Un lupo mannaro per coinquilino: la dea e il suo licantropo domestico

di Kore Flavia
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Ferite e Pop corn ***
Capitolo 3: *** Piccoli compromessi e pizze a domicilio ***
Capitolo 4: *** Liste a Libri ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Un lupo mannaro per coinquilino
-la dea e il suo licantropo domestico-

 


Prologo: La sventurata vita di una dea
 
All we do is think about the feelings that we hide
All we do is sit in silence waiting for a sign
 



A Zoe i cani erano sempre piaciuti, aveva continuamente supplicato il padre di regalarle un piccolo fagottino d’amore e di peli, ma quello aveva ininterrottamente usato la scusa del “chi se ne occupa?”. Zoe aveva supplicato anche la madre che, troppo impegnata tra casa e lavoro, si scordava costantemente di darle una risposta certa, anche se la bambina aveva sempre sospettato che sarebbe stata un no. Zoe aveva anche provato a convincere la sorellina che “Se almeno tu mi aiutassi, potremmo convincerli”, ma quella era ancora una lattante e l’unica cosa che riusciva a risponderle era uno schiocco della lingua contro il ciuccio.
Forse fu meglio così, poiché la pargoletta si scoprì terrorizzata da ogni forma di vita che non fosse umana e sì, questo comprese anche i dolci cani che Zoe tanto amava.
Ovviamente i tentativi non furono circoscritti solo ai suoi coabitanti, i quali, ovviamente, non comprendevano l’importanza d’avere un cane, ma si espansero anche ai nonni, zii e anche ai parenti di secondo e terzo grado.
Quel che però non capiva era quella loro repulsione nei confronti di quella sua piccola proposta. In fin dei conti i suoi genitori avevano avuto quel pidocchio sdentato e dalle dubbie capacità intellettuali, eppure non le avevano mai chiesto il suo permesso a riguardo. Allora si chiedeva perché lei non potesse prendersi cura della propria piccola creatura.
Zoe sapeva benissimo che questa era tutta una faccenda di scale sociali e proprio per questo, essendo lei una dea, non comprendeva tutta questa irrispettosa mancanza nei suoi riguardi.
Col passare del tempo, però, la ragazza si era dovuta concentrare su altre cose che molti reputavano più importanti e “fondamentali per il futuro” come ad esempio la scuola e, in seguito, l’università. Non che a lei non piacessero quei posti, in fin dei conti almeno lì c’era gente con cui paragonarsi al livello intellettuale e, almeno lì, non si sarebbe dovuta accontentare di una bambina lagnante e di due esseri adulti sbuffanti.
Peccato che le uniche persone che potevano meritare un vero e proprio dialogo con lei fossero i professori, a cui attribuiva comunque una certa demenza senile –come potevano non notare tutti quei decerebrati che copiavano intorno a lei?- e la preside –la quale aveva perso punti dopo averla richiamata per “ingiustificata mancanza di rispetto nei confronti dei professori”, eppure aveva semplicemente fatto notare la demenza senile di cui erano affetti-. Poi c’era la bidella Marilena.
Marilena le era stata simpatica fin dal primo istante, seppur non fosse né molto sveglia né molto intelligente amava i cani e ne aveva due, l’uno di nome Jack e l’altro Sdentato, quest’ultimo aveva preso il nome dal drago di quel film Dreamworks –probabile mancanza d’ispirazione, aveva pensato Zoe-.
Marilena l’aveva colpita con quel suo aspetto gioviale e cicciottello, i capelli biondi le ricordavano un mucchio di paglia appena rastrellato, gli occhi ridotti a delle fessure azzurre, ma che non avevano perso una recondita allegria giovanile. La bidella, aveva notato Zoe in seguito, amava discorrere con gli studenti e sembrava essersi ben informata sui “ragazzi di oggi” riuscendo a passare dall’ultima partita di calcio, all’ultimo concerto dei One Direction, accontentando tutti i tipi di ragazzi che passavano davanti a lei. Tranne Zoe, poiché con Zoe parlare di calcio, di nuove tendenze, o di gruppi come i One Direction non funzionava e Marilena aveva imparato a rispettare quelle stranezze.
Un giorno, però, Marilena portò i cani a scuola accompagnata dal marito e, da quel momento, trovo un punto d’incontro con la ragazza. In seguito scoprì una passione per i libri, per lo studio e la mitologia greca che ben si poteva immaginare da quella giovane.
Marilena aveva capito ben presto che Zoe non poteva vantare alcuna popolarità se si escludeva quella negativa. I maschi sembravano evitarla come la peste e, come venne a sapere Marilena in seguito, il motivo non era certo sbagliato. Zoe, infatti, aveva umiliato un ragazzo dell’ultimo anno davanti a tutti, sottolineando la sua inferiorità e bellezza insipida.
Le ragazze poi, le lanciavano spesso occhiate infastidite e a disagio si allontanavano con qualche scusa.
Marilena storceva il naso nel vedere queste scene, ma certo lei non poteva fare nulla, la colpa era solo del caratteraccio della giovane ragazza.
La bidella, poi, poteva ancora ricordarsi di quei tre o quattro ragazzini che erano andati da lei per confessare una qualche attrazione –Marilena si era sempre chiesta come potessero innamorarsi di Zoe- e di come quella, con un gesto noncurante della mano, li aveva cacciati con la coda tra le gambe.
Da quando poteva ricordare Zoe era riuscita ad avvicinarsi solo ad un’altra persona e quella era una ragazzina, poco più di una bambina, che spesso osteggiava fuori scuola chiedendo qualche spiccio. Sorprendentemente, infatti, quella mendicante era entrata nelle –ristrette- grazie di Zoe, quella quando la incontrava le offriva un panino e le lasciava qualche moneta per la sera, certo nessuna somma trascendentale, ma quella bambina sembrava essere felice di quel contributo e, soprattutto, sembrava aver messo su un po’ di peso.
La ragazzina si chiamava Akilah ed era immigrata da qualche tempo, la madre era morta sui barconi e il padre era rimasto nel paese di provenienza, questo era tutto quello che si sapeva o, per meglio dire, che Zoe sapeva.
Lei, difatti, non aveva voluto dilungarsi troppo sulla vita di quella povera anima. Akilah doveva avere tredici anni a quel tempo, due anni di differenza rispetto a Zoe e questa la trattava come una sorellina minore, preferendo passare del tempo con Akilah che con la sorellina di sangue Elisabetta. Sì, perché mentre Zoe era una dea, Elisabetta era la principessa di casa, scorrazzava per casa agghindata con merletti e colori pastello assieme alle sue amichette.
Zoe aveva sempre trovato insopportabile il chiasso che queste facevano, ma avendo Akilah passava molto tempo fuori casa. Con lei studiava, insegnandole quello che lo Stato avrebbe dovuto concederle di sapere. Le aveva persino insegnato a leggere fluidamente –meglio di molti suoi compagni di classe decerebrati- e Akilah si era dimostrata persino più brava di lei in matematica, era svelta e, mentre Zoe arrancava un poco tra i calcoli, lei rifletteva e raggiungeva la soluzione in pochi minuti.
Marilena aveva notato lo sguardo di ammirazione e maternità che copriva gli occhi di Zoe quando osservava quella piccola amica, era come se un velo si stendeva non lasciando coperto quella superbia e prepotenza che tanto la caratterizzavano. Certo, anche loro talvolta discutevano, spesso per motivi sciocchi come quando Akilah non accettava i soldi perché “Non voglio approfittarmi di te” o come quando Zoe aveva detto che “Non capiva la religione”, ma tutto si era risolto con un innocente bisticcio.
Poi un giorno Akilah non tornò più davanti a scuola. Fu un giorno come un altro, era il secondo di febbraio e Zoe era al terzo anno di Liceo Classico. Girò voce che fosse stata portata ad un orfanotrofio e altre voci affermavano che “Era probabilmente morta di fame” mentre le più terribili erano che “Speriamo se ne sia tornata al suo posto o che l’abbiano uccisa”. Marilena aveva notato un repentino cambiamento nell’atteggiamento di Zoe, ella era diventata più brusca e le sue battute spesso sfociavano nella cattiveria più viva.
Zoe non si ammalava mai, un anno aveva vinto persino il premio di “minor assenze”, ma da quando aveva smesso di vedere Akilah le sue presenze era diventate sempre più rare, la sua salute si era fatta cagionevole o, forse, semplicemente a scuola non ci voleva più andare.
Marilena le avrebbe dato della sciocca, ma, in una piccola parte del suo cervello, Zoe le aveva fatto pena. In fin dei conti lì non aveva nulla da spartire con nessuno.
Forse non aveva nulla da spartire neanche a casa, tra la sorellina urlante e i genitori sempre troppo impegnati per notare i suoi cambiamenti. Marilena, invece, notò bene i tratti del viso di Zoe affilarsi in una smorfia simile a chi ha pianto da poco. Gli occhi scuri riflettevano una luce maligna e saettavano da una parte all’altra dei corridoi, fissavano prepotentemente gli occhi dei professori in un misto di sfida e supplica, perché, in fondo, lei non era una dea, non era perfetta come voleva far pensare e Marilena questo l’aveva capito subito. Aveva subito notato quella fievole, ma insistente luce di bontà, bontà nei confronti di chi è reputato diverso, di chi è troppo debole per difendersi da solo. Zoe era solo stanca, esausta, spossata e trasportava una scia di malumore dietro di sé. Scia che durò fino alla fine dell’anno, fin quando non incontrò, quell’estate il primo ragazzo che le fece battere il cuore, questo Marilena lo seppe, sorprendentemente, da lei. La bidella, appunto, divenne quasi come una madre per Zoe, apprensiva e interessata Zoe riusciva a fidarsi completamente di lei.
Il ragazzo si chiamava Valerio e aveva solamente un paio di anni più di Zoe, paradossalmente, era tutto tranne che diverso e andava per la maggior tra le ragazze che frequentavano quella spiaggia, eppure la sopportava. L’ascoltava mentre lei, quelle rare volte che degnava qualcuno di un discorso, diceva quanto gli altri fossero inferiori e quanto lei non riuscisse proprio a capire le sue coetanee e i suoi coetanei e lui rideva. Rideva di cuore ad ascoltarla discorrere. La pelle abbronzata e i riccioli biondi che gli ricadevano sulla fronte e quando rideva gettava indietro la testa in un gesto poco elegante, ma estremamente attraente. Zoe, come disse in seguito a Marilena, si stupiva e si sentiva a disagio a fare certi pensieri “impuri” su d’un mortale.
Solo una cosa Zoe non rivelò a Marilena e quello fu il suo totale fallimento nel far innamorare il ragazzo di lei. Lei che, ovviamente, era superiore a tutte quelle altre mortale non era riuscita a colpirlo, a attrarlo, ad ammagliarlo e per lei fu un tale fallimento che non solamente non rivelò a Marilena, ma nascose quel dettaglio sotto il tappeto, abbellendo la trama di bugie, dolci, succulenti bugie.
Le aveva raccontato di come proprio lei decise che sarebbe stato meglio lasciarlo ad altre ragazze, ragazze che fossero al suo livello, perché per lui Zoe era troppo. O almeno, questo era quello che lei avrebbe voluto pensare. Peccato che Marilena non ci cascasse così facilmente, ma che, fortunatamente, non fosse nemmeno così meschina da farle domande indiscrete.
E questa fu la prima cotta che Zoe provò e che decise di riporre con cura in un angolino buio della propria mente, senza dimenticarla, ma senza neanche che le annebbiasse la mente. Diede un taglio ai quei pensieri impuri e per anni non provò che disgusto nei confronti degli altri. Fino all’ultimo anno. L’anno della maturità, infatti, le presentò davanti una professoressa dalla mente svelta e dall’immenso amore per l’arte e per le materie che insegnava. La ragazza rimase meravigliata da quella donna dall’immense conoscenze e dal carattere non di molto dissimile dal suo e Zoe cominciò a trattarla con riguardoso rispetto, come una sua pari e qualcosa di più.
Quella donna, poi, ricambiò immediatamente l’interesse mostrato dalla giovane, cominciò a prenderla da parte per domandarle che ne pensasse di quella o di quell’altra cosa. Senza però avvantaggiarla mai sugli altri.
E, persino dopo la maturità, quella professoressa ne seguì il percorso, durante l’università di storia dell’arte s’incontrarono spesso per discorrere di tale quadro o tal altra scultura. Si trovavano bene assieme e, mentre Marilena era come una seconda madre per Zoe, quella professoressa divenne al pari di una zia.
In tutto ciò, però, Zoe non aveva mai smesso di amare i cani. Aveva sempre aspettato di poter vivere da sola e con un lavoro stabile, così da permettersi non solo i costi della propria vita, ma anche dell’animale. Peccato che, alla soglia dei ventiquattro anni di tutto ciò lei aveva solo raggiunto l’obbiettivo di avere una casa propria. Non che non fosse un buon raggiungimento, ma paragonato alla moltitudine di piani che la mente di Zoe aveva costruito con minuziosa precisione, il solo avere raggiunto un unico obbiettivo la irritava parecchio. Poi aveva un lavoro, seppur a suo parere non fosse affatto alla sua altezza, anche se lei avrebbe dovuto fare la guida in qualche museo famoso o la professoressa di un istituto d’arte era finita a fare la commessa ad un supermercato. Peraltro le avevano assegnato l’orario notturno che andava dalle 21 alle 4 di notte e l’unico giorno –o era meglio dire notte?- libero era di domenica.
E durante quelle ore girava la feccia dell’umanità per i gusti di Zoe, uomini sulla quarantina che non avevano combinato nulla nella vita erano all’ordine del giorno e Zoe, seppur non amasse ammetterlo, provava un profondo disagio e una fastidiosa sensazione di frustrazione e inquietudine le faceva leggermente tremare le mani al solo sentire l’odore nauseabondo dell’alcool ingerito e la voce lasciva che l’accompagnavano per quelle strazianti ore di servizio.
Una volta uno aveva persino provato ad allungare le mani, ma lei era stata svelta e, fortunatamente, era riuscita a richiamare l’attenzione di un paio di altri dipendenti, due sue colleghi che non erano neanche troppo inferiori, e quell’uomo era stato scacciato che avesse potuto comprare nulla.
Zoe da quel momento era divenuta distante e fredda con tutti i suoi clienti, che fossero uomini, donne, adolescenti e, probabilmente, lo sarebbe stata anche nei confronti di un cane.
Il suo desiderio di adottare un cane comunque non era certo diminuito, ma ciò non comprendeva i lupi mannari feriti. Soprattutto se quest'ultimi si presentavano davanti a casa sua una notte di gennaio affermando che "Ehi dolcezza, mi faresti entrare? Tanto ad un fisico come il mio non puoi dire di no.” Accompagnato ad un gesto eloquente e alquanto fuori contesto visto il taglio da cui colava sangue sulla tempia destra.
Zoe in un primo momento era rimasta impietrita da quell’affermazione. “Dolcezza”, l’aveva chiamata così con un tono che tentava d’essere sensuale fallendo, però, miseramente. Zoe aveva ringhiato un impropero, ma si era costretta a mettersi da parte, lasciandolo entrare. Semmai avesse provato ad assalirla lei non avrebbe avuto problemi a tramortirlo, in fin dei conti era già abbastanza ferito e, con quel suo atteggiamento superbo, non l’aveva valutato come pericoloso.
Probabilmente per Zoe quello fu l’errore più grande mai commesso.

 

 

Note d'autrice: Eccomi con una nuova long originale. Se voleste sapere come l'idea mi sia venuta è molto semplice: stavo lavando i piatti e il mio cervello ha detto "E se a A piacessero i cani e si ritrovasse un lupo mannaro in casa?" e da lì ho partorito questa "cosa".
Avverto fin da subito che le pubblicazioni dei vari capitoli saranno sporadiche (spero una volta ogni due settimane, ma non illudetevi) a causa dei vari impegni che mi richiamano sempre. 
Vi dico subito che (per le menti più giovani) che potrebbero esserci accenni di scene di sesso, senza però andare nel dettaglio perché "no, grazie, va bene così". 

Poi volevo solo appuntare una cosa sui personaggi: Zoe è arrogante, superba e tutto quello che volete, ma, nei confronti di pochi (e spesso dei "diversi") mostra un'altra faccia. Basti vedere Marilena e Akilah. 
Ulteriore appunto Tutti, ma dico proprio Tutti i personaggi apparsi in questo prologo appariranno anche in seguito come comparse o personaggi importanti. 
Potrebbe esserci la presenza di un personaggio bisessuale, perciò se la cosa non vi garba girate a largo, lo stesso vale per il fatto che Akilah sia un'immigrata. 
Detto questo ringrazio Brave per avermi fatto da Beta e ringrazio me stessa per il banner(?). 
Vi segnalo il mio profilo facebook per avere aggiornamenti/anticipazioni/quello che volete sulla storia: https://www.facebook.com/profile.php?id=100008342498278.
Alla prossima.
Kore

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Capitolo 2
*** Ferite e Pop corn ***



Un lupo mannaro per coinquilino
-la dea e il suo licantropo domestico-



All we do is think about the feelings that we hide
All we do is sit in silence waiting for a sign

 


Capitolo 1: Ferite e pop corn
 
 
“Dolcezza, non è che mi passeresti delle bende?” Aveva domandato l’uomo dopo essersi accomodato sul suo divano e avendo acceso la sua Tv. Zoe aveva preso un respiro profondo e con movimenti che non avevano nulla di naturale, andò in bagno. Sempre che bagno si potesse definire poiché si limitava ai minimi sanitari permessi dalle norme igieniche e la doccia era talmente piccola che persino lei ci stava stretta. Aprì un cassetto posto sotto al lavabo e ne tirò fuori delle garze e un rotolo di “scotch” con cui applicare il tutto. Prima di tornare di là, però, preferì passare per la camera da letto, dove, da un cassetto del comodino, trasse quella che lei definiva “la cremina miracolosa”: fu sua madre a darle quel nome ridicolo, ma Zoe ci aveva rapidamente preso gusto.
Nel frattempo la giovane poteva sentire le voci di due personaggi di una serie tv discorrere su quanto “si amassero profondamente” e di quanto “la loro vita fosse vuota senza l’altro”, le solite cose che a Zoe facevano venire il vomito. Le solite cose che sembravano, invece, come una ninna nanna per l’uomo, dall’altra stanza, infatti, la giovane poteva sentirne il leggero russare.
Zoe avrebbe voluto andare lì e tirargli un ceffone rimbrottandogli che “Non si entra in casa della gente feriti” o che “potevi almeno farmi il piacere di non dovermi far fare da infermiera”, ma, grazie tante, quello lì era ferito e Zoe non voleva avere problemi con la polizia per aver lasciato morire un “povero ferito” sul suo divano.
Zoe avrebbe dato tutto ciò che aveva per scaraventarlo fuori casa, ma ehi! Quell’uomo era pur sempre un suo suddito e, volente o nolente, si sarebbe dovuta prendere cura di lui. Tornò nel salottino e lo vide stravaccato sul suo divano rosso e notò le sue lerce scarpe allungate a sporcare il suo parquet.
Rimase attonita davanti a quello spettacolo immondo: la sua casa, la sua bellissima casa invasa da un lercio mortale.
Scrollò la testa e con una leggera botta della pantofola rosa (perché sì, era in pigiama e per giunta quello indossato quella sera era stato regalatole dalla sorellina e aveva una deliziosa fantasia unicornosa) contro il ginocchio dell’altro, sembrava essere l’unica zona salvatasi dallo sporco.
-Fammi il piacere di presentarti, almeno. – Lo rimproverò appena quello si fu destato (o meglio, appena smise di urlare per lo spavento provocatogli). Zoe lo trovò esageratamente rumoroso e si preoccupò di aggiungerlo nella sua lista mentale di “cose che la infastidivano della gente”, socchiuse un attimo gli occhi e aggrottò la fronte ancora non si capacitava di quanto fosse stata un’idiota ad aprire a quella sottospecie di troglodita.
-Non potremmo passare direttamente alla fase successiva? – Aveva ancora le pupille dilatata dalla paura (e lo dovette ammettere per un attimo le ricordò un cane), le narici allargate in un respiro affannoso e le labbra, che stonavano completamente con i restanti elementi, socchiuse in un sorriso sardonico. Zoe ne fu ripugnata.
-Nome. – ribatté imperiosa, le mani poggiate sui fianchi. –O ti butto fuori casa. – Il ricatto, però, non sembrò sortire la giusta reazione e scatenò una sguaiata risata da parte dell’altro e il mondo in cui lo fece, in cui rise, le ricordò terribilmente Valerio. Chiuse gli occhi e prese un profondo respiro, all’uomo sarebbe parso come un gesto esasperato, per lei fu un modo per riprendere il controllo di sé dopo quel momento di debolezza.
Lo sconosciuto rimase un attimo in silenzio poi, con un gesto di nonchalance, finalmente le rispose:
-Che noiosa, avrei potuto scegliere meglio a chi bussare. –
Sorrise ironico.
-Comunque mi chiamo Dylan. – Il sorriso si allargò ulteriormente davanti alla –ragionevole- perplessità di Zoe.
-Ma non hai alcun accento. – constatò lei per la prima dubbiosa nella propria certezza, possibile che non si fosse accorta di qualche accezione vocale dell’altro? Anche un solo piccolo accenno all’intonazione? Non sarebbe stato da lei lasciarsi sfuggire da un dettaglio così fondamentale per etichettare qualcuno e per reputarlo inferiore. L’uomo, o meglio Dylan, fece un eloquente gesto che stava per un “è troppo lungo da spiegare”, ma Zoe vide chiaramente un’incrinatura nel ghigno dell’altro.
-E be’, sai, i miei genitori sono di origini americane. – Corrucciò un attimo la fronte e poi fissò lo sguardo in quello di Zoe. Era la prima volta che qualcuno aveva il coraggio –e la spregiudicatezza- di guardarla negli occhi per più di cinque secondi e lei se ne sentì a disagio. - I licantropi sono sempre Americani. -  Affermò lui poi, prese il telecomando e accese la televisione tornando, come se la sua dichiarazione non fosse nulla di trascendentale, a guardare la serie tv.
-Potresti medicarmi le ferite prima di fare domande? – Anticipò Zoe, la quale aveva appena socchiuso le labbra perché potessero dire che “Licantropo? E’ uno scherzo vero?”. Zoe lo odiava, le erano bastate due sue frasi e già l’avrebbe preso a randellate sui denti, anzi no! Avrebbe fatto fare il lavoro sporco a qualcun altro, lei non poteva sporcarsi le mani con il sangue di un tale idiota. Sarebbe stato umiliante!
-Mi sembri abbastanza in forze. – Ringhiò Zoe lanciandogli le garze e tutto il resto in grembo. –Puoi medicarti anche da solo. – Fece dietro-front decidendo che stare ancora lì ad ascoltare le sue idiozie, sarebbe stato degradante per la sua intelligenze e immagine. Ebbe a malapena superato la soglia del salotto che Dylan si girò verso di lei per dire quanto “fosse noiosa” e di quanto “si sarebbero potuti divertire assieme” e anche di quanto “quel suo pigiama non fosse affatto sexy”.
Zoe, in un primo momento, pensò di rispondergli a tono, poi, decidendo e capendo la perdita di tempo che ne sarebbe derivata, si chiuse in camera sua.
Guardò un attimo l’orologio e si innervosì vedendo di quanto avesse sforato “l’ora di andare a dormire” ed era tutta colpa sua: di quell’idiota che diceva di essere un Licantropo, neanche fossero al primo d’Aprile. Si ripromise di buttarlo fuori casa il giorno dopo.
Quando si svegliò di soprassalto era ancora buio fuori e capì da dove arrivava quel trambusto che si era infiltrato nei suoi sogni, disturbando la sua quiete: era lui. Ne era certa, come poteva esser certa di essere superiore alla gente. Rimase qualche minuto sdraiata sul letto: aveva bisogno di più tempo per metabolizzare e per partorire un quantitativo di insulti adeguato alla situazione.
-Cosa diavolo stai facendo?!- Urlò dalla sua stanza, fiondandosi alla sorgente del rumore e cioè la cucina.
Colse l’uomo in flagrante, egli stava svaligiando (o cercando con parsimoniosa disperazione) i suoi cassetti. Egli si immobilizzò alla sua entrata e si guardò attorno agguantando una padella e nascondendola dietro alla propria schiena. Zoe si chiese se fosse scemo o cosa.
-Cosa. Stai. Facendo? – Indugiò un attimo sul viso dell’altro. –La proposta dell’esser buttato fuori vale ancora. –Si immaginava reazione più simile ad un animale piagnucolante, ma quello si mise a ridere doveva essere la ventesima volta nell’arco di una notte. Quel rumore la disturbò non poco: assomigliava spaventosamente alla risata di Valerio e, per non farsi mancare nulla, le ricordava vagamente il latrato di un cane. Possibile che il suo odio venisse smorzato da quelle somiglianze?
Dylan continuò il suo lavoro mettendo la sua padella sul fuoco e, allungando una mano con cautela, prese la bottiglia d’olio versandone un fondo nella casseruola. Fece qualche passo verso di lei e si avvicinò a lei. Non che prima non fossero già abbastanza vicini essendo quella cucina più simile ad un buco. Zoe era pronta a dargli un pugno se avesse fatto una mossa di troppo, peraltro in cucina ci stavano i coltelli e lei non avrebbe avuto problemi ad utilizzarli.
-Stavo preparando dei pop-corn, ma se vuoi puoi unirti a me. – Sorrise mellifluo e fece un gesto di nonchalance con la mano destra fissando lo sguardo sulla padella.
-E se vuoi…- rifissò lo sguardo su di lei. –potremmo giocare assieme.-
Zoe poggiò le proprie mani sul petto dell’altro e sorrise con cattiveria. Si alzò sulle punta dei piedi raggiungendo il livello del suo mento con lo sguardo. L’unica cosa che gli si potesse concedere era che fosse alto. Notò lo sguardo di Dylan luccicare di malizia. Ci era cascato.
-Accetto i pop-corn, – tacque. –ma per il resto mi tocca dirti di no. – Il sarcasmo pungente nella sua voce lo fece sbuffare e alzare gli occhi al cielo. Zoe poté sentire un debole “dio” fuoriuscire dalle labbra dell’uomo.
-Va bene, va bene, sarà per un’altra volta. – E riportò la propria attenzione alla padella versandoci una busta di mais per poi metterci un coperchio sopra.
Si girò nuovamente verso di Zoe strofinando le proprie mani sui lati dei pantaloni color kaki per poi poggiare i propri gomiti sul ripiano dietro di sé. Buttò in avanti la testa teatralmente scoprendo così la fasciatura intorno alla propria fronte nascosta dai capelli scuri.
-Mi sono dovuto arrangiare visto che non mi hai voluto aiutare.- Si lagnò Dylan buttando un occhio sui primi pop-corn che scoppiavano nella padella. Zoe sollevò un sopracciglio infastidita e incrociò le braccia sotto al seno.
-Embe’? Non sono tua madre e tu, caro mio, sei un uomo bello che vaccinato, non saresti morto per così poco.- Si guardò la punta dei piedi un secondo valutando se andar a prendere o no un bicchiere d’acqua, ma ciò sarebbe significato anche offrirlo al suo “ospite”. Ci rimuginò un attimo, ma venne interrotta dall’altro.
-Acqua?- Alzò lo sguardo sul suo bicchiere tenuto dal suo ospite. Già faceva come a casa sua ed erano passate poche ore da quando era lì. Prese il bicchiere con stizza, lanciando fulmini dalle pupille verso quel braccio ancora alzato a offrirle la sua acqua.
-Come si dice? – Sogghignò l’uomo portando la propria attenzione ai pop-corn i cui scoppi riempivano la stanza. Zoe diede una botta con la pantofola a terra, se avesse avuto delle scarpe col tacco sarebbe stato di maggiore effetto, e si guardò bene dal rispondergli con uno sbuffo. Non era affatto simile a Valerio, solo la risata, solo quella. Zoe decise di non farlo ridere o divertire, ma quello non sembrava avere un vero e proprio senso dell’umorismo viste tutte le risate che si era fatto.
Rimasero in silenzio, il tempo scandito dal rumore dei botti del mais e la stanza che si riempiva dell’odore dilagante dei pop-corn, se Dylan non avesse interrotto quel momento probabilmente Zoe non avrebbe nemmeno pensato a quanto fosse straordinariamente insopportabile. Peccato che Dylan non fosse abbastanza sveglio per fare la saggia decisione di restare in silenzio.
-E’ strano, di solito quando dico di essere un Licantropo la gente mi sviene davanti, o si mette ad urlare, o prova accoltellarmi… - Continuò la sua lista di reazioni avute dalla gente contandole sulle dita citò anche quella volta che “si era appena fatto una bella tipa e lui si era lasciato accidentalmente scappare un’informazione così fondamentale come l’essere un Licantropo e di come quella si fosse messa ad urlare e a lanciargli tutto ciò che poteva essere lanciato”. –Tu la presa in maniera piuttosto zen, neanche una domanda.- Fece spallucce e, prendendo la padella dal manico, rovesciò il suo contenuto in una ciotola. Quando si girò, però, spalancò gli occhi alla vista di una Zoe alquanto perplessa e adirata. Poi adirata perché? Si era domandato lui.
-Come prego? Tu saresti un licantropo?- Una risata nervosa esplose dalle labbra della giovane era ovvio che non ci credesse, era ovvio che si stesse prendendo gioco di lui usando quel tono saccente. Era ovvio, ma Zoe non poté evitarsi di pensare, in una parte oscura della propria mente, che, forse, quell’idiota tutto muscoli non la stava prendendo in giro e quel barlume di pensiero le diede un gran fastidio. Perché ciò avrebbe spiegato quelle somiglianze con gli amati cani, ma anche che non avrebbe potuto odiarlo, perché non ne sarebbe stata capace, perché sarebbe andato contro la sua natura. Contro la natura di affezionarsi ai “diversi”, agli “strani”.
-Non può essere.- Sbiancò portandosi la mano davanti alle labbra e sgranando gli occhi. –Non puoi, non puoi farmi questo. Non posso odiarti sennò.- Si morse il labbro inferiore nascosta dalla mano. –Mi sentirei in colpa se lo facessi.- Socchiuse gli occhi analizzando l’altro cercando un qualche segno che potesse mentire o che potesse dire la verità.
Si ricompose.
-Dimostramelo.- sibilò. Aveva bisogno di una dimostrazione o non gli avrebbe creduto. L’altro sorrise sardonico e Zoe lo odiò profondamente per questo, perché si stava prendendo gioco di lei e nessuno, nessuno, doveva permetterselo. Lo odiò profondamente sperando che ehi! Almeno l’odio quell’idiota non se lo sarebbe portato via.
Fu un baleno, una rapidissima mutazione e il volto dell’uomo si trasformò. I lineamenti duri della mascella si affilarono allungandosi, distorcendosi, la bocca si allungò sui lati e delle zanne apparirono sui lati. Le sopracciglia s’infoltirono, cominciando a ricoprire tutto il volto, gli occhi si schiarirono e mutarono di forma smussando gli angoli e rendendoli tondi. I peli raggiunsero anche le mani fino alle dita, dove le unghie si erano allungate e le dita accorciate.
-Ti basta?- Domandò tornando normale in un batter d’occhio, tanto da far pensare a Zoe d’essersi sognata tutto. Il ghigno sul suo volto si allargò facendole credere che fosse veramente stronzo a divertirsi in quella situazione. Probabilmente per lui era come parlare del tempo.
-Quindi, fece una pausa rilassando le spalle e puntando lo sguardo nei suoi occhi come a cercare ancora una bugia in quella rivelazione, saresti un licantropo.- Si avvicinò a lui e, puntandogli un dito contro il petto, lo fulminò con lo sguardo.
-Ciò non cambia che non ti sopporti.- Sapeva di starsi contraddicendo, ma ehi! C’è sempre una prima volta per tutto. Lui sembrò voler commentare ed alzò in contemporanea sia il sopracciglio destro che l’indice sinistro, ma abbandonò le braccia lungo il corpo dopo aver notato che forse non era il momento adatto per fare commenti e che forse quella sarebbe stata la buona volta che venisse buttato fuori e volle evitare.
-I pop-corn sono fatti comunque.- disse cambiando argomento e porgendole la ciotola. –Fammi strada.- ed elargì un ampio gesto del braccio che risultò buffo in quella situazione, tanto che Zoe si lasciò sfuggire un sorriso ironico.
-Certo.-
 
Dylan si era accomodato sul divano prendendo buona parte dello spazio disponibile e lasciando a Zoe solo un angoletto, ma lei, almeno, era riuscita ad impossessarsi della ciotola e aveva deciso di lasciare ben pochi pop-corn all’uomo accanto a lei. Entrambi sembravano aver dimenticato la “rivelazione” o, almeno, entrambi avevano preferito metterla da parte. Zoe per l’umiliazione che ne sarebbe derivata al solo pensarci e Dylan per la strana decisione di rispettare, almeno per quella volta, la sua tanto generosa ospitante.
-Domani te ne vai, vero?- Domandò di punto in bianco Zoe, ficcandosi in bocca un pop-corn. Lo masticò lentamente aspettando una risposta, ma l’unica replica che ricevette fu un “E il vincitore è…” detto dall’accento stentato di Joe Bastianich. L’avrebbe preso a badilate, da quanto stava qui in Italia? Ben troppo per sbagliare persino un “vuoi che muoia?”.
-Vero?- Ripeté piccata ed infastidita, almeno la degnasse di una risposta. Prese una manciata di pop-corn e aspettò ancora qualche istante, lo sguardo fisso sullo schermo. Ci fu una cascata di coriandoli nella sala e delle urla si levarono dalle famiglie dei cuochi. Zoe si rese conto di non aver mai fatto così tardi in vita sua e di non aver mai visto la tv a quell’ora. Per non pensarci prese un altro pop-corn. Era strano, era ormai qualche minuto che l’uomo non si lamentava per averne una manciata.
Si voltò a guardarlo di sottecchi, così, per non farsi notare e non essere indiscreta e lo sorprese addormentato. Aveva la testa riversa all’indietro in una posizione alquanto scomoda, Zoe immaginò il torcicollo che avrebbe provato l’indomani e l’idea non le parve neanche troppo malvagia. La bocca schiusa lasciava entrare ed uscire respiri leggeri e il petto si alzava ed abbassava lentamente. Il braccio destro appoggiato sull’addome e quello sinistro buttato di lato a sfiorare il parquet. Zoe notò una leggera barba a coprirgli la mascella dai lineamenti duri, non l’aveva notata prima, non ci aveva fatto caso.
Possibile? Si chiese in un barlume di lucidità, in fin dei conti i Licantropi sono favole, no? Ma aveva ben visto quella mutazione e lei le cose non se le immaginava mai.
Forse, appoggiò la propria guancia al pugno, forse dovrei farlo stare da me finché non si riprende, non si sa mai. Corrucciò le sopracciglia, non era da lei essere ospitale, ma era anche vero che non le era mai capitato di ritrovarsi un lupo mannaro a bussarle alla porta.
Si alzò lentamente, attenta a non far rumore. Non voleva sentirlo lamentarsi di nuovo, anzi, non voleva proprio sentirlo parlare di nuovo. Gli si avvicinò e allungando una mano dietro alla sua nuca e alzandola leggermente, gli infilò sotto la testa un cuscino. Spense la tv e portò in cucina gli ultimi pop-corn rimasti. Fece un respiro profondo e tornò in salotto, per spegnere la luce e per poggiare un bigliettino davanti alla tv con scritto “Se domani non mi trovi sono al supermercato, vedi non combinare casini”, lì lo trovò che già si era allargato occupando tutto il divano.
Uscì un attimo di casa, la notte gelida la punse come mille aghi sotto quel giubbotto leggero, fece due passi fumando una sigaretta, il fumo che si alzava nel cielo nuvoloso, confondendosi con le nuvole. Ispirò fiaccamente e si passò la mano con la sigaretta sulla fronte e sugli occhi. Dovevano essere le due e lei non aveva affatto sonno.
Gironzolò così a lungo, ben attenta a non fare incontri pericolosi ed evitando come la peste tutti locali della zona. Ficcò il proprio volto nella sciarpa fino a raggiungere l’altezza del naso prima di prendere un’altra boccata dalla sigaretta. Fumava solo quando era nervosa, riempiendosi le narici di quell’odore acre a inebriarle il cervello come una nebbia mattutina.
Socchiuse gli occhi e provò ad immaginare la propria vita se i suoi piani fossero andati come avrebbero dovuto e se quei mortali avessero notato la sua regalità divina. Poteva benissimo vedersi a fare da guida in musei come il “Palazzo Nazionale Romano” o la “Galleria Borghese”. O anche in una qualche università prestigiosa. A mostrare la bellezza e la perfezione di quei corpi scolpiti: di quelle dita affondate nella carne marmorea, di quelle espressioni talvolta disperate, altre rilassate e altre ancora bramose di amore. Quei corpi che esprimevano la perfezione umana, la perfezione che Zoe non riconosceva a nessuno, neanche a se stessa. Quei corpi che raccontavano storie centenarie, millenarie, storie di altri tempi, ma con gli stessi sentimenti di adesso. Sentimenti ed emozioni che erano così tangibili su quel marmo delicato allo sguardo, ma duro e freddo al tatto.
Un sorriso sarcastico spuntò dietro le pieghe della sciarpa a spezzare le sue ambizioni, le sue illusioni, inganni della mente, sottili e manipolatori. E invece no, prese un’altra boccata di fumo prima di gettare il mozzicone, lei era bloccata lì, in un supermercato, con uno sconosciuto sul suo divano rosso.
Tornata a casa fece attenzione a non far rumori e posò delicatamente le chiavi nel piattino sopra al mobile del minuscolo ingresso.
Spense la luce e andò a dormire, se lo sentiva, avrebbe avuto un’emicrania continua per qualche giorno e sapeva che la causa sarebbe stata sua e delle sue chiacchiere inutili.

 

Note d'autrice: Non so che dire su questo capitolo. Sto lentamentissimo delineando il carattere dei miei due protagonisti e, seppur si siano appena conosciuti, già sono riusciti a litigare. Incredibile vero? 
Mi piacerebbe che la storia durasse una ventina di capitoli, ma poi saranno loro a decidere. 
Mi dispiace per il ritardo. 
Ringrazio chi ha letto, recensito, seguit... Insomma un po' tutti. 

Kore
 

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Capitolo 3
*** Piccoli compromessi e pizze a domicilio ***


Note d'autore: Ce n'è voluto di tempo, eh! Lo so, sono una brutta persona, ma non ho proprio un momento di fiato. (E la quantità nulla di recensioni mi ha un po' buttato il morale a terra, ma questi sono problemi miei e basta)
Qua vediamo i primi problemucci e scaramucce tra coinquilini: sul lavoro di cui Dylan è sprovvisto e discussioni inevitabili.
Zoe è permalosa come poche ed è normale che si senta punta sul personale sul fatto che non abbia un lavoro, seppur preferisca comunque incolpare il mondo che le circona, pensa di avere qualcosa che non va.
Dylan è uno sfaticato, ma è anche un grande cuoco come vedrete già da ora e in fututo.
In questo capitolo, se non si tiene conto delle piccole discussioni, però, vediamo anche (vedete?) una socializzazzione e imparate qualcosa su entrambi. (I miei baes imparano a conoscersi *^*) 
Vi lascio alla lettura perché vi annoiate voi e mi annoio io a scrivere papiri di presentazione. 
Ringrazio chi segue, chi preferisce, chi ricorda, chi recensisce *risata nervosa*, e chi non lo fa *seconda risata nervosa*.
Bye bye
Kore



Capitolo 2: Piccoli compromessi e pizze a domicilio
 
Erano passati quanti? Quattro, cinque giorni? Forse persino una settimana, eppure quell’uomo ancora si trovava a casa sua, sul suo divano rosso, mangiando il suo cibo e non pagando neanche una percentuale minima del suo affitto.
Probabilmente, e Zoe era certa fosse quello il motivo, se lui ancora poteva fare affidamento sull’ospitalità della giovane era solo grazie alla sua “diversità” e Zoe, a questo, non poteva resistere.
Ormai, però, le ore passate al supermercato divenivano troppo poche per poter pagare, non solo l’affitto, ma anche il necessario per entrambi. Zoe ci aveva provato, e su questo nessuno poteva muovere lamentele, a cacciarlo fuori casa, o almeno, a fargli cercare un lavoro, ma lui sembrava fossilizzarsi su quel divano e, la sua massa corporea, non aiutava la ragazza nel suo intento.
Lo si doveva ammettere, però, che una volta la giovane era riuscita a farlo muovere qualche passo fuori casa tra insulti borbottati e denti digrignati, –e lei non si era ancora capacitata dal fatto che non avesse nevicato- peccato che nessuno, ma proprio nessuno, l’avesse trovato adatto al lavoro. Chi perché “era troppo alto”, chi perché “era troppo poco forte” (seppure quest’ultima le era sembrata campata in aria).
Dylan, quindi, aveva dato per scontato che le ricerche si potessero dire concluso dopo quell’unica uscita e che, soprattutto, Zoe si fosse data per vinta e, nel profondo di sé stesso, lo sperava pure. L’uomo, perciò, dovette rimanere molto deluso quando, una sera, a casa ritornò una Zoe trionfante, il volto illuminato da una luce terribile e maligna. Aveva un foglio tra le mani piene di sacchetti della spesa.
-Ti ho trovato un lavoro!- Il tono imperioso s’incrinò trasformandosi in un trillo euforico, cosa che la giovane sembrò notare e correggere immediatamente.
Gli passò un foglio fresco di stampa su cui dominava la scritta in grassetto “Si cerca ragazzo per consegnare pizze”. Dylan lesse prima ad alta voce, poi a bassa voce. Poi alzò lo sguardo sull’altra supplichevolmente e abbassò il sopracciglio destro.
-Sul serio?- La donna annuì un paio di volte per risposta e si spostò in cucina per poggiare i sacchetti sul tavolino.
L’uomo la seguì incuriosito e terrificato allo stesso tempo, ma dovette immobilizzarsi sulla soglia alla vista della sua colazione “accidentalmente” dimenticata sul tavolo, conoscendo bene quali cataclismi avrebbe così potuto provocare.
L’espressione imperiosa di Zoe mutò d’aspetto in quello che all’uomo sembrò un nanosecondo e Dylan sospettò s’aver appena firmato un patto con il diavolo.
-Tu, fece una pausa provando a calmarsi, fingerò di non aver visto nulla, ma metti in ordine. – L’altro si precipitò ad ordinare la cucina ficcando tutto nella lavapiatti. Dylan poté sentirla borbottare un “ho a che fare con un bambino”. La donna si passò una mano sul volto sconsolata e prese ad ordinare la spesa.
-Comunque, infilò un pacco di pasta nella dispensa, dove ero rimasta?- Domandò lanciandogli un’occhiata e sistemando una bottiglia di sugo in un altro scomparto.
-Il lavoro.- suggerì diligentemente l’altro, passandole una confezione di carne che venne riposta nel freezer.
-Ah già, oggi sono passata davanti alla mia vecchia scuola e ho trovato questo foglio. Ho pensato fosse adatto a te visto che non serve un gran quoziente intellettivo.- Si alzò sulle punte per raggiungere lo scompartimento più in alto e poggiarci la farina.
L’uomo finse una risata e incrociò le braccia davanti al petto. Poi, notandola in difficoltà andò ad aiutarla senza farsi mancare una battuta sull’altezza di Zoe. Battuta che lei non comprese molto poiché, le dispiaceva deluderlo, ma lei bassa non era affatto.
-E io dovrei consegnare pizze?-
-prima devi fare il colloquio, ma poi sì, consegnerai pizze.- L’uomo annuì un paio di volte tirando fuori un pacco di biscotti dal sacchetto della spesa, aprendolo. Zoe lo fulminò con lo sguardo e mimò la parola “ingordo” con le labbra.
-E se non avessi la patente?- chiese, sgranocchiando un biscotto e mostrando alla povera ragazza tutto ciò che si trovava nella sua bocca. Lei avrebbe voluto rimproverarlo dicendogli che “non si parla a bocca aperta”, ma si trattenne. Non voleva fare il suo gioco.
-Oh, be’, se non avesti la patente, potresti pulire le latrine pubbliche.- a giovane tirò dalla tasca posteriore dei Jeans un foglietto ripiegato più volte e, riaprendolo, glielo porse. Zoe sorrideva beffarda davanti allo sguardo disgustato che Dylan lanciò a quel foglio.
-Va bene, va bene, vada per la pizza.- Digrignò i denti e stropicciò il foglio delle latrine.
-Mi sembra una scelta saggia, domani hai il colloquio alle nove.-
-nove di sera, giusto?- Il volto terrificato dimostrò quanto, l’idea di doversi alzare presto, lo schifasse altamente.
Zoe scosse la testa trionfante pensando che “finalmente toccava a lui penare un poco”.
-Di mattina. Il postò è, ci rifletté un attimo con le sopracciglia corrucciate, hai presente il Lux, ecco, la viuzza che porta a viale Libia da lì.- Gesticolò un poco, fatto inusuale da parte di Zoe, che soleva stare ben ferma nella posizione presa prima di iniziare a parlare.
-Non puoi sbagliarti, c’è una grossa scritta verde con scritto “Pizza”.- la donna allungò lo sguardo sul foglio poggiato sul tavolo, semi coperto dalla mano dell’uomo. Rifletté un attimo poggiandosi al muro dietro di sé.
-E quante ore sarebbero?- Chiese l’uomo poggiando il pacco di biscotti sul tavolo.
-Mi pare fosse cinque giorni a settimana dalle 20 a mezzanotte. – Fece una smorfia con le labbra e alzò gli occhi al cielo, la solita espressione che faceva quando rifletteva.
-E ti pagano una cosa come quindici euro a sera più le mance, ma penso che ti sapranno dire meglio loro.- L’altro non sembrò molto soddisfatto della proposta dopo aver saputo del suo stipendio futuro, ma preferì annuire un paio di volte e acconsentire a quella tortura. Sperando vivamente di non essere accettato.
Un silenzio surreale calò in cucina mentre Zoe finiva di riordinare la spesa facendosi, talvolta, aiutare da Dylan con i ripiani più alti. Fino a che, notando l’ora sul grande orologio nero che troneggiava sopra al tavolo della cucina, la donna non si girò verso il suo coinquilino e guardandolo come si guarda uno scarafaggio spiaccicato per terra constatò che “non hai preparato il pranzo”.
Dylan dovette capire quanto quella sua mancanza l’avesse maldisposta, anche perché Zoe si era ben chiarita sul fatto che, non dovendo fare nulla dalla mattina alla sera, potesse almeno farle il piacere di cucinare per entrambi –cosa che lei odiava fare e che le veniva anche piuttosto male-, ma lui sembrava dimenticarsene “casualmente” ogni volta e, ogni volta, era la stessa storia. Si instaurava un’infantile discussione che terminava con la ragazza che decideva di preferire uscire a mangiare un panino in “santa pace” e “senza un’idiota nei paraggi”.
Quella volta, però, Dylan sembrò decidere d’accontentarla e precipitandosi a prendere una padella e una pentola accese i fuochi e mise su un piatto di pasta accompagnata da un sugo improvvisato sul momento. Zoe preferì andare a farsi una doccia
Da sempre era solita mettere la musica prima di andare sotto l’acqua e canticchiare qualche strofa, ma da quando Dylan abitava da lei, quella sua abitudine era andata scomparendo. Un po’ per mantenere la sua riservatezza e un po’ perché le aveva sempre dato un gran fastidio canticchiare con qualcun altro nelle vicinanze. Soprattutto se quel qualcun altro era un’idiota come Dylan.
Quando tornò in cucina, dopo essere chiamata dall’urlo di Dylan, trovò la tavola “sorprendentemente” apparecchiata.  
Prese posto sul quel tavolo troppo esiguo per due, tanto che i piatti si toccavano tra di loro e i bicchieri erano sempre poggiati sul piano della cucina, per bere, perciò, ci si doveva alzare e bere quei due sorsi di cui si aveva bisogno tra un boccone e l’altro.
Se Zoe avesse dovuto concedere qualcosa a quell’uomo era la sua capacità in cucina e per questo non accettava che quello scemo non avesse mai fatto una scuola di cucina. Da quel che diceva lui, poi, sembrava che avesse a malapena completato il liceo, uscendone con scarsi risultati. Questo Zoe se lo sarebbe immaginato, non spiccava certo per intelligenza lui, ma la cucina diavolo in quello sì che era capace.
Con qualche ingrediente preso dalla dispensa riusciva a preparare dei piatti da leccarsi i baffi, cosa in cui lei era totalmente negata. Quando ancora non aveva in casa quell’intruso spesso finiva per cenare al Mc Donalds, un luogo disgustoso per una dea come lei, e spesso ne usciva insoddisfatta e impoverita.
Forse solo per questo Dylan era una fortuna.
Zoe, poi, lo doveva ammettere a sé stessa: di annunci ne aveva trovati altri, ma quale sarebbe stato più adatto di qualcosa che, seppur lontanamente, avesse a che fare con la cucina?
E chissà! Forse poteva anche ricevere un posto come cuoco, era un pensiero così infantile e buonista che la giovane si sorprese e si indignò al solo concepirlo. Non era da lei sperare in certe sciocchezze, soprattutto se queste comprendevano una persona che non tollerava.
-E’ buono.- Commentò secca. Prese un altro boccone.
Dylan si alzò e prese un sorso d’acqua, riempì anche il bicchiere dell’altra porgendoglielo. Lei annuì un paio di volte e ingurgitò il liquido ad una rapidità inumana. Si rese conto d’aver una gran sete.
L’uomo rimase un attimo lì: la vita poggiata al ripiano dietro di sé e il busto leggermente all’indietro.
-A che ora ti sei alzata?- Era buffo il fatto che non la guardasse negli occhi o almeno, era lei a trovarlo buffo. Era come se volesse fingere d’essere burbero, darsi un tono, ma fallendo miseramente. Era troppo idiota, pensò Zoe.
Lei parve di rifletterci un attimo increspando il labbro inferiore: -Saranno state le 9.-
Silenzio.
-Perché, ti ho svegliato?- domandò sarcastica, conoscendo fin troppo bene il sonno pesante dell’altro. Si ricordava il secondo (o forse era il terzo?) giorno in cui lui si era installato sul suo divano e lei, per svegliarlo, dovette passargli l’aspirapolvere ad un palmo dal naso. Fece una pausa concedendosi una smorfia di sdegno:-O forse ti sta a cuore quanto io dorma?- rise beffarda.
-Penso solo che tu dorma poco.- Ribatté perplesso l’uomo riprendendo il proprio posto a tavola e infilandosi in bocca una quantità spropositata di cibo. Zoe fece una boccaccia disgustata e lo fulminò con lo sguardo perché “mangia decentemente, te ne prego”.
-Tanto dormo il pomeriggio e di meglio non ho trovato.-
-Ma non hai una laurea?- Lo sguardo che le lanciò a quella domanda le ricordò parecchio quella di un bambino lamentoso. Quel fatto la colpì tanto da non pensare affatto alla domanda posta, che solitamente l’avrebbe mandata fuori dai gangheri.
-Sì, storia dell’arte. La mia tesi era sulla statuaria barocca e neo-classicista.- Borbottò sempre più infastidita da quelle parole via via che le sputava fuori, le raschiavano la gola ed erano acide come conati di vomito. Poté attribuire un nome a quella sensazione: la frustrazione. Che strana parola la “frustrazione”, così l’aveva sempre trovata Zoe, racchiudeva non solo uno, ma più emozioni e sensazioni negative. Custodiva dentro di sé la delusione, la rabbia, il senso di inadeguatezza. Dava libero sfogo ai propri significati al solo pronunciarla, persino un bambino ne avrebbe capito il significato. Fuoriesce dalle labbra come un conato di vomito come un rantolo rabbioso. Eppure Freud aveva ammesso che la frustrazione, seppur potesse aiutare lo sviluppo dell'Io e i suoi adattamenti, se eccessiva, poteva essere nociva in quanto poteva facilitare la messa in atto di meccanismi aggressivi. Si era spesso rammaricata a pensare a quanto quella laurea fosse la sua principale fonte di frustrazione. Aveva quel pezzo di carta. Aveva avuto i voti più alti. Aveva avuto il massimo a tutti gli esami, ma per cosa? Per lavorare in uno stupido supermercato, vivendo in una stupida casa in affitto e faticando ad arrivare a fine mese.
Allora a che le era servito quel pezzo di carta? Spesso, in momenti di rabbia, aveva fatto battute di cui la volgarità non avrebbe mai voluto ripetere, anche il solo pensarle l’umiliava.
-E perché non hai un lavoro decente?- Quella voce proruppe nei suoi pensieri. Possibile che dovesse annidarsi ovunque? Che dovesse trovarsela anche dentro ai suoi flussi di coscienza, flussi la cui profondità, secondo Zoe, era equiparabile a quelli dei personaggi di qualche romanzo famoso.
-Il perché chiedilo a quei coglioni.- Trasalì tappandosi la bocca ed ecco che la purezza della dea si era andata a farsi benedire. Anche le orecchie divennero di un rosso sanguigno sotto lo sguardo sbigottito del coinquilino, nessuno era abituato a certe uscite da parte sua. Quella era l’unica cosa che i genitori non le avevano mai rimproverato, a differenza di sua sorella, che spesso somigliava più ad una scaricatrice di porto che alla principessina di casa.
-Volevo dire conigli.- Si corresse con la prima idiozia che le venne in mente, che non fece, però, che aumentare la sua vergogna. Conigli. Come diavolo le erano usciti fuori i Conigli? L’altro scoppiò a ridere davanti a quell’indecente tentativo di aggiustare le cose.
-Sì, conigli! Dovevi vedere la tua facci mentre dicevi sta cazzata.- Era indecente quella sua frase e Zoe dovette ammetterselo, ma era indecente anche la sguaiata risata di Dylan e le frasi di scherno che ne susseguirono. Sembrò quasi mettersi a piangere tra le rise, affogandoci e annaspando. Lo trovò disgustoso, di una grossolanità oltremodo oltraggiosa.
Per controbattere rimase seduta composta, tanto da poter parere pietrificata come una delle tante statue studiate all’epoca, si sentiva come se Medusa l’avesse impietrita in quella sua espressione mista ad imbarazzo e disgusto. Chissà quanto il suo volto dovesse essere terribile a vedersi, tanto da far smettere di ridere a Dylan. L’avrebbe voluto prendere a ceffoni, ma le sue mani erano rigide, una ritta lungo il fianco, l’altra ancora a tenere la forchetta.
-Tutto be- Zoe l’interruppe alzandosi prepotentemente.
-Vado a dormire, per l’appunto.- E sbatté la porta di camera sua, buttandosi sul letto ancora bruciante di rabbia e vergogna. Era la prima volta che perdeva ad una discussione, se si poteva definire tale, con qualcuno e quel qualcuno era Dylan. Una persona dallo scarso intelletto e che doveva avere preso una botta in testa da piccolo. E lei, lei che aveva fatto tutti quelli studi, ricevendo grandi elogi sul suo modo di esporsi, veniva battuta da un infido mortale. Un mezzo cane tanto per raddoppiare il danno.
Si assopì dopo aver lungamente osservato il soffitto sperando che quello le crollasse addosso così da non permetterle di muoversi più. Quando riaprì gli occhi fu solamente grazie all’insistente sveglia dello smartphone, se fosse stato per lei avrebbe potuto ancora dormire per molto tempo.
Erano le 18. Fece un rapido calcolo mentale: doveva aver dormito almeno tre ore piene e si sentì calare addosso la stanchezza di chi ha dormito troppo a lungo. In un primo momento non poté neanche ricordarsi il proprio nome, si domandò se fosse mai esistita. Era quella la sensazione prima che l’angoscia della vita si rinfili nelle fessure della mente ed era per questo che il genere umano si imponeva la propria quotidianità. Chi portava fuori il cane, chi preparava un caffè, chi leggeva un giornale e chi, correndo da una parte all’altra, dimenticava persino il proprio nome.
“Credi di chiamati tizio, che il tuo lavoro consista nel fare questo e quello ma al risveglio niente di tutto ciò esisteva. E può darsi che davvero non esista.” Si ripeté lentamente Zoe citando sapientemente “Diario di Rondine” di Amelie Nothomb prima di infilare i propri piedi nelle calde pantofole e scivolare fuori dalla camera buia.
In salotto la tv era accesa. Zoe voleva buttarsi sul divano ed esserne agglomerata all’interno. Immaginò di trovarci Dylan disteso a schiacciare un pisolino e questo le provò un moto di stizza, ma non trovò nessuno. La notizia la raggiunse lieta e si sedette all’angolo destro, la schiena rivolta al bracciolo e le gambe strette al petto.
Aveva lasciato la tv accesa fu il primo pensiero che le sorse in quel momento, il quale fu subito collegato alla bolletta da pagare.
Cambiò canale: le annoiavano tremendamente le canzonette che girava in continuazione su Mtv Music. Una volta le era pure capitato di risentire la stessa canzone nell’arco di un’ora, eppure di canzone belle ne era pieno il mondo.
Ebbe due scelte: ho fermarsi su un canale per bambini in cui alcuni pony colorati saltellavano allegramente, o guardarsi l’ennesima replica di The voice. Non fu un’ardua scelta, preferì di gran lunga i pony colorati. Certo, erano irritanti, ma almeno si potevano giustificare grazie alla fascia di età a cui erano destinati.
Tra una canzone e l’altra Zoe sonnecchiò. Era strano: era annoiata. Lei era solita irritarsi, arrabbiarsi, ma annoiarsi quello proprio no. Non trovava nulla di noioso nel mondo: tutto era troppo diverso e strano per essere ritenuto noioso. La noia è un sentimento che attanaglia solo quando non c’è nulla che ci distragga, nulla che ci attiri, quando un mondo attorno sembra essere scomparso ed era strano: molta gente si annoiava, non notando tutte le opportunità per riempire quella noia.
-Ah, ma allora sei sveglia!- Zoe alzò gli occhi al cielo indispettita e ancora una volta non poté provare il sentimento della noia. Doveva essere passata un’ora da quando quei Pony galoppavano in giro discutendo d’amicizia.
-Già.- borbottò. Spense la tv colta in fragrante davanti a una trasmissione per bambini.
-Bel programma.-
-Già.-
-Sono le sette, vuoi che prepari qualcosa?- Domandò l’altro poggiandosi allo stipite della porta, Zoe annuì per tutta risposta e si stiracchiò sul divano senza però alzarsi.
-Se vuoi.- Quella risposta, Dylan lo capì, nascondeva un sì piuttosto secco.
L’uomo scomparve in cucina, mentre Zoe rimaneva ancora sdraiata sul divano una domanda le balenò in testa:
-Che fine avevi fatto?!- Gridò dalla sua posizione giacente, ma lui parve non udirla e lei si costrinse a raggiungerlo in cucina dove aveva messo a soffriggere carote e cipolla. Le rivolgeva le proprie spalle. Ripeté la propria domanda spaventandolo, non doveva aver fatto abbastanza rumore da farsi notare. Quello si girò con una mano al petto con fare teatrale. Altro che cuoco! Avrebbe dovuto fare l’attore pensò Zoe.
-Diavolo, mi hai spaventato!- Si passò una mano sulla fronte fingendo uno svenimento e scoppiò a ridere. –Comunque ero andato a correre. Come pensi che sia riuscito ad avere tutto questo ben di dio?- Esclamò battendosi la mano sul petto, per poi far tornare la propria attenzione sul soffritto.
-Hm hm.-
-Non mi credi?-
-Sì sì.- Ripeté dubbiosa. –E’ la prima volta che esci da qui di tua spontanea volontà.
-Davvero? Ah già, hai proprio ragione!- Prese gli hamburger e li lasciò andare sul fondo della padella allontanandosi di un passo dall’olio bollente. Alzò le spalle.
L’ospitante apparecchiò. Quel che si dissero durante la cena non fu rilevante per nessuno dei due, si trattava di frasi come “Ieri la Roma ha vinto contro la Lazio” o “Quindi domani al colloquio ci vai?”. Una cosa è da ammettere passarono per una vastità tale d’argomenti, sorvolandoli a volo d’uccello, che, seppur superficialmente, fu la prima vera e propria volta che conobbero qualcosa dell’altro.
Dylan seppe che Zoe aveva una sorellina: Elisabetta. Scoprì anche dell’amicizia con la bidella e la professoressa di latino. Apprese per quali cause Zoe combatteva e si stupì a notare quanto fosse sensibilizzata umanamente. A differenza della sua aggressività per i singoli aveva un grande interesse nella parità di diritti delle persone. Diceva di combattere per i diritti dell’esser umano senza alcuna distinzione. L’ammirò.
A due cose Zoe non alluse una singola volta: la prima era Akilah, la seconda Valerio.
La donna, invece, poté conoscere alcune cose sul fronte soprannaturale dell’uomo come il fatto che esistessero comunità di Lupi mannari che spesso si riunivano assieme in una discoteca a fare baldoria e apprese anche che era proprio in una discoteca che si era procurato quel taglio alla tempia. Seppe di vecchi vicini scoperti Licantropi e di bambine dalle treccioline divenute presto lupe mannare. L’uomo disse che non era una cosa importante l’essere licantropo: “non c’è alcuna faida tra i vampiri e i licantropi per due motivi: il primo è che i vampiri non esistono e il secondo è che non siamo in un libro per adolescenti in piena fase ormonale”.
Il suo essere licantropo, infatti, o veniva presa per una scemenza o uno scherzo di cattivo gusto o per una “quasi” normalità. “In fin dei conti” disse lui “Il licantropo è il minore dei problemi, attualmente. Se esistono politici corrotti, assassini, ladri e molto altro ancora, allora il licantropo è la irrilevante.”
Zoe non lo trovò poi così stupido.
 
 

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Capitolo 4
*** Liste a Libri ***


Note di un'autrice ritardataria: Dopo quasi due mesi sono tornata con un capitolo e sì, lo so, è più corto del solito, ma vi giuro che sto lavorando al prossimo e bla bla bla.
Finalmente, grazie a queste piccole vacanze, riuscirò a scrivere qualcosa, o così almeno spero.
In ogni caso ringrazio chi legge, recensisce, segue, preferisce e ricorda.
Spero di avere qualche vostra opinione sul "come si sta sviluppando la storia"
Bye bye




Un lupo mannaro per coinquilino
-la dea e il suo licantropo domestico-



All we do is think about the feelings that we hide
All we do is sit in silence waiting for a sign

 
 
Liste e Libri
 
A Zoe la volgarità disgustava e trovava volgari parecchie cose. Ultimamente aveva dovuto aggiungere un altro punto alla lunga lista mentale “di cose che mi fanno rivoltare lo stomaco” ed erano i pantaloni strappati. Era buffo, in fin dei conti era un indumento tanto innocuo con due lunghi strappi orizzontali all’altezza delle ginocchia e nulla più. Allora perché non li sopportava? Lentamente, osservando le liceali girare con questi pantaloni si era spiegata questa sua antipatia.
Essenzialmente il motivo era che, per comprare un indumento strappato, si pagavano più soldi e che serviva solo a fingere di darsi un tono in quella mandria di pecore. Jeans strappati? Devi essere un duro pensava fosse quella l’unica motivazione plausibile, seppur ridicola, all’acquisto dei pantaloni.
Era un peccato, però, che ha indossarli non erano affatto i duri o i ribelli, ma solo degli adolescenti in fase d’accettazione.
Trovava tutto ciò degradante. Una quantità indicibile di gente viveva per strada alla disperata ricerca di cibo e di toppe per ricucire gli strappi dei vestiti: la loro unica protezione dal gelo invernale nelle strade di Roma. Zoe odiava notare quanti giovani ostentassero i loro “bei” pantaloni strappati (nuovi) davanti a quella miseria e quella povertà. Sembrava quasi una presa in giro: “Io posso permettermi di pagare di più per avere dei vestiti del genere” o “Non ho bisogno di coprirmi dal freddo, ho una casa, io”.
Una volta aveva pure fermato una ragazzina domandandole cosa la spingesse a comprare certi capi davanti a quelle povere persone e lei le aveva risposto, risaputa: -Se non c’hanno i soldi colpa loro-. Zoe era rabbrividita.
Pure Dylan indossava dei pantaloni del genere: ampi pantaloni color kaki che gli cadevano pesantemente all’altezza della vita con alcuni strappi in vari punti. Zoe lo trovò accettabile poiché non erano visibilmente fatti così e che, probabilmente, se gli era procurati nelle varie discoteche e scorribande di cui le aveva accennato. Certo, ciò non toglieva che poteva comprarsene di nuovi, ma trovava meno vergognoso tenersi un pantalone a tal punto da consumarlo tanto.
-Sai, accetto i tuoi pantaloni solo perché so che non sono nuovi.- esordì la donna di punto in bianco, lasciando l’altro perplesso e intontito.
-Cosa?- domandò quello, rimanendo tranquillo sul divano dov’erano rimasti dall’inizio della giornata. Era domenica ed entrambi volevano assaporare quel tempo libero e rilassante a loro disposizione. Zoe si rese conto di aver esternato il proprio pensiero e stralunata dovette trovare una giustificazione.
-E’ un pensiero sfuggito dalla mente, non farci caso.-
-O forse vuoi che io mi tolga i pantaloni.- Rise lui.
-No grazie, non credo che la visione possa essere di mio gradimento.- Il tono neutrale lasciava trasparire dell’ironia pungente.
Zoe, allora, si era stiracchiata e aveva fatto una smorfia.
-Ho fame.- Che per lei era un po’ come dire “Prepara qualcosa da mangiare” Dylan sghignazzò alzandosi e sparendo in cucina senza commentare.
La donna prese il telecomando per vedere l’ora: 12.30. Aveva molto tempo prima di prepararsi ed uscire per la cena con la famiglia, ma la prospettiva non l’allettava affatto. Qua ora poteva anche mangiare bene!
Elisabetta, poi, ora aveva diciott’anni e ciò significava solo una cosa: la maturità. Zoe si poteva solo immaginare quanto quella ragazza fosse divenuta isterica e di quanto in quel periodo dovesse aver rovinato la vita ai due genitori. Elisabetta era già solita farsi prendere dall’ansia, a differenza di Zoe che spesso rimaneva imperturbabile davanti alle difficoltà essendo cosciente della propria intelligenza, se si doveva essere corretti, pensò la maggiore, l’altra si faceva prendere da qualunque tipo di emozione.
Però, dovette ammettersi Zoe, Elisabetta, crescendo, era maturata tanto da avvicinarle tra di loro. Seppur si sentissero di rado e spesso tramite whatsapp o facebook il loro rapporto si era approfondito. Alla fine erano entrambe grandi oramai e la differenza di età si era assottigliata.
-Stasera ho una cena fuori, te l’avevo già detto?- gridò lei senza smuoversi dal salotto. O lui non la sentì –cosa improbabile- o la ignorò bellamente o, ancora, le rispose senza che lei potesse sentirne la risposta.
-Allora?- Chiamò di nuovo in attesa di una risposta. Ancora niente. Era costretta ad alzarsi? Sembrava proprio di sì. Si rotolò sul divano poggiando la pianta dei piedi sul parquet scricchiolante e fece perno sulle palmi delle mani per alzarsi. Fallì miseramente: la voglia di alzarsi era pari a zero, doveva essere a causa dell’influenza di Dylan.
-Ho capito.- esalò per alzarsi definitivamente e raggiungere la cucina: -Quindi? Te l’avevo detto che andavo a cena fuori stasera?- Domandò infine sulla soglia della cucina osservandolo muoversi tra i fornelli per preparare l’ennesimo sughetto –come faceva ad inventarsi sempre ricette diverse le sfuggiva- e districarsi tra tutte le padelle e pentolini disseminati tra i fornelli. A Zoe veniva un capogiro al solo vedere quel casino.
In quell’ultimo periodo l’aveva sentito borbottare “Quello non è un pesce gatto, idiota, si chiama triglia. Tri-glia” davanti all’ennesima replica di Masterchef all’una di notte. O anche “Che cosa stai facendo a quelle povere ed indifese capesante? Vandalo!” davanti ad un episodio della nuova stagione di Hell’s Kitchen. Zoe si limitava a sogghignare: un giorno –capodanno?- gli avrebbe chiesto di prepara un cenone come si deve.
(Per non parlare delle sue dubbie origini, non credeva fosse davvero Americano, ma in fin dei conti non è che le interessasse molto finché stava al suo posto a cucinare.)
Lui fece un segno d’assenso accompagnato da un “Mhmh” concentrato. C’era l’alta probabilità che non l’avesse ascoltata nemmeno questa volta. La sua missione dal divano alla cucina si era rivelata inutile.
-Che cosa ho appena detto?- Lo mise alla prova.
-Hai detto della sera di stacena?- Quell’affermazione strampalata fece esplodere Zoe in una grassa risata beffarda.
-Stacena?- Ripeté prendendosi gioco del coinquilino. Quello annuì senza ancora rendersi conto di ciò che aveva detto. Zoe aspettò una reazione che arrivò con impressionante ritardo: 20 secondi secondo il calcolo mentale della donna. Quello si girò, sgranò gli occhi e borbottò un “senti, hai capito” poco convinto.
L’ospitante decise di aver fatto il suo lavoro nel prenderlo in giro e si girò di spalle per raggiungere nuovamente il divano.
 
Le 18.00 scoccarono e Zoe dovette costringersi ad alzarsi –nuovamente- e ad andarsi a preparare. Sarebbe dovuta uscire tra un’ora e, odiando fare ritardo, preferiva esser già pronta un quarto d’ora prima. Si chiuse in camera per quella che a Dylan parve un’eternità: tanto da chiedersi se si fosse persa nel bagno o chiusa nell’armadio per andare a Narnia.
Dylan aveva notato, solo dopo una settimana abbondante, quanti libri contenesse quell’appartamento. I libri non solo erano parcheggiati in doppia fila sulla libreria in salotto e quella in camera della ragazza, ma gli era capitato di trovarli infrattati in qualunque mobile che contenesse ancora un poco di spazio: nel comodino del bagno, vicino ai piatti e le stoviglie, dentro i cassetti che avrebbero dovuto contenere dvd nel mobile della tv. Praticamente ovunque posasse il naso poteva trovare un libro che risiedeva trionfalmente quella posizione.
Aveva anche notato che di generi ce n’erano a bizzeffe: si passava dai grandi classici italiani e stranieri a libri per giovani adolescenti in piena fase ormonale –Dylan immaginò dovessero appartenere all’”età buia” dell’altra e si sorprese a sghignazzare sotto i baffi a vederli più celati degli altri come un pudico desiderio di conservarli.
Perciò, mentre la coinquilina era impegnata a prepararsi, lui andò a sfilare qualche volume dal proprio posto sfogliandolo. Il volume che aveva catturato l’attenzione quel giorno –doveva ammettere d’aver più volte spulciato nella libreria- era un sottile libricino dal titolo “cosmetica del nemico” di Amélie Nothomb, la quale aveva sfarzosamente occupato un ripiano intero nella libreria. Fatto che rivelava una certa predilezione nei confronti di quest’autrice.
Quando sentì i passi militareschi dell’altra cadenzare sempre più vicini al salotto Dylan nascose il libricino sotto a uno dei cuscini del divano. Non era grande trovata, ma aveva funzionato per giorni.
-Non aspettarmi sveglio.- annunciò quella entrando nella stanza e affondando pericolosamente vicino al fatidico cuscino. Dylan fece una smorfia scoprendo i canini acuminati. La donna lasciò cadere le scarpe col tacco a terra.
-Ti senti male?- domandò quella ironicamente. Si piegò in avanti armeggiando con la lampo degli stivaletti rigorosamente neri. Infilò le scarpe e si alzò in piedi. Si spolverò i pantaloni neri già perfettamente puliti. L’altro fece cenno di sì con la testa.
-Stai bene.- borbottò quello grattandosi una guancia e supplicandola con gli occhi affinché si allontanasse dal cuscino. Vedi che è la volta buona che mi scopre bofonchiò un angolo del suo cervello.
-Sono vestita come sempre.-
-Non ti si può neanche fare un complimento?- L’altro le passò la giacca agganciata al appendiabiti dietro di sé. –Tieni.-
-Non quando lo fai per distogliere la mia attenzione da un furto.- lo canzonò beffarda. –Grazie.- prese la giacchetta e se l’infilò.
-Cosa? Furto, di che stai parlando?- Un risolino nervoso tradì la perplessità di Dylan e Zoe lo fulminò le sopracciglia scure aggrottate e le labbra stirate in un’ espressione di sufficienza. Beccato.
-Chissà, sembra che i miei libri spariscano per un po’ prima di riapparire magicamente al loro posto.-  Non che l’infastidisse come cosa, in realtà. Non era una di quelle possessive nei confronti dei libri e, anzi, la lusingava che qualcuno le chiedesse un libro in prestito. Era segno di ammirazione era il suo pensiero a riguardo. Lei non avrebbe mai chiesto un libro in prestito a qualcuno che reputava idiota. E anche per questo non aveva mai chiesto libri in prestito.
-Forse sono andati in vacanza.- provò il coinquilino. Battuta scadente, ma che causò ugualmente una grande ilarità da parte dell’altra che, prendendo la propria sciarpa e arrotolandosela intorno al collo, si era messa a ridere.
-O forse gli hai presi tu.- Gli mandò un’occhiata complice, doveva essere la cena con la famiglia, immaginò l’altro, era quella la ragione di tale schizofrenia. –Non è un problema, davvero.-
Dylan ebbe l’impulso di urlarle un “Va’ deretro satana!” e un “Esci da questo corpo” come aveva visto fare in un mucchio di film. Considerò anche la possibilità di fare uno di quei rituali demoniaci che aveva visto in supernatural, ma tutte queste brillanti idee vennero scartate poiché troppo rischiose. Più che per l’amica per lui stesso che sarebbe stato scaraventato fuori casa in un batter d’occhio.
Zoe lo salutò un’ultima volta e varcò la soglia di casa come un’anima in pena. Per la prima volta l’idea di restare a casa assieme a Dylan a sgranocchiare pop-corn davanti all’ennesima replica di The big bang theory non le sembrava un’idea così malvagia. 

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