisse come funziona), per questo non l'abbiamo mai avuto e, penso, mai lo avremo.

«E dov'è?» le ho chiesto, allora.

«Ma non so di preciso...» ha risposto lei, evasiva, mentre, tirato su l'albero senza il minimo sforzo, abbassava i rami. «So che è molto su, vicino al Polo Nord. Così mi ha detto lui.»

«E ti ha anche detto che è un cavaliere?» ho domandato, senza riuscire a trattenere il disprezzo.

«Beh, sì, è un'alta carica che viene data ai giovani che si distinguono nel combattimento e così... conquistano anche delle armature o che so io... non ci ho capito molto, però.» mi ha spiegato. Sono balzato in piedi, scontento, e l'ho aiutata a compiere il lavoro sui rami più bassi. Per quelli più alti, lei si è messa in piedi su una sedia.

«E perché ti sta così simpatico?» ho voluto sapere.

«E' un bravo ragazzo.»

«Ma che ne sai?» ho sbuffato, arrabbiato. «Potrebbe essere venuto qui anche con l'intenzione di rubare tutto!»

Lei ha sospirato. «Te l'ha messo in testa Pan?»

«Lo penso io!»

«Beh, avrebbe potuto farlo già da un pezzo, non trovi? E' qui da tre mesi!» ha ribattuto lei, strappandomi dalle mani un ramoscello che tenevo troppo stretto e che ho finito per accartocciare. «E non parlare troppo forte. Quello che gli avete fatto è inqualificabile! Vi siete comportati davvero molto male, tu e tua sorella. E' un ospite. E l'ospite è sacro!»

«E dopo tre giorni puzza!» le ho ricordato.

Lei ha arricciato le labbra. «Non giustifica quello che gli avete fatto! Gli avete spaccato un vaso in testa!»

Il suo prezioso vaso cinese è aleggiato sulla mia coscienza per un secondo, ma l'ho scacciato: dovevo parlare, vomitare tutto il mio malcontento.

«Insomma...» ho tagliato corto, per impedirle di guardarmi ancora in quel modo, facendomi sentire ancora più in colpa. «Perché ti sei iscritta a quel programma dell'università?»

Lei si è morsa il labbro inferiore. Ho intuito che era a disagio. «Passami le palline, Kenny! Comincio a sistemare l'albero.»

Ma io non mi sono mosso. «Dimmelo!» ho esclamato, a voce, forse, troppo alta.

«NON ALZARE LA VOCE CON ME, HAI CAPITO?»

Ho fatto un passo indietro: la mamma sa essere pericolosa come Pan e non devo andare molto indietro con la memoria per darmi una dimostrazione. «Perché non me lo vuoi dire?» ho chiesto, però, con gli occhi bassi.

La mamma, per tutta risposta, ha preso la scatola delle palline per conto suo, lasciandomi in piedi accanto all'albero come uno stoccafisso. Ha cominciato ad accarezzare le palline e a cullare la scatola come si fa con un bambino, guardandole con un'infinita tristezza.

Credevo che fosse impazzita, ma quella tristezza nei suoi occhi mi ha stretto il cuore.

«Mamma?» l'ho chiamata, incerto.

«Oh, al diavolo!» ha ribattuto lei, tornando la solita donna energica che ricordavo. Mi ha posato la scatola ai piedi e ne ha prese alcune, che ha cominciato a sistemare, canticchiando una canzone. Lo fa sempre, quando non vuole parlare di qualcosa.

Fare l'albero in quel modo è davvero una tortura; avrei preferito andarmene e lasciarla lì. Sono sicuro che non gliene sarebbe importato per come stavano andando le cose.

«Ho conosciuto un paio di ragazzi, in caserma.» ho detto, ad un certo punto, per dissipare la tensione: capivo che non c'erano molti modi in cui avrei potuto convincerla. Non sono bravo a far leva sul senso di colpa e non avrei saputo da che parte cominciare. «Uno di loro è Frank Kushrenada. E' il figlio di Douglas Kushrenada, il politico, sai?»

L'ho guardata, i suoi occhi sono diventati come grosse palle da bowling.

«Doug... Douglas Kushrenada?» ha chiesto, diventato isterica. «Vuoi dire che tu vai... vai a scuola... con il figlio di quell'uomo meraviglioso?»

Si è fiondata addosso a me, stringendomi le mani e guardandomi con gli occhi che le brillavano per l'emozione. Sembrava aver dimenticato la discussione appena avuta e il fatto che avessimo tentato di buttare Mizar in un cassonetto. «Ehm... sì.»

«E, dimmi, com'è?»

Come avrei potuto descrivere Frank? Lui è un bravissimo ragazzo, un tipo simpatico ed intelligente, a cui piace seguire le regole. Ed è anche un po' formale, ma come lo si può biasimare con una famiglia del genere? Credo che la sua famiglia, da quello che ho capito, vorrebbe anche scegliere le persone che Frank dovrebbe frequentare. Forse, lo hanno anche costretto ad andare in caserma. Forse non a tradimento, come è successo a me e a Pan, ma comunque potrebbe non essere stata una sua libera scelta. Lui non l'ha mai detto e, mi sono reso conto, di non averglielo mai chiesto. Adesso che ci penso, non so ancora molto su di lui. Quindi, alla fine, non sapevo proprio cosa dire a mia madre. «Ehm... è simpatico.»

«Oh, bene! E tu sei suo amico?»

«Sì.»
«OH, CHE MERAVIGLIA!» ha gridato lei, alzando gli occhi al cielo, come per ringraziare Dio. E' tornata a guardarmi, mi ha sorriso in modo maniacale, come quando le vengono le idee più folli. E la sua era davvero un'idea folle: «Magari riesco a combinare il matrimonio di Pan con questo ragazzo! E, dimmi, è bello come il padre?»

«Ehm... non lo so...» questa è la verità: non so neanche che faccia abbia Douglas Kushrenada, anche se so che mamma lo adora. Poi, vedendola così delusa, mi sono deciso ad aggiungere: «Ma alle ragazze piace. E somiglia molto al Generale Treiz.»

«Un marito ricco, potente e bello! Pan non potrà che essere contenta, quando glielo dirò! Ah, ma dovrà smettere di comportarsi da selvaggia, se...» si è fermata, ha scosso la testa e ha continuato a fissarmi in quel modo terribile. «Dimmi, Frank cosa ne pensa di Pan?»

«Ehm...» la odia, direi. «Non lo so.»

«Ma te ne avrà parlato!»

«Ehm...» non nel senso che sperava lei. «Non mi ricordo.»

Mamma ha sospirato. «E va bene...» ha concluso, piuttosto delusa. «Allora stai attento, quando torni in caserma, va bene? Devi dirmi come si comporta. Oh, magari si innamorasse di lei!»

Frank si sarebbe sposato con Pan solo se, come alternativa, fosse costretto ad inghiottire chiodi e a bere litri e litri di olio di ricino. E forse non sarebbe neanche abbastanza.

Ho annuito, tanto, piuttosto che dire a mamma le cose come stanno, preferirei sotterrarmi. Spero solo che non si metta a frugare tra le mie cose e che non scopra mai che tengo un diario, altrimenti sarebbe una tragedia!

Beh, abbiamo continuato a sistemare le palline sull'albero, mentre lei continuava a sproloquiare su quanto suonasse bene il nome “Pan Kushrenada”. Ed è stato in quel momento che mi è venuto in mente di riportare la discussione sul piano “Mizar”, un po' per farla smettere di illudersi, un po' perché avevo bisogno di sapere.

«Mamma, perché volevi rimpiazzarci?»

Subito, ha smesso di parlare di Pan e del suo matrimonio, durante il quale le zie Polly e Molly, oltre che Bulma e sua figlia, sarebbero schiattate di invidia sul posto. Mi ha guardato scossa, come se mi avesse visto davvero solo in quel momento.

«Io... io non voglio rimpiazzarvi!» ha esclamato, come se, invece, le avessi detto che, a scuola, era stata una frana. «Come ti viene in mente?»

«Ti sei messa in casa quello sconosciuto!» ho spiegato. «Ha ragione Pan: ci vuoi rimpiazzare!»

«Come puoi credere a quello che dice tua sorella?»

«Beh, ci credo!» ho risposto, piccato. «Se non è per rimpiazzarci, allora perché?»

Di nuovo, si è morsa il labbro inferiore e, mortificata, ha abbassato lo sguardo, mentre le sue mani rimanevano sopra la testa, attaccate al filo della pallina multicolore che stava attaccando al ramo.

«Mi sentivo sola...» ha mormorato, con voce piccola. Sono rimasto spiazzato dalla rivelazione: la mamma si era sentita sola? Anche lei aveva sentito quel senso di lontananza da casa, quel senso di assoluto abbandono e di tristezza ogni volta che ripensava a quando eravamo tutti insieme, a mangiare intorno ad un tavolo e a litigare come pazzi? «Credevo di poterlo reggere... ma poi anche nonno Satan se n'è andato di casa e... non mi piaceva tutto quel silenzio. Tuo padre con quella sua musica ossessiva non è più un rumore: quello è come... la colonna sonora della nostra vita.» ha finalmente abbassato le mani e ha cominciato a tormentarsele l'una con l'altra. «Ma senza di voi, anche la colonna sonora più bella, diventa monotona. Non avevo più niente da fare: il mio scopo nella vita era occuparmi di voi, ma dato che non c'eravate più... ho dovuto occuparmi di qualcun altro!» Ha sorriso, in modo colpevole. «Forse... forse vi ho davvero rimpiazzati, ragazzi miei!» ha detto, in un tono così triste che mi ha fatto stringere il cuore. «Ed è per questo che... oh, l'avete fatto per me!»

Non avrei mai potuto immaginare che la mamma potesse davvero pensare a noi come ad uno scopo nella vita. E mi sono sentito un verme per come avevo trattato Mizar, fino ad allora: la mamma si era inserita nel progetto dell'università solo per avere di nuovo l'occasione per occuparsi di qualcuno, dato che ci ha mandati in caserma. Forse si è anche pentita della sua scelta e, per questo, ho deciso di parlare (di mormorare, più che altro):

«Mamma... io e Pan... ci troviamo bene in caserma...»

Non mi aspettavo che scoppiasse a piangere; non mi aspettavo nemmeno che mi balzasse addosso e che mi stringesse forte come ha fatto, scossa dagli alti singhiozzi che hanno aizzato la curiosità dei vicini e di quel naso lungo del signor Parker che ha sentito l'irresistibile bisogno di correre fuori a far scorrere l'acqua dal tubo di gomma per innaffiare le sue piante secche, come non aveva fatto durante la scappatina mia e di Pan. Ero in imbarazzo, ma sentivo anche il bisogno di piangere, così ho sopportato il suo abbraccio e ne ho approfittato per ricevere anch'io un po' di consolazione.

«Dai, mamma... non fare così...» non sono mai stato bravo nel consolare. Anzi, diciamo che non avevo mai consolato nessuno prima di oggi e che mi ritrovavo piuttosto impreparato e con gli occhi lucidi. «Ehm... dai... non piangere!»

«Oh, il mio bambino!» singhiozzava lei a voce troppo alta. «Il mio bambino! Com'è sensibile! Com'è caro, dopo che io lo rimpiazzo con un altro, lui vuole comunque bene alla sua mamma! Oh, il mio caro bambino!»

Sono arrossito di imbarazzo e non ho potuto fare a meno di pensare che, se da quelle parti fosse passata Bra, mi avrebbe preso in giro finché avessimo avuto vita.

A salvarmi dalla casualità degli eventi, è stato il telefono che, dal salotto, ha riscosso entrambi. La mamma, asciugandosi le lacrime, non ha potuto fare altro che allontanarsi, ancora tirando su col naso. E' rientrata, passando per la porta a vetri, mentre io mi gettavo sul divano da giardino, guardando la scatola di palline ancora piena, mogio: avrei dovuto chiedere scusa a Mizar. Alla fine, ho capito che lui aveva solo cercato una casa, ha trovato quella che gli conveniva di più e non era colpa sua se era proprio la nostra. Non era colpa nemmeno della mamma. Ho cominciato a desiderare di rimanere a casa e di non tornare più in quella caserma, anche se questo avrebbe significato non vedere più Alex, Arale e Frank. Non ci sono ancora motivazioni così forti da farmi rimanere lì e, in quel momento, non avevo neanche voglia di cercarle.

Mentre annotavo mentalmente di parlare con Pan della storia dello scopo nella vita, lei e papà sono tornati e in macchina tenevano, oltre alle solite sedici buste della spesa, anche...

«Nonno Satan!» sono scattato in piedi, gridando il suo nome. Dopo averlo creduto morto, vedermelo davanti era la più bella delle sorprese e mi ha fatto dimenticare momentaneamente il mio senso di colpa. Gli sono corso incontro e, quando è sceso dalla macchina, l'ho abbracciato io, cosa che ha lasciato di stucco non solo lui, ma anche me e Pan, che mi guardava come se avessi detto di voler diventare un serial killer.

«Kenny, hai preso una botta in testa?» mi ha chiesto, disgustata. «Insomma... tu e nonno Satan... vi odiate!»

Ma io mi ero già staccato dal nonno e lo guardavo con un sorriso che mi partiva da un orecchio e mi arrivava a quell'altro. Ero troppo contento che sia ancora qui, tra noi. E lo sono anche ora che ripenso. E' stata una bellissima sensazione vederlo lì, di fronte a me.

Il nonno muoveva le braccia avanti e indietro, guardandomi come se fossi stato folle e, forse, lo sembravo davvero. «Okay... ehm... vi aiuto a prendere la spesa!»

«GOHAN!» il grido della mamma gli ha impedito di muovere un altro piede verso la macchina, mentre mi giravo di scatto verso di lei. E quel che ho visto, mi ha fatto chiedere se quella fosse davvero la donna che, poco prima, si era buttata su di me, abbracciandomi disperata. Certo, aveva ancora gli occhi rossi, ma ora non sapevo se lo fossero per la rabbia o per la tristezza.

«V-videl?» ha risposto papà, bloccato con una mano stretta intorno ad una portiera dell'auto. Persino Mizar è uscito da camera sua e si è affacciato dalla porta a vetri, incuriosito.

La mamma ha cominciato ad avvicinarsi con passo pesante, sembrava l'Incredibile Hulk nei suoi momenti peggiori, se non fosse che la mamma non era ancora diventata verde ed enorme. Beh, anche se non lo era, era comunque spaventosa e io e il nonno siamo indietreggiati per il terrore, come se ci fossimo sincronizzati.

«MI HANNO CHIAMATA I GIORNALISTI, ACCIDENTI A TE!»

«I... giornalisti?» ha ripetuto papà, riprendendo incredibilmente l'uso della mandibola. «E allora?»

«E ALLORA? MI HANNO FATTO UN SACCO DI DOMANDE!»

«Domande su cosa?» ha chiesto Pan, l'unica che non sembrava essere stata intimidita da quella furiosa invettiva della mamma.

«DELLA GALERA! DEI NOSTRI FIGLI CHE VANNO IN GIRO AD AMMAZZARE LA GENTE!»

Così tutti i vicini hanno saputo che abbiamo passato un intero pomeriggio in carcere, oltre che tutta la mattina alla stazione di polizia. Il mio sguardo è corso al signor Parker che, ancora con l'acqua aperta, stava affogando le sue piante e guardava verso di noi con una curiosità che aveva un che di morboso. Il bello era che noi non facevamo niente per impedirgli di ascoltare i fatti nostri.

«E io che c'entro?» ha voluto sapere papà, ma non potevo dargli torto: era colpa di mamma e Pan, se era successo, dopotutto.

«CHE C'ENTRI? LO SO IO DOMANI CHE BELL'ARTICOLO CHE VERRA' FUORI! FAMOSO DIRETTORE D'ORCHESTRA ARRESTATO PER AVER PROVOCATO UNA RISSA! FIGLI ASSASSINI DI UNO STIMATO DIRETTORE D'ORCHESTRA!»

Papà la guardava come se fosse matta. «Videl, la rissa, tecnicamente, l'hai provocata tu!»

«NON RIGIRARE LA FRITTATA!»

«Possiamo parlarne in casa?» ha riprovato papà.

«QUI O DENTRO E' LA STESSA COSA!»

«Ma dentro fa più caldo!»

«FARA' CALDO ANCHE QUI, SE NON LA PIANTI!»

Un secondo dopo, la macchina del poliziotto che passa di qui tutte le mattine – quello che non si ferma mai quando succedono di queste cose, ma che ci ha arrestati stamattina – ha parcheggiato di fronte al nostro giardino. Ero sicuro che stesse per prenderci tutti e portarci di nuovo in commissariato, ma stavolta c'è stato il colpo di scena: ne è uscita una faccia conosciuta, ma non quella del solito poliziotto.

«Ma quello è...» neanche mia sorella ha avuto il coraggio di dirlo.

«S-salve!» ha detto, guardando un po' tutti smarrito, chiedendosi, forse, a chi dovesse rivolgersi. Persino Mizar si era avvicinato, guardando sconvolto la mamma che inveiva contro papà. Si vede che, nei giorni in cui è stato da solo con loro, la mamma non ha mai dato in escandescenze. Quindi... siamo sicuri che non siamo io e mia sorella a mandarla in agitazione?

«Oh, buongiorno!» ha esclamato il nonno, con un sorriso gigante. «Cosa posso fare per lei? Sono Satan, il padre di questa graziosa ragazza!» ha indicato la mamma che, le mani piantate sui fianchi, lanciava insulti su papà.

«Salve... io sono... Tota Matsuda.» l'ispettore ha allungato la mano per stringere quella enorme del nonno che gliel'ha stritolata, facendogli sfuggire un gemito. «Mi... mi ha mandato l'ispettore Soichiro Yagami per...»

«AH!» l'attenzione della mamma si è spostata sul nuovo arrivato, nel sentire il nome dell'uomo che ci aveva scarcerato. Ha puntato un dito contro il povero signor Matsuda. «Ecco, proprio lui! Scommetto che è stato lui! Mi hanno chiamato I GIORNALISTI! LUI! E' STATO LUI A FAR TRAPELARE LA NOTIZIA!»

«N-no, signora, lasci che le spieghi... ero venuto apposta per...» ma la mamma non lo ha fatto finire. Lo ha fronteggiato, puntandogli un dito addosso.

«Io vi denuncio!» ha detto, in tono minaccioso.

«Signora, la prego...» ha piagnucolato il povero signor Matsuda. «Ero solo venuto a spiegarle la situazione e porgerle le scuse del dipartimento per l'incresciosa fuga di notizie!»

«Poteva venire il suo capo! Anzi, doveva venire lui! E' stato lui a non proteggere la nostra privacy, quindi deve essere lui a...»

«L'ispettore Yagami sta... sta, ecco,» l'ha interrotta lui, abbassando lo sguardo, improvvisamente mortificato. «sta festeggiando il Natale con la sua famiglia.» ha detto, infine. «E' per questo che ha mandato me!»

E l'espressione omicida sul volto della mamma si è trasformata, facendosi improvvisamente molto dolce. Proprio come il dottor Jekyll e Mr. Hide. «E la sua famiglia, dov'è, signor... ehm...?»

Matsuda ha ripetuto il suo nome e poi ci ha rivelato che i suoi vivono nel sud del Giappone e che, per questo non sarebbe potuto andare a trovarli. La cosa che ha riempito di lacrimoni gli occhi di mamma e le ha fatto dimenticare i suoi propositi legali. Pan, che si era avvicinata a me e al nonno Satan, guardava la scena con occhi spiritati. Ma non è stata l'unica, dopo che la mamma ha detto questa frase: «Le va di passare la sera di Natale con noi? Non saremo la sua famiglia, ma... ci farebbe piacere!». Anche io ero fuori di me dallo stupore. Eppure, adesso che ci penso, avrei dovuto essere quello meno stupito, dopo che mi aveva confessato di aver preso Mizar in casa solo perché doveva prendersi cura di qualcuno al posto nostro.

Il signor Matsuda cercava di svicolare: «Ehm... non so se posso... insomma...»

«Ma certo che può!» ha esclamato la mamma. «Andiamo, non può passare la sera di Natale tutto solo! Sono una mamma e non posso permetterglielo! O è in servizio anche la notte di Natale?»

«No... ecco... è che... non credo di poter approfittare della sua generosa ospitalità!»

«Ma certo che può!» ha ripetuto mamma.

Il nonno, a quelle parole, ha preso il suo fazzoletto grosso come una tovaglia e ha cominciato a piangere come un disperato tutta la sua commozione. «La mia bambina è così generosa!» ululava, tra le lacrime.

«E' completamente partita!» è stato il commento di Pan.

«Ma... Videl...» questo quello sconcertato di papà.

Io e Mizar eravamo gli unici zitti, ma entrambi decisamente sconvolti da quell'invito all'ultimo minuto e fatto ad un perfetto sconosciuto.

Quindi, come c'è da aspettarsi, pure Matsuda ha passato con noi questa Vigilia di Natale, bevendo un bicchiere di vino ogni due cucchiaiate di minestra (uno dei sei primi) e stando seduto intorno al tavolo del soggiorno, tra papà e nonno Satan, che rideva ad ogni piè sospinto per qualsiasi parola che chiunque pronunciava. Nessuno ha più parlato della fuga di notizie.

Non che Matsuda fosse una presenza cattiva, per carità, però raccontava barzellette che raggelavano l'ambiente anche se era così caldo in quella stanza che Pan e io ci eravamo andati a mettere magliette a maniche corte: «Lo sapete il colmo per un ortolano?» ha chiesto, al quarto bicchiere. «Avere un figlio finocchio e non poterlo vendere!»

Lui è stato l'unico a ridere e la mamma ha fatto finta per non ferire i suoi sentimenti di brillo.

«Bella.» ha detto Pan, annoiata, mezza coricata sul tavolo con il pugno a sorreggerle la testa.

Io, intanto, ho deciso di dare a Mizar una possibilità e, tra le altre cose, abbiamo scoperto che abbiamo un sacco di cose in comune: per esempio un fratello. E, quando gli ho raccontato uno dei tanti scherzi che mi ha fatto Pan, lui mi ha rivelato che anche lui, al suo gemello, da bambino, faceva un sacco di scherzi.

«Ero un po' come tua sorella.» ha detto. «Pensa che, un giorno, avremmo avuto... sette anni, l'ho preso per mano e gli ho detto: “vieni, Alcor, andiamo a giocare nella foresta.”. Gli ho proposto di giocare a nascondino e che doveva stare sotto lui. L'ho portato in un punto molto fitto della foresta. Tra i due, io sono sempre stato quello con più senso dell'orientamento e lui, invece, era una schiappa. Così, mentre lui contava, sono scappato via, per impedirgli di ritrovare la strada.» ha fatto una smorfia. Si vedeva che non andava tanto fiero della bravata.

«E perché l'hai fatto?» gli ho chiesto.

«Perché...» ha rivolto uno strano sorriso mesto alla sua mano che giocava con una mollica di pane vagante per la tavola. «non mi piaceva l'idea di avere sempre vicino qualcuno uguale a me. Se si fosse perso nella foresta... beh, ero piccolo e stupido. Lì c'erano anche animali feroci...»

«E lo sapete cosa dicono due casseforti che si incontrano?» domandava Matsuda, nel frattempo. «Che combinazione!»

Ho fatto una strana smorfia preoccupata, ripensando alle parole di Mizar. «Bestie feroci?»

«Sì.» ha ammesso lui. «Lupi, orsi...»

«Ma, scusa, precisamente, dov'è questa regione di Asgard?»

«E lo sapete il colmo per uno specchio?» chiedeva ancora Matsuda, tracannando il contenuto del bicchiere che il nonno gli riempiva. «Sforzarsi di riflettere!»

Mizar ha scosso la testa, ma non capisco se per la mia domanda o se per la battuta penosa del nostro ospite. «Asgard non è una regione.» mi ha detto. «E' una città.» e la cosa mi ha lasciato un tantino spiazzato.

«Una... AHIA!» ho lanciato quell'urlo sovrumano perché Pan, all'altro mio lato, mi aveva infilzato la mano che tenevo appoggiata sul tavolo con la forchetta. Quando ho sentito quella puntura così terribile e violenta, ho ritirato la mano, ma ho solo risolto di graffiarmi con i denti della posata. «Ma sei impazzita?» ho gridato.

«Che cazzo fai? Simpatizzi con il nemico?» ha chiesto lei, in tono accusatorio.

«Non è un nemico.» ho ribattuto, scuotendo la mano dolorante.

«AH NO?» Pan gli ha puntato la forchetta, che aveva usato per infilzare me, per indicare Mizar. «E' il nemico! Il pericolo numero uno!»

«E allora il cetriolo ha detto...» continuava Matsuda, ridendo a crepapelle. «Ha detto...» è crollato a terra, addormentato, e non abbiamo mai saputo cosa avesse detto il cetriolo. Nessuno ha fatto molto caso al fatto che il poliziotto ronfasse della grossa, neanche il nonno che, vedendo il bicchiere dell'ospite vuoto, lo ha riempito nuovamente e ha ripreso a ridere come un invasato.

«Ma non è un nemico!» ho esclamato, come se non lo avessi mai pensato.

«MA CERTO CHE LO E'!» ha gridato lei, balzando in piedi e brandendo quella forchetta come una spada. «E' UN ALIENO CHE STA SOGGIOGANDO ANCHE LA TUA MENTE!»

La guardavo sconcertato, mentre Mizar è scoppiato a ridere. «Sarei un alieno?» ha chiesto, divertito, prima di soffocare in un'altra risata. Probabilmente anche lui era un po' alticcio, o forse semplicemente cominciava ad avere dimestichezza di Pan che gli ha puntato addosso la forchetta. «In guardia, alieno del cazzo!»

«Posso chiedere una tregua?»

«PUSILLANIME! FATTI SOTTO!»

«CORAGGIO, NIPOTINA!» faceva il tifo il nonno. Insomma, la cena di Natale, da noi, non rischia mai di cadere nel mortorio. La mamma cerca di opporsi di solito, ma questa volta ha chiuso un occhio, e ha messo in tavola nell'ordine: il tacchino, le patatine, il pollo con le verdure, il maiale arrosto e il vassoio di sushi con contorno di zucchine (sì, mia madre fa queste cose), il pesce spada al forno, il tutto sempre senza smettere di sorridere, mentre in casa regnava il caos.

Penso che sia stato il miglior Natale da molti anni a questa parte.

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Capitolo 16
*** Una gita fuori programma ***


Vacanze natalizie.

Una gita fuori programma.




25 Dicembre


Questa mattina mi sono alzato con un solo scopo: convincere Mizar a rimanere qui con mamma e papà. Già ieri sera mi sono accorto che è una persona per bene, e il fatto che abbia anche deciso di non sporgere denuncia, mi ha fatto ben sperare. Così, prima che Pan si alzasse, sono sceso di sotto, vestito di tutto punto e con i denti lavati – la mamma dice che se le cose si dicono con l'alito fresco, l'interlocutore è più propenso ad ascoltarti – ho bussato alla porta di camera sua, e mi sono fatto coraggio. Avrei dovuto essere convincente, ma non sapevo come fare: tutte le volte che sono stato convinto a fare qualcosa è stato sotto minacce o paura. Sia Pan che la Une non sono mai state dei grossi esempi di diplomazia.

Quando lui ha aperto, aveva l'aria di stare aspettando di ricevere una bomba. Avrei dovuto, forse, augurargli il buongiorno, o un buon Natale, ma non mi è venuta in mente di fare nessuna delle due cose. «Non te ne devi andare.» ho dichiarato soltanto.

Lui mi ha guardato come se fossi impazzito. Forse non è stata effettivamente una grande idea. Neanche un preambolo. Niente di niente. E ho dovuto continuare su quella via, perché altrimenti mi sembrava di diventare ancora più stupido: ripiegare sugli auguri era fuori discussione e gli avrebbe fatto credere che ero più pazzo di quel che credesse.

«Da questa casa.» ho specificato quindi. «Devi rimanere!» ho abbassato lo sguardo, sentendomi in imbarazzo. Mi ero preparato il discorso, in bagno, mentre mi lavavo i denti e volevo essere al mio massimo, ma nel momento in cui sono andato a pronunciare le parole, mi sono sentito un vero imbecille. L'ho fatto comunque, mi sono uscite quasi involontariamente di bocca. «Vedi, la mamma si è sentita molto sola, da quando ce ne siamo andati e, adesso che ce ne andiamo di nuovo, tornerà a sentirsi sola. Tu stai molto simpatico alla mamma e... e in fondo piaci anche a Pan. Un pochino, cioè... e anche a me piaci! Se tu, invece, sei qui con lei... con mamma, intendo, insomma...» mi sono grattato la testa, perché non sapevo più come continuare. Lui mi ha guardato ancora per un po'. Sembrava non capire il senso del mio discorso – e in effetti anche a me, rileggendolo, non sembra che ne abbia molto – ed è rimasto in silenzio così a lungo che non ho potuto fare a meno di chiedermi perché l'avevo fatto. Anche con l'alito fresco, forse Mizar non avrebbe potuto dimenticare il vaso che gli era finito in testa così facilmente, né il fatto di essere stato quasi portato di peso in un cassonetto. Avrebbe detto che non se la sentiva di rimanere, che non era giusto nei confronti di mia madre o qualcosa di simile. Invece, con mia grande sorpresa, mi ha posato una mano sulla spalla.

«Grazie, Kenny.» ha detto. «Sei un bravo ragazzo.»

Le sue parole mi hanno riempito di orgoglio e di stupore al tempo stesso. Ho alzato lo sguardo per incrociare il suo e ho visto che stava sorridendo. Ho sorriso di rimando. «Allora rimani?»

«Sicuramente rimarrò fino alla fine delle vacanze: gli uffici sono chiusi, in questo periodo.»

Mi sono accontentato: avrei parlato con Pan quando saremo andati alle giostre. Ci andiamo tutti gli anni e quest'anno non saremo da meno. Passiamo lì la giornata e torneremo la sera, proprio come una famiglia normale.

Invece, le cose non sono andate proprio come speravo io.

La mamma ha detto che lei e papà avrebbe dovuto accompagnare Matsuda a casa sua (ha dormito sul nostro divano e ha anche vomitato nel vaso cinese superstite) e poi saremmo andati a far visita agli amici per gli auguri di Natale.

In questo non c'è niente di strano: ogni anno siamo costretti ad uno strano giro di visite, nei giorni dopo Natale, con la variante che, di solito, sono gli altri a venire a trovare noi. Stavolta, perché la mamma ha detto che era maleducazione farsi sempre fare visita e mai fare visita, avremmo dovuto saltare le giostre di Natale e girare di casa in casa.

Pan è stata la prima a protestare. «Senti, mamma, questa è la mia cazzo di festa di Natale. Perché cazzo dovrei saltarla per fare gli auguri ai Brief?» ha domandato e non ho saputo darle torto, dato che noi, coi Brief, non ce la diciamo tanto.

«Oh, falla finita, Pan. Le parolacce anche il giorno di Natale! E comunque sono nostri amici!» le voleva far notare la mamma, anche se lei è la prima a non andare d'accordo con Bulma. Mi chiedo perché si ostini a dichiarare eterna amicizia con lei e i suoi familiari.

«NON CI VENGO A CASA DI BRA!» ha rimarcato il concetto Pan.

È stato allora che Mizar ha proposto una soluzione alternativa e questo mi ha fatto capire che è davvero un ragazzo disponibile e per niente cattivo: ha detto che avrebbe accompagnato me e Pan alle giostre, e che sarebbe stato molto contento di farlo, provocando un'ondata di commozione da parte della mamma. Comincio a pensare che mandarci in caserma non sia stata la sua mossa migliore. «Sei un così bravo ragazzo!» ha sospirato. «I miei figli lo vogliono uccidere e lui si presta a questo! Che ragazzo nobile e generoso!»

Pan ha avuto da ridire anche su questo, ma non in faccia a lei, credo perché la mamma non avrebbe apprezzato, soprattutto dopo che “avevamo tentato di ucciderlo”: «Quello ci ammazzerà non appena entreremo in macchina, col tubo di scappamento!» ha borbottato, camminando dietro di me, verso la macchina rossa del nostro inquilino. «Vuole vendicarsi, è questa la verità! Lo farà passare per un incidente e poi torna nel culo del mondo. Un piano perfetto. Ci porta alle giostre e puf. Siamo morti. Geniale. Avrei voluto pensarci io.»

Però è salita in macchina, dal lato del passeggero e ha indossato perfino la cintura. E lo ha guardato come per sfidarla a togliersela o a ucciderla adesso che aveva la protezione adeguata. Io mi sono accomodato dietro Mizar e anche io mi sono messo la cintura, ma non ero minimamente preoccupato di finire ammazzato in un falso incidente.

«Guarda che non c'è bisogno che tenti di comprarci con queste carinerie!» ha esclamato, quindi, mia sorella, quando ormai eravamo a due isolati da casa.

«Non mi sembrava giusto che voi dovevate saltare il vostro... giro di giostra per via degli impegni dei vostri genitori.» ha risposto lui, pacato. Adesso non mi sembra neanche più falso come prima, o forse è solo perché ho voluto concedergli una possibilità. A dire il vero, mi sta anche parecchio simpatico. In quel momento, mentre partivamo, stavo cercando le parole più adatte per spiegare tutto a Pan, magari quando fossimo stati da soli su qualche giostra.

«Ma come siamo gentili...» ha risposto mia sorella, sarcastica. «Senti, piantala di fare il samaritano, tanto non convinci nessuno! Forse solo quel coglione lì dietro.» mi ha indicato, mentre si rimetteva composta.

«Come desiderate, madamigella.» ha risposto lui.

«Che fai? Pigli pure per il culo?»

«Mi hanno insegnato a rispettare il volere di una fanciulla e i suoi desideri.»

Dallo specchietto retrovisore sul lato di Pan, ho potuto vedere che lei alzava gli occhi al cielo. Sì, okay, effettivamente era un po' vomitevole.

Pan si è stiracchiata, sbadigliando sonoramente, poi si è portata le braccia dietro la testa. Sembrava infinitamente rilassata, per una che credeva di stare per morire in un falso incidente. «Allora, signor Rispetto,» ha cominciato, oziosa. «perché non sei tra i tuoi Vichinghi a festeggiare il Natale?»

«Non festeggiamo il Natale noi... Vichinghi

«E perché?» ha domandato lei, annoiata.

«Perché non crediamo nelle vostre divinità.» è stata la quieta risposta di Mizar.

«E tu in cosa credi? Nel culo della gallina?»

«Mai sentito parlare di Odino?»

«Quello dei Flinstones?» ha chiesto Pan, dubbiosa. Ho visto la faccia smarrita di Mizar attraverso lo specchietto retrovisore. Mentre cercavo di capire la battuta, lei ha continuato, sconcertata: «Adorate un dinosauro? Bah...»

«Ehm... non... non è... non è un dinosauro!» ha balbettato Mizar.

«MA L'HAI DETTO TU! Hai detto che si chiama Dino!» gli ha rammentato Pan, tornando improvvisamente calma. Ma, prima che lui avesse il tempo di replicare qualsiasi cosa, mia sorella ha ripreso ad urlare, indicando convulsamente il muro di cinta del parco giochi del quale svettava in lontananza la grossa ruota panoramica. «ECCOLO! CI SIAMO! FERMIAMOCI!» Ha afferrato il braccio di Mizar scuotendolo, eccitata. «CORAGGIO, FERMATI, FERMATI, FERMATI!»

«Ehm...» rispondeva lui, cercando di mantenere fermo il volante e la macchina che, grazie a Pan, sbandava leggermente verso destra. «Non posso fermarmi in mezzo alla strada!»

«Tanto c'è traffico!» ha replicato lei, ignorando le preghiere di Mizar per essere lasciato. «Dai, fermati!»

Effettivamente era vero: a Natale sono sempre molte le famiglie cui piace passare la giornata al parco giochi e quella strada è una delle più trafficate di Tokyo.

Mizar ha anche provato a negoziare: «Fammi trovare parcheggio e...»

Ma Pan non ha voluto sentire ragioni: «No, fammi scendere qui!» ha detto, risoluta.

Il nostro autista non sembrava molto d'accordo, anzi, sul suo volto si è formata un'espressione riluttante: «Ma... se vi perdete?»

«Senti, cocco,» ha ribattuto mia sorella, indicando il muro di cinta del parco. «il parco è qui davanti! Dimmi come faccio a perdermi!»

«Il parco è grande!»

«Ci vengo tutti gli anni e non mi sono mai persa!»

«No.» ha tagliato corto Mizar. «I tuoi genitori ti hanno affidata a me e non intendo...»

Purtroppo, in quel momento, il traffico si è congestionato a tal punto che è stato costretto a fermarsi davvero. Non avendo nessun tipo di sicurezza-bambini, o qualche meccanismo che blocca le portiere se la macchina è accesa (beh, non posso biasimarlo: chi mai penserebbe che una ragazzina di dodici anni ne ha bisogno?), Pan ha potuto aprire la sua portiera.

«NO!» Mizar ha provato a fiondarsi alla sua sinistra per afferrare mia sorella che, ormai, si era sfilata la cintura e si era buttata giù dalla macchina, quindi ha cozzato ineluttabilmente contro il cambio. «Pan, dai... torna dentro!»

Ma mia sorella gli ha rivolto uno dei suoi migliori sorrisi furbi e, salutandolo con un carinissimo dito medio, gli ha richiuso la portiera in faccia.

«No!» ha ripetuto, gemendo, il povero Mizar, facendo per togliersi la cintura. Non so chi mi abbia dato la prontezza e l'intuizione, e nemmeno chi mi abbia messo in testa di mettergli una mano sulla spalla.

«Aspetta.» gli ho detto. «Meglio che vada io.»

«Oh, certo, ecco che se ne va anche l'altro!» ha ribattuto lui, facendo scattare il pulsante della cintura. «E poi come faccio a trovarvi? No, meglio che...»

«Ci vediamo di fronte al Caffè Mew Mew!» ho proposto. «Dico davvero, Mizar. E' meglio se parlo io con mia sorella. Credimi.»

Avevo come l'impressione che Pan avesse intenzione di cominciare ad urlare, attirare l'attenzione della polizia e mandare Mizar in galera, oppure di picchiarlo in mezzo alla strada e farlo sanguinare fino a che non fosse morto di emorragia. Diciamo che era proprio da lei.

Non so chi lo abbia convinto, ma, dopo avermi guardato a lungo negli occhi, ha ceduto. «E va bene.» ha detto, sospirando. «Mi fido abbastanza di te. Mi sembri un ragazzino assennato. Vi voglio tra un'ora davanti a questo Caffè.» ho sorriso, felice di sentirlo parlare di me in quei termini. Nessuno è mai stato così gentile. «Ma io come lo riconosco?»

Intanto, io stavo scendendo dalla macchina tutto orgoglioso di me stesso. Avrei trovato Pan e l'avrei portata al Caffè Mew Mew. Mizar ci avrebbe ritrovati e tutto perché ero responsabile. «E' fatto a forma di torta. Non ti puoi sbagliare!» ho richiuso la portiera alle mie spalle e già correvo in direzione del parco, per riprendere Pan. Fortunatamente, oggi mia sorella aveva deciso di infilarsi la sua bandana arancione e così ho potuto individuarla facilmente. E fortuna anche che lei andasse a passo spedito ma non corresse, mentre io sì, altrimenti non l'avrei mai raggiunta.

«Ehi, Pan!» sono riuscito a dire, appena sono stato dietro di lei, fermandomi e posandomi una mano sulla milza dolorante.

Lei, nel sentirmi, si è fermata sul posto e si voltata di scatto a guardarmi. «Ottimo lavoro, Kenny!» mi ha elogiato, stupefatta. «Sapevo che la tua era solo una finta!»

Sorridendo malignamente, si è di nuovo voltata verso la sua meta, con me al suo fianco. Mi sono ritrovato a pensare che lei e Arale fossero più simili di quanto entrambe credessero. Sarei stato contento che, per una volta, mi avesse fatto un complimento, se non fosse che non avevo fatto nessuna finta e non sapevo neanche di che stesse parlando.

«Tra un'ora dobbiamo vederci con lui al Caffè Mew Mew.» l'ho informata, quando sono stato in grado di parlare.

«Con chi?» ha chiesto lei, curiosa.

«Ma con Mizar!» ho risposto, come se avesse dovuto essere ovvio.

Lei ci ha messo qualche secondo a capire cosa avevo combinato e allora mi ha lanciato uno sguardo omicida e mi ha mostrato i pugni. «Brutto...» si è fermata un secondo. «Guarda, non so neanche come definirti. Coglione è troppo poco!»

Ci siamo fermati davanti all'ingresso, dove abbiamo comprato i nostri biglietti e ci hanno permesso di passare con l'augurio di un buon divertimento.

«Dai, Pan. Mizar non è cattivo!» ho provato. Mi ero preparato una specie di discorso che, nella mia testa, avrebbe sciolto il più duro dei cuori, persino quello di Pan. Ma, mentre ero lì, accanto a lei che guardava bancarelle e giostre avidamente, mi rendevo conto che, con quel discorso, avrei convinto solo me stesso. E la mia bocca non mi ha aiutato come era successo la mattina, prima di colazione, quando sono andato da Mizar a chiedergli di rimanere. Con Pan mi è sempre difficile esprimermi, perché non so mai come potrebbe reagire.

Lei mi ha guardato, forse per via del silenzio in cui ero caduto. «No, è solo un leccaculo che non vuole perdere la camera di nonno Satan!» ha risposto, cattiva.

«La mamma si sentiva sola...»

«Beh, le sta bene!» mi ha risposto lei, dura. Poi ha rivolto lo sguardo altrove. «Oh, guarda! Compriamo lo zucchero filato?»

Non ho avuto il tempo di replicare: lei è scattata verso il carretto alla nostra destra e si è messa in fila per comprarne uno. Sconsolato, l'ho seguita: se l'avessi persa al parco, allora solo un cane dell'unità cinofila avrebbe potuto ritrovarla e non ne sono neanche tanto sicuro.

«Dai, Pan...» ho riprovato, una volta posizionatomi al suo fianco. «La mamma vuole solo occuparsi di qualcuno! Si è sentita molto sola senza di noi.»

Lei si è stretta nelle spalle e ha alzato gli occhi al cielo. «Non mi sembra un buon motivo per rimpiazzarci!»

«Ma non ci ha rimpiazzato!»

«Certo che lo ha fatto!» ha sbuffato lei. «Pensaci bene, paramecio: ci butta fuori di casa, non solo noi, ma anche nonno Satan!» e l'ha detto come se fosse stato ancora più grave che sbarazzarsi di noi. «Poi si iscrive ad un programma dell'università e si porta dentro casa un perfetto sconosciuto che venera un dinosauro. Ti sembra una cosa normale?»

«Ma lei non ha buttato fuori di casa il nonno! Ha vinto alla lotteria, l'hai sentita anche tu la mamma, mentre lo diceva!»

«Certo! E lei lo ha convinto a levarsi di culo. Cerca di far funzionare quel neurone morto di solitudine che ti ritrovi, una volta tanto!»

Non sapevo cosa replicare. Sapevo solo che la mamma non ha mai avuto queste intenzioni e che mia sorella se le stava inventando di sana pianta: lei non avrebbe mai cacciato di casa noi, né il nonno. «La mamma ci vuole bene!» ho dichiarato, convinto e risoluto. «E ci ha mandato in caserma solo perché credeva che siamo troppo indisciplinati e, poi, abbiamo molte... ehm... aspettative per il futuro!»

«Bla bla bla!» ha blaterato lei. «Vaffanculo, ti va?»

Il tizio del carretto dello zucchero filato l'ha incenerita con lo sguardo. Durante la nostra discussione abbiamo finito la fila e ci siamo ritrovati di fronte a lui proprio mentre lei mi mandava gentilmente a quel paese.

«Voglio dello zucchero filato. Una montagna di zucchero filato!» ha detto Pan, coprendo la mia voce e mimando con le braccia una montagna. Il tizio del carretto le ha dato la quantità che ha dato a tutti. «Lei è proprio uno spilorcio.» lo ha apostrofato Pan, prima di voltare i tacchi, senza neanche accennare a prendere il borsellino. Ho dovuto pagare io, con tanto di scuse per le maniere di mia sorella.

Quando l'ho raggiunta di nuovo, ha cominciato a guardarsi intorno. «Allora, cosa potrei...»

«Pan, abbiamo un budget abbastanza limitato!» le ho ricordato.

«E piantala di fare il rompicoglioni!» ha sbottato lei. «Siamo qui per divertirci. Anzi, facciamo una bella cosa: adesso ci dividiamo!»

«No.» ho risposto, categorico, stupendo persino me stesso. «Tra poco meno di un'ora dobbiamo andare...»

Lei ha di nuovo alzato gli occhi al cielo. «A quel fottuto Caffè Mew Mew, sì, paramecio! Ho capito che non vedi l'ora di rivedere quel babbeo!» ha ringhiato, rabbiosa, strappando un grosso morso dalla stecca di zucchero filato. Ha ripreso a camminare e io le sono andato dietro. Lei ha cercato di liberarsi di me, ma io non la mollavo e la seguivo come se fosse la mia ombra: Mizar mi ha dato un compito e io lo avrei assolto a qualunque costo, anche un occhio nero. Così abbiamo continuato a vagare in giro per il parco senza salire su nemmeno una giostra. Lei le guardava tutte, ignorandomi totalmente, dal bruco per i bambini, alle montagne russe “più alte di tutto l'estremo oriente”, o almeno tali si definivano. Ma non c'era niente di abbastanza interessante, per lei. Quello era noioso, quell'altro troppo costoso, l'altro ancora c'era troppa fila.

Quando ho visto il trenino del genio della lampada, l'ho afferrata per il braccio e la sua reazione mi ha quasi fatto prendere un infarto. «BASTA!» ha gridato. «LASCIAMI IN PACE!» ed è scappata via.

«NO, PAN!» sono scattato anche io, seguendola in mezzo a quella fiumana di gente che faceva la fila e che mi intralciava la strada.

In mezzo a così tanti bambini e adulti, il mio inseguimento era parecchio difficoltoso. Come prima, mi sono fatto aiutare dalla bandana arancione che aveva sulla testa. Purtroppo, l'ultima volta che sono riuscito a vederla, prima che un folto gruppo di palloncini mi si parasse davanti togliendola dal mio campo visivo, era davanti alla Casa degli Specchi. Ma avrei dovuto pensarci: odio quegli specchi deformanti che hanno il potere di far credere che ci siano cose che non ci sono e che non sono dove ci dovrebbero essere.

Così sono entrato, sicuro com'ero che si fosse nascosta lì, solo per farmi dannare: lo sa benissimo che quel gioco non mi piace e fa sempre di tutto per farmici entrare. L'anno scorso, per esempio, mi aveva nascosto il borsellino lì dentro e sono stato costretto ad entrare, ben sapendo che la mamma avrebbe dato la colpa a me ed alla mia distrazione se avessi detto che l'avevo perso.

Ero immerso in quel labirinto di specchi, guardavo le decine di me stesso che mi restituivano il mio sguardo perplesso e preoccupato: ogni volta che entro, ho paura di non saper ritrovare l'uscita. Spesso mi inganno che ci sia una via, dove in realtà ci sono solo specchi, ma succede anche che non veda l'uscita, quando invece c'è. È un incubo.

Per questo allungo sempre le mani davanti a me e vado quasi alla cieca.

«Ehi, Pan!» ho gridato, lasciando una lugubre eco dietro di me, mentre facevo un passo avanti.

Non so per quanto ho vagato là dentro, spaventato a morte da ogni me stesso che appariva dal nulla di fronte a me. Non so nemmeno quante volte ho maledetto mia sorella per quella sua mania di trascinarmi fino alla Casa degli Specchi. Mi sembrava impossibile che fosse riuscita a completare il labirinto così in fretta. Forse non mi rispondeva e basta.

Me lo sono chiesto solo una volta, poi non ho capito più niente. Sapevo solo che, se avessi potuto farmela addosso, l'avrei fatto.

Ogni tanto chiamavo Pan a gran voce, ogni tanto mi perdevo e trovavo altre persone, perdute quanto me, ma mai tanto terrorizzate: ero l'unico sudato, l'unico a cui tremavano le gambe e pronto a scoppiare a piangere senza ritegno.

Alla fine, mi sono accodato a due fidanzati che, tenendosi mano nella mano, ogni tanto si davano un bacio e poi continuavano ad avviarsi a passo sicuro verso l'uscita. Perché sì, mi hanno condotto all'uscita, per fortuna. Certo, erano un po' infastiditi perché li seguivo come un'ombra, ma almeno non sono scappati via. Non mi creava imbarazzo nemmeno quando li vedevo scoccarmi occhiate cattive, nemmeno quando mi hanno chiesto perché continuassi a seguirli. Ho detto la verità e hanno avuto pietà di me.

Nemmeno il fatto che abbiano riso come pazzi mi aveva fatto male: mi sarei fatto ricoprire da chili di pece e poi fatto impiumare pur di uscire da lì.

L'unica cosa buona era che ero arrivato davanti al Caffè Mew Mew: il locale sta proprio dietro alla Casa degli Specchi e davanti a quella dei Dolci, una ruota panoramica, con i seggiolini a forma di bignè.

E' una delle mie giostre preferite, ma, in quel momento non ho notato niente di quella meraviglia. Ero più preso dall'osservare la figura bassa, i capelli neri, la bandana arancione, le braccia conserte e un piede che batteva distrattamente sull'asfalto davanti al Caffè.

Impossibile non riconoscere mia sorella.

Sollevato e incredulo, sono corso verso di lei: alla fine aveva mantenuto la promessa!

«Ehi, Pan!» l'ho chiamata a gran voce, alzando un braccio in segno di saluto. Lei, però, visto che già mi stava guardando e aspettando, non ha detto niente. «Perché mi fai sempre entrare in quell'orribile postaccio?» ho protestato, quando mi sono avvicinato.

«E quanto la fai lunga!» ha risposto lei, con leggerezza. «Prima o poi dovrai pur superare le tue paure!»

«E tu hai trovato da sola l'uscita?» ho chiesto.

«Io non ci sono mai entrata!» ha esclamato lei, come se io avessi dovuto capirlo da solo, ma non lo facevo perché ero un idiota.

E, in effetti, mi sono sentito proprio così: era da Pan farmi credere una cosa in luogo di un'altra. È una delle cose che fa sempre. Ho sospirato, sconfitto: anche questa volta, è riuscita a farmela e io mi sono lasciato giocare, esattamente come tutte le altre volte.

«Entriamo?» mi ha chiesto.

«E Mizar?»

Pan ha alzato gli occhi sul grande orologio posto a pochi metri da lì. «Quel coglione si sarà perso da qualche parte.» ha detto. «Io mi faccio una scorpacciata di dolci, tu aspettalo pure per tutto il giorno, se ci tieni!»

Effettivamente non potevo lasciare Mizar a vagare in giro per il parco, magari presentarsi sul luogo dell'appuntamento e non trovarci, disperarsi e chiamare la polizia o i miei genitori perché ci aveva persi di vista. La mamma, come minimo, lo avrebbe ammazzato, dopo che gli aveva concesso tanta fiducia e dopo che lui ne aveva concessa tanta a me.

Era anche vero che non potevo lasciare sola Pan: sarebbe stata in grado di distruggere il Caffè Mew Mew e una buona metà del parco, volendo. Ma lei ha deciso per me ed è sparita all'interno, prima che avessi avuto il tempo di dire la mia.

Non mi restava che sedermi sul muretto davanti al Caffè e attendere l'arrivo di Mizar. Peccato che abbia dovuto aspettare più di mezz'ora, durante la quale ho visto Pan al tavolino vicino alla finestra rimpinzarsi senza ritegno e un tizio che usciva velocemente imprecando contro i pazzi. Eppure mia sorella non aveva fatto niente di più che mangiare come una scrofa! Forse c'era anche qualcun altro, peggio di lei. Ma avrei dovuto entrare per saperlo.

Non è successo nient'altro degno di nota. Mizar è arrivato in mezzo di un folto gruppo di ragazzi che si stavano dirigendo tutti al Caffè.

«E' stata una fortuna che li abbia sentiti nominare le parole Mew Mew!» ha sospirato, fermandosi accanto a me. Ma poi il suo sguardo ha vagato preoccupato intorno a me. «Ehm... dov'è tua sorella?» dal tono della sua voce, ho capito che era parecchio allarmato.

«E' dentro.» ho indicato la finestra dalla quale potevo vederla bene. In quel momento, stava letteralmente trangugiando il contenuto di un grosso bicchiere da frappè. Sospirando entrambi per l'ineluttabilità del fato, quasi fossimo stati sincronizzati, ci siamo diretti verso il locale.

L'interno è decisamente accogliente e caldo, nell'aria si sente l'odore di dolci appena sfornati, le pareti sono gialle e il pavimento di lucide mattonelle fucsia; i tavolini sono di metallo in rosa pallido, così come le sedie. Le cameriere, da sempre, sono vestite di strane uniformi di colori diversi.

Ogni anno, queste ragazze non sono mai le stesse e quest'anno sembravano più fiacche del solito, tranne una. Mi è rimasta impressa perché era vestita di fucsia e i suoi capelli erano dello stesso identico colore; li portava a caschetto ed indossava un collare con un campanellino, più adatto per un gatto che per una persona. Correva di qua e di là, ridendo come un'invasata sotto lo sguardo atterrito di tutti i clienti cui passava accanto correndo con un vassoio in bilico tra le mani.

In più, ero sicuro di averla già vista. Ho avuto un dejà vu in quel momento: la stessa ragazza, con gli stessi capelli fucsia, che correva in giro per i corridoi della caserma. Sì, sono sicuro di averla vista in più di un'occasione, ma non avevo fatto molto caso a lei, forse perché aveva i capelli tinti, come Bra.

«Ehm... ma i locali giapponesi sono tutti così?» mi ha chiesto Mizar, guardando quella ragazza, preoccupato e distogliendomi dalla mia riflessione.

«A dire il vero, spero di no!» ho esclamato, non appena la ragazza è scivolata su una pozza di tè ed ha rovesciato tutto il contenuto del vassoio sul pavimento e sui pantaloni di un cliente che le ha lanciato un'occhiata omicida, prima di lanciarsi in un'invettiva e lasciare il locale, indignato.

«Strawberry, sei un vero impiastro!» queste le parole acide di una ragazza vestita di blu, seduta da sola ad uno dei tavoli e con un bignè sulla testa.

«Ehm... mi dispiace!» ha risposto la ragazza dai capelli fucsia, leggermente rammaricata, raccogliendo quello che c'era a terra a velocità supersonica. «Sono mortificata!»

«Quell'idiota!» è stato il commento di Pan, quando ci siamo avvicinati a lei e la ragazza di nome Strawberry scompariva dietro una porta che, ho potuto intuire, conduceva alle cucine. Mizar si è seduto sulla sedia di fronte a mia sorella e io su quella che dava le spalle alla finestra. «Ha gettato il tè, ha quasi spaccato la testa ad un tizio...» ha cominciato ad elencare lei. «Ha buttato il tè a terra e nessuno è andato a pulire... insomma, uno schifo!»

Mizar, intanto, meno preso da Strawberry, ma più da ciò che stava sopra al tavolo (sei bicchieri da frappè, dodici piattini, di cui quattro ancora pieni), ha aperto bocca: «Ehm... hai mangiato tutto tu?»

«No, quel tuo dio dei Flinstones.» ha risposto Pan, dando un grosso morso ad una fetta di torta alle fragole.

Mizar ha deciso di ignorarla e ha guardato me. «Vuoi ordinare qualcosa?»

A dire il vero, mi era venuta una certa nausea a guardare Pan. «Ecco... non saprei.»

Mizar ha alzato una mano verso il ragazzo biondo con l'aria scontenta che c'era alla cassa. E quello è stato il secondo dejà vu della giornata: anche lui era una faccia conosciuta. Ed era lo stesso che avevo visto nell'infermeria l'ultimo giorno, quello che si era alzato con il mal di testa! Mi ricordo benissimo di lui, benché quel giorno fossi stato preoccupato per la pseudo-scomparsa di Pan.

Il ragazzo si è avvicinato. Conoscevo il suo nome, ma in quel momento mi sfuggiva. «Sì?» ha chiesto, sgarbato.

Mizar ha risposto con un sorriso incerto. Era a disagio. «Vorremmo... ordinare.»

Il ragazzo si è massaggiato una tempia e, sospirando, ha tirato fuori dalla tasca un taccuino e una penna. «Sì, prego.»

«Una fetta di torta al cioccolato.» ho ordinato. «E un succo di fragola.»

Il ragazzo ha scritto tutto. «E lei?» ha chiesto, rivolto a Mizar.

«Ehm... facciamo lo stesso.»

«Okay.» il ragazzo si è voltato di nuovo, mentre strappava il foglietto dal taccuino. Ha cominciato a sventolarlo: «Mina, alza le chiappe e vieni a prendere le ordinazioni!»

La ragazza vestita di blu e col bignè in testa gli ha rivolto un'occhiataccia e non ha fatto altro che voltarsi di nuovo verso il tè che aveva sul tavolino di fronte. Il ragazzo biondo ha sospirato e Mizar aveva l'aria di non aver mai visto niente di più ridicolo.

Neanche io, se devo essere sincero, ricordavo la scortesia del Caffè Mew Mew.

«Dovete scusarmi.» ha borbottato il biondo e ha preso una sedia e si è seduto tra me e Mizar, come se l'avessimo invitato a farlo o fosse un suo diritto. Forse, mi sono detto, lo era davvero. «Da quando mio cugino Kyle ha rilevato questa baracca, mi costringe a servire ai tavoli e io non ci so proprio fare. E neanche le cameriere, come potete vedere.» poi ha lanciato un'occhiata a Pan. «Ma tu non sei quella della caserma? Quella che cucinava?»

«Proprio io, cocco, e ora che lo sai, ti va di portarmi ancora un frappè?»

Il ragazzo ha inarcato un sopracciglio, guardando i bicchieri sparsi sul tavolino. «Non ne hai presi già abbastanza? Ti verrà un'intossicazione da zuccheri.»

«Ma col cazzo!»

L'imbarazzo ci ha gelati tutti sul posto, anche il ragazzo biondo che ha sbattuto gli occhi ed è stato incapace di prendere il bicchiere che Pan continuava a porgergli. Mi sono riscosso per primo. «Mi ricordo di te!» ho esclamato e lui e Mizar sono stati molto felici di avere un pretesto per allontanare lo sguardo da Pan che aveva ripreso a mangiare dolci dai suoi piatti pieni. «Anche tu vieni in caserma con noi. Sei l'Americano.»

Lui ha annuito. «Sì, beh... ho passato diverso tempo in America e mi è rimasto questo fastidiosissimo accento.» ha esclamato, indicandosi la bocca. «E poi sono tornato, quando i miei... beh, non vi voglio annoiare col decalogo delle mie disgrazie. Diciamo che sono venuto a vivere con mio cugino Kyle, il pasticcere. Pensava che fosse una scuola per pasticceri, la caserma, intendo.» ha scosso la testa. «Non so come la parola “caserma” possa essere scambiata per “scuola per pasticceri” ma lui ci è riuscito. Va beh, comunque sono un maleducato. Sono Ryan Shirogane, del corso C.»

«Noi siamo Pan e Ken Iccijojji.» ho esclamato. «E siamo nel B.»

Pan mi ha dato un colpo sulla spalla, non so come sia riuscita a non spaccarmela. «E piantala di dare confidenza al cameriere!» ha sbottato, acida, poi si è rivolta a Ryan Shirogane. «Alzati da lì, cocco. E portami questo cazzo di frappè.»

Ryan ha arricciato le labbra e si è alzato, prendendo il bicchiere che Pan gli porgeva. «Tu sei proprio come i piatti che cucini.» ha ribattuto.

«Cioè?» ha domandato lei, sospettosa.

Lui non ha risposto. Ha preso il bicchiere dalle sue mani e ha borbottato un: «Torno tra poco.» e si è alzato, lasciandoci soli. A me pareva un miracolo che mia sorella non si fosse alzata e gli avesse dato il ben servito eterno, ma magari, ho pensato, tutti quei dolci che aveva trangugiato erano riusciti a renderla più dolce. Mizar continuava a guardarsi intorno, Pan, mentre aspettava il suo frappè e noialtri le nostre ordinazioni, ha finito quello che stava mangiando. Pensavo alle giostre su cui sarei voluto salire, ma avevo già scartato le montagne russe, dopo il pasto. Pensavo anche a quanto avremmo speso per riuscire a pagare tutto quello che Pan stava trangugiando e se ci sarebbero rimasti abbastanza soldi per riuscire ad acquistare tutti i biglietti per salire sulle attrazioni.

Speravo almeno che Ryan ci facesse un prezzo di favore per solidarietà verso i suoi compagni di sventure. Ma non avevo contato che, dopotutto, voleva farla un po' pagare alla persona che gli aveva reso tre mesi d'inferno: quando siamo arrivati alla cassa, con lo stomaco pesante abbastanza perché potesse anche scoppiarci, ci siamo ritrovati a pagare una cifra esorbitante. Abbiamo dovuto unire il denaro di tutti e tre – pure quello di Pan che ha fatto diverse rimostranze e a cui ha dato fine solo perché Mizar le ha detto che sarebbe arrivata la polizia e che l'avrebbe rimandata in prigione per il terzo giorno di fila – e non sarebbe neanche bastato se Ryan, alla fine, non avesse acconsentito a farci lo sconto di quei pochi yen che ci mancavano.

Quindi, non ci erano rimasti soldi per le attrazioni del parco. E saremmo stati costretti a vagare fino al pomeriggio senza avere niente da fare, solo guardare gli altri che si divertivano. La prospettiva non piaceva né a me, né a Pan che, non appena siamo usciti fuori, si è nascosta tra i cespugli e ha fatto qualcosa che non ho capito, ma, quando è tornata, aveva un bicchierino con un liquido giallo all'interno, da cui emanava uno strano odore di pipì.

«Torno subito.» ha dichiarato. È rientrata e, poco dopo, dopo un urlo sovrumano, è uscita con un sorriso a trentadue denti. Cominciavo a sospettare che mia sorella ne avesse combinata una delle sue, là dentro, ma mi ha fatto dimenticare che le volevo chiedere che cosa fosse successo, quando lei mi ha preceduto con un'altra domanda: «Ma dov'è quel tuo amico dinosauro?»

«Chi?»

Pan ha roteato gli occhi. «Ah, se con te non parlo con i nomi propri proprio non capisci, eh? Intendo Mizar, razza di paramecio!»

«E' andato al bagno.» ho risposto, indicando l'interno.

«Ah, manco se la sa trattenere! Vieni, andiamo a comprargli un paio di pannoloni!»

«Ma... non abbiamo soldi! E poi se non ci vede...»

«Ah, che palle!» ha risposto lei, sospirando, e si è buttata contro il muretto di fronte al Caffè. Siamo rimasti ad aspettarlo lì davanti per un paio di minuti. Quando è tornato, aveva l'aria sconvolta e si guardava indietro ogni due per tre.

«Voi giapponesi siete strani.» ha dichiarato.

«Che è successo?» ha chiesto mia sorella, con fare innocente. Mi dava ad intendere che non fosse per niente innocente.

«Una ragazza... era ricoperta di pipì...»

Ho scoccato un'occhiata a Pan. Improvvisamente ho ricollegato tutto: il bicchierino col liquido giallo che puzzava di pipì (e che doveva davvero essere pipì), l'urlo disumano che ho sentito prima che lei uscisse...

Doveva aver lanciato il bicchierino contro una delle cameriere ed essere uscita. La cosa mi faceva voglia di scappare via a gambe legate: se la galera le era stata solo promessa da Mizar per farle scucire la grana, ora era quasi una certezza ed ero sicuro che non ci sarebbe stato Matsuda a tirarci fuori dai guai anche perché era a casa sua con un mal di testa da manuale, dopo l'ubriacatura che gli ha fatto prendere nonno Satan al cenone.

«Che ne dite di andarcene?» ha proposto lei, quasi mi avesse letto nel pensiero: probabilmente anche lei aveva paura che qualcuno potesse uscire e riconoscere in lei la vandala che aveva schizzato di pipì una delle cameriere. «Ormai non abbiamo più niente da fare, qui.»

Mizar continuava a guardare verso il Caffè. «Sei sicura di non sapere niente di tutta questa storia, Pan?» le ha chiesto, sospettoso. Ha capito subito che tipo è, ma probabilmente gli è bastato venire colpito da un vaso cinese in testa per sapere esattamente che cosa aspettarsi. Ha guardato lei che, dopo aver fatto spallucce, si è voltata e ha costeggiato la tanto temuta casa degli specchi.

Mizar ha scosso la testa, lanciato un'occhiata a me senza dire niente e poi mi ha fatto cenno di seguire Pan. Tanto, lì dentro non avevamo più niente da fare: potevamo solo riprendere la macchina e andarcene.


Pan, però, non aveva voglia di tornare a casa. E neanche io, se devo essere sincero: avevo paura che Mizar potesse raccontare ai nostri genitori cos'era successo al Caffè Mew Mew e che la mamma ci spedisse davvero sui Monti Paoz o qualcosa del genere, ma anche che ricominciasse a gridare e che si mettesse a fare la lotta con Pan. Non volevo che, nel giorno di Natale, si distruggesse quell'armonia tanto faticosamente ritrovata, così mi sono ritrovato a dire che, effettivamente, potevamo fare qualcosa di diverso.

«Tipo?» ha voluto sapere Mizar. Io non ne avevo idea e ho guardato Pan. Non so perché, ma avevo come la sensazione che lei sapesse benissimo dove volesse andare e mi sono pentito amaramente di averle retto il gioco: avrebbe potuto essere qualcosa di pericoloso, magari ci avrebbe fatto andare nel quartiere più malfamato di Tokyo solo per scatenare una rissa con qualche malvivente armato di coltello o pistola e farci, come regalo di Natale, un bel buco in fronte o uno squarcio così che potessimo portarci le budella fino a casa in un pacco. L'idea non mi elettrizzava particolarmente. Non volevo neanche che Mizar ci rimettesse le penne. Mi è tornato in mente quello che aveva detto a proposito del tubo di scappamento e mi è venuto un brivido.

«Non te lo dico.» ha risposto lei, stringendosi nelle spalle.

«E come faccio a portarti da qualche parte, se non mi dici dove andiamo?» le ha fatto notare molto giustamente Mizar.

Lei ha fatto spallucce. «Segui le miei indicazioni.» ha risposto, come se fosse stata la cosa più ovvia da pensare. E già questo mi ha fatto capire che aveva davvero intenzione di andare nel quartiere malfamato, solo che non sapevo come farlo sapere a Mizar senza che lei se ne accorgesse.

«Ma...» ho provato. «Non potremmo andare alla casa nuova del nonno?»

Lei mi ha fulminato con lo sguardo. «Andremo dove dico io, capito, paramecio?» ha sibilato. «Dai, metti in moto, Mizy.»

Mizar l'ha guardata, dubbioso, forse per essere stato chiamato “Mizy”, forse perché, per la prima volta, Pan era stata in qualche modo gentile con lui. Avrei voluto dirgli di non farci l'abitudine, ma non credo che lui pensi di poterlo fare, dato il vaso cinese. Ha messo in moto senza discutere.

Così ci siamo ritrovati a seguire le strampalate indicazioni di Pan che, a volte, voleva andare nelle strade dove non si poteva andare, in quelle a senso unico nel verso opposto e, spesso, ci ritrovavamo a fare il giro dell'isolato senza sapere come ci eravamo riusciti. Prima delle tre del pomeriggio ci eravamo persi.

Mizar ha sbattuto i palmi delle mani sul volante; sembrava che volesse imprecare (ma si tratteneva per rispetto verso i figli della sua padrona di casa, penso) e che volesse stritolarlo, quel volante, e non solo percuoterlo.

Non dicevo niente, ma ero abbastanza distrutto per conto mio, e continuavo a chiedermi dove volesse andare Pan. Ci eravamo ritrovati imbottigliati nel traffico in un punto della tangenziale che non avevamo mai visto.

«Forse... ci siamo persi.» ha esclamato Pan, in tono casuale.

Mizar ha stretto le mani sul volante, stavolta con l'idea di staccarlo dal suo posto. «Ma davvero?» ha sibilato, tra i denti. Era davvero molto arrabbiato.

Lei si è stretta nelle spalle, improvvisamente inviperita. «Non prendertela con me: sei tu che stai guidando.»

Mizar si è girato verso di lei e le ha lanciato un'occhiata omicida. Mi chiedo come si sia trattenuto dallo strangolarla.

«Accidenti, Mizy, hai il senso dell'umorismo di una patata!» si è girata verso il cruscotto e ha sbuffato. «Ti ho fatto solo un piccolo scherzetto innocente!»

«Un... piccolo scherzetto innocente?!» ha ripetuto lui, indignato.

«Non farla tanto lunga! Anche a te piaceva fare gli scherzi, da piccolo, quindi finiscila di fare il bacchettone. E poi, a parte gli scherzi, volevo davvero andare da qualche parte. Sei tu che non sai dove girare. Se andavi dove dicevo io, a quest'ora, saremmo arrivati da un pezzo! Ma tu continuavi a dirmi: “di qua no, Pan”, “c'è il senso unico, Pan”. Se la smettessi di seguire le regole stradali, a quest'ora, staremmo tutti meglio.»

«Oh, certo, se tutti smettessero, a quest'ora ci sarebbe il caos e decine di morti al giorno!»

«Quanto sei tragico! Non sareste tutti così stressati, ecco cosa!»

Mizar è rimasto interdetto per un attimo. A volte, credo che, contro i ragionamenti ferrei di mia sorella, neanche un genio possa replicare. «Va bene.» si è ritrovato a cedere. «Si può mai sapere dove mai volevi andare, almeno?»

«A casa del nonno!» ha esclamato lei, come se avessimo dovuto pensarci da soli.

Ho fatto un balzo sul sedile e mi sono sporto in avanti. «Ma... era dovevo volevo andare io!» ho esclamato, indignato.

«E CERTO! A me vengono le idee e lui se ne prende il merito!»

«Ma...» ho provato a protestare.

Mizar ha alzato una mano. «Ora basta!» ha dichiarato, in tono autoritario. Se era un pezzo grosso, al suo paese, lo stava proprio dimostrando. «Sentite, adesso si fa a modo mio: rientriamo in città e poi vi porto da vostro nonno, d'accordo? E niente deviazioni ridicole!»

Pan ha fatto schioccare la lingua, scettica. «Perché? Sai dove si trova?» ha chiesto, in tono canzonatorio.

«Per tua informazione, sì, lo so. E credo anche di saperlo meglio di te, dato che tu non sapevi neanche che si fosse trasferito, fino a due sere fa!»

«Oh, che rottura, solo perché hai fatto una piccola deviazione! Vedi di goderti un po' la vita, che non ha mai ammazzato nessuno! E poi come cazzo sai dove abita il nonno? Vuoi per caso rubare una stanza anche lì?»

«No. Vado ad allenarmi ogni tanto, per tenermi in forma.» ha borbottato. Non ho capito, ma non ho voluto indagare, soprattutto perché Pan mi stava dicendo con le labbra che mi avrebbe ammazzato alla prima apertura di bocca ed ero piuttosto preso da lei, abbastanza per dimenticarmi di chiedere a Mizar cosa significasse che andava dal nonno per “tenersi in forma”.

Mizar non ha fatto una piega. Ci siamo limitati a tacere; non so come abbia fatto a tornare in città, so solo che, dopo circa un'ora o forse anche più, eravamo riusciti, grazie anche alle indicazioni dei passanti, a ritrovarci in una zona più familiare.

Poi, siamo sbucati in una strada che conoscevo, ma in cui non sapevo che ci fossero delle case. Era più una zona commerciale, dove la gente andava a fare spese e a rilassarsi in centri di bellezza e fitness; la mamma, una volta, da quelle parti, aveva il suo negozio di parrucchiera.

«Che ci facciamo qui?» ho chiesto. «Il nonno non vive qui.»

«Oh, eccome se vive qui!» ha risposto Mizar. Sembrava infinitamente più allegro. «Proprio qui davanti!»

Pan ha fatto schioccare la lingua di nuovo. «Secondo me, ti sei perso di nuovo e non vuoi ammetterlo.»

«Guarda tu stessa.»

Ha rallentato e, dopo pochi minuti, si è fermato di fronte ad una palestra di due piani, da cui non entrava o usciva nessuno, sebbene tutti ci passassero davanti e indicassero verso l'alto e ridacchiassero. Si trovava tra ad un centro commerciale e un ristorante di cui si poteva vedere l'interno, ma nessuno indicava questi due edifici. Indicavano, invece, l'insegna sopra alla palestra. Era mastodontica e c'era un'immagine a grandezza naturale di un faccione che apparteneva allo stesso uomo che, ieri sera, continuava a ridere come un matto e a riempire il bicchiere di uno sconosciuto che raccontava freddure del tipo peggiore.

Non era solo lui, però, ad avere la bocca aperta: oltre a me, pure Pan aveva gli occhi puntati sull'insegna con la foto del nonno, ma non capivo se per l'ammirazione o l'incredulità, cosa per cui io ero ammutolito. Non mi veniva da ridere, ma solo di andare a nascondermi per la vergogna.

Poi ho guardato il nome della palestra e avrei voluto avere una pala: Casa Satan.


******


Della serie: chi non muore si rivede.

Per questa pubblicazione stavo aspettando i risultati dei Nesa, a cui questa storia ha partecipato nel Trentesimo Turno, nelle categorie Best Au, Best Cross-over, Best Male (Alex Ramazza), Best Female (Pan, ovvio!) e Best Plot, vincendo nella categoria Best Cross Over.

Qui sotto il banner:



In verità, questa storia è ferma, ferma da tanto e solo da poco l'ho riletta tutta, dal primo capitolo all'ultimo scritto. Ho modificato qua e là quelli ancora da pubblicare, questo qui è stato revisionato proprio ieri e mi pareva brutto lasciarlo nel pc, anche perché, almeno a me, fa troppo ridere. Pan soprattutto.

Grazie a tutti coloro che hanno continuato a leggere, e che – spero – non perdono le speranze.

Amo questa storia e voglio che veda una fine. Sono più di dieci anni che la scrivo, che la rimaneggio, che la rielaboro. Per questo, si va avanti. Almeno fino a qui. Prima o poi continuerò. Non oggi, però, né domani. Le cose da fare sono tantissime. Spero che vorrete essere con me, con Kenny, Pan e tutti gli altri, quando accadrà.

Luine.



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Capitolo 17
*** Casa Satan ***


Vacanze Natalizie.

Casa Satan



L'interno non è meno bizzarro dell'esterno: è tutto in legno, come nelle vecchie palestre, uno scalone che porta ad un corridoio sulla sinistra e di cui non potevamo vedere niente perché nascosto da pannelli su cui è disegnato il nonno a figura intera mentre guarda gli astanti con quel suo sorriso e il suo sguardo da invasato. Sembra più il testimonial di qualche pubblicità di dentifrici, piuttosto che il proprietario di una palestra, anche se è nelle più ridicole pose plastiche: a volte fa vedere i muscoli di un braccio, a volte sembra un ladro corridore con una borsetta in mano... insomma, non fa mai la figura dell'insegnante di arti marziali.

Ho distolto lo sguardo per la vergogna. Sulla destra, invece, c'è un cartello che elenca tutti i tipi di arte marziale che vengono insegnate, più i relativi prezzi, sia per i piccoli che per i grandi. E questa è la cosa più normale che ci sia lì dentro.

Dall'altra parte, invece, c'era (sono sicuro che ci sia ancora, proprio come l'abbiamo lasciata noi) una tinozza con dell'acqua stagnante da cui emanava un odore poco raccomandabile. Sopra di esso c'era un cartello che diceva: “se ti puzzano i piedi, lavali!”, e ho anche capito perché, ma solo dopo, quando Mizar mi ha fatto notare che, di fronte a noi, c'era un altro cartello che, invece, recitava: “prima di entrare, togliti le scarpe!”.

«Ma è davvero così necessario?» ho chiesto.

Mizar si è stretto nelle spalle.

«Perché? Ti puzzano i piedi?» ha ribattuto Pan e, senza colpo ferire, si è tolta le sue e le ha gettate ai piedi dello scalone. Da allora, l'odore vago di nuovo e di legno dell'ingresso si è trasformato in un odore disgustoso di piedi. Di certo, se c'era qualcuno che doveva lavarli era lei, ma a nessuno dei due è venuto in mente di farglielo notare, un po' perché era Pan e un po' perché non avrei chiesto neanche al mio peggior nemico di mettere i piedi in quella tinozza puzzolente.

Ho visto Mizar sbuffare, mentre anche lui, dubbioso, si è tolto le scarpe e le ha messe ordinatamente l'una accanto all'altra, a fianco delle mie.

Mi ha rivolto un sorriso incoraggiante, mentre Pan saliva lo scalone e lasciava la sua puzza di piedi ovunque. È sparita dietro i pannelli e abbiamo guardato la sua ombra che si muoveva fino a sparire oltre un angolo. L'abbiamo seguita. Il corridoio proseguiva verso l'interno dell'edificio e un altro cartello ci ha introdotto nella sala delle iscrizioni. È stranamente composta da una sola sobria scrivania, anche se le pareti a pannelli non lo sono altrettanto. Sopra ad ognuno di essi è stampata una foto del nonno nelle sue tante pose. In alcune sembra anche un maniaco sessuale, soprattutto in quelle dove sorride e ha le anche rivolte verso chi guarda. Comunque non c'era nessuno, a parte le repliche del nonno.

«Ma... è deserto?» ho domandato.

«Non c'è mai una grande affluenza.» ha spiegato Mizar, senza specificare, come avremmo scoperto più tardi, che non c'era nessuna affluenza, a parte la sua.

«E dove si trova il nonno?»

«Venite con me.» ci ha guidati di nuovo nel corridoio, fino alle scale che portano agli spogliatoi e alle palestre; dagli spogliatoi veniva un odore acre di sudore che, quasi quasi, mi avrebbe fatto vomitare il dolce che avevo preso al Caffè Mew Mew. Mi sentivo tanto in un film dell'orrore.

Pan è andata avanti, verso la palestra e si è completamente disinteressata a noi. Sembrava che anche lei avesse perso la facoltà di parlare, traumatizzata da quello che avevamo visto ai piani inferiori. Almeno, a questo, non ci sono tutte le foto del nonno, cosa che rende l'ambiente un pochino più confortevole.

Io e Mizar ci siamo ficcati dentro lo spogliatoio, pensando che quell'odore disgustoso potesse portarci fino a qualcuno, magari a qualche invasato muscoloso come il nonno.

In effetti, la nostra intuizione è stata giusta: c'era qualcuno ed è la persona più bizzarra che abbia mai visto e anche la più spaventosa. La mia sensazione di essere finito in un film dell'orrore si è acuita: quel tizio deve essere alto almeno tre metri e i suoi capelli tirati su da una quantità enorme di gel, disegnano una raggiera sulla sua testa e le punte sembrano così affilate che sembrano delle corna di rinoceronte. Se, in quel momento, avesse deciso di caricare su di me come quell'animale, credo che mi avrebbe infilzato e ucciso sul posto. Poi ha certi muscoli grossi come buoi e – mi ha detto Mizar – va sempre in giro vestito di un kimono nero che mette in risalto i pettorali grandi come macigni, e con sopra una specie di giacca bianca tutta stracciata. Mizar ha detto che, dietro quella giacca, c'è una storia molto lunga e triste, ma non ha detto niente di più di questo, dicendo che neanche lui ne sa molto.

Ma qualunque cosa sia, sulle prime non ci ho fatto molto caso. Diciamo pure che, mentre lo guardavo, mi sentivo infinitamente piccolo, abbastanza per decidere di nascondermi dietro Mizar che, pur essendo alto, non reggerà mai il confronto con lui, in quanto a muscoli. Se avesse voluto, quel gigante avrebbe potuto afferrare entrambi con una mano sola e spezzarci in due.

È il prototipo del migliore amico di Pan. Solo che, probabilmente, mia sorella avrebbe anche cercato di avere la meglio su di lui, ma sono sicuro che lei non potrebbe mai avere la meglio su quel tizio e che morirebbe nel tentativo.

Ero davvero felice che lei avesse deciso di proseguire e di non fermarsi con me e Mizar. Oltretutto, era proprio questo bisonte che puzzava in quel modo osceno.

Ho deglutito, nervoso. Avrei voluto far capire a Mizar che volevo andarmene, ma anche lui doveva essersi pietrificato a quella vista – o così credevo.

Forse sentendomi, il gigante si è voltato. Mi ha osservato a metà tra il dubbioso e il divertito, poi si è rivolto a Mizar e ha alzato una delle sue mani grandi come comodini.

«Ehi!» lo ha salutato.

«Ehi.» ha risposto Mizar, con un mezzo sorriso. Si sono stretti la mano e mi chiedo come mai quella di Mizar non si sia semplicemente piegata come gomma, ma si sia semplicemente limitata a sparire e riapparire. Mi sono reso conto solo in quel momento di quanto sia bianco come latte, al contrario di quel gigante, che ha un colorito florido, di chi sta molto all'aria aperta. Sicuramente era più colorito persino di me che stavo svenendo per la paura, anche se ero più sollevato, nel sapere che non ci avrebbe attaccati.

«E tu chi sei, scricciolo?» mi ha chiesto, inginocchiandosi di fronte a me e scompigliandomi i capelli. Mi sono accorto solo allora che portava una benda sull'occhio destro, proprio come un pirata, e la cosa mi ha messo addosso la tremarella.

Ho solo aperto la bocca, ma non ne è uscito alcun suono.

«Timido?»

Mizar ha sorriso, guardandomi. «Spaventato, credo.» ha risposto e mi sono semplicemente sentito mortificato, così ho abbassato lo sguardo. Mizar si è messo a ridere e mi ha dato una pacca sulla spalla. «Non ti fare intimidire troppo da Kenpachi*. È grande e grosso, ma non fa male a una mosca!»

Non mi ha convinto molto, ma ha avuto il solo effetto di farlo alzare in piedi e guardare Mizar dall'alto in basso. «Ah, così mi fai perdere il divertimento, caro il mio Esquimese!» ha esclamato. Mi aspettavo quasi che alzasse il pugno e lo calasse in testa a Mizar che sarebbe rimasto impiantato al suolo, morto, come un chiodo al muro. Invece il gigante Kenpachi si è semplicemente messo a ridere e Mizar con lui.

«Allora ricominciamo da capo!» ha continuato il gigante, quando si è ripreso. Mi ha porto la sua manona. «Kenpachi Zaraki, ma gli amici mi chiamano semplicemente Kenpachi. Sono il coinquilino di tuo nonno, oltre che bravissimo insegnante di arti marziali.»

«Ehm...» ho deglutito di nuovo e mi sono fatto forza. Ero troppo spaventato per stupirmi del fatto che il nonno vivesse con qualcuno e che quel qualcuno fosse proprio quel colosso. «Ken-ny Iccijojji.»

«E' il nipote di Satan.» ha completato Mizar per me. Poi si è girato verso la porta dalla quale siamo disgraziatamente entrati. «Doveva esserci anche sua sorella, ma... l'abbiamo persa.»

Kenpachi Zaraki ha inarcato una delle sue sopracciglia folte come siepi. «Pan?»

Mizar ha annuito. «Sì, proprio lei.»

«Satan mi ha parlato molto di lei... sembra una promettente stella delle arti marziali!» ha detto e non ho mai trovato scusa più ragionevole per annuire. «Ah, tranquillo, non può perdersi. C'è una sola uscita.» ha continuato, come se avessimo sempre parlato solo di quello.

«Non è questo che mi preoccupa.» ha ammesso Mizar e mi sono ritrovato a ridacchiare contro ogni mia aspettativa, quando ha detto: «È che potrebbe distruggere tutto. Satan non c'è?»

«Uscito a comprare qualcosa da mangiare. Vivevamo da due giorni di solo riso. Venite, però, vi preparo un tè.»

«D'accordo.» Mizar mi ha dato una pacca sulla spalla. «Tu vai a cercare tua sorella.»

«E raggiungeteci in cucina, d'accordo, scricciolo?»

L'ho guardato, spaventato, ma ho comunque annuito e ho avuto il coraggio di chiedere: «E dov'è? L-la cu-cucina.»

«Sali al piano di sopra,» ha risposto il signor Zaraki. «C'è un cartello con scritto: “vietato l'accesso ai non addetti” davanti alle scale. Sali e ti trovi dritto in casa, da lì è facile.»

Ho annuito e tentato di ringraziare, ma mi sono usciti solo alcuni balbettii e me ne sono andato in fretta e furia, felice di avere una scusa per evitare di stare ancora un po' in sua compagnia. Loro due mi hanno seguito, mentre prendevo la strada imboccata da Pan poco prima del mio incontro, ma ci siamo divisi a metà strada. Ero un po' preoccupato comunque: il fatto che Pan non sapesse perdersi, non era un buon motivo per pensare che io avrei potuto fare altrettanto.

L'ho cercata per tutta la palestra. Ci sono tre sale in tutto, sono molto grandi, in una c'è anche lo stereo e tutta l'attrezzatura per la ginnastica leggera, cosa che non era compresa nella lista del cartello al pianterreno, non che importasse qualcosa; ho provato anche nello spogliatoio femminile che era vuoto e sapeva di nuovo, nei due bagni, ma niente.

Pan era, di nuovo, sparita. Non ero tanto allarmato, comunque, memore di quello che era successo in caserma: credevo che l'avrei ritrovata a bere del tè al fianco di Kenpachi Zaraki come se niente fosse stato. Così sono andato al piano di sopra e ho fatto una corsa fino alla cucina, dove il signor Zaraki e Mizar stavano discutendo di qualcosa molto allegramente. Eppure Pan non c'era. E io mi sono leggermente lasciato prendere dal panico.

Quando mi hanno visto si sono voltati entrambi con un sorriso che non condividevo. Mi aspettavo che mi chiedessero “dov'è tua sorella?” e allora avrei dovuto rivelare loro che, stavolta, era davvero sparita, forse scesa in strada e andata ad attaccare briga con qualcuno. Il signor Zaraki mi avrebbe azzannato per essermela fatta sfuggire, ma ho trattenuto un singulto giusto perché si trattava di un'emergenza e non potevo permettermi di perdere più tempo di quello che avevo già perso.

«Pan è sparita...» ho esalato.

Mizar ha sbuffato, divertito. «Sì, in bagno.» ha dichiarato, con un ghigno.

Ho sgranato gli occhi. «I-in bagno?» ho balbettato. Non ero sicuro di aver capito bene.

«Con tutto quello che ha mangiato a quel Caffè, è un miracolo che non stia vomitando...»

«E allora che sta... che sta facendo?»

Il signor Zaraki ha ridacchiato. «Dobbiamo davvero specificarlo, scricciolo?»

Ho deciso di no. Probabilmente stava facendo quello che faceva la Une quando le ho afferrato la caviglia credendola Pan.

Poi il signor Zaraki mi ha indicato la sedia accanto a Mizar. «Siediti, ti verso un po' di latte caldo, così ti rinforzi un po' le ossa, eh, scricciolo?»

Non ho ribattuto, ma non so davvero come una tazza di latte avrebbe potuto proteggermi da lui. Avrei anche voluto che la smettesse di chiamarmi “scricciolo”, ma avevo quasi paura che, se avessi provato a contraddirlo, mi avrebbe staccato la testa, così ho lasciato perdere.

È rientrato anche nonno Satan, prima che Pan riuscisse ad uscire dal bagno, sistemandosi i pantaloni e sospirando soddisfatta. Il nonno ha buttato gli scarponi in fondo alla cucina, facendo aleggiare un odore di piedi per tutto l'ambiente, rendendo impossibile, non solo a me, ma anche al signor Zaraki e a Mizar di finire di bere il tè. Quando è arrivata Pan, poi, il puzzo si è esteso pure al corridoio, dato che è corso ad abbracciarla correndo come un matto.

«Nipotina, benvenuta a Casa Satan!» ha gridato orgoglioso, riportandola tra noi. L'ha fatta sedere a capotavola, spostandole anche la sedia, e le ha messo davanti ogni scatola di cibo e biscotti che avesse nelle dispense. «Mangia pure tutto quello che vuoi, stella stellina del nonnino! Mangia, mangia, che sono sicuro che in quel postaccio dove ti ha mandato tua madre non vi danno che del rancio disgustoso!»

Pan ha aperto una scatola di biscotti. «Sì, infatti.» ha naturalmente omesso che era lei a preparare il cosiddetto “rancio disgustoso”.

«Pan, non credo che...» ha cominciato Mizar, ma lei l'ha zittito con un'occhiata raggelante. Pan fa a Mizar l'effetto che il signor Zaraki fa a me e, come avevo previsto, non fa a lei. Lo ha guardato attentamente, mentre sgranocchiava i biscotti del nonno.

«E tu chi cazzo sei?» ha chiesto, in tutta tranquillità.

«Kenpachi Zaraki, ma puoi chiamarmi Kenpachi, Pan.» Lei ha continuato a mangiare, in barba al sorriso inquietante che lui le ha rivolto, mentre a me si era chiuso lo stomaco. «Insomma, tuo nonno mi ha detto che hai molto a cuore le arti marziali.»

«Diciamo che mi piace picchiare la gente.»

Il signor Zaraki ha annuito con piacere. «Bene, bene. Allora, penso che apprezzerai l'offerta di tuo nonno!»

Curiosa, Pan si è girata verso di lui. «Di che parla questo stronzo?» ha domandato. Avrei voluto sotterrarmi e non essere lì nel momento in cui il signor Zaraki avesse deciso di sollevare il tavolo e farci tutti a fette, anche al nonno Satan; invece, contro ogni mia aspettativa, si è limitato a ridere e a darsi delle pacche su quel suo ventre di marmo. Mi sono avvicinato di più a Mizar, come se lui avesse potuto in qualche modo proteggermi, quando anche lui è sottile come un rametto, in confronto a quel mastodonte.

«Pensavo che, se non volessi tornare in quel postaccio dove ti ha mandato tua madre, potresti venire a stare qui da me e ad imparare le arti marziali.» ha proposto il nonno. E poi ha cominciato a ridere come un invasato. Si è quindi seduto e ha posato il gomito sul tavolo e ha teso la mano, come per sfidarla a giocare a braccio di ferro. «Pensaci: passerai i prossimi anni ad imparare tutti i segreti della lotta e, quando sarai grande, Casa Satan potrà diventare Casa Pan e allora sarai ricca da fare schifo!»

Pan era concentrata sul nonno, non ha afferrato la sua mano, ma lo fissava molto intensamente. «E la mamma che dice di quest'idea?»

«La mamma ancora non lo sa. Ma mi piacerebbe che tu accettassi. Con lei parleremo in un altro momento.»

Lei si è fatta pensierosa. «E per quanto dovrei stare qui?»

«Per tutto il tempo che servirà. I prossimi sette anni potrebbero non essere così schifosi come si prospettano per adesso!»

«E la scuola?»

«Non dovrai nemmeno andarci!»

Ho visto un luccichio sinistro negli occhi di Pan e mi è corso un brivido lungo la schiena, mentre pensavo che, nei prossimi anni, sarebbe stata impegnata solo nelle arti marziali e non sarebbe neanche andata a scuola. Immaginavo la mamma in piena crisi isterica, mentre la disconosceva come figlia e ci impediva anche di salutarla se la vedevamo per strada... mi immaginavo anche Pan, mentre andava in giro a picchiare la gente perché le andava e la vedevo entrare e uscire di prigione con Soichiro Yagami che testimoniava contro di lei, insieme alla mamma e persino al papà.

Volevo alzarmi in piedi e dare la mia netta opposizione, ma Pan mi ha preceduto: ha stretto la mano di nonno Satan e gliel'ha sbattuta sul tavolo il quale si è diviso in due, le tazze sono volate e si sono rotte.

Il fragore delle risate di Kenpachi e del nonno hanno spezzato lo spettacolare silenzio stupito che era caduto intorno alla tavolata non appena le tazze avevano finito di rompersi.

«Era un sì molto entusiastico.» ha commentato Mizar, senza fiato.

Ho annuito, smarrito e pressoché spaventato.

«Nonno, solo una domanda:» ha continuato Pan. Il nonno, che stava ridendo come un matto, felice della performance della sua nipote prediletta, ha smesso subito, ma gli occhi gli brillavano ancora come stelle. «dove le hai fatte quelle foto che sono sui pannelli, giù di sotto?»

«Perché, tesoro?»

«Perché sono stupende!» ha esclamato mia sorella, scattando in piedi. Io e Mizar ci siamo girati contemporaneamente l'uno verso l'altro, le sopracciglia inarcate, entrambi parecchio dubbiosi. «Non vedo l'ora di poter avere i miei pannelli!»

Il nonno ha ripreso a ridere e poi si sono stretti in un abbraccio stritolante con lo stesso impeto, come se si fossero accordati in un momento precedente. Poi hanno cominciato a ballare e ad intonare: «Siamo la coppia più bella del mondo», intervallando la canzone a risate isteriche. Il signor Zaraki guardava tutto con l'aria di uno che avesse visto avverarsi tutti i suoi desideri. Beh, solo uno strano poteva vivere con mio nonno e insegnare nella sua palestra.


Siamo tornati a casa verso le otto di sera, quando la mamma aveva tirato fuori gli avanzi del cenone e li stava riscaldando. Il nonno e il signor Zaraki sono rimasti a Casa Satan per ultimare non so cosa, prima di riaprire ufficialmente la palestra per il nuovo anno. Avrebbero mangiato del ramen istantaneo, o così ho capito, anche se Mizar aveva detto che mia madre gli aveva detto di convincere entrambi a passare anche la sera di Natale con noi. Il signor Zaraki ha rifiutato, proprio come deve aver fatto per la Vigilia: sono sicuro che mamma non gli avrebbe rifiutato un posto a tavola, come non lo ha rifiutato all'ispettore Matsuda.

Per tutto il viaggio di ritorno, Pan è stata di un inquietante buonumore. Credevo che niente avrebbe potuto disfarlo, eccetto la mamma che, ne ero certo, non avrebbe mai accettato l'idea che sua figlia andasse a imparare tutte le arti marziali senza neanche andare a scuola.

«A proposito, Mizy... mi sono dimenticata di chiederlo al nonno, ma dato che sei di casa, dovresti saperlo anche tu...» ha cominciato, mentre parcheggiavamo.

«Sì?» ha risposto lui, guardingo.

«Quanti iscritti vanta la palestra?»

Lui si è voltato con una strana espressione in viso. «Uno.» ha dichiarato, quindi, togliendosi la cintura.

«Uno?» ha ripetuto Pan, incredula. «Ma... ma... pagherà una cifra esorbitante per...»

«In realtà, dato che era il primo... beh, ha avuto la sua iscrizione gratis...» ha continuato Mizar, mantenendo la sua espressione strana. Non riuscivo a capire, sinceramente.

«Aspetta...» ho detto, cercando di ragionare. «Ma... non hai detto che tu ci vai ogni tanto?»

«Sì.» ha risposto lui, abbozzando un sorriso colpevole. «E' così.»

«Ma... ma in questo modo... VUOL DIRE CHE SEI TU L'UNICO STRONZO ISCRITTO?» ha gridato Pan, isterica.

Ho visto Mizar abbassare lo sguardo e schiarirsi la voce, imbarazzato, ma il rumore è stato coperto dal borbottio di Pan che aveva perso il suo buonumore; non ne ero felice, ma diciamo che mi sentivo quasi più tranquillo nel vederla del suo costante umore tetro: Pan che sorride mi confonde, anche se so che avrei dovuto essere felice di vederla finalmente soddisfatta di qualcosa. In quel momento, però, non lo era per niente. Mentre scendevamo dalla macchina, continuava a borbottare a proposito di “nonni che ingannano le nipoti con false promesse”.

«Vuoi lasciar perdere, allora?» ho chiesto, speranzoso.

Lei si è voltata di scatto a guardarmi come se fossi stato un chewingum finito per sbaglio sotto la sua scarpa. «No! Ho intenzione di organizzare su una campagna pubblicitaria d'impatto!» e così dicendo si è battuta il pugno contro il palmo aperto dell'altra mano. Già immaginavo che tipo di impatto avrebbe dovuto essere e questo implicava una decina di iscritti col naso rotto o una spalla lussata.

I miei pensieri mi hanno accompagnato fino a cena, durante la quale la mamma continuava a brontolare contro Bulma e la sua abitudine di tingersi i capelli di turchese. «Ma non si rende conto di essere ridicola, alla sua età? Posso capire Bra, che ha tredici anni, ma lei! E quel nano di Vegeta? Anche lui ha i suoi anni sul groppone e si spara quei capelli in aria come se ne avesse quindici!»

Pan annuiva costantemente ad ogni frase, completando con un “ma quant'è vero!” o “hai perfettamente ragione”, che faceva continuare la mamma a pontificare sulla famiglia Brief.

Mizar, dal canto suo, faceva di tutto per non ridere e io per non nascondere il viso dietro le mani. Papà era, come per la maggior parte del suo tempo, perso nel mondo della musica e guardava trasognato il soffitto; non si è mai unito alla conversazione, ma ogni tanto faceva come Pan e annuiva convinto anche lui, probabilmente perché pensava che fosse la cosa giusta da fare.

«E, Mizar caro, per carità, non ho nulla contro i Brief, sono ricchi, ben sistemati... ma non farei mai sposare mia figlia con Trunks!» ha continuato, ad un certo punto. «Trunks è un bel ragazzo, molto educato... ma anche lui, con la mania di tingersi i capelli e se li facesse azzurri! No, caro, no, di rosa! Ma ti pare normale per un bel ragazzo del genere? No, assolutamente: solo i mascalzoni si tingono i capelli di rosa e Trunks, anche se diventerà proprietario di una importantissima società, non va bene per una come Pan.»

Pan continuava ad annuire e a dichiarare quanto la mamma avesse ragione: mi chiedevo se lo facesse per prenderla in giro o per rabbonirla quando le avesse sganciato la bomba, ma per tutta la sera non ha accennato minimamente alla palestra.

«E poi, diciamocelo, anche se quel ragazzo mettesse la testa a posto e smettesse di tingersi i capelli, non riuscirei mai a sopportare Bulma più di quanto non faccia già. Per carità, Mizar caro, non ho nulla contro i Brief, ma io e Bulma siamo incompatibili. Immaginateci come consuocere! No, no! Preferisco che Pan sposi un partito di un'altra famiglia! Tu che ne pensi, tesoro, di Frank Kushrenada?»

Io avrei voluto sotterrarmi, mentre diceva quelle parole, ma Pan, che non la stava minimamente ascoltando, ha continuato ad annuire e a sorridere con aria ebete: «Bene, bene, hai proprio ragione, mamma!»

Per la prima volta dopo un'intera serata di questa pantomima, la mamma ha guardato Pan con sospetto. «Sicura di stare bene, tesoro?» le ha chiesto.

Pan ha continuato ad annuire. «Bravissima, mamma.»

«Ma mi prendi in giro?»

La mamma aveva mangiato la foglia e, quando l'ha sentita strillare, Pan ha smesso di annuire e ha sbattuto gli occhi, incredula. «Scusa, che dicevi?»

La mamma ha continuato a guardarla con sospetto e anche con un po' di disgusto. Ho lanciato un'occhiata a Mizar che stava guardando dall'una all'altra con l'aria di uno che si stia chiedendo se avrebbero ripreso a gridare l'una contro l'altra come avevano fatto il giorno del nostro arrivo. Gli ho dato una pacca sulla spalla. Sapevo bene che, prima, ci sarebbe stata una breve escalation e solo poi, quando entrambe sarebbero state sature, sarebbero esplose.

L'unica cosa che mi chiedevo era quando Pan avrebbe sganciato la bomba: se in vista della saturazione oppure durante l'esplosione. Mizar non si è minimamente tranquillizzato, e io non potevo dirmi da meno. L'unica cosa di cui ero sicuro era che non ero solo sulla barca che, di solito, dovevo trasportare completamente in solitaria.

Mai come in quel momento mi sono sentito tanto vicino a Mizar, dopo avergli fatto passare le peggiori pene dell'inferno, oltretutto aiutando Pan a tirargli un vaso in testa e a farlo passare dalla finestra. La verità è che mi sono reso conto, una volta che ho imparato a mettere da parte i pregiudizi che me l'avevano reso antipatico il giorno del nostro incontro, che Mizar ha l'aria del fratello maggiore che non ho mai avuto, del fratello maggiore gentile e che aiuta quello minore, anche se, per certi versi, sono stato io ad aiutare lui, per quanto riguarda Pan. Questo mi fa sentire quasi un mentore, e anche più coraggioso di quanto non mi sia mai sentito negli ultimi tempi: sono io che devo aiutare qualcuno a proteggersi da Pan e non farmi aiutare a proteggermi da lei. Mi sono sentito forte come Pan, anche perché Mizar ha il doppio dei miei anni e non ha mai visto una come mia sorella.

Comunque, mentre dentro di me succedeva questo, la mamma e Pan non hanno certo perso tempo.

«Ti chiedevo se stavi bene.» ha detto la mamma, senza perdere l'aria minacciosa e sospettosa.

«Certo che sto bene.» ha risposto Pan, del tutto tranquilla. «Mai stata meglio.»

«E allora perché mi prendi in giro?»

«Non ti prendo in giro!»

«E allora perché sorridi?»

«Perché sono felice

La mamma ha sgranato gli occhi. Stavo per proteggermi la testa con le braccia, quando mi sono reso conto che Mizar non l'avrebbe fatto e che tutta la sensazione di potenza che avevo appena avuto sarebbe andata a farsi benedire. Sarei stato aggredito dalle urla, me lo sentivo. Invece, la mamma ha solo inarcato un sopracciglio, poi ha perso l'aria minacciosa, si è fatta perplessa e, infine, preoccupata. Ha dato una manata al braccio di papà.

«Gohan, controlla che non abbia la febbre!»

Papà si è svegliato dal suo stato di trance. Ha guardato me e poi la mamma. «Kenny ha la febbre?»

«Per la miseria, Gohan!» ha strillato la mamma, finalmente. «Non Kenny! Pan! È Pan che ha la febbre!»

Papà ha sgranato gli occhi, ha guardato me, dubbioso, e poi Pan, ancora più dubbioso. «Tu non hai la febbre.» ha dichiarato, stupidamente, senza neanche toccarla.

Mia sorella ha arricciato le labbra e il suo sorriso si è spento come si spegne la luce dopo aver premuto l'interruttore. «Certo che no! Sto bene perché il nonno mi ha fatto una proposta che mi ha reso la donna più felice del mondo!» e ha ripreso a sorridere.

La mamma si è fatta di nuovo sospettosa. Mizar ha borbottato qualcosa sul dover finire di studiare e poi mi ha fatto cenno di seguirlo, colpendomi leggermente una spalla proprio come avevo fatto io con lui per dargli coraggio poco prima. È questo quello che dovrebbero fare due fratelli: sostenersi a vicenda. Per questo, mi sono alzato da tavola, grato e sorridente. Papà ci ha fatto un cenno di assenso, forse dando la sua approvazione ad andarcene, forse perché era meglio che non fossimo lì quando quelle due avessero cominciato a dare fondo, non solo alle urla, ma anche alle stoviglie.

Ho seguito Mizar fino alle scale. In cucina, intanto, c'era una discussione, non così accesa, ma comunque abbastanza sostenuta.

«Beh, allora buonanotte.» ho detto, quando ho visto che Mizar non sapeva bene che cosa fare. Ha solo annuito e si è lanciato un'occhiata indietro, con l'aria di stare chiedendosi che cosa sarebbe successo: aveva esattamente l'aria che, per tanti anni, ho avuto anch'io, prima dell'arrivo della rassegnazione. «Ne avranno per un po'.» gli ho spiegato. «Loro fanno sempre così quando non sono d'accordo su qualcosa.»

«In casa tua non vi annoiate mai, eh?»

Ho ridacchiato, senza sapere bene che cosa dire. Ma probabilmente ha ragione: la noia non bussa mai alla nostra porta.

«Beh, buonanotte, Kenny.»

«Buonanotte, Mizar. Se riusciamo a dormire.» ho aggiunto e stavolta è stato lui a ridere. Mi ha dato una pacca sulla spalla e poi mi ha solo fatto un cenno di saluto. Se n'è andato e io sono salito in camera mia.

Ho tirato fuori dalla federa del cuscino, dove lo tengo sempre nascosto, il mio diario. Volevo scrivere della giornata di oggi, ma mi sono messo, invece, a trascrivere su un foglio la discussione tra la mamma e Pan, ma la ricopio solo adesso, per amore della linearità degli eventi.

«NON CAPISCI UN CAZZO!» stava gridando mia sorella. «IL NONNO PENSA AL MIO FUTURO!»

«SONO IO CHE PENSO AL TUO FUTURO! IO PENSO A QUELLO CHE ANDRAI A FARE DA GRANDE! NON QUEL FANNULLONE DI TUO NONNO!»

«IL NONNO E' UN UOMO COME NON CE NE SONO PIU' AL MONDO! IL NONNO MI STIMA PER QUELLO CHE SONO! TU, INVECE, SEI SOLO UNA MERDA! IO VADO A LAVORARE DA LUI, CAPITO? NON CI TORNO IN QUELLA CASERMA DEL CAZZO! NON CI TORNO!»

«SI' CHE CI TORNI, SE NON VUOI CHE TI MANDI SUI MONTI PAOZ!»

«IO VADO DA MIO NONNO SATAN, ALTRO CHE MONTI PAOZ!»

«PROVA A RIPETERLO E VEDI CHE COSA TI COMBINO! TI MANDO IN UNA CASERMA A TIMBUCTU!»

«MA SE NEANCHE ESISTE UN POSTO CON QUEL NOME! NON CERCARE DI FREGARMI!»

«IGNORANTE! SI' CHE ESISTE!»

«NO!»

«SI'!»

«NO!»

«SI'!»

«Ehm... Videl?» la voce di papà era molto più bassa e ci ho messo un po' a capire che aveva interrotto lui quella sequela di «no» e di «sì».

Subito dopo, la voce della mamma, ringhiante, ha aggredito anche lui. Me la immaginavo mentre si voltava verso di lui e lo fissava truce e anche papà che faceva, esitante un passo indietro: come tutti quelli che conoscono la mamma nei suoi momenti peggiori – e il nonno è dentro questa lista insieme a tutti gli altri – anche papà si sente impaurito abbastanza da voler scappare a gambe levate. Se non lo fa nessuno è perché, io ne sono testimone, hanno paura che possa rincorrerli per sbranarli.

«Cosa c'è, Gohan?» gridava, anche se non come gridava con Pan. «Non vedi che sto cercando di mettere un po' di sale in zucca a questa scapestrata di...»

«Ehm... hanno suonato alla porta.» ha risposto timidamente papà.

«E ALLORA PERCHE' NON VAI AD APRIRE?»

«Ma...» ha balbettato papà. «Ho aperto! E'...» ha esitato di nuovo. «Tuo padre.»

Nella mia mente, mamma si tirava su le maniche del vestito. «Bene.» ha commentato in modo truce, ma perfettamente udibile anche dalla mia camera, con la porta chiusa. Ho avuto un effettivo terrore per la sorte che sarebbe toccata al nonno da un momento all'altro e tenevo incrociate le dita, oltre che un orecchio sulla porta per carpire ogni singolo rumore. Non riuscivo a fare più di quello, il cuore mi martellava nel petto e sembrava che le mie gambe avessero semplicemente smesso di voler funzionare, come se volessero proteggermi dal ciclone che si sarebbe abbattuto nel nostro salotto e a cui gli studiosi avrebbero dato il nome della mamma.

«Papà!» l'ha salutato con evidente astio. «Proprio tu!»

«Oh, figliola. Ero venuto qui per chiederti...»

«TU NON MI PORTERAI VIA MIA FIGLIA!» ha subito sbraitato la mamma. Anche i vetri hanno cominciato a tremare. Era il preludio della fine, lo sentivo, ma non sono riuscito a fare altro che a mettermi le mani tra i capelli per lo spavento e il bisogno di coprirmi le orecchie. «NON TI PERMETTERO' DI RENDERLA UNA CAVERNICOLA CAPACE SOLO DI PICCHIARE!»

«Tesoro,» ha risposto il nonno, con tutta la calma possibile. «è evidente che sei stanca. Che ne dici di andare a fare un riposino?»

Se il nonno voleva farla arrabbiare, aveva appena pronunciato le parole giuste e con la giusta intonazione. Anche i pavimenti tremavano, mentre lei si trasformava in una specie di drago e lo raggiungeva in salotto, dove sicuramente si erano spostati. «UN RIPOSINO? TE LO DO IO IL RIPOSINO! QUELLO ETERNO, SE TI PERMETTI DI METTERE IN TESTA A MIA FIGLIA STRANE IDEE!»

«Tesoro,» ha ripreso il nonno, che non aveva evidentemente compreso la gravità della situazione. «se ti arrabbi, ti si alza solo la pressione.»

«ME LA FAI ALZARE TU LA PRESSIONE! MIA FIGLIA DEVE DIVENTARE UN'EROINA DI GUERRA, NON UNA PICCHIATRICE FOLLE!»

«Ne parliamo domani mattina. Ho scelto proprio un brutto momento per...»

«Tu non ti muoverai di qui, papà, finché non dirai a Pan che ti sei sbagliato su tutto e che l'idea della palestra è assolutamente insensata!» il cambiamento repentino nel tono della mamma, da isterico ad autoritario e ringhioso come quello di un cane, mi aveva fatto capire che l'uragano non si era placato, ma che era diventato, se possibile, ancora più pericoloso. L'idea di prendere tutta la carcassa che era il mio corpo tremante in quel momento e spedirla sotto il letto era l'idea più buona che avessi, ma avevo paura di non poter più sentire quello che si sarebbero detti, che era più forte del desiderio di nascondermi. Era del destino di mia sorella che parlavano, e la cosa più strana di tutte era che lei non sembrava neanche fare il più piccolo cenno di voler entrare in conversazione. E questo mi ha insospettito parecchio... non è da Pan una cosa del genere.

«Ero venuto qui a parlare proprio di questo! La mia nipotina adorata deve poter scegliere la sua strada!» ha replicato il nonno, inviperito. «Hai sempre Kenny, puoi fare di lui quello che vuoi! Ma Pan deve diventare ciò che io sono e che tu non hai mai voluto essere! Voglio che faccia ciò che deve per la famiglia e per portare avanti il suo buon nome! Lei può farcela!»

«IO SONO SUA MADRE, LA SUA VITA LA DECIDO IO FINCHE' E' SOTTO IL MIO TETTO!»

«Videl, sei veramente irragionevole! Ti giuro che non ho mai visto una donna più ottusa di te! Ah, tua madre si starà rivoltando nella tomba, pensando a come sei venuta su!»

«E' tutta colpa tua, papà!» gridava intanto la mamma. «Tu che...»

«Ciao, Videl.» ha risposto il nonno, infastidito. «Gohan,» mi immaginavo che gli avesse posato una mano sulla spalla, aveva un tono che mi ricordava molto quel gesto e non era davvero un comportamento da nonno. Era come se, quella sera, gli avesse passato un testimone – o un fardello – che lui non era più in grado di reggere. «falla ragionare tu.»

Papà non ha detto una parola, ma non essendo stato presente, non so esattamente che cosa ha fatto.

La mamma continuava a sbraitare e i passi familiari di mia sorella hanno raggiunto il corridoio fuori dalla mia porta. Mi sono irrigidito per il terrore: avevo paura di una sua possibile reazione, ma ha semplicemente sorpassato la porta ed è andata verso la sua. I suoi erano passi di una persona tranquilla, non quelli comunque che avrebbe dovuto avere Pan in una situazione del genere... non quelli di quando è arrabbiata.

Ho aperto la porta di uno spicchio, solo per vedere l'espressione sul volto di mia sorella, convinto com'ero che stesse aspettando solo un'occasione per picchiarmi solo per scaricare la tensione. Mi aspettavo che lo facesse, ma si era semplicemente chiusa dentro. Niente musica, niente di niente. Neanche un suono ha scosso la sua camera, cosa che ha scosso me.

Avevo anche paura ad andare a letto, tanto mi aspettavo che lei potesse entrare e darmi un pugno sul naso per tramortirmi e poi rapirmi. Magari era questo il suo scopo, per attuare la protesta contro la mamma: usare me come ostaggio per ricevere condizioni vantaggiose che le permettessero di andare a studiare arti marziali dal nonno.

Invece non è successo niente, a parte la mamma che continuava a parlare con papà in tono concitato e stridulo, non abbastanza però per essere perfettamente udibile, ma abbastanza perché potessi capire che parlavano ancora di Pan e del nonno e del fatto che si fossero coalizzati contro di lei.

Mi sono addormentato col suo tono di voce nelle orecchie e il mio sonno è stato agitato da sogni inquietanti su Pan che entrava nella mia stanza e, dopo avermi usato come moneta di scambio, mentre mi dirigevo dalla polizia piazzata nel giardino di casa mia, con le armi spianate, lei mi sparava un colpo dietro la schiena... mi sono svegliato madido di sudore e con la tremarella. Mamma continuava a parlare in quel suo tono stridulo, e papà non l'ha fermata neanche una volta.



*******

*Kenpachi Zaraki, personaggio di Bleach.

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Capitolo 18
*** Il racconto di Kenpachi ***


Vacanze Natalizie.

Il racconto di Kenpachi




26 - 31 Dicembre


Le cose non sono andate male come mi ero aspettato all'inizio. Da quando la mamma e Pan hanno litigato, sono giunte ad un tacito armistizio che ha permesso alla casa di passare un periodo relativamente tranquillo. Il nonno non è più tornato a casa, ma manda me come messaggero per dire alla mamma che continuerà così, a meno che le non giunga a più miti consigli.

È da quando ho scoperto che era ancora vivo che il mio rapporto con il nonno è radicalmente cambiato: prima quasi non mi rivolgeva la parola e faceva finta che non esistevo, adesso si fida di me abbastanza da rendermi suo tramite.

La mamma, comunque, non ha notato questa cosa. Ha semplicemente detto, quando le ho riferito le parole del nonno: «Che vada a quel paese, quel vecchiaccio. Io sola posso decidere del futuro di Pan e intendo darle quello migliore possibile.»

Gliel'ho detto e il nonno ha rimandato l'augurio ad andare a quel paese.

Pan passa la maggior parte del suo tempo a Casa Satan, e mamma non sembra dare segno di preoccuparsi della cosa, come se nessuna delle due pensi che il volere dell'altra potrebbe distoglierle dai loro rispettivi progetti.

Il fatto stesso che Pan non abbia voluto continuare la discussione e che, anzi, se ne sia andata in camera sua senza fiatare, mentre il nonno era venuto in casa nostra per imporre le sue scelte, mi ha fatto preoccupare. E lo sono stato fino al giorno dopo, quando siamo tornati a Casa Satan, accompagnati da Mizar che ci va tutte le sere e si allena per due ore precise.

In quel tempo, che lui usa per svagarsi, io lo uso per fare qualcuno dei tanti compiti assegnatici dalla Une e dagli altri professori. Arale ha chiamato solo una volta, dicendomi che, al ritorno in caserma, mi metterà a parte dei mirabolanti segreti che ha scoperto su Alex.

Improvvisamente, il bisogno di rivedere lei e tutti i miei compagni se n'è andato del tutto: sono preoccupato che possa esserci qualcosa di vero in quello che lei sospetta e, data la sua impazienza di parlarne a tu per tu (mi ha detto: «il telefono potrebbe essere sotto controllo, Kenny, è per questo che non posso dirtelo subito»), ho paura che ci sia qualcosa di vero. Non riuscirei davvero a sopportare l'idea che Alex e Frank siano due poco di buono. Mi è stato del tutto inutile ricordarmi che loro mi avevano assicurato che non è vero niente, e che trovavano l'idea ridicola, ma è anche vero che un vero delinquente non andrebbe dal primo venuto per confermargli i suoi sospetti.

Ma, insomma, il giorno dopo Natale siamo andati fino a Casa Satan tutti e tre insieme, Pan, Mizar e io, e abbiamo incontrato quella montagna di Kenpachi Zaraki che ci ha detto che il nonno non c'era perché era andato a farsi fare dei massaggi. Pan ha commentato così, disgustata: «Che porco.» e Mizar si è limitato a ridacchiare. Io mi sono semplicemente grattato la testa.

«Allora,» ha chiesto Kenpachi. «Cosa volete fare?»

«Io mi voglio iscrivere.» ha risposto Pan, docile.

Al che il signor Zaraki le ha rivolto un sorriso con quella sua bocca grossa come un forno, indubbiamente più grande di quella di nonno Satan. Prima che la aprisse, credevo che nascondesse delle zanne, poi ho visto che ha i denti come quelli di tutti gli altri. «Oh, bene.» ha detto. «Allora vediamo subito di compilare il modulo di iscrizione.»

Pan l'ha preso per il suo lungo cappotto bianco strappato in fondo, come se un animale l'avesse azzannato e strappato con i suoi denti aguzzi. Mi sono chiesto dove il signor Zaraki avesse vissuto prima di incontrare nonno Satan. Magari era scappato dal circo...

Pan, però, non ha notato niente di tutto questo: l'ha tirato verso di sé con l'unico risultato di fare lei stessa un passo avanti. La cosa mi ha letteralmente mandato in confusione: Pan, che ha sollevato e lanciato un professore, non riusciva ad avere la meglio su qualcuno, fosse anche un energumeno alto come una montagna come il signor Zaraki. Avevo ragione, pensando che lui avrebbe potuto davvero essere il suo più grande e unico rivale.

«Voglio che sia chiaro.» ha dichiarato Pan, con l'aria di essere lei in netto vantaggio. Ho deglutito: mi aspettavo che il gigante la piantasse nel pavimento. «Non pagherò neanche io. Così come non ha pagato il nordico adoratore di Dino.»

Lui ha sbattuto le palpebre. «Ah, sì?» ha domandato, con stupore, non sapevo se per la pretesa di non pagare oppure per via del “nordico adoratore di Dino”. A questo proposito, Mizar ha reagito solo sospirando. Sono contento che abbia un gran senso dell'umorismo o credo che, a quest'ora, ci avrebbe impiccati tutti come blasfemi traditori o cose simili.

«Sono la nipote del proprietario.» è stata la risposta truce di Pan alle giuste perplessità di Zaraki. «Ovviamente, questo mi pone in una condizione di favore. Però, potremmo metterla in questi termini: si iscriverà anche Kenny e pagherà il triplo, anche perché non credo che verrà mai ad allenarsi e, quindi, per il denaro che perderemo, dato che lui non si farà mai vivo, pagherà una piccola penale che sarà tre volte il prezzo dell'iscrizione. E, dato che ci siamo, pagherà anche i primi sei mesi di permanenza. Che te ne pare? Quanto fa?»

L'abbiamo guardata tutti quanti come se fosse impazzita. «Ma...» il signor Zaraki si è grattato la nuca, perplesso. «Se Kenny non vuole venire ad allenarsi... è inutile che si iscriva, ti pare?»

«Beh, e come pretendi di fare soldi, se ci iscriviamo tutti gratuitamente?» Pan si è stretta nelle spalle e le ha sollevate come per dire che tutte le argomentazioni di Zaraki non erano un problema suo.

«Beh, ma...»

«Niente ma. Kenny pagherà tre iscrizioni: la mia, la sua e quella di Mizar. Ecco qua come si rimpinguano le casse. Più sei mesi: tre mesi suoi e tre mesi miei. Mizar se li paga da solo. Non mi sembra giusto farlo venire qui gratuitamente solo perché è il primo stronzo che avete trovato. Insomma, quanti sono?»

«Ma... Pan...» ha risposto Zaraki, con un tono di chi voleva essere ragionevole. «Non si può far pagare qualcuno perché qualcun altro non ha voglia di pagare!»

La pensavo come lui, talmente tanto che annuivo in maniera appena percettibile, preoccupato da quello che Pan avrebbe potuto farmi se avesse visto a chi andava la mia approvazione.

«Io non ho bisogno di pagare.» ha dichiarato lei, solennemente, premendosi il pollice contro il petto. «Sono la nipote del proprietario che, a sua volta, diventerà proprietaria. Il mio contributo è perfettamente inutile. Pagherà Kenny. Sarà... come un socio di maggioranza senza potere decisionale.»

Non avevo capito la metà delle cose che aveva detto, ma sembrava che ci avesse pensato parecchio, forse tutta la notte passata. Zaraki si è limitato a scuotere la testa, per qualche secondo, prima di rispondere con un diplomatico: «Dovrò parlarne con Satan.»

«Non ne hai bisogno. Parlare con me è come parlare con lui.»

Lui ha annuito. «Ovviamente.» ha risposto con gentilezza. «Ma preferisco comunque che me lo confermi.»

«Considerati licenziato, pezzo di merda.» ha ringhiato Pan, fissandolo minacciosa. Kenpachi Zaraki si è limitato a rivolgerle uno sguardo imperturbabile, prima di spostarlo da lei a me e poi a Mizar.

Dieci minuti dopo, mentre Kenpachi e Mizar si allenavano nelle arti marziali, io e Pan eravamo seduti in fondo alla sala l'uno accanto all'altra. Lei aveva un taccuino e segnava dei numeri. Mi ricordava tantissimo Arale quando faceva la lista delle persone che avrebbero potuto aiutarci a smascherare l'organizzazione mafiosa con a capo Alex e Frank. Speravo che non avesse in mente niente di simile.

«Ma che stai facendo?» le ho chiesto, quando la curiosità era salita a mille.

«Dei piccoli conti.» ha risposto lei, tranquilla. «Questo postaccio è in rosso e io intendo, in poche settimane, renderla così ricca da potermi pulire il culo, coi soldi.»

Ho aggrottato le sopracciglia. «E come pensi di fare?»

«Farò pagare un extra a chi vuole iscriversi. Il primo lo riceverà di centomila yen, il secondo di duecentomila, il terzo di trecentomila e così via.»

«Ma... così non si iscriverà nessuno.»

«Oh, se entrerà qui e non vorrà iscriversi dovrà pagare una penale di ben sette milioni.» ha risposto lei, fissando il foglio su cui faceva i suoi calcoli. «Come vedi, è tutto sotto controllo.»

«Però...» ho commentato, perplesso. «Non puoi costringere la gente ad iscriversi.»

«Sono d'accordo.» era la prima volta che mi parlava in tono così gentile e la cosa si faceva sempre più strana: prima non protestava contro la mamma e poi mi trattava come se mi volesse bene. «Posso costringerli a spendere, però. Saranno loro a decidere qual è il male minore.»

«Ma...»

Tutto il mio stupore è svanito quando lei si è girata verso di me e mi ha fissato con l'aria di volermi uccidere, se avessi continuato a contraddirla. «Senti, Kenny, a me non frega un cazzo se tu sei scrupoloso. È per questo che, nella vita, non diventerai mai ricco. Io, invece, ho un cervello fatto per far soldi e questo è sicuramente il motivo per cui questo posto, nel giro di qualche settimana, sarà pieno di gente desiderosa di picchiare e io nuoterò nell'oro. Così la mamma vedrà che sono sprecata per la caserma e del tutto portata per questo lavoro.»

Ho sbattuto le palpebre. «Vuoi dire che non ti sei arrabbiata perché... vuoi dimostrarle di essere in grado di fare soldi?»

«No. Non mi sono arrabbiata perché è la mia vita e decido io che cosa farne. La dimostrazione viene solo per non farla parlare. Quella donna mi dà il mal di testa.» ha aggiunto quest'ultima informazione, sospirando e scuotendo la testa.

«Ma... e la tua cultura e... Pan, hai solo tredici anni!»

Mi ha agguantato per i capelli e il suo sguardo non è mai stato pericoloso come quel giorno. Ho deglutito, mentre il cuore che martellava furioso nel mio petto lottava per schizzare via, verso il punto della palestra dove Mizar e Kenpachi si prendevano a pugni, insultandosi di tanto in tanto. «Come ho detto,» ha sibilato mia sorella, rendendosi ancora più minacciosa. «è la mia vita e se tu vuoi passarla a fare quello che ti dice la mammina, sei padrone di farlo. Io farò solo quello che mi interessa, cioè gestire questa palestra. Sì, paramecio, anche se ho solo tredici anni. Ho il pallino degli affari e me ne sono resa conto troppo tardi, per i miei gusti. Se non ti sta bene, fottiti. E che si fotta anche la cultura. Non me ne faccio niente, quando posso avere i soldi!»

Non ho trovato niente con cui replicare e anche se l'avessi avuto sarei stato zitto per non finire a tappeto come ci era finito Mizar che sembrava più nel mondo dei morti che in quello dei vivi. Kenpachi è così forte e violento che, per un attimo, ho pensato che Mizar fosse decisamente morto, invece si è ripreso presto. Ha persino ringraziato Zaraki, quando si è rialzato!

Insomma, questa è stata la nostra routine fino ad oggi, quando ho appreso una notizia che mi ha riportato ai miei primi giorni di caserma, una storia che non credevo avrei più avuto occasione di sentire, soprattutto fuori dalla caserma, una storia che, mosso dagli eventi, avevo completamente dimenticato.


Era cominciata come una giornata qualunque, una delle solite, una di quelle in cui mia sorella si alza arrabbiata, in cui mia madre si alza arrabbiata e mio padre è tra le nuvole. Una di quelle giornate in cui qualunque cosa potrebbe far scoppiare il terzo conflitto mondiale e non ci sarebbe verso di fermarlo. Una di quelle giornate monotone rotte soltanto dalla presenza di un inquilino che, come il sottoscritto, guarda la situazione e tenta di dileguarsi il più in fretta possibile.

«Ho trovato il regolamento della scuola.» ha dichiarato la mamma, ad un tratto, tagliente, mentre versava il caffè nella tazza di Mizar. «Bevi, Mizar caro, ti serve proprio, con quanto studi.» ha aggiunto, tutta uno zucchero. Pan non ha alzato gli occhi dalla sua colazione, al contrario di me, che sentivo il muesli desiderare di uscire dal mio stomaco, ma dalla parte sbagliata. «Al contrario di mia figlia, che pensa che studiare sia superfluo.»

Mizar non ha commentato, ma scommetto che stava pregando perché una forza sovrannaturale lo prendesse e lo facesse sparire dalla circolazione. Io, almeno, ero di quell'avviso.

«Vedi, Mizar caro,» ha continuato la mamma, mischiando il tono zuccherato con quello tagliente che ha usato con Pan poco prima. Era una tattica che non aveva mai utilizzato, e che, proprio per questo, mi spaventava a morte. «sono convintissima che tu capisca meglio di lei che, per farsi strada nella vita, bisogna avere una cultura. E che bisogna ascoltare la propria madre, perché, forse, ne sa qualcosina in più della vita, di una tredicenne.» ha scoccato un'occhiata assassina a Pan che, invece, sembrava non si stesse neanche parlando di lei. Beveva dalla tazza con fare incurante e indifferente, come se la mamma stesse parlando del tempo, o non stesse parlando affatto.

«Naturalmente, se non volesse farlo,» ha continuato la mamma, in tono del tutto casuale. «ci sono sempre le regole della scuola da considerare. Quando l'ho scelta, ho pensato proprio a tutto.» quando ho alzato anche io lo sguardo, ho visto che la mamma aveva una strana luce negli occhi, una luce che, se non fossi stato seduto, mi avrebbe costretto ad indietreggiare. «Devi sapere, Mizar caro, che ho letto attentamente tutto il regolamento e ho scoperto che è impossibile uscire da quella scuola, a meno di essere espulsi. E che è molto difficile essere espulsi. La direttrice Une mi ha rassicurata sul fatto che Pan sarà il suo orgoglio personale, una volta finiti i sei anni di addestramento e studi. E, Mizar caro, lasciami dire che quella donna mi ha convinto. Ha detto, tra l'altro, Mizar caro, che, nel caso Pan volesse lasciare la scuola, sarebbe comunque tenuta lì dentro fino a che saranno i genitori a decidere diversamente. Dovrebbe avere un'autorizzazione firmata dai suoi genitori, altrimenti niente. Verrebbe prelevata e portata lì, che lei acconsenta o no.»

Ha cominciato a sorridere soddisfatta e Pan ha sollevato lo sguardo su di lei. Io ero terrorizzato: mi immaginavo esistere, nei sotterrai della caserma, una piccola cella grigia e buia di un metro per un metro, ma col soffitto molto alto, una porta di ferro con una grata dove far passare il cibo e, come unico collegamento con l'esterno, una finestrella minuscola, posta in alto, impossibile da raggiungere, ma comunque dotata di sbarre spesse e indistruttibili. Non solo: vedevo Pan seduta contro la parete di fronte alla porta sbarrata, con una camicia di forza, i capelli spettinati e l'aria deperita, pallida come un cadavere, prossima alla morte. Mi sono venuti i brividi.

Ho guardato Mizar che, invece, guardava il suo caffè senza dare minimamente segno di volerlo bere.

«Non è possibile.» ha dichiarato Pan, distogliendomi dalla mia visione del futuro, con una tranquillità che mi ha fatto gelare il sangue. Nei suoi occhi, però, brillava la luce del trionfo. «Perché sarebbe sequestro di persona.»

«No, mia cara.» ha risposto la mamma, rivolgendosi direttamente a lei, stavolta, con aria piccata. «Quella è una scuola per ragazzi problematici e, pertanto, sono presenti celle di isolamento che servono per quelli come te.»

«Però, ricordo espressamente che Frank Kushrenada ha detto che le celle di isolamento non verranno usate contro i minori, perché il Generale ha voluto così!»

«In realtà, mia cara, ho autorizzato la cara lady Une a usare il pugno di ferro, non che ne avesse bisogno. Ha detto di avere un certo conto in sospeso con te, signorinella... non voglio neanche sapere di cosa si tratta! Non che lei me ne abbia fatto cenno, ma se avessi insistito, me l'avrebbe detto di sicuro!»

Pan si è stretta nelle spalle, mentre un sorrisetto impertinente le deformava la bocca. Mi chiedevo cosa avesse in mente, se pensava che, una volta tornata in caserma, sarebbe stata rinchiusa. Tra l'altro, posso bene immaginare di quale conto in sospeso la Une stesse parlando: il lassativo col quale Pan l'aveva costretta a passare una mattinata nel bagno dei professori.

«Quella vecchia papera non vale uno sputo sulle mie scarpe.» ha sbottato mia sorella, con disprezzo. «Lei usi pure il pugno di ferro. Io userò quello di acciaio.» ha mostrato il pugno e ha colpito la tazza di Mizar dall'alto e quella si è frantumata, schizzando tutto intorno il caffè. Ho gridato per lo stupore, le schegge sono volate sulla mia testa mentre Mizar, mozzandomi il respiro, con una velocità sorprendente, mi ha sbattuto a terra, seguendomi un attimo dopo. Ho sentito le grida della mamma, le imprecazioni di papà e le urla di Pan che scappava di casa. È stato un attimo di puro panico, non sapevamo dove andare, cosa fare, cosa pensare.

Per riuscire a rimettermi in piedi, tra le urla di mia madre e i tentativi di Mizar e papà di riportarla alla calma, ci sono voluti parecchi minuti. Neanche io so con precisione come sono riuscito a rimettersi seduto, dopo aver spolverato la mia sedia dai detriti impazziti della tazza che Pan ha distrutto con l'aiuto di un pugno ben assestato. Adesso che ci penso, se non fosse stato per Mizar, avrei potuto scrivere il diario, questa sera, non come Kenny Iccijojji, ma come Capitan Uncino.

Quando la calma si è ristabilita, la mamma è scoppiata a piangere. «Ma cosa ho sbagliato, con lei?» gemeva, sulla spalla di papà, in un modo che mi ha fatto stringere lo stomaco. «Dove ho sbagliato? Sono una pessima madre!»

Mizar, a quel punto, come capendo cosa mi stava succedendo, mi ha preso gentilmente per un gomito e mi ha portato fuori dalla cucina, dove la mamma ha continuato con le sue domande strappacuore. Mi sentivo in colpa: lei pensava che Pan sia cresciuta male per colpa sua, ma non credo che sia vero. Insomma, dovrei essere come lei, altrimenti, giusto? Oppure no? Forse mi sto semplicemente attribuendo un'importanza che non ho. Non so cosa pensare, sono piuttosto confuso. E le domande di mamma non fanno altro che contribuire a rendere i miei dubbi più forti.


Abbiamo trovato Pan in palestra. Mizar non ha mai avuto dubbi sul fatto che si fosse diretta lì, così, vedendomi preoccupato per lei e la sua salute e per dimostrarmi che aveva ragione, mi ha portato a Casa Satan. Abbiamo trovato una situazione grottesca: Pan che si era appena accorta che Kenpachi non è stato licenziato, ha preso il nonno per un braccio e lo ha sbattuto al muro, cosa che ha rotto uno di quei pannelli orrendi.

Il nonno non si è disperato come credevo che avrebbe fatto, allagando il pavimento di una pozza d'acqua salata, un nuovo laghetto artificiale sicuramente più pulito della tinozza nell'ingresso. Si è, invece, messo a ridere a crepapelle, facendo rimbombare il suono della risata fino al secondo piano, credo, anche perché i miei timpani erano lì lì per fare le valigie e andarsene.

«La mia nipotina!» diceva, tra i singhiozzi. «Che adorabile!»

«Che cazzo ridi?» ha gridato Pan. «Tu non hai silurato questo stronzo e ridi? Ma vaffanculo!»

«Ma non posso, nipotina!» ha replicato lui, mettendosi seduto con la velocità di un razzo e perdendo immediatamente l'aria sorridente per fare spazio ad un'espressione seria.

«Non puoi cosa? Andare a fanculo? Ti aiuto io!»

«Ma no, che hai capito? Kenpachi è un insegnante dotato e poi... beh, diciamo che se lo cacciassi via, mi sentirei molto solo. Ecco. L'ho detto.»

«L'unica cosa che avevi da fare, grasso idiota con l'alito di una discarica abusiva, era rimanere in camera tua, in casa nostra, invece di lasciarla al dinosauro!»

Il labbro inferiore del nonno ha cominciato a tremare e i suoi occhi si sono riempiti di lacrime. È stato allora che si è formato davvero il laghetto artificiale, e nel frattempo lui farfugliava qualcosa a proposito delle nipoti che non capiscono che i nonni, dopo un po', vogliono andarsene di casa e vivere la loro vita. «La mia nipotina mi vuole a casa con sé! Oh, che emozione!» gridava tra le lacrime.

Mi si è stretto il cuore nel vedere il nonno in quelle condizioni, esattamente come succede ogni volta che si comporta in questo modo. Quando eravamo piccoli, se piangeva lui, piangevo anche io, ma anche Pan... solo che lei ha smesso quando ha cominciato a pronunciare il suo primo “cazzo”, e io mi trattengo a stento, ancora oggi. Stavolta, però, mia sorella non ha fatto la benché minima piega: ha solo sputato a terra ed è uscita dalla palestra dicendo una frase abbastanza inquietante, soprattutto perché detta da lei: «Come al solito, ci devo pensare io.»

È tornata dieci minuti dopo, dopo che Kenpachi, Mizar e io abbiamo portato il nonno in cucina e lo abbiamo aiutato a sedersi sulla sedia, dove Kenpachi gli ha servito del tè corretto con la grappa, che a quell'ora del mattino, a detta sua, è un toccasana. Il nonno non ha protestato e l'ha trangugiato come se fosse acqua fresca.

Poi, voltandomi, ho visto Pan che, furtiva, stringendo qualcosa al petto con entrambe le mani, stava camminando in punta di piedi davanti alla porta aperta della cucina, diretta verso le stanze del nonno e di Kenpachi. Erano le uniche della palestra che non avevamo mai visitato, ma erano anche le uniche che non volevo vedere: un po' perché avevo paura che puzzassero del loro sudore e dei loro piedi, un po' per privacy. Il fatto che Pan, però, stesse andando verso di esse con qualcosa stretto tra le dita mi inquietava assai.

Nessuno si era accorto di niente.

Mizar era occupato a dire a nonno che trovava normalissimo voler vivere per conto proprio, ad una certa età, e Kenpachi stava annuendo con vigore. Ero l'unico che potesse fare qualcosa e i casi erano due: fare la spia o seguire Pan e tentare di persuaderla dal fare qualunque cosa stesse tentando. Come al solito, ho pensato che fare la spia non mi avrebbe dato nessun punto nella classifica di Pan e che lei ne avrebbe approfittato per legarmi al sacco per i pugni e che nessuno le avrebbe detto niente.

Preferivo tentare un dialogo. Così l'ho seguita, stando attento a rimanere invisibile come sembravo in quel momento agli occhi degli altri tre.

«Ehi, Pan?» l'ho chiamata e, dato che l'avevo presa da dietro, si è voltata di scatto, così fulminea che anche io ho avuto qualche difficoltà a raccapezzarmi: mi ha sollevato a qualche metro da terra, lasciandomi con la schiena spalmata contro il muro, i piedi penzoloni e un braccio di Pan contro lo stomaco e l'altro sotto la gola. Non mi stava soffocando solo per permettermi di parlare, nel caso dovesse farmi qualche domanda.

«Stai zitto o ti strappo le ossa una per una, capito?» ha sibilato. Ho annuito ed è stato allora che ho visto tra le sue mani la rotella di un inconfondibile accendino.

«Che...»

Lei ha stretto la morsa sotto la gola, serrandomi il respiro. Il panico è salito alle stelle nello stesso momento.

«Ti ho detto di non parlare.»

Volevo sapere che cosa stava facendo, ma volevo anche che non mi soffocasse, così ho annuito di nuovo, per il poco che potevo, e lei mi ha misericordiosamente lasciato andare. Sono caduto sul pavimento come una pera secca e ho cominciato a tossire convulsamente; nessuno dei tre nella cucina aveva sentito niente, perché il nonno, col suo vocione tonante, stava chiedendo a Kenpachi dove fossero le carte per cominciare una “bella partita a rubamazzo, Mizar, ti insegno io, sono un asso in questo gioco”.

Non è vero, ma glielo lasciamo credere da anni, da quando, una volta, a Pasqua, papà gliel'ha rubato e lui ha risposto dandogli un pugno sulla faccia e riprendendosi quello che aveva chiamato “il maltolto”. Da allora abbiamo convenuto che era meglio farlo vincere e fargli credere di essere imbattibile. Solo Pan può rubargli il mazzo senza ricevere una sonora strigliata o un pugno e solo perché lei picchia forte quanto lui.

Ma intanto io ero sbiancato e stavo annaspando in cerca di aria, Pan mi ha bellamente ignorato e ha continuato la sua avanzata verso le camere del nonno e di Kenpachi. Ancora non sapevo cosa volesse fare con l'accendino, ma anche con il fiato corto e il bisogno d'aria sapevo che non era niente di buono. Così mi sono affrettato a rimettermi in piedi, stringendomi una mano sotto la gola ancora dolorante e prendendo dei respiri profondi come ci ha insegnato il Salvini – una delle poche cose che ci ha insegnato, in effetti – e l'ho seguita.

Si è addentrata in una delle due camere sbattendo il pannello di lato con violenza, tanto che si è staccato dalla parete a metà e ha cominciato a dondolare avanti e indietro. Non so come sia successo esattamente, ma quando l'ho visto, mi è sembrato un condannato a morte, agonizzante sulla forca. Immaginavo me stesso, fino ad un attimo prima, quando stavo soffocando e credevo che, tra me e quel povero, inconsapevole pannello ci fossero più affinità che non tra due esseri umani.

Pan, intanto, si stava aggirando per la camera spartana: c'era solo un futon, in mezzo alla stanza, e una coperta ancora non ripiegata. Poteva sembrare che fosse la camera di nonno Satan, ma c'era un oggetto così fuori del comune che non poteva sicuramente essere suo.

Ho capito che ci trovavamo nella camera di Kenpachi solo perché quell'oggetto non sarebbe appartenuto a nonno Satan neanche nei suoi sogni più selvaggi (il nonno, per quanto ami picchiare la gente, ha paura delle armi): una katana, con una lama insolitamente lunga, avvolta da bende. Proprio come una mummia. Non che io mi intenda di spade, ma quella ha un guardamano che ricorda tantissimo un osso... forse di qualcuno a cui l'ha strappato via dopo averlo aperto in due con quella cosa.

Pan si era fermata poco lontana da quell'oggetto infernale, anche lei lo ammirava e, dalla mia postazione, accanto al pannello impiccato, ho visto che era a dir poco estasiata. Non ha lasciato andare l'accendino, ma i suoi occhi erano sgranati come cocomeri.

Ero preoccupato a morte: insomma, se Kenpachi ci avesse visto lì, con un pannello impiccato, e avesse fatto due conti, non ci avrebbe messo poi molto a srotolare la katana-mummia e a farci a fette, per usare i nostri femori come nuovi guardamano... beh, ora che ci penso, non credo che il nonno sarebbe stato poi così contento di vedere i suoi nipoti affogare nel loro stesso sangue nella sua nuovissima palestra. Tra l'altro, volendo proprio essere cinici, non sarebbe una gran pubblicità per Casa Satan...

«Pan, forse è meglio se ce ne andiamo.» ho detto, in un filo di voce, tremante. «Dico davvero... il signor Zaraki non sarà felice, se rimaniamo qui.»

L'incantesimo in cui l'aveva avvolta la spada si è spezzato nel momento in cui ho finito di parlare. Si è voltata a guardarmi.

«Che cazzo vuoi?» mi ha domandato, aggressiva. «Non ti è bastato prima?»

«Beh...» per un attimo ho pensato di rispondere, poi ho capito che era più importante svignarsela. «Pan, dico davvero, dovremmo andarcene.»

«Neanche per idea, sono qui per un motivo e non me ne vado prima di aver finito!»

«Ma... che devi fare?»

«Un attentato, ovviamente. Lui non riuscirà a capire chi sia stato a bruciare la sua camera, e, debilitato dal terrore, scapperà via. Io sono naturalmente insospettabile, quindi... tutto okay, direi.»

«Ho capito, ma... perché bruciare la camera? Pan, hai presente chi è quel tipo?» non riuscivo a dire che aveva una katana con un guardamano a forma di osso, l'avrebbe reso troppo reale.

«Perché, cretino d'un paramecio ambulante col cervello ridotto in pappa, se bruci la camera questa diventa inagibile, no? Ma che te lo spiego a fare? Solo un genio come me potrebbe arrivare a comprendere!»

Sono convinto della stessa cosa e lo ero anche allora, ma il mio sudare copioso mi portava sempre più a guardarmi indietro e ad aspettarmi che l'omaccione entrasse e ci vedesse tra le sue cose...

«Però questa me la prendo.» ha dichiarato Pan, afferrando la spada bendata. «E' davvero un gioiellino.»

«Certo! E lui non ti vedrà andartene via, vero? Dove la nascondi una spada di quelle dimensioni?»

«Non mi vedrà semplicemente perché... oh, ciao Kenpachi, qual buon vento ti porta?» il suo sorriso è diventato quello di un alligatore e un'ombra minacciosa, subito dopo le sue parole, è calata su di me. Letteralmente. Ha coperto me e inghiottito Pan. Avrei venduto cara la pelle, me lo sentivo nelle giunture che avevano cominciato a suonare come nacchere. Guardavo Pan ed è stata la prima volta in vita mia che ho sperato che usasse la sua forza bruta per salvarci entrambi, che tramortisse Kenpachi o che semplicemente ci facesse sparire come nei giochi di prestigio.

Tutto, pur di non dover subire il destino che, crudele, incombeva su di noi sotto la forma di quel gigante.

Mi aspettavo un urlo disumano, che avrebbe fatto tremare le pareti e, invece, ha solo schioccato la lingua, ma terrorizzato com'ero, in quel momento, mi è parso lo schiocco di un osso che si spezzava e così ho urlato io, ma come una donnetta isterica.

«Che succede, scricciolo?» mi ha chiesto, allora, curioso. Paralizzato, l'ho visto allungare la sua mano grossa come una borsa e ha preso la spada dalle mani di Pan anche se lei tentava di opporre resistenza. Neanche lei ha potuto niente contro la forza di Kenpachi. «E no, Pan, quella non si tocca. Ti puoi fare male!»

«Stronzate. Chi te l'ha data?»

«Questa?» Kenpachi l'ha soppesata nella sua manona. Mi rendo conto adesso che gli ci stava davvero bene. Era come se fosse stata fatta su misura per lui. «Oh, è stato un regalo. Insomma, un'onorificenza, diciamo.»

Pan mi ha praticamente spinto via – e io l'ho lasciata fare, tanto mi ero pietrificato e sembravo un birillo – e si è avvicinata alla spada per ammirarla più da vicino. «E come si chiama, quella meraviglia?»

Kenpachi ha guardato la spada, dubbioso. «Ah, non lo so. Non me l'ha mai detto.»

«Ah, se ti aspetti che ti parli...» ha risposto lei, con un tono a metà tra l'ironico e uno da “campa cavallo”.

«No, voglio dire che il tizio che l'ha fabbricata non me l'ha detto: è morto prima di riuscire a finirla.»

«Oh. Si è trafitto da solo, l'idiota?»

Kenpachi si è rabbuiato un attimo e, nell'attimo stesso in cui credevo che avrebbe srotolato la spada dalla benda per decapitare Pan, ha posato quell'arnese al proprio fianco e si è seduto a terra a gambe incrociate. L'attimo dopo ha chiesto a mia sorella di fare lo stesso e così a me che me ne stavo in piedi con la verve di uno stoccafisso, a fissare il vuoto, col cuore che batteva talmente veloce che credevo mi sarebbe schizzato fuori dal petto e che si sarebbe fatto un giro per tutta la stanza, prima di fermarsi ai piedi del mio cadavere.

Ho ubbidito prima ancora che lo facesse Pan, spaventato dalla spada e dalla sua collocazione, a terra, accanto a Kenpachi che dava delle affettuose pacche all'osso che faceva da guardamano.

«Visto che me lo chiedi, te lo racconterò. Ma vi avverto: è una storia molto, molto triste.»

«Ah. Certo. Ovvio. Si è infilzato come uno spiedino.» ha tagliato corto Pan.

Le ho dato una gomitata per farla tacere. Ho guardato negli occhi di Kenpachi e ho visto che luccicavano. Sono apparsi in quel momento anche il nonno e Mizar che stava per chiedere che cosa fosse successo al pannello della porta e il nonno l'ha zittito e si è messo in posa solenne, come se si stesse per cantare l'inno nazionale. Mi ricordava molto me quando siamo all'alzabandiera, la mattina alle cinque, a parte la barba incolta e la peluria folta che compare dalla camicia aperta.

«Senti, se pensi che ci pisceremo gli occhi anche noi per una storia inventata, risparmia il fiato.» Pan ha stretto le braccia al petto, poi mi ha guardato. «No, forse lui se li piscerà lo stesso.»

«Non è una storia inventata.» ha risposto Kenpachi, con tutta la sua calma. È stato allora che mi è sembrato che stringesse il pugno molto forte contro l'osso. Mi si era seccata la gola: eravamo all'altezza giusta per essere sgozzati senza neanche troppa fatica. «Ed è un vero peccato che non la insegnino a scuola.»

Sarebbe stato comunque tempo perso, dato che gli studenti sono tutti molto svogliati e Pan non fa eccezione. «Ma sarebbe giusto che qualcuno lo sapesse. Voi andate in una caserma sperimentale, un'accademia dove si studia la storia delle colonie... queste cose dovreste saperle. Almeno voi.»

Ho guardato il nonno, e ho visto che si stava trattenendo il labbro inferiore i denti superiori e stava cercando di controllarsi dal piangere apertamente. Mizar gli stava dando delle pacche sulle spalle.

Mi sono sentito come se loro fossero tutti a conoscenza di cose che solo io e mia sorella ignoravamo. Ancora adesso sento una strana sensazione alla bocca dello stomaco. Ho pensato ad Arale, ho pensato ad Alex e Frank, agli unici con cui vorrei parlare in questo momento per ricevere un po' di pareri, per aiutarmi a far uscire fuori i dubbi che mi affollavano la mente in modo indefinito.

Dal canto suo, Pan non sembrava interessata a quello che Kenpachi voleva dirci, tanto che si stava esplorando l'orecchio con il mignolo, osservando il soffitto come se fosse tutto molto più interessante di lui.

Ancora non ero preparato al fatto che avremmo parlato di un argomento che, per un motivo o per l'altro, avevo accantonato in favore di altro, di problemi più immediati, quali lo studio e poi anche i sospetti di Arale sui nostri due amici più intimi.

«Beh, sapete cosa significa la giacca che indosso?»

Io ho scosso la testa.

«Simbolo del tuo essere barbone?» ha replicato, invece, Pan, che si era stretta nelle spalle.

Lui non ha reagito con rabbia, ma con rassegnazione. «No. Questa giacca bianca, sotto un kimono nero, è un simbolo per indicare una persona di un certo lignaggio. E anche la spada, simbolo di potere; badate, nessuno l'ha mai usata, non per fare del male. Ognuna ha un nome che rispecchia qualche caratteristica del suo proprietario, ma non so quale sia quella della mia perché, come vi ho detto, il fabbro è morto prima che potesse dirmelo. Anzi, se proprio devo essere sincero, è come se gliel'avessi presa, perché non era neanche finita, quando andai a cercarlo... sotto... sotto quelle macerie.» ha scosso la testa e chiuso gli occhi, come per nascondere a se stesso il terribile spettacolo del fabbro rimasto ucciso sotto le macerie prodotte da una guerra. Ho sentito un brivido, mentre ne parlava: il suo tono tenebroso rendeva la faccenda ancora più cupa di quello che era. «Ero... il ministro degli esteri del...»

«Ah, l'hanno scelto proprio bene, il ministro degli esterni...» l'ha interrotto mia sorella, scettica, ignorando totalmente la storia. «E, dimmi, rifacevi le facciate degli edifici?»

«Esteri, Pan.» l'ho corretta. Non avrei dovuto farlo e lo so, dato che la conosco, ma la mia lingua si è mossa prima della mia testa. «Significa che cura i rapporti con gli altri paesi. L'ha spiegato la Une a lezione, qualche settimana fa.»

Il ringraziamento di Pan per questa correzione non gradita è stato un pugno sulla spalla, che mi ha strappato un lamento e mi ha fatto distendere sull'altro fianco per la forza dell'impatto. «Stavo solo facendo una battuta, pezzo di idiota!» ha gridato. Non avrei risposto comunque, ammutolito com'ero dal dolore, ma Kenpachi ha impedito che Pan, balzandomi addosso come intendeva fare, mi fracassasse il cranio.

«Vi prego. Non ero così una volta... beh, non così brutto, in effetti. Se ho perso l'occhio è stato a causa della guerra. Ma andiamo con ordine. Ero il ministero degli esteri del piccolo regno del Sanc Kingdom, non so se ne avete...»

Ho gridato, nel sentire quel nome, e ho anche sussultato, come se avessi avuto un porcospino sotto il sedere... da quando Marquise me ne aveva parlato per la prima volta, nell'Hangar 14, di fronte a quel colossale Mobile Suit chiamato Pioggia di Fuoco nessuno ne aveva più fatto cenno o quasi.

Kenpachi mi guardava stupefatto e io mi sono affrettato a farmi piccolo piccolo e a scusarmi.

«Che c'è, scricciolo?» mi ha chiesto. «Ne hai sentito parlare?»

«No... è solo un isterico, lascia perdere.» ha minimizzato Pan. «Di cosa vuoi che abbia sentito parlare, questo paramecio?»

Kenpachi l'ha ignorata e ha guardato me come se fossi appena diventato un'enorme pepita d'oro. Mi sono limitato ad annuire, dato che non riuscivo a spiccicare parola: quello era il ministro degli esteri del Sanc Kingdom... lo stesso che era stato distrutto per l'inettitudine del principe. Era di fronte a me e non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso; non riuscivo a fare a meno di pensare che sarebbe stato perfetto accanto a Pioggia di Fuoco: erano due colossi che incutevano timore allo stesso modo.

«E... e da chi?» mi ha chiesto, improvvisamente interessato.

«Ecco... da... da un professore.»

«Chi era?» Kenpachi si è sporto verso di me con un interesse che aveva del maniacale, cosa che mi ha fatto ritirare con un certo spavento. Ma c'era qualcosa nel suo sguardo che era magnetico come una calamita che mi impediva di distogliere il mio e che mi ha spinto a rispondere, seppure con un balbettio che mi ha fatto sembrare un topolino, più che una persona. Ora che ci penso, è strano che Pan non mi abbia preso in giro.

«Zack Marquise...»

«E chi cazzo è?» è stata la domanda di Pan che ha rotto la strana, tesa connessione che si era creata tra me e Kenpachi.

«E' un professore del secondo anno.» le ho rivelato. «Quello con la mascherina e la divisa come quella della Une.»

«Ah, sì, quel pagliaccio.» ha risposto lei, alzando le spalle. Ma poi, come rendendosi conto di qualcosa che non tornava, si è voltata di nuovo a guardarmi. «Ma tu come lo conosci? Non dirmi che sei così secchione da seguire anche con quelli del secondo anno!»

«E com'era?» ha domandato Kenpachi, impedendomi di rispondere.

«In che senso?»

«Intendo... che tipo è?»

Ho un solo modo per descrivere Marquise e, in quel momento, l'ho fatto senza esitazioni: «E' l'uomo più in gamba che conosca.»

«E come mai vi siete ritrovati a parlare del Sanc Kingdom?»

«Beh, mi ha fatto vedere Pioggia di Fuoco e... mi parlato del principe Miliardo.» ho deglutito.

«Ehi, di che cazzo parlate, voi due?» è sbottata Pan, guardando da me a lui, fissandoci in cagnesco. «Cos'è questa storia? Di che cazzo parlate?»

Kenpachi ha annuito con fare grave, con l'aria di aver sempre capito tutto. Pan è stata completamente ignorata. «Quindi è proprio vero che è nella caserma militare sperimentale. Gin ci aveva visto giusto.» si è grattato il mento. Non ha voluto dirci chi fosse quel Gin e noi non gliel'abbiamo chiesto. Nessuno sembrava molto interessato a farlo e anche io, in quel momento, ero più impegnato a guardarlo mentre guardava assorto il soffitto e a borbottare frasi che non capivo che a fare domande. La mia mente era in subbuglio: pensavo al Sanc Kingdom e al fatto che avevo davanti un uomo che era stato ministro e che si è ritrovato ad essere un banale insegnante di arti marziali in una palestra che non viene frequentata da anima viva e che condivide la casa con uno zotico come mio nonno.

«E com'è?» mi ha domandato, dopo un po', rompendo quel silenzio.

«Zack Marquise?» ho replicato, stupidamente.

«Ma no! Pioggia di Fuoco. Come è? In che condizioni?»

«Beh... un po' malandato...» mi ci arrovello ancora adesso: dovevo dirlo oppure no? Era un segreto oppure no? Non ricordo che cosa mi ha detto Marquise, se di mantenere il segreto oppure se potevo parlarne liberamente, ma credo di aver fatto la cosa giusta, in fondo: Kenpachi è ministro del Sanc Kingdom. E poi non credo che Marquise mi avrebbe fatto vedere qualcosa di top secret.

«Ma può volare?» ha domandato ancora Kenpachi.

«Brutte teste di cazzo, volete dirmi che sta succ...»

«Pan, per favore, dammi un attimo, ti spiegherò tutto a tempo debito.» le ha chiesto gentilmente Kenpachi.

«A tempo debito un cazzo. È questo il tempo debito!» ha urlato lei, dando un pugno sul pavimento. Neanche a dirlo, ha fatto saltare una trave. «E poi come lo dimostri di essere davvero un ministro? Ce l'hai un pezzo di carta che lo attesta? Eh? Ce l'hai? Per me sono tutte stronzate. Te le stai inventando perché vuoi che ci muoviamo a pietà e che ti teniamo qui. Ma sai quanto me ne frega? Zero. Quindi ti puoi prendere quella spada, ficcartela nel culo e andare via.»

Kenpachi ha sospirato. «Stiamo parlando di un Mobile Suit, contenta?» ha detto, allora.

«Ah, chissà che mi credevo!» ha sospirato lei, tornando a ispezionarsi l'orecchio col mignolo.

«Pioggia di Fuoco è il nostro tesoro nazionale.» ha risposto Kenpachi, un po' punto nell'orgoglio. «Era il Suit dei Peacekraft, la famiglia reale. Solo un membro della famiglia avrebbe potuto pilotarlo; il compito del re è sempre stato quello di guidare la gente in guerra, se ce ne fosse stato bisogno, ma, come tutti dovrebbero sapere, il Sanc Kingdom non è mai stato un paese assetato di sangue. Perseguiva ideali di pace. Ma ha fallito su tutta la linea.» ha scosso la testa, con evidente rammarico.

«Per forza. Se è vero che hanno scelto te come ministro, allora erano davvero dei coglioni.» ha risposto Pan, stringendosi nelle spalle. «Se volevano farsi valere, dovevano usare il pugno di ferro.» e si è battuta un pugno nel palmo aperto dell'altra mano, come per rendere ancora più forte il concetto. «Parlare non serve ad un cazzo. Vuoi avere ragione? Pesta a sangue! È questo il mio motto!»

Kenpachi ha scosso la testa di nuovo, ma non so ancora se fosse per disapprovare le parole di Pan. Una cosa è certa: sentire parlare di pace un tizio così grosso, con una spada al fianco e dei muscoli grossi come mattoni, fa uno strano effetto. «Beh, ma lasciate che parta dall'inizio.» ha detto. «Come vi dicevo, sono... ero il ministro degli esteri.»

«E come sei finito a picchiare la gente?» ha domandato Pan.

«Beh, avevo l'hobby del pugilato.»

«L'hobby del pugilato e parole di pace.» ha risposto lei, buttandosi entrambe le mani in grembo. «Che idiota!»

«Beh, come dicevo, ero il...»

«Ministro.» ha completato Pan, strascicando le parole. «Vai avanti, pezzo di merda.»

Ero pietrificato: parlare così a un ministro... per di più armato di spada. Ma lui sembrava aver dimenticato di possedere un'arma, benché la stesse accarezzando come se fosse un cocker; guardava a terra con evidente tristezza. Mi ha ricordato il giorno in cui Zack mi ha raccontato di come il Sanc Kingdom era andato distrutto e non mi sono mai sentito tanto un verme per aver creduto che fosse una cattiva persona, o un energumeno fatto solo per inchiodare la gente al suolo come se fossero dei picchetti per le tende da campeggio.

«Beh... ecco... okay.» ha borbottato e si è schiarito la voce. «Il Sanc Kingdom era un bel paese, sapete? Una di quelle belle città stato dove sembra che l'idillio non debba mai finire. Il Sanc Kingdom dava sul mare e il castello Peacecraft era uno dei più bei luoghi che si potessero immaginare. Vivevamo tutti felici, soprattutto perché era da poco nata la principessina.»

«Sì, molto interessante.» ha risposto Pan, annoiata, con le braccia incrociate e lo sguardo carico di sufficienza. «Ma a noi che cazzo ce ne fotte?»

Kenpachi l'ha ignorata e si è asciugato una lacrima che era spuntata furtiva all'angolo dell'occhio buono. «La piccola Relena era uno spicchio di sole. Che manine, e che sorriso! Poi sono cominciate le guerre di indipendenza sulle colonie, nello spazio. E sulla Terra si è formata la Confederazione degli Stati Terrestri, per sedare queste lotte: pensavano che facendo fronte comune, gli stati terrestri sarebbero stati più forti e avrebbero avuto ragione più facilmente dei facinorosi che predicavano l'indipendenza delle colonie spaziali. Ma si sbagliavano di grosso: perché questi facinorosi erano membri stimati di quelli che, una volta, erano i delegati della Terra, e avevano appoggi potenti su tutte le colonie che si ritrovarono ad avere un esercito di grandi...»

«Sì, sì. Mi sembra di stare seguendo una lezione di storia con la Une. Che palle.» ha replicato Pan, annoiata. «Se non hai niente di più interessante, ti prego, andiamo a darci due pugni e finiamola.»

«E dai, Pan, a me interessa!» ho protestato.

Lei si è girata verso di me, mi ha guardato con un'espressione così omicida che mi ha ghiacciato il sangue delle vene e, se solo avesse potuto, mi avrebbe fatto rimanere stecchito lì dov'ero. «Tu sta' zitto.» mi ha ordinato, in un tono così calmo da essere glaciale.

Kenpachi si è commosso. Sembrava il nonno quando comincia a vedere dei film d'amore alla “Via col Vento”. «Sono così felice che esista ancora qualcuno che vuole ascoltare la storia del mio paese! Mi sento onorato di aver incontrato tuo nonno! E tu, Kenny, sei stato scelto dagli dei!»

Dubito fortemente di essere stato scelto da chicchessia, anche se in un modo o nell'altro, come dice il detto, se l'universo vuole che tu sappia qualcosa, la saprai comunque. E anche Pan la pensava allo stesso modo perché ha detto: «cazzate», e si è seduta di nuovo. Credo che il fatto che fosse stato detto a me di essere stato scelto dagli dei l'avesse convinta a fermarsi a farsi dare quella lezione di storia che, fino ad un momento prima, aveva denigrato con tutta se stessa. Mia sorella, anche se non sembra, è un sacco vanitosa.

«Insomma, dove ero rimasto? Ah, sì. Le truppe terrestri erano sempre più numerose, soprattutto per stanare il grande esercito che, inaspettatamente, si era formato sulle colonie, decise più che mai ad avere la loro indipendenza. Sembrava che il numero di morti dovesse aumentare a dismisura di giorno in giorno. Io, con alcuni dei ministri terrestri, tra cui il ministro Darlian, ci siamo adoperati per la pace: eravamo convinti che, continuando così, avremmo risolto solo di distruggere le colonie e la Terra e che, allora, non ci sarebbe stato più niente per cui prendersi la ragione e il torto. Ci abbiamo provato.»

Il nonno, in quel momento, ha cominciato a far tremolare il mento. Prima ancora che potesse spiccicare una parola, si era aggrappato al collo di Mizar e ha cominciato a piangere sonoramente, le lacrime così copiose che uscivano a fontanella dai lati della spalla del mio nuovo amico.

«La Confederazione degli Stati Terrestri rese chiare le sue intenzioni fin dai primi incontri: non avrebbe posto fine a questa guerra, a meno che le colonie non si fossero arrese. Sotto il mio consiglio, il Re Peacekraft, grand'uomo, pace all'anima sua, decise di rendere legittime le rivendicazioni della fazione coloniale: erano giuste, White Fang, la fazione coloniale, voleva l'indipendenza ed era giusto concedere a quelle persone che non sentivano più nessun legame con i loro fratelli terrestri, la libertà che meritavano. Volevamo solo il dialogo. Ma la Confederazione non capì. Ci fu un fraintendimento e... beh, avvenne il bombardamento. Fu uno scontro senza precedenti. Il Sanc Kingdom non si aspettava un agguato e fu spazzato via in un batter d'occhio. Migliaia di morti. Non ce la facemmo ad armarci, il poco che ottenemmo fu di distruggere parte del nostro armamento. Re Peacekraft...» Kenpachi non è stato in grado di continuare. Avevo capito immediatamente dove sarebbe andato a parare, ma non riuscivo a parlare, avevo la gola secca e, anche adesso, mi sento un bel po' triste: per quanto ne abbia sentito parlare poco, il Re del Sanc Kingdom doveva essere davvero un grand'uomo. Mi sono ricordato di Trowa, di quando aveva usato quasi le stesse parole per descrivere la situazione coloniale, durante il primo giorno di caserma. Ricordo il litigio che ne venne fuori... ora mi rendo conto che, forse, lui conosce bene questa storia, conosce che cosa è successo al Sanc Kingdom ed è per questo che vuole la libertà delle colonie.

In quel momento di silenzio, neanche Pan ha avuto il coraggio di parlare, il nonno continuava a piangere, Mizar rimaneva impettito e dava ad intermittenza pacche sulle spalle del nonno per fargli coraggio. Io guardavo Kenpachi e anche mia sorella. Aspettavamo tutti che fosse pronto per finire la storia. E quando ha ripreso, la sua voce ha fatto breccia nei nostri cuori come una pugnalata.

«Il Re è rimasto ucciso dai bombardamenti. È morto nel palazzo del Sanc Kingdom insieme alla moglie. La piccola principessa...»

«No!» ho gridato, pensando alla piccolina di cui Kenpachi ci aveva parlato.

Lui, però, ha continuato come se io non l'avessi interrotto: «Di lei si sono perse tutte le tracce. Nessuno sa dove sia. Alcuni dicono che sia morta anche lei, ma non credo che sia così: non è mai stato ritrovato il cadavere e... e voglio sperare che lei sia ancora viva, da qualche parte e che sia felice, lontano dal ricordo di quell'esperienza.»

Nessuno ha avuto il coraggio di dire niente. Anche Pan si è trattenuta dal fare commenti più aperti di uno scettico schiocco di lingua. A volte mi chiedo se sia solo cinica o se sia solo un modo per proteggersi da una storia straziante come questa.

«E... e il principe Miliardo?» ho domandato, ad un tratto, quando ho visto che Kenpachi non continuava. Lui ha sussultato.

«Miliardo. Oh... quando è stato il momento della resa dei conti, quando contavamo sul suo aiuto per... per risollevare le nostre sorti... lui è sparito nel nulla, proprio come la sorella. Una gran brutta storia.» ha scosso la testa e ho notato disapprovazione in quel gesto, e lo stesso rammarico che ho già visto su quella parte di volto che Marquise non nasconde dietro la maschera. «Era solo un ragazzo, diamine! Cosa ci aspettavamo da un ragazzo? Ammetto che, per un po', anche io ero arrabbiato con lui per non averci saputo guidare. Il nostro paese è stato dilaniato e distrutto. E questo servì alla Confederazione Terrestre per stipulare la pace: il mondo e le colonie erano indignati da quanto era stato fatto e la pace spuntò da dietro l'angolo; la Terra arrivò a più miti consigli, dette qualche libertà alle colonie, come contentino, ma niente di davvero significativo. La ferita prodotta dalla distruzione del Sanc Kingdom fu così forte da provocare questo. Ci furono pochi sopravvissuti, la maggior parte dei quali, adesso, indossa una giacca come questa.» alzò una spalla per farcela vedere. «Il simbolo dell'odio... e anche del ricordo.»

Poi ci guardò negli occhi, prima a me e poi a Pan.

In quel momento riuscivo a pensare solo a questo: alla grande catena di eventi che ci avevano portati lì, in quel momento, di fronte ad un uomo che ci ha raccontato una storia che nessun altro aveva fatto trapelare, neanche la Une, nelle sue lezioni di storia delle colonie. Abbiamo passato diverse settimane sulla Confederazione degli Stati Terrestri, ne conoscevamo a memoria gli stati membri – adesso non ne sono tanto sicuro – e sapevamo tutto della guerra e di come è scoppiata. La Une non ci ha mai parlato del Sanc Kingdom, non sapevamo neanche che avesse avuto tanta importanza nella fine della guerra, quando lei ci aveva fatto studiare dai libri della caserma che “gli stati della Confederazione capirono che il numero di morti era diventato troppo ingente e che urgeva la pace, prima di distruggere il mondo intero e le colonie”. Tutte bugie e mezze verità.

E poi il destino mi aveva condotto da Marquise che mi aveva parlato dei Suit. Non contento, poi, lo stesso destino, mi aveva messo in casa Kenpachi, uno degli ultimi superstiti di uno stato di cui nessuno parla.

«Beh... e ora sapete tutto.»

Per un attimo, siamo rimasti tutti in silenzio. Ero commosso. E il pensare alla principessina Peacecraft, a cui quest'uomo grande e grosso voleva bene, che poteva essere morta in un attacco sconsiderato fatto solo per questioni di potere... Zack Marquise mi aveva detto solo una parte della storia, ma anche per lui doveva essere stato lo stesso molto doloroso. Forse l'aveva vissuto, e forse era stato un amico del principe Miliardo o forse è uno di quei diseredati che ancora vagano per il mondo, con una giacca come quella di Kenpachi nascosta nell'armadio.

Poi Pan ha rotto il silenzio: «Bah.» ha detto, quindi si è alzata. «Allora, non andiamo a prenderci a pugni? Tutte queste stronzate mi hanno messo addosso la voglia di mandare qualcuno al tappeto!»

Tutti quanti hanno scosso la testa, con aria di disapprovazione. Mentre io sono rimasto fermo a guardare il pavimento.

Mi sento come se il destino mi avesse raggiunto e messo un cappio al collo, come se avesse voluto dare a me, per un motivo che mi è ignoto, un peso che non posso sopportare e che non saprei neanche come alleggerire. Forse Arale direbbe che non è compito mio impicciarmi di questi affari. O magari si butterebbe a capofitto nella soluzione... ma siamo solo ragazzini? Cosa ne sappiamo noi di complotti internazionali?



******


Ebbene, rieccomi. Non aggiorno da una vita perché... esami, vita universitaria frenetica, lezioni, amicizie... argh. XD Finalmente ho avuto un po' di tempo per mettermi qui e rivedere questo capitolo, l'ultimo delle vacanze natalizie. Dal prossimo si torna in caserma e si andrà avanti con tutta questa carne al fuoco. Ci vorrà comunque ancora un po' per la fine, ma spero che ne valga la pena. Alla prossima

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Capitolo 19
*** Un brusco ritorno ***



Le lezioni al primo anno.

Un brusco ritorno



2 Gennaio


Svegliarsi alle sette del mattino, dopo aver passato quasi tutta la notte in bianco, con le grida della propria madre e della propria sorella che non vuole tornare in caserma non è quello che augurerei ad un amico e, meno che mai, ad un nemico. Sulle prime avevo pensato ad un incendio, sono balzato nel letto, urlando e con il batticuore, spaventato a morte; ho tentato di scendere per darmi alla fuga, solo per scoprire che il mio piede si era aggrovigliato nelle lenzuola durante la notte, cosa che mi ha fatto fare un capitombolo sul pavimento che ha fatto vibrare mezza casa. Insomma. Un inizio anno niente male.

Ero e sono di umore pessimo anche perché da domani dovrò tornare a svegliarmi alle cinque del mattino. L'unica nota positiva che sono riuscito a trovare in mezzo a tutto questo è che ho potuto rivedere i miei amici, Arale, Frank e Alex; ma stamattina proprio non ci riuscivo: quando stavo tentando un sorriso, cercando di immaginare le loro facce alla notizia che avevamo un inquilino e di tutto quello che ci era successo da quando ci siamo lasciati, mi è sovvenuto che Arale aveva da darmi delle notizie su Frank e Alex e che non aveva potuto darmelo per via dei telefoni sotto controllo. Era questo a non andarmi: non volevo sapere se i miei amici erano dei manigoldi o no. A me avevano assicurato di no e tanto mi bastava.

Ma se poi Arale avesse avuto ragione? Il panico mi aveva afferrato, mentre le coperte mi lasciavano definitivamente andare. Insomma, in quel caso come avrei dovuto comportarmi?

È stato papà a strapparmi dalle mie riflessioni. «Oh, sei sveglio!» ha esclamato, come se questo potesse essere stata davvero una sorpresa. Mio padre è sempre un po' sulle nuvole. Ma si è accorto di ciò che ha detto, perché, dopo un urlo sovrumano da parte di mamma, si è messo a ridacchiare. «Beh, non è difficile, vero?»

Ho scosso la testa.

«Dai, vai a lavarti, che tra poco si parte.»

Stava per chiudersi la porta alle spalle, quando l'ho fermato con un: «ehi, pa'», prima di accorgermi che lo stavo effettivamente fermando. Lui mi ha sentito e si è voltato a guardarmi con fare interrogativo. La domanda è fluita dalle mie labbra come se l'avessi sempre avuta in mente, pronta per lui, anche se io stesso, un attimo dopo, mi sarei stupito dell'incredibile potere del subconscio: «Ma se un tuo amico fosse un mafioso, tu come ti comporteresti con lui?»

Papà ha sollevato gli occhi verso il soffitto, come se fosse stata lì la risposta. «Un mafioso?» ha ripetuto. «Non lo so. Non ho mai avuto amici mafiosi.»

«Ma se uno di loro lo fosse?» ho insistito.

Papà si è grattato il naso. «Beh, cercherei di non chiedergli favori. Ora vai a lavarti.»

Non capisco cosa mi abbia voluto dire papà. Insomma, tutto qui? E tutta quella paura della mafia, allora, perché? Sicuramente ha minimizzato il problema, non può essere così semplice, o Arale non sarebbe così terrorizzata. Probabilmente ha semplicemente pensato che fossi troppo assonnato o intontito dalle grida e non mi ha preso sul serio. Ero al punto di partenza. Ho chiesto a Mizar, quando sono sceso al tavolo della colazione. Mamma e Pan si erano trasferite fuori. La loro lotta, se solo il vicino si fosse deciso a prendere una telecamera, avrebbe potuto finire in Mondovisione.

«Un amico mafioso?» ha ripetuto lui, proprio come papà. Mi chiedo cosa chiedessi di così strano.

«Sì.» ho risposto, paziente.

Lui ha bevuto il suo caffè. «C'è il trabocchetto?»

«No, ho solo bisogno di saperlo!» l'ho sollecitato. «Tu come ti comporteresti?»

«Sinceramente?» mi ha chiesto Mizar, guardandomi serio e attento. Ho drizzato le mie antenne: stavo per avere una risposta concreta. Una vera risposta! E non stavo più nella pelle.

«Ovvio!» ho esclamato.

«Non ne ho la minima idea.»

La sua risposta è stata come una secchiata d'acqua gelida: mi ha privato di tutta la forza e della voglia di continuare a mangiare. Papà era fuori con loro a caricare i bagagli ed eravamo rimasti solo io e Mizar, in cucina, a fare colazione con gli avanzi delle feste.

«Ma perché me lo chiedi?» mi ha incalzato.

Per un po' sono stato riluttante a dirglielo, insomma... non succede tutti i giorni di legare con qualcuno che è potenzialmente un mafioso. Ma poi ho ceduto: il bisogno di parlarne con qualcuno di più grande che potesse darmi un consiglio mi ha fatto vomitare tutto a valanga. Ma ho dovuto riassumere molto, e non gli ho detto di tutti i tentativi di Arale per estorcere informazioni alle persone che conoscevano Alex da anni. Mizar mi ha ascoltato senza dire una parola, poi ha cominciato a ridere.

«Ma... che c'è da ridere?» ho chiesto, confuso.

«Scusa, Kenny... è che... è la storia più incredibile che abbia mai sentito!»

«Ma è vera!»

«Lo immaginavo.» mi ha rassicurato, posandomi una mano sulla spalla ed elargendomi un sorriso. «Da quando conosco te e tua sorella, ho capito che può succedere qualunque cosa. Comunque: io non conosco questi ragazzi, ma mi sembra che tu ti fidi di loro, giusto?»

Ho annuito. «Sono molto simpatici e gentili. Loro mi hanno assicurato che non lo sono. Ma se Arale avesse scoperto qualcosa... e i mafiosi non vogliono che la loro amicizia venga tradita, o ti tagliano la testa!»

Mizar ha scosso la testa. «Tu hai visto troppi film, Kenny. Dipende da te, e da quello che vuoi. Se ti trovi bene con questi amici e sono davvero tuoi amici, devi difenderli dalle calunnie a qualunque costo. E se è vero che sono mafiosi, ma ti hanno mentito, allora forse non meritano la tua fiducia. Sta a te, Kenny. È una decisione che devi prendere da solo.»

«Ma se poi...»

La mia domanda mi è rimasta in gola: la mamma ha sbattuto la porta del retro e il vetro ha tremato con violenza. Aveva la faccia rossa, ma non solo per la rabbia, Pan deve averla picchiata e, a giudicare da come aveva le mani, anche la mamma doveva aver picchiato Pan.

Mizar mi ha dato una pacca di incoraggiamento sulla spalla. «Passa un buon semestre.» mi ha augurato.

«Kenny, muoviti.» ha ringhiato la mamma, squadrandomi in cagnesco. Mi sono alzato come un condannato pronto per il patibolo, ho ringraziato Mizar per gli auguri e mi sono diretto pesantemente verso l'auto. Pan era dentro, seduta, si dimenava, da quel che potevo vedere dalla soglia della porta e mi chiedevo come mai ancora non avesse tentato la fuga verso la portiera aperta che mi aspettava. Che la mamma fosse riuscita ad incollarla al sedile? Ne dubitavo.

«Muoviti!» mi ha ordinato ancora la mamma, dandomi uno spintone verso l'esterno. «Non voglio fare questa brutta figura! Voglio che siate in orario, il primo giorno! Non farmi ripetere quello che ho cominciato con tua sorella!»

Non volevo che lo facesse, sinceramente, così mi sono sbrigato ad eseguire.

È stato quando sono entrato in macchina, che ho capito perché Pan si dimenava ma non usciva: era legata come un salame con la catena delle ruote dell'auto, tra l'altro emetteva suoni animaleschi, ma non gridava parolacce perché aveva una pezza di cuoio in bocca.

Mi dispiaceva per lei, davvero tanto: so quanto tenesse a rimanere da nonno Satan e imparare le arti marziali, ma so anche che è impossibile finché starà in caserma. Le ho dato delle pacche sulle spalle, ma ho smesso quando lei mi ha dato una testata.

Il viaggio è stato meno turbolento della prima volta: siamo arrivati fino alla stazione degli autobus senza fare il pit-stop alla polizia – un record, penso. Credevo che avrebbero slegato Pan e che le avrebbero permesso di camminare da sola, invece mamma mi ha ordinato di scaricare tutti i bagagli e a papà di prendere Pan che, per tutto il viaggio, non aveva fatto altro che dimenarsi con quelle catene addosso. Io non mi sono più avvicinato neanche di un millimetro e neanche quando mi si stavano anchilosando le chiappe. Ho preferito tenermi il formicolio.

«Sei sicura, Videl?» ha chiesto papà.

E mamma: «Gohan, non farmi alzare la voce, per favore!» e credevo che non avrebbe potuto essere più alta di così. Sospirando, mi sono limitato a fare quello che mi avevano chiesto.

La stazione degli autobus erano pieni di ragazzi in uniforme nera, proprio come quando siamo arrivati il 23 Dicembre. Sembrava passata una vita e, invece, erano stati meno di quindici giorni. Ho dovuto trascinare tutto da solo fino al piazzale centrale, dove speravo che avrei incontrato i miei amici. La prima a incontrare è stata proprio l'ultima che volevo vedere: Arale, che mi ha chiamato gridando col suo solito entusiasmo e sbracciando felice. Mi si è aggrappata al collo con così tanta foga che credevo mi sarei ribaltato e che, insieme, avremmo provocato una valanga, portandoci dietro un bel po' di nostri commilitoni. E immediatamente la cattiva sensazione si è trasformata in contentezza: in fondo, era una dei miei migliori amici.

«Come va?» si è liberata di me e mi ha lanciato un'occhiata critica. «Ho grandi notizie!»

«Sì, beh...» ho sorriso, incerto. «Anche io.»

Arale mi è sembrata subito molto più reattiva. «Oh, anche tu hai fatto indagini su Alex e Frank? Bravo! Non me l'aspettavo proprio! Questo sì che è il Kenny che mi piace!» mi ha dato una pacca sul braccio che avrebbe potuto spezzarmelo e si è messa a ridere.

Mi sono portato la mano sul braccio, con una smorfia. «A dire il vero... non proprio.»

«Oh, e allora su che?»

Non ho avuto il tempo di rispondere: è arrivato Heero. «Eccoli qui, i miei primini preferiti.» ci ha salutati. Era sorridente, rilassato e abbronzato. Doveva essere stato in un posto esotico per le vacanze.

«Ciao, Heero!» lo ha salutato Arale, con la stessa foga con cui ha salutato me. «Ti vedo in forma!»

Lui ha sogghignato. «E tu sprizzi gioia.» ha risposto. «Che c'è? Trovato l'uomo?»

«Quale uomo?» ho voluto sapere, immaginandomi che avesse anche cominciato una caccia all'uomo per via di Alex e Frank.

Heero ha fatto cenno di lasciar perdere.

«Ma non dovresti essere già in caserma?» gli ha chiesto Arale. «Insomma, tu sei un caporale!»

«Sì, beh, è stato Natale per tutti.»

«Oh, anche per la Une, eh?»

Heero ha annuito. «Ovvio. Ma... Iccijojji, perché tua sorella...» ha indicato col pollice alle proprie spalle. «è legata con le catene dell'auto?»

Ho guardato il punto da lui indicato e ho visto la scena più assurda del pianeta: i miei genitori che, come gli indigeni delle barzellette, portavano Pan – la mamma per i piedi e il papà per le spalle – ancora incatenata e ringhiante e si dimenava come un'anguilla.

È stata la scena più umiliante di tutto il trimestre, anche perché tutti i nostri commilitoni, che ci conoscessero o no, li hanno additati e qualcuno, compresa quell'antipatica di Bra, ha fatto delle foto e sogghignava in modo maligno.

Già mi immaginavo, per il giorno dopo, un cartellone pubblicitario, in caserma, che ritraeva quella scena impietosa.

Sono quasi sicuro – e la mamma lo sarebbe ancora più di me – che ne avesse mandato una copia a sua madre, Bulma. Non so perché lei e la mamma non si sopportino, fatto sta che certe cose non si potranno mai cambiare e che anche Bulma si farà grasse risate alle nostre spalle.

Persino Arale rideva.

L'unico – e gli sono grato per questo – che non rideva era Heero, ma guardava la scena con l'aria di non aver mai visto niente di simile. «Non l'ha presa bene, eh?» ha capito.

«Per niente. Il nonno le aveva promesso di vivere nella sua palestra e di non dover andare a scuola.»

«Il sogno di ogni adolescente...» ha replicato lui, sarcastico.

«Ma non lo so, Heero...» ha ribattuto Arale, portandosi una mano sotto il mento.

Lui non ha risposto, ha sollevato una mano. «Beh, ora vado. Credo di dover fare la mia parte per il servizio d'ordine.» e detto questo se n'è andato. E mentre lui spariva tra la folla, io cercavo di sondarla per ritrovare Alex e Frank: in quel momento, avrei voluto che fossimo tutti insieme. Ho idea che anche Alex avrebbe riso della scena, se ci fosse stato, mentre Frank no. Per certi versi, lui è molto simile a Heero. Ma nessuno dei due era nei paraggi. Ho, invece, incrociato lo sguardo di Ryan Shirogane, il proprietario del Caffè Mew Mew, ma non aveva una buonissima cera e, quando mi ha salutato, la ragazza dai capelli rosa di nome Strawberry gli ha fatto il terzo grado per sapere chi avesse o meno salutato e perché. Povero Ryan, con una ragazza del genere, sarebbero tutti un po' stressati.

In quel momento, mi sono chiesto chi mai sarebbe stato il povero diavolo disposto a sopportare mia sorella, ma, proprio mentre lo pensavo, una vocina nella mia testa mi ha detto che, dopotutto, anche la mamma l'aveva trovato, il suo povero diavolo, e non c'era nessuno migliore di papà. Ho sorriso: c'è speranza per tutti.

«Vieni, Kenny!» ha esclamato Arale. «Ti devo aggiornare!»

Mi ha preso per mano, ma non ha fatto in tempo a trascinarmi via che un grido («Guardate! Una limousine!») ci ha fatto voltare verso la direzione in cui tutti si erano già girati prima di noi. C'erano diverse dita puntate e molti sguardi ammirati e così abbiamo visto anche noi la limousine nera che veniva parcheggiata poco fuori dallo spiazzo dove eravamo parcheggiati noi studenti. Ne è uscito un ragazzo coi capelli castani molto alto, e l'ho riconosciuto subito: è lo stesso ragazzo maleducato che, il primo giorno, non ha degnato Arale di uno sguardo quando lei voleva chiedergli dove fosse la biblioteca. Non ho mai saputo il suo nome, benché lo abbia visto più volte gironzolare per i corridoi.

«Oh, eccovi finalmente!» a dirlo era stato Frank. Ci siamo voltati di nuovo e l'ho visto.

«Frank!» ho esclamato. «E Alex!» il nostro amico, sudicio come sempre, era proprio lì accanto e si stava togliendo una caccola dal naso in modo alquanto determinato. Solo quando ha finito, ha sorriso, si è appiccicato la caccola ai pantaloni e ha sollevato la mano per salutare.

«Come va?»

Li ho abbracciati tutti e due, in barba alla caccola, ma da Alex mi sono ritirato subito perché il suo odore sembrava essersi fatto ancora più fetido. «Visto lo spaccone?» mi ha chiesto, ma non avevo capito di chi stesse parlando.

Frank ha indicato con un cenno della testa il ragazzo maleducato. «Seto Kaiba.» ci ha detto.

«E tu come lo conosci?» ho chiesto, proprio mentre Arale diceva: «Che gran pezzo di gnocco!»

«E' solo una testa di cazzo.» ha dichiarato Alex, come se fosse assodato.

«Perché?» ho voluto sapere.

«Ma perché ce l'ha la faccia da testa di cazzo.» ha risposto lui, come se avessi dovuto pensarci da solo. «Mi fa schifo solo perché è ricco da fare schifo. A parte Frank, non c'è un ricco che valga la pena di essere smusato dal sottoscritto. Sempre che non debba essere derubato, è ovvio.»

«E' ovvio.» ha ripetuto Arale, acida. Se cominciavamo così eravamo davvero ad un passo dalla fine. L'ho guardata, cercando di capire che cosa avesse in mente, ma lei si era aggrappata a Frank. Gli occhi le brillavano con fare maniacale; a volte credo che mi faccia più paura lei di Pan.

«Insomma? Che cosa sai di quel Seto Kaiba? Voglio sapere tutto! Non tralasciare neanche la taglia delle sue mutande!»

Frank ha ridacchiato, in imbarazzo, mentre Alex ha riso di cuore. Tutto come al solito. «Quella non la so.»

«Beh, allora cosa sai? A quale titolo? Come lo conosci?»

Io e Alex, l'uno di fianco all'altro, guardavano quell'interrogatorio con gli occhi sbarrati. «Secondo te, tra poco lo tortura?» ho chiesto.

«Non parlare di torture, Kenny, tra poco rivedremo Sark!»

Nel sentire quel nome ho deglutito: Sark era l'ultima persona che mi andava di rivedere, effettivamente. Persino la Une era più in alto, nella lista delle mie simpatie. È anche vero che Sark mi ha salvato dall'amputazione della mano, ma il suo solo sguardo mi mette i brividi.

«Dai, Frankie, non farti pregare!» stava pregando Arale, a dispetto delle sue stesse parole.

«Ma che ti devo dire? Il suo patrigno è il presidente fondatore della Kaiba Corporation.»

«E che cazzo è?» ha domandato lei.

Frank si è liberato della sua morsa stritolante. «E con quella bocca baci tua madre?»

«A dire il vero non ci vediamo poi molto.» ha risposto Arale, alzando le spalle. «Dai, avanti, che è la Kaiba Corporation?»

«E' un'azienda che produce armi. La più grande industria bellica di tutto il Giappone. Costruisce i suit ed è tra le aziende finanziate direttamente dal Ministero della Difesa. È la Kaiba che fornisce i suit e tutte le armi che ci sono in questa caserma.»

«E cosa ci fa qui, suo figlio?» ho domandato, stupefatto.

«Beh, Seto, all'inizio, doveva ereditare l'impresa. La storia è lunga, ma ve la faccio breve: Gozaburo Kaiba, il presidente attuale dell'azienda, non aveva figli e quindi aveva pensato di adottare un ragazzino per istruirlo e farlo diventare il futuro Kaiba. Così ha trovato Seto. A quanto sembra, è un piccolo genio, tanto astuto da vincere una partita a scacchi per garantire che anche il suo fratello minore potesse essere adottato con lui.»

Arale ha sgranato gli occhi. «Oh, bello, alto e pure intelligente!» ha sospirato, languida. «E' la perfezione fatta persona.»

«E' una testa di cazzo.» ha ripetuto Alex.

«La perfezione?» ha domandato lei, perplessa.

«No, Seto Kaiba!»

Frank ha fatto un cenno per chiedere attenzione. «Non vuoi sapere come finisce, Arale?»

«Sì, certo.»

«Beh, qualche anno dopo aver adottato Seto e Mokuba, il fratello minore, la mogliettina di Kaiba gli sforna un figlioletto. Si chiama Noah, ma se devi parlare con Seto, non nominarglielo, perché gli sta sulle palle.»

Arale ha tirato fuori un taccuino da non si sa dove e ha segnato la cosa. «Bene, bene. E poi?!»

«Niente di che: Gozaburo ha deciso che doveva essere Noah il vero erede della Kaiba e ha relegato Seto in un angolino. Lo ha spedito in caserma per liberarsi di lui, o almeno così si dice nell'alta società. Secondo mio padre, invece, lo ha fatto per intenzioni non meglio precisate: Gozaburo non è uno che fa le cose per caso. Ha sempre uno scopo, ed è viscido come una serpe. Secondo me, Arale, dovresti fare attenzione a Seto Kaiba: potrà anche essere il rampollo decaduto, ma non devi dimenticare che è stato allevato da un uomo che, non appena ti volti, ti incula a sangue e che non si fa nessun tipo di problema a prendere e a dare mazzette, se questo gli servisse.»

«Ehi, Frankie, chi è che deve baciare sua madre, ora?» ha sogghignato Alex. «Lo sa, lady Kushrenada, che sei così sboccato?»

Frank gli mostrato il dito medio.

«Mazzette?» ha domandato, invece, Arale. Ho visto i suoi occhi saettare verso di me. «E ha contatti anche con la mafia?»

Frank ha annuito. «Si pensa proprio di sì.»

Arale mi ha lanciato un'altra occhiata eloquente e io, più in imbarazzo che mai, mi sono voltato verso l'autobus su cui mamma e papà hanno scaricato Pan. La mamma stava scendendo e si stava pulendo le mani l'una sull'altra con l'aria di non aver mai fatto niente di più soddisfacente in tutta la sua vita.

«Forse è meglio se ci scegliamo i posti...» ho detto. «Così stiamo tutti insieme.»

Alex era d'accordo con me. «Buona idea!» ha esclamato, con un sorriso. Poi ha preso Frank per le spalle. «Andiamo, amico, ho voglia di ascoltare tutte le parolacce che hai imparato durante questo periodo di lontananza. Poi ti insegno a fare il rutto più lungo del mondo!»

Stavo per seguirli, perché ero proprio curioso di sapere come si facesse a fare il rutto più lungo del mondo, quando Arale mi ha fermato tenendomi il braccio con entrambe le mani e mi ha costretto a girarmi verso di lei.

«Secondo te, come faceva Frank a sapere della mafia e di Gozaburo Kaiba, se lui stesso non è invischiato in queste cose?» mi ha chiesto, con aria severa.

«Arale... sono i miei amici e io mi fido di loro!»

«Beh, non dovresti! Lo vuoi sapere che cos'ho scoperto?» mi ha guardato a lungo, ma quando ha visto che non avevo intenzione di starle dietro, ha sbuffato. «Te lo dico lo stesso: sono stata a Tokyo, in questi giorni, e così sono andata in tribunale. Volevo scoprire qualcosa di più su come mai Alex è finito in prigione, ma sono troppo piccola per questo e così il tipo che custodisce gli atti mi ha mandata via, così sono tornata con mia cognata, sai, è una pettegola.»

«Sì, okay, ma...» mi sono guardato indietro. I nostri amici si erano allontanati senza curarsi di noi e Frank stava ridendo di una battuta di Alex. Avrei preferito di gran lunga essere con loro, in quel momento, non ascoltare le cattiverie di Arale. Mizar ha ragione: se io voglio stare con loro, e se mi fido di loro, non ho ragione di credere alle dicerie.

«Comunque... il punto è questo: Alex è qui perché gli hanno fatto uno sconto di pena. Proprio così: Kushrenada ha deciso che, invece che in carcere, avrebbe scontato l'accusa di rapimento in caserma. E poi senti che famiglia: il padre è un certo Robert Ramazza che sta in galera, ma nessuno l'ha più visto da anni, latitante probabilmente, senti quello che ti dico io; la madre è la tenutaria di un bordello che è entrata e uscita di galera non si sa quante volte, e i suoi fratelli, Martin e James, gestiscono un traffico di autoradio rubate. Se ne stanno a Tokyo, in un quartiere malfamato e anche loro vanno e vengono di prigione. Che te ne pare?»

«Mamma! Papà!» ho gridato e così ho evitato di rispondere che cosa me ne pareva, perché mi pareva solo che Arale fosse solo riuscita a gettare fango su Alex più di quanto non avesse fatto nel primo semestre.

I miei si sono accorti di me, ma per fortuna non di quello che mi passava per la testa.

«Oh, il mio bambino!» la mamma mi ha stretto e baciato ovunque tanto che, dopo, sembrava che una lumaca mi avesse camminato in faccia. È stato umiliante, oltre che disgustoso. Ho preferito l'approccio di papà: una pacca sulla spalla e un «Buona fortuna», all'umidità di mamma, che continuava a piangere. «E, mi raccomando,» mi ha detto lei, prima di lasciarmi andare. «prenditi cura di tua sorella... e di' alla cara lady Une di slegarla soltanto quando sarà ben sicura che non possa scappare... me lo prometti, tesoruccio della tua mamma?»

Mi sono limitato ad annuire: meglio non commentare, certe volte. Sono corso sull'autobus, dove Arale mi aveva tenuto un posto al suo fianco. Sfortunatamente, eravamo lontani da Alex e Frank che erano in fondo, insieme a Bra e alle sue tre amiche che li avevano separati in modo che non potessero stare vicino.

Mimi e Sora avevano incastrato Alex tra di loro e non sembravano troppo contente della cosa, mentre Bra giocava con i capelli tinti di azzurro e sorrideva, ammiccando, verso Frank che era così a disagio da stare talmente composto da sembrare un pezzo di legno.

Arale ha fatto una smorfia. «Non appena li hanno visti, li hanno agguantati.» ha spiegato. «Bra vuole fare la gattamorta con Frank... beh, che se lo tenga. Meglio, così abbiamo più tempo per noi.»

Ma io ho cercato Pan, che occupava due sedili e continuava a muoversi e a gridare attraverso il bavaglio di cuoio. Mi chiedevo se non fosse il caso di toglierglielo, quando Arale, notando la direzione del mio sguardo, ha aggiunto, come leggendomi nel pensiero: «Io la lascerei così. Lasciala sbollire. Tanto prima di arrivare in caserma si calma! Siediti, dai!»

Mi sono sentito un po' in colpa, ma che altro potevo fare? Se le avessi tolto quel bavaglio, forse mi avrebbe sbranato.

«Insomma,» ha continuato la mia amica, pronta a ricominciare a parlare dei nostri amici. «hai capito che bella famiglia che ha, Alex?»

«Sì, ma non c'entra niente con la mafia!»

«E cosa ne sai?» ha replicato lei, tutta offesa. «Robert Ramazza è latitante! Probabilmente tiene per le palle Kushrenada per qualche motivo. Secondo te, perché Alex sarebbe finito in caserma e non in un istituto di correzione, dove doveva stare?»

«Ma perché era piccino!»

«E perché Robert Ramazza lo tiene per...»

«E va bene.» l'ho interrotta. «Ma... non parliamone più. Sono nostri amici e non c'entrano niente con i casini dei loro papà, no?»

«Sarà... ma i figli finiscono per somigliare ai padri, si dice...»

«Mah, non saprei.»

«Nemmeno io, a dire il vero.» ha risposto lei, facendosi pensierosa. «Di certo, se lo fosse, il mio doveva essere davvero un coglione! Tu non hai idea di come sia mio fratello, certe volte! Per esempio, ieri...» e ha finito di raccontarmi una strana storia che la riguardava, secondo cui Sembei, il fratello di Arale, una volta, aveva tentato di costruire un robot femmina capace di sostituire una moglie in tutto e per tutto, anche per gli atti fisici, qualunque cosa voglia dire.

E, dopo mezz'ora di viaggio, quando ormai eravamo in autostrada e io credevo che si fosse dimenticata di tutta la faccenda di Alex e Frank, mi ha detto: «Comunque, ti capisco: per una buona copertura, non c'è niente di meglio che la segretezza. Se tu sapessi qualcosa, potresti tradirti e, in fondo, tu sei così incapace di mentire...» mi ha anche sorriso. «Ti appoggerò, Kenny. Fidati di me! Faremo in modo che non sappiano che noi sappiamo!»

«Sei senza speranza.» le ho risposto. E lei si è limitata a ridacchiare.



3 Gennaio


E' stato bello rivedere tutti gli altri, nella nostra vecchia camerata, prima di dirigerci a cena. Pacche e abbracci si sono sprecati, insieme con i racconti delle nostre vacanze. Tutti hanno fatto un sacco di cose divertenti e non me la sono proprio sentita di dire che il luogo più esotico che abbiamo visitato noi è stato il penitenziario. Solo Matt non ha partecipato: ha fatto in tempo ad arrivare che si è già sentito male e per Bra, Mimi e Sora che, non appena sono entrate, hanno detto: «Meno male che c'è Frank in questa classe, altrimenti sareste tutti degli sfigati!»

Alex le ha mandate a quel paese, soprattutto dopo che ha dovuto sorbirsi un intero viaggio senza che nessuna delle due amiche di Bra si fossero degnate di parlare con lui, anche quando lui ha provato ad attaccare bottone. Intanto Bra ha continuato ad appiccicarsi a Frank, ma dal mio posto non sono stata in grado di capire che cosa volevano e Alex era stato troppo impegnato a sbuffare e spazientirsi con quelle due per captare anche solo qualche parola e Frank, quando gli abbiamo chiesto, ha detto solo che erano tutte cazzate.

«Guarda, Ramazza,» ha risposto Bra. «non ti rispondo neanche. E tu, Iccijojji, l'hai liberata tua sorella?» e si è messa a ridere.

A liberare Pan, però, è stato l'autista, e questo mi ha permesso di evitarmi un livido e un occhio nero già il giorno prima dell'inizio delle lezioni. È stata calma, si è fatta togliere le catene e la pezza di cuoio dalla bocca e poi ha preso tutte le catene e le ha spezzate con la sola forza bruta. Peccato per il povero autista, che ha dovuto passare la notte in infermeria.

Quando è scesa dall'autobus, tutti le sono stati lontani. Quelli della nostra classe che hanno provato a salutarla, hanno ricevuto una sola risposta: «Muori.» con la variante per Joe: quando ha tentato di declamare un'ode al ritorno in caserma, Pan lo ha zittito con un: «Ma vaffanculo, coglione!»

Comunque, sono preoccupato per un altro motivo: le lezioni di chimica che sostituiscono teoria dei gradi e, quindi, anche lady Une. Ieri sera c'è stato un vero tripudio al nostro tavolo, quando abbiamo ricevuto i nuovi orari. A dire il vero, l'unica cosa che è cambiata rispetto al trimestre scorso è proprio teoria dei gradi, perché continuiamo ad avere attività fisica dopo colazione e dopo pranzo, e Jack Bristow alla prima lezione del lunedì. Continuiamo anche a fare geografia con la Noin.

«Con la Noia!» ha esclamato Alex, che ha preso una penna e ha modificato tutte le enne finali del nome della Noin e le ha sostituite con una a.

Pan se ne stava con le braccia incrociate davanti al petto e guardava la busta che le era stata presentata davanti al piatto con l'aria che quella fosse la causa di ogni suo male. Non ha neanche risposto a Ernesto Taylor che ha alzato un pollice entusiastico in mia direzione, e io non ho potuto fare molto altro che alzarlo a mia volta, molto meno convinto di quanto fosse lui. Dovrò chiedergli che ci trova in mia sorella, prima o dopo...

«Secondo me, è masochista.» ha dichiarato Alex, questa mattina, quando lo abbiamo visto passare, mentre cercava in tutti i modi lo sguardo di una furibonda Pan che, come ieri sera, non ha toccato cibo.

«Pan...» l'ho chiamata, e le ho messo dei corn flakes davanti. Dei problemi di Ernesto, in quel momento, non mi importava molto. Era molto peggio vedere Pan in quelle condizioni. «Devi mangiare qualcosa, oppure non riuscirai a seguire le lezioni, oggi.»

«NON ME NE FOTTE UN CAZZO DELLE LEZIONI!» ha gridato Pan, poi mi ha rovesciato la tazza coi corn flakes sulla testa e questi mi sono svolazzati davanti agli occhi a mo' di fiocchi di neve. A dire il vero, è un grande paragone, perché ancora mi chiedo come al soffitto non siano attaccate delle stalattiti di ghiaccio, per quanto fa freddo, in questa caserma. Prima della fine delle lezioni avevano sicuramente spento i riscaldamenti, ma adesso sembra si siano dimenticati di riaccenderli.

La Une, benché metà del nostro tavolo e metà di quello dietro, si fosse voltato per guardare nella direzione di quello degli insegnanti, sembrava troppo presa dalla sua discussione con Sark per rendersi conto di qualunque altra cosa.

«Già, già...» ha risposto Arale, pronta a scacciare la questione. Ha preso dei corn flakes dalla mia testa e se li è piazzati in bocca senza troppe cerimonie. Si è girata dall'altra parte. «Allora, Alex, dicci un po', chi è l'insegnante di chimica?»

Frank si è chinato su di me. «Scommettiamo che non lo sa?» mi ha chiesto, piano.

Io non ho detto niente, dubbioso, ma quando il nostro amico ha guardato verso il tavolo degli insegnanti, ha sollevato le spalle e Frank è scoppiato a ridere, mi sono dovuto ricredere.

«A me la chimica faceva schifo anche alle elementari. Ci cappa cappa, acca ci elle... ma che cazzo è? Se vuoi chiamare una cosa con un nome, perché gli devi dare delle abbreviazioni e metterle in quelle tabelle periodiche? Ma perché periodiche, se poi non si ripete niente? Cioè, capite? E poi... vogliamo parlare dei laboratori di chimica? Ce n'è uno grosso, qui, a questo piano, dietro gli hangar di volo ed pieno di roba strana, cartine che non si possono fumare e che si colorano se ci metti sopra le cose... e quindi non ho mai seguito neanche questo corso...» ci ha spiegato, tutto d'un fiato. Sembrava demoralizzato. «Se penso che quest'anno devo pure seguire e devo passare, se voglio passare all'anno successivo... che palle, ragazzi, non ci voglio stare un altro anno, al primo.»

Arale gli ha dato una pacca sulla spalla. «Dai che non è così difficile come sembra!» ha cercato di tirarlo su di morale. Mi chiedo come fa a fare finta così bene, se non si fida di lui.

«Sì, ci daremo una mano a vicenda.» ha annuito Frank. «Come abbiamo fatto lo scorso trimestre.»

«Eh... sì, intanto dicono che l'esame di chimica, alla fine dell'anno, è il più difficile e che quella che lo insegna è più troia della Une.» il nostro amico Alex era proprio giù. «No, ragazzi, tanto ho capito che anche quest'anno mi tocca vedere il mio nome tra i bocciati!»

«E dai, Alex, non essere così pessimista! Lo scorso trimestre hai preso dei buoni voti!» gli ha fatto notare Arale.

«Sì, ma quanto pensi che dura? Anche l'anno scorso ho preso qualche buon voto, eppure... guardami qua!»

«L'anno scorso la Une ti ha messo mai un sei?» gli ha domandato Frank.

«No, ma che c'entra? Lei è una e gli insegnanti sono tanti!»

«Da quello che so, alla fine è lei che ha l'ultima parola.»

«E poi magari non andrà male. Dai, Alex.» l'ho consolato anch'io, ma lui ha alzato le spalle.

«L'anno scorso non hai seguito un cazzo!» ha esclamato Arale. «Quest'anno, invece, non hai saltato un giorno.»

«Infatti.» ho annuito.

Alex non ha risposto. Era proprio inconsolabile, questa mattina.

Mi sono girato verso Pan, allora, per vedere cosa ne pensasse lei, ma era semplicemente scomparsa. L'ho cercata nella sala e l'ho vista che si allontanava verso l'uscita.

Mi sono alzato anche io, allora. «Ci vediamo dopo dal Salvini.» ho detto e le sono corso dietro. «Ehi, Pan!» l'ho chiamata, ma non mi sono stupito, quando lei ha semplicemente continuato a camminare come se niente fosse stato. Tipico, ho pensato, però, ho continuato ad andarle dietro correndo finché non sono riuscito a raggiungerla. Stava direttamente uscendo dalla porta principale, dalla quale eravamo rientrati dopo l'alzabandiera. Lei si era presentata con tutti gli altri, ma non ha cantato neanche una nota e, anzi, ha avuto lo sguardo perso nel cielo ancora scuro per tutto il tempo. «Pan, dove stai andando?» ho insistito. «Tra poco iniziano le lezioni!»

Fuori faceva più freddo che dentro.

Lei si è fermata e si è girata verso di me. Mi guardava in cagnesco. «Non mi rompere il cazzo, paramecio. Torna dentro a fare le tue belle lezioni, se ci tieni tanto. Io devo fare una cosa e, se tu provi a fermarmi, io ti spacco il culo. Con un tubo di ferro, hai capito?»

«Ma, Pan...» ho insistito, cercando di scacciare con forza dalla mia mente l'immagine del tubo di ferro nel mio deretano.

«Ma Pan un cazzo!» ha sbraitato lei. «Io non ci volevo tornare qui! Io volevo andare da nonno Satan e non me ne frega una sega se tu sei la spia della mamma e le vai a dire che io qui non ci studio! Non ci voglio stare! Io non ce li passo i sette anni più bella della mia vita qua dentro! Io voglio picchiare la gente, non diventare un fantoccio da sacrificare a una fottuta causa che non so quale è! Quindi, adesso, fottuto paramecio, se non te ne vai, io ti frantumo i coglioni!»

«Ma cosa vuoi fare? Dimmi almeno questo! Non c'è modo di scappare da qui, Pan! Siamo nel bel mezzo del nulla! E se lo fai ti riprendono e ti spediscono di fronte a un giudice! Dai... la mamma ci rimarrà male!»

«ME NE SBATTO IL CAZZO!»

Ho sospirato. «E allora che cosa vuoi fare?»

Lei mi ha scoccato un'occhiata torva. «Non hai detto che qui ci sono dei cosi che volano?» ha detto, dopo un po', come se fosse stata una domanda retorica. «Prenderò uno di quelli, così me ne torno da nonno Satan e, se qualcuno prova a fermarmi, gli sparo un colpo.»

«Cosa?» per un attimo, sono rimasto disorientato, ma quell'attimo è bastato perché lei se ne andasse nella direzione che aveva guardato per tutta la durata dell'alzabandiera. «Pan! Non puoi andare da quella parte! Non puoi rubare un Mobile Suit!»

Lei non mi ha detto perché poteva farlo o perché no. Si è semplicemente girata e mi ha mandato a fare in culo con un gesto del braccio. Ho capito che l'avrebbe fatto comunque, che io fossi stata con lei che se me ne fossi andato. Così ho preferito andare con lei, così avrei potuto fare opera di convincimento strada facendo. Lei si era già voltata, quando ho fatto il primo passo.

«Seguimi e ti strappo la faccia!» mi ha minacciato. E ha cominciato a correre verso gli hangar di volo, dove si trova anche Pioggia di Fuoco. Comincio a pensare che quella storia raccontata da Kenpachi le sia piaciuta più di quello che pensavo.

«Ma Pan!»

«Kenny?» si è voltata e ha sfoderato i suoi pugni. «Se non vuoi che ti mandi in infermeria e farti mettere una nota dalla tua adorata Une, perché non te ne vai? Vedi che se ti ostini a seguirmi, ti faccio saltare tutti i denti e ti strappo la faccia. A morsi.»

Ammetto che la cosa mi ha inquietato più del tubo di ferro nel sedere, ma so anche che Pan è bravissima a mantenere le promesse. Abbiamo continuato a fissarci per un po'. Non so a cosa pensava lei, forse al punto migliore per cominciare a mangiarmi la faccia, ma io pensavo a come fermarla senza andare a denunciarla ad un insegnante. Ho pensato a tutti, da Sark a Zack Marquise... ma sapevo che il risultato sarebbe sempre stato lo stesso. No. Sapevo da chi dovevo andare. Così ho fatto dietrofront.

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Capitolo 20
*** Pan vuole scappare... e Arale non vuole mollare ***


Le lezioni al primo anno.

Pan vuole scappare... e Arale non vuole mollare.



Sono arrivato nello spogliatoio dove gli altri si stavano cambiando. Alex era ancora in mutande e, piuttosto incavolato, stava parlando di Bra. «Io te lo dico, Frankie, quella lì ti vuole dare una bella ripassata di anatomia. È da ieri che ci prova. Ancora un po' e ti si presenta nuda nella doccia!»

«Ma noi non studiamo anatomia.» ha commentato Matt. Avrei obiettato anch'io così, se non fosse stato che avevo il fiatone e avevo un problema più urgente.

Alex, però, non si è accorto di me e si è girato verso Matt. «Ishida, rubi le battute a Kenny?» e, a dispetto del suo malumore, ha cominciato a ridere. «Te lo ricordi, Frank? Ma che vuol dire limonare? Ah, è troppo divertente! Ah, Kenny, sei qui!» ha aggiunto, quando mi ha visto. «Dov'eri finito?»

«Già, non vorrai arrivare in ritardo alla prima lezione!» ha esclamato Trowa, con una certa severità.

Ho dovuto fare altri due profondi respiri prima di poter parlare: «Pan!» è stato tutto ciò che ho esclamato, con una certa agitazione, ma gli altri non hanno colto. Hanno improvvisamente perso interesse, come se avessi disatteso tutte le aspettative. «Pan sta andando a rubare un Mobile Suit!»

Trowa ha alzato la testa, Alex che stava indossando i pantaloncini si è fermato, Frank si è fermato con la mano sullo sportellino dell'armadietto e ha girato la testa guardandomi da sopra il braccio. Matt non ha dato segno di vita, gli altri hanno interrotto l'annodamento delle stringhe delle scarpe da ginnastica. Poi sono scoppiati tutti a ridere contemporaneamente. Alex era quello che si stava divertendo di più: si è piegato su se stesso e ha cominciato a battersi il palmo della mano sul ginocchio.

«Ma... ma...» ero senza parole. «Ragazzi!» li ho richiamati. «Pan sta per rubare un Mobile Suit!»

Alex ha dovuto aspettare che la crisi di risate gli passasse per venire verso di me. Mi ha dato una pacca sulla spalla e, ancora ridacchiando, si è tolto una lacrima dall'angolo dell'occhio. «Sei uno spasso, amico mio!»

«Oh, Iccijojji, ma secondo te dove lo va, tua sorella, a prendere un Mobile Suit?» Trowa aveva un sorriso che somigliava di più ad un ghigno e mi parlava come se fossi un completo cretino.

«Sta andando verso l'hangar!» ho gridato. Mi sembrava importante far capire la gravità della situazione, ma tutti avevano quello strano sorriso, come se li stessi prendendo in giro. «Ha detto che vuole scappare e che sparerà chiunque provi a fermarla!»

Alex si è passato le mani sul viso, secondo me per riprendere contegno, più che per vera disperazione.

«Dobbiamo fare qualcosa! Se non facciamo qualcosa, rischia di essere espulsa! Ragazzi! »

Tai ha sogghignato. Joe, invece, ha sbuffato. «Non sarebbe male, sai?» ha detto. «Finalmente ci libereremo di quella maniaca che non capisce niente di arte!»

«Ma se facesse del male a qualcuno...» ho insistito.

Frank era l'unico che era rimasto più serio di tutti ed è stato lui a parlare: «Ken, qui dentro le mura dell'accademia non ci sono Mobile Suit funzionanti. Gli hangar di volo sono più che altro delle officine dentro cui si aggiustano i Mobile Suit, figuriamoci se li tengono, dove ci sono gli alunni. Ci fanno lezione gli ultimi anni. Pensi che Pan potrebbe, anche con tutta la buona volontà, e avendo anche la fortuna di trovarne uno funzionante, prenderlo così o saperlo manovrare? Ci vogliono anni di addestramento per guidare uno di quei cosi. Io starei tranquillo, fossi in te, e mi cambierei per la lezione.»

Mi sono grattato la nuca, dubbioso. «E se lei ci riesce?» mia sorella mi ha sempre stupito. Non c'erano motivi per cui non potesse avere la fortuna di trovare un Mobile Suit funzionante, pronto per tornare ai depositi dove stanno le armi che vanno, e di azionarlo in qualunque modo. E non tanto per farlo volare, o qualcosa del genere, ma perché potrebbe innescare un'esplosione e andarci di mezzo anche lei. «E se lo trova?»

«Senti, se riesce a trovare un Mobile Suit che funziona» ha detto Alex. «e lo aziona in qualunque modo, io vado nudo nell'ufficio della Une. Te lo giuro. E poi vado a baciare la Noia sulla bocca.»

Non mi ha consolato. E vedere gli altri che annuivano e fischiavano la loro approvazione non mi ha fatto per niente piacere. Ho spinto via il mio amico che mi sbarrava l'uscita e ho cominciato a correre in direzione dello spogliatoio delle ragazze: se c'era una cosa di cui ero sicuro era che Arale non mi avrebbe riso in faccia come i ragazzi.

E il destino, una volta tanto, mi ha favorito. Proprio mentre stavo per imboccare il corridoio che portava allo spogliatoio, le ragazze mi sono comparse davanti, tutte in pantaloncini e maglietta. Bra stava bevendo da una borraccia e, proprio mentre stava per riporla, invece di coprirla col tappo, se l'è versata sulla maglietta. Poi ha cominciato a gridare come un'isterica, e Mimi e Sora lo hanno fatto subito dopo di lei. «Accidenti come sono sbadata!» ha gridato Bra. «Adesso guarda qua! Mi si vede tutto il reggiseno! Sembro nuda!»

In effetti, era vero: tutta l'acqua era finita sulle sue tette e potevo vedere benissimo il suo reggiseno di pizzo. Mi sono chiesto per un attimo perché gridasse tanto, quando era stata lei a buttarsi addosso l'acqua del tutto consapevolmente, ma poi l'ho scartata e ho visto Arale che stava arrivando con l'aria più annoiata che mai.

Ha lanciato un'occhiata storta a Bra e poi, vedendomi, mi ha sorriso. «Kenny, che faccia! Che ti è successo? E perché non ti sei ancora cambiato? La lezione...»

«Pan è andata a rubare un Mobile Suit!» ho gridato, tutto d'un fiato, tanto che anche Bra e le sue amiche hanno smesso di gridare per la maglietta bagnata.

Arale ha inarcato le sopracciglia. Non era la reazione che mi aspettavo: credevo che mi avrebbe travolto come il solito uragano che era e mi avrebbe detto che non avevamo un minuto da perdere. Invece, del tutto tranquillamente, mi ha chiesto: «E dove l'avrebbe trovato un Mobile Suit da rubare?»

«Ma non capisci?» ho gridato. «Perché nessuno vuole ascoltarmi? Pan sta andando all'hangar di volo a rubare un Suit!»

«Chi sta andando a rubare un Suit?» la voce del Salvini seguita da tutta la sua persona era proprio l'ultima cosa che mi sarei mai aspettato. Non volevo coinvolgere i professori, ma ormai era cosa fatta. E i ragazzi stavano uscendo dallo spogliatoio, pronti. Alex aveva ancora i lacci delle scarpe sciolti.

«Ma niente, professore!» ha esclamato. «Kenny è convinto che sua sorella possa rubare un Suit solo perché lei gliel'ha detto. Ma ha presente Pan Iccijojji, no?»

Il Salvini ha corrugato la fronte. «E' proprio perché ce l'ho presente che mi preoccuperei, se non fosse che non è successo niente.» poi ha guardato me e mi ha sorriso con la bonarietà che lo contraddistingue. «Tranquillo, giovanotto, i Suit della base sono super sorvegliati, e poi quelli interni all'accademia sono pochi e tutti quanti in fase di riparazione. Penso che vi ci faranno fare un giro l'anno prossimo, col professor Marquise, per Materiali per la Costruzione di Macchine. E poi quelli in riparazione vengono chiusi tutte le notti negli hangar, e gli viene anche tolta la batteria. Questioni di norme di sicurezza. Quando hanno finito di essere aggiustati, vanno al deposito, con un camion. Non prendono mai il volo e, speriamo, non debbano farlo tanto presto. Vai a cambiarti, dai, e cominciate a fare qualcosa.»

«Ma...»

«Sbrigati o mi costringi a metterti una nota! Non mi va di fare la parte del professore cattivo.»

Così sono entrato nello spogliatoio sbottonandomi svogliatamente il colletto della camicia e mi sono seduto su una panca di fronte al mio armadietto. Mi stavo slacciando la scarpa destra, quando mi sono messo a riflettere sulla storia dei camion: quanto avrebbe potuto metterci Pan a salirci su e nascondersi finché il Suit non fosse stato portato nel suo deposito, funzionante e anche corredato di batteria? E in cosa consisteva la sorveglianza speciale di cui parlava il Salvini?

Non ho resistito: ho riallacciato in tutta fretta la scarpa e, senza riabbottonarmi il colletto della giacca della divisa, mi sono diretto correndo e senza indugio verso l'uscita principale. Avrei salvato Pan, a qualunque costo. E da solo.


Mi sono diretto agli hangar insieme ad un gruppo di ragazzi del terzo anno che stavano andando a fare lezione. Non si sono accorti di me, e neanche Sark, il professore di fisica subacquea che li stava accompagnando. Anche perché eravamo tutti una massa di divise nere e io sono anche abbastanza piccolo per passare inosservato.

Sono sgusciato via quando loro hanno svoltato verso l'aula di fisica, verso l'hangar 14, dove sta Pioggia di Fuoco. Ero sicuro che le altre officine non potessero essere lontane, anche perché anche il Suit che mi ha fatto vedere Zack Marquise si trovava proprio lì. Immaginavo che, dopo aver sentito la storia, Pan non avesse potuto resistere all'idea di vederlo con i propri occhi. Così è là che sono andato e, proprio come l'altra volta, c'era Pioggia di Fuoco collegato a fili e gente che lavorava con la sega e la fiamma ossidrica nel petto del grande Suit bianco.

Le pedane a ridosso delle pareti erano di freddo metallo e in alcuni punti erano prive di balaustra, lì dove, ho intuito, ci dovranno essere alloggiati i Suit che devono essere sistemati, ma mettevano comunque una certa paura perché si trovavano ad un'altezza considerevole e cadere da lì non sarebbe stato indolore.

Ho tentato in tutti i modi di scacciare dalla mente Pan che cadeva da lassù e ho cercato di convincermi che non avrebbe potuto penetrare lì dentro senza che nessuno se ne accorgesse: tutti avevano delle tute da lavoro grigie con il simbolo dell'aquila stampata sul petto ed erano per la maggior parte uomini adulti, quindi immaginavo che una ragazzina in nero sarebbe spiccata molto più del necessario.

Non credevo nemmeno sarebbero stati tutti così calmi e tranquilli a lavorare e a guardare i progetti che, forse, erano gli stessi che avevo visto anch'io quando Marquise mi ha portato a vedere Pioggia di Fuoco, all'inizio dell'anno, se ci fosse stato un estraneo. Eppure, mi dico solo adesso, quella gente che lavorava avrebbe potuto sbattersene altamente di chi entrava. In fondo, è un'accademia militare e come tale ci sono un sacco di ragazzi che vanno avanti e indietro.

Ma in quel momento, l'assoluta mancanza di altri Suit e di buchi o armi spianate mi ha persuaso che Pan non doveva essere lì, così mi sono limitato ad andare altrove.

Mi sono avvicinato al capanno che più probabilmente lei avrebbe scelto: quello con la serranda abbassata e una porta laterale, dove, su entrambe, c'era scritto: “Vietato l'ingresso ai non addetti”. Mi ero convinto che Pan dovesse essere stata attirata dallo stesso cartello, però, memore della casa degli specchi alle giostre, mi sono sentito un po' dubbioso.

Comunque mi sono avvicinato. La porta era bloccata e, per sbloccarla, serviva un badge che, ovviamente, non avevo.

Così mi sono guardato intorno. Non stava passando nessuno e sembrava che nessuno mi avesse intenzione di cercarmi. Mi chiedevo solo che cosa sarebbe successo se qualcuno mi avesse beccato a gironzolare lì intorno e che cosa avrei potuto raccontare. Cominciavo a pensare che dire la verità avrebbe attirato solo altre risate su di me.

Mi sono infilato tra il capanno misterioso e un altro, uno stretto vicolo in cui non batteva il sole e faceva più freddo che mai. Mi sono stretto nelle spalle e sono arrivato in fondo. Lì, ho visto che c'era solo un altro capanno, però aveva finestre e una porta chiusa.

La finestra era aperta, per cui mi sono avvicinato tenendomi accucciato e ho sbirciato all'interno. Era una classe, corredata di banchi, lavagna e cattedra. Il professore era di fronte a questa e scriveva con un gesso alla lavagna.

Era Sark.

«E come, mi auguro, avete studiato a meccanica razionale, per indicare il movimento in un fluido viscoso, bisogna inserire nell'equazione di Newton il coefficiente beta...»

Mi sono allontanato, confuso abbastanza da quella sequela di parole incomprensibili. È stato allora che sono andato a sbattere contro qualcosa che mi ha mandato a gambe all'aria. Ho chiuso gli occhi, quando ho visto una mano grossa come un elefante avvicinarsi pericolosamente veloce alla mia faccia. Pensavo che mi avrebbe staccato la testa, invece mi ha solo preso per la giacca, all'altezza della spalla e mi ha trascinato via, all'ombra.

Ero pronto a vender cara la pelle, quando, socchiudendo gli occhi, ho visto la bandana arancione della mia sorellona presentarsi davanti ai miei occhi. «Ah, ma allora non ci tieni alla tua faccia!» mi ha apostrofato. «Beh,» ha detto, dopo averci pensato un po'. «al tuo posto, non ci terrei neanch'io.»

«Pan!» ho esclamato, sollevato. «Ti cercavo!»

«Ma va'!» ha risposto lei, sarcastica. «Pensavo volessi ascoltare la lezione di quel torturatore di Sark, guarda.»

Ero così felice di vederla che mi sarei gettato tra le sue braccia, se lei non mi avesse spinto di nuovo contro il muro.

«Ma che cazzo fai?» mi ha domandato. «Non mi toccare con quelle manacce!»

«Per un attimo ho pensato che volessi Pioggia di Fuoco!» le ho confessato, sollevato che non lo avesse fatto.

«Ma chi? Quel rottame? Ne cerco uno che funziona, razza di cretino che non sei altro! Però devono essere tutti in quel posto chiuso a chiave...» ha fatto un cenno verso il capanno chiuso. «Devo entrarci.» ha specificato, guardando con desiderio verso l'ingresso.

«Ma non si può!»

Pan ha arricciato le labbra. «Grazie al cazzo. Per questo devo prendere il badge della Une!»

«Il badge della Une?» ho ripetuto. Quella faccenda cominciava a farmi venire i brividi.

«Pezzo di scemo!» ha risposto lei, piena di disprezzo. «La Une è la direttrice, sicuramente avrà i privilegi di accesso più alti. Non li guardi mai i film d'azione?»

A dire il vero non avevo pensato ai film d'azione. I film sono l'unica cosa che non mi passano quasi mai per la mente, anche perché quando ho a che fare con la realtà, per esperienza personale, so che non andrà mai come in un film, dove i protagonisti si salvano sempre. E io so una cosa: se prendiamo il badge della Une e qualcuno ci scopre in un'area non autorizzata, ci crivella di colpi e butta i nostri cadaveri ai cani. «Pan... torniamo dentro, qui fa freddo... e poi se perdiamo la lezione con quella nuova sono guai! Hai sentito che Alex diceva che è difficile!» ho tentato, ben sapendo che avrei dovuto sudare sette camicie per convincerla.

Invece Pan ha sbuffato e mi ha lasciato di stucco quando ha detto: «Sì, va beh, andiamo.» e poi ha aggiunto: «Tanto dopo abbiamo la Une, no?» cosa che mi ha fatto capire il vero motivo per cui si è arresa praticamente subito. Avevo i brividi.

«Ehm... sì.»

Lei ha sorriso in modo inquietante. «Ottimo. Muovi quelle chiappe flaccide che ti ritrovi.» e, senza aspettarmi, si è diretta a passo spedito verso la caserma.


Quando sono entrato in classe, nell'aula 20 dove facevamo anche teoria dei gradi, tutti sembravano particolarmente eccitati all'idea di cominciare con la chimica. Trowa parlava con Tai Yagami e Arale dei libri di testo più buoni per prepararsi ad un corso di questo tipo, mentre Bra si era seduta vicino a Frank e si stava contemporaneamente sistemando i capelli e parlando con lui. Le sue amiche erano lontane, qualche posto più indietro e ridacchiavano tra di loro mentre guardavano la loro amica.

Gli altri sembravano tutti sfiancati. Mi sono chiesto che cosa avesse fatto fare loro il Salvini per renderli così poco reattivi a quell'ora di mattina. È anche vero che erano le nove ed eravamo svegli dalle cinque, però doveva essere stata un'ora difficile, quella passata, se già stavano in quelle condizioni.

«Ehi, Kenny!» non appena Alex mi ha visto mi ha fatto un cenno per dirmi di sedermi accanto a lui.

«Sì, arrivo.» gli ho detto, però ho raggiunto Pan che era all'ultimo banco con l'aria annoiata. «Pan, non puoi prendere il badge della Une!» le ho detto, senza preamboli. Lei, come risposta, si è infilata il mignolo nell'orecchio e ha cominciato a ruotarlo prima da una parte e poi dall'altra. Poi lo ha tolto, ha guardato, si è impastata il cerume sul polpastrello e si è girata verso di me, sorridendomi con un fare innocente che non avrebbe convinto nessuno.

«Hai detto qualcosa, Kenny?»

Ho sospirato. Mia sorella mi ha fatto un cenno per dirmi “sciò”.

«Vai, vai dai tuoi amichetti fottuti, vai.»

Ho fatto quello che diceva. Tanto è inutile parlare con lei, certe volte. Mi sono seduto di fianco ad Alex e mi sono girato verso di lui, sporgendo poi un braccio sul banco vuoto dietro al mio.

«Ah, eccoti!» mi ha detto il mio amico, con un sorriso incoraggiante. «L'hai ritrovata, alla fine, eh?»

Ho guardato Pan e poi di nuovo lui, preferendo non rispondere. «Salvini mi ha messo una nota?»

Alex ha alzato le spalle. «Ma figurati! Non si è manco accorto che non c'eri! Quello non si accorge se gli casca il parrucchino e si accorge che mancavi tu? Kenny, sii realistico!»

«Salvini porta il parrucchino?» ho chiesto, impressionato.

«Sì, oggi gli è caduto e ci ha anche camminato sopra un paio di volte, prima di rendersi conto che aveva freddo alla testa e... dai, non fare quella faccia! A volte capita di essere pelati!»

Ma io non stavo facendo una faccia strana per i capelli del Salvini: stavo guardando Bra che si era tolta la giacca della divisa e si era sbottonata i primi tre bottoni della camicetta, facendo sì, di nuovo, che si vedesse bene il reggiseno. «Oggi fa un caldo, vero, Frank?» e intanto si sventolava con le mani. Lui sembrava trovare sempre più interessante la punta delle proprie dita che lei.

Mi chiedo perché si comportasse così. Gli ha dato fastidio per tutto il giorno e stasera ci ha anche confessato che aveva paura a tenere la porta aperta, perché lei poteva entrare a violentarlo.

«Perché a me queste cose non capitano mai?» ha domandato Alex, incredulo.

«Perché non ti lavi, ecco perché! E perché sei uno sfigato pazzesco.» ha risposto Bra, sporgendosi davanti a Frank, poi è tornata a guardare lui, con un sorriso stucchevole. «Pensavo che oggi pomeriggio potremmo studiare insieme, che ne pensi? Non ho proprio capito le derivate e mi hanno detto che il programma si sta facendo ancora più difficile. Che ne pensi, Frank? Invece di fare ginnastica, dopo mi dai qualche ripetizioncina?»

«Ehm... non credo... non credo che...»

«Tutti in piedi! Saluto!» ha gridato una voce sconosciuta, la proprietaria della quale poi ha anche sbattuto la porta dell'aula. Frank ha tirato un sospiro di sollievo. «Non ho mai visto una classe più indisciplinata della vostra!» e questo perché Bra si è rivestita in tutta fretta prima che la professoressa potesse girarsi e guardarci bene in faccia. Poi mi chiedo che cosa avrebbe detto di noi e sulla nostra disciplina. Il bello è che, quando ho guardato la mia compagna di classe, aveva anche l'espressione più innocente del mondo, come se non si fosse mai spogliata.

In classe, comunque, era calato un lungo e teso silenzio. La professoressa, una donna alta e bionda vestita dello stesso blu della Noin, con le sopracciglia diramate come quelle di Frank e del generale, aveva lo sguardo glaciale di un assassino su commissione. Se la Une metteva soggezione, lei era probabilmente la versione femminile di Sark.

«Mi chiamo Dorothy Catalonia.» ha dichiarato, con voce forte e sicura, con l'aria di provare un certo orgoglio per il suo stesso nome.

Ho sentito Alex che borbottava qualcosa come: «Ti prego, no.», come se stesse provando paura, per qualche motivo. Non mi sono girato a guardarlo solo perché la Catalonia guardava nella nostra direzione.

«Sono la vostra insegnante di chimica, una materia molto importante per la vostra formazione e che, nel corso della vostra carriera militare e di studi vi servirà per affrontare molte delle materie che studierete nei prossimi anni. Perciò, insieme a matematica, algebra e geometria, che studierete in questa parte dell'anno, sarà fondamentale per passare al secondo. Il suo peso sarà pari al trenta percento del totale delle prove, matematica e algebra costituiranno il quaranta percento e il restante trenta percento tutte le altre materie, quindi storia, geografia e attività motoria. Come futuri soldati e potenziali costruttori di Suit, o addirittura progettisti, mi aspetto il massimo da ognuno di voi, perciò se i vostri voti saranno inferiori a sette decimi, frequenterete delle lezioni aggiuntive il sabato pomeriggio, questo finché non raggiungerete una preparazione sufficiente. Questo significa che il sei è da considerarsi insufficiente.»

Questo ha sollevato molte proteste da parte della classe, soprattutto da parte di Alex. «Ma professoressa!» ha detto, alzando la voce sopra le altre e così facendoci tacere. «Il sabato lo usiamo per studiare quello che non abbiamo potuto durante la settimana! Abbiamo lezione tutti i giorni fino alle sei del pomeriggio! Come facciamo a venire anche alle lezioni aggiuntive?»

«Per evitarle, basta che vi impegnate al massimo. E ora aprite i quaderni, cominciamo immediatamente la lezione.»

«Ehm, mi scusi?» Arale ha alzato la mano.

La Catalonia l'ha incenerita con lo sguardo. «Un'altra regola che imparerete molto presto» ha dichiarato. «è che io detesto essere interrotta quando parlo. Per cui, qualunque siano le domande che avete da fare, se avete dei dubbi su quello che dico e non vi è chiaro, appuntatevelo da qualche parte sul quaderno e, quando avrò finito la lezione, sarò disponibile a fugare i vostri dubbi. Quindi, alla fine di ogni lezione, mi riserverò dieci minuti per rispondere ad una domanda ciascuno, per chi ne avrà. Tutto chiaro? Quindi lei, soldato, qualunque sia la sua domanda, può aspettare fino a fine lezione. Aprite i quaderni. Cominciamo con le definizioni fondamentali.»

Ho visto Arale, scontenta, perdere il suo consueto sorriso e rivolgere una smorfia alla schiena della Catalonia, la quale aveva preso un gesso e ha cominciato a tracciare strani simboli alla lavagna.


«Io lo sapevo.» ha detto Alex, quando la Catalonia è uscita dalla classe. Sarebbe arrivata la Une, di lì a poco, e quindi quelli di noi che non avevano preso i soliti posti dell'inizio dell'anno, si sono dovuti spostare. Persino Bra, ma l'ha fatto a malincuore, perché, sospirando, ha detto “a presto, Frank” e si è dileguata tra le sue due amiche. Frank non se l'è presa e penso che neanche l'abbia sentita, perché stava dando retta al nostro amico. «Lo sentivo... è il suo nome!»

«A fare cosa?» ha replicato Arale, scontenta, buttandosi al mio fianco. «Le volevo solo chiedere quando ci sarebbero state le esercitazioni in laboratorio! Era una cosa che interessava tutti e hai visto che cosa ha fatto alla fine, quando nessuno ha osato farle una domanda su quello che ha spiegato? Ha ripreso a spiegare, perché nessuno aveva domande! Piuttosto che chiederle qualcosa, mi cavo un occhio, la prossima volta.»

«Possiamo chiedere a qualcuno del secondo anno.» ha proposto Frank, con un sorrisetto. «Dato che Alex non ha la minima idea di come funzioni.»

Lui ha alzato le spalle. «Senti, Frank, io sarei per non seguirla proprio, questa materia! Non mi piace, lo sai... e non mi piace neanche quella, se devo proprio dirtela tutta. E il suo nome mi dà i brividi.»

«Perché?» ha voluto sapere Arale, sconcertata.

Alex si è agitato sulla sedia. «Beh... sapete chi è Dorothy, no?» abbiamo tutti scosso la testa. Lui ha continuato, a malincuore: «E' la protagonista del mago di Oz. Io odio il mago di Oz. È la storia più inquietante che abbia mai sentito... voglio dire, quella storia delle scarpe e poi l'uomo di latta che vuole il cuore e poi quegli altri... secondo me, il mago di Oz era un trafficante di organi e Dorothy una pazza assassina che ha ammazzato la strega del nord per un paio di scarpe... e quindi ogni volta che sento il nome Dorothy io vado fuori di testa!»

Abbiamo guardato Alex per alcuni secondi, credo per assimilare la notizia. Poi, senza che ci fossimo accordati, ma con una sincronia inquietante, siamo scoppiati a ridere senza ritegno.

«E dai! Non ridete! È una cosa seria!» protestava il nostro amico.

Frank era quello che rideva più di tutti. Probabilmente se non ci fosse stato il banco di fronte a lui sarebbe crollato a terra e si sarebbe rotolato di qua e di là e questo ci ha fatto ridere ancora di più. Alex, invece, se l'è presa, perché si è stretto nelle spalle e, con la fronte corrugata, ha borbottato: «Begli amici!»

In quel momento, è arrivata la Une. Sembrava incazzata già di primo mattino e vedere noi che ridevamo, forse, non ha contribuito a renderla più ben disposta nei nostri confronti. Proprio il modo migliore per cominciare il trimestre. Ma l'idea di Alex che aveva paura della storia del mago di Oz era così divertente che ci ha accompagnato con le risate durante il pre-lezione, durante il quale la Une ha guardato il registro, controllato le materie che avevamo avuto e detto qualcosa a proposito di quello che saremmo andati a studiare. Ho cercato di smettere, ma i miei tentativi erano inutili e anche premere le mani davanti alla bocca ha avuto lo stesso effetto di un bicchiere d'acqua per fermare la febbre. Arale era piegata in due, Frank cercava di nascondersi sotto il banco, con scarso successo e questo contribuiva a farci ridere più che mai.

«Norimaki, Iccijojji, Kushrenada, vorreste essere così gentili da mettere a parte pure noi dei motivi per cui state ridendo?» ha chiesto la Une, arcigna.

Non ce l'abbiamo fatta.

«N-niente, lady Une.» ha balbettato Arale, dopo un po'.

«C-ci scusi.» Frank si è passato una mano sotto gli occhi. Aveva le lacrime.

«Non ci vedo niente di così divertente. Smettetela o sarò costretta a mettervi una nota.»

Forse è stato per la nota, ma la ridarella è finita in un secondo. Ho inspirato più volte, ma avevo sempre un mezzo sorriso idiota stampato sulla faccia. Ho cercato di non guardare Arale o uno degli altri perché altrimenti sapevo che avrei ripreso.

Ma quello non ha dato fastidio alla Une, perché, anche se mi ha scoccato un'occhiata assassina, ha ripreso a guardare il libro di testo. «Come dicevo, abbiamo svolto gran parte del programma. Adesso dobbiamo solo finire di parlare di alcuni trattati tra Terra e Colonie e poi potremo passare agli argomenti successivi che, al contrario dell'anno scorso, saranno legislazione ed economia. In queste vacanze, al contrario vostro, nessuno dei vostri insegnanti è stato con le mani in mano. Ho avuto un colloquio personale con il ministro della difesa e, insieme al Generale Treiz Kushrenada, abbiamo concordato che è giusto che i nostri studenti abbiano delle conoscenze in tal senso e che non si limitino a imparare nozioni ingegneristiche avanzate. Per cui, dalla settimana prossima, cominceremo insieme ad occuparci di queste cose.»

Il sorriso è definitivamente scomparso dalla mia faccia.

Di nuovo, come è successo con la Catalonia, abbiamo cominciato a protestare. Anche Pan.

«Che coglioni!» ha gridato.

«Perché, lady Une? Pensavo che avremmo continuato con la storia!» ha protestato Trowa.

«Già la storia è una barba spaziale!» ha esclamato Alex, coprendo le voci degli altri. «Lady Une, ma che ci importa della legge?»

«Proprio lei parla, Ramazza!»

Arale mi ha dato una gomitata, come se volesse dirmi qualcosa.

Io, invece, ho alzato la mano. Non so come mi sia venuto il pallino di farlo, o di chiederlo. La Une mi ha dato il permesso di parlare e, forse perché era una cosa che non si vedeva tutti i giorni, io – io! – che alzavo la mano, tutti si sono zittiti subito. «Lady Une,» ho detto. «non studiamo il Sanc Kingdom?»

«Oh, che coglioni!» è stato il commento di mia sorella. «Ci mancava solo il paramecio che le dà suggerimenti!»

La reazione degli altri è stato uno sguardo vacuo. Trowa è l'unico che si è girato verso di me, con un'espressione curiosa stampata sul viso. La Une, invece, è quella che mi ha stupito più di tutti: è diventata dello stesso colore della sua divisa, ma non per la rabbia. Sembrava più sconcertata che altro.

Ed è stata anche la prima volta che l'ho sentita esitare. «I-il Sanc Kingdom.» ha ripetuto.

«Sì, lady Une.» ho continuato, imperterrito. «Non ne parliamo?»

Lei si affrettata a ridarsi un contegno. Si è schiarita la voce. «Non c'è molto da dire, Iccijojji.» ha dichiarato. «E' un paese che ormai non esiste più. La guerra di liberazione delle colonie, come dovrebbe aver studiato, fu molto sanguinosa, e il Sanc Kingdom fu uno dei tanti stati terrestri che venne bombardato. Il caso fu più eclatante di altri perché, essendo piccolo, ci furono maggiori danni rispetto a quelli riscontrati in altri paesi con maggiore densità territoriale. Tutto qui. Abbiamo già parlato della guerra di liberazione e non mi sembra il caso di tornare indietro ad argomenti conclusi lo scorso trimestre.»

«A me, però, risulta» ha insistito Trowa, con un certo tono polemico. «che il Sanc Kingdom fu distrutto. Non che subì semplicemente dei danni, lady Une.»

«Come ho detto, era un piccolo stato.» ha risposto lei, acida. «E ora basta con questa discussione! Abbiamo un lungo programma da portare avanti. Consegnatemi i vostri compiti per le vacanze e cominciamo la lezione.»

«Ma...» ha provato Trowa.

«Dica un'altra parola, soldato Burton, e le metterò una nota.»

Trowa si è lasciato andare sullo schienale della sua sedia, sconfitto. E nessuno ha avuto il coraggio di aggiungere altro.


«Questa storia è sospetta.» ha dichiarato Arale, quando ci siamo seduti al tavolo del pranzo. C'era dello spezzatino con i piselli. Non è la cucina di mia madre, ma abbiamo riscontrato un netto miglioramento rispetto a quando c'era Pan, che si è seduta al mio lato destro e succhiava il suo pezzo di carne come se fosse un ghiacciolo. Aveva lo sguardo puntato su Alex che, forse accorgendosi del suo sguardo, teneva il proprio fisso sul piatto.

Mangiava i piselli, lui, e ogni tanto scoccava un'occhiata al tavolo degli insegnanti dove, per la prima volta da quando avevo cominciato a frequentare la mensa, era apparsa anche la Catalonia. Il fatto che si chiamasse Dorothy doveva averlo inquietato parecchio più di quello che aveva detto a noi. Arale ha visto Heero che passava e, dato che ci è passato vicino per farci un saluto, lei lo ha afferrato per la giacca e lo ha costretto a inginocchiarsi tra lei e Frank.

«E' una cosa veloce?» ha chiesto Heero. «Dovrei mangiare anch'io...»

«Ecco, prendi qui.» Arale gli ha preso un piatto pulito dal centro del tavolo e lo ha riempito di spezzatino e piselli. Glielo ha messo davanti senza troppe cerimonie, e poi gli ha dato anche il suo cucchiaio.

Heero ha sospirato. «Fammi almeno prendere una sedia.» e così è andato a prendersene una vuota vicino ad Alex che ha trascinato di nuovo di fronte al piatto che Arale gli aveva riempito.

«Insomma,» ha continuato la nostra amica, una volta che anche Heero si è seduto. «oggi Kenny ha fatto una domanda alla Une...»

«Ah, bravo.» ha risposto Heero, ma con l'aria di uno che non gliene fregava niente. «E allora?»

«Non è questo il punto!» ha replicato la mia amica, con fastidio. «Il punto è che gli ha domandato del Sanc Kingdom e del motivo per il quale non ne abbiamo parlato durante le lezioni di storia. E lei... si è un po' agitata.»

«Un po'?» le ha fatto eco Alex, scettico.

«Un po' tanto.» si è corretta lei.

Heero ha annuito, ma ha continuato a mangiare come se niente fosse. Dall'espressione che aveva sembrava che non avesse ascoltato una parola.

«Perché tanto imbarazzo sul Sanc Kingdom?» ha insistito lei. «E perché liquidare così una faccenda che ha dell'interessante dato che, come mi sono ricordata proprio un attimo fa, qui c'è un Suit che è del Sanc Kingdom? Yuy, ma ci stai ascoltando?»

Lui ha inghiottito. «Sì, Norimaki, ti ascolto. Ma che ti devo dire?»

Lei ha scosso la testa, contrariata.

«Kenny sa tutta la storia.» Alex ha fatto un cenno verso di me.

«A dire il vero, non ne so poi molto...» ho specificato. «so solo che c'era un principe e una principessa... e che sono morti nel bombardamento... forse.»

«Non può essere una coincidenza.» ha concluso Arale.

«A voi non sfugge nulla, eh?» ha commentato il responsabile del nostro piano con un sorriso storto. «Vedete, giovani Sherlock, è che il Giappone è in parte responsabile per quello che è accaduto.»

Ci siamo sporti verso di lui per saperne qualcosa di più, quando la voce di Pan ha interrotto Heero che aveva aperto la bocca per spiegarci meglio.

«Senti, chi se ne frega.» ha tagliato corto. «Possibile che siate tutti malati di 'sto cazzo di Sanc Kingdom? Ma fatevi una vita, sfigati di merda!»

Ci siamo tutti girati verso di lei. Heero aveva l'aria sconcertata. «Scusa, Iccijojji, ma stavamo facendo un discorso tra di noi.»

«Ah certo, un discorso tra di voi!» lo ha scimmiottato lei. «Questo cretino si preoccupa di un posto morto e tutti quanti dietro come i pecoroni. Smettetela di parlare di cose vecchie e pure morte! Tu, topo di fogna,» e ha guardato Alex. Il mio amico non ha capito che parlava di lui e così si è girato per vedere se c'era qualcuno alle sue spalle, ma quando ha visto che non c'era nessuno, si è indicato come per dire: “chi, io?”. «Sì, proprio tu. Hai detto che sei un ex galeotto, no?»

Frank ha sbuffato.

Heero, invece, ne ha approfittato per alzarsi. «Sì, sentite, io me ne vado al mio tavolo. Avete cose più importanti di cui...»

«Sì, sì!» lo ha interrotto mia sorella. «Vaffanculo.»

Lui non ha detto niente. Si è allontanato dopo un cenno di saluto a noialtri, decisamente irritato. E allora Arale si è girata verso Pan. «Ma lo sai che sei una grandissima maleducata?» l'ha apostrofata. «Stavamo facendo un discorso interessante e tu...»

«Me ne sbatto i coglioni dei vostri pseudo discorsi seri. Vaffanculo pure tu, io devo parlare con il topo di fogna... come cazzo di chiami...»

«Mi chiamo Alex, non topo di fogna, e comunque di quello che devi dire non me ne fotte una mazza, ci sei?» si è alzato pure lui. «Io comincio ad avviarmi in palestra.»

«La verità» ha detto Pan, con aria di trionfo, interrompendolo dal sistemare la sedia sotto il tavolo. «è che sei solo un quaquaraqua. Ti fai tanto il grande ladro, ma in realtà sei solo un coglione che gli piace vantarsi. Scommetto che se ti chiedessi se sei bravo nel taccheggio, tu diresti subito di sì, no?»

Alex l'ha guardata. «E allora? Lo so fare, sì. Qualche problema?»

Lei ha ricambiato l'occhiata. «Il problema è che non ti credo.»

Lui ha fatto spallucce. «Fai quello che vuoi.»

«Quaquaraqua.» lo ha rimbeccato lei. «Ti propongo una sfida.»

Non capivo dove volesse arrivare. Avevo quasi paura di scoprirlo anche perché stava insultando il mio amico in modo anche pesante e non mi andava che lo facesse. «Pan?» l'ho chiamata, ma lei mi ha ignorato bellamente.

Arale ha, invece, guardato Alex. «Lasciala stare.» gli ha consigliato.

«No, scusa, Arale.» ha risposto lui. «Voglio proprio vedere fin dove arriva.» si è sporto in avanti, appoggiandosi sullo schienale della sedia che aveva occupato. «Dai, spara.»

Pan ha sorriso, trionfante. «La Une ha un badge attaccato alla cintura, hai visto?»

Alex si è girato verso la nostra insegnante, mentre io capivo finalmente dove voleva arrivare. Non aveva smesso un attimo di pensarci, dopo un'intera mattinata passata a fare la brava, almeno relativamente. E io pensavo che se ne fosse dimenticata! «Embè?» è stata la risposta di Alex.

«Embè» ha risposto Pan. «se sei davvero il ladro che dici di essere, rubaglielo senza che lei se ne accorga.»

Sono scattato in piedi. «No, Alex!»

«Oppure sei solo un cretino che racconta palle su palle.» Pan ha fatto spallucce. «O, peggio, un cacasotto come questo qui.» e mi ha indicato.

«Pan! Ma non puoi chiederglielo!» ho esclamato.

«Me ne sbatto di quello che pensi.» ha dichiarato il mio amico. «Io non mi metto nei guai. Se la Une mi becca, mi fa espellere e io non ci voglio tornare in prigione per te!» e stavolta se n'è andato davvero. Anche Arale e Frank si solo alzati, tutti e due senza finire di pranzare e se ne sono andati. Io l'ho guardata, mentre lei guardava malevola i miei amici che si avviavano fuori dalla mensa di gran carriera. Non potevo credere che avesse tentato di far leva sull'orgoglio di Alex per indurlo a rubare il badge della Une.

«Che stronzo.» ha pure avuto il coraggio di dire.

«Questa volta hai davvero esagerato, Pan!» le ho risposto, e ho cominciato a correre per raggiungere i miei amici.


Ho raggiunto Alex e gli altri quando ormai erano già dentro lo spogliatoio dei maschi. C'era persino Arale, ma nessuno ha pensato di dirle di andarsene, anche perché eravamo solo noi quattro e nessuno pensava di mettersi in mutande tanto presto.

Alex camminava avanti e indietro come un'anima in pena. Prima di oggi, penso di non averlo mai visto in queste condizioni. È da ieri sera che è un po' strano, prima con la storia delle lezioni, poi con la paura di venire bocciato. Adesso con questo. E stavolta non era niente di divertente come il suo terrore per il mago di Oz. Era tutta colpa di Pan e di quello che aveva detto che gli aveva ricordato la prigione o qualcosa connessa.

Mi sono avvicinato a loro e mi sono seduto sulla panca di fianco ad Arale, la stessa su cui mi ero seduto prima di andarla a cercare solo qualche ora prima, come se solo la mia presenza potesse essere di qualche conforto.

«E dai, Alex, non c'è bisogno che fai così.» gli ha detto Frank che, invece, se ne stava in piedi e lo guardava mentre faceva le vasche tra un armadietto a quello di fronte. «Lo sappiamo tutti come è fatta Iccijojji.»

Ho annuito. «Sì, Pan è arrabbiata perché non voleva tornare in caserma.» mi sono zittito subito, però, quando mi sono accorto di quello che stavo dicendo: che gliene poteva importare agli altri dei fatti di Pan?

«Non è nemmeno la cosa peggiore che ha fatto!» ha continuato Arale, per riempire il silenzio che si era venuto a creare, un silenzio particolarmente imbarazzante. «Pensa alla volta che ha cercato di tagliare la mano di Kenny e che, se non c'era Sark, ora lui aveva un moncherino. Oppure quando ha messo il lassativo nelle uova della Une. Oppure quando...»

Lui non l'ha lasciata finire. Non si calmava in nessun modo. «E se poi fa qualcosa di strano e mi dà la colpa? Se la Une mi espelle, io sono fottuto!» si è girato verso di noi e ci ha guardato con aria smarrita. «La mamma... ieri la mamma mi ha fatto promettere che non sarei tornato in gattabuia! E adesso Pan può rovinare tutto, porca puttana! Io sto cercando di rigare dritto quest'anno, ci sto provando con tutto me stesso e poi arriva lei e rovina tutto! Cazzo, cazzo, cazzo!»

Arale non ha detto una parola, ha fatto finta che non sapesse niente e intanto annuiva comprensiva, ma intanto guardava Alex che dava calci all'armadietto di Tai Yagami. Povero Alex, quante ne ha passate nella sua vita!

Frank ha dato una pacca sulla spalla del nostro amico. «Non è successo niente. E noi saremo dalla tua parte, lo sai. Se succede qualcosa e lei ti dà la colpa, pensi che noi non ti scagioneremmo se sei innocente?»

«E se la Une non ci crede?» Alex ha scosso la testa. «Lei lo sa che sono capace di rubarle il badge. L'ho anche fatto, due anni fa, e se succede di nuovo, questa volta sono fottuto al quadrato!»

Ho sussultato e anche Frank. Arale, invece, sembrava essere al corrente di tutto. Mi chiedevo come fosse possibile che sapesse anche quello. Di certo, negli atti del tribunale non c'erano anche i furtarelli che Alex può aver commesso qua dentro.

Lui non si è accorto di cosa capitava dentro di me e la mia amica. Era solo molto scosso e, come se non riuscisse più a stare in piedi, si è seduto sulla panca di fronte alla nostra e si è nascosto il viso tra le mani. Quella è stata forse l'occasione più brutta della mia vita: vedere un mio amico piangere e non potere fare niente per aiutarlo.

«Dai, Alex!» ha continuato Frank. «La Une lo sa che non lo faresti più!»

«Ma non capisci, Frankie? È la stessa cosa che ho fatto io due anni fa! Se la fa Pan, allora la Une penserà che le ho dato io l'idea! Io volevo essere espulso, ecco perché l'ho fatto e perché non mi sono nemmeno premurato di scoprire il tipo di codice. Mica lo sapevo che c'era la fregatura!» ha inspirato per fare una pausa, poi ha ripreso, senza che nessuno osasse interromperlo: «Mi aveva detto già l'anno prima, quando ho preso l'accetta, che se non avessi rigato dritto sarei stato espulso e così volevo prendere la palla al balzo...»

«L-l'accetta?» ho domandato, inorridito. Se c'è una cosa che non riesco ad immaginare è proprio Alex che prende un'accetta. Il tranquillo, buono e un po' imbranato Alex... insomma... non ce lo vedo proprio con un'accetta.

Lui ha sbuffato una risata. «Sì, Kenny. Ho preso l'accetta che sta in corridoio, sai, quella dell'antincendio. L'ho usata per sfondare le pareti dell'aula della Noin durante la sua lezione.» e qui Arale mi ha dato un'altra gomitata. «I ragazzi si sono subito spaventati, ovviamente, e sono corsi a chiamare la Une che è subito corsa a cercarmi. E così mi ha detto:» si messo impettito e ha puntato un dito verso l'alto, con un'espressione molto simile a quella della Une: «lei, Ramazza, se non riga dritto, sarà espulso in via direttissima. E lo sa cosa accadrà quando questo succederà? Pensa che verrà rispedito a casa come se niente fosse? Nossignore, verrà rimandato in prigione, sì, quella stessa che le è stata risparmiata dal senatore Douglas Kushrenada e dal suo buon cuore.»

Per un attimo, la stanza è stata immersa nel silenzio più assoluto. Arale mi ha dato di nuovo una gomitata forte nel fegato, tanto forte che io ho creduto di poter morire di emorragia epatica.

«Sapete,» ha continuato ad un tratto. La sua voce sembrava strana dopo tutto quel silenzio. «credo che se mi avessi conosciuto due anni fa, non saremmo amici, oggi... sarei più come Pan, o come Howard James... però,» si è passato una mano dietro il collo. «quando ho provato a rubare il badge e ad andarmene, l'anno scorso, la Une mi ha solo dato una nota di demerito e così... eccomi qui. Non c'è modo di fuggire da questa prigione, ragazzi... l'unica è darsi un contegno e smetterla con queste cazzate. E poi non è vero che ho cercato di rapirti, Frankie! Volevo solo rubare qualche oggetto prezioso! Mio fratello mi aveva sfidato a entrare in casa tua, mica volevo...»

Frank gli ha messo una mano sulla spalla. «Lo so, Alex.» ha sorriso a mezza bocca. Per un attimo, mi è parso che ci fossero solo loro nella stanza: parlavano di cose che noi, Arale ed io intendo, non sapevamo e che non avremmo dovuto sapere. Mi sentivo uno spettatore involontario, che si era intrufolato nelle loro vite per morbosa curiosità e adesso mi sentivo proprio così: una merda.

Anche Alex ha sorriso. «Già...» ha risposto. Poi ha guardato verso di noi e allora io credo di essere diventato rosso come un pomodoro maturo. «Ragazzi, mio padre è un truffatore, non è un assassino, e nemmeno un mafioso. Lui, coi ricchi, ci ha avuto a che fare solo per spillargli dei soldi, non per usarli in chissà quale altro modo, almeno così dice la mamma. Poi un giorno la polizia lo ha pizzicato e, pur di non pagare i suoi conti con la giustizia, è scappato via e adesso non si sa più dov'è. Forse è andato alle Antille o forse è tornato in America. O magari è andato in Italia dal nonno, e ha sposato un'altra signora Ramazza. Io e Frank ci siamo conosciuti per caso, perché era in casa quando io sono entrato dalla finestra e, invece di stordirlo o di farlo scappare a chiamare i suoi, mi sono messo a giocare con lui. Fine della storia.»

Lei è arrossita. «Ma... ma... come... perché ce lo dici?» ha balbettato, in imbarazzo.

Frank le ha sorriso. «Come se non stessi morendo dalla voglia di saperlo.»

«Ma... ma io...»

«E dai!» le ho dato una pacca sulla spalla come consolazione. Dal canto mio, ero felice di sapere la verità sui miei amici, su come mai si conoscessero da prima dell'arrivo di Frank in caserma. Me li ha resi più vicini, li ha resi, in qualche modo... più veri. Non so spiegarli meglio. «Non fare così. Almeno hai saputo la verità, no? Ci tenevi tanto!»

Credevo che avrebbe sollevato la testa, che avrebbe sorriso o che mi avrebbe portato via per dirmi che era tutta una scusa e che dovevamo fidarci ancora meno di loro, dopo questa pseudo-spiegazione, invece non è successo niente di tutto questo. Le sue spalle hanno cominciato a sussultare e, pochi attimi dopo, è scoppiata a piangere senza ritegno, travolgendoci con le sue grida isteriche.

Quello era peggio che vedere Alex spaventato.

Ho tolto la mano dalla sua spalla, con la paura di aver in qualche modo innescato una bomba, e, come se fosse stata quella a trattenerla, è scattata in piedi ed è corsa via.

«Arale!» ho esclamato, balzando in piedi come se ci fosse stato qualcosa di appuntito sotto il mio sedere. Tutti e tre abbiamo cominciato a correrle dietro, ma lei era sparita al primo angolo. Ho guardato Alex e Frank che sembravano smarriti tanto quanto me.

Frank ha sospirato. Alex ha guardato oltre l'angolo con l'aria timorosa di uno che si aspetti di trovare una bomba. «Non lo so...» ha detto, tornando a guardare noi, che eravamo rimasti dietro il muro. «Non mi piace quando le femmine piangono... mi sa sempre di guerra nucleare...»

«Ma non possiamo lasciarla così. Andiamo dai!» li ho sollecitati. E siamo andati tutti, guerra nucleare o meno. Arale è una nostra amica e, come eravamo stati tutti insieme per Alex, dovevamo esserlo anche per lei. Ma quando l'abbiamo trovata, in fondo alle scale, e ci ha sentito arrivare, quando si è girata, è scappata di nuovo. Non ce la siamo sentita di correrle dietro di nuovo, adesso, perché era evidente da come si era comportata che non voleva averci tra i piedi.

«Ma che le prende?» ha domandato Frank, guardando la sua figura minuscola che si allontanava.

«Beh,» Alex si è grattato la testa. «dicono che le donne fanno così... piangono, ogni tanto.»

«Ma dai!» lo ha ripreso Frank. «Così, senza motivo!»

«Ma non lo dico io!» si è difeso il nostro amico. «Lo dice Martin!»

Frank ha scosso la testa, per niente d'accordo. Anche io non lo ero: Arale è una ragazza solare, pronta a ridere di qualunque cosa e che non si arrende di fronte a niente, neanche all'evidenza, quindi era ancora più strano che fosse scoppiata a piangere senza motivo, quale che fosse la conoscenza di Martin delle donne.

Avevo l'impressione che c'entrasse quello che ci aveva detto Alex a proposito della sua famiglia e di suo padre che era scappato in Italia, ma, se così era, non vedevo perché non essere contenta che il nostro amico stesso avesse deciso di aprirsi con noi.

«Dai, Ken.» mi ha sollecitato Frank, dandomi una pacca sulla spalla. «Andiamo, o perderemo l'ora col Salvini. Ad Arale pensiamo dopo.»

Ho annuito, anche se il mio sguardo ha vagato alla ricerca di una traccia di Arale. Speravo che si fosse calmata e che tornasse indietro con noi, che dicesse che aveva scherzato e che non era successo niente. Ma così non è stato.

Sono stato pensieroso per tutto il resto dell'ora, ogni tanto osservavo il parrucchino del Salvini che, adesso che lo so, mi sembra più un gatto morto che un ammasso di capelli. In effetti, adesso che ci penso, avevo sempre notato che gli facevano difetto sul lato sinistro, ma pensavo che fosse pessimo il suo parrucchiere e non me ne ero mai dato pena.

Arale, comunque, non si è fatta vedere per tutta l'ora e mi sono sentito parecchio solo: lei, di solito, mi sta a sentire quando le dico le cose e certamente avremmo riso un mondo nel vedere il difetto del parrucchino. E mi sono anche sentito un po' uno schifo: insomma, era una dei miei migliori amici e l'avevo lasciata sola ad affrontare il suo dolore, di qualunque cosa si trattasse, perché mi ero fatto prendere dal panico.

Alla fine dell'ora, deciso più che mai a riscattarmi, mi sono rivestito in fretta e, senza neanche abbottonarmi la giacca, sono andato a cercarla. Credevo che sarebbe stato più difficile del previsto, dato che Arale non è Pan e non era mai scappata prima di oggi. Ma, proprio perché Arale non è Pan, sono riuscito a ritrovarla facilmente senza girare tutta la caserma: era seduta sulle scale che portano al primo piano, quello dell'ufficio della direttrice e dell'infermeria. E ora che ci penso... non ho proprio visto mia sorella, al corso di ginnastica.

Ma comunque, tornando al mio racconto, Arale se ne stava tutta piegata su se stessa con l'aria triste e sconsolata e, quando mi ha visto, sembrava che volesse riprendere a piangere. Mi sono comunque seduto di fianco a lei, cercando le parole giuste per consolarla. Solo che non mi usciva niente e, allora, sono rimasto zitto che, forse, è stata anche la cosa migliore.

«M-mi dispiace!» ha detto, dopo un po', la mia amica, togliendosi le lacrime dagli occhi. «I-io non... io...» e, come se avesse intuito le domande che avevo in testa, si è girata verso di me. «Oh, Kenny,» i suoi occhi erano sgranati, rossi e lucidi, mentre lucciconi scivolavano sulle sue guance paffute che, di solito, erano sempre tirate in un sorriso. «non mi sono mai sentita così umiliata in tutta la mia vita come oggi!» e, senza pensarci un attimo di più, si è gettata tra le mie braccia, prima di ricominciare a piangere a dirotto.

Da parte mia, ero nel panico. Mi sono guardato in giro in cerca di presenze umane: l'ultima cosa che volevo era che passasse qualcuno e che ci vedesse così e che potesse fraintendere. E poi volevo era un po' d'aiuto, perché non me ne intendo proprio di ragazze che piangono. Nei film, di solito, i ragazzi danno loro le pacche sulle spalle, dicono qualcosa di carino e di epico, ma poi finisce sempre con un bacio... e l'idea mi terrorizzava. Insomma! Non voglio dire che... ma bleah! È di Arale che stiamo parlando!

«Ehm... ma... ma perché ti senti umiliata?» ho chiesto, sperando che si staccasse presto.

E lei, per fortuna, l'ha fatto e io non sono riuscito a trattenere un sospiro di sollievo.

«Beh,» ha risposto lei, asciugandosi di nuovo le lacrime col palmo, tutta demoralizzata. «Insomma... lui lo sapeva che avevo letto gli atti di tribunale!»

«E come, se non gliel'hai mai detto?»

Lei ha messo di nuovo su la sua aria di sopportazione quando le faccio domande sciocche. «Ma insomma! È la mafia, lo vuoi capire sì o no? Quelli sanno tutto!»

«Eh, già...» ho commentato, anche se, a dire il vero, continuavo – e continuo – a non capire.

Arale ha sospirato. «Lui ha voluto farmi sapere che ha capito e che tutto quello che so per lui non conta niente. Anzi, è disposto a dirlo così come viene, perché sa di essere in una botte di ferro!»

«A me sembrava sincero.»

«A te sembrerebbe sincero pure l'assassino con la mannaia grondante di sangue che ti dice che è innocente!» ma poi ha cominciato a scuotere la testa con aria di disapprovazione e mi ha messo una mano sul braccio. «No, scusa, Kenny. È una cosa cattiva da dire.»

«Oh, tranquilla, mi hanno detto di peggio.» e ho sorriso con fare incoraggiante. In confronto, quello era niente in confronto a “paramecio”, anche se ormai alle mie orecchie quello era quasi diventato un nomignolo affettuoso. Penso che mi dispiacerebbe se Pan non mi chiamasse più così.

Lei ha fatto un gesto secco con la mano, come se volesse dirmi di fare silenzio o stesse scacciando una mosca fastidiosa. «Comunque, non ti fidare troppo di Alex. Tutta la storia puzza un po'... a partire dal fatto che lui è stato mandato in casa di Frank per rubare. Anche se fosse vero, quando mai un ragazzino viene arrestato per essere entrato in casa di qualcun altro e viene beccato a giocare col proprio figlio? Magari poteva essere stato Frank a invitarlo, anche se il senatore dice di no. Ma perché dovrebbe dire di no? È questa la domanda che mi frulla! Un bambino non finisce in prigione per essere stato beccato a giocare col proprio figlio, no no.» e qui ha scosso la testa. Ha parlato come una macchinetta, quindi era tornata la solita Arale di sempre, anche se aveva ancora gli occhi un po' rossi. «Dovremo indagare, Kenny!»

All'inizio, ho pensato di dirle di lasciar perdere, ma avevo anche paura che potesse mettersi a piangere di nuovo. Così le ho promesso che avrei fatto il possibile per aiutarla. Per questo adesso non mi sento del tutto in pace con me stesso, anche perché poi, convinto di aver fatto una sciocchezza, pentito di aver tradito anche solo potenzialmente i miei amici, alla fine della giornata, nella camerata dei ragazzi, prima di andare a letto, ho raccontato ad Alex e Frank il motivo per cui Arale aveva avuto la sua reazione.

Eravamo seduti sul letto di Frank, accanto a quello di Alex che se ne stava disteso con le gambe larghe e le braccia dietro la testa, tenendo anche la bocca aperta come se vedesse il più bello spettacolo del mondo proprio sul soffitto grigio topo.

Frank non sembrava più sconcertato, ma piuttosto contrariato. «E' andata in tribunale!» ha esclamato, incredulo e anche un po' indignato. «E' andata in tribunale per farsi i fatti tuoi!»

«E dai, non farla lunga!» ha risposto Alex, con tutta la leggerezza del mondo, anzi, anche un po' più allegro. «Che cosa vuoi che sia? In fondo, se anche gliel'avessi detto prima, saremmo punto e a capo. Spero quasi che venga fuori un casino come quello del semestre scorso! Quanto mi sono divertito!» ha guardato Frank, sorridendo, ma Frank aveva la testa girata dall'altra parte, offeso. Sospirando, Alex si è dato un colpo di reni e si è messo a sedere sul letto. «Frank... dai, che male fa?»

«Che male fa? Credevo che questa storia fosse finita mesi fa!»

Alex ha fatto spallucce, sempre sorridendo. «Io voglio vedere fin dove arriva. Sarà divertente!» e poi si è allungato verso di me, mi ha dato una botta sulla spalla. «Grazie Kenny, mi hai davvero risollevato la giornata!»

È andato a letto poco fa, fischiettando.

Spero solo di non aver fatto l'ennesima stupidaggine...



________________


Eccomi di nuovo, dopo... ben otto mesi. Diciamo che ho avuto molto tempo per scrivere e... per riflettere. ;)

Kenny è arrivato a buon punto, ho scritto una decina di capitoli negli ultimi sei mesi e me ne mancano all'incirca sette. Il punto è che non so se continuerò la sua avventura o la terminerò alla fine del primo anno, perché non scriverò (o non pubblicherò) i seguiti. Questo perché mi sembra che la storia non abbia avuto alcun successo e non lo intendo nel modo in cui fanno alcuni che hanno fior fior di recensioni, ma ancora più letture. Perché sono proprio queste che mancano: le letture. 54 in otto mesi mi sembrano un segnale più che evidente che qualcosa non va.

Ora, io non so se è il fandom che non “tira” o se è la storia in sé, anche se, devo ammettere, a me la storia non fa così schifo, anzi la adoro, ma io sono l'autrice ed è difficile, su questo punto, che sia obiettiva. XD

Cerco di capire che cosa non va, perché i segnali che ci sia qualcosa da questo punto di vista ci sono tutti. Mi manca un feedback di qualunque genere, da qualche capitolo a questa parte. Dal 2009, quando ho pubblicato, ho avuto 4 seguiti, 2 preferiti e 1 ricordato e la situazione è in stallo. Perciò vorrei capire, di quei 54 che hanno acceduto al capitolo scorso, quanti sono effettivamente tornati e quanti hanno aperto e chiuso subito. Ovviamente, chi la apre e chiude subito non può rispondere, ma per coloro che leggono (se ce ne sono): è perché la storia non vi interessa? Non vi suscita niente, è stupida, è per via delle parolacce (come mi disse un ragazzo e, di parolacce, molti non infarcissero i loro discorsi), è troppo lunga, è pallosa? È perché gli aggiornamenti vanno a rilento e avete perso le speranze? Non lo so... mi sono interrogata a lungo e non arrivo alla risposta. -.-''

Grazie in anticipo a chiunque voglia aiutarmi. :)

Luine.

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Capitolo 21
*** Riunione in biblioteca ***


4 Gennaio

 

Stamattina, Arale è arrivata a colazione molto dopo di noi ed è piombata al nostro tavolo del tutto inaspettata. Ha sbattuto le mani sul tavolo, nel posto vuoto al mio fianco, quello che ho occupato con la borsa dei quaderni per evitare che qualcun altro prendesse il suo solito posto. È piombata nel vero senso della parola, tanto che tutti quanti abbiamo sollevato la testa di scatto. Il tavolo aveva pure preso a vibrare per la forza del colpo e Alex si è quasi rovesciato addosso il suo latte; Bra, che era impegnata ad appolparsi a Frank, si è voltata di scatto, con gli occhi sgranati; tutti quanti, da Trowa a Joe, hanno fatto un salto sulla sedia che li ha fatti balzare a tetto o quasi; per non parlare dei tavoli intorno, i cui occupanti si sono girati perplessi, hanno guardato Arale che ha annunciato solennemente: «Da oggi cominciano le indagini!»

A quel punto, si sono girati di nuovo verso i loro piatti, capendo che erano solo quegli scalmanati del primo anno corso B che ne stavano per combinare una delle loro.

Pan è stata l'unica che ha continuato a fare tutto come se niente fosse. Mangiava i suoi fiocchi d'avena uno alla volta, gli occhi rivolti al soffitto e la testa altrove, per niente spaventata dalla violenza con cui Arale aveva dato il suo buongiorno.

Ma io, quando Arale ha parlato di indagini, dimenticandomi del cuore che mi era salito agli occhi, ho creduto avrei rimesso quelle due uova che mi ero costretto a mettere in pancia, prima della lezione con la famigerata Dorothy del Mago di Oz, soprannominata così dopo la confessione di Alex.

«Quali i-indagini?» ho balbettato, preoccupato che stesse parlando di quelle indagini che riguardavano proprio i nostri amici e la loro appartenenza alla mafia.

«Quelle su noi due, ovviamente!» ha risposto Frank, per lei, acido. Evidentemente, non ero stato l'unico a pensarla allo stesso modo.

«Che me ne frega!» ha replicato lei, allo stesso modo, fissandolo in cagnesco. E poi, quando si è accorta di quel che ha detto, ha aggiunto: «In questo momento, almeno. Io parlavo del Sanc Kingdom! Sono stata in biblioteca per prenotare dei libri e così ho detto al sergente che volevo parlargli. Il punto è che ci aspetta non appena finiscono le lezioni.»

A quel punto, Pan si è girata verso di noi. «Ancora?» ha chiesto, disgustata.

«Sì, ancora.» Arale si è seduta accanto a me con aria assai compiaciuta. «Ho deciso che, se la Une si rifiuterà anche oggi di darci spiegazioni esaurienti, andremo nell'unico posto in cui possano darci delle informazioni!»

«Cioè?» ha domandato Alex, che era impegnato a pulirsi la divisa dal latte con una mano, riuscendo, per questo a spandere il latte anche dove prima era tutto pulito. Frank, per compassione, gli ha allungato un fazzoletto di carta.

«Cioè in biblioteca.» ha ribattuto immediatamente Arale. «Di cosa sto parlando da quando sono arrivata, meno di due minuti fa?»

«Sì?» ha criticato Trowa, che era di fianco a Bra e quindi molto vicino a noi. «E cosa pensi di trovare, dato che la Une è così reticente? Non credo che troveresti qualcosa. Sarebbe un controsenso bello e buono, dato che non ne vuole parlare!»

«Ma io non parlavo di documentazione scritta! C'è il sergente, la Johnson... e un migliaio di soldati che stanno aggiustando Pioggia di Fuoco, nell'hangar quattordici. Mi sono informata, cosa credete? Mentre voi eravate impegnati a rimpinzarvi, ieri a cena, io ho parlato con Heero e mi ha detto che è lì che lo tengono, ma che agli studenti è vietato di entrare nel capannone perché è pericoloso, così mi hanno detto.»

«Ma io ci sono stato.» ho risposto, perplesso.

«Sì, ma eri col Marquise.» ha subito spiegato lei, come se ci avesse pensato a lungo, cosa di cui non ho mai dubitato.

«Che c'entra?» ha detto Tai Yagami. «Se è pericoloso per noi, è pericoloso per loro!»

Arale lo ha indicato. «Appunto!» ha esclamato, con fervore. «Quindi hanno mentito. Questo mi fa chiedere: perché tanto mistero?»

Trowa non ha replicato, ma dalla smorfia che ha fatto si vedeva che anche lui era dello stesso avviso.

«Un altro mistero!» ha commentato Frank, asciutto. «Davvero, Arale, dove troverai il tempo di studiare, questo semestre, se ti devi mettere a indagare su tutti i misteri del mondo...»

Alex gli ha tirato una botta. «E dai, smettila! Io ci sto, Arale, ci sono sempre stato sulle cose misteriose. Tranne che su Mortimer, il segretario... non so se l'avete mai visto, ma... lasciamo perdere. Se vuoi, comunque, Arale, ti do anche una mano con l'altro caso.» Ha ammiccato.

Lei, invece, si è solo accigliata. «No, grazie. Sto benissimo così.» E poi, rivolta a me, ma solo a mezza bocca. «Al posto della bocca hai un forno.»

Mi sono sentito – e mi sento – un vero imbecille, per non dire uno stronzo: ho combinato un grande casino, parlandone con gli altri, quando pensavo di fare una cosa buona per mettere pace ancora prima che scoppiasse la bomba. Invece adesso Frank ce l'ha con Arale e Arale tratta male Alex. Spero che questa storia della mafia finisca presto, perché è stressante!

«Ma che ce ne frega?» ha domandato, invece, Bra, con disprezzo. «Del Sanc Kingdom e tutto il resto? Insomma, è stato distrutto tempo fa, no?»

«Sì, ma non mi sembra un buon motivo per ignorare la cosa.» ha replicato Trowa, che sembrava avere molto a cuore, chissà perché, la faccenda. «Soprattutto perché adesso la base giapponese dell'aviazione spaziale ha il suo Suit, che, per inciso, è il suo tesoro nazionale. Non ci avevo pensato, prima di ieri, ma Iccijojji ha ragione: perché non ne abbiamo parlato?»

«Ma che importa? Sai di quante cose non abbiamo parlato?» ha continuato Bra, mettendosi una mano nei capelli e facendola scorrere dalla nuca fino alle punte. Questa cosa non l'ho capita, ma non volevo chiederlo ad Arale che è stata fortemente arrabbiata con me per tutto il resto della giornata. «Tutto questo casino per un Mobile Suit e per il regno da cui è stato portato via... pare più una storiella romantica senza senso.»

«Mi chiedo perché tentare di aggiustarlo, tra l'altro.» ha commentato Sora, pensierosa.

«Perché?» ha voluto sapere Tai Yagami.

A rispondere è stata Mimi che, per imitare Bra, anche lei ha mostrato a tutti i capelli. «Perché i Mobile Suit sono cose superate, ormai.» ha detto e con molta aria di superiorità. «Io, l'anno prossimo, probabilmente cambierò scuola, per questo.»

«Speriamo!» ha ribattuto Pan, fiduciosa. «Quanto manca al lieto evento?»

«Me ne andrò a studiare in America.» ha continuato Mimi, senza dare minimamente ascolto a mia sorella. «Lì sì che sono all'avanguardia, mica come qui che ancora costruiscono i Mobile Suit e ce li fanno studiare come il massimo della tecnologia!»

«Cosa c'è di più avanzato di un Suit?» ha voluto sapere Alex, spaventato a morte. «Io non l'ho mai manco visto da vicino e già mi viene il vomito!»

Ho annuito dietro di lui. Quella faccenda degli americani già mi stava facendo venire il dubbio che questi anni a venire siano anche più duri del previsto e che tutto quello che hanno studiato gli altri sarà troppo obsoleto per noi, che dovremo ricominciare tutto da capo, essere come cavie per esperimenti di insegnamento, cose che odio, soprattutto perché, anche a scuola, quando facevamo da cavie, eravamo sempre quelli che la prendevano più nel sedere...

«Non c'è niente di più avanzato di un Suit!» ha detto categorico Trowa.

«Guardate qua, scettici!» Mimi, tutta orgogliosa, ha tirato fuori dalla sua borsa dei quaderni un giornale, straniero a giudicare dal nome, People. Sulla copertina c'era stampato il faccione serio di un uomo dai capelli scuri e mossi, il viso pallido e il pizzetto ben curato che guardava il lato della copertina, puntando gli indici di entrambe le mani verso lo stesso punto. I am Iron Man, recitava la didascalia rossa sotto di lui. Kagetano non era stato uno dei professori di inglese più bravi che ho avuto, ma è riuscito a farmi entrare in testa almeno il verbo essere e la prima persona singolare e quindi ho potuto capire che quel tizio si chiamava Iron Man.

Pan ha preso il giornale prima che Arale potesse allungarsi sul tavolo per fare lo stesso. La mia sorellona ha dato un'occhiata alla copertina e poi ha lanciato di nuovo il giornale sul tavolo, il più lontano possibile da me e dalla mia amica. «Che faccia da cazzo!» ha commentato.

«Faccia da cazzo?!» ha ribattuto Sora, indignata. «Ma lo sai chi è quello?»

«Iron Man.» ha risposto Pan, alzando le braccia, con fare menefreghista. «Embè?»

«Non sai chi è questo?» l'ha derisa Bra, prendendo il giornale, che era finito molto vicino a lei. E ha mostrato la copertina a tutti. «Iccijojji, è Tony Stark

«Embè? Iron Man o Tony qualcosa rimane sempre una faccia da cazzo.»

«Ne hanno parlato tutti i giornali, ultimamente!» ha esclamato Arale, in tono sognante, proprio mentre Bra alzava gli occhi al cielo per il commento di Pan. «Quest'uomo è l'idolo del momento! Non hai letto i giornali? Guardato un notiziario?»

«E che me ne faccio?» E' stata la domanda di Pan, che ha pure alzato le spalle, perplessa per quella domanda, ma su questo non potevo certo darle torto: in casa nostra non è mai entrato un quotidiano e mai è stato guardato un telegiornale, perché il nonno ha sempre detto che queste cose danno acidità di stomaco, papà non se ne interessa e la mamma non ha mai tempo per queste cose, tranne quando, ascoltando le pubblicità alla radio, sente che il senatore Douglas Kushrenada terrà una conferenza.

«Non mi stupisco che Iccijojji non guardi la tv!» ha risposto Bra, mordace, guardandola con profondo disgusto. «Forse è troppo impegnata con sua madre ad escogitare un piano per entrare nella mia famiglia e poi a piangere perché i loro sogni sono stati infranti così in fretta! Aveste visto come sua madre corteggiava Trunks, facendo mille domande su come trovava Pan!» Qui, in molti hanno cominciato a ridere. «Sono venuti a Natale, i suoi genitori! E mio fratello era nel panico più totale, quando ha detto che considerava Pan solo un'amica, perché abbiamo creduto tutti che a sua madre venisse un embolo! Che imbarazzo!»

L'imbarazzo lo provavo io, perché i miei amici ridevano e perché mi ricordo benissimo il Natale, quando la mamma, quella sera a cena, aveva cominciato a parlar male con Mizar dei Brief e, soprattutto, di Trunks e dei suoi capelli rosa. Avrei voluto che la terra mi inghiottisse tutto, sedia compresa, perché mai e poi mai avrei immaginato che la mamma potesse anche solo pensare di fare sul serio una cosa del genere. Era vero che mi aveva chiesto di come Pan trovasse Frank, ma non credevo che saremmo arrivati a questo punto!

«Ma che cazzo stai dicendo?» ha replicato Pan, in tono così calmo e assassino da farmi venire i brividi.

«Ma ci credo!» ha continuato Bra, quando le risate erano calate di parecchio, facendo finta che Pan non avesse detto nemmeno una parola. «Perché mio fratello è un figo! Ci credo che Pan e sua madre lo vogliono come partito!»

«MA SE TUO FRATELLO E' PIU' IDIOTA DEL MIO!»

Bra l'ha fulminata con un'occhiata, mentre io mi stupivo che dicesse una cosa del genere: Pan, in fondo, pensava che Trunks non fosse male, e sentirla dire il contrario mi lasciava perplesso. Non mi sono sentito ferito, credo di esserci abituato.

«Bada a come parli!» ha esclamato Mimi, indignata.

«Bada tu a come parli, troietta,» e Pan le ha mostrato i pugni, digrignando i denti come un animale. «o i capelli ti sembreranno bianchi, a furia di pugni che ti darò sulla faccia!»

«Non sarà mai figo quanto Tony Stark!» ha dichiarato Arale, categorica, riprendendo immediatamente le redini della situazione, distogliendo l'attenzione generale da Pan e da Bra.

«Bah! Mio fratello è ricco e intelligente tanto quanto Stark.» ha dichiarato proprio Bra, altezzosa. «Se non ci credi chiediglielo tu!»

«Ecco qui!» ha sbuffato Alex. «Un altro riccone con la puzza sotto il naso! Questo mondo è pieno di gente così, che palle!»

«Ma quale puzza sotto il naso! È un genio! Ha inventato l'arma Iron Man!» ha strillato Sora, indignata dal commento di Alex.

«Ma chi? Il fratello di Bra?»

«No! Tony Stark!» ha replicato Arale, che era indignata che qualcuno avesse potuto scambiare l'uno per l'altro.

«Ma non si chiamava lui, Iron Man?» ho domandato, confuso.

Nessuno mi ha risposto.

«Ormai i Mobile Suit sono solo macchine ingombranti! Con una di quelle macchine Iron Man... ah, io voglio assolutamente andare in America e vederlo! Dicono che sia ancora meglio che in foto!» diceva Sora, tutta eccitata.

«Mah.» ha risposto Alex. «Per me poteva anche inventare il pulitore di naso automatico... anche se, in quel caso, ammetto che mi sarebbe più utile.» E, come per dimostrarlo, si è infilato un dito nel naso e ha cominciato a scavare con decisione.

Bra gli ha lanciato un'occhiata disgustata e ha pensato che fosse proprio l'ora di togliere il disturbo. «Beh, penso che andrò a prendere posto. Ciao, Frank,» ha detto, accarezzandogli una spalla. «non esitare ad unirti a noi, se vuoi una compagnia... un po' più glamour.» E ha lanciato un'occhiata a me, ad Arale e infine, di nuovo disgustata, ad Alex, che aveva tolto una caccola dal naso e, tutto orgoglioso, se la stava ammirando.

Mimi e Sora l'hanno seguita fuori dalla mensa e io non ho potuto fare a meno di notare che tutte e tre dondolavano i sederi come fossero pendoli perfettamente sincronizzati.

«Ah, se n'è andata, finalmente?» ha chiesto Alex, alzando gli occhi. E ha lanciato via la caccola. «Ve lo giuro, ragazzi, mi sta così sulle palle, quella!»

«Ma almeno ha lasciato People!» ha esclamato Arale, tutta felice, ed è corsa ad accaparrarsi il giornale come se fosse il miglior trofeo che avesse mai visto.

«Scusate...» ho detto, mentre guardavo lei che si abbracciava la copertina e, a tratti, se lo spostava dal petto per guardare la faccia seria di Tony Stark. «Ho capito che questo tizio ha inventato... Iron Man, qualunque cosa voglia dire, ma... chi è? Io non ci ho capito niente!»

«E sai che novità!» ha risposto Pan, oziosa. Si era appoggiata al tavolo, reggendo la testa con la mano, il busto buttato in avanti e lo sguardo vacuo di chi se ne freghi del mondo.

«Ti ricordi quando abbiamo parlato della Kaiba Corporation?» mi ha chiesto, invece, gentilmente Frank.

Ho annuito, anche perché mi ricordavo alla perfezione che Arale voleva sapere assolutamente la taglia delle sue mutande. Ora Kaiba era al tavolo del primo anno corso E, lo stesso di Ryan, e stava sorseggiando il suo caffè latte, tenendo lo sguardo puntato su un libro dalla copertina nera. Non doveva avere tanti amici e nemmeno aver legato molto con i sui compagni. In compenso, Ryan Shirogane era stato letteralmente assediato dalla sua ragazza con i capelli rossi, che lo teneva stretto stretto e gli dava baci continui sulla guancia. Lui, però, stranamente, aveva la stessa aria annoiata di Pan, forse un po' più sconsolata.

«Beh,» ha continuato Frank, notando la direzione del mio sguardo. «Tony Stark è... era la controparte americana di Gozaburo Kaiba. Era l'amministratore delegato della società fondata da suo padre, la Stark Industries, famosa per le armi ad alta tecnologia che esportava in tutto il mondo. Parte del merito della creazione dei Gundam è andata proprio a Howard Stark, il padre di Tony.»

«I Gundam?» ho chiesto, sempre più perplesso. Sembrava che questa mattina si divertissero a bombardarmi di informazioni e nomi strani. E non erano ancora cominciate le lezioni! Però, adesso che ci penso per bene, mi sembra di aver già sentito parlare di questi Gundam, da qualche parte, ma non riesco proprio a ricordare né dove né quando.

Frank mi ha spiegato: «I Gundam sono dei potentissimi Suit in lega di Gundanium, ecco perché vengono chiamati Gundam. A quanto pare, questa lega fu proprio Stark a crearla. Pioggia di Fuoco appartiene alla strettissima cerchia di quei Suit che furono creati dalla Kaiba Corporation per tenere testa a quei bestioni. Ma tanto è stato inutile, perché hanno smesso di costruirli.»

«E perché?» abbiamo chiesto in coro Alex e io, gli unici che sembravano quantomeno confusi, mentre Arale, che pareva sapere tutto, annuiva alla fine di ogni frase di Frank. Pan, al contrario, continuava a fare finta di niente e, anzi, si lanciava molliche di pane cadute sulla tavola per tentare di afferrarle con la bocca.

Al posto di Frank, ha risposto Trowa, anche lui molto dentro all'argomento: «Perché i progetti sono stati distrutti, per qualche motivo. Nessuno è stato più in grado riprodurre la lega e i Gundam sono diventati dei pezzi da museo, fine della storia.» ha tagliato corto e poi ha anche guardato l'orologio. «Anche perché tra cinque minuti dobbiamo essere in classe.»

«Adesso Stark è nel campo dell'energia pulita!» ha sospirato Arale, ignorandolo e guardando la copertina con aria sognante. «Da quando ha creato Iron Man, si dice che abbia capito che la guerra è una cosa inutile e stupida e così... ah, che uomo, che maschio! Se fossi sicura di incontrarlo, andrei anche io in America come Mimi!»

Pan si è risvegliata dal suo stato di torpore. «Ti levi di culo anche tu, tappoide? Ah, che meraviglia! Due in un colpo solo! Non mi resta che rendere blu la faccia di Bra, cambiare i connotati di Kenny e mettere due spilloni su per il culo a Heero Yuy, magari ficcare due stecche da biliardo nel naso dello scaccolatore puzzone e magari mandare a cagare la Une, poi... no, forse potrei anche appendere Burton per le palle...» Mentre elencava tutte queste carinerie, sollevava un dito per tenere il conto e intanto aggiungeva sempre più gente. «Poi sì che sarei la persona più felice dell'universo!» Ha sorriso serafica, guardando tutti noi.

Trowa, a cui era arrivato il fatto che mia sorella voleva appenderlo per le palle, è stato il primo ad alzarsi e subito dopo lo hanno fatto Frank e Alex. Io sono rimasto seduto, un po' perché Pan non si era alzata e un po' perché volevo parlare con lei a tu per tu. Non avevo dimenticato che voleva scappare e rubare il badge della Une, così volevo sincerarmi che non stesse architettando qualche stratagemma per riuscirci.

«Se vogliamo cercare informazioni sul Sanc Kingdom, io ci sono. Alle sei in biblioteca?» Si è accertato Trowa.

«Sì. Alle sei» ha confermato Arale.

«Ci vediamo in classe» ha salutato lui.

Pan si è alzata subito dopo di lui, di scatto, come se l'avessero punta sulle chiappe ed è scappata via come se dovesse correre in bagno il più in fretta possibile. O quello, o aveva capito le mie intenzioni, tant'è che non sono riuscito a chiederle che cosa avesse in mente di fare. Non mi sono deciso a correrle dietro perché Arale, stringendo People come se fosse Stark in persona, si è diretta verso il tavolo del terzo anno corso B, dove era seduto Heero, da solo.

Il nostro amico mandava messaggi da un vecchissimo cellulare che pareva dell'età del mesozoico con la velocità di un fulmine. Tra l'altro, lo faceva stando bene attento a tenerlo sotto il tavolo, in modo che da quello degli insegnanti non si potesse notare niente. In effetti, non ho mai visto nessuno usare il cellulare, qui in caserma.

«Ehi, Heero!» Lo ha salutato la mia amica, con un sorriso. Al che, Frank che stava per avviarsi anche lui fuori dalla mensa, si è fermato per guardare cosa succedeva. Alex, invece, ha seguito Arale per andare anche lui a salutare Heero che, quando lui si è sentito chiamare, ha fatto un salto fino al tetto e, arrossendo come un ladro, ha fatto sparire il telefono in tasca.

«Ah, ciao!» Li ha salutati, con un sorriso per niente sincero, come se non fosse contento di vederli. «State ancora indagando sul Sanc Kingdom oppure avete desistito perché sono cose troppo vecchie e antiquate per voi? Ma che era quella cagnara di là, al vostro tavolo?»

«Un riccone di merda di nome...» Alex ha cominciato a rimuginarci sopra. «Non mi ricordo. Comunque suonava molto come Sark.»

«Stark.» l'ha corretto Arale, come se l'avessero offesa nel profondo. «Comunque, ero solo passata per dirti che ci riuniamo stasera, in biblioteca, alle sei.»

Heero l'ha guardata come se non capisse a cosa si riferisse. «Veramente... alle sei ho appuntamento con un gruppo di compagni per studiare...»

«Stasera.» ha ripetuto truce Arale, puntandogli contro un minacciosissimo dito indice. «Alle sei.»

Heero ha spalancato le braccia. «Ho altra scelta?» ha ironizzato, ma quando Arale gli ha lanciato una seconda occhiata assassina, lui ha alzato le mani in segno di resa. «E va bene, va bene, in biblioteca.»

«Alle sei!» Si è raccomandata Arale.

Poi ha preso la strada per la classe della Une, Alex dietro, ignorato come se non ci fosse, e poi dietro ancora siamo arrivati noi, che abbiamo affiancato il nostro amico per non fargli fare la figura meschina di quello che segue una persona come un cane bastonato.

«Aveva un cellulare, vero?» ha domandato Frank, guardandosi indietro e riferendosi a Heero.

«Sì, figo, vero?» ha confermato Alex, tutto allegro. «Ah, mi sono dimenticato di chiedergli di comprarmi delle cose!»

«Non saranno altre sigarette!» ho sperato, perché Alex, con il fatto che fa freddo, ha smesso anche di aprire la finestra di camera nostra, la quale adesso sembra una ciminiera.

«Ma no!» ha replicato lui, come se avessi osato dire che gli indiani d'America erano africani. «Il problema è che non so dove metterli! Cazzo, ad avere una ghiacciaia sotto il letto!»

«Che te ne fai di una ghiacciaia sotto il letto?» ho chiesto.

Alex ha sorriso e guardato la nostra amica che ci camminava davanti, ma non troppo perché non potesse sentirci. «Ci devo nascondere il cadavere di Arale!» ha esclamato.

Arale si è girata di scatto e lo ha trucidato con lo sguardo. «Non mi farò ammazzare facilmente.» ha decretato. «E se pensate di potermi incantare con i vostri discorsi vi sbagliate di grosso! Dimostrerò che appartenete alla mafia!»

«Accomodati.» le ha risposto Frank, secco.

Alex sorrideva come se non avesse aspettato altro che sentire Arale fare quella promessa. Io mi sono sentito uno schifo, invece, perché pensavo che, se eravamo arrivati fino a questo punto, era tutta colpa mia e della mia bocca come un forno, proprio come ha detto lei. Perché, se fossi stato zitto, forse saremmo ancora tutti un gruppo, Arale e Frank sarebbero in pace tra loro e non dovremmo essere costretti a queste schermaglie. Ma cosa devo fare, se Arale ha preso ad ignorarmi e a cambiare strada quando mi vede, proprio come fa mia sorella?

 

Durante tutta la giornata, si è comportata in modo strano: si era seduta in ultima fila a due posti da Pan per tutte le ore che non abbiamo avuto con la Une, che vuole, invece, che teniamo i nostri posti fino alla fine dell'anno, poi a pranzo ha preso posto accanto a Trowa Burton e durante i cinque minuti di pausa tra una lezione e l'altra, se non parlava con lui e gli altri di Stark, leggeva di lui sul giornale che aveva preso a Bra e Mimi.

Non mi aspettavo che la spaccatura tra noi potesse diventare tanto grande per colpa mia: all'inizio, quando ho visto che con la lezione di Bristow – che finalmente ha cominciato gli integrali! – si sedeva in fondo, a due posti di distanza dalla mia sorella sbracata, credevo che lo facesse per studiare altre materie e non farsi vedere dai professori che faceva altro o che era distratta e perché la Catalonia le sta antipatica. Era un comportamento un po' strano, dato che è solo il secondo giorno, così ho sospettato che dovesse proprio avercela con me.

Pensavo anche che ci saremmo rappacificati nel giro di qualche ora, soprattutto perché eravamo reduci da quello che è successo nel primo trimestre. Non mi aspettavo di certo che facesse finta che non esistevamo. Questo, se possibile, ha fatto adirare Frank più di tutto il resto. Quando è arrivato il momento di andare in biblioteca, dopo due ore estenuanti con la Noin, si è fermato in mezzo al pianerottolo delle scale.

«Andate voi.» ci ha detto.

«Ma... perché?» ha voluto sapere Alex, sorpreso. «Dai, Frankie, sarà divertente! Andiamo a sentire che cosa ne sa il sergente del Sanc Kingdom!»

«No, non vengo. Sarà l'Arale Norimaki Show, come al solito, e non credo di doverle dare tutta questa importanza. Se il sergente dice qualcosa di interessante, me lo riferite quando tornate.»

Alex ha scosso la testa, mentre Frank se ne andava via senza dare il tempo a nessuno di noi due di dire qualcosa per dissuaderlo. «Che senso dell'umorismo da patata!» ha esclamato Alex, rivolto a me.

«E' tutta colpa mia!» ho risposto. «Se non vi avessi detto niente...»

«Sì, sei stato un po' infame.» ha detto lui, con leggerezza e, prima ancora che avessi il tempo di accusare il colpo e di riprendermi dallo shock, mi ha battuto una pacca sulle spalle ed è scoppiato a ridere. «E dai, non fare quella faccia! Mica lo sapevi che veniva fuori questo casino e poi Frank se la prende troppo per tutto. Prima o poi gli passa a tutti e due, lui e Arale!»

Lui ci ha provato, a tirarmi su di morale, anche se non ci è riuscito molto bene. Mi sentivo proprio come aveva detto lui che ero: infame. Non riuscivo a giustificarmi come faceva lui.

Ho annuito, comunque, e siamo andati in biblioteca. Mi aspettavo che saremmo stati in cinque ad aspettare il sergente: Alex, io, Trowa, Arale e Heero, reclutato coattivamente. Invece c'erano almeno una decina di persone, tra cui anche Bra, Mimi e Sora. Ma più sorprendente di tutto è stata la presenza di Pan, che era sembrata la meno interessata di tutti alla faccenda, sia questa mattina che ieri, quando ha poi tentato di far prendere ad Alex il badge della Une. Ma c'erano anche altre facce nuove: Ryan Shirogane con la sua fidanzata-ventosa, Seto Kaiba che se ne stava in disparte, su una sedia, con le gambe accavallate e le braccia incrociate sul petto. Per ultimo, un ragazzino basso basso con una pettinatura strana, che poi ho scoperto chiamarsi Yugi Muto.

«Ma... come mai così tanti?» ho chiesto a Trowa.

Lui ha aperto le braccia. «Passaparola.»

«A chi?» ha chiesto Alex, sorpreso.

«No, Ramazza.» ha ribattuto Burton, con un sospiro rassegnato. «Volevo dire che tutta questa gente c'è perché si è sparsa la voce.»

Guardandomi ancora intorno, ho visto che c'era anche Ernesto, che cercava in tutti i modi di attirare l'attenzione di Pan su di sé in un modo abbastanza patetico: «Ma sciamo qui per lo shtessho motivo?»

«Non so.» ha risposto Pan, con glaciale tranquillità. «Sei qui per farti ridurre i denti con un pugno? Perché, se è per questo, sono un ottimo dentista!» E così, senza indugiare, gli ha inferto un colpo che lo ha fatto finire a gambe all'aria.

Bra, Mimi e Sora, che erano lì vicino, hanno lanciato un grido, ma invece di soccorrere il povero Ernesto, si sono allontanate. Per questo, ho cominciato a pensare che fosse morto e così, facendomi strada in mezzo alla gente stivata all'interno della biblioteca che parlava e quasi non si accorgeva di lui e di quello che gli era successo, mi sono inginocchiato al suo fianco. L'ho guardato. Aveva il sangue al naso e un'aria ebete stampata in faccia, mentre guardava il soffitto. Per un lungo momento di terrore ho pensato che fosse morto per davvero.

Però poi ha cominciato a muovere le labbra, ma sembrava che non ne uscissero suoni. C'era un caos incredibile intorno a noi ed è stato difficilissimo per me riuscire a comprendere che Ernesto stava dicendo: «La voglio shposhare!»

Alex ha proprio ragione: è masochista.

L'ho aiutato a rimettersi seduto e gli ho tenuto un braccio dietro le spalle, spaventato all'idea che potesse cadere di nuovo, battere la testa e morire davvero. «Come stai?»

«Mai shtato meglio!» ha sospirato lui e si è sistemato gli occhiali sul naso. Erano un po' più storti, ma credo che lui lo prenderà come un segno dello sconfinato “amore” di Pan per lui.

«Ce la fai ad alzarti?»

«Shì... forshe vuol dire che non mi ha picchiato troppo forte... le chiedi, per piascere, se mi dà un'altra botta?»

«Più tardi, magari» gli ho promesso, incerto.

«Io la amo!» ha gridato, ma nessuno, proprio perché erano tutti impegnati a chiacchierare tra di loro, ha notato niente. Solo Bra, Mimi e Sora, che se n'erano andate quando Ernesto è caduto loro ai piedi per il pugno di Pan ci stavano guardando con un sorriso maligno che non lasciava intendere niente di buono. Chissà che avevano tutte e tre, da guardare. Potevano anche dare una mano, invece di ridere del povero Ernesto e del suo strano interesse per Pan!

Alex, che era dietro di me, mi ha dato una mano a metterlo in piedi e a portarlo fuori, in infermeria. È probabile che ci saremo persi la prima parte del racconto, ma non potevamo lasciare quel povero diavolo di Ernesto ad annegare del suo sangue per un racconto che avrei potuto risentire quando volevo, visto che il sergente non è uno che ama farsi pregare.

L'infermeria era deserta, ma l'odore di pulito e disinfettante persisteva. La Johnson, che era nel suo ufficio quando Alex ha cominciato a chiamarla a gran voce, ci è venuta incontro solerte come suo solito. «Lo sapevo!» ha esclamato. «Lo sapevo che questa calma piatta non poteva durare! Due giorni senza nemmeno un ferito sarebbe stato troppo bello... che è successo?» ha chiesto, spiccia, quando è arrivata davanti a noi, ha afferrato energicamente il mento di Ernesto e lo ha sollevato fino alla sua altezza. Ha osservato il sangue e il naso di Ernesto, poi lo ha lasciato andare ed è tornata velocemente verso uno degli armadietti dei medicinali. «Mi chiedo perché voi ragazzi abbiate tutta questa fretta di fare a botte... per cosa, poi? Dovete stare qui dentro e convivere, non potete azzuffarvi per tutto!»

Non abbiamo detto niente, o almeno, questa era l'idea che avevo io e che, forse, aveva anche Alex.

«Non era una giuffa!» ha decretato Ernesto che, oltre che il suo strano problema di dizione, aveva preso a parlare con voce nasale. «Era amore! Cercava di aiutarmi. È un ottimo dentishta!»

«Sì.» ha grugnito la Johnson. «Mettetelo seduto. Fare a botte pure per le ragazze! Ah, gli adolescenti! Questi ormoni! Tenetelo fermo, tirategli indietro la testa. Un dentista! Ma da dove le tirate fuori?»

Alex, mentre eseguivamo gli ordini, guardava la Johnson come Ernesto guardava Pan, forse un po' meno invasato, comunque io mi immaginavo che anche l'infermiera potesse rispondere picche come Pan e dargli un pugno sul naso, per questo suo insistente sguardo puntato. Sono stato preoccupato che lo facesse, mentre lei metteva dei piccoli tamponi di spugna nel naso di Ernesto, dopo che l'aveva ripulito da quello che aveva provocato Pan. Aveva l'aria assassina che ha anche mia sorella nei suoi momenti più neri.

Quando ha finito, l'infermiera ha detto: «Rimani qui per stasera, così dopo ti cambio i tamponi e speriamo che il sangue abbia smesso di scendere. Ma è meglio che non ti stendi.»

«Ma io devo tornare in biblioteca. C'è Phan che mi ashpetta!»

«Fai come dice l'infermiera. Rimani.» gli ho detto, preoccupato che Pan, vedendolo tornare, decidesse di dargli la seconda scarica.

E, mentre io cercavo di convincere Ernesto, Alex voleva attaccare bottone con la Johnson che si era allontanata per lavarsi le mani: «La... la vedo in forma, infermiera Johnson! Un po' esaurita, magari… ma che le è successo?»

«In forma!» ha sbottato lei, mentre strofinava il sapone con foga eccessiva. Era evidentemente diversa dalla infermiera di sempre che era sì energica, ma mai così sfasata, aveva ragione Alex. «Sarei in forma, se fossi in un centro termale, sarei in forma se potessi stendermi sul letto e leggere un buon libro! Invece sono qui... e non sai cosa ho trovato sulla mia scrivania, un bel ritorno davvero! Potevo starmene alle terme e invece... un bel richiamo formale! Un richiamo! A me

Io e Alex ci siamo scambiati un'occhiata perplessa.

«Ah!» ha continuato lei. E si è allontanata dal lavandino per asciugarsi le mani, ma non sembrava che ci stesse davvero guardando. Era più come se stesse parlando tra sé e sé e noi fossimo lì solo per caso. «Già. Un richiamo per l'infermiera che fa il suo lavoro!» diceva, tra una strofinata e l'altra. «Un richiamo perché l'infermiera che fa il suo lavoro è sospettata di aver aiutato gli studenti a bigiare le lezioni. Io! Jenny Johnson! Che ho fatto della mia professione una missione! Che sono stata anche negli ospedali da campo, finita in una infermeria di ragazzini che fanno a botte tra loro per una ragazza, vengo sospettata di aver dato falsi permessi agli studenti! Ah, ma il Generale mi sentirà! Eccome se mi sentirà! Farò un rapporto anche io! Eccome se lo farò! Gliela faccio vedere io...»

Senza degnarsi di uno sguardo, dopo aver gettato nel cestino il fazzoletto di carta, inspirando con violenza, si è ritirata nel suo ufficio sbattendo la porta.

«Vengo con voi.»

«Meglio di no.» ho detto. «Davvero Ernesto... rimani con la Johnson.»

«E she mi uccide?»

«Ma figurati!» ha replicato Alex, irritato. «Basta che non la infastidisci.»

«Ma... ho paura!»

Alex l'ha guardato in modo strano, penso nello stesso modo in cui l'avrei guardato io, se lui fosse stato girato verso di me. Ha paura della Johnson che sbraita, ma non di Pan che per poco non lo ammazza con un pugno? Quel ragazzo è strano. Molto strano.

«Figurati... non può fare peggio di Pan!» ha detto, infatti, Alex, dandogli una pacca sulla spalla.

«Quello era amore!» ha ribattuto lui, convinto. «Lo fasceva per aiutarmi!»

«Sì, va be'.» ha risposto Alex. «Andiamo, Kenny. Così riusciamo a vedere la fine dello spettacolo, se non è già finito!»

Anche secondo me era finito, ma siamo andati comunque, giusto per scrupolo. E abbiamo scoperto che lo “spettacolo” non era mai neanche cominciato... perché ne era in corso un altro.

Quando siamo arrivati davanti alla porta della biblioteca, questa era spalancata e davanti c'era una ragazza coi capelli cespugliosi che bloccava il passaggio. Tutti gli altri erano ammassati davanti a lei e la stavano fissando, chi con malevolenza, chi con evidente fastidio. Il sergente, tra i due fuochi, guardava dall'una all'altra parte con l'aria di non sapere da quale delle due stare. E il brutto della faccenda era che non vedevo Pan: sospettavo che fosse scappata a combinarne una delle sue.

«Questa è una biblioteca!» diceva, intanto, la ragazza con i capelli cespugliosi, con tono puntiglioso e acido. «Non potete fare questa confusione! La biblioteca serve per studiare e per trovare pace, non per fare le riunioni di classe e parlare a voce così alta, è ingiusto per chi invece...»

«Ma stai zitta, befana!» ha sbraitato Pan. Era lei, non c'erano dubbi e mi sono sentito subito sollevato perché vuol dire che non cercava di fare qualcosa di strano ai danni suoi o della Une e, sprattutto, non stava cercando di sottrarle il badge. Mi sono messo in punta di piedi per vedere se riuscivo a vedere qualcosa oltre la spalla della ragazza con i capelloni.

«Io non sto zitta!» ha replicato lei. «Io vengo tutti i giorni a studiare e spesso non posso perché c'è qualcuno che parla a voce alta e che non mi permette di concentrarmi! Ne parlerò con la direttrice, se non ve ne andate immediatamente!»

«Vai, vai, almeno ti levi dai coglioni!» ha risposto Pan, sempre gridando.

«Scusa? Ci fai passare?» ha chiesto invece Alex, picchiettando un dito sulla spalla della ragazza.

Lei si è girata di scatto e l'ha fulminato con lo sguardo. «Ma non lo vedi che non si può? La biblioteca è piena di questi ragazzi che stanno facendo una riunione di classe! Ah, ma c'è anche Kaiba! Kaiba, che cosa stai facendo lì nel mezzo, come fai a stare lì e...»

Seto Kaiba che si era alzato in piedi un secondo prima, la guardava con aria di sufficienza. «Granger, se vuoi studiare, la biblioteca ha ancora... ah, no, niente più posti. Che peccato. Credo proprio che dovrai andare altrove a studiare...» ha detto, senza mai cambiare di un'ottava il tono di voce. Quel ragazzo ha un che di gelido che mi dà i brividi.

La ragazza si è irrigidita tutta, poi si è voltata di scatto verso l'uscita, e quindi verso di noi, e ho potuto vedere che aveva le lacrime agli occhi. Mi ha guardato e poi ha fatto lo stesso con Alex, risoluta. «Venite con me a parlare con lady Une?» ha chiesto, quasi speranzosa che noi le dicessimo di sì.

Io e Alex ci siamo scambiati un'occhiata, entrambi chiedendoci perché mai avremmo dovuto andare volontariamente dalla Une a dire che ci stavamo riunendo in biblioteca, che gliela stavamo facendo sotto il naso per farci spiegare dal sergente che cosa è successo al Sanc Kingdom, quindici anni fa.

Volevamo rispondere di no, ma stranamente lei deve aver capito perfettamente quello che pensavamo. «Fate come volete!» ha sbuffato, con un tono da: e sentitevi in colpa! Quindi ci ha dato una spallata l'uno, passandoci nel mezzo, e ha cominciato a percorrere il corridoio a grandi passi.

Da dentro la biblioteca si è levato un coro di strilli, applausi e fischi.

Noi siamo entrati e il sergente ha richiuso la porta con un sospirone di sollievo che ho sentito probabilmente solo io perché Alex si è fiondato su Pan, le ha preso la mano e ha cominciato a mandarla su e giù come se fosse stato tutto merito di mia sorella se quella ragazza – Hermione Granger, se non ricordo male – è andata via.

«Ma lasciami, lurido caprone in decomposizione!» ha gridato lei, riprendendosi la mano con violenza. Almeno non ha replicato il pugno di Ernesto e si è ritirata all'interno della biblioteca.

«Ragazzi, facciamo piano.» ha chiesto il sergente. «Perché se quella torna... che rompipalle, che è! Dovrei essere io a rimproverarvi, ma ci pensa lei. Bah, che tempi! Ma se davvero va dalla Une, va a finire che...»

Si è passato un dito sotto la gola per fare intendere che eravamo tutti fregati.

«Non se lo facciamo prima a lei.» ha risposto Pan, senza scomporsi.

Ma non si è scomposto nemmeno nessun altro.

Il sergente mi ha spinto gentilmente verso l'interno, al tavolo dove si erano tutti riuniti e nessuno ha più detto una parola in merito.

Arale era proprio al centro della tavolata, davanti a me, ma ha fatto completamente finta di non vedermi. Anzi, a volte pareva che mi guardasse e vedesse solo l'aria. Pan si è seduta al suo fianco, Alex ancora dall'altra parte. Poi tutti gli altri hanno girato intorno al tavolo. Dall'altro lato rispetto a dove si trovava Alex, era seduto Heero, lì dove l'avevo trovato, col bacino in avanti, le gambe allargate e le mani in grembo chiuse sul cellulare dal quale stava messaggiando con impegno, ignorando del tutto quello che aveva intorno.

Chissà a chi scriveva...

«Allora, perché siamo qui?» ha domandato il sergente, tutto allegro. «Norimaki ha tanto insistito perché ci incontrassimo a quest'ora!»

Arale ha annuito. «Sì. Si tratta del Sanc Kingdom.»

«Ah, non troverete libri sull'argomento.»

«Lo immaginavo.» ha risposto Trowa. «E' stata una perdita di tempo venire.»

«Non direi proprio! Sergente!» Arale è balzata in piedi. Stringeva ancora tra le braccia quel dannatissimo giornale con la faccia di Stark. «Se siamo qui, tutte queste persone, è perché vogliamo saperne qualcosa di più. Da lei!»

«Da me?» ha ripetuto il sergente e ha cominciato a scuotere la testa con disapprovazione. «Non sono argomenti da bambini... troppe brutte cose...» e si è girato a metà, pronto a correre verso la sua scrivania, al suo vecchio Olivetti.

«Saranno brutte cose, ma non vi fate scrupolo a tenere Pioggia di Fuoco in un hangar dell'accademia. Il quattordici, per la precisione.» ha insinuato la mia amica, al che il sergente si è girato verso di lei e l'ha guardata con tutto lo sbigottimento possibile.

«E tu come lo sai?» ha chiesto, sospettoso.

«Beh, diciamo che ho le mie fonti...» ha risposto lei, misteriosa, stringendosi nelle spalle per darsi ancora più importanza.

Lui si è accigliato, invece. «Sì, le tue fonti...» ha borbottato. «Beh, è comunque una cosa non adatta ai bambini!»

«Non siamo bambini.» ha insistito Arale. «Heero, ha quindici anni e anche Alex!»

«Ancora no.» l'ha informata Alex.

«Eh? Che vuoi da me?» ha chiesto invece Heero, sollevando appena gli occhi dal cellulare.

Arale lo ha guardato con disgusto. «Dico solo che, se siamo abbastanza grandi per entrare in una caserma sperimentale, possiamo anche sapere che cosa succede nel mondo, no?»

«Ma è un segreto militare!» ha esclamato il sergente, muovendo le mani avanti e indietro davanti ad Arale, con aria quasi contenta, come se avesse appena trovato un modo per ovviare a tutti i problemi.

Ma Arale non si è data nessun tipo di pensiero. «Siamo militari.»

Il sergente è rimasto un attimo interdetto: da un certo punto di vista, la mia amica aveva perfettamente ragione. «Beh, comunque non posso parlarne.»

«Perché? Se Zack Marquise ha il permesso di parlarne agli studenti, perché lei no?»

Heero ha di nuovo sollevato lo sguardo dal telefonino, ma con più lentezza rispetto a prima. Guardava Arale con gli occhi appena socchiusi, come se si stesse chiedendo se aveva sentito bene oppure se fosse possibile una cosa del genere.

«Zack Marquise, eh?» ha detto, però, il sergente, anche lui abbastanza perplesso. «Non credo che l'abbia fatto...»

«E invece le dico di sì! Lo chieda a Kenny!»

Il fatto che mi mettesse in mezzo e che lo sguardo di tutti fosse puntato su di me in attesa che io dicessi qualcosa mi ha innervosito parecchio, perché sentivo che avrei messo nei guai Zack Marquise. E non mi andava proprio di farlo, se devo essere sincero. Già avevo fatto litigare i miei amici, se poi quel professore che mi aveva aiutato tanto a non sprofondare nella depressione più nera avesse passato dei brutti momenti per causa mia non mi sarei mai potuto perdonare. Tanto valeva andare a raccogliere pannocchie o ad elemosinare iscritti per la palestra del nonno con addosso solo una mutanda da lottatore di sumo.

E un Dio, forse, mi ha voluto aiutare, facendo svegliare la ragazza di Ryan Shirogane dal torpore in cui era caduta praticamente dall'inizio della conversazione.

«Ah, Zack Marquise!» ha esclamato, balzando in piedi e permettendo che l'attenzione generale passasse da me a lei. «Lo conosco! È il nostro professore di Materiali! Porta sempre la mascherina!»

Ryan, che era seduto e appoggiato con i gomiti al tavolo, usava il braccio per coprirsi il più possibile. «Sì, Strawberry, lieto che tu abbia collegato finalmente i neuroni! Per informazioni superflue, ma è stato un grande passo avanti.»

«Oh, Ryanuccio!» ha sospirato lei e si è fiondata di nuovo tra le sue braccia, con tanta foga che ha fatto ribaltare la sedia dove era seduto lui con lui sopra. Ryan ha gridato come un matto, ma quando è piombato a terra con un tonfo ed è scomparso sotto il tavolo, la biblioteca è piombata in un imbarazzante e sconcertante silenzio, poi abbiamo cominciato a sentire rumore di schiocchi di baci.

«Oh, piano, dai ragazzi! Che infoiati!» ha esclamato Alex, con fare malizioso. «Non vogliamo bambini, in biblioteca!»

«A-aiuto!» gridava Ryan e ha sollevato un braccio che è spuntato inquietante da sopra il piano del tavolo.

Avevo paura di scoprire che cosa stessero combinando quei due là sotto, ma ho avuto paura di chiedere dato che, di solito, quando domando, mi guardano tutti in modo strano, chissà perché.

Heero, dal canto suo, non dava nessun aiuto a nessuno, si è sporto per guardare meglio, con un mezzo sorriso sghembo.

«Aiutatemi!» rantolava il povero Ryan.

Nessuno si è mosso per qualche secondo. Poi ad andare in suo soccorso, benché tutti riuscissero a vedere e nessuno si desse una mossa per fare lo stesso, io compreso, è stata Pan, che ha preso Strawberry per i capelli e l'ha tirata via da Ryan, tra urla e spintoni e calci della ragazza con i capelli rossi. Tutti quanti eravamo attoniti, pure quel pezzo di ghiaccio di Seto Kaiba.

«E che palle! Basta!» ha sbottato mia sorella, spingendola lontano. «Che cazzo! Se hai i bollori, fatti una sega! Non trombare quando c'è la gente che vuole scoprire i misteri che potrebbero sputtanare la Une e permettermi di prendere il potere di questo posto! Cazzo! Devo firmarmi il permesso di espulsione, idiota, e tu mandi tutto a puttane!»

Non appena ha finito di urlare, il silenzio è calato, tombale.

Mi sono reso conto, allora, che Pan è venuta in biblioteca questo pomeriggio soltanto per quello: trovare i segreti sporchi della Une per usarli contro di lei, ma non ho ben capito il resto del piano... quello dove lei prende il potere e firma la sua stessa espulsione. La dinamica della cosa mi sfugge.

Ma è stato proprio per il silenzio che è sceso subito dopo che abbiamo potuto sentire il rumore dei passi che si avvicinavano.

Era una roba inquietante, da film dell'orrore, perché credo che, come li ho riconosciuti io, li hanno riconosciuti tutti gli altri. È impossibile non conoscere quel passo cadenzato, quel ritmo marziale che scandisce i minuti delle sue estenuanti ore di storia.

Ho guardato Alex, che ha guardato me e poi Trowa, il quale ha guardato Mimi, che ha guardato Sora, che ha guardato Bra che si guardava le unghie, pure con noia. Pan guardava la porta e un attimo dopo la maniglia si è abbassata cigolando.

È stato allora che abbiamo lanciato tutti un grido, come se fossimo stati uno solo. Il panico si è scatenato. Il primo a fuggire è stato Alex, che si è nascosto tra gli scaffali. A seguirlo c'è stato il ragazzino con i capelli a punta, Strawberry che strillava più di tutti: «Dov'è il mio Ryanuccio?», Sora e Mimi che correvano da una parte all'altra come due galline spaventate e, alla fine, si sono pure scontrate tra di loro. Arale si è nascosta sotto il tavolo e si è aggrappata alle gambe della sedia, più o meno come ho fatto io. Pan è piombata sul tavolo e ha cominciato a fare il gorilla, battendosi il petto con i pugni. Gli unici rimasti tranquilli sono stati Bra, Heero, Ryan, Trowa e Seto Kaiba, che erano rimasti seduti dove si trovavano da prima dell'assalto di Strawberry.

Ma è stato tutto inutile, perché la Une era già entrata e aveva visto tutto.

«Siete un branco di imbecilli!» ha sibilato. E ha fissato con occhio truce sopra al tavolo, dove c'era Pan, probabilmente ancora in piedi e con i pugni pronti a battere sul petto.

 

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