...and the truth is: baby, you're all that I need! di ChiaraBaroons (/viewuser.php?uid=611312)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo - Uno Spiacevole Incontro ***
Capitolo 2: *** 1. Uno a zero per Maya! ***
Capitolo 3: *** 2. Paura e Delirio... In Piscina ***
Capitolo 4: *** 3. Travis' POV - Maledizione! ***
Capitolo 5: *** 4. And The Story Goes On ***
Capitolo 6: *** 5. Al Mare ***
Capitolo 7: *** 6. Odio Reciproco ***
Capitolo 8: *** 7. Terra chiama Maya! ***
Capitolo 9: *** 8. Giochi Pericolosi ***
Capitolo 10: *** 9. Il Gioco della Verità ***
Capitolo 11: *** 10. Madness ***
Capitolo 12: *** 11. Animal Instinct ***
Capitolo 13: *** 12. Vento di Cambiamenti ***
Capitolo 14: *** 13. Travis' POV - Concentrazione ***
Capitolo 15: *** 14. Riccioli d'Oro ***
Capitolo 16: *** 15. Changes ***
Capitolo 17: *** 16. Travis' POV - Doha.. we're coming! ***
Capitolo 18: *** 17. Travis' POV - Cambio di Rotta ***
Capitolo 19: *** 18 - Competizioni pt.1 ***
Capitolo 20: *** 19 - Competizioni pt.2 ***
Capitolo 21: *** 20 - More Than a Feeling ***
Capitolo 22: *** 21 - Anno nuovo, vita nuova! ***
Capitolo 23: *** 22 - Starlight ***
Capitolo 24: *** 23 - Distance ***
Capitolo 25: *** SCUSE E RITARDI - Una storia senza fine ***
Capitolo 26: *** 24 - Stubborn Love ***
Capitolo 1 *** Prologo - Uno Spiacevole Incontro ***
Maya
*****
Una laurea. Bene e adesso?!
Continuai
a farmi quella domanda per tutti i tre mesi che passarono dopo la mia
laurea,
ma non successe niente: un’opportunità, una
proposta di lavoro. Niente.
Tre mesi
passati a portare curriculum ovunque, a girovagare ovunque
sentendomi una stupida, ma nessuno sembrava essere
interessato ad una neo-laureata con quasi il massimo dei voti e con
alcune
raccomandazioni dei più importanti professori della mia
università.
Niente.
Fino a quel giorno.
Di
certo, appena cominciata la ricerca di un lavoro, non avrei mai
immaginato che
sarei finita a fare servizi fotografici per una rivista sportiva, anche
se una
tra le più importanti.
Almeno
non ancora.
La
redazione si era dimostrata interessata ai miei scatti e alle mie
capacità, ma non
ne pareva del tutto convinta, così mi chiesero alcune
fotografie “nuove” e su
un argomento che trattavano loro.
Per
fortuna c’era papà.
Scusate
la maleducazione, io sono Maya.
Nome
particolare, direte. Si, lo so anche fin troppo bene e preferisco non
dare
spiegazioni: l’ho fatto fin troppe volte.
Tornando
a mio padre, lui è un ex nuotatore professionista che, in
gioventù, ha vinto molte
competizioni, tra cui due campionati italiani ed uno europeo. Poi si
è ritirò
dopo che mia madre ci abbandonò per farsi un’altra
vita.
Lui, una
volta mi disse che si era stancata della sua notorietà e che
preferiva una vita
tranquilla, ma a me non pensò minimamente.
Meglio
così: mio padre è stato meraviglioso in questi
anni e non ho mai sentito la
mancanza di una figura femminile nella mia vita.
Avevo
papà e mi bastava.
Alcuni
anni fa decise di prendere in affitto un palazzetto sportivo, che poi
diventò suo,
e ci aprì una scuola, così cominciò a
dare lezioni di nuoto a dilettanti, ma
con il tempo anche a professionisti.
Posso,
con orgoglio, vantarmi di aver avuto un padre allenatore di alcuni dei
nuotatori più promettenti a livello nazionale, per un certo
periodo.
Quando
raccontai a mio padre, Claudio, di questo tipo di fotografie, ne fu
entusiasta
e mi disse che sarei dovuta andare alla sua piscina per fare delle
prove.
Niente
di più semplice, mi dissi.
E ne ero
fermamente convinta, fino a quando conobbi gli
“allievi” di mio padre: un
ammasso di ormoni maschili, privi del benché minimo briciolo
d’intelligenza. In
una parola: uomini.
Non mi
dilungherò oltre su discorsi sessisti, tanto a cosa
servirebbe?
Accettai
la proposta di mio padre.
Il nuoto
lo avevo sempre lasciato a lui: me la cavo molto bene, ma avevo sempre
declinato ogni proposta di mio padre di prepararmi a competizioni
agonistiche;
quindi quando entrai nel palazzetto per cominciare a fotografare in
giro, per
me fu la quarta o quinta volta che misi piede lì dentro.
Non mi
sentivo particolarmente agitata: ero la figlia
dell’allenatore, quindi non
avevo nessun motivo per esserlo; ma avevo la sensazione che qualcosa
sarebbe
andato storto. Fantastico!
Quando
mi ritrovai nel palazzetto, andai subito alla ricerca di mio padre.
Il
giorno prima mi aveva proposto di fotografare un suo nuotatore in
particolare
e, da come me lo aveva descritto, doveva essere particolarmente bravo,
quindi
particolarmente egocentrico.
Arrivai
alla piscina principale e intravidi mio padre mentre parlava con un
ragazzo con
la sua stessa tuta da allenatore. Diedi un’occhiata in giro e
notai che le
vasche straripavano di atleti: mio padre era molto richiesto.
Rimasi
un attimo ferma dov’ero, proprio davanti alla porta, a
cercare di indovinare il
prediletto di papà che aveva scelto come mio soggetto, ma
non sapevo tra chi
scegliere, se tra un ragazzo moro, minimo un metro e novanta, oppure un
altro
che sembrava più giovane di tutti gli altri.
Poi mi
resi conto che, probabilmente, restavo lì per perdere il
più tempo possibile:
la mia voglia di scattare fotografie a individui completamente
sconosciuti,
quel giorno, era sottoterra.
Appena
mio padre mi propose la sua idea, non potei fare a meno di pensare a
quanto la
sua passione fosse presente nella mia vita: avevo la fotografia, che
era una
cosa soltanto mia, ma in quel momento mi trovavo costretta ad unire le
due
cose.
Da
quando avevo cominciato l’università, mi ero
distaccata molto da mio padre e
forse, in questo modo, sperava di poter recuperare il tempo perduto.
Non potevo
biasimarlo, ma desideravo essere indipendente e tornare in quel
palazzetto mi
faceva sentire come se fossi tornata alle catene di quando ero bambina
e di quando
mio padre si dimostrava fin troppo apprensivo, quasi soffocante.
Odio
sentirmi soffocata!
Alla
fine accettai perché avevo bisogno di un lavoro e, quella,
era la mia unica
possibilità per provarci.
Presi un
lungo respiro, intenzionata ad andare verso mio padre, quando qualcuno
mi
travolse entrando dalla porta.
Aiuto!
“Ma
che…”. Una
voce maschile.
Non
riuscii a restare in equilibrio e finii stesa a terra. Fortunatamente
salvai in
tempo la mia macchina fotografica.
“La
prossima volta, magari,
eviterai di stare impalata davanti alla porta!”. Sempre quella voce maschile.
Iniziava a diventare irritante.
“Magari
tu, in un’altra vita,
potrai imparare le buone maniere!”, dissi alzandomi. Da sola. Poi mi
voltai verso
l’assalitore. Però…
Terribilmente
più alto di me, sicuramente un atleta di mio padre, capelli
castano chiaro e
occhi color nocciola, sicuramente più dolci di quel suo
caratteraccio.
Il mio
sguardo rimase impassibile, mentre sul viso del ragazzo aleggiava un
sorriso
divertito.
L’irritazione
stava aumentando.
“Stai
cominciando un gioco che
potrai soltanto perdere”.
“Invece
di essere così criptico,
metti in moto il cervello e almeno chiedimi scusa!”, dissi stizzita.
Incrociai
le braccia al petto, in attesa.
Sentii
le guance diventare più calde e mi resi conto poco dopo che
sicuramente mi
stavo rendendo ridicola, ma non mi azzardai a muovere un dito.
“Mi
dispiace, ma proprio non
posso, sono già in ritardo a causa della tua
goffaggine!”, mi disse lui con un sorriso
ancora
più divertito sul viso. Poi se ne andò.
“Cafone!”, ringhiai a denti stretti, ma lui
era già troppo lontano per potermi sentire.
Realizzai
in quel momento che la mia brutta sensazione di poco prima si era
appena
realizzata.
Perfetto!
Era
ufficiale: la giornata era partita malissimo e non poteva far altro che
peggiorare, lo sapevo già!
L’ego di
quel ragazzo doveva arrivare sicuramente alle stelle.
Provai
in tutti i modi a mandar via il nervosismo respirando a fondo. Dovevo
andare da
mio padre e non volevo presentarmi da lui con i nervi a fior di pelle.
Mi dissi
che non valeva la pena innervosirsi per un soggetto simile,
però, cavolo! avevo le
mani che mi prudevano.
Sono
sempre stata una ragazza tranquilla, ma ostentazioni di strafottenza
come
quella continuano ancora oggi a mandarmi in bestia.
Mi
avviai verso Carlo, mio padre, ancora intento a parlare con
l’altro allenatore.
Gli
toccai una spalla. “Papà,
sono qui”.
Lui si
voltò sorridente, con le rughe che si infittivano vicino
agli occhi, benevolo.
“Ciao
piccola! Dammi due minuti e
sono da te”.
Si voltò
ancora e continuò a parlare con il suo collega che, per
essere un allenatore,
sembrava molto giovane.
Mi
guardai un attimo in giro, per passare il tempo, e solo in quel momento
notai
che tutti gli atleti dovevano essere molto giovani: il più
“vecchio” avrà avuto
venticinque anni.
Notai
anche che tutti si stavano impegnando al massimo: si fermava uno e
cominciava
un altro.
Mio
padre doveva aver di sicuro costituito un dispotico regime mentale,
dove tutti
dovevano impegnarsi al mille per cento, anche se si trattava di un
semplice
allenamento, ne ero certa.
Una
porta sbatté. Mi voltai verso il punto da cui proveniva il
rumore e vidi Mr.
Egocentrico fare la sua entrata trionfale dagli spogliatoi, con un
sorriso
trionfante.
Tutti lo
salutarono e lo guardarono come se fosse un dio. Oh
no… l’ennesima Diva!
Rivolsi
lo sguardo altrove alla parte opposta del palazzetto, rifiutandomi di
assistere
a quello spettacolo da baraccone.
Continuai
a tergiversare per quelli che mi sembravano attimi interminabili e a
guardare
in giro per le piscine, spazientita. Volevo solamente tornare a casa.
Dopo
poco mio padre mi chiamò e quando mi voltai vidi al suo
fianco quello che
doveva essere il famigerato atleta.
*
Ciao a tutti!
Spero che questo
prologo sia piaciuto, sono molto legata a questa storia: è
da parecchio che ci sto dietro!
E vi prego...
Fatemi sapere cosa ne pensate, come ho iniziato, cosa vi piace e cosa
no. Tutto!
Comunque... Vorrei ringraziare chi mi ha
convinto a pubblicare questa
storia, chi ha sempre sostenuto me ed il mio modo di scrivere (la
mia persona <3)
e vorrei ringraziare anche chi mi ha dato una mano a definire gli
ultimi piccoli particolari prima di pubblicare questo primo capitolo!
Grazie
di tutto!
Detto questo, vi
saluto! Cercherò di aggiornare presto!
Alla prossima,
gente :)
|
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Capitolo 2 *** 1. Uno a zero per Maya! ***
Maya2
*****
Lo vidi
strabuzzare leggermente gli occhi. Non ci poteva credere nemmeno lui.
Se non
fosse stata attaccata al cranio, di sicuro mi sarebbe caduta la
mascella per la
sorpresa, così serrai i denti prima che mio padre potesse
accorgersene.
“Piccola,
lui è Travis”, mio padre sembrava al settimo
cielo con quel sorriso sognante che si ritrovava sul viso. “Travis, lei è mia figlia
Maya”.
Lo vidi
ancora più sorpreso o spaventato, Travis, e in parte poteva
anche piacermi
quella sua reazione, ma non potei fare a meno di sentirmi davvero
contrariata.
Cercai
di mostrarmi il più tranquilla possibile, mentre le mani
ricominciavano a
prudermi.
In quel
momento realizzai che non poteva andare peggio di così:
avrei dovuto
fotografare Mr. Egocentrico per poter ottenere un lavoro. Fantastico!
Tesi la
mano verso di lui, mostrandomi diplomatica, senza rancori, anche se
dentro di
me in quel momento, di diplomatico, c’era davvero poco.
“Piacere”, dissi con tono più
glaciale del
previsto. Lui mi prese la mano e me la strinse leggermente. Aumentai la
stretta.
“Piacere
mio”.
Il suo stupore aumentò.
Mio
padre continuò a parlare, con i suoi occhi azzurri che
brillavano, anche se mi
sembrava più un giudice di pace in quel momento. Maledissi
mentalmente il
giorno in cui avevo accettato l’aiuto di mio padre.
“Travis
devi sapere che Maya si è
laureata in fotografia e ha trovato lavoro, per una rivista
sportiva…”
“Non ancora, papà”, mormorai mentre ancora ribollivo
di rabbia, sempre con lo sguardo puntato su quello di Travis.
Lui,
invece, sembrava molto interessato alle parole di mio padre: porgeva
tutta la
sua attenzione a lui, anche se sulle labbra c’era
l’ombra di un sorriso
divertito.
“Si,
hai ragione. Per il lavoro
le hanno commissionato un servizio su uno sport a sua scelta,
così le ho
consigliato di venire qui ed ho pensato a te come soggetto
ideale”, continuò a blaterare.
“Uno
sport a mia scelta, già…”, sussurrai talmente piano che
mio padre non mi sentì.
Travis,
per un momento, sembrava aver perso ogni sicurezza, quando sul suo viso
comparve un’espressione smarrita, pareva senza parole, ma poi
tornò ad
aleggiare sul suo viso quel suo sorrisetto divertito. E dentro di me si
mosse
la paura di quel suo ipotetico gioco, come lo aveva chiamato poco
prima, a mio
discapito, ma ero decisissima a non dargliela vinta così
facilmente. Ero decisa
ad ottenere quel posto ad ogni costo, anche sopportare un megalomane di
quel
calibro.
“Oh
capisco. Qual è la rivista in
questione?”
“Non sono tenuta a dirtelo!”, esclamai brusca, forse un
po’
troppo di quanto avrei dovuto.
“Maya,
tranquilla”, mi calmò mio padre
poggiandomi
una mano sulla spalla. Mi voltai verso di lui e mi guardò
ancora sorridente.
Cominciava ad essere irritante. “Travis,
spero accetterai senza problemi”.
Travis
mi guardò dubbioso, forse per soppesare la sua prossima
azione, ma poi tornò a
sorridere a mio padre. “Si…
penso che non
avrò nessun problema nell’aiutare tua figlia,
Claudio”.
Soffocai
una risata per il patetico tentativo di quel ragazzo di dimostrarsi
gentile
verso mio padre, quando con me si era dimostrato tutt’altro.
“Hai
sentito Maya? Ho la netta
sensazione che lavorerete benissimo, insieme”, esclamò felice, con
ancora quel sorriso
speranzoso che mi face quasi venire il volta stomaco.
Sospirai.
“Si, certo papà”,
posai lo sguardo su
Travis e una fitta mi colpì lo stomaco quando vidi il suo
sorriso, ancora tra
il divertito e il malefico. Pensai a come gli sarebbero calzate a
pennello
corna, forcone e coda da diavolo.
“Certo,
Claudio, sarà un piacere
lavorare con lei”.
Giuro che adesso vomito, pensai.
”Mi
fa piacere sentirtelo dire,
Travis”, disse
mio padre dandogli un’amichevole pacca sulla spalla. Oddio.
Mi
chiesi come mai avrei potuto lavorare con un soggetto del genere,
così pieno di
se e strafottente. E pensare che mio padre sembrava approvarlo,
sembrava che
gli stesse addirittura simpatico.
Che
cosa rivoltante!
Pensai a,
il mio possibile lavoro, potesse dipendere da quel ragazzo e a come
avrei fatto
a fotografarlo e parlargli dopo che si era dimostrato così
terribilmente
arrogante con me. Ma ne avevo davvero bisogno, dovevo farlo. Dovevo
avere quel
lavoro!
Travis
interruppe l’argomento e cominciò a parlare di
vasche, allenamenti ed io, lì,
smisi di ascoltare.
Nella
mia mente, nel frattempo, si diffuse il suono tranquillo e beato delle
onde che
si infrangevano sugli scogli.
L’ultima
cosa che avrei voluto, in quel momento, sarebbe stata ascoltare
qualsiasi cosa
sarebbe uscita dalla bocca di quel cafone. Continuai a guardarmi in
giro, a
notare immagini che avrei potuto fotografare, così presi tra
le mani la mia
macchina fotografica, la mia bambina.
Riuscii
anche a fare alcuni scatti, prima che mio padre mi richiamasse
sull’attenti.
“Maya, ora vi lascio parlare un
secondo, così
riuscirete ad accordarvi e a conoscervi meglio. Io ho altri atleti di
cui
occuparmi”, sorrise benevolo.
Ah,
papà… se solo sapessi.
Annuii
leggermente e lui sparì, lasciandomi sola. Con lui.
E
andiamo!
“Non sapevo fossi la figlia di
Claudio”, sul
suo volto lessi un briciolo di confusione.
“Nessuno
qui dentro lo sa”, ribattei scorbutica, sostenendo
il suo sguardo leggermente smarrito.
“Mi
dispiace per poco fa, per
esserti arrivato addosso come un treno in corsa”.
Non ci
potevo credere.
Dopo
aver scoperto chi fossi, dopo aver scoperto che il suo allenatore era
in realtà
mio padre, cominciò a comportarsi come un cucciolo
ammaestrato, mentre neanche
dieci minuti prima mi aveva trattata come una pezza da piedi,
scaraventandomi a
terra per la furia con cui aveva varcato la soglia del palazzetto.
Mi
sentivo dannatamente presa in giro, come se potessi abboccare
all’amo e come se
credessi alla sceneggiata che stava cominciando davanti ai miei occhi.
“Oh
no, non provarci neanche! Ora
stai cercando di comportarti da bravo ragazzo solo perché
hai scoperto che sono
la figlia del capo, qui dentro”. Mi fissò a bocca aperta,
ancora più confuso di prima. “Non
ti ho scelto io per il mio lavoro,
quindi cercherò di essere il più professionale
possibile e, inoltre, cercherò
di parlarti il meno possibile e so già che non
avrò problemi, con questo”.
Strinsi i pugni talmente tanto da far diventare le nocche bianche e
conficcandomi le unghie nei palmi. Avevo un diavolo per capello. “Quindi, tu ora allenati e fai quello che
devi fare ed io proverò a farti alcune fotografie decenti,
senza il bisogno di
interromperci a vicenda”, finii il mio monologo e
presi un grande respiro.
Travis
mi fissava con uno sguardo tra il confuso e il divertito, ma ancora non
si era
azzardato a ribattere. Solamente in quel momento mi resi conto di come,
anche
un pallone gonfiato come lui, fosse… terribilmente
affascinante in costume da
bagno, pronto per l’allenamento. Mi diedi mentalmente uno
schiaffo in faccia:
mi disse che, abbassare la guardia in quel modo, sarebbe stata
solamente una
catastrofe.
Dopo
alcuni secondi, finalmente, si decise a parlare.
“La gattina ha le unghie!”,
esclamò
strafottente.
Lo
guardai esterrefatta con la mascella che mi cadde per la sorpresa.
Cercai
di frenare l’istinto pulsante di prenderlo volentieri a
schiaffi. Per quanto
sarebbe stata una scena epica, divertente, l’immagine del
segno rosso su una
guancia di Travis venne sostituita da un cipiglio di disapprovazione e
delusione di mio padre.
“Come,
prego?! Sarai anche il
nuotatore migliore qui dentro, ma a quanto vedo l’educazione
non ti è stata
insegnata. E pensare che, per mio padre, è la cosa
più importante”, aggiunsi a denti stretti. “Mi chiedo come puoi ancora essere uno
dei
suoi atleti con questa dannata arroganza che ti ritrovi!”.
Stavo ridendo,
ma di una risata nervosa, arrabbiata, offesa. “Prima
mi hai detto che avevo cominciato un gioco avrei potuto
solamente perdere. Vedremo chi l’avrà
vinta”, sibilai imbestialita,
rendendomi conto che le parole che uscirono dalla mia bocca non avevano
un
briciolo di filo logico, ma mandai al diavolo la mia pignoleria e la
lingua
italiana, concentrandomi ancora sul tizio che avevo davanti.
Lui non
era ancora riuscito più a ribattere e ancora mi fissava
sorpreso, con le labbra
leggermente socchiuse.
“Ricorda
che questa gattina non
ha le unghie, ma gli artigli”. Detto quello che mi sembrava il
tipico copione da film,
mi defilai, facendo la mia uscita trionfale, come avevo immaginato, e
andai
verso la vasca principale, dove c’era mio padre.
Uno
a zero per Maya!
Molto
lentamente, la mattinata passò.
Travis
ed io non ci rivolgemmo parola, infatti vagai tranquillamente a bordo
della
piscina, scattando miriadi di fotografie, lasciandolo indisturbato al
suo
allenamento.
Girovagai
in cerca di ispirazione per alcuni scatti, ma davvero pochi mi
sembravano
soddisfacenti: avrei dovuto presentarmi il giorno dopo che fare altre
fotografie.
Fantastico, pensai.
Quella
che era partita come una normalissima giornata di lavoro, che poi era
diventata
davvero una brutta giornata, in quel momento, mi resi conto, era
addirittura
peggiorata.
Era
ormai ora di pranzo quando decisi di tornarmene a casa.
Trovai
mio padre, fortunatamente con Travis. Quando mi avvicinai a loro,
smisero di
parlare.
“Ciao
papà, ora devo andare”.
“Di già, tesoro?”. Vidi un lampo, negli occhi del
nuotatore, che mi sembrò simile al sollievo. Lo fulminai con
lo sguardo,
cercando di non farmi notare da mio padre, mentre annotava qualcosa su
un
foglio.
“Si,
devo proprio tornare a casa
per controllare bene le foto di oggi: non mi sembrano gran
ché”, aggiunsi amareggiata. In quel
modo, però, ottenni l’attenzione di mio padre in
baleno.
“Non
sono venute bene?”.
“Non so, ma in ogni caso tornerò
domani”.
Il
sollievo, negli occhi di Travis, si trasformò in
divertimento. E non si curò minimamente
di celarlo ai miei occhi. Quanto odiavo l’evidente
strafottenza di quel
ragazzo.
“Oh
bene, Maya! Allora a domani,
piccola”, disse,
guardandomi con quegli oceani azzurri pieni d’affetto. Mi
domandai come non si
potesse amare mio padre e il suo viso sempre sereno.“Vi
lascio, così potrete mettervi d’accordo per
domani”, aggiunse
dileguandosi e lasciandomi un bacio sulla guancia, poi sola con la
Diva.
Sorrisi a mio padre, ma il sorriso svanì
all’instante quando mi voltai verso
Travis, con lo sguardo più glaciale che riuscii a sfoderare.
L’egocentrico
era lì, a sorridermi sardonico ed era…
praticamente mezzo nudo.
Accidenti,
che fisico!
Poteva
anche essere la persona meno sopportabile sulla faccia della terra, per
quel
che ne sapevo io, ma quelle spalle larghe, quegli addominali scolpiti
ad arte non
passavano di certo inosservati.
Accidenti!
“Bene… domani avrei gli
allenamenti allo stesso orario di oggi”, disse lui.
Dopo
essersi lasciata abbindolare dai suoi addominali, la mia anima glaciale
tornò
all’attacco. “Perfetto!
Allora a domani,
allo stesso orario”.
Lui
restò lì, impalato, a fissarmi negli occhi con le
braccia incrociate al petto,
prima di far ricomparire quello stupido sorriso sulle labbra.
Perché?!
“Ti diverto molto, a quanto vedo”.
Lui
scoppiò in una risata sincera, probabilmente senza rendersi
conto del mio
sguardo inferocito. “Si,
cioè, no… è solo
il tuo essere scostante che mi diverte… non mi sembra di
averti fatto alcun
torto”.
“Alcun torto?!”,
esclamai sorpresa.
Gia,
il tuo restare impalato
davanti a me è un torto!
Scossi
la testa contrariata prima di voltarmi verso l’uscita e
salutare con una mano
sollevata sopra la testa. “Basta, ci
vediamo domani”.
“Non vedo l’ora!”,
disse Travis in tono
mieloso.
Me ne
andai, sperando che tutto quello che avrei dovuto sopportare sarebbe
poi
servito a qualcosa.
Tornai a
casa ancora inviperita. Controllai le fotografie al computer ed
imprecai
esasperata: nessuno dei miei scatti era soddisfacente. Aveva avuto la
conferma
che, il giorno dopo, sarei dovuta tornare in quella piscina, che era
diventata
il mio inferno personale.
Anche se
avevo fatto relativamente poco, era stata una giornata estenuante e mi
sentivo
veramente stanca. Per il resto della giornata restai in casa, cercando
di far
passare il tempo in qualche modo e di migliorare, come potevo, le
fotografie
che avevo scattato. In realtà cercavo ogni scusa plausibile
per non dover
tornare in piscina il giorno dopo, ma niente.
Il
risultato era ancora scadente.
Mandai
al diavolo tutto, sperando che una doccia avrebbe lavato via il nervoso.
Come
potevo, dopo solamente mezza giornata, provare tanto odio per uno
sconosciuto? Come
ero riuscita ad innervosirmi in quel modo, solamente per colpa di una
rovinosa
caduta? In fin dei conti non era stata così grave.
Doveva
esserci qualcosa di sbagliato il lui, perché io ero sempre
riuscita ad
accettare e ad andare d’accordo con tutti, ma quel Travis non
riuscivo davvero
a farmelo piacere. Tutta quell’arroganza mi faceva veri
l’orticaria.
Come
biasimarlo, poi? Viso e fisico praticamente perfetti, sicuramente una
vita
agiata alle spalle: tutti fattori che farebbero salire autostima e
strafottenza
a livelli spropositati a chiunque. Ma lui era diverso. Era davvero
odioso!
Cenai e
decisi di andare a letto senza pensarci due volte, pregando per una
manciata di
ore di sonno ristoratore.
Quella notte sognai piscine
chilometriche e flash
accecanti.
*
Ehi
bella gente!
Non so come ringraziare voi, persone adorabili, che avete recensito il
mio primo capitolo! Sono contenta che vi sia piaciuto! poi ringrazio
voi, che in silenzio avete cominciato a seguire questa storia... Spero
di non deludere le aspettative di nessuno!
E come sempre grazie a chi continua a sostenere me e la pazza idea di
questa storia <3
Basta con gli sproloqui... Spero di poter leggere altri commenti e
pensieri! ditemi tutto quello che pensate!
Alla prossima, un
abbraccio a tutti,
Chiara :)
|
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Capitolo 3 *** 2. Paura e Delirio... In Piscina ***
Maya3
*****
La
mattina dopo mi svegliai completamente intontita e con un mal di testa
lancinante. Avevo l’aspetto di un mostro, con le occhiaie
pronunciate sotto gli
occhi e i capelli terribilmente in disordine, ma il lavoro mi chiamava
a gran
voce, fischiandomi nelle orecchie.
Il letto
era lì a tentarmi e sembrava che mi pregasse
perché tornassi sotto le coperte,
al calduccio e al sicuro, ma strinsi i denti e decisi di tornare in
quella
piscina.
Quando
arrivai, tutto era già in pieno fermento. Sembrava che ci
fossero persino più
nuotatori del giorno prima e, con piacere, riuscii a scorgere anche
qualche
ragazza qua e la: almeno quell’ambiente non era monopolizzato
dal sesso
opposto.
Vista la
brutta esperienza del giorno prima mi spostai dall’ingresso
principale e
cominciai a camminare piano vicino alle piscine, in cerca di mio padre
in mezzo
a tutto quel movimento frenetico.
Non
riuscii a trovarlo, ma in compenso riconobbi, mentre era in acqua,
Travis.
Sembrava molto concentrato a terminare la sua vasca
Presi
dalla borsa la mia macchina fotografica e cominciai a scattare,
regolando varie
impostazioni di tanto in tanto.
L’obiettivo
quasi ingannava: lui sembrava una persona normale e con un carattere
normale,
ma avevo già appurato il contrario. Avevo già
appurato quanto detestassi il suo
carattere da diva, da prima donna e quando riuscisse ad infastidirmi
anche solo
con l’accenno di un sorriso.
Una mano
si poggiò sulla mia spalla, distogliendomi dal mio lavoro.
Papà.
“Ciao”,
dissi in tono svogliato.
“Buongiorno
Maya”. Lui, invece, sembrava
tutto pimpante ed allegro come un bambino a Natale. Il mio completo
opposto.
In fin
dei conti aveva sempre cercato di avvicinarmi al nuoto, di far nascere
anche in
me quella passione che era diventata il suo lavoro e la sua vita, e
sembrava
che, grazie a quel lavoro che tanto smaniavo per avere, ci stesse
riuscendo.
“Non
c’è motivo per essere così felici,
papà”,
mugugnai continuando con i miei scatti.
“Che
succede, tesoro?”. A quella domanda
mi voltai verso di lui, con gli occhi spalancati per la sorpresa.
Possibile
che non si fosse accorto davvero di niente?! Di come avesse sbagliato
nella
scelta del mio soggetto, di come avesse sbagliato sul conto di travis?
“Me
lo stai chiedendo veramente?
Sono costretta a lavorare con un idiota!”.
Posai
ancora lo sguardo, attraverso l’obiettivo, su Travis che
aveva cominciato
un’altra vasca. E scattai ancora. E ancora. E ancora.
“Ah…”, disse mio padre in tono che mi
parve sconsolato, quasi offeso. Guardai di nuovo verso di lui e vidi
che
fissava il pavimento con un cipiglio sul viso.
“Oh
no, non tu, papà! Quel Travis!”,
esclamai.
“Ah
ora capisco. Scusa, sarà la vecchiaia”.
Restammo
per un paio di minuti in silenzio a guardare tutto il movimento nel
palazzetto.
Sapevo
che per mio padre, tutto quello che vedevo, era
“casa”, era la sua vita, ma ai
miei occhi si mostrava come un semplice allenamento giornaliero.
La mia “casa”
era la fotografia, la possibilità di bloccare i momenti a
mio piacimento, di
congelare attimi per poi farli diventare indelebili, non tutto quello
che avevo
davanti agli occhi in quel momento, e sapevo che a mio padre non
sarebbe mai
andato a genio, ma non potevo davvero risolvere la situazione. Avevamo
passioni
diverse, pensieri diversi e obiettivi diversi.
Mi ero
innamorata della fotografia quando ancora ero un’adolescente
in cerca di un
sogno da raggiungere e, dopo un po’ di tempo, mi disse che ce
l’avrei fatta. Ad
ogni costo. Sarei diventata brava, sarei diventata famosa e ognuno
avrebbe
visto e conosciuto la mia storia e l’impegno impiegato per
diventare qualcuno.
E a piccoli passi ci stavo riuscendo: stavo scalando quella montagna,
forse un
po’ troppo alta, ma a piccoli passi mi stavo avvicinando
sempre più alla meta.
“Comunque
Travis è un bravo ragazzo, forse un
po’ arrogante, ma io lo conosco bene e, dopo tutto quello che
ha passato si è
ripreso alla grande”, ruppe il silenzio mio padre,
in tono pieno di
orgoglio. Il suo sguardo, mentre seguiva il protagonista del nostro
dialogo,
diceva tutto: era davvero fiero di lui, come se stesse parlando del
proprio
figlio, ma faticavo moltissimo a credere che, proprio quel Travis
conosciuto
appena un giorno prima, potesse davvero aver passato dei guai.
“Dopo
tutto quello che ha passato?! Il parrucchiere
gli ha sbagliato taglio di capelli?”, dissi
fingendomi dispiaciuta.
“Non
scherzare, Maya! ”, mi rispose mio
padre, severo. “Non so chi, tra te e
lui,
abbia sofferto di più”.
A quelle
parole il sorriso che avevo sulle labbra svanì e sentii il
sangue gelarsi nelle
vene.
Ero
perfettamente consapevole di non essermela passata nel migliore dei
modi,
quando ero più piccola, quindi pensai a cosa poteva essere
successo a Travis
per essere paragonato a me.
Nonostante
tutto, mio padre ed io abbiamo sempre avuto il coraggio e la forza di
rialzarci
dopo ogni caduta e di uscirne sempre più forti, sempre
più indistruttibili.
“Beh
il suo passato non conta, adesso. Ieri
mi ha trattata come una stupida!”.
Mio
padre si voltò verso di me con aria divertita e un sorriso
sulle labbra. “Oh ti prego, Maya,
sai come difenderti”.
Sorrisi
anche io, sapendo che aveva perfettamente ragione.
Non ero
mai stata simpatica a tutti per la mia sincerità. Alla gente
non piace quando
gli viene spiattellata in faccia la dura verità. A volte
sembrava un male, ma
io ho sempre preferito dire le cose come stavano, la realtà,
piuttosto che
inventare scuse su due piedi e costruire una stupida messa in scena.
Feci un
altro paio di scatti qua e la, prima di rendermi conto che Travis mi
fissava
con sguardo serio, quasi glaciale. Colsi
l’opportunità e scattai, senza
considerare minimamente lo sguardo di Travis che ancora mi sentivo
addosso.
Guardai
il risultato nel piccolo schermo della macchina fotografica e notai,
con
sollievo, che il risultato sembrava decente.
Riposi
ancora l’obiettivo su Travis e continuai a scattare, mentre
usciva dalla vasca
e spariva negli spogliatoi.
“Sono
venute bene?”, chiese mio padre.
“Non
so, ma non sembrano male”, gli
risposi alzando gli occhi su di lui.
Al suo
fianco si era materializzata una donna che pareva più un
condominio: altissima
con dei tacchi vertiginosi, pelle perfettamente tirata e truccata quasi
a
regole d’arte. I capelli castano scuri, con un taglio a
caschetto, facevano
risaltare le sue iridi blu oceano e la schiera di denti perfetti, che
mostrava
in un sorriso, facevano quasi spavento.
Strabuzzai
gli occhi davanti a quell’ammasso di chirurgia plastica.
“Claudio!”,
esclamò la modella in
pensione
Mio
padre si voltò sorpreso verso la voce e sorrise. “Oh Tanya, che piacere rivederti”.
La donna
lasciò due baci sulle guance di mio padre, dandosi
importanza, prima di tornare
a mostrare la schiera di denti bianchi.
“Anche
per me è sempre un piacere”. Solo
in quel momento riuscii a distogliere gli occhi da quel viso
innaturalmente
bello e giovane e mi resi conto del suo accento straniero: sembrava
americana.
Fortunatamente
quella donna non mi considerò minimamente, altrimenti
avrebbe visto la
terribile quantità di stupore e di shock che avevano preso
in possesso il mio
viso, impedendomi qualsiasi tipo di colloquio.
“Cosa
ti porta qui, Tanya? Sei venuta a
trovare tuo figlio?”.
Figlio?! Chi poteva essere il figlio di
quel disastro?
“Oh
si, devo chiedergli un
favore. Inoltre, è molto tempo che non lo vedo”.
I modi
di fare di quella donna mi lasciarono allibita: sembrava essere nata
per il
ruolo della gatta morta. Sorrideva e ammiccava a mio padre come se
volesse ottenere
qualcosa oppure come se fossero… amanti!
Oddio
no!
Sperai
con tutto il cuore che, le mie, fossero solamente fantasie.
Notai
l’abbigliamento da ragazzina che indossava e pensai che, quel
vestito succinto,
sarebbe stato stretto addirittura a me.
Di certo
il fisico, a quella Tanya, non mancava: mostrava gambe chilometriche e
anche
belle, ma per l’età che le davo, avrebbe potuto
decisamente evitare mise del
genere.
Cercai
di distrarmi, così cominciai a girovagare, per
l’ennesima volta, per le piscine
facendo alcuni scatti che, magari, mi sarebbero stati utili in un altro
momento.
Di tanto
in tanto gettai lo sguardo ancora su mio padre ancora intento a parlare
con
quella Tanya, ma mi convinsi a non farmi tante paranoie. Avevo
già abbastanza
grane per dover pensare a mio padre e a quella donna. Insieme.
Trovai
una sedia a un lato di una piscina e la spostai vicino al muro,
così da non
essere in mezzo. Mi sedetti e guardai le fotografie che avevo appena
scattato.
Le
osservai con attenzione un paio di volte, prima che qualcuno
bussò alla mia
spalla. Sollevai lo sguardo e… Evviva!
Travis
torreggiava su di me con sguardo impassibile.
“Ciao
Maya”.
“Ciao
Travis”.
Trovò
una sedia poco distante e la sistemò vicino alla mia,
sedendosi e sospirando.
Rimase in silenzio un paio di minuti prima di cominciare a parlare.
Io,
intanto, guardai in giro pur di non dover guardare la sua faccia da
sbruffone.
“Se
non ti dispiace, oggi preferirei saltare
il tuo prezioso servizio fotografico”.
Mi
voltai di scatto, assalita dalla rabbia nei suoi confronti.
Speravo
scherzasse, che mi prendesse in giro, e quella volta lo avrei
addirittura
accettato, perché non avevo nessuna voglia di tornare in
quel posto un altro
giorno, ma quando vidi il suo viso sembrava terribilmente serio.
“Come,
scusa?!”, chiesi allibita.
“Non
sono in vena di essere il tuo soggetto
oggi, mi dispiace”. Quel suo tono scontroso mi fece
ribaltare lo stomaco
dal nervosismo.
“Cosa…
Perché?!”.
Travis
voltò di scatto lo sguardo verso di me: aveva
un’espressione quasi da
allucinato. Le pupille dilatate facevano risaltare ancora di
più le sue belle
pupille cangianti, ma ciò non mi distolse dal risentimento
che mi aveva
investito come un fiume in piena.
“Questi
non sono affari tuoi!”, sibilò.
Incrociò
le braccia al petto e distolse l’attenzione da me. Mi
sembrava di aver a che
fare con un adolescente, in quel momento.
Sentivo
le mani cominciare a tremare. Avrei tanto voluto lanciargli qualcosa
addosso a
quella sua stupida faccia e a quel suo stupido broncio stizzito, ma per
sua
fortuna non avevo niente a portata di mano, se non la mia macchina
fotografica,
perciò preferii ingoiare anche quel rospo e provare a
calmare i nervi.
“Oh
mi dispiace se la piccola star si è
alzata con il piede sbagliato, stamattina, ma si da il caso che a me
quelle
foto servano. E subito. Quindi si, sono affari miei!”.
I miei onesti
tentativi di reprimere la rabbia non stavano funzionando: mi stavo
facendo
divorare. “Si da il caso che non
navighi
nell’oro, a differenza tua, suppongo. Ho bisogno di quel
lavoro e di quei
soldi!”. Sembrava che neanche mi sentisse, quel
ragazzo, ma io continuai il
mio monologo sperando di fargli venire un po’ di sale in
zucca. “Non mi interessa niente dei
tuoi capricci da
diva!”, aggiunsi quasi senza fiato.
Mi
sentivo il volto in fiamme da quanta rabbia avevo in corpo.
“Tu
non sai niente di me, Maya. Niente!
Perciò mi faresti un favore se smettessi di parlare come se
mi conoscessi”.
La
mascella mi cadde: l’offeso era diventato lui.
In
condizioni normali mi sarei addirittura complimentata con lui per come
fosse
riuscito a rivoltare la frittata.
Riposi
l’attenzione altrove con fare scostante, come aveva fatto
Travis poco prima.
“Allora
perché non te ne vai?! Stavo molto
bene qui da sola, prima che arrivassi tu”.
“Meno
sto con mia madre, meglio è!,
mormorò.
Madre?!
“Madre?”.
Tornai
con lo sguardo su di lui,
con gli occhi leggermente fuori dalle orbite.
Per
quanto mi costasse ammetterlo anche solo a me stessa, era palesemente
un gran
bel ragazzo, Travis, il ché lo rendeva ancora meno
sopportabile e ancora di più
l’idiota che si dimostrava, ma quello sguardo serio e quasi
cattivo era davvero
particolarmente affascinante. Gli occhi cangianti sembravano essersi
rabbuiati,
ma riuscivano a donargli un qualcosa di estremamente pericoloso.
Cercai
di distogliere l’attenzione dai particolari del viso di
Travis.
“Si,
madre. Quella mora con l’atteggiamento
da star e che sta parlando con Claudio”.
Lanciai
un’occhiata a mio padre che ancora chiacchierava animatamente
con quella Tanya.
Soffocai una risata, sperando che lui non se ne fosse accorto, al
pensiero che quella donna, in
realtà, fosse la madre
di Travis. Tornai seria.
“Non
mi sembra italiana, però”, dissi
nella speranza di sviare il discordo e di calmare il mio istinto di
scoppiare
in una risata.
“Californiana”,
disse posando lo sguardo
sul mio. “È lei che ha
scelto il nome
Travis… che idiozia!Non puoi immaginare quanto, per anni,
abbia desiderato un
nome italiano, normale”, mormorò con un
sorriso mesto. “Non è
una madre facile. Per niente!”, aggiunse senza
distogliere
gli occhi da me.
Cavolo…
Continuò
a guardarmi, con gli occhi assenti e forse ancora un po’
arrabbiati, per alcuni
secondi prima di riporre l’attenzione sul fermento nelle
piscine. Ognuno restò
in silenzio per alcuni minuti, poi mi alzai decisa a tornare a casa,
non avendo
più niente da fare.
“Allora
me ne torno a casa! Grazie ai tuoi
capricci da diva sono venuta fin qui per niente”,
aggiunsi regalandogli un
piccolo inchino. “Fantastico!”.
Mi fece
un po’ pena per un momento, pensando alla madre che si
ritrovava, ma quel
momento passò in un attimo: ero ancora furiosa per il modo
con cui mi aveva
dato buca.
Lui rise
ed io lo fulminai con lo sguardo.
“Sono
ancora arrabbiata con te, non mi sembra
che ci sia qualcosa da ridere! Due minuti passati a parlare con me da
persona
civile non ti cambiano il carattere e non cambiano l’idea che
mi sono fatta di
te”, dissi tutto d’un fiato.
Alle mie
parole, Travis mi gelò con lo sguardo.
La
nostra, sembrava una gara tra chi dei due guardava più in
cagnesco l’altro, ma non
ero intenzionata a cedere. Di certo non
per fargli crescere ancora di più quel suo ego spropositato.
“Ho
provato a parlarti da persona civile, me
se proprio vuoi fare la stronza, va
bene!”, disse alzandosi dalla sedia e sovrastandomi
con la sua altezza. “Vedremo chi
avrà la meglio”.
Detto
questo se ne andò senza dire altro, lasciandomi allibita
davanti alla sua
uscita trionfale.
Passò
una settimana.
Ogni
giorno andavo alla piscina per nuove fotografie perché
ancora non avevo fatto quello
che volevo fosse lo scatto vincente.
Durante
quella settimana tornai anche alla redazione della rivista sportiva con
alcuni
scatti, ma la direttrice, bionda, perfetta e terribilmente glaciale, mi
disse
che nessuna mia fotografia la conquistava.
Fantastico!
In
compenso mi disse anche che vedeva nel mio lavoro molto potenziale, ma
anche
che la solita location era scontata e cominciava a stancarla,
così mi suggerì
di portare Travis in altri posti per nuovi servizi fotografici.
Dopo
quel colloquio mi segregai in casa a sperare che i miracoli esistessero
davvero.
Sperai
con tutta me stessa di trovare lo scatto giusto e farla finita con
quella
storia.
I giorni
seguenti furono un inferno: un continuo via vai dalla piscina alla mia
camera
oscura.
Mi
sentivo stremata e la presenza di Travis non aiutava
Sembrava
avesse come unico obiettivo quello di rendermi la vita impossibile:
quando ne
aveva la possibilità, faceva di tutto per rovinarmi gli
scatti, altrimenti gli
riusciva molto semplice ridicolizzarmi davanti a tutti.
E ci era
riuscito: per svariate volt, poi.
Cercai
di vendicami quando si presentò ancora sua madre, agghindata
per l’ennesima
volta come fosse una sedicenne.
Quando
ne ebbi l’occasione, le spiegai a cosa servivano i miei
scatti e le dissi , con
suo grande e palese dispiacere, che Travis non sembrava adatto alla
macchina
fotografica.
In quel
momento non mi sembrava un piano eccezionale, anzi pareva
un’azione molto
adolescenziale, ma speravo che Tanya sarebbe andata a rimbeccare suo
figlio per
un maggior impegno da parte sua.
Quello
stesso giorno, quando mi incamminai verso l’ufficio di mio padre per avvisarlo che
sarei tornata a casa
di lì a poco, mi sentii strattonata da qualcuno che mi fece
entrare in quello
che sembrava il ripostiglio per tutto l’occorrente per le
pulizie.
Venne
accesa una solitaria luce al neon attaccata al soffitto. Quello
stanzino era
davvero minuscolo con al suo interno una quantità
incredibile di scope, stracci
e secchi, il che rendeva tutto molto più stretto. Davanti a
me si stagliava una
scaffalatura in ferro piena di prodotti, detergenti per le pulizie.
Indietreggiai
e mi scontrai contro chi mi aveva scortato non proprio gentilmente in
quel
buco.
Mi
voltai e vidi gli occhi di Travis. Molto, troppo vicini.
Quella
stanza era talmente piccola che ci trovavamo costretti a rimanere a
meno di un
metro di distanza l’uno dall’altra.
Lui
indossava solamente il costume da bagno e notai che la sua pelle ancora
luccicava di gocce d’acqua.
Accidenti!
“Davvero
un colpo basso, Maya!”, sibilò
inferocito con uno sguardo che avrebbe incenerito chiunque.
“Come,
scusa?”, chiesi cadendo dalle
nuvole.
“Dire
quelle cose a mia madre!”, esclamò.
Mi arrivò alle narici il familiare odore di cloro che,
evidentemente, emanava
la pelle di Travis. “Mi è
venuta a dire
che sono un pessimo soggetto e che non si sarebbe mai aspettata una
cosa simile
da me, avendo una madre come lei”. Era davvero
arrabbiato.
A me
sembrava una banalità, uno scherzo alla pari con quelli che
mi aveva fatto lui,
ma Travis l’aveva presa decisamente sul personale.
Mi
chiesi cosa potesse aver fatto sua madre, in passato, per essere tanto
detestata dal figlio.
Non ne
capii il motivo, ma un sorriso divertito mi comparve sul viso. Come
poteva
essersela presa per così poco?!
“Oh
la piccola star ha l’ego ferito, ora?”,
dissi con finta compassione. “Quanto
mi
dispiace!”.
“Non
ho l’ego ferito, stupida, ma se deve per
forza esserci questa specie di guerra psicologica tra noi, che rimanga
tra te e
me. Mia madre mi crea già abbastanza problemi da sola!”,
quasi urlava,
Travis. Pregai con tutta me stessa che il corridoio fosse completamente
deserto.
Era
palesemente adirato con me, ma non potevo lasciare che mi mettesse i
piedi in
testa. Dopotutto, se ero andata a parlare con sua madre c’era
stato un motivo
più che valido. Si lamentava tanto e diceva che quella
nostra “guerra
psicologica” doveva restare tra noi due, quando lui era stato
il primo a
coinvolgere l’intera palestra.
Mi aveva
ridicolizzata fin troppo bene quando, uno dei giorni precedenti, mi
aveva
“accidentalmente” spintonata, facendomi capitolare
a terra, davanti gli occhi
di tutti.
Gli
sguardi di scherno, le risate ed i bisbigli che ne seguirono mi avevano
fatta
imbestialire.
“Non
mi sembra che ti stia dando un limite
per ridicolizzarmi davanti a tutti, o sbaglio?”,
gli puntai l’indice contro
il petto. “Ti sto solamente
ripagando con
la stessa moneta, Travis!”, aggiunsi in collera.
Le mie
parole non ebbero l’effetto che avevo sperato: Travis
sgranò gli occhi,
incredulo poi divenne, se possibile, ancora più infuriato.
Come
potevano, due occhi così belli, appartenere ad una persona
come lui, ad una
persona tanto piena di se ed irritante?
Fece un
passo verso di me, prendendomi alla sprovvista e costringendomi ad
arretrare.
Mi ritrovai con la schiena poggiata alla scaffalatura in ferro.
Travis
si mosse ancora verso di me e poggiò le mani su di essa, ai
lati della mia
testa. Ero in trappola.
Lui,
tuttavia, mi era pericolosamente vicino, come non lo era mai stato, e
quei suoi
occhi furenti cominciavano farmi davvero paura.
Si,
cominciavo ad avere paura. Non aveva avuto ancora occasione di vederlo
così
imbestialito e con l’espressione da allucinato.
“Piantala
di crearmi problemi, Maya, e forse
avrai quelle tue maledettissime foto, così finalmente te ne
andrai”, disse
con un filo di voce piena di veleno e rabbia.
Mi
sentivo impietrita. Travis mi sovrastava con fin troppa
facilità e una
sensazione di impotenza mi prese le ginocchia, facendomele sentire
deboli.
Si
avvicinò ancora a me, sempre con quella strana ira nei suoi
occhi cangianti. Mi
squadrò da capo a piedi, come per schernirmi, e se ne
andò sbattendo la posta,
come era arrivato: in un attimo.
“Oddio”,
sospirai accasciandomi a terra, esausta ed impaurita.
*
Eccomi
ancora qua!
Come
al solito parto con i ringraziamenti, perchè mi sembra
d'obbligo... Quindi GRAZIE
a tutti! Da chi recensisce a chi se ne sta zitto zitto in
un angolo a leggere la mia storia! Se potessi stritolerei tutti in un
abbraccio!
Comunque...
Spero che questo nuovo capitolo vi sia piaciuto e che la storia stia
procedendo per il verso giusto! Fatemi sapere che ne pensate!
Alla
prossima! :)
|
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Capitolo 4 *** 3. Travis' POV - Maledizione! ***
Maya4
*****
TRAVIS' POV
Forse
avevo reagito in modo eccessivo, forse si, ma
quando avevo sentito quelle parole uscire dalle labbra, perfettamente
ricostruite a mie spese, di mia madre, non ci avevo più
visto.
Avevo
perso ogni briciolo di ragione e di compostezza.
Mi
chiesi svariate volte nell’arco di quell’assurda
giornata, con quale coraggio Maya si era presentata da mia madre,
Tanya,
dicendole quelle stupidaggini inventate su due piedi.
Nemmeno
il nuoto, la mia vita, nemmeno i continui
consigli di Claudio e nemmeno la determinazione e la concentrazione che
buttavo
insieme ad ogni bracciata riuscirono a placare i miei nervi impazziti.
Poi
mi infuriai, non per quanto Maya avesse detto a mia
madre, tra l’altro, stupidaggini assolutamente non vere, ma
per la faccia tosta
e la sfacciataggine impiegate.
Piccola
impicciona!
Avevo
già abbastanza problemi a cui pensare, ma poi si
aggiunse quella piccola arrogante figlia di papà. Solamente
per il bel visino
ed il padre famoso ed ammirato che si ritrovava pensava che tutti
dovessero crollare
al suo cospetto, ai suoi piedi, elogiandola e stendendole il tappeto
rosso
prima delle sue solite entrate trionfali.
Non
la sopportavo. Il solo vederla mi irritava e mi
rendeva nervoso.
Sembrava
che con quei suoi pozzi color del mare, Maya
fosse in grado di scorgere qualcosa nascosto al resto del mondo e a me.
La
prima volta che incontrai il suo sguardo rimasi
incantato dalla loro bellezza, ma poi quella piccola morettina
cominciò a
parlare e l’incantesimo si ruppe davanti a me! Quella piccola
arrogante finì
nella mia lista nera nel giro di un minuto.
Ero
affezionato a Claudio, a lui dovevo tutto e se ero
diventato bravo, se ero diventato campione era solamente grazie a
quell’uomo, a
quel santo, ma doveva ammettere che con sua figlia, con Maya, aveva
sbagliato
tutto.
Si
era dimostrata sin dal principio di un’arroganza fuori
dal comune.
Nonostante
fosse davvero una bella ragazza, la prima cosa
che, nel vederla, mi veniva in mente era il suo carattere del tutto
discutibile.
Era
davvero insopportabile!
Di
certo anche io non mi ero comportato nel migliore dei
modi sin dall’inizio, ma avevo provato a cambiare le carte in
tavola, a
mostrarmi gentile nonostante tutto, ma lei aveva messo in croce il mio
tentativo di parlarle in modo civile ancora prima di partire.
Non
sapevo davvero come comportarmi: avrei dovuto
convivere con la presenza di Maya in piscina ancora per un
po’ di tempo e il
solo pensiero bastava per innervosirmi ancora. Cercavo di pensare
solamente al
nuoto, ad arrivare alla fine di ogni vasca nel minor tempo possibile,
ad
ascoltare solamente la voce di Claudio ed i suoi consigli, ma oltre a
quella
piccola piattola mora che era Maya, ogni tanto compariva anche
l’opportunista
che era in realtà mia madre.
Ogni
volta che si presentava alla piscina era, per me, un
continuo susseguirsi di agitazione ed irritazione. Era sempre una tale
vergogna
vederla ogni volta agghindata a festa, con i tacchi vertiginosi e la
pelle
perfettamente tirata appesantita da chili e chili di trucco.
Quell’inquietante
sorriso che mi rivolgeva ogni volta che
i suoi occhi si posavano su di me, mi faceva rivoltare lo stomaco e mi
preparava soltanto all’ennesima richiesta di soldi, di un
prestito.
Si,
ero il mantenitore di mia madre.
Faceva
passare le sue richieste di denaro per opere di
beneficienza, donazione che, come diceva lei,
mi avrebbe restituito in un prossimo futuro, ma sapevo benissimo che,
appena
arrivati tra le mani dalle unghie perfette di mia madre, quei soldi non
li
avrei mai più rivisti.
Era
un vero schifo!
Ero
perfettamente consapevole di quanto fosse falsa, mia
madre: non erano soldi devoluti in beneficienza, non erano delle
donazioni, per
lei, quei soldi, rappresentavano la possibilità di tornare
giovane e bella come
lo era un tempo.
Nel
giro di sei mesi ringiovanì di almeno vent’anni.
Scossi
la testa cercando di non pensare in Dio solo sa
cosa mia madre avrebbe speso gli ennesimi soldi che le avevo concesso.
Ero
finalmente arrivato a casa mia, dopo una giornata
psicologicamente estenuante, dopo la sgradita presenza di mia madre
sempre
pronta ad elemosinare… dopo la mia sfuriata con Maya.
Maya…
Forse
avevo davvero esagerato con lei, forse
l’avevo trattata un po’ male, in
parte se l’era davvero meritato: aveva ficcato il naso dove
non avrebbe dovuto.
Solamente
Claudio era a conoscenza del difficile rapporto
che avevo sempre avuto con mia madre sin dall’adolescenza,
del mio passato, e
Maya credeva di aver compreso tutto, ma la realtà era ben
diversa: lei non
aveva capito davvero nulla.
Pensava
che, dopo aver parlato con me da persona normale,
avesse afferrato ogni particolare della mia vita.
Si
era rivelata più infantile di quanto pensassi.
Tuttavia,
davanti agli occhi vedevo ancora quei pozzi
verde mare impauriti dalla mia reazione e dalla mia pericolosa
vicinanza.
L’avevo
guardata come mai prima di allora: per la prima
volta l’avevo vista
davvero.
Avevo
finalmente notato le striature azzurre nei suoi
occhi verdi e di quanto venissero messi in risalto dalla cascata di
riccioli
neri che le arrivava fino a metà schiena, avevo notato
quanto fosse piccola e
fragile rispetto all’armadio che, in realtà, ero
io, ma soprattutto avevo
notato quanto, quell’espressione, tra la sorpresa e la paura,
la facesse
sembrare una bambina. E avevo notato quanto fosse indubbiamente bella.
“Maledizione!”,
esclamai ai muri.
Nonostante
tutta la bellezza di cui era in possesso, Maya
era una ragazza viziata, o almeno così si comportava.
Gli
sguardi truci e le vendette ridicole parevano il suo
pane quotidiano.
Decisi
di infilarmi sotto le coperte dopo aver passato un
paio d’ore a fare zapping tra i canali tv, senza mangiare,
quella sera: mi si
era chiuso lo stomaco dal nervosismo accumulato.
Rimasi
non so quanto tempo immobile a fissare il
soffitto, incapace di prendere sonno per colpa di tutti quei pensieri
che mi
frullavano per la testa senza sosta.
Continuavo
a pensare a mia madre e al suo voler essere
sempre più giovane di quanto già non sembrasse e
a Maya, lei che invece pareva
voler sembrare più grande, una donna vissuta.
Mi
resi conto di come avessi a che fare, in quei giorni,
con due donne agli antipodi l’una dall’altra.
Se
con mia madre ero costretto a mantenere un
comportamento scostante e scontroso, pensai che, con Maya, avrei dovuto
fare il
contrario. Oppure essere ancora più scostante. Dovevo
pensarci bene.
Pensai
di aver inquadrato bene Maya ed il suo
atteggiamento, ma mi resi conto che, in realtà, Maya era un
enigma.
Un
arrogante e meraviglioso enigma.
Passò
poco più di una settimana, piena della solita
monotonia e della solita routine.
Ogni
giorno era un continuo via vai da casa mia alla
piscina, a tal punto che passai il weekend a letto, stremato dopo
giorni di
allenamento senza freni.
Il
lunedì seguente, come al solito, ero impegnato negli
allenamenti per i campionati italiani. Come al solito Claudio seguiva
me in
particolare, passo dopo passo, e come al solito l’irritante
Maya si aggirava a
bordo vasca con la sua solita macchina fotografica tra le mani.
Avevo
già pensato svariate volte a spintonarla accidentalmente
in acqua insieme a quel
suo aggeggio, ma poi sarei dovuto partire per qualche paese lontano,
per
esempio l’Antartide, in cerca di salvezza da una Maya a dir
poco furiosa, così
avevo accantonato l’idea, anche se, ogni volta che quel
pensiero mi tornava in
mente, diventava sempre più difficile resistergli.
Poi
sarebbe Maya quella infantile!?,
esclamò una parte
remota della mia coscienza.
“Travis!”,
disse qualcuno ad un certo punto.
Voltai
il capo verso la voce e vidi gli occhi di Claudio
fissarmi dall’alto, mentre mi ritrovavo in acqua con gli
avambracci poggiati a
bordo vasca. Avevo finalmente preso una piccola pausa dopo un numero
infinito
di bracciate.
“Scusami, Claudio,
mi ero distratto”, gli risposi.
Lui
seguì la linea del mio sguardo e si ritrovò
improvvisamente a guardare la figlia ancora alle prese con quel suo
aggeggio
tra le mani.
Mi
schiaffeggiai mentalmente per non aver distolto lo
sguardo da Maya in tempo.
Mi
ero bloccato, come altre volte, ad analizzare i suoi
movimenti ed il suo atteggiamento: non parlava mai con nessuno, non
sembrava
averne bisogno, e si aggirava sempre silenziosamente e con fare
circospetto,
come se avesse paura che qualcuno le potesse piombare alle spalle,
continuando
ininterrottamente a scattare fotografie.
Quel
giorno indossava un paio di jeans stretti, con delle
Converse nere, che le mettevano in risalto le gambe magre, insieme ad
una
maglietta del colore dei suoi occhi.
La
trovai particolarmente bella così semplice, con i
capelli scuri fermati da un elastico in una coda alta.
No,
non avrei dovuto soffermarmi con lo sguardo su di lei.
Claudio
si voltò ancora verso di me cercando di reprimere
un sorriso. Con scarsi risultati, tra l’altro.
Incatenò
lo sguardo al mio, forse in attesa di qualcosa.
“Mi mette sotto
pressione, tua figlia”, gli dissi distogliendo gli
occhi dai suoi con un
mezzo sorriso sul volto.
“Come può metterti
sotto pressione una fotografa, Travis!? Non mi sembra che ti sia mai
fatto
tanti problemi”. Rise.
“Lo so, eppure Maya
ha il terribile pregio di farmi innervosire. A volte diventa davvero
insopportabile!”.
L’avevo
detto.
L’ho
detto!
L’avevo
fatto davvero: avevo parlato male di Maya davanti
a suo padre.
D’istinto
mi coprii la bocca con una mano, con gli occhi
spalancati.
Per
una buona volta, non ero riuscito a collegare il
cervello alle mie labbra.
Mi
aspettavo una reazione quasi apocalittica, con insulti
e parolacce rivolte a me, un Claudio infuriato, invece, con mia grande
sorpresa,
cominciò a ridere.
Sta
ridendo, sul serio!?
Alzai
lo sguardo su di lui e nei suoi occhi chiari non
vedevo tracce di rabbia. Rideva di gusto.
“Lo so, non è una
ragazza facile: a volte nemmeno io la sopporto. Non la tocca
minimamente quello
che pensa la gente di lei, infatti penso sia per questo motivo che
attorno a
lei non ha praticamente nessuno. Per certi versi è molto
simile a sua madre”.
Madre!?
Non
avevo la minima idea che Claudio potesse essere
sposato, non ne aveva mai parlato né con me né
con altri, per quello che ne
sapevo.
“Però a volte penso
a quante ne ha passate, Maya, e mi rendo conto di quanto sia
comprensibile il
suo comportamento”.
“Quante ne ha
passate? Non pensavo che aveste avuto dei trascorsi difficili, Claudio,
non me
ne hai mai parlato”.
Lui
distolse lo sguardo da me per posarlo ancora sulla
figlia e, istintivamente, gli spuntò un leggero sorriso sul
viso.
Quell’uomo
era sempre stato un mistero, per me:
amichevole, ma molto riservato, sempre pronto ad ascoltarti, ma non
sprecava
mai parole per parlare di sé.
“Continua con il
tuo allenamento, Travis”, disse, poi, con un
sospiro.
Continuai
il mio allenamento, finalmente pensando
solamente a me e al mio lavoro.
Quel
giorno mi ero particolarmente dato da fare per
migliorare, per far vedere a Claudio quanto tenessi a tutto quello e
per
renderlo fiero di me.
Era
sempre stato come un padre, per me.
Mi
aveva fatto i complimenti, mi aveva detto che, da quel
giorno in poi, voleva vedere proprio quel Travis, perché gli
piaceva. Gli piacevo
davvero.
Sembrava
una giornata normale, quasi piacevole dopo tanto
tempo, ma come al solito mi sbagliavo.
Chi
poteva arrivare a rovinarmi la giornata se non mia
madre?!
Arrivò
di gran carriera con uno dei suoi soliti abiti da
ragazzina e un altro, nuovo, paio di tacchi vertiginosi. Con quelli era
quasi
alta quanto me.
Mi
parve di notare le labbra leggermente più gonfie
dell’ultima
volta in cui la vidi.
“Ciao tesoro!”,
esordì avvicinandosi per poggiare la sua guancia sulla mia.
Da
anni non mi regalava più un vero bacio sulla guancia.
Si
allontanò da me in un secondo e mi guardò con
quegli
occhi blu, così diversi dai miei. A volte mi chiedevo come,
una donna del
genere, potesse essere davvero mia madre: eravamo così
diversi.
I
suoi capelli scuri facevano risaltare la bellezza –
almeno quella era naturale – dei suoi occhi, intenti a
scrutarmi a fondo.
Sapevo
fin troppo bene cosa, dopo il mio consueto e
scocciato saluto, sarebbe arrivato: l’ennesima richiesta.
Tempo
un anno e mi manderà in bolletta, questa donna!
“Ciao
mamma”,
dissi dopo alcuni secondi.
Non
osò nemmeno chiedermi come stavo, se avevo delle
novità da raccontarle, come procedevano gli allenamenti per
i campionati. Non mi
chiedeva mai nulla.
“Tesoro, sai che
non verrei da te se non fosse di importanza vitale, ma ho bisogno di un
piccolo
prestito”, disse. “Ovviamente
ti
restituirò tutto appena potrò”.
Mi
parlò con il sorriso sul viso, come se tutte quelle
sue richieste di denaro non mi turbassero minimamente, come se non mi
vergognassi di una madre che non si comportava come tale, che non si
vestiva
come tale e che, a volte, l’avevo trovata nel bel mezzo di un
flirt con qualche
mio vecchio compagno di squadra.
Aveva
cinquant’anni suonati, ma sembrava che avesse il
cervello di una dodicenne.
Non
riuscii a trattenere una risata nervosa, irritata, ma
a lei non sembrò darle per niente fastidio.
“Di importanza
vitale, addirittura! Ora è diventato di importanza vitale”,
mormorai tra me
e me, con la speranza che, però, mi sentisse.
Mi
avviai immusonito verso il mio borsone dove tirai
fuori dal mio borsone il portafoglio.
“Sono solamente
passati dieci giorni dall’ultima volta, oggi ti farai andare
bene un paio di
banconote da cento euro”, le dissi in malo modo,
porgendole le banconote.
Nemmeno
il mio tono di voce la scalfiva, nemmeno il mio
evidente odio per lei: pensava di essere rimasta a quindici anni fa,
quando
ancora riuscivo a parlare con lei, quando ancora la vedevo come la mia mamma.
Avevo
ventisette anni e non parlavo con quella che era
davvero mia madre, dietro tutto quel trucco, da un pezzo.
“Oh tesoro ti
ringrazio, andranno benissimo per la mia prossima… ehm,
donazione!”, disse
con un sorriso e quel suo accetto americano ben evidente. “Grazie mille, Travis! Ora ti lascio, ho un
appuntamento!”, aggiunse
poggiando ancora la sua guancia sulla mia.
E
si dileguò, così com’era arrivata.
Uscita trionfale e
rumore di tacchi sul pavimento.
Respirai
a fondo, mentre tornavo nello spogliatoio con il
mio borsone sulla spalle.
Dovevo
cercare in tutti modi di reprimere la rabbia ed il
nervosismo che minacciavo di esplodermi dentro. In
quell’occasione avrei perso
la testa, sul serio.
Mi
sbattei la porta dello spogliatoio alle spalle che,
per mia grande fortuna, era vuoto, così nessuno avrebbe
potuto vedere lo sguardo
omicida che aleggiava sui miei occhi.
Continuai
a respirai profondamente, a camminare avanti e
indietro per quel piccol locale, a ripetermi che non dovevo perdere le
staffe
in quel modo, ma per quanta buona volontà ci avessi messo,
nulla mi impedì di
sferrare un pugno al muro, scorticandomi le nocche.
“Maledizione!”.
*
Ehi bella gente!
Si,
lo so, sono imperdonabile! Scusate l'assenteismo, ma questo POV mi ha
tenuta parecchio impegnata! Ho già buona parte della storia
già scritta e, grazie anche le richieste di alcuni di voi,
ho
deciso di aggiungere un POV di Travis ogni tanto. Succederà
ogni
tre o quattro capitoli perchè, alla fine dei conti, la
nostra
protagonista è sempre Maya!
Spero
davvero che vi sia piaciuto, questo capitolo! Fatemi sapere cosa ne
pensate e se, l'idea di qualche POV di Travis ogni tanto può
funzionare!
Ringrazio,
come sempre, TUTTI: chi ha recensito, che ha messo la mia storia tra le
preferite o le seguite, chi mi ha dato una mano a costruire questo
capitolo... GRAZIE
DI CUORE A TUTTI!!
Alla prossima, bella gente,
e un abbraccione a
tutti! :)
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Capitolo 5 *** 4. And The Story Goes On ***
Maya5
*****
Dopo
quell’avvenimento nella stanza delle scope mi
limitai ad andare alla piscina, scattare fotografie indisturbata e
rivolgere la
parola solamente a mio padre, se proprio ne vedevo la
necessità. Non avevo la
benché minima voglia di fargli capire
nulla:
per quanto bene gli volessi, non sopportavo la sua apprensione se
intercettava
qualcosa che non andava. La sua mitragliata di domande mi avrebbe
distrutta e
mandata all’esaurimento, come sempre.
L’unico
vero problema erano i miei scatti di Travis in
una location differente dalla solita piscina straripante di gente. Ero
fermamente decisa a non parlare con lui
dopo tutto quello che mi aveva fatto, e detto, ma avevo un
disperatissimo
bisogno di quelle maledette foto e di quel lavoro.
Dovevo
trovare in tempi brevi il modo di risolvere quel
mio problema.
Era
passato più di un mese dalla prima volta che avevo
messo piede lì dentro, e ancora non avevo nulla in mano che
potesse sembrare
esauriente.
Avevo
deciso di telefonare alla direttrice della rivista,
la bionda di ghiaccio, come la
chiamavo, e mi aveva dato solamente un’altra settimana di
tempo, dopodiché
avrei perso la mia unica possibilità di ottenere un lavoro e
di potermi
dichiarare, finalmente, indipendente.
Avevo
rimasto solamente una manciata di giorni. Stavo
impazzendo e la mia testa continuava a fare un male incredibile ogni
volta che
entravo in quel posto pieno zeppo di cloro e ostilità nei
miei confronti.
Nonostante
fossi la figlia del capo e nonostante fossi
una visitatrice abituale da parecchi giorni, nessuno mi aveva mai
rivolto
parola, se non mio padre, Travis e quella pazza di sua madre.
Come
puoi dargli della pazza, Maya?! Nemmeno la conosci.
Non
la conoscerò, ma di certo non è un soggetto che
si vede tutti i giorni!
La
mia mente era continuamente in conflitto con se
stessa. Ero salita su una macchina che percorreva la via più
breve per la
pazzia.
Dovevo
trovare un modo per risolvere quel mio
piccolissimo, insignificante
problema.
Mi
trovai costretta ad andare da mio padre, ancora, un
giorno nel suo ufficio, a parlargli. Appena entrai nel piccolo studio,
lo
trovai seduto dietro la sua scrivania in legno scuro, così
gli raccontai
dell’imminente scadenza.
Quando
ebbi finito di parlare, mi guardò per una manciata
di secondi con fare pensieroso, poi mi rivolse un sorriso radioso,
quasi
accecante.
Come
poteva esserne felice?
Come
puoi essere felice del mio fallimento e del mio esaurimento nervoso,
papà!?
“Credo di avere
quello che fa per te, tesoro”, disse con tono
talmente felice ed allegro
che non fece altro che preoccuparmi ancora di più.
La
felicità di mio padre, per quanto mi riguardasse, non
portava mai nulla di buono. L’esempio più lampante
che mi venne in mente fu… Travis!
Sul
suo viso era ancora stampato quel sorriso raggiante.
Cominciò a darmi sui nervi.
Non
mi sorpresi più di tanto quando mio padre sembrò
aver
già trovato la soluzione ai miei problemi: era nella sua
indole. Pareva che
avesse sempre qualche strana idea quando si trattava di combinare me e
il suo
amato nuoto.
Mi
sedetti su una delle sedie davanti alla scrivania e mi
preparai ad ascoltare la fantastica idea
di mio padre.
“Devi sapere, Maya,
che per preparare al meglio i miei atleti, faccio almeno una sessione
di nuoto
al mare”.
“Cosa?!”, dissi
cercando di capire.
“Ogni
tanto mando i miei atleti al mare per un allenamento speciale, non
voglio che si abituino troppo al fondo della piscina, e si da il caso
che a
Travis serva proprio questo tipo di allenamento in vista dei
nazionali”.
Mare!
Mio
padre mi aveva appena offerto la soluzione ai miei
problemi su un piatto d’argento. Sentii il peso del
fallimento pian piano
alleggerirsi.
Un
sorriso sollevato mi coprì il viso.
“Beh è perfetto!
Basta che tu mi dica quando andrai con Travis al mare ed è
fatta!”, dissi
ancora sorridente.
Mio
padre alzò lo sguardo su di me con aria stranita e
sollevando un sopracciglio.
“Maya, guarda che
io non ci sarò. Travis è abbastanza preparato ed
esperto per allenarsi da solo”.
E
quel peso che pochi istanti prima si era sollevato
dalle mie spalle, come un macigno, tornò sulla bocca dello
stomaco. Affondai le
mani nella sedia, certa di aver lasciato i segni delle mie unghie
sull’imbottitura nera.
“Come papà? Stai
scherzando…”, aggiunsi con una risata
isterica. “Saremo solamente Travis
ed io?!”. Il suono che uscì dalle mie
labbra non sembrava affatto la mia voce, ma un lamento carico di panico
ed
isterismo.
“Si, Maya”, rispose
appoggiandosi allo schienale. “Io
devo
restare qui. Non posso lasciare tutti gli altri atleti”,
disse con
semplicità, agitando una mano.
E
fu così che il panico che stava ribollendo dentro di me
esplose come una pentola a pressione. “C…
cosa, papà?! Travis ed io ci odiamo a vicenda! Se staremo
insieme, da soli, sarà
l’inizio della fine!”. La pentola
a pressione scoppiò.
Mi
sorpresi soltanto di non aver visto sbuffi di vapore
uscirmi dalle orecchie.
Mio
padre non sembrava vederla nel mio stesso modo: agitò
ancora la mano, con fare superficiale, interrompendomi e
inforcò gli occhiali
cominciando a guardare alcune scartoffie che aveva sulla scrivania.
“Non fare storie, Maya!”,
mi disse come
se non esistesse problema al mondo, ma per me in
quel momento esisteva eccome. “Travis
è un bravo ragazzo, forse sei tu che… lo
istighi”, aggiunse
incerto, come se non fosse del tutto sicuro di quello che aveva appena
detto.
Io
cosa?!
La
situazione si era capovolta: sembrava che la colpa
fosse diventata la mia, come se Travis non riuscisse a convivere con un
carattere tanto pessimo.
“Io non lo istigo,
papà!”, esclamai offesa.
Mi
alzai di scatto dalla sedia, quasi rovesciandola, e
cominciai a camminare avanti e indietro per l’ufficio di mio
padre. “È quel suo
caratteraccio a istigare me!”,
affermai sgranando gli occhi e puntandomi l’indice al petto,
come per dare più
corpo alle mie parole.
“Maya calmati, si
tratta solamente di mezza giornata”.
“COSA?!”,
tuonai perdendo ogni tipo di controllo. “Mezza
giornata?! Pensavo che si sarebbe trattato solamente di un paio
d’ore, non di mezza
giornata!”.
Mio
padre finalmente cominciò a guardarmi preoccupato,
finalmente si accorse che l’argomento Travis mi faceva quasi
paura, che mi
faceva saltare i nervi come molle.
Cominciavo
ad agitarmi davvero, mentre continuavo a
camminare per l’ufficio con passo spedito, facendomi prendere
dall’isterismo.
Dopo
quell’episodio nella stanza delle scope avevo
cominciato ad avere davvero paura di quel ragazzo e il pensiero di
dover
passare mezza giornata da sola con lui,
quasi mi terrorizzava.
Iniziavo
ad avere il fiato corto, per quella che poteva
sembrare una stupidaggine, ma che a me si presentava come un grave
problema che
mi gettava addosso quantità spropositate d’ansia.
“Maya vuoi
calmarti?!”, mi disse mio padre con tono risoluto,
facendomi tornare con la
mente al nostro dialogo.
Lo
guardai negli occhi, ancora in preda al panico, con la
speranza che si fosse convinto che, la sua, era un’idea
pessima.
“Devi assolutamente
darti una calmata perché io non verrò con te, non
posso, te l’ho detto”,
esclamò deciso. Dalla mia bocca uscì uno strano
suono simile ad un mugugno.
“Ci andrai da sola
e, se proprio non te la senti, non rivolgere parola a Travis”,
aggiunse con
una semplicità snervante.
Il
ragionamento di mio padre non faceva una piega, ne ero
perfettamente consapevole, ma ero comunque terrorizzata
all’idea di passare
così tanto tempo da sola con Travis.
Continuavo
a chiedermi perché quel ragazzo mi
destabilizzasse in quel modo. Tra me e Travis era partita male
già dal primo
giorno, ma speravo che con il passare dei giorni la situazione sarebbe
migliorata, mi bastava anche una semplice indifferenza, ma mi ero
sbagliata.
“Va bene”,
infine mi arresi. “Quando deve
andare al
mare, Travis?”. Sbuffai esausta.
Mio
padre tornò a guardare i suoi fogli indifferente. “Domani”.
Strabuzzai
gli occhi ancora, presa alla sprovvista per
l’ennesima volta, ma mi limitai ad annuire, a non dire niente
e a stringere i
pugni decisa a superare anche quel problema.
Uscii
dall’ufficio di mio padre diretta ancora alla
piscina. Quando passai accanto a quella stanza delle scope feci finta
di
niente, come se quel brivido non mi avesse percorso davvero la schiena.
Mi
avvicinai al bordo della piscina dove c’era Travis
ancora intento ad allenarsi.
Mi
notò solamente a vasca finita, ma girò il capo
dalla
parte opposta, evidentemente ancora offeso. Mi ricordò un
adolescente stizzito,
ancora, ma cercai di non badarci troppo.
Uscì
dalla piscina e si incamminò verso una delle tante
sedie in plastica bianca dove sopra c’era il suo borsone e il
suo asciugamano.
Presi
un lungo respiro e decisi di raggiungerlo. Ora
o mai più!
Arrivai
poco distante da lui e mi fermai.
“Travis”, mi
uscì dalle labbra in tono flebile, quasi inudibile, infatti
Travis non diede
segno di avermi sentito. “Travis!”,
dissi infine con tono più deciso.
“Che diavolo vuoi,
Maya?”. Si voltò verso di me
così all’improvviso che mi fece sussultare e
anche quella volta era vicino. Ancora troppo vicino.
Indietreggiai
di un paio di passi, mettendo un po’ di
distanza tra noi. Quando alzai lo sguardo rimasi scioccata da quegli
occhi
dall’aria infuriata, ma allo stesso tempo infelice, come se
fosse
disperatamente arrabbiato per qualcosa o con qualcuno.
Che
cosa ho fatto per ferire l’ego di questa Diva ancora una
volta!?
Improvvisamente
sentii tutto il mio corpo tendersi
davanti a lui: mi chiesi se fosse per il suo sguardo cattivo oppure per
il suo
corpo ancora mezzo nudo e imperlato di gocce d’acqua davanti
a me.
Quelle
iridi cangianti mi ipnotizzarono per un fugace
momento, facendomi quasi credere di trovarmi davanti ad una persona
normale,
non a quell’ammasso di testosterone ed arroganza che mi
torreggiava davanti
Incrociai
le braccia al petto, distogliendo lo sguardo da
quella serie di muscoli scolpiti ad arte, in un disperato tentativo di
darmi
più sicurezza e cominciai a parlare.
“Volevo dirti che
all’allenamento al mare di domani…”,
presi un respiro profondo. “Ci
sarò anche io”, aggiunsi velocemente,
preparandomi alla reazione di Travis.
Sembrò
ponderare un momento sulle mie parole, poi lo vidi
strabuzzare gli occhi talmente tanto che parvero uscirgli dalle orbite,
rendendo ancora più visibili quelle sue particolarissime
iridi castane.
“Come scusa?!”.
Travis parve, infine, allarmato. Indovinai senza problemi la reazione
che
avrebbe potuto avere: il programma del giorno seguente non sarebbe
piaciuto
nemmeno a lui, ma vederlo così a disagio e quasi spaventato
mi faceva provare
un briciolo di soddisfazione. “Perché?”,
mi chiese ancora più in panico.
“Per lavoro! Per
cosa credi?!”, esclamai mettendomi subito sulla
difensiva. “Mi servono degli scatti
con una location
diversa da questa”, con un gesto confuso della mano
indicai la piscina. “E mi servono
subito. Ne ho parlato con mio
padre e si è divertito a combinare ancora me e il nuoto!”.
Mi
squadrò dalla testa ai piedi. Ancora.
I
suoi occhi ardevano di rabbia, in quel momento, forse
della stessa rabbia di quell’occasione nella stanza delle
scope, ma se credeva
di essere il più dispiaciuto per il disastroso andamento
degli eventi si
sbagliava di grosso.
Lo
vidi abbassare lo sguardo per un momento, per poi
stropicciarsi gli occhi, come se fosse improvvisamente stanco, e
sospirò
profondamente prima di ritrovare l’uso della parola.
“Bene, cercherò di
non perdere il controllo, né ora né domani. Sei
la figlia dell’allenatore,
quindi una privilegiata qui dentro”, disse con un
sorriso beffardo sul quel
viso che avrei preso volentieri a schiaffi fino a farlo sanguinare.
Sembrava
essere partito bene, ma dopo quelle parole mi
ricredetti. “Puoi ripetere?”.
“Fammi finire di
parlare, Maya!”, mi zittì. “Che qui
dentro sei una privilegiata lo sai anche tu, quindi cercherò
di comportarmi a
modo, domani”.
“Benissimo, ma non
sono assolutamente una privilegiata, stupido!”, mi
scaldai. “Nessuno mi conosce qui
dentro, a parte te, e
ho rimesso piede qui dentro poco neanche un mese fa dopo anni”.
Quella
conversazione si trasformò in un’altra gara tra
sguardi di ghiaccio.
Conoscevo
appena Travis, ma cominciavo ad odiarlo
davvero. Non riuscivo a capire il motivo di tutto quell’odio
reciproco, ma di
una cosa ero certa: la giornata seguente sarebbe stata veramente
l’inizio della
fine.
“Convinta tu,
comunque domani parto da qui alle otto. Io avrò la mia
macchina e tu la tua”,
disse stizzito ancora come un adolescente.
Continuai
a guardarlo in cagnesco. “Bene!”.
“Bene!”, lui fece altrettanto e
dopo
quella classica scena da film me ne andai, sentendomi il suo sguardo
perforarmi
la nuca.
*
Salve
bella gente!
Prima di parlarvi di questo capitolo, come di consueto, VOGLIO
RINGRAZIARE TUTTI QUANTI!
Sto facendo i salti di
gioia per quanto l'ultimo capitolo è stato apprezzato! Non
ero del tutto convinta di introdurre qualche POV, ogni tanto, ma tutti
voi mi avete fatto capire che non è una brutta idea e che ce
la posso fare!
Quindi... GRAZIE a chi ha recensito, a
chi ha messo tra le preferite o le seguite la mia storia
(la solita solfa, penserete... Beh probabile, ma mi sento in dovere di
farlo!) e a chi
ancora continua a sostener me, la mia storia e i miei personaggi!
GRAZIE DI CUORE!
Detto questo... Lo so, questo capitolo non è un gra
ché e mi rendo conto che, alla fine dei conti, non succede
nulla di eclatante, ma sono stata costretta ad interrompere in questo
punto la storia e non vi svelerò il perchè! (non uccidetemi!)
Basta con gli sproloqui! Fatemi sapere cosa ne pensate!
Un bacio e un
abbraccio enorme,
Chiara!
|
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Capitolo 6 *** 5. Al Mare ***
Maya6
*****
La
notte dormii malissimo: continuai a rigirarmi nel
letto senza riuscire a smettere di pensare alla terribile giornata che
mi
aspettava il mattino seguente. Ero sicura che non sarei riuscita a
sopportare
così tanto tempo la presenza di Travis, in particolare
costretta com’ero dalle
circostanze.
Il
mio corpo si rifiutava di compiere uno sforzo fisico
del genere.
Avevo
quasi il voltastomaco, ma il pensiero che dopo aver
fatto quegli scatti sarebbe tutto finito, mi risollevava un
po’ l’animo e mi
dava quel briciolo di forza per alzarmi dal letto.
Mi
svegliai con la testa che frullava, piena di pensieri
e terribili sensazioni e con una leggera sensazione di nausea a
completare il
quadretto, ma cominciai a prepararmi.
Per
colazione non riuscii a mangiare più di uno yogurt
per colpa dello stomaco ancora in subbuglio, dopodiché
buttai un paio di teli
da mare in una borsa insieme a qualcosa da mangiare e ad un immancabile
libro.
Mi
infilai velocemente sotto la doccia, con la testa che
ancora girava, poi indossai un costume da bagno sotto una vecchia tuta
sportiva.
Quando
mi specchiai quasi mi prese un colpo: quegli occhi
verde mare che tanto mi piacevano erano spenti e senza espressione e
anche i
miei ricci scuri sembravano partecipare al mio disagio, flosci
com’erano sulle
spalle.
Mandai
tutto al diavolo e mi costrinsi ad uscire.
Per
essere fine settembre faceva già parecchio freddo, ma
se proprio ero costretta ad andare in spiaggia, un tuffo in acqua ero
obbligata
a farlo.
Quando
fui fuori dal mio appartamento e scesi in strada
mi accorsi di quanto fosse quasi pungente il freddo mattutino. Anche se
qualche
spiraglio di sole combatteva tenace il sottile strato di nuvole, il suo
calore
si sentiva a stento.
Salii
in macchina e partii.
Arrivata
davanti al palazzetto mi accorsi che Travis non
era ancora arrivato. Sbuffai, pronta a rinfacciargli il suo ritardo
appena
l’avrei visto, e mi misi a leggere il libro che mi ero
portata dietro.
Mancavano
circa dieci minuti alle otto.
Sei
tu in anticipo, scema!
Ancora
oggi non ricordo quanto tempo passò, ma mi accorsi
di Travis solamente quando venne a bussare al finestrino. Alzai lo
sguardo e
vidi una strana espressione sul suo viso, ma quando scesi non osai
chiedergli
il perché.
Anche
lui indossava un paio di pantaloni sportivi e una
felpa con il cappuccio tirato su. Sembrava anche lui davvero stanco e
stremato
e le borse sotto gli occhi parvero confermare la mia teoria, restava
comunque
indubbiamente e fastidiosamente bello.
Come
altre volte, in quel momento Travis mi sembrò troppo
vicino a me, ma anche in quell’occasione non potei fare a
meno di muovere
qualche passo indietro, finché non trovai la macchina alle
mie spalle.
“Ciao Maya”, mi
saluto Travis con un tono di voce che non mi era ancora capitato di
sentire.
“Buongiorno Travis”,
gli risposi appoggiandomi alla macchina.
All’improvviso
vidi apparire un sorriso ed uno sguardo
divertito.
Non
mi sembra stare poi così male!
Lo
guardai insospettita con un sopracciglio sollevato, ma
i suoi occhi erano rivolti altrove. “Buongiorno…
ti ho fatta
veramente arrabbiare”, disse ridendo.
Lo
guardai inferocita, ma non feci altro che peggiorare
le cose e farlo ridere ancora di più. E mentre lui
continuava io stavo già
cominciando a perdere la pazienza.
Respirai
a fondo fino a quando dopo alcuni istanti lui
smise di deridermi e si calmò. Il mio sguardo era
spazientito, ma Travis,
bello, beato e ignaro dei miei nervi alterati, non sembrava essersene
accorto:
i suoi occhi mi fissavano con intensità, colmi di qualcosa a
cui non riuscivo a
dare un nome.
E
proprio quello sguardo sembrò far tremare qualcosa
dentro di me anche se non riuscii a capire cosa fosse, ma quegli occhi
mi misero
terribilmente a disagio. In ogni caso non potevo permettermi di
mostrarmi
troppo malleabile davanti ad uno come Travis.
Restammo
lì impalati, a fissarci per una manciata di
secondi e mi parve che lui cercasse di farmi capire qualcosa che,
però, non
afferrai.
“Ti volevo chiedere
un favore, Maya…”, mormorò
senza però staccare lo sguardo dal mio.
Lo
fissai stupita, quasi stralunata, ma lui non diede
segno di cedimento e rimase molto serio. “Un
favore, a me? Ti rendi conto di quello che stai dicendo?!”
“Perfettamente.
Non sto affatto bene oggi e ti volevo
chiedere se, gentilmente…”, sul suo viso
aleggiò un mezzo sorriso. “…
se potevo salire in macchina con te”.
Travis
si avvicinò a me di un mezzo passo, accorciando la
distanza tra noi due e con lo sguardo ancora posato sul mio.
Non
riuscivo davvero a capacitarmi e a descrivere la
sensazione dei suoi occhi su di me: odiavo Travis, ma per qualche
strana
ragione quel suo strano sguardo mi faceva rabbrividire ogni volta che
cominciava a fissarmi.
Se
ne stava davanti a me, statuario e misterioso a
guardarmi come un leone che ha appena adocchiato la sua prossima preda,
anche
se era visibilmente stanco.
Ma
di una cosa ero certa: non gli avrei mai più permesso
di trattarmi come aveva fatto in quella stanza delle scope.
Mi
resi conto, inoltre, di quanto fosse lunatico.
Mi
aveva intimato di non creargli più problemi, ma dopo
avermi confidato quanto fosse difficile sua madre. Si era dimostrato
quasi
terrorizzato all’idea di passare con me la giornata, mentre
in quel momento era
davanti a me con quello sguardo quasi famelico, dopo avermi deriso.
Davvero
non riuscivo a capirlo, ma forse non ci volevo
neanche provare. Non riuscivo nemmeno a capire perché mi
stesse sempre così
vicino.
Cercai
di riprendere il controllo, prima di decidermi a
rispondere. Presi un profondo respiro.
“Cos’ha fatto la
diva, oggi?”, dissi con un sorriso beffardo sul
viso.
Vidi
Travis irrigidirsi e alzare un sopracciglio.
Stavo
perfettamente riuscendo nel mio tentativo di farlo
innervosire.
“Tu continua pure a
divertirti con questi nomignoli, ma questa volta sono serio”,
il suo tono
di voce era duro ed aspro. Cattivo. “Davvero,
non sto affatto bene oggi e ti sarei grato se per una sola volta mi
ascoltassi”.
“Va bene”,
esclamai esasperata. “Ma solo per
questa
volta. Non so cosa tu possa avere, se uno dei tuoi soliti capricci o
altro, ma
sappi che lo faccio solo perché la strada l’avrei
dovuta fare in ogni caso”,
aggiunsi mettendomi sulla difensiva. Non potevo dargli appigli o cui
aggrapparsi.
“Okay”, mi
rispose stizzito. “Vado a prendere
le mie
cose dalla macchina”.
E
come uno dei soliti cliché, si avviò verso quello
che
pareva un ultimo modello di BMW sportiva, grigio metallizzato. Mancava
solamente la modella bionda e statuaria sul cofano e, quella, sarebbe
diventata
la perfetta scena per una campagna pubblicitaria.
Un
classico,
pensai.
Partimmo
dal parcheggio quando erano quasi le otto e
trenta, con il baule della mia macchina straripante di borse e borsoni
di
Travis.
Per
tutto il viaggio fino alla spiaggia nessuno disse
niente, l’unica voce a sentirsi fu quella della radio. Una
situazione davvero
imbarazzante.
Dopo
circa quindici minuti mi accorsi che Travis dormiva
beato.
Continuai
a guidare, seguendo le indicazioni che lui mi
aveva dato prima di accoccolarsi tra le braccia di Morfeo, prestando
attenzione
alla strada e ogni tanto alla radio, resistendo alla tentazione di
svegliarlo.
Magari con una suonata di clacson, il ché era molto
allettante.
Arrivammo
poco prima delle nove al parcheggio prima della
spiaggia che mi aveva indicato Travis. Spenta l’auto, mi
voltai verso di lui e
vidi che dormiva ancora.
Mi
fermai alcuni secondi a guardarlo. Sembrava così
innocuo, così tranquillo. Portava ancora il cappuccio della
felpa sollevato
sulla testa, che era poggiata al finestrino. Si intravedeva un ciuffo
dei suoi
capelli castani come le sopracciglia folte. Aveva il viso rilassato, da
bambino
e le labbra socchiuse. Aveva delle belle labbra, dovetti ammetterlo.
Era
indubbiamente bello, ma ogni volta che si formava
quel pensiero nella mia testa tornava fuori la questione del carattere:
tremendamente difficile ed arrogante.
Sentivo
il suo respiro profondo e regolare.
Non
potei fare a meno di chiedermi come, un ragazzo
che sembrava così calmo e docile, potesse
essere in realtà un perfetto idiota.
Cercai
di non pensarci troppo e di non farmi ingannare da
quel bel faccino, così uscii dalla macchina silenziosamente,
dopo aver lasciato
un biglietto a Travis e lo lasciai lì, dirigendomi alla
spiaggia.
Mi
incamminai verso il litorale, infreddolita a causa
dell’aria che proveniva dal mare. Sulla spiaggia non si
vedeva anima viva, così
decisi di sistemarmi tra alcune piccole dune per ripararmi e per
riuscire a
passare il più inosservata possibile.
Anche
se pareva una giornata fresca anche sotto il sole,
piantai comunque il mio vecchio ombrellone, da poco riesumato dal
ripostiglio
del mio appartamento. Dopo aver steso il telo da mare, per
metà al sole e per
metà all’ombra, mi ci stesi sopra e provai a
rilassarmi un momento.
Chiusi
gli occhi, concentrandomi sul debole rumore del
vento e delle onde che invadevano il litorale deserto e anche sul verso
dei
gabbiani di passaggio: riuscii a trovare uno di quei rari momenti nei
quali
nella mia testa non girava nulla a velocità astronomiche.
Probabilmente
mi addormentai perché, quando riaprii gli
occhi, il sole era più alto. Controllai il telefono entro la
mia borsa e mi
accorsi di essermi appisolata per più di una mezzora: erano
le nove e
quarantacinque.
Mi
alzai e vidi che di Travis ancora non si vedeva
l’ombra. Sbuffai, cominciando a parlottare tra me e me di
come potevo essere
finita in guaio simile.
Oltre
ad essere un disastro di proporzioni astronomiche,
si stava dimostrando anche completamente inaffidabile. Mi maledissi per
aver
riposto così tanta fiducia in lui per il mio lavoro.
Mi
ripetei che ne valeva la pena e che, prima o poi,
sarebbe finito quel supplizio. Sicuramente, in buona parte, era anche
colpa
mia, che ingigantivo le cose solamente per aver ragione, ma anche lui
non si
risparmiava: era terribilmente fastidioso e ogni volta si dimostrava il
lunatico per eccellenza; preferii smettere di pensare a quel ragazzo
che ancora
dormiva nella mia auto.
Frugai
dentro la mia borsa e presi tra le mani la mia
macchina fotografica.
Dopo
essermi avvicinata all’acqua, cominciai a catturare
le immagini più belle cercando, inoltre, di renderle
indelebili non solo nella
mia mente. Riuscii ad isolarmi nella tranquillità che
solamente la fotografia
riusciva a regalarmi.
Mi
allontanai un po’ da dove avevo lasciato tutte le mie
cose sulla spiaggia, ma in ogni caso ancora non si vedeva nessuno.
Per
circa mezzora continuai a scattare fotografie e a non
pensare ad altro che ai miei scatti… finché
qualcuno non mi chiamò in
lontananza. Voltai lo sguardo verso la voce e vidi che, finalmente, la
diva
aveva deciso di svegliarsi.
Mi
incamminai per tornare all’ombrellone con i piedi
dentro l’acqua e i pantaloni tirati su fino al ginocchio.
Il
mare era ancora molto freddo e cominciai a chiedermi
come avrebbe fatto Travis ad allenarsi.
Quando
arrivai vicina all’ombrellone, lo vidi impegnato a
montare quella che sembrava una tenda da campeggio. Appena mi resi
conto della
cosa, mi presi il viso tra le mani ridendo e maledicendo il giorno in
cui avevo
chiesto aiuto a mio padre.
Raggiunsi
Travis e incrociai le braccia al petto
godendomi lo spettacolo che mi stava fornendo quella diva tremendamente
piena
di se, mentre cercava, con scarsi risultati, di montare quella
maledettissima
tenda.
Avevo
un sorriso divertito stampato sul viso, a causa
della sua sbadataggine e delle sue imprecazioni che ogni tanto mi
regalava.
Dopo
quelle che mi sembrarono decine di minuti, Travis
riuscì nel suo intento e si rimise dritto.
Finalmente
si accorse della mia presenza e, non appena
incrociò il mio sguardo, scoppiai in una risata sonora.
Lui
mi fulminò, poi cominciò a sistemare le sue cose
dentro la tenda, mentre io ero ancora occupata a ridere di gusto.
“Era troppo per te
aiutarmi, vero?!”, disse scocciato. “Certo,
una figlia di papà come te che, sicuramente,avrà
avuto la vita facile, non deve
essere stata abituata a lavorare. Perché avresti dovuto, poi?”.
La mia
risata si spense in un battito di ciglia e cominciò a salire
dentro di me
un’incredibile ondata di rabbia. “Con
un
padre famoso avrai avuto tutti i lussi possibili, magari anche qualcuno
che ti
facesse i compiti, quando eri bambina. Tutto questo per farti fare il
meno
possibile”.
Serrai
i punti sui fianchi e, quando abbassai lo sguardo,
notai le nocche bianchissime. Aveva esageratamente superato il limite,
ma non
si fermava, continuava a blaterare sulla mia vita a sproposito, come se
mi
conoscesse. Sentivo il viso bruciare dall’ira e i pugni
tremare dal nervosismo.
“Zitto!”,
sibilai a denti stretti, ma Travis sembrava non avermi sentito.
“Per carità,
tuo padre è una brava persona, ma
con te sembra aver sbagliato su tutti i fronti”.
Tornò dritto e cominciò a
spogliarsi, ma nemmeno la sua serie di addominali scolpiti
riuscì a calmarmi.
Poi alzò il capo, con un sorriso divertito sul volto, come
se fosse stato
appena illuminato da un’idea geniale. “Forse…
forse, invece, è solamente colpa di quel caratteraccio che
ti ritrovi e, in
questo caso, sarebbe solamente colpa tua”.
Indossava
solamente il costume da bagno ed aveva
ricominciato a rovistare nel suo borsone. Poi si avvicinò a
me di qualche
passo. Lo guardai inferocita, anche se lui non sembrava fare una piega.
Io
ero sempre rimasta in piedi, impalata e immobile per
colpa di tutta la rabbia che mi scorreva nelle vene, surriscaldandomi
la pelle,
come se fosse diventata di fuoco. Non osavo abbassare lo sguardo da
quello di
Travis, ma i miei occhi irati non sembravano scalfirlo.
“Non mi sorprende
che tu, in questo momento, sia…”. Il
finale della frase di Travis non uscì
dalla sua bocca, ma sentii solamente il rumore dello schiaffo che avevo
assestato sulla guancia dell’idiota che mi si era parato di
fronte.
Lui
mi guardò allibito, con la mano poggiata dove già
cominciava a vedersi un pronunciato rossore.
Mi
decisi a respirare a fondo, per paura di continuare la
mia serie di schiaffi che, sicuramente, sarebbe stata infinita. Sentii
gli
occhi cominciare a pungere, ma mi imposi di non piangere davanti a
Travis,
anche se solo per nervosismo.
“Ti ho detto di
stare zitto!”, gli intimai. “Tu non
hai la più pallida idea di cosa mio padre ed io abbiamo
passato! È stato tutto
tranne che facile! Non puoi permetterti di sputare sentenze a caso come
se ci
conoscessi, perché non è assolutamente
così! Mio padre è stato più che
meraviglioso con me e anche con i suoi allievi e il suo lavoro, ma
ancora non
capisco come possa portare su un vassoio d’argento uno
stronzo come te!”.
Cominciarono
a rigarmi il viso alcune lacrime, non potei
evitarlo: il nervosismo e la rabbia avevano avuto la meglio, ma non
avevo
nessuna intenzione di mostrarmi debole. Non gli avrei concesso nessun
altro
piccolo vantaggio.
Lo
sguardo di Travis non fece trapelare nulla e non si
azzardò nemmeno a proferire parola, ma abbassò il
capo e si incamminò verso il
mare.
“Molto più facile
così, vero?!”, dissi con un tono tale da
potermi far sentire anche da lui
che cominciava a distanziarsi.
Mi
asciugai le lacrime con la manica della felpa e
sbuffai, mentre mi sedetti sul mio telo, ancora furiosa. Scattai
qualche altra
fotografia per cercare di calmare i nervi, di cui un paio anche a
Travis che
camminava verso l’acqua più alta.
Volevo
assolutamente che tutta quella maledetta storia
finisse. Cominciai a respirare profondamente.
Non
mi ero mai azzardata, in vita mia, ad alzare le mani
su qualcuno, ma in quell’occasione Travis aveva davvero
esagerato. Aveva osato
parlare come se conoscesse me oppure la storia della mia famiglia.
Certo,
avevo fatto una cosa simile anche io con lui, ma
ero riuscita a fermarmi prima di oltrepassare il limite, prima di
andare sul
personale.
Tirai
fuori dalla borsa il vecchio libro e cominciai a leggere,
cercando di lasciarmi alle spalle lo schiaffo. Poi mi resi conto che
non ce la
facevo: mi tremavano ancora le mani.
Riposi
il libro dove lo avevo preso e affondai le dita
nei miei capelli.
Continuai
a chiedermi come avevo fatto a finire in guaio
simile. Alzai lo sguardo e vidi Travis impegnato nel suo allenamento di
stile
libero: era palesemente bravo ed elegante mentre nuotava e se me lo
fossi
trovato davanti agli occhi in circostanze normali, ci avrei fatto un
pensierino… ma per quel poco di lui che avevo conosciuto, mi
dissi che non ne
valeva assolutamente la pena.
Per
l’ennesima volta mi alzai in piedi e presi tra le
mani la mia macchina fotografica. Mi avvicinai al litorale, zoomai su
Travis e
cominciai a scattare, sperando ancora una volta che quelle foto
sarebbero
andate bene alla direttrice della rivista.
Secondo
il mio punto di vista, sembrava che una decina di
scatti fosse accettabile, ma non si poteva mai sapere. E con la fortuna
che
l’universo mi riservava in quel periodo, tutto era
un’incognita.
Io
ero diventata
un’incognita.
*
Ciao
bella gente... Lo so, questo capitolo non è lunghissimo, ma
siamo nel bel mezzo di un pezzo cruciale e abbastanza lungo, infatti
cercherò di aggiornare più spesso per non far
perdere il filo a nessuno! Spero di non deludervi!
Come
al solito, GRAZIE
INFINITE A TUTTI VOI, a chi legge, chi recensisce...
TUTTI! <3
Vorrei
abbracciarvi uno ad uno!
Comunque...
Fatemi sapere cosa ne pensate di questo capitolo e di come procede la
storia, vi prego!
Un
abbraccio,
Chiara
:)
|
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Capitolo 7 *** 6. Odio Reciproco ***
Maya6
*****
Restai
in piedi, a riva, per quelle che mi parvero ore,
fino a quando non mi resi conto che il sole cominciava a riscaldare
l’ambiente,
anche se in cielo si vedevano ancora parecchie nuvole. E
dall’aspetto poco
amichevole, tra l’altro.
Tornai
all’ombrellone per sfilarmi sia la felpa che la
maglietta, così rimasi solamente con i pantaloni della tuta
ed il costume.
Mi
soffermai alcuni secondi a guardare la specie di tenda
da campeggio che Travis si era portato dietro e che, in quel momento,
mi
trovavo davanti. Sorrisi ancora al ricordo di Travis che imprecava al
vento,
senza sapere cosa fare.
La
scena più esilarante degli ultimi tempi,
pensai.
“Devo essere stato
veramente spassoso, se te la stai ancora ridendo”,
disse Travis con voce
tagliente.
Quasi
trasalii al suono di quella voce e, appena mi
voltai verso di lui, il mio sorriso si spense.
Lo
trovai a meno di un metro da me, con la pelle che
brillava di gocce d’acqua e i capelli ancora zuppi, incollati
alla fronte.
Diamine…
Lo
gelai ancora con lo sguardo, riducendo gli occhi a due
fessure.
Se
avessi potuto, lo avrei addirittura fulminato.
“Si, una scena
fantastica”, incrociai le braccia al petto, come
per proteggermi, ed
assunsi un espressione saccente. In qualche modo dovevo rafforzare il
muro che,
poco prima, Travis aveva scheggiato. “E
mi hai anche stupita: da te mi sarei aspettata solamente di peggio”.
Mi
voltai ancora e, davanti al mio ombrellone, mi sfilai
anche i pantaloni e sciolsi i capelli.
Cominciai
ad incamminarmi verso il mare con l’intenzione
di passare il meno tempo possibile in compagnia di Travis. Sicuramente
sarebbe
andato a beneficio della salute di entrambi.
“Dove stai andando,
Maya?”.
Mi
bloccai di colpo, a metà strada, e strinsi i pugni,
conficcando le unghie nei palmi.
Inspirai
a fondo prima di rivolgere l’ attenzione ancora
a quel ragazzo esasperante, che era impegnato a smontare la parte
anteriore
della tenda, trasformandola in una specie di capanna.
Mi
chiesi dove avesse preso quell’aggeggio tanto strano.
“Ti ho chiesto dove
stai andando, Maya”, disse guardandomi con sguardo
assente, come se fossi
degna di poca attenzione. Poi si alzò ancora in piedi,
passandosi il suo telo
da mare sul corpo.
Accidenti!
“Vado in acqua… la
tua vicinanza mi irrita!”.
L’ombra
di un sorriso aleggiò sul suo viso. “L’acqua
è gelata, Maya, e…”. Il suo
sguardo indugiò per una manciata di secondi sul mio corpo,
forse facendomi
delle analisi più che accurate. “Uno
scricciolo come te sembra destinato ad ammalarsi al minimo colpo di
freddo”.
“Oh adesso ti
preoccupi per me, Travis? Ma che dolce!”, esclamai
con il miele nella voce.
Tornai subito sui miei passi, scuotendo la testa, più
contrariata che mai. “Ciao!”,
dissi salutandolo con la mano
sollevata sopra la testa.
Quello
era stato il colmo: dopo le sentenze che mi aveva
sputato in faccia senza il minimo ritegno, nemmeno un’ora
prima, aveva avuto
anche l’accortezza di preoccuparsi per me.
Solamente
quando misi i piedi nell’acqua mi dissi che, in
fin dei conti, Travis non aveva tutti i torti: l’acqua era
davvero fredda; ma
continuai nella mia crociata, ad andare avanti e ad immergermi sempre
di più,
convinta più che mai a non dargliela vinta.
Quando
tutto il mio corpo fu coperto dall’acqua, sentii
la pelle pungere e i piedi cominciare ad intorpidirsi, ma mi dissi che
tutto
quello non poteva fare ché bene alla circolazione,
così tentai di rilassarmi.
Cominciai
a galleggiare, bagnando i capelli e
rabbrividendo.
Mi
immersi e nuotai, fino a quando riuscii, godendomi
quei pochi momenti di tranquillità assoluta. Aprii gli occhi
sott’acqua e
quello che trovai davanti a me fu il nulla: la sensazione di pace e
calma, che
mi avvolgeva come una coperta, non poté che aumentare.
Tornai
in superficie e gli occhi bruciavano a causa del
sale, tuttavia, almeno il mio corpo cominciò ad abituarsi
leggermente al freddo
dell’acqua.
Continuai
quella mia piccola routine per un tempo che mi
parve infinito, fino a quando non si alzò una lieve brezza
che rinfrescò ancora
di più la giornata.
Lanciai
un’occhiata al cielo sopra di me e notai che le
nuvole cominciavano ad addensarsi, ma la prospettiva di tornare
all’asciutto,
con Travis a fianco, mi faceva preferire nettamente il gelo e il vento
in
acqua.
Cominciava,
però, a farsi sentire davvero tanto, il
freddo, e i capelli zuppi d’acqua non aiutavano di certo.
Ad
un certo punto mi voltai verso la spiaggia e notai che
Travis non era più al suo
“accampamento”, e il mio primo pensiero
andò alla mia
auto, ma poi vidi spuntare la sua testa dall’acqua ad una
decina di metri da
me, così il mio panico venne sostituito da disapprovazione.
Mi
chiesi per quale assurdo motivo mi stesse
raggiungendo.
L’acqua
mi arrivava quasi al mento, così decisi di
avanzare qualche passo verso la spiaggia, ma così facendo mi
trovai
praticamente faccia a faccia con Travis.
Lo
guardai per alcuni secondi, cercando di restare
impassibile, prima che lui cominciò a parlare. “Trovi l’acqua di tuo gradimento, Rambo?”,
mi chiese, con un sorrisetto
compiaciuto sulle labbra, alla vista della pelle d’oca delle
mie spalle fuori
dal livello dell’acqua.
“Rambo?! Il tuo
senso dell’umorismo si limita a questo?”,
dissi ridendo, ma di una risata
sarcastica, di scherno.
Ricominciai
a camminare verso la spiaggia, decisa più che
mai a mettere più distanza possibile tra me e lui.
Man
mano che mi avvicinavo a lui, mi resi conto di come
le apparenze potessero davvero ingannare: sembrava un bravo
ragazzo… un gran bel
bravo ragazzo, ma si era dimostrato
arrogante già dal primo momento e le cose, con il passare
del tempo, non erano
per nulla cambiate.
Quando
arrivai al suo fianco, mi bloccò il braccio con la
mano e cominciò a fissarmi con uno sguardo che non ero
ancora riuscita a
scorgere: pareva andasse tra il disprezzo e… il desiderio?
Non riuscivo a
dargli un nome.
Quella
era una delle tante volte in cui Travis mi
sembrava pericolosamente vicino.
Aveva
abbassato il suo viso verso di me, in modo che
fossero davvero pochi i centimetri a separarci.
In
quel momento mi sentii davvero piccola e quasi
insignificante al suo fianco, così alto e possente.
Qualcosa
sembrava essersi acceso nel suo sguardo e,
proprio quel qualcosa, mi fece salire un brivido lungo la schiena.
Ricordai
la vicenda dentro la stanza delle scope, dove
Travis mi aveva fatto davvero paura… e sospettavo che anche
in quell’occasione
si potesse ripetere una cosa simile, ma lì, al mare, ero da
sola. Anche se
avessi avuto la forza di urlare e di scappare, non sarei riuscita ad
andare
molto lontano.
Non
riuscivo a capacitarmi del perché si rivelasse
così
lunatico, quel ragazzo: iniziava a diventare snervante.
“Che cosa vuoi,
Travis?”, riuscii finalmente a ripescare un
po’ di fiducia in me stessa e
biascicai quelle poche parole. Quella, però, non mi
sembrò affatto la mia voce.
“Non lo so nemmeno
io, ma il tuo atteggiamento mi… oddio… non lo so,
Maya, ma mi fai innervosire!
In un modo in cui nemmeno mia madre riuscirebbe!”,
esclamò stizzito.
Si
voltò verso di me e me lo ritrovai davanti. Avevo un
muro umano davanti agli occhi.
Il
vento continuava a soffiare leggero, ma fastidioso e
freddo, facendomi rabbrividire ancora una volta.
Volevo
tornare alla spiaggia, asciugarmi e avvolgermi
ancora nella mia felpa. Solo quello e magari tornare nel mondo
immaginario del
mio libro.
Avevo
la tremenda sensazione che quel particolare momento
non avrebbe portato nulla di buono.
“Allora lasciami in
pace, Travis! Ci odiamo a vicenda, oramai è
palese…”.
Mi
liberai dalla sua presa che, nel frattempo, era
rimasta ben salda sul mio braccio.
Gli
rivolsi un ultimo sguardo truce prima di incamminarmi
a rilento verso la riva, con i passi frenati dall’acqua che
mi arrivava poco
più su della vita.
La
frustrazione mi attanagliava: il mio non riuscire ad
inquadrare quel ragazzo non faceva altro che innervosirmi. Non riuscivo
a
capire cosa volesse, ma poi pensai che, probabilmente, non lo sapeva
nemmeno
lui.
Finalmente
uscii dall’acqua e il mio corpo fu scosso da
tremiti, così corsi fino all’ombrellone per
coprirmi con il mio telo il prima possibile.
Mi
abbassai sulla mia borsa e scoprii che erano quasi le
undici e trenta. Il telefono, oltre a segnalarmi l’orario, mi
spiattellava in
faccia il nulla: nessuno mi aveva cercata, nemmeno mio padre. Poi dissi
a me
stessa che, nessuno, avrebbe avuto un buon pretesto per cercare proprio
me.
Forse
questa maledetta sincerità non è una
“qualità” vera e propria…
Tornai
dritta e mi resi conto che Travis mi aveva già
raggiunta e che, anche lui come me, si stava avvolgendo nel telo per
proteggersi da quel vento pungente.
Mi
squadrò ancora, come se fosse pronto ad insultarmi e a
prendermi a parolacce. Ancora.
Lo
ignorai vistosamente, tamponandomi i capelli zuppi e
voltando lo sguardo verso la massa d’acqua gelata di fronte a
me.
“Maya…”, disse
lui dopo poco.
Basta!
Non
avevo voglia di stare a sentirlo: ne avevo abbastanza
dei suoi monologhi da lunatico. Mi voltai di scatto verso di lui,
fulminandolo
con gli occhi.
“Travis smettila!”,
esclamai esasperata. “Non ne posso
più
dei tuoi continui cambiamenti d’umore e dei tuoi discorsi.
Basta, davvero! Per
fortuna con le foto ho finito, ora, quindi tutta questa storia termina
qui!”.
Cominciavo ad alterarmi. “Tu non mi
piaci
e viceversa, da quanto mi hai fatto capire, di conseguenza non sei
costretto e
volermi essere amico”, aggiunsi mimando le
virgolette con le mani.
Lasciai
cadere le braccia lungo i fianchi e presi un
profondo respiro, esausta.
Pensavo
che, dopo aver detto tutto quello in faccia a
Travis, mi sarei sentita meglio, ma la realtà era ben
diversa: non era cambiato
nulla, anzi mi sentivo ancora più nervosa.
Mi
accorsi del leggero tremore alle mani e sembrava
essersene accorto anche lui, da come faceva viaggiare i suoi occhi
dalle mie
mani al mio viso, inoltre sembrava che con quel suo strano sguardo
fosse pronto
a divorarmi, come se fossi una facile preda. E probabilmente in
quell’occasione
lo ero davvero.
Non
riuscivo ancora a capacitarmi di come, a volte, lo
sguardo di Travis riuscisse a destabilizzarmi in quel modo, a fermare
il flusso
di pensieri che occupava costantemente la mia mente.
Distolsi
il mio sguardo dal suo, stendendo sulla sabbia
ancora calda il mio telo e sedendomi sopra di esso. Cominciai a
districarmi i
nodi tra i capelli tra le mani, a volte imprecando mentalmente per il
dolore,
ma sempre senza azzardarmi a guardare in volto Travis. Non ne avevo le
forze.
Mi
misi a pensare a tutto quello che lui poteva aver
fatto e detto di sbagliato nei miei confronti e mi resi conto che, a
parte la
scenata di poco prima, avevo davvero pochi motivi per incolparlo di
qualcosa,
ma non ero ancora riuscita a capire per quale motivo il suo
comportamento mi
infastidisse tanto.
Avevo
la pelle d’oca su tutto il corpo: il vento ancora
non si era deciso a smettere di soffiare ed il sole coperto dalle
nuvole non
era di grande aiuto.
Dopo
essermi asciugata, indossai i miei pantaloni
sportivi, mentre Travis si sistemò all’interno
della sua tenda senza fiatare.
Quando
alzai lo sguardo verso il cielo vidi le nuvole
cominciare a farsi più nere e mi dissi che non promettevano
nulla di buono.
Nemmeno loro.
Decisi
di lasciar perdere il mio continuo pensare senza
fine e mi sistemai sotto il mio ombrellone a leggere, a lasciarmi alle
spalle
quel mondo e quel momento tanto strano, a lasciarmi alle spalle tutto
il resto
per immergermi nel mondo immaginario del mio libro.
Riuscii
finalmente a rilassarmi e a svuotare la mia mente
che, nei giorni precedenti, era sempre stata piena di pensieri e di
paranoie.
Avevo
passato un periodo difficile e snervante, ma in
quel momento continuavo a leggere, e a leggere, e a leggere,
estraniandomi dal
mondo esterno per entrare in uno tutto mio.
In
un mondo tutto mio, si… peccato che le palpebre
cominciarono a farsi pesanti…
Si,
andiamo in un altro mondo, solo per cinque minuti.
Qualcuno
mi stava scuotendo la spalla.
Sarà
papà. Non voglio andare a scuola!
E
continuava ad agitarmi come un giocattolo, ma io non
volevo andare via, però avevo freddo, tanto freddo.
Dov’è
la coperta?!
“Maya!”.
Quella non sembrava affatto la voce di mio padre. “Maya, svegliati!”.
Aprii
leggermente gli occhi e vidi qualcuno chino su di
me, senza capire bene chi fosse.
Si,
sicuramente è papà!
“No, ancora cinque
minuti”, mugugnai.
“Maya, svegliati!
Sta piovendo!”, sbottò infine la voce.
“Cosa… Travis!”.
Aprii gli occhi e vidi Travis chino su di me, con i capelli bagnati e
un’espressione stizzita negli occhi. “Cosa
vuoi?”, chiesi mettendomi seduta e ritrovandomi con
il suo volto poco
distante dal mio.
Alle
mie parole sgranò leggermente gli occhi, schiudendo
appena le labbra. Sembrava sconvolto e, in quel momento di silenzio
assoluto,
dove i nostri sguardi rimasero stranamente incollati gli uni agli
altri, capii
per quale motivo lui mi stesse guardando attonito.
Mi
voltai
lentamente e, guardandomi attorno, capii che una forte pioggia si stava
abbattendo sulla spiaggia. “Oh…”
*
Ciao bella
gente!
Scusate se ho tardato un po' a pubblicare questo capitolo... Comunque,
spero vi piaccia anche se è un piccolo capitolo di transito!
Ne
succederanno delle belle (muahahah io so tutto e voi no!).
Scusatemi, sto dilagando... Fatemi sapere cosa ne pensate e come
procede la storia, mi raccomando, ci conto! :)
Come sempre ringrazio
TUTTI VOI, "miei" piccoli e bellissimi lettori! Mi riempite di
felicità!
GRAZIE
DI CUORE a
chi recensisce, a chi aggiunge la mia storia tra le sue
preferite/seguite/da ricordare e chi legge in silenzio! <3
Detto questo, vi lascio... Al prossimo capitolo!
Un
abbraccio a tutti,
Chiara
:)
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Capitolo 8 *** 7. Terra chiama Maya! ***
Maya7
*****
Buona sera/buongiorno/buon
pomeriggio (il tutto è a vostra interpretazione) bella gente!
Oggi scrivo qui su
per una
piccola premessa: non odiatemi quando finirete il capitolo! Diciamo che
l'ispirazione in questo periodo scarseggia "assai" e mi ritrovo, spesso
e volentieri, a fissare una pagina bianca senza sapere cosa scrivere!
Comunque, si lo so,
sto
aggiornado di rado! Mi piacerebbe pubblicare almeno un paio di capitoli
a settimana, ma a volte proprio non ce la faccio... Almeno questa volta
cercherò di mantenere la mia parola e di pubblicare un altro
capitolo prima di lunedì! Sarò in Germania per
quasi una
settimana e non riuscirò a fare nulla!
Buona lettura! Ci
vediamo sotto! :)
“Maya, diluvia e a
meno che tu non voglia prenderti una polmonite, prendi le tue cose e
vai nella
mia tenda. Io, intanto, chiudo l’ombrellone”,
disse alzandosi.
Quando
il mio cervello ebbe recepito il messaggio,
ammassai tra le braccia tutte le mie cose e corsi verso la tenda,
affondando i
piedi nella sabbia bagnata. Mi accorsi solo in quel momento di avere
parte dei
pantaloni e del telo fradici.
Sistemai
la mia borsa e la macchina fotografica, che
fortunatamente non aveva subito danni, nel fondo della tenda, al sicuro
dalla
pioggia e, buttandomi la felpa ancora asciutta sulle spalle, entrai in
quel
rifugio di fortuna.
Travis
tornò poco dopo, ancora più zuppo di poco prima,
e
si sistemò accanto a me, dopo essersi scollato energicamente
i capelli con una
mano. In quel momento mi ricordò un cucciolo bagnato, anche
se di cucciolo non aveva proprio
niente.
La
tenda era molto più spaziosa di quello che sembrava,
infatti in due si riusciva a restare comodamente seduti.
Travis,
che ancora era a petto nudo, si passò velocemente
il telo sul corpo, mettendosi poi in fretta e furia una maglietta e la
felpa.
Si strinse in se stesso, scosso da lievi tremiti.
La
pioggia, nel frattempo, continuava a cadere incessante
e il rumore che provocava, sbattendo contro la parete della tenda, era
davvero
snervante. Un continuo martellare che, pian piano, ti entrava in testa.
Sentivo
il corpo completamente bloccato dal freddo, come
se i muscoli non rispondessero più ai miei comandi, ma anche
a causa di quella
strana situazione che stavo vivendo in quel momento.
“Maya, stai
tremando!”, esclamò Travis quasi
allarmato.
Lo
fissai per alcuni con sguardo assente, del tutto
comprensibile, mi dissi, analizzando bene il modo in cui mi aveva
svegliata,
poi mi resi conto di essere pervasa da brividi di freddo.
“Oh si, ho freddo”,
dissi con una voce che non sembrava affatto la mia.
Travis
sospirò, quasi rassegnato, poi si avvicinò a me.
“Devi toglierti questi pantaloni,
sono
fradici”, mormorò osservandomi.
Cos’ho
fatto io di male!?
La
situazione stava per diventare ancora più strana ed
imbarazzante di quanto già non fosse.
Sgranai
leggermente gli occhi, stupita da quanto lui mi
aveva appena detto, ma poi, per una sola volta, decisi di mettere da
parte
l’orgoglio. Ma solamente per quel momento.
Mi
sfilai i pantaloni, sentendomi la persona più goffa
sulla faccia del pianeta, e con ogni probabilità lo ero
davvero, in quella
tenda che, si, sembrava capiente per due persone sedute, ma un minimo
movimento
rendeva precario ogni equilibrio. Avvicinai le gambe al petto, dopo
aver
gettato i pantaloni in un angolo e mi strinsi nella felpa.
Nel
frattempo, Travis aveva preso dal suo borsone quella
che sembrava una coperta a motivo scozzese.
Quando
riuscii a scorgere una piccola parte del suo volto
e riconobbi quel suo sorrisetto divertito sulle labbra e, come di
consueto, mi
fece leggermente innervosire.
“Perché stai
ridendo, ora?”, chiesi stizzita.
Lui
mostrò la sua serie di denti perfetti, senza però
guardarmi, e soffocò una risata.
“Rido perché in
questo momento sembri più una bambina indifesa, invece che
la ragazza con la
lingua biforcuta che sei in realtà”,
disse guadandomi negli occhi.
Dissi
a me stessa che, la fitta nel ventre che avevo
appena sentito, non poteva essere causata dal suo sguardo.
Avrai
preso freddo, scema!
Di
certo, quella piccola parte del mio cervello che
utilizzava ancora un briciolo di ragione, non mi era d’aiuto
in quel momento.
Aprii
la bocca per replicare con una delle mie solite
frecciatine, ma poi mi venne da ridere e lasciai perdere la questione.
Guardai
ancora fuori dalla tenda e notai che, se
possibile, la pioggia era addirittura aumentata.
Sentivo
ancora lo sguardo di Travis addosso, ma non osavo
voltarmi e guardarlo in faccia, poi si spostò leggermente e
con una zip,
comparsa da chissà dove, chiuse la tenda, restringendo il
nostro raggio d’azione.
Chissà
per quale assurdo motivo avevo la sensazione che,
quella pioggia non avrebbe portato nulla di buono.
Vidi
con la coda dell’occhio lui spostarsi leggermente
verso di me aprendo la coperta scozzese.
Quella
non era assolutamente la situazione che mi sarei
aspettata di vivere insieme a Travis, non era quello che mi ero
immaginata
quella mattina, appena uscita di casa. Mi sentivo estremamente a
disagio, anche
se sembrava non esserci nulla di preoccupante.
Almeno
non ancora.
“Vieni qui, Maya”,
disse Travis dopo alcuni attimi, distogliendomi dai miei pensieri.
Guardai
Travis e lo trovai spostato più indietro, come se
aspettasse che mi gettassi tra le sue braccia.
E
allora fallo!
Ecco
che, nei momenti meno opportuni, arriva la parte
decisamente non razionale del mio cervello.
Lo
fissai dubbiosa, non avendo ben capito cosa volesse da
me, ma lui si mostrava tranquillissimo.
Hai
capito benissimo, invece, testona!
“Come, scusa?”,
esclamai, dopo aver cercato di scorgere qualcosa nel suo sguardo.
“Vieni qui da me,
Maya! Non ho nessuna intenzione di farti del male, se è
questo a preoccuparti”,
rispose in tono esasperato, alzando gli occhi al cielo.
Come
poteva essere cambiata così tanto in così poco
tempo, la situazione che stavo vivendo?
Lo
sguardo impertinente, anche se un po’ tediato, di
Travis sembrava volesse chiedermi di fidarmi di lui.
Come
posso!?
Con
quale coraggio potevo porre un minimo di fiducia in
lui quando, fino a neanche un paio d’ore prima, aveva sputato
sentenze
tutt’altro che leggere su di me?
Lo
guardai ancora, per alcuni secondi, senza sapere cosa
fare oppure come interpretare il suo sguardo forse spazientito dalla
mia
titubanza. Probabilmente non aveva capito quanto mi avesse spiazzata.
Alla
fine mi decisi e per una volta assecondai la sua
richiesta, avvicinandomi a lui.
“Finalmente”,
mormorò ancora esasperato, quando gli fui davanti.
“Ora girati e siediti”.
Obbedii ancora.
Appena
mi voltai, Travis, fece passare sopra la mia testa
la coperta e me la posò addosso, poi si avvicinò
ancora a me e mi ritrovai
improvvisamente imprigionata tra le sue braccia.
Sgranai
gli occhi, scioccata e forse un po’ preoccupata
da quel momento. Ero praticamente chiusa a riccio, con la schiena
poggiata al
petto di Travis, mentre lui, seduto, accerchiava le mie gambe con le
sue. Le
sue braccia, strette sulla coperta, mi circondavano il collo, ma la
cosa che mi
mise a disagio più di tutte fu il suo mento poggiato sulla
mia spalla ed i
nostri volti terribilmente vicini.
“Travis…”,
dissi, quasi impaurita. “Che diavolo
stai
facendo?! Smettila!”.
Provai
a divincolarmi, ma i miei tentativi si rivelarono
completamente inutili perché lui, da grande simpaticone che
era, non fece che
rafforzare la sua stretta su di me. Non riuscivo a muovermi e, piccola
com’ero
rispetto a lui, non avevo alcuna possibilità di uscire
vincitrice da quel
confronto.
“Stai zitta, almeno
per una volta, Maya. Sia tu che io stiamo congelando, quindi questa
è la nostra
unica soluzione possibile”. Il suo alito soffiava
sulle mio orecchie,
facendomi il solletico. “A meno che
tu
non voglia uscire da questa tenda e raggiungere la tua auto,
è ovvio”,
aggiunse sarcastico.
Ha
pure voglia di fare il simpatico!
Ascoltai
la pioggia che ancora sferzava contro quel
trabiccolo, costretta a rassegnarmi alla condizione in cui mi trovavo.
Misi il
broncio.
Scossi
leggermente la testa, rassegnata, e sbuffando
esasperata.
Di
certo, quando ero uscita di casa quella stessa
mattina, non mi sarei mai immaginata che sarei finita prigioniera delle
braccia
di Travis, in quella tenda che ancora resisteva tenacemente alla
pioggia.
“Quindi, vuoi
andare la fuori, Maya?”, mi chiese sfidandomi,
sempre soffiandomi
sull’orecchio.
“No, resto qui, ma
non pensare che questa situazione mi vada a genio, perché
non è così!”,
esclamai innervosita. “Penso di non
essermi mai sentita tanto a disagio come in questo momento”,
aggiunsi con
un mormorio, più a me stessa che a Travis, chiudendomi
ancora di più a riccio,
sperando di mettere una manciata di centimetri di distanza tra il suo
corpo e
il mio.
“Pensi davvero che
io sia a mio agio, Maya?”, chiese lui, ridendo. Mi
strinse ancora di più,
rendendo vani i miei tentativi di allontanarmi da lui. Il suo mento era
ancora
poggiato sulla mia spalla.
Con
la coda dell’occhio potevo scorgere parte del suo
viso e sembrava molto più tranquillo di quanto voleva par
apparire, ma pensare
che anche lui si sentiva leggermente
a disagio, mi risollevava un po’ il morale.
“Beh,
almeno questo mi fa sentire un po’ meglio”,
sussurrai con un mezzo sorriso stampato sulla faccia.
“Non ho alcun
dubbio che, qualcosa che dia fastidio a me, faccia piacere a te, Maya”.
Rise ancora.
“Si può sapere per
quale motivo, ogni volta che mi dici qualcosa, ripeti il mio nome?”,
gli
chiesi curiosa.
Non
me ne ero accorta fino a quel momento, ma, man mano
che ripercorrevo con la mente le nostre brevi conversazioni, mi rendevo
conto
che il mio nome compariva spesso e volentieri.
Rimase
zitto un momento, Travis, e con la coda
dell’occhio vidi la sua fronte aggrottata, poi
parlò: “Non lo so, mi
viene naturale, Maya”, disse incerto, con una
risata
imbarazzata. “Vedi? Non so dirti il
perché… forse perché mi piace il tuo
nome e come suona”.
Le
sue parole furono sorprendenti, per me.
Mi
irrigidii e mi voltai a guardarlo.
Non
appena mi girai, una fitta di dolore mi colpì il
collo, facendomi mancare per un momento l’aria nei polmoni.
D’istinto mi portai
la mano sul punto dolente.
Alzai
lo sguardo ancora un po’ stralunato da quel
frangente e, a pochi centimetri dal mio, trovai il suo viso.
Dannazione!
Restai
per la seconda volta senza fiato.
Gli
occhi cangianti di Travis, quella volta con delle
particolari venature verdi, erano lì davanti a me a
scrutarmi con uno strano
sguardo: tra il preoccupato ed il sorpreso.
Per
un momento studiai i lineamenti del suo viso ed ebbi,
per l’ennesima volta, la conferma di quanta bellezza
possedesse quel ragazzo.
Le sopracciglia folte e marcate, ma comunque ben delineate, la mascella
squadrata e le labbra piene.
Se
solo non avesse avuto quel caratteraccio…
Era
davvero strano trovarsi prigioniera delle braccia di
quello che, per me, era praticamente uno sconosciuto. Da sola con lui,
in una
tenda su una spiaggia deserta, mi sentivo davvero come se in quel posto
non
avrei dovuto esserci, come se fosse sbagliato, ma come poteva essere
sbagliata
una cosa che mi faceva sentire all’improvviso così
leggera?
Terra
chiama Maya! Terra chiama Maya!
*
Eccomi
qua!
Spero
che il capitolo vi sia piaciuto e... non odiatemi! Non odiatemi! Non
odiatemi! Ormai questi finali sembrano essere diventati la mia firma...
Comunque fatemi sapere dcosa pensate di questo capitolo e dello
svolgimento della storia! Sono curiosa!
Come
sempre... GRAZIE A TUTTI per le
recensioni, i commenti, per aver messo la mia storia tra le preferite o
le seguite... GRAZIE DI CUORE!
Alla
prossima e un abbraccione enorme!
Chiara
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Capitolo 9 *** 8. Giochi Pericolosi ***
Maya9
*****
La
mia simpatica coscienza,
per una volta, arrivò in mio soccorso al momento opportuno.
No,
non dovevo ammorbidirmi. Non potevo proprio!
Distolsi
lo sguardo da Travis e tornai a fissare la tenda
che ancora resistiva alla pioggia, anche se sembrava nettamente
diminuita.
“Tutto bene?”,
mi chiese lui con l’ennesimo soffio sulle orecchie e il tono
quasi gentile.
Respirai
a fondo per un paio di secondi, indecisa se
rispondere o meno a quella domanda, ancora intontita da quei suoi occhi
ipnotici.
“Si, Travis”,
risposi, flebile, “Mi fa solamente
male
il collo”, aggiunsi con la mano poggiata ancora sul
punto dolente.
Mi
massaggiai la pelle per alcuni secondi, come se
sapessi quello che stavo facendo, ma la realtà era ben
diversa: non avevo idea
della serie di azioni che, in quel momento, stavo compiendo, cercavo
solamente
un pretesto per troncare la conversazione o per cambiare argomento.
Poi
lui posò la sua mano sulla mia, quella ancora sul
collo, e la spostò con delicatezza. “Posso?”,
mi chiese con una punta di gentilezza nella voce.
Proprio
non gli si addicevano quelle premure.
Voltai
leggermente il viso verso di lui, senza però
guardarlo in faccia. Sentivo ancora dentro di me la paura di incontrare
quegli
occhi capaci di farmi tremare.
“Cosa vorresti
fare?”.
“Un massaggio,
nulla di che, ma ho imparato qualcosa dopo molte sedute dal
massaggiatore”.
“Vuoi farmi un
massaggio?”, domandai alzando un sopraciglio.
“Si, ho visto il
tuo sguardo quando ti sei voltata verso di me”,
parlò, distogliendo gli
occhi da me. “Penso che tu abbia
preso
freddo oppure che tu abbia una contrattura”.
Lo
guardai sottecchi per un momento, cercando di
analizzare a fondo la sua espressione che, purtroppo, non lasciava
trapelare
nulla.
“Tu, vuoi fare un
massaggio. A me”, dissi ancora, osservandolo
stranita. “Che fine ha fatto lo
stronzo di un’ora fa?”,
domandai con un’espressione interrogativa e tutto il sarcasmo
possibile.
Lui
rise, mostrandomi la sua serie di denti perfetti. “Visto che la tua stima di me è pari allo
zero, sto cercando di… sorprenderti”, mi
rispose, incerto.
Gli
occhi di Travis indugiarono sul mio collo e sul lembo
di pelle della spalla che usciva dalla felpa.
Vidi
il suo petto alzarsi piano e capii che, in quel
momento, stava respirando a fondo, come se si stesse trattenendo dal
fare
qualcosa. Mi chiesi se la tensione che invadeva me, in quel frangente,
stesse
attaccando anche lui.
Poi
i miei occhi si soffermarono sulla sua clavicola e
sui muscoli che si intravedevano dalla sua felpa e, in un attimo,
sentii le
guance accaldarsi e il fiato mancare, davanti a quella visione.
Terra
chiama Maya! Terra chiama Maya!
L’aria
era tornata tesa e piena di quello che sembrava un
incontro a metà strada tra imbarazzo e… desiderio?
No,
non è possibile!
Non
poteva esserlo, assolutamente!
Lui
aveva già dimostrato
in svariate occasioni la sua avversione verso di me ed io
proprio non lo
sopportavo. Anche se avevo già ammesso a me stessa quanto
fosse attraente,
quanto fosse dannatamente affascinante.
Accidenti!
Alzai
lo sguardo e trovai ancora gli occhi di Travis a
scrutarmi. Sembrava stesse nascondendomi qualcosa, ma preferii non fare
domande
e così tornai a fissare la tenda davanti a me.
La
mia mente correva a mille, cercando di decidere cosa
fare, poi un pensiero mi balenò in testa: dopo quella
giornata sarebbe tutto
finito.
E
allora al diavolo tutto!
Presi
un profondo respiro e abbassai quel poco la zip
della felpa per poter scoprire le spalle.
“Dai, fai questo
massaggio, poi andiamo via”, mormorai senza alcuna
convinzione. Mi legai la
cascata di capelli ricci scuri in alto, in un concio fatto alle meglio
e chinai
il capo, in attesa.
Mi
sentivo stranamente agitata, come se fossi stata
ancora a scuola davanti ad un’interrogazione.
Percepivo
l’aria fresca, che entrava dagli spifferi di
quell’abitacolo,
sfiorarmi le spalle, facendomi rabbrividire e venire la pelle
d’oca.
Improvvisamente
le mani di Travis si posarono sul mio collo
e sussultai per la sorpresa: erano stranamente calde e, a contatto con
il mio
corpo e le mie spalle rinfrescate, sentii la pelle pungere.
Per
alcuni secondi, lui, mi carezzò con una delicatezza
che proprio non gli si addiceva.
Che
meraviglia…
Se
non avessi discusso così tanto oppure se Travis non
avesse avuto quello strano carattere, quel particolare momento mi
sarebbe anche
piaciuto.
Mi
sarebbe piaciuto veramente tanto: mi sarei poggiata
alla sua schiena, in attesa della sua mossa seguente, crogiolandomi tra
le sue
braccia forti e quel profumo di salsedine.
Non
sopportavo quel ragazzo, ma avevo già ammesso uno smisurato
numero di volte quanto fosse… sexy.
Al
diavolo!
Si,
era sexy e mi rendevo conto solamente in quel momento
di quanto difficile fosse resistergli.
Strabuzzai
gli occhi alla reazione del mio corpo : mi
irrigidii all’istante, stupita dal piacere che provavo grazie
alle mani di
quello strano ragazzo.
Dopo
alcuni secondi di indecisione, Travis cominciò a
massaggiare la mia pelle ed i miei muscoli.
Finalmente
cominciai a rilassarmi, come se fossi appena
stata immersa in una vasca piena d’acqua calda e
bagnoschiuma. Sospirai
estasiata dai movimenti precisi, delicati, ma allo stesso tempo decisi
delle
mani di quel ragazzo. Avrei potuto credere a tutto, ma di certo non
alle sue
evidenti capacità di massaggiatore, tuttavia mi dovetti
ricredere.
Mi
sentivo stranamente leggera, come se tutta la
preoccupazione e la tensione di pochi istanti prima fosse svanita nel
nulla e
mi avesse liberata di un peso enorme.
Dopo
essere rimasto per alcuni minuti sul collo, passò
alle spalle e lì la mia mente cominciò a
viaggiare, lasciando perdere il
pianeta Terra.
“Sai che sei
davvero bravo, Travis?”, gli dissi con la voce un
po’ impastata.
Lo
sentii ridere leggermente, senza però smettere di
massaggiare la mia pelle e mandarmi in estasi. Avvertii il suo respiro
sfiorarmi le spalle.
Anche
se avessi voluto, non sarei riuscita a muovere un
muscolo: ero talmente rilassata che il collegamento cervello-corpo
sembrava
essersi disconnesso.
“Ti ringrazio, Maya”.
Lui mi riportò con i pensieri al presente, ma si
zittì all’istante.
Per
quanto risultasse piacevole, una volta tanto, il suo
silenzio, la situazione risultava a dir poco imbarazzante.
Dovevo
allentare quella tensione, in qualche modo.
“Quindi ti piace il
mio nome”, mormorai più a me stessa che
a lui.
Travis
si bloccò un momento, con le mani calde e
leggermente callose sulle mie spalle.
Mi
irrigidii quando i suoi pollici carezzarono la linea
del mio collo sempre con delicatezza.
Maya
non cedere!
La
mia coscienza si rivelò più determinata di me.
“Speravo te ne
fossi dimenticata”, disse serio, ma poi rise,
ricominciando con i suoi
massaggi.
Soppesai
per un momento le sue parole, cercando di dargli
un senso, ma poco dopo scossi la testa, lasciando perdere le mie
paranoie.
Travis
si agitò dietro di me e quando finalmente la
possibile tarantola che lo tormentava si fermò, mi
sembrò più vicino rispetto a
poco prima.
Provai
a lanciargli uno sguardo, con la coda dell’occhio,
sperando che lui non se ne accorgesse e ne ebbi la conferma: un minimo
movimento e sarei stata tra le sue braccia.
Grazie
al silenzio di tomba che era calato per l’ennesima
volta sulle nostre teste, riuscii a percepire la pioggia nettamente
diminuita.
Pensai a quanto poco tempo mi distanziasse dal ritorno a casa.
“Si, Maya, il tuo
nome mi piace: ha un bel suono e, inoltre, penso che ti si addica”,
affermò
poco dopo.
“Mi si addice?”,
chiesi curiosa.
“Si, perché è un
nome con un certo carattere, ma ha anche qualcosa
di…”, si fermò, indeciso
su cosa dire. “Misterioso”,
aggiunse
con l’ennesimo soffio sulle mie spalle.
Alzai
il capo, sorpresa dalle parole che aveva appena
utilizzato e lui fermò ancora le sue mani.
“Misterioso… sarei
misteriosa, io?”, chiesi, voltandomi verso di lui
ed alzando un
sopracciglio.
Un
sorriso divertito apparve sulle labbra di Travis,
tremendamente vicine alle mie. Ancora. Ma in quell’occasione
non avevo alcuna
possibilità di muovermi, di allontanarmi
e quando il mio sguardo si allacciò al suo, non
riuscii a trovarne
nemmeno la forza.
Mi
sentivo impietrita, come se ogni muscolo del mio corpo
mi avesse abbandonata.
Sbattei
le palpebre un paio di volte ed il sorriso del
ragazzo davanti a me scomparve, lasciando spazio ad
un’espressione quasi
smarrita. Poggiò le mani sulle ginocchia, ai miei fianchi, e
sospirò, ma senza
smettere di scrutarmi.
“Lo sai che mi
metti a disagio, vero?”, dissi schietta.
Quello
squarcio divertito tornò ad illuminare il volto di
Travis, ma per quanto potesse essere accattivante con
quell’espressione sul
viso, non riuscii a fare a meno di trovarlo tremendamente fastidioso.
Non
riuscivo proprio a capire cosa ci fosse di divertente.
Lo
fissai torva, mentre lui ancora se la rideva.
“Io ti metto a
disagio? Non ti rendi conto di quanto tu metta a disagio me!?”,
esclamò sempre
con quel sorriso.
“Cosa? Come posso
farlo?”, gli domandai allibita.
“Con il tuo
comportamento, il tuo carattere, il tuo aspetto”,
rispose.
Mi
irrigidii ancora, diventando quasi di marmo.
Lo
metto a disagio per il mio aspetto?
Potevo
capire per il mio carattere: non sono mai stata
una persona facile, non sono mai piaciuta a molta gente; ma non capivo
davvero
come potessi imbarazzarlo per il mio aspetto.
Travis
si mosse e notai il suo avvicinarsi, anche se
solamente di alcuni centimetri.
Era
più vicino che mai. Ancora un mossa sarei finita per
baciarlo.
Dannazione!
Lui
metteva a disagio. E molto.
Il
suo essere terribilmente lunatico era snervante e mi
chiesi che cosa ci facesse così vicino a me, cosa diamine
volesse da me, ma non
riuscivo a trovare una risposta con un briciolo di senso.
Era
davvero insopportabile, arrogante, pieno di se,
strafottente… ma pur sempre fastidiosamente attraente. Forse
anche troppo.
“Come
può, il mio aspetto, metterti in imbarazzo?”,
chiesi, guardando la tenda ed innervosendomi ancora di più
sentendo Travis
ridere.
Dopo
alcuni istanti parlò: “Me
lo stai chiedendo seriamente, Maya?”, chiese con
una punta di
sarcasmo nella voce.
Lo
fissai, come se stesse parlando in un’altra lingua,
mentre lui, ancora vicino a me, non dava segni di cedimento. Poi nella
mia
mente balenò un’idea.
“Facciamo un patto”,
alle mie parole Travis aggrottò la fronte. “Dato
che, questa, probabilmente, sarà l’ultima volta in
cui avrò l’enorme piacere di
vederti, potremmo fare una cosa”. Io ed il
sarcasmo: una combinazione
invincibile. “Ora, noi due, ci
diremo in
totale sincerità pregi e difetti dell’altro”,
dissi, con la parvenza di un
sorriso divertito sul volto. “Preparati
perché, la tua lista di difetti potrebbe durare in eterno”.
L’espressione
di Travis pareva sbalordita. Sbatté le
palpebre un paio di volte, apparentemente confuso ed indeciso su cosa
rispondere: sembrava addirittura che lo avessi sconvolto, quando, in
realtà, la
mia idea non aveva un briciolo di senso.
Dopo
alcuni istanti, lui ruppe il silenzio.
“Questa è l’ultima
volta in cui ci vediamo, giusto?”,
sussurrò incerto, guardandomi di
sottecchi.
“Si, quindi non
abbiamo nulla da perdere”, risposi semplicemente.
Alzò
un sopracciglio, ma poi mi rivolse uno strano
sorriso, a cui ovviamente non mi azzardai a rispondere.
Sorridi
troppo, ragazzo!
“Va
bene, ci sto!”,
esclamò, divertito come un
bambino a Natale. Mi porse la mano ed io la strinsi con forza, cercando
di
fargli comprendere quanto, lui, in
tutto e per tutto, non mi facesse alcun effetto.
Quanto
sei sicura di te, Maya!
Coscienza,
smettila di fare la simpatica!
“Comincio
io!”, dissi
anticipandolo sul tempo, prima che lui potesse
proferire parola.
“Che gentile”,
ironizzò lui, per un momento, per poi assumere una strana
aria di sfida, ma non
mi lasciai intimorire da quelle iridi color nocciola, capaci di
lasciarmi senza
un pensiero in testa, ma al tempo stesso di riempirmi di fantasie e
paranoie.
Che
il gioco cominci!
*
Ciao
bella gente! Che dire...
Questo capitolo non è tra i più convincenti, ma
è stato buttato giù di getto: volevo mantenere la
mia parola e postarvi il seguito prima della mia partenza!
Il finale... Si, lo so! Sempre lo stesso... Ma, fidatevi, aspettate
ancora un pochino che poi si comincia a ragionare! (muahahah)
Comunque... Come
sempre grazie a chi legge, a chi mi segue e a chi solamente legge in
silenzio! Un bacione enorme a tutti <3
Ci "vediamo" la prossima settimana!
Un mega abbraccione a tutti voi,
Chiara
p.s. Ovviamente fatemi sapere cosa pensate di questo capitolo! :)
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Capitolo 10 *** 9. Il Gioco della Verità ***
Maya9
*****
Tornai
con lo sguardo davanti a me, sulla tenda che
ancora ci proteggeva dalla pioggia che, man mano che il tempo passava,
diminuiva sempre più.
Poi
cominciai a pensare a cosa avrei potuto dire e
Travis, a come avrei potuto usare al meglio le parole.
Sul
mio viso comparve un sorrisetto divertito: avevo,
finalmente, la possibilità di dire apertamente tutto quello
che pensavo di quel
ragazzo, senza filtri né divieti.
“Ricorda Travis:
totale sincerità”, lo intimai, con uno
sguardo di sbieco. Poi ricominciai
il mio monologo. “Allora…
sei pieno di
te, in un modo davvero impressionante, ed estremamente arrogante, come
se in
tutto quello che fai fossi bravo solamente tu”, mi
resi conto di parlare a
macchinetta, ad una velocità tale che, a stento, si
comprendeva ciò che dicevo.
Ero partita in quarta e sembrava che nulla avesse il potere di
fermarmi. “Sei anche molto lunatico,
infatti per la
maggior parte del tempo non riesco a capire cosa ti passi per la testa”.
Travis,
mentre il mio sproloquio procedeva senza sosta,
non si era ancora azzardato ad interrompermi oppure a ribattere, il
ché mi
sembrò a dir poco singolare, ma per fortuna le sue mani non
si erano fermate un
secondo dal massaggiare il maniera sublime sia il mio collo che le mie
spalle.
“Un’altra cosa,
Travis… quella volta nella stanza delle scope…
lì ti ho odiato davvero”,
mormorai con molta meno decisione di poco prima. Sembrava svanito tutto
il coraggio
che avevo utilizzato per parlare, o meglio criticare, quel ragazzo. Mi
sentivo
stranamente vulnerabile, privata della mia solita corazza, come ancora
non mi
era capitato.
Le
sue mani esitarono per un momento, prima di
ricominciare nella loro danza.
“Perché mi avresti
odiato davvero, scusa?”, chiese quasi offeso.
“Perché mi hai
spaventata, idiota!”, mi giustificai, cominciando
ad alterarmi. “Non mi sembra di
averti fatto un gran torto,
visto come ti stavi esibendo con le tue doti da stronzo nei miei
confronti.
Volevo solamente vendicarmi in qualche modo”,
dissi, tormentando la
cerniera della mia felpa. “Poi ho
visto
tua madre, così le ho detto semplicemente che non mi
sembravi un soggetto
adatto alla macchina fotografica, ma l’ho fatto
perché mi sembrava una cosa
stupida, insignificante… poi arrivi tu, mi fai prendere un
infarto e mi tratti
in quel modo”.
La
mia voce era poco più che un sussurro.
Quella
mia amata corazza di spavalderia e di coraggio era
andata in frantumi, lei, sempre presente e pronta a proteggermi, se
n’era
andata, lasciandomi più indifesa che mai.
Travis
si fermò di colpo e lo sentii allontanarsi da me,
sospirando.
Attesi
un momento, decidendo sul da farsi, poi mi girai
verso di lui.
I
suoi occhi erano fissi a terra, aveva le ginocchia
sollevate, con le braccia poggiate su di esse. I capelli castano
chiaro, oramai
asciutti, gli ricadevano sulla fronte, spettinati, donandogli
un’aria da
ragazzino che poteva lasciare incantati.
Non
riuscivo a distinguere la sua espressione, ma poi sollevò
il capo, allacciando il suo sguardo al mio. Quasi mi mancò
il respiro.
I
suoi occhi erano pieni di qualcosa di nuovo, forse
stanchezza, ma non la solita, quella fisica, Travis pareva provato,
stanco di
quell’assurda situazione come, d'altronde, lo ero io. Mi
fissò per alcuni
istanti, poi scosse la testa sorridendo, chissà per quale
motivo.
“Se ti ho
spaventata e trattata male, ti chiedo scusa”,
disse, con ancora quello
squarcio allegro sul viso.
Come!?
Mi stai prendendo in giro, Diva?
“L’ho fatto perché…
hai sbagliato. Te l’ho detto quel giorno: possiamo
insultarci, odiarci quanto
vuoi, ma lascia perdere mia madre. Mi crea già abbastanza
problemi senza che tu
la istighi”.
“Va bene, lasciamo
perdere…”. Travis mi interruppe con un
gesto della mano.
“Ora tocca a me”,
il suo sorriso divenne quasi un ghigno.
Mi
voltai ancora verso la tenda: non avevo nessuna
intenzione di guardare quell’odioso ed incomprensibile
ragazzo, mentre si
dilettava in un monologo dove, sicuramente, non avrebbe fatto altro che
insultarmi.
“Bene… sei così
testarda che, a volte, vorrei chiuderti da qualche parte e lasciarti
sbollire
da sola, pensi sempre di essere nel giusto, di aver ragione…
spesso mi viene da
ridere perché ci credi così tanto che riesci a
far cambiare idea anche a me”,
parlava con voce seria, anche se velata da un pizzico di ironia.
“Inoltre, hai una grande stima di te
stesse,
a volte anche troppa”.
Cosa!?
“Cerchi
di far sempre la simpatica e, nonostante a volte tu riesca nel tuo
intento, spesso non ti rendi conto di come tu possa superare il limite.
Però…”.
Un
però!? Mi degni di questo onore, Travis? Stai davvero
pensando di farmi
un complimento?
Fino
a quel momento era stato tutto una critica continua,
un’analisi superficiale del mio atteggiamento e dei miei
comportamenti, senza
magari chiedersi da cosa potessero essere dati, ma poi c’era
stato quel barlume
di speranza, quel però
che mi faceva
pensare in qualcosa di buono.
“Ti ho osservata
mentre fotografi, quando hai la tua macchina fotografica in
mano…”, ebbe un
attimo di esitazione, poi continuò a parlare. “La passione e l’impegno che metti in
quello che fai è davvero
ammirevole”.
Raddrizzai
il capo, sorpresa dalle sue parole.
Mi
ha appena fatto un complimento.
Aveva
davvero apprezzato il mio modo di lavorare. Non
potevo crederci. Mi voltai verso di lui, incredula e, alla vista della
mia
espressione, Travis rise ancora.
“Si, Maya, ho
appena fatto un apprezzamento su un particolare del tuo carattere, ma
solo
questo… per il resto sei insopportabile”,
aggiunse avvicinando per un
secondo il suo viso al mio, con aria complice.
Lo
guardai con un sopracciglio sollevato. “Come
se tu fossi un angioletto”, dissi
sarcastica.
Ci
fu un attimo, solamente un secondo, in cui i nostri
sguardi si incollarono ancora gli uni agli altri, ma quando mi resi
conto che
la pioggia aveva finalmente terminato la sua crociata contro quella
tenda, che
cominciava a diventare troppo piccola, il momento passò.
Se
ne accorse anche lui. “Possiamo
uscire ora, penso”, disse con un accenno di
imbarazzo.
Aprii
la tenda, sentendo subito l’aria fresca di
salsedine sfiorarmi le spalle ancora scoperte. Uscii sperando di
apparire il
meno goffa possibile.
Avvertii
la sabbia ancora bagnata sotto i piedi, ma non
ci badai più di tanto: ero troppo impegnata ad ammirare il
paesaggio che mi si
presentò attorno. Era da mozzare il fiato.
Il
mare agitato, con le onde increspate di bianco, sotto
un cielo pieno di nuvole grigie, ma con un particolare raggio di luce
che
risplendeva sull’acqua, come se il Sole avesse appena deciso
di riposarsi su
quel mare infuriato. Il tutto possedeva una strana aria misteriosa.
“Caspita!”.
Travis fu al mio fianco.
Mi
mossi in fretta, per paura di perdere quel fotogramma
spettacolare, e dalla tenda afferrai la mia macchina fotografica.
Cominciai a
scattare, a congelare quel momento, a renderlo indelebile ed eterno.
Il
mondo attorno a me sparì.
“Prima mi riferivo
a questa passione”, disse lui, con un sussurro
all’orecchio.
Il
mio corpo si irrigidì all’istante, sorpreso
dall’effetto provocatomi dalla sua voce. Sentivo Travis
terribilmente vicino,
per l’ennesima volta.
Lui
posò ancora le sue mani sulle mie spalle, facendomi
partire un brivido lungo la schiena.
“Non era l’unico
complimento che volevo farti, Maya”, disse ancora
con tono flebile,
accattivante. “Quando prima ti ho
detto
che mi metti a disagio per il tuo aspetto, mi riferivo al tuo viso, ai
tuoi
lineamenti… al tuo fisico”.
Cosa!?
Lo
stupore invase il mio viso, facendomi perdere l’uso
della parola. Non riuscivo a credere che proprio
lui, lo stesso ragazzo che mi aveva insultata e quasi
minacciata, mi stesse
confessando delle cose simili.
“Sei di una
bellezza disarmante e, probabilmente, neanche te ne rendi conto, ma ti
posso
assicurare che, il primo giorno che hai varcato la porta della piscina,
gli
sguardi degli atleti erano tutti rivolti a te”.
Cosa
stava facendo? Come si stava comportando? Quella
confessione mi lasciò a bocca aperta.
Non
poteva essere vero. Non ci volevo credere, non
potevano essere vere, quelle parole. E per quale motivo mi stava
dicendo quelle
cose?
Una
valanga di domande mi investì la mente, come un treno
in corsa. Non riuscivo più a pensare lucidamente.
Le
mani di Travis ripartirono nel loro viaggio sulla mia
pelle, facendomi rabbrividire ancora. Le gambe nude, poi, non erano
d’aiuto.
“N…
non è vero, Travis, ne sono sicura!”, la
voce mi mancò dalla tensione e dall’imbarazzo.
Mi
prese la macchina fotografica dalle mani e lo sentii
posarla ancora all’interno della tenda, poi tornò
dietro di me, posandomi la
coperta sulle spalle e lasciandomi le mani su di essa. “È davvero strano vederti così
in imbarazzo quando ti si fa un
complimento”, disse con una risata. “Te
l’ho detto, non te ne rendi conto, ma hai la
capacità di attirare lo sguardo di
chiunque”, aggiunse avvicinandosi ancora a me.
Presi
un profondo respiro, ignorando il continuo
subbuglio che ribolliva dentro di me e sperando che, dalle mie labbra,
uscisse
un tono di voce apparentemente tranquillo.
“Come potrei
attirare lo sguardo di chiunque? Non mi sembra di essere
così attraente da
potermelo permettere”. La mia sicurezza era andata
a farsi un giro.
“È questo il punto:
non ti sembra, ma lo sei”.
L’ennesimo
incidente di percorso, l’ennesima sensazione
di essere stata appena investita da qualcosa di troppo veloce e pesante
per me.
“Facciamo una cosa,
Maya: proseguiamo con il gioco di poco fa, ricominciamo a parlarci con
sincerità”, disse voltandomi verso di
lui. “Oramai ho capito che non mi
sopporti, quindi non farti tanti scrupoli:
insultami, criticami… voglio sapere tutto quello che ti
passa per la testa”.
Un irritante sorriso si stampò sul suo viso. “Non mi sembra che ti sia fatta tanti problemi, poco
fa”.
Ce
la posso fare!
Dovevo
recuperare quella sicurezza, quel carattere tanto
spavaldo, quella sfacciataggine che tanto mi contraddistinguevano ,
perché ne
avevo abbastanza di tutta quella sensazione di vulnerabilità.
Perché
Travis era ancora così vicino a me? Perché non
manteneva le distanze?
Per
quanto mi sforzassi non riuscivo a trovare una
risposta esauriente alle mie domande.
Gli
occhi cangianti di quel ragazzo non mollavano per un
secondo i miei, facendomi sentire più imbarazzata che mai.
Piegò
leggermente la testa di lato e mi fissò
incuriosito, per un momento. “Io ho
già
detto qualcosa, ora tocca a te”, esclamò
con ancora il sorriso a
contornargli le labbra.
L’avrei
volentieri preso a schiaffi.
Respirai
profondamente, in cerca delle parole giuste da
utilizzare, ma nulla occupava la mia mente. C’era solamente
il vuoto.
“Comincio ad odiare
questo gioco”, mormorai.
Lo
scrutai ancora una volta, prima di distogliere
definitivamente lo sguardo. Come potevo trovare le parole giuste per
criticarlo?
Eravamo
passati sull’aspetto fisico, da quel poco che
avevo capito, e, per quanto mi costasse ammetterlo, riguardo a quello
non aveva
nulla da invidiare a nessuno.
Optai
per la schiettezza.
Sarà
l’ultima volta in cui lo vedrò, in cui gli
parlerò, tanto vale essere
sinceri.
La
mia mente viaggiava alla velocità della luce nella
speranza di trovare un modo per uscire indenni da quella situazione.
“Allora… per quanto
il tuo carattere possa lasciare a desiderare, riguardo al tuo
aspetto…”, la
mia voce era ancora flebile. Strinsi i denti, mi decisi a darmi una
svegliata
e, dopo aver incontrato ancora i suoi occhi, ricominciai a parlare.
“Riguardo al tuo aspetto non ho
niente da
dirti, sono sincera. Penso che tu sia un bel ragazzo, con un viso anche
fin
troppo giovane ed angelico per il tuo carattere e… con un
bel fisico”.
L’avevo
detto. Nel momento stesso in cui quelle parole
uscirono dalle mie labbra, sentii le guance diventare di fuoco.
“Anche se in quella palestra, di
fisici scartabili,
ne ho visti ben pochi”, aggiunsi, infine, per
sviare l’argomento, agitando
confusamente una mano.
Un
lampo divertito si posò sullo sguardo di Travis,
facendolo sembrare un adolescente davanti ad un videogioco. “Tutto qui?”, chiese, fingendosi
geloso,
quando quell’aria soddisfatta lasciava intendere anche troppo.
Aveva
avuto quello che volevo: io avevo abbassato la
guardia ed avevo giocato le sue stesse carte. Si era sentito elogiato e
lui
sembrava esserne felice.
I
suoi occhi parevano ardere, pieni di una qualche
sensazione o emozione particolare, a cui non riuscivo a dare un nome.
Mi
chiesi da dove arrivasse tutta quella mia agitazione.
Sentivo
ogni muscolo fuori uso, pietrificato da quel suo
sguardo.
Cosa
significano queste fitte allo stomaco?
“Tutto qui!?
Probabilmente non ti rendi conto di quanto sia imbarazzante, per me,
dire
queste cose apertamente”, esclamai esasperata.
“Tu la fai facile… beh,
per me non lo è!”. In un batter
d’occhio
avevo recuperato la mia voce.
Quel
sorriso divertito, ancora lì a tormentarmi, sembrava
non volersene andare e cominciavo ad odiarlo come mai prima di allora.
“Non è facile
nemmeno per me, ma mi rendo conto che questa, probabilmente,
sarà l’ultima
volta in cui parleremo, quindi cercherò di non crearmi
problemi a dirti in
faccia quello che penso”. Si avvicinò
ancora a me, mentre era occupato nel
suo sproloquio.
Si
trovava, per la centesima volta, fin troppo vicino a
me, sovrastandomi con i suoi numerosi centimetri in più del
mio scarso metro e
sessanta.
Provai
a non sentirmi eccessivamente insignificante.
“Per questo motivo
cercherò di essere sincero: come ti ho detto prima, non te
ne rendi conto, ma
sei davvero attraente, Maya”, disse abbassandosi
leggermente verso di me e
sfiorandomi una guancia con le nocche.
Sentii
la pelle bruciare, come fosse stata appena
inondata da un getto di acqua bollente
“E c’è un qualcosa
di terribilmente affascinante nei tuoi occhi”,
continuò, sfiorandomi lo
zigomo. “Quando prima ti ho vista in
costume da bagno, poi quando sei uscita
dall’acqua… pensavo mi stesse per
prendere un infarto”.
Terra
chiama Maya! Terra chiama Maya! Houston abbiamo un problema!
“Che
stupidaggine questo gioco della sincerità, Travis”,
mormorai in preda alle emozioni.
Ero
decisamente terrorizzata da quello che sarebbe potuto
succedere se non fossi riuscita a fare marcia indietro ed allontanarmi
da quel
ragazzo, ma una parte di me desiderava che, quel qualcosa,
succedesse. Una piccola parte, davvero insignificante, ma
perfettamente capace di annebbiarmi la mente. Inoltre, avevo paura di
come
sarebbe cambiata la situazione se i nostri volti si fossero avvicinati
ancora
di pochi centimetri, ma sempre quella piccola parte di me stessa voleva
scoprirlo.
Mi
resi conto di come, la mia idea su Travis, potesse
mutare con tanta facilità.
“Lo penso anche io,
Maya, ma almeno ora sappiamo che, tra noi, non c’è
solamente odio e disprezzo”.
Lui
si avvicinò ancora, facendo quasi aderire i nostri
corpi.
Se
io, in quei giorni, ero divenuta un’incognita, quel
ragazzo per me continuava ad essere sempre lo stesso mistero.
La
realtà era innegabile: quel sincero confronto
sull’aspetto fisico aveva innescato la miccia e, per quanto
mi costasse
ammetterlo, lui davanti a me era un continuo richiamo.
Che
cosa superficiale,
pensai.
Sentivo
il bisogno di avvicinarmi ancora, per bruciare
quella breve distanza che ancora ci separava, ma poi la mia mente
cominciò ad
espormi a gran voce le sue solite paranoie ed i soliti flussi di
pensieri che
si contraddicevano a vicenda.
Non
sapevo cosa fare!
E
se per una volta nella mia vita mandassi al diavolo tutto?
Quel
pensiero dilagò nel mio cervello come un’epidemia.
Mi
dissi che, si, potevo mandare tutto e tutti a quel
paese per una volta e seguire solamente i miei istinti. Alle
conseguenze avrei
pensato in un secondo momento.
Avrei
pensato in un’altra occasione al mio lavoro, a mio
padre alla sua disapprovazione se fosse venuto a conoscenza anche solo
di un
minimo particolare, perché in quel momento vedevo solamente
Travis ed i suoi
occhi, pronti a divorare ogni singola parte di me.
Eravamo
a pochi centimetri di distanza l’una dall’altro,
infatti potevo sentire il suo respiro sfiorarmi il viso.
Percepivo
il mio corpo svuotato da ogni cellula vitale,
immobile ed inerme di fronte a lui, ma al tempo stesso pieno di
energia,
euforia ed eccitazione, come se lo sguardo di quel ragazzo avesse la
capacità
di rinvigorirmi e di farmi sentire più viva che mai.
Una
mano di Travis continuava a viaggiare sul mio viso, sulla
mia guancia, con una delicatezza incredibilmente piacevole, poi scese e
si aprì
sulla linea del mio collo, provocandomi una serie di brividi su tutto
il corpo.
Piegai
leggermente la testa, per facilitare lo scorrere
di quelle carezze tanto caste quanto peccaminose.
Nessuno
aveva ceduto lo sguardo: continuavamo a scrutarci
attentamente, in attesa di chi avrebbe avuto il coraggio di fare la
prima
mossa.
Poi
mi avvicinai a lui, riducendo ulteriormente le
distanze e poggiando leggermente il mio corpo al suo.
Ancora
mi chiedo da quale remota parte di me stessa
trovai la forza, la sfacciataggine di fare la prima mossa.
Perché
mi ero alzata sulle punte dei piedi ed avevo preso
tra le mani i capelli ancora umidi di Travis? Perché mi ero
avvicinata ancora
di più?
Mi
sentivo stranamente piena di coraggio e di insicurezze
al tempo stesso. Speravo solamente che l’espressione sul mio
viso non mi
tradisse, che non mostrasse la mia agitazione.
“Stai
avendo una brutta influenza su di me, Travis”.
Non riuscii a fermare quelle parole prima che uscissero dalla mia bocca.
*
Ciao
bella gente! Che dire...
Questo capitolo non è tra i più convincenti, ma
è stato buttato giù di getto: volevo mantenere la
mia parola e postarvi il seguito prima della mia partenza!
Comunque... Come
sempre grazie a chi legge, a chi mi segue e a chi solamente legge in
silenzio! Un bacione enorme a tutti <3
Ci "vediamo" la prossima settimana!
Un mega abbraccione a tutti voi,
Chiara
p.s. Ovviamente fatemi sapere cosa pensate di questo capitolo! :)
|
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Capitolo 11 *** 10. Madness ***
Maya10
*****
Il
suo sguardo non fece trapelare nulla come al solito,
ma poi sulle sue labbra comparve un sorriso sghembo, che gli incurvava
solamente un angolo della bocca.
Non
riuscii a fare a meno di provare il solito moto di
irritazione, ma in quel caso non badai più di tanto alle mie
paranoie: ero
troppo impegnata a non implodere per l’agitazione.
Travis
fece scorrere lentamente le sue mani dalle mie
spalle giù fino ai fianchi, dove si fermarono, stringendomi
leggermente.
Un
brivido mi percorse tutta la colonna vertebrale,
arrivando fino alla base della nuca e, per un fugace momento, non
riuscii a
distinguere più la mia fin troppo fervida immaginazione
dalla realtà.
Terra
chiama Maya! Terra chiama Maya!
Zitta
coscienza!
Tentai
di disattivare ogni connessione possibile con il
cervello che, con tutte le sue forze, mi urlava a chiare parole di
allontanarmi
da quel ragazzo che tanto odiavo, ma che in quel momento mi pareva
soltanto
peccaminoso ed irresistibile come il desiderio.
Quegli
occhi cangianti, di una tonalità quasi ambrata non
si fermavano un momento dallo scrutare attentamente il mio viso e, ogni
volta
che incontravano i miei, era un continuo tremore alle ginocchia.
Prima
odio, poi quello che ancora mi pareva desiderio,
come se quella pioggia, su di noi, avesse avuto un insolito effetto a
calamita.
Con
una mano percorsi la linea del collo di Travis ed il
lembo di belle che gli lasciava scoperta la felpa, ma senza cedere lo
sguardo.
Pelle
calda, liscia, tonica…
Tutta
da baciare!
No,
assolutamente no, Maya!
Lo
sentii cingermi la vita con un braccio, sollevandomi
un po’ da terra e facendo scorrere la mano libera sul mio
fianco, lentamente,
provocandomi l’ennesima scarica di adrenalina,
l’ennesima serie di brividi e…
una nuova sequenza di pensieri poco consoni.
“Stai
fraternizzando con il nemico, Maya?”,
sussurrò Travis, con fare vittorioso,
facendo sfiorare le nostre labbra.
Per
un brevissimo secondo sentii una morsa allo stomaco,
ma quell’incredibile, assurdo, ma comunque stranamente
piacevole momento passò
in un batter d’occhio.
Con
una breve serie di parole, quel ragazzo mandò tutto
in frantumi, compresa la mia piccola dose di follia. Riuscii a
riacquistare
quel briciolo di lucidità e concentrazione necessarie per
allontanarmi da lui
di alcuni passi.
Mi
squadrò dalla testa ai piedi, leggermente sorpreso,
poi vidi spuntare ancora sul suo viso lo stesso sorrisetto strafottente
di poco
prima
“Sei un vero
idiota, Travis!”, esclamai dopo il milionesimo
scambio di sguardi. Oramai
avevo perso il conto delle volte in cui i miei ochi si erano soffermati
nei
suoi, ammaliati da quella strana bellezza che, tuttavia, si addiceva
alla
perfezione a quel ragazzo.
E
ti pareva!
Lui,
inaspettatamente, cominciò a ridere di gusto,
divertito da non so quale particolare.
Mi
chiesi come, per un fugace istante, potevo aver perso
il lume della ragione in quel modo, avvicinandomi pericolosamente a
Travis e
mettendo a dura prova tutto il mio buon contegno.
Zitta,
lo rifaresti volentieri!
La
mia coscienza, sempre fin troppo sincera, arrivava
sempre nei momenti meno opportuni, ma purtroppo aveva ragione.
Nonostante
tutti i lati negativi, sarei andata fino in
fondo se lui non avesse avuto la
brillante idea di parlare come il “solito Travis”.
Avrei fatto quella follia,
si, perché sarebbe stata un’occasione imperdibile,
perché non lo avrei mai più
visto e non avrei mai avuto più niente a che fare con lui.
I
suoi occhi mi avevano ipnotizzata, dal primo momento in
cui avevano incontrato i miei, il suo viso giovane e fresco ed il suo
corpo
terribilmente perfetto e tonico da sembrare irreale, avevano stuzzicato
la mia
curiosità sin dal principio. In quell’occasione
non avevo saputo resistergli:
noi due soli, in un luogo pressoché isolato… mi
era parso quasi perfetto
lasciarmi sopraffare dai miei istinti per una volta. Sono pur sempre
una donna
e, uno come Travis, di certo non passa inosservato.
“Non mi è sembrato
che, prima che tornassi in te, ti avessi infastidita”,
esordì il solito
sbruffone.
Quelle
sue iridi ambrate mi scrutarono ancora con
insistenza, quasi volessero scalfirmi, poi lo vidi accennare un passo
verso di
me e, d’istinto, arretrai e mi allontanai ulteriormente da
lui.
“Stop! Fermo lì,
Travis: hai perso la tua occasione ed ora è tornata la
solita stronza con cui
hai in atto una guerra”, esclamai, alzando le mani
come per difendermi.
Lui
continuò a ridere, distogliendo l’attenzione da me
e
lasciandomi prendere un sospiro di sollievo.
Eravamo
sulla via del ritorno, con il baule della mia
macchina ancora straripante e, probabilmente, zuppo d’acqua
come tutto quello
che conteneva e quell’atmosfera di tensione ad impregnare
l’aria.
L’atmosfera
si era fatta tagliente, ancora di più del
viaggio d’andata, tremendamente silenziosa e, ogni tanto,
interrotta solamente
da qualche canzone alla radio.
Poi,
ad un certo punto, su una stazione radiofonica
fecero passare Madness, dei Muse, e
non riuscii a fare a meno di pensare a come il destino avesse dato il
via ad
una crociata contro di me già da tempo.
Per
quanto ami quella canzone, in quel frangente la
trovai fastidiosamente appropriata e veritiera.
Folle.
La
follia è lo scheletro di quella canzone, ne è il
cuore, il cervello: è tutto; e proprio la follia aveva preso
il controllo del
mio corpo e della mia mente quel giorno.
And
now, I need to know, is this real love?
Or is it just Madness keeping us afloat.
But when I look back at all the crazy fights we had
It was like some kind of Madness, was taking control.
No,
non lo è! Decisamente non è una canzone
appropriate! Il nostro amore
non è follia: il nostro non è amore e stop!
Finisce lì, finisce oggi con una
figura di merda da parte mia e, forse, una vittoria in più
per lui, ma finisce
oggi!
Non
poteva esserlo, no? Matt Bellamy, con la sua voce
epocale, si chiedeva se quello fosse una sottospecie di amore, di vero
amore… No,
decisamente non era la canzone appropriata.
And
I have finally realized
I need your Love
I need your Love
Come
to me, just in a dream
Come on and rescue me
Yes I know, I can’t be wrong
And maybe I’m too headstrong
Our love is…
Madness
Decisamente
non è appropriata!
Finalmente
arrivammo al parcheggio della piscine e quasi
non ci potevo credere: era tutto finito!
Scendemmo
entrambi dalla mia auto e, per prima cosa,
aprii il bagagliaio, sentendomi investita da un forte odore di mare e
salsedine.,
così Travis poté scaricare tutti i suoi armamenti.
Gettò
tutto dentro la sua piccola e modesta
auto, poi lo vidi tornare verso di me e cominciò
a fissarmi. Ancora. Come faceva sempre.
“Bene, ora me ne
vado. Devo trasferire tutte le fotografie sul… ma poi, cosa
ti può interessare,
no?”, dissi, agitando le mani confusamente.
“Se mi assumono potrai…
beh, non sono affari tuoi!”. Mi voltai verso
la mia auto, pronta ad andare. “Addio
Travis!”, lo salutai rivolgendogli un ultimo
sguardo.
Stupida,
perché lo hai fatto?
Travis
si era visibilmente avvicinato a me, restringendo
le distanze in modo preoccupante. Come al solito.
Tornò
il silenzio. Per l’ennesima volta.
Notai,
non so come, un suo continuo spostamento di
attenzione dai miei occhi alle mie labbra, prima che di abbassare lo
sguardo
verso l’asfalto e cominciare a scrutare un punto indefinito.
“Travis, devo
andare”, dissi a mezza voce, per niente convinta
delle mie parole.
“Lo so”, mi
rispose lui, con un tono di voce che dovrebbe essere considerato
illegale.
Sensualità allo stato puro, ecco cosa avevo percepito.
“Bene, allora
allontanati dalla mia auto”, indietreggiai alla
ricerca di un qualsiasi
appiglio. “Non vorrei imbrattarla
con il
tuo sangue se, per sbaglio, ti investissi”.
Brava!
Ecco la stronza che piace a me!
Grazie
coscienza, ma ora chiudi quella bocca!
Lui
rise leggermente, prima di recepire il messaggio e
battere in ritirata.
Alzai
lo sguardo
ed incontrai ancora il suo, che non accennava a cedere. Era a dir poco
estenuante.
Dovevo
andare via da quel posto, dovevo allontanarmi il
più possibile da lui. Ne avevo bisogno.
“Ho capito, me ne
vado”, disse, incamminandosi verso la sua auto e
rivolgendomi l’ennesimo
sguardo dopo pochi passi. “Ciao Maya!”,
mi sorrise infine.
Finalmente
a casa!
Non
avevo mai avuto tanta voglia di tornare tra le mie
quattro mura come in quel momento: mi sentii immediatamente meglio,
più
rilassata e tranquilla.
Dopo
aver trasferito ogni fotografia sul mio computer mi
sarei rintanata nella mia camera oscura e lì, lo sapevo,
ogni preoccupazione se
ne sarebbe andata definitivamente.
Gettai
la borsa a terra, appena entrata nel mio
appartamento e, dopo aver lanciato un urlo tra l’esasperato
ed il vittorioso,
controllai cosa il mio frigo avesse da offrirmi. La voglia di
prepararmi qualcosa
da mangiare era sotto i piedi.
Niente.
Deserto totale.
Ricordarsi
di andare a fare la spesa, appuntato
nella mente.
Agguantai
un biscotto da un contenitore prima di tornare
all’ingresso e recuperare la mia borsa.
Già
pregustavo l’idea di un’infinita doccia calda:
tutta
la pioggia ed il vento della spiaggia mi avevano infreddolita a
dismisura.
Vagavo
per casa gettando un qualcosa da una parte e
qualcos’altro dall’altra, trasformando quel piccolo
abitacolo in una discarica.
Mi
dissi che, prima
o poi, avrei dovuto cambiare qualcosa lì dentro.
Mi
piaceva, ogni tanto, mettere in atto una piccola rivoluzione
nel mio appartamento: la stessa disposizione di mobili, gli stessi
quadri e le
stesse fotografie, ovviamente scattate da me, appese al muro dopo un
po’ di
tempo cominciavano ad annoiarmi.
Ero
un continuo cambiamento e quelle stanze che, per mia
fortuna, mi ospitavano silenziose, mutavano in base ai miei cambiamenti
d’umore.
Mi
avviai verso il bagno, dove tenevo la lavatrice, e vi
buttai dentro i pantaloni sportivi che ancora indossavo.
La
mia pancia brontolò. Stavo morendo di fare.
Tornai
in cucina di corsa e, dopo aver controllato a
fondo il contenuto del mio frigo, trovai, per la gioia del mio stomaco,
l’ultimo
yogurt rimasto.
Occupai
una sedia al tavolo da pranzo e divorai quel poco
che le mie scorte possedevano.
La
giornata appena passata mi aveva resa più affamata di
quanto avessi immaginato.
Sicura
che sia il cibo quello che vuoi?
COSCIENZA!?
La
sfacciataggine della mia mente mi fece arrossire
violentemente.
Okay,
stavo pian piano impazzendo. Diedi la colpa ad una
possibile insolazione.
Era
nuvolo, oggi, stupida!
Fantastico!
Comunque sono sicura che la mia fame sia di cibo, magari di
dolci, zuccheri, carboidrati. Cibo!
La
realtà era ben diversa: non ero più sicura di
nulla,
dopo quelle poche ore sulla spiaggia.
Le
mani di Travis mi avevano fatta sentire realmente e
palesemente viva dopo quella che mi pareva
un’eternità, mi aveva fatta sentire
leggera, quasi mi avesse riempita d’elio.
Eppure
c’era sempre qualcosa che frenava i miei istinti,
facendomi diventare più reticente ed insicura. In poche
parole, quel ragazzo
incrinava, con straziante lentezza, ogni mia barriera facendomi
diventare una
persona che, in realtà, non ero.
Stavo
degenerando, ma per mia fortuna quella storia, quella
piccola parte della mia vita, aveva finalmente avuto il suo epilogo,
non così
tanto epico, ma almeno accettabile, lasciandomi forse con
‘amaro in bocca, ma
con l’animo certamente più leggero.
Toc
toc toc.
Quel
tocco deciso alla porta mi destò dal mio sonno di
pensieri e mi resi conto di come fossi rimasta imbambolata con il
cucchino a
mezz’aria.
Non
mi resi nemmeno conto di non indossare un paio di
pantaloni, ma solamente il costume da bagno, quando mi avviai verso la
porta d’ingresso,
imprecando mentalmente verso chiunque se la stesse prendendo con la mia
entrata.
Colui
o colei che aveva appena interrotto il mio spuntino
non dava tregua: continuava a battere il pugno sulla mia porta con
decisione ed
impazienza.
Poi
la aprii,decisa
più che mai ad insultare chi stesse cercando di far crollare
il mio
appartamento, ma quando mi resi conto che, l’aggressore
d’ingressi, in realtà
era Travis, ogni mia sicurezza, ogni mia decisione svanì,
lasciandomi solamente
un leggero tremolio alle gambe.
*
Taaa
Daaaan... Il Coniglio Pasquale è arrivato!
Dopo
tante sofferenze sono riuscita a postare il nuovo capitolo. come sempre
scusate il ritardo e l'assenza prolungata, ma sto passando dei giorni
un po' tosti, nonostante la vacanza *sigh*..
Sono
a mezzo con la tesina, ma volevo stoppare questo mio continuo
assenteismo, così... ECCO QUA UN CAPITOLO FRESCRO FRESCO!
Non ho
idea di quando avrò la possibilità di postare il
seguito,
sinceramente.. Spero la prossima settimana, ma preferisco non
promettrvi niente e costruire prospettive e promesse che, magari, non
riuscirei a mantenere!
Non
odiatevi, perchè io vi voglio tanto bene e vi dico che siete
adorabili! Vi basta come scusa, da parte mia, per avervi lasciate con
il fiato sospeso, come al solito? Spero di si...
Nuova
svolta! Taaa Daaan!
Eggià...
Beh, fatemi sapere che ne pensate, gente! :)
Come
sempre ringrazio tutte voi, bellissime donzelle che continuate a
seguire me, ragazza mentalmente disturbata! E a chi recensisce farei
una statua! Grazi di cuore, davvero, mi fate impazzire di gioia!
<3
Detto
questo mi dileguo... Alla prossima bella gente!
Un abbraccio, un bacione
e... BUONA PASQUA!
|
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Capitolo 12 *** 11. Animal Instinct ***
Maya11
*****
Rimasi
seriamente shockata quando mi resi conto di avere
proprio lui davanti agli occhi,
sulla
soglia del mio appartamento e con il fiatone dovuto a tutte le rampe di
scale.
“Un appartamento ad
un piano inferiore, no!? Perché il settimo!?”.
Travis
parlò con voce affannata, neanche avesse appena
terminato una maratona, ma per certi versi poteva essere considerata
tale la
veloce scalata di quattordici rampe di scale.
Vederlo
in quello stato, con il viso leggermente
arrossato, gli occhi stralunati, ma sempre fastidiosamente bello da far
male,
aveva mandato in frantumi la mia corazza di protezione, ogni briciolo
di
sarcasmo ed ogni mia sicurezza. Per l’ennesima volta.
Forse
proprio perché mi sentivo terribilmente scoperta e
a disagio, e non per la mia mancanza di decenza e pantaloni, lo
assecondai
quando si avvicinò a me e tornai in casa mia,
indietreggiando.
Mi
seguì silenzioso, chiudendosi la porta alle spalle,
quando fu dentro, e osservandomi con una scintilla nello sguardo che
avrebbe
fatto sciogliere l’Antartide. Era fuoco, puro e pericoloso,
capace di scottarti
al solo sfiorarlo, in grado di lasciarti dannatamente incantata.
Mi
bloccai solamente quando trovai il muro alle mie
spalle: ero in trappola, ma forse
si
stava realizzando quello che volevo davvero. Forse stavo realmente
impazzendo oppure
Travis aveva il potere
di farmi fare cose folli, ma il punto era soltanto uno: in
quell’occasione, nel
mio appartamento, nessuno aveva via di scampo.
Maya,
calma! Lascia a lui la prima mossa!
Si,
lo so! Zitta ora, sono impegnata ad ammirare e ad avere paura di questo
ragazzo, annegando nel mio stesso lago di bava.
Ero
ridicola!
“Perché sei qui?”,
gli chiesi con un filo di voce, mentre lui mi sovrastava con la sua
altezza.
“Non ti sembra
evidente, Maya”, rispose lui, avvicinandosi ancora
e poggiando le mani ai
lati della mia testa.
“No, non mi sembra,
oramai non capisco più nulla”. Confessai
a lui quello che, già da tempo,
frullava nella mia testa e mi sorpresi di come il mio tono di voce
sembrasse
tranquillo quando, in realtà, ero tutta in subbuglio. Una
pentola a pressione
pronta a scoppiare. “Non sono
più sicura
di niente e non più cosa pensare: mi mandi in tilt il
cervello, Travis”.
Mi
fissò incerto per un momento poi chinò il volto
verso
di me ed io, pronta morire d’infarto, non riuscii a reggere
il suo sguardo,
così cominciai a fissarmi i piedi pur di non incontrare quei
tizzoni ardenti
che erano diventati i suoi occhi.
“Sei ancora sicura
di essere l’unica a sentirsi così?”,
disse con un sussurro al mio orecchio.
“Non sai quanto ti sbagli, Maya”,
aggiunse sempre con quella voce illegale.
Dal
nulla, mi sfiorò il lobo con la bocca, restringendo
ancora la distanza tra noi, per poi scendere sul collo e, quella scia
di baci
leggeri che lasciava, era una tortura, un brivido dietro
l’altro. Le labbra
morbide di Travis viaggiavano sulla mia pelle senza sosta, senza
timore, ma con
una sorprendente delicatezza, da far sciogliere chiunque ai suoi piedi.
Non
riuscii a fare a meno di pensare a quante altre
ragazze aveva certamente sedotto con quello stesso metodo.
Potrebbe
essere considerato uno stalker!
“Se sei così
insicuro anche a tu allora ti faccio i miei complimenti: sei proprio un
bravo
attore!”, dissi quasi ansante.
Recuperai
quel briciolo di coraggio necessario per
riprendere il controllo delle mie facoltà mentali e, non
appena mi resi conto
della realtà di quel momento, lo afferrai per la felpa e lo
avvicinai a me.
Lo
sentii accennare una risata e l’ennesimo brivido mi
percorse repentino la schiena. “Acida
come sempre”, sussurrò poi.
Eravamo
completamente andati, persi in noi stessi,
consumati dal nostro odio reciproco e quello, proprio
quell’avvicinamento tanto
pericoloso, era la prova di come le nostre menti ci avessero
abbandonati,
lasciandoci in preda agli istinti.
In
un attimo, le sue labbra raggiunsero il mio viso,
carezzandolo delicatamente e diffondendo per il mio corpo scosse di
piacere.
Piacere.
Si,
stavo annegando nel piacere, nella sorpresa e nello
sconcerto di come il mio corpo aderisse perfettamente al suo.
Mi
baciò la mandibola, gli zigomi, il mento, poi si
bloccò di colpo, restandomi comunque molto vicino.
I
miei occhi verde-azzurri si persero in quel fuoco vivo
che aveva preso possesso del suo sguardo.
“sono ancora in
tempo per andare via, Maya”, mi disse con un
mormorio. “Basta che tu me lo dica
adesso, altrimenti
non saprò come fermarmi”.
La
sua voce era puro sesso ed io stavo davvero
impazzendo. Non ero solita ad avere pensieri simili, ma in quel momento
non
potevo farne a meno. Le mie capacità mentali erano tornate a
livello
primordiale.
Lo
osservai attentamente, cercando di trovare un qualche
cedimento, ma non riuscii e scorgere nulla, se non una dose massiccia
dose di
desiderio.
Poteva
davvero finire in un modo così subdolo quella
“storia”? Con una botta e via?
Perché
non poteva essere diversamente, non lo avrei
permesso.
Travis
era lì a tentarmi e, per un’unica volta, lo avrei
accettato, ma solamente in quell’occasione: da quel ragazzo
non cercavo nulla.
Non
cercavo nulla da nessuno, avevo altro a cui pensare e
a cui dedicarmi.
Gli
concessi un ultimo sguardo, poi le mie mani salirono
fino alle sue spalle ed io mi alzai in punta di piedi, in modo da
potermi
gustare appieno la vista del suo volto.
Le
distanze si accorciavano, i nostri respiri si fondevano
in uno unico e le labbra erano pronte a scattare, a catturare quelle
altrui per
cominciare una danza che avrebbe portato solamente disastri.
“Allora non farlo,
non ora”, esalai in un soffio.
Lo
sguardo di Travis mutò, gli occhi divennero più
famelici e sulle sue labbra comparve un sorriso malizioso.
Chiunque
si sarebbe liquefatto alla vista di quel ghigno
tanto meraviglioso quanto preoccupante.
Si
abbassò leggermente verso di me, sfiorandomi il collo
con la punta del naso e la barba corta di un giorno; non riuscii a
fermare i
brividi continui , i tremiti che mi percorrevano il corpo. Inoltre,
Travis non
faceva altro che alimentare l’attesa, facendomi impazzire.
Poi
mi fissò ancora, dopo avermi lasciato un bacio
nell’incavo del collo che fuoriusciva dalla felpa.
“Ne sei sicura,
Maya?”.
Persi
la pazienza.
Quella
titubante sarei dovuta essere io, non lui, perché
proprio Travis aveva cominciato quel gioco. Era stato il primo a fare
complimenti, a sfiorarmi, poi era piombato alla mia porta, senza
un’apparente
vero motivo.
Presi
il suo viso tra le mani, giocando con i capelli
alla base della nuca, e per un fugace momento mi persi in quegli occhi
cangianti che parevano volermi divorare.
“Non sono sicura di
nulla, Travis, ma per una volta non voglio dare ascolto a niente e a
nessuno”,
sussurrai a pochi centimetri dal suo viso. “E
ti giuro che, se non smetti di blaterare, ti prendo a calci!”.
Mi
avvicinai ancora, non prestando caso al sorriso che
aleggiava sul viso di Travis, e facendo sfiorare le nostre labbra. Una
pressa
si impossessò del mio stomaco, facendomi fremere per
l’eccitazione.
Non
era da me comportarmi in quel modo, cedere a certe
provocazioni e giocare lo stesso subdolo gioco che tanto andavo a
criticare. “Per una volta facciamola
questa follia”,
sentenziai infine.
Il
sorriso di Travis si espanse, illuminandogli il viso,
ed io ignorai il leggero fastidio che mi provocò. Poi
arrivò l’inizio della
fine.
Dopo
quelli che mi parvero secoli di attesa, riuscii
finalmente a sentire le sue labbra sulle mie. Arrivarono di getto e,
con forza,
cominciarono a divorarmi senza pietà.
Lui
sembrava finalmente deciso, sicuro di quanto stava
facendo ed io, d’altro canto, non potevo far altro che
corrergli dietro ed
assecondarlo.
Le
sue braccia mi agguantarono la schiena, sollevandomi
leggermente da terra: tra le sue mani non ero che un fuscello
inesistente.
Mi
baciava con insistenza, con la necessità di percepire
il contatto della mia bocca sulla sua ed io, da perfetta stupida quale
ero, mi
stavo sbriciolando tra le sue mani per quanta passione mi gettava
addosso.
Sentivo tutto, ogni minimo particolare, ogni sospiro, ogni tocco
leggero delle
sue mani, sentivo come la sua lingua cercasse la mia per una danza
senza fine e
sentivo come tutto ciò piacesse ad entrambi.
Ci
sapeva fare, questo era innegabile, ma non mi lasciai
sopraffare da lui. Mi dissi che avrei dovuto tenergli testa. Strinsi
maggiormente le braccia attorno alle sue spalle, al suo collo, per non
crollare
per mancanza d’ossigeno.
Lui
non dava tregua: era un treno in corsa, pronto a
deragliare.
Era
inevitabile sentirsi insignificanti al suo cospetto.
Sembrava avere il pieno potere della situazione, lui che stringeva i
miei
fianchi come un ossesso, che non sembrava volersi fermare per nessuna
ragione
al mondo e che, come sempre, mi sovrastava con la sua stazza e la sua
altezza.
Poi,
d’un tratto, tutto terminò.
Ritrovai
Travis, dopo aver aperto gli occhi, a pochi
passi da me, con il viso arrossato, le labbra gonfie ed il fiatone.
Dovetti
chiedere aiuto all’appoggio del muro dietro di me
per un momento, prima di sentirlo parlare. Ancora.
Mai
come in quell’occasione avevo desiderato il silenzio
da parte sua.
“Maya”,
cominciò ansante. “Per
quanto tu mi possa
considerare un competo stronzo, non voglio…”.
“Dannazione, Travis!”,
gridai esasperata, senza dargli la possibilità di terminare
il suo monologo
zuppo di sensi di colpa. “Smettila
di
accampare scuse; rispondimi sinceramente: mi vuoi, ora?”,
gli chiesi, quasi
adirata.
Lui
mi fissò per un momento, completamente smarrito e
sorpreso dalla mia reazione. Sembrava essere tornato bambino, con quel
cipiglio
corrucciato.
“Si, Maya, ma
voglio mettere in chiaro una cosa…”,
continuò, dandomi ulteriore conferma
di quanto potesse rivelarsi insicuro a volte.
“Zitto! Non mi sto
facendo paranoie, non mi sto costruendo dei castelli, sto solamente
aspettando
che tu la smetta di essere così titubante”,
esclamai, alzando gli occhi al
cielo. Ero un fascio di nervi, nonostante tutti i miei tentativi per
nasconderlo.
“Non sono in cerca
di una storia, Maya”, disse, facendosi
improvvisamente serio.
Mi
lasciò leggermente spiazzata per la sua confessione.
Non che io volessi il contrario, ma solitamente non è nel
genere maschile
mettere in chiaro le cose, quasi ad avvertirla possibile preda, se
hanno la
possibilità di portarsela a letto.
Tutto
sembrava sottosopra.
“Nemmeno io,
Travis: una botta e via non la implica”, gli
risposi, scatenando l’ennesima
espressione stupita sul suo viso.
Me
ne sarei pentita, lo sapevo, ma volevo andare fino in
fondo e non pensare alle conseguenze, anche solo per un momento.
Non
era una cosa normale, ne ero perfettamente
consapevole, e mi facevo ribrezzo per quanto facilmente ero caduta in
basso, ma
la follia aveva un retrogusto stranamente piacevole, in quel frangente,
e non
sapevo come resisterle.
Mi
abbracciava con promesse e malizia e mi faceva
assaggiare la lussuria, allontanandosi immediatamente da me e
lasciandomi con
un pugno di mosche e gli ormoni impazziti.
Toccava
a me prendere in mano la situazione, così lo
afferrai di slancio per la felpa, ignorando per l’ennesima
volta la sua risata
e cancellando in un batter d’occhio la distanza che divideva
le nostre labbra.
Quello
era un Travis completamente diverso: sembrava non
sapersi risparmiare, capace di scaricare ogni frustrazione in quella
danza di
labbra che quasi faceva male.
Con
lentezza straziante calò la zip della felpa,
sfiorando ogni tanto la mia pelle, ma senza interrompere per un secondo
il
contatto delle nostre bocche.
Mi
tolse di dosso quell’indumento, diventato
improvvisamente troppo ingombrante, pesante e superfluo per tenerlo
indosso,
carezzandomi la schiena con la stessa delicatezza utilizzata sulla
spiaggia. Sembrava
essere perfettamente in grado di manipolare la mia pelle a suo
piacimento,
mandandomi quasi in estasi.
Con
le dita mi insinuai sotto l’orlo della sua felpa e
della sua maglietta, assaporando la sensazione della sua pelle
straordinariamente morbida sotto i palmi, poi gli sollevai leggermente
gli
abiti e lui, intuendo le mie azioni, mi aiutò
nell’impresa di sfilare ad un
colosso come lui dei vestiti.
Per
un momento vi rimase incastrato con la testa e,
stranamente, fu a me che spuntò il sorriso. E Travis se ne
accorse nel momento
stesso in cui i suoi occhi ritrovarono i miei, dopo che si fu liberato
di
quella trappola.
“Finalmente un
sorriso, Maya”, disse beffardo, spingendomi
lentamente verso la parte
dietro di me. “Sono colpito”.
Quella
voce. Due parole. Le mie ovaie che invocarono
pietà.
“Non sono di
ghiaccio, Travis”, gli risposi a tono, senza
tuttavia riuscire a cancellare
quel mezzo sorriso che mi occupava le labbra.
“Lo so, Maya”,
parlò lui, sollevandomi improvvisamente da terra e
prendendomi in braccio.
Mi
ancorai, sorpresa, alle sue spalle, allacciando le
gambe alla sua vita.
Sembrava
tutto surreale, anche quella strana adrenalina
che scorreva nelle mie vene ad una velocità incontrollabile,
anche la bocca di
Travis che aveva ricominciato a baciare il mio collo, il mio viso;
tutto
sembrava surreale.
“Sei suadente e
calda come il fuoco”, sussurrò ancora,
con il viso nell’incavo del mio
collo.
Una
sua mano dai miei fianchi si insinuò lenta e
peccaminosa su, lungo le spina dorsale e, quando trovò il
laccio del costume da
bagno, non esitò un momento a sciogliere il fiocco.
“Forse staremo più
comodi in camera da letto, non credi?”, mi chiese
con le labbra sulle mie.
Perdersi
in quegli occhi era diventato una tortura.
“Andiamo”,
riuscii a rispondergli a malapena, troppo sopraffatta dalle emozioni
per
articolare una frase di senso compiuto.
*
Sono.
Ancora. Viva.
Dopo un mese esatto
eccomi qua..
Lo so, vi ho lasciate con la storia a metà, in un momento
pessimo, ma sono stata molto impegnata con la scuola e diaciamo che non
sono stata nemmeno tanto bene!
Però ora
ci sono.. Lo so, forse questo capitolo non è gran
ché, ma ora COMINCIA IL BELLO!
Come
sempre grazie a chi mi segue, a chi lascia recensioni, a chi legge.. A
TUTTE VOI, BELLEZZE! <3
Fatemi sapere cosa
ne pensate!
Un abbraccio,
Chiara :)
|
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Capitolo 13 *** 12. Vento di Cambiamenti ***
Maya11
*****
NdA
Questa volta scrivo
all'inizio..
Mi sembra
più che doveroso farvi delle immense, sincere,
dispiaciutissime SCUSE! Non avrei voluto farvi attendere
così tanto per un capitolo, vi chiedo davvero scusa, dal
profondo del cuore!
Non ho deli veri e
proprio motivi, vi dico solo che sono stata parecchio impegnata con la
maturità ed alcuni casini che mi sono successi, ma ora sono
tornata! E non finisce qua.. Sono già pronta a pubblicarvi
un nuovo POV di Travis da un po' di giorni! Di certo, questa volta, non
farò passare dei mesi: cercherò di diventare
più brava!
Detto questo mi
dileguo e vi lascio al capitolo.. Scusatemi ancora!
Ci vediamo sotto!
Era successo!
Ero
scesa ad un livello tale che nemmeno la mia coscienza
si faceva sentire.
Mi
disgustava l’idea di essere arrivata a tanto solamente
a causa di quello stupido istinto che si faceva sentire nei momenti
meno
opportuni. Ero diventata come tutte le altre ragazze che avevo sempre
criticato: una sgualdrina; e avrei preferito un biglietto di sola
andata per
gli inferi piuttosto che restare stesa sul letto, a guardare il
soffitto, con
ancora Travis al mio fianco.
Avevo
il corpo coperto dalle lenzuola di cotone leggero,
gelosamente bloccate dalle mie braccia distese lungo i fianchi; mi
tremavano
ancora le mani.
Sentivo
il respiro pesante del ragazzo accanto a me, ma
non azzardavo nemmeno uno sguardo verso la sua direzione: non volevo
vederlo,
non volevo ammirare per l’ennesima volta quel corpo
assurdamente perfetto,
quelle labbra che mi avevano fatta impazzire e quelle mani che sapevano
manovrarmi alla perfezione.
Era
stato qualcosa di nuovo, qualcosa di caldo e
passionale, e mi aveva investita con tutta la sua forza. Era stato come
restare
sospesi in un limbo temporale, isolato da tutto il resto del mondo, che
ci
aveva trasportati in un luogo dove non c’erano né
litigi né battibecchi.
Per
quel momento non ero stata con il Travis che mi
faceva innervosire, che tanto mi aveva fatta impazzire, ero andata a
letto con
un ragazzo completamente diverso, quasi perfetto, in possesso di una
delicatezza, ma al tempo stesso di una forza da lasciare esterrefatti,
sconcertati.
E
forse era proprio quello a farmi imbestialire: avevo a
che fare con Travis, ragazzo affetto da problemi di doppia
personalità e non
riuscivo a comprendere quale, delle due persone con cui avevo avuto a
che fare, mi
faceva più paura.
Mi
spaventavano tutti i suoi continui cambiamenti di
umore, tutti i suoi voltafaccia. Lui
mi faceva paura.
Forse
ero ancora segnata da quell’occasione nell’armadio
delle scope oppure mi ero già pentita di ciò che
avevo appena fatto, ma l’unica
cosa a cui riuscivo a pensare era a quanto riuscissi a sentirmi a
disagio nel
mio stesso letto. Avrei tanto voluto evaporare, dissolvermi nel nulla
per
evitare di assistere alla mia stessa fine.
Forse
il monologo di Michael Douglas nel film “La Guerra
dei Roses”(*)
avrebbe fatto al caso mio, in quel frangente. Di certo avrebbe
descritto appieno il mio stato d’animo.
Di
punto in bianco mi misi seduta sul letto,
trascinandomi dietro le lenzuola, poi cercai di recuperare la
biancheria il più
in fretta possibile, con la speranza di non sembrare troppo goffa.
Sentivo il
vitale bisogno di evadere, di uscire da quella stanza ancora densa
della nostra
pazzia.
Dovevo
rinchiudermi nella mia camera oscura, da sola, e
ricominciare a respirare regolarmente per non rischiare di impazzire
oppure
diventare preda di una crisi di nervi. Sentivo la necessità
di riconquistare le
distanze, i miei spazi, le mie sicurezze, tutto ciò a cui
avrei potuto
aggrapparmi.
Recuperai
da terra una vecchia t-shirt degli AC/DC, ormai
grande e sformata, e fuggii dalla mia stanza, da Travis, e mi chiusi la
porta
alle spalle quando raggiunsi la mia camera oscura.
Il
respiro cominciò a correre all’impazzata, incapace
di
comprendere quanto mi mettesse agitazione, ed il battito, ormai deciso
a
frantumarmi la cassa toracica, riuscivo a percepirlo addirittura nelle
orecchie. Non potevo di certo farmi prendere dal panico con quel
ragazzo ancora
in casa, ma tutto, dentro di me, sembrava pronto ad esplodere, a
mandarmi in
mille pezzi.
“Stupida! Stupida!
Stupida!”, cominciai a parlottare con voce quasi
inudibile, tra me e me. “Maya sei
un’emerita stupida!”.
Il
cervello degenerava, non riceveva più ossigeno ed io
stavo seriamente rischiando l’esaurimento nervoso.
Mi
accasciai a terra, con la schiena poggiata alla porta, e mi presi
la testa fra le mani, con la speranza che la situazione potesse
migliorare, con
la speranza di potermi svegliare da quell’incubo e che, una
volta aperti gli
occhi, di Travis non ci sarebbe stata più nessuna traccia.
Si,
probabilmente stavo ingigantendo tutto quanto,
peggiorando solamente la mia salute mentale, ma proprio non riuscivo a
trovare
alcun lato positivo in quanto avevo appena fatto.
Perché,
forse, non c’era davvero un lato positivo, non
c’era il sole dietro le nuvole, ma solamente
l’acquazzone che ti annebbia la
vista e le idee. Ed io, in quell’occasione, ero diventata
cieca.
Cieca
e preda degli istinti, anche se Travis non si era
di certo tirato indietro.
Era
anche colpa sua, si, perché non mi aveva respinta,
non mi aveva fermata.
Era
colpevole quanto me, Travis, lui che era arrivato di
punto in bianco a casa mia, rischiando di buttare giù la
porta. Sempre se,
l’aver fatto sesso con un individuo praticamente sconosciuto,
si potesse
definire una colpa, era ugualmente spartita ad entrambi,
perché entrambi
avevamo perso il controllo e perché, cose simili, da soli
non si fanno.
Il
buio pesto della camera oscura, in parte, riuscì a
tranquillizzarmi ed a placare il continuo martellare del mio cuore che
rischiava di fuoriuscirmi dalla cassa toracica, ma non
calmò, tuttavia, il
flusso di pensieri e di immagini che si riversarono nella mia mente,
così non
riuscii a far meno di rivivere tutto quello che avevo appena passato.
Come se
la continua serie di brividi che mi percorreva il corpo non fosse
bastata a
ricordarmelo.
Perché,
nonostante tutti i miei sforzi per sviare
l’argomento nei miei pensieri, ero costretta ad ammettere che
era stato tutto
fantastico. Persino la continua scarica di adrenalina che aveva
riempito le mie
vene, facendole quasi esplodere, persino la consapevolezza di essere
nel torto
e di star sbagliando tutto, sin dal principio.
Probabilmente
era proprio quel particolare a farmi
infuriare con me stessa, perché, nonostante il tizio in
camera mia fosse
proprio Travis, mi era
piaciuto.
E
probabilmente fu per colpa di tutti quei miei discorsi
privi di senso che mi annebbiavano la mente che, quando sentii bussare
alla
porta della mia camera oscura, saltai in piedi in un attimo.
Mi
chiesi vagamente quanto tempo avessi passato lì dentro
a rimuginare sull’accaduto.
“Maya, va tutto
bene?”, la voce distorta di Travis quasi mi
perforò l’orecchio. “Sei
lì dentro?”.
Come
poteva, dopo un momento simile, preoccuparsi per me?
Era Travis e la preoccupazione verso altre persone proprio non gli si
addiceva.
Bussò
ancora e non potei fare a meno di notare quanto
risultasse insistente. Così mi preparai mentalmente, un
respiro profondo e
solita espressione contrariata in volto, ed aprii la porta, trovandomi
Travis
davanti agli occhi con indosso solamente i boxer.
Cominciamo
bene!
“Che vuoi, Travis?”,
gli chiesi con una nota di disappunto nelle voce, poggiando le mani sui
fianchi.
Per
un attimo mi guardò, quasi sorpreso della mia
reazione, ma poi scosse la testa, allontanandosi da me e tornando verso
la
camera da letto.
Sospirai,
dirigendomi verso la cucina: la fame cominciava
a farsi sentire davvero e, in qualche modo, sentivo di dover sfogare
tutta la
rabbia e la tensione che avevo in corpo, anche se i miei ricordi mi
stavano
regalando immagini completamente differenti di metodi per sfogare la
rabbia.
No,
Maya, ci sono i biscotti!
Mi
dissi che, in situazioni del genere, serviva spina
dorsale e che non avrei mai più permesso che la mia fibra
morale crollasse in
quel modo, nonostante le sensazioni che mi aveva regalato e che,
nemmeno sotto
tortura, avrei ammesso al mondo.
Era
stata solamente una volta, una sporadica occasione,
nulla di più.
Dal
nulla, Travis ricomparve, completamente rivestito,
come se nulla fosse successo. Mi fissò per alcuni istanti,
senza dire niente,
con quel suo solito, stupido sguardo con cui sembrava voler scoprire
sempre
qualcosa di nuovo, fino a quando non rivolse l’attenzione
altrove e sedette al
tavolo della cucina.
“Potrei avere un
bicchiere d’acqua?”, mi chiese,
continuando a fissare il pavimento.
Gli
lanciai uno sguardo contrariato, infastidito da
quell’improvvisa dimostrazione di educazione, come se, di
punto in bianco,
avesse avuto paura di rompermi, come se avesse pensato che, nonostante
tutto,
ero costituita di fragile porcellana. “Da
quando hai imparato l’educazione, Travis?”,
gli chiesi, acida.
Lui
rise, leggermente, senza sforzarsi, e scosse
leggermente il capo prima di incollare nuovamente il suo sguardo al
mio. “Non ti scomodare, ora me ne
vado e tolgo il
disturbo”.
“Si, forse sarebbe
la cosa migliore, Travis”, gli risposi con uno
sguardo truce e più acido
che mai, sentendomi quasi in colpa per quanta cattiveria stavo
utilizzando, ma
quella sensazione evaporò non appena lui mi raggiunse in un
lampo, accorciando
per l’ennesima volta le distanze.
Trattenni
il fiato, d’istinto, e quasi mi spaventai
quando me lo ritrovai davanti agli occhi in un attimo, come era
successo nella
stanza delle scope.
Quel
momento continuava a tornarmi alla mente.
Mi
ritrovai bloccata tra il banco della cucina ed il muro
umano che mi si era appena parato davanti.
Riuscii
solamente a pensare a come non potesse fare a
meno di fissarmi come se volesse bruciarmi viva, in quel momento: i
suoi occhi
erano puro fuoco che non davano tregua alla mia pelle.
Era
già capitato, in precedenza, che quelle iridi mi
incutessero un certo timore, ma mai come in quel momento.
“Sei una stronza,
lo sai, vero?”, mi domandò lui, senza
distogliere lo sguardo dal mio viso.
“Si, ne ero a
conoscenza, ma tu, dicendomi queste cose, non mi incoraggi a migliorare”,
riuscii a rispondere grazie ad un lampo di lucidità.
Per
quanto mi sforzassi di apparire tosta, sicura di me
stessa e per quanto cercassi di essere tagliente nei confronti di
Travis, lui
sembrava non fare una piega: se ne restava lì, in piedi
davanti a me, con la
solita faccia che avrei riempito volentieri di schiaffi.
“Almeno ne sei
consapevole, Maya”, disse con un sorrisetto
strafottente sul viso.
Poi,
in un attimo, esattamente com’era arrivato, Travis
girò i tacchi e levò le tende sbattendo la porta.
Ero
più confusa che mai, con migliaia di pensieri per la
testa e completamente sconcertata per l’uscita di quel
dannato ragazzo, ma
nulla mi impedì di rimpinzarmi di biscotti, dato che mi
trovavo già in cucina.
In
qualche modo dovevo liberarmi di quel continuo
nervoso.
Era
davvero parecchio tempo che non passavo una notte
tranquilla quanto quella: merito delle lenzuola pulite oppure della mia
mente
finalmente libera, non lo sapevo di preciso, ma sicuramente qualcosa mi
aveva
dato una mano.
Dopo
l’uscita da prima donna di Travis e la quantità
esorbitante di biscotti che avevo ingurgitato, mi ero concessa una
lunga
doccia, nella speranza che mi levasse tutta la salsedine di dosso e,
successivamente, non avevo esitato un secondo a cambiare
l’intero corredo del
letto in camera mia, troppo impregnato di sale marino e sensi di colpa.
Questi
ultimi, anche dentro me stessa, erano andati svanendo pian piano, con
il
passare delle ore.
Nel
tardo pomeriggio ero tornata la solita Maya,
collassata a peso morto sul divano con il solo intento
di dormire.
Avevo
telefonato alla redazione della rivista sportiva,
avvisando immediatamente la direttrice di
ghiaccio della quantità di fotografie che avevo da
mostrarle, e lei, sempre
con i suoi toni freddi e composti, mi diede appuntamento la mattina
seguente
per l’ennesimo colloquio.
Tornai
a sperare, anche se quel lavoro non era la mia
massima aspirazione.
Controllai
le fotografie e mi resi conto, solo in quel
momento, di quante ne avessi scattate: una quantità
esorbitante; ma almeno
riuscii a tirare un sospiro di sollievo quando notai di essere in
possesso di
buon materiale.
Mi
sorpresi di alcuni scatti particolarmente interessanti
che mi sembrarono azzeccati per quel tipo di rivista, come un dove
avevo
inquadrato Travis di spalle, con lo sguardo concentrato rivolto verso
la sua
destra, mentre si incamminava verso il largo, oppure un altro dove
Travis si
trovava già in acqua, pronto per un’altra
bracciata. Non erano male, erano
belle.
Poi
mi imbattei in uno scatto che mi fece trasalire: lui,
in acqua, con le labbra a pelo d’acqua e lo sguardo fisso su
di me. Ecco,
quella fotografia faceva un po’ paura, grazie anche ai toni
grigi, che avevano
attanagliato il cielo, che facevano risaltare maggiormente i suoi occhi
nocciola.
Quel
ragazzo sapeva essere particolarmente inquietante.
Scelsi
le immagini migliori, le mandai alla stampante che
avevo nella camera oscura e le imbustai, pronte per la rivista la
mattina
seguente e con la speranza che, quella, sarebbe stata la volta buona.
Quando
arrivai alla redazione del giornale, mi accolse
una segretaria, vestita di tutto punto e con dei tacchi vertiginosi,
con un
sorrisetto scocciato sul volto. Probabilmente se, in
quell’ambiente, i
dipendenti non si presentavano irritati ed estremamente annoiati, non
venivano
assunti. Ero entrata in quegli uffici solamente un paio di volte e mai,
nemmeno
una sporadica volta, avevo visto un sorriso sincero.
La
stessa segretaria dall’aria tediata mi accompagnò
in
una sala d’aspetto che, ricordavo, portava
all’ufficio della direttrice della
rivista: era tutto bianco, asettico ed accecante, troppo semplice ed
essenziale. Quello spazio nuoceva alla vista.
“Tra poco verrà
ricevuta, signoria”, parlò la ragazza,
attirando la mia attenzione. “Nel
frattempo può attendere qui”. solito
sorrisetto di circostanza e se ne andò, con i suoi tacchi a
spillo come unico
rumore di sottofondo.
“Belle scarpe”,
sussurrai tra me e me.
Mi
accomodai su una delle poltroncine in pelle bianca che
riempivano lo spazio, in attesa del mio “giudizio
finale”. Di certo il secco e
chiaro rumore del grande orologio appeso alla parete non aiutava i miei
nervi a
calmarsi.
Tenevo
con forza la busta marrone tra le mani, come se le
fotografie al suo interno potessero fuggire a gambe levate. Io, al loro
posto,
lo avrei fatto all’istante.
Ero
tesa come una corda di violino, come neanche alla mia
laurea ero stata.
Dieci
minuti e ancora niente.
Cominciai
a sentirmi estremamente a disagio e fuori luogo
rispetto all’ambiente in cui mi trovavo: tutto sembrava
studiato a regola
d’arte, nonostante ci fossero davvero pochi oggetti da
sistemare
minuziosamente, ma anche la posizione del tavolino in vetro, al centro
della
stanza, pareva il risultato di ore di studio.
Quella
sensazione di inadeguatezza non fece che
accrescere quando, di punto in bianco, un’altra ragazza
arrivò entrò dalla stessa
direzione da cui ero arrivata io e, dopo aver bussato alla porta della
direttrice, entrò nell’ufficio.
Anche
lei era vestita fin troppo bene, con scarpe nere e
lucide, fin troppo alte, ed uno strano cipiglio di
superiorità in viso, fin
troppo fastidioso. Era palese che io, con le mie Converse nere, i miei
semplici
e consumati jeans ed una semplice maglia bianca, non avessi nulla a che
fare
con le persone che vagavano per quegli uffici.
Venticinque
minuti e la mia pazienza aveva cominciato a
scemare.
Presi
tra le mani il telefono, solamente per controllare
l’ipotetica presenza di chiamate o messaggi, ma non avevo
ricevuto nulla.
Calma
piatta. Come quella che aleggiava in
quell’ambiente.
Ad
un certo punto la porta dell’ufficio si spalancò
ed
uscì la stessa ragazza che vi era entrata poco prima seguita
da un’altra che,
di certo, non passava inosservata. Non sapevo se fosse la testa di
riccioli
biondi, ovviamente perfetti, oppure i pantaloni di seta rosa shocking
ad
attirare maggiore attenzione.
Entrambe
mi rivolsero una strana occhiata, prima di
dileguarsi parlottando tra di loro.
Decisamente ero la
persona meno adeguata per
quell’ambiente.
Tornai
con lo sguardo alla porta dell’ufficio e sobbalzai
sulla sedia quando vidi la direttrice di ghiaccio poggiata allo
stipite, con le
braccia incrociate al petto, intenta a fissarmi.
Rabbrividii
istintivamente alla vista di quegli occhi.
“Buongiorno Maya,
entra pure”.
Rimasi
un attimo interdetta, dopo l’invito che mi fece
quella donna, come se di punto in bianco ogni mia sicurezza si fosse
prosciugata al suono della sua voce. La fissai un momento e non potei
fare a
meno di invidiarle la sicurezza che trasudava.
“Buongiorno”,
mi sentii dire poco dopo.
Entrai
nell’ufficio, anch’esso bianco ed essenziale, e mi
accomodai su una delle poltrone disposte di fronte alla scrivania in
legno
scuro.
Mi
sentii un pesce fuor d’acqua, come se anche le pareti
mi urlassero a chiare parole quanto fossi inadatta per
quell’ambiente, ma
decisi di tenere la testa alta e di mostrarmi sicura di me stessa,
anche se in
realtà ero tutt’altro che tranquilla.
“Bene, Maya”,
cominciò la direttrice di ghiaccio, sistemandosi sulla sua
sedia dall’altra
parte della scrivania. “Spero che tu
abbia gli scatti giusti, oggi: ti
ho
già informata di come questa rappresenti la tua ultima
possibilità per entrare
nel nostro team, giusto?”, aggiunse, piegando
leggermente il capo da un
lato.
Il
suo sguardo sembrava voler recepire ogni mia debolezza
ed indecisione.
“Si signora, me lo ha ricordato l’ultima
volta che ci siamo incontrate e penso, e spero, di
possedere ciò che sta cercando”.
Continua
così, Maya!
Quel
briciolo di sicurezza che riuscii a manifestare, mi
sorprese.
Mi
ero alzata terribilmente inquieta quella mattina e,
solitamente, quella situazione avrebbe rappresentato
l’andamento dell’intera
giornata. Tuttavia, quello spiraglio di luce e di forza che avevo
dimostrato,
nonostante l’agitazione che mi attanagliava lo stomaco,
sembrava essere il modo
giusto per cambiare le carte in tavola.
“Bene, allora guardiamo
questi scatti”, disse poggiando i gomiti alla
scrivania e guardandomi con
un sorriso ambiguo sulle labbra.
Quella
donna, nonostante la bellezza e la forza che
emanava, faceva paura.
Le
passai la busta con all’interno le fotografie che
aveva scelto e, improvvisamente, pensai a come avrei potuto fare la
scelta
sbagliata, a come avrei potuto stampare altre immagini, a come avrei
potuto
evitare che Travis mi distraesse fino a farmi deconcentrare sul mio
lavoro.
Tutto
mi sembrò sbagliato, fuori posto, persino la donna
davanti a me, con in mano le fotografie che le avevo portato, con in
mano la
fatidica decisione per il mio futuro.
Strano,
ma vero, avevo buttato tra le braccia di una
persona completamente sconosciuta il mio futuro e parte del mio
destino, nonostante
mi fossi sempre dimostrata pronta a prendere il controllo delle redini
della
mia vita, senza l’aiuto di altre persone che, senza ombra di
dubbio, non
avrebbero fatto altro che condizionare il mio pensiero e le mie
decisioni.
“Beh…”, nemmeno
me ne ero accorta, troppo presa dai miei pensieri e dalle mie paranoie,
ma la
direttrice stava sfogliando i miei scatti. Nonostante i miei sforzi,
non
riuscivo a decifrare alcuna emozione sul suo viso.
Non
disse altro per quella che mi parve un’eternità,
si
limitò ad osservare ed analizzare attentamente le immagini
che aveva tra le
dita.
Ed
io, nel frattempo, mi stavo facendo consumare
dall’agitazione.
“Questo ragazzo,
oltre che essere uno tra i migliori nel suo sport, è una
vera meraviglia”,
disse infine, facendomi quasi cadere dalla sedia per la sorpresa.
Cosa!?
Quello
era il momento in cui si doveva decidere del mio
futuro, non l’attimo in cui si doveva lasciare prevalere
l’aspetto di Travis.
“Come, scusi?”,
chiesi con la voce più alta di un’ottava.
La
donna sollevò lo sguardo su di me, con un sopracciglio
alzato, per un secondo, prima di tornare a rivolgere
l’attenzione al mio
lavoro. “Si, Maya, lui è
il genere di
ragazzo che, se incontri per strada, non puoi fare a meno di guardare”,
disse con indifferenza. “Ed in foto
viene
anche molto bene”.
Non
puoi fare a meno di guardarlo… Certo! L’importante
è che tenga la bocca
chiusa.
Trattenni
il respiro, sembrava essere arrivato il momento
cruciale: lei posò lentamente gli scatti sulla scrivania
prima di rivolgermi un’occhiata
attenta. Mi stava analizzando, ancora una volta.
Tentai
di sostenere il suo sguardo con tutte le mie
forze, perché l’ultima cosa che volevo era
mostrarmi senza spina dorsale.
Dovevo apparire sicura di me stessa, continuavo a ripetermelo.
“Allora Maya, cosa
pensi delle fotografie che mi hai mostrato?”, mi
chiese, improvvisamente,
prendendomi per l’ennesima volta in contropiede.
“Penso di averle
proposto del valido materiale che, tra l’altro, mostra le mie
caratteristiche
di fotografa”, riuscii a rispondere senza
esitazione. “Penso di averle
mostrato quanto io possa essere versatile per questo lavoro”.
La
donna di fronte a me esitò ancora un momento prima di
ricominciare a parlare. “Sai, hai
talento
e la mia rivista ha bisogno di una fotografa come te, ma temo che tu
non sia
adatta per questo ambiente”, mi confessò
distogliendo lo sguardo dal mio. “O
quantomeno sembra che tu, nel profondo,
non desideri appieno questo impiego”.
L’aveva
capito subito, quella donna, ed era arrivata
subito al punto, senza tanti giri di parole.
Rimasi
un momento perplessa, senza sapere esattamente
cosa dire e come rispondere alla sua più che veritiera
affermazione. Ero la
persona meno adatta per un impiego a stretto contatto con lo sport, ma
volevo
quel lavoro, ne avevo bisogno.
“Sarò sincera”,
cominciai, rapita da un’ondata di sicurezza, agitandomi sulla
sedia. “Probabilmente ha ragione,
non sono la
persona più adatta per la sua rivista, non prediligo lo
sport come potenziale
soggetto per un mio servizio, ma sono brava in ciò che
faccio e possiedo un
innato spirito di adattamento, perciò non capisco
perché non dovrebbe
assumermi, scusi la franchezza”.
Parlai
tutto d’un fiato, per evitare interruzioni e,
quando vidi spuntare sul volto della direttrice
un’espressione tra la sorpresa
ed il compiacimento, non seppi se cominciare a festeggiare o scavarmi
la fossa.
Raddrizzai
la schiena pronta al verdetto finale.
“Sei, sincera, te
lo concedo, e questa qualità mi piace, la trovo fondamentale”,
mi parlò con
un mezzo ghigno sul volto. “Eh va
bene,
per ora sei in prova”.
Finalmente!
Era
un passo, molto piccolo, ma pur sempre meglio di
niente.
Non
riuscii a reprimere l’enorme sorriso che si
impossessò del mio volto e, se ne avessi avuto la
possibilità, probabilmente mi
sarei messa a ballare in quell’ufficio, ma ero già
in una posizione precaria,
così optai per il mantenimento di un comportamento decoroso.
“Non ti emozionare
troppo, cara”, parlò senza nemmeno darmi
il tempo per ringraziarla. “Per ora
ti verranno assegnati semplici
scatti, giusto per capire il tuo livello, nulla di più, poi
tra un po’ di tempo
potremo riparlarne”, aggiunse insieme a quello che
mi parve un vero
sorriso.
Tutto
mi risultò leggermente surreale.
“Grazie! Grazie
mille per l’opportunità”, la
ringraziai con la voce leggermente rotta dall’emozione.
“Lo avrà già
sentito altre volte, ma le
voglio dire che non se ne pentirà, assolutamente”.
“Lo spero bene,
Maya”, aggiunse poi, alzandosi dalla sua poltrona
in pelle nera. Mi raggiunse
dalla parte opposta della scrivania e mi tese la mano che, senza
esitazione,
strinsi, alzandomi dalla mia postazione.
Solamente
in quel momento notai quanto, nonostante gli
anni che presumevo avesse, fosse bella ed alta. Molto alta. Grazie
anche ai
tacchi che indossava. Era inevitabile sentirsi insignificanti al
cospetto di
quella donna, aveva la straordinaria capacità di attirare
tutta la luce
possibile: risplendeva, nonostante la determinazione che traspariva
dalla sua
espressione.
Mi
congedò dopo poco, dicendomi che avrebbe avuto un
altro appuntamento di lì a qualche minuto, così
me ne andai, borbottando
qualche altro ringraziamento.
Quasi
non ci credevo: tutte quelle settimane passare a
dover sopportare Travis ed il suo comportamento avevano dato i loro
frutti,
erano servite a qualcosa. Ce l’avevo fatta!
Dopo
tanto tempo, finalmente, ero riuscita a raggiungere
un vero e proprio scopo, avevo raggiunto il traguardo che mi ero posta
e, la
cosa che mi rendeva maggiormente felice, era la consapevolezza di
averlo fatto
con le mie sole forze. Certo, un grande aiuto me lo aveva dato anche
mio padre,
Claudio, e per quello avrei dovuto ringraziarlo, ma gran parte del
lavoro lo
avevo fatto io, con le mie forze, con la mia testa e la mia
determinazione.
Tutto
mi sembrò meno fastidioso, più colorato, più bello, quando uscii
dall’ufficio
della direttrice. Il bianco delle pareti non era più
accecante come quando ero
entrata, gli sguardi altezzosi degli impiegati risultavano meno
fastidiosi: tutto era cambiato.
Oppure ero solamente
cambiata io ed ero diventata leggermente più permissiva.
Tuttavia
qualcosa era cambiato e, nel preciso istante in
cui raggiunsi l’esterno dell’edificio, non me ne
importò di meno da cosa
derivasse questo cambiamento. Riuscii solamente a pensare a quanto mi
sentissi
meglio, a posto con me stessa,
più
leggera di quanto non mi fossi mai sentita.
Avevo
ottenuto quel lavoro che avevo tanto agognato e,
per la prima volta, non trovai nulla di cui lamentarmi.
Decisi
di telefonare immediatamente mio padre, così da
renderlo partecipe della mia felicità e della mia euforia,
così da poterlo
ringraziare perché, per la prima volta, mi sentivo molto
più buona di quanto
non fossi mai stata.
Per
quanto mi costasse ammetterlo, avrei dovuto
ringraziare anche Travis, seppur in
minima parte, ma decisi immediatamente che non lo avrei mai fatto.
Nemmeno
sotto tortura.
(*) Film
del 1989
Monologo di M.
Douglas: "Mi scusi, avvocato Thurmond, bieco, lercio, schifoso pezzetto
di merda: adesso io vorrei dire due parole alla mia signora. Se questa
è una gara di caduta rapida verso il basso, hai vinto:
mostrandogli la mia lettera sei piombata di botto nel più
profondo strato di merda fossile uscita dal buco di culo del
più stronzo degli ominidi".
Rende bene l'idea
delle sensazioni di Maya!
*
Eccomi ancora..
Ancora un grandissimo
SCUSATEMI! Davvero, mi farò perdonare.. Ora voglio solamente
fare un piccolo ringraziamento poi vi lascio.. Quindi GRAZIE MILLE a tutte
voi che, nonostante la mia poca costanza negli aggiornamenti, siete
sempre qua a seguirmi, a recensire e a non abbandonare la sottoscritta!
Lo apprezzo davvero tanto e non smetterò mai di scusarmi per
questi mesi di vuoto totale! Mi dispiace!
Alla prossima,
Chiara :)
|
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Capitolo 14 *** 13. Travis' POV - Concentrazione ***
Maya13
*****
In
ritardo, come sempre, ma meglio tardi che mai!
Ringrazio
velocemente tutte voi, bellissime creature che continuate a seguirmi
nonostante i tempi di pubblicazione esagerati! Mi era anche andato in
tilt il computer e pensavo di aver perso tutto il capitolo, ma eccolo
qui ed ecco a voi Travis..
Buona
lettura ed un abbraccio,
Chiara
TRAVIS'
POV
Quindici vasche.
Mi sentivo stanco,
stremato, quando fino a poco tempo prima quelle quindici vasche le
avrei fatte
persino ad occhi chiusi, ma non osavo fermarmi. Sapevo che, se
l’avessi fatto,
avrei ricominciato a pensare, a viaggiare con la mente ai mille
all’ora e non
volevo. Non dovevo.
Avevo una competizione
alle porte e non ero pronto, nemmeno lontanamente. Di certo, non
potevano dirmi
di mancare di tempismo perché, se dovevo cominciare a
perdere la concentrazione
sul mio obiettivo, lo facevo nel momento più sbagliato
possibile. Tuttavia, la
colpa non era solamente mia: se quell’odiosa brunetta non mi
avesse fatto
impazzire, in quel momento non avrei di certo dovuto combattere una
battaglia
contro me stesso.
Ebbene si, anche in
quel caso la colpa era sua e soltanto sua.
Io non avevo fatto
nulla, era stata lei a saltarmi addosso. Avrei potuto fermarla, certo,
ma
l’istinto maschile non si può controllare: agisce
senza pensare alle
conseguenze. Come in quel caso.
Era stato lui a
portarmi a casa di Maya, mi aveva spinto lui a seguirla per le strade
fino al
suo appartamento. Ero rimasto in auto a pensare, per un po’
di tempo, a
decidere se agire oppure tornarmene a casa indisturbato, ma poi nella
mia testa
tutto era diventato offuscato, i pensieri si scontravano tra loro e non
era più
in grado di seguire un ragionamento che avesse un filo logico.
Così mi ero
ritrovato a bussare prepotentemente alla porta
dell’appartamento di quella
ragazza, dopo una corsa frenetica per le scale.
Non avevo pensato al
dopo, a come mi avrebbe potuto attaccare Maya, a come non avrei potuto
fare a
meno di pensare a quelle ore di sesso consumate insieme. A come ne
avrei potuto
desiderare ancora.
Per quanto cercassi di
nasconderlo anche a me stesso, mi era piaciuto e non mi sarei lamentato
se ne
avessi avuto ancora. Non riuscivo a togliermi dalla testa quel suo
corpicino
tanto esile quanto perfetto, quelle sue curve e quel verde mare che mi
aveva
osservato traboccante di desiderio.
Non lo avrebbe ammesso
nemmeno sotto tortura, ma era piaciuto anche a lei, ne ero sicuro!
“Travis, pensi
di continuare ad allenarti oppure ti porto un caffè!?”.
Mi resi conto
solamente in quel momento di aver terminato prima del dovuto: ero
poggiato al
blocco di partenza della vasca da un tempo indefinito e non avevo fatto
altro
che fissare il vuoto.
A risvegliarmi dal mio
sonno ad occhi aperti era stato Roberto, il collaboratore di Claudio.
Oltre
quelle parole non mi aveva rivolto molta attenzione, aveva
già trovato chi
aiutare tra i più giovani.
Decisi di uscire dalla
piscina, maledicendomi per la mia mancanza di impegno e spina dorsale.
Dovevo
fare una bella chiacchierata con il mio allenatore e, se ne avessi
avuto
l’occasione, anche con sua figlia.
Dopo aver agguantato
il mio borsone, mi legai un asciugamano in vita e cominciai a dirigermi
verso
l’ufficio di Claudio.
Dovevo trovare il modo
di recuperare la concentrazione perdura ed ero certo che, solamente
lui,
sarebbe riuscito a risolvere il mio problema.
Mi fermai un momento
in spogliatoio, dove gettai sulla prima panchine libera tutte le mie
cose, e mi
tolsi dalla testa quella diavoleria che tutti chiamavano cuffia. Tornai
sui
miei passi ed in poco tempo raggiunsi la porta dell’ufficio
del mio allenatore,
ancora con solamente l’asciugamano in vita. Lui, in ogni
caso, mi conosceva da
tempo e sapeva com’ero e quel luogo era come casa mia,
infatti spesso mi
lasciava a briglia sciolta, ma se esageravo sapeva sempre come
rimettermi in
carreggiata.
Pensai a quanto fosse
fortunata Maya ad avere un padre come lui.
Arrivai a
destinazione, bussai ed entrai subito dopo aver avvertito la voce di
Claudio
urlare “avanti”, ed eccola lì, seduta
con lo sguardo rivolto al telefono
cellulare, intenta ad inviare un sms.
“Oh parli del
diavolo...”, disse Claudio, rivolgendomi uno dei
suoi
sorrisi radiosi.
A quelle parole gli
occhi di Maya scattarono immediatamente nei miei, senza prima aver
osservato di
sfuggita il mio corpo.
Le era piaciuto, non
c’erano dubbi.
La osservai
strabuzzare gli occhi ed irrigidirsi in un attimo, quasi avesse un
qualcosa di
orripilante nel campo visivo, e le nocche bianche smascheravano
perfettamente
la stretta convulsa che esercitava sul cellulare.
La osservai per una
manciata di secondi, reprimendo il desiderio di scappare a gambe
levate, poi
scossi leggermente la testa e rivolsi l’attenzione a Claudio
che,
sfortunatamente, ci fissava confuso ed incuriosito.
“Claudio”,
cominciai con fin troppo entusiasmo. “Volevo
chiederti se c’è la possibilità per
me, di fare allenamento con il palazzetto completamente vuoto”.
Mi
avvicinai leggermente alla scrivania dove, dietro, era seduto il mio
allenatore, tenendo bene a mente di non rivolgere lo sguardo altrove.
“Papà,
io andrei”, disse Maya, quasi in un sussurro.
Riuscii a percepire
tutto il suo nervosismo.
Non la degnai di uno
sguardo: in quel momento una particolare crepa di una scaffalatura al
mio
fianco sembrava davvero interessante.
“No, Maya, non
ho ancora finito”, rispose lui in tono sbrigativo.
“Allora Travis, perché
vorresti la piscina
sgombra?”. Cominciò a studiare
attentamente la mia espressione e, per la
prima volta, mi trovai a corto di parole ed in seria
difficoltà. Incespicai un
paio di volte nelle mie stesse parole, in cerca di un appiglio a cui
aggrapparmi per poter fuggire da quella situazione.
Claudio non sembrava
intenzionato a cedere, anzi, continuava a scrutarmi fin troppo
attentamente.
“Beh... insomma, devo
partecipare ai campionati mondiali tra poco e…”,
cominciai a guardarmi in giro,
stando ben attento a non rivolgere il minimo sguardo a Maya. Non mi
riconoscevo
più. “cioè,
con la piscina così piena di
persone perdo tuta la mia concentrazione e non riesco ad allenarmi come
dovrei”.
Parlai a macchinetta,
come mai avevo fatto prima e, a monologo terminato, mi trovai senza
fiato. E non
riuscivo a capire perché. Dovevo uscire da quella stanza,
buttarmi per
l’ennesima volta in piscina e trattenere il respiro
sott’acqua fino a quando i
polmoni me l’avrebbero permesso. Quella mi sembrava
l’unica soluzione
plausibile per sbollire la tensione.
Lo sguardo attento di
Claudio cominciava ad infastidirmi, in particolare perché,
sicuramente, vedeva
molto più di quanto desiderassi lasciar trapelare. Non ero
più io, in quei
giorni: stavo lasciando scoperte troppe carte che avrei dovuto ancora
giocare.
“Travis”,
cominciò l’uomo di fronte a me, alzandosi dalla
sua
poltrona ed avvicinandosi a me. “Pensavo
che fossi tornato in possesso della giusta concentrazione dopo quella
giornata
al mare”. Impallidii.
Sentimmo un tonfo
sordo ed entrambi, Claudio ed io, ci voltammo verso Maya, intenta a
raccogliere
dal pavimento il telefono cellulare che le era caduto dalle mani. Poi
sollevò
lo sguardo verso di noi e quasi mi caddero le braccia nel vederla in
tremendo
imbarazzo, con le guance dipinte di un rosso acceso.
Spostò velocemente
l’attenzione da suo padre a me, guardandomi con gli occhi
quasi sbarrati e
quasi mi scatenò un brivido per tutta la schiena. Mi chiesi
per quale motivo mi
stesse fissando come un cucciolo impaurito. Dov’era finita la
sua spavalderia?
“Quanto sei
sbadata, figlia mia!”, disse improvvisamente
Claudio,
facendomi reprimere una risata.
La vidi inspirare
profondamente per poi tornare con lo sguardo allo schermo del telefono.
“Dicevamo,
Travis?”, chiese lui, dopo pochi istanti.
“Cosa?”.
Mi colse impreparato,
ero troppo impegnato a decifrare il comportamento di sua figlia.
L’espressione sul viso
di Claudio parlò più di lui, con quelle
sopracciglia aggrottate e gli occhi
leggermente socchiusi: cominciava a sospettare qualcosa. E per
depistarlo sarei
dovuto tornare il solito Travis, in quell’esatto momento.
“Scusa Claudio,
ma quell’allenamento alla spiaggia non mi è
servito a
molto”, cominciai, con il tono di voce
più convincente che potessi avere. “Ecco
perché vorrei allenarmi a piscina
vuota: il mare non ha fatto altro che peggiorare la mia concentrazione”.
Ancora quello sguardo
sul viso di quell’uomo, ancora indecisione e sospetto, poi in
un batter
d’occhio tornò ad essere lui, il mio allenatore di
sempre: tutto felice e
sorridente. “Come desideri, Travis”,
disse tornando a sedersi alla sua scrivania. “La
piscina è completamente sgombra la mattina presto fino alle
otto
oppure la sera dopo le ventuno. Le chiavi le hai già, quindi
potrai aprire la
mattine e dovrai chiudere la sera”.
Inforcò gli occhiali che aveva sulla
scrivania e, dopo aver lanciato uno sguardo veloce alla figlia,
tornò a
fissarmi attentamente. Ancora una volta.
Ecco, in quel momento
mi feci prendere dal panico ed ebbi paura di ciò che avrebbe
potuto dire
Claudio. Il suo sguardo serio non prometteva nulla di buono e
l’ultima cosa che
volevo era non averlo più dalla mia parte, soprattutto con
del sesso
occasionale con sua figlia in mezzo.
Restava una delle
poche persone a credere in me senza riserve.
“Questo, però, non ti
esonera dagli allenamenti giornalieri, Travis”, tirai un
sospiro di sollievo. “Dovrai
presentarti qui ogni giorno, poi
decideremo come gestire tutte le tue giornate ed i tuoi allenamenti”.
“Certo, Claudio!
Come vuoi tu, grazie mille”, risposi tutto
d’un
fiato.
Mi congedai
velocemente da quella situazione a dir poco imbarazzante, ringraziai
ancora il
mio allenatore e non dissi una parola a Maya, non le rivolsi nemmeno
uno
sguardo.
Dovevo tornare
assolutamente in acqua. Ne sentivo il bisogno.
Dal giorno seguente in
poi avrei dovuto lavorare come mai in vita mia: mi aspettavano davvero
i
campionati mondiali e non avevo la minima idea di come affrontarli. Ero
terrorizzato solo all’idea.
Mi sarei dovuto
battere con i migliori al mondo e il pensiero che, tra loro, spiccava
anche il
mio nome, mi faceva tremare le ginocchia.
Quello ero un piccolo
grande traguardo, per me.
Avevo cominciato
tardi, rispetto alla media, ma mi ero spaccato la schiena a forza di
bracciate
e di vasche percorse a perdifiato. Avevo combattuto più di
chiunque altro e
pensare che, incredibilmente, ero riuscito a piazzarmi per i mondiali,
mi
rendeva quasi orgoglioso di me stesso. Orgoglioso di me stesso era un
parolone,
ma rendeva quasi l’idea: ero in pieno fermento e non vedevo
l’ora di
gareggiare.
Mancavano circa sei
settimane a dicembre, all’inizio dei campionati, ed ero
tremendamente indietro
sulla tabella di marcia, ma l’adrenalina che scorreva a mille
nelle mie vene
sembrava parlare con un’altra voce. Avrei quasi voluto
urlare, soprattutto a
tutte quelle porte chiuse in faccia che avevo racimolato nel corso
degli anni,
che ce la stavo facendo, che ci stavo riuscendo per davvero.
E gran parte del
merito del mio successo andava a Claudio.
Lui mi aveva scoperto,
lui mi aveva spronato a cominciare e lui era diventato quasi un padre,
per me. Mi
conosceva meglio di quanto mi conoscessi io stesso, e a volte questa
qualità mi
spaventava, ma sapevo di poter contare su di lui, sui suoi consigli e
sul suo
conforto. E in un particolare periodo della mia vita mi era stato
davvero
d’aiuto. Quando…
Il mio flusso di
pensieri si bloccò di colpo, quando mi resi conto che una
mano mi stava
strattonando il polso con forza. Colto di sorpresa, non potei fare a
meno che
seguire chiunque mi stesse trascinando e, improvvisamente, mi trovai in
uno
stanzino angusto, piccolo. Una stanza con un intero corredo per le
pulizie,
dedussi dal forte odore di detersivo e disinfettante che mi investii le
narici.
“Ma che sta
succedendo?”, dissi guardandomi in giro. E quando
mi
voltai verso la porta d’entrata, verso chi mi aveva
trascinato in
quell’abitacolo, quasi mi si staccarono le braccia dal resto
del corpo per la
sorpresa. Perché, di certo, Maya era l’ultima
persona che desideravo mi
portasse in un luogo simile.
Quasi mi persi in quel
verde mare che le lampade al neon del locale rendevano quasi irreali.
Okay, forse non
è l’ultima persona che vorrei in
un posto simile. Forse.
“Puoi spiegarmi?”,
sbottò lei, tutto d’un tratto, poggiando le mani
sui fianchi.
Ecco, quella fu,
probabilmente, la mossa peggiore che potesse fare: se voleva incutermi
davvero
timore e farmi parlare, evidenziare i suoi fianchi non era di certo la
mossa
più azzeccata.
“Ah io dovrei
spiegare a te delle cose”, cominciai con ironia,
forse
troppa ironia. “Quanto sei tu quella
che
mi ha trascinato qui dentro. E poi cosa dovrei spiegarti di preciso,
scusa?”.
“Perché
hai detto quelle cose con mio padre presente? Non hai visto come
ci ha guardati!?”. Cominciava a dare in
escandescenza e non capivo proprio
per quale motivo. Sì, avevo notato anche io il modo in cui
Claudio ci aveva
osservati e, sì, per un momento avevo temuto anche io che
avesse intuito
qualche cosa, ma poi tutto è svanito in un attimo ed era
tornato alla
tranquilla normalità di sempre, quindi proprio non riuscivo
a capire tutta la
sua preoccupazione.
Poi mi lampeggiò
davanti agli occhi il motivo per quanto sembrava davvero in ansia e
quasi le
scoppiai a ridere in faccia, ma cercai di trattenermi. Con scarsi
risultati.
Non riuscii ad
evitarlo, così cominciai a ridere di gusto, come non facevo
da parecchio tempo
e quasi dovetti sorreggermi alle scaffalature al mio fianco per non
crollare a
terra dalle risate.
“Si
può sapere per quale motivo hai cominciato a ridere come un
idiota?”,
mi chiese Maya, la donna di ghiaccio.
Lei, a differenza mia,
pareva più seria che mai, con quel cipiglio scocciato sul
viso. attendeva
solamente, non proprio pazientemente, che riprendessi fiato e
cominciassi a
parlare.
Quel suo piede che
sbatteva sul pavimento cominciava ad irritarmi.
Presi un profondo
respiro, mi stampai sul viso il miglior sorriso strafottente che
riuscissi a
trovare e cominciai a parlare. “Hai
per
caso paura che il tuo papà scopra che hai fatto la
ragazzaccia, Maya?”.
Mi uscì di getto,
forse un po’ brutale, ma mi aveva chiesto una spiegazione ed
io le avevo
fortino la risposta più sincera che avessi.
Lei sbiancò, sotto la
luce innaturale delle lampade al neon, e strabuzzò gli occhi
quando assimilò le
mie parole.
Probabilmente avevo
esagerato e sarei dovuto fuggire a gambe levate, perché
quello sguardo omicida
non prometteva nulla di buono, ma restai lì impalato,
davanti a quella ragazza
più complicata di un tabu.
Mi asserii di colpo,
dimenticando improvvisamente tutta l’ironia di quel momento,
e cominciai a
fissare Maya negli occhi, come a giocare a chi avesse ceduto per primo
lo
sguardo. E lei non diceva nulla, non faceva nulla, mi imitava e se ne
stava
nella sua parte di scantinato ad osservarmi attentamente.
“Qual
è il vero problema?”, le chiesi dopo
alcuni istanti.
Cedette, con mia
grande sorpresa Maya abbassò lo sguardo e
cominciò a studiarsi le punte dei
piedi, e in quel momento mi ricordò perfettamente una
ragazzina, una bambina
colta in fallo che non ha altra scelta che guardare a terra con
vergogna.
Mi avvicinai, non so
per quale motivo, ma sentii il bisogno di avvicinarmi a lei e di
guardare
dentro quel mare che era tutto tranne che comprensibile. La raggiunsi e
la vidi
irrigidirsi, ma cercò di non darlo eccessivamente a vedere,
e non riuscii a
resistere alla tentazione, così le presi il mento con una
mano e le sollevai il
viso.
Mi vennero quasi i
brividi quando notai come, in un istante, l’espressione di
quella ragazza mutò:
mi ricordò sempre più una bambina.
La mia mente, già
seriamente compromessa, era più confusa che mai, con
migliaia di pensieri che
si scontravano a vicenda e non creavano altro che caos. Un ammasso di
idee,
immagini, parole che non servivano a nulla, ma facevano solamente
numero ed
opprimevano il mio povero cervello dentro quella fragile scatola
cranica.
Restammo in quella
posizione per non so quanto tempo, a studiarci, a cercare di scorgere
un lampo
di esitazione negli occhi dell’altro, ma nulla pareva
cambiare e nessuno dei
due pareva voler retrocedere.
Io, di certo, no. Era
una sensazione strana, ma bella, stavo bene, come se quel verde mare,
quasi
liquido, fosse diventato il lenitivo giusto per i miei giorni di ansia
e di
stress.
“Cosa succede,
Maya?”, le chiesi in un soffio.
Lo spazio angusto,
troppo ristretto, la vicinanza pericolosa e… lei,
non facevano altro che stuzzicarmi e minare il mio controllo,
quello stesso controllo che, mi ero ripromesso, non avrei
più perso.
Soprattutto con la figlia del mio allenatore.
“Perché
hai detto quelle cose, Travis?”, mi chiese in tono
flebile,
ma non si mosse. Non si comportò come suo solito, non si
allontanò come se la
mia vicinanza comportasse una contaminazione da una malattia mortale.
Restò lì,
immobile, con i suoi numerosi centimetri in meno, tremendamente piccola
e
apparentemente fragile.
Sapevo fin troppo bene
a cosa si riferiva, ma non sapevo esattamente cosa dirle. Non ne avevo
proprio
idea, perché nemmeno io avevo capito bene per quale motivo
avevo pronunciato
quelle parole.
Certo, erano vere,
perché dopo quella giornata al mare, la mia concentrazione
era partita per una
destinazione a me sconosciuta con un biglietto di sola andata e, visti
gli
imminenti campionati, avevo bisogno di tornare me stesso, ma non so per
quale
motivo non ho atteso, non ho lasciato perdere. Avrei potuto scegliere
un momento
migliore, sarei potuto andare via e trovare un momento in cui Maya non
fosse
presente, ma non l’ho fatto. E l’idea di aver quasi
offeso quella ragazza, mi
dava una strana sensazione.
Abbassai la mano e mi
allontanai di un passo da quella ragazza, ben deciso a non fare lo
stesso
errore del nostro ultimo incontro. “Non
lo so, ma ciò che ho detto è la
verita… tra poco avrò una competizione
importante e ho perso tutta la mia concentrazione”,
le dissi guardandomi in
giro. “Ciò che
è successo tra noi ha fatto
più danni che altro, per me”, aggiunsi
con un mezzo sorriso.
La guardai ancora e la
vidi con la mia stessa espressione. E per la prima volta mi resi
davvero conto
di quanto le donasse un sorriso, seppur piccolo quanto quello che avevo
davanti
agli occhi.
“Almeno non sono
l’unica a sentirmi così”,
scherzò con una lieve
risata.
Quella conversazione
da persone civili mi sembrava quasi irreale: se non erano insulti vari,
noi non
parlavamo proprio, ma…
No, Travis, niente ma!
“Sai, Travis, ho
avuto il lavoro”, cambiò discorso con
estrema
maestria. “Quindi dovrei
ringraziarti,
anche se…”.
“Anche se?”,
le chiesi incuriosito.
Maya mi guardo per un
momento, con uno strano sguardo negli occhi, poi scoppiò
improvvisamente in una
risata.
Era strano vederlo
ridere, forse per la sua continua aria di superiorità oppure
per il perenne
cipiglio scocciato, ma tutto ciò non le rendeva giustizia.
Vederla ridere fu
una rivelazione: era molto più bella di quanto pensassi.
“Anche se
ciò che è accaduto l’ultima volta che
ci siamo visti vale
molto più di un semplice grazie”, mi
disse dopo alcuni istanti, continuando
a ridere.
Non ci potevo credere,
ma stava scherzando con me. Maya e
Travis che parlano da persone civili e scherzano anche. Impossibile.
Venne da ridere anche
a me, non so se per la risata contagiosa di quella ragazza oppure per
le sue
ultime parole, ma cominciai a ridere, quasi quanto poco prima.
Era davvero strano
comportarmi da persona normale con lei, la stessa ragazza che mi aveva
fatto
impazzire con uno schiocco di dita. Tuttavia aveva uno strano
retrogusto al
quale ci si poteva abituare fin troppo facilmente e, questo, mi rese
consapevole della leggera preoccupazione che si mosse dentro di me.
Poi tutto cessò. Dopo
una risata di troppo, un’altra smorzata e bloccata
metà, uno sguardo sostenuto
più del dovuto e un sospiro esalato con timidezza.
L’atmosfera tornò
seria e la tensione che si avvertiva nell’aria si poteva
tranciare a mani nude.
Non potevo e non
dovevo commettere lo stesso errore, dovevo andarmene il prima possibile
da
quell’abitacolo troppo piccolo per Maya e per me. Dovevo
scappare dalla
tentazione di prenderla e farla mia ancora una volta, così
da poter sentire le
sue unghie nella mia schiena ed i suoi sospiri sulla mia pelle.
Non avevo dimenticato
i brividi che mi aveva provocato quel giorno: era fenomenale, senza
mezzi
termini.
Non avevo dimenticato
come, stranamente, mi aveva stretto a se, quando era arrivata al
limite, come
le sue labbra combaciavano alla perfezione con le mie e come i nostri
corpi rappresentavano
una macchina fin troppo ben collaudata.
Non avevo dimenticato
quanto, nei giorni seguenti, avevo desiderato che tutto quello accaduto
a casa
di Maya si ripetesse.
“È meglio che vada”, quelle parole mi uscirono dalla bocca
senza che me ne accorgessi. “Se tuo
padre non mi trova in piscina mi
uccide”, aggiunsi poi, con quello che speravo fosse
un sorriso.
Mi sorpresi di me
stesso per quanta forza di volontà trovai
all’ultimo minuto, per come riuscii a
sotterrare il mio istinto, per come decisi di non ascoltare le
decisioni che mi
urlava la mia testa.
Mi incamminai verso la
porta, alle spalle di Maya, e riuscii anche ad abbassare la maniglia
prima che
lei afferrasse il mio polso. Ancora una volta.
Inspirai a fondo,
leggermente preoccupato per quello che sarebbe potuto succedere, poi
sollevai
lo sguardo verso la ragazza intenzionata a mandarmi in pappa il
cervello.
La vidi osservare
tutto di me, prima che incollasse i suoi occhi ai miei. Un brivido mi
percorse
tutta la schiena.
“Cosa vuoi, Maya?”,
le chiesi con voce rassegnata, esasperata.
Imprevedibile come
sempre, si avvicinò a me e tolse la mia mano dalla maniglia.
Mi ritrovai in
gabbia, con le spalle poggiate contro la porta fredda e lei davanti a
me, con
uno strana scintilla negli occhi. E mi stava facendo impazzire per
l’ennesima
volta.
Bruciò le distanze in
un attimo, posando delicatamente le sue mani sul mio addome scoperto.
Mi uscì un sospiro
quando incrociò ancora il mio sguardo.
Le sottili mani di
Maya salirono lentamente per il mio corpo seguite poi dalle sue labbra,
sfiorando delicatamente la mia pelle.
Sarebbe diventata la
mia dannazione, lei.
Poi si alzò in punta
di piedi, arrivando con il viso quasi all’altezza del mio, e
circondò le mie
spalle con le sue braccia.
“Cosa vuoi, Maya?”,
le dissi con più forza, prendendo tra le mani i
suoi fianchi e facendo aderire i nostri corpi.
Le si mozzò il
respiro.
Arrivò ad una manciata
di centimetri dal mio viso e quasi potei sentire l’adrenalina
scorrerle nelle
vene, la stessa adrenalina che le arrossò le guance.
“Devo
ringraziarti, Travis”, mi rispose con un tono di
voce talmente
sexy ed accattivante che divenni tutto un brivido.
Poi si avventò sulle
mie labbra e tutti i miei buoni propositi andarono all’aria,
diventando
solamente una nebbiolina leggera in un angolo remoto della mia mente.
E al diavolo
l’autocontrollo e la concentrazione.
|
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Capitolo 15 *** 14. Riccioli d'Oro ***
Maya14
*****
Incredibile, ma vero.. sono
già pronta con un nuovo capitolo! Lo so, è
disarmante!
Se nei prossmi
giorni si scatenerà il diluvio univarsale, datemi
tranquillamente la colpa di tutto!
Scherzi a parte,
buttare giù questo capitolo è stato
più facile di quanto pensassi: vorrei sempre mantenere il
giusto equilibrio di serietà ed ironia, soprattutto per
Maya. Quella ragazza è una testa calda ed è
difficile scrivere dal suo punto di vista. Cerco di fare del mio
meglio..
Comunque.. questo
capitolo è leggermente più lungo dei miei soliti
standard, ma devo farmi perdonare per i continui salti temporali tra un
aggiornamento e l'altro. Quindi, eccolo qui..
Dal prossimo si
comincia a ballare, ragazze! Tenetevi forte!
Buona lettura e ci
vediamo sotto!
E
dire che mi ero imposta di non ringraziare Travis… ero
decisamente una donna di parola, sì, e gli asini volavano
tra gli arcobaleni.
Era
colpa sua, tutta sua, perché io me ne stavo bella
tranquilla nell’ufficio di mio padre a parlare con lui del
mio nuovo lavoro e,
in un batter d’occhio, si è presentato lui
con un asciugamano legato in vita. Neanche fosse stato un
Bronzo di Riace…
Poi
aveva detto quelle cose, aveva detto che quella
giornata al mare aveva minato la sua povera concentrazione ed io non ci
avevo
più visto. Ecco per quale motivo gli ero corsa dietro,
perché volevo delle
spiegazioni belle e buone. Perché quello accaduto in quella giornata era successo per colpa
sua e sembrava che volesse
quasi scaricare tutte le sue responsabilità su di me. Non
potevo permetterlo.
Poi,
certo, la situazione mi era sfuggita di mano, troppe
immagini si erano susseguite nella mia mente e l’odore
nauseante di
disinfettante di quello stanzino me l’aveva annebbiata. Ed
era successo. Ancora
una volta.
La
facilità con cui mi aveva sollevata da terra e mi
aveva stretta a sé, era stata disarmante per me. E, se
possibile, era stato anche
meglio di quel giorno al mio appartamento, ma
quest’informazione sarebbe finita
nella tomba insieme a me.
Non
avrei detto mai nulla a nessuno perché Travis,
nonostante fosse… diciamo, capace,
restava un vero e proprio idiota. Mi aveva incastrata con quel suo
sguardo
confuso, ma allo stesso tempo sensuale ed io non ci avevo capito
più nulla. E
anche per quel motivo non lo sopportavo, lo odiavo davvero. Ed il
nostro odio
reciproco lo manifestavamo nel modo migliore conosciuto da entrambi,
sì.
Quando
finalmente uscimmo dalla stanza delle scope arrivò
il momento di imbarazzo vero e proprio: ci fissammo per alcuni secondi
rossi in
viso, con ancora il fiato corto e la vergogna liquida negli occhi. Poi
lui
doveva tornare in piscina ed io dovevo tornare a casa, così
percorremmo il
corridoio insieme, senza dire una parola nemmeno in
quell’occasione e a debita
distanza l’uno dall’altra. Nemmeno ci salutammo,
solamente l’ennesimo sguardo,
forse ancora nervoso, ma di certo confuso.
Tornai
a casa e nemmeno me ne accorsi: mi comportai da
automa per tutto il tragitto in auto e, per mia fortuna, ci arrivai
sana e
salva.
Ancora
oggi non so quanto tempo restai seduta in auto a
pensare.
Passarono
i giorni, arrivò novembre ed il mio lavoro
procedeva a gonfie vele. Sì, ancora non avevo compiti
importantissimi, ma in un
colloquio la direttrice della rivista si dimostrò molto
contenta dei miei
risultati e del mio lavoro. E per una volta riuscii ad essere fiera di
me
stessa.
I
miei scatti erano buoni, indipendentemente dal soggetto
e dallo sport, erano davvero belli e chi ne aveva la
possibilità me lo faceva
notare.
Non
c’erano solo segretarie scocciate ed antipatiche in
quell’edificio: riuscii a conoscere alcune persone davvero
simpatiche che,
almeno, si dimostrarono gentili e disponibili verso la nuova arrivata.
Cercarono di fare il possibile per non farmi sentire un pesce fuor
d’acqua. E
quasi ci riuscirono.
Poi
arrivò una telefonata della direttrice, mentre un
pomeriggio mi aggiravo per casa decidendo come sistemare i mobili.
Un’altra
volta.
La
donna di ghiaccio voleva vedermi immediatamente nel
suo ufficio.
Mi
salii il panico e subito cercai di fare mente locale,
ma non riuscivo a trovare un cavillo per cui potesse incolparmi di
mancata
diligenza oppure di aver svolto un compito in maniera scorretta.
Proprio non
riuscivo a capire per quale motivo avesse bisogno di me con tanta
urgenza.
Quando
arrivai in redazione, la solita segretaria
imbronciata mi accompagnò verso la sala d’aspetto,
nonostante conoscessi a
memoria il tragitto e lei conoscesse bene me.
La
lasciai compiere le sue solite cerimonie ed il suo
solito copione, fatto da sorrisi falsi ed occhiate sbieche.
Attesi
fino a quando dall’ufficio non uscì quella ragazza
che vidi tempo prima, ricci biondi perfetti e vestita di tutto punto,
senza,
tuttavia, quei pantaloni rosa shocking che ricordavo fin troppo bene.
“Ciao”, mi
disse cinguettante, con uno sguardo tanto amichevole quanto nauseante.
Non
le risposi, mi limitai a guardarla storto e a
chiedermi da quale fiaba saltasse fuori quella creatura tanto strana.
Di certo,
l’abitino corto a fiori che indossava era strano.
Dannazione,
è novembre!
Aveva
cominciato a fare freddo, davvero, ma a quanto
pareva a quella ragazza la cosa non toccava minimamente. Magari la
vedeva come
un’occasione per mettere in mostra le gambe perfette.
Già,
perfette, purtroppo.
La
donna di ghiaccio mi attese sulla porta, con un
sorriso di circostanza, come al solito, così io entrai e mi
sedetti in una
delle poltrone davanti alla scrivania. Avevo imparato la routine.
“Bene, Maya…”,
cominciò lei, sedendosi nell’altra poltrona vuota
al mio fianco. “Ti starai chiedendo
per quale motivo ti ho
chiamato con tanta urgenza”.
“Beh si, è stata
una chiamata inaspettata ed ho paura di quello che potrebbe significare”,
le dissi schietta, agitandomi.
Lei
mi guardò un momento, poi le vidi sorridere, ma
sorridere davvero. “Oh no, non ti
preoccupare: niente brutte notizie, anzi”, si
alzò improvvisamente,
facendomi sussultare, poi si sistemò al suo posto,
dall’altra parte della
scrivania. “Ti ho chiamata qui per
due
motivi: il primo è per dirti che, da domani in poi, il tuo
lavoro sarà a tempo
indeterminato. Hai avuto un mese di tempo per dimostrarmi le tue
qualità e sono
stata contenta del tuo lavoro, quindi voglio premiarti”,
mi svelò.
Quasi
cadetti dalla mia postazione.
Non
potevo credere a quello che le mie orecchie avevano
appena sentito. Ce l’avevo fatta davvero. La notizia di aver
ottenuto il
lavoro, di averlo finalmente ottenuto davvero, mi rese felice come non
mai. Sì,
non era la mia massima aspirazione fotografare sport su sport, ma era
meglio di
niente ed erano state premiate le mie qualità. Ed io ero
felice.
“Oh… oddio, grazie
mille”, risposi raggiante. Mi sarei messa a
saltellare. “Grazie davvero per
l’opportunità”.
“Si, beh… avrei
voluto attendere almeno fino al nuovo anno, ma ti sei dimostrata molto
più
versatile di quanto pensassi ed ogni tuo scatto era una continua
sorpresa,
quindi ho deciso di anticipare i tempi”, poi
cominciò a trafficare con
alcuni fogli che aveva sulla scrivania, per prenderne tra le mani
quattro o
cinque. “La seconda questione di cui
volevo parlarti è il tuo primo incarico come mia dipendente
a tutti gli effetti”.
“Di già!? Beh sono
pronta a tutto”, e lo ero davvero! Quella notizia
mi aveva riempita di una
carica che avevo sentito poche volte in vita mia e mi sentivo pronta
per ogni
lavoro e per ogni impresa.
“Non ne ho dubbi,
Maya”, disse, con un sguardo divertito. “Avrai notato la ragazza che è uscita dal
mio ufficio, poco fa?”.
“Riccioli d’oro?
Si, non passa inosservata”, dissi senza pensare.
Strabuzzai
gli occhi nel momento stesso in cui mi resi
conto di quello che avevo appena detto al mio capo che, tanto per
cambiare, mi
aveva appena dato un lavoro a tempo indeterminato. “Oh, mi spiace, non volevo”,
cercai di scusarmi e di sembrare
davvero dispiaciuta, ma la direttrice mi sorprese quando
cominciò a
ridacchiare.
“Non ti
preoccupare, Maya, hai perfettamente ragione”,
disse sorprendendomi ancora.
“Comunque per questo tuo nuovo
incarico,
dovrai lavorare con Riccioli d’oro per un articolo molto
importante che sarà
presente nel numero di gennaio”.
La
prospettiva di lavorare con quella bambolina appena
uscita dal parrucchiere non mi faceva impazzire, per niente, ma sapere
di dover
prendere parte alla nascita in un articolo
molto importante colmava quella mancanza di intraprendenza.
“Va benissimo,
l’importante è che per me ci sia del lavoro da fare”,
dissi dopo alcuni
istanti. “Ma non posso garantire
che, per
sbaglio, non la chiami Riccioli d’oro”.
Riuscii
a scatenare una nuova risata della direttrice
che, di ghiaccio, non mi sembrava più così tanto.
“Non preoccuparti,
Maya, Simona sa essere molto accondiscendete, quando vuole”,
mi disse
improvvisamente seria. “Ecco
perché è una
delle migliori giornaliste che ho”.
Chissà
per quale motivo, ma non riuscivo a credere che,
quella ragazza, quella Simona, fosse molto accondiscendete. Almeno non
nel
lavoro. Mi sembrava più una vipera pronta a colpirti alle
spalle nel momento
meno opportuno.
“Cercherò di non
sembrare una villana, allora”, dissi che il miglior
sorriso angelico che
riuscii a sfoderare.
Non
avevo più freni e non capivo per quale motivo. Forse
stavo esagerando, ma proprio non riuscivo a frenare quelle parole:
uscivano
senza il mio permesso.
“Ti ringrazio, Maya”,
mi rispose lei, con lo stesso sorriso divertito di poco prima.
“Allora.. tu e Simona dovrete
lavorare
insieme per circa un mese e mezzo, forse due e il risultato
dovrà essere
ottimo, non ammetto errori”.
La
donna di ghiaccio fece ritorno in un batter d’occhio
e, infatti, l’atmosfera si era fatta quasi insostenibile.
“Va bene, ma per
cosa dovremmo lavorare insieme?”, le chiesi
impaziente. Ogni scusa pareva
perfetta per sviare l’argomento e per tergiversare. E la
sensazione che dilagava
dentro di me non era per niente rassicurante.
La
donna davanti a me continuò a trafficare per alcuni
secondi con i fogli che aveva sulla scrivania, in cerca di qualcosa di
particolare e, quando finalmente la trovò, le
spuntò uno strano sorriso. “Per
te non dovrebbe essere difficile questo
compito, Maya, in fin dei conti con Travis hai già avuto a
che fare”,
sganciò la bomba, come se nulla fosse.
“Come!?”, la
mia voce si alzò di alcune ottave, senza che me ne rendesi
neanche conto.
Lei
mi osservò un momento, con le sopracciglia aggrottate
ed un’espressione dubbiosa sul volto. Dovevo tornare in me e
far finta di
nulla, perché non avrei permesso a niente e a nessuno di
intromettersi nel mio
lavoro. Anche se le ultime parole della mia datrice di lavoro mi
rassicuravano
ben poco.
“Si, Maya”,
sussurrò piegando leggermente la testa di lato, come per
scrutarmi meglio. “Il pezzo forte
del nostro numero di gennaio
dovrà essere un articolo su Travis che, almeno, occupi
quattro pagine della
nostra rivista e, ovviamente, desidero da parte tua la massima
collaborazione
per avere degli altri scatti magnifici”, disse
voltando verso di me il
fogli che teneva tra le mani. Si rivelò essere uno degli
scatti che feci a
Travis al mare: la fotografia con le sue labbra a pelo
dell’acqua e lo sguardo
magnetico rivolto verso l’obiettivo.
Una
serie di brividi cominciarono a percorrere tutto il
mio corpo.
Deglutii
a fatica, senza aver ripreso l’uso della parola.
Non riuscii nemmeno a distogliere lo sguardo da quello di quel
maledetto ragazzo
che, tramite la mia fotografia, mi fissava intensamente, quasi volesse
scuoiarmi viva.
“Simona si occuperà
dell’articolo e, dato che già conosci questo
ragazzo, ti chiedo di fare le
dovute presentazioni quando sarà il momento giusto”,
continuò a parlare,
lei, ignara di come quella notizia mi avesse destabilizzata. “Ti chiedo un altro favore, Maya: potresti
parlare con Travis chiedendogli gentilmente se si rende disponibile per
quest’idea?”, mi chiese rivolgendomi uno
sguardo di ghiaccio, che non
ammetteva risposte negative. Quella donna cominciava davvero a fare
paura, era
tornata la solita direttrice di ghiaccio.
Ed
io ancora non riuscivo a proferire parola, ero davvero
troppo scossa. L’idea di restare a contatto con Travis per
quasi due mesi mi
dava la nausea e scatenava dentro di me un’altra sensazione a
cui non riuscivo
esattamente a dare un nome. E preferii non indagare.
Era
capitato due volte, per due volte avevo ceduto ed
avevo fatto sesso con lui e un po’ mi facevo schifo,
perché io non ero così,
non ero la ragazza da sesso occasionale che si lasciava trasportare
dagli
istinti. Certo, non mi era dispiaciuto, ma mi ero ripromessa fermezza e
decisione. E quel nuovo incarico, il mio primo vero incarico da
fotografa a
tutti gli effetti, mi spaventava a morte perché sapevo, ne
ero certa, che, in
qualche modo, prima o poi sarebbe capitato ancora una volta.
L’attrazione
fisica reciproca era evidente ed innegabile,
ma Travis restava l’essere più idiota sulla faccia
della Terra e,
probabilmente, mi facevo un po’ schifo anche per quel motivo,
perché Travis non
faceva al caso mio. Per niente.
“Ehm…”,
cominciai intimorita. “Cercherò
di fare
del mio meglio, ma, l’avviso, Travis ed io ci conosciamo
appena e non siamo
esattamente in buoni rapporti”, le dissi, schietta.
Se
non volevo far nascere sospetti in quella donna,
cominciavo davvero male.
Lei
mi rivolse un veloce sguardo, ancora una volta, poi
si concentrò sulle carte che aveva sotto gli occhi.
“Mi interessa relativamente poco,
Maya”, parlò con voce tagliente.
“In questo ambiente non ci possono
stare
tutti simpatici e non possiamo andare d’accordo tutti quanti,
come se fossimo veri
amici. Non esiste. È un ambiente duro che, alla prima
possibilità, ti pugnala
alle spalle e, detto sinceramente, non voglio che questo capiti a te,
quindi
preparati”.
Quelle
parole mi sorpresero davvero, anche più dei
sorrisi e delle lievi risate che si concesse. Sembrava quasi che, in
uno strano
modo, quella donna tenesse a me, almeno sotto il profilo professionale.
E non
capivo bene perché.
“Non mi faccio
spaventare dalla prima persona che passa, signora, l’ho
solamente avvisata che
non so come Travis possa rispondere a me ad una richiesta simile, dati
i nostri
rapporti leggermente… agitati”, dissi
cercando di non lasciar trapelare
troppe informazioni, seppur involontariamente.
“Sono contenta che
tu sia preparata a ciò che riserva la tua carriera”,
disse regalandomi un
altro mezzo sorriso. “Ma io ti ho
chiesto
un favore e se quel ragazzo ti negherà la
possibilità di questo articolo,
manderò Simona oppure andrò io stessa”.
Sarebbe
stato divertente assistere ad un incontro simile,
tra la direttrice di ghiaccio e quel pallone gonfiato. Sarei stata
davvero
curiosa: chissà chi ne sarebbe uscito vivo. Oppure con
quella Simona, tutta
sorrisi ammiccanti ed abbigliamento eccentrico. Una facile preda per
uno come
Travis.
“Farò del mio
meglio, allora”, le dissi sorridente.
La
fiducia che, in quel modo tanto contorto, quella donna
riponeva in me, quasi mi rinvigoriva e mi dava la forza giusta per
affrontare
una sfida simile, ma restava comunque un’enorme e difficile
sfida. E,
sicuramente, quel ragazzo, avrebbe fatto qualsiasi cosa per rendermi
ancora più
complicato il lavoro.
“Benissimo”,
disse alzandosi dalla sua postazione e tornando nella poltrona a fianco
alla
mia. “Sai, Maya, tra poco ci saranno
i
campionati mondiali di nuoto e so che Travis parteciperà,
quindi,
probabilmente, anche tu e Simona partirete con lui e tutto il team, per
seguire
in ogni momento la gara di quel ragazzo ”.
Oh
mio dio!
Questa
non ci voleva, davvero. Già mi sembrava difficile
dover lavorare a stretto contatto con quella ragazza e con Travis, ma
pensare
di dover partire per una località a me ancora sconosciuta
con entrambi, con mio
padre, con tutto il team, mi faceva tremare le ginocchia. E la nausea
non
faceva che intensificarsi.
“So che tuo padre è
l’allenatore di Travis”, disse in tono
affabile e, evidentemente, dal mio
viso intuì il mio stupore perché, pochi istanti
dopo mi disse: “Tranquilla, sono
semplicemente informata”.
Avevo
immaginato fosse importante e piena di risorse,
quella donna, ma non avevo pensato a delle qualità da spia o
da 007. Io ero
sempre rimasta nell’anonimato, nell’ombra, e
pochissime persone erano a
conoscenza del legame di sangue tra mio padre e me e, sicuramente, per
quel
motivo la rivelazione della mia datrice di lavoro mi lasciò
sorpresa.
“Non solo per
questo motivo ho scelto te per questo incarico”, mi
rivelò. “Certo, una
vicinanza simile a queste persone
rende a me e anche a te il lavoro più semplice, ma sappi che
ti ho scelta
perché hai talento e perché ho riposto tutta la
mia fiducia nelle tue capacità
e nella tua professionalità”.
Ero
incastrata ed ero caduta nella trappola con tutti e
due i piedi.
Dannazione!
Ero
uscita dall’ufficio della direttrice di ghiaccio,
quella sera, con un mal ti testa atroce ed una fame che attanagliava il
mio
stomaco dal momento in cui avevo conosciuto Simona.
Pensai
immediatamente a quanto potesse essere vuota e
superficiale, quella donna. Non smise un secondo di sorridere, quando
la nostra
datrice di lavoro ci presentò e mi chiesi svariate volte
come facesse a non
restare paralizzata con gli ancora della bocca sollevati. Ci
presentammo e ci
venne ripetuto quanto avremmo dovuto lavorare insieme, quanta fiducia
la direttrice
aveva riposto nel nostro lavoro e quanto sperava nella buona riuscita
di questo
articolo. La solita solfa.
L’unica
cosa che desideravo davvero era uscire da quel
palazzo, mettere qualcosa sotto i denti e buttarmi a letto, sotto le
coperte,
fino alla mattina seguente. Invece passò un’altra
mezzora ed io non ne potevo
davvero più.
Erano
le sette passate quando arrivai al mio appartamento
e sapevo che, da lì a pochi minuti, sarebbe arrivato mio
padre con due pizze
prese da asporto.
Appena
avevo avuto un attimo di respiro, lo avevo
contattato immediatamente, chiedendogli di cenare da me così
da potergli
parlare senza problemi e terzi incomodi ad irrompere
all’improvviso.
Quando
arrivò a casa mia lo salutai velocemente, con un
bacio sulla guancia, e lo accompagnai al tavolo della cucina
perché, davvero,
stavo morendo dalla fame e, prima di affrontare un discorso come quello
che mi
ero preparata, avevo bisogno di divorare almeno due tranci di pizza.
Con
molta calma spiegai tutto quanto a mio padre che, purtroppo
o per fortuna, si mostrò fin troppo entusiasta
dell’idea. Sembrò un bambino a
Natale, quando venne a conoscenza del tempo che avrei dovuto impiegare
per
l’articolo e le fotografie.
Poi,
per curiosità, gli chiesi dove si svolgessero questi
fantomatici campionati.
“Oh Maya,
quest’anno saranno a Doha”, mi rispose,
tutto contento e sorridente con
voce esaltata, come se potessi davvero sapere di cosa stesse parlando.
“Dove, scusa!?”,
gli domandai, perplessa.
“A Doha, in Qatar!”,
esclamò al settimo cielo.
Mi
cascò la mascella dalla sorpresa. Non ci potevo
credere.
Mio
padre, invece, sembrava pronto per mettersi a
saltellare sulla sedia come un bambino, con quegli occhi azzurri accesi
e
limpidi di felicità.
Fortunatamente
amavo il caldo, amavo il mare e tutto
quello che ne conveniva perché, se così non fosse
stato, soggiornare in Qatar
per alcuni giorni sarebbe stata una vera impresa.
Sapevo
già come preparare la valigia e la moltitudine di
costumi da bagno che vi sarebbero andati a finire perché,
sì, avrei lavorato,
ma nessuno mi avrebbe impedito di fare alcune scappate in spiaggia. Ma
dovevo
ancora parlare con Travis e non sapevo esattamente come fare.
Così telefonai
alla mia datrice di lavoro e le chiesi una mano e lei, credendosi
simpatica, mi
disse che la mattina seguente avrebbe mandato anche Simona alla piscina
di mio
padre per aiutarmi ad annunciare la lieta novella alla star del momento.
Proprio
l’aiuto che avevo tanto agognato.
Quella
fatidica mattina mi alzai malissimo, con un
macigno al posto della testa e la voglia di vivere sotto le scarpe. Se
dopo la
giornata al mare avevo il terrore di incontrare Travis, quel giorno non
sapevo
proprio cosa pensare.
Dopotutto
ero stata io a trascinarlo in quello stanzino,
ad avvicinarmi a lui e a fare il primo passo. In poche parole, avevo
paura di
come avrebbe reagito il mio corpo alla sua vicinanza. E anche di come
avrebbe
potuto reagire Travis. E di come avrebbe potuto interpretare tutto
quanto
quella Simona.
Ci
sarebbe stato da ridere, di sicuro, ma non per me. Ero
tesa come una corda di violino e, davvero, non avevo nessuna voglia di
andare a
quella maledetta piscina.
Avrei
volentieri mandato solamente quella biondina,
sarebbe stata perfettamente in grado di cavarsela da sola. Magari
Travis
sarebbe saltato addosso anche a lei.
In
ogni caso, di malavoglia, raggiunsi la piscina e, non
appena vidi mio padre, mi diressi verso di lui per spiegargli tutto
quanto.
Chissà cosa avrebbe pensato di Riccioli d’oro.
Mi
salutò allegramente come sempre, Claudio, e quando finii
di esporgli il programma della mattinata, non poté fare a
meno che risultare
ancora più felice.
Quell’uomo
era sempre e costantemente il ritratto della
felicità.
Poi
vidi Travis arrivare dal corridoio degli spogliatoi e
quasi mi venne un colpo. Mi raggelai seduta stante e smisi di ascoltare
i
discorsi di mio padre su quanto fosse felice di vedermi dentro quel
posto,
nonostante non fossi dentro una vasca. Non riuscii proprio ad ascoltare
un’altra parola: Travis mi aveva inchiodata con il suo
sguardo, un’altra volta.
Sembrava
aver avuto la mia stessa reazione, lui, il
ragazzo tutto d’un pezzo e, mentre sembrava che stesse quasi
per rivolgermi un
mezzo sorriso malizioso, si voltò di scatto verso la porta
d’entrata.
Seguii
il suo sguardo e scoppiai a ridere: capii
all’istante per quale motivo la sua attenzione si fosse
spostata con così tanta
velocità.
Simona
aveva fatto la sua entrata plateale, avvolta in un
paio di jeans attillati e in una camicetta azzurro cielo che, di
comodo,
sembrava aver ben poco. Il tutto completato con un meraviglioso paio di
decolleté nere e lucide.
Proprio
l’abbigliamento giusto per una piscina. No, lei
non era come me, in jeans larghi e strappati, Converse e felpa nera.
Eravamo
agli antipodi.
Riccioli
d’oro si guardò in giro per alcuni istanti con
uno strano sguardo soddisfatto negli occhi, come se stesse valutando
quale
preda sbranare per prima, poi mi vide e, se fossi stata una persona
normale,
quel sorrisone sincero che mi rivolse, l’avrei anche
apprezzato. Ma non ero
normale, ero me stessa ed ero una tra le persone più ciniche
del pianeta,
quindi quell’esposizione di dentatura bianca e perfetta mi
fece venire la pelle
d’oca.
Si
incamminò, Simona, verso me e mio padre, rivolgendo
sguardi ammiccanti e sorrisini subdoli ad ogni nuotatore che le
capitasse a
tiro e, dal mio punto di vista, la scena fu davvero fantastica: la
quantità di
mascelle cadenti che vedetti in quel momento mi fecero sbellicare.
“Non mi dire che la
tua collega è quella lì”,
disse mio padre a denti stretti, intento a fissare
Simona.
Gli
rivolsi una breve occhiata e notai, con estremo
piacere, la mia stessa espressione di sorpresa mista a disgusto.
“Ebbene si, ecco Riccioli
d’oro!”,
risposi velocemente, prima che la diretta interessante mi raggiunse
tutta
sorridente.
Restò
un secondo immobile, come per far imprimere nella
mia mente la sua figura alta e slanciata, dannatamente perfetta, poi
cominciò a
parlare q quasi rimpiansi quei secondi di quiete.
“Maya, che piacere
rivederti”, parlò con il suo tono quasi
stridulo.
Non
potei fare a meno di strabuzzare gli occhi e fingere
un sorriso, perché l’entusiasmo che
utilizzò mi spaventò non poco. “Simona… ehm, ciao”,
le risposi, poco
convinta. “Ti presento mio padre,
Claudio, l’allenatore di Travis”,
presentai mio padre cercando di cambiare
immediatamente discorso.
E
fu così che mio padre venne abbagliato dal sorriso
più
solare che vide in vita sua. Simona, di certo, sapeva come risultare
affabile e
disponibile. Forse un po’ troppo disponibile, ma questi
restavano futili
dettagli.
Si
strinsero la mano energicamente, senza distogliere lo
sguardo, prima che Riccioli d’oro cominciasse a parlare.
“Oh, ma io la conosco, ho letto
tantissime cose sul suo conto”,
cominciò ammirata. “È
davvero ammirevole
tutto il suo lavoro come allenatore, dopo una carriera florida come la
sua,
Claudio”. Sì, Simona ci sapeva fare,
senza dubbio. E la prova inconfutabile
era l’espressione allibita di mio padre che, per quanto
potesse sembrare facile
e alla mano, non si faceva mai prendere in giro da nessuno.
“Beh grazie mille,
Simona”, disse lui, sorridendo. “Apprezzo
davvero tanto ciò che hai detto”.
“Si, bene”, mi
intromisi, sbrigativa. “Ci siamo
conosciuti, ci siamo fatti i complimenti, ora possiamo arrivare al
nocciolo
della questione?”. Ignorai volutamente le loro
espressioni leggermente
sorprese, non avevo voglia di restare a fare il terzo incomodo, mentre
venivano
ripercorsi gli anni d’oro di mio padre. “Papà,
dov’è Travis?”.
“Sono qui”. Due
parole, una voce e mille brividi che mi percorsero la schiena. Quella
voce
risultava fin troppo dura da come la ricordavo. Ma, di certo, io la
ricordavo
in tutt’altro modo.
Non
osai voltarmi, quella volta: avevo imparato a spese
della mia sanità mentale quanto, la vista di Travis a torso
nudo, potesse
nuocere. Restai ferma immobile, esattamente lì
dov’ero ed attesi che quel
ragazzo si materializzasse al mio fianco.
Mi
concentrai sull’espressione di Simona che, di certo,
non nascondeva affatto l’apprezzamento verso Travis e tutta
la moltitudine di
muscoli che si portava appresso, anzi. La scena sarebbe stata quasi
comica, se
non mi fossi sentita così raggelata.
“Travis, finalmente”,
disse mio padre, cercando di rompere il ghiaccio che si era formato
dall’arrivo
della superstar. “Mia figlia deve
chiederti una cosa”, aggiunse poi.
Questa
me l’avrebbe pagata cara.
“Ah si?”,
chiese Travis, divertito, voltandosi verso di me. Quella finta
espressione
sorpresa gliel’avrei fatta volare via a suon di schiaffi
molto volentieri.
Maledetto.
“Beh
no, non solo io”,
risposi velocemente, cercando
di giustificarmi, ma senza rivolgergli uno sguardo. “Simona ed io dobbiamo chiederti una cosa”,
aggiunsi, indicando la
ragazza di fronte a me. E lei non aspettava altro.
“Sono Simona”,
esclamò, avvicinandosi velocemente a Travis, porgendogli la
mano che, lui, non
attese a stringere. “È
davvero un enorme
piacere conoscerti”, disse poi, civettuola
più che mai.
Quello
che accadde nei trenta secondi seguenti, non
riuscii a comprenderlo appieno, ma una cosa la capii
all’istante: la presenza
di mio padre e la mia divennero improvvisamente superflue.
Simona
e Travis si scambiarono occhiate che, normalmente,
definirei infuocate. Ma non in senso cattivo. Avrei volentieri proposto
di
accompagnarli allo stanzino delle scope perché, ormai ne ero
consapevole, era
un luogo decisamente più appartato per colloquiare, ma poi
avrei dovuto fornire
una serie di spiegazioni a mio padre che sarebbero risultate un tantino
scomode. Quindi, decisi di restarmene zitta, in attesa che le due
superstar la
smettessero di guardarsi come se fossero gli unici esseri umani sulla
faccia
della Terra.
“Ehm, bene ragazzi”,
cominciò mio padre, infrangendo, per mia fortuna, quei
secondi imbarazzanti. “Ora che,
finalmente, ci conosciamo, vogliamo
passare al nocciolo della questione?”. Non potei
fare a meno che apprezzare
quell’intervento.
Tale
padre, tale figlia.
“Si, beh…”,
cominciai.
“Allora, Travis…”,
disse Simona, sovrastando la mia voce. “Quando
cominciamo con le domande per l’articolo?”.
Di
certo quella ragazza andava dritta al punto ed era,
dovetti ammettere, una qualità ammirevole, ma pur sempre
fastidiosa.
Travis
rimase sorpreso: fu palese che non sapesse di cosa
si stesse parlando. E dovetti reprimere una risata perché,
quella sua
espressione leggermente spaesata, risultava davvero spassosa.
Soprattutto se
mista a quel ghigno da playboy che aveva stampato in faccia.
“Come, Simona?”,
le chiese.
“La mia direttrice
ti ha scelto per l’articolo di punta del numero di gennaio
della nostra rivista”,
rispose lei, tremendamente affabile. “Quindi,
io sono qui per domandarti quando saresti disponibile per poter
rispondere ad
alcune domande. E scusa il gioco di parole”,
aggiunse con una risatina.
Io
ero diventata improvvisamente inutile. Riccioli d’oro
pareva in grado di affrontare tutta la questiona con le sue sole forze,
dimenticandosi, involontariamente o no, della mia fondamentale presenza
per il
servizio fotografico che avrebbe accompagnato il suo maledetto articolo.
Un
po’ mi infastidiva questo suo voler mettersi in
mostra, ma dovevo ammettere, purtroppo, che Simona sapeva come fare il
suo
lavoro perché, era palese, aveva già conquistato
Travis. Con una semplice
occhiata.
E
mio padre doveva averla pensata al mio stesso modo
perché, dopo alcuni istanti, mi disse ad un orecchio:
“Che dici se ce ne andiamo? La tua
collega sembra avere la situazione in
pugno”.
Lanciai
un ultimo sguardo ai due davanti ai miei occhi,
lei perfettamente vestita e lui perfettamente svestito, poi presi mio
padre
sottobraccio e levai le tende insieme a lui.
Passò
quasi un’ora.
Un’ora
durante la quale io mi limitai a starmene seduta
su una sedia a bordo piscina a fare qualche scatto alle prime persone
che mi
capitavano a tiro.
Mio
padre di dimostrò fin troppo impegnato, infatti non
riuscì a tenermi compagnia nemmeno un momento. Non che mi
dispiacesse stare da
sola, sola con la mia bambina, ma dover assistere e dover ascoltare la
conversazione di Travis e Simona, poco distanti da me, di
rivelò un’ardua
impresa.
Avevo
capito quanto potesse risultare vuota e
superficiale, quella ragazza, ma le poche cose che riuscii a capire
dalla loro
conversazione, mi fecero venire la nausea. E questa, fu accentuata
dagli scarsi
tentativi di Travis di non pavoneggiarsi troppo e dai suoi tentativi di
flirtare.
Sì,
sarebbero stati una grande coppia, quei due.
Il
mix di battutine squallide, risate forzare e mani
poggiate su spalle e gambe, volontariamente, è ovvio, si
rivelò assolutamente inaffrontabile.
Poi
mio padre chiamò Travis all’ordine, dicendogli
che,
per quella giornata, aveva relazionato fin troppo con la nuova arrivata
e, dopo
un veloce saluto ammiccante, lasciò Simona
dov’era. E raggiunse me.
Piuttosto,
avrei preferito dover ascoltare un’altra ora
di conversazione.
“L’hai conquistata,
superstar?”, gli chiesi sarcastica.
Lui
scoppiò in una risata. “Sei
gelosa, Maya?”, chiese avvicinando il viso al mio
orecchio,
così da potersi far sentire solamente da me. “Tranquilla, il trattamento speciale lo riservo
solamente a te”,
disse poi.
Ed
in quel frangente la mascella cascò a me, non a tutti
gli atleti della piscina. La presunzione di Travis raggiunse livelli
epici.
Mi
sentii avvampare, sorpresa dalla sua stupidità, e non
mi disturbai nemmeno di non darlo troppo a vedere.
“Però se mi
schiaffeggia anche lei e mi fa cambiare idea, non ti garantisco
l’esclusiva”,
continuò lui. “Ah
sarà divertente questa
storia dell’articolo! E pensa quando saremo a Doha”.
Dovetti
reprimere l’istinto di mollargli un ceffone in
pieno viso, in quel caso non eravamo soli come quel giorno in spiaggia.
Ma
resistetti a fatica perché, la sfacciataggine che
mostrò in quel frangente, mi
fece finire il sangue alla testa e mi diede il voltastomaco.
Sì,
avrei preferito di gran lunga dover ascoltare una
conversazione tra lui e Riccioli d’oro!
“Sei uno stronzo,
Travis”, gli sibilai a denti stretti.
Ma
lui non batté ciglio, anzi, riuscii solamente a farlo
sorridere di più.
Dovevo
proprio essere uno spettacolo pietoso.
“Ci si vede, Maya”,
mi salutò infine, cominciando ad allontanarsi verso mio
padre. Poi si voltò
improvvisamente, attirando ancora la mia attenzione. “Non vedo l’ora!”,
aggiunse, con quel sorriso divertito che
cominciavo davvero a detestare.
Decisi
di allontanarmi dalla sedia su cui ero seduta fino
a poco prima per non avere a portata di mano oggetti contundenti da
lasciare a
quell’idiota.
*
Eccomi qua.. spero che il capitolo vi sia piaciuto!
Ora volevo regalarvi un piccolo, insignificante SPOILER del prossimo
capitolo.. spero che possa stuzzicare la fantasia durante l'attesa.
Alla prossima,
Chiara
P.S.
Come sempre.. GRAZIE A
TUTTE!
“Sei sicura di quello che fai?”, le chiesi in tono
tagliente.
Durante la giornata,
quella bambolina mi aveva fatto davvero girare le palle.
“Ma certo,
carissima”, continuò lei, come se
fossimo migliori
amiche. “Ho già in pugno
Travis, non
preoccuparti. Svolgerò io il lavoro pesante: tra poco
usciremo a cena”.
Ecco spiegato
l’abbigliamento
da prostituta.
|
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Capitolo 16 *** 15. Changes ***
Maya15
*****
“No, no e ancora
no!”, sbraito Riccioli d’oro da dietro la
sua postazione. “Maya, questi scatti
non vanno per niente
bene, penso che tu debba impegnarti di più”.
Pensava fosse facile, la
superstar di turno.
Già
era una sfida dover sopportare le continue risate
soffocate di Travis, il soggetto del giorno, in più dovevo
sorbirmi gli
insegnamenti da maestrina di Simona che, davanti al monitor al quale
arrivavano
tutti i miei scatti, se ne restava seduta ad impartire ordini e
nient’altro.
“Simona, nei
servizi fotografici si lavora in due: modello e fotografo”,
cominciai
acida. “E, dato che io faccio la
fotografa di professione, qua a sbagliare non sono io”.
Il
sorriso divertito sparì immediatamente dalle labbra di
Travis ed io potei ritenermi leggermente più soddisfatta.
L’idea
di Simona, per il servizio fotografico
dell’articolo, non poteva che ritenersi un orrore: un assurdo
e banalissimo
“trono” in primo piano con la piscina straripante
di atleti sullo sfondo. Un
orrore per nulla originale.
Il
caos che, in quella particolare mattina, regnava nella
piscina era assordante e la mia concentrazione era andata a farsi
benedire già
parecchi scatti prima, ma cercavo di non lamentarmi troppo: avevo due
superstar
alle calcagna pronte a rimbeccarmi. Il caos era dato anche
dall’assenza di mio
padre, quel giorno, e Roberto, per quanto fosse competente, non veniva
mai
visto come mio padre, non con la stessa autorità. E lui, il
mio caro Claudio,
non poteva scegliere giornata peggiore per non presentarsi.
La
mia testa stava scoppiando.
“Maya, non dire
queste assurdità, Travis sta facendo un ottimo lavoro!”,
disse Simona, con
venerazione.
Mi
voltai leggermente verso di lei, per congelarla con lo
sguardo, ma mi sorpresi a fissare Travis con sguardo ammiccante. E a me
non
poté che salirmi il voltastomaco.
“Se vuoi
sostituirmi, fai pure, Simona”, cominciai,
già con il sorriso sulle labbra.
“Di certo, qualche lavoretto con i
fiocchi lo riuscirai a fare”.
Solitamente
non ero mai così cattiva, ma quando le
battute mi venivano servite su un piatto d’argento non
riuscivo a resistere.
Come in quel caso.
Mi
voltai ancora verso Travis, ignorando l’espressione
stampata sul volto di Riccioli d’oro, e lo vidi sorridere
divertito, ancora una
volta. E pensare che, in quell’occasione, non stava ridendo
di me mi provocò
una strana sensazione, che accantonai in un secondo, tornando al mio
lavoro. O
almeno provandoci.
Attesi
ancora qualche minuto, scattai qualche altra
fotografia, ma sapevo benissimo che, quello squallore, avrebbe fatto
venire i
conati di vomito alla mia direttrice. E proprio non mi sembrava il
caso. Così
sbottai.
“Mi dispiace, ma
non ce la posso fare”, esclamai attirando
l’attenzione di entrambe le
superstar e di qualche altro atleta di passaggio. “Questo servizio è demenziale ed
è una vera schifezza! Ci serve qualcosa
di nuovo, di originale, non questo aborto”.
Vidi
Simona a dir poco contrariata e sorpresa per la mia
reazione, ma la ignorai per l’ennesima volta e continuai a
parlare. “Questa storia del trono
è assurda e a dir
poco pretenziosa, soprattutto se Travis torna da Doha senza aver vinto
nulla:
ci farebbe solo la figura dell’idiota e, ovviamente, noi non
vogliamo questo
per la nostra piccola e viziata superstar, vero!?”,
aggiunsi acida, come
stessi parlando al un bambino, fissano lo sguardo contrariato di
Travis. “E tu sai che ho ragione,
non fare tanto
l’offeso!”, dissi infine, puntandogli un
dito contro.
Sembrò
soppesare un momento le mie parole, per poi
alzarsi dal suo trono e raggiungermi. Probabilmente notò i
miei occhi sbarrati
perché si fermò a debita distanza. “Non
hai tutti i torti, Maya, non vorrei che saltasse fuori una cosa troppo
pomposa”,
disse sorprendendomi.
Travis
che dava ragione a me: era la fine del mondo,
altro che 2012!
Mi
fissò per alcuni istanti con sguardo indecifrabile,
come se stesse cercando di studiarmi, di leggere cosa mi passasse per
la testa,
e si rivelò anche abbastanza fastidioso.
Finché
non arrivò Riccioli d’oro a reclamare
spasmodicamente attenzioni. “Bene,
allora
cosa proponi di fare, genio?”, chiese lei, piccata.
Non si poteva proprio
farle una critica che, come previsto, partiva in quarta sulla difensiva.
Rimasi
un momento a pensare, a guardarmi intorno in cerca
d’ispirazione. Ero fatta così:
l’ispirazione per il mio lavoro la traevo dalla
gente, dalle loro parole, dai loro genti, dal non sapere che storia
abbiano
oppure che cosa pensino. Traevo ispirazione da qualunque forma vivente
mi
passasse accanto e, anche in quell’occasione, attendevo la
scintilla che
avrebbe innescato non so quale meccanismo nella mia testa.
“Non so perché, ma
ho la sensazione che oggi abbiano buttato più cloro del
dovuto, in acqua”.
Un
ragazzo passò accanto a Simona, in compagnia di una
ragazzine che, ad occhio e croce, non aveva più di
quattordici anni.
E,
come mi aspettavo, arrivò l’idea. Folgorante, un
fulmine a ciel sereno.
Non
sarebbe stato facile, ma sarebbe stato avvincente,
originale e avrebbe fatto colpo, assolutamente.
Sul
mio viso comparve un sorriso compiaciuto, mentre ero
ancora impegnata a studiare gli ultimi dettagli nella mia mente, e
nemmeno me
ne accorsi, se non per Simona che mi chiese cosa ci fosse di
così tanto
divertente.
“Non c’è nulla di
divertente, ma ho avuto un idea”, dissi raggiante,
guardandomi ancora in
giro, per analizzare tutte le prospettive e tutti i dettagli che mi
capitassero
a tiro: un gruppo di ragazzi che si dirigeva verso gli spogliatoi,
Roberto con
il fischietto tra le labbra, la ragazzine di poco prima pronta ai
blocchi di
partenza. Cercavo di memorizzare tutto perché, a costo di
lavorare tutta notte,
avrei trasformato il servizio fotografico in una storia vera e propria.
“Faremo il servizio fotografico
sott’acqua,
mentre Travis percorre la lunghezza della vasca, mentre si gira per
tornare ai
blocchi, mentre entra in acqua”, parlai a
macchinetta, fin troppo euforica
per la mia trovata. “E racconteremo
una
storia con le fotografie, la tua storia”, parlai
poi, rivolta a Travis. E
quasi mi parve di vedere il suo sguardo incupirsi di colpo, ma non ci
badai
molto, troppo impegnata a fabbricare dettagli ed idee malsane.
“E ci saranno anche altri scatti di
quando
saremo a Doha, dei tuoi allenamenti, della concentrazione prima della
gara e,
se ce ne sarà l’occasione, del momento della
vittoria”, conclusi,
sospirando quasi estasiata.
Seguii
il silenzio. Un lungo, imbarazzante, teso momento
di silenzio, durante il quale sia Travis che Simona mi fissavano con
sguardi
stupefatti e, probabilmente, leggermente spaventati.
Sapevo
di aver fatto centro, sapevo di aver trovato l’idea
giusta perché l’euforia che mi scorreva
all’impazzata nelle vene mi faceva
sentire davvero viva. Sapevo di aver ragione e non avrei permesso a
nessuno di
ostacolare il mio lavoro, nemmeno ai due palloni gonfiati che se ne
stavano
ancora impalati ad osservarmi come se fossi impazzita. Se avessi
dovuto, li
avrei costretti anche a forza, in qualche modo.
Poi
sul viso della superstar di turno, del mio soggetto,
comparve un sorriso. Quasi perverso, a dire il vero, e, in quel
momento, seppi
con certezza che Travis sarebbe stato assolutamente dalla mia parte.
Stranamente.
“Per quanto mi
costi ammetterlo, mi piace”, parlò
ancora con quel ghigno sul viso. “Per
una volta, hai avuto una buona idea,
Maya”, continuò, prendendosi gioco di
me. Tuttavia, ero troppo su di giri
per prestarci attenzione e per ribattere.
Non
attesi nemmeno il parere di Simona, poco mi
importava, e presi tra le mani il mio cellulare per comunicare
immediatamente
il cambio di programma alla mia direttrice. Nel frattempo, Travis
tornò in vasca,
lasciando una povera e piccola Riccioli d’oro immusonita e
con le braccia
conserte in un angolo vicino all’uscita: sembrava avercela
con il mondo intero,
solamente perché avevo surclassato la sua squallida idea di
Travis Re del
Mondo.
Il
trono si trovava ancora al suo posto, orribile ed
inquietante come sempre, e, non appena riuscii ad incontrare Roberto,
gli
chiesi se potesse farlo sparire di lì. In un batter
d’occhio, quell’abominevole
poltrona sparì dalla mia vista.
La
direttrice si mostrò entusiasta, davvero entusiasta
per la mia idea, e mi disse che, dal giorno seguente, mi avrebbe
fornito tutta
l’attrezzatura necessaria per il servizio fotografico. E non
potei che essere
ancora più su di giri: sapere di avere la
possibilità di lavorare con attrezzature
costosissime, all’avanguardia e decisamente più
funzionali della mia bambina,
mi fece quasi saltellare sul posto come una scolaretta.
Poi
vidi Simona parlare al telefono e pensai subito alla
nostra datrice di lavoro che le comunicava il cambio di programma
repentino. Di
certo, Riccioli d’oro non era contenta: lo si capiva
benissimo dal cipiglio che
le occupava il volto, dal piede che batteva a terra e dal broncio che
aveva
sulle labbra. La bambina non aveva ottenuto ciò che voleva
ed in quel momento faceva
i capricci.
Non
riuscii a trattenere una risata.
“Come ci si sente
ad aver avuto una buona idea?”.
Sussultai
appena sentii il respiro e la voce di Travis al
mio orecchio. E, non appena mi voltai, sconvolta, mi resi conto di
quanto si
fosse fatto vicino senza che io potessi sentirlo.
Proprio
non riuscivo a capire come facesse, con così
tanta naturalezza, a starmi vicino dopo… beh si, quello!
Avrei tanto voluto
avere la sua stessa sicurezza che tanto amava ostentare.
“Io ho sempre buone
idee, superstar, ma non metto mai gli striscioni in giro per farlo
sapere al
mondo”, risposi acida, guardandolo come se fosse
appestato.
Cercai,
con scarsi risultati, di non lanciare uno sguardo
al suo fisico tonico sapientemente ricoperto di gocce
d’acqua: tutta la mia
tempra e la mia decisione stava svanendo.
Poi
posai lo sguardo nel suo ed avrei preferito
continuare ad ammirare il suo corpo perché, quei suoi
maledetti occhi,
sembravano volermi scorticare viva. Erano pieni di quella che sembrava
passione, desiderio, una silenziosa richiesta che non riuscivo ad
identificare,
ma mi dissi che uno come lui non poteva voler niente del genere da una
come me.
Ed io non avrei fatto nulla per fargli cambiare idea,
perché, se sapevo una
sola cosa al mondo, ero certa sul fatto che Travis ed io avremmo dovuto
restare
a chilometri di distanza, per evitare di fare del male a noi stessi e
agli
altri.
“Beh…”,
cominciò con un sorriso malizioso in viso. “L’idea
di fermarmi per chiedere spiegazioni, quella volta è stata
davvero magnifica,
te lo concedo”, disse godendo della mia espressione
scioccata.
Sapevo
fin troppo bene a cosa alludeva e, se non fossero
state presenti tutte quelle persone, gli mollato un ceffone in pieno
viso.
Stavo
per rispondere per le rime quando, con mio estremo
disgusto, ci raggiunse Simona. “Sarai
contenta, Maya! Ora devo progettare l’articolo
dall’inizio”, cinguettò
scocciata. “I miei prossimi giorni
si
sono riempiti per colpa tua, grazie tante”,
aggiunse lanciandomi un’occhiataccia.
Trattenni
una risata, davanti ai suoi capricci da
adolescente, ma non riuscii a trattenermi dal prenderla in giro per vie
traverse. “Oh Simona, mi spiace!”,
cominciai, con finto rammarico. “Dovrai
sicuramente spostare tutti gli appuntamenti da estetista, parrucchiera
e tanti
altri! Che compito arduo”.
“Si, continua pure
a scherzare, tu, ma non immagini quanto sia difficile far combaciare i
miei
appuntamenti per tenermi libera qualche ora per la maschera di bellezza”,
si lamentò, lei.
Premetto
che, anche con le mie migliori intenzioni, io ci
ho provato. Ho cercato di non riderle in faccia e di non prenderla in
giro, ma
proprio non ce l’ho fatta ed è per questo motivo
che levai le tende
all’istante, lasciando la bambina capricciosa nelle mani di
un Travis a dir
poco stupefatto.
E
fu ascoltando i suoi lamenti che me ne andai
definitivamente da quel luogo, ne avevo fin sopra i capelli.
“Oh Travis,
difendimi tu, te ne prego: lei non capisce!”.
Avevo
ancora in mente la scena del giorno prima, i
lamenti ed i capricci di Simona, mentre me ne stavo seduta tranquilla
nella
sala d’attesa della direttrice della rivista.
Chissà perché avevo un sorriso
perfido stampato sul viso da ore.
Ero
stata chiamata lì per ritirare tutta
l’attrezzatura e
per spiegare in maniera più dettagliata le mie intenzioni
per il servizio
fotografico, ed ero felice come una bambina. Mi sentivo euforica e,
anche se
solo un po’, mi infastidiva quella sensazione, ma cercavo di
non badarci molto:
in quei giorni risultavo fin troppo contraddittoria.
Ero
persino riuscita a pensare che, tutto sommato,
l’esperienza con Travis ed i successivi campionati a Doha non
sarebbero stati
gli inferi, ma poi avevo scosso la testa in maniera decisa dicendomi
che la
stupidità di quella superstar non avrebbe avuto alcun limite.
Dopo
pochi istanti entrai nell’ufficio ed immediatamente
notai varie borse e sacche abbandonate ai piedi di una delle poltrone
degli
ospiti. Non stavo più nella pelle: dovevo testare e provare
tutta la nuova
attrezzatura.
“Maya, accomodati”,
disse la direttrice, con un vago sorriso in volto. “Bene, spiegami per filo e per segno questa tua
folgorante idea”.
Ed
io partii a macchinetta, senza quasi prendere respiro.
Le raccontai nei minimi dettagli le mie idee, la mia iniziativa e le
mie
intenzioni, spiegandole molto bene quanto non ammettessi intrusioni da
parte di
Simona: lei doveva solamente occuparsi dell’articolo. Il
servizio fotografico
spettava interamente a me.
“Beh, non puoi
pretendere che lei se ne stia con le mani in mano, mentre ti appropri
di tutto
il lavoro”,mi schernì, infastidita.
“Non voglio rubare
il lavoro a nessuno, ma questa idea, questo servizio mi sta a cuore
perché
proviene da me, nei minimi dettagli, e vorrei che ne uscisse fuori un
qualcosa
di straordinario”, le risposi, intenzionata a non
cedere davanti al suo
sguardo nervoso.
Poi
qualcuno bussò alla porta e, fortunatamente, la mia
datrice di lavoro distolse l’attenzione da me, esclamando un
“avanti” al
disturbatore di turno.
Riccioli
d’oro fece capolino sulla porta, cacciando nella
stanza la sua testa ricciuta e perfettamente acconciata. Una visione
poco
gradita, insomma, almeno a me.
“Oh Simona, entra,
ti stavo aspettando”, disse la donna davanti a me,
facendole cenno di
accomodarsi nella poltrona al mio fianco.
Dopo
che la bionda si fu sistemata, con le gambe
perfettamente accavallate, in una posa elegante, la direttrice si
decise
finalmente a parlare.
“Oggi ho deciso di
chiamare entrambe per mettere bene in chiaro le cose: non dovete fare
di testa
vostra!”, esclamò quasi arrabbiata.
“Apprezzo
le iniziative, le nuove idee, soprattutto se molto buone”,
aggiunse
lanciandomi uno sguardo leggermente compiaciuto, per poi tornare al suo
cipiglio innervosito. “Ma non
tollererò
altro: voi due, signorine, dovete imparare a collaborare
perché, lo ripeto, in
questo caso non ammetto errori o sbavature! Dovrà essere
tutto perfetto!”.
Il
suo tono di voce era a dir poco alterato, forse colpa
delle numerose ottave che aveva acquistato durante il discorso, ma la
cosa mi
restò impressa fu quanto facesse spavento, quella donna,
arrabbiata.
“Intesi!?”,
esclamò, infine.
“Intesi”,
rispondemmo in un coro flebile, Simona ed io, intimorite da tutto il
potere che
emanava la donna dalla parte opposta della scrivania.
“Bene, ora,
signorine, potete levare le tende”, disse poi,
chiarendoci il fatto che non
ci volesse più nel campo visivo.
In
un batter d’occhio feci piazza pulita di tutte le
borse messe a disposizione dalla direttrice e scattai verso la porta,
decisa a
mettere più distanza possibile da quel mostro di donna.
Appena
fuori dall’ufficio tirai un sospiro di sollievo,
poi cominciai ad incamminarvi verso l’uscita
dell’edificio, senza pensare alla
presenza di Simona che, tuttavia, dopo qualche istante mi raggiunse.
Restò
zitta per alcuni secondi, ma poi, con mio sommo
dispiacere, cominciò a parlare: “Dobbiamo
lavorare insieme, Maya”, mi illuminò lei.
“Complimenti,
Simona, quanto sei arguta”, le risposi acida.
“Non ci siamo
simpatiche, e questo è evidente, ma dobbiamo almeno cercare
di sopravvivere”,
disse fermandomi per un braccio e guardandomi negli occhi. “Tengo molto a questo articolo e, nonostante
sia costretta a lavorare con te, non permetterò che qualcosa
vada storto per
colpa tua”.
L’improvvisa
decisione che vidi nei suoi occhi mi
sorprese: sembrava una persona completamente differente, non la
Riccioli d’oro
tutta miele e zucchero che avevo conosciuto nei giorni precedenti.
Sembrava più
una pantera pronta ad attaccare, ad attaccarmi alla gola per paura che
le
portassi via la preda più ambita.
Il
fatto che, in quell’attimo, nella mia mente Travis
fosse divenuto la preda e non il predatore che ammalia con lo sguardo,
fu
alquanto ironico.
“Tengo molto a
questo lavoro anche io, Simona, se credi il contrario, mi spiace, ma
hai
sbagliato”, parlai sinceramente, continuando nei
miei passi, con ancora lei
alle calcagna.
“Dovremmo lavorare
a giorni alterni, almeno fino a Doha, sai”, disse.
E,
per quanto mi costasse ammetterlo, aveva ragione e,
quella, sembrava anche un’ottima idea. Già
lavorare solamente con Travis, di
per sé, si mostrava un’ardua impresa, se poi ci
aggiungevo il fattore “bella e
disponibile bionda”, la situazione diventava ingestibile.
Così le prestai
finalmente la giusta attenzione: “Ti
sto
ascoltando”, la guardai con gli occhi ridotti a due
fessure.
Sul
suo viso comparve uno strano sorriso, quasi sincero,
e mi spiazzò perché mi sarei aspettata di tutto,
tranne che un sorriso sincero.
“Bene, io vedrò Travis in
alcuni giorni e
tu in altri, così nessuna di noi intralcerà il
lavoro dell’altra e, forse,
salterà qualcosa di buono”, disse
esaltata più che mai. “Io
avrò le mie possibilità per l’articolo
e
tu avrai le tue per il servizio fotografico e per accordarci ci
sentiremo per
sms, così non saremo nemmeno costrette a parlarci”,
aggiunse poi, cercando
di mostrarsi simpatica.
Ci
pensai su, cercando di non pensare troppo a come,
almeno per quella volta, Simona avesse avuto una buona idea. Cercai di
far
finta di pensare alla sua proposta quando, in realtà, sapevo
già perfettamente
che avrei accettato e che non mi sarei mai lasciata scappare la
possibilità di
togliermi Riccioli d’oro dai piedi.
“Andata”,
sussurrai ancora incerta delle sue intenzioni.
Strabuzzai
gli occhi quando la vidi saltellare
leggermente sul posto, estasiata e felice: quella ragazza era a dir
poco strana.
Strana e bipolare.
“Perfetto Maya”,
disse con un sorriso. “Comincerò
io, così
tu avrai domani disponibile per poter fotografare Travis”.
Ecco
svelato l’arcano: lei aveva già programmato tutto
quanto. Sapeva che non avrei resistito e che avrei accettato la sua
proposta.
Sembrava,
ma non era affatto stupida!
“Sei sicura di
quello che fai?”, le chiesi in tono tagliente.
Durante
la giornata precedente quella bambolina mi aveva
fatto davvero girare le palle e quel suo repentino cambio di umore mi
aveva spiazzata.
Non volevo farmi prendere in giro da una come lei.
“Ma certo,
carissima”, continuò lei, come se
fossimo migliori amiche. “Ho
già in pugno Travis, non preoccuparti.
Svolgerò io il lavoro pesante: tra poco usciremo a cena”.
Ecco
spiegato l’abbigliamento da prostituta.
Non
avevo resistito! Appena arrivata a casa dalla
redazione mi ero impegnata a studiare la nuova attrezzatura che mi era
stata
data ed ero a dir poco euforica.
Avevo
a disposizione macchine fotografiche subacquee,
tradizionali ed una serie di obiettivi da migliaia di euro. E quasi mi
facevano
paura. Più di tutto, mi spaventava l’idea di poter
rovinare qualcosa, di poter
provocare anche solo un piccolo graffio a tutta quella meraviglia.
L’avevo
passata così, la sera, come una piccola nerd alle
prese con il suo nuovo videogioco. E un po’ mi infastidiva
quella mia
situazione, in particolare se continuavo a pensare a come, diversamente
da me,
Simone fosse impegnata. Certo, la compagnia che si era scelta lasciava
parecchio a desiderare, ma almeno non se ne stava segregata in casa a
pensare
al proprio lavoro del giorno seguente.
No,
non lo sembravo, ero una vera e propria nerd con il
giocattolo nuovo da studiare. Ovviamente senza dimenticare gli occhiali
ed il
pacchetto di biscotti per cena.
Mi
appuntai nella mente di cominciare a mangiare più cibi
sani.
La
mia autostima, già a livelli estremamente bassi, stava
calando a picco.
Il
giorno seguente chiamai mio padre per sapere quando
avrei potuto trovare Travis solo, ad uno dei suoi allenamenti, e per
mia
fortuna mi disse che quella sera lo avrei trovato alla piscina. Poi
quando mi
disse che lui, mio padre, l’unica nota positiva che avrebbe
migliorato la
serata che mi aspettava, non sarebbe stato presente… avrei
lanciato volentieri
il cellulare fuori dalla finestra. Proprio quella sera avrebbe avuto un
importante appuntamento.
Per
una cosa o per un’altra, quando si trattava di
Travis, la fortuna non era mai dalla mia parte. Tuttavia, mi misi
l’anima in
pace e, quando arrivarono le ventuno, decisi di avviarmi verso la
piscina,
piena di borse e borsoni come se mi fossi dovuta trasferire.
Arrivai
poco più tardi, sperando di non trovare l’auto di
Travis nel parcheggio. Speranza che svanì
all’istante non appena scorsi
nell’ombra la sua maledetta BMW metallizzata.
Mi
assalì l’idea di tamponare, sempre casualmente,
quell’ammasso di ferraglia, denaro e tecnologia, ma poi mi
resi conto che non
sarei stata credibile come angioletto innocente, così
lasciai perdere.
Mi
addentrai nel palazzetto, facendo meno rumore
possibile e, quando arrivai alla porta che conduceva alle vasche, la
aprii
lentamente.
Mi
guardai in giro attentamente, per colpa dell’ambiente
in penombra, poi vidi Travis in piedi al limite di uno dei blocchi di
partenza.
Inizialmente
non mi accorsi di nulla di strano, ma quando
mi concentrai maggiormente sullo sguardo di quel ragazzo, capii che
qualcosa
non andava: aveva gli occhi persi nel vuoto e, per quanto fosse lontano
da me,
Travis sembrava sul punto di scoppiare a piangere.
Per
un momento rimasi di sasso perché, quello che avevo
davanti a me, era dannatamente diverso dal solito Travis, ma poi mi
convinsi
che, la sua aria contrita, fosse solamente un gioco di luci e riflessi
dell’acqua.
Così
decisi di completare la mia entrata ad effetto. “Travis!”, sbraitai con tutta la
mia
forza.
E
la scena che vidi nei secondi successivi fu memorabile.
La
superstar alzò di scatto lo sguardo verso di me,
spaventato, poi lo vidi barcollare pericolosamente sul blocco di
partenza,
agitando convulsamente le braccia per cercare di mantenere
l’equilibrio, e
cadere rovinosamente in acqua. Ovviamente dopo aver urlato
un’imprecazione che
risuonò per tutto il palazzetto.
Ripeto,
la scena più memorabile di sempre.
Fu
impossibile evitarlo, così scoppiai a ridere
improvvisamente, appoggiando tutta l’attrezzatura a terra per
paura di
danneggiarla, con le troppe risate.
Risi
come una scema, con le braccia strette alla pancia
che doleva dall’intensità, come non facevo da
tempo, completamente incurante
dell’espressione omicida di Travis quando riemerse dal tuffo
improvvisato.
Mi
dovetti appoggiare alla porta d’entrata perché,
davvero, non mi reggevo in piedi per quanto stessi ridendo.
“Maya, sei
un’emerita idiota!”, gridò
Travis dall’acqua.
Sperava
di infastidirmi, lo avevo capito, ma le sue
parole non fecero altro che farmi ridere ancora più
sguaiatamente.
“Scusa, io…”, e
non finii nemmeno la frase che dovetti sedermi a terra. I crampi allo
stomaco
mi stavano uccidendo, non smettevo davvero più di ridere.
Nel
frattempo, intravidi Travis uscire dalla vasca a
afferrare un grande asciugamano che si passò sul corpo,
sempre bello come il
sole, ma nemmeno il suo fisico statuario riuscì a distrarmi
dalla mia continua
risata. Cominciò ad avvicinarsi a me, con quella che
sembrava la peggior faccia
da funerale.
Cercai
di darmi un contegno perché, se fossi stata al suo
posto, avrei scatenato il putiferio, ma avevo ancora in mente
l’espressione
spaventata della superstar un secondo prima di cadere in acqua.
Mi
sollevai da terra e mi rimisi in piedi, provando a
mantenere un’espressione seria e composta, ma il sorriso
divertito che avevo
stampato sul viso non voleva proprio andarsene.
Travis
si piazzò davanti a me, con le braccia incrociate
al petto fin troppo definito e l’asciugamano legato in vita.
Per
un momento pensai di cedere e di lanciarmi su di lui
perché, tutto in quel momento, mi urlava di seguire
l’istinto, ma evitai di
rendermi ridicola ancora una volta.
“Ti sei divertita
abbastanza?”, chiese, acido quanto un limone.
Dovetti
reprimere una risata prima di rispondere. “Scusami,
Travis, non volevo”, gli dissi,
poggiando le mani sui fianchi. “Ma
non ho
proprio resistito e non avevo idea che tu…”.
E
scoppiai ancora a ridere.
Travis
scosse la testa, contrariato, poi tornò ai blocchi
di partenza, forse pronto per allenarsi davvero.
“Quando hai finito,
fammi sapere, così capirò per quale assurdo
motivo sei qui”, gridò,
scocciato.
Dopo
alcuni istanti, finalmente, riuscii a tornare in me
e a smettere di sghignazzare, così recuperai tutti i miei
averi e mi incamminai
verso le solite sedie bianche poco distanti dai blocchi e dalla
superstar.
Riuscii persino a spiegargli il motivo della mia presenza, mentre mi
ignorava
candidamente, troppo occupato a prepararsi per le vasche successive.
“Quindi, cosa devo
fare?”, mi chiese all’improvviso,
infrangendo il momento di silenzio che si
era creato, senza, tuttavia, rivolgermi lo sguardo.
Faceva
ancora l’offeso.
Poi
pensai alla sua domanda e mi resi conto di non sapere
esattamente come rispondergli, perché non avevo la minima
idea di come
comportarmi e di come agire. Continuai a pensarci su, a cercare di
immaginare
cosa avrei fatto al posto di quel ragazzo, e gli risposi istintivamente.
“Sii te stesso”,
mormorai incerta, attirando la sua attenzione. “Fai
come se io non ci fossi, come se tu fossi solo ad uno dei tuoi
soliti allenamenti”.
Nel
frattempo avevo preso tra le mani una delle macchine
fotografiche tradizionali che mi aveva fornito la redazione ed avevo
perfezionato tutte le varie impostazioni, i livelli, in base alla
scarsa luce
che avevo a disposizione. Si, era davvero scarsa e soffusa, ma donava a
tutto
l’ambiente un tocco leggermente tetro. E mi piaceva da
impazzire.
“Devo essere me
stesso”, ripeté Travis leggermente
incerto sul da farsi.
“Si, Travis”,
risposi spazientita. “Cercherò
di
distrarti il meno possibile e prometto di non urlare più
così improvvisamente”,
aggiunsi con un sorriso tra il divertito ed il perfido. Sorriso che,
tuttavia,
scomparve alla vista del suo sguardo glaciale per lasciar spazio al
sorriso più
angelico che avessi in serbo.
Poi
lo vidi prepararsi quasi fosse ad una vera e propria
competizione e posizionarsi perfettamente ai blocchi di partenza. Ed io
non
persi tempo e cominciai a scattare e continua quando lo vidi tuffarsi
in acqua
e cominciare a percorrere la vasca a nuoto.
Camminai
lungo il bordo piscina, così da poter
inquadrarlo nel modo migliore e lo seguii con l’obiettivo
fino a quando non
terminò.
Se
la cavava dannatamente bene, dovevo ammetterlo, ed era
un piacere fotografare lui, le sue linee pulite che scorgevo durante le
bracciate ed il suo innato talento.
Era
odioso, bravissimo nella sua specialità, ma restava
comunque un idiota.
“Guardami”,
esclamai, mentre si arrampicava al lato corto della piscina.
E
lui si voltò verso di me, ancora gocciolante e con i
muscoli della schiena in bella vista. E per un fugace momento
dimenticai ciò
che dovevo fare, soprattutto quando mi rivolse lo sguardo
più sexy che gli
avessi mai visto negli occhi.
Ripresi
il controllo di me stessa, fortunatamente, così
scattai. Parecchie volte, per essere sicura di aver colto il momento
giusto.
“Bene, direi che
come inizio non è male”, mugugnai,
dirigendomi verso le altre borse che
avevo portato con me. Dovevo cambiare obiettivo e prenderne uno
più grande, in
modo da poter catturare più particolari dal volto di Travis.
“Continua pure, io
cercherò di fare il
possibile per non disturbarti”. Il mio tono di voce
aveva perso spessore,
fin troppo. tutta colpa di quei suoi maledetti occhi che si ostinavano
ad
osservarmi con troppa intensità, quasi volessero mangiarmi
viva.
Ero
rimasta voltata con le spalle verso Travis per tutto
il tempo, troppo impegnata ad armeggiare con tutta
l’attrezzatura che avevo
sotto gli occhi, e nemmeno mi accorsi di come lui si fosse
pericolosamente
avvicinato. Se non per la sua voce al mio orecchio.
“Ora cosa dovrei
fare, Maya?”, chiese in tono suadente, scostandomi
i capelli dalla spalla
sinistra, scoprendola.
Maledetta
me, quando ho avuto la brillante idea di
indossare una maglietta fin troppo larga che lasciava ben visibili
entrambe le
spalle e le clavicole.
Mi
irrigidii quanto una statua nel momento stesso in cui
lui cominciò a sfiorare la mia pelle con la sua mano, ancora
fredda e bagnata.
Il naso mi si riempì del forte odore del cloro.
Il
tocco di Travis era talmente delicato che, per un
istante, temetti di essermi immaginata tutto quanto, ma poi mi
afferrò il mento
con due dita e mi costrinse a voltarmi.
Quegli
occhi, quei suoi maledetti occhi talmente
indefiniti mi fecero tremare le ginocchia.
“Cosa devo fare,
Maya?”, sussurrò ancora, provocandomi un
brivido in un punto imprecisato
dentro di me. “Dimmelo”.
Cos’era
quella? Una muta richiesta per avere il mio
permesso per saltarmi addosso oppure erano solamente i suoi subdoli
modi per
stordirmi e confondermi le idee?
Davvero
non riuscivo a capire cosa stesse cercando di
fare e cosa stesse cercando da me, ma non sarei caduta ancora una volta
nella
sua trappola, per quanto sublime e peccaminosa potesse essere.
“Devi continuare ad
allenarti, Travis”, risposi in tono flebile,
abbassando lo sguardo dal suo.
Non disse nulla, ma si allontanò da me e si andò
a posizionare per l’ennesima
volta ai blocchi.
Tirai
un enorme sospiro di sollievo e, mentalmente, mi
strinsi la mano da sola per aver tenuto testa a quell’enorme
tentazione che
rappresentava Travis.
Non
mi sarebbe dispiaciuto togliermi qualche altro
sfizio, soprattutto con lui, perché lo avrei fatto con
piacere, ma ero finita
in quella situazione perché avevo del lavoro da fare e, di
certo, non mi era
passato di mente quanto fosse un perfetto idiota e nemmeno il suo
appuntamento
con Simona, la sera prima.
E
la mia non era gelosia, assolutamente, ma
professionalità lavorativa. Che avevo ignorato per ben due
volte, certo, ma
quelli erano dettagli.
Ricominciai
a scattare dal momento in cui Travis si tuffò
ancora in acqua e non lo persi di vista un momento, colta alla
sprovvista dalla
voglia di tornarmene a casa, nonostante avessi ancora gli scatti
subacquei da
fare.
Avrei
voluto fare tutto quanto in tempo record, così da
liberarmene il prima possibile: la vicinanza di Travis ricominciava ad
infastidirmi. Anche se il solo ricordo del suo tocco quasi gentile
sulla mia
spalla mi provocava brividi per tutto il corpo.
Decisi
di prepararmi per gli scatti sott’acqua, in modo
da poter scavalcare l’ostacolo più grande che mi
si presentava davanti.
Non
sapevo esattamente come comportarmi, era
un’esperienza completamente nuova per me, quella di dovermi
cimentare in scatti
simili. Per me rappresentava una sfida, soprattutto stare molto tempo
sott’acqua senza avere la possibilità di
respirare, ma ero intenzionata e
decisa a superarla. Perché ero fatta così: dovevo
continuamente superare me
stessa ed i miei standard.
“Maya, che stai
facendo?”, chiese Travis, sorpreso e quasi
allarmato, dopo aver terminato
la vasca. “Non pensavo di poter
avere un
effetto così… caloroso, su di te!”,
aggiunse con un sorriso beffardo sul
viso.
Semplicemente,
mi stavo spogliando, restando comunque in
costume che avevo sapientemente deciso di indossare sotto i miei abiti.
Di
certo, in acqua non potevo andarci vestita.
“L’effetto che tu
eserciti su di me è lo stesso che esercita un biglietto
aereo di sola andata
per l’Antartide”, scherzai piccata,
continuando ad armeggiare con la
macchina fotografica e scattando un paio di foto a Travis, intento ad
osservarmi attentamente. “Devo fare
gli
scatti subacquei, ricordi?”, chiesi, poggiando la
mano libera dalla
macchina fotografica sul fianco.
Lo
vidi distrarsi un momento, perdere la solita
espressione soddisfatta e superiore, ma giusto il tempo di un battito
di
palpebre, poi tornò il solito Travis.
“Allora accomodati”,
mi disse con fare malizioso. “Io non
aspettavo altro”. Ed il suo ghigno non fece che
allargarsi quando vide la
mia espressione scioccata. Ma non avevo di dargli alcuna soddisfazione.
“Attento, Travis”,
lo avvisai. “Siamo soli e non
c’è nessun
testimone: sarebbe un gioco da ragazzi commettere un omicidio senza
lasciare
tracce”.
Il
suo viso sorpreso rappresentò, per me, una ricompensa
sufficiente.
“Quanto sei crudele”,
borbottò.
Mi
avvicinai alla piscina, incerta se continuare con
quella pazzia oppure no e, non appena avvertii l’acqua fredda
sulle dita dei
piedi, mi maledissi per la mia stupida determinazione a voler portare a
termine
quel lavoro.
Poggiai
la macchina fotografica al bordo, ignorando il
ghigno di Travis, poco distante da me, e mi buttai di getto in acqua,
pensando
che sarebbe stato più semplice sopportare il freddo.
Ed
in quel momento riuscii a comprendere quanto la mia
pazzia fosse giunta alle stelle.
Nonostante
la sensazione di pace che mi invase, sentendo
solo silenzio e leggerezza, non potevo ignorare il freddo che mi
attaccò ogni
centimetro di pelle. Restai un momento completamente
sott’acqua, cercando di
abituarmi seppur in minima parte alla temperatura dell’acqua,
poi tornai in
superficie, passandomi le mani sul viso e sui capelli.
“Le tue entrate ad
effetto sono di una delicatezza incredibile”, mi
prese in giro la superstar
che, nel frattempo, era rimasta comodamente poggiata al bordo della
piscina.
Mi
costrinsi controvoglia a raggiungerlo, solamente
perché la macchina fotografica era accanto a lui.
“Sono sorprendenti,
lo so”, dissi, nuotando. “Ti
fanno
capitolare a terra oppure, nel tuo caso, in acqua”,
aggiunsi con il sorriso
angelico di poco prima.
Travis
si comportò come se non avesse udito una parola,
facendo perfettamente l’indifferente, anche se, nei suoi
occhi, di indifferente
c’era ben poco. Aveva lo stesso sguardo sexy e famelico che
mi aveva rivolto
durante gli scatti di tempo prima e, nonostante ci avessi provato con
tutte le
mie forze, non riuscii ad ignorarlo.
Così
fissai i miei occhi nei suoi e, per alcuni istanti,
restammo così: poggiati entrambi al bordo della piscina, a
pochi centimetri di
distanza e in attesa della prima mossa dell’altro.
Attesa
che svanì nell’istante in cui Travis si
allontanò
verso il centro della vasca a nuoto. Lo ringraziai mentalmente per la
sua
piccola fuga.
“Ed ora che devo
fare, fotografa?”, chiese, stranamente, senza un
briciolo di ironia.
“Se non ti
infastidisce, ora fai un’altra vasca”,
dissi, accendendo la macchina
fotografica. “Io cercherò
di riprendere
qualcosa sott’acqua, mentre passi”.
E
mentre lui si dirigeva verso i blocchi di partenza, io
cominciavo la mia discesa verso il fondo della piscina, della corsia
che
avrebbe occupato la superstar.
Fortunatamente
Travis ebbe l’accortezza di partire
immediatamente, evitandomi una permanenza troppo prolungata senza
respirare e,
con mia grande sorpresa, riuscii persino a fare alcuni scatti: a lui
che
entrava in acqua, che percorreva tranquillo la lunghezza della vasca
prima in
un punto poi in un altro, a lui che si girava per poter tornare
indietro.
Poi
cominciai la mia risalita, a corto d’ossigeno.
Incontrai
la superstar appena tornai in superficie, quasi
mi stesse attendendo. “Tutto bene?”,
chiese.
Ed
io pensai di aver ingerito fin troppa acqua, di aver
respirato fin troppo cloro perche lui
non poteva davvero aver fatto quella domanda a me.
Mi
scrollai dal viso l’acqua e lo fissai sottecchi,
cercando di scorgere una scintilla di ironia, ma non riuscii a trovare
nulla se
non pura sincerità. E la cosa mi irritò non poco.
“Si, sto bene”,
risposi, nuotando verso il bordo piscina.
Controllai
bene gli scatti e, con fin troppa delusione,
mi resi conto di quanto fossero poco speciali, nonostante fossero i
primi.
Certo, non era stato facile per la prima volta, ma mi aspettavo
comunque
qualcosa di meglio. “non vanno bene
questi scatti, Travis”, esclamai, nervosa.
“Dobbiamo riprovare”.
Ed
andammo avanti in quel modo per almeno altre sei o
sette volte.
Persi
il conto delle imprecazioni che partirono a me e di
quelle che mi rivolse la superstar, mi affaticai come mai, forse colpa
dei
troppi biscotti, e mi innervosii ancora di più quando, a
fine serata non avevo
ancora nulla di davvero speciale tra le mani.
Volevo
che gli scatti subacquei fossero il pezzo forte di
tutto quanto, già mi immaginavo una delle mie fotografie a
pagina intera con un
bel titolo ben visibile, ma di quel passo sarei arrivata a gennaio con
un pugno
di mosche.
Uscii
dalla piscina, sollevandomi con le braccia sul
bordo e corsi a prendere l’asciugamano che mi ero portata
appresso per
coprirmi. Con orrore, quando controllai il cellulare, notai una
chiamata persa
da Simona, una da mio padre e l’orologio che segnava quasi le
ventitre e
trenta.
Avevo
passato più di due ore lì dentro.
Con
il telo sulle spalle, cominciai a raccattare tutte le
mie cose in silenzio, senza prestare caso a Travis che aveva seguito la
mia
idea di levare le tende.
Mi
sentivo terribilmente abbattuta, sia per le sensazioni
contrastanti che combattevano dentro di me, sia per lo scarno risultato
di
quella sera. Avevo faticato per più di due ore producendo
davvero materiale a
dir tanto mediocre e mi detestavo per questo. Non ero il tipo di
persona che si
lasciava abbattere da situazioni simili, ma non riuscivo a trovare la
nota
positiva che sarebbe stata in grado di farmi cambiare il giudizio della
serata.
Proprio
non capivo per quale motivo me la stessi
prendendo tanto con me stessa. E, probabilmente, Travis
intuì qualcosa dai miei
modi rabbiosi di sistemare tutti i miei averi, di mettere al sicuro
l’attrezzatura, di passarmi il telo sulla pelle, di
rivestirmi e di legarmi i
capelli ancora umidi sopra la testa.
Si
avvicinò a me, sempre silenziosamente, e sussultai
quando mi afferrò delicatamente un polso. Troppo
delicatamente.
Presi
un profondo respiro e sollevai lo sguardo sul suo
e, per poco, non mi cedettero le gambe.
Non
riuscii ad interpretare appieno la sua espressione,
mentre mi osservò, ma l’unica cosa che riuscii a
comprendere fu quanto mi
fecero tremare i suoi occhi. Ancora una volta.
Tuttavia,
in quell’occasione era diverso: non sembrava
voler fare lo spaccone e nemmeno farmi salire i nervi a fior di pelle,
ma non
riuscii a capire cosa volesse fare.
Mi
voltò lentamente e mi trovai di fronte a lui, poi mi
poggiò le mani sulle spalle e non potei nascondere il
brivido che mi percorse
la schiena e che mi fece venire la pelle d’oca sulla pelle.
Il mio corpo si
dimostrò un infame traditore.
“Maya, non pensarci
troppo”, cominciò lui ed io non nascosi
la mia sorpresa, quando intuii a
cosa si riferisse. “Questa sera non
è
andata benissimo, ma avrai sicuramente altre occasioni e, per quanto mi
fai
innervosire, sono sicuro che riuscirai a fare un ottimo lavoro”.
Rimasi
spiazzata, completamente.
Un
discorso simile me lo sarei aspettato da chiunque,
tranne che da Travis. Proprio lui che, inizialmente, non aveva fatto
altro che
ostacolarmi comportandosi da emerito stronzo. Ma in quel momento mi
parlò come
se fosse il mio migliore amico, come se fosse davvero la persona giusta
per
confortarmi, e ci rimasi di sasso. Soprattutto quando mi resi conto
che, in uno
strano modo, le sue parole mi erano servite e mi avevano colpito tanto
a fondo
da pensare che fossero vere e sincere.
Per
uno stupido ed insignificante momento mi fidai di
lui, pensando a quanto avessi lo avessi giudicato male. Poi quel
momento passò
ed io tornai la scorbutica ragazza di sempre, quella che non riesce mai
a
fidarsi di nessuno, e mi allontanai di un passo da lui, interrompendo
il
contatto che aveva creato con le sue mani sulle mie spalle.
Lo
osservai un momento, dandomi della stupida per aver
pensato che, nel suo sguardo, ci fosse un briciolo di delusione, poi
cominciai
a prendere tutti i miei borsoni sulle spalle in religioso silenzio.
“Chiederò a mio
padre il programma dei tuoi allenamenti, così
potrò venire per terminare il
lavoro”, dissi dopo alcuni istanti, senza avere il
coraggio di rivolgergli
uno sguardo.
Così
mi incamminai verso l’uscita, senza degnarlo di
un’occhiata, di un saluto, senza fare niente di eclatante.
Ero troppo codarda
per averne il coraggio.
Non
ero in me, lo sentivo, e la cosa migliore che potessi
fare era battere in ritirata perché non avrei risposto delle
mie azioni. Per l’ennesima
volta.
Non
ero in me quando, a metà strada tra lui e
l’uscita,
mi spuntò sul viso una specie di piccolo sorriso e, di
certo, non ero in me
quando lasciai tutte le borse a terra e tornai a passo deciso da Travis.
E
certamente non ero in me quando mi sollevai sulle punte
dei piedi e lo baciai.
Decisamente,
non ero in me.
Lui,
dopo un momento di sorpresa e sconcerto, rispose al
mio bacio, forzandomi le labbra per avere libero accesso alla mia
bocca. E non
riuscii a reprimere quel brivido che mi percorse la schiena,
soprattutto quando
poggiò le mani sui miei fianchi delicatamente, quasi mi
potessi rompere in
mille pezzi.
Poi
mi allontanai leggermente da lui, interrompendo il
contatto delle nostre labbra, per paura di andare oltre e di non
riuscire a fermarmi.
E non osai nemmeno guardarlo in faccia quando, sulle labbra, gli
sussurrai il
più imbarazzato grazie
che avessi mai
detto.
E
dopo la mia ennesima mancanza di professionalità, mi
defilai. Recuperai per l’ennesima volta tutte le mie borse e
scappai da quel
maledetto posto e da quel maledetto ragazzo che, con fin troppa
facilità, si
ostinava a mandarmi in tilt il cervello.
Doveva
per forza essere così perché, altrimenti, non mi
sarei mai comportata in quel modo. E dico mai.
No,
non ero proprio in me. Nemmeno quando mi infilai in
macchina, pronta per tornare in macchina, con le guance a fuoco e la
testa che
girava vorticosamente.
*
Questa volta, stranamente,
non ho nulla da dire.. solo che ho pubblicato un capitolo
più lungo del solito, che sono stata quasi puntuale e che,
il prossimo capitolo, dovrebbe essere un POV di Travis!
Spero che vi sia
piaciuto questo papiro e, se mi fate sapere che ne pensate, mi farebbe
piacere! Sono aperta a qualunque tipo di critica!
E, ovviamente,
ringrazio tutte: dal seguito a chi ha abbastanza coraggio da recensire
questa storia e anche a chi legge silenziosamente! Grazie di cuore!
Alla prossima,
Chiara.
|
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Capitolo 17 *** 16. Travis' POV - Doha.. we're coming! ***
Maya17
*****
Non ero nervoso,
rischiavo di essere internato in un ospedale psichiatrico, ma non ero
nervoso.
Pensare che, nel giro
di ventiquattro ore, sarei partito per il patibolo, per Doha, mi
addossava un
tale carico di agitazione e nervosismo da serrarmi lo stomaco.
Avevo preparato tutto
l’occorrente un paio di giorni prima ed avevo perso il conto
delle volte in cui
avevo ricontrollato tutto, mi ero allenato come un pazzo in quegli
ultimi
giorni ed avevo paura di arrivare al momento della gara troppo
affaticato per
potercela fare. Avevo una paura fottuta.
In tutta la mia vita
avevo sempre cercato di mantenere i nervi saldi, in ogni situazione,
ma, per
quanto ne abbia passate di cotte e di crude, a quella non ero per nulla
preparato.
Se stavo impazzendo
c’era un motivo e la visita improvvisata di mia madre, poche
ore prima della
partenza, non mi aveva di certo aiutato.
Speravo di poter
partire senza dover pensare ad altro che alla competizione, ma quando
si era
presentata a casa mia, fingendosi quasi una vera madre, avevo visto le
mie
speranze crollarmi davanti agli occhi.
“Ciao tesoro”,
esclamò, quando aprii la porta. “Ma
perché le cose le devo sempre scoprire dagli altri?”,
aggiunse,
entrando a casa mia. Senza un briciolo di invito, tra l’altro.
Presi un profondo respiro,
cercando di non perdere il controllo, caricare mia madre in spalla e
buttarla
fuori dalla porta. Non sarebbe stato carino.
La seguii per il mio
appartamento e la vidi sedersi aggraziata sul mio divano, come faceva
sempre,
accavallando le sue gambe perfette.
Sono le undici di sera quando
mi alzo ed esco da camera
mia.
Non
riesco a dormire, non faccio altro che girarmi da una
parte all’altra nel letto. Ho già problemi con il
sonno a soli nove anni.
Mi
aggiro in casa mia, seguendo la luce che arriva dal
salotto, facendo finta che tutto quel buio non mi faccia paura, e
arrivo
all’entrata della stanza.
Ho nove
anni, non dormo ed ho paura del buio, è normale
che abbia bisogno di…
“Mamma”.
E la
donna di fronte a me, al di là del divano, si volta,
con una tazza di tè in mano. Stava guardando fuori dalla
finestra.
“Travis,
tesoro”, dice, poggiando la tazza sul tavolo da
pranzo. È così piccola, questa casa, che tutto
è così vicino e ammassato che
quasi non si passa. “Che fai ancora sveglio?”, mi
chiede e si avvicina a me,
spettinandomi i capelli.
Alzo
gli occhi e la guardo ed è la mamma più bella del
mondo, la mia. Ed i suoi occhi sono così limpidi e sinceri
che mi fanno sentire
il bambino più importante del mondo. Ed il suo sorriso mi
tranquillizza,
all’istante.
Mi
prende per mano e mi accompagna al divano, dove si
siede accanto a me ed accavalla le sue gambe perfette. È
sempre così elegante,
la mia mamma.
“Mamma,
non riesco a dormire”, mi lamento e mi stropiccio
gli occhi che cominciano a bruciare.
Lei mi
passa un braccio intorno alle spalle e mi stringe
a sé ed io circondo con forza la sua vita con le mie. Non
dice niente per
alcuni minuti, si limita a cullarmi ed io non le chiedo altro
perché sto già
meglio.
Sapevo
che la mia mamma avrebbe risolto qualsiasi problema.
“Travis,
devi andare a dormire”, mi dice, lei, con quel
suo strano accento. Mai strano quanto quello della nonna: lei parla ed
io non
capisco proprio nulla. “Domani devi andare a
scuola”.
“Ma
non ci riesco!”, insisto, io. Ed è vero: non so
perché, ma non riesco a dormire. “Non è
che sono malato, mamma?”, le chiedo,
già più agitato.
Lei
scoppia a ridere, scioglie il nostro abbraccio e si
alza dal divano. E vorrei tanto che non l’avesse fatto
perché ho bisogno della
stretta della mia mamma, anche se la sua risata mi piace tanto.
“Non
dire stupidaggini”, dice, andando verso la cucina.
“Facciamo una cosa, Travis: aspettiamo insieme il ritorno di
tuo padre e, nel
frattempo, beviamo un po’ di tè, ti va?”.
La vedo
armeggiare con un pentolino d’acciaio e la mia
tazza colorata. E dopo poco me la porge, piena di un liquido scuro e
caldo.
Ha un
buon profumo.
“Che
cos’è, mamma?”.
“Si
chiama Earl Grey, tesoro”, mi dice prendendo la sua
tazza dalla tavola e facendo cin cin con
la mia.
Poi si
sente il rumore della chiave nella porta di casa
che, dopo un secondo, si apre, facendo entrare una folata di vento
insieme a…
“Papà!”,
urlo lasciando la tazza alla mamma, poi corro
verso l’ingresso.
Mi ripresi dal mio momentaneo distacco dalla
realtà perché, ovviamente, la donna che avevo
davanti agli occhi in quel
momento non era la stessa donna che mi aveva cresciuto i primi anni.
Decisamente, la bambolona tutta botox e trucco esagerato non era quella
che
avevo conosciuto come madre.
“Sei
venuta per altri soldi?”, le chiesi, cominciando a
perdere le staffe. Di
certo, sapeva bene come fare ad irritarmi: non mi degnò di
uno sguardo, troppo
occupata a guardarsi in giro e ad accarezzarsi i capelli, nemmeno
fossero un
cucciolo.
“Che
cosa vuoi, Tanya!?”, sbottai, fuori di me.
Lentamente, spostò
l’attenzione su di me e mi
scrutò con sguardo glaciale. Espressione che non vedevo da
parecchio tempo, ma
non mi feci intimorire: avevo smesso di avere paura di mia madre da
parecchi
anni.
“I tuoi
ventisette anni non ti danno il diritto di urlarmi contro in questo modo”,
mi disse gelida. “Resto sempre tua
madre”.
Quasi le risi in faccia per
l’assurdità di ciò
che aveva detto, ma cercai di trattenermi. Tuttavia, non riuscii a
frenare le
parole che uscirono di getto dalla mia bocca. “La
donna che ho davanti agli occhi non è mia madre, non
più”.
E
mi
sorpresi di quanto suonai convincente, persino alle mie orecchie. Non
le avevo
mai detto una cosa simile, ma mi sentii stranamente bene, come se mi
fossi
tolto un grosso peso dallo stomaco.
Il colpo andò a segno. Lo capii
dall’espressione scioccata che le comparve sul volto, seguito
da quello che
parve dispiacere, ma non ebbi il tempo di prestarci troppa attenzione:
avevo
ancora molte, troppe, cose da preparare.
Mi diressi verso la porta d’ingresso e la
aprii, scostandomi dall’entrata e guardandola insistentemente
in una, non
proprio, muta richiesta di levarsi di mezzo. “Ed
ora ti pregherei di andare via”, cominciai,
ignorando
volutamente l’occhiata che mi rivolse. “Ho
una competizione da vincere e, con la tua presenza, non riesco a pensare”.
La vidi alzarsi dal divano e raggiungermi con
calma, facendo risuonare i suoi tacchi a spillo per il mio
appartamento. Mi si
piazzò davanti, osservandomi attentamente con quel mare che
aveva negli occhi,
prima di rivolgermi una specie di sorriso.
“Ho
sempre invidiato la tua determinazione, Travis: mi ricordi tanto tuo
padre, a
volte”.
E quelle parole mi spiazzarono. Scaraventarono
via ogni corazza che avevo deciso di erigere in sua presenza e crearono
una
voragine tanto profonda dentro di me che mi chiesi con quale forza
riuscii a
non crollare.
“Buona
fortuna, tesoro”.
Se ne andò. Non una parola di
più, non un
gesto, non un tocco. Levò le tende dopo aver sganciato la
bomba.
Tempismo. Maledetto tempismo.
Se quella donna non fosse piombata nel mio
appartamento poco prima della partenza, io non sarei stato uno straccio
in
aeroporto.
Mia madre non era mai stata maestra di
tempismo come in quel momento. E pensare a come mi ero lasciato
impressionare
da lei, con fin troppa semplicità, mi infastidiva come non
mai.
Sapeva fin troppo bene quali tasti premere,
quella donna. Per quel motivo, il giorno della partenza, raggiunsi
Claudio ed i
pochi già arrivati con una da funerale. Vidi sul viso del
mio allenatore
un’espressione interrogativa e compresi che avrebbe voluto
sapere il motivo del
mio malumore, ma con un gesto della mano, gli feci intendere che non
avevo per
niente intenzione di parlarne. E
lui,
fortunatamente, lasciò perdere e tornò a
concentrarsi sul giornale che aveva tra
le mani.
Mi sedetti accanto agli altri due atleti di
Claudio che avrebbero gareggiato con me, Luca e Michele. Non mi erano
particolarmente simpatici, in realtà nella squadra del mio
allenatore poche
persone mi andavano realmente a genio, ma mi piaceva far credere a
tutti il
contrario.
Entrambi mi rivolsero un leggero cenno con il
capo e, almeno, capii di non essere l’unico in stato pietoso
per l’ansia e la
paura. Il morale mi si risollevò leggermente.
In quel momento, da solo, con i miei compagni
ed il mio allenatore, mi resi finalmente conto di quanto fossi
solamente ad un
passo dalla realizzazione di un sogno. Mi resi conto di quanto
sembrassero
assurde ed insignificanti le paranoie che mi ero fatto fino a qualche
istante
prima, a causa di mia madre, e mi resi conto di come, in
quell’occasione ed in
quei giorni, avrei dovuto escludere tutto il resto del mondo dalla mia
bolla di
vita personale.
Ed ero intenzionato a farlo, perché
volevo
dimostrare davvero qualcosa, il mio valore e la mia determinazione. Lo
dovevo
più a me stesso che alle altre persone, perché mi
ero spaccato la schiena,
perché avevo lavorato come un ossesso, perché
volevo vincere e sapevo di
potercela fare.
Così misi le cuffiette alle orecchie e
sparai
la musica al massimo volume. E quella bolla di pseudo
tranquillità e pace si
creò intorno a me, escludendomi da tutte le chiacchiere ed i
rumori che
potevano trovarsi all’aeroporto di Fiumicino.
Poggiai i gomiti alle ginocchia e mi presi la
testa tra le mani, chiudendo gli occhi e cercando di scacciare quella
fastidiosa sensazione di nervoso ed agitazione che sembrava volermi
divorare le
viscere perché, l’ultima cosa che avrei dovuto
fare, sarebbe stata farmi
prendere dal panico. E non dovevo, altrimenti sarei stato capace di
mandare al
diavolo tutto e tornarmene a casa.
Continuai a tenere le palpebre serrate e a
concentrarmi sulle parole della canzone che passava nella mia testa in
quel
momento. Nothing else matter dei Metallica.
Forever
trusting who we are
And
nothing else matter
Fu quando sentii quelle parole che mi resi
conto di essere in possesso di tutti I mezzi necessari per potercela
fare.
Avevo un’occasione, una dannatissima occasione, ero bravo e
sapevo fino a che
punto potermi spingere, non avevo molta gente che credesse in me, ma
avevo
Claudio e mi bastava perché, sapevo, almeno era sincero.
Ma nonostante quello continuavo ad avere una
paura fottuta.
Poi qualcuno bussò alla mia spalla e la
mia
bolla di tranquillità scoppiò
nell’istante stesso in cui aprii gli occhi e mi
trovai davanti una cascata di boccoli biondi ed un paio di occhi scuri.
Simona.
Era tutta sorridente, fresca come una rosa e
sembrava appena uscita dal salone del suo parrucchiere di fiducia. In
una
parola, perfetta.
Si, era davvero perfetta e molto bene,
così
tanto che, i suoi atteggiamenti altezzosi e leggermente svampiti,
risultavano
quasi comprensibili ed accettabili. Poi quei jeans neri che indossava
mettevano
in risalto le sue gambe. E che gambe… dannatamente perfette
anche quelle.
Mi chiesi come potesse stare comoda con un
abbigliamento così attillato e le scarpe con il tacco a
spillo.
Tra viaggi aerei e scali, saremmo stati
sballottati in giro quasi quindici ore. Forse fu per quel motivo che
non
riuscii a comprendere quei suoi abiti, ma non mi lamentai: in fin dei
conti,
era un gran bel vedere.
Mi tolsi le cuffiette dalle orecchie e,
sinceramente, vorrei non averlo fatto perché, quella
ragazza, cominciò a
parlare a macchinetta.
“Travis,
che piacere”, cominciò, tutta raggiante.
“Non sarai agitato, vero? Insomma,
essere nervosi è normale, da deboli,
ma è normale. E tu non hai bisogno del nervosismo: sei forte
e scommetto che
porterai a casa la medaglia più importante”.
Parlava, dannazione quanto parlava. E anche
veloce, talmente veloce che, a volte, faticavo a starle dietro.
Si accomodò sulla sedia libera al mio
fianco
ed accavallò le gambe. Ed un moto di rabbia mi
salì fino al cervello.
“Allora
sono un debole, Simona”, risposi, spazientito.
“Mi spiace deludere le tue
aspettative”.
Non le diedi nemmeno il tempo di rispondermi
che già mi ero infilato di nuovo le cuffiette alle orecchie.
Era strana, quella ragazza.
Ostentava la sua sicurezza in maniera
esagerata, dimostrandosi spesso terribilmente fastidiosa, ma durante la
cena
che avevamo condiviso era stata diversa. Non era stata antipatica
oppure
insistente ed egoista, ma leggera, sopportabile e quasi carina. Ed
avevamo
parlato, nel modo più tranquillo possibile.
Avevamo parlato tanto e di argomento
così
insignificanti che nemmeno me li ricordavo, ma era stato piacevole.
Stranamente
piacevole.
Poi era giunta in aeroporto come un tornado,
spazzando via la mia bolla di pace, tra l’altro, e aveva
gettato tutto in
malora.
Nel frattempo era arrivato anche Roberto, il
collaboratore di Claudio, e quando vidi arrivare anche il secondo
tornado della
truppa capii che nessuno mancava all’appello.
Se speravo di recuperare un briciolo di
tranquillità, mi sbagliavo di grosso e lo compresi quando
riconobbi Maya tra la
folla presente in aeroporto. Grazie anche a quel suo trolley verde
lime,
probabilmente più pesante di lei, che si portava appresso:
risultava difficile
passare inosservata.
Distolsi immediatamente lo sguardo da lei,
concentrandomi sulla playlist del mio iPod e sul brano seguente da
ascoltare;
non avevo intenzione di avere a che fare con lei, di parlare. Preferivo
recitare la parte dell’indifferente, nonostante fossi sempre
stato un pessimo
attore.
Non so esattamente quanto tempo passò,
ma dopo
aver deciso di ignorare completamente Maya, vidi Simona alzarsi dal suo
posto
accanto al mio e,
ovviamente, ebbi la
pessima idea di seguirla con lo sguardo. La vidi avvicinarsi al piccolo
tornado
e cominciare a parlare, probabilmente di lavoro, quindi di me, optai
infine.
Non avrei voluto soffermarmi tanto a
guardarle, a notare la differenza tra le due ragazze, come potessero
apparire
agli opposti. Una vestita di tutto punto e con i tacchi vertiginosi e
l’altra
con i jeans strappati, una t-shirt bianca ed una camicia presa
direttamente
dall’armadio di Kurt Cobain. Però, dannazione,
aveva gli stessi toni dei suoi
occhi ed era una tortura.
Era una tortura avere entrambe le ragazze nel
campo visivo e non sapere cosa fare, se non restare immobile e muto a
godermi
il panorama.
Si allontanarono dal gruppo un momento e
ricominciarono a parlare. Più che altro parlava Simona e si
agitava, fasciata
dentro i suoi jeans ed il suo magnifico maglioncino bianco. Ogni suo
movimento
sembrava studiato alla perfezione per non sembrare sgraziato e, di
certo, per
non passare inosservato. Conosceva il suo corpo alla perfezione, si
notava da
come il suo abbigliamento mettesse sempre in evidenza i punti giusti e
da come
le pose che assumeva la facessero sembrare una modella.
Avrebbe fatto carriera, non sapevo esattamente
in quale modo, ma ero certa che l’avrebbe fatta.
Poi c’era Maya, che ascoltava con un
sopracciglio leggermente sollevato e le mani poggiate sui fianchi, come
faceva
spesso.
Era strano il modo in cui Simona sembrava non
incuterle alcun timore: pareva perfettamente a suo agio, Maya,
nonostante i
numerosi centimetri in meno e la sicurezza che sprigionava la bionda
davanti a
lei. Non era intimorita oppure a disagio; anche lei, a modo suo,
sprigionava
sicurezza, ma non la ostentava come l’altra ragazza.
Le teneva testa, lo avevo già notato
tempo prima,
ma era bello averne conferma anche in quel frangente. Soprattutto
quando, per
un momento, ebbi paura che Maya saltasse alla gola di Simona per
atterrarla: lo
sguardo che le riempiva gli occhi non prometteva nulla di buono.
Era divertente restare a guardarle, a guardare
le loro labbra muoversi senza riuscire a carpirne i suoni e le parole,
le loro
mani muoversi freneticamente ed il piede destro della morettina battere
ritmicamente a terra dall’impazienza.
Creatura tanto piccola quanto agguerrita,
Maya.
Perché era quello, in realtà,
lei: una cosina
minuscola, ma con una forza ed una grinta ineguagliabile.
Non mi arrivava nemmeno alla spalla, ma
cominciava ad imparare come farmi capitolare ai suoi piedi. Soprattutto
quando
si ostinava a mettere le mani sui fianchi e ad evidenziarli.
Quei suoi fianchi tanto piccoli quanto
accoglienti.
E mi faceva capitolare anche indossando quei
colori che tanto le facevano risaltare gli occhi.
Quella ragazza era una tortura, un mistero.
Poi il suo sguardo incontrò il mio per
un
istante. Un istante che mi parve lunghissimo.
Prima sorpresa, poi confusione con qualche
briciola di fastidio, ecco cosa avevo visto nei suoi occhi, prima che
arrivasse
una massiccia dose di disappunto.
Ripeto, quella ragazza era un mistero.
Non solo, una delle ultime sere in cui
l’avevo
vista, aveva fatto dietrofront e mi aveva baciato, ma aveva avuto anche
l’assurda idea di ringraziarmi. Dopotutto, io non avevo fatto
nulla, in
quell’occasione, le avevo semplicemente consigliato di non
preoccuparsi troppo.
Le successive fotografie subacquee erano
andate molto meglio: io mi ero dimostrato più diffidente e
tranquillo e lei
aveva imparato a resistere di più sott’acqua ed
era stata scostante come
sempre. Negli ultimi tempi, eravamo tornati alla solita routine, nulla
di
nuovo.
Certo, gli sguardi strani e confusi, come
quello, persistevano, ma erano divenuti il maggior contatto tra noi.
Così come lo aveva allacciato al mio,
Maya
distolse lo sguardo e tornò a prestare attenzione a Simona
che, imperterrita,
continuava a blaterare.
Fortunatamente avevo le cuffiette e la musica
al un tono talmente alto che andrebbe proibito per preservare i timpani
in
buono stato.
Il tempo passò, fin troppo lentamente,
ma
arrivò il momento dell’imbarco e, dopo quelli che
mi parvero anni, salimmo
sull’aereo che ci avrebbe portato ad Istanbul per lo scalo.
Preferivo non
pensare alle sei ore abbondanti che avremmo dovuto trascorrere in
quell’aeroporto in attesa del volo che ci avrebbe condotti a
Doha.
Sarebbe stata una giornata infinita, quella.
Inoltre, ebbi la sfortuna di capitare ancora
al fianco di Simona, nei posti centrali, mentre Roberto la affiancava
dalla
parte opposta e, Luca e Michele, si trovavano alla mia destra e, Maya e
Claudio, dietro di loro.
Mi aspettava un viaggio interminabile, lo
avevo capito da quel sorrisetto civettuolo che aleggiava sulle labbra
della
bionda al mio fianco. E faceva quasi spavento.
“Oh
Travis, saremo compagni di viaggio”,
cinguettò, al settimo cielo, e quasi
mi venne da riderle in faccia per l’assurdità di
quella frase. L’aveva detta
come se fossimo stati negli scout.
E per le quattro ore seguenti non andò
meglio:
un fiume in piena avrebbe fatto meno disastri, soprattutto alle mie
orecchie.
Non era fastidiosa per il suo conversare a macchinetta, senza darsi un
freno,
ma lo era per il vuoto dei suoi discorsi: non c’era nulla di
serio, nulla con
un briciolo di valore, era tutto estremamente superficiale. E stare a
sentire
una donna per quattro ore, mentre parla di chi si è sposato
o divorziato, nel mondo
dello spettacolo, o di quanto sia comodo un suo paio di zeppe, non
è tra le mie
aspettative migliori. E non lo era nemmeno allora.
Sentivo la testa scoppiare ed i muscoli del
viso far male per i sorrisi troppo forzati, ma continuavo ad
assecondare i suoi
monologhi, rispondendo solamente con qualche monosillabo di
circostanza.
Continuavo a cercare di fare il gentiluomo, ma non ne potevo davvero
più.
Fortunatamente, nella conversazione si
intromise Roberto, che attirò l’attenzione della
bionda al mio fianco, ed io ne
approfittai per fingermi addormentato ed infilarmi ancora una volta le
cuffiette alle orecchie.
Un’occasione del genere non potevo
lasciarmela
scappare.
Cercai di fingermi davvero tra le braccia di
Morfeo, anche quando sentii Simona toccarmi il braccio per reclamare
attenzione. Ne avevo fin sopra i capelli di lei e l’ultima
cosa che volevo era
ricominciare ad ascoltarla, senza poter dire nulla. Inoltre, speravo
davvero di
poter dormire per qualche ora.
Per colpa dell’ansia e
dell’agitazione non
avevo dormito molto, quella notte, anzi, quasi niente. E non andava
bene:
dovevo essere in forma, riposato e ben concentrato, perché
ero solo all’inizio
della scalata.
Quel pensiero mi gettava addosso una
quantità
di tensione impensabile, ma mi dava anche la carica giusta per
cominciare a
percorrere la salita. Ero dannatamente competitivo e, ovviamente, lo
mostravo
anche in quel momento, cercando di nascondere il nervosismo agli occhi
degli
altri.
All’improvviso sentii qualcuno passarmi
accanto e percorrere il corridoio al mio fianco. Socchiusi gli occhi,
sperando
di poter vedere la hostess che avevo inquadrato al momento
dell’imbarco,
tutt’altro che brutta, ma mi ritrovai deluso alla vista di
Claudio, diretto
verso i bagni.
Rimasi un secondo interdetto, tolsi la
cuffietta e potei notare come, Simona, avesse trovato altra carne da
macello
con cui parlare, poi lanciai una veloce occhiata dietro di me, a Maya,
e la
vidi impegnata ad armeggiare con il computer portatile.
All’instante mi comparve uno strano
sorriso
sulle labbra, forse più un ghigno perfido, e non riuscii a
resistere alla
tentazione. Avevo compreso fin troppo bene come mi risultasse
impossibile poter
riposare in aereo, così mi alzai dal mio posto e mi gettai
all’istante su
quello lasciato vuoto dal mio allenatore, vicino a sua figlia.
La osservai attentamente, prima il suo volto
da perfetta attrice, che rimase indifferente, poi il portatile sulle
sue
ginocchia: stava lavorando ai suoi scatti subacquei. E sembravano a dir
poco
meravigliosi.
Lasciai perdere, troppo preso dal volerla
innervosire, anche se lei sembrava più una statua di cera.
Notai le cuffiette scendere dalle orecchie
verso il suo ventre piatto, dov’era poggiato il suo iPod e
non riuscii ad
ignorare il suono sommesso che ne usciva. Preso dalla
curiosità, avvicinai la
mano alla sua cuffietta destra, quella vicina al finestrino, per poter
ascoltare il caos che ne usciva.
La vidi bloccarsi ed irrigidirsi
l’istante
stesso in cui notò la mia mano nel campo visivo.
Altro che statua di cera, era solamente
un’attrice molto brava, ma il suo corpo la tradiva ogni
volta, mostrandola per
quella che era.
Presi delicatamente la cuffietta in mano,
sporgendomi verso di lei quanto bastasse per non mostrarmi
eccessivamente
invadente, poi cedetti all’ennesima tentazione e le sfiorai
il collo con le
dita, più per stuzzicare lei che soddisfare me stesso, prima
di tornare ad
occupare il mio spazio vitale.
L’avevo vista trattenere il respiro, non
lo
avevo sognato. Si, ero stanco ed assonnato, ma non fino al punto di
immaginarmi
le cose.
Avevo visto il suo petto bloccarsi nello
stesso momento in cui avevo toccato la sua pelle e l’avevo
interpretato come
una piccola conquista.
Il suo lavoro al computer l’aveva
ignorato per
un secondo, poi aveva ricominciato come se niente fosse.
Una quasi perfetta attrice.
In realtà, era una maschera indossata
alla
perfezione, ma qualche volta le scappavano alcuni dettagli dalle mani.
Riuscii finalmente ad ascoltare il brano che
passava per l’iPod di Maya e riconobbi all’istante
un vecchio, ma famosissimo
pezzo dei Queen: Don’t
stop me now.
“Complimenti
per la scelta”, le dissi.
“Tu
ascolti i Queen!?”, chiese lei, guardandomi con un
sopracciglio sollevato.
Mi scappò un sorriso, involontariamente,
alla
vista della sua espressione tra la sorpresa e lo shock. Era strana, a
volte,
forse per il suo essere bipolare oppure per la sua straordinaria mimica
facciale perché, da un suo semplice sguardo, si poteva
comprendere quasi
qualsiasi cosa.
“Ho
pessimi gusti nello scegliere chi portarmi a letto, ma in fatto di
musica non
mi si può dire nulla”, le risposi.
E lo feci sorridendo, senza malizia, senza un
briciolo di scherno. Le sorrisi perché, questo suo voler
costruire
continuamente invalicabili barriere, era quasi estenuante.
Mi sorpresi nel vederla interdetta, per
l’ennesima volta nel giro di poco tempo, ma rimasi di sasso
quando la sentii
reprimere una risata, distogliendo lo sguardo dal mio.
“Touche”, disse piano.
Nessuno dei due parlò per alcuni
istanti, lei
si limitò a lavorare ancora sui suoi scatti ed io alternai
l’attenzione dallo
schermo alla concentrazione che vedevo sul suo volto.
Si notava lontano un miglio quanto
s’impegnava
nel suo lavoro. Ci teneva davvero ed era precisa, quasi fastidiosa, ma
cercava
ogni dettaglio per rendere migliore il risultato finale. Ed era
ammirevole.
“A cosa
stai lavorando, Maya?”, le domandai, osservando uno
dei suoi scatti
subacquei di cui ero protagonista.
“Sto
modificando le fotografie migliori, Travis”, mi
rispose, continuando a
lavorare. “Cerco la luce migliore,
per
quanto possibile, l’inquadratura ed altre
particolarità che non ti sto nemmeno
a spiegare”.
“Mi
piacciono moltissimo, sai?”, le dissi
all’orecchio.
E avrei voluto che tutto restasse in quel modo
perché, davvero, lei non avrebbe dovuto rivolgere
l’attenzione su di me. Non
ero preparato a quella vicinanza e non ero preparato agli occhi limpidi
e
sorpresi di quella ragazza. Fu una combinazione esplosiva.
Dovetti reprimere l’impulso di
avvicinarmi
ancora di più e colmare quella distanza che, in quel
momento, mi parve
infinita, perché l’unico mio desiderio bruciante
era quello di andare oltre, di
non fermarmi ad un bacio, ma di prendere a forza Maya, chiudermi nel
bagno con
lei e soddisfare quel desiderio carnale che mi stava divorando.
“Davvero
ti piacciono?”, chiese lei, quasi esitante, incerta.
Anche in quell’attimo mi venne spontaneo
sorriderle, leggermente, senza mostrarmi troppo divertito dal suo
bipolarismo.
“Te
l’ho
già detto, Maya, sei molto brava”, le
mormorai.
Sul suo volto comparve un lieve ghigno
compiaciuto, poi si allontanò da me, prendendo un profondo
respiro. Ed ecco,
ancora una volta, il suo bipolarismo: tornò a lavorare sui
suoi scatti, con il
suo programma professionale su quel dannato computer portatile.
Decisi di prestare attenzione al brano di
turno, nel mio orecchio, ma non riuscii a riconoscerlo. Tuttavia, ne
apprezzai
la tranquillità, la delicatezza ed il romanticismo e,
immediatamente, mi sentii
leggermente più sereno.
Solamente pochi istanti dopo mi resi conto di
Claudio, seduto al mio posto, intento a parlare con la bionda tutto
pepe.
Per un momento mi sentii grato verso il mio
allenatore che, per alcuni minuti, mi aveva donato uno spicchio di
tranquillità
e pace, ma poi mi sentii terribilmente in colpa per il terribile
fardello che
gli avevo lasciato.
Seppur controvoglia, mi tolsi la cuffietta
dall’orecchio e la lasciai a Maya.
“Vado a
salvare tuo padre”, le dissi, scocciato.
Lei sollevò leggermente il capo dal suo
lavoro, lanciò un veloce sguardo ai sedili più
avanti prima di trattenere
l’ennesima risata.
Era strano sentirla ridere, vederla davvero
divertita da una scena e così normale
nei miei confronti. Un po’ mi mancava la ragazza acida con la
rispostaccia
sempre pronta, ma quel lato di Maya mi era del tutto nuovo, da scoprire
e quasi
intrigante.
“Buona
fortuna, allora”, disse prima che mi alzassi dal
sedile per lanciarmi nella
mia personale missione suicida.
Interruppi i discorsi tra Simona ed il mio
allenatore, chiedendo di poter tornare al mio posto e, come magra
consolazione,
ricevetti uno sguardo da parte di Claudio che poteva valere
più di mille
parole.
Anche lui ne aveva avuto abbastanza.
“Scusami,
Simona, ma ora vorrei dormire”.
La liquidai ancora prima che aprisse bocca, la
poveretta, ma la sua vocina mi aveva davvero stancato.
Arrivammo finalmente ad Istanbul, con sei ore
per poter prendere il volo seguente e nessuno svago degno di essere
chiamato
tale. Sarebbe stata un’attesa infinita ed io non avevo
più un briciolo di
forza. Non avevo mai avuto tanto bisogno di dormire come in quel
momento.
Restare tutto il tempo in quella struttura,
con il classico caos da aeroporto, si era rivelato essere
un’ardua impresa, che
non veniva di certo facilitata dalla presenza di Simona.
Sembrava essersi attaccata a me come una cozza
al suo scoglio preferito.
Per perdere tempo avevo deciso di perlustrare
l’aeroporto, più volte. Ma non era servito a
molto: avevo occupato solamente un
paio d’ore, a dire tanto.
Spesi il resto del tempo a pensare e a
prepararmi mentalmente per tutto ciò che mi attendeva a Doha.
Mi sistemai su tre sedie, riuscendo a
distendere le gambe, grazie anche all’immensa
disponibilità di posti liberi,
giusto per provare a riposare una manciata di minuti. Anche se il mio
solito
turbinio di pensieri sembrava addirittura impedirmi di respirare.
Era stata una pessima idea, fermarmi a
riflettere, ma avevo ancora delle ore da occupare: tanto valeva rodersi
il
fegato.
Mi sembrò quasi un sogno quando riuscii
a
sistemarmi a bordo del secondo aereo, quello che, finalmente, ci
avrebbe
condotti a Doha. Mancavano altre cinque ore di volo, ma mi resi conto
di come
non me ne importasse.
Mi importava solamente arrivare in hotel,
buttare tutte le mie cose in camera e riuscire a dormire almeno un paio
d’ore. Possibilmente
senza la presenza di biondine tutto pepe che non arrivano mai ad
esaurimento
scorte, quando si tratta di parole dette tanto per creare rumore.
Almeno ebbi la fortuna di non capitare al suo
fianco anche su quell’aereo: la tranquillità ed il
silenzio di Luca e Michele
si rivelarono assolutamente magnifiche. Eravamo i tre uomini
più tesi e più
stanchi sulla faccia del pianeta.
Incredibile, ma vero, riuscii addirittura ad
appisolarmi, durante il volo.
Venni svegliato da un’hostess gentile
quanto
carina che, con gentilezza, mi picchiettò la spalla
reclamando attenzione. Cercai
di ricordarmi di intraprendere viaggi in aereo più spesso,
se quelle erano le
donne che vi lavoravano sopra.
Dopo essere scesi ed aver recuperato ogni
bagaglio, tutti noi ci incamminammo verso l’uscita
dell’aeroporto, diretti al
Four Season Hotel di Doha che, la Federazione, aveva scelto per
ospitare tutti
gli atleti partecipanti alle competizioni.
Volevano fare le cose in grande, insomma.
Quando fummo tutti quanti al di fuori
dell’edificio,
ci rendemmo conto di quanto, per essere quasi le sei del mattino, a
dicembre,
facesse caldo.
Troppo caldo per chi, come me, era avvolto in
una felpa invernale.
Nemmeno me ne resi conto, ma al mio fianco
trovai Maya.
“Sei
preoccupato, superstar?”, mi chiese, acida come
sempre.
Nonostante tutto, mi venne da ridere. Forse per
il nervosismo, forse per l’ansia oppure per la semplice
mancanza di sonno, ma
risi.
“In
questo momento ho solamente caldo”, le risposi,
guardandola nei suoi occhi
stanchi. “E avrei bisogno
immediatamente
di un letto comodo”, aggiunsi, accompagnando il
sorriso più malizioso che
avessi in serbo.
Come sempre, mi fissò prima scettica, la
ragazza, come se avessi detto chissà quale
assurdità, poi la vidi distogliere
lo sguardo dal mio, per prestare attenzione alle sue Converse.
“Sicuramente
la camera di Simona sarà più comoda ed
accogliente della tua”, rispose,
lui, ridendo. “Perché non
provi a
chiederle asilo politico? Sono sicura che ti accoglierà a
braccia aperte”.
Non riuscii a capirne il divertimento, ma
nella mente di Maya sembravano viaggiare migliaia di barzellette.
Sicuramente,
il suo continuo ridere, completamente divertita, avrebbe avuto un
briciolo di
senso, ai miei occhi.
“Potrei
sapere cosa ci trovi di così esilarante!?”,
le domandai, stizzito.
Odiavo sentirmi escluso dal minimo discorso,
dal minimo pensiero. Soprattutto quando si trattava di Maya,
perché proprio non
riuscivo ad inquadrarla.
Lei non mi ascoltò, ma si
incamminò insieme a
suo padre verso il primo taxi che si era fermato davanti
all’uscita dell’aeroporto.
Decisi di avvicinarmi a lei, fingendomi un
perfetto gentiluomo e aiutandola a caricare quella sua valigia
fluorescente,
così da poterla tormentare e per scoprire questo grande e
divertente segreto
che non la faceva smettere di ridere.
“Vorrei
ridere anche io, Maya”, sibilai, caricando la sua
valigia del baule del
taxi.
La morettina si fermò un momento, mi
lasciò
uno sguardo divertito, che ignorai all’istante non appena
vidi come, quel
sorriso che sfoggiava, le incorniciava il viso alla perfezione.
Ecco tornato il bipolarismo.
“Magari
Simona apre qualcos’altro, che ne so”,
disse piano. “Comunque dovresti
provarci, tigre, l’hai già conquistata.
Però compra
un paio di tappi per le orecchie: forse non smette un secondo di
parlare
nemmeno in situazioni più… intime”.
E ricominciò a ridere, forse ancora
più di
poco prima.
Dovevo sembrarle davvero patetico e,
probabilmente, aveva ragione perché, me ne rendevo conto,
quando avevo deciso
di uscire a cena insieme alla bionda tutto pepe non avevo calcolato gli
effetti
collaterali che si sarebbero manifestati in seguito.
Non ebbi nemmeno il tempo di rispondere a
quella piccola arrogante, avevo perso
l’opportunità nel momento stesso in cui
si fiondò all’interno del veicolo insieme al padre.
Ed io rimasi lì, in piedi. Come un
perfetto
idiota, senza accorgermi di come, nel giro di ventiquattro ore, sarebbe
cominciato tutto il calvario di quei campionati.
*
Ed ecco,
finalmente, questo POV! Vi confesso che è stata un po'
un'impresa arrivare alla fine, non so per quale motivo, ma, in un certo
senso, l'ansia che ha provato Travis, l'ho provata anche io.. Spero vi
possa piacere comunque e spero che possiate dirmi cosa ne pensate..
E che mi dite del
piccolo Travis!? Personalmente, lo adoro.. forse perchè
è palesemente diverso dal Travis dei nostri giorni oppure
per questo amore materno che è andato svanendo nel tempo..
non lo so, ma mi fa una grande tenerezza!
FINALMENTE SIAMO
ARRIVATI A DOHA, GENTE! Ed ora arriva il calvario per me, per poter
descrivere nel modo più giusto possibile una
località completamente sconosciuta.. cercherò di
non deludervi!
Come sempre...
GRAZIE DI CUORE a tutte per il seguito! E grazie alle temerarie che,
ogni tanto, fanno sentire la loro voce con qualche recensione! Non
immaginate quanto apprezzi il gesto.. ovviamente GRAZIE anche a chi
legge in silenzio, ma continua a seguirmi! Davvero, grazie mille..
Detto questo.. vi
lascio! E ci vediamo alla prossima con *rullo di tamburi* un altro POV
di Travis! Al momento, la superstar è lui.. voglio dargli il
giusto spazio sotto i riflettori!
Alla prossima e
un mega abbraccio a tutte,
Chiara
|
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Capitolo 18 *** 17. Travis' POV - Cambio di Rotta ***
Maya18
*****
Quella figura strana allo
specchio non ero io, non potevo essere assolutamente io. La faccia
ingrigita,
con quel paio di occhiaie degne del miglior panda, non era la mia. E
continuavo
a cercare di convincermi, nel bagno della mia lussuosissima camera del
Four
Seasons Hotel di Doha, ma con scarsi risultati. In compenso, avevo
cominciato a
consolarmi su quanto fosse comprensibile quel mio stato mentale e
fisico, dopo
aver viaggiato per più di dodici ore, aver cambiato fuso
orario ed aver
riposato solamente tre ore scarse.
No, non era
comprensibile, ero semplicemente patetico.
Avevo ancora addosso
l’odore del viaggio infinito, dell’afa e del caldo
così fuori luogo a dicembre,
e non avevo nemmeno avuto la forza necessaria per concedermi una breve
doccia.
Decisi che me ne sarei occupato direttamente in vasca quella stessa
mattina.
Si, ero decisamente
patetico.
Cercai di non perdere
troppo tempo ad autocommiserarmi, in ritardo com’ero per la
colazione, così
preparai e gettai le ultime cose nel borsone firmato dalla nazionale
italiana.
Attraversai la mia
stanza, un tantino spropositata per una sola persona, ed uscii nel
corridoio
del quarto piano dell’albergo per raggiungere la sala
ristorante dove avevo
appuntamento per la colazione, con il resto della truppa. Venti minuti
prima di
quando mi presentai.
Riconobbi il resto del
mio gruppo in pochi istanti, grazie anche alle divise bianche e blu
della
nazionale e alla testa di riccioli della bionda tutto pepe che
risaltava tra la
folla.
Mi salutarono
tranquillamente, evitando di farmi notare la mia mancanza di
puntualità, poi
riuscii finalmente a mettere qualche cosa di commestibile sotto i
denti,
saziando la fame nervosa che mi stava attanagliando lo stomaco
già da diverso
tempo.
Quella colazione a
buffet era un sogno, quasi un miraggio.
Vidi ogni sorta di
cibo commestibile disposto sui tavoli in base al loro genere,
ovviamente
pensati a regola d’arte. Ottenendo un quadro di colori e
profumi da far invidia
alla miglior galleria d’arte oppure al miglior ristorante.
Era un buon modo per
svegliarsi, quello.
Mi accomodai al fianco
di Simona, per mia scelta, dato che le altre facce da funerale non
promettevano
nulla di buono ed io avevo bisogno di qualcuno che mi fornisse una
distrazione,
in quel momento. Certo, avrei preferito qualcosa di più
carnale e con meno
spettatori, ma le chiacchiere tranquille e vuote della bionda accanto a
me
andavano bene comunque. Almeno mi davano la possibilità di
concentrarmi su
altro e, fortunatamente, quella mattina sembrava aver perso il suo
innato
talento di macchinetta sforna parole.
Era strano vederla in
quel modo e catalogarla, quasi, ma quel giorno era diversa, come se
anche lei
soffrisse di bipolarità come la sua amichetta.
O forse era l’intero
genere femminile a soffrirne.
Tuttavia, quella
mattina, Simona era una persona completamente differente, nuova. La
stessa
ragazza con cui ero uscito a cena, quella sera.
Riuscì persino a farmi
ridere, nonostante mi sentissi un tronco senza vita per colpa del
nervosismo.
Ogni tanto se ne usciva con qualche battuta stupida e si rendeva anche
simpatica. Straordinariamente simpatica.
E tutti gli uomini
presenti al nostro tavolo, la truppa di Claudio, sembrava rapito ed
affascinato
da quella sua strana spontaneità.
Si offrì anche di
seguirci al palazzetto dove si sarebbero disputate le competizioni,
così da
avere più materiale su cui lavorare, e ne fui
quasi… sollevato. Era in grado di
infondermi una particolare tranquillità che, in un momento
come quello, non
poteva che farmi bene.
Forse era d’aiuto
anche l’assenza della piccola arrogante.
Quella mattina, Maya,
non si era fatta vedere a colazione e, per il resto della giornata, era
rimasta
un’incognita, nonostante fossi pienamente convinto che
all’allenamento sarebbe
stata presente per non farsi mancare altri scatti, puntigliosa come
sempre. Poi
mi resi conto di come fossi felice della sua assenza: il sentirsi
continuamente
l’obiettivo della macchine fotografica puntato addosso
cominciava a diventare
estenuante.
Così arrivammo al
fantomatico edificio, già preparato ed addobbato a festa per
il giorno seguente,
per l’inizio della fine, e non riuscii a fare a meno di
pregare che tutto
andasse bene. O almeno discretamente.
Non avevo idea di cosa
avrei dovuto fare, in quel momento, la sola idea di entrare in acqua mi
faceva
venire il voltastomaco e mi faceva sentire pesante come una pietra.
Girovagammo per alcuni
minuti, in gruppo, per cercare di capire come tutto fosse programmato,
e
quando, infine, ci dissero che era possibile allenarsi, non attendemmo
un
minuto in più per prepararci, nonostante il mio corpo
ripudiasse
quell’iniziativa.
Riuscimmo a
ricongiungerci anche con il resto della squadra italiana e, finalmente,
conobbi
gli altri due membri che avrebbero gareggiato per la staffetta, insieme
a me e
a Luca.
Era strano
considerarsi una vera e propria squadra, soprattutto venendo da due
realtà
diverse, ma ci eravamo accordati alla perfezione su come avremmo dovuto
porci
e, dopo i convenevoli, non restava altro da fare se non allenarci fino
a
spaccarci la schiena.
Una prospettiva
interessante, insomma.
Quattro ore. Quattro
interminabili ore di allenamento a dir poco estenuante, con un unico
risultato:
facevamo pena.
Non so ancora oggi
perché, ma i tempi ottenuti nelle varie prove erano a dir
poco squallidi, decisamente
non da campionati mondiali, semmai da amichevoli tra paesini di
provincia.
E tutto questo si
rifletteva nei nostri atteggiamenti. La frustrazione era arrivata a
livelli mai
visti e, di certo, il malumore generale si poteva scorgere da miglia di
distanza.
Il giorno seguente
sarebbe stato un inferno, ne ero completamente certo.
Tornammo all’albergo,
con facce da funerale comprese, per concederci un pranzo degno di
essere
chiamato tale nella sala ristorante di quella mattina e, forse, una
sana
dormita.
Nessuno ebbe il
coraggio di proferire parola, nemmeno Simona, seduta al mio fianco in
taxi, che
pareva aver perduto il suo solito brio. Teneva gli occhi bassi,
osservandosi le
unghie perfette con attenzione.
Avrei voluto scoprire
cosa le passava per la testa, perché quell’aria
avvilita non le donava proprio.
Tuttavia, non le chiesi nulla, troppo occupato a maledire me stesso per
i
risultati scadenti che avevo ottenuto quel giorno. Mi diedi al mutismo
convinto, ignorando chiunque mi rivolgesse una qualsiasi domanda,
passando per
un perfetto stronzo.
Persino a tavola
l’atmosfera non cambiò, anzi: il clima glaciale
che era sopraggiunto sulle
nostre teste faceva quasi spavento; ed evidentemente anche per il
nostro
cameriere fu così: sgattaiolò via non appena ci
servì le nostre ordinazioni.
L’unica che non si
fece intimidire fu, ovviamente, Maya, che giunse al nostro tavolo a
pranzo già
cominciato, stranamente sorridente e fresca come una rosa. E quando mi
resi
conto della sua pelle leggermente abbronzata, lasciata scoperta da una
maglietta che le scendeva su una spalla, una strana, lieve fitta allo
stomaco:
l’aria di Doha le donava fin troppo. E non riuscii a non
trovare la cosa
irritante, soprattutto dopo aver passato una giornata infernale. Lei,
invece,
pareva appena uscita da una rivista patinata.
Si fermò interdetta
non appena si rese conto dei nostri musi lunghi, prima di cominciare a
parlare
con Claudio.
“Ciao
papà”, disse, stampando un bacio sulla
guancia dell’uomo. “È successo qualcosa?”.
Non considerò nessun
altro, non rivolse alcun saluto e, di certo, non degnò
nessuno di uno sguardo.
Me compreso. La solita ragazzina altezzosa e presuntuosa aveva fatto il
suo
ritorno.
“Nulla di cui tu
debba preoccuparti, tesoro”, le rispose con un
sorriso finto, tirato. “Abbiamo
solamente
ottenuto un tempo pessimo agli allenamenti della staffetta”.
La vidi chiaramente,
da come chiuse gli occhi un momento e storse le labbra, reprimere un
sorriso ed
io, da perfetto idiota qual ero, ci cascai ancora una volta e non
riuscii a non
innervosirmi.
“Ehm…
non ti preoccupare, papà”, disse lei,
poggiandogli una mano
sulla spalla e cercando di restare serie in volto. “Domani andrà meglio”,
aggiunse, infine, come se il suo giudizio
potesse davvero cambiare le carte in tavola.
La realtà era
semplice: eravamo in una situazione pessima e anche quella piccola
arrogante lo
sapeva perfettamente e quella parvenza di un sorriso che occupava
quelle sue
maledette labbra, era la prova di quanto il malumore generale e la
nostra
disfatta la divertisse.
Era irritante.
Tremendamente irritante!
Non riuscii a reggere
oltre, non ne ebbi le forze, mi alzai di scatto e mi congedai, dopo
aver
mangiato poco e niente ed aver lasciato tutti i presenti al tavolo di
sasso.
Sentivo il terribile bisogno di staccare la spina e di isolarmi dal
resto del
gruppo, nonostante fossi perfettamente consapevole di come mi sarei
potuto
mangiare le mani dal nervoso e di come mi avrebbe solamente logorato.
Raggiunsi la mia
stanza in un attimo, senza nemmeno accorgermi del passo spedito che
avevo
assunto e delle espressioni stranite che, altre persone presenti in
ascensore,
assunsero appena videro il mio viso da funerale. Volevo, dovevo stare
da solo,
in isolamento nel mio harem personale fino alla mattina seguente, fino
al
momento in cui tutto sarebbe venuto a galla. Paradossale quanto quella
stanza
decisamente fuori misura, in quel momento, mi apparve opprimente e
claustrofobica, e strano come ogni oggetto inquadrato nel mio campo
visivo mi
fece venir voglia di lanciarlo contro il muro.
Sapevo che, presto o
tardi, mi sarei fatto prendere dal panico, dall’ansia
pre-gara, ma non mi sarei
mai immaginato nulla del genere. Il respiro quasi mi mancava e non
riuscire a
scorgere nulla di familiare, in quell’ambiente, nulla di mio
mi gettava in un
allarmante stato d’ansia. Non sapevo come fare, continuavo a
guardarmi in giro,
con il fiato corto, e a circumnavigare il salotto di quella dannata
stanza
senza trovare una soluzione semplice ed indolore a quella mia
momentanea
pazzia. Poi sentii bussare alla porta.
Presi un profondo
respiro, sperando di non apparire eccessivamente stralunato, ed andai
ad
aprire.
“Claudio!”,
esclamai.
“Ciao Travis,
posso entrare un momento?”, chiese con
l’accenno di un
sorriso sul volto ed in quel mare che aveva negli occhi.
Mi colse completamente
impreparato e nel bezzo di una perfetta crisi esistenziale degna del
peggior
adolescente, così non potei fare a meno di togliermi dalla
sua traiettoria e
lasciarlo entrare, lasciarlo girovagare per l’ambiente.
Appena si trovò
all’interno cominciò a guardarsi intorno ammirato,
per poi dirigersi alla
grande finestra della parete opposta alla porta.
“Complimenti per
la stanza, ragazzo”, mormorò, ammirando
il mare che
regnava all’esterno. “Di
certo ha una
vista migliore della mia”.
Su quello aveva
ragione: c’era una vista meravigliosa. Ed era forse
l’unica cosa accettabile di
tutta quell’opulenza. Si poteva ammirare la spiaggia,
ovviamente riservata per
l’albergo, le famiglie che si godevano una giornata di sole
ed il mare, calmo ed
immenso. Quello stesso mare che, la mattina del nostro arrivo, mi aveva
rapito
per non so quanto tempo. Ero rimasto ad osservarlo, ad ammirarlo per un
tempo
infinito, privandomi di minuti di sonno preziosi, ma non mi era
importato
molto. Sentivo il bisogno di mettere a riposo la mente e, restare sul
balcone
ad osservare ciò che si stagliava davanti a me, si era
rivelato il sistema
migliore.
“Hai bisogno di
qualcosa, Claudio?”. Gli chiesi, con un velo di
sospetto.
“Non
esattamente, Travis”, cominciò,
voltandosi a guardarmi. “Volevo
solamente parlarti del tuo scatto di
poco fa. Va tutto bene?”.
“No, non va
affatto bene: abbiamo totalizzato dei tempi orribili, siamo
scoordinati oltremisura come squadra e, come se non bastasse, arriva
tua
figlia, con quella faccia tosta che si ritrova, e dopo aver scoperto il
fallimento di oggi, ha pure il coraggio di sghignazzare come se nulla
fosse,
come se non fossi stato presente davanti ai suoi occhi”.
Gli risposi tutto
d’un fiato e, solamente dopo aver terminato quel monologo, mi
resi conto di ciò
che avevo appena detto. Mi immobilizzai all’istante e cercai
con lo sguardo
quello del mio allenatore, ancora davanti alla finestra, preparandomi
ad un
discorsetto con i fiocchi su quanto risultassi impertinente e fuori
luogo. Dovevo
smetterla di lasciarmi scappare frasi simili, soprattutto in presenza
di
Claudio.
“Oh scusami, non
volevo dire una cosa simile, non so cosa mi sia preso,
davvero”, cercai di scusarmi come meglio potevo,
risultando solamente un
idiota attaccato improvvisamente dalla balbuzie. “Sono solamente nervoso”.
Lo guardai negli
occhi, aspettandomi un’espressione furente, e mi sorpresi di
trovarlo allegro e
sorridente, come lo era sempre. “Non
ti
preoccupare, ragazzo”, parlò, ridendo
genuinamente. “Capisco il tuo
nervosismo, a volte Maya sa essere esasperante ed
inopportuna, ma non ha mai amato il mio mondo e questo sport, quindi
non mi
sorprendo più, oramai”, aggiunse, infine.
Mi sembrò di avvertire
le sue parole piene di rammarico e tristezza, quasi.
Morivo dalla
curiosità, avrei voluto tanto sapere per quale motivo Maya
detestasse tanto il
nuoto e tutto ciò che lo circondava, per quale motivo
Claudio provasse tanto
rammarico e per quale motivo conobbi quella ragazza solamente pochi
mesi prima,
come se fosse saltata fuori dal nulla.
“Cambiando
discorso… come ti senti?”, chiese.
“Mi sento a
pezzi, Claudio”, esclamai, sedendomi di peso sul
divanetto disposto al centro del salottino. “Non
ho mai pensato di poter toccare il fondo in questo modo, di poter
arrivare a questo squallore. E mi sento terribilmente in colpa perche
so di non
essermi impegnato come avrei dovuto e mi dispiace perché
deludo me stesso e…
anche te”.
Per alcuni istanti non
accadde nulla e Claudio non replicò, non disse niente. Si
mosse, camminò lentamente
verso di me e di sedette sul divano, al mio fianco.
Non avevo il coraggio
di guardarlo negli occhi un’altra volta.
Lo sentii sospirare,
quasi esasperato, e non mi azzardai ad alzare lo sguardo, per paura di
scorgere
fin troppo disappunto.
L’ultima cosa che
volevo era deludere le aspettative di quell’uomo.
“Non ti
dirò che domani andrà bene, Travis,
perché non ci credo, e non
ti dirò che, al contrario di ciò che pensi, oggi
avete fatto un ottimo lavoro,
perché non è così, ma devi cercare di
vivere quest’avventura al meglio”,
cominciò, lui. “Se
già in partenza sei
così negativo non puoi che far peggio. Calma e sangue
freddo, ragazzo”.
Mi diede una pacca
sulla spalla, in un modo così paterno che mi si strinse il
cuore. non riuscii a
muovermi, non riuscii ad emettere un suono, troppo occupato a cercare
di tenere
insieme i pezzi di me stesso e di non crollare.
Era strano rendersi
conto di come ogni briciolo di forza e sicurezza avesse abbandonato il
mio
corpo in un battito di ciglia. Mi sentivo svuotato da ogni energia, non
ero più
me stesso ed esserne consapevole mi infastidiva terribilmente. Sapevo
cosa mi
stava succedendo, eppure non sembravo intenzionato a fare la mossa
giusta per
cambiare le carte in tavola.
“Cerca di non
rimuginare troppo sulle cose, ragazzo, e pensa ad
impegnarti al meglio”, disse, infine, alzandosi in
piedi. Si incamminò
verso la porta da solo, continuando a parlare. “Sei
arrivato fino a qui ed è già un traguardo
importante, devi essere
fiero di te, qualunque possa essere il risultato finale”.
Mi voltai di scatto
appena udii le sue parole e riconobbi all’istante il suo
unico sorriso di
incoraggiamento. E non potei fare a meno di sentirmi riconoscente verso
i suoi
confronti, ancora una volta. “Grazie,
Claudio”, mormorai.
Mi sorrise ancora e
riconobbi qualche somiglianza con la figlia, poi aprì la
porta e se ne andò.
Continuava a porre fin
troppa fiducia in me e nelle mie potenzialità,
quell’uomo, ed il dubbio che lui
potesse sbagliarsi era sempre e costantemente presente nella mia mente,
perché
non mi sentivo per nulla pronto e decisamente non all’altezza
della situazione
che avevo alle porte. Ed avevo una paura fottuta di deludere le sue
aspettative, soprattutto in quell’occasione.
Continuava a
proteggermi ed incoraggiarmi tramite le sue parole, nonostante non
meritassi
nemmeno un minuto della sua attenzione.
Era un uomo
fantastico, Claudio, ed io ero troppo testardo e codardo per prestargli
ascolto.
Avevo un’occasione e
tutto sembrava pronto per andare allo scatafascio, compresa la mia
determinazione
che, negli anni, non mi aveva mai abbandonato. In quel momento mi
sentivo solo,
davvero solo, privo del benché minimo senso del dovere e
pieno di ogni tipo di
paura.
Mi sentii
improvvisamente, tremendamente stanco e spossato e l’idea di
buttarmi nel letto
e dormire fino al mattino seguente era troppo allettante, ma ero
ridotto ad uno
straccio ed una sana doccia era quello che serviva. Come un unguento
benefico
da spalmare sopra le troppe ferite che segnavano il mio corpo.
Restai sotto il getto
tiepido dell’acqua per un tempo indefinito, lasciando che i
muscoli si
rilassassero e che la mente si liberasse da quel mare di cattivi
presagi che
l’avevano appestata. Dovevo trovare il modo di tornare me
stesso, il Travis di
sempre, ed anche in tempi brevi.
Doha. Dimora della più grande occasione
della mia vita e rovina del mio già
precario equilibrio mentale.
Dopo essere finalmente
uscito dalle piacevoli grinfie della doccia, girovagai per la stanza,
cercando
di decidere se ordinare qualcosa da mangiare dal servizio in camera
oppure
uscire per prendere una sana boccata d’aria. In
verità, l’idea di uscire da
quell’ambiente mi spaventava e mi serrava la bocca dello
stomaco, anche se
avevo una tremenda voglia di concedermi una passeggiata in spiaggia,
così optai
per il classico servizio in camera.
Era oramai ora di
cena, avevo già telefonato per la mia ordinazione, quando
sentii bussare alla
porta. Per l’ennesima volta.
Convinto che fosse
l’addetto dell’albergo con la mia cena, andai ad
aprire tranquillamente, con
indosso solamente un asciugamano stretto in vita.
“Prego, entri
pure…”, dissi in lingua inglese, ma non
appena
riconobbi la figura davanti a me, mi bloccai.
“Buonasera Travis”,
disse, lei.
“Simona”,
esclamai. “Cosa ci
fai qui?”.
Per la prima volta la
vidi in imbarazzo, forse per il mio abbigliamento sconveniente o
semplicemente
perché si trovava davanti alla porta della mia stanza senza
un apparente
motivo. La vidi arrossire in viso, perfino.
“Non vorrei
disturbarti, ma ho bisogno di parlarti”, disse dopo
alcuni istanti. “Non ci
vorrà molto,
posso entrare?”.
“Certo, vieni”.
La feci passare e
anche lei, come Claudio, si guardò un attimo in giro, per
poi rivolgere
l’attenzione a me ed alle sue mani che non smetteva di
torcere.
Era agitata, si vedeva
lontano un miglio, ma non capirne il motivo era snervante.
“Allora, Simona,
dimmi”, la incoraggiai. “Vuoi
sederti?”.
“No, preferisco
restare in piedi, in ogni caso farò presto”,
rispose
in tono flebile.
Attesi come un
perfetto idiota per una manciata di minuti, sperando che trovasse il
coraggio
di parlare, ma continuava a tenere lo sguardo fisso sulle sue mani e a
non
parlare.
Sollevò il capo di
scatto, allacciando i suoi occhi ai miei e quasi mi spaventai. Poi
parlò
talmente in fretta che non riuscii a comprendere le sue parole, tanto
che mi
trovai costretto a chiederle di ripetere.
“Scusami, non so
cosa mi stia prendendo”, mormorò,
passandosi
nervosamente una mano tra i boccoli biondi. “Ho
detto che sono qui solamente per augurarti buona fortuna per la gara
di domani”.
Mi pareva fin troppo
nervosa per essere lì solamente per quel motivo, lei che
sembrava aver un
tempra ferrea. Il tipico carattere da giornalista. Eppure io le
incutevo timore
e la innervosivo.
Una parte di me
continuava a non capire, mentre l’altra credeva che, una
situazione simile, non
avrebbe portato nulla di buono.
La osservai
attentamente per un momento, nel suo perfetto completo nero elegante
che le
fasciava gentilmente le gambe slanciate. Con quegli abiti sembrava un
membro
della reception dell’albergo più che una
giornalista.
“Beh ti
ringrazio, ma non ti saresti dovuta disturbare, ci saremmo visti
domani mattina”, le dissi, sorridente.
Questo sembrò mandarla
ancora più in tilt. “Si,
lo so, ma non
volevo che altra gente potesse trovarsi in mezzo”,
rispose, ancora più in
agitazione.
“Che cosa ti
prende, Simona?”.
“Non lo so, non
sembro io, ma sono qui davanti a te e capisco di non
essermi mai sentita così in imbarazzo”,
confessò.
“Se il problema
è l’abbigliamento, vado a vestirmi”.
“No, Travis, non
è quello il problema”, disse, ridendo
nervosamente.
“Il problema sono io!”.
Mi sembrò davvero
esasperata ed agitata, come mai l’avevo vista, e
d’un tratto incollò i suoi
occhi ai miei, con uno sguardo tanto intenso e carico di emozioni da
farmi
quasi rabbrividire.
Improvvisamente capii
l’origine del suo nervosismo e mi resi conto che avrei voluto
non aprire la
porta della mia stanza, non perché Simona non mi piacesse,
ma perché avevo il
presentimento che, nel suo sguardo, risiedesse anche una preoccupante
dose di
speranza che, con ogni probabilità, non sarei riuscito a
soddisfare, nonostante
ogni fibra del mio corpo mi urlasse di caricarla in spalla e portarla a
letto. Forse
per accontentare lei o, più probabilmente, per trovare una
giusta valvola di
sfogo.
Fatto sta che, in quel
preciso momento, mi sentii la persona meno adatta per intessere un
qualsiasi
tipo di rapporto, anche prettamente sessuale. Avevo altro a cui pensare
e mi
sarei riempito di botte in testa, in un secondo momento, per essermi
lasciato
scappare una donna simile, ma Simona aveva avuto un terribile tempismo
ed aveva
scelto il momento più sbagliato in assoluto.
La vidi avvicinarsi a
me e, nonostante tutti i miei buoni propositi, non riuscii a muovere un
muscolo, nemmeno per allontanarla. La lasciai fare e la lasciai
arrivare a
pochi centimetri da me, senza distogliere lo sguardo dal suo.
“Il problema
sono io, perché non dovrei assolutamente essere qui”,
mormorò, poco convinta. “Dovrei
andarmene, adesso, sai?”.
“Hai ragione,
dovresti andartene”, le risposi, scostandole
delicatamente un ricciolo biondo dal viso.
Parole al vento,
convinzioni dissolte per colpa di un paio di occhi magnetici, ciglia
svolazzanti e due gambe perfette, ecco cos’ero io. Una
completa contraddizione,
perché, mi ero reso conto, non appena lei si
avvicinò ancora, che non l’avrei
fermata. Sarei andato fino in fondo, io. Sarebbe stata lei a dover
bloccare
tutto, prima di arrivare al disastro, perché io non ne avrei
avuto la forza.
Pochi centimetri, ecco
cosa separava il corpo da Simona dal mio, eppure mi sembrò
una distanza
infinita, inaffrontabile. Poi fu lei a fare il passo decisivo e si
avventò su
di me, come se quella rappresentasse l’ultima azione della
sua vita. Trovò le
mie labbra con le sue e non esitò un attimo a forzarle per
aver pieno accesso
alla mia bocca.
Un bacio furioso, disperato,
reso tale anche dalle sue mani che, impazienti, viaggiavano sulle mie
spalle.
Volevo di più, ormai
il contatto delle sue sole labbra non mi bastava: pretendevo di
più, bramavo
farla mia per una sola volta, desideravo scaricare tutta la tensione
annidata
nel mio corpo.
La sollevai da terra e
lei non attese un attimo a circondare la mia vita con le sue gambe
lunghe e
perfette. Cercai la parete più vicina, così da
poter avere un sostegno, e,
appena la trovai, mi ci fiondai con violenza, facendola gemere di
piacere.
“No, Travis,
fermati”, biascicò contro le mie labbra.
Non la
calcolai minimamente, preso com’ero a torturare il suo collo
con la bocca.
“Travis!”,
esclamò più decisa.
Mi staccai all’istante
da lei, continuando a tenerla tra le mie braccia, contro il muro. La
guardai
per un momento, non capendo il suo improvviso cambio di rotta e
maledicendola
per aver fermato tutto quanto.
“Mettimi
giù, per favore”, mormorò,
abbassando lo sguardo.
Ecco le parole che non
avrei voluto sentire. Nonostante avesse detto davvero poco, sapevo che
non
sarebbe successo nulla e che io sarei rimasto solo ed insoddisfatto, la
sera
prima della gara.
Di certo, non era una
prospettiva allettante.
La posai con calma a
terra, continuando a tenerla intrappolata tra me e la parete alle sue
spalle.
“Scusami, non so
cosa mi sia preso”, disse lei, non rivolgendomi
l’attenzione.
“Non ti
preoccupare, è anche colpa mia, Simona”.
Mi allontanai da lei,
raggiungendo il divanetto e gettando un veloce sguardo al mare al di
fuori
della finestra.
“Travis…”,
sembrava quasi sull’orlo del pianto. “Tu
mi piaci, davvero, ma non so davvero cosa
mi sia preso, poco fa. Non avrei voluto che finisse in questo modo, in
realtà
non volevo nemmeno venire qui, perche sapevo che qualcosa sarebbe
successo”.
“Non
preoccuparti, Simona, davvero”, le dissi, cercando
di
sorriderle in modo convincente. “Faremo
finta che non sia successo nulla”.
Per un momento la vidi
ancora dispiaciuta ed in imbarazzo, poi tornò
improvvisamente la giornalista
svampita di sempre, con il suo solito sorriso esagerato sul viso.
Bipolarità,
ecco il segreto di tutto, e quasi mi spaventava.
“Bene, allora
non è successo niente”, disse, allegra.
“Allora ti lascio e ci vediamo
domani mattina”.
Era un enigma, quella
ragazza, forse anche di più dell’altro impiastro
che lavorava con lei. Un
enigma indecifrabile.
Si voltò verso la
porta e se ne andò senza rivolgermi un’altra
parola oppure uno sguardo. Levò le
tende improvvisamente, quasi volesse fuggire da me.
Per alcuni minuti
continuai a guardare la porta, esterrefatto.
La sua uscita di scena
mi aveva lasciato impietrito e con migliaia di dubbi per la testa, come
se i
miei soli problemi non bastassero. Oltre alla paura per la gara, la
presenza di
Maya, si aggiungeva anche Simona ed i suoi improvvisi e spaventosi
cambi d’umore
e personalità.
Se prima mi trovavo in
alto mare, dopo la sua visita mi sentivo davvero annegare tra
insicurezze e
paranoie non intenzionate a lasciare il mio corpo.
Decisamente la
condizione perfetta per affrontare un campionato mondiale, come no.
*
Salve
bella gente! E Buon
Natale, anche se in ritardo..
Sì, lo so.. sono in un ritardo pazzesco, ma ho avuto un
blocco
incredibile e non sapevo più da che parte farmi! Come al
solito
sono riuscita a finirlo nel giro di poco, dopo essere stata ferma per
giorni!
Ma almeno sono riuscita a pubblicare prima di Capodanno, anche se manca
davvero poco..
Spero che il capitolo vi piaccia e, vi prego, non odiatemi! Fatemi
sapere cosa ne pensate, ve ne prego, perchè questo
improvviso
cambio di rotta un po' mi spaventa..
Come sempre, ci tengo
a
ringraziarvi dal profondo del cuore.. chi legge in silenzio, chi mi ha
aggiunta nelle varie categorie e le temerarie che hanno recensito! GRAZIE!
Vi lascio.. alla prossima, bellezze! E Buon Anno, anche se
in anticipo!
Chiara.
|
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Capitolo 19 *** 18 - Competizioni pt.1 ***
Maya18
*****
Quanto
avrei voluto restarmene a letto oppure girovagare
ancora per Doha, come avevo fatto il giorno precedente, invece di
dirigermi
verso il palazzetto sportivo insieme al resto della combriccola.
Primo
giorno di competizioni, primo giorno d’inferno.
Pensare
che, da quel momento in poi, avrei dovuto
trascorrere il mio tempo, ed i miei giorni in quella città,
rinchiusa tra
quattro mura a fissare atleti andare avanti ed indietro per vasche,
ininterrottamente, mi faceva venire il voltastomaco. E non capivo
proprio per
quale motivo ero costretta ad assistere alle gare, quel giorno.
Sì, Travis
gareggiava, ma a me la staffetta non riguardava minimamente, nemmeno
per i miei
scatti, ma ero stata costretta da una visita, la sera precedente, di
Simona. Mi
aveva detto che non potevamo di certo perderci un evento ed
un’occasione simile
per poter arricchire il nostro articolo, così l’ho
assecondata. Completamente
controvoglia.
Non
ero mai stata tanto a contatto con il nuoto fino a
quel momento.
Avrei
tanto voluto esplorare quella città, fotografare
gli enormi grattaceli che la popolavano e visitare ancora una volta il
Museo di
Arte Islamica e quello strano, meraviglioso parco ricavato dal deserto.
Per
ore, il giorno precedente, ero rimasta sotto l’ombra di un
ulivo a rilassarmi,
a fotografare particolari e famiglie, a pensare e da tempo non ero mai
stata
così bene. Almeno avevo avuto un giorno di pausa e
libertà prima di continuare
con il lavoro.
Sentivo
addosso ancora parte della calma che mi aveva rapita
durante il mio giro turistico, ma le espressioni cupe e la palese
agitazione
che regnava sul resto del gruppo di mio padre era spossante. E che
silenzio
insopportabile.
Poi
c’era la mia amata
collega, con un sorriso osceno da un orecchio all’altro ed
una tremenda voglia
di parlare. Si vedeva lontano un miglio, ma non avevo per nulla
intenzione di
abboccare all’amo. Non era la solita ragazza svampita,
sembrava quasi
peggiorata e nettamente più stupida, come se
l’ansia pre-gara avesse attaccato
perfino il suo cervello. In quel momento ebbi la conferma di quanto
brutta
potesse essere la giornata che mi stava aspettando.
Incontrai
mio padre e lo salutai velocemente, cercando di
tranquillizzarlo. Notai la tensione sulle spalle e suo viso da metri di
distanza ed io suoi occhi, più scuri e cupi di quanto
fossero in realtà,
parevano un mare in tempesta, non più limpido, placido e
cristallino come
prima.
“Calmati, papà”,
gli dissi, cercando il suo sguardo. “Sai
bene che agitarsi non serve a nulla, me lo hai insegnato tu”.
Posò
la sua attenzione su di me, regalandomi un flebile
sorriso, e quasi riuscii a riconoscere il mio solito papà.
Con il dorso della
mano mi sfiorò una guancia e lo squarcio allegro sulle sue
labbra si allargò.
“Lo so, tesoro”,
cominciò, lui. “Ma non
posso farne a
meno: sono i miei ragazzi”, aggiunse, quasi
commosso e con gli occhi velati
di lacrime.
Mi
si strinse il cuore a vederlo così orgoglioso e fiero
dei suoi atleti, ma al tempo stesso mi investì una folata di
gelosia anche se
cercai di scacciarla dai miei pensieri, convincendomi che, come sua
figlia, non
avevo nulla da temere. Anche se lo spettro oscuro
dell’invidia continuava a
persistere dentro di me.
Arrivò
improvvisamente Roberto, il collaboratore di mio
padre, per parlare insieme delle ultime strategie, anche se non capivo
fino in
fondo cosa ci fosse da escogitare, così me ne andai e
lasciai i due uomini alle
loro chiacchiere e, non appena voltai lo sguardo, individuai Travis in
disparte, con le cuffiette alle orecchie e lo sguardo fisso al
parcheggio al di
fuori della porta dell’albergo.
In
disparte era un eufemismo, in realtà.
Tutta
la troupe si trovava accanto alla porta d’ingresso,
in attesa dell’arrivo dei taxi, mentre lui se ne stava tutto
solo, con il muso
lungo ad almeno cinque metri da noi.
Decisi
di avvicinarmi, troppo curiosa di scoprire il
motivo di quel suo strano comportamento, inoltre mi sentivo incline
alla
gentilezza più del solito, forse merito della passeggiata
terapeutica del
giorno prima.
Lo
raggiunsi e, nel momento in cui mi trovai davanti a
lui, ebbi la sua completa attenzione, tanto che si tolse persino le
cuffie.
Mi
fissò per alcuni istanti, come se dovesse mettermi a
fuoco, con una strana luce negli occhi, con una strana
intensità che non
riuscii a comprendere appieno.
Oltre
che essere palesemente distrutto, sembrava quasi
rattristato all’idea di andare a gareggiare. “Che vuoi, Maya?”, chiese
scontroso.
“Buongiorno a te,
Travis”, gli risposi, ridendo di gusto.
“Non mi sembra il
momento per scherzare”, ribatté, ancora
più nervoso di prima, distogliendo
lo sguardo dal mio.
“Oh, scusa tanto,
superstar”, cominciai, sulla difensiva. “Per una volta ero venuta da te con
‘intenzione di mostrarmi gentile”,
aggiunsi, incrociando le braccia la petto.
Era
nervoso, certo, e sarebbe stato un pazzo a non
esserlo soprattutto quel giorno, ma nulla gli dava il diritto di
parlarmi con
tanta sufficienza. Sembrò pensare alle mie parole, per un
momento, poi sospirò
sonoramente prima di rivolgere lo sguardo a terra, continuando a
restare muto e
a fissare il pavimento, quasi fosse un bambino colto con le mani nel
sacco.
Cercai
di avvicinarmi quel poco che bastava per
incontrare il suo sguardo, pauroso e preoccupato, quasi
sull’orlo del pianto, e
lui quasi si spaventò, raddrizzando la schiena
all’istante.
“Stai bene, Travis?”,
gli chiesi con calma, cercando di studiare attentamente la sua
espressione ed i
suoi gesti, ma invano: non riuscii a capire un accidente di quel
ragazzo,
tranne l’evidente ansia che ormai lo aveva conquistato.
“Non lo so, Maya”,
disse, infine, esasperato. “Ho solo
paura
che oggi possa essere un completo disastro, anzi, ne sono certo”.
“Caspita, sei messo
male, ragazzo”, cercai di sdrammatizzare, ma non
riuscii a fare altro che
peggiorare le cose: se possibile, Travis si irrigidì ancora
di più.
Si
passò nervosamente una mano tra i capelli castani,
scompigliandoli in un modo che trovai incredibilmente sexy, ma cercai
con ogni
fibra del mio corpo di nascondere quella strana sensazione che mi aveva
invasa.
Distolsi lo sguardo e lo rivolsi al resto del gruppo, ancora in attesa
dei
taxi, e mi resi conto di essere osservata.
Simona,
a metri di distanza, mi osservava con ancora quel
suo sorriso osceno sul volto, insieme ad uno sguardo che avrebbe potuto
incenerire chiunque, ma di certo non me, non in quel momento,
perché non avevo
la minima intenzione di farmi intimidire da Riccioli d’Oro.
Non quella mattina,
quando avrei dovuto dare il meglio di me per il lavoro ed avrei dovuto
appoggiare mio padre.
Nessuno
avrebbe potuto sopraffarmi, quella mattina.
“Ti dispiacerebbe
salire in taxi con me, Maya?”, domandò
improvvisamente, Travis.
Mi
voltai di scatto verso il mio interlocutore,
prestandogli ogni briciolo della mia attenzione, certa di non aver
compreso
bene le sue parole, e lo trovai intento a fissarmi intensamente, come
se mi
volesse pregare con gli occhi.
“Come!?”,
esclamai, sorpresa.
No,
non potevo aver davvero capito la sua domanda, non
poteva, lui, desiderare davvero la mia presenza, ne ero certa. Eppure
lui
sembrava convinto delle sue parole.
“Te lo sto
chiedendo per favore”, disse poi, quasi al limite
dell’esasperazione. “Sento
che potresti essere l’unica persona
tra tutti loro che potrebbe non gettarmi addosso ancora più
ansia”,
concluse, avvicinandosi di un passo, accorciando le distanze.
“Sei sicuro di
quello che stai dicendo, Travis? Perche se vuoi proprio me, sei davvero
messo
male”.
“Si, lo so che è
strano, ma preferisco qualcuno che mi odi, piuttosto che qualcuno che
mi dica
di stare tranquillo e che tutto andrà bene”,
disse.
Ed
io non riuscii a non risultare sorpresa dalle sue
parole: non dal suo voler scegliere me come compagna di viaggio fino al
palazzetto, piuttosto dalla sua convinzione del mio odio nei suoi
confronti.
Mi
trovai a pensare a come, in realtà, non odiassi
esattamente quel ragazzo, ma come lo trovassi solamente uno dei tanti
con l’ego
smisurato e con modi di fare completamente all’opposto dei
miei. Non era una
persona da odiare, anzi, per i risultati che aveva ottenuto e per la
sua
determinazione era quasi da ammirare. Quasi,
ovviamente.
“Va bene, Travis,
ma posso sapere per quale motivo hai scelto me, allora?”,
gli chiesi,
sospettosa, lasciando in un angolo tutti i miei dubbi e le mie teorie.
Lui
mi scrutò un momento, sottecchi, per poi reprimere
uno strano sorriso, quasi amareggiato. “So
già che riderai di me”,
mormorò.
Era
in imbarazzo! Mi sembrava praticamente impossibile,
eppure quello che aveva da dirmi lo imbarazzava davvero e la mia
curiosità non
faceva che aumentare, anche la mia perfidia, forse, perché
sentivo il bisogno
di alleggerire la situazione e prenderlo un po’ in giro.
Ma
chi vogliamo prendere in giro, ogni momento era
perfetto per giocare con l’ego di quel ragazzo.
“Quindi?”, gli
chiesi, troppo incuriosita per poter attendere oltre. “Si può sapere di cosa dovrei ridere?”.
Poggiai le mani sui fianchi,
in trepidante attesa.
Lo
vidi incupirsi per un momento, senza capirne il
motivo, per poi tornare lo stesso ragazzo con l’ansia a
mille. “Ho escluso i miei compagni a
prescindere,
puoi capire il perché, e di certo non mi va di avere al mio
fianco Roberto
oppure tuo padre”, cominciò, agitando
nervosamente le mani a mezz’aria. “Mi
ripeterebbero solamente di stare calmo e
tranquillo e che tutto andrà bene e sappiamo tutti che non
sarà così, poi
Simona…”. La voce gli morì in
gola prima che potesse terminare la frase ed
avrei voluto davvero prendere il suo collo tra le mani e strozzarlo per
il modo
in cui mi stava tenendo sulle spine, ma la buona educazione mi
bloccò
all’istante.
Solamente
per non dovermi sorbire una strigliata da mio
padre nel bel mezzo dell’albergo, siamo sinceri, altro che
educazione!
“Che cosa, Travis?”,
gli domandai, cercando di reprimere quel sorrisetto divertito che
voleva
spuntarmi sul viso ad ogni costo, con davvero scarsi risultati.
“Ci siamo baciati”,
disse tutto d’un fiato. “Ed
ora è tutto a
dir poco imbarazzante”.
Oh…
Quella
notizia non me l’aspettavo, proprio per niente.
Rimasi
quasi a bocca aperta, cercando di metabolizzare
ciò che avevo appena saputo, anche se non mi sarebbe dovuto
importare nulla.
Eppure una sorta di fastidio aveva cominciato a ribollire nel mio
stomaco e,
non appena ne fui consapevole, ne rimasi sconcertata, perché
non potevo
permettermi di provare qualcosa per quel ragazzo, se non odio e rabbia.
Mi
sarei presa a schiaffi davanti a tutti, e anche molto volentieri,
solamente per
aver provato a paragonare quel fastidio alla gelosia.
Giammai,
mi venne da pensare.
Solamente
dopo aver messo a tacere il mio monologo
mentale riuscii ad incastrare tutti i pezzi del puzzle. Capii
finalmente il
motivo di quello strano ed inquietante sorriso che non voleva lasciare
il viso
di Simona e anche di quell’occhiata che mi aveva rivolto.
Tutto tornava ed
improvvisamente fu molto più divertente.
“Stai ridendo”,
mi fece notare, infastidito, il Don Giovanni del momento.
Lo
fissai un momento negli occhi, giusto per scorgere la
stessa traccia di nervosismo della
sua
voce anche nel suo viso, poi mi resi conto che aveva ragione: nemmeno
mi ero
accorta del sorriso fin troppo genuino che aveva occupato le mie labbra.
Cercai
di tornare seria, anche se si dimostrò un’impresa
pressoché impossibile.
“Scusami”,
dissi, distogliendo gli occhi dai suoi, troppo torbidi di nervosismo e
stizza.
“Ho solamente pensato a come si
è
presentata la mia cara collega, questa mattina, non volevo prendermi
gioco di
te. In realtà, mi fai un po’ pena”,
confessai, infine, abbandonandomi ad
una leggera risata.
Travis
mi osservò per un momento, come se fosse appena
caduto dalle nuvole, riducendo gli occhi a due fessure e piegando
leggermente
la testa di lato.
“Probabilmente non
te ne rendi nemmeno conto, del guaio in cui ti sei cacciato”,
gli spiegai,
anticipando la sua domanda. “Ti
auguro
già da ora buona fortuna, con la bionda, perché
ho la sensazione che non
riuscirai a togliertela di torno tanto facilmente”.
Tanto
valeva essere sincera, in quel momento, non avevo
nulla da perdere, ma lui, dopo un momento di indecisione si
stampò sul viso
quel suo solito ghigno compiaciuto che mi fece salire il sangue alla
testa in
un batter d’occhio.
Maledetta
me, le mie congetture e le mie teorie, la mia
smania di renderle di dominio pubblico e il morso troppo forte alla
lingua che
mi inflissi per punirmi.
“Per caso sei
gelosa, Maya?”, domandò, lui, con quella
sua dannata faccia tosta, avvicinandosi
ancora di un passo a me, accorciando ulteriormente le distanze.
Non
poteva fare così, non ne aveva il diritto. Era
ingiusto nei miei confronti comportarsi come la vittima di una sorta di
femme
fatale, per un attimo, e come affascinante cacciatore,
l’attimo dopo. Ed oltre
che ingiusto, era destabilizzante.
“Come!?”,
dissi, con la voce leggermente più acuta del dovuto,
mettendomi sulla
difensiva. “Tu sogni, Travis, ecco
la
verità ed io dovrei essere davvero disperata per essere
gelosa di una come
Simona”.
Uno
a zero per Maya!
Mi
ero ripresa, e per fortuna, ed ero riuscita a
riemergere da quel momento di sbando che mi aveva provocato
quell’assurda
insinuazione di Travis. Assurda a dir poco, tra
l’altro… infondata, ridicola,
pessima: tutti aggettivi che rendevano meglio l’idea.
“Ah…”,
esalò,
quasi dispiaciuto. E ne rimasi un attimo sconcertata, nonostante quel
suo
improvviso cambio di rotta non mi convincesse per nulla. “E non lo sei, in realtà?”.
Appunto.
Avevo avuto ragione a dubitare di quel faccino da cane
bastonato che aveva messo su.
“Maledizione,
Travis”, esclamai, esasperata. “No,
non sono disperata e non arriverei mai così in basso da
doverti scegliere, e
continua di questo passo ed in taxi ti ritroverai sia mio padre che
Simona, è
una promessa”, conclusi, leggermente più
alterata di quanto volessi
sembrare.
“Okay, calma tigre”,
ribatté lui, esplodendo in una risata quasi contagiosa.
“Stavo solamente scherzando, lo so
fin troppo bene che per te sono
troppo poco, non vorrei mai che dovessi ridimensionare i tuoi standard
per me”,
concluse, sempre con quella sua maledetta strafottenza e quel
sorrisetto in
volto, facendomi l’occhiolino.
Stentavo
a crederci, ma avevamo parlato come due persone
normali, come due civili ed era stato quasi piacevole. Sì,
certo, non erano
mancate le solite frecciatine ed allusioni, ma almeno non eravamo
arrivati al
solito punto di non ritorno, urlando a vicenda e ricoprendoci di
insulti ed era
un grande passo avanti, anche se ancora non capivo in quale direzione.
Era
strano, ovviamente, relazionarsi in modo ordinario
con qualcuno che avevo sempre, o quasi almeno, preso a parolacce,
eppure lo
avevo trovato semplice e stranamente piacevole, anche se non lo avrei
mai
ammesso nemmeno sotto tortura.
“Ragazzi”.
Fu
mio padre a richiamarci e ad interrompere uno scambio
di sguardi fin troppo interessante ed intenso tra me e Travis.
“Dobbiamo andare, sono arrivati i
taxi!”.
Mi
sentii quasi colta sul fatto, e non ne capii il
motivo, ma mi avviai comunque verso l’uscita, seguendo il
resto del gruppo come
se nulla fosse, attendendo al fianco della superstar il nostro taxi.
La
testa mi scoppiava, letteralmente, ed il continuo
pesante brusio che faceva da sottofondo al luogo della competizione,
l’Hamad
Aquatic Centre, non faceva che peggiorare la situazione ed alimentare
il
nervosismo che già scorreva all’impazzata nelle
mie vene.
Lasciai
Travis al suo destino non appena scendemmo
dall’auto che ci aveva condotti fin lì,
augurandogli buon fortuna e ricevendo
in cambio solamente uno scorbutico grazie.
Non ci avevo badato più di tanto, sapevo che era
terrorizzato all’idea di
andare a gareggiare per poi fare una figura pessima, non gli andava a
genio e
potevo capirlo, ma di certo non mi sarei lasciata abbattere da una
sciocchezza
simile. Non mi aspettavo nulla di più di quello che Travis
mi aveva già
mostrato, così lo lasciai andare, mandandolo al diavolo tra
me e me.
Il
palazzetto traboccava di gente da ogni parte del
mondo, formando un caleidoscopio di colori, lingue, tradizioni
meravigliose,
senza dimenticare la miriade di fotografi e giornalisti che assediavano
i posti
migliori, per avere le migliori possibilità di riuscita nel
lavoro, ed io non
ero da meno: a forza di gomitate alle costole ed excuse
me urlati, ma non sentiti, ero riuscita a conquistare la
postazione perfetta per poter immortalare Travis ed il resto della
competizione.
La
mia testa chiedeva pietà, i miei poveri piedi erano
stati schiacciati come mai prima di allora ed erano appena le nove di
mattina
ed avevo ancora un’intera giornata davanti agli occhi.
Dopo
l’esperienza di Doha nessuno mi avrebbe impedito di
finire in letargo nel mio appartamento almeno fino
all’incarico successivo.
Attesi
impaziente l’inizio della competizione dei ragazzi
di mio padre, assistendo a tutte quelle precedenti, più per
il desiderio di
togliermi di mezzo che per la competizione stessa, e fui quasi
sollevata quando
riuscii a scorgere la superstar insieme a Claudio e a tutto il resto
della
squadra della staffetta.
Tutti
ritenevano l’Italia una delle favorite, in quel
momento, ma dalle loro facce da funerale non mi sarei aspettata
chissà quale
successo. Non che non avessi fiducia in quei ragazzi o nel lavoro
svolto da mio
padre durante i mesi di preparazione, ma conoscevo Travis, anche se in
minima
parte, ed avevo avuto la possibilità di parlare con Luca,
l’altro atleta di
Claudio presente alla staffetta, ed avevo il presentimento che due
personalità
come le loro non potessero combaciare, almeno non durante una gara a
squadre,
dove la collaborazione era fondamentale. Anche se speravo in un loro
riscatto,
soprattutto per la felicità di mio padre.
Persa
nei miei pensieri nemmeno mi resi conto di aver
intercettato lo sguardo di Travis. Cercai di accennare un leggero,
leggerissimo
sorriso di incoraggiamento giusto per alleggerire la tensione, fin
troppo
evidente sul suo volto, e fortunatamente riuscii nel mio intento: lui
rispose
con uno sguardo più tranquillo ed io non persi tempo,
così ne approfittai
perché. Dopotutto, stavo pur sempre lavorando e scattai un
paio di fotografie.
Non in primo piano, troppo scontate, ma la rappresentazione della
squadra
italiana intenta a parlare, con al centro Travis con la sua completa
attenzione
rivolta a me.
Stavo
facendo bene il mio lavoro, nonostante la compagnia
sarebbe potuta risultare migliore, ed ero fiera di me stessa e di
ciò che avevo
imparato e svolto.
Vidi
poi i ragazzi prepararsi alle loro postazioni, dopo
un momento di agitazione e confusione generale, e capii che tutto stava
per
avere inizio e sperai con tutta me stessa di non farmi catturare
dall’ansia da
prestazione che stava affliggendo tutti quanti gli atleti.
Doveva
andare bene, almeno per me.
Era
andata bene, certo, ma solamente a me, ci tengo a
precisarlo. Diciamo che tutta la speranza, riposta su una buona
riuscita
generale, aveva solamente portato sfortuna alla squadra italiana. Un
po’ mi
sentivo in colpa, ovviamente, ma cercai di convincermi che, in fin dei
conti,
non avevo fatto nulla.
Durante
la sessione mattutina i ragazzi di mio padre si
erano classificati quindi, a causa di virate un po’ troppo
lente, particolare
che avevo notato persino io, ma nella sessione pomeridiana erano
arrivati ad un
soffio dal gradino più basso del podio. Solamente per colpa
di due decimi di
secondo l’Italia si era classificata quarta. Due
maledettissimi decimi.
Gliel’avevo
tirata, dannazione!
Finita
la giornata, decisi di attendere il primo taxi
disponibile e tornarmene in albergo, nella mia stanza,
perché non ne potevo
davvero più di tutto il caos che mi aveva circondata fino a
pochi minuti prima.
Era solamente il primo giorno di competizioni ed io mi sentivo
completamente a
pezzi, distrutta da ore ed ore passate in un palazzetto sportivo
straripante di
gente, con il volume degli altoparlanti a livelli insopportabili, senza
dimenticare della fatica che avevo fatto per conquistarmi una posizione
discreta da cui poter svolgere il mio lavoro. Sentivo il bisogno di
stare da
sola, senza qualcuno con cui dover parlare e tessere pubbliche
relazioni.
Solamente un po’ di musica ed un infinito bagno caldo nella
vasca della mia
camera d’albergo.
E
mi ci sarei fiondata di getto, se solo anche solo un
taxi si fosse degnato di accostare ad ogni mio gesto.
“Ciao”.
Mi
voltai, improvvisamente colpita di sentire qualcuno
parlare la mia stessa lingua dopo aver percorso un excursus di decine
di idiomi
differenti.
“Luca”,
esclamai, sorpresa, trovando a pochi metri di distanza
l’altro atleta di mio
padre ad aver gareggiato quel giorno. “Ciao”,
lo salutai, con un sorriso.
“Quanto dovrò
aspettare per un taxi, secondo te?”,
domandò, affiancandomi.
“Non chiedere a me,
è meglio”, gli risposi, storcendo il
naso e trasudando disappunto da tutti
i pori. “Sono parecchi minuti che
aspetto, ma ancora nessuno si è degnato di prestarmi
attenzione”.
Luca
si lasciò andare in una sonora risata, talmente
bella e genuina da risultare contagiosa.
Sembrava
il tipico nuotatore, fatto con lo stesso stampo
di tutti gli altri, ma al tempo stesso sembrava avere qualcosa di
particolare,
capace di contraddistinguerlo dalla massa. Forse era la luce che
emanavano i
suoi occhi cristallini, messi in risalto dai capelli castano scuro,
oppure era
il suo modo di fare, leggermente più semplice di quello di
Travis, per esempio.
“Permetti?”, mi
chiese, facendo segno verso la strada, e quasi non riuscii a credere ai
miei
occhi quando, dopo un suo fischio, uno dei tanti taxi di passaggio si
fermò sul
ciglio della strada, esattamente davanti a noi.
“Che cliché”,
dissi, ridendo. “il classico
cavaliere
dalla brillante armatura arrivato in aiuto della donzella in
difficoltà”.
“Ora che mi ci hai
fatto pensare, ho lasciato il mio bianco destriero in spogliatoio”,
ribatté
lui, con un sorriso luminoso in volto. “Se
non ti dispiace, approfitto del tuo taxi, se la mia presenza non ti
turba”.
Era
addirittura simpatico, oltre che incredibilmente
bello, anche se tutto il suo teatrino non mi convinceva proprio per
niente. Non
mi sarei lasciata abbindolare da un paio di occhi dolci e da un momento
di
galanteria.
Accettai
comunque la sua proposta, considerandomi troppo
gentile per lasciarlo a piedi, e lasciai che salisse su
quell’auto con me e,
non appena lasciammo il palazzetto sportivo, cominciò a
parlare come se ci
conoscessimo da anni.
Mi
venne da pensare a come sembrasse la versione maschile
di Simona, riguardo alle chiacchiere a macchinetta e,
l’ultima cosa che avrei
voluto fare, era proprio trovarmi qualcuno con cui condividere il
viaggio sino
all’albergo che non teneva un momento la bocca chiusa. Quello
era il tipico e
perfetto esempio di come le apparenze potessero davvero ingannare.
Nemmeno
si era reso conto, Luca, di aver intavolato una
conversazione a senso unico, dove l’unico interlocutore era
sé stesso e basta.
Io mi limitavo a rispondere tramite cenni con il capo, mentre lui
continuava
imperterrito a spiegarmi per quale assurdo motivo non avessero ottenuto
buoni
risultati, quel giorno.
Ovviamente
Luca era diventata l’anima pia della
situazione, nel suo racconto, quello senza un briciolo di colpa che
aveva
svolto il suo compito alla perfezione, mentre gli altri tre componenti
avevano
commesso svariati errori, Travis in particolare.
Avevo
saputo da mio padre che, tra i due atleti, non
scorreva esattamente buon sangue, già da parecchio tempo, ed
in quel momento
capii che doveva essere, in realtà, una specie di
competizione tra maschi alfa
per determinare la vera stella della piscina.
Uomini…
E
lui continuava a straparlare, a spiegarmi in che modo i
suoi compagni di squadra avevano mandato in rovina il lavoro di mesi,
quando
lui era stato il primo a mettere a rischio tutto e tutte con le sue
virate da
principiante. Le avevo viste bene e non erano degne di un campionato di
quel
calibro, ma mi dissi che fu per colpa dell’agitazione. Certo,
mi ero
allontanata parecchio dal nuoto, ma una vasca percorsa nel modo
sbagliato la
sapevo ancora riconoscere.
Avevo
fatto un enorme buco nell’acqua a definire Luca
leggermente diverso dagli altri e mi chiesi istintivamente con quali
occhi
avevo avuto il coraggio di guardarlo in quel modo. Se possibile, mi
sembrava
addirittura più egocentrico di Travis, in quel momento.
Per
mia immensa fortuna, dopo un viaggio che mi parve
infinito, arrivammo davanti al Four Seasons Hotel ed io mi lanciai di
getto al
di fuori dell’auto, forse per paura che quel ragazzo potesse
non lasciarmi
andare ed intrappolarmi ancora nella sua conversazione senza
né capo né coda.
“Maya, aspetta un
momento”. Appunto.
Mi
bloccai, sospirando pesantemente ed al limite
dell’esasperazione, capendo già in partenza che
l’essere volata fuori dal taxi
non era servito assolutamente a nulla.
“Ti andrebbe di
bene qualcosa al bar dell’albergo?”, mi
chiese, raggiungendomi davanti
all’entrata, con un sorriso esitante in volto.
Rimasi
shockata davanti alla faccia tosta di quel ragazzo
che, dopo dieci minuti passati a parlare, pensava di potermi abbordare
al bar
dell’hotel, come se fossi una qualunque. Sì,
magari lo stava facendo con tutte
le sue buone intenzioni, certo, ma aveva avuto un pessimo tempismo ed
aveva
completamente sbagliato il momento in cui provarci con me. Sempre se
parlare a
raffica, peggio di una zitella con un esercito di gatti, si potesse
definire
“provarci”.
“Mi spiace, Luca”,
cominciai, entrando finalmente nella hall dell’albergo, dopo
aver rivolto un
sorriso di cortesia al portiere di mezza età che mi aveva
aperto la porta. “Non sto molto bene
e vorrei riposare un po’
prima della cena, sarà per un’altra volta,
eventualmente”.
Lo
vidi rabbuiarsi un momento, per poi nascondere molto
sapientemente la delusione dietro che bel faccino di bronzo che si
ritrovava,
sfoderare un sorriso smagliante, prima di caricarsi il borsone della
nazionale
in spalle. “Capisco, non preoccuparti”,
disse allegramente, troppo allegramente. “Vorrà
dire che non mi darò per vinto”,
concluse con voce più roca, facendomi
l’occhiolino ed avvicinandosi all’ascensore.
Superstar,
bello e pure sfacciato. Sì, aveva le stesse
identiche credenziali degli altri nuotatori che avevo conosciuto ed
avevo avuto
la conferma ai miei sospetti sulla sua diatriba con Travis: due prime
donne
simili non potevano coesistere pacificamente nello stesso ambiente, non
sarebbe
nemmeno bastato l’ossigeno per il loro ego.
Non
ebbi nemmeno la forza di cenare insieme al resto del
gruppo, quella sera, mi sentivo completamente distrutta e con una gran
emicrania. Ordinai qualcosa dal servizio in camera e mi rintanai
nell’enorme
letto matrimoniale subito dopo aver terminato la cena. Non controllai
nemmeno
gli scatti della prima competizione dalla stanchezza e dallo stress
accumulato,
riuscii solamente a restare piaggiata tra quelle lenzuola che parevano
non
volermi lasciare andare.
Il
giorno seguente mi svegliai a mattina già inoltrata,
incurante delle gare che si stavano svolgendo. Avevo avvisato mio padre
la sera
precedente, quando mi aveva raggiunta in camera e mi aveva trovata in
uno stato
pessimo.
Per
quanto avrei voluto ripiombare tra le braccia di
Morfeo, mi convinsi che Doha aveva ancora bisogno di essere esplorata,
vissuta,
così mi avviai lentamente e con passo pesante verso il bagno
per darmi una
rinfrescata. Circa quaranta minuti dopo uscii finalmente dalla stanza,
camminando a passo svelto per raggiungere la sala ristorante prima che
venisse
chiuso il buffet delle colazioni. Ero in ritardo pazzesco, anche se non
avevo
nessun orario preciso, ma volevo mettere qualcosa sotto i denti e
quell’albergo
offriva una scelta spaventosamente ampia ed appetitosa.
Non
appena arrivai a destinazione, cercai un tavolo
libero che non fosse eccessivamente esposto a possibili relazioni
pubbliche: la
mia voglia di intavolare conversazioni era sotto metri di terra, quella
mattina.
Poi
notai, seduta in un angolo della sala, con una giacca
in pelle poggiata allo schienale della sua sedia, una figura che mi
sembrò fin
troppo familiare, così decisi di avvicinarmi, armata del mio
solito sarcasmo e
della mia solita ironia.
“Da quando scegli
tavoli appartati, superstar?”
“Da quando persone
come te cominciano davvero a darmi sui nervi, Maya”,
rispose lui, con un
sorriso tirato.
“Ti sei svegliato
dalla parte sbagliata dal letto, Travis?”, gli
domandai, sedendomi sulla
sedia accanto alla sua.
Mi
lanciò un’occhiata glaciale, continuando a
masticare
la cucchiaiata di frutta che aveva appena infilato in bocca, e solo in
quel
momento notai l’espressione stanca e stravolta, per non
parlare delle pesanti
occhiaie che contornavano i suoi occhi arrossati. Era davvero a pezzi,
nonostante mi sembrasse comunque appena uscito da una rivista patinata.
“Direi che non hai proprio dormito,
invece”,
ipotizzai, continuando ad osservarlo divorare la sua macedonia.
“Infatti”,
rispose, dopo aver deglutito. “E
comunque
sentiti libera di occupare questo posto ed infastidirmi”,
aggiunse, infine,
più scorbutico del solito.
“Sono venuta per la
colazione, poi ti ho visto”, esitai un momento,
troppo concentrata sul suo
viso, ed incredibilmente ottenni la sua completa attenzione. “Ero curiosa di sapere come ti sentivi”,
confessai, poi. E mi sorpresi delle mie stesse parole
perché, inaspettatamente,
erano vere.
Sapevo
che per lui la giornata precedente si era rivelata
più di una semplice sconfitta, ne ero certa, e la sua
presenza in albergo,
invece che al palazzetto sportivo, non poteva che essere una conferma
ai miei
sospetti.
“Davvero ti
interessa sapere come sto?”, mi chiese, incredulo
quasi quanto me,
allargando quei suoi occhi cangianti. “Non
ti sembra ovvio, dopo una disfatta come quella di ieri?”.
Non
potei non ridere davanti alla sua espressione
sorpresa e davanti al suo incredibile scetticismo. “Per quanto tu mi creda una stronza senza cuore,
Travis, ti assicuro che
ti sbagli”, dissi sorridendo ed incontrando il suo
sguardo, leggermente più
mansueto di quanto fosse fino a qualche istante prima. “Lasciami prendere qualcosa da mangiare, poi ne
parliamo”.
Mi
alzai dal mio posto ed andai al buffet, scegliendo
pane tostato, marmellata ed un po’ di frutta, senza
dimenticarmi di una buona
ed abbondante dose di caffè, poi tornai da Travis,
accomodandomi dove ero
seduta fino a poco prima.
“Hai paura di
prendere qualche chilo?”, mi chiese, notando la
scarsa quantità di cibo nel
piatto.
“No, semplicemente
non ho molta fame”, risposi, in vena di scherzi.
“Ho già mangiato
parecchio sarcasmo, in stanza”, aggiunsi, guardando
i suoi occhi divertiti con un sorrisetto in viso.
Per
fortuna sembrava voler stare al gioco, Travis, con
quella sua espressione d furbetto. Nonostante fosse reduce da una
giornata
praticamente pessima sotto ogni aspetto, pareva abbastanza tranquillo
da non
rispondere alle mie battute nella sua solita maniera acida.
Mi
soffermai un attimo ad osservarlo, mentre era
concentrato sulla sua macedonia di frutta, e mi resi conto di come
potesse
apparire innocuo in certe occasioni, come se riuscisse a nascondere
alla
perfezione quel suo lato da prima donna che mi faceva salire il sangue
al
cervello.
Strano
soggetto, lui, bipolare quanto una donna durante i
suoi giorni di ciclo.
Mi
soffermai sui suoi occhi, fin troppo enigmatici,
quella mattina, per poterci leggere dentro qualcosa di chiaro, ma
restavano
comunque belli da far girar la testa alla maggior parte delle persone,
poi,
proprio quegli occhi si posarono su di me, quasi sorpresi. Incontrarono
i miei
e cominciarono a scrutarmi con attenzione, con intensità e
quasi mi sentii in
soggezione sotto il suo sguardo, ma non avevo intenzione di cedere,
anche se,
ne ero sicura, prima o poi mi sarei persa in quel labirinto che erano i
suoi
occhi.
Continuammo
ad osservarci per alcuni istanti, senza che
nessuno dicesse nulla, senza che nessuno muovesse un muscolo, quasi per
paura
di dire o fare la cosa sbagliata, di rovinare quel momento di
tranquillità che,
tra noi, era praticamente sempre inesistente.
Era
strano, ma era piacevole, mi resi conto per
l’ennesima volta.
Poi
Travis scosse leggermente la testa, con un sorrisetto
in viso, e distolse lo sguardo dal mio, come se non riuscisse a reggere
oltre
quell’assurda tensione che si era creata.
Tirai
un sospiro di sollievo, cercando di non farmi
notare, e comincia a consumare la mia colazione, che non avevo ancora
toccato.
Quello scambio di sguardi era stato stranamente più intenso
del solito ed era
stato.. strano, ancora. Sì, perché per un momento
tutto il brusio della sala
ristorante, il via vai dei camerieri e persino l’odore che
emanava il buffet
erano spariti, tutto quanto era evaporato in una nuvola di fumo.
C’eravamo
solamente io e la superstar che mi stava seduta a fianco, solamente noi
ed i
nostri occhi intenti a studiarsi.
“Che cosa hai
intenzione di fare, oggi?”, mi chiese,
improvvisamente.
“Non lo so”,
risposi, dopo aver deglutito un pezzetto di pane tostato e marmellata.
“Penso che farò un giro
per la città e mi
fermerò ad un parco che ho trovato l’altro giorno,
è un posto molto tranquillo”.
“Ah”, si limitò
a rispondermi, abbassando lo sguardo, nemmeno fosse un bambino colto
sul fatto.
Non
potevo davvero abbassarmi a tanto, no, non dovevo
fargli quella domanda, non dovevo mostrarmi gentile con lui,
perché lo avevo
fatto altre volte ed io ci avevo solamente rimesso qualcosa. Non
serviva a
nulla la gentilezza, soprattutto con lui, soprattutto in quei giorni in
cui
aveva sempre i nervi a fior di pelle.
“Vuoi venire con
me, Travis?”, sospirai, infine, andando a
scontrarmi con tutte le mie buone
intenzioni di passare una giornata da sola, in completa
tranquillità.
Lo
avevo fatto davvero, dannazione!
“Come, scusa!?”,
domandò, incredulo, strabuzzando gli occhi e rendendoli
ancora più micidiali di
quanto già non fossero a dimensioni normali. Nemmeno lui
credeva a quel mio
momento di gentilezza.
Io,
dal canto mio, non riuscii a frenare una risata nervosa,
pentendomi di quanto gli avevo appena chiesto perché, ne
avevo la prova, la
vicinanza di quel ragazzo non portava mai nulla di buono. “Si, lo so, è incredibile che te lo abbia
chiesto”, dissi, ridendo.
“Ma se davvero non vuoi girare a
vuoto
per la città, ti conviene accettare la mia proposta subito
prima che decida di
cambiare idea”.
Lo
osservai un momento, cercando di capire cosa potesse
passargli per la testa, ma facendo l’ennesimo buco
nell’acqua: quel ragazzo era
un completo tabù.
Travis
in compenso non aveva distaccato un momento gli
occhi dal mio viso, forse cercando di capire se stessi scherzando o
meno, e non
potevo dargli torto: dati i nostri trascorsi da guerriglia, aveva tutte
le
ragioni del mondo a dubitare di me. Anche io lo avrei fatto, al posto
suo.
“Va bene, Maya”,
si decise, infine, riducendo gli occhi a due fessure.
“Ad una condizione,
superstar”, lo avvisai. “Alla
prima
parola sbagliata ti trovi una guida turistica del posto”,
conclusi,
puntandogli la forchetta addosso.
Lo
vidi ridere, tranquillo come non mai, come se a lui
non apparisse assurda quella situazione.
Oppure,
forse ero solamente io a farmi migliaia di
problemi per una questine che, in realtà, poteva essere
normalissima. In fin
dei conti, i nostri diverbi si erano attenuati, in quei giorni a Doha,
ma la
mia indole diffidente non voleva saperne di levarsi dai piedi.
“Okay, ci sto”,
rispose, tornando improvvisamente serio ed sporgendosi leggermente
verso di me,
accorciando le distanze. “Ma ti
pongo
anche io una condizione”, mormorò.
No,
non potevo decisamente fidarmi di quel ragazzo.
“Ah si? Sentiamo”,
dissi, decidendo di stare al gioco e scontrandomi per
l’ennesima volta con ciò
che urlava il mio subconscio, sporgendomi di mia volta sul tavolo.
“Smettila di
chiamarmi superstar, Maya”, parlò,
infine, dopo alcuni secondi di silenzio,
persi ad osservarmi attentamente. “Mi
infastidisce e, in ogni caso, un nome ce l’ho”.
“Sarà difficile, ma
affare fatto”, risposi con sarcasmo, tendendo una
mano verso di lui, in
attesa che la stringesse, suggellando quel patto nato dal nulla.
Per
un momento osservò la mia mano, forse indeciso sul da
farsi, poi si avvicinò ancora, sporgendosi nella mia
direzione, e solamente
dopo aver incatenato il suo sguardo al mio, avvolse la avvolse nella
sua che, a
suo confronto, scompariva.
Pelle
contro pelle, calda, accogliente, come se mi stesse
invitando a farmi avanti.
Rimasi
un momento frastornata da quel contatto, dalla sua
delicatezza così tanto strana, dai suoi occhi che non
volevano liberarmi un
momento dalla loro tortura.
Non
capivo cosa mi stava succedendo, per quale motivo mi
sentivo stranamente senza forse e per quale motivo non riuscivo a
spiccicare
parola.
“Allora, quale sarà
la prima tappa?”, mi domandò, con quella
sua voce illegale.
***
Sono ancora viva,
giuro..
Mi
prometto ogni volta che vi farò attendere meno, per un
seguito,
ma finisco sempre per far passare settimane.. e per questo vi chiedo
scusa, davvero! Almeno, adesso, per il prossimo capitolo, ne ho
già un pezzetto scritto.. in principio volevo non doverlo
dividere in due parti, ma alla fine mi son resa conto che sarebbe stato
infinito e che vi avrei fatto attendere ancora parecchio! Quindi ve ne
do un assaggio, spero possa piacervi comunque..
Come
sempre, voglio ringraziare le temerarie che si azzardano a lasciare una
recensione - lo apprezzo davvero tantissimo - e anche a chi continua a
leggere in silenzio e chi ha messo la mia storia nelle
seguite/preferite! Grazie, grazie, grazie!
Alla prossima -
spero presto - ,
Chiara
|
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Capitolo 20 *** 19 - Competizioni pt.2 ***
maya20
*****
Mi
parve vederlo ritornare bambino, con gli occhi
spalancati, sempre pronti a conoscere nuovi luoghi, nuovi mondi, con la
voglia
di esplorare ogni centimetro di terra, con le labbra socchiuse per la
magnificenza che gli si piazzava davanti. Perché,
c’è da dirlo, Doha è maestosa
ed è assolutamente normale sentirsi una nullità
al suo cospetto, davanti ad una
concentrazione tale di innovazione e grattacieli infiniti.
Lo
avevo portato negli stessi posti che avevo esplorato
due giorni prima, al museo d’Arte Islamica, al centro della
città e all’Aspire
Park.
E
lì, per la maggior parte del tempo, eravamo rimasti,
seduti sotto lo stesso ulivo che avevo occupato qualche giorno addietro.
E
stranamente avevamo parlato, come due persone normali,
oserei dire. Travis mi aveva spiegato le dinamiche della gara del
giorno prima,
cosa era andato storto che cosa poteva andare peggio, ed era una
visione
completamente diversa da quella di Luca, molto più
attendibile ed imparziale.
Avevano sbagliato tutti, secondo il suo punto di vista, nessuno era da
scusare,
e mi era piaciuto quel suo non volersi salvare dal resto del gruppo,
quella sua
intenzione di mostrarsi uguale agli altri, colpevole quanto gli altri.
Ed era
stata una cosa davvero inaspettata. Lo avevo lasciato parlare, senza
interruzioni, e mi sorpresi quando lo vidi così loquace e
tranquillo,
nonostante tra noi ci fosse stato tutto tranne che
tranquillità.
Ma
forse aveva avuto ragione lui, il giorno precedente,
quando mi aveva considerata la persona che gli gettava addosso meno
tensione
per la sua gara perché, fondamentalmente, a me delle
competizioni interessava davvero
poco.
Mi
importava portare a casa un bel lavoro, belle
fotografie da poter utilizzare per quel maledetto articolo.
Avevamo
passato insieme giusto tre o quattro ore, niente
di più, cercando di ignorarci il più possibile al
di fuori dell’Aspire Park, ma
senza rendere la situazione troppo pesante ed imbarazzante: un silenzio
piacevole, che ci dava la possibilità di viaggiare con la
mente e di esplorare
in santa pace la città. E ci eravamo riusciti,
più o meno.
Di
certo, non quando eravamo stati costretti a salire su
un autobus straripante di persone per tornare in albergo,
perché di taxi non se
ne vedevano nemmeno le ombre.
“Direi che è la
nostra unica opzione”, aveva detto, lui, quando
l’autobus frenò bruscamente
davanti a noi. “A meno che tu non
voglia
tornare in hotel a piedi”, aggiunse con un sorriso,
infine.
Nessuna
delle due possibilità, in realtà, mi attirava, ma
decidemmo per la meno peggio, per quella che, almeno, ci avrebbe
provato di
dolori alle gambe il giorno seguente.
Così
salimmo sul trabiccolo pubblico e, non appena le
porte furono serrate, il conducente partì quasi sgommando,
ricevendo una serie
di imprecazioni sia da parte mia che di Travis. Poi si fermò
di nuovo, dopo
nemmeno un paio di chilometri – ovviamente inchiodando
–, così salirono almeno
un’altra decina di persone, riducendo notevolmente lo spaio e
l’ossigeno
disponibile dentro quell’ammasso di ferraglia.
Era
stato soffocante e fuori luogo, soprattutto restare
così tanto appiccicata a Travis, con la mia schiena
praticamente poggiata al
suo petto.
Imbarazzante
e sconveniente.
Per
non parlare di quando l’autobus aveva inchiodato
all’improvviso ancora una volta, facendo balzare tutti in
avanti, compreso
Travis, che si era scontrato con me e, per risparmiarmi una rovinosa
caduta, mi
aveva afferrato per un fianco, trattenendomi
Decisamente
imbarazzante e sconveniente.
E
preferisco tralasciare di come la sua mano aveva
esitato un momento, prima di lasciare il mio fianco.
Salirono
altre persone e tutti si ritrovarono costretti
ad indietreggiare per cercare di fare spazio, mentre io, vedendo gli
altri
passeggeri arrivarmi addosso, mi ritrovai costretta a finire poggiata
completamente
a Travis che, come suo solito, si rivelò essere una statua
di marmo,
impassibile.
“Non ti
preoccupare, non mi infastidisci”,
mormorò, poi, dopo che l’autobus
ripartì
in quarta, così me ne restai lì, con la schiena
poggiata al suo petto, a dir
poco imbarazzata dalla situazione.
Nessuno
di noi aveva detto nulla per il resto del viaggio.
Eravamo
rimasti in silenzio, dopo esserci scambiati uno
sguardo di circostanza – che forse era durato più
del dovuto -, ed avevamo
atteso la fine di quel viaggio, di quella tortura tanto assurda in quel
buco di
autobus.
Arrivammo
dopo un’attesa infinita davanti all’albergo e,
a forza di spintoni, riuscimmo a poggiare nuovamente i piedi a terra,
prima che
il veicolo ripartisse sfrecciando per le strade di Doha.
“Ma chi ti ha dato
la patente, razza di idiota!?”, esclamai, dopo aver
esaurito la pazienza,
sbuffando.
Vidi
Travis rivolgermi l’attenzione, cercando di
reprimere un sorriso divertito con scarsi risultati. Lo fulminai con lo
sguardo, decisamente poco incline alla risata, in quel momento, ma lui
non
sembrava essere del mio stesso avviso, tanto che non riuscì
a trattenersi e scoppiò
in una sonora risata.
Sembrava
spensierato, come se quelle ore spese a
girovagare per la città fossero davvero servite ad
allontanare l’ombra
minacciosa della competizione che gli incombeva sulle spalle. Sembrava
diverso,
più sereno, più semplice, un ragazzo normale non
la superstar che avevo
conosciuto nei mesi precedenti. Ma questo non lo giustificava comunque
dal
deridermi, cosa che stava facendo anche in quel momento.
“Non è divertente,
Travis”, mugugnai, indispettita dalla sua allegria.
“Può essere catalogato
come calamità naturale, quell’autista”,
aggiunsi, incrociando le braccia al petto.
“Oh me ne sono
accorto, Maya”, riuscì a rispondere, tra
le risate. “Ma è stato
comico, in un certo senso”.
A
pensarci bene aveva ragione, ma questo non migliorava
di certo le cose. Persone del genere non dovrebbero nemmeno averla, la
patente,
figuriamoci guidare autobus pubblici. Sarebbe potuta succedere qualche
catastrofe e, di comico, non ci sarebbe stato assolutamente nulla.
Si,
ero leggermente più pessimista di quanto avrei dovuto
essere, ma quello era stato il quarto d’ora più
lungo ed assurdo della mia
vita.
“Ah andiamo”,
esclamò all’improvviso, Travis. “Smettila
di essere un pezzo di legno, è stata una scena comica, tutto
qui: la tipica
scena da film”, aggiunse, infine, continuando a
sorridere divertito.
Lo
fissai un momento, osservando quei suoi occhi
stranamente illuminati dal divertimento e dalla semplicità e
quella sua
espressione serena, quasi fosse un ragazzino appena sceso da una
giostra al
lunapark. Non sembrava per niente la stessa persona che avevo insultato
ed
odiato in precedenza, sembrava un ragazzo semplice, con la
spensieratezza
giusta per la sua età.
“Quanti anni hai,
Travis?”, gli domandai, all’improvviso,
rendendomi conto di non sapere che
età avesse la superstar.
Rimase
un attimo di sasso, forse sorpreso dal mio
improvviso cambio di argomento, poi mi sembrò quasi in
imbarazzo, il momento
dopo.
“Cosa… ventisette,
ma perché ti interessa?”, chiese,
diventando più curioso.
Dovevo
inventarmi qualche scusa oppure tirare fuori dal
cilindro una delle mie solite frecciatine per fargli morire quel
sorrisetto
compiaciuto e divertito da quel suo bel visino che tanto ostentava, a
volte. E
dovevo farlo in fretta, perché l’attesa non
portava mai nulla di buono,
soprattutto se presa come esitazione.
“Ah nulla, volevo
solamente sapere quanto tempo ti resta prima che i più
giovani ti buttino giù a
calci dal tuo trono”, riuscii finalmente ad
articolare, con un sorriso
angelico sulle labbra.
Missione
compiuta,
pensai, infine, notando la sua espressione sorpresa che
venne immediatamente sostituita dal suo solito cipiglio impregnato di
disappunto.
Non
gli diedi nemmeno il tempo di rispondermi a tono e mi
incamminai verso l’entrata dell’hotel, decisa
più che mai a rinchiudermi nella
mia stanza e a concedermi una lunga e rigenerante doccia.
Nonostante
fosse dicembre, a Doha faceva caldo, troppo
caldo per essere quasi vicini a Natale.
Entrai
nella hall, sorridendo al solito portiere che,
ormai, sembrava avermi riconosciuta e cominciai a dirigermi verso gli
ascensori.
“Ti rifugi subito
in camera tua, Maya?”, domandò, lui,
destandomi dai miei sogni ad occhi
aperti.
Mi
voltai lentamente verso di lui e me lo ritrovai ad un
paio di passi di distanza, intento a fissarmi con una strana scintilla
negli
occhi, ben diversa dal divertimento che avevo scorto poco prima, molto
più
intensa, molto più torbida.
Esitai
un momento a rispondere alla sua domanda, forse
per il tono di voce che aveva utilizzato, quasi saccente, ma al tempo
stesso
intriso di una qualche specie di speranza., oppure esitai per colpa del
momento
di scompenso che mi causarono quei suo sguardo così intenso,
così carico di
decine di emozioni che non riuscii a riconoscere.
“Credo di si,
Travis”, riuscii a dire, infine, dopo aver
riacquistato le mie facoltà
mentali. “Ho bisogno di una doccia,
quel
viaggio in autobus mi ha distrutta più di tutto il resto
della giornata”.
Lo
vidi avvicinarsi a me, ancora di un passo,
minimizzando la distanza che ci separava, osservandomi con ancora
più intensità
e facendomi sentire tanto piccola da voler scomparire. Era dannatamente
più
alto di me.
Nonostante
i miei centimetri scarsi, cercavo sempre di
farmi valere in qualche modo, ma in quel momento non riuscivo a pensare
ad
altro che a scappare, a rinchiudermi nella mia stanza per uscire
solamente la
mattina seguente, quando avrei dovuto fotografare il ragazzo davanti a
me per
la sua competizione più importante.
Mi
sentivo inerme, davanti al suo sguardo, disarmata da
ogni sorta di scudo che costruivo ogni volta che qualcuno minacciava la
mia
incolumità, per così dire, e non avevo idea di
cosa avrei dovuto fare senza
passare per una perfetta idiota.
“Hai fame?”,
chiese, poi, con un’espressione indecifrabile in volto.
“Non ne ho idea”,
risposi, rendendomi conto di aver sconnesso ogni filo conduttore i
fosse tra il
mio cervello e la mia bocca.
Ma
che diamine sto dicendo!?
E
lui sorrise, forse più comprensivo di quanto pensassi
oppure solamente più divertito di quanto sarei riuscita a
sopportare. L’unica
cosa certa era che, quella manciata di minuti mi aveva mandato in panne
tutto
quanto, dalla mente alla punta dei piedi, e mi sentivo ancora
più stupida ed
impacciata di poco prima, senza che lui avesse fatto o detto qualcosa
di
particolare.
“Scusami, volevo
dire che non saprei che fare perché sono parecchio stanca”,
dissi, cercando
di rattoppare per quanto possibile la terribile figura che avevo fatto.
“Ti andrebbe di
mangiare qualche cosa al ristorante dell’albergo oppure
rischi di addormentarti
sul tavolo?”, mi chiese, senza cercare di
nascondere la massiccia dose di
sarcasmo nella sua voce. Di certo non le mandava a dire, Travis.
Non
riuscii a reprimere la risata che mi si riverberò in
gola e mi lasciai andare, dicendomi che per una buona volta tutto il
buon senso
poteva andare a farsi fottere, anche se, le ultime volte che
l’avevo pensata in
quel modo, ero finita in situazioni ben più scomode, con
Travis, di un pranzo
nel ristorante di un albergo.
“Cercherò di non
russare, allora”, ribattei, restando al suo stesso
gioco. Se si armava di
sarcasmo, di certo, io non potevo che rispondere con la stessa moneta.
“Ma non è vero”,
esclamai, stizzita.
“Oh si, invece”,
mi contraddisse, lui, per l’ennesima volta, continuando a
mangiare il suo
piatto di pesce grigliato. “Ma ti
ostini
a non volerlo ammettere, nemmeno a te stessa”,
continuò, allacciando il suo
sguardo al mio, cominciando a diventare insistente. E noioso.
Aggiungiamogli
anche ripetitivo.
Sbuffai
sonoramente, senza cercare di nascondere il mio
disappunto e tornando a concentrarmi sul piatto di pasta che avevo
davanti. Una
delizia, per essere chiari.
Quando
avevo accettato la sua proposta di pranzare
insieme non avevo messo in conto tutte le possibilità a mio
sfavore di
incappare in argomenti scomodi, che avrebbero potuto mettermi in
imbarazzo,
come in quel caso.
Non
avrei mai pensato che Travis potesse avere tanta
faccia tosta, così tanto da arrivare a dirmi, come se fosse
la cosa più normale
del mondo, che si vedeva lontano un miglio quanto mi vergognassi di
stare
seduta in pubblico con lui, soprattutto dopo quello che era successo
tra noi –
o come aveva detto lui: dopo quelle due
incomprensioni finite male, o bene in base ai punti di vista -.
“Si capisce da come
ti agiti sulla sedia e da come continui a guardarti intorno”,
mi aveva
detto, nemmeno fosse il miglior analista sulla faccia della terra.
“È a dir poco palese, Maya”.
Faceva
tanto la faccia di bronzo, lui, con quel suo
sorriso sarcastico stampato in faccia, mentre continuava a consumare il
suo
pasto, guardandomi con divertimento. Mi chiesi se si fosse accorto di
come mi
sentissi in imbarazzo.
Aveva
tirato fuori dal cilindro quel discorso come se
nulla fosse, facendomi andare di traverso l’acqua che stavo
sorseggiando e,
ovviamente, facendomi fare l’ennesima figura da idiota: gli
ospiti dei tavoli
vicini al nostro mi guardarono tutti con preoccupazione mista a
divertimento.
“Non mi ostino a
non volerlo ammettere, Travis”, ribattei, tornando
con la mente al
presente. “Semplicemente non capisco
perché
dovrei vergognarmene”, aggiunsi, sperando di
apparire il più impassibile
possibile perché, diciamocelo, era molto di più
di semplice vergogna, quella
che provavo. Non avevo mai fatto una cosa del genere, per puro
divertimento e
solo per aver ceduto all’istinto e, quella consapevolezza, mi
faceva sentire
una perfetta stupida che, davanti ad un bel ragazzo con un fisico
invidiabile,
era caduta come una pera cotta.
Sì,
ero una stupida, sia per sentirmi in quel modo, ma
anche per non riuscire a farmi meno paranoie di quante servissero in
realtà.
“Perché non vuoi
che tuo padre venga a sapere qualcosa di ciò che
è successo tra noi”,
disse, poi, come un fulmine a ciel sereno.
Dannazione,
era scaltro il ragazzo!
Aveva
pienamente ragione, anche se solo in parte: era
tutto vero, non volevo che mio padre scoprisse una cosa del genere,
perché non
sapevo come avrebbe reagito e perché non sapevo se mi
avrebbe guardato in un
modo diverso. E non volevo che qualcosa, del mio rapporto con lui,
cambiasse
perché era tutto ciò che avevo rimasto al mondo e
non potevo permettermi di
perdere anche lui. Non dovevo lasciare che accadesse, dovevo riuscire a
tenere
tutto all’oscuro.
Lo
fissai negli occhi, paralizzata dalla verità che mi
era stata sbattuta in faccia senza alcuna delicatezza, come un secchio
di acqua
fredda di primo mattino. E non riuscii a pronunciare parola per una
manciata di
secondi, perché non trovai alcuna scusa a cui aggrapparmi
per salvarmi da
quella situazione tanto strana.
“Lo posso capire,
Maya, davvero”, parlò, lui, vedendo che
ancora non riuscivo a spiccicare
parola. “Ma non dovresti
vergognartene,
almeno non con te stessa”, concluse, infine,
rivolgendo l’attenzione
all’ultimo trancio di pesce rimasto nel suo piatto.
Lo
osservai per un momento, mentre continuava a mangiare,
senza che lui si accorgesse dei miei occhi addosso, indisturbata. Solo
per
cercare di trovare le parole giuste da dire.
“E perché non
dovrei vergognarmene?”, chiesi, poggiando i gomiti
sul tavolo e prendendomi
il viso tra le mani. “Sentiamo il
saggio”,
aggiunsi, un po’ più velenosa di prima, ottenendo
la sua completa attenzione.
Mi
scrutò un momento, assottigliando lo sguardo, quasi
offeso dall’ennesimo nomignolo che gli avevo appena
affibbiato. Finì di
masticare il boccone che aveva ancora in bocca e posò con
cura le posate sul
piatto, ormai vuoto.
“Perché è successo
e basta, perché è stato un attimo di debolezza a
cui abbiamo ceduto entrambi”,
cominciò, osservando ogni mio movimento con attenzione, con
fin troppa
intensità. “Perché
non è stata solo colpa
tua: ci sono caduto dentro anche io, non solo tu, Maya. Siamo esseri
umani, fin
troppo deboli davanti ad una tentazione”, concluse,
lasciandomi un momento
interdetta.
Mi
aveva sorpresa, certo, perché non mi sarei mai
aspettata discorsi del genere da uno come lui. Come quando mi aveva
raccontato
di com’era andata la competizione, aveva attribuito la colpa
a tutti quanti,
non solo agli altri membri della squadra, ma anche a se stesso.
E
si stava comportando quasi allo stesso modo anche in quel
momento e non me lo sarei mai aspettata.
Per
alcuni istanti nessuno disse niente, c’erano solo i
nostri sguardi che non accennavano a cedere, che continuavano a
studiarsi come
per cercare una qualsiasi debolezza su cui far presa, ma non cambiava
nulla,
niente saliva a galla. C’erano solo i nostri occhi che non si
staccavano gli
uni dagli altri. Ed era quasi soffocante non riuscire a cedere per
prima, non
riuscire a parlare, non riuscire a pensare ad altro che ai suoi occhi
nei miei.
“Non hai nulla da
dire?”, mi chiese lui, come se mi avesse appena
letto tra i pensieri
contorti che viaggiavano tra la mia mente.
“Più o meno”,
risposi, con un sorriso tirato. “Diciamo
che in parte hai ragione, ecco”.
“Quale parte?”,
si sporse sul tavolo, diventando più curioso. “Quella in cui dico che hai paura che Claudio venga
a sapere qualcosa
oppure la mia perla di saggezza sull’essere umano?”,
aggiunse,
ridacchiando.
Non
riuscii a non unirmi a lui, perché la
perla di saggezza, come l’aveva
chiamata lui, mi era piaciuta e, a modo suo, era veritiera.
“La parte su mio
padre”, ammisi, infine, più a me stessa
che a lui, con un sonoro sospiro.
Mi ero rassegnata, ecco la verità, tanto valeva essere
sinceri per una volta. “Anche se il
tuo momento filosofico mi è
piaciuto”, aggiunsi, sorridendogli divertita.
In
quel momento ero diventata io quella che si
sbilanciava troppo nel ridere e non andava bene, non mi faceva sentire
al
sicuro, ma sempre in bilico, pronta a sbagliare la mossa successiva.
“Dovevo
concentrarmi sulla filosofia, non sul nuoto, lo so”,
disse lui,
assecondandomi e regalandomi un sorriso quasi accecante. “Sarei stato grande, uno tra più grandi,
di certo”, aggiunse,
scoppiando a ridere per le sue stesse idiozie.
Lo
osservai un momento, cercando di non seguirlo a ruota
– invano – e rendendomi conto di quanto risultasse
fresco ed innocente, mentre
rideva di gusto, e di come gli occhi gli illuminassero il viso.
Era
fin troppo bello per i normali standard, ma non lo
ostentava – almeno non negli ultimi tempi -, e questo,
probabilmente, lo
rendeva ancora più interessante, se visto sotto una certa
luce. Io ne avevo
conosciuto prima i lati negativi, quelli arroganti e da superstar, ed
avevo
passato dei giorni d’inferno per colpa sua, ma
nell’ultimo periodo di
preparazione ed in quei giorni a Doha sembrava un’altra
persona, un altro
Travis, molto più alla mano e semplice, molto meno
complicato. Anche se i suoi
pensieri e le sue emozioni restavano comunque un mistero.
“Quindi, vuoi
spiegarmi perché ti vergogni così tanto di una
sciocchezza?”, mi chiese,
Travis, improvvisamente, tornando serio.
“Sciocchezza!?”,
esclamai, quasi allibita. “Sarà
che sei
abituato a portarti a letto chiunque ti passa a tipo,
l’importante è che
respiri, ma per me non è una sciocchezza, soprattutto
perché ti odiavo, davvero”,
conclusi.
“Mettiamo le cose
in chiaro”, si agitò sulla sedia,
cambiando posizione e poggiando i gomiti
al tavolo. “Primo: io non mi porto a
letto chiunque, anzi, la mia serietà su questo tema potrebbe
sorprenderti.
Secondo: non mi importa solo che respiri, ma per chi mi hai preso!?”,
mi
domandò, poi, fin troppo divertito dalla situazione per
sembrare convincente.
“Per uno che miete
fin troppe vittime e nemmeno lo sa, ecco per chi ti ho preso”,
risposi a
tono, senza smettere di ridere.
“Certo, vedila come
ti pare”, disse, arrendendosi. “E
comunque non mi sono lasciato scappare il dettaglio del verbo odiare al
passato, solo ora mi rendo conto di aver fatto progressi”,
aggiunse,
sorprendermi.
Speravo
non se ne fosse accorto, speravo che quella mia
svista fosse passata inosservata, ma Travis era molto più
scaltro di quanto
volesse dare a vedere.
“Ah già”,
cominciai, facendo l’indifferente. “Diciamo
che ora sei diventato quasi sopportabile”,
aggiunsi, infine.
Mi
scrutò per un momento, Travis, come per convincersi
delle mie parole, per poi lasciarsi scappare un sorriso che mi parve
quasi
imbarazzato, ma poi dissi a me stessa di aver avuto le traveggole. Non
poteva
essere vero.
“Di certo sei
migliorato notevolmente da quando cercavi di intralciare il mio lavoro,
all’inizio, ma continui ancora a darmi ai nervi”,
dissi, sincera, studiando
con attenzione il mio piatto vuoto, pur di non incontrare il suo
sguardo che
sentivo perforarmi la nuca. “Ma solo
alcune volte”.
“Del tipo?”,
domandò Travis, incuriosito dal mio barlume di
sincerità.
“Del tipo quando
sembra che quello con il ciclo mestruale sia tu e non io, ecco quando”,
risposi, scoppiando a ridere, sollevando lo sguardo ed incontrando il
suo.
Lo
trovai con i gomiti poggiati al tavolino ed il viso
tra le mani, più vicino di quanto lo ricordassi, intento a
studiarmi con
attenzione.
Quella
giornata aveva preso una piega del tutto
inaspettata perché, di certo, quando mi ero svegliata quella
mattina, non mi
sarei mai immaginata di ritrovarmi a pranzare proprio con Travis.
Sarebbe stata
l’ultima persona con cui mi sarei mai aspettata di pranzare,
ecco tutto.
E,
cosa ben più sconvolgente, stavamo conversando come se
nulla fosse, come sia io che lui fossimo due persone normali e non due
individui che, alla prima occasione, erano sempre pronti a farsi la
guerra. Forse
era proprio quel particolare a sorprendermi, perché in fin
dei conti mi sentivo
bene – nonostante i suoi occhi indagatori -, mi sentivo
tranquilla e non sempre
in balia tra agitazione e nervosismo.
“Ora dovrei andare”,
mormorai, senza nemmeno accorgermene, e senza distogliere lo sguardo
dal suo.
Mi sembrò di vedere scomparire ogni traccia di divertimento
e di tranquillità
di poco prima, dai suoi occhi, ma non mi soffermai più di
tanto su quei particolari:
dovevo defilarmi prima che la situazione potesse peggiorare e dovevo
farlo in
fretta, senza dare a Travis la possibilità di ribattere.
Così
mi alzai in piedi, lasciandolo un momento
interdetto, e presi la mia borsa, intenta ad andarmene, quando mi resi
conto
che lui mi seguì a ruota, alzandosi a sua volta dalla sedia.
“Ti accompagno
all’ascensore”, borbottò lui,
recuperando la sua giacca in pelle.
Dannazione!
Dopo
aver lasciato la sala ristorante, tornammo nella
hall, diretti agli ascensori per tornare alle nostre camere.
Non
aveva proferito parola, lui, si era limitato a
seguirmi in silenzio, quasi fosse la mia ombra e, in tutta
sincerità, un po’
metteva soggezione, sentire la presenza di questo armadio alle mie
spalle.
Schiacciai
il pulsante per chiamare l’ascensore ed
attesi, in silenzio, in completo imbarazzo: tutta la
tranquillità di poco prima
era svanita nel nulla, in una nube di fumo.
Poi
finalmente il trabiccolo arrivò e le porte si
aprirono, ma quando entrai mi resi conto che Travis non mi aveva
seguita ancora
una volta.
Me
lo ritrovai davanti, a pochi centimetri da me,
poggiato allo stipite del muro.
“Non torni in
camera?”, gli domandai, istintivamente.
“Per quanto mi
piacerebbe recuperare ore di sonno, no”, rispose,
con un sorriso tirato in
volto. “Faccio un salto al
palazzetto per
vedere come vanno le altre competizioni”, aggiunse,
infine, senza staccare
gli occhi dai miei.
Restammo
in quella posizione per alcuni istanti, con lui
poggiato alla porta ed io con la mano sulla fotocellula
dell’ascensore, per
evitare che le porte si chiudessero e che schiacciassero Travis tra di
loro.
Sembrava
si stesse trattenendo dal fare qualcosa, lui, un
eterno indeciso che non sapeva quale sarebbe potuta essere la mossa
più
rischiosa. Ed io sperai con tuta me stessa che si limitasse a salutarmi
e nulla
di più, perché non volevo altre complicazioni,
altre cose a cui pensare. Volevo
solo tornarmene in camera e passare l’intero pomeriggio nella
vasca da bagno.
“Capisco”,
mormorai, interrompendo quel pesante silenzio che era arrivato
all’improvviso.
“Allora ci vediamo domani mattina”.
“Si, certo”,
ribatté, lui, sorridendo ancora, ma più
malinconico, quasi più triste. “Sempre
che non decida di scappare, questa
notte”, aggiunse.
Scoppiai
a ridere perché sapevo che non l’avrebbe mai
fatto: piuttosto che passare per codardo avrebbe fatto la figura
dell’idiota. “Si, certo”,
biascicai, riprendendomi
dalle risate. “Cerca di dormire,
Travis:
la faccia da funerale non si addice ad un professionista”,
aggiunsi,
allontanandomi e poggiando la schiena alla parete interna
dell’ascensore.
Lo
vidi allontanarsi a sua volta, per dare la possibilità
alle porte di chiudersi e di lasciarmi tornare in stanza, senza
distaccare gli
occhi dai miei.
Cominciava
a diventare spossante sostenere il suo
sguardo.
“Grazie, Maya”.
Fu
l’ultima cosa che sentii prima di vedere il riflesso
di me stessa.
L’ascensore
era circondato da specchi che regalavano un
caleidoscopio perfetto, anche se in quel momento lo trovai parecchio
irritante.
Non volevo vedere il mio viso arrossato dal sole, i miei occhi stanchi
ed il
mio abbigliamento più trasandato del solito.
Avevo
in testa solamente l’ultimo sguardo di
ringraziamento che Travis mi aveva rivolto e mi dava ai nervi,
perché lo trovai
fastidiosamente affascinante ed io non dovevo trovare nulla del genere
in un
ragazzo come lui, assolutamente.
Il
fatidico giorno X, il giorno del giudizio, il giorno
della grande sfida, chiamatelo come volete. Fatto sta che, finalmente,
arrivò!
E non mi sembrava nemmeno possibile, non mi sembrava vero che proprio
quello
sarebbe stato il mio ultimo giorno a Doha, ecco tutto.
Mi
sarebbe mancata, in un certo senso, quella città, la
sua energia, quello strano caldo a dicembre, il cibo, mi sarebbe
mancato un po’
tutto, certo, ma avevo bisogno della mia Italia, del mio appartamento e
di
dormire per un giorno intero.
“Forza Maya,
andiamo”, esclamò Simona, distogliendomi
dai miei pensieri.
Eravamo
nella hall dell’albergo, come sempre, in attesa
dei taxi, ma quella mattina non avevamo compagnia, stranamente. Non
c’era tutto
il resto della squadra, mio padre oppure Roberto, nemmeno Travis. Avevo
trovato
solamente Simona e lei aveva trovato solamente me, con la mia stessa
incredulità nello scoprire che tutti gli altri ci avevano
abbandonato ed
avevano deciso di raggiungere il palazzetto prima del dovuto.
Certo,
la competizione di Travis era quella più attesa,
ma almeno un messaggio, un avviso potevano lasciarlo, invece nulla!
Deserto
totale.
Seguii
la mia collega dentro la vettura, inforcando gli
occhiali da sole e mettendo le cuffie alle orecchie, decisa
più che mai a non
ascoltare una singola parola che sarebbe potuta uscire dalla bocca
della bionda
al mio fianco. Non ne avrei avuto le forze.
Non
ero io quella prossima a gareggiare, eppure mi
sentivo agitata come mai prima di allora, e non mi piaceva per niente
quella
sensazione, come se il mio corpo non fosse più sotto il mio
controllo, come se
non riuscissi a decidere cosa fare e cosa no, ma purtroppo ero
costretta a
convivere con quella sensazione soffocante fino al momento della fine
delle
competizioni. Ovvero fino al pomeriggio abbondantemente inoltrato.
Che
strazio!
Arrivammo
finalmente al palazzetto e, sia io che Simona,
non attendemmo un attimo a correre all’interno della
struttura, cercando di
agguantare le postazioni migliori. Mi avrebbe dato una mano con gli
spintoni,
mi aveva detto lei, mi avrebbe aiutata ad arrivare ad una postazione
perfetta
per i miei scatti e, in quel momento, mi era quasi piaciuta quella
Simona,
determinata e testarda, con il sorriso vittorioso in viso. E lo aveva
fatto
davvero, non proprio con spintoni ed altro, ma più che altro
con sguardi
ammalianti e sorrisini ambigui, ma almeno eravamo riuscite ad arrivare
il più
vicino possibile alle vasche.
”Perché non me lo
hai detto prima?”, le domandai, sorpresa.
“Nei giorni scorsi mi sarei
risparmiata parecchie gomitate nelle costole”.
Scoppiò
a ridere, attirando l’attenzione di parecchi
altri fotografi intorno a noi.
Mi
sarei seppellita molto volentieri, certo, ma almeno
per una volta era stata utile.
Dopo
un’ora abbondante, cominciammo a vedere gli atleti
avvicinarsi alla vasca principale, pronti per gareggiare e, tra questi,
scorsi
finalmente anche Travis, affiancato da mio padre. Più che
affiancato, sembrava
quasi piantonato, ma sapevo bene che, per evitare la nascita di
paranoie
inutili, mio padre preferiva restare incollato ai propri atleti fino al
momento
cruciale in cui tutto sarebbe iniziato.
“Che stai
aspettando, Maya? Un cartello scritto?”, mi
domandò, scioccata, Simona. “Comincia
a fotografare Travis, forza!”.
“Come pensi che
possano uscire scatti del genere con mio padre a due centimetri da lui,
eh!?”,
ribattei, stizzita.
“Beh tu scatta, ho
in mente un paragrafo dell’articolo in cui
includerò anche tuo padre, quindi
qualche sua immagine può solo essere utile”,
rispose lei, agitando una mano
a mezz’aria, annoiata.
Nonostante
non fossi convinta delle sue parole, scattai
qualche fotografia, cercando di centrare l’angolatura giusta,
nonostante fossi
parecchio distante da loro, e cercando di immortalare entrambi con
espressioni
decenti. Contenta Simona, contenti tutti.
Poi
arrivò il momento X, finalmente, il momento in cui
sarebbe cominciata la gara, ma cominciata per davvero!
Vidi
tutti gli atleti avvicinarsi ai blocchi di partenza,
scambiarsi gli ultimi accorgimenti con gli allenatori, respirare
intensamente e
cercare di isolarsi dall’ammasso di brusio che era diventato
il palazzetto.
Travis, invece, sembrava essere in un altro modo, perso
com’era a fissare la
distesa d’acqua davanti a lui, come se la stesse sfidando con
lo sguardo, come
se le stesse dicendo che quel giorno non avrebbe vinto lei, quel giorno
sarebbe
stato il suo giorno, il giorno per
essere un vincente e per far vedere a tutti quanti il suo valore.
Sembrava
perso in se stesso, agitato nonostante mio padre
reclamasse la sua attenzione. Non accennava ad ascoltarlo, a dare
tregua all’acqua
che aveva sotto gli occhi.
Scattai
ancora, cercando di catturare la particolarità di
quel momento, per quando stupido potesse sembrare.
Mio
padre gli afferrò un braccio, probabilmente stanco di
parlare a vuoto e lui, finalmente, torno con la mente sulla terra,
all’inizio
della competizione che sarebbe arrivato a momenti. Si guardò
intorno spaesato,
osservando tutta la schiera di persone disposte sugli spalti, il resto
degli
atleti al suo fianco, la schiera di giornalisti e fotografi addossati
dietro di
me e, incredibilmente, riuscì ad intercettare il mio sguardo.
Rimasi
un attimo spaesata da quel contatto, forse per
colpa dell’intensità che caricò in
quello sguardo, forse per colpa del caldo
che mi aveva improvvisamente colpita. Non lo so, ma mi sentivo inerme
sotto i
suoi occhi, proprio in quel momento, a metri di distanza.
Continuava
a respirare piano, Travis, a mantenere un
controllo tanto granitico quanto pronto a crollare al primo soffio di
vento,
così non abbassai lo sguardo, non mi mossi, per paura di
distruggere quel contegno
che si ostinata ad esporre quando, in realtà, appariva
tutt’altro che calmo e
tranquillo. Si stava lasciando rapire dall’ansia, era palese,
colpa anche del
respiro che aveva cominciato a gonfiargli maggiormente il petto.
Mio
padre lo riportò per l’ennesima volta al presente,
schiaffeggiandogli la guancia e facendolo sorridere divertito.
Colsi
quell’opportunità per dedicarmi ad altro, per
cercare qualche altro particolare in giro per il palazzetto su cui
posare la mia
attenzione, perché altrimenti non avrei retto un altro
scambio di sguardi con
Travis, non uno del genere.
Chiesi
a Simona l’orario, due volte nel giro di trenta
secondi, trafficai con la mia macchina fotografica, controllai
l’obiettivo e
gli scatti precedenti, fino a quando non gli atleti non vennero
avvisati di
prepararsi sui blocchi di partenza. Ed io tornai improvvisamente
sull’attenti.
Cominciai
a scattare, nonostante fossero solo in
posizione, spronata anche da una Simona che aveva abbandonato la
compostezza da
prima donna ed aveva cominciato a farsi prendere dal panico, nemmeno
fosse
stata un’incredibile tifosa. Continuai a scattare quando gli
atleti partirono
al fischio e si buttarono in acqua, cominciando la prima vasca di stile
libero,
cominciando ad acquistare terreno dopo la prima virata, continuando
ognuno il
proprio percorso. Continuai a catturare attimi importanti, man mano che
Travis
distanziava tutti gli altri, seguito solamente da altri due atleti.
Erano
tutti lì, ecco, tutti a pochi centimetri di
distanza, ed erano proprio quei centimetri a fare la differenza. Anche
dopo la
seconda virata, dopo aver raggiunto la metà della
competizione, dopo aver
ottenuto maggiore distanza dagli ultimi.
Era
solamente la sessione mattutina, quella, solamente la
prima gara perché, purtroppo, il gran finale ci sarebbe
stato in chiusura della
giornata, ma sembrava tutt’altro. Sembrava quella la
ciliegina sulla torta di
un campionato che si era rivelato essere incredibile e, probabilmente,
anche
tutte le persone che facevano da pubblico la pensavano così
perché, di certo,
ad applausi ed urla non si risparmiavano.
Ultima
virata, ultimi venticinque metri da percorrere e
Travis era secondo, ad una distanza che, difficilmente, avrebbe potuto
recuperare. Ma continuò a combattere, continuò a
spingere con forza in quelle
ultime bracciate, come se ne andasse della sua vita. Ma
servì a poco, il
brasiliano che lo aveva distanziato da prima dell’ultima
virata non aveva
accennato a cedere. E ce l’aveva fatta.
Almeno
Travis era arrivato secondo, riuscendo a passare
alla finale anche se, dall’abbondante disappunto che si
notava sul suo viso,
non sembrava piacergli per niente quel suo risultato.
Prima
donna!
Doveva
dare il massimo nella gara successiva, non in
quella.
Simona
ed io ci concedemmo una pausa pranzo, riuscendo a
prendere un paio di panini al bar del palazzetto, nonostante la bionda
non
approvasse per niente quel cibo così poco salutare. Altro
non potevamo fare e
nessuna delle due si era portata in borsa qualche provvista,
così si dovette
accontentare, nonostante per un momento sembrò sul punto di
decidere di restare
a digiuno per l’intera giornata.
Riuscimmo
anche a rintracciare Luca e Michele e, per un
paio d’ore restammo con loro, in cerca di compagnia che non
fosse formata da
altri fotografi e giornalisti di chissà quale
nazionalità. Sentimmo i loro
commenti sulla competizione di Travis e, per quanto Michele
riuscì a restare
imparziale, Luca non si risparmiò in critiche e accorgimenti
su come, Travis,
avrebbe potuto vincere, invece di arrivare solamente
secondo.
Doveva
tirare una brutta aria, tra le prime donne della
piscina di mio padre.
Osservai
Michele, più tranquillo e timido, restarsene in
disparte ed osservare le gare che continuavano a susseguirsi, evitando
di
ascoltare il fiume di parole che continuava ad uscire dalle labbra di
Luca e che
sembrava non volersi fermare. Così mi sedetti al suo fianco,
lasciando Simona
alle prese con l’altro nuotatore.
“Ciao”, mi
salutò Michele, sorridendomi.
Era
il più giovane tra tutti, mi aveva detto mio padre,
persino più giovane di me. E si notava, nonostante non
mancasse alcuna qualità
del perfetto nuotatore, si notava dai suoi occhietti vispi, dal viso da
ragazzino e dal quel suo sorriso solare.
Restai
al suo fianco fino a quando Simona non mi richiamò
all’ordine, chiacchierando con lui del più e del
meno, parlando della sua gara
e di come, purtroppo, non era andata bene. Mi confessò di
essere contento ugualmente
perché, per un ragazzo della sua età, trovarsi in
quel posto era un traguardo
più che soddisfacente.
No,
non tirava una brutta aria nella piscina di mio
padre, ma piuttosto qualcuno doveva aver bevuto più cloro di
qualcun altro,
tutto qui.
Dopo
aver salutato per l’ennesima volta i due ragazzi,
tornai insieme a Simona alla nostra postazione e, come prima, i
gentiluomini
presenti, ci lasciarono passare grazie i sorrisini della bionda.
Mancava il
tappeto rosso e sarebbe stato tutto quanto perfetto.
Agguantai
la mia macchina fotografica, pronta a dare il
meglio di me, pronta a togliere dal cilindro i miei lavori migliori,
consapevole che, di lì a pochi istanti, sarebbe tutto
finito, finalmente. Simona,
come me, sembrava essere sull’orlo di una crisi di panico,
nonostante cercasse
di nasconderlo molto bene, dietro il trucco perfetto e
l’abbigliamento da
giornalista provetta, ma avevo cominciato a conoscerla un pochino e,
quando se
ne restava zitta ed immobile, era sinonimo di catastrofe.
Gli
atleti rientrarono, i superstiti delle batterie
precedenti con allenatori a seguito ed ognuno si posizionò
davanti al proprio
blocco di partenza, in attesa dell’apposito segnale,
dell’inizio della vera
finale.
“Siamo una bella
squadra, sai?”, mormorò,
improvvisamente, Simona, guardando ovunque tranne
che nella mia direzione.
“Tu dici?”, le
domandai, incredula delle sue parole.
“Sì, se ci mettiamo
d’impegno e lasciamo da parte il fatto che tu non sopporti me
e viceversa,
siamo una bella squadra”, confessò,
lanciandomi uno sguardo con la coda
dell’occhio. “Comincia!”,
esclamò
poi, non riuscendo più a nascondere l’ansia nella
sua voce.
Mi
voltai di scatto, notando tutti gli atleti in
posizione, Travis compreso, ed improvvisamente il palazzetto divenne
silenzioso, come se tutti fossero in attesa del fischio
d’inizio.
Ed
arrivò! Gli atleti partirono e si tuffarono in acqua,
partendo con le bracciate e sferzando l’acqua, lasciandosela
alle spalle.
Prima
virata e tutti quanti, chi più chi meno, furono
quasi allo stesso punto, poco distanti gli uni dagli altri. E Travis
non era da
meno, continuava a dare filo da torcere a chi cercava di distanziarlo.
Seconda
virata e Travis è allo stesso livello del solito
brasiliano, lo stesso che lo aveva battuto la stessa mattina, entrambi
più
distanti da tutti gli altri. La vera competizione era tra loro, tutti
gli altri
potevano scomparire.
Terza
ed ultima virata, ultimi venticinque metri, ultima
vasca prima della fine, ultimi momenti prima della tanto agognata fine
della
competizione. E loro erano sempre lì, sempre a pochi
centimetri di distanza l’uno
dall’altro, sempre in continuo cambiamento. Prima Italia, poi
Brasile, di nuovo
Italia ed ancora Brasile.
E
continuavo a scattare, a catturare momenti, ad
assistere alla gara tramite l’obiettivo della mia macchina
fotografica perché,
per quanto avrei voluto posarla a terra solo per un momento, sapevo che
proprio
quegli ultimi istanti non potevo lasciarmeli scappare
Ultimi
metri, ultime bracciate e sentii Simona al mio
fianco trattenere il respiro, farsi rigida per colpa di quel momento di
agitazione
ed ansia pura, liquida nelle sue vene quanto nelle mie. E probabilmente
in
quelle di tutti quanti nel palazzetto.
Ed
il tempo non sembrava passare, sembrava tutto fermo,
bloccato nel tempo, come se il fato si fosse fatto più
bastardo e avesse voluto
prolungare l’attesa e la nostra agonia, come se non bastasse
il fatto che, per
quella maledetta finale, avevamo dovuto aspettare giorni.
Ultimi
istanti, ultimi secondi, l’ultimo paio di
bracciate prima della fine, prima di toccare le piastrelle fredde del
lato
della piscina da cui erano partiti, ultimi momenti prima di decretare
il
vincitore.
“Ah al diavolo le
fotografie!”, esclamai, togliendomi la macchina
fotografica dal viso.
*
Non
odiatemi, vi prego! Vi prego non lanciatemi uova e pomodori marci, io
vi voglio bene!
So di essere stata abbastanza perfida - limitiamoci ad "abbastanza",
vah - a terminare un capitolo in questo modo, ma è stato un
lampo che mi è arrivato il testa mentre finivo di scrivere
il
capitolo! Nota positiva: non vi ho fatto attendere mesi per un capitolo!
Sto migliorando, almeno...
Detto questo,
ringrazio come
sempre quelle bellissime anime che spendono minuti del loro tempo per
recensire la mia storia! GRAZIE!
Ringrazio anche chi
si limita a
leggere, chi è arrivato da poco ed ha aggiunto questa storia
tra
le seguite/preferite/ricordate... GRAZIE ANCHE A VOI!
Spero che riusciate a lasciarmi qualche commento, così da
sapere
come mi sto comportando e come sta procedendo la storia nel suo
insieme, ve ne prego!
Alla prossima e un abbraccio a tutte,
Chiara
|
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Capitolo 21 *** 20 - More Than a Feeling ***
Maya20
*****
“Dannazione, ce
l’ha fatta!”, riuscii a mormorare, prima
che un boato mi entrò nelle orecchie.
Come sempre il palazzetto era esploso in grida applausi, ovazioni, ma
in
nessuna delle precedenti occasioni c’era stata Simona ad
unirsi alla massa, non
c’era stato mio padre con il suo entusiasmo, non
c’era stato gran parte del
palazzetto unito sotto lo stesso tifo.
Travis
era tra i favoriti, lo sapevo, ma non pensavo che
sarebbe arrivato fino a quel punto.
Lo
osservai per un momento guardarsi intorno, alla
ricerca dei tabelloni dei punteggi e, solo dopo aver constatato di
esserci
riuscito, di aver conquistato il titolo di campione mondiale, lo vidi
esultare
e prendere a pugni l’acqua, schizzando chiunque nelle
vicinanze, e sorridere
come non lo avevo mai visto fare. E non si poteva fare altro che essere
contagiati da quel sorriso, ed era tutto più che
comprensibile perché,
chiunque, sarebbe stato al settimo cielo, al posto suo, chiunque
sarebbe stato così
felice.
Avevo
lasciato perdere tutto il resto, avevo preso tra le
mani la macchina fotografica ed avevo immortalato il suo entusiasmo, la
sua felicità
ed il suo enorme sorriso quando incontrò lo sguardo di mio
padre. Immortalai
anche Claudio, l’orgoglio che traboccava dai suoi occhi
– insieme a parecchie
lacrime di gioia – la sua palese felicità davanti
al successo del suo campione.
Aveva conquistato un sogno, lo avevano fatto entrambi e non potei che
essere
felice – in un certo senso – per loro. Sapevo di
non poter rendere tanto fiero
mio padre, almeno non fino a quel punto, ma scacciai quel pensiero:
quel giorno
era solo per loro, le mie varie paranoie potevano attendere fino al
ritorno in
Italia.
“Oh santo cielo, ce
l’ha fatta”, gridò Simona,
attirando l’attenzione di gran parte dei
fotografi attorno a noi. “Maya, hai
visto!? Travis ha vinto, ce l’ha fatta!”,
esclamò ancora, non riuscendo a
trattenere la felicità.
Lasciai
perdere le espressioni imbambolate degli uomini
accanto a noi, troppo occupata a capire il motivo di
quell’improvviso abbraccio
di Simona, probabilmente troppo esaltata dalla vittoria di Travis per
avere un
minimo di contegno. Al diavolo il contegno,
per una volta, pensai. In quell’occasione
praticamente tutto era ammesso.
“Si, ho visto,
Simona, non sono cieca”, risposi, ridendo.
Tutti
gli atleti uscirono finalmente dall’acqua,
ritornarono all’asciutto e non riuscii a trattenere una
risata quando vidi
Travis arrivare da mio padre ed abbracciarlo, sollevandolo per un
momento da
terra. Non mi lasciai scappare quell’occasione, scattai
all’impazzata,
catturando ogni particolare, ogni risata, ogni lacrima che continuava a
scendere sul viso di mio padre, ogni sorriso, tutto. Scattai ancora,
quando il
brasiliano secondo classificato andò da Travis per
stringergli tranquillamente
la mano, facendogli – probabilmente – le
congratulazioni. Poi il campione si
voltò ancora verso il suo allenatore, verso Claudio e
sorrise ancora una volta,
sorrise come se non ci fosse altro da fare e riservò lo
stesso trattamento a
Roberto, quando li raggiunse, abbracciandolo di getto e sollevandolo da
terra
per un momento con una facilità incredibile.
La
superstar ce l’aveva fatta, in un modo incredibile,
con una gara da cardiopalma, ma ce l’aveva fatta davvero, era
diventato
campione.
E
adesso chi lo sopporta più,
pensai senza
riuscire a nascondere un sorriso.
Arrivò
il momento delle cerimonie, dell’incoronazione –
chiamiamola così – dei campioni di quella giornata
e, finalmente, il turno
della premiazione di Travis.
E
fu un’emozione indescrivibile l’Inno di Mameli,
ascoltarne la forza e la potenza, vedere l’emozione di Travis
mentre ne cantava
ogni parola, la sua espressione felice e come, con estremo orgoglio,
indossava
la medaglia d’oro sopra la divisa italiana. Così
fotografai ancora, fermamente
decisa a non voler perdere un’occasione simile. Scattai fino
a quando ne ebbi
la possibilità, colpa anche della massa di fotografi che
premeva per farsi
avanti, per avere una visuale migliore. Nemmeno la presenza di Simona
serviva a
qualcosa, quel momento era troppo prezioso per lasciarselo scappare, ma
ero
sempre stata una combattente e non mi lascai intimidire,
così cercai di
mantenere la mia postazione, perfetta per avere
un’inquadratura meravigliosa
del podio.
L’Inno
arrivò alla sua fine, così come seguirono le
ovazione e la serie infinita di applausi e vidi Travis scagliare un
pugno al
cielo, in segno di vittoria, con un enorme sorriso ad occupagli le
labbra, così
immortalai anche quel momento, quell’attimo in cui tutto
sembrava perfetto. E
sapevo che sarebbe stata un’immagine meravigliosa per quel
maledetto articolo,
sapevo che sarebbe stata perfetta.
Finite
le premiazioni, tutto l’entusiasmo scemò, insieme
ai fiumi di persone che continuavano a spingere per poter uscire dalla
struttura.
Simona
ed io attendemmo, insieme a Michele e Luca,
l’arrivo degli ultimi componenti del team, Travis e mio padre
compresi, così da
poter tornare in albergo tutti insieme. La bionda, per tutta
l’attesa, non fece
altro che parlare di come quella sera avremmo dovuto festeggiare, prima
della
partenza del giorno seguente. Ed insisteva, aveva cercato di convincere
i due
ragazzi che erano con noi – ed ovviamente ci era riuscita
senza il minimo
sforzo – per poter passare una serata tranquilla, bevendo
qualcosa in un locale
che lei stessa aveva adocchiato un paio di giorni prima.
Come
avesse fatto ad adocchiare un locale del genere,
poi, restava un mistero.
Ed
ovviamente aveva costretto anche me, dicendomi che
almeno un’altra figura femminile sarebbe servita, altrimenti
lei si sarebbe
sentita sola in mezzo a tutti questi
ragazzacci, come aveva detto lei. Sì, certo..
avrei potuto anche restare
con la testa sotto la sabbia per un mese che, lei, non se ne sarebbe
minimamente accorta.
Finalmente
arrivarono anche mio padre, Roberto e Travis al
seguito, dopo aver risposto ad alcune domande dei giornalisti italiani
in
trasferta a Doha.
“Ed ecco la nostra
superstar!”, esclamò Luca, in tono quasi
sprezzante.
Ed
io quasi scoppiai a ridere quando lo sentii chiamare
Travis in quel modo: una coincidenza davvero incredibile. E
probabilmente venne
in mente la stessa cosa anche a lui perché, in un attimo,
trovò il mio sguardo
e mi scrutò leggermente infastidito.
Lasciai
perdere le sue paranoie ed osservai per un
momento la medaglia lucente che ancora portava al collo. Penso che, se
avesse
potuto, se la sarebbe fatta cucire al petto, così da poterla
mostrare a tutto
il mondo, insieme ai suoi pettorali scolpiti, ovviamente. Se doveva
comportarsi
da prima donna, doveva farlo per bene, come minimo.
Lasciai
perdere in un attimo le mie teorie, non appena
sentii Simona correre verso il vincitore della giornata e saltargli
praticamente addosso, gettandogli le braccia al collo. Partì
con così tanta
velocità che fu addirittura in grado di spostarmi i capelli
dal viso. Assurdo.
“Complimenti Travis”,
esclamò Simona, all’improvviso, con la sua vocina
squillante. Non invidiai per
nulla la superstar, in quel momento: probabilmente aveva perso la
completa
funzionalità del timpano sinistro. “Ne
ero sicura, sapevo che alla fine avresti vinto tu! Era scritto nel
destino!”,
continuò, ancora ancorata alle spalle di Travis.
Scritto?
Nel destino.. ma siamo seri!?
Osservai
la scena con un sopracciglio sollevato, non
riuscendo a capire da dove potesse aver sentito una stronzata del
genere,
Simona. Sapevo che non c’era tutta con la testa, che
nonostante fosse un asso
nel suo lavoro fosse davvero strana, ma non pensavo che sarebbe
arrivata fino a
quel punto.
Sentii
Michele trattenere una risata e, colta da
un’improvvisa voglia di complottare alle spalle altrui, mi
avvicinai a lui. “Ed io che pensavo
che il cloro potesse far
male solamente a voi nuotatori”, gli mormorai, in
modo che sentisse
solamente lui.
“Deve averne
respirato una dose massiccia senza che noi ce ne accorgessimo”,
rispose
lui, sempre con lo stesso tono cospiratorio, facendomi sorridere
divertita. Era
simpatico, per essere praticamente un ragazzino, e se ne restava
tranquillamente sulle sue, senza ostentare il fatto che un giovane come
lui
fosse ad una competizione importante come quella. Ed era spiritoso,
senza
troppi sforzi.
Sollevai
lo sguardo, continuando a ridere per la simpatia
di Michele, ed incontrai gli occhi di Travis, con ancora Simona tra le
braccia.
Cos’era
quello? Risentimento!?
Mi
sforzai di capire cosa potesse passare per la testa a
quel ragazzo, dato che, dopo una vittoria del genere, non avrebbe
dovuto
pensare ad altro che alla medaglia che portava ancora al collo, ma era
come
fare un buco nell’acqua. Era inutile cercare di capire i suoi
pensieri,
completamente inutile.
“Bene ragazzi, io
direi di tornare in albergo e festeggiare”,
saltò su mio padre, attirando
l’attenzione di tutti, ma non quella di Travis, che
continuava a scrutarmi come
se volesse scorticarmi viva.
Ma
che diavolo gli prende!?
Cercai
di ignorarlo, così seguii mio padre mentre si
dirigeva verso l’uscita e lo presi sottobraccio, facendogli i
complimenti per
il successo ottenuto. Meglio ignorare quella superstar in piena
sindrome
premestruale, sì.
“Complimenti papà”,
gli dissi, raggiante. Ero contenta per lui, assolutamente! Dopo tanto
tempo si
meritava una vittoria del genere: non potevo nemmeno immaginare cosa si
potesse
provare, ma sapevo che era fiero di sé stesso, di Travis e
del lavoro che
avevano fatto insieme, perché alla fine ci erano riusciti,
avevano vinto ed
erano riusciti a sbaragliare la concorrenza.
“Grazie, piccola”,
rispose lui, con il sorriso da un orecchio all’altro,
lasciandomi un bacio
sulla fronte. “Non puoi immaginare
la mia
felicità, in questo momento. Questa sera dobbiamo festeggiare”,
continuò,
leggermente su di giri.
Scoppiai
a ridere, vedendolo così ostinato a far festa,
abituata com’ero a vederlo sempre tranquillo e sereno nelle
sue serate, il più
delle volte sul suo divano di casa.
Prendemmo
i taxi, finalmente, e ci dirigemmo verso
l’albergo con calma, colpa del traffico che si era formato
all’uscita del
palazzetto, ma dopo quella che mi parve una vita, finalmente arrivammo.
Ci
eravamo dati appuntamenti una mezzora dopo al
ristorante dell’hotel per cenare finalmente tutti insieme e
festeggiare i
successi e la fine del campionato, così riuscii anche ad
avere il tempo di
concedermi una doccia veloce. Quell’intera giornata dentro al
palazzetto mi
aveva sfinita e tutte le urla dell’ultima ora mi avevano
mandato il cervello in
pappa come se niente fosse.
Decisi
di vestirmi bene,
quella sera, o meglio del solito, dipende dai punti di vista. Non ero
mai stata
quel tipo di ragazza che alla prima occasione indossava vestiti alla
moda e
tacchi vertiginosi per farsi notare, avevo sempre preferito la
comodità e fu
così anche quella sera: i miei migliori jeans stretti, una
blusa elegante verde
acqua e l’unico paio di decolté nere a tacco
dodici che avevo avuto il coraggio
di portarmi dietro, con la speranza che non ci sarebbe stata occasione
di
indossarle.
Tornai
al piano terra, dirigendomi al ristorante,
stranamente puntualissima, e cercai con lo sguardo qualcuno della
combriccola,
ma trovai solamente la chioma bionda di Simona, intenta a chiacchierare
– o
meglio, flirtare – con uno dei camerieri nelle vicinanze.
Strabuzzai
gli occhi non appena la riconobbi. Fasciata da
un meraviglioso tubino nero che le arrivava molto sopra il ginocchio,
scollatura vertiginosa ed un paio di magnifici sandali rosso fuoco.
L’outfit da
prostituta aveva fatto il suo grande ritorno, da prostituta di alto
rango, tra
l’altro.
Mi
avvicinai a lei e, non appena si rese conto della mia
presenza, liquidò il cameriere come se nulla fosse accaduto.
E non bastava la
sua incredibile altezza a farmi sentire un nano da giardino, in
più indossava
tacchi a spillo chilometrici e, nonostante li indossassi anche io, la
differenza faceva spavento.
Accantonai
le mie congetture nel momento stesso in
cui vidi arrivare mio padre affiancato da Roberto, ovviamente, ed
attendemmo
con loro l’arrivo degli ultimi tre ritardatari. Mi avvicinai
a mio padre,
probabilmente per non sentirmi troppo in imbarazzo a fianco ad un
colosso come
Simona, così lasciai che la bionda cominciasse a
chiacchierare tranquillamente
con Roberto.
E
dopo alcuni minuti finalmente arrivarono anche le tre
superstar di turno, nemmeno fossero i Tre Moschettieri, e ci
raggiunsero non
appena ci videro.
Ah..
Rimasi
un attimo senza parole, con la mente in panne,
quando li vidi arrivare tutti insieme, di una bellezza incredibile.
Ognuno
aveva i suoi particolare da valorizzare e, quella sera ci erano
riusciti tutti
alla perfezione e probabilmente senza il minimo sforzo.
“Forza ragazzi, sto
morendo di fame”, esclamò Roberto,
quando notò la presenza dei tre
nuotatori, salvandomi in corner da una figura probabilmente pessima. La
mascella sarebbe potuta cadermi a terra, come una perfetta idiota.
Ci
incamminammo verso il nostro tavolo, accompagnati
dallo stesso cameriere con cui, poco prima, Simona stava tessendo
pubbliche
relazioni e ci accomodammo, io tra mio padre – a capotavola
– e Michele, che mi
sorrise tranquillamente.
Cominciarono
a chiacchierare tutti quanti
tranquillamente, di come era andata la giornata, di cosa poteva andare
meglio e
del successo della superstar di turno. Li vedevo fin troppo presi dai
loro
discorsi per impicciarmi, così me ne restai in silenzio
facendo vagare lo sguardo
per la sala ristorante dell’albergo, senza soffermarmi su
nulla in particolare.
Me
ne sarei andata tranquillamente, io, che in quel
tavolo ero decisamente di troppo. Simona, ogni tanto, saltava su con
qualche
suo parere e si immetteva nella conversazione, mentre io non sapevo da
che
parte farmi senza sembrare fuori posto. Osservai per un momento tutti i
componenti del nostro gruppo, uno ad uno, studiando le loro espressioni
ed i
loro volti, notando particolari che, prima, non avevo mai notato. Per
esempio,
quanto Roberto dovesse essere più giovane di quanto credevo
e di come, la
sua postura scomposta sulla sedia, lo rendesse ancora più
giovanile. Nemmeno
sapevo quanti anni avesse, nonostante lo conoscessi da tempo. Oppure
quanto gli
occhi cristallini di Luca sembrassero quasi trasparenti, dello stesso
colore
delle piscine in cui erano stati fino a qualche ora prima. E la
semplicità di
Michele rispetto ai suoi due compagni di squadra: si notava fin troppo
bene
quanto fosse più giovane, più bambino rispetto a
Luca e Travis, quanto l’indole
del nuotatore tanto arrogante quanto sfacciato non lo avesse ancora contagiato. E mi sarebbe dispiaciuto per
lui, probabilmente, se fosse diventato come gli altri perché
lo vedevo molto
come un faro di speranza in mezzo al nulla.
Lasciai perdere i miei pensieri nel momento stesso in cui
arrivarono – finalmente – le nostre ordinazioni,
interrompendo tutti gli
inutili discorsi del resto del gruppo. Il cibo che ci si era presentato
davanti
agli occhi risultava molto più accattivante di un paio di
chiacchiere vuote. Ma
questo non fermò Simona, ovviamente!
Perché lei trovava sempre il modo di cominciare una
semplice conversazione, anche nel momento più sbagliato in
assoluto, quando
sarebbe bastato un piccolo silenzio per accompagnare il pasto.
Volevo
levare le tende al più presto!
“Cosa farete, dopo,
ragazzi?”, chiese mio padre, ignorando il
chiacchiericcio della bionda.
“Dopo quando!?”,
saltò su, lei, improvvisamente interessata da quel cambio di
direzione.
“Dopo cena, ovviamente”,
continuò, mio padre. “Non
vorrete
restarvene in albergo anche questa sera!? Dovete festeggiare, almeno
voi
giovani”.
Dove
diavolo era finito il piccolo silenzio che tanto
agognavo, poco prima? Dove si era cacciato, lui, quel maledetto?!
“Non abbiamo ancora
deciso, Claudio”, intervenne Travis, continuando a
gustarsi la sua
grigliata di pesce. “Abbiamo sentito
di
un locale non molto lontano da qui, ma non c’è
nulla di certo”.
“Oh si, andiamo! Magari è lo stesso
locale che avevo addocchiato”,
esclamò la biondina, ormai carica come una molla. Nessuno la
avrebbe più
fermata, e lo avevano capito tutti quanti. “Dobbiamo
assolutamente festeggiare, sia la fine delle competizioni che il
successo di
Travis, ovviamente”, aggiunse, quasi facendo le
fusa sul tavolo. Avrebbe
avuto bisogno di qualche ripetizione di galateo, lei, che faceva tanto
la diva
di Hollywood, ma che al primo ammasso di muscoli ben piazzati si
squagliava
come un gelato al sole.
Era
a dir poco irritante, soprattutto notare come, tutti
gli uomini al tavolo, parvero rapiti da quel suo comportamento da gatta
morta.
Dov’è
chi preferisce il cervello ad un paio di gambe lunghe?
“Certo che ci
andremo, Simona”, sorrise Luca, sistemandosi sulla
sedia. “Ho bisogno di bere qualche
cosa”.
“Si, ma non
esagerate, ragazzi, vi devo riportare in Italia sani e salvi”,
lo ammonì
Claudio, comportandosi da padre per tutti quanti. “Sai, dovresti andare anche tu, Maya”,
aggiunse, lasciandomi di
stucco.
Mi
chiesi se stesse seriamente scherzando. Perché non
poteva davvero pensare che avrei accettato una cosa del genere, una
serata
insieme ad una mini setta di idioti che ragionavano con tutto tranne
che con la
testa. E per tutto, intendo tutto.
Lo
fulminai con lo sguardo, mio padre, per ricevere in
cambio solamente un sorriso angelico.
“Oh si, dovresti
venire, Maya”, esclamò ancora, Simona,
dall’altra parte del tavolo. “Non
mi vorrai mica lasciare da sola con
tutti questi ragazzi”, aggiunse, maliziosa. E quasi
mi venne da vomitare.
“Sì, come se l’idea
non ti allettasse”, mormorai, più a me
stessa che a lei, facendo andare di
traverso l’acqua a Michele, al mio fianco, l'unico che era
stato in grado di sentirmi.
“Già, Maya, non
vorrai lasciare sola con noi la tua povera collega”,
saltò su Travis, che
fino a quel momento era rimasto buono al suo posto. E avrebbe potuto
farlo
ancora.
Aveva
uno strano sorriso stampato in faccia, enigmatico,
quasi diabolico, e non potei fare a meno di chiedermi che cosa avesse
in testa
in quel momento.
Nemmeno
me ne resi conto e la cena finì in un batter
d’occhio. Ed ovviamente tutti quanti mi avevano pregato di
andare a festeggiare
con i giovani del gruppo, tutti quanti si aspettavano da me la stessa
disponibilità che Simona amava tanto ostentare.
Un
passo per volta. Bevuta accettata, giusto dieci minuti
in compagnia per non sembrare troppo scortese, poi sarei tornata in
albergo
simulando un incredibile mal di testa.
Era
un piano perfetto, il mio, e lo escogitai alla
perfezione durante il tragitto a piedi che facemmo per raggiungere il
locale.
Maledetta me e la mia stupida idea di indossare i tacchi, quella sera.
Avevano
deciso di andare in un locale troppo in,
per i miei gusti. Crystal, ecco
come si chiamava il buco
d’inferno in cui mi avevano costretta ad andare. Con gente
che nemmeno mi
piaceva, tra l’altro.
Musica
troppo alta – e musica orribile, tanto per
cambiare – fiumi di gente che nemmeno avevano un posto a
sedere e che, per la
maggior parte, erano già abbondantemente ubriachi. E non era
nemmeno passata la
mezzanotte.
Si
vedeva davvero poco, lì dentro, con quelle luci
soffuse per fare atmosfera. A fatica riuscivo a distinguere le figure
dei
nuotatori davanti a me che cercavano di farci strada tra la gente. Era
un
compromesso tra una discoteca ed un cocktail bar, troppo piccolo per
poter
essere una buon’idea.
Non
so in quale modo, ma riuscimmo a trovare un posto per
sederci, in un angolo vicino alla minuscola pista da ballo. Un tavolino
al
centro di un divanetto ad U, molto striminzito anche solo per ospitare
cinque
persone. Che poi, tre di questa persone, fossero nuotatori
professionisti con
fisici statuari e decisamente più alti della media, era
assolutamente
irrilevante.
“Come facciamo ad
ordinare da bere?”, gridò Simona,
cercando di farsi sentire sopra il
livello della musica, aggrappata ad un braccio di Travis.
Perché
risultava sempre fastidiosa, quella ragazza? Per
quale stupido motivo, eh?
In
fin dei conti, quel giorno al palazzetto non era stata
male. Sarà stato l’abbigliamento da prostituta e
la sua svenevole
disponibilità, sì, certo.
“Vado a cercare un
cameriere o qualcosa del genere”, rispose Michele.
Non
poteva abbandonarmi, non lui che mi sembrava l’unico
con una qualche specie di cervello, non lui che sembrava quello normale
tra
tutti.
Cercò
di defilarsi e di passare in mezzo alla quantità
incredibile di persone che continuavano a passarci accanto. Mi aveva
lasciato
nella vasca degli squali, in un certo senso, e glielo avrei rinfacciato
a vita,
probabilmente.
Ci
accomodammo, in attesa, ed ovviamente ebbi la sfortuna
di capitare davanti a Travis e Simona che, ovviamente, ancora non aveva
allentato la presa sul braccio del ragazzo. Probabilmente, continuando
di quel
passo, si sarebbero fusi insieme e l’elevata temperatura nel
locale era
decisamente a loro favore.
Lasciai
un’occhiata a Luca, poco distante da me, e lo
trovai intento a fissarmi fin troppo intensamente, quasi volesse
mangiarmi
viva.
Ma
che razza di problemi aveva anche lui!?
Simona
cominciò a parlare, con voce fin troppo alta,
nonostante il volume elevato della musica, ma tutta la sua attenzione
era
rivolta a Travis, a cui continuava a stare fin troppo attaccata.
Ma
riusciva a respirare, per caso, Travis?
E
lui mi sembrava addirittura interessato. Certo, ero
sicura che una scopata con Simona non gli sarebbe dispiaciuta per
nulla, ma era
davvero squallida, quella scena. Chi era di bella presenza finiva
sempre con
chi era altrettanto di bella presenza, il solito stupido
cliché. E faceva quasi
vomitare.
Soprattutto
il modo in cui Simona continuava a muoversi e
ad atteggiarsi da gatta in calore, con la sua mano poggiata sul
ginocchio di
Travis e gli occhioni maliziosi. Uno schifo.
Finalmente
arrivò Michele, seguito da un cameriere che,
in un batter d’occhio prese le nostre ordinazioni e si
defilò.
Mi
spostai leggermente verso il centro del divano,
facendo spazio a Michele e, purtroppo, avvicinandomi a Luca
più del dovuto.
Eravamo
tutti fin troppo vicini, tranne ovviamente Simona
e Travis che avrebbero fatto prima a prendersi una stanza e levarsi di
torno,
almeno ci avrebbero risparmiato quello spettacolo disgustoso.
Tornò
il cameriere, tutto trafelato, con un vassoio
stracolmo di bicchieri tra le mani, cercando di farsi strada per
arrivare fino
a noi e ci consegnò tutte quante le bevande, insieme allo
scontrino che avremmo
dovuto consegnare alla cassa.
Non
esitai un momento ad afferrare il
mio Negroni e a cominciare a berlo. Tutto
solo per levare le tende il prima possibile, avevo resistito fin
troppo. ed
eravamo praticamente appena arrivati.
Michele
e Luca cominciarono a parlare tra loro ed io mi
sentii quasi come il miglior terzo incomodo, tra la coppia di amici che
mi era
accanto e la coppia di amici di letto
che avevo davanti.
Cominciai
a domandarmi come Travis potesse comportarsi in
quel modo. Se non mi ricordavo male, nemmeno gli piaceva, Simona,
eppure
sembrava fare le fusa tanto quanto lei. avevano smesso di gridare per
riuscire
a parlarsi ed erano passati ai sussurri alle orecchie ed io non potei
fare a
meno di innervosirmi ancora di più.
Ma
che mi stava prendendo? Era l’effetto dell’alcool,
sicuramente.
Perché
non poteva davvero infastidirmi quello che avevo
davanti. Insomma, saranno stati pure affari loro, no? Chi se ne
importava se
Simona aveva cominciato a premere sull’acceleratore, baciando
il collo di
Travis e cominciando a risalire con la mano che aveva sul ginocchio.
Chi se ne
importava di Travis e del suo braccio stretto sulle spalle di quella
ragazza.
Chi se ne importava se finivano a letto insieme, quella sera. E non
appena lo
sguardo offuscato di Travis incontrò il mio mi resi conto di
come avrei dovuto
andarmene da quel posto, di come sarei dovuta tornare in camera mia.
Buttai
giù l’ultimo sorso del mio cocktail, cominciando a
sentire la testa girare, ma non ci feci caso. Volevo e dovevo andarmene
da quel
posto, altrimenti avrei cominciato a lanciare bicchieri come fossero
coriandoli.
“Ragazzi, io torno
in albergo”, dissi a Luca e a Michele,
interrompendo i loro discorsi. “Questa
musica mi sta mandando in tilt il
cervello”, aggiunsi, alzandomi dal divanetto ed
attirando l’attenzione di
tutto l’intero tavolo.
Incredibile,
ma vero, avevo interrotto il perfetto
idillio dei due piccioncini.
“Sicura di non
voler restare?”, mi domandò Simona,
lasciandomi impietrita.
“Si, Simona, non
sono mai stata sicura di nulla come in questo momento”,
le risposi,
fulminandola con lo sguardo. Non poteva davvero essere così
ottusa.
“Allora ti
accompagniamo, Maya”, sbraitò Luca,
facendosi sentire sopra il volume della
musica, alzandosi a sua volta e facendo un segno con il capo a Michele.
“Fare da candela non è
tra le mie aspirazioni”,
aggiunse, sorridendo.
Non
era stato discreto, non aveva fatto in modo di far
ascoltare quella frase solamente a me e a Michele, aveva urlato come se
nulla
fosse e, la frecciatina, non era passata inosservata a Travis che aveva
cominciato ad osservarci infastidito. Ed io avrei voluto tanto fare una
standing ovation a Luca, per questo.
Ma
poi, anche lui, quanto era altalenante?
“Si, meglio levare
le tende, amico”, saltò su Michele,
ridendo di gusto.
Perfetto.
Avevo trovato anche gli accompagnatori perfetti
per il viaggio di ritorno che mi avrebbero aiutata a non cascare a
terra per
colpa dell’alcool!
“Ci abbandonate
tutti, ragazzi!?”, esclamò ancora, lei,
continuando a restare avvinghiata
al suo nuotatore. “Dovevamo
festeggiare
tutti insieme”, continuò, lamentandosi.
“Se voi volete
continuare a festeggiare, fate pure e prendetevi una stanza nel
rispetto della
pubblica decenza, almeno, noi ce ne andiamo”,
ribattei, inacidita
dall’alcool che avevo in corpo, avviandomi verso
l’uscita, lasciando perdere lo
sconcerto negli occhi di Travis.
Uscimmo
da quel locale a forza di spintoni, lasciando
perdere i commenti di chi aveva avuto la sfortuna di scontrarsi con
noi, e
quasi tornai indietro nel tempo, a qualche ora prima, al palazzetto,
quando
sembrava di dover andare in guerra per ottenere una postazione decente
per
fotografare. Solamente quando fummo all’aria aperta
ricominciammo respirare
davvero; era troppo caldo, in quel locale, troppo piccolo per contenere
una
folla simile e non potei fare a meno di tirare un sospiro di sollievo
quando mi
ritrovai fuori di lì.
“Finalmente”,
mormorai, cominciando a seguire Luca e Michele verso
l’albergo.
“Cominciava a
diventare imbarazzante”, scherzò Luca,
grattandosi il capo.
“Anche troppo, per
i miei gusti”, rispose Michele, ridendo di gusto.
“Ed io che pensavo
che a voi ragazzi potesse piacere uno spettacolo simile”,
ridacchiai,
prendendo entrambi sottobraccio. La testa girava senza sosta e sentivo
di aver
bisogno di un appiglio a cui aggrapparmi per evitare di crollare a
terra.
“Oh ti prego”,
esclamò Luca, lanciandomi un’occhiata dubbiosa.
“Vanno bene moine del genere, a
volte, ma non in un locale pieno di
gente e soprattutto se si è in compagnia”,
concluse, con tutte le ragioni
dalla sua parte.
“E soprattutto se
quella ragazza ha una risatina da far accapponare la pelle”,
aggiunse, dopo
alcuni istanti, Michele, scatenando le risa di tutti.
Ed
aveva ragione anche lui, dannazione. Perché la
risatina sciocca di Simona era qualcosa di orripilante e, invece, lei
sembrava
usarla come arma di seduzione. Assurdo.
Continuammo
per la nostra strada, parlando del più e del
meno ed io fui costretta a giustificare quell’improvviso
contatto che avevo
cercato da entrambi e, quando finii di parlare, entrambi i ragazzi non
si
risparmiarono commenti e frecciatine, ovviamente.
“Ti sei scolata
tutto peggio di alcolista”, rise Luca.
“Sicura che fosse
solamente la musica ad infastidirti, Maya?”,
domandò poi, Michele,
all’improvviso, facendomi sussultare.
Ma
certo che era solo per la musica, per cos’altro, altrimenti!?
Nemmeno
mi aveva sfiorato il comportamento da prostituta
d’alta classe di Simona, assolutamente. Mi sentivo superiore
a tutto questo,
non poteva essere stata che la musica ad infastidirmi, sì.
“Oh ti prego, non
essere ridicolo”, minimizzai, cercando di lasciar
cadere il discorso. “Certo che era
la musica, sempre se è
possibile definirla tale”.
“Allora le
occhiatacce a Simona erano solamente un caso”,
continuò lui, non demordendo
e scrutandomi attentamente. Certo che era un osso duro, lui.
“Certo, solamente
un caso”, ribattei, facendo
l’indifferente. “Un caso
dovuto al mal di testa”.
Ci
furono alcuni momenti di silenzio, dove c’erano
solamente i rumori della città ed il chiacchiericcio dei
passanti a fare da
sottofondo, e continuammo a camminare tranquillamente verso
l’albergo che
cominciava a scorgersi alla fine della strada.
“Chissà perché, ma
non ti credo”, continuò il ragazzino,
quando fummo davanti all’hotel.
“E nemmeno io”.
Ed ecco Luca, arrivato per dare man forte.
“L’alcool non ha
dato fastidio solamente a me, ragazzi”, dissi,
ridendo e cercando di
convincere me stessa.
Ci
stavo provando con tutte le forze.
Mi
accompagnarono entrambi alla mia stanza, per paura
che, tutta intera, non ci arrivassi, che inciampassi in qualche cosa di
inesistente
e che potessi addormentarmi nel corridoio dell’albergo.
Certo, ero leggermente
brilla, ma non fino a quel punto. Le mie facoltà mentali
erano ancora intatte.
Leggermente scandalizzate dallo spettacolo a cui avevano assistito un
po’ di
tempo prima, certo, ma completamente intatte.
Erano
stati carini, Luca e Michele, e per un momento
avevo avvertito la sensazione di poter davvero diventare amica, con
quei due.
Anche Luca, quando voleva, sapeva essere simpatico e persino
divertente, senza
risultare pesante.
Michele
già l’adoravo, per la sua semplicità e
per la sua
bravura nel dire le cose in faccia, senza filtri né mezzi
termini. Con lui
sarei potuta assolutamente essere amica.
Entrai
nella mia stanza, chiudendomi la porta alle spalle
e poggiando un momento la schiena ad essa, tirando un enorme sospiro di
sollievo.
Quasi
non ci potevo credere, ma quell’avventura era
giunta finalmente al termine. Il mattino dopo saremo tornati in Italia
e, per
un bel po’ di tempo, di nuoto non ne avrei sentito parlare.
Stop con l’acqua
delle piscine, stop al cloro e, soprattutto, stop ai nuotatori
egocentrici.
Per
un po’ di tempo ci sarei stata solamente io, Maya,
con un po’ di buona musica e quel pacchetto di biscotti che
mi aspettava a
casa. Non avrei avuto tempo per nessuno, se non, forse, per mio padre.
Tolsi
finalmente quella tortura che erano diventati i
miei tacchi e quasi mi venne da urlare per la sensazione di sollievo
che
avvertii non appena i miei poveri piedi toccarono terra. Era stata una
vera e
propria tortura, quella serata, e le maledette scarpe che avevo scelto
di
indossare non mi avevano semplificato nulla.
Dovevo
darmi una rinfrescata. In quel locale si soffocava
e, inoltre, dovevo scacciare un po’ la sensazione di capogiro
che ancora non mi
aveva abbandonata.
Benedetto
sia il minifrigo che avevano messo in camera!
Decisi di prendere uno yogurt, giusto per ingerire qualche cosa prima
di
andarmene a letto e, nel frattempo, feci una sosta in bagno per
rinfrescarmi.
Non
ne potevo davvero più. Quella città mi aveva
stancata
e cominciavo a non sopportare quel caldo tanto assurdo per essere
dicembre.
Volevo il freddo, volevo la pioggia e volevo il mio appartamento.
Cominciavo
a sentire davvero la mancanza di casa mia, del
mio angolo personale, nonostante Doha non fosse tanto male come
città. Ma, in
quel momento, avevo bisogno di Italia.
Finii
il mio spuntino di mezzanotte e lo cestinai
all’istante, dirigendomi verso il letto per recuperare quella
maglia
sproporzionata che avevo usato come pigiama, ma venni fermata da alcuni
colpi
frettolosi alla porta, e lì, proprio in quel momento, avrei
voluto tanto
uccidere in malo modo chiunque fosse stato in corridoio.
Era
passata da un bel pezzo l’una e, nel giro di qualche
ora, sarei dovuta essere già in piedi per poter andare con
tutta la combriccola
all’aeroporto, quindi avevo bisogno di ore di sonno
perché sapevo già che, in
aereo, non avrei dormito per niente.
Ed
il nervosismo non fece che aumentare quando, dopo aver
aperto la porta, mi resi conto di avere di fronte una delle ultime
persone con
cui avrei voluto parlare in quel momento.
“Che cazzo ci fai
qui?”, esclamai, senza darmi un contegno.
“Ciao anche a te,
scaricatrice di porto”, rise, lui,
l’idiota che era venuto a disturbarmi.
Ed entrò pure nella mia stanza, facendomi scansare per avere
il passaggio
libero.
“Travis è tardi,
maledizione, tra poche ore partiremo ed io voglio dormire”,
mi lamentai,
continuando a tenere la mano sul pomello della porta. Doveva andarsene
e doveva
farlo in fretta.
“Quanto sei noiosa”,
disse, alzando gli occhi al cielo e chiudendo di sua iniziativa la
porta. “Sono qui solo per parlare un
momento, farò
presto”.
“Parlare?”,
chiesi, allibita. “Non possiamo
rimandare
questo a domani mattina? Abbiamo infinite ore in aereo per parlare, se
proprio
dobbiamo”.
Era
davvero assurdo che volesse parlare, proprio in quel
momento. E poi, dove aveva cacciato Simona?
Sicuramente
nel suo letto che lo attendeva a gam-cioè,
braccia aperte.
Sì,
stavo delirando e, sì, ne ero perfettamente
consapevole, ma non sapevo davvero cosa pensare. Lo avevo visto, fino a
nemmeno
un’ora prima, tutto avvinghiato alla bionda, ma in quel
momento aveva avuto
addirittura di presentarsi in camera mia per
parlare.
Lo
avrei preso a schiaffi. Magari con i tacchi che
giacevano a terra a poca distanza da me.
“Farò presto, lo
prometto”, sospirò, incrociando le
braccia al petto, con aria scocciata.
Era
lui, quello annoiato. Addirittura.
“Che problemi hai?”,
mi chiese, quasi fulminandomi con gli occhi.
Se
non fosse stata attaccata al cranio, probabilmente, mi
sarebbe cascata la mascella per terra per lo sconcerto.
Perché non poteva
chiedermi davvero una cosa simile, non poteva avere avuto la
presunzione di
presentarsi in camera mia, ad un
orario indecente, domandandomi
quali problemi avessi. Non poteva
essere tanto
stupido.
“Scusami?”,
chiesi, allibita. “Ma sei serio? Ti
presenti alla mia porta quasi alle due di notte e chiedi a me quali
problemi
ho? Ti sei mai fatto un esame di coscienza, Travis!?”.
“Un esame di
coscienza? Non sono stato io quello che ha rovinato la serata e non
sono stato
io quello che se ne è andavo via dopo nemmeno dieci minuti,
Maya. Forse
dovresti essere tu a farti questo esame”,
ribatté a tono, facendo quasi
l’offeso.
Si
stava comportando come un bambino, ecco qual era la
verità, e cominciavo a ricredermi davvero sulla giornata
precedente che avevamo
passato assieme.
Doveva
aver preso troppo sole oppure bevuto troppa acqua
con il cloro.
“Fermati, Travis,
non peggiorare la situazione”, dissi, avvicinandomi
di un passo, sentendo
il sangue cominciare a scaldarsi per la rabbia. Perché,
sì, ero arrabbiata ed
avrei voluto sbatterlo fuori dalla stanza a calci. “Se vogliamo metterla su questo piano, non sono
stata io a cominciare a
tubare con la prima bionda che mi si è seduta accanto, non
sono stata io a
rendere la situazione pesante nonché imbarazzante, ma tu
nemmeno te ne accorgi.
Ti è tutto dovuto, certo, e nemmeno ti accorgi quando sbagli
perché sei
convinto di essere sempre nel giusto. Ma sai una cosa?” , gli
domandai, con
le mani tremanti. “Commetti una
stronzata
dietro l’altra e, probabilmente, la tua vittoria è
stata solamente un colpo di
fortuna”, conclusi, quasi con il fiatone.
Sapevo
di aver esagerato, e lo capii dal suo sguardo
infuocato ed arrabbiato, perché sapevo quanto si era
impegnato e, in parte,
quello che avevo detto non era vero. Ma lui non era l’unico
ad essere
arrabbiato, perché qualche cosa doveva essere concessa pure
a me e, sentendomi
attaccata per qualcosa che non avevo assolutamente fatto, avevo perso
il lume
della ragione ed avevo risposto ad istinto.
“Davvero pensi
questo?”, mi chiese, quasi sibilando. “Che
abbia finto per pura fortuna?”.
Cercai
di calmarmi un momento, perché sapevo di averlo
colpito nel profondo, in un certo senso, e non volevo peggiorare la
situazione.
Ero stanca e volevo dormire, quindi la cosa migliore che potessi fare
era
alzare bandiera bianca e farlo uscire dalla mia stanza.
“No che non lo
penso, Travis”, sospirai, infine, massaggiandomi le
tempie e chiudendo gli
occhi. Il capogiro era tornato in un batter d’occhio.
“Ma non puoi comportarti in questo
modo, da ragazzina isterica e
piombare alla mia porta a quest’ora”,
conclusi, aprendo gli occhi e
trovandolo più vicino di qualche passo. Ormai erano giusto
un paio di metri a
separarci.
“Allora perché lo
hai detto?”, continuò, lui, deciso a non
demordere.
“Perché ne ho le
palle piene di questo posto e di questa storia, perché sono
stanca e perché non
vedo l’ora di tornarmene a casa”,
risposi. “Semplicemente questo”.
“Però non posso
sempre portarti all’esasperazione per poter avere un
po’ di sincerità”, e
si avvicinò ancora a me, scrutandomi attentamente e
bruciando quella poca
distanza che ancora ci separava.
Ed
improvvisamente mi sentii in pericolo, sentii troppi
campanelli d’allarme nella, mia mente, suonare
contemporaneamente. Dovevo
congedarlo all’istante.
Non
avevo capito una singola parola di quello che mi
aveva appena detto, era sempre stato fin troppo criptico, ma in quel
momento
aveva superato sé stesso.
“Ti rendi conto
delle assurdità che stai dicendo?”,
domandai, continuando a restare
sull’attenti. Da uno come Travis potevo aspettarmi qualunque
cosa.
Lo
vidi ridere di gusto e cominciai a pensare che,
probabilmente, era impazzito completamente e nemmeno se ne era reso
conto. “Forse sì, forse no”,
rispose, sorridendo
e passandosi una mano tra i capelli.
“Bene, ora potresti
anche andartene”, gli feci notare, incrociando le
braccia la petto. “Sono stanca e
voglio andare a dormire”.
“Sì, ora me ne vado”,
mormorò, continuando ad osservarmi attentamente, non
riuscendo a capire cosa
stesse scrutando con tanta insistenza. “Solo
un’ultima cosa, e probabilmente tu mi riproporrai la stessa
domanda di prima,
ma devo chiedertelo: quando comincerai a lasciarti andare?”.
Sì,
era completamente impazzito, altrimenti quelle sue
domande sconnesse non avrebbero avuto alcun senso. Doveva aver perso il
senno,
senza ombra di dubbio, e cominciava davvero a preoccuparmi,
perché risultava
ancor di più imprevedibile ed io non sapevo proprio come
comportarmi.
“Che cosa stai
dicendo, Travis?”, gli chiesi, restando sulla
difensiva.
“Non hai visto,
prima? Devo farti incazzare e perdere la pazienza per farti parlare
sinceramente, devo sempre portarti al limite ed io mi sono stancato,
davvero”,
rispose, lui, avvicinandosi impercettibilmente a me. “Allora, quando comincerai a lasciarti andare, Maya?”.
Non
poteva parlarmi in quel modo, soprattutto quando
sentivo ancora dell’alcool scorrermi in corpo, quando avevo
la mente annebbiata
dalla stanchezza e dal sonno. Non poteva parlarmi con quella voce, dire
il mio
nome come se nulla fosse e nemmeno starmi così vicino, con
quei suoi occhi
incatenati ai miei.
Avevo
bisogno di una protezione, di uno scudo, perché
l’idiota aveva frantumato tutto per l’ennesima
volta e, le braccia incrociate
al petto, non servivano a molto, alla fine dei conti.
“Continuo a non
sapere di cosa tu stia parlando, Travis”. La mia
voce era ridotta ad un
sussurro, un suono appena udibile, e non avevo neppure avuto il
coraggio di
reggere il suo sguardo ambiguo, non avevo avuto le palle di continuare
a
guardarlo in quei suoi occhi infuocati. Non ce l’avevo fatta,
avevo alzato per
l’ennesima volta bandiera bianca.
“Sai bene di cosa
sto parlando, Maya, non fare finta di nulla”,
sussurrò, lui, poggiando le
mani sulle mie spalle e cominciando a scendere sulle braccia.
Maledetto
il mio corpo che continuava a tradirmi nei
momenti meno opportuni! Perché non potevo cominciare a
rabbrividire ogni volta
che le mani di Travis sfioravano la mia pelle, non era giusto nei miei
confronti. Non volevo che succedesse ancora, non volevo cadere preda
del mio
stesso istinto e buttarmi tra le braccia di quell’idiota di
un nuotatore. Avevo
il mio orgoglio da mantenere bello e lucido e, in quel modo, non facevo
altro
che scavarmi la fossa.
Poi,
lui, non doveva passare la serata con Simona? Dai
loro comportamenti in quel locale, sembrava proprio così.
Allora, dov’era
quella maledetta bionda, quando serviva? Perché non era
lì, in quel momento, a
portarsi via Travis?
Non
dovevo cedere a lui ed ai suoi stupidi atteggiamenti,
nonostante i brividi continui fossero una gigantesca distrazione. Era
paradossale vedere un ragazzo come lui, grande e grosso, e rendersi
conto di
come, incredibilmente, potesse essere delicato. Ed io che mi fermavo
anche a
fare pensieri simili, sperando di non cadere nella sua stupida trappola.
“Lasciati andare,
Maya”, mormorò, chinandosi su di me.
Era
ad una manciata di centimetri dal mio viso e sentivo
perfettamente il suo respiro sfiorarmi la pelle delle guance,
già surriscaldate
da prima, come se anche lui fosse lì per tentarmi. E
cominciò a baciarmi il
collo, delicatamente, l’idiota, senza interrompere il viaggio
delle sue mani
sulle mie braccia e sulle mie spalle.
Non
poteva succedermi ancora una volta, non dovevo
mostrarmi tanto debole anche in quell’occasione.
“Travis, smettila”,
mormorai, cercando di sembrare risoluta. “Dovresti
andartene”.
“Forse”,
rispose, continuando con la sua tortura.
Non
demordeva, non mi lasciava scampo ed il mio corpo
sembrava essere diventato di pietra, non accennava a muoversi.
Perché tutto
sembrava essere contro di me? Perché proprio quella sera non
ero rimasta in
camera mia a riposare per il viaggio che avremmo dovuto intraprendere
il giorno
seguente? Per quale assurdo motivo mi ero lasciata convincere ad andare
in quel
maledetto locale, insieme agli altri ragazzi?
La
stretta al petto delle mie braccia si era fatta più
forte, la mani cominciavano a far male, colpa anche delle unghie che
continuavo
a premere contro i miei palmi, ma tutto pur di non cedere. Era una
sfida contro
me stessa.
“Dovresti
ascoltarmi, qualche volta”, mormorò,
lui. “Sarebbe molto più
semplice”, aggiunse, mordendo leggermente la mia
spalla.
Sussultai,
quasi sentendo migliaia di scariche elettriche
attraversare il mio corpo, presa completamente alla sprovvista, e lui
non si
lasciò scappare quel mio momento di debolezza.
Così aumentò la presa sulle mie
braccia e distrusse l’ennesimo scudo che avevo cercato di
tirare su,
allargandomi le braccia e facendosi più vicino.
Guidò
le mie mani con lentezza, nemmeno fossi una bambola
di porcellana, sulle sue spalle, poi tra i suoi capelli alla base della
nuca e
me le abbandonò lì. Continuò la
tortura di poco prima, con le sue mani che
viaggiavano sulla mia pelle senza sosta, che mi provocavano brividi in
ogni
momento e che mandavano a puttane ogni mia convinzione.
Lo
odiavo, con tutta me stessa, in quel momento, perché
mi faceva capire realmente quanto potessi essere debole, fragile
davanti ad un
paio di moine assestate nel modo giusto. E non era corretto nei miei
confronti,
questo suo comportamento, perché lo sapeva, ne era
perfettamente a conoscenza e
non esitava un momento per approfittarsene.
Aveva
ricominciato a fissarmi, l’idiota, a non voler
interrompere il contatto che aveva con il mio sguardo ed era
impressionante
quanto mi facesse sentire stupida ed inadeguata, in quel momento.
Ma
che diavolo mi stava succedendo?
“Ti faresti molti
meno problemi se, per una volta, mi prestassi ascolto”,
mormorò, ad una
manciata di centimetri dalle mia labbra.
Mi
sarei fatta molti meno problemi se, invece di
presentarsi in camera mia, Travis fosse andato a letto con Simona. Mi
sarei
fatta molti meno problemi se mi avesse lasciata stare. “Tu vaneggi, Travis”, dissi,
d’un fiato, senza però la giusta
enfasi. “Stai dicendo cose senza
senso”.
“Cose senza senso?”,
chiese, ironico, alzando un angolo della bocca. “Allora di cosa hai paura? Cosa ti ferma?”.
Già,
cosa mi fermava? Cosa mi faceva rimuginare in
continuazione su ciò che mi stava accadendo? Cosa mi faceva
sentire i piedi di
piombo, ogni volta che Travis sfiorava la mia pelle?
Non
poteva essere nulla di serio, non poteva esserlo
davvero, altrimenti mi sarei cacciata in un guaio più grande
di me stessa, in
qualcosa di incomprensibile che mi avrebbe portato solamente problemi.
Cos’era
a fermarmi, allora?
Se
davvero non ci doveva essere nulla, allora perché
continuavo a restarmene ferma, per paura di fare il passo sbagliato?
Perché ero
io quella che continuava a vaneggiare invece che Travis?
Non
potevo farmi impressionare da lui, non potevo
lasciargli manipolare la mia mente. Non c’era nulla a
fermarmi e, se mi
lasciavo trascinare da Travis, lo facevo solamente per puro
divertimento,
niente di più. Perché non esisteva nemmeno quel di più!
Giusto?
“Non c’è nulla a
fermarmi, Travis”, risposi, decisa, prima di
bruciare quella breve distanza
che ancora ci separava. Ed ero caduta nella sua trappola ancora una
volta e
sapevo che, prima o poi, me ne sarei pentita amaramente, ma non potevo
lasciarmi condizionare dai suoi discorsi senza senso. Tra noi due non
c’era
assolutamente, quindi una sciocchezza in più o una in meno
non faceva
differenza, non sarebbe cambiato nulla.
Aveva
caricato quel bacio di così tanta passione che
quasi mi stordiva, quasi mi faceva girare la testa per la sua
intensità. Aveva
cominciato a stringermi a sé, tenendomi ben salda per la
vita, ed io non potevo
fare a meno di cercare un appiglio nelle sue spalle forti, per evitare
di
stramazzare a terra come una perfetta idiota. E, quella, sarebbe stata
la
figura di merda per eccellenza e non dovevo permetterlo.
Lo
sentii cercare l’orlo della blusa e sollevarlo
leggermente, per poi strapparmela praticamente di dosso dopo aver
sollevato le
braccia. Era agitato, Travis, nervoso ed impaziente, e tutto questo
rendeva
quello stupido gioco ancora più eccitante.
Cominciai
a sbottonargli la camicia che indossava, con
calma, sfiorando di tanto in tanto la sua pelle e continuando a
baciarlo, a
farmi baciare come se quella fosse l’ultima cosa concessa al
mondo. Se dovevamo
essere in due a giocare, allora dovevamo farlo alla pari ed io, dal
canto mio,
dovevo farlo impazzire come lui stava facendo con me.
E
nemmeno me ne resi conto di quanto ci ritrovammo sul
letto della mia stanza, già con il fiato corto e le mani che
viaggiavano
veloci, cercando di togliere di mezzo gli ultimi abiti, diventati
improvvisamente ingombranti ed inutili. Nemmeno mi resi conto di come
diventammo una cosa sola, di come le nostre labbra non accennassero a
staccarsi
un momento, di come la mia pelle fu percorsa da brividi che parevano
non finire
mai, di come tutto sembrò improvvisamente surreale.
Perché
non poteva essere vero, non poteva capitare ancora
una volta ed io non potevo essere stata così tanto stupida
da stare al gioco.
Sapevo
che, prima o poi, mi sarei fatta male, che avrei
cominciato ad avere troppe aspettative che poi si sarebbero sciolte
come neve
al sole, perché nulla mi sarebbe arrivato in cambio.
Vedevo
il fuoco cominciare a bruciarmi poco a poco, fino
a quando non mi avrebbe divorata completamente, senza darmi la
possibilità di
scappare. E dovevo trovare un rimedio a tutto ciò, il prima
possibile, per
cercare di salvare il più possibile di me stessa, per
cercare di scappare da
quella trappola.
Sapevo
che prima o poi mi sarei fatta male e,
probabilmente, se ne rendeva conto anche Travis, nonostante alla prima
occasione non aspettasse un momento per trascinarmi verso il fondo, per
farmi
sentire ancora fragile ed inadeguata, anche se lì, in quel
momento, mi sentivo
perfetta, mi sentivo bene mentre lui continuava a baciare la mia pelle,
mentre
continuava a sfiorare il mio corpo con le sue mani. Mi sentivo quasi
perfetta
tra le sue braccia, ed era proprio quella la cosa che mi spaventava di
più.
Mi
sarei presa volentieri a schiaffi, sì. Anche in quel
momento, con ancora il fiato corto e le mani che tremavano leggermente,
con
ancora la mente annebbiata dal desiderio e dal piacere, mi sarei presa
a
schiaffi da sola, solo per convincermi di aver fatto un terribile
sbaglio.
E
Travis era ancora lì, sul letto, poco distante da me e
potevo sentire come, anche a lui, mancasse il fiato.
Cosa
avevamo fatto? Cosa avevo fatto, io!?
“Dobbiamo
smetterla, Travis”, dissi, cercando di respirare
adeguatamente, girandomi
su un fianco per poterlo osservare.
Fissava
il soffitto, con le braccia incrociate dietro il
capo e non accennava a prestarmi attenzione, sembrava perso
completamente nei
suoi pensieri.
“Travis”, lo
chiamai, ponendo fine finalmente alla sua distrazione. “Dobbiamo smetterla di fare così”,
ripetei, una volta incrociato il
suo sguardo.
“Credi che non lo sappia?”,
domandò, retorico, tornando a fissare il soffitto come se
nulla fosse. “Ma non mi sembra
nemmeno la fine del mondo”.
Era
facile, per lui, lavarsene le mani in quel modo. “Allora la prossima volta che ti viene la
malsana idea di presentati alla mia porta, lascia perdere e continua
per la tua
strada”, ribattei, acida, chiedendomi come potesse
dare poco peso ad una
cosa simile.
Poi
l’occhio mi cadde dietro l’orecchio sinistro di
Travis dove, indisturbato, se ne stava un piccolo tatuaggio, una
piccola ancora
dalle linee sottili e delicate. Nulla di pretenzioso, un disegno
piccolo e
fine, talmente piccolo che, fino a quel momento,
non lo avevo nemmeno notato. “E
quel tatuaggio?”, domandai.
Lo
vidi voltare di scatto la testa e cercare il mio
sguardo, quasi impaurito, e non potei fare a meno di domandarmi che
cosa avessi
mai detto di male.
Pareva
terrorizzato, e pure leggermente infastidito dalla
mia domanda, ma proprio non riuscivo a capire per quale motivo.
Continuò a
fissarmi per alcuni istanti, come se al mio posto ci fosse una creatura
aliena,
poi lo vidi rilassarsi in viso prima di alzarsi e cominciare a
rivestirsi come
se nulla fosse.
“Devo andare”,
disse, scorbutico, raccogliendo tutte le sue cose.
Quasi
non ci potevo credere. Si era offeso per la mia
domanda, per caso? Cosa avevo detto di male, poi? Doveva davvero avere
qualche
serio problema, quel ragazzo, perché un comportamento simile
non era
assolutamente normale, anzi, era davvero preoccupante.
In
meno che non si dica era già rivestito, con il
telefono in una mano e le scarpe nell’altra ed aveva
cominciato a fissarmi
intensamente, mandandomi per l’ennesima volta in tilt per
tutti i suoi cambi
d’umore. Si avvicinò lentamente a me, sedendosi
sul bordo del letto ed
osservandomi attentamente, mentre io, coperta solamente dal lenzuolo,
dovevo
essere sicuramente di un colore tendente al bordeaux.
Dov’era
finita la mia faccia tosta, dannazione!?
“Lo so che non
possiamo andare avanti così Maya”,
cominciò, cercando di sorridere, invano
e non distogliendo per un attimo i suoi occhi dai miei. “Non credere che io non ci stia provando”,
aggiunse, tornando in
piedi e dirigendosi verso la porta, senza dire una parola in
più, lasciandomi a
bocca aperta.
Bipolarismo,
era l’unica spiegazione.
Aprì
la porta, dopo avermi rivolto un ultimo sguardo, poi
se ne andò così come era arrivato,
improvvisamente e senza una spiegazione vera
e propria.
Mi
avrebbe mandata la manicomio, lui. E per fortuna che
con fotografie e cazzate varie avevo finito.
Un
branco di morti viventi, ecco cosa eravamo tutti
quanti, la mattina della partenza. Fatta esclusione di Simona, ovviamente, che, chissà per
quale
motivo, era sempre fresca come una rosa, un fiore appena sbocciato ed
era
davvero irritante vederla sempre così perfetta, in ogni
occasione. Troppo
perfetta.
Non
ero riuscita a chiudere occhio, nelle poche ore che
mi erano rimaste dopo la dipartita di Travis, ed avevo preferito
preparare al
meglio i miei bagagli, per evitare di dimenticare qualcosa. E tutto si
notava fin
troppo, nei capelli legati in disordine sopra la testa, nelle occhiaie
che mi
rendevano simile ad un panda e nella mia irascibilità, fin
troppo accentuata di
quanto già non fosse normalmente.
Lasciammo
quella maledetta città, finalmente, partimmo
per l’Italia lasciandoci alle spalle Doha che aveva creato
più problemi che
altro.
“Tesoro, dovresti
riposare un po’, ora”, disse, mio padre,
poco dopo aver preso posto in
aereo. “Non sembri stare molto bene”.
“No, infatti, non
ho dormito affatto”, confessai, massaggiandomi le
tempie.
“Hai fatto le ore
piccole, eh?”, chiese, con un mezzo sorriso e
facendomi quasi prendere un
infarto.
“EH!?”,
esclamai, non riuscendo a capire dove volesse andare a parare.
“Il locale in cui
siete andati ieri sera, Maya”, rispose,
più confuso di prima. “Sarete
tornati a notte inoltrata, immagino”.
“Ah”, sospirai
di sollievo, vedendo un enorme pericolo scampato. “No, sono tornata presto, almeno io, non mi sentivo
molto bene”.
“Almeno cerca di
dormire adesso”.
Non
me lo feci ripetere due volte. Frugai nella mia borsa
alla ricerca dell’iPod e, non appena lo trovai, infilai le
cuffiette per
estraniarmi dal mondo, come mio solito, ed il mio viaggio verso casa
non poteva
cominciare in modo migliore.
I
looked out this morning and the sun was gone
turned on some music to start my day
I lost myself in a familiar song
I closed my eyes and I slipped away
Boston – More than a Feeling
Avevo
un incredibile numero di ore, davanti a me, ed
avevo bisogno di dormire, non volevo pensare, non volevo continuare a
rodermi
il fegato per l’ennesimo sbaglio che avevo commesso.
Perché era stato quello,
la notte appena trascorsa, un enorme e terribile sbaglio e non sarebbe
capitato
un’altra volta. quella volta ne ero davvero convinta, non
doveva capitarmi ancora
e non avrei mai più permesso che Travis mi prendesse in
contropiede e mi
convincesse ad abbassare la guardia. Dovevo essere più
forte, più dura anche
con me stessa.
Speravo
che, con il ritorno a casa, almeno qualche cosa
si potesse sistemare, che qualche particolare terribilmente fastidioso
se ne
potesse finalmente andare, come quell’assurda collaborazione
con Simona. Avrei atteso
solamente un giorno, giusto il tempo di riprendermi dal viaggio e di
dormire
tutto il giorno, poi avrei portato tutto il materiale alla redazione
della
rivista e, da quel momento in poi, avrei avuto una bionda in meno nella
mia
vita e sarebbe andato tutto molto meglio, ne ero pienamente convinta,
doveva
andare così.
Avevo
bisogno di casa, avevo bisogno del mio appartamento
ed avevo bisogno di levarmi la presenza di quella ragazza di dosso e,
magari,
qualcosa avrebbe cominciato a girare per il verso giusto.
Ero
ottimista, allora, e se avessi saputo cosa mi aspettava,
probabilmente sarei rimasta in quella maledetta città
passando per pazza.
*****
Ed eccomi qui, finalmente..
ciao bellezze!
E poi, mie gentili
signorine, ESISTE UN
BANNER, FINALMENTE! Che ne dite?
Diciamo che sono ancora alle prime armi e sto solamente facendo delle
prove, ma pensavo che almeno un volto dovessero averlo, questi due
poveretti. Ecco, sono più o meno così, tranne
alcuni particolari, ma questi due ragazzi rendono parecchio l'idea di
come me li sono immaginati. Fa tanto schifo?
So di avervi lasciato ad un momento orribile e, per più di
un mese, non mi sono fatta viva e mi dispiace tanto! Mi prenderei a
schiaffi da sola, vi giuro.. Non volevo far passare tanto tempo nemmeno
questa volta, ma tra le feste ed altri impegni mi sono ritrovata a
terminare il capitolo solamente in questi giorni, nonostante il grosso
fosse già stato scritto parecchio tempo fa!
Vi chiedo scusa,
davvero..
Cooomunque.. che ne
dite!? E' di una lunghezza stratosferica, e anche per questo vi chiedo
scusa, ma non volevo troncare a metà una cosa simile,
diciamo così.. anche perchè non avrei mai trovato
il momento giusto per poterlo troncare. Meglio così, allora:
vi ho fatto attendere più di un mese, ma almeno sono tornata
con un capitolo parecchio sostanzioso. Spero di essere stata perdonata.
Voglio
ringraziare tutte le temerarie che, nel capitolo precedente, si sono
fatte sentire ed hanno recensito.. lo apprezzo davvero tanto! Ma
ringrazio, ovviamente, anche chi si è aggiuto da poco e chi
continua a leggermi in silenzio! GRAZIE!
Detto questo, alla
prossima.. e fatemi sapere cosa ne pensate, ditemi cosa potrebbe
succedere, secondo voi, e come sta procedendo la storia. Sono davvero
curiosa di sentire il vostro punto di vista!
Un abbraccio,
Chiara.
|
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Capitolo 22 *** 21 - Anno nuovo, vita nuova! ***
Maya21
NdA
Questo
capitolo è qualcosa di infinito e ci ho messo davvero anima
e corpo per portarlo a termine,
oltre che un sacco di tempo, come sempre. Spero vi
piaccia.. ci vediamo sotto!
*****
“Davvero un ottimo
lavoro, Maya”.
Ecco
come mi aveva accolta la direttrice della rivista,
dopo averle mostrato i miei migliori scatti dei campionati.
Erano
stati giorni difficili, quelli a Doha, e…
inaspettati, questo è sicuro, ma non avevo atteso un momento
di più per
liberarmi di quel lavoro. C’erano troppi ricordi, troppi
pensieri che si
ostinavano a non abbandonarmi e troppe sensazioni che continuavo a
ripercorrere, e sentivo il bisogno di togliermi di mezzo quel malloppo.
Avevo
atteso solamente un giorno, giusto il tempo di
riprendermi dalle ore di volo e dal viaggio in aereo, poi mi ero messa
all’opera per trovare le immagini perfette per
l’articolo, per togliermi
finalmente quel peso dallo stomaco.
“Sapevo che non
avresti avuto problemi, ma questa volta mi hai davvero sorpresa”,
aveva
detto, poi, dopo essersi resa conto che ero rimasta troppo inebetita
per rispondere.
Me
ne ero andata dalla redazione della rivista con il
sorriso sulle labbra ed il cuore più leggero,
perché sapevo che quell’avventura
tanto strana aveva finalmente trovato la sua dannata fine: non avrei
più visto
Simona e non avrei mai più dovuto sopportare la sua voce ed
i suoi
atteggiamenti, non avrei dovuto rivedere Travis, per quanto strano
potesse
sembrare. Ma ero felice di aver voltato pagina e di aver concluso
quella parte
della mia vita. La avrei ripresa in mano com’era prima che
Doha arrivasse a
sconquassarla ed avrei lavorato come una matta per far vedere il mio
valore,
senza altri intralci o problemi.
Okay,
non volevo altri problemi collegati al mio lavoro,
ma la mia vita era diventata davvero una noia. Forse mi ero abituata
troppo
facilmente al movimento e a non poter avere un momento tutto per me, ma
non
avrei mai pensato che, tornare alla normalità, equivalesse a
quella noia
incredibile.
Dopo
aver consegnato gli scatti alla rivista, non avevo
più avuto alcune notizie, nessun altro nuovo incarico e,
anche se avevo
ricevuto un cospicuo compenso, volevo lavorare. Non ero fatta per state
con le
mani in mano, non più, almeno.
Forse
l’esperienza di Doha, e tutto ciò che era successo
prima, mi aveva cambiata e nemmeno me ne ero resa conto e non mi
piaceva
proprio, quel particolare. Mi andava bene, la mia vita, prima, ed
improvvisamente mi ero ritrovata ad odiare la monotonia che non faceva
altro
che girarmi attorno.
L’unica
nota positiva di quel periodo era stata l’arrivo
del Natale, quindi tutti i giri per negozi per gli addobbi ed i pochi
regali
che mi ero prefissata di fare. Avevo deciso di cucinare per mio padre,
quell’anno, nonostante non fossi mai stata una cuoca
provetta, ma doveva per
forza vedere che meraviglia era diventato il mio appartamento, grazie
alle
nuove decorazioni ed il piccolo albero che avevo deciso di comprare.
“Buon Natale,
tesoro”, esclamò, non appena aprii la
porta di casa, abbracciandomi di
slancio, facendomi quasi cadere a terra.
Era
sempre stato speciale il Natale, per mio padre, ed io
non avevo mai capito perché e nemmeno mi ero scomodata a
chiedergli qualcosa.
Avevo sempre preferito restare nell’ignoranza, per evitare
spiacevoli sorprese
che, magari, fossero collegate a quella che, una volta, era mia madre.
Sì,
quella donna che non ricordavo nemmeno che faccia avesse.
Lo
feci entrare in casa, lasciando che ispezionasse casa
mia, mentre io finivo di preparare il pranzo di Natale in cucina.
Speravo
davvero di non aver sbagliato nulla, cucinando da sola: volevo che,
almeno per
una volta, mio padre fosse fiero di me per qualcosa che non fosse
collegato al
lavoro.
Avevamo
passato una giornata tranquilla, chiusi in casa
chiacchierando delle ultime novità e tirando fuori vecchi
ricordi di vecchi
Natali passati insieme e, in un certo senso, era sempre un pugno alla
bocca
dello stomaco, rivangare ciò che era accaduto anni prima.
Era sempre stato
meglio così e, in un tacito accordo, aveva deciso con mio
padre di lasciare il
passato al suo posto, anche se in occasioni simili spolveravamo
solamente i
ricordi più belli e divertenti.
Era
stato felice di poter pranzare grazie a me e alla mia
cucina, anche se non ero per nulla sicura della sua
sincerità. Un palato ce lo
avevo anche io e, ciò che avevamo mangiato, non era proprio
gran ché, anzi, ma
mio padre si era sempre dimostrato troppo signore e gentile per
criticare un
qualsiasi lavoro di una donna, soprattutto se la donna in questione ero
io, sua
figlia.
“Hai qualche
programma per l’ultimo dell’anno, Maya?”,
chiese, all’improvviso, mentre ce
ne stavamo stesi sul divano davanti alla televisione.
“Se per programma
intendi una full immersion di serie tv con gelato e spumante, allora
sono
impegnatissima”, risposi, sorridendo e facendo
ridere mio padre, a sua
volta.
“Sono serio”,
cominciò. “Abbiamo
organizzato, alla
piscina, una festa per il Capodanno e speravo potessi venire anche tu”.
“Tu che organizzi
una festa? E questa novità da dove salta fuori?”,
gli domandai, scettica.
“Devo stare al
passo con i tempi, Maya”, ribatté, con
una risata. “Roberto ed io abbiamo
deciso di provare ad organizzare questo gala e,
alla fine, abbiamo optato per la piscina”.
“Fermati un momento”,
esclamai, mettendomi improvvisamente seduta. “Un
gala? Avevi detto una festa, papà, non… un gala,
ma sei serio!?”.
Una
semplice festa l’avrei potuta anche accettare, non
c’era nulla di male, ma un gala? Non sapevo nemmeno da che
parte cominciare, ad
essere sincera, poi il solo pensiero di restarmene in tiro per tutta la
sera mi
faceva venire la nausea. Ed
un branco di
persone vestite alla perfezione, con abiti da migliaia di euro spesi
solamente
per una serata l’anno, con scarpe abbinate e Rolex al polso?
Sapevo
che mio padre avrebbe invitato mezza Italia,
quella importante del mondo del nuoto, ovviamente, quella che contava
davvero e
la sensazione di inadeguatezza mi aveva catturata nel tempo di un
battito di
ciglia. Non ero mai stata adatta a quell’ambiente e non lo
sarei mai stata,
nemmeno in un futuro davvero lontano.
“Tesoro, non ti
agitare”, cercò di calmarmi, mio padre,
continuando a mantenere lo sguardo
incollato al televisore. “Ci
sarà giusto
un centinaio di persone e tu devi essere presente”,
concluse, più deciso di
quanto avrei voluto.
Un
centinaio di persone. Lo aveva detto come se fosse la
cosa più semplice del mondo ed era facile, per lui,
perché ci era cresciuto, in
quell’ambiente, con quelle persone, ma io non ero affatto
come lui o come la
maggior parte degli invitati. Avevo sempre preferito restarmene in
disparte
perché, sapevo, la notorietà collegata a mio
padre non mi sarebbe mai piaciuta;
praticamente nessuno sapeva chi fossi e avrei preferito che, quel
particolare,
restasse tale e non che, a ventiquattro anni, diventassi
improvvisamente la figlia di mio
padre.
Era
un ragionamento strano, contorto, ma mi faceva una
paura tremenda.
“Papà, mi spiace,
ma questo non fa per me e tu lo sai bene”,
balbettai, quasi in preda al
panico.
“Oh non essere
sciocca, Maya”, rispose, lui, palesemente
infastidito dal mio
comportamento. “Ti
basterà restare fino a
mezzanotte, se proprio devi, ma devi esserci per forza, tesoro,
dopotutto la
tua redattrice capo ha insistito per far si che, sia la fotografa che
la
giornalista dell’articolo su Travis, fossero presenti”.
“Ah perfetto”,
esclamai, massaggiandomi le tempie. “Dovrò
sorbirmi anche la presenza di Simona, come se la presenza di un
centinaio di
perfetti sconosciuti non fosse abbastanza”.
“Silenzio, almeno
questa volta farai come ti dico, Maya”,
ribatté, ancora. “Questo
è un ottimo modo per mettere in luce
il tuo lavoro, per dare credito alla rivista per cui lavori e per
cercare
sponsor importanti e non permetterò ai tuoi capricci di
rovinare tutto quanto”,
aggiunse, guardandomi, severo.
Io
non stavo facendo i capricci. Avevo smesso parecchi
anni prima, ma, in quel momento, proprio non riuscivo a digerire questo
suo
volermi mostrare al pubblico, nemmeno fossi stata un premio oppure il
risultato
di una battuta di caccia. Non mi piaceva e non sarei riuscita a farmelo
piacere
per fare bella figura davanti agli ospiti di mio padre, tuttavia,
sapevo che,
quella sua espressione corrucciata e decisa, non ammetteva repliche.
Non lo
aveva mai fatto e, sapevo, non avrebbe cominciato in quel momento.
Alla
fine avevo ceduto per forza di cose, anche se
continuavo a non essere convinta di quella stupida festa.
Negli
ultimi giorni prima del Capodanno ero andata in
lungo e in largo per trovare un abito adatto per l’occasione
e, mio padre,
aveva insistito perché lo comprassi con il suo denaro,
spacciandolo per un
regalo di Natale in ritardo. Non ero d’accordo nemmeno per
quel particolare, ma
aveva insistito fino a farmi diventare matta.
Alla
fine, dopo ore di viaggi tra un negozio e l’altro,
avevo trovato quello che più mi stuzzicava, anche se non mi
ci vedevo proprio
ad una serata elegante. Ne avevo approfittato anche per cercare un
nuovo paio
di tacchi per l’occasione, dato che le uniche che possedessi
non mi sembravano
molto adatte. Ed avevo speso una follia e mi dissi che, per il resto
dei miei
giorni, ero a posto con lo shopping.
Il
pomeriggio prima della festa decisi di prepararmi per
tempo, conoscendo la mia tendenza al ritardo cronico; mio padre mi
aveva
chiesto di presentarmi per le otto, puntuale,
aveva specificato. E, in tutto questo, c’era il mio caro e
amato letto che
continuava a fissarmi assiduamente, cercando di convincermi a darmi per
malata
e a restare a casa, rintanata sotto le coperte.
Cominciavo
davvero a perdere il lume della ragione.
Alla
fine ero riuscita nell’intento di prepararmi a
dovere per quell’assurda serata che mi aspettava e, il
risultato che ne era
uscito, mi sorprendeva. Non sembravo io, quella allo specchio, con i
capelli
racconti in modo morbido sulla testa e il viso truccato, anche se non
in modo
eccessivo. Decisi di andarmene di casa perché, se avessi
perso ancora del tempo
davanti allo specchio, cercando di capire chi fosse quella persona,
probabilmente avrei deciso di dare buca a mio padre e restare nella mia
tana;
così salii in macchina, poggiando sul sedile del passeggero
la borsetta che
avevo riesumato dall’armadio e la macchina fotografica che
mio padre mi aveva
chiesto di portare per immortalare la serata.
Cominciavo
a pentirmi di quella decisione, di aver
assecondato la richiesta di mio padre, ma in quel momento non potevo
nemmeno
tirarmi indietro, non più. Soprattutto perché
sapevo quanto Claudio ci tenesse,
nonostante non me lo avesse detto esplicitamente. Inoltre, era davvero
un buon
modo per farsi conoscere e, alla fine, mio padre non navigava
nell’oro e non
poteva di certo permettersi di sponsorizzare tutto quanto di tasca sua,
quindi
potevo capirlo, nonostante non avessi la minima voglia di mettermi in
mostra
nemmeno fossi un trofeo.
Quello
era Travis e, probabilmente, sarebbe rimasto sul
piedistallo più in luce per tutta la serata, anche se non
avevo chiesto
conferma della sua presenza a mio padre. Meno sospetti aveva e meglio
era. Ma
sapevo che, in ogni caso, sarebbe stato presente, me lo sentivo,
soprattutto se
quell’assurda serata girava intorno al voler mettere in
mostra la piscina ed il
lavoro di mio padre.
Ero
certa solamente di una cosa: sarebbe stata una lunga,
lunghissima serata.
Travis’
POV
Sarebbe
stata una lunga serata, quella, me lo sentivo.
Come se una pressa mi stesse stritolando lo stomaco e l’abito
elegante che
indossavo non aiutava per niente la mia povera respirazione.
Ero
stato costretto dalla decisione e dall’entusiasmo di
Claudio a tirarmi a lucido per l’occasione, nonostante
fossimo nello stesso
posto dove ogni giorno mi allenavo per ore con davvero poco indosso,
nonostante
le piscine fossero state recintate.
Aveva
fatto un bel lavoro, però, il mio allenatore,
soprattutto per aver creato un’atmosfera molto tranquilla,
nonostante fossero
presenti decine e decine di persone. Le candele galleggianti
sull’acqua, i neon
della palestra semi coperti dai dei drappi di stoffa per non creare una
luce
troppo artificiale ed i tavoli a bordo delle piscine, sparsi per tutto
il
palazzetto. Era meraviglioso, su questo non c’era alcun
dubbio, ma la mia
propensione al sorriso facile e al dover restare lì per
tutta la sera, come un
pezzo da museo, era pari a zero.
Sapevo
per quale motivo era stato fatto tutto quello,
certo, ma non avevo comunque l’umore adatto per passare come
un fenomeno da
baraccone, in mezzo a tutta quella gente con persino le orecchie piene
di
soldi. Mi facevano alquanto ribrezzo, loro, con le donne a braccetto
ricoperte
di gioielli ed i abiti appena usciti dai negozi più costosi
della città.
Decisi
di restarmene in un angolo, indisturbato, con il
telefono in mano, fino a quando non sarebbe arrivato il momento di
accomodarci
ai tavoli e cominciare a cenare. Avevo incontrato Michele, poco prima,
e mi ero
risollevato vedendo quanto, anche lui, non avesse per nulla voglia di
restare
chiuso lì dentro.
Almeno
non ero solo.
Non
avevo ancora avuto modo di parlare con Claudio da
quando ero arrivato, ma era tutto più che comprensibile.
Doveva fare gli onori
di casa, quella sera, e di certo non avrebbe avuto molto tempo per noi
che
avevamo la fortuna di poterci parlare ogni giorno; lo vedevo
terribilmente
preso ad accogliere chiunque entrasse dalle porte con un sorriso
sincero ed
impartire direttive al servizio catering che aveva assoldato per quella
sera,
così decisi di lasciar perdere completamente la mia idea di
dirigermi verso di
lui per avere qualcuno con cui parlare.
Tuttavia,
lo avrei volentieri ucciso non appena fui
arrivato al palazzetto per avermi costretto ad invitare anche mia madre
a
partecipare alla serata.
Non
l’avesse mai fatto: per giorni, prima della festa, mi
aveva tartassato di chiamate e messaggi per cercare di capire
particolari di
cui nemmeno ero a conoscenza, per non parlare dell’imminente
bisogno di soldi
per essere perfetta per l’occasione. Se quello doveva essere
il suo concetto di
perfezione, la situazione era più preoccupante di quanto
pensassi. Con
quell’abito bianco era a dir poco ridicola e, probabilmente,
nemmeno a Simona
sarebbe donato uno straccetto simile, striminzito com’era.
Mi
ero rifiutato di andare a prenderla, però. Sapevo che
sarebbe stata una delle ultime persone ad andare via da quella festa,
conoscendola, ed io non ero di certo disposto ad aspettarla; volevo
andarmene
al più presto e, la serata, non era nemmeno cominciata.
Mi
fermai un momento ad osservarla, a distanza, mentre
chiacchierava con un gruppetto di donne che, bene o male, avranno avuto
la sua
stessa età. E la sua stessa passione per il denaro, a
giudicare dal loro
abbigliamento.
Era
strano vederla in quell’ambiente e non mi piaceva per
nulla, e probabilmente non mi sarebbe mai piaciuto, perché
quella piscina era
casa mia, il mio rifugio, e la sua presenza sembrava contaminarlo.
Sarebbe
stato un inferno, quella serata, e lo avevo
capito nel momento stesso in cui avevo sistemato il nodo della cravatta
che
avevo indossato sopra la camicia inamidata, quando ancora ero a casa,
al
sicuro.
Ricominciai
a guardare il cellulare, cercando un
qualsiasi modo per ammazzare il tempo, nell’angolo che mi ero
ritagliato in
quella gabbia di leoni, ma non riuscii a trovare un qualsiasi
passatempo utile
per tenere la mente occupata. Non c’era nulla che potessi
fare per non sentirmi
fuori posto, lì dentro.
Mi
incamminai verso l’angolo che era stato adibito a bar,
in cerca di alcool per poter affrontare meglio tutto quanto, anche se
non ero
mai stato un assiduo bevitore, ma avevo bisogno di qualcosa da bere,
qualcosa
che potesse rendere tutti quanti più simpatici.
Così mi lasciai servire
l’aperitivo che Claudio aveva scelto per
l’occasione, ovviamente non troppo
alcolico.
Ecco
un altro motivo per odiare il mio allenatore, in
quel momento.
E
proprio in quel momento lo vidi abbracciare una figura
minuta, nettamente più bassa di lui e quasi mi venne un
infarto quando,
terminato l’abbraccio, riconobbi Maya, davanti
all’entrata della piscina. E
dovetti osservarla con attenzione per alcuni istanti per cercare di
capire se
quella fosse davvero lei o meno, perché non sembrava lei.
Nemmeno lontanamente,
se non per la statura, forse.
Ma
quella donna non era la ragazza che ricordava a Doha,
avida di informazioni e di scoprire la città in cui era
stata costretta a
soggiornare per giorni, non era quella con cui aveva avuti
più screzi che
altro, non era la ragazza con cui aveva fatto sesso per tre volte
contro ogni
logica. I suoi soliti ricci racconti il modo morbido sulla nuca, con
alcune
ciocche lasciate libere per completare il tutto, il trucco leggero, ma
delineato alla perfezione con gli occhi in un meraviglioso netto
contrasto con
la linea nera che li accerchiava, e quel vestito che aveva indosso.
Quell’abito
nero, semplice e lineare che, nonostante le arrivasse ai piedi, le
donava in
modo fastidiosamente incredibile, con la gonna morbida, liscia ed il
busto
attillato che le fasciava perfettamente la figura. E solamente quando
si voltò
ancora una volta verso il padre potei notare il particolare che
caratterizzava
l’intero abito, quella scollatura vertiginosa che lasciava
completamente
scoperta la schiena.
Mi
ritenni un uomo fortunato per la penombra che mi
nascondeva e per il poco afflusso di persone che avevo nelle vicinanze
perché,
se qualcuno avesse lanciato uno sguardo nella mia direzione, avrebbe
visto
solamente un completo idiota con le labbra socchiuse per la sorpresa di
quella
visione. E, all’improvviso, fui assaltato
dall’improvviso desiderio di rapire
quella ragazza e replicare ciò che era successo nella stanza
delle scope, in
quel palazzetto, tempo prima.
Avevo
bisogno d’aria, di schiarirmi le idee perché,
Maya,
con il suo solo arrivo aveva già incasinato le cose
più di quanto non lo
fossero prima, senza il suo aiuto. Così mi diressi
velocemente verso l’uscita,
poco lontano da dov’era lei e, probabilmente, qualcuno mi
avrebbe ritenuto
quasi un fuggitivo per la fretta con cui abbandonai
l’edificio, uscendo nel
parcheggio e venendo investito dal freddo di fine dicembre. Ma andava
bene
così, avevo bisogno di qualcosa che raffreddasse la fiamma
che ero diventato, e
tutto quello solo per aver visto una ragazza vestita elegantemente,
ragazza
che, tra l’altro, avevo avuto la possibilità di
vedere nettamente meglio ed in
altre occasioni.
Dovevo
darmi una regolata, ecco tutto, perché non avrei
durato mezz’ora, là dentro, senza impazzire
realmente.
“Travis”,
esclamò una voce alle mie spalle, e conoscevo fin troppo
bene quella voce per
poter far finta di nulla.
Così
voltai lo sguardo e, quando riconobbi Simona venirmi
incontro, pensai che quella sera l’universo voleva davvero
divertirsi a giocare
con il mio contegno ed il mio autocontrollo. Perché, se Maya
si era rivelata
una meravigliosa sorpresa, Simona non aveva per nulla deluso le mie
aspettative, tutt’altro. Con quell’abito rosso che
le arrivava sopra il
ginocchio e le scarpe nere, altissime, con il viso perfettamente curato
e
contornato dai suoi soliti capelli biondi resi lisci, quella sera.
Doveva
essere appena arrivata, a giudicare dal cappotto
pesante lasciato aperto che indossava e dalla borsetta tra le mani. Si
avvicinò
a me con grazia, sfoggiando uno dei suoi sorrisetti accattivanti.
“Sembri un’altra persona,
questa sera”,
confessò non appena mi raggiunse. “Sei
fantastico!”, aggiunse, con più
entusiasmo, facendo quasi le fusa.
“Ti ringrazio, ma
tu non sei da meno, Simona”, risposi, sorridendo,
cercando di mascherare il
nervosismo di poco prima che non accennava a lasciarmi in pace.
Certo,
quella ragazza era un altro paio di maniche,
rispetto a Maya, ma non mi sarebbe dispiaciuta un’occasione,
nonostante la
reputassi una semplice svampita. Ed aveva ancora in mente quella sera
in quel
locale a Doha, quando avevamo parlato, atteggiandosi come la
più facile delle
ragazze, stuzzicando la mia immaginazione. Ma poi si era rivelata
scontata, la
solita compagnia che qualcuno cerca per una botta e via, strusciandosi
addosso
a me come la più squallida delle sgualdrine. Inoltre, Maya
aveva deciso di
complicare tutto quanto, andandosene via sia con Michele e Luca,
quell’idiota
che l’aveva adocchiata già da tempo.
Così
non avevo più retto. Dopo cinque minuti, ad essere
esagerati, avevo chiesto a Simona di tornare in albergo, non
sopportando più la
sua presenza e la calca presente in quel buco di locale.
L’avevo
lasciata nella hall dell’hotel senza una
spiegazione, prendendo il primo ascensore libero e dirigendomi
direttamente
alla porta di Maya, pretendendo delle spiegazioni per quel suo
comportamento da
stupida, per capire cosa davvero volesse lei e, forse, per capire cosa
volessi
io stesso.
Poi
era successo quello che era successo e la situazione
era degenerata, e sarebbe solamente peggiorata se avessi risposto alla
domanda
di Maya in merito al mio tatuaggio, così da perfetto codardo
avevo levato le
tende nel giro di un battito di ciglia, lasciando a letto una Maya
esterrefatta.
“Che cosa ci fai
qua fuori, tutto solo?”, domandò, lei,
civettuola come suo solito.
“Avevo bisogno di
un po’ d’aria, tutto qui”,
risposi, sperando che non cominciasse a mitragliarmi
con le sue migliaia di domande. “Torniamo
dentro? Non vorrai prendere freddo”, aggiunsi,
cominciando ad incamminarmi
verso l’entrata.
Dovevo
trovare Michele, dentro quel palazzetto, e cercare
un minimo di supporto da parte sua, un briciolo di compagnia che mi
aiutasse a
non impazzire e sapevo che solamente uno come lui, con la sua indole
tranquilla, avrebbe detto sempre la cosa giusta.
Ritornammo
all’interno del palazzetto, dove accompagnai
Simona al guardaroba per
lasciare il
giaccone poi, per l’ennesima volta, me ne andai a gambe
levate verso l’angolo
bar, dove avevo appena intercettato Michele.
“Aiutami, ti prego!”,
mormorai, non appena lo raggiunsi, attirando la sua attenzione. E, non
appena
vide la mia espressione, scoppiò a ridere, senza ritegno,
consumando il suo
aperitivo e porgendomene uno identico.
“Quanto deve essere
dura recitare la parte dello scapolo più ambito, qui dentro”,
mi canzonò,
continuando a ridere.
“Non sei
divertente!”.
“Ah perché deve
essere davvero difficile essere conteso da due ragazze come Simona e
Maya”,
ribatté, lui, lanciandomi un’occhiataccia.
“Maya? Ma cosa stai
dicendo?”, gli chiesi, non capendo dove volesse
arrivare. “Tu vaneggi, Michele”.
“Affatto, ma lei
non se ne è nemmeno resa conto e nemmeno tu, a quanto pare!”,
aggiunse,
infine, quasi sorpreso, con lo sguardo perso nel vuoto.
“Quanti ne hai
bevuti, di quei bicchieri, Michele? Cominci a preoccuparmi”,
esclamai,
guardandolo bene e non trovando alcun segno di ubriachezza. Doveva
essere
completamente impazzito, allora, per dire cose simili, senza alcun
senso.
Maya’s
POV
Aveva
fatto un lavoro meraviglioso, mio padre, senza
ombra di dubbio , e nemmeno mi dispiaceva. Era la compagnia a lasciar a
desiderare, e anche parecchio.
Ero
stata presentata ad una decina di persona nei primi
cinque minuti, ad esagerare, e mio padre non si era risparmiato con gli
elogi,
cosa che mi fece sentire in estremo imbarazzo.
Appesi
ai muri, qua e là, c’erano i miei scatti che
sarebbero stati presenti nell’articolo, insieme ad altre
vecchie fotografie di
campioni precedenti, e tutti sembrarono fin troppo entusiasti nel
conoscere la
persona che aveva scattato quelle immagini. Così avevo colto
la prima occasione
disponibile ed ero scappata da Claudio che continuava a parlare a
macchinetta,
salutando ed accogliendo chiunque gli capitasse a tiro.
Avevo
intravisto, prima di fuggire a gambe levate da mio
padre, una figura fin troppo familiare uscire dal palazzetto, quasi
correndo,e
non potei fare a meno di chiedermi cosa potesse aver fatto Travis per
andarsene
in quel modo, ma quando, poco dopo, lo vidi rientrare con Simona al suo
seguito
compresi all’istante la fretta che aveva avuto per andare a
recuperare la sua…
accompagnatrice? Forse, non avrei indagato in ogni caso. Di certo
quell’abitino
rosso fuoco la rendeva poco signorile, almeno per quella serata.
Lascai
perdere, così mi concentrai su come immortalare al
meglio il palazzetto addobbato a festa, su come poter cogliere ogni
particolare
al meglio, compresi i fiumi di persone che continuavano ad entrare
senza sosta.
La
direttrice della rivista mi aveva praticamente imposto
di fare un buon lavoro, tutto pur di mettere il luce il giornale per
cui
lavoravo, e, nemmeno fossi una bambina, mi aveva raccomandata di
comportarmi a
dovere, nonostante fosse tutto organizzato proprio da mio padre. Era
assurdo.
Girovagai
per il palazzetto in cerca delle migliori
angolazioni, fermandomi all’angolo bar per prendere
l’aperitivo della serata e
non facendo caso agli sguardi che ricevevo ogni volta che, gli ospiti
della
serata, intravedevano la macchina fotografica tra le mie mani. Nemmeno
fossi un
paparazzo.
“Potresti
cominciare a fare qualche fotografia, sai?”, disse
una voce alle mie
spalle, mentre mi dirigevo verso l’angolo perfetto che avevo
trovato poco
prima. Così mi voltai e fui sorpresa di trovarmi ad un paio
di metri di
distanza Michele, anche lui, tirato a lucido per quella festa, perfetto
nel suo
completo nero con la camicia bianca, senza cravatta, ma con i primi due
bottoni
slacciati.
“Se volevi un
calendario, bastava dirlo”, gli risposi, ridendo ed
avvicinandomi a lui.
“Un calendario?”,
chiese, lui, fingendosi pensieroso. “No,
meglio di no, potrei far sfigurare gli altri. Però ci sono
decine di persone
che, per una buona fotografia, farebbero di tutto, soprattutto stasera”,
continuò, scoppiando a ridere.
“Forse hai ragione,
avrei preferito restarmene a casa, questa sera”.
“Quanto sei noiosa,
Maya”, esclamò, prendendomi sottobraccio
e cominciando a camminare lungo il
bordo della piscina. “Cerca di
divertirti
almeno questa sera, poi ti sei preparata a meraviglia, quindi penso non
ti
dispiaccia molto essere qui, sotto gli occhi di tutti, soprattutto con
un abito
come quello che hai indosso”.
“Il ragazzo
riservato e silenzioso lo hai lasciato a Doha, per caso?”,
gli chiesi,
piacevolmente sconvolta dal suo comportamento.
“Probabile”,
rispose, continuando a ridere. “Comunque,
ti sei superata, questa sera, sei meravigliosa”.
“Ah non ci provare,
Michele, sono semplicemente vestita meglio del solito”,
risi, ancora,
apprezzando sempre di più la semplice compagnia di quel
ragazzo. “E anche tu non sei affatto
male, ma il
calendario non te lo faccio in ogni caso”.
“Peccato, ci ho
provato”, ribatté, lui ridendo. Poi lo
vidi mutare nel giro di un battito
di ciglia, quando distolse l’attenzione da me e rivolse il
suo sguardo altrove,
all’entrata del palazzetto. Così, seguii il suo
sguardo ed incontrai gli occhi
scuri di una ragazza che, a malapena, avrà avuto
vent’anni e che non smetteva
un attimo di sorridere a Michele.
“Ti sei dimenticato
di dirmi qualcosa?”, mormorai, notando la stessa
espressione della ragazza
sul viso del ragazzo al mio fianco.
“Nulla di
importante”, minimizzò, lui,
sorridendomi imbarazzato. “Quella
è la mia ragazza, tutto qui”.
“Tutto qui!? È
meravigliosa”, esclamai, felice per lui e per la
sua espressione da stupido
che aveva sul viso. Che fosse perso per quella ragazza era ormai
palese, ma era
comunque bello vedere come, due persone giovani come loro, potessero
essere
attratti l’una all’altro e come potesse bastare un
sorriso per cambiare tutto.
“Cosa ci fai ancora qui? Vai da lei,
forza”, continuai, spingendolo leggermente verso la
sua direzione,
facendolo ridere.
“Grazie Maya”,
disse, poi. “Dopo vengo a
presentartela”.
Li
guardai per un momento, quando finalmente furono uno
davanti all’altra, e li trovai semplicemente adorabili. Forse
un po’ troppo
dolci, ma erano belli da vedere, stavano bene insieme e non
c’era altro da
aggiungere. Così li lascia in pace e continuai a girovagare
per il palazzetto
salutando con un cenno chi avevo conosciuto poco prima e chi,
evidentemente,
sapeva chi fossi grazie alla parlantina di mio padre.
Continuavo
a scattare fotografie, ogni tanto, giusto per
catturare qualche momento in particolare o Claudio sorridente insieme
all’ospite di turno. Fino a quel momento la serata si era
rivelata una vera
noia, tranne per quei pochi minuti trascorsi insieme a Michele, ma per
il resto
calma piatta. Fin troppo piatta.
Avevo
sapientemente evitato Simona, quando mi vide, cominciando
a parlare con un gruppetto di sconosciuti che mi erano stati presentati
poco
prima, ma di cui non ricordavo il nome. Tutto pur di evitare Riccioli
d’Oro. E
si rivelarono anche abbastanza simpatici, nonostante fossero tutti un
po’
troppo loquaci, ma riuscirono a salvarmi dalla bionda in carriera e
ciò mi
bastò. Mi domandarono del mio lavoro,
dell’esperienza a Doha e, dopo alcuni
minuti di conversazione, scoprii che la coppia di settantenni con cui
parlavo
maggiormente erano amici di vecchia data di mio padre, nonostante la
differenza
d’età.
“Somigli molto a
tua madre, sai?”, disse la donnetta che avevo
davanti, con un sorriso
radioso. Ed io mi sentii gelare, mentre me ne restavo impalata cercando
di
assimilare quell’affermazione. “Nonostante
tu abbia gli occhi identici a quelli di Claudio”.
Non
volevo assomigliare a mia madre, non volevo avere
assolutamente alcun collegamento con quella donna; avevo perso tutto
nel
momento stesso in cui mi ero ritrovata con solamente un genitore a
crescermi,
sentendomi abbandonata da quella che mi aveva messa al mondo.
Erano
in pochi a sapere la storia, con tutti i suoi
particolari e, probabilmente, dalla semplicità con cui
quella frase era stata
detta, la vecchietta non era tra i pochi a conoscere la
verità.
“Scusatemi signori,
ma ora devo proprio andare, altrimenti mio padre comincerà a
tempestarmi di
domande in merito a fotografie che ancora non ho fatto”,
mi dileguai nel
momento stesso in cui mi augurarono una buona serata, sentendo il
bisogno di
evadere da quel momento e di ingerire qualcosa da bere che fosse in
grado di
stordirmi abbastanza da potermi permettere di affrontare meglio la
serata. E
l’aperitivo che continuavano a servire non era di nessun
aiuto, nonostante mi
trovassi ancora una volta davanti al banco bar a chiedere un bicchiere.
Poteva
anche essere troppo leggero, ma avevo bisogno di
bere e, fino al momento in cui non ci fossimo accomodati a tavola,
quello
rappresentava la mia unica scappatoia.
“Lo sai che sei
peggio di un alcolizzato?”.
Nemmeno
mi voltai, quando sentii quella voce alle mie
spalle, quella sua solita nota di superiorità ed
egocentrismo. Se avevo cercato
un attimo di pace, in quel momento, qualcuno lassù doveva
avercela a morte con
me perché, proprio Travis, era l’ultima persona
con cui avrei voluto parlare.
“Bevi a dismisura
per essere così minuta”, aggiunse, con
una leggera risata.
“E tu mi conosci
troppo poco per continuare a parlare”, ribattei,
voltandomi finalmente
verso di lui. E mi maledissi all’istante, perché
non avrei dovuto averlo fatto,
assolutamente, perché la visione di Travis in smoking, con
la camicia inamidata
ed il nodo perfetto della cravatta, era una libidine. Libidine fin
troppo
fastidiosa, ai miei occhi, ma che sembrava aver il potere di mantenere
l’osservatore con lo sguardo incollato a lui.
“Beh io non la
metterei su questo piano”, rispose, non facendosi
scoraggiare. “Rispetto alla maggior
parte delle persone
qui dentro, io ti conosco meglio di chiunque altro”,
aggiunse, infine,
riducendo la voce ad un sussurro e fissandomi con uno sguardo da
predatore.
Ma
che gli era successo? Era forse impazzito oppure era
stato l’aperitivo a dargli alla testa? “Oh
ti prego”, esclamai, con una smorfia disgustata.
“Vai ad abbordare la tua bionda,
invece che sprecare queste battute
squallide con me”.
“La bionda, come la
chiami tu, si sta facendo incantare da Luca”,
commentò, indifferente. “Non
che mi dispiaccia, ma mi ero stancato di
restare lì impalato ad assistere ai soliti corteggiamenti da
manuale”.
“Avresti potuto
imparare qualcosa, magari”, sputai, cercando di
liberarmi di quel
bell’imbusto al più presto. Ormai avevo imparato
che, alla minima provocazione,
si infiammava all’istante e, come suo solito, avrebbe
concluso il tutto con
un’uscita di scena degna del miglior film da Oscar.
“O ti senti già
così esperto da permetterti di scartare ogni consiglio
che ti si presenta davanti”, aggiunsi, cercando di
andarmene e camminando
in cerca del posto a sedere che mi era stato assegnato.
“Mi ero
semplicemente stancato della compagnia, Maya”,
continuò, lui, seguendomi e
facendomi innervosire per la sua testardaggine.
Cercai
di lasciarlo perdere, nonostante continuasse ad
impersonare il perfetto segugio e a seguirmi in silenzio, continuando
la mia
ricerca, finché non trovai finalmente il tavolo in cui avrei
cenato. Diedi una
veloce occhiata anche a tutti gli altri nomi presenti e quasi mi sentii
mancare
quando mi resi conto di avere dei compagni d’eccezione
con cui trascorrere la serata. Travis alla mia destra, poi Simona,
Luca,
Michele ed infine una certa Sara, alla mia sinistra, che, ipotizzai,
fosse la
ragazza dell’unica persona in quel tavolo che non avrei
volentieri affogato. Un
tavolo tondo che si sarebbe potuto trasformare in un perfetto campo di
battaglia.
“Che succede?”,
chiese Travis, avvicinandosi e guardando l’allestimento del
tavolo davanti a
me. “Oh…”.
Appunto.
L’unica
consolazione possibile era solamente
l’espressione del ragazzo al mio fianco, tra lo sconvolto e
il sorpreso, forse
anche un po’ spaventato. Ma ciò non migliorava
comunque la situazione. Tutto
quello restava un assurdo disastro.
“Di certo, non ci
annoieremo”, commentò, lui, dopo qualche
istante, cercando di trattenere un
sorriso.
“Non sei divertente”,
lo zittii, poggiando la mia borsetta e quella per la macchina
fotografica sulla
sedia. “Sapevo che sarebbe stata un
disastro, questa serata, ma così è davvero troppo”,
conclusi, quasi
borbottando tra me e me.
Dovevo
trovare un modo per far passare il tempo più
velocemente, per alleggerire la serata, soprattutto dopo aver scoperto
il
brutto scherzo che mi aveva giocato mio padre con quella stupida
posizione.
“Quindi cosa
vorresti fare? Chiedere a Claudio di rivoluzionare la posizione dei
tavoli
solamente perché la compagnia non è di tuo
gradimento?”.
Cominciava
a darmi davvero fastidio quella sua
insistenza, come se fosse diventata la sua missione, quella di mandarmi
al
manicomio. Nonostante nemmeno Travis sembrasse contento di quel nuovo
sviluppo,
continuava ad importunarmi e lo avrei volentieri gettato nella piscina
così vestito
di tutto punto, se poi non si fosse riversato tutto quanto su di me. E
come
minimo, stronzo com’era, Travis mi avrebbe reso pan per
focaccia spedendomi in
acqua a calci.
“Credo che andrò a
prendere altro aperitivo”, mormorai, guardandomi
attorno. “La serata richiederebbe
una quantità
smisurata di alcool”.
“Posso unirmi a te?”,
mi chiese, poi, attirando la mia attenzione. “Prometto
di non darti fastidio, ho solamente il tuo stesso bisogno di
rendere tutti quanti più simpatici, in qualche modo”,
continuò, osservandomi
attentamente, in attesa di una mia risposta.
La
realtà è che non avevo la più pallida
idea di cosa
dirgli, perché non sapevo proprio che fare. Era quel suo
sguardo a mandarmi in
tilt, così attento ed intenso, quei suoi maledettissimi
occhi che non
accennavano a cedere.
“Va bene”.
Non
potevo aver detto davvero una cosa simile, non potevo
crederci: mi ero fatta fregare ancora una volta da quel suo bel faccino
innocente. E lui era tutt’altro che innocente. “Ma una sola parola e finisci a mollo”,
lo minacciai, pungolandogli
il petto più volte, guadagnandomi un sorriso complice in
cambio.
Forse
sarebbe diventato più simpatico anche lui, con un
paio di aperitivi in più.
Travis’
POV
Quelle
ultime novità non mi erano proprio andate giù,
per
niente, come se riuscire a cenare nello stesso tavolo insieme a quelle persone fosse stato facile.
Certo, gli ultimi minuti passati con Maya al bancone degli aperitivi
era stato
piacevole e, quella sera, era davvero da bella da mozzare il fiato, ma
quel suo
cipiglio infastidito che non le aveva ancora abbandonato il viso
cominciava a
darmi davvero sui nervi. E la situazione non cambiò nemmeno
quando, finalmente,
ci accomodammo a tavola per cominciare a cenare, nonostante la presenza
di
Michele e della sua Sara alleggerissero parecchio la situazione. Ma io
mi
trovavo tra due fuori, tra due primedonne completamente diverse tra
loro, una
che non faceva altro che attirare l’attenzione su di
sé e l’altra che avrebbe
far di tutto pur di scappare da quel posto, sempre con la sua aria di
superiorità, e Michele, dall’altra parte del
tavolo, non faceva altro che
lanciarmi sguardi divertiti, come se già non bastasse la
realtà a prendermi in
giro. Più o meno lui aveva capito qualcosa, non era stupido,
il ragazzo, ed
avevo sempre cercato di schivare le sue frecciatine, ma a volte
risultava
talmente subdolo che non riuscivo a negare l’evidenza.
Tuttavia, non era mai
voluto entrare nel dettaglio, non aveva mai chiesto altro, mi aveva
solamente
detto di stare attento e di non fare cazzate e, sinceramente,
continuavo a non
capire quelle sue parole, come se lui fosse a conoscenza di qualcosa
che a me
era stata tenuta nascosta. Almeno non era stato come Luca che, a turno,
mi
aveva chiesto quante più cose possibili prima su Maya poi su
Simona, come se
una non gli bastasse. Era assurdo oltre che maledettamente irritante.
Avrei
voluto andarmene, prendere su le varie portate e
tornare a casa mia, con una birra in mano, perché tutta
quella compostezza e
quei finti sorrisi non li sopportavo più. E per fortuna
avevamo appena finito
di mangiare il secondo, dopo due primi e due antipasti.
Come
Claudio avesse potuto creare una cosa simile, non lo
sapevo, ma non si era assolutamente risparmiato nemmeno per quel che
riguardava
il menu.
Erano
quasi le undici e noi eravamo ancora relegati ai
tavoli, seduti per finire quella dannatissima cena che continuava ad
andare
avanti ad oltranza. Ed era evidente a tutti come, quella situazione,
pesasse a
tutti, nonostante Sara e Michele cercassero di intavolare qualche
discorso con
noi altri, ma Luca e Simona erano fin troppo impegnati a mangiarsi con
gli
occhi e Maya, nonostante dicesse qualche parola qua e la, non aveva la
benché
minima voglia di chiacchierare, era palese. Così avevo
cercato di salvare la
situazione, parlando un po’ con Sara, cercando di conoscerla
meglio e di
scoprire come si fossero conosciuti lei e Michele. Ed era anche
simpatica,
forse un po’ timida, ma dopo aver rotto il ghiaccio non aveva
fatto altro che
parlare tranquillamente, seguita a ruota da Michele che, in fatto di
parlantina, a volte non scherzava davvero.
“Tu, Maya, che ne
pensi?”, chiese, all’improvviso Sara.
Che
Maya fosse in un altro mondo era palese, ma non
sembrò scoraggiarsi, anzi, forse fu proprio il sorriso di
incoraggiamento dell’altra
a farla parlare. “Di che cosa?
Scusami,
ma non stavo seguendo il discorso”.
“Di quello che
avete passato a Doha, è stato divertente?”.
Dovetti
trattenermi dal ridere quando, sentendo quella
domanda, Maya sbiancò di colpo. Che si fosse divertita avevo
qualche dubbio, ma
forse gli ultimi momenti in albergo le avevano fatto recuperare il
tempo perso
dato che, a mio modesto parere, erano stati tutt’altro che
spiacevoli. Ma alla
fine lei era sempre e comunque una grande incognita e ancora non avevo
capito
che cosa volesse lei, cosa pensasse o cosa si aspettasse, mi aveva
solamente
detto che avremmo dovuto farla finita con quella storia,
nient’altro. E, alla
fine, non le avevo nemmeno dato una risposta sensata, me ne ero
solamente
andato da perfetto idiota; ma in quel momento, la scena che mi si
parava
davanti agli occhi era a dir poco esilarante, con Maya con gli occhi
ancora
strabuzzati, mentre fissava Sara che, con i suoi occhioni la osservava
paziente
in attesa di una risposta, e Michele che, da grande genio che si era
sempre
mostrato, scrutava me incuriosito dalla mia reazione.
“Diciamo che è
stato solamente lavoro, nonostante quella città non fosse
niente male, ma non è
successo nulla”, mormorò, infine,
sbloccandosi finalmente dallo stato
catatonico in cui era entrata.
Nulla,
aveva detto, e dire che mi aveva infastidito quel suo
commento era davvero poco, perché qualcosa era successo,
nonostante non fosse
la fine del mondo, ma era successo. Ancora, per la terza volta, e quel
suo
menefreghismo mi dava alla testa. Poteva anche essere una meravigliosa
attrice,
ma percepivo una freddezza mai vista prima, in lei, in quel momento, ed
avrei
tanto voluto ricordarle se, in camera sua, l’ultima notte,
non era davvero
successo nulla.
“Almeno hai avuto
la possibilità di visitare una città come quella,
Maya”, rispose Sara, con
aria sognante. “Hai visto una parte
del
mondo, io mi reputerei fortunata”.
Nel
frattempo, l’altra coppietta al mio fianco non ne
voleva sapere di entrare nella conversazione tant’erano
occupati a spogliarsi
con gli occhi e a parlarsi tramite sussurri alle orecchie. Avrebbero
potuto
prendere tranquillamente borse e cappotti ed andarsene da
lì, per quanto erano
di compagnia.
Vedevo
Simona molto presa, nonostante si fosse sempre
dimostrata molto presa praticamente
da tutti, ma da Luca si lasciava ammaliare con fin troppa
facilità e non avevo
dubbi che, per loro, la serata non sarebbe finita in quel posto, a
festeggiamenti terminati. Luca, invece, stava sfoderando le sue armi
migliori,
ormai lo conoscevo e, quello sguardo da cacciatore incallito, lo
sfoderava
solamente quando sembrava davvero interessato ad appendere
un’altra testa alla
sua immaginaria parete dei trofei.
Era
assurdo ed imbarazzante, restare a quel tavolo,
nonostante ci fosse stato quell’attimo in cui mi sarei
spanciato dalle risate,
ma sentivo di non appartenere a quel momento, a quella serata in
genere, per
persone sempre in tiro e con il completo migliore fatto su misura.
Avevo
bisogno di tornare a casa, alla mia tranquillità.
Mia
madre, intanto, era riuscita a trovare posto insieme
al gruppo di oche con cui aveva parlato prima della cena e, almeno lei,
sembrava godersi la serata, nonostante cercasse sempre di farsi notare
in mezzo
alla folla, ma almeno non sembrava rappresentare un grosso problema, in
quel
momento. Si stava divertendo e, molto probabilmente, nulla sarebbe
cambiato
fino alla fine della serata, quindi tanto valeva lasciarla perdere e
lasciarla
divertirsi.
Che
poi lei si stesse davvero divertendo ed io mi sarei
voluto buttare in acqua, vestito com’ero, giusto per fare
qualcosa di diverso
dal mostrare il solito sorriso tirato e rispondere alle varie domande a
monosillabi, era assolutamente irrilevante.
La
cena finalmente finì e, per mia fortuna, mancava
solamente mezz’ora allo scoccare del nuovo anno. Tempo di
fare gli auguri a
tutti e me ne sarei andato a gambe levate.
Ormai
nessuno se ne stava seduto ai tavoli dove avevamo
cenato e, ovviamente, il catering assoldato da Claudio aveva
già pensato a
liberare l’area più spaziosa del palazzetto,
facendola diventare una pista da
ballo improvvisata dove, solamente i più temerari, si erano
azzardati a muovere
qualche passo. Per lo più persona di
mezz’età che continuavano a muoversi
lentamente a ritmo con la musica che passava in quel momento. E per
fortuna che
il dj assunto per la serata sembrava aver lasciato a casa propria tutto
il
repertorio di musica elettronica che, per l’ultimo
dell’anno, anche il più
incapace tirava fuori dal cassetto. Almeno la musica era ascoltabile,
nonostante
non fossi amante di Frank Sinatra, Billie Holiday e Nina Simone.
Poi
vidi scendere in pista Claudio che trascinava una non
poco scontenta Maya, cercando di scappare dalla presa salda che suo
padre aveva
al polso. Il mio allenatore rideva divertito, mentre continuava a non
voler
sentire ragioni sul rifiuto della figlia e, alla fine, la prese tra le
braccia
e si mise in posizione, muovendosi anche lui lentamente sulle note di Strangers in the Night di Frank Sinatra.
Strangers in the night, exchanging glances
Wond'ring in the night, what were the chances
We'd be sharing love
Before the night was through
Era
strano guardali, in quel momento, perché pareva
che niente e nessuno avrebbe potuto rovinare quell’attimo in
cui, padre e
figlia, si osservavano attentamente, entrambi con l’ombra di
un sorriso sulle
labbra. Era un sfida, quella, era ormai palese e, probabilmente, Maya
odiava
ballare. Ma restava al gioco, continuava a farsi guidare da Claudio che
la
guardava come se fosse la cosa più bella al mondo.
Quel
rapporto padre e figlia era qualcosa di
speciale ed era lontano anni luce da quello che avevo passato io, con
mia
madre.
Era
lontano anni luce da quello che avevo passato e
basta.
“Dovresti
smetterla di guardarla in quel modo, sai?”, disse,
all’improvviso, Michele
alle mie spalle, facendomi sobbalzare. “Prima
o poi la consumerai”, concluse, osservando la scena
a cui stavo assistendo.
“Ma che
diavolo stai dicendo?”, ribattei, cercando di
deviare il discorso. “Sicuro di non
aver bevuto troppo vino, a tavola?”.
“Ne ho bevuto
meno di te, se è questo che ti interessa, e la mia menta
è fin troppo lucida
per lasciare che i tuoi stupidi tentativi di divagare vadano in porto”.
Colpito
e affondato.
Certo,
era giovane, lui, ma era una tra le persone
più scaltre ed intelligenti che avessi mai conosciuto ed un
po’ mi infastidiva,
perché non sapevo mai come poter scappare dalle sue stupide
psicoanalisi.
“Non ti si
può nascondere nulla, vero?”, domandai,
con un sorriso amaro in vico,
tornando con lo sguardo a Maya e a suo padre che continuavano a ballare
e a
chiacchierare tra di loro.
“A me no, mi
spiace, e ti sto osservando da quando siamo stati a Doha e, lasciatelo
dire, se
fare lo stronzo con lei pensi che possa funzionare, ti sbagli di grosso”,
aggiunse, infine, neanche fosse il vecchio saggio della situazione.
Ed
io non facevo lo stronzo con Maya, lei faceva la
stronza con me ed io rispondevo di conseguenza, non sapendo come
comportarmi
altrimenti. La verità era che mi mandava in bestia, lei,
quando metteva in bella
mostra quel suo maledetto lato bipolare e mandava in tilt la mia mente,
perché
non sapevo mai come comportarmi o come parlarle. Sembrava che, la mia
sola
presenza, le costasse il sorriso che solitamente mostrava a tutti gli
altri. Ed
un po’ mi dispiaceva, perché aveva un bel sorriso
e perché sembrava quasi una
bambina, quando gli occhi cominciavano a brillarle, ma probabilmente mi
detestava a tal punto da non sopportare nemmeno qualche parola con me.
“Non saprei
che altro fare, Michele”, commentai, dopo alcuni
istanti di silenzio. “Lei
è troppo complicata e nemmeno se ne
rende conto”.
“E tu ti
rendi conto che, alla fine, la metti solamente a disagio comportandoti
da
padrone del mondo?”, sbottò, poi,
attirando l’attenzione di un gruppo di
persone al nostro fianco.
“Parla piano,
idiota!”, lo rimbeccai. “Ed
io non la
metto a disagio, le sto semplicemente sulle palle”.
Mi
voltai verso di lui, quando mi resi conto che
non la smetteva un attimo di fissarmi allibito, poi lo vidi scoppiare a
ridere
divertito, non capendone il senso.
“Certo che
siete uno più imbranato dell’altra”,
esclamò, poi, cercando di trattenere
le risa.
“E tu sei un
idiota! Dove hai lasciato la tua ragazza? Sei sicuro che non abbia
bisogno di
te, in questo momento?”, gli chiesi, non
sopportando più la sua presenza e
quella sua ridicola presa in giro.
“Tranquillo,
me ne vado e ti lascio solo a spogliare con gli occhi quella ragazza”,
rispose, Michele, cominciando ad incamminarsi verso Sara che, a qualche
metro
da noi, chiacchierava con un gruppo di ragazze.
“Ti ho già
detto che sei un idiota, vero!?”, sbraitai,
facendolo ridere ancora di più.
Io
non stavo spogliando con gli occhi Maya,
assolutamente. Semplicemente, stavo ammirando la complicità
che aveva con suo
padre, mentre ballavano. Che poi lei stesse indossando un abito del genere, che metteva in mostra una
considerevole parte della sua pelle, era del tutto irrilevante,
sì.
Non
la stavo spogliando con gli occhi, dannazione,
però tutto sembrava girare attorno a lei, e la cosa che
rendeva tutto più
naturale era il fatto che lei non se ne rendesse nemmeno conto, non si
era mai
accorta degli sguardi che volavano su di lei quando lavorava, quando
camminava
per quella piscina ed in quel momento, tra le braccia di Claudio,
perfettamente
ignara di tutto, come sempre.
Non
la stavo spogliando con gli occhi, allora
perché non riuscivo a distogliere lo sguardo? E per quale
stupido, assurdo
motivo mi stavo avviando verso di lei e verso suo padre, che
continuavano a
ballare, nonostante la musica fosse cambiata?
“Scusa,
Claudio, posso rubarti un ballo con tua figlia?”,
gli chiesi, poi, non
riuscendo a riconoscermi.
Quello
non ero io!
“Ah Travis”,
esclamò, sorridendo come solo lui sapeva fare. “Certo, eccola qui, divertitevi”,
aggiunse, passandomi la mano di sua
figlia che, da gran signora qual era sempre stata, non si degnava
nemmeno di
nascondere lo sconcerto.
Così
guardai Claudio lasciarci, raggiungendo
Roberto che, per sua immensa sfortuna, si era imbattuto nella
parlantina di mia
madre, ed unendosi al gruppo; lasciai volutamente perdere
l’occhiata
soddisfatta che mi lanciò Michele, alle loro spalle,
tornando a guardare Maya.
Sempre
la solita delicata e carina
Maya. “Non ti bastavano le risate
della cena, per
infastidirmi?”. Appunto.
“No, mi
dispiace per te”, ribattei, compiaciuto, mettendomi
in posizione e
poggiando la mano libera sulla sua schiena nuda.
Non
era più la stessa ragazza tranquilla che aveva
ballato con il padre fino a qualche momento prima, si era irrigidita ed
era
nervosa, ed era palese. Ma non poteva davvero avere ragione Michele,
non era
possibile. Anche quando, anche lei, si mise in posizione notai come
fosse sulle
spine, imbarazzata da quella situazione.
“Sicuro di
saperti muovere? Di solito i nuotatori non sono dei tronchi di legno?”,
domandò,
poi.
Voleva
giocare con il fuoco e l’avrei accontentata,
perché non mi sarei fatto mettere i piedi in testa da quella
ragazzine dalla
lingua biforcuta. “Beh ne hai
già avuto
prova più di una volta, non credo di essere per niente negato”,
ribattei,
sorridendole malizioso. Se voleva scherzare, aveva trovato pane per i
suoi
denti.
“Ancora con
queste battute squallide”, mormorò, poi,
scuotendo il capo. “Quanti anni hai?
Quindici?”.
“Te le vai a
cercare, Maya”, commentai, continuando a ballare
con lei.
Poi
calò il silenzio, interrotto solamente dalla
musica in sottofondo che si diffondeva per tutto il palazzetto e, alla
massa
che era già in
pista, si unì addirittura
mia madre accompagnata da Claudio e, se non fosse stata per
l’evidente
differenza di centimetri, aiutata soprattutto dai tacchi vertiginosi di
mia
madre, sarebbero potuti anche sembrare una coppia normale. Si
conoscevano da
anni e, soprattutto il mio allenatore, aveva sempre cercato di
mostrarsi il più
gentile possibile, con lei, e alla fine erano diventati amici, in
qualche modo
a me sconosciuto.
Distolsi
lo sguardo da loro, non riuscendo a
sopportare l’evidente messa in scena di mia madre, la solita
che metteva su
ogni qualvolta che sentiva molti occhi puntati su di lei,
così osservai ancora
Maya che, sempre nel suo solito stadio di nervosismo, guardava altrove.
“Quindi a
Doha non è successo nulla?”, le chiesi,
infine, quasi liberandomi di un
peso.
I
suoi occhi saettarono nei miei e mi sorpresi
come, con le luci che c’erano lì dentro,
sembrassero ancora più chiari, di un
colore tendente al blu.
“Così è per
questo motivo che hai interrotto il ballo con mio padre?”,
disse, poi,
sempre con quel suo tono acido.
“Rilassati
per una volta, Maya, dannazione”, ribattei,
esasperato da quel suo
comportamento. “No, non è
per quello e,
se devo dirla tutta, non so nemmeno perché sono qui con te,
a ballare”,
confessai, infine.
“Allora
potevi anche evitare di interrompere l’idillio”,
rispose.
“Non hai
riposto alla mia domanda, Maya”.
“Cosa
dovrebbe essere successo, scusa? Cosa avrei dovuto dire?”,
mi chiese,
scontrosa, non accennando a cedere lo sguardo.
Era
decisa, convinta di quel che aveva detto prima
alla cena, si vedeva da come mi scrutava con decisione e dalla forza
della sua
voce. Ma nonostante quello era sempre la solita ragazzina viziata che
si
ostinava a farmi innervosire.
“Non sono qui
per dirti che hai sbagliato a rispondere in quel modo a Sara, stupida,
ci
mancherebbe altro”, dissi, poi. “Ti
ho semplicemente chiesto se, davvero, non è successo nulla,
per te”.
Avevo
abbassato ogni scudo e mi sarei preso a
schiaffi per quello, perché non avevo la minima idea di
quello che mi stava
succedendo e, sentirmi così esposto, mi faceva sembrare
l’adolescente che ero
stato. Ed io ho sempre odiato la mia adolescenza.
Continuai
a guardarla negli occhi e, quando la vidi
tentennare, pensai di avere le traveggole perché, quella
piccola stronzetta,
aveva avuto un attimo di dubbio. E non sapeva cosa dire, non sapeva
quale
battuta sagace tirare fuori dal cilindro.
“Non lo so,
Travis”, confessò, infine, distogliendo
lo sguardo dal mio e rivolgendo la
sua attenzione alle altre coppie che ballavano attorno a noi.
“Continuo a capirci sempre meno”.
Silenzio.
Ancora.
Cominciava
a farsi pesante, quella situazione,
perché entrambi avevamo capito che, alla fine, eravamo
giunti ad un punto
decisivo di qualcosa che nemmeno sapevamo che sembianze avesse.
“Scusa, per
prima”, mormorò,
all’improvviso, Maya, dopo alcuni istanti.
“Come?”,
le chiesi, attonito, sicuro di non aver capito esattamente cosa avesse
detto.
“Ti ho
chiesto scusa, Travis, non farla più difficile di quanto
già non sia”,
ribatté, guardandomi male. “Ma
sto
odiando profondamente questa serata e vorrei tanto andarmene senza che
mio
padre si arrabbi”.
“Siamo sulla
stessa barca, Maya”, dissi, attirando ancora la sua
attenzione, e facendo
scorrere lentamente la mia mano sulla sua schiena. “E la presenza di mia madre, conciata in quel modo
soprattutto, non
rende la mia permanenza qui più sopportabile”.
La
sentii ridere e mi chiesi se, davvero, fossi
impazzito. “Lasciatelo dire, questa
volta
Tanya si è superata”,
commentò, sorridendo, lanciando uno sguardo a mia
madre e suo padre che continuavano a ballare. O meglio, a Claudio che
cercava
di stare dietro ad una Tanya a dir poco scatenata, nonostante il ritmo
tranquillo della canzone. Poi Maya tornò a guardarmi,
all’improvviso, quasi
colpita da un’illuminazione. “Aspettiamo
mezzanotte e andiamocene”, disse.
La
fissai stralunato, certo di aver capito male le
sue parole. “Che hai detto?”.
“Sì, hai
sentito bene”, rise, rispondendo ai miei dubbi.
“Tu non vuoi stare qui ed io, di
certo, ho altro di meglio da fare che
restare in questo posto a fare la bella statuina, allora andiamocene di
qui
così, se proprio dovrò ucciderti,
saprò anche come occultare il cadavere senza
dare nell’occhio”, aggiunse, infine,
sorridendo.
Non
poteva essere vero, non poteva aver detto
quelle parole. Doveva essere impazzita o, più probabilmente,
ubriaca dopo tutto
il vino che aveva accompagnato la sua cena. Eppure, dalla luce che
illuminava i
suoi occhi, sembrava essere terribilmente seria, nonostante fino a
qualche
momento prima non si fosse risparmiata in frecciatine e risposte
scorbutiche.
Aveva la straordinaria, quanto irritante, capacità di
cambiare umore tanto
spesso quanto mia madre cambiava paio di scarpe preferite, ed era
snervante, ma
al tempo stesso stimolante, perché non avevo mai la
più pallida idea di cosa
aspettarmi in un momento o nell’altro, da lei. era un
continua sorpresa, a
volte non tanto piacevole, ma continuava a stupirmi per i suoi
frequenti cambi
di rotta.
“Sicura di
star bene, Maya?”, le domandai, ridendo di gusto,
davanti alla sua
espressione convinta.
“Sì, anche se
non sono convinta delle conseguenze, ma voglio andarmene non appena ne
avrò la
possibilità”, ribadì, ancora
una volta, distogliendo lo sguardo dal mio,
colta dall’ennesimo momento di incertezza.
Era
volubile, a volte fin troppo, ma forse era
proprio quello che mi attraeva tanto. Anche se non ero esattamente
attratto da
lei, nonostante fosse bellissima, ma mi intrigava quel suo strano
comportamento, quel suo continuo portarmi al limite della pazienza,
facendomi
perdere le staffe.
Così
mi avvicinai ancora di più a lei, rafforzando
la presa che avevo nel suo corpo e chinandomi leggermente per arrivare
meglio
al suo orecchio. “Sicura che le
possibili
conseguenze non ti convincano?”, le domandai, poi,
carezzando delicatamente
la sua schiena nuda ancora una volta.
La
sentii irrigidirsi contro il mio corpo e mi
ritenni soddisfatto quando percepii la sua pelle d’oca sotto
il palmo della mia
mano. Poi voltò lo sguardo verso di me, lentamente, e
solamente in quel momento
mi resi conto di quanto, inspiegabilmente, eravamo vicini
l’uno all’altra, con
solamente pochi centimetri a dividerci. “Non
quelle che regalano piacere in un primo momento, credo”,
rispose, lei,
quasi in un sussurro, sostenendo lo sguardo.
Era
audace, oltre che irrimediabilmente
imprevedibile, e non riuscii a trattenere un sorriso compiaciuto quando
la vidi
così sicura di sé.
Ora
mi restava solamente da capire come poter
trascorrere più di mezz’ora, prima di andare via
da quel posto, senza rischiare
di impazzire.
È
ovvio, alla fine, che, quando desideri
ardentemente una cosa, il tempo che trascorre prima di ottenerla
diventa estremamente
lungo e noioso. Perché era quello che mi era successo, dopo
la straordinaria
scoperta di quel lato di Maya, un po’ imprevedibile.
Dopo
aver terminato di ballare ognuno era andato
per la propria strada, dopo uno scambio non troppo velato di sguardi, e
anche
in quel momento non riuscii a non domandare a me stesso se, in
realtà, Maya non
fosse più che ubriaca, perché infondo quel
comportamento non era da lei,
nonostante la preferissi così, piuttosto che con la solita
aria scontrosa. Però
mi lasciava qualche dubbio.
Comunque,
lei si aggregò a Michele e Sara che, in
disparte, stavano ammirando alcuni suoi scatti del servizio fotografico
su di
me, e non appena il ragazzo si rese conto che, il nostro ballo era
giunto al
termine, mi lanciò la stessa occhiata di poco prima, un
misto tra il
compiaciuto e il soddisfatto, ed avrei tanto voluto togliergli
quell’espressione dal viso a schiaffi, perché era
a dir poco irritante. Come
se, già da tempo prima, avesse saputo che sarebbe accaduto
qualcosa.
Mi
avvicinai al tavolo su cui erano poggiati tutti
i bicchieri e le varie bevande, e non esitai un momento a versarmi un
calice di
spumante, in cerca di qualcosa con cui alleggerire la tensione che mi
stava
sgretolando lo stomaco; così incontrai Claudio, in un
momento di pausa dal suo
solito chiacchierare praticamente con tutti, da bravo padrone di casa.
“Allora,
Travis”, cominciò, bevendo un sorso
d’acqua. “Cosa ne pensi
della festa?”, mi chiese, poi, guardandomi negli
occhi, sorridente.
“Non è niente
male, Claudio, questo te lo concedo e hai fatto un ottimo lavoro, ma
non sono
adatto a questo tipo di feste”, aggiunsi, infine,
ridendo.
“Ah lo so,
tranquillo, ma per racimolare qualcosa ho dovuto tirare su una baracca
simile”,
commentò, guardandosi attorno per osservare il lavoro
perfetto che era stato
fatto dal servizio di catering che aveva ingaggiato. “Sai, più la gente ha soldi in tasca
più apprezza queste cose sfarzose”.
“Ne sono
convinto e spero bene che, alla fine, tutto questo possa servire a
qualcosa”.
Non avevo mai apprezzato una spesa di soldi simile a quella, ma sapevo
che
qualche problema con la piscina c’era, quindi se tutto quello
era stato fatto
per salvare il duro lavoro che Claudio aveva fatto negli anni, allora
andava
bene. Perché era diventata casa mia, quel palazzetto, quelle
piscine; era
diventato il mio rifugio e l’unico posto in cui riuscivo a
sentirmi davvero me
stesso. “Comunque penso che,
augurato il
buon anno a tutti, me ne andrò di qui: mi si sta
paralizzando la mascella a
forza di sorridere”.
Claudio
scoppiò a ridere, dandomi una sonora pacca
sulla spalla. “Non avevo dubbi ed
hai la
mia approvazione, se è questo che cerchi, perché
il tuo lavoro oggi lo hai
fatto e ti ringrazio per essere stato presente, questa sera”,
disse,
infine, cercando il mio sguardo e sorridendo.
Poi
se ne andò così com’era arrivato,
andando a
parlare con un gruppo di uomini che, più o meno, avranno
avuto la sua stessa
età, perfettamente vestiti da capo a piedi, senza un capello
fuori posto. Forse
erano proprio quegli uomini quelli a cui, lo sfarzo di quella cena,
piaceva.
Continuai
a girovagare senza meta, scambiando
qualche parola qui e là, fino a quando non arrivò
il momento di distribuire i
calici di champagne per festeggiare il nuovo anno. Mancavano circa due
minuti
allo scoccare della mezzanotte e non riuscii a spiegarmi il
perché, ma mi
sentivo come un bambino la mattina di Natale, quando arrivava il
momento di
scartare i regali. Sarà stato quell’improvviso
cambio di programma che mi aveva
migliorato la serata, ma non vedevo l’ora di andarmene da
quel posto e
togliermi l’abito che mi stava quasi impedendo di respirare.
Che poi avrei
tolto ogni indumento anche a Maya, gustandomi la visione di quel corpo,
con
tutta calma, era del tutto irrilevante, sì.
Un
cameriere mi passò davanti, lasciandomi un
calice, e scomparendo in un battito di ciglia dalla mia visuale.
“Travis,
finalmente”, esclamò una voce, poco
lontana da me. E non potei non riconoscere
quella voce, fin troppo squillante e felice per i miei gusti.
“Mamma”,
risposi, cercando di fingermi felice. Poi la vidi avvicinarsi fin
troppo, un
po’ traballante sui suoi tacchi vertiginosi, e abbracciandomi
velocemente. Se
su Maya avevo avuto dei dubbi, lei era completamente ubriaca,
nonostante
cercasse di darsi un contegno.
“Ma dove
diavolo ti eri cacciato, tesoro? Ti ho perso di vista non appena sono
entrata
qui dentro”, cercò di dire, tra
l’elevato tasso alcolico e l’accento
californiano che, nonostante tutti gli anni
passati in Italia, non aveva abbandonato.
“Non mi pare
che, senza di me, tu non sia riuscita ad ambientarti, o sbaglio?”,
le
chiesi, tagliente, non riuscendo ad ottenere una vera e propria
reazione da
parte sua. Era troppo impegnata a guardarsi in giro e a mostrare
l’improvvisa
vicinanza con me per prestarmi ascolto.
Era
sempre stata così, dalla mia adolescenza in
avanti, troppo occupata a mettersi in mostra per preoccuparsi di me.
“Certo,
Travis”, rispose, continuando a rivolgere la sua
attenzione altrove. Così
decisi di andarmene, lasciandola lì in piedi, intenta ad
adocchiare il prossimo
uomo su cui far colpo con quel suo abito da battona.
Nonostante
avessi sempre cercato di contenere quel
suo comportamento, soprattutto in serate come quelle saltava fuori, ed
avrei
tanto voluto seppellirmi da qualche parte o andarmene lontano, pur di
non
vedere come quella donna svalutasse il suo corpo. Non la sopportavo e
stentavo
a credere che fosse la stessa donna che, nei primi anni, mi aveva
cresciuto
come una vera madre.
Incontrai
Michele che, vista la mia faccia e vista mia
madre poco lontana, capì al volo che qualcosa non andava,
così mi chiese di
unirsi a lui e Sara per aspettare la mezzanotte e, poco dopo, sbucarono
dal
nulla Luca e Simona che, poco dopo la fine della cena, avevo
completamente
perso di vista. E tornarono entrambi sorridenti come due idioti e
leggermente
più trasandati, rispetto a prima, e la mia mente
volò all’istante allo stanzino
delle scope dove Maya ed io avevamo fatto sesso per la seconda volta,
quando
lei mi aveva trascinato dentro con la forza. Ecco, quella era stata
un’altra
volta in cui lei mi aveva sorpreso.
Poi
arrivò anche lei, Maya, avvicinandosi alla
ragazza di Michele con la quale, alla fine, sembrava aver instaurato un
certo
rapporto di amicizia, lanciandomi poi uno sguardo che mi parve carico
di
promesse e che, ovviamente, non sfuggì all’occhio
attento di Michele, al mio
fianco.
“Ti devo
ripetere di non fare l’idiota con lei, Travis?”,
domandò, sussurrando,
cogliendo al volo l’attimo in cui le altre due ragazze
cominciarono a
chiacchierare, entrambe con un calice in mano. “Perché
sembra che, prima, tu non mi abbia dato ascolto”.
“Non rompere
le palle, Michele, non stiamo facendo nulla di male ed entrambi
sappiamo a cosa
stiamo andando incontro”, ribattei, cercando di
mantenere la calma perché,
quella sua continua pressione, aveva cominciato a darmi sui nervi.
“Non è vero e
tu lo sai bene, entrambi lo sapere, ma siete liberi di fare quello che
vi pare
e sappi che, quando arriverà il momento giusto,
verrò ad urlarti che te l’avevo
detto”, continuò, poi, guardando
altrove. “Lei è una brava
ragazza, nonostante ogni tanto faccia la stronza,
quindi evita di comportarti come tuo solito con le donne, okay?”,
chiese,
infine, guardandomi male.
Forse
lì dentro, oltre a Claudio, lui era l’unica
persona a conoscermi davvero perché non si era mai fermato
alla facciata da
campione che mettevo su ogni volta che entravo in acqua. Si era
sforzato di
conoscere davvero Travis e, alla fine, era diventato l’unico
vero amico su cui
potessi contare, ma in quel momento, quella poca fiducia che riponeva
in me,
quasi mi feriva. Perché sì, aveva ragione, con le
donne avevo sempre cercato
qualcosa di semplice, senza problemi né pretese, cosa che
alla fine moriva dopo
solamente una notte, ma non ero un idiota e sapevo quando fermarmi,
soprattutto
se la persona in questione era la figlia del mio allenatore, uomo che
ritenevo
praticamente di famiglia.
“Allora evita
di straparlare ancora e fermati qui, quando vorrò farmi dare
lezioni di vita ti
manderò un messaggio, intesi?”, risposi,
quasi ringhiando, non riuscendo ad
intimidirlo in ogni caso.
Il
nostro scambio di occhiatacce fu interrotto da
Claudio che, al centro di quella che era diventata la pista da ballo,
reclamava
l’attenzione di tutti tramite il microfono che stringeva in
una mano. Così
cominciò un breve discorso per ringraziare tutti per la loro
presenza e per le
donazioni che erano state fatte, facendo trasparire un certo
compiacimento per
la riuscita della serata, e ringraziò sua figlia e Simona
per aver lavorato con
me per l’articolo della rivista, pregando tutti di comprare
il numero di
gennaio in cui sarei stato presente, e continuò a parlare
fino a quando il
conto alla rovescia non arrivò a quindici secondi e ci
unimmo tutti quanti al
coro, stringendo i nostri calici di champagne. Poi tutto
andò avanti ed io
quasi non trattenevo l’eccitazione e, probabilmente,
dall’espressione che Maya
aveva in viso doveva essere quasi lo stesso anche per lei.
Tredici
secondi. Ed uno sguardo che lei mi lanciò,
attirando la mia attenzione, e mi sembrò di vedere il mare
in quei occhi che
volevano tutto tranne che restare in quel posto.
Dieci
secondi. E il mio timpano destro che andò a
farsi fottere per colpa dell’euforia che Simona metteva in
ogni numero urlato a
squarciagola, con la mano libera allacciata al braccio di Luca che,
altrettanto
euforico, non staccava gli occhi dalla scollatura della bionda, mentre
lei
continuava a saltellare.
Otto
secondi. E tutto era a dir poco ridicolo,
assurdo, tanto da farmi ridere di gusto, improvvisamente, guadagnandomi
un’occhiata dubbiosa da parte di Maya che, ancora, era
intenta a fissarmi.
Sei
secondi.
Cinque
secondi.
Quattro.
Tre.
E al diavolo tutto perché, quella notte, non
avrei ascoltato i consigli di nessuno, non avrei fatto altro che
seguire il mio
istinto che mi urlava nella testa, che non smetteva un attimo di
impormi di
portare via di lì quella ragazza che mi guardava
attentamente e fare ogni cosa
possibile, con lei, perché sentivo il bisogno di sentire
ancora la sua pelle
sotto le mie mani, di trovarmi ancora dentro di lei e di sentire i suoi
sospiri
solleticarmi il viso.
Due.
Uno.
“Buon anno!”.
Ed era praticamente finita ed io mi sentivo con un peso in meno sulla
bocca
dello stomaco.
Così,
dopo il boato, le urla e gli applausi,
arrivarono gli auguri di rito per il nuovo anno, le strette di mano,
gli
abbracci, i baci, tutte le solite cose che sembravano volersi prendere
gioco di
me, come se in quel momento l’universo avesse deciso di
scherzare con la mia
vita e la mia pazienza, perché volevo scappare, volevo
andare via da quel
posto.
Michele
mi batté una mano sulla spalla, sorridendo,
come se le parole di poco prima non fossero nemmeno esistite, mentre
Simona mi
saltò addosso decisamente poco elegantemente, mandandomi in
frantumi anche l’orecchio
sinistro, abbracciandomi. Luca, invece, si limitò a
stringermi la mano con un
sorriso finto stampato sulle labbra, i soliti convenevoli per chi, alla
fine,
ti sta a dir poco sulle palle. Poi arrivò Sara che
avvicinò solamente la sua
guancia alla mia, velocemente, concentrandosi poi sul fidanzato al mio
fianco.
E
infine Maya, che mi scrutava con il mare negli
occhi, agitato ed intrepido, con l’ombra di un sorriso
accattivante sulle
labbra. E si avvicinò a me lentamente, quasi mi volesse
torturare e, nel
momento in cui fu davanti a me, a pochi centimetri di distanza,
abbassai il
capo su lei, avvicinandomi al suo orecchio e augurandole un buon anno
nuovo,
prima di lasciarle un bacio sulla guancia, accompagnato
dall’ennesima carezza
alla schiena che le fece venire la pelle d’oca.
Era
arrivato il momento di andare e levare le
tende, e ne ebbi la conferma quando sollevò il capo verso di
me, incontrando
ancora una volta i miei occhi.
Dovevamo
scappare a gambe levate o, altrimenti,
avremmo dato uno spettacolo che, per una festa simile, non era
esattamente
adatto.
Maya’s
POV
“Non capisco
per quale motivo mi sia lasciata convincere da te”,
dissi, aprendo la porta
del mio appartamento e facendo entrare Travis che, fino a quel momento,
mi
aveva seguita in silenzio.
“Io ti avrei
convinto a fare cosa, scusami?”, mi chiese lui,
poi, con un certo grado di
sconcerto. “Non mi sembra di essere
stato
io a proporre questa cosa”.
Ed
aveva ragione, dannazione, perché mi ero
lasciata andare fin troppo, alla festa, e quello era il risultato
perché, per
l’ennesima volta, avevo lasciato che fosse
l’istinto a parlare per me e non la
ragione.
Certo,
la festicciola
di capodanno di mio padre alla piscina mi aveva davvero stancata e
c’erano
davvero poche persone che consideravo sopportabili, ma non avrei voluto
arrivare fino a quel punto, non dopo l’ennesima stupida
promessa che avevo
fatto a me stessa. Ma c’era stato qualcosa nei discorsi di
Travis, nei suoi
occhi, nella sua voce, mentre ballavamo, che mi aveva convinta a
lasciarmi
andare perché, davvero, mi sembrava di essere nella sua
stessa barca, per
motivi che non avrei voluto che esistessero.
Ero
una donna tutta d’un pezzo, io, certo!
Per
la prima volta effettiva, quel ragazzo era
entrato nel mio nido, a casa mia. La prima scappatella dopo il mare non
l’avevo
nemmeno calcolata tanto era stata breve e promiscua. Ed era
terribilmente
strano accogliere qualcuno che non fosse mio padre, nel mio
appartamento.
Lo
osservai per un momento, mentre si guardava
intorno e cercava di cogliere ogni particolare dell’entrata e
del salotto con
lo sguardo, così come lo avevo osservato in qualche
occasione quella sera,
mentre si aggirava senza meta vicino alle piscine, scambiando qualche
parola
con chi gli capitava a tiro. Ed avevo visto perfettamente come, in
realtà, non
fosse per niente a suo agio, in mezzo a tutte quelle persone, e
probabilmente
era stato proprio quello a spingermi verso la direzione che avevo
intrapreso,
facendogli una proposta che mi parve assurda nell’istante
dopo in cui l’avevo
pronunciata.
Anche
in quel momento sembrava a disagio,
nonostante cercasse di ambientarsi con quelle pareti che non facevano
altro che
parlare di me, ma almeno apprezzavo il tentativo ed il suo silenzio
perché mi
sarei aspettata una mitragliata di domande, ma di certo non quello.
“Sembri un cucciolo impaurito, lo
sai?”.
“Non capita
tutti i giorni di entrare in casa tua, non ti pare?”,
ribatté lui,
sorridendo, ma continuando a guardarsi attorno, fino a quando non vide
la
libreria vicino al divano. Così si avvicinò,
cominciando a leggere tutti i vari
titoli. “Con che coraggio tieni una
quantità di carta simile? Non ti fanno pena le foreste in
Amazzonia?”, mi
chiese, ridendo per la sua stessa battuta. Squallida, oltretutto.
“No, sono
molto egoista per questo”, risposi, stando al
gioco. “Vuoi qualcosa da bere?”,
gli chiesi, poi, dirigendomi verso la
cucina.
“No, grazie,
sto bene così”.
Lo
lasciai girovagare per il soggiorno, senza
sapere bene cosa fare o cosa dire, così andai in cucina
perché, quella situazione,
mi aveva fatto venire una sete tremenda, senza contare
l’agitazione che mi
stava divorando. E non capivo perché.
Alla
fine, era stata una bella serata, tralasciando
Simona e le sue manie di protagonismo durante la cena, e conoscere Sara
mi
aveva fatto davvero piacere, ma quando avevo passato il tempo sulla
pista da
ballo prima con mio padre poi con Travis, mi sembrò di
vedere tutto muoversi a
rallentatore, come se dovessi assaporare appieno quei momenti. Ed era
stato
strano perché, nonostante cercassi di allontanarlo sempre e
comunque da me, lui
si intestardiva e non mi dava tregua e, alla fine, ero stata bene, in
un certo
senso, ancora se non lo avrei mai ammesso nemmeno sotto tortura.
Perché, in un
certo senso, quella sera mi aveva stupita oltre che ammaliata,
vedendolo con
quell’abito su misura per lui, ma questo non cambiava i
fatti, non cambiava il
suo comportamento ed i suoi atteggiamenti da idiota e da prima donna.
Travis
restava sempre e comunque Travis.
Lo
avevo visto muoversi bene e, probabilmente, mi
aveva fatto un certo effetto grazie ad una notevole esperienza in fatto
di
donne e quel particolare mi preoccupava davvero tanto,
perché sapevo che, se mi
fossi lasciata coinvolgere troppo, mi sarei fatta male.
“Smetterai
mai di rimuginare su tutto ciò che ti capita?”,
chiese, lui, facendomi
sobbalzare.
Ero
talmente immersa nei miei pensieri, nelle mie
paranoie da non accorgermi nemmeno della presenza di Travis alle mie
spalle.
Era stato silenzioso, calmo ed era arrivato all’improvviso,
ed io avevo quasi
avuto un infarto per la sorpresa. E quando mi voltai finalmente verso
di lui me
lo trovai a pochi centimetri di distanza, come faceva sempre, invadendo
il mio
spazio vitale.
“Non so di
cosa tu stia parlando”, ribattei, cercando di
lasciar cadere il discorso.
“Pensi
troppo, come sempre, e quando lo fai ti fissi le punta delle dita,
corrugando
la fronte”, continuò, lui, lasciandomi
allibita. “Sono un bravo osservatore”.
Ed
aveva ragione perché, quando continuavo ad
analizzare tutto, nella mia mente, non facevo altro che torturami le
punta
delle dita e fissarmele, e lui era stato così bravo ad
osservarmi da rendersene
conto. “Potresti essere scambiato
per uno
stalker, invece che per un osservatore”.
“Non ti
arrendi mai, vero?”, chiese, retorico, con un
sorriso sulle labbra. “Cominci ad
essere snervante”.
“Nemmeno tu
sei tanto simpatico”, risposi, cercando di darmi un
tono sotto il suo
sguardo divertito, ma, l’unica reazione che ottenni, fu una
sua risata. Poi si
avvicinò ancora a me, facendomi retrocedere e poggiare al
piano della cucina,
così mi trovai in trappola, come sempre, perché
da lui sembravo non poter
scappare. Voleva farmi impazzire, lo avevo capito, ed usava quei suoi
stupidi
metodi per mandarmi in esaurimento nervoso e ci stava riuscendo, in un
certo
senso, perché quei suoi continui sorrisi alternati a
battutacce degne del peggio
camionista mi confondevano. E, come sempre, mi ritrovavo senza sapere
cosa fare
o cosa dire.
Da
stupida codarda scappai, facendo finta di nulla
e cominciando a sciogliere i capelli, sentendo il suo sguardo su di me.
Cominciavo
a pentirmi di quel mio momento da
coraggiosa, quando gli avevo proposto di andarcene insieme dalla festa,
e quel
mio continuo voler fuggire ne era la prova, ma mi trovavo davvero senza
sapere
che cosa fare. Sembravo essere tornata una bambina e la presenza di
Travis
cominciava ad intimidirmi, il suo sguardo da cacciatore ed i suoi passi
lenti e
misurarmi, mentre ancora una volta mi raggiungeva.
“Continui a
scappare da me”, mormorò, poi, quando fu
ancora alle mie spalle.
Mi
sarei dovuta arrendere, anche solo per una
volta, altrimenti sarei andata avanti all’infinito e, quella
mia continua
battaglia con me stessa, cominciava a distruggermi, a sgretolarmi
dall’interno,
ed ero stanca di combattere per una battaglia che, alla fine, avevo
perso in
partenza.
“Cosa dovrei
fare? Dartela vinta e gettarmi tra le tue braccia!?”,
gli chiesi, piccata,
voltandomi a guardarlo. “Non
è nel mio
stile, mi spiace”.
“Ti
basterebbe abbandonare quella corazza che ti porti dietro, per una volta”,
continuò, lui, fissandomi negli occhi ed incantandomi per
l’intensità del suo
sguardo. Cominciò a giocare con le punte dei miei capelli
che, ormai, cadevano
liberi in una nuvola indefinita. “Non
mi
sembra così difficile, Maya”.
“Lo dici tu”,
esclamai, all’improvviso, colta sul vivo. “Ho
sempre vissuto con questa corazza e, negli unici momenti in cui ne
facevo a
meno, restavo scottata e venivo delusa dalla persona di turno, quindi
sì,
Travis, è difficile abbandonarla”,
conclusi, agitata, non riuscendo però a
muovere un muscolo. Lui non sapeva niente, non sapeva quello che avevo
passato
e cosa mi era successo nei rari momenti in cui non mi ero comportata da
stronza. Non sapeva nulla di me.
“Credi sia
facile per me, ma non sai quanto ti sbagli e non immagini nemmeno
quanto mi
renda nervosa questa cazzo di situazione a cui, tra l’altro,
non riesco a dare
un nome e vorrei tanto semplificarmi la vita, ma sono fatta
così e devo
rimuginare sulle cose all’infinità, non posso
cambiare, quindi non mi venire a
dire che è facile, perché non lo è per
niente”. Avevo quasi il fiatone per
la foga che avevo messo in quel mio discorso e ancora non capivo se
potesse
avere un senso o meno, ma di una cosa ero sicura: e Travis non si fosse
tolto,
nel giro di un paio di secondi, quell’espressione divertita
dal viso,
gliel’avrei tolta io a suon di schiaffi. Perché
era snervante, oltre che
tremendamente fastidioso, e lui nemmeno se ne rendeva conto.
Poi,
all’improvviso, mi prese il viso tra le mani e
mi baciò, spingendomi verso la parete alle mie spalle
cogliendomi impreparata,
perché fino ad un secondo prima stavo discutendo con lui che
continuava a
mandarmi in tilt il cervello con le sue frasi fuori luogo, poi quello.
Ed era
stato inaspettato rendersi conto di come, alla fine, era piacevole
restarsene
lì, intrappolata tra il suo corpo ed il muro di casa mia,
come già era
successo. Era piacevole restare lì, a farmi baciare da
quell’individuo che mi
intrigava tanto quanto mi stressava.
“Potresti
smetterla, per una volta, di interpretare ogni mia frase come un
attacco
personale, Maya?”, mi chiese, poi, interrompendo in
contatto delle nostre
labbra, lasciandomi un attimo spaesata.
“Se questo è
il risultato, perché dovrei fermarmi?”.
Non potevo averlo detto davvero,
non potevo essermi lasciata sfuggire un pensiero simile e,
dall’espressione
sorpresa che mise su, probabilmente anche Travis era del mio stesso
avviso, poi
scoppiò a ridere, ancora, ed io non potei fare a meno di
seguirlo a ruota perché,
quella situazione, aveva un qualcosa di assurdo che non riuscivo a
capire.
Poi
le sua mani, dal mio viso, scesero alle spalle
e, quando mi resi conto delle sue intenzioni, era ormai troppo tardi
perché aveva
già cominciato a sfilarmi il vestito dalle maniche,
facendolo scivolare
lentamente sulla mia pelle. “Dovresti
indossare più spesso abiti simili”,
commentò, fingendosi pensieroso. “Si
tolgono molto più semplicemente”.
“La prossima
volta, allora, opterò per una camicia di forza”,
ribattei, ridendo.
Gli
sfilai velocemente la giacca dell’abito,
lasciando perdere la sua espressione compiaciuta, mentre le sue mani
scendevano
sui miei fianchi, facendo cadere a terra l’abito che mi era
costato una piccola
fortuna. Ma in quel momento non badavo a nulla se non
all’uomo che avevo
davanti, che sembrava volermi mangiare con gli occhi, mentre osservava
attentamente ogni centimetro della mia pelle e alle mille scariche di
brividi
che continuavano a percorrermi.
Scalciai
l’abito ai miei piedi, cominciando ad
incamminarmi verso la mia stanza, senza però dimenticarmi di
Travis che, ancora
leggermente imbambolato, non faceva altro che fissarmi; così
afferrai la
cravatta e lo attirai a me, continuando a camminare verso la camera da
letto. Ma
non mi diede nemmeno il tempo di ragionare che, improvvisamente, mi
fece
voltare ancora verso di lui e mi prese in braccio senza troppi
complimenti, ed
io allacciai le gambe alla sua vita, prendendo tra le mani i suoi
capelli ed
incontrando i suoi occhi, che avevano tutto dentro, tranne un briciolo
di
pazienza.
Mi
ero svegliata all’improvviso, non capendo in che
situazione mi trovassi, ma poi avevo visto Travis al mio fianco, nel
letto. Dormiva
a pancia in giù, con le braccia sotto il cuscino e sembrava
essere la persona
più tranquilla del mondo, oltre che un adolescente dopo aver
fatto le ore
piccole, con un ciuffo di capelli che gli ricadeva sulla fronte.
Mi
calmai un attimo, passandomi una mano tra i
capelli che erano ridotti in uno stato pietoso, e tornai a guardarlo,
ricordandomi della notte che avevamo appena trascorso insieme,
nonostante la
sveglia sul comodino mi stesse urlando che le due del pomeriggio erano
passate
da un pezzo. Eravamo rimasti nel letto, facendo sesso, parlando,
insultandoci
di tanto in tanto e ricominciando tutto da capo, ed era stato strano,
perché in
qualche modo mi sembrava normale, mi sembrava quotidiano, come se lui
ed io
fossimo qualcosa in più. Quel qualcosa che non ci era
permesso essere.
Scappai
ancora, afferrando la camicia di Travis che
giaceva in fondo al letto, e mi diressi in cucina, cercando di fare
meno rumore
possibile. Avevo bisogno di bere qualcosa e non esitai un momento a
cominciare
a prepararmi la prima tazza di tè dell’anno,
sperando che potesse calmare il
fiume di pensieri che mi affollava la testa. Perché sapevo
che quello non
avrebbe portato nulla di nuovo eppure mi ero lasciata convincere ed ero
caduta
nel tranello, da perfetta stupida.
E
quello era il risultato: un’emicrania imminente,
accompagnata da sensi di colpa e paranoie epiche, senza dimenticare il
ragazzo
che ancora dormiva nel mio letto, ignaro di quel conflitto interiore
che mi
stava annientando.
Avevo
corso un gran rischio, soprattutto
permettendogli di restare a dormire, ma alla fine mi aveva fatto
talmente pena
che non mi ero sentita di cacciarlo da casa mia perché, alla
fine, faceva
fatica a tenere gli occhi aperti. Così, in un impeto di
buonismo, gli avevo
semplicemente detto di restare, girandomi dall’altra parte e
cercando di
appisolarmi il prima possibile, ma il suo grazie
e la sua mano che sfiorava ancora una volta la mia schiena
l’avevo sentita
benissimo, fin troppo bene. Ed era stata una stretta allo stomaco,
nonostante
avessi cercato con tutte le mie forze di non pensarci, ma avevo fallito
miseramente ed ero riuscita a prendere sonno solamente verso le sette
di
mattina, due ore dopo aver sentito Travis cominciare a respirare
regolarmente,
pesantemente addormentato.
“Continui a
rimuginare, Maya”.
L’ennesimo
spavento che, la sua voce, mi provocò,
nonostante in quell’occasione fosse ad un paio di metri di
distanza da me. Mi voltai
di scatto, trovandomelo davanti agli occhi, in boxer, con quella faccia
da addormentato
che mi fece quasi sorridere.
“Stavo
pensando a quale miscela fare, tutto qui”, dissi,
cercando di dargliela a
bere.
“Non mi
convinci, ma intanto che ci siamo, cosa devi preparare?”,
domandò, poi,
raggiungendomi e guardando da sopra la mia spalla tutti le tipologie di
tè che
avevo davanti agli occhi.
“Earl Grey,
forse”, mormorai, tentando di lasciare perdere la
sensazione che mi
provocava il suo corpo, mentre sfiorava poco involontariamente il mio.
Tuttavia,
vidi perfettamente il suo viso irrigidirsi, per un motivo a me
sconosciuto, ma
cercai di non farci troppo caso. “Intanto
devo mettere a bollire l’acqua”,
continuai, scappando per l’ennesima volta
ed allontanandomi da lui ed armeggiando con il fornello.
Poi
sospirai, rendendomi conto che non avevo alcuna
possibilità di scappare, così cercai il suo
sguardo ancora assonnato e non mi
sorpresi quando lo trovai appoggiato con il fianco al tavolo in cucina,
intento
a fissarmi. Mi avvicinai a lui, cercando di apparire più
coraggiosa di quanto
fossi in realtà, e quando gli fui davanti mi fu nuova quella
sensazione che
sentivo dentro di me, come se la vicinanza di Travis mi infondesse una
certa
calma che prima non c’era.
“Ti dona la
mia camicia, sai”, biascicò, con la voce
ancora impastata dal sonno,
facendo scorrere la sua mano sul mio fianco, scendendo sulla coscia e
risalendo
sotto il tessuto della camicia. E probabilmente mi sarei potuta
sciogliere,
sotto le sue mani, per la delicatezza che a volte mi riservava.
“E a te dona
non averla”, ribattei, cercando di nascondere un
sorriso, facendolo ridere.
Poi mi sollevò leggermente, senza preavviso, e mi fece
sedere sul tavolo al
nostro fianco, avvicinandosi pericolosamente a me, continuando a
guardarmi
negli occhi, senza proferire parola.
Iniziava
ad essere spossante, quella situazione,
con gli occhi di Travis che non la smettevano un attimo di fissarmi
intensamente, come se cercassero di capire cosa mi passasse per la
testa, ma
per quanto assurdo potesse essere, mi confuse ancora di più
la ricerca di un
contatto che sentivo. Così sollevai lentamente una mano,
sfiorando con le dita
la sua mascella, scendendo poi sul collo e sulla linea delle spalle. Ed
i miei
occhi seguivano la mia mano, perché sapevo di non essere in
grado di poter sostenere
uno sguardo come quello che mi stava offrendo lui.
“Tu resta
qui, al tè ci penso io”,
mormorò, quando la mia mano torno al suo viso. Poi
si avvicinò ancora a me, sfiorandomi delicatamente il collo
con le labbra e
scomparendo l’attimo dopo, andando ai fornelli dove
l’acqua sembrava essere
pronta.
Così
restai seduta sul tavolo della mia cucina,
ancora imbambolata, e mi persi ad osservare un uomo che non era mio
padre
muoversi nella mia cucina, quasi si sentisse a casa.
Ed
era strano rendersi conto come, ancora una
volta, tutto quello sembrava essere normale, quotidiano.
*****
Eccomi,
finalmente, dopo un'attesa infinita come sempre.. e mi dispiace davvero
fare così, perchè vorrei essere più
presente e vorrei publicare più spesso, ma tra
impegni, computer che mi si ribella contro e ispirazione che
manca, mi riduco sempre all'ultimo.
Comunque.. ho voluto pubblicare un malloppo simile tutto d'un pezzo per
evitare di interromperlo, perchè non ce n'era bisogno e mi
sarebbe diaspiaciuto. Poi dovevo farmi perdonare per queste attese
lunghissime, così ecco qua più di 13000 parole
tutte per voi.
Quindi.. che ve ne pare, per ora? A mio parere, questa è una
bella svolta, se così si può chiamare,
perchè ancora nessuno dei due si era lasciato andare
così tanto. Poi l'ho voluto strutturare in questo modo, con
entrambi i POV dei nostri protagonisti, perchè per l'idea
che avevo in testa mi sembravano più adatti averli
entrambi.. spero vi sia piaciuto.
Detto
questo, ringrazio come sempre le meraviglie che recensiscono
(perchè siete davvero delle meraviglie), ma anche chi legge
in silenzio e chi è arrivato da poco, mettendo la mia storia
tra le seguite/recensite!
Spero di farmi viva prima della fine del mondo.. un abbraccio a tutte,
Chiara
|
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Capitolo 23 *** 22 - Starlight ***
Maya23
*****
“Non è
assolutamente vero”, esclamai, cercando di far
valere la mia opinione che,
in quel momento, era stata accantonata con fin troppa
facilità. “Preferirei
guardare altro, per quanto
riguarda le competizioni di nuoto ne ho avuto abbastanza”.
Erano
passate praticamente sei settimane da quando,
la notte dell’ultimo dell’anno, mi ero ritrovata a
casa mia con Travis a
seguito. Non ci frequentavamo, ed era stato messo perfettamente in
chiaro dalla
sottoscritta già tempo prima, ma quando ne avevamo la
possibilità ci
incontravamo, per lo più al mio appartamento, e a parte aver
testato gran parte
delle superfici utilizzabili lì dentro, facevamo ben poco
altro. Più che altro
film alla tv e chiacchiere vuote, giusto per passare il tempo.
“Non mi
sembra di averti chiesto chissà cosa e, tanto per cambiare,
ti stavi per
addormentare, quindi mi è sembrato il minimo cambiare canale”,
cercò di
giustificarsi, lui, che fregava il telecomando da sotto il naso delle
persone.
Non
eravamo scesi in particolari riguardo alle
nostre vite private, eravamo ancora troppo sconosciuti per poter
scendere
troppo a fondo, ma ci eravamo confrontati su parecchi argomenti e,
spesso, ci
trovavamo stranamente d’accordo, ma quando accadeva il
contrario finivamo
sempre per discutere e, per lo più, per insultarsi senza
problemi. Era un’amicizia
turbolenza, sempre se amicizia
si trattasse perché né io né lui ne
eravamo certi. E nemmeno in un’occasione
avevamo cercato di dare una seria definizione a quello che eravamo
diventati.
Perché non eravamo nemmeno friends
with
benefits – giusto per essere più
internazionali – dato che, come nostro
solito, tendevamo a complicarci la vita ed a crearci mille problemi;
quindici
eravamo definiti solamente un grandissimo punto interrogativo.
“Si, ma non
per del nuoto”, mi lamentai, cercando di afferrare
il telecomando che
teneva sollevato troppo in alto per me. “Ancora
una volta”, specificai, infine.
Travis
si affidava sempre più spesso ai centimetri
che ci dividevano, divertendosi sempre più spesso a mie
spese che, con tutte le
mie forze, avevo sempre cercato di farmi valere nonostante, in
confronto a lui,
fossi sempre stata una nanetta. Così, alla fine della
storia, mi ritrovavo
sempre a dover combattere contro di lui per recuperare il telecomando e
poter
cambiare canale dato che, quella, era pur sempre casa mia. Ma raramente
ero
riuscita a vincere, a discapito suo, ovviamente, che più di
un paio di volte di
era ritrovato con un mio ginocchio sul petto a comprimergli la cassa
toracica.
E sarebbe successo anche in quell’occasione, se non fosse
stato per Travis che,
con un colpo di reni, riuscì a spedirmi per terra senza
troppi complimenti,
facendomi cadere come una pera cotta.
E
lui cominciò a ridere senza ritegno, stringendosi
lo stomaco tra le braccia per quanto le sue risa erano sguaiate, e
nemmeno il
mio sguardo di fuoco riuscì ad intimidirlo, nonostante fossi
davvero stizzita
per la botta che avevo appena dato. Sembrava non notarmi nemmeno, lui,
quasi
con le lacrime agli occhi.
“Sei il
solito idiota, Travis”, esclamai, alzandomi in
piedi. “E sei un bambino, tanto per
cambiare”.
Lo
guardai ancora una volta, mentre cercava di
trattenersi a stento, cominciando ad escogitare la mia prossima
vendetta, anche
se non avevo la minima idea di cosa avrei potuto fare. Così
lo lasciai alle sue
risate e ai suoi programmi sul nuoto, ignorando il suo tentativo di
richiamarmi
indietro e dirigendomi verso la mia camera oscura, sperando che potesse
darmi
quella pace necessaria per stilare il mio piano.
Non
avevo la più pallida idea di cosa avrei potuto
fargli, ma qualcosa dovevo inventarmi perché, oltre ad una
figuraccia di dimensioni
epiche, avevo davvero sbattuto il culo per terra e mi aveva fatto male,
quindi
Travis doveva pagarmela, in qualche modo. Sembravo molto una bambina,
in quel
momento, stizzita per così poco, ma non potevo farci nulla.
E non era la prima
volta che, tra noi, accadeva una cosa simile.
Alla
fine mi ritrovai a sistemare quelle poche cose
che, nella mia camera oscura, erano fuori posto, perdendo tempo e non
riuscendo
a pensare a come potermi vendicare, così tornai in salotto
dopo nemmeno
quindici minuti e, stranamente, trovai Travis addormentato sul divano,
nonostante alla tv ci fossero ancora le competizioni che tanto aveva
agognato
guardare.
Mi
fermai un momento a fissarlo, e non era nemmeno
la prima volta che avevo l’occasione di guardarlo dormire.
Più di una volta era
rimasto da me più del necessario, ma non avevo insistito
più di tanto nel
cacciarlo, pensando che non potesse davvero essere una cosa
così disastrosa. E,
come in quel momento, già in un paio di occasioni mi ero
svegliata nel cuore
della notte e, per un po’, mi ero bloccata a studiare il suo
viso mentre
dormiva. Le sue labbra socchiuse, la fronte che si aggrottava di tanto
in
tanto, regalandogli un’espressione infastidita, come in quel
momento.
Poi
il lampo di genio. E non attesi un momento a correre
in cucina, cercando di fare meno rumore possibile, e recuperare due
coperchi di
pentole che avevo a portata di mano. Mi avrebbe odiato e,
probabilmente, me ne
sarei pentita, ma era un’occasione troppo accattivante per
lasciarsela
scappare. Così mi avvicinai lentamente al bracciolo del
divano dove lui aveva
deciso di poggiare il capo e, cercando di trattenere le risate,
respirai a
fondo prima di cominciare a sentirmi come un membro della parata di San
Patrizio. Poi cominciai a sbattere tra loro i due coperchi e, lo
spettacolo che
mi si parò davanti agli occhi, fu a dir poco appagante,
nonché da sbellicarsi
dalle risate.
Travis,
che all’inizio saltò spaventato sul divano,
dopo un momento crollò giù dal divano, ancora
più impaurito dal caos che
creavano quei due pezzi da cucina. Poi, quando decisi di fermare quella
tortura, cominciai a ridere senza riuscire a fermarmi, dovendomi
poggiare al
divano per paura di cadere a terra per mancanza di fiato. E intanto lui
mi
fissava truce, ancora stordito dalla sveglia che avevo appositamente
preparato
per lui, ma non era riuscito a spaventarmi per quanto divertente fu
quella
scena.
“Ora… ora mi
posso ritenere soddisfatta”, cercai di articolare,
tra le risa. “Avresti dovuto vedere
la tua faccia”.
E
avrebbe dovuto vederla davvero, perché era a dir
poco uno spasso, nonostante si notasse perfettamente quanto fosse
incazzato. Ma
mi importava davvero poco, perché avevo avuto la mia
vendetta ed era stata più
bella di quanto avessi sperato.
Poi,
lentamente, si alzò da terra con una strana
espressione in viso, mista a malizia e perfidia, e fu proprio quello a
spaventarmi in minima parte e a farmi smettere di ridere
all’istante perché
avevo la strana sensazione che non sarebbe accaduto nulla di buono,
almeno per
me.
“Che ti prende?”,
domandai, ricomponendomi e facendo un passo indietro, intimorita dai
suoi occhi
famelici.
“A me? Nulla”,
rispose, lui, con un ghigno sulle labbra, come se fosse davvero
convinto che mi
bevessi una stronzata simile. “Piuttosto
dovresti preoccupare di te stessa”,
continuò, avvicinandosi di qualche
passo. Ed io cercai di recuperare quella distanza, continuando ad
indietreggiare perché, nonostante la sua espressione fosse
accattivante, non
sapere quel che mi aspettava mi infastidiva e preoccupava al tempo
stesso.
Un
altro passo avanti ed uno indietro, fino a
quando non mi scontrai con il tavolo della cucina, così
decisi di aggirarlo,
continuando a tenere lo sguardo incollato a quello di Travis che, con
estrema
tranquillità, sembrava non aspettare altro che un mio
momento di distrazione.
Ma ormai avevamo il tavolo in mezzo a noi ed era strano,
nonché divertente, in
un certo senso, tornare bambini in quel modo, facendo finta di giocare
al gatto
e al topo. Anche se dubitavo che lui stesse fingendo.
“Me la pagherai,
Maya”, mormorò, lui, con un sorriso
divertito, poggiando le mani al piano
del tavolo. “Puoi scappare quanto
vuoi,
in ogni caso prima o poi ti prenderò”.
“Scapperò in
Brasile”, ribattei, senza pensare, facendolo
ridere. “Andrò nella
foresta Amazzonica e non mi farò più trovare”,
continuai, cercando di restare seria anche se, a dire il vero, si era
rivelata
un’impresa davvero difficile.
Non
avevo via di scampo e lo sapevamo perfettamente
entrambi, nonostante io cercassi un modo per raggiungere una qualsiasi
altra
stanza senza essere acciuffata dal nuotatore che continuava ad
osservarmi
attentamente.
Maledetti
quei suoi occhi.
Nemmeno
con lo scatto più fulmineo del mio
repertorio sarei riuscita a sfuggirgli, ma ci provai comunque,
cominciando a
correre come una pazza verso la mia camera oscura, ma a lui
bastò allungare un
braccio per mettermi in trappola, in un batter d’occhio.
“Allora,
piccola amazzone, dove vorresti scappare?”, chiese,
sbeffeggiandomi, e
stringendo la presa sul mio corpo, facendo aderire la mia schiena al
suo petto.
“Voglio
tornare nella mia madre terra”, ribattei, ridendo.
E
in un attimo mi sollevò da terra, con fin troppa
facilità, non allentando in ogni caso la stretta che
continuava ad esercitare
sul mio corpo. Poi cominciò ad incamminarsi a passo svelto
verso la camera da
letto, cominciando a ridere come un idiota – seguito a ruota
da me -, ed in
quel momento capii che, probabilmente, la mia punizione sarebbe stata
più
lussuriosa e piacevole di quanto avessi mai pensato.
Travis’
POV
Dopo
la vittoria a Doha e l’euforia che ne seguì
non avevo fatto altro che prepararmi per le Olimpiadi. E ad una persona
qualunque sarebbe sembrato stupido, cominciare ad allenarsi per un
evento che
sarebbe arrivato dopo più di un anno, ma non avevo la minima
intenzione di
lasciarmi scappare un’occasione come quella che rappresentava
il Brasile, nel
2016, e inoltre era normale prepararsi con largo anticipo per
competizioni
simili, nonostante fosse davvero spossante.
Claudio
non mi dava tregua ed aveva perfettamente
ragione a volermi spronare fino a quel punto, ma molte volte si
rivelava essere
solamente fin troppo assillante, con i suoi soliti urli alla piscina e
le sue
ramanzine se qualcosa non era andata per il verso giusto. Il
ché, nelle ultime
settimane, avveniva più spesso del solito e di quanto avessi
sperato. E di
questo il mio allenatore se ne era accorto, ma continuava a restarsene
buono e
calmo e a riprendermi quando ce n’era bisogno.
Se
solo avesse saputo la verità, probabilmente, gli
sarebbe preso un infarto. Dopo avermi ucciso con le sue mani,
ovviamente.
Mi
ero immaginato quella scena parecchie volte e, più andavo
avanti, più
mi rendevo conto che, se fosse successo davvero, avrei dovuto
cominciare a
correre per trovare rifugio in un nuovo paese. Forse meglio un nuovo
continente.
Maya
si era presentata alcune volte, alla piscina, mentre ero occupato
con gli allenamenti e a parte continui scambi di sguardi tra il
divertito ed il
timoroso per la situazione in cui ci trovavamo, solamente un paio di
volte ci
era capitato di rivivere ciò che era accaduto nello stanzino
delle scope.
Probabilmente,
se qualcuno fosse venuto a conoscenza del nostro tipo di
rapporto, ci avrebbero scambiato per ninfomani, ma alla fine sapevamo
che
quello era l’unico modo per non finire in discussione, con
insulti e parolacce
a completare il quadretto. Era un rapporto turbolento, il nostro, anche
se un
rapporto vero e proprio non lo era assolutamente. Sapevamo che, in
qualsiasi
momento, avremmo potuto scrivere la parola fine a quella cosa,
ma finché ci andava bene ne approfittavamo. Beh, certo,
forse
un po’ troppo e un po’ più spesso di
quanto avrei mai pensato, ma restavano
dettagli, quelli.
Era
passato più di un mese dall’ultima notte
dell’anno e, nel frattempo,
avevo scoperto alcune cose su di lei, le sue passioni, i suoi gusti, ma
quello
che più mi premeva sapere restava un mistero. Né
io né lei eravamo mai riusciti
a trovare il coraggio di parlare del nostro passato, come se fosse
troppo
brutto o difficile da rimandare, e quello era stato un tacito accordo
che
avevamo stretto non ricordo nemmeno quando. Forse una delle tante volte
che
eravamo finiti a letto insieme dopo gli ennesimi insulti.
Non
avevo la minima idea di come avrei potuto continuare ad andare
avanti perché, in un certo senso, a lei cominciavo ad
affezionarmi perché era
molto più di quanto lasciasse trasparire
quell’espressione da stronza che,
spesso e volentieri, metteva su, ma sapevo fin troppo bene che per lei
non
significava nulla quello che poteva esserci tra noi. Anche se non
c’era nulla,
e lo sapevo. Bastava proprio lei a ribadirmelo fino allo sfinimento. Ma
eravamo
entrambi del parere che, finché eravamo giovani e
consenzienti, potevamo fare
ciò che più ci piaceva.
E
quello piaceva ad entrambi. Fin
troppo.
“Pensi di ricominciare ad
allenarti, Travis, o preferisci che ti porti un caffè?”,
mi chiese Roberto,
quando passò davanti a me e si rese conto della mia
espressione annoiata e
distratta.
Me
ne stavo tranquillamente poggiato al bordo della piscina, con le
labbra a pelo d’acqua ad analizzare i comportamenti di quella
ragazza che
continuavano a mandarmi in panne, perché una volta era la
persona più
insopportabile ed indisponente sulla faccia di questo pianeta e, il
momento, si
rivelava essere docile, tranquilla e con la parlantina facile. Cosa che
continuava a stupirmi ogni giorno di più.
Le
piaceva ritagliarsi i suoi spazi, lo avevo capito, soprattutto quando
prendeva un libro tra le mani e metteva le cuffie alle orecchie, ma
c’erano
volte in cui era proprio lei a venirmi a cercare, con l’ombra
di un sorriso sul
volto. E di me non restava più nulla, se non un idiota che
la seguiva senza
battere ciglio.
Mi
guardai un attimo intorno e non feci altro che osservare tutti i miei
compagni che si ammazzavano di lavoro, continuando a fare vasche su
vasche per
essere preparati e pronti per le prossime competizioni. Ed erano a dir
poco
ammirevoli. Poi c’ero io che avevo la voglia di allenarmi
sotto i piedi e ci
mancava davvero poco che mi addormentassi con la testa poggiata al
bordo.
Così
ricominciai con il mio lavoro, prima che Roberto potesse tornare a
darmi una vera strigliata, o peggio, che facesse venire Claudio con il
suo
solito cipiglio irritato che cominciava a contraddistinguerlo in quei
giorni.
Di
certo, l’ultima cosa che volevo, era qualcuno che mi facesse
la
predica, soprattutto in quel momento in cui avrei mollato tutto e me ne
sarei
tornato volentieri a letto.
Le
giornate cominciavano a susseguirsi senza che io me ne rendessi
conto, probabilmente colpa del fatto che, oltre a casa mia, nel giro
delle
ultime settimane avevo visto solamente quella dannata piscina; nemmeno
per Doha
mi ero allenato ed impegnato tanto, ma quello che mi aspettava era ben
diverso
da dei campionati mondiali. E faceva molta più paura.
Eravamo
agli inizi di marzo e pensare che avrei dovuto continuare in
quel modo per più di un anno, mi faceva venire la nausea. Ma
continuavo ad
andare avanti, era il sogno della mia vita, l’unico vero
obiettivo che mi ero
sempre posto e, di certo, non potevo deludere Claudio in un momento
come
quello. Ne avrebbe sofferto troppo, e non avrei potuto sopportare
l’espressione
di disappunto e la delusione sul suo volto.
Però
cominciavo a sentirmi davvero stanco, forse per colpa del fatto
che, nemmeno dopo i successi di Doha, non mi ero fermato un attimo, e
mi
sarebbero bastati solamente un paio di giorni di pausa, per staccare il
cervello e per dare un attimo di tregua al mio corpo che, ormai, andava
avanti
ad inerzia. Ma quello che più di tutto mi bloccava, era la
possibile reazione
di Claudio perché in quei giorni sembrava un’altra
persona, molto più
irascibile e nervoso di quanto non fosse mai stato. E vedere come,
certe volte,
riprendeva alcuni miei compagni per delle piccolezze insignificanti e
come si
scaldasse, faceva davvero paura. Era strano vederlo in quello stato,
nonostante
fosse comprensibile.
Così
avevo preferito tacere e tenere quel desiderio per me, per evitare
che la prossima sfuriata potesse essere indirizzata a me.
“Ti vedo parecchio distratto, in
questo momento, campione”, disse, una voce alle mie
spalle, mentre cercavo
di capire come migliorare le mie virate senza dover chiedere consiglio
a
Claudio. Ed era ovviamente una voce troppo nota perché
potessi confonderla con
qualcun’altra.
“Forse è la tua presenza a
distrarmi, Simona”, ribattei, voltandomi a
guardarla e sorridendole. E non
mi sfuggì il compiacimento che le si annidò in
quel mezzo sorriso che mi
rivolse, cercando forse di apparire seducente.
Certo,
era una gran bella ragazza e sarei stato un idiota a non
rendermene conto, ma era vuota ed insipida, nonostante su molti
argomenti fosse
davvero ferrata, ma avevo avuto già parecchie volte la
terribile conferma di
quanto a lei importasse solamente la facciata del mondo, e non il suo
interno,
non i suoi particolari. Forse era questo e la terribile somiglianza a
mia
madre, nei modi di fare, a farmi innervosire ogni volta che sentivo una
qualche
parola uscire dalla sua bocca.
“Sei troppo signore per dirmi in
faccia la verità, caro, ma sono meno stupida di quanto credi”.
Dannazione!
Non
che mi aspettassi una risatina stupida e gli occhioni da cerbiatta,
ma di certo non mi sarei mai aspettato una frecciatina simile,
soprattutto dopo
essermi reso conto di quanto fosse vera. Ma era stata la sua
sincerità a
sorprendermi ed il modo in cui lo disse, sempre con quel sorrisino in
faccia
come se non le importasse di nulla. E probabilmente era
così, perché negli
ultimi tempi l’avevo vista parecchie volte in piscina, sempre
alla ricerca di
Luca e sempre con indosso straccetti che lasciavano scoperti pezzi di
pelle più
di quanto ne coprivano.
Esibizionista?
Chi, Simona!?
“Touchè”, mormorai,
grattandomi il mento e poggiandomi al bordo della piscina. “Ma ci tengo a precisare che non ho nulla
contro di te”, aggiunsi, con il miglior sorriso da
bravo ragazzo che
riuscii a sfoderare.
“Lo so, tutti mi adorano”,
replicò, lei, tirando fuori dalla sua borsa il cellulare.
Oltre
che esibizionista, aggiungerei anche modesta. Giusto per avere una
descrizione più dettagliata di questa ragazza, eh.
“Comunque, perché tu lo sappia, ti
stavo cercando”, aggiunse, Simona, continuando a
guardare il display del
suo telefono.
“Non vorrei essere ovvio, ma mi
hai trovato”.
“Lo so, campione, ma non mi hai
lasciato finire”, ribatté, poi,
lanciandomi un’occhiata infastidita. “Tu
ed io andremo a cena insieme”.
Per
un momento mi chiesi se stesse parlando seriamente oppure fosse
tutto solamente un gioco, uno scherzo, ma disse quelle parole con una
convinzione ed una sicurezza tale che quasi mi sconvolse e,
probabilmente, se
non fossi stato in acqua sarei caduto a terra. Perché non
poteva essere seria
o, almeno, non poteva pensare che io potessi accettare come se nulla
fosse,
soprattutto dopo il fiasco che si era rivelata Doha per noi due.
“E no, la mia non era una domanda”,
continuò, come se mi stesse leggendo nel pensiero.
“Tu accetterai ed io
dovrò farti qualche domanda per un breve articolo
per la rivista. La parte dedicata a te nel numero di gennaio
è piaciuta
talmente tanto che è stato richiesto qualche piccolo
aggiornamento sui
preparativi per le prossime Olimpiadi”.
Tutto
tornava al suo posto, ovviamente, ma in ogni caso la situazione
diventava più piacevole, anzi. Probabilmente sarebbe stata
un inferno, quella
serata, piena di domande a raffiche e frecciatine che avrebbero colpito
in
pieno il bersaglio. E, un momento dopo, mi ritrovai terrorizzato
dall’ipotesi
in cui lei avrebbe voluto scendere nei dettagli della mia vita privata,
andando
a finire fin troppo vicina a Maya. E non potei non domandarmi se non
sapesse
già qualcosa, quella specie di arpia in gonnella dal bel
faccino.
I
giornalisti sono subdoli, falsi e non aspettavano un momento ad
infangarti e a tirarti giù per la buona riuscita di un
articolo da prima
pagina. E quella era la mia più grande paura, soprattutto
con una come Simona
che aveva vissuto abbastanza a stretto contatto con la mia
realtà e con il mio
ambiente, che conosceva perfettamente Maya e che sapeva come fosse
legata al
mio allenatore.
Mi
sarei dovuto giocare bene le mie carte, cercando di non scendere in
particolari e di non lasciarmi scappare qualche informazione che le
sarebbe
bastata per tirare su un perfetto castello di carte pieno zeppo di
menzogne.
“Vedo che hai già organizzato
tutta la cerimonia nei minimi dettagli”, commentai,
issandomi per poter
uscire dall’acqua e smetterla di guardarla finalmente dal
basso, nonostante
fosse una più che meravigliosa visione. “A
quando il grande evento?”. Se doveva giocare con il
sarcasmo, non avrei
atteso un attimo per farmi avanti, nonostante quella sua espressione
soddisfatta metteva un po’ spavento, soprattutto
perché ero consapevole del
fatto che era lei ad avere il coltello dalla parte del manico.
Claudio
mi aveva informato di come, grazie all’articolo pubblicato
dalla
rivista per cui lavoravano sia Simona che Maya, la piscina
riuscì ad ottenere
più visibilità, di come la mia storia divenne
all’improvviso molto più
interessante e di come riuscimmo ad ottenere più sponsor
rispetto a prima, e mi
aveva anche detto che avrei dovuto mantenere un basso profilo,
mostrandomi
disponibile e gentile con lo staff della rivista perché se
ci fosse stata
un’altra possibilità di metterci in mostra
– come stava accadendo in quel
momento – non me la sarei dovuta lasciare scappare. Ed era
meglio obbedire al
mio allenatore, in quel periodo.
“Domani sera”, rispose, secca.
“Ci troviamo qui per le sette e
trenta, e
non ritardare: odio dover cenare ad orari indecenti, poi non riesco
più a
digerire”, continuò, rimettendo a posto
il telefono, come se nulla fosse.
Doveva aver controllato la sua agenda, molto probabilmente fitta di
appuntamenti come parrucchiere ed estetista.
Mi
fissò per un momento, come incerta delle sue azioni, prima
di
riprendere il completo controllo delle sue facoltà mentali,
tornando la donna
tutta d’un pezzo con cui avevo avuto a che fare fino a quel
momento. Ed era
strana, per certi versi, Simona, perché non sembrava affatto
la ragazza con cui
avevo passato il tempo a Doha. Sembrava cresciuta, maturata, si era
fatta meno
svampita e meno stupida, nonostante continuasse a mantenere salda
quella sua
facciata, ma era più diretta, senza peli sulla lingua e
senza paura di dire la
cosa sbagliata al momento sbagliato.
“E vedi di abbandonare per una
sera questa tua divisa da nuotatore sciupa femmine, renditi
presentabile perché
non voglio che tu mi faccia sfigurare, soprattutto nel locale che ho
scelto”,
aggiunse, quasi facendomi una risonanza. Poi cominciò ad
andarsene da dove era
venuta, dirigendosi verso l’uscita.
“Carina come sempre, Simona”,
le dissi, infine, sapendo bene che avrebbe sentito le mie parole.
“Ah dimenticavo, paghi tu!”,
esclamò, agitando una mano in aria, senza nemmeno prendersi
il disturbo di
voltarsi a guardarmi, come se già il fatto che me la sarei
dovuta sorbire per
un’intera serata non bastasse a gettare la mia voglia di
vivere nel cesso.
“A cena con Simona?”.
Non
si scomodò nemmeno a mascherare lo stupore nella sua voce,
non ne
aveva alcun motivo, e quello sguardo scettico che mi aveva rivolto la
diceva
lunga su cosa pensasse di quello pseudo appuntamento che avrei avuto il
giorno
seguente con la bionda. Ma Maya non si lasciò sfuggire
altro, era troppo
orgogliosa per farlo, si limitò solamente a fissarmi per
alcuni istanti come se
fossi appena giunto da un altro pianeta, perché lei sapeva
quanta poca simpatia
nutrivo per l’altra ragazza.
“Si, lo so, è assurdo, ma ha detto
che è per un piccolo articolo per la vostra rivista”,
cercai di
giustificarmi, cadendo di peso sul divano.
Mi
ero diretto a casa sua subito dopo l’allenamento, non sapendo
bene
cosa fare, e l’avevo trovata ancora in pigiama intenta a
lavorare su alcuni
scatti che le erano stati commissionati per un servizio su un giocatore
di
tennis, una nuova stella nascente, a quanto avevo capito. Mi aveva
aperto con
la sua solita aria annoiata e un po’ sorpresa, ma quando si
rese conto di chi
si trovasse davanti a gli occhi non si scomodò nemmeno a
dire qualcosa che
tornò al computer, lasciandomi la possibilità di
entrare.
Faceva
sempre così: apriva, si accorgeva che ero io e tornava ai
suoi
lavori come se nulla fosse.
“Ha anche detto che è stato
richiesto un aggiornamento sui miei allenamenti per le Olimpiadi, dopo
l’articolo di gennaio, così è arrivata,
mi ha informato della cosa e se ne è
andata”.
“Strano, non ne sapevo nulla”,
mormorò, continuando a fissare lo schermo del portatile.
“Non metteranno nemmeno una tua
immagine, come minimo, o ne ricicleranno
qualcuna”.
“Devi stare davvero sulle palle, a
Simona, se non sei stata informata di un’occasione simile”,
la punzecchiai,
osservandola attentamente al lavoro. Ma sembrava troppo presa anche
solo per
rendersi conto delle mie frecciate.
“O forse è stata più clemente
del
solito, nei miei confronti, risparmiandomi una serata a tre che sarebbe
potuta
finire in rissa”, ribatté, lei, con la
sua solita delicatezza. “E
lasciamelo dire, fotografarti ancora, e
magari tutto in tiro e in compagnia di quella ragazza, non è
tra le mie
migliori aspirazioni”.
Nonostante
non sembrasse prestare attenzione a nessuno se non al suo maledetto
computer, mi aveva fatto capire fin troppo bene quanto potesse
rivelarsi
multitasking, soprattutto rispondendo alle mie provocazioni con una
tranquillità che quasi metteva i brividi. Continuava a
lavorare eppure era
abbastanza sveglia da non lasciarsi sopraffare da me o dalle mie
parole. Era
una continua sfida, lei, ecco cos’era.
Ma
non mi era sfuggito ciò che aveva detto, e probabilmente
nemmeno si
era conto di come il suo discorso potesse venire travisato con
semplicità, ma
io me ne ero reso conto in quello stesso momento, cercando di capire
cosa
volesse dire con quelle parole. Sicuramente ero io dalla parte del
torno,
perché sembrava troppo fredda e distante per preoccuparsi
per un’uscita simile,
eppure quello era un pensiero che si era rivelato come un tarlo nella
mia
mente.
“Non sarai gelosa, vero?”, le
domandai, assottigliando lo sguardo senza riuscire a nascondere quel
sorriso
divertito che stava facendo di tutto pur si comparire sulle mie labbra.
E
finalmente riuscii ad ottenere la sua completa attenzione, tanto che
distolse lo sguardo dallo schermo del computer e trovò i
miei occhi. Alzò un
sopracciglio, guardandomi scettica, perplessa e forse anche un
po’ seccata,
perché non era la prima volta che tiravo fuori quel
discorso. Eppure ogni singola
volta andavo a segno, ottenevo la sua completa attenzione e la vedevo
rispondere sempre con una tale quantità di sarcasmo da farla
apparire irreale.
Come in quell’occasione.
“Sicuro che il tuo ego riesca a
stare in questo appartamento? Forse gli servono spazi più
grandi”.
Colpito
e affondato!
Di
certo, di lei non passava inosservata la semplicità con cui
riusciva
portare ogni situazione a suo favore con delle semplici parole. Avrebbe
dovuto
fare lei la giornalista, non Simona: ne aveva la faccia tosta, la
parlantina
diretta e sincera, la capacità di non trovarsi mai in
imbarazzo e a disagio.
E
con la stessa tranquillità con cui mi aveva appena rimesso
al mio
posto, tornò a prestare attenzione al suo lavoro,
perfettamente consapevole di
come fosse riuscita nel suo intento di zittirmi. Tuttavia, non riuscii
a
trattenermi e scoppiai a ridere, perché quella situazione
aveva un ché di
assurdo, ma che ancora sfuggiva alla mia comprensione.
Mi
alzai dal divano, avvicinandomi a lei e scorgendo alcuni suoi scatti
– meravigliosi, come sempre – e mi fermai un
momento ad osservarla
attentamente, a notare come i suoi occhi si stringessero davanti ai
particolari
che solamente lei notava, davanti agli errori che credeva di aver
commesso e di
come, alcune volte, l’ombra di un sorriso le occupava le
labbra se un’immagine
riceveva la sua approvazione. Era maledettamente meticolosa in
ciò che faceva e
non lasciava mai nulla al caso, anzi, era addirittura disposta ad
andarsene a
letto all’alba pur di rendere perfetta un’immagine
per la rivista; a volte era
sfiancante vederla sempre davanti a quello schermo, nella sua camera
oscura,
chiusa in sé stessa perché il suo lavoro le
occupava sempre più ore del giorno.
Sapevo
che negli ultimi tempi aveva lavorato parecchio, aveva cominciato
a farsi conoscere e, ormai, il suo nome era noto tra i corridoi della
redazione
della rivista per cui lavorava, ma si notava perfettamente anche la
stanchezza
che le si annidava nel volto, negli occhi assonnati ed arrossati per le
troppe
ore passate davanti ad uno schermo. Ma era talmente testarda che
nemmeno con le
forze sarei riuscito a convincerla a desistere e a prendersi un paio
d’ore di
pausa per riposarsi.
“Lascia perdere per un momento il
lavoro, Maya”, le dissi, poggiando le mani sulle
sue spalle.
“Non posso, Travis”,
ribatté,
lei, convinta. “Domani devo
consegnare
questi scatti e sono già in ritardo sulla tabella di marcia”.
“Ma devi anche dormire, non credi?”.
“Avrò abbastanza tempo per dormire
quando sarò morta”, rispose, ridendo.
“Ora
devo finire questo stramaledetto incarico”.
Era
irremovibile, come sempre, e sapevo che non avrei potuto dire nulla
per farle cambiare idea. Ecco un chiaro esempio di quando, con la sua
testardaggine, si dimostrava la persona più irritante sulla
faccia della terra.
Così presi una sedia dal tavolo della cucina e mi sistemai
alle sue spalle che,
seduta su quel minuscolo sgabello che utilizzava per la piccola
scrivania del
computer, se ne stava tutta curva sullo schermo. Mi avvicinai il
più possibile
a Maya, poi cominciai a massaggiarle lentamente le spalle, sapendo con
quale
facilità abbassasse ogni sua barriera davanti a tocchi del
genere.
Non
potevo dire di conoscerla alla perfezione, ma ero stato bravo ad
osservare in quelle settimane, ed avevo capito le cose essenziali di
lei, cosa
potesse piacerle e cosa no. E dei massaggi simili, mentre era sul punto
di
addormentarsi, li accettava sempre molto volentieri.
“Così non mi aiuti, però”,
si
lamentò, raddrizzando leggermente la schiena ed abbandonando
per un attimo il
computer, passandosi energicamente le mani sul viso.
“Non puoi continuare così, e lo
sai”, mormorai, attirando ancora di più
il suo corpo al mio, facendole
poggiare la schiena al mio petto. Era sul punto di cedere, me lo
sentivo, ed
avrei dovuto continuare per quella strada solamente per qualche altro
momento e
sarebbe stata fatta.
“Non avrai il mio corpo in cambio,
se è questo che credi”, disse poi, lei,
quasi leggendomi nel pensiero.
Anche se non ero del tutto convinto di ciò che volevo in
quel momento.
Mi
piaceva quella sensazione di tranquillità che cominciavo a
sentire e
quella situazione che si era andata a creare non mi dispiaceva affatto.
Sembrava una cosa da tutti i giorni: io che tornavo
dall’allenamento e trovavo
lei al lavoro, stanca dopo una giornata intensa, io che le concedevo un
momento
di tranquillità e relax e tutto che finiva nel
più scontato dei modi. Ma non
era quello il caso, perché non eravamo una cosa
da tutti i giorni, noi. Eravamo di passaggio, un lampo occasionale che
avrebbe
occupato le nostre vite per qualche altro tempo, poi sarebbe sparito ed
i suoi
ricordi li avremmo messe nel cassetto delle cazzate post adolescenza.
“Vorrei solamente che rallentassi un
momento,
Maya, che ti prendessi i tuoi spazi perché si vede lontano
un miglio quanto tu
sia stanca”.
La
sentii abbandonarsi completamente a me, mentre continuavo a passare
le mani sulle sue spalle e sulle braccia, entrare quasi in fare rem e
chiudere
gli occhi, sospirando. “Devo
solamente
ricontrollare una decina di scatti e scegliere quelli migliori, poi
avrò
finito; non rendermi le cose più difficili, Travis”,
mormorò, poggiando la
testa sulla mia spalla, quasi mezza addormentata. Diceva di voler tanto
finire
di lavorare, eppure non sembrava avere alcuna intenzione di muovere un
dito per
impedirmi di corromperla in quel modo.
Le
spostai i capelli da una parte, avendo così libero accesso
alla parte
del suo collo più vicina a me , e non attesi un attimo a
chinarmi su di lei. “Puoi concederti
qualche momento di pausa”,
cercai di convincerla, per l’ennesima volta, facendo scorrere
le labbra sulla
sua pelle, scendendo piano fino alla porzione di pelle lasciata
scoperta dalla
maglietta che indossava. “Poi potrai
tornare a lavorare”.
Maya
poggiò le mani sulle mie ginocchia e, se avesse potuto, si
sarebbe
rannicchiata ancora di più a me, cercando di recepire alla
perfezione ogni mio
tocco. Sembrava ancora più piccola e minuta, in quel
momento, e quasi
scompariva.
Continuai
per quella strada per non so quanto tempo, e lei si ostinava a
non lasciarsi andare, a non voler dormire qualche istante per potersi
riprendere. Apriva gli occhi, ogni tanto, giusto per cercare di restare
sveglia
e controllare che il suo computer fosse ancora davanti a lei. Poi, come
se non
bastasse, il mio cellulare cominciò a suonare
all’improvviso, ancora dentro al
borsone da allenamento dove lo avevo lasciato.
Sentii
Maya sbuffare sonoramente, perché aveva capito
all’istante quel
momento di relax era appena giunto al termine, così si
staccò da me dandomi la
possibilità di alzarmi dalla sedia e correre a recuperare
quell’aggeggio
infernale che faceva sentire la sua presenza nei momenti meno
opportuni. E,
solamente quando lessi il nome che occupava il display, mi resi conto
di come
avrei voluto gettare il telefono fuori dalla finestra.
“Mamma”, dissi, rispondendo,
cercando di ignorare l’espressione divertita sul viso di Maya.
“Ciao amore!”,
esclamò, lei,
quasi perforandomi un timpano. “Sarà
possibile che debba farmi sentire sempre e solo io? Ricordi che hai una
madre,
vero?”.
“Purtroppo sì, me ne ricordo”,
ribattei, cadendo ancora una volta di peso sul divano. “Cosa vuoi?”.
Forse
ero stato un po’ duro, troppo diretto – e anche
Maya sembrava
pensarla a quel modo, vista la sua espressione sorpresa -, ma ne avevo
davvero
abbastanza delle telefonate programmate di mia madre. Se proprio ci
teneva a
sentire la voce del figlio, ogni tanto, non avrebbe dovuto chiamare
solamente
una volta al mese, giusto in tempo per chiedermi altri soldi.
Non
potei non domandarmi come avessi potuto cadere in un guaio simile.
“Tesoro, ma che hai? Sei talmente
scontroso, oggi”, continuò, con la sua
voce sibillina e quel suo accento
che, nonostante gli anni in Italia, sembrava non volerla abbandonare.
“Sono solamente stanco”,
risposi, esasperato. “Rispondi alla
mia
domanda, per favore, così potrò tornare a farmi
gli affari miei”,
continuai, lanciando un’occhiata a Maya che, nonostante il
suo sguardo fosse
rivolto ancora una volta allo schermo del computer, ascoltava
attentamente la
conversazione con mia madre.
“Oh beh, volevo solamente
ricordarti che domani passerò da te, sai”,
cominciò, fingendosi
imbarazzata. “Sai bene che non
vorrei
ridurmi a questo, ma mi trovo costretta ancora una volta a chiederti un
piccolo
aiuto; lo metterò in conto, tesoro, non ti preoccupare. Ti
ridarò tutto, parola
di mamma”.
“Tesoro,
non ne ho idea”,
esclama, la mia mamma, guardandomi negli occhi. Sono tanto diversi dai
miei,
quegli occhi, lei è tanto diversa da me.
“Ma
io voglio che torni
ora”, continuo, io, sempre più deciso. Non voglio
passare un’altra serata solo
con mamma, voglio il mio papà, voglio giocare al Capitano
con lui. “Devi farlo
tornare ora, mamma!”.
“Travis,
non posso, mi hai
capito?”, chiede, abbassandosi al mio livello, con le
ginocchia poggiate a
terra. “Non posso fare tornare papà adesso,
è a lavorare, lo sai bene”.
“Ma
io voglio giocare al
Capitano”, continuo, pestando i piedi sul pavimento.
Siamo
nella mia cameretta e
tra poco si mangia, ma la mamma mi ha già detto che
papà non riuscirà a tornare
per cena. Probabilmente tornerà quando io sarò
già a dormire, ma lo voglio
aspettare, voglio vedere il mio papà. E voglio giocare al
Capitano!
“Giocherai
domani al
Capitano, va bene? Domani papà sarà a casa dal
lavoro e potrai giocare con lui
quanto vorrai, parola di mamma!”, mi promette, con un
sorriso. “Ma adesso devi
smetterla di fare i capricci, Travis”, aggiunge,
più severa di prima. Ma non mi
fa paura, è la mia mamma e mi vuole bene, quindi non mi
spaventa.
Poi
si alza dal pavimento e
va verso la cucina. Stava cucinando la cena, prima che arrivassi io
quasi in
lacrime. Sono già un ometto, io, e non posso piangere, ma
voglio il mio papà.
Voglio giocare con lui.
Saltò
sul mio letto,
accucciandomi vicino al cuscino e prendo il regalo che papà
mi ha fatto qualche
giorno fa. Era tanto che non lo vedevo e, quando è tornato
dal suo ultimo
viaggio, mi ha portato quella piccola ancora in miniatura che tengo
sempre sul
comodino vicino al letto.
È
il regalo più bello che
papà mi abbia fatto, è bellissima! Ed
è mia, nemmeno la mamma può toccarla,
solo io. Di notte mi fa compagnia, la metto sotto il cuscino e sembra
quasi che
il mio papà sia accanto a me a raccontarmi tutte quelle
storie di marinai, mari
e imprese eroiche.
Da
grande voglio essere un
pirata, e quando l’ho detto al mio papà
è scoppiato a ridere. Mi prendeva in
giro, e non mi è piaciuto. Ma poi mi ha detto che, qualunque
cosa voglia fare,
sono in grado di farla. Quindi, se lo dice il mio papà deve
essere vero!
Parola
di mamma. Le sembravo ancora il bambino che aveva tentato di
crescere, probabilmente, perché era da quando avevo sette
anni che non mi
diceva così. E faceva male, soprattutto perché
sembrava prendersi gioco di me.
“Non mi interessa”, mormorai,
massaggiandomi le tempie con la mano libera. “L’importante
è che mi lasci in pace, mamma, non è il periodo
adatto”.
“Oh si, lo so”,
esclamò,
incrinando ulteriormente il mio povero timpano. “Eco perché vorrei chiederti qualche
spicciolo in più, tesoro, così per
un po’ ti lascio in pace. È un’idea
formidabile, non trovi?”.
Formidabile.
Aveva davvero una strana concezione della parola
formidabile, ma non glielo feci notare, non ne avevo le forze. Volevo
solamente
che quella telefonata finisse, che mi lasciasse in pace e che sparisse
dalla
mia vita per un po’. Quella non era mia madre, non
più.
“La migliore che tu abbia avuto”,
esclamai, trasudando sarcasmo da tutti i pori. Cosa che, da lei, non
venne
affatto recepita. “Sei davvero un
genio,
mamma”.
Fu
il tono che usai ad attirare l’attenzione di Maya. Forse per
l’esasperazione
troppo evidente, forse per la mia espressione oppure per il sospiro che
mi
concessi prima che la donna dall’altra parte del telefono
ricominciasse a
parlare.
“Oh tesoro, quanto sei gentile con
la tua mamma”, replicò, lei, fingendosi
commossa. Era rivoltante. “Allora ci
vediamo domani al tuo
appartamento, va bene? Non dimenticartene, te ne prego”.
Non
mi diede nemmeno il tempo di replicare – nonostante non fosse
in
vena di farlo – che chiuse la chiamata all’istante,
come per paura che potessi
cambiare idea. E forse lo avrei fatto, se non fosse stato per il
malsano
desiderio di levarmela dai piedi, di smettere di dover ascoltare quella
sua
voce fastidiosa. Lo avrei fatto se ne avessi avuto la forza, se non mi
fossi
cacciato in un casino simile già tempo prima.
Poggiai
la testa alla testiera del divano, chiudendo gli occhi e
sospirando, quasi sconfitto da quella telefonata che mi aveva rovinato
la
giornata. Mi sentivo svuotato, stanco come non mai; nemmeno dopo uno
dei più
duri allenamenti mi ero ritrovato in quello stato.
“Travis”.
Non
me ne ero nemmeno reso conto, ma Maya si era alzata dal suo sgabello
e mi stava di fronte, con un’espressione preoccupata. I
capelli legati alla
bell’e meglio, la t-shirt oversize, quei due oceani
assonnati; era bella anche
così, un po’ trasandata. Ed aveva mormorato il mio
nome quasi con paura, come
se fosse spaventata dalla mia reazione, come se fossi potuto scattare
all’improvviso per la rabbia. Ma come potevo scattare con una
come lei davanti
agli occhi?
“Tutto bene?”, mi chiese,
avvicinandosi ancora di qualche passo, quasi raggiungendomi.
“Che domande fai?”, le chiesi,
sarcastico. “Non ti sembro un
bambino a
Natale?”.
“Smettila di fare l’idiota, per
una volta”.
“Non sto facendo l’idiota, Maya”,
ribattei, allungandomi verso di lei e afferrandole un fianco,
così da riuscire
a farla sedere a cavalcioni su di me. “Sto
semplicemente evitando il problema”.
“Beh, non dovresti”,
continuò,
Maya, incrociando le braccia al petto e lanciandomi
un’occhiata saccente.
“Senti da che pulpito arriva la
predica”, risi, davanti alla sua ostinazione.
Perché era assurdo che,
proprio una come lei, mi venisse a dire che avrei dovuto risolvere i
mie
problemi, proprio lei che si privava di ore di sonno per poter
terminare un
incarico, proprio lei che se ne restava ore davanti al computer.
E
la vidi trattenere un sorriso, nonostante sembrasse convinta a non
lasciar perdere il mio umore diventato improvvisamente nero. Non si
faceva
distrarre dagli eventi, semplicemente questo, anche se a volte ero
riuscita a
darle la spinta giusta per lasciarsi andare. Ma non era quello il caso.
“Si può sapere che ti
prende?”.
Forse
fu quel suo tono quasi sconfitto - neanche fosse lei la vittima
delle assidue telefonate di mia madre -, oppure quei suoi occhi che
sembravano
non voler lasciare i miei o le sua mano che raggiunse la mia mascella e
ne
segnò il profilo, nel suo solito modo delicato che aveva.
Non so cosa fosse
stato, ma mi sentii cedere per la prima volta dopo anni, sentii tutte
quelle
barriere che avevo eretto nel corso degli anni incrinarsi davanti a me,
per
colpa di quella maledetta ragazza che non faceva altro che prendermi in
contropiede e sorprendermi. E continuava a guardarmi come fossi un
cucciolo
impaurito, lei, e non sopportavo quella sensazione di impotenza che
avvertivo
quando i suoi occhi incontravano i miei, quando mi guardava in quel
modo,
quando si ostinava a percorrere le linee del mio viso con una lentezza
incredibile, mandandomi al manicomio.
“Il problema è mia madre, tutto
qui”, cominciai, spostandole uno ciocca di capelli
dal viso, sfuggita
all’elastico della coda. “L’hai
conosciuta, avrai capito com’è; non è
semplice starle dietro, soprattutto se si
fa viva una volta al mese con un taglio di capelli diverso, una nuova
parte del
suo corpo rifatta a puntino e la solita richiesta di soldi per
mantenersi”.
La
vidi strabuzzare gli occhi, incredula, e anche la sua mano si
fermò
dal percorso che aveva intrapreso sul mio viso; sicuramente non si
aspettava
una rivelazione simile, nonostante a molti potesse sembrare
insignificante.
Non
era insignificante, cazzo, era tutt’altro che semplice,
soprattutto
se la donna in questione aveva una considerazione pari a zero di suo
figlio, se
non per i soldi del proprio conto corrente o per la
notorietà che ne derivava.
Ed io ero stanco, mi ero rotto le palle già tempo prima, ma
non avevo trovato
il coraggio di fare il passo decisivo e darci un taglio per davvero,
ponendo la
parola fine a tutta quella storia.
“Mantenersi?”, chiese, Maya,
ancora incredula e con gli occhi fuori dalle orbite. Risaltavano ancora
di più,
quei suoi mari, con quell’espressione stupita.
“Sì, Maya, ogni mese arriva alla
mia porta con la sua migliore faccia da mendicante e riesce, sempre, ad
estorcermi i soldi sufficienti affinché riesca a campare
fino alla richiesta
successiva. Ed io da perfetto coglione ci casco ogni volta!”,
aggiunsi,
incazzato con me stesso. E lo ero davvero, perché parlandone
con lei mi rendevo
conto di come non avessi un briciolo di spina dorsale, di forza per
fermare
tutto quello. “Le ho dato un brutto
vizio, e adesso sembra non poterne più fare a meno. Vuole
essere giovane come
lo era anni fa, vuole tornare al fiore degli anni, a mie spese”.
La
mano di Maya riprese il suo corso, più titubante rispetto a
prima, ma
cercò di non darlo a vedere. Non riuscivo a reggere i suoi
occhi preoccupati e
dispiaciuti, non volevo farle pena e non volevo la sua compassione, e
mi pentii
all’istante di averle rivelato un particolare simile della
mia vita.
Particolare che erano davvero in pochi a saperlo.
Non
parlò per non so quanto tempo, lei, forse per metabolizzare
la
notizia, per cercare di capire come potersi muovere nei miei confronti,
nervoso
com’ero. E la capivo perché anche io, al suo
posto, non avrei saputo cosa fare,
cosa dire. Ma lei era sempre un passo avanti a me.
“Resta comunque tua madre, ecco
perché ci caschi ogni volta”, disse,
infine, torturando il colletto della
mia maglia. “Sarà anche
un tipo strano,
non lo nego, ma resta la donna che ti ha messo al mondo”.
“Lo so, ma non è più la donna
che
mi ha cresciuto, da bambino”, continuai,
imperterrito, studiando il disegno
che occupava gran parte della t-shirt di Maya. Tutto pur di non
incontrare il
suo sguardo. “Non è
più la mia mamma”,
mormorai, infine, quasi non credendo alle mie orecchie per come mi ero
esposto.
Intravidi
il sorriso che cercò di nascondere Maya, non so per quale
motivo. Non si era mossa, non aveva detto nulla, aveva semplicemente
continuato
a carezzarmi il viso, non sapendo esattamente cosa fare. Ma apprezzavo
il suo
silenzio, la calma con cui decideva le parole migliori da dire.
“Da quanto va avanti così?”,
domandò, poi, rompendo il silenzio che si era creato.
“Da un paio d’anni, ma in questi
ultimi mesi è diventata più insistente e, ogni
mese, è lì a chiedere
l’elemosina”, confessai, tornando a
guardarla.
Sembrava
concentrata a seguire il percorso delle sue dita, assorta nei
suoi pensieri, ma sapevo bene che la sua attenzione era rivolta
completamente
su di me. Sembrava inerme, una bambina occupata a giocare. E forse
proprio per
quello mi lasciai andare ancora un po’, feci crollare
un’altra barriera e
ricominciai a parlare.
“Quando è ritornata in Italia non
era più lei, si faceva vedere una volta l’anno, se
mi andava bene, e le
bastavano cinque minuti per stancarsi di me, così se ne
andava e tornava in
California dal surfista che aveva deciso di seguire”,
cominciai,
concentrandomi su un ricciolo di Maya che le era sfuggito e non sui
suoi occhi
che continuavano a cercare i miei. “Se
ne
è andata, la prima volta, quando avevo undici anni ed
è stato un colpo
incredibile, per me, perché le volevo bene e si era sempre
comportata da madre
perfetta, con me, ma poi ha fatto crollare tutto con una
semplicità disarmante.
Sono rimasto con mio padre perché non avevo nessun altro,
perché quella che
credevo fosse la donna della mia vita aveva lasciato la sua famiglia
per un
ventenne conosciuto di straforo”.
Il
tocco di Maya si era come intensificato, quasi volesse farmi sentire
la sua vicinanza tramite le sue mani, e con l’altra mano
aveva cominciato a
giocare con i miei capelli, alla base della nuca. Sperava di calmarmi,
lo avevo
capito, sapeva che non era facile per me parlare così
apertamente e quello era
il suo modo per farmi capire che andava tutto bene. Io, invece, non
riuscivo a
trovare il coraggio di incontrare i suoi occhi, non ne avevo le forze.
Avevo
come la netta sensazione che non avrei trovato altro che compassione,
nei suoi
oceani, ed era l’ultima cosa che volevo vedere.
“E tuo padre?”, chiese, in un
soffio, insicura se pormi quella domanda o meno.
“Mio padre è sempre stato
perfetto, troppo signore per mostrarsi ferito dalla decisione che aveva
preso
Tanya, nonostante sapessi perfettamente quanto ne avesse sofferto”,
dissi,
cominciando a sentire la gola stringersi per la situazione in cui mi
trovavo.
Era un tasto ancora dolente, quello, nonostante fossero passati anni.
Ma ancora
ne soffrivo, ancora mi riusciva troppo difficile parlarne. “Faceva il marinaio, in uno quei vecchi
vascelli che attraccano ai porti giusto per il gusto di far vedere al
mondo
come fossero belle le vecchie navi, e di rado era a casa, ma quando
c’era
esistevo solamente io, sai? Voleva recuperare il tempo perso”,
continuai,
avendo perso ogni freno ed ogni filtro possibile. Avevo cominciato ad
essere
sincero, finalmente, tanto valeva farlo fino in fondo. “Non so bene cosa sia stato a dare l’input
a mia madre e a farla
scappare, ma mio padre non aveva nulla da invidiare agli altri. Certo,
non era la
tipica bellezza che noti in mezzo alla folla, ma è sempre
stata una persona
meravigliosa, di quelle persone che ti fanno sorridere con la loro sola
presenza…”.
“Aspetta…”, mi
interruppe,
Maya, confusa. Ma io sapevo perfettamente dove voleva andare a parare e
non ero
pronto per quel momento, non lo ero affatto. “Era?”,
mi chiese, infine, con la stessa insicurezza che l’aveva
contraddistinta negli ultimi minuti.
Finalmente
riuscii a guardarla negli occhi e non vidi altro che
preoccupazione per la risposta che le stavo per dare. Certo, aveva
chiesto conferma,
ma sapeva perfettamente cosa avrei risposto, aveva solamente bisogno di
sentirselo dire.
“Si, era, Maya”, dissi,
finalmente, con un sorriso amaro, mandando giù il groppo in
gola.
Lo
stupore nel viso di Maya diceva tutto, parlava da sé ed io
continuai,
evitando che potesse dire qualcosa, per paura che tutto potesse
complicarsi
ulteriormente. “Ha continuato a
lavorare,
qualche volta, dopo che mia madre se ne andò, ma non voleva
lasciarmi a casa da
solo per tutto quel tempo, così cominciò a
lavorare sempre meno e ad essere
sempre più stanco, poi… un giorno torno a casa da
un allenamento e lo trovo
steso a terra, incosciente, così chiamo
un’ambulanza, vado insieme a lui in
ospedale e, dopo due ore passare a fare avanti e indietro per la sala
d’aspetto, mi vengono a dire che è sveglio, che
voleva parlarmi, ma che non
devo trattenermi per molto perché deve riposare. Avevo
sedici anni, cazzo, come
potevo non trattenermi? Dove sarei andato?”,
esclamai, infine, ponendo
quella domanda più a me stesso che a Maya che, come avevo
previsto, aveva
cominciato ad osservarmi con tristezza, e le sue mani si erano fermate,
avevano
fermato l’unica cosa che sembrava calmarmi. Si erano posate
sulle mie spalle
con pesantezza, come se quello non rappresentasse un peso solamente
mio, ma
anche suo. “Così
raggiungo mio padre e
ancora ricordo la moltitudine di macchinari che gli stavano attorno,
che gli
gettavano addosso una luce strana. Sembrava più vecchio di
quindici anni, lui,
in quel lettino da ospedale, mentre cercava di riposare e di respirare
in modo
adeguato. Alla fine, dopo aver girato attorno al discorso non so quante
volte,
mi venne a dire che era malato, gli avevano diagnosticato un cancro al
quarto
stadio all’intestino e che… era inoperabile, non
c’era altro da fare che
aspettare”.
Sospirai
pesantemente, passandomi le mani sul viso, come per scacciare
una stanchezza che in realtà non c’era. Era
solamente la forza di ricordi che
ancora facevano troppo male, ricordi che venivano rivangati dopo un
tempo
lunghissimo e che erano stati sepolti fino a quel momento per
preservarmi, ma
sentirsi così svuotato, così debole dopo aver
detto solamente parte della
storia era la cosa peggiore. “Certo,
abbiamo provato con la chemio e siamo andati avanti per qualche tempo,
ma la
situazione non migliorava, anzi. Così cominciai a saltare
sempre più
allenamenti, a chiedere scusa a tuo padre per tutte quelle assenza, ma
dovevo
occuparmi di mio padre, di quello che avevo creduto fosse
l’uomo più potente
del mondo, del mio supereroe che tornava a casa la sera solamente per
poter
giocare con me. Ero diventato improvvisamente adulto, comportandomi
come un
adolescente non dovrebbe mai fare, ma non avevo altra scelta se non
quella:
andavo a scuola e correvo a casa per paura che potesse succedergli
qualcosa”.
Rivangare
nel passato non era mai stato tanto difficile, non aveva mai
fatto tanto male, eppure continuavo ad andare avanti, continuavo a
raccontare
la mia storia a Maya che, quasi con le lacrime agli occhi, non faceva
altro che
fissarmi con apprensione. “Poi, un
giorno, torno a casa in fretta e furia perché avevo sentito
che ci sarebbe
stato uno di quei vascelli poco lontano da casa mia: avevo
già organizzato
tutto, pensato ad ogni particolare, avrei preso un taxi sia
all’andata che al
ritorno perché non volevo affaticare mio padre, nonostante
in quegli ultimi
giorni si sentisse meglio. Ma quando tornai a casa lo trovai a letto,
disteso,
che respirava a malapena e non aspettai un attimo di più a
chiamare l’ennesima
ambulanza. Fu come un flashback, quello, a dir poco terribile”.
Cominciavo
ad agitarmi, a non poterne davvero più di tutta quella
storia
e se avessi avuto la forza necessaria, probabilmente, me ne sarei
andato seduta
stante, ma il mio corpo non accennava alcun movimento, se non per le
mani che
avevano ricominciato a giocare con una ciocca dei capelli di Maya, come
per
distrarmi. Ma se fosse stato così facile, non mi sarei
trovato in quella
situazione. non accennavo a rivolgerle uno sguardo, quando lo avevo
fatto mi
ero sentito un perfetto idiota. “Così
mi
ritrovai sempre nella sala d’aspetto ad andare avanti e
indietro, ma le ore da
due erano diventate cinque e nessuno si era fatto vivo, nessuno mi
aveva dato
una minima informazione. Solamente quando fu sera inoltrata un dottore
– non
ricordo nemmeno che faccia avesse – mi venne a dire che
avevano fatto ogni cosa
possibile per mio padre, avevano provato a rianimarlo diverse, troppe
volte, ma
non c’era stato nulla da fare. Il cancro era troppo esteso e
lui troppo debole;
così a diciassette anni mi sono ritrovato senza una madre,
occupata chissà dove
con il suo stramaledetto surfista e senza un padre, l’unica
vera persona che
avesse sempre creduto in me, indipendentemente da quello che ero in
grado di
fare o meno”.
Maya
non disse nulla, non fece nulla, sapeva che non avevo ancora finito
e così preferì tacere piuttosto che interrompermi
in un momento così delicato.
“Mi ha sempre detto che qualunque
cosa voglia fare, sono in grado di farla. Ha sempre creduto in me, ha
sempre
pensato che fossi invincibile, quando il supereroe tra i due era lui,
ma nel
momento in cui sarei dovuto essere presente, nel momento in cui avrei
dovuto
salvarlo non c’ero, non ci sono stato nel momento cruciale e
mi odio per
questo. Non faccio altro che odiarmi ogni mattina, quando mi guardo
allo
specchio, perché il senso di colpa è troppo
grande, pesante e fa male”.
Ed
era vero, cazzo se era vero! Ed era stato il tarlo che mi aveva
distrutto il cervello nei dieci anni che erano passati, che mi aveva
disgregato
dall’interno facendomi sentire una nullità. Ed era
quella consapevolezza a
farmi sentire di merda, senza mezzi termini, perché sapevo
di non aver fatto
tutto il possibile per salvare l’unica persona che non mi
avesse mai remato
contro, che avesse sempre creduto in me e nelle mie
potenzialità. E il rimorso
più grande era quello di non aver avuto la
possibilità di dimostrargli quanto
il resto del mondo si fosse sbagliato sul mio conto, di renderlo fiero
di me e
di vedere ancora una volta quell’espressione felice che tanto
caratterizzava il
suo sguardo. La cosa che mi faceva incazzare maggiormente, poi, era il
palese
menefreghismo di mia madre, di quella maledetta donna che se ne era
sempre
lavata le mani, che aveva abbandonato la sua stessa famiglia per un
ragazzino
abbronzato della California, per una vita migliori e per migliori
aspettative.
“Travis, non… non devi dire queste
cose, non è colpa tua”,
mormorò lei, con fare rassicurante.
“Come può non essere colpa mia,
Maya!?”, esclamai, cercando il suo sguardo. E non
lo avessi mai fatto,
perché quelli erano due laghi pronti a straripare, ed era
stranissimo vederla
così scossa, non me la sarei mai immaginata. Ma era
bellissima, come sempre. “Come posso
non sentirmi in colpa davanti a
tutto questo? È colpa mia, lo so, e sono stato un idiota a
suo tempo quando
credevo che tutto sarebbe andato bene. Ci credevo davvero, cazzo, anche
se mia
madre non c’era più. Avevo mio padre e lui aveva
me, ma poi tutto è andato a
puttane, tutto è andato perso”,
continuai, quasi sull’orlo di un esaurimento
nervoso, sull’orlo delle lacrime. E, dannazione, non potevo
crederci perché
quello non ero io, non mi riconoscevo più: avevo pianto due
volte nella mia
vita, e quella era una novità assurda, incredibile e
spiacevole. “Come posso non
incolpare me stesso per
quello che è successo? Perché se
l’avessi scoperto probabilmente non sarebbe
successo e, ti prego, se hai la soluzione, dimmela e aiutami
perché così non
riesco ad andare avanti”.
Era
diventato tutto insostenibile, tutto quanto, e non faceva altro che
peggiorare e quella ne era la prova, perché cominciavo ad
essere davvero
stanco, spossato. Ed era quella sensazione alla bocca dello stomaco, il
rimorso
ed il senso di colpa a farmi dormire male la notte, a farmi stare male
per una
cosa su cui non avrei mai potuto avere potere, ma ero convinto che
avrei potuto
fare qualcosa, in qualche modo. Eppure avevo fallito miseramente.
“Travis, non puoi fartene una
colpa, tu non c’entri niente con quello che è
successo a tuo padre, non avresti
potuto fare nulla: presto o tardi sarebbe successo”,
cercò di convincermi,
lei, con decisione, prendendomi il viso tra le mani e costringendomi a
guardarla. Non avevo scampo. “Non
darti
colpe che non hai”, aggiunse, con voce
più dolce e rotta dall’emozione.
“Non riuscirai a farmi cambiare
idea, Maya, ci ha provato tuo padre per dieci anni e non ci
è minimamente
riuscito… e sai cosa mi fa incazzare? Che una persona come
mio padre sia metri
sottoterra, mentre una sanguisuga come mia madre, quella maledetta
donna,
invece sia ancora viva e vegeta e in perfetta forma”.
Lei
rimase di sasso davanti alla mia affermazione e non me lo sarei
aspettato nemmeno io, ma era la verità ed era quasi
liberatorio dirlo ad alta
voce. Avevo sperato per fin troppo tempo che mia madre cambiasse
atteggiamento,
che tornasse la donna che mi aveva cresciuto nei primi anni, ma
più aspettavo e
più mi rendevo conto di come fosse giunta ad un punto di non
ritorno.
“Parli così perché sei
incazzato,
adesso”, disse, assottigliando lo sguardo, senza
però togliere le mani dal
mio viso.
“Si, sono incazzato, ma queste
cose le penso davvero, Maya, e se sapessi anche solo una minima parte
di ciò
che ha fatto mia madre mi daresti ragione. E mio padre ti sarebbe
piaciuto, non
ho dubbi, lui piaceva a tutti”, aggiunsi,
abbassando lo sguardo ancora una
volta, ricominciando a guardare i disegni sulla maglia di lei, che
ancora se ne
stava appollaiata sulle mie gambe. “Non
è
nemmeno venuta al funerale, sai?”.
Quella,
probabilmente, fu la cosa che mi fece più male
perché, nonostante
avessi cercato di mettermi in contatto con lei, non riuscì a
farsi sentire.
Così mi ero ritrovato da solo, il giorno del funerale,
affiancato dalla mia
vicina di casa, costretto a stringere la mano e ringraziare decine di
sconosciuti che erano venuti per farmi le condoglianze. “Quando tornò in Italia mi disse che
aveva avuto un contrattempo e che
non era riuscita a prendere l’aereo in tempo, quattro anni
dopo la morte di mio
padre, Maya. Quattro anni passati da solo, senza sue notizie e senza
sapere se
anche lei fosse ancora viva o meno”.
“Non sarà stata la madre perfetta,
ma dire quelle parole è in ogni caso sbagliato, Travis, e
non sto cercando di
giustificarla, assolutamente: ha sbagliato su tutti i fronti; ma tu
devi anche
imparare a dimenticare e ad andare avanti. Se continui a convivere con
questo
peso non vivrai mai davvero”, aggiunse, infine,
spostando le mani sui miei
capelli e cominciando a giocarci. Era rilassante, il suo tocco, ogni
volta che
mi sfiorava era come se venissi percorso da scariche al tempo stesso
piene di
adrenalina, ma anche capaci di tranquillizzarmi.
“Come faccio a passarci sopra?”,
le chiesi, disperato, avvicinandola ancora di più a me.
Avevo bisogno della sua
vicinanza, avevo bisogno di lei come non mai. “Mio
padre è stato l’unico che abbia creduto davvero in
me, senza
riserve, l’unico che sia riuscito a farmi sentire qualcuno”,
continuai,
poggiando la fronte sulla sua spalla.
“Non devi dimenticare tuo padre,
assolutamente, ma devi smetterla di incolparti per qualcosa che nessuno
è in
grado di controllare. Purtroppo succede e mi dispiace davvero che sia
capitato
a tuo padre, ma non puoi farci nulla, non più. E non avresti
potuto nemmeno a
suo tempo”.
Aveva
ragione, lo sapevo perfettamente, ma continuavo ad incolparmi
perché non riuscivo ancora ad accettare quella perdita,
troppo grande da
metabolizzare. Ci aveva provato anche Claudio, quel santo uomo che era
addirittura venuto al funerale, dieci anni prima, ma non era riuscito
nel suo
intento e dubitavo fortemente che potesse riuscirci anche Maya. Ero
certo
solamente del fatto che avrei dovuto conviverci a vita.
“Ma non ho potuto fare nulla per
salvarlo; non ricordo nemmeno l’ultima cosa che ci siamo
detti, non ricordo
nulla”, mormorai, ormai al limite. Stavo per cedere
e non volevo, non
dovevo perché non sapevo se sarei stato in grado di fermarmi.
Oh, Starlight don't
you cry
We're going to make it right before tomorrow
Oh, Starlight don't you cry
We're going to find a place where we belong
We're we belong
And so you know
You'll never shine alone
Starlight we'll find a place where we belong
We belong
Slash
ft. Myles Kennedy
- Starlight
Poi
Maya mi attirò a sé, circondandomi le spalle con
le braccia e
stringendomi, e fu quasi istintivo rispondere a
quell’abbraccio improvvisato. Istintivo
e normale e, per un momento, fu come tornare a respirare regolarmente
con il
viso immerso nei suoi ricci. Continuò a stringermi, lei,
come se fosse
questione di vita o di morte ed io non avrei voluto cambiare nemmeno un
singolo
particolare di quel momento: sembrava perfetto, nonostante fosse ben
lontano
dalla perfezione. Sapeva che avevo bisogno di quello, di un contatto
che mi
riportasse alla realtà e che mi tenesse incatenato a me
stesso, che mi
impedisse di cedere.
E
forse era proprio per quel motivo che, alla fine, l’ancora
che mi
aveva regalato mio padre a sette anni me l’ero tatuata, per
avere un modo per
restare ancorato a lui, ai ricordi più belli che avevo e
agli errori che avevo
commesso, all’occasione di salvarlo che mi ero lasciato
scappare. Ma avevo come
la strana sensazione che, in quel momento, la vera ancora che avevo a
disposizione fosse tra le mie braccia.
“Respira, Travis”,
sussurrò,
aumentando la presa e facendosi ancora più vicina.
“Respira e smettila di pensarci,
adesso”.
Fu
quasi semplice dimenticarmi del mondo, in quel momento, di quello che
avevo detto e pensato come se non ci fosse altro che
quell’appartamento con noi
due dentro. Semplice ed efficace, grazie a lei.
Maya’s
POV
Ero
rimasta tutta la notte davanti al computer per
poter finire il lavoro da consegnare la mattina seguente e, neanche a
dirlo,
non avevo chiuso occhio. Quei maledetti scatti mi avevano portato via
più tempo
di quanto avessi immaginato e, a dirla tutta, non avevo fatto tutto
questo gran
lavoro: quella maledetta pallina da tennis mi sfuggiva prima che
riuscissi ad
inquadrarla. Sperai solamente che, andando avanti con il tempo, non mi
venissero più commissionati servizi su quel dannatissimo
sport. E mi sarei
dovuta presentare in redazione, alla direttrice tanto per cambiare, in
uno
stato a dir poco orrendo, con le occhiaie ed i capelli ancora a dir
poco
scombinati dalla sera prima.
La
sera prima… ancora a pensarci mi vengono i
brividi.
Non
avrei mai immaginato che Travis potesse aver
passato un inferno simile, lui che mi è sempre sembrato
sicuro si sé e con la
coscienza a posto, ma avevo completamente sbagliato su di lui: mi aveva
lasciata senza parole, a dir poco, soprattutto per la tragedia a cui
aveva
assistito quando era poco più che un ragazzino ed era stato
brutto, angosciante
ascoltare tutto il resoconto della sua vita, di come sua madre si fosse
comportata letteralmente di merda, ma non ero riuscita a fermarlo.
Volevo
sapere di più, e non perché fossi avida di
informazioni, ma perché per una
volta volevo davvero capire per quale motivo Travis fosse diventato
quello che
era. Ed era stato anche peggio, probabilmente, vederlo incolpare
sé stesso per
la morte del padre, per qualcosa che ancora nessuno purtroppo riesce
davvero a
controllare, a fermare.
Non
lo avevo mai visto, sentito così disperato,
triste e così bisognoso di qualcuno che gli stesse accanto,
e sapere che in
quei dieci anni l’unica persona su cui riuscì a
fare affidamento fu mio padre,
non faceva altro che intristirmi ancora di più.
Perché era solo, nonostante
sembrasse l’amico di tutti, in palestra, l’atleta
che tutti prendono da
esempio, ma quella sera era stato solamente Travis, solamente un
ragazzo che
ancora soffriva per la morte dell’unica persona che lo avesse
incoraggiato e
spronato, prima che cominciasse davvero ad impegnarsi nel nuoto.
Mi
aveva distrutta, quella rivelazione, in un certo
senso, forse perché non ero per niente pronta a scoprire un
particolare simile
della sua vita, perché non me lo aspettavo affatto. E
vederlo così indifeso mi
aveva fatto sorgere mille dubbi, nella mia testa.
Non
ricordo nemmeno quanto tempo passò prima che
sciolse quell’abbraccio, tanto stretto da farmi mancare il
fiato. Ma non avevo
accennato a muovere un muscolo, capivo quanto ne avesse bisogno;
così restai
lì, con le costole strette dalle sue braccia, il respiro
mozzato dalla sua
forza e i brividi che sembravano essere passati dal suo corpo al mio.
Poi si
era distaccato da me lentamente, continuando ad osservare attentamente
la prima
maglia che ero riuscita ad indossare, quella con una miriade di disegni
senza
alcun senso; non aveva il coraggio di guardarmi in faccia, lo avevo
capito sin
da subito, e non ne capivo davvero il motivo, ma forse
l’orgoglio maschile
rappresentava n ostacolo troppo grande per essere superato
così
tranquillamente. Così continuai a giocare con i suoi capelli
alla base della
nuca, studiando tutte le emozioni che passarono sul suo viso, gli occhi
assenti
e l’espressione triste, e mi resi conto di provare una gran
pena nei suoi confronti.
Poi
finalmente trovò le forze di alzare gli occhi e
di trovare i miei, e tentai inutilmente di sorridergli, di fargli
capire che
andava tutto bene in un certo senso, ma non sembrava vedermi davvero,
lui.
Sembrava perso, forse come il ragazzino di diciassette anni che si era
occupato
del padre malato di cancro e che lo aveva visto morire senza poter
davvero fare
qualcosa di utile.
Mi
chiesi come potesse sembrare Travis, a
quell’età, se i suoi occhi fossero stati
già vispi e sfrontati già allora oppure
se fossero diventati così con il passare degli anni.
“Forse dovrei
tornarmene a casa”, aveva mormorato, guardandomi
negli occhi.
E
non me la ero proprio sentita di lasciarlo andare
in quello stato, perché si vedeva lontano un miglio quanto
fosse ancora scosso
da tutto quello che mi aveva detto, che aveva rivangato. Sarebbe stato
come
sbattere fuori di casa un cucciolo impaurito, e sarebbe stato meschino.
Così
nemmeno ci avevo pensato su quando, in risposta, gli dissi di restare.
Mi era
uscito naturale e, in un certo senso, non me ne ero pentita,
perché sapevo che
era la cosa giusta da fare.
Non
era in grado di restare da solo, quella sera, e
nonostante mi sembrasse una cosa davvero strana interpretare quella
parte, di
quella che arriva in salvo dopo una storia strappa lacrime, non avevo
potuto
fare altrimenti. E non era per fare del perbenismo, non era per
mettermi in
luce con Travis, era semplicemente perché ormai avevo
imparato a conoscerlo e,
in quello stato, non lo avevo mai visto e mi preoccupava.
Poi
aveva cominciato a baciarmi con una
disperazione tale da farmi venire la pelle d’oca sul tutto il
corpo e fu come
se lui se ne accorgesse, perché tornò a
stringermi come aveva fatto poco prima
e la miriade si sensazioni che provai quasi mi investirono come un
treno in
corsa. Era urgenza, quella, urgenza di smetterla di pensare a tutto
quello che
gli era passato, urgenza di trovare un appiglio a cui aggrapparsi per
paura di
sprofondare in un luogo che avrebbe spaventato chiunque. E lui ne era
terrorizzato,
aveva una tale paura del suo passato che fu palese anche a me, che lo
conoscevo
a malapena sotto molti aspetti. Era urgenza e necessita di sentire il
suo corpo
attaccato al mio, di sentirsi una sola persona, di sentire qualsiasi
altra cosa
che non fosse il dolore in cui aveva vissuto negli ultimi dieci anni; e
faceva
male anche a me, che ero rimasta solamente spettatrice per pochissimo
tempo.
Neanche
a dirlo che anche il più ingombrante degli
indumenti sparì e, Travis ed io, finimmo come eravamo
abituati a finire quando
si presentata una situazione troppo difficile per essere affrontata.
Finivamo a
sotterrare i pensieri ed i dubbi tra le lenzuola, tra i cuscini, li
scacciavamo
via per paura che tornassero a tormentarci.
“Molto bene,
Maya”, disse la direttrice, facendomi tornare con
la mente al presente, nel
suo ufficio. “Te la sei cavata anche
questa volta e sono felice di vedere quanto tu possa essere versatile”.
Ed
io che pensavo di essere stata un disastro su
tutti i fronti, in quell’incarico che mi aveva portato via
più forze e sanità
mentale di quanto avesse fatto il servizio a Doha. Ed era tutto dire.
“Cerca di non
rilassarti troppo, però, ho già in mente qualcosa
che potrà pesare parecchio
sul tuo curriculum e che ti renderà ancora più
nota di quanto tu non sia già
ora”, continuò, lei, lanciando un ultimo
sguardo alle fotografie che aveva
sparso per la scrivania. Il fatto che lei credesse che fossi nota in
quell’ambiente mi rendeva nervosa perché,
sì, avevo preso parte ad alcuni
servizi ed articoli che erano andati molto bene e, il più
delle volte, i miei
scatti non erano affatto male, ma non credevo di essere arrivata tanto
lontano
e, soprattutto, di essermi già fatta un nome, se non negli
uffici della
rivista. “Abbiamo in mente un
articolo
sul compagno di squadra di Travis, Luca, per il prossimo numero. Alla
fine,
dopo i mondiali a Doha, ci sono arrivate alcune richieste per avere una
storia
su di lui e su come sia arrivato fino a quel punto dato che, in fin dei
conti,
resta ancora un po’ sconosciuto; così abbiamo
pensato di accontentare quelle
richieste e di puntare su di lui, giusto per un breve articolo per ora,
ma le
tue fotografie dovranno essere fondamentali”.
Non
mi sembrava vero. Ero riuscita finalmente a
distaccarmi dal nuoto – nonostante mi riuscisse molto
più naturale immortalare
quello sport –, a sentirmi quasi indipendente e lontana da
quell’ambiente e
sentirmi dire che mi era stato
commissionato un altro servizio del genere mi faceva venire la nausea.
Soprattutto se il soggetto in questione era Luca, per cui non nutrivo
una
particolare simpatia. Mi sarei fatta andare bene addirittura un altro
servizio
fotografico a Travis e con Michele sarei stata la donna più
felice sulla faccia
del pianeta, ma con lui proprio no. “Posso
sapere per quale motivo avete scelto proprio me?”,
mi azzardai a chiedere,
stringendo i pugni.
“Perché,
Maya, ti sai muovere bene con quello sport, perché conosci
già il soggetto da
quanto mi han detto e perché conosci anche
l’ambiente a cui è legato”,
rispose, lei, palesemente seccata. “Inoltre,
comporterà un compenso niente male, soprattutto per essere
una trasferta”.
“Una
trasferta?”, domandai confusa.
“Sì; dato che
i nostri lettori vogliono conoscere la storia di Luca, abbiamo deciso
di
ambientare il servizio fotografico in un luogo che potesse richiamare
le sue
origini, ecco perché tu andrai, insieme ad una piccola
equipe e al nostro
soggetto, in Puglia, nel paesello sul mare dove è cresciuto
Luca”.
Mi
sarebbe caduta a terra la mascella,
probabilmente, se non fosse stata attaccata alla testa e non ci avrei
visto
nulla di sbagliato. Perché, davvero, quella notizia era
tutt’altro che
piacevole, oltre che inaspettata.
Avevo
intravisto qualche volta Luca, in piscina, e
lo avevo visto spesso e volentieri intento a pavoneggiarsi in giro e,
quando
Simona rallegrava tutti quanti della sua presenza, lo avevo visto
interpretare
la figura del marpione in un modo del tutto naturale, oltre che
sfacciato. E
Michele me ne aveva parlato, varie volte, ed avevo scoperto che era
diventato
anche di Travis, dopo i mondiali a Doha. Che si fosse montato la testa
era
palese, ormai, ma che si sentisse così padrone di
sé stesso da permettersi
distrazioni e comportamenti simili era assurdo. “In… in Puglia?”.
Ero
terrorizzata, ed il fatto che saremmo stati in
una cerchia ristretta a viaggiare non mi faceva stare per niente
tranquilla.
Avrebbe potuto comportarsi con me nello stesso modo con cui aveva fatto
con
Simona, lui, e non mi sarebbe andato affatto giù,
soprattutto perché lo vedevo
come il perfetto pallone gonfiato da rivista patinata e sapevo che, con
quel
servizio fotografico, non avrebbe fatto altro che montarsi
ulteriormente la
testa.
“Si, Maya,
hai capito bene. Luca è cresciuto in un paesino delizioso,
davvero, a Torre
dell’Orso ed è incredibile che, per i pochi
abitanti che ha, proprio uno di
loro si stia facendo strada a livello internazionale”,
continuò, lei,
guardandomi come se non capissi il colpo di fortuna che mi era
capitato, ma se
avesse saputo tutti i particolari, probabilmente, avrebbe capito lei,
la verità
su quella situazione. “Sarà
una settimana
emozionante, te lo posso assicurare, soprattutto perché lo
vedo come una
location molto interessante e caratteristica e spero che tu riesca a
farti
valere anche in questa occasione”.
Che
fosse una notizia catastrofica, quella, lo
avevo capito al volo, ma venire a sapere che avrei dovuto passare
un’intera
settimana dispersa chissà dove con un soggetto come quello
che ero costretta a
fotografare era davvero troppo. E la consapevolezza di non poter far
nulla per
risparmiarmi qualcosa, di quella specie di punizione, era la notizia
peggiore,
perché avrei tanto voluto scappare da quel posto e da
quell’incarico che
incombeva come un’ombra sulle mie spalle. Una settimana con
il provolone per eccellenza.
Poteva anche essere paradisiaco, il luogo in cui saremmo dovuti andare,
che non
mi sarebbe importato gran ché, era la compagnia a lasciare
davvero a
desiderare.
Fu
come rivivere un flashback, come quando venni a
sapere della trasferta a Doha e mi resi conto di come le cose fossero
cambiate,
da quel momento, perché adesso riuscivo a sopportare la
presenza di Travis
quasi senza problemi, Simona me la sarei fatta andare bene in ogni
caso, avrei
evitato di ascoltare i suoi discorsi vuoti e di considerarla, ma la
tenacia e
la testardaggine di Luca mi spaventavano. Soprattutto quando si
trattava di
donne.
“E quando
dovrei partire, esattamente?”, domandai, cercando
di regolare la mia voce
che continuava a tremare.
“Tra dieci
giorni, così avrai tutto il tempo necessario per prepararti”,
rispose,
secca, lei, controllando qualcosa al computer. Fu come se non
esistessi, in
quella stanza, con quella donna glaciale che si faceva gli affari suoi
e mi
rispondeva a stento. Certo, era dannatamente brava nel suo lavoro, ma
aveva una
capacità di relazionarsi amichevolmente con gli altri pari a
zero. “E quando uscirai da questo
ufficio, fermati
nella hall a ritirare tutta l’attrezzatura che ti ho
assegnato per l’incarico.
Portala a casa e fai alcune prove, giusto per tenerti in allenamento”.
Aveva
già pensato a tutto e sapeva che non avrei
potuto dire di no a quell’opportunità che mi stava
proponendo su un piatto
d’argento, sapeva che non avrei avuto il coraggio
perché capiva quanto tenessi
alla mia carriera e al mio lavoro. Così me ne andai a testa
bassa da quel posto
che cominciavo a detestare, per tutte le botte nei denti che continuava
riservarmi. Ancora non capivo se fossero più le delusioni o
le gratificazioni
che mi regalava.
Ritirai
i borsoni con l’attrezzatura che mi era
stata assegnata e me ne tornai a casa senza dire una parola, ero troppo
scioccata per poter anche solo parlare. Improvvisamente, la voglia di
passare
una serata carina, diversa dalle altre, mi era improvvisamente passata,
sotterrata chissà quanti metri sottoterra. E il ricordo di
ciò che aveva detto
Travis non aiutava affatto, l’idea che lui dovesse andarsene
in giro con Simona
per chissà quale articolo era a dir poco assurda, oltre che
fastidiosa. E non
poteva essere fastidiosa, quell’idea, dannazione!
Perché avrebbe implicato un
qualche tipo di legame che, ovviamente, non esisteva affatto, ma forse
era
stata la sera precedente a cambiare le carte in tavola.
No,
non cambiava nulla! Eravamo abbastanza grandi
per decidere di divertirci come più ci piaceva e quello era
il risultato; che
poi la sera prima fosse degenerata in qualcosa di inaspettato, era
assolutamente superfluo.
Mi
ero ritrovata a casa, per il resto della
giornata, a provare l’attrezzatura, a mangiarmi le mani per
colpa del
nervosismo che si ostinava a non lasciarmi andare e a chiedermi, verso
sera,
come stesse procedendo la cena tra Simona e Travis. E mi sarei presa a
schiaffi
nel momento stesso in cui mi resi conto di come la mia mente finisse a
pensare
certe cose con una semplicità disarmante, perché
non mi doveva importare
affatto, dovevo fregarmene come lui faceva con me, la maggior parte
delle
volte.
Però
non riuscivo a smettere di pensare a quello
che era successo la sera prima, quando lui aveva finalmente deciso di
aprirsi
con me. Non che ne fossi particolarmente contenta, ma avevo capito che
gli
aveva fatto bene in un certo senso, nonostante non dovesse essere stato
facile
rivangare in quel modo un passato simile. E mi era sentita una
privilegiata,
più o meno, perché non poteva raccontare una
storia del genere al primo che gli
passava accanto, no? Insomma, per quanto potesse essere strano quel
nostro
rapporto, quello era stato un gran passo avanti, la dimostrazione che
oltre al
sesso non più tanto occasionale e le discussioni, eravamo in
grado anche di
resistere ad argomenti seri e, soprattutto, se uno aveva un problema
l’altro
era lì pronto ad ascoltarlo. Più o meno.
Era
successo tutto così improvvisamente, dal nulla,
che nemmeno io sapevo più cosa pensare e la testa cominciava
a farmi male, per
i troppi dubbi che erano nati in quelle ultime ventiquattro ore.
Mi
chiusi nella mia camera oscura per non so quanto
tempo, sperando di riuscire a prendere sonno grazie al buio pesto e
alla
tranquillità di quella stanza, nonostante fossi seduta per
terra, con la
schiena contro la porta. Ma la mia mente non ne voleva sapere di
lasciarmi
stare, di placarsi per potermi dare un attimo di tregua e, se nemmeno
quella
stanza in particolare riusciva a darmi pace, dovevo davvero essere
messa male.
Ma
non potevo, non potevo davvero, perché avrebbe
significato troppe cose che mi spaventavano in un modo incredibile.
Solamente
dopo che riuscii a decidermi ad uscire di
lì mi resi conto che era quasi notte fonda, troppo tardi
perché potesse esserci
qualcosa di decente in tv o perché potessi mettermi a
leggere qualcosa; così
presi uno dei dischi della mia “collezione” e misi
su un po’ di musica,
sperando che potesse calmarmi. Insomma, se nemmeno del buon jazz
riusciva a
placare l’oceano in tempesta che era diventato la mia mente
avrei dovuto
preoccuparmi seriamente.
Il
giorno dopo mi ero risvegliata uno straccio.
Ancora una volta, e non ne potevo davvero più di quella
catena che sembrava non
avere fine; sembravo un’anima in pena che girovagava per il
proprio appartamento
senza un fine vero e proprio e nemmeno la massiccia dose di caffeina
che decisi
di concedermi mi aiutò a darmi una sonora svegliata.
Ero
rimasta per tutta la sera precedente sdraiata
sul letto ad arrovellarmi cervello e fegato, in una sorta di battaglia
bipolare
della mia mente che, a seconda dei momenti, si dava addosso con
pensieri e
punti di vista differenti. Ero patetica, fine della storia.
Quel
giorno, poi, sarei dovuta andare alla piscina
per avvisare mio padre delle novità, ma la prospettiva di
incontrare Luca e,
quindi, finire a parlare della settimana che avremmo passato insieme in
Puglia
oppure Travis, mi faceva venire il voltastomaco. Però mi
sembrava davvero
assurdo e stupido riferire tutto a Claudio con una semplice telefonata.
Così,
anche di prima mattina, mi ritrovai a combattere contro me stessa in
una
battaglia che avevo già perso in partenza.
Misi
su altra musica, rock ‘n roll anni cinquanta
per riuscire a smuovere un po’ l’ammasso di
tristezza ed occhiaie che ero
diventata, ma sembrava non esserci nulla da fare. E, in un momento di
incredibile noia, durante il tardo pomeriggio mi ritrovai a telefonare
a
Travis, quasi senza rendermene conto.
Ma
che cazzo sto facendo!?
“Ehi”,
rispose, dopo alcune squilli, lui. E avrei tanto voluto che non lo
facesse,
perché ero una codarda senza precedenti, la persona che
avrebbe immediatamente
chiuso quella dannatissima telefonata se non fosse passata per una
perfetta
idiota.
Silenzio.
Mi sentivo bloccata da chissà quale
sensazione, imbambolata com’ero seduta sul divano, non sapevo
che dire.
“Maya, tutto
bene?”, chiese, poi, dopo altri istanti passati in
assoluto mutismo.
“Sì, cioè…
credo di sì”, biascicai, in risposta.
“In
realtà non lo so”.
“Mi fa
piacere sentirti sempre così decisa”,
rise, prendendomi in giro, l’idiota.
Perché era un idiota fatto e finito se credeva di
abbindolarmi con le sue frasi
ad effetto, perché se davvero pensava che mi sarei lasciata
distrarre da
quattro parole incastrate alla perfezione si sbagliava di grosso.
“Allora”,
cominciai, animata da chissà quale coraggio. “Deduco che dall’allegria della tua voce
la cena di ieri sera sia stata
un successone”.
Mi
sarei voluta scavare la fossa con le mie mani,
dopo quelle parole, perché mi erano uscite di getto e senza
che ci potessi pensare
su. Ed ero una stupida, una vera stupida, perché sapevo che
comportandomi in
quel modo non avrei risolto assolutamente nulla, non avrei fatto
passare i
mille dubbi che continuavano ad affollarmi la mente e, di certo, non
avrei
fatto passare le ondate di rabbia e nervosismo che mi investivano ogni
volta
che tornavo a pensare alla serata precedente, quando io vagavo senza
motivo per
il mio appartamento, mentre lui se ne stava bello in tiro in un
ristorante con
Riccioli d’Oro. E sentivo di non dover provare tutte quelle
emozioni, quel
misto di sensazioni che mi mandava il sangue alla testa,
perché avevo la netta
sensazione che non avrebbero portato nulla di buono, nulla di concreto,
nulla
che avrebbe potuto soddisfarmi davvero.
“Ieri sera?”,
domandò, il finto tonto, come se fosse davvero sorpreso
dalla mia domanda. “Ah
sì, beh non è stato niente male; la cena
un po’ banale, ma… diciamo che poi la situazione
è migliorata nettamente”.
Era
uno stronzo.
Ed
io avevo avuto la conferma di come avessi
sbagliato a riporre in lui anche solo un briciolo di speranza, quella
che era
nata quando avevo rimuginato per ore sul fatto che lui avesse
raccontato del
suo passato, di come avesse sofferto. Ma più di tutto era
stato il suo
comportamento a destabilizzarmi completamente, ad annientarmi,
perché mi era
sembrato davvero sconfitto, quella sera, davvero distrutto e si era
lasciato
abbracciare da me come mai aveva fatto, come se avesse davvero bisogno
di quel
contatto.
Ma
mi ero sbagliata, completamente, perché era tale
e quale a Luca, lui. Se non peggio, perché almeno
l’altro lo faceva solamente
per un puro piacere fisico, mentre lui aveva messo in gioco troppo ed
aveva
lasciato che, spesso e volentieri, io giocassi le mie carte, perdendo
troppo di
me stessa.
“Non avevo dubbi,
sai”, sputai, inviperita. Forse più con
me stessa che con lui, perché alla
fine non aveva fatto nulla di male, lui, ad andarci a letto, con
Simona. Ce lo
eravamo ripetuto non so quante volte che, tra noi, non c’era
alcun legame,
alcun vincolo. Avevamo deciso di restare come sospesi
nell’aria, senza doverci
dare una vera e propria definizione, per puro divertimento. E mi faceva
davvero
incazzare la rabbia che sembrava volermi divorare viva,
perché non avevo il
diritto di provarla e perché era sbagliato. “Almeno, prima di tornare da me la prossima volta,
va in ospedale a fare
qualche test. Sai, non vorrei dovermi beccare una qualche malattia
venerea”.
E
non sapevo più cosa stavo dicendo, cosa stavo
pensando. Ero completamente andata, fottuta da quella sensazione
terribile che
mi faceva tremare le mani.
“Certo che no
ti smentisci mai, tu”, ribatté, la voce
innervosita dal mio comportamento.
E
lo sarei stata anche io, cazzo, perché mi stavo
comportando come una bambina, quando mi ero sempre ripromessa di
cercare di non
cadere troppo in basso, di non lasciarmi coinvolgere dagli eventi ed
avevo
sbagliato su tutti i fronti.
“Almeno, per
quanto riguarda la finezza, da una come Simona potresti imparare
davvero tanto,
sai?”.
Quello
era davvero troppo perché, se io avevo
sbagliato senza rendermene conto, lui stava davvero esagerando
venendomi a dire
quelle cose. Perché sapeva quanto non sopportassi quella
ragazza ed i suoi
atteggiamenti da prima donna, come se fosse lei l’unica al
mondo. Lei non era
nessuno e neppure Travis, tanto per cambiare, per venire a dirmi cose
del
genere.
“Penso che
una come lei sia ferrata su argomenti tutt’altro che fini, se
vogliamo dirla
tutta”, continuai, cominciando a camminare avanti e
indietro per il salotto
come una forsennata. “E comunque non
ti
ho chiamata per parlare di quella… di lei; volevo avvisarti
che nei prossimi
giorni non sarò molto presente: tra nove giorni devo partire
per una trasferta
in Puglia con il tuo caro amico Luca”.
Silenzio.
Ancora una volta, ma almeno in quell’occasione
non ero io ad essere rimasta senza parole. E fu quasi una sorta di
rivincita
sentire come, con una notizia del genere, fossi riuscita a zittire quel
pallone
gonfiato che era in realtà Travis. Per una volta era rimasto
senza parole,
senza le sue solite frecciate con cui controbattere.
“Una
trasferta? Con Luca?”, domandò, poi,
incerto, con la voce che mi risuonò
quasi disgustata quando pronunciò il nome del suo compagno
di squadra.
“Le ore sott’acqua
ti hanno rovinato l’udito oppure hai fatto urlare Simona
troppo a lungo?”,
gli chiesi, ironica. Nonostante in me, di ironico, in quel momento ci
fosse
davvero molto poco. “Sì,
la rivista vuole
un servizio su Luca e lo vogliono ambientare da dove è
partito, quindi nel suo
paese d’origine ed ecco perché per una settimana
me ne andrò in Puglia con lui
e qualche membro dello staff”.
Lasciai
perdere il fatto che, la permanenza in
luogo completamente sconosciuto, con uno come Luca mi spaventava a dir
poco,
non meritava di saperlo ed io non volevo assolutamente mostrarmi
più debole di
quanto già non mi sentissi. Lasciai perdere il fatto che mi
spaventasse quell’incarico
in sé, perché improvvisamente mi sentii una
perfetta incapace pronta ad alzare
bandiera bianca.
“Ti sento
parecchio entusiasta”, mormorò, lui. E
non seppi come interpretare quel suo
tono di voce, se sconfitto oppure infastidito, ma mi imposi di non
pensarci
troppo su perché avevo ben altro a cui pensare e, quella
facciata da stronza
che avevo ritirato su, doveva restare in bella mostra. Almeno per il
tempo di
quella telefonata.
“Certo, cosa
credi?”, cominciai, passandomi una mano tra i
capelli. “Un’opportunità
del genere non me la lascio
scappare e poi avrò la possibilità di visitare la
Puglia, e per fortuna che ci
sarà uno come Luca che, almeno, mi farà da guida”.
“Attenta che
il suo itinerario non finisca in qualche letto”,
sputò, lui, decisamente
più infastidito di quanto non fosse già prima.
“E anche se
fosse?”, azzardai.
Avevo
paura della sua reazione, in un certo senso, perché
sapevo quanto si potesse scaldare alcune volte, soprattutto se si
cominciava a
parlare dell’altro ragazzo che, tanto per cambiare, non
sopportava.
“Sei libera
di fare e di farti chi cazzo ti pare, Maya, esattamente come lo sono
io, ma
almeno a me questo particolare mi è sempre stato ben chiaro
in mente”,
disse, infine, con voce piatta. E fu come una stilettata allo stomaco,
quel suo
tono indifferente, menefreghista; ed ebbi ancora una volta la conferma
di come
mi fossi sbagliata sul suo conto, perché stava tornando
fuori lo stesso Travis
dei primi tempi in cui lo avevo conosciuto, lo stronzo che se ne frega
altamente degli altri e cammina pestando tutto ciò che trova
sul suo cammino. Avrei
dovuto saperlo, ma avevo sperato che fosse una persona diversa ed avevo
preso
un abbaglio colossale.
“Lo è anche
per me, idiota, infatti cercherò di vivermi ogni momento di
quest’esperienza”,
ribattei, sentendomi velenosa come non mai. “Vorrai
scusarmi, ma ora ho altro da fare piuttosto che continuare a
discutere con te al telefono”.
“Sia mai che
sprechi minuti preziosi a parlare con uno stupido come me, mi sentirei
troppo
in colpa”, rispose, Travis, con una risata ironica
prima di riattaccare il
telefono, lasciandomi un attimo interdetta.
Aveva
avuto anche il coraggio di privarmi di quel
privilegio, di poter porre fine a quella malsana conversazione che
avevamo
appena avuto. Che poi, quando mai noi siamo riusciti a parlare in modo
civile,
come due persone normali? Mai, ecco quando e quella era solamente
un’altra
occasione che andava ad ammucchiarsi al resto.
E
mi sentii improvvisamente svuotata, senza forze e
priva della benché minima briciola di intelligenza,
perché mi ero appena
comportata come una perfetta e completa idiota, io che avevo sempre
cercato di
essere sempre giusta, sincera. Avevo appena dato un immenso calcio nel
culo a
tutti quelli che erano stati i miei principi, e per cosa poi!? Per non
sentirmi
inferiore a Travis che, come sempre, riusciva a superare ogni sua
situazione,
poco importava come ne uscivano quelli che cercavano di combattere
contro di
lui. Per non sentirmi una bambina a mostrarmi indifesa ed impaurita per
una
cosa che non avrebbe dovuto spaventarmi affatto, ma che avrebbe dovuto
farmi
crescere solamente la voglia di combattere per far vedere al mondo
intero chi
sono e cosa valgo.
E
non potevo davvero scoppiare a piangere, non in
quel momento e non dopo quello che era successo. Nemmeno una singola
lacrima
sarebbe dovuta crollarmi dagli occhi, altrimenti quella a crollare
sarei stata
io, poi. E non potevo permetterlo, non a pochi giorni da
un’impresa che mi
sembrava a dir poco titanica.
Doha,
in confronto, era niente!
Fu
quasi istintivo alzare il volume del giradischi
e chiudermi nella mia camera oscura. Istintivo ed assurdo
perché,
fondamentalmente, non aveva alcun senso quel mio comportamento, ma
avevo
bisogno di un attimo di pace, di momento di calma e
tranquillità che non mi
sembrava di scorgere da alcuna parte, solo nella
quotidianità che pareva farsi
sempre più lontana, divertita dal fatto che la avessi
praticamente appena
mandata a puttane senza alcun ripensamento.
*****
Buonasera,
bellezze!
Incredibile,
ma vero.. questa volta sono riuscita a non ridurmi all'ultimo a
pubblicare e - momento epico - non vi ho fatto aspettare più
di un mese per il seguito. Mi sento un po' più fiera di me..
Allora,
allora: capitolo pesantuccio, questo! Oltre che lunghissimo come gli
ultimi (se non di più) lo reputo pesante per ciò
che tratta, soprattutto nel POV di Travis, ma era ora che il suo
passato venisse fuori e.. TA DAAN! Ecco il significato del tatuaggio!
E'
davvero molto importante, per lui, e spero di aver fatto trasparire
questo particolare perchè, a questo momento della storia,
tengo davvero tantissimo. E spero davvero con tutta me stessa di averlo
descritto al meglio.
Poi..
dolcezze, novità, disastri (tanto per cambiare). Un capitolo
bello denso di eventi!
Che
ne pensate, voi? Vi prego, fatemi sapere qualsiasi cosa, dal semplice
commento alla recensione infinita. Mi sembra di essere una bambina a
Natale ed ho bisogno di sapere se, almeno per questa volta, ho fatto un
buon lavoro!
PICCOLA,
GRANDE NOVITA'..
Dato
che mi è stato chiesto, ed ammetto che già da
tempo ci stavo pensando su, ho creato un gruppo chiuso su Facebook per
chi volesse rimanere aggiornato su come procedono i vari capitoli, su
novità, qualche spoiler, i volti dei nostri personaggi..
insomma, tutto! Lo vedo molto come un buon mezzo per tenermi in
contatto con voi!
Mi
trovate qui: Born
to Run.
Mi raccomando, entrate così avrò la
possibilità di conoscervi meglio e di lasciarmi conoscere!
Detto
questo, voglio ringraziare tutte voi come sempre! Chi lascia
recensioni, chi si limita a mettere la mia storia tra le proprie
seguite/preferite e chi legge soltanto! Grazie davvero
perchè, probabilmente, andrei avanti davvero a fatica senza
di voi!
Alla
prossima, un abbraccio,
Chiara
p.s: Poi arriverà il momento in cui vi spiegherò
il motivo del nome del gruppo! :)
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Capitolo 24 *** 23 - Distance ***
*****
Per
quale motivo, poi, avevo deciso di accettare
quell’incarico? Non che mi fosse stata data altra scelta,
giustamente, ma se
avessi potuto avrei preferito concentrarmi su altro e su un soggetto
completamente differente perché, più si
avvicinava il giorno della partenza e
più io cominciavo ad andare nel panico più
totale. Ed era anche un compito
semplice, alla fine, ma non capivo per quale motivo mi sentissi
così incapace e
fuori luogo, per non parlare di quella sottile paura che mi invadeva
ogni volta
che cominciavo a come sarei potuta sopravvivere a quella settimana con
Luca.
Speravo
solamente che, almeno nei pochi membri
dello staff che mi avrebbero affiancato, ci fosse qualcuno di compagnia.
Non
avevo avuto molto tempo per fare altro, prima
di andare in Puglia, se non prepararmi e passare ad aggiornare mio
padre alla
piscina. Ed era stato un supplizio entrare lì dentro ed
attendere che Claudio
finisse di riprendere un gruppetto di ragazzi per chissà
quale cosa. Un
supplizio soprattutto per colpa degli occhi di Travis che sentivo
addosso,
puntati alla schiena. Non avevo intenzione di voltarmi né
tantomeno di
rivolgergli la parola, non ce l’avrei fatta a mantenere la
calma e, in quel momento,
avevo bisogno dei miei nervi saldi per non impazzire davanti a mio
padre.
Era
difficile nascondere una cosa simile a lui, ma
se gli avessi raccontato anche solo un minimo particolare avrebbe
cominciato ad
insospettirsi, a fare sempre più domande ed io non avrei
retto e,
probabilmente, gli avrei raccontato tutto – beh proprio tutto
no, ovviamente –
e lui sarebbe andato su tutte le furie. Così avevo preferito
tacere e mentire
più a me stesa che a lui, facendo finta che non fosse
davvero accaduto nulla di
particolare. Ma l’insistenza dello sguardo di quel maledetto
pallone gonfiato
che sentivo tra le scapole era davvero insopportabile.
Poi
mi si affiancò Luca che cominciò a straparlare
come al solito di come avrei amato il suo paese, il mare e tutto
ciò che poteva
esserci in Puglia, e di come lui sarebbe stato la guida turistica
perfetta, nei
miei confronti. E non me ne poteva importare di meno, in tutta
sincerità,
perché probabilmente mi sarei limitata ai servizi
fotografici per la rivista
poi mi sarei chiusa nella mia stanza d’albergo, nulla di
più.
Per
fortuna, Roberto richiamò Luca all’ordine,
mandandolo a fare altre vasche lontano da me e, finalmente, vidi mio
padre
avvicinarsi a me, con il suo solito sorriso sul volto.
Così
gli raccontai ogni cosa e lui, tanto per
cambiare, ne fu schifosamente entusiasta, perché è un’occasione irripetibile,
disse lui. Ed io, invece, ne avrei
fatto volentieri a meno. Ma nessuno sembrava capirlo, tantomeno lui che
sprizzava gioia ed orgoglio da tutti i pori e, probabilmente, se avessi
deciso
di abbandonare l’incarico avrei rappresentato
l’ennesima delusione, per lui.
Quindi tanto valeva tenere la testa bassa e continuare per una strada
che non
volevo assolutamente percorrere. Continuò anche lui a
straparlare su come mi sarebbe
piaciuta sicuramente, quell’esperienza, e di come sarei
potuta crescere ancora
di pi per quanto riguardava il lavoro, ma non stavo nemmeno ad
ascoltarlo, io.
Erano sempre le stesse parole che mi rifilava ogni volta che lo
informavo di un
nuovo incarico, e cominciava davvero ad essere monotono, lui. Nemmeno
se ne
accorgeva, poi.
Cercai
di andarmene il più in fretta possibile,
interrompendolo a metà delle sue parole di incoraggiamento,
praticamente
scappando da quel luogo, da quell’odore di cloro che aveva
cominciato a farmi
venire la nausea e da quel paio di occhi che continuava a scorticarmi
la
schiena.
Era
tutto stramaledettamente pronto. Tutto tranne
la sottoscritta, che non faceva altro che girovagare per casa in cerca
di
qualcosa di cui, in realtà, non aveva bisogno. Un motivo ben
preciso c’era, se
avevo deciso di preparare la valigia giorni prima della partenza, e
quella ne
era la prova. E fu quasi assurdo rendersi conto di come, Torre
dell’Orso, mi
arrivò alle calcagna senza che me ne rendessi minimamente
conto perché, sì, ero
arrivata con quei pochi membri dello staff che mi ero stati affiancati
e di
Luca nemmeno l’ombra. Almeno mio padre aveva avuto
l’accortezza di avvisarmi la
sera prima di come, di punto in bianco, dopo l’allenamento il
nuotatore fosse
partito per il suo paese natale, senza rendere partecipe nessuno di
quella
notizia. Avevamo già cominciato con il piede sbagliato, ma
cercai in ogni caso
di non pensarci oltre.
Certo,
quel paesino sembrava una meravigliosa
briciola di mondo, ma non migliorava affatto la mia situazione e
nemmeno quello
che avrei dovuto passare per un’intera settimana. Il mare che
si stagliava
davanti alla costa era a dir poco invitante, con quel colore intenso e
limpido;
sembrava irreale trovarsi lì, se non fossero stati per i
borsoni delle
attrezzature e per l’ansia che non accennava a diminuire.
Avrei preferito di
gran lunga passare alcuni giorni sulle spiagge che erano state scelte
per il
servizio a poltrire, tra acqua e sole, invece che dover lavorare in un
posto
simile.
E,
ovvio, mi trovavo in un angolo di paradiso e, tra
l’altro, era per lavoro, ma la compagnia lasciava davvero a
desiderare.
Soprattutto se mettevo in conto che proprio Luca rientrava nella
categoria dei
più simpatici del momento. Ed era davvero strano rendersi
conto di come mi ero
ridotta a creare nella mia mente dei compartimenti stagni dove gettare
la gente
secondo i miei gusti, ma in quei giorni fu proprio così.
I
membri della troupe che mi avevano accompagnata erano
degli asociali, in realtà, diffidenti da far spavento e, con
ogni probabilità,
anche muti dato che nemmeno all’arrivo
all’aeroporto si erano disturbati a dire
una sola parola come saluto. Solamente una ragazza, Mara, aveva avuto
il
coraggio di farsi avanti per il resto del gruppo e di salutarmi,
chiedendomi
addirittura come stessi. Un miracolo, praticamente. Non che mi
lamentassi,
capiamoci: la solitudine, nel novanta per cento dei casi, faceva sempre
al caso
mio e quell’esperienza non era da meno; tuttavia vedere che,
almeno ad una
persona, ispiravo fiducia non era affatto male.
Solamente
dopo esserci sistemati nell’albergo ed aver
ritrovato Luca – ammiccante come sempre – ci
rendemmo conto che, se avessimo
voluto rispettare le scadenze ed i giorni disponibili per il servizio
fotografico,
avremmo dovuto cominciare quel pomeriggio stesso con le fotografie al
mare. Non
prima di esserci concessi un bagno.
Non
era proprio il clima ideale, per essere a metà Marzo
più o meno, ma quella distesa d’acqua
così limpida, pura ed invitante era una
tentazione troppo grande a cui poter resistere. Così Luca,
Mara ed io ci
ritrovammo immersi nell’acqua fino al collo prima di
cominciare davvero a
lavorare. Avevo in dotazione anche l’attrezzatura subacquea,
ma non mi sembrava
la giornata perfetta per utilizzarla.
Il
resto della piccola troupe – tre personcine abbastanza
anonime – restarono seduti in spiaggia ad osservare la scena,
con
un’espressione a dir poco annoiata in volto. Erano due
ragazzi ed un’altra
ragazza, e nemmeno ricordavo i loro nomi, ma di certo loro non avevano
fatto
alcunché per aiutarmi in quell’impresa.
Ci
ritrovammo ad ascoltare Luca parlare del suo paese,
Mara ed io, incantate dall’immagine che potevamo scrutare
dall’acqua e dalle
parole del nuotatore, anche. Era un bel paesino, davvero, forse troppo
piccolo,
ma comunque suggestivo. Eppure, per qualche motivo, sentivo che mancava
qualcosa all’appello, qualcosa che probabilmente avrebbe
cambiato le carte in
tavola e migliorato nettamente la situazione, ma era troppo tardi per
restare a
pensare a cose del genere, dovevamo lavorare e riuscire ad ottenere
scatti
sensazionali per il servizio fotografico di Luca.
E
fu dannatamente facile, lavorare con lui, perché
stranamente sapeva ascoltare i miei consigli ed i miei accorgimenti.
Cosa che,
con la maggior parte dei soggetti con cui avevo avuto a che fare, non
era mai
successa.
Per
quel giorno avevo optato per delle semplici immagini
di lui seduto sulla spiaggia oppure in cammino per il bagnasciuga, con
lo
sguardo rivolto a me oppure al mare. Si era seduto sul moscone di un
bagnino,
ad un certo punto, Luca, e non avevo resistito nemmeno in
quell’occasione, così
avevo scattato e ne era uscita un’immagine semplice e
naturale, come quelle che
preferivo per servizi del genere. Se con l’articolo su di lui
dovevamo scoprire
le sue origini, allora anche le fotografie che lo avrebbero
accompagnato
sarebbero dovute restare sulla stessa lunghezza d’onda. Ed
era stato quasi
piacevole lavorare con lui, grazie anche all’aiuto di Mara
che continuava a
sdrammatizzare la situazione e a fare da tramite, il più
delle volte.
Così,
a serata inoltrata, riuscimmo a recuperare tutti i
nostri averi sparsi per quello squarcio di spiaggia e a tornare in
albergo,
seguiti da Luca che decise di accompagnarci. Aveva deciso di restare a
dormire
dai suoi genitori, lui, ed al suo posto avrei fatto lo stesso.
Ci
disse anche che, almeno una sera di quelle, eravamo
tutti invitati a casa sua e che sua madre aveva insistito per volerci
conoscere, dicendo di volerci preparare una cena con i fiocchi per
farci
conoscere la cucina pugliese. E non potemmo far altro che accettare,
nonostante
più della metà della troupe non si
dimostrò particolarmente d’accordo –
qualcuno a caso, eh – dicendo che saremmo stati presenti
molto volentieri.
Fu
Mara a convincere me, con quel sorriso imbarazzato che
sembrava contraddistinguerla. E non potei fare a meno di chiedermi se,
oltre
alla possibilità di gustarsi una buona cena, ci fosse
dell’altro sotto. Anche
perché quelle occhiate che continuava a lanciare a Luca non
mi convincevano per
niente. Perché sembrava un tipo a posto, lei, fin troppo
semplice per una
superstar come Luca, ed avevo il netto presentimento che avrebbe potuto
farsi
male, lei, cercando di andare dietro ad un tipo come lui. Non che
avesse mai
fatto nulla di male, ma Luca sembrava il perfetto esempio del solito
Don
Giovanni che fa cadere ai suoi piedi chiunque con la semplice forza di
un
sorriso accattivante. La bellezza ed il sorriso li aveva e li sapeva
usare alla
perfezione e, probabilmente, se non avesse cominciato a straparlare
quella
volta a Doha sarebbe accaduta la stessa cosa anche a me. Ma non mi ero
lasciata
ingannare, avevo già un nuotatore che mi creava una miriade
di problemi e mi
bastava.
Così
non potei fare a meno di chiedermi cosa stesse
facendo Travis in quel momento, alla piscina oppure al suo
appartamento, mentre
cominciavo a prepararmi per una doccia veloce prima di scendere nella
sala
ristorante per la cena. Avrei potuto chiamarlo oppure anche solo
mandargli un
messaggio, ma il solo ricordo di come ci eravamo lasciati
l’ultima volta mi
faceva imbestialire, soprattutto con me stessa.
Perché,
seriamente, cosa credevo? Che uno come lui
accantonasse la sua indole per una come me con cui non aveva nemmeno un
vero e
proprio rapporto, al di fuori dell’ambito sessuale? Ero stata
una stupida, ecco
tutto; lasciandomi incantare dalle sue parole e dalle sue debolezze
avevo
lasciato che mi scavasse dentro ancora di più di quanto non
avesse già fatto,
ed era stato un errore di valutazione madornale.
Certo,
gli avevo mentito riguardo a Luca e lui era
scattavo, ma almeno gli avevo reso pan per focaccia perché
il solo pensiero di
sentirmi in inferiorità mi faceva innervosire.
Perché avrebbe potuto mettermi i
piedi in testa con fin troppa facilità e, successivamente,
non ne sarei più
uscita. Così avevo deciso di esagerare cercando di
difendermi in qualche modo,
anche se non avevo fatto altro che peggiorare la situazione. Ed ero
stata
ancora più stupida, nonché codarda, comportandomi
in quel modo, ma non avevo
trovato altre possibilità tra cui scegliere.
Non
lo capivo davvero, quel ragazzo. Continuava ad essere
un vero mistero e continuava a confondermi sempre di più
ogni giorno che
passava, rendendomi praticamente impossibile ogni mossa. Ed io non
sapevo più
cosa dire o cosa fare, se non giocando al suo stesso gioco e piazzando
sul viso
la mia migliore espressione infastidita. Così quelle poche
volte in cui ero
stata costretta ad andare alla piscina da mio padre, mi ero ritrovata a
guardarlo male più o meno allo stesso modo in cui lui
fissava me, con
occhiatacce insistenti ed espressioni incazzate.
Non
sarei stata io la prima a cedere, non sarei scesa a
tanto.
E
continuai a pensarci anche dopo cena, quando Mara mi
convinse ad accompagnarla per un giro in paese giusto per non restare
rinchiusa
nella camera dell’albergo, nonostante non riuscii a cavare un
ragno dal buco
nemmeno in quell’occasione. Almeno riuscii a distrarmi un
po’, grazie a quella
ragazza che aveva oltrepassato lo stato di timidezza da un
po’ e che non
smetteva un attimo di parlare: era simpatica, nonostante parlasse un
po’
troppo, ma almeno era un piacere ascoltarla ed era anche capace di
farmi
parlare come se la conoscessi da tempo.
Avrà
avuto si e no la mia età, lei, e forse fu proprio
per quel motivo che riuscimmo subito ad instaurare una specie di
rapporto
d’amicizia. Anche perché in quel contesto, con la
compagnia che avevamo, le
altre possibilità scarseggiavano parecchio.
“Non credo che
riusciremo ad integrarci anche con gli altri, sai?”,
mi disse lei, ad un
certo punto. “Sembrano quasi al
patibolo,
durante il lavoro, e davvero non li capisco perché se fosse
sempre così questo
lavoro, almeno io, pagherei”.
“Se fosse sempre
così sarebbe una vacanza e non un lavoro, mi spiace dirtelo”,
le risposi,
ridendo. “E comunque ogni cosa porta
i
suoi lati negativi: guarda la compagnia che ci è toccata.
Anche se fosse una
vacanza, sarebbe una noia in ogni caso”.
La
intravidi trattenere un sorriso e non potei non
cogliere l’occasione per scoprire qualcosa in più
su di lei e sui sospetti che
nutrivo sul suo interesse su Luca, perché la
curiosità era davvero troppa.
“Beh, ma non tutta
la compagnia questa volta è da scartare, no?
C’è anche gente simpatica, come te”,
saltò su lei, prima che potessi proferire parola.
“Come me e come
Luca, immagino”, ipotizzai, guardandola con la coda
dell’occhio e vedendola
arrossire.
“Beh… penso di si,
insomma, non lo so”, cercò di dire,
fissandosi i piedi. Tutto pur di non
incontrare il mio sguardo.
Era
addirittura più piccola di me, lei – ed era tutto
dire -, ed i suoi capelli lunghi, neri come la pece, non facevano altro
che
renderla ancora più bassa. Era piccola ed indifesa, ecco, e
non avevo idea di
come avrebbe potuto lei sperare in qualcosa con Luca. “Sembra simpatico… credo”.
“Per quanto lo
conosco, quando vuole sa essere simpatico, ma forse è un
po’ troppo
esibizionista almeno per i miei gusti”, le
confessai, cercando di metterla
all’erta. “Non so quanto
possa essere
affidabile, sai? L’ho conosciuto a Doha e in un altro paio di
occasioni e mi è
sempre sembrato molto più Don Giovanni rispetto alla media”.
Mara
si fermò all’istante, guardandomi attentamente,
prima di ricominciare a camminare tranquillamente per le strade del
paese. Non
credevo di averla scioccata fino ad un punto tale, ma forse avevo
calcolato
male la sua sensibilità.
“Pensa che avrei
voluto conoscerlo meglio”, mormorò poi,
guardando davanti a sé. “Ti
avrei voluto chiedere di domandargli cosa
ne pensa di me, ma se davvero è un tipo simile preferisco
non averci a che fare”.
“Non fraintendermi,
ma credo che più o meno tutto il genere maschile sia
così, forse lui lo esterna
con più semplicità e senza curarsi di
ciò che pensa la gente, e per certi versi
fa bene. Non voglio che siano proprio le mie parole a frenarti, alla
fine ho
avuto poche occasioni per conoscerlo davvero, ma ti avviso che dovrai
misurarti
con una come Simona se vuoi conoscere Luca”,
aggiunsi, poi, sentendo
un’ondata di rabbia invadermi. “Sembra
voler mettere i piedi in più scarpe possibili, lei”.
“Chissà perché, ma
me lo aspettavo”, commentò,
ridacchiando. Anche se era palese che, infondo,
non ci trovasse proprio nulla di divertente. “Ma
perché dici questo? Non credevo la conoscessi
così bene”.
“Ho avuto a che
farci per un servizio che abbiamo fatto per gennaio ed ho imparato a
conoscerla
abbastanza e, anche nelle rare occasioni in cui l’ho
incontrata anche fuori dal
lavoro, l’ho sempre vista molto… disponibile
praticamente verso tutti. E Luca è
uno di questi, poi non so cosa ci sia esattamente tra di loro, ma se
è come in
altre occasioni credo che preferisca mantenere rapporti puramente fisici”.
Era
strano parlare così apertamente con qualcuno che
conoscevo a malapena, soprattutto di un argomento simile che, dal
nulla, mi
faceva provare migliaia di sensazioni contrastanti e per lo
più negative. Ma
sentivo di potermi fidare di quella ragazza, ispirava fiducia anche
solo
guardarla e vederla così indifesa e presa da Luca mi faceva
avere quasi
compassione di lei. Soprattutto se, dopo qualche parola scambiata,
aveva
confessato di voler sapere di più su di lui.
Era
un comportamento un po’ adolescenziale, ma sembrava
talmente giovane ed ingenua che tutto sembrava comprensibile.
“Non so se volerci
sbattere la testa oppure no”, mormorò
poi, lei.
“Non
ti saprei dare un buon consiglio, io, soprattutto per quello che sto
passando”,
le risposi, a mo’ di consolazione. “Ti
conviene chiedere a qualcun’altra, mi
dispiace”, conclusi, ridacchiando.
“Mi
sembra un tipo simpatico, davvero”,
continuò
Mara, come se nemmeno avesse ascoltato le mie parole. E per certi versi
gliene
fui grata perché, alla fine, avrebbe potuto cominciare a
fare domande su
domande ed era l’ultima cosa che avrei voluto. “Quando siamo stati in acqua, durante il primo
servizio e anche prima,
quando ci ha accompagnati in albergo, sembrava una persona
semplice”.
“Preferisco
non dire altro, ma se vuoi posso provare ad indagare su cosa
pensa Luca di te”,
mi arresi, infine.
Mi
sarei cacciata in un altro guaio, come minimo, ma
sentivo quasi il bisogno di aiutala davvero. Forse anche per il fatto
che,
oltre mio babbo, non avessi mai avuto chissà quante persone
attorno e lei mi
piaceva, mi andava a genio e tra tutte le persone che erano con me a
Torre
dell’Orso sembrava l’unica in grado di costruire un
briciolo di rapporto
d’amicizia con altre persone.
Mi
chiesi, per un momento, cosa avrebbe pensato Luca
quando gli sarei andata a chiedere cosa pensasse di quella ragazza che,
alla
fine, aveva appena conosciuto. Senza contare quanto ci avesse provato,
più o
meno, con me a Doha. Avevo il netto presentimento che avrebbe potuto
farsi idee
completamente sbagliate, lui, e non me ne s
arei
affatto sorpresa; speravo solamente in un minimo di
buon senso da parte sua.
Tornammo
in albergo dopo poco, salutandoci nella hall
dell’albergo e dandoci appuntamento la mattina seguente per
la colazione. Così
riuscii finalmente a rientrare in camera per potermi rilassare, per
potermi
finalmente estraniare dal mondo con l’ennesima doccia, troppo
lunga rispetto
alla media. Avevo bisogno di calmare i nervi, in un certo senso,
nonostante la
passeggiata con Mara fosse stata parecchio piacevole. Ma mi sentivo
inquieta e
non capivo il perché.
Era
strano, forse, ritrovarsi così lontana da casa con
persone che non conoscevo affatto, nonostante fosse per lavoro, e
quella
sensazione non mi piaceva affatto. Non perché non fossi
abituata a starmene da
sola, ma perché avevo la sensazione che non avessi lasciato
tutto come doveva
essere, a casa mia. Come se qualcosa non fosse al suo posto, e sapevo
perfettamente la risposta, davvero, ma ero troppo stupida ed orgogliosa
per
ammetterlo addirittura con me stessa.
Travis
aveva semplicemente complicato ogni aspetto della
mia vita, come se non bastasse il fatto che fosse complicata e stupida
già di
per sé. E lo odiavo per questo, davvero, perché
mi aveva messa alla prova più
volte ed io avevo sempre fallito miseramente, facendo la figura
dell’idiota
come mio solito. Non sapevo cosa fare, cosa pensare e come agire per
semplificarmi la situazione, come se più semplice non
potesse affatto
diventare.
Nemmeno
me ne resi conto quando, ad un certo punto, mi
ritrovai con il telefono tra le mani e la chat di Travis davanti al
viso. Ed
ovviamente non riuscii a pensare lucidamente prima di inviargli davvero
un
messaggio.
Ehi..
Stupida
e banale, ecco cos’ero. E quella ne era la prova
perché quella era una pessima uscita, soprattutto dopo la
discussione con cui
ci eravamo lasciati. Se speravo di migliorare qualcosa in quel modo,
probabilmente, mi sbagliavo di grosso.
Cominciai
a vagare per la stanza, dopo aver inviato il
messaggio, borbottando tra me e maledicendomi per l’ennesimo
attimo di
debolezza che mi aveva colpita. E la mia mente cominciò a
viaggiare e a creare
i possibili scenari che mi si sarebbero potuti parare davanti che, per
lo più,
passavano dall’estremo mutismo da parte di lui alla serie di
insulti che,
infondo, mi sarei meritata tranquillamente.
Poi
il telefono vibrò improvvisamente sul tavolino su cui
l’avevo lasciato, facendomi sobbalzare per la sorpresa. Ed io
ci misi alcuni
istanti ad incamminarvi verso l’aggeggio, diffidente ed
indecisa se leggere
oppure no, ma poi mi dissi che, se proprio dovevo rendermi ridicola con
quella
scenetta – dato che ero stata proprio io a cominciare -,
dovevo almeno andare
fino in fondo.
Ah
ma allora sono ancora degno della tua parola.
“Sei
il solito stronzo!”, esclamai,
irritata.
Ma sentivo di avere perfettamente ragione, perché la mia
mossa era stata una
sorta di resa, come se con solamente tre lettere avessi deciso di
innalzare
bandiera bianca; e lui non lo aveva capito, aveva deciso di comportarsi
da
idiota come faceva sempre, dandomi la conferma di come fosse infantile
per la
maggior parte del tempo, come se la prima donna che albergava in lui si
facesse
vedere nei momenti meno opportuni.
Sei
degno della mia parola quando non reciti la tua solita stupida parte
della superstar.
Non
ero riuscita a
trattenermi e lui nemmeno meritava che lo facessi, perché
aveva bisogno di
qualcuno che gli rendesse pan per focaccia, giusto per evitare di
alimentare
ancora di più quell’ego spropositato che si
ritrovava. Ed era assurdo che quel
compito toccasse a me, perché non lo volevo e tra
l’altro mi spossava,
rendendomi più scorbutica di quanto già non fossi.
Cosa
ti ho detto riguardo a
quel soprannome che ti ostini ad affibbiarmi?
Sinceramente?
Non
ricordo, mi sembra di aver parlato con il tuo alterego, a questo punto.
Ennesima
prova di debolezza?
Probabilmente
sì, ma non ero riuscita a fermarmi nemmeno
in quell’occasione e quello era il risultato: la solita serie
di parole
infilate a caso nel modo più giusto possibile per far vedere
al mondo quanto
potessi essere stupida, a volte.
E
continuavo a non comprendere quel suo comportamento, la
rabbia che mi aveva riservato l’ultima volta in cui avevamo
parlato,
soprattutto dopo una giornata tanto intensa come quella precedente,
dove lui
sembrava aver abbassato ogni barriera di cui potesse disporre.
Deve
essere rimasto a Doha. Ma sappi che anche tu sei
cambiata, vorrei farti notare.
Mi
ero seduta sul divanetto davanti al tavolino, cercando
di comprendere al meglio quel suo ultimo messaggio. Nonostante fosse
tutto
tranne che comprensibile.
Certo,
ero cambiata molto da quando avevo cominciato quel
calvario con il lavoro che mi aveva parlato a lui, eppure nei suoi
confronti
ero sempre rimasta coerente con le mie idee e glielo avevo sempre fatto
presente, non mi ero mai nascosta. Non come aveva fatto lui, almeno.
La
verità è che mi aveva ferita e probabilmente
nemmeno
se ne era reso conto, l’idiota. E mi odiavo per avergli
permesso una cosa
simile, perché sapevo che ne sarei uscita distrutta e non
sarei stata più me
stesso, e non me lo potevo permettere. In particolare con
un’incognita come
Travis.
Possiamo
chiamarlo corso della vita, forse, e non possiamo impedirlo. Mi
spiace.
Per
una volta smettila di affidarti a discorsi da
filosofa, Maya. Hanno smesso di incantarmi da un pezzo.
Non
ho mai usato discorsi da filosofa, Travis. Ed incantarti non
è mai
stata la mia missione. Pensavo che ormai avessi capito che non sono
quel genere
di persona
che
cerca di prendere in giro il proprio interlocutore per indorargli la
piccola.
Non
è mai stata la tua missione, certo… peccato che
tu ci
sia riuscita. Più di una volta.
Strabuzzai
gli occhi leggendo quel suo ultimo messaggio,
forse per la troppa sincerità o forse perché non
mi sarei mai aspettata una
risposta simile, con un impatto del genere. Non pensavo davvero di
essere mai
riuscita ad incantarlo, come aveva detto lui, con quali mezzi poi?
L’unica cosa
che mi riusciva semplice era rendermi particolarmente odiosa e
testarda, in
alcuni casi.
E
non ti ho mai reputata quel genere di persona,
altrimenti ti avrei lasciata perdere già da un pezzo.
Continui
a confondermi ogni giorno di più, dannazione! Poi dovrei
essere io
quella sibillina…
Più
che confusa mi sembri decisa a negare l’evidenza,
anche adesso.
Probabilmente
nemmeno si rendeva conto di cosa gli usciva
dalla bocca quando cercava di mettermi in difficoltà, a
volte. Come in
quell’occasione, mandandomi in confusione e facendo nascere
decine di domande
nella mia mente, perché non riuscivo a capire cosa
intendesse con quel
messaggio. Non riuscivo a capire lui, per la maggior parte del tempo.
Non
ero una che si ostinava a negare l’evidenza, io, e
non capivo nemmeno quale fosse quell’evidenza da poter
negare; non riuscivo a
capire dove volesse arrivare o cosa volesse dire.
Questa
conversazione sta degenerando.
Decisi
di rispondergli in modo da poter sviare il
discorso, perché avrebbe portato ad altre domande e ad altre
risposte del tutto
incomprensibili che non avrebbero fatto altro che confondermi sempre di
più.
Tanto valeva evitare l’argomento come facevo la maggior parte
delle volte.
Starà
anche degenerando, ma la preferisco così. Perché
se
ricomincio a pensare a dove ti trovi ora e la compagnia che ti
è toccata torno
ad innervosirmi.
Non
è colpa mia, pensavo l’avessi capito. Lo faccio
per lavoro e non perché
l’ho deciso io. Se avessi potuto avrei evitato questa serie
di problemi.
Avevo
voluto evitare un argomento scomodo per
ritrovarmene uno addirittura peggiore ed avevo deciso per optare per la
sincerità, nonostante potesse sembrare parecchio
controproducente e stupido da
parte mia. Ma mi ero stancata di quella situazione e del comportamento
da
idiota di Travis nei miei confronti, e speravo che in quel modo i
nostri
diverbi si potessero appianare.
Ma
se si parlava di lui tutto era sempre una stupida e
stramaledetta incognita.
Strano…
ti ricordo parecchio entusiasta dell’iniziativa.
O sbaglio?
Ecco,
quello era un altro dei suoi tanti modi di mettermi
alla prova, come se quell’imbarazzante conversazione non
fosse abbastanza. Sì,
perché mi ero scavata la fossa da sola, credendo che lui
potesse seguire le mie
idee e sviare il discorso insieme a me, ma mi ero sbagliata di grosso.
E quella
ne era la prova.
Ma
parte di quello che gli avevo detto per telefono,
l’ultima volta era vero: era una grande
opportunità, quella, e non me la sarei
fatta scappare, nonostante fossi sempre impegnata a lamentarmi per
migliaia di
aspetti che, a mio parere, non andavano bene. Era pur sempre lavoro, e
la
compagnia me la dovevo far andare bene.
Lo
sono anche adesso, perché è una bella
opportunità, ma non ho mai
nascosto il fatto che le persone che mi sono state affiancate non mi
piacciono.
A parte una certa Mara, sembra simpatica.
Allora
devo essere stato io a fraintendere,
evidentemente. Perché ho in mente parole completamente
diverse.
Quanto
era subdolo, a volte. Perché quello era il suo
modo per estorcermi delle scuse che, ovviamente, non sarebbero
arrivate. Ero
troppo orgogliosa per abbassarmi a tanto e sapevo che quella guerra
sarebbe
andata avanti fino alla fine dei tempi, tra noi. Perché lui,
per certi versi,
era come me e, proprio come me, non sarebbe stato il primo a chiedere
scusa,
come non sarei stata io, e quella sarebbe diventata
l’ennesima questione
lasciata in un angolo a prendere polvere, irrisolta.
Sono
state parole diverse, lo so, ma l’ho fatto per proteggermi.
Forse. Mi
sono sentita attaccata, in un certo senso, e quello è stato
il mio modo di
rispondere, nonostante abbia peggiorato la situazione. Ma non mi pento,
perché
alcune di quelle cose le penso davvero e, probabilmente, ci troveremo
in
disaccordo anche qui, ma va bene così. Tu hai la tua vita ed
io ho la mia, e né
tu né io abbiamo il diritto di mettere becco nelle faccende
dell’altro: ecco
perché ti ho risposto in quel modo, perché ti sei
andato ad impicciare dei miei
affari e mi hai trattata come se la colpevole fossi io, quando ti sei
comportato praticamente allo stesso modo.
Cose
del genere non dovrebbero succedere, soprattutto tra due persone che
non hanno alcun legame.
Se
ribadirgli per l’ennesima volta che tra noi non
c’era
nulla fosse servito, lo avrei fatto. Glielo avrei ripetuto allo
sfinimento se
fosse servito per cambiare le cose, anche se cominciavo a dubitare di
fin
troppe cose. Come quella che, in fin dei conti, servisse più
a me che a lui,
mettere in chiaro le cose. Ma no, non poteva essere, non
doveva. Perché lui ed io eravamo un terribile
errore, e avrei
dovuto capirlo quella volta dopo il servizio fotografico al mare,
quando Travis
si era presentato al mio appartamento. Avrei dovuto capirlo prima che
iniziassi
a complicare tutto quanto con le mie stesse mani, scavandomi da sola
una fosse
talmente profonda da non poter più uscire.
Sai
cosa non riesci ancora a capire, Maya? Che continui a
fare tutto quanto di testa tua, da sola, continui a crearti castelli in
aria di
cose che nemmeno sono successe ed io agisco di conseguenza,
perché ti ostini a
difenderti e a voler aver ragione. E mi fai incazzare
perché, appunto, non
capisci.
Si
credeva tanto sicuro di sé, lui, tanto spavaldo da
poter mettere su teorie che non avevano né capo
né coda. Non era assolutamente
vero, nemmeno una parola di quel maledetto messaggio che aveva
cominciato ad
innervosirmi come non mai, facendomi quasi tremare le mani per la
rabbia.
Perché non era lui quello dalla parte del giusto, non era
lui ad aver ragione.
Altrimenti avrebbe significato solamente una cosa, e non poteva essere!
Non
poteva davvero.
E
poi lui arrivava sempre con le sue stupide
dimostrazioni di testosterone e virilità, come se volesse
segnare il territorio
o che altro, ma si rendeva solamente ridicolo ogni volta. E per lo
più finivamo
per discutere e prenderci a parolacce.
Non
è affatto vero che mi faccio castelli da sola, dannazione.
Ogni
maledettissima volta tu mi dai tutti i presupposti per pensare male. E
cosa
dovrei fare, altrimenti? Dimmelo, perché magari riesco a
capisci qualcosa
perché, ora come ora, sono più confusa di prima.
Ed
era vero, maledizione!
Cominciavo
a capirci sempre meno, sia di lui che di me
stessa perché mi trovavo sempre più stordita
dalla miriade di pensieri che mi
affollavano la testa, urlando tutti insieme a gran voce. Era solo un
gran caos
che non avrebbe mai portato a nulla, e Travis non aiutava affatto.
Né lui né la
sua smania di farmi da psicologo.
Potresti
provare ad essere te stessa, per una volta. ho
avuto poche occasioni per vedere la vera Maya, ma mi è
piaciuta e la preferisco
mille volte alla ragazza che si fa migliaia di problemi e che parte in
quarta
quando le cose non vanno come vuole lei!
Lo
so che non ci sono legami tra noi… me lo hai ripetuto
centinaia di volte, ma lo dico per te perché ti si
potrebbero semplificare
tante cose.
L’ultima
cosa che avrei dovuto fare, proprio in quel
momento, era cominciare a crollare in mille pezzi, con il tremore alle
mani che
aveva cominciato a farsi sempre più accentuato, rendendomi
difficile anche solo
mantenere una presa salda sul telefono. Ero ancora seduta sul
divanetto, con le
finestre spalancate, ma era come se mi mancasse l’aria per
qualche stupido
motivo. E non sapevo che fare, se non continuare a respirare
pesantemente ed
agitarmi ancora di più.
Non
avevo mai mostrato la vera me, almeno non di
proposito perché, il più delle volte, non mi
piaceva e mi faceva paura. Eppure
Travis ne aveva parlato come se fosse una cosa positiva, come se dentro
di me
ci fossero una sorta di Dr. Jekyll e Mr. Hyde sempre pronti a lottare
tra loro.
Avevo cercato di mostrarmi sempre e solo Mr. Hyde con lui, ma non era
bastato:
in qualche modo lui era stato in grado di vedere il mio Jekyll e di
conoscerlo.
E sembrava piacergli, addirittura, e non capivo come potesse essere
vero.
La
fai troppo facile, tu… per me non è semplice,
invece. Ogni volta che ho
tentato di essere me stessa e di dare fiducia ad una qualsiasi persona
sono
stata presa per il culo e sono stata ferita. E quello che mi da
più fastidio è
esserne consapevole e sapere che questo mio comportamento non
porterà a nulla e
che resterò sola, ma non so che altro fare. Ho troppa paura,
per certi versi.
Cadere
era un contro, crollare dal nulla era un altro. E
quello era proprio il mio caso, perché le lacrime che
avevano cominciato a
scendere erano del tutto inaspettate ed indesiderate, perché
sapevo che non
sarei più riuscita ad alzarmi dopo aver toccato il fondo e
mi sentivo
terribilmente vicina a quel punto, al punto di non ritorno, e non
sapevo
proprio che cosa fare.
Espormi
in quel modo verso Travis era stato un enorme
salto nel vuoto, eppure non avevo avuto la forza di fermarmi e di
tirarmi
indietro: ero partita come un fiume in piena ed ero diventata
inarrestabile. E
non c’era nulla di bello in questo.
Ero
sempre riuscita a cavarmela, a restare in piedi
nonostante tutto intorno a me sembrasse intenzionato a farmi crollare,
e non
ero caduta nel vuoto. Ero sopravvissuta, ma in quel momento mi sentivo
sicura
del fatto che, probabilmente, non avrei più avuto le forze
necessarie per
rialzarmi.
Sei
tu che vuoi restare sola, ma ti assicuro che sei
piena di persone che a te ci tengono. Me compreso, se vogliamo essere
brutalmente sinceri…
E
non devi per forza buttare giù ogni scudo con cui
cerchi di proteggerti, ma cercare di prestare un briciolo di fiducia in
più nel
genere umano perché non tutti sono dei mostri. Non so cosa
tu abbia passato per
diventare così, ma vorrei tanto che provassi a
cambiare… sono convinto che tu
possa farcela.
Strabuzzai
gli occhi leggendo quel suo ultimo messaggio.
Perché evidentemente non ero stata l’unica ad
esporsi tanto, in quel momento, e
per un momento non riuscii quasi a crederci. Non era da lui fare
commenti
simili, nonostante fosse più propenso di me a parlare e ad
esternare i
sentimenti, ma fino a quel punto non ci era mai arrivato. Nessuno di
noi, e
sembrava tanto un momento della verità, quello.
Cercai
di raccogliere quei pochi pensieri che sembravano
essere rimasti nella mia mente perché, improvvisamente, si
era svuotata, e
cominciai a pensare a cosa avrei potuto rispondergli. Nonostante gli
occhi
ancora appannati dalle lacrime sembravano volermi complicare il
compito. Non
avevo idea di cosa fare e continuavo ad agitarti senza un vero e
proprio
motivo, quando avrei dovuto solamente calmarmi.
Mi
incamminai verso il letto, stendendomi su di esso e
cominciando a fissare il soffitto, in cerca di ispirazione. Forse.
In
verità, ogni possibilità che mi passava per la
testa
sembrava enormemente sbagliata, come se non ci fosse altra cosa da fare
che starsene
zitta a rileggere fino alla nausea l’ultimo messaggio di
Travis. Anche se, più
riguardavo quelle parole, più il panico continuava a salire.
Poi
mi dissi che avrei dovuto darmi una svegliata,
continuando a ripetermelo non so quante volte, così optai
per la sincerità e
cominciai a scrivere finalmente quella maledetta risposta che sembrava
non
voler più arrivare.
Ancora
non l’hai capito che sono crollati più scudi di
quanti avrei voluto?
E non perché l’ho deciso io, ma perché
ci sono stati momenti che mi hanno fatto
credere in qualcosa di diverso ed io, da perfetta stupida, ci sono
cascata in
pieno.
Poi
arrivi tu con questi messaggi e non fai altro che peggiorare la
situazione, mandandomi ancora di più in confusione. Non mi
aiuti, sai?
Nonostante tu stia cercando di farlo. Non mi sono mai trovata in una
situazione
simile e mi ritrovo a non sapere cosa fare, come muovermi, e tutto per
colpa
tua e per colpa di quel niente che c’è tra noi.
Ed
è vero che non ho fiducia nel genere umano,
perché ne ho avuta fin
troppa e non è mai finita bene: quella a rimetterci qualcosa
sono sempre stata
io e credo sia più che comprensibile che io, ora come ora,
mi comporti così.
Non
so cosa fare, Travis, davvero…
Io
non faccio nulla, Maya, sono solo me stesso e se
seguissi il mio esempio non ci troveremmo a discutere ogni volta che ce
ne
capita l’occasione.
Non
sono conversazioni da fare tramite messaggi, queste,
in ogni caso, e se potessi verrei lì in questo momento,
credimi. Perché credo
sia arrivato il momento di chiarire ogni singolo punto,
finalmente… e anche
perché qua mi sembra di impazzire.
Se
fossi qui non faremmo altro che complicare le cose ulteriormente,
conoscendoci. I nostri tentativi di conversazioni civili sono sempre
finiti in
modi… non tanto civili, ecco.
Sembra
che tu stia parlando di due criminali, così.
E
comunque dipende sempre dai punti di vista, perché io
la vedo in modo completamente diverso!
Faceva
tanto l’idiota, lui, ma sapevamo entrambi che
avevo ragione dicendo che non avremmo fatto altro che complicarci la
vita,
nonostante lui sembrasse voler negare l’evidenza. E, inoltre,
aveva scritto che,
se avesse potuto, sarebbe venuto da me e non sapevo come interpretarlo
o come
reagire, perché mi spaventava davvero troppo tutto quanto,
in quel momento, da
quei messaggi assurdi di Travis a quella camera d’albergo
improvvisamente
troppo vuota, ed in quel momento mi sentii io quella ostinata a voler
negare
l’evidenza. Ma come altro poteva essere?
Doveva
essere in quel modo e basta, nient’altro. Niente che mi
complicasse ulteriormente la vita, nessun sentimento equivoco che
mandasse a
fanculo tutto quello che avevo costruito e me stessa.
Cominci
a vaneggiare, Travis. Forse è ora che te ne vada a
letto… cosa che
dovrei fare anche io, visto che domani mi attende un’altra
giornata di servizi.
Buonanotte.
Sempre
pronta a rovinare tutto. Vai pure a letto, tu che
ne hai bisogno, io sono fresco come una rosa.
Continuai
a non capire cosa gli passasse per la testa, di
cosa stesse parlando e, nonostante fossi davvero confusa e scossa da
quella
conversazione, decisi di mandare tutto al diavolo e di cominciare a
prepararmi
per la notte. Avevo bisogno di dormire, altrimenti il giorno seguente
sarei
stata a dir poco intrattabile, e preferivo mostrarmi quantomeno normale
verso
quei pochi sfortunati che mi erano stati assegnati come staff.
Il
fatto che, una volta a letto, impiegai non so quanto
tempo a dormire, continuando a rigirarmi nel letto ed immaginarmi non
so quanti
scenari con Travis, asciugandomi lacrime che avrebbero dovuto smettere
di
scorrere già parecchio tempo prima, era assolutamente
irrilevante, sì.
I
giorni continuarono a scorrere tranquillamente, a
differenza di quello che avevo pensato all’inizio di quel
viaggio.
Luca
si era stranamente dimostrato più disponibile – e
in
senso equivoco – e simpatico nei confronti di tutti,
riuscendo ad avere
successo solamente con me oppure con Mara, che in fin dei conti pendeva
dalle
sue labbra. Povera ragazza, perché anche se pareva
migliorato, il nuotatore
della situazione, avevo il netto presentimento che la sua indole da
predatore e
Don Giovanni sarebbe saltata fuori nel momento più inatteso.
Ma più passavano i
giorni e più andavamo avanti con quegli infiniti servizi
fotografici – in
spiagge che continuavano a meravigliarmi sempre più di
giorno in giorno, tanto
per cambiare – e più mi rendevo conto che quel
ragazzo sembrava davvero
cambiato, dal giorno alla notte: forse era l’aria del suo
paese e della sua
terra a fargli bene e a cambiarlo in meglio, non ne ero sicura, ma
più lo
osservavo e più notavo come fosse, in fondo –
molto, ma davvero molto in fondo
–, un ragazzo semplice.
“Non credi che per
oggi possa bastare, Maya?”, mi chiede Mara, ad un
certo punto.
Erano
passate ore da quando eravamo giunti in quella
piccola baia nascosta dagli scogli ed avevo perso completamente la
cognizione
del tempo: il sole aveva cominciato da un pezzo a tramontare e
l’aria si era
fatta più fresca, ma era una giornata talmente bella con
colori talmente
affascinanti e suggestivi che mi sembrava un vero peccato sprecare
quell’opportunità.
“Non c’è problema,
Mara”, gridò Luca, dal bagnasciuga a
qualche metro di distanza dov’era
seduto. “Queste giornate vanno
vissute
fino all’ultimo”, aggiunse, con un
sorriso a dir poco genuino.
Che
ne era stato del pallone gonfiato che credevo di aver
conosciuto?
“Luca ha ragione”,
ammisi, continuando a fotografarlo, mentre lo sorprendevo intento a
fissare
Mara. “Mi perderei scatti troppo
belli:
prometto di non tardare ancora molto”.
Continuammo
per un’altra mezzora abbondante, prima che
alcune lievi lamentele cominciarono ad arrivarmi da quei tre membri
della
troupe che sembravano tutto tranne che utili; così decisi di
lasciar perdere e
di cominciare a raccogliere tutte le nostre attrezzature per dirigerci
finalmente
in albergo.
“Noi cominciamo a
portare su l’attrezzatura già pronta”,
mi avvisò Mara, avviandosi con il
resto del gruppo verso gli scogli che avrebbero dovuto percorrere per
tornare
in strada.
“Va bene, ma state
attenti”, mi raccomandai, temendo come non mai per
quelle migliaia di euro
in pericolo. “E che qualcuno resti
di
guardia, mentre tornate a prendere il resto”.
Nemmeno
mi resi conto di essere rimasta sola con Luca e
solamente quando si sedette di peso sulla spiaggia poco distante da me
– facendomi
prendere un infarto – mi accorsi di avere compagnia. Anche
se, a dirla tutta,
sembrava tutt’altro che di compagnia, con quel suo sguardo
perso a fissare il
mare ed il vento che gli sferzava il viso. Era come incantato dalla
distesa
d’acqua che aveva davanti e sembrava non voler nemmeno
accennare a cedere.
“Ti vedo
pensieroso, Luca”, gli dissi, attirando la sua
attenzione, continuando a
sistemare la mia attrezzatura dentro i borsoni. “Stai bene?”.
“Mi è solamente
mancato questo posto e cerco di assorbirne il più possibile
prima di ripartire”,
confessò con un sospiro. “Venivo
sempre
qui, da bambino, con la mia famiglia”. Non lo
credevo quel genere di
persone così legate ai luoghi dell’infanzia, come
se gli fossero cuciti addosso
con filo doppio, ma mi sbagliavo. Ed era strano vederlo sotto quella
luce, lo
faceva apparire diverso, un semplice ragazzo della sua età e
non un nuotatore
di fama internazionale.
“Mi dispiace per
te, ma non so quanto potrebbe essere contento mio padre se tu restassi
qua,
soprattutto con una preparazione come quella che state seguendo ora”,
ribattei, cercando di fare conversazione, perché un silenzio
tra noi mi appariva
troppo pesante da affrontare. “Comunque,
a quella ragazza piaci”, buttai lì, come
se nulla fosse, ottenendo – ma
guarda! – finalmente la sua competa
attenzione. Perché se si parla di donne tutti saltano
sull’attenti.
Continuava
a fissarmi a lungo, nonostante non lo stessi
degnando di una minima attenzione, ma lui sembrava non voler demordere.
Poi,
finalmente, parlò. “Ma di
chi diavolo
stai parlando?”.
“Oh, non fare il
finto tonto, bell’imbusto”, lo canzonai,
sorridendo. “Parlo
dell’unica ragazza che sembra disposta a darti un minimo di
vere
attenzioni, e non parlo di me, tengo a precisarlo. Mara continua a non
volerti
togliere gli occhi di dosso”, aggiungo, infine, non
sapendo se esserne
divertita o meno, perché ho imparato a conoscere quella
ragazza e credo sia
davvero in gamba. E mi dispiacerebbe tanto se, per colpa di uno come
Luca,
andasse a prendersi una brutta batosta.
Mi
voltai verso di lui, incontrando il suo sguardo un po’
incuriosito, ma al tempo stesso un po’ seccato. Forse. La
realtà era che lui
rappresentava un vero tabu, la maggior parte delle volte.
“Non sai cosa stai
dicendo, Maya”, commentò, tornando a
guardare il mare.
“Eccome se lo so,
invece, mio caro”, ribattei, convinta
più che mai della mia teoria. Ed
avevo la netta sensazione di non sbagliare di molto nemmeno nei suoi
confronti.
“Ne ho tutte le certezze. E,
sinceramente, credo che anche a te possa interessare. E non provare a
negarlo
perché, più di una volta, ti ho beccato perso ad
osservarla”, conclusi,
puntandogli un dito contro.
“Non è una brutta
ragazza, non ho problemi ad ammetterlo, ma tu davvero esageri”,
concluse,
con una risata nervosa che sapeva tanto di stronzata.
“Non mi inganni, tu”,
ribadii, scorgendo Mara di ritorno sugli scogli dal primo viaggio per
l’attrezzatura. “Ma, in
ogni caso, vedi
di non comportarti da idiota: lei è una brava ragazza e,
quando dico che le
piaci, dico sul serio”, lo avvisai, infine,
parlando a voce bassa. Ero
seria e lui lo aveva finalmente capito, nonostante sembrasse comunque
confuso,
ma almeno sapevo di essermi fatta intendere a dovere.
“Restano i tuoi due
borsoni, Maya, poi siamo a posto”, mi
avvisò lei, sorridendo e
completamente ignara della conversazione che avevo appena avuto con
Luca che,
da perfetto attore, ricominciò a fissare il mare mentre
sistemava le poche cose
che si era portato appresso.
Le
sorrido in risposta e le passo la borsa più piccola
che ho già preparato, ma prima che possa incamminarsi verso
gli scogli ancora
una volta viene fermata da Luca che richiama l’attenzione di
entrambe. “vi avevo detto che
sareste dovuti venire a
cena dalla mia famiglia, vero? Beh, dato che tra meno di due giorni
dovremmo
partire, avevo pensato a questa sera”, propose,
leggermente imbarazzato ed
evitando volutamente gli occhi allegri di Mara. “Ho già avvisato mia madre, quindi non
potete rifiutare altrimenti
rischio il rogo”, continuò, scherzando.
Mi
volto istintivamente verso Mara che, cercando di
trattenere un sorriso, mi lancia un’occhiata entusiasta,
senza però dire una
parola. Lascia a me la decisione e so che, se dovessi dare un no come
risposta,
non si azzarderebbe ad accettare l’invito, così
per puro spirito di sacrificio
accetto sorridente, curiosa di conoscere anche la famiglia di Luca.
“Noi ci siamo, ma non so quanto
possano
essere di compagnia gli altri tre, sinceramente”,
avviso Luca, prima che
possa trovarsi tre statue di cera in casa propria.
“Non gli si dice
nulla ed il gioco è fatto, tanto con ogni
probabilità direbbero comunque no”,
salto su Mara, sorprendendomi per la sua audacia. La vedevo sorridere
verso di
me, per spostare poi lo sguardo alle mie spalle, e sapevo che stava
osservando
Luca. E speravo davvero che l’idiota si comportasse
civilmente e che, almeno,
contraccambiasse lo sguardo.
“Dire che abbiamo
un accordo, allora”, esclamò, poi, il
nuotatore alle mie spalle.
E
quando mi voltai potei notare come, finalmente, si
rimpossessò de suo coraggio e della sua spavalderia,
guardando attentamente la
mia collega con quel sorrisetto furbo che lo aveva sempre
contraddistinto.
Avrei
dovuto cambiare il nome in Stranamore, o quantomeno
lavorare in una sorta di compagnia per appuntamenti al buio
perché – diciamo la
verità – avevo un talento innato.
Luca
ci venne a prendere dall’albergo verso le otto di
sera, dopo averci dato la possibilità di sistemarci e di
lasciare tutta quanta
l’attrezzatura, poi cominciammo ad incamminarci verso casa
sua e lui, da bravo
padrone di casa, ci avvisò di non fare molto caso ai
comportamenti della sua
famiglia che, per certi versi, aveva definito strani e fin troppo
espansivi.
Non sapevo davvero cosa aspettarmi perché, dalle sua parole,
sembravano persone
completamente diverse da lui che, oltre alle battutine che lanciava,
non si era
mai spinto fin troppo oltre.
Mara,
invece, era elettrizzata e sembrava un’adolescente
alla sua prima cotta. Mi aveva confessato – durante
l’attesa nella hall – di
non avere idea di come comportarsi, ma che non si sarebbe persa
quell’occasione
per nulla al mondo. Ed io, da perfetta stupida, ero stata quasi tentata
di
rivelargli della mia chiacchierata con il nuotatore, ma non sapevo come
avrebbe
potuto prenderla. Così avevo optato per il silenzio.
Sembrava
davvero presa e, quel suo comportamento, mi
faceva sorgere centinaia di domande che mi sembravano davvero assurde.
Come
poteva essersi lasciata incantare da Luca in così poco
tempo? Insomma, sì, era
un bel ragazzo, ma nel caso di quella ragazza tutto sembrava andare
oltre al
semplice aspetto fisico.
“Spero che abbiate
fame, perché c’è cibo per un esercito
intero”, ci avvisò lui, davanti a
quella che sembrava essere casa sua.
Ed
aveva ragione, dannazione! La quantità di cibo che sua
madre e sua zia avevano preparato era davvero incredibile e,
più di una volta,
mi chiesi se ogni singolo giorno per loro fosse così.
Venimmo
accolte come se facessimo parte della famiglia,
con abbracci che definirei quasi soffocanti e sorrisi capaci di
scaldare il
cuore, cosa che non avevo mai visto in vita mia. E Luca non aveva
davvero
niente a che fare con queste persone, non sembrava nemmeno parente.
Anche lui,
come me, sembrava essere più freddo e distaccato, nonostante
mostrasse sempre
quella sua aura da ragazzo fin troppo disponibile. Sua madre lo aveva
abbracciato più volte, nel corso della serata, e lui si era
sempre dimostrato
parecchio distante, nonostante si notasse perfettamente come fosse
legato alla
sua famiglia. Era una famiglia simpatica, quella, di quelle famiglie
che non
stanno mai zitte e fanno un gran baccano, ma almeno erano divertenti ed
avevano
la meravigliosa capacità di farti sentire davvero a casa.
Erano
le undici di sera ed ancora saltava fuori dal nulla
cibo a volontà. Mara continuava a lanciarmi sguardi
disperati ogni volta che un
qualche parente di Luca le riempiva il piatto. Io, invece, continuavo a
mangiare lentamente così da avere sempre nel piatto qualche
cosa, anche se
cominciavo ad accusare i primi segni di stanchezza ed i primi segnali
di uno
stomaco che sembrava voler esplodere.
“Credo sia arrivato
il momento di smettere di mangiare, mamma”,
esclamò Luca, vedendo arrivare
l’ennesimo piatto sulla tavola. “Se
Claudio viene a sapere che ho sgarrato così tanto nella
dieta mi farà fare
vasche fino all’anno nuovo”.
“Per una sera puoi
anche smettere di pensare al nuoto. Non vedi come sei dimagrito?”,
ribatté,
lei, poggiando sul tavolo un vassoio di dolci dall’aspetto
meraviglioso. “Tuo padre
è troppo severo con i suoi
ragazzi, Maya, diglielo da parte mia”. Quella donna
era uno spasso.
Dopo
più di un’ora sia io che Mara cominciammo davvero
a
sentire la stanchezza arrivare, grazie soprattutto alla serie di
sbadigli che
sembravamo scambiarci. Io, però, ero troppo presa ad
osservare la scena che mi si
parava davanti agli occhi: la mia collega e Luca che, dal nulla,
avevano
cominciato a parlare come se fossero amici di vecchia data. Mi ero
rifiutata di
sedermi accanto a Mara, così ero stata pressoché
rapita dalla zia del nuotatore
che mi aveva voluta al suo fianco e Luca era stato quasi costretto a
sistemarsi
accanto a quella ragazza che era diventata tutta sorrisi ed occhiate
allegre. Sembrava
esserci una strana alchimia tra i due, particolare che era stato notato
da
tutti i presenti tranne che dai diretti interessati, ma erano talmente
presi
dai loro discorsi che al resto dei presenti prestarono attenzione ben
poco.
Così,
dopo aver chiesto alla zia di Luca di lasciare soli
i due ragazzi, mi alzai dalla sedia salutando e ringraziando tutti
quanti, avvisando
che sarei tornata in albergo. Da sola, rifiutando ogni proposta sia da
Mara che
da Luca di accompagnarmi. Non volevo guastar loro la serata ed inoltre
avevo
bisogno di restare un po’ da sola, dopo aver passato una
serata così caotica e
con così tanta gente. Non che non mi fossi divertita, per
carità, ma cominciavo
a sentire la mancanza di un po’ di silenzio.
La
mia collega mi lanciò un’occhiata che sembrava
voler
dire tutto, anche se speravo avesse abbastanza intelligenza da non
farsi
incantare davvero e da non combinare disastri. Il ché, detto
da me, era
assolutamente assurdo. Comunque li lasciai ai loro discorsi,
incamminandomi
verso l’albergo e godendomi il vento leggero che continuava a
soffiare.
Dovevo
resistere solamente un altro giorno, non di più,
poi sarei tornata ancora una volta alla mia vita. Particolare che,
nelle ultime
ore, sembrava mancarmi sempre di più, nonostante la famiglia
di Luca si fosse
fatta in quattro per accogliere Mara e me alla perfezione. Ma volevo
rivedere
mio padre e, altra cosa importante, continuavo ad avere quella
questione in
sospeso con Travis, ed era arrivato il momento di chiarirsi una volta
per
tutte.
“Credo che non
riuscirò mai a ringraziarti abbastanza”,
continuò Mara, durante l’attesa
per l’imbarco dell’aereo che ci avrebbe riportati a
casa.
Era
dal giorno precedente che andava avanti con quella
storia, e quasi cominciavo ad averne abbastanza. Certo, mi faceva
piacere
sapere di essere in parte responsabile per aver smosso la situazione,
ma
cominciava ad essere davvero fin troppo euforica. E non la smetteva un
attimo
di parlare.
La
mattina dopo la cena a casa della famiglia di Luca,
Mara mi aveva presa da parte e mi aveva raccontato come si fosse
trovata bene a
parlare per ore con il nuotatore. Era rientrata alle tre del mattino in
albergo, ma – cosa ben più scioccante –
non era successo assolutamente nulla
tra i due. Niente di niente.
Il
ché poteva voler dire due cose: o non c’era la
minima
attrazione - ma ne dubitavo davvero molto – oppure erano
talmente affiatati e
in sintonia da non voler rovinare tutto quanto dopo la prima
chiacchierata. Ed
erano da ammirare, per certi versi, soprattutto perché se
avessi seguito il
loro esempio, a suo tempo, probabilmente non mi sarei trovata nella
situazione
in cui ero caduta con entrambi i piedi.
Continuavo
ad osservare attentamente Luca, per cercare di
capire quanto meglio possibile il suo comportamento, i suoi
atteggiamenti nei
confronti di quella ragazza che sembrava non riuscire a smettere di
sorridere
sotto i baffi, ma pareva un vero e proprio mistero. Troppo serio ed
impassibile, forse per mascherare una qualsiasi emozione ai miei occhi
dopo la
chiacchierata che avevamo avuto in spiaggia. Eppure, nonostante
sembrasse lo
stesso ragazzo di sempre, era seduto accanto a lei, cosa che non era
mai
successa prima se non a casa della sua famiglia. E lì, alla
fine, erano stati
costretti.
In
ogni caso, non sarei andata chiedere informazioni a
nessuno: avrei atteso fino a quando non sarebbe arrivato il momento in
cui, uno
di loro due, sarebbe venuto da me. Ed ero sicura che prima o poi
sarebbe
successo, come ero sicura che questa storia tra loro sarebbe andata
avanti.
Finalmente
partimmo per tornarcene a casa e, neanche a
dirlo, non appena l’aereo si levò da terra
cominciai a sentire una strana
sensazione alla bocca dello stomaco, come se parte di me volesse
restarsene in
Puglia. E, purtroppo, sapeva che era vero perché, in parte,
non mi sentivo
affatto pronta per ritornare a Roma. Proprio per niente. Ed il motivo
era
solamente uno, alto, stupido e con le spalle larghe.
Vedere
come mi ero ridotta per colpa sua non faceva che
innervosirmi, soprattutto per tutte le promesse che avevo fatto a me
stessa.
Promesse che si erano andare a far fottere senza che me ne accorgessi.
Dovevo
pensare bene a come comportarmi, come agire e cosa
non fare per evitare di rendermi ulteriormente ridicola, dato che mi
ero messa
in mostra decisamente troppo rispetto a quanto avrei sperato. Infatti,
ecco
perché cominciai a maledirmi non appena mi resi conto che,
dopo aver lasciato
le valigie al mio appartamento, presi le chiavi della macchina per
raggiungere
Travis a casa sua.
Avevo
lasciato tutto il gruppo all’aeroporto non appena
avevo recuperato anche l’ultimo borsone della mia
attrezzatura e, a parte Mara,
non mi ero nemmeno disturbata a salutare qualcuno: sentivo la netta
sensazione
che, se non avessi agito in quel momento, non l’avrei
più fatto e mi sarei
tirata indietro come una perfetta codarda, nonostante fossi
perfettamente
consapevole di quanto fosse sbagliato quel mio modo di agire e di
pensare.
Sbagliato
perché sapevo che non avrebbe portato a niente,
ma sentivo come il bisogno di provarci in ogni caso, di tentare
un’ultima cosa
e di capire cosa passasse per la testa di quel maledetto ragazzo.
Così
mi trovai davanti alla porta dell’appartamento di
Travis, senza saper bene che cosa fare, improvvisamente colta da
un’ondata di
terrore e di disagio perché, alla fine, non ci eravamo
lasciati nel migliore
dei modi, durante quella sera passata a scambiarci messaggi, ancora
peggio
l’ultima volta che avevamo davvero scambiato due parole. Non
avevo idea di cosa
potermi trovare davanti oppure chi
trovarmi davanti, ed una parte di me continuava a sperare che non
saltasse
fuori Riccioli d’Oro dal nulla, perché non ero
davvero dell’umore adatto.
Ed
infine mi feci coraggio e bussai, forse un po’ più
forte di quanto avrei voluto, ed attesi qualche istante prima di
sentire la
chiave girare e la porta aprirsi.
Restai
un momento a fissare Travis, a ricordare ogni suo
particolare forse, e a studiare l’espressione stupita che gli
era comparsa sul
volto non appena aveva capito di chi fosse davvero arrivato alla sua
porta a
quell’ora. E senza nemmeno avvisare. Ma come avrei potuto
avvisare, d’altronde?
Con quale coraggio?
Doveva
essere tornato da poco dall’ultimo allenamento,
lui, con indosso ancora i suoi pantaloni sportivi, la felpa con il logo
della
piscina di mio padre ed il solito odore di cloro che arrivava persino a
me.
“Vuoi entrare?”,
mi chiese, dopo qualche istante, senza distogliere lo sguardo dal mio.
Mi
limitai ad annuire, io, invece. Come se fossi
diventata improvvisamente timida e muta, così mi decisi ad
entrare abbassando
lo sguardo a terra, non riuscendo più a sostenere quei suoi
occhi. E continuai
a sentirli addosso, sulla pelle, anche dopo aver sentito la porta
richiudersi e
mi faceva sentire dannatamente a disagio, per certi versi. Ero in
territorio
nemico e mi ci ero buttata di mia spontanea volontà
pensando, addirittura, di
essere nel giusto quando, in realtà, avevo sbagliato su
tutta la linea.
Finalmente
decisi di riprendere coraggio e di alzare gli
occhi per incontrare quelli di Travis che, poggiato alla porta
d’ingresso,
attendeva una mia mossa. Perché, almeno quella volta, sapevo
che lui non
avrebbe mosso un dito, non si sarebbe fatto avanti ed infondo aveva
pienamente
ragione. Quella più confusa ero io, come
sempre, e lui aveva bisogno di una sorta di dimostrazione, ma
io non sapevo
proprio cosa fare e come portarmi.
Certo,
avevo sentito la sua mancanza dall’ultima
telefonata che avevamo avuto, quando lo avevo informato della settimana
che
avrei trascorso in Puglia; tuttavia sapevo anche che, quella miriade di
sensazioni, era sbagliata e non avrei dovuto provarla perché
uno come Travis
non era fatto per me ed io non ero fatta per lui. Noi due eravamo
sbagliati, e
lo sapevamo entrambi, ma lui sembrava voler sorvolare il problema.
Eppure,
con quello sguardo incollato al mio, tutto pareva
andare all’aria, anche il mio più forte tentativo
di mantenermi a distanza di
sicurezza da uno come lui. Anche la questione Simona passava in secondo
piano,
nonostante fosse comunque un problema a dir poco fastidioso.
Al
diavolo!
Agli
effetti collaterali di quella malsana situazione
avrei pensato in un secondo momento, fu l’unica cosa che
riuscii a pensare
quando finalmente mi decisi ad avvicinarmi a lui, poggiando la fronte
al suo
petto e stringendo la sua felpa tra le mani. E fu quasi come tornare a
respirare, sentire le braccia di Travis intorno a me, e bruciava,
faceva male, perché
sapevo che non doveva andare in quel modo, ma in quel momento non
riuscivo
davvero a pensare a nulla di razionale, così avevo lasciato
correre, per
l’ennesima volta. Come avrei potuto fare altrimenti?
Travis’
POV
Me
ne stavo steso sul letto ad osservare Maya che, del
tutto inaspettatamente, era piombata a casa mia senza nemmeno avvisare,
come un
fulmine a ciel sereno. Ed era stato proprio così, come
sentirsi fulminati senza
aspettarselo, trovarsela davanti alla mia porta.
Avevo
preferito non chiedergli il motivo di quella
visita, me ne ero stato zitto per vedere quale sarebbe stata la sua
prima mossa
e, in tutta sincerità, avevo sperato con tutto me stesso in
un finale simile.
Dall’ultimo assurdo epilogo che avevamo avuto per telefono
non c’era stato
altro che silenzio, tra noi, e quei pochi messaggi che ci eravamo
scambiati
avevano fatto più danni che altro, probabilmente, creandole
ancora più domande
nella mente. Come poteva davvero farsi tanti problemi, lei? A volte non
riuscivo davvero a capirla, soprattutto perché se solo
avesse lasciato un
attimo correre sarebbe stato tutto molto più semplice, tutto
molto più sincero.
Ma no, lei doveva continuare a complicare la situazione, creandosi con
le sue
stesse mani migliaia di problemi ed io non sapevo più da che
parte farmi.
Pensavo
di averle dimostrato abbastanza, di averle fatto
capire che non era una delle solite conquiste, una delle tante. Lo
pensavo
anche io, all’inizio, ma con il passare del tempo quel suo
carattere del cazzo
e quelle sue fisime mentali avevano continuato a scavarmi dentro ed
tutto era
quasi diventato importante. Lei era
diventata importante, e dannazione
avrei preferito che non fosse mai successo, per certi versi.
Perché era
complicata e quando ci si metteva sapeva davvero rompere le palle, ma
ero quasi
arrivato ad un punto di non ritorno e vederla arrivare da me aveva
solamente
peggiorato le cose.
Le
avevo raccontato praticamente tutto di me, le avevo
rivelato cose che nemmeno mia madre sapeva eppure sembrava non essere
abbastanza. Oppure era lei la testarda che negava tutto quanto, anche
la più
grande evidenza. Non la capivo, davvero!
E
non riuscii a tenere a freno una mano, che
automaticamente corse ai suoi capelli, mentre anche lei continuava a
fissarmi,
stesa nel mio letto. La avvicinai a me ancora di più,
trovandomela ad un soffio
e non potei fare a meno che ricominciare a baciarla, perché
se davvero si
aspettava che dopo tutto quello che mi aveva fatto passare mi sarei
accontentato, si sbagliava di grosso. La strinsi a me, quasi per paura
che
potesse scappare a gambe levate da un momento all’altro e, da
una come lei, mi
sarei aspettata di tutto. Ecco perché non mi sorpresi
affatto quando, dopo
qualche istante, cercò di spingermi via da lei ed io, da
perfetto idiota,
decisi di non forzare troppo la mano e mi allontanai a mia volta,
cominciando a
studiare quei suoi occhi in tormento, quel mare mosso forse come non
mai.
“Non sarei dovuta
venire”, bisbigliò, forse più
a sé stessa che a me, ma riuscii a sentirla
distintamente comunque.
Sembrava
non avere più il coraggio di guardarmi in
faccia, lei, la solita che sembrava annientata da chissà
quali problemi e
dialoghi interiori. Avrei tanto voluto sapere cosa le stesse passando
per
quella maledetta testa che non smetteva un attimo di pensare. Poi,
finalmente,
risollevò lo sguardo e la vidi più confusa che
mai. Il ché era davvero assurdo.
“Non sarei dovuta
venire, Travis”, ripeté, questa volta
più convinta.
“Allora perché lo
hai fatto? Potevi restartene a casa, non credi?”,
ribattei, stizzito dai
suoi continui cambi d’umore. Perché non ne potevo
davvero più; era stata lei a
piombare a casa mia, a farsi avanti e poi, con una
semplicità incredibile,
continuava a fare retromarcia nel momento in cui bisognava avere quel
briciolo
di coraggio in più per non farsi sopraffare dalle paure. E
lei era davvero una
gran vigliacca, la maggior parte delle volte, e non capivo davvero per
quale
motivo.
“Non lo so”,
rispose, in un sussurro, torturando il lenzuolo con cui si era coperta
fino al
collo. E se fosse stata un’occasione qualsiasi mi avrebbe
fatto addirittura
tenerezza, ma in quel momento ne avevo fin sopra i capelli della sua
stramaledetta indecisione, avevo bisogno anche io di una qualsiasi
dimostrazione, ma lei sembrava convinta con tutta sé stessa
a non darmi alcuna
soddisfazione e a nascondersi come sempre.
“Non puoi non saperlo,
Maya”, continuai. “Dannazione,
è così
difficile per te lasciarti andare? Perché
pensavo avessi più spina dorsale, pensavo fossi
più forte di così, ma
evidentemente mi sbagliavo”.
I
suoi occhi saettarono nei miei nel momento stesso in
cui comprese appieno le mie parole, ed avevano fatto centro: avevo
finalmente
ottenuto una reazione degna di essere chiamata tale. Era arrabbiata, si
sarebbe
visto a chilometri di distanza, ma mi sarebbe andata bene qualsiasi
emozione,
in quel momento, piuttosto che vederla rannicchiata in un angolo del
letto
senza avere il coraggio di alzare lo sguardo.
“Tu non sai
assolutamente nulla di me, razza di idiota!”,
esclamò, inviperita. “Non
hai idea di quanto io possa essere forte
o meno, non lo sai, quindi non osare venire da me a farmi la paternale
per cose
di cui non sei a conoscenza”, continuò,
allontanandosi ancora di più da me.
Poi la vidi sedersi sul bordo del letto, dandomi le spalle, e
recuperare i suoi
vestiti sparsi per il pavimento. Si rivestì in un batter
d’occhio, ostinandosi
a non guardarmi e a chiudersi sempre più a riccio, negandomi
ogni minima
possibilità di avvicinarmi a lei. Si incamminò
verso il salotto, uscendo dalla
mia stanza, ma non potevo lasciarla andare via così, io, non
potevo lasciarmi
scappare l’occasione di chiarirmi davvero con lei.
Così cercai di rivestirmi
anche io, per quanto possibile, e la raggiunsi, trovandola poco
distante dalla
porta d’ingresso, intenta a riprendersi la sua borsa.
“Hai perfettamente
ragione, di te non so nulla. Ma ti sei mai chiesta per quale motivo, eh?”,
le chiesi, senza nemmeno preoccuparmi di come potesse risultare
esasperata ed
arrabbiata la mia voce. “Ti sei mai
chiesta perché io vada avanti a supposizioni, quando si
tratta di te? Perché non
mi dai nemmeno la possibilità di conoscerti davvero, ti tiri
indietro quando le
cose cominciano a farsi un po’ troppo complicate per te e
scappi a gambe levate”.
“Io non sto
scappando!”, sbraitò, lei, colta sul
vivo. E mi fulminò con lo sguardo, con
quegli occhi in tempesta che sembravano volermi dire tutto e niente.
“Davvero?”, le
chiesi, schernendola. “E adesso cosa
stai
facendo, esattamente? Perché se questo non è
scappare, non ho davvero idea di
cosa sia”.
Nessuno
disse niente per quella che mi parve un’eternità,
nessuno osava muovere un muscolo e nessuno osava distogliere lo sguardo
dall’altro,
e se avessimo potuto ci saremmo lanciati addosso qualsiasi oggetto a
portata di
mano.
Avevo
sbagliato io ad affezionarmi troppo a quella
ragazza, perché sembrava troppo presa da sé
stessa e troppo intenta a
preservarsi per rendersi conto di cosa avrebbe potuto ottenere. Sarebbe
bastato
abbassare leggermente quella sua dannatissima corazza,
nient’altro, ma per lei
sembrava troppo complicato persino quello.
“Io starò anche
scappando, ma lo sto facendo perché ti aspetti troppo da me,
lo hai sempre
fatto”, cominciò, in un sibilo, velenosa
come non mai. “Ti sei fatto troppe
illusioni su quello che
abbiamo passato e su cosa abbiamo fatto, come se oltre al sesso potesse
esserci
altro, ma io ho sempre messo in chiaro le mie intenzioni, sempre! Sei
stato tu
a voler quel qualcosa in più, ma io mi sono sempre
dimostrata contraria; ed
ecco il risultato della tua testardaggine! Stiamo litigando, come
sempre, e
come pensi possa funzionare una storia, tra noi? Sei davvero convinto
che possa
andare avanti? Non sai quanto ti spagli, sei un illuso!”.
E
furono quei suoi occhi a ferirmi più di tutto,
più
delle sue parole, perché sembravano davvero convinti di
quello che stavano
dicendo. ma come potevo essermi sbagliato così tanto, su di
lei? La credevo
capace di tutto, tranne di potermi deridere fino a quel punto, come se
non
bastasse l’evidenza a farmi sprofondare metri e metri
sottoterra. Eppure continuavo
ad essere convinto che qualcosa non andava ancora per il verso giusto,
qualcosa
ancora non mi convinceva.
Era
solamente l’ennesimo suo tentativo ti proteggersi e
di mettersi al sicuro, ma io ne avevo davvero abbastanza, non
sopportavo più
quella situazione e nemmeno lei, cocciuta come pochi. Così
mi avvicinai alla
porta d’ingresso, aprendola e spostandomi per farle spazio.
“Allora vattene!”,
le dissi, fulminandola con lo sguardo. “Non
stavi forse scappando? Come sempre, poi”.
“Vaffanculo,
Travis!”, esclamò, prima di uscire
decisa da casa mia e di scomparire alla
mia vista. Tanto meglio, pensai. Mi
avrebbe
creato solamente troppi problemi, lei, con quei suoi atteggiamenti da
stronza. Così
sbattei la porta, maledicendo quella ragazza e me stesso per essermi
lasciato
incantare da un paio di occhi fuori dal comune e da un bel sorriso,
seppur
raro.
Mi
maledissi perché mi ero lasciato incastrare molto
più
di quanto avrei voluto e perché, in quel momento, non sapevo
davvero da che
parte farmi per uscirne.
*****
Buongiorno
e buon Ferragosto (anche se in ritardo) a tutte, runners!
Ebbene
sì, sono ancora viva - non vi libererete di me tanto
facilemente - e finalmente sono tornata con un nuovo capitolo! Non so
bene perchè, ma non è stato semplice scrivere
questo capitolo, poi per colpa di una serie di impegni e di
novità ho trovato ben poco tempo per mettermi a scrivere,
scusatemi!
Comunque, meglio tardi che
mai..
Allora, che ne
pensate?
Qui non vediamo i
nostri protagonisti nello stesso luogo per la maggior parte del tempo,
ma è un particolare che non mi dispiace, anche
perchè ci sono stati momenti in cui la distanza è
servita e altri in cui ha creato più casini di quanti non ce
ne fossero già.
E di Travis che mi
dite? Quel povero ragazzo ha una bella gatta da pelare e, se potessi,
mi offrirei volontaria per fargli passare la sbandata.
Spero di potervi
tenere aggiornate più spesso e di non farmi vedere una volta
ogni mai!
Comunque, se non
avete visto nel capitolo scorso, questo è il gruppo su
Facebook che ho creato per tenermi in contatto con voi e per tenervi
aggiornate con novità, spoiler e altro.
Born
to Run
Quindi, unitevi al
disagio che qualche altra mente deviata è sempre ben accetta
:)
Detto questo, ringrazio
come sempre chi si fa sentire con una recensione, chi aggiunge alle
preferite/seguite la mia storia e a chi legge in silenzio. GRAZIE!
Alla prossima,
runners, e buone vacanze per chi ancora ne ha,
Chiara
|
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Capitolo 25 *** SCUSE E RITARDI - Una storia senza fine ***
Scuse
Scuse e ritardi - Una Storia Senza Fine
Chissà se ancora vi ricordate di me o della mia storia.
Io faccio fatica a ricordare l'ultima volta in cui ho scritto seriamente,
e mi dispiace davvero tanto per tutte voi che ancora leggete di Maya e Travis.
Cercherò di spiegarmi in breve...
Negli ultimi mesi si sono susseguite serie di avvenimenti che mi hanno completamente presa e, alla fine,
se trovavo un briciolo di tempo libero proprio non riuscivo a mettermi a scrivere.
Tra l'aver aperto un bar con mia sorella (il Generale, come la chiamo io),
la scuola di ballo di una serie di piccole pesti e altre cose,
mi ritrovo a non avere ancora il capitolo pronto per l'aggiornamento.
Non sto qui a spiegarvi i particolari della mia vita (credo che vi interessino ben poco)
e nemmeno a cercare altre scuse improbabili, ci tengo solamente a dire che non ho abbandonato
del tutto la storia, è solamente in stand-by. Come me, più o meno.
Una storia di odio-amore che non avete idea,
perchè a volte li odio davvero quei due dannatissimi personaggi, per quanto sono problematici e altro,
ma non posso fare a meno di loro.
Sono i primi personaggi che mi sono usciti discretamente e che mi piacciono davvero,
così come la storia in sé. Ecco perchè non smetterò in ogni caso
di scrivere. Sono solamente in pausa e sto cercando in ogni caso di trovare le parole giuste
per andare avanti a scrivere, perchè ho davvero migliaia di idee per continuare,
solo che quando mi ritrovo con una penna in mano non mi escono le parole.
Se conoscete un rimedio a tutto questo, io sono tutta orecchie, fatemi sapere se avete idee.
Detto questo, ci tengo a chiedere scusa davvero a tutte voi,
anche a chi ha recensito l'ultimo capitolo e ancora non ha ricevuto una risposta.
Prima o poi arriverà, giuro!
Siete sempre meravigliose, lo dico davvero,
ed è per questo e per voi che sto cercando di andare avanti a scrivere, oltre che per me stessa.
Quindi, prima o poi tornerò, questa è una minaccia, non una promessa. E dovrete sopportarmi.
Vi auguro il meglio che questa vita possa offrirvi, davvero, ve lo auguro con tutto il cuore!
Sappiate che, in un certo senso, mi mancate...
Chiara
|
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Capitolo 26 *** 24 - Stubborn Love ***
Maya24
*****
Travis’
POV
Tutto
quello cominciava davvero ad innervosirmi.
Dopo
tre settimane passate solamente ad allenarmi senza
pensare ad altro – o almeno provandoci – avevo
iniziato a dare di matto, prima
ritrovandomi a parlare con me stesso, poi cominciando a rispondere ai
miei
compagni come se fossi appena tornato all’età
della pietra. E non capivo
davvero perché.
Insomma,
avevo quelle stramaledette Olimpiadi per cui
prepararmi e Claudio continuava a farmi sempre più
pressione, come se non bastasse
la mia emotività già traballante. E
più che di emotività, si trattavano di
nervi che non ne volevano sapere di restarsene buoni ed indisturbati.
Tre
settimane passate ad assimilare più cloro che altro e
cominciavo davvero a non avere più un briciolo di pazienza
per quella che era
diventata davvero una situazione assurda, una comica, perché
da fuori doveva
per forza esserlo. E se non fossi stato io, il diretto interessato,
probabilmente ci avrei riso sopra. Ma ero il protagonista sfigato di
quella
commedia da quattro soldi che era diventata la mia vita.
Non
avevo idea di che fine avesse fatto la calma che
avevo sempre pensato di avere, doveva aver alzato bandiera bianca dopo
il mio
ennesimo tentativo – andato a vuoto – di darmi una
regolata. Ed al posto suo,
avrei fatto la stessa identica cosa.
Cominciavo
a credere davvero di essere un caso disperato.
Gli
ultimi avvenimenti con Maya mi avevano scombussolato
più del solito, e la cosa che mi faceva innervosire
maggiormente era come non
riuscissi a capirne il vero motivo. Forse, quando si era presentata a
casa mia,
del tutto inaspettatamente, avevo sperato che qualcosa avesse capito e
che si
fosse data una svegliata, ma mi ero sbagliato completamente. Mi ero
lasciato
incastrare senza nemmeno rendermene conto e ci ero finito con tutti e
due i
piedi, in quel baratro che erano diventati gli occhi di Maya.
Perché aveva
avuto la stupida accortezza di stregarmi, quella ragazza, come se non
bastasse
la mia stupidità a darmi una sonora spinta.
Mi
ero lasciato trasportare dalle emozioni e quello era
il risultato, e mi meritavo tutto quello che stavo passando. Solamente
perché,
se avessi avuto un briciolo di intelligenza in più, non
sarei finito per tenere
a quella ragazza molto più di quanto non fosse concesso. E, dannazione!, non era da me, quello non
ero io e non mi riconoscevo davvero più, non sapevo
più chi ero.
L’unica
cosa che riusciva a darmi un barlume di speranza
era il dubbio che aveva instillato l’improvvisa comparsa di
Maya al mio
appartamento, quella sera. Perché se davvero non fosse stata
coinvolta, non
sarebbe accaduto davvero nulla.
Continuavo
a ripetermi che non poteva davvero andare in
quel modo e che quella stramaledetta donna non aveva detto tutta la
verità,
nemmeno a sé stessa, probabilmente. Mi ero ripromesso, poi,
di venirne a capo,
in qualche modo, prima o poi.
Cercai
di tornare con la mente al nuoto, nonostante
sembrasse davvero un’impresa titanica, ma dovevo farlo,
dovevo darmi una
svegliata e cercare di non deludere quelli che ancora credevano in me e
nelle
mie potenzialità, Claudio in primis. Claudio che, proprio
quel giorno, sembrava
avere un diavolo per capello.
Nell’ultimo
periodo era stato parecchio intrattabile,
certo, ma non era mai arrivato a quei livelli nemmeno nei suoi giorni
peggiori,
ed il fatto che fosse anche lui messo come me mi rassicurava, in parte.
Inoltre, mi incuriosiva davvero tanto ed avrei voluto scoprire il
motivo di
quel suo caratteraccio, se non avessi rischiato di andare incontro a
morte
certa, più o meno.
Sembrava
portarsi appresso un’aura pericolosa e cattiva
che lasciava tutti quanti a debita distanza, ed i suoi occhi sempre
allegri e
gentili non erano mai stati tanto burrascosi. Poi lo vidi dirigersi
verso di me
a passo di marcia, facendo allontanare chiunque gli passasse accanto,
ed io non
potei fare a meno di provare un leggero brivido di paura.
“Dannazione, Travis”,
esclamò, fulminandomi con lo sguardo. “Pensi
di rientrare in acqua e lavorare, almeno tu? Hai deciso di prenderti un
giorno
di ferie?”. Okay, forse intrattabile
non era la parola adatta e nemmeno nero
di rabbia, era proprio incazzato come non lo avevo mai visto.
E
probabilmente con il mondo intero.
“S-scusa, Claudio”,
mormorai, distogliendo lo sguardo da quei suoi occhi che non facevano
altro che
scagliare fulmini.
“Niente scuse”,
continuò. “Devi
cominciare a darti da
fare, altrimenti non potremmo mai farcela!”,
aggiunse, sospirando
pesantemente e passandosi una mano sul viso.
C’era
qualcosa che non andava, lo avevo notato subito, ma
avevo preferito restarmene buono, non chiedere nulla già dal
primo momento, ma
cominciavo a non poterne davvero più. Se si fosse comportato
in quel modo
solamente con me avrei anche capito, avrei lasciato perdere e avrei
eseguito i
suoi ordini in silenzio, a testa bassa, ma quando cominciava a
prendersela
anche con il suo collega, Roberto, c’era da preoccuparsi,
sì.
“Claudio”,
cominciai, esitante. “Va tutto bene?”.
Domanda
stupida perché, insomma, non andava tutto bene ed
era palese e tutti avevano preferito evitarlo, piuttosto che chiedere.
Osservai
il mio allenatore calmarsi un attimo, giusto il
tempo di un sospiro più pesante, più stanco,
giusto il tempo per capire che
c’era davvero qualche problema, ma poi
all’improvviso si ritrovò ad indossare
una maschera di indifferenza che metteva quasi i brividi. Ed ecco le
somiglianze con la figlia, quando tutto andava storto, quando la
situazione
cominciava a complicarsi e quando ci si trovava in una situazione
scomoda.
L’indifferenza era la loro migliore arma.
“Ti sembra che vada
tutto bene, Travis?”, domandò diretto,
inviperito. “Sei davvero diventato
tanto cieco da non renderti conto che non ci sia
un cazzo che vada bene, eh?”.
In
anni di allenamento non lo avevo mai sentito
imprecare, mai, per quanto assurdo potesse sembrare. Ed era strano
vederlo,
sentirlo così incazzato con il mondo intero, così
agitato tanto da parlare come
mai aveva fatto. C’era davvero qualcosa che non andava e la
mia mente non
smetteva un momento di agitarsi per cercare di capire cosa ci potesse
essere
dietro a quel suo comportamento. Ma proprio non riuscivo a trovare un
motivo
tanto grave.
Non
credevo nemmeno che in tutto quello potesse avere a
che fare Maya – che non si faceva vedere da giorni -, almeno
direttamente, ma
non si poteva mai sapere. Nonostante dubitavo fortemente che, tra quei
due,
potesse essere accaduto qualcosa di grave.
“Sto parlando sul
serio, Claudio”, gli dissi, serio, poggiando una
mano sulla sua spalla. “Cosa
è successo?”.
Si
guardò in giro per un istante, prima di sospirare
pesantemente e chinare il capo. Sembrò improvvisamente
stanco, sfinito da tutta
quella rabbia che si portava appresso e non mi piaceva affatto, vederlo
così.
Era sempre stato lui quello che se ne andava in giro a rallegrare e
rassicurare
la gente, era sempre lui quello che chiedeva se qualcosa non andava e
non
parlava mai di sé, non dava mai a vedere se qualcosa andava
male. Era
semplicemente lui, una persona che cercava di non buttarsi
giù, di restare a
galla per sé stesso e per gli altri.
Si
grattò la nuca, quando un sorriso amareggiato gli
comparve sul viso, poi si voltò a guardarmi e mi sorpresi
quando notai
un’incredibile somiglianza con Maya, in quello sguardo
stanco, spossato.
“Oggi è
semplicemente una giornata peggiore delle altre, tutto qui”,
cominciò,
tornando ad osservare la piscina attorno a lui e tutti i suoi atleti.
“Diciamo che negli anni passati ho
sempre
avuto la possibilità di restarmene a casa a sbollire la
rabbia, mentre oggi non
ce l’ho fatta”.
“Che giorno sarebbe
oggi?”, non riuscii a trattenermi dal fargli quella
domanda, nonostante
fossi perfettamente consapevole di quanto potessi apparire invadente. E
se mi
avesse detto di farmi gli affari miei avrei perfettamente capito e non
sarei
andato oltre, non ne avevo alcun diritto. Ma invece di mandarmi al
diavolo,
tornò con lo sguardo a terra, Claudio, e anche quella
briciola di sorriso,
seppur non sincero, scomparve.
“L’oggi di
diciannove anni fa, Travis, e mi sembra assurdo che sia passato
così tanto
tempo perché, nonostante provi a farmene una ragione,
continua a fare male”,
mormorò, poi, sospirando per l’ennesima volta.
sembrava costargli uno sforzo
immenso, continuare a parlare. “Diciannove anni fa, ecco quando quella che era mia moglie ha lasciato
me e Maya e se ne è
andata”, concluse, tornando a guardarmi negli occhi.
Ed
io mi sentii estremamente a disagio, perché sapevo che
non avrei dovuto indagare così a fondo, ma ero stato troppo
cocciuto e stupido
per fermarmi. Avevo fatto altre domande ritrovandomi solamente in una
posizione
alquanto scomoda, non sapendo bene come comportarmi. E mi dispiaceva
davvero
troppo per lui, per l’unica persona che mi era sempre
sembrata in grado di
affrontare tutto quanto, nella sua vita, ed invece in quel momento era
davanti
a me, con tutte le sue maschere gettate a terra, senza qualcosa dietro
la quale
nascondersi.
“Io…”,
cominciai, non sapendo bene dove andare a parare, cosa dire senza
risultare un
perfetto stupido. “Io non ne sapevo
nulla, Claudio, mi dispiace, non avrei dovuto chiedere”.
“Non hai nulla di
cui scusarti, Travis, sono io quello che si sta comportando come un
idiota,
oggi”, ribatté, lui. “Ma non posso
farne a meno, non ci riesco. Vorrei solamente tornarmene a casa, sul
divano, e
non pensare a nulla fino a quando questa giornata non sarà
finita. E, probabilmente,
conoscendo Maya, starà facendo la stessa identica cosa: mi
assomiglia su troppi
aspetti, a volte”.
Solamente
in quel momento realizzai che, in quella
faccenda, era coinvolta anche Maya e mi resi conto di non sapere
assolutamente
nulla di lei, niente che la riguardasse davvero perché, se
avessi saputo il
significato di quella giornata, probabilmente non mi sarei trovato alla
piscina. Anche Maya doveva avere sofferto, sempre che non fosse stata
un pezzo
di ghiaccio anche da bambina, ma proprio non riuscivo a vederla in quel
modo.
Vedevo solamente una bambina più piccola della media con un
paio di occhioni in
grado di incantare il mondo.
“Maya come ha
affrontato… tutto quanto?”, chiesi,
infine, cercando di capirne il più
possibile.
“All’inizio è stata
dura, era molto legata a sua madre e ancora oggi non riesco a capire
come abbia
fatto ad abbandonarla, lei, ma poi ha cominciato a reagire e, dopo
qualche
anno, non le importava più, anzi, ha cominciato ad odiarla
davvero. Fino a
quando non si è fermata all’indifferenza totale”,
spiegò, Claudio, e a
volte cercò di buttarla addirittura sul ridere, ma con
scarsi risultati. Doveva
aver sofferto anche per sua figlia e pensare a cosa aveva dovuto
passare nel
periodo subito dopo la fuga della moglie era assurdo, perché
lui era ancora lì.
Non si era lasciato abbattere ed aveva continuato per la sua strada,
insieme a
Maya. “Ma se devo essere sincero,
credo
che lei ne soffra ancora, ma nemmeno se ne rende conto. Ormai avrai
capito
com’è, mia figlia, si nasconde talmente tanto dai
problemi e dalla sofferenza
che ne ha fatto un’abitudine senza accorgersene, e non va
bene. Non fa bene a
lei, perché quando comincerà a crollare,
sarà difficile da rimettere in piedi”.
Rimasi
stupito dalla sua sincerità, da quello che mi aveva
detto e da come, su certi aspetti, la pensassimo allo stesso modo. Ed
ero
preoccupato, per lui, ma soprattutto per Maya che continuava ad
assimilare, a
mandare giù rospi troppo grossi che prima o poi
l’avrebbero fatta esplodere.
Avrei tanto voluto poter risolvere tutto quanto, in qualsiasi modo, ma
non
sapevo da che parte farmi, non sapevo come comportarmi.
Poi
Claudio ricominciò a parlare. “Non
piange da quando ha quindici anni, se non mi sono perso qualcosa.
Credo che abbia accumulato fin troppe delusioni e che abbia bisogno di
distruggere tutti quei muri che ha voluto tanto tirare su. E credo che
da sola
non riesca a farcela”, aggiunse, lanciandomi uno
sguardo che non riuscii ad
interpretare appieno, uno sguardo che mi confuse ancora di
più, perché non
poteva essere possibile che proprio Claudio sapesse qualcosa di sua
figlia e
me.
Distolsi
gli occhi dai suoi, concentrandomi sulla prima
cosa che mi capitò sotto gli occhi, tutto pur di non far
trasparire quel moto
di nervosismo che mi aveva assalito.
“Torna ad
allenarti, ora”, ricominciò, lui,
tornando quasi lo stesso Claudio di poco
prima. “Abbiamo già perso
troppo tempo a
parlare”.
Rimasi
un momento fermo ad osservare il mio allenatore
dirigersi verso altri atleti, facendo finta di nulla, come se nulla
fosse
accaduto, e per certi versi era da ammirare perché era in
possesso di una forza
incredibile, ma restava comunque un uomo che aveva sofferto troppo.
Poi
tornai a pensare a sua figlia, a quella stupida di
Maya che si ostinava a tenersi tutto dentro, ad incassare ogni colpo
senza mai
rispondere a dovere. E non potei fare a meno di chiedermi come potesse
stare,
in una giornata simile, se davvero ne soffrisse ancora come aveva detto
Claudio. Non potei fare a meno di chiedermi quanto l’avrebbe
fatta incazzare
una mia visita improvvisa, proprio in quell’occasione, dopo
giorni di silenzio
radio tra noi.
Me
ne sarei pentito, forse, ma ci avevo pensato talmente
tanto durante la giornata che sentivo il bisogno di togliermi quel peso
dallo
stomaco e scoprire qualcosa di più, come se potesse davvero
servire a qualcosa.
Ma avevo come il presentimento che non avrebbe fatto altro che
complicare tutto
quanto. Come se ci fosse bisogno di qualche altra complicazione.
Così
continuai a bussare e, solamente dopo il terzo tentativo,
sentii dei passi avvicinarsi alla porta e la chiave girare nella
serratura.
Improvvisamente,
venni assalito dall’ansia e da
un’improvvisa voglia di scappare a gambe levate, come se
fuggire in quel
momento fosse servito a qualcosa. Non potevo battere in ritirata, non
in quel
momento, non a quel punto, con la porta che cominciava ad aprirsi
davanti a me.
“Che diavolo ci fai
qui!?”, esclamò Maya, quando si rese
conto di avere me, proprio me davanti
agli occhi. E si fece riconoscere come sempre per la sua delicatezza.
I
capelli legati a caso, sopra la testa, gli abiti
decisamente di un paio di taglie più grandi, il viso stanco:
Claudio aveva
ragione. Era nella sua stessa situazione.
“Pensi di
rispondermi o preferisci restare a fare la bella statuina davanti alla
mia
porta?”
“Ciao Maya, Sì, sto
bene, grazie per avermelo chiesto. Com’era il limone che hai
mangiato
stamattina?”, le chiesi, infine, non riuscendo a
nascondere una nota di
irritazione nella voce. Non aveva più senso cercare di
essere gentile con lei,
soprattutto quando decideva di comportarsi come una zitella inacidita
dalla
mancanza di sesso.
“Pensa a trovare un
valido motivo per essere qui, invece che fare l’idiota”,
continuò, non
lasciandosi impressionare da me. Si appoggiò allo stipite
della porta,con le
braccia incrociate al petto, guardandomi con un sopracciglio alzato,
come se
per lei rappresentassi davvero poco. Ed era esattamente ciò
che stavo provando,
sotto il suo sguardo di glaciale.
“Vorrei parlarti,
anche se può non essere di tuo gradimento”,
cominciai, avvicinandomi alla
porta ed evitando Maya, entrando nel suo appartamento. “Perciò, grazie mille per
l’ospitalità”, conclusi, con
un sorriso
tirato, giusto per il gusto di farla innervosire. Perché
sembrava diventato
l’unico modo efficace per farla parlare apertamente, con
sincerità.
“Dannazione, Travis”,
esclamò, facendo sbattere la porta e lanciandomi uno sguardo
che di
rassicurante aveva ben poco. “Devi
smetterla di fare tutto di testa tua, e non è proprio
giornata, quindi sei
pregato di levare il culo dal mio appartamento ed andartene!”.
Sembrava
davvero al limite della pazienza, con quei suoi
occhi fuori dalle orbite, ma quello era solo l’inizio e non
mi sarei fermato
prima di sentire tutta la sua storia, per filo e per segno. Non mi
sarei
fermato fino a quando non avessi visto tutti quei suoi muri crollare al
suolo.
“Lo so che non è
giornata”, ribattei, continuando a fissarla. Era
arrivato il momento di
smetterla di scherzare e di girarci attorno.
“Bene, allora se…”,
cominciò, fermandosi poi di colpo, dopo aver compreso
appieno le mie parole.
Se
ne restò zitta un momento, con lo sguardo quasi
allucinato e le labbra socchiuse, osservandomi come se venissi da un
altro
pianeta e per un momento ebbi quasi paura di come sarebbe potuta
esplodere,
perché era imprevedibile, Maya. “Come
sarebbe a dire che lo sai?”, mi domandò,
dopo un istante, in un sussurro.
Bomba
sganciata, ed aveva ottenuto l’effetto che avevo
desiderato e non mi sarei fermato fino a quando non avesse detto tutto
quanto.
“Sì”, le
confermai, continuando a scrutarla. “Me
lo ha detto tuo padre, all’allenamento”.
Quelle
poche parole sembravano averla mandata nel panico
più totale ed era palesemente a disagio, lo si vedeva dagli
occhi che avevano
cominciato a posarsi su tutto quanto tranne che sul sottoscritto. E
fece quello
che era solita fare quando cominciava a trovarsi in
difficoltà, scappò per
l’ennesima volta dirigendosi a passo spedito verso la cucina.
Ma non mi lasciai
sfuggire quel briciolo di occasione che sembrava essermi capitata, non
volevo;
così la seguii in silenzio, aspettando che fosse lei la
prima a parlare.
“Beh, non avrebbe
dovuto, non sono affari tuoi”, disse, poi, con fin
troppa calma. “Per una volta avrebbe
dovuto tenere la bocca
chiusa. E tu potevi risparmiarti questa visita, cosa volevi? Vedere se
ero
occupata a piangermi addosso?”, domandò,
infine, voltandosi improvvisamente
a guardarmi. E non vidi altro che fuoco, nei suoi occhi, rimorso e
rabbia.
“Mi spiace
informarti che hai fatto un viaggio a vuoto, Travis”,
aggiunse, e se avesse
potuto avrebbe sputato veleno, prima di tornare a trafficare con le
attrezzature da cucina senza, in realtà, fare nulla di
concreto.
“Ti ho detto che
sono qui per parlare, Maya, o per ascoltare. dipende da cosa ti
può essere più
utile”, ribattei, cominciando ad innervosirmi.
La
vidi voltarsi di scatto ancora una volta verso di me,
con lo sguardo furente e le labbra semiaperte. E se non avessi saputo
che,
tutta quella messinscena, veniva tirata su solamente per proteggere
sé stessa,
avrei quasi avuto paura.
“Credi ancora che
abbia bisogno di te, Travis!?”, mi chiese, con una
risata amara,
schernendomi. “Non mi sono mai
pianta
addosso in vita mia e non ho intenzione di farlo ora, non con te”,
aggiunse, infine, e terminò con meno enfasi, come se fosse
improvvisamente
stanca di parlare. Poi tornò a darmi le spalle, poggiando
entrambe le mani al
banco della cucina, tenendo la testa chinata.
Non
avevo la minima idea di cosa fare e di come
comportarmi, una parte di me avrebbe voluto raggiungerla e sistemare le
cose,
ma non avevo la minima idea di come fare per limitare i danni.
“Maya…”,
cominciai, prima di venire interrotto proprio da lei.
“Non capisco cosa
ti dia il diritto di piombare a casa mia dopo giorni di silenzio,
pretendendo
che mi apra con te su un argomento come… come questo”,
sputò, velenosa. “Davvero,
non riesco a capire come tu possa
avere certe pretese con…”.
“Maledizione, Maya,
smettila!”, esclamai, perdendo definitivamente la
pazienza. “Non sono venuto qui con
delle pretese, e se
per una volta mi ascoltassi capiresti le mie intenzioni. Ma no, devi
sempre
straparlare ed allontanare chiunque cerchi di darti una mano”,
le dissi
esasperato, quasi urlando.
Non ne potevo davvero più di quel suo comportamento e la
odiavo, la odiavo
davvero quando faceva la stronza in quel modo, perché lei
era più di quella
facciata che si ostinava a mostrare, era più di quella
montagna di arroganza e
frecciate non tanto velate. Era molto di più e nemmeno se ne
rendeva conto.
Mi
avvicinai lentamente a lei, in attesa di una sua
risposta che sembrava non arrivare mai, poi le posai le mani sulle
spalle,
cercando di scorgere il suo viso tra tutti quei ricci che le ricadevano
sul
volto. Ma era nascosta tra tutti quei capelli e se ne restava zitta,
non aveva
ancora proferito parole, e l’unica cosa che riuscivo a
percepire erano le sue spalle
che si alzavano ed abbassavo in modo irregolare, come se anche solo
l’azione
del respirare le riuscisse difficile, complicata come non mai.
“Perché mi stai
facendo questo?”, domandò, dopo alcuni
istanti, con voce incrinata. E mi
sembrava tanto vicina la meta, la riuscita dei miei intenti. “Perché cerchi ogni volta di annientarmi?”.
“Maya, ne hai
bisogno”, le dissi, piano, cercando di voltarla
verso di me. “Ne hai bisogno tu come
ne ho avuto bisogno
io, e mi sento in dovere di restituirti il favore”.
“No, non è vero!”,
esclamò, poi, sbattendo la mano contro il ripiano a cui era
appoggiata. “Cazzo, Travis,
è l’ultima cosa di cui ho
bisogno, tu non hai idea di cosa stai parlando”.
Continuò
a tenere lo sguardo incollato al pavimento,
nonostante fossi riuscito a farla girare verso di me, ma sembrava non
volerne
sapere di sollevare gli occhi.
Con
una mano le afferrai il mento e la costrinsi a
guardarmi, notando quanto sembrasse improvvisamente stanca e spossata,
con gli
occhi leggermente arrossati. Stava cedendo, si vedeva, lo sentivo, ed
avevo
paura di cosa avrebbe comportato tutto quello.
“Credi di avere
sempre ragione, tu, di essere sempre nel giusto, ma questa volta no,
Travis,
questa volta ti sbagli di grosso”,
sussurrò, continuando a guardarmi, e a
stento capii le sue parole per quanto parlò piano.
“Questa volta… io, non ce
la faccio”.
Sgusciò
ancora una volta dalla mia presa, scappando,
ancora e cominciò a girovagare per il suo appartamento senza
una meta precisa.
Non avevo idea di come comportarmi e di cosa dirle senza perdere la
pazienza
che, anche in quel momento, cominciava a vacillare.
“Non so come sia
successo, il vero motivo della sua fuga, so solo che è da
pazzi anche solo
pensare di abbandonare i propri figli, non credi? Come può
una madre lasciarsi
alle spalle sua figlia!?”
Aveva
cominciato a parlare davvero, improvvisamente, nel
momento in cui era crollata di peso sul divano, guardandosi le mani che
continuavano a torturare l’orlo della maglia. Ed io avevo
quasi paura di
muovere anche un solo passo: non avrei permesso che si fermasse ancora
una
volta e che si chiudesse in se stessa.
“A cinque anni non
ti rendi conto di quello che ti accade davvero, sei fin troppo
infantile e
stupida, ma crescendo ti rendi conto di tutto quanto pian piano, come
se la
vita non facesse già abbastanza schifo. Man mano che passa
il tempo ti accorgi
di piccoli particolari a cui non avevi nemmeno fatto caso e non hai
idea di
quanto faccia male, di quanto faccia schifo farsi migliaia di domande
per
capire dove hai sbagliato per meritare una cosa simile. Nessun bambino
merita
di essere abbandonato così di punto in bianco, senza una
spiegazione. Ma lei lo
ha fatto ed è stata così tanto stronza che mi fa
schifo anche solo pensarci”,
prese un profondo respiro, passandosi una mano tra i capelli e
stringendo, vicino
alla nuca, fino a farsi male, togliendosi infine l’elastico
che li teneva fermi
a stento.
La
vedevo tentare di trattenersi il più possibile, di
restare in quel precario equilibrio a cui sembrava fin troppo
affezionata, la
vedevo cercare di trattenere le lacrime, di non piangere. Sapevo che si
sarebbe
solamente arrabbiata di più con sé stessa se
avesse perso quella sfida che
sembrava essere diventata invincibile.
“Mio padre ha detto
che se ne è andata per colpa sua, perché la sua
celebrità aveva cominciato ad
infastidirla e non ne reggeva più il peso. Io non ho nulla a
che fare con tutto
questo, secondo lui, e credo sia anche peggio. Significa che nemmeno mi
ha
calcolata, non ha pensato alla sua maledetta figlia nemmeno un istante.
C’era
solo lei e la vita tranquilla che tanto voleva, così se ne
è andata una sera,
mentre ero già a letto. Sai cosa mi ha detto mio padre, la
mattina dopo? Ha detto
che sarebbe tornata, nei giorni seguenti sarebbe tornata ed io ci ho
sperato
così tanto, ci ho creduto fino a star male, ma poi i giorni
sono diventati
settimane, poi mesi e alla fine ho smesso di chiedere che fine avesse
fatto mia
madre e quando sarebbe tornata. Solamente sei anni dopo mio padre mi ha
raccontato tutto quanto, e credo di aver pianto per delle ore, dopo.
Credo di
aver pianto come mai in vita mia e lui non sapeva da che parte farsi,
non aveva
la minima idea di come comportarsi, e come dargli torto?”
, le uscì una
risata amara, che non mi convinse affatto. Sembrava sul punto di
crollare in
mille pezzi da un momento all’altro, di cadere
nell’oblio da cui continuava a
scappare da fin troppo tempo.
“Poi si è fatto in
quattro per me, cercando di seguire allo stesso tempo anche la piscina.
E ci è
riuscito, maledizione! Mia madre aveva avuto così poca
fiducia in lui che per
un momento mi aveva fatto sorgere dei dubbi, ma ora che ci ripenso mi
rendo
conto di come si sia impegnato per non farmi mancare nulla, per essere
sempre
presente. La scuola, i concerti, l’università, i
soldi per pagare questo
appartamento… ha fatto tutto il possibile e anche di
più perché doveva
rimpiazzare una donna che non ha avuto le palle di fare il suo
lavoro!”,
aggiunse, quasi ringhiando ed assottigliando lo sguardo sulle sue mani,
visibilmente nervosa.
“E mi fa incazzare,
non sai quanto, che lei si sia rifatta una vita perché, sai,
quando avevo
sedici anni sono andata a cercarla e l’ho trovata, ho
scoperto dove abitava quella
donna. Sono arrivata in Veneto, facendo credere a mio padre di aver
passato un
weekend a casa di un’amica, e l’ho trovata davanti
ad una scuola. Credo che
abbia vent’anni, ora, la bambina che ho visto correrle
incontro. Dopo quel
momento, me ne sono tornata di corsa a casa, senza nemmeno voltarmi
indietro.
Decisi nel momento in cui salii sul treno che, quella parte della mia
vita, era
conclusa, non ci avrei più pensato. E sono rimasta fedele
alla mia parola… fino
a questo momento”, disse poi, sollevando gli occhi
a fatica ed incontrando
i miei. E la sensazione di disagio che provai fu indescrivibile, fu
come
rendersi conto di essere nel posto sbagliato al momento sbagliato e con
la
persona sbagliata. Aveva quello strano potere, lei, di farti sentire
come la
persona migliore del mondo, un attimo, e quella peggiore
l’attimo dopo.
“Per colpa tua,
perché sei così cocciuto da farmi venire la
nausea. Sei contento, ora?
Spero
davvero che tu lo sia davvero tanto, perché…
perché io non ne posso
più, non ce la posso fare”,
tornò con le mani tra i
ricci scomposti, prendendosi la testa e scuotendola leggermente.
“Non ce la faccio proprio a
ripensare a mia
madre, fa troppo male. Per anni sono riuscita a tenerla sepolta
chissà dove ed
ora tu, con le manie di sincerità sei arrivato a mandare a
puttane tutto quello
che ho costruito con fin troppa fatica”, il suo
tono di voce si era alzato
notevolmente, diventando più acuto, disperato. Ed avrei
davvero voluto fare
qualcosa per farle passare tutto quel dolore che sembrava provare, ma
non avevo
davvero idea di che cosa fare, di come comportarmi. Me ne restavo in
piedi
davanti a lei, immobile e senza avere la forza di muovere un muscolo.
“Dio, Travis”,
esclamò, all’improvviso. “Perché
lo hai
fatto, per quale assurdo motivo sei arrivato qui come un treno in
corsa!?
Perché? Ti diverte vedermi così?”,
chiese, poi, spalancando gli occhi e
fissandomi. Stava cominciando a crollare, le prime lacrime stavano
scendendo
sulle sue guance e fu come ricevere una pugnalata al petto, vederla in
quello
stato.
“Non pensavo che mi
odiassi fino a tal punto, cosa ti ho fatto di male per meritarmi
questo, eh? Lo
hai fatto perché ti sei trovato nella stessa situazione, eh?
Perché ti ho messo
alle strette e hai trovato il modo perfetto per vendicarti?”,
la sua voce
aveva cominciato ad incrinarsi, a non reggere più la
situazione, così come il
suo viso che sembrava un vero disastro: gli occhi già rossi
e inondati di
lacrime, l’espressione sofferente.
“Non credevo fossi
così subdolo!”, sussurrò,
infine, cominciando a lasciarsi andare in
singhiozzi che cercava comunque di trattenere, abbassando lo sguardo e
nascondendosi dietro i riccioli che le cadevano sulla fronte.
Mi
avvicinai lentamente, con cautela, pensando a quello
che avrei potuto fare o dire, soprattutto dopo quello che mi aveva
detto. Ed io
non volevo assolutamente che pensasse certe cose di me,
perché non avevo
insistito per puro gusto personale. Tenevo a lei e volevo aiutarla,
volevo che
fosse un po’ più spesso la Maya dei primi tempi
dopo quel Capodanno passato
insieme. Non era quella che avevo davanti la donna che mi aveva
lasciato senza
fiato, e vederla in quello stato mi faceva male, mi faceva venir voglia
di fare
tutto il possibile per migliorare la serie di stati d’animo
che parevano sovrapporsi
in lei. Non avevo idea di come avrei fatto, ma ero deciso a fare del
mio
meglio.
Mi
inginocchiai davanti a lei, prendendo un respiro
profondo e cercai di attirare la sua attenzione, abbassandomi a livello
del suo
viso. Ma lei continuava a sfuggirmi, cercando di non incontrare il mio
sguardo.
Così le presi il viso tra le mani, sollevandolo ed
incontrando i suoi occhi,
quell’oceano in tempesta. E fu quasi come una pugnalata al
petto.
“Non sono subdolo,
Maya, e di certo non sono venuto qui con l’intenzione di
farti crollare”,
cercai di sembrare sincero, ma sapevo che sarebbe stato davvero
difficile
convincerla, farle capire davvero per quale motivo mi trovavo
lì. “Voglio solamente
capire per quale motivo sei
diventata così, voglio conoscerti e, questo, comprende ogni
più piccola cosa e
tutto quello che ti è capitato di spiacevole. Voglio
conoscere la vera te, non
quella che si nasconde, non quella che cerca di difendersi ad ogni
attacco,
voglio che ti apra con me e che ti possa fidare. E mi dispiace davvero,
non sai
quanto, di aver riaperto una ferita simile”.
Quanto
può sembrare indifesa una persona, mentre piange,
mentre fa crollare tutti quei muri che per anni ha cercato di mantenere
su?
Quanto può far male vedere una persona cadere a pezzi?
E
lei non ce la fece più a tenersi tutto dentro, a
nascondere tutte quelle sensazioni che sembrava provare
all’unisono. Crollò nel
momento stesso in cui finii di parlare, come se avesse cercato di
resistere il
più possibile, di trattenersi fino al momento giusto, ed i
singhiozzi che
avevano cominciato ad uscirle dalla gola mi stringevano lo stomaco in
una
morsa. Non avevo idea di quanto potesse essere disperata, di quanto
potesse
aver sofferto e, probabilmente, non lo avrei mai saputo, ma il suo
pianto
rendeva perfettamente l’idea.
Si
prese il viso tra le mani, nascondendosi per
l’ennesima volta, così cercai di avvicinarmi
ancora di più a lei e la
abbracciai nel modo migliore in cui potessi fare. Doveva sentirmi
vicino,
doveva capire quanto si potesse fidare davvero di me e non le avrei
permesso di
scappare ancora una volta, non gliel’avrei lasciato fare. Ero
lì per un motivo
ben preciso, cioè prendermi cura di lei e non avrei lasciato
rovinare tutto dal
suo orgoglio. L’avrebbe superato ed io l’avrei
aiutata, a partire da quel
momento.
“Maya, calmati, ti
prego”, le mormorai, tra i capelli, sentendola
tremare tra le mie braccia.
“La fai tanto
facile tu, lo hai sempre fatto”,
esclamò, poi, tra le lacrime,
allontanandomi da lei e cercando il mio sguardo. “Ma non lo è affatto. Non lo è
mai stato e non lo sarà mai. Perché?
Perché mi ha fatto questo!? Cosa ho fatto di sbagliato per
farla scappare?”.
Quella serie di domande dovevano rappresentare una vera e propria
tortura, da
come ricominciò a piangere, più disperata di
prima, e faceva male, faceva
davvero un male cane vederla soffrire in quel modo, vederla tormentarsi
per
qualcosa che con lei non aveva nulla a che fare, perché mi
rifiutavo di credere
che la madre se ne fosse andata per colpa sua. Non avrebbe avuto alcun
senso.
“Non osare
incolparti per una cosa simile, Maya, non pensarci nemmeno!”,
cominciai,
deciso a farmi ascoltare. “Non
è colpa
tua e, onestamente, credo che l’unica ad averci rimesso
qualcosa sia lei, non
tu. Non ha potuto vederti raggiungere i tuoi traguardi, non ha potuto
vedere
come, nonostante tutto, tu sia riuscita a farti strada, a rialzarti con
le tue
gambe. Tu non hai nulla di cui incolparti, credimi. Così
come mi hai detto che
non devo incolparmi per la morte di mio padre, tu non devi farlo per la
fuga di
mia madre”.
La
vidi cercare improvvisamente i miei occhi, guardarmi
con quella che sembrava un briciolo di speranza, quando
sentì quelle parole e
sperai davvero di aver colto nel segno, di poterla convincere seguendo
quella
strada.
Nemmeno
se lo immaginava, ma mi aveva davvero aiutato, mi
aveva fatto sentire meglio, nonostante tutto quello successo a mio
padre non
sarebbe mai passato davvero, ma per un solo momento lo avevo quasi
dimenticato.
Per un solo istante avevo quasi dimenticato cosa significasse crescere
senza un
padre e senza una madre accanto, andare avanti con il pensiero fisso e
martellante di non aver fatto abbastanza e di non essere
mai abbastanza. E lo avevo fatto grazie a quella ragazza che
sembrava quasi irriconoscibile e, per questo, le dovevo almeno quel
favore.
“Tu non hai smesso
di incolparti per tuo padre”, mormorò,
poi. “Non cercare di darmela a bere”.
“Probabilmente una
parte di me si incolperà sempre, ma avevi ragione tu: presto
o tardi sarebbe
successo ed io non sarei stato in grado di fare nulla. Ma la tua
situazione è
ben diversa, tua madre ha fatto una scelta e, nonostante sia stata
quella
sbagliata, ti ha fatto diventare quella che sei oggi”.
Non sapevo più a
cosa aggrapparmi, non avevo idea se quello che le stavo dicendo avrebbe
funzionato, ma ci speravo davvero. E tanto valeva essere brutalmente
sinceri,
in quell’occasione, non farsi scappare quel suo attimo di
debolezza per potermi
aprire lo stretto indispensabile. “E,
nonostante non abbia la minima idea di chi saresti potuta diventare con
tua
madre ancora al tuo fianco, sappi che io preferisco in ogni caso la
donna che
ho davanti agli occhi in questo momento, con tutti i suoi mille
difetti. Vai
bene così, Maya, non credere al contrario”.
“Vuoi dire questo
disastro ambulante?”, chiese, dopo qualche istante,
tranquillizzandosi
leggermente.
“No, tu”,
risposi, togliendole i capelli dal viso. “In
tutte le tue sfaccettature, tu”.
Restò
in silenzio, continuando ad osservarmi, mentre io
cercavo di capire come potesse essere stato tanto semplice dirle quelle
parole.
Perché, diciamocelo, ero stato un vero e proprio idiota a
non dirglielo prima
e, con ogni probabilità, viste le sue condizioni il giorno
seguente non se ne
sarebbe nemmeno ricordata. Ma andava bene così, mi ero tolto
un peso che aveva
sostato fin troppo sul mio stomaco ed era stata una vera e propria
liberazione.
“Continua a fare
male, Travis”, mi disse, poi,con la voce ancora
rotta dal pianto e le
lacrime che avevano ripreso il loro percorso sul suo viso. Le passai le
mani
sulle guance, cercando di limitarmi all’insultare mentalmente
la madre di
quella ragazza che non meritava affatto tutto quel male.
“Lo so, piccola”.
Non riuscii a dirle altrimenti, ad articolare una frase con un senso
perché lei
in quelle condizioni mi destabilizzava e mi impediva di pensare
lucidamente.
Anche se, la maggior parte del tempo, mi annebbiava la vista.
Così mi avvicinai
ancora, abbracciandola delicatamente, stringendola poi più
forte quando
cominciai a sentire distintamente i suoi singhiozzi ricominciare.
Crollò con il
viso nell’incavo del mio collo, crollò in mille
pezzi tra le mie braccia senza
che potessi fare qualcosa di concreto per aiutarla. Ma andava bene
così, sapevo
che prima o poi ce l’avrebbe fatta, sarebbe riuscita a
rialzarsi. Era più forte
di quello che credeva e nemmeno se ne rendeva conto, perciò,
in quell’abbraccio
che di normale aveva ben poco, andava bene così.
Non
avrei
voluto svegliarla, ma dovevo scappare e andarmene senza dirle nulla,
lasciandola svegliare da sola, non mi sembrava proprio il caso. Non
dopo quello
che era accaduto la sera precedente. Era riuscita a prendere sonno
– finalmente
– solamente poche ore prima, probabilmente esausta dalle
varie crisi di pianto
che l’avevano assalita.
Era
stata la
prima volta che avevo visto piangere una persona in quel modo, non
pensavo
nemmeno fosse umanamente possibile, ma era successo. E davanti ai miei
occhi,
per giunta. Avevo avuto paura per me stesso perché non avevo
idea di come
comportarmi, ma soprattutto per lei perché pareva davvero
non riuscire a
smettere ed aveva continuato a tremare contro di me, singhiozzando come
una
bambina. Ma se fosse stata davvero una bambina a piangere in quel modo,
il
tutto si sarebbe risolto in fretta, invece la situazione era seria e
reale e faceva
paura.
Eppure
sembrava
così tranquilla in quel momento, nonostante avesse passato
quelle poche ore di
sonno in preda a sogni che non avevano fatto altro che agitarla, ma
almeno si
era calmata, addormentandosi praticamente addosso a me. Ma non avevo
avuto il
coraggio di spostarla, preoccupato che potesse svegliarsi e
ricominciare ancora
a piangere, a stare male.
Se
ne stava
rannicchiata su un fianco, dandomi la schiena, chiusa talmente tanto a
riccio
che non potei fare a meno di chiedermi come potesse dormire bene in
quella
posizione. Così mi avvicinai a lei, facendo aderire il mio
corpo al suo e le
passai delicatamente la mano sul braccio che spuntava dal lenzuolo,
praticamente abbracciandola.
“Maya”, sussurrai, cercando di
svegliarla
nel modo più delicato possibile. Ma lei sembrava non
ascoltarmi. Provai a
chiamarla ancora una volta, baciandole la porzione di pelle dietro
l’orecchio e
affondando il viso nella massa di capelli scomposti sul cuscino, e
finalmente
la sentii svegliarsi, mugugnando chissà cosa e muovendosi
leggermente.
“Lasciami dormire”,
biascicò, scorbutica,
con la voce ancora impastata dal sonno. Almeno sembrava aver
riacquistato parte
del suo solito carattere.
“Non ti preoccupare, puoi tornare a dormire”,
la rassicurai, sorridendo divertito dalla sua solita indole scontrosa.
“Volevo solamente avvisarti che devo
andare”.
La
vidi
socchiudere gli occhi, stropicciandoseli con una mano, prima di cercare
il mio
sguardo. Come poteva essere così
di
prima mattina, dopo l’inferno che aveva passato la notte
precedente? “Ma che ore sono?”,
domandò, rimettendosi
nella posizione precedente, senza però chiudere gli occhi.
“Sono le sette”.
“E che dovresti fare alle sette?”,
domandò in un sussurro, non riuscendo ad articolare una vera
e propria frase
per colpa del sonno.
“Devo andare ad allenarmi, Maya”,
risposi, spostandole alcune ciocche dal viso perdendomi ad osservare i
suoi
lineamenti. “Tanto per cambiare”,
aggiunsi, in un sussurro. Mi sollevai su un gomito, per poterla
osservare
meglio, per poterla vedere ancora assorta nei suoi pensieri con lo
sguardo
perso nel vuoto, come se nemmeno avesse ascoltato le mie parole. Certo,
aveva
recuperato un briciolo di sé stessa, ma ancora non le era
passata del tutto, ed
era molto più che comprensibile.
Poi
si voltò
con calma verso di me, mettendosi a pancia in alto, fissandomi con
quelle pozze
d’acqua che la sera precedente avevano straripato come non
mai. Metteva quasi a
disagio, quel suo sguardo, come se fosse lì pronto per dirti
che non eri altro che
uno dei tanti, che non eri nessuno, ed io non riuscivo davvero a capire
se
fossero proprio quelli i suoi pensieri oppure se fosse solamente frutto
della
mia immaginazione.
“Sei rimasto”, disse infine,
quasi
sorpresa, lasciandomi interdetto. Davvero pensava che me ne sarei
andato? Dopo
quello che avevo visto non l’avrei lasciata sola nemmeno se
mi avesse buttato
fuori dal suo appartamento a calci, non ce l’avrei fatta.
“Dove pensavi che andassi?”, le
chiesi,
poi, continuando a giocare con i suoi capelli vicino alla nuca.
“Mi hai fatto preoccupare, Maya,
forse non te
ne rendi conto, ma per un momento ho davvero pensato che non saresti
riuscita a
fermarti”.
Tanto
valeva
essere sinceri anche in quell’occasione, nonostante sembrasse
stupido. Ma
quando le avevo detto che mi ero preoccupato era tutto completamente e
assolutamente vero, perché non avrei mai pensato che una
come lei potesse
crollare in quel modo, rompendosi in mille pezzi.
Poi
Maya
afferrò una mia spalla e mi attirò a
sé, ed io rischiai di sotterrarla tra me ed
il materasso, ma sembrava non importarle. E vederla così
bisognosa di un
semplice abbraccio mi lasciò di stucco, perché
vengono sempre tanto
sottovalutati, gli abbracci, e vengono dimenticati, ma con uno come
quelli fu
come tornare a respirare davvero, fu come sentirsi davvero importanti
per
qualcuno. Si aggrappò con un braccio alle mie spalle e alla
mia nuca e con
l’altro mi avvicinò a lei ancora di
più, cingendomi il busto. Così la avvolsi
anche io come meglio potei, affondando il viso nei suoi capelli e
stringendola
a me come non avevo mai fatto, probabilmente. Quasi non mi sembrava
vero,
eppure era stata davvero lei a lasciarsi andare in quel modo, cercando
la mia
vicinanza.
“Sei rimasto”,
ripeté, lei, con un tono
sommesso che avrei scambiato quasi per commosso. “Nonostante mi sia comportata da perfetta stronza,
sei rimasto, ieri
sera”, aggiunse, facendo più salda la
sua presa.
“Stai zitta”, la ammonii.
“Questa volta mi devi lasciare parlare”,
ribatté, lei, non sciogliendo l’abbraccio.
Entrambi
eravamo ben consapevoli che, qualunque fosse il discorso che avrebbe
fatto
Maya, non saremmo mai riusciti a farlo faccia a faccia, guardandoci
negli
occhi, non riuscendo a nascondere la sincerità. Ma andava
bene così, andava
benissimo quell’abbraccio quasi soffocante, ma vero da far
male. Andava bene
parlare sulla pelle dell’altro, e non avrei cambiato un solo particolare
nemmeno se avessi potuto.
“Mi dispiace”, ammise, dopo
qualche
istante di silenzio, sorprendendomi. “Ti
ho trattato malissimo e… mi dispiace, davvero. E per ieri
sera… ti ringrazio”,
concluse, con voce incrinata.
Mi
stesi su un
fianco, trascinando Maya con me per poterla finalmente guardare in
viso, per
vedere quei suoi occhi ancora inumiditi dall’emozione, per
vedere finalmente
quelle sue migliaia di barriere che cominciavano a cadere pian piano.
Le
scostai i
riccioli che le ricadevano sul viso, sfiorandone la pelle con le dita,
mentre
lei sembrava non intenzionata a lasciarmi andare, per una volta. E mi
persi
ancora in quei pozzi che non smettevano un momento di fissarmi, di
scrutare il
mio volto, mi persi come avevo fatto la prima volta e come avrei fatto
ogni
altra volta successiva, probabilmente. E fu proprio in quel momento,
forse, che
mi resi conto di quanto fossi fottuto.
“Sta zitta, una buona volta”, le
ribadii,
avvicinandola ancora a me. “Zitta e
torna
a dormire, ne hai bisogno”.
La
vidi
aggrottare leggermente le sopracciglia, mentre potevo immaginare il suo
cervello intento ad analizzare ogni singolo particolare di
ciò che le avevo
appena detto, poi tornò a rilassarsi contro di me con la
fronte poggiata alla
mia spalla. “Dovresti andare,
allora, se
non vuoi far tardi”, sussurrò, ed io
feci davvero fatica a sentirla. “Mio
padre potrebbe ucciderti, o peggio:
farti fare vasche su vasche fino a quando camperai”,
aggiunse,
ridacchiando. E fu quasi surreale sentire quel suono uscire dalla sua
bocca,
con la sua voce ancora assonnata, perché sembrava davvero
aver recuperato parte
di sé stessa, sembrava che la sera precedente non ci fosse
nemmeno stata.
Rimasi
un
momento in silenzio, a pensare, a cercare di capire cosa fare e come
agire,
nonostante sapessi perfettamente cosa avrei fatto infine. Forse lo
sapevo dal
momento stesso in cui mi ero svegliato con il corpo di Maya accanto al
mio e
con il suo profumo sulla mia pelle, sul cuscino, tra le lenzuola.
Ovunque.
Già
in quel
momento avevo capito che non sarei riuscito ad abbandonarla in una
giornata
simile, nonostante l’allenamento che mi attendeva, nonostante
la ramanzina che
mi sarei beccato sicuramente da Claudio. Non potevo andarmene e non
volevo.
Così mi sistemai meglio sul letto, facendo attenzione al
corpo di Maya e
tornando a poggiare la testa sul cuscino. “Di
allenamenti e di vasche ne dovrò fare in ogni caso, oggi
posso anche mandare a
fanculo il resto del mondo”, mormorai, giocando con
i capelli di Maya, che
sollevò lo sguardo all’improvviso, trovandosi
spaventosamente vicina a me.
Una
stilettata
ai polmoni, ecco cos’erano quegli occhi, perché
che fossero intrisi di
felicità, rabbia o sorpresa, restavano comunque micidiali,
capaci di farti
mancare il respiro. Come quel mezzo sorriso che le spuntò
sulle labbra, che
cercò in qualche modo di nascondere, invano. “L’allievo perfetto che salta gli
allenamenti? Chi sei tu e che ne hai
fatto della superstar, del campione mondiale?”, mi
punzecchiò, ridendo,
portando una mano tra i miei capelli alla base della nuca.
Ed
io mi beai
di quel tocco, cercando di gustarmi il più possibile la
sensazione delle mani
di Maya su di me, seppur solamente tra i capelli. Poggiai la fronte
alla sua,
chiudendo gli occhi e respirando profondamente perché dovevo
trattenermi,
dovevo mantenere il controllo per non rovinare quel momento e la
tranquillità
della ragazza che, la sera prima, aveva perso completamente il
controllo di sé
stessa. Non avrei approfittato di lei in quella situazione, non ce
l’avrei
fatta.
“Oggi sono solamente me stesso, non il
campione, non l’allievo perfetto. Oggi sono solo Travis”,
risposi, cercando
di darmi un tono, nonostante il tocco delle sue mani mi stesse mandando
in
estati, su un altro pianeta dove non c’era il nuoto di mezzo
e dove non c’erano
ostacoli né per lei né per me. “Non
voglio andarmene… posso restare?”, le
chiesi, poi, aprendo gli occhi e
trovando i suoi intenti a fissarmi a pochi centimetri dal viso.
Lei
si limitò
ad annuire, leggermente, come se avesse paura di far conoscere la
propria
opinione in merito, e non mi diede nemmeno il tempo di studiare la sua
espressione, i suoi occhi, che abbassò immediatamente lo
sguardo, tornando a
poggiare la fronte sulla mia spalla, rintanandosi tra le mie braccia.
Ed io non
feci altro che stringerla ancora di più, avvicinandola a me
e sentendo ogni
particella del mio corpo animarsi a contatto con la sua pelle.
Cercai
di darmi
una calmata, di contenermi e di pensare ad altro, ma l’unica
cosa che mi si
parava davanti agli occhi, nella mia mente, quando decidevo di serrare
le
palpebre, era quel sorriso incerto che si era lasciata scappare poco
prima,
come se una qualche emozione diversa dal solito l’avesse
animata.
Era
stato un
passo avanti, quello, una sorta di resa che aveva portato ad un
risultato
migliore di quello precedente. E non me lo sarei lasciato scappare, non
avrei
più permesso a me stesso di fare l’idiota e di
perdere un qualcosa di così
prezioso come la persona che si era addormentata con la testa sopra il
mio
braccio.
Mi
ero
svegliato più di tre ore dopo, con ancora il corpo di Maya
vicino al mio ed il
suo profumo nelle narici. Dava alla testa, tutto quanto, e dava quasi
dipendenza.
Lei
continuava
a dormire indisturbata, fortunatamente, così dopo alcuni
istanti passati ad
osservarla rannicchiata contro di me, decisi di alzarmi per andarmi a
preparare
qualcosa in cucina.
Mi
avrebbe
ammazzato, probabilmente, per aver utilizzato le sue cose senza
chiedere, ma la
sera prima non mi ero nemmeno fermato a mangiare un boccone prima di
raggiungerla e cominciavo ad avere fame. Ricordavo il primo giorno
dell’anno,
quando l’avevo trovata in cucina intenta a prepararsi una
tazza di tè, e ricordavo
perfettamente come impazzisse per il tè Earl Grey. Era un
particolare che non
avrei mai potuto dimenticare e che la faceva assomigliare
pericolosamente a mia
madre, ma lasciai perdere. Così mi decisi a fare qualcosa di
carino e, dopo
aver cercato un po’ per la cucina, misi sul fornello
l’acqua per il tè e attesi
con le mani poggiate al bancone che fosse pronto.
Dalla
sera
prima avevo ancora indosso i pantaloni sportivi, non avendo avuto il
coraggio
di spogliarmi completamente con Maya messa in quelle condizioni, e
cominciavo a
sentire il bisogno di una doccia, ma avrei atteso fino a quando non si
fosse
svegliata, troppo preoccupato che potesse cadere ancora in crisi. Avrei
voluto
tornare al mio appartamento, certo, ma non me la sentivo proprio di
lasciarla
sola.
Era
stato un
po’ come tornare a vedere il mondo con gli occhi di sempre,
svegliarsi accanto
a quella ragazza. Perché sapevo quanto potesse essere
davvero rompipalle e
nevrotica, ma dopo quel momento era tornata anche la stessa Maya che
aveva
saputo sorprendermi e mandarmi al manicomio e stupirmi per come, a
volte,
rendesse tutto quanto più semplice. E non riuscivo davvero a
capacitarmi di
come avesse potuto soffrire così tanto, quella ragazza, ma
tutto spiegava i
suoi atteggiamenti ed i mille muri che ogni volta cercava di tirar su.
Ma io
ero riuscito a distruggerli, quei muri, anche solo un paio e mi stavo
avvicinando sempre di più a quella che pensavo fosse davvero
Maya. Peccato che
più mi avvicinavo e più mi rendevo conto di come
risultava difficile, poi,
lasciarla andare, allontanarsi da lei.
Tornai
a
concentrarmi sul pentolino d’acqua davanti a me, che aveva
cominciato a
bollire, così spensi il fornello ed immersi
l’infusore, perdendomi ad osservare
i vari flussi di colore che avevano cominciato a tingere
l’acqua.
Ingannava
e
stregava, quel colore che si muoveva lento ed indisturbato e dava un
senso di
pace che sapeva incantare. E fu per quel motivo che mi resi conto della
presenza di Maya solamente quando si avvicinò a me, posando
una mano sul mio
avambraccio.
Mi
voltai
lentamente verso di lei, che si stava sporgendo per poter vedere cosa
stessi
facendo e cercò di nascondere un sorriso quando si rese
conto della qualità di
tè che avevo scelto tra la sua scorta. Sembrava aver ancora
i segni del cuscino
stampati in faccia e si notava fin troppo bene la stanchezza sul suo
volto, ma
restava comunque bella da mozzare il fiato. Come sempre.
Poi
sollevò lo
sguardo, trovando il mio, e quasi mi pensi dentro quel mare che
sembrava non
abbandonarla mai, che la caratterizzava e la rendeva unica. Mi ci sarei
tuffato
seduta stante e, conoscendomi, non ne sarei più uscito.
“Ben svegliata”, mormorai,
continuando ad
osservarla. Non avevo nemmeno il coraggio di muovere un muscolo,
nonostante
ogni mia particella stesse urlando di prendere quella ragazza e farla
mia. Ma
la vedevo ancora troppo fragile, un castello di carte
all’aria aperta pronto a
crollare, così mi limitai a restare immobile e ad attendere
una sua reazione. “Pensavo non ti
saresti svegliata prima di domani
mattina”, aggiunsi, cercando di buttarla sul
ridere.
Ma
lei non fece
una piega: il sorrisetto di poco prima era sparito chissà
dove, lasciando il
posto ad un’espressione indifferente, assente. Era davvero
spossante vederle
così, sentirla così su un altro pianeta. Non era
lei quella, nonostante non si
fosse mai esposta più di tanto, ma così era
davvero troppo.
La
vidi
appoggiarsi con la schiena al banco della cucina, accanto a me,
rivolgendo lo
sguardo al tè che sembrava quasi pronto.
“Non dovevi”, disse, poi,
facendo un
cenno con il capo al fornello. “Avrei
fatto io”.
“Non volevo svegliarti”,
risposi,
mettendomi di fronte a lei, intrappolandola tra il mio corpo e il
bancone, con
le mani poggiate al piano accanto ai suoi fianchi.
Il
suo sguardo
crollò a terra, non riuscendo a sostenere i miei occhi che
continuavano ad
analizzare ogni briciola di emozione che le attraversava il viso.
Dovevo capire
cosa le passava per la testa e sembrava un’impresa titanica,
quasi impossibile.
Sembrava
quasi
intimorita dalla mia presenza, e non mi pareva possibile
perché non era mai
successo, non si era mai lasciata sopraffare da me o da qualunque altra
persona. Era strano e diverso e non mi piaceva non poter navigare nei
suoi
occhi. Ci avevo quasi preso l’abitudine.
“Ehi”, le dissi, piano, cercando
di
attirare la sua attenzione, facendomi più vicino.
Si
avvicinò
anche lei, poggiando la fronte al mio petto e sospirando pesantemente,
mostrandosi ancora più debole e fragile.
Se
ne stava lì,
con solamente la pelle della sua fronte come contatto con me,
perché sembrava
davvero altrove. Così non riuscii a resistere e le presi il
viso tra le mani,
sollevandole il volto e sentii l’ennesima stilettata
perforarmi i polmoni,
quando vidi quei suoi maledetti occhi, ancora lucidi, ancora
sull’orlo
dell’ennesimo pianto. “Tutto
bene?”,
chiesi in un soffio, sfiorandole gli zigomi con i pollici.
“Non lo so nemmeno io, Travis”,
rispose
esasperata, lei, dopo alcuni istanti persi a fissarmi. “Pensavo di aver superato tutto quanto, non mi
è mai successo di
crollare in questo modo, ed è stato come tornare a quando mi
svegliavo dagli
incubi, da bambina, e cercavo mia madre. Ma lei non c’era
mai, e mio padre
impazziva ogni volta per cercare di calmarmi”.
Si
prese il
volto tra le mani, abbassando il volto, nascondendosi ancora una volta.
ma se
io ero riuscito a superare, anche se solo in parte, tutto lo schifo che
mi era
successo, doveva farlo anche lei. perché sapevo che ce
l’avrebbe fatta, ne ero
sicuro. Era forte, e nemmeno lo sapeva.
“Guardami”, le dissi, deciso,
cercando
comunque di mantenere un tono calmo. “Maya,
ti prego, guardami”.
E
finalmente si
decise ad ascoltarmi, a risollevare quel suo sguardo liquido che mi
preoccupava
ogni attimo di più. Le presi le mani, liberando
completamente il suo viso, e me
ne portai dietro la schiena, tornando poi a sfiorarle il volto come
poco prima.
“Non è colpa tua, mettitelo bene in
testa, ed
è normale reagire così”,
cercai di convincerla, sapendo bene quanto potesse
essere difficile. “E te lo dice uno
che
ne sa qualcosa”, aggiunsi, poi, ammorbidendo i toni
e cercando di farla
sorridere.
“Non dirlo a mio padre, Travis”,
mi
pregò, avvicinandosi leggermente a me. E non me la sentii
proprio di dirle di
no, nonostante Claudio avrebbe dovuto sapere, ma quella scintilla di
disperazione negli occhi e nella voce mi aveva fatto vacillare e
convinto a
reggerle il gioco. “Me…
me ne vergogno
troppo e… so che ne soffrirebbe”.
Continuò, lei, facendo più salda la presa
alla base della mia schiena.
“Va bene”, sospirai, infine,
arrendendomi
a lei. Come sempre. Ed io che per un momento avevo creduto davvero di
poterle
resistere, anche solo per una volta. “Ma
promettimi che non ti incolperai mai più per una cosa del
genere, tu non hai
fatto niente”, cercai di convincerla e mi feci
ancora più vicino, poggiando
la fronte alla sua, circondandole le spalle con le braccia.
Poi
mi
allontanai da lei, sciogliendo quella specie di abbraccio, che era
diventato
quasi un modo per aggrapparsi l’uno all’altra, e
tornai con le mani poggiate al
banco, ai lati di Maya. E la scrutai attentamente, guadagnandomi un
sorriso
appena abbozzato, una briciola della solita Maya.
“Siamo intesi?”, le domandai,
poi,
sorridendo.
E
lei annuì
leggermente, poggiando le mani sulle mie, esitante, quasi timida come
non era
mai stata, seguendole con lo sguardo.
“Quando prima ti ho detto che mi dispiace”,
cominciò, ed io quasi non la sentii per quanto parlava
piano, poi sollevò lo
sguardo ed incontrai i suoi occhi che parevano essersi calmati, non
erano più
agitati, mossi, tempestosi. “Stavo
dicendo sul serio”, aggiunse, facendosi
improvvisamente seria. E lo dovevo
considerare un evento, perché sapevo che stava parlando con
sincerità e, in
più, lo stava facendo guardandomi negli occhi, non
nascondendosi dietro muri
invalicabili.
Ed
io non
riuscii a rispondere, se non con l’ennesimo sorriso,
l’ennesimo squarcio di
felicità che mi occupava le labbra, e avvicinai il viso a
quello di lei, non
riuscendo a resistere, nonostante mi limitai a sfiorarle una guancia
con le
labbra. “Lo so, Maya”,
le dissi in un
soffio, restando sulla sua pelle. “Lo
so”.
E
restammo
immobili, come se il tempo si fosse fermato, come se avessimo entrambi
paura di
far scoppiare quella bolla che si era creata, debole e fragile.
Restammo in
quella posizione per alcuni istanti interminabili, in quel mezzo
abbraccio nel
silenzio più assoluto. Ma alla fine fu lei a muoversi, a
distruggere quel fermo
immagine, avvicinandosi e rannicchiandosi tra le mie braccia.
“E tu continui a restare, nonostante io non
sappia ancora cosa fare”, continuò,
cingendomi la vita con le braccia, ed
io rimasi fermo, immobile con lei premuta sul mio corpo, ancora per
paura che
cambiasse atteggiamento per l’ennesima volta, volubile
com’era. Avevo
cominciato a vederla come una bambola di porcellana, piccola, delicata,
sempre
pronta a rompersi.
“Non ho fretta, in un certo senso”,
le
risposi, non sapendo bene quale significato potessero avere le mie
parole.
Se
ne restò
zitta per un momento, facendosi addirittura più piccola di
quanto già non fosse,
poi sollevò il capo, facendosi scontrare i suoi occhi con i
miei. L’ennesimo
colpo al cuore.
Non
avevo la
benché minima spina dorsale, e dire che mi ero ripromesso di
starmene buono e
calmo per evitare di farla crollare ancora una volta, ma, dannazione!, come avrei potuto resistere
con lei che mi guardava
come non aveva mai fatto, come fossi davvero qualcuno di importante? E
ce
l’avrei anche fatta – con non poche
difficoltà, certo – se solo lo sguardo di
Maya non fosse caduto sulla mia bocca.
E
diamine,
quanto mi erano mancate quelle
labbra, il corpo esile di quella ragazza addossato al mio, le sue mani
a
stringermi i capelli. Quanto mi era mancata lei.
Rendersi
conto
di quell’assurda mancanza faceva male, davvero, ma tutto
veniva surclassato da
lei e dal suo corpicino in cerca del mio, dal suo respiro sulle mie
labbra che
premevano frenetiche sulle sue. Veniva tutto surclassato da lei.
Ci
eravamo
comportati da stupidi entrambi e questo ci aveva portati
all’ennesima
discussione e all’ennesimo periodo di distacco, e se in quel
bacio ci fosse
stata solamente quella mancanza sarebbe stata la cosa migliore per
entrambi,
una sensazione passeggera e destinata a scomparire. Ma
c’erano così tanti
sentimenti, lì dentro, c’era un così
grande miscuglio di sensazioni ed emozioni
da farmi tremare le ginocchia. C’era così tanto
che risultava difficile persino
dare un nome a tutto quello che ci stava attorno.
E
continuai a
baciarla, a lasciarmi baciare, a complicare ulteriormente le cose,
sollevandola
da terra e facendola sedere sopra il piano della cucina, prendendo il
suo corpo
tra le braccia ed avvicinandola ancora a me, stringendola ancora.
Cazzo,
quanto
mi ero rincretinito per una donna, per uno scricciolo quasi invisibile.
Ero
fottuto, semplicemente. Perché non sarei mai riuscito a
togliermela dalla mente
completamente, lo capii in quel momento, con il viso tra le sue mani e
le sue
gambe allacciate ai miei fianchi. Capii quanto fossi fregato quando
pronunciò
il mio nome mentre scendevo con le labbra sul suo collo, sulle
clavicole
lasciate scoperte dalla maglia, perché sapevo che non avrei
potuto più fare a
meno di un suono simile, pronunciato da lei, da quella voce.
Ma
soprattutto
lo capii quando mi fermò e respirò a fondo prima
di cercare i miei occhi e
quando la vidi sorridere, ma sorridere davvero, come non aveva mai
fatto con
me. Un sorriso che, finalmente, le occupò gli occhi, quei
pozzi che tornarono a
brillare e che erano rivolti a me e a me soltanto.
Ed
io, da
perfetto idiota, mi ritrovai senza avere la più pallida idea
di come
comportarmi davanti a quella meraviglia.
“Finirò al manicomio per colpa tua”,
le
feci notare, rispondendo a quel suo sorriso. “Mi
avrai sulla coscienza”.
“Penso che correrò il rischio”,
ribatté,
ridendo e tornando a giocare con i miei capelli alla base della nuca,
facendomi
sospirare. Quelle sue mani erano una libidine.
Mi
persi
l’ennesima volta a fissarla, a studiare lei e la sua
espressione, quel mezzo
sorriso che sembrava non volersene andare da quelle labbra, quelle
maledette
labbra che erano una tentazione continua, una tortura. Mi persi e
basta, perché
un labirinto sarebbe stato meno complicatone contorno di lei, sarebbe
stato più
facile liberarsene, avrebbe fatto meno male. Invece, avevo la
sensazione che
Maya avrebbe fatto male, in un modo o nell’altro avrebbe
fatto male, e tanto.
Ma se si trattava di viverla ancora, di conoscerla ancora… e
di amarla ancora,
avrei fatto quello ed altro. E già solo il fatto di rendermi
conto di essere,
in uno strano e stupido modo, innamorato di lei era come scavarsi la
fosse con
le mie stesse mani. E non sarei più riuscito a venirne fuori.
Dannazione,
ero
davvero fottuto!
Maya’s
POV
“Credo che abbiano
firmato le carte del divorzio un weekend, quando avevo sei o sette anni
e mio
padre mi aveva lasciata alla vicina, una sua zia di secondo grado,
forse.
Ricordo che mi ha portato al parco poco distante da casa nostra per i
due
pomeriggi interi, perché Claudio mi ci portava di rado, e
quando è tornato a
casa, mio padre mi ha fatto dormire con lui”.
Travis continuava ad
osservarmi rapito, mentre mi esponevo a lui come non avevo mai fatto
con
nessun’altro. E lo stavo facendo con una
semplicità tale da farmi venire le
vertigini.
Mi
aveva annientata con la stessa forza di un uragano, e
sentirsi crollare addosso diciannove anni di vita aveva fatto davvero
male, ma
lui era rimasto. Nonostante tutte le cazzate che avevo fatto,
nonostante tutto
quello che avevo detto era rimasto. Era piombato a casa mia dal nulla,
senza
preavviso, aveva saltato gli allenamenti giornalieri ed era ancora
lì, ad
ascoltare il mio straparlare che sembrava non avere più fine.
Eravamo
ancora a letto, dopo esserci lasciati andare per
l’ennesima volta, coperti solamente dal lenzuolo, e nessuno
dei due sembrava
avere la minima intenzione di alzarsi ed andarsene.
“Non mi aveva mai
permesso di dormire con lui”, continuai, girandomi
su un fianco e poggiando
il gomito al materasso, con la testa sul palmo della mano. Travis,
accanto a
me, invece, non aveva smesso un momento di accarezzarmi un fianco ed
ascoltarmi
in religioso silenzio, con il viso voltato verso di me. “Perciò capii subito che qualcosa non
andava. Ero una bambina, certo, ma
conoscevo le espressioni sul volto di mio padre, quindi non ci misi
molto a
fare due più due”.
“Una giovane Sherlock”,
scherzò Travis, con un sorriso, guadagnandosi uno schiaffo
leggero sul petto.
“Elementare, Watson”,
ribattei. “Comunque, non mi ha mai
detto
nulla, ma se continuo a pensarci è quella l’unica
occasione possibile”,
cominciai a tracciare le linee del tatuaggio di Travis con la mano
libera,
distrattamente, sfiorando di tanto in tanto la sua pelle. E il sorriso
che
cercò di trattenere, dopo un momento di esitazione, non mi
passò inosservato.
Passarono
alcuni istanti, con me impegnata ad osservare
la mia mano ed il suo percorso e Travis impegnato a non distogliere gli
occhi
da me. E non era assillante come le volte precedenti, sapevo che mi
stava
studiando dal momento in cui mi ero risvegliata, ma la sensazione del
suo
sguardo su di me non era più la stesa. Era quasi piacevole.
“Non me ne aveva
mai parlato, Claudio, ma dopotutto non sapevo nemmeno della tua
esistenza,
qualche mese fa”, interruppe il silenzio, lui,
ricominciando a far scorrere
la sua mano sulla mia pelle. “Per
questo,
ringrazio tutte le cadute da sbadata davanti alle porte”,
aggiunse, poi,
ridendo e facendomi ricordare il nostro primo tragico incontro.
“Sbadata io? Sei tu
che sei entrato come una furia, superstar”,
aggiunsi, infine, marcando
quell’aggettivo che odiava, con un sorriso angelico sulle
labbra. E in
ricompensa ricevetti un pizzico non troppo gentile sul fianco, ma
quell’occhiata
divertita smorzava tutto quanto.
Poi,
ancora con il sorriso sulle labbra, Travis si
avvicinò leggermente, chiudendo gli occhi con un sospiro. La
sua mano su di me
cominciò a percorrere lentamente la schiena, facendomi
rabbrividire, e se ne
restò in silenzio.
Accoccolato
in quel modo a me, mi sembrò un bambino un po’
troppo cresciuto. Forse quel bambino che aspettava la sera il ritorno
del padre,
con gli occhi serrati, ma comunque con le orecchie sempre
sull’attenti.
Aveva
fatto tanto per me e me ne stavo rendendo conto
solamente in quel momento, con il silenzio che regnava sovrano, dopo
aver
passato ore a piangere e a rivangare il passato, ma mi aveva fatto
bene, lo
sentivo. Ed era frustrante rendersi conto di come, in parte,
quell’uomo avesse
sempre avuto ragione. Parlare del mio passato aveva alleggerito di quel
poco
che bastava il peso che continuavo a portarmi sullo stomaco e farlo con
lui lo
aveva reso meno difficile. Lo avrei dovuto ringraziare
perché, dopotutto, se lo
meritava, qualcosa da parte mia in segno di riconoscimento se lo
meritava
davvero.
Continuavo
ad osservare ogni piccolo particolare del suo
viso e mi rendevo conto che, qualcosa, stava cambiando. Aveva
già cominciato
tempo prima, ma ero stata talmente stupida e codarda da respingere il
più
piccolo cambiamento e da nascondermi come avevo sempre fatto. Ma se
c’è una cosa
che h imparato da mio padre è che, in ogni occasione, la
cosa migliore da fare
è rialzarsi e combattere per quello che ci sta
più a cuore. E Travis,
nonostante avessi provato qualunque cosa per evitarlo, lo era diventato
davvero.
Avevo cominciato a tenere a lui senza nemmeno accorgermene e, solamente
in quel
momento, mi rendevo conto di avere la verità stampata in
faccia.
“Sai, io…”,
comincia, non sapendo bene da che parte cominciare. Perché,
insomma, non era
facile cambiare completamente rotta, non era facile mandare
all’aria tutto
quello che mi ero ripromessa di non fare, ma quando mi ero detta che in
qualche
modo dovevo ringraziarlo, mi ero decisa non tirarmi indietro.
“Io, non…
oddio, non sono sicura di non volere quel qualcosa in
più, adesso”.
E quello era il mio modo di ringraziarlo: dargli una
possibilità, provare a
vivere quel qualcosa in più che mi aveva sempre spaventata e
che continuava a
spaventarmi, ma aveva fatto talmente tanto per me ed era stato talmente
presente che, una semplice stretta di mano, sarebbe stata un insulto.
Lo
vidi aprire gli occhi all’improvviso e cercare il mio
sguardo. E fu quasi divertente la sua espressione, così
sorpresa da sembrare
irreale e leggermente spaventata. Sembrava essere diventato un tronco
di legno,
lui, per come si era irrigidito dopo aver compreso le mie parole, e in
un certo
senso mi spaventava quella sua reazione, mi mandava in confusione,
perché non
avevo idea di che cosa potesse significare.
“Ecco, adesso mi
fai paura”, dissi, cercando di nascondere una
risata nervosa. “Questa non era la
reazione che mi aspettavo,
ma sono seria. Davvero, forse per una volta so cosa voglio,
cioè smetterla di
nascondermi da me stessa. E questo comprende anche te, soprattutto dopo
quello
che hai fatto per me, ieri sera”.
“Maya, frena”,
mi interruppe, lui, all’improvviso, facendomi andare ancora
di più nel pallone perché,
proprio nel momento in cui decidevo di essere sincera, lui non poteva
saltare
su dicendomi “frena”!
“Non dire così solo
per esserci stato, ieri sera”, cominciò,
sorridendo appena. “Non voglio che
ti senta in debito con me per
qualsiasi motivo”.
“Non mi sento in
debito con te, Travis!”, esclamai, mettendomi
seduta sul materasso,
tirandomi dietro il lenzuolo. “Quello
che
è successo mi ha solamente aperto gli occhi e, per essere
stato presente, ti
ringrazio, ma non è per questo motivo che… che ti
ho detto di volere qualcosa
in più”, aggiunsi, infine, sentendo la
voce mancare. Quella sua reazione mi
aveva fatta vacillare, confondere ancora prima di rendermi conto di
poter anche
ricevere un rifiuto da parte sua. E dopo tutto gli sforzi fatti per
buttare giù
la mia corazza, probabilmente, non lo avrei sopportato.
“Ehi”, cercò di
attirare la mia attenzione, sedendosi al mio fianco e prendendomi il
mento con
una mano, facendo scontrare ancora una volta il suo sguardo con il mio.
“Guardami”,
disse piano. “Non credere che non ti
voglia, perché non
hai idea di quanto avrei dato per sentirti dire questo tempo fa, ma
voglio che
tu sia sicura delle tue scelte. Quindi, pensaci, non voglio farti
fretta. Pensaci
bene, ti prego, poi ne riparliamo, okay?”, mi
chiese, infine, sorridendo
più convinto.
Mi
persi per un momento ad osservarlo, a studiare quei
suoi occhi che parevano non volersi mai distaccare da me e, per un solo
momento, pensai a cosa sarebbe successo se lì, proprio in
quell’istante, mi
fossi tirata indietro per l’ennesima volta. probabilmente,
lui si sarebbe
stancato davvero di me e mi avrebbe mandato al diavolo una volta per
tutte, e
mi resi conto di volere assolutamente una cosa simile, di non voler
vederlo
andare via da quell’appartamento non sapendo se fossi
riuscita o meno a vederlo
un’altra volta. Volevo lui, Travis, nonostante avessi una
paura fottuta di
tutte le possibili conseguenze, ma mi aveva fatta sentire tranquilla
così tante
volte che mi convinsi che ci sarebbe riuscito anche in
quell’occasione.
“Okay”,
sospirai, cercando di sorridere. “Va
bene”,
aggiunsi, poi, poggiando la fronte sulla sua spalla.
“Brava, piccola”,
mormorò, mentre mi cingeva le spalle con un braccio e mi
trascinava di peso con
lui, ancora stesi sul letto. E mi bastò quello, un bacio tra
i capelli e quell’insignificante,
piccolo particolare che fu la sua mano, mentre mi tirava il lenzuolo
fin sopra
le spalle, coprendomi. Mi bastò lui, mentre
ricominciò a coccolarmi
leggermente, senza mai risultare troppo scontato o dolce.
Mi
bastò Travis, con i suoi mille difetti, a scavarmi la pelle
delicatamente, pian piano, a fondermi il cervello e a mandare a puttane
ogni
promessa che avevo fatto a me stessa perché, in altre
occasioni, non mi sarei
nemmeno disturbata a tirarlo indietro per un braccio, baciandolo e
ringraziandolo per quello che aveva fatto per me, quando quella sera se
ne andò
dal mio appartamento.
Mi
bastarono quei due giorni a farmi passare l’intera
serata con un sorriso da idiota sulle labbra, a prendere il telefono in
mano e
scrivere un messaggio a mio padre perché, in un certo senso,
per quella
situazione dovevo qualcosa anche a lui.
Grazie
per averglielo detto. Ti voglio bene, papà!
*****
Sarà
che a Natale si è tutti più buoni, ma a me
quest'atmosfera ha dato ispirazione.
Ho
passato giorni a finire questo capitolo perchè DOVEVO
finirlo. Per voi, ma soprattutto per me stessa perchè questi
due mi sono mancati davvero tantissimo, non avete idea.
Sono
stata fin troppo occupata e questo è il risultato. Non
darò date precise, non vi dirò quando
aggiornerò perchè sono un'incognita e non mi
sembra giusto propinarvi false speranze. Sappiate solo che non ho
abbandonato questa storia e che non ho intenzione di farlo. Tengo
troppo a tutto questo per lasciarlo in un angolo a prendere polvere.
Spero
che voi stiate bene, comunque. Appena avrò un secondo,
risponderò anche alle recensioni dello scorso capitolo! Nel
frattempo, vi
ringrazio di cuore per esserci ancora, anche voi che vi limitate a
leggere!
Detto
questo, Buon Natale, buone feste e felice anno nuovo.. buona vita, ve
la meritate. Ce la meritiamo tutti quanti!
Chiara
P.S. Se volete, questo
è il gruppo che ho creato su Facebook, per restare
aggiornate sull'andamento della storia, per parlare, per conoscermi (se
volete).. Born
to Run
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