Star Wars - La Nuova Generazione

di thebrightstarofthewest
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Incontro nei bassifondi ***
Capitolo 2: *** Incontri, bugie e scoperte ***
Capitolo 3: *** Attacco al Palazzo ***



Capitolo 1
*** Incontro nei bassifondi ***


PROLOGO
Trent’anni dopo la caduta dell’Impero, la Pace regna sulla galassia.
La Repubblica è rinata, nuovamente con sede su Coruscant, e grazie all’impegno dei suoi funzionari i pianeti vivono in una quiete e prosperità che da decenni non era che un miraggio.
Luke Skywalker, con l’aiuto della sorella Leia, decide di rifondare l’Ordine dei Jedi, nel quale decine di nuovi allievi si allenano per mantenere la giustizia nella galassia.
In questo clima di gioia, tutto sembra andare per il meglio… Eppure non tutti la pensano allo stesso modo. Tim, giovane Cavaliere Jedi, ha ragione di credere che qualcosa di oscuro si celi sotto il velo di tranquillità creatosi, e si reca nei bassifondi di Galactic City in cerca di risposte…


CAPITOLO I - Incontro nei bassifondi

Vista dall’alto, Galactic City appariva talmente immensa e brulicante di vita da lasciarlo ogni volta senza parole. Eppure ci era nato, in quella città.
I grandi occhi color nocciola di Tim si specchiarono per qualche istante nel parabrezza dello sprinter, mentre questo perdeva quota, adagio. Poi, nel momento in cui si immise nel traffico urbano cigolando con fare sinistro, continuò a guardarsi intorno, con aria indagatrice. Era da lungo tempo che non tornava su Coruscant. Probabilmente dall’esatto momento in cui l’Ordine aveva deciso di abbandonare il pianeta, lasciando lì soltanto i propri funzionari diplomatici ed i combattenti necessari alla protezione della Repubblica, così da trasferire la propria Accademia su lidi meno battuti.
Dopotutto, il grande Maestro Luke Skywalker non era affatto uno stupido e non avrebbe mai permesso che il nuovo ordine di Cavalieri Jedi cadesse come aveva fatto quello precedente: l’esposizione creava rischi inutili.
E su Galactic City era impossibile non essere bellamente esposti: l’enorme città si estendeva sull’intero pianeta, senza lasciar spazio alla natura, ed era di fatto il centro pulsante della vita nella galassia. Tim continuava a guidare il proprio sprinter, concentrato, ma gli era quasi impossibile smettere di osservare lo skyline della città in cui era cresciuto: era perennemente in cambiamento, come se ogni giorno vi fossero nuove scoperte tecnologiche ed urbane, e gli abitanti di Coruscant non potessero fare altro che applicarle, così da essere sempre al passo con il progresso. I palazzi si stagliavano grigi contro il sole morente; la loro forma era leggermente tondeggiante ed erano illuminati all’interno dalle ampie vetrate che li circondavano alla sommità, conferendogli un aspetto leggermente meno austero.
Preso dai propri pensieri, il ragazzo nemmeno si accorse che il suo comlink stava suonando furiosamente già da qualche minuto.  Si riscosse improvvisamente e rispose alla chiamata.
“Grym,?”, mormorò, mentre immetteva lo sprinter in una strada secondaria.
“Chi altri?”, borbottò una voce metallica dall’altro capo della comunicazione, “Ce ne hai messo di tempo. Non dirmi che stavi romanticamente ammirando il tramonto”.
Tim rise, grattandosi la corta barba castana con una mano. “E anche se fosse?”, rispose sarcastico, “Che può capirne un Kaleesh di queste cose?”.
Una breve pausa. “Niente, in effetti”, ammise l’altro, la voce che gracchiava nel microfono. Tim poteva perfettamente immaginarlo scuotere le spalle con indifferenza.
“Comunque”, soggiunse il ragazzo, “C’era qualcosa che volevi dirmi?”.
“Chiederti, più che dirti… Sei in posizione?”, domandò l’alieno, con una punta di criticismo nella voce.
“Non ancora”, ammise Tim, mentre pian piano si abbassava di quota: raggiungere l’underworld di Galactic City non era una pratica così veloce, soprattutto perché teneva a posteggiare lo sprinter possibilmente accanto al rendezvous… come precauzione in caso la contrattazione non andasse per il meglio. “Ma non dovrei distare molto”.
“Vai ad incontrare contrabbandieri, non ballerine. Cerca di ricordarlo”, commentò Grym, con la voce sempre più carica di rimprovero.
“Lo ricordo, mammina. E ho anche una certa esperienza a riguardo”, rispose Tim, cercando di apparire quanto più rilassato possibile. In realtà, la mano destra che abbandonò per un istante i comandi, e scivolò lentamente sul fianco, dove un cilindro metallico stava appeso, inerte.
No, la spada laser non era la risposta che cercava, non gli avrebbe dato conforto. L’avrebbe usata soltanto se strettamente necessario. La Forza lo avrebbe aiutato. Essa sarebbe stata la sua alleata. Sospirò, riportando le dita sul volante. “Piuttosto, tu fatti trovare al punto concordato… per tempo”. Con quelle parole chiuse la comunicazione; dopotutto era pressoché giunto a destinazione, come indicava lampeggiando la mappa del suo sprinter.
Si immise lentamente in un viottolo oscuro e silenzioso, mentre la luce del giorno andava morendo. Uniche fonti di illuminazione rimasero qualche insegna sgangherata e qualche finestra dall’aria malconcia. Silenziosamente, si mise alla ricerca di un luogo strategico dove lasciare il suo mezzo. La ricerca fu lunga ed infruttuosa: più avanzava, più le strade della fetta malfamata della città si facevano strette e prive di nascondigli per lo sprinter, ed il tempo stringeva. Fece retromarcia  e si risolse abbandonandolo in un anfratto buio, col muso rivolto verso la strada: voleva fidarsi dei suoi anfitrioni, ma un po’ di sana precauzione non poteva essere che un bene.
Saltò giù dalla piccola nave e, calatosi il cappuccio sulla testa bruna, si mise in cammino. Aveva fatto attendere i suoi “amici” anche abbastanza.

***

Meera non avrebbe mai voluto essere lì. Non tanto perché si trattava del quartiere malfamato della città, non era quello il punto. Era la compagnia che non gli andava proprio a genio.
Suo fratello Julian, al suo fianco, rideva sguaiatamente, sorseggiando un liquido denso dall’aroma forte. Tutto attorno a loro, una schiera di facce delle più diverse etnie sghignazzava a sua volta, accarezzate dalla penombra della sera che cominciava ad approssimarsi. La prossima volta si sarebbe guardata bene dall’accettare di uscire con suo fratello e la sua compagnia.
“Non dovremmo essere qui”, mormorò la ragazza, passandosi una mano tra i corti capelli biondo cenere. Sapeva di essere maledettamente lagnosa, ma non poteva respingere il sentore di essere del tutto inappropriata per quel luogo.
Julian la squadrò dall’alto e poi le sorrise. “Non parlare come mamma, sorellina”, le disse, facendogli l’occhiolino, “Questi sono i miei amici. Solo perché non vivono ai quartieri alti non dovremmo considerarli abbastanza per noi?”.
“Non hai colto il mio punto”, controbatté lei, stringendosi nelle spalle, ma si arrese: suo fratello era sempre stato così. Era più grande di lei di tre anni, ma in discordanza con i luoghi comuni, era sempre stato lui a creare problemi alla famiglia. Non che lo facesse con cattiveria, chiaramente: era ben più infantile che cattivo. Lui si definiva un amante del rischio, che fosse banale o sfrenato, bastava che ci fosse qualcosa da perdere. In questo caso, Julian stava del tutto perdendo di vista la via della legalità.
I suoi nuovi “amici” erano quasi tutti più grandi di lui e chi più o chi meno pubblicamente, erano tutti invischiati in questioni poco chiare: contrabbando, pirateria, furto di dati, gare di sprinter clandestine…
Julian ne era affascinato, ad ogni modo. Più andava avanti con gli anni, più Meera percepiva questo amore del fratello nei confronti del pericolo come una naturale reazione all’educazione rigida impartitagli dai loro genitori: Mya e Raymond Russell, dopotutto, erano funzionari di spicco nella Nuova Repubblica, ed avevano molto insistito perché i loro figli fossero istruiti di dovere, sotto regole più che ferree.
Un animo libero come quello di suo fratello, ovviamente, aveva propeso per la ribellione.
Meera rifletteva, ma fu riscossa da un brivido di freddo. “Era proprio necessario incontrarsi in un capannone abbandonato?”, domandò sarcastica, “Riescono ad esserci spifferi anche se Coruscant è un pianeta caldo”.
“Qui è più difficile per gli sbirri trovarci”, rispose un uomo sui venticinque con una lunga zazzera nera, poco distante.
Meera si guardò intorno per qualche istante con un sopracciglio inarcato. “Con tutta la confusione che fate ho più di qualche dubbio a riguardo”.
Il ragazzo non rispose. Nessuno rispose, in realtà. Ad essere obiettivi, Meera era un corpo estraneo a quella compagnia ed ancora doveva capire per quale ragione suo fratello l’avesse portata là. Per renderla partecipe? Per farle capire che in fondo non frequentava gente così malvagia, che in fondo sono tutti dei bravi ragazzi?
Si alzò in piedi scuotendo la testa, senza che nessuno le prestasse attenzione, e si allontanò dal caotico gruppo. Se davvero Julian l’aveva portata come testimone verso cui puntare il dito ogni volta che i suoi si lamentavano… no, non aveva voglia di pensarci. Uscì dal capannone con le mani in tasca e si domandò quanti rischi potesse correre nel farsi una passeggiata nel cuore dell’underworld di Galactic City. Non era molto brava con le casistiche, quindi alzò la testa verso il cielo ormai notturno e si mise in cammino.
Intorno a lei, la completa desolazione. La strada era sporca e vuota, e tutto intorno si alzava un leggero fumo color ocra dall’olezzo putrescente di cui era meglio non domandarsi l’origine. Ciononostante, continuò a camminare a passo sostenuto, finché un dettaglio curioso non le balzò agli occhi: in una sorta di anfratto irregolare tra le pareti di due edifici in disuso era parcheggiato uno sprinter. Non una nave scrostata e desueta, no: si trattava di un mezzo di trasporto moderno ed in ottime condizioni, non serviva un occhio esperto per comprenderlo. Per un istante, Meera ne fu piuttosto turbata: forse si trattava di una retata della polizia… E suo fratello era lì! Se fosse stato beccato, sarebbe stata la fine sia della reputazione dei suoi genitori che…
Un tonfo sordo la riscosse dai propri frenetici pensieri. D’istinto, la ragazza si girò di scatto verso la fonte del rumore: non vide nulla se non un muro con qualche brutto graffito alieno sopra; eppure, aldilà di esso ancora continuavano ad arrivare suoni. Erano voci, concitate, rabbiose; non riusciva a sentire cosa stessero dicendo, ma il tono sembrava piuttosto accusatorio.
Forse sarebbe dovuta andarsene: dopotutto, in quei quartieri dovevano essere avvezzi alle scazzottate ed ai litigi, eppure… No, non aveva senso fare l’eroina. Sarebbe potuta andare lì e far cosa? Dividere due omoni in una rissa? Mettere pace tra due spacciatori rivali? No, non avrebbe potuto fare niente di tutto ciò; doveva essere razionale e non pensare in base a ciò che era giusto o sbagliato. Girò i tacchi, con il sentore chiaro di un groppo in gola, ma non si fermò. Ogni passo le sembrava di un’immane fatica, come se dovesse trascinare con sé un enorme peso… il senso di colpa, forse?  Ancora una volta, cercò di scrollarsi di dosso quella spiacevole sensazione.
Un passo, un altro ancora, poi ancora un altro e…
Un urlo furibondo, seguito dal suono di qualcosa che veniva lanciato sulla strada, la fece bloccare sul posto. Si girò: nel mezzo alla via dove si trovava, più indietro, esattamente all’incrocio col muro scarabocchiato da cui precedentemente arrivavano le voci, una figura ammantata era stesa a terra e stava facendo per rimettersi in piedi.
Meera non ci pensò su due volte e si nascose dietro ad un cassonetto della spazzatura dall’odore piuttosto pungente.
“Non c’è alcun bisogno di reagire così”, esclamò la figura misteriosa, ormai nuovamente in posizione eretta. Da dove si trovava, Meera poteva udirne la voce chiaramente ed intuire che appartenesse ad un giovane uomo. Tentò di sbirciare al di sotto del cappuccio che gli copriva il volto, ma il buio era troppo fitto per distinguerne i lineamenti.
“E’ così che reagiamo coi bugiardi”, sbottò con sarcasmo un umano longilineo che arrivò da dietro al muro. Dietro di lui, quelli che apparivano come due grossi scagnozzi lo spalleggiavano. “Sei della Repubblica”, continuò il nuovo arrivato, “E questo a noi non lo avevi detto”.
Il giovane uomo incappucciato si strinse nelle spalle. Era piuttosto basso, ma la sua postura eretta gli conferiva comunque un’aria autorevole. “Esattamente, non l’ho mai detto. Ma bisogna anche considerare che voi non lo avete mai chiesto. Pensavo che il denaro vi interessasse di più della storia della mia vita”.
“Fai lo spiritoso?”, gracchiò uno dei tirapiedi, stringendo la mano sul proprio blaster.
“Non faccio lo spiritoso”, negò l’altro, scuotendo il capo, “Constato l’ovvio”.
L’uomo longilineo rise sommessamente. “E cosa faresti se adesso io, constatando l’ovvio, ti dicessi che nella situazione attuale potremmo comodamente ammazzarti e prendere i soldi che ci hai promesso senza ovviamente darti alcuna informazione?”.
Il ragazzo parve pensarci su seriamente, cosa che lasciò il suo interlocutore vagamente perplesso. Poi parlò: “Innanzitutto, suppongo me la prenderei un po’. Voglio dire, abbiamo fatto un patto, no? Ci rimango sempre un po’ male quando qualcuno infrange le promesse”, scosse di nuovo il capo, poi proseguì, “Inoltre, mi sentirei nell’obbligo morale di avvisarvi che se queste sono realmente le vostre intenzioni, mi vedrò costretto a farvi del male e prendere le informazioni con la forza”. Ancora Meera non riusciva a distinguerne i lineamenti, ma era abbastanza sicura che stesse sorridendo. “E non vogliamo questo, vero?”, soggiunse, alzando le mani in un gesto plateale.
La reazione degli scagnozzi fu immediata: non venne dato alcun ordine, ma entrambi impugnarono il blaster e scagliarono un singolo colpo contro l’uomo incappucciato. Questo, con una velocità sorprendente, prese lo slancio, e spiccò un salto all’indietro che gli fece schivare entrambi gli spari.
“Sembra che non mi lasciate altra scelta”, commentò, ed in quell’istante estrasse da sotto le pieghe del mantello un cilindro metallico. I nemici lo guardarono insospettiti per un istante e spararono ancora, ma non ebbero tempo di far altro: il cilindro sprigionò un fascio di luce celeste come il cielo diurno, ma più dirompente.
Meera sgranò gli occhi. Una spada laser… si trattava proprio di una spada laser!
Il ragazzo saltò in avanti, tenendo l’oggetto tra le mani, ed in un lasso di tempo incredibilmente breve mulinò la propria arma a destra ed a sinistra con rapidità. Parò ogni singolo colpo che i rivali tentarono di infliggergli, poi si fermò e sporse in avanti la mano sinistra: un istante dopo, entrambe le guardie del corpo dell’uomo longilineo caddero a terra con un tonfo sordo, come se una potenza invisibile avesse inferto loro un colpo. Il loro capo, con un tremito, scappò a gambe levate in direzione di Meera.
La ragazza non ebbe molto tempo per pensare, ma agì d’istinto: avrebbe mai potuto non aiutare un Cavaliere Jedi?
Attese il momento propizio, poi, dal proprio nascondiglio, allungò la gamba proprio nel momento in cui giungeva l’uomo longilineo, così da fargli perdere l’equilibrio e farlo cadere a terra. Cosa che riuscì a metà: quello sì inciampò, ma riuscì a mantenersi in piedi. Fu di nuovo la potenza invisibile a farlo crollare sulla strada, così come aveva fatto coi due tirapiedi.
Mentre l’uomo rotolava a terra, dolorante, la figura incappucciata giunse al suo cospetto e, ben poco carinamente, lo prese per il colletto, strattonando forte. Meera uscì dal proprio nascondiglio e stavolta riuscì a vedere il volto del ragazzo: doveva avere poco più di venti anni, con una corta barba e capelli castani e due grandi occhi marroni.
“Dammi la card”, sbottò, stringendo la presa. Non aveva più il tono ironico di prima.
“Non volevamo fregarti, amico, senti, scherzavamo, noi…”, cercò di farfugliare l’altro, impaurito.
Dammi la card”, ripeté, a voce sempre più alta. Sì, era basso, ma sapeva incutere un certo timore. L’uomo, infatti, cedette, e frugandosi un po’ tra le tasche ne estrasse una busta, che si affrettò a consegnare.
In quel medesimo istante, un colpo di blaster passò vicinissimo al volto di Meera. Si girò e così fece il Cavaliere Jedi.
“Ha i rinforzi, il bastardo”, mormorò a denti stretti. Socchiuse gli occhi, come se stesse riflettendo attentamente su qualcosa, poi scosse il capo, “Sono troppi, andiamo!”. Lanciò a terra l’uomo longilineo e prese a correre, mentre altri colpi frustavano l’aria. Dopo qualche metro si girò, il volto piuttosto contrariato. “Allora, ti vuoi muovere?”.
Meera impiegò qualche istante –e qualche colpo ravvicinato di blaster- di troppo a capire che si stava proprio riferendo a lei; allora, perplessa, prese a correre a sua volta, a perdifiato.
Lo affiancò e lui, dopo che ebbero girato un angolo per mettersi al riparo dal fuoco nemico, si presentò. “Tim”, gridò, mentre il cappuccio gli ricadeva indietro sulle spalle, “Mi chiamo Tim. E tu?”.
“Meera”, urlò lei, perplessa. Sentiva i passi di molte persone che si avvicinavano, minacciosi.
“E’ un vero piacere, Meera”, esclamò lui, concedendole un sorriso tirato, “E grazie per aver atterrato quel tale, prima. E’ un vero bastardo”.
Meera avrebbe voluto rispondere, ma solo allora realizzò che stavano percorrendo a ritroso la strada che aveva fatto all’andata. Quindi lo sprinter nascosto nell’anfratto…
In pochi istanti, vi furono proprio davanti e lui le intimò di salire. “Con un po’ di fortuna con questo li semineremo”, le spiegò, e mise in moto. Mentre venivano sballati dall’alta velocità, Tim accese un comlink e cominciò ad urlare a chiunque fosse dall’altro lato di andare subito al rendezvous, che era questione di vita o di morte.
Meera deglutì. Non che non avesse intuito la pericolosità della situazione, ma sentirlo dire dalla bocca di un Cavaliere Jedi faceva assumere al tutto una certa gravità.
Cominciarono a salire di quota, abbandonando gradualmente le aree più malfamate della città. Ormai erano quasi fuori dall’underworld e chiunque fossero quegli uomini muniti di blaster, sembrava non avessero fatto in tempo a raggiungerli. Proprio mentre questo pensiero le balenava nella mente, un paio di sprinter di colore scuro si avvicinarono minacciosamente  alle loro spalle. Tim imprecò.
“Dobbiamo arrivare il prima possibile al distretto più affollato”, mormorò, quasi più diretto a se stesso che alla nuova compagna di sventure, “Sicuramente continueranno a seguirci anche là, ma ci sono talmente tanti agenti della Repubblica che non avranno il coraggio di spararci apertamente… Spero”.
Nel frattempo, però, il problema non sembrava porsi: dalle retrovie giunse una scarica di blaster, che li costrinse ad abbassare la testa. Tim quasi perse il controllo della nave e ricominciò a gridare al comlink.
Fu allora che l’ennesimo colpo di blaster giunse e stavolta colpì nel segno… ma non Tim. Lo sparo strisciò rosso e doloroso sul lato del collo di Meera, facendola urlare. Subito dopo ne giunse un altro, che stavolta la centrò in piena spalla.
Dapprima percepì solo la sofferenza e strinse le mani a pugno talmente forte da farsi male. Chiuse gli occhi, ed avrebbe gridato ancora, ma qualcosa la fermò: una percezione, una sensazione più astratta che concreta, ma comunque forte, dirompente, ed al tempo stesso delicata, simile ad una carezza. Percepiva Tim.
La diceva di star calma, che sarebbe andato tutto bene, che la ferita non era grave, ma era normale le facesse male. Ma non le stava parlando davvero: era nella sua testa.
Confusa, cercò di risvegliarsi da quella sorta di torpore che la avvolgeva: sentì altri spari e lo sprinter che sfrecciava, la voce di Tim, poi il rumore di altri mezzi… Sì, stavano risalendo, non avrebbero più potuto sparargli! Quella constatazione aumentò la sua gioia e, con essa, il suo rilassamento. Ma perché si stava addormentando? Era come se qualcosa la cullasse…
Gli ultimi suoni che sentì furono lo sprinter che si fermava e il turbinio assordante del motore di una astronave.
Poi si lasciò scivolare nell’oscurità.

Spazio dell'autrice:
Salve, mi sono sentita in obbligo di prendermi un piccolo spazio in fondo al capitolo, giusto per spiegare un po' il perché di questa fanfiction. Beh, lo ammetto, a me Il Risveglio della Forza non ha soddisfatto, ma non è stato quello a convincermi a pubblicare. No, non è stata la voglia di "trovare un'alternativa al film". Al contrario, la pellicola mi ha riportato alla memoria tutti i viaggi mentali che mi sono fatta su Han, Leia e Luke negli anni seguenti a Il Ritorno dello Jedi quando ero più piccola. Solo che stavolta li ho messi su carta e chissà che non ne possa venir fuori qualcosa di interessante.
Spero possa almeno incuriosirvi, un bacio da Wookiee (semicit.),
thebrightstarofthewest

 

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Capitolo 2
*** Incontri, bugie e scoperte ***


CAPITOLO II - Incontri, bugie e scoperte

Fu un rumore indistinto a svegliarla, uno stimolo uditivo che dapprima le parve estraneo e confuso, ma che pian piano riconobbe come un mormorio piuttosto concitato.
Meera dischiuse le palpebre a fatica ed al principio non vide nulla. La luce le ferì gli occhi, costringendola a richiuderli di scatto. Tentò nuovamente di guardarsi attorno e stavolta cominciò a farsi chiarezza: come già aveva immaginato, non si trovava nella sua stanza. Al posto del familiare soffitto color ocra sotto al quale era solita svegliarsi, uno bianco come il latte la salutava dall’alto, dandole in qualche modo un senso di sicurezza.
Decise di mettersi a sedere, facendo leva sulle braccia, ma una improvvisa fitta di dolore alla spalla la costrinse a riabbassarsi. Annaspò, tentando di comprendere quale fosse l’origine di quella sensazione sgradevole… Poi i ricordi cominciarono a riaffiorare. Rivide con chiarezza il Cavaliere Jedi, la sua spada laser celeste, il suo sprinter e la loro folle fuga; poi un colpo di blaster l’aveva centrata in piena spalla e da quel momento era lentamente scivolata in una sorta di torpore a cui tutt’ora faticava a trovare una spiegazione razionale. A meno che quel ragazzo non le fosse davvero entrato nella testa…
Nuovamente udì il mormorio che l’aveva svegliata e tentò di comprendere da dove provenisse; certo, dalla posizione supina in cui si trovava, non era la più banale delle operazioni.
“Non era quello che intendevo e lo sai bene”, sbottò la voce di un ragazzo, infastidita.
Non era quello che intendevi? Vuoi forse farmi credere che avevi tutto sotto controllo?”, stavolta a parlare era stata una voce più modulata di donna; nel suo tono profondo si percepiva una grande esperienza e saggezza, ma anche una buona dose di carattere.
“Sì, esattamente”, controbatté il giovane, ironico. Meera strinse appena gli occhi, come per concentrarsi meglio nell’ascolto: che quell’uomo fosse Tim?
“Avere tutto sotto controllo significa avere un piano senza falle”, rispose asciutta la donna, “Non dare il via ad una rissa con un intero plotone di contrabbandieri. E per cosa, poi? Informazioni che neppure ci servono!”.
Prima che giungesse una risposta, Meera, con uno sforzo non indifferente, distese le braccia sottili, mettendosi così finalmente a sedere sul letto, e si lasciò crollare contro la spalliera con il fiatone. A quel punto le voci che aveva udito assunsero finalmente dei volti.
Si trovava in una stanza ampia e luminosa, con un’immensa vetrata che dava sulla città ed una grande vasca ricolma di liquido bacta proprio di fianco al letto. Davanti a lei, Tim stava in piedi, le guance appena arrossate di chi si è arrabbiato molto. Era la prima volta che lo vedeva chiaramente in viso. Accanto al giovane Jedi, una donna sulla cinquantina se ne stava impettita, ma con la fronte corrucciata. Se già Tim era minuto, lei era addirittura più bassa di lui, ed aveva una contorta capigliatura intrecciata a decorarle i capelli castani che ormai andavano sbiadendo in sfumature argentee. C’era qualcosa di familiare, in lei. Qualcosa che sul momento Meera non seppe spiegarsi.
“Ti sei svegliata”, constatò Tim, scuro in volto, e le concesse un sorriso tirato.
“Ti avevo detto di non gridare”, lo rimproverò la donna, lanciandogli un’occhiata torva. Poi il suo sguardo si posò sul volto di Meera ed allora si raddolcì. “Mia cara”, mormorò, sedendosi sul bordo del letto, “Mi sento nell’obbligo morale di informarti che, dopo esserti ferita durante la fuga, adesso ti trovi nell’ala infermieristica del Palazzo della Nuova Repubblica. E’ stato un gesto molto generoso da parte tua aiutare un Cavaliere Jedi. Come ti senti? La spalla fa male?”.
La ragazza non rispose subito. C’era qualcosa che le sfuggiva, ne era certa, ma proprio non riusciva a capire che cosa fosse. Lanciò uno sguardo nervoso a Tim, che però sembrava perso nei propri pensieri; a quel punto si girò nuovamente verso la sconosciuta ed annuì col capo. “Sì, abbastanza”, ammise, “Ma credo sia naturale”.
La donna le sorrise. Aveva un bellissimo sorriso, che le illuminava il volto ricolmo di piccole rughe d’espressione e le faceva brillare gli occhi scuri. “Anche io, quando ero un po’ più grande di te venni colpita da un blaster. Non fu piacevole, ma vedo che non sei il tipo di persona che si piange addosso”.
Non lo era? In realtà Meera non ne era così ciecamente certa.
“Comunque”, continuò l’altra, prendendole una mano tra le sue, “Permettimi di presentarmi. Io sono Leia Organa Solo, rappresentante al Senato del Concilio dei Jedi”.
Per un attimo fu come se i suoi polmoni fossero prosciugati dall’aria: Leia Organa Solo? Quella Leia? Le sembrava impossibile. La principessa Leia di cui tanto si parlava in tutta la galassia era stata una dei protagonisti della Ribellione, che aveva permesso in prima persona di rovesciare il potere dell’Impero. Era una donna che aveva avuto il coraggio di mettere tutta la propria vita in gioco e, nonostante avesse perso la propria famiglia ed il proprio pianeta, aveva continuato a combattere, fino alla vittoria. Dopo il trionfo era stata addestrata alle misteriose vie della Forza dal suo fratello gemello, Luke Skywalker, ed insieme avevano rifondato l’Ordine dei Jedi. Era per tutti un esempio da seguire, una figura quasi leggendaria e, per molti, anche la legittima regina di Alderaan, sebbene fosse stato spazzato via dalla Morte Nera.
Leia dovette accorgersi che Meera era rimasta esterrefatta ed il suo sorriso si dischiuse e distese ancora di più. “E tu sei…?”, le domandò, probabilmente per metterla a proprio agio.
“Meera, Meera Russell”, mormorò la ragazza, inciampando sulle parole. La sola idea di essere di fronte ad un’icona di quel livello la metteva in soggezione: e se avesse detto qualcosa di sbagliato?
La senatrice annuì col capo, abbassando gli occhi. “Come immaginavo”, sillabò piano, “Quando Timothy mi ha comunicato il tuo nome ed i Russell hanno denunciato l’improvvisa scomparsa della loro unica figlia nell’underworld ho fatto uno più uno, ed ho compreso che si dovesse trattare di te. Li chiamerò personalmente e li informerò che stai bene. Ne saranno sollevati”.
Inizialmente non comprese a chi si riferisse quando nominò ‘Timothy’, poi, vedendo Tim che sbuffava vistosamente di fianco al letto, realizzò.
“Sì, tutto molto bello e toccante”, esclamò il ragazzo, la voce intrisa di sarcasmo, “Una famiglia felice che si ritrova. Adesso, puoi considerarmi un istante?”.
Meera si domandò perché diamine si stesse riferendo a lei in quel modo. Che gli aveva fatto di male? Fece per biascicare una risposta, confusa, ma la senatrice la precedette. Allora capì: con quel tono strafottente non si stava indirizzando a lei, ma a Leia. Inarcò le sopracciglia, tanto perplessa quanto sorpresa.
“Timothy, ci siamo già detti tutto quello che dovevamo dirci, io e te. Hai contravvenuto ai miei ordini, hai agito di tua iniziativa e con il tuo amico avete preso la nave di tuo padre senza alcun permesso. Non ho intenzione di  punirti, finché rimarrai su Coruscant, ma farò sì che, una volta tornato all’Accademia, tuo zio prenda provvedimenti per il tuo comportamento. Non ti abbiamo tagliato la treccia da padawan solo per vederti far danni in giro per la galassia”.
L’intensità delle parole era cresciuta, pian piano, ed adesso la senatrice sembrava furiosa. Dal canto suo, Meera era piuttosto confusa: le minacce proferite in quella ramanzina sembravano così accorate che la sensazione che qualcosa le sfuggisse si acuì notevolmente.
Tim si passò la lingua sulle labbra. “Allora”, cominciò, con un tono compassato e quasi scanzonato che irritò la ragazza, “Prima di tutto, non tirare Grym in mezzo a questa storia. Lui non voleva averne niente a che fare, sono stato io a convincerlo”. Fece una pausa, come se si attendesse di essere interrotto. Quando ciò non accade, proseguì. “Secondo, avevo le mie buone ragioni per fare ciò che ho fatto. Ma tanto tu e papà non volete ascoltarmi”.
In quel medesimo istante, la porta scorrevole della stanza si aprì con un rumore secco e sulla soglia, la fronte corrucciata e le mani chiuse a pugno, apparve un uomo dai capelli grigi scompigliati e gli occhi nocciola che immediatamente saettarono rivolti a Tim. Quello, per tutta risposta, sbuffò nuovamente e rivolgendo lo sguardo verso l’alto, imprecò a denti stretti.
Tu!”, esclamò imbestialito il nuovo arrivato entrando a passo militare nella camera e puntando l’indice con fare accusatorio verso il giovane Jedi. Gli si parò davanti e Meera notò che, nonostante fosse molto più anziano di lui, lo sconosciuto superava Tim di almeno quindici centimetri in altezza. Era piuttosto perplessa, ma rimase zitta: aveva la netta impressione di trovarsi nel bel mezzo di una faida con cui non aveva nulla da spartire, ma certamente non poteva alzarsi ed andarsene. Optò per rimanere immobile ad osservare l’evolversi della situazione.
“Sei fortunato che non abbia portato con me Chewie”, continuò l’uomo, marcando ogni parola con forse eccessiva furia, “Perché se lo avessi fatto…”.
“Cosa?”, domandò retoricamente Tim, “Mi avrebbe staccato le braccia? Sono ventiquattro anni che me lo dici, prima o poi accadrà davvero, immagino”.
“Non eri mai arrivato a prendere il Falcon senza permesso. Questa volta non la passi liscia”, controbatté l’altro. Il Falcon? Che parlasse del Millennium Falcon? Se fosse stato così, allora…
“Muoio di paura, papà!”, rise Tim, dandogli una pacca sulla spalla. Leia scattò in piedi, frapponendosi tra i due. “Han! Timothy!”, gridò, con un’autorevolezza che sembrava impossibile una donna così piccola potesse avere, “Smettetela di bisticciare come bambini”.
Han? Han… Solo? Quel Han Solo? Il contrabbandiere che si era sacrificato per la causa dei Ribelli e che con il suo carisma era stato una pedina fondamentale nella lotta all’Impero, dalla distruzione della prima Morte Nera alla battaglia di Endor? Poteva significare soltanto una cosa…
Leia si girò verso Han e gli posò le mani sottili sul petto, cercando il suo sguardo. A quel tocco delicato, l’uomo parve notevolmente acquietarsi. Dopotutto, a quanto ne sapeva Meera, erano sposati da poco meno di trent’anni e nonostante si mormorasse di continui bisticci tra i due, erano sempre rimasti l’uno di fianco all’altra.
Vedendo i tre accanto, adesso, Meera comprese perché sin dall’inizio aveva percepito qualcosa di familiare nei lineamenti di Leia: erano esattamente quelli di Tim. Avevano le stesso naso, lo stesso mento sottile, le stesse sopracciglia scure. Gli occhi del giovane però, ammiccanti e spavaldi, sembravano decisamente essere quelli del padre.
“Avrai modo di discutere con tuo figlio più tardi”, gli disse, sfiorandogli la guancia, “Non mi sembra il caso di far sapere a tutti delle sue bravate”. E con quelle parole, ammiccò con un cenno del capo verso Meera. Il comandante Solo sembrava non averla notata; si girò verso di lei, perplesso, e vedendola per la prima volta le rivolse un sorriso sgangherato, seguito da un gesto imbarazzato della mano.
“Ormai la ragazza si sarà certamente abituata ai gossip della famiglia Solo-Skywalker”, sogghignò Tim, “Un po’ come l’intera galassia”.
“Hai poco da scherzare, tu”, borbottò Han, puntandogli nuovamente l’indice contro. Meera non era bene sicura se quella scena la faceva ridere o la lasciava perplessa.
“Avanti, andiamo, lasciamo la ragazza a riposare”, mormorò Leia, trascinando il marito per il colletto della giacca, “Così potrò contattare i suoi genitori e dir loro che hanno una figlia davvero coraggiosa”. Le rivolse un sorriso, poi aprì la porta e fece cenno a Tim di seguirla. Quello scosse il capo.
“No, io rimango”, le disse, pacatamente, poi, prima che la donna potesse protestare, protese avanti le braccia, “Non farò confusione, lo prometto, mammina. Voglio soltanto scambiare due chiacchiere con Meera. Siamo compagni di sventure, dopotutto”.
La Senatrice Organa Solo parve piuttosto stupita dalla richiesta, ma, senza dire una parola, uscì dalla stanza. Han Solo la seguì, non senza aver scoccato un’occhiata velenosa al ragazzo. Per tutta risposta, Tim gli sorrise e gli fece l’occhiolino.
La porta si richiuse ed i due rimasero soli. Meera non riusciva a staccare il proprio sguardo pieno di curiosità ed interrogativi dal giovane Jedi che, sempre vestito interamente di stoffa nera, come quando lo aveva visto la prima volta, stava appoggiato alla finestra, la mano posata distrattamente sulla cintura dove la spada laser penzolava, all’apparenza innocua.
“Devi scusare i miei genitori”, le mormorò distrattamente, “Sono vagamente teatrale. Mia madre, poi, poteva chiamarmi nel suo ufficio, invece di venire fin qui per litigare”.
Meera lo osservò con perplessità: cosa poteva volere da lei? A tratti, mentre discuteva con Leia, nemmeno l’aveva degnata di uno sguardo, ed adesso sembrava più che intenzionato a parlarle.
“Oh no”, esclamò improvvisamente il giovane, con un sogghigno. Anche la bocca era quella di suo padre, a quanto pareva. “Conosco quella faccia, piccoletta”. Meera alzò un sopracciglio, interrogativa. Lui rise. “E’ la classica faccia da ‘oh diamine, mi trovo davanti al figlio dei due ribelli più importanti dell’intero universo, nonché nipote del fondatore del nuovo Concilio dei Jedi… cosa dovrei fare? Come devo comportarmi? Cosa potrà mai volere uno così da me?’”.
Le guance di Meera si arrossarono appena. Tim aveva decisamente colto nel segno.
“Ebbene sì”, continuò lui, come se non avesse notato la sua reazione, “Sono Timothy Solo, ma credimi, non sono niente di speciale: ho ereditato da mia madre la mia modesta altezza e da mio padre il carattere… complicato. Il mio sangue non mi concede alcun diritto. Quindi, ti prego, comportati con me nel modo che ritieni più giusto: se pensi che sia un idiota –ed avresti ragione di crederlo-, insultami pure; se ti sono un po’ più simpatico… Beh, che ne so, almeno sorridimi”.
Meera ricordò come il giovane Jedi le fosse gentilmente entrato nella mente mentre era ferita e si domandò se adesso non stesse facendo lo stesso. Aveva colto al volo i suoi pensieri e ciò la turbava.
“Uno Wookiee ti ha mangiato la lingua?”, domandò lui, avvicinandosi al letto.
“Scusa”, balbettò frettolosamente lei, “Ero… distratta e turbata”. Cambiò leggermente posizione nel letto, imbarazzata. “Per caso tu mi leggi la mente?”, chiese, arrossendo di nuovo.
Timothy sgranò gli occhi, senza smettere però di sorriderle. La ragazza non riusciva a capire se la prendesse in giro o tentasse di metterla a proprio agio.
“Non posso leggerti la mente, piccoletta”, le assicurò, “Perché questa domanda?”.
“Beh, non lo so… Durante la fuga, ho sentito la tua voce, nella mia testa. Sapevo che eri tu, anche se era tutto confuso. E quindi mi chiedevo se non stessi facendo lo stesso adesso”.
“No”, sorrise lui, gli occhi leggermente sognanti, “Non funziona così la Forza. Se fossi mio zio Luke, forse adesso potrei leggerti la mente, comprenderla ed analizzarla. Egli è impassibile e dall’animo puro, non sente le cose, ma l’essenza che fluisce in esse, tra esse… Ma scusa, sto divagando. Io sono da poco uno Jedi, sono impulsivo e spesso stupido… Ciò comporta che i miei poteri siano ancora limitati. Sono riuscito ad entrare tra i tuoi pensieri unicamente perché eri ferita e la tua mente in confusione, dunque meno protetta. O almeno così credo… Mi sembrava la cosa giusta da fare: farti scivolare in un sonno profondo, così avresti smesso di agitarti e non avresti percepito il dolore”.
Vederlo parlare con tanta passione fece apparire un timido sorriso sulle labbra di Meera. Non sembrava più cinico ed ironico, ma pieno di sogni e speranze. “Ti ringrazio di cuore”, mormorò lei.
“Ed io ringrazio te, piccoletta. Con quel tuo sgambetto mi hai aiutato non poco”, esclamò Tim, poi  aggrottò la fronte all’improvviso, come se un pensiero gli fosse appena balzato in testa. “Adesso”, continuò, incupito, “Ti dirò perché sono rimasto qui invece di seguire i miei genitori”. Sospirò, poi cominciò a parlare. “Come avrai notato, io e mia madre stavamo litigando quando ti sei svegliata. La ragione della discussione era, appunto, la confusione che ho creato l’altra notte nell’underworld, quando ci siamo incontrati. Bene, come avrai certamente notato, il gonzo che ho minacciato mi ha dato una card, quella sera. Mia madre non deve assolutamente saperlo, capito?”.
Meera si stupì di quelle parole. Le aveva pronunciate con decisione, quasi rabbiosamente, e le parevano assurde. “Cosa intendi dire?”, gli domandò cautamente.
“Probabilmente, quando ti sentirai meglio, mia madre ti porrà delle domande. Vorrei che tu non le rivelassi che ho ottenuto una card in quell’incontro. Un giorno ti spiegherò il perché, ma adesso non posso, non capiresti”.
“Mi domandi di mentire ad una senatrice ed eroina e non vuoi dirmi perché?”, sbottò lei.
“Ehi”, ribatté lui, scrollando le spalle, “io sparo balle a lei e all’altro eroe di guerra da quando ho cominciato a parlare”. Rise. “Mio padre maledice continuamente quel giorno”.
Il rumore della porta che si spalancava li fece girare entrambi prima che la ragazza potesse dire qualsiasi cosa: un’infermiera dal volto cadente entrò, trascinandosi dietro un carrello pieno di attrezzi medici sconosciuti. Immediatamente, Tim si avvicinò a Meera, così da poterle sussurrare in un orecchio.
“Conosco Bata, è un’infermiera inamovibile e mi butterà immediatamente fuori di qui”, bisbigliò, “Ti prego, ricordati delle mie parole. Non dire nulla a mia madre”. Poi, la mano rugosa della donna lo afferrò per la spalla per tirarlo su.
“Perché ti trovo sempre qui, Solo?”, bofonchiò lei, “Com’è che i tuoi amici finiscono sempre all’ospedale?”.
“Non so”, ribatté lui, abbracciando Bata, “Forse dovresti chiederlo a loro, non a me”.
Poi uscì, senza neppure guardarsi indietro, lasciando Meera piuttosto interdetta e piena di dubbi. Era di certo il ragazzo più strano che avesse mai conosciuto: amava la sua famiglia, ma non si faceva problemi a prendersi gioco di loro; sembrava un bambino quando parlava dei Jedi, eppure subito si faceva cinico quando si trattava di discutere altri argomenti. E poi quella richiesta che le aveva fatto… Mentire per lui? Ed a Leia, riconosciuta da tutti come una donna rispettabile… Perché avrebbe dovuto domandarle una cosa del genere? Diamine, era sua madre!
Bata, con un grugnito, la spinse nuovamente a stendersi sul letto e le iniettò qualcosa nella vena del braccio. Un dolore acuto le pervase le membra, facendole scordare, almeno per il momento, i suoi dilemmi. Dire una bugia ad un’eroina di guerra o non farlo? Avrebbe avuto tempo per pensarci. Al momento, doveva limitarsi a stringere i denti.

***

Tim uscì dalla stanza dell’ospedale e subito portò la mano al comlink, cercando di entrare in comunicazione con Grym. Aveva bisogno di parlargli, di fargli sapere quello che aveva detto sua madre. A grandi passi si avviò verso l’uscita dell’edificio, tentando ripetutamente di entrare in contatto con l’amico… invano. Imprecò e, in modo quasi naturale, le trame della sua mente confluirono ad un unico pensiero: Meera, la ragazza magrolina dai capelli color biondo cenere. Non doveva avere più di diciotto anni, eppure era stata coraggiosa. Non aveva idea del perché una con i genitori che lavoravano nella Repubblica fosse finita in piena notte nel bel mezzo dei bassifondi di Galactic City, ma di certo non aveva disdegnato il suo intervento, quella sera.
Sperava davvero che mantenesse il silenzio che le aveva domandato. Sapeva che non era facile mentire a sua madre, perché era importante, intelligente, carismatica e cose del genere. Ma era necessario che lei lo facesse. Se soltanto avesse potuto spiegarle…
I suoi pensieri furono interrotti da una voce conosciuta che lo chiamava. Si riscosse e vide davanti a sé un Neimoidiano, vestito con un lungo camice, che gli parlava velocemente. Si trattava di Raymoore, il capo medico dell’ospedale.
“Frena, frena!”, esclamò Tim, “Non ti stavo seguendo. Che dicevi?”.
Sulla faccia gommosa e bluastra dell’alieno si aprì un largo sorriso. “La ragazza”, blaterò, entusiasta, “Avevi ragione a riguardo! Avevi ragione! Dai un’occhiata”. Gli porse un datapad ricolmo di numeri e risultati di un’analisi del sangue; in particolare, i dati si concentravano sulla quantità di midi-chlorian. Tim strabuzzò gli occhi.
“Sono i suoi parametri?”, domandò, incredulo.
“Esattamente”, rispose ridendo Raymoore, “Ci avevi visto giusto, furbacchione”.
Quando era penetrato nella mente di Meera, il giovane Jedi aveva provato qualcosa: era la primissima volta che si intrometteva in una testa altrui e lo aveva fatto quasi disperatamente, senza credere che ci sarebbe riuscito sul serio. Si era aspettato di provare disagio, nel navigare nei pensieri di un altro essere vivente ed invece la sua esperienza era stata diversa: era stato come se migliaia di voci gli avessero parlato all’unisono, alcune grevi e profonde, altre alte e melodiose, in un messaggio criptico che non aveva saputo decifrare, ma che era potente e bello.
Più tardi ne aveva parlato con Grym, che era un Jedi come lui, ed i due avevano convenuto che c’era una possibilità che ciò che Timothy aveva percepito fossero i midi-chlorian, minuscole forme di vita che dettavano l’esistenza stessa dell’universo e controllavano il volere della Forza. Entrambi avevano compreso che, se davvero erano quelle minuscole particelle ciò che il ragazzo aveva percepito, allora Meera doveva essere capace di utilizzare la Forza.
Le mani gli tremarono appena: quei dati che stava leggendo confermavano la sua teoria. Meera era una di loro e non lo aveva mai saputo: non aveva dei parametri strabilianti, va bene, ma aveva le potenzialità per divenire un Cavaliere Jedi. Forse era per questo che aveva deciso di aiutarlo, quella notte? Non ne aveva idea, ma lo turbava la consapevolezza di aver percepito il potere dentro un’altra persona… Era come se non si sentisse all’altezza, come se si trattasse di un fardello che non gli era proprio.
Raymoore stava continuando a parlargli, ma lui non lo ascoltava. Socchiuse gli occhi e con la mente compì un balzo, spingendosi lontano, oltre lo spazio oscuro. Toccò i pensieri di un altro essere, così familiari, così gentili e severi al tempo stesso.
Maestro, mormorò nella propria testa, in un richiamo interiore.
Ti ascolto, rispose una voce bassa e lenta.
La Forza scorre in lei, maestro, come credevo, spiegò. Seguì una breve pausa.
E’ un po’ vecchia per iniziare l’addestramento, eppure tu vorresti che le insegnassi. Forse lo desideri perché hai un cuore gentile e vedi in lei una potenziale alleata; forse lo fai per egoismo, perché ti bei dell’idea di aver percepito in lei il potere; non è forse vero?, domandò ancora la voce.
Tim storse la bocca, infastidito. Diamine, zio, odio quando mi leggi la mente.
Da qualche parte nella galassia, Luke Skywalker sorrise sotto la folta barba brizzolata. Portala da me, ragazzo mio, voglio vederla coi miei occhi, concluse e poi si allontanò dalla sua mente, scomparendo lentamente.
Il giovane Jedi riaprì gli occhi. Stringeva ancora il datapad tra le mani, Raymoore ancora lo inondava di parole. Si girò di scatto. C’era solo una cosa che doveva fare: portare Meera all’Accademia di suo zio. E sperare, per una volta tanto, che sua madre fosse d’accordo con lui.

Angolo dell'autrice:
Salve a tutti e rieccomi con un secondo capitolo, con cui spero di far chiarezza (o meglio, fare in parte chiarezza) ad alcuni quesiti che il primo capitolo può aver suscitato... con l'aggiunta di qualche vecchia conoscenza dai film.
Vorrei ringraziare DownInTheHole_ (come sempre :3) per aver recensito, Deadly special per aver a sua volta lasciato una review e aver seguito, Lapeck99 per aver seguito e messo tra i preferiti, ed infine bulmettina, che ha seguito.
Spero che questo lungo capitolo possa soddisfarvi e spero lascerete qualche recensione.
Un bacio da Wookiee,
thebrightstarofthewest

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Capitolo 3
*** Attacco al Palazzo ***


CAPITOLO III - Attacco al Palazzo

Erano passati cinque giorni dall’incidente nello sprinter e Meera ancora non era stata rilasciata dal Palazzo del Senato, sebbene non le fosse esattamente chiaro il perché. Ogni volta che un’infermiera veniva a consegnarle il pranzo o un dottore giungeva per controllare che la guarigione procedesse secondo i piani, la ragazza tentava sempre di fare qualche domanda, apparendo il più disinteressata possibile: perché non poteva andarsene? Cosa stava succedendo? Inutile dire che la maggior parte dei quesiti veniva liquidata da una scrollata di spalle ed un sorriso, lasciando Meera corrucciata e sempre più perplessa.
Perlomeno le era stato concesso di passeggiare per i corridoi dell’immenso edificio, sebbene tale permesso fosse vincolato alla presenza, con lei, di un droide che la “tenesse a bada”. Quella affermazione in particolare l’aveva decisamente turbata: perché necessitava di una stupida macchina che la seguisse in ogni dove? Era per caso diventata una prigioniera? Nessuno si era premurato di spiegarglielo.
Fatto sta che la compagnia di tale C-3PO, droide protocollare completamente dorato, si era rivelata più una benedizione che altro: il robot aveva un animo buono, sebbene spesso malinconico e pessimista, e tendeva ad acconsentire alle richieste della ragazza, anche se i suoi ordini non glielo avrebbero permesso. Era l’unico, poi, con cui Meera riusciva ad avere un minimo di dialogo: Tim sembrava completamente scomparso e Leia ancora non si era fatta rivedere, nonostante il giovane Jedi le avesse assicurato che prima o poi l’avrebbe convocata per un colloquio.
Quel giorno in particolare, la giovane donna si sentiva giù di corda come non mai. Si era svegliata con un dolore lancinante alla spalla, cosa che, a detta dello staff medico, indicava che la ferita stava faticando un po’ a rimarginarsi del tutto. Significava forse che si sarebbe trattenuta nell’infermeria altri giorni? Nessuno si preoccupò di farglielo sapere.
Si vestì in fretta, indossando i pantaloni e la larga maglia color cachi che le erano state fornite da Bata, poi consumò la colazione in silenzio, fino all’arrivo di C-3PO, che entrò cigolando a piccoli passi dalla porta scorrevole.
“Signorina”, la salutò, piegando meccanicamente la testa metallica, “Ha dormito bene?”.
“Dormito bene, sì”, considerò lei, mettendo l’ultimo boccone di cibo in bocca, con aria mesta, “E’ stato il risveglio a non essere molto piacevole”.
“Oh”, esclamò con voce acuta il droide, gli occhi gialli perennemente spalancati, quasi in un’espressione di stupore, “E’ forse colpa mia? Lo sapevo che non sarei dovuto venire così…”.
Meera sorrise, poi lo bloccò con un gesto della mano. “No, C-3PO, non è colpa tua”, lo rassicurò, “Anzi, sei l’unico qui che sembra darmi un minimo di relazione. Vorrei sapere perché mi trattengono, come sto davvero, perché Tim e la Senatrice non sono tornati a farmi visita… Ma nessuno sembra intenzionato a darmi risposte”. Alzò gli occhi, fissando un punto imprecisato fuori dalla grande finestra.
C-3PO rimase immobile qualche secondo, come se stesse riflettendo su cosa dire. “Beh, signorina”, constatò lui, vagamente amareggiato, “Vorrei esserti di aiuto, ma non sono che un povero droide. Temo che i suoi interrogativi non troverebbero risposte in me”.
Quella sua diffusa e perenne malinconia, spesso portata all’eccesso ed al vittimismo, non poteva che divertire la giovane, che si alzò in piedi e lo affiancò, prendendolo a braccetto. “Su, C-3PO, non piangerti addosso. Sei il migliore amico che ho trovato, qua”.
“Oh”, esclamò nuovamente lui, con fare perplesso, poi parve ritrovare animo, “Allora… facciamo la passeggiata di tutti i giorni, signorina?”.
Meera annuì ed i due si avviarono per i corridoi del palazzo. Il droide era piuttosto lento nel camminare e spesso si dilungava in monologhi sulla Ribellione e la Nuova Repubblica, per cui la ragazza smetteva di ascoltarlo e si perdeva nei propri pensieri. Che erano, tra l’altro, a bizzeffe: certe volte, scrutando i volti dei vari funzionari che incrociavano per il percorso, si domandava come stessero i suoi genitori. Non poteva dire che propriamente le mancassero, ma temeva che fossero in pensiero per lei… E poi c’era l’incognita di suo fratello. Con la confusione che si era creata quella sera all’underworld, Julian poteva benissimo essere stato beccato con i suoi “amici”. Ogni volta che rifletteva a riguardo, un brivido le percorreva la schiena.
Mentre ancora era del tutto immersa nelle proprie elucubrazioni, si rese conto che C-3PO si era fermato, e sembrava star osservando un punto fisso di fronte a sé. Alzando entrambe le sopracciglia si girò verso di lui e gli sventolò una mano davanti agli occhi luminosi, per attirare la sua attenzione. “Ehi”, mormorò, stupita da quel comportamento, “Sei ancora con me?”.
Dopo qualche istante il droide si risvegliò con un sussulto. “Oh, cielo”, disse, con voce mortificata, “Sono ancora qui, signorina, ma temo che la nostra girata si dovrà concludere adesso”. E prima che Meera potesse porre una qualsiasi domanda, allungò il braccio metallico di fronte a sé, che la giovane seguì con lo sguardo: non molto lontani stavano giungendo la Senatrice Organa Solo, tallonata dal figlio, che sembrava piuttosto contrariato.
Staranno discutendo… Sai che novità, non riuscì a fare a meno di pensare.
“Dici che stanno venendo proprio nella nostra direzione, C-3PO? Cioè, pensi vogliano parlare con noi?”, chiese, senza staccare gli occhi dalle due figure in avvicinamento.
“Mi stupirei del contrario, signorina: il padroncino Timothy e la Senatrice Organa Solo hanno parlato molto di lei, negli ultimi giorni”, rispose pacatamente il droide. La reazione di Meera, però, non fu affatto altrettanto pacata: sentì la rabbia crescerle dentro, e in un attimo si girò verso robot.
Hanno parlato di me?!”, esclamò, digrignando i denti, “Tu sei al loro servizio e non mi hai…”.
Non fece in tempo a finire la frase, perché Leia e Tim Solo le si pararono dinnanzi. D’istinto, abbassò gli occhi, per poi rialzarli, tentando di apparire il più tranquilla possibile.
“Meera”, la salutò il ragazzo, sfiorandosi la corta barba, “Mi hanno detto che stai meglio”.
“Davvero? A me no”, controbatté lei. Decisamente non era riuscita a contenere la propria furia: la consapevolezza del ‘doppiogioco’ compiuto da C-3PO l’aveva davvero spiazzata.
“Qualcosa non va, cara?”, le domandò la Senatrice, prendendole una mano. Quel gesto, così spontaneo e accorato, aiutò decisamene a calmarla. “So che sei stata trattenuta qui per più tempo di quanto ti saresti aspettata e comprendo tu possa essere adirata. Saremmo dovuti venire a parlarti prima, ma tra i… diverbi con mio figlio e il contattare i tuoi genitori per un colloquio, le cose sono andate per le lunghe. Più del previsto, perlomeno”.
“I miei genitori?”, chiese Meera, con gli occhi spalancati, “Li ha chiamati qua? Perché?”.
Leia sospirò, lanciando uno sguardo a Tim, che appariva piuttosto soddisfatto e baldanzoso. “Presto ti verrà chiarito tutto. Vieni, seguici”.
E così si misero in cammino, deviando dai corridoi che ormai la ragazza era solita percorrere, per imboccare un’ampia scalinata bianca come nubi contro il cielo azzurro. Nell’ascesa le tempie le pulsavano appena, ma non certo per la fatica: no, era la preoccupazione a farla da padrona in lei. Ogni scalino le sembrava un ostacolo immenso da superare, finché non arrivò in cima e, seguendo i passi della Senatrice, si diresse sulla destra, dove una larga porta scorrevole le si spalancò davanti: conduceva ad un enorme ufficio di forma semisferica, con una grande scrivania color argento dagli angoli squadrati. Leia si diresse verso il tavolo metallico a piccoli passi decisi e vi si sedette, squadrandoli da dietro di esso.
“Meera? Sei tu?”, si sentì chiamare le ragazza, che ancora stava ammirando quella splendida stanza. Riconoscendo la voce femminile che l’aveva nominata, con dolcezza, si girò di scatto: i suoi genitori erano seduti su un divanetto poco distante, che dava le spalle alla porta. Ebbe un tuffo al cuore e, con uno slancio, si gettò tra le loro braccia, ignorando l’insistente dolore alla spalla.
“Mamma! Papà!”, esclamò, abbracciandoli. Loro ricambiarono la sua stretta, sebbene sembrassero piuttosto imbarazzati da quelle effusioni in presenza di un funzionario del calibro della Senatrice Organa Solo. Suo padre in particolare le scompigliò i capelli con fare leggermente impacciato, poi, con un leggero gesto della mano la rimise in piedi. Stupita da quella freddezza, cercò di ricomporsi, di non prendersela, ma non era facile: forse era assurdo, perché era stata lì solo cinque giorni, eppure sentiva il bisogni di affetto e vedersi così respinta le appariva del tutto innaturale. Sospirò, posando gli occhi su Leia, che le fece cenno di sedersi in una sedia accanto alla scrivania. Per un solo istante, il suo sguardo si intrecciò con quello di Tim, eretto in piedi accanto alla scrivania, e le parve di leggervi comprensione.
“Meera, non devi preoccuparti”, le disse la Senatrice, con quel solito tono sincero che ogni volta la spiazzava, “Adesso ti spiegherò perché ho chiamato qui la tua famiglia e il perché di questa tua permanenza qui”. Si protese verso di lei, seria, ma non ostile e proseguì. “Come ormai penso tu abbia capito, mio figlio spesso esagera nelle proprie azioni e per questo non ci troviamo d’accordo”. Timothy abbassò il capo, trattenendo a stento una risata.
“Eppure, il giorno in cui sei stata ricoverata, ha portato alla mia attenzione dei dati interessanti che hanno risvegliato la mia attenzione… e non solo la mia, in verità”.
Meera era spaesata: di che diamine stavano parlando? In quel momento, prese parola Tim: “Ti è mai capitato, in passato, di prevedere qualcosa prima che accadesse? O, comunque, di avere slanci istintivi di gran lunga superiori alla media?”. La ragazza, sempre più confusa, boccheggiò e guardò i suoi genitori, in cerca di aiuto. Tutto ciò che ricevette fu un’occhiata indecifrabile.
“Non ne sono sicura”, rispose, asciutta. Il giovane Jedi storse le labbra in una smorfia pensierosa, poi scosse il capo.
“E’ strano, molto strano”, commentò, più rivolto a sua madre che a Meera stessa.
Leia rimase immobile. “Spesso i tratti si mostrano più avanti, o non sono concretamente percepiti da chi li possiede. Anche io fino a circa vent’anni non…”.
Meera alzò la mano, timidamente, interrompendola a metà discorso. “Scusi, Senatrice”, balbettò, abbassando immediatamente il braccio, e occhieggiando a intervalli regolari lei ed il figlio, “Non voglio essere scortese, ma mi sento al centro di una grande conversazione di cui neppure comprendo la ragione. Non potrebbe dirmi qual è il problema?”.
Le sottili labbra di Leia si spalancarono in un sorriso, che le illuminò il volto saggio e bello. “Mia cara, ma non c’è alcun problema”, rise, “Al contrario, devi sapere che… No, come hai detto, la farò breve, non ha senso tenerti sulle spine. Ho chiamato qua i tuoi genitori perché mio figlio ha scoperto che il livello di midi-chlorian nel tuo sangue è molto alto, dunque volevamo chiedere loro il permesso per poterti addestrare all’Accademia”.
Probabilmente vedendo che il volto di Meera era sempre una maschera di profonda perplessità, Tim si intromise nel discorso con una scrollata di spalle. “In poche parole”, esclamò, sornione, “Hai le potenzialità per diventare uno Jedi”.
Le parve di essere stata catapultata in un’altra dimensione, dove il pulsare delle sue tempie ed il battito furioso del suo cuore erano gli unici suoni udibili. Aprì le labbra per dire qualcosa, ma non ne uscì niente. E, dopotutto, cosa avrebbe potuto dire? Di tutte le notizie che avrebbero potuto darle, quella era sicuramente la più inaspettata. Uno Jedi? Lei? Com’era possibile? La mente, quasi automaticamente, la trasportò indietro nel tempo a quella sera, quella nell’underworld, quando aveva incontrato Tim: il suo primo istinto, quando aveva visto qualcuno in difficoltà, era stato quello di andarsene, di chiudere gli occhi e fare finta di nulla. Solo quando si era rivelato un Cavaliere, aveva deciso di aiutarlo… Ma perché? Per egocentrismo? Per dimostrare di essere coraggiosa? No, non lo era. Non lo era mai stata.
“Ma non è possibile”, riuscì a sillabare, in un soffio.
Tim e Leia si scambiarono uno sguardo ricolmo di sottintesi e poi il ragazzo le si avvicinò, circondandole le spalle con un braccio. Quel tocco le parve strano, eppure la situazione era già di per sé abbastanza inconsueta perché a malapena se ne rendesse conto. “Meera”, mormorò lui, cercando un contatto visivo, “Quanto sono entrato nella tua mente, quella sera, ho percepito qualcosa, di potente e conciliante. Erano i midi-chlorian che mi parlavano; non sto dicendo che tu sia lo Jedi più potente mai esistito, ma la Forza è in te… lascia che fluisca”.
Non replicò. Non sapeva cosa avrebbe potuto dire. Da un lato, era ciò che aveva sempre desiderato… Essere qualcuno e non un nessuno. Ma anche soltanto quel sogno ambizioso e egoistico non era forse la prova che non era adatta ad essere uno Jedi?
“Io…”, biascicò, ma fu interrotta dal suono dei suoi genitori che, contemporaneamente si alzavano dal divanetto, per pararsi dinnanzi a lei.
“Meera, è un’occasione che non puoi perdere”, esclamò sua madre, allontanando Tim e prendendole il volto tra le mani, “Io e tuo padre abbiamo già acconsentito. Non vorrai deluderci?”.
Ecco, la solita tattica dei suoi: giocare sul senso di colpa. Erano affettuosi, certo, ma sapevano anche farsi furbi. Chinò il capo e fece per rispondere, quando un tremore profondo ed inquietante le fece morire le parole a fior di labbra.
Si guardò intorno, confusa, e notò lo specchio delle sue emozioni anche nei volti altrui. L’edificio stava letteralmente oscillando. Scattò in piedi, preoccupata, ed afferrò il braccio di Timothy, facendo per chiedergli qualcosa, ma l’ennesimo scossone la fece cadere all’indietro. Strinse i denti nel percepire una fitta di dolore alla spalla.
“Che diamine sta succedendo?”, domandò in un grido Tim a sua madre, mentre aiutava Meera a rimettersi in piedi, “E’ qualche sorta di esercitazione?”.
“Non ne so nulla”, rispose Leia, corrucciata. Estrasse la spada laser, che con un sibilo rivelò essere verde, “Dobbiamo uscire di qua. Stiamo uniti, ho un brutto presentimento*”.
“Oh, cielo”, esclamò C-3PO, che finora aveva assistito in completo silenzio alla conversazione, ed aprì la porta con un tonfo sordo. Nei corridoi era il panico: ogni sorta di umano ed alieno correva e si guardava intorno, spaurito.
“Ma che cosa…”, fece per imprecare Tim, ma si interruppe, quando un altro schianto mosse l’intera struttura, con un rumore lugubre e metallico. Tutti si trovarono sbalzati contro pareti e pavimento ed attesero qualche istante prima di rialzarsi. In quell’istante, una figura familiare gli si avvicinò, correndo a grandi falcate e faticando a mantenere l’equilibrio.
Leia! Timothy!”, urlò Han Solo, fermandosi loro davanti.“State tutti bene?”, domandò il Generale Solo, anche se in realtà era chiaramente più preoccupato per sua moglie e suo figlio. La Senatrice gli si avvicinò, sfiorandogli il volto con la mano libera. “Sai cosa sta succedendo?”, domandò al marito, cercando di mantenere la calma
Han si fece scuro in volto. “Io, Grym e Chewie eravamo fuori a dare un’occhiata al Falcon prima di farlo ripartire, quando un rombo ci ha riempito le orecchie: ci siamo girati ed abbiamo visto un’enorme nave grigia e nera dal modello sconosciuto che era riuscita a superare i nostri scudi. Sotto i nostri occhi ha cominciato a sparare sul Palazzo e…”. Un’altra botta, un altro terribile tremore lo costrinse a tacere. “Dobbiamo filarcela”, borbottò, con occhi sospettosi, prendendo la mano della moglie, ed impugnando il blaster con l’altra, “Il Falcon è pronto”.
“No!”, controbatté Leia, “Prima dobbiamo scoprire cosa sta succedendo, aiutare le persone a…”. Puntuale, giunse un altro tonfo. Ormai era diventato come il ticchettare preciso e periodico di un orologio, forte, gutturale e tremendo.
“Non aiuteremo nessuno, da morti”, borbottò con ironia piuttosto oscura Han. Tutti apparvero tacitamente d’accordo, sebbene negli occhi della Senatrice vi fosse del risentimento. Con il fragore della battaglia che nascondeva il rumore dei loro passi si incamminarono dietro al Generale Solo. Meera si guardava intorno, vedendo il Palazzo in fermento come non mai: interi plotoni di soldati marciavano nella loro stessa direzione, probabilmente per fronteggiare il nemico. Le salì un groppo in gola al pensiero di trovarsi nel cuore di una battaglia, ma proseguì, al fianco dei suoi genitori. Ogni tanto il povero C-3PO rimaneva indietro e lanciava acuti urli di paura.
I corridoi erano sviluppati in un labirinto che sembrava non avere mai fine, ma più andava avanti, più Meera capiva che si stavano avvicinando agli hangar dove erano tenute le astronavi… O forse alle rampe di lancio, non ne era ben sicura, ma l’odore di carburante che aleggiava nell’aria le rivelava molto, sebbene la sua mente fosse un subbuglio confuso di paura e dubbi.
Ad un tratto, un uomo alto con le spalle larghe si avvicinò alla Senatrice, con un inchino frettoloso. Indossava una divisa della Nuova Repubblica, le cui medaglie applicate all’altezza del cuore rivelavano un alto rango. “Senatrice Organa Solo”, la salutò, la voce ferma, ma in cui serpeggiava malcelato un certo timore.
“Capitano!”, esclamò la donna in risposta, fermandosi di scatto per parlare con lui. Tutto il gruppo, come fosse una sola cosa, si bloccò a sua volta, in fervida attesa di udire quel che Leia aveva da dire: era una donna saggia, Meera ne era sicura, e si rese conto di pendere dalle sue labbra in quel momento. I due uomini Solo, dal canto loro, reagirono entrambi col medesimo atteggiamento: alzarono gli occhi al cielo, leggermente irati, e, sollevando le braccia al cielo, si lanciarono un tacito sguardo di intesa. Avevano fretta, era evidente.
“Cosa succede?”, continuò la Senatrice, velocemente, “Abbiamo udito tonfi e rumori metallici. Mio marito mi ha detto che…”. Un tremito della struttura non le permise di continuare.
“Senatrice”, la esortò il capitano, “Non può restare qui, stiamo evacuando l’intero Palazzo. Qualunque cosa o persona ci stia attaccando, è riuscita a superare gli scudi e a bypassare i sistemi di sicurezza del nostro computer centrale, per cui gli hangar dove sono custodite le navi della Flotta della Repubblica sono bloccati. Stiamo cercando di risolvere il problema, ma temo non sarà così banale”. Fece una pausa. “Quella nave non sembra interessata a seminare panico nella città. No, sta sparando solo sul Palazzo. Vada con suo marito, raggiunga suo fratello all’Ordine dei Jedi e…”.
“Sì, vieni con tuo marito”, lo interruppe Timothy, prendendo la madre per il braccio e trascinandosela dietro non con troppa grazia.
“Per una volta sono d’accordo con te”, borbottò Han, rimettendosi a fare strada. Leia tentò di ribellarsi, ma la fermezza di suo marito e suo figlio non le lasciarono molte possibilità. “Forza, andiamo”, esclamò ancora il Generale Solo, seguendo le parole con un ampio gesto del braccio, “Ormai ci siamo quasi”.
Le ultime parole famose. Stavolta, oltre ad un botto lugubre e profondo, si sentì il chiaro sibilo di un cannone laser: la parete metallica si inclinò pericolosamente sotto la potenza del colpo e una placca del soffitto, ampia e pesante, si staccò. Tutto accadde in fretta, troppo in fretta: tutto ciò che Meera seppe è che qualcuno le si gettò contro, per farla chinare. Un salto. La polvere che si alzava. La ferita alla spalla che si riapriva, con uno strappo. Il clangore del pezzo di soffitto che si schiantava contro il pavimento. Poi, un innaturale silenzio.
La ragazza, che aveva tenuto gli occhi serrati al punto che quasi le dolevano, li riaprì, lentamente: Tim le era accanto, le mani posate sulla sua schiena. Più avanti, Han Solo teneva Leia tra le braccia, con fare protettivo, e vociava qualcosa ad un comlink che teneva stretto in pugno. Le pareva di non poter udire più nulla, come se un’indistinta foschia aleggiasse attorno a lei, ricolma di detriti, annebbiandole i sensi. Percepiva solo il battito del suo cuore ed il sapore ferreo del sangue sulla lingua. Eppure, qualcosa non andava… Qualcosa…
Impiegò qualche istante a realizzarlo. Poi, quando comprese, fu come se un pugnale le avesse squarciato il petto, troncandole il respiro: ovunque guardasse, non v’era traccia dei suoi genitori. Non c’erano.
 Tentò di urlare, ma il grido le morì in gola. Tentò disperatamente di alzarsi, finendo per annaspare, squarciandosi ancora di più la ferita riaperta. Cadde supina a terra, il calore delle lacrime che le rigavano il viso e la schiuma che le fuoriusciva dalle labbra.
Qualcuno la girò, delicatamente, e lei tentò di ribellarsi, ma senza risultato: davanti a lei c’era Tim. Le stava parlando, ma non sentiva ancora nulla. Si concentrò sulle sue labbra, provando a leggerne il labiale. Inizialmente, la sua vista la ingannò, poi comprese.
Sono ancora vivi, Meera, diceva Timothy, serio in volto, I tuoi genitori sono ancora vivi. Sono là, dall’altra parte della placca. Sono con il capitano, sono al sicuro. Verranno evacuati, come tutti gli altri. Guarda dentro di te, tu sai che sono ancora vivi.
E come un’astronave che si lancia nell’iperspazio, la consapevolezza la investì: non sapeva come, né perché, ma lo percepiva, riusciva a vederlo come attraverso di un velo.... Mya e Raymond Russell erano ancora vivi. E ce l’avrebbero fatta, dovevano farcela.
Si rimise in piedi, sbandando. Leia le si avvicinò, con sguardo preoccupato, ma Meera le rivolse l’ombra di un sorriso. Non stava bene, ma si sentiva rinvigorita. Han Solo le porse la mano e si avviarono, veloci quanto più possibile, verso il Falcon. Continuarono a marciare, finché non si trovarono davanti ad una grande scalinata, seguita da una porta spalancata che dava sull’esterno: la luce del mattino penetrava da essa, illuminando l’intero corridoio. Quella luce le scaldò il cuore.
I momenti che seguirono parvero ore, come se il mondo andasse a rilento: salirono ed attraversarono l’uscio, per trovarsi su una larga piattaforma di lancio, dove un vecchio modello di nave mercantile li attendeva, con il portello aperto.
“Sia lodato il mio creatore!”, strillò 3PO, che con uno slancio improbabile per un droide protocollare si scapicollò verso l’entrata, scomparendo nella pancia del mezzo di trasporto. Gli altri, però, si fermarono, come ipnotizzati: poco distante da loro, una nave grigia e nera da guerra fluttuava in aria, colpendo ripetutamente il fianco dell’edificio. Era semplicemente mastodontica.
“Non possiamo fermarci qui”, sbottò Han, lanciando un’occhiata nervosa a quella mostruosa macchina, “Leia, dobbiamo andare. Chewie e Grym hanno già messo in moto”.
Riscossi da quelle parole, seguirono le orme di C-3PO e si addentrarono nel cargo che, in un tempo infinitamente breve, scattò in alto, fuggendo dalle polveri della battaglia.

***

“Leia?”, si sentì chiamare da una voce profonda e familiare.
Con gli occhi chiusi, Leia non disse nulla, né si alzò dalla propria poltrona, ma allungò appena il braccio, in attesa di quel tocco che conosceva tanto bene: delle dita ruvide, ma calde e stranamente confortevoli, avvolsero la sua piccola mano in una stretta dolce e, al tempo stesso, decisa. Pian piano, la Senatrice aprì le palpebre pesanti, per trovarsi dinnanzi i lineamenti ben squadrati di suo marito, che la guardava con i grandi occhi color nocciola, ricolmi di amore ed apprensione. “Tutto bene?”, le domandò, con tono appena preoccupato.
“Han”, mormorò lei, accarezzandogli la guancia leggermente ispida, “Tienimi stretta**”. Con quelle poche parole, si lasciò andare tra le sue braccia.
Seguirono diversi secondi, forse addirittura minuti, di assoluto silenzio, che infine lui interruppe. “Mi sa che non va tutto bene, quindi”, biascicò, staccandosi da lei lentamente, “I ragazzi sono in pensiero per te, dolcezza. Da quando siamo decollati –e ormai sono passate delle ore, nel caso i tuoi poteri Jedi ti avessero fatto perdere la cognizione del tempo- sei rimasta chiusa nella mia cabina tutto il tempo, senza nemmeno dare un segno di vita. La piccoletta là ha perso un sacco di sangue ed è ancora sotto shock per essersi lasciata dietro i genitori, avresti potuto…”.
“Potuto cosa?”, lo rimbeccò lei, pacata, inarcando le sopracciglia scure. Sulle sue labbra sottili si dipinse un sorriso amaro. “Stavo cercando, attraverso la Forza, di capire come vanno le cose a Galactic City…”. Si interruppe, pensierosa.
Han, che aveva sempre avuto ben poca pazienza per la Forza e qualsiasi cosa non capisse, spalancò le braccia con aria scettica. “E…?”, la incoraggiò.
Leia sospirò. “La nave se n’è andata come un’ombra non appena la Flotta è riuscita a uscire dagli hangar, veloce e invisibile, proprio come era venuta”. Guardò il marito negli occhi, con aria delusa. “Quando eravamo lì, di fronte ad essa, ho tentato di sondarla, di capirla, di percepire chi vi fosse all’interno e quali fossero le loro intenzioni, ma… ma non ci sono riuscita”.
Han scrollò le spalle. “Capita”, sentenziò.
Capita?!”, sbottò lei, istintivamente, “Ma come puoi…”.
“Ehi, piccioncini”. Tim apparve sulla soglia della porta circolare della cabina, con un sorriso ironico stampato sul volto. Da un lato, Leia fu contenta di vederlo felice nonostante ciò che avevano appena passato, dall’altro, temeva che dietro a quell’espressione sarcastica si celasse qualcosa. Scacciò quel pensiero. “C’è qualcuno che vuole parlarti, mamma”, soggiunse, guardandosi alle spalle dove, lentamente, apparve una figura minuta che si muoveva con un po’ di difficoltà: Meera, con la spalla fasciata ed il volto emaciato.
“Senatrice”, esordì, con voce sottile, guardandosi intorno timidamente. Eppure, attraverso la Forza, Leia poteva percepire nella ragazza molto decisione… Più di quanta ne avesse mai avuta prima. “Sono passate poche ore dalla nostra partenza…”.
“Beh, non proprio poche…”, la interruppe Han, storcendo il naso. Leia lo fulminò con lo sguardo.
“Dicevo”, continuò Meera, vagamente imbarazzata, “Ci ho pensato un po’. A questa questione di avere sangue Jedi, intendo. Finora non mi sentivo pronta o adatta perché… Beh, perché non ritengo di essere molto atletica, né, soprattutto, coraggiosa. Non sono speciale e non so se potrò mai esserlo. Eppure, oggi ho conosciuto la paura, quella vera, quando ho creduto di aver perso i miei genitori e questo mi ha fatto riflettere: forse sono codarda, ma voglio almeno provare ad essere migliore. Perché i Jedi portano giustizia e pace, no? E in tempi di pace nessuno può provare il terrore che ho percepito io. Nella pace c’è gioia”. Si interruppe un secondo, leccandosi le labbra. “Voglio essere addestrata”, concluse, cercando un contatto visivo.
Al tempo stesso, Leia e Tim sorrisero, guardandosi. “E lo sarai”, mormorò la Senatrice, “Lo sarai”.


* Famosa frase ricorrente nella saga cinematografica, tale 'I have a bad feeling about this'. Potevo non includerla?
** Citazione da "Il Ritorno dello Jedi". Mi piace pensare che, nonostante tutto, il rapporto di Leia e Han abbia sempre la dolcezza e profondità vista in quel film.


 

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