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Illusioni.
Quando frequentava la scuola per baristi, Jonh aveva un sogno: lavorare in un pub di grido, di quelli
frequentati dalle star.
Finita la scuola, Jonh desiderava
lavorare in un locale.
A venticinque anni, Jonh
desiderava solamente lavorare.
Ma, comunque, a ventisette anni, Jonh
aveva il suo bel lavoro che gli permetteva di pagarsi un bilocale al centro e
le rate della macchina (questa è una puttanata: le rate le pagava quel
povero tocco di suo padre.) per quanto lavorasse in un bar frequentato
principalmente da padri di famiglia/single obesi e ubriaconi che alle cinque
del pomeriggio già lo chiamavano “Marietta”
e discutevano di politica estera col jue-box in fondo
al locale.
Jonh lo trovava squallido.
Quando aveva cominciato quel lavoro, Jonh
aveva ancora qualche illusione. Con la stessa inevitabile precisione con cui un
bambino scopre che Babbo Natale non esiste, anche le illusioni di Jonh erano andate allegramente a farsi benedire. Si
aspettava che prima o poi una bionda mozzafiato inguainata in un tubino nero e cruissader gli avrebbe fatto qualche proposta sconcia, o
che magari un vecchietto ubriaco lo designasse come suo unico erede solo
perché gli aveva offerto delle olive in salamoia. Jonh
era davvero un tenero illuso che non sapeva un emerito nulla della vita.
Il suo capo spesso gli prometteva un aumento della paga, ma,
conoscendo il suo capo, questo sarebbe potuto accadere solo nell’ora del
mai nel giorno del forse dell’anno poi.
La cosa più esaltante che gli successe fu durante una
serata piuttosto fiacca (dobbiamo anche specificare che quelle che per quel
locale erano “serate piene” erano le “serate fiacche”
di qualunque altro locale, quindi, una “serata fiacca” da Jonh era il vuoto totale nel locale).
Ad un certo punto, una ragazza fece il suo ingresso nel
locale. Era bagnata fino al midollo, i capelli castani erano attaccati al volto
pallido, ostruendo la vista agli occhi grigi. Il maglione verde scuro aveva
respinto un po’ d’acqua, ma poi aveva abbandonato il fronte,
infradiciandosi anch’esso. I jeans si erano attaccati alle gambe e gli
stivali erano incrostati di fango, come se fosse arrivata correndo per i campi.
- Piove?
Domandò ironicamente Jonh.
La ragazza lo guardò, mostrando un sorrisetto sghembo.
- Ovvio.
Si sedette su uno degli sgabelli di ferro col cuscino di
pelle rossa, spostandosi i capelli fradici dal volto con un gesto che
risultò quasi regale. Jonh la guardò.
- Qualcosa di caldo?
- Sarebbe gradito.
Prima di voltarsi ad armeggiare con la macchinetta del
caffè (la sua idea era di fargli un grosso bicchiere di latte)
gettò un’occhiata al suo volto: aveva gli occhi rossi.
- Problemi?
- Hai voglia.
- Famiglia, fidanzato, scuola, lavoro o tutti e quattro?
- Togli il lavoro e lascia tutti gli altri.
- Posso dispiacermi per te?
- Per carità. Anzi, fatti una risata, perché
la cosa che mi è capitata è comica.
- Cosa?
- Avevo una storia col mio professore.
- Un classico.
- Che poi ho scoperto avere una storia con mia madre.
La ragazza scoppiò in una risata forte e sgradevole.
Era una risata forzatissima, simile al latrato di un
cane.
- Che tristezza.
- Te lo correggo, il latte?
- C’è bisogno di chiederlo?
Jonh poggiò la tazza di
latte bollente e schiumoso. La ragazza lo sorseggiò, incurante del fatto
che fosse, appunto, bollente.
- Mi sento uno schifo.
- Immagino.
- E sai la cosa migliore? Mia madre si è affacciata
dalla finestra gridando “non è come credi, tesoro!”, mentre
il mio professore mi rincorreva in camicia e boxer. Patetico, vero?
- Posso dire di sì?
- Sì.
- Allora, sì.
Lei sorrise. Non aveva un volto particolarmente bello. Era
ovale, sebbene segnato da due zigomi alti e affilati. Le labbra erano sottili e
seriche, il naso piccolo e all’insù. In totale sembrava la faccia
di una ragazzina snob.
Gli occhi erano grandi e incorniciati da lunghe ciglia nere,
senza una qualche espressione particolare e che vagavano qua e là mentre
parlava.
- Che vuoi fare?
- In che senso?
- Tornerai a casa?
- Non stasera.
- Domani?
- Forse.
- Dopodomani?
- Chi vivrà vedrà.
Lei gli porse la tazza vuota.
- Non ho soldi.
- Non fa nulla.
- Scusami per lo sfogo. Probabilmente non te ne fregava
nulla.
- Figurati. Anzi, sono contento. L’unica cosa che mi
dicono i miei avventori generalmente è “un’altra
birra!”.
Lei ridacchiò, coprendosi il volto con una mano.
Aveva davvero l’aria della ragazza ricca.
- Andrò da mio fratello.
- Dove vive?
- Lontano. A New York.
Pronunciò il nome della città con un luccichio
negli occhi, quello stesso luccichio che aveva lui prima di cominciare a
lavorare in quel buco.
- Buona fortuna, allora.
Lei sorrise e si alzò, porgendogli la mano.
- Grazie.
Lui la strinse. Nonostante la mano bagnata aveva una stretta
ferma e piacevolmente calda.
Si diresse verso la porta. I capelli si erano leggermente
asciugati, mentre i vestiti gocciolavano ancora.
- Ehi, posso dirti una cosa?
- Cosa?
- Due o tre illusioni, nella vita, fanno bene.
Jonh la guardò incuriosito.
- Magari ti accadrà qualcosa d’interessante,
prima o poi.
- Chi lo sa.
Lei scomparve sotto la pioggia.
Un paio di giorno dopo, un uomo distinto in giacca e
cravatta entrò in quel locale (era l’orario d’uscita dagli
uffici e nessuno aveva fatto in tempo a bere tanto da ubriacarsi).
Aveva in una mano la foto di una ragazza. Jonh faticò a riconoscere in quella giovane con lo
chignon e il trucco ben fatto seduta su una sedia di vimini bianchi con lo
sfondo di un prato di fiori variopinti la ragazza bagnata e scarmigliata che
era arrivata nel suo locale.
L’uomo chiese qua e là se qualcuno
l’avesse vista, mostrando dove necessario un primo piano del suo viso,
probabilmente un ingrandimento di una foto di un qualche annuario scolastico.
- Professore?
Domandò ad alta voce. L’uomo si voltò.
- Sì?
- Nulla.
Jonh lo guardò. Aveva gli
occhi azzurri miti e tristi ed i capelli biondi vagamente tendenti al grigio.
Probabilmente, la ragazza aveva trovato qualcosa di bello in lui.
- Non l’ho vista, purtroppo.
Lui però non ci vedeva niente di bello.
Jonh si chiese per qualche giorno
se la ragazza fosse riuscita ad arrivare a New York. Poi il pensiero lentamente
si eclissò, diventando un ricordo da tirare fuori nei momenti bui,
quando desiderava lasciare tutto.
“Magari ti
accadrà qualcosa d’interessante, prima o poi.”.
La ragazza non si fece più viva, sparendo dai ricordi
di tutti.
Ma Jonh teneva sempre una tazza di
latte vicino alla macchinetta del caffè.
In fondo, un’illusione o due faceva bene nella vita,
no?
A.Corner__
Questa raccolta mi piace un sacco *-* Mi diverte sommamente
scrivere queste boiate XD