Martini&Cioccolato

di Mue
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I. Dana ***
Capitolo 2: *** II. Martini e cioccolato ***
Capitolo 3: *** III. Rose e fumo ***
Capitolo 4: *** IV. Sull'acqua ***
Capitolo 5: *** V. Venezia ***
Capitolo 6: *** VI. Max ***



Capitolo 1
*** I. Dana ***


Buongiorno a vecchi e nuovi lettori!
Diverso tempo fa decisi di togliere e sistemare tutte le storie originali che avevo sul mio profilo Efp. Oggi, a distanza di ormai cinque anni, ho deciso di riproporne una riveduta e corretta, quella a cui sono più affezionata.
È dedicata ai vecchi amici di allora e tutte le persone che mi hanno ispirata e spinta a scriverla, alla mia adorata Ca' Foscari, che allora come oggi è tra le esperienze più belle che ho avuto e ovviamente alla meravigliosa Venezia, culla di emozioni senza tempo, dove si respira magia.
Buona lettura e buon 2016 a tutti!
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I.

DANA





«Stai scherzando, vero papà?!»
Dana era sconvolta. Anzi, di più: era agghiacciata. 
«No, non sto scherzando», rispose pacato l’uomo.
«Ma... ma non può essere vero! E’ assurdo!»
«Perché mai? Da che mondo e mondo le trattative immobiliari si son sempre fatte», ribatté tranquillamente lui. Sedeva sulla consunta poltrona anni settanta di pelle marrone ostentando calma ma oltre il giornale che si ostinava a tenere davanti per coprirsi la faccia Dana gli vide arrossire la calvizie tra i lati di grigi capelli cespugliosi. 
«Questa è la nostra casa!» affermò lei a braccia incrociate. «E’ da diciotto anni che ci abitiamo. Da quando la mamma è morta. Non puoi dire sul serio!»
«Sì, invece. La casa è già venduta e l’affare concluso.»
«Ma non possono sbatterci fuori così, su due piedi!», replicò Dana testardamente.
«Stamattina è passato Raffaeli con i documenti e la sua solita gentilezza. E io ho firmato.»
«Hai acconsentito a farci finire per strada subito?» esclamò lei incredula. «Senza chiedere nulla a me ed Elia?» 
«A me l’ha chiesto» fece suo fratello dalla poltrona opposta, quella ricoperta dalla fodera rattoppata a fiorellini di zia Luisa. «E mi va benissimo così.»
«Nessuno ti ha interpellato, disgraziato!» gli ringhiò Dana, in piedi in mezzo alla stanza ancora a braccia conserte; ossuta, molto più bassa del fratello e molto più esile del padre, aveva però il carattere più cocciuto della famiglia. «Che cosa avrebbe detto la mamma se fosse ancora viva?!»
«La mamma non avrebbe fatto una gran tragedia nel lasciare questo appartamento», disse il padre da dietro il giornale. «Diceva sempre che c’era una fastidiosa puzza di gas quando apriva la finestra e il vento tirava da nord.»
Dana cercò di non scomporsi, indignata dalla scarsa sensibilità dell’unico genitore rimasto in vita. «Le previsioni meteo non prevedono tramontana per i prossimi sessanta eoni.»
«Dana, cerca di ragionare...»
«Io ragiono benissimo, papà, e ti dico che vendere casa nostra per della puzza di gas che si sentirà sì e no tre volte l’anno è una scemenza. O sbaglio?»
Il ragionamento filava che era una meraviglia ma suo padre non era tipo da lasciarsi convincere così facilmente. Scosse la testa alzando gli occhi al cielo. 
Dana si voltò verso il fratello, intento a fumare una sigaretta ammirando il soffitto. «Elia, digli qualcosa anche tu! Non puoi voler essere sbattuto fuori di casa!»
Il ragazzo abbassò gli occhi chiari e i lineamenti felini -lui e Dana avevano in comune solo i capelli rossastri, le migliaia di lentiggini e l'espressività del padre- e sbuffò una nuvoletta di fumo. 
«Ma non dovevo tacere?»
Dana gli lanciò uno sguardo torvo.
Elia scrollò le spalle. «Che dovrei dire? Non vedo come la cosa possa interessarmi.»
Dana si stizzì: ma perché proprio lei doveva avere un fratello così snaturato? «Ti rendi conto di quello di cui stiamo parlando, o il tuo apparato neuronale sta andando in cancrena insieme ai tuoi polmoni?»
Elia sbuffò un’altra nuvoletta di fumo. «Tu ti fai troppe paranoie mentali, sorellina! E anche se papà vende la casa? Ne comprerà un’altra, che problema c’è? Non andremo certo a vivere per strada.»
«A-ehm!», si schiarì la voce il padre. «In effetti non è proprio così.»
Dana e suo fratello si voltarono verso di lui, perplessi.
«Come sarebbe a dire che non è così?», fece Elia brusco. «Non vorrai mica dire che ci molli davvero per strada come due barboni?»
«No, niente affatto», rispose il padre scuotendo la testa. «Ma non ho abbastanza soldi per comprare un appartamento per tre persone. Soprattutto ora che sono in pensione.»
Il signor Maniani era andato in pensione da circa un anno dal suo onorato lavoro di meccanico, vendendo officina e attrezzi e ritirandosi per sempre nella tranquillità del condominio di Via Rovere. E per tranquillità, qui, s’intendeva proprio quella con la «T» maiuscola, perché il condominio dove abitava non aveva alcun inquilino a parte lui e i suoi due figli, o, almeno nessuno di più consistente delle decine di gatti, di scoiattoli e di ricci che vagavano nel giardino dell’edificio e nel parco lasciato alle ortiche che si estendeva sul retro della casa.
«Come sarebbe a dire che non hai abbastanza soldi? Per cosa vendi l’appartamento, lo baratti con un lingotto d'oro?», chiese Dana, acida.
«No, ma in questo momento i prezzi di vendita sono bassi e quelli di acquisto altissimi, perciò non ne ricaverò un granché; o, almeno, non abbastanza per compare un appartamento per tutti e tre.»
Dana imprecò. 
Quella era una delle calamità cosmiche del vivere nei paraggi di una località ad alto tasso turistico milanese in fuga dalla metropoli come la loro cittadina. Anche il più schifosamente ricco degli impresari lombardi in cerca di relax si sarebbe strappato i capelli a vedere il prezzo di un appartamento della zona.
«E allora perché vuoi vendere?», domandò Elia senza capire.
L’uomo aveva il volto serio. «Perché ora che anche Dana deve andare all’università e deve trasferirsi a Venezia, devo trovare i soldi per pagarvi gli studi. E gli alloggi.»
«Lavoreremo, papà!», dichiarò Dana. «Non c’è bisogno che paghi tu, vero Elia?»
«Ehm», fece quest’ultimo quando fu interpellato. «Dana, hai idea di quanto costi una retta universitaria?»
Dana gli mandò un’occhiataccia fulminante. «E allora?!», ringhiò in tono minaccioso.
«Tuo fratello ha ragione, Dana; la vita all’università costa tantissimo. E non è solo la retta. Dovrai pagare acqua, luce, gas e tutto quello che ti serve per sopravvivere.»
«La cui quantità, nel caso di voi donne, aumenta esponenzialmente rispetto allo standard maschile», aggiunse saggiamente Elia.
Dana si sfregò un pugno chiuso e quello bastò per farlo tacere. Elia sapeva bene che sua sorella, quando si arrabbiava davvero, poteva diventare aggressiva quanto un varano inferocito.
«Quindi», riprese il discorso il padre, ignorando l’intervento di Elia, «abbiamo bisogno di soldi, non di immobili. E Raffaeli ci offre molti soldi.»
«Papà, se mi avessi detto di averne così tanto bisogno mi sarei iscritta all'università l'anno prossimo e avrei trovato un lavoro» protestò Dana.
«No, no» replicò suo padre mettendo finalmente via il giornale e massaggiandosi la testa. «Voglio che studi ora, Dana. È un tuo diritto, così come lo è per tuo fratello. E poi quando sarete andati via e non avrò nessuno per la maggior parte dell'anno a casa che cosa farò solo in questo grande appartamento? Senza contare che questo condominio ormai è abbandonato da molti anni, senza manutenzione e potrebbe crollarci addosso da un momento all'altro. No, no, preferisco avere i soldi, e investirli per voi, ragazzi.»
Dana abbassò lo sguardo e meditò per un po', sempre a braccia conserte. Poi chiese aspra: «Ne vale davvero la pena, papà? Quanti soldi riceverai? Saranno abbastanza?»
«Sono un bel po'. Sì, credo abbastanza per i prossimi anni.»
La nota adorante nella sua voce fece capire a Dana il «bel po’» poteva fare loro davvero comodo.
«Sei proprio deciso?» borbottò, scontenta.
Il padre annuì. «Sì. Quei soldi ci servono, a me e, soprattutto, a voi. Quindi, Dana, è inutile che fai tante storie. Ormai ho già venduto, e Raffaeli ci ha concesso di stare qui finché tu ed Elia non ripartirete per l’università. Io troverò una nuova casa da qualche parte nei dintorni. Lui, nel frattempo, farà partire i lavori di ristrutturazione nel resto dell’edificio senza disturbarci.»
«Che magnanimo!», bofonchiò Dana.
Suo padre le rivolse uno sguardo severo. «Cerca di fartelo piacere, perché domani torna a concludere e a visitare la casa con il geometra. E penso che ci sia anche suo nipote.»
«O-oh, sorellina, fossi in te ne approfitterei. Un bel rampollo d’alto borgo milanese!»
Dana gli sferrò un calcio in uno stinco, e la discussione si chiuse con Elia che sfoggiava la sua colorita collezione di insulti diretti alla sorella.
 
 
La mattina dopo Dana non aveva ancora smaltito la rabbia.
A dire il vero della casa si era lamentata almeno dieci volte più di suo padre ed Elia messi insieme negli anni passati. Quello che la infastidiva, però, era la transazione segreta di suo padre senza dirle niente. Insomma, era anche casa sua, no? Era adulta e maggiorenne, poteva avere almeno una lieve nota di voce in capitolo. Invece no, segretezza totale, neanche dovessero nascondersi dal KGB o, peggio, dalla guardia di finanza.
Sbuffò sul cespuglio mal potato di rose selvatiche che stava innaffiando e in quel momento suo fratello si affacciò dall’angolo e la raggiunse.
«Bel completino», sghignazzò e schivò agilmente la paletta da giardinaggio volata al suo commento.
Dana, contrariata, andò a raccoglierla pulendosi una mano nella salopette di jeans sdruciti che un tempo era stata di sua madre. «Sicuramente sono più vestita di quelle ragazzine a cui vai dietro.»
«Che c'è, sei invidiosa?»
Dana non rispose. «Dove hai preso quel cappello?», chiese, scorgendo un’entità nuova sulla testa del fratello: un borsalino elegante, grigio e impeccabile che, a suo parere, stonava alquanto sulla zazzera spettinata di Elia. Dana aveva un’insana quanto sviscerata passione per ogni genere di copricapo: l'unica mania che le rendeva tollerabili i pomeriggi di shopping a cui era trascinata dalle amiche.
Elia si toccò il copricapo con un sorriso astuto. «Regalo per papà.»
«E da parte di chi?», chiese Dana, bramosa.
«Raffaeli», fece lui prontamente.
Dana strabuzzò gli occhi. «E’ qui?»
«E' arrivato qui mezz’ora fa ed è appena andato via, ma tu sei troppo intenta a smaltire il broncio per accorgertene. C’era anche suo nipote», la informò.
«Ah sì?», disse lei incurante. «E che tipo è?»
Elia sorrise. «Un tipo fuori dalla tua portata, te l’assicuro!»
Dana scrollò le spalle e proseguì imperterrita la sua occupazione. «Perché non ti rendi utile e poti un po’ questo povero cespuglio, che sembra appena uscito da un film dell’orrore?»
«A che serve? Tanto non è più nemmeno casa nostra!»
«E questa ti sembra una buona scusa per lasciar andare tutto a catafascio?», si stizzì lei.
«Bah!», rispose lui conciso. Ecco, quella era una delle sue risposte preferite: «Bah!»; ottimo modo, per un pigro al cubo del suo genere, di disimpegnarsi dalle domande fastidiose.
Dana gli piantò in mano senza troppi complimenti la canna dell’acqua. «Almeno innaffia, rammollito!»
«Vammi a compare le sigarette ed eseguo, generalessa.»
Dana si accigliò. «Non sono mica la tua cameriera!», ribatté.
«Non sono mica il tuo giardiniere!», sbottò lui lasciando cadere la canna dell’acqua con mala creanza.
Il fiotto d'acqua inzuppò un anfibio di Dana fino alla suola prima che lei riuscisse a raccoglierla e indirizzarla altrove. «Guarda che hai fatto, imbecille!»
Elia scrollò le spalle. «E allora?»
Dana strinse i denti e gliela tese di nuovo. «Okay. In cambio» con un gesto noncurante, gli strappò il capello e se lo calcò sulla testa, «prendo questo.»
Elia sbuffò prendendo la canna dell'acqua. «Vedi appena torni se non me lo riprendo!»
Dana, del tutto incurante della minaccia, uscì dal giardino e percorse la strada di asfalto dissestato che portava alla cittadina sottostante. Da una delle poche case sulla via di campagna dove abitava la salutarono due ragazzine più giovani del suo liceo che prendevano il sole in giardino, e non appena passò oltre le sentì bisbigliare malevole. «Ma come si concia...!»
Dana era perfettamente consapevole di essere vestita degli abiti fuori moda della madre, con un anfibio bagnato che squittiva, i capelli raccolti alla buona in una corta treccia; e pure che la pelle abbronzata dell'estate le faceva saltar fuori ancor più lentiggini facendola quasi sembrare sfigurata da qualche dermatite; ma si sentì comunque perfettamente autorizzata a inserire le due nella sua personale lista nera e, memore che quelle mocciose solo una settimana prima l'avevano riempita di moine per farsi dare il numero di telefono di Elia, si appuntò con cura la risposta che avrebbe dato loro al prossimo tentativo di estorcerle informazioni su suo fratello.
Il bar all’angolo era in periferia, uno di quei locali con l'arredamento kitsch di una volta, le pareti mai ritinteggiate, i piattini sbeccati e dove l’età media degli avventori superava i settant’anni -eccetto il sabato sera. Come da previsione, ai tavolini disposti davanti all’ingresso c’erano i soliti quattro vecchi intenti a giocare a carte e raccontarsi barzellette dell’era giurassica; alzarono un attimo lo sguardo verso Dana, un paio salutarono con un cenno e uno si avventurò a chiedere se fosse vera la diceria che suo padre vendeva casa.
Giurerei che tutto il paese sia venuto a saperlo prima di me, pensò amareggiata scrollando le spalle in risposta ed entrando nel bar con le mani sprofondate nelle tasche.
Dentro, il locale era ombroso, con un sottofondo di musica vecchia di cinquant’anni e il ronzio fastidioso della vetrinetta dei gelati piuttosto datata. Dana nemmeno si voltò a vedere chi ci fosse ma andò dritta al bancone.
«Ehi, ciao!», fece, individuando il barista che le dava le spalle, intento a versare un espresso.
L’uomo si voltò. «Ciao Dana. Che ti serve?»
«Sigarette», rispose con un sorriso.
L’uomo annuì. «Elia, vero? E tu? Non vuoi niente?»
Dana posò lo sguardo sui gelati. In effetti il suo stomaco stava brontolando tanto da far impallidire un tirannosauro. «Beh, un gelato magari me lo prendo…»
«Gusto?»
«Solito», fu la risposta. 
L’uomo sapeva benissimo che l’unico che le piaceva era il cioccolato. Le servì una porzione abbondante mentre lei frugava le tasche raccattando un po’ di monete. «Bel cappello», si complimentò quando la ragazza lo pagò.
Dana sorrise, si guardò intorno alla ricerca di un posto dove sedersi e vide un tizio che la stava guardando dalla saletta fumatori oltre il bancone. 
In realtà "tizio" era una parola generica per lui. 
Molto generica, si corresse Dana guardandolo meglio. 
Troppo generica, decise infine, quando lo ebbe visto bene. 
Perché il tizio in questione era incredibilmente biondo, incredibilmente elegante, incredibilmente bello e, soprattutto, incredibilmente fuori posto.
Dana valutò che dovesse avere più anni di suo fratello, ma di sicuro meno di trenta. E anche che dovesse avere molti più soldi di suo fratello, e anche di lei, suo padre e chiunque conoscesse messi insieme, almeno a giudicare dal guardaroba che gridava io-costo-come-due-anni-di-stipendio-di-un-lurido-operaio. E anche che doveva esserne ben consapevole, considerata l’espressione da snob che aveva dipinta in faccia e che non le piacque neanche un po’. La cosa più strana, però, era un’altra: che ci faceva lì, nell’ultimo circolo dei pensionati terminali, un tipo così?
Non appena si accorse che Dana lo stava fissando, il ragazzo in questione le sorrise da dietro la cortina di fumo della sua sigaretta. E, ovviamente, un tizio così non poteva avere un sorriso comune, vero? No, due file di denti così dritti che sembrava che madre natura dovesse aver usato squadra e righello a farli, e così scintillanti che nemmeno se fossero stati lucidati con il Vetril avrebbero potuto brillare di più.
Dana non rispose: una sana educazione paterna le aveva inculcato che da gente così era meglio guardarsi spalle, schiena e fondoschiena. Sì, fondoschiena, quella era una delle parti più esposte a sguardi, e non solo, di gente di quel calibro. Tirò dritto verso il primo sgabello che trovò e si mise a gustare il gelato in santa pace... pace destinata a non durare a lungo, giacché proprio in quel momento dal bagno se ne uscì un altro personaggio fuori posto almeno quanto il primo, a parte l’età, che magari poteva concordare con quella media del locale.
L’uomo in questione aveva capelli bianchi, abiti che Dana aveva visto indossare solo al matrimonio di sua cugina di secondo grado tre anni prima, e scarpe che squittivano sul pavimento sporco tanto erano rigide; e anche lui, non appena la vide, la fissò e poi sorrise.
Dana s’infastidì: un conto è se ti sorride un ragazzo, un altro se lo fa uno che avrà si e no il triplo dei tuoi anni.
«Ciao», disse l’uomo.
E cercava anche di attaccare bottone!
«Buongiorno», salutò, rigida.
«Tu sei la figlia di Maniani o sbaglio? Sono Raffaeli», aggiunse, vedendo la sua espressione sospettosa.
«Ah, sono io», rispose lei senza abbandonare l’aria diffidente.
«Sono felice di conoscerti, prima non ti avevo visto», proseguì lui tendendo la mano.
Dana gliela strinse, consapevole che aveva le dita macchiate di cioccolato. «Mi dispiace, ero in giardino.»
«Sì, tuo padre ha detto che probabilmente stavi facendo giardinaggio. Ah, e questo è mio nipote, lo conosci?», aggiunse, indicando il tizio incredibilmente biondo, bello, elegante, eccetera seduto lì vicino.
«No», rispose Dana laconica.
Il ragazzo si alzò e le fece di nuovo un sorriso da Vetril. «Piacere, Massimo», si presentò allungando anche lui una mano.
Almeno era educato. Dana si alzò a sua volta. «Dana», disse semplicemente, dandogli la sua, sempre macchiata di cioccolato. 
«Bel cappello», aggiunse poi il ragazzo, con un cenno.
Dana sorrise. «Già, è nuovo.»
Anche il ragazzo sorrise. «Mi pareva.»
Suo zio -o nonno, Dana non era ancora riuscita a capire il loro grado di parentela- s’intromise. «E’ tardi, Max, dobbiamo tornare in albergo.»
«State in albergo?», chiese Dana.
Massimo annuì. «Al Torrelago.»
«Bel posto», si complimentò lei. Un quattro stelle era troppo banale, eh?
«Già», annuì Raffaeli. «E’ stato un piacere conoscerti. Se tu o tuo fratello voleste venire a trovarci vi aspettiamo.»
«Grazie, glielo dirò. Arrivederci.»
«Arrivederci», rispose Raffaeli, uscendo.
«Ciao Dana», la salutò Massimo.
«Ciao Massimo», rispose Dana, sempre sul chi vive.
Lui sorrise. «Max.»
«Max», ripetè Dana sorridendo a sua volta. 
Beh, forse non era così male. Certo, indiscutibilmente un tiratissimo, corteggiatissimo e ricchissimo rampollo di famiglia borghese, ma non sembrava antipatico. Forse poteva farci amicizia. Forse. Guardandosi bene spalle, schiena, fondoschiena, certo, ma forse sì.



Note:
Spero che l'inizio vi abbia incuriosito.
So che l'inizio possa parervi scontato, con il solito bello, ricco e snob e la ragazza alternativa, solitaria e controcorrente ma vi assicuro che Dana e Max vi offriranno una storia tutt'altro che melensa e senza colpi di scena ;)
I personaggi di questa storia sono tutti fittizi e all'epoca in cui la scrissi nella mia giovanile ingenuità credevo di aver creato persone dai tratti strani, tavolta esagerati o impossibili, poco compatibili alla vita reale. Oggi, dopo aver conosciuto esemplari della specie umana di tutti i tipi, mi sono ricreduta e dò ragione a chi dice che la realtà supera di molto la fantasia. Per fortuna. O forse no?
Lasciatemi la vostra opinione, sono curiosa di sapere cosa ne pensate voi. A presto!

Mue
 

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Capitolo 2
*** II. Martini e cioccolato ***


II.

MARTINI E CIOCCOLATO

 
 
 
 
«COSA?!» sbraitò Elia.
«Che diavolo urli? Non ti ho mica detto che voglio buttarmi nel lago!»
«Quel giorno sarebbe eletto come festa nazionale per tutta Italia! L’acidissima e disfattista Dana Maniani che finalmente libera il mondo dalla sua presenza! Dicevo, davvero ci hanno invitato al cinque stelle a trovarli?»
Dana fece una smorfia al fratello. «Ma allora sei duro di comprendonio! Mi hanno detto che se volevamo andare a trovarli eravamo i benvenuti. Ma era solo un modo educato di salutare, non ci hanno invitato davvero.»
«E chi te lo dice? No, aspetta, fammi indovinare» disse, bloccandola mentre gli stava per dare una rispostaccia. «Il tuo intuito da algidissima single imperitura? Allora posso tranquillamente dubitare.»
Dana gli schizzò addosso una manata di schiuma dal lavandino. Stavano lavando i piatti in cucina -per la precisione lei lavava, lui faceva finta di asciugare ma in realtà stava fumando, fregandosene altamente del suo compito.-
Elia protestò vivacemente tastandosi la T-shirt inzuppata. «Ehi, è la mia maglietta preferita!»
«E sai quanto me ne frega?», ribatté Dana.
«Se continui ad andare avanti di questo passo non mi stupisce che non riesci mai a trovarti un ragazzo», disse lui malevolo.
«Se continui ad andare avanti di questo passo non so come farà una qualsiasi donna a sopportare uno sfaccendato come te», replicò Dana.
«Se continuate ad andare avanti di questo passo sarà davvero un piacere sbattervi fuori di casa appena comincerà l’università ed avere un po’ di pace!», disse il loro padre dal salotto, mettendo fine alla discussione.
Elia e Dana finirono diligentemente il loro compito e raggiunsero il genitore davanti alla televisione.
«Chi sta vincendo?», chiese Elia.
Dana sbuffò: calcio, sempre calcio. Proprio non riuscivano a capire che la parola «sport» includeva anche altre attività fisiche oltre al rincorrere un pallone rotolante?
«Perché non giri sul settimo canale? Ci sono gli europei di karate», tentò senza troppe speranze.
Le occhiate incredule e indignate che i due le lanciarono, nemmeno avesse appena annunciato di voler far loro sorbire Tre metri sopra il cielo o roba simile la fecero desistere.
«Fate come vi pare, vado a guardarlo da qualcun altro», borbottò alzandosi.
«Le chiavi di casa sono sopra il cassettone», la informò il padre senza staccare gli occhi dallo schermo.
«Grazie per l’interessamento», rispose lei sarcastica. 
Niente, nessuno diede cenno di sentirla, ormai erano caduti entrambi in quel catartico limbo maschile che era il calcio. Sbuffando, si chiuse in bagno, si fece una doccia rapida e si vestì in modo presentabile. «Mi raccomando, non aspettatemi svegli e non preoccupatevi troppo per me», ironizzò mentre usciva, vedendo le facce ebeti dei due incollate alla partita.
 
 
La piccola cittadina dove abitava era un bel posto: il sabato sera si riempiva di ragazzi che affollavano i bar e passeggiavano su e giù sul lungolago o sulla via interna e, fattore importante, gli stormi di piccioni erano tutti a dormire, quindi non rischiavi bombardamenti aerei da un momento all’altro. Anche l’aria insopportabilmente afosa delle giornate estive dopo il tramonto si raffreddava piacevolmente. 
Dana s’incamminò per la discesa che da casa sua portava in centro, oltrepassò il bar dell’angolo, già ricolmo di un discreto numero di crocchi di persone piene di piercing,  capelli dai colori improbabili, magliette di gruppi metal e roba da fumare non identificata -Elia li aveva rinominati "i Mohicani"- e approdò alla via principale. Non aveva chiamato nessuno per uscire: sapeva che le tre amiche che aveva erano coi rispettivi ragazzi e di fare il reggimoccolo non aveva proprio voglia; quanto a tutte le altre sue conoscenze... be', alla maggior parte di loro Dana avrebbe preferito una colonscopia, quindi si tenne alla larga da tutti i bar più popolari tra la gente del suo ormai ex-liceo. 
Sul lungolago s’infilò nella gelateria dell’angolo, praticamente deserta; quella in fondo alla strada, a dire il vero, faceva gelati molto più buoni, ma considerando la coda chilometrica che ci trovava sempre il sabato, preferì un posto dove sedersi ed essere servita subito. Il Riva era un locale abbastanza elegante, con un grande bancone di marmo e un’immensa vetrina con gusti di tutti i tipi. Dettaglio trascurabile per Dana, che, puntualmente, ordinò un’enorme coppa di solo cioccolato. Mentre aspettava, con l’acquolina in bocca, si girò a guardare fuori la gente che passava, quando una figura alta e vagamente familiare entrò dalla porta.
«Ciao», fece appena la vide.
«Ciao», rispose Dana immediatamente. 
Sì, era proprio lui: Massimo. Anzi, Max, si corresse.
«Dana, giusto?», chiese lui con un sorriso, facendo tintinnare le chiavi dell'auto che aveva in mano. Dana non ne riconobbe la marca ma era pronta a giurare tutti i suoi cappelli che non era una Fiat Panda. 
«Esatto» disse alzando un pollice. «E tu sei Max.»
Lui annuì, poi vide la coppa di gelato che la ragazza del bar aveva riempito e spinto verso di lei e inarcò un sopracciglio. «Ma tu vai avanti solo a cioccolato?»
Dana, che si irritava facilmente, assunse subito un tono polemico. «E tu solo a sigarette oppure ogni tanto ti riempi anche lo stomaco di qualche cosa di insano, oltre che i polmoni?»
Max sorrise. «Penso che tu abbia ragione.» Si rivolse alla barista con un sorriso scintillante. «Mi fai un Martini Bianco?»
La ragazza annuì e si affrettò con foga alla zona drink, neanche le avesse fatto un’ordinazione il Presidente della Repubblica. Lui sorrise compiaciuto e si sedette accanto a Dana. «Tu non bevi niente?»
Lei fece spallucce. «L'avrei fatto, ma preferisco non umiliarmi chiedendo una spremuta d'arancia dopo la tua sofisticata ordinazione.»
L'altro rise. «Non apprezzi i cocktail?»
«Non apprezzo l'ostentazione» replicò lei serafica.
Max inarcò un sopracciglio. «Ah, è così? E da cosa desumi che non l'abbia ordinato per il semplice motivo che sia di mio gusto?»
«Non l'ho desunto. Lo so e basta» fu la risposta di Dana, detta in tono di sfida.
Max rise di nuovo ma invece che replicare tacque e osservò Dana; la sua mancata risposta la punse sul vivo e si volse di nuovo verso il gelato, ignorandolo.
«Buono?», domandò lui di punto in bianco.
Dana lo scrutò da cima a fondo, sospettosa. «Perché?»
«Era solo una domanda. Sai, per fare conversazione», rispose lui, divertito dalla sua diffidenza.
Dana si accigliò e ingranò il cervello per dargli una risposta a tono. «Com’è che avete voluto comprare casa proprio qui?», cambiò argomento leccando il suo cucchiaino.
Max la fissava con due occhi strani, come se stesse cercando di leggerle il pensiero. «Perché?»
«Era solo una domanda per fare conversazione», osservò in tono casuale Dana.
Lui ridacchiò. «Okay, uno pari. Facciamo una tregua?»
Dana fece un'espressione innocente. «Tregua? Non siamo mica in guerra.»
La barista arrivò in quel momento con il bicchiere per Max, che pagò senza parlare.
«Spero che il gusto sia degno del suo nome altisonante», disse Dana, incuriosita dall'aspetto raffinato del cocktail.
Max sorrise e glielo porse. «Lo è. Prova.»
«Io non bevo alcolici», chiarì subito Dana, rifiutando con un gesto.
Lui si accigliò. «E allora perché mi hai chiesto se è buono?»
«Non te l'ho chiesto. Ho solo detto che spero sia buono», replicò Dana.
Max alzò di nuovo un sopracciglio. «Di solito quando si commenta qualcosa che l'altro si accinge a bere o mangiare, è implicito che si voglia assaggiare.»
«Ah sì? Quindi prima volevi un po’ del mio gelato?»
Max rise. «Sei una tipa strana, lo sai?»
Dana scrollò le spalle. «Me lo dicono spesso.»
«Forse perché è vero», insinuò lui, mandando giù un sorso.
Stavolta fu Dana a non ribattere: il fatto di essere diversa dalle altre ragazze, lungi dal non disturbarla, l'aveva anzi sempre resa fiera ma non voleva passare per una vanesia alternativa quindi tacque e si godette quello che, anche se da lui poteva essere un'affermazione sprezzante, per lei era un autentico complimento.
Fece tintinnare il cucchiaino sul fondo della coppa, un vizio che aveva fin da piccola: le dava una sensazione piacevole, evocava lo stomaco gradevolmente pieno di qualche cibo succulento dopo aver vuotato il piatto fino all'ultima briciola.
«Posso chiederti una cosa?», chiese a un certo punto Max, i cui occhi Dana s'era sentita addosso per tutti quei minuti mentre stavano in silenzio a osservare la gente passare dall'altra parte del bar, fuori dalla vetrata.
«Se non è matematica, fai pure», rispose Dana senza distogliere gli occhi dal cucchiaino.
Con la coda dell’occhio gli vide le labbra fremere in una risata repressa. «Ma tu sei sempre così acida o nel gelato che hai mangiato stamattina c’era yogurt scaduto?»
Dana fece una smorfia. «Prova a vivere con un tipo come mio fratello e in una casa di soli uomini per diciassette anni filati e se non diventi acida vuol dire che ti sei trasformata in un uomo anche tu.»
«Perché, tua madre dov’è?»
«Morta», rispose Dana laconica.
Ci fu una pausa di silenzio.
«Mi dispiace.»
Dana scosse le spalle di nuovo. «Non me la ricordo nemmeno», disse indifferente. «Allora?»
Lui parve spiazzato. «Allora cosa?»
«La tua domanda. Quella vera», specificò con un sorriso.
Max posò sul bancone il bicchiere vuoto. «Era quella che ti ho fatto.»
Dana esitò, poi spinse anche lei la coppa vuota. «Allora la nostra conversazione è finita.»
Si alzarono in contemporanea e si diressero all’uscita insieme. Max la superò e aprì la porta, ma non la attraversà e si mise di lato con un cenno elegante per farla uscire per prima.
Dana rimase colpita. «Grazie», balbettò.
Un lampo negli occhi di Max la fecero pentire di essersi fatta sorprendere. «Prego.»
«Educazione borghese?», chiese lei uscendo.
Lui ammiccò. «No, si chiama "cavalleria." Mai sentita?»
Dana sorrise. Okay, che avesse la battuta pronta doveva ammetterlo. «Credo che quella parola sia sconosciuta ai dizionari della maggior parte dei maschi che conosco.»
«Suppongo di sì, o non saresti così mordace. Ci vediamo in giro. Buona serata.»
E, congedandola così su due piedi, si voltò e se ne andò. Dana gli fissò le spalle larghe, coperte dalla camicia Armani da quattrocento euro minimo e non riuscì a trattenersi.
«Max!», lo chiamò.
Il ragazzo si voltò. «Sì?»
«Un vero cavaliere dovrebbe anche fare il baciamano alle signorine o sbaglio?» lo canzonò.
Lui fece quel suo sorriso che sembrava mandare più luce di tutti i lampioni lì vicino. «Può darsi, ma qui di signorine non ne vedo.»
E se ne andò.
Dana si incamminò nella direzione opposta, accigliata. Non era educato, si corresse; anzi, era una grande, grandissima carogna.
 



Note:
Man mano che posto la storia sto cercando di correggerne la versione originale ma si sta rivelando un compito piuttosto arduo. Ci sono interi pezzi che riscriverei o interi eventi  che cambierei ma se lo facessi anullerei totalmente l'intento originale con cui scrissi questa storia, ovvero quello di creare qualcosa di leggero, con poca introspezione psicologica e tanta azione, e con una protagonista atipica e probabilmente anche antipatica.
Spero, comunque, che nella sua "antipatia" vi riesca a incuriosire e spingervi a seguirla perché ne succederanno delle belle. Intanto che impressione ne avete avuto? Credete che ci voglia qualche descrizione psicologica in più? Aspetto le vostre opinioni o suggerimenti.

Mue

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Capitolo 3
*** III. Rose e fumo ***


III.

ROSE E FUMO



 
Il giorno dopo Dana lo rivide. 
Non era particolarmente allegra e solare, in quel momento -per la verità non lo era mai, considerato il pessimismo cosmico intrinseco nel suo carattere- perché la sera prima non era riuscita a guardarsi nemmeno un incontro degli europei. E questo l’aveva molto, molto innervosita. E il fatto che, il mattino dopo, al TG sportivo non fu pronunciata nemmeno una sillaba a riguardo, mentre si erano sprecati in commenti di dieci minuti buoni sulla partitella di calcio che Elia e suo padre avevano seguito non contribuì a migliorare il suo umore. 
Era quindi piuttosto naturale che, intenta a potare i cespugli del giardino -suo fratello aveva declinato il lavoro adducendo come scusa una tanto fastidiosa quanto falsa tendinite ai polsi- i suoi movimenti con le forbici risultassero piuttosto violenti. Diciamo pure che se fosse passato in quell’istante il regista di un horror l’avrebbe scritturata al volo per la parte della psicopatica assassina.
«Buongiorno», disse una voce profonda, alle sue spalle.
Dana si voltò. Eccoli lì, lui e suo zio -o nonno, il mistero ancora restava-, che la guardavano leggermente inquietati dall’aggressività con cui si accaniva sul povero cespuglio.
«Quella rosa deve aver commesso un terribile crimine per meritare un tale supplizio» commentò Max da dietro lo zio.
Dana cercò di riconquistare tutta la compostezza che poté, impresa non facile considerata la sua tenuta da giardinaggio, ancora più sporca di terra del giorno precedente. «Buongiorno» disse rigida. «Se cercate mio padre è sul retro, a riparare lo scooter», disse rivolgendosi all’uomo anziano e ignorando Max.
«D’accordo, grazie Dana. E, ehm, buon lavoro», aggiunse il signor Raffaeli dubbioso, lanciando un’altra occhiata in tralice alle forbici.
Max fece per seguirlo, poi, come ripensandoci, si fermò. «Io ti aspetto qui, zio.»
«Fai come vuoi», fu la risposta pacata dell'uomo, che poi sparì oltre l'angolo di siepe in fondo, già passato sotto la foga botanicida di Dana.
Ecco svelato il mistero della parentela. Dana, soddisfatta della scoperta, tornò al cespuglio riprendendo a tagliare le cime rinsecchite con dignità. Max, dal canto suo, rimase lì accanto con il suo portamento da damerino e il sorriso brillante che faceva la concorrenza ai riflessi del sole sul suo orologio d’oro. Visto che Dana non lo degnò di una sola parola, alla fine si avvicinò e si sedette sul muretto di fianco a lei. Dana si fermò e si voltò a guardarlo.
«Era meglio se non lo facevi», fece con voce atona.
Max alzò le mani con un sorriso. «Se intendi ieri sera, chiedo venia: è stato poco garbato da parte mia e sono pronto a fare ammenda.»
Dana si accigliò. «No, non intendevo ieri sera» gli rispose compunta. «Dicevo semplicemente che era meglio che non ti sedessi su quel muretto. Non vorrei essere citata per danni se un po' del plebeo fango del mio giardino insozzasse i tuoi aristocratici indumenti.»
Gli occhi di lui scintillarono ma le rispose serio: «Non ti preoccupare, non sarò così crudele da denunciarti alla Santa Inquisizione per questo.»
Dana inarcò le sopracciglia: si aspettava una risposta più simile a delle scuse ma quel maledetto borghese aveva classe persino nell'incassare le provocazioni. Si voltò e tornò al suo cespuglio, decidendo di ricominciare a ignorare completamente Max, probabimente la mossa più efficace per infastidirlo.
Non si sbagliava. «Quindi ieri ti ho indispettita?» domandò lui alle sue spalle, insistente.
Dana cominciava a reputarlo piuttosto fastidioso; tagliò un'altra estremità secca del cespuglio con uno schiocco feroce delle forbici e chiese: «Davvero hai una reputazione così elevata della tua influenza su qualcuno che nemmeno conosci?»
«Ammetto di avere un'alta reputazione della mia influenza, ma per una volta il mio giudizio si basa sul semplice fatto che effettivamente sembri indispettita.» 
Stavolta Dana si girò a guardarlo facendo roteare le forbici in una mano e mettendosi l'altra sul fianco.«E da cosa desumi che non sia indispettita semplicemente per i fatti miei?»
Max fece ancora quel sorriso maledettamente contagioso e Dana, suo malgrado, sentì il fastidio scemare un po'. 
«Da nulla, in realtà» disse lui. «Anzi, sarei sollevato di essere smentito, soprattutto vedendo come maneggi quelle forbici. Nelle tue mani hanno tutta l'aria di un'arma impropria.»
Dana ripose le forbici da giardinaggio nella tasca dell'ampio grembiule verde che portava sopra la maglietta e la solita salopette e si tolse il cappello di paglia dalla testa, sventolandoselo davanti al viso per rinfrescarsi il viso accaldato. C'era un'afa terribile quel giorno. «Stai attento a non indispettirmi troppo, allora, o potresti scoprire se l'aspetto corrisponde a verità.»
Max inarcò un sopracciglio. «Oh? Non avevi suggerito che non sono stato io a indispettirti?»
Dana si mise le mani sui fianchi. «Sai, alla fine credo proprio che verificherò l'affilatura delle forbici sulla pelle di qualche irritante borghese di città.»
«No, no, scherzavo» rise Max. «Piuttosto, dimmi: ti piacciono i cappelli?»
Dana si andò a sedere appena discosta da lui sul muretto. «No, li odio. Li metto solo perché impediscono ai liquidi del mio sistema cerebrale di evaporare nell’atmosfera.»
Max alzò le mani in segno di resa. «Va bene, era una domanda stupida ma non credo tanto da meritare una risposta così... bisbetica.»
«Aggiungerò l'aggettivo bisbetica accanto a "strana" sul mio curriculum vitae», replicò Dana incurante.
«No, non serve: non penso che tu lo sia.»
Dana, sorpresa, lo guardò negli occhi. «Wow, cos’era, quasi un complimento? Devo arrossire?»
«Ecco, lo stai facendo di nuovo.»
«Che cosa?»
«Aggredirmi. Non mordo, sai, non c’è bisogno di stare sulla difensiva.»
Lei si accigliò e si scostò. «Io non sto sulla difensiva!»
«Ah no?», fece Max, beffardo.
Dana rimase corrucciata per qualche momento, meditando. Poi, di punto in bianco, chiese: «Che cosa vuoi?»
Il gran sorriso di Max scomparve. «In che senso?»
«Cosa fai qui, con me? Perché non hai seguito tuo zio di là?»
Max si corrucciò e si alzò. «Perdonami, non credevo di disturbare.»
Fece per andarsene ma Dana, mordendosi un labbro, lo fermò. «Non ho detto che disturbi, ti ho solo chiesto perché sei rimasto qui.»
Max incrociò le braccia. «Sai, chiedere bruscamente "cosa vuoi?" a una persona di solito significa che si vuole tagliar corto il discorso e cacciarla via.»
Dana sorrise furbescamente. «Credo che ieri abbiamo già chiarito che non sono tarata nelle comunicazioni implicite di certe frasi.»
Max le rivolse un'occhiata cogitabonda, in silenzio. Dopo qualche istante tornò a sorridere. «E abbiamo anche già chiarito che sei strana, ma credo di dover ancora capire che tipo di stranezza sia.»
«Be', pensavo stessimo facendo progressi con il "bisbetica" ma tu me l'hai bocciato. Comunque non hai risposto alla mia domanda. Che cosa vuoi? Voglio dire, perché stai qui a parlare con me?»
«Faccio conversazione» replicò Max ironico. «Ah, scusa, dimenticavo che sempre ieri abbiamo chiarito che la conversazione è un'altra competenza che pare sfuggire dalle tue attitudini.»
Dana si tirò su le gambe circondandole con le braccia e fece una smorfia. «Sembra che ieri abbiamo chiarito parecchie cose. Comunque cercherò di migliorare almeno sul fronte della conversazione ma sono un po' stufa del mio profilo psicologico: dopotutto ci convivo tutti i giorni. Che mi dici del tuo? Che sei venuto a fare qui con tuo zio? Mi sembri un po' cresciuto per stargli appresso come un lacché. O di lavoro gli fai da accompagnatore?» 
Un'altra provocazione, ma Max, ancora una volta, incassò inaspettatamente il colpo. Inarcò un sopracciglio con aria sufficiente e disse: «Dovrei parlarti di me? Oh, no, sarebbe una noia mortale.»
Lei si incuriosì. «Ti reputi un tipo noioso?»
«No, mi reputo troppo perfetto per essere di qualche intrattenimento a chi voglia analizzarmi» fu la risposta seria di lui.
Dana alzò le sopracciglia. La stava prendendo in giro o ci credeva sul serio? «È una delle voci che trovo sulle tue competenze sociali, sotto "spocchioso" e "schifosamente ricco"?»
Max tornò a sedersi con un gesto così elegante e in modo così composto che pareva si fosse accomodato su un trono imperiale, non sul fangoso muretto di casa Maniani. Dana s'irritò e s'intrigò allo stesso tempo: ma come diamine faceva? L'aveva osservato durante quella conversazione e sembrava quasi che tutto quello che faceva fosse studiato nei minimi dettagli: ogni suo movimento era equilibrato, controllato, mai troppo veloce o lento. Teneva le mani sempre al loro posto, non incrociava le braccia nè le gambe, non si grattava il naso, la faccia, i capelli... niente. Snervante. E interessante. 
Lui stava ridendo.«Perché, essere "schifosamente ricchi" ora è un insulto?»
«Più che un insulto di solito è una colpa, ma non ti addosserò responsabilità che non ti competono» affermò Dana magnanima. «Nel tuo caso non potevi farci niente, è questione di genetica.»
A Max tremavano le labbra per il riso represso. «Da quest'ultima affermazione deduco che ritieni che la mia ricchezza sia passata per meiosi dai gameti parentali.»
«O "ziali"» lo corresse Dana.
Max sogghignò. «Ah, sì. Mio zio e i suoi teatri.»
Dana si incuriosì. «Lavora con i teatri?»
Max annuì rivoltando la giacca che fino a quel momento aveva tenuto sottobraccio. «È un produttore: talvolta si interessa anche di cinema ma prevalentemente preferisce l'ambiente teatrale.»
«Oh, immagino. Il cinema, dopotutto, fa così proletariato» fece Dana canzonatoria.
Max rise di nuovo mentre tirava fuori un pacchetto di sigarette dalla tasca foderata di seta della giacca e ne estraeva una.
Dana si accigliò. «Sai, anche fumare è un'attività profondamente plebea, oltre che insalubre e assolutamente cretina.»
Max aveva estratto anche un accendino e se l'era accesa. «Ne sono costernato» disse in tono noncurante. «Quanto sono sceso nella tua scala di stima aristocratica per questo gesto?»
«All'ultimo gradino» disse Dana freddamente.
Max esalò una nuvoletta grigia. «Anche ieri mi hai blandito su questo argomento. Posso sapere se questa tua personale crociata contro la nicotina è un fatto personale o un atto di carità sociale verso il benessere comune? Brutte esperienze? Crisi esistenziali? Ex fidanzato fumatore?»
No, madre morta di cancro ai polmoni.
Non lo disse ad alta voce. Dana aveva freni poco efficienti tra gli output del cervello e la bocca ma pochi selezionati pensieri facevano eccezione alla regola: i pensieri da vittima, li definiva lei.
Non è che provasse tristezza o si sentisse legata a sua madre, che non ricordava, ma il fumo era legato a quella figura evanescente, e lo odiava: era leggero, impalpabile ed effimero; c'era ma mancava, come la presenza di un'assenza. Come quella figura sparita prima di comparire.
Vedendo che Max la fissava con sguardo penetrante a causa del suo momentaneo silenzio, Dana si scosse. «Niente ex fidanzati, soprattutto fumatori» disse alzando le spalle. «L'unico fumatore a cui permetto di stare a distanza ravvicinata, e che purtroppo non sarà mai ex, è mio fratello.»
Elia, già: era il suo contrario; fumava di gusto e nulla l'avrebbe fatto smettere, come aveva dichiarato lui stesso: era come se nelle volute del fumo -che quando si accendeva una sigaretta si soffermava spesso a osservare rapito- ci trovasse quel qualcosa che non c'era. O non ci trovasse più quello che c'era. O tutt'e due. O forse era solo un'idiota, come Dana spesso concludeva scuotendo la testa.
Vide improvvisamente che Max, durante quella pausa di silenzio, stava per chiederle qualcosa a cui lei era sicura di non avere voglia di rispondere, ma per fortuna in quel momento tornò finalmente suo zio seguito da un signore che Dana individuò come il geometra che aveva conosciuto un paio di ore prima e che doveva essere entrato dal retro.
«Ecco fatto, Massimo. Possiamo andare?»
Max si alzò e Dana fece altrettanto.
«Certo. Anzi, Dana sarà contenta che non le appesti ulteriormente le aiuole con il mio terribile vizio plebeo e cretino.»
Lo zio di Max non lo ascoltava, intento a scambiare un ultimo paio di parole col geometra, e Dana rispose a tono: «Le uniche cose ad appestarsi sono i tuoi alveoli polmonari, ma sono una proprietà esclusivamente tua, quindi sei libero di maltrattarli come più ti piace.»
Max scrollò le spalle sorridendo.
«Buona giornata, signorina strana» disse, ponendo provocante l'accento su "signorina."
Dana rispose prontamente. «Buona giornata, signor perfetto



Note:
Buonasera!
Questo capitolo è stato parecchio difficoltoso, soprattutto perché l'ho praticamente riscritto daccapo. Come vi è sembrato? Il tono leggero a volte si fa pesante e ci sono accenni di introspezione che non ho ancora deciso se stonano o sono ben amalgamati con l'insieme leggero e frizzante che -spero- comprende la storia fin qui. Comunque a me piace; lo so che un autore non dovrebbe autocompiacersi o cose del genere ma io scrivo quello che mi piacerebbe leggere e quindi tendo, ahimé, a misurare tutto con il mio gusto personale.
E voi cosa ne pensate? Max e Dana vi sembrano piatti o c'è qualche aspetto che vi interessa o vi intriga? Fatemi sapere ;) Sono curiosa e se c'è qualcosa da migliorare suggeritemi, ne sarei contenta.
Prima di salutarvi ringrazio dal profondo del cuore LUNAticaSTORTA e whinydreamer per le loro recensioni, sono state assolutamente apprezzate <3 E grazie alle dieci persone che hanno inserito la storia tra le seguite.
A presto, carissimi!

Mue

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Capitolo 4
*** IV. Sull'acqua ***


IV.

SULL'ACQUA

 
 
Dana non aveva mai creduto nel destino.
Perciò quando il mattino seguente incappò sulla passeggiata del lungolago in una figura alta, con occhiali scuri alla moda, pantaloncini e camicia bianchi e scarpe da vela, il tutto condito di un'aria vagamente familiare non lo trovò di particolare significato; si disse anzi che era solo una coincidenza capitata male. Aveva appena lasciato le amiche al bar e dopo una lunga chiacchierata aveva voglia di starsene un po' da sola. Fece dunque dietrofront e si  avviò verso la via interna.
«Ehi, signorina
Dana, che ormai era quasi oltre l'angolo del municipio, per un attimo fu indecisa se fingere di non averlo sentito e proseguire o fermarsi ma lo scalpiccio deciso dietro di sé la fece voltare e vide che le era venuto incontro togliendosi gli occhiali da sole.
«Ciao» disse con un sorriso che però non arrivava agli occhi.
Quel fatto bastò ad accendere la scintilla della curiosità di Dana. «Ciao, perfetto
Il sorriso stavolta raggiunse lo sguardo. «Ho un nome» le fece notare.
«Anch'io.»
Max sogghignò, esitò per un istante e poi le domandò: «Mi stavi evitando?»
Dana ficcò le mani in tasca e si fece seria guardandolo negli occhi. «Se così fosse sei stato molto importuno nel chiamarmi indietro, non ti pare?» commentò con una sincerità disarmante.
Max, per la prima volta da quando lo conosceva, sembrò restare un attimo senza parole. Esitò, come confuso, mentre una ruga gli solcava lo spazio tra le sopracciglia. Alla fine tornò a sorridere, anche se di nuovo senza che il sorriso arrivasse agli occhi. «Io non sono mai importuno.»
«Immaginavo. Mentre io con i miei modi lo sono sempre, vero? E stavolta così tanto da far venire seri dubbi al signor perfetto sul suo comportamento» replicò Dana schiarendo la sua espressione.
Ecco, era tornato il sorriso vero. Max ribatté: «Come qualcuno mi ha chiesto non so dove: davvero hai una reputazione così elevata della tua influenza su qualcuno che nemmeno conosci...? No» aggiunse, tornando serio e rivolgendo lo sguardo alla banchina, che in quel punto del lungolago aveva ormeggiati diversi motoscafi e barche a vela. «È che stamattina avevamo prenotato una barca, io e mio zio, ma lo hanno chiamato da Milano e dovremo ripartire domani, perciò le carte da compilare sono da finire oggi e la gita sul lago è saltata. Mi dispiace molto perché so che ci teneva.»
Dana rimase un attimo in silenzio, poi chiese: «Ma la barca l'avevate già pagata?»
«Sì, infatti pensavo di andare da solo, a questo punto.»
Silenzio.
«Ma?» fece Dana.
Max inalberò un'espressione ingenua che non ingannò Dana. «"Ma" che cosa?»
«C'è un "ma" implicito nella tua frase.»
«Non avevamo detto che non sei brava nelle implicazioni verbali?»
«Sto migliorando» rispose Dana candidamente.
Max rise, esitò, poi scosse la testa. «Ebbene: non so guidare la barca a vela.»
Dana rise. «C'è qualcosa che il signor perfetto non sa fare, dunque?»
Lui inarcò le sopracciglia e in tono fintamente offeso dichiarò: «Sai, una vera signorina, anche se strana, dovrebbe glissare le occasioni di volgare derisione a spese altrui.»
«Ma una vera signorina non saprebbe nemmeno guidare una barca a vela» ribatté Dana incrociando le braccia.
Max sorrise, scettico. «Vuoi farmi credere che tu sei capace?»
«Nelle scuole milanesi vi preparano perfettamente con il manuale di galateo, ma io sono cresciuta sul lago, mio caro aristocratico.»
Il sorriso di lui si allargò. «Dimostramelo, allora.»
«Solo se me lo chiedi gentilmente», ribatté Dana puntigliosa. «Come se fossi una vera signorina.»
Si fronteggiarono per un istante, e stavolta il riso Max ce l'aveva negli occhi, anche se la bocca era chiusa in un'espressione seria e solenne. Poi lui le tese la mano e Dana, senza capire o rendersi conto di cosa faceva, gli diede d'istinto la propia.
Max sorrideva senza distogliere lo sguardo dal viso di Dana e disse: «Ma tu molto in fondo sei una vera signorina.» Per un istante Dana rimase sbalordita mentre lui faceva per chinarsi sulla sua mano ma prima che lui avesse il tempo di terminare il suo gesto si ritrasse e gli diede un pugno sulla spalla.
Max imprecò, preso completamente alla sprovvista dalla forza che ci aveva messo. «Mi hai fatto male!» esclamò prendendosi il braccio, stupito.
Dana si sfregò il pugno. «L'intento era quello.»
«Mi hai fatto davvero male!» ripeté lui con enfasi.
«Certo che sì!» rispose Dana seccata. «Se avessi voluto farti male per finta pensi che ti avrei dato un pugno?»
«Ma...» Max esitò, ancora incredulo.
«Ma?» lo incoraggiò Dana, mentre ancora si sfregava il pugno ancora chiuso.
Max si accigliò, perplesso. «Stavo ottemperando alla tua richiesta e tu in cambio mi picchi?»
Dana incrociò le braccia e guardò verso il lago cercando di assumere un'aria pignola e sperando di non arrossire. «Il "molto in fondo" non era molto galante» disse sperando che fosse una valida giustificazione alla sua reazione. 
Una reazione che a dire il vero aveva colto di sopresa anche lei. Che diavolo mi è preso di tirargli un pugno?, pensò, inquieta. Cercò di allontanare la confusione e la vaga consapevolezza che forse aveva reagito per paura che lui stesse davvero per stare al gioco con lei. Paura? Paura di cosa? Che lui lo facesse sul serio? 
«Mi sembra un po' poco per meritare un pugno» obiettò lui impeccabile mentre la fissava negli occhi.
«Allora diciamo che lo meritavi dall'altra sera» rispose lei sfrontata, cercando di riprendere il controllo della situazione.
«Davvero?» fece lui serio, senza smettere di studiarla e dandole la spiacevole sensazione che le stesse leggendo sul viso la confusione.
Lei cercò qualcosa da rispondere e per fortuna arrivò a salvarla un uomo in camicia che domandò a Max: «Signore, per la barca cos'ha deciso di fare?»
Max si voltò verso Dana. «La sai davvero guidare?»
 
Dana non seppe spiegarsi cosa l'aveva spinta ad accontentare Max.
Per il tremendo attimo di confusione che le aveva provocato si sarebbe meritato di essere lasciato lì sulla banchina, a guardare bramoso e deluso la barca a vela -non che Dana credeva che lui l'avrebbe fatto davvero: con molto charme avrebbe riso, fatto intendere che non gli importava più di tanto e se ne sarebbe andato-; ma lei aveva pensato, aveva sentito che Max doveva fare quella gita e vedere il lago dal centro delle sue acque, dove pulsava il suo enorme liquido cuore blu circondato di rive rocciose.
Il corso di vela era un'opzione scolastica quasi scontata nelle superiori che circondavano il bacino ma solo quando Max aveva ammesso di non saper guidare una barca Dana s'era resa conto di quanto invece fosse eccezionale in un panorama più ampio di quello delle piccole cittadine che conosceva.
E Venezia? Come sarà? Si chiese tenendosi saldo il cappello e pensando che in meno di un mese sarebbe partita, lasciando le acque tranquille per quelle torbide e misteriose della città universitaria.
Erano quasi al centro del lago: il vento gonfiava la vela e la barca sfrecciava, sollevandosi e abbassandosi con tonfi violenti quando incontrava le creste delle onde. La portò al largo dove, infine, distese la vela e rallentò l'andatura fino a una lenta avanzata sulla scintillante superficie cristallina del lago.
«Avevi ragione» disse Max a quel punto, seduto di fronte a lei nello spazio di manovra posteriore della barca. «Le vere signorine non guidano le barche a vela. O, perlomeno, non le guidano così.»
Dana, gli occhi strizzati per l'intenso riverbero dell'acqua, non riuscì a inalberare un'espressione offesa come desiderava. «Se la mia guida non ti piace, puoi tornare a riva a nuoto.»
Max sorrise. «La tua guida no, ma stare in tua compagnia non è spiacevole e rimarrò.»
Dana battè le palpebre a quell'affermazione ma aveva ormai ripreso il controllo da un po' e fu pronta a rispondere puntigliosa: «La mia guida fa parte di me, signor perfetto
«Be', anch'io sembro non esserti spiacevole nonostante la mia perfezione, giusto?» rise lui.
«No, so da fonte certa che sei troppo perfetto per non annoiare.»
Max rise di nuovo, i denti che scintillavano al sole: anche lì, sulla barca e mezzo ricoperto di schizzi d'acqua, era più composto di quanto Dana fosse mai stata in tutta la sua vita, asilo con le suore compreso. «Dove l'hai presa la tua memoria da elefanti per quello che dice la gente?»
«Un'altra competenza del curriculum» commentò Dana asciutta. «Ora, però, taci a guarda.»
Max, zittito così bruscamente, rise ancora ma fece come Dana gli aveva detto e guardò a nord, dove il lago si stringeva e le rive si sollevavano in alti costoni di roccia imponente. Era uno spettacolo mozzafiato. 
Rimasero in silenzio per un po' a guardarsi intorno e Dana si accomodò meglio sulla sua panca a gambe incrociate, riparandosi gli occhi con una mano. 
«È uno spettacolo che non ha bisogno del biglietto per essere visto» affermò a un certo punto Max guardando lontano.
«E nemmeno per essere ascoltato» aggiunse Dana chiudendo gli occhi, stanca della troppa luce.
«È un ulteriore invito implicito a farmi tacere?»
«Sto migliorando, vero?» fu la risposta serafica.
Lui sogghignava ma tacque per un po' di tempo. Il rumore delle onde, del vento e delle corde della neve erano una musica dolce alle orecchie di Dana: non si era mai reputata una vera appassionata di vela, di acqua o altro ma quell'atmosfera tranquilla avrebbe quietato anche spiriti più irascibili del suo. 
Dopo un po' di silenzio Max chiese: «Vieni qui spesso?»
«Sul lago in barca? No, ho finito le lezioni di vela al terzo anno di superiori.»
«Peccato. Qui è il posto ideale dove stare soli.»
Dana aprì gli occhi per vedere la faccia di Max, ma per una volta il ragazzo non sogghignava. Forse parlava sul serio, quella volta.
«Si è soli anche in mezzo alla gente» osservò Dana chiudendo di nuovo gli occhi.
Silenzio. Poi, forse per alleggerire l'atmosfera, Max disse: «Forse perché la gente non osa affrontare i dardi avvelenati che scagli quando fai conversazione?»
«Forse. Ma non credere che se la gente invece preferisca eloqui raffinati come il tuo significhi che tu sia meno solo di quanto lo sia io» ribatté Dana sempre a occhi chiusi.
«Dipende dal tuo concetto di essere soli» obiettò lui.
Dana scoprì gli occhi e lo guardò. «O dal tuo concetto di stare insieme.»
Max la osservò con interesse. «Sembri molto scrupolosa su questo argomento.»
«Non mi piace chi sull'argomento è troppo inaccurato, come spesso succede.»
«Quindi secondo te stare in compagnia dovrebbe significare qualcosa di più di godere della presenza e della conversazione delle altre persone?»
Dana esitò, ma decise di essere sincera: «Al contrario, godere delle persone che sono con noi è già tanto.»
Lui le rivolse ancora quello sguardo penetrante che aveva vicino al molo prima, quando sembrava leggerle sul viso quello che pensava. «Dunque la questione è che non provi piacere nella compagnia della maggior parte delle persone. E io invece sono un raro eletto?»
Dana stava ricambiando il suo sguardo e per un attimo le parve di scorgere nella sua espressione di noncurante ironia una scintilla di interesse: di vero interesse. Sentì muoversi dentro di lei qualcosa che raramente le capitava di provare: un moto di tenerezza che non riuscì a trattenere e le sfociò in un sorriso strano, che lei stessa non si era mai sentita sul viso prima di allora. «Non sei troppo superiore da non provare piacere nel caso tu lo fossi?»
Max rimase per un attimo muto, un'espressione sorpresa sul viso; forse non si aspettava quella domanda, o forse non si aspettava il tono franco ma pacato con cui gliel'aveva rivolta; o forse era il suo sorriso intenerito che l'aveva stupito e gli aveva per un attimo fatto scivolare via la perfezione e la sicurezza di cui era sempre così ben armato; gli aveva fatto scivolare via il fascino elegante e gli aveva lasciato solo quello naturale, autentico.
Dana avrebbe giurato di avergli letto in viso la voglia di sapere, la domanda già sulle sue labbra: «Lo sono?»
No, non chiedermelo. Il suo cervello formulò terrorizzato questo pensiero mandandola di nuovo in confusione.
Non avrebbe avuto motivo di temere, però, perché Max era troppo preparato per fare un simile passo falso, scoprendo la guardia ed esponendosi alla sua derisione; derisione che sicuramente Dana non gli avrebbe risparmiato, perché non avrebbe potuto rispondergli sinceramente, non avrebbe potuto scoprirsi a sua volta... non avrebbe osato, le confessò il suo cervello, ma lei lo zittì.
«Ma non posso esserlo se sono così altezzoso da ritenermi superiore, giusto?» disse Max con un sorriso che non si estese agli occhi.
Dana fece un sorriso simile. «Devo almeno essere costretta a riconoscerti una certa arguzia.»
Avevano recuperato pienamente il controllo.
 
Tornarono a riva qualche tempo dopo, la barca fu ormeggiata, i noleggiatori salutati e Dana e Max si trovarono sul molo a salutarsi.
Dana si sentì strana: dopo un'intera mattina passata sull'acqua era rassicurante ma anche deprimente tornare sulla terra solida, sicura ma così... così ferma. Anche i suoi pensieri sembravano quietati e posati su basi sicure dopo quelle brevi ore piene di momenti di confusione, paura e sorpresa ma Dana si sorprese avvertendo che con la loro violenza l'avevano inebriata, un po' come quando improvvisamente ci si tuffa da uno scoglio e si scopre un mondo subacqueo spaventoso ma allo stesso tempo eccitante.
«Grazie del bel giro» stava dicendo Max dritto in una perfetta posizione signorile e allo stesso tempo sciolta. «Chissà, forse avremo occasione di rivederci quando verrò a visitare mio zio in futuro.»
Dana ricordò che sarebbe partito l'indomani e si sentì una strana sensazione allo stomaco. Tuttavia sorrise e disse: «Immagino che adesso dovrei dichiarare che sia stato un onore per me portare in giro Sua Signoria La Perfezione.»
Max rispose al suo sorriso. «E io dovrei sottolineare la tua impareggiabile stranezza, ma ti stupirò invece augurandoti garbatamente di avere un buon inizio di lezioni all'università ed esprimendo la speranza di avere ancora il piacere di incontrarti e conversare con te.»
Dana fece una smorfia. «Preferivo le frecciatine.»
Lui rise e Dana si sentì felice di vedere l'allegria raggiungere i suoi occhi. 
«Non ne dubitavo» fece lui. «A ogni modo, Dana, sono lieto di aver fatto la tua conoscenza. Sono certo che sia stato un privilegio, dato che non avrò modo di incontrare nessun'altra persona come te.»
Dana rise. «Per tua fortuna, signor Perfetto. E la cosa è reciproca.»
«Se è reciproca è anche una mia fortuna: troppe persone perfette renderebbero il mondo noioso e sarebbero una fastidiosa concorrenza da dover eliminare. Arrivederci, Dana» replicò lui solennemente senza smettere di sorridere e tendendole la mano.
Dana rideva ancora dandogli la sua. «Arrivederci, Max.»
Prima che lei avesse il tempo di rendersene conto, lui aveva sollevato appena la mano che le stringeva, si era chinato, le aveva impercettibilmente sfiorato la pelle con le labbra e l'aveva lasciata allontanandosi.
«Au revoir, signorina.» E con il sorriso scintillante ancora in mostra, si voltò e se ne andò.



Note:
Buonasera!
È passato un anno da quando ho pubblicato un nuovo capitolo, lo so, e probabilmente i quattro lettori che mi leggevano sono partiti per la luna, emigrati in Amazzonia o hanno intrapreso un cammino ascetico in Tibet nell'attesa.
Mi dispiace ma scrivere, per quanto sia per me ancora un richiamo irresistibile e una passione, è molto difficile quando si deve far fronte a una frenetica, invadente vita reale tutti i giorni.
Stasera ho deciso di riprendere in mano questa storia perché, nonostante le sue stranezze e la sua non proprio eccelsa qualità, ci sono affezionata, avevo voglia di leggerla ancora e di riprendere per mano i personaggi che tanto adoro.
Spero che qualcuno abbia voglia comunque di leggerla e anche se non posso garantire per i futuri capitoli, farò del mio meglio per non far aspettare un altro anno. Se vi è piaciuta fin qui, comunque, sarebbe molto gentile e carino da parte vostra farmelo sapere e lasciare una recensione.
A presto (spero), carissimi!

Mue

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Capitolo 5
*** V. Venezia ***


V.

VENEZIA

 
Il giorno della partenza arrivò fin troppo presto.
Dana aveva passato impegnatissima il breve tempo che era rimasto per fare le valigie, organizzare il trasloco di suo padre e espletare le ultime formalità con l'università ed era stata una fortuna, poichè scioccamente nei momenti liberi le balzava alla mente un certo sorriso scintillante e un baciamano quasi rubato che le suscitava sempre una strana mescolanza di risentimento, imbarazzo, irritazione e anche, forse, una punta di piacere che cercava di non ammettere nemmeno con se stessa.
Sebbene non avesse espresso una sola sillaba sul Signor Perfetto e suo zio dopo la loro partenza, qualcosa Elia e suo padre dovevano aver capito ma finché le cose da fare erano tante nessuno ne fece parola. Fu dopo, quando ormai lo spostamento, la burocrazia e tutto il resto era concluso e mancavano pochi giorni alla partenza che Dana tornò del suo umore disfattista e acido di sempre ed Elia si sentì autorizzato a punzecchiarla.
«Sai, sorellina, penso che se ti fossi mostrata un po’ più, come dire, femminile», e tremò per uno scoppio di risa trattenuto, come se avesse appena detto la cosa più divertente del mondo, «magari vestita come si deve invece che come l’ultima del girone delle capre di provincia magari non ti avrebbe piantata così su due piedi senza neanche provarci...»
Dana gli schiaffò in faccia la trota che stava ripulendo.
«Che schifo!», gridò Elia disgustato, cercando di pulirsi dai resti d’interiora di pesce che gli erano schizzati sulla maglietta.
«Sì, in effetti hai ragione», disse lei tenendo il pesce per la coda e guardandolo critica. «Adesso che si è inquinato con tutta l’acne della tua stupida faccia non è più commestibile. Mi sa che nemmeno i gatti lo vorranno. Che spreco.» E sospirò dispiaciuta.
«Dannazione, sei insopportabile! Per fortuna che domani mattina è l’ultima vola che ti vedo perché non ti reggerei un secondo di più!»
«Concordo pienamente», rispose lei concisa, mettendo nel lavandino il pesce strapazzato e cominciando a pulire il secondo. «E adesso devo anche tirare su le interiora che sono cadute per terra.» Sbuffò.
«Affari tuoi, ci pensavi prima di sbattermelo in faccia!»
Dana scosse il capo, pentita. «Già, ma purtroppo a volte il mio corpo obbedisce in modo del tutto indipendente dal mio cervello. Hai presente? Istinto femminile...»
«Istinto animale, direi invece» ribatté lui, e Dana dovette esercitare sulle sue mani l’autocontrollo più assoluto per non sprecare un altro pesce.
Elia non la lasciò in pace nemmeno la mattina dopo, mentre il padre li accompagnava alla stazione dove avrebbero preso due treni in direzioni opposte -e di questo il pover’uomo ringraziava cielo e terra.-
«Pensa, avrebbe potuto accompagnarti su un bel cavallo bianco al suo castello incantato... però questo succede alle principesse, non alle zitellone inacidite...»
Dana si chinò verso il sedile davanti del fratello e gli sferrò una gomitata. «Preferisco una bella Maserati nera scintillante e una villa in Costa Smeralda», dichiarò mentre lui si piegava dal dolore. «Inoltre non mi sono mai piaciuti i figli di papà... o nipoti di zio, nel suo caso.»
Il padre la guardò dallo specchietto retrovisore. «Suo nipote è benestante per conto suo, da quel che ho compreso.»
Dana rizzò le orecchie. «Cosa?»
«Suo zio mi ha raccontato che ha un lavoro in proprio come organizzatore di mostre d'arte e simili e fa da consulente ad alcune aziende italiane e straniere.»
Dana, attonita, ammutolì, rendendosi conto di aver preso un grosso abbaglio e rimase meditabonda finchè l'auto non si fermò.
«Siamo arrivati» annunciò il padre. Scaricarono le valigie e raggiunsero l'atrio della stazione.
«Il tuo treno, Dana, arriva tra dieci minuti sul binario 2. Quello di Elia sul 3 tra cinque minuti», li informò il padre guardando il tabellone. «Senti, sei sicura...»
«Di aver preso tutto? Sì, papà, spazzolino, sapone, shampoo, dentifricio.... Tutto. Devo farti l’inventario?»
L’uomo sorrise. «No. E...»
«Ho abbastanza soldi? Sì, troppi papà. Vedrò di non spenderli tutti subito in libri o cappelli.» La lettura era la sua seconda grande passione.
«E...»
«Mi ricordo la strada? Sì, al massimo comprerò una cartina o chiederò. Sto andando a Venezia, non in Groenlandia, e il peggio che può capitarmi è non capire il dialetto locale. Hai finito?»
Il padre sorrise. «No. Ancora una cosa. Anzi tre. Stai attenta, abbi cura di te e non metterti nei guai.»
«Sì alla prima, sì alla seconda, la terza vedrò.» Rise all’espressione del padre. «Scherzo, papà. Non combinerò pasticci e me ne terrò alla larga.»
Suo padre sospirò. «Vorrei tanto che fosse vero.»
Dana scrollò le spalle. «Me la caverò. Sono una cintura marrone di karate, ricordi? Ti chiamerò quando arrivo. Ciao!»
Gli diede un rapido bacio sulla guancia ispida di barba e si trascinò fischiettando verso il suo binario, la valigia ben stretta in mano. Sulla banchina c’erano solo un paio di persone ad aspettare il suo treno.
Ci vollero dieci minuti per vederlo arrivare in lontananza, ma nessuno si lamentò. Erano in Italia, e quand’è che in Italia un treno arriva puntuale? Il padre di Dana aveva fatto in tempo a raggiungerla dopo aver salutato Elia, le aveva dato le ultime raccomandazioni e infine l'aveva aiutata a issare la valigia sul treno vecchio e cigolante. Dana si girò a salutare ancora il genitore e lo rassicurò finché i portelloni si chiusero, lasciando giù dal treno la sua vecchia esistenza.
 
Tutti le avevano detto che la vita universitaria lontana dai parenti e dalla famiglia è immensamente meglio che quella da liceale. Di meraviglioso, la prima ora della sua nuova vita, Dana non vide niente. I sedili erano sporchi e, probabilmente, pieni di pulci, il paesaggio fuori dal finestrino un deprimentissimo scorcio di nebbia padana -ma che strano!- e il bigliettaio aveva la faccia più depressa di questo mondo. Eccitante davvero. 
Quando finalmente si rese conto che tutto il resto del viaggio sarebbe trascorso in quella noia mortale, Dana tirò fuori un libro dalla borsa, stese le gambe sul sedile di fronte, sperando che non passasse di lì qualche controllore bacchettone e s’infilò le cuffie del lettore MP3 nelle orecchie isolandosi dal resto del mondo.
Stava leggendo per la quarantesima volta della sua vita Il Conte di Montecristo ed era arrivata al suo punto preferito quando qualche imbecille di prima categoria decise di disturbarla. «Ehi, ciao! Come va? Posso sedermi?»
Dana alzò lo sguardo. Un ragazzo più o meno della sua età, gli occhi di un incredibile azzurro pastello, i capelli chiari spettinati e vestiti un po’ trasandati la stava guardando con un gran sorriso stampato sulla faccia. 
Dana corrugò le sopracciglia. «Ma tu sei...?»
«Chris, sì. Il tuo coinquilino» ribatté lui ridendo. «Strano che abbiamo preso lo stesso treno, vero? Mi fa piacere, comunque, almeno non mi farò il viaggio da solo, è una noia mortale.»
Dana all'inizio fu sorpresa ma si rese conto che il treno si era improvvisamente riempito e ricordò che quella stazione era una grande città e che il treno era l'unico regionale della domenica sera, quindi era più che normale che gli universitari si ritrovassero tutti lì. Chris era di tre anni più grande di lei ed era stato al suo annuncio che Dana aveva risposto quando aveva cercato un appartamento a Venezia con un posto libero. Si erano conosciuti un mese prima, accordandosi su affitto, spese e quant'altro e inizialmente Dana, trovandosi davanti un ragazzo particolarmente carino, era stata piuttosto diffidente -nella sua esperienza la bellezza andava di pari passo con la sgradevolezza. In realtà Chris era stato impeccabile ed estremamente gentile, forse anche troppo per lei, che l'aveva subito catalogato come un ragazzo un po' debole.
Chris, dopo aver messo il bagaglio sulla ratrelliera ed essersi accomodato nel sedile di fronte, si stiracchiò. «Santo cielo, non ho voglia di tornare all’università. Quest’estate sono stato così bene senza.»
«Che cosa studi?» domandò Dana, rendendosi conto di non averne parlato quando si erano incontrati.
«Relazioni internazionali» disse il ragazzo. «E tu?»
«Lingue Orientali.»
«È una scelta interessante» osservò il ragazzo.
«Mmh», borbottò in risposta Dana: non sapeva mai come reagire ai commenti sulla sua scelta di corso.
«E perché vai a fare Lingue Orientali?»
Dana sospirò. Ecco, sapeva che prima o poi qualcuno glielo avrebbe chiesto, ma le scocciava dover rispondere a quella domanda, anche se era pronta. «Ho cominciato a interessarmi alla cultura asiatica, soprattutto orientale, quando ho inziato a fare arti marziali. Karate», specificò con voce atona, come se stesse recitando una frase imparata a memoria.
Christian si allontanò un po’. «Mi sa che dovrò stare attento, allora.»
Lei sbuffò a quella reazione così banale e inflazionata. «Non picchio mai nessuno. Il karate è difesa e disciplina, non aggressione.» Le balenò l'immagine di un pugno dato quasi senza rendersene conto qualche tempo prima a un certo signor perfetto
Difesa, mormorò una vocina malevola nella sua testa, e Dana la soffocò sul nascere.
«Davvero?» stava dicendo Chris con educata curiosità. «Non lo sapevo. Gran bella cosa, però. Continuerai a praticarlo anche a Venezia?»
Dana scrollò le spalle cercando di apparire incurante, sebbene fosse perfettamente consapevole della punta di rimpianto che avvertiva ogni volta che ci pensava. «Non lo faccio più.»
«E perché, se ti piace?»
Dana rispose con un cenno che sperò bastasse a quietare la curiosità del ragazzo, e così fu perché lui sorrise e si tirò indietro lasciando cadere la conversazione.
La verità era che Dana, seppur pensandoci, non aveva una risposta a quella domanda. Forse si era troppo affezionata al suo vecchio e scorbutico maestro, e non provava nessun desiderio nel tentare di ricominciare con una nuova figura di riferimento.
Passò il resto del viaggio alternando conversazioni banali con Chris e momenti di silenzio finché l'altoparlante, quando ripartirono da Mestre, annunciò: «Prossima fermata, Venezia.»
Nel giro di cinque minuti il paesaggio fuori dai finestrini del treno si spalancò e una distesa d'acqua, increspata dal vento e punteggiata di qualche isola, numerosi pali di legno e reti si srotolò davanti agli occhi di Dana. Era già stata a Venezia ma quella vista era sempre strana, quasi estraniante. Era tardo pomeriggio e i colori cominciavano a tingersi di arancio. Il ponte su cui viaggiava il treno, affiancato da una strada per le auto, si allungava verso Venezia per una distanza considerevole e Christian si alzò solo quando le rotaie cominciarono a rotolare irregolarmente sotto il treno mentre veniva diretto verso il binario di destinazione.
«Bene, siamo arrivati.» 
Dana si alzò a sua volta, recuperò la valigia e quando il treno finalmente arrivò a destinazione se la trascinò giù dal portellone sulla banchina. Uscì dalla stazione insieme a Christian e si ritrovò nel bel mezzo dell'odore salmastro della laguna. Davanti a loro, oltre la piazza, il Canal Grande era affollato di motoscafi e barche di ogni genere. I turisti riempivano i moli e le calli e i gabbiani affollavano le banchine.
«Andiamo?» fece Christian, allegro, indicandole il ponte che attraversava il canale. 
Dana, per un attimo rimasta immobile ad ammirare gli edifici tutto intorno, il cielo che gravava limpido e il rumore dell'acqua del canale, annuì. Risalirono con qualche difficoltà a causa delle valigie i gradini del ponte, poi li discesero dall’altra parte e si avviarono lungo le calli tra le case, abbandonandosi dietro il caos turistico e inoltrandosi nel cuore della Venezia vissuta, quella di chi alloggiava nella città in modo permanente.
«Com’è vivere a Venezia?», chiese Dana incuriosita.
«Se ti piace camminare, una gran bella cosa. Se sei pigra, be’... un po’ faticoso», rispose lui con un sorriso.
Dana sbuffò. «Dannazione, e io che pensavo che bastasse fare gli occhi dolci ai gondolieri!»
Lui scoppiò a ridere. «Magari con te funziona, io non ci ho mai provato, ma dubito che possa servire.»
Proseguirono per almeno altri venti minuti attraverso i vialetti finché non arrivarono davanti a un edificio scrostato e scalcinato come gli altri, con grandi terrazzi così pieni di piante che sembrava che il proprietario stesse cercando di compensare a modo suo al disboscamento della foresta amazzonica.
Chris sorrise e si rivolse a Dana: «Benvenuta a casa.»



Note:
Sorpresa!
Faccio passare un anno per un aggiornamento e poi invece ci metto solo un giorno per un altro. Non sono normale, lo ammetto, ma mi ero presa bene in questi giorni e ho deciso di riguardarmi subito anche il capitolo dopo per postarlo. Ovviamente i recensori latitano nel deserto sconfinato che ho lasciato sul mio account per tutti questi mesi ma chissà, prima o poi qualcuno passerà per caso e mi dirà se questo capitolo gli è piaciuto.
A presto, recensore sperduto e lettori invisibili! :)

Mue

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Capitolo 6
*** VI. Max ***


Ed eccomi ancora qui.
Come ho già spiegato (o forse no, nel qual caso perdonatemi per la mia sbadataggine), questa storia è stata scritta molto tempo addietro e ho deciso dopo diversi anni di ripubblicarla e modificarla in modo da renderla un po' più realistica, dettagliata e meno un lavoro, diciamo, immaturo o giovanile (non che adesso sia chissà che anziana o matura, ma sorvoliamo).
Ho sempre pensato che alla vecchia storia mancasse una parte importante per comprendere appieno tutte le sfumature e pensando e ripensando mi sono resa conto che era proprio il punto di vista di Max.
Perciò eccomi a proporvi, come sesto capitolo, l'inizio visto dalla sua spocchiosa, borghese prospettiva :)
Fatemi sapere.
---


 

VI.

MAX


Max allontanò la tazzina del caffè -pessimo, non c'era altra parola per definirlo- e si accese un'altra sigaretta.
Il locale era ombroso, sapeva davvero di vecchio, di trasandatezza e il barista dietro il bancone stava asciugando i bicchieri usciti dalla lavastoviglie con uno straccio che Max avrebbe giurato urgere al più presto di una disinfezione accurata. Se non direttamente di un bidone della spazzatura.
Cercò di trattenere un sospiro e di non pensare a quanto lavoro l'attendeva una volta tornato a Milano... e anche di non pensare al resto che lo attendeva a Milano.
Denise.
Ancora non riusciva a credere che lo avesse fatto. Che si fosse innamorata di un nuovo arrivato orientale con gli occhi a mandorla, un dannato giapponese. Innamorata. Ma ciò che gli dava ancora più fastidio era il fastidio stesso che lui, Max, provava in quella situazione.
Aveva sempre pensato di volere Denise: lei era perfetta per lui: simile nel modo di pensare, di agire, di atteggiarsi; avevano gli stessi gusti in fatto di compagnie e di tutto il resto, durante le loro conversazioni erano sempre perfettamente in accordo tra di loro. Poi era arrivato il giapponese e lei, per quanto non cambiata nella sostanza, aveva cominciato a comportarsi in modo strano, del tutto incoerente con il suo carattere, i suoi valori, i suoi pensieri.
Max si era trovato spiazzato ma non era tipo da scenate e aveva incassato il colpo con perfetto aplomb. Troppo perfetto, a dire di lei, che la sera in cui c'era stato l'incidente a teatro gli aveva fatto osservare, pungendolo sul viso: «Grazie per quello che hai fatto per me, Max, sei stato veramente prezioso. Credevo di averti ferito ma vedo con piacere che non mi stavi corteggiando ma ti piaceva soltanto la mia compagnia -e ne sono onorata: sei sempre così garbato, non potresti mai mantenere la calma tanto quanto hai fatto con me se fossi stata la ragazza che ti interessa davvero, sarebbe impossibile.» Aveva riso. «Ti conosco e sei uguale a me, quindi so cosa potresti fare quando ti piacerà davvero qualcuno.»
Max aveva risposto quanto più serenamente e garbatamente possibile ma si sentiva stizzito. Normalmente sarebbe stato compiaciuto della calma che era riuscito a mantenere e di non essersi esposto nei confronti di Denise tanto che lei potesse immaginare ci fosse un interesse da parte di lui, dato come poi erano andate le cose -anche se l'elevato amor proprio di Max gli rendevano ancora difficile credere che se si fosse sbilanciato, Denise non avrebbe davvero preferito lui. Tuttavia le parole della ragazza gli rosero il cervello come un tarlo per tutti i giorni successivi: sì, lui e Denise erano uguali, anche lui ne era convinto, ma il resto del discorso di lei era assurdo, sebbene non riuscisse a toglierselo dalla testa; maledizione, lei non poteva avere ragione anche sul resto! Che dopotutto lei gli era indifferente, che lui non avrebbe potuto mantenere la calma se ci avesse tenuto davvero, che addirittura si sarebbe potuto comportare come aveva fatto lei col suo giapponese, in quel modo strano, incoerente, brutto a modo di vedere di Max...
No, Max scacciò quei pensieri, irritato con se stesso per lasciarsi turbare da sciocchezze di quel genere e determinato a proseguire quanto più quietamente possibile il soggiorno al lago con lo zio senza pensare a Denise, al giapponese o ad alcunché. Era partito da Milano per aiutare lo zio e per cercare di tenergli alto l'umore dopo la morte della moglie e anche per guarire la caviglia dopo l'incidente a teatro.
Aspirò il fumo volgendo lo sguardo all'esterno, verso la strada che scendeva nel centro storico del paese e terminava sulla banchina del lungolago. Una gita in barca, ecco cosa avrebbero potuto fare: sarebbe stato un bel diversivo e Max bramava da tanto di tornare su una barca a vela; aveva fatto una piccola crociera in Croazia qualche anno prima con degli amici e da allora si era sempre detto che voleva ripetere l'esperienza.
Mentre cominciava già a pensare a come organizzare la cosa una voce profonda ma indubbiamente femminile risuonò nel bar. «Ehi, ciao!»
Max alzò lo sguardo in automatico. La prima cosa che lo colpì furono le lentiggini: una costellazione di lentiggini, da far impallidire la Via Lattea, su una pelle che non fosse stato per il sole estivo del lago sarebbe stata color latte ma che ora aveva un tono ambrato. 
Max non aveva mai apprezzato le bellezze di tipo irlandese, figurarsi quella ragazza a  malapena carina, eppure lo colpì. Stava ordinando un gelato al barista e Max riconobbe il capello che portava, un Borsalino grigio: Max e suo zio erano appena stati a concludere l'acquisto di un condominio che suo zio voleva trasformare in una casa dove ritirarsi ora che era vedovo e avevano portato il cappello in questione come dono al proprietario dell'unico appartamento ancora occupato nel complesso fatiscente. Avevano trovato in casa lui e il figlio, ma avevano compreso che c'era anche una figlia che però durante la visita era rimasta in giardino e non avevano conosciuto. 
Max la studiò e si trovò combattuto tra la curiosità e l'orrore. Scarponi vecchi e consumati, abbigliamento risalente almeno a quindici anni addietro con qualche macchia d'erba e di terra e una maglietta scolorita. L'inconscio di Max la comparò subito a Denise -da quando l'aveva conosciuta, aveva stabilito che era lei il suo ideale di donna- e quel paragone era talmente stridente, talmente assurdo che non riuscì a non ridere tra sè.
La ragazza si infilò in una tasca il pacchetto di sigarette che aveva acquistato, prese in mano il gelato e si guardò intorno. I loro sguardi si incrociarono e Max, ancora divertito dai suoi pensieri, le sorrise.
Ancora indeciso su che genere di ragazza si trovava davanti si basò sulla reazione di lei per catalogarla e vederla ignorarlo spudoratamente con un'espressione snob e accomodarsi con noncuranza su uno sgabello e mangiare il gelato gli diede la conferma che era una di quelle ragazzette impacciate e boriose che bilanciavano con il disprezzo la disagevole differenza di status con chi sentivano come superiore a loro per ricchezza, bellezza o altro. Bisbetiche provinciali, le chiamavano gli amici di Max non a torto.
In quel momento lo zio tornò dal bagno e dato che la ragazza si trovava a metà strada tra la porta della toilette e il tavolo dov'era seduto Max, anche lui la notò e comprese chi dovesse essere.
«Ciao», le disse infatti gentilmente.
La bisbetica provinciale rispose rigidamente: «Buongiorno», proprio come Max si era aspettato: che noia.
Ci fu un breve scambio di battute tra lei e lo zio e dopo una presentazione rapida anche Max fu invitato a unirsi alla conversazione.
«Ah, e questo è mio nipote, lo conosci?», stava dicendo lo zio.
«No.»
Max si alzò cercando di essere cordiale. «Piacere, Massimo», si presentò allungando una mano.
«Dana», disse lei semplicemente dandogli la sua e guardandolo negli occhi. Max, che aveva ormai deciso che lo annoiava, non riuscì a non provare però di nuovo un moto di interesse ricambiando lo sguardo e guardandola da vicino: aveva gli occhi scuri, come due buchi neri in mezzo a una costellazione di stelle rosse.
«Bel cappello», le disse con ironia.
«Già, è nuovo» fu la risposta di lei accompagnata da un sorriso e Max notò che quando sorrideva arricciava il naso. Il senso estetico di Max ne fu disturbato ma senza che lui ne fosse consapevole, stava già ricambiando il sorriso.«Mi pareva.»
Suo zio s'intromise. «E’ tardi, Max, dobbiamo tornare in albergo.»
«State in albergo?», chiese Dana.
Lui annuì. «Al Torrelago.»
«Bel posto.» Il tono in cui lei si espresse aveva una nota sprezzante che non gli sfuggì.
Riecco la bisbetica provinciale, si disse lui e relegò di nuovo Dana nella categoria mentale a cui ella apparteneva, sopprimendo la scintilla d'interesse precedente.
«Già», annuì lo zio. «E’ stato un piacere conoscerti. Se tu o tuo fratello voleste venire a trovarci vi aspettiamo.»
«Grazie, glielo dirò. Arrivederci.»
Lo zio si avviò all'esterno. «Arrivederci.»
Max la salutò a sua volta rapidamente. «Ciao Dana.»
«Ciao Massimo», rispose Dana, ancora con quell'espressione di diffidenza e superiorità.
Max, disturbato da quello snobismo, ebbe improvvisamente voglia di dare a quella ragazzetta sprezzante una lezione di buone maniera. Sfoderò il suo sorriso migliore: «Max.»
«Max», ripeté Dana sbilanciandosi in un sorriso e Max non riuscì a non fissare ancora come arricciasse il naso. Insolita

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