La principessa perduta

di Ayr
(/viewuser.php?uid=698095)

Disclaimer: Questo testo proprietà del suo autore e degli aventi diritto. La stampa o il salvataggio del testo dà diritto ad un usufrutto personale a scopo di lettura ed esclude ogni forma di sfruttamento commerciale o altri usi improri.


Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Strani avvenimenti ***
Capitolo 2: *** Rivelazioni ***
Capitolo 3: *** In viaggio ***
Capitolo 4: *** Gli Elfi Neri ***
Capitolo 5: *** Baccablu ***
Capitolo 6: *** La Festa del Solstizio ***
Capitolo 7: *** Mezzosangue! ***
Capitolo 8: *** Lampi blu cobalto ***
Capitolo 9: *** Sulle ali della notte ***
Capitolo 10: *** La piana del vento ***
Capitolo 11: *** La notte degli spiriti ***
Capitolo 12: *** Addio ***
Capitolo 13: *** Alla Lanterna Rossa ***
Capitolo 14: *** Di nuovo in viaggio ***
Capitolo 15: *** La città di pietra ***
Capitolo 16: *** Rosso Rubino ***
Capitolo 17: *** Lutto ***



Capitolo 1
*** Strani avvenimenti ***


Matisse, accucciata davanti alla porta della cucina, cercava di capire cosa stessero dicendo i due. Confabulavano chiusi lì dentro da molto tempo e la cosa aveva incuriosito la ragazza, la quale era stata esclusa dalla conversazione.
Con l’orecchio appoggiato alla porta sentì Corniolo annunciare preoccupato che il regno era in pericolo, la regina era molto malata e le sue condizioni peggioravano di giorno in giorno, come quelle del regno: la barriera pian piano si stava indebolendo e le regioni sul confine avevano già subito incursioni di goblin ed Elfi Neri. Matisse sussultò, non aveva mai sentito parlare di Elfi Neri e da come li descriveva Corniolo erano violenti, sanguinari, subdoli, ingannatori e crudeli, ben diversi da quelli che conosceva lei. In quel momento la ragazza sentì la voce di Ortensia rispondere demoralizzata che non si poteva fare nulla e Corniolo sbottare che non era vero, che qualcosa si poteva fare prima che la situazione degenerasse ma Ortensia aveva pacatamente replicato che il corso del destino non si poteva modificare e che ciò che era stato già deciso non si poteva cambiare, Corniolo allora era andato su tutte le furie e aveva urlato che Ortensia sapeva benissimo ciò che sarebbe successo ma non aveva la minima intenzione di fermarlo perché in realtà aveva paura, anche Ortensia si era infuriata e aveva replicato che non aveva alcuna paura ma che considerava un’inutile spreco di energie agire in quel momento, quando ancora il tempo propizio non era giunto e aveva accusato Corniolo di essere impulsivo e privo di senno.
«Mi stai dando dello stupido?» si infiammò Corniolo.
«No, ti sto solo dando dell’imprudente e dell’avventato» replicò Ortensia.
«Sei veramente cocciuta a volte» commentò Corniolo con voce rassegnata «legata come sei al tuo stupidissimo “momento propizio” sei diventata cieca e ti rifiuti di capire che se non si agisce subito per arginare il problema, questo si aggraverà e sarà sempre più difficile risolverlo.»
«Ma è anche vero che è inutile tentare di arginarlo sapendo bene che il lavoro risulterà vano».
«Allora cosa mi consigli di fare?» domandò Corniolo esasperato «di stare seduto a fare niente, guardando il regno mentre va allo sfascio?»
«Sarebbe un’idea» rispose pacatamente la donna.
«Ma va alla malora» borbottò Corniolo marciando verso la porta «Quando ti accorgerai di aver sbagliato a non agire adesso sarà ormai troppo tardi e ci ritroveremo tutti in qualche miniera del Nord, schiavi degli Elfi Neri».
Matisse riuscì a spostarsi dalla porta appena in tempo per non venire investita dalla furia di Corniolo che uscì a passo di marcia dalla casa senza salutare nessuno.
Matisse entrò cautamente nella cucina e trovò Ortensia seduta al tavolo, con la testa tra le mani, che pareva più stanca e vecchia del solito, come se tutti i suoi anni le fossero improvvisamente piombati sulle spalle.
«Vado a stendermi un attimo, sono molto stanca, non preparare nulla per me, non credo che mangerò» disse con voce flebile, prima di alzarsi a fatica e uscire dalla stanza con aria piuttosto abbattuta. Matisse rimase qualche momento a fissare la porta da cui la donna era appena uscita, in tanti anni in cui era vissuta con lei non l’aveva mai vista così.
Ortensia non era sua nonna, come molti al villaggio credevano, ma neanche una sua lontanissima parente, era una Veggente che si era presa cura di Matisse fin da quando la ragazza aveva memoria e l’aveva cresciuta come se fosse stata figlia sua. Matisse sapeva di essere stata adottata ma la cosa non l’aveva sconvolta più di tanto, era circondata da bambini che venivano abbandonati e adottati soprattutto da Veggenti o altri Maghi per farne i loro apprendisti. Ciò che non riusciva davvero a capire era perché Ortensia si rifiutasse di dirle chi erano i suoi genitori, ogni volta che aveva provato a chiedere qualcosa a riguardo la donna aveva finto di non sentire la domanda o di non sapere la risposta, nonostante facesse intendere il contrario.
Con un sospiro Matisse riempì una pentola d’acqua.
 
L’unica stanza proibita a Matisse era la camera di Ortensia. Quando era più piccola le piaceva fantasticare sul contenuto di quella stanza, ma una volta cresciuta aveva decretato che se Ortensia non la voleva nella sua stanza era per un buon motivo e aveva sempre rispettato l’ordine. Ora si trovava di fronte alla porta proibita reggendo un vassoio su cui aveva sistemato una tazza di tè al gelsomino, il preferito di Ortensia, e qualche biscotto. Aveva pensato che avrebbe fatto bene alla donna, con lei, almeno, aveva sempre funzionato. Ora, però, aveva un po’ di soggezione per quella porta di legno scuro ed esitava a sfiorarla con le nocche e bussare. Fece un respiro profondo e, titubante, diede un leggero colpo alla porta. Per qualche secondo non sentì risposta e sperò con tutto il cuore che Ortensia non la cacciasse via in malo modo o la sgridasse anche solo per aver osato avvicinarsi alla porta. In realtà non accadde niente di tutto questo, ma dopo i primi momenti di silenzio la voce di Ortensia, con grande sorpresa della ragazza, la invitò gentilmente ad entrare.
La stanza di Ortensia era avvolta nella penombra e i colori dominanti erano il nero e il viola: d’ebano erano le librerie che occupavano i tre quarti delle pareti della stanza, stipate di libri tutti con la copertina nera, pesanti tende viola nascondevano il letto su cui era distesa supina Ortensia. A colpire l’attenzione di Matisse, però, fu un enorme calderone che troneggiava nel mezzo della sala: era fatto di vetro e alla debole luce della stanza mandava riflessi ametista e violetti, era sorretto da un trespolo in argento dai delicati e intricati decori floreali che salivano fino al calderone e lo avvolgevano di foglie, bacche e fiori .
«Sapevo che prima o poi saresti entrata in questa stanza» sospirò Ortensia «sono contenta che tu l’abbia fatta su mio invito e non per tua iniziativa, significa che sei una ragazza capace di autocontrollo».
O che è stata talmente spaventata dalle minacce di una vecchia irascibile da non osare nemmeno avvicinarsi alla porta pensò Matisse.
«Le ho portato un po’ di tè, ho pensato che le avrebbe fatto bene» disse.
«E cosa ti ha fatto pensare che ne avessi bisogno» replicò Ortensia, Matisse rimase interdetta, non era la risposta che si aspettava.
«Non ha voluto cenare e dopo che Corniolo se n’è andato ho visto che era molto stanca e abbattuta» cercò di spiegare la ragazza.
La vecchia donna si mise a sedere e sorrise «Sei un’attenta osservatrice, un’ottima dote a mio parere, inoltre sei anche gentile, generosa e premurosa, qualità molto difficili da trovare soprattutto in una stessa persona.» Matisse si chiese per quale motivo le stesse dicendo queste cose.
«Ti ringrazio molto per il pensiero, appoggia pure il vassoio su quel tavolino, ma attenta a non far cadere la sfera, è molto fragile» continuò la donna, la ragazza obbedì e appoggiò il vassoio su un tavolino rotondo in legno scuro su cui era appoggiata una sfera di cristallo in cui vorticava una nebbiolina violacea che si avvolgeva in spirali effimere e affascinanti. Non appena si avvicinò, la nebbiolina nella sfera parve condensarsi e prendere le fattezze di un viso dai profondi e schivi occhi blu e incorniciato da lunghi capelli neri. La ragazza rimase a fissarlo incantata chiedendosi chi fosse.
«C’è qualcosa che non va?» chiese Ortensia e la voce della donna bastò a riscuotere la ragazza.
«No nulla» rispose Matisse gettando un’altra occhiata alla sfera, ma il viso era sparito e al suo posto era tornata la nebbia indistinta.
«A cosa serve quella sfera?» domandò la ragazza.
«A vedere il futuro. Basta che ti avvicini di poco e ti mostra il tuo futuro, ma quasi sempre ciò che mostra è incomprensibile e ambiguo e ci vuole una maga esperta per riuscire a decifrarlo. Perché me lo chiedi?»
«Curiosità. Non sono mai stata nella sua camera e devo ammettere che ci sono una sacco di cose interessanti» rispose Matisse.
«Dalla maggior parte delle quali dovrai stare lontana, sono molto pericolose, soprattutto nelle mani di una ragazzina inesperta» la ammonì Ortensia. Matisse annuì chiedendosi cosa potesse mai esserci di pericoloso in vecchi volumi polverosi o cosa si nascondesse dietro le pesanti tende di velluto viola del baldacchino.
«Ora ti prego di uscire, ma ho veramente bisogno di riposare, sono molto stanca. Ti ringrazio ancora molto per il tè» disse Ortensia e la ragazza capì che era un modo gentile ed educato per dirle di andare fuori dai piedi. Obbedì ma chiudendosi la porta alle spalle si ripromise che sarebbe tornata in quella stanza per scoprire il segreto che nascondeva, perché ne era sicura, quella stanza nascondeva un segreto.
 
Lo avrebbero raggiunto, ne era sicuro. Nonostante fosse abituato a correre per i boschi lo avrebbero raggiunto. Era agile, veloce ma era ferito e stanco e questo li dava un enorme vantaggio. Presto, sfinito per la stanchezza non avrebbe visto una radice, si sarebbe inciampato, sarebbe caduto e sarebbe stata la fine per lui. Ma fino a quel momento non doveva mollare, non poteva: la salvezza del regno dipendeva anche da lui. Procne aveva previsto la fine del regno già da molto tempo ma nessuno le aveva dato ascolto, le avevano dato della vecchia pazza visionaria e dell’uccello del malaugurio e ora ne pagavano le conseguenze. Saltò una radice, consapevole del fatto che avrebbe potuto mancare la prossima. Ma doveva completare la missione ed era questa responsabilità che gli gravava sulle spalle a spronarlo ad andare avanti, avrebbe voluto abbandonarsi sul morbido muschio del sottobosco e lasciare che lo raggiungessero e ponessero fine alle sue sofferenze. Ma non poteva permetterselo: aveva fatto una promessa e le promesse le aveva sempre mantenute, a tutti i costi.
Il petto gli inviò una fitta atroce: aveva perso molto sangue, se non fosse stata la stanchezza ad ucciderlo ci avrebbe pensato lo squarcio che gli si apriva sul petto.
Osservò la mano che lo aveva stretto fino adesso, brillava di sangue sotto i pochi raggi della luna che riuscivano ad attraversare il fitto fogliame. Si sentì male. Si ripeté che non doveva mollare, che la sua meta era vicina, ma si accorse che ormai non ci credeva più ed era solo una vana speranza per costringersi ad andare avanti.
Poi improvvisamente notò che gli alberi diventavano sempre più radi fino a scomparire del tutto e a lasciare posto a delle casupole di legno. Ce l’aveva fatta, all’interno del villaggio non l’avrebbero seguito, ora non gli restava che trovare la casa e sperare di non aver sbagliato villaggio.
 
Matisse si svegliò di soprassalto, aveva sentito un colpo provenire dal salotto, come se qualcuno stesse bussando alla porta. Il rumore si ripeté e Matisse fu sicura che non si trattasse di un sogno. Si alzò chiedendosi chi mai fosse a quell’ora. Guidata dalla luce della luna che filtrava dalle finestre raggiunse la porta, stupita che Ortensia non avesse sentito nulla, nonostante avesse un udito finissimo.
Il rumore si ripeté di nuovo e la ragazza titubante, dopo aver trafficato con il chiavistello, aprì la porta e venne investita da un’indistinta macchia nera che le franò addosso, facendola cadere.
«Cosa è tutta questa confusione?» imprecò Ortensia facendo il suo ingresso nel salotto avvolta in una svolazzante vestaglia viola. «Oh cielo! Cosa è successo?» esclamò correndo a soccorrere Matisse, sommersa dalla macchia nera. Con l’aiuto di Ortensia riuscì a rialzarsi e scoprì che la macchia nera non era altro che una persona avvolta in un mantello nero. Il cappuccio scivolò via scoprendo una cascata di lisci capelli corvini.
«Aiutami a metterlo sul divano» disse Ortensia «poi chiudi la porta, io intanto vedo se riesco a fare un po’ di luce». Matisse obbedì e dopo che la stanza venne rischiarata dalla luce di qualche candela, la ragazza vide che era un ragazzo piuttosto giovane dai tratti del viso armoniosi e dolci, era malconcio, sporco di terra e sangue.
«E’ ferito» esclamò Matisse notando una macchia scura che si allargava sul petto del ragazzo macchiandogli la giubba.
«Vai a prendere gli strumenti» le ordinò Ortensia e quando la ragazza ritornò con le braccia cariche di unguenti e bende vide che la donna gli aveva già tolto il mantello, la giubba e la camicia, lasciandolo a torso nudo. La ragazza rimase incantata alla vista del petto muscoloso del ragazzo e dalla pelle chiarissima segnata da molte cicatrici, e lacerata da uno squarcio orrendo che la fece rabbrividire. Fu Ortensia ad occuparsi della ferita sul petto mentre a Matisse fu dato il compito di ripulire quelle più piccole e meno gravi delle braccia e del viso. Man mano che lo ripuliva dal sangue scopriva un nuovo tratto del suo volto: il naso perfetto, le labbra morbide che parevano invitare ad essere baciate e si chiese di che colore fossero i suoi occhi. Quasi rispondendo alla sua muta domanda, il ragazzo li aprì rivelando due iridi di un blu intenso paragonabile solo a quello del cielo. Matisse strozzò un grido di sorpresa: il ragazzo che aveva davanti era lo stesso che aveva visto nella sfera!
«Dove sono?» chiese con voce flebile il ragazzo.
«A Verderamo, nella casa della Veggente Ortensia» rispose Matisse.
«Ho sentito molto parlare di lei, ma la descrivevano più vecchia» disse il ragazzo, Matisse scoppiò a ridere «Io non sono Ortensia, sono solo la sua apprendista»
«Sei hai finito di conversare con il ferito, potresti andare a prendermi altre bende pulite, per favore» la interruppe Ortensia.
«Ecco Ortensia è lei» gli sussurrò Matisse mentre si alzava.
«Ecco qua» disse Ortensia qualche momento dopo, stringendo il nodo «sei stato fortunato che non si sia infettata».
Il ragazzo non rispose ma si sfiorò le bende con aria assente, sembrava esausto.
«Gli preparo qualcosa da mangiare» propose Matisse e Ortensia approvò.
La ragazza tornò qualche minuto dopo con una tazza di tè fumante e un panino che il ragazzo divorò in poco tempo.
«Allora come ti chiami? Cosa ci facevi tutto solo in mezzo alla foresta di notte?» iniziò a tempestarlo di domande la donna. Matisse avrebbe voluto rimproverarla e dirle di concedere un po’ di riposo a quel povero ragazzo che pareva molto stremato e provato, ma tacque per paura di un rimprovero ma anche per la curiosità di sapere chi fosse quel ragazzo piombato all’improvviso in casa loro.
«Mi chiamo Zefiro e sono stato mandato qui per parlare con voi, Venerabile» Matisse cercò di non scoppiare a ridere, nessuno aveva mai dato del voi a Ortensia chiamandola “Venerabile”.
«E avevi una tale urgenza da rischiare la vita?» chiese ancora Ortensia, il ragazzo la guardò come se la sua domanda non meritasse neanche una risposta.
«Mi manda Procne» dichiarò e Matisse vide Ortensia sbiancare.
«P-Procne?» balbettò la donna incredula, il ragazzo annuì «Mi ha detto di dirvi che il tempo è arrivato e la…» «Andiamo a parlare in cucina» lo interruppe Ortensia.
 
Ovviamente Matisse era stata tagliata fuori anche da questa conversazione, ormai ci stava facendo l’abitudine. Si chiese il motivo di tanta segretezza e soprattutto perché Ortensia era sbiancata all’udire il nome di Procne. Appoggiò un orecchio alla porta, con la sensazione di aver già vissuto una situazione simile, e ascoltò.
«Cosa stavamo dicendo?» iniziò Ortensia.
«Procne mi ha mandato a dirvi che il tempo è giunto e la Principessa deve essere ritrovata» esordì il ragazzo, intervallando la frase con un’imprecazione segno che si era seduto.
«La regina sta morendo e c’è già chi trama nell’ombra per prendere il suo posto. La morte di una regina significa un trono vuoto e un trono vuoto significa potere e potere significa bramosia e la bramosia porta solo alla…»
«Guerra» concluse Ortensia per lui «Questo lo so già. È tutto quello che ti ha detto di dirmi Procne?»
«No. Mi ha anche detto di dirvi che ormai la Principessa deve essere liberata, il suo momento è giunto»
 «Ma non è ancora pronta!» protestò Ortensia «è solo una ragazzina».
«Per questo vi chiede di mandarla da lei, per completare la sua istruzione e prepararla all’arduo compito che l’attende: non si tratta solo di sedere su un trono, ma di difenderlo!»
Ortensia rimase in silenzio per qualche secondo «Sarà un viaggio pericoloso, la Città d’Oro è molto distante da qui»
«Procne mi ha incaricato di accompagnarla» rispose il ragazzo «può fidarsi di me».
«Se Procne si fida di te, non vedo motivo per non farlo anche io» dichiarò Ortensia.
Per Matisse la conversazione sembrava piuttosto bizzarra e misteriosa: principesse, guerre, troni e questa Procne che continuava ad essere nominata con tono quasi reverenziale.
«Allora non mi resta che dirle tutto» sospirò rassegnata Ortensia.
«Ancora non lo sa?!» esclamò Zefiro.
«No, non ho mai trovato il momento opportuno, o forse la forza, per dirglielo» si scusò la donna.
«Questo mi sembra un momento più che opportuno» replicò il ragazzo.
Matisse sentì Ortensia sospirare di nuovo «Glielo dirò domani, ora non mi sembra proprio il caso».
Matisse sentì il rumore di sedie che si spostavano «Puoi dormire da noi stanotte, non mi sembra giusto svegliare il locandiere a quest’ora. Nella camera di Matisse c’è un letto libero o se preferisci anche il divano è molto comodo…» continuò la donna.
«Il divano andrà benissimo» rispose Zefiro.
Matisse si fiondò verso il divano giusto un momento prima che la porta si aprisse «Matisse, per favore, vai a prendere delle coperte e un cuscino» le chiese Ortensia e la ragazza obbedì.
Quando ritornò in salotto Zefiro era seduto sul divano, a torso nudo, intento a togliersi gli stivali, imprecando continuamente per le fitte al petto. Matisse cercò di reprimere l’impulso di scaraventarlo sul divano e di togliergli anche i pantaloni, si morse le labbra e si avvicinò al ragazzo.
«Ecco qua le coperte» disse «sei sicuro di voler dormire sul divano piuttosto che in un comodo letto?» chiese.
«Tranquilla, per uno abituato a dormire sulla nuda terra come me, dormire anche solo su un pagliericcio è un lusso» rispose con un sorriso tale che Matisse si sentì arrossire.
Dopo aver preparato il “letto” per Zefiro, la ragazza si ritirò nella sua camera, ma non riuscì a prendere sonno, troppi pensieri le vorticavano nella testa, continuava a ripensare alle strane conversazioni a cui aveva clandestinamente assistito: quella tra Corniolo e Ortensia in cui si diceva che il regno fosse in pericolo. Sapeva che la regina era malata, tutto il regno lo sapeva ma non riusciva a collegare la sua malattia con  il pericolo che il regno correva, avevano già subito incursioni di goblin in passato e se l’erano sempre cavata; una volta avevano anche avuto lo spiacevole onore di ricevere la visita di un orco ma anche in questo caso, pur con qualche difficoltà, erano riusciti a cavarsela. Inoltre era rimasta stupita del fatto che esistessero anche Elfi malvagi e si chiese che aspetto avessero, inconsciamente le tornò alla mente l’immagine di Zefiro.
Che associazioni assurde che fa la mia mente, devo essere davvero stanchissima pensò, ma per qualche tempo non riuscì a togliersi dalla testa l’immagine del giovane e con lui la misteriosa conversazione avuta con Ortensia.
La ragazza si girò verso la finestra da cui entrava l’aria fresca della notte e il profumo inebriante degli ultimi fiori.
Tra poco sarà estate pensò Matisse, per evitare di rimacinare per l’ennesima volta le conversazioni misteriose in cucina, e assaporò le immagini piacevoli della carovane dei mercanti provenienti dall’est che portavano spezie e stoffe dai colori caldi e sgargianti, oppure degli elfi del sud che salivano fino a lì per vendere i loro archi o i loro cavalli in cambio di eleganti strumenti musicali o di cereali provenienti da ovest insieme al bestiame migliore, da nord, invece, provenivano legno pregiato, pesce sottosale e calde pellicce per l’inverno.
Matisse adorava l’estate: era un tripudio di colori, profumi e suoni. Non vedeva l’ora di ballare sotto le stelle durante la festa del Solstizio o di andare per i boschi alla ricerca di more e lamponi con cui fare squisite confetture da rivendere insieme al miele durante il mercato di fine estate. E con questi piacevoli pensieri, finalmente riuscì ad addormentarsi.

Ritorna all'indice


Capitolo 2
*** Rivelazioni ***


Procne osservò le volute di fumo sprigionate dal suo calderone contorcersi, unirsi e condensarsi fino a formare immagini nebulose che fluttuavano nell’aria satura di vapori e profumi. Procne le fissò per qualche minuto prima di disperderle con un’elegante gesto della mano, queste si disfecero e i fumi tornarono a vorticare. La luce azzurrina diffusa nella caverna illuminava un viso giovane, stanco, corrucciato: quello che aveva visto non le piaceva e la preoccupava.
«Devo trovare un modo per impedirlo» si disse, ma una voce alle sue spalle rispose «Certe cose non si possono impedire». Procne voltò la testa e si ritrovò davanti una donna dai lunghi capelli neri raccolti in molteplici trecce decorate con perline trasparenti simili a gocce di rugiada.
«Ebano! Qual buon vento ti porta qui?» la salutò Procne piuttosto indispettita del fatto di essere disturbata, e a quell’ora della notte, la donna dai capelli neri sospirò affranta.
«Nessun buon vento, purtroppo. La regina sta peggiorando, a nulla sono valsi i miei rimedi. Sono venuta qui per chiederti un consiglio.»
«Sai bene che non voglio immischiarmi in queste cose.» rispose Procne rimestando un liquido di un verde brillante nel calderone.
«Ti prego» insistette Ebano «mi basta solo un unguento che possa alleviarle i dolori, le sue urla sono strazianti.»
«Credevo che ti reputassero un’ottima Guaritrice, non hai nulla tra le tue erbe?» chiese Procne aggiungendo una manciata di una polvere azzurro pallido al composto.
«Le ho provate tutte e ho anche cercato qualche rimedio nei libri che mi hai dato, ma invano» rispose la donna «ti scongiuro, Procne, mi affido alla tua leggendaria saggezza e alla tua famosa bontà» la pregò; Procne si girò e si trovò davanti gli occhi supplicanti della donna, dello stesso verde del composto che bolliva nel calderone, senza dir nulla, Procne prese un’ampolla e la riempì con il liquido, poi la porse a Ebano.
«Somministrale due gocce, una volta al giorno verso sera. Dovrebbe alleviarle i dolori e farle passare la febbre. Se non dovesse funzionare torna da me.»
Ebano iniziò a ringraziarla e a benedirla inchinandosi molteplici volte. «Smettila con le moine, Ebano, lo sai che mi irritano.» la rimproverò Procne. Ebano ringraziò ancora un paio di volte per poi andarsene, Procne seguì la sua figura allampanata allontanarsi fino a che non venne inghiottita dall’oscurità.
Forse ha ragione, certe cose non si possono impedire, ma solo rimandarne il compimento pensò, ritornando al suo calderone, mentre il cielo iniziava già a schiarirsi.
 
Matisse si svegliò quando il sole era ormai alto nel cielo. Si alzò maledicendosi per la sua pigrizia e si avvicinò alla bacinella piena d’acqua. L’acqua fresca l’aiutò a svegliarsi del tutto e a togliere anche gli ultimi rimasugli di stanchezza.
Raccolse i lunghi boccoli color rame in una treccia, come sempre alcuni ciuffi erano sfuggiti alla presa, incorniciandole il volto e addolcendone la forma affusolata, ma finendole anche negli occhi.
Giuro che una volta o l’altra gli taglio tutti corti pensò, era Ortensia che non aveva mai voluto tagliarglieli. Dopo essersi vestita si diresse verso la cucina, dove l’attendevano Ortensia e Zefiro.
«Mi dispiace essermi alzata così tardi» si scusò la ragazza.
«Non fa nulla» rispose Ortensia «prendi una tazza di tè e accomodati.»
Matisse si sedette con una tazza di tè al bergamotto tra le mani, notò che Zefiro indossava una camicia pulita.
«Ti fa ancora male la ferita?» gli chiese premurosa.
«Non più di tanto. Ma penso che Ortensia mi abbia drogato il tè per non farmi sentire troppo dolore» rispose il ragazzo.
«E il divano com’era?» domandò ancora la ragazza.
«Comodissimo, più di quanto mi aspettassi» rispose lui con un sorriso.
Una coltre di silenzio calò sui tre che iniziarono a sorseggiare i loro tè, a Matisse, però, non sfuggì uno scambio di sguardi tra Zefiro e Ortensia. Improvvisamente la donna abbassò la tazza e sospirò, facendosi seria.
«È giunto il momento che tu sappia una cosa, Matisse» esordì la donna con un espressione e un tono di voce tali che spaventarono la ragazza.
«Tranquilla, non è nulla di preoccupante, è solo una verità che ho tenuta nascosta per troppo tempo, un segreto che ho custodito per molti anni e che ora deve essere svelato…Ma partiamo dal principio.
Come ben sai il nostro regno è governato da una regina, questa non solo ha il difficile compito di mantenere l’ordine, garantire la pace e amministrare la giustizia, ma è anche colei che sostiene la barriera con la sua vita, infatti la barriera che ci protegge è strettamente legata alla vita della regina e quando questa si ammala o è prossima alla morte anche la barriera si indebolisce.
Quando una regina muore subentra sua figlia, l’unica erede in grado di sostituire la madre nei suoi compiti. La principessa, appena nasce, viene affidata ad una persona fidata, di solito una Veggente, affinché la cresca e la prepari all’arduo compito che l’attende.
Le piccole principesse non vedono mai la loro madre se non raramente quando sono già sul letto di morte.»
Matisse si chiese dove volesse arrivare la donna raccontandole questa storia.
«Circa quindici anni fa la regina Ismene diede alla luce una bellissima bambina che affidò alla vecchia Veggente che le aveva fatto a sua volta da nutrice, chiamò quella bambina Matisse, nome che non mi sembrò mai appropriato per una futura regina, e quella bambina…»
«Sono io» concluse in un sussurrò Matisse, la donna annuì.
Un silenzio surreale avviluppò la stanza e i suoi occupanti. Matisse non riusciva a crederci: lei era una principessa, la principessa.
«Ora ti starai sicuramente chiedendo perché ti abbia raccontato tutto questo proprio ora» ruppe il silenzio Ortensia, la donna sospirò «Devi partire» annunciò «devi andare da Procne, è una maga molto potente, è la maga più potente. Lei ti insegnerà tutto quello che ti occorre per superare la prova che ti aspetta.»
«Quale prova?» chiese con voce strozzata Matisse, Ortensia sospirò di nuovo.
«Non devi semplicemente prendere il potere, devi anche mantenerlo e difenderlo, soprattutto adesso. Vedi, ci sono persone che stanno tramando nell’ombra e bramano il trono. Ci sono sempre state, ma stavolta sono più agguerrite, determinate e potenti che mai, e per sconfiggerle hai bisogno della saggezza e dell’esperienza di Procne.»
Matisse si morse le labbra, ciò che Ortensia le stava dicendo non era molto confortante: non soltanto sulle spalle le sarebbe gravato il peso della corona e del trono ma avrebbe anche dovuto lottare per conquistarlo e mantenerlo, contro nemici misteriosi e minacciosi, inoltre sarebbe dovuta addirittura partire alla volta di un luogo sconosciuto per incontrare una persona ancora più sconosciuta. Ortensia parve accorgersi del suo disagio perché cercò di rincuorarla «Non ti preoccupare, durante il viaggio sarai accompagnata da Zefiro, puoi fidarti di lui.»
«E poi Procne non è così terribile come la si descrive.» aggiunse Zefiro con un sorriso. Matisse però non si sentì per niente tranquillizzata.
«Partirete domani, all’alba» decretò Ortensia «sempre che tu riesca a viaggiare con quella ferita» aggiunse guardando Zefiro.
«Per me non c’è nessun problema» rispose il ragazzo.
«Allora vediamo di preparare i bagagli, venite» l’anziana donna si alzò con difficoltà da tavola e, seguita dai due ragazzi, giunse davanti alla porta della sua camera. Matisse si stupì: quella stanza le era stata proibita per quindici anni e ora ci entrava due volte nel giro di due giorni!
La donna si avvicinò ad una delle librerie e spinse un libro che si incassò nello scaffale e fece scattare un meccanismo, la pesante libreria in legno nero rientrò e iniziò a ruotare su se stessa rivelando la parte posteriore: questa era ricoperta da armi di ogni tipo. Ortensia spinse altri quattro libri e altre quattro librerie ruotarono su loro stesse rivelando i loro splendidi tesori: spade splendenti dall’elsa finemente lavorata, pugnali dalla lama sottilissima che scintillava sinistra, archi di varie fogge e grandezze corredati da dardi dall’aria letale, un vero e proprio armamentario che avrebbe fatto invidia persino all’esercito meglio equipaggiato. Matisse era rimasta a bocca aperta e anche a Zefiro, che ostentava indifferenza, un guizzo di sorpresa attraversò gli occhi.
«Vi serviranno delle armi per difendervi da animali selvatici e predoni o qualsiasi altra cosa si nasconda nei boschi» sia Matisse che Zefiro vennero scossi da un brivido e mentre la prima si chiedeva quali misteriose mostruosità si celassero dietro i cespugli che circondavano la casa, il secondo pregava di non incontrarle mai.
«Per Zefiro ho pensato ad una spada dalla lama piuttosto larga ma leggera e maneggevole» mentre descriveva l’arma, tolse dai suoi sostegni una magnifica spada dall’impugnatura decorata con rami e foglie intagliate nel metallo e dalla lama argentata che mandava bagliori azzurrini «acciaio temprato di Veneria, molto resistente, praticamente indistruttibile» aggiunse consegnandola a Zefiro che la ricevette con un’espressione tra lo stupito, il lusingato e il reverenziale. Provò un paio di colpi fendendo l’aria per saggiare l’arma e ne rimase piacevolmente colpito.
«Per Matisse, invece, un arco in frassino, elegante, flessibile e resistente. Dovresti saperlo adoperare» continuò la donna consegnando alla ragazza un arco in legno chiaro e una faretra di cuoio piena di lunghe frecce dello stesso legno.
«Per entrambi, invece, non devono mancare un paio di pugnali ciascuno» e consegnò a ragazzi dei pugnali sottili, dall’aria mortale.
«Per te Matisse c’è anche il pugnale che mi venne consegnato insieme a te tanto tempo fa, apparteneva a tuo padre e dopo che lui morì, tua madre lo tenne sempre con sè.» L’arma aveva una lama affilata e un’elsa dorata, sull’impugnatura era incastonato uno smeraldo dello stesso verde degli occhi della ragazza.
«Molto probabilmente è l’unico ricordo che ti rimarrà di loro, abbine cura.» l’ammonì Ortensia in tono mesto. Una cappa di tristezza discese sulla stanza, Matisse si rigirò il pugnale tra le mani chiedendosi se avrebbe mai avuto la fortuna di rivedere sua madre, almeno una volta, anche di sfuggita, anche solo per dirle addio.
«Bene!» esclamò Ortensia rompendo il silenzio che opprimeva la stanza «ovviamente vi serviranno anche coperte, provviste, unguenti, bende, erbe, corde» elencò passando da una stanza all’altra e prendendo man mano i vari oggetti per poi metterli in due resistenti zaini di pelle.
«Che strada avevi intenzione di fare?» chiese di punto in bianco rivolgendosi a Zefiro, sommerso dagli oggetti che dovevano ancora essere sistemati negli zaini. Il ragazzo rimase spaesato dalla domanda, in realtà non aveva ancora avuto il tempo di pensare ad un percorso, Procne a suo tempo gli aveva dato una mappa ma era andata perduta. Si morse le labbra.
«Ho capito, non hai pensato a che strada fare» sospirò l’anziana donna che sparì in una stanza per poi tornare con un rotolo di pergamena stretto tra le mani. Fece cenno ai due ragazzi di seguirla e, giunti in cucina, srotolò il foglio sul tavolo in ciliegio: sulla pergamena era disegnata con minuziosa cura una mappa del regno con tanto di fiumi, mari, montagne, foreste e centri abitati, tutti corredati con i loro nomi, riportati in una grafia pulita ed elegante.
La donna fermò gli angoli della mappa con delle ciotole di legno e indicò un punto imprecisato in mezzo a una macchia scura di alberi indicata come Foresta dei faggi dorati «Noi siamo qui» disse «io direi che dovreste viaggiare lungo le sponde del fiume Hara, così avrete meno probabilità di imbattervi in quello che si nasconde nel folto della foresta o nei predoni che presidiano la via principale.»
«È anche vero che viaggiando lungo il fiume siamo più esposti e c’è comunque la possibilità di imbatterci in gruppi di banditi» obiettò Zefiro.
«Immagino che tu riesca a tenere testa ad un gruppo di banditi. Pensavo che per un ragazzo robusto che sa maneggiare la spada non fossero un problema» replicò la donna accigliata, odiava quando le sue decisioni venivano messe in discussione.
«Robusto, ferito e carico come un mulo» borbottò lui.
«Se hai un’alternativa migliore da proporre, ti ascolto» rispose Ortensia stizzita.
«No, no, il fiume va bene» si affrettò a scusarsi Zefiro. In effetti il fiume Hara era la soluzione migliore, erano più esposti ma sorgevano molti villaggi lungo le sue sponde in cui rifugiarsi in caso di bisogno, e loro non li avrebbero seguiti così vicini ai centri abitati.
«Facendo questa strada potrete raggiungere velocemente Solwin, comprare anche dei cavalli e arrivare a Neherin che è la città più vicina alla foresta dei Frassini d’argento, dove dovrebbe vivere Procne.» continuò gettando uno sguardo a Zefiro per avere conferma delle sue parole, questo annuì.
«Allora, questo viaggio potrebbe richiedere molto tempo, qualche mese se si pensa che per arrivare solo a Fogliadoro, che è il paese più vicino, si impiegano almeno due o tre giorni di cammino…» continuò la donna uscendo dalla stanza.
 
Quella sera Matisse non riusciva a dormire, troppi pensieri le frullavano per la testa: le rivelazioni sconvolgenti di quella mattina, la frenetica preparazione per l’imminente viaggio, i luoghi verso cui era diretta, così misteriosi, affascinanti ma nel contempo spaventosi per lei che aveva sentito solo nominare quei luoghi così lontani, e poi il fatto che dovesse viaggiare con Zefiro, un ragazzo che si presentava come affabile e affidabile ma che rimaneva uno sconosciuto di cui aveva poche informazioni e di cui non riusciva pienamente a fidarsi.
Si era presentato come l’apprendista della famosa Procne anche se aveva rivelato che trascorreva il suo tempo più nei boschi come cacciatore e cavaliere errante che nell’antro della donna. Matisse si girò su un fianco e si trovò davanti la schiena di Zefiro profondamente addormentato nel letto acanto al suo, che aveva occupato di malavoglia dopo le insistenti preghiere di Matisse e Ortensia.
Il ragazzo emise uno sbuffo e si girò sull’altro fianco dando modo a Matisse di cogliere i tratti del suo volto: i capelli avevano riflessi blu dati dalla luce della luna che filtrava dalla finestra, il volto era disteso e rilassato e Matisse riuscì ad intravedere un sorriso increspargli leggermente le labbra. La ragazza si chiese cosa stesse sognando.
In quel momento lo vide agitarsi nel sonno, stingeva convulsamente le lenzuola ed emetteva grida soffocate. Matisse si spaventò e si chiese se fosse il caso svegliarlo. I movimenti si fecero più agitati e violenti, Matisse si avvicinò al ragazzo con il proposito d svegliarlo e strapparlo via dall’incubo in cui era immerso. Zefiro iniziò a sussurrare parole incomprensibili, era tutto sudato e stringeva il lenzuolo con una tale forza che le nocche erano diventate bianche. Matisse gli appoggiò una mano sulla spalla e stava per svegliarlo quando il ragazzo aprì gli occhi di scatto. Matisse soffocò un grido: le iride turchine di Zefiro erano diventate color sangue. Il ragazzo rimase per qualche minuto a fissarla e Matisse trattenne il respiro, terrorizzata. «Tu devi morire» sussurrò con voce lugubre prima di richiudere gli occhi e svegliarsi.
Zefiro aprì gli occhi e si ritrovò a pochi centimetri dal volto spaventato di Matisse, nei suoi occhi spalancati poteva leggere uno sguardo di puro terrore.
«Stai bene?» le chiese preoccupato.
«I-i tuoi occhi» iniziò a balbettare la ragazza. Merda pensò Zefiro.
«Cosa avevano i miei occhi?»chiese cercando di mantenere un tono pacato e indifferente.
«Erano rossi, rosso sangue» mormorò Matisse con voce soffocata. Era rinfrancata dal fatto che gli occhi di Zefiro fossero tornati del consueto blu cobalto ma era ancora scossa e confusa da quello che aveva visto un attimo prima.
«Forse è stata solo una tua impressione» cercò di convincerla Zefiro.
Matisse lo guardò, se c’era una cosa di cui era convinta era il fatto che quello che aveva visto non era stata una sua impressione, un frutto della sua immaginazione o l’immagine proveniente da un mondo onirico; ma preferì credere a tutto questo piuttosto che cercare di rispondere a ulteriori domande di cui, forse, non era nemmeno convinta di voler conoscere la risposta.
«Forse è meglio se torni a letto e cerchi di dormire ancora un po’, domani ci aspetta un lungo viaggio» le consigliò Zefiro, dolcemente.
La ragazza si rialzò e tornò a letto. Passò un bel po’ di tempo prima che la ragazza riuscisse ad addormentarsi, ma quando Zefiro sentì il suo respiro farsi lieve e regolare, segno che era entrata nel mondo dei sogni, si alzò e uscì dalla stanza.
 
Zefiro alzò lo sguardo verso il cielo stellato e sospirò. Si passò stancamente una mano tra i capelli e scoprì che stava tremando, ma non per il freddo.
Questa volta era stata peggio di tutte le altre e non solo perché Matisse aveva visto. Sapeva che questo fatto avrebbe implicato delle domande da parte sua perché sapeva di non aver convinto la ragazza. Questo, forse, era il male minore: avrebbe potuto mentirle, anche se odiava doverlo fare. Ciò che lo preoccupava di più era il fatto che avrebbe dovuto viaggiare con lei. Aveva chiesto a Procne di mandare qualcun altro, le aveva detto più volte che lui non era affidabile e poteva diventare un pericolo, ma Procne gli aveva sempre risposto che lui era l’unico di cui si fidasse e che era sicura che sarebbe stato capace di controllarsi, Zefiro aveva insistito, ma invano, Procne era stata irremovibile.
E ora l’idea si poter diventare un pericolo per Matisse era aumentata. Quella notte, infatti, si era lasciato sopraffare e Matisse aveva visto.
Zefiro imprecò sottovoce. Come poteva Procne fidarsi di lui se lui stesso non aveva fiducia in sé?
Sentì il richiamo di un gufo lontano e per un attimo desiderò poter diventare anche lui un gufo o un qualsiasi altro uccello notturno per poter volare libero nel cielo, senza una meta precisa, ma solo assaporando la sensazione del vento sul viso e il sapore della notte.
Con un balzò scese dal tetto e rientrò agilmente nella stanza attraverso la finestra. Matisse dormiva placidamente e Zefiro rimase per qualche momento a guardarla: i tratti del viso erano uguali a quelli della madre, affusolati ma non spigolosi, e anche il naso sottile e un po’ appuntito era derivato da lei, i capelli, invece, che scendevano in morbide onde lungo la schiena erano derivati dal padre. Zefiro si ritrovò a sorridere.
Il ragazzo scese dal davanzale e si sedette sul letto, per il resto di quella notte non avrebbe dormito, non si fidava, aveva paura di soccombere nuovamente a loro nel sonno, quando le sue difese e la sua volontà erano più deboli.
Gettò un ultimo sguardo a Matisse, chiedendosi se quella ragazza, all’apparenza così fragile e inesperta, sarebbe stata capace di sopportare un peso gravoso come quello che stava per ricadergli sulle spalle.
 
Radamanto rimescolò il composto che bolliva in una piccola pentola di bronzo. Il liquido era di un intenso rosso scarlatto con venature più scure e mandava un profumo leggermente fruttato tanto che, all’apparenza, sarebbe sembrato dell’invitante succo di ciliegia, ma che in realtà era il trampolino di lancio che gli avrebbe permesso di diventare il nuovo re. Se solo quella stupida di Ebano non si fosse intromessa sarebbe già diventato re. Ma la zelante Guaritrice aveva continuato a mettergli i bastoni tra le ruote, posticipando il suo momento di gloria. Radamanto si era stancato di quell’erborista, aveva ostacolato e ritardato i suoi piani per troppo tempo: andava eliminata.
Radamanto aggiunse qualche erba dal forte odore di anice al composto e dalla pentola si levò uno sbuffo di fumo azzurro. L’uomo sorrise e i suoi occhi verdi scintillarono sinistramente nella penombra della stanza, illuminata solo da qualche sporadica candela.
Ebano era un’ottima Guaritrice, doveva riconoscerglielo, e ucciderla non sarebbe stato semplice, soprattutto attraverso il veleno, l’avrebbe sicuramente riconosciuto dall’odore, ma se il veleno non fosse mai entrato in contatto con le sue narici, non l’avrebbe mai riconosciuto.
Radamanto diede un’ultima rimestata prima di prendere un mestolo del composto e metterlo in un’altra pentola per farlo ridurre.
Aveva spulciato tutti i suoi libri per riuscire a trovare il veleno adatto, non poteva avvalersi di un veleno comune, molto probabilmente Ebano si era immunizzata contro i veleni più diffusi e conosciuti; ma quello che aveva scovato lui nessuno lo conosceva, o forse in pochissimi e tra questi era sicuro che non figurasse Ebano.
Il composto si era ridotto, diventando una poltiglia rosso acceso, aggiunse qualche goccia di un liquido verde giada e questo diventò di un bel giallo dorato.
Radamanto parve soddisfatto del risultato e voltatosi verso un tavolo in legno scuro prese un anellino d’oro, semplice ma di fattura pregevole ed elegante. Gli era costato un sacco di tempo e di denaro: era fatto con l’oro più fino che era riuscito a trovare e la pietra incastonata nel mezzo era uno dei rarissimi e purissimi diamanti provenienti dalle miniere del nord. Sperò solo che tutti i suoi dispendi di energia e di denaro non si rivelassero inutili. Aveva cercato di creare un anello che sarebbe sicuramente piaciuto ad una donna, ed in particolare ad una donna vanitosa ed esigente come Ebano.
Radamanto immerse l’anellino nel composto dorato, questo iniziò a sfrigolare e a esalare vapori dorati che avevano un nauseante odore dolciastro di fiori marcescenti. Una volta terminata l’operazione lo estrasse e lo contemplò soddisfatto: neppure lui, se non lo avesse saputo, avrebbe sospettato di qualcosa. Con un sorriso malvagio che distorceva i bei tratti del suo viso, Radamanto posò l’anello in una scatolina di legno rivestita di velluto rosso e la chiuse.
L’anello è pronto per essere donato.

Ritorna all'indice


Capitolo 3
*** In viaggio ***


Matisse venne strappata dal suo sonno da una voce familiare che le intimava di uscire dal letto. Aprì gli occhi e pian piano riuscì a mettere a fuoco la figura di Ortensia che torreggiava su di lei minacciosa, i lunghi capelli argentei raccolti nella solita treccia e uno sguardo talmente penetrante che avrebbe trapassato un muro.
«Quando sarai regina non potrai permetterti il lusso di dormire fino a tardi. Alzati! Zefiro è pronto già da un bel po’!» la rimproverò la donna.
«Ma è ancora buio!» protestò Matisse «E io non ho dormito niente» aggiunse sottovoce.
Ortensia sospirò e scosse la ragazza fino a quando questa non si alzò tra mille proteste.
«Prima partite e prima arrivate» le disse la donna prima di uscire dalla stanza e darle la possibilità di cambiarsi.
Matisse sgusciò di malavoglia fuori dall’involto delle lenzuola, il sonno agitato e gli incubi della notte avevano completamente sedato l’iniziale euforia per la prospettiva di un viaggio. Tutto ciò che era rimasto in lei erano solo dubbi, domande senza risposta e timori.
Lo sguardo della ragazza cadde sul letto sfatto in cui aveva dormito Zefiro, le lenzuola erano fresche, segno che si era alzato da molto tempo. Strano, non aveva sentito alcun rumore. Improvvisamente le tornarono alla mente le immagini della notte passata ed in particolare le iridi rosso sangue del ragazzo e la voce lugubre con cui aveva pronunciato la sentenza lapidaria «Tu devi morire» le aveva detto poco prima di svegliarsi. Matisse scosse la testa e cercò di cancellare quei terribili ricordi con l’acqua fresca, già pronta nella bacinella. Si lavò e si vestì come un automa, abituato a compiere quei gesti quotidiani divenuti ormai meccanici. Indossò un paio di morbidi pantaloni marroni, stretti in vita da un’alta cintura in cuoio, una camicia di mussola bianca, una giacca di pelle e i suoi inseparabili stivali blu di foggia elfica con il caratteristico ricciolo sulla parte alta simile ad un’onda di stoffa; legò i capelli in un’alta coda di cavallo e, soffiato via il solito ciuffo che le ricadeva sugli occhi, sospirò, per niente pronta né più tanto sicura di voler partire.
Appoggiato allo stipite della porta che dava sulla cucina stava Zefiro, intento a mangiare una mela mentre consultava un foglio di pergamena su cui era astato riportato il percorso che avrebbero dovuto fare.
«Buongiorno!» la salutò allegramente lui non appena la vide entrare. Matisse si chiese come potesse essere così felice di prima mattina, sembrava anche perfettamente riposato, al contrario di lei che stava letteralmente dormendo in piedi.
«Dormito bene?» le chiese staccando un pezzo di mela con un morso.
«Non direi proprio!» rispose lei abbandonandosi stancamente su una sedia.
«Elettrizzata per il viaggio?» le domandò.
«Più che altro preoccupata» avrebbe voluto rispondergli ma si limitò a tacere.
«C’è stato un piccolo cambio di programma» la informò lui mentre dava gli ultimi morsi alla mela «non rasenteremo più il fiume»
«Perché?» biascicò Matisse con la bocca piena di pane.
«Non è più un percorso sicuro» rispose lui enigmatico arrotolando la mappa. Si erano accampati lì, Zefiro aveva scorto i loro fuochi la scorsa notte, delle piccole luci baluginanti contro il nero della notte, appena oltre la macchia scura degli alberi. Avevano giustamente pensato che sarebbero passati di lì e li avevano preceduti.
«E che strada avevi intenzione di fare, in alternativa?» domandò Matisse.
«Percorreremo la via principale» le rispose laconico.
«Ma c’è ancora più possibilità di imbatterci nei briganti, soprattutto in questo periodo!» esclamò la ragazza.
«Lo so» rispose lui seccato, ma è la più sicura tra le alternative che abbiamo» Sicura e lontano da loro. Zefiro sperò solamente che non avessero tanto coraggio da avventurarsi fino alla strada principale ma rimanessero nascosti nel folto della foresta, di solito evitavano i centri abitati o le strade frequentate o qualsiasi altro luogo che li esponesse agli occhi di tutti, preferivano rimanere nell’ombra e il ragazzo confidava nella prosecuzione di questa preferenza.
 
Procne si svegliò di soprassalto, raramente dormiva e quelle poche volte non riusciva mai a godere pienamente dei benefici del sonno, spesso aveva sogni premonitori e nella maggior parte dei casi finivano tragicamente. Questa volta aveva sognato una donna dai lunghi capelli neri, riversa a terra, il volto esangue, gli occhi verdi spalancati e vitrei, privi di espressione, le labbra cianotiche e al dito un anello che non le aveva mai visto con un diamante incastonato nel mezzo che mandava un bagliore mortale. Procne aveva riconosciuto quella donna come Ebano e aveva capito che la Guaritrice era in serio pericolo. Si alzò spaventata e incespicò verso il calderone. Non poteva permettere che morisse, non ora almeno, doveva impedire che una cosa simile potesse accadere anche se questo sarebbe andato contro il suo voto di non immischiarsi negli eventi, lei doveva solo assicurarsi che procedessero nell’ordine e nei tempi giusti.
È quello che sto facendo si disse mentre versava erbe e liquidi nel calderone sto cercando di non far accadere le cose prima del tempo. Ma sapeva che cercava di convincere principalmente se stessa.
Prone rimestò il composto sentendosi terribilmente in colpa: stava andando contro tutto quello per il quale aveva vissuto, contro le sue promesse, i suoi stessi principi, ma non riusciva a non far niente. Se Ebano fosse morta non ci sarebbe stato più nessuno in grado di difendere la regina e Radamanto avrebbe avuto la strada spianata per finire quello che aveva iniziato, e Matisse non si era ancora messa in viaggio. Avrebbe già dovuto essere nei pressi del villaggio di Fogliadoro; ma forse Zefiro aveva avuto dei contrattempi o forse la ragazza era restia a partire, lo sarebbe stata anche lei nei suoi panni. Non che dubitasse di Zefiro, si fidava ciecamente di quel ragazzo, lo conosceva perfettamente, l’aveva allevato, educato, cresciuto, osservato e studiato non come un animale da laboratorio, ma in modo da riuscire a capire perfettamente i suoi pensieri e le sue emozioni. Le scappò un sorriso, pensando a lui ma tornò a concentrarsi subito sull’antidoto.
L’unica cosa che la preoccupava era come sarebbe riuscita a consegnarlo a Ebano, ma la fortuna doveva essere a suo favore perché fu proprio la donna dai lunghi capelli neri ad affacciarsi all’entrata della caverna. Procne dovette riconoscere che non era mai stata così contenta di vedere quella donna pedante e insistente.
«Il tuo rimedio ha funzionato» la informò allegra.
«Per il momento» aggiunse con tono lugubre Procne versando il contenuto del calderone in un’ampolla.
«Ne stai preparando un altro?» domandò Ebano osservando incuriosita il liquido rosa pallido nell’ampolla.
«Per te» rispose Procne consegnandoglielo.
«A cosa mi servirebbe?» chiese Ebano incredula.
«A salvarti la vita» rispose lapidaria Procne lasciando l’altra donna ancora più stupita e confusa. «Ora bevilo!» le ordinò porgendole una ciotola nella quale galleggiava una parte del liquido. Ebano era visibilmente turbata, e un po’ esitante eseguì l’ordine della donna, in fondo era la maga più saggia e potente che conosceva. Il liquido aveva un tenue sentore di rosa e un sapore per niente spiacevole.
«E conserva il resto, potrebbe servirti ancora» le raccomandò la donna prima di cacciarla via in malo modo. Ebano fece andare lo sguardo dall’ampolla che stringeva tra le dita sottili alla caverna della sua donatrice, chiedendosi il motivo di un tale dono.
 
Il momento della partenza era giunto, il tempo degli addii era imminente. Matisse, sulla soglia della casa in cui era cresciuta, era consapevole di tutto questo e un groppo di tristezza le opprimeva lo stomaco e le serrava la gola.
Non si sentiva pronta a lasciare la sicurezza d quelle mura per intraprendere un viaggio verso luoghi misteriosi, con un compagno ancora più misterioso. Le dispiaceva dover lasciare quel luogo fonte di tanti bei ricordi, il solo pensiero di dover lasciare tutti i luoghi e le persone che conosceva la rattristava. Ma tornerò si ripromise e quella flebile promessa l’aiutò a rincuorarla, almeno in parte.
Ma per il momento si trovava costretta ad abbandonarli, in particolare la burbera Ortensia che era stata per lei il padre e la madre che non aveva mai conosciuto e che forse non avrebbe mai visto.
Matisse indugiava sulla soglia di quella casa di legno e pietra, i bagagli pronti addossati alla parete e Zefiro che girellava impaziente per il cortile.
«Mi raccomando» le raccomandò Ortensia «stai attenta, metti in pratica i miei insegnamenti e usa la testa» Matisse sollevò lo sguardo verso la vecchia donna e incrociò i suoi acquosi occhi azzurro spento, in un improvviso impeto d’affetto l’abbracciò e affondò il viso nelle morbide vesti nere della donna che profumavano di incenso ed erbe. Ortensia dopo un breve istante di stupore ed esitazione ricambiò l’abbraccio, stringendo a sé quella ragazzina a cui, doveva ammetterlo, si era affezionata.
«Mi dispiace interrompere un momento così toccante ma dobbiamo muoverci» si intromise Zefiro. Sapeva di essersi comportato in maniera odiosa ma non vedeva l’ora di partire, prima avessero messo più distanza tra sé e loro, meglio sarebbe stato.
Le due sciolsero l’abbraccio e Matisse ricacciò indietro le lacrime che stavano iniziando a premere agli angoli degli occhi.
«Ho un dono per te» sussurrò Ortensia, Matisse iniziò a protestare dicendo che la donna aveva già fatto molto per lei, ma la Veggente la zittì con un gesto della mano, poi portò le braccia al collo ed estrasse dai molteplici strati di stoffa nera un medaglione: era un ovale in argento con incastonato un opale dalle mille sfumature diverse.
«Ma è bellissimo» sussurrò Matisse «non posso accettarlo»
La donna ignorò le proteste della ragazza e le allacciò il medaglione al collo.
«Ti proteggerà e forse, quando sarai regina, ti ricorderà una vecchia burbera e scorbutica che abitava in un recondito villaggio…» la ragazza non la lasciò finire e l’abbracciò di nuovo mentre calde lacrime le rigavano le guance.
«Sarai la nutrice dei miei figli» le promise, Ortensia rise «Non sono immortale, il tempo passa anche per me»
«Spero che almeno sarai presente alla mia incoronazione» replicò la ragazza.
«Ne dubito» sospirò la donna con un sorriso amaro che le increspava le labbra rugose, ma Matisse non sentì o fece finta di non aver sentito.
«Ora è meglio che tu vada o Zefiro partirà senza di te, ne sarebbe capace» disse la vecchia donna allontanandola dolcemente da sé.
La ragazza annuì, si asciugò le lacrime e, dato un ultimo abbraccio a Ortensia e un ultimo sguardo alla casa, si avviò dietro Zefiro.
Ortensia seguì le due figure con lo sguardo fino a quando non divennero due puntini indistinti inghiottiti dalla luce rosata del sole nascente, sospirò, chiedendosi se Matisse sarebbe stata pronta per affrontare quello che l’aspettava.
 
Il sole filtrava tra i rami degli alberi, ma non era ancora così alto né la sua luce così vivida da riuscire a penetrare completamente la coltre di foglie e riusciva solo a creare qualche pozza di luce che rischiarava un poco il sottobosco.
Zefiro camminava speditamente e Matisse riusciva a fatica a stare dietro alle sue lunghe falcate. Di questo passo arriveremo a Fogliadoro entro stasera pensò.
La strada che avrebbero percorso era un sentiero di ghiaia che si snodava tra i faggi, ma la casa di Ortensia era molto distante e per raggiungerla avrebbero dovuto attraversare un buon tratto di foresta.Zefiro sembrava molto impaziente di attraversarlo, inoltre continuava a volgere lo sguardo da parte all’altra, preoccupato e nervoso, come se temesse che da un momento all’altro potesse spuntare qualcosa dai cespugli. Ed era proprio quello che Zefiro temeva, avevano smontato l’accampamento e molto probabilmente li stavano cercando per quella foresta. Se solo Matisse camminasse più velocemente, sarebbero giunti prima alla strada principale. La ragazza, però, non riusciva a stargli dietro, arrancava e spesse volte si incespicava.
«Potresti rallentare?» la sentì dire, aveva il fiato corto e si era inciampata nuovamente nei suoi stessi piedi.
Zefiro si fermò per aspettarla, forse aveva esagerato, Matisse non era abituata a camminare per i boschi come lui e non aveva le sue gambe lunghe. La ragazza lo raggiunse stremata «Grazie» sussurrò. Zefiro la zittì, aveva sentito un rumore, un fruscio. Imprecò mentalmente e sperò che non fossero loro, non era pronto per affrontarli, la ferita non si era ancora rimarginata e nonostante non gli facesse male (Ortensia doveva davvero averlo drogato) lo rendeva impacciato e lento nei movimenti. Il fruscio si ripeté e anche Matisse lo sentì. Ti prego fai sì che non siano loro ripeteva Zefiro, con la mano sospesa sull’elsa della spada; anche Matisse aveva sfoderato l’arco, con una freccia incoccata e pronta a partire. Magari è solo un animale selvatico si disse Zefiro cercando di convincersi. Un altro fruscio e le fronde dei cespugli alla destra di Matisse si mossero, la ragazza puntò la freccia in quella direzione. I cespugli si mossero ancora e ne uscì un ometto piuttosto basso e mingherlino, con in testa un assurdo cappello a punta verde.
«Corniolo!» esclamò Matisse sollevata e stupita, abbassando l’arma «Che ci fai qui?»
«Secondo te?» rispose l’ometto cercando di liberare la giubba di cuoio che era rimasta impigliata in alcuni rami bassi «vengo con voi!» annunciò riuscendo finalmente con uno strattone a liberarla.
«Perché?» domandò Zefiro.
«Perché Matisse ha bisogno di protezione, è la principessa perduta, per mille bacche velenose!» rispose l’omuncolo.
«Quindi tu sai?» chiese la ragazza stupita.
«Perbacco! Sono stato io a portarti da Ortensia quando ancora eri un fagottino urlante» rispose Corniolo sistemandosi la bisaccia di cuoio che pendeva da una spalla.
«Ci sono già io a proteggerla» gli fece notare Zefiro; non voleva che l’ometto si unisse a loro, li avrebbe solo rallentati con le sue minuscole gambette storte e c’era già Matisse che camminava lentamente.
L’omuncolo squadrò Zefiro dall’alto in basso, per quanto glielo permetteva la sua statura, e si soffermò sul petto del ragazzo, sotto la camicia e la giubba si riusciva a intuire il rigonfiamento delle bende.
«Due mani in più che sanno brandire un’arma possono servirti, tu sei ancora debole, ragazzo, e nessuno conosce questi boschi meglio di me» replicò.
Zefiro sbuffò, in effetti un uomo in più, per quanto piccolo, sarebbe tornato utile soprattutto se, come sosteneva lui, conosceva quei boschi e quello che vi si nascondeva. Il ragazzo fece andare lo sguardo da Corniolo a Matisse che lo pregava con lo sguardo perché si unisse a loro. Si sentiva più sicura, e in un certo senso più protetta, sapendo che con lei viaggiava anche qualcuno che conosceva. Zefiro alla fine si ritrovò costretto ad acconsentire e Corniolo si unì ai due.
«Ci hai fatto prendere un enorme spavento» confessò Matisse a Corniolo dopo qualche momento di marcia nel più completo silenzio «pensavo che fossi una qualche belva feroce».
O peggio pensò Zefiro. Corniolo rise «So anche essere più pericoloso di una belva feroce, se voglio» anche Matisse sorrise.
«Come hai fatto a trovarci?» chiese poi.
«Sono andato da Ortensia e l’ho trovata in lacrime, la cosa mi ha stupito, in tanti anni non l’avevo mai vista piangere…le ho chiesto cosa fosse successo e lei mi ha risposto che eri partita per andare da una certa Pocne» «Procne» lo corresse Zefiro.
«Lei, comunque. Così, saputo che eri partita, sono corso a casa ho fatto in fretta i bagagli e ho preso una scorciatoia per riuscire a raggiungervi in tempo. Non mi sarei mai perdonato se ti avessi fatto andare in giro da sola.» concluse velocemente l’omuncolo.
«Non sarebbe stata in giro da sola» disse seccamente Zefiro, l’ometto fece un gesto di noncuranza con la mano.
Intanto erano finalmente giunti sulla strada principale, una striscia di ghiaia che serpeggiava tra gli alberi e su cui riusciva a transitare a malapena un carretto. Zefiro alzò lo sguardo verso il cielo, il sole stava per raggiungere il punto più alto, calcolò che sarebbero arrivati a Baccablu, il villaggio più vicino prima di Fogliadoro, in due giorni. In tempo per la festa del solstizio pensò con un sorriso triste. Quando era bambino desiderava partecipare alle feste dei villaggi vicini ma Procne non gliel’aveva mai permesso e così aveva partecipato alla sua prima festa a soli quindici anni. Era uscito di nascosto ed era andato fino a Roccascura, il villaggio più vicino, dove quella sera si sarebbe tenuta proprio la festa del solstizio. Si stava divertendo ma aveva esagerato con il sidro e quando dei ragazzini avevano iniziato a deriderlo, aveva perso il controllo. Era iniziata una lotta furibonda, dalle parole si era passati in fretta alle mani, e Zefiro stava avendo la peggio fino a quando dalle sue mani non era scaturito un dardo di luce blu cobalto che aveva colpito in pieno il petto di un ragazzo, ferendolo gravemente. Sconvolto era fuggito via e aveva confessato tutto a Procne, la maga era riuscita a guarire il ragazzo ma da allora Zefiro non aveva più messo piede in un villaggio né aveva usato i suoi poteri.
«C’è qualcosa che non va?» chiese una voce dolce e premurosa e Zefiro riemerse dai tristi ricordi della sua adolescenza. Matisse camminava accanto a lui, il viso visibilmente preoccupato.
«No, nulla» rispose il ragazzo cercando di usare un tono ed un sorriso convincenti. Matisse annuì e gli chiese quando sarebbero arrivati a Baccablu, il ragazzo le rispose e la ragazza tornò a chiacchierare con Corniolo,.
Le aveva mentito. Di nuovo. Come poteva conquistare la sua fiducia se continuava a mentirle? Era logico che preferisse la compagnia di Corniolo alla sua e che avesse insistito tanto perché si unisse a loro. Corniolo lo conosceva, si fidava di lui; per lei Zefiro era solo uno sconosciuto che si era ritrovata costretta a seguire, non si fidava di lui, glielo si leggeva in faccia, nonostante cercasse di dissimularlo. Zefiro sospirò e si ritrovò a pensare, ancora una volta, perché Procne avesse mandato proprio lui.
 
Radamanto camminava per i corridoi del castello, reggeva tra le mani una scatolina in legno, finemente decorata, anche quella gli era costata un sacco di soldi. Ma tutti i soldi spesi per una buona causa, non sono spesi invano si disse. Con quello che riteneva un sorriso caldo e cordiale bussò alla porta della camera di Ebano. Sperò che la Guaritrice non fosse già andata dalla regina e, per sua fortuna, così  non era. Infatti, fu proprio Ebano ad aprire la porta, era stanca, sfinita, i lunghi capelli neri le ricadevano molli sulle spalle, il viso era scialbo, sciupato, smunto e aveva perso un po’ della sua bellezza, gli occhi erano spenti e le occhiaie li facevano apparire più verdi.
«Milord! Che sorpresa!» esclamò la donna, esibendosi in un inchino frettoloso ma non privo di eleganza «chiedo perdono per lo stato pietoso in cui mi trovo, ma non mi aspettavo una vostra visita!»
«Milady, voi siete sempre splendida» replicò Radamanto profondendosi in un baciamano. Alle donne piacevano questo genere di galanterie.«Spero di non avervi disturbata» continuò fingendosi contrito.
«Certo che no, Milord! Ma prego, entrate pure e perdonate il disordine in cui si trova la mia camera».
La camera della Guaritrice era situata all’ultimo piano della torre sud, era una stanza circolare, molto spaziosa ma stipata di oggetti di ogni sorta: un enorme tavolo in pietra scura occupava tutta la parete davanti alla finestra, era ricoperto di libri aperti o chiusi, fogli volanti di pergamena, piume, ciotole in legno, vasetti, alambicchi, ampolle, bottiglie, bilance, pesetti e tantissimi altri oggetti; dalla parte opposta svettava un letto a baldacchino con tende in un tessuto leggero e semitrasparente di un verde scuro e cupo, il resto delle pareti era occupato da librerie in ebano traboccanti di libri, armadi che potevano contenere abiti, strumenti o ingredienti, e quelle che parevano essere mappe stellari; in un angolo della stanza si scorgeva un calderone in vetro sorretto da un treppiedi dello stesso materiale che avvolgeva il calderone in sinuose volute fiorite, sotto di esso baluginava la fiamma azzurrina di un fuoco magico, mentre in esso sobbolliva un liquido dorato dal forte odore di gelsomino che impregnava l’aria della stanza.
«Prego accomodatevi» lo invitò Ebano indicando un elegante divanetto imbottito di velluto rosso scuro «vorrei potervi offrire qualcosa da bere, ma temo di non aver nulla» si scusò la donna.
«Non serve Milady, ero passato qui solamente per, ecco, offrirvi un piccolo dono, come segno della mia immensa gratitudine per tutto quello che state facendo per mia sorella» rispose Radamanto porgendo la scatolina di legno alla Guaritrice.
«Non dovevate, Milord!» replicò questa con gli occhi che le brillavano per la curiosità. Quasi con reverenza prese la scatolina dalle mani dell’uomo e apertala, il suo viso si illuminò di colpo «Non dovevate» ripeté in un sussurro estraendo un anellino d’oro sottile ed elegante, il diamante incastonato nel mezzo gettava bagliori multicolori a seconda del taglio di luce «è meraviglioso. È troppo per me, questo dono è degno di una regina non di un’ umile Guaritrice» nei suoi occhi, però, si riusciva a leggere il profondo desiderio di indossarlo e mostrarlo a tutti. Radamanto si alzò «Milady, il vostro aiuto è tanto prezioso quanto quest’anellino, se non di più. Accettate questo dono come ringraziamento da parte di un uomo che non ha di meglio da offrirvi per dimostrare la sua immensa gratitudine.»
«Milord, quest’anello è un dono più che gradito e adatto a simboleggiare una tale gratitudine, che tra l’altro, trovo superflua dal momento che sto solo facendo il mio dovere. Accetterò, comunque, di buon grado questo dono che diverrà per me monito a perseguire in quello che sto facendo e ad impegnarmi sempre a fondo, nonostante le difficoltà e la stanchezza. Vi ringrazio molto per questo dono, Milord» ripose la donna inchinandosi profondamente e infilando subito l’anello al dito indice.
«E io ringrazio voi» replicò Radamanto baciandole delicatamente la mano su cui aveva appena messo l’anello «ora, vogliate scusarmi, ma ho molte incombenze che mi attendono. Vi auguro una buona giornata, Milady» e senza attendere risposta uscì dalla stanza con un sorriso trionfante sulle labbra.
Il dono era stato fatto, ora non restava che attendere e Radamanto era un uomo estremamente paziente.

Ritorna all'indice


Capitolo 4
*** Gli Elfi Neri ***


Procne alzò lo sguardo verso il cielo stellato e sospirò. Quella notte aveva avuto un altro sogno premonitore e il suo contenuto non le era per niente piaciuto. In un frusciare di vesti scure la donna si avvicinò al calderone e ne inspirò gli effluvi, riuscì a calmarsi, almeno in parte. Con un nuovo sospiro si discostò dal calderone e si sedette sul suo giaciglio, incassato nella parete rocciosa della caverna, che pareva essere fatta di vetro nero.
Per la prima volta nella sua vita aveva paura.
La cosa che amava di più al mondo era in pericolo e lei non poteva fare nulla per impedirlo.
Era frustrante.
Un venticello fresco si insinuò nella caverna facendo vorticare i fumi del calderone. Procne li fissò con aria assente. A volte odiava quel compito di semplice spettatrice, in cui non doveva fare altro se non controllare che il destino seguisse il suo corso nei tempi e nei modi giusti, senza interferire in alcun modo. Quante ere si era vista passare davanti, a quante guerre aveva assistito, in quante creature aveva visto accendersi la fiamma della vita e in quante l’aveva vista affievolirsi e spegnersi, quanti avvenimenti aveva visto scorrere, facendo da mera spettatrice, senza prendervi mai parte.
Solo una volta aveva fatto l’errore di partecipare anche lei a quella storia che aveva solamente guardato da lontano con un misto di invidia e tristezza, l’aveva fatto per sentirsi di nuovo, per un breve istante, ancora parte di essa, ancora viva, ma adesso stava pagando le conseguenze di quell’effimero istante di vita.
Si era innamorata, di un Elfo Nero, tra l’altro, la creatura più subdola e opportunista che fosse mai esistita. Si era imbattuto in lui tempo fa, sul confine, quando la barriera era ancora solo un flebile nastro di luce azzurrina. L’aveva trovato riverso a terra, ferito gravemente. Procne non era riuscita a resistere e la sua natura compassionevole e altruistica l’aveva portata a curare quell’Elfo, a portarlo addirittura nella sua dimora, a sfamarlo e ad accudirlo. Avrebbe dovuto lasciarlo lì, il maledetto!
L’Elfo si era mostrato, dal canto suo, remissivo, docile e grato a Procne, e quando questa aveva manifestato i propri sentimenti nei suoi confronti, aveva risposto a quel tiepido e timido bocciolo d’amore con un’altrettanta timida e tiepida corresponsione. Pian piano il loro amore era cresciuto fino a diventare uno splendido fiore. Ma poi quel fiore era stato reciso quando l’Elfo Nero aveva abbandonato Procne, portando via con sé uno dei frutti del loro amore. L’altro, invece, l’aveva lasciato lì, con lei, forse perché troppo fragile o forse perché non aveva avuto il tempo o la voglia di prendere entrambi. Procne si era sentita ingannata: quell’amore che con tanta ingenuità e fiducia aveva donato era stato calpestato e profanato, gettato via, senza alcun rispetto. Il suo cuore deluso e martoriato pian piano si era chiuso lasciando solo un breve spiraglio per quel bambino che le riportava alla mente tristi ricordi ma che era pur sempre parte di lei, frutto del suo grembo. E ora quel frutto che con tanta cura e attenzione aveva accudito stava per morire: ecco il crudele castigo per aver trasgredito alle regole, per aver contravvenuto a quella legge che le imponeva di essere una semplice spettatrice del fluire degli eventi, una spettatrice di vite che si susseguivano una dietro l’altra. Una spettatrice di vite che non ne aveva una, che era morta quando si era assunta questo incarico e che aveva riacquisito, sottoforma di flebile scintilla accesasi in quell’unico istante di felicità ormai spezzato per sempre, che stava per essere spenta, di nuovo.
Procne sorrise amaramente «È dunque questa la tua punizione?» urlò, a nessuno in particolare «Lasciare che io veda mio figlio morire, senza poter far nulla per impedirlo? È davvero una dura punizione la tua!»
Procne ricadde sul giaciglio e per la prima volta, dopo molto tempo, le sue lacrime tornarono a bagnare le sue guance.
 
Erano passati quasi due giorni di cammino e già all’orizzonte si riusciva a distinguere il profilo incerto e frastagliato del villaggio di Baccablu. «Entro domani dovremmo raggiungere il villaggio» annunciò Zefiro allegramente. Il viaggio fino ad allora era stato tranquillo, non avevano avuto intoppi e soprattutto non avevano fatto spiacevoli incontri. Corniolo si era rivelato molto utile: conosceva quei boschi meglio delle sue tasche, sapeva dove trovare una fonte d’acqua fresca, o un cespuglio di succose more o bacche commestibili, o un punto sicuro in cui passare la notte. Anche quella notte era stata tranquilla, Zefiro l’aveva passata sveglio con la scusa di fare la guardia ma con il proposito di far sì che quelle presenze che lo tormentavano non l’assalissero, e aveva funzionato. Con un sorriso annunciò che era arrivato il momento di mangiare e l’annuncio venne accolto da un coro di acclamazioni di approvazione. Si sistemarono in una radura poco distante dalla strada che stavano percorrendo e tirarono fuori le loro provviste: pane, formaggio e qualche bacca scovata da Corniolo il giorno prima. Matisse si avventò sul suo pasto e lo divorò in poco tempo. Zefiro sorrise di nuovo, la ragazza non si era mai lamentata nonostante avessero camminato per tanto tempo a tappe serrate. Si aspettava una ragazzina viziata, vanitosa, piagnucolosa e insofferente e invece si era trovato davanti una ragazza forte e decisa, forse un po’ insicura e molto diffidente, ma sicuramente meglio di quanto avesse sperato.
«Poi ti devo controllare la ferita» gli ricordò. Lei era anche l’addetta alla sua ferita: due volte al giorno, ovvero ogni volta che si fermavano per mangiare, lei svolgeva le bende, controllava che la ferita non si fosse infettata e se stesse cominciando a guarire e poi riavvolgeva il tutto. Era moto delicata e attenta, ma la sua mano non era sicura come quella di Ortensia, segno che era ancora una Guaritrice alle prime armi. Zefiro ingurgitò gli ultimi bocconi di pane e iniziò a spogliarsi. Matisse si stava abituando a vederlo a torso nudo, ma ogni volta rimaneva per qualche momento come incantata, a contemplarlo. Con molta delicatezza iniziò a svolgere le bende e a scoprire pian piano il petto ben fatto e l’orrenda ferita che lo squarciava. Aveva iniziato a formarsi una debole crosticina, merito del cicatrizzante che Matisse aveva spalmato copiosamente sulla ferita. «Ti fa male?» gli chiese sfiorando i lembi di carne lacerata.
«Non più di tanto» rispose lui «tranne quando ci spalmi sopra quel cicatrizzante infernale».
Matisse sorrise «Purtroppo te ne dovrò mettere ancora», Zefiro imprecò tra i denti, quell’unguento verde pallido bruciava terribilmente e ogni volta che glielo spalmava sembrava che gli stesse rigirando una lava arroventata nella ferita; e non era finita, la ferita iniziava a prudergli e sentiva la pelle tirarsi ma lui non poteva far niente se non sopportare stoicamente il fastidio e il dolore. Matisse iniziò a riavvolgere le bende e quando strinse il nodo, il ragazzo sentì un’ultima atroce fitta. La ragazza gli aveva chiesto più volte come se la fosse procurata, ma il ragazzo si era sempre rifiutato di rispondere. Matisse lo guardò rialzarsi a fatica, il viso contratto in una smorfia di dolore, gli aveva anche offerto degli antidolorifici ma Zefiro si era rifiutato di prenderli, non poteva diventare dipendente da quelle cose o quando sarebbero finite, sarebbe finita anche per lui. Con ancora maggiore difficoltà il ragazzo si issò lo zaino in spalla pronto (più o meno) a ripartire.
 
Maledizione! Com’era possibile? Era passata un’intera giornata e quella Guaritrice rompiscatole girava ancora indisturbata per quel castello senza dare alcun segno di debolezza o sofferenza, al contrario sembrava più raggiante del solito e sprizzava gioia da tutti i pori. Dove ho sbagliato? A quell’ora avrebbe dovuto già essere morta e invece saltellava per il castello a mostrare a tutti l’anellino che avrebbe dovuto spedirla sottoterra.
«Oh Radamanto! Stavo cercando proprio voi!» cinguettò la donna. Radamanto imprecò sottovoce e si dipinse sul volto un sorriso di ostentata felicità e sorpresa. Gli si avvicinò con un sorriso radioso e gli prese una mano tra le sue.
«Volevo ringraziarvi» esordì «perché da quando mi avete dato quest’anello mi sento come rinata. Una nuova energia scorre dentro di me e anche la regina sta meglio. Non sentite? Le sue urla strazianti non dilaniano più i corridoi di questo castello. E tutto grazie a voi!» Radamanto temette per un breve istante che la Guaritrice lo prendesse in braccio e lo facesse girare, ma per sua fortuna non avvenne. «Ditemi, mi avete per caso donato un anello incantato?»
Sì, ma a quest’ora avrebbe dovuto farvi stramazzare al suolo, non saltellare come una capretta euforica pensò l’uomo «Credo piuttosto che la vera magia l’abbiate fatta voi e sia merito vostro e non di quest’anello, che non è altro che un cerchio d’oro» rispose invece un cerchio d’oro che mi è costato caro e non ha portato a nulla aggiunse mentalmente «Ora vogliate scusarmi se non mi intrattengo qui a festeggiare con voi, ma ho molte cose da fare. Buona giornata!» e senza attendere risposta si congedò da lei.
Percorse con passo spedito i corridoi del castello fino ad arrivare ad un’alta porta in mogano, finemente istoriata, l’aprì con un calcio e se la richiuse alle spalle con rabbia. Infuriato si diresse verso un armadio a muro, lo spalancò, ma al posto dei vestiti, si trovò davanti una scala che scendeva nelle viscere del castello. Scese i gradini con passo pesante e giunse in una lunga sala dalla forma ellittica, al centro di questa si stagliava un enorme tavolo in granito nero su cui era spalancato un libro dalla pesante copertina verde acido, lisa e usurata dal tempo. Radamanto si avvicinò al libro e scorse le parole vergate con inchiostro vere sulla pergamena ingiallita:
Veleno della morte silenziosa,
questo veleno è molto difficile da preparare, ma è poco conosciuto e garantisce una grande efficacia. La vittima infatti muore nel giro di 24 ore e i sintomi presentati sono gli stessi di un soffocamento. Inodore ed insapore, è un veleno molto efficace sia se viene assunto per via orale sia attraverso l’epidermide, ed è uno dei pochi veleni in grado di farlo…”
«Va alla malora!» urlò Radamanto scaraventando a terra tutto quello che gli capitò a tiro «Ventiquattro ore! Dannazione! Sarebbe già dovuta crepare» l’uomo iniziò a passeggiare per la sala passandosi una mano tra i folti ricci biondo miele.
«Come è possibile che sia ancora viva?» ragionava tra sé, tormentandosi le dita candide coperte di anelli «che abbia capito che l’anello era avvelenato e abbia assunto un antidoto?…mi sembra improbabile, non è così sveglia, non ha ancora capito che sono stato io ad avvelenare la regina…o forse si finge stupida apposta, eppure…» Radamanto era furibondo e confuso, non riusciva a capire perché il veleno non avesse funzionato.
«Aspetterò ancora un giorno» decise  infine «e se domani sarà ancora viva, mi arrangerò altrimenti»
Detto questo diede un’ultima occhiata al libro e uscì dalla stanza.
 
La luce stava declinando e le tinte rosso e rosa del tramonto avevano ceduto ormai il posto a quelle più cupe e scure della notte imminente.
«Ci conviene accamparci» annunciò Zefiro, Corniolo approvò e li guidò fino ad una radura piuttosto appartata, circondata da faggi.
La foresta dei Faggi dorati derivava il suo nome da quello che accadeva in autunno: le foglie di questi alberi, infatti, si tingevano di una calda tonalità dorata e dall’alto la foresta appariva come un medaglione d’oro con incastonato nel mezzo un lapislazzuli, il lago Ocred; il fiume Hara, immissario ed emissario del lago, fungeva allora da catenina per sostenere il medaglione e dare la possibilità di legarlo al collo di qualcuno. Molte leggende dicevano proprio che la foresta dei Faggi dorati fosse stata in realtà un prezioso medaglione appeso al collo di una non meglio identificata entità e che poi sarebbe caduto andando a formare quella che era la foresta. C’erano molte controversie a riguardo: a chi fosse appartenuto il medaglione, perché fosse caduto, perché e come sarebbe divenuto una foresta; ogni villaggio aveva la propria versione della storia e credeva che la sua fosse quella giusta. Mentre Matisse consumava la cena, le tornarono in mente tutte queste storie che Ortensia le raccontava davanti al fuoco nelle fredde sere invernali. Il pensiero della vecchia Veggente brontolona le fece spuntare un triste sorriso sulle labbra e si chiese cosa stesse facendo in quel momento. Se la immaginò nel salotto, stravaccata sui cuscini a leggere un libro, o nella sua camera da letto a guardare nella sfera di cristallo, oppure tutta sola nella cucina vuota a consumare una zuppa di verdure pensando a lei. Matisse cacciò questi pensieri, non aveva alcuna intenzione di piangere, non dopo due soli giorni di cammino. In quel momento si accorse di quanto fosse diventata silenziosa la foresta, sinistramente silenziosa: non un alito di vento scuoteva le fronde dei faggi, non un uccello notturno emetteva un verso, era tutto immobile e immerso in una calma surreale. Anche Cornelio e Zefiro parvero essersene accorti: il primo esaminava con sguardo guardingo la foresta, il secondo aveva lanciato un’imprecazione tra i denti e messo mano alla spada. Improvvisamente un fruscio ruppe la coltre di quel silenzio spettrale e Matisse li vide: sei ombre più scure che emergevano dalla foresta e presero pian piano i contorni di uomini, anche se non erano propriamente uomini, erano più alti, snelli e in un certo senso aggraziati, avevano visi più allungati e appuntiti, la loro pelle chiara pareva quasi rilucere sotto i raggi della luna e contrastava con il nero profondo dei loro capelli raccolti in una treccia o fermati con un semplice laccio, le loro dita lunghe e sottili stringevano spade che parevano essere fatte di vetro, le cui lame scintillavano di luce mortale colpite da quella della luna.
«Elfi Neri» sentì sussurrare Corniolo e Matisse se lo ritrovò accanto, aveva sguainato le asce e le brandiva minacciosamente contro le creature che si stavano avvicinando.
«Così l’hai trovata» disse uno di loro rivolgendosi a Zefiro, aveva una voce suadente ma che metteva i brividi.
«Peccato che non ti sia servito a nulla» aggiunse un altro «perché ce la prendiamo noi» la sua bocca priva di labbra si aprì in un sorriso grottesco.
«Già, tutta fatica sprecata» soggiunse un terzo menando un fendente che Zefiro riuscì ad intercettare con la sua spada. Ci fu uno stridore, qualche scintilla ed un gemito soffocato, la ferita al petto si era riaperta e una fitta atroce l’aveva fatto piegare in due dal dolore, ma non arretrò di un passo e mantenne la posizione. Intanto gli altri tre Elfi stavano avanzando, Matisse estrasse i suoi pugnali.
«Non ti serviranno a nulla quelli, ragazzina» disse uno di loro, era molto vicino, Matisse poteva vedere il colore dei suoi occhi: erano rossi, rosso sangue. La ragazza represse un grido.
«Non ti volgiamo fare del male» aggiunse quello alla sua sinistra «a noi servi viva»
«È il nano che vogliamo morto» replicò un terzo che calò la spada su Corniolo, il quale riuscì ad intercettare il colpo con una delle sue asce mentre con l’altra sventrò il petto dell’Elfo all’altezza dello stomaco.
«Prego, sono un mezzo gnomo, non un nano» disse e tranciò di netto la testa dell’Elfo. Matisse urlò inorridita, Corniolo si voltò verso di lei «Tu pensa a metterti in salvo, mi occupo io di questi» le disse preparandosi ad affrontare gli altri due Elfi.
Matisse si voltò e vide dall’altra parte i due Elfi torreggiare su Zefiro, il terzo era riverso a terra, una macchia scura che si allargava sul suo petto. Anche Zefiro era a terra, stremato, la ferita aperta sanguinava copiosamente e perdeva sangue anche dal braccio destro e dalla gamba sinistra; sopra di lui incombevano i due Elfi, uno con la spada alzata, pronto a dargli il colpo di grazia. Matisse agì senza pensare e con una prontezza e un’abilità che stupirono anche lei, scagliò uno dei due pugnali che andò a colpire la mano dell’Elfo con la spada levata, questo la lasciò cadere urlando di dolore e Zefiro ne approfittò per aprirgli uno squarcio che gli attraversava il petto da parte a parte. Il ragazzo, però, si era dimenticato dell’amico che ora gli puntava minacciosamente la spada alla gola. Un altro pugnale volò nell’aria sibilando e trapassò il collo dell’Elfo che cadde a terra con gli occhi e la bocca spalancati per la sorpresa. Matisse si voltò verso Corniolo, ma questi non aveva bisogno d’aiuto: illeso, a parte qualche graffio, guardava disgustato i cadaveri decapitati ai suoi piedi «Mai chiamare un mezzo gnomo nano» dichiarò con un sorriso.
In quel momento l’aria venne squarciata da un gemito e da un tonfo, Zefiro si era accasciato a terra. Matisse e Corniolo corsero da lui, si stringeva il petto lanciando strazianti grida di dolore. Matisse gli tolse la giubba blu, sotto la camicia era macchiata di sangue, con molta cautela gliela tolse e ordinò a Corniolo di usare le parti pulite per frenare il sangue che usciva dal braccio e dalla gamba. Intanto la ragazza aveva estratto il pugnale con lo smeraldo e tentava di togliergli le bende intrise di sangue, dalla ferita ne usciva molto frammisto a rimasugli verde pallido di cicatrizzante. Matisse iniziò a pulirla, ma il sangue non cessava di uscire.
«Dobbiamo cauterizzare la ferita» decretò la ragazza.
«Che?!» esclamò Corniolo.
«È l’unico modo che abbiamo perché si cicatrizzi in fretta e non esca più sangue né rischi di riaprirsi» spiegò la ragazza, il mezzo gnomo annuì, scettico; in quanto a Zefiro era troppo debole e inebetito dal dolore per riuscire a replicare qualcosa.
Matisse iniziò a dare istruzioni a Corniolo, il quale obbedì immediatamente. Mentre il mezzo gnomo cercava di accendere un fuoco per far arroventare una lama, la ragazza si occupò delle altre ferite del ragazzo; fortunatamente non erano così gravi come quella sul petto e le bastò pulirle, spalmarci del cicatrizzante e fasciarle. Corniolo intanto era ritornato con il pugnale dalla lama arroventata e un involto di stoffa.
«Sei abbastanza forte?» gli chiese Matisse.
«Perché?» domandò a sua volta lui.
«Dovrai tenere inchiodate al suolo le braccia di Zefiro, farà qualsiasi cosa pur di liberarsi, ma tu glielo dovrai impedire, qualunque cosa accada.» L’ometto annuì e si mise in posizione, la ragazza ficcò in bocca a Zefiro l’involto e fece un respiro profondo, poi, con estrema cautela, appoggiò la lama rovente sulla pelle lesa del ragazzo. Zefiro emise un urlo soffocato dalla stoffa e cercò subito di divincolarsi, ma la presa di Corniolo era salda. Più andava avanti nell’operazione, più le urla di Zefiro si facevano strazianti, iniziò a scalciare e a dibattersi selvaggiamente.
«Mi dispiace» gli sussurrava Matisse «ma è l’unico modo che abbiamo perché la ferita non sanguini più».
Le unghie del ragazzo si conficcarono a terra mentre le sue guance iniziarono ad essere rigate di lacrime. Fu un grande sollievo per tutti quando l’operazione terminò. Matisse osservò il lavoro finito: non era preciso ma considerando le condizioni nelle quali aveva operato, era un eccellente lavoro e si ritenne soddisfatta.
«Corniolo, vammi a prendere delle altre bende, per favore» chiese la ragazza all’omuncolo.
«Lo fasciamo di nuovo?» domandò stupito quest’ultimo.
«Meglio essere previdenti. Quando arriveremo a Baccablu dobbiamo far vedere questa ferita ad un Guaritore più esperto di me» rispose la ragazza.
«Se mai ci arriveremo a Baccablu» sentì dire, Zefiro si era liberato dell’involto di stoffa e protestava sonoramente «Avevate intenzione di uccidermi?» chiese mentre Matisse avvolgeva le bende intorno alla ferita cauterizzata.
«Dov’è la mia camicia?» chiese ancora mentre la ragazza stringeva il nodo.
«Vedi quell’involto di stoffa che tenevi in bocca? Lì in mezzo c’è la tua camicia, o quel che ne rimane» rispose lei alzandosi per andare a prendergliene un’altra.
Mentre lo aiutava ad infilarsela le sussurrò «Sapevo che erano nascosti qui, mi stavano seguendo. È da quando sono partito che…ah!…mi seguivano. E sapevo anche che prima o poi ci avrebbero attaccato…ah!… Potevamo morire tutti!» Le ultime parole vennero soffocate dalla stoffa della camicia nella quale stava infilando la testa.
«A dir la verità, l’unico messo male sei tu!» replicò la ragazza con un sorriso non appena vide sbucare la testa di Zefiro. Il ragazzo, davanti a quel sorriso, non poté far altro che sorridere a sua volta anche se c’era poco da stare allegri.

 



 
***

Per il prossimo capitolo dovrete aspettare un po', è ancora in fase di stesura...spero che fino ad adesso la storia vi sia piaciuta. Mi raccomando recensite, le vostre opinioni sono moto importanti per me ;)

Ritorna all'indice


Capitolo 5
*** Baccablu ***


Procne emise un sospiro di sollievo e si lasciò cadere sul suo giaciglio, non si era mai sentita così sollevata in tutta la sua vita. Suo figlio non era morto, ma sapeva bene che questa era solo una posticipazione della punizione, perché sapeva che suo figlio sarebbe morto, prima o poi. Quasi mai ciò che vedeva nelle visioni, nei sogni o tra i fumi del calderone non accadeva e il fatto che suo figlio non fosse morto era una magra consolazione; sarebbe morto più avanti, quando meno se lo sarebbe aspettata. Forse il suo castigo consisteva anche in quello: vivere nell’apprensione e nella frustrazione continua, essere perseguitata e rosa dall’idea che suo figlio avrebbe potuto spirare da un momento all’altro, senza che lei potesse fare nulla per impedirlo e magari senza neanche saperlo.
Ma per il momento era vivo ed era ciò che contava! Procne si concesse un lieve sorriso e per qualche secondo assaporò quella splendida sensazione che la faceva sentire leggera e le faceva scoppiare il cuore. Poi ritornò alla misera realtà che per lei consisteva nel veder scorrere gli eventi e far sì che avvenissero nei tempi prescritti.
Gettò alcune erbe nel calderone e da questo si sollevarono sbuffi di fumo aranciato che pian piano si condensarono e presero la forma di un uomo, Procne lo riconobbe subito: era Radamanto, chino su quello che sembrava un vecchio fascicolo cadente di fragili fogli di pergamena, custode di antichi segreti; Procne riconobbe anche il libro (se così si potesse chiamare) ed ebbe un tuffo al cuore.
Quell’uomo non vuole proprio arrendersi pensò, con un misto di rassegnazione e stupore. Ambizione e testardaggine, un binomio pericoloso, soprattutto se lo possiede un uomo come lui.
Radamanto, fratello della regina, era sempre stato messo in una posizione subalterna e marginale, in quanto maschio in una società ginecocratica. Ambizioso e molto intelligente, il regime di sostanziale esclusione a cui era stato sottoposto, non aveva fatto altro che acuire queste due sfaccettature del suo carattere trasformandole in bramosia e acuto e subdolo ingegno. Megalomane ed egocentrico, aveva sempre pensato che il trono sarebbe andato a lui, in quanto primogenito, e aveva sperato che almeno per quella volta avrebbero chiuso un occhio sulla tradizione e le leggi che imponevano un’ereditarietà femminile del potere. Ma le sue speranze e aspettative erano miseramente crollate quando aveva visto sua sorella sedere su quel trono al suo posto. Non aveva mai accettato la cosa. Sua sorella aveva cercato di ingraziarselo assegnandogli un posto di rilievo nel Consiglio, ma neanche lì veniva mai ascoltato, le sue proposte venivano subito scartate perché troppo radicali e violente. Era sempre vissuto ai margini, all’ombra della sorella ma aveva deciso di porre fine a questa situazione e di sfruttare il momento favorevole e l’improvvisa malattia della sorella (che lui aveva astutamente prolungato e aggravato) per riprendersi quel trono che era sempre spettato a lui. Accecato dalla sete, grazie alle sue capacità e a qualche libro di magia, dopo tanto tempo stava per raggiungere il suo scopo: togliere la corona dalla testa della sorella e porla sulla sua bionda chioma ricciuta.
Procne disperse i fumi e cancellò la figura di Radamanto. Quell’uomo stava architettando un nuovo piano per eliminare Ebano e la maga non era sicura di riuscire a impedire anche stavolta la morte della Guaritrice.
Con un sospiro gettò una nuova mangiata di erbe nel calderone e i fumi che da esso si sprigionarono presero le fattezze di due ragazzi: erano fratelli, avevano gli stessi tratti del volto, gli stessi capelli scompigliati neri anche se quello di destra li portava più lunghi e stretti in un laccio sulla nuca, avevano persino gli stessi occhi blu cobalto; quello che li differenziava, a parte la lunghezza dei capelli, erano le cicatrici, quello dai capelli lunghi ne aveva una che gli attraversava il petto, l’altro aveva tre sottili solchi sulla guancia sinistra. Prone soffocò un grido e squarciò l’immagine con un violento gesto della mano, questa si scompose e i fumi di cui era costituita presero a vorticare pigramente secondo il capriccio del vento che ogni tanto si insinuava nella caverna.
Procne si sedette su una sporgenza della roccia, prendendosi la testa tra le mani e affondando le dita pallide nei folti e lucidi capelli corvini. Intanto i fumi si erano condensati nuovamente creando una nuova immagine: il ragazzo con le cicatrici sulla guancia stava affondando una spada nella cicatrice sul petto dell’altro.
 
Baccablu era un tranquillo villaggio adagiato sulle rive dell’Hara, era un poco più grande di Verderamo, tanto da avere una piazza del mercato più grande e piastrellata e due locande. Era proprio in una di esse che stavano mangiando Matisse, Zefiro e Corniolo. Erano giunti nel villaggio nella prima metà della mattinata ed erano subito andati alla ricerca della casa del Guaritore. Questi era un uomo anziano, gentile e cordiale, dai ridenti occhi color acquamarina. Aveva un apprendista, un ragazzino di circa quattordici anni con grandi occhi grigio-azzurri e una matassa d ricci biondi. Era stato lui ad aprirli, accogliendoli con un sonoro sbadiglio e l’aria assonnata. Il Guaritore si era precipitato subito dopo e aveva chiesto cosa fosse successo. Matisse gli aveva spiegato che non la convinceva una ferita sul petto di Zefiro e voleva chiedergli se poteva gentilmente dargli un’occhiata. Il Guaritore si era dichiarato subito disponibilissimo e dopo mille proteste da parte del ragazzo, aveva esaminato la ferita di Zefiro. Aveva fatto i complimenti per l’ottimo lavoro di cauterizzazione, aggiungendo però, che se fosse stato per lui, l’avrebbe ricucita. Alla fine aveva detto che la ferita era piuttosto profonda, ma che il lavoro di cicatrizzazione avrebbe dovuto reggere. Poi aveva chiesto come se la fosse procurata e Zefiro si era morso le labbra senza rispondere. Anche Matisse e Corniolo non avevano detto nulla, anche perché non avevano molto da dire. Il Guaritore non aveva insistito e dopo essersi complimentato ancora con Matisse per l’ottimo lavoro che aveva svolto, li aveva congedati.
«È stato un Elfo Nero, vero?» gli chiese Matisse mettendo in bocca un pezzo di carne «uno di quelli che ti inseguiva, quella notte stavi scappando da loro, non è così? Ti hanno ferito allora.»
Zefiro non rispose e la ragazza interpretò il suo silenzio come una risposta affermativa.
«Potresti almeno dirmi chi li ha mandati?» incalzò la ragazza «Non credo che abbiano deciso di seguirti di loro spontanea volontà.»
Zefiro sospirò e rispose in un soffio «Radamanto», Corniolo serrò la mascella e si irrigidì, Matisse rimase interdetta.
«Chi è Radamanto?» chiese.
«Tuo zio» era stato Corniolo a rispondere «Il fratello di tua madre» specificò.
«E uno di quelli che bramano il tuo trono» aggiunse il ragazzo.
Matisse non sapeva cosa rispondere, perché suo zio dovrebbe mandare degli Elfi per inseguirla e attaccarla, cosa voleva da lei, la voleva ricattare, uccidere o semplicemente parlarle, perché se ci teneva così tanto a lei non era venuto lui, da solo, e aveva delegato il compito ad altri?
Il boccone di carne le era rimasto bloccato in gola e le parole successive le uscirono strozzate «Ce ne sono altri in giro?»
Zefiro annuì «Probabile. Radamanto ti vuole, ma non posso assicurarti se viva o morta» Matisse strabuzzò gli occhi e cominciò a tossire, il boccone di carne le era definitivamente andato di traverso, Corniolo lanciò un’occhiataccia al ragazzo ma questi proseguì, imperterrito «Approfitta della debolezza della barriera e li fa venire in questo lato a frotte, poi se ne serve per stanarti adulandoli con promesse di territori e poteri» c’era un profondo e malcelato disprezzo nella sua voce, un disprezzo che stupì Matisse, «Comunque, per il momento non te ne devi preoccupare, non dovrebbero conoscere la nostra posizione; quelli che abbiamo incontrato dubito che possano riferirla» concluse. La ragazza deglutì a fatica «Credo che mi sia passata la fame» mormorò e si alzò da tavola.
«Complimenti!» esclamò Corniolo quando la ragazza se ne fu andata «Dovevi proprio dirglielo!»
«È bene che sappia in anticipo quello che dovrà affrontare» replicò il ragazzo.
«Sì, ma non spaventarla a morte!» sbottò l’ometto « Ti vuole, ma non posso assicurarti se viva o morta, gran bell’uscita! Davvero!» l’omuncolo scosse la testa.
«Tu come gliel’avresti detto?» domandò Zefiro.
«Non in maniera così diretta e priva di tatto! Hai fatto la figura del cinico caustico e io non credo che tu sia così» rispose l’ometto.
«Le chiederò scusa» promise il ragazzo.
«Sarebbe il minimo» replicò Corniolo sottovoce.
 
Radamanto sfogliava compulsivamente un enorme libro dalle fruscianti pagine di pergamena ingiallita. Aveva passato buona parte del pomeriggio a consultare tutti i volumi della sua biblioteca, prediligendo quelli più antichi e rari. Ebano era ancora viva: l’aveva vista a pranzo allegra, baldanzosa, l’anello che brillava al suo dito indice come se fosse stato un normalissimo anello. Aveva annunciato che la regina stava meglio e Radamanto aveva imprecato sottovoce; si sarebbe preso a calci se avesse potuto: era così preoccupato di trovare il modo di eliminare la Guaritrice e aveva concentrato tutte le sue energie e le sue risorse su di lei, da aver tralasciato il suo obiettivo principale, la regina.
Maledetto me! Si disse chiudendo con un tonfo il libro, ora non aveva solo la regina di cui occuparsi ma anche della sua zelante e apparentemente immortale Guaritrice!
Possibile che nei miei libri non ci sia nulla di utile?
Aprì il tomo successivo. Tutto quello che aveva trovato gli era sembrato o troppo banale, o scontato o troppo complicato, oppure irrealizzabile o troppo lungo da preparare; a lui serviva un veleno veloce, facile da preparare, poco conosciuto ma soprattutto efficace.
Aveva anche preso in considerazione l’idea di assassinarla con un’arma ma sarebbe stato troppo complicato: se l’avesse uccisa lui, ci sarebbe stato il problema di sbarazzarsi dell’arma, crearsi un alibi e soprattutto trovare un momento favorevole in cui colpire in modo da non essere visto da nessuno; non si fidava ad affidare l’incarico a qualcun altro, e se poi ne avesse scelto uno poco esperto o l’avesse tradito? Di pagare un sicario non se ne parlava neanche, le cifre che chiedevano per un lavoro pulito e ben fatto erano esorbitanti e lui non avrebbe mai voluto un lavoro mediocre.
Meglio il veleno si disse Ma quale? Su quella donna non ha fatto effetto nemmeno il veleno della morte istantanea, che il più potente che io conosca.
Radamanto imprecò e chiuse anche quel libro, si abbandonò su una poltrona. Quella ricerca lo aveva stremato: non aveva trovato nulla che l’avesse convinto pienamente, nulla che fosse degno di essere preso seriamente in considerazione. Si prese la testa tra le mani, quanto poteva essere difficile e stressante trovare uno stupidissimo veleno?
Improvvisamente gli venne un’illuminazione. I bei tratti del suo volto vennero distorti da un sorriso malvagio e trionfale. Si diresse verso l’alta libreria in ciliegio che occupava un intero lato della stanza e iniziò a frugare quasi febbrilmente tra i libri.. si lasciò sfuggire un grido di trionfo, aveva trovato quello che cercava: stringeva tra le mani un fascicolo sgangherato tenuto insieme da consunti laccioli di cuoio che parevano doversi disintegrare da un momento all’altro, spargendo a terra i sottili fogli di pergamena di cui era composto il fascicolo; la copertina era nera e consunta ma si riusciva ancora a intuire il disegno inciso sulla pelle lisa. Radamanto ne seguì il percorso con le dita affusolate prima di aprirlo con somma cautela. Quel fascicoletto gli era stato venduto tempo fa da un Elfo Nero in cambio della libertà, aveva sostenuto di averlo preso dall’antro di una maga potentissima e che contenesse incantesimi e ricette per pozioni altrettanto potenti. Radamanto allora aveva solo vent’anni, era parecchio impressionabile e aveva iniziato ad avvicinasi all’affascinante mondo della magia e dell’alchimia che poi sarebbe diventato per lui una passione quasi morbosa, perciò aveva accettato ben volentieri quel fascicoletto; con il passare del tempo, però, se n’era dimenticato ed era finito sul fondo della libreria, dove l’aveva ritrovato. Scorse le pagine e finalmente giunse a quello che cercava: su quel fragile foglio erano state tirate delle righe che avevano coperto alcune parole, ma nonostante il tentativo di cancellarle, si riuscivano ancora a leggere abbastanza bene, esse indicavano gli ingredienti e la preparazione dell’unico veleno di cui non si conosceva l’antidoto.
Radamanto sorrise compiaciuto: la preparazione avrebbe richiesto un po’ di tempo e gli ingredienti non erano facilmente reperibili, ma almeno avrebbe avuto la sicurezza di eliminare Ebano, e questa volta definitivamente.
 
Matisse guardava con aria assorta il paesaggio fuori dalla finestra: il sole stava per tramontare e avvolgeva nel suo abbraccio rosso fuoco la piana su cui era adagiato il villaggio di Baccablu, tingendo le case di rosa e ocra e colorando il fiume di tutte le sfumature di rosso facendolo somigliare ad una colata di lava. Avevano passato il pomeriggio a fare acquisti nella vivacissima piazza del mercato e nei deliziosi negozietti che vi si affacciavano. Le mercanzie esposte, i colori, i profumi e i rumori del mercato erano riusciti a distrarre la ragazza dalle rivelazioni del pranzo, ma una volta ritornata alla locanda erano piombate nuovamente su di lei come un macigno, tornando a scombussolarle e turbarle l’animo.
In quel momento Zefiro uscì dal bagno, si stava strofinando i capelli bagnati con un panno mentre un altro li avvolgeva la vita. Appena si accorse di Matisse si bloccò di colpo: era convinto si trovasse con Corniolo nell’atrio, non si aspettava di ritrovarsela lì; notò anche che era piuttosto pensierosa e turbata, sapeva che questo suo stato d’animo era dovuto alle parole che aveva detto a pranzo. Aveva promesso a Corniolo che si sarebbe scusato, ma non aveva trovato il tempo, ora invece erano soli e gli sembrava il momento più adatto. Si avvicinò alla ragazza e le posò gentilmente una mano sulla spalla, Matisse sussultò e voltatasi rimase intrappolata nello sguardo turchino del ragazzo. Doveva aver appena fatto il bagno: era a torso nudo (ormai erano più le volte in cui lo vedeva così che non con indosso una camicia) e aveva ancora i capelli umidi.
«Stai bene?» le chiese sedendosi accanto a lei sul letto, la ragazza sospirò, stingendosi nelle spalle.
«Pensi davvero che mio zio mi voglia morta?» chiese, gli Elfi che avevano incontrato le avevano detto di volerla viva, ma questo non implicava il fatto che non sarebbe stata uccisa in seguito. Zefiro soppesò bene le parole da dirle «Non credo» rispose infine, «la tua morte creerebbe parecchio scandalo e comunque da viva saresti molto più utile, potrebbe sfruttarti in altri modi per giungere al trono, magari sposandoti» ma questo evitò di dirglielo e scacciò questi pensieri dalla testa.
«Mi dispiace molto per quello che ti ho detto oggi a pranzo» aggiunse invece «Avrei dovuto essere stato più delicato e meno crudo, scusami.»
Matisse gli posò una mano sulla gamba «Non devi scusarti di nulla» rispose «Hai fatto bene, invece: è meglio che io sappia prima chi sono i nemici dai quali dovrò difendermi»
«Questo non toglie il fatto che avrei dovuto dosare le mie parole. Ti ho spaventato».
La ragazza non rispose nulla, Zefiro le sollevò il mento con un dito «Sappi, però, che nonostante tutti i nemici che dovrai affrontare, io sarò sempre al tuo fianco, pronto a difenderti, fino alla morte» Ho promesso.
«Grazie» sussurrò la ragazza con un sorriso dolcissimo che le illuminò lo sguardo smeraldino, Zefiro si ritrovò a sorridere a sua volta.
Fu così che li trovò Corniolo: lui mezzo nudo che teneva sollevato il mento di lei, Matisse persa negli occhi di lui a tal punto che credette che vi sarebbe affogata dentro. Si schiarì la gola «Se i piccioncini hanno finito di amoreggiare, la cena sarebbe anche pronta» annunciò.
Matisse arrossì violentemente e Zefiro si alzò dal letto imbarazzato e, raccattati dei vestiti puliti, si chiuse in bagno.
«Non è come pensi» si affrettò a scusarsi la ragazza «si stava solo scusando per quello che aveva detto a pranzo»
«Strano modo di scusarsi» commentò Corniolo, fingendosi severo e irremovibile ma, in realtà con un sorriso malizioso che spuntava da sotto la barba castana «Non ho mai visto nessuno scusarsi mezzo nudo».
Intanto Zefiro era uscito dal bagno e si stava allacciando la camicia, coprendo la cicatrice che si stagliava come un segno rossastro sul petto «Però ora sono vestito» fece notare.
«Ed è bene che tu rimanga così, almeno in presenza di Matisse» replicò Corniolo puntandogli un dito contro. Zefiro annuì e uscì dalla stanza seguito da Matisse. Corniolo scoppiò a ridere: era bravo a fare la parte del burbero gendarme che metteva tutti in riga, e si divertiva anche.
Con il sorriso stampato sulle labbra uscì dalla stanza e si richiuse la porta alle spalle.

 
***
Non sono molto soddisfatta di questo capitolo, ma pazienza. Spero che comunque vi piaccia.
Vi allego un disegno che ha fatto una mia amica di Zefiro.
Se riesco a convincerla dovrei avere anche quelli degli altri personaggi…Per il momento godetevi questo.
Per la mappa dovrete aspettare ancora un po’, devo ancora definire molte cose, ma vi prometto che la pubblico appena l’avrò fatta.
Mi raccomando recensite, è importante
;)




 



 Image and video hosting by TinyPic

Ritorna all'indice


Capitolo 6
*** La Festa del Solstizio ***


Zefiro si voltò su un fianco e rimase catturato dalla bellezza del cielo stellato: il piccolo rettangolo di firmamento racchiuso nella cornice della finestra era di un blu molto scuro, quasi nero, era punteggiato di alcune piccole stelle che cercavano di farsi largo in mezzo a quel blu così profondo, una sottile falce di luna, simile ad una fenditura argentea, rischiarava la notte, silenzioso sorvegliante di sonni e custode di sogni.
Il ragazzo si mise a pancia in su, le mani a sostenere la testa, sentiva il venticello fresco della notte spirare tra le case, il suono ovattato del richiamo di un uccello notturno lontano, il regolare e lieve respiro di Matisse e il baritonale russare di Corniolo. Cullato da questi suoni chiuse gli occhi e si addormentò.
Il sogno iniziava come sempre: si trovava in una foresta rifulgente della calda luce del sole di mezzogiorno, stava cacciando, la preda questa volta era una magnifica cerbiatta, la seguiva cercando di fare meno rumore possibile per non spaventarla e farla fuggire; eccola in una radura a brucare placida la tenera erba bagnata dal sole, Zefiro incoccò una freccia e la scagliò; questa andò a trafiggere il fianco della bestia che cadde a terra con un debole lamento e un leggero tonfo, il ragazzo sguainò il pugnale e si precipitò verso l’animale, ma quando lo raggiunse non trovò la cerbiatta bensì Matisse, i lunghi capelli della ragazza erano sparsi sull’erba simili ad un’aureola ramata, i tratti del suo volto erano distesi e pacifici, stava pure sorridendo, in quel suo modo dolcissimo che lo catturava sempre, una freccia era conficcata nel suo petto all’altezza del cuore e dalla ferita usciva un sottile rivolo di sangue che le macchiava la casacca verde scuro.
«NO!» gridò gettandosi in ginocchio «No!» ripeté con voce flebile, stringendo tra le braccia il corpo esanime e freddo della ragazza. Sei stato tu sussurrò una voce aspra che si insinuò nel suo orecchio simile ad un refolo di vento. È colpa tua aggiunse un’altra, tu la ucciderai decretò una terza.
«NO! Non è vero!» gridò Zefiro mentre le lacrime iniziavano a rigargli le guance. Guarda! L’hai appena fatto! gli fecero notare le voci. Il ragazzo stinse di più a sé il corpo di lei, le lacrime cadevano sul suo viso pallido, sereno e bellissimo. «Non è vero!» urlò di nuovo Zefiro, ma con meno convinzione. E invece l’hai uccisa sibilavano le voci, sei stato tu insistevano, è morta per causa tua, tu la ucciderai.
«Non è vero!» urlò disperato il ragazzo «Sparite! Andatevene via!»
Le voci sparirono e il ragazzo si ritrovò nel letto della locanda, le coperte attorcigliate intorno alle sue gambe, si scoprì sudato, tremante, con il cuore che batteva all’impazzata. Cercò subito con lo sguardo Matisse e la vide dormire placidamente, il viso accarezzato dalle tinte rosate dell’alba. Zefiro tirò un sospiro di sollievo: per fortuna, questa volta, era stato tutto solo un brutto sogno.
 
Quella mattina Matisse era particolarmente allegra: quella sera, infatti, si sarebbe tenuta l’attesissima Festa del Solstizio e la ragazza si era fatta promettere da Corniolo e Zefiro che vi avrebbero partecipato. La Festa del Solstizio veniva inizialmente celebrata come rito propiziatorio, affinché i campi e gli alberi dessero abbondanza di frutti; nel corso del tempo era diventata una festa che aveva lo scopo di proteggere il cammino dei viandanti e dei mercanti che durante la stagione calda affrontavano lunghi viaggi per poter giungere ai mercati e vendere le loro merci. Con il passare degli anni, però, questo evento aveva perso il suo antico valore ed era progressivamente caduta in disuso, sostituita da feste più grandiose e sensazionali; ma nei piccoli borghi si festeggiava ancora l’arrivo della stagione calda che veniva salutata con danze e canti intorno ad un immenso falò allestito solitamente nella piazza più importante, o comunque in un luogo ampio e centrale, seguivano lauti banchetti annaffiati da litri di sidro addolcito dal miele. Forse era proprio per la prospettiva allettante di un bel boccale di sidro che Corniolo non si era fatto pregare e aveva accettato di buon grado di partecipare alla festa. Più difficile era stato convincere Zefiro, sosteneva infatti che avrebbero accumulato del ritardo, trattenendosi in quel villaggio un giorno in più. Alla fine, di fronte alle insistenti preghiere di Matisse, aveva acconsentito anche lui.
La ragazza entrò allegra nella sala da pranzo della locanda e salutò i due uomini con un sorriso radioso, poi prese posto a tavola. Davanti a lei sedeva Zefiro, era piuttosto scuro in volto e taciturno.
«C’è qualcosa che non va?» gli domandò la ragazza preoccupata, Zefiro sussultò.
«No, no, nulla» si affrettò a rispondere, in realtà era tormentato dalle immagini dell’incubo della notte precedente. Dopo quel sogno la paura di poter far del male a Matisse si era intensificata e non riusciva a togliersi dalla testa le lapidarie parole delle voci oniriche, «Tu la ucciderai» gli avevano assicurato, e temeva che quelle semplici parole avrebbero potuto trasformarsi in realtà.
Matisse osservò Zefiro, pareva stanco, spossato e i suoi occhi erano privi di luce e vivacità; la ragazza, però, non volle approfondire la questione, per evitare di infastidirlo, e si fece bastare la risposta frettolosa data dal ragazzo.
In quel momento la porta della locanda venne spalancata ed entrò di corsa un uomo trafelato.
«Ci sono degli esseri!» ansimò, nei suoi occhi chiari si poteva leggere il più profondo terrore. La locandiera fece sedere l’uomo e tutti i clienti si avvicinarono incuriositi.
«Che genere di esseri?» chiese uno di loro
«Dove li hai visti di preciso?» domandò un altro.
«Nella foresta a ovest di qui, erano alti e magrissimi, scuri di capelli, ma la cosa più terribile erano i loro occhi, rossi come il sangue!» l’uomo parlava a scatti con voce strozzata «Ce n’erano sei»
Zefiro sussultò «Forse so a cosa si sta riferendo» mormorò a Corniolo, l’ometto annuì.
«Ma erano vivi?» domandò questi, l’uomo lo guardò, spaesato.
«Non mi era sembrato il caso di controllare» balbettò «Appena li ho visti sono fuggito via a gambe levate. Non ho mai visto esseri del genere!» E tornò a descrivere con tinte fosche e volutamente esagerate l’aspetto di quegli esseri.
«Sono Elfi Neri» disse alla fine Zefiro, stanco di tutto quel blaterare «E sono morti» aggiunse, in breve si ritrovò addosso gli occhi di tutta la clientela.
«Come fai a dirlo?» chiese uno di loro, scettico.
«Perché li ho uccisi io» rispose con voce piatta Zefiro scatenando un gran trambusto tra i clienti.
«Tu? E come avresti fatto?»
«Elfi Neri! Ma non erano una leggenda?»
«Uccisi da un ragazzino, ma fatemi il piacere. Uno contro sei!»
«Elfi Neri! Così vicini al villaggio!»
«Non è che sei uno di loro? Gli assomigli molto» quest’ultima considerazione era stata fatta dall’uomo spaventato, irritato forse dal fatto che tutta l’attenzione fosse stata catalizzata da quel ragazzino.
«E perché avrei dovuto uccidere i miei compagni, se davvero fossi stato uno di loro?» domandò Zefiro caustico, l’uomo non seppe rispondere e così nessuno dei clienti.
«Ma se quello che dici è vero, cosa ci fanno degli Elfi Neri da questa parte del confine e così a sud?» era stata la locandiera a porre questa domanda e tutti convennero con lei.
«La barriera ormai è molto debole e piena di strappi, saranno passati da uno di questi» rispose un uomo.
«Ma questo non spiega cosa li ha portati a spingersi tanto a sud» replicò un altro.
«Inoltre, anche se la regina è malata c’è sempre il suo sovrintendente. Perché non ha fatto nulla per impedire che passassero da questa parte?» incalzò un altro.
«Se per sovrintendente intendi quel Radamanto, allora siamo messi bene. Quell’uomo non è capace di fare nulla, solo di pensare a se stesso. Gira voce che sia stato lui stesso a far ammalare la regina, per prendere il suo trono»
«Ma non andrebbe comunque a lui! La regina ha avuto un figlio se non mi sbaglio» obiettò la locandiera.
«Una figlia» confermò uno di loro «Ma non si sa più nulla di lei, se ne sono perse le tracce ormai tempo fa, viene chiamata la principessa perduta, infatti, e finché non verrà ritrovata, se mai ci fosse ancora, Radamanto ha campo libero per prendersi il trono che tanto brama»
Matisse aveva seguito quel caotico scambio di battute e arrivata al punto in cui nominavano la principessa perduta era stata quasi tentata di dire che era lei la suddetta, ma temeva che non le avrebbero creduto e che l’avrebbero presa per una pazza visionaria.
«Davvero mio zio ha fatto ammalare mia madre?» chiese la ragazza in un sussurro a Zefiro.
«Sono solo voci di locanda» rispose il ragazzo «Non dovresti darli troppo ascolto»
«Ma se tu stesso mi hai rivelato che è stato Radamanto a mettere quegli Elfi sulle mie tracce e a dirmi che mi sta cercando» obiettò la ragazza.
«Questo però non implica il fatto che la malattia della regina sia collegata con lui» replicò Zefiro «In fondo non sappiamo il vero motivo per cui ha sguinzagliato quegli Elfi, sono solo supposizioni»
«Ma se davvero mi stesse cercando e mi volesse al suo cospetto, perché non mi ha mandato a prendere e perché non ha assoldato gente meno inquietante e pericolosa? A meno che quello mandato da Radamanto sia tu» osservò la ragazza volgendo il suo sguardo verso Zefiro.
«Ti assicuro che sono stato mandato da Procne e non ho alcun legame con Radamanto» si difese il ragazzo.
Tutte quelle domande senza risposta, tutte quelle voci e supposizioni stavano facendo girare la testa a Matisse, quell’incertezza la rendeva insicura: avrebbe dovuto fidarsi di Radamanto? E chi era in realtà quest’uomo tanto nominato. Dicevano che fosse suo zio, quindi un suo parente, ma, nel contempo, erano diffuse talmente tante voci sul suo conto, e nessuna fino a quel momento era stata positiva, che non sapeva più cosa credere. Forse sarebbe stato meglio rimandare questi pensieri ad un altro momento, non era un problema impellente, non era nemmeno lontanamente vicina alla città d’oro, dove presumeva abitasse Radamanto; quando fosse stata più vicina a lui e sicura di incontrarlo avrebbe ripreso in mano l’argomento, ma per il momento trovava un’inutile spreco di energia accanirsi su questi interrogativi.
 
Una flebile luce rossastra illuminava il suo volto distorto in un ghigno compiaciuto, Radamanto, chino su un calderone fumante, con somma soddisfazione, mescolò il liquido che in esso sobbolliva, era di uno scialbo color zafferano ed emanava un lieve sentore di fiori. Radamanto aggiunse una manciata di un’erba giallognola e il composto si schiarì ulteriormente, poi travasò il contenuto in un’ampolla e, tappatola, la infilò nelle pieghe della tunica scarlatta.
Con un sorriso uscì dalla sua stanza e percorse i corridoi del castello. Tutti si erano stupiti del profondo cambiamento del sovrintendente della regina, era molto più gioviale e cortese; non che si fosse mai comportato con scortesia, ma solitamente i suoi modi parevano piuttosto affettati e quasi falsi, costruiti. In quest’ultimo periodo, però, sembrava sinceramente più contento e tutti se ne chiedevano il motivo. In fondo le condizioni della regina sua sorella erano peggiorate e, nonostante si mostrasse terribilmente contrito e dispiaciuto per lei, la sua tristezza non pareva autentica, anzi, in certi momenti sembrava quasi godere dei gemiti e delle urla lancinanti che provenivano dalla stanza della regina. Questo strano comportamento dava molto da pensare agli abitanti del castello e molti di loro iniziavano a pensare che stesse architettando qualcosa.
Radamanto entrò proprio nella stanza, indisturbato, in fondo era l’unico parente che le rimaneva nonché suo sovrintendente. La camera da letto della regina era circolare e molto luminosa, il pavimento a mosaico sui toni del blu e le pareti di un delicato azzurro davano l’impressione di essere immersi nell’oceano o sospesi nel cielo, lo stesso letto della regina con il suo baldacchino bianco, pareva una nuvola, sulla quale era adagiata una donna profondamente addormentata. Ismene era stata sempre univocamente considerata molto bella con la sua pelle d’alabastro e i folti capelli biondi che le ricadevano in morbide onde sul viso dai tratti un po’ affusolati e appuntiti, e anche adesso, nonostante la malattia l’avesse resa più pallida e avesse sciupato un poco la sua figura, rimaneva comunque una donna dalla bellezza quasi eterea e trasfigurata.
«Buongiorno sorellina» disse Radamanto rivolgendosi alla donna addormentata, ma non ottenne da lei risposta, gli occhi della donna rimasero chiusi. L’uomo iniziò a vagare con lo sguardo sui comodini in ciliegio accanto al letto, ma non trovò il consueto vassoio con la tazza di tè per la regina e nemmeno un misero bicchiere d’acqua in cui disciogliere il veleno. Radamanto imprecò sottovoce e perse improvvisamente tutto il suo buon umore. In quel momento entrò nella stanza un ragazzino dai capelli ricci castano chiaro che sorreggeva un vassoio d’argento. Radamanto lo riconobbe come uno degli insulsi e pedanti apprendisti di Ebano.
Prima o poi mi toccherà fare fuori anche loro pensò mentre seguiva con lo sguardo ogni movimento del ragazzino. Questi posò il vassoio e rivolse un rispettoso cenno del capo a Radamanto. L’uomo rispose impaziente e aspettò che il ragazzino uscisse dalla sala. Il ragazzino ci impiegò tantissimo tempo a fare il percorso inverso e non smise un attimo di fissare Radamanto con i suoi intelligenti occhi nocciola, il suo sguardo era attento e quasi sospettoso come se intuisse qualcosa. Finalmente si chiuse la porta alle spalle e Radamanto tirò un sospiro di sollievo; con cautela estrasse la fiala dalla tunica e ne versò il contenuto nella tazza da tè finemente decorata. Il pregio maggiore del veleno era quello di essere inodore e insapore, di modo da non poter essere riconosciuto, inoltre il suo colore si mimetizzava perfettamente con quello della bevanda calda che emanava un lieve profumo di gelsomino.
«Lunga vita alla regina» sussurrò mentre anche l’ultima goccia di veleno raggiungeva la tazza «O forse sarebbe meglio dire lunga vita al re…» aggiunse atteggiando la bocca in un sorriso ricco di perversa malvagità mentre riponeva la fiala nelle pieghe dell’abito.
 
«Ti piace vero?» domandò una voce e Zefiro sussultò, voltatosi incontrò i gentili occhi verde chiaro di Corniolo. L’ometto stingeva tra le dita due boccali ricolmi di un liquido giallo brillante: sidro.
«Chi?» chiese il ragazzo accettando il boccale che l’uomo gli porgeva.
«Matisse, naturalmente!» rispose l’uomo prendendo posto accanto a lui, lo sguardo del ragazzo andò a posarsi istintivamente sulla figura di una ragazza che stava danzando intorno al falò, eretto nel centro della piazza. La sua risata cristallina giunse fino a lui. Zefiro bevve un sorso di sidro, era caldo e dolce, con un lieve retrogusto floreale.
«Allora?» incalzò l’omuncolo «Non credere che io sia cieco. Ho visto come la guardi. E credo che tutte le attenzioni che le dedichi non siano dovute solo all’impegno che ti sei assunto nei suoi confronti»
Zefiro scoppiò a ridere, ma era una risata tirata e visibilmente innaturale «Credo che tu abbia esagerato con il sidro» disse, Corniolo lo scrutò con un sopracciglio sollevato.
«Non prendermi in giro, ragazzo, non sono stupido. E comunque non c’è nulla di male…»
«Ma io non provo niente per lei» dichiarò il ragazzo con un tono che non convinse nemmeno lui «E comunque anche se fosse lei è una principessa…»
«E con questo?» saltò su Corniolo, Zefiro provò a replicare ma l’ometto lo interruppe «La regina era sposata con un cantastorie»
«Davvero?» domandò Zefiro sorpreso strabuzzando gli occhi, Corniolo distese le gambe e appoggiò la schiena al tronco dell’albero, mettendosi comodo.
«Lui diceva di essere un poeta, un rimatore. In realtà era uno scapestrato senza un soldo ma che aveva il dono di saper usare le parole, la regina rimase ammaliata dai suoi versi e si innamorò di lui. Era anche un bel giovane, non c’è che dire…Non è che io guardi gli uomini, ma avrebbe affascinato chiunque con la sua chioma ricciuta e i suoi malinconici ed enigmatici occhi azzurro cielo, affascinò la regina, infatti» Corniolo ridacchiò «E alla fine, nonostante la loro relazione non fosse vista di buon occhio, la regina lo sposò»
«E perché mi staresti raccontando questo?» domandò Zefiro.
«Per farti capire che non importa di quale condizione sociale tu sia, l’amore non guarda a queste cose, per fortuna» rispose l’uomo bevendo un altro sorso di sidro.
«Da quando sei un filosofo?» chiese il ragazzo divertito.
«Tu non mi prendi sul serio» borbottò l’uomo. Rimasero per un attimo in silenzio ad ascoltare la musica e le risate che si impregnavano l’aria fresca della notte.
«Stai, però, ben attento che l’amore non ti faccia dimenticare i tuoi doveri e le tue promesse» lo ammonì Corniolo, rompendo il silenzio tra i due. Zefiro voleva replicare qualcosa, ma l’ometto sparì.
Zefiro volse pensieroso lo sguardo verso il liquido dorato, possibile che i suoi sentimenti fossero così manifesti?
«Zefiro! Cosa ci fai qui tutto solo?» chiese una voce interrompendo bruscamente i suoi pensieri, il ragazzo alzò lo sguardo e si ritrovò davanti gli occhi smeraldini di Matisse, stava davvero bene nel semplice abito verde che le aveva prestato la locandiera e i capelli, lasciati sciolti, ricadevano in morbide onde sulle spalle, Zefiro rimase come incantato a guardarla e non sentì quello che la ragazza le stava dicendo.
«Allora?» incalzò lei «Non vieni a ballare?»
Zefiro sorrise e abbandonato il boccale ai piedi dell’albero si lasciò trascinare dalla ragazza fino al falò. Almeno per quella sera poteva permettersi di non pensare ad altro che a divertirsi.
 
***


È da giorni che non aggiorno (mi dispiace ma ho avuto altro da fare) e l’unica cosa che mi esce dopo questo periodo infinito è un altro orrendo capitolo di stallo.
Scusatemi, ma non so veramente come andare avanti, non che non sappia come mandare avanti la storia, ma ho paura che poi divenga troppo coincisa e quasi tirata via, nel contempo ho paura di dilungarmi troppo e di annoiarvi con questi inutili capitoli.
Nella speranza di ritrovare l’ispirazione vi lascio con un disegno di Radamanto fatto sempre da una mia amica, la stessa autrice del disegno di Zefiro.
(La mappa sta prendendo forma nella mia mente, prima o poi riuscirò a trasferire la mia idea su carta)




 Image and video hosting by TinyPic

Ritorna all'indice


Capitolo 7
*** Mezzosangue! ***


Matisse, Zefiro e Corniolo ripartirono il giorno dopo di buon’ora, Fogliadoro distava una giornata e mezza di cammino da Baccablu. Matisse si stropicciò gli occhi, ancora assonnata. La notte prima era andata a letto molto tardi, ma non se ne pentiva. La festa era stata semplicemente stupenda: aveva ballato e cantato intorno al falò allestito nel centro della piazza che con le sue lingue di fuoco aveva rischiarato la notte; aveva chiacchierato con Zefiro e Corniolo, quest’ultimo brillo per il troppo sidro, e aveva riso fino a che lo stomaco non aveva iniziato a farle male e poi, mentre aspettava la mezzanotte, era rimasta incantata a guardare le stelle mentre Zefiro gliene indicava una per una dicendone di ciascuna il nome.
«Conosci il nome di tutte le stelle?» gli aveva chiesto la ragazza sorpresa.
«Conosco anche la storia di ciascuna di loro» aveva risposto il ragazzo «Quando una persona muore diventa una stella e tanto più la sua vita è stata buona più la sua stella brilla» e aveva iniziato a raccontarle le mirabolanti avventure di cavalieri coraggiosi o le incredibili storie di maghi e stregoni o gli amori tristi di donzelle innamorate e Matisse era rimasta ad ascoltarlo, rapita, fino a quando a mezzanotte non era stato decretato l’inizio dell’estate, accolto con grida di gioia e calici pieni di sidro sollevati verso la luna, e allora la ragazza si era unita di nuovo ai festeggianti, entusiasta, fino a quando non era crollata sulla spalla di Zefiro, troppo stanca anche solo per riuscire a tornare alla locanda.
Anche Zefiro era stanco, ma per altri motivi: non era riuscito a chiudere occhio per tutta notte a causa del forte russare di Corniolo, inoltre temeva che le presente che lo tormentavano potessero tornare ad invadere i suoi sogni, così aveva passato la notte sveglio a ripensare a quello che gli aveva detto Corniolo.
Quest’ultimo era l’unico a sembrare riposato, quella notte aveva dormito magnificamente e quella mattina trotterellava allegro in testa alla compagnia, con due bottiglie di sidro aromatizzato al miele ben sigillate, riposte nel suo zaino. Lo sguardo di Zefiro cadde sull’omuncolo.
Ti piace vero? Gli aveva chiesto giusto poche ora prima e quelle parole continuavano a rimbalzare nella sua testa. Nonostante avesse provato a relegarle nei recessi più profondi della sua testa, queste continuavano a balzare fuori per tormentarlo, in attesa di una risposta. Ma Zefiro non aveva una risposta, in realtà non aveva mai pensato veramente a Matisse in quel modo; lui si era sempre considerato come un suo protettore, un accompagnatore che aveva promesso di portare la ragazza viva da Procne, mentre lei era sempre stata la Principessa: inavvicinabile, intoccabile. Eppure, appena l’aveva vista il suo primo impulso era stato un altro, ma questo prima di scoprire chi fosse in realtà…Zefiro scosse la testa cercando di scacciare quei pensieri molesti, doveva concentrarsi su quello che lo circondava, doveva captare ogni singolo rumore e fruscio, ogni singolo movimento sospetto: gli Elfi neri potevano sempre essere in agguato, nascosti tra i cespugli, pronti ad attaccarli; e se non fossero stati loro sarebbero stati i briganti o qualche belva feroce, la foresta era piena di pericoli ed insidie nascoste. Come per esempio quella radice, perfettamente mimetizzata con il terreno, ma per uno come Zefiro, che aveva sempre vissuto nei boschi e ormai ne conosceva tutti i segreti, quella radice era visibilissima; non per Matisse, che camminava davanti a lui e che si inciampò in essa. Il ragazzo l’afferrò per un braccio, impedendole di cadere a terra.
«Grazie» sussurrò la ragazza volgendo i suoi occhi smeraldini pieni di gratitudine verso di lui, Zefiro rimase inchiodato da quello sguardo e finalmente trovò la risposta alla domanda di Corniolo.
«Stai attenta» le disse gentilmente «La foresta è piena di insidie nascoste»
«Me ne sono accorta» rispose la ragazza sorridendo dolcemente
«Piccioncini la finite?» si intromise Corniolo linciandoli con lo sguardo, Matisse arrossì e Zefiro tolse immediatamente la mano dal braccio della ragazza.
«Se continuate ad amoreggiare, di questo passo arriveremo quest’inverno a Fogliadoro» continuò, riprendendo a camminare, Matisse alzò gli occhi al cielo
«Sembra proprio che non sopporti il fatto che tu ti avvicini anche solo a me» disse in un sussurro
«Forse è geloso» rispose Zefiro con un sorriso complice, scatenando una risatina in Matisse.
«Guardate che vi ho sentito» li avvisò Corniolo «E non sono affatto geloso. Sto solo proteggendo Matisse da avvenenti apprendisti girovaghi e dalle loro avance»
«Io non stavo facendo alcuna avance! Ho solo evitato che si sfracellasse a terra, credo che Procne la preferisca tutta intera» si difese Zefiro «Comunque ti ringrazio per l’avvenente apprendista girovago, soprattutto per l’avvenente» aggiunse con un tono di voce e assumendo una posa tale che Matisse non riuscì più a trattenersi e scoppiò in una risata irrefrenabile.
Corniolo alzò gli occhi al cielo, dentro di sé, però, era contento che quel viaggio non fosse troppo pesante per Matisse, doveva godersi quell’allegra spensieratezza finché ne aveva la possibilità.
 
Procne si svegliò di soprassalto, si addormentava fin troppo spesso in quel periodo. Stava invecchiando. Nonostante il suo aspetto fosse ancora quello di una giovane donna, dentro stava pian piano sfiorendo e il peso degli anni iniziava a gravarle sulle spalle. In fondo aveva quasi mille anni, aveva visto parecchi decenni scorrerle davanti agli occhi e questi si erano ben presto trasformati in secoli. La donna si passò stancamente una mano sul viso, presto o tardi avrebbe dovuto trovare un sostituto; c’era Zefiro, ma non era sicura che quel ragazzo avrebbe accettato quella vita piuttosto statica. Lui era un ragazzo impulsivo, intelligente ma avventato e soprattutto non sarebbe riuscito a non immischiarsi negli avvenimenti; cosa che stava facendo anche lei nell’ultimo periodo e anche fin troppo spesso. Il suo compito era quello di semplice spettatrice e il suo scopo quello di controllare che tutto procedesse secondo quello che era stato deciso, si ripeté.
Il sogno dal quale era appena emersa era stato piuttosto semplice, a differenza di tutti gli altri: era in una piana grigia, avvolta nella nebbia, ma la terra non era malata e i luogo non era minaccioso come poteva sembrare; dalla nebbia era emersa una figura, Zefiro, e Procne si era lasciata sfuggire un gemito strozzato.
«Nessuno può nascondere la sua natura per sempre» aveva detto il ragazzo, ma con una voce che non gli apparteneva «Presto o tardi anche lui mostrerà la sua vera natura». Questa era stata la lapidaria sentenza, dopodiché Zefiro era stato inghiottito dalla nebbia e Procne si era svegliata.
Il sogno l’aveva lasciata piuttosto turbata, non che non ne avesse compreso il significato, ma proprio quest’ultimo si dimostrava ambiguo: cosa intendeva per la sua natura?
La donna sapeva che il ragazzo era preda di terribili incubi e sapeva che in alcune notti era posseduto da misteriose forze malvagie derivate dalla sua origine, il sogno si riferiva forse a quello? Oppure era la magia, che il ragazzo nascondeva dentro di sé, che presto o tardi si sarebbe manifestata, stufa di essere rimasta per troppo tempo segregata in un angolo buio dell’anima del ragazzo? Procne si chiese cosa sarebbe stato meglio: la magia rimasta inutilizzata per tanto tempo ma soprattutto soppressa con forza, poteva risultare imprevedibile quindi molto pericolosa; ma anche le presenze che Zefiro racchiudeva dentro di sé potevano rivelarsi pericolose, se avessero preso il sopravvento, ma fino a quel momento il ragazzo si era mostrato capace di controllarle; con il passare del tempo, però, quelle presenze avrebbero potuto corromperlo, corroderlo dall’interno, fino a consumarlo. Procne emise un singulto strozzato, quei pensieri l’avevano gettata in una terribile agitazione.
Meglio non pensarci si disse presto o tardi scoprirò il vero significato del sogno. Detto questo si avvicinò al calderone per prepararsi una pozione tranquillizzante.
 
«Quanto manca ancora?» domandò Matisse incespicando, non ce la faceva più a camminare, aveva fame e i suoi piedi urlavano pietà.
«Ancora parecchio, non siamo nemmeno a metà strada» rispose Corniolo, Matisse strabuzzò gli occhi.
«Non ce la faccio più!» protestò, la mancanza di sonno di quella notte iniziava a farsi sentire «Non possiamo fermarci un attimo?» chiese, la ragazza incespicò di nuovo «Abbi pietà di me»
Ma fare leva sulla pietà e la magnanimità di Corniolo non portò a nulla.
«Vorrei arrivare a Belladonna entro stasera» decretò.
«Spero solo di arrivarci viva» borbottò tra sé Matisse.
Belladonna era un villaggio di poco conto che sorgeva più spostato dalla riva e verso l’interno del bosco, era abitato principalmente da cacciatori e boscaioli e quasi nessuno era a conoscenza della sua esistenza, Corniolo era tra quei pochi che sapeva che esistesse e dove si trovasse.
«Belladonna?» chiese Zefiro, non aveva mai sentito quel nome e sulla sua mappa non era segnato.
«È un villaggio di neanche cento abitanti situata proprio tra Baccablu e Folgiadoro. Ci abita un mio amico, quindi anche per questa notte dovremmo trovare un letto caldo dove riposare».
Verso sera, mentre il sole stava calando, bagnando con i suoi raggi il bosco e tingendone le foglie di rosso, i tre viaggiatori si trovarono in prossimità del villaggio. Ma invece di incontrare il cerchio accogliente di casupole in legno promesso da Corniolo, trovarono solo la devastazione: il villaggio era stato completamente raso al suolo, i suoi abitanti erano probabilmente morti tutti, qua e là sorgeva ancora qualche rudere fumante, il resto era cenere. Di fronte a quello spettacolo nessuno dei tre riuscì a proferire parola per parecchi minuti, erano rimasti tutti scioccati dalla visione che si apriva davanti ai loro occhi.
«Chi può essere stato?» chiese Matisse con voce strozzata
«Elfi Neri» rispose Zefiro in un sibilo.
«Quelli che ti seguivano?»
«Probabile. Ma possono essere stati anche altri. Questo posto ormai pullula di Elfi» rispose il ragazzo amareggiato.
«Perché?» chiese invece Corniolo, era visibilmente abbattuto e devastato dalla scena di distruzione che li si parava davanti agli occhi. Nessuno però seppe rispondere alla sua domanda.
«Dobbiamo trovare un posto sicuro dove dormire» decretò Zefiro e siccome Corniolo pareva essere caduto in trance, il ragazzo gli diede una scrollata
«Non possiamo fare più nulla Corniolo, mi dispiace. Molto probabilmente saranno ormai tutti morti. Se volgiamo evitare di esserlo anche noi, però, ci occorre un posto sicuro dove passare la notte e solo tu puoi indicarcene uno»
Corniolo parve riscuotersi e gettato un ultimo sguardo al villaggio devastato guidò i due ragazzi fino ad una piana poco distante, ben riparata da tre grandi faggi che con le loro fronde creavano una cupole di foglie.
«Almeno saremo riparati anche dalla pioggia» disse Corniolo, durante il giorno, infatti, il sole non era riuscito a squarciare il muro di nubi che gli si era parato davanti, anzi, quest’ultimo si era infittito e ingrigito, facendo presagire che presto o tardi sarebbe caduta la prima pioggia della stagione estiva.
«Siamo appena entrati nell’estate e piove!» esclamò Matisse lasciandosi cadere ai piedi di un faggio, con quella frase sperava di aver alleggerito un poco l’atmosfera. Le immagini di distruzione, però, erano ancora bene impresse nelle loro menti e nei loro occhi.
«Fortunatamente possiamo non accendere un fuoco. Non fa freddo e non abbiamo bisogno di cuocere il cibo» osservò Zefiro
«Inoltre verrebbe spento dalla pioggia imminente» aggiunse Corniolo gettando uno sguardo agli squarci di cielo che si riuscivano a scorgere oltre la cortina di rami. Quelle chiacchiere vuote servivano a spezzare il silenzio e il senso di tristezza che li opprimeva, ma non erano abbastanza. Consumarono il loro pasto in silenzio e sempre in silenzio prepararono i loro giacigli.
«Io starò di guardia» disse Zefiro «Dovremmo essere riparati, ma non si può mai sapere», Corniolo convenne con lui e mentre questi si stendeva sulla coperta, Zefiro appoggiò la propria schiena al tronco di un faggio e si mise ad osservare i barlumi di cielo. Quella notte non c’erano stelle ad illuminarlo ma solo una coltre densa e grigia, pesante e opprimente, dalla quale iniziarono a cadere le prime gocce di pioggia. Fortunatamente la cupola di foglie dava loro un riparo e solo poche gocce riuscivano a filtrare, lasciando i tre all’asciutto. Il ragazzo rimase ad ascoltare il ticchettio della pioggia, era l’unico rumore che spezzava il silenzio di quella notte. In quel momento gli parve di intravedere qualcosa aldilà del cerchio di faggi: una luce, fioca, sfuocata a baluginante. Zefiro si stropicciò gli occhi, eppure la luce non scomparve. C’era qualcuno accampato a pochi metri da loro.
Si avvicinò a Corniolo e lo scosse gentilmente per una spalla, questi aprì gli occhi e con voce impastata di sonno chiese se fosse già il suo turno.
«No» rispose piano Zefiro per evitare di svegliare Matisse, che dormiva poco lontano, «Ma ho visto delle luci, in quella direzione e voglio andare a controllare; però non voglio lasciare Matisse senza protezione»
«Ho capito» replicò Corniolo, improvvisamente sveglissimo «Vai! Ma stai attento!»
E spera solo che quelle luci siano solo frutto della tua mente stanca aggiunse mentalmente. Corniolo seguì Zefiro con lo sguardo, ridotto ad un’ombra più scura delle altre che si spostava silenziosamente, finché non riuscì più a distinguerlo.
Il ragazzo si muoveva cautamente, cercando di fare meno rumore possibile. Man mano si avvicinava più le luci si facevano nitide fino a prendere i contorni di un fuoco, non era un fuoco normale: bruciava senza bisogno di legna, non produceva fumo e soprattutto era di un freddo color blu.
Merda! Un fuoco magico imprecò Zefiro, dove c’era un fuoco magico, infatti, c’era qualcuno capace di adoperare la magia e gli unici ancora in grado di farlo erano gli Elfi Neri.
Quattro di essi sedevano intorno al fuoco, avvolti in cappe nere che parevano risucchiare la luce che il fuoco spandeva introno a sé. Zefiro si scostò i capelli bagnanti dagli occhi, tra le pieghe del mantello di uno di loro spuntava un ciondolo, un disco di bronzo con incastonata nel mezzo una pietra nera.
Per il momento pare essercene uno solo ragionò tra sé sollevato, ma questo non escludeva il fatto che anche gli altri tre non sapessero adoperare la magia.
Per accertarsene decise di spingersi più vicino, nascosto dai cespugli fradici, si avvicinò ai tre cercando di fare meno rumore possibile; purtroppo però, non riusciva a vedere se anche gli altri tre avessero il ciondolo. Provò ad arrischiarsi ad avvicinarsi ancora di più ma scivolò su uno strato di foglie bagnate e franò a terra.
«Ma guarda un po’» disse uno di loro avvicinandosi al ragazzo, steso a terra e dolorante «E tu chi saresti?»
Zefiro non rispose, troppo impegnato a maledirsi mentalmente per la sua curiosità e audacia che si erano rivelate essere imprudenza e avventatezza.
«Allora non rispondi?» lo incalzò l’Elfo
«Per me è uno sporco ladruncolo» disse un altro gettando un’occhiata di disgusto a Zefiro «Un ladruncolo che voleva provare a derubarci» aggiunse avvicinandosi al ragazzo, che rimase immobile, la faccia immersa nel fango.
L’Elfo che aveva parlato per primo gli sollevò la testa, prendendolo per i capelli e Zefiro venne incatenato dalle iride rosso fuoco dell’essere
«Non rispondi, bastardo?» gli sputò in faccia «Quindi abbiamo ragione, sporco ladruncolo. Credevi di poterci derubare? Non sai chi siamo noi?»
«Merak lascialo stare!» intimò l’Elfo con il ciondolo, l’unico che fino a quel momento non aveva parlato, insieme al compare accanto a lui
«Non vedi che è uno di noi?» disse questi, l’Elfo chiamato Merak lo guardò stranito
«Cosa stai dicendo Izar?»
«Scostagli i capelli» disse l’altro, Merak fece quanto richiesto e sotto la matassa di morbidi capelli corvini vide spuntare due piccole orecchie leggermente a punta
«È un Mezzosangue!» esclamò l’Elfo lasciando cadere il ragazzo, Zefiro emise un rantolo strozzato
«Cosa ci fa qui un Mezzosangue?» continuò l’Elfo visibilmente sconvolto allontanandosi spaventato dal ragazzo. Zefiro si rialzò a fatica, e si scostò i capelli fradici e sporchi dagli occhi. Si era stupito del fatto che quegli Elfi non l’avessero attaccato e invece fossero rimasti immobili a parlare, ma ciò che l’aveva sorpreso ancora di più era il fatto che fossero riusciti a scoprire il suo segreto.
«Come fate a sapere che sono un Mezzosangue?» domandò, sulla difensiva; stupidamente non aveva portato armi con sé, a parte i pugnali, e si stava chiedendo come sarebbe riuscito a difendersi se avessero attaccato. Due semplici coltelli potevano poco contro quattro Elfi ben equipaggiati di cui uno capace anche di usare la magia. Aveva  ormai appurato che Izar fosse un mago e temeva che anche il suo compare lo fosse.
Izar sorrise «Riesco a percepire l’aura di un Elfo quando la sento e la tua, pur essendo debole, è presente» rispose, Zefiro si stupì della calma con cui stava parlando, si chiese se quella fosse una mossa diversiva per coglierlo di sorpresa.
«Sei solo?» chiese il suo amico
«Sì» rispose il ragazzo
«E cosa ci fa un Mezzosangue tutto solo, da questa parte?» incalzò l’Elfo
«Sono scappato» rispose, Procne gli aveva raccontato che i Mezzosangue non erano ben visti e gli aveva raccomandato di tenere nascosta questa sua identità per evitare di venire perseguitato ed eliminato. Fino ad adesso c’era riuscito.
Zefiro vide l’Elfo alzarsi ridacchiando «Non dovresti essere qui!» gli fece notare
«Se per questo nemmeno voi» replicò il ragazzo, continuava a chiedersi perché non attaccassero; in fondo erano in vantaggio, perché non si decidevano?
Finalmente l’Elfo alzò le braccia, le maniche della cappa scivolarono rivelando due mani pallide e scheletriche crepitanti di magia. Zefiro deglutì.
«Raggiungerai quelli della tua stirpe sudicia, Mezzosangue» sibilò l’Elfo e dalle sue mani partì una fiammata azzurrognola.
 



 
***

 
Ho deciso di farmi del male da sola e di complicare la storia, giusto per vivacizzarla un po', ora devo trovare un modo per tirare fuori Zefiro dai guai! Non so quanto possa essere credibile la calma di Izar e del suo compare, ma li ho immaginati come gatti che giocano con il topo, che si divertono a torturarlo prima di annientarlo...Spero di aver reso l'idea.

Finalmente sono riuscita a fare anche la mappa del regno; perdonate la mia scarsa se non nulla abilità artistica che mi fa disegnare gli alberi come se fossero batuffoli di cotone verde. Questa cartina è indicativa e mooolto stilizzata.
Il regno di Heaven è diviso in quattro regioni, corrispondenti alle quattro piane:
-Myr, con capitale Solwin
-Mèreval , con capitale Briseida
-Derbran con capitale Neherin
-Telèvia con capitale Rahanindir (la Città d’oro), capitale anche del regno.
Il regno è attraversato in sostanza da due fiumi: il fiume Hara che costeggia il regno a est e lo attraversa a sud; il fiume Asgra dato dalla congiunzione del fiume Dehera e del fiume Irah presso Neherin. L’unico lago degno di importanza è il lago Ocred nel centro della foresta dei Faggi dorati.
La barriera difende il regno a nord , a ovest si ha il mare mentre a sud e a est il deserto (non presenti nella cartina). Infine Tersa è l’antica capitale del regno, oggi ne sono rimaste solo poche rovine.
Image and video hosting by TinyPic

Ritorna all'indice


Capitolo 8
*** Lampi blu cobalto ***


Zefiro chiuse gli occhi, pronto per ricevere il colpo. Dentro di lui si stava formando la terribile consapevolezza di avere miseramente fallito la sua missione, per un motivo assolutamente stupido, tra l’altro. Il colpo, però, non arrivò mai; al suo posto sentì un rantolo e un tonfo. Zefiro aprì gli occhi, giusto in tempo per vedere l’Elfo cadere a terra, una freccia che gli trapassava il collo e il lampo di luce blu deviato verso gli alberi. Corniolo sbucò alle sue spalle e assaltò Merak, asce in pugno. Dietro di lui, nascosta tra i cespugli, scorse Matisse che imbracciava l’arco e incoccava un’altra freccia; la prima era andata perfettamente a segno.
«Non ti si può lasciare solo nemmeno per un secondo! Guarda cosa mi combini!» esclamò l’ometto respingendo con l’ascia un attacco di Merak; Zefiro sorrise, riconoscente. Un’altra freccia sibilò nell’aria e si conficcò nel ginocchio dell’altro Elfo che stava per attaccare il ragazzo. L’Elfo cadde a terra e il ragazzo ne approfittò per estrarre il pugnale e tagliargli la gola. Ma questi lo prese per un polso e lo rivoltò sulla schiena facendolo cadere nel fango, poi gli salì sopra, bloccandolo con la sua mole. Per essere un Elfo Nero era piuttosto massiccio e forte. 
Matisse scoccò un’altra freccia, stavolta verso Izar; fino a quel momento l’Elfo non si era mosso. Questi alzò una mano e la freccia si sbriciolò davanti agli occhi attoniti della ragazza, Matisse scagliò altre frecce ma nessuna riuscì mai a colpirlo.
Corniolo, intanto, aveva ingaggiato un violento corpo a corpo con Merak, i due si rotolavano nel fango, cercando di colpirsi e di difendersi dai colpi dell’altro. Izar si alzò, era alto e imponente, a differenza degli altri Elfi neri, solitamente piuttosto mingherlini.
«Avete sbagliato a mettervi contro di me» disse «Io non vi ho fatto nulla, in fin dei conti» un’altra freccia si incenerì ad un movimento della sua mano «Eppure continuate a scagliarmi frecce e avete ucciso i miei uomini» lo sguardo dell’Elfo cadde su Matisse che ne rimase impietrita. Zefiro, bloccato a terra dall’altro Elfo, cercava di divincolarsi e di recuperare il pugnale che gli era scivolato di mano; riusciva a vedere Izar avvicinarsi alla ragazza, rimasta immobile di fronte allo sguardo di fuoco dell’Elfo. Questi improvvisamente fece scattare il braccio in avanti e Matisse venne sollevata da terra, l’arco le cadde di mano. Zefiro diede una gomitata in faccia all’Elfo che lo tratteneva a terra e riuscì a sgusciare fuori dalla sua presa ed estrarre l’altro pugnale. Izar intanto teneva letteralmente in pugno la ragazza, pian piano chiuse le dita della mano, come se volesse stingere qualcosa e Zefiro vide Matisse sbiancare, la stava strozzando senza nemmeno toccarla!
Con uno scatto fulmineo si avventò sull’Elfo e gli recise la gola, poi si fiondò verso Izar, ma l’Elfo lo bloccò con un gesto della mano. Zefiro sentiva i propri piedi ancorati saldamente al terreno, non poteva muoversi ed era costretto ad assistere impotente alla morte della ragazza. Vedeva pian piano il colore abbandonare il viso di Matisse e con esso la vita.
«NOOOOOO!» urlò Corniolo, avventandosi contro l’Elfo. Questi però sollevò nuovamente il braccio e scaraventò l’ometto contro un albero. Corniolo cadde a terra privo di sensi. Zefiro sentiva una grande rabbia montare dentro di sé, rabbia verso se stesso che aveva permesso che questo accadesse, che si era rivelato inadatto al compito che gli era stato affidato. Insieme ad essa, però, dentro di lui stava sorgendo qualcosa d’altro, qualcosa che era rimasto sopito per molto, troppo, tempo e che ora stava prepotentemente tornando alla luce. Zefiro sentì una nuova eppure famigliare energia pervaderlo tutto e si lasciò sopraffare da questa. Dal suo corpo partì un lampo blu cobalto, un lampo che non vedeva da tempo, accompagnato ad un urlo disumano, che dai recessi del suo corpo, uscì prepotentemente dalla sua gola. Il lampo colpì in pieno Izar che venne sbalzato via; la presa su Matisse si sciolse e la ragazza cadde a terra con un tonfo. Zefiro, finalmente libero, si precipitò da lei: era pallida, malconcia, ansante ma ancora viva. Il ragazzo la stinse forte tra le braccia.
«Ti prego Zefiro, sto soffocando» la sentì lamentarsi debolmente contro i suoi capelli, Zefiro la lasciò andare
«Stai bene?» chiese preoccupato stringendo le spalle della ragazza, Matisse annuì, massaggiandosi il collo, sulla pelle chiara si riuscivano a distinguere dei lievi segni rossastri, come se qualcuno l’avesse davvero stretta in quel punto.
«Corniolo!» esclamò improvvisamente lei
«Sto bene» biascicò l’ometto mentre si riprendeva, reggendosi la testa tra le mani «Fortunatamente ho la capoccia dura. Ci vuole ben altro per fare fuori Corniolo» disse rialzandosi. Barcollò fino a Izar, steso a terra, fumava ed emanava un leggero odore di carne bruciata
«Questo è letteralmente cotto! Ma come è successo?»
Zefiro tolse le mani dalle spalle della ragazza e le guardò, stava tremando.
«Credo di essere stato io» balbettò, Matisse lo guardò con aria interrogativa e Zefiro sospirò «C’è una cosa che vi ho tenuta nascosta. Ma per il semplice fatto che non credevo che si sarebbe mai manifestata» il ragazzo fece un respiro profondo «Io so adoperare la magia» dichiarò infine.
Corniolo scoppiò a ridere e Zefiro lo guardò incredulo, non era il genere di reazione che si sarebbe aspettato dopo una dichiarazione simile, Matisse guardava Zefiro con occhi accesi di sorpresa ma anche di curiosità.
«Davvero?» chiese in un sussurro la ragazza
«Non è una cosa da prendere alla leggera» rispose lui bruscamente linciando con lo sguardo Corniolo che continuava a ridere in maniera incontrollata «La magia non è un gioco, è un dono, un peso, una responsabilità…una condanna»
L’ometto smise di ridere, il tono del ragazzo aveva preso un nota triste «Non stai scherzando, quindi?» chiese Corniolo
«Assolutamente no» rispose Zefiro «Non scherzerei mai su una cosa simile» aggiunse serio
«Ma i maghi, quelli che ancora possono adoperare la magia e lanciare incantesimi, sono scomparsi anni fa, esiliati o uccisi…Come è possibile…?»
«Non lo so» lo interruppe Zefiro «So solo che fin da quando ricordo io ho questa capacità»
Sia Matisse sia Corniolo capirono che quell’argomento era piuttosto doloroso per Zefiro e decisero di non insistere.
«Tra poco albeggerà, proporrei di darci una ripulita e di rimetterci in marcia» disse Corniolo avviandosi verso il loro accampamento.
Zefiro durante il tragitto continuava a tormentarsi le mani, chiedendosi se l’avrebbero cacciato non fidandosi di lui. Non li aveva detto che poteva evocare e adoperare la magia, chissà cos’altro poteva ancora tenerli nascosto. Non si sarebbe assolutamente stupito se gli avessero detto di proseguire da solo, anche se avevano bisogno di lui per giungere da Procne. Magari stavano anche pesando che tutto quello che aveva detto fosse una fandonia e in realtà non li stesse portando da lei, magari pensavano che lavorasse per Radamanto e avesse inventato una scusa per consegnare la principessa a lui, oppure che lavorava per sé e avrebbe ucciso la ragazza. Zefiro si passò una mano tra i capelli.
«Tutto bene?» domandò Matisse accostandosi a lui, la ragazza era preoccupata nel vederlo così agitato e turbato. Zefiro annuì, poco convincente.
Camminarono in silenzio, qualche goccia ancora cadeva ma il temporale era terminato. «Non ti ho ancora ringraziato per avermi salvato la vita» disse la ragazza dopo un po’
«Con tutte le volte che l’hai fatto tu, credo che sia arrivato il momento di sdebitarmi» rispose lui con un sorriso triste «Se non foste arrivati voi a quest’ora sarei cotto come Izar…A proposito, come…?»
«Corniolo si stava preoccupando perché ci mettevi troppo tempo, temeva che ti fosse successo qualcosa, così ha iniziato a trafficare con le bisacce per prendere le armi e raggiungerti. Ma ha fatto troppo rumore e mi ha svegliato. Gli ho chiesto dove stesse andando e mi ha risposto che non era niente e di tornare a dormire. Ho fatto finta di riaddormentarmi ma l’ho spiato e ho visto che se ne andava verso il folto del bosco; senza pensarci un attimo l’ho seguito e sono giunta alla radura proprio nel momento in cui l’Elfo stava per colpirti con un raggio azzurro. Anche lui sapeva usare la magia?» fece il resoconto la ragazza, Zefiro annuì stava per aggiungere che solo gli Elfi Neri erano ancora capaci di evocarla, ma preferì tacere; se avesse dato un’informazione simile avrebbe fatto sorgere dei sospetti nei suoi compagni di viaggio e non gli sembrava il caso.
Il sole si faceva strada a fatica tra le nubi e già all’orizzonte si riusciva a distinguere un profilo scuro e frastagliato.
«Dovremmo raggiungere Fogliadoro entro questo pomeriggio» pronosticò Corniolo con voce atona.
Fogliadoro era una città molto piccola costruita sul fiume, le sue case si adagiavano placidamente sulle sue acque o si affollavano sui canali che la costellavano, per spostarsi si utilizzavano barche o si camminava su passerelle o ponti in legno. La città era divisa in due parti, la cosiddetta “parte bassa” e la “parte alta”: la prima, che si sviluppava lungo le sponde del fiume o sul fiume stesso, era abitata principalmente da pescatori, boscaioli e cacciatori; la seconda, che si estendeva a nord, come un prolungamento verso la piana di Myr, era la residenza dei ricchi mercanti che lì abitavano e che controllavano i traffici e le comunicazioni tra nord ed estremo sud. Nella parte bassa le case erano prevalentemente in legno, semplici, sobrie e funzionali, in quella alta erano l’espressione ostentata dell’opulenza dei loro occupanti, riccamente decorate ed esageratamente addobbate, spesse volte rasentando il cattivo gusto.
Matisse era stata solamente due volte a Fogliadoro e solamente nella parte bassa della città, dove si concentravano tutte le attività.
Quando entrò in città rimase incantata dalla vivace vitalità di quel luogo, fremente di attività.
«Dobbiamo innanzitutto trovare una locanda» fece il punto Zefiro, volgendo lo sguardo da una parete all’altra della cittadina.
Sulla piazza principale, un ottagono piastrellato in mezzo al quale si stagliava una fontana, si affacciavano due locande e varie botteghe; sulla piazza del mercato, un cerchio in terra battuta, più modesto e affollato, si accalcavano i banchi del mercato e dondolava l’insegna di una locanda, la compagnia decise di passare la notte in quella. L’ambiente era rustico, semplice, ma accogliente, nella stanza c’era un buon profumo di legno e un leggero sentore di cibo. Lo stomaco di Matisse gorgogliò, era da quella mattina che non mangiava, Corniolo aveva insistito per mettersi subito in marcia, dandole solo il tempo per darsi una sistemata e togliersi il fango e la terra dai vestititi e dai capelli.
«Io direi di prendere le stanze e poi mangiare qualcosa. Sto morendo di fame» propose Zefiro, durante il viaggio il suo umore era migliorato. I due compagni approvarono e presero possesso delle stanze.
«Forse non è consigliabile che Matisse dorma da sola» osservò Zefiro mentre salivano le scale verso le loro stanze
«È capace di badare a se stessa» rispose Corniolo sbrigativo
«Sì, ma è impensabile lasciare dormire una ragazza da sola, a prescindere che sia la principessa ereditaria» incalzò Zefiro
«Senti ragazzo non è colpa mi se questa locanda ha solo stanze con due letti. Se tieni così tanto all’incolumità della ragazza dormirò io con lei…Sei più tranquillo ora?» domandò l’ometto «Oppure questa è tutta una scusa per rimanere solo con lei nella stanza?» aggiunse con in tono malizioso
«Ti assicuro che non ci sono doppi fini. Mi preoccupo solo della sua sicurezza» si difese il ragazzo
«Non me la racconti giusta tu» replicò l’ometto minacciando Zefiro con un dito puntato al suo petto, essere minacciati da un omuncolo che era alto la metà di te era piuttosto comico ma il ragazzo prese seriamente le sue parole, sapeva cosa poteva fare Corniolo con le sue asce e non ci teneva a finire steso a terra con un di quelle cose conficcata in testa. Zefiro sollevò le mani, in segno di innocenza
«Ripeto, non ho secondi fini. Infatti non ho preteso di dormire io con lei» fece notare e per troncare la conversazione si infilò nella sua stanza. Corniolo scosse la testa ed entrò nella stanza accanto.
 
Radamanto imprecò tra i denti, la ricerca degli ingredienti per il veleno si stava rivelando più difficile del previsto. Ma non poteva permettersi di utilizzare troppo tempo, doveva eliminare quell’erborista il prima possibile. Ebano saltellava ancora allegramente per i corridoi sbandierando a destra e a manca l’anellino, simbolo del fallimento di Radamanto. L’uomo l’avrebbe strozzata con le sue mani pur di vederla morta ma aveva un’immagine da proteggere, non poteva comprometterla per seguire i proprio istinti omicidi. Come se non bastasse c’era anche quel ragazzino: se lo ritrovava ovunque e sentiva perennemente il suo sguardo addosso. Temeva che quel ragazzino lo pedinasse e sospettasse qualcosa di lui. Eccolo lì, appoggiato con apparente indifferenza al muro del corridoio che dava verso la stanza di Radamanto. Chissà da quanto tempo era appostato. Appena Radamanto passò il ragazzino gli rivolse un rispettoso cenno del capo al quale l’uomo non rispose.
Non mi inganni, ragazzino, so che mi stai seguendo pensò l’uomo, la sensazione di avere quegli occhi puntati sulla schiena non l’abbandonò per un istante.
Mentre svoltava si trovò faccia a faccia con Ebano, la donna portava tra le mani un’ampolla, forse una medicina per la regina, tra i lunghi capelli neri, raccolti in un’elaborata acconciatura, erano disseminate delle perle simili a gocce di rugiada.
«Buongiorno Radamanto!» lo salutò allegramente la donna
«A voi» rispose questi con un abbozzo di inchino e un sorriso mellifluo.
«Ebano, potrei parlarvi un secondo?» domandò l’uomo senza abbandonare il suo sorriso
«Ditemi pure»
«Per caso un ragazzo piuttosto giovane, con i capelli ricci castano chiaro e le lentiggini è un vostro apprendista?» domandò, la donna aggrottò le sopracciglia, poi parve capire a chi si stesse riferendo
«Oh sì, è Cedro, un nuovo arrivato, perché?»
«Beh, ecco, dovrebbe tenerlo sotto controllo, gira un po’ troppo liberamente per il castello e ho paura che sia uno di quei ragazzini curiosi che va a ficcanasare dove non dovrebbe»
«Oh, sì, Cedro è terribilmente curioso. Mi dispiace molto se vi ha dato fastidio. Cercherò di tenerlo a bada» rispose la donna con un risolino
«Vi ringrazio» replicò l’uomo sollevato, sperava con tutto il cuore che non avrebbe più avuto quel ragazzino tra le scatole d’ora in poi o ci avrebbe pensato lui a tenerlo a bada.
Con un altro inchino salutò la donna e si avviò verso la stanza delle udienze, ora che la regina era malata si occupava lui di tutto, in fondo era il suo sovrintendente e presto avrebbe assunto una carica più importante. Radamanto sorrise, chiedendosi se la sua testa fosse stata troppo grossa per la corona, in fondo era stata fatta su misura per sua sorella Ismene.
 
 
 ***
 
Un altro capitolo di stallo, in cui non accade nulla di particolare. pian piano stiamo scoprendo nuovi lati di Zefiro. Cosa nasconderà ancora? Corniolo e Matisse si fidano ancora di lui?
Inoltre, volendomi fare del male, ho introdotto un nuovo personaggio: Cedro è una presenza piccola ma fastidiosa, soprattutto per Radamanto, un nuovo impiccio che va eliminato (come se non ce ne fossero abbastanza). Riuscirà Radamanto a liberarsi del suo scocciatore con le buone? Oppure dovrà ricorrere a metodi più estremi?
Siamo ancora all'inizio del viaggio, ma c'è già tanta carne al fuoco, spero solo di non ridurre tutto in cenere :)
La freccia nel ginocchio è un omaggio a Skyrim (un videogioco a mio avviso stupendo), mentre Fogliadoro è ispirata a Riften (una città sempre di Skyrim)
 
Volevo ringraziare tutti coloro che leggono e recensiscono la mia storia e tutti quelli che l'hanno messa tra le seguite e le preferite e anche tutti i lettori silenziosi che mi hanno permesso di arrivare a quasi 200 visualizzazioni! GRAZIE! :')

Ritorna all'indice


Capitolo 9
*** Sulle ali della notte ***


Fogliadoro era accarezzata dai raggi rossastri del sole morente, Zefiro chiuse gli occhi lasciando che quella luce penetrasse dentro di lui e lo avvolgesse nel suo caldo e rassicurante abbraccio. Aveva sempre adorati i tramonti, anche se, nell’ultimo periodo aveva iniziato a temerli per ciò che portavano subito dietro di loro: la notte e con essa il buio e le presenze che lo tormentavano che si risvegliavano dentro di lui. Questa prospettiva aveva pian piano guastato il piacere che provava nel vedere il cielo incendiarsi e le nuvole tingersi di rosa e violetto, ma quella sera aveva deciso di assaporare quel tramonto, come faceva una volta. Il sole lambì l’orizzonte e già, il blu della notte stava avanzando nel cielo, coprendo le leggere pennellate rosate che screziavano il cielo cobalto.
«Non è bellissimo?» sussurrò una voce accanto a lui e Zefiro trasalì. Matisse era sbucata improvvisamente al suo fianco, i gomiti appoggiati alla balaustra della terrazza, una mano a sostenere la testa, lo sguardo immerso nelle sfumature del cielo. La sua suonava come una domanda retorica e come tale non esigeva necessariamente di una risposta, così Zefiro rimase in silenzio.
«Non avevo mai avuto occasione di vedere così bene un tramonto» continuò Matisse «A Verderamo il cielo è coperto dalle fronde degli alberi ed è quasi impossibile riuscire a vedere un alba o un tramonto»
«Io ne ho visti parecchi di tramonti, ma ogni volta questo spettacolo della natura mi toglie il fiato» confessò Zefiro
«Non ti facevo così romantico» osservò scherzosamente la ragazza, Zefiro si sentì arrossire senza un apparente motivo
«Perché come mi facevi?» domandò incuriosito, si era sempre chiesto cosa pensasse Matisse di lui, se lo trovasse pericoloso, affidabile, affabile. Nei suoi confronti si era posta con un’iniziale e giusta diffidenza che pian piano era scemata lasciando il posto ad una cauta e progressiva apertura, ma il ragazzo sentiva che lei non si fidava pienamente di lui.
«La prima volta che ti ho visto?» domandò la ragazza incerta, appoggiandosi con la schiena alla balaustra in modo da poter vedere in faccia il ragazzo
«In generale» rispose lui con una scrollata di spalle.
«Strano» fu la risposta della ragazza e Zefiro aggrottò le sopracciglia, non riuscendo a capire
«Secondo me sei un ragazzo molto affabile, coraggioso e leale, ma nel contempo sei misterioso, enigmatico, indecifrabile a volte, e secondo me, sotto sotto, nascondi qualcosa ed è questo che non mi permette di fidarmi completamente di te. Questo e il fatto che ti conosca da pochi giorni» spiegò la ragazza di fronte allo sguardo interrogativo di lui, Zefiro sorrise sollevato, in fondo non dato una cattiva immagine di sè
«E tu?» domandò a sua volta Matisse «Come mi giudichi? Secondo te sarò in grado di governare un regno?»
Matisse se lo chiedeva in continuazione: sarebbe stata all’altezza della situazione? Sarebbe stata una buona e giusta governante? O sarebbe stata una despota crudele e tirannica? Sarebbe riuscita ad accontentare tutti e a non deludere le aspettative di nessuno?
Il turbine di avvenimenti e dichiarazioni sconvolgenti in cui era stata gettata all’improvviso, pur avendola colta alla sprovvista, la eccitava, ma nel contempo la preoccupava e la spaventava. Non riusciva ancora a credere di essere una principessa e che avrebbe dovuto prendere le redini del regno. Non si sentiva pronta. Le sembrava di essere stata strappata bruscamente alla serena e fanciullesca tranquillità del suo villaggio e di essere stata gettata senza alcun riguardo nella vita adulta, piena di preoccupazioni e di prove. Continuava a vacillare tra il mondo conosciuto, spensierato e tranquillo della sua infanzia e quello ignoto e tormentato della sua futura vita adulta come regina, che le si prospettava davanti in maniera poco chiara e pertanto poco allettante. All’inizio era stata ingenuamente entusiasta della prospettiva di poter vestire i panni di una delle principesse protagoniste dei suoi libri d’infanzia; ma pian piano a quest’immagine idilliaca se n’era sostituita una più realistica e terribile: la consapevolezza che tutto quello non fosse un gioco ma che di lì a poco il futuro del regno e dei suoi abitanti sarebbe dipeso da lei e dalle sue decisioni. Non avrebbe potuto abbandonarsi a egoistici capricci ma avrebbe dovuto governare con saggezza e rettitudine e Matisse non era sicura di esserne capace. La ragazza stava iniziando a sentire il peso del macigno delle responsabilità che il suo titolo avrebbe comportato.
Zefiro parve cogliere queste preoccupazioni che le tormentavano l’animo e cercò di rassicurarla.
«Secondo me sarai un’ottima regina, sei buona, gentile, coraggiosa e altruista. Un po’ avventata e impulsiva, ma forse è colpa della tua giovane età. Inoltre non concedi la tua fiducia a chiunque e questo è un ottimo pregio, secondo me»
L’espressione sul viso di Matisse si rasserenò un poco ma il suo sguardo era ancora preoccupato, Zefiro le posò delicatamente una mano sulla spalla
«Non ti preoccupare» la rassicurò «Procne ti aiuterà e ti insegnerà tutto quello che dovrai sapere per diventare un’ottima regina. È per questo che stiamo andando da lei»
Matisse sorrise mesta, ma la preoccupazione non abbandonò il suo sguardo, indurendole i tratti e incupendo il verde brillante dei suoi occhi.
«La cena è pronta» avvisò Corniolo distogliendo i ragazzi da quei pensieri.
«Procne com’è?» domandò di punto in bianco la ragazza a Zefiro, si era sempre ripromessa di porre questa domanda al ragazzo, per saperne di più riguardo a questa misteriosa figura, ma non aveva mai trovato il coraggio di dare voce ai suoi pensieri.
«Di aspetto fisico o caratterialmente?» domandò lui, rimasto leggermente sorpreso dalla domanda. Sentiva che prima o poi avrebbe fatto delle domande a riguardo, ma non se le aspettava in quel momento. Matisse sorrise
«È severa o piuttosto accondiscendente?» chiese, notando la momentanea confusione del ragazzo
«Oh, è abbastanza severa, ma non rigida. Inoltre è molto gentile e disponibile, anche se non sembra; è un po’ burbera e scontrosa e anche brontolona ma ha un grande cuore» rispose il ragazzo e Matisse si ritrovò a sorridere
«Assomiglia un sacco ad Ortensia» commentò e il pensiero della donna le fece provare un poco di malinconica nostalgia che rabbuiò il suo sguardo, spegnendole il sorriso
«Quella vecchia bisbetica» disse Corniolo, ma in tono scherzo e affettuoso «Se Procne è scontrosa solo la  metà di lei, stiamo freschi!»
Zefiro scoppiò in una risata cristallina «Purtroppo, mi spiace informarti che Procne è scontrosa almeno il triplo di lei»
«Andiamo bene!» commentò Corniolo suscitando una risata generale.
Il resto della serata passò allegramente: Matisse e Corniolo parlarono di Verderamo, descrivendone gli abitanti e rievocando aneddoti divertenti. Raccontarono di Rurk, il mastro fabbro che aveva una gamba artificiale e di Ulia, sua moglie che preparava le focaccine dolci più buone del paese; narrarono di quando Slem, un ragazzino esile e pallido, figlio del falegname, era caduto in una trappola ed era rimasto a penzolare a testa in giù fino a quando non era venuto Corniolo a salvarlo; descrissero il lago Ocred e come mutava il colore delle sue acque al variare delle stagioni; parlarono del mercato di fine estate e di tutto il movimento e la confusione che portava nel paese. Erano piccoli bozzetti di semplice e rustica vita quotidiana di un piccolo paesino del sud, ma avevano riscaldato il cuore e avevano fatto spuntare un caldo sorriso nostalgico sulle labbra dei narratori.
Dal canto suo Zefiro parlò dei suoi viaggi e dei luoghi che aveva visitato: parlò dell’incantevole foresta dei Frassini d’argento, del vicino villaggio di Rovonero e di Ripascura, sulle rive del fiume Irah, descrisse gli imponenti massicci del nord e degli specchi d’acqua limpida che li costellavano, parlò di Neherin, la città tra i due fiumi e della piccola piana di Derbran, descrisse la città di Briseida che pareva essere stata scolpita nella roccia e dei tetti scintillanti della Città d’oro che si accendeva di mille colori quando calava il sole, descrisse i giochi di luce che creava il sole sulle acque del fiume Asgra nelle diverse stagioni e i piccoli paesini nascosti tra le colline di Darmstron, richiamò alla mente la possenza dei cacciatori delle montagne Solwen e gli parve di sentirne gli stridenti richiami. Matisse ascoltava i suoi racconti, affascinata e rapita e cercava di immaginarsi tutto quello che Zefiro le raccontava, le sarebbe piaciuto vedere di persona tutti quei luoghi e assicurarsi di persona che davvero la foresta dei Frassini d’argento nelle notti di luna piena pareva rilucere di luce propria o sentire con le sue stesse orecchie il vento soffiare tra le gole e i crepacci delle montagne di Morongard assumendo il tono lamentoso di un bambino piangente o le grida strazianti di qualche donna morta per amore. Si stupì del fatto che Zefiro fosse stato in così tanti posti e avesse viaggiato così tanto. Matisse avrebbe voluto ascoltare ancora le mirabolanti meraviglie che Zefiro aveva visto durante i suoi viaggi, ma Corniolo decretò che era giunta l’ora di andare a letto. Così i racconti vennero troncati bruscamente. Matisse e Zefiro si augurarono la buonanotte e si lasciarono con la promessa da parte del ragazzo che avrebbe continuato i suoi racconti.
Matisse, distesa sul letto, con gli occhi appesantiti dal sonno, prima di addormentarsi si ripromise che la prima cosa che avrebbe fatto una volta divenuta regina sarebbe stata quella di fare un viaggio attraverso tutto il regno e di vedere ogni singolo luogo e angolo di questo. Con le immagini dei luoghi meravigliosi descritti da Zefiro ancora negli occhi e le sue parole che rimbombavano ancora nella sua testa, si addormentò e quei luoghi di incanto la seguirono anche nel mondo dei sogni.
 
Lo sguardo bramoso di Radamanto indugiò sul profilo degli edifici che si stagliavano sul cielo scuro nel quale iniziavano ad ammiccare le prime stelle. I tetti scintillanti della Città d’oro riempivano i suoi occhi avidi. Stentava ancora a credere che presto tutto quello sarebbe divenuto suo.
Aspetta, Radamanto. Non correre. Non hai ancora la corona in testa e lo scettro in mano, la regina non ha ancora esalato l’ultimo respiro e quella zelante Erborista è ancora viva e più determinata che mai a metterti i bastoni tra le ruote.
Fortunatamente il suo intrepido apprendista non l’aveva più seguito e tenuto sotto controllo, con suo sommo sollievo. Ogni tanto incrociava ancora lo scocciatore, ma questi non aveva più l’ardire di seguire l’uomo con lo sguardo e abbassava gli occhi vergognoso. Radamanto sorrise, nulla si sarebbe più frapposto tra lui e il trono una volta morta la Guaritrice. L’uomo poteva già sentire il peso della corona sulla sua testa, il sapore del potere e l’ebbrezza che questo gli dava. Finalmente avrebbe potuto riscattarsi e mostrare a tutti il suo volto. Non se ne sarebbe stato più in un angolo polveroso dimenticato da tutti, presto avrebbe avuto la sua rivincita.
La prospettiva fece allargare ancora di più il sorriso di Radamanto, il quale, però, si spense subito dopo. Uno dei suoi messi era giunto di corsa e tutto trafelato con la notizia che si erano perse le tracce degli Elfi incaricati di inseguire Zefiro. Radamanto non aveva mai visto di buon occhio il lacchè di Procne, come non aveva mai visto di buon occhio Procne stessa. Sotto quell’apparente coltre di impassibilità e indifferenza era sicuro che la donna stesse tramando qualcosa contro di lui e usasse il suo apprendista per attuare i suoi piani. Si irritò molto a quella notizia e chiese bruscamente come fosse possibile.
«Non lo so» balbettò il messo «Ma è da giorni che non riceviamo loro notizie»
«Quando le avete ricevute l’ultima volta?» domandò Radamanto cercando di calmarsi
«Tre o quattro giorni fa, quando hanno dato notizia della distruzione del villaggio di Belladonna»
Radamanto digrignò i denti, il nome di quel villaggio non gli diceva nulla, per lui era soltanto un inutile agglomerato uguale agli altri nel quale gli era giunta voce che si fossero nascosti dei sediziosi. Non che temesse per la propria incolumità, ma stavano iniziando a girare alcune voci sul suo conto, voci di scontento, di lamentela per il suo operato e anche insinuazioni sul fatto che potesse essere lui la causa dell’improvvisa malattia dell’amatissima regina. Erano solo flebili voci, scintille, ma che avrebbero potuto dare vita ad un incendio se avessero trovato un buon combustibile. La filosofia che seguiva Radamanto era quella del “meglio prevenire che curare” , che nel suo caso si traduceva nel soffocare le voci con una parvenza di ribellione, prima che si espandessero e si sviluppassero, dando vita a qualcosa di incontrollabile.
«E da Alcor? Si hanno notizie?» domandò Radamanto, impaziente
«Ancora nulla, signore. Sembra quasi che questo presunto figlio sia introvabile. Perso» rispose il messo
«È una figlia» lo corresse l’uomo, seccato «Ed è impossibile che sia svanita nel nulla. Sono quindici anni che la cerco. Il regno di Heaven per quanto grande non è infinito. Dovrà pur essere da qualche parte»
Nulla si sarebbe più frapposto tra lui e il trono una volta morta la Guaritrice, se non l’improvvisa comparsa di questa ragazza, la figlia di Ismene, la cosiddetta Principessa Perduta. Radamanto era a conoscenza della sua esistenza, l’aveva vista nascere e venire portata via una notte affinché venisse affidata ad una nutrice fino al compimento dei sedici anni, poi sarebbe stata portata da Procne per iniziare il suo apprendistato come principessa che l’avrebbe preparata a ricoprire il ruolo che sarebbe stato lasciato dalla madre. La ragazza, però, pareva essere scomparsa. Non che Radamanto volesse ucciderla, aveva altri piani in serbo per lei; se la ragazzina, però, si fosse rifiutata di collaborare, sarebbe sicuramente ricorso a metodi più persuasivi e nel caso in cui si fosse rivelata solo un ostacolo l’avrebbe eliminata senza farsi tanti scrupoli. Questo era il suo piano, ma per attuarlo c’era bisogno della ragazzina, sempre che si riuscisse a trovarla; altrimenti sarebbe stato meglio per tutti, cioè per lui, poiché avrebbe significato un problema in meno.
«Cerca di capire perché Izar non dà più sue notizie e dì ad Alcor di darsi una mossa, perché se la ragazzina dovesse spuntarmi improvvisamente davanti agli occhi senza che lui mi abbia detto nulla, sarà lui quello perduto, per sempre» ordinò Radamanto e il messo si inchinò ossequiosamente, facendo capire che aveva capito gli ordini e si allontanò tutto tremante, temendo che la punizione promessa ad Alcor sarebbe toccata anche a lui.
Radamanto una volta che il messo si fu allontanato si appoggiò al parapetto e si lasciò andare ad una risata soddisfatta. Un gruppo di uccelli si alzò in volo, spaventato e si immerse nel buio della notte che aveva ormai conquistato il cielo, ricoprendolo con il suo mantello nero, trapunto di stelle.
Radamanto, seguì con lo sguardo il volo degli uccelli fino a quando non vennero inghiottiti dal nero del cielo.
 
Zefiro alzò lo sguardo verso il cielo, seguendo il volo di uno stormo di uccelli che si disperse nell’aria fredda della notte. Non avrebbe dormito, non si fidava, sentiva quelle presenze rimescolarsi e agitarsi nel suo animo, rendendolo irrequieto. Fin da che aveva memoria aveva auto quelle presenze dentro di sé, ma all’inizio erano state solo flebili e innocue; con il passare del tempo, però, avevano iniziato a tormentarlo, nel sonno, popolando i suoi sogni e tramutandoli in incubi. Le sue notti erano state accompagnate dai loro sibili suadenti e dalle loro risa agghiaccianti. Spesse volte avevano preso il sopravvento e Zefiro si era sentito investito da una potente energia negativa che si era avviluppata e incatenata a lui, cercando di eliminare gli ultimi brandelli di lucidità. Zefiro, però, era sempre riuscito a non lasciarsi completamente assoggettare da queste, aveva sempre trovato la forza di reagire. Ma pian piano le presenze si erano fatte più insistenti e più forti e la sua volontà più debole, logorata da tanti e continui sforzi, sempre maggiori. Non sempre riusciva a resistere e le presenze riuscivano a impossessarsi completamente di lui, come la prima notte passata in casa di Ortensia e Matisse. La presenza della ragazza le aveva rese addirittura più voraci e insistenti. Avevano preso con forza il sopravvento su Zefiro e solo grazie ad un enorme sforzo di volontà, che l’aveva lasciato esausto, era riuscito a scacciarle. Il ragazzo si chiese quando Matisse gli avrebbe chiesto spiegazioni su quella notte. La ragazza stessa gli aveva detto che sapeva che lui nascondeva qualcosa e con ogni probabilità si stava riferendo a quelle presenze oscure che lo assediavano e lo devastavano. Il ragazzo non sapeva assolutamente cosa rispondere ad una domanda del genere, e si chiese se la ragazza avrebbe continuato a viaggiare con lui una volta saputa la verità.
Zefiro non si riteneva un compagno di viaggio molto affidabile e aveva sempre paura che prima o poi avrebbe fatto del male a Matisse o a Corniolo. Ma aveva promesso a Procne che gli avrebbe portato la ragazza e a Matisse che l’avrebbe protetta, a qualunque costo. E Zefiro era un uomo di parola, più forte della sua paura era la sua determinazione.
Zefiro si chiese, però, se sarebbe riuscito a difendere Matisse da se stesso.
 
 


 
***
Un nuovo capitolo di stallo, in cui ci si addentra un po’ nella psiche dei personaggi: uno Zefiro tormentato e posseduto e una Matisse piena di complessi…dei bei personaggi, insomma. Non dimentichiamoci di Radamanto, l’ambizioso e crudele Radamanto che, come ogni cattivo che si rispetti, si abbandona ogni tanto anche lui a qualche risata malvagia. Spero che il capitolo vi piaccia e vi prometto che ci sarà un po’ più d’azione, almeno, cercherò di mettercela. Questi capitoli di pseudo-introspezione mi stanno logorando.
Il titolo è stato dettato dalla mia mente malata la quale tende ad associare pensieri e ricordi a degli uccelli che volano lontano nella notte, non sapevo che altro titolo mettere, sono ben accetti suggerimenti…
 
Per chi volesse avere un’idea dei luoghi visitati da Zefiro, ecco qui la mia indecente e vergognosa mappa…Abbiate pietà di me e delle mie inesistenti capacità artistiche, ve ne prego, confido nella vostra comprensione e compassione…
 
Ho inserito anche un omaggio ad una saga che ho letto, vediamo chi lo riesce ad intuire :)
Ayr

Ritorna all'indice


Capitolo 10
*** La piana del vento ***


La piana di Myr si stendeva davanti agli occhi increduli di Matisse, una distesa infinita della quale non si riusciva a scorgere la fine. Matisse, abituata alla realtà più circoscritta del suo villaggio circondato e protetto dai boschi si sentì persa ed ebbe paura di annegare in quel mare ininterrotto d’erba bagnata dal sole, che ondeggiava lievemente, accarezzata dal vento.
«La piana di Myr» disse Zefiro, con il vento che gli schiaffeggiava il volto e gli spettinava i capelli «La pianura più vasta e ventosa di tutta Heaven» spiegò, scostandosi un ciuffo di capelli corvini dagli occhi. Corniolo brontolò qualcosa e sospinse in avanti il suo cavallo. Avevano avuto la fortuna di incontrare un mercante di cavalli parecchio disponibile che aveva venduto loro tre magnifici esemplari ad un prezzo ragionevole. Grazie a questo espediente, avrebbero potuto compiere il viaggio in meno tempo. Solwin, infatti, distava circa dieci giorni di cavallo da Fogliadoro, un tempo lunghissimo, che si sarebbe dilatato ancora di più se fossero andati a piedi.
Matisse adorava cavalcare, Corniolo le aveva dato delle lezioni, ma era ben diverso fare dei giri nell’aia davanti a casa sul vecchio ronzino malmesso di Harvy e cavalcare quel magnifico esemplare pomellato “esile ma scattante e resistente”, come l’aveva descritto il mercante dando una pacca sul fianco del cavallo. Zefiro, invece, stava ritto su un magnifico morello nero, aveva assunto una scherzosa aria di regalità che, però, lo faceva davvero assomigliare al principe delle favole che Matisse aveva sempre sognato di incontrare, da bambina. Era un principe un po’ atipico: nonostante avesse il mantello blu scuro gettato sulle spalle che svolazzava al vento e una spada al fianco, per quanto lei ne sapeva, non pareva ricco e non viveva in un castello, inoltre non aveva sangue blu nelle vene. Per quanto riguardava Corniolo, era stato costretto a montare un pony, l’unico cavallo alla sua altezza: era un animale davvero carinissimo con una folta criniera bionda e due occhioni dolcissimi. Matisse l’aveva ribattezzato Miele e sentiva che quel nome gli calzava a pennello. Pioggia, invece, era il nome del suo cavallo e Zefiro aveva chiamato il suo Tempest. Dal momento che avrebbero passato la maggior parte, se non il resto del viaggio, in loro compagnia, tanto valeva dargli un nome e considerarli definitivamente come parte integrante della loro compagnia.
Matisse spronò il cavallo che partì al trotto seguendo Tempest. Stavano percorrendo una stretta via laterale e poco frequentata. Non potevano permettersi di venire rallentati, e magari bloccati, dal traffico di carri e mercanti che invadeva le vie principali alla volta dei mercati estivi che si tenevano nelle principali città.
Quella del mercato era anche un’occasione per entrare in contatto con altre realtà, come per esempio quella degli elfi del sud che attraversavano il deserto di Syaram per giungere fino a lì e vendere i loro raffinati prodotti. Matisse aveva sempre provato una sorta di reverenziale rispetto e ammirazione per gli elfi, li trovava affascinanti ma nel contempo distanti ed eterei con i loro corpi slanciati, i lunghi e lisci capelli chiari, gli occhi limpidi e cristallini, la voce pacata e musicale e quell’aura di serenità che li circondava e pareva provenire da loro stessi.
Matisse si chiese se avrebbero incontrato degli elfi a Solwin. Quella infatti, era la loro tappa successiva. Solwin era la città più grande di tutta Heaven, era grande anche più della capitale, e questo era dovuto alla sua posizione di centralità. Solwin era uno svincolo per raggiungere qualsiasi parte del regno. Come tale era enorme, caotica, affascinante ma pericolosa. Costruita interamente in pietra, era anche detta la Città Grigia, nome piuttosto triste, in netto contrasto con le sue strade affollate e caotiche, con il mosaico di colori, suoni, profumi che la rendeva, invece, allegra e movimentata. Il governo della città era affidato ad un Governatore, nominato dalla regina, che abitava nell’opulento palazzo, simbolo del suo potere e della sua ricchezza, che si ergeva prepotentemente nella parte nord della città. In quel periodo la città era gestita dal bonario e beneamato Sostrat, un uomo bonaccione e magnanimo, il quale adorava mangiare, bere e divertirsi. La sua risata risuonava nelle calde sere d’estate e aleggiava nell’aria assieme al profumo dei sontuosi banchetti che organizzava e al quale era invitata tutta la ricca e numerosa borghesia e la più rada aristocrazia di Solwin. Sostrat non era solo un amante dei divertimenti, ma anche un giusto e generoso governatore, che era riuscito a portare e mantenere l’ordine nella vasta e caotica città. Severo quando lo richiedeva l’occasione, non era solo capace di ridere facendo sussultare il suo triplice mento, ma anche di impartire ordini e di amministrare la giustizia. Sostrat era amato dai suoi cittadini, i quali non avevano mai vissuto un periodo più tranquillo e fiorente come quello nel quale aveva governato, e governava tutt’ora, lui.
Matisse era curiosa di conoscere questo eccellente governatore, conosceva solo attraverso i racconti di Ortensia e degli abitanti di Verderamo. Era anche curiosa di vedere una grande città e di immergersi nella sua multisfaccettata realtà. Per questo cavalcava di buon grado, in trepidante attesa di giungere finalmente a Solwin, mentre cercava di immaginarsi il palazzo del governatore e la fontana che dominava la piazza principale, e le piccole botteghe che si aprivano sul dedalo di strette strade in pietra levigata e i locali eleganti frequentati dalle nobildonne della città.
Zefiro, invece, aveva tutt’altri pensieri per la testa. La piana di Myr, sprovvista di boschi o di una qualsiasi altra macchia d’alberi, non offriva alcun riparo ed era estremamente esposta, non solo ai capricci del tempo ma anche agli attacchi di ipotetici nemici, e loro con lei. Era assolutamente sicuro che Radamanto avesse disseminato per quella piana manipoli di Elfi neri, pronti a tenderli un agguato, nascosti tra l’erba alta. E se non fossero stati loro ci sarebbero stati i briganti che approfittavano di quel periodo per assaltare i solitari mercanti che si arrischiavano a viaggiare da soli. Il ragazzo continuava a volgere lo sguardo da una parte all’altra della strada ma tutto ciò che vedeva era erba, nient’altro che erba smossa dal vento. Cercò di calmarsi, in fondo era appena metà mattina, i briganti non si sarebbero arrischiati ad assaltarli a quell’ora. Cercò di convincersi con questa blanda ed effimera speranza e ci riuscì, fino a quando non intravide un movimento alla sua destra.
Cavoli! Pensò, possibile che i briganti avessero deciso di far crollare così miseramente la sua ipotesi e volessero attaccarli in pieno giorno?
Anche Corniolo notò il movimento e si agitò sulla sella, preoccupato.
«Cosa credi che sia stato?» domandò a Zefiro
«Cosa?» chiese Matisse che procedeva tra i due e non si era accorta di nulla
«Niente, mi era solo sembrato di aver visti qualcosa muoversi. Magari è stato solo un gioco di luce o un’allucinazione» rispose il ragazzo poco convinto. Il movimento si ripeté.
Sembra piuttosto reale e concerta per essere solo un’allucinazione si ritrovò a pensare Corniolo.
No, i briganti no stava intanto pregando Zefiro. Non che non avesse la forza o i mezzi per affrontarli, ma non ne aveva assolutamente voglia. Insomma possibile che in neanche una settimana di viaggio avessero già incontrato di tutto?
Le sue preghiere, però, non vennero ascoltate e vennero presto circondati da un gruppo di quattro persone, ammantate di nero e con il volto coperto.
«Dove state andando di bello, soli soletti?» chiese uno di loro, la voce soffocata dalla stoffa che gli copriva la bocca. Matisse sussultò, spaventata. I piccoli occhi avidi del brigante saettarono su di lei.
«Oh ma cosa vedo qui!» disse con voce suadente avvicinandosi alla ragazza
«Non la toccare!» ruggì Zefiro, frapponendosi fra i due
«Altrimenti cosa fai?» lo provocò il brigante, per nulla intimidito
«Ti lascio la possibilità di scegliere: o finisci ridotto a brandelli dalla mia spada o in cenere. Ti consiglio la seconda opzione, è meno dolorosa» sibilò il ragazzo minacciosamente, uno strano scintillio attraversò i suoi occhi turchini, facendo sussultare il brigante.
«E ne saresti davvero capace?» replicò questi, rimasto colpito dalla minaccia, ma ancora piuttosto scettico a riguardo
«Ne vuoi una dimostrazione?» chiese Zefiro e prima che il brigante potesse replicare qualcosa, il ragazzo sprigionò dalle sue dita una fiamma di un azzurro intenso che andò a colpire uno degli altri briganti. Questi si accasciò a terra, emettendo appena un gemito stozzato. Dal suo corpo si alzava del fumo ed emanava un leggero odore di bruciato.
«Hai ancora dei dubbi a riguardo?» domandò Zefiro con un sorriso storto che spaventò pure Matisse
«Chi siete?» domandò terrorizzato il brigante
«Solo un brutto ricordo, se te ne andrai da qui, ora!» soffiò il ragazzo, chinandosi sul cavallo. Era così vicino al viso del brigante che poteva leggere la paura racchiusa nei suoi occhi. Il brigante non se lo fece ripetere due volte e se ne andò a gambe levate, seguito dai due supersiti della sua compagnia. Corniolo scoppiò a ridere «Sei stato geniale!» si complimentò con Zefiro «Non mi sono mai divertito così tanto! Hai visto che facce? E come correvano veloci? Dovresti farlo più spesso»
Il ragazzo sorrise mestamente, non andava molto fiero di quello che aveva fatto. Fermò il cavallo davanti al cadavere fumante e smontò.
«Cosa hai intenzione di fare?» chiese Corniolo confuso
«Seppellirlo» rispose semplicemente Zefiro
«Ma è un brigante!» protestò l’ometto
«Innanzitutto è un uomo e va trattato come tale » replicò il ragazzo
«Allora potevi anche evitare di carbonizzarlo sul posto» commentò a bassa voce l’omuncolo. Zefiro fu costretto a dargli ragione. Non sapeva assolutamente cosa gli fosse preso, si era comportato in maniera impulsiva e violenta, non l’aveva mai fatto prima. Si chiese che giorno fosse e scoprì con rammarico che quella sarebbe stata una notte di luna nuova. Era durante i noviluni che le presenze nel suo corpo si facevano più forti e insistenti, come se la totale oscurità le rafforzasse e le incoraggiasse. Mentre stava minacciando quell’uomo si era sentito per un brevissimo tempo, solo per un attimo, completamente in balia di quelle presenze, ma era stato lui, di sua spontanea volontà, a lasciare che lo assoggettassero. Quindi non poteva dare la colpa interamente al novilunio, lui stesso stava iniziando a piegarsi davanti a quelle forze e con suo sommo ribrezzo sentiva che non gli era affatto dispiaciuto usufruire del potere che queste gli avevano concesso, anche se solo per un istante.
Il resto del viaggio continuò in silenzio, Matisse era rimasta turbata da quello che aveva visto. La sensazione riguardante il fatto che Zefiro nascondesse qualcosa, si era intensificata, prendendo i contorni sfuocati di una sorta di ipotesi.
E se avesse due identità? Rifletteva dentro di sé e se esistesse uno Zefiro buono dagli occhi azzurri e uno malvagio dagli occhi rossi?
Non si era dimenticata di quella notte e di quelle iridi color del sangue, che ogni tanto tornavano a farle visita nei suoi sogni, tramutandoli in incubi. Prima o poi avrebbe dovuto chiedere spiegazioni a Zefiro, ma non riusciva a trovare il coraggio né il modo di dirglielo. Sapevano perfettamente entrambi che quella notte non aveva avuto un’allucinazione, lei aveva visto quegli occhi e aveva sentito quella voce. Da dove provenisse non lo sapeva, ma non era poi tanto sicura di volerlo sapere. Eppure, doveva scoprire cosa nascondeva Zefiro, non sarebbe riuscita a fidarsi pienamente di lui se non l’avesse scoperto e non poteva certamente viaggiare per altre tre settimane con una persona di cui si fidava poco.
Zefiro, invece era scosso da altri pensieri, aveva paura di quello che avrebbero potuto fare quella notte le presenze, essendo più forti e lui più debole e assoggettabile. Inoltre era anche stanco, aveva alle spalle troppe notti insonni e troppe ore di viaggio; non era sicuro che sarebbe riuscito a rimanere sveglio anche quella notte. Il ragazzo imprecò sottovoce, odiava quelle voci che lo stavano deteriorando da dentro, odiava la causa che l’aveva portato ad averle dentro di sé.
Aveva solo quattro anni quando le voci entrarono dentro di lui; più che di voci, sarebbe stato più corretto parlare di spiriti o di demoni: esseri incorporei che avevano la capacità di penetrare all’interno della psiche delle persone e di sottometterla al loro volere. La loro origine era oscura, si sapeva solo che erano creature malvagie, subdole e crudeli che portavano le loro vittime a compiere azioni atroci solo per il proprio divertimento. Zefiro aveva accompagnato Procne aldilà della Barriera, era ancora troppo piccolo per poter essere lasciato solo a casa e la donna aveva fatto l’errore di portarselo dietro con sé. Il mondo aldilà della Barriera era stato, fin da subito, misterioso e affascinante. Tutto quello che era stato bandito dal regno di Heaven trovava rifugio lì: streghe, orchi, goblin e tutte le creature più ripugnanti, malvagie o ritenute pericolose erano state spedite lì nel corso dei secoli. Procne andava spesso aldilà della Barriera, lei stessa era una creatura della stessa risma di quelle che abitavano quei luoghi, ma, nel contempo era diversa da loro, in un certo senso superiore. Nonostante questo, frequentava spesso gli abitanti di quel luogo, in particolare gli Stregoni, era da loro che aveva appresso tutto il suo sapere ed era dai loro studi che continuava a imparare nuove cose. Gli Stregoni erano stati i primi a venire scacciati dal regno, a causa della loro capacità di poter adoperare la magia; avevano approfittato del regime di segregazione al quale erano stati costretti, per compiere studi approfonditi sulla magia e affinare le loro tecniche. Scoperta la magia nera e rimasti affascinati da questa, iniziarono a praticarla sempre con maggiore frequenza, fino a quando questa non si sostituì completamente alla magia bianca. La magia nera concedeva maggiore potere agli Stregoni e permetteva di fare molte più cose, tra le quali evocare gli spiriti. Procne era andata da uno di loro, proprio per apprendere questa tecnica. Non che lei adoperasse la magia nera, ma a volte la sfruttava, in quanto le dava maggiore possibilità di agire. Tutti i veleni che conosceva e i rispettivi antidoti venivano dagli studi degli Stregoni che abitavano aldilà della Barriera. Procne non aveva paura di loro ed era fermamente convinta che le loro conoscenze fossero fondamentali e potessero rivelarsi utili un giorno.
Zefiro non si ricordava il nome dello Stregone da cui andò la donna, ma si ricordava perfettamente l’abito scuro che indossava e gli attraenti occhi verde smeraldo che brillavano nell’ombra gettata dal cappuccio. Lo Stregone aveva mostrato a Procne come evocare e governare gli spiriti e l’aveva invitata a provare lei stessa, ma qualcosa era andato storto: Procne aveva perso il controllo sugli spiriti che avevano iniziato a fuggire da ogni parte, impazziti e felici di essere finalmente liberi. Tre di loro avevano pensato bene di seguire il proprio primario istinto ed entrarono nel corpo di Zefiro, l’unica persona abbastanza debole e indifesa, presente. Da quel momento Zefiro iniziò a portare gli spiriti dentro di sé e a nulla erano valsi i tentativi di Procne di scacciarli dal suo corpo. Ormai era da quasi sedici anni che conviveva con loro e condivideva con loro la sua mente e il suo corpo.
 
Procne seguì con lo sguardo le volute di fumo violaceo che si erano appena alzate dal suo calderone. Era appena stata aldilà della Barriera e gli Stregoni le avevano rivelato finalmente come liberare Zefiro dagli spiriti che lo tormentavano. Era stata tutta colpa sua e non se l’era mai perdonato, né lo avrebbe mai fatto. Era stata un’assurda sciocchezza da irresponsabili portare un bambino in un covo di Stregoni operanti la magia nera. Ma adesso aveva il modo di porre rimedio al suo errore. Un semplicissimo antidoto e un incantesimo, ecco cosa bastava per far sloggiare gli spiriti dal corpo di Zefiro e renderlo finalmente libero. L’unico problema era che in sedici anni durante i quali l’aveva cercato, l’aveva trovato proprio quando Zefiro era lontano e non sarebbe tornato prima di un mese. Procne era fermamente convinta che il ragazzo sarebbe riuscito a tenerli a bada ancora per quel periodo, come aveva fatto fino a quel momento. Un composto cobalto sobbolliva nel calderone, Procne aggiunse una manciata di erbe e questo esalò uno sbuffo di fumo argenteo. L’Oppio degli spiriti lo chiamavano ed era un composto capace di stordire gli spiriti e, in un certo senso, farli addormentare; li indeboliva, in modo da permettere all’incantesimo di fare effetto. Sarebbe stato devastante e spossante estirpare degli spiriti da un corpo quando questi erano ben consapevoli di quello che stava accadendo e per nulla contenti e disposti a lasciare la loro dimora. Con i sensi inebetiti, invece, sarebbe stato tutto più facile. Procne cercò di decifrare la grafia febbrile e spigolosa dello Stregone e riuscì ad intuire il passaggio successivo. Si fidava ciecamente di Alistair e non le aveva mai dato modo di pentirsi della fiducia riposta in lui. Era uno Stregone affidabile e disponibile, forse l’unico della sua razza. Tutti gli altri erano diventati troppo chiusi, scontrosi e diffidenti, avevano subito troppe torture e umiliazioni per riuscire ad avere ancora contatti con qualcuno. Procne non aveva modo di credere che Alistair l’avesse ingannata e sperava vivamente che il rimedio da lui proposto avrebbe funzionato.
Procne vagò con lo sguardo lungo le pareti del suo antro, alla ricerca dell’ingrediente successivo, con un sorriso sollevato lo trovò. Ne erano rimaste poche gocce, ma sarebbero bastate. Versò il liquido rosso cupo nel contenuto e questo prese un bel color indaco. Procne lo rimestò un’ultima volta e lo lasciò sobbollire per una notte. Fattolo restringere lo travasò in un’ampolla e sorrise soddisfatta, guardando in controluce il liquido all’interno: era di un intenso color viola con sfumature più chiare a seconda del taglio di luce…Il composto era pronto, mancava solo Zefiro.
 



 
***

Finalmente si è scoperto cosa tormenti Zefiro. Mi rendo conto che la causa scatenante è debole, banale, inverosimile ed estremamente stupida, ma non mi è venuto in mente di meglio, perdonatemi...
Per il resto spero che il capitolo vi piaccia: ancora nessuna azione rocambolesca o scene di combattimento, ma non sono mai stata brava a descriverle e non saprei assolutamente dove inserirle...Poverini! Non posso torturarli colpendo continuamente Matisse , Zefiro e Corniolo con attacchi di Elfi, briganti e lupi affamati, mi sembrano già abbastanza tormentati...Soprattutto Zefiro: riuscirà a non soccombere agli spiriti che lo tormentano, riuscirà a resisterli o cadrà nelle loro grinfie e verrà sopraffatto...Come affronterà l'imminente Notte degli spiriti?
Al prossimo capitolo ;)
Ayr  

Ritorna all'indice


Capitolo 11
*** La notte degli spiriti ***


Il sole stava declinando all’orizzonte, incendiando il cielo e preannunciando la notte imminente. Dovevano trovare un posto dove dormire, era impensabile passare la notte all’aria aperta nella piana di Myr, completamente esposta alle inclemenze del tempo o agli attacchi dei predatori o predoni notturni. L’unica alternativa era soggiornare in una locanda. La via principale era costellata di accoglienti edifici in legno che garantivano vitto e alloggio; non era lo stesso, però, per le vie secondarie. Corniolo aveva insistito sul fatto di non avere alcuna intenzione di immergersi nella confusione della via principale, e molto probabilmente a quell’ora avrebbero trovato tutte le locande piene. Non rimaneva che affidarsi alla provvidenza e alla famosa ospitalità degli abitanti della piana di Myr.
Fu Matisse a scorgere una luce lontana, baluginante, quasi impercettibile nella vivida luce rosso acceso del tramonto che inondava la piana. Proveniva da una fattoria, una delle tante disseminate lungo la piana di Myr, coltivata a cereali e ortaggi. La ragazza la indicò agli altri due, proponendo di passare lì la notte. Zefiro e Corniolo non ebbero nulla da obiettare e diressero i cavalli in quella direzione.
La fattoria era piuttosto grande, questo faceva sperare nella presenza di una stanza in cui avrebbero potuto soggiornare, forse più di una. Era interamente costruita in legno e affiancata ad una stalla e a un pollaio. Fu designato Zefiro per chiedere ospitalità per la notte, sarebbe sicuramente riuscito a convincere la padrona di casa con le sue parole e il suo fascino. Si ravviò i capelli, spettinati dal vento che ancora ruggiva lungo la piana, e bussò alla porta. Gli aprì una donna rubiconda dalle guance rosse e i lunghi capelli biondi, tipici delle genti del sud, stretti in una treccia.
«Buonasera signora» la salutò cortesemente Zefiro sfoderando un sorriso abbagliante a ammaliatore «Mi spiace disturbarla, ma, vede, io e i miei amici siamo stati sorpresi dalla sera e non abbiamo un posto dove dormire. Appellandomi alla famosa ospitalità degli abitanti di Myr, volevo chiederle se potesse, ecco…»
«Ospitarvi per la notte?» lo interruppe la donna, Zefiro annuì e riuscì perfino a far spuntare un lieve rossore sulle guance, come se fosse imbarazzato dalla richiesta appena fatta. La donna lo scrutò con i suoi occhi scuri e il suo sguardo passò da lui a Matisse e Corniolo, poco dietro di lui, ancora in sella ai cavalli.
«Siete i benvenuti!» disse alla fine, aprendo le labbra carnose in un sorriso cordiale «Morten» chiamò poi rivolta all’interno dell’abitazione. Sulla soglia apparve un ragazzo allampanato e secco, con i capelli color sabbia e una quantità esorbitante di lentiggini che gli ricoprivano le guance «Occupati dei cavalli dei signori» gli ordinò la donna e Morten di malavoglia si diresse verso i cavalli. Quando i suoi occhi incrociarono la figura di Matisse, si soffermarono un po’ troppo sul viso della ragazza e con un po’ troppa intensità, tanto da farla arrossire.
«Quel Morten non mi piace» sibilò Corniolo gettando uno sguardo bieco al ragazzo che stava portando i cavalli nella stalla
«A te non piace qualsiasi creatura di sesso maschile che mi guarda per più di due secondi» gli fece notare scherzosamente Matisse, Corniolo scrollò le spalle ed entrò nell’edificio. L’interno era luminoso, sobrio e accogliente, nell’aria aleggiava un leggero profumo di erbe aromatiche unito a quello più intenso e penetrante di legno. La donna iniziò a dare disposizioni ai suoi numerosi figli, a uno ordinò di preparare la stanza per gli ospiti, all’altro di aggiungere delle sedie, a un terzo di procurare delle lenzuola pulite. Intanto non si fermava un attimo, passava dalla cucina alla sala, seguendo le pentole sul fuoco, rimproverando uno dei figli o consolandone un altro. Era davvero incredibile la sua capacità di stare dietro a più cose contemporaneamente e intanto non aveva smesso di fare domande ai tre, rivolgendosi soprattutto a Zefiro; il suo fascino da bel tenebroso aveva conquistato la donna.
«Da dove venite?» aveva domandato assaggiando il contenuto di una pentola che sobbolliva sul fuoco
«Fogliadoro» rispose Corniolo per lui, il che non era propriamente falso
«E siete qui per il mercato?» domandò ancora aggiungendo delle verdure al composto
«Più per comprare che per vendere» puntualizzò Corniolo, precedendo Zefiro
«Al mercato di Solwin si trovano sempre delle cose interessanti» disse la donna mescolando il composto, uno dei figli della donna entrò di corsa nella stanza e si nascose dietro le gambe della madre
«In realtà saremmo diretti a Neherin» puntualizzò Corniolo. La donna, intanto, aveva fatto una nuova domanda, ma non ottenendo risposta la ripeté
«Sono i suoi figli?»
«Come, prego?» chiese Corniolo confuso
«Le ho chiesto se sono i suoi figli» ripeté la donna per la terza volta
«Chiamiamoli più i miei protetti» rispose Corniolo, cercando di non ridacchiare. Si chiedeva come a quella donna potesse essere venuta in mente una cosa simile. Anche Matisse e Zefiro cercarono di trattenersi dallo scoppiare a ridere, la supposizione della donna era stata piuttosto divertente e assurda. Questa annuì e tornò a occuparsi della cena.
In quel momento la porta si spalancò e fece il suo ingresso nella sala il padrone di casa, di ritorno dai campi, seguito dal primogenito; possedevano entrambi i tratti somatici tipici degli abitanti della piana: una costituzione robusta, il viso cotto dal sole e rovinato, tipico di chi lavorava molto all’aria aperta, i sottili capelli color sabbia e il tipico carattere di bonaria cordialità e benevola accoglienza.
L’uomo si rivelò da subito una persona affabile e incline al riso, per tutta la cena, allietò la sua famiglia e i suoi ospiti, con il resoconto della sua giornata lavorativa, costellato di aneddoti divertenti. Era un buon oratore, la sua voce cavernosa era piacevole da ascoltare e la sua risata contagiosa aveva rallegrato la serata. Durante la cena, Matisse, aveva sentito costantemente gli occhi di Morten fissi su di sé, ogni volta che aveva alzato lo sguardo, aveva incrociato quello nocciola del ragazzo. Si era sentita piuttosto in imbarazzo e non le erano sfuggite le numerose occhiate minacciose lanciate da Zefiro e Corniolo al ragazzo. Anche il primogenito, un certo Barden, non aveva smesso di guardarla e più volte aveva provato ad intavolare una conversazione con lei; ma la ragazza, intimidita da quello sguardo, aveva risposto a monosillabi o con frasi spezzettate prive di un inizio e una fine. Non era abituata ad avere così tanti occhi su di sé, e tutta quell’attenzione per lei era destabilizzante e la spaventava. Matisse, nonostante l’apparenza, era una ragazza parecchio timida e diffidente, e l’abitare per così tanto tempo in un villaggio sperduto, non aveva fatto altro che accentuare questo lato del suo carattere. La ragazza giocherellava con il cibo, tentando di rispondere in maniera più completa e meno frammentaria alle domande di Barden, ma i suoi tentativi risultavano inutili: si confondeva, la sua lingua si inciampava e finiva con il balbettare qualcosa di sconnesso per poi mettersi in tutta fretta in bocca un cucchiaio di minestra, per evitare di continuare a parlare.
Fu un vero sollievo per la ragazza, e anche per Zefiro e Corniolo, a dire la verità, il poter finalmente alzarsi da tavola e ritirarsi nella stanza preparata per loro. Avendo così tanti figli, dieci in tutto,  nonostante la grande quantità di stanze, l’unica disponibile, era risultata un’enorme stanza che si trovava nel sottotetto. Era luminosa e dal soffitto spiovente, il che rappresentava un problema per Zefiro, costretto a chinare la schiena per non sbattere la testa. In essa erano stati preparati tre letti, o per meglio dire, un letto vero e proprio, e altri due giacigli, due semplici materassi stesi sul pavimento coperti da un lenzuolo leggero e una coperta.
«Mi dispiace molto» si era scusata la padrona di casa, quando aveva mostrato loro la stanza «Avrei voluto offrirvi qualcosa di meglio ma…»
«È perfetta» l’aveva interrotta Zefiro con un sorriso luminoso «È molto più di quanto potessimo desiderare» aveva continuato. E in effetti, dopo aver dormito per quasi una settimana sulla dura terra, con solo una coperta ad isolarli dall’umidità del terreno, anche quel giaciglio spartano pareva un letto da re.
Zefiro e Corniolo insistettero per far dormire Matisse sul letto, nonostante le proteste della ragazza.
Alla fine questa, accettò, logorata dalle insistenze dei due e, stanca per la cavalcata, si addormentò in un attimo.
Non fu lo stesso per Zefiro. A pancia in su, con le braccia incrociate a sostenere la testa, fissava il soffitto con sguardo vacuo, cullato dal respiro regolare e lieve della ragazza e dal rumoroso russare di Corniolo, steso a poca distanza da lui. Il ragazzo aveva paura ad addormentarsi, temeva che le presenza dentro di lui avrebbero preso il sopravvento. Zefiro sentiva gli spiriti agitarsi in lui, ruggire, bramosi di potersi manifestare e di soggiogarlo; il ragazzo cercava di contrastarli, ma era consapevole del fatto che quella notte avrebbero vinto gli spiriti. Rafforzati dal novilunio, artigliavano la volontà di Zefiro, cercando di logorarla, sussurravano parole suadenti, cercando di sfinirlo, volevano impossessarsi di lui, carpirlo e avvolgerlo nelle loro spire, ma il ragazzo cercava tenacemente di aggrapparsi a quelle briciole di lucidità che pian piano stavano svanendo. La stanchezza gravava su di lui come un macigno, le palpebre si facevano pesanti e più volte avevano accennato ad abbassarsi, tutto il suo corpo urlava, voleva riposare, ristorarsi, ma Zefiro non poteva permetterselo. Quelle presenze avrebbero approfittato di lui e chissà cosa avrebbero combinato…Ma i bisogni del corpo ebbero la meglio sulla sua volontà e il ragazzo si addormentò. Gli spiriti che albergavano in lui, esultanti, lo invasero e lo sottomisero alla loro volontà.
Zefiro spalancò gli occhi, si sentiva più forte, stranamente e sinistramente più forte. Quella forza non proveniva da se medesimo, era una forza aliena, non sua, ma nonostante questo non fece nulla per scacciarla. Come un automa si alzò, cercando di fare meno rumore possibile. Non doveva svegliare Matisse, né tanto meno Corniolo, sarebbe stato un guaio. Lentamente, a piedi scalzi, si diresse verso l’angolo della stanza dove avevano abbandonato l’armamentario. Il metallo delle armi luccicava debolmente, colpito dalla luce argentea delle stelle che filtrava dai lucernari. Zefiro allungò una mano verso la sua spada, ma la ritrasse di scatto.
Ci vuole qualcosa di più piccolo e più maneggevole sussurrò qualcosa nella sua testa, con tono di rimprovero. Zefiro, convenne con la voce, e dirottò la mano verso la sua cintura, a cui era assicurato uno dei pugnali. Per abitudine, dormiva sempre con una lama al fianco, pronta per essere utilizzata in caso di necessità. Cautamente estrasse la lama e questa emise un bagliore mortale, colpita dalla luce stellare. Zefiro si avvicinò con passo felpato a Matisse, che dormiva placidamente, un sorriso appena accennato che le increspava le labbra. Zefiro sorrise a sua volta, ma il suo era un sorriso grottesco e macabro, accentuato da uno scintillio sinistro che baluginò per un attimo nelle sue iridi, color del sangue.
Uccidila! Comandò la voce dentro di lui, Zefiro annuì e il suo sorriso si allargò, trasformandosi in un ghigno raccapricciante che deformava i tratti perfetti del suo volto. Avvicinatosi alla ragazza, rimase per qualche secondo a contemplarla, incantato, rapito dalla purezza e dall’innocenza di quella ragazza addormentata, ignara di tutto.
Avanti cosa stai aspettando? Incalzò la voce, stizzita. Zefiro si rigirò il pugnale tra le dita, indeciso sul da farsi. Era titubante, non se la sentiva di strappare quella ragazza dalle braccia della vita, c’era qualcosa che lo tratteneva. Perché avrebbe dovuto recidere il gambo di un fiore così bello?
Avanti! Cosa aspetti? Domandò la voce esasperata, impaziente di poter finalmente prendere il controllo totale di quel corpo e tornare finalmente in vita, se così si poteva dire. Ma Zefiro indugiava, facendo vagare lo sguardo sui tratti rilassati della ragazza e sul sorriso cristallizzato sul suo volto. Lo spirito dentro di lui si spazientì e Zefiro alzò il pugnale, pronto per affondarlo nel petto della ragazza, che si alzava e abbassava al ritmo regolare del suo respiro. Questa però si svegliò e quando vide il ragazzo incombere su di lei, con in mano un pugnale e gli occhi rosso fuoco, stentò a trattenere un grido. Dalla sua bocca uscì una specie di pigolio strozzato, mentre i suoi occhi si spalancavano sempre di più, trasformandosi in due pozzi colmi di terrore. Fu quello sguardo a far rinsavire Zefiro, lo stesso sguardo di quella notte. Il ragazzo chiuse gli occhi e scosse la testa, come se cercasse di svegliarsi da un brutto sogno. La mano che reggeva il pugnale ricadde al suo fianco e rimase lì, inerte.
Matisse intanto continuava a guardarlo spaventata. Non riuscì a trattenete un sospiro di sollievo quando Zefiro riaprì gli occhi e vide che le iridi erano tornate del consueto blu cobalto. Il ragazzo fece andare lo sguardo da Matisse alla sua mano, che ancora reggeva il pugnale; la guardava incredulo come se non appartenesse a lui e si rese amaramente conto, che quella notte gli spiriti avevano vinto, come lui aveva previsto.
«Mi dispiace» mormorò appena, rivolto al pavimento, non avendo il coraggio di alzare lo sguardo sulla ragazza che stava per uccidere. Matisse non l’aveva mai visto così, sembrava abbattuto, stremato. Dietro quella corazza di determinazione e forza, in realtà, si nascondeva un ragazzo travagliato e fragile, che rischiava di rompersi in mille cocci di vetro. Zefiro si abbandonò sul pavimento e scoppiò a piangere. Matisse rimase basita e lo guardò allibita, non sapendo come comportarsi.
«Zefiro va tutto bene» cercò di consolarlo lei
«Non va tutto bene!» rispose lui tra i singhiozzi «Stavo per ucciderti!»
Matisse scese dal letto e si avvicinò al ragazzo. Avvolse le braccia intorno a lui e lo strinse con forza, cercando di non far disperdere i pezzi di quel ragazzo di vetro.
Zefiro rimase di stucco, sentendo il calore di un altro corpo avvolgerlo. Sapeva che non si meritava quel gesto, eppure ne aveva bisogno: pian piano, sentiva che la sua corazza si stava infrangendo, mostrando quello che era in realtà: un ragazzo tormentato, distrutto e devastato dagli spiriti che lo possedevano e lo torturavano, che lo spossavano e lo rendevano così maledettamente fragile e vulnerabile e solamente quel calore umano, quel gesto così inaspettato e così semplice riusciva a calmarlo e ad acquietare per un attimo il suo animo tormentato preda di una tempesta. Matisse sentì Zefiro rispondere all’abbraccio, sentì le sue lacrime bagnarli una spalla e le sue mani stringersi convulsamente alla sua camicia.
«Mi dispiace» continuava a mormorare Zefiro, tra i singhiozzi, mentre pian piano si stava sgretolando. Non voleva dare la colpa agli spiriti, perché era lui e solamente lui che si era lasciato conquistare e soggiogare da loro, si prendeva ogni responsabilità per il gesto che stava per compiere
«Io- io stavo per ucciderti» ripeté.
Matisse si strinse ancora di più a lui, sentendo che si stava sbriciolando sotto il suo tocco «Non è vero» sussurrò, cercando di consolarlo «Non è colpa tua» disse, e in un certo senso sapeva di avere ragione, sapeva che Zefiro non era in sé, quando le sue iridi mutavano e diventavano color sangue. Tempo fa aveva letto in uno dei volumi di Ortensia degli Spiriti: anime di persone che non avevano accettato la morte e cercavano in tutti i modi di impossessarsi di un corpo. Aspettavano, in trepidante attesa che qualcuno li evocasse per interrogarli, e ne approfittavano per sgusciare fuori dalla loro prigione oscura e tornare liberi. Cercavano poi un corpo da occupare, diventando inquilini sgraditi, parassiti, che cercavano in tutti i modi di soggiogare la volontà del proprio ospite. A quel punto facevano di tutto perché l’ospite uccidesse una persona e rendesse finalmente gli spiriti, padroni assoluti del corpo che occupavano, tornando, in un certo senso, in vita. Intuiva che fosse successa una cosa simile a Zefiro, che il suo animo fosse in preda di questi Spiriti, ma aveva bisogno di una conferma.
«Zefiro…» lo chiamò la ragazza con un filo di voce, sentendo i singhiozzi del ragazzo affievolirsi.
Zefiro si discostò un poco da lei, il suo volto ero lo specchio del suo animo devastato; il ragazzo intuiva quello che gli avrebbe chiesto Matisse, ormai era giunto il momento, non poteva più ritardarlo. Così, fatto un respiro profondo, iniziò a raccontare con un filo di voce la sua triste storia. Ovviamente, omise qualche particolare, ma il succo era quello e Matisse lo ascoltò attenta, trattenendo il respiro.
«E, da allora, sono perseguitato da queste presenze, che mi inducono a fare azioni terribili» concluse Zefiro con un sospiro affranto.
«Io sono troppo pericoloso, Matisse» disse, dopo svariati minuti di silenzio interrotti solo dal roco russare di Corniolo, che dormiva ancora come un sasso «Soprattutto per te. Questa notte sono riuscito a fermarmi, ma non posso garantirti che la prossima ci riuscirò. Ho promesso di proteggerti Matisse, ad ogni costo…» la voce di Zefiro si incrinò
«Dove vuoi arrivare?» domandò la ragazza, sapeva che quel discorso sarebbe andato a parare da qualche parte, e aveva un certo presentimento su dove.
«Dovete proseguire senza di me» dichiarò Zefiro alla fine. Gli sembrava la decisone migliore, l’unica possibile, sapeva di essere sempre stato un pericolo per Matisse e ne aveva avuto l’ennesima conferma. Doveva allontanarsi da lei, solo così l’avrebbe protetta, da se stesso
 


 
***
Finalmente  sono riuscita ad aggiornare, partorire questo capitolo è stata un enorme fatica. Sapevo cosa volevo scrivere, ma quando lo vedevo nero su bianco, cancellavo tutto, insoddisfatta.
Spero di avere reso bene il tormento di Zefiro e di non aver reso il suo crollo troppo patetico. Volevo fare capire quanto Zefiro fosse dilaniato da queste presenze, quanto si sentisse in colpa e responsabile, quanto si sentisse vulnerabile e arrabbiato per questa sua vulnerabilità, quanto si sentisse impotente di fronte all'incapacità di contrastare gli Spiriti che lo occupavano, quanto fosse spossato dalla continua lotta a cui era sottoposto per contrastarli. Spero di aver fatto capire tutto questo e di non averlo reso troppo pesante o insulso. 
Prometto che cercherò di aggiornare il prima possibile :)
Ayr

Ritorna all'indice


Capitolo 12
*** Addio ***


Matisse cavalcava a testa bassa, persa nei suoi pensieri. Corniolo, accanto a lei, provava a strapparla dall’aura di silenzio in cui si era chiusa, ma senza successo; tutti i suoi tentativi di intavolare una conversazione crollavano miseramente.
«Dovete proseguire senza di me» » le parole di Zefiro riecheggiavano nella mente della ragazza.
«Cosa?!» aveva esclamato lei ad alta voce, sconvolta, incurante di svegliare Corniolo
«Saresti più al sicuro se viaggiassi senza di me. Non so se riuscirei a proteggerti da me stesso» aveva mormorato amaramente il ragazzo. Matisse non riusciva né voleva accettare la decisione del ragazzo. In fondo era sempre riuscito a controllarsi fino a quel momento, inoltre nessuno conosceva il Regno meglio di lui, se se ne fosse andato, chi li avrebbe fatto da guida? L’aveva detto a Zefiro che aveva scrollato le spalle, lo sguardo perennemente basso, rivolto al pavimento.
«Avete una mappa, inoltre potrete sempre contare su qualche guida, disposta ad accompagnarvi»
Matisse voleva protestare, non voleva che Zefiro andasse via; le costava ammetterlo, ma si era affezionata a lui, inoltre era l’unico che conoscesse Procne e potesse presentarla a loro. Aveva insistito su questo punto, ma Zefiro era rimasto irremovibile nella sua decisione. Era molto più al sicuro se avesse viaggiato senza di lui, era troppo pericoloso, troppo instabile, troppo imprevedibile, chi poteva assicurarle che una delle notti a seguire non le avrebbe reciso la gola? Matisse non cedeva e Zefiro era sempre più esasperato. Perché cavolo non riusciva a capire la gravità della situazione? Come poteva insistere a continuare a viaggiare con lui, un potenziale assassino che, in preda agli spiriti, non si sarebbe fatto troppi problemi a porre fine alla sua vita?
«Io non posso proseguire con voi, Matisse. Credimi, lo faccio solo per il tuo bene. Non voglio che ti accada qualcosa per causa mia» cercava di convincerla. I ruoli si erano invertiti. In quel momento era Matisse sul punto di crollare e spezzarsi, mentre Zefiro cercava di farla ragionare. Alcune lacrime ribelli, avevano fatto capolino agli angoli degli occhi di Matisse. Il ragazzo si era chiesto perché piangesse per lui: uno sconosciuto che aveva tentato di ucciderla. C’era solo una risposta: Matisse lo amava. Se ne era resa conto quella sera stessa, quando Zefiro aveva dichiarato di volerla lasciare. Solo allora si era accorta di quanto tenesse veramente a lui. Era assurdo, se ne rendeva conto, ma si era innamorata di quel ragazzo misterioso piombato improvvisamente a casa sua in una notte di fine primavera. La sua ragione diceva che era tutto un controsenso, che non c’era logica in questo amore; ma in fondo, nell’amore non regnava la mente e la logica, ma il cuore e l’istinto.
Calde lacrime avevano iniziato a farsi largo tra le ciglia di Matisse e a scorrere lungo le sue guance. Zefiro si era sentito un essere infimo e meschino, ma non poteva fare altrimenti.
«Matisse, non piangere, ti prego, non per una cosa così stupida» aveva cercato di consolarla, prendendola per i polsi. Matisse aveva iniziato a versare copiose lacrime. Zefiro l’aveva abbracciata
«Matisse, non ha senso che tu pianga. Io per te sono uno sconosciuto, uno sconosciuto pericoloso per giunta. L’unico modo che ho per proteggerti e allontanarmi da te, perché non lo riesci a capire?»
«Perché io ti amo» aveva dichiarato la ragazza debolmente, tra i singhiozzi «E ho paura di perderti»
Matisse non sapeva se Zefiro avesse sentito le sue parole, sovrastate dai suoi singhiozzi, forse no, dal momento che l’aveva allontanata da sé, le aveva asciugato le lacrime e le aveva ripetuto che era inutile e insensato piangere per lui.
«Mi dispiace Matisse, ma è l’unico modo» le aveva ripetuto, in quel momento si era svegliato anche Corniolo, chiedendo cosa fosse successo. Zefiro gli aveva espresso la sua decisone e l’ometto l’aveva guardato confuso, senza capire.
«E perché diamine vuoi lasciarci?» aveva domandato «Non è che hai bevuto e sei preda dell’alcol?» Zefiro aveva scosso la testa e si era ritrovato a raccontare di nuovo la sua storia.
«Io ho detto a Procne di non essere adatto a questo compito, che mi sarei potuto rivelare pericoloso e avevo ragione. L’unico modo che ho per mantenere la mia promessa di proteggere Matisse è di allontanarmi da lei, da voi» ripeté per l’ennesima volta «Come posso pretenderla di proteggerla da pericoli esterni se non sono capace di proteggerla nemmeno da me?» aveva poi continuato
«Ma come faremo senza di te?» aveva chiesto Corniolo con voce atona «Tu conosci meglio di me questi luoghi»
«Troverete un sostituto più degno e meno pericoloso» aveva risposto Zefiro
«Allora hai deciso già tutto» aveva chiesto Corniolo, ma più che una domanda la sua era stata un’amara constatazione
«È l’unico modo. Non posso più garantire di…» Zefiro si era interrotto, aveva allontanato gentilmente da sé Matisse, ancora piangente e si era alzato. Non poteva più aspettare, più avrebbe indugiato più sarebbe stato straziante e difficile lasciarli. Si ripeté che era la decisione migliore, che così Matisse sarebbe stata al sicuro e si rimproverò per non averla presa prima, ma aver aspettato fino ad allora.
L’alba si stava avvicinando, il cielo si stava schiarendo e i primi incerti e timidi raggi di sole stavano bucando l’oscurità della notte, quando Zefiro salutò i suoi compagni di viaggio, abbandonò le proprie armi e uscì dalla stanza.
Matisse l’aveva seguito con lo sguardo annacquato dalla lacrime, l’aveva visto allontanarsi a cavallo e venire inghiottito dal blu chiaro del mattino imminente.
La padrona di casa aveva assistito alla partenza di Zefiro, ma aveva avuto la delicatezza di non domandare nulla. La stessa sensibilità, però, era sconosciuta al suo primogenito che senza tanti giri di parole aveva domandato dove fosse andato così di fretta il ragazzo moro, prima che fosse pienamente mattino. Corniolo aveva laconicamente risposto che aveva avuto un improvviso e urgente impegno che l’aveva costretto a partire e nessuno aveva fatto più domande.
Erano partiti dalla fattoria a mattino inoltrato, il cielo era limpido e di un meraviglioso azzurro intenso. Lo stesso azzurro degli occhi di Zefiro aveva pensato Matisse tristemente montando a cavallo. Non aveva detto una parola fino ad allora, troppo sconvolta e addolorata. Aveva palesato i propri sentimenti nei confronti di Zefiro, ma non erano bastati a trattenerlo, o era stato proprio questo ad averlo indotto a partire così velocemente. Ora si sentiva svuotata e abbattuta, la sua le sembrava una mossa avventata e stupida. Con uno stizzito colpo di tallone aveva spronato il suo cavallo a partire.
«Non è una magnifica giornata?» domandò Barden, affiancando la ragazza. Il giovane si era unito a loro. Né Matisse, né Corniolo, però, avevano preso bene la notizia. Il sostituto di Zefiro era uno spaccone narcisista, arrogante, presuntuoso e insensibile che mostrava un po’ troppo interesse nei confronti di Matisse.
«Barden, la vuoi lasciar stare?» pigolò Morten, davanti a lui. Anche il ragazzo era divenuto parte del gruppo. I due, infatti, erano stati mandati dalla madre a Solwin, con l’incarico di comprare alcune cose indispensabili e avevano approfittato del fatto che Corniolo e Matisse dovessero fare tappa lì, per unirsi a loro.
«Non si sa mai cosa si può trovare nella piana di Myr» aveva detto Barden quando aveva chiesto se poteva fare la strada con loro «Nessuno sa cosa nasconde l’erba alta di questa piana».
I due avevano accettato la sua compagnia solo perché il giovane aveva assicurato di conoscere la strada più sicura e veloce per arrivare a Neherin. Ma entrambi avrebbero fatto volentieri a meno della sue presenza. Era stato deciso che Morten sarebbe rimasto a Solwin per svolgere l’incarico affidatogli dalla madre, mentre Barden avrebbe proseguito con Matisse e Corniolo fino a Neherin, dove abitava una sorella di suo padre; da lì in poi si sarebbero affidati ad una guida per giungere fino a Rovonero o Ripascura, due villaggi in prossimità della Foresta dei Frassini d’argento. Ovviamente Barden sarebbe stato pagato per il suo servizio, ma non era stata la prospettiva di un guadagno a indurlo a proporsi come guida.
Il ragazzo ignorò le parole del fratello e avvicinò ancora un po’ il proprio cavallo a quello della ragazza, procurandosi un’occhiata di fuoco da parte di Corniolo. Ma Barden ignorò bellamente anche quella, concentrandosi sul volto dai tratti spigolosi ma belli della ragazza.
«Non essere triste per quel tizio! Non ne vale la pena! In fondo, cosa era?» disse, Corniolo sbuffò dal naso, Matisse non rispose alla domanda e dato un colpetto al suo cavallo accelerò il passo per allontanarsi da quell’essere inopportunamente impertinente. Matisse raggiunse Morten; preferiva di gran lunga cavalcare accanto a quel ragazzo timido e impacciato, ma silenzioso e discreto piuttosto che con Barden, indisponente al massimo.
«Mi dispiace» mormorò cautamente Morten dopo un po’
«Per cosa?» domandò la ragazza, il ragazzo era riuscito a rompere la coltre di silenzio che avvolgeva Matisse
«Per l’improvvisa partenza di quel ragazzo, si vede che ci tieni molto a lui» Morten si morse le labbra, forse aveva esagerato, forse si era spinto troppo oltre. Matisse però non si indispettì, ma sorrise tristemente
«Non ti devi dispiacere per me, davvero. Lui non se n’è andato per sempre, tornerà, me lo sento»
Morten annuì, senza aver capito in realtà cosa intendesse la ragazza, e la loro cavalcata proseguì in silenzio.
 
Una figura incappucciata seguì con lo sguardo il quartetto che avanzava per la piana accarezzata da un vento leggero. Il suo cavallo, nero come l’inchiostro, si stagliava contro l’erba alta. Era consapevole di essere fin troppo visibile in un ambiente così aperto, per questo cercava in tutti i modi di rimanere indietro e di non farsi vedere. Una folata di vento più forte delle altre strappò il cappuccio dalla testa della figura, liberando una massa di capelli corvini, annodati dal vento. La figura sbuffò spazientita e si rimise il cappuccio, usando una mano per stringerlo, evitando così che gli cadesse di nuovo. Con un colpetto fece muovere il cavallo mantenendosi sempre ad una debita distanza. Il suo sguardo non abbandonava mai il quartetto, in particolare un figura slanciata, che avanzava elegantemente su un cavallo pomellato, i lunghi capelli color rame, raccolti in una treccia quasi del tutto sfatta, ondeggiavano a ritmo dei passi del cavallo. La figura sospirò e distolse lo sguardo, i suoi occhi, blu cobalto, si erano fatti cupi e vagamente tristi.
È vero, aveva detto che si sarebbe allontanato da loro, ma non che gli avrebbe abbandonati. In fondo aveva fatto una promessa e per quanto gli costasse mantenerla, non poteva nemmeno permettersi di infrangerla. Si considerava un uomo di parola e tale sarebbe stato. Aveva promesso a Procne che avrebbe accompagnato e protetto la ragazza; aveva promesso alla ragazza stessa che l’avrebbe protetta ed era quello che stava facendo. Seguendola da lontano avrebbe potuto comunque aiutarla in caso di bisogno, ma nel contempo sarebbe stata lontana da lui e dai suoi imprevedibili e pericolosi istinti omicidi.
Zefiro rallentò l’andatura del cavallo e si concesse un nuovo sospiro. Era la decisione più saggia, la migliore che avesse potuto prendere, e allora perché gli sembrava di stare facendo uno sbaglio?
«Perché io ti amo» queste parole lo investirono improvvisamente, stordendolo per un attimo. Matisse era convinta che non le avesse capite e invece aveva sentito benissimo. Perché quella ragazza si era innamorata di lui? Cosa ci trovava in un ragazzo tormentato e pericoloso che avrebbe potuto ucciderla in ogni momento? Un ragazzo di cui, per altro, aveva dichiarato di non fidarsi, fino a due giorni prima. Possibile che l’amore fosse così dannatamente priva di senso?
Zefiro non poteva ricambiare questo amore, anche volendo. Come aveva detto quella notte a Corniolo lei era una principessa, la principessa. Aveva bisogno di una persona nobile, responsabile, fidata e innocua al suo fianco, non di un reietto mezzosangue strampalato e posseduto. Non era esattamente il genere di ragazzo che qualcuno avrebbe voluto al proprio fianco. Zefiro scosse la testa. Che razza di pensieri stava andando a fare? Doveva essere colpa della stanchezza. Ma non poteva accusare la stanchezza di tutti i suoi problemi, era una scusa troppo banale e rifugiarsi in essa era da codardi. Eppure Zefiro era stanco: di essere quel che era, di non poter vivere una vita come tutti gli altri, di avere quei dannati spiriti dentro di lui e quei dannati poteri magici, di non poter essere di alcun aiuto per Matisse, di sentirsi così dannatamente impotente e vulnerabile. Perché Procne aveva voluto che fosse lui a trovarla? Perché aveva mandato lui? Avrebbe potuto chiedere a chiunque altro. Forse era un modo per fargli capire che non era così inutile come pensava, forse voleva riscattarlo in qualche modo, voleva fargli capire che anche lui aveva un ruolo, come tutti gli altri.
Come se ogni creatura fosse la pedina in un enorme scacchiera, con un proprio ruolo e un proprio compito, e questa non fosse guidata dalla propria volontà, come erroneamente credeva, ma ci fosse una volontà più alta e potente alla quale doveva sottostare e di cui Procne era il portavoce. Zefiro era stanco persino di questo, di essere una pedina in balia di una volontà più alta, che molto probabilmente si divertiva a vederlo soffrire e godeva nel torturarlo.
Dovrei smetterla con questi pensieri deprimenti e di auto commiserarmi si disse Zefiro risoluto. Non sarebbe servito a nulla perdersi e crogiolarsi in pensieri simili, non l’avrebbero affatto aiutato, se non ad abbattersi ancora di più. Eppure non poteva fare a meno di continuare a chiedersi il motivo per cui Procne si fidasse così tanto di lui, e se davvero fosse una pedina in balia dei capricci di un essere superiore; ma soprattutto si ritrovava spesso a chiedersi quale fosse il suo ruolo in tutta questa storia.
 
«Scacco matto!» dichiarò Radamanto abbattendo con un colpetto dell’indice il re bianco, che si accasciò al suolo, come se fosse stato davvero colpito dalla torre che aveva decretato la sua fine.
«Siete sempre stato bravissimo negli scacchi» si complimentò con lui il suo avversario, facendo vagare lo sguardo sulla scacchiera, cercando di capire come avesse fatto a perdere
«Il gioco degli scacchi e come la guerra» disse l’uomo abbandonandosi contro lo schienale della sedia «Oserei, anzi dire, che sia assimilabile alla vita stessa. Se si è bravi a questo gioco, il rischio di perdere anche negli altri due casi, diventa molto basso»
L’uomo di fronte a lui lo guardò con aria interrogativa «In guerra, come nella vita, bisogna tenere conto di qualsiasi cosa, anche di quella che sembra la più insignificante, ma che si rivela essere la più pericolosa. Bisogna soppesare ogni singola scelta, per evitare di cadere in una trappola. Per raggiungere il proprio obiettivo, nella guerra, come nella vita, bisogna essere attenti, prudenti, scaltri e a volte ance un po’ crudeli» spiegò Radamanto accomodandosi la tunica rosso fuoco
«Vi state riferendo a qualcosa in particolare?» indagò l’altro, Radamanto scoppiò a ridere
«Mi chiedo come vi vengano in mente idee di questo genere, Ippolito» rispose Radamanto tra i singhiozzi.
Ippolito era un altro dei consiglieri della regina, il più codardo e vile, ma nel contempo il più perspicace e intelligente, pertanto, pericoloso. Radamanto temeva che quell’uomo sospettasse qualcosa e, di conseguenza, aveva deciso che fosse una buona idea tenerlo sott’occhio.
«Volete la rivincita?» domandò Radamanto raccattando i pezzi della scacchiera
«Per oggi mi sembra di aver perso già abbastanza» rispose l’uomo alzandosi a fatica a causa della sua mole «Forse un’altra volta» mormorò salutando con un rispettoso cenno del capo Radamanto e uscendo dalla stanza con passo ciondolante.
Radamanto lo seguì con lo sguardo, per poi dirigerlo sulla scacchiera. Prese distrattamente in mano la regina bianca e se la rigirò tra le dita. Un sorriso sardonico gli increspò le labbra e la sua mano si chiuse intorno al pezzo.
«Presto toccherà anche voi, mia regina. Sono sempre stato discretamente bravo negli scacchi e presto o tardi dichiarerò anche a voi lo scacco matto»
Radamanto si abbandonò in una risata sguaiata. Presto avrebbe ottenuto il potere e avrebbe finalmente dimostrato di essere qualcuno; avrebbe avuto, dopo tanto tempo, la possibilità di  mettere in atto le sue decisioni, perennemente scartate, senza dar conto a nessuno, finalmente avrebbe avuto un potere effettivo. La sua non era solo mera bramosia, lui non voleva solo sedere su un trono; lui voleva riscattarsi, voleva vendicarsi di tutti coloro che l’avevano da sempre considerato l’eterno secondo, voleva uscire dall’ombra della sorella nella quale era sempre vissuto, voleva farsi vedere…ma, in fondo, voleva anche dominare, assaporare per un attimo la sensazione di appagamento data dalla consapevolezza di avere tra le mani la vita degli uomini e il fatto che gli bastasse stingere un poco le dita per levargliela.
La regina bianca scivolò dalle dita dell’uomo e cadde a terra, finendo sotto il piede di Radamanto.
 


 
***

Oggi sono piuttosto produttiva, anche se ho scritto un altro capitolo di passaggio, nuovamente introspettivo. Molto probabilmente vi starete annoiando a morte, chiedendovi quando arriverà l'azione e il sangue...Con calma arriveremo anche a quello. Per il momento godetevi questo capitolo, una specie di delirio post pranzo scritto seguendo il filo dei miei pensieri che si rincorrevano l'un l'altro velocissimi. Spero che capiate qualcosa e che il capitolo non risulti troppo confuso o frettoloso.
Zefiro se n'è andato, ma continua a seguire Matisse da lontano. La ragazza ha dichiarato i propri sentimenti, ma sono corrisposti? E poi ci sono Barden e Morten, due comparse a dire la verità, due nuove pedine in quella che è diventata la scacchiera di questa storia...
Quali saranno le prossime mosse? 
Ayr

Ritorna all'indice


Capitolo 13
*** Alla Lanterna Rossa ***


La pianura era spazzata da un forte vento che sospingeva minacciose nuvole grigie che in un attimo detronizzarono l’azzurro del cielo. Corniolo sollevò lo sguardo preoccupato, quello che serve al nostro viaggio è sicuramente della pioggia sbuffò.
Viaggiavano ormai da cinque giorni, e davanti ai loro occhi continuava a sfilare lo stesso monotono paesaggio piatto, sferzato dal vento impietoso. All’orizzonte non si distingueva altro che una sfuocata striscia azzurrognola, ininterrotta.
Più volte Corniolo aveva dubitato di Barden, convinto che in realtà stesse allungando apposta il tragitto per poter passare quanto più tempo possibile con Matisse. Ronzava intorno alla ragazza come una mosca attorno al miele e le si appiccicava al fianco come una sanguisuga; casualmente sedeva sempre accanto a lei e casualmente i loro cavalli si ritrovavano affiancati.
E sempre “casualmente” Corniolo aveva beccato Barden, la prima notte, importunare la ragazza. Era stato svegliato dalle sue grida soffocate e aveva visto il ragazzo tenere saldamente Matisse per i polsi e reclamare un bacio da lei in maniera poco galante.
Corniolo si era schiarito la gola e Barden si era voltato, ritrovandosi l’ascia bipenne dell’altro ad un soffio dal suo pomo d’Adamo.
«Posso sapere cosa stai combinando?» aveva chiesto, premendo l’ascia contro la gola del ragazzo
«Volevo assicurarmi che Matisse stesse riposando bene» aveva risposto il ragazzo con tono baldanzoso ma voce tremante
«E potrei sapere, di grazia, da quando ci si assicura se una ragazza sta dormendo prendendola per i polsi?» aveva ribattuto lui, facendo ruotare l’ascia in modo che la luce della luna ne colpisse il filo, illuminandolo di argentea luce letale. Barden aveva deglutito e aveva lasciato immediatamente i polsi di Matisse. Corniolo, dal canto suo, aveva sospinto ancora di più l’arma contro la gola del ragazzo. Un leggero segno rosso aveva tinto la pelle, là dove la lama premeva.
«Se ti becco ancora a importunarla, giuro che ti trancio la testa e la getto nell’Hara, sono stato chiaro?» aveva sibilato. Barden aveva annuito spaventato ed era sgusciato via ad una velocità sorprendente.
Da allora, almeno la notte, non aveva più provato a rimettere piede nella stanza dove dormiva Matisse.  Se l’avesse fatto, Corniolo non ci avrebbe pensato due volte prima di fargli saltare la testa dal collo. Nel contempo, però, non poteva nemmeno permettersi di eliminare l’unica guida che avevano, e l’unico che trovasse sempre un posto dove dormire, approfittando dell’ospitalità e della conoscenza degli abitanti di Myr. Barden, infatti, conosceva più della metà dei contadini che abitavano la piana ed era solo grazie a lui che, la notte, riuscivano sempre ad avere un pasto caldo e un letto comodo. Anche Barden sapeva di essere indispensabile, e per questo, nonostante la minaccia di Corniolo,  non perdeva occasione durante tutto il resto del giorno di cavalcare accanto a Matisse e chiacchierare con lei. In realtà parlava solamente lui, ma il fatto che la ragazza lo ignorasse bellamente, non gli impediva di  avvicinarla e domandarle qualsiasi cosa o raccontarle una delle sue mirabolanti avventure.
Matisse, dal canto suo, sperava vivamente che Barden venisse sbranato da qualche cane della piana, ma nel contempo era consapevole del fatto che fosse l’unico in grado di condurla fino a Neherin, dal momento che Zefiro se n’era andato.
Matisse pensava costantemente a lui e il fatto che il paesaggio o la compagnia non offrissero alcuna distrazione, non aveva fatto altro che aumentare in lei la pena e la nostalgia. Continuava a rivivere nella mente la scena del loro addio, a ripetere a fior di labbra quelle parole avventate che aveva pronunciato così a cuor leggero e continuava a chiedersi se fosse una follia essere innamorata di quel ragazzo. Dentro di lei ragione e sentimento si scontavano in una lotta estenuante che la spossava il giorno e la teneva sveglia di notte. In quei pochi giorni la ragazza era deperita parecchio, il suo viso si era fatto più incavato, il suo colorito più spento. Passava le notti sveglia a vegliare, in attesa di sentire uno scalpiccio di passi in avvicinamento e di sentire la sua voce sussurrare «Sono tornato» mentre le sue forti braccia l’avvolgevano in un abbraccio caldo e protettivo. Ma queste erano null’altro che fantasie, buone solo per estraniarsi dal mondo e non ascoltare i noiosissimi sproloqui di Barden.
In quel momento iniziarono a cadere le prime gocce di pioggia. Matisse sollevò il cappuccio, imitata, ben presto, dagli altri della compagnia. La pioggia divenne in poco tempo un acquazzone. Le nuvole riversavano sulla piana secchiate di acqua gelata che si abbattevano crudelmente sui quattro poveri viaggiatori, che divennero ben presto zuppi e infreddoliti.
«Dobbiamo trovare un posto dove ripararci! È impensabile continuare a cavalcare sotto questo diluvio» urlò Corniolo, cercando di sovrastare l’ululato del vento, che si era alzato, fortissimo, schiaffeggiandoli con sferzate cosparse di appuntiti aghi di pioggia.
Barden alzò un braccio, segnalando di aver capito e fece un cenno. I quattro condussero i cavalli lungo un viottolo che li immise nella via principale, tramutatasi in un torrente di fango. La tempesta, intanto, flagellava la piana e il vento sospingeva indietro i quattro, che a fatica, cercavano di avanzare in quella muraglia di pioggia. Barden non vedeva che ad un palmo dal naso, tanto tutto era diventato improvvisamente scuro, inoltre le gocce di pioggia gli entravano negli occhi costringendolo a tenerli socchiusi.
Fu quasi per un caso fortuito, quindi, che si imbatté nella locanda della “Lanterna Rossa”. Al buio non si distingueva granché, ma pareva un edificio grande a tre piani; dalle finestre al primo piano filtrava una flebile luce aranciata. La lanterna che dava il nome alla locanda dondolava emettendo scricchiolii preoccupanti e la debole fiammella che baluginava all’interno sfidava la furia del cielo, che non era ancora riuscita a spegnerla.
I tre passarono sotto un arco di pietra che li immise in un cortiletto interno di terra, punteggiata qua e là da sparuti ciuffetti di pallida erba. Il vento era parzialmente smorzato dall’edificio, ma la pioggia continuava a cadere copiosa.
Nel cortile arrivò trafelato uno stalliere zuppo, che reggeva tra le mani una traballante lanterna, la cui flebile luce era messa a dura prova dalle raffiche di vento che si insinuavano subdole attraverso l’arco.
«Che tempo da cani!» esclamò, prendendo per le redini il cavallo di Barden e conducendolo fino alla stalla. Appena varcarono la soglia la pioggia e il vento cessarono e al loro posto subentrò il calore accogliente della stalla.
«Che tempo da cani» ripeté lo stalliere «Non esattamente un tempo adatto a viaggiare» ridacchiò tra sé, mentre i quattro cavalieri smontavano, grondanti acqua. Dalle falde del mantello ruscellavano rivoli di pioggia che andavano a bagnare il pavimento della stalla, cosparso di paglia.
«Fortuna che avete deciso di fermarvi qui» continuò, questa volta rivolto a loro.
«Sapresti dire se c’è posto per quattro viaggiatori affamati e infreddoliti?» domandò Barden togliendosi il cappuccio e scrollandosi via le gocce di pioggia rimaste impigliate tra i capelli.
«Alla Lanterna Rossa c’è sempre posto» rispose una voce baritonale «Soprattutto se si tratta di quattro viaggiatori sorpresi dal maltempo»
Sulla soglia della stalla apparve un uomo basso e tarchiato con una lussureggiante barba rossa, indossava una casacca e dei semplici pantaloni marroni, coperti da un grembiule bianco.
«E soprattutto se uno di loro è i figlio di Seron!» aggiunse, ammiccando verso Barden
«Ginepro!» esclamò Barden «Verrei ad abbracciarti ma sono completamente zuppo» rispose il ragazzo. Seron era uno dei migliori fornitori di Ginepro e Ginepro era uno dei migliori clienti di Sermon che Barden aveva accompagnato più volte; i due, quindi, si conoscevano piuttosto bene.
«Ma ci sarà qualcuno che Barden non conosce in questa dannatissima piana?» borbottò Corniolo cercando di liberare il piede, rimasto impigliato nella staffa.
«Fortuna che Steve ha un occhio di falco, o non ci saremmo nemmeno accorti di voi e sareste stati costretti a strare sotto questo acquazzone» stava intanto dicendo Ginepro «Ma vediamo di andare in un posto meno umido…Mi devi aggiornare su un sacco di cose ragazzo, è da questa primavera che non ti vedo» continuò, prendendo in ostaggio Barden.
«Steve, occupati dei loro cavalli» furono le sue ultime parole prima di sparire al di là della porta della locanda, trascinando il ragazzo per un braccio.
Ginepro, che aveva tutta l’aria di essere il proprietario della locanda, li condusse attraverso un porticato riparato dalla pioggia che immetteva nella sala principale della locanda. Era uno stanzone gigantesco dai muri di pietra e il pavimento in legno, disseminato di panche e tavoli, dal lato opposto alla porta si aprivano nella parete due camini che davano luce e calore alla stanza. Altra luce era assicurata da lampadari in ferro che pendevano dalla travi del soffitto.
«Benvenuti» disse l’uomo, facendo loro largo in mezzo alla folla del locale, che strabordava di gente. Il mercato estivo di Solwin richiamava da sempre genti da tutti il regno e anche da regni vicini, non sorprendeva quindi di poter vedere riuniti nella stessa stanza uomini, elfi e nani. Ginepro stesso, pareva appartenere a questi ultimi.
Matisse faceva vagare lo sguardo lungo tutto il locale, mangiando con gli occhi tutta quella varietà di razze, vesti e accenti. Era abituata a vedere una variegata e colorata compresenza di razze diverse, ma si trattava di solito di qualche elfo proveniente dal mare del sud o di qualche intrepido nano dell’ovest. Non le era mai capitato di vedere così tanti elfi tutti diversi l’uno dall’altro o così tanti nani; anche gli stessi Uomini parevano tutti provenire da luoghi esotici e sconosciuti.
La ragazza era rimasta rapita ad ascoltare le parole che si scambiavano due elfi provenienti dalle foreste dell’est nella loro lingua musicale e affascinante, quando Corniolo le diede un colpetto sul gomito per farla tornare alla realtà.
«Potrai assistere alle meravigliose discussioni tra elfi tra poco, prima vediamo di trovare una stanza e di metterci addosso qualcosa di asciutto» le disse.
Ginepro condusse i quattro a due camere del primo piano, erano arredate in modo spartano ma calde e accoglienti.
«Sono le uniche stanze doppie libere che mi sono rimaste» si scusò «Ma con il mercato alle porte e questo tempaccio…»
«Andranno benissimo» lo interruppe Corniolo, desideroso solamente di potersi liberare degli abiti bagnati, che gli si erano appiccicato addosso, impacciandolo nei movimenti e facendolo rabbrividire per il freddo.
«Se avete bisogno di qualcosa…» continuò Ginepro, ma Corniolo aveva già spinto Matisse nella prima stanza e stava per chiudere la porta.
«Ho capito» borbottò il nano rivolto alla porta chiusa.
 
«È stato un uomo saggio colui che ha inventato la birra» disse Corniolo, abbandonandosi soddisfatto contro lo schienale della sedia e appoggiando il boccale vuoto sul tavolo «Un altro giro» gridò poi rivolto ad un cameriere che gli passava accanto, questi prese il boccale e sparì.
«Dicono che la birra della piana sia la migliore del regno» interloquì Barden facendo roteare il contenuto del suo boccale, pieno ancora a metà
«E dicono il vero!» esclamò Corniolo portandosi alle labbra il boccale appena riportato dal cameriere, colmo fino all’orlo di quella bevanda dorata e schiumosa «Anche se non è lontanamente paragonabile al sidro, comunque, è lì lì per eguagliarlo»
Barden sorrise e prese un sorso dal suo boccale. Avevano appena finito di cenare e la tempesta non aveva minimamente accennato a diminuire, anzi, da quando erano entrati nella locanda si era intensificata, costringendoli a rimanere lì tutto il giorno. Non che li fosse dispiaciuto: Matisse aveva avuto modo di fare conoscenza con la metà degli elfi e dei nani della locanda; Morten, invece, aveva riempito di domande l’altra metà; Corniolo aveva avuto la possibilità di assaggiare la birra migliore del regno e in quanto a Barden…il suo sguardo si posò su Matisse che stava chiacchierando amabilmente con due elfi del sud e un sorriso increspò le sue labbra.
In quel momento la ragazza si interruppe bruscamente, le pareva di aver visto qualcosa: uno svolazzo di stoffa nera e una testa corvina sparire dietro un angolo, ma forse era stata solo una sua impressione.
Era da quando Zefiro se n’era andato che le pareva di vederlo ovunque, sicura che non l’avesse davvero abbandonata, ma la stesse seguendo e vegliando da lontano.
Sei solo una sciocca si disse tornando ad ascoltare il racconto dell’elfo. Stava narrando dell’origine della barriera. Matisse conosceva a memoria la storia, era la prima cosa che Ortensia le aveva insegnato, trovava però davvero affascinante la versione dell’elfo, molto più epica e romanzata:
«La piana era disseminata di cadaveri, sangue e fango scorrevano in rivoli, impregnando i mantelli dei guerrieri caduti, il viso esangue rivolto al cielo in un ultimo disperato grido d’addio.
Verbena vedeva tutti i suoi uomini cadere, uno dopo l’altro, folgorati dagli incantesimi dei maghi o avvolti nelle spire di fuoco che erano capaci di evocare. Tutto sembrava perduto, Verbena non sarebbe mai riuscita a debellare quella piaga dal suo regno, eppure i maghi dovevano essere cacciati, fino a quel momento avevano solo seminato paura e morte.
Ormai senza più alcuna speranza volse lo sguardo verso il cielo, il sole stava sorgendo, tingendo di rosa e ocra le nubi, le stelle si stavano spegnendo una ad una. Tra poco ci sarebbe stata la sua riscossa. Si diceva, infatti, che quei maghi, alla luce del sole, essendo figli delle tenebre, perdessero gran parte dei loro poteri e della loro potenza, diventando vulnerabili e inermi.
Verbena approfittò della situazione e fece strage di maghi: la spada roteava nell’aria in una danza mortale e colpita dai raggi del sole spandeva gocce di luce che si tramutavano in lacrime di sangue. Figure avvolte in tuniche nere cominciarono a cadere, come corvi abbattuti da un cacciatore e ben presto ai cadaveri dei guerrieri si assommarono anche quelli dei maghi morenti.
Quanti riuscirono a sopravvivere, ben pochi a dir la verità, vennero cacciati, costretti a fuggire al di là delle montagne e segregati nelle misteriose e desolate terre del nord.
Verbena, però, temeva un loro possibile ritorno ed operò l’ultimo e più grandioso incantesimo: asperse la terra coperta di ghiaccio delle montagne del Morongard con il suo sangue e grazie ad esso eresse la barriera che ora protegge questo regno.
Da allora, ogni singola regina possiede nel suo sangue la capacità di poter mantenere in vita la barriera, poiché discendente di quella che per prima donò il proprio sangue per la salvezza e la protezione del regno»
Matisse a quelle ultime parole rabbrividì, quindi la sicurezza e la difesa del popolo sarebbero dipese da lei e dalla sua stessa vita, una prospettiva davvero allettante.
In realtà non tutti i Maghi erano stati cacciati e costretti all’esilio, Ortensia ne era un esempio: coloro che non usavano direttamente i loro poteri, come Veggenti e Guaritori, avevano avuto il privilegio di rimanere, pur con la clausola di un enorme restrizione dei loro poteri e delle loro azioni.
«Un'altra storia mastro Neren, ve ne prego» pigolò uno degli auditori. L’elfo sorrise dolcemente, ma non si schiarì la gola per iniziare un’altra storia.
«Questa per stasera è l’ultima, signori miei, la notte è ormai scesa, il viaggio è stato lungo, se avrete pazienza, forse, domani, ne ascolterete un’altra» e con un rapido inchino si congedò dal suo pubblico.
Matisse lo vide scivolare via e di nuovo vide uno svolazzo di stoffa nera e uno scintillio cobalto, baluginare da dietro la porta oltre la quale era appena sparito Neren. Scosse la testa devo essere davvero molto stanca, ho le allucinazioni si disse, alzandosi dalla sedia che fino a quel momento aveva occupato.
Sarà meglio andare a letto pensò, cercando Corniolo con lo sguardo: lo vide seduto scompostamente al tavolo dove l’aveva lasciato una o due ore fa, la birra nel suo boccale sobbalzava, rischiando di riversarsi sui pantaloni scossa dalla risata gorgogliante che era appena scaturita dalle labbra dell’ometto, provocata forse da una battuta di Barden che sedeva accanto a lui, sorridendo divertito.
«Io vado a dormire» avvisò Matisse, avvicinandosi ai due
«Dammi un secondo e ti accompagno» borbottò Corniolo alzandosi a fatica dalla sedia, si inciampò in una delle gambe e incespicò, rischiando di spargere tutta la birra sul pavimento
«Non c’è problema tranquillo» disse la ragazza, aiutandolo a ristabilire l’equilibrio «Ma quanta birra hai bevuto?» domandò divertita, mentre l’ometto incespicò nuovamente
«Non abbastanza» borbottò questi, ridacchiando.
Matisse scosse la testa, divertita.
«Buonanotte Barden» disse, trascinando via Corniolo, malfermo sulle gambe
«Buonanotte Matisse» rispose il ragazzo, alzando il boccale nella sua direzione mentre un sorriso malizioso si disegnava sulle sue labbra.
 
«Non mi piacciono le intenzioni di quel ragazzo» mormorò Zefiro tra sé e sé, osservando Barden che beveva tranquillamente dal suo boccale. Era da quando l’aveva visto la prima volta alla fattoria che non gli andava a genio e continuava a non fidarsi di lui, stava troppo appiccicato a Matisse, aveva delle mire, questo era ovvio.
Non sarai geloso? lo stuzzicò una vocina nella sua testa.
Geloso? Semmai preoccupato quel ragazzo è abituato ad ottenere tutto quello che vuole. Con le buone o con le cattive.
Il suo sguardo si spostò su Matisse, che barcollava mentre aiutava Corniolo a salire le scale.
Era stato molto difficile riuscire a seguirla di nascosto e ancora di più sgattaiolare nella locanda senza farsi vedere. Il maltempo aveva sorpreso anche lui e l’unico modo per non morire assiderato o annegato era stato entrare in quella locanda. Fortunatamente era gremita di persone e non sarebbe stato semplice individuarlo in mezzo a tutta quella gente, nel contempo, però, temeva che Matisse, l’avesse scorto.
«Quel ragazzo ha in mente qualcosa» disse tra sé, tornando a fissare lo sguardo su Barden, stravaccato sulla sedia a sorseggiare il suo boccale di birra. Apparentemente pareva un normalissimo ragazzo che si godeva una buona bevanda, ma nei suoi occhi brillava un luccichio malizioso e sulle sue labbra continuava ad aleggiare quel sorriso ambiguo che aveva rivolto a Matisse, augurandole la buonanotte e che non prometteva nulla di buono.
Zefiro fece girare lo sguardo lungo la stanza fino a quando non vide un ragazzino segalino dai capelli color sabbia.
«Mi dispiace Morten, ma per una notte, toccherà a te fare le mie veci» sussurrò e con uno svolazzo di stoffa nera sparì inghiottito dal buio.
 
 


 
***

Mi rendo conto di non aver aggiornato da mesi, mi dispiace tantissimo, chiedo venia ma tra scuola, studio e mancanza di idee o tempo, ho avuto modo solo ora di buttar giù qualcosa.
Spero che mi perdonerete e che questo sudato nuovo capitolo sia di vostro gradimento
Che intenzioni avrà Barden? Sicuramente non buone, ma è tutto quello che vi posso dire ;)
Alla prossima (si spera prima di tre mesi)
Ayr

Ritorna all'indice


Capitolo 14
*** Di nuovo in viaggio ***


«M-mi avete chiamato, mio signore?» balbettò con voce flebile un valletto in livrea viola, entrando con passo incerto nella stanza.
Radamanto sollevò lo sguardo dal libro che stava leggendo e posò i suoi gelidi occhi verdi sul nuovo arrivato
«Ancora niente da Izar?» domandò
«Purtroppo sì, mio signore» rispose il valletto. Radamanto aggrottò le sopracciglia: era già da più di una settimana che non riceveva sue notizie ed Izar si era sempre dimostrato puntuale e diligente. Aveva accettato un piccolo ritardo, ma quel silenzio era diventato assordante e insostenibile. Doveva assolutamente essere successo qualcosa.
«Mostrami il medaglione» intimò. Il valletto estrasse con mani tremanti dalla giubba un disco di bronzo con incastonata una pietra nera, e la porse all’uomo che la studiò attentamente. Il suo cipiglio si fece più scuro e nei suoi occhi baluginò una scintilla di rabbia
«Da quanto tempo è così?» domandò con voce calma
«N-non lo so» rispose con un filo di voce il valletto, terrorizzato dallo sguardo di Radamanto, i suoi occhi bruciavano di rabbia. Scattò in piedi e gettò lontano il medaglione che andò ad infrangersi contro la parete, schegge di bronzo si sparsero sul pavimento e sulla pietra, opaca, ricoperta da una leggera patina argentea, segno che Izar era morto.
«Incompetente!» tuonò Radamanto. Un sonoro schiocco fendette l’aria, il valletto si ritrovò riverso a terra, una mano a tenere la guancia rossa e bruciante.
«Mi chiedo perché non ti abbia ancora mandato a marcire nelle stalle o nel porcile. Quello dovrebbe essere il tuo posto! Essere insulso!» esclamò
«Mi- mi dispiace» mormorò il valletto
«Taci, verme!» tuonò Radamanto. Aveva iniziato a misurare con lunghe falcate il perimetro della stanza, le mani intrecciate dietro la schiena e il viso distorto in una smorfia di rabbia e concentrazione.
Raggiunse i rimasugli di medaglione e diede un calcio alla pietra che scivolò sotto un mobile «Questo ormai è inutile» borbottava tra sé.
Ma Izar non era l’unico dei suoi sottoposti, ne avrebbe potuto richiamare uno ogni qualvolta ne avesse avuto il bisogno, e quel medaglione non era l’unico in suo possesso.
Ma anche se trovassi un altro Elfo, dove lo potrei mandare? Izmar non mi contattava da giorni. L’ultima volta aveva detto che si trovava presso la Foresta di Faggi, ma potrebbe essere andato ovunque in tutto questo tempo diceva tra sé, intervallando i suoi pensieri a maledizioni e improperi.
La cosa fondamentale, adesso, è ritrovarlo, e tenerlo d’occhio, dall’alto. Ci ho già provato, è vero, e non ha funzionato, è riuscito ad individuare le mie spie, ma non posso permettermi che mi sfugga, non di nuovo…Se solo quel valletto… e fendette l’aria con un pugno, infuriato.
Si voltò verso il valletto, ancora steso a terra, il quale trasalì nel vedere lo sguardo algido e risoluto dell’altro, illuminato da una luce sinistra.
«Cosa ci fai ancora qui?» esclamò, accorgendosi solo ora della presenza del valletto «Non ti sembra di aver già fatto abbastanza danni?» domandò
Il valletto si rimise in piedi, tremando come una foglia, e abbozzato un rapido inchino si affrettò verso la porta.
«Sparisci!» urlò, rifilandogli un calcio nel fondoschiena, prima di richiudere la porta.
Radamanto si avvicinò alla finestra, il sole morente stava svanendo dietro le montagne e le ultime propaggini trafiggevano le nuvole, tingendole di rosso sangue. l’uomo emise un fischio basso che si propagò nell’aria fresca della sera. Subito un uccello nero planò sul davanzale della finestra: si trattava di un corvo dalle penne lucenti e i vigili occhi neri, simili a tizzoni ardenti. Radamanto accarezzò l’uccello sulla testa, questo gracchiò, arruffando le piume. L’uomo sorrise «Ho un compito per te, mio caro» disse con voce suadente continuando ad accarezzare le piume del corvo, e si chinò cominciando a bisbigliare come se gli stesse sussurrando all’orecchio. Il corvo gracchiò di nuovo, una sola volta, prima di dispiegare le ali e di prendere il volo.
Radamanto lo seguì con lo sguardo fino a quando non divenne un puntino nero quasi indistinguibile nella luce rosso-aranciata degli ultimi raggi del sole.
 
 
Matisse spalancò gli occhi terrorizzata, una mano soffocò prontamente il grido che stava risalendo la gola. La luce della luna che filtrava dalla finestra illuminava il profilo di Barden che svettava davanti a lei e la teneva inchiodata al letto con il peso del suo corpo. Le teneva saldamente le braccia sopra la testa, impedendole qualsiasi tentativo di ribellione.
Matisse si chiese come fosse entrato il ragazzo ma soprattutto cosa volesse e quali intenzioni avesse; ma quando questo insinuò la sua gamba destra tra le sue cosce e le aprì brutalmente le gambe, capì. Provò a divincolarsi ma ogni tentativo era vano: Barden era il doppio di lei e pari alla sua stazza era la sua forza; inoltre la mano premuta sulla sua bocca le impediva di gridare e chiamare aiuto.
«Fai la brava bambina» sussurrò piano Barden al suo orecchio, il suo alito sapeva di alcol eppure non pareva ubriaco. I suoi occhi non parevano spiritati, il suo era uno sguardo sveglio, lucido anche se i suoi occhi brillavano sinistramente di lussuriosa bramosia.
«Barden ti prego» mugugnò Matisse, ma le sue parole uscirono in strozzati pigolii tremanti. La ragazza si domandò perché Corniolo non intervenisse, russava profondamente accanto a lei e pareva ignaro di tutto. Solo allora si ricordò che era ubriaco fradicio e che niente sarebbe riuscito a destarlo da quel sonno profondo indotto da Barden, che l’aveva invitato ad assaggiare la birra della piana. La gustosa bevanda, poi,  aveva provveduto al  resto.
La mano sulla bocca di Matisse si allentò, ma venne subitamente sostituita dalle labbra di Barden, premute con forza contro le sue. Matisse provò a sottrarsi a quel bacio, ma la lingua di Barden riuscì comunque a spingersi prepotentemente nella bocca della ragazza. La sua mano intanto, scivolava lasciva lungo il suo corpo, sfiorandola appena. Le alzò la camicia da notte, scoprendole le gambe. La sua lingua vagava indisturbata nella bocca della ragazza. Calde lacrime iniziarono a solcare le guance di Matisse, mentre quell’infida mano le accarezzava l’interno della coscia.
«Ti ho sempre desiderato» sussurrò Barden mordendole il labbro inferiore «E stanotte finalmente sarai mia. Suvvia non piangere, ti piacerà» aggiunse, togliendole una lacrima con un guizzo rapido della lingua. Matisse ormai versava copiose lacrime e pregava che Corniolo si svegliasse, ma era consapevole che la sua fosse solo una vana speranza.
Sentì il ragazzo intromettere i suoi fianchi tra le sue gambe e mentre la sua bocca tornava a tormentare quella di lei, la mano di Barden l’accarezzò un’ultima volta per poi dedicarsi ai pantaloni.
Al colmo della disperazione urlò il nome di Zefiro nella bocca di Barden, nella speranza che venisse a salvarla. Mai come allora aveva desiderato che il ragazzo non se ne fosse andato, abbandonandola nelle grinfie di Barden e lasciando che quelle labbra la profanassero e quelle mani la violassero.
Quasi con sorpresa sentì la stretta di Barden allentarsi e il suo peso aumentare, soffocandola. Tra i capelli del ragazzo intuì la sagoma di un giovane magro, dal viso munto, cosparso di  lentiggini che brillavano alla luce della luna
«Giuro che l’ho colpito con l’impugnatura» balbettò Morten, solo allora Matisse si accorse che il ragazzo stringeva un pugnale tra le mani.
«Grazie» balbettò la ragazza, con voce strozzata, Barden premeva sulla sua gabbia toracica.
«Oh scusami!» esclamò il ragazzo liberandola dal fardello «Ma non sono un salvatore molto esperto»
Matisse sorrise e subito arrossì, rendendosi conto della posizione sconveniente in cui si trovava. Chiuse immediatamente le gambe e si tirò a sedere.
«Stai bene?» si informò Morten, la ragazza annuì. Era ancora parecchio scossa e sconvolta, oltre che confusa, e continuava a chiedersi come il ragazzo sapesse quello che stava succedendo. Questa domanda continuava a ronzarle nella testa, ma Morten non le diede il tempo di farla perché si stava già avviando verso la porta, trascinandosi dietro il corpo esamine di Barden.
«Buonanotte» le disse «Almeno per stanotte non dovresti più avere problemi, l’ho messo a nanna per un po’» ridacchiò
Matisse sorrise, leggermente a disagio
«Buonanotte» sussurrò anche lei, infine, con un filo di voce «E grazie ancora»
Matisse richiuse a chiave la porta e per sicurezza la bloccò con una sedia. Sdraiata sul letto, incapace di riprendere sonno, continuava a rivivere la scena vissuta poco fa.
Per un attimo, quando aveva intravisto una figura davanti a lei, aveva subito pensato a Zefiro, ritornato per salvarla, e aveva provato una punta di amarezza e delusione quando aveva scoperto che in realtà si trattava di Morten.
Morten emise un verso strozzato di fatica e lasciò cadere il corpo di Barden sul letto sfatto.
«Grazie» sussurrò il ragazzo
«Di nulla» rispose una figura nera, davanti a lui
«Sei proprio sicuro di non voler tornare?» domandò Morten
«Lei è più al sicuro così» replicò la figura
«Ma io non ci sarò sempre» fece notare il ragazzo «E non sono abile come te»
«Questa notte te la sei cavata benissimo» fece notare l’altra
«Ma solo perché mi hai dato una mano tu» rispose il ragazzo
«Per il momento preferisco che sia tu a proteggerla in prima persona. Quando sarà il momento ritornerò» disse la figura
«A proposito! Prima che mi dimentichi!» esclamò improvvisamente Morten, porgendole il pugnale
«Grazie» sussurrò questa rinfoderandolo. Per un attimo la luce argentea della luna colpì la lama, specchiandosi negli occhi della figura e illuminandone le iridi turchesi.
«Questa notte comunque non te la sei cavato male, potresti anche provare ad entrare nella guardia reale» aggiunse ammiccando prima di rivolgergli un cenno di saluto e uscire dalla stanza. Morten sospirò e gettò uno sguardo al fratello, scompostamente riverso sul letto, domandandosi cosa sarebbe successo se la misteriosa figura dagli occhi di zaffiro non lo avesse avvisato in tempo.
 
Il mattino dopo sia Corniolo che Barden si svegliarono con un tremendo mal di testa. Ma se il primo era palesemente di cattivo umore, il secondo, apparentemente dimentico della notte precedente, era tornato il solito spaccone narcisista e quella mattina, a colazione, aveva scherzato con Matisse come se niente fosse successo.
La tempesta era passata, la piana era sovrastata da un cielo di un pallido azzurro, sporcato qua e là da qualche blando ciuffo di nuvola che ancora sgocciolava. Il sole, però, splendeva timidamente, facendo prospettare un giorno in prevalenza sereno. Per questo, avevano deciso di ripartire.
«Non toccherò mai più un boccale di birra per il resto dei miei giorni» borbottò Corniolo cercando di montare sul suo pony
Barden sorrise, salendo con grazia ed agilità sulla groppa del suo. Matisse lo imitò e, alzato lo sguardo, incontrò quello di Morten: si erano tacitamente accordati per non rivelare nulla di quanto accaduto quella notte, soprattutto a Corniolo. Chissà cosa avrebbe combinato venendo a sapere che Barden aveva attentato all’incolumità della sua protetta!
Matisse sorrise mestamente al ragazzo per poi abbassare lo sguardo. Rabbrividì nell’aria fresca del primo mattino e si strinse nel mantello. La pioggia aveva lasciato l’aria pulita ma fredda e penetrante. In quel momento sentì un richiamo, voltandosi incrociò lo sguardo color del mare di un Elfo del sud
«Mastro Neren!» esclamò la ragazza, felice di rivederlo. L’acquazzone e il caldo della locanda le avevano permesso di conoscerlo e di stringere con lui un rapporto di amicizia
«State partendo?» domandò questi
«No, stiamo testando le selle» borbottò Corniolo ma l’Elfo parve non averlo sentito
«State andando a Solwin? Se è così, posso unirmi a voi?» continuò, infatti
«No» rispose l’ometto mentre quasi contemporaneamente Matisse rispondeva «Sì»
«Perfetto!» replicò Neren sorridendo raggiante «Lasciate che prenda il mio cavallo» aggiunse e sparì nella stalla. Dietro di lui veniva un altro Elfo: era anch’egli alto e filiforme, e aveva i lunghi capelli corvini, ma a differenza di Neren aveva i tratti più duri e scolpiti. Neren l’aveva presentato come un suo grande amico, Alcor, ma a differenza sua, che era gioviale e socievole, Alcor era più taciturno. Corniolo socchiuse gli occhi e lo seguì con lo sguardo fino a quando anche lui non entrò nella stanza.
Neren ne uscì poco dopo, conducendo per le briglie un elegante cavallo dal mantello nero e lucido
«Lui è Nube, Alerne nella nostra lingua» lo presentò, montando sulla sua groppa con un unico fluido gesto aggraziato
«Esibizionista» borbottò Barden. Come Corniolo, non provava molta simpatia per l’elfo, aveva un qualcosa che non lo convinceva appieno, e forse era l’unica cosa su cui si trovavano d’accordo lui e l’ometto. Quello e la bontà della birra della piana. Lo sguardo del ragazzo venne catturato da un luccichio proveniente dal petto dell’elfo: si trattava di un piccolo ciondolo a forma di goccia, color del sangue, che l’elfo portava al collo e che si intravedeva attraverso la stoffa blu scuro dei suoi abiti, probabilmente un rubino.
Anche Alcor portava un ciondolo simile e il ragazzo se ne chiese il motivo.
«Siamo pronti?» domandò Neren allegramente e prima di ottenere una risposta, spronò il cavallo verso l’arco di pietra
«Grazie di tutto Ginepro» disse Barden al nano, che era uscito per salutarli
«Grazie a te per essere passato» replicò questi «E non lasciar correre troppo tempo per la tua prossima visita» aggiunse, dandogli una pacca sul polpaccio, il punto più alto che riusciva a raggiungere
«Certo che no!» rispose il ragazzo con un sorriso sornione «Devo prendere almeno un altro boccale della tua birra squisita prima di tornare a casa»
«Come se tutta quella che hai ficcato nello zaino non ti bastasse» mormorò Corniolo dando un colpo di talloni al suo pony, che obbediente si accodò al cavallo di Matisse.
«Allora ci vediamo, Barden e fa buon viaggio» lo salutò Ginepro
«Grazie di tutto» rispose il ragazzo, chiudendo la fila e sparendo sotto l’arco di pietra.
 
Matisse avanzava allegramente affiancata da Neren, i due non avevano smesso di chiacchierare e la ragazza ascoltava rapita le incredibile storie che l’elfo raccontava. Corniolo, dietro di loro li guardava di sottecchi, quell’elfo non lo convinceva affatto e ancor meno il suo compare. Questi avanzava a capo chino, il viso celato dal cappuccio e per tutto il viaggio non aveva detto una parola.
Il sole splendeva alto nel cielo, e i suoi raggi avevano scacciato anche l’ultima nuvola grigia, ma l’umore dell’ometto era nero.
Barden non era da meno, stringeva con una tale forza le redini del suo cavallo da avere le nocche bianche e gettava sguardi carichi d’odio all’elfo. Se solo avesse potuto l’avrebbe incenerito con uno solo di quegli sguardi.
Il gruppo si fermò a mangiare e Corniolo ne approfittò per avvicinarsi a Matisse
«Quell’elfo non mi piace per niente» sussurrò, gettando un’occhiata malevola a Neren che stava prendendo le vivande.
«Da quando siamo partiti chiunque provi anche solo a guardarmi per te è un poco di buono» sbuffò la ragazza
«Sono solo preoccupato per la tua incolumità. È mio preciso dovere proteggerti, ed è quello che sto facendo» replicò l’ometto
«Ma non c’è bisogno che guardi male e scandagli ogni singola persona che mi rivolge la parola!» esclamò la ragazza
«Lo faccio solo per il tuo bene» rispose Corniolo «Ho giurato alla regina che ti avrei protetto e difeso, e mi ritengo un uomo di parola»
«Com’è mia madre?» chiese di punto in bianco Matisse. Quella domanda spiazzò Corniolo. Sapeva che prima o poi gliel’avrebbe fatta, ma non si aspettava di dover rispondere in quel momento ad una domanda simile
«Tu l’hai conosciuta bene?» incalzò la ragazza. Molto probabilmente le parole di Corniolo sarebbero state l’unico mezzo attraverso le quali avrebbe conosciuto quella donna che l’aveva messa la mondo. Corniolo sorrise mestamente
«Ero il capitano della sua guardia personale» iniziò a raccontare «E in tutto il tempo in cui l’ho servita non ho mai incontrato una persona più gentile e dolce. Ma è anche autoritaria e determinata e a volte testarda, una regina giusta e irremovibile per quanto riguarda le sue decisioni, ma non per questo crudele. Le somigli molto: hai i suoi stessi occhi verdi» sospirò l’ometto diventando improvvisamente triste
«Sei preoccupato per lei?» domandò la ragazza cautamente
«Molto» ripose Corniolo «È da sedici anni che non la vedo e la notizia della sua malattia mia ha sorpreso e addolorato. Temo per lei, soprattutto per il fatto che con la sua scomparsa il trono diventerà vacante fino alla tua ascesa…E un trono vuoto fa gola a molti» soggiunse, ma Matisse non capì l’allusione dell’uomo. Corniolo abbassò lo sguardo, per evitare che la ragazza scorgesse le lacrime che avevano riempito i suoi occhi, e addentò un tozzo di pane. Non voleva rispondere ad altre domande, non in quel momento.
 
 

 
 
***

Eccomi qui con un nuovo capitolo, spero vi sia piaciuto, nonostante sia un po' veloce e zeppo di cose.
Giusto per farmi del male ho introdotto due nuovi personaggi: Mastro Neren e Alcor, all'apparenza sembrano due normali e pacifici elfi, ma cosa nascondono?
Non vi resta che scoprirlo al prossimo capitolo ;)
Ayr

Ritorna all'indice


Capitolo 15
*** La città di pietra ***


…Myr, dolce vento dell’est, bagni di pioggia i frutti dell’estate, baciati dalla luna.
Lebon, ruggente vento dell’ovest, strappi le foglie trasportandole verso il declino del sole.
Nemer, silente vento del nord, consoli pianti di  rami nudi che gridano verso le stelle.

Neren, crudele vento del sud, ghermisci in tempeste le navi che navigano verso l’aurora
 
«Hai il nome di un vento?» domandò sorpresa Matisse, quando Neren smise di cantare. L’elfo sorrise.
«È così che mi chiamano qui» replicò «Il vento del sud»
In quel momento il Myr, che dava il nome alla piana, si alzò, facendosi sentire. Non aveva mai smesso di soffiare da quando erano partiti, trascinando con sé le ultime propaggini della tempesta e lasciando il cielo sgombro e terso. Un caldo sole estivo aveva da allora fatto loro compagnia durante il resto del viaggio. Da quasi due giorni, ormai, l’orizzonte, che fino a quel momento era rimasta una linea sfocata ininterrotta, era stata improvvisamente spezzata dal profilo frastagliato di una città. «Solwin» aveva annunciato Barden, rompendo il silenzio in cui aveva cavalcato fino a quel momento: era da quando Neren si era unito a loro che non aveva proferito parola, diventando taciturno e cupo come Alcor.
«E come sarebbe il tuo nome nella tua lingua?» domandò la ragazza, scostandosi i capelli dagli occhi. L’elfo rispose, ma la ragazza non riuscì a capire il nome in quello scorrere musicale di sillabe simili al rumore di un ruscello; la ragazza rimase rapita da quei suoni così armoniosi e limpidi che sgorgavano dalle labbra dell’elfo, quasi fossero davvero un rivolo di montagna.
«E cosa significa?» domandò Matisse
«Vento del sud» rispose ridacchiando Neren
«E Alcor?» domandò ancora la ragazza facendo riferimento al misterioso accompagnatore, che per tutto il viaggio era rimasto in silenzio, più simile ad un’ombra che ad una presenza corporea.
I suoni emessi dall’elfo, questa volta, era duri e decisi, quasi aguzzi e appuntiti, come la roccia che costituiva le fredde montagne del nord.
«Roccia sbeccata è il suo significato» spiegò Neren «Ma qui lo chiamano Alcor, l’indegno, perché ha ingannato il suo popolo, disertando e alleandosi con i nemici…almeno, è quello che si dice» sospirò l’elfo, gettando un’occhiata al suo compare che cavalcava poco distante, silenzioso, come sempre.
«E come siete diventati amici?» domandò la ragazza, chiedendosi come Neren avesse potuto diventare amico di un traditore, o presunto tale
«Gli ho salvato la vita e da allora mi segue, come un’ombra, fino al giorno in cui non mi avrà restituito il favore» rispose l’elfo e tornò a guardare dritto davanti a sé, canticchiando sottovoce.
A Matisse non dispiaceva la sua compagnia: era un abile intrattenitore, aveva una voce dolcissima e melodiosa e conosceva tantissime canzoni e storie che non disdegnava mai di raccontare, era sempre disponibile e gentile, e rispondeva a tutte le sue domande. Era stata la migliore distrazione degli ultimi due giorni. A volte, però, c’era come un’ombra che oscurava il suo sguardo e spegneva per poco tempo la luce di allegria che di solito lo illuminava. Aveva notato quella stessa ombra aleggiare, a volte, anche negli occhi di Zefiro e si chiedeva spesso se Neren non nascondesse qualcosa di oscuro che lo opprimeva e lo ottenebrava, come succedeva al ragazzo.
Matisse sospirò, come le capitava sempre quando il pensiero volava a Zefiro.
«Entro domani sera o dopodomani, al più tardi, dovremmo raggiungere la città» annunciò Barden. Ormai anche da quella distanza, si riuscivano già a distinguere le alte torri di Solwin, la città di pietra.
Sia Matisse che Corniolo tirarono un sospiro di sollievo: finalmente avevano raggiunto la tanto agognata città. Corniolo, in particolar modo, non ne poteva più di cavalcare, aveva tutte le gambe e la schiena indolenzite, inoltre, la continua esposizione a quel vento persistente gli aveva fatto prendere un bel raffreddore. L’omuncolo tossì e sobbalzò, il suo corpo, in quegli ultimi giorni, era stato spesso sconquassato da quegli attacchi di tosse a cui si aggiunsero un naso rosso e una fastidiosa e ben poco autoritaria voce nasale. Trovava piuttosto difficile farsi rispettare in quello stato: il raffreddore, unito alla bassa statura, non aveva fatto altro che renderlo più ridicolo.
Uno starnuto più forte degli altri fece imbizzarrire la sua cavalcatura che, spaventata, si gettò a rotta di collo lungo la via che stavano percorrendo. Fortunatamente non c’era nessuno lungo la strada. Essendo così vicini a Solwin, avevano optato per le strade secondarie che si sondavano lungo i campi di frumento e le fattorie, molto meno frequentate e sgombre dai carri che intasavano la via principale, rallentando di molto il traffico.
L’omuncolo venne trascinato per un buon tratto, fino a quando Miele non inchiodò bruscamente, sbalzando via Corniolo dalla sella. L’ometto ricadde sul proprio fondoschiena sollevando una nuvola di polvere, che gli irritò il naso, facendolo starnutire di nuovo. Il resto della compagnia lo raggiunse.
«Stai bene?» domandò Matisse preoccupata, tentando di trattenere il riso
«Un po’ ammaccato, ma vivo» rispose Corniolo rimettendosi in piedi con l’ausilio della ragazza, che faceva di tutto per tentare di trattenersi dallo scoppiare a ridere. Purtroppo gli altri non erano bravi quanto lei: Neren sghignazzava sotto i baffi, Barden, invece, si stava sganasciando dalle risate, rischiando di cadere da cavallo; anche Morten dietro ad uno sguardo preoccupato e quasi compassionevole, celava un sorriso divertito appena accennato. L’unico che non rideva era Alcor, rimasto impassibile.
Con questa posso dire di essermi giocato l’unico rimasuglio di dignità e serietà che mi era rimasto pensò Corniolo montando a cavallo, con non poche difficoltà e tra esilaranti espressioni di dolore che fecero scoppiare a ridere anche Matisse quale protettore degno di questo nome si becca un raffreddore, cade da cavallo e si ritrova con un livido sul sedere? Si domandò massaggiandosi la parte lesa, cercando di non farsi vedere. Gli altri, intanto, stavano cercando di ritrovare un contegno, ma invano: Barden era addirittura piegato in due sulla sella e si stava trattenendo la pancia.
Corniolo alzò gli occhi al cielo, avrebbe potuto minacciare il ragazzo per farlo smettere di ridere, ma non credeva che la minaccia sarebbe stata molto efficace, non con quella voce nasale. Con un sospiro diede un colpo di tallone al suo pony che obbediente si accodò al cavallo di Barden. Il ragazzo continuò a ridere per il resto della strada.

Quell’uccellaccio nero non aveva smesso di seguirlo. Fino al giorno prima ne aveva avuto solo il sospetto, ma ne aveva avuto la conferma, quando alzato lo sguardo lo vide, per l’ennesima volta, sopra di sé compiere evoluzioni nel cielo, come se cercasse di fare l’indifferente e di essere solo un altro dei corvi che svolazzavano sui campi di grano. Ma non era un comune corvo: era più grande del normale, la sua figura nera si stagliava chiara contro il cielo terso e spiccava per contrasto, con quelle più piccole dei corvi comuni. Sembrava quasi che lo stesse tenendo d’occhio e la cosa lo infastidiva. Si domandò chi avesse potuto mandare un corvo a spiarlo e un nome si formò repentinamente nella sua mente: Radamanto, sussurrò tra i denti, stringendo con forza le redini.
Ci mancava solo che quell’uomo tornasse alla carica per stanarlo ed eliminarlo: non erano bastati gli elfi neri che aveva sguinzagliato contro di lui e che l’avevano “accompagnato” per tutto il viaggio, lasciandogli anche un bel ricordino.
Il ragazzo sfiorò la camicia nel punto in cui sapeva esserci la cicatrice. Quella volta l’avevano colto di sorpresa: sapeva di essere seguito, ma non credeva che i suoi inseguitori avessero anche ricevuto l’ordine di ucciderlo. Per causa loro aveva abbandonato gran parte della sua roba nel bosco che con ogni probabilità era finita nelle loro mani. Ma siccome, la seconda volta che l’avevano attaccato non avevano portato niente con sé, se non le loro spade e il loro ghigno schifoso, non aveva avuto modo di recuperarle.
Un altro sguardo al corvo. Si pentiva di non avere un arco con sé: avrebbe volentieri abbattuto quell’uccellaccio nero. Lo metteva terribilmente a disagio, gli gettava addosso un’ansia che gli faceva attorcigliare le viscere.
Zefiro maledì Radamanto sottovoce: sembrava proprio che stesse spiando lui. Si domandò con un brivido quale sarebbe stata la sua prossima mossa: era certo che non avesse accantonato il proposito di eliminarlo, stava solamente aspettando il momento adatto. E quale modo migliore per coglierlo se non pedinandolo  e approfittare di un momento in cui avrebbe abbassato la guardia?
Ma Zefiro non si sarebbe lasciato cogliere impreparato, non di nuovo. Non se lo poteva permettere: c’era Matisse da proteggere e su cui vegliare.

La città di pietra si apriva solenne e maestosa davanti ai loro occhi. La morbida luce rosata del crepuscolo accarezzava gli spigolosi edifici di pietra addolcendone l’asprezza. Il nucleo più antico sorgeva nell’abbraccio delle quattro torri che indicavano i quattro punti cardinali e che un tempo servivano per proteggere la città neonata dalle incursioni di predoni e feroci guerrieri del nord. Ora, invece, erano le abitazioni dei cittadini più abbienti. Erano altissime e svettavano quasi con prepotenza, grigie e imponenti come severi custodi dormienti; mettevano soggezione. Lì le case erano ville molto grandi che si sviluppavano principalmente in larghezza e si accavallavano le une sulle altre senza apparentemente nessuno spazio a dividerle. Dava una spiacevole idea di soffocamento mitigata, in parte, dai giardini che spuntavano a sorpresa sui tetti delle case e dai rampicanti che si abbarbicavano sulle facciate austere.
Era uno spettacolo da togliere il fiato vedere quel grigio quasi opprimente spezzato improvvisamente dal verde brillante degli alberi da frutto o dal rosa tenue dei fiori di pesco o dai colori sgargianti di fiori tropicali che erano riusciti a sopravvivere anche lì nella piana. Matisse si chiese come sarebbe stato passare i pomeriggi su quei tetti avvolti dalla cacofonia armoniosa di colori e profumi.
La ragazza appena entrata in città aveva spalancato occhi e bocca e non li aveva più richiusi: voleva riempirsi avidamente lo sguardo con tutto quello che vedeva, abbeverarsi dei nuovi, meravigliosi e inaspettati scorci che ad ogni angolo si aprivano alla sua vista, mozzandole il respiro.
La parte più recente della città era meno spettacolare: le case erano edifici popolari a più piani, ma nemmeno qui mancavano le note di colore date dai fiori che affollavano i davanzali e dai pergolati di glicine e gelsomino che correvano tra una casa e l’altra. L’aria era satura dell’odore di quei fiori mischiato ai profumi che giungevano dalle botteghe che si facevano largo sulla strada mediante tendoni colorati. Nonostante fosse sera le vie, ampie, lastricate e pulite, simili a nastri d’argento che si snodavano nella distesa di pietra scura, brulicavano di persone di tutte le età e le etnie. C’erano uomini con i tratti tipici della piana, i capelli e la pelle bruciati dal sole e lo sguardo aperto e sorridente; intrepidi nani dell’ovest con le barbe lunghe acconciate in trecce e lo sguardo truce e burbero che si apriva in un sorriso caldissimo e poi elfi che provenivano dal sud, con i capelli scuri e il mare racchiuso nelle iridi, o elfi provenienti dalle foreste che si muovevano sinuosi come fuscelli accarezzati dal vento e ridevano con una risata cristallina simile ad una cascata, e ancora uomini del nord con la pelle diafana rovinata dal freddo o uomini dalla pelle scura e i capelli raccolti in trecce fermate da anelli di bronzo dorato accompagnati da donne dall’incedere austero e regale, con il volto celato da impalpabili veli che profumavano di mirra e sabbia calda. E tutti chiacchieravano, discutevano o scoppiavano in risa riempiendo le strade di un indistinto ma piacevole schiamazzo.
Matisse si strinse a Corniolo, non era abituata a vedere una tale congerie di razze e quell’accozzaglia di colori, suoni e profumi la affascinava ma nel contempo la stordiva. Corniolo era stato molte volte a Solwin, ma ogni volta lo sorprendeva come se fosse la prima, e in particolar modo questa volta, dopo tanto tempo che non rivedeva la città, venne travolto anche lui dal senso di stordimento e ubriachezza. Neren pareva un principe che fosse tornato nel suo regno: da quando avevano superato le prime case ad ogni crocicchio gruppi di persone più o meno numerosi l’avevano fermato per salutarlo, baciarlo, trattenerlo in chiacchiere; pareva essere molto conosciuto.
«Per qualche tempo, quando ero giovane, sono stato alla corte di Sostrat come menestrello» aveva spiegato dopo l’ennesima volta che veniva riconosciuto e fermato in mezzo alla strada.
Anche Barden sembrava avere confidenza con la città, li guidava con sicurezza attraverso le strade affollate e a volte, soprattutto i mercanti affacciati alle porte delle botteghe, lo salutavano con un cenno del capo o un sorriso.
Erano alla ricerca di una locanda con la speranza che, nonostante il mercato che si sarebbe tenuto di lì a pochi giorni, avrebbero trovato un posto libero.
Neren aveva assicurato di conoscere un posto un po’ fuori mano e quindi meno frequentato, dove avrebbero avuto maggiore possibilità di trovare posto.
La locanda si trovava al confine con la zona vecchia: sorgeva in un posto tranquillo, lontano dal caos delle vie principali, a pochi passi dalla torre sud; era un edificio ampio, a due piani con un portico e un piccolo edificio in legno, una stalla.
«Sei sicuro che non sia troppo caro?» domandò Corniolo scettico, osservando il gruppo di mercanti che fumavano la pipa sotto il porticato abbigliati in modo ricco e sfarzoso.
«Fidati» rispose enigmatico Neren scendendo da cavallo e prima di sparire all’interno dell’edificio gli fece l’occhiolino.
«Quello non me la racconta giusta» borbottò tra sé e sé l’ometto.
L’elfo tornò dopo pochi minuti con la lieta notizia che avevano posto, dietro di lui seguiva un ragazzo allampanato con i capelli color stoppa che li guidò verso la stalla e si occupò dei loro cavalli.
L’interno della locanda, nonostante le pareti di pietra scura, era caldo e accogliente, nell’aria aleggiava un buon profumo di cibo che risvegliò l’appetito nel gruppo di viandanti.
Appena entrati venne loro incontro una ragazza florida dalle forme procaci.
«Benvenuti!» li accolse calorosamente con un sorriso cordiale «Vi mostro le stanze. Seguitemi»
Le stanze erano un po’ piccole e fredde, ma era normale dal momento che persino le pareti interne erano fatte di pietra.
Matisse si buttò sul letto distrutta ed esausta: cavalcava da giorni ormai e aveva tutte le gambe indolenzite, inoltre sentiva la testa pesante a causa di tutta la tensione e le preoccupazioni accumulate: le distrazioni offerte da Neren non erano state abbastanza da permetterle di non pensare continuamente a quello che l’aspettava. Si sentiva terribilmente inadeguata e più di una volta si era chiesta perché proprio lei e non qualcun altro era stato chiamato a questo compito. Non si sentiva pronta a ricevere sulle spalle una così grande responsabilità e la prospettiva di dover affrontare misteriosi pericoli non l’allettava per niente. Più volte avrebbe voluto girare il cavallo e tornare al galoppo a Verderamo, da Ortensia, nella tranquilla e semplice, seppur monotona, vita a cui era abituata. Tutto l’entusiasmo e la curiosità per il viaggio, pian piano si era dissolta, come neve e aveva lasciato spazio solo ad un sacco di dubbi e domande. Il fatto che Zefiro non fosse lì con lei aggravava la situazione: quel ragazzo, nonostante lo conoscesse poco, le aveva dato sicurezza, l’aveva fatta sentire protetta. Quando aveva ricevuto la notizia che avrebbe viaggiato con lui era stata piuttosto restia e scettica a riguardo, soprattutto perché era uno sconosciuto. Ma pian piano aveva capito istintivamente che poteva fidarsi di lui, nonostante tutti i misteri e i segreti che nascondeva. Le mancava Zefiro, terribilmente, e non solo perché si era perdutamente e irrimediabilmente innamorata di lui.
«Tutto bene?» le domandò Corniolo, la voce nasale stanca, una mano forte sulla sua spalla. Matisse sospirò
«A volte mi chiedo perché sia partita» disse con voce sottile «E se non fossi adatta? E se in realtà mandassi tutto all’aria? In fondo non sono altro che una ragazzina. Come fate ad avere una così grande fiducia in me?»
La ragazza si era tirata su a sedere di scatto e Corniolo aveva presto posto accanto a lei
«Ho paura» confessò la ragazza con un filo di voce e Corniolo fece una cosa che sorprese entrambi: l’abbracciò.
Matisse sussultò, stupita di ritrovarsi tra le corte e muscolose braccia dell’omuncolo che a malapena riuscivano a circondarla del tutto. Si lasciò avvolgere da quel calore frammisto a qualcosa di vagamente simile all’affetto.
«Ti conosco da quando sei un esserino urlante che non faceva altro che magiare e dormire. Allora anche io mi sono chiesto se una creaturina così fragile ce l’avrebbe fatta a sopportare e ad affrontare tutto quello che l’aspettava. All’inizio, lo confesso, non lo credevo. Ma poi ti ho vista crescere, maturare; ti ho osservata e più diventavi grande, più diventava grande in me la certezza che, nonostante tutto, ce l’avresti fatta. Sei molto più forte di quanto pensi Matisse…e nel caso non ce la dovessi fare, sappi che io ci sarò. Sempre. Nel bene e nel male»
Fino alla morte aggiunse poi, in un sussurro che la ragazza non sentì.
Matisse lo strinse forte e affondò il viso nel suo petto.
«Credi davvero che ce la possa fare?» domandò, la voce rotta dalla commozione
«Altrimenti non sarei qui» rispose l’ometto, accarezzandole piano i capelli, sorpreso di quel dolce gesto paterno di cui non si credeva capace.


 

***


Non vi biasimerei se qualcuno avesse mandato tutto al diavolo. Mi dispiace immensamente di non essere riuscita più ad aggiornare e mi stupirei se ci fosse ancora qualcuno che segue questa storia e ha aspettato con ansia un mio aggiornamento, dopo mesi di presunta morte. Il capitolo c'era nella mia testa, il problema era il passaggio dalla testa al foglio. Spero che questo capitolo, dopo tanti mesi di attesa, non deluda...
Ho assolutamente bisogno di sapere una cosa: credo che il personaggio di Matisse sia sempre un po' in ombra? E così oppure è solo una delle mie tante pare mentali?
 
Grazie a tutti quelli che non hanno abbandonato la storia nonostante tutto e a quanti non mi hanno ancora mandato in malora.
Non so quando aggiornerò, spero presto.
Scusate ancora
Ayr

 

Ritorna all'indice


Capitolo 16
*** Rosso Rubino ***


«Allora» incalzò Barden sporgendosi verso Neren, il boccale di birra inclinato pericolosamente «Che rapporti ci sono tra te e la locandiera?»
«Siamo solo amici» rispose laconico l’elfo prendendo tranquillamente un sorso dal suo boccale, Barden lo squadrò con sguardo scettico: non gli erano sfuggiti gli sguardi furtivi carichi di sottintesi che si lanciavano i due, le occhiate languide di lei e l’atteggiamento di confidenza malamente celata di lui.«Non prendermi per fesso…Non ti giudicherò per essere andato a letto con una locandiera. L’avrei fatto anch’io, soprattutto con una locandiera del genere» incalzò Barden gettando un’occhiata alla ragazza che era praticamente una leccata
E non solo con la locandiera venne da pensare a Morten, seduto di fronte al fratello.
Finché ci permette di stare in questa locanda ad un prezzo conveniente non me ne frega niente di quello che può aver fatto o non fatto con quella ragazza, fu invece il commento di Corniolo che guardava sconsolato il suo bicchiere di succo di mela. Dopo l’esperienza avuta alla “Lanterna Rossa” non aveva osato più nemmeno guardarla la birra della piana, ne aveva avuto già abbastanza.
Neren  sorrise sornione e bevve un altro sorso di birra
«Non è niente di che, davvero. Solo una breve e innocente storia che mi permette di avere alcuni trattamenti di favore» rispose e fece l’occhiolino all’ometto, come se tra loro due ci fosse stata un’intesa particolare che permetteva di cogliere significati sottintesi.
Corniolo inarcò un sopracciglio: nonostante gli permettesse di soggiornare in quella locanda ad un prezzo di favore e tentasse in tutti i modi di instaurare un qualche rapporto di amicizia con lui, l’ometto lo trattava sempre in modo freddo e distaccato. Non si fidava per niente dell’elfo, sentiva che c’era qualcosa di torbido e oscuro nascosto dietro la maschera di affabilità e cortesia, e non si trattava della sua relazione con la locandiera. Purtroppo, però, Matisse stravedeva per l’elfo cantore, chiacchierava spesso e volentieri con lui e Neren non perdeva occasione per spandere il suo fascino da cantastorie girovago che aveva vissuto un sacco di avventure straordinarie. Matisse veniva completamente rapita dalle mirabolanti storie che raccontava con calda voce ammaliante.
A Corniolo tutta questa confidenza non piaceva per niente. L’aveva fatto notare alla ragazza, ma Matisse, come sempre, aveva risposto che si preoccupava troppo e che Neren era solo un buon amico che riusciva a farle dimenticare per breve tempo la fatica del viaggio e la preoccupazione per quello che l’attendeva.
Oltre che Zefiro aveva aggiunto mentalmente. Da quando Neren la distraeva con i suoi racconti il suo pensiero era corso sempre meno a lui.
Solo a volte, prima di addormentarsi, si chiedeva dove fosse finito, se la stesse seguendo a distanza, mantenendo fede alla sua promessa di proteggerla oppure se si fosse dimenticato completamente di lei e se ne fosse andato per la sua strada.
«E poi che è successo?» domandò la ragazza, incuriosita dall’intera faccenda
«Si è sposata» fu la risposta dell’elfo
Ma ciò non le impedisce di venirti a trovare ogni notte fu il caustico commento di Corniolo, che più volte aveva sentito qualcosa di molto simile a gemiti e versi di piacere provenire dalla stanza accanto alla sua.
E se Neren poteva avere una relazione clandestina con una donna sposata, chissà quanti altri segreti e sotterfugi teneva all’oscuro.
Primo fra tutti Alcor. L’elfo si era sempre limitato ad essere l’ombra del cantore, non aveva mai proferito parola, con nessuno, se ne stava silenzioso e impassibile ai bordi dell’ego smisurato di Neren, quasi come se non esistesse. Tutto quello che sapevano di lui proveniva dalle informazioni frammentarie e laconiche dell’elfo e anche queste erano oscure e velate di mistero.
Corniolo bevve un sorso di succo e storse il naso, chiedendosi per l’ennesima volta perché quei due si fossero uniti a loro.
Venne riscosso dai suoi pensieri da una risata sguaiata proveniente da Barden. Anche quel ragazzo non gliela raccontava giusta: ronzava attorno a Matisse come prima ma c’era un qualcosa di strano in lui, qualcosa di inafferrabile, che non riusciva a definire. Aveva la sensazione di essersi perso qualcosa di fondamentale, che gli avrebbe permesso di capire meglio quello che stava succedendo.
Anche Morten stesso, di solito così pacato e prevedibile, pareva nascondere qualcosa: era diventato più nervoso, in un certo senso, non riusciva a stare fermo e spesse volte spariva senza dire niente a nessuno, senza sapere dove andasse e cosa stesse facendo. Corniolo odiava essere all’oscuro delle cose, per questo aveva deciso che quella sera avrebbe tenuto sotto controllo il ragazzo.
 
Il cielo era già scuro e gli ultimi raggi di sole indugiavano a scomparire, quasi volessero illuminare il cammino del corvo, che stava attraversando terre rigogliose e verdeggianti che la luce del tramonto faceva rilucere come smeraldi.
Finalmente giunse alla sua meta: all’orizzonte un enorme castello di vetro e oro si stagliava quasi prepotentemente contro la pietra scura e tetra delle montagne retrostanti.
Il corvo, esausto, entrò da una finestra lasciata aperta apposta per lui e si adagiò su una poltrona amaranto, su cui era seduta una figura altera e nobile.
«Sei tornato presto» disse con voce calma la figura «Che notizie porti?».
Il corvo zampettò sul bracciolo, si avvicinò al viso della figura e iniziò a gracchiare, quasi le stesse sussurrando nell’orecchio.
«Quel leccapiedi sta iniziando a scocciarmi» borbottò.
Da quando aveva scoperto che Izar era morto, aveva avuto solo problemi: la regina continuava a resistere e quella rincitrullita della sua guaritrice gli ronzava ancora attorno, la preparazione del veleno procedeva troppo a rilento e Alcor pareva svanito nel nulla.
Radamanto batté un pugno sul bracciolo, facendo alzare il corvo in volo, spaventato. Almeno l’uccello gli aveva dato una buona notizia: il lacchè di Procne pareva stesse sorvegliando una ragazza; doveva per forza trattarsi della sua amata nipotina, la principessa perduta, Zefiro non avrebbe mai fatto la guardia ad una ragazza qualsiasi.
Un piega gli increspò le labbra, quel ragazzo non gli era stato del tutto inutile, dopotutto.
Un disegno iniziò a formarsi nella sua testa e man mano che prendeva i contorni sempre più distinti di un piano, il suo sorriso si allargava. Aveva però bisogno di contattare un po’ di persone e di eliminare l’ostacolo più grande che in quel momento si frapponeva fra lui e Matisse: Zefiro. Con quel rompiscatole tra i piedi non avrebbe mai potuto avvicinarsi alla ragazza, come era sua intenzione; andava quindi eliminato.
Mormorando tra sé, si alzò e avvicinatosi ad un tavolo in mogano, estrasse da una scatola in legno finemente intagliato un ciondolo: un rubino. La pietra, appena venne liberata dalla sua prigione di legno, si accese nella morente luce del sole di migliaia di riflessi rossi che, proiettati sulle pareti, parevano gocce di sangue. I suoi occhi assorbivano il riflesso del gioiello a tal punto che parevano screziati di rosso, come se delle fiamme ardessero in quel freddo mare verde.
Radamanto si rigirò la pietra tra le mani, sussurrando a fior di labbra, quasi sibilando. La pietra si illuminò e irradiò la sua luce rosso cupo per tutta la stanza, andando a cozzare contro le pareti e fondendosi con la calda luce del tramonto.
«Radamanto!» esclamò una voce tonante e cavernosa, simile ad un tuono
«Alcor» salutò a sua volta l’uomo «Noto con piacere che sei ancora vivo»
All’interlocutore non sfuggì la sfumatura di lieve rabbia nel tono della sua voce
«Mi avevate detto di avvisarvi solo nel caso in cui l’avessi trovata» gli fece notare Alcor, titubante
«L’hoi trovata io» dichiarò Radamanto «Questo a dimostrazione che se vuoi una cosa fatta bene devi fartela da solo». Un singhiozzo strozzato di sorpresa e preoccupazione fu la risposta
«Per questo ora hai un altro incarico» continuò «Spero non ti dimostrerai inadeguato anche per questo…Credo si addica di più a te»
«Di che si tratta?»
«Niente di che: solo eliminare una mosca fastidiosa. Fin troppo fastidiosa» rispose l’uomo «Si trova a Solwin, è un ragazzo piuttosto alto, capelli lunghi e scuri, occhi azzurri, schivo e difficilmente avvicinabile, gira con un mantello scuro e una spada. Non ama troppo farsi vedere in giro, dovrai stanarlo e coglierlo di sorpresa, è piuttosto vigile e non è uno stupido. Si chiama Zefiro»
«Non vi deluderò» promise Alcor
«Lo spero» fu la secca risposta di Radamanto prima di chiudere la conversazione.
E una è fatta. Ora occupiamoci della ragazza.
Radamanto prese tra le mani un altro rubino e come prima mormorò alcune parole che lo accesero di intensa luce sanguigna.
«Radamanto!» esclamò una voce melodiosa, proveniente dalla gemma «Quale sorpresa e quale onore!»
«Ogni tanto fa piacere risentire un vecchio amico» rispose Radamanto sorridendo
«Cosa ti serve?» domandò subito l’altra voce
«Perspicace, proprio come me lo ricordavo» replicò l’uomo ridacchiando, poi tornando serio. «È un compito piuttosto delicato, ma credo vivamente che ne sarai all’altezza…Dove ti trovi ora? »
«Solwin» fu la risposta della voce
«Perfetto! Lì a Solwin si trova una ragazza, una certa Matisse, occhi verde smeraldo…» Sentì il suo interlocutore ridacchiare «Cosa c’è da ridere?» domandò seccato
«Guarda caso, credo proprio di sapere di quale ragazza si tratti. Per una fortuita coincidenza mi trovo a viaggiare con lei…Almeno credo sia lei, non ci dovrebbero essere tante Matisse in questo regno»
Anche Radamanto si trovò a sghignazzare: il suo piano stava procedendo meglio di quanto avesse supposto o anche solo sperato.
«Cosa devo fare con lei?» domandò la voce
«Solo assicurarti la sua totale fiducia e sorvegliarla, oltre che trovare il modo di portarla da me»
«Sarà fatto» rispose la voce.
La gemma si spense, mentre l’ultimo raggio di sole dava il benvenuto alla notte imminente.
 
La notte era immota, silenziosa, tesa, sospesa.
Non un alito di vento increspava l’immobilità delle tenebre, il Myr era stato spezzato dalle alte torri di Solwin e non un refolo riusciva a penetrare nella città. Tutto era immerso in una coltre di silenzio.
Un leggero scalpiccio di piedi e un fruscio di vesti: un’ombra più scura delle altre scivolò furtiva lungo gli umidi muri di pietra delle case, cercando di turbare il meno possibile l’inerte quiete della notte. Improvvisamente l’ombra incespicò e da sotto il manto scuro uscì una colorita imprecazione, dicendo addio al suo proposito di essere silenziosa e discreta.
«Possibile che non riesca mai a fare niente senza che mi inciampi, faccia cadere qualcosa o robe simili?» borbottò Morten.
Come ogni notte, da qualche giorno, andava da Zefiro, che alloggiava in una locanda poco lontana, per tenerlo aggiornato su tutto quello che accadeva. Il ragazzo si era ripromesso di proteggere Matisse a distanza e così faceva: ogni notte si informava su di lei, chiedendo se Barden avesse tentato qualche altro approccio, se Corniolo non la assillava e tormentava troppo, se stava bene, se dormiva, mangiava, se era preoccupata…Insomma facendo quel genere di domande che rivolge un padre premuroso alla nutrice dei suoi figli. Fortunatamente, Barden pareva aver, almeno per il momento, se non totalmente spento, almeno acquietato i suoi ardenti appetiti. Per il resto le giornate scivolavano tutte uguali l’una dietro all’altra, monotone e sonnolente.
Avevano deciso di fermarsi a Solwin una settimana, per riposare, rifocillarsi, fare provviste e approfittarne per dare un’occhiata al Mercato d’Estate. Così la maggior parte della giornata trascorreva tra bancarelle e botteghe. Matisse, abituata al più modesto mercato di Fogliadoro, si imbeveva di quella moltitudine di oggetti esposti, colorati e tintinnati, si estasiava di fronte a qualche animale raro e curioso, portato da stravaganti mercanti di terre esotiche, storceva il naso davanti all’aroma delle spezie o all’intenso profumo delle Camelie tigrate dell’est, assaggiava e provava tutto, spesse volte pentendosene amaramente, e sarebbe rimasta tutto il giorno ad ascoltare i racconti dei viaggiatori o le canzoni dei bardi erranti, se non fosse stato per Corniolo che la richiamava all’ordine, pur permettendole di curiosare e scoprire quel mondo a lei parzialmente nuovo.
Zefiro sorrise di quell’ingenua e dolce curiosità. Matisse da quel punto di vista era ancora una bambina, vissuta per troppo tempo nella tranquillità agreste di Verderamo, lontano dal fascino suggestivo ma pericoloso delle grandi città. Si chiese come avrebbe reagito trovandosi davanti le cupole dorate, le guglie ricamate di sole e i pinnacoli di vetro della capitale.
«Quando tornerai?» domandò Morten
«Quando sarà il momento» rispose laconico Zefiro, come ogni volta che il ragazzo gli poneva la domanda «Fino ad adesso mi sembra ve la siate cavata bene anche senza di me»
«Ma solo perché non è successo niente. E se dovesse aggredirci qualcuno? E se gli Elfi Neri ci attaccassero?» domandò Morten. Zefiro era stato costretto a metterlo in guardia da queste creature, per paura che potessero attaccare di nuovo, e gli aveva chiesto di tenere gli occhi ben aperti. Morten aveva già sentito parlare di questi Elfi, ma credeva che fossero solo creature create per popolare storie da raccontare intorno al fuoco, nelle sere d’inverno, spaventare i bambini. L’apprendere che in realtà esistevano davvero ed erano più spietate che mai l’aveva turbato, e la sua indole paurosa gli aveva urlato di correre via a gambe levate. Ma fortunatamente non aveva avuto il piacere di vedere un Elfo Nero da vicino, fino ad ora.
«Non si avventurerebbero mai in città. E poi, mi sembra che tu sia in grado di maneggiare una spada, o no?» replicò Zefiro
«So giusto giusto come si menano due colpi, quanto basta per difendere mia madre e le mie sorelle in caso di necessità, quando papà è via per lavoro…Ma questo non fa di me un guerriero…»
«E credi che io lo sia? Solo perché riesco a fare qualche affondo coreografico in più?» domandò il ragazzo inarcando un sopracciglio «Un guerriero non è qualcuno che sa mulinare una spada in aria e fare strage di nemici. Un guerriero è qualcuno che da tutto sé stesso per proteggere ciò a cui tiene, lotta per difendere ciò che ama, ma è pietoso e compassionevole e sa quando risparmiare la vita di qualcuno. Anche un ragazzino magrolino come te è un guerriero. Tu sei un guerriero, Morten» dichiarò Zefiro, stringendo la spalla del ragazzo e congedandolo.
Morten ringraziò il buio che nascondeva il rossore che gli aveva imporporato le guance. Dentro di sé, assieme all’imbarazzo, sentiva un calore piacevole irradiarsi per tutto il corpo, scaldandolo: orgoglio.
Con questa nuova e sorprendente consapevolezza nell’animo, ripercorse baldanzoso le vie che aveva attraversato poco prima.
Improvvisamente si sentì spintonare e schiacciare contro la parete del vicolo, avvertì la ruvidezza aguzza della pietra contro la schiena e una mano premuta contro la bocca a soffocare la voce e il respiro. Qualcosa di appuntito gli pungolava l’addome. Morten spalancò gli occhi cercando di distinguere in mezzo a quel nero compatto la figura del suo aggressore. Ma questi era vestito di scuro e aveva il volto coperto e tutto ciò che si riusciva ad intravedere di lui era il luccichio metallico della lama premuta contro la sua pancia e un brillio sanguigno, proveniente da un ciondolo, che aveva tutta l’aria di essere un rubino. Per Morten aveva un aspetto famigliare, sentiva di averlo già visto da qualche parte ma non ricordava dove.
Ebbe appena il tempo di fare questo fugace pensiero che sentì la lama penetrargli fulminea nella carne e qualcosa di caldo bagnargli la camicia. Un rantolo soffocato uscì dalle labbra e le ginocchia cedettero. Morten si accasciò contro la parete, mentre la lama vorace, mordeva la carne, spingendosi più a fondo e ubriacandosi del suo sangue.
«È così, dunque, che muoiono i guerrieri» pensò.
E fu il suo ultimo pensiero.

 
***
Dopo aver litigato con l'html e aver maledetto efp perchè non ha pubblicato questo capitolo (o forse sì, però a me non risulta, quindi può darsi che ci siano due capitoli 16, se è così, avvisatemi), sono finalemnte riuscita ad aggiornare.
Il capitolo è più corto e per allungarlo un po' ho insertio la prima parte che fa da riempitivo (senza sarebbero risultate appena TRE pagine!), però se fa schifo e non c'entra niente lo elimino e vedrò di arrangiarmi diversamente.

VI PREGO VIVAMENTE DI RECENSIRE QUESTO CAPITOLO. Desidero ardentemente sapere se l'ultima parte vi ha sconvolto o vi ha lasciati indifferenti, se ho reso bene la morte di Morten, se la prima parte va eliminata...
Insomma: RECENSITE, RECENSITE, RECENSITE!
A tutti coloro che lo faranno un grazie immenso, a quanti non lo faranno: peste li colga!

Ayr

p.s. Per farmi del male ho deciso di cambiare il font della storia, perchè questo mi faceva un po' pena, e intanto ne approffito per sistemare tutte le incongruenze, errori di svista, battitura e orrori di ortografia che mi avete segnalato (avrei dovuto farlo già da tempo, ma non ne avevo molta voglia XD).
Ditemi se riuscite a leggere, perchè a me sembra un po' piccolino. 

Ritorna all'indice


Capitolo 17
*** Lutto ***


L'aveva seguito, scivolando da un'ombra all'altra per non farsi vedere, cercando di stare dietro alle lunghe falcate nervose del ragazzo.
Nonostante questo, però, non era riuscito ad impedirlo.
Era rimasto spiazzato quando aveva visto quella massa scura avventarsi improvvisamente su di lui e, prima che potesse anche solo formarsi un pensiero nella sua testa, l'ombra nera se n'era andata, silenziosa e furtiva, come era venuta. Corniolo avrebbe voluto fermarla, ma la sorpresa e l'incredulità l'avevano bloccato, lasciandolo immobile all'angolo del vicolo, incapace di muoversi o anche solo di pensare.
Solo quando il ragazzo si era afflosciato a terra in un involto confuso di stoffa scura, si era precipitato verso di lui, ma solo per constatare quello che aveva temuto: Morten era morto.
L'omuncolo continuava a darsi del codardo e dello stupido, mentre stringeva tra le braccia quel corpo giovane ancora acerbo, si rimproverava di non essere intervenuto, di non aver fatto nulla per impedire quella morte assurda e imprevedibile.
Sollevò il corpo del ragazzo, trovandolo sorprendentemente leggero e, incespicando sotto il peso dei sensi di colpa, ritornò alla locanda per dare la funesta notizia.
Il cielo era pallido e ceruleo, una lieve striscia grigiastra stava iniziando a profilarsi all'orizzonte quando Corniolo fece il suo ingresso nella locanda. La locandiera vedendolo entrare con quell'involto tra le braccia si precipitò verso di lui, chiedendo preoccupata cosa fosse successo.
«Briganti» fu la risposta laconica dell'ometto e la locandiera per poco non svenne quando intravide tra le pieghe della stoffa il volto cereo del ragazzo.
«Devo chiamare gli altri?» balbettò la donna, senza sapere cosa fare, Corniolo annuì appena.
 
Due colpi alla porta, non violenti ma decisi, abbastanza forti da svegliare la ragazza. Ancora avvolta dal sonno, cercò con lo sguardo Corniolo, domandandosi se fosse giunto il momento di ripartire.
Trovò il letto accanto al suo vuoto, le lenzuola scarmigliate abbandonate su un lato.
Matisse si domandò dove fosse finito l'omuncolo. Un nuovo colpo alla porta la costrinse ad alzarsi, confusa si avviò alla porta e la sua confusione aumentò nel trovarsi davanti la locandiera in evidente agitazione.
«Cosa è successo?» domandò la ragazza preoccupata, mentre uno spiacevole dubbio si insinuava dentro di lei
«È successa una disgrazia! Una disgrazia!» furono le uniche parole che riuscì a sentire Matisse, prima che la locandiera si affrettasse a bussare alla porta accanto.
Sempre più preoccupata la ragazza si infilò una giacca al volo e si precipitò al piano di sotto.
Corniolo era ritto sulla porta e stringeva tra le mani un lungo involto scuro. Matisse, al vederlo, tirò un sospiro di sollievo, ma il suo sguardo venne catturato dall'involto che l'ometto reggeva tra le braccia. Il volto profondamente abbattuto di Corniolo la spaventò
«Cosa è successo?» domandò avvicinandosi
Corniolo non rispose e a Matisse bastò raggiungerlo per capire: il pallido volto di Morten pareva profondamente addormentato.
Matisse si mise una mano davanti alla bocca, per soffocare un singhiozzo, mentre calde lacrime iniziavano a rigarle le guance.
In quel momento arrivarono anche gli altri. Alcor a quella vista era sbiancato, così come Neren, Barden, invece, si era fiondato verso Corniolo, mentre un grido di dolore trapassava l'aria. Tutta la sua arroganza e presunzione erano crollate in un attimo, spezzate da un singhiozzo, e lasciando il posto a uno straziante dolore. Piegato sul corpo del fratello lo ricopriva di lacrime.
«Come è successo?» domandò Neren con voce rotta, appena udibile
«Io non ne ho idea» confessò in un sussurro Corniolo «Quando sono arrivato era già...morto»
«Saranno stati dei briganti» suppose Neren «Ma ciò che mi domando è cosa ci facesse in giro di notte»
Nessuno rispose, solo i singhiozzi di Barden laceravano l'aria, Matisse li circondò le spalle in un gesto consolatorio, quasi a volerlo sostenere, in qualche modo.
Il ragazzo sussultò e parve riscuotersi, pian piano cercò di ricomporsi e con voce rotta annunciò che non poteva proseguire il viaggio: doveva tornare a casa per dare la notizia alla madre.
«È impossibile pensare di riportarle il corpo» disse, cercando di darsi un contegno «Lo farò cremare qui». Scoppiò di nuovo a piangere, Matisse lo abbracciò e il ragazzo si lasciò avvolgere da quella braccia sottili. Tremava, scosso dai singhiozzi. Tutta la sua baldanza si era sgretolata, scoprendo una grande fragilità.
La ragazza lo strinse forte, mentre il ragazzo bagnava di lacrime la sua spalla.
«Non è giusto che sia morto» singhiozzò «Non lo meritava»
«Era ancora così giovane» fu il commento di Neren. Si era avvicinato al ragazzo e ne accarezzava con lo sguardo liquido di lacrime il volto freddo e cristallizzato dalla morte, così bianco che le lentiggini vi risaltavano quasi con prepotenza.
Alcor era l'unico che non avesse detto nulla, aveva assistito alla scena, impassibile e, senza che nessuno se ne fosse accorto, era scivolato via.
 
Il cielo era limpido, di un azzurro intenso e luminoso, Barden era convinto che lo stesse deridendo: quel mattino così pieno di sole stonava profondamente con l'atmosfera tetra e funerea del luogo e dell'occasione.
Aveva deciso di fare le cose per bene e aveva cercato un Chierico, perché il rito fosse compiuto secondo tutti i crismi. Gli abitanti della piana erano soliti cremare i propri morti e affidare le ceneri al Myr, seppellirli tutti non sarebbe stato possibile e solo ai primi abitanti di quella terra era stato riservato quel trattamento. I loro tumuli sorgevano a pochi metri dalla città: erano costruzioni di ciottoli piatti presi dal fiume Hara e ricoperti di piccoli fiorellini dai petali di un azzurro intenso, le Lacrime dei Morti le chiamavano nella piana, Nontiscordardime era il nome con cui Matisse li conosceva.
Barden aveva designato quel luogo antico e austero per dare al fratello l'estremo saluto. 
«I Tumuli del Crepuscolo, così vengono chiamati queste costruzioni in cui riposano le esequie di grandi uomini del passato. Alcuni sono ricordati nelle leggende, ma la maggior parte sono rimasti dispersi nelle pieghe del tempo e il loro unico ricordo rimane questo cumulo di sassi» sussurrò mesto Neren nell'orecchio di Matisse.
La ragazza era rimasta incantata di fronte a quei tumuli, così tristi e nel contempo solenni; baciati dal caldo sole estivo parevano quasi scintillare.
Era stata preparata una catasta di legna odorosa su cui Barden aveva posato con solenne mestizia il corpo del fratello, avvolto in un lenzuolo, solo il volto era scoperto, i suoi occhi erano stati coperti da due monete di bronzo e una terza era stata messa sotto la sua lingua, pedaggio da pagare per poter entrare nelle Terre senza Ritorno.
Il Chierico, salmodiava pregando perché l'anima del ragazzo potesse giungere al di là del Mare delle Nebbie, nelle Terre senza Ritorno e trovarvi una pace e una tranquillità eterne, intanto cospargeva il rogo di erbe e acqua profumata.
In un gesto esageratamente solenne coprì il volto del ragazzo, pronunciando l'ultima parola. Matisse depositò un mazzo di Nontiscordardime dove credeva fossero le mani di Morten; Barden e Corniolo, in piedi, agli estremi opposti della catasta, reggevano ciascuno una torcia ed ad un cenno del Chierico appiccarono il fuoco.
La legna iniziò a bruciare spandendo nell'aria il profumo fumoso e intenso dell'incenso, mischiato agli aromi resinosi della legna e a quelli dolciastri delle erbe di cui era stato cosparso il corpo. Volute di fumo sbiadito salivano verso il cielo, spinte dal Myr che aveva preso a soffiare furiosamente, disegnando strane figure in quel grigiore e facendo ondeggiare i fiorellini azzurri, che reclinavano il capo, quasi a voler salutare anche loro il ragazzo e augurargli buon viaggio.
Matisse scoppiò a piangere e si rifugiò nelle braccia di Corniolo che guardava il corpo del ragazzo trasformarsi lentamente in cenere.
Quando ormai anche l'ultimo sbuffo di fumo si era sfilacciato nel vento, Barden montò a cavallo.
Aveva già fatto i bagagli e non aveva intenzione di rimanere un minuto di più in quel luogo così pieno di dolore. Prima che partisse Corniolo si avvicinò a lui con una borsa di monete
«Il vostro compenso per averci condotto fino a qui» disse porgendogliela
«Non posso accettarla» protestò debolmente il ragazzo, respingendola
«E io non posso permettermi che non l'accetti. Ci hai condotti fino a Solwin. Considerarlo un risarcimento anche per quello che è successo a Morten. Capisco che un pugno di monete non potrà mai sostituire tuo fratello, ma un po' di soldi in più potrà sempre fare comodo a te, tua madre e la tua famiglia»
Barden protestò ancora, ma alle insistenze di Corniolo cedette e accettò le monete con sincera gratitudine. Salutò tutti con un mesto cenno del capo e tenendo per le redini il cavallo di Morten si diresse lentamente verso la strada. Gli era parso di vedere in lontananza una figura scura assistere in disparte alla cremazione, come se non volesse farsi vedere, e quando imboccò la strada che riportava alle porte della città la rivide.
Era una figura alta e massiccia, a prima vista, avvolta in un mantello nero. La figura era senza il cappuccio. Quando passò due occhi turchini si fermarono su di lui, inchiodandolo sul posto. Erano colmi di lacrime. Salutò il ragazzo con un rispettoso cenno del capo, pieno di commozione, poi nascose il viso nelle ombre del cappuccio e sparì.
 
«È inutile rimanere ancora a Solwin» borbottò Corniolo interrompendo il silenzio tombale che era calato sulla sala «Dobbiamo continuare il nostro viaggio» aggiunse rivolto a Matisse. La ragazza era prostrata dal dolore e dalla tristezza, il volto era consumato dalle lacrime e tutto in lei appariva abbattuto e provato. Annuì senza particolare enfasi.
«Dove siete diretti?» domandò Neren
«A Neherin, ma ci servirebbe una guida che ci conduca fino a lì» rispose Corniolo
«Se volete posso accompagnarvi io. Ho girato in lungo e in largo per questo regno e lo conosco abbastanza bene...» si propose l'elfo
«Ma...» iniziò ad obiettare l'omuncolo, fino ad allora aveva male sopportato la presenza di quei due elfi e l'idea di dover continuare il viaggio con loro non lo alettava per niente.
«Non preoccuparti» lo interruppe Neren «Non pretenderò alcun compenso»
«Ma...» provò di nuovo l'ometto
«E non sarà per me di alcun disturbo» lo interruppe di nuovo il cantore «Sempre che vogliate continuare il viaggio con me» aggiunse gettando uno sguardo a Matisse. La ragazza non rispose nulla, era rimasta ancora troppo scossa per la morte di Morten. La trovava estremamente incedibile, assurda e ingiusta. Perché quel ragazzo era morto? Cosa aveva fatto di male? Perché spezzare all'improvviso una così giovane vita?
Ritrovarsi così improvvisamente in faccia alla morte l'aveva sconvolta. Non era la prima volta che la vedeva, lei stessa aveva visto molti morire sul tavolo della cucina di casa sua per una malattia incurabile o una ferita infetta, aveva anche ucciso e visto spegnersi la vita sottratta dalla sua stessa mano, ma era la prima volta che viveva la morte in prima persona, che sentiva un vuoto dentro di lei, provocato dalla scomparsa di una persona a cui era molto legata.
Morten era diventato suo amico nonostante l'inguaribile timidezza di lui e la naturale diffidenza di lei, aveva apprezzato la sua discrezione e la sua profonda sensibilità, le poche parole balbettanti che si riusciva a cavargli fuori di tanto in tanto e la sua generosa disponibilità. Inoltre l'aveva salvata da uno stupro di questo gliene era profondamente grata. Non se ne sarebbe mai dimenticata: era solo grazie a lui se era ancora intatta.
Un singhiozzo la scosse. Non poteva piangere, di nuovo. Cercò di ricacciare indietro le lacrime e di darsi un contengo.
«Per me va bene» rispose alla domanda di Neren, ma non le riuscì trattenere il tremore involontario della sua voce. L'elfo sorrise e il suo viso si illuminò, Corniolo sbuffò e si trovò costretto ad accettare.
Nonostante trovasse estremamente indisponente l'elfo e provasse un'istintiva e viscerale antipatia nei suoi confronti, doveva ammettere che sarebbe stato da sciocchi rifiutare un'offerta simile: quel cantore dalle orecchie a punta era disposto ad accompagnarli gratuitamente, inoltre era l'unico all'apparenza capace di intrattenere Matisse e che sarebbe stato capace di distrarla e farle pian piano ritornare il sorriso.
Dal canto suo la ragazza cercava di riprendersi e si dava della sciocca, perché non riusciva a uscire dal profondo dolore che l'attanagliava.
Il mondo va avanti lo stesso si disse e il tempo non sta ad aspettare che tu ti riprenda. Le lacrime non faranno ritornare Morten e i pianti non servono a nessuno. Bisogna andare avanti...
«Possiamo partire subito?» pigolò la ragazza.
 
La compagnia ripartì quello stesso pomeriggio. Il sole splendeva alto nel cielo, non una nuvola ne sporcava l'azzurro immacolato.
Con mestizia i quattro si rimisero in marcia, nessuno parlò per tutto il tragitto. Solo la voce dolce e melodiosa di Neren, velata di tristezza, accompagnava il loro viaggio. Aveva intonato un canto malinconico che ricordava eroi caduti in guerra in difesa di quello che amavano, gli sembrava appropriato alla situazione, inoltre non riusciva a sopportare per troppo tempo il silenzio, lo trovava opprimente.
Nessuno aveva protestato e Neren aveva continuato a cantare le gesta del prode Beryaton morto per mano del feroce Vendras che voleva impossessarsi del suo regno e per farlo aveva rapito l'amata del suo rivale, rinchiudendola in un torre d'alabastro. Beryaton non aveva ceduto, ma era dilaniato dalla scelta tra il suo regno e la sua amata. Solo in cambio delle sue terre e della sua corona, infatti, l'avrebbe rivista.
Alla fine Beryaton aveva dichiarato guerra a Vendras, considerandolo l'unico modo che aveva per mantenere il suo regno e riavere la sua amata, o alla peggio, perdere tutti e due.
Così era scoppiata una sanguinosa battaglia in cui Beryaton era perito, spirando con il nome della sua amata terra sulle labbra e quello della sua amata stretto in pugno.
Era una storia estremamente commovente e Matisse si ritrovò a pensare che a Morten sarebbe piaciuta, quel ragazzo adorava i racconti che gli elfi si tramandavano di bocca in bocca e aveva approfittato delle soste nelle locande per abbeverarsene avidamente.
La ragazza diete un leggero colpo di tallone al cavallo, che aveva rallentato l'andatura, rimanendo indietro. Non l'aveva fatto apposta, ma inconsciamente sentiva il bisogno di distaccarsi dagli altri e rimanere un po' da sola, per metabolizzare la morte del ragazzo e riprendersi.
Il Myr, che ogni tanto soffiava dolcemente, l'aiutava a scacciare i pensieri più cupi e a portarli lontano, al di là delle montagne di Berenden e Morongard.
Ortensia, in una delle sue lezioni di geografia, le aveva descritto le punte acuminate color antracite di Berenden, le Lame d'Argento, che proteggevano le piane dai venti impetuosi e freddi del Nord, e le punte di ghiaccio scintillanti al sole, come quelle d'acciaio delle lance dei soldati, delle possenti montagne  di Morongard, i Guardiani di Ghiaccio, sotto il cui sguardo sorgeva la Città d'Oro.
Matisse si chiese quanto ancora avrebbe dovuto viaggiare per arrivare a quella città e a cosa ancora avrebbe dovuto assistere.
Per una ragazza vissuta per tanto tempo in una piccola realtà tranquilla come quella di Verderamo, l'immensità di quegli spazi, la cacofonia colorata delle città, l'orrore della morte e delle uccisioni l'aveva travolta e frastornata, aveva bisogno di un po' di tempo per riprendersi, ma purtroppo, il trono aspettava e chi bramava nell'ombra per sottrarglielo non aveva tutta questa pazienza.
 
«Come sarebbe a dire?» tuonò la voce di Radamanto, facendo tremare le vetrate
«Mi dispiace...I-io mi sono confuso, erano vestiti allo stesso modo e poi era tutto buio» balbettò la voce proveniente da un cristallo color del sangue
«INCOMPETENTE!» lo interruppe Radamanto. Tremava, ribollendo di ira e delusione «Non credevo che fossi tanto stupido da scambiare due persone e uccidere quella sbagliata!»
Radamanto era veramente furibondo: se avesse potuto avrebbe preso quell'idiota per il collo e gliel'avrebbe torto, per poi dare in pasto ai vermi la sua inutilissima persona. Fece un respiro profondo, cercando di calmarsi, non aveva alcun senso inveire contro quello sciocco, il danno era ormai fatto, tutte quelle urla sarebbero servite solo a farlo arrabbiare ancora di più e a procurargli un feroce mal di testa. Sospirò di nuovo, cercando di reprimere la sua furia in un angolo lontano della mente, aveva bisogno di pensare lucidamente, il tirapiedi di Procne era ancora in vita
«E tutto per colpa di questo buono a nulla!» urlò, picchiando un pugno sul tavolo, le bottigliette accatastate su di esso tintinnarono.
«Avete detto qualcosa?» domandò la voce, Radamanto non aveva ancora chiuso la conversazione
«Stavo solo ribadendo il tuo essere estremamente stupido e inutile!» esclamò l'uomo, per poi scuotere la testa «Voglio darti fiducia, Alcor. Sei il mio migliore assassino e mi spiacerebbe dover rinunciare a te. Ma giuro che se dovessi fallire di nuovo e per un motivo altrettanto stupido, io verrò a cercarti e ti eliminerò con le mie stesse mani, nella maniera più atroce, dolorosa e umiliante esistente. Sono stato chiaro?»
«Sì, mio signore. Grazie, mio signore» pigolò la voce
«E ora sparisci!» gridò l'uomo, prima di scagliare la pietra contro la parete.
«Sono circondato da idioti» disse tra sè, sconsolato, accasciandosi su una poltrona . La notizia della morte del ragazzo l'aveva fatto andare su tutte le furie: credeva di potersi fidare di Alcor, gliel'avevano venduto come uno dei migliori assassini in circolazione e fino a quel momento non aveva mai avuto motivo di dubitarne, fino a quando non gli era giunta la notizia di aver ucciso un comune ragazzo di campagna invece di quel rompiscatole di Zefiro.
«Era buio, erano vestiti allo stesso modo e io ho un secchio di aringhe al posto del cervello e due fette di prosciutto spesse quanto ruote di carro sugli occhi» gli fece il verso l'uomo. Se avesse potuto, avrebbe eliminato personalmente il ragazzo, ma doveva rimanere a palazzo, a supervisionare la situazione e a svolgere le mansioni che la povera regina malata, costretta a letto non poteva condurre.
Si alzò di scatto, ancora furioso, dubitava vivamente che Alcor sarebbe riuscito a combinare qualcosa, ma non aveva altri sicari a disposizione, a meno che...
Radamanto scartò l'ipotesi prima che si formasse completamente nella sua testa...eppure non sembrava un'idea così malvagia.
L'uomo fece il giro della poltrona, per poi riprendere posto su di essa, meditabondo. In realtà, aveva a disposizione un altro sicario, uno dei più crudeli e terribili, di cui si serviva solo nei casi di emergenza.
E questo aveva tutta l'aria di essere un caso di emergenza.
«Quella mosca fastidiosa ha ficcanasato per troppo tempo impunita!» decretò Radamanto e un sorriso sornione distorse il contorno pieno delle sue labbra.





 
***
Sono risorta!
Per la vostra gioia (?), dopo MESI (!) di degenze e insoddisfazione (il capitolo ce l'avevo pronto da quest'estate ma non mi piaceva e non ero nemmeno troppo sicura di pubblicarlo, però ormai è fatta) ho finalmente aggiornato e sono giunta ad un punto morto, pertanto non so quando aggiornerò di nuovo...
Scrivendo la prima parte ho pianto, spero succeda anche a voi...
Dell'ultima parte sono un po' scontenta, quindi vi chiedo gentilmente la cortesia di recensire e dire cosa ne pensate ^.^


Grazie a quanti lo faranno e a tutti quelli che non mi hanno ancora abbandonata, nonostante i tempi di attesa...
Ayr
 

Ritorna all'indice


Questa storia è archiviata su: EFP

/viewstory.php?sid=2655603