Rid8

di olor a libros
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Riley. ***
Capitolo 2: *** Nomi. ***
Capitolo 3: *** Wolfgang. ***
Capitolo 4: *** Sun. ***



Capitolo 1
*** Riley. ***


Camminava su quella strada ghiacciata, gli occhi infastiditi da tutte quelle luci che le schizzavano davanti, di fronte, addosso.  Il freddo si infilava sotto la pelle e lei il calore dentro di sé l’aveva ormai esaurito da un pezzo. Il suo cuore era deserto. Il marciapiede, al contrario, affollato. Le persone la incrociavano sfiorandola, attraversando il fantasma che lei teneva per mano. Ogni volta lei chiudeva gli occhi, solo per qualche istante. Credeva di sentire il rumore dei corpi che collidevano contro la persona che si stava disperatamente trascinando dietro. Ma il rumore era solo nella sua testa e la sua mano non stringeva altro che assenza. Un ricordo che non avrebbe mai potuto riprendere consistenza, per quanto lei si sforzasse di riportarlo in vita.
Arrivata davanti ad una vetrina luminosa si fermò, si guardò intorno, e per un attimo ebbe la certezza che le persone avrebbero potuto attraversare anche lei senza fare il minimo rumore, il suo corpo ormai anch’esso inconsistente.
Spuntato dal nulla proprio come la certezza, la assalì un desiderio, quasi una necessità: voleva provare, verificare se effettivamente ormai non fosse più rimasto niente di lei che fosse tangibile.
Fissò gli occhi sulla strada, sulle luci che si susseguivano senza sosta, veloci e ineluttabili.
Aveva fatto solo un passo in quella direzione, quando la porta del pub a fianco si aprì e vomitò un gruppo numeroso di ragazzi che parlavano a voce troppo alta; uno di questi nell’uscire urtò la ragazza.
Lei si immobilizzò nel suo corpo ritrovato.
Poi, pian piano, dito dopo dito, aprì la mano. Liberò il fantasma. E si accorse che i tonfi che sentiva non provenivano dall’esterno: era il suo cuore che, nonostante tutto, batteva.

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Capitolo 2
*** Nomi. ***


Sperava che non notassero il suo corpo troppo grande. Pregava perché non ci facessero caso.
Maledisse se stessa almeno tre volte prima di entrare. Perché aveva sbagliato tonalità di rossetto. Perché la gonna non le copriva i polpacci. Perché l’acconciatura la faceva sembrare più alta di alcuni centimetri e quei centimetri in più erano l’ultima cosa che le serviva.
Finalmente si decise a varcare la soglia del locale e venne travolta da un odore di fumo e alcool insieme.
In un attimo registrò tutta la stanza, spostando lo sguardo attento da sinistra a destra, fra i tavoli, le persone, il bancone, le luci. Poi si concentrò sul gruppo di giovani donne che la salutavano e stavano iniziando ad alzarsi per andarleincontro. Le sue amiche, se così poteva chiamarle. Forse meglio colleghe. In comune avevano il lavoro, ma ben poco altro. In breve fu circondata dalle loro voci, i loro profumi stucchevoli, i commenti preconfezionati e le domande disinteressate di circostanza.
“Ecco la regina della serata, la festa può iniziare!”
“Come stai, tesoro?”
“Oh, che domande, guardatela, sta d’incanto!”
La sua bocca sorrise per lei. Seguì le altre verso il tavolo, si sedette e accavallò le gambe.
Mentre ascoltava le chiacchere prender vita fissava le sue gambe sotto il tavolo. Spostò un po’ la destra perché coprisse meglio il polpaccio della sinistra. Poi iniziò a gettare rapide occhiate alle colleghe per accertassi che non stessero anche loro guardando le sue gambe troppo lunghe. I polpacci troppo grossi. Le mani troppo grandi. Il quarantadue di scarpe.
Cercava di parlare il meno possibile, lo faceva solo se direttamente interpellata.
La sua voce troppo grave.
Aveva passato tutta la vita a desiderare di essere lì, in mezzo a loro. Ora ci era riuscita, era in mezzo a loro – ma non una di loro.
Cosa le separava?
Era tutto nella sua testa?
Era sempre la sua testa che si immaginava gli sguardi, il suo cervello che credeva di sentire sussurri che non erano mai esistiti?
Maledisse per la quarta volta se stessa, poi maledisse tutti gli insulti che le avevano fatto smettere di credere nella sincerità dei sorrisi.
Si decise ad alzare gli occhi da sotto il tavolo. Incrociò quelli di Amelia Parks. Neutri, vuoti, eppure ancora le sembrava di scorgervi qualche segno di scherno nascosto dentro.
Sorrise. La Parks ricambiò.
La finzione.
Disgustata, spostò lo sguardo sul lato opposto della stanza. Lì incontrò due occhi di natura totalmente opposta. La differenza era sconcertante, tanto da lasciarla senza respiro per un istante. Quegli occhi castani, caldi, familiari, doveva averli già visti da qualche parte. Sembrava la aspettassero. Aggrottò le sopracciglia, si aggiustò gli occhiali, cercò di capire. Poi smise di cercare di capire, decise che non c’era niente da capire. Che aveva capito tutto.
Lasciò che il suo corpo la portasse verso quegli occhi, verso casa. Fu talmente facile che quasi si commosse. Non aveva più bisogno di guidare il suo corpo, di rinchiuderlo in movimenti forzati, nasconderlo, adattarlo; questa volta al suo desiderio rispose il comando, il suo corpo era suo,  solo suo, e semplicemente la portò da lei, da quegli occhi. A casa.
 

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Capitolo 3
*** Wolfgang. ***


L’odio. Non sapeva da dove arrivasse, da dove fosse nato. Non si ricordava un momento in cui ancora non fosse presente nel suo sistema. Doveva essere nato con lui. Ereditato da suo padre, dal mostro. Nei suoi geni.
Forse lui stesso era odio. Nient’altro, solo un agglomerato di sete di vendetta e rancore. 
Forse, scavando poco più sotto, il dolore. Nascosto per bene sotto gli strati di rabbia. Ma forse, forse c’era. Il dolore, la sua parte vulnerabile. In mezzo al petto, ancora sanguinava. Quella era l’unica parte viva ancora rimasta in lui. La parte da nascondere, seppellire. Combattere.
Tutto ciò che conosceva era morto, marcio. Lo era sempre stato. Anche lui lo era. Ogni cosa su cui avesse pisciato lo ripugnava. Dal più piccolo sassolino calpestato fino alle sue stesse mani sporche di vecchie lotte.
Avrebbe voluto amputarsele. E con loro tutto il resto. Estirpare quella pelle che il mostro aveva toccato, darsi fuoco proprio come aveva dato fuoco a lui.
Non l’aveva ucciso. Non ci era riuscito. Non poteva, se n’era accorto troppo tardi. Finché lui stesso, Wolfgang, fosse rimasto in vita, il sangue del mostro avrebbe continuato a vivere in lui.
Ma era arrivato il momento di porre fine all’odio. Così come era nato con lui, con lui sarebbe morto.
Per lasciare spazio agli innocenti, alle persone che conoscevano solo l’amore... a lei.

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Capitolo 4
*** Sun. ***


Era brava a scomparire. Non richiede molta fatica, spogliarsi di un’identità che non è mai stata realmente tua. Quando sua madre era ancora in vita, anche lei era qualcuno: era una figlia. Ma dopo, dopo non era più neanche quello. Non era più niente.
Pensò che forse era vero, ognuno al mondo ha un suo ruolo prestabilito; il suo era quello di farsi da parte. Sempre. Lasciare che pedine più importanti facessero il loro gioco e guardare, immobile. Annullarsi, se le regole lo richiedevano. E ora, più che mai, le veniva richiesto. Le chiedevano di prendere la sua dignità, la sua identità, il suo stesso istinto di sopravvivenza, e lasciarseli scivolare addosso. Correre incontro alla bomba e abbracciarla perché il suo corpo riducesse i danni dell’esplosione. Poi svanire. In silenzio.
   Ma chi, esattamente, glielo stava chiedendo? Sua madre? Una promessa? Le circostanze? Se stessa?
Forse un istinto di autodistruzione, forse quel piacere masochista e vittimista del cedere, dell’automortificarsi.
O era forse, a ben vedere, proprio quella la vendetta? Incassare i colpi senza rispondere, sentire fino all’ultimo grammo di dolore guardando negli occhi chi ti sta uccidendo e punirli con la tua superiorità? Punirli con il tuo stesso dolore, costringerli ad abbassare gli occhi, a vergognarsi di se stessi?
Sun strinse la penna e firmò, con il suo nome che non era mai appartenuto a nessuno.
Il rancore cercò di entrare ma non trovò spazio nel vuoto dentro di lei.

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