The words you speak

di effewrites
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I ***
Capitolo 2: *** ii ***



Capitolo 1
*** I ***


Qualche breve nota prima di lasciarvi alla lettura: chiedo scusa se la formattazione risulta "strana" in alcuni punti, non sono riuscita a sistemarla per bene, e se i personaggi risultano essere OOC come ho inserito tra gli avvertimenti è perché è stata la prima volta in assoluto che ho scritto in questo fandom ;_; mi dispiace! Ah, e ancora: ho un serio problema nella trascrizione dei cognomi dei personaggi. Molto serio. E internet con le sue millemila wikia che riportano trascrizioni diverse non aiuta.
 

The words you speak (surrounding me)

 
 
“Questo sound è penoso”.

Marco abbassò lo sguardo e un sospiro colmo di frustrazione sfuggì dalle sue labbra schiuse. Nella sala da riunione le note della canzone che lui e i ragazzi avevano registrato in fretta e furia neanche tre giorni prima s’interruppero bruscamente quando Levi premette il tasto di spegnimento sul telecomando dello stereo. Accanto a lui, Marco vide Eren stringere violentemente i pugni che teneva poggiati sulle gambe.

Levi si alzò, chinandosi in avanti per poggiare i palmi delle mani sulla superficie del lungo tavolo intorno al quale erano riuniti Marco e gli altri; il ragazzo ebbe un brivido appena percettibile nell’avvertire la presenza incombente del produttore, che seppur di altezza ben al di sotto della media per un uomo della sua età sapeva incutere molto più timore di chiunque altro Marco avesse mai incontrato in tutta la sua vita.

“Un fottutissimo, penoso disastro”.

“Levi”, intervenne Erwin, poggiato contro la grande vetrata che occupava un’intera parete della stanza, rendendo l’ambiente luminoso – e un incubo per chiunque soffrisse di vertigini, dal momento che offriva una panoramica della città dal settimo piano dell’edificio della casa discografica.

Levi lo interruppe ancor prima che Erwin potesse aprir bocca una seconda volta. “Qualcuno di voi mocciosi ha avuto il buonsenso di controllare le classifiche dell’ultimo mese?”

Marco deglutì. Seduto davanti a lui, Jean scosse il capo con uno sbuffo. Sapeva benissimo qual era il punto a cui Levi voleva giungere – tutti loro ne erano più che consapevoli.

I Wings of Freedom, la boyband composta da Marco Bodt, batteria, Jean Kirschtein, chitarra, Armin Arlert, tastiere e Eren Jaeger, lead vocalist, avevano subito un crollo devastante sia nella classifica internazionale che in quella nazionale nell’ultimo mese. Le cose avevano iniziato ad andar male già sei mesi dopo l’uscita del loro ultimo album, ma complici una serie di mosse strategiche ben piazzate del loro team di PR, i ragazzi erano riusciti a cavalcare la cresta dell’onda ancora per diverso tempo. Adesso, però, le interviste e il riscontro nei social non bastavano più a bilanciare la mancanza di nuovo materiale.

“Mr. Ackerman, abbiamo solo bisogno di un po’ di tempo,” provò ad azzardare Eren, prima che Levi lo fulminasse con uno sguardo glaciale.

“Il tempo, Eren,” mormorò Levi in risposta. “E’ un lusso che non possiamo permetterci.”

Jean si accasciò talmente tanto sulla propria sedia che i suoi piedi sfiorarono le caviglie di Marco prima di ritrarsi con uno scatto. Marco fece finta di non essersene accorto, cosa che non gli risultò particolarmente complessa. I suoi pensieri e le sue preoccupazioni, al momento, erano indirizzati totalmente alla situazione della sua band.

Levi Ackerman aveva ragione a lamentarsi. Oggettivamente, la canzone che avevano registrato nei giorni precedenti era ben al di sotto delle loro consuete performance. Non che fosse totalmente da buttare, questo no, ma mancava la scintilla che aveva caratterizzato tutti i brani del loro precedente album e che aveva consentito ai Wings of Freedom di ascendere all’Olimpo delle boyband più in voga del momento.

Il loro primo album, Attack!, era stato un successo insperato. Sui social network erano comparsi nel giro di pochi giorni hashtag riguardanti la band, così come diverse fanpage, e il loro profilo YouTube aveva accresciuto il numero di iscritti in maniera esorbitante. I numeri crescevano a vista d’occhio, così come i fan. Il problema era a livello produttivo.

“Se non ho la certezza di non dare il via libera alla produzione di pura merda, il secondo album rimane off limits,” stava dicendo Levi, ottenendo in risposta una lamentela soffocata da parte di Armin ed Eren e un sospiro da Erwin. “E se non abbiamo il secondo album, non abbiamo nulla per andare avanti. Kaput.”

Marco si mosse a disagio sulla sedia che occupava. Sapeva benissimo che Levi non era il tipo da mandare minacce a vuoto, così come era perfettamente a conoscenza del fatto che una band non può vivere solamente di PR stunts. Avevano bisogno di nuova musica. Avevano disperatamente bisogno di nuova musica. Quasi senza pensarci alzò lo sguardo su Jean.

“Cerchiamo di lavorare sul sound, allora”, propose Erwin, sempre propenso a trovare una soluzione piuttosto che a rimuginare sui problemi. “Perché è quello il problema, mi pare di aver compreso.”

Levi annuì. “E’ commerciale. Non coglie nessun rischio. E’ prevedibile e non arriva a chi lo ascolta. Le parole, però, quelle le terrei. Sono una buona base.”

Jean scoppiò a ridere – una risata secca e breve, priva di qualunque genuinità. “Tipico”, disse, passandosi poi una mano fra i capelli, rasati lungo la nuca e culminanti in un ciuffo di un biondo tendente al grigio per via di una precedente tintura. Il veleno nelle sue parole sarebbe stato comprensibile per chiunque; il motivo della sua esistenza, però, era accessibile solo a pochi. Marco si morse l’interno della guancia mentre Eren, al suo fianco, si sporgeva sul tavolo lanciando uno sguardo irritato a Jean.

“Cosa vorresti dire?”

Jean si lasciò andare contro lo schienale della sedia, inclinando appena il viso nella direzione di Eren. “Nulla,” disse, con le labbra inclinate in un’espressione di fastidio. “Assolutamente nulla.”

 
***

La televisione accesa era sintonizzata su MTV, chiaramente per una qualche segreta tendenza masochistica di Armin. Il biondo teneva il telecomando stretto tra le mani, aspettandosi che da un momento all’altro Eren, stravaccato poco lontano su di un puf color viola acceso, tentasse nuovamente di rubarglielo per spegnere la tv in uno scatto di frustrazione.

Sul grande schermo piatto scorrevano le immagini del nuovo video musicale dei Titans feat. Historia: ambientazione post apocalittica, una mossa saggia considerate le tendenze cinematografiche dell’ultimo periodo. Annie, Reiner e Bertholdt ricoprivano i ruoli di soldati in quella che sembrava essere una guerra contro morti viventi, e al momento del ritornello alla voce di Annie si aggiungeva quella di Historia – o Christa, volendo usare il suo nome vero e non quello d’arte – perfetta nell’interpretare una ragazza che vagava tra le strade devastate, la sua aria eterea e innocente in contrapposizione alla distruzione intorno a lei. 

Era anche una bella canzone, pensò Marco, il genere di canzone con un ritmo trascinante e un ritornello che esplode cogliendo di sorpresa chi sta ascoltando. Probabilmente era questo che Levi intendeva quando parlava di sound rischioso e innovativo. Seduto sul divano, con i gomiti poggiati sulle ginocchia, Marco si prese la testa tra le mani per massaggiarsi le tempie con fare stanco.

Rimase in quella posizione fino a quando Erwin Smith non fece il suo ingresso nella stanza, avendo finalmente abbandonato l’ufficio di Levi. Dalla sua espressione non trapelavano evidenti emozioni, ma Erwin era conosciuto nell’ambiente per essere il genere di persona stoica che persino di fronte alla peggiore delle notizie riesce a mantenere un’apparenza neutra. E difatti —

“Senza un nuovo singolo, il progetto per il nuovo album verrà mandato in standby,” disse, cosa che scatenò una serie di esclamazioni sgomente da parte dei ragazzi. A Erwin bastò alzare il palmo di una mano per far scendere nuovamente il silenzio in sala. “Senza del materiale convincente né Ackerman né il resto del team si trovano nelle circostanze adatte per investire in un disco. Il successo che avete raggiunto nei mesi passati ha il lato negativo di aver innalzato le aspettative nei vostri confronti.”

“Ci stiamo provando,” mormorò Marco, sentendosi in dovere di difendere il lavoro suo e dei suoi compagni. “A creare qualcosa che si adegui a questi standard.”

Persino lui, all’incirca una settimana prima, aveva provato a scrivere una canzone nella speranza di sbloccare la situazione. Aveva trascorso una notte insonne a cercare sulla sua vecchia chitarra acustica gli accordi che meglio si accordassero con il testo che aveva composto. Il caffè ingurgitato nella speranza di rimanere sveglio, unito alla disperazione che da qualche tempo pareva coglierlo non appena scendeva la sera, aveva aiutato Marco a ritrovarsi a notte inoltrata con una canzone che aveva intitolato “Half of Me”.  Il giorno dopo, troppo esausto per avere dei freni inibitori funzionanti, l’aveva proposta agli altri.

“Marco,” aveva detto Armin, dopo i diversi attimi di silenzio che avevano seguito l’esecuzione del brano. “Ti vogliamo bene e siamo davvero grati del tuo spirito d’iniziativa. Ma, ecco, come dire…”

Marco provò l’inarrestabile istinto di sprofondare tra i cuscini del divanetto su cui era seduto al ricordo del viso dell’amico, troppo premuroso e attento a non ferirlo per dirgli apertamente quanto la sua canzone facesse schifo.

“Sono il vostro manager, e so bene quale sia il vostro potenziale,” stava dicendo Erwin quando Marco recuperò il filo del discorso. “I brani con cui avete ottenuto il successo erano a tutt’altro livello rispetto alle vostre proposte più recenti. Che diamine vi sta succedendo? La vostra carriera è ancora agli inizi, è troppo presto per una crisi creativa.”

“Be’,” fece Jean, che fino a quel momento era rimasto seduto in disparte, troppo impegnato a prestare attenzione allo schermo del proprio telefono. Infilò il cellulare nella tasca dei jeans, chinandosi poi in avanti per far scorrere il proprio sguardo sui presenti nella sala. “Avete sentito tutti quello che ha detto Ackerman. I testi sono okay. E’ la musica ad essere una merda.”

“Qual è il tuo problema, Jean?” sbottò Eren, le sopracciglia scure corrugate in un’espressione astiosa. Armin tentò di placarlo poggiandogli una mano sulla spalla, ma Eren la scrollò via.

“Il mio problema,” replicò Jean, con una strana calma nella voce. “E’ che sono stanco di vedere i miei testi essere portati a fondo dalle vostre idee riguardo il sound su cui dovremmo puntare.”

Ovviamente, pensò Marco. Era logico che il discorso finisse su questo.

“Siamo una band, Jean,” azzardò Armin, prima che Eren potesse controbattere. “Non c’è un tuo, o un mio per quel che vale. Solamente un nostro, sia nel bene che nel male.”

“Armin ha ragione,” aggiunse Erwin, dandogli man forte. “E tra l’altro, c’è stato un calo sia a livello musicale che testuale, checché Levi ne dica. Nel primo disco i tuoi testi erano una bomba, un pugno nello stomaco, ma adesso? Sono solo okay. Parole tue. Cosa è cambiato?”

Jean parve gonfiarsi d’irritazione al commento, ma stette in silenzio. Marco reputò strana la sua mancanza di risposta, o almeno così fu finché non vide Jean alzarsi e raccogliere le sue cose. “Troppe cose,” lo udì mormorare a denti stretti. “Sono cambiate troppe cose.”

Marco non riuscì a impedire che il suo stomaco si stringesse in una morsa.

“Dove stai andando?” gli gridò dietro Eren. Jean, fermo sulla soglia della porta con il giubbotto indosso, non si voltò neppure a guardarlo. “A fumare una sigaretta. Ne ho abbastanza di questa storia,” gli rispose prima di uscire.

 
***

“Non sapevo avessi cominciato a fumare.”

Jean si voltò, e nonostante la scenata di poco prima le sue labbra erano tirate in un sorriso che Marco ricambiò.

“Non fumo, infatti, ma dovevo uscire da quella stanza prima di iniziare ad urlare,” disse. Marco rise, avvicinandosi a lui ed esponendosi così al freddo di dicembre che mandò un brivido lungo la sua schiena.

Aveva seguito Jean fuori dalla sala, giustificandosi con l’intento di voler controllare che stesse bene. Il che, tra l’altro, era la verità. Si trovavano su quella che era stata ribattezzata l’Area Fumatori dell’edificio, un piccolo balcone collegato alle scale d’emergenza che affacciava su di un vicolo deserto. Marco aveva perso il conto di tutte le volte in cui si era ritrovato lì insieme a Jean, per prendersi una piccola pausa dalla vita frenetica degli uffici della casa discografica.

“Era un bel testo, comunque,” azzardò Marco dopo qualche istante di silenzio. Jean lo guardò di sottecchi prima di cominciare a ridere – una risata vera, stavolta. Portò le mani al viso, strofinandosi gli occhi.

“Era tremendo, Erwin aveva ragione. Ma non mi andava di farglielo sapere.”

Marco sorrise appena. Nella foga di rincorrere Jean non aveva pensato a portar con sé la propria giacca, e la felpa che indossava per quanto calda non offriva un gran riparo dalle folate di vento. Incrociò le braccia al petto, infilando le mani sotto le ascelle. Jean se ne accorse, e dopo un istante di esitazione allungò di poco una mano verso di lui, con il palmo verso l’alto, senza guardarlo. Marco sciolse l’intreccio delle proprie braccia: infilò una mano nella tasca davanti della felpa, mentre con l’altra andò a stringere quella di Jean. 

“Da come hai detto che sono cambiate troppe cose,” disse con una risata nervosa. “Mi hai fatto spaventare.”

Jean si voltò verso di lui. “Non credevo avessi sentito. Scusami.”

Marco diede una stretta alla sua mano in risposta.

Erano passate solamente alcune settimane, forse poco meno di due mesi, da quando lui e Jean avevano cominciato a frequentarsi in maniera esclusiva, dopo che una sera durante un afterparty di qualche premiazione si erano ubriacati entrambi abbastanza da scambiarsi un bacio una volta rientrati in albergo. Marco, nonostante il cuore a mille, aveva pensato semplicemente che Jean fosse il tipo di persona che da ubriaca raggiunge livelli di affettuosità estremi. Poi però al primo bacio ne era seguito un secondo, e poi un terzo, e poi un quarto e così via, fino a che entrambi senza fiato non si erano ritirati in camera di Marco, la più vicina, per il resto della notte. Il fatto che né Eren né Armin li avessero scoperti era stato un miracolo insperato.

Non era la prima volta che Marco baciava un ragazzo. Il fatto di essere attratto dal suo stesso sesso gli era stato chiaro sin dalla prima adolescenza, e sebbene si considerasse in parte ancora abitante di quel famigerato armadio contenente buona parte della popolazione queer dell’intero globo – aveva parlato apertamente solo con i suoi genitori della questione – si considerava a proprio agio con la sua sessualità.

Jean, al contrario, il mattino dopo e per i tre giorni seguenti aveva ignorato del tutto l’esistenza di Marco, salvo poi presentarsi alla porta del suo appartamento in una zona periferica della città e biascicare qualche vago pretesto per invitarlo a trascorrere la serata con lui. Quella volta in particolare, i due avevano giocato con la PlayStation fino a che Jean non si era arreso di fronte alla capacità di Marco di stracciarlo. Si era lamentato, Marco aveva provato l’irresistibile voglia di baciare la smorfia sulle sue labbra e si era accorto di averlo fatto per davvero solo quando le mani di Jean erano salite con fare incerto a insinuarsi tra i suoi capelli mentre ricambiava il bacio.  

A quella prima sera ne seguirono tante altre. E mentre Jean si presentava a casa sua, mentre imparava a scoprire questa nuova forma di relazione tra di loro, mentre le sue mani si facevano più temerarie e i suoi baci affamati, Marco l’osservava. E un pomeriggio, mentre Jean provava giri di accordi alla chitarra mormorando a mezza voce parole di una nuova canzone, Marco realizzò che si stava innamorando di lui.

“Cosa intendevi allora?” domandò, stringendosi appena un po’ di più al corpo caldo dell’altro.

Jean corrugò appena le sopracciglia. “Non è poi così importante.”

“Jean –”

“Marco,” mormorò Jean. Si guardò intorno come se stesse cercando qualcosa e poi si voltò verso Marco, poggiando le labbra contro le sue in un bacio veloce ma intenso. “Non è poi così importante,” ripeté poi in un sussurro.

 
***

“Sei riuscito a parlare con Jean, ieri?” domandò Armin.

Marco si passò una mano sul collo, facendo poi risalire le dita attraverso i capelli corti sulla nuca. “Più o meno,” disse, spostando lo sguardo dai fogli sparsi davanti a sé al viso dell’amico. Armin aveva cercato di fermare i capelli biondi con un elastico, ma le ciocche troppo corte gli ricadevano comunque davanti agli occhi chiari, rendendolo nervoso. Solitamente Armin non s’infastidiva per così poco, ma le due ore appena trascorse con Marco a tentare di scrivere un qualche testo decente iniziavano a pesare sul suo stato d’animo.

Avevano deciso d’incontrarsi da soli a casa di Armin, dal momento che Eren aveva un impegno e Jean a detta di Armin risultava irrintracciabile, per creare un ambiente rilassato in cui riuscire, eventualmente, a mettere insieme qualcosa che soddisfasse le richieste di Levi. E a giudicare dalla quantità di carta straccia che li circondava sul pavimento del salone, avevano fallito miseramente.  

Armin, seduto a gambe incrociate sul pavimento, aveva aperto il proprio laptop e stava scorrendo con aria disinteressata la home di un qualche sito di news. “Guarda qua”, disse d’un tratto, girando il computer in modo tale che Marco potesse osservarne lo schermo. “C’è un articolo sul gruppo.”

Marco distolse la propria attenzione dal foglio tra le sue mani per dedicarsi all’articolo. Il sito web che lo aveva pubblicato era rinomato per essere una fonte poco affidabile e concentrata più sul gossip che sulle notizie effettive, e l’articolo non faceva altro che rimarcare l’assenza dei Wings of Freedom dalle classifiche del mese, a favore invece dei Titans. Prima che Marco finisse di leggere, però, Armin emise un lamento strozzato e fece per riprendere pieno possesso del pc.

“Non ho finito!” si lamentò Marco, più veloce di Armin nello scostarsi per portare il computer fuori dal raggio d’azione dell’amico. Scorse velocemente il resto dell’articolo, e quando giunse alla fine con un moto d’ilarità comprese la reazione di Armin.

“Hai davvero una relazione con Annie?”, gli domandò, e Armin gli rispose arrossendo ed entrando in panico.

“Ma no! Assolutamente no! Solo perché abbiamo parlato qualche settimana fa al party della casa discografica non significa nulla!”

Marco scoppiò a ridere di gusto alla reazione dell’amico, iniziando a leggere i commenti all’articolo. “A quanto pare i fan sembrano concordare. Parecchi dichiarano che il loro cuore si spezzerebbe se tu iniziassi una storia con Annie. Altri sottolineano che – mio Dio, sottolineano che il tuo cuore appartiene solo a Eren,” lesse Marco, con un pugno premuto contro le labbra per soffocare uno scroscio di risa. Armin si prese il viso tra le mani, scuotendo il capo con aria afflitta.

Marco fece per chiudere la pagina, per poi cercare di convincere Armin a non prendersela troppo, quando la sua attenzione fu catturata da una delle risposte ai commenti. Un utente non registrato aveva lasciato come commento: “OMG Eren e Armin sono troppo carini, ma i miei preferiti restano i #jeanmarco!!!”

Dovette concentrare tutte le sue forze sul non arrossire.

“Cosa?” domandò Armin una volta colta l’espressione dell’amico. “Che altro hai letto? Perché sto valutando se valga la pena chiedere a Erwin di contattare chiunque abbia scritto quell’articolo per fare quattro chiacchiere faccia a faccia e chiedergli di eliminarlo dal sito.”

“Nulla,” rispose Marco, ma tirò comunque fuori il suo cellulare per scattare una foto allo schermo del computer, accertandosi che il commento incriminato fosse ben leggibile. Si giustificò con Armin dicendo, con un’alzata di spalle: “Voglio poter ricordare questi commenti nei momenti più tristi. Ripenserò al tuo imbarazzo e riderò.”

Armin gli tirò contro un foglio di carta appallottolato. “Grazie, davvero uno splendido amico.”

Marco rise ed evitò il colpo. Le sue dita viaggiarono velocemente sulla tastiera del touchscreen per inviare in un messaggio a Jean la foto appena scattata.

 
M: [immagine]                                
M: siamo i preferiti di qualcuno!!                                

Armin insistette per continuare a lavorare alle canzoni, incoraggiando Marco sostenendo che avevano comunque messo insieme delle buone basi che andavano solamente rifinite. Marco si abbandonò al suo consueto ottimismo, nonostante una parte di lui sapesse che non avevano scritto nulla di eccezionale fino a quel momento. Nella mezz’ora seguente rilesse le parole messe insieme in precedenza, cerchiando e sottolineando i versi e i passaggi che gli sembravano spiccare tra gli altri.

Quando durante una pausa gettò un’occhiata allo schermo del suo telefono vide che Jean non aveva ancora risposto. Inviò comunque un nuovo messaggio.

 
M: cena stasera?             

La risposta di Jean arrivò solamente qualche ora tardi, mentre Marco stava camminando tra le strade del suo quartiere stringendosi nella sua giacca, con una sciarpa a coprirgli il viso fino al naso.

J: sono stanco morto, scusami
J: domani?

Lo stomaco di Marco si strinse in una morsa di delusione e il freddo sembrò riuscire a penetrare attraverso la spessa stoffa dei vestiti che indossava.

 
M: domani è okay             

Digitò velocemente sul telefono, e non riuscì al fermarsi dall’aggiungere poco dopo:
 
M: che hai? Due messaggi senza imprecare non sono da te             

J: brutta giornata
J: e mi manchi
J: cazzo se mi manchi

Marco sorrise con le labbra contro la lana della sua sciarpa.

 
M: ecco il mio ragazzo!!                
M: allora domani sera                

J: da me o da te?
 
M: veramente stavo pensando di mangiare fuori…                

Marco riuscì perfettamente a immaginare la smorfia che le labbra di Jean avrebbero assunto leggendo quel messaggio, e si sbrigò ad aggiungere:
 
M: fidati di me, ho un piano perfetto                 
M: fidati di me                
M: fallo per me                 

Trascorsero alcuni minuti senza che Jean inviasse una risposta. Marco raggiunse il suo appartamento e combatté con le chiavi di casa che le sue dita gelate non riuscivano a maneggiare – avrebbe seriamente dovuto investire in un paio di guanti adatti al touchscreen se davvero non riusciva a fare a meno di inviare messaggi mentre era per strada al freddo.

Marco sapeva benissimo che a Jean non piaceva farsi vedere in pubblico con lui, principalmente perché di fronte ad altre persone doveva fingere di essere “il migliore amico di Marco” e non “il ragazzo di Marco”.

Jean voleva che la loro relazione restasse privata, e lui rispettava la sua decisione. Certo, non gli sarebbe dispiaciuto poter stringere la mano di Jean mentre camminavano per strada, o poterlo baciare anche di fronte ad altra gente. Non gli sarebbe dispiaciuto fare coming out se questo avesse significato stare al fianco di Jean senza preoccupazioni.

Ma questo non era ciò che Jean voleva. E Marco rispettava la sua decisione.

Il vibrare del telefono nella tasca dei jeans distrasse Marco dai suoi pensieri.

J: non vale. Sai che farei di tutto per te

 
M: sfigato          

J: nerd

M: fatti trovare pronto per le sette         

Marco si sedette al tavolo della cucina, con un sorriso che gli attraversava il volto da parte a parte. Quello del giorno seguente sarebbe stato il primo, vero appuntamento con il suo ragazzo da due mesi.
 
***

“Questo era il tuo piano perfetto? Entrare dal retro di un ristorante?”

Marco chiuse la portiera dell’auto, raggiungendo Jean dal lato del passeggero. Nonostante si sentisse estremamente sdolcinato nel fare ciò, non riuscì a impedirsi di fissare il proprio sguardo su di lui, lasciando che una calda sensazione gli si diffondesse all’altezza del petto.

Quel pomeriggio Jean gli aveva scritto chiedendogli dove sarebbero andati, ma Marco gli aveva detto che sarebbe stata una sorpresa. Jean si era lamentato dicendo che sarebbe stato meglio saperlo, almeno per vestirsi in maniera adeguata. Di nuovo, Marco non si era lasciato sfuggire nulla. Così adesso ammirava Jean, vestito con jeans scuri e stretti, t-shirt della sua band indie rock preferita e una giacca scura per rendere il look più sofisticato. I ciuffi più chiari dei suoi capelli erano stati lavorati con del gel per alzarli. Quando Jean era entrato in macchina Marco aveva tentato di arruffarglieli e Jean era sgusciato via emettendo un suono impanicato, esclamando: “Non osare! Ci ho messo un’ora a sistemarli!”

C’era qualcosa di tremendamente tenero nel sapere che Jean si era impegnato tanto per apparire al meglio all’appuntamento. Per Marco era stato semplice decidere cosa indossare: aveva optato per pantaloni scuri e un maglione verde, di una tonalità che faceva risaltare la tonalità della sua carnagione e le lentiggini che gli costellavano il viso.

“Che stai guardando?” domandò Jean nell’uscire dalla macchina.

Marco sorrise. “Te.”

Jean voltò il capo per nascondere il rossore diffusosi sulla sua faccia, ma dopo essersi guardato intorno con fare circospetto si allungò verso Marco, prendendogli il viso tra le mani per poi baciarlo sulle labbra. Marco sospirò, e le sue braccia andarono a circondare il corpo di Jean. Poggiò la fronte contro la sua, chiudendo gli occhi per qualche istante prima di posare nuovamente le labbra sulle sue in un bacio più lento e intenso.

Si stavano permettendo di farlo solo perché si trovavano nel vicolo buio sul retro del ristorante, dove l’unica illuminazione era fornita da un lampione e lo spazio della strada era occupato quasi del tutto dall’auto di marco e da qualche cassonetto dell’immondizia. Si stavano permettendo di stringersi l’uno all’altro solo perché da soli, nell’ombra. Marco strinse Jean appena un po’ più forte prima di lasciarlo andare.

“Aspetta,” gli sussurrò prima di allontanarsi e digitare un numero sul proprio telefono. Lascio squillare per qualche secondo prima di riattaccare, con Jean che lo guardava con aria incuriosita.

“Il mio complice,” si giustificò Marco con un sorriso sghembo. Rimasero in silenzio per circa un minuto prima che la piccola porta del retro del ristorante si aprisse. Marco e Jean si ritrovarono a osservare una ragazza dai capelli scuri legati in una coda di cavallo, con quella che sembrava una bandana bianca sulla testa. “Marco!” esclamò la ragazza, facendosi da parte per lasciarli entrare in un piccolo ingresso da cui provenivano i rumori confusionari di una cucina. La ragazza accolse Marco con un abbraccio. Profumava di buon cibo.

“Sasha,” la salutò Marco. “Grazie per esserti resa disponibile. Lui è Jean,” aggiunse poi, voltandosi verso Jean. “Jean, lei è Sasha. Eravamo compagni di scuola alle superiori.”

Jean, con le mani nelle tasche dei jeans e l’aria di qualcuno che si trova a disagio, salutò Sasha con un cenno del capo. “Qualcuno mi spiega che sta succedendo?” brontolò poi. Marco rise e aprì la bocca per chiarire ogni dubbio, ma Sasha lo precedette.

“Voi, miei cari, state per assaggiare un vero e proprio pezzo di paradiso,” disse, portandosi poi le dita di una mano alle labbra e baciandole con uno schiocco, in un gesto a dir poco comico.

“Ho prenotato un tavolo qui al ristorante. Sasha ha spiegato al proprietario che necessitiamo della massima privacy,” disse molto più eloquentemente Marco.

Sasha aggiunse, con un sorriso enorme: “Il vostro tavolo è in una delle sale private del ristorante e io sarò il vostro cameriere personale, quanto è forte questa cosa? Forza, seguitemi,” disse, prendendo a camminare. L’ingresso si affacciava su di un corridoio decorato con carta da parati rossa e oro, ma per il resto del tutto autonomo. Marco si stava avviando verso Sasha quando si sentì tirare per il polsino del maglione.

“Quanto ti è costato tutto questo?” disse Jean, incredulo.

Fu il turno di Marco di arrossire, e scosse il capo come a minimizzare. “Non importa. Ne vale la pena, una volta tanto.”

 
***

La sala in cui era stato preparato il loro tavolo era piccola ma accogliente. La carta da parati manteneva gli stessi toni caldi di quella nel corridoio, ma veniva smorzata da decorazioni semplici e neutre. Una lunga tovaglia color crema ricopriva la tavola, al centro della quale troneggiava un candelabro con tre candele spente.

Marco deglutì a fatica. L’ambiente era davvero gradevole e intimo. Forse troppo intimo. Romantico sarebbe stato il termine giusto, pensò con una punta di panico. Di certo anche lui era rimasto sorpreso dell’organizzazione del ristorante.

“Be’,” disse a Jean quando si furono seduti al tavolo. “Io, umh… spero che tutto questo non sia troppo.”

Jean, che era caduto in un silenzio interrotto soltanto dalle ordinazioni che Sasha aveva preso, alzò lo sguardo su di lui. Sulle sue labbra si formò un sorriso e Marco sentì una piccola parte della tensione che aveva accumulato in petto sciogliersi.

“Tu, Marco Bodt, sei il miglior ragazzo che chiunque possa mai desiderare.”

Marco arrossì con così tanta violenza che si sbrigò a riempire d’acqua il proprio bicchiere per poi svuotarlo con grandi sorsi, nascondendo così il proprio viso.

Jean continuò a sorridere per tutto il resto della serata. Sorrise quando Sasha tornò con le prime portate, diffondendo nell’aria un aroma delizioso, sorrise quando rubò a Marco un boccone dal suo piatto, sorrise nell’assaggiare il vino in tavola e nel fare conversazione.

Nella vita di ogni giorno, Jean era diverso. I suoi atteggiamenti, la sua maniera di porsi nei confronti degli altri, persino il suo apparire, tutto era studiato per calarsi nella parte del ribelle, del chitarrista oscuro e misterioso per cui centinaia di fan perdevano la testa. Era un’immagine che attirava e vendeva. Poteva anche essere stata genuina, in principio, ma di sicuro negli ultimi tempi era stata esasperata. Marco se ne rendeva conto dal fatto che Jean aveva cominciato a sorridere sempre di meno quando si trovavano insieme al resto della band. Le sue risposte alle interviste erano diventate sempre più secche. La sua disponibilità verso i paparazzi era scesa sotto lo zero.

Il Jean di quei momenti era un’altra persona rispetto al ragazzo seduto adesso al tavolo insieme a Marco.

“…e ti giuro, avresti dovuto vedere la faccia del tassista quando mi ha riconosciuto: è stato epico, mi ha chiesto un autografo da portare alle sue figlie e – Marco? Mi stai ascoltando?”

“Uh?” sobbalzò Marco. Jean corrugò le sopracciglia, assumendo la consueta espressione offesa di quando Marco non ascoltava ciò che lui aveva da raccontargli.

“A cosa stai pensando?” disse poi, allungando una mano a sfiorare quella di Marco, abbandonata mollemente sul tavolo. “Sei distratto,” lo accusò Jean, e Marco sorrise, bloccando le dita di Jean tra le sue e godendosi il vago rossore imbarazzato che si diffuse a macchia d’olio sul suo viso altrimenti pallido. Era assurdo come Jean potesse comportarsi come la persona più arrogante e spocchiosa del mondo, per poi arrossire come una ragazzina quando si trattava di Marco – che, segretamente, era orgoglioso di questo suo potere.

“Stavo pensando,” disse con voce bassa, guardando Jean attraverso le folte ciglia scure. “Che come primo appuntamento non sta andando affatto male.”

Jean rimase in silenzio. Ciò che fece fu spostare di poco la mano, per poter accarezzare ripetutamente con il pollice le nocche di Marco. Mormorò poi qualcosa, e Marco non se ne sarebbe neanche accorto se non avesse visto le sue labbra sottili muoversi. Si avvicinò a lui sporgendosi sul tavolo e gli chiese di ripetere.

“Ho detto,” disse allora Jean a un tono di voce accettabile. “Che mi dispiace aver dovuto aspettare interi mesi per questo momento.”

La tristezza che trapelava dalle sue parole si mescolava alla rabbia. Marco lasciò che le proprie labbra si schiudessero per formare una piccola “o” muta, mentre si malediceva per aver lasciato che la conversazione finisse su questi tasti dolenti. Doveva rimediare. Non voleva veder traccia del broncio di Jean per quella sera: meritavano, almeno per una volta, di trascorrere una serata come una normale coppia senza pensieri.

Per cui Marco fece la prima cosa che gli saltò in mente: afferrò un pezzo di pane all’aglio, unico superstite della loro cena, e dopo averne staccato una mollica la tirò sul naso di Jean.

“Ma che cazzo–” esclamò Jean. Sbatté le palpebre più volte con la bocca aperta in un’espressione sconcertata, e Marco non poté fare a meno di scoppiare a ridere. “Oh, no, Bodt. Non mi hai appena sfidato in una battaglia di cibo.”

Marco non ebbe tempo di giustificarsi. Riuscì a malapena a ripararsi il viso con le mani prima che qualcosa di viscido e freddo lo colpisse sul polso. Quando abbassò lo sguardo, Marco si rese conto che era un boccone di carne avanzato dall’ordinazione di Jean.

“Jean Kirschstein,” disse allora, osservando il ragazzo davanti a lui con aria vendicativa. “Non si gioca,” sussurrò mentre staccava un altro pezzo di pane, “con il cibo!”

Il pane lanciato da Marco volò in un perfetto arco prima di scomparire tra i capelli di Jean, che emise un verso strozzato per poi scagliarsi addosso a Marco nel tentativo di strappargli di mano ciò che restava del pane all’aglio. “Dammi quella roba!” esclamò, ma Marco tese il braccio allontanando il suo bottino. Con l’altra mano cercò di allontanare Jean, che gli si stava letteralmente arrampicando addosso, fino a che Marco non pose fine a quel teatrino portando velocemente il pane alla bocca e facendolo sparire tra le labbra. Jean lo trafisse con lo sguardo e lui quasi si strozzò per via della risata che ne scaturì.

“Complimenti per aver rovinato l’atmosfera,” fece Jean. Chinò appena il capo quando Marco allungò una mano verso il suo viso, rimuovendo la mollica di pane rimasta intrappolata tra i suoi capelli. Marco lo guardò poi con le sopracciglia inarcate.

“Da quando in qua t’importa dell’atmosfera?” domandò. Gli ci volle qualche istante, unito al “Non è fottutamente possibile” mormorato da un avvilito Jean, perché la situazione gli apparisse chiara. In primo luogo: Jean era letteralmente seduto sulle sue gambe. Seconda cosa: le sue mani erano risalite lungo le cosce di Marco, fino a posarsi pericolosamente vicine al cavallo dei pantaloni. Marco deglutì. Jean sogghignò.

“Potremmo pagare e andarcene,” mormorò, sporgendo il proprio viso verso quello di Marco. “Casa tua non è molto lontana.”

“O-Oh,” fu tutto ciò che Marco riuscì a dire. Non riusciva a staccare lo sguardo dalle labbra di Jean. Le sue mani si posarono sui suoi fianchi e Marco si sporse per baciarlo, ma fu proprio in quel momento che Sasha fece irruzione nella sala.

Marco! Mi dispiace, non so come sia potuto succedere, ma io – ah! Ho… ho interrotto qualcosa?”

Marco sapeva che la scena davanti agli occhi di Sasha lasciava ben poco spazio a varie interpretazioni. Lo stesso doveva pensarlo Jean, che quasi cadde a terra nel tentativo di divincolarsi dalla stretta delicata di Marco. Il suo viso aveva assunto tinte di un rosso tanto vivo quanto quello che decorava la carta da parati e la sua espressione era un misto tra la furia e la vergogna. Marco avrebbe voluto rassicurarlo. Avrebbe voluto dirgli che non doveva preoccuparsi, perché conosceva Sasha da anni ed era certo che con lei il loro segreto si trovava al sicuro, ma non ebbe modo di farlo. Sasha, con la sua voce colma di panico, reclamò per sé ogni attenzione.

“Non so come sia successo, davvero, a sapere di questa sera eravamo solo io e il capo, proprio perché hai detto che c’era bisogno di privacy, e ti giuro che non ho aperto bocca, Marco, te lo giuro, e –”

“Sasha,” la interruppe. “Respira. Che succede?”

“Paparazzi. Qualcuno deve averli avvertiti. Mi dispiace davvero tanto.”

Qualunque calore avesse invaso il corpo di Marco fino a qualche istante prima parve svanire di colpo, sostituito da un brivido che gli corse affilato lungo la schiena. Jean, al suo fianco, aprì la bocca come a dire qualcosa, ma nessun suono uscì dalle sue labbra. Marco lo guardò con le sopracciglia corrugate: era rimasto come pietrificato dalla notizia.

“Ehi,” mormorò, allungando una mano verso di lui, ma Jean si scostò. Fu dura per Marco far finta che il suo cuore non fosse sprofondato di fronte a quel gesto, ma questo non era il momento adatto per avvilirsi.

“Possiamo ancora uscire dal retro?” domandò a Sasha, che anticipò la sua risposta stringendosi nelle spalle.

“Penso abbiano assediato più l’uscita del retro che quella principale.”

“Allora forse dovremmo uscire da lì. Dalla principale, intendo.”

“Che cosa?” esclamò Jean, guardando Marco con aria incredula.

“Non abbiamo nulla da nascondere,” ribatté Marco. “Siamo due compagni di band che hanno approfittato di una serata libera per andare a cena fuori, prendendo le dovute precauzioni per non doversi preoccupare di paparazzi indiscreti. Giusto?” aggiunse, facendo saltare lo sguardo da Jean a Sasha, che annuì. “Non c’è nessuno scoop grandioso. Sono solo foto.”

Jean alzò una mano e prese a sfregarsi violentemente la fronte. “Come puoi prenderla così alla leggera?”

Marco distolse lo sguardo.

Sasha fu un angelo quella sera. Continuò a scusarsi mentre i ragazzi recuperavano le loro giacche e mentre Marco pagava il conto per la cena – il proprietario del ristorante, un uomo calvo la cui caratteristica di spicco era un folto paio di baffi ingrigiti, offrì le proprie scuse per l’inconveniente dei paparazzi con un generoso sconto.

“Se scopro chi è stato,” stava dicendo Sasha nell’accompagnare Marco e Jean all’uscita principale del ristorante, “gli farò saltare così tanti denti che dovrà mangiare a vita attraverso una cannuccia.”

Nonostante la situazione, Marco rise. “Non farti arrestare a causa nostra, Sash,” le disse davanti alle porte d’ingresso prima di abbracciarla. Indugiò qualche istante nella stretta della ragazza, affondando il naso tra i suoi capelli castani per un istante prima di allontanarsi. Jean era rimasto in disparte, con lo sguardo basso, voltato quasi del tutto di spalle. Marco gli batté una mano sulla spalla in un gesto non fraintendibile prima di uscire dal ristorante.

Il rumore delle macchine fotografiche arrivò ancor prima dei flash, che lasciarono Marco scombussolato. I paparazzi non erano in tanti, solo tre. Marco cercò di darsi forza e rivolse loro un sorriso incoraggiante.

“Ehilà, ragazzi! Siete restati fuori con questo freddo?” domandò, facendosi strada tra di loro con Jean alle calcagna. Sperava che il suo approccio riuscisse ad oscurare lo sguardo assassino che era certo Jean stesse lanciando in quel preciso istante.

I paparazzi, in fin dei conti, furono gentili. Una volta ottenute le loro foto si fecero in disparte per lasciar passare i ragazzi, che proseguirono in silenzio lungo il marciapiede per raggiungere l’uscita secondaria nel vicolo dove avevano lasciato la macchina. Lì la situazione si fece più pesante.

“Eccoli!” gridò uno degli altri fotografi che li stavano aspettando lì nel vicolo. Marco ne contò almeno altri cinque prima i flash lo abbagliassero nuovamente. Ancora una volta tese le labbra in un sorriso e alzò una mano per salutare i paparazzi.

“Buonasera,” cercò di salutare, ricordando a sé stesso che avere un approccio affabile poteva servire a rendere la situazione più sopportabile per tutti. Jean, però, non parve della stessa opinione.

“Non abbiamo tempo per i convenevoli, Marco,” mormorò in un ringhio, e si avviò a grandi passi verso la macchina. Ignorò del tutto i fotografi, tenendo le mani nelle tasche dei jeans e la testa incassata tra le spalle. Probabilmente si farebbe fatto strada a forza di spintoni se non l’avessero lasciato passare. Marco sospirò e lo seguì in fretta.

Sarebbero entrati in macchina nel giro di pochi secondi se uno dei paparazzi non avesse improvvisamente gridato: “Seratina romantica per due?” accompagnando le parole con una risata. Marco stava cercando qualche frase mordace per spiegare che si trattava di una cena tra amici, ma Jean fu più veloce di lui.

“Chiudi quella fogna che hai per bocca, coglione!”

“Jean!”

Marco lo afferrò istintivamente per un braccio, allontanandolo dall’uomo verso cui sembrava avere tutta l’intenzione di scagliarsi. “Non dare spettacolo,” mormorò fra i denti. Jean, una spanna più basso di lui, alzò lo sguardo per fissarlo negli occhi per un istante, dopodiché a denti stretti fece il giro dell’automobile. Marco sbloccò le portiere ed entrambi salirono in macchina, ignorando i flash che avevano ripreso a illuminare il vicolo altrimenti buio.

 
***

Marco spense il motore della macchina, ma né lui né Jean accennarono ad abitare l’abitacolo. Tutt’altro: Marco avrebbe voluto poter rimanere per sempre all’interno della vettura. Jean non aveva spiccicato parola da quando avevano lasciato il ristorante, e Marco non aveva cercato di iniziare una conversazione. Erano rimasti in silenzio fino a che non erano giunti davanti casa di Jean. Marco aveva guidato con nelle orecchie solo il rombo del motore, a disagio nell’atmosfera surreale scesa durante il viaggio.

“Jean,” azzardò tutto d’un tratto, con le mani ancora strette sul volante nonostante la macchina fosse ferma. Si voltò, e i suoi occhi incontrarono il profilo elegante e affilato del viso di Jean illuminato dalle luci dei lampioni e dei fari delle poche macchine in strada a quell’ora. “Mi dispiace.”

Jean portò i pugni al viso, premendo le nocche contro le palpebre con forza mentre sospirava con forza. “Non è colpa tua, Marco. Non devi scusarti.”

“Ma è stata mia l’idea di andare a cena fuori. Non… non avrei dovuto insistere.”

“Già,” sussurrò Jean. Marco aggrottò le sopracciglia e strinse la presa sul volante, guardando davanti a sé con lo stomaco che gli si contorceva. Con la coda dell’occhio vide Jean voltarsi verso di lui e guardarlo mentre diceva: “Ma io non avrei dovuto dartela vinta così in fretta.”

Jean stava sorridendo, o per meglio dire sogghignando. Era una miserevole copia di un normale sogghigno alla Jean, ma bastò a rassicurare Marco. Jean non era arrabbiato con lui. La consapevolezza di ciò lo spinse a lasciar andare il respiro che non si era accorto di aver trattenuto.

Calò nuovamente il silenzio, e fu ancora una volta Marco a parlare per primo.

“Posso chiederti una cosa?” domandò.

“Mh.”

“Ti da davvero tanto fastidio che si sappia che frequenti un altro ragazzo?”

Aveva posto quella domanda consapevole delle diverse reazioni che avrebbe potuto ottenere in risposta. E davvero, Marco si era ripromesso che avrebbe lasciato a Jean i suoi tempi e che non avrebbe preteso nulla da lui. Ancora adesso voleva mantener fede alla promessa fatta a sé stesso, ma non poteva far finta che reazioni come quella che Jean aveva avuto al ristorante non istigassero in lui un profondo senso di malessere.

Corrugò le sopracciglia, fissando con ostinazione le proprie gambe mentre aspettava che Jean gli rispondesse con fare arrabbiato. Ciò che Marco non si aspettava era però che la risposta di Jean arrivasse a lui con voce amara, più che irritata.

“Far sapere che sono gay è solo la più piccola parte del problema.”

Marco alzò ancora una volta lo sguardo su di lui. Jean, una mano fra i capelli e il capo leggermente inclinato all’indietro, l’altra mano stretta a pugno e posata contro la propria coscia. Le luci della strada che l’illuminavano mentre si mordeva il labbro inferiore, lo sguardo corrucciato, come se nella sua mente si stessero rincorrendo miriadi di pensieri e lui faticasse a star dietro a tutti loro. Marco aveva voglia di baciarlo, lì, in quell’istante, di stringerlo a sé e di perdersi nel suo corpo fino a dimenticare qualunque interferenza del mondo esterno. Ma si trattenne. Con fatica, si trattenne. 

“Sto pensando di lasciare la band,” disse infine Jean. Marco sobbalzò letteralmente alle sue parole, come se lo avessero colpito in maniera fisica.

“Che cosa? Perché?” domandò, stupito e preoccupato. “E’ per la storia delle classifiche? Vedrai che è solo un momento negativo, ci risolleveremo presto!”

Jean quasi grugnì, alzando poi gli occhi al cielo. “Marco, l’unico motivo per cui siamo ancora in piedi come band è perché la nipote di Ackerman ha un’ossessione per Eren.”

“Il fatto che Eren e Mikasa siano amici non è importante. Ackerman non è il tipo da lasciar influenzare le sue scelte da cose del genere. Se siamo arrivati fino a questo punto è perché ce lo siamo meritato.”

“Certo,” borbottò Jean in risposta. “Con i miei testi martoriati dalle vostre scelte in fatto di sound.”

“Jean, non fare la vittima,” lo accusò Marco. Jean lo guardò ad occhi sgranati, come se non ritenesse possibile che Marco gli avesse detto una cosa del genere, ma questo non fermò le parole a lui rivolte. “Ti comporti sempre come se ti imponessimo le nostre scelte quando non è così, non è affatto vero. Siamo una squadra, e per quanto Eren possa comportarsi in maniera prepotente quando si tratta di compiere delle scelte tutti noi valutiamo il tuo parere e accogliamo le tue proposte, per cui finiscila con le stronzate e dimmi per quale motivo vuoi lasciare la band.”

“Marco,” mormorò Jean in un sussurro. Pronunciò il suo nome con un’intensità tale che Marco credette fosse la sua risposta alla domanda che gli era stata posta. Jean lo stava fissando con sguardo supplichevole. Alzò una mano come a volerlo toccare, ma Marco vide il braccio ricadere lungo il suo fianco.

Fu allora che intuì le implicazioni di ciò che Jean aveva detto.

“Se lasci la band,” disse con un filo di voce. “Hai intenzione di lasciare anche me?”

Il silenzio che seguì fu per Marco una risposta più che esauriente. Jean portò una mano alla bocca, premendola a pugno contro le labbra. Le parole che poi pronunciò arrivarono alle orecchie di Marco distorte.

“Sai che Bertholdt e Reiner stanno insieme?”

Il primo istinto di Marco fu quello di ridere. Era congelato sul sedile della propria macchina, reso immobile da parole che Jean non aveva neppure pronunciato, e si domandò perché diamine un’informazione del genere dovesse riguardarlo in quel momento.

“L’ho scoperto per caso,” continuò Jean, ignorando forse volontariamente la reazione di Marco. “E’ stato qualche settimana fa, a quello stupido party della casa discografica. Li ho visti insieme. Ho giurato loro che avrei tenuto la bocca chiusa, e da quel momento abbiamo iniziato a tenerci in contatto. Non lo so. Credo che siamo diventati amici,” disse, chiudendo gli occhi mentre poggiava la nuca contro il sedile.

“Credevo che Reiner stesse uscendo con Christa Lenz,” mormorò Marco con un filo di voce. Quella conversazione non aveva senso.

“E’ una montatura. Christa ha già una ragazza, una certa Ymir qualcosa. E’ nel loro contratto, a quanto pare,” disse Jean con un’alzata di spalle, mentre Marco si domandava quale fosse l’effettivo numero di persone non eterosessuali nell’industria musicale e se ci fosse un qualche rito d’iniziazione segreto per entrare a far parte del loro circolo. Non riusciva a credere che Jean fosse a conoscenza di tutto questo. Scosse il capo, tornando a prestare attenzione a Jean. “Il manager dei Titans ha organizzato il tutto. Ha praticamente impedito a Reiner e Bertl di fare coming out fino a quando non scadrà il loro contratto, e si parla di anni.”

Jean fece una pausa, e quando ricominciò a parlare Marco rabbrividì nell’individuare un tono ferito nella sua voce. “Anni, ti rendi conto? Dovranno vivere nascondendosi come se fossero due fottutissimi fuorilegge invece che due persone che vogliono stare insieme.”

“Hai paura che la stessa cosa possa succedere a me e te?” domandò allora Marco.

Jean rimase in silenzio per qualche istante e si mosse chiaramente a disagio sul sedile, prima di mormorare: “Già.”

“Allora battiamo tutti sul tempo! Hai detto che far sapere che sei gay è solo la più piccola parte del problema, no? Allora usciamo allo scoperto. Rendiamo pubblico il fatto che stiamo insieme. A differenza di Bertholdt e Reiner il nostro contratto non ci impedisce di farlo!”

“Dio, Marco!” sbottò Jean, con un tono di voce talmente aspro e impanicato che Marco temette di aver esagerato. “Come puoi essere così ingenuo? Non m’importa che la gente sappia che sono gay, Cristo, persino mia madre oramai lo sospetta! Ma questo non significa che io voglia rendere pubblico tutto questo. Non voglio che la gente parli di me come del chitarrista gay dei Wings of Freedom. Voglio essere famoso per la mia musica, non per qualche articolo scandalistico da quattro soldi!”

Jean aveva preso ad agitarsi. Marco, nonostante fosse rimasto sconcertato dalla sua reazione, tentò di scusarsi e di calmarlo, ma le parole di Jean continuarono a sommergerlo come fossero un torrente in piena.

“Ti rendi conto di quanto internet sia pieno di pagine che parlano di noi due? Dio, tumblr è un covo di esaltati che urlano alla cospirazione ogni volta che durante un’intervista o un’esibizione ci scambiamo uno sguardo, e lo sai anche tu, non negarlo. Sei stato persino tu a mandarmi quel commento l’altro giorno. Non è questo che voglio, Marco, non è questo! Non voglio che la mia vita venga analizzata ogni singolo istante da persone che neanche conosco, non voglio che la mia vita sentimentale o la mia sessualità siano sulla bocca di chiunque, non voglio essere privo di uscire di casa con te per paura di essere assalito dai paparazzi! Non mi sembra di chiedere molto, non ti sembra? Voglio essere famoso per la mia musica e le mie canzoni, non per altro. E’ l’unica cosa che ho sempre voluto, il motivo per cui mi sono gettato a capofitto in quest’avventura. Il primo disco è stato una favola perché nessuno sapeva chi eravamo e potevo essere me stesso e fare ciò che più amo fare senza dovermi sentire come se stessi nascondendo qualcosa, mentre ora invece sta andando tutto a puttane. Non riesco a scrivere, non riesco a creare musica, non riesco a funzionare come artista perché penso costantemente a te e a quanto questa situazione mi stia uccidendo dentro. Se ci fosse un modo per stare con te ed essere al tempo stesso un artista di successo lo farei, Marco, ti giuro che lo farei. Ma non c’è modo di conciliare tutto questo, no?”

Jean fece una pausa. Aveva il respiro pesante, il viso rosso e gli occhi lucidi, e il cuore di Marco si strinse alla vista di tutta la sofferenza che Jean doveva essersi tenuto dentro nel corso dei mesi passati. Allungò una mano, posandogliela sulla spalla, e Jean chiuse per un attimo gli occhi prima di posare la propria mano su quella di Marco.

“Non ho intenzione di fare coming out, ma non riesco ad andare avanti come abbiamo fatto fino ad ora. E’ troppo. Ma piuttosto che vedere la mia carriera scivolare sempre più in basso mentre sto con te preferisco tentare una nuova strada senza la band e rinunciare alla persona che amo,” disse Jean, deglutendo poi con gli occhi sbarrati. Con gesti tremanti portò la mano di Marco alle labbra, baciandone le nocche prima di lasciarla andare.

“Mi dispiace, Marco,” mormorò infine.

Marco rimase in silenzio, sopraffatto dal turbine di emozioni che le parole di Jean aveva fatto nascere in lui. Lentamente ritrasse la propria mano, allontanandola dal corpo di Jean e facendola ricadere inerme nel proprio grembo.

Sentì una risata nascergli nel petto, nonostante il nodo formatosi nella sua gola. Non riusciva a credere che fino a poco più di un’ora prima lui e Jean erano insieme, felici, con magari la prospettiva di trascorrere la notte insieme, mentre adesso…

Adesso Jean lo stava guardando con aria preoccupata. No, non solo preoccupata. C’erano rimpianto, dolore, angoscia e tristezza nel suo sguardo, oltre a una scintilla che Marco non riuscì immediatamente a definire. Somigliava a una supplica. Era come se nel profondo Jean lo stesse scongiurando di far qualcosa, qualunque cosa.

Ma sei tu che te ne stai andando, Jean. Cosa mi resta da fare?

Alla fine, dopo minuti che sembrarono eterni, sotto al peso sempre più schiacciante del silenzio di Marco Jean aprì la portiera della macchina, richiudendola poi alle proprie spalle. Una folata di vento gelido riuscì comunque a infiltrarsi nell’abitacolo dell’automobile. Marco rabbrividì.

Quando rimise in moto la macchina il rombo del motore riuscì per qualche istante a sovrastare il rumore dei suoi pensieri. Marco iniziò a guidare in direzione del suo appartamento nella solitudine della notte, e se ad un tratto alcune lacrime furtive gli scesero sulle guance, nessuno era lì a guardare.









Quindi, umh, se avete letto fin qui non posso che dirvi GRAZIE DI CUORE! La seconda parte arriverà prestissimo, è stata già scritta ma non l'ho inserita perché altrimenti avrei reso la fanfiction davvero troppo, troppo, troppo lunga. 34 pagine di word neppure me le caricava, Efp. 

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Capitolo 2
*** ii ***


The words you speak (surrounding me)

 
 
Cinque giorni dopo.  
 
Marco aprì gli occhi quando una vibrazione costante comincio a solleticargli lo stomaco. Grugnì, nascondendo la faccia nel cuscino prima di rotolare sul letto fino a trovarsi disteso di schiena, recuperando il proprio telefono su cui doveva essersi addormentato. Si sforzò quel tanto che bastava per riconoscere il nome sullo schermo – Eren – e poi alzò a fatica un braccio per accettare la chiamata.  

“’Onto?” biascicò nel telefono, sbadigliando.  

“Ah, ma allora sei vivo!” esclamò Eren all’altro capo del telefono, per poi urlare a chiunque fosse insieme a lui in quel momento: “Piano annullato, è ancora vivo!”  

“Ciao Eren,” sospirò Marco, portando la mano non impegnata a reggere il telefono a stropicciarsi gli occhi.  

“Come va?”  

“Dovrei essere io a chiedertelo, visto che è da giorni che non ti fai vivo.”  

Dal telefono arrivò il rumore di una porta che veniva chiusa, e il rumore di sottofondo che prima Marco non aveva notato diminuì notevolmente fino a quasi scomparire. Eren doveva essersi spostato in un luogo più appartato.   

“Hai saputo di Jean, immagino,” disse poi con voce molto più seria rispetto a poco prima. Il solo nome di Jean bastò a strappare alle labbra di Marco un lamento. Se non attaccò il telefono in faccia a Eren tornando poi a dormire fu solo in nome dell’amicizia che li legava.   

“Esatto,” mormorò dopo aver sospirato pesantemente.  

Era da giorni che Marco non aveva notizie di Jean. Da dopo la sera in cui avevano rotto – perché ormai era chiaro come il sole che avessero rotto – Jean non si era fatto vivo. Era sparito dalla faccia della terra, salvo poi ricomparire in maniera indiretta quando Erwin aveva contattato i ragazzi annunciando loro che Jean si stava muovendo per lasciare ufficialmente il gruppo.  

“Dovrà comunque aspettare il prossimo mese, quando scadrà il vostro contratto,” aveva spiegato Erwin durante la riunione a seguito dell’annuncio. “Ma dubito che un così breve lasso di tempo possa servire a fargli cambiare idea.”  

“Ci ho parlato, sai?” disse Eren, e Marco fece leva su un gomito per tirarsi a sedere nel letto.  

“Uh?” esclamò, troppo stupito per formulare una qualunque altra risposta. Il petto gli si strinse appena in una morsa di gelosia. Quindi Jean era entrato in contatto con Eren, mentre aveva ignorato totalmente l’esistenza di Marco nei giorni passati. Non che Marco l’avesse cercato, comunque, quindi sarebbe stato ipocrita da parte sua portargli rancore.    

“Già. Abbiamo avuto una lunga chiacchierata – penso la più lunga mai sostenuta senza urlarci addosso,” rise Eren. Nonostante tutto, Marco sorrise. Era raro che Eren e Jean riuscissero a parlarsi per lungo tempo senza cominciare a discutere. Questo poteva dare l’impressione che si detestassero, quando in realtà nonostante i litigi e i vari screzi sapevano essere buoni amici. “Non riesco ancora a credere che abbia deciso di andarsene.”  

“Già,” biascicò Marco, girandosi per restare sdraiato su di un fianco, rivolgendo il viso al muro. Non gli andava di parlare di Jean, ma non avrebbe saputo come chiedere ad Eren come cambiare argomento. Fortunatamente, però, le successive parole di Eren per quanto vertessero ancora su Jean furono abbastanza per far scattare l’attenzione di Marco.  

“E’ preoccupato per te, sai?”  

“Jean?” domandò scettico Marco.   

“Mh mh. E’ per questo che mi ha chiamato. Dice che è da ieri sera che prova a contattarti.”  

“Impossibile,” sentenziò Marco. Se Jean avesse provato a contattarlo se ne sarebbe accorto… no? Era anche vero però che la sera precedente era crollato a dormire ancor prima del tramonto, complice il fatto di non essere riuscito a dormire decentemente dalla sera dell’incidente al ristorante. “Oh… aspetta un attimo,” disse ad Eren. Allontanò il cellulare dal volto e mosse le dita sul touch screen fino a rivelare un considerevole numero di notifiche, perlopiù chiamate perse e un paio di messaggi. Quasi tutto era da parte di Jean.   

“Allora?” fece Eren, e la sua voce suonò lontana e distorta dal telefono. Marco inserì il vivavoce.   

“Sono un numero infinito di chiamate e qualche messaggio. Mh – oh!”  

“Oh? Cosa oh?”  

Marco si morse il labbro, cercando di ignorare la dolorosa scarica di speranza che gli attraversò il petto nel leggere il messaggio. “Chiede se possiamo vederci al più presto, lui ed io. Dice che è importante.”  

“Dovresti andare, allora,” lo incitò Eren. “In fin dei conti sei tu quello a cui è sempre stato più unito nel gruppo. Magari riesci a fargli cambiare idea.”  

“Posso fargli cambiare idea tanto quanto posso cambiare il mondo, cioè per niente,” sospirò Marco, alzandosi suo malgrado dal letto mentre cercava le parole giuste per rispondere a Jean. “Ma tanto vale tentare, immagino. Se dice che è importante ci sarà un motivo.”  
 
***  

“Grazie per essere venuto,” disse Jean, porgendo a Marco il caffè che aveva ordinato per lui e che Marco di certo non avrebbe bevuto, già fin troppo nervoso senza bisogno di caffeina nelle vene.   

Questo nervosismo in presenza di Jean era una novità inaspettata e sgradita. Da quando si erano conosciuti, infatti, Marco aveva sempre trovato estremamente facile trovarsi in compagnia di Jean, come fosse qualcosa di naturale e familiare. Era stata, questa, una delle ragioni che l’avevano spinto a trascorrere sempre più tempo insieme a lui. Una delle ragioni per cui Jean l’aveva da subito affascinato.  

“Figurati. Sembrava qualcosa d’importante.”  

“Lo è,” disse Jean, sorseggiando con aria corrucciata il proprio caffè. Dalla smorfia che assunse, Marco dedusse che la bevanda era troppo bollente, ma Jean continuò a berla. Effettivamente sembrava averne bisogno: sul suo viso pallido spiccavano due profonde occhiaie violacee, i ciuffi di capelli che spuntavano dal berretto calato sulla sua testa puntavano tutti in direzioni diverse, e in generale ogni singolo dettaglio dell’aspetto di Jean sembrava suggerire estrema stanchezza.   

Marco doveva costringersi a non guardare il viso di Jean, altrimenti era sicuro che avrebbe allungato una mano per cercare di sistemargli i capelli. Ne era certo. E non era assolutamente il caso.   

“Come stai?”, disse invece.  

Jean si strinse nelle spalle, con lo sguardo basso. “Bene, bene. Io, umh, non sono bravo nel fare conversazione,” disse poi, sfregandosi il collo con una mano.   

Marco strinse tra le proprie mani il contenitore bollente del caffè. “So che hai parlato con Eren.”  

“Già. Non riuscivo a contattarti e ho pensato che forse se fosse stato lui al telefono avresti risposto.”  

Non lo aveva detto con cattiveria o con acidità, il che fu forse il motivo per cui Marco si sentì rimpicciolire sulla sedia del bar per il senso di colpa. Jean pensava che lo stesse ignorando di proposito?   

“Ho completamente ignorato il telefono ieri sera. Avrei risposto, altrimenti,” si giustificò. Jean annuì lentamente in risposta, e prese un altro sorso di caffè.  

“Ad ogni modo,” disse poi, portando una mano alla bocca per coprire un colpo di tosse. Si chinò per un attimo per recuperare la propria borsa, abbandonata per terra accanto alla sua sedia. Marco seguì con attenzione i suoi movimenti mentre Jean apriva la borsa e ne tirava fuori un cd, poggiandolo poi sul tavolino tra loro due. “Volevo darti questo.”  

Marco osservò il cd. Era un semplice cd vergine, di quelli che si comprano in pacchi da cento per masterizzare musica in casa. Nella custodia in plastica trasparente era stato infilato anche un foglio di carta dall’aria decisamente usata. Marco alzò un sopracciglio con aria curiosa, spostando il suo sguardo su Jean, che sorprendentemente arrossì.  

“E’ una canzone,” spiegò, chiaramente a disagio. “L’ho scritta l’altro ieri e sul cd c’è una semplice versione che ho registrato a casa, solo voce e chitarra. E’ per te. Cioè, per la band. E’ per te e i ragazzi.”

“Hai scritto una canzone per noi?” ripeté Marco. Tutto questo era… inaspettato. In primis perché era da settimane che Jean si lamentava perché non riusciva a scrivere nuove canzoni. “Perché?”  

Jean incrociò le braccia al petto, abbandonandosi contro lo schienale della sedia con un’espressione torva in viso. “Perché è il minimo che potessi fare. Non volevo lasciarvi nella merda più totale con Ackerman. Potete provare a proporgli questa canzone come nuovo singolo, se vi piace.”  

“Quindi hai davvero deciso,” mormorò Marco, annuendo tra sé e sé. “Ci abbandoni.”  

Per un istante gli occhi di Jean parvero talmente combattuti che Marco si sentì in colpa per aver volontariamente scelto tali parole. Ma fu solo un istante, e nulla di più.   

“Sì,” disse seccamente, per poi rimanere in silenzio a fissare il cd ancora fermo sul tavolo. Lo indicò con un cenno del capo. “Non lo prendi?”  

Marco si decise ad allungare una mano e recuperare il cd. Non appena le sue dita lo sfiorarono gli parve che Jean emettesse un sospiro. “Lo porterò agli altri in serata, così potremo ascoltarlo.”  

“No,” lo interruppe Jean, e Marco lo osservò con fare confuso. “Se puoi, tu – ascoltalo prima tu. Per favore, Marco,” disse Jean, e nel momento in cui lo sentì pronunciare il suo nome Marco seppe che l’avrebbe fatto. Annuì in risposta, e Jean accennò un sorriso prima di alzarsi e infilare la propria borsa a tracolla. Marco provò una vaga fitta di panico.  

“Te ne vai di già?”  

“Ho degli impegni,” si scusò Jean, trangugiando l’ultimo sorso del suo caffè – in un modo o nell’altro, senza che Marco se ne accorgesse, aveva trangugiato l’intera bevanda nonostante fosse bollente. Controllò poi l’orologio che aveva al polso, e una smorfia gli si disegnò sul viso. “O meglio, li avevo cinque minuti fa.  
Dovrò correre.”  

“Jean,” mormorò Marco sconcertato. Scosse il capo con un sospiro. “Avremmo potuto rimandare, se avevi altri impegni.”  

“Darti il cd era più importante,” rispose di getto Jean. “Una priorità.”  

Rimasero qualche attimo entrambi in silenzio prima che Jean mormorasse un “Ciao, Marco” e uscisse dal bar, lasciando Marco da solo a chiedersi come dovesse sentirsi riguardo l’essere una priorità per una persona che l’aveva lasciato, preferendo la propria carriera. Strinse il cd nelle proprie mani con un sospiro, e con lentezza tirò fuori il foglio di carta piegato dalla custodia. Era macchiato di inchiostro blu. La prima cosa che vide fu il titolo, scritto con la grafia affilata e disordinata di Jean. Jet Black Heart. Marco cominciò a leggere il testo della canzone.  

Everybody’s got their demons  
Even wide awake or dreaming  
I’m the one who ends up leaving  
Make it okay…”   
 
***  

The blood in my veins is made up of mistakes
Let’s forget who we are and dive into the dark  
As we burst into colors returning to life  
‘Cause I’ve got a jet black heart  
And there’s a hurricane underneath it trying to keep us apart  
I write with a poison pen  
But this chemicals moving between us are the reason to start again.”   

Levi lasciò che la registrazione di Jean sul cd terminasse, e quando il rumore bianco che aveva accompagnato l’esecuzione del brano venne a mancare a Marco parve che la sala riunioni fosse fin troppo silenziosa. Si guardò in giro, osservando le reazioni dei presenti.  

Levi, la cui opinione risultava essere la più importante, se ne stava con i gomiti sul tavolo e le mani intrecciate davanti al viso. I suoi occhi grigi e freddi erano posati su di un punto indefinito nella stanza. Erwin, seduto lì accanto, stava annuendo con fare compiaciuto. Chiaramente la canzone di Jean l’aveva colpito. Eren e Armin, allo stesso modo, se ne stavano in silenzio ad osservare il loro manager e il produttore. Già durante l’ascolto della canzone si erano lasciati sfuggire esclamazioni di stupore e approvazione, riconoscendo pienamente il potenziale del brano di Jean.  

Non che Marco si fosse aspettato qualcosa di diverso.   

Il pezzo era una bomba, se n’era reso conto dal primo momento in cui ne aveva letto il testo. L’aveva amato, soffermandosi su ogni singolo verso, ed era corso a casa per poter ascoltare la registrazione prima di tutti gli altri, come Jean gli aveva chiesto di fare. Aveva inserito il cd nel suo computer e quando Jean aveva iniziato a cantare, accompagnato dalla chitarra, Marco aveva premuto le dita delle mani contro le labbra per costringersi al silenzio.  

Avrebbe voluto urlare. Amava quella canzone e la odiava allo stesso tempo, perché Jean aveva ragione, aveva avuto ragione per tutto quel tempo. Era questo il sound su cui dovevano puntare. Marco finì con l’ascoltare la registrazione più di una volta, immaginando mentalmente come la batteria si sarebbe potuta introdurre nell’insieme, immaginando lo scoppio delle chitarre durante il ritornello, immaginando le voci di Eren e di tutti loro creare armonie. Era fenomenale.   

“E’ perfetta come versione base,” sentenziò Levi alla fine, cosa che strappò un’esclamazione di gioia dalle labbra di Eren. “Ma,” continuò però il produttore, alzando un dito in direzione di Eren per farlo stare in silenzio. Il viso di Eren assunse un’espressione catastrofica ancor prima che Levi riprendesse a parlare. “E’ stato Kirschtein a comporla. Lo stesso Kirschtein che ufficiosamente non fa più parte di questa band, e dunque si presuppone non parteciperà a un eventuale secondo album.”  

Erwin strinse le sue labbra piene in una linea sottile, accigliandosi. “Ha ragione,” disse infine, chinando appena il capo in avanti con fare pensieroso.   

Contemporaneamente, sia Marco che Eren che Armin si lasciarono andare contro lo schienale delle loro sedie, chiaramente avviliti dal responso ricevuto.   

“Ma questo è comunque un inizio, no?” mormorò Armin, forse tentando di risollevare il morale dopo la caduta precipitosa subita. “Potremmo usare questa canzone come linea guida, ispirarci al sound che Jean ha utilizzato come fonte d’ispirazione per qualche nuova canzone.”  

Erwin alzò lo sguardo, aggrottando le sopracciglia come faceva sempre quando un’idea gli attraversava la mente. “Non è una cattiva ipotesi. In fin dei conti il problema principale era trovare un nuovo indirizzo musicale che fosse adatto al nuovo disco, e penso che Jet Black Heart possa essere preso come campione , per costruirci il disco intorno. Non trovi?” disse poi, volgendosi verso Levi, che annuì seccamente senza però lasciar trasparire nulla dalla sua espressione.  

“Sarebbe un azzardo,” disse, “ma effettivamente ritengo che potrebbe essere una buona idea.”  

“Per cui adesso cosa faremo?” domandò Eren. Si era aggrappato al tavolo e si stava sporgendo verso Erwin e Levi, con una chiara determinazione nello sguardo.  

Levi si voltò appena, recuperando la sua agenda e sfogliando qualche pagina. Si umettò le labbra, scorrendo con gli occhi qualunque cosa fosse appuntata sulla sua agenda prima di richiuderla con cura. “Adesso,” disse, “vi propongo un patto.”  
 
***  

“Siamo spacciati,” si lamentò Armin, lasciando cadere la testa sulla sua scrivania. Il rumore riecheggiò attraverso le casse del computer di Marco, che adocchiò con area preoccupata il riquadro della videochiamata sullo schermo.  

“Armin?” lo chiamò, ricevendo in risposta solamente un grugnito. Dall’altro riquadro della videochiamata Eren strinse le mani a pugno e le batté sulla scrivania.   

“Non siamo affatto spacciati!” esclamò. “Abbiamo pur sempre una base.”  

Come a sottolineare le sue parole, imbracciò la propria chitarra e prese a ripetere per l’ennesima volta gli accordi della canzone che erano riusciti a buttar giù quel pomeriggio, mormorando a mezza voce una melodia per accompagnarla. Marco sentì un sorriso formarsi sulle labbra, perché Eren aveva più che ragione: avevano una base, un’ottima base.  

Tre giorni prima, al termine della riunione, Levi aveva annunciato ai ragazzi che se fossero riusciti a presentargli una nuova canzone per la fine del mese, una canzone che eguagliasse Jet Black Heart ma che fosse composta senza l’aiuto di Jean, allora avrebbero ottenuto il via libera per l’album. Aveva soltanto bisogno di una prova che i Wings of Freedom sarebbero riusciti a funzionare anche senza la loro fonte creativa principale. I ragazzi si erano ripromessi che a qualunque costo sarebbero riusciti nell’impresa.  

Comporre la musica vera e propria si era rivelato più facile del previsto, nonostante ci fossero voluti quasi tre giorni per ottenere qualcosa che soddisfasse pienamente tutti e tre i ragazzi. Su suggerimento di Erwin avevano ascoltato più e più volte la canzone di Jean, cercando di assimilarne il sound e la mentalità per creare un pezzo sulla stessa linea d’onda.   

“E’ fantastica,” disse Marco mentre Eren continuava a suonare.   

Eren si fermò, rivolgendo un sorriso allo schermo del suo pc prima di ridimensionare la propria espressione. “Il problema restano sempre le parole, però.”  

Marco si strinse nelle spalle. Avevano trascorso l’intera giornata insieme per cercare di buttar giù un testo accattivante, e anche adesso a sera inoltrata stavano continuando il lavoro della giornata su Skype. I risultati, però, tardavano ad arrivare.   

“Avanti, Armin!” incitò Eren tutto d’un tratto. La testa bionda di Armin, rimasta posata sulla scrivania, si alzò quel tanto che bastava perché il ragazzo rivolgesse uno sguardo avvilito allo schermo mentre Eren diceva: “Di solito sei tu quello bravo a parlare. Devi solo trovare l’ispirazione.”  

“Parlare e scrivere una canzone sono due cose molto diverse, Eren,” ripeté Armin per l’ennesima volta.   

“Lo sappiamo,” disse Marco, cercando a suo modo di confortare l’amico. Sapeva che quasi tutte le loro speranze pesavano sulle spalle di Armin, e il biondo stava iniziando a cedere alla la pressione delle aspettative. “Non è colpa tua se non ci riesci. Essere un buon paroliere è difficile.”  

“Già,” borbottò Armin. “Vorrei davvero sapere come fa Jean a scrivere canzoni senza cadere in un esaurimento nervoso.”  

“Ce la faremo,” riprese Marco, cercando di infondere nel povero Armin quel minimo di fiducia tale da risollevarlo dall’abbattimento in cui pareva essere caduto. Eren, attraverso lo schermo, annuì.  

“Magari hai solo bisogno di riposo,” disse, con un tono di voce conciliante che raramente sceglieva di utilizzare. “Abbiamo lavorato senza sosta in questi giorni. Dovresti andare a dormire e cercare di recuperare un’intera notte di sonno.”  

“Oh mio Dio,” borbottò Armin, tirandosi finalmente a sedere e passandosi una mano fra i capelli scompigliati. “Stai parlando come farebbe Mikasa. La situazione è grave, allora.”  

“Wow, grazie mille, la prossima volta eviterò di preoccuparmi per te,” fece Eren, ma nel pronunciare tali parole si lasciò sfuggire una risata che tradì il suo non essere affatto offeso.   

Marco sorrise. “Dovremmo andare tutti,” disse poi, dopo aver lanciato una veloce occhiata all’orario segnato sul computer. “Si sta facendo tardi e domani non saremo per niente in grado di continuare a scrivere se dormiremo ad occhi aperti.”  

Eren e Armin annuirono, quasi in sincrono. “Cerca di dormire anche tu, Marco,” disse Armin, e Marco annuì nonostante il dormire fosse l’ultima delle sue priorità al momento. Si salutarono, dandosi la buonanotte, e dopo pochi istanti lo schermo del computer di Marco segno solamente la homepage di Skype. Marco sospirò, e una volta incrociate le braccia sulla sua scrivania vi poggiò su il viso.  

Nella testa continuavano a ronzargli gli accordi della loro nuova canzone, e per quanto si sforzasse sapeva che non sarebbe riuscito a pensare ad altro per il resto della notte.   

Il suo appartamento era estremamente silenzioso, per cui quando qualcuno nelle vicinanze prese ad ascoltare vecchie carole natalizie anche Marco tese le orecchie, sperando in una distrazione da quello strazio creativo. Ormai erano a metà dicembre. Natale si stava avvicinando, ma al suo confronto persino il Grinch avrebbe avuto un’aria festiva. Era impossibile per Marco riuscire a pensare a qualcosa che non fosse Jean, o la band, o le loro canzoni, o Jean, o gli ultimatum di Ackerman, o Jean.   

In un vago tentativo di tirarsi su di morale, Marco si disse che almeno avevano rotto prima che gli comprasse un regalo di Natale. Magra consolazione, ma bisognava lavorare con ciò che si aveva a disposizione.   

Sempre con la testa sulla scrivania, Marco liberò un braccio per afferrare il mouse e cliccare sull’icona del suo browser di internet preferito. In uno slancio masochista digitò il nome suo e quello di Jean, insieme al nome del ristorante in cui erano andati insieme poco più di una settimana prima. Le foto che comparirono pochi istanti dopo li mostravano insieme all’uscita del ristorante, lui sorridente e Jean imbronciato alle sue spalle. Continuò a scorrere i risultati: foto in cui camminavano, foto accanto alla macchina, persino una foto sfuocata del momento in cui Marco aveva abbracciato Sasha all’interno del ristorante.   

Con un lamento, Marco nascose nuovamente il viso tra le braccia.   

Adesso, troppo tardi, iniziava a comprendere come doveva essersi sentito Jean per tutto questo tempo. Probabilmente anche lui aveva trascorso momenti davanti allo schermo del computer o del telefono, scorrendo foto rubate e leggendo articoli di gossip sulla sua vita. L’intrusività delle parole di persone sconosciute che raschiavano la sua vita fino a far emergere verità reali o costruite diede a Marco la nausea.  Mi dispiace, Jean, pensò. Mi dispiace di non essermi reso conto prima di tutto questo.  

Stanco e abbattuto, Marco non riuscì a combattere il nodo che si stava formando nella sua gola. Deglutì più volte, pizzicandosi la base del naso per scacciare ogni minaccia di pianto, e decise di ascoltare ancora una volta la registrazione di Jean. Inserì il disco, afferrò gli auricolari e premette play. La voce di Jean risuonò nella sua testa, calmandolo all’istante.   

Conosceva a memoria le parole, ormai, ma quella fu la prima volta che si concentrò solo su di esse. A primo impatto gli erano sembrate incredibilmente amare e tristi. Le parole di Jean lo circondarono, e Marco iniziò ad analizzarle più in profondità. C’era qualcosa di familiare in esse. Qualcosa di non totalmente negativo, una speranza di fondo che Marco aveva già riscontrato in un altro contesto: negli occhi di Jean, la sera in cui avevano rotto. Marco rabbrividì e scosse il capo. Maledetto Jean, pensò con un sorriso appena accennato. L’idea che quella canzone condividesse qualcosa con quello che c’era stato tra di loro insinuò in Marco una strana euforia.   

Quando la canzone giunse al termine, Marco restò in silenzio.  

Gli tornarono in mente ciò che aveva detto ad Eren giorni prima, di non poter cambiare né il mondo né tantomeno ciò che Jean pensava.   

E in un attimo, un meraviglioso attimo di chiarezza, nella sua mente si formarono nuove parole.   

Recuperò dalla scrivania un foglio di carta e una penna, e ricordando la canzone composta con Eren e Armin cominciò a scrivere.  
 

*** 
 
Una settimana dopo.  

The words you speak, surrounding me  
This is broken love, in the first degree  
The air you breathe is haunting me  
Maybe I'll change your mind  
  
All my life, I've been waiting for moments to come  
When I catch fire, and wash over you like the sun  
I will fight, to fix up and get things right  
I can't change the world  
I know that I can't change the world  
But maybe I'll change your mind.”  

Jean stette in silenzio, immobilizzato dal traffico dell’ora di punta. Strinse il volante tra le mani con una forza tale che le sue nocche sbiancarono di colpo, e aspettò che lo speaker alla radio ricominciasse a parlare.  

“E questa era Catch Fire, il nuovo singolo dei Wings of Freedom, qui con noi in studio!” esclamò, con voce fin troppo entusiasta per risultare totalmente genuina. Jean lo aveva già preso in antipatia nel momento in cui aveva aperto bocca per la prima volta, e la situazione non faceva che peggiorare. “Wow, ragazzi, davvero wow. Questo è quello che potrebbe essere definito un ritorno col botto. Permettetemi ancora di ringraziarvi per aver scelto il nostro programma per il lancio della canzone.”  

Qualche risata di circostanza, dopodiché subentrò la voce di Eren. “Grazie a te, Jeff, per averci ospitati.”  

“Ah, ci hanno pensato già i vostri fan a ringraziarci, a quanto sembra twitter è in fiamme. L’hashtag Catch Fire sta scalando la classifica dei Trend Topic, a quanto mi viene detto.”  

Il telefono di Jean vibrò nella tasca del pantalone. Jean diede un’occhiata alla situazione per strada, e dal momento che prevedeva di rimanere imbottigliato nel traffico senza muoversi ancora per molto decise di poter tranquillamente stare al cellulare. Quando controllò lo schermo, c’era un nuovo messaggio di Reiner.  

R: L’hai sentita?  

Jean sospirò. Lo speaker alla radio stava continuando a lanciarsi in convenevoli con Eren, ed era una scena così stucchevole che Jean fu tentato di cambiare stazione. Ma non lo fece. Avrebbe pazientato ancora per un po’, sottoponendosi a questo strazio. Intanto, per distrarsi, digitò una risposta per Reiner.  

J: Yep    

Yep. Yep non era una risposta adeguata, Jean ne era pienamente consapevole. Yep era tranquillo e disinteressato, due aggettivi che non avrebbero potuto mai descrivere lo stato d’animo di Jean mentre aveva aspettato di ascoltare la nuova canzone della sua ex band.   

“Quegli stronzetti!” aveva esclamato con fare indignato quando era venuto a sapere che il nuovo singolo dei Wings of Freedom non sarebbe stata la canzone che aveva scritto per loro – be’, per uno di loro in particolare, ma queste erano questioni private. Aveva trascorso giorni interi a sentirsi ferito nel proprio orgoglio, perché la canzone che aveva scritto era una bomba, ne era sicuro, e se i ragazzi l’avevano messa da parte poteva solamente significare che avevano scritto una canzone ancora migliore della sua.  

R: E tu ti lamentavi anche della loro musica????  

“Oh per l’amor del cielo!”  

Jean lasciò cadere la fronte contro il volante, sobbalzando però quando venne azionato il clacson. Dannato traffico. Dannato Reiner che gettava dannato sale sulle dannate ferite.   

“A dire il vero è stato tutto lavoro di squadra,” stava dicendo Armin alla radio. Anche solo dal tono di voce, Jean riuscì a comprendere che stava sorridendo. “Anche se la maggior parte del merito per Catch Fire va a Marco. E’ stato lui a scrivere il testo.”  

Jean sbarrò gli occhi, tornando lentamente a sedere come una persona normale. Non poteva aver sentito bene. Di certo Armin non aveva detto che –  

“Davvero, Marco?” domandò Jeff, lo speaker. “Questo ritorno col botto è opera tua?”  

Si sentì una risata in sottofondo, e il cuore di Jean reagì con una morsa ancor prima che il suo cervello realizzasse cosa stava succedendo. Quando Marco cominciò a parlare, Jean alzò quasi al massimo il volume della radio.   

“Be’, Eren e Armin hanno creato la musica, per cui senza di loro non avremmo niente oggi.”  

Sempre fin troppo modesto.  

“Non essere così modesto, Marco,” fece Eren, riecheggiando i pensieri di Jean.   

“Non è modestia, è la verità!” si difese Marco, ma Jeff lo interruppe domandando: “Ma dicci, Marco, qual è stata la fonte di ispirazione per questo brano? Mi sembra un pezzo pieno di energia, molto positivo, anche.”  

“Lo è, sì. Il che è strano, considerando che era notte fonda quando l’ho scritto e avevo alle spalle decisamente troppe poche ore di sonno. Ma, umh, sì. E’ una sorta di riscatto per un periodo molto duro che ho affrontato – sia come membro della band che a livello personale.”  

“C’entra forse il temporaneo abbandono di Jean Kirschtein dalla band?”  

Jean strinse i denti nel sentir nominare il proprio nome e si protese verso l’impianto radio della macchina.   

“In parte,” rispose Marco, e Jean ringraziò il cielo che non ci fossero altri passeggeri in macchina a testimoniare come si fosse preso il viso tra le mani con aria afflitta. “Ovviamente rispettiamo la decisione di Jean , ma è stato duro. E’ stato… sì, estremamente duro.”  

“Mh, mh. E a livello personale?”  

“Perdonerai la mia vaghezza,” rise Marco, e dannazione Marco, dannazione, smettila di ridere così, ti prego smettila, fu tutto ciò che Jean riuscì a pensare. “Senza entrare troppo nei particolari, mi sono reso conto di quanto stessi ingenuamente vivendo una situazione molto più complicata di quanto pensassi. Non riuscivo a vedere i problemi che occupavano i pensieri di – della persona che condivideva questa situazione con me, e questo mi ha portato a perderla. O a lasciarla andare, forse sarebbe più appropriato. Catch Fire è un inno alla presa di coscienza e alla volontà di cambiare le cose, di agire, di non lasciare tutto in stallo. E’ un esorcismo di tutto ciò che in qualunque tipo di rapporto può portare alla rottura.”  

“Wow, ragazzi. A quanto pare Bodt ci sa davvero fare con le parole!” gracchiò lo speaker, andando avanti con l’intervista. Jean non riuscì più ad ascoltare neanche una parola.  

Respirava a fatica, con le mani premute sul viso e le parole di Marco che ancora aleggiavano nella sua testa.   

La prima ondata che lo travolse e che Jean riuscì a riconoscere fu la rabbia. Ne sentì il sapore amaro e pungente in fondo alla lingua, la riconobbe per lo stomaco serrato e il tremore alle mani e la voglia di colpire qualcosa, qualunque cosa, non avrebbe avuto importanza. Poi arrivò uno strano senso di orgoglio e compiacimento: Marco aveva scritto una canzone. Una splendida canzone. Una canzone che parlava di loro due. Marco, il suo Marco, lui aveva…  

“Maledizione!” ringhiò quasi, premendosi poi una mano chiusa a pugno sulle labbra e guardando fuori al finestrino per cercare di distrarsi.   

Perché Marco aveva parlato come se fosse stato facile per Jean lasciarlo? Come poteva credere che i giorni successivi all’incidente del ristorante non fossero stati un’anticamera dell’Inferno? Fottutissimo Bodt. Pensava davvero che fosse stata colpa di una qualche sua inadeguatezza che Jean se n’era andato?   

Ecco la fottutissima ultima notizia, Marco, tu non c’entri nulla. Assolutamente nulla. Tu sei sempre stato perfetto e meraviglioso e meritavi qualcuno che non entrasse nel panico di fronte alla prospettiva di uscire a cena con te o di baciarti in un luogo pubblico.   

Il telefono che Jean aveva lasciato in grembo riprese a vibrare. Quando Jean controllò lo schermo vide che Reiner lo stava chiamando. Accettò la chiamata per riflesso, nonostante il tremore delle sue mani e il bruciore negli occhi lo inducessero a lasciar squillare a vuoto.  

“Stava parlando di te, non è così?” fu la prima cosa che Reiner disse.  

Jean inspirò in maniera violenta. “Come fai a saperlo?”, disse, ma nella sua voce non c’era traccia di panico o di difesa. Come se ormai non ci fosse più motivo di nascondere nulla.   

“Perché non sono un idiota, Jean. Ormai ti conosco. Ma l’avevo capito già da tempo,” fu la risposta quasi esasperata di Reiner.   

Jean usò la mano che non stringeva il telefono per sfregarsi la fronte. Fantastico. Quindi era stato tremendamente palese fino a quel momento. “Be’, non è più importante, no?”  

“Maledizione, Jean! Ma hai ascoltato l’intervista oppure hai filtrato solo ciò che volevi sentire?” “Cosa stai –”  

“Muoviti a portare il culo a casa di Bertholdt,” lo interruppe Reiner con un tono autoritario che non ammetteva repliche. Jean si sentì combattuto tra l’imputarsi contro di lui per il puro gusto dell’anarchia e l’obbedire docilmente, perché un Reiner incazzato era un Reiner con cui non voleva avere a che fare.   

“Che hai intenzione di fare?” fu l’unica cosa che replicò, mentre già inseriva sul GPS le coordinate dell’appartamento di Bertholdt appena fuori città.   

“Fare chiarezza nel tuo cervello,” rispose Reiner. “Perché il ragazzo di cui sei schifosamente innamorato ha appena lasciato intendere con una canzone in diretta radio di volerci riprovare con te, e Dio mi maledica se lascerò che questa squallida commedia romantica di serie B si trascini avanti ancora a lungo senza il finale che si merita solo perché hai paura. Perché tu hai paura, Jean, paura di cosa succederebbe se la gente scoprisse di voi. Non rifilarmi stronzate a riguardo. Per cui adesso ti tocca scegliere una volta e per tutte cos’è che davvero vuoi. La tua carriera o Marco. Il non preoccuparti della tua vita privata o Marco. Il vivere con la consapevolezza di non averci provato o Marco.”  

Marco, pensò Jean, mentre con una manovra spericolata s’infilava in un vicolo per sfuggire al traffico. Scelgo Marco.  
 
***  
 
24 dicembre.  

“Mikasa ti prego basta! Non ho intenzione di salire sul palco conciato così!” esclamò Eren, tentando invano di allontanare la ragazza che gli stava calando a forza un berretto di lana in testa.  

“Eren,” ribatté lei. “Prendi esempio da Armin, lui non ha fatto problemi a coprirsi.”  

Eren volse appena il capo per rivolgere un’occhiataccia ad Armin, che stava osservando la scena con un enorme berretto verde in testa. “Be’, Mikasa ha ragione,” disse sulla difensiva, stringendosi nelle spalle. “Fa un freddo tremendo lì fuori.”  

“Traditore!” urlò Eren, ma il suo urlo venne soffocato quando Mikasa riuscì finalmente a infilargli il cappello, coprendogli nel mentre anche metà del viso.   

Marco rise, scuotendo il capo. Aveva ormai fatto l’abitudine al continuo susseguirsi di urla come “Eren!” e “Non sei mia madre!”, e a dire il vero non gli dispiaceva affatto sentire i ragazzi strepitare: gli dava un senso di familiarità. Perché in fin dei conti era la vigilia di Natale, e a Marco l’idea di trovarsi circondato da sconosciuti metteva addosso una forte malinconia.  

Certo, si rendeva anche conto che Levi era riuscito davvero a operare un miracolo riservando ai Wings of Freedom uno spazio durante il concerto di Natale della città, trasmesso in diretta da una delle emittenti televisive nazionali più famose. Il successo del loro nuovo singolo aveva aperto le porte a interviste ed eventi disparati, ma era il concerto la vera occasione che i ragazzi non avrebbero potuto mai lasciarsi sfuggire. Era il loro grande ritorno, la prima esibizione dal vivo di fronte a un pubblico enorme  

Era sciocco lasciare che la malinconia avesse la meglio sull’entusiasmo.   

“Ehi,” mormorò Armin alle sue spalle. Marco si voltò a fronteggiare l’amico, che aveva abbandonato i bisticci di Eren e Mikasa e l’aveva raggiunto, stretto in un enorme giacca a vento. Aveva un’aria vagamente malaticcia. “Sei stranamente silenzioso, ti senti bene?”  

“E’ una domanda che dovrei rivolgere io a te,” disse Marco. Armin, come a sottolineare le sue parole, starnutì.  

“Sto bene, sto bene. E’ solo che il freddo mi fa quest’effetto. Erwin mi ha procurato questa giacca, il tempo di riscaldarmi e starò meglio. Ma non hai risposto alla mia domanda.”  

“Sto bene,” rispose Marco. Lì nel backstage risuonavano le note della band che si stava esibendo in quel momento, ma nonostante ciò si riusciva a parlare senza dover necessariamente alzare il tono di voce. “E’ solo che tutto questo sembra surreale.”  

Armin rise. “Hai detto la stessa cosa al nostro primo concerto,” disse, e le sue parole strapparono a Marco un sorriso genuino.  

“Immagino sia perché ancora faccio fatica ad abituarmici.”  

“E’ una cosa positiva.”  

Tra loro calò poi il silenzio, e Marco tornò ad osservare i battibecchi di Eren e Mikasa con la presenza confortante di Armin al suo fianco. Armin era il genere di persona con cui non è necessario parlare costantemente per goderne la presenza. Il silenzio insieme a lui non era né imbarazzante né forzato, ma una condizione naturale e confortante. Marco aveva imparato ad accorgersene trascorrendo più tempo con lui da quando Jean se n’era andato.   

Jean. Era diventato bravo a pensare a lui senza sentire l’impulso di abbassare il viso e lasciarsi andare all’abbattimento. Il ritrovarsi nuovamente invischiato nelle operazioni promozionali della band aveva distratto Marco quel tanto che bastava per relegare il pensiero di Jean nella parte della mente che si azionava solo nei rari momenti di calma piatta, o durante la notte, quando Marco tirava fuori dall’armadio quell’unica t-shirt di Jean si cui tempo addietro si era appropriato e la stringeva per pochi secondi al petto prima di decidere che stava diventando patetico.   

Avevano smesso di parlarsi con la stessa costanza con cui si sentivano prima che tutto andasse a rotoli. L’ultimo messaggio che Marco aveva ricevuto da Jean era stato uno di congratulazioni e di in bocca al lupo per il concerto di quella sera. Erano in buoni rapporti, in fin dei conti, ma “buoni rapporti” ha un qualcosa di infernale quando è riferito alla persona di cui sei innamorato. “Buoni rapporti” è un limite troppo doloroso per essere considerato positivo.   

“Ragazzi,” richiamò la sua attenzione Erwin Smith, di rientro nel backstage con alle calcagna un Levi Ackerman dall’aria chiaramente poco lieta. Quando Eren si accorse della sua presenza si allontanò di almeno due passi da Mikasa, risultando tra l’altro per niente discreto nel farlo, e la ragazza si ritirò in disparte con un sospiro.  

“Tra quindici minuti in scena,” disse Erwin. Sia lui che Levi stringevano tra le mani dei contenitori fumanti, probabilmente una qualche bevanda calda per combattere il freddo della sera, e Marco vide Armin adocchiarli con aria sognante.   

“Non mandate a puttane quest’occasione,” fu il secco commento di Levi, prima che questi prendesse a sorseggiare la propria bevanda. I ragazzi annuirono.   

La tracklist prevedeva che suonassero due canzoni del vecchio album, che i fan avevano votato in un sondaggio durante la settimana precedente, insieme a Catch Fire. Avevano provato per giorni sino allo sfinimento per assicurarsi che tutto fosse perfetto, e per adattare le vecchie canzoni senza la voce e la chitarra di Jean. Erano determinati a ottenere il miglior risultato possibile, a non lasciare che niente e nessuno potesse interferire con il concer–  

“Ti ho detto di andartene, chiaro?! Non hai i permessi per stare qui!”  

“Levami immediatamente le mani di dosso prima che io decida di spaccarti la faccia!!”  

“Ma che diamine…” mormorò Erwin. Tutti quanti si voltarono per cercare la fonte di tanto frastuono, e Marco non riuscì a credere ai propri occhi.  

Jean?” esclamò, dirigendosi a passo svelto verso il ragazzo e la guardia di sicurezza che lo stava trattenendo per un braccio. Bastarono poche parole di Erwin per convincere la guardia a lasciarlo andare, e Jean lo guardò in cagnesco mentre si sistemava gli abiti mormorando imprecazioni tra i denti.   

“Che cosa ci fai tu qui?”, domandò Eren, decisamente esterrefatto. Jean alzò un sopracciglio.  

“Ciao anche a te, Eren, anche per me è un piacere rivederti.”  

“Meno sarcasmo, più spiegazioni,” disse Levi. “Dammi solo una scusa per buttarti fuori a calci da questo backstage e lo farò personalmente,” aggiunse poi, lasciando trasparire chiaramente il profondo disprezzo che aveva accumulato per Jean da quando quest’ultimo aveva lasciato la band – Marco ricordava con un misto di disagio e tenerezza il momento in cui aveva sentito Levi dire ad Erwin che Jean avrebbe rimpianto amaramente di aver mollato i suoi ragazzi. Più disagio che tenerezza, ad essere sinceri.   

Jean stava guardando in basso, col volto corrucciato, e Marco non riusciva a staccargli gli occhi da dosso neanche per un istante. Aveva un aspetto decisamente migliore rispetto a quando l’aveva visto quell’ultima volta al bar. Era stato così tanto tempo prima… tutto il periodo di lontananza parve ricadere sulle spalle di Marco come un masso, in una volta sola, facendolo quasi crollare sotto al bisogno di toccare Jean come ad accertarsi che fosse davvero lì davanti a lui.  

“Io, umh,” mormorò Jean. “Io… ascoltate, mi sono reso conto di aver fatto una cazzata, okay? A mollare la band.”  

“No,” lo interruppe immediatamente Levi, mentre Erwin diceva: “Jean, non puoi pensare seriamente che basti una scusa del genere per tornare nel team,” e Jean sgranò gli occhi prima di esclamare: “Dannazione, non mi avete neanche fatto finire di parlare!”  

“Parla, allora,” gli accordò Erwin, alzando le mani in segno di resa. Jean annuì e prese un grosso respiro prima di riprendere a parlare.   

 “Io ho – ho delle nuove canzoni. Per la band. Se non volete me, almeno prendete quelle.”  

“Cosa?” mormorò a mezza voce Armin, incredulo, anticipando un silenzio stupito che scese tra i presenti.  

“Be’,” disse alla fine Eren. “Non so voi, ma personalmente credo che per un nuovo disco avremmo bisogno di nuova musica. E se per una singola canzone eravamo sull’orlo di un esaurimento nervoso, magari dovremmo considerare l’offerta di Jean.”  

Erwin annuì impercettibilmente. Aveva assunto la sua aria da uomo d’affari, con uno sguardo calcolatore in grado di non lasciar trapelare i suoi pensieri. “Cosa vuoi in cambio?”, disse a Jean, che alzò il viso a fronteggiare il manager. “Perché dubito tu non stia cercando di ottenere qualcosa in cambio.”  

Jean deglutì e sembrò impallidire tutto d’un tratto, ma quando parlò la sua voce era chiara e forte. “Fatemi esibire sul palco. Subito prima di voi. Una sola canzone.”  

Levi si portò una mano a massaggiarsi la fronte, mormorando qualcosa che Marco non riuscì a sentire chiaramente ma che non doveva essere una risposta positiva.   

“Perché dovremmo?” domandò Erwin, inclinando appena il capo nel guardare Jean, che rispose prontamente: “Perché se dopo avermi ascoltato lo riterrete opportuno, tornerò nella band.”  

“Tch,” fece Levi, scuotendo il capo. “Parli come se ci guadagnassimo qualcosa a riaverti nel branco di mocciosi,” disse, e anche se Jean fu bravo a nasconderlo Marco riuscì comunque a notare l’espressione al contempo ferita e furiosa che gli attraversò gli occhi.   

“Forse dovremmo lasciarlo provare,” disse con un filo di voce, e immediatamente si ritrovò tutti gli sguardi puntati su di lui. Anche quello di Jean. Che non l’aveva guardato neppure per un istante da quando aveva fatto la sua comparsa. Marco incrociò le braccia al petto.   

“Per favore,” mormorò Jean, guardando Marco . “Per favore. E’ – è importante.”  

“Cinque minuti per i Wings of Freedom!” urlò uno degli addetti alla scaletta, gettando una nuova urgenza sul gruppo. Dopo un silenzio che parve interminabile, Erwin sospirò.  

“D’accordo,” mormorò, seguito immediatamente da un “Oh, mi prendi in giro?!” esclamato da Levi. “Una sola canzone,” continuò imperterrito Erwin, voltandosi per andare probabilmente ad avvisare del cambio nella scaletta. Levi lo seguì dopo qualche istante.  

“Che cosa ti salta in mente, Jean?” domandò un allibito Eren.   

Jean rimase in silenzio, come combattuto sul cosa dire. Quando parlò, però, non fu per rispondere a Eren.   

“Mi dispiace,” disse a Marco, mandando una scarica di pura adrenalina lungo la sua schiena. “Mi dispiace per quello che è successo, mi dispiace di aver aspettato così tanto per aggiustare le cose e mi dispiace anche per aver capito con troppo ritardo cosa è davvero importante per me, a cosa non riesco a rinunciare. Spero davvero che questo possa risanare la situazione,” concluse, prima di avviarsi verso l’entrata per il palco.   

Marco si trovò da solo, scombussolato e in preda a un’assurda frenesia, ad affrontare lo sguardo confuso di Eren e quello raggiante di Armin.  

“Io…” iniziò Marco, faticando a trovare parole che potessero spiegare ciò che stava accadendo. Si morse l’interno delle guance, percependo le guance scaldarsi e arrossarsi. Fortunatamente, però, la loro attenzione venne richiamata da ciò che stava accadendo sul palco. Tutti e tre si spostarono verso gli schermi che trasmettevano nel backstage il concerto in atto.  

La folla era in visibilio. Jean, con una chitarra tra le braccia, era al centro del palco. Batté con due dita sul microfono, per poi dire: “Be’, questa cosa è abbastanza improvvisata, per cui non ho preparato qualcosa di intelligente da dire in questo momento. Ma questa canzone è per una persona in particolare, e… questa persona sa chi è.”  

La folla aveva smesso di parlare, e nella piazza era sceso un silenzio surreale. Jean cominciò a cantare.  

People say we shouldn’t be together  
We're too young to know about forever  
But I say they don’t know what they're talk-talk-talkin’ about…”  
 
***  
 
They don’t know how special you are  
They don’t know what you’ve done to my heart  
They can say anything they want  
'Cause they don’t know us  
  
They don’t know what we do best  
It's between me and you,our little secret  
But I wanna tell 'em  
I wanna tell the world that you're mine  
  
They don’t know about the things we do  
They don’t know about the "I love you"’s   
But I bet you if they only knew  
They would just be jealous of us,  
They don’t know about the up all nights  
They don’t know I've waited all my life  
Just to find a love that feels this right 
Baby they don’t know about, they don’t know about us. 
 

***  

Quando Jean scese dal palco gli parve di trovarsi in un sogno. Il suo corpo si muoveva per volontà propria, la sua testa era talmente leggera che avrebbe potuto spiccare il volo da un momento all’altro. I fari del palcoscenico lasciarono spazio alla relativa oscurità del backstage, lasciandolo accecato.   

L’aveva fatto davvero.  

Aveva davvero cantato una canzone per Marco in diretta nazionale. Santa merda.  

Era certo che in quel momento, ovunque si trovasse nel bel mezzo della bolgia infernale del concerto, Reiner fosse fiero di lui. Le parole che gli aveva inculcato a forza nel cervello continuavano a risuonare nella mente di Jean, ancora di salvezza a cui aggrapparsi per ricordare a sé stesso di aver fatto la scelta giusta.  

“Mi sembra un controsenso, ma rispetto i tuoi timori,” gli aveva costantemente ripetuto per le settimane precedenti. “L’idea che dire alla tua famiglia e ai tuoi conoscenti che stai con un altro ragazzo non ti spaventa, ma la prospettiva che ciò influenzi la tua carriera sì. Solo che è tutto molto più semplice di quello che credi, Jean. Sei un chitarrista fenomenale e un paroliere ancor più eccezionale, e se pensi che i tuoi meriti possano venire oscurati dalla tua sessualità sbagli di grosso. Ascoltami, Jean, ascoltami per bene: un domani la tua carriera potrebbe improvvisamente andare allo scatafascio. Non te lo sto augurando, sto cercando di essere realista: è un business tosto, il nostro. E quindi, un giorno potresti svegliarti e renderti conto che hai rinunciato a poter essere felice con Marco per… per cosa?”  

Era questo il momento in cui si voltava, cercando con lo sguardo Bertholdt per rivolgergli un sorriso appena accennato ma colmo di adorazione. Questa volta in particolare Bertl era seduto sul divano nel salone adiacente alla cucina del loro appartamento, intento a giocare a un qualche videogioco collegato alla tv.  

“Può sembrare ipocrita detto da me,” aveva continuato Reiner. “Ma se credi di aver trovato quella persona per la quale vale la pena stringere i denti e lottare, fallo. Lotta. Perché se sarai fortunato quella persona resterà per sempre al tuo fianco, anche quando tutto il resto potrebbe scomparire.”    

Reiner aveva ragione. Aveva sempre avuto ragione, quel dannato. E Jean lo aveva capito con molto ritar–  

“Woah!” esclamò Jean, sentendosi strattonare con violenza. Nel tentativo di non cadere si ritrovò a saltellare comicamente, precipitando nel buio di un anfratto nascosto del backstage dietro ad alcune enormi casse. Non ebbe modo di reagire, o neppure di ragionare, perché nel giro di pochi istanti si ritrovò sopraffatto da stimoli esterni. Numero uno: un paio di braccia calde e forti a sorreggerlo. Numero due: un profumo familiare a circondarlo, scaldandogli il petto nonostante il freddo bestiale. Numero tre: le labbra di Marco, morbide e sicure, premute sulle sue.   

Una volta realizzata la situazione, la risposta di Jean fu immediata. Circondò il corpo di Marco con le braccia, premendolo contro il proprio mentre una mano andava ad infiltrarsi tra i suoi capelli scuri, morbidi al tatto esattamente come li ricordava. Ricambiò il bacio con insistenza, schiudendo le labbra per sfiorare con la lingua quelle di Marco, che le separò a sua volta con un gemito basso e rauco. Il corpo di Jean rispose immediatamente. Questo sarebbe stato un bel problema quando avrebbero lasciato quel nascondiglio… se mai fossero riusciti a lasciarlo…  

“Jean,” mormorò Marco, allontanandosi appena per prendere il viso di Jean tra le mani. Era così vicino che anche nell’ombra Jean riusciva a contare le lentiggini che gli ricoprivano le guance e il naso. “Quella canzone…”  

“Il mio modo per chiederti scusa,” biascicò Jean, afferrando la maglia di Marco per avvicinarlo a sé e baciarlo ancora una volta, con urgenza. Marco rise – quella sua maledetta risata che rendeva le ginocchia di Jean deboli e lo faceva sembrare un ragazzino di fronte alla sua prima cotta, dannazione – e prese a lasciare una scia di baci leggeri sul viso di Jean.   

“Aspetta, aspetta,” lo fermò Jean a malincuore. Sospirò, ben consapevole di dovere a Marco una spiegazione molto più esaustiva. E l’avrebbe fatto, gli avrebbe spiegato ogni singola cosa, ogni singolo pensiero che l’aveva portato a tornare da lui, a comprendere i suoi errori e a mettere da parte ogni paura di fronte al prospetto di una vita al suo fianco. L’avrebbe fatto, se solo Marco non avesse premuto il viso contro il suo collo, mordendo appena la pelle prima di sussurrare con voce gutturale e tremendamente sexy: “Non posso aspettare.”  

Oh, dolcissimo Gesù bambino appena nato.   

Jean stava ancora boccheggiando di fronte alla prospettiva di un Marco impaziente e di tutte le cose che avrebbero potuto fare per recuperare il tempo perduto, quando con un ultimo bacio sulle sue labbra Marco si allontanò da lui, lasciandolo improvvisamente esposto al freddo.  

“Dove stai andando?!” esclamò Jean sconcertato.  

Marco allargò le braccia, stringendosi nelle spalle mentre camminava all’indietro. “Te l’ho detto, non posso aspettare! Siamo i prossimi in scaletta, devo raggiungere gli altri sul palco.”  

Ah. Quindi era questo ciò che intendeva.   

“Farai meglio a riportare il tuo culo qui da me una volta finito,” gli disse Jean con aria vagamente minacciosa. Marco gli sorrise, un perfetto lampo di denti bianchi nel buio del backstage.  

“Sempre,” disse, per poi, se possibile, allargare ancora di più il suo sorriso. “Ti amo!” esclamò, prima di sparire tra la folla.  

Jean si sentì improvvisamente accaldato, nonostante il freddo. “Ti amo anche io,” mormorò, sperando che nonostante tutto le sue parole giungessero a destinazione. In un modo o nell’altro. Nonostante tutto.  

E sapendo che Marco sarebbe tornato, con la facilità e la semplicità che a lui erano mancate, Jean si diresse verso gli schermi nel backstage per assistere all’esibizione.















Le canzoni sono, rispettivamente: Jet Black Heart & Catch Fire dei 5 Seconds of Summer, They Don't Know About Us dei One Direction. Grazie per aver letto!

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