Xanferna klampor di Lilmon (/viewuser.php?uid=177788)
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** I. ***
Capitolo 3: *** II. ***
Capitolo 4: *** III. ***
Capitolo 1 *** Prologo ***
Prologo
Quando tutto era
ancora un nulla informe e indefinito Esperbar, l'Unico, infranse il tetraedro
di cristallo viola in cui si era generato per sua stessa volontà divina. Al di
fuori di esso nulla aveva alcun senso d’esistere, perciò dai frammenti del
minerale presero subito forma i suoi due fratelli Ektabar, lo Spazio, e
Plessofer, il Tempo. Grazie a costoro Esperbar, in quanto essere esistente,
fatto di corpo e anima, materia e spirito, imparò subito a percepire la sua
esteriorità nello spazio e la sua interiorità nel tempo circostanti. Non appena
Esperbar riuscì così a manifestare i propri pieni poteri, i due fratelli,
Ektabar e Plessofer, iniziarono a piangere, riconoscendo che la vita era stata
concessa loro dal fratello Esperbar e che dunque essi erano al tempo stesso
maestri, ma anche allievi. E quando la loro gratitudine cessò di manifestarsi e
i loro cuori si furono svuotati di ogni pia emozione, essi si accorsero che le
loro lacrime si erano fuse in un'unica sostanza purissima e trasparente, che
aveva preso la forma di una sfera. Colto da una caritatevole benevolenza, Esperbar
decise di fare un dono ai due fratelli che lo avevano aiutato a riconoscersi: egli
si avvicinò così alla sostanza inerte e, espirata parte del suo spirito, la
trasferì nella sfera inanimata. Subito si udì un crepitio nel vuoto circostante
e un tremito vitale incrinò la superficie della sfera, la quale iniziò vibrare
e a ondeggiare, finché, dopo alcuni istanti, prese a sgretolarsi e a
rimodellarsi in turbinii burrascosi, acquistando infine le sembianze di una
bellissima dea; in tal modo nacque la prima figlia di Ektabar e Plessofer, che
costoro chiamarono Ellasser, la Forza, o Spirito.
Così vissero per
molti giorni e molte notti i quattro dei, ma la tenerezza che fiorì tra Ektabar
e Plessofer continuava ad avvicinarli e presto iniziarono a nutrire amore l’uno
per l’altra. Tale sentimento alimentò a lungo il fuoco dei loro spiriti, finché
essi decisero di fondere le loro anime e in una fredda notte s'amarono,
giacendo e godendo l'un l'altra delle proprie virtù. Da questa unione divina si
generò il loro figlio primogenito Ordubar, ovvero la Riluttanza, o Pesantezza,
conosciuta anche come Materia. Ma sul destino dei due fratelli iniziò a calare
l’oscurità malvagia; Ellasser infatti prese a invidiare molto suo fratello,
poiché sospettava che il legame che Ordubar possedeva con i genitori Ektabar e
Plessofer, essendo di sangue, fosse più legittimo di quello che essi avevano
con lei e che per tale ragione costoro amassero più lui che lei. Un giorno
dunque Ellasser decise di mettere alla prova tale amore e, recatasi dal
fratello Ordubar, lo ammaliò con parole deliranti, velenose e dolorose. Ordubar
si lasciò convincere da Ellasser e la follia oscurò i suoi occhi; egli,
estratta così una costola dal proprio corpo, fabbricò un pugnale in grado di
penetrare la pelle di un dio e, impugnata l’arma, i due si recarono subito al
cospetto di Ektabar e Plessofer. I due genitori, spiazzati, rimasero come
pietrificati alla vista dello scempio compiuto dai due fratelli davanti ai loro
occhi; Ordubar infatti aveva ormai già affondato la scintillante lama nelle bianche
carni della sorella e una grande pozza di sangue divino irrorava il suolo
sterile. Ektabar e Plessofer corsero subito dal figlio per strappargli di mano
la crudele arma, ma costui, irrigidito come un macigno, aveva già fatto cadere
l’arma in terra e l’orrore del suo gesto stava invadendo la sua mente deviata;
poi i due dei si inginocchiarono a fianco della figlia, non curandosi del nero
sangue che risaliva le loro candide vesti. Ma il colpo di Ordubar non recise
completamente la vita della sorella, che agonizzante si stava crogiolando nella
buona riuscita del suo piano malefico; e quando Esperbar giunse per riportare
l’ordine ella fu la prima a tendere debolmente il suo dito verso il fratello.
Ma come fu la prima a incolpare Ordubar, ella fu anche l’unica: i due genitori
Ektabar e Plessofer si inginocchiarono dinnanzi al dio padre, implorandolo di
risparmiare la vita al figlio Ordubar, il quale non sembrava più essere del
tutto cosciente. Così Esperbar, dall’alto della sua magnificenza, ascoltò i
suoi due fratelli e decise di non annientare Ordubar, ma di infliggergli una
severa punizione, un supplizio: egli decise di incatenarlo per l’eternità.
Ma le suppliche
che Ektabar e Plessofer fecero a Esperbar affinché Ordubar avesse salva la
vita, sgretolarono l’animo già incrinato di Ellasser, la quale si sentì tradita
un’ultima volta dai due genitori, che, ai suoi occhi, parevano curarsi solo del
fratello. Così, pazza d'odio, per tutta la durata del processo di guarigione i
suoi pensieri deviati aumentarono e affollarono sempre più la sua mente persa
nel dolore, ed ella continuò così a maturare e a progettare trame sanguinose
contro gli dei padri. Ciò che Ellasser ignorava però era di possedere parte
dello spirito vitale di Esperbar, il quale per tale ragione riusciva a intuire debolmente
i pensieri della dea. Da dopo il misfatto costui aveva iniziato a sondare la
mente della nipote e quando infine si convinse che la parte del suo spirito che
risiedeva in lei si era ormai corrotta e logorata, abbandonandosi totalmente
all’oscurità, il dolore e il sangue erano ormai giunti alle porte. Egli decise
perciò di riprendere possesso della sua piena forza, ma ormai Ellasser, ripreso
il vigore di un tempo, aveva già concluso la sua prima mossa; giunta dal
fratello Ordubar, con l’aiuto del pugnale recise le catene che da tempo
immemore ormai stavano lacerando le sue carni e, liberatolo da quell’eterno
supplizio, aveva condotto la sua mente a perdersi definitivamente nell’oscurità
come la sua. Così, quando il possente Esperbar si presentò al cospetto dei due
fratelli con l'intento di uccidere la dea, mentre ella, strisciando in terra
come una nera serpe ricolma di veleno, lo supplicava di avere pietà e lasciarla
in vita, suo fratello Ordubar, estratta la scintillante lama dal fodero maledetto,
pugnalò il dio padre alle spalle. Esperbar dunque cadde in ginocchio, ma
nessuna arma divina avrebbe mai potuto annientare la sua vita imperitura,
perciò dopo pochi istanti, ripresosi dal vile volpo, si rialzò in piedi e,
accecato dall’ira, vibrò un colpo poderoso verso Ordubar; l'oscurità perenne
calò sugli occhi di ghiaccio del dio, il quale esplose in mille frammenti che
si misero a vagare a grande velocità nell'universo. Quando poi Esperbar si
volse alla dea per porre fine alla sua misera vita, ella era già fuggita alla
sua vista e molto spazio ormai intercorreva tra i due nemici.
Dall’unione del sangue traboccante d’ira di
Esperbar e dell’arma maledetta prese forma una creatura del male, chiamata
Xanfer, ovvero la Rovina, anche spesso detta Morte. Costei riuscì col passare
del tempo a non far spegnere nell’animo di Esperbar quella stessa ira che aveva
permesso la sua nascita, ma anzi ad alimentarla tanto da accecare la vista
imparziale del dio. Esperbar quindi, sotto il rovinoso consiglio di Xanfer,
decise di dare la caccia alla dea che aveva oltraggiato la sua figura di
creatore e mantenitore della pace e che aveva portato morte e distruzione alle
porte dei cieli delle divinità. Il dio decise perciò di servirsi dei grandi
poteri dei fratelli Ektabar e Plessofer ma, rifiutandosi essi di collaborare
all’uccisione della loro propria figlia, egli li incatenò ai piedi di Xanfer e
impose loro il suo doloroso dominio. Così partirono i quattro dei alla ricerca
della traditrice che tanto aveva osato contro di loro e Xanfer, sotto la severa
sorveglianza di Esperbar, costringeva Ektabar e Plessofer a piegare lo spazio e
il tempo al proprio volere al fine di rintracciare la fuggitiva. Ma il piano
malvagio di Ellasser non era certo ancora giunto a conclusione; nessuno degli
dei infatti sapeva che ella fosse incinta del fratello Ordubar e che nel suo
grembo si stava sviluppando la più orrenda delle creature, una bestia nata
dall'odio e non dall'amore, un mostro che, se avesse visto la luce del mondo,
avrebbe minato alla sopravvivenza e alla stessa esistenza degli dei padri. Passò
dunque molto tempo dall’atto sanguinoso di Ellasser a quando gli dei padri
decisero la loro contromossa e giunse perciò anche il momento per la dea di
partorire l'orrore che giaceva ormai da tempo immemore nel suo grembo e che
rappresentava il culmine delle sue trame; esso si presentò sotto le candide
sembianze di un’esile bambina che ella volle chiamare Arwafer, la Vita.
Un giorno però,
quando Arwafer era ancora una piccola e gracile bambina, Ellasser, voltatasi
all’indietro, vide in lontananza dei piccoli puntini di flebile luce che stavano
costellando il nero orizzonte. Via a via che la fuga delle due dee proseguiva,
queste piccole fiaccole divenivano ogni giorno più grandi, tant’è che parevano
avvicinarsi a loro; e infatti dopo poco tempo, quando questi furono abbastanza
vicini a loro, Ellasser e Arwafer intuirono che quella miriade di piccoli
oggetti luminosi provenienti dallo spazio siderale che avevano scorto giorni
addietro e che stava attraversando quelle lande desolate a una grandissima
velocità, non era null'altro che un accozzaglia di porzioni del corpo del
defunto Ordubar. Ellasser, colta dal panico, pensò quindi che se essi l'avevano
raggiunta Esperbar, quantunque avesse preso ad inseguirla, non avrebbe dovuto
trovarsi molto distante da loro; infatti ella percepiva ormai da tempo che il
suo spirito si stava lentamente spegnendo e che, stilla dopo stilla, esso stava
abbandonando il suo corpo per ritornare al proprietario primogenito. Dall’alto
delle sue responsabilità verso la figlia Arwafer, la dea decise però di
arrestare la sua corsa poiché perseverare nella sua fuga a nulla le sarebbe
servito se non ad allungare la sua già lenta agonia. Ma la rabbia verso gli dei
padri non si era spenta e, anzi, aveva ancora dimora nel cuore di Ellasser; perciò
ella, conscia del fatto che Esperbar non avrebbe riposto la sua lama fatale nemmeno
davanti alla piccola Arwafer, dopo aver trasferito nella figlia ciò che le
rimaneva della forza del dio, depose costei su un frammento del fratello,
affinché fosse celata alla vista di Esperbar e continuasse così, indisturbata,
la sua folle corsa verso la libertà. Per l’ultima volta la madre vide così la
figlia, che si stava allontanando da lei per sempre, verso l'infinità
dell'universo.
Presto dunque
Esperbar, furente, giunse al cospetto della dea; insieme a lui viaggiavano gli
altri tre dei: mentre Xanfer, vigorosa, si ergeva potente dinnanzi alla
condannata mostrando un malefico ghigno, emblema di vittoria, Ektabar e
Plessofer invece nulla erano più se non pallide ombre dell'antico splendore che
li aveva avvolti all’inizio dei tempi. Nemmeno quando Esperbar fu in procinto
di annientare Ellasser i due vecchi genitori sembrarono curarsi di ciò che stava
accadendo attorno a loro; il loro sguardo era ormai spento e vitreo e più
nessuna luce riusciva a evadere dai loro occhi. Al contrario dei due fratelli
Xanfer si compiaceva di quello che sarebbe stato di lì a poco il suo trionfo
personale. E quando la vendetta divina fu compiuta, il nero sangue di Ellasser
versato e l'ordine ristabilito, Esperbar, a braccia aperte, si eresse fiero
come una statua di bianco marmo a capo degli ormai pochi dei superstiti. Ma
qualcosa turbò il suo animo, che da innumerevole tempo non era saldo quanto il
suo aspetto lasciava intuire che fosse; egli, dopo aver ucciso la dea, percepì infatti
un chiaro segno dell’indebolimento del suo potere anticamente illimitato, sentì
come una vibrazione nell'intera esistenza e solo in quel preciso istante si
accorse di essere stato defraudato di una parte delle proprie forze. E proprio
questa parte del suo potere risiedeva ormai in Arwafer, si era fusa con il suo
spirito e dimorava nelle sue viscere, ma ella, lontana dallo sguardo di
Esperbar, stava crescendo rigogliosa sugli antichi resti del padre.
Ma la natura di
Arwafer sembrava essere tutt'altro che di matrice divina, ella non si
crogiolava nel suo grande potere, non godeva appieno del respiro vitale di
Esperbar che le avrebbe concesso di elevarsi al pari degli altri dei; Arwafer
infatti non riconosceva di essere una divinità e, al contrario di quest’ultime,
non provava attaccamento per il proprio potere. Ella ogni volta che incontrava
quei freddi e spogli resti del venerando padre, che facevano capolino
dall’infinità dell’universo, faceva dono a essi di una piccola parte del
respiro di Esperbar affinché anch’essi potessero godere dei frutti della vita.
Così, agli occhi degli dei padri, il disordine e il caos presero il sopravvento
sull’ordine ferreo costituito da Esperbar all’inizio dei tempi, poiché Arwafer
stava concedendo all’imperfetta materia inanimata quei tratti che erano
puramente di carattere divino. Sembrava che non vi fosse alcuna fine a questo
scellerato agire di Arwafer e Esperbar sentiva ogni giorno di più che il suo
spirito si divideva in tanti piccoli frammenti sparsi per tutto l'universo, e
più egli cercava di riconquistare il suo pieno potere, più questi si dividevano
nuovamente, velocemente e incessantemente, divenendo una miriade di briciole
sempre più piccole, innumerabile anche per un dio. Più il tempo passava e più
nella mente di Esperbar si faceva strada la convinzione che non sarebbe mai
riuscito a riottenere i suoi pieni poteri; nonostante, infatti, si servisse
della sua amata Xanfer che, tramite la manipolazione che Ektabar e Plessofer
compievano su tempo e spazio, cercava di separare e dividere, riunire e fondere
i frammenti di spirito, essi, ormai plagiati da Ellasser, continuavano a
sfuggire al suo controllo.
Fu dunque questo
l'inizio di ogni disgrazia e di ogni patimento, l'inizio del prevalere del caos
sull'ordine, della vittoria della caducità viziosa sull'eterna perfezione, ma
soprattutto la storia di come la vita si sia dispersa nell'universo, sfuggendo
al controllo del grande Esperbar.
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Capitolo 2 *** I. ***
I.
In un remoto angolo
della galassia, enormemente distante dal suo centro, una piccola stella bianca
brilla fiocamente nel silenzio circostante. In lontananza un punto appena visibile
si libra in quell’abisso, roteando così dolcemente attorno alla sfera di fuoco,
che esso pare corteggiarla danzando instancabilmente nella sua luce. Due amanti
destinati a ricongiungersi solo all’ultimo fatale rintocco. Di certo però la
piccola stella non poteva sapere che l’amore in cui si cullava dalla notte dei
tempi proveniva, non tanto dall’ammasso roccioso, quanto da una strana e
prodigiosa caratteristica intrinseca a esso, una palpitazione continua di
energia, un fremito nascosto nell’essenza stessa della materia, la vita.
Da tempi ormai remoti essa si era
insediata sul pianeta, il quale, nonostante la ospitasse ormai piuttosto
benevolmente, manteneva un certo distacco da lei, quasi la ammirasse e temesse
al tempo stesso. Si tramandava infatti che, ai primordi della sua genesi, il
gigante avesse ricevuto la visita di un essere divino, Arwafer, e che costei
avesse concesso in dono al suo ospite parte del suo respiro vitale. Questi
inizialmente accettò tale privilegio malevolmente, poiché in esso si celavano
innumerevoli pericoli e immense responsabilità. Quando poi giunse il tempo di
riprendere il suo interminabile viaggio, Arwafer fu ingannata dalla falsa riverenza
del suo ospite e, sicura che costui avesse compreso appieno l’unicità e la
magnificenza del suo dono, lo abbandonò. Ma, nonostante le precauzioni prese
dall’essere, il gigante si ribellò al suo destino e tradì la vita; i due
entrarono presto in conflitto, e più il gigante architettava e tentava di
estirpare la vita, più essa rifioriva dalle sue rovine rinvigorita, come una
splendente fenice dalle ceneri dell’eternità. Le ere trascorsero e, accettata
con rassegnazione la matrice divina della sua ospite, il gigante divenne sempre
più mansueto nei suoi confronti seppure non cessando mai del tutto la sua
ostilità.
Chiunque abbia mai abitato il pianeta
tenne sempre a mente la storia delle sue origini divine, che venne così
orgogliosamente tramandata di generazione in generazione, e anche all’epoca in
cui il processo di evoluzione tecnologica e scientifica aveva ormai raggiunto
l’apice vi erano alcuni individui che ancora serbavano e custodivano nel
profondo del cuore le fantastiche peripezie degli avi. Ma la maggior parte
degli abitanti si rifiutava di credere a questi miti antichi quanto il mondo
stesso e si affidava alle verità scientifiche che le loro arti avevano saputo
produrre nel corso dei secoli, passo dopo passo, brancolando nell’ombra. Ma
come in ogni società sviluppata e civilizzata queste due opposte fazioni
convivevano quasi del tutto pacificamente, cercando di convincersi
reciprocamente che il pensiero degli uni fosse più ragionevolmente valido di
quello degli altri. Non deve dunque sorprendere come coesistessero con tutti
costoro anche alcuni divertenti individui che negli anni avevano subito
l’influenza di entrambe le due scuole di pensiero e non riuscivano ad
abbandonare del tutto la propria mente e il proprio spirito a una sola delle
due; così essi vivevano sospesi tra antiche e mistiche tradizioni e,
contemporaneamente, immersi in un marasma ribollente di tecnologia in continua
evoluzione: una condizione piuttosto stravagante, ma forse l’unica che
conduceva a un’esistenza piuttosto serena.
Uno di questi ultimi possedeva un
piccolo studiolo al quinto piano di un vecchio palazzo della città di Darouk.
Era un umanoide sulle cinquanta rivoluzioni, un po’ sovrappeso, ma vestito
molto elegantemente, quasi come se volesse mascherare con una parvenza di
agiatezza il suo aspetto piuttosto animalesco. Aveva abbandonato il suo grasso
corpo su una vecchia poltrona di pelle color verde muffa, nell’enorme mano
destra teneva un sigaro con aria impacciata, poiché le sue grandi dita parevano
essere sul punto di spezzarlo a metà. Immerso nel denso fumo acre che aleggiava
per tutta la stanza, dando col dito un colpo al sigaro fece cadere parte della
cenere rimasta attaccata ad esso in un piccolo posacenere di alluminio
appoggiato a un tavolinetto nero. Aveva le gambe distese sopra a una scrivania
di legno e i neri pantaloni lasciavano intravedere al fondo di essi le calze
sgualcite; se egli non fosse stato troppo immerso nelle sue dannazioni si
sarebbe sicuramente accorto che dei formicolii gli stavano lentamente risalendo
lungo tutta la gamba destra, poiché essa era schiacciata dal peso della gemella
di sinistra. Da quanto tempo non riceveva un cliente nello studio? Da quando la
gente aveva smesso di usufruire dei suoi servizi? Di certo egli pensava fosse
passato più tempo di quello che realmente era intercorso, ma il tempo che viene
ricreato dalla mente non è certamente confrontabile con quello naturale, poiché
essa ha il vizio di obliare i ricordi dolorosi e di mantener fervidi quelli
cari, modificando a suo piacere la struttura temporale. Così si ricordò della
gioventù, di quando era stimato da tutti e ritenuto un personaggio intelligente
e brillante, gli sembrò fosse ieri, o al massimo che fossero passati due notti,
e che da un giorno all’altro la sua vita, e con essa la sua giovinezza, fosse
crollata in un baratro oscuro di decadenza e disgrazia. Si sentì attanagliato
dall’inesorabilità del tempo presente e dovette rapidamente slacciare i bottoni
che chiudevano il colletto della camicia di seta.
Il vecchio umanoide aveva appena
deciso di slacciarsi altri bottoni posti leggermente più in basso per portare
un po’ di sollievo in quella giornata torrida, nella quale anche il caldo
pareva essere diventato un suo umidiccio avventore, quando all’improvviso una
chiazza rosso porpora apparve dietro il vetro bluastro della porta d’ingresso,
della frase “Detective V. Hapto” che in lettere adesive campeggiava sul ruvido
vetro, non rimanevano che poche sillabe sgualcite che proiettavano una triste e
pallida ombra sul parquet di legno beige. Hapto trasalì nel notare che quella macchia
si stava via a via ingrandendo, trasse le gambe dal tavolo e balzò in piedi il
più velocemente possibile. Prese così a muovere passi incerti verso la
scrivania e distrattamente urtò il tavolino su cui poggiava il posacenere che
cadde rovinosamente al suolo; un’enorme nube di cenere si alzò dunque in aria
turbinando come provenisse da un enorme vulcano in eruzione. -Non me ne va bene
una!- pensò irritato, mentre si chinava a recuperare il posacenere metallico su
cui figurava una piccola incisione che recava le parole “Da Salko”. Intanto la
persona misteriosa aveva fatto ormai capolino e stava già bussando alla porta
dello studio; tre battute risuonarono nell’aria viziata della stanza e Hapto,
che stava tirando a sé la poltrona per celare la chiazza di cenere grigiastra
che inerte giaceva sul pavimento, gridò –Entrate pure! E’ aperto!-. Dopo un
istante la maniglia della porta si abbassò lamentandosi con uno scricchiolio
metallico, la stanza fu pervasa da una luce con sfumature rosse e una voce
femminile disse, imbarazzata –Il signor Hapto? Vilgo Hapto?-. Hapto, lasciata
la presa sui braccioli della poltrona e giratosi di scatto, rispose bruscamente
–Chi mi cerca?-; la gamba gli formicolava da impazzire.
L’umanoide era una signora distinta
sulla quarantina, dei boccoli biondi le ricadevano sulle spalle e un po’ di
rossetto le colorava le labbra, dandole una parvenza di salubrità. Portava un
vestito rosso che sembrava esserle stato cucito direttamente indosso, i suoi
fianchi ben definiti sembravano bruciare di vivo ardore sotto quei ricami
vermigli. –Che bambola!- pensò Hapto, non appena si fu ripreso dal bagliore
proveniente dal vano scala.
-Salve… Sono… Sono la signora Deblor. Spero… Spero di non averla disturbata…-
disse lei.
Hapto era sul punto di risponderle calorosamente alla bella signora, quando
notò che la sua tanta incertezza era dovuta a un particolare non poi così
estraneo a lui; ella guardava infatti verso il basso in una posa che
manifestava in ogni sua ombra un profondo imbarazzo. Il detective iniziò dunque
a tastarsi la grossa pancia con entrambe le mani, quasi per celarla a quello
sguardo inquisitore, e, indicandole la poltrona che aveva appena spostata, le
rispose –Bene, si accomodi pure! Non faccia complimenti-. La signora Deblor
ringraziò con un cenno della testa e si sedette, rassegnata.
-Signor Hapto! Sono venuta qui, nel suo ufficio, per proporle un lavoro-
-Che tipo di lavoro?- rispose Hapto, che intanto, fatto il giro della
scrivania, si era seduto sulla sua vecchia sedia di pelle nera.
-Vede signor Detective, io- la signora si interruppe bruscamente come se
qualcuno di invisibile le avesse improvvisamente tappato la bocca, ma non vi
era nessuno oltre a loro due nella stanza. Riprese dicendo -Io ho paura che mio
marito mi tradisca! Ecco tutto-.
“Dunque vuole che io lo becchi con le mani nel sacco, o meglio, con le mani su
un’altra pollastrella” avrebbe voluto replicare Habto, ma si limitò a pensarlo,
e scelse per le orecchie della signora Deblor parole più appropriate.
-Dunque vuole che spii suo marito?- le chiese.
-Sì, diciamo di si!- gli rispose.
-Be’ sembra un lavoretto facile; insomma- Hapto si interruppe, si girò verso un
mobile metallico, ne aprì un cassetto e, dopo aver scartabellato con il dito
tra una miriade disordinata di documenti, ne trasse un modulo spiegazzato che
pose davanti alla sua cliente, -Sì, ecco! Insomma lei dovrà compilare questo
modulo fornendomi tutte le informazioni che mi saranno necessarie per il caso-,
poi, protraendosi verso di lei, sfogliò qualche pagina e indicando con l’indice
in alcuni punti disse – Sa come funziona in questi casi, le solite formalità,
firmando qua lei si assicura il diritto alla privacy. Qua invece mi darà il
permesso di indagare su suo marito, sa, foto, video, roba così. Tutte questioni
burocratiche, stia tranquilla!-. Si sforzò immensamente di sorridere, senza
mostrare i denti ormai gialli per il fumo.
-Bene…- rispose la signora Deblor.
Riassestatosi per bene sulla poltrona, Habto continuò –Parliamo ora della
questione danarosa-, ma la signora lo interruppe a quella parola, con la stessa
foga di un cane da tartufo che abbia trovato il suo piccolo tesoro.
-Sì, ecco, per quanto riguarda il suo compenso, non è un caso che mi sia recata
proprio da lei…-
Habto smise di sorridere fintamente e si indispettì un poco.
-Vede, signor Habto, ora come ora non dispongo di molta liquidità, lei può
immaginare, ho due bambini-, il detective la interruppe.
-Signora, non starà per caso proponendomi di sfacchinare gratuitamente, vero?-,
era piuttosto indignato, nonostante il decolté della signora gli facesse
ribollire il sangue nelle vene. Tutte quelle sensazioni, si sentiva
ringiovanito di vent’anni.
-Signore, lei ha travisato le mie parole, mai le avrei chiesto di lavorare
gratuitamente, piuttosto le sto chiedendo di trovare un’altra soluzione al
pagamento che lei mi richiede-. Gli occhi di Habto avvamparono di fiamme.
-Lei… Lei intende- disse lui, ma lei lo interruppe subito dicendo –Esatto,
conservo ancora una piccola collezione di minerali, che mi ha lasciato in
eredità mio padre alla sua morte-. Ogni ardore nello sguardo di Habto si
spense; stava infatti per ridere fragorosamente, ma la donna non glielo
permise, aggiungendo -Ho cercato, mi sono documentata, so che vale qualcosa,
glielo posso dimostrare, ho dei documenti qua con me-. Con un gesto esitante
che suggeriva un certo timore, la signora Deblor trasse quindi dalla borsetta
nera che si portava appresso tre fogli spiegazzati e, avendoli aperti, si mise
a dire leggendo –Vede signore? Qua-, si bloccò per avvicinarsi un poco al suo
interlocutore, poi riprese –Qua c’è la lista dei minerali, e invece qua sono
indicate grandezza, peso e purezza. Infatti da queste tre caratteristiche
dipende il prezzo del minerale… Vede? I prezzi li ho segnati qua a lato; sommandoli
tutti il risultato è di circa ottocento myrir… Ho pensato che potessero andare
bene-.
Habto si accarezzava il mento con la mano destra e con i polpastrelli della
sinistra tamburellava dolcemente il tavolo; era alquanto perplesso. Con un
respiro profondo riacquistò la forza per parlare.
-Cara signora. Non posso accettare la sua proposta, anche se molto
allettante.-, entrambi in realtà sapevano che quell’ultima frase era unicamente
di circostanza, -Lei può immaginarsi come si concludano gli affari, con una
parte che vince e con l’altra che perde e in quest’ultimo periodo non posso
permettermi di essere quella che rimane fregata.-
La signora Deblor si era alzata malinconicamente dalla poltrona, aveva
recuperato i fogli dal tavolo e stava per voltarsi nella direzione dell’uscio
quando il detective, balzato in piedi e tesa la mano verso la donna, disse
–Allora arrivederci!-. Ella, che pareva essere nuovamente imbarazzata, si
limitò a guardare il pavimento di sbieco e, facendo un piccolo cenno con la testa
di rassegnazione, uscì dallo studio.
Habto vide la macchia di luce rossa
rimpicciolirsi sempre più fino a scomparire dal rettangolo bianco di vetro.
Rimase a lungo immobilizzato in piedi in quella stanzetta dall’aria umida e
pesante, pareva infatti una statua di bronzo rozzamente lavorata e dai
lineamenti duri e aspri. Continuava a strofinare le mani sulla pancia
prominente, causa evidente dell’imbarazzo della signora Deblor, da cui non
riusciva ancora a distogliere i propri pensieri. Doveva essere una donna
sofisticata, con quel suo vestitino rosso cesellato di ricami; la immaginò
mentre, giunta a casa e aperta la cerniera dell’abito, lasciava cadere
quest’ultimo lungo i fianchi floridi sino al suolo, ritrovandosi completamente
nuda. Non erano certo pensieri adatti ad un umanoide di cinquanta rivoluzioni,
ma percepiva un fremito lungo la schiena che gli risaliva dal coccige sino alla
sommità del capo. Decise dunque di sedersi e di riprendere ciò che non aveva
fatto in tempo a iniziare, data la burrascosa visita della signora Deblor, che
ora lo cullava in dolci pensieri di fuoco. Chiusi dunque gli occhi, allungò la
mano verso il culmine dei pantaloni, e giuntovi si accorse all’improvviso che
il dettaglio che aveva tanto imbarazzato la bella signora che regnava ora sulla
sua mente, non era quella propaggine abnorme di carne con cui conviveva ormai
da rivoluzioni. Egli aveva infatti la patta sbottonata. “Ormai il danno è
fatto!”, pensò e si mise nuovamente all’opera.
Quando ebbe finito di sognare le
carni proibite della signora Deblor, si sentì come svuotato da ogni volontà
d’azione e, volendo stendere le gambe sulla scrivania di legno, si mise a
ritirare i fogli del modulo che aveva sottoposto alla sua cliente. Notò però
con grande sorpresa che quelle carte stropicciate e buttate alla rinfusa sul
tavolo erano in realtà i documenti che la donna aveva estratto dalla sua
borsetta. Preso quindi da un istinto ferino, si portò questi alla bocca e ne
annusò il profumo, ispirando a pieni polmoni; essi avevano un odore acre e
pungente e Habto non poté far altro che allontanarli dal proprio volto, segnato
dal disgusto. Si mise perciò a leggerli distrattamente, come avrebbe subito
fatto ogni persona munita di buonsenso, e pensò piuttosto divertito “Minerali”.
Quella parola gli riportò alla mente ciò che era oggettivamente accaduto in
quello studiolo poco prima, quasi come se, uscito dal suo corpo, avesse potuto
rivedere la scena come un terzo personaggio indistinto, freddo e distaccato: quella
puttana aveva cercato di fotterlo. Si sentì nuovamente eccitato da quell’idea
oscura che gli aveva pervaso la mente, come tè nero in infusione nell’acqua
bollente, e, prima che fosse troppo tardi, decise di alzarsi, di abbottonarsi
finalmente i pantaloni e infine di andare a bersi qualcosa al bar di sotto.
Aperta la porta e discese le scale
sino al pianterreno, si trovò dinnanzi alla porta di servizio del locale che
dava sul vano scale e senza esitare la aprì e vi entrò.
-Ehi!- disse il detective che, sedutosi su uno sgabello, si abbandonò
distrattamente al bancone di finto legno.
-Signor Vilgo! Che piacere averla qua! Cosa posso- ma il barista, che parlava
mollemente, fu interrotto da Hapto che rispose bruscamente –Lascia perdere i
convenevoli vecchia lucertola e portami il solito!-.
Il rettile si allontanò con aria divertita, si avvicinò ai davanzali posti
dietro al bancone, ne estrasse una bottiglia verde e, preso un bicchierino dal
lavabo, ne versò il contenuto viola. Lo pose poi dinnanzi agli occhi spenti del
detective e disse –Eccoti vecchia botte-.
Hapto prese il bicchiere ma non bevve subito come il suo amico rettile si
sarebbe aspettato; iniziò infatti a giocare con il denso liquido violaceo che
riempiva il bicchiere, facendolo roteare sino al bordo di vetro. Un po’ di
liquido si riversò sul bancone.
-Oggi è venuta al locale una pollastrella in un abito rosso che sembrava
esploderle sotto le curve. Chiedeva del “signor Hapto, Vilgo Hapto,
detective”-.
Hapto bevve il liquame tutto d’un fiato.
-Avete finalmente rimorchiato dopo vent’anni di inattività?-. Il tork si mise a
ridere fragorosamente; Annetha, la cameriera umanoide che si trovava in quel
momento alla cassa, abbassò lo sguardo divertito.
Hapto tirò un pugno sul bancone, un posacenere metallico lì vicino traballò
emettendo tintinnii disarmonici. Su di esso v’era incisa in lingua tork la
scritta “Da Salko”.
-Non ti permettere Salko, questa è la volta buona che ti squamo vivo. Quella è
una donna rispettabile, una d’alta società, una vera Signora. Chiaro?- disse
prorompendo Hapto.
-Chiaro, chiaro…-, rispose il rettile piuttosto divertito, aggiungendo –Che
voleva da un vecchio porco come te?-.
-Una questione privata, certe rogne con certa gente; sai com’è, li vorrebbe
fuori dai piedi-. Nemmeno lui sapeva perché stesse difendendo quella vecchia
strega, ma ciò lo faceva sentire nobile d’animo e di spirito come un paladino
della Tavola Rotonda.
-Capisco…- disse rassegnato Salko, sicuro che a nulla sarebbe servito insistere
oltre col vecchio Vilgo. –Piuttosto, hai sentito di quel capo d’azienda
ritrovato decapitato ai giardini Farek? Ne parlano ovunque, stanno impazzendo
perché non riescono a trovare la testa. Dico io, stanno tutti perdendo la testa
per… Per una testa! Capisci?-. Quell’ultima triste uscita non avrebbe fatto
ridere nemmeno un imbecille, eppure Annetha prese a ridacchiare sotto i baffi.
La cosa, di norma, avrebbe urtato parecchio Hapto, che invece si limitò a dire
–Versamene un altro!-; aveva al momento altri pensieri che gli occupavano la
mente, lentamente addomesticata dall’alcol.
-Ho sentito, comunque. Ieri sera- riprese e, dopo essersi scolato il secondo
bicchiere di pito, decise che la sua vita era un totale fallimento.
-Ah, se ci fossi ancora tu a capo dell’investigativa; la troveresti in un
baleno quella testa!- disse Salko, mentre puliva il piccolo bicchiere di vetro
con uno strofinaccio consunto che teneva a cavallo della spalla destra.
-Non ho proprio bisogno delle tue patetiche smancerie da barista- rispose
l’umanoide e, lasciati dieci myrir sul bancone, si alzò dallo sgabello. Nel
portafogli, infatti, ve ne erano solo più due e decise dunque che la giornata
sarebbe stata già abbastanza triste anche senza parlare con quella decerebrata
di Annetha.
-Me ne vado a lavorare Salko. Buona giornata- disse zoppicando verso l’uscita.
-Buon lavoro!- rispose il rettile ironicamente.
Le tempie gli esplodevano mentre
arrancava lungo le scale; dovette infatti fermarsi più volte a prendere fiato.
Era come se gli avessero tolto il cervello, l’avessero messo in un frullatore e
avessero infine riversato il contenuto rossastro nella sua scatola cranica.
Giunto alla porta del suo studio la aprì ed entrò nella stanza, appoggiandosi
poi al muro alla sua sinistra, per riprendere fiato. Ma quando la fatica
scomparve e la sua mente fu finalmente liberata dalla gabbia in cui era
costretta, il pandemonio sembrò sorgere nella sua testa dalle macerie
dell’inferno. Corse perciò verso una porticina al fondo della stanza, la aprì e
un odore di stantio pervase le sue narici; fece giusto in tempo a chinarsi
sulla tazza e mettervi la testa dentro, evitando così che tutte le piastrelle
del bagno fossero imbrattate da liquami puzzolenti e maleodoranti. Quando si fu
un poco ripreso, decise che era tempo di mettersi al lavoro; si sciacquò la
bocca al lavabo e si trascinò sino alla poltrona di pelle nera. La stanza
ruotava attorno a lui, pareva animata da spiriti maligni, solo una chiazza
rossa stava ferma nella sua mente come un punto di riferimento irremovibile; si
lasciò cullare da quella luce calda e suadente e cadde in un sonno profondo.
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Capitolo 3 *** II. ***
II.
“Esperbar Ellasser
karendemer,
esper dademer, esper kademer"
"L'unico ci ha
concesso la Vita,
una ci diede, una ci tolse."
Quel versetto era inciso ormai già da quindici
rivoluzioni nella sua testa, e da dieci vite umanoidi era stato cesellato nella
nuda pietra da mani esperte che lo avevano curato in ogni minimo tratto e
ricciolo. Riluceva dorato e trionfante sul bordo superiore di quella che doveva
essere un'effige del dio. Lo sguardo torvo del vecchio custode sembrava
spogliarlo di ogni antico misticismo, mettendolo completamente a nudo, come
fosse poco più che un bimbo scrutato dagli occhi della saggezza. Egli lo
analizzava, lo smembrava e ne assimilava anche le più piccole sfumature, come
avrebbe fatto un matematico dinnanzi all'equazione della sua vita. Lo scrutava
ormai da così tanto tempo che gli pareva di maneggiarlo meglio delle posate,
che con mano tremante portava alla bocca. Ma di tutti i versetti che costellavano
la sala ovale, di tutte le parole dei padri che erano incise su quei vecchi
muri, quelle erano di sicuro le sue preferite. La tavola ovale di legno su cui
aveva appoggiato mollemente i propri gomiti si estendeva per decine di metri
sino alle due porte che sigillavano la stanza come volessero trattenere anche i
più oscuri segreti che si celavano oltre alla loro mole. Quasi in fronte a lui
sedeva il sacerdote, le sue cadenti carni traboccavano dallo scranno tanto che
pareva si stesse sciogliendo su di esso. Era un umanoide di una settantina di
rivoluzioni, vestito della classica tunica bianca sacerdotale, la quale non
riusciva a celare l’abbondanza di quel corpo deforme. Sotto il suo naso adunco,
la bocca sembrava dibattersi violentemente come un serpente reciso nel mezzo
del corpo: il comportamento che Uxtor aveva mostrato al consiglio quel
pomeriggio non era certo ammissibile ed egli non poteva permettere che la sua
figura di mantenitore dell’ordine fosse messa nuovamente in discussione da quel
vecchio custode rognoso. Perciò decise di abbandonare le posate sul tavolo e,
dopo aver inspirato profondamente ingigantendo così la cassa toracica, si
decise a parlare forte della sua grandiosità.
-Uxtor, ora che i fuochi degli animi si sono estinti e spenti sono anche i
desideri delle carni, non riesco a trattenermi dal rimembrare ciò che è
accaduto nel pomeriggio. Con rammarico sento di dover chiudere la questione
ricordandoti che la tua condotta è stata biasimevole da parte dei tuoi
confratelli e oltraggiosa verso i voti che concedesti agli dei-. Il sacerdote,
nel proferire tali parole, cercava con lo sguardo il consenso dei consiglieri
seduti al suo fianco, le cui bocche erano tese in una smorfia si scherno per il
vecchio custode e di muta accondiscendenza per ciò che stavano udendo.
-Pertanto, mio caro confratello, ti chiedo di scusarti con tutti noi, qui,
cosicché anche gli dei possano constatare il tuo mutamento d’opinione e possano
apprezzare la tua sofferta penitenza-. E concludendo così il suo discorso, tese
l’indice destro verso il soffitto arioso della stanza, chiamando così gli dei a
testimoni delle sue parole. I due consiglieri annuirono soddisfatti.
Quando poi fu calato il silenzio sui custodi, sembrò a tutti che il vecchio Uxtor
non avesse colto nemmeno una singola parola del discorso del sommo sacerdote. Egli
continuava a mangiare tranquillamente la minestra portandosi lentamente il
cucchiaio alla bocca; le sue ispide sopracciglia erano aggrottate, ma pareva
che non lo fossero più del solito. Di tutti e ventisette i confratelli, Uxtor
era l’unico che si atteggiava in maniera tranquilla e disinvolta; in tutta la
sala rimbombava il risucchio della sua bocca e, a seguire, il tintinnio
metallico del cucchiaio sulla stoviglia. Vestar, il più anziano dei due
consiglieri del sacerdote e quello che sedeva sempre alla sua destra, non
riuscì a sopportare oltre l’arroganza del vecchio e, tutto tremante e
infervorato d’ira, iniziò a parlare con un tono di voce molto alto e duro.
-Non è ammissibile. Non è ammissibile che un semplice custode possa proferire
tali obiezioni alle regole secolari del nostro consolato. Dati i suoi
precedenti era evidente che sarebbe accaduto! Mi vedo costretto a ripetere che
sono ancora contrario alla sua ammissione a questo collegio, e mi chiedo come
possa essere l’Astro così cieco. Anche alla sua somma benevolenza dovrà pur
esserci un limite-. Vestar, sul finire del discorso, s’era alzato in piedi e
brandiva minacciosamente il coltello nella mano destra, roteando la punta verso
il vecchio custode. Il sacerdote dovette intervenire repentinamente con un
gesto improvvisato, chiedendo al consigliere di abbassare la posata. Uxtor
aveva finalmente smesso di sorseggiare la sua minestra, ma nonostante ciò non
distoglieva lo sguardo dal piatto; stava infatti giocando con il liquido scuro,
raccogliendolo con il cucchiaio, per poi farlo ricadere nel piatto.
Al
suo fianco, sulla destra, sedeva Gardor, un piccolo personaggio, che tutto
impaurito prese a parlare sottovoce, dopo essersi avvicinato un poco al
custode.
-Uxtor, te lo dico perché ti sono amico: stai
giocando con il fuoco. Io... Girano alcune voci sul tuo conto...-.
Quelle poche parole, sospirate a fatica, sortirono un più grande effetto sul
vecchio umanoide che tutti gli altri discorsi intrisi di furore accademico.
Egli si girò infatti verso il suo compagno e disse seccatamente a voce alta,
-Quali voci Gardor?-. Tutti gli altri confratelli abbassarono docilmente lo
sguardo.
A questa ennesima beffa da parte del confratello, il sacerdote Enderbar si vide
costretto ad alzarsi in piedi, per evitare che Vestar potesse prendere
qualsiasi iniziativa che sarebbe risultata pressoché bellica. Quando la sua
mole fu libera dal giogo dello scranno, ergendosi come un monolite di pietra e
guardando con aria severa il vecchio dalla sua cima maestosa, prese a dire -Uxtor,
il tuo comportamento e le tue parole sono inammissibili in questa sede. Ti
prego pertanto in nome di tutti i nostri carissimi confratelli di calmare i
tuoi bollenti spiriti e di pentirti, altrimenti-, ma le parole del sacerdote
furono bruscamente interrotte dal vecchio che finalmente si decise a rispondere
-Altrimenti cosa?-.
Le vene del collo di Vestar sembravano sul punto di esplodere, in un effluvio
vermiglio, e i suoi occhi parevano non trovare più dimora all'interno delle
cavità del suo volto. Egli prese ad urlare -Non permetterti più di interrompere
il sommo sacerdote! Altrimenti- ma il suo discorso fu nuovamente interrotto
dalla stessa identica frase, ma ripetuta con un tono di voce assai più alto
della volta precedente, -Altrimenti cosa?-. Uxtor si era alzato in piedi e
aveva appoggiato entrambe le mani alla tavola, sporgendosi verso il suo interlocutore.
Enderbar si era alzato dal suo scranno e aveva preso a battere le mani e a
ripetere –Calma! Calma!- affinché tutti i suoi confratelli quietassero i loro
ardenti spiriti. Riconquistata dunque la pace all’interno dell’imponente sala
da pranzo, egli riprese a parlare, dicendo -Uxtor, caro custode, sai anche tu
che, nonostante l’asprezza dei termini utilizzati dal reverendo Vestar, egli ha
pienamente ragione e con lui io non posso che trovarmi in accordo. Dall’alto
delle tue ottantaquattro rivoluzioni mai mi sarei aspettato di udire parole
così vili contro gli dei padri e soltanto in questa triste circostanza inizio a
intuire la causa del tuo interminabile girovagare di gilda in gilda, cui
nemmeno l’Astro riesce a porre fine-. Nella pausa in cui il sacerdote dovette
riprendere fiato, dal fondo della tavola ovale si levò una voce indistinta che
affermò –Il tempo logora le carni, ma lo spirito rimane spesso saldo-. Così il
sacerdote si voltò verso destra, lanciando occhiate di fuoco quali nemmeno il
generale degli inferi avrebbe potuto aspirare; poi riprese –Disonorando gli
dei, hai anche disonorato i patriarchi del nostro ordine e le sacre e fondanti
scritture di teologia su cui i nostri precetti si fondano. In migliaia di
rivoluzioni i custodi del cielo che ti hanno preceduto hanno sondato l’infinità
dello spazio che Ektabar e Plessofer ci donarono per volere stesso dell’Unico
all’inizio della creazione. Nonostante le immense difficoltà e gli sconfortanti
insuccessi incontrati in questo lasso di tempo immemore, la nostra
confraternita non ha mai smesso di puntare gli occhi al cielo notturno,
anelando alla vista della dea. E per tali ragioni, forte dei tuoi voti, come
loro anche tu non dovresti demordere dalla ricerca ma anzi, procedendo con
spirito saldo e con mente lucida, essere piuttosto pronto al sacrifico della
tua vita per il bene ultimo del nostro credo-.
Quando Enderbar ebbe finito il suo discorso di rimprovero, Uxtor s’era già seduto
sulla sua seggiola e pareva meditare silenziosamente fissando il vuoto. Ma ad
un tratto, con un gesto rapido, egli alzò la testa e, guardando il sacerdote
negli occhi, disse –Non la troverete mai, non perché non esiste, ma
semplicemente perché lei è tra noi-. Il volto del vecchio custode non avrebbe
potuto sembrare più sereno.
Vestar accolse queste parole come una nuova e scintillante effige di guerra e,
alzatosi dalla sedia in preda a una risata isterica, disse a gran voce
rivolgendosi ai confratelli –Egli dunque afferma ora che Arwafer è “tra noi”.
Intende dunque che la dea è una semplice mortale? O peggio, forse che ella è
una Tork, paragonabile più a una bestia che a un umanoide. Non riesco nemmeno a
pronunciare tali scempiaggini, perché, al contrario suo, io serbo somma
reverenza verso gli dei padri. Ebbene, confratelli, io dico che costui è pazzo
e che dobbiamo proteggerci allontanandolo dalla nostra gilda, come altri
d’altronde hanno già fatto, prima che il seme della follia si sparga su questo suolo
e germogli, portando rovina in questa confraternita-. Gli sguardi dei
confratelli sembravano appoggiare mutamente le parole dell’anziano Vestar, il
quale aveva mutato l’espressione isterica in una che lasciava trapelare una
certa soddisfazione.
Ma Uxtor non volle lasciare che quella soddisfazione invadesse l’animo del
vecchio trasformandosi lentamente in una consapevolezza di vittoria; perciò,
raccolte le idee, disse –Reverendo Vestar, sommo sacerdote, ammettiamo che io
mi sia sbagliato accecato dello sconforto; permane comunque la questione
secolare delle dimensioni, su cui nemmeno i patriarchi sembrano concordare-.
A quelle parole la
sala ammutolì del tutto, la questione delle dimensioni di Arwafer era un
problema che rimaneva aperto e irrisolto dal principiò della civiltà. Dalla
scrittura degli “Arwaferna Kapor”, letteralmente “I Libri della Vita”, nessuno
era mai stato in grado di argomentare appieno le sue teorie e affermazioni,
soddisfacendo così il panorama culturale della sua epoca storica. I primi
patriarchi, infatti, dopo attente osservazioni astronomiche, condotte con lo
scopo di determinare la forma di Pumbar, traducibile come “il Padre”,
conclusero che esso doveva possedere senza ombra di dubbio le sembianze di
un’enorme sfera. Essi infatti trassero le loro conclusioni semplicemente dallo
studio degli altri corpi celesti che li circondavano: manifestandosi Manfer, la
Madre, come un disco luminoso perso nel cielo e i suoi due figli Esperfer, la
Prima, e Derbar, il Secondo, come due dischi di cristallo che risplendevano di
una luce più fioca di quella della madre; i patriarchi conclusero che anche
Pumbar, appartenendo a quella stessa progenie divina, dovesse anch’esso dunque manifestarsi
sotto le sembianze di un disco a cui Arwafer aveva concesso in dono la vita. Ma
gli studi astronomici non si conclusero ed essi si accorsero presto che il
volto che le due lune mostravano loro pareva non solo mutare con l’avanzar del
tempo, ma possedere anche una sua periodicità ciclica. Il primo ad accorgersi
di questa bizzarria fu il patriarca a cui i Kapor assegnano il nome di Elpor,
un umanoide originario delle cosiddette Lande Desertiche; sulle sacre scritture
è infatti riportato che egli fu il primo tra la stirpe degli umanoidi ad
accorgersi della vera natura di Pumbar e della sua. Si tramanda infatti che
egli iniziò a osservare anche il mutare temporale delle ombre che Esperfer
proiettava su Derbar in alcuni particolari giorni della rivoluzione di Pumbar;
attraverso una serie di disegni che sono ancora oggi minuziosamente riportati
sui Kapor, concluse che nessuna forma discoidale avrebbe mai potuto proiettare
ombre così perfettamente circolari se colpita di sbieco da una fonte luminosa,
poiché l’ombra sarebbe risultata alquanto deformata, non avendo il disco uno
spessore importante. Perciò egli si vide costretto dall’evidenza della realtà
circostante ad ammettere che quelle divinità celestiali si presentassero ai
suoi occhi sotto forma di sfere eternamente roteanti. Nei testi sacri è inoltre
riportato che alla follia che venne contestata alla sua scoperta egli rispose ”Non
è discorrere spinoso affermare che la divin progenie di forma sferica sia; qual
forma è più perfetta e imperitura di codesta?”. Questo riportano i Kapor sulla
forma del pianeta, del suo sole e delle sue lune, e proprio da questa scoperta
nacque il secolare problema delle dimensioni della dea Arwafer.
I patriarchi dunque,
analizzando il primo libro dei Kapor, iniziarono a chiedersi quale aspetto
avessero gli dei primogeniti, questione di cui non si faceva pressoché menzione
nel primo libro. Ad esso infatti seguitava un secondo libro, ben più
dettagliato, che probabilmente era stato redatto in tempi successivi a quelli
del primo; esso narrava appunto dei quattro giganti nati dall’effusione dello
spirito di Arwafer con le antiche macerie del padre Ordubar, della progenie
divina che costei diede in custodia a Pumbar e delle guerre per la supremazia
che costoro condussero alla famiglia di ospiti. Essi perciò conclusero che gli
dei potevano essere distinti in due categorie: i giganti, o titani, di cui
facevano parte gli dei primogeniti, e gli umanoidi, ovvero la progenie di
Arwafer che aveva preso dimora su Pumbar. Il motivo di tale distinzione è
scritto nei libri finali dei Kapor, in cui i patriarchi scrissero:
“Due nature la
matrice divina s’impose
godendo i primi dello spirito di Esperbar
e della loro diretta discendenza per nascita,
paragonabili in dimensioni furono per vicinanza:
Ektabar, Plessofer, Ellasser, Ordubar, Xanfer
e Arwafer, che di
entrambi possedeva tratti.
Gli altri che succedettero, lontani si posero
dalla sua luce divina e in ragion di tal accordo
costretti in più minuti corpi ebbero gli animi
che poco più di frammenti dell’unico1 erano.”
1. “dell’unico”:
in alcune edizioni tradotto anche con “Esperbar”.
E infatti il corpo dei Kapor, essendo stato
scritto in epoche differenti, distanti anche decine e decine di rivoluzioni
l’una dall’altra, spesso è fonte di innumerevoli contraddizioni. In un passo
dello stesso Elpor Arwafer non sembra essere equiparabile agli altri dei
primogeniti; egli argomenta così la sua affermazione:
“Assumendo che costei possa in
dimensioni essere paragonabile agli altri dei che prima di lei mosser lor passi
nel freddo universo; causa le dimensioni titaniche di cui necessita Ordubar affinché
di sua discendenza siano Pumbar e sua progenie, si deve dunque postulare che
per costei paragonabili a granelli di sabbia dovettero esser i quattro ospiti.
Come avrebbe mai potuto scorgerli nell’universo? E ancor, dar loro vita e
progenie simile a noi nella forma? Per non sembrar matto il mio favellare, devo
dunque ammetter che Arwafer ha solo la seconda natura caduca.”
Mentre è assai famoso il passo in cui il
patriarca Alkor, delle Montagne del Nord, elogia la matrice divina della dea.
Egli infatti scrive:
“Quantunque costei non discese per
linea retta da Esperbar, respira il suo stesso fiato e della sua mente fulgida
i pensieri percepisce. Più focoso dev’esser dunque l’animo in lei di qualsiasi
altro dio e paragonabile a lui dev’essere senza dubbio anche per forma
corporea.”
In questa pericolosa discussione, che affondava
le sue radici nelle sabbie del tempo, si erano dunque addentrati i confratelli,
i quali parevano essere una ciurma in un mare in tempesta che, presa
dall’invidia e dai dissapori, non s’accorge dell’affondare della sua nave.
Il silenzio regnava ormai da alcuni
minuti nella sala da pranzo, solo gli occhi del reverendo Vestar sembravano
voler prorompere in un urlo d’ira che avrebbe di certo lacerato gli animi dei
commensali. Il Sacerdote Enderbar, che pareva aver rimuginato sull’intera
esistenza in quel tempo esiguo, fu il primo a prendere parola, sebbene
sembrasse non credere nemmeno lui a ciò che stava per dire.
–Carissimi confratelli; perché dovremmo farci questo? Proprio noi, che siamo
legati da patti indissolubili, incatenati alla sacralità del nostro sangue.
Perché dovremmo iniziare una così burrascosa discussione, e sprofondare in
questioni rimaste irrisolte persino agli occhi rivelatori dei patriarchi?-.
A queste parole seguì la risposta pronta e salda del vecchio custode; pareva infatti
che in quell’istante la tempesta che poco prima gli sconquassava il petto si
fosse placata. Egli disse –Nobile Enderbar, la risposta è semplice-. A queste
parole Vestar trasalì e proruppe urlando –Fatelo tacere! O, sommo Esperbar!-.
Ma Uxtor, come non fosse accaduto nulla, continuò –I patriarchi si sbagliarono.
E voi tutti state facendo lo stesso errore: abbagliati dalle vostre credenze, o
piuttosto certezze, fondanti su un terreno arato, rivoltato e rimestato da
secoli e secoli, non vi rendete nemmeno conto che tutto ciò che è stato
seminato, tutto questo marasma di nozioni e di precetti, non ha portato ad
alcun frutto, poiché il terreno su cui coltivate la vostra mente è avvelenato e
nulla vi può sopravvivere, se non menzogne e false verità-.
Tutti i commensali si pietrificarono all’udire un tale discorso, ma il
Sacerdote Enderbar fu pronto a rispondere prima dell’anziano Vestar, che non
avrebbe certo potuto rispondere delle sue parole. Egli rispose -Uxtor, ciò che
tu hai affermato è molto grave, non solo hai insultato i Patriarchi, ma hai
insultato tutti noi, tutta la gilda, tutto l’ordine e non solo, tutta la confraternita.
Hai deriso le parole dei sacri Kapor e il meticoloso lavoro e la sapiente
ricerca compiuta dai tuoi confratelli in centinaia e centinaia di rivoluzioni-.
Vestar non poté sopportare oltre la docilità di quelle parole e proruppe –Sarai
giudicato e sarai cacciato da questa gilda e da tutte le restanti appartenenti
a qualsiasi ordine della nostra confraternita, sarai un reietto e solo allora
il nostro credo sarà al sicuro da te e dalle tue immonde parole. Non ti sarà
più permesso di infangare l’immagine degli dei. Io te lo giuro!-.
Mentre tutti i suoi confratelli parevano esser diventati nulla più di sagome
scenografiche, Uxtor sorrise amaramente, nonostante i pesanti sguardi di
Enderbar e di Vestar, e rispose –Anche ora non riuscite ad ascoltare le mie
parole. E badate bene, non ho detto sentire, ma ascoltare. Tutto ciò che
riuscite a cogliere è unicamente l’apparenza di ciò che vi si para d’avanti
agli occhi, mentre il suo aspetto intrinseco rimane celato alla vostra vista.
Per centinaia di rivoluzioni avete cercato tra le stelle, affinché i vostri
occhi fossero colmati dalla sagoma della dea, mentre non riuscite ancora oggi a
scorgere la verità tra le righe di vecchi libri zeppi di miti. Ma è anche vero
che questo è proprio ciò che permette alla verità di essere al sicuro da
sguardi ciechi come i vostri.-
Il Sacerdote era
ammutolito, come il resto della sala, e solo Vestar pareva sorreggere il peso
di quelle parole. Nonostante si fosse già diffuso tra tutti il presentimento,
egli solo, al contrario degli altri, serbava nell’animo l’oscura verità a cui
si aggrappava saldamente; e infatti solo grazie a essa riusciva a fronteggiare
quello che ormai ai suoi occhi appariva, non più come un confratello, ma
piuttosto come un nemico. Tutti gli altri erano dunque destinati a soccombere
all’oscurità, aspettando che il presentimento si mutasse in verità; e proprio per
tale ragione, per la salvezza della gilda, il venerando Vestar infranse il suo
giuramento e, lasciando che i suoi pensieri si traducessero lettera per lettera
in parole, disse –Maledetto separatista-.
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Capitolo 4 *** III. ***
III.
Manfer scintillava nel cielo limpido di quel caldo pomeriggio, e con il suo calore abbracciava l’amato e lo cullava dolcemente tra le sue luminose braccia. Il calore aveva fatto divenire talmente irrespirabile l’aria dello studiolo che l’inserviente, attanagliata dall’istinto di sopravvivenza, fu costretta a spalancare la finestra. Aveva inoltre acceso la vecchia televisione che si trovava sopra a un mobiletto a ridosso della scrivania, pieno zeppo di polvere; dopo aver girato due o tre canali trovò finalmente quello che stava cercando ed era sul punto di decidersi che fosse il momento di iniziare a far ciò per cui era stata pagata, ma all’improvviso il vecchio alcolizzato iniziò a lamentarsi nel sonno. Fu subito presa dallo sconforto, siccome quell’abitudine di brontolare nel sonno si manifestava specialmente quando il vecchio alzava di troppo il gomito; cercò di convincersi che era troppo presto e che era molto improbabile che egli si fosse già abbandonato a1lla sua brutta abitudine. Presa quindi da grande affettazione decide di muovere i suoi passi verso il bagno e, una volta afferrata la maniglia della porta, solo quando si sentì pronta, la aprì. “Devo assolutamente chiedergli un aumento” pensò, dopo aver visto le condizioni in cui versava il bagno; specialmente la tazza, essa era imbrattata da capo e piedi di rigurgito. La vecchia umanoide fece un grande sospiro di rassegnazione, e si preparò a pulire lo sozzume che ricopriva tutto quel luogo; di tutti gli uffici che doveva ripulire durante la sua giornata lavorativa sicuramente lo studio del detective Hapto era quello che ella detestava maggiormente. Più e più volte si era ripromessa di venir meno a quell’impiego, ma ogniqualvolta ci pensasse nella sua mente compariva la grottesca figura del detective e la fine che avrebbe fatto se non si fosse occupata del suo studio: probabilmente sarebbe morto di qualche strana malattia in poco tempo, viste le condizioni igieniche del bagno dopo soli due giorni dalla sua ultima visita. Si mise a ridere in silenzio e si disse “Se non lo faccio io, chi lo fa?”; sapendo la risposta della sua stessa domanda si mise i guanti e iniziò il suo duro lavoro.
Un respiro più brusco degli altri fece sussultare il detective, che si risvegliò dal suo sonno profondo. Era piuttosto confuso e non capì subito chi lo avesse portato in quel luogo, né dove fosse e nemmeno il perché di quella strana esistenza, che sentiva più vivida che mai nelle sue mani intorpidite. Sgranatosi gli occhi, il mondo riapparve alla sua vista indagatrice che, analizzando in gran fretta le forme e i colori circostanti, lo riportò presto alla dura realtà che gli piombò in testa come un’incudine di ferro. D’un tratto si ricordò d’essere un vecchio fallito, della signorina Deblor e del pito. Pensò che due fatti positivi su tre potessero essere una gran conquista per quella giornata di duro lavoro; poi, improvvisamente, gli balenò in mente che madame Deblor era in realtà sposata e decise perciò di sprofondare sulla poltrona. Guardandosi intorno sconfortato per qualche secondo s’accorse che la televisione era accesa e che quindi la signora Exer doveva essere arrivata già da qualche tempo e doveva trovarsi ancora lì da qualche parte.
-Buongiorno signora Exer- disse cercando di ricomporsi.
-Signor Hapto, ormai dovrebbe aver capito che non mi scandalizzo più per certe cose; stia tranquillo. Me ne sarei già andata altrimenti, non crede?- rispose una voce roca che pareva provenire dalla libreria dietro le sue spalle. Non poteva essere che lei.
Voltatosi, disse -Capito, capito. Grazie per il suo lavoro. Non saprei come fare se non ci fosse lei a prendersi cura di-. La vecchia inserviente lo interruppe rispondendo bruscamente –Lo so signor detective. Si risparmi i convenevoli!-.
Hapto ne fu molto sollevato, non era infatti nella sua natura dire simili stupidaggini. L’umanoide riprese:
–Mi dica piuttosto, ha visto quello che è successo?- e, avendo indicato la televisione con un gesto del capo affinché il suo interlocutore vi prestasse attenzione, concluse –E’ intervenuto persino l’Astro in persona!-.
Il canale su cui era sintonizzata la televisione trasmetteva unicamente notiziari su notiziari, a ogni ora del giorno. Ci si poteva dunque chiedere se esistessero davvero così tante notizie da riempire l’intero palinsesto di una giornata, ma in quei giorni stavano accadendo delle strane vicende, che avevano scosso da capo a piedi l’opinione pubblica e risvegliato così la paura collettiva, sopita ormai già da qualche rivoluzione. In quel preciso momento una giovane umanoide molto distinta, ma dall’aria piuttosto preoccupata stava rivolgendo alcune domande a un vecchio bardato di bianco e seduto su uno scranno di velluto rosso.
-Sommo Astro, insomma, per tutti questi motivi lei è sicuramente la persona più adatta a rispondere a questa domanda. Sta forse accadendo nuovamente?-.
-Cara signorina-, rispose il sommo sacerdote con un gesto pacato della mano, -Posso assicurarglielo, ora come ora nessuna cellula separatista sta minando alla pace che abbiamo conquistato con così tanta fatica e con così tanto spargimento di sangue. Il ricordo è forse lontano nel tempo, ma ancora vivo nella mia memoria; ma è inutile guardarsi alle spalle, ciò che abbiamo costruito assieme, tutto ciò di cui possiamo godere oggigiorno, l’abbiamo raggiunto sì con il sacrificio di alcune vite umane, ma esso era necessario alla costruzione di una pace solida e duratura.-
La giornalista non sembrava essere contenta della risposta del suo interlocutore, perciò decise di rincalzarlo:
-Capisco bene ciò che afferma, sua eminenza; ma se dunque non si tratta di crimini di matrice separatista, chi può aver commesso tutti questi omicidi d’ispirazione religiosa? E’ innegabile infatti che costui stia cercando di inviarci una sorta di messaggio, ma a che prezzo? Quante persone ancora dovranno morire?-
-Signorina, io sono un semplice uomo di fede, non un cartomante, e nemmeno un detective. Non posso certo rispondere alle sue domande; l’unico obiettivo a cui posso aspirare è infatti di rivolgermi a lei e a tutta la brava gente che ci sta ascoltando in questo momento, e assicurarvi che non vi è nulla di religioso in questi atti ferini. Nessun vero uomo di fede agirebbe in tal modo; nemmeno fosse esso un separatista. Chiunque sia costui non posso certo considerarlo né un umanoide e tantomeno un Tork, ma unicamente una matta bestia, che con il nostro credo non ha nulla a che vedere, se non forse una conoscenza dozzinale dei sacri Kapor. Conoscenza che per altro non possiamo valutare in maniera diretta.-
Hapto con un rapido gesto spense il televisore e iniziò a brontolare:
-Certo che per essere l’Astro ne dice di stronzate. Non pensi anche tu, cara?-. Dalle sue parole e dai suoi gesti emergeva evidente il tono di scherno nei confronti del vecchio sacerdote e di tutte quelle persone che, come la vecchia signora Exer, sembravano serbare un’attenzione speciale per le sue parole. Come se costui dovesse essere tenuto da conto, dovesse avere un tratto elitario che lo elevasse al di sopra di tutti gli altri; costui, certamente, ricopriva la carica di Astro ed era sceso in prima linea rivoluzioni addietro durante il periodo buio della primavera separatista, tuttavia agli occhi del vecchio detective rimaneva null’altro che un vecchio ipocrita.
-Lei è troppo prevenuto signor Hapto! E io in realtà avrei voluto continuare ad ascoltare; perciò se non le dispiace..- e, tendendo la mano destra verso di lui, si fece consegnare il telecomando dal vecchio, che pareva ormai rassegnato all’idea di doversi sorbire tante stupidaggini tutte insieme. Perciò, consegnatole l’apparecchio, disse -Sta bene! Faccia quel che vuole!-. Così la signora Exer riaccese la televisione, ma ormai l’intervista con l’Astro era terminata e alla conduzione del programma era subentrata un’altra distinta signora, un poco più anziana e imbellettata della precedente. Costei parlava con molta disinvoltura poiché il suo unico scopo in quella giornata era stato e sarebbe continuato ad essere quello di ripetere più e più volte ciò che era accaduto in quei giorni; quasi come una filastrocca di morte e distruzione.
-Piuttosto- continuò l’inserviente -Lei, che è un signor Detective, cosa ne pensa di questa situazione d’allerta?-.
Hapto, che certo aveva colto la nota ironica delle parole dell’umanoide, tuttavia era troppo stanco per darci qualsiasi cenno d’importanza e si limitò a rispondere –Penso che non siano affari miei. Ecco ciò che penso. E poi, suvvia, sono morte solo tre persone in una decina di giorni; certamente c’è un pazzo omicida tra noi, e questa è un’apposizione innegabile, ma confrontare tutto ciò con i fatti accaduti venti rivoluzioni fa è da persone stupide-.
-E che mi dice dunque della matrice religiosa degli omicidi?- disse la signora Exer, controbattendo.
-Su questa questione, devo ammetterlo con mio rammarico, non ho che da concordare con il vegliardo- e, facendo un gesto verso la televisione, che continuava a far da sottofondo al loro discorso, riprese – Guardi dove mi ha spinto il suo tanto farneticare, a concordare con un vecchio ipocrita; ma non c’è assolutamente nulla di religioso in tutti questi omicidi. Se non il fatto che l’assassino probabilmente è un pazzo invasato che conosce qualche passo dei Kapor. Non è certamente una novità che qualcuno voglia lasciare un messaggio attraverso i suoi crimini; c’è chi decide di farlo tramite il teatro, tramite un bel film o un buon libro; ma c’è anche chi, al contrario di costoro, sceglie il sangue e la distruzione. D’altronde se il mondo fosse stato fondato dagli albori dei tempi su una pace eterna e immutabile non potremmo godere, per esempio, degli stessi Kapor e di alcune delle migliori opere da noi create; non ci sarebbe alcun eroe da ricordare, non ci sarebbe alcun racconto di gesta epiche, nessun film d’azione, poiché essenzialmente non vi sarebbe alcuna oscura trama de decifrare e diramare. Tutto ciò che conosciamo diverrebbe un eterno e soffocante presente fatto di ripetitività-.
La vecchia umanoide pareva non riconoscere più l’ubriacone che le si parava dinnanzi agli occhi, il quale, accoccolato sulla sua poltrona in pelle, continuava:
-Fu proprio questa strana “necessità del male” a spingermi in primo luogo a entrare nel corpo di polizia e a motivarmi durante tutte le rivoluzioni della mia carriera; e, mi creda signora Exer, che, tra tutta la massa di delinquenti che ogni giorno condividono con noi Pumbar, di tanto in tanto ne emerge qualcuno che, per sua oscura natura, guarda all’esistenza con occhi diversi, e ne fa una forma d’arte, distorta e corrotta, ma pur sempre una forma d’arte-.
-Certo che lei è proprio pazzo-, rispose apertamente l’inserviente, –Dev’essere stato il pensionamento che l’ha reso folle-, prorompendo poi in una risata.
Hapto, quasi come risvegliatosi dalle sue fantasticherie, rispose –Vecchiaccia maledetta! Giuro che un giorno-; ma fu subito interrotto dall’umanoide che disse, ridendo, -Cosa farà? Mi caccerà via? Lo sa meglio di me che sono l’unica disposta a pulire tutto il suo sudiciume giornaliero-.
-Maledetta- rispose lui e, sconfitto nell’animo, decise di infilarsi la giacca e uscire, affidando la custodia dello studiolo alla signora Exer.
Quando spuntò fuori dalla porta di ingresso dell’edificio, la vista del detective fu accecata da tutta la luce che Manfer riversava dalle sue fauci e l’aria pareva essere tanto satura di vapori che vi avrebbe potuto galleggiare dentro. Pensò subito che l’idea di metter piede fuori dallo studio in quel pomeriggio afoso non fosse stata certo la sua trovata più geniale. D’altronde la grande metropoli di Darouk era una delle più inquinate della nazione, non solo per via della presenza di innumerevoli industrie che riversavano i propri gas di scarico nell’atmosfera, ma anche perché la città era sorta affianco a un grande lago e dunque si trovava al centro di un’estesa conca naturale, circondata quasi completamente dalle alte Montagne del Nord. L’immensa mole rocciosa dei monti dunque da un lato proteggeva la città da qualsiasi violenta folata di vento, ma purtroppo, così facendo, ne impediva anche un ricambio d’aria, cosicché tutte le polveri inquinanti rimanevano sospese nell’ambiente circostante la città. Le grandi industrie che avevano sede a Darouk inoltre erano specializzate nella lavorazione di componenti altamente tecnologici e quindi facevano utilizzo di materiali altamente inquinanti quali le Terre Rare. Nonostante i vari controlli da parte degli enti di protezione per l’ambiente, le immense ciminiere delle fabbriche rigettavano comunque nell’atmosfera della metropoli una grande quantità di gas denso e nerastro che, una volta rimasto sospeso in aria, era destinato poi a ricadere su Darouk e su tutti i suoi abitanti. Immerso perciò in questa atmosfera infernale, Hapto pian piano si diresse verso la fermata del treno che distava una centinaia di metri dal suo studio; mentre camminava lentamente tra le vie della periferia poteva constatare ogni singola volta il degrado di quei quartieri, così lontani dal centro finanziario e palpitante della metropoli che pareva che la giunta a capo della città non se ne curasse affatto. Ed effettivamente nessuno di loro avrebbe mai messo piede in quelle zone remote, che erano traboccanti di delinquenza e povertà e in cui i servizi statali parevano non essere funzionanti dall’eternità. Per tali ragioni il detective era costretto a passeggiare tra palazzi fatiscenti e catapecchie pericolanti, tra strade dissestate e piazze divorate da piante ed erbacce, in uno scenario sospeso tra vita e morte; nonostante tale trionfo della desolazione ormai non lo sorprendesse più, una nota amara tuttavia sembrava risalirgli la gola, quasi come se qualche strano istinto di rivolta fosse sopravvissuto nel profondo del suo animo durante tutte quelle rivoluzioni. Ma il tempo a sua disposizione per tutte queste riflessioni terminò e, giunto al gabbiotto dei biglietti, ne chiese uno per il distretto centrale di Verberbar. Tale spesa gli prosciugò quasi tutte le risorse finanziarie a sua disposizione; la giunta comunale infatti, per cercare di impedire la diffusione della criminalità dai distretti periferici della città, più poveri, a quelli centrali, più ricchi, aveva disposto una ridefinizione dei prezzi dei biglietti: se prima dunque questi dipendevano unicamente dal chilometraggio di percorrenza della tratta, ora invece variavano esclusivamente in funzione della destinazione. Così facendo i distretti centrali risultavano irraggiungibili per la maggior parte dei cittadini dei distretti periferici e dunque, nell’ottica dei loro residenti benestanti, più sicuri. L’accesso ai binari riservati ai treni in partenza per i distretti centrali era dunque sorvegliato notte e giorno da truppe dell’esercito; Hapto perciò, mostrato il biglietto alle guardie armate e raggiunta la banchina della stazione, si accorse di essere solo e degli sguardi traboccanti d’odio che gli lanciavano le persone che, ammassate sulla seconda banchina, stavano aspettando il treno per gli altri distretti periferici. Il detective era abituato a questa situazione, che si ripeteva identicamente ogni mese; ma a spezzare tutta quella tensione fu provvidenziale l’arrivo del treno che, dopo pochi minuti, ripartì con il detective a bordo.
Il supertreno sfrecciava attraverso i palazzi scuri della periferia, lasciandosi alle spalle la stazione del distretto di Derfer, che scivolava verso l’orizzonte indistinto. L’interno della carrozza del treno era pressoché asettico: l’ambiente, quasi del tutto di colore bianco, poteva risultare, a un primo impatto, poco accogliente per il passeggero, il quale, varcando la soglia del vagone, si ritrovava sospeso tra un magico sogno candido che gli si parava dinnanzi agli occhi e la nera crudeltà della realtà che si era lasciato dietro. I sedili, disposti in gruppi da quattro elementi, erano molto larghi e comodi e i corridoi tra essi erano ben segnalati da innumerevoli sorgenti luminose che, poste sul terreno in successione, ne seguivano il districato percorso. Hapto si sedette sul primo sedile libero che riuscì ad adocchiare, a ridosso di uno dei grandi finestrini che s’affacciavano su Darouk; la carrozza era quasi sempre vuota, se non per la presenza sporadica di alcuni funzionari statali di ritorno dal sopralluogo delle grandi fabbriche della periferia. Questi ultimi erano riconoscibili dalla loro lunga uniforme nera, che, simile a un pastrano di feltro, li ricopriva da capo a piedi e sulla quale era appuntata una scintillante spilla d’argento raffigurante il simbolo della “Nazione degli Umanoidi”: una testa di Harricar cesellata in un circolo da cui dipartivano sette punte. Ogni funzionario statale infatti possedeva un’unica spilla di tal sorta poiché era proprio questa che elevava la sua posizione e legittimava il suo agire; per tale ragione le spille erano prodotte in serie e numerate, affinché, per mezzo di uno schedario, a ognuna di esse corrispondesse il nome di un unico funzionario. Era dunque impossibile non notare la presenza di un funzionario a bordo del supertreno; il nero dei loro abiti infatti contrastava con il bianco dell’ambiente circostante come una grande chiazza d’inchiostro su un foglio intonso. Quel pomeriggio però Hapto pareva essere l’unico passeggero, non solo del vagone, ma del supertreno intero: la banchina di ogni stazione del distretto di Derfer in cui esso si fermasse era deserta e la corsa del detective proseguiva dunque in quella candida solitudine. Ma dopo una ventina di minuti si rese finalmente visibile dal finestrino la grande barriera nera dei distretti centrali; tale imponente costruzione era una muraglia alta una sessantina di metri e larga una trentina che circondava e proteggeva nella loro interezza i cinque distretti centrali di Darouk, impedendone l’accesso a chiunque, proveniente dai distretti periferici, non possedesse i requisiti adatti. Essa infatti era sorvegliata notte e giorno dalle forze armate che, senza sosta, proteggevano le quattro porte della muraglia e ne regolavano il flusso di persone e mezzi. Al supertreno però erano riservati sette ingressi privilegiati ed elevati rispetto al livello del suolo abitato, attraverso i quali esso era libero di sfrecciare senza alcuna necessità di fermare la sua corsa; al detective Hapto effettivamente piaceva molto tale peculiarità del supertreno: varcare quell’enorme simbolo del potere statale con così tanta facilità pareva gli conferisse una sorta di autorità che egli poteva possedere unicamente nei suoi sogni più intimi. Varcata dunque la soglia delle mura, il distretto di Verberbar si parò dinnanzi agli occhi del detective: i vecchi palazzi anneriti dallo smog sembravano essere un lontano ricordo dinnanzi agli immensi grattacieli in vetro, che, riflettendo la luce di Manfer, parevano scintillare come diamanti. Erano presenti inoltre innumerevoli parchi, soprattutto a ridosso delle sponde del lago Elkoferkana, che si stagliava nel mezzo della metropoli: il loro verde lussureggiante, contrapposto all’atmosfera grigia della periferia, era un caldo abbraccio per la vista.
Presto una voce robotica, che nulla aveva di umanoide, annunciò -Siamo in arrivo alla stazione di Verberbar-. Il distretto di Verberbar possedeva infatti un’unica stazione, situata all’estremo meridionale del suo territorio; così il detective si preparò per scendere dal mezzo. La banchina della stazione, al contrario di quelle situate in periferia, era ricolma di gente: umanoidi e Tork che aspettavano ognuno il proprio treno diretto negli altri distretti centrali. Un scrosciare di voci si levava nell’aria: c’era, certamente, chi parlava d’affari, ma anche chi parlava di argomenti più frivoli; Verberbar infatti non era unicamente un distretto finanziario, ma anzi possedeva parecchie vie al suo interno rinomate per i negozi lussuosi e per i ristoranti raffinati. Per raggiungere l’uscita della stazione Hapto dovette farsi strada in quella giungla di colori e odori, urtando due o tre passanti; non era certamente in ritardo, e anzi, non aveva fissato alcun appuntamento, ma l’idea di rivedere la sua vecchia compagna Lept stava lentamente risvegliando in lui una passione che gli era concesso di provare unicamente una volta al mese. Era passato infatti circa un mese dall’ultima volta che, in un giorno del tutto analogo a quello, avevano trascorso la sua pausa pranzo assieme; Lept possedeva appunto una piccola boutique d’abbigliamento in una delle vie del centro del distretto di Verberbar e la custodiva gelosamente ormai da una ventina di rivoluzioni. Era un’umanoide piuttosto intraprendente che, grazie al lavoro di rivoluzioni e rivoluzioni, era riuscita ad accumulare una discreta fortuna, che le aveva dunque anche permesso di acquistare il negozio in cui dapprima svolgeva semplicemente il ruolo di commessa. Nessuno avrebbe mai immaginato, non conoscendola approfonditamente, che una signora della sua caratura potesse essere mai stata sposata con un poveraccio come il detective Hapto e che, ancor più sorprendentemente, avesse ancora tanto a cuore la sua sorte da spingerla a incontrarlo mensilmente. Perciò, tutto trastullato dall’idea di rivederla, il detective prese a camminare con grande foga tra i viali alberati e le ariose piazze del distretto, che gli scivolavano da davanti agli occhi come pioggia nel vento; finché, finalmente, non giunse dinnanzi alla vetrina della piccola boutique, posta su uno degli angoli della piazza principale di Verberbar, all’imboccatura con Tegorna Bersek, ovvero “Via dei Mercanti”.
Era una signora bionda, sulla cinquantina di rivoluzioni, ben tenuta e curata. Era vestita di un lungo abito nero, che riluceva ad ogni suo movimento assieme ad un piccolo diadema d’oro che portava sul capo. Il diadema, che, avvolto nelle sue lunghe trecce, pareva essere stato forgiato e cesellato direttamente tra i suoi capelli, era un ornamento tipico delle umanoidi di Darouk che simboleggiava una certa agiatezza economica e sociale, e per tale ragione dunque esso era tradizionalmente regalato dall’aspirante marito durante la proposta di nozze. Scorgendolo dalla vetrina, Hapto lo riconobbe subito; ella infatti lo indossava sempre, nonostante avesse potuto acquistarne da sé uno di una caratura maggiore. Lept era tutta indaffarata a soddisfare le richieste di una vecchia umanoide, la quale pareva piuttosto insoddisfatta dell’intero mucchio di capi che la proprietaria le aveva mostrato con pazienza. Il detective pensò che quella vecchiaccia dovesse essere proprio una botte di myrir se la sua donna si lasciava comandare con tanta facilità; Hapto infatti, durante tutte quelle rivoluzioni trascorse dopo la loro separazione, non smise mai di pensare a Lept come alla “sua donna”, nonostante sapesse, in cuor suo, che lui invece venisse pensato da lei come un poveraccio, piuttosto che come il “suo uomo”. Un sorriso nacque spontaneamente sul volto del detective, che si accorse solo allora di essersi pian piano avvicinato alla vetrina del negozio sino ad appoggiarcisi sopra con l’avambraccio destro. Di questo fatto si accorsero entrambe le donne; la vecchia umanoide emise un piccolo urlo, portandosi poi le mani alla bocca, mentre Lept, dopo averlo guardato con cattiveria, abbassò lo sguardo rassegnata e successivamente cercò di tranquillizzare l’anziana cliente con parole che il detective non era sicuro di voler conoscere. Hapto si scostò dunque dalla vetrina, vedendo l’aria di tempesta che si addensava nel negozio; la signora infatti decise di raccogliere giacca e borsa e, rimproverando la proprietaria per l’accaduto, uscì dalla boutique con una smorfia di indignazione sul volto e così, in tale assetto da guerra, lanciò per qualche istante al detective occhiate fiammeggianti. Hapto si limitò a salutarla con un cenno della mano, mostrando in volto un sorriso di finta cortesia, che si tramutò in un’allegra risata quando la vecchia fu distante qualche decina di metri. Intanto Lept fece capolino dalla porta vetrata della boutique, pareva piuttosto tesa: stava là, sulla soglia del locale, immobile e a braccia conserte; ma Hapto la conosceva fin troppo bene e sapeva che quella donna non era capace di portar rancore.
-Ciao-, disse semplicemente lui; -Quando imparerai ad avvisarmi del tuo arrivo?-, rispose lei.
-Scusami-, rispose il detective, mentendo spudoratamente, ma era certo che lei lo sapesse.
-In ogni caso, ero preparata, ti stavo aspettando-, disse lei, aggiungendo -Anzi, sei in ritardo, speravo fossi finalmente morto-. Ora era toccato a lei mentire: i due si sorrisero a vicenda; poi Lept si rivolse nuovamente a lui, dicendo -Dammi cinque minuti, chiudo la boutique e andiamo-.
-Certo!-, rispose lui lasciando trapelare un sorriso di felicità.
Avevano percorso la strada fino al ristorante in silenzio, nessuno dei due aveva voglia di iniziare a discutere a pancia vuota. Quando finalmente arrivarono al ristorante e, entrati nel locale, chiesero un tavolo per due, Manfer era alta nel cielo e tutta la metropoli di Darouk, dalla frenesia mattutina, sembrava essere precipitata in un sonno eterno e surreale che aveva immerso tutto e tutti in un silenzio tombale, spezzato raramente solo dal rombo di qualche instancabile navetta. Sedutisi al piccolo tavolino, apersero dunque il menù digitale e scelsero attentamente ognuno il proprio pranzo; mentre Lept decise di tenersi leggera con un’insalata di alghe di lago, Hapto ordinò una sorta di frittura di anfibi d’acqua dolce. Decisero invece di comun accordo di bere soltanto della comune acqua. Le bevande e il cibo arrivarono subito al tavolo; Lept aprì le danze arrotolando una lunga alga bluastra sulla forcina di metallo e portandosela lentamente alla bocca, mentre Hapto, messosi il tovagliolo al collo come un bavaglio, aggredì a mani nude la sua frittura, afferrando un piccolo anfibio dalla forma allungata e mozzandogli la testa con un morso sonoro. Andarono avanti in tal modo per una ventina di minuti; Lept fu la prima a terminare il suo piatto, il detective invece finì qualche minuto dopo e, pulitosi la bocca unta con il tovagliolo, decise di prendere parola.
-Offri tu oggi?-, chiese.
-Come sempre-, rispose lei sottotono.
-Lo sai Lept, offrirei io, ma non ho un myrir in tasca-, disse Hapto tristemente.
-Lo so, lo so, stai tranquillo Vil. Quanto ti serve questo mese?-, disse lei, rabbuiandosi. Ma il detective la rincalzò subito con tono eccitato -Nulla Lept! Nulla! Mi hanno commissionato un lavoro, un lavoro complicato, ma mi pagheranno!-. In quel frangente egli era del tutto convinto di essere sincero con sé stesso e con la sua donna e probabilmente ciò era vero, nell’eccitazione doveva aver rimosso che non avrebbe visto neanche un myrir da quel lavoretto.
-Bene-, rispose la donna, con aria disinteressata. Ma Hapto, come ritornato alla realtà, riprese imbarazzato -Ecco! Però non ho i soldi per tornare in periferia, quindi sì! Mi servirebbe appena un centinaio di myrir-.
Lept domandò seccata -Ma il biglietto del super treno per la periferia non ne costa una decina?-. Non le piaceva parlare di quelle stupide questioni subito dopo aver terminato di pranzare e Hapto lo sapeva bene; quell’imbarazzante situazione le ricordava il vero scopo, del tutto deplorevole, della visita dell’umanoide. Ma sapeva di provare ancora dei sentimenti verso il vecchio compagno, anche se non riconosceva se questi fossero intrisi di tenerezza o di biasimevole pietà.
-Lo sai. Non farmi rispondere- disse Hapto, sorridendo alla vecchia compagna per cercare di sorvolare sull’argomento. “Non cambierà mai” pensò Lept.
Poi egli riprese -Ti vedo in forma comunque! Cosa fai per essere così tonica? Vai in palestra?-.
-Tre volte a settimana- rispose lei, cercando di non far trapelare dalle sue parole la contentezza per quell’osservazione; perciò riprese subito -Dovresti iniziare anche tu sai? Alla signora Parwer… Sai, la cliente che hai fatto spaventare? Ecco, alla signora Parwer ho detto che sei mio pade-. Nemmeno ebbe finito di pronunciare quella frase che ella scoppiò a ridere fragorosamente e il locale si colmò di quelle risa profonde. Sapevano entrambi che aveva detto una cosa impensabile: Hapto non avrebbe mai messo piede in una palestra.
-Sei sempre molto dolce- disse lui, per nulla offeso. Dopo tutto quello che quella umanoide aveva fatto per lui in quelle rivoluzioni, mai si sarebbe permesso di offendersi per una questione di tal sorta.
-Non ti sarai mica offeso?-, rispose lei una volta che si fu ricomposta. Ma il detective colse l’occasione d’oro e rispose -Sai come farti perdonare. Che ne dici di offrirmi un buon bicchiere di pito?-.
L’umanoide accettò e così continuarono a parlare di frivolezze, esaurendo il tempo della pausa pranzo di Lept. Dunque, dopo che la donna ebbe pagato, s’alzarono e si avviarono verso l’uscita del locale. Le loro strade si sarebbero separate da un momento all’altro e non si sarebbero più incrociate per un lungo mese. Lept avrebbe fatto ritorno alla boutique su Tegorna Bersek e Hapto allo studiolo nel distretto di Derfer. Si salutarono dunque con un abbraccio e si promisero di rivedersi il mese seguente; Hapto aspettò che Lept fosse lontana, poi, avendo distolto lo sguardo dalla sua figura, si voltò e iniziò a camminare tristemente verso la stazione di Verberbar.
Il supertreno sfrecciava attraverso i grattacieli del distretto di Verberbar alla volta della periferia e il detective, nuovamente in solitudine, si era abbandonato su uno dei bianchi sedili del vagone vuoto. Egli aveva appoggiato la testa a uno dei grandi finestrini e lasciava che la sua vista, spaziando stancamente tra gli edifici, non interrompesse i suoi pensieri, soffermandosi su un particolare oggetto. Egli rifletteva sul suo rapporto con Lept, cercando di convincersi che nessuno dei sentimenti che nutriva verso di lei venti rivoluzioni prima fosse rimasto vivo nel suo animo, se non un brandello sciupato di tenerezza. D’altronde, pensava, era stata lei ad averlo abbandonato, non riuscendo ad accettare la sua decisione; egli non poteva certo averla perdonata per ciò che aveva fatto, dal momento che nemmeno lei era riuscita a perdonarsi. Doveva essere proprio per tale ragione, infatti, che ella continuava ad aiutarlo economicamente nonostante tutto il tempo trascorso; sapeva di essere stata egoista e voleva in qualche modo rimediare al torto fatto. Egli dunque non poteva sicuramente provare dei buoni sentimenti verso di lei, o, almeno, questo era ciò che Hapto voleva convincersi di credere. Ma proprio durante uno di questi pensieri un boato assordante tagliò l’aria circostante e un crepitio stridente squarciò cielo e terra; il detective fu preso alla sprovvista, il pavimento sotto ai suoi piedi iniziò a tremare violentemente, tutto il supertreno pareva essere in preda a violente convulsioni. La sua corsa fu perciò bruscamente frenata e il violento scossone che ne derivò catapultò Hapto sul pavimento. Dopo pochi istanti, trovata la forza di rimettersi in piedi, egli assistette attraverso il finestrino crepato del vagone a uno spettacolo raccapricciante: una palla di fuoco si innalzava dal centro del distretto di Verberbar e del fumo nero e denso come la notte pareva colare da essa. Nonostante il dolore al setto nasale sanguinante e il sangue che a fiotti gli scorreva lungo il viso, l’unico pensiero che riuscì a concepire Hapto in quel momento, l’unico grido che gli fuoriusciva dall’anima come un vulcano in eruzione fu “Lept!”.
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