Venti a Mezzanotte

di Akrois
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** 01 ***
Capitolo 2: *** 2 ***



Capitolo 1
*** 01 ***


Venti a Mezzanotte

Venti a Mezzanotte

 

 

Venti storie original, dai temi più disparati.

E m’impegno a scriverle tutte.

 

 

 

01

 

Sorrisi.

 

 

Opal aveva capito fin da bambina, che i sorrisi erano preziosi.

Lo aveva capito guardando mamma e papà, che non si sorridevano mai e guardando le maestre dell’asilo, che sorridevano solo alle mamma e urlavano dietro ai bambini.

Opal aveva capito, anche, che gli urli e gli ordini erano il modo migliore per comunicare.

Lo aveva capito quando papà urlava a mamma di prendere il telecomando, o quando le maestre dell’asilo urlavano ai bambini di fare determinate cose.

Insomma, Opal aveva capito che le cose migliori da fare erano urlare, dare ordini e non sorridere.

Mai.

 

Opal aveva imparato che portava sfortuna.

Come la pietra di cui portava il nome, lei era candida, piena di sfaccettature e portava sfortuna.

Lo aveva capito quando papà era caduto dalla scala e si era spappolato la spina dorsale, o quando le sue maestre erano rimaste schiacchiate dal crollo dell’asilo, in un giorno in cui lei era rimasta a casa a con l’influenza.

Opal aveva capito che se non voleva che la sua mamma e il suo fratellino avessero problemi, doveva stargli lontana.

 

 

Opal spiegava quello che aveva capito a Jack, in un pomeriggio soleggiato d’autunno, sotto gli alberi, mentre con i piedi calciava le foglie gialle, rosse e arancio.

Jack non parlava, la guardava solamente e ogni tanto chiedeva a Dio perché quella bambina avesse dovuto soffrire così tanto.

Ma in fondo, Opal non aveva sofferto un gran che, perché tutti se l’erano meritate.

E anche la mamma si era meritata di cadere dalla scala e rompersi la testa, diceva.

Adesso però erano solo lei e il suo fratellino Jasper con papà, diceva, e il problema era che papà picchiava Jasper, che, poverino, non sapeva difendersi.

E allora lei urlava e papà stava fermo, immobile e lei gli ordinava che doveva restare così fermo.

E allora papà se ne andava, sulla sua maledetta sedia a rotelle, bestemmiando e scomodando dai loro scranni tutti i santi.

 

- Jack, posso venire a vivere da te?

 

Domandò Opal, fissandolo.

Jack amava Opal, ma odiava che lo fissasse. Aveva gli occhi vuoti, da rettile, freddi e misurati.

 

- No, Opal, lo sai che non puoi. Aspetta almeno di essere maggiorenne.

 

Disse, passandole un robusto braccio attorno alle spalle strette e portandola verso il suo petto e premendocela contro.

 

- Sei minuscola…

 

Sussurrò, chinandosi a baciarla sul collo. Opal non era poi così minuscola: aveva quindici anni e il fisico ben sviluppato.

Ma aveva ancora un volto infantile, gli occhi grandi e le labbra a cuore.

Aveva quel tipo di volto che sta bene con un’espressione spaventata e si sposa alla perfezione con le lacrime.

Eppure, non si ricordava di averla mai vista piangere.

 

- Sei tu che sei enorme.

 

Jack scoppiò in una risata allegra, con la voce bassa e profonda che ben si addiceva ad un navigato trentenne.

 

- Crescerai.

- Tu, uomo, crescerai fino a mille anni. Io, donna, crescerò di due centimetri, se ho culo.

 

Lui la strinse ancora di più, affondando il volto tra le ciocche di ricci neri.

 

- Com’è quella storia del fidanzamento..?

 

Domandò mugolando con aria stanca.

 

- Mio padre ha acconsentito alla richiesta di una sua vecchia amica. Strani patti tra eberi borghesi di New York.

 

Disse lei, sospirando.

 

- E io?

- Pensi che me ne freghi nulla di quello che dice mio padre?

- Sei un piccolo demonio.

- Lo so.

 

Lei sorrise.

 

Perché Opal aveva capito che quando ami una persona, puoi sorriderle.

E puoi parlarle senza urlarle contro, e senza dare ordini.

E non le porti sfortuna.

E allora, lei non aveva mai amato né la mamma né il papà ne le maestre, ma neanche loro avevano mai amato lei.

E allora, lei amava Jack e Jasper e loro la amavano, perché le sorridevano e non le urlavano e non le davano ordini e lei non portava loro sfortuna.

Jack la baciò, stringendola forte a sé.

 

E Opal aveva capito che i sorrisi erano molto, molto importanti.

 

 

 

A.Corner___

 

*-*

Opal e Jack e Jasper sono personaggi di un’altra storia XD

Molti dei personaggi di queste raccolte provengono da altre storia, perché non ho voglia di inventarne sempre di nuovi *-*

Questa storia sembra pedofila ò.o e in effetti, un trentenne che và con una quindicenne è pedofilia, maò.o

ma vabbè ù-ù

E sembra anche una critica sugli ebrei ò.o

Devo dire che non ho la responsabilità di quello che scrivo, e che prima di scrivere bevo?*__________*

Ci credereste?*____________*

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Capitolo 2
*** 2 ***


1

2

Illusioni.

 

 

 

Quando frequentava la scuola per baristi, Jonh aveva un sogno: lavorare in un pub di grido, di quelli frequentati dalle star.

Finita la scuola, Jonh desiderava lavorare in un locale.

A venticinque anni, Jonh desiderava solamente lavorare.

Ma, comunque, a ventisette anni, Jonh aveva il suo bel lavoro che gli permetteva di pagarsi un bilocale al centro e le rate della macchina (questa è una puttanata: le rate le pagava quel povero tocco di suo padre.) per quanto lavorasse in un bar frequentato principalmente da padri di famiglia/single obesi e ubriaconi che alle cinque del pomeriggio già lo chiamavano “Marietta” e discutevano di politica estera col jue-box in fondo al locale.

Jonh lo trovava squallido.

Quando aveva cominciato quel lavoro, Jonh aveva ancora qualche illusione. Con la stessa inevitabile precisione con cui un bambino scopre che Babbo Natale non esiste, anche le illusioni di Jonh erano andate allegramente a farsi benedire. Si aspettava che prima o poi una bionda mozzafiato inguainata in un tubino nero e cruissader gli avrebbe fatto qualche proposta sconcia, o che magari un vecchietto ubriaco lo designasse come suo unico erede solo perché gli aveva offerto delle olive in salamoia. Jonh era davvero un tenero illuso che non sapeva un emerito nulla della vita.

Il suo capo spesso gli prometteva un aumento della paga, ma, conoscendo il suo capo, questo sarebbe potuto accadere solo nell’ora del mai nel giorno del forse dell’anno poi.

La cosa più esaltante che gli successe fu durante una serata piuttosto fiacca (dobbiamo anche specificare che quelle che per quel locale erano “serate piene” erano le “serate fiacche” di qualunque altro locale, quindi, una “serata fiacca” da Jonh era il vuoto totale nel locale).

Ad un certo punto, una ragazza fece il suo ingresso nel locale. Era bagnata fino al midollo, i capelli castani erano attaccati al volto pallido, ostruendo la vista agli occhi grigi. Il maglione verde scuro aveva respinto un po’ d’acqua, ma poi aveva abbandonato il fronte, infradiciandosi anch’esso. I jeans si erano attaccati alle gambe e gli stivali erano incrostati di fango, come se fosse arrivata correndo per i campi.

 

- Piove?

 

Domandò ironicamente Jonh. La ragazza lo guardò, mostrando un sorrisetto sghembo.

 

- Ovvio.

 

Si sedette su uno degli sgabelli di ferro col cuscino di pelle rossa, spostandosi i capelli fradici dal volto con un gesto che risultò quasi regale. Jonh la guardò.

 

- Qualcosa di caldo?

- Sarebbe gradito.

 

Prima di voltarsi ad armeggiare con la macchinetta del caffè (la sua idea era di fargli un grosso bicchiere di latte) gettò un’occhiata al suo volto: aveva gli occhi rossi.

 

- Problemi?

- Hai voglia.

- Famiglia, fidanzato, scuola, lavoro o tutti e quattro?

- Togli il lavoro e lascia tutti gli altri.

- Posso dispiacermi per te?

- Per carità. Anzi, fatti una risata, perché la cosa che mi è capitata è comica.

- Cosa?

- Avevo una storia col mio professore.

- Un classico.

- Che poi ho scoperto avere una storia con mia madre.

 

La ragazza scoppiò in una risata forte e sgradevole. Era una risata forzatissima, simile al latrato di un cane.

 

- Che tristezza.

- Te lo correggo, il latte?

- C’è bisogno di chiederlo?

 

Jonh poggiò la tazza di latte bollente e schiumoso. La ragazza lo sorseggiò, incurante del fatto che fosse, appunto, bollente.

 

- Mi sento uno schifo.

- Immagino.

- E sai la cosa migliore? Mia madre si è affacciata dalla finestra gridando “non è come credi, tesoro!”, mentre il mio professore mi rincorreva in camicia e boxer. Patetico, vero?

- Posso dire di sì?

- Sì.

- Allora, sì.

 

Lei sorrise. Non aveva un volto particolarmente bello. Era ovale, sebbene segnato da due zigomi alti e affilati. Le labbra erano sottili e seriche, il naso piccolo e all’insù. In totale sembrava la faccia di una ragazzina snob.

Gli occhi erano grandi e incorniciati da lunghe ciglia nere, senza una qualche espressione particolare e che vagavano qua e là mentre parlava.

 

- Che vuoi fare?

- In che senso?

- Tornerai a casa?

- Non stasera.

- Domani?

- Forse.

- Dopodomani?

- Chi vivrà vedrà.

 

Lei gli porse la tazza vuota.

 

- Non ho soldi.

- Non fa nulla.

- Scusami per lo sfogo. Probabilmente non te ne fregava nulla.

- Figurati. Anzi, sono contento. L’unica cosa che mi dicono i miei avventori generalmente è “un’altra birra!”.

 

Lei ridacchiò, coprendosi il volto con una mano. Aveva davvero l’aria della ragazza ricca.

 

- Andrò da mio fratello.

- Dove vive?

- Lontano. A New York.

 

Pronunciò il nome della città con un luccichio negli occhi, quello stesso luccichio che aveva lui prima di cominciare a lavorare in quel buco.

 

- Buona fortuna, allora.

 

Lei sorrise e si alzò, porgendogli la mano.

 

- Grazie.

 

Lui la strinse. Nonostante la mano bagnata aveva una stretta ferma e piacevolmente calda.

Si diresse verso la porta. I capelli si erano leggermente asciugati, mentre i vestiti gocciolavano ancora.

 

- Ehi, posso dirti una cosa?

- Cosa?

- Due o tre illusioni, nella vita, fanno bene.

 

Jonh la guardò incuriosito.

 

- Magari ti accadrà qualcosa d’interessante, prima o poi.

- Chi lo sa.

 

Lei scomparve sotto la pioggia.

 

 

 

 

 

 

 

Un paio di giorno dopo, un uomo distinto in giacca e cravatta entrò in quel locale (era l’orario d’uscita dagli uffici e nessuno aveva fatto in tempo a bere tanto da ubriacarsi).

Aveva in una mano la foto di una ragazza. Jonh faticò a riconoscere in quella giovane con lo chignon e il trucco ben fatto seduta su una sedia di vimini bianchi con lo sfondo di un prato di fiori variopinti la ragazza bagnata e scarmigliata che era arrivata nel suo locale.

L’uomo chiese qua e là se qualcuno l’avesse vista, mostrando dove necessario un primo piano del suo viso, probabilmente un ingrandimento di una foto di un qualche annuario scolastico.

 

- Professore?

 

Domandò ad alta voce. L’uomo si voltò.

 

- Sì?

- Nulla.

 

Jonh lo guardò. Aveva gli occhi azzurri miti e tristi ed i capelli biondi vagamente tendenti al grigio. Probabilmente, la ragazza aveva trovato qualcosa di bello in lui.

 

- Non l’ho vista, purtroppo.

 

Lui però non ci vedeva niente di bello.

Jonh si chiese per qualche giorno se la ragazza fosse riuscita ad arrivare a New York. Poi il pensiero lentamente si eclissò, diventando un ricordo da tirare fuori nei momenti bui, quando desiderava lasciare tutto.

 

Magari ti accadrà qualcosa d’interessante, prima o poi.”.

 

La ragazza non si fece più viva, sparendo dai ricordi di tutti.

Ma Jonh teneva sempre una tazza di latte vicino alla macchinetta del caffè.

In fondo, un’illusione o due faceva bene nella vita, no?

 

 

A.Corner__

 

Questa raccolta mi piace un sacco *-* Mi diverte sommamente scrivere queste boiate XD

 

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