Nebraska

di Ink_
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sinestesia ***
Capitolo 2: *** Il soldatino di stagno ***
Capitolo 3: *** Punto e a capo ***
Capitolo 4: *** Il canto del cigno ***



Capitolo 1
*** Sinestesia ***


I personaggi citati in quest’opera di fantasia a scopo non lucrativo appartengono alla Kripke EnterprisesWonderland Sound and Vision e Warner Bros a meno che non venga altrimenti esplicitato.
 
 
 
 
  Sinestesia 
 


 
Chuck Shurley osservava con aria pensierosa la macchia ambrata che il suo bicchiere di Jim proiettava sul tavolo, lì dove un pallido raggio di sole era penetrato attraverso le persiane.
Alla martellante emicrania che l’aveva destato quella mattina – pomeriggio? – si era aggiunto un curioso formicolio ai polpastrelli, come se fremessero per fare qualcosa.

Scostò con calcio un pacchetto vuoto per tre quarti di patatine al formaggio e un termos di caffè svuotato fino all'ultima goccia che cadde sul mucchietto di bottiglie – vuote – di liquore, producendo un suono devastante per la sua testa ovattata. Si sedette sul piccolo divano a due posti, impregnato di aroma di formaggio, whiskey e un sottile fetore di vomito rappreso, alzandosi di scatto – pessima possa, notò quando la stanza prese a vorticare in senso antiorario – barcollò fino al piccolo bagno dove rigettò una quantità di bile acida, oltre che alle due aspirine che aveva ingollato qualche minuto prima. Aspettò che la tazza smettesse di oscillare, dopodiché si sciacquò di bocca quel saporaccio e tornò verso il divano dove si lasciò cadere di peso con un gemito, si coprì gli occhi con un braccio nel disperato tentativo di bloccare quell’unico raggio di sole che dal tavolo di era spostato al divano, come un cagnolino curioso.

Aveva bisogno di dormire, una lunga dormita di dodici ore senza sogni, ma le sue dita continuavano a fremere ed agitarsi, ansiose di raggiungere la tastiera del laptop abbandonato sul piano della cucina, vicino ad una listarella accartocciata di aspirine, già le sentiva ticchettare compiaciute sui tasti consumati, insensibili al suo mal di testa.
Chiuse irritato le mani a pungo, nella speranza di bloccare le sue falangi apparentemente animate da vita propria, ma come piccoli vermi grassocci e callosi, quelle continuarono ad agitarsi contro il suo palmo.
Nel peggiore dei casi avrebbe comunque potuto rompersi un dito o due; qualche giuntura fratturata, niente di serio comunque.
Ciò che più lo irritava – ad essere sinceri – maggiormente era la consapevolezza e la coscienza di ciò che quelle piccole traditrici infami volessero: Carver Edlund.

Oh magnifico, ecco che arrivavano le immagini o ricordi o sogni o prova incriminante che dovessero rinchiuderlo in un manicomio: scene nitide impresse a fuoco dentro le palpebre che si presentavano con devastante chiarezza, insistendo per essere raccontate. Vedeva paesaggi attraversargli la mente come se stesse guardando fuori dal finestrino durante un viaggio in auto, sentiva le parole premere contro le tempie ansiose di uscire e riversarsi sulla tastiera: come una boccata di vomito pensò amaramente, eppure le immagini erano lì sotto i suoi occhi, come uno di quegli album da disegno per bambini con le figure già fatte dai contorni spessi un centimetro, pronti per essere riempiti di coloro sgargianti; quasi li invidiava quei disegni infantili, lì gli alberi potevano avere tronchi viola e fronde gialle e i fiumi arancione con pesci dai colori innaturali, mentre qui – là, nelle sua testa là,  fuori dove il mondo stava crollando come un castello di carte sotto una brezza leggera – tutto doveva essere definito, tutto doveva seguire una regola e allora ci potevano volere anche dieci minuti per descrivere un dannato albero, con le sue foglie dalla forma caratteristica, dai colori sfumati e singolari e perché non descrivere poi l’odore emanato dalla terra umida dopo una giornata di pioggia? ed il filtrare scenografico dei raggi di luce attraverso le fronde? E se poi qualche adolescente con la gonna a pois e i capelli alla James Dean aveva deciso di violare la proprietà altrui incidendo le iniziali sue e della sua amata sul tronco? Allora giù con la storia di due innamorati divisi dalla guerra, tragica storia che terminerà con lui a mollo a faccia in giù in una trincea del Vietnam e lei incastrata nel matrimonio perfetto a dormire con una sua foto sotto il cuscino. Nauseante.

Nella sua semplicità la prospettiva di sedere per le prossime ore su quella sedia che gli ammiccava dalla cucina gli risultava appetibile quanto una testa mozzata servita su un piatto d’argento. Nonostante ciò, sentì la professionalità e la fredda determinazione di Carver Edlund colargli addosso come cera bollente; presto si sarebbe ritrovato imprigionato nel suo stesso corpo come Wade Vattelapesca in quel patetico remake di House of Wax [1], inerme spettatore dello spettacolo di un profeta dilettante con i postumi di una sbronza.
Vagò con lo sguardo per la stanza dove il pulviscolo aleggiava nell’aria come piccoli pianeti in rotta di collisione, trovò comunque la micro astronomia più interessante dell’orda di demoni che stava devastando gli States.

Cinico egoista bastardo

Probabilmente, si rispose.

Un microscopico Giove andò verso la libreria attratto dalla gravità di un qualche romanzo di Stephen King e Chuck si ritrovò ad imprecare contro – se stesso forse, non ne aveva una precisa idea.

Non aveva mai compatito nessuno come compativa Paul Sheldon: già lo vedeva aggirarsi dolorante per la sua camera d’albergo, travagliato dalle doglie e dal bisogno di liberarsi e abbracciare il suo piccolo “Bolidi” – con l’unica differenza che lui “Supernatural” l’avrebbe volentieri gettato nel cestino seguito dal laptop se non gli fosse servito per guadagnarsi il pane. Fosse sufficiente poi. [2]
Una cosa doveva ammetterla però: la tentazione di mettere un punto a capo decisivo a quella ridicola novella era quasi tanto forte quanto quella di girarsi dall’altra parte e rimettersi a dormire. Per un mese magari. Non che le milizie infernali ci avrebbero impiegato così tanto per ridurre le metropoli in cenere e gli umani in schiavi spuntini o cadaveri, comunque.

Gli sarebbe stato sufficiente sollevarsi dal divano, raggiungere la sedia, accendere quell’aggeggio infernale – oh l’ironia – inforcare gli occhiali e lasciare che Carver Edlund facesse l’unica cosa che gli veniva bene; dopotutto come disse Wilde, il miglior modo per resistere ad una tentazione è cedervi.

 I successivi venticinque minuti furono un susseguirsi di pensieri più o meno sconnessi ed immagini, ma il motivo che più spesso ricorse fu: “Vuoi davvero fargli questo?”
La questione aveva sollevato un nuovo confuso polverone di opinione contrastanti e animate discussioni interiori: io non farò proprio nulla a quei ragazzi, non è colpa mia se qualcuno ha deciso che il mondo sarebbe finito tra il fuoco e le fiamme! Così come non è colpa mia se l’unico coglione disponibile ero io quando Dio cercava qualcuno a cui affidare l’onorevole ruolo del profeta nella sua patetica commedia.

“Ci sarà comunque la tua firma al fondo del copione “
“No che non ci sarà, io non sono Carver Edlund”
“Ambasciator non porta pena? “
“Esatto! Non mi prenderò la responsabilità di quei ragazzi, così come non ho mai avuto la responsabilità delle vite di tutti quei personaggi … esattamente come non ne ho mai avuta nemmeno della mia.”
“Non hai scelta, lo sai “
“Ne ho mai avuta?”
L’eco di una risata amara, poco divertita.
“No “        
   
 
 
 
 




***
[1] Riferimento al film “La maschera di cera” (House of wax, 2005) in cui recitò Jared Padalecki. Se lo avete visto spero possiate apprezzare il mio macabro umorismo
[2] Riferimento al romanzo “Misery” di Stephen King
 

 
 
 
 
 
                 
 
 

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Capitolo 2
*** Il soldatino di stagno ***


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Winchester Chronicles
 
Capitolo Ventitreesimo
 
Swan Song
 


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 […] Dalla strada scura continuarono a giungere grida disperate, risate grottesche e il secco schioppo di ossa spezzate e carne lacerata, come se un circo degli orrori si fosse stabilito proprio sotto la loro finestra, portando con se belve scheletriche e artisti dai volti stravolti dalle atrocità da loro stessi compiute.

La stanza in cui avevano trovato rifugio era come tutte le altre: le pareti imbrattate da carta da pareti a stampa floreale mezza scrostata, così rovinata da far apparire i fiori appassiti; la moquette grigio topo, scintillante d’argento, odorava di piscio e cadavere in decomposizione, come quelli nella sala d’aspetto. Come quelli nelle altre stanze. Come quelli in strada.

Sul pavimento, di fronte al piccolo bagno, la macchia scura – dovuta ai liquidi emessi dal corpo in avanzato stato di putrefazione – stava immobile, come il cadavere che avevano gettato dalla finestra, come la sagoma di un crimine che tante volte avevano finto di investigare, imbalsamati nei loro completi di seconda, alle volte anche terza, mano.

La porta della stanza, il davanzale della finestra e tutto il perimetro del letto erano stati abbondantemente isolati con sale, per il resto della stanza erano sparpagliati monili, posate e varie cianfrusaglie in argento che la debole luce della luna faceva luccicare; sotto il cuscino tenevano una fiaschetta di acqua santa, un crocifisso e la Colt, dentro il cassetto in mezzo ai due letti: una Glock caricata a sale e una con proiettili in argento. Nel secondo cassetto Dean aveva trovato una copia tascabile della Bibbia, ci aveva buttato dentro un preservativo.

Oltre a qualche stampa da due soldi (un campo di tulipani rossi e gialli con un allegro mulino in lontananza, un tramonto sul mare e un grottesco novenne con un lecca-lecca colorato grande quanto la sua faccia) e un quadro storto, dipinto probabilmente da un pittore con scarse qualità artistiche raffigurante una vecchia grigia seduta vicino ad un camino spento, in evidente contrasto con l’esuberanza delle altre immagini; il resto del mobilio era costituito da un solido armadio in legno, rovinato dai colpi e dal passaggio di più ospiti. Entrati nella camera si erano scambiati uno sguardo d’intesa: sei fori di proiettile si erano aperti nella superficie liscia del mobile, tre di sale, tre d’argento. Qualsiasi cosa ci fosse in quell’armadio - aveva detto Dean segnandone il perimetro con altro sale - Di certo non ci disturberà stanotte.  
   

Stavano compressi nella piazza e mezzo del letto, aggrappati l’uno all’altro, in parte per non cadere, in parte per tenere bene a mente che l’altro era lì e che era vivo, giovando del contatto con un corpo caldo e pulsante di carne ossa e sangue.

Con un vigoroso gorgoglio lo stomaco di Dean si fece notare, quel suono gli ricordava vagamente quello prodotta dalla donna di Milwaukee, quella a cui un vampiro aveva tagliato la gola con nonchalance, quasi fosse un gesto quotidiano, come radersi o preparare il caffè la mattina; aveva mosso fulmineo il braccio e il luccichio ramato di un rasoio da barbiere arrugginito aveva disegnato un macabro sorriso sul collo della vittima.
Attraverso le travi del soffitto Dean aveva scorto con raccapricciante chiarezza gli occhi della sconosciuta farsi opachi, come uno scadente set d’argenteria lasciato ad appannarsi senza le cure amorevoli di una cameriera. La mano umidiccia premuta con forza contro la bocca di un bambino senza nome che avevano raccolto da qualche parte in Wisconsin, l’altra, stretta con altrettanta foga intorno al calcio della pistola scarica; il peso di un ultimo bossolo nella tasca usurata dei jeans.

«Perché non gli hai sparato?! Perché l’hai fatta morire!? » aveva poi urlato il piccolo bastardo ingrato tra le lacrime e il moccio che gli colava dal naso arrossato; in un'altra occasione avrebbe certamente compatito il piccolo Billy o Jamie o Tommy del momento, ma ora, dopo che il Paradiso era collassato su se stesso come un soufflé ripieno di pennuti e i piani di sotto si erano riversati sulla terra come un impetuoso fiume di lava infernale, Dean non vedeva il senso di rischiare la propria vita e sacrificare l’ultima pallottola per qualcun altro.

Quando aveva condiviso questo pensiero con Sam quello era scoppiato in una fragorosa risata – grossa grassa rumorosa risata – che aveva lasciato Dean attonito, più perché il riso convulso di Sam era di certo un suono che non credeva avrebbe più udito. Battendosi la mano sul ginocchio il giovane Winchester aveva emesso un grugnito che doveva essere un a parola «Che cazzo stai dicendo Sam?» con un’ultima scrosciante risata gli aveva risposto che: Dean, sei un grandissimo ipocrita! 

Ci aveva pensato per qualche secondo, ammutolito di fronte a quell’affermazione, poi si era unito alla risata di Sam.

Eventualmente poi, l’ultima pallottola andò a farsi benedire quando il ragazzino – Timmy? Jimmy? Tommy? – era diventato il giocattolo da masticare di un lupo mannaro.

Meglio viaggiare leggeri comunque

Questo pensiero così brutale colse Dean di sorpresa, aveva sempre visto un pezzo di Sammy negli occhi grandi e nelle incessanti e scomode domande di tutti i bambini e un altro brandello di Sam negli atteggiamenti ribelli e anticonvenzionali degli adolescenti dai movimenti impacciati e goffi: combinazioni che come un pulsante faceva entrare in funzione il pilota automatico: bada a Sammy, proteggi Sammy, salva il culo a Sammy.
Dean attribuì quella mancanza di emozioni al fatto che Sammy era proprio accanto a lui e che con altrettanta probabilità il suo inconscio aveva realizzato molto prima di lui che forse perdendosi continuamente ad accudire ogni orfano come se fosse un fantasma, un riflesso di Sam, avrebbe perso di vista il vero obbiettivo.

Due giorni dopo aver ricongiunto il moccioso con la sua famiglia biologica – uno sciame di demoni alla disperata ricerca di un cadavere non troppo decomposto da indossare – avevano trovato un Walmart il cui fetore di cibo andato a male era quasi più intenso di quello che impregnava l’aria tutt’intorno. Avevano trovato qualche frutto ancora commestibile, – “Vedi Sam? Che dio benedica gli GMO [1]!” – delle barrette energetiche e un commesso nel congelatore – “Guarda Sam! Abbiamo trovato la dispensa di Hannibal!”.

Questo circa un mese fa.

Erano passati quindi circa quarantotto ore dall’ultima volta che il suo stomaco aveva accolto del cibo.

«Quasi rimpiango di non essermi portato dietro un pezzo di Jack Torrance da quel supermercato» sbuffò. La mesta risata di Sam contro il suo petto lo fece rabbrividire impercettibilmente.

Per quanto ne sapeva  avrebbe potuto essere anche pieno giorno e le ombre che si rincorrevano lungo le pareti filtrando attraverso le persiane sbilenche avrebbero potuto essere minacciose nubi temporalesche smosse da un forte vento; piacevole illusione considerando che le ombre che sfumavano i simboli di protezione frettolosamente scarabocchiati sulla carta da parati erano il via vai burrascoso di mille demoni – incazzati, tra l’altro, cosa a cui Dean non riusciva a dare un senso visto che parevano divertirsi come bambini allo zoo – che si agitavano nel cielo come un’unica enorme – incazzata – nuvola nera.

Quando i cancelli dell’inferno si erano spalancati i demoni si erano riversati nelle strade come un branco di groupies arrapate a caccia del miglior posto sottopalco; avevano bazzicato e saltato come locuste da un corpo all’altro lasciandosi dietro arti mozzati e macchie di budella sull’asfalto.
«Credi che quando non ci saranno più esseri umani cominceranno a possedere gli animali?»
Sam alzò lo sguardo, afferrando l’oggetto di quella sconclusionata domanda: «L’assenza di alcool nel tuo sistema sta avendo conseguenze peggiori di quanto potessi immaginare»
«Andiamo Sam, non dirmi che “Esorcizzare uno scoiattolo demoniaco” non è nella tua lista dei desideri» ridacchiò Dean colpendolo giocosamente alla spalla. L’eco della risata di Sam sfumò in un sospiro

«Ti senti pronto? »

Si aspettava quella domanda, come ci si deve aspettare che durante un’interrogazione venga posto l’unico quesito a cui non si conosce la risposta, ma Dean una risposta l’aveva, incompleta e un po’ confusa forse, ma pur sempre una risposta esauriente: «Sì» e lo era, si era preparato inconsciamente a quel momento per anni.

Aveva il presentimento, quando gli capitava di pensarci, che la sua risposta avesse cominciato a germogliare da qualche parte nella sua quasi ordinaria adolescenza, quando gli angoli di quell’ordine (prenditi cura di Sammy!) impartito ad un soldato senza un’arma ed una guerra si erano lentamente smussati e ammorbiditi, fino a diventare un piacevole peso sul petto di un soldatino di stagno, senza una battaglia ma con un fucile almeno.
Dopo tre giorni passati a mordersi le unghie fino all’osso nell’attesa che Sam prenditi cura di Sammy!) aprisse gli occhi e respirasse a pieni polmoni l’odore neutrale e vagamente pungente di disinfettante del Mary Lanning Memorial Hospital di Hasting, Nebraska.

Sotto le ronzanti luci al neon che più volte avevano indotto Dean ad agitare la mano per scacciare una mosca invisibile, quel piacevole peso era divenuto un opprimente macigno apparentemente coperto da uno spesso strato di muschio poiché quelle settantadue ore di veglia era riuscito a percepire con angosciosa chiarezza il ramificarsi lento di quel comando (prenditi cura di Sammy!) che dell’originale tono militaresco aveva ben poco ormai; somigliava ora ad un pigolio implorante, come quello di un uccellino nel che cieco e infreddolito spera nel ritorno della madre; l’ultimo distante eco di un soldato steso sul campo di battaglia, con le gambe spezzate e ancora troppe guerre da combattere; una sommessa preghiera recitata con occhi gonfi di pianto tra le mura della cappella di un ospedale: prenditi cura di Sammy, ti prego [ … ]







___

[1] Genetically M
odified Organism (OGM nella traduzione inglese)



 

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Capitolo 3
*** Punto e a capo ***



“L’ultimo distante eco di un soldato steso sul campo di battaglia, con le gambe spezzate e ancora troppe guerre da combattere; una sommessa preghiera recitata con occhi gonfi di pianto tra le mura della cappella di un ospedale: prenditi cura di Sammy, ti prego”
 
 
Si fermò a rileggere l’ultimo paragrafo complimentandosi per le suggestive similitudini che aveva descritto mentre versava due dita di Jim nel bicchiere.

Tra tutte le invenzioni degli esseri umani le cappelle colorate incastrate fra le mura immacolate degli ospedali erano tra quelle che meno apprezzava: se non riusciva a percepire con già troppa chiarezza sulla propria pelle le vicende che quelle strutture ospitavano quotidianamente – vita, morte e miracoli sarebbe stato il caso di dire – quelle piccole alcove illuminate dalla flebile fiamma dei lumini fungevano da amplificatori: per ogni anima travagliata costretta a letto ve n’era almeno una seconda che con sguardo implorante si rivolgeva a Lui.
Ogni piccola candela, ogni macchia di cera sul pavimento, ogni cerino consumato, una vita. E Lui, impotente, veniva quotidianamente investito da suppliche e preghiere, maledizioni e ringraziamenti.

Quella volta però, l’unica preghiera che Dean Winchester avesse mai lasciato varcare la soglia delle sue labbra (escludendo una lunga serie di precedenti ed invane invocazioni) non era rivolta a Lui.

Chuck ne era rimasto vagamente colpito, Dean Winchester avrebbe pregato altre volte dopo quel giorno, già lo sapeva, ma sapeva anche che tutte le sue successive suppliche sarebbero state velate da un leggero strato di minaccia, ma non quella, no quella fu l’unica – sacra, limpida, sincera – preghiera che Dean Winchester avrebbe mai pregato e ancora gli veniva da sorridere ripensando che non era nemmeno indirizzata a Lui stesso, ma a Dean stesso. Non aveva mai avuto una gran fede Dean Winchester, fede che si sarebbe definitivamente estinta insieme alla voglia di vivere e ad una cassa di whiskey dopo che Sam l’avrebbe abbandonato per inseguire l’utopia di una vita normale, ma aveva fiducia.

Perché Dean Winchester l’aveva capito da un pezzo che la “fede” è solo per ciò che non si conosce – ragionamento controverso sapendo che per natura la razza umana teme ciò che è a lei sconosciuto – mentre la “fiducia” è per ciò di cui si ha la certezza e per Dean Winchester poche cose erano una certezza, ma Sam, era la prima.

Pertanto Dean Winchester aveva avuto fede in Sam, perché Sammy con la sua testardaggine e la sua determinazione ce l’avrebbe fatta e aveva avuto fede in se stesso, si era ripromesso che avrebbe vegliato sul fratello, gli aveva tenuto la mano e gli aveva scostato i capelli dalla fronte quando il sudore dovuto  a fervidi incubi li aveva appiccicati; aveva assistito impotente a quello spettacolo vittima lui stesso di un orribile sogno ad occhi aperti, intrappolato in una realtà dove John era chissà dove e Sam era in coma tormentato da incubi di qualcosa da cui Dean non era stato capace di proteggerlo. Si era detto che mai e poi mai avrebbe permesso che qualcosa accadesse nuovamente a Sam, promessa vana, ma Dean Winchester questo non poteva saperlo.

Guardando indietro nella sua pressoché eterna esistenza, Chuck si fermo su quel particolare frangente dove, in un atto di malsano altruismo aveva dato una spintarella a Sam Winchester, facendolo tornare alla realtà del Mary Lanning Memorial Hospital di Hasting, Nebraska. Chissà poi per quale ragione si era convinto che in quel modo – con un piccolo miracolo – Dean Winchester avrebbe riacquistato un po’ di fede, invece, con quella peculiarità che l’aveva sempre distinto, Dean Winchester si era incazzato e aveva maledetto se stesso e chiunque l’avesse indotto a rifugiarsi in quella cappella per mettersi a parlare ad un crocifisso vuoto, perché quando era tornato nella stanza di Sam invece di gridare al miracolo aveva gridato e basta.

Quasi gli veniva da ridere nel ricordare come l’espressione di Dean Winchester si era spenta fino a sembrare infastidito dal fatto che Sam fosse sveglio, era l’esatto contrario ovviamente, ma Chuck aveva impiegato qualche secondo per comprendere cosa avesse scatenato quella furia gelida; poi aveva realizzato che Dean Winchester ce l’aveva a morte con se stesso per non essere stato quando Sam aveva aperto gli occhi, per non essere stato lui la prima cosa che avesse visto dopo i neon ronzanti, per non essere stata la sua di voce quella che aveva sentito ma quella dell’infermiera che l’aveva accolto con un’ automatico “Buongiorno dormiglione” primo di affetto e umore, perché semplicemente non era lì con lui.

Tornò con lo sguardo sullo schermo del laptop tornando al contempo alla realtà e si chiese se forse non avrebbe dovuto lasciar morire Sam Winchester lì, quando Crossroad Blues era una canzone strimpellata alla chitarra e nient’altro.

«Gli avresti fatto un favore» disse ad alta voce, spezzando il silenzio della cabina fino a poco fa interrotto solo dal ticchettio dei stati del computer.“Forse sì, forse no, comunque sia è troppo tardi per tornare indietro”

Esalò un respiro tremante, premendo gli indici sulle tempie: “E allora? ”

“E allora vai avanti”

“Come? ”

“Lo sai come. E’ già stato deciso, il tuo compito è solo quello di trascriverlo. L’hai detto tu, ambasciator non porta pena”

“Ma se lo meritano davvero?”

“Cosa? Un punto e a capo definitivo? Anelano a mettere fine a questa storia quasi quanto te”

“Io non volevo che finisse così”

“Non sei tu a decidere, Chuck Shurley”

“Questo lo so bene, è solo che dopo tutto quello che a cui li hai costretti … Meritano di meglio”

“Credevo non ti importasse”

Sentì nuovamente l’eco di una risata, divertita questa volta: “Si chiama empatia, stronzo”

“Andiamo Chuck, cosa c’è di meglio della fine?”

“Ma non così! ”

“Così come?”

“Tutta una vita succubi di qualcosa più grande di loro, non hanno mai avuto una scelta, capisci! Tutto era già stato scritto, l’incontro tra i genitori, Michael e Lucifer, l’Apocalisse … Non hanno mai vissuto davvero”

Dall’altro capo ci fu un breve attimo di silenzio.

“Se davvero sei empatico come ti descrivi allora lo saprai che sono esausti. Cosa vuoi? Che si ritirino? Non accadrà mai Chuck, non si fermeranno mai, combatteranno fino alla fine, moriranno da eroi, sacrificandosi per salvare un mondo che non li ha mai voluti. E’ questo che meritano secondo te? L’ennesimo sacrificio? E poi? Ne arriveranno altri e tu lo sai. Non finirà mai se non così. ”

“Così come?! ”

“Così come vogliono loro”

“Loro non vogliono un bel niente! Non possono volere, non possono avere pretese su una vita che non hanno mai vissuto davvero! Sei tu a decidere, sei sempre stato tu … Sono marionette e nient’altro”

“Chuck, ti prego, mettiti nei loro panni e – “

“Ho vissuto tutta la loro vita! Conosco la storia di ogni cicatrice, di ogni bicchiere svuotato, conosco ogni parola non detta, non dirmi di mettermi nei loro panni!”

L’eco di un sospiro stanco.

“Lo capisco Chuck ma- “

“No! Tu non capisci nulla – “

“Io! Io ho scritto quella storia! Tu potrai anche aver sanguinato con loro ma io! Io ho dovuto scegliere di farli sanguinare. Ora, io decido che ne hanno avuto abbastanza”

“Allora finirà così? Nell’anonimato? E’ giusto? “

“E quello che avrebbero voluto. Soli, insieme “

E allora?

Allora è finita.







 

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Capitolo 4
*** Il canto del cigno ***


 
 
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Winchester Chronicles
Capitolo Venitreesimo
Swan Song
 
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[…] Sam si aggirava nervosamente per la stanza facendo tintinnare l’argenteria sotto i suoi piedi, premendosi una mano sullo stomaco nel tentativo di alleviare almeno un po’ il dolore. Se non fosse stato per il fastidioso mal di pancia che si era manifestato negli ultimi quaranta minuti, si sarebbe stupito di come, per la prima volta da quando aveva fatto indigestione di dolcetti nel lontano Halloween del millenovecentottantuno, non si fosse mai ritrovato in quella posizione se non per ricacciarsi dentro le viscere dopo l’attacco di un licantropo o per fermare un’emorragia con un lembo della sua camicia.

«Dev’essere stata l’acqua, ne sono certo» gemette rivolto al fratello.

Circa un’ora prima aveva tentato di bere dal lavandino – in sostituzione alla birra che solitamente costituiva il settanta percento circa dei loro liquidi.
Aveva trovato un bicchiere di vetro appannato ma ancora intatto tra i cocci e le schegge delle stoviglie e aveva aperto il rubinetto della cucina, solo per vederlo tossire come un malato di tubercolosi prima che un denso rivolo di putridume colasse nello scarico. Stizzito aveva chiuso immediatamente l’acqua agitando le braccia per disperdere quel tanfo nauseante.

«Tieni» Dean era giunto dal piccolo bagno tenendo in mano il bicchiere portaspazzolini ricolmo d’acqua «In bagno funziona ancora».

Aveva tracannato l’intero bicchiere in un sol sorso mentre Dean aveva scostato forchette e coltelli e si era accasciato ai piedi del letto, dov’era rimasto per i successivi sessanta minuti mentre Sam si agitava per la stanza come una fiera in gabbia.

Dapprima aveva vagato con lo sguardo sulle pareti catalogando i simboli che lui e Sam avevano frettolosamente disegnato, poi si era messo a contare i vassoi d’argento (trentatré) che ingombravano il pavimento e infine aveva posato lo sguardo sul quadro della vecchia, dov’era rimasto finché Sam non si era inginocchiato accanto a lui.

«Non credi sia ora Dean? Ci terrei tanto a morire prima di avere un attacco di diarrea».
 

Il cacciatore ridacchiò quasi divertito: «Non è diarrea Sammy».

Sam continuò a brontolare del saporaccio amaro dell’acqua; forse non l’aveva sentito.

«Dean? Ci sei?» la sua mano sulla spalla lo fece trasalire più delle sue parole; non si era nemmeno reso conto che aveva finalmente smesso di lamentarsi.

«Cosa c’è Sammy?» chiese guardandolo finalmente in faccia.

Il volto pallido doveva essere uno specchio del suo, spesse occhiaie violacee gli incorniciavano gli occhi come lividi mentre le labbra secche e tirate in più punti avevano ripreso a sanguinare all’angolo, lì dove si erano spaccate nel loro ultimo scontro.

Sam aveva un aspetto davvero orribile ma Dean non doveva essere tanto meglio date le nuvole di preoccupazione che oscuravano gli occhi del fratello.

«Basta così Dean».

Sam sorrise dolcemente come se stesse parlando ad un bambino, come se gli stesse spiegando perché papà non sarebbe tornato per Natale e perché loro sarebbero dovuti restare in quella stanza d’hotel, come se Dean non sapesse.

«Abbiamo combattuto le nostre battaglie, adesso basta … ci meritiamo un epilogo».

«Ci meritavamo tante cose Sam e non ne abbiamo mai ottenuta nessuna» fece un ampio gesto con la mano come a voler abbracciare l’intera stanza «A cominciare da una vita normale. Guardaci: due soldati senza una battaglia».

Dean sospirò abbassando il capo, lasciando cadere le palpebre e chiudendo gli occhi.

«Dovrebbero esserci stelle per guerre grandi come le nostre» mormorò Sam.

«Però. Non sapevo fossi anche un poeta» commentò Dean rivolto al pavimento.

Sam si grattò nervosamente la testa, grato che il fratello non potesse vederlo arrossire «Sì beh… Non l’ho scritta io, è di Sandra Cisneros».

«Dovevo aspettarmelo da un nerd come te» rise Dean, la risata di Sam si unì alla sua, ma presto si spense in un gemito mentre il cacciatore si stringeva convulsamente la maglia all’altezza dello stomaco.

Dean scattò in piedi e aiutò il fratello ad alzarsi scortandolo sul letto dove Sam si rannicchiò in posizione fetale in preda ai crampi.

«Ma che diavolo c’era in quell’acqua» gemette.

Dean si sedette sul materasso, le spalle rivolte a Sam, nell’incavo delle sue ginocchia. Forse non avrebbe dovuto dirglielo, forse non avrebbe dovuto prendere la boccetta della tasca della giacca, forse avrebbe dovuto lasciare che Sam se ne andasse così, senza sapere.

Forse, forse, forse.

Ma forse non avrebbe dovuto farlo in primo luogo.

«Dean?».

Sam si girò a fatica nello spazio ristretto del letto quando il fratello non diede segno di averlo sentito.

«Tra poco i crampi passeranno Sammy, non preoccuparti» mormorò senza voltarsi e al giovane Winchester parve che quelle parole fossero rivolte più a Dean stesso che a lui «Sono qui, non ti lascio».

Dean si decise finalmente a voltarsi verso di lui, il volto pallido portava il debole segno di lacrime scacciate via velocemente «Non ti lascio».

Certi cacciatori mormoravano che a lungo andare il “lavoro che svolgono per la comunità” li faccesse perdere il senno, li trasformasse in bestie assetate di sangue e poco più, mostri irrazionali devoti al sangue e alla propria arma; vero. Forse.

Quello di cui era certo Sam era che la caccia ti affinava i sensi e ciò ti costringeva a dormire con un occhio aperto e l’altro pure, ma almeno potevi fiutare il pericolo ad un chilometro di distanza e in questo momento, proprio come una preda braccata Sam sentì quel tanfo farsi sempre più forte, come una grande nuvola tempestosa in avvicinamento e quella famigliare ma spiacevole sensazione alla bocca dello stomaco.

  «Che cos’hai fatto Dean?» chiese cautamente alzandosi sui gomiti; i crampi andavano affievolendosi e ormai non rimaneva altro che un ritmico pulsare come di un cuore intrappolato nel suo addome.

Il cacciatore tirò su sgraziatamente con il naso rifiutandosi di versare altre lacrime pregne di ipocrisia «Non potevo farti questo, lo capisci Sam? Non potevo …».

«Dean ... che cosa mi hai fatto?».

Sam si alzò lentamente, i dolori allo stomaco solo un lontano ricordo mentre si avvicinava al fratello temendo la risposta.

Dean sedeva con le gambe aperte e i gomiti puntellati sulle cosce, la testa tra le mani e qualcosa stretto nel pugno destro, la presa così ferrea che le nocche gli si erano sbiancate per l’assenza di circolazione.

Sam si inginocchiò su una gamba davanti a lui e ripeté la domanda lentamente, con delicatezza come se stesse parlando con un pericoloso squilibrato. Forse non aveva tutti i torti.

Dean cercò di dargli una risposta, ci provò veramente ma le parole non erano mai state il suo forte, se la cavava meglio con le azioni: una pacca sulla spalla, un sorriso, un occhiolino, prendersi una pallottola al posto di Sam e lasciare al suo fratellino il compito di leggere tra le righe.

Sam era sveglio, riusciva sempre a leggere tra la fitte rete di righe che Dean tesseva continuamente.

Aprì il pugno e la boccetta di vetro cadde sul pavimento tintinnando contro l’argenteria. Rimase immobile, senza respirare mentre Sam la raccoglieva e ne annusava il contenuto.

Era una semplice bottiglietta, appariva minuscola nel suo grande palmo e il cacciatore ne svitò cautamente il tappo di sughero. Sentì la bile acida salirgli dallo stomaco ancor prima che l’odore di mandorle amare gli colpisse le narici.

«Mi dispiace Sammy» sussurrò Dean.

Sam scattò in piedi scagliando la boccetta contro il muro, proprio sotto il quadro con il bambino, frantumandola in piccoli cristalli di vetro.

«Ti dispiace?! Ti dispiace Dean?! Come hai potuto? Come hai potuto ti ho chiesto!».

Urlava con quanto fiato aveva in corpo, la voce spezzata e roca ma Dean rimase in silenzio, senza muovere un muscolo lasciando che le parole del fratello lo investissero come una marea in tempesta, che bruciassero come sale sulle ferite ma sapeva di meritarselo. Quelle parole, il bruciore, le ferite. Tutto quanto.

Sam lo afferrò per le spalle scrollandolo con violenza e Dean fu certo che vi avrebbe trovato dei lividi dove Sam aveva affondato le dita se mai fosse arrivato fino a “domani” per verificare.

Si lasciò mettere in piedi, gli permise persino di colpirlo dritto sul viso e il labbro si spaccò a lato, proprio come quello di Sam (Stessa guerra, stesse ferite non è vero Sammy?).

Alla fine cacciatore si diede per vinto, accasciandosi contro il muro dove aveva rotto la boccetta: «Allora è vero che gli amici ti pugnalano sempre di fronte» sputò non senza ironia.

Dean sorrise «Oscar Wilde, eh?».

«Cristo Dean devi dimostrarmi di avere una cultura letteraria proprio mentre sono in punto di morte?».

Dean Winchester si irrigidì evidentemente a quell’affermazione velenosa, stringendo i pugni per contenere la rabbia.

«Non fare quella faccia. Sei stato tu ad avvelenarmi, stronzo» ringhiò Sam spostando lo sguardo verso la finestra.

«Era nell’acqua vero?».

Dean annuì.

«Ma certo» commentò Sam.

«Quanto mi resta?».

Dean guardò l’orologio che portava al polso, il vetro era così incrinato da sembrare una ragnatela ma funzionava ancora «Una decina di minuti».

«Ma come sei stato generoso! E dimmi, dove l’hai trovato un veleno che mi uccidesse in un ora senza causarmi la diarrea?!» urlò Sam alzandosi nuovamente in piedi, marciò verso di lui, calpestando e calciando pezzi d’argento al suo passaggio.

Tutto quel sarcasmo caustico stava diventando insopportabile; Dean si levò dal letto andando incontro al fratello con i palmi alzati, glieli premette sul petto spingendolo all’indietro e causandogli di rovinare sulle stoviglie sparse per il pavimento.

Dal basso Sam gli rivolse uno sguardo iroso «Cosa vuoi?» abbaiò rimettendosi in piedi «Non credi di aver già fatto abbastanza?! Dovevamo farlo insieme Dean! Avevi detto di sentirti pronto! Cosa c’è? Hai cambiato idea adesso?!».

«STA’ ZITTO!» grido Dean mettendo finalmente fine alla valanga di accuse che stavano fuoriuscendo dalla bocca di Sam.

«Non lo capisci vero? Proprio non lo vedi?» gli veniva quasi da ridere. «Io sono pronto a morire, sono pronto a togliere il caricatore alla pistola e a non infilarcelo mai più, sono pronto a smettere di combattere, Dio non aspetto altro da chissà quanto tempo!
Ma non posso farti questo Sam, non di nuovo».

«Farmi cosa!?» esclamò il più giovane dei Winchester al limite della sopportazione.

Dean si sentì come se tutte le energie lo avessero abbandonato: l’adrenalina che lo aveva spinto un momento prima si era consumata lasciandolo privo di forze.

Trasse un lungo sospiro sedendosi sul letto, Sam immobile di fronte a lui: «Non posso permetterti di guardarmi morire. Non di nuovo».

Sam tacque, ammutolito, per circa un quarto di secondo prima di esplodere «Non posso crederci! Siamo ad un passo dalla fine e tu ancora non riesci a pensare a te stesso? Non esiste più “Prenditi cura di Sammy”… c’è solo la fine Dean».

«Non esiste nessun Dean Winchester senza “Prenditi cura di Sammy”» mormorò il cacciatore ma Sam ignorò quell’ultimo commento: «Avevi detto che mi avresti aperto la strada»
«Ti guarderò le spalle, come sempre».

«Dean …» Sam sedette esausto accanto al fratello «Basta, ti prego basta. Hai ragione, tu sei morto e io ti ho riportato indietro, guarda poi a che prezzo e tu hai fatto lo stesso a Cold Oak  ma-».

Quanto stava per aggiungere venne soffocato da un violento colpo di tosse. Dean gli poggiò una mano sullo sterno massaggiandolo delicatamente mentre Sam teneva la mano sinistra davanti alle labbra che fermare i colpi; il sapore metallico del sangue gli invase la bocca e le narici mentre continuava a tossire.

Ritirò la mano solo quando i colpi parvero placarsi già sapendo che l’avrebbe trovata macchiata di rosso.

Proprio fino alla fine. Non c’è modo per andarsene se non con le mani sporche di sangue per noi.

«Vuoi stenderti?» chiese Dean sorridendo appena.

Mentre un’altra violenza scossa gli attraversava la trachea Sam pensò che Dean non poteva davvero essere biasimato, Dio! condividevano lo stesso punto debole e la stessa paura: non morire, quanto più dover vivere l’uno senza l’altro. E nonostante questo Dean si era offerto ancora una volta di sacrificarsi per lui.

Sam sentiva la gola chiudersi sempre di più, inondata da un misto rugginoso di sangue, acqua e saliva. Sentiva i polmoni come schiacciati da un macigno quando l’unica cosa che gli premeva sul petto era la mano di Dean, Dean che stava bisbigliando qualcosa (Sono qui Sammy non ti lascio ti guardo le spalle Sammy va tutto bene non ti lascio respira no non puoi cazzo scusa va tutto bene resta calmo è quasi finita non ti lascio) ma il sangue gli scorreva nelle orecchie come un fiume in piena e i patetici tentativi dei suoi polmoni per incanalare un po’ di ossigeno sfumavano in colpi di tosse troppo rumorosi.

Cercò di afferrargli la mano mentre lo stomaco gli si contraeva spasmodicamente, boccheggiando come un pesce fuor d’acqua. Dean la afferrò immediatamente senza smettere di massaggiargli il petto nel tentativo di allietare l’inevitabile; gli strinse la mano con tutte le sue forze cercando di mettere a fuoco il volto del fratello che andava sfuocandosi e sdoppiandosi come se visto attraverso un caleidoscopio. 

«D-Dean» sussurrò.

Dean non mollò la presa e non smise di sorridere anche se gli occhi gli bruciavano per le lacrime e la rabbia trattenute, nemmeno quando le labbra di Sam si tinsero di rosso e dense bolle di saliva con gli colarono dalla bocca come schiuma.

Pochi minuti e Sam smise di tossire e agitarsi e Dean lasciò che si accasciasse sul materasso; gli sollevò il braccio destro e glielo adagiò sullo stomaco nella stessa posizione che era solito assumere quando si addormentava.

Dopotutto la morte non era così lontana dal sonno se non si considerava la staticità del petto di Sam e il miscuglio di saliva, sangue e succhi gastrici che macchiava le lenzuola e le mani di Dean.

Si convesse un momento per accasciarsi sul letto e respirare, respirare soltanto per qualche secondo prima di aprire il cassetto del comodino e prendere la pistola.

Un colpo solo, dopotutto non gliene servivano altri: non avrebbe sbagliato.

La stanza era placidamente silenziosa e anche là fuori sembrava tutto troppo calmo, la quiete prima della tempesta anche se per Dean la tempesta si era esaurita da un mezzo. L’unico pensiero che gli attraversò la mente prima che fosse il bossolo a farlo fu che era quasi finita.
 

 
 
Dean Winchester riaprì gli occhi dopo quelli che parevano pochi istanti e per un momento non vide altro che buio pesto e un silenzio assordante, ma quando udì i fuochi d’artificio in lontananza e vide il cielo illuminarsi di stelle cadenti rosse, bianche e blu e il boato delle esplosioni accompagnate dalla risata eccitata di un ragazzino, ebbe la certezza che fosse finita davvero.
 
 
 
 
 
 
***
Buon Natale a tutti e grazie per l'infinita pazienza dimostrata!!!

 
 
 
 
   
 
 
 

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