Vendetta e perdono

di ladyRahl
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Senza identità ***
Capitolo 2: *** Il traditore ***
Capitolo 3: *** Nella tana del lupo ***
Capitolo 4: *** Come uno specchio ***
Capitolo 5: *** Origini ***
Capitolo 6: *** Legami ***
Capitolo 7: *** L'uomo nel mirino ***
Capitolo 8: *** La resa dei conti ***
Capitolo 9: *** Confessioni ***
Capitolo 10: *** Il peso della coscienza ***
Capitolo 11: *** L'unica soluzione ***
Capitolo 12: *** Famiglia ***



Capitolo 1
*** Senza identità ***


Joan Watson si svegliò di soprassalto e il suo cuore sembrò smettere di battere per dieci lunghissimi secondi a causa dello spavento. Guardò la sveglia appoggiata sul comodino: le sette di mattina. Si alzò dal letto e scese le scale rapidamente. Era proprio curiosa di sapere il motivo per cui il suo coinquilino avesse deciso di ascoltare un cd di musica black metal a tutto volume proprio a quell’ora. Era sicura che fosse riuscito a svegliare tutta New York.
“Buongiorno Watson! Dormito bene?” chiese Sherlock con aria innocente.
“Oh sì. A parte l’infarto che ho rischiato di prendere meno di due minuti fa, direi che va tutto bene!”urlò Joan per farsi sentire. “Ti spiacerebbe abbassare?”
L’uomo si diresse verso il suo gigantesco impianto stereo e spense quella musica infernale che la stava facendo diventare sorda.
“Alleluia! Posso sapere cosa ti è saltato in mente?”
“Studi antropologici, Watson. Cerco di capire come certi essere umani possano trarre piacere ascoltando questo genere di musica, se così si può definire, in cui il bel canto sembra essere stato sostituito da rigurgiti degni della digestione di un uomo sui centocinquanta chili dopo il pranzo di Natale”
“E la tua conclusione sarebbe?”
“Ci stavo lavorando prima che tu mi interrompessi!” rispose seccato Sherlock. “In ogni caso è un bene che tu sia sveglia. Mi è appena arrivato questo dal capitano Gregson”
Joan prese tra le mani il cellulare di Holmes e lesse il messaggio ad alta voce:
 
Omicidio in luogo isolato, no documenti, i nostri non hanno trovato tracce o elementi rilevanti. Ti aspetto per ulteriore perlustrazione all’indirizzo allegato.
 
“Forza Watson, il tempo stringe! Sembra che i nostri colleghi in divisa brancolino nel buio, il che non mi stupisce affatto. Il nostro aiuto sarà fondamentale, quindi sbrigati a prepararti!”
La donna tornò in camera, scelse velocemente cosa indossare e, prese le chiavi della macchina, si avviarono verso il luogo indicato dal capitano. Nonostante il risveglio brusco, il buonumore di Sherlock aveva contagiato anche lei. Dopotutto quando riceveva un nuovo caso che prometteva di essere interessante il viso dell’uomo si illuminava come quello di un bambino di fronte al suo giocattolo preferito. Le piaceva vedere l’amico sorridere, era una cosa rara.
“Cos’è quel sorrisino?” chiese sospettoso l’uomo.
“Cosa? Oh, niente di importante,” rispose frettolosamente la donna. “Siamo arrivati”

“Direi che sicuramente l’omicida non ha corso il rischio di essere visto da qualcuno” notò Sherlock.
In effetti il luogo in cui arrivarono sembrava essere stato dimenticato da Dio. Si trattava di una piccola zona fuori dalla periferia di New York, con poche e cadenti case quasi tutte abbandonate, molto distanti l’una dall’altra. La via principale era una strada malandata, piena di enormi buche sui cui transitavano pochissime auto durante la giornata. Da essa si diramavano viottoli ghiaiati che alzavano dei gran polveroni al passaggio dei veicoli. Questo paesaggio malinconico fece rabbrividire Joan.
I mezzi della polizia si concentravano nei pressi di un piccolo capannone che fungeva da deposito. Attorno ad esso decine di agenti stavano setacciando la zona in cerca di qualche indizio.
Dal deposito fece capolino il capitano Gregson, che andò ad accogliere i collaboratori.
“Buongiorno capitano! Non ci hai invitati in luogo molto accogliente, vedo. Aggiornaci sui fatti”
“Da quando la scena di un delitto può essere accogliente? Comunque grazie di essere venuti”
I tre si diressero nei pressi del deposito. Pochi metri vicino all’entrata c’era il corpo riverso a terra di un uomo sulla quarantina, capelli biondo scuro e occhi azzurri. Aveva la carnagione particolarmente chiara, un foro di proiettile proprio in mezzo alla fronte e una vistosa bruciatura sull’avambraccio destro.
“Non abbiamo idea di chi possa essere,” cominciò Gregson. “Abbiamo perquisito il corpo e stanno perlustrando la zona, ma non abbiamo ancora trovato né portafoglio né documenti. Il decesso è avvenuto circa tre ore fa. A dare l’allarme è stato il proprietario del deposito, un certo Jack Anderson. Ha una fattoria a un paio di chilometri a nord. Dice di essere arrivato qui con il suo furgone per prendere alcuni attrezzi da lavoro e di aver visto il cadavere dove ora lo vedete voi. Afferma  che non c’era anima viva in giro, ma in lontananza gli pare di aver visto una macchina andarsene ”
Anderson era un uomo sulla cinquantina, capelli brizzolati e barba incolta, fisico massiccio e muscoloso, tipico di chi è abituato a lavori pesanti.
“Una macchina? Che tipo di macchina? Ne è proprio sicuro?” lo incalzò Holmes.
“Non lo sa. La nuvola di polvere sollevata lungo il sentiero dalla vettura la nascondeva, ma sembra abbastanza certo che si trattasse di un’auto piuttosto grande, un suv.” rispose il capitano. “Non credo che lui c’entri qualcosa con l’omicidio e, nonostante manchi il portafoglio, scarterei con certezza l’ipotesi di una rapina”
 
Prima ancora che Gregson finisse di parlare, Sherlock era già entrato nel pieno delle sue indagini seguito da Joan. I metodi del socio che prima le sembravano tanto strambi stavano cominciando a diventarle famigliari. L’uomo cominciò analizzando i dintorni: non c’erano impronte particolarmente visibili e neanche segni di colluttazione. Ad un certo punto si mise ad annusare il terreno e la sua attenzione ricadde su due zone in particolare. Dopo qualche secondo si avvicinò al testimone e gli chiese:
“Che marca di sigarette fuma, signor Anderson?”
“Pall Mall, perché?” rispose confuso.
“Interessante”
“Perché è interessante?” chiese dubbiosa Joan.
“Assaggia!” e le porse un dito cosparso di polverina grigia raccolta dalla zona che prima stava analizzando, ma lei declinò gentilmente l’offerta. “E’ cenere, residui di sigaretta. Non sono stupidi, probabilmente hanno buttato i mozziconi altrove ma non hanno fatto i conti con il mio fiuto”
“Hanno? Pensi fossero più persone?” chiese il detective Bell, che nel frattempo aveva raggiunto il gruppo.
“Si tratta di due tipi di tabacco diversi e nessuno dei due corrisponde alla marca utilizzata dal signor Anderson. Sai, sono un esperto in questo campo. Dovresti leggere le mie monografie in proposito. Comunque non ho riscontrato nella vittima i caratteri tipici di un fumatore, perciò sì, sono più che certo che gli assassini fossero almeno in due”
Sherlock cominciò poi ad esaminare nel dettaglio il cadavere, si concentrò sul foro del proiettile e per ben cinque minuti osservò attentamente la bruciatura.
“Hai ragione capitano” affermò Holmes. “Non è stata una rapina, ma una vera e propria esecuzione. Come noterete ci sono delle bruciature vicino alla fronte e dalla loro entità oserei dire che gli hanno sparato a bruciapelo. Le cose più importanti, però, ce le rivela la cicatrice di questa bruciatura”
Si chinò e scoprì l’avambraccio per tutta la lunghezza della ferita.
“E’ piuttosto recente, direi che risale a non più di tre mesi fa” osservò Joan grazie al suo sguardo clinico.
“Molto bene, Watson. Noti anche qualcos’altro? Concentrati sui bordi”
Joan si chinò e con l’ausilio di una lente d’ingrandimento notò dei piccoli segni neri qua e là.
“Li vedi vero? È inchiostro, inchiostro per tatuaggi. Non sarei sorpreso se la vittima si fosse procurato da solo questa bruciatura per coprirne uno che avrebbe potuto causargli delle grane, e lo sarei ancora meno se scoprissimo che se ne sia fatto uno di recente”
Sherlock aprì la camicia del morto e, con un sorriso colmo di soddisfazione, mostrò il petto decorato da una croce con una grande stella sullo sfondo. Riprese quindi l’esposizione delle sue deduzioni.
“Eccellente! Questo è il tatuaggio caratteristico dei membri del clan Volkov, una famiglia russa associata alla mafia che ha messo radici qui a New York. Lo riconosco, ho risolto alcuni casi in cui erano implicati. Suppongo invece che il tatuaggio che la vittima ha provato ad eliminare fosse il simbolo di un’altra famiglia alla quale prima apparteneva. D’altronde i tratti somatici parlano abbastanza chiaro: è originario dell’Europa dell’est. Detto ciò, signori, se le mie umili deduzioni sono esatte, posso affermare che siamo di fronte ad un regolamento di conti tra malviventi”
“Direi che la tua teoria fila completamente e in ogni caso è l’unica pista che abbiamo al momento” constatò Gregson. “Bell, controlla se è stata denunciata la scomparsa di persone compatibili con il profilo della vittima e cerca negli archivi se c’è qualcosa riguardante i Volkov”
“Bene, io e Watson cercheremo allora di studiare ciò che è rimasto del vecchio tatuaggio e proveremo a risalire al clan che lo voleva morto!” disse Sherlock, più raggiante che mai. “Teneteci aggiornati”
 
Joan e Sherlock risalirono in macchina e si avviarono verso casa.
“Brutta storia” decretò la donna.
“Brutta storia è un eufemismo, Watson. Quando c’è di mezzo un'organizzazione come la mafia bisogna sempre procedere con la massima cautela. Però devo ammettere che è entusiasmante!” affermò allegro l’uomo.
“Entusiasmante?! A me sembra molto pericoloso!”
“Il nostro lavoro è sempre pericoloso, ma guarda il lato positivo. Stiamo per studiare a fondo una delle menti criminali più sofisticate e complesse al mondo. Vedilo come un tirocinio avanzato che arricchirà di esperienza la tua promettente carriera di detective!” e le sorrise compiaciuto.
Joan sospirò rassegnata e un sorrisetto le apparve involontariamente sulle labbra. Non voleva ammetterlo ma sì, anche lei, in fondo, trovava quella situazione particolarmente entusiasmante.

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Capitolo 2
*** Il traditore ***


“Ti rendi conto che stiamo cercando un ago in un pagliaio, vero?” chiese Joan sbadigliando.
Sherlock sembrò non sentirla nemmeno: erano le due di notte ed entrambi erano sommersi da una montagna di fascicoli e ritagli di giornale ormai da mezzogiorno, dopo aver passato la mattinata ad analizzare la scena del delitto.
“Continua a cercare” rispose freddamente l’uomo, senza levare gli occhi dallo schermo del suo portatile.
“Sherlock, il problema è che non sappiamo che cosa cercare! Abbiamo riletto i casi riguardanti la famiglia Volkov dell’ultimo anno e non abbiamo trovato nulla di rilevante, soltanto crimini ordinari: furti, spaccio, vendita di armi, ma niente a che vedere con dispute o scontri con altri clan!”
“Ragiona, Watson! Non abbiamo a che fare con una guerra tra due fronti ben distinti, ma con un traditore! I traditori rimangono nell’ombra perché sanno benissimo che corrono il rischio di finire come il nostro sfortunato cadavere. Dobbiamo cercare qualcosa di diverso, qualcosa di insolito…tipo questo!” e girò lo schermo verso la donna.
 “Di cosa si tratta?”
Sherlock cominciò a camminare nervosamente su e giù per la stanza.
“L’articolo dice che circa sei mesi fa la polizia ha sequestrato un carico di droga pari a diverse migliaia di dollari, nascosta all’interno di alcuni container provenienti dalla Russia. Sembra che siano riusciti a mimetizzarla all’interno di scatoloni di una famosa e insospettabile marca di vodka, che avrebbe passato i controlli facilmente. Il bello è che la polizia non solo sapeva quando e dove sarebbe arrivata, ma anche il luogo dove sarebbe stata caricata e smistata”
“Ma come hanno fatto ad avere tutte queste informazioni?” chiese perplessa Joan.
“Insolito vero? Qui viene il bello!” disse Holmes sorridendo. “Sembra che il colpo sia stato sventato grazie ad una soffiata anonima!”
“Un traditore!” esclamò la donna.
“Esattamente Watson! Quella sera furono arrestate moltissime persone e tutte sono riconducibili ad una precisa famiglia russa che ha sempre operato nell’ombra qui a New York, ma che in realtà si è rivelata una delle più influenti” disse Sherlock, e mostrò a Joan l’immagine di un tatuaggio composto da pugnale alato scovata su internet. “La famiglia Zaytsev. Quella sera fu un duro colpo per l’andamento dei loro affari e anche per il numero dei loro uomini”
La donna prese la fotografia dell’avambraccio della vittima e la confrontò con quella mostratale dall’uomo: i tratti corrispondevano alla perfezione.
“Beh, non sappiamo chi sia, ma almeno sappiamo chi lo voleva morto” sospirò Watson. “Come procediamo?”
“Come ho detto, quella sera i membri del clan furono tutti arrestati e trasferiti al carcere di Saint Marcus. Domattina andremo lì e proveremo a convincere qualcuno di loro a collaborare”
 
La mattina dopo si alzarono di buon’ora e raggiunsero la prigione di Saint Marcus, a pochi chilometri da New York.
“Sono molto ottimista, Watson! Questa notte ho fatto un paio di ricerche e ho scoperto che la maggior parte degli uomini chiave degli Zaytsev sono ancora rinchiusi qui. Abbiamo buone probabilità di strappare loro qualche informazione”
L’ottimismo di Holmes svanì molto velocemente, quando con il passare delle ore nessuno degli interessati sembrava voler rivelare nulla.
“Pensi che stiano mentendo tutti quanti?” chiese Joan, mentre l’ennesimo uomo usciva dalla stanza lasciandoli a bocca asciutta.
“Queste persone hanno un senso di attaccamento alla famiglia notevole, non è facile trovare chi è disposto a tradirla per collaborare, in ogni caso tutti non credo. Molti sono semplici burattini che agivano a comando pur rimanendo all’oscuro di tutto. Fatelo entrare!” gridò Sherlock alla guardia.
In quel momento entrò Boris Baranov, un ometto basso dall’espressione stanca. Si sedette e rimase in silenzio a fissare i due detective. Holmes gli mostrò la foto del cadavere.
“Conosce quest’uomo?”
Baranov scoppiò a ridere e ci vollero due minuti prima che smettesse.
“Beh, almeno ha una reazione diversa rispetto al silenzio tombale di tutti gli altri” sussurrò Joan.
“Che cosa volete da me?” chiese l’uomo, con un ghigno beffardo stampato in viso.
“Un nome, signor Baranov. Vogliamo sapere chi è quest’uomo. Abbiamo modo di credere che fosse in rapporti difficili con la vostra organizzazione”
“Vuole sapere chi è? Bene, glielo dirò. È un lurido bastardo, ecco cos’è!!”
“Già, come pensavo. È un traditore vero? Sappiamo che è stato lui a fare la soffiata sei mesi fa” provò a incalzarlo Holmes.
“Mi ascolti bene: se pensa che io abbia avuto a che fare con questo si sbaglia di grosso. Certo, se avessi potuto il buco in testa glielo avrei fatto io personalmente, sia a lui che quell’altro verme, ma come vede sono un po’ impegnato al momento”
“L’altro verme? Quindi c’è un secondo traditore. Come andarono esattamente le cose quella sera?”
“Senta, io eseguivo gli ordini e basta. Ho imparato a non chiedere mai spiegazioni. So solo che la mia divisione doveva trovarsi con un acquirente abituale, un certo Adam Lee Jones, ma al suo posto ci siamo ritrovati un esercito di sbirri armati fino ai denti” ringhiò Baranov.
“Ci dica il nome del traditore!”
“Io non vi dirò altro, vi ho già rivelato fin troppo. Se proprio volete spiegazioni andate da Jones, sempre che sia ancora vivo!” e scoppiò in un’altra fragorosa risata, mentre veniva riaccompagnato in cella.
Sherlock si alzò dalla sedia trionfante.
“Bene Watson! Abbiamo una pista finalmente! Non perdiamo tempo e andiamo da questo cossidetto verme di nome Jones!”
 
I due salirono in macchina e si allontanarono dalla prigione.
“Detective Bell! Sono Holmes!” disse Sherlock parlando al telefono. “Avrei bisogno di un favore. Dovresti cercarmi l’indirizzo di un certo Adam Lee Jones. Sì, hai ragione, non devi fare domande. Vedo che cominci a capire i miei metodi! Attendo notizie!”
Dopo una decina di minuti arrivò il messaggio di Bell con l’indirizzo dell’uomo. Si trattava di un ricco industriale, residente in uno dei quartieri più prestigiosi di New York.
“Dall’inferno al paradiso!” notò Sherlock.
In effetti, abbandonata la sudicia prigione di periferia, si ritrovarono di fronte ad una maestosa villa finemente decorata, circondata da un rigoglioso giardino dotato di una lussuosa piscina.
“Quella pozza d’acqua è grande come il mio vecchio appartamento” commentò Joan. “Sarà difficile convincerlo a parlare”
“Oh, non credo proprio” sogghignò Holmes.
“Sai che quando fai così mi fai paura?”
Le guardie li lasciarono entrare e all’interno furono accolti da un omone grasso sulla cinquantina, che si presentò come il padrone di casa.
“Buongiorno! Mi hanno detto che siete della polizia. Accomodatevi! Che posso fare per voi?”
“Non siamo poliziotti, ma tendiamo a collaborare spesso con loro. Mi dica, signor Jones, ha mai visto l’uomo nella foto?”
Jones trasalì e cominciò a balbettare.
“N-n-non conosco quell’uomo, non l’ho mai visto prima!”
“Avanti Jones, lei è un pessimo bugiardo! Il suo corpo rivela ciò che lei inutilmente tenta di nasconderci! Sappiamo che era in affari con la famiglia Zaytsev e che una notte di sei mesi fa lei ha organizzato la soffiata con quest’uomo” disse Holmes.
“Non so di cosa stia parlando!” tentò di giustificarsi Jones, che aveva iniziato a sudare come una fontana.
“Facciamo così, signor Jones. Se lei adesso ci racconta tutto, noi chiuderemo un occhio e non diremo nulla alla polizia dei suoi loschi affari. Certo, loro sanno che siamo venuti a parlare con lei, e se lei non collabora…”
“Va bene, va bene! Vi dirò tutto! Ma per favore, non una parola alla polizia o sono finito. La mia azienda sarebbe finita!” piagnucolò l’uomo.
Sherlock e Watson si scambiarono un cenno d’intesa.
“La ascoltiamo, signor Jones” disse Joan.
“Sì, è vero. Ero in affari con gli Zaytsev, ma non c’entro niente con il tradimento. Ero solito comprare la roba non appena arrivava in porto. Droga, per l’esattezza, la migliore in circolazione qui in città. Quella sera dovevamo trovarci al solito posto, ma al pomeriggio ricevetti una chiamata anonima. Era un uomo che mi disse che, se tenevo alla mia libertà, non sarei dovuto andare all’incontro. Io mi sono spaventato e gli ho creduto. Può immaginare il mio stupore quando la mattina seguente ho appreso la notizia degli arresti alla televisione”
Jones si alzò dal divano, si accese una sigaretta e continuò.
“Due giorni dopo ho ricevuto la visita di quell’uomo nella foto. Si è presentato come Igor Savin, era stato lui a chiamarmi e a salvarmi dall’arresto. Disse di lavorare per un’altra famiglia, i Volkov, e mi offrì di iniziare a fare affari con loro dato che ormai gli Zaytsev avevano gli occhi della polizia addosso”
“Hai mai più ricevuto notizie dagli Zaytsev?” domandò Sherlock.
“Sì, ecco…circa due settimane fa sono venuti qui due dei loro uomini. Mi hanno chiesto se avevo avuto contatti con Savin e io ho raccontato tutto. Sa, hanno uno certa abilità nell’ottenere ciò che vogliono.  Hanno aggiunto che questa pagliacciata dei Volkov finirà presto e potrò tornare a fare affari con loro”
“Saprebbe descriverci i due uomini?” chiese Joan.
“A parte l’enorme massa di muscoli di entrambi non so dirvi molto. Ero più preoccupato per la mia incolumità, ma ho notato che uno dei due aveva una vistosa cicatrice all’occhio destro”
“Bene, grazie Jones!” disse Sherlock, stringendogli la mano. “E’ stato molto utile. Ha la mia parola che non diremo nulla alla polizia” e si avviò con Joan all’uscita, per dirigersi poi verso la centrale di polizia.
 
“Ora la faccenda sembra quadrare alla perfezione” affermò il capitano Gregson, assorto nei suoi pensieri, dopo che i due collaboratori lo avevano informato degli sviluppi dell’indagine.
“Quindi la vittima, Igor Savin, avrebbe tradito la famiglia Zaytsev per unirsi ai Volkov? Ed è stato ucciso per questo?” chiese Bell.
“Esattamente! Di fatto con quella soffiata ha distrutto il mercato dei traffici illeciti a New York degli Zaytsev, trasformandoli in osservati speciali della polizia” concluse Watson.
“Comunque anche noi abbiamo trovato qualcosa” aggiunse Bell. “I Volkov prima di oggi sono stati coinvolti in crimini, per così dire, di piccolo taglio. Il loro campo d’azione è sempre stato New York e il loro boss è ora ai domiciliari. Si chiama Evgeniy Volkov, risiede in città”
“Scommetto però che gli affari ultimamente hanno subito magicamente un’impennata” aggiunse Sherlock. “Il loro obiettivo era distruggere gli Zaytsev proprio per ereditare tutti i loro clienti e Savin è stato il loro cavallo vincente. Ora possono agire indisturbati: la concorrenza non regge di fronte a loro, stanno controllando la maggior parte del commercio di droga qui in città”
“Bene, facciamo visita a questo Volkov e vediamo cos’ha da dirci” disse Gregson.
“Se non ti dispiace, capitano, sarebbe meglio che solo io e Watson andassimo a parlare con lui. I poliziotti tendono ad innervosire la gente come lui e finiremmo col renderlo muto come un pesce” notò Sherlock.
“Sì, forse hai ragione” sospirò Gregson. “Ma state attenti!”  

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Capitolo 3
*** Nella tana del lupo ***


Erano circa le cinque di pomeriggio quando i due detective arrivarono a destinazione. Di fronte a loro si ergeva la prigione dorata del boss Evgeniy Volkov, costretto da circa un anno ai domiciliari. La grande abitazione, costruita con le numerose entrate delle sue attività illecite, era sorvegliata a vista da un piccolo esercito di uomini pronti ad intervenire nel caso il capo si fosse trovato in pericolo.
“Possibile che Volkov sia riuscito a mandare avanti gli affari per tutti questi mesi anche se relegato qui?” chiese perplessa Joan.
“Mia cara Watson, i domiciliari per gente come lui sono solo una noiosa formalità” spiegò Sherlock. “E’ come se legassi un cane feroce ad un catena infinitamente lunga: in teoria è sotto controllo, in pratica può fare quello che gli pare”
“Capisco. Immagino tu sappia come trattare un “cane” come lui, vero?”
“Diciamo che ho una certa dimestichezza nel campo. A proposito, ti invito a lasciar parlare me, dobbiamo essere estremamente cauti e fargli sapere solo il minimo indispensabile”
 
Il cancello d’entrata sembrava un insormontabile ponte levatoio che avrebbe scoraggiato chiunque ad entrare. Da una piccola torretta situata a pochi metri da esso uscì un omone dall’aria minacciosa e con un forte accento dell’est.
“Chi siete?” domandò scontroso.
“Salve, sono Sherlock Holmes e lei è la mia assistente Watson. Siamo consulenti investigativi e vorremmo fare due chiacchiere con il signor Volkov”
“Oggi non è il giorno dei controlli, fatemi vedere il tesserino” rispose impassibile la guardia.
“Quale tesserino? Ho detto che siamo consulenti investigativi, non poliziotti! Non siamo qui per controllare se il suo capo ha violato i domiciliari. Vogliamo solo parlargli” Sherlock cominciò ad innervosirsi.
“Mi dispiace, solo gli agenti con regolare permesso possono entrare”
“Santo cielo, lo vuole capire che non siamo della polizia?!” gridò spazientito Holmes. “Watson, mi spieghi perché la gente fatica così tanto a capire la differenza tra poliziotto e consulente investigativo? Eppure non mi sembra che richieda un’intelligenza superiore per afferrarla!”
Proprio in quel momento, un uomo sulla sessantina vestito elegantemente sbucò dal giardino. Si avvicinò fumando un grosso sigaro, con la sua scorta alle calcagna.
“Cos’è questa confusione, Roman? Chi sono queste persone?” domandò seccato l’uomo.
“Poliziotti, signore, li stavo…”
“Per l’ultima volta: noi non siamo poliziotti!” ringhiò Holmes. “Deduco che lei sia il signor Evgeniy Volkov. Siamo consulenti investigativi totalmente indipendenti dalla polizia e vorremmo solo scambiare quattro chiacchiere con lei. So per certo che ciò che abbiamo da dirle le interesserà”
“Roman, falli entrare!” decretò l’uomo.
“Ma signore…”
“Ho detto di farli entrare!”
La sentinella tornò alla sua postazione con la coda tra le gambe e aprì il cancello.
 
Il padrone di casa condusse gli ospiti nel salotto della sua “umile” dimora.
“Mi dispiace per il trattamento che vi hanno riservato, ma purtroppo di questi tempi non si è mai abbastanza sicuri” disse con tono gentile Volkov. “Allora, avete detto di essere consulenti investigativi. Che posso fare per voi?”
Porse ai due detective un bicchiere di whiskey, ma entrambi declinarono l’offerta.
Sherlock si rivolse un’ultima volta verso Joan, come per ricordarle di lasciar condurre i giochi a lui, poi cominciò.
“Crediamo che lei abbia perso uno dei suoi collaboratori l’altra notte, un certo Igor Savin. Le dice niente?” domandò Holmes.
Volkov digrignò i denti e rivolse lo sguardo altrove, poi si sedette sulla poltrona.
“Perché siete venuti da me? Non vedo come  io possa essere coinvolto”
“Nessuno la sta accusando di quel che è successo, ma sappiamo che avevate dei contatti e speravamo che ci potesse dare una mano”
“Come fate a supporre tutto ciò?” chiese Volkov, tastando il terreno.
“Sarebbe una storia noiosamente lunga. Lo sappiamo e basta”
Seguì un interminabile momento di silenzio, che venne interrotto da Sherlock.
“Mi ascolti, signor Volkov. Le ho già detto che non siamo della polizia, siamo solo collaboratori. Se davvero lo fossimo, saremmo arrivati qui con un mandato e le avremmo rivoltato la casa da cima a fondo. Noi invece sappiamo che lei non c’entra, ma le chiediamo solo di darci qualche informazione. Lei sarà al sicuro” 
L’uomo guardò fisso negli occhi il suo interlocutore, poi sospirò rassegnato.
“Che gli è successo?”
“Gli hanno sparato alla testa. Non abbiamo molti elementi in mano, anzi direi che siamo in alto mare. Ecco perché tutto quello che ci dirà sarà preziosissimo per le nostre indagini”
Joan si accorse che mai nella sua convivenza con l’amico lo aveva mai visto sfoderare un atteggiamento così maledettamente persuasivo.
“E va bene. Mi voglio fidare di voi” disse con un filo di voce il boss. “Sì, conoscevo Savlin e sì, da un paio di giorni non si faceva più sentire”
Riprese a fumare il suo sigaro.
“Non è passato neanche un anno da quando ha deciso di, diciamo, fare la mia conoscenza”
“E poi ?” lo incalzò Holmes.
“Oh, signor Holmes! Mi fido di lei, ma sa che un uomo nella mia posizione meno dice e meglio è. Non ho problemi però a darvi l’indirizzo in cui abitava Savlin, in cambio vorrei che mi teneste informato sugli sviluppi del caso. Se riuscirete a dare un nome ai suoi assassini, fatemelo sapere” sorrise cordialmente Volkov, porgendo ad Holmes un bigliettino su cui aveva appena annotato la preziosa informazione.
“Sicuramente! Grazie per il suo aiuto” rispose gentile Sherlock. “A risentirci!”
I due detective uscirono dalla tana del lupo, sotto lo sguardo minaccioso di Roman, che li seguì fino a quando non salirono sulla macchina.
 
Decisero di non dirigersi subito verso la centrale, per essere sicuri di non essere seguiti.
“Perché non gli hai chiesto se conosceva l’uomo con la cicatrice all’occhio destro? Forse ci avrebbe condotti subito all’assassino!” chiese Joan, guardando di tanto in tanto nello specchietto retrovisore.
“Assassini! Ha detto assassini, Watson!” gridò Sherlock, senza contenere la sua preoccupazione.
“Sì, e allora?”
“Ho cercato di essere il più vago possibile, ma lui ha già intuito che si tratta di un regolamento di conti, più precisamente della vendetta degli Zaytsev. Del resto, è abbastanza evidente. Se gli avessimo fornito l’identikit del presunto assassino, cosa avrebbe fatto? L’avrebbe denunciato alla polizia?”
“No, probabilmente si sarebbe vendicato da solo”
“Esatto, Watson! Dopodiché sarebbe stato il turno degli Zaytsev e così via. Un circolo di violenza e vendette senza fine. Di certo riuscirà a risalire da solo a quell’uomo, ma almeno ci impiegherà molto di più e noi avremo tempo per agire”
Scesero dalla macchina e si diressero verso l’ufficio del capitano.
“Mi stavo preoccupando!” disse Gregson, tirando un sospiro di sollievo.
“Com’è andata?” chiese Bell.
“E’ stata una spedizione illuminante! Mi raccomando, tenete fuori da questa storia il nome di Volkov, almeno per ora” affermò con decisione Sherlock. “Abbiamo l’indirizzo del rifugio di Savlin”
“Ottimo lavoro! Bell, comincia ad organizzare una squadra: faremo irruzione questa notte” decretò Gregson.
“Agli ordini!”
“Sherlock, c’è qualcosa che non mi è chiaro” disse Joan. “Non pensi sia stato rischioso per Volkov fornirci l’indirizzo di Savlin? Intendo che se si fosse, diciamo così, portato del lavoro a casa potremmo trovare delle prove anche contro di lui”
“Savlin era un professionista, aveva già raggiunto un certo grado nella gerarchia della famiglia, non poteva essere così stupido da lasciare prove in giro per casa” disse l’amico. “E’ impossibile però nascondere ogni cosa a chi sa osservare, per questo sono fiducioso. Qualcosa troveremo”
 
Il vento autunnale aveva iniziato a soffiare con particolare insistenza quella sera. Erano le otto e la squadra appostata vicino a quello che era stato il covo di Savlin aspettava solamente l’ordine del capitano. Avevano deciso di sorvegliare la casa per alcune ore prima di agire: in quei casi la prudenza non era mai troppa.
Joan se ne stava accucciata nel sedile posteriore della macchina di Gregson.
“Sherlock, la vuoi smettere di agitarti? È da un’ora che non stai fermo un attimo e stai facendo innervosire anche me!” sbottò ad un certo punto la donna.
In effetti Holmes non ne poteva più di aspettare: erano ore che osservavano l’entrata e non era stato rilevato nessun segno di vita, ma Gregson preferiva attenersi a quell’inutile protocollo perdi tempo.
La strada era piuttosto buia e situata nel bel mezzo della periferia newyorkese. Una fila infinita di piccole case decadenti tutte perfettamente uguali davano un senso d’inquietudine e tristezza a quel luogo.
“Capitano, ci vogliamo muovere o rimaniamo in questa non molto produttiva fase contemplativa ancora per molto?” tuonò Sherlock, che di tutta risposta ricevette un’occhiataccia da Gregson, il quale sospirò rassegnato ed inviò l’ordine con la ricetrasmittente alla sua unità.
Pochi secondi dopo una ventina di agenti avevano già sfondato la porta, facendo irruzione nell’appartamento. Una volta accertato che non ci fossero pericoli, entrò anche il resto della squadra.
Tutto sembrava nella norma: nessuno aveva provato a sfondare la porta e le stanze erano tutto sommato ordinate. Si misero alla ricerca di qualunque cosa avesse potuto dare loro una traccia.
“Maledizione!” gridò Bell, dopo mezz’ora di inutili ricerche. “E questo dovrebbe essere il covo di un criminale mafioso? Non c’è nulla!”
“Oh, non essere così precipitoso!” sogghignò Sherlock.
Ormai il poliziotto si era abituato a questi modi tutt’altro che modesti del loro collaboratore, perciò si limitò a guardarlo con aria interrogativa, sapendo che sarebbe seguita una dettagliata descrizione di indizi che solo lui poteva portare alla luce.
“Devo dire che ammiro l’accuratezza con cui Savlin è riuscito a conferire un’aria del tutto innocente al suo appartamento” disse divertito Holmes. “Naturalmente qualche piccolo errore l’ha fatto. Vedete là, sotto il tappeto? È polvere da sparo, deve essergli sfuggita mentre ripuliva un’arma. Oh, e guardate l’armadio! Quelle scarpe tutte infangate ci direbbero davvero molto se stessimo indagando sulle sue malefatte. Oserei dire che fino a qualche settimana fa avesse anche un gatto che si divertiva a graffiare questo divano di finta pelle”
“Scusa se ti interrompo, Sherlock” si intromise Joan. “Ma cosa possono dirci questi particolari sull’omicidio di Savlin?”
“Niente!” disse Holmes, senza nascondere la sua disapprovazione. “Assolutamente niente! Certo, con questi indizi avrei potuto incriminare il nostro defunto per, vediamo, circa sette diversi crimini, ma non è questo il nostro problema ora”
“Fantastico, davvero fantastico” disse sarcastico Gregson. “Non abbiamo nulla tra le mani!”
“Forse proprio nulla non direi” bisbigliò Sherlock, che nel frattempo si era avvicinato ad un blocchetto per appunti vuoto. Aveva poi preso una matita e cominciato a colorare finemente il primo foglio. Nel giro di pochi secondi, spuntarono alcune scritte.
 
Boxe and Co. Tutti i giorni 19-22
 
“Sembrano gli orari di una palestra” notò Watson.
“Una palestra di boxe, per la precisione, situata in uno dei quartieri russi di New York. Lo sapevo che non saremmo tornati a casa a mani vuote” ed un espressione raggiante ricomparve sul volto dell’uomo.
“Non vedo cosa ci sia di così straordinario” disse Bell.
“Oh andiamo, detective. È elementare! I russi stanno alla boxe come voi americani state al basket e non scelgono mai la palestra da frequentare a caso, perché per loro è come una sorta di santuario. Ogni famiglia mafiosa ne ha una di fiducia, una sorta di centro formazione per i suoi soldati, in modo da non correre il rischio di incontrare famiglie nemiche”
“Quindi pensi che gli assassini abbiano trovato Savlin grazie alla palestra gestita dai Volkov?” domandò Gregson.
“Evidentemente Savlin pensava di essere al sicuro, ma quando è uscito lo hanno catturato e poi portato nel luogo in cui lo abbiamo trovato per ucciderlo” aggiunse Watson.
“Esattamente!” confermò Holmes. “Dopotutto sono passati alcuni mesi dal suo tradimento, probabilmente pensava che potesse permettersi il lusso di andare a tirare qualche pugno”
“Beh, direi che ha calcolato male i tempi” disse Bell. “Ora che sappiamo come lo hanno catturato, come procediamo?”
“Li ripagheremo con la stessa moneta. Jones ci ha detto che i membri del clan Zaytsev che gli hanno fatto visita avevano un fisico particolarmente muscoloso: scommetto che anche loro hanno una palestra di fiducia. Scopriamo quale e il gioco è fatto!” e sorrise all’idea di catturare finalmente quei criminali.
 
“Tieni, ti ho portato del tè” disse Joan porgendo la tazza all’amico, ormai da due ore riverso su una montagna di fascicoli in uno stanzino della centrale di polizia. “E’ mezzanotte, perché non fai una pausa?”
“Ti avevo chiesto del caffè” borbottò Sherlock senza alzare lo sguardo dai fogli.
“Bevi e non fare storie, ormai nel tuo corpo c’è in circolo più caffeina che sangue!”
L’uomo prese la tazza e non replicò oltre.
“Trovato qualcosa?”
“Forse sì” e porse una mappa della città su cui aveva tracciato alcune linee. “Quei cerchi rappresentano le zone controllate dal clan Zaytsev, mentre quell’asterisco è il loro vecchio quartier generale. Ho segnato tutte le palestre vicine al covo principale e direi che quella che cerchiamo è la Champions’ Home, l’unica ad essere frequentata esclusivamente da russi o gente dell’est Europa”
“Ne sei sicuro?”
“No, ma bisogna tentare. Credo che ci sia in ballo qualcosa di più di una semplice vendetta, Watson. Dobbiamo agire in fretta. Vado ad informare il capitano Gregson in modo che organizzi un’altra squadra. Ci apposteremo domattina”   
 

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Capitolo 4
*** Come uno specchio ***


“Eccolo, deve essere lui!” sussurrò Holmes.
Erano ormai cinque ore che l’uomo scrutava l’entrata della palestra Champion’s Home come un predatore in attesa della sua vittima. Si erano appostati molto presto e la loro attesa era stata ripagata: un tizio dal fisico possente scese da una vecchia macchina e Sherlock, munito di binocolo, notò la vistosa cicatrice all’altezza dell’occhio destro, come gli era stato descritto da Jones.
“Finalmente!” disse Bell, sbadigliando rumorosamente. “Ancora un’altra ora e mi sarei scordato come si cammina. Chiedo al capitano Gregson se possiamo intervenire”
“No! Fermati!” urlò Holmes. “Digli solamente che è entrato, ma non far intervenire la squadra ora per nessun motivo!”
“Perché? Vuoi fartelo sfuggire? Finché si trova lì dentro lo abbiamo in pugno!”
“Marcus, ricordi cos’ha detto Jones? Quell’uomo non era solo, erano in due” provò a spiegare Joan.
“Esattamente, quindi ciò che faremo sarà seguirlo una volta uscito da lì. Sono sicuro ci porterà alla sua abitazione e, quindi, ai suoi compagni di malefatte” aggiunse Sherlock.
“Sì, avete ragione. Ho sempre odiato gli appostamenti e speravo di sgranchirmi le gambe il prima possibile”
“Abbi pazienza, con la fretta rischiamo di mandare tutto all’aria” lo ammonì Holmes.
“Senti da che pulpito!” fece notare Watson in tono sarcastico.
 
Tre ore e mezza dopo, il sospettato uscì dalla palestra e il capitano Gregson gli mise alle calcagna un manipolo di agenti per seguirlo senza farsi notare. Circa un quarto d’ora dopo arrivarono le coordinate del luogo, a cinque chilometri da lì. Si trattava di un vecchio e anonimo appartamento in uno dei quartieri russi della città. Tutta la squadra si fermò a distanza di sicurezza per poter ricevere ulteriori istruzioni.
Dal finestrino della macchina fece capolino il capitano.
“I ragazzi mi hanno riferito che in casa sono almeno in due. L’uomo che gli ha aperto la porta potrebbe essere l’altro tizio descritto da Jones. Mi raccomando, fate attenzione quando entreremo, non abbassate la guardia”
Joan deglutì: non si era ancora del tutto abituata a quel genere d’azione nonostante il suo sangue freddo da ex chirurgo.
Pochi minuti dopo la squadra fece irruzione, mentre la donna e Sherlock attesero sulla porta. Il lavoro fu facile: il sospettato con la cicatrice era mezzo nudo, pronto per entrare nella doccia, l’altro uomo fumava  in poltrona e una terza persona, un giovane ragazzo, era sdraiato sul divano intento a guardare una partita di football. Vennero colti letteralmente di sorpresa e la loro reazione fu minima.
“Fate vestire quell’uomo e portateli tutti in centrale!” ordinò Gregson. “Così potremo farci una bella chiacchierata”
 
“Prepara i popcorn, Watson! Sarà un lungo pomeriggio!”
Joan e Sherlock si piazzarono dietro il vetro della sala interrogatori, aspettando che Gregson e Bell cominciassero a fare domande ad ognuno dei sospettati.
“Ecco il primo! Mi raccomando, tieni gli occhi su di lui e non concentrarti solo sulle risposte, osserva anche il linguaggio del corpo, perché quello di solito non mente”
La lezione del professor Holmes all’apprendista Watson poteva cominciare.
La prima volta fu il turno dell’uomo con la cicatrice. Da vicino il suo fisico era ancora più possente di come era sembrato, tant’è che Joan ebbe l’impressione che la sedia sulla quale sedeva dovesse sfondarsi da un momento all’altro. Un pugno di quell’uomo avrebbe mandato in coma chiunque. I suoi cortissimi capelli neri delimitavano un viso dallo sguardo truce che metteva i brividi. Si chiamava Andrey Petrov, aveva quarant’anni e diceva di essere lo zio del ragazzo che era stato trovato con loro nell’appartamento. Gregson cercò di farlo parlare.
“Signor Petrov, sappiamo già che lei è un membro della famiglia Zaytsev. Sta svolgendo qualche lavoro per loro conto?”
“Non so di cosa stia parlando” rispose con tono sprezzante l’uomo.
“Sì, certo. Mi dica, conosce quest’uomo?” e gli mostrò una foto del cadavere. “Un certo Igor Savin, le dice niente?”
“No”
“Quindi lei non è coinvolto nel suo omicidio?”
“Le ripeto che non so di cosa stia parlando”
“Mi aspettavo che la sua collaborazione sarebbe stata scarsa. Facciamo così, glielo dico io, allora. Quest’uomo ha tradito il suo clan perciò avete deciso di fargliela pagare, sotto ordine dei vostri gran capi. Dunque, signor Petrov, dov’era la notte dell’omicidio, tra mezzanotte e le sei?”
“A casa”
“C’è qualcuno che può confermarlo?”
“Chiedete a mio nipote o a Filipp”
“E secondo lei noi dovremmo ritenere attendibile la loro conferma? Non sia ridicolo!”
“Sono stato tutta la notte con una donna. Una delle vostre numerose sgualdrine americane. L’ho pagata così bene che ha pensato di lasciarmi il suo numero. Perché non chiedete a lei?” e un ghigno beffardo gli apparve in volto.
“Può contarci” disse minaccioso Bell.
 
Fu poi la volta dell’altro uomo.
Si chiamava Filipp Ivanov, sulla trentina, alto quanto un giocatore di basket e con un’enorme testa tirata a lucido come una palla da biliardo. La sua espressione beffarda sembrava la copia identica di quella di Petrov, solo con qualche dente in meno.
“Gli tengono un corso apposito per imparare ad avere facce inquietanti come quelle?” chiese Joan. “Non riesco neanche a guardarli negli occhi”
In effetti l’espressione perfida di quegli uomini metteva piuttosto a disagio.
Naturalmente anche Ivanov appoggiò in pieno la versione del compagno con le solite riposte monosillabiche, nulla di più nulla di meno.
 
“Come fanno a mentire così spudoratamente?” domandò Joan, piuttosto seccata dalla loro testardaggine.
“Negare l’evidenza, Watson. Sta tutto in questo semplice ma efficace comandamento, sia che ci siano o non ci siano prove. In ogni caso non penso stiano mentendo”
“Che vuoi dire?”
“Beh, ovviamente sono legati al clan Zaytsev, ma non credo che abbiano ucciso Savin. Inoltre…”
L’uomo si zittì all’improvviso. Il terzo giovane venne fatto entrare nella sala interrogatori
“Sherlock, va tutto bene?” chiese preoccupata Joan.
“Sì…sì, va tutto bene” annuì lui, visibilmente scosso.
Il ragazzo rispondeva al nome di Jaroslaw Petrov, nonché nipote di Andrey. La sua famiglia era morta in un incidente quando era ancora piccolo, così era stato cresciuto dallo zio. A differenza degli altri, il suo  inglese non era contaminato dal forte accento russo. Sherlock giurò addirittura di cogliere una sorta di musicalità irlandese nella sua parlata. Era alto, con un fisico perfettamente scolpito e due occhi azzurri come il ghiaccio, che risaltavano grazie ai suoi corti capelli mori: dimostrava come minimo vent’anni. Ecco perché Joan rimase di stucco quando scoprì che non ne aveva ancora compiuti sedici.
Il copione era sempre lo stesso e non riuscirono a strappare nessuna informazione in più neanche a lui.
La donna si girò verso l’amico: sembrava letteralmente ipnotizzato da quella scena. Vide nei suoi occhi una strana espressione , fatta di dubbio ma anche di sorpresa.
“Cosa c’è che non va, Sherlock?”
“Non ne sono sicuro…”
“Avanti, sputa il rospo! Ti sei pietrificato da quando quel ragazzo è entrato nella sala!”
Seguì un lunghissimo momento di silenzio, come se l’uomo non riuscisse a trovare le parole per dare corpo ai suoi pensieri.
“Guarda il suo sguardo, Watson. Guarda l’impercettibile movimento dei suoi occhi. No, lui non guarda, lui vede, osserva. Sta facendo esattamente la stessa operazione che stiamo facendo noi qui ora”
Joan faticava a capire l’amico, ma una cosa l’aveva notata anche lei: l’atteggiamento di Jaroslaw sembrava diverso rispetto a quello degli altri.
“Guarda i suoi piccoli gesti. Non è né impulsivo né eccessivamente contenuto, è semplicemente…naturale!”
 
“Holmes, Watson, potete venire un momento?”
Il detective Bell li convocò nell’ufficio di Gregson per fare il punto della situazione.
“Sapevamo che sarebbe stata un’impresa ardua” sospirò il capitano. “Avete scoperto qualcosa?”
“Non sono stati loro” decretò Sherlock.
“Come prego?”
“Sì, capitano” aggiunse Joan, visto che l’amico, ancora assorto nei suoi pensieri, non procedeva con la spiegazione. “Naturalmente pensiamo che siano implicati nella vicenda, ma l’omicidio non è da attribuire a loro”
“C’è qualcosa che non quadra” sussurrò Holmes più a se stesso che agli altri.
“Spiegati meglio” lo incalzò Bell.
“L’ultimo, l’ultimo sospettato. C’è qualcosa che non mi convince” e si mise a camminare avanti e indietro per l’ufficio. “Il suo sguardo è diverso, non è come gli altri. Ha qualcosa che…non riesco a leggerlo, è impenetrabile!”
 “Sai vero che non possiamo trattenerlo per questo?” disse Gregson, ma Sherlock non lo stava più ascoltando.
Joan cominciò a capire da dove venisse la frustrazione di Sherlock, abituato a leggere le persone come libri aperti.
Nello stesso istante entrò un agente.
“Capitano, la donna indicata da Petrov ha confermato che ha passato l’intera notte con lui”
“Bene, ora hanno un alibi di ferro. Bell, dà l’ordine di rilasciarli”
“Un momento!” urlò Sherlock, come se fosse uscito improvvisamente da un sogno. “Vorrei parlare un attimo con il ragazzo. Da solo”
“Non penso sia…”
“Ti chiedo solo dieci minuti, capitano”
“E va bene, ma non un secondo di più”
 
Sherlock entrò nella sala interrogatori e trovò Jaroslaw seduto dove prima lo aveva lasciato.
Si sedette di fronte a lui, si guardarono negli occhi e poi calò il silenzio.
Per dieci lunghissimi minuti il tempo sembrò fermarsi. Nessuno dei due osava lasciar cadere lo sguardo e spezzare quella strana atmosfera che si era creata nella stanza, sguardi che sembravano poter dire più di quanto le parole avrebbero potuto.  
“Perché sei uno di loro?” chiese improvvisamente Sherlock.
“Perché non dovrei?”
“Davvero vuoi farmi credere che sei uno di quegli esseri rozzi e infimi nell’altra stanza? Anzi, che addirittura uno di loro sia tuo zio?”
“Non vedo perché no”
“Avanti! La puoi dare a bere agli altri, ma non a me”
“Come mai questa storia interessa tanto ad un investigatore privato?”
“Consulente investigativo, prego”
“Beh, in ogni caso lei non è un poliziotto”
Il ragazzo si sistemò sulla sedia.
“Cosa c’è sotto, Jaroslaw? Cosa stanno architettando?”
Non rispose.
“Si può sapere perché li proteggi?”
“Lei vede troppe cose, signor…Sherlock Holmes” disse il giovane, leggendo il cartellino identificativo appeso alla giacca dell’uomo. “E vedere troppe cose non è sempre utile. A volte può essere anche maledettamente pericoloso”
“Già” rispose Sherlock sorridendo. “Spesso è una condanna, non è vero?”
Un accenno di sorriso apparve sulle labbra di Jaroslaw e, in quello stesso momento, entrò Bell per rilasciarlo.
 
Joan e Sherlock scesero le scale verso l’uscita della centrale di polizia.
L’uomo non aveva ancora aperto bocca dopo il suo colloquio con il ragazzo. La donna decise che era giunto il momento di rompere il ghiaccio. 
“Allora, davvero non hai scoperto niente parlando con Jaroslaw?”
“Ho solamente ricevuto la conferma alla mia ipotesi: non è uno di loro”
“Ok, devo ammettere che anche secondo me quel ragazzo non ha nulla in comune con gli altri due, ma come spieghi allora la sua presenza lì? Devi ammettere che la sua innocenza non è un’ipotesi molto plausibile”
“E’ proprio questo che dobbiamo cercare di scoprire, Watson. Così capiremo cosa c’è sotto e riusciremo a convincere Gregson che ho ragione”
Improvvisamente Watson si fermò e trattenne per un braccio l’amico, costringendolo a guardala negli occhi.
“Per l’amor del cielo, Sherlock! Mi dici perché ti sei bloccato quando hai visto quel ragazzo? Capisco benissimo che c’è dell’altro che ti turba, non tenermi all’oscuro di tutto!”
Holmes esitò un momento e la sua voce divenne un sussurro.
“E’ come me, Watson”
Quell’affermazione spiazzò Joan.
“Che intendi dire?”
“All’inizio non comprendevo per quale motivo non riuscissi a leggere le sue espressioni. Beh, ora ho capito. Quello sguardo, quegli occhi…è come se mi guardassi allo specchio, come se stessi lottando contro me stesso. Ora andiamo a casa, c’è una cosa che voglio controllare”
Joan non sapeva che dire, raramente aveva visto l’amico così scosso, ma era anche cosciente del fatto che se c’era una cosa che spaventava Sherlock era affrontare sé stesso e, da quel momento, sarebbe stato costretto a farlo.

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Capitolo 5
*** Origini ***


Erano ormai passati tre giorni da quando i sospettati erano stati interrogati. Sherlock non aveva più chiuso occhio: se ne stava seduto di fronte alla parete su cui aveva appeso ogni possibile indizio per cercare collegamenti, tracce che potevano essergli sfuggiti. Joan era visibilmente preoccupata per lui, lo aveva visto in quelle condizioni solamente quando si era trattato di risolvere il caso di Irene, o meglio, Moriarty.
"Va' a dormire, Watson. Non sei obbligata a rimanere sveglia. Puoi continuare il lavoro domattina" le disse Sherlock, senza neanche voltarsi.
"No, questa notte voglio darti una mano" fece lei, porgendogli una tazza di tè.
Si avvicinò alla parete e si mise ad osservare la foto di Jaroslaw Petrov, il più giovane tra gli indiziati. I penetranti occhi del ragazzo sembravano dare vita a quell'immagine, come se effettivamente lui la stesse osservando da quel pezzo di carta. Joan rabbrividì.
Sherlock notò la sua reazione.
"Che ti prende?" le chiese lui.
"Niente, stavo pensando a quel ragazzo. È così giovane!" disse lei.
"Lo è" aggiunse l'amico. "Ma probabilmente ne ha passate più di me e te messi insieme"
"Non oso neanche immaginarlo" aggiunse lei, con aria triste. "Peccato che l'influenza dello zio lo abbia trascinato in questo vortice"
Sherlock non rispose e si limitò a guardarla con disappunto.
"Sei ancora convinto che lui non c'entri con questa storia, vero?"
"Già, ma finché non capisco quale sia il suo ruolo in tutto questo, posso fare ben poco per aiutarlo" ammise l'uomo.
Joan, così come Sherlock, aveva notato quanto il ragazzo fosse diverso rispetto agli altri due sospettati. Era però una diversità difficile da spiegare a parole, senza contare che i fatti che avevano in mano non erano sicuramente a suo favore. Odiava il pensiero che Jaroslaw potesse essere parte di quella losca congregazione di criminali, ma come poteva non essere così?
La donna si sedette al tavolo e cominciò a cercare informazioni in rete.
"Niente, non c'è niente!" sbottò ad un certo punto Sherlock. "Hanno la fedina penale più pulita della mia!"
"Già, neanche un'accusa per furto o per rissa! Mai vista una cosa del genere" continuò la donna. "Ci sono novità dalla polizia?"
"No, sono tre giorni che li sorvegliano ma senza risultati. D'altro canto sanno che hanno i fari puntati addosso: se prima erano così scrupolosi, figuriamoci adesso!"
"Aspetta un attimo" disse lei, leggendo un articolo trovato su internet. "Forse ho trovato qualcosa. Sembra che due anni fa un trafficante d'armi sia stato ucciso qui a New York. Filip Ivanov era uno dei sospettati, ma alla fine per mancanza di prove le accuse sono cadute ed è stato rilasciato. Magari anche questo era un lavoretto commissionato dagli Zaytsev"
Sherlock si avvicinò allo schermo del portatile.
"No, non è lui. Avevo già trovato questo articolo la notte scorsa"
"Come fai ad esserne certo?" chiese stupita.
"Guarda il nome" le fece notare, e avvicinò la copia del rapporto della polizia all'articolo. "Ivanov è uno dei cognomi più diffusi in Russia, per cui i casi di omonimia sono molto frequenti, inoltre il nostro uomo si chiama Filipp, con due p finali e…ma certo, il nome! Perché diavolo non ci ho pensato prima!"
Il viso di Sherlock s'illuminò improvvisamente, come uno scienziato che ha appena concluso la ricerca di una vita.
"Il nome? Cosa stai dicendo, Sherlock?" domandò la donna, presa alla sprovvista da quell'inaspettata ondata di energia che era scoppiata nell'amico.
"Il nome, Watson! Il nome! Lo sapevo che c'era qualcosa sotto!" e si avviò verso la libreria per prendere un vecchio volume impolverato. "Non credevo che anche questo tomo mi sarebbe servito prima o poi!"
"Sherlock, per l'amor del cielo, mi spieghi che hai scoperto?"
Il libro che l'uomo aveva tra le mani era un saggio sull'etimologia dei nomi propri, con riferimenti storico-culturali. Ciò che però interessava al detective erano le tavole inserite alla fine, in cui venivano elencati geograficamente i nomi più diffusi nelle varie zone del mondo.
"Sai cos'è l'onomastica, Watson?"
"Lo studio dei nomi di persona, se non sbaglio. Ma che c'entra?"
L'uomo aprì la pagina in cui venivano elencati i nomi propri diffusi in Russia.
"Noti qualcosa? Cerca sotto la lettera Y!"
La donna cominciò a leggere e, improvvisamente, si fermò.
"Ma questo non è…"
Un sorriso di soddisfazione apparve sul viso di Sherlock.
"Esatto! In Russia la scrittura corretta del nome è Yaroslav!" e aprì una nuova pagina. "E' qui che invece si scrive Jaroslaw!"
Joan rimase per un attimo in silenzio.
"Quindi stai dicendo che…"
"Sì, Watson. Il ragazzo non è russo" disse con voce ferma. "E' polacco e probabilmente quello che dice di essere suo zio non è neanche lontanamente un suo parente. Dobbiamo cambiare i parametri della nostra ricerca. Ora dobbiamo concentrarci su cosa sia successo anni fa in quel Paese che si possa ricondurre al ragazzo. Non abbiamo niente in mano, forse è l'unico modo per arrivare in fondo a questa faccenda"

Le ore passarono in fretta. Erano ormai le sette del mattino e gli occhi di Joan si erano fatti pesanti per la stanchezza. Le informazioni che avevano erano poche e molto vaghe e ciò complicava il lavoro di ricerca.
Ad un certo punto Sherlock si alzò di scatto.
"Ci sono, Watson! Ho trovato ciò che cerchiamo!" urlò.
La donna si avvicinò per dare un'occhiata.
"E' un articolo che risale a cinque anni fa circa. Si dice che a Olsztyn, una città nel nord della Polonia, siano stati uccisi due coniugi, Benedykt e Helen Jankowski. I colpevoli non sono mai stati catturati, ma ci sono varie ipotesi sulla loro identità. L'uomo infatti lavorava per le forze speciali polacche e qualche anno prima aveva svolto un lavoro sotto copertura addentrandosi nelle cellule della mafia russa in Polonia. Sembra fosse entrato in possesso di molte informazioni che avevano permesso di arrestare un gran numero di persone"
"Un regolamento di conti, quindi" notò la donna.
"Molto probabile" aggiunse Sherlock. "I due all'epoca avevano un figlio di dieci anni e mezzo, mai più ritrovato dopo quella notte. Il suo nome era Jaroslaw"
Joan si pietrificò.
"Dici che sia lui?" chiese con un filo di voce, quasi avesse paura della risposta.
"Capita spesso che clan di questo tipo rapiscano i bambini delle loro vittime, specie se molto piccoli. Non saprei dire perché, ma dopo un accurato lavaggio del cervello diventano i più fedeli e aggressivi membri del clan stesso"
"E' una cosa brutale!" disse la donna, visibilmente scossa. "Ma dieci anni non sono pochi"
"Già, ma avranno avuto le loro ragioni per non ucciderlo e tentare di soggiogarlo" continuò l'uomo, che si mise a camminare nervosamente per la stanza.
Joan notò la sua inquietudine.
"Sherlock, calmati per piacere"
"Calmarmi? Watson, ti rendi conto che la volontà del ragazzo non è stata piegata? Gliel'ho letto subito in faccia! E allora perché continua a collaborare con loro? Perché non confessa e non chiede aiuto?" gridò lui, in preda alla preoccupazione. "Ha passato cinque anni fianco a fianco con gli assassini dei genitori, un branco di bastardi senza scrupoli! Chissà che cos'ha in mente, Watson! Vuole fare una pazzia, me lo sento!"
Joan si avvicinò all'amico e lo obbligò a guardarla negli occhi.
"Ora ti siedi e mi ascolti" gli disse, facendolo accomodare su una sedia. "Lo so quanto tieni a quel ragazzo, quanto siete in un certo senso…legati. Anche io voglio tirarlo fuori da questa faccenda, ma per farlo bisogna agire con calma. Il modo migliore per aiutarlo è incastrare i colpevoli di tutto questo, poi ci occuperemo di lui, ok?"
Sherlock annuì e lei gli sorrise.
Improvvisamente squillò il cellulare dell'uomo, che fece per alzarsi, ma Joan lo trattenne.
"Vado io, tu riposati" gli disse. "Pronto? Salve, capitano! Che cosa?! Ok, arriviamo"
La donna riattaccò.
"Ci sono novità?"
"Brutte notizie. Era Gregson: ha detto che Evgeny Volkov è stato ucciso questa notte nella sua villa"
"Un altro pezzo che si va aggiungere a questo intricato puzzle" commentò Sherlock. "Andiamo, non perdiamo tempo!" e si avviò di corsa fuori casa, seguito da Joan.

"Non dire una parola su ciò che abbiamo scoperto, intesi?" ordinò Sherlock alla donna.
"Sta' tranquillo, non lo farò, ma continuo a pensare che la polizia potrebbe aiutarci a scoprire qualcosa in più"
"La polizia farebbe solo danni ora, è troppo presto. Buongiorno capitano, ci aggiorni!"
I due entrarono nella grande villa che avevano visitato pochi giorni prima. Gregson li stava aspettando sulla porta.
"Buongiorno a voi! Venite, vi faccio strada"
I tre si incamminarono e giunsero in un lungo corridoio in cui si trovava riverso a terra il cadavere di Volkov.
"Come è possibile che ci siano riusciti ad entrare con tutte queste guardie? L'unica spiegazione possibile è che ci sia un traditore all'interno!" notò Watson.
"Anche noi lo pensavamo" le disse il detective Bell, che stava perlustrando la zona. "Poi abbiamo visto quel foro nel vetro della finestra. Questa è opera di un cecchino"
"E anche bravo" aggiunse Sherlock, già perso nei suoi pensieri. "Deve avere davvero una bella mira per colpire da una simile distanza" e indicò un palazzo non molto alto e piuttosto nascosto che si poteva intravedere da quella postazione.
"Ne sei sicuro? Dici che abbia sparato da lassù?" chiese perplesso il capitano.
"C'è solo un modo per scoprirlo"
Il gruppetto, seguito da alcuni agenti, si recò in cima a quell'edificio e Holmes cominciò la sua perlustrazione.
"L'assassino ha sparato da qui" decretò. "Queste striature sono state causate dallo spostamento del treppiede dell'arma di precisione"
Si chinò e raccolse della polverina grigia da terra, assaggiandola.
"E' uno dei due tipi di cenere che ho rinvenuto anche sull'altro luogo del delitto. Ha un sapore particolare, è inconfondibile"
"Quindi si tratta dello stesso assassino che ha ucciso Savin?" chiese Joan.
"Con ogni probabilità è così"
"Dite che i tre sospettati c'entrino con questa storia?" domandò Bell.
"Lo escludo" rispose Sherlock. "L'uomo con la cicatrice all'occhio destro non avrebbe mai potuto colpire con precisione da una simile distanza. L'altro uomo, Ivanov, non fuma questa marca di sigarette, l'ho notato durante l'arresto. Oltretutto la cenere è ammucchiata a sinistra del treppiede e questo vuol dire che l'assassino è mancino, ma tutti e tre sono destrorsi"
"Hai ragione, ma credo che qualcosa sappiano sicuramente!" provò a replicare Marcus. "Mettiamoli sotto torchio e vediamo quanto ci mettono a sputare il rospo"
"Dimentichi che non abbiamo prove. Non possiamo trattenerli senza motivo" gli disse rassegnato Gregson. "Dobbiamo cercare altre info…ehi, Holmes! Dove stai andando?"
Sherlock, senza dire una parola, si avviò giù per le scale.
"Perdonatelo, è da tre giorni che non dorme. Ha preso a cuore il caso"
"Lo vedo" le disse il capitano. "Joan, tienilo d'occhio"
La donna sorrise e raggiunse di corsa l'uomo.
"Che ti prende?" domandò con il fiatone.
"Andiamo a casa, per favore" le disse a bassa voce.

Watson non chiese nulla durante il viaggio. Ormai aveva capito che fare domande all'amico quando era in quello stato era inutile.
Appena entrato, l'uomo si diresse nella sua camera, per poi tornare giù con un borsone. Prese da una cassa i guantoni e il caschetto da boxe e ve li sistemò dentro. Dopodiché, si avviò verso l'uscita.
"Sherlock, dove vai?" provò a fermarlo Joan.
"A scoprire la verità" e richiuse la porta, dopo aver ordinato alla donna di non seguirlo.


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Ciao a tutti!
Dopo mesi di inattività ho finalmente pubblicato il nuovo capitolo!
Mi scuso davvero per l'interminabile attesa (sono la prima a non sopportare le storie incomplete), ma tra cali di ispirazione e mancanza di tempo sono riuscita a concludere il lavoro solo ora.
Ho preferito scrivere tutta la storia prima di aggiornare proprio per evitare di lasciare di nuovo la pubblicazione in sospeso per così tanto tempo.
Ora che è completa, aggiornerò periodicamente con un nuovo capitolo!

Scusate ancora per l'attesa e buona lettura!

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Capitolo 6
*** Legami ***


Sherlock si avviò di buon passo verso la sua destinazione. In realtà non era sicuro che fosse quello il posto giusto, ma tra i modi di pensare dei due c'era abbastanza sintonia perché lui potesse, almeno in quel caso, anticipare con un sottile margine di errore le mosse dell'altro. Difatti, le sue deduzioni si rivelarono giuste.
Da una delle vetrate della palestra vide il ragazzo, così entrò a sua volta e si recò nello spogliatoio. Non erano ancora le nove di mattina e il luogo era poco affollato, ma Sherlock volle evitare il rischio di essere riconosciuto, per l'incolumità di entrambi. Indossò subito il caschetto protettivo, tirò su il cappuccio della maglia e uscì.
Jaroslaw era intento a prendere a pugni un grosso sacco appeso al soffitto. Tirava indifferentemente di destro e di sinistro con una potenza che fece impallidire per un attimo anche il detective. Si chiese quale genere di allenamento avesse dovuto subire un ragazzino di quindici anni per essere tanto maturo da sembrare un adulto.
Si sistemò dietro al sacco per bloccarne le oscillazioni, così che il ragazzo potesse colpire più agevolmente. Jaroslaw, dal canto suo, non si preoccupò minimamente della sua presenza, quasi non fosse sorpreso di trovarlo lì, e continuò con la sua attività.
"Sei bravo, davvero bravo!" gli disse Sherlock, sinceramente colpito. "Ma hai bisogno di un avversario vero"
Il ragazzo si fermò.
"Che ne dici di un po' di sparring? Il ring è libero"
"D'accordo" gli rispose con il suo sorriso enigmatico stampato in volto, e indossò a sua volta il caschetto.
I due salirono sul quadrato e cominciarono una lunga conversazione, tra un pugno e l'altro.

"E' strano trovarti qui. Non dovresti frequentare la palestra Champions' Home? È il quartier generale del tuo clan, no?" chiese Sherlock, evitando un gancio destro.
"Evidentemente non è così strano, dato che mi hai trovato"
Montante destro.
"Perché non mi hai detto la verità?"
"Sei ancora convinto che ti stia mentendo?"
"Tu sottovaluti le mie capacità"
"Io non sottovaluto le tue capacità, Sherlock Holmes. Anzi, le ammiro"
"Non penso che le tue facoltà abbiano nulla da invidiare alle mie"
"Così sei tu che sopravvaluti me"
"Non credo proprio"
Diretto sinistro.
"Torniamo a noi, perché mi hai mentito?"
"Non ti ho mentito, siete fuori strada se pensate che uno di noi tre abbia ucciso Savin"
"Vuoi farmi credere che non c'entrate niente con questa storia?"
"Io non ti voglio far credere niente, sei tu a dirlo. In ogni caso l'alibi di Andrey regge"
"Andrey? Quello che fa finta di essere tuo zio?"
Jaroslaw ebbe un impercettibile attimo di esitazione, ma riuscì a schivare il colpo di Sherlock.
"So tutto. Il tuo cognome non è Petrov. La storia che ci avete raccontato è solo una bella messa in scena per nascondere la tua vera identità. Dimmi, Jaroslaw Jankowski, mi sto sbagliando anche questa volta?"
Altro momento di esitazione più lungo del previsto e il diretto dell'uomo andò a segno.
"E' una vecchia storia, non è importante"
"Vuoi farmi credere che non sia importante per te?"
"In ogni caso non sono affari che ti riguardano"
"Perché continui a seguirli, Jaroslaw? Perché non confessi tutto? Con il tuo aiuto potremmo incastrarli tutti quanti e ti tirerai fuori definitivamente da questa situazione!"
"Ognuno ha i suoi motivi"
"Motivi? Davvero vuoi passare il resto della tua vita fianco a fianco con gli assassini che hanno trucidato i tuoi genitori?"
Un lampo balenò negli occhi del ragazzo e sferrò un pugno poderoso in pieno viso a Sherlock, che cadde a terra. Jaroslaw si avvicinò, gli offrì il braccio per rialzarsi e lo trasse vicino a sé.
"Ci sono cose in cui è meglio non immischiarsi, Sherlock Holmes" gli disse rabbioso, e lo lasciò andare.
Prima che potesse reagire, fu l'uomo a sferrare un diretto micidiale al ragazzo, che barcollò. Sherlock si avvinghiò a lui per non permettergli di reagire, a due centimetri dalla sua faccia. Anche Holmes faticava a tenere a freno la sua ira e gli occhi divennero lucidi. Quella storia lo aveva completamente coinvolto emotivamente.
"Ascoltami bene, se è la vendetta che stai cercando, lascia stare! Lo so che ti corrode dentro, è una sensazione insopportabile che ti perseguita notte e giorno, ma altrettanto insopportabile sarà il vuoto enorme che ti lascerà. Te lo dico per esperienza. Ti prego, Jaroslaw, dammi retta e lascia perdere!"
Il ragazzo smise di opporre resistenza e l'uomo lasciò la presa. Il suo sguardo, prima sicuro, era spento, perso nel vuoto. La verità e la sincerità di quelle parole lo avevano colpito come un pugno allo stomaco.
Sherlock si tolse i guantoni, tirò fuori dalla tasca un bigliettino e glielo porse.
"Questo è il mio indirizzo. Se cambierai idea, sai dove trovarmi"
Il ragazzo lo prese e abbassò lo sguardo.
"Sei in gamba, Jaroslaw. Hai capacità difficili da controllare, ma che ti rendono speciale e ti permetterebbero di fare grandi cose. Lo sai che sono in grado di capirti"
Afferrò il suo viso e lo obbligò a guardarlo negli occhi.
"Non ti permetterò di buttare via la tua vita, che tu lo voglia o no" gli disse deciso, dopodiché scese dal ring.
Quando si voltò, Jaroslaw era tornato a prendere a pugni il sacco con tanta violenza che sembrò poterlo distruggere. Ad Holmes sembrò di vedere alcune lacrime scendere dai suoi freddi occhi color ghiaccio. 

Quando Joan si trovò di fronte Sherlock, pensò subito al peggio.
"Che ti è successo?!" chiese preoccupata, vedendolo varcare la porta di casa barcollando.
Era da un po' che l'uomo non faceva a pugni e i colpi del giovane lo aveva frastornato, inoltre il labbro superiore sanguinava copiosamente. Si sdraiò sul divano del salotto.
"Ti prendo del ghiaccio!" le disse la donna, poi glielo sistemò sulla parte lesa. "Mi spieghi chi diavolo ti ha conciato così? Dove sei stato?"
L'uomo si tirò su faticosamente.
"Le nostre ipotesi erano corrette, Watson. Il ragazzo non è chi dice di essere" le disse lui, e le raccontò cosa era successo quella mattina.
 "Ma questa è una buona notizia, no?" domandò lei titubante, quando ebbe finito di aggiornarla. "Voglio dire, non è un criminale!"
"Senza dubbio, ma questo non vuol dire che non abbiamo tra le mani un grosso problema" continuò l'uomo, con aria inquieta. "Non hanno spezzato la sua volontà e adesso che avrebbe la possibilità di denunciarli, non lo fa. Vuole vendetta, Watson"
"Ma se non l'hanno piegato, perché non si è già vendicato? Insomma, che cosa sta aspettando?"
"La domanda non è cosa, ma chi"
Sherlock si alzò con la testa fra le mani.
"Ha bramato vendetta per cinque lunghi anni e Dio solo sa cosa ha dovuto sopportare. Anche solo il pensiero di vivere accanto agli assassini dei suoi genitori è qualcosa di inimmaginabile!"
Joan capiva sempre di più quanto l'amico fosse legato a quel ragazzo. Anche Sherlock aveva vissuto in preda al sentimento di vendetta prima che scoprisse che Irene, la sua amata, altro non era che Moriarty. Quella situazione lo aveva reso cieco di fronte al buon senso, erano stati tempi maledettamente difficili, tempi che però avevano superato. Insieme.
"Voglio salvarlo, Watson!" gridò Sherlock improvvisamente. "So cosa vuol dire volere vendetta. Per lui è diventata l'unica ragione di vita, così come lo era diventata per me. Non sa a cosa sta andando incontro e voglio fermarlo prima che rovini la sua vita per sempre. Voglio crescerlo, voglio insegnarli ad usare le sue capacità e mostrargli le cose straordinarie che è in grado di fare con esse"
Joan rimase colpita da tutto quell'affetto che l'uomo stava manifestando.
"Se non impara a sfruttare le sue doti, potrebbe avere molti problemi in futuro. Problemi che io stesso ho dovuto affrontare, perché…nessuno capiva. Non voglio che finisca in un qualche riformatorio o, peggio, ucciso" disse piano, abbassano lo sguardo. "Watson, voglio essere per lui il padre che io non ho mai avuto, o che comunque non si è mai rivelato tale nei miei confronti"
Le lacrime rigarono il volto di Joan, che non riuscì a trattenersi dall'abbracciare l'amico, il quale stranamente oppose meno resistenza del solito.
"Ce la faremo" gli sussurrò. "Ce la faremo"

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Capitolo 7
*** L'uomo nel mirino ***


Il buio della notte aveva inghiottito la città. Il vento accompagnava i suoi passi e sospingeva delicatamente il suo corpo come se lo stesse guidando, come per assicurargli che stava facendo la scelta giusta. Girò l'angolo e si trovò sulla via indicata dal bigliettino che l'uomo gli aveva dato quella mattina. Rimase nell'ombra, evitando i lampioni che rischiaravano il cammino dei pedoni sul marciapiede. Vide una finestra che dava su una stanza fiocamente illuminata, contro cui si stagliava il profilo della fonte dei suoi ripensamenti.
Niente e nessuno in quei cinque lunghi anni era mai riuscito a distoglierlo dal suo obiettivo. Aveva avuto numerose possibilità di scappare, di fuggire da quell'inferno, ma aveva sempre pensato che, quando sarebbe giunto il momento, ne sarebbe valsa la pena. Avrebbe ottenuto quello che voleva. Eppure quell'uomo, che fissava il vuoto fuori dalla finestra dell'appartamento, c'era riuscito. Era stato in grado di fargli dubitare delle sue intenzioni. Non si era mai fidato di nessuno, ma sapeva che lui meritava tutta la sua fiducia, sembrava essere in grado di capirlo come mai nessuno era riuscito a fare. Voleva veramente salvarlo. Tirò un profondo respiro e decise di proseguire.
Non fece però neanche in tempo a muovere il primo passo che, improvvisamente, la mente gli si annebbiò. Gli tornarono in mente le immagini di quella maledettissima notte, le grida, gli spari, il sangue. Tutto sembrava incredibilmente reale. Si appoggiò ad un albero per evitare di cadere e strinse con forza all'altezza dello stomaco. Era come se una palla di cannone lo avesse trapassato.
Cercò di calmarsi e si ricompose. No, non poteva tirarsi indietro. Non adesso, non ad un passo dal suo obiettivo. Ancora un paio di giorni e avrebbe ritrovato la pace.
"Mi dispiace, Sherlock" sussurrò.
Si girò nella direzione opposta e tornò sui suoi passi. Nessuno lo avrebbe più fermato. Nessuno.

"Allora, ricapitoliamo" disse Gregson, cercando di fare il punto della situazione. "Abbiamo due morti a distanza di pochi giorni e, probabilmente, un solo assassino"
"Togli pure il probabilmente" disse Sherlock.
La centrale di polizia era piuttosto frenetica quella mattina e gli investigatori si erano ritirati nell'ufficio del capitano per poter ragionare indisturbati.
"Sì, allora diciamo che sicuramente l'assassino è lo stesso" si corresse l'uomo. "Sappiamo che fuma un tipo di sigarette non molto diffuso, che è mancino e che probabilmente viaggia a bordo di un suv"
"Sempre che la macchina non sia stata rubata proprio per l'occasione del primo omicidio" fece notare Bell.
"E sempre che il testimone oculare non si sia sbagliato. Considerate che era mattino presto e la luce era scarsa" continuò Watson.
"Avete ragione. In ogni caso, gli unici tre sospettati, i Petrov e Ivanov, hanno un alibi di ferro e sono ben lontani dal collaborare"
Joan ripensò a Jaroslaw.
"Già. Non abbiamo niente in mano" disse sconsolato Marcus.
"Lo so, ma non possiamo rimanere con le mani in mano senza far nulla. Scommetto cento dollari che i Volkov stanno già organizzando una rappresaglia contro gli Zaytsev. Non voglio che si scateni una guerra civile nella mia città, dobbiamo trovare i colpevoli prima di loro"
Il silenzio calò nell'ufficio: tutti sapevano che ci sarebbe stato un gran spargimento di sangue se non avessero agito in fretta.
"Holmes, dove vai?" chiese il capitano, spazientito da quell'atteggiamento misterioso che ormai l'uomo aveva da giorni.
"Scusatemi, devo prendere un po' d'aria" e uscì.
Joan cercò lo sguardo di Gregson, implorando la sua comprensione.
"Va' da lui, non ti preoccupare. Non capisco perché, ma ho capito che è un momento difficile. Ci sentiremo più tardi"
La donna corse giù per le scale e raggiunse l'amico, fermo fuori dalla centrale con gli occhi chiusi e i pugni stretti.
"Sherlock, stai bene?" chiese lei, senza ricevere risposta. "Vuoi parlare un po'? Ti farebbe bene"
"Sai come la penso su queste cose, Watson" fece lui. "Sto bene"
"Non mi sembra" disse in tono serio.
Sherlock capì.
"Ascolta, non sono vicino ad una ricaduta e non andrò alla ricerca di eroina. Ho solo bisogno di schiarirmi un po' le idee" la rassicurò lui. "Devo fare piazza pulita nella mia mente per vedere se mi è sfuggito qualcosa. Ci vediamo tra qualche ora"
La donna non fece neanche in tempo a replicare che l'uomo se n'era già andato.
Vederlo in quello stato la distruggeva, così come la distruggeva pensare al destino di quel ragazzo per cui ormai provava affetto. In tutta quella situazione la sua testimonianza era l'unica speranza per catturare l'assassino fantasma che non riuscivano ad identificare.
Improvvisamente le balenò in testa un'idea folle a cui diede assenso, senza pensarci due volte.

Ricordava abbastanza bene la strada per arrivare all'appartamento dei tre sospettati e in meno di un'ora fu lì. Avrebbe parlato con Jaroslaw, l'avrebbe fatto ragionare o per lo meno si sarebbe fatta dire qualche cosa in più riguardo quella situazione. Cercò di non dare nell'occhio e s'incamminò lungo la via.
Ad  un certo punto scorse tra la folla Ivanov, uno degli indiziati, che parlava con un altro uomo. Accelerò con cautela e si portò a pochi metri da loro. L'interlocutore del sospettato non era russo, erano costretti a parlare inglese e così lei riuscì a cogliere alcuni passi della conversazione. I due stavano discutendo su un'operazione importante che sarebbe avvenuta presto, in particolare avrebbero dovuto vedersi con un certo Squalo. Entrarono poi in un bar, ma dalla clientela che riuscì a scorgere all'interno Joan decise che sarebbe stato troppo imprudente avventurarsi oltre. Continuò quindi sui suoi passi. Aveva deciso di appostarsi vicino all'appartamento di Jaroslaw per cercare di intercettarlo senza farsi vedere dagli altri due coinquilini, ma si accorse di essere seguita.
Un gruppetto di quattro uomini poco raccomandabili e visibilmente brilli le stava alle calcagna e, benché non capisse una parola dei loro commenti in russo, poté dedurre dalle loro risatine e dai loro fischi che non avevano buone intenzioni.
Accelerò il passo, ma loro fecero lo stesso e lei si ritrovò praticamente a correre. Venne assalita dalla paura: Sherlock le aveva insegnato a difendersi, ma contro quattro armadi come quelli non avrebbe potuto fare niente. Più scappava e più gli sghignazzi di quelle bestie le sembravano più vicini.
Improvvisamente qualcuno le afferrò il braccio, la strinse a sé e le tappò la bocca saldamente per impedirle di urlare, trascinandola lungo una viuzza stretta fino al retro dell'edificio che puzzava di marcio a causa dei cassonetti piazzati lì vicino. Era già in preda al panico: il suo assalitore la stringeva talmente forte che pensava volesse ridurla in pezzettini. Sentì una voce famigliare sussurrarle all'orecchio.
"Adesso ti lascio andare" le disse in tono deciso. "Ma tu non devi urlare, se no non potrò più aiutarti. Mi hai capito?"
Joan annuì nervosamente. Il suo assalitore allentò la presa e, quando fu sicuro che la donna stava eseguendo i suoi ordini, tolse la mano dal suo viso. Watson si girò e vide gli occhi color ghiaccio di Jaroslaw che la osservavano.
"Stai qui, arrivo subito"
Il ragazzo scomparve per qualche secondo dietro l'angolo.
"Se ne sono andati" le disse.
"Non so come ringraziarti. Mi hai salvato la vita" disse Joan, con il cuore che le batteva all'impazzata.
"Lascia stare" liquidò lui la faccenda. "Tu sei l'amica di Holmes, giusto? Che ci fai qui? Questo è un quartiere pericoloso anche per gli uomini che non sono del posto, figuriamoci per una donna. Non avrebbero dovuto mandarti da sola ad indagare in questa topaia"
"Non sono venuta ad indagare, stavo cercando te. Devo parlarti"
"E' inutile, ho già detto tutto quello che so alla polizia. Ora vai, quei quattro potrebbero tornare da un momento all'altro"
"E' un rischio che sono pronta a correre!"
Il ragazzo la scrutò, sorpreso dalla sua tenacia.
"Ascolta, Jaroslaw, so del tuo passato. Devi fidarti di Sherlock, anche lui si è trovato in una situazione simile alla tua. E' stata dura anche per me che ero al suo fianco. Facendoti sopraffare dal sentimento di vendetta stai rischiando di buttare via la tua vita. Noi ti possiamo aiutare e tu puoi aiutare noi a rinchiudere dietro le sbarre questi animali per sempre"
Il ragazzo si passò una mano sulla fronte, stanco di questi continui tentativi di persuasione che inspiegabilmente mettevano a dura prova la sua determinazione.
"Si può sapere perché siete così ostinati? Che cosa ve ne importa?"
"Perché ti vogliamo bene, ci teniamo a te"
A quelle parole Jaroslaw si immobilizzò. L'ultima volta che le aveva sentite pronunciare era stata quella sera, quando suo padre e sua madre erano arrivati in camera a rimboccargli le coperte prima che si addormentasse. Il ragazzo riusciva a cogliere la sincerità delle persone e in quel momento non c'era la minima ombra di falsità in quella donna.
All'improvviso gli schiamazzi in un pessimo inglese dei quattro assalitori tornarono a farsi sentire.
Il ragazzo sospirò e tirò fuori una biro dalla tasca della giacca.
"Dammi il braccio" ordinò, e senza aspettare la sua risposta le tirò su la manica e scrisse alcune parole che la donna non riuscì a capire. "Fallo vedere subito a Sherlock. Laggiù c'è una rete metallica. In basso a destra c'è un buco: passaci attraverso e poi vai sempre dritto. Dovresti trovarti sulla via principale, lì sarai al sicuro. Vai immediatamente a casa"
"Grazie di tutto" gli disse Joan sorridendo e si voltò per incamminarsi.
Jaroslaw la trattenne per un braccio.
"Stai attenta" poi si voltò dall'altra parte e sparì dietro l'angolo.

Watson seguì alla lettera le istruzioni del ragazzo e in cinque minuti sgattaiolò fuori da quell'orrendo quartiere. Guardò il cellulare: cinque messaggi e dieci chiamate perse di Sherlock. Gli scrisse che stava arrivando.
Appena aprì  la porta dell'appartamento, l'uomo le si parò di fronte, visibilmente infuriato.
"Santo cielo, Watson! Perché non mi hai risposto?" gridò lui.
"Non preoccuparti, sto bene!" cercò di calmarlo.
"Lo vedo! Ma abbiamo a che fare con persone poco raccomandabili, pensavo che ti avessero fatto del male!"
Era la prima volta che Sherlock dimostrava così apertamente la sua preoccupazione per la donna.
"Sono andata a parlare con Jaroslaw"
L'uomo la guardò con un'espressione che mischiava sorpresa e rabbia.
"Che cosa hai fatto? Che ti è saltato in mente?"
"Sta' zitto e ascoltami" ordinò lei, e gli raccontò ciò che era successo.
"Sei un'incosciente!" urlò lui. "Avresti dovuto avvertirmi!"
"Certo, perché tu di solito lo fai, non è vero?"
Holmes non replicò: in effetti l'amica aveva ragione.
"Questo non è il momento di litigare. Hai parlato di un messaggio, fammi vedere"
Joan si scoprì il braccio e l'uomo ricopiò ciò che vi era scritto su un foglio.

Anocht, stórais sráid 27, ceathair a chlog, bí poncúil!!

Joan provò a leggerlo ad alta voce.
"Non conosco questa lingua, pensi sia polacco?" chiese la donna.
"No, non è una lingua dell'est europeo. Il suono mi è vagamente famigliare"
"Ma perché non scrivere in inglese se era così urgente farti avere questo messaggio? Potremmo perdere ore a capire che vuol dire!"
"Perché voleva proteggerti, Watson" disse lui, orgoglioso. "Se ti avessero fermata di nuovo non avrebbero potuto capire cosa c'era scritto. Probabilmente si tratta di informazioni importanti. Inoltre hai ragione tu, non deve trattarsi di qualcosa di così complicato da capire data l'urgenza della situazione"
"E la storia di Squalo? Pensi sia rilevante?"
"Credo proprio di sì, potrebbe essere il tassello mancante di questo enigma" disse l'uomo, osservando la parete degli indizi.
Ad un certo punto si soffermò sulla foto della madre di Jaroslaw.
"Ma certo, ora è tutto chiaro!" esclamò Sherlock.
"Hai capito cosa significa il messaggio?"
"No, ma ho capito di che lingua si tratta!" disse lui, accomodandosi di fronte al computer. "La madre si chiama Helen O'Ryan, nome che non suona molto polacco, non trovi?"
"Decisamente no" confermò Joan. "Infatti su questo articolo c'è scritto che lei era originaria dell'Irlanda del Sud. Dici che si tratta di un dialetto locale?"
"Esatto! Questo spiega anche come mai il ragazzo abbia un perfetto accento inglese che, se ci fai caso, presenta una leggera sonorità tipica proprio di quella zona. I genitori lo hanno cresciuto con l'intento di farlo diventare bilingue e la madre deve avergli insegnato anche qualche parola di Gaeilge, la lingua di origine celtica irlandese"
Sherlock aprì un dizionario online.
"Che cosa ha scritto, quindi?"
"La grammatica non è perfetta, ma il messaggio di fondo sembra chiaro. Alla lettera lo tradurrei così" e scrisse la sua versione sul foglio.

Stanotte, magazzino 27esima, quattro in punto, sii puntuale!!

"Sembra il luogo di un ritrovo" commentò Joan.
"Magari proprio il ritrovo con questo fantomatico Squalo" aggiunse Holmes, illuminandosi in viso. "Forse questa volta ha deciso di aiutarci veramente! Andiamo ad avvisare Gregson!"

"Perché non mi avete detto subito cosa avevate scoperto su quel ragazzo?" chiese il capitano, una volta che i due ebbero finito di aggiornarlo sulla situazione.
"Se avesse saputo che aveva gli occhi della polizia addosso non ci avrebbe detto niente" rispose Sherlock.
Gregson annuì.
"Come procediamo, capitano?" chiese Watson.
"Prepareremo una squadra, stanotte sarà l'ultima occasione per catturare quei criminali. Non dobbiamo sprecarla"
Joan notò che Sherlock si era fatto pensieroso.
"Cosa c'è che non ti convince?" le chiese.
"Qualcosa non mi quadra" rispose lui. "Probabilmente l'incontro di stanotte servirà per consegnare dei carichi di droga alle varie cellule del clan che operano in zona, ma non pensate che l'orario sia strano? Voglio dire, alle quattro c'è già troppa luce. Hanno bisogno del buio per agire, in modo da non dare nell'occhio. E perché sottolineare così tanto l'ora? Ci saranno sicuramente dei tempi precisi che devono rispettare, ma potrebbe essere stato un gesto istintivo causato dalla fretta di mettere in salvo Watson. E poi quel nome, Squalo…"
"Magari non è importante" provò a suggerire la donna. "Avrebbero potuto riferirsi a qualsiasi cosa"
"Non credo, le informazioni che abbiamo combaciano troppo bene, inoltre…"
Holmes smise di parlare.
"Inoltre?" lo incalzò Gregson.
In quel momento entrò Bell.
"Ragazzi, ho trovato qualcosa!" e porse loro un vecchio fascicolo. "Ho impostato una ricerca nei database della polizia e ho scoperto che effettivamente esiste un uomo di nome Aleksey Kalinin, conosciuto anche come Squalo per il fatto che ne ha uno enorme tatuato sul collo. È stato arrestato un paio di volte per possesso di droga e detenzione illegale di armi. E indovinate un po'? Casualmente è anche mancino! Magari è una coincidenza ma…"
"Io non credo alle coincidenze" decretò Sherlock, che intanto aveva sfogliato il plico di fogli in cui aveva raccolto le informazioni sul delitto Jankowski. "E' lui che cerca"
"Chi sta cercando cosa?" chiese perplesso Gregson.
"Jaroslaw. Jaroslaw sta cercando Squalo" e porse loro un vecchio articolo di giornale. "La notte dell'omicidio dei suoi genitori, il vicino di casa, sentendo del trambusto, si svegliò e giurò di aver visto dalla finestra un uomo con un enorme pesce tatuato sul collo salire sul camioncino parcheggiato di fronte alla casa. Naturalmente la descrizione era troppo vaga per poter effettivamente individuare un colpevole"
"In effetti nei rapporti c'è scritto che Squalo si è trasferito qui a New York solo da quattro anni, la tempistica coincide" confermò Bell.
"Ora è tutto chiaro" disse Joan. "Non si è vendicato prima perché non poteva farlo se il suo obiettivo era qui a New York"
"Immagino che questo cambi le cose. Non so se possiamo ritenere attendibili le sue informazioni" fece notare il capitano.
"Sono attendibili" replicò Sherlock. "Lui vuole consegnarci l'assassino. Il problema è che ce lo consegnerà morto"
Joan rabbrividì.
"Quindi che facciamo?" chiese Bell.
"Dobbiamo agire prima delle quattro. Non dobbiamo aspettare che l'operazione sia conclusa o sarà troppo tardi. Ci sarà pieno di uomini e se Jaroslaw dovesse sparare a Kalinin, beh, sicuramente loro…"
Gregson appoggiò una mano sulla spalla di Sherlock.
"Non succederà, lo fermeremo prima"
L'uomo annuì.
"Ti prego, capitano, non toccate il ragazzo"
"Sta' tranquillo, farò di tutto per farlo uscire illeso da questa operazione" e andò a dare indicazioni per la missione di quella notte.

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Capitolo 8
*** La resa dei conti ***


L'orologio di Sherlock segnò le tre in punto. La squadra di poliziotti si era già posizionata e attendeva solo il via libera del capitano. Erano appostati da quasi quattro ore e nei pressi del magazzino della 27esima non c'era anima viva. Ad un certo punto la ricetrasmittente di Gregson suonò.
"Capitano, cinque veicoli in avvicinamento"
Dopo pochi minuti il silenzio del piazzale fu interrotto dal rombo delle vetture annunciate dall'agente. Si trattava di un camion per surgelati, tre furgoni e una macchina di grossa taglia.
"Quello non è il suv che Anderson dice di aver avvistato la notte del primo omicidio?" bisbigliò Watson.
"Con ogni probabilità sì, vedete come è sporco il fondo della macchina? Quella è la stessa polvere che ha attecchito alla nostra quando ci siamo recati sul luogo del delitto. Non si sono neanche presi il disturbo di ripulirla"
"Venti dollari che da lì esce il nostro Squalo" disse ironicamente Gregson, e in effetti ebbe ragione.
Dopo qualche minuto un uomo enorme aprì la portiera e la luce dei fari puntati su di lui rivelò il grosso tatuaggio al collo.
Alla vista di quell'individuo Sherlock si irrigidì.
Insieme a lui scesero altri quattro uomini, mentre dai furgoni e dal camion fecero capolino una trentina di persone, tra cui Jaroslaw, Petrov e Ivanov.
"Sono tanti" notò il capitano.
"E non escluderei che ce ne siano altri nelle vicinanze" lo avvertì Holmes. "Stiamo attenti"
Gli uomini scaricarono pacchi di droga dal furgone, per poi nasconderli all'interno di altri scatoloni camuffati, poi caricati nuovamente sul camion per surgelati.
"Astuti" commentò Joan. "E' un ottimo modo per passare inosservati ai controlli"

Le operazioni erano ancora nel pieno del loro svolgimento, quando Sherlock trasalì.
"Capitano, stanno entrando!"
Squalo ed uno dei suoi complici varcarono la soglia del magazzino per entrare in uno degli uffici adiacenti, accompagnati da Petrov e da Jaroslaw.
"Dobbiamo muoverci! Cosa stiamo aspettando? Lo uccideranno!" gridò Holmes.
"Stai calmo!" gli ordinò Gregson. "A tutte le unità, intervenite e ricordate di non fare del male al ragazzo!"
Scoppiò il caos. La squadra uscì allo scoperto, ma dall'ombra sbucarono altri uomini, rimasti a sorvegliare la zona per tutto il tempo. Il piazzale divenne teatro di una vera e propria guerra.

Jaroslaw capì che non aveva più tempo, la polizia lo avrebbe raggiunto a momenti e non gli avrebbe permesso di portare a termine il suo compito. Controllò che la  pistola fosse ben riposta nel fodero e pronta all'uso, chiuse la porta dell'ufficio alle sue spalle ed entrò in azione.
Si girò rapidamente verso colui che era considerato il braccio destro di Kalinin che, preso alla sprovvista, venne colpito in pieno viso da un portentoso pugno del ragazzo. Bastò quello per mandarlo ko, tanta era la differenza tra la sua stazza e l'esile corporatura di quell'uomo. Meno uno.
Petrov, confuso da questa improvvisa reazione, tirò fuori la pistola, ma invano. Jaroslaw fu più veloce di lui: con un movimento fluido ed elegante assestò un calcio che lo disarmò. L'uomo reagì sferrando un diretto sinistro al ragazzo, il quale però lo evitò e rispose colpendolo in testa più forte che poteva con il calcio della sua pistola, che era riuscito ad impugnare. L'uomo con la cicatrice all'occhio cadde a terra svenuto. Meno due.
Kalinin cominciò a capire cosa stava succedendo. Nel frastuono generale sparò alla bell'è meglio un paio di colpi sperando di centrarlo, ma la fortuna non girò a suo favore. Jaroslaw si acquattò dietro una scrivania, rispondendo al fuoco. Non potendo riparasi dagli spari, Squalo provò allora ad uscire passando per la porta secondaria, che dava all'interno del magazzino, ma appena abbassò la guardia e la aprì, un proiettile si conficcò nella sua gamba destra. Si voltò e vide lo sguardo sprezzante di Jaroslaw che gli puntava addosso l'arma. 

Holmes era in preda all'ira.
"Non devono starsene lì fuori! Devono andare in quel maledettissimo ufficio!"
"Sherlock, sta' calmo! Gregson ha detto di rimanere qui, è pericoloso!" provò a gridare Watson, ma l'uomo la ignorò.
Si sistemò meglio il giubbotto antiproiettile e uscì dalla macchina, seguito dalla donna.
I due si fecero strada in quell'inferno fino a raggiungere il detective Bell.
"Sono là dentro!" urlò Holmes.
"Ricevuto! Jack, Simon, venite con me!" e il gruppetto si diresse verso l'ufficio.

"Avanti, Jaroslaw! So che non vuoi farlo!" Kalinin era appoggiato al muro, con la gamba sanguinante. "Io ti ho salvato!"
Il ragazzo rise sarcasticamente.
"Tu mi hai salvato?" disse lui. "Tu mi hai rovinato la vita!"
"Lo sai benissimo che quella sera ti abbiamo risparmiato solo perché io ho visto in te delle potenzialità! A quest'ora saresti già nella tomba da cinque anni ormai"
"Tu e i tuoi amici figli di puttana avete preso tutto quello che avevo! È come se mi ci avessi già mandato nella tomba!" ringhiò, avvicinandosi pericolosamente alla sua vittima.
Aveva aspettato quel giorno da cinque interminabili anni. Ora l'assassino dei suoi genitori era lì, disteso a terra, inerme come uno scarafaggio che il suo piede avrebbe sfracellato al suolo per sempre. Ripensò a quella notte e l'unico desiderio che lo assalì fu di togliere la vita a quell'animale.
"Non hai il fegato per farlo"
"Tu dici?" e un sorriso beffardo comparve sul suo volto. "Quella notte non ho esitato, pensi debba farlo ora?"
Vide la paura trapelare dagli occhi della sua vittima. Non si era mai sentito così potente.
"Mi seguirai all'inferno, bastardo!" gridò a gran voce Kalinin.
"Dopo di te"
Il dito del ragazzo stava già facendo pressione sul grilletto della pistola, quando la porta dell'ufficiò sbatté violentemente.
"Fermati, Jaroslaw!" urlò Holmes.
"Sherlock, va' via di qui! La cosa non ti riguarda!" lo minacciò lui, senza perdere di vista il suo obiettivo.
"Te l'ho già detto! La vendetta porta solo guai! Lascialo andare, avrà quello che si merita!"
"No! Non sarà mai abbastanza! Deve pagarla per tutto quello che ha fatto!" gridò il ragazzo, ormai fuori di senno.
"Ascolta, Jaroslaw" provò a convincerlo il detective Bell, avvicinandosi a lui. "Ti assicuro che non la passerà liscia!"
Il ragazzo non dette segni di cedimento. Ad un certo punto, con la coda dell'occhio, vide altri due uomini armati entrare e puntare le loro armi contro il poliziotto.
"Sta' giù!" urlò spingendo a terra Bell e sparando all'uomo che aveva di fronte.
La battaglia si spostò all'interno dell'edificio. La polizia era riuscita a fermare la maggior parte dei malviventi, bloccando le vie di fuga, e i reduci che ancora resistevano provarono un ultimo, disperato tentativo rintanandosi proprio nel magazzino.
Preoccupato dal caos generale che si stava scatenando, Jaroslaw si voltò di scatto per tenere sotto tiro la sua preda, ma fece solo in tempo ad accorgersi che Squalo aveva sfilato velocemente la pistola che teneva nascosta in un fodero attaccato al polpaccio. L'uomo sparò. Il ragazzo sentì una fitta che gli tolse il fiato. Per dieci lunghissimi secondi la vista gli si annebbiò, il respiro si fermò e non sentì più nulla se non alcune voci che lo chiamavano, ma che non riusciva a riconoscere: era come rinchiuso in un'enorme bolla. Il dolore lancinante lo riportò alla realtà e si accorse che il proiettile era penetrato poco sopra l'altezza del cuore, nella spalla destra.
Il dolore fisico si dissolse non appena si rese conto che Squalo era scappato dalla porta secondaria. Lo vide trascinare la sua gamba ferita lungo l'ampio corridoio fiancheggiato dagli alti scaffali del magazzino. Fece un respiro profondo, strinse i denti e corse più forte che poteva i trenta metri che lo distanziavano da lui. Quando lo raggiunse gli saltò addosso, sbattendolo a terra come un puma che si avventa sulla sua preda. Lo disarmò e, puntandogli addosso la pistola, lo girò verso di sé e lo guardò negli occhi: in tutti quegli anni si era ripromesso che, quando lo avrebbe ucciso, il suo volto sarebbe stato l'ultima cosa che avrebbe visto, per ricordargli quanto male aveva fatto nella sua miserabile vita. Lo alzò prendendolo per il colletto della camicia senza perdere il contatto visivo per un secondo.
Sentì dei passi dietro di sé.
"Jaroslaw, ti prego, non farlo"
Il ragazzo riconobbe la voce, la stessa che prima non aveva identificato. Sherlock, con le lacrime agli occhi, lo stava implorando di fermarsi. Di nuovo.
I suoni della battaglia nell'ala attigua dell'edificio si stavano affievolendo.
"Avanti, ragazzo, fallo! Spara al tuo vecchio zio Aleksey!" lo provocò Squalo, ridendo sonoramente.
"Non dargli ascolto!" provò a zittirlo Joan, che nel frattempo aveva raggiunto Holmes insieme a Gregson e ad alcuni agenti, che avevano il mirino puntato sul ragazzo. Il criminale se ne accorse e cercò di provocarlo per costringerli ad agire.
"Dai, sparami! E' questo che sei, vero Jaroslaw? Sei un assassino come tutti noi" continuò Kalinin. "Mi hanno riferito che sei piuttosto bravo, anche Jacek direbbe…"
"Sta' zitto!" urlò il ragazzo in preda all'ira, premendo la canna della pistola contro la fronte del criminale. "Non permetterti neanche di pronunciare il suo nome!"
"Jaroslaw…" lo chiamò Sherlock.
"Che vuoi?! Perché non mi lasci in pace?!"
"Lo so che adesso non riesci a capire, ma pensa almeno alle conseguenze del tuo gesto" cercò di convincerlo. "Se ucciderai quell'uomo, ti aspetteranno anni e anni di reclusione in riformatori e prigioni!"
"Non me ne frega niente, è un prezzo che sono disposto a pagare! E in ogni caso ci sono dentro fino al collo comunque!"
"Questo è da vedere" fece notare Gregson."In questa storia tu sei la vittima, non il criminale. Ci sono altissime probabilità che tu esca illeso dalla faccenda"
L'argomentazione del capitano non scalfì minimamente la decisione del ragazzo.
"La vendetta non ti porterà sollievo, non ti libererà dal dolore che provi ora. Anzi, non farà altro che peggiorarlo" ritentò Sherlock.
"Cavolate! Fino ad oggi ho vissuto con un unico obiettivo" la voce di Jaroslaw tremava per l'agitazione, mentre il sangue continuava a colare copioso dalla ferita. "Ogni giorno, ogni notte non ho fatto altro che pensare ad andare avanti per riuscire a raggiungere questo giorno, a qualsiasi prezzo il destino avrebbe voluto vendermelo. Io il mio prezzo l'ho pagato, ora nessuno mi potrà impedire di riscuotere la mia ricompensa"
Cominciò a contare mentalmente alla rovescia. 5, 4… Sentiva appena le urla di Kalinin che implorava Gregson di fare qualcosa. 3, 2… Assaporò il momento finale come un atleta che percorre gli ultimi metri che lo separano dal tragurdo. 1…
"Aspetta solo un attimo!"
Di nuovo quella voce. Di nuovo lui. Il tono di Sherlock si fece serio.
"Per favore" lo pregò.
Jaroslaw sospirò e gli fece cenno di continuare.
"Voglio farti solo una domanda"disse facendo qualche passo avanti. "Cosa penserebbero i tuoi genitori di te?"
Il ragazzo trasalì. Da anni cercava di non porsi quell'interrogativo che, invece, puntualmente ritornava nella sua mente. Non voleva darsi una risposta perché sapeva che non gli sarebbe piaciuta, che lo avrebbe distolto dal suo obiettivo. Il fine giustifica i mezzi, si ripeteva, e tutto quello lo stava facendo per loro, solo per loro, ma il pensiero di deluderli lo distruggeva. Cominciò a tremare come se un vento gelido lo avesse investito all'improvviso.
"Tuo padre ha lottato per anni contro i criminali come lui e insieme a tua madre ha pagato con la vita per questo"
La fronte di Jaroslaw s'imperlò di sudore e la vista cominciò ad offuscarsi, tanto da stringere ancora più forte la presa con cui bloccava Kalinin, per paura di lasciarselo scappare.
"Cosa direbbero se cominciassi a comportarti esattamente come le persone che loro hanno combattuto? Come le persone che li hanno uccisi?"
Cominciò ad ansimare: il panico lo assalì. Mai nessuno in tutti quegli anni era riuscito a metterlo così in difficoltà. Non voleva più  ascoltarlo perché sapeva che aveva ragione, ma lui non capiva. Non poteva capire.
"Mi hanno preso tutto, Sherlock! Tutto!" urlò il ragazzo, con le lacrime agli occhi. In quei cinque anni aveva pianto solo una volta: in quel momento il peso che aveva sullo stomaco sembrò diventare più leggero.
"No, non è vero!" rispose lui con tanta decisione da far trasalire tutti i presenti.
Sorpreso da quelle parole, si girò appena per cercare lo sguardo dell'uomo.
"Tu hai ancora il dono più grande che i tuoi genitori ti hanno fatto: la vita!" gridò di nuovo, commosso.
Ormai il giovane aveva perso il controllo della situazione.
"Sei vivo, Jaroslaw! Hai combattuto fino ad oggi aggrappandoti alla vita con tutte le tue forze! Non vanificare tutto ora!" continuò Sherlock. "I tuoi genitori volevano sopra ogni altra cosa vederti vivere, e tu ce l'hai fatta! Ma se ora tu lo uccidi, passerai la tua vita in prigione e allora sì che questi criminali ti avranno preso tutto. È questo che volevano Benedykt ed Helen per il tuo futuro?"
Il ragazzo allentò inconsciamente la presa, continuando a puntare l'arma verso Kalinin.
"Rispondimi, Jaroslaw! Se fossero qui, tuo padre e tua madre ti inciterebbero a premere il grilletto? O ti direbbero che stai buttando via la tua vita e che stai permettendo a quegli animali di annientarti?"
Calde lacrime di rabbia gli rigarono il volto. Aveva imparato ad essere forte, a trasformarsi in una sorta di statua di marmo, impassibile verso tutto e tutti, ma la verità delle parole di quell'uomo aveva sciolto il suo cuore di giaccio. Verità che aveva cercato di nascondersi per tutto quel tempo.
Lasciò andare Squalo e fece qualche passo indietro. Le gambe gli tremavano a tal punto da non tenersi in piedi. Gradualmente abbassò la pistola e Gregson fece segno ai suoi di avvicinarsi.
"Bravo, così! Dalla a me questa" gli disse sottovoce Gregson, sfilandogli l'arma dalla mano. Gli agenti ammanettarono Kalinin e lo fece rialzare.
"Bene bene, ecco qui il nostro tiratore mancino" commentò il capitano, guardando l'assassino con aria disgustata. "Fate controllare la gamba ai medici poi portatelo via"
"Un momento" mormorò Jaroslaw, voltandosi verso di loro, e si parò di fronte a Kalinin, guardandolo con la sua espressione pietrificante. La debolezza aveva già ceduto di nuovo il posto alla rabbia.
Gregson capì e fece cenno ai poliziotti di allontanarsi di qualche metro. Un ghignò beffardo spuntò sul volto del russo. Il ragazzo non si scompose, chiuse gli occhi e fece un profondo respiro. Dopo mezzo secondo, caricò un destro che andò a schiantarsi in pieno con la forza di un macigno sul grosso naso di Kalinin, rompendoglielo. L'uomo cadde a terra e il suo viso si ricoprì completamente di sangue.
"Ora potete andare" ordinò Gregson.
Appena il gruppo di agenti che scortava Kalinin si allontanò, Jaroslaw cadde in ginocchio. Lo sguardo fisso davanti a sé era perso nel vuoto e il tempo sembrava essersi fermato improvvisamente. Cercò di fare mente locale su ciò che era successo, ma anche pensare era un'operazione troppo difficile da portare a termine. Nulla aveva più senso. La rabbia che ribolliva dentro di lui continuava a farlo tremare, ma in quel momento si sentiva stanco, tremendamente stanco.
Sherlock e Joan raggiunsero Gregson. Sherlock si mise di fianco al ragazzo e gli pose una mano sulla spalla. Il silenzio parlava da solo: nessuno osava aprire bocca, come se qualunque parola fosse stata superflua, inadeguata in confronto all'intensità di quella situazione.
Passarono cinque minuti, in cui gli unici rumori erano quelli degli agenti che impartivano ordini e delle ambulanze che arrivavano per soccorrere i feriti.
"Capitano!" lo chiamò il detective Bell. "Portano Kalinin a fare qualche accertamento, se tutto va bene tra un paio d'ore sarà in centrale. Gli altri sono già tutti ammanettati, pronti per andare"
"Ok, arrivo subito!" rispose lui.
Joan si avvicinò al ragazzo e si chinò per controllare il punto in cui gli avevano sparato.
"Jaroslaw, devi andare in ospedale. Il proiettile ha colpito il muscolo in profondità" gli disse la donna.
Il giovane si rifiutò, scuotendo la testa, con lo sguardo ancora immerso nel nulla.
"Ascolta" provò a convincerlo Gregson. "Non puoi rimanere con un buco nella spalla e poi…"
"Ci penserò io" lo interruppe Watson. "Il proiettile non dovrebbe aver fatto altri danni gravi, dovrei riuscire a sistemarla. Lo terrò sotto controllo regolarmente "
"Va bene, mi fido di te" le sorrise lui. "Ci vediamo in centrale. Marcus, te ne occupi tu?"
"Certo, stia tranquillo!" rispose Bell, e il capitano si allontanò, dando un'affettuosa pacca sulla schiena del ragazzo.
"Sherlock, portiamolo di là" gli disse Joan.
L'uomo porse un braccio a Jaroslaw, che si alzò faticosamente. Si reggeva a malapena in piedi e la testa gli girava vorticosamente, tanto che non riusciva a tenere gli occhi aperti. Il braccio destro sorreggeva quello sinistro che gli doleva a causa della ferita e Sherlock gli cingeva il fianco per evitare che cadesse nei momenti in cui le gambe cedevano.
Giunsero nell'ufficio nel momento stesso in cui quattro paramedici entrarono a loro volta, spingendo una barella. Watson spiegò loro le sue intenzioni e ricevette l'autorizzazione a procedere solo quando Bell assicurò loro che era un medico.
"Cosa le serve?" le chiesero.
"Tutto quello che avete per le suture e per le operazioni di primo soccorso. Lasciate qua il lettino" ordinò, mentre si legava i capelli e si rimboccava le maniche. "Sherlock, aiutami a togliergli la maglia. Fai piano o rischiamo di lacerare ancora di più la ferita"
I due procedettero con molta cautela, evitando movimenti bruschi. Quando l'indumento fu sfilato del tutto, rimasero a bocca aperta: l'addome e la schiena erano ricoperti da numerose cicatrici inferte da chissà quale arma o oggetto. Alcuni avevano già qualche anno, altre erano più recenti.  Le ferite, i muscoli vigorosi e il sangue rendevano il ragazzo del tutto simile ad un gladiatore appena uscito dall'arena e, in un certo senso, egli aveva effettivamente concluso la sua battaglia. Almeno per ora.
Joan sembrò essere in procinto di dire qualcosa, ma Sherlock la fulminò con la sguardo scuotendo la testa: ci sarebbe stato il tempo anche per parlare di quella faccenda. La donna annuì, confermando di aver capito.
Dopo pochi secondi entrarono i paramedici con tutto l'occorrente.
Holmes aiutò Jaroslaw a sdraiarsi e Watson cominciò. Non si trattava di un'operazione complessa, ma senza l'anestesia totale si sarebbe rivelata fastidiosa, senza contare i dolori che sarebbero sorti nei giorni successivi. 
Il ragazzo, dal canto suo, non opponeva resistenza. Era come perso nel mondo dei suoi pensieri, non rispondeva e non parlava. Ogni tanto corrugava la fronte e socchiudeva gli occhi, come in preda ai suoi ragionamenti, cercando invano di trovare un senso a quello che era accaduto nelle ore precedenti.
Sherlock camminava nervosamente per la stanza, fermandosi di tanto in tanto accanto al lettino per osservare il ragazzo. Era come se i suoi ricordi stessero prendendo vita: la rabbia, la voglia di vendetta, il male insopportabile e Watson che cercava di ricucirlo sia fisicamente che psicologicamente. Tutto questo gli ricordava il giorno in cui Irene, ossia Moriarty, aveva mandato in frantumi ogni sua certezza. Lui e il ragazzo erano legati, erano maledettamente legati, che gli altri lo capissero o meno non aveva importanza.
"Non mi aiuti se ti agiti così" mormorò la donna, mentre estraeva il proiettile dalla spalla.
L'uomo non rispose, continuando nel suo incessante andirivieni.
"Lo so che sei preoccupato, ma sta andando tutto bene. La parte più ostica è andata" lo rassicurò.
Dopo circa mezz'ora, Watson posò ago e filo.
"Bene, ho finito!" annunciò. "Jaroslaw, cerca di tenere su il braccio. Cercherò di farti avere un tutore il prima possibile"
"E anche una maglia pulita" aggiunse Sherlock, mentre lo aiutava a rimettere quella insanguinata. Lo cinse di nuovo e lo scortò alla macchina.
"L'agente Rogers vi accompagnerà a casa così potrete prendere tutto quello che serve" disse Bell. "Ci vediamo tra un po' in centrale, ok?"
"Perfetto" rispose Joan.
"Bene. Avanti ragazzo, dobbiamo andare" lo sospinse affettuosamente il detective.
Jaroslaw era fermo in piedi davanti alla portiera, immobile. Dopo un minuto di silenzio totale, si voltò verso Holmes.
"Sherlock, è finita?" gli chiese.
Lo sguardo era diverso, era presente, come se la sua mente fosse riuscita ad arrivare ad una conclusione logica e razionale. Per la prima volta la barriera davanti a lui cedette e Holmes poté vedere, anche se solo per un secondo, attraverso lo sguardo del ragazzo, captando ciò che prima non riusciva a leggere.
L'uomo sorrise.
"Sì, è finita" gli rispose con la voce segnata dalla commozione.
Il ragazzo abbassò lo sguardo, per soppesare la breve risposta ricevuta. Quando lo rialzò, regalò a Joan e ad Holmes uno dei suoi soliti sguardi intensi e penetranti.
"Grazie" disse loro con sincera gratitudine.
Si accomodò sul sedile e la macchina partì in direzione della centrale.

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Capitolo 9
*** Confessioni ***


"Cosa intendi per sala interrogatori?!" chiese bruscamente Sherlock, vistosamente contrariato dalla notizia.
Lui e Joan erano arrivati in centrale alle otto e vennero a sapere che da circa due ore Jaroslaw era rinchiuso nell'angusta stanzetta in attesa di fare la propria deposizione.
"Non ti agitare!" lo rimproverò il capitano. "Anche a me non va a genio questa cosa, ma ho le mani legate"
"Le mani legate? E da chi? È lei il responsabile di questa indagine" chiese stupita Watson.
Gregson fece un cenno di disappunto verso un uomo e una donna che parlottavano ad una scrivania.
"Chi sono?"
"Lui è il signor Kent, un assistente sociale, mentre lei è la dottoressa Allen, psicologa. Da quanto ci hanno detto, sono i migliori in questo genere di situazioni"
"Ecco, ci mancavano solo loro tra i piedi" sbuffò Sherlock.
"Lo sai che quando c'è di mezzo un minore i servizi sociali intervengono automaticamente, non aveva scelta"
"Lo so, lo so. In ogni caso ti avverto che non so come possa prendere la cosa Jaroslaw"
Il capitano non rispose, sapendo bene quanto avesse ragione Holmes.
"Possiamo vederlo?" chiese Joan.
"Purtroppo no, mi hanno proibito di fargli avere contatti con chiunque fino a quando non ci avranno parlato loro" disse l'uomo, sinceramente dispiaciuto. "Tra dieci minuti dovrebbe iniziare la deposizione"
"Assisteremo da dietro il vetro, allora" decretò Sherlock.
"Bene, così sarò più tranquillo anch'io. Il ragazzo sembra ascoltare solo voi. Stasera grazie a lui ne incastreremo parecchi"

"E' una tortura! Avrebbe bisogno di riposare!"
"Certo, ma probabilmente in questo modo vogliono essere sicuri che le valutazioni che faranno saranno corrette" disse Joan.
"Che intendi?" chiese Sherlock.
I due erano già davanti al vetro che li separava dalla sala interrogatori e osservavano il ragazzo seduto sulla sedia.
"Voglio dire che in questo modo il carattere di Jaroslaw si rivelerà per quello che effettivamente è, perché è ancora in balia dei suoi sentimenti"
"E chi non lo sarebbe?" chiese contrariato.
Watson lo guardò con disappunto.
"Guarda che anche io non sono d'accordo, anche perché in preda alla rabbia rischia di dire o fare cose che gli potrebbero rendere la vita difficile"
La preoccupazione nel suo tono di voce era evidente. Calò il silenzio e Holmes notò qualcosa di strano nel comportamento del giovane. La mano destra avrebbe dovuto sorreggere il braccio sinistro per evitare alla spalla di affaticarsi e così, effettivamente, appariva di primo acchito. Si accorse però che, in realtà, stava stringendo in maniera eccessiva, mentre il pollice premeva con forza esattamente sulla ferita. Impercettibili tremori percorrevano il corpo del ragazzo, come brividi causati da un vento freddo. Capì di cosa si trattava, ma non disse nulla.
Pochi minuti dopo entrò Gregson, seguito a ruota da Kent e dalla dottoressa Allen. Il ragazzo alzò lo sguardo e, non appena vide i due intrusi, corrugò la fronte e assunse un'aria sospettosa. Il capitano lo anticipò prima che potesse aprire bocca.
"Jaroslaw, questi sono il signor Kent e la signorina Allen. Sono qui per darti una mano durante la deposizione"
Il poliziotto sperò con tutto il cuore che il ragazzo non facesse altre domande, ma invano.
"Sono capace di parlare e di ricordare le cose anche da solo. Chi sono?"
"Siamo dei servizi sociali" si intromise Kent. "Siamo qui per assicurarci che tu stia bene. Sappiamo che vieni da una situazione difficile e noi possiamo fornirti tutto l'aiuto per superare questo…"
"Fuori" ordinò con una calma disarmante Jaroslaw.
"Lasciami finire di spiegarti…"
"Ho detto fuori"
Lo sguardo di sfida del giovane era tale da non ammettere repliche.
"Avanti" cercò di convincerlo il capitano. "Dovrai dire esattamente le stesse cose che avresti detto se ci fossi stato solo io"
"Non mi interessa, non ho bisogno dei babysitter per farlo"
"Non siamo i tuoi babysitter!" si oppose Allen. "Dobbiamo semplicemente valutare il tuo stato emotivo e psicologico per capire cosa è meglio per te!"
"Sì, certo. Come se fossi un bambino di due anni" rispose sprezzante. "Non vengo certo a chiedere a voi cosa devo fare della mia vita. È una cosa che posso benissimo decidere da solo"
"Ma…"
"Niente ma! Andate a riversare la vostra compassione su qualcun altro!"

"Io l'avevo detto" commentò Sherlock, che osservava la scena da dietro il vetro.
"Per una volta speravo che tu non avessi ragione" rispose Joan.

"Guarda che noi ti stiamo già giudicando, anche se non hai ancora iniziato la deposizione" disse improvvisamente in tono serio la dottoressa.
"Oooh, siamo già passati alle minacce! Così presto?" commentò ironico il giovane. "I vostri giudizi sono l'ultima cosa di cui mi importa!"
"E invece dovrebbero importarti eccome. Non mi piace dirlo, ma lo farò se questo servirà a calmarti" continuò Kent. "Non è un modo di dire: le nostre valutazioni sono davvero determinanti per il tuo futuro. Il giudice, prima di prendere una decisione, leggerà il profilo che abbiamo scritto di te e agirà di conseguenza"
Il ragazzo non rispose.
"Certo, non è l'unico elemento che concorre nella sua scelta, ma devo ammettere che in casi come questi solitamente ci dà particolarmente ascolto"
L'uomo si sporse sul tavolo per avvicinare il suo sguardo a quello del suo interlocutore.
"Un nostro giudizio può fare la differenza tra il riformatorio o innocui incontri di gruppo settimanali"

"Allora, come sta andando?" chiese il detective Bell, entrando nella stanzetta attigua.
"Se Jaroslaw non uccide quell'uomo, tra poco lo farò io"disse Sherlock, che a stento riusciva a trattenere il suo disprezzo. Inoltre, se le sue osservazioni erano esatte, c'era un motivo in più per cui desiderava che Kent e la dottoressa Allen non presenziassero alla deposizione.
"Lo so che la minaccia è stata crudele, ma cerca di essere obiettivo: non ha avuto scelta" commentò Watson, più per convincere se stessa che l'amico. Anche lei non approvava quel genere di metodi, ma sapeva che con personalità ostinate come quella a volte erano necessari.

Il ragazzo si sistemò sulla sedia e valutò ciò che aveva sentito. Le parole erano sincere e la minaccia, dunque, con ogni probabilità reale. Cercò di controllarsi.
"Farò la mia deposizione" annunciò freddo. "Non una sillaba di più, non una di meno"
Gregson tirò un sospiro di sollievo per aver risolto almeno per quel momento la questione.
Jaroslaw iniziò il suo racconto.

"Partiamo dall'omicidio di Savlin e Volkov. Eravate a conoscenza delle intenzioni omicide di Kalinin?" domandò il capitano.
"Non proprio. Quando sei mesi fa Savlin ha fatto la soffiata, noi eravamo ancora in Russia. Non fecero nomi, dissero solo che un traditore aveva compromesso l'intero controllo dei traffici qui in città. Parliamo di cifre enormi, capitano. Quattro anni fa Kalinin riuscì a fare carriera nell'organizzazione grazie a…"
Il ragazzo si bloccò improvvisamente.
"Beh, grazie ad alcuni imprese di grande importanza"
Tutti capirono a quali imprese si riferisse.
"Per questo venne nominato responsabile delle attività qui a New York. La faccenda di Savlin ricadeva nel territorio della sua giurisdizione e perciò era compito suo risolvere la faccenda. Ci ha messo più tempo del previsto a identificare chi lo aveva tradito, infatti Savlin era uno dei tanti che svolgeva le solite mansioni e tra l'altro sei mesi fa, proprio durante l'accaduto, Kalinin era da qualche parte in Brasile per sistemare degli affari"
Gregson rifletté per qualche istante.
"Come è possibile allora che Savlin sia venuto a conoscenza di informazioni così importanti?"
"Questo non so dirglielo, però la gente chiacchiera e qualcuno potrebbe aver parlato troppo. In ogni caso questa domanda la deve fare a Kalinin"
Il capitano annuì.
"Eravamo rimasti a sei mesi fa"
"Sì, certo"
Jaroslaw venne di nuovo scosso da un brivido e la mano destra strinse con più forza la ferita. Sherlock lo notò.
"Dunque, come ho detto fu difficile individuare chi fosse il colpevole dato che gran parte della colonia qui a New York era stata catturata. Tre mesi fa, quando arrivammo io, Petrov e Ivanov, la situazione non si era ancora risolta. Fummo inviati qui insieme ad altri con lo scopo di ripristinare il controllo sulla zona. Da allora incontrammo Kalinin solo un paio di volte. Una mattina ci chiamò dicendo che aveva sistemato tutto personalmente e non ci sarebbero più stati problemi: l'operazione per la rinascita del dominio degli Zaytsev poteva cominciare. Immaginammo subito che il traditore doveva essere stato eliminato, ma abbiamo saputo chi era solo quando ci avete portati in centrale"
"Non avevate mai avuto contatti con Savlin?"
"No, mai visto né sentito nominare"
"Sospettiamo che fossero due i presenti al suo omicidio"
"L'altro deve essere Pavel Bogdanov, il braccio destro di Kalinin. Era il quarto uomo che ieri notte è entrato nell'ufficio con noi. Petrov ha sempre detto che è come la sua ombra"
"E l'omicidio di Volkov?"
"Opera di Kalinin anche questa. Da quello che ci aveva riferito avrebbe dovuto ucciderlo in un altro momento, ma venuto a sapere del nostro ritorno in città, aveva iniziato a sguinzagliare i suoi uomini per darci la caccia, così ha anticipato i tempi"
Per circa due ore Jaroslaw rispose alle domande del capitano riguardo la struttura e le attività che il clan svolgeva a New York.
"E questo è tutto, capitano. Quella di ieri notte sarebbe stata la prima grande operazione della nuova era Zaytsev qui  in città, ma dovranno rimandare di nuovo"
Gregson finì di annotare le ultime informazioni sull'agenda.
"Non sai quanto sia preziosa la tua testimonianza, ragazzo mio" disse lui, poggiando la penna sul tavolo. "Ora passiamo a te"
Una smorfia apparve su volto di Jaroslaw.
"Lo so che non sarà piacevole, ma è necessario che il giudice capisca che tu sei estraneo a queste persone, che sei vittima del loro sistema" lo incoraggiò.
Il ragazzo allora fece un respiro profondo e cominciò.
"All'epoca avevo dieci anni. Era un martedì sera come tanti: verso le dieci i miei genitori vennero a rimboccarmi le coperte e a darmi la buonanotte come facevano sempre, poi si coricarono sul divano per guardare la televisione. Quella volta faticai a prendere sonno, così quando verso mezzanotte sentii del trambusto provenire dal salotto al piano di sotto, mi alzai subito per andare a vedere cosa stava succedendo"
Il respiro del ragazzo accelerò.
"Tutto bene?" chiese la dottoressa Allen, che di tutta risposta venne fulminata dallo sguardo di Jaroslaw, che si riprese e continuò.
"Mi sporsi sulla ringhiera delle scale giusto in tempo per vedere un uomo con un gigantesco squalo tatuato sul collo puntare la pistola contro mia madre, mentre gli altri tenevano fermo mio padre, tappandogli la bocca per non farlo urlare. Mi ricordo la scena come se fosse ieri: due spari, precisi come la morte, e il tonfo dei corpi che caddero in terra mentre quegli animali ridevano soddisfatti"
Jaroslaw s'irrigidì.
"Non conoscevo molto di russo, ma fu sufficiente per capire che mi stavano cercando. Scappai nello studio: lì c'era un cassetto chiuso a chiave in cui papà teneva la pistola di servizio. Ero piuttosto bravo a scassinare le serrature, così l'aprii e la tirai fuori. Ogni tanto andavo con lui al poligono di tiro e mi aveva fatto vedere come funzionava. Imparavo in fretta, per cui fu facile controllare se era carica. Mi nascosi in un piccolo spazio tra due mobili, ma fu inutile. Un uomo entrò e si mise a controllare ogni singolo angolo della stanza. Mi trovò, lo urlò agli altri e cercò di afferrarmi, così gli sparai"
I presenti strabuzzarono gli occhi.
"Uscii dal nascondiglio per cercarne un altro, ma sentii degli altri passi dirigersi verso lo studio: non appena il secondo uomo si affacciò alla porta, sparai anche a lui. Decisi che li avrei ammazzati uno ad uno se fosse stato necessario, ma quando provai a colpirne un terzo, premetti a vuoto: avevo finito i colpi. L'uomo si avvicinò e mi colpì al volto talmente forte che pensai di svenire, mi trascinò al piano di sotto con la forza e mi sbatté sul pavimento. Quando mi rialzai vidi i corpi dei miei genitori riversi a terra in una pozza di sangue e Kalinin che con il piede giocherellava con la testa di mio padre. E rideva, quel porco, rideva! Da quel momento decisi che avrei ucciso quell'uomo. A qualsiasi costo"
Lo sguardo di Jaroslaw era infuocato, come se ciò che raccontava stesse accadendo proprio in quel momento.
"Un altro uomo scese le scale e gli disse che gli altri due erano morti. Kalinin allora si avvicinò a me e mi colpì con un calcio, rompendomi due costole. Non piansi e non urlai, continuavo a guardare i corpi senza vita dei miei genitori: sembrava tutto così irreale! Tirò fuori la pistola e me la puntò in fronte. Mi disse che avrebbe dovuto uccidermi, che sarebbe stata la giusta punizione per quello che avevo fatto, però sarebbe stato uno spreco. Disse che avevo lo sguardo furbo, che avevo fegato. I bambini di dieci anni giocano ancora con le macchinine e invece io ero riuscito ad uccidere due uomini. Ero un vero e proprio potenziale assassino. Disse che era strano che uno come me fosse nato da un buono a nulla come mio padre. Gli sputai in faccia"
Il ragazzo si sistemò meglio sulla sedia.
"Mi colpì di nuovo in volto con il calcio della pistola. Mi disse che da quel giorno sarei cambiato, che mi avrebbero insegnato a diventare un vero uomo. Mi avrebbero trasformato in una perfetta macchina da guerra intelligente votata solamente alla loro causa. Avrebbero cancellato tutto ciò che ero. Uno di loro chiese a Kalinin se era sicuro di quello che faceva, perché secondo lui ero troppo grande, ma lui disse che date le mie potenzialità valeva la pena tentare. Mi legarono e mi caricarono sulla loro auto"
Il capitano Gregson lo interruppe.
"Cosa intendeva con troppo grande?"
"E' difficile fare il lavaggio del cervello a chi è troppo avanti in età" si intromise la dottoressa Allen. "Nella maggior parte dei casi abbiamo riscontrato che lasciano in vita i figli delle vittime solo nel caso in cui siano molto piccoli e quindi facilmente manipolabili, oppure come in questo caso in presenza di qualità particolarmente sviluppate"
"Ho capito. Continua pure, Jaroslaw"
I tremori del ragazzo si fecero più frequenti.
"Dopo due ore mi fecero salire su un altro mezzo. Non so per quanto tempo viaggiammo. Arrivammo in un lurido paese di periferia ed entrammo in un vecchio edificio. Kalinin mi disse che quella sarebbe stata la mia scuola di vita per un bel po' di tempo e in effetti ci rimasi per quasi tre anni. Era uno dei tanti covi sparsi per la Russia degli Zaytsev, dentro c'era un gran numero di persone. Mi affidarono a quello che sarebbe diventato il mio supervisore, Andrey Petrov, e cominciò l'inferno. Non volevo cedere, non volevo sottomettermi a loro, e più mi opponevo, più loro mi picchiavano con qualsiasi cosa capitasse a tiro. Catene, fruste o a mani nude: l'importante era che alla fine non fossi stato più in grado di rialzarmi e ribellarmi. Ho passato i primi sei mesi in questo modo, poi un giorno, durante una delle mie punizioni, Petrov si mise a parlare con un altro uomo. Disse che avrebbero trasferito Kalinin a New York e che avrebbe coordinato tutte i traffici della zona: era diventato importante. Capii che non sarei riuscito a vendicarmi in tempo, così rivalutai il mio piano: sarei diventato il migliore, avrei guadagnato la loro fiducia e, a quel punto, lo avrei raggiunto e ucciso. Continuare a ribellarsi non mi avrebbe portato a niente. Decisi che sarei stato al loro gioco, ma non mi avrebbero mai sottomesso alla loro volontà. Mai"

Joan, sull'orlo delle lacrime, si appoggiò inconsciamente a Sherlock, aggrappandosi saldamente al suo braccio, e lui non oppose resistenza.

"Feci le cose gradualmente o si sarebbero insospettiti. Nel giro di due anni ero davvero diventato una macchina da guerra: mi insegnarono a combattere, ad usare le armi, a resistere al dolore e alle pressioni, a rimanere impassibile di fronte a qualsiasi cosa. Ero piuttosto bravo, tanto che riuscivo a portare a termine i lavori più faticosi anche per Jacek, e dopo qualche…"
"Chi è Jacek?" lo interruppe Gregson. "Lo ha nominato anche Kalinin ieri notte, se non sbaglio"
Jarosalw si diede mentalmente dello stupido: si era fatto trascinare dai ricordi e aveva parlato troppo.
"Era il mio compagno di cella"
Il ragazzo liquidò la faccenda in fretta e ricominciò subito il racconto, sperando che non gli venissero chiesti ulteriori chiarimenti.
"Più crescevo e più Petrov mi affidava lavori di responsabilità. Dopo tre anni ormai facevo coppia fissa con lui. Prendevo ancora un sacco di botte, ma si fidava di me. È stato grazie alla mia forza fisica, alle mie doti di osservatore e al mio perfetto accento inglese insegnatomi da mia madre che sono riuscito ad arrivare qui. Sarei stato in grado di confondermi in mezzo agli autoctoni senza problema. La soffiata di Savlin per me è stata una benedizione: appena hanno cominciato a reclutare uomini per New York, hanno pensato immediatamente  me"
Un sorriso di soddisfazione apparve sul suo volto. In fin dei conti si sentiva orgoglioso per il piano che era riuscito ad elaborare e a portare a termine in quegli anni, anche se la conclusione non era andata come si aspettava.
"Quindi per due anni ti hanno,  per così dire, addestrato e per altri due hai svolto mansioni di altro genere, giusto? Di che tipo?"
"All'inizio cose semplici: consegne di pacchi, perlustrazione di zone o cose simili. Poi ho cominciato ad affiancare Petrov nella gestione dei grandi carichi di droga, armi o nello spionaggio di bande rivali"
"Hai mai ucciso qualcuno?" chiese Kent.
Sapeva che era quello il punto a cui volevano arrivare.
"Solo qualche volta, per legittima difesa. Ero comunque un bambino, non prendevo parte a veri e propri attacchi o rapimenti. Diciamo che il passaggio qui a New York mi avrebbe fatto entrare ufficialmente nel mondo dei grandi"
"E quelle poche volte che è successo come ti sei sentito?" chiese la donna.

"Che domanda stupida" mormorò Sherlock, dall'altra parte del vetro

Jarosalw la guardò di traverso.
"Mi dispiace, ero troppo impegnato a portare a casa la pelle per concentrarmi sui miei sentimenti"
Allen sospirò, come una maestra di fronte ad un bambino che continua a fare i capricci.

I tre spettatori nella stanzetta attigua erano senza parole: nessuno di loro aveva mai avuto a che fare con una situazione simile prima d'ora.
"Non so che dire" disse Bell. "Sembra una storia dell'orrore, qualcosa di surreale"
"Hai ragione" commentò Joan, asciugandosi le lacrime con un fazzoletto. "Sherlock, stai bene?"
L'uomo da due ore aveva lo sguardo fisso sul ragazzo, commentando tra sé e sé la situazione. Era maledettamente teso e si limitò ad annuire frettolosamente.
Ad un certo punto il cellulare di Bell squillò.
"Kalinin è pronto in sala interrogatori 2. Vado ad avvisare il capitano, così forse farà riposare un po' il ragazzo"
"Lo spero" commentò Sherlock.

Marcus bussò alla porta e riferì tutto al superiore.
"Molto bene" disse Gregson. "Jaroslaw, che dici se facciamo una pausa? Riprenderemo più tardi"
Il ragazzo non fece neanche in tempo a rispondere.
"Un momento" intervenne la dottoressa Allen. "Non abbiamo finito"
"Non potete continuare dopo?" domandò Bell, piuttosto seccato per questa ostinazione.
"Solo un'ultima cosa" rispose lei.
Jaroslaw intuì che non si trattava di nulla di buono. Aveva visto la donna segnarsi un nome, quel nome.
"Parlami di Jacek"
Lo sapeva che non l'avrebbe scampata. Cercò di stare calmo.
"Ho già detto che era il mio compagno di cella" disse con tono glaciale.
"Hai detto che facevi i lavori pesanti anche per lui. Era un tuo amico quindi"
"E con questo?"
La domanda di Jaroslaw assomigliava piuttosto ad una minaccia.
"Deduco che fosse importante per te. Perché non ne hai più parlato?"
Non rispose.
"Che fine ha fatto?"
Il ragazzo strinse la ferita fino a stritolarsi la spalla. Stava cominciando ad agitarsi.
"E'…è morto" disse con un filo di voce.
Il tono della donna si fece più affabile.
"Ci vuoi dire come è morto?"
Il cuore sembrava voler uscire dal suo petto. Lo sarebbero comunque venuti a sapere da qualcun'altro. Doveva dire la verità. Lo sguardo era di nuovo perso nel vuoto, in balia di un passato che sembrava poter prendere vita nel presente.
"L'ho ucciso io"

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Capitolo 10
*** Il peso della coscienza ***


Nella sala calò il silenzio. Tutti guardavano il ragazzo a bocca aperta, incapaci di dire o fare qualsiasi cosa. Sherlock e Joan, nella stanza a fianco, erano pietrificati davanti al vetro e osservavano la scena, aspettando una spiegazione.
La dottoressa Allen si ricompose immediatamente.
"Puoi spiegarti meglio?" gli chiese, leggermente intimorita.
"Me l'ha chiesto lui"
Gli occhi di Jaroslaw divennero lucidi. Per la prima volta dall'inizio dell'interrogatorio sembrò rivelare il caos emotivo che lo attanagliava.
Bell si avvicinò a lui, poggiandogli con fare affettuoso una mano sulla spalla.
"Ascoltami, ragazzo. Se vuoi che ti aiutiamo, tu devi aiutare noi. Dicci cosa è successo perché uno di quei criminali potrebbe usare questa storia per incastrarti"
Il ragazzo annuì e il detective gli sorrise.

"Bravo, Marcus" commentò piano Joan.

"Jacek arrivò tre mesi dopo di me. Era più grande di due anni, ma ne dimostrava molti di meno. Anche i suoi erano stati uccisi: sua madre era un genio dell'informatica e stava aiutando la polizia ad intercettare un gran numero di comunicazioni legate ai traffici illeciti degli Zaytsev. Si vede che quello era il periodo del regolamento dei conti"
Il giovane si asciugò la fronte con la mano: stava sudando freddo.
"Jacek aveva preso da lei: era una sorta di bambino prodigio, sapeva fare cose formidabili con qualsiasi tipo di dispositivo tecnologico"
Sorrise al ricordo dell'amico.
"C'era solo un problema. Fisicamente era molto esile, piangeva di continuo e non voleva portare a termine i compiti che gli affidavano. Quelli stavano perdendo la pazienza. Dicevano che era bravo, ma non insostituibile, che se non avesse collaborato lo avrebbero ucciso"
Restò in silenzio per qualche minuto.
"Gli dissi che non doveva mollare, che saremmo usciti di lì insieme. Facemmo un patto: io avrei svolto i lavori più faticosi al posto suo, ma lui avrebbe dovuto fare quello che loro gli dicevano, dall'intercettare chiamate al creare virus informatici e quant'altro. Quando sarebbe giunto il momento, avremmo avuto la nostra vendetta"
"E poi cosa è successo?" chiese Allen.
"Un anno fa fece un errore. Non era grave, ma il suo supervisore aveva la luna storta per chissà quale motivo, così lo picchio a sangue. Quando mi raggiunse nella stanza non riuscivo a riconoscerlo: il volto era gonfio e sanguinante. Lui piangeva, diceva che non ce la faceva più. Io cercavo di convincerlo a resistere, ma lui non ne voleva sapere"
Una lacrima rigò il suo volto.
"Ad un certo punto mi chiese se per lui avessi fatto qualsiasi cosa pur di vederlo libero. Io gli risposi di sì, pensando di avergli fatto cambiare idea. La mattina dopo sentii qualcuno urlare. Scesi le scale e raggiunsi il luogo da cui provenivano le grida. Era Jacek: stava imprecando contro l'organizzazione, contro tutto e tutti. Stava sfogando tutto il rancore che aveva serbato dentro di sé per quattro anni, mentre gli altri gli ridevano in faccia. Minacciò di raccontare tutto alla polizia e, a quel punto, Petrov tirò fuori la pistola. Istintivamente gli urlai di fermarsi, accorgendomi troppo tardi dell'errore"

Anche gli occhi di Sherlock divennero lucidi.

"Petrov mi squadrò da capo a piedi. Mi avvicinai a Jacek, lo presi per il colletto e lo sbattei al muro, chiedendogli sottovoce se era impazzito. Lui mi disse che era quello che voleva, che dovevo lasciarlo fare, poi alzò la voce e gridò che dovevo ucciderlo"
Il respiro di Jaroslaw divenne affannoso.
"Gli uomini risero di nuovo e Petrov trovò che fosse un'ottima idea, avrebbe capito se tutti quegli anni di insegnamenti erano serviti o ero diventato un vigliacco. Diedi dello stupido a Jacek e dissi che non l'avrei mai fatto, ma lui mi ricordò che gliel'avevo promesso la sera prima e, se non l'avessi fatto, avrei perso la fiducia degli altri e non sarei mai riuscito a portare a termine il mio piano. Mi disse di non preoccuparsi, che preferiva morire piuttosto che passare un altro giorno in quell'inferno"
Le lacrime divennero un pianto silenzioso.
"Petrov mi disse di muovermi o ci avrebbe pensato lui. Jacek allora mi pregò di nuovo di farlo: era un amico l'ultima cosa che voleva vedere quando se ne sarebbe andato. Mi disse che per nulla al mondo avrei dovuto avere rimorsi e avere pesi sulla coscienza: lo stavo facendo per il suo bene"
La dottoressa Allen provò a stringere la mano destra del ragazzo, ma invano. Egli la ritirò bruscamente: si rese improvvisamente conto che si era esposto troppo e ritornò a nascondersi dentro la sua fortezza di imperturbabilità.
"Presi la pistola che mi stava porgendo Petrov. L'ultima cosa che Jacek mi disse fu un grazie, il più sincero che io abbia mai sentito in vita mia. Gli sparai. Morì all'istante, sorridendo e guardandomi negli occhi, con la mano stretta alla mia"
Digrignò i denti.
"Grazie a questa stupida idea,venni promosso. Non ero più un bambino, ora ero uno di loro a tutti gli effetti. È grazie a Jacek se ora sono qui"
Il racconto del giovane aveva sconvolto gli animi dei presenti. Bell e Gregson ascoltavano in silenzio a bocca aperta. Joan cercava di controllarsi, ma le lacrime scendevano spontanee. La preoccupava molto anche Sherlock, che osservava la scena senza dire una parola: era troppo calmo per i suoi gusti. I due inviati dei servizi sociali ostentavano una falso distacco da ciò che avevano sentito, cercando di far prevalere la loro professionalità.
"Ti sei mai sentito in colpa per quello che hai fatto?" chiese la dottoressa.
"Che razza di domanda è?!" le disse seccato.
"Rispondi"
Odiava, odiava a morte quella situazione. Non era mai stato incline a mostrare al mondo i suoi sentimenti, figuriamoci dopo quei cinque anni trascorsi ad imparare a diventare  freddo come un blocco di marmo. Non proferì parola.
"Non rispondi nulla? Allora vuol dire che non è così" continuò Kent. "Forse per te è stata una liberazione, un peso in meno da affrontare in quella situazione già difficile di per sé"
A quelle parole lo sguardo di Jaroslaw si fece minaccioso e fulminò l'uomo con un'occhiata. Gregson lo notò, ma prima che potesse dire qualcosa Allen gli fece segno di lasciarli continuare.
"Non doveva dirlo. Non doveva assolutamente dirlo" mormorò Sherlock dall'altra parte del vetro, intuendo quello che sarebbe stato lo sviluppo della faccenda.

"Che cosa hai detto?"
Il tono di voce del ragazzo fece venire i brividi a Joan.
"Nessuno ti giudica per questo. Immagino fosse complicato anche solo pensare alla tua sopravvivenza, quindi dover badare anche a un ragazzo debole come Jacek…"
L'uomo non fece in tempo a finire la frase. Jaroslaw si alzò di scatto e, alla velocità della luce, incurante della ferita, afferrò con il braccio sinistro il colletto della camicia di Kent, che sedeva al lato destro del tavolo. Lo alzò di peso e lo sbatté contro il vetro, con il pugno destro già pronto a scattare. Di fronte all'altezza e ai muscoli del giovane, Kent sembrava un bambino, che cercava invano di toccare il suolo con le punte dei piedi.
"Che ti salta in mente?! Lascialo andare!" gridò Allen, cercando di afferrarlo.
"Non ti avvicinare!" la minacciò Jaroslaw, con tanta decisione da farla arretrare con una sola occhiata.
"Jacek non era un debole, hai capito?! Non era un debole!"
Cominciò a tremare.
"Quei bastardi gli dicevano la stessa cosa e tu non capisci niente esattamente come loro! Jacek ha avuto il coraggio di opporsi a quello schifo, ha avuto il coraggio di scegliere di morire piuttosto che dargliela vinta!"
Più gridava e più stringeva la presa.
"Vuoi sapere se mi sono sentito in colpa? Bene, la risposta è sì! Tutti i santi giorni, tutte le ore, ogni secondo mi sento schifosamente in colpa per quello che ho fatto. Gli avevo promesso che l'avrei portato fuori di lì, che avrei vendicato l'assassinio dei nostri genitori e poi avremmo cominciato una nuova vita, lasciandoci quella merda alle spalle!"
Joan poteva vedere gli occhi iniettati di sangue del ragazzo, ad un passo dal perdere completamente il controllo.
"No, Jacek non era un debole e se ti azzardi ancora a definirlo così ti faccio a pezzi fino a renderti irriconoscibile! Hai capito?!"
Il pugno sembrava ad un passo dall'essere sferrato, ma Bell lo afferrò da dietro.
"Sta' buono, Jaroslaw. Buono"
Dopo qualche secondo mollò Kent, completamente impallidito dalla paura, e fece qualche passo indietro, senza perderlo di vista.
Il capitano Gregson, preoccupato dalla possibile reazione dell'uomo ed Allen, non perse tempo.
"Basta così, adesso ci fermiamo e continuiamo dopo" e li spinse verso l'uscita.

"Non ci voleva! Questo complica e non poco la situazione!" mormorò Joan.
Holmes non disse nulla, continuava a guardare davanti a sé attraverso il vetro.
"Mi dici che ti prende? È da due ore che parli tra te e te! Ormai ti conosco, sputa il rospo!"
Sherlock sospirò.
"Watson, ti devo chiedere una cosa"
La donna si avvicinò a lui.
"Certo, dimmi pure"
"Ti avevo già accennato al fatto che avrei voluto la custodia del ragazzo, per crescerlo, aiutarlo e…"
La donna gli afferrò affettuosamente il braccio e gli sorrise.
"Certo! E sai anche che io condivido in pieno la tua idea!"
"Sì, ma c'è di più"
Dall'espressione dell'uomo capì che non si trattava di qualcosa di buono.
"Te la senti di riprendere con Jaroslaw ciò che hai svolto mesi fa con me? Intendo il tuo lavoro di assistente post riabilitazione"
Ci volle qualche secondo perché Joan realizzasse cosa le aveva appena chiesto l'amico.
"Vuoi dire che…ma ne sei sicuro?"
"Il ragazzo è bravo, ma non ancora abbastanza per sfuggire a me" rispose Holmes. "E' da quando è in quella stanza che ho notato frequenti tremori e, quando si fanno più intensi, preme sulla ferita, fingendo di sorreggere il braccio. È una tecnica che si usa in caso di astinenza: il dolore attira l'attenzione su altro e, nel contempo, rilascia endorfine che fungono da antidolorifico naturale. Ma queste cose le sai meglio di me"
La donna lo guardò attraverso il vetro: possibile che non se ne fosse accorta?
"Non te la prendere" le disse lui, come se le avesse letto nella mente. "Il suo racconto ti ha distratta e probabilmente pensavi che i tremori, il sudore e tutto il resto fossero causati dal suo nervosismo. Comunque non mi hai ancora risposto"
Joan lo fece senza neanche distogliere lo sguardo da Jaroslaw.
"Farò tutto il possibile per aiutarlo, a costo di chiuderlo in una stanza per mesi"
Più lo guardava e più in lui vedeva Sherlock. Se avesse salvato lui, avrebbe salvato entrambi.
"Dobbiamo parlare con lui" disse l'uomo, uscendo dalla stanza.
Appena varcò la soglia, incrociò il capitano e i due assistenti, che lasciavano la sala interrogatori.
"Complimenti, davvero un bel lavoro!" commentò Sherlock senza riuscire a trattenersi, non appena Kent e Allen furono vicini. "Voi sì che sapete come trattare questo genere di situazioni"
Joan tirò una gomitata all'amico: l'ultima cosa di cui avevano bisogno era discutere con quei due.
"Sta' zitto, Holmes!" mormorò Gregson, mentre invitò gli altri a servirsi un caffè altrove. "Cercavo proprio voi. Perché non andate a fare due chiacchiere con il ragazzo?"
"Volevamo chiederti esattamente la stessa cosa"
"Bene, allora cercate di farlo ragionare! Si sta mettendo i bastoni fra le ruote da solo! Dirò ad un agente di aspettare fuori, così quando avrete finito lo porterà in una stanza dove potrà riposarsi fino a quando non riprenderemo"
"Quando inizia l'interrogatorio di Kalinin?" chiese Holmes.
"Tra mezz'ora circa. Sarebbe meglio che almeno uno di voi due fosse presente"
I due annuirono ed entrarono nella sala interrogatori. Il ragazzo era in piedi, con la fronte e il braccio destro appoggiati al muro. Quando Bell li vide, salutò il ragazzo e si avviò verso l'uscita.
Jaroslaw era ancora visibilmente scosso. Ogni respiro era accompagnato da ampi movimenti della schiena, come un corridore in affanno che ha appena concluso la gara; i muscoli erano tesi e le nocche del pugno erano bianche, talmente grande era la forza con cui stringeva. Ci vollero dieci minuti prima che si calmasse. Sherlock prese allora la parola.
"Da quanto tempo?"
Il ragazzo emise una leggera risata stanca.
"Lo sapevo che prima o poi mi avresti scoperto" disse lui senza voltarsi. "Un anno, più o meno, da quando Jacek…"
Non riuscì a finire la frase.
"Quanto?"
"All'inizio solo qualche volta, poi sempre di più man mano che si avvicinava il giorno in cui avrei incontrato Kalinin"
"Eroina?"
"Per la maggior parte sì. Mi aiutava a pensare meno a quello che avevo fatto e a quello che dovevo fare, rendeva tutto così semplice"
"E' per quello che non volevi parlare con Kent e la dottoressa Allen?" gli chiese Watson.
"Anche per questo. Se quelli lo scoprono oltre al riformatorio mi becco anche chissà quale clinica per la disintossicazione"
Sherlock si avvicinò a lui.
"No, non succederà"
Jaroslaw sollevò il viso e lo guardò, sorridendo ironicamente.
"Non succederà? Avanti Sherlock, sii realista! Non ho una sola chance di uscire illeso da questa storia! È già tanto se riesco ad evitare la galera!"
L'uomo afferrò con le sue grandi mani il volto del ragazzo, obbligandolo a guardarlo negli occhi.
"Non pensarci neanche, hai capito? Insieme risolveremo questa storia una volta per tutte, ma tu devi collaborare, ok?"
Il tono di Sherlock non ammetteva repliche.
"Se vorrai potrai venire ad abitare con me e Watson. Potrai vivere una vita normale e ti aiuteremo per qualsiasi cosa. Ti insegnerò a controllare le tue capacità, perché so bene che sono un'arma a doppio taglio, ma soprattutto ti faremo uscire dalla dipendenza"
La voce di Holmes si fece più dolce.
"So come ci si sente, so quanto è dura perché ci sono passato anche io. Se ora sono qui è solo grazie a Watson"
"Faremo qualsiasi cosa sia necessaria" gli disse affettuosamente la donna.
"Non me lo merito, Sherlock!" ribatté lui. "Ho fatto cose spregevoli, ho ucciso della gente, non voglio scatenare altri casini, tanto meno a voi!"
Holmes sorrise.
"Jaroslaw, molto probabilmente sei tu la soluzione al mio caos"
Quel giovane era il suo riflesso, lo specchio della sua anima. Aiutarlo a rimettere in piedi la sua vita lo avrebbe aiutato anche a rimettere in sesto la sua.
"Mi piacerebbe davvero, ma ho paura che il casino lo abbia già combinato con quei due assistenti. Sarà impossibile convincerli"
"Questo è da vedere. Parlerò con Gregson e sono sicuro che il curriculum di Watson aiuterà senz'altro! Tu però devi dire loro la verità"
"Ma non credo se ne siano accorti"
"Forse hai ragione, ma ho esperienza in questo campo. La domanda sull'uso di droghe è un obbligo. Se mentirai lo verranno a sapere, perché i sintomi dell'astinenza si faranno più evidenti. A quel punto sarà davvero difficile cercare di persuaderli" spiegò Joan.
Jaroslaw non sembrava convinto.
"Ascolta, di' loro la verità e cerca di mantenere la calma, niente aggressioni avventate o scatti d'ira. Lo so che quei due sono odiosi, ma non puoi fare altrimenti. Se questo non bastasse, allora useremo le maniere forti" continuò Holmes.
Quest'ultima affermazione lasciò di stucco la donna: non sapere cosa intendesse l'amico per maniere forti la preoccupava.
"Bene, ha detto il capitano Gregson che ti hanno riservato una stanza per riposarti"
"Rimango io con lui, gli controllo la ferita e gli faccio cambiare la maglia, almeno evita la vista del sangue" disse Joan.
"Assicurati che si riposi" rispose Sherlock, e si avviò verso la sala dove sarebbe stato interrogato Kalinin, pronto a fargliela pagare per tutto il male che aveva provocato.

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Capitolo 11
*** L'unica soluzione ***


L'uomo scoppiò a ridere. Era una risata malvagia,tipica di chi si sta prendendo gioco delle persone e non fa nulla per nasconderlo.
Era passata più di un'ora da quando l'avevano rinchiuso in quella stanzetta, in compagnia di un poliziotto e di quello che doveva essere il suo capo. Un quarto uomo stava seduto ad un angolo della stanza: era quello che aveva parlato a Jaroslaw quando aveva cercato di ucciderlo, ma non sembrava un agente come gli altri. Non ci fece caso.
"Vi ho già detto che non so e non vi dirò niente" disse Kalinin, sicuro di sé.
"Questo lo abbiamo capito" rispose calmo Gregson. "Ma non c'è bisogno della tua testimonianza per il fatto che ti abbiamo colto in flagrante mentre dirigevi i tuoi traffici di droga. In ogni caso, una bella vacanza di prigione non te la toglie nessuno"
L'uomo rise di nuovo.
"Sai che novità? Non è la prima volta che succede, sarò fuori prima ancora che possiate rendervene conto"
"Può darsi" continuò il capitano. "Ma sono sicuro andrà diversamente se aggiungiamo anche l'accusa di omicidio ai danni di Igor Savlin ed Evgeniy Volkov"
"Non avete niente in mano!" sbottò Kalinin. "Se aveste le prove, non ci girereste intorno per estorcermi una confessione!"
Sherlock si alzò dalla sedia, emergendo dall'angolo buio della stanza, e si avvicinò al tavolo.
"Avete sentito? Vuole le prove"
Il capitano Gregson si girò e fece un segno d'assenso ad Holmes.
"Non ci stavamo girando intorno. Ti stavamo dando la possibilità di collaborare, magari invece dell'isolamento ti avrebbero riservato un posto in una topaia migliore" spiegò Bell, con un sorrisetto dipinto in volto. "Devo confessare che però è meglio così. Prego, Holmes!"
Sherlock si avvicinò al criminale, annusando i suoi vestiti.
"Che cosa fa? È impazzito?" si lamentò lui.
"Eccolo! Esattamente quell'odore!" disse il detective. "L'odore di quella particolare marca di sigarette trovata sui luoghi del delitto. Inoltre ti ho visto firmare delle carte: sei mancino esattamente come il nostro killer"
"Già, come se fossi l'unico macino a fumare quelle sigarette in tutta New York"
"C'è di più. La tua macchina è sporca, e sai di cosa? Di quella polvere che ha raccolto lungo il sentiero che portava al primo luogo del delitto. La scientifica è già al lavoro per analizzarla"
"Le vostre sono solo ipotesi molto fantasiose!"
"Lasciami finire. Il secondo omicidio è avvenuto da una grande distanza. Per sparare da quel tetto avrai avuto bisogno di un fucile di precisione, piuttosto costoso. Non penso che tu sia stato tanto stupido da buttarlo, ma penso che data la tua presunzione e sicurezza non ti sia neanche scomodato per nasconderlo"
L'espressione di Kalinin rivelò per la prima volta un velo di paura.
"Ci hanno già fornito un elenco di possibili nascondigli in cui ti eri accampato durante questi mesi. In ogni caso sono convinto che, di fronte ad un possibile sconto di pena, qualcuno prima o poi parlerà"
Il criminale si ricompose.
"Queste non sono prove! Non troverete un bel niente!"
"Ah, quasi dimenticavo" disse Gregson. "In realtà abbiamo un'altra accusa di duplice omicidio nei tuoi confronti. Se davvero non troveremo niente, sei comunque in arresto per l'omicidio di Benedykt e Helen Jankowski"
L'uomo sbiancò.
"Davvero credete a quel piccoletto? È stato lui a convincervi vero? Il caso era stato chiuso!"
"E noi allora lo riapriamo" rispose il capitano.
"Non potete farlo!"
"Invece sì, e con le nuove prove finirai in galera per il resto della sua miserabile vita" gli disse Bell.
"Tutto questo solo perché un ragazzino delirante mi accusa? Siete solamente dei buffoni, nessuno vi crederà!"
"Davvero?" disse Gregson. "Veramente le giurie tendono a simpatizzare con quelli che tu chiami ragazzini deliranti"
Kalinin si alzò di scatto dalla sedia.
"Non proverete un bel niente! Quel maledetto figlio di…"
Non fece neanche in tempo a finire la frase che Sherlock si avventò su di lui e lo colpì direttamente sul naso, già rottogli da Jaroslaw la notte prima, frantumandogli la medicazione. I due poliziotti non dissero nulla, ignorando le richieste di aiuto di Kalinin, già ricoperto di sangue.
"La pagherai" gli disse gelidamente Sherlock. "La pagherai cara per tutto quello che hai fatto"

"Avete finito? Com'è andata?" chiese la donna.
La stanzetta, in cui solitamente si riposavano i poliziotti del turno di notte nelle pause, era scarsamente illuminata da una piccola lampada poggiata su un tavolino. Accanto ad esso, era ammucchiata una pila di riviste e giornali, mentre sulla parete era appeso un piccolo televisore. Joan era seduta su una poltrona e accarezzava affettuosamente il capo di Jaroslaw, addormentato sulla branda lì vicino.
"In realtà abbiamo finito circa due ore fa" disse piano Sherlock, per non svegliarlo. "Ho consigliato al capitano di non avvisare subito i due dei servizi sociali così il ragazzo avrebbe potuto riposare un po' di più"
"Ha confessato?"
"No, era prevedibile. In ogni caso la testimonianza di Jaroslaw e di tutti quelli che pian piano cederanno è la nostra arma vincente. Non la passerà liscia" le rispose soddisfatto. "Lui come sta?"
"Si è addormentato praticamente subito, ma ha il sonno agitato"
Prese un fazzoletto imbevuto d'acqua fredda e glielo appoggiò sulla fronte.
"Gli sta salendo anche un po' di febbre"
"Immagino sia un altro sintomo legato all'astinenza" affermò Sherlock, piuttosto pensieroso.
"Sì, probabilmente hai ragione"
Qualcuno bussò alla porta: Bell fece capolino nella stanza.
"Ragazzi, aspettano Jaroslaw in sala interrogatori" disse piano.
"Avrebbe bisogno di riposare" provò a insistere Joan.
"Lo so, ma la coppietta si sta scaldando. Hanno detto che se non cominciamo ad essere più  collaborativi ci toglieranno la sua custodia e faranno passare il caso ad altri"
"Provvederemo subito a svegliarlo" lo rassicurò Holmes.
"Bene, aspetto qui fuori"
Il detective richiuse la porta alle sue spalle.
"Spero tu non ti sia portato dietro un gallo o la tua solita tromba"
Sherlock la guardò con disappunto.
"Sta' tranquilla, Watson. Non perderai il privilegio esclusivo di poter essere svegliata in quei modi"
La donna sorrise divertita. Holmes si avvicinò a Jaroslaw e cominciò a scuoterlo con delicatezza.
"E' ora di alzarsi, ragazzo" gridò lui.
I risultati furono scarsi: apparve una leggera smorfia sul suo volto e si limitò a girarsi dall'altra parte. Watson non riuscì a trattenere una risata.
"Non sei molto bravo a svegliare le persone in modo convenzionale, eh?"
"Sì, certo. Molto divertente. Perché non ci provi tu?"
La donna si avvicinò al ragazzo.
"Jaroslaw, devi svegliarti" sussurrò lei, accarezzandogli la schiena. "Ancora un ultimo sforzo e poi per oggi abbiamo finito. Dopo potrai riposarti"
Gli occhi del giovane cominciarono ad aprirsi faticosamente. Si sfregò il volto con una mano: l'espressione era stanca e i due detective si sentirono in colpa per averlo disturbato. In tre giorni aveva dormito sì e no per cinque ore.
"Visto? Non era poi così difficile"
Sherlock la fulminò con lo sguardo.
"Devo tornare da quei due, vero?" chiese il ragazzo, ancora frastornato dal brusco risveglio.
L'uomo annuì.
"Sai già quale sarà il prossimo argomento della chiacchierata" gli disse serio. "Ti senti pronto?"
"Non ho alternative" e sorrise amaramente. "Pensate ancora che dovrei dire la verità?"
"I brividi e la sudorazione sono aumentati, non riesci a reggerti in piedi dal mal di testa e ti sta salendo la temperatura" lo informò Joan. "Non sei più  in grado di nascondere i sintomi dell'astinenza come hai fatto prima. Anche se riuscissi a farla passare per un'influenza, tra qualche giorno la bugia verrebbe a galla"
Lo sguardo del giovane lasciava trasparire più sconforto di quanto lui volesse mostrare.
"Quei due sono odiosi, ma non stupidi" continuò Sherlock. "Ma non riescono a vedere le cose a fondo come fai tu"
L'uomo lo guardò, gli sorrise e d'improvviso il giovane sembrò riprendere energia. Watson non capì: pareva che i due comunicassero su una frequenza inaccessibile agli altri, quasi telepaticamente.
"Sai cosa devi fare"
Jaroslaw annuì deciso.
"Bene, allora andiamo! Ti stanno aspettando!"
Il ragazzo fece per alzarsi, ma la testa cominciò a girargli vorticosamente. I due riuscirono ad afferrarlo prima che cadesse.
"Per quanto tempo sarò in questo stato?"
"Una cosa alla volta. A questo penseremo dopo" gli rispose l'uomo.

Per un'altra ora abbondante l'interrogatorio procedette sulla falsa riga di quello della mattinata. Man mano che i minuti passavano, le condizioni di Jaroslaw peggioravano e il fatto non passò inosservato.
"Non mi sembra che tu stia molto bene" affermò improvvisamente Kent.
Il ragazzo dovette morsicarsi la lingua per non rispondere a tono: come poteva stare bene con un buco nella spalla? Pregò che non volessero approfondire la questione.
La dottoressa Allen lo osservò un momento, si alzò dalla sedia e si avvicinò al ragazzo.
"Scotti" disse appoggiandogli la mano sulla fronte.
Scrutò il giovane per qualche secondo, asciugandogli il viso imperlato di sudore con un fazzoletto. Jaroslaw, completamente immobile, aveva lo sguardo corrucciato: l'atteggiamento della donna lo stava innervosendo. Sentiva i suoi occhi puntati su di lui e cercò in tutti i modi di evitare il contatto visivo.
La donna sospirò rassegnata e tornò alla sua postazione, tra Kent e Gregson.
"Devo chiedertelo, Jaroslaw" disse lei. "Hai mai fatto uso di droghe?"
Ecco la domanda fatidica, non aveva più vie d'uscita. Guardò il pannello di vetro che stava di fronte a lui: non lo vedeva, ma sapeva che al di là di esso Sherlock lo stava incitando a rispondere.
"Sono anni che lavoro in questo campo" continuò Allen. "E questo è lo stato in cui di solito trovo i miei pazienti quando stanno attraversando una crisi d'astinenza"
Beccato. Il ragazzo annuì.
Date le precedenti reazioni, Kent e Allen si sorpresero della facilità con cui erano riusciti a fargli ammettere la sua dipendenza. Gregson, però, intuì che in questa facilità c'era lo zampino di un uomo che conosceva molto bene e della sua fidata socia.
"Perché non ne parliamo un po'?"
Molto riluttante all'idea, Jaroslaw cominciò a ripetere molto sinteticamente ciò che aveva già detto a Sherlock e Joan. Era uno di quei tanti aspetti della sua vita di cui non andava assolutamente fiero e odiava a morte parlarne.
"Chi e come faceva a fornirti l'eroina?"
Ennesima domanda stupida da parte di Kent: questa volta il giovane non riuscì a trattenersi.
"Lo sa che è come se stesse chiedendo al figlio di un fornaio come ha fatto a procurasi del pane?"
Gregson lo fulminò con lo sguardo ed egli capì che non poteva permettersi di perdere il controllo un'altra volta. Sospirò e rispose alla domanda.
"In quell'ambiente gira continuamente droga, è uno dei traffici più redditizi degli Zaytsev. Parte dei compensi in denaro che ti spettano li puoi convertire in sostanze. Anzi, di solito la danno ai ragazzi che cominciano con le prime missioni vere e proprie, così la paura svanisce magicamente"
"E' così che hai iniziato?"
"Esatto"
Seguì qualche minuto di silenzio, dopodiché i due assistenti sociali si guardarono e si fecero un cenno d'intesa. Jaroslaw capì che non si trattava di niente di buono.
"Date le circostanze, immagino tu capisca che questo fatto ha la precedenza" affermò Kent. "E' necessario risolvere subito il tuo problema di dipendenza prima che possa peggiorare ulteriormente e, da quel che vedo, è già abbastanza grave"
"E' solo un po' di mal di testa, niente di così ingestibile" provò a controbattere il ragazzo.
"Questo saranno gli esperti a stabilirlo" replicò severo l'uomo. "Da anni collaboriamo con un'ottima struttura in cui opera anche la dottoressa Allen. I risultati ottenuti dai nostri pazienti sono sempre stati molto positivi"
"Esatto" continuò la psicologa. "Troverai coetanei con esperienze simili alla tua e potrete supportarvi a vicenda! Condividere consigli, paure e difficoltà renderà più efficace il cammino verso la sobrietà"
Il ragazzo roteò gli occhi in segno d'impazienza. Il mal di testa si faceva sempre più sentire e il suo livello di sopportazione diminuiva.
"Lo so che sei preoccupato, ma là ci saranno persone gentili e disponibili pronte ad aiutarti in ogni momento di bisogno"
"Io non sono preoccupato e soprattutto non ho bisogno di nessuno"
Il tono di voce era tornato ad essere freddo e deciso come quello della mattina.
"Non agitarti" cercò di calmarlo lei. "Tutte le persone soggette ad una dipendenza pensano di avere la situazione sotto controllo fino a quando qualcuno glielo fa notare. Ora siamo noi che te lo diciamo e devi fidarti: hai bisogno di aiuto"
"Posso farcela benissimo da solo" disse il giovane con un tono che non ammetteva repliche.
La dottoressa sospirò.
"La tua reazione era più che prevedibile " disse Allen con tono dolce, facendolo innervosire ancora di più. "Contatteremo la struttura oggi stesso e organizzeremo un incontro per stabilire le fasi del tuo percorso"
"No"
La dottoressa continuò a scrivere sul suo taccuino sorridendo calma, senza dargli ascolto.
"Mi sembra un tantino affrettata come soluzione" provò ad obbiettare Gregson. "Se permette la polizia avrebbe bisogno di un po' di tempo per valutare la situazione"
"Capisco, ma questo problema va affrontato il prima possibile, ne va della salute del ragazzo. Voi fate pure le vostre valutazioni, noi intanto portiamo avanti il lavoro"
Il capitano vide la situazione sfuggire dal suo controllo. Aveva le mani legate e non sapeva ancora per quanto tempo Jaroslaw sarebbe rimasto calmo. Si girò verso il pannello di vetro e, furtivamente, fece un cenno a Watson e Sherlock: aveva bisogno di un pretesto per finire quel colloquio prima che le cose degenerassero. Sperò che avessero recepito il messaggio.
"Io non andrò proprio da nessuna parte"
Il ragazzo non aveva nessuna intenzione di mollare.
"Ti ho già detto che è normale reagire così. Vedrai che quando sarai là ti aiuteranno a…"
"E io le ho già detto che non ho bisogno di niente e di nessuno!" gridò lui, alzandosi dalla sedia.
La vista gli si annebbiò: di nuovo il giramento di testa. Si appoggiò al tavolo e serrò gli occhi più forte che poteva per allontanare il dolore. Non poteva mostrarsi debole, non in quel momento.
Un secondo dopo si sentì bussare alla porta.
"Capitano, posso entrare?"
Gregson tirò un sospiro di sollievo.
"Certo, Joan. Entra pure" le disse con uno sguardo colmo di gratitudine.
"Non vorrei intromettermi, ma il ragazzo non mi sembra nelle condizioni di continuare. Tra la ferita alla spalla e i sintomi dell'astinenza ha un assoluto bisogno di riposo. Per oggi credo abbia fatto abbastanza"
"Scusi, ma lei chi è?" la interruppe Kent, piuttosto scocciato.
"Signori, vi presento la dottoressa Watson" rispose Gregson, prima che la donna potesse aprire bocca. "Vi ho già parlato di lei questa mattina. Anche lei ha discrete conoscenze in questo campo"
I due la guardarono con sospetto.
"Lungi da me il voler mettere in discussione l'autorevole parere della dottoressa" disse Allen. "Ma credo che se il ragazzo si calmasse potrebbe continuare ancora per un po' "
"Io invece credo che sarebbe meglio rimandare tutto a domani" replicò Joan, cercando di non sembrare scortese. Quei due avevano un non so ché che le dava sui nervi, sebbene anche lei avesse lavorato in quel campo e sapeva quanto a volte bisognasse essere inflessibili.
"E io mi fido di lei" concluse il capitano. "Come ha detto lei, dottoressa Allen, ne va della salute del ragazzo"
I due assistenti sociali accettarono la decisione riluttanti.
Gregson chiamò Bell attraverso il vetro e accompagnò Jaroslaw alla porta, aiutato da Joan.
"Grazie. Un secondo di più e avrei combinato un altro casino" mormorò.
"Sei stato bravo. Hai tenuto i nervi saldi più che potevi" gli disse Sherlock, che lo aspettava nel corridoio insieme a Marcus. "Ora potrai riposarti come si deve fino a domani. Ti accompagniamo noi"
"Voi non andate da nessuna parte" obbiettò Allen, appena uscita dalla stanza. "Preferirei che fossimo noi ad accompagnarlo"
"Come prego?" chiese l'uomo, visibilmente irritato.
"Lei è il signor Holmes, vero? So che lei e Watson siete stati molto preziosi per le indagini, ma ora dovreste farvi da parte"
"Dottoressa Allen, le assicuro che i nostri colleghi non potranno che facilitare anche il suo compito" cercò di convincerla Gregson.
"Capitano, mi vuole spiegare come mai ho la sensazione che la sua intera squadra mi stia remando contro?"
Il poliziotto ebbe un impercettibile attimo di esitazione.
"Forse mi sbaglierò, ma credo che alcuni suoi agenti abbiano preso questa faccenda sul personale"
"Le assicuro che la sua sensazione è del tutto errata"
"Lo spero bene. È inutile ricordarle quanto il giudice tenga in considerazione la nostra valutazione" rispose lei con espressione di sfida. "Vorrei che almeno fino a domani i suoi collaboratori non interferissero"
"Lasciate almeno che gli dia un'occhiata" disse Joan.
"Da quello che mi risulta la ferita alla spalla è stata controllata un paio d'ore fa"
"Sì, ma la febbre…"
"La febbre è un normalissimo sintomo dell'astinenza. Ne ho viste a decine di casi come questi. Potrà visitarlo di nuovo domattina" rispose Allen, che stava perdendo la pazienza. "Per stanotte basterà un normale antipiretico. Guai a voi se scopro che gli avete somministrato più antidolorifici di quanto gli serva"
"Evidentemente questa signora non sa cosa si provi ad avere un foro di proiettile nella spalla, vero?" ringhiò Sherlock.
"No, ma so che un antidolorifico non farà altro che peggiorare la sua dipendenza"
"Potrà cominciare la disintossicazione una volta che si sarà ristabilito"
"Non è lei a dettare le regole, signor Holmes!"
Era ad un passo dal replicare nuovamente, quando sentì una mano che lo tirava.
"Lascia perdere" bisbigliò Jaroslaw. "Sto bene, sta' tranquillo"
Dopo qualche secondo il volto di Sherlock si rilassò.
"E va bene, allora staremo alle sue regole"
Sul volto della donna si dipinse un sorriso di soddisfazione.
"Vedo che cominciate a ragionare. Detective Bell, ci faccia strada per favore. A domattina, signori"
Non appena il gruppetto si fu allontanato, Holmes sfogò la sua frustrazione contro una sedia lì vicino.
"Quei due non mi stanno simpatici, ma su una cosa hanno ragione: questa indagine è diventata un fatto molto personale per voi"
Gregson non poteva certo nascondere una tale evidenza, che gli piacesse o meno. Sherlock non disse nulla e cominciò a camminare nervosamente per il corridoio, quando il capitano lo braccò.
"Lo so che vi siete affezionati. Tutti quanti vogliamo tirare fuori il ragazzo da questa situazione" bisbigliò lui, spostando lo sguardo dall'uomo a Joan. "Ho capito che avete in mente qualcosa, ma se non ce ne parlate rischiamo di mandare tutto all'aria"
Sherlock abbassò lo sguardo.
"Ottimo osservatore. Va bene, ti diremo tutto"

"Eccoci qua. Non è certamente la suite di un albergo a cinque stelle, ma almeno è abitabile"
Il detective fece entrare Jaroslaw nella cella che solitamente ospitava delinquenti minori che dovevano scontare una sola notte di reclusione. Su ordine di Gregson era stata ripulita, vi era stata aggiunta una branda, un tavolino, un paio di sedie e il piccolissimo bagno ad essa annesso era in uno stato decoroso rispetto al solito. Era delimitata da una grata simile ad una gigantesca inferriata.
"Andrà benissimo" lo ringraziò con un sorriso.
"Tra poco ti faremo portare da mangiare e i farmaci che devi prendere" gli disse Kent cercando di apparire amichevole.
Il sorriso di Jaroslaw sparì in un attimo.
"Non ho fame"
"Devi mangiare" aggiunse. "Hai bisogno di recuperare le forze"
"Sto benissimo"
"Non dire stupidaggini!"
Bell prese in mano la situazione.
"Senta, le assicuro che gli porteremo del cibo. Mangerà quando avrà fame" disse perentoriamente. "Ora, se non vi dispiace, dobbiamo chiudere"
"Bene, allora ci vediamo domani" rispose Allen, cercando invano di nascondere il suo disappunto.
Appena i due si furono allontanati, Jaroslaw si sedette sulla branda, tirando un sospiro di sollievo.
"Ti fa male?" chiese Marcus, indicando la spalla.
"Ho passato di peggio" rispose lui. "A proposito, non l'ho ancora ringraziata. Se non fosse stato per lei, oggi avrei combinato più casini di quelli che ero già riuscito a scatenare"
L'uomo rise e si sedette accanto a lui.
"Ti prego, chiamami Marcus. Veramente sono io che devo ringraziare te. Mi hai salvato la vita nel magazzino"
"Non sarebbe stato necessario se non vi avessi trascinati in questa situazione"
"Hey, guarda che grazie a te incastreremo una marea di persone che non saremmo mai riusciti a prendere! E poi avevi le tue buone ragioni per comportarti in quel modo"
Un velo di tristezza coprì il volto del ragazzo.
"Probabilmente anche io mi sarei comportato come te, anche se non credo che sarei mai stato tanto forte quanto lo sei stato tu per tutti questi anni" continuò. "Ma sappi che ieri notte hai fatto la cosa giusta. Siamo fieri di te"
Bell si alzò dalla branda.
"Josh, vieni qui!"
L'uomo afroamericano seduto nel piccolo ufficio di fronte alla cella li raggiunse e il detective gli cinse le spalle con un braccio.
"Jaroslaw, lui è Josh. Per qualsiasi cosa fagli un fischio, ok? E se non si comporta bene, domani me lo dici che ci penso io a sistemarlo"
Il ragazzo rise: il sorriso di quell'uomo era caldo e amichevole e, in un certo senso, gli dava sicurezza.
"Davvero, giovanotto. Se hai bisogno o se vuoi fare due chiacchiere io sono a un metro dalla porta. Non devi fare altro che chiamarmi" e gli strofinò il capo affettuosamente.
Jaroslaw annuì e ringraziò.
"Vado a vedere se riesco a farti avere qualcosa di commestibile dalla mensa. Cerca di mettere qualcosa sotto i denti" aggiunse Bell. "Ti faccio portare subito delle bottigliette d'acqua. Riposati, mi raccomando"
Lo sguardo del ragazzo s'illuminò improvvisamente.
"Delle bottigliette d'acqua…ma certo…Marcus, aspetta!" gridò alzandosi di scatto e rischiando che il mal di testa lo facesse crollare a terra. "Dovrei chiederti un favore"
"Dimmi tutto"
"Avrei bisogno che tu portassi un messaggio a Sherlock. Posso avere carta e penna?"
Dopo due minuti il biglietto fu pronto e lo porse al detective, che aveva assunto un'espressione interrogativa. Jaroslaw lo notò.
"E' fondamentale che nessuno oltre a lui e a Joan legga questo messaggio. Non è niente di pericoloso, ma è importante. So che suona assurdo, ma ti chiedo di fidarti di me"
Lo sguardo tentennante di Bell si rilassò e sorrise.
"Conta su di me"

"Che cosa?"
Il tono del capitano non esprimeva disappunto, quanto piuttosto preoccupazione.
"Sia ben chiaro che approvo la vostra decisione, ma mi spiegate come pensate di riuscire a convincere quei due?"
"Già, come vedi ho i miei buoni motivi per essere teso"
La mente di Sherlock sembrava essere in sovraccarico di pensieri. Solitamente la tensione lo aiutava ad elaborare idee migliori, ma quella volta non faceva altro che annebbiare la sua lucidità.
"Il problema è che abbiamo meno tempo di quello che pensavamo" commentò Joan. "Se domani chiameranno davvero la clinica…"
"Non è un'ipotesi accettabile" la interruppe l'amico. "Dobbiamo trovare una soluzione prima che questo succeda!"
"Grazie, ma è proprio la soluzione che ci sfugge!"
Sherlock si mise le mani tra i capelli: non sapeva che fare e odiava a morte quella sensazione.
Ad un certo punto una voce interruppe il suo flusso di pensieri.
"Grazie al cielo non siete già andati via!"
Il detective Bell arrivò correndo a perdifiato.
"Holmes, ho una cosa per te" e gli porse il bigliettino.
Gregson fece per avvicinarsi e leggere il contenuto del messaggio, ma il poliziotto lo fermò.
"Mi dispiace, capitano. Mi sono state date istruzioni precise"
"Bell ha ragione" disse Sherlock, con volto raggiante. "Questa potrebbe essere l'unica soluzione al problema, ma dovete lasciar fare a noi"
Gregson sospirò rassegnato: ormai si era abituato al modus operandi del suo collaboratore.
"Ah, siete ancora qui? Forse non ci siamo capiti bene"
Una voce maschile risuonò alle loro spalle e Kent e Allen fecero capolino dal corridoio a fianco.
"Ce ne stavamo giusto andando! Buonanotte!" rispose prontamente Sherlock, anticipando tutti quanti e, afferrato il braccio di Joan, la trascinò velocemente verso l'ascensore.
"Si può sapere che ti prende?" chiese stupita la donna, una volta all'interno.
"Mia cara Watson, abbiamo una missione da compiere questa sera" disse sorridendo soddisfatto. "Come te la cavi con la fotografia?"

Il volume della televisione era sufficientemente alto perché lo sviluppato udito del ragazzo potesse capire di cosa si trattava. Era disteso sulla branda e ogni cellula del suo corpo invocava riposo, ma il richiamo di quella telecronaca era troppo forte.
Gi ultimi giorni erano stati talmente frenetici e strani che gli avevano fatto perdere la concezione del tempo. Bastarono quei flebili suoni per rammentargli quell'avvenimento importante che aspettava da settimane. Certo, pensare ad una cosa frivola come il football in quel momento sembrava assurdo, eppure la sua passione per quello sport era talmente grande che per un momento l'emozione per quella partita aveva cancellato le sue preoccupazioni.
Si alzò cautamente e si avvicinò alla grata della sua cella.
"Hey, sei ancora sveglio? Ti dà fastidio il rumore della televisione?" chiese Josh quando lo vide arrivare.
"No, non ti preoccupare. Volevo solo chiederti a quanto stanno. Sono i Giants contro i Cowboys, vero?"
Il poliziotto sorrise.
"Esatto! I Giants conducono per 14 a 7. È quasi finito il primo tempo. Ti piace il football?"
"Già, sono sempre stato tifoso dei Giants"
"Ottima scelta, ragazzo!" gli disse contento. "Allora non puoi perderti questa partita per nulla al mondo!"
L'uomo si alzò e cominciò a maneggiare i cavi del piccolo televisore.
"Sì" commentò soddisfatto. "Sono abbastanza lunghi"
Spostò il mobiletto su cui era appoggiato lo schermo appena fuori dalla porta del suo ufficio, in modo che anche Jaroslaw potesse vederlo dalla sua cella.
"Avanti, prendi una sedia!" lo incitò sorridendo e il ragazzo non se lo fece ripetere due volte.
Per la prima volta da anni era rilassato. Per la prima volta sentì che la notte precedente aveva fatto veramente la scelta giusta. Per la prima volta sentì quella strana sensazione di felicità che aveva dimenticato.

Il sole era già calato e New York si stava lentamente immergendo nel buio. La strada del tranquillo e accogliente quartiere ai margini della città era deserta e i lampioni ai suoi lati stavano cominciando ad accendersi uno dopo l'altro.
Una macchina parcheggiò vicino all'entrata di un piccolo parco giochi, dove un anziano signore stava ancora passeggiando con il suo cane. Il guidatore aprì la portiera e scese dalla vettura. Fece alcuni passi e, improvvisamente, comparve una luccichio tra i cespugli. L'uomo si fermò e si girò verso quella direzione: probabilmente era stato solo un abbaglio. Con passo svelto attraversò la strada, percorse un centinaio di metri, s'infilò nel vialetto di una piccola abitazione e si fermò davanti alla porta. Dopo pochi secondi questa si aprì e apparve una donna dal viso raggiante. I due si baciarono appassionatamente e, abbracciati l'uno all'altra, entrarono in casa, lasciandosi l'oscurità alle spalle.

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Capitolo 12
*** Famiglia ***


"Coraggio, Jaroslaw" lo incitò la donna. "Non puoi dormire tutto il giorno! Abbiamo diverse cose da fare oggi"
La sua voce risultava più stridula del solito, probabilmente per colpa di quel dannato mal di testa. Gi pareva di avere due trapani che gli perforavano le tempie e ogni cosa gli provocava un fastidio insopportabile. In quel momento avrebbe venduto l'anima per una dose.
La sera prima era riuscito a guardare tutta la partita insieme a Josh. I due avevano chiacchierato per quasi due ore del più e del meno, ma alla fine aveva dovuto cedere alla stanchezza.
Verso le otto e trenta, quando la dottoressa Allen e Kent erano arrivati nella sua cella svegliandolo, non gli sembrava di aver dormito neanche dieci minuti.
"Ti abbiamo portato la colazione. Alzati e mangia qualcosa, per favore" continuò l'uomo.
Jaroslaw decise di tenere gli occhi chiusi e ignorarli. Quella mattina non stava affatto bene e l'ultima cosa che voleva era farsi vedere in quello stato dai quei due. In ogni caso, anche se avesse voluto, difficilmente sarebbe riuscito a sollevare la testa dal cuscino.
Kent indicò alla collega il vassoio della cena pressoché intatto.
"Facciamo così: ripasseremo tra un'oretta. Quando torniamo vogliamo vedere i piatti vuoti, ok?"
Nessuna risposta. I due se ne andarono e nella cella tornò la calma, così che i nervi del ragazzo poterono distendersi di nuovo.

Appena imboccarono il corridoio che li avrebbe portati agli uffici, si ritrovarono di fronte Sherlock e Joan.
"Siete arrivati presto" disse Allen. "In effetti oggi potreste esserci utili"
"Ne saremo felici" rispose Holmes con un velo d'ironia.
"Ho l'impressione che il ragazzo tenda ad ascoltarvi più di quanto non faccia con noi" ammise con espressione seccata."Sarei contenta se riusciste a fargli mangiare qualcosa. Non voglio che svenga durante la giornata"
"Alle dieci e trenta ci sarà un incontro con un responsabile della struttura in cui abbiamo intenzione di ricoverarlo" spiegò Kent. "Per quell'ora deve essere pronto"

I due investigatori si fermarono davanti alla grata della cella. Jaroslaw era sdraiato sul letto e dava loro le spalle.
"Come sta?" chiese Joan, avvicinandosi a Josh.
"Ha dormito ininterrottamente per tutta la notte. Ad un certo punto non ho resistito e sono entrato per vedere se respirava ancora, mi stavo preoccupando!"
Tirò fuori le chiavi ed aprì la serratura.
Watson si avvicinò piano al ragazzo: stava tremando come una foglia, gli occhi erano socchiusi e aveva il respiro affannoso. Gli poggiò una mano sulla fronte sudata e si accorse che era bollente.
"Che medicinali gli hanno dato?"
"Un'aspirina ieri sera, prima di andare a dormire. Hanno detto che fino a stamattina sarebbe bastata e che ne avrebbe presa un'altra a colazione"
"Che incoscienti" mormorò lei.
"Ci servirebbe un bicchiere d'acqua calda" disse Sherlock. "Possiamo usare il bollitore che c'è nell'ufficio? Non vorrei che quei due ficcanaso si insospettissero"
"Nessun problema, ci penso io!"
Josh tornò con ciò che gli era stato richiesto.
"Ottimo! Watson, hai portato l'infuso?"
"Certo, eccolo qui" e tirò fuori un piccolo sacchettino simile ad una bustina di tè dalla sua borsa, che Sherlock immerse nella tazza.
"Sembra un cucciolo infreddolito" bisbigliò la donna. "Dammi una mano a tirarlo su"
La branda era sistemata accanto al muro, così Jaroslaw riuscì a sedersi appoggiando la schiena alla parete. Non fu sufficiente: le vertigini lo fecero barcollare e la testa dovette trovare sostegno sulla spalla di Sherlock, seduto accanto a lui.
L'uomo non aveva mai amato il contatto ravvicinato con la gente. Nonostante quei mesi di convivenza e la loro ormai salda amicizia, Joan non ricordava di aver mai scambiato un vero e proprio abbraccio con l'amico, se non nei momenti più duri, e anche in quei casi rimaneva piuttosto freddo. Si meravigliò parecchio, quindi, di come in così poco tempo tra lui e il ragazzo fosse nato questa sorta di legame.  Vide Sherlock cingergli le spalle con un braccio, mentre con l'altra mano gli accarezzava il capo con fare protettivo, come un padre fa con il proprio figlio. Mai Holmes aveva mostrato così palesemente tanto affetto come in quel momento. Era proprio vero: loro stavano aiutando Jaroslaw, ma anche Jaroslaw li stava aiutando a sua volta.
"Allora, che fai lì impalata?"
Joan stava contemplando quella scena come se fosse un miracolo e a stento riuscì a trattenere la propria commozione.
"Che cosa?" chiese improvvisamente, quando la voce di Sherlock la risvegliò da quella visione.
"La medicina!"
"Ah già, scusami! Mi ero incantata" e gli porse il farmaco.
"Quei due avevano detto che doveva prenderla a stomaco pieno" chiese Josh, un tantino preoccupato.
"Se aspettiamo un altro po' potremo cuocergli un uovo in testa" gli rispose l'investigatore.
In quel momento entrò Bell.
"Holmes, è arrivato Gregson. So che volevi parlargli"
"Arrivo subito" e fece segno a Josh di avvicinarsi per prendere il suo posto.
"Ah, Joan" continuò Bell. "Ti abbiamo liberato l'infermeria, così potrai lavorare meglio"
"Grazie, Marcus"

"Cerca di berla tutta, ok? Ti farà bene"
Jaroslaw annuì debolmente e Joan gli avvicinò di nuovo la tazza alla bocca.
"Anche questa è una medicina?" chiese Josh incuriosito, mentre sorreggeva il capo traballante del ragazzo.
"Non proprio, è un infuso di erbe cinesi che mi preparava mia madre quando non stavo bene"
"E funziona?"
La donna sorrise.
"Ha convinto anche Sherlock" disse soddisfatta. "Prima era molto scettico, ma adesso al minimo segno di influenza ne ingurgita almeno un litro"
L'uomo rise di gusto.
"Allora deve proprio funzionare!"
Dopo una decina di minuti, il colorito di Jaroslaw si fece più vivace e riuscì ad alzarsi in piedi da solo.
"Sei un fulmine a riprenderti! Se mai ti darai alla boxe dimmi qualcosa che scommetterò su di te!" commentò il poliziotto.
"Non è certo per merito mio!"
Watson vide per la prima volta un sorriso sincero dipingersi sul volto del ragazzo, solitamente freddo come il ghiaccio, e trovò che fosse una delle espressioni più raggianti che avesse mai visto. Non avrebbe permesso per nulla al mondo che qualcuno gliela cancellasse di nuovo.

"Cosa dici se approfittiamo del fatto che stai meglio per darti un'occhiata?" chiese la donna.
"Agli ordini, madame!" le rispose lui con un sorriso. "Prima però vorrei darmi una rinfrescata. Mi sento ancora addosso l'odore del sangue di quel…"
Non riuscì a finire la frase. Josh gli tirò una pacca sulla schiena.
"Solo perché sei tu, ti permetto di usare la doccia del fantastico bagno del nostro spogliatoio. Sai, noi del turno di notte siamo privilegiati. Sempre che la dottoressa sia d'accordo, ovviamente"
Joan rise di gusto.
"Certo! Riportamelo indietro tutto intero"
"Non preoccuparti, lo tengo d'occhio io!"

Sarebbe rimasto sotto quel getto d'acqua calda per ore.
Si ricordò di quanto gli piacesse da piccolo fare il bagno nella grande vasca di casa, tanto che sua madre doveva obbligarlo con la forza ad uscire. Per un momento gli sembrò di sentire ancora l'aroma del bagnoschiuma alla lavanda che erano soliti comprare.
Una fitta alla spalla lo riportò alla realtà. Doveva stare attento a non bagnare troppo la ferita, come gli aveva ordinato Watson, così si diede un'ultima sciacquata e concluse. Era come se quella doccia e quel vapore avessero lavato via dalla sua pelle l'orribile sensazione che aveva provato durante i giorni precedenti.
"Mi presti metà dei tuoi addominali? Te li restituisco tra qualche giorno"
Josh lo osservava dalla panchina dello spogliatoio, mentre lui si rivestiva.
"Guarda che non ne hai bisogno"
"Non ne ho bisogno? Quella che vedi è tutta pancia!" disse lui, percuotendosi a mo' di tamburo. "Ha detto Watson di non metterti la maglietta, così eviti di sforzare la spalla inutilmente visto che la devi togliere di nuovo"
L'uomo lo accompagnò in infermeria, dove Joan li stava aspettando.
"Io sono qui fuori. Per qualsiasi cosa chiamatemi"
Lo ringraziò.
"Vieni Jaroslaw, stenditi sul lettino"
La vista delle cicatrici sul suo corpo le fecero salire un fremito di rabbia: in quel momento avrebbe voluto raggiungere Kalinin e tutti i suoi maledetti compagni per picchiarli a sangue, fino a far loro implorare pietà.
"Ti fanno male?" gli chiese.
Il ragazzo fece spallucce.
"No, sono solo un po' fastidiose quando cambia il tempo. Ormai non ci faccio neanche più caso"
La donna prese l'occorrente e cominciò a cambiare la medicazione alla spalla. Nel frattempo, gli misurò la temperatura.
"Bene, la ferita è a posto e la febbre per ora non va oltre i 38 gradi. Adesso ho bisogno che tu faccia dei respiri profondi" e cominciò ad auscultargli il cuore e i polmoni.
Il battito era piuttosto irregolare e non riusciva ancora a respirare bene come doveva, tuttavia la sua capacità di recupero si stava rivelando impressionante.
"Joan, posso chiederti una cosa?"
"Certo, dimmi pure"
"Però voglio che tu mi risponda sinceramente"
Si tolse lo stetoscopio dalle orecchie e lo guardò dritto negli occhi.
"Lo prometto"
Il ragazzo abbassò lo sguardo e lei capì quanto fosse difficile per lui aprirsi con le persone, dopo anni passati a tenere tutto per sé.
"Ieri vi ho chiesto quanto ci vorrà prima che, beh ecco, metta la parola fine alla mia dipendenza, ma Sherlock non mi ha risposto. Probabilmente non vuole spaventarmi"
Il suo sguardo sconsolato intenerì Joan nel profondo del cuore.
"Lo so che adesso sono altri i problemi da sbrigare, ma io devo saperlo. Devo almeno farmi un'idea di quanti giorni dovrò passare in un letto perché non riuscirò ad alzarmi dal mal di testa, di quanto tempo ci vorrà perché possa tornare a vivere normalmente e…"
La donna lo zittì, appoggiandogli l'indice sulle labbra, poi prese il suo volto tra le mani.
"Capisco che sei preoccupato, ma ogni situazione è a sé" gli disse con voce dolce. "Quando lavoravo come assistente post riabilitazione ho visto molto casi e non te lo nascondo: ci sono persone che in un mese riescono a disintossicarsi e altri che hanno bisogno di anni per ripulirsi del tutto"
In quell'occasione Jaroslaw appariva per quel ragazzino che effettivamente era, con i suoi dubbi, paure e alla ricerca di conforto. Era come se si stesse togliendo alcune parti della sua intaccabile corazza.
"Ascoltami" continuò lei. "Tu sei giovane e straordinariamente forte, sia a livello fisico che mentale. Non ti sto dicendo che tra una settimana sarai già fuori da questa situazione, ma che hai tutte le carte in regola per affrontare questa battaglia ed uscirne vincitore"
L'espressione del giovane si rilassò.
"Hai ragione" fece lui. "Devo cercare di mettermi l'anima in pa…"
"Jaroslaw!"
Gli occhi del ragazzo si chiusero: aveva perso i sensi.
"Josh!" chiamò Joan, e subito l'uomo arrivò scattando nella stanza. "Mi serve una bustina di zucchero o qualsiasi cosa di dolce tu riesca a trovare! Presto!"

I due assistenti sociali si guardarono e scoppiarono a ridere sonoramente.
"Scusatemi signori, ma questa è davvero bella!" disse la dottoressa Allen, senza riuscire a smettere. "Quindi voi mi state chiedendo di affidare un ragazzo con problemi di aggressività e droga ad un uomo altrettanto impulsivo e uscito dalla clinica di riabilitazione meno di un anno fa? Voi siete impazziti!"
Sherlock fece appello con tutte le sue forze a quel briciolo di autocontrollo che gli era rimasto.
"Mi sembra di avervi già detto che non sarà solo" disse con pazienza Gregson. "Con lui verrà affidato anche alla dottoressa Watson che, oltre ad essere chirurgo, per parecchio tempo ha lavorato come assistente post riabilitazione"
"Capitano Gregson, non mi dica che anche lei è d'accordo con questa assurdità?" chiese Kent.
"Mi fido dei miei due collaboratori e, da quello che vedo, anche Jaroslaw si fida di loro. In questo momento credo che la signorina Watson e il signor Holmes siano i più indicati per questo tipo di compito"
La risposta era una vera e propria frecciatina nei confronti dei due assistenti sociali, il cui approccio con Jaroslaw non aveva dato frutti.
"Mi ascolti bene" gridò Allen. "Quel ragazzino ha bisogno di tranquillità, sicurezza ed un ambiente privo di tentazioni! Con loro rischierebbe ricadute su ricadute!"
"Non con noi al suo fianco" disse Sherlock. "Mi creda, per lui ci sarebbe un più alto rischio di ricaduta in quella noiosa e monotona clinica in cui volete mandarlo che nella vita reale"
"Vuole farci credere che lei conosce Jaroslaw meglio di noi, signor Holmes?"
"Mi sembra abbastanza evidente anche per voi che sia così"
Non riusciva più a trattenersi. Lui lo capiva, aveva già vissuto quella situazione, cosa potevano saperne loro? Non si rendevano conto che quella struttura per la riabilitazione non avrebbe fatto altro che aumentare la sua rabbia e farlo chiudere ancora di più in se stesso.
"La sua modestia mi commuove" disse sarcasticamente Allen. "Solo perché lui si fida di lei non vuol dire che…un momento, allora era questo il vostro piano"
"Di cosa diavolo sta parlando?"
"Andiamo, non faccia finta di niente, capitano! Avevate previsto tutto fin dall'inizio, ecco perché Jaroslaw è così ostile nei nostri confronti!" continuò lei, infuriata. "Gli avete detto di non darci ascolto, così noi avremmo gettato la spugna e lo avremmo affidato a voi"
"Mi dispiace, ma è totalmente fuori strada. Il rifiuto nei vostri confronti è completamente spontaneo" le disse Sherlock sorridendo, facendola adirare ancora di più.
"Basta, ne ho abbastanza dei vostri giochetti!" gridò lei. "Ora andremo a parlare con il ragazzo e provvederemo a togliervi il caso!"
Uscì dall'ufficio sbattendo violentemente la porta, seguita a ruota da Kent.
"Piano B?" chiese Gregson quando se ne furono andati.
"Esatto" gli rispose Holmes, che non riuscì a nascondere la sua preoccupazione. "Spero davvero che funzioni"

"Va meglio? Avanti, prendine un'altra"
Jaroslaw accettò controvoglia la terza bustina di zucchero che Joan gli stava porgendo.
"Ragazzo mio, devi deciderti a mangiare qualcosa o non riuscirai a stare in piedi!" gli disse Josh.
Sapeva che si stavano preoccupando per lui, ma tutta quella situazione gli aveva completamente chiuso lo stomaco: non sarebbe riuscito a mandar giù neanche un pezzetto di pane.
"Ti fa ancora male la testa?" chiese Watson, mentre controllava con una piccola luce il riflesso pupillare dei suoi occhi di ghiaccio.
Senza rendersene conto, Jarosalw aveva portato le mani sulle tempie premendo con forza. Rispose affermativamente.
"E' per colpa del calo di zuccheri?" domandò il poliziotto.
"No, purtroppo è legato all'astinenza" spiegò la donna. "Mi dispiace, ma non posso darti niente. Cercherò di far capire a quei due dei servizi sociali che le dosi prescritte sono ridicolmente basse"
Esattamene in quel momento, qualcuno bussò alla porta e, senza neanche aspettare risposta, la spalancò con forza.
"Parli del diavolo…" mormorò il ragazzo.
"Dottoressa Watson, si allontani da lui immediatamente. La salute di Jaroslaw non è più di sua competenza!" gridò Allen entrando nella stanza.
I presenti guardarono i nuovi entrati con occhi spalancati.
"Come prego?" chiese lei.
"Le ho detto di allontanarsi" ripeté la donna. "Ascoltami, ragazzo. Puoi smettere di recitare perché abbiamo capito le vostre intenzioni"
"Recitare? È impazzita?"
"Ve l'ho detto che gli state antipatici per davvero, ma voi non mi volete credere!" commentò Sherlock mentre varcava la soglia dell'infermeria insieme a Gregson.
"Lei stia zitto, signor Holmes! E tu, Jaroslaw, smettila di prenderti gioco di me e del signor Kent, hai capito?"
"Ma che cavolo…"
"Ora basta!" continuò Kent. "Non verrai affidato ad Holmes e Watson, non è la scelta migliore per te! I loro tentativi di intromettersi nella tua vita sono finiti. Il caso verrà passato ad altre persone più responsabili e verrai trasferito in un'altra struttura oggi stesso in attesa del ricovero nella clinica"
"Non potete farlo!" protestò Joan.
La dottoressa Allen sorrise con espressione perfida.
"Oh, sì che possiamo! Non lasceremo che lo portiate sulla cattiva strada!"
"Cattiva strada? Se sono qui oggi è solo grazie all'aiuto di queste persone" s'intromise il ragazzo. La sua voce era debole, ma riusciva a risultare comunque decisa.
Allen si avvicinò a lui e cercò di stringergli una mano, ma lui la ritrasse immediatamente, guardandola con distacco.
"Jaroslaw, non dare ascolto a quello che ti dicono! Ti hanno fatto il lavaggio del cervello! Siamo noi quelli che vogliono aiutarti!"
Lui continuò a non degnarla di uno sguardo.
"Non voglio litigare" disse Watson. "Io rispetto la vostra professionalità, ma credo che abbiate confuso questo caso per una competizione contro di noi! Questa non è una gara per stabilire chi è il più bravo, c'è in gioco la vita e la salute di questo ragazzo!"
"Certo, quindi mi state dicendo che sarebbe felice solo con voi?" chiese ironicamente Kent.
"Non l'avrei detto così esplicitamente, ma sì. Crediamo che la tutela del ragazzo debba spettare a noi" rispose candidamente Sherlock.
"Avete proprio un bel coraggio a ritenervi migliori della più rinomata clinica di disintossicazione dello Stato!"
"Non ci riteniamo migliori, ma in questo caso quell'ambiente non sarebbe il più indicato"
"Sapete che ho lavorato in questo campo" aggiunse Joan. "Con noi avrà tutto ciò di cui ha bisogno, lo faremo partecipare alle sedute e non esiteremo a chiedere aiuto se sarà necessario"
"Ormai il suo curriculum lo sappiamo a memoria, dato che il capitano e il suo collega hanno cercato per due ore di convincerci proprio usando questa carta!" rispose Allen. "In ogni caso si tratta di una follia. Come potrà disintossicarsi vivendo fianco a fianco con un ex drogato e circondato da mille tentazioni? Non lo permetteremo"
"Lei sta sottovalutando in maniera esponenziale la sua forza di volontà" ribatté Holmes.
"Non si è mai chiesto se forse è lei che la sta sopravvalutando? È pur sempre un ragazzino di sedici anni!"
Il cervello gli stava scoppiando. Quel dibattito non dava l'impressione di voler finire presto e la sua sopportazione era ai minimi livelli. Quei due non avrebbero ceduto, era evidente. Le loro voci, dannatamente alte, si stavano accumulando come mattoni con tutto il loro peso nella sua testa. Aveva bisogno che quella tensione mista a rabbia trovasse una valvola di sfogo al più presto.
Non riuscì più a trattenersi.
"State tutti zitti!!"
Il grido di Jaroslaw riportò il silenzio totale nella stanza.
"Per favore" le ultime parole risuonarono più deboli, quasi stanche.
Sherlock fermò la dottoressa Allen, già pronta a dire qualcosa, e si avvicinò al lettino su cui era ancora steso il ragazzo. Il volto era nascosto da entrambe le mani, le dita premevano con forza sulla fronte nell'inutile tentativo di eliminare il dolore e il petto si muoveva velocemente a causa della difficoltà nel respirare.
"Calma ragazzo, calma"
La voce di Holmes era poco più che un sussurro. Accarezzò piano la sua testa, continuando a rassicurarlo, poi si voltò verso i presenti.
"Gli effetti dell'astinenza possono essere devastanti per chi ha i sensi piuttosto sviluppati come lui. Come noi"
Conosceva bene quella sensazione.
"Più gridate e più lo farete stare male"
Nel giro di un minuto Jaroslaw si rilassò di nuovo. Si strofinò il volto e si ricompose.
"Capitano, Josh, perdonatemi ma devo chiedervi di uscire dalla stanza" disse piano.
I due si girarono verso Holmes che fece loro cenno di fare come veniva detto loro, così lasciarono l'infermeria.
"Che significa?" chiese sospettosa Allen, quando se ne furono andati.
Il ragazzo scese cautamente dal lettino, si voltò verso i due assistenti sociali e sul suo volto apparve un sorrisetto furbo. La sua espressione indagatrice fece nascere nei due la sensazione di essere messi a nudo, come se stessero per essere esposti ad una macchina a raggi X.
"Comincia lo show" bisbigliò Sherlock.
Dapprima i due occhi di ghiaccio si concentrarono su Allen.
"Lei ha uno strano tic, sa?" le disse Jaroslaw. "Continua a toccarsi l'anulare della mano sinistra, esattamene nello stesso punto"
La donna strinse le labbra a causa del nervosismo. In effetti aveva ragione.
"La prima volta che si è avvicinata a me, ho notato che ha ancora un leggero segno esattamente in quel punto, di un anello suppongo. Data la posizione, deduco sia stato lasciato da una fede, che lei non indossa più al massimo dall'estate scorsa. Mi dica, lei e suo marito siete solo separati o ha già ottenuto il divorzio?"
"Complimenti. Mi avevano detto che eri un bravo osservatore. Sì, sono divorziata da pochi mesi. Non vedo però cosa c'entri tutto ciò"
"Un po' di pazienza, per cortesia" le rispose. "Ho notato anche un'altra cosa. Ogni volta che mi avete tenuto sotto torchio c'era una sola bottiglia d'acqua, da cui bevevate entrambi a collo. Non che sia una cosa strana, ma tra colleghi è inusuale perché si tende comunque a mantenere un certo tono di professionalità.  All'inizio non avevo dato molta importanza a questo fatto, ma alla fine si è rivelato illuminante"
La sicurezza cominciò a scomparire dal volto dei due.
"E con questo?" chiese Kent.
"Se ha così fretta di sapere la conclusione vengo subito a lei" sorrise Jaroslaw. "Ieri, durante la seconda parte del mio interrogatorio, le è arrivato un messaggio, giusto? Se non sbaglio diceva: allora buon lavoro, amore! A domani!"
L'uomo si toccò le tasche per controllare se effettivamente il suo cellulare fosse ancora lì e non gliel'avesse sottratto di nascosto.
"Non si preoccupi, non ho rubato nulla. È stato proprio lei ad aprire quel messaggio mentre teneva il dispositivo sul tavolo. Era sua moglie, vero? A differenza della sua collega, lei ha la fede al dito. Immagino che le avrà sicuramente detto che avrebbe passato la notte al lavoro"
Il colorito dell'uomo divenne pallido.
Il ragazzo si avvicinò ai due e cominciò ad annusarli.
"Che diavolo stai facendo?" lo rimproverò Allen.
"Mmh lo riconosco: bagnoschiuma alla vaniglia! Ha un profumo talmente forte che sarebbe impossibile confonderlo!" disse lui, spostandosi poi verso l'uomo. "Ma guarda! Usate lo stesso bagnoschiuma!"
"E' solo una coincidenza! Ci sono centinaia di persone che usano questo prodotto!" protestò la psicologa.
"Sa qual è il mio problema, dottoressa? Io non credo alle coincidenze" affermò serio. "Da quel che vedo mi sembra abbastanza evidente che il signor Kent abbia passato la notte da lei e scommetto che non è la prima volta. Basterà fare una telefonata alla moglie, giusto per scoprire quanto spesso sia stato costretto ultimamente a fare tardi o addirittura a non tornare a casa la sera a causa del lavoro"
L'uomo era teso come la corda di un violino, mentre la donna cercava di mantenere il suo autocontrollo.
"Oppure" continuò Jaroslaw. "Potremmo chiudere un occhio sulla faccenda in cambio di un piccolo favore"
La psicologa cercò di riprendere in mano la situazione.
"Sciocchezze!" gridò. "Stai cercando di trovare altre scuse per fregarci di nuovo, le tue sono solo ridicole supposizioni"
"Ne è così certa?" s'intromise improvvisamente Sherlock. "Watson, ti dispiacerebbe allungarmi la cartellina che hai nella borsa?"
"Con molto piacere" rispose lei soddisfatta.
L'uomo estrasse il contenuto della cartellina.
"Riuscite a riconoscere i soggetti nelle foto?"
I due rimasero a bocca aperta: cominciarono a sfogliare la pila di fotografie che ritraevano il loro incontro della scorsa notte, da quando Kent aveva parcheggiato la macchina fino al bacio dopo il quale erano entrati in casa della donna.
"Abbiamo scoperto di avere un certo talento come paparazzi" commentò ironico Sherlock.
"Sì, a parte il fatto che la prima volta ti sei scordato il flash acceso e abbiamo rischiato di essere scoperti"osservò Joan.
"Le macchine fotografiche di oggi sono peggio dei computer, se avessimo usato il mio vecchio modello…"
"Questo è un ricatto!" sbottò improvvisamente Kent.
"Esattamente! Siete voi che ci avete costretti ad arrivare fino a questo punto, ora ne pagherete le conseguenze" rispose Holmes. "Cosa avete deciso?"
Nessuno rispose.
"Avanti" li incitò Jaroslaw. "Sua moglie è di famiglia facoltosa, vero? Mi sembra piuttosto stupido buttare al vento un rapporto così redditizio con una ricca ereditiera, signor Kent! Inoltre, dottoressa, scommetto che anche lei preferisce che la cosa si risolva ora, se no chi potrebbe comprargli regali come quel costoso pendente che ha al collo?"
"Senza contare, signor Kent, che gli espertissimi avvocati della famiglia della moglie la lascerebbero sul lastrico in caso di divorzio. Altro che il pagamento degli alimenti!" fece notare Watson, rigirando il dito nella piaga.
"Non è giusto" piagnucolò l'uomo.
"Io non lo trovo così ingiusto, anzi. Allora?" chiese di nuovo Sherlock.
I due amanti si guardarono negli occhi, poi Kent prese la parola.
"Quale sarebbe questo favore?"
Holmes e Joan sorrisero raggianti e risposero all'unisono.
"Vogliamo l'affidamento del ragazzo"

La macchina arrivò nel viale in cui, pochi giorni prima, il ragazzo aveva camminato, per poi tornare sui suoi passi. Quella volta, però, non sarebbe tornato indietro, sarebbe andato fino in fondo. Quella volta non era più solo contro tutti, contro il suo passato, contro il suo dolore. Quei due lo avevano rimesso sulla strada giusta e avevano tutta l'intenzione di farcelo rimanere.
La vettura si fermò di fronte all'appartamento.
"Eccoci qui!" annunciò Sherlock, aiutando a scendere Jaroslaw, ancora piuttosto debole. "Siamo a casa"
Il ragazzo la guardò con occhi colmi di commozione.
"A casa…era da anni che non potevo realmente dirlo"
"Ora puoi. Nessuno potrà portarti via ciò che ti sei guadagnato con il sangue e il sudore. I tuoi genitori sono sicuramente fieri di te"
Jaroslaw gli sorrise e lo abbracciò.
"Grazie. Grazie di tutto"
Il cuore di Sherlock sussultò. Non si ricordava neanche più quand'era stata l'ultima volta che aveva ricevuto, ma soprattutto contraccambiato una tale dimostrazione d'affetto. Lo cinse a sua volta tra le sue braccia. Quando l'abbraccio si sciolse, l'uomo cercò di asciugarsi in fretta alcune piccole lacrime che gli avevano rigato il volto.
"Coraggio, ci pensiamo noi con le valige"
Mentre il ragazzo si avviava verso l'ingresso, Joan si affiancò all'amico.
"Avevi ragione"
L'uomo la guardò perplesso.
"Capita piuttosto spesso. Puoi essere più precisa?"
Gli tirò un debole pugno sul braccio.
"Stavo parlando di Jaroslaw. È vero: noi stiamo aiutando lui, ma lui per molti aspetti sta aiutando noi. Soprattutto te"
Holmes sorrise e sospirò.
"Quel ragazzino mi assomiglia molto, sia nel bene che nel male, ma è riuscito a lavorare su alcuni difetti trasformandoli in punti di forza. In un certo senso possiamo renderci migliori a vicenda, esattamente come tu rendi migliore me"
Watson arrossì. Non era la prima volta che gli diceva una cosa del genere ed ogni volta ne andava orgogliosa. Era uno dei complimenti più belli e sinceri che avesse mai ricevuto.
Osservarono Jaroslaw per qualche secondo, mentre si guardava intorno con espressione incantata, quasi non riuscisse ancora a credere di aver iniziato una nuova vita. Una vita vera. Un sorriso sorse spontaneo sui volti dei due osservatori nel vedere quella scena.
"Sai" continuò Joan. "Sembriamo proprio una famiglia"
"Sbagliato, Watson. Noi non sembriamo una famiglia" la corresse lui. "Noi siamo una famiglia"
A quelle parole si voltarono entrambi e si guardarono negli occhi. Il tempo sembrò fermarsi. Come attratti da una forza magnetica soprannaturale, le loro labbra si avvicinarono fino ad incontrarsi in un lungo bacio, mentre Jaroslaw li osservava soddisfatto con la coda dell'occhio, seduto sulle scale dell'ingresso.
"Hai ragione. Siamo una famiglia" e si persero l'una nello sguardo dell'altro.

 

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Ciao a tutti!
La mia prima storia "a capitoli" è terminata. Ne approfitto ancora una volta per scusarmi per la lunga attesa che spesso ha preceduto la pubblicazione di alcuni capitoli.
Ringrazio tutti i lettori che mi hanno seguita in questi lunghi mesi e quelli che in futuro avranno voglia di leggere la storia! Ricordo ancora che recensioni, commenti e consigli sono sempre ben accetti e spero mi aiutino a migliorare lo stile di scrittura.
Alla prossima! :)

LadyRahl

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