Yotsu Hito - Quattro persone, tre frammenti del mio cuore e tu.

di L o t t i e
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Capitolo 00. ***
Capitolo 2: *** Capitolo 01. ***
Capitolo 3: *** Capitolo 02. ***



Capitolo 1
*** Capitolo 00. ***


Capitolo 00.








10.05.2007

«Michael?»
Il dodicenne non aveva spiccicato neanche una parola durante il viaggio. Si limitava solo ad osservare, a tratti apatico, altri interessato o curioso i coniugi giapponesi. Arricciava il nasino quando la sua nuova mamma chiamava il suo nome, forse non gli piaceva la pronuncia distorta che somigliava più ad un “Mikaela”, chissà. Gli assistenti sociali avevano informato dettagliatamente Tomoko e Hideyoshi Fujiwara della precedente e delicata situazione che aveva coinvolto il ragazzino, Michael Meyer, prima di divenire orfano ed essere affidato al Orphanage of Innocents. Eppure, prima di partire, Michael era davvero entusiasta, conversava con i due coniugi e sembrava essersi già affezionato alla nuova mamma―non vedeva l'ora di incontrare il suo fratellone, Rei.
Tomoko scacciò gli orribili pensieri che le si erano formati in mente e si avvicinò al ragazzino, carezzandogli il capo color del carbone.
«Prima di arrivare a casa ti andrebbe un gelato?»
Lui la guardò, gli occhi celesti vispi, poi annuì con vigore.

L'abitazione dei Fujiwara era enorme, o almeno appariva così a Michael: avere già solo una stanza tutta per sé lo elettrizzava un sacco. Dopo aver visitato la struttura da cima a fondo, arrivò in casa Rei, reduce da una giornata all'università, non proprio elettrizzato all'idea di avere quel marmocchio per casa. Rei Fujiwara era un ragazzo alto, molto alto, di diciannove anni; capelli neri, taglio a spazzola e occhi marrone scuro. In primo luogo neanche ricordava che quel giorno i suoi genitori sarebbero tornati dall'America con il suo nuovo fratellino, poi notò l'euforia dei presenti in cucina. I nonni, zii e zie―perfino Ukyo, il gatto, erano tutti presi dal dodicenne.
La madre lo rimproverò del ritardo, poi lo presentò a Michael.
«Ehylà, piccoletto», lo apostrofò amichevolmente, guadagnandosi un'occhiata storta dal suddetto. Arcuò le sopracciglia riconoscendo il pessimo modo di salutare il nuovo arrivato che avrebbe vissuto da quel giorno con loro. Si piegò sulle ginocchia, per osservarlo direttamente in viso. «Michael, io sono Rei, spero diventeremo amici», gli sorrise.
Ancora una volta il dodicenne si limitò a fissarlo con quei occhi gelidi, mosse appena le labbra in un muto “I hate ya”.

11.03.2008

Non era passato neanche un anno e Michael era già diventato a tutti gli effetti Mika o Mikaela, quel nomignolo, pensava ogni tanto, sembrava inevitabile, meglio quindi farsene una ragione. In famiglia erano diventati tipici i cambi d'umore dell'ormai tredicenne, accompagnati sempre dalla solita frase «non mi ricordo»―con Rei aveva instaurato una sorta di rapporto amore-odio, come prevedibile. La maggior parte delle volte entrambi passavano il tempo a lanciarsi frecciatine o solamente Rei scimmiottava Mika e allora lui correva da Tomoko a singhiozzare «come una femminuccia». Nelle altre rare volte, il ragazzo più grande si sedeva in compagnia del più piccolo, in quei momenti quasi sempre caratterizzato da un forte cinismo e lo aiutava a mettersi in pari con gli studi e gli insegnava la lingua per permettergli di frequentare la scuola. Imparava velocemente, nonostante a volte si ostinava a parlare inglese, con un bizzarro accento britannico.
Fin lì nulla di troppo strano.
Ma la preoccupazione di Tomoko arrivò alle stelle un mese dopo, quando una sera, in seguito ad una piccola discussione con Hideyoshi, Mika divenne improvvisamente cupo e silenzioso. Ciò che fece accapponare la pelle alla madre fu il soffocato rantolio del marito che provava a togliersi di dosso il ragazzino intento a strozzarlo.
«Non è normale per un ragazzino avere tutta quella forza!», sbottava, «abbiamo adottato un bambino malato!», urlava ancora.
«È colpa di Shidu!», si difendeva Mika in lacrime, rifiutandosi categoricamente di scollarsi dalla madre adottiva. Quest'ultima non sapeva come comportarsi: conscia del rancore che portava il ragazzo verso gli uomini in seguito ai maltrattamenti del padre biologico, Tomoko suppose che, vedendola discutere con Hideyoshi, Mika avesse voluto solamente difenderla, a modo suo. Dall'altra parte non poteva accettare questo gesto così violento, ma nemmeno cedere alle disperate proposte del marito per riportare il ragazzo all'orfanotrofio, appoggiato in parte da Rei.
«Non è un oggetto!», s'infuriò a quel punto, rossa in viso. Strinse a sé Mikaela, che tremava, poi lo prese per le spalle, osservandolo dritto negli occhi. «Mika, perché hai fatto male al papà?»
«I-io non mi ricordo!», singhiozzò ancora lui. «È stato Shidu!»
«Bugiardo cronico», sogghignò Rei.
«Mika, non... si... dicono... le... bugie!», scandì bene la donna con esasperazione.
Il pianto del tredicenne si interruppe di colpo. Michael chinò il capo in avanti per qualche attimo, scosso nel frattempo per le spalle da Tomoko, quando poi lo risollevò, parve intontito: si guardandò intorno come chi si è appena svegliato da una lunga dormita, battendo lentamente le palpebre. «Mamma, perché sei arrabbiata?», domandò accorgendosi inseguito di avere le guance rigate dalle lacrime.
Tomoko si pietrificò, portando una mano alle labbra. Rei si limitò al silenzio, impallidendo di colpo, Hideyoshi aggrottò la fronte con aria perplessa.

22.04.2008

Finalmente, i due coniugi si decisero a portare il ragazzo da uno psicologo loro amico per accertarsi delle condizioni mentali di Mika, nonostante al momento - e anche prima - dell'adozione era stato dichiarato che il ragazzo fosse sano.
Arata Kiyomizu era un uomo sulla quarantina con i capelli brizzolati, alto all'incirca un metro e settantacinque. Appena vide Tomoko e Hideyoshi accompagnati dal figlio adottivo sorrise salutandoli. Chiacchierarono per qualche minuto del più e del meno prima di arrivare dritti al punto. Michael nel frattempo sembrava tranquillo, seduto sul divano in pelle nera vicino ad una ragazza intenta a controllare il suo profilo di twitter. Ogni tanto lo si vedeva muovere le labbra, come se stesse conversando con qualcuno.
«Ha subìto maltrattamenti da suo padre e forse anche abusi, poi la madre a chiesto il divorzio, ma è caduta in depressione. Arata, quel bambino ha visto la madre suicidarsi», raccontò con angoscia Tomoko, «è stato già seguito da uno psicologo prima dell'adozione, ma pensiamo che Mika abbia bisogno di un aiuto. Ti sto parlando da madre», la donna strinse la mano del marito, «oltre che da amica.»
Arata annuì comprensivo. «Capisco, gli farò qualche domanda. Vi ammiro molto», proseguì, «molto probabilmente qualche altra coppia lo avrebbe rispedito in orfanotrofio.»
Hideyoshi strinse le labbra.

Non aveva senso essere troppo formale con un ragazzino di tredici anni, pensò Arata, quando accompagnò Michael nel suo studio. Gli si sedette vicino.
«Perché sono qui?», domandò il tredicenne.
«Solo per capire come stai», fu la semplice risposta di Arata, noncurante dell'accento inglese dell'altro―dopotutto Mika fino all'anno scorso aveva vissuto in America.
Per tutta risposta il ragazzino aggrottò la fronte, «Signore, non sono certo nato ieri. Cosa vuole sapere?», sbottò.
Arata rimase per un attimo interdetto. «Ovviamente», scherzò, «ti va di parlarmi della tua nuova famiglia?»
Il tredicenne sbuffò seccato, poi roteò lo sguardo, fissandolo sulla scrivania che vi era nella stanza. «Il gatto è affascinante, mi piacciono i gatti: Ukyo è davvero intelligente, al contrario degli altri. Tomoko è definibile come la madre perfetta, ma non ci ho mai parlato molto... Rei mi ha insegnato il giapponese, quindi è okay, mentre lui non mi piace e neanche lei, signore, mi va a genio.»
«Però tua madre mi ha detto che l'aiuti molto in casa e tuo―»
«Mittsu aiuta quella donna», sussurrò, stringendo le mani in grembo. «Lei non è nostra madre.»
Arata si passò una mano tra i capelli: il modo di dialogare di quel ragazzo lo incuriosiva. «Mittsu? È una tua amica?», gli arrivò un'occhiata torva, poi Mika annuì.
«Credo si possa considerare “mia amica”, sì.»
«E potrei incontrarla?»
«Magari la prossima volta», ironizzò.
«Invece chi è Shidu?»
«Chi ha parlato di lui?»
«Non sei stato tu, Michael?»

Dopo un'ora abbondante di conversazione, Arada aveva finito con l'appuntarsi alcune cose su carta. Mika alla fine si era chiuso in se stesso e si rifiutava di aprire ancora bocca. Aveva già compreso bene o male cosa avesse il ragazzino e sapeva anche a chi indirizzare Tomoko e Hideyoshi per risolvere il problema. «Mia figlia Shiraki», li informò, «è una psichiatra specializzata nei disturbi della personalità. Sono abbastanza sicuro che si tratti di questo. La chiamerò per informarla del caso di Mika, non preoccupatevi.»

02.05.2008

«Ciao, come ti chiami?»
«Michael Me―Fujiwara», mugugnò il ragazzino, osservando di sottecchi la ragazza dai lunghi capelli castani e gli occhi da cerbiatto dello stesso colore. «Ma tutti mi chiamano Mika.»
«Piacere di conoscerti, Mika. Io mi chiamo Shiraki», sorrise l'altra. «Mi hanno detto che a volte non ricordi delle cose e dicono che dici le bugie.»
«Ma io dico la verità! Non sono stato io a far male a..!», scattò il ragazzo.
«Ti credo, ti credo», intervenne immediatamente Shiraki, «puoi dirmi chi è stato? Posso parlare con lui?»
Mika si strinse nelle spalle, come se sentisse freddo. «Shidu», sussurrò solamente. «Sta sempre con me, a volte dice che devo andare a dormire perché deve proteggere Tomoko o lei andrà via come la mamma. Ma... N-non vuole che ne parli...» il ragazzino si sfregò gli occhi, con fastidio.
«Anche ora è qui? Ti sta parlando?»
Michael socchiuse gli occhi, stringendo le labbra, stette in silenzio per qualche attimo, poi rilassò i muscoli delle spalle, alzando lo sguardo torvo sulla ragazza. «Ci stai dando fastidio», ringhiò.
Shiraki rimase impassibile al cambio di personalità, si limito solamente a chinare il capo d'un lato, portandosi una ciocca di capelli dietro l'orecchio. «Tu sei Shidu?»
«Probabile.»
«Sai cosa sta accadendo?»
«Certo.»
«Quindi tu e Mika condividete i stessi ricordi.»
«Non sempre.»
«C'è qualcun altro? Puoi parlarmene?»
«Perché dovrei?», la sfidò lui.
Shiraki continuò ad osservarlo, composta, fin quando non lo costrinse ad abbassare lo sguardo. A quel punto Shidu sbuffò, evidentemente seccato.
«Sì, io li conosco. C'è il tipo di londra e la coreana, ma lei è nuova. Una rompi palle. Michael non li conosce, solo io posso parlare con tutti. A volte loro si intromettono nei discorsi, ma Michael non capisce, non è tanto sveglio il ragazzo», ridacchiò.
«Hai tentato tu di strangolare il padre di Mika?»
«Io e il londinese non li consideriamo nostri genitori, comunque sì. Quel tipo ha urlato contro la donna e io non sopporto queste cose, qualcosa dovevo pur fare», parlava quasi con disinteresse, picchiettando le dita sulla coscia. «Vorrei andarmene ora, mi stai scocciando.»
«Prima che tu vada, posso conoscere gli altri?»
Shidu aggrottò la fronte. «Per chi mi hai preso? Non decidiamo mica noi quando uscire!»
«Ah, no?» Incalzò Shiraki.
«No! Ma sei troppo stupida per capirlo.»
«Ehy, si parla così a una ragazza?»
Shidu ghignò, «ma tu sei un dottore, non una ragazza.»






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Capitolo 2
*** Capitolo 01. ***


Capitolo 01.










L'orologio segnava le dodici meno venti.
Era quasi ora di pranzo e Neruko Miyamura stava salendo le scale in cemento di un anonimo condominio. Come suo solito indossava dei jeans larghi, strappati sulle ginocchia e una t-shirt di almeno una taglia più grande; aveva raccolto i lunghi capelli castani in una coda alta, mentre il ciuffo le scivolava sul viso, maltrattato dalle dita sottili della ragazza che continuava a portarlo dietro l'orecchio. Quando arrivò alla porta dell'appartamento aprì con la copia della chiave che le era stata consegnata dal suo amico, poi le lanciò svogliatamente sul mobiletto all'ingresso. Si tolse le scarpe da ginnastica e indossò le pantofole.
Con passo sicuro iniziò a camminare in casa nonostante l'oscurità che l'avvolgeva come una morbida coperta di velluto nero. Seguendo sopratutto la scia di lattine e bottiglie di liquori vari, sospirò grevemente, arrivando alla stanza desiderata. La camera da letto era illuminata a stento dalla luce che filtrava dalle tende―le quali subito dopo vennero spostate con rabbia dalla ragazza per riuscire a vedere chiaramente la la figura distesa scompostamente sul futon¹. Il disordine regnava sovrano lì: vestiti - compresa la biancheria intima - erano sparsi sulla scrivania, una bottiglia di vodka ancora mezza piena si erigeva fiera sul pavimento vicino delle scarpe... l'unica cosa che forse poteva dirsi a posto erano dei sketchbooks e i vari colori, con qualche manuale da disegno, riposti con cura in un angolo della stanza.
Michael «Mika» Fujiwara, vent'anni, continuava a ronfare, ignaro dell'amica e delle sue “terrificanti” intenzioni. Aveva lasciato gli studi da tempo, dopo aver frequentato solo per un anno o poco più ed era proprio in quel periodo che Neruko l'aveva conosciuto, o meglio, aveva conosciuto Mittsu―una delle sue personalità.
La castana si avvicinò all'amico, quindi gli assestò un piccolo calcio sulla coscia. «Alzati: è tardi.»
Mika si limitò a strizzare le palpebre, infastidito, per poi raggomitolarsi ulteriormente nella coperta. «...Non è vero», mugugnò.
Neruko strinse i pugni, poi prese un bel respiro. «Shidu! Ho detto alzati!», urlò.
L'altro sussultò visibilmente, spalancando gli occhi. Aiutandosi con una mano si sollevò lentamente a sedere, portando l'altra istintivamente al petto. Fissò per qualche secondo l'amica, intontito dal brusco risveglio. «Sono Michael», biascicò con tono lamentoso, «e tu seriamente una rottura di scatole quando devi urlare per svegliarmi.»
La ventun'enne ridacchiò con imbarazzo, riconoscendo lo sbaglio. I capelli color del carbone dell'altro, lunghi fin le spalle, gli coprivano gli occhi celesti come il cielo sereno, cangianti. Aveva un'aria visibilmente stanca e un forte mal di testa gli faceva pulsare le tempie, per non parlare della nausea..!
«Scusami», sussurrò a quel punto la ragazza - il suo tono di voce si era fatto più soffice, porgendo una mano al ragazzo per aiutarlo ad alzarsi. «Vuoi che ti porti dell'acqua o... un'aspirina?»

In cucina, Mika sedeva su una sedia, anche se pareva più intendo a diventare tutt'uno con la superficie fresca della tavola. Dall'altra parte, Neruko stava ripulendo il vasetto di uno yogurt alla fragola. Aveva fatto prendere l'aspirina al ragazzo ed ora aspettava che si riprendesse un po' dalla super sbronza; come consuetudine, Mika non ricordava assolutamente nulla dei due giorni precedenti e non era certo colpa dell'alcol. In verità, di dissociarsi per così tanto tempo, non gli accadeva da molto. Si sentiva uno schifo.
«Devi assolutamente cambiarti quei vestiti», la ragazza gli puntò il cucchiaio, provando a catturare l'attenzione. «Mika, stai ascoltando?»
«Mhh... certo. Come sapevi..?», domandò rilassandosi sullo schienale, giocherellando con il piercing al labbro inferiore.
«Tua madre mi ha detto che non rispondevi al cellulare - che tra l'altro dobbiamo cercare - e mi ha chiesto di controllarti. Ma avevo degli esami», scrollò le spalle, «quindi eccomi qui, con un giorno di ritardo. Devo porgere le mie scuse a Tomoko», sospirò alla fine. «Qual è l'ultima cosa che ricordi? Vuoi che chiami Shiraki?», domandò alzandosi per gettare il vasetto di yogurt vuoto in un sacchetto e il cucchiaio nel lavello.
«No, sarà sicuramente impegnata... meglio di no», borbottò abbassando lo sguardo.
«Fooorse qualcuno qui non ricorda che Shiraki Kiyomizu è la sua psichiatra da quanto - cinque anni?»
«Sette», la corresse il corvino.
«Appunto! Proprio per questo dovresti già sapere che devi chiamarla!»
«Neruko, sto bene. Ho solo questo», socchiuse gli occhi, massaggiandosi la fronte, «terribile mal di testa. Passerà. Ora vorrei andarmi a fare una doccia.»
«Certo», sussurrò la castana, indurendo l'espressione. «Intendi stare a casa tutto il giorno?», sbottò con tono accusatorio.
Mika scrollò le spalle. «Probabilmente sì.»
«Oh no, ma proprio no! Tu ora vai a lavarti e dopo vieni con me a pranzare!»
Svelta, la ragazza seguì il ventenne che borbottava infastidito―anche dentro il bagno, continuarono a discutere, mentre Michael si spogliava dei pantaloni e della maglietta. «Vuoi continuare a starmi incollata?»
La ragazza incrociò le braccia, osservando con finta sufficienza i tatuaggi che decoravano la parte sinistra del torace del ragazzo e il bracciale tribale tatuato sul corrispondente braccio. «Perché no», scherzò.

L'acqua scrosciava all'interno del box doccia, lungo le linee del corpo tonico del ventenne, gelida. Questo lo aiutava a svegliarsi meglio e, solitamente, a lavare via la sporcizia che sentiva addosso dopo i black-out mentali. Mika poggiò la fronte sulle piastrelle bianche della parete, strizzando le palpebre: sentiva la testa martellare nonostante l'aspirina presa prima, non voleva però assumere altri farmaci... non provava nemmeno a ricordare stavolta, sarebbe stato solo peggio.
Almeno, la casa adesso ara avvolta da un confortante silenzio. Pensò che forse Neruko fosse andata a guardare la TV in cucina. Di malavoglia, era stato costretto ad accettare l'invito dell'amica―altrimenti lei sarebbe stata tutto il tempo ad osservarlo fare il bagno e in tutta sincerità non gli andava proprio.
“Quella ragazza non ha proprio vergogna”, ridacchiò una voce nella sua mente.
Il ragazzo aggrotto la fronte. «Shidu, dov'è il mio cellulare?», sussurrò a denti stretti.
Tuo, non di certo.”
«Oh, andiamo! Ovvio che che il mio! Vuoi dirmelo o no?», domandò, stavolta decisamente a voce alta, uscendo dalla doccia e agguantando un asciugamano che legò alla vita. Se qualcuno lo avesse visto, sarebbe certo passato per un matto.
“Perché non chiedi agli altri?”
“Effettivamente a volte anche io ti ho nascosto qualche oggetto, Michael.”
«Francis? Ah, mi sta venendo un'emicrania...», si lamentò portandosi entrambe le mani al capo.


* * *


Provava sempre un certo disagio, Mika, quando si ritrovava da solo―con quelle tre semi-costanti e petulanti voci che contribuivano solamente a peggiorare il suo mal di testa. Sentiva che non era un buon segno, ché di solito sentire parlare i suoi alters era un sintomo che precedeva una dissociazione. A braccia conserte e l'espressione un po' accigliata, aspettava che Neruko ritornasse con quel famoso Hajime di cui parlava a volte: era stato proprio quel ragazzo a invitare l'amica a pranzo e lui si sentiva un po' il terzo incomodo. Chissà per quale motivo era certo che tra quei due ci fosse del tenero―eppure lei non aveva mai accennato a qualcosa che andasse oltre l'amicizia, quindi doveva essere così. In fondo Mika e Neruko, essendo amici da anni, parlavano di tutto e salvo rari casi, non si nascondevano niente. Qualche minuto dopo la vide arrivare.
«Mika, sta' dritto!» lo rimproverò immediatamente, imbronciandosi come una bambina, dal basso dei suoi centosessanta centimetri. Poco dopo un altro ragazzo fece capolino dietro di lei. «Lui è Hajime Kobayashi», lo presentò.
Una sfuggente occhiata color pece trafisse il corvino, che abbassò lo sguardo a fissare, improvvisamente interessato, un ciuffetto d'erba che era cresciuto tra le crepe del cemento. Neruko arcuò le sopracciglia, osservando con sguardo indagatore Michael―poi osservò l'altro ragazzo, stretto nelle spalle, quasi fosse intimorito dal corvino.
«Vi... conoscete già?», domandò titubante.
Mika si sforzò di osservare per bene il ragazzo: era poco più alto, forse quasi un metro e ottanta e, al contrario di lui, che aveva legato i capelli in un codino, li aveva i corti―dal taglio sbarazzino, completamente celesti. Sembrava uno di quei tipici personaggi loschi da anime giapponesi, vestito completamente di nero. Il classico ragazzaccio con canottiera, felpa e jeans con catena. Sullo zigomo probabilmente aveva un taglio, per portare un cerotto.
«Allora?»
Mika scosse lentamente il capo. «Michael Fujiwara», si presentò meccanicamente fuggendo ancora una volta da quelle iridi cupe. Eppure, una flebile sensazione di déjà vu l'aveva.

Il tragitto verso il locale, per quanto breve fosse, ai tre parve durare da un'eternità. L'atmosfera era decisamente pesante; come chiuso in una bolla, Mika camminava dietro i due. Accanto a lui, i fantasmi delle tre personalità: un ventenne fin troppo violento con il vizio di bere troppi alcolici, un sedicenne cinico dal forte accento britannico e una ragazzina di quindici anni fin troppo spontanea ed impulsiva, con la passione del disegno. Neruko tra quei due fuochi iniziava a provare un certo disagio; conoscendo Hajime, poi, si chiedeva come mai, da quel tipo socievole che era, si fosse così incupito scorgendo Michael. Non poteva esserne certa, e Mika gliel'aveva anche negato, ma credeva che i due si fossero già incontrati―forse proprio in quei due giorni dimenticati dal suo migliore amico... che fosse accaduto qualcosa.
Ma cosa?
Appena di fronte al locale scelto vi era una graziosa insegna decorata con i tipici fiori di ciliegio ed alcuni tavolini erano disposti sull'ampio marciapiede insieme a qualche alberello in vaso. Accogliente, certo, ma appena i tre entrarono, il calore e l'accoglienza di quel piccolo ristorante era come moltiplicata per dieci―forse era a causa dello stile occidentale, un po' casereccio.
Quando presero posto, immediatamente gli occhi neri e penetranti di Hajime sembrarono incollarsi al labbro inferiore dell'altro ragazzo, ad osservare il foro senza piercing. Sembrava stesse seriamente studiando ogni particolare di quella figura androgina per imprimerla come una fotografia sulla propria retina.
«Sto morendo di fame», mugugnò Neruko agguantando il menù.
Mika abbozzò un sorriso. “Potresti smettere di osservarmi?”, ecco ciò che avrebbe voluto dire gettando una rapida occhiata di fronte a sé e invece riuscì solo a ricadere con lo sguardo sul menù del ristorante.
Con grande sollievo di tutti, dopo pranzo, l'atmosfera si era notevolmente alleggerita―tanto che i due ragazzi riuscivano a scambiarsi qualche parola senza che Neruko dovesse intromettersi per non far degenerare il tutto o mantenere la conversazione attiva.
«Devo allontanarmi un attimo», la castana si alzò, sorridente, «potreste ordinare il dolce anche per me?»
«Certo!» assicurò Hajime osservandola allontanarsi verso la toilette. «Allora», iniziò, improvvisamente serio - lo sguardo nero e truce fissato su Mika.
Quest'ultimo arcuò le sopracciglia, con aria interrogativa.
«Vuoi continuare a far finta di nulla?»
«Eh?»
Hajime sbuffò, si sporse verso l'altra parte del tavolo, ignorando un bicchiere pieno d'acqua che si rovesciò sulla tovaglia stropicciata. D'istinto, Michael retrocesse, appiattendosi sullo schienale rigido della sedia. «Che fai, ti allontani?» borbottò il più grande con disapprovazione, allungando un braccio, afferrando il colletto della t-shirt dell'altro―che strizzò gli occhi, temendo un qualche pugno o... cose simili. Diciamo che ormai era talmente abituato all'idea di poter incontrare qualcuno a lui sconosciuto, che però lo riconoscesse e tutt'un tratto potesse incazzarsi pesantemente, tanto da non opporre neanche resistenza o provare a dare spiegazioni; se poi riusciva a spiegare perché non ricordava quella persona nella maggior parte dei casi veniva immediatamente mandato a quel paese o preso per uno da rinchiudere.
Certo, non negava di avere un disturbo mentale―ma le sue voci erano un qualcosa di «concreto», i suoi flashback e ricordi perduti non erano mica deliri, una sottile ma cruciale differenza che lo allontanava dalla schizofrenia. Eppure alla gente non interessava e sarà che la terapia stava dando i suoi frutti con gli anni, ma i propri pensieri assumevano quella giusta punta di cinismo che solitamente caratterizzava Francis.
Questo fiume di pensieri fece incursione tanto velocemente quanto si arrestò di colpo, spezzati dalla sorpresa―dalla meraviglia folgorante di avvertire altre labbra sulle sue.
«M-mhh?!», mormorò sgranando gli occhi. Provò a sottrarsi a quel bacio, trovandosi però imprigionato tra quello che poco prima considerava il suo salvatore, lo schienale, e il corpo di Hajime proteso in avanti.
Oh, no!, fu il suo ultimo pensiero prima che l'espressione stupita venisse deturpata da una di profondo disgusto, prima che Shidu bruscamente spostasse il viso per sputare impunemente sul pavimento in parquet del ristorante e afferrare, non il colletto di una maglia o camicia, ma il collo del ragazzo di fronte a sé―praticamente steso sulla tavola ancora imbandita. Tutto ciò fece ovviamente allarmare il personale del locale; qualche cliente - il più impavido - si alzò, pronto a scongiurare una rissa.
«Non ti è bastato il pugno dell'altra volta? Dovrei romperti il naso?» domandò furente il corvino, vicino al viso annaspante dell'altro. «Come, come? Non ti sento!»
La donna al bancone stava già per alzare la cornetta del telefono e chiamare la polizia, quando fortunatamente - e anche alla buon ora - qualcuno si decise.
Shidu sentì chiaramente i capelli venirgli tirati. Non ci pensò due volte e, lasciato il collo di Hajime - che crollò sulla superficie non proprio confortevole del tavolo -, si voltò di scatto a mano ben tesa per cantarne quattro anche all'altro mal capitato.
«Vuoi continuare a dar spettacolo?»
E come se gli fosse stata improvvisamente staccata la spina per la corrente, il braccio si bloccò, giusto in tempo per non colpire il viso di Neruko. La castana lo osservava, la voce ferma, l'espressione quasi rilassata―ma che metteva terribilmente soggezione nella sua semplicità. Shidu si limitò a un verso scocciato, inforcando le mani nelle tasche dei jeans.
Si sedette sulla sedia, in religioso silenzio.






Futon¹―È il materasso tradizionale della cultura giapponese, interamente in cotone, rigido, sottile e arrotolabile. È formato da diverse falde di cotone rivestite con una fodera trapuntata a mano e può avere vari spessori.


Deliri Note dell'autrice:
Eccoci finalmente al capitolo 01, dopo quasi un mese (penso proprio che sarà questa la tempistica con la quale aggiornerò la storia, ma non prometto nulla, data la mia incostanza (...)). Non l'ho detto all'inizio ma qualsiasi nome e riferimento a fatti o persone reali è da ritenersi assolutamente casuale. Tutte le informazioni riportate sul disturbo di personalità multipla sono frutto di mie personali ricerche e a volte le caratteristiche del disturbo potrebbero prendere una piega quasi romanzata (plus - spero di non sparare cavolate al riguardo).
Ringrazio chi ha speso quei dieci minuti per leggere il capitolo precedente e questo, se siete arrivati alla fine - mi rendete davvero felice!
Inoltre Naheliem Rosadiluna che ha inserito la storia nelle seguite, grazie!
―L o t t i e.

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Capitolo 3
*** Capitolo 02. ***


Capitolo 02.










Ad accompagnare Hajime al pronto soccorso fu solo Neruko; lei stessa però prima di muovere un passo dal locale e che qualche agente di polizia venisse chiamato, informò la madre del corvino che a sua volta chiamò anche Shiraki, indispensabile per ristabilire l'ordine. Tomoko non aveva mai - o quasi - fatto scenate di fronte ai casini di suo figlio; si offriva di pagare i danni, scusarsi e anche umiliarsi se necessario―senza mai farlo pesare a Michael. All'inizio sì, s'infuriava perfino con gli altri che non capivano oltre che con l'artefice del misfatto, ma alla fine e con il passare del tempo capì che non serviva a nulla avvilirsi. Episodi del genere solitamente erano da considerarsi come un avvertimento: magari qualcosa turbava Mika o dimenticava di prendere qualche farmaco e semplicemente bastava parlare con tutte e tre le personalità e tenerle sotto controllo. A questo proposito, una camera in casa della donna era sempre libera per il suo ragazzo e ospitarlo fin quando non ristabiliva un certo equilibrio. Conseguentemente al divorzio con Hideyoshi e, qualche anno dopo, al fidanzamento di Rei con una ragazza adorabile, non nascondeva che avere Mika per casa non le dispiaceva affatto.
Anzi, era come una ventata d'aria fresca tra quelle mura silenziose e anche Ukyo, il micio, ne era felice.
La sera stessa, difatti, Tomoko era intenta a preparare la cena per lei e Michael. In sottofondo un telefilm dalla trama incerta, l'atmosfera profumava di verdure al vapore e uova, mentre il ventenne si dilettava a stuzzicare bonariamente il felino accoccolato sul suo addome con un elastico per capelli. Invero, nonostante apparisse piuttosto tranquillo, i suoi pensieri erano costantemente proiettati verso l'altro ragazzo; malgrado gli avessero assicurato che Hajime se la fosse cavata solo con qualche goccia di sangue dal naso e un antidolorifico, Mika avrebbe mille volte preferito scusarsi personalmente e spiegarsi e sopratutto ricevere delle spiegazioni. Sospirò sonoramente, facendo anche sobbalzare Ukyo per lo spavento, cosa che gli fece scappare un leggero risolino―carezzò velocemente tra le orecchie il pelo soffice color panna del micio come a scusarsi, poi lo mise giù, alzandosi dal divano.
«Ti vanno le carote?» gli chiese Tomoko intenta ad impiattare le verdure e le uova strapazzate.
«Ah-a», rispose distrattamente l'altro prendendo posto a tavola. «A cosa stai pensando?»
Il ventenne arricciò il naso, osservando i piccoli dischi arancioni nel piatto. «Che continuano a non piacermi le carote», scosse impercettibilmente il capo, «non so neanche perché ti ho risposto che potevi darmele» borbottò poi sbuffando ed agguantando la forchetta.
La donna sorrise, prendendo le bacchette. «Devi essere piuttosto stressato: sarà meglio che resti qui. Dov'è finito il tuo cellulare? L'hai perso- ?»
«Mamma―» si - e la - interruppe stringendosi un poco nelle spalle, che scrollò poco dopo. «Non lo so, devo ancora cercare a casa.»
«Allora domani andremo insieme.»
«...posso andare anche da solo», bisbigliò.
«Ho chiesto tre giorni di ferie al reparto, quindi di pomeriggio non ho nulla da fare, poi potresti accompagnarmi a fare compere e―»
«Preferisco andare di mattina, da solo.»
Tomoko poggiò le bacchette sulla tavola, stringendo le labbra. «Mika, non dovresti discutere dopo quello che è accaduto.»
«Cosa?!» sbottò l'altro, «sai perfettamente che è stato solo un caso isolato! Non c'è motivo di preoccuparsi!»
«Michael, non discutere.»
E bastò uno sguardo per zittirlo. Il ventenne aggrottò la fronte, offeso, punto nell'orgoglio mentre posando la forchetta si alzò dalla sedia «vado a dormire da Neruko» si limitò a dire. Indossò velocemente le scarpe lasciate vicino l'uscio, poi scomparì dietro la porta. La donna si aspettava una reazione del genere, non sprecò neanche fiato a richiamarlo; sospirò sonoramente, alzandosi placidamente a sua volta per agguantare il cellulare sul ripiano della cucina e avvertire la ragazza castana dell'imminente arrivo di quel testardo senza speranze di suo figlio.
Capiva di averlo in qualche modo ferito, di aver messo in dubbio la sua autonomia―ma era proprio così! Nonostante tutto, era ancora instabile e facile da mandare in mille pezzi, bisognoso di qualcuno, un pilastro solido sulla quale potersi appoggiare senza temere di cadere.
Lei era la sua colonna, non doveva tentennare.

* * *


Il timer suonò, indicando la scadenza dei tre minuti. Neruko prese le due confezioni di noodles istantanei con l'ausilio delle presine e ne porse una all'amico impegnato nella lettura di una rivista aperta sulla sezione “oroscopo”.
«Ah! Guarda qua: solo tre stelle in amore. Avrei dovuto leggerlo prima, invece che ritrovarmi col naso dolorante ora.»
La castana scosse il capo, sbuffando. «Seriamente credi a certe cose? Incredibile.»
«No che non ci credo! Però è probabile che a volte ci azzecchino», si giustificò Hajime lanciando in fondo alla stanza la rivista. «Tentar non nuoce», scrollò le spalle. Scoperchiò i noodles, inspirando a pieni polmoni l'odore speziato.
«Tentar con Mika nuoce, invece», borbottò l'altra. «Mi avevi detto che c'era un ragazzo che ti piaceva, ma avresti potuto anche dirmi che era lui!»
«Come avrei potuto conoscere il suo nome? A volte dici delle cose assurde», mugugnò soffiando sui spaghetti di soia per raffreddarli.
«Quando l'hai visto, perché non―» a quel punto Neruko venne interrotta dalla suoneria del proprio cellulare. Osservò l'oggetto in malo modo, riservando poi lo stesso trattamento al ventunenne di fronte a lei il quale con un sogghigno stava continuando a mangiare.
Camminò fino alla cucina, poi rispose.
«Tomoko?»
-Ehy, Neruko- fece sorridente dall'altra parte dell'apparecchio la donna, -Sei in casa?-
La castana gettò un'occhiata al ragazzo di fronte a sé. «Uhn... sì. È successo qualcosa?» domandò immediatamente, avvicinandosi alla finestra che dava sulla strada.
-Nulla di che in verità: io e Mika abbiamo avuto una piccola discussione- sospirò, -sono davvero mortificata che ci vada di mezzo tu ogni volta.-
«Ho capito. Non si preoccupi, davvero!»
-Sei un angelo.-
«Se accade qualcosa faccio una telefonata.»
-A qualsiasi ora.-
Neruko poggiò il cellulare vicino al lavello, sbuffando: la sua serata con Hajime era appena andata in fumo. A volte Tomoko le faceva davvero pena, altro che angelo, la santa tra le due era proprio la madre adottiva di Mika! Dette ancora qualche occhiata in strada, poi si voltò, andandosi a sedere vicino al ragazzo dai capelli celesti che nel frattempo aveva quasi finito la sua porzione di noodles.
«Era tua madre?», domandò.
«Magari! Era quella di Mika-»
«Hai il numero di sua madre? Da quanto vi conoscete voi due?»
«Sembri quasi geloso», osservò la ragazza arcuando un sopracciglio, «per tua informazione, io conosco Michael da un paio d'anni, diciamo abbastanza da capire quando non è in sé. Comunque, devi andartene. Ora.»
«Cosa? Perché? E la nostra serata?»
«È finita nel cesso. Mika ha litigato con sua madre, quindi sicuramente passerà la notte da me.»
«Qual è il problema allora?»
Prima che l'altra potesse ribattere, il citofono suonò. Entrambi arcuarono le sopracciglia, voltandosi verso l'apparecchio, neanche ci fosse stato un demone dall'altra parte. «Non ti muovere da qui» ordinò Neruko precipitandosi a rispondere. Dopo qualche istante, nonostante avesse ancora le ciabatte, si precipitò giù per le scale, lasciando Hajime interdetto.
Il ragazzo dai capelli celesti non negava di covare un certo nervosismo all'idea di rivederlo. E se lui non volesse parlarmi?, si chiedeva osservando la porta spalancata, nonostante forse sarebbe dovuto essere lui quello intimorito. Infischiandosene altamente delle parole dell'amica, si alzò in piedi precipitandosi sulla porta, sporgendosi per riuscire ad osservare i due davanti al portone in fondo agli scalini, ma nonostante scorgesse i capelli castani di Neruko non riusciva a vedere l'altro. Oltretutto ciò che i due si dicevano gli arrivava alle orecchie come un mormorio confuso.
«Tu e il tuo orgoglio», sbottò la ragazza. «Quindi vuoi seriamente restare qui a dormire? Sicuro che poi non cambi idea?»
Mika roteò le iridi cerulee, «sì e sì.»
«Promettilo.»
Il ragazzo la osservò scettico, ma sopratutto stufo di tutte queste discussioni―borbottò un rapido «come ti pare» e la sorpassò salendo velocemente le scale. Hajime, in cima a quest'ultime sgranò gli occhi correndo a sedersi fissando insistentemente il pavimento, quasi volesse diventarne parte. L'altro raggiunta la soglia, si congelò lì, avvertendo distintamente Neruko sbattergli contro la schiena, lamentandosi subito dopo.
«L'hai promesso, entra e non discutere» lo esortò ancora, un attimo tentennante. Avrebbe dovuto dirgli di Hajime, ma... di contro, se Mika si fosse rifiutato prima di salire non sapeva assolutamente dove sarebbe andato a dormire―ma sicuramente non da sua madre, forse a casa sua? Lo prese per mano e dopo aver chiuso la porta lo trascinò sul divano, dove si sedette sbuffando.
«Vado a prepararti il futon.»
«Il divano va più che bene», mormorò il diretto interessato fissando di sottecchi l'altro ragazzo.
«Ho detto che vado a prepararti il futon», rimarcò la castana fissandolo. Era stupido o cosa? Gli stava offrendo la possibilità di chiarirsi con Hajime e ora voleva farsi bloccare dalla timidezza? Scosse il capo con disapprovazione, dirigendosi in camera. E come prevedibile calò un silenzio pieno d'imbarazzo: Mika senza scrupoli, o meglio, con quella spiccata ingenuità da bambino che popolava le sue iridi continuava ad osservare l'altro e Hajime, prendendo il coraggio a due mani, ricambiava, dubbioso.
«Scus―» iniziarono in coro, zittendosi subito dopo.
Michael finalmente scostò lo sguardo, sistemandosi meglio sul divano, a gambe incrociate. «Parla prima tu», borbottò.
«Scusami» disse semplicemente il più grande. «Se l'avessi saputo non avrei fatto un gesto tanto avventato...»
Ovvio, se avesse saputo di aver a che fare con un malato mentale non si sarebbe neanche avvicinato!, pensò immediatamente, certo che Neruko gli avesse raccontato tutto. Rafforzò la presa sulle proprie caviglie, abbassando lo sguardo su di esse. «Mh.»
«Te la sei presa? È che ho assillato così tanto Neru-chan che alla fine ha ceduto e mi ha detto del tuo problema con l'alcol.»
«Eh?!» esclamò Mika trasalendo. Raddrizzò le spalle, voltandosi verso Hajime e scoprendolo in un inchino in segno di scuse. «Quindi...» un sorriso timido gli nacque sulle labbra: ah! Scosse velocemente il capo, tanto che l'elastico che teneva raccolti i suoi capelli fece fatica a non cadere. «N-non ha importanza! Io invece sono molto dispiaciuto per tutto, insomma.»
«Ancora una cosa:» riprese Hajime smontando l'inchino per sollevarsi dal pavimento e prendere qualcosa dalla tasca della propria felpa rigorosamente nera. «questo penso sia tuo.»
Gli porse un cellulare piuttosto anonimo, touchscreen, d'un modello neanche troppo recente che il corvino prese senza esitazione per premere il pulsante del blocco-schermo e osservare tutte le notifiche di chiamate e messaggi persi. «Sì, accidenti! Ma come mai l'hai tu?»
Hajime chinò il viso di lato, grattandosi una guancia con l'indice―con aria dubbiosa. «L'altra sera l'hai lasciato al locale. Beh, hai tracannato litri di solo i Kami sanno cosa!» continuò scherzando, «mi sembra più che logico che non te ne ricordi!»
Mika abbozzò una risatina nervosa, rabbuiandosi. «Già...»
«Oh, non lo credevo possibile: andate d'accordo voi due!» cantilenò Neruko spuntando dal piccolo arco che divideva il corridoio da quella specie di stanza contenente salotto e cucina. Andò a sedersi sul divano, vicino a Michael, sorridente.
Hajime nel frattempo andò a raccattare la propria felpa dall'attaccapanni, poi la indossò, alzando il cappuccio sul capo dalle sfumature celesti. Qualche ciuffo di capelli gli si schiacciò sulla fronte.
«Haji, te ne vai?» domandò con una punta di delusione la castana, come se lei non gli avesse detto nulla.
«Ci vediamo domani a lezione!» esclamò il diretto interessato ormai all'ingresso, facendo il fiocco ai lacci delle converse nere. «Michael, sono felice di aver chiarito con te! E... chiamami qualche volta!» disse infine prima di chiudere le porta.

«Allora? Che vi siete detti?» gli domandò dopo alcuni istanti Neruko.
«Quindi non stavi origliando?»
«Certo che no! Ti ho preparato il futon! Per chi mi hai preso, non ascolto le conversazioni di due futuri fidanzati!» ridacchiò. «Sarebbe la tua prima relazione, vero? Ahh! Che cosa romantica!»
«Non mi pare di aver mai detto di essere gay», sbuffò lui con tono leggermente stridulo.
«Ma neanche etero!» continuò lei con un sorrisino furbo sulle labbra.
«E se fossi asessuale?!»
«Anche loro possono provare attrazione per qualcuno», ribatté con tono sicuro Neruko. «Ma sarebbe uno spreco se tu non ne provassi», lo stuzzicò ancora, bonariamente.
«Neruko..!» iniziò con aria scandalizzata, poi scoppiò in una leggera risata. «Se non ci fossi tu! Grazie per... non avergli detto del...»
«Sarebbe stato uguale», la ragazza si alzò dal divano, andando a prendere il barattolo di noodles ormai freddi e le bacchette, seguita dagli occhi vispi dell'amico. «Gli ho solo detto che hai il vizio di esagerare con gli alcolici e la maggior parte delle volte finisci per dimenticare cose a causa di questo.»
«...»
«Mika?» la ragazza alzò lo sguardo marrone dai spaghetti non più così tanto invitanti per guardare l'amico, il quale fissava di fronte a sé con sguardo vitreo. Si allarmò un attimo, abbozzando un sorriso tirato. «E-ehy...» lasciò perdere i noodles, abbandonandoli per l'ennesima volta sul tavolino basso. Si chinò ai piedi del divano scrutando con apprensione il viso pallido di Mika―gli poggiò delicatamente una mano sul ginocchio. Il ragazzo sussultò visibilmente, abbassando gli occhi sbarrati prima sulla mano di Neruko e poi sul suo viso. «Mi dispiace, forse avrei fatto meglio a farlo andare via prima. Scusami», ammise lei con serietà.
L'altro batté le palpebre un paio di volte, come a destarsi da quel torpore, poi si passo le mani sul viso sospirando sonoramente. «Fa niente, d-davvero.»
«Come quell'innocuo mal di testa di stamattina?»
«Esageri.»
«Non esagero!»
Michael la guardò con sguardo indescrivibile, incrinato come se stesse per mettersi a piangere. Strinse le labbra, fuggendo dagli occhi color cioccolato dell'amica. Prese il cellulare che aveva posato di fianco a lui, mettendoselo in tasca. «Vorrei andare a dormire.»
Lei cedé, sconsolata e a malincuore si sollevò in piedi permettendogli di alzarsi. Lo vide voltare l'angolo e solo allora si domandò quando Mika avesse ritrovato il proprio cellulare. Aggrottò le sopracciglia, perplessa, preoccupata. Cosa diamine gli stava succedendo tutto d'un tratto? Scosse il capo sconsolata, aveva persino dimenticato di parlare con lui del litigio con sua madre... Ma in fondo, forse non erano proprio affari suoi - nonostante da quando aveva scoperto il disturbo del quale soffriva non faceva altro che dedicarsi a lui, scoprirlo poco alla volta nel corso degli anni. Poteva paragonarlo a un vaso di Pandora: più sollevava il coperchio, più l'orribile passato di quel ragazzo la inghiottiva, più lei avrebbe voluto tenerlo sotto una campana di vetro come una madre iper-protettiva. Proprio in quel momento le tornò in mente il suo sguardo. La fame le era passata tutta quanta, tanto alla fine i noodles freddi le facevano comunque schifo―così dopo un'abbondante ora passata a guardare quei spaghetti e fare zapping in TV senza vero interesse, spense quest'ultima e anche la luce per poter andare a letto.

Meccanicamente percorse il breve corridoio buio, aprendo la porta della propria camera quanto più silenziosamente potesse fare e notò che l'abat-jour era accesa proiettando una luce color confetto su tutto l'ambiente―grazie a quel paralume rosa con i conigli disegnati su. Ridacchiò fra sé e sé ritrovando un po' quella che era la sua allegria. Mosse qualche passo fino al proprio letto iniziando a togliere tutti i peluches che ci ammucchiava su ogni mattina dopo averlo sistemato e li spostò su una poltroncina all'angolo, sempre attenta a non inciampare o dar fastidio a Mika che dormiva sul futon. Si fermò ad osservarlo, poi, seduta sul bordo del proprio materasso con il viso sorretto da entrambe le mani.
Quel viso così rilassato tra le braccia di Morfeo, incorniciato dai capelli corvini scompigliati senza un elastico a tenerli a bada lo ha sempre trovato... affascinante, a modo suo, con quei tratti non troppo spigolosi e duri ma neanche completamente femminili. Si immaginò un bambino dai grandi occhi azzurri, forse anche gracilino e si chiese come qualcuno con quale coraggio sarebbe riuscito a fargli del male, quale mente malata non avrebbe provato pietà. Deglutì con un nodo alla gola osservando il corpo dell'amico raggomitolato sotto la coperta.
Non devo pensarci, si disse dandosi qualche schiaffetto, eppure non ci riusciva! La sua mente correva veloce ai suoi genitori che abitavano a qualche kilometro da lei, a quanto amore loro le donavano e quanti sacrifici avevano compiuto per farle frequentare una facoltosa università nella capitale e le lacrime minacciavano di cadere a grappoli da quei occhi ora di cioccolato fuso. Avrebbe tanto voluto sua madre con lei ora, per abbracciarla e anche suo padre e sua sorella minore e il suo cane, il suo coniglio bianco, anche quelle piccole e pigre tartarughe che sua sorella curava gelosamente! Non riusciva a immaginare una di quelle persone farle del male.
E così si ritrovò a singhiozzare sommessamente mentre si toglieva i pantaloni della tuta e la maglia a mezze maniche per indossare il pigiama―avrebbe tanto voluto ingozzarsi con il gelato alla vaniglia, a dire il vero.
La sola cosa che fece cessare il proprio pianto fu un improvviso movimento di Mika, il quale rimase senza coperta. Neruko tirò un sospiro di sollievo, certa di aver perso un battito congelata sul posto.
«Che bambino!» sussurrò raccogliendo la coperta per sistemarla di nuovo sul corpo del giovane. Non si era portato neanche un pigiama, quel cretino!
Chissà se sta sognando..., pensò rimanendo ancora un paio di secondi a guardarlo.

* * *


Il mattino seguente la sveglia suonò puntuale alle 6:30, svegliando Neruko che mandò la propria mano in esplorazione per eliminare quell'odioso suono. Quando trovò il tanto temibile oggetto riuscì miracolosamente a premere quel maledetto pulsante e a far zittire quell'infernale oggetto. Mugugnò un lamento mentre un'insopportabile vocina le ricordava di dover andare a lezione―ma sopratutto che il suo migliore amico sarebbe dovuto tornare a casa propria.
Prese a calci le lenzuola, togliendosele di dosso per poi voltarsi e scoprire che sul futon non c'era nessuno. Immediatamente tutto il sonno scomparì e saltò giù dal letto, vedendo però che il cellulare di Michael era vicino al materasso arrotolabile si sentì più sollevata. «Mika, sei in bagno?» chiese raccogliendo i lunghi capelli in una coda spettinata. Quando uscì dalla camera il suo naso, ma ancor più lo stomaco digiuno dalla scorsa sera capirono immediatamente che qualcuno era ai fornelli. E se da una parte considerava ciò una cosa fantastica, dall'altra sapeva che non era un buon segno. Era risaputo che Mika non sapesse cucinare neanche un uovo bollito, chi invece era un'ottima cuoca era...
«Unnie, sei sveglia!»
La voce del suo migliore amico, ma decisamente molto più acuta e allegra del normale la accolse. Non poté che sorridere, un po' triste a riconoscere la più adorabile, ma anche terribile in un certo senso, delle personalità di Michael.
«Buon giorno, Mittsu» la salutò con naturalezza, senza scomporsi. «Cosa prepari?»
Mittsu in realtà non aveva un nome, come gli altri due, difatti l'appellativo che le avevano affibbiato tutti era “la terza”, mittsu appunto―in quanto terza e ultima personalità ad essersi manifestata. Ma di contro era la prima che Neruko aveva conosciuto, che ironia. Lei era spigliata, ingenua, sorridente e una quindicenne eterna perennemente innamorata delle storie romantiche che leggeva nei manga e guardava negli anime, shippatrice incallita di coppie omosessuali, ottima disegnatrice e cuoca. Ciò che l'aveva stupita all'inizio era il fatto che sapesse parlare e scrivere alla perfezione il coreano nonostante Michael avesse vissuto fino alla sua adozione in America. Tutto quello era... impressionante, quasi spaventoso. Ma in verità ciò che faceva più paura era il “compito” di Mittsu. Lei era l'unica fra le tre personalità a sopportare meglio e scaricare senza sfoghi violenti lo stress accumulato da Michael; senza abbuffate d'alcool come Shidu o tendenze suicide come Francis. Lei usciva nel mondo esterno di tanto in tanto, sempre felice e sorridente e poi andava via in silenzio. Era un tornado d'aria fresca, ci provava addirittura con qualche ragazzo se le piaceva! Esilarante, ma non certo piacevole per Mika.
«Non ci vediamo da tanto, così ho voluto farti una sorpresa!»
«Ma... hai anche riordinato la stanza», constatò con stupore la ventunenne sedendosi su un cuscino, vicino al piccolo tavolino apparecchiato con due tovagliette e due bicchieri di succo di frutta. «Non dovevi. Si può sapere quando ti sei alzata?»
«Mezz'ora fa, credo», mormorò l'altra sovrappensiero. «Ecco, spero ti piaccia!» esclamò poi portando i due piatti sul tavolino.
«Tutto ciò che cucini è delizioso: è impossibile che non mi piaccia!» esclamò con l'acquolina Neruko osservando l'omelette sul piatto decorata dal disegno di un micio fatto col ketchup.
«Ahh, unnie! Troppi complimenti, arrossisco così!» si portò le mani alle guance, ridacchiando.
«Dici? Ma è solo la verità. Anche Mika ogni tanto si impegna a cucinare, lo sai vero?» le domandò con allegria.
«Oh, ma certo! Quelle rare volte in cui stiamo tutti insieme ci impegniamo per condividere gli interessi» annuì con orgoglio Mittsu.
«Quindi qualche miglioramento c'è...» mormorò la castana gustandosi un boccone di quella prelibatezza. «Mika è troppo pessimista» sentenziò alla fine. «Com'è quando riuscite a stare fusi?» le chiese seriamente incuriosita, mentre anche lei iniziava a mangiare. La vide pensarci su qualche attimo, giusto il tempo di deglutire per poi affermare con sicurezza: «strano! Ma... normale. E penso sia bello, insomma, in quei momenti nessuno ha vuoti di memoria.»
Quel sorriso così sincero e candido sul volto di Mika le scaldò il cuore nonostante avrebbe voluto sentire da lui quelle parole.
«Perché ero qui? Immagino sia successo qualcosa.»
«Immagini bene: Mika ha litigato con Tomoko e... cose varie.»
«Con la mamma, ancora?» sbuffò esasperata e preoccupata la personalità. Era anche quella più legata alla madre adottiva di Mika e ogni volta ci restava male a sapere dei litigi. «Forse... è colpa mia?»
Alle orecchie di Neruko arrivò distinto un singhiozzo, e poi un altro e un altro ancora. «Mittsu, perché dovrebbe esserlo?» le chiese quasi intenerita osservando gli occhioni blu riempirsi di lacrime.
«P-perché mi sono avvicinata ancora a u-un ragazzo! E l-lui non lo sopp» un singhiozzo la interruppe «orta, vero?»
«No, no, Mittsu, che ti salta in mente?» a quel punto la castana lasciò in asso l'omelette per avvicinarsi a lei e scostarle i capelli dal viso per poi stringerla in un abbraccio, carezzandole il capo. «Ehy, non devi dire certe cose», poi qualcosa scattò e si fece più indagatrice, «quand'è che avresti avvicinato un ragazzo?»
«Era un... sabato, credo» mormorò Mittsu. «Mi sono ritrovata in un locale...»
Ora i pezzi del puzzle stavano iniziando a incastrarsi!
«E poi?»
«E poi, cosa?» le rispose qualche attimo dopo la voce atona. Neruko lo prese per le spalle, allontanandolo per fissarlo dritto negli occhi. Lo sguardo confuso e accigliato che le arrivò confermarono ciò che immaginava: Mittsu era sparita.
«Mika..?»
«Ah-a», confermò l'altro guardandosi un po' intorno, notando la colazione mezza consumata. «L'hai preparata tu?» le domandò arcuando le sopracciglia. «E poi, perché...» si toccò le guance umide, tornando poi a guardare interrogativo Neruko.
«Mittsu.»
«Oh.»
La ragazza si allontanò, tornando al proprio posto per continuare a gustarsi la colazione, imbronciata. Il ventenne intanto con l'orlo della propria t-shirt si asciugò il viso, aspettando una spiegazione che non arrivò; alzò lo sguardo verso l'orologio alla parete per controllare l'ora: venti minuti alle sette.








Deliri Note dell'autrice:
Salve lettori e buon anno nuovo! [?] Pubblico questo capitolo in ritardo ma mi si può perdonare, vero? In fondo era dicembre! *coff
Passando ad altro... Il capitolo 00 ha raggiunto le cento visite e davvero non mi sembrava possibile, data la “particolarità” di questa originale (penso che modificherò l'intro, btw), tanto che l'ansia mi arriva fin su i capelli. Mi rendete davvero felice! Spero davvero che i capitoli non risultino confusionari o noiosi o pesanti o― *esplode*
Un grazie enorme a U k e c c h i che (come sempre! >//u//>) recensisce e riempie di complimenti le mie originali e a barbaraJCDS che ha inserito la storia nelle preferite, grazie grazie grazie!
―L o t t i e.

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