Scusa, ma non ti sposi

di Pretty_Liar
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Sei ancora qui~ ***
Capitolo 2: *** Nontiscordardimé~ ***
Capitolo 3: *** Due vite, un solo odio~ ***
Capitolo 4: *** Coraggio e un bacio~ ***
Capitolo 5: *** Per dimenticarti~ ***
Capitolo 6: *** Solo per dimostrarti che ti odio~ ***
Capitolo 7: *** La bacio?~ ***
Capitolo 8: *** Uragano a ciel sereno~ ***
Capitolo 9: *** Non scappare~ ***
Capitolo 10: *** Se mi guardi così~ ***



Capitolo 1
*** Sei ancora qui~ ***


 

 

Un amore nascosto è come il sole dietro le nuvole, come un fiore sotto la neve, come una lacrima nel mare, ma è più forte degli altri perchè è nascosto dentro il cuore dove nessuno potrà mai rubarlo.

 

-- Anonimo
«Lo sai perché è qui, mamma?», sputai acida, indicando la finestra della piccola cucina dai mobili gialli e le tendine verdi, «Perché vuole rovinarmi il matrimonio, ecco perché! Ha sempre cercato di rovinarmi la vita!».
«Lo sai qual è il tuo problema Barbara? Prendi le cose troppo sul serio. Harry è solo venuto a dare una mano con il giardino. Se non leviamo tutte quelle erbacce te la scordi la festa pre matrimonio», disse mia madre, continuando imperterrita a cuocere la pasta sul fuoco, canticchiando fra se.
I lunghi capelli rossi e lisci, erano tirati in una crocchia alta, che le scopriva il viso lentigginoso e perennemente sorridente, dalla pelle diafana come la mia.
«Mamma! Ti prego, qua non ce lo voglio», mi lagnai, battendo i piedi, fasciati da un paio di scarpe di tela, a terra come se fossi ancora la bambina di cinque anni che correva da lei quando lui mi faceva i dispetti al parco giochi.
«Erano le mie ultime parole, tesoro. Adesso esci fuori e portagli da bere. Sta lavorando da stamattina senza sosta», ribadì lei, mettendomi fra le mani un enorme vassoio blu in plastica, con un succo d'arancia rossa e dei biscotti alle mandorle, i suoi preferiti.
«Lo sai cosa non capisco? Perché proprio lui hai chiamato per sistemare quel dannato giardino!», sbraita, facendo quasi cadere il bicchiere pieno di succo a terra, rischiando quindi di rimanere piegata sul pavimento per ore prima di riuscire a togliere quella bevanda appiccicaticcia da terra.
«Adesso basta Barbara!», sbraitò lei, battendo uno strofinaccio verde sul ripiano in marmo bianco della cucina, facendomi trasalire quando mi fissò con i suoi grandi occhi azzurri,«Harry è un bravo ragazzo e non merita di essere trattato così da te. Non siete più bambini, smettila di comportarti come se lo fossi».
Digrignai i denti, fissandola imbronciata con i miei grandi occhi grigi, che lui amava deridere davanti a tutti, dicendo che quelli, insieme alle mie orecchie a punta e il naso schiacciato e piccolo rivolto verso l'alto, mi facevano sembrare un elfo di Natale.
«Il problema è che tu hai sempre difeso lui, anche quando eravamo piccoli e nonostante lui abbia sette anni in più a me!», urlai, afferrando saldamente il vassoio ed uscendo sulla veranda che dava in giardino, sbattendo dietro le mie spalle la porta finestra in legno, sussultando io stessa per la mia azione rude.
Il vento caldo di giugno mi colpì in pieno volto, facendo oscillare i capelli color castano chiaro, quasi miele, raccolti in una coda alta e disordinata, ondulati e ricci solo sulle punte che mi solleticavano la schiena scoperta a causa della spaccatura ampia della maglietta pesca che indossavo quella mattina, abbinata ad una gonna di jeans.
Avevo messo i miei vestiti preferiti perché ero di buon umore quando avevo preso il treno quella mattina, ritornando ad Holmes Chapel dopo due anni passati a Londra lontana dalla mia famiglia.
Mi ero trasferita quando mio padre era morto, cercando di cambiare aria e di mettere in ordine la mia vita adolescenziale.
Adesso avevo degli amici, un lavoro come giornalista a soli diciotto anni e un fidanzato perfetto che mi aveva chiesto da due settimane di sposarlo.
«Bill!», esclamai, vedendo il grande cane nero, dal folto e lucido pelo, che si rotolava fra l'erba umida, mettendosi a pancia in su alla mia vista.
«Sei diventato grandissimo. Il mio cagnone», risi, correndo verso di lui e  una volta poggiato il vassoio ai miei piedi, mi catapultai sull'animale, stringendolo a me.
Ci ero praticamente cresciuta con quel cane, l'unico che, dopo mio padre, mi difendeva contro Harry quando ero piccola e indifesa.
Una volta lo stronzo mi fece cadere nel fango davanti tutte le mie amiche, ridendo a crepapelle a causa dei miei pantaloni pieni di terra dietro il sedere. Ovviamente Bill lo rincorse per tutto il campetto di calcio, mordendogli una natica così forte da strappargli parte dei pantaloni e delle mutande, così lui fu costretto a correre dietro un albero per non mostrare il suo magnifico sedere nudo.
Risi al ricordo, grattando il cane dietro le orecchie, cosa che amava.
«Non sono mai piaciuto particolarmente a quel cane, ma da quando te ne sei andata penso che mi odi ancora di più», disse una voce pacata e rauca alle mie spalle, facendomi sobbalzare per la sorpresa.
Harry Styles era lì, dopo due anni, era difronte a me, nei soliti pantaloni di jeans larghi e rotti, di un colore scambiato e chiaro. La pelle era leggermente abbronzata e bruciata a causa delle ore che passava sotto il sole, e i capelli ricci e castani, lunghi e folti, erano tenuti lontani dagli occhi grazie ad una fascia verde, come i suoi occhi a mandorla, stretta attorno la fronte sudata.
«Perfetto! Harry Styles. Mi eri mancato», dissi scontrosa, alzandomi da terra e scrollandomi la polvere dai vestiti, con i miei soliti modi altolocati, che sapevo lo infastidivano.
Lui amava il fango, la terra, la pioggia e tutto quello che aveva a che fare con la natura, tanto che la sua stessa pelle emanava odore di noci moscate ed erba bagnata.
Io, invece, ero amante della pulizia, dei libri e di tutto quello che implicava lavoro mentale e non manuale. Forse era per questo che non andavamo assolutamente d'accordo.
«Lo so. Alla fine tutte finiscono con l'amarmi», ridacchiò, strizzandomi l'occhio, mentre si puliva le grandi mani, dalle dita affusolate, sulla maglietta a giro-maniche bianca, così larga e sformata che gli scopriva tutto il petto muscoloso e coperto di tatuaggi.
«Sogna Harold», ribattei, mettendo le mani suo fianchi. 
Bill aveva preso a girarmi intorno, come se volesse creare una protezione per il mio corpo così piccolo e fragile rispetto a quello del ragazzo, che sorrideva impertinente, con le solite fossette ai lati della bocca.
«Diciotto anni e sempre stronza sei», mi punzecchiò, battendo un piede a terra come me, nell'invano tentativo di imitarmi.
Lo faceva sempre quando eravamo piccoli; solo che mentre all'epoca mi irritavo e correvo a piangere da mia madre, adesso lo fissavo solo disgustata, con un sopracciglio inarcato.
«Venticinque anni e sempre ignorante sei», risposi prontamente, abbassandomi per prendere il bicchiere con il succo di frutta. «Per te», sorrisi falsamente, vedendolo illuminarsi.
«Grazie Nanetta!».
Mi aveva affibbiato quel nomignolo quando avevo quindici anni ed ero la più bassa della classe. Lui ne aveva già ventidue e amava farmi fare figure di merda quando mi accompagnava fuori il liceo con il suo pick up sporco di fango e terreno.
«Ma ti pare!», dissi cortesemente, avvicinandomi a lui e, proprio mentre pensava che gli lo stessi per mettere fra le mani, mi alzai in punta di piedi, rovesciandogli la bevanda appiccicosa sui suoi magnifici boccoli da donna.
«Fanculo!», ringhiò a denti stretti, strofinandosi gli occhi per poi fulminarmi con lo sguardo,«Sei la solita sbadata e bastarda del cazzo, Barbara. Se non ti conoscessi bene, direi che sei tornata solo per tormentarmi», sputò acido, incrociando le braccia davanti il petto saldo.
«Ti credi così importante?! Non farei mai un viaggio di ore ed ore solo per venirti a rovinare la tua schifosissima vita. Si vede che, nonostante siamo stati insieme per sedici dannatissimi anni, non mi conosci per niente!», urlai di rimando, girandomi e camminando furiosamente verso la veranda, pronta a rientrare e non guardare più quella sua faccia da schiaffi.
«Allora perché cavolo sei qui, eh? Ammettilo, ti mancava tutto questo. Londra è troppo fine per una ragazza senza classe come te», mi urlò dietro, seguendomi come un'ombra e non so con quale forza mi trattenni dal mollargli uno schiaffo in pieno viso.
«Io-non-sono-come-te!», scandii bene le parole, spingendolo con forza all'indietro ad ogni suono che pronunciavo, vedendolo ridere. «Se proprio lo vuoi sapere sono qui perché tra un mese esatto mi sposo!».
Era come se mi fossi liberata di un peso, ma non riuscivo a capire perché.
«Cosa?», chiese lui, sgranando gli occhi verdi e lucidi, facendo un passo indietro.
Si torturava la maglietta sporca e logora, balbettando cose senza senso.
«Lo scherzo non mi diverte, Barbara», riprese duro, fissandomi intensamente negli occhi, facendomi rabbrividire.
Non era la prima volta che mi trattava come una bambina da proteggere. Da piccoli lo faceva sempre, sentendosi superiore solo per i suoi sette anni di vantaggio.
«Ho la faccia di una che scherza, ignorante? Guarda», e gli mostrai l'anello d'argento che portavo al dietro, che poche sere prima Alan, il mio ragazzo, mi aveva messo al dito, baciandomi poi con trasporto dopo il mio si convinto e deciso.
«Ignorante?! La stupida ragazzina sei tu, qui! Cazzo B, hai solo diciotto fottuti anni! Sei immatura per sposarti!», sbraitò, avvicinandosi nuovamente, costringendomi così ad indietreggiare, fino a sbattere al muro esterno della casa.
Lui poggiò entrambe le mani ai lati della mia testa, facendo così aderire i nostri corpi caldi, che fremevano sempre più. Sentivo il suo fiato caldo colpirmi il viso pallido, facendomi così schiudere le labbra rosse e sottili.
Notai una collana di ferro pendere dal suo collo muscoloso; c'era scritto qualcosa in una lingua che certamente non era la nostra, quindi tornai a fissare i suoi occhi fiammeggianti di rabbia.
«Tu non sai niente, non puoi giudicare! Alan ed io ci amiamo», dissi altezzosa, alzando il mento all'insù, consapevole di aver ragione.
Un piccolo sorriso attraversò il suo volto, ma subito lasciò piazza libera all'enorme cipiglio che aleggiava da tempo sul suo volto sudato.
«Barbara è una maledetta follia. Non è un gioco il matrimonio, capisci? Non stiamo giocando a Marito e Moglie», sbottò battendo una mano sul muro proprio accanto al mio orecchio, facendomi serrare per un secondo gli occhi a causa della botta forte.
«Io non... Noi siamo abbastanza... Cioè il fatto che tu non...», balbettai frasi senza senso, torturandomi le mani fra di loro, sentendo il sangue pulsarmi nelle orecchie a punta ed il cuore battere velocemente per... La rabbia, ovvio!
«Senti Harry spostati! Non sei mio padre!», dissi con voce acuta, da bambina capricciosa, cercando di scostarlo, dandogli dei pugni leggeri sul petto, ma lui sembrava incollato al suolo, tanto che continuò a guardarmi indignato.
«Lo vuoi capire che i matrimoni fatti così, senza un senso, finiscono subito? Ragiona cazzo, ragiona!», mi urlò totalmente in faccia, battendo due volte e violentemente il piede sinistro a terra, incollandomi ancor di più al muro di mattoni grigi, che raffreddarono la mia schiena percossa da brividi di... Paura, ovvio!
«Il nostro sarà un matrimonio saldo. Non puoi saperlo! E levati», ripetei, afferrando in un pugno la sua maglietta, stringendola forte per fargli capire quanto fossi indignata.
Lui abbassò il volto verso la mia mano, piccola e come sempre fredda, fissandola come se fosse qualcosa di importante, prima di raggiungerla con la sua, delineando il profilo di ogni mio dito stretto intorno il tessuto bianco sporco.
«Lo vuoi capire che sei solo una.... Bambina?», storse il naso a punta,facendomi innervosire.
«Ho detto L.E.V.A.T.I!», ribadii a denti stretti, passando sotto il suo braccio teso, lasciando che il vento caldo muovesse leggermente la mia gonna larga di jeans,«Non ho bisogno dei tuoi stupidi consigli. Alan è perfetto per me, altrimenti perché avrei acconsentito a sposarlo?».
Mi resi conto che non dovevo domandarlo a lui, ma a me stessa. Eppure ero convinta di avere la risposta giusta: noi ci amavamo, io lo amavo!
«Non lo so, dovresti saperlo tu», ridacchiò, incrociando le braccia davanti al petto, frugando nella tasca dei suoi jeans scoloriti, cacciandone un pezzo di liquirizia a bastoncino.
Lo incastrò fra le labbra carnose ed umide, iniziando a masticare pigramente, mentre scrutava il mio corpo intensamente.
«Infatti lo so», dissi subito, cercando di non fare tremare la mia voce.
«Già... Per questo l'hai domandato a me?», ribatté spavaldo, prima di superarmi e scendere nuovamente gli scalini della veranda che portavano nell'erba fresca del giardino.
Osservai come il suo corpo si rilassò quando i piedi nudi vennero a contatto con il terreno. Sospirò pesantemente, passandosi una mano fra i capelli.
«Comunque porgi gli auguri da parte mia allo sposo», continuò, afferrando una pala al lato di Bill, che ringhiò contro di lui, facendolo sorridere innocentemente.
«Perché?», chiesi stupita subito, incrociando come lui le braccia sotto il seno piccolo, che cercai di volumizzare.
Lui girò di poco la testa verso di me, continuando a mostrarmi solo le spalle possenti e larghe. Poggiò il mento scolpito su una di queste, ridacchiando leggermente.
«Beh, dovrà essere un santo per sopportarti... Acida come sei. Sembra che hai ogni giorno il ciclo. Sei abbastanza irritante. Sempre a parlare come una macchinetta. Bla... Bla... Bla. Deve avere una pazienza sovrannaturale se non si è buttato giù dopo il-».
Lo bloccai, avendo sentito abbastanza, saltandogli sulle spalle, tirandogli con forza i capelli, cercando di fargliela pagare
«Stronzo, io non sono acida!», tuonai  mentre lui afferrava le mie cose, stringendomi saldamente alla sua schiena.
«Mollami sanguisuga», disse fra gli sforzi, mentre girava su se stesso per farmi scendere, ma io mi ancorai ancora di più al suo collo dalle vene ben marcate, «Rischierai di sporcarti i vestiti», provò, ma io me ne fregai. Dovevo fargliela pagare.
«Nanetta non ti conviene», sibilò, cercando di afferrarmi le mani per gettarmi sotto di lui, ma io prontamente me le misi dietro la schiena, stringendo solo le gambe intorno il suo bacino.
Lui ne approfittò e, strattonandomi per la caviglia sinistra, mi fece cascare sull'erba, prima di salire a cavalcioni sul mio di bacino, incatenandomi le mani sopra la testa.
Mi districai su me stessa come un'anguilla, ma lui mi premette ancora di più i polsi al suolo, facendomi gemere contrariata.
«Adesso come la mettiamo, eh?», rise, mentre io scalciavo ed urlavo per farmi aiutare da Bill, che però sembrava essere scomparso nell'arco di pochi secondi.
Mia madre? Beh, lei stava sicuramente pensando che stavamo giocando amorevolmente.
Come quando da piccoli ci picchiavano sul tappeto e lei diceva a tutti intorno che già ci amavamo, tanto che ci davamo baci sul collo. In realtà io lo mordevo in quel punto perché era l'unico modo per metterlo fuori combattimento.
Mi illuminai.
Allungai la testa verso il suo collo, mordendolo esattamente sotto il mento. Di solito lui urlava infastidito, o diceva che gli faceva schifo la mia saliva su di lui. Oppure digrignava i denti per il fastidio, invece quella volta sobbalzò, deglutendo pesantemente.
Sentii la sua pelle nella mia bocca rabbrividire e, quando aprii gli occhi, vidi i suoi chiusi e le labbra schiuse. Il suo respiro era affannoso e ansimava pesantemente.
Cercai di allontanarmi, vedendolo lasciare subito i miei polsi, come se scottassero sotto le sue dita lunghe, mentre si alzava bruscamente, senza neanche guardarmi in faccia.
«Harry scusa non», mi bloccai non capendo il motivo preciso delle mie scuse.
«Lasciami in pace, Barbara. Ho una marea di lavoro da fare. Hai la tua vita adesso, perfetto! Finalmente ti sei sbarazzata di me! Perfetto! Tanto noi ci.... Odiamo! Perfetto!», sbraitò e, afferrando la scatola di biscotti alle mandorle, si recò verso il retro della casa, lasciandomi come una cretina.
«Ma si! Vattene, tanto sei solo nato per rovinarmi la vita», gli urlai dietro e, afferrando il vassoio di plastica blu, entrai in casa, sbattendo nuovamente la porta finestra.
Mi ci poggiai sopra, voltando la testa verso destra. Mia madre era lì, con la faccia incollata al vetro.
«Ci stavi spiando, mamma?!», dissi innervosita, facendola sobbalzare.
«Amore sei troppo dura con lui. Vedi Harry voleva solo».
«Tanto tu lo difendi sempre, no? È il figlio maschio che non hai mai avuto, lo so! Ma io sono l'unica che hai, quindi fai finta di essere almeno un po' felice del mio matrimonio!». La mia voce era incrinata e sapevo che di lì a pochi istanti avrei pianto.
«Certo che lo sono, Barbie!», disse indignata,«Solo che vorrei».
«Vorresti fosse Harry il tuo cognatino, vero? Non Alan. Mamma io lo amo, mentre Harry lo odio! Smettila di cercare di cambiare le cose, perché è impossibile!».
Poi corsi in camera mia, sbattendo anche quella di porta in legno. Aveva sempre cercato di farci stare insieme, sperando che fra noi qualcosa nascesse, ma io proprio.... Non lo sopportavo.
Mi trovai davanti una cameretta immutata. I miei disegni di quando andavo all'asilo, erano ancora lì, mentre le fotografie del liceo giacevano immobili nelle loro cornici. Il letto era coperto da una trapunta squallidamente rosa e sull'armadio bianco c'erano ancora le lettere magnetiche a formare il nome Nanetta. Harry le aveva attaccate così quando io avevo sei anni e lui tredici, e da quel momento nessuno le aveva più toccate, anche se io mi lamentavo sempre quando le vedevo e dovevo coprirle con grandi poster quando venivano le mie amiche a casa.
Aprii con foga la valigia in pelle poggiata sulla scrivania, iniziando a mettere a posto i miei vestiti nei cassetti, insieme ai profumi e i trucchi che mi ero portata dietro. Dovevo sopravvivere un mese lì, dato che Alan era stavo invitato a casa sua per quello stesso mese, prima del matrimonio.
Mi mancava già un casino. Sospirai, mettendo una nostra foto sul comodino accanto a letto. Notai una foto mia e di Harry al mio ultimo anno di scuola elementare. La girai, notando la sua scrittura perfetta.
La nanetta ha finito le elementari, mentre io attraverso i miei diciassette anni. Che devo fare, sempre con lei alle costole.
Sotto, con una grafia sbavata e storta, c'era un mio appunto.
Nessuno ti chiede di rompermi le scatole tutti i giorni.
Niente citazioni come Barbara e Harry amici per sempre. Io e lui ci detestavamo fino alla punta dei capelli.
Mi affaccia alla finestra dalla forma rotonda e ampia, tanto che amavo sedermi sopra tutte le notti di luna piena, fissando il cielo.
Notai Harry scostare con la pala il terreno, mettendo rabbia ad ogni palata. Poi, con mani sporche di terra, afferrò una pianta di rose, ficcandola bruscamente nel solco che aveva creato. Borbottò qualcosa ai fiori e così mi ricordai della sua idea insana, secondo la quale le piante crescevano se le parlavi. Le sue dovevano essere dei giganti, dato che ci intratteneva conversazioni di mezzo secolo con ciascuna. 
«E poi dice a me che blatero sempre», dissi indignata, continuando ad osservare come ricopriva il terreno, asciugandosi la fronte con gli orli della maglia, scoprendo così la pancia piatta e dai muscoli contratti.
Lui alzò velocemente la testa, rimanendo bloccato alla mia vista. Ci fissammo per un po', prima che lui scuotesse la testa, tornando a lavorare e borbottare fra se.
Battei frustrata ed innervosita il piede a terra, prima di tirare con forza le tende, gettandomi a peso morto sul letto, per reprimere le mie urla nel cuscino.
      

                                                                                                                                    

                                                                                                                               Un amore nascosto è come il sole dietro le nuvole, come un fiore sotto la neve,                                                                                                                                                                                                                           come una lacrima nel mare,                                                                                                                                                                                                                                ma è più forte degli altri                                                                                                                                                           perché è nascosto dentro il cuore dove nessuno potrà mai rubarlo.

                                                                                                                                                                                                                                                     - Anonimo

 

 

«Lo sai perché è qui, mamma?», sputai acida, indicando la finestra della piccola cucina dai mobili gialli e le tendine verdi, «Perché vuole rovinarmi il matrimonio, ecco perché! Ha sempre cercato di rovinarmi la vita!».

«Lo sai qual è il tuo problema Barbara? Prendi le cose troppo sul serio. Harry è solo venuto a dare una mano con il giardino. Se non leviamo tutte quelle erbacce te la scordi la festa pre matrimonio», disse mia madre, continuando imperterrita a cuocere la pasta sul fuoco, canticchiando fra se.

I lunghi capelli rossi e lisci, erano tirati in una crocchia alta, che le scopriva il viso lentigginoso e perennemente sorridente, dalla pelle diafana come la mia.

«Mamma! Ti prego, qua non ce lo voglio», mi lagnai, battendo i piedi, fasciati da un paio di scarpe di tela, a terra come se fossi ancora la bambina di cinque anni che correva da lei quando lui mi faceva i dispetti al parco giochi.

«Erano le mie ultime parole, tesoro. Adesso esci fuori e portagli da bere. Sta lavorando da stamattina senza sosta», ribadì lei, mettendomi fra le mani un enorme vassoio blu in plastica, con un succo d'arancia rossa e dei biscotti alle mandorle, i suoi preferiti.

«Lo sai cosa non capisco? Perché proprio lui hai chiamato per sistemare quel dannato giardino!», sbraita, facendo quasi cadere il bicchiere pieno di succo a terra, rischiando quindi di rimanere piegata sul pavimento per ore prima di riuscire a togliere quella bevanda appiccicaticcia da terra.

«Adesso basta Barbara!», sbraitò lei, battendo uno strofinaccio verde sul ripiano in marmo bianco della cucina, facendomi trasalire quando mi fissò con i suoi grandi occhi azzurri,«Harry è un bravo ragazzo e non merita di essere trattato così da te. Non siete più bambini, smettila di comportarti come se lo fossi».

Digrignai i denti, fissandola imbronciata con i miei grandi occhi grigi, che lui amava deridere davanti a tutti, dicendo che quelli, insieme alle mie orecchie a punta e il naso schiacciato e piccolo rivolto verso l'alto, mi facevano sembrare un elfo di Natale.

«Il problema è che tu hai sempre difeso lui, anche quando eravamo piccoli e nonostante lui abbia sette anni in più a me!», urlai, afferrando saldamente il vassoio ed uscendo sulla veranda che dava in giardino, sbattendo dietro le mie spalle la porta finestra in legno, sussultando io stessa per la mia azione rude.

Il vento caldo di giugno mi colpì in pieno volto, facendo oscillare i capelli color castano chiaro, quasi miele, raccolti in una coda alta e disordinata, ondulati e ricci solo sulle punte che mi solleticavano la schiena scoperta a causa della spaccatura ampia della maglietta pesca che indossavo quella mattina, abbinata ad una gonna di jeans. Avevo messo i miei vestiti preferiti perché ero di buon umore quando avevo preso il treno quella mattina, ritornando ad Holmes Chapel dopo due anni passati a Londra lontana dalla mia famiglia. Mi ero trasferita quando mio padre era morto, cercando di cambiare aria e di mettere in ordine la mia vita adolescenziale. Adesso avevo degli amici, un lavoro come giornalista a soli diciotto anni e un fidanzato perfetto che mi aveva chiesto da due settimane di sposarlo.

«Bill!», esclamai, vedendo il grande cane nero, dal folto e lucido pelo, che si rotolava fra l'erba umida, mettendosi a pancia in su alla mia vista. «Sei diventato grandissimo. Il mio cagnone», risi, correndo verso di lui e  una volta poggiato il vassoio ai miei piedi, mi catapultai sull'animale, stringendolo a me.

Ci ero praticamente cresciuta con quel cane, l'unico che, dopo mio padre, mi difendeva contro Harry quando ero piccola e indifesa. Una volta lo stronzo mi fece cadere nel fango davanti tutte le mie amiche, ridendo a crepapelle a causa dei miei pantaloni pieni di terra dietro il sedere. Ovviamente Bill lo rincorse per tutto il campetto di calcio, mordendogli una natica così forte da strappargli parte dei pantaloni e delle mutande, così lui fu costretto a correre dietro un albero per non mostrare il suo magnifico sedere nudo. Risi al ricordo, grattando il cane dietro le orecchie, cosa che amava.

«Non sono mai piaciuto particolarmente a quel cane, ma da quando te ne sei andata penso che mi odi ancora di più», disse una voce pacata e rauca alle mie spalle, facendomi sobbalzare per la sorpresa.

Harry Styles era lì, dopo due anni, era difronte a me, nei soliti pantaloni di jeans larghi e rotti, di un colore scambiato e chiaro. La pelle era leggermente abbronzata e bruciata a causa delle ore che passava sotto il sole, e i capelli ricci e castani, lunghi e folti, erano tenuti lontani dagli occhi grazie ad una fascia verde, come i suoi occhi a mandorla, stretta attorno la fronte sudata.

«Perfetto! Harry Styles. Mi eri mancato», dissi scontrosa, alzandomi da terra e scrollandomi la polvere dai vestiti, con i miei soliti modi altolocati, che sapevo lo infastidivano.

Lui amava il fango, la terra, la pioggia e tutto quello che aveva a che fare con la natura, tanto che la sua stessa pelle emanava odore di noci moscate ed erba bagnata. Io, invece, ero amante della pulizia, dei libri e di tutto quello che implicava lavoro mentale e non manuale. Forse era per questo che non andavamo assolutamente d'accordo.

«Lo so. Alla fine tutte finiscono con l'amarmi», ridacchiò, strizzandomi l'occhio, mentre si puliva le grandi mani, dalle dita affusolate, sulla maglietta a giro-maniche bianca, così larga e sformata che gli scopriva tutto il petto muscoloso e coperto di tatuaggi.

«Sogna Harold», ribattei, mettendo le mani suo fianchi. 

Bill aveva preso a girarmi intorno, come se volesse creare una protezione per il mio corpo così piccolo e fragile rispetto a quello del ragazzo, che sorrideva impertinente, con le solite fossette ai lati della bocca.

«Diciotto anni e sempre stronza sei», mi punzecchiò, battendo un piede a terra come me, nell'invano tentativo di imitarmi.

Lo faceva sempre quando eravamo piccoli; solo che mentre all'epoca mi irritavo e correvo a piangere da mia madre, adesso lo fissavo solo disgustata, con un sopracciglio inarcato.

«Venticinque anni e sempre ignorante sei», risposi prontamente, abbassandomi per prendere il bicchiere con il succo di frutta. «Per te», sorrisi falsamente, vedendolo illuminarsi.

«Grazie Nanetta!».

Mi aveva affibbiato quel nomignolo quando avevo quindici anni ed ero la più bassa della classe. Lui ne aveva già ventidue e amava farmi fare figure di merda quando mi accompagnava fuori il liceo con il suo pick up sporco di fango e terreno.

«Ma ti pare!», dissi cortesemente, avvicinandomi a lui e, proprio mentre pensava che gli lo stessi per mettere fra le mani, mi alzai in punta di piedi, rovesciandogli la bevanda appiccicosa sui suoi magnifici boccoli da donna.

«Fanculo!», ringhiò a denti stretti, strofinandosi gli occhi per poi fulminarmi con lo sguardo,«Sei la solita sbadata e bastarda del cazzo, Barbara. Se non ti conoscessi bene, direi che sei tornata solo per tormentarmi», sputò acido, incrociando le braccia davanti il petto saldo.

«Ti credi così importante?! Non farei mai un viaggio di ore ed ore solo per venirti a rovinare la tua schifosissima vita. Si vede che, nonostante siamo stati insieme per sedici dannatissimi anni, non mi conosci per niente!», urlai di rimando, girandomi e camminando furiosamente verso la veranda, pronta a rientrare e non guardare più quella sua faccia da schiaffi.

«Allora perché cavolo sei qui, eh? Ammettilo, ti mancava tutto questo. Londra è troppo fine per una ragazza senza classe come te», mi urlò dietro, seguendomi come un'ombra e non so con quale forza mi trattenni dal mollargli uno schiaffo in pieno viso.

«Io-non-sono-come-te!», scandii bene le parole, spingendolo con forza all'indietro ad ogni suono che pronunciavo, vedendolo ridere. «Se proprio lo vuoi sapere sono qui perché tra un mese esatto mi sposo!».

Era come se mi fossi liberata di un peso, ma non riuscivo a capire perché.

«Cosa?», chiese lui, sgranando gli occhi verdi e lucidi, facendo un passo indietro.

Si torturava la maglietta sporca e logora, balbettando cose senza senso. «Lo scherzo non mi diverte, Barbara», riprese duro, fissandomi intensamente negli occhi, facendomi rabbrividire.

Non era la prima volta che mi trattava come una bambina da proteggere. Da piccoli lo faceva sempre, sentendosi superiore solo per i suoi sette anni di vantaggio.

«Ho la faccia di una che scherza, ignorante? Guarda», e gli mostrai l'anello d'argento che portavo al dietro, che poche sere prima Alan, il mio ragazzo, mi aveva messo al dito, baciandomi poi con trasporto dopo il mio si convinto e deciso.

«Ignorante?! La stupida ragazzina sei tu, qui! Cazzo B, hai solo diciotto fottuti anni! Sei immatura per sposarti!», sbraitò, avvicinandosi nuovamente, costringendomi così ad indietreggiare, fino a sbattere al muro esterno della casa.

Lui poggiò entrambe le mani ai lati della mia testa, facendo così aderire i nostri corpi caldi, che fremevano sempre più. Sentivo il suo fiato caldo colpirmi il viso pallido, facendomi così schiudere le labbra rosse e sottili. Notai una collana di ferro pendere dal suo collo muscoloso; c'era scritto qualcosa in una lingua che certamente non era la nostra, quindi tornai a fissare i suoi occhi fiammeggianti di rabbia.

«Tu non sai niente, non puoi giudicare! Alan ed io ci amiamo», dissi altezzosa, alzando il mento all'insù, consapevole di aver ragione.

Un piccolo sorriso attraversò il suo volto, ma subito lasciò piazza libera all'enorme cipiglio che aleggiava da tempo sul suo volto sudato.«Barbara è una maledetta follia. Non è un gioco il matrimonio, capisci? Non stiamo giocando a Marito e Moglie», sbottò battendo una mano sul muro proprio accanto al mio orecchio, facendomi serrare per un secondo gli occhi a causa della botta forte.

«Io non... Noi siamo abbastanza... Cioè il fatto che tu non...», balbettai frasi senza senso, torturandomi le mani fra di loro, sentendo il sangue pulsarmi nelle orecchie a punta ed il cuore battere velocemente per... La rabbia, ovvio!

 «Senti Harry spostati! Non sei mio padre!», dissi con voce acuta, da bambina capricciosa, cercando di scostarlo, dandogli dei pugni leggeri sul petto, ma lui sembrava incollato al suolo, tanto che continuò a guardarmi indignato.

«Lo vuoi capire che i matrimoni fatti così, senza un senso, finiscono subito? Ragiona cazzo, ragiona!», mi urlò totalmente in faccia, battendo due volte e violentemente il piede sinistro a terra, incollandomi ancor di più al muro di mattoni grigi, che raffreddarono la mia schiena percossa da brividi di... Paura, ovvio!

«Il nostro sarà un matrimonio saldo. Non puoi saperlo! E levati», ripetei, afferrando in un pugno la sua maglietta, stringendola forte per fargli capire quanto fossi indignata.

Lui abbassò il volto verso la mia mano, piccola e come sempre fredda, fissandola come se fosse qualcosa di importante, prima di raggiungerla con la sua, delineando il profilo di ogni mio dito stretto intorno il tessuto bianco sporco.

«Lo vuoi capire che sei solo una.... Bambina?», storse il naso a punta,facendomi innervosire.

«Ho detto L.E.V.A.T.I!», ribadii a denti stretti, passando sotto il suo braccio teso, lasciando che il vento caldo muovesse leggermente la mia gonna larga di jeans,«Non ho bisogno dei tuoi stupidi consigli. Alan è perfetto per me, altrimenti perché avrei acconsentito a sposarlo?».

Mi resi conto che non dovevo domandarlo a lui, ma a me stessa. Eppure ero convinta di avere la risposta giusta: noi ci amavamo, io lo amavo!

«Non lo so, dovresti saperlo tu», ridacchiò, incrociando le braccia davanti al petto, frugando nella tasca dei suoi jeans scoloriti, cacciandone un pezzo di liquirizia a bastoncino.

Lo incastrò fra le labbra carnose ed umide, iniziando a masticare pigramente, mentre scrutava il mio corpo intensamente.

«Infatti lo so», dissi subito, cercando di non fare tremare la mia voce.

«Già... Per questo l'hai domandato a me?», ribatté spavaldo, prima di superarmi e scendere nuovamente gli scalini della veranda che portavano nell'erba fresca del giardino.

Osservai come il suo corpo si rilassò quando i piedi nudi vennero a contatto con il terreno. Sospirò pesantemente, passandosi una mano fra i capelli.

«Comunque porgi gli auguri da parte mia allo sposo», continuò, afferrando una pala al lato di Bill, che ringhiò contro di lui, facendolo sorridere innocentemente.

«Perché?», chiesi stupita subito, incrociando come lui le braccia sotto il seno piccolo, che cercai di volumizzare.

Lui girò di poco la testa verso di me, continuando a mostrarmi solo le spalle possenti e larghe. Poggiò il mento scolpito su una di queste, ridacchiando leggermente.

«Beh, dovrà essere un santo per sopportarti... Acida come sei. Sembra che hai ogni giorno il ciclo. Sei abbastanza irritante. Sempre a parlare come una macchinetta. Bla... Bla... Bla. Deve avere una pazienza sovrannaturale se non si è buttato giù dopo il-».

Lo bloccai, avendo sentito abbastanza, saltandogli sulle spalle, tirandogli con forza i capelli, cercando di fargliela pagare.

«Stronzo, io non sono acida!», tuonai  mentre lui afferrava le mie cose, stringendomi saldamente alla sua schiena.

«Mollami sanguisuga», disse fra gli sforzi, mentre girava su se stesso per farmi scendere, ma io mi ancorai ancora di più al suo collo dalle vene ben marcate, «Rischierai di sporcarti i vestiti», provò, ma io me ne fregai.

Dovevo fargliela pagare.

«Nanetta non ti conviene», sibilò, cercando di afferrarmi le mani per gettarmi sotto di lui, ma io prontamente me le misi dietro la schiena, stringendo solo le gambe intorno il suo bacino.

Lui ne approfittò e, strattonandomi per la caviglia sinistra, mi fece cascare sull'erba, prima di salire a cavalcioni sul mio di bacino, incatenandomi le mani sopra la testa. Mi districai su me stessa come un'anguilla, ma lui mi premette ancora di più i polsi al suolo, facendomi gemere contrariata.

«Adesso come la mettiamo, eh?», rise, mentre io scalciavo ed urlavo per farmi aiutare da Bill, che però sembrava essere scomparso nell'arco di pochi secondi.

Mia madre? Beh, lei stava sicuramente pensando che stavamo giocando amorevolmente.Come quando da piccoli ci picchiavano sul tappeto e lei diceva a tutti intorno che già ci amavamo, tanto che ci davamo baci sul collo. In realtà io lo mordevo in quel punto perché era l'unico modo per metterlo fuori combattimento.

Mi illuminai.Allungai la testa verso il suo collo, mordendolo esattamente sotto il mento. Di solito lui urlava infastidito, o diceva che gli faceva schifo la mia saliva su di lui. Oppure digrignava i denti per il fastidio, invece quella volta sobbalzò, deglutendo pesantemente. Sentii la sua pelle nella mia bocca rabbrividire e, quando aprii gli occhi, vidi i suoi chiusi e le labbra schiuse. Il suo respiro era affannoso e ansimava pesantemente.Cercai di allontanarmi, vedendolo lasciare subito i miei polsi, come se scottassero sotto le sue dita lunghe, mentre si alzava bruscamente, senza neanche guardarmi in faccia.

«Harry scusa non», mi bloccai non capendo il motivo preciso delle mie scuse.

«Lasciami in pace, Barbara. Ho una marea di lavoro da fare. Hai la tua vita adesso, perfetto! Finalmente ti sei sbarazzata di me! Perfetto! Tanto noi ci.... Odiamo! Perfetto!», sbraitò e, afferrando la scatola di biscotti alle mandorle, si recò verso il retro della casa, lasciandomi come una cretina.

«Ma si! Vattene, tanto sei solo nato per rovinarmi la vita», gli urlai dietro e, afferrando il vassoio di plastica blu, entrai in casa, sbattendo nuovamente la porta finestra.Mi ci poggiai sopra, voltando la testa verso destra.

Mia madre era lì, con la faccia incollata al vetro.

«Ci stavi spiando, mamma?!», dissi innervosita, facendola sobbalzare.

«Amore sei troppo dura con lui. Vedi Harry voleva solo».

«Tanto tu lo difendi sempre, no? È il figlio maschio che non hai mai avuto, lo so! Ma io sono l'unica che hai, quindi fai finta di essere almeno un po' felice del mio matrimonio!».

La mia voce era incrinata e sapevo che di lì a pochi istanti avrei pianto.

«Certo che lo sono, Barbie!», disse indignata,«Solo che vorrei».

«Vorresti fosse Harry il tuo cognatino, vero? Non Alan. Mamma io lo amo, mentre Harry lo odio! Smettila di cercare di cambiare le cose, perché è impossibile!».

Poi corsi in camera mia, sbattendo anche quella di porta in legno. Aveva sempre cercato di farci stare insieme, sperando che fra noi qualcosa nascesse, ma io proprio.... Non lo sopportavo.Mi trovai davanti una cameretta immutata. I miei disegni di quando andavo all'asilo, erano ancora lì, mentre le fotografie del liceo giacevano immobili nelle loro cornici. Il letto era coperto da una trapunta squallidamente rosa e sull'armadio bianco c'erano ancora le lettere magnetiche a formare il nome Nanetta. Harry le aveva attaccate così quando io avevo sei anni e lui tredici, e da quel momento nessuno le aveva più toccate, anche se io mi lamentavo sempre quando le vedevo e dovevo coprirle con grandi poster quando venivano le mie amiche a casa.

Aprii con foga la valigia in pelle poggiata sulla scrivania, iniziando a mettere a posto i miei vestiti nei cassetti, insieme ai profumi e i trucchi che mi ero portata dietro. Dovevo sopravvivere un mese lì, dato che Alan era stavo invitato a casa sua per quello stesso mese, prima del matrimonio. Mi mancava già un casino. Sospirai, mettendo una nostra foto sul comodino accanto a letto.

Notai una foto mia e di Harry al mio ultimo anno di scuola elementare. La girai, notando la sua scrittura perfetta.

La nanetta ha finito le elementari, mentre io attraverso i miei diciassette anni. Che devo fare, sempre con lei alle costole.

Sotto, con una grafia sbavata e storta, c'era un mio appunto.

Nessuno ti chiede di rompermi le scatole tutti i giorni.

Niente citazioni come Barbara e Harry amici per sempre.

Io e lui ci detestavamo fino alla punta dei capelli.

Mi affaccia alla finestra dalla forma rotonda e ampia, tanto che amavo sedermi sopra tutte le notti di luna piena, fissando il cielo.

Notai Harry scostare con la pala il terreno, mettendo rabbia ad ogni palata. Poi, con mani sporche di terra, afferrò una pianta di rose, ficcandola bruscamente nel solco che aveva creato. Borbottò qualcosa ai fiori e così mi ricordai della sua idea insana, secondo la quale le piante crescevano se le parlavi. Le sue dovevano essere dei giganti, dato che ci intratteneva conversazioni di mezzo secolo con ciascuna. 

«E poi dice a me che blatero sempre», dissi indignata, continuando ad osservare come ricopriva il terreno, asciugandosi la fronte con gli orli della maglia, scoprendo così la pancia piatta e dai muscoli contratti

.Lui alzò velocemente la testa, rimanendo bloccato alla mia vista. Ci fissammo per un po', prima che lui scuotesse la testa, tornando a lavorare e borbottare fra se.

Battei frustrata ed innervosita il piede a terra, prima di tirare con forza le tende, gettandomi a peso morto sul letto, per reprimere le mie urla nel cuscino.      

 

 

 

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Capitolo 2
*** Nontiscordardimé~ ***


 

 

Tu dici di amare la pioggia, ma quando piove apri l'ombrello.
Tu dici di amare il sole, ma quando splende cerchi l'ombra.
Tu dici di amare il vento, ma quando soffia chiudi la finestra.
Per questo ho paura quando dici che mi ami.
-Bob Marley 
«Anche tu mi manchi tantissimo», dissi tristemente, continuando a vagare per la cucina, con il telefono stretto vicino l'orecchio nella mano destra ed una tazza fumante nella sinistra. 
I miei piccoli piedi nudi, producevano un rumore sordo che inondava l'intera stanza, mentre il pigiama bianco a pois rossi, consisteva in una camicia larga ed un pantalone così lungo che avevo dovuto arrotolare le estremità più di tre volte.
Lo avevo trovato in uno dei vecchi cassetti della nonna in soffitta, dato che mi ero dimenticata il mio di lino nel cassetto del comò del mio lussuoso appartamento, che condividevo con Alan.
«Certo!», esclamai quando il mio ragazzo mi chiese se fossi ancora in linea con il programma della rivista per cui scrivevo.
Parlavamo per lo più dei nostri impegni, di quanto dovevamo impegnarci al massimo e dare il meglio per il nostro lavoro, che veniva prima di tutto.
Lui aveva giusto due anni in più a me ed era un aspirante avvocato ventenne, con le carte in regola ed una famiglia ricchissima alle spalle, che gli forniva di tutto. Non l'avevo mai fatta incontrare a mia madre, per il semplice motivo che loro avrebbero parlato del vino, mentre lei si sarebbe cimentata con storie imbarazzanti della mia infanzia con Harry.
«D'accordo. Ti amo», tentennai, arrossendo leggermente, mentre mi mordicchiato l'indice della mano sinistra libera, dato che avevo poggiato sul tavolo la tazza a chiazze nere, che usavo quando avevo tre anni.
Era stato un regalo di Harry e mia madre aveva insistito affinché non la buttassi e la usassi la mattina, per iniziare bene la giornata.
Fissai il giardino fuori la finestra piccola della cucina, notando che il sole, che stava appena sorgendo, illuminava il prato curato e umido, a causa della rugiada mattutina. Piccole sfere colavano dagli alberi alti ai lati del sentiero in pietra che aveva costruito mio padre, quando io avevo otto anni, con Harry. Mi ritrovai a pensare che lui, il riccio dagli occhi verdi ed il carattere insopportabile, aveva sempre accompagnato tutti i miei giorni, da quelli perfetti a quelli tristi. Non avevo un ricordo dove non apparisse anche lui con i jeans scoloriti, strappati e le unghia piene di fango ed erba.
«Mi hai capito, Barbara?», mi chiese Alan, facendomi sgranare gli occhi, dato che mi ero persa metà della conversazione! troppo impegnata a pensare al mio acerrimo nemico.
Farfugliai qualcosa, pregando che non si fosse accorto della mia distrazione e, dopo una ventina minuti passati a parlare della nuova villa che aveva comprato la sorella a New York, attaccai, gettando il cellulare sul mobiletto del pane, pieno di fiori.
Adesso che lo notavo, tutta la cucina era piena zeppa di fuori, piantati in basi di ceramica dipinti con splendidi paesaggi. Sicuramente opera di mia madre, che amava lavorare la ceramica.
Un forte tonfo alle mie spalle, mi fece sobbalzare, mentre mi giravo di scatto vero il salone, che comunicava con la cucina attraverso un arco, trovando Harry che aveva appena poggiato altri vasi sul tavolo all'angolo del salone ampio e luminoso, con le tre porte finestra che davano sulla veranda del giardino.
«Da quando entri senza il consenso dei padroni di casa?», sbuffai battendo un piede a terra e raccogliendo nuovamente la tazza di cioccolata calda dal tavolo, dirigendomi lentamente verso di lui, che continuava a fissare il mio pigiama.
«Non sapevo che la moda fosse così ridicola a Londra», disse torcendo il naso in un ghigno fastidioso. «Comunque tua madre mi ha dato le chiavi questa mattina prima di scendere. Doveva andare al mercato per prendere gli ultimi nastri per i fiori e io dovevo portare i vasi dentro», scrollò le spalle, pulendosi le mani sul jeans scuro, prima di poggiarsi con il bacino al tavolo dietro di lui ed incrociare le braccia muscolose davanti il petto.
«Nastri per... Cosa, scusa?», chiesi stupita, avvicinandomi notevolmente a lui, curiosa.
Avevo detto a mamma che alla fine avrei organizzato la festa prima del matrimonio  per farle conoscere la famiglia di Alan, ma non sapevo che stesse facendo le cose in grande, come sempre.
«I fiori che vedi, li abbiamo comprati qualche settimana fa io e tua madre. Vogliamo metterli per tutta la casa per il grande evento», disse, sbuffando pesantemente sulle ultime due parole,«Fuori c'è ne sono ancora una quarantina, se non di più. Sono arrivati tutti questa mattina».
Osservai i fiori dietro le sue spalle: nontiscordardimé di un vivace colore azzurro, con il polline giallo acceso.
«I vasi li ha fatto lei e poi li abbiamo portati dal fioraio per fargli mettere i fiori dentro: nontiscordardimé, i tuoi preferiti, nanetta», mi fece l'occhiolino, mettendomi un vaso fra le mani.
L'odore di quei fiori mi invase i sensi, facendomi sentire finalmente a casa.
«Mi mancavano», sorrisi fra i petali, alzando gli occhi verso di lui, che scuoteva leggermente il capo, facendo oscillare la catenina al suo collo. 
Aveva un vago aspetto familiare, ma non riuscivo proprio a ricordare dove l'avessi vista.
«Che c'è? Ti sembro stupida come al solito?», chiesi imbronciata, mettendo le mani suo fianchi quando afferrò il vaso fra le sue grandi mani.
«No, affatto. Mi ricordi tanto la sorellastra di Cenerentola, Anastasia», rise di gusto, facendomi roteare gli occhi al cielo infastidita.
«Divertente», borbottai, pronta a salire in camera mia e non vedere più la sua faccia da stronzo, ma fui bloccata dalla sua mano che, velocemente, si chiuse intorno il mio polso, facendomi prendere la scossa.
Ritirammo insieme i nostri arti verso il petto, emanando un piccolo urlo di dolore.
«Hai messo le mani nella corrente, deficiente?», chiesi fra i denti, massaggiandomi il polso, mentre lui mi faceva la linguaccia.
«Vieni con me, avanti», disse ignorandomi, indicandomi con un cenno del capo la porta d'ingresso, che dava sulla piccola e stretta strada del paese, dove si trovava parcheggiato un enorme camion pieno di fiori.
«Che? È il tuo lavoro, non il mio», sputai acida, alzando il mento all'insù, soddisfatta, ma lui inarcò un sopracciglio, come uno che ne sapeva più del diavolo.
«Ma è il tuo matrimonio, non il mio», ribadì, facendomi rimanere senza parole.
«E va bene, hai vinto», sbottai, afferrando delle ciabatte all'ingresso, infilandomele velocemente, prima di uscire in strada ancora in pigiama, seguita da lui che giocava con la catenina al collo.
«Come sempre, piccola Barbie», rise, mentre si avvicinava ad un uomo sulla cinquantina, che ci scaricò fra le braccia altri vasi.
La prima volta che mi chiamò Barbie fu a dodici anni, quando il paese organizzò in piazza la festa di carnevale, a cui volevo partecipare da più di due anni. Mia madre aveva acconsentito solo se Harry ci fosse venuto. Avevo dovuto fargli da serva per sette mesi per farmi accompagnare, umiliandomi continuamente.
Comunque, quella sera era arrivata, ed io ero super elettrizzata all'idea di incontrare un ragazzo di scuola, Charlie, per cui avevo una cotta dalla prima media.
Avevo messo i miei vestiti migliori e mi ero persino fatta i capelli lisci.
«Avanti muoviti, Barbara, Harry ti sta aspettando», disse mia madre, chiamandomi dal piano di sotto.
Corsi verso il salotto, inciampando quasi nei miei stessi piedi, trovando un Harry in camicia e pantaloni stretti per la prima volta. Aveva diciannove anni e già tutta Holmes Chapel, almeno il mondo femminile, gli sbavava dietro. Peccato che non sapessero del suo dannato caratterraccio.
«Come sto?», chiesi girando su me stessa, davanti mio padre che batté le mani, soddisfatto.
«Sembri una Barbie», sussurrò Harry, arrossendo quando capì che avevo sentito il suo commento,
Indossavo un vestitino a fiori rossi, su uno sfondo nero, che mi arrivava fin sopra le ginocchia, scoprendo le mie gambe pallide.
Quella sera Charlie si avvicinò, mi fece la corte, ma Harry si comportò più bastardamente del solito, urtandomi a posta e facendo così rovesciare il mio bicchiere di succo di mirtilli sul vestito, facendo ridere tutti, persino Charlie, che il giorno dopo a scuola mi prese in giro fino alla noia.
«Come butta Harry?», chiese l'uomo di nome Luca, mentre il riccio contava i soldi da dargli con le lunghe dita leggermente abbronzate e dalle unghie curate.
«Butta avanti, Lu», sorrise Harry, porgendogli le banconote, poggiandosi con un gomito al furgoncino di un blu arrugginito.
Io, intanto, lo fissavo con le mani sporche ancora di terreno, cosa che odiavo altamente, ma non potevo fare la maleducata, entrandomene in casa e lasciandoli lì fuori.
«Il solito, eh ragazzo? Chi è questa bella signorina? Non pensavo avessi messo la testa a posto!», rise dando una forte pacca sulla spalla ad Harry, che sgranò gli occhi, fissandomi subito,«La fidanzatina?».
Mi irrigidii prontamente, stringendo in un pugno la camicia del pigiama, facendomi diventare le nocche bianche.
«No!», mi affrettai a precisare, rivolgendomi più a me stessa che a lui,«Io sono solo... La padrona di casa», aggiunsi imbarazzata, evitando di tendergli la mano per non sporcarmi ancora di più.
«Giusto, la ragazzina che partì per Londra?», mi chiese, continuando quando ebbe un cenno di assenso da parte mia,«Harry mi parlava spesso di te. Tutti i pomeriggi di settembre quando mi aiutava al negozio. Diceva che-».
«Bene Luca!», esclamò nervoso Harry, alzando la voce, mentre io lo fissavo con un enorme sorriso vittorioso stampato sul volto,«Ci vediamo lunedì, okay?».
Lo spinse a forza nel camioncino, impedendoci quasi di salutarci e, quando se ne fu andato, si grattò la nuca imbarazzato.
«Poi ero io quella che sentiva la tua mancanza», dissi acida, facendolo vergognare ancora di più,«Fammi il piacere Harold!».
Mi incamminai velocemente in casa, ridendo del suo essere così infantile. Ma la verità era che adoravo il fatto che avesse parlato di me per tutto l'inverno.
«Si è sbagliato. Parlavo di tua madre, non di te, io ti odio», disse con la voce che si affievolì a sempre di più.
 «Certo, come no!», ridacchia, pronta a salire e cambiarmi. Dovevo andare in città per...
«Aspetta un attimo», mi bloccai a metà scalinata, facendo dietro front e fissandolo con un enorme cipiglio sul volto. «Che voleva dire Luca con messo la testa a posto?», chiesi nervosamente, battendo un piede a terra e tamburellando le dita della mano sulla ringhiera di legno.
«Gelosa?», disse lui, avvicinandosi nuovamente a me, muovendo leggermente le braccia lungo i fianchi dalla linea a V ben visibile sotto la maglia chiara.
«Cosa?! Ma ti pare!», dissi isterica, indietreggiando e mettendo una mano fra di noi quando lo sentii troppo su di me,«Non mi interessa affatto la tua vita sessuale».
Arrossii sull'ultima parola, mentre il suo sorriso si allargava sempre più.
«Certo, come no», mi imitò, «Allora perché lo domandi?», rise, mettendo le mani sulla ringhiera dietro di me, bloccandomi fra quella e il suo corpo caldo.
«Io l'ho detto perché.... Sai che intendevo che quando... Nel momento della verità saprai che io.... Come quando», dissi velocemente, gesticolando ampiamente, mentre lui inclinava la testa di lato, avvicinandosi a me ancor di più.
Il suo odore di erba bagnata e noce moscata mi invase i sensi, facendomi rabbrividire per un secondo, mente il cuore martellava nel petto alla velocità della luce.
Avvicinò le sue labbra al mio orecchio, facendomi solletico alla guancia, di un rosso porpora, con i ricci morbidi che sembravano spirali senza fine.
«Lo hai chiesto perché sei gelosa marcia», sussurrò, facendomi scorrere più velocemente il sangue nelle vene.
Rimasi stordita per un po', pensando alle sue labbra piene che mi sfioravano la pelle dell'orecchio, o al suo fiato caldo, prima di spingerlo con tutte le mie forze, ritornando in me stessa. Odio, ecco cosa provavo per lui. Un grande, immenso e profondo odio.
«Ma cosa...? Non è affatto vero. Non sei il centro del mondo!», sbottai, picchiando l'indice sul suo petto, facendolo annuire falsamente.
«Si, si. Tutto pur di farti stare meglio», ridacchiò, scendendo le scale, afferrando le chiavi della sua macchina sul tavolo del salone.
«È la verità, Harry. Non ho niente da invidiare a quelle oche senza cervello che ti porti a letto tutte le sere. Ovviamente ne cambi una al giorno, come le mutande», sorrisi glaciale, vedendo i muscoli della sua schiena irrigidirsi.
«Tu non sai niente!», sbottò, diventando cupo in volto.
Poi, però, si rilassò velocemente, alzando solo un angolo della bocca per sorridere.
«Gelosa. Solo gelosa sei», ridisse, facendomi ribollire il sangue nelle vene.
«Smettila, idiota! Non sono gelosa!», urlai, seguendolo mentre si affrettava ad uscire di casa, balzando sulla sua macchina.
«Gelosa marcia. Gelosa, gelosa, gelosa», ripeté senza sosta, aprendo lo sportello dell'auto dal lato del guidatore, ma io lo richiusi velocemente, facendolo irrigidire per un attimo.
Adesso era lui spalle al muro, o qualunque cosa sia.
«Basta! Non sono gelosa!», ribadii ancora di più a me stessa,«Mi farei schifo sapendo di essere solo una aggiunta alla tua lista di Troie».
Vidi i suoi occhi diventare seri, mentre mi attirava a se per il polso, che fu scosso da una seconda e leggera scossa, ma lui sembrò sopportarlo.
«Allora vieni tu nel mio letto, così metterai fine alla lunga lista», sbottò innervosito, facendomi arrossire fino alla punta dei piedi. 
Non ebbi neanche il tempo di pensare a qualcosa di sensato da dire, troppo scioccata per la sua proposta. Faceva serio?
«Io...», soffiai sentendo le sue labbra così maledettamente vicine.
Fece sfiorare i nostri nasi, prima di salire bruscamente in macchina, mettendo in moto.
«Era una presa in giro, lo sai no?», disse con voce rude, facendomi scuotere subito.
Era e sarebbe rimasto sempre il solito stronzo nato per farmi soffrire. Che poi non mi aspettavo che fosse vero, eh? Certo che no! E comunque non sarei mai andata a letto con lui, neanche fra miliardi di anni, neanche se fosse stato l'ultimo uomo sulla faccia della terra, neanche...
«Non ti scoperei neanche se mi pagassero», continuò sprezzante, sfrecciando poi subito via, senza avermi neanche guardata in faccia.
E io sapevo, nonostante continuassi a negarlo, che qualcosa si stava rompendo dentro di me.
*Inizio Flashback*
«Non sei affatto carino, sai?», dissi acida, sistemando il lungo vestito rosa da principessa sui miei fianchi grassocci.
Lui rise, affondando la testa nel mio cuscino. Odiavo passare i pomeriggi del sabato con lui, ma la mia mamma e la sua erano amiche, così lo facevo per Anne che era una persona dolcissima a differenza del figlio, che era un diavolo, il cattivo della favola.
«Ho deciso», dissi altezzosa, con la mia vocina chiara, facendogli alzare lo sguardo verso di me, che avevo afferrato una coroncina di plastica, che misi sui capelli ondulati e gonfi come sempre,«Giochiamo alla principessa e lo zombie cattivo, che sarai tu».
Lui si alzò, innervosito da quella mia affermazione, mettendosi di fronte a me in tutta la sua altezza. Avevo solo quattro anni ed ero bassissima in confronto a lui, che ne aveva compiuti da poco undici.
«Io non gioco più a queste stronzate. E poi, casomai, giochiamo al principe e la balena», sorrise glaciale, facendomi cadere delle lacrime lungo le guance.
Lo sorpassai in fretta e, dopo essermi strappata il vestitino da dosso, corsi in giardino, rannicchiandomi su me stessa, sull'amaca fra i due alberi alti.
Lo odiavo così tanto.
*Fine Flashback*

 

 

 

«Anche tu mi manchi tantissimo», dissi tristemente, continuando a vagare per la cucina, con il telefono stretto vicino l'orecchio nella mano destra ed una tazza fumante nella sinistra. 

I miei piccoli piedi nudi, producevano un rumore sordo che inondava l'intera stanza, mentre il pigiama bianco a pois rossi, consisteva in una camicia larga ed un pantalone così lungo che avevo dovuto arrotolare le estremità più di tre volte. Lo avevo trovato in uno dei vecchi cassetti della nonna in soffitta, dato che mi ero dimenticata il mio di lino nel cassetto del comò del mio lussuoso appartamento, che condividevo con Alan.

«Certo!», esclamai quando il mio ragazzo mi chiese se fossi ancora in linea con il programma della rivista per cui scrivevo.

Parlavamo per lo più dei nostri impegni, di quanto dovevamo impegnarci al massimo e dare il meglio per il nostro lavoro, che veniva prima di tutto. Lui aveva giusto due anni in più a me ed era un aspirante avvocato ventenne, con le carte in regola ed una famiglia ricchissima alle spalle, che gli forniva di tutto. Non l'avevo mai fatta incontrare a mia madre, per il semplice motivo che loro avrebbero parlato del vino, mentre lei si sarebbe cimentata con storie imbarazzanti della mia infanzia con Harry.

«D'accordo. Ti amo», tentennai, arrossendo leggermente, mentre mi mordicchiato l'indice della mano sinistra libera, dato che avevo poggiato sul tavolo la tazza a chiazze nere, che usavo quando avevo tre anni.

Era stato un regalo di Harry e mia madre aveva insistito affinché non la buttassi e la usassi la mattina, per iniziare bene la giornata.

Fissai il giardino fuori la finestra piccola della cucina, notando che il sole, che stava appena sorgendo, illuminava il prato curato e umido, a causa della rugiada mattutina. Piccole sfere colavano dagli alberi alti ai lati del sentiero in pietra che aveva costruito mio padre, quando io avevo otto anni, con Harry. Mi ritrovai a pensare che lui, il riccio dagli occhi verdi ed il carattere insopportabile, aveva sempre accompagnato tutti i miei giorni, da quelli perfetti a quelli tristi. Non avevo un ricordo dove non apparisse anche lui con i jeans scoloriti, strappati e le unghia piene di fango ed erba.

«Mi hai capito, Barbara?», mi chiese Alan, facendomi sgranare gli occhi, dato che mi ero persa metà della conversazione, troppo impegnata a pensare al mio acerrimo nemico.

Farfugliai qualcosa, pregando che non si fosse accorto della mia distrazione e, dopo una ventina minuti passati a parlare della nuova villa che aveva comprato la sorella a New York, attaccai, gettando il cellulare sul mobiletto del pane, pieno di fiori.

Adesso che lo notavo, tutta la cucina era piena zeppa di fiori, piantati in vasi di ceramica dipinti con splendidi paesaggi. Sicuramente opera di mia madre, che amava lavorare la ceramica.

Un forte tonfo alle mie spalle, mi fece sobbalzare, mentre mi giravo di scatto vero il salone, che comunicava con la cucina attraverso un arco, trovando Harry che aveva appena poggiato altri vasi sul tavolo all'angolo del salone ampio e luminoso, con le tre porte finestra che davano sulla veranda del giardino.

«Da quando entri senza il consenso dei padroni di casa?», sbuffai battendo un piede a terra e raccogliendo nuovamente la tazza di cioccolata calda dal tavolo, dirigendomi lentamente verso di lui, che continuava a fissare il mio pigiama.

«Non sapevo che la moda fosse così ridicola a Londra», disse torcendo il naso in un ghigno fastidioso. «Comunque tua madre mi ha dato le chiavi questa mattina prima di scendere. Doveva andare al mercato per prendere gli ultimi nastri per i fiori e io dovevo portare i vasi dentro», scrollò le spalle, pulendosi le mani sul jeans scuro, prima di poggiarsi con il bacino al tavolo dietro di lui ed incrociare le braccia muscolose davanti il petto.

«Nastri per... Cosa, scusa?», chiesi stupita, avvicinandomi notevolmente a lui, curiosa.

Avevo detto a mamma che alla fine avrei organizzato la festa prima del matrimonio, per farle conoscere la famiglia di Alan, ma non sapevo che stesse facendo le cose in grande, come sempre.

«I fiori che vedi, li abbiamo comprati qualche settimana fa io e tua madre. Vogliamo metterli per tutta la casa per il grande evento», disse, sbuffando pesantemente sulle ultime due parole,«Fuori ce ne sono ancora una quarantina, se non di più. Sono arrivati tutti questa mattina».

Osservai i fiori dietro le sue spalle: nontiscordardimé di un vivace colore azzurro, con il polline giallo acceso.

«I vasi li ha fatti lei e poi li abbiamo portati dal fioraio per fargli mettere i fiori dentro: nontiscordardimé, i tuoi preferiti, nanetta», mi fece l'occhiolino, mettendomi un vaso fra le mani.

L'odore di quei fiori mi invase i sensi, facendomi sentire finalmente a casa.

«Mi mancavano», sorrisi fra i petali, alzando gli occhi verso di lui, che scuoteva leggermente il capo, facendo oscillare la catenina al suo collo.

 Aveva un vago aspetto familiare, ma non riuscivo proprio a ricordare dove l'avessi vista.

«Che c'è? Ti sembro stupida come al solito?», chiesi imbronciata, mettendo le mani suo fianchi quando afferrò il vaso fra le sue grandi mani.

«No, affatto. Mi ricordi tanto la sorellastra di Cenerentola, Anastasia», rise di gusto, facendomi roteare gli occhi al cielo infastidita.

«Divertente», borbottai, pronta a salire in camera mia e non vedere più la sua faccia da stronzo, ma fui bloccata dalla sua mano che, velocemente, si chiuse intorno il mio polso, facendomi prendere la scossa.

Ritirammo insieme i nostri arti verso il petto, emanando un piccolo urlo di dolore.

«Hai messo le mani nella corrente, deficiente?», chiesi fra i denti, massaggiandomi il polso, mentre lui mi faceva la linguaccia.

«Vieni con me, avanti», disse ignorandomi, indicandomi con un cenno del capo la porta d'ingresso, che dava sulla piccola e stretta strada del paese, dove si trovava parcheggiato un enorme camion pieno di fiori.

«Che? È il tuo lavoro, non il mio», sputai acida, alzando il mento all'insù, soddisfatta, ma lui inarcò un sopracciglio, come uno che ne sapeva più del diavolo.

«Ma è il tuo matrimonio, non il mio», ribadì, facendomi rimanere senza parole.

«E va bene, hai vinto», sbottai, afferrando delle ciabatte all'ingresso, infilandomele velocemente, prima di uscire in strada ancora in pigiama, seguita da lui che giocava con la catenina al collo.

«Come sempre, piccola Barbie», rise, mentre si avvicinava ad un uomo sulla cinquantina, che ci scaricò fra le braccia altri vasi.

 

La prima volta che mi chiamò Barbie fu a dodici anni, quando il paese organizzò in piazza la festa di carnevale, a cui volevo partecipare da più di due anni. Mia madre aveva acconsentito solo se Harry ci fosse venuto. Avevo dovuto fargli da serva per sette mesi per farmi accompagnare, umiliandomi continuamente.

Comunque, quella sera era arrivata, ed io ero super elettrizzata all'idea di incontrare un ragazzo di scuola, Charlie, per cui avevo una cotta dalla prima media. Avevo messo i miei vestiti migliori e mi ero persino fatta i capelli lisci.

«Avanti muoviti, Barbara, Harry ti sta aspettando», disse mia madre, chiamandomi dal piano di sotto.

Corsi verso il salotto, inciampando quasi nei miei stessi piedi, trovando un Harry in camicia e pantaloni stretti per la prima volta. Aveva diciannove anni e già tutta Holmes Chapel, almeno il mondo femminile, gli sbavava dietro. Peccato che non sapessero del suo dannato caratteraccio.

«Come sto?», chiesi girando su me stessa, davanti mio padre che batté le mani, soddisfatto.

«Sembri una Barbie», sussurrò Harry, arrossendo quando capì che avevo sentito il suo commento.

Indossavo un vestitino a fiori rossi, su uno sfondo nero, che mi arrivava fin sopra le ginocchia, scoprendo le mie gambe pallide.

Quella sera Charlie si avvicinò, mi fece la corte, ma Harry si comportò più bastardamente del solito, urtandomi a posta e facendo così rovesciare il mio bicchiere di succo di mirtilli sul vestito, facendo ridere tutti, persino Charlie, che il giorno dopo a scuola mi prese in giro fino alla noia.

 


«Come butta Harry?», chiese l'uomo di nome Luca, mentre il riccio contava i soldi da dargli con le lunghe dita leggermente abbronzate e dalle unghie curate.

«Butta avanti, Lu», sorrise Harry, porgendogli le banconote, poggiandosi con un gomito al furgoncino di un blu arrugginito.

Io, intanto, lo fissavo con le mani sporche ancora di terreno, cosa che odiavo altamente, ma non potevo fare la maleducata, entrandomene in casa e lasciandoli lì fuori.

«Il solito, eh ragazzo? Chi è questa bella signorina? Non pensavo avessi messo la testa a posto!», rise dando una forte pacca sulla spalla ad Harry, che sgranò gli occhi, fissandomi subito,«La fidanzatina?».

Mi irrigidii prontamente, stringendo in un pugno la camicia del pigiama, facendomi diventare le nocche bianche.

«No!», mi affrettai a precisare, rivolgendomi più a me stessa che a lui,«Io sono solo... La padrona di casa», aggiunsi imbarazzata, evitando di tendergli la mano per non sporcarmi ancora di più.

«Giusto, la ragazzina che partì per Londra?», mi chiese, continuando quando ebbe un cenno di assenso da parte mia,«Harry mi parlava spesso di te. Tutti i pomeriggi di settembre quando mi aiutava al negozio. Diceva che-».

«Bene Luca!», esclamò nervoso Harry, alzando la voce, mentre io lo fissavo con un enorme sorriso vittorioso stampato sul volto,«Ci vediamo lunedì, okay?».

Lo spinse a forza nel camioncino, impedendoci quasi di salutarci e, quando se ne fu andato, si grattò la nuca imbarazzato.

«Poi ero io quella che sentiva la tua mancanza», dissi acida, facendolo vergognare ancora di più,«Fammi il piacere Harold!».

Mi incamminai velocemente in casa, ridendo del suo essere così infantile. Ma la verità era che adoravo il fatto che avesse parlato di me per tutto l'inverno.

«Si è sbagliato. Parlavo di tua madre, non di te, io ti odio», disse con la voce che si affievolì a sempre di più. 

«Certo, come no!», ridacchia, pronta a salire e cambiarmi. Dovevo andare in città per...

«Aspetta un attimo», mi bloccai a metà scalinata, facendo dietro front e fissandolo con un enorme cipiglio sul volto. «Che voleva dire Luca con messo la testa a posto?», chiesi nervosamente, battendo un piede a terra e tamburellando le dita della mano sulla ringhiera di legno.

«Gelosa?», disse lui, avvicinandosi nuovamente a me, muovendo leggermente le braccia lungo i fianchi dalla linea a V ben visibile sotto la maglia chiara.

«Cosa?! Ma ti pare!», dissi isterica, indietreggiando e mettendo una mano fra di noi quando lo sentii troppo su di me,«Non mi interessa affatto la tua vita sessuale».

Arrossii sull'ultima parola, mentre il suo sorriso si allargava sempre più. «Certo, come no», mi imitò, «Allora perché lo domandi?», rise, mettendo le mani sulla ringhiera dietro di me, bloccandomi fra quella e il suo corpo caldo.

«Io l'ho detto perché.... Sai che intendevo che quando... Nel momento della verità saprai che io.... Come quando», dissi velocemente, gesticolando ampiamente, mentre lui inclinava la testa di lato, avvicinandosi a me ancor di più.

Il suo odore di erba bagnata e noce moscata mi invase i sensi, facendomi rabbrividire per un secondo, mente il cuore martellava nel petto alla velocità della luce. Avvicinò le sue labbra al mio orecchio, facendomi solletico alla guancia, di un rosso porpora, con i ricci morbidi che sembravano spirali senza fine.

«Lo hai chiesto perché sei gelosa marcia», sussurrò, facendomi scorrere più velocemente il sangue nelle vene.

Rimasi stordita per un po', pensando alle sue labbra piene che mi sfioravano la pelle dell'orecchio, o al suo fiato caldo, prima di spingerlo con tutte le mie forze, ritornando in me stessa.

Odio, ecco cosa provavo per lui. Un grande, immenso e profondo odio.

«Ma cosa...? Non è affatto vero. Non sei il centro del mondo!», sbottai, picchiando l'indice sul suo petto, facendolo annuire falsamente.

«Si, si. Tutto pur di farti stare meglio», ridacchiò, scendendo le scale, afferrando le chiavi della sua macchina sul tavolo del salone.

«È la verità, Harry. Non ho niente da invidiare a quelle oche senza cervello che ti porti a letto tutte le sere. Ovviamente ne cambi una al giorno, come le mutande», sorrisi glaciale, vedendo i muscoli della sua schiena irrigidirsi.

«Tu non sai niente!», sbottò, diventando cupo in volto.

Poi, però, si rilassò velocemente, alzando solo un angolo della bocca per sorridere. «Gelosa. Solo gelosa sei», ridisse, facendomi ribollire il sangue nelle vene.

«Smettila, idiota! Non sono gelosa!», urlai, seguendolo mentre si affrettava ad uscire di casa, balzando sulla sua macchina.

«Gelosa marcia. Gelosa, gelosa, gelosa», ripeté senza sosta, aprendo lo sportello dell'auto dal lato del guidatore, ma io lo richiusi velocemente, facendolo irrigidire per un attimo. Adesso era lui spalle al muro, o qualunque cosa sia.

«Basta! Non sono gelosa!», ribadii ancora di più a me stessa,«Mi farei schifo sapendo di essere solo una aggiunta alla tua lista di Troie».

Vidi i suoi occhi diventare seri, mentre mi attirava a se per il polso, che fu scosso da una seconda e leggera scossa, ma lui sembrò sopportarlo.

«Allora vieni tu nel mio letto, così metterai fine alla lunga lista», sbottò innervosito, facendomi arrossire fino alla punta dei piedi. 

Non ebbi neanche il tempo di pensare a qualcosa di sensato da dire, troppo scioccata per la sua proposta. Faceva serio?

«Io...», soffiai sentendo le sue labbra così maledettamente vicine.

Fece sfiorare i nostri nasi, prima di salire bruscamente in macchina, mettendo in moto.

«Era una presa in giro, lo sai no?», disse con voce rude, facendomi scuotere subito.Era e sarebbe rimasto sempre il solito stronzo nato per farmi soffrire.

Che poi non mi aspettavo che fosse vero, eh? Certo che no! E comunque non sarei mai andata a letto con lui, neanche fra miliardi di anni, neanche se fosse stato l'ultimo uomo sulla faccia della terra, neanche...

«Non ti scoperei neanche se mi pagassero», continuò sprezzante, sfrecciando poi subito via, senza avermi neanche guardata in faccia.

E io sapevo, nonostante continuassi a negarlo, che qualcosa si stava rompendo dentro di me.


*Inizio Flashback*

«Non sei affatto carino, sai?», dissi acida, sistemando il lungo vestito rosa da principessa sui miei fianchi grassocci.

Lui rise, affondando la testa nel mio cuscino. Odiavo passare i pomeriggi del sabato con lui, ma la mia mamma e la sua erano amiche, così lo facevo per Anne che era una persona dolcissima a differenza del figlio, che era un diavolo, il cattivo della favola.

«Ho deciso», dissi altezzosa, con la mia vocina chiara, facendogli alzare lo sguardo verso di me, che avevo afferrato una coroncina di plastica, che misi sui capelli ondulati e gonfi come sempre,«Giochiamo alla principessa e lo zombie cattivo, che sarai tu».

Lui si alzò, innervosito da quella mia affermazione, mettendosi di fronte a me in tutta la sua altezza. Avevo solo quattro anni ed ero bassissima in confronto a lui, che ne aveva compiuti da poco undici.

«Io non gioco più a queste stronzate. E poi, casomai, giochiamo al principe e la balena», sorrise glaciale, facendomi cadere delle lacrime lungo le guance.

Lo sorpassai in fretta e, dopo essermi strappata il vestitino da dosso, corsi in giardino, rannicchiandomi su me stessa, sull'amaca fra i due alberi alti.

Lo odiavo così tanto.

*Fine Flashback*

 

 

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Capitolo 3
*** Due vite, un solo odio~ ***


 

«Barbara! Barbara!», urlò mia madre dal piano inferiore, facendomi sobbalzare sulla sedia dietro la scrivania della mia stanza.
Chiusi con uno scatto il computer su cui stavo lavorando, saltellando velocemente in salotto, dove la vidi indaffarata ad incartare una torta alta e bianca come la neve, chiudendo la carta trasparente con un grosso fiocco rosso.
«Hey», mi sorrise, pulendosi le mani appiccicose sul grembiule giallo che portava in vita,«Potresti farmi un favore?».
Annuii distrattamente, seguendola in cucina, dove giacevano altre due torte, una alla fragola e l'altra alle mele, stipate entrambi in due vassoi di plastica verdi.
«Devo finire di fare gli orli della camicia al signor Jack. Sono due settimane che me lo chiede. Potresti portare queste torte ad Anne, per favore?», continuò, mettendomi la scatola con tutte le torte fra le mani, facendomi spalancare la bocca.
«A-Anne? La ma-mamma di Harry? Harry Sty-Styles?», balbettai, stringendo con forza il cartone fra le dita, che divennero ancora più bianche di quanto non fossero già.
Dopo quella piccola lite fuori casa mia, avvenuta dopo lo scarico dei fiori in casa, io ed Harry non ci eravamo più visti e, ogni volta che lui era in giardino per mettere in ordine, io lo evitavo accuratamente. Così, avevo passato i due giorni più belli della mia vita da quando ero tornata ad Holmes Chapel.
«Si, tesoro, Anne», disse stupita mia madre, scuotendo leggermente il capo,«Lo smog in città deve averti dato alla testa», terminò, dandomi un leggero buffetto sul naso, che arricciai infastidita.
La mia testa era sanissima, era Harry che mi irritava più di una spina nel fianco!
«Non è il caso, mamma.... Perché non le dai ad Harry domani mattina quando viene per il giardino?», proporsi, sorridendo innocentemente, ma lei mi fulminò subito con i suoi grandi occhi azzurri.
«Barbara, Harry non è il tuo servo. Già sta lavorando duramente per il giardino, che servirà a te per la tua festa», ci tenne a puntualizzare, «Porta quelle torte ad Anne e non fare storie. Vedi di non fare tardi che inizia a fare buio», mi avvisò, come se avessi tre anni.
Sbuffai, afferrando il leggero giubbino di jeans a fiori dall'appendiabiti, infilandomelo sopra il vestitino a fiori rossi, con lo sfondo nero, che indossavo quella sera. 
«Guarda che nessuno glielo ha chiesto di farlo», aggiunsi, riferendomi ad Harry, prima di uscire velocemente di casa, sbattendo la porta dietro di me.
Ero fumante di rabbia. Non volevo proprio rovinarmi la serata vedendo la faccia arrogante del riccio, che sicuramente avrebbe detto alla mamma quanto fossi diventata noiosa e tante altre stronzate sul mio conto.
Balzai sulla mia bicicletta rossa, sistemando la scatola con le torte nel cestino davanti il manubrio, prima di prendere a pedalare verso l'altra parte del paese. Per fortuna io e lui abitavamo lontani, e questo era solo una cosa a mio favore. Infatti d'inverno, quando pioveva (ossia sempre!), non ero obbligata ad andare da lui a giocare, anche se alla fine finivano sempre con insultarci pesantemente.
Lui diceva a me che ero una perfettina senza sentimenti, io lo chiamavo ignorante senza cervello.
Mi domandai d'un tratto se avesse continuato a studiare. Da ragazzo era davvero bravo nelle materie scientifiche, ma non avevamo mai parlato dei nostri progetti.
La casa di Harry era piccola, gialla e circondata da un vialetto di mattoni grigi, che lui aveva addobbato con migliaia di piante e fiori, che si arrampicavano lungo il cancellato che circondava l'abitazione a due piani.
Scesi lentamente dalla bicicletta, sistemando il vestito che mi arrivava sopra le ginocchia, scoprendo così le gambe pallide. Non amavo il sole, ne il mare, a differenza sua che viveva di acqua e calore.
Misi la scatola sotto un braccio e, goffamente, bussai alla porta in legno, a forma di un grande arco romano. Sopra, a lettere grandi e colorate, c'era scritto Harry Styles.
Accanto, precisamente alla destra della porta, c'era una cassetta bianca delle lettere, dove sbucavano un centinaio di fogli di pubblicità, lasciati lì al sole ad essiccare.
Il leggero vento della sera, mi scompigliò i capelli raccolti in una coda alta e disordinata, che sfiorava le spalle ritte.
«Barbara?», chiese perplessa Anne, quando aprì di scatto la porta.
Era una donna bassa, dai fianchi rotondi e la pelle scura. I capelli lisci, incorniciavano il volto così simile a quello di Harry, da grandi occhi verde smeraldo, più chiari di quelli del figlio.
«Oh mio dio, sei tu!», sorrise, saltandomi con le braccia al collo, stringendomi a se.
Anne era come una zia per me, quindi mi era mancata un casino. Quando ero piccola, mi proteggeva sempre ed una volta, siccome Harry mi aveva rotto un frontino a fiori, mi attaccò sui capelli un fiore vero con una mollettina, dicendo che sembravo davvero una principessa, di quelle delle favole.
«Mi sei mancata tantissimo! E guardati. Sei diventata una signoria bellissima. Non ci credo, pensavo che ti avrei rivisto solo tra una decina di anni, con le rughe sotto i miei occhi. Entra».
Posai la giacca sull'appendiabiti, notando che lì dentro non era cambiato niente. Le pareti erano sempre di un rosa chiaro, mentre i mobili in legno era rimasti nella stessa posizione di quando ero piccola. Avevo passato tantissimo tempo lì dentro.
«Harry mi ha detto che ti sposi. Deve essere davvero un ragazzo fortunato», mi sorrise incoraggiante, mentre io schiusi leggermente la bocca, sorpresa che Harry mi avesse anche solo menzionata. «Grazie», aggiunse prendendo le torte che le porgevo.
«Harry, hai detto?», chiesi solo per essere sicura di aver capito bene, ricevendo da lei un cenno d'assenso.
«Sai, durante questi due anni, non ha fatto altro che parlare di te, facendomi davvero credere che tua madre avesse ragione quando diceva che non eravate nemici», ridacchiò, infilando le torte nel forno.
Non era la prima persona che me lo diceva. Anche Luca, il fioraio, aveva accennato ad una cosa simile prima che Harry lo interrompesse bruscamente.
«Mamma, mamma! Dove diavolo hai messo il mio libro! Ti avevo chiesto per favore di non toccarlo!», urlò una voce roca, mentre dei passi pesanti si avvicinavano alla cucina.
«Perché devi sempre toccare le mie», Harry si bloccò, rimanendo con una mano tesa a mezz'aria e la bocca spalancata, vedendomi in piedi davanti a lui, con le braccia incrociate sotto il seno.
«Ciao», borbottai, fissandolo con un sopracciglio inarcato.
Indossava un asciugamano sulla vita ed aveva tutti i capelli bagnati, che gocciolavano sul petto scoperto. Era davvero bello. Sicuramente non era più il bambino di dieci anni che mi prendeva in giro, o mi spingeva nel fango.
«Barbara», disse sorpreso, fissando in po' troppo le mie gambe scoperte dalla gonna del vestito,«Cioè io.... Perché sei qui a rompere?», chiese bruscamente, riprendendosi.
«Harry!», lo sgridò la madre, prima di iniziare a ridere, facendogli aggrottare le sopracciglia, confuso.
«Che c'è?».
«Tesoro, copriti! Sei davanti una signorina», ululò fra le risate la madre, facendo scoppiare anche me, che lo feci solo per dispetto. La verità? Mi stavo sciogliendo davanti la linea a V che si inoltrava fin sotto l'asciugamano bianco, che cadeva morbidamente lungo i suoi fianchi.
Harry sembrò accorgersi solo in quel momento di essere mezzo nudo, arrossendo così fino alla punta dei piedi grandi, con due tatuaggi sulle caviglie larghe.
«Merda!», imprecò, correndo velocemente sopra, inciampando sugli scalini, facendomi ridacchiare di cuore. Era così impacciato.
«Vado di sopra a prenderlo un po' in giro», sorrisi ad Anne, prima di corrergli dietro solo che, mentre lui si chiuse velocemente in bagno, io entrai nella sua stanza.
Lì, il tempo sembrava essersi fermato. 
Le pareti azzurre erano ancora tappezzate dai poster dei Beatles e, le mille foto di lui con i suoi amici, erano attaccate con delle puntine sopra la testata del letto.
Il dipinto che fece sul soffitto,che consisteva in un celo stellato, era rimasto intatto, mentre la scrivania era piena di libri e carte varie. Accanto un grande armadio in legno, con sopra attaccati dei calendari scolastici.
Sul comodino accanto al letto  ordinato come sempre con ancora i vecchi pupazzi sopra, c'era un comodino, dove c'era poggiata sopra una lampada dal cappuccio di tela blu e bianco. Accanto in una cornice di legno, infine, c'era una mia foto.
Sgranai gli occhi, afferrandola fra le mani. Era la foto del diploma che avevo mandato a mia madre da Londra l'anno scorso. Era orrenda, eppure lui la teneva lì.
La lasciai cadere velocemente sul comodino, quando sentii la porta chiudersi dietro di me.
«La solita ficcanaso rompiscatole. A cosa devo la tua magnifica visita?», disse Harry, facendomi voltare di scatto verso di lui.
Aveva i capelli asciutti e più gonfi e ricci del solito, tenuti lontano dalla fronte con una bandana blu e rossa, che aveva avvolto distrattamente attorno la testa.
Indossava un grande e vecchio pantalone grigio di un pigiama, mentre una canotta celeste, anch'essa di almeno una taglia più grande, gli fasciava il petto, mostrando la collana di metallo. Era infilata in parte nei pantalone, lasciando solo un orlo fuori.
«È uguale a quando eravamo piccoli», sorrisi debolmente, indicando con un gesto della mano la stanza, illuminata dal lampadario di spider-man che pendeva dal soffitto.
«Già», borbottò lui, andando vicino la scrivania, frugando con le mani nella marea di fogli e libri che la ingombravano.
«Stavi studiando?», chiesi curiosa, vedendolo alzare confuso la testa verso di me.
Forse voleva rispondermi male, ma vidi la stanchezza nei suoi occhi, così sospirò pesantemente, passandosi una mano sulla nuca fresca di doccia. Eppure, nonostante si fosse appena lavato  l'odore di erba bagnata e noce moscata era sempre presente sulla sua pelle abbronzata, così forte da invadere l'intera stanza.
«Una cosa del genere», si limitò a dire, facendomi capire che non voleva parlarne sicuramente con me.
Si appoggiò all'armadio, fissandomi con le braccia incrociate davanti al petto, come ad aspettare che me ne andassi  ma io non volevo farlo. Sarei voluta rimanere lì per sempre, con lui, con il suo profumo.
«Volevo ringraziarti per il giardino», buttai incerta, strofinando le mani fra di loro, arrossendo come un pomodoro.
«Fantastico. Beh, prego», borbottò imbarazzato, giocando con i lacci del pantalone che pendevano dagli orli.
«Già... Fantastico. Allora io», gesticolai, indicando la porta con una mano e tirandomi la maglia con l'altra, «Forse è meglio se vado».
«Forse?», chiese lui spaesato, alzando le sopracciglia, mentre iniziava a battere ritmicamente il piede a terra,«Vuoi dire che se potessi, rimarresti?», sorrise giocoso, facendo formare le fossette ai lati della bocca umida.
Mi venne voglia di stringerlo a me, accarezzargli i capelli troppo gonfi e ricci, posargli un bacio sulla guancia, ma...
«Sembrerebbe strano... No? Insomma, noi che resistiamo in una stanza per più di cinque minuti senza ammazzarci.... Strano», scrollai le spalle, poggiandomi al muro difronte a lui, che scuoteva leggermente la testa.
«Stranissimo. Concordo a pieno con te. Cosa strana, dato che il più delle volte spari solo idiozie. Ma tralasciamo», mi fece la linguaccia, facendomi innervosire leggermente, ma era come se non riuscissi ad andare su tutte le furie.
Cercai un modo poco carino per rispondergli, ma tutto quello che uscì dalle mie labbra, fu un sospiro divertito.
«Cosa studiavi, quindi?», domandai più spavalda, avvicinandomi alla scrivania su cui era poggiato, cercando di afferrare uno di quei mille fogli, ma lui mi afferrò dolcemente il polso, portandomelo dietro la schiena e scuotendo la testa in segno di negazione.
«Oh, avanti Harry! Non stai mica progettando di far esplodere la banca?», ironizzai, facendolo ridacchiare.
«Ti ricordi quando dicesti che volevi farmi saltare in aria, mettendomi le bottiglie di Coca-Cola e Mentos nelle mutande?», rise forte questa volta, facendomi arrossire.
Ero così stupida? Eppure mi piaceva che trovava divertente una cosa così malvagia, anche perché io lo pensavo sul serio. Provai anche a farlo, ma finii solo per far scoppiare le bottiglie nella mia stanza, ricevendo cinque giorni di castigo da mia madre. Mio padre, invece, rise con me e, tutte le sere, per cinque sere, si chiudeva in camera con me a mangiare biscotti.
«Dio, che imbarazzo!», mormorai, coprendomi la faccia rossa con le mani,«Viaggiavo troppo con la fantasia, mi sa».
«Medicina», disse lui di punto in bianco, lasciandomi il polso e prendendo un quaderno spesso e rosso da sotto una pila di fogli.
Sul davanti c'era stampato una grossa scritta del campo medico e accanto ad ogni pagina c'erano dei post it colorati  con dei titoli sopra scritti da lui.
«Oh dio! Harry ma è fantastico!», esclamai sorpresa, afferrando quel quaderno e sfiorandolo interessata.
Non ci capivo niente, però era bello vedere che aveva continuato a studiare senza lasciarsi trasportare da stronzate come alcool e sesso. La sua scrittura abbelliva tutte le pagine bianche ed era così ordinato da sottolineare con l'evidenziatore i titoli di ogni tema che svolgeva.
C'erano interi fogli protocollo inserito dentro, pieni di appunti. Qualche volta saltavano fuori anche fotocopie piene di termini strani ed impronunziabili.
«E da quanto tempo la frequenti?», domandai curiosa, restituendogli il quaderno solo per afferrare un altro foglio.
Schiusi le labbra. Era una domanda per l'università di Londra che avrebbe dovuto spedire.
«Lascia perdere», disse imbronciato, strappandomi il foglio di mano con forza, gettandolo in un cassetto sotto la scrivania,«Tanto non so se voglio andarci... Non avrebbe più senso», sussurrò.
«Harry, ma che dici? Londra è bellissima, davvero! Poi potresti seguire corsi di studio molto migliori ed avanzati di quelli di Holmes Chapel. Qui è tutto così mediocre», dissi storcendo il naso.
Lo vidi battere la mano grande sulla scrivania, facendomi sobbalzare leggermente più lontana da lui. I suoi occhi verdi diventarono di ghiaccio e serrò le labbra in una linea dura.
«Tu hai sempre visto questo posto come la merda di tutte le merde, vero?! Sai è qui che sei nata e cresciuta però! Smettila di fare la nordista del cazzo! Cosa ti ha fatto questo paese?!», sbraitò, appallottolando un foglio nella mano grande.
«Scusa io... Non volevo offenderti», dissi acida, dandogli un buffetto sul petto,«Vedi di fare poco lo stronzo con me, perché sei solo uno stupido», digrignai i denti, dicendo con tono pungente ogni singola parola.
Lui serrò forte i pugni lungo i fianchi scolpiti, camminando verso di me e, ad ogni passo che faceva avanti io ne facevo uno indietro.
«Infatti! Hai ragione tu!», mi urlò completamente in faccia, facendomi serrare gli occhi. 
Mi trovai fuori dalla sua stanza, con lui che reggeva l'orlo della porta, pronto a sbattermela in faccia.
Strinse forte la maniglia, quasi a spezzarla.
«Sono solo uno stupido che credeva di cambiare le cose! Sono solo uno stupido che credeva che aspettare avrebbe migliorato tutto. Così stupido che ho passato due fottuti anni in completa solitudine, cercando di dimenticare! Stupido! Fanculo Barbara!», ringhiò, chiudendo con un tonfo la porta.
«Ti rendi conto che sei solo infantile?!», urlai a mia volta, battendo una mano sul legno, aprendo poi nuovamente la porta, vedendolo sobbalzare da sopra il letto. Era nero di rabbia.
Mi chiusi a chiave la porta alle spalle, infilandola nella tasca del vestitino a fiori. «Di cosa stai parlando? Non ho capito niente del tuo monologo del cazzo! Sei solo frustrato! Un dannato frustrato che non sa cosa farsene della sua frustrata vita e se la prende con me! Sarò anche una nordista del cazzo, ma almeno ho il coraggio di lottare per i miei sogni!».
«I tuoi... Sogni?», chiese indignato, calciando la sedia con forza. «I tuoi sogni?! Tu scappi! Scappi dalla realtà, altrimenti non ti sposeresti a soli diciotto fottuti anni! Hai appena messo la testa fuori dal sacco e già ti vuoi sposare?! Io non lotto per i miei sogni perché ruotano tutti intorno una ragazzina infantile, che scappa!».
Le braccia mi caddero inermi lungo i fianchi. Che stai dicendo Harry? Perché adesso?
«Sei scappata quando tuo padre è morto e stai per scappare adesso», disse appena mi vide correre verso la porta per aprila.
Mi bloccai, stringendo la chiave nella tasca.
«Io lo amo Harry. Voglio che te lo metta nella tua testa bacata, ostruita dai ricci. Io lo amo più della mia stessa vita», dissi a denti stretti, sentendolo sospirare pesantemente
«Allora va da lui e smettila di tormentarmi, okay? Perché è insopportabile», replicò, avvicinandosi a me.
Il suo petto aderiva alla mia schiena e aveva poggiato entrambe le mani ai lati della porta, facendomi sentire il suo fiato caldo quando abbassò il viso verso il mio collo.
Il mio cuore prese a battere velocemente e avevo le guance in fiamme tanto che lo sentivo vicino. Il suo profumo era così forte sentito da quella distanza.
«Vai Barbie. Fallo. Esci da questa porta e corri a chiamare il tuo futuro marito. Fallo... Solo se lo desideri», sussurrò nel mio orecchio, facendomi rabbrividire e contorcere lo stomaco piacevolmente.
Lo desideravo? Certo. Forse. No. Si! 
Infilai velocemente la chiave nella serratura, girandola quante volte bastava per far scattare la serratura. Misi la mano sulla maniglia, prima di girare la testa verso di lui. I nostri visi erano a pochi centimetri di distanza.
«Io ti odio Harry e anche tu», dissi e, prima che lui potesse dire una qualsiasi parola che mi avrebbe scombussolato la vita, poggiando le dita sulle sue labbra schiuse, continuai,«E voglio che le cose restino così. Okay? A me vanno bene. Non cambiarle, ti prego».
Aprii velocemente la porta e corsi di sotto, afferrando la mia giacca.
Salutai velocemente Anne, prima di saltare sulla mia bicicletta e correre verso casa.
Cosa stai facendo Harry?  

 

«Barbara! Barbara!», urlò mia madre dal piano inferiore, facendomi sobbalzare sulla sedia dietro la scrivania della mia stanza.

Chiusi con uno scatto il computer su cui stavo lavorando, saltellando velocemente in salotto, dove la vidi indaffarata ad incartare una torta alta e bianca come la neve, chiudendo la carta trasparente con un grosso fiocco rosso.

«Hey», mi sorrise, pulendosi le mani appiccicose sul grembiule giallo che portava in vita,«Potresti farmi un favore?».

Annuii distrattamente, seguendola in cucina, dove giacevano altre due torte, una alla fragola e l'altra alle mele, stipate entrambi in due vassoi di plastica verdi.

«Devo finire di fare gli orli della camicia al signor Jack. Sono due settimane che me lo chiede. Potresti portare queste torte ad Anne, per favore?», continuò, mettendomi la scatola con tutte le torte fra le mani, facendomi spalancare la bocca.

«A-Anne? La ma-mamma di Harry? Harry Sty-Styles?», balbettai, stringendo con forza il cartone fra le dita, che divennero ancora più bianche di quanto non fossero già.

Dopo quella piccola lite fuori casa mia, avvenuta dopo lo scarico dei fiori in casa, io ed Harry non ci eravamo più visti e, ogni volta che lui era in giardino per mettere in ordine, io lo evitavo accuratamente. Così, avevo passato i due giorni più belli della mia vita da quando ero tornata ad Holmes Chapel.

«Si, tesoro, Anne», disse stupita mia madre, scuotendo leggermente il capo,«Lo smog in città deve averti dato alla testa», terminò, dandomi un leggero buffetto sul naso, che arricciai infastidita.

La mia testa era sanissima, era Harry che mi irritava più di una spina nel fianco!

«Non è il caso, mamma.... Perché non le dai ad Harry domani mattina quando viene per il giardino?», proporsi, sorridendo innocentemente, ma lei mi fulminò subito con i suoi grandi occhi azzurri.

«Barbara, Harry non è il tuo servo. Già sta lavorando duramente per il giardino, che servirà a te per la tua festa», ci tenne a puntualizzare, «Porta quelle torte ad Anne e non fare storie. Vedi di non fare tardi che inizia a fare buio», mi avvisò, come se avessi tre anni.

Sbuffai, afferrando il leggero giubbino di jeans a fiori dall'appendiabiti, infilandomelo sopra il vestitino a fiori rossi, con lo sfondo nero, che indossavo quella sera.

 «Guarda che nessuno glielo ha chiesto di farlo», aggiunsi, riferendomi ad Harry, prima di uscire velocemente di casa, sbattendo la porta dietro di me.

Ero fumante di rabbia. Non volevo proprio rovinarmi la serata vedendo la faccia arrogante del riccio, che sicuramente avrebbe detto alla mamma quanto fossi diventata noiosa e tante altre stronzate sul mio conto.

Balzai sulla mia bicicletta rossa, sistemando la scatola con le torte nel cestino davanti il manubrio, prima di prendere a pedalare verso l'altra parte del paese. Per fortuna io e lui abitavamo lontani, e questo era solo una cosa a mio favore. Infatti d'inverno, quando pioveva (ossia sempre!), non ero obbligata ad andare da lui a giocare, anche se alla fine finivano sempre con insultarci pesantemente.Lui diceva a me che ero una perfettina senza sentimenti, io lo chiamavo ignorante senza cervello.Mi domandai d'un tratto se avesse continuato a studiare. Da ragazzo era davvero bravo nelle materie scientifiche, ma non avevamo mai parlato dei nostri progetti.

La casa di Harry era piccola, gialla e circondata da un vialetto di mattoni grigi, che lui aveva addobbato con migliaia di piante e fiori, che si arrampicavano lungo il cancellato che circondava l'abitazione a due piani.

Scesi lentamente dalla bicicletta, sistemando il vestito che mi arrivava sopra le ginocchia, scoprendo così le gambe pallide. Non amavo il sole, ne il mare, a differenza sua che viveva di acqua e calore.Misi la scatola sotto un braccio e, goffamente, bussai alla porta in legno, a forma di un grande arco romano. Sopra, a lettere grandi e colorate, c'era scritto Harry Styles.

Accanto, precisamente alla destra della porta, c'era una cassetta bianca delle lettere, dove sbucavano un centinaio di fogli di pubblicità, lasciati lì al sole ad essiccare. Il leggero vento della sera, mi scompigliò i capelli raccolti in una coda alta e disordinata, che sfiorava le spalle ritte.

«Barbara?», chiese perplessa Anne, quando aprì di scatto la porta.

Era una donna bassa, dai fianchi rotondi e la pelle scura. I capelli lisci, incorniciavano il volto così simile a quello di Harry, da grandi occhi verde smeraldo, più chiari di quelli del figlio.

«Oh mio dio, sei tu!», sorrise, saltandomi con le braccia al collo, stringendomi a se.

Anne era come una zia per me, quindi mi era mancata un casino. Quando ero piccola, mi proteggeva sempre ed una volta, siccome Harry mi aveva rotto un frontino a fiori, mi attaccò sui capelli un fiore vero con una mollettina, dicendo che sembravo davvero una principessa, di quelle delle favole.

«Mi sei mancata tantissimo! E guardati. Sei diventata una signoria bellissima. Non ci credo, pensavo che ti avrei rivisto solo tra una decina di anni, con le rughe sotto i miei occhi. Entra».

Posai la giacca sull'appendiabiti, notando che lì dentro non era cambiato niente. Le pareti erano sempre di un rosa chiaro, mentre i mobili in legno era rimasti nella stessa posizione di quando ero piccola. Avevo passato tantissimo tempo lì dentro.

«Harry mi ha detto che ti sposi. Deve essere davvero un ragazzo fortunato», mi sorrise incoraggiante, mentre io schiusi leggermente la bocca, sorpresa che Harry mi avesse anche solo menzionata. «Grazie», aggiunse prendendo le torte che le porgevo

.«Harry, hai detto?», chiesi solo per essere sicura di aver capito bene, ricevendo da lei un cenno d'assenso.

«Sai, durante questi due anni, non ha fatto altro che parlare di te, facendomi davvero credere che tua madre avesse ragione quando diceva che non eravate nemici», ridacchiò, infilando le torte nel forno.

Non era la prima persona che me lo diceva. Anche Luca, il fioraio, aveva accennato ad una cosa simile prima che Harry lo interrompesse bruscamente.

«Mamma, mamma! Dove diavolo hai messo il mio libro! Ti avevo chiesto per favore di non toccarlo!», urlò una voce roca, mentre dei passi pesanti si avvicinavano alla cucina. «Perché devi sempre toccare le mie», Harry si bloccò, rimanendo con una mano tesa a mezz'aria e la bocca spalancata, vedendomi in piedi davanti a lui, con le braccia incrociate sotto il seno.

«Ciao», borbottai, fissandolo con un sopracciglio inarcato.

Indossava un asciugamano sulla vita ed aveva tutti i capelli bagnati, che gocciolavano sul petto scoperto. Era davvero bello. Sicuramente non era più il bambino di dieci anni che mi prendeva in giro, o mi spingeva nel fango.

«Barbara», disse sorpreso, fissando in po' troppo le mie gambe scoperte dalla gonna del vestito,«Cioè io.... Perché sei qui a rompere?», chiese bruscamente, riprendendosi.

«Harry!», lo sgridò la madre, prima di iniziare a ridere, facendogli aggrottare le sopracciglia, confuso.

«Che c'è?».

«Tesoro, copriti! Sei davanti una signorina», ululò fra le risate la madre, facendo scoppiare anche me, che lo feci solo per dispetto.

La verità? Mi stavo sciogliendo davanti la linea a V che si inoltrava fin sotto l'asciugamano bianco, che cadeva morbidamente lungo i suoi fianchi.Harry sembrò accorgersi solo in quel momento di essere mezzo nudo, arrossendo così fino alla punta dei piedi grandi, con due tatuaggi sulle caviglie larghe.

«Merda!», imprecò, correndo velocemente sopra, inciampando sugli scalini, facendomi ridacchiare di cuore. Era così impacciato.

«Vado di sopra a prenderlo un po' in giro», sorrisi ad Anne, prima di corrergli dietro solo che, mentre lui si chiuse velocemente in bagno, io entrai nella sua stanza.

Lì, il tempo sembrava essersi fermato. Le pareti azzurre erano ancora tappezzate dai poster dei Beatles e, le mille foto di lui con i suoi amici, erano attaccate con delle puntine sopra la testata del letto.Il dipinto che fece sul soffitto,che consisteva in un celo stellato, era rimasto intatto, mentre la scrivania era piena di libri e carte varie. Accanto un grande armadio in legno, con sopra attaccati dei calendari scolastici.Sul comodino accanto al letto  ordinato come sempre con ancora i vecchi pupazzi sopra, c'era un comodino, dove c'era poggiata sopra una lampada dal cappuccio di tela blu e bianco.

Accanto in una cornice di legno, infine, c'era una mia foto. Sgranai gli occhi, afferrandola fra le mani. Era la foto del diploma che avevo mandato a mia madre da Londra l'anno scorso. Era orrenda, eppure lui la teneva lì. La lasciai cadere velocemente sul comodino, quando sentii la porta chiudersi dietro di me.

«La solita ficcanaso rompiscatole. A cosa devo la tua magnifica visita?», disse Harry, facendomi voltare di scatto verso di lui.

Aveva i capelli asciutti e più gonfi e ricci del solito, tenuti lontano dalla fronte con una bandana blu e rossa, che aveva avvolto distrattamente attorno la testa.Indossava un grande e vecchio pantalone grigio di un pigiama, mentre una canotta celeste, anch'essa di almeno una taglia più grande, gli fasciava il petto, mostrando la collana di metallo. Era infilata in parte nei pantalone, lasciando solo un orlo fuori.

«È uguale a quando eravamo piccoli», sorrisi debolmente, indicando con un gesto della mano la stanza, illuminata dal lampadario di spider-man che pendeva dal soffitto.

«Già», borbottò lui, andando vicino la scrivania, frugando con le mani nella marea di fogli e libri che la ingombravano.

«Stavi studiando?», chiesi curiosa, vedendolo alzare confuso la testa verso di me.

Forse voleva rispondermi male, ma vidi la stanchezza nei suoi occhi, così sospirò pesantemente, passandosi una mano sulla nuca fresca di doccia. Eppure, nonostante si fosse appena lavato  l'odore di erba bagnata e noce moscata era sempre presente sulla sua pelle abbronzata, così forte da invadere l'intera stanza.

«Una cosa del genere», si limitò a dire, facendomi capire che non voleva parlarne sicuramente con me.

Si appoggiò all'armadio, fissandomi con le braccia incrociate davanti al petto, come ad aspettare che me ne andassi  ma io non volevo farlo. Sarei voluta rimanere lì per sempre, con lui, con il suo profumo.

«Volevo ringraziarti per il giardino», buttai incerta, strofinando le mani fra di loro, arrossendo come un pomodoro.

«Fantastico. Beh, prego», borbottò imbarazzato, giocando con i lacci del pantalone che pendevano dagli orli.

«Già... Fantastico. Allora io», gesticolai, indicando la porta con una mano e tirandomi la maglia con l'altra, «Forse è meglio se vado».

«Forse?», chiese lui spaesato, alzando le sopracciglia, mentre iniziava a battere ritmicamente il piede a terra,«Vuoi dire che se potessi, rimarresti?», sorrise giocoso, facendo formare le fossette ai lati della bocca umida.

Mi venne voglia di stringerlo a me, accarezzargli i capelli troppo gonfi e ricci, posargli un bacio sulla guancia, ma...

«Sembrerebbe strano... No? Insomma, noi che resistiamo in una stanza per più di cinque minuti senza ammazzarci.... Strano», scrollai le spalle, poggiandomi al muro difronte a lui, che scuoteva leggermente la testa.

«Stranissimo. Concordo a pieno con te. Cosa strana, dato che il più delle volte spari solo idiozie. Ma tralasciamo», mi fece la linguaccia, facendomi innervosire leggermente, ma era come se non riuscissi ad andare su tutte le furie.

Cercai un modo poco carino per rispondergli, ma tutto quello che uscì dalle mie labbra, fu un sospiro divertito.

«Cosa studiavi, quindi?», domandai più spavalda, avvicinandomi alla scrivania su cui era poggiato, cercando di afferrare uno di quei mille fogli, ma lui mi afferrò dolcemente il polso, portandomelo dietro la schiena e scuotendo la testa in segno di negazione.

«Oh, avanti Harry! Non stai mica progettando di far esplodere la banca?», ironizzai, facendolo ridacchiare.

«Ti ricordi quando dicesti che volevi farmi saltare in aria, mettendomi le bottiglie di Coca-Cola e Mentos nelle mutande?», rise forte questa volta, facendomi arrossire.

Ero così stupida? Eppure mi piaceva che trovava divertente una cosa così malvagia, anche perché io lo pensavo sul serio. Provai anche a farlo, ma finii solo per far scoppiare le bottiglie nella mia stanza, ricevendo cinque giorni di castigo da mia madre. Mio padre, invece, rise con me e, tutte le sere, per cinque sere, si chiudeva in camera con me a mangiare biscotti.

«Dio, che imbarazzo!», mormorai, coprendomi la faccia rossa con le mani,«Viaggiavo troppo con la fantasia, mi sa».

«Medicina», disse lui di punto in bianco, lasciandomi il polso e prendendo un quaderno spesso e rosso da sotto una pila di fogli.

Sul davanti c'era stampato una grossa scritta del campo medico e accanto ad ogni pagina c'erano dei post it colorati  con dei titoli sopra scritti da lui.

«Oh dio! Harry ma è fantastico!», esclamai sorpresa, afferrando quel quaderno e sfiorandolo interessata.

Non ci capivo niente, però era bello vedere che aveva continuato a studiare senza lasciarsi trasportare da stronzate come alcool e sesso. La sua scrittura abbelliva tutte le pagine bianche ed era così ordinato da sottolineare con l'evidenziatore i titoli di ogni tema che svolgeva.C'erano interi fogli protocollo inserito dentro, pieni di appunti. Qualche volta saltavano fuori anche fotocopie piene di termini strani ed impronunziabili.

«E da quanto tempo la frequenti?», domandai curiosa, restituendogli il quaderno solo per afferrare un altro foglio.

Schiusi le labbra. Era una domanda per l'università di Londra che avrebbe dovuto spedire.

«Lascia perdere», disse imbronciato, strappandomi il foglio di mano con forza, gettandolo in un cassetto sotto la scrivania,«Tanto non so se voglio andarci... Non avrebbe più senso», sussurrò.

«Harry, ma che dici? Londra è bellissima, davvero! Poi potresti seguire corsi di studio molto migliori ed avanzati di quelli di Holmes Chapel. Qui è tutto così mediocre», dissi storcendo il naso.

Lo vidi battere la mano grande sulla scrivania, facendomi sobbalzare leggermente più lontana da lui. I suoi occhi verdi diventarono di ghiaccio e serrò le labbra in una linea dura.

«Tu hai sempre visto questo posto come la merda di tutte le merde, vero?! Sai è qui che sei nata e cresciuta però! Smettila di fare la nordista del cazzo! Cosa ti ha fatto questo paese?!», sbraitò, appallottolando un foglio nella mano grande.

«Scusa io... Non volevo offenderti», dissi acida, dandogli un buffetto sul petto,«Vedi di fare poco lo stronzo con me, perché sei solo uno stupido», digrignai i denti, dicendo con tono pungente ogni singola parola.Lui serrò forte i pugni lungo i fianchi scolpiti, camminando verso di me e, ad ogni passo che faceva avanti io ne facevo uno indietro.

«Infatti! Hai ragione tu!», mi urlò completamente in faccia, facendomi serrare gli occhi. 

Mi trovai fuori dalla sua stanza, con lui che reggeva l'orlo della porta, pronto a sbattermela in faccia. Strinse forte la maniglia, quasi a spezzarla.

«Sono solo uno stupido che credeva di cambiare le cose! Sono solo uno stupido che credeva che aspettare avrebbe migliorato tutto. Così stupido che ho passato due fottuti anni in completa solitudine, cercando di dimenticare! Stupido! Fanculo Barbara!», ringhiò, chiudendo con un tonfo la porta.

«Ti rendi conto che sei solo infantile?!», urlai a mia volta, battendo una mano sul legno, aprendo poi nuovamente la porta, vedendolo sobbalzare da sopra il letto.

Era nero di rabbia. Mi chiusi a chiave la porta alle spalle, infilandola nella tasca del vestitino a fiori. «Di cosa stai parlando? Non ho capito niente del tuo monologo del cazzo! Sei solo frustrato! Un dannato frustrato che non sa cosa farsene della sua frustrata vita e se la prende con me! Sarò anche una nordista del cazzo, ma almeno ho il coraggio di lottare per i miei sogni!».

«I tuoi... Sogni?», chiese indignato, calciando la sedia con forza. «I tuoi sogni?! Tu scappi! Scappi dalla realtà, altrimenti non ti sposeresti a soli diciotto fottuti anni! Hai appena messo la testa fuori dal sacco e già ti vuoi sposare?! Io non lotto per i miei sogni perché ruotano tutti intorno una ragazzina infantile, che scappa!».

Le braccia mi caddero inermi lungo i fianchi. Che stai dicendo Harry? Perché adesso?

«Sei scappata quando tuo padre è morto e stai per scappare adesso», disse appena mi vide correre verso la porta per aprila.

Mi bloccai, stringendo la chiave nella tasca.

«Io lo amo Harry. Voglio che te lo metta nella tua testa bacata, ostruita dai ricci. Io lo amo più della mia stessa vita», dissi a denti stretti, sentendolo sospirare pesantemente.

«Allora va da lui e smettila di tormentarmi, okay? Perché è insopportabile», replicò, avvicinandosi a me.

Il suo petto aderiva alla mia schiena e aveva poggiato entrambe le mani ai lati della porta, facendomi sentire il suo fiato caldo quando abbassò il viso verso il mio collo. Il mio cuore prese a battere velocemente e avevo le guance in fiamme tanto che lo sentivo vicino. Il suo profumo era così forte sentito da quella distanza.

«Vai Barbie. Fallo. Esci da questa porta e corri a chiamare il tuo futuro marito. Fallo... Solo se lo desideri», sussurrò nel mio orecchio, facendomi rabbrividire e contorcere lo stomaco piacevolmente.

Lo desideravo? Certo. Forse. No. Si! 

 Infilai velocemente la chiave nella serratura, girandola quante volte bastava per far scattare la serratura. Misi la mano sulla maniglia, prima di girare la testa verso di lui. I nostri visi erano a pochi centimetri di distanza

.«Io ti odio Harry e anche tu», dissi e, prima che lui potesse dire una qualsiasi parola che mi avrebbe scombussolato la vita, poggiando le dita sulle sue labbra schiuse, continuai,«E voglio che le cose restino così. Okay? A me vanno bene. Non cambiarle, ti prego».

Aprii velocemente la porta e corsi di sotto, afferrando la mia giacca. Salutai velocemente Anne, prima di saltare sulla mia bicicletta e correre verso casa.

Cosa stai facendo Harry?  

 

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Capitolo 4
*** Coraggio e un bacio~ ***


 

Coraggio e un bacio
Mi solleva pensare che ogni avvenimento della vita non è uno spreco se decidi che sia una lezione. Quindi impara amore, perché so che stasera stai per andartene.
-Cit.
«Aladdin come sta?», mi chiese mia madre, mentre mescolava con forza la crema per una torta, dato che quella sera avevamo visite.
Mia e Jake, i miei storici cugini di trent'anni, finalmente tornavano da Londra per farci visita. Sarebbero rimasti per quella notte, per poi tornare direttamente al mio matrimonio che, con mio grande disappunto, avevamo deciso di celebrare ad Holmes Chapel.
Avevo tentato di convincere Alan a farlo a Londra, ma lui diceva che ci teneva ad accontentarmi e farmi sentire a mio agio. Sosteneva, inoltre, che stavo davvero poco con i miei parenti e che festeggiando la nostra magnifica unione in un paese piovoso e schifosamente piccolo, avrei rafforzato il mio legame con loro.
«Alan, mamma, si chiama Alan», sputai fra i denti, battendo nervosamente un piede a terra.
Perché doveva sempre farmi irritare? Sembrava si divertisse.
«Tra un po' dovremmo sistemare i fiori, che abbiamo ordinato, per casa. Sai... Il grande evento si avvicina. Evviva!», disse con falso entusiasmo, alzando la ciotola con la crema bianca e amalgamata per bene. 
Sembrava colla ed era schizzata su tutto il piano cottura, incrostando i fornelli. 
«Potresti mostrarti entusiasta? Anche solo per finta», sorrisi glaciale, afferrando il giornale sulla tavola,«E poi mancano ancora tre settimane, mamma. Se lì mettiamo adesso rischiano di appassire», continuai, sfogliando pigramente le pagine.
Era il quotidiano di Holmes Chapel, quindi non c'era nessuna nuova notizia scottante. In prima pagina c'era l'articolo su uno stupido contadino ed il suo stupido raccolto.
«Che hai deciso con la scuola? Cioè... La rivista per cui lavori è perfetta, ma forse dovresti continuare l'università», disse imbarazzata, evitando di guardarmi.
Avevo iniziato la scuola a quattro anni, quindi siccome mi ero diplomata a diciassette anni, avevo ricevuto una borsa di studio. Dopo il primo anno di università mi avevano offerto la possibilità di scrivere per questa rivista, così adesso non sapevo se in inverno avrei ripreso gli studi, dato che comunque mi pagavano bene.
«Penso di continuare», dissi invece, solo per non allarmarla troppo, rigirando fra le mano una mela, che avevo afferrato dal cestino in legno della frutta.
Mi ricordava tanto l'odore di Harry e la sua voglia matta di stare in mezzo al fango e la pioggia.
«Sapevi che Harry vuole fare domanda per l'università di medicina a Londra?», chiesi vaga, facendo finta che la cosa non mi interessasse minimamente, ma che lo avevo detto solo per fare conversazione senza litigare.
Le diedi le spalle, infatti, cercando di nasconderle la mia espressione curiosa ed avida di sapere.
La sentii sospirare, mentre poggiava qualcosa nel lavandino, per lavare.
«Certo. L'anno prossimo sarà l'ultimo anno. Voleva lavorare a Londra», mormorò con voce cupa, facendomi girare di scatto.
Aveva gli occhi lucidi e stringeva con forza una pezza verde e bagnata. Aveva la stessa espressione che metteva su quando papà le faceva un'ingiustizia, come evitare di punirmi e prendere le mie parti quando litigavo con Harry.
«Qualcosa non va.... Ma?», chiesi deglutendo a fatica, non tanto ansiosa di conoscere la risposta. Qualcosa nel suo sguardo afflitto, mi diceva che c'entravo io e c'entrava Harry. Ancora una volta. Come sempre.
«No. Tutto okay», si riprese subito, alzando la testa e sorridendomi spensieratamente,«Perché non porti da bere ad Harry? Sono ore che non smette di lavorare lì fuori e quest'anno giugno sembra più caldo del previsto».
Annuii, afferrando velocemente un bicchiere d'acqua con il ghiaccio, precipitandomi fuori.
Proprio non mi andava di restare in quel l'aria così tesa.
Erano le undici del mattino ed il sole batteva già forte sul mio prato. La bicicletta rossa era accatastata in un angolo della veranda, mentre l'amaca fra i due grandi alberi era mossa da un leggero vento caldo, che mi scompigliava i capelli sciolti, con le punte più ricce del solito a contornarmi il petto fasciato da una canotta azzurra, sopra dei pantalone della tuta larghi e grigi, che mi arrivavano poco sopra le ginocchia.
Notai Harry accarezzare le foglie di una pianta, mentre tagliava con delicatezza quelle secche. Indossava i soliti jeans strappati e corti, abbinati da una maglia bianca e sgualcita. La fronte bagnata dal sudore, era scoperta poiché i ricci erano tenuti insieme in un codino ridicolo dietro la testa, che però gli dava un'aria da bambino.
I piedi nudi si muovevano agilmente sull'erba appena tagliata e le braccia muscolose erano illuminate dai raggi del sole.
«Harry», lo chiamai, vedendo come voltava velocemente la testa verso di me, facendo apparire sul suo volto un'espressione prima felice, poi malinconica ed infine corrucciata.
Mi sfilai velocemente le scarpe da ginnastica bianche e nuove, mettendo con riluttanza i miei piccoli piedi pallido nel terreno sporco. Un brivido mi percosse tutta, facendomi spuntare un sorriso sul volto.
Non era poi tanto male. Mi sentivo di nuovo bambina.
«Sete?», sorrisi porgendogli l'acqua, mentre lui aggrottava la fronte,«Prometto che non te la butto in testa».
Gli feci un occhiolino, mentre lui afferrava il bicchiere, buttando tutto giù in un solo sorso.
Il pomo d'Adamo si mosse velocemente, facendomi sussultare per le farfalle nello stomaco che avevo iniziato a sentire.
«Perché non porti l'anello?», mi domandò, pulendosi la bocca con il dorso sporco della mano.
Mi sentii in colpa, ma anche felice che l'avesse notato. Non lo sapevo neanche io perché avevo sfilato l'anello quando ero tornata casa quella sera, chiudendolo accuratamente nella scatoletta blu di velluto, che giaceva alla fine del cassetto accanto al letto.
«Avevo paura di perderlo», scrollai le spalle indifferente,«Che fai?».
Sembrò capire che non avevo poi tanta voglia di parlarne, così mi mostrò la grande forbice che stringeva nella mano sinistra,dalle unghia sporche ma delicate e curate.
«Come fai a capire quali devono essere tagliate? Cioè sono tutte schifosamente uguali», dissi girando intorno la pianta, facendogli scuotere la testa esasperato.
«Come fai a capire chi è la persona giusta per te?», mi disse, facendomi rimanere spiazzata.
Non lo so, Harry. È tutto così confuso.
«Lo noti, Barbie! Le foglie buone sono come l'uomo della tua vita: insostituibili e quindi la mano non ce la fa a tagliarle via», mi sorrise, mentre tagliava un'altra foglia, senza neanche guardarla, tenendo lo sguardo fisso nei miei occhi.
La raccolse da terra, mettendomela fra le mani, richiudendo con le sue le mie dita sull'oggetto verde e fragile, che si spezzò sotto la nostra presa.
«Visto? Sembrava sana», sospirò,«Ma non lo era. Era la scelta sbagliata».
«Cosa intendi?», chiesi iniziando ad alterarmi,«Alan è la foglia sana. Lo so», sputai acida, allontanando le mie mani dalle sue,«Lo sento. Poi non è affare tuo!».
Stavo per girare i tacchi ed andarmene, ma lui mi afferrò l'avambraccio con forza, facendomi voltare il viso verso il suo. «No, non lo è. Hai ragione, non devo intromettermi», sospirò, passandosi una mano sulla nuca scoperta e bruciata a causa del sole che ci batteva sopra.
«Se prometto di farmi gli affari miei, resti a farmi compagnia?».
I suoi occhi erano di un verde più intenso quella mattina e sembravano pregarmi. «Ti prego».
«No, non farlo. Non sono dio. E poi hai le tue adorate piante, no?», battei un piede a terra, ancora fumante di rabbia.
Per cosa poi? Non aveva detto niente di strano, ma tutta quella storia delle foglie giuste o sbagliate mi aveva messo ansia.
«Barbara.... Sto cercando di essere gentile», mi sussurrò con tono ovvio, alzando le sopracciglia mentre aspettava la risposta.
Assottigliai gli occhi, per vedere se stesse facendo seriamente o era solo un'altra presa per il culo bella e buona. Ma sembrava davvero sincero.
«Okay, okay. Ma solo perché voglio assicurarmi che non ti metti ad oziare sulla mia amaca», risi puntandogli un dito contro,mandandomi a sedere sulla cassetta degli attrezzi, mentre lui riprendeva a tagliare le foglie di quell'albero.
«È un ciliegio», disse indicando i rami, facendo uscire da una spassa coltre di foglie due ciliegie nere.
Erano piccole ma tonde, e sembravano così fragili nella sua mano grande. Le teneva per il ramoscello, stretto fra due delle sue dita.
«Deve essere il primo anno che fa i frutti, perché sono ancora molto piccoli. Ma scommetto che sono buonissimi», aggiunse, «Allunga la mano».
Titubante lo feci, mentre lui poggiava delicatamente e lentamente il frutto sul mio palmo. Osservai quelle due sfere nere, pensando che fossero la cosa più bella di quel mondo. Mio padre aveva piantato quell'albero l'anno prima della sua morte, ma nessuno dopo di lui si era più preso cura del giardino. Harry era il primo che lo faceva dopo di lui.
«Beh? Assaggia nanetta! Fidati, saranno le migliori ciliegie che mangerai in tutta la tua misera vita», rise, afferrandone una e staccando il ramoscello.
Tese la mano verso di me, avvicinando il frutto alle mie labbra, sfiorandole con la superficie liscia e nera di quella ciliegia piccola, facendomi arrossire.
Avevo il respiro mozzato e sentivo il cuore battere troppo velocemente nella mia cassa toracica.
«Apri la bocca, Barbie», sussurrò e, quando lo feci, ci fece cadere il frutto dentro, che masticai per fare qualcosa che non fosse fissarlo come una cretina.
«È perfetto», sorrisi, mentre lui mandava giù l'altra,«Harry sei un mago!», esclamai stupita, mentre lui riprendeva a lavorare.
«Piccola lo sanno tutti che le ciliegie di casa sono sempre le migliori», scosse il capo, mentre il mio cuore faceva un balzo alla parola piccola.
Arrossii leggermente, giocando nervosamente con le punte ricce dei miei capelli.
«L'ho fatto, comunque», disse vago, facendomi alzare lo sguardo verso di lui,«Ho mandato la richiesta all'università di Londra».
Balzai in piedi, stranamente felice che dopo quel mese l'avrei rivisto.
No, no! Barbara cosa dici?!
«Ma è fantastico Harry! Vedrai che accetteranno sicuramente la tua richiesta», sorrisi, mentre gli saltavo completamente addosso, allacciando le braccia dietro la sua nuca sudata, che sapeva così tanto di fresco, erba e noce moscata.
«Già so che me ne pentirò amaramente, però... Ho riflettuto sulla nostra conversazione di ieri», mormorò. 
Abbassai lo sguardo. Non mi andava di riaffrontare l'argomento. Lui sembrava strano quando parlavamo di noi due  di me e del matrimonio.
«Forse dovresti farlo anche tu», aggiunse, tirando le punte dei suoi capelli ricci, che erano sfuggite al codino ridicolo che aveva dietro la testa.
«Harry io non ho niente su cui riflettere. Hai detto che non ti saresti intromesso se restavo a farti compagnia. Quindi non farlo e rispetta la promessa», dissi velocemente, allontanandomi da lui con un balzo. Era tutto così normale e quasi perfetto fino a pochi attimi prima.
«Non posso, Barbara, okay? Io non ci riesco. Come puoi sposarti a diciotto anni? E se poi te ne penti?», disse alterandosi leggermente, serrando le braccia lungo i fianchi.
«Perché dovrei pentirmene?! Harry, lo vuoi capire che Alan è perfetto per me?! Smettila di dire idiozie. Solo perché ho diciotto anni non significa che non mi possa sposare!», sbraitai, allontanandomi.
«Vedi? Stai scappando. Di nuovo! Cosa c'è? Ti imbestialisci a sentire la verità?», mi urlò dietro, facendomi arrestare sul posto.
Calpestai entrambi i piedi a terra, prima di tornare davanti a lui, puntandogli l'indice contro, infuriata.
«La verità? Harry qui non c'è nessuna verità, c'è solo la realtà, ossia che io sto bene così come sto. Il mio sarà un matrimonio perfetto e basta!», ribadii più a me stessa che a lui.
Felice, ero felice.
«La verità è che tu credi di amarlo e per stare tranquilla, per non rischiare con un'altra persona, lo sposi. Morale della favola: scappi».
Sentii il sangue ribollire nelle mie vene, sotto la pelle pallida e d'oca. Adesso lo ammazzo! Mi stai confondendo, dannazione!
«Non vedo perché devo rischiare con una persona che non amo!», sottolineai le ultime parole, spingendolo di lato per dirigermi dalla parte opposta, in casa.
«Non sei coraggiosa, ecco la realtà che tanto cerchi. Sei solo una vigliacca che crede di sapere tutto della vita», mi sfidò, avvicinandosi e mettendosi difronte a me, oscurandomi con la sua imponente altezza.
«Come?! Io sono coraggiosissima!», dissi altezzosa, alzando il mento in alto, vedendolo sorridere sfacciatamente.
«Dimostramelo. Baciami, se sei tanto coraggiosa», rise, gettando la testa all'indietro.
Il cuore smise di battere e tutti i rumori che provenivano dalla strada, scomparvero. Eravamo io, lui e la sua insana richiesta.
Baciarlo. Guardai le sue labbra schiuse, così carnose e rosa. Deglutii a fatica, sentendo lo stomaco contorcersi ogni volta che scostava lo sguardo dai suoi occhi luminosi alla sua bocca umida.
Si passò la lingua sulle labbra nell'attesa, facendomi fremere.
«Non lo farò mai. Non bacio un mio nemico», dissi con vice tremante, cercando di rimanere calma e non sciogliermi ai suoi piedi.
«Utilizzi questa scusa solo perché non hai coraggio», mi istigò ancora, come a voler tastare la mia resistenza.
Ma ormai avevo ceduto. Sentivo le barriere crollare e la voglia di posare anche solo per un istante le labbra sulle sue, crescere. Ma era sbagliato. Io.... Alan.
Un bacio, Barbara, non una scopata, pensai arrossendo, immaginando lui con solo l'asciugamano alla vita, come il giorno prima.
Scossi vivacemente il capo ed, alzandomi sulle punte dei piedi, raggiunsi quasi il suo volto. Afferrai decisa la sua nuca, avvicinando e facendo sfiorare i nostri nasi. Gli aliti si mischiavano, colpendo i volti di entrambi, che tremammo leggermente.
«Vai, Barbie, fallo. Fallo adesso», mi implorò con una certa urgenza, stringendo convulsamente l'orlo della mia maglietta, tirandomi a se.
Sentii il calore della sua pelle irradiarsi da sotto i vestiti sporchi, mentre metteva la mano libera dietro la mia schiena, facendo aderire i nostri busti. Il mio piccolo seno si schiacciò contro il suo petto duro e muscoloso, facendomi fremere tutta.
Deglutii a vuoto, passando le dita fra i lui capelli, sciogliendoli casualmente. I ricci si sparsero per tutta la sua testa, gonfi e profumati come sempre.
Mi sfiorarono la guancia, facendomi il solletico, ma non riuscii a ridere. Ero così maledettamente testa e lui sembrava così impaziente, anche se non capivo perché. Non era un bacio d'amore, ma solo una scommessa... O no?
«Non hai abbastanza coraggio?», chiese ovvio, inarcando un sopracciglio. Mi istigò sempre più, sapendo che adesso ero al limite della mia pazienza.
Il suo volto così vicino era ancora più perfetto.
Inclinai leggermente la testa di lato e, proprio nel momento in cui sentii che era la cosa giusta da fare, tanto era solo una scommessa, una voce mi richiamò dal fondo del giardino, facendomi allontanare bruscamente da Harry. «Barbara!!! Uuuuu! Tesoro siamo noi!».
Vidi Mia e Jake correre velocemente verso di me.
Spinsi Harry a terra per levarmelo da dosso, sentendolo gemere di dolore. «Ahi! Dannazione adesso dovevano venire?», brontolò, ricevendo un'occhiata di fuoco da me.
«Mia! JJ!», urlai,  lasciandomi stringere,«Mi siete mancati un casino!».
«Oh, anche tu, piccola», mi scompigliò i capelli Jake, guardando poi Harry,«Hazza! Dio ti sei fatto grandissimo».
«E bonissimo!», aggiunse spavalda Mia, stringendolo in un abbraccio anche lui,«Come va? Spero bene. Dai entrano Jake, zia Lily sarà contentissima appena ti vede con i capelli corti».
Mi diedero un veloce bacio,prima di correre in casa, lasciando me ed Harry a fissarci imbarazzati.
Era stato un bene che fossero arrivati loro. Stavo per tradire Alan. Idiota!
«Barbara, noi... Quello che è successo».
«Stava, Harry. Quello che stava per succedere», lo bloccai subito,«Non si ripeterà più, okay? Adesso entro. Tu continua....».
Lui provò ad allungare una mano verso di me, ma io protesi le braccia in avanti facendogli capire che non volevo essere toccata.
Scavalcai i suoi attrezzi, entrando velocemente in casa.
Quella tortura doveva finire. Harry doveva sparire dalla mia vita e, prima mi sposavo, prima l'avrebbe fatto

 

Mi solleva pensare che ogni avvenimento della vita non è uno spreco se decidi che sia una lezione. Quindi impara amore, perché so che stasera stai per andartene. -Cit.


«Aladdin come sta?», mi chiese mia madre, mentre mescolava con forza la crema per una torta, dato che quella sera avevamo visite.

Mia e Jake, i miei storici cugini di trent'anni, finalmente tornavano da Londra per farci visita. Sarebbero rimasti per quella notte, per poi tornare direttamente al mio matrimonio che, con mio grande disappunto, avevamo deciso di celebrare ad Holmes Chapel. Avevo tentato di convincere Alan a farlo a Londra, ma lui diceva che ci teneva ad accontentarmi e farmi sentire a mio agio. Sosteneva, inoltre, che stavo davvero poco con i miei parenti e che festeggiando la nostra magnifica unione in un paese piovoso e schifosamente piccolo, avrei rafforzato il mio legame con loro.

«Alan, mamma, si chiama Alan», sputai fra i denti, battendo nervosamente un piede a terra. Perché doveva sempre farmi irritare? Sembrava si divertisse.

«Tra un po' dovremmo sistemare i fiori, che abbiamo ordinato, per casa. Sai... Il grande evento si avvicina. Evviva!», disse con falso entusiasmo, alzando la ciotola con la crema bianca e amalgamata per bene. 

Sembrava colla ed era schizzata su tutto il piano cottura, incrostando i fornelli. 

«Potresti mostrarti entusiasta? Anche solo per finta», sorrisi glaciale, afferrando il giornale sulla tavola,«E poi mancano ancora tre settimane, mamma. Se lì mettiamo adesso rischiano di appassire», continuai, sfogliando pigramente le pagine.

Era il quotidiano di Holmes Chapel, quindi non c'era nessuna nuova notizia scottante. In prima pagina c'era l'articolo su uno stupido contadino ed il suo stupido raccolto.

«Che hai deciso con la scuola? Cioè... La rivista per cui lavori è perfetta, ma forse dovresti continuare l'università», disse imbarazzata, evitando di guardarmi.

Avevo iniziato la scuola a quattro anni, quindi siccome mi ero diplomata a diciassette anni, avevo ricevuto una borsa di studio. Dopo il primo anno di università mi avevano offerto la possibilità di scrivere per questa rivista, così adesso non sapevo se in inverno avrei ripreso gli studi, dato che comunque mi pagavano bene.

«Penso di continuare», dissi invece, solo per non allarmarla troppo, rigirando fra le mano una mela, che avevo afferrato dal cestino in legno della frutta.

Mi ricordava tanto l'odore di Harry e la sua voglia matta di stare in mezzo al fango e la pioggia.

«Sapevi che Harry vuole fare domanda per l'università di medicina a Londra?», chiesi vaga, facendo finta che la cosa non mi interessasse minimamente, ma che lo avevo detto solo per fare conversazione senza litigare.

Le diedi le spalle, infatti, cercando di nasconderle la mia espressione curiosa ed avida di sapere. La sentii sospirare, mentre poggiava qualcosa nel lavandino, per lavare.

«Certo. L'anno prossimo sarà l'ultimo anno. Voleva lavorare a Londra», mormorò con voce cupa, facendomi girare di scatto.

Aveva gli occhi lucidi e stringeva con forza una pezza verde e bagnata. Aveva la stessa espressione che metteva su quando papà le faceva un'ingiustizia, come evitare di punirmi e prendere le mie parti quando litigavo con Harry.

«Qualcosa non va.... Ma?», chiesi deglutendo a fatica, non tanto ansiosa di conoscere la risposta.

Qualcosa nel suo sguardo afflitto, mi diceva che c'entravo io e c'entrava Harry. Ancora una volta. Come sempre.

«No. Tutto okay», si riprese subito, alzando la testa e sorridendomi spensieratamente,«Perché non porti da bere ad Harry? Sono ore che non smette di lavorare lì fuori e quest'anno giugno sembra più caldo del previsto».

Annuii, afferrando velocemente un bicchiere d'acqua con il ghiaccio, precipitandomi fuori. Proprio non mi andava di restare in quel l'aria così tesa. Erano le undici del mattino ed il sole batteva già forte sul mio prato. La bicicletta rossa era accatastata in un angolo della veranda, mentre l'amaca fra i due grandi alberi era mossa da un leggero vento caldo, che mi scompigliava i capelli sciolti, con le punte più ricce del solito a contornarmi il petto fasciato da una canotta azzurra, sopra dei pantalone della tuta larghi e grigi, che mi arrivavano poco sopra le ginocchia.

Notai Harry accarezzare le foglie di una pianta, mentre tagliava con delicatezza quelle secche. Indossava i soliti jeans strappati e corti, abbinati da una maglia bianca e sgualcita. La fronte bagnata dal sudore, era scoperta poiché i ricci erano tenuti insieme in un codino ridicolo dietro la testa, che però gli dava un'aria da bambino.I piedi nudi si muovevano agilmente sull'erba appena tagliata e le braccia muscolose erano illuminate dai raggi del sole.

«Harry», lo chiamai, vedendo come voltava velocemente la testa verso di me, facendo apparire sul suo volto un'espressione prima felice, poi malinconica ed infine corrucciata.Mi sfilai velocemente le scarpe da ginnastica bianche e nuove, mettendo con riluttanza i miei piccoli piedi pallido nel terreno sporco. Un brivido mi percosse tutta, facendomi spuntare un sorriso sul volto.

Non era poi tanto male.

Mi sentivo di nuovo bambina.

«Sete?», sorrisi porgendogli l'acqua, mentre lui aggrottava la fronte,«Prometto che non te la butto in testa».

Gli feci un occhiolino, mentre lui afferrava il bicchiere, buttando tutto giù in un solo sorso. Il pomo d'Adamo si mosse velocemente, facendomi sussultare per le farfalle nello stomaco che avevo iniziato a sentire.

«Perché non porti l'anello?», mi domandò, pulendosi la bocca con il dorso sporco della mano.

Mi sentii in colpa, ma anche felice che l'avesse notato. Non lo sapevo neanche io perché avevo sfilato l'anello quando ero tornata casa quella sera, chiudendolo accuratamente nella scatoletta blu di velluto, che giaceva alla fine del cassetto accanto al letto.

«Avevo paura di perderlo», scrollai le spalle indifferente,«Che fai?».Sembrò capire che non avevo poi tanta voglia di parlarne, così mi mostrò la grande forbice che stringeva nella mano sinistra,dalle unghia sporche ma delicate e curate.

«Come fai a capire quali devono essere tagliate? Cioè sono tutte schifosamente uguali», dissi girando intorno la pianta, facendogli scuotere la testa esasperato.

«Come fai a capire chi è la persona giusta per te?», mi disse, facendomi rimanere spiazzata.

Non lo so, Harry. È tutto così confuso.

«Lo noti, Barbie! Le foglie buone sono come l'uomo della tua vita: insostituibili e quindi la mano non ce la fa a tagliarle via», mi sorrise, mentre tagliava un'altra foglia, senza neanche guardarla, tenendo lo sguardo fisso nei miei occhi.

La raccolse da terra, mettendomela fra le mani, richiudendo con le sue le mie dita sull'oggetto verde e fragile, che si spezzò sotto la nostra presa.

«Visto? Sembrava sana», sospirò,«Ma non lo era. Era la scelta sbagliata».

«Cosa intendi?», chiesi iniziando ad alterarmi,«Alan è la foglia sana. Lo so», sputai acida, allontanando le mie mani dalle sue,«Lo sento. Poi non è affare tuo!».

Stavo per girare i tacchi ed andarmene, ma lui mi afferrò l'avambraccio con forza, facendomi voltare il viso verso il suo.

«No, non lo è. Hai ragione, non devo intromettermi», sospirò, passandosi una mano sulla nuca scoperta e bruciata a causa del sole che ci batteva sopra.«Se prometto di farmi gli affari miei, resti a farmi compagnia?».

I suoi occhi erano di un verde più intenso quella mattina e sembravano pregarmi. «Ti prego».

«No, non farlo. Non sono dio. E poi hai le tue adorate piante, no?», battei un piede a terra, ancora fumante di rabbia.

Per cosa poi? Non aveva detto niente di strano, ma tutta quella storia delle foglie giuste o sbagliate mi aveva messo ansia.

«Barbara.... Sto cercando di essere gentile», mi sussurrò con tono ovvio, alzando le sopracciglia mentre aspettava la risposta.Assottigliai gli occhi, per vedere se stesse facendo seriamente o era solo un'altra presa per il culo bella e buona. Ma sembrava davvero sincero.

«Okay, okay. Ma solo perché voglio assicurarmi che non ti metti ad oziare sulla mia amaca», risi puntandogli un dito contro,mandandomi a sedere sulla cassetta degli attrezzi, mentre lui riprendeva a tagliare le foglie di quell'albero.

«È un ciliegio», disse indicando i rami, facendo uscire da una spessa coltre di foglie due ciliegie nere. Erano piccole ma tonde, e sembravano così fragili nella sua mano grande. Le teneva per il ramoscello, stretto fra due delle sue dita.

«Deve essere il primo anno che fa i frutti, perché sono ancora molto piccoli. Ma scommetto che sono buonissimi», aggiunse, «Allunga la mano».

Titubante lo feci, mentre lui poggiava delicatamente e lentamente il frutto sul mio palmo. Osservai quelle due sfere nere, pensando che fossero la cosa più bella di quel mondo. Mio padre aveva piantato quell'albero l'anno prima della sua morte, ma nessuno dopo di lui si era più preso cura del giardino. Harry era il primo che lo faceva dopo di lui.

«Beh? Assaggia nanetta! Fidati, saranno le migliori ciliegie che mangerai in tutta la tua misera vita», rise, afferrandone una e staccando il ramoscello.

Tese la mano verso di me, avvicinando il frutto alle mie labbra, sfiorandole con la superficie liscia e nera di quella ciliegia piccola, facendomi arrossire. Avevo il respiro mozzato e sentivo il cuore battere troppo velocemente nella mia cassa toracica.

«Apri la bocca, Barbie», sussurrò e, quando lo feci, ci fece cadere il frutto dentro, che masticai per fare qualcosa che non fosse fissarlo come una cretina.

«È perfetto», sorrisi, mentre lui mandava giù l'altra,«Harry sei un mago!», esclamai stupita, mentre lui riprendeva a lavorare.

«Piccola lo sanno tutti che le ciliegie di casa sono sempre le migliori», scosse il capo, mentre il mio cuore faceva un balzo alla parola piccola.

Arrossii leggermente, giocando nervosamente con le punte ricce dei miei capelli.

«L'ho fatto, comunque», disse vago, facendomi alzare lo sguardo verso di lui,«Ho mandato la richiesta all'università di Londra».

Balzai in piedi, stranamente felice che dopo quel mese l'avrei rivisto.

No, no! Barbara cosa dici?!

«Ma è fantastico Harry! Vedrai che accetteranno sicuramente la tua richiesta», sorrisi, mentre gli saltavo completamente addosso, allacciando le braccia dietro la sua nuca sudata, che sapeva così tanto di fresco, erba e noce moscata.

«Già so che me ne pentirò amaramente, però... Ho riflettuto sulla nostra conversazione di ieri», mormorò. 

Abbassai lo sguardo. Non mi andava di riaffrontare l'argomento. Lui sembrava strano quando parlavamo di noi due  di me e del matrimonio.

«Forse dovresti farlo anche tu», aggiunse, tirando le punte dei suoi capelli ricci, che erano sfuggite al codino ridicolo che aveva dietro la testa.

«Harry io non ho niente su cui riflettere. Hai detto che non ti saresti intromesso se restavo a farti compagnia. Quindi non farlo e rispetta la promessa», dissi velocemente, allontanandomi da lui con un balzo.

Era tutto così normale e quasi perfetto fino a pochi attimi prima.

«Non posso, Barbara, okay? Io non ci riesco. Come puoi sposarti a diciotto anni? E se poi te ne penti?», disse alterandosi leggermente, serrando le braccia lungo i fianchi.

«Perché dovrei pentirmene?! Harry, lo vuoi capire che Alan è perfetto per me?! Smettila di dire idiozie. Solo perché ho diciotto anni non significa che non mi possa sposare!», sbraitai, allontanandomi.

«Vedi? Stai scappando. Di nuovo! Cosa c'è? Ti imbestialisci a sentire la verità?», mi urlò dietro, facendomi arrestare sul posto.

Calpestai entrambi i piedi a terra, prima di tornare davanti a lui, puntandogli l'indice contro, infuriata.

«La verità? Harry qui non c'è nessuna verità, c'è solo la realtà, ossia che io sto bene così come sto. Il mio sarà un matrimonio perfetto e basta!», ribadii più a me stessa che a lui.

Felice, ero felice.

«La verità è che tu credi di amarlo e per stare tranquilla, per non rischiare con un'altra persona, lo sposi. Morale della favola: scappi».

Sentii il sangue ribollire nelle mie vene, sotto la pelle pallida e d'oca.

Adesso lo ammazzo! Mi stai confondendo, dannazione! «Non vedo perché devo rischiare con una persona che non amo!», sottolineai le ultime parole, spingendolo di lato per dirigermi dalla parte opposta, in casa.

«Non sei coraggiosa, ecco la realtà che tanto cerchi. Sei solo una vigliacca che crede di sapere tutto della vita», mi sfidò, avvicinandosi e mettendosi difronte a me, oscurandomi con la sua imponente altezza.

«Come?! Io sono coraggiosissima!», dissi altezzosa, alzando il mento in alto, vedendolo sorridere sfacciatamente.

«Dimostramelo. Baciami, se sei tanto coraggiosa», rise, gettando la testa all'indietro.

Il cuore smise di battere e tutti i rumori che provenivano dalla strada, scomparvero. Eravamo io, lui e la sua insana richiesta.

Baciarlo. Guardai le sue labbra schiuse, così carnose e rosa. Deglutii a fatica, sentendo lo stomaco contorcersi ogni volta che scostava lo sguardo dai suoi occhi luminosi alla sua bocca umida. Si passò la lingua sulle labbra nell'attesa, facendomi fremere.

«Non lo farò mai. Non bacio un mio nemico», dissi con vice tremante, cercando di rimanere calma e non sciogliermi ai suoi piedi.

«Utilizzi questa scusa solo perché non hai coraggio», mi istigò ancora, come a voler tastare la mia resistenza.

Ma ormai avevo ceduto. Sentivo le barriere crollare e la voglia di posare anche solo per un istante le labbra sulle sue, crescere. Ma era sbagliato. Io.... Alan.

Un bacio, Barbara, non una scopata, pensai arrossendo, immaginando lui con solo l'asciugamano alla vita, come il giorno prima.

Scossi vivacemente il capo ed, alzandomi sulle punte dei piedi, raggiunsi quasi il suo volto. Afferrai decisa la sua nuca, avvicinando e facendo sfiorare i nostri nasi. Gli aliti si mischiavano, colpendo i volti di entrambi, che tremammo leggermente.

«Vai, Barbie, fallo. Fallo adesso», mi implorò con una certa urgenza, stringendo convulsamente l'orlo della mia maglietta, tirandomi a se.

Sentii il calore della sua pelle irradiarsi da sotto i vestiti sporchi, mentre metteva la mano libera dietro la mia schiena, facendo aderire i nostri busti. Il mio piccolo seno si schiacciò contro il suo petto duro e muscoloso, facendomi fremere tutta. Deglutii a vuoto, passando le dita fra i suoi capelli, sciogliendoli casualmente. I ricci si sparsero per tutta la sua testa, gonfi e profumati come sempre.Mi sfiorarono la guancia, facendomi il solletico, ma non riuscii a ridere. Ero così maledettamente tesa e lui sembrava così impaziente, anche se non capivo perché. Non era un bacio d'amore, ma solo una scommessa... O no?

«Non hai abbastanza coraggio?», chiese ovvio, inarcando un sopracciglio.

Mi istigò sempre più, sapendo che adesso ero al limite della mia pazienza.Il suo volto così vicino era ancora più perfetto. Inclinai leggermente la testa di lato e, proprio nel momento in cui sentii che era la cosa giusta da fare, tanto era solo una scommessa, una voce mi richiamò dal fondo del giardino, facendomi allontanare bruscamente da Harry. «Barbara!!! Uuuuu! Tesoro siamo noi!».Vidi Mia e Jake correre velocemente verso di me.

Spinsi Harry a terra per levarmelo da dosso, sentendolo gemere di dolore. «Ahi! Dannazione adesso dovevano venire?», brontolò, ricevendo un'occhiata di fuoco da me.

«Mia! JJ!», urlai,  lasciandomi stringere,«Mi siete mancati un casino!».

«Oh, anche tu, piccola», mi scompigliò i capelli Jake, guardando poi Harry,«Hazza! Dio ti sei fatto grandissimo».

«E bonissimo!», aggiunse spavalda Mia, stringendolo in un abbraccio anche lui,«Come va? Spero bene. Dai entriamo Jake, zia Lily sarà contentissima appena ti vede con i capelli corti».

Mi diedero un veloce bacio,prima di correre in casa, lasciando me ed Harry a fissarci imbarazzati.

Era stato un bene che fossero arrivati loro. Stavo per tradire Alan. Idiota!

«Barbara, noi... Quello che è successo».

«Stava, Harry. Quello che stava per succedere», lo bloccai subito,«Non si ripeterà più, okay? Adesso entro. Tu continua....».

Lui provò ad allungare una mano verso di me, ma io protesi le braccia in avanti facendogli capire che non volevo essere toccata.

Scavalcai i suoi attrezzi, entrando velocemente in casa.

Quella tortura doveva finire. Harry doveva sparire dalla mia vita e, prima mi sposavo, prima l'avrebbe fatto.

 

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Capitolo 5
*** Per dimenticarti~ ***


 

Per dimenticarti
Allora quindi è vero? È vero che ti sposerai? Ti faccio tanti, tanti, cari auguri e se non vengo capirai. E se la scelta è questa, è giusta e lo sai solo tu- 
Zero assoluto
«Mamma ti prego, ti prego!», unii le mani fra di loro, inginocchiandomi ai suoi piedi e tirandole l'orlo del grembiule rosa sporco di cioccolata, facendole scuotere la testa divertita.
«Te l'ho detto tesoro, non posso. Dopo devo andare da tua nonna. Ah, devi andarla a trovare quando puoi», mi ricordò, facendomi sbuffare contrariata.
Vidi Harry entrare in cucina con un enorme cassetta di pomodori, che poggiò sul tavolo, guardandomi poi curioso, inclinando la testa di lato ed inarcando un sopracciglio.
«Perché sei a terra?», chiese, pulendosi le mani sul jeans sporco di terreno, mettendo su un sorriso furbo ed alquanto fastidioso.
Roteai scocciata gli occhi al cielo, balzando in piedi e fissandolo con sguardo corrucciato.
«Il pavimento si sentiva solo e mi andava di fargli compagnia. Soddisfatto?», risposi acida, dandogli uno schiaffo leggero sul braccio scoperto a causa della canotta che indossava, prima di superarlo e seguire mia madre in salone.
«Mamma per favore, se non ci vado oggi rischio di non trovarne più uno decente», sbuffai, battendo le mani sulle cosce, vedendo che mi ignorava stoicamente.
«Barbara ci vai in bici. Ti ho detto che la macchina mi serve e proprio oggi non posso accompagnarti. Adesso smettila!», urlò, afferrando il cesto dei panni e, con fare teatrale, spari dalla cucina, andando nel bagno per fare la lavatrice.
Fissai incredula il punto in cui era sparita, mettendo le mani sui miei fianchi prosperosi, prima di ringhiare forte e and andare in cucina per bere.
Entrai come una furia, facendo sobbalzare Harry quando aprii con uno scatto lo sportello del mobiletto giallo, rischiando di romperlo.
«Nervosa», commentò, riportandosi il bicchiere alle labbra carnose ed umide, contornate da piccole gocce di sudore che il sole faceva brillare, entrando dalla piccola finestra sopra i fornelli.
«Esatto!», sbottai, puntandogli poi un dito contro,«Quindi evita di rompermi le palle, Harry. Stammi alla larga».
Lui scrollò le spalle, girandosi e dandomi le spalle, trafficando con la cassetta dei pomodori.
Afferrò una ciotola da sotto il lavandino, iniziando a posarli lì dentro. Osservavo il modo in cui si muoveva con facilità in casa mia, pensando che da quando me ne ero andata passava spesso tempo qui dentro per far compagnia a mia madre. Per lei era stato difficile abbandonarmi. Già papà l'aveva lasciata, ma io avevo davvero bisogno di cambiare aria, di scappare come diceva Harry.
Scossi la testa confusa, voltandomi verso la finestra che dava sulla strada, notando la nuova macchina nera e lucida di Harry parcheggiata nel mio vialetto di mattoni.
«FERMI TUTTI!», urlai, allargando le braccia, sentendo Harry rovesciare il cesto di pomodori a terra, imprecando a bassa voce.
«Cazzo, Barbara! Ma sei idiota? Mi hai fatto prendere un colpo e penso di aver perso trent'anni di vita!», sbottò, voltandosi per guardarmi nella mia strana e buffa posizione, che gli fece spuntare un tenero sorriso sul volto dalle guance rosse a causa del sole a cui era sottoposto tutti i pomeriggi.
«Meglio, almeno dovrò sopportarti trent'anni in meno», sorrisi falsamente, inclinando di poco la testa di lato, portandomi i capelli dietro un orecchio ad elfo, come diceva sempre mio padre.
Lui mi fece la linguaccia, abbassandosi a raccogliere i pomodori. I pantaloni erano così larghi che gli scesero lungo i fianchi, mostrando i boxer neri.
Distolsi subito lo sguardo, arrossendo come un pomodoro, uno di quelli che lui stringeva delicatamente fra le mani, come se fossero la cosa più preziosa al mondo.
«Comunque.... Tu sei un ragazzo, Harry», dissi con un tono indifferente,  facendo la vaga.
Lui alzò la testa di scatto, fissandomi sospettoso, assottigliando gli occhi, mentre io scrollavo le spalle, saltando con un balzo sul tavolo della cucina, muovevo le gambe freneticamente, per scacciare il nervosismo.
«Wow, Nanetta, che occhio. Benvenuta nel mondo reale», mi strizzò l'occhio, mettendo i pomodori nella cesta, allungandosi sotto il tavolo per afferrarne altri.
«Già... E sei anche adulto. Insomma, venticinque anni tondi, tondi», mormorai, giocando con l'orlo della mia grande camicia gialla, sentendolo sospirare da sotto il tavolo. Gli avrei mollato volentieri un calcio, dato che era nella posizione adatta per riceverne uno, ma mi serviva per un favore e quindi dovevo accattivarmelo.
«Un bellissimo ragazzo di venticinque anni!», esclamai a voce alta, battendo le mani fra di loro.
«Cosa....? Ahi!», imprecò, sbattendo la testa sotto il tavolo, mentre usciva freneticamente da lì sotto, alzandosi tutto rosso in viso, con gli occhi sgranati, «Che hai detto?!», disse con voce acuta, balbettando quasi.
Scrollai le spalle, scendendo dal tavolo ed avvicinandomi a lui, che indietreggiò, inciampando nel piede di una sedia, facendomi ridere per un attimo, prima di tornare seria e civettuola. Sbattevo le palpebre dei mie grandi occhi grigi, camminando lentamente verso di lui, che presto sbatté contro il muro.
«Barbara...», sussurrò, lasciando che le mie braccia si ancorassero al suo collo muscoloso. Aveva il respiro accelerato, ma non capivo perché. Lo vidi rabbrividire sotto il mio tocco, ma non ci feci caso, troppo impegnata a raggiungere il mio obiettivo.
«Harry, sei la persona più bella che esista.... Mi accompagni al negozio di sposa?», chiesi dolcemente, facendolo sbuffare pesantemente, mettendo le mani sui miei fianchi ed avvicinandomi al suo petto muscoloso.
«Sei stronza. Non ci casco», rise, facendomi mettere su un broncio da bambina.
Mi scostai da lui, battendo un piede a terra. Cazzo dovevo andarci. Tra tre settimane mi sposavo e non avevo ancora un maledetto vestito.
«Harry ti prego, non posso arrivarci in bicicletta è lontano. Ti prego, ti prego!», lo pregai, «Ne vale della mia felicità e tu vuoi che io sia felice», dissi con sguardo dolce, sporgendo all'infuori il labbro inferiore, vedendolo distogliere velocemente lo sguardo.
«Sbaglio o mi hai appena detto di starti alla larga? Beh, ho intenzione di farlo», sorrise bastardamente, superandomi, pronto ad uscire in veranda per continuare in giardino il lavoro.
«Harry ti ho mai chiesto un favore?», chiesi seria, facendolo voltare di scatto.
Stava per aprire bocca, pronto a dirmi di quella volta che mi aveva fatto nascondere nel suo armadio per non farmi beccare da mia madre che voleva uccidermi dato che ero rientrata a casa con un piercing al naso, o di quando mi aveva coperto per farmi scendere fino a mezzanotte con le mie amiche, dicendo ai miei che stavo da lui a dormire e molte altre cose. Così, lo bloccai subito.
«Non mi rispondere!», esclamai, protendendo una mano verso di lui, che si era appoggiato allo stipite della porta finestra, guardandomi con sguardo ironico e soddisfatto,«Però questa volta è importante. Ti giuro che non ti prenderò più in giro!».
«Troppo poco. Alza la posta», disse serio, guardando l'orologio al polso.
«Ah, okay, ti faccio la lavatrice per un mese!», sbottai acida, vedendolo picchiettarsi l'indice sulla punta del naso.
«Umh... No, quella già me la fa mia madre», ridacchiò, facendomi ribollire di rabbia.
Venticinque anni e ancora non si faceva la lavatrice da solo? Era senza speranze.
Battei i piedi a terra, «Cosa vuoi, allora?».
Lui ci pensò su, facendomi ribollire di rabbia. Lui e quella sua maledetta aria soddisfatta, come a dire ti ho impugno adesso, nanetta.
«Facciamo.... Un appuntamento, ecco. Esci con me una sera di queste», disse risoluto, scrollando le spalle come se mi avesse chiesto di preparargli un panino alla Nutella.
«Che?! No! Io sono sposata!», ringhia, digrignando i denti. 
Credeva che fossimo due stupidi tredicenni con mille possibilità davanti? Io non potevo cambiare le cose! Dovevo sposarmi.
«Non ancora, mancano tre settimane!», mi incalzò, indurendo i tratti del viso,«E poi o questo o ti scordi il passaggio. Devo fare tante cose, non rompermi», concluse, pronto ad andarsene.
«Aspetta!», urlai, bloccandolo,«Accetto, okay? Ma usciamo come vecchi nemici e non è un appuntamento», ci tenni a precisare.
Lui annuì, afferrando le chiavi della macchina dal mobile sulla cucina. «Andiamo, allora».
Lo guardai seria, sbuffando quando mi restituì uno sguardo spaesato. «Che c'è?», chiese ingenuo, agitando freneticamente le mani per aria.
«Vieni così, davvero? Con quel jeans sudicio?», chiesi stupita, indicando i suoi pantaloni super sporchi e i capelli sudati.
«Cos'ho che non va? Sono perfetto come sempre», sorrise malizioso, facendomi sbuffare sonoramente.
Afferrai un pomodoro dalla cesta, lanciandoglielo contro, vedendolo coprirsi in tempo il volto con le braccia muscolose.
«Scordatelo. Tu ti cambi e poi mi vieni a prendere. Non ci vado al negozio da sposa con te così! Sembri un barbone! Muoviti».
Lui borbottò contrariato, prima di uscire velocemente di casa, lasciando una scia del suo profumo forte.
«Così va bene, sua maestà?», chiese ironico, scendendo dalla macchina quando parcheggiò, dopo un'ora, l'auto di fronte casa mia.
Aveva fatto una doccia, come me, e aveva indossato un largo pantalone della tuta, grigio e con le molle strette sulle caviglie magre, abbinato ad una maglia a maniche corte blu, con una tasca all'altezza del cuore, da dove fuoriusciva un fazzoletto colorato. I capelli lunghi erano tirati indietro da una fasci azzurra, come le scarpe, avvolta intorno la testa.
«Sai, sembri quasi decente», lo presi in giro, balzando nella sua macchina. 
L'interno era pulito ed ordinato, con i sedili in pelle dal forte odore di noce moscata, come la sua pelle, e dallo specchietto retrovisore pendeva un albero di pino, che emanava un odore di menta, che però era coperto da quello di Harry di erba bagnata.
Nei sedili posteriori era poggiata una giacca di cotone nera, enorme come le sue spalle. 
«Vediamo di muoverci che devo scendere stasera», disse scontroso, entrando e sbattendo forte la portiera, prima di ingranare la marcia e mettere in moto. Le sue braccia muscolose, coperte di tatuaggi, erano rigide mentre reggeva il volante, non distogliendo mai lo sguardo dalla strada dinanzi a se. Il sole era forte, per questo afferrò gli occhiali da sole dal cruscotto, coprendo gli occhi troppo verdi.
«Nervoso», dissi imitando il suo tono in cucina, sentendo le sue nocche scricchiolare per la presa troppo forte.
«Non sai quanto. Così nervoso da sembrare incazzato», ringhiò, facendomi capire che c'era davvero qualcosa che non andava.
Abbassai lo sguardo imbarazzata, muovendo freneticamente le mani sulle mie gambe fasciate dai jeans chiari.
«Tutto okay?», chiesi in un sussurrò, sentendo il suo sguardo su di me, ma preferii non incontrarlo.
«Non ti interessa sul serio», rispose, voltando a destra, immettendosi su una strada abbastanza trafficata, ma non così tanto da fermare la nostra corsa.
«Harry.... Mi interessa invece. Anche se ti odio, non significa che mi piaccia vederti soffrire. E so come si ci sente quando si ha un peso sullo stomaco. Parlarne fa bene», dissi cautamente, vedendo la presa sul volante allentarsi, come se si stesse rilassando.
«Non dico che devi dirlo a me... Se ti va, però, io.... Boh, ci sono», balbettai, guardando subito fuori il finestrino.
Gli alberi scorrevano velocemente di fronte i miei occhi grandi e grigi, facendomi quasi venir sonno.
«No, non va tutto okay», disse d'un tratto Harry, facendomi sussultare. Il suo tono era così debole e sconfortato che temetti potesse sgretolarsi accanto a me.
«C'entra una ragazza?», chiesi timorosa di conoscere la risposta e, quando lui annuì, il mio stomaco si chiuse su se stesso, come una carta accartocciata da un bambino capriccioso.
Un dolore fastidioso si instaurò all'altezza del cuore, facendomi mozzare il respiro in gola.
«Ci ho provato, sai? A farle capire che l'amavo, ma è tardi. Ci avrei dovuto provare prima, quando ancora non amava un altro, quando c'ero ancora solo io. Ma adesso lei.... Sta per andarsene, diciamo», sospirò, passandosi una mano fra i capelli. «All'inizio volevo seguirla, ma non so se è una buona idea. Le starei vicino, ma soffrirei vedendola con l'altro».
Lo fissai con occhi lucidi, vedendo le sue labbra tremare ad ogni parola e avrei voluto stringerlo a me, dirgli che quella puttana non meritava il suo cuore.... Che io c'ero per lui, che lo potevo amare io e....
Barbara, cazzo, cosa pensi?! Sei quasi una sposa!
Deglutii a fatica, poggiando una mano sulla sua, che stringeva le marce, facendolo respirare rumorosamente.
«Harry evidentemente non è lei la ragazza a cui sei destinato. Ti innamorerai sicuramente di una ragazza migliore», dissi a fatica, sentendo la rabbia invadermi all'immagine di lui all'altare con una che non ero io.
«Il problema è che lei è la parte migliore di me. La amo da...», si bloccò, come se stesse per dire qualcosa di sbagliato,«Da un po'. Un po' troppo, forse», continuò in un sospiro.
Avrei voluto non fargliela quella domanda, ma la curiosità mi stava divorando.
«Chi è lei?», chiesi d'un fiato, stringendo un pugno sotto le mie gambe sode, serrando la mascella.
Speravo che non fosse Ashley Benson, una puttanella che frequentava il mio stesso liceo, cinque anni più grande di me e due più piccola di Harry.
Vidi il riccio accanto a me irrigidirsi, poi d'un tratto la macchina si fermò dolcemente e lui estrasse le chiavi dal nottolino.
«Siamo arrivati», voltò la testa verso di me, fissandomi seriamente,«Ci conviene entrare, prima che i migliori vengano presi».
Annuii velocemente, scendendo ed inciampando nei miei stessi piedi.
Ero stata una stupida se credevo di poter essere io la ragazza di cui era innamorato. Ma era meglio così. Io dovevo sposarmi tra meno di tre settimane e non avevo tempo per ripensarci. Io ed Alan ci amavamo.
«Già... I migliori», mormorai, seguendolo a testa bassa nel negozio

 

Allora quindi è vero? È vero che ti sposerai? Ti faccio tanti, tanti, cari auguri e se non vengo capirai. E se la scelta è questa, è giusta e lo sai solo tu-              Zero assoluto

«Mamma ti prego, ti prego!», unii le mani fra di loro, inginocchiandomi ai suoi piedi e tirandole l'orlo del grembiule rosa sporco di cioccolata, facendole scuotere la testa divertita.

«Te l'ho detto tesoro, non posso. Dopo devo andare da tua nonna. Ah, devi andarla a trovare quando puoi», mi ricordò, facendomi sbuffare contrariata.

Vidi Harry entrare in cucina con un enorme cassetta di pomodori, che poggiò sul tavolo, guardandomi poi curioso, inclinando la testa di lato ed inarcando un sopracciglio.

«Perché sei a terra?», chiese, pulendosi le mani sul jeans sporco di terreno, mettendo su un sorriso furbo ed alquanto fastidioso.

Roteai scocciata gli occhi al cielo, balzando in piedi e fissandolo con sguardo corrucciato.

«Il pavimento si sentiva solo e mi andava di fargli compagnia. Soddisfatto?», risposi acida, dandogli uno schiaffo leggero sul braccio scoperto a causa della canotta che indossava, prima di superarlo e seguire mia madre in salone. «Mamma per favore, se non ci vado oggi rischio di non trovarne più uno decente», sbuffai, battendo le mani sulle cosce, vedendo che mi ignorava stoicamente.

«Barbara ci vai in bici. Ti ho detto che la macchina mi serve e proprio oggi non posso accompagnarti. Adesso smettila!», urlò, afferrando il cesto dei panni e, con fare teatrale, sparì dalla cucina, andando nel bagno per fare la lavatrice.

Fissai incredula il punto in cui era sparita, mettendo le mani sui miei fianchi prosperosi, prima di ringhiare forte e and andare in cucina per bere. Entrai come una furia, facendo sobbalzare Harry quando aprii con uno scatto lo sportello del mobiletto giallo, rischiando di romperlo.

«Nervosa», commentò, riportandosi il bicchiere alle labbra carnose ed umide, contornate da piccole gocce di sudore che il sole faceva brillare, entrando dalla piccola finestra sopra i fornelli.

«Esatto!», sbottai, puntandogli poi un dito contro,«Quindi evita di rompermi le palle, Harry. Stammi alla larga».

Lui scrollò le spalle, girandosi e dandomi le spalle, trafficando con la cassetta dei pomodori. Afferrò una ciotola da sotto il lavandino, iniziando a posarli lì dentro. Osservavo il modo in cui si muoveva con facilità in casa mia, pensando che da quando me ne ero andata passava spesso tempo qui dentro per far compagnia a mia madre. Per lei era stato difficile abbandonarmi. Già papà l'aveva lasciata, ma io avevo davvero bisogno di cambiare aria, di scappare come diceva Harry.

Scossi la testa confusa, voltandomi verso la finestra che dava sulla strada, notando la nuova macchina nera e lucida di Harry parcheggiata nel mio vialetto di mattoni.

«FERMI TUTTI!», urlai, allargando le braccia, sentendo Harry rovesciare il cesto di pomodori a terra, imprecando a bassa voce.

«Cazzo, Barbara! Ma sei idiota? Mi hai fatto prendere un colpo e penso di aver perso trent'anni di vita!», sbottò, voltandosi per guardarmi nella mia strana e buffa posizione, che gli fece spuntare un tenero sorriso sul volto dalle guance rosse a causa del sole a cui era sottoposto tutti i pomeriggi.

«Meglio, almeno dovrò sopportarti trent'anni in meno», sorrisi falsamente, inclinando di poco la testa di lato, portandomi i capelli dietro un orecchio ad elfo, come diceva sempre mio padre.L

ui mi fece la linguaccia, abbassandosi a raccogliere i pomodori. I pantaloni erano così larghi che gli scesero lungo i fianchi, mostrando i boxer neri. Distolsi subito lo sguardo, arrossendo come un pomodoro, uno di quelli che lui stringeva delicatamente fra le mani, come se fossero la cosa più preziosa al mondo.

«Comunque.... Tu sei un ragazzo, Harry», dissi con un tono indifferente,  facendo la vaga.

Lui alzò la testa di scatto, fissandomi sospettoso, assottigliando gli occhi, mentre io scrollavo le spalle, saltando con un balzo sul tavolo della cucina, muovevo le gambe freneticamente, per scacciare il nervosismo.

«Wow, Nanetta, che occhio. Benvenuta nel mondo reale», mi strizzò l'occhio, mettendo i pomodori nella cesta, allungandosi sotto il tavolo per afferrarne altri.

«Già... E sei anche adulto. Insomma, venticinque anni tondi, tondi», mormorai, giocando con l'orlo della mia grande camicia gialla, sentendolo sospirare da sotto il tavolo. Gli avrei mollato volentieri un calcio, dato che era nella posizione adatta per riceverne uno, ma mi serviva per un favore e quindi dovevo accattivarmelo. «Un bellissimo ragazzo di venticinque anni!», esclamai a voce alta, battendo le mani fra di loro.

«Cosa....? Ahi!», imprecò, sbattendo la testa sotto il tavolo, mentre usciva freneticamente da lì sotto, alzandosi tutto rosso in viso, con gli occhi sgranati, «Che hai detto?!», disse con voce acuta, balbettando quasi.

Scrollai le spalle, scendendo dal tavolo ed avvicinandomi a lui, che indietreggiò, inciampando nel piede di una sedia, facendomi ridere per un attimo, prima di tornare seria e civettuola. Sbattevo le palpebre dei mie grandi occhi grigi, camminando lentamente verso di lui, che presto sbatté contro il muro.

«Barbara...», sussurrò, lasciando che le mie braccia si ancorassero al suo collo muscoloso. Aveva il respiro accelerato, ma non capivo perché. Lo vidi rabbrividire sotto il mio tocco, ma non ci feci caso, troppo impegnata a raggiungere il mio obiettivo.

«Harry, sei la persona più bella che esista.... Mi accompagni al negozio di sposa?», chiesi dolcemente, facendolo sbuffare pesantemente, mettendo le mani sui miei fianchi ed avvicinandomi al suo petto muscoloso.

«Sei stronza. Non ci casco», rise, facendomi mettere su un broncio da bambina.

Mi scostai da lui, battendo un piede a terra. Cazzo dovevo andarci. Tra tre settimane mi sposavo e non avevo ancora un maledetto vestito.

«Harry ti prego, non posso arrivarci in bicicletta è lontano. Ti prego, ti prego!», lo pregai, «Ne vale della mia felicità e tu vuoi che io sia felice», dissi con sguardo dolce, sporgendo all'infuori il labbro inferiore, vedendolo distogliere velocemente lo sguardo.

«Sbaglio o mi hai appena detto di starti alla larga? Beh, ho intenzione di farlo», sorrise bastardamente, superandomi, pronto ad uscire in veranda per continuare in giardino il lavoro.

«Harry ti ho mai chiesto un favore?», chiesi seria, facendolo voltare di scatto.

Stava per aprire bocca, pronto a dirmi di quella volta che mi aveva fatto nascondere nel suo armadio per non farmi beccare da mia madre che voleva uccidermi dato che ero rientrata a casa con un piercing al naso, o di quando mi aveva coperto per farmi scendere fino a mezzanotte con le mie amiche, dicendo ai miei che stavo da lui a dormire e molte altre cose. Così, lo bloccai subito.

«Non mi rispondere!», esclamai, protendendo una mano verso di lui, che si era appoggiato allo stipite della porta finestra, guardandomi con sguardo ironico e soddisfatto,«Però questa volta è importante. Ti giuro che non ti prenderò più in giro!».

«Troppo poco. Alza la posta», disse serio, guardando l'orologio al polso.

«Ah, okay, ti faccio la lavatrice per un mese!», sbottai acida, vedendolo picchiettarsi l'indice sulla punta del naso.

«Umh... No, quella già me la fa mia madre», ridacchiò, facendomi ribollire di rabbia.

Venticinque anni e ancora non si faceva la lavatrice da solo? Era senza speranze.

Battei i piedi a terra, «Cosa vuoi, allora?».

Lui ci pensò su, facendomi ribollire di rabbia. Lui e quella sua maledetta aria soddisfatta, come a dire ti ho impugno adesso, nanetta.

«Facciamo.... Un appuntamento, ecco. Esci con me una sera di queste», disse risoluto, scrollando le spalle come se mi avesse chiesto di preparargli un panino alla Nutella.

«Che?! No! Io sono sposata!», ringhia, digrignando i denti. 

Credeva che fossimo due stupidi tredicenni con mille possibilità davanti? Io non potevo cambiare le cose! Dovevo sposarmi.

«Non ancora, mancano tre settimane!», mi incalzò, indurendo i tratti del viso,«E poi o questo o ti scordi il passaggio. Devo fare tante cose, non rompermi», concluse, pronto ad andarsene.

«Aspetta!», urlai, bloccandolo,«Accetto, okay? Ma usciamo come vecchi nemici e non è un appuntamento», ci tenni a precisare.

Lui annuì, afferrando le chiavi della macchina dal mobile sulla cucina. «Andiamo, allora».

Lo guardai seria, sbuffando quando mi restituì uno sguardo spaesato.

«Che c'è?», chiese ingenuo, agitando freneticamente le mani per aria.

«Vieni così, davvero? Con quel jeans sudicio?», chiesi stupita, indicando i suoi pantaloni super sporchi e i capelli sudati.

«Cos'ho che non va? Sono perfetto come sempre», sorrise malizioso, facendomi sbuffare sonoramente.

Afferrai un pomodoro dalla cesta, lanciandoglielo contro, vedendolo coprirsi in tempo il volto con le braccia muscolose.

«Scordatelo. Tu ti cambi e poi mi vieni a prendere. Non ci vado al negozio da sposa con te così! Sembri un barbone! Muoviti».

Lui borbottò contrariato, prima di uscire velocemente di casa, lasciando una scia del suo profumo forte.

 

 

 

«Così va bene, sua maestà?», chiese ironico, scendendo dalla macchina quando parcheggiò, dopo un'ora, l'auto di fronte casa mia.

Aveva fatto una doccia, come me, e aveva indossato un largo pantalone della tuta, grigio e con le molle strette sulle caviglie magre, abbinato ad una maglia a maniche corte blu, con una tasca all'altezza del cuore, da dove fuoriusciva un fazzoletto colorato. I capelli lunghi erano tirati indietro da una fasci azzurra, come le scarpe, avvolta intorno la testa.

«Sai, sembri quasi decente», lo presi in giro, balzando nella sua macchina. 

L'interno era pulito ed ordinato, con i sedili in pelle dal forte odore di noce moscata, come la sua pelle, e dallo specchietto retrovisore pendeva un albero di pino, che emanava un odore di menta, che però era coperto da quello di Harry di erba bagnata. Nei sedili posteriori era poggiata una giacca di cotone nera, enorme come le sue spalle. 

«Vediamo di muoverci che devo scendere stasera», disse scontroso, entrando e sbattendo forte la portiera, prima di ingranare la marcia e mettere in moto.

Le sue braccia muscolose, coperte di tatuaggi, erano rigide mentre reggeva il volante, non distogliendo mai lo sguardo dalla strada dinanzi a se. Il sole era forte, per questo afferrò gli occhiali da sole dal cruscotto, coprendo gli occhi troppo verdi.

«Nervoso», dissi imitando il suo tono in cucina, sentendo le sue nocche scricchiolare per la presa troppo forte.

«Non sai quanto. Così nervoso da sembrare incazzato», ringhiò, facendomi capire che c'era davvero qualcosa che non andava.Abbassai lo sguardo imbarazzata, muovendo freneticamente le mani sulle mie gambe fasciate dai jeans chiari.

«Tutto okay?», chiesi in un sussurrò, sentendo il suo sguardo su di me, ma preferii non incontrarlo.

«Non ti interessa sul serio», rispose, voltando a destra, immettendosi su una strada abbastanza trafficata, ma non così tanto da fermare la nostra corsa.

«Harry.... Mi interessa invece. Anche se ti odio, non significa che mi piaccia vederti soffrire. E so come si ci sente quando si ha un peso sullo stomaco. Parlarne fa bene», dissi cautamente, vedendo la presa sul volante allentarsi, come se si stesse rilassando. «Non dico che devi dirlo a me... Se ti va, però, io.... Boh, ci sono», balbettai, guardando subito fuori il finestrino.

Gli alberi scorrevano velocemente di fronte i miei occhi grandi e grigi, facendomi quasi venir sonno.

«No, non va tutto okay», disse d'un tratto Harry, facendomi sussultare. Il suo tono era così debole e sconfortato che temetti potesse sgretolarsi accanto a me.

«C'entra una ragazza?», chiesi timorosa di conoscere la risposta e, quando lui annuì, il mio stomaco si chiuse su se stesso, come una carta accartocciata da un bambino capriccioso. Un dolore fastidioso si instaurò all'altezza del cuore, facendomi mozzare il respiro in gola.

«Ci ho provato, sai? A farle capire che l'amavo, ma è tardi. Ci avrei dovuto provare prima, quando ancora non amava un altro, quando c'ero ancora solo io. Ma adesso lei.... Sta per andarsene, diciamo», sospirò, passandosi una mano fra i capelli. «All'inizio volevo seguirla, ma non so se è una buona idea. Le starei vicino, ma soffrirei vedendola con l'altro».

Lo fissai con occhi lucidi, vedendo le sue labbra tremare ad ogni parola e avrei voluto stringerlo a me, dirgli che quella puttana non meritava il suo cuore.... Che io c'ero per lui, che lo potevo amare io e.... Barbara, cazzo, cosa pensi?! Sei quasi una sposa! Deglutii a fatica, poggiando una mano sulla sua, che stringeva le marce, facendolo respirare rumorosamente.

«Harry evidentemente non è lei la ragazza a cui sei destinato. Ti innamorerai sicuramente di una ragazza migliore», dissi a fatica, sentendo la rabbia invadermi all'immagine di lui all'altare con una che non ero io.

«Il problema è che lei è la parte migliore di me. La amo da...», si bloccò, come se stesse per dire qualcosa di sbagliato,«Da un po'. Un po' troppo, forse», continuò in un sospiro.

Avrei voluto non fargliela quella domanda, ma la curiosità mi stava divorando.

«Chi è lei?», chiesi d'un fiato, stringendo un pugno sotto le mie gambe sode, serrando la mascella.Speravo che non fosse Ashley Benson, una puttanella che frequentava il mio stesso liceo, cinque anni più grande di me e due più piccola di Harry.

Vidi il riccio accanto a me irrigidirsi, poi d'un tratto la macchina si fermò dolcemente e lui estrasse le chiavi dal nottolino.

«Siamo arrivati», voltò la testa verso di me, fissandomi seriamente,«Ci conviene entrare, prima che i migliori vengano presi».

Annuii velocemente, scendendo ed inciampando nei miei stessi piedi.

Ero stata una stupida se credevo di poter essere io la ragazza di cui era innamorato.

Ma era meglio così.

Io dovevo sposarmi tra meno di tre settimane e non avevo tempo per ripensarci.

Io ed Alan ci amavamo.

«Già... I migliori», mormorai, seguendolo a testa bassa nel negozio.

 

 

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Capitolo 6
*** Solo per dimostrarti che ti odio~ ***


 

Solo per dimostrarmi che ti odio
«Che c'è? Ciclo?», chiese nervoso, continuando a seguirmi per tutta casa, con il pantalone macchiato di sugo che, con molta cura e tantissimo amore, gli avevo rovesciato addosso quando aveva detto che ero solo una nevrotica pazza!
Io?! Nevrotica pazza?!!! Parla lui, quello che parla con dei maledetti vegetali senza una cazzo di vita.
«La verità è che sei solo annoiata e te la prendi con me. Ma certo, tanto per la signorina Harry è un diversivo e anche un autista. Ieri per poco non mi usavi come manichino per provare quella merda di vestito al posto tuo!», sbraitò, facendomi girare di scatto.
Avevo le labbra serrate e gli occhi stretti in due fessure, come se potessero sputare fuoco da un momento all'altro.
Sicuramente l'idea di mia madre, ossia quella di chiamare Harry a farmi compagnia a pranzo, non era stata ottima. Eravamo finiti per litigare... Come al solito.
Mi trattenni dal tirargli un potente calcio nei coglioni, continuando a camminare verso il salone, fingendomi indaffarata a sistemare cose che stavano già in ordine.
«Mi sa che dovresti chiamare Alan e farti una sana scopata, perché sei più isterica di una pensionata!», concluse vicino il mio orecchio, rompendomi i timpani e facendomi sgranare gli occhi.
No, adesso è troppo!, pensai imbestialita, afferrando la prima cosa che mi capitava fra le mani, ossia una torta che mia madre aveva fatto per la signora accanto e, con forza e violenza, gliela schiattai in faccia, facendogli schiudere le labbra piene di panna.
Sembrava un pupazzo di neve e aveva le lunghe ciglia imbrattate dal cioccolato e, la punta del naso, era coperta da una piccola fragola.
«Perché far venire Alan da Londra se c'è Harry, il mio cameriere personale?! Ho deciso, oltre ad essere il mio autista, sarai anche il mio bersaglio preferito per quando dovrò giocare al tiro con la torta», sghignazzai, mettendomi le mani sui fianchi.
Dire che era incazzato nera era riduttivo. Dalle sue orecchie usciva fumo ed era più sporco quel pomeriggio che gli altri quando lavorava in giardino. 
I ricci ribelli, quelli che fuoriuscivano dalla fascia, coprendo la fronte ampia, erano sporchi anch'essi di panna ed era forse la cosa che più lo fece imbestialire, dato che ringhiò come un animale.
«Sei una maledettissima stronza! Ti picchierei a sangue se potessi, ma penso che anche le mie mani si rifiuterebbero di toccare un rifiuto come te», disse sorridendo glacialmente, facendo comparire le due fossette ai lati della bocca.
Non so cosa fu, forse quel viso da bambino o le labbra contornate dalla glassa rossa della torta, ma non riuscii a rispondergli a tono, ne a dargli uno schiaffo su quella faccia perfetta
«Sai cosa ti dico? Mi hai scocciata. Prima finisci quel maledetto giardino prima te ne vai a fare in culo una volta per tutte», mormorai, rimettendo il piatto della torta sul tavolo della cucina.
Mia madre mi avrebbe ammazzata, ma lo avrei rifatto mille volte se questo significava vedere il riccio sporco fin dentro le mutande.
«Amore ci andrei, ma mi toccherebbe condividere anche quel posto con te, dato che tu sei abituata a starci», disse cauto  quasi dolcemente, afferrando poi, dalla pila di panni stirati posta sul divano, la mia maglietta blu e scollata sulla schiena, quella che avevo pagato tantissimo e che Alan adorava.
Se l'appoggiò sulla faccia e, con un ghigno maledettamente fastidioso, se la pulì interamente, strofinando i bordi in pizzo sulle guance piene di cioccolato fondente.
Sgranai gli occhi e ringhia incazzata, stringendo le mani lungo i fianchi per evitare di frantumargli il vaso in testa, il preferito di mia madre. Avevo già commesso abbastanza casini.
«Ottima pezza. Lino? Quale mercatino la vende? Potrei comprarla e lavarci il pavimento del mio cesso», proferì soddisfatto, rimettendomi la maglia fra le mani tremanti, scosse da brividi di rabbia.
La strinsi convulsamente, ricordandomi quanto poco gusto per la moda avesse quel ragazzo senza un minimo di cervello.
«Ignorante! Sai quanto cavolo mi è costata? Ho dovuto spendere tutti i miei risparmi per questa maledetta maglietta», mi lagnai urlando, sentendo le lacrime di frustrazione agli angoli degli occhi.
«Beh bambolina», disse facendomi irritare ancora di più al suono di quell'appellativo,«È stata una truffa: a quella maglia manca tutto il pezzo di dietro».
Roteai esasperata gli occhi al cielo. Beata ignoranza! Sbuffai, battendo un piede a terra come una bambina capricciosa e, in un attimo, mi sembrava di essere tornata ai miei sei anni.
«Sei.... Aaargh! Alan adorava questa maglietta ed ora per colpa tua non potrà più vedermi indossarla. Sei nato per rovinare la vita di tutti!», sbraitai, vedendolo sorridere furbamente, alzando l'angolo sinistro della bocca.
Gli avrei mollato un pugno sullo zigomo, ma sapevo che mi sarei fatta più male io che lui.
«Cristo, Alan si eccita per così poco? Sensibile il ragazzo», mi fece l'occhiolino, squadrandomi poi da capo a piedi ed io, in quel momento, seppi che stava per dire una frase che mi avrebbe fatta incazzare più del dovuto. «E poi per eccitarsi alla tua vista bisogna essere gay».
Inizialmente sentii qualcosa spezzarsi dalle parti del cuore, ma forse era solo rabbia. Fatto sta, che il sangue prese a pulsare velocemente nelle vene, tanto che lo sentivo nelle orecchie ad elfo, come diceva lui, e sapevo che stavo per commettere una pazzia.
«D'accordo... Allora io», sussurrai, poi afferrai le forbici sul tavolo e, senza dire nulla, uscii di casa, camminando spedita nel vialetto in mattoni.
«Che cazzo fai? Hai deciso di pulire la strada dalle erbacce?», mi prese lui in giro ancora, seguendomi soddisfatto, con il mento alto e il solito sorriso da bastardo.
Non lo degnai di una risposta, fissando attentamente il mio obbiettivo: la sua schifosissima macchina.
«Barbara, cosa vuoi fare?», chiese titubante, vedendomi girare intorno il suo gioiellino nero, nuovo di zecca.
Deglutì a fatica e vidi nei suoi occhi un grande terrore verso quel paio di innocue forbici. Mi sarei divertita io adesso. Vediamo se ti ecciti alla vista di me che ti sfascio l'auto, pensai ghignando.
Poi, con naturalezza e un grande sorriso, senza distogliere lo sguardo dal suo cristallino, ficcai ardentemente la punta della forbice in una delle ruote.
«No, no! Merda! Sei una pazza stronza!», urlò, sbiancando come un cadavere e cercando di afferrarmi per le braccia, ma io raggiunsi l'altra parte dell'auto e, camminando, strisciavo la bellissima fiancata.
«Carino questo vetro», dissi sbattendo le palpebre civettuola, mentre Harry respirava velocemente e faceva scorrere lo sguardo dal mio volto alle forbici,«Così nuovo da poterci specchiare dentro».
Mi ravvivai giocosamente i capelli con la mano, prima di graffiare con la stessa punta anche il finestrino, sentendolo digrignare i denti.
Sembravamo due bambini, ma davvero mi stavo divertendo troppo.
«Vedi, amore, anche io posso essere cattiva», sussurrai nel suo orecchio, prima di camminare nuovamente verso casa, lasciandolo pietrificato lì fuori.
Mi sentivo finalmente soddisfatta o, almeno, mi imposi di esserlo. Perché dentro, avrei voluto solo che lui si rimangiasse quelle parole. Mi importava davvero tanto essere eccitante per lui? Si, un casino, ma soprattutto avrei voluto evitare di fargli quel guaio alla macchina.
Si passò una mano fra i capelli, sospirando pesantemente e, poi, si girò verso di me, fissandomi con occhi vuoti.
«Sai che ti dico, Barbara? Sei solo una ragazza gelata e senza cuore. Spero che tu e Alan possiate vivere felici per i prossimi ottomila anni. Fattelo da sola quel cazzo di giardino», sputò acido, prima di incamminarsi verso casa.
Cosa?! Io ero negata in tutto quello che implicava natura e sporco, non poteva farmi questo. Lo pagavamo, cazzo, e poi mancavano cinque giorni e due settimana all'arrivo della famiglia di Alan e del mio futuro sposo e sei giorni e due settimane al mio matrimonio. Dovevamo fare là il ricevimento e c'erano ancora alberi e siepi secche.
Lanciai un urlo di frustrazione, seguendolo, ma lui sembrava non curarsi di me. Di sicuro non gli avrei chiesto scusa, ne implorato di tornare da me. Mai, mai, mai! 
Bill, il cane che stava appostato sotto l'albero in giardino, ci guardava stranito, ma non si mosse di una virgola, per la prima volta. Di solito correva a salvarmi. Adesso si limitava solo a spostare lo sguardo da me ad Harry, furente.
«La tua macchina, Styles», lo avvisai, parandomi davanti a lui per impedirgli di continuare la sua corsa. 
Ogni passo che faceva corrispondeva a due affannati dei miei.
«Ha le ruote sgonfie, come cazzo vuoi che la guido Allen?», marcò il mio cognome, facendomi bollire di rabbia.
«Non ce la voglio davanti casa mia. Quindi chiama un carro-attrezzi o chicchessia e leva quella merda dal mio vialetto. Non mi importa quanto ci metterai, ne come farai, ma entro un'ora voglio libero lo spazio o chiamo la polizia!», sbraitai, tornandomene indietro.
Ebbi solo il tempo di sentire lui che imprecava contro di me, digitando il numero di qualcuno.
Certo, tutto quello gli sarebbe costato parecchio, ma se lo meritava dopo il modo in cui mi aveva trattata.
Lo odio, lo odio, lo odio. E io che per un attimo mi ero illusa di.... Amarlo? No, amarlo mai! Volergli bene tutto al più.
Ma evidentemente io e lui eravamo come due pezzi di un puzzle destinati a non incastrarsi. Il fuoco e la pioggia, Venere e Marte.
«Fottuto bastardo!», urlai una volta in casa, sbattendomi la porta dietro le spalle con veemenza.
Raggiunsi con una falcata il salone, notando le cornici piene di foto mie e di Harry. In tutte lui sorrideva compiaciuto, mentre io avevo un enorme broncio stampato sul viso.
Ne afferrai una in cui lui mi avvolgeva le spalle con un braccio, tirandomi una guancia.
«Sei solo un cazzone che ha il cervello nelle mutande!», urlai davanti il suo volto in fotografia,«La sai una cosa? Eh?», continuai, sobbalzando quando sentii il rumore della porta di casa che si apriva.
Corsi nel corridoio dell'ingresso, vedendo entrare Harry, con ancora tutti i panni sporchi di cibo, che ringhiava sommessamente.
«Esci! Harry giuro che ti ammazzo! È inutile che vieni qui per farti perdonare. Non lo fare mai, neanche se me lo chiedesse Alan!», gli sputai in faccia quelle parole  dandogli un colpetto sulla spalla.
«Tappati quella boccaccia, santo il dio! Non farei la pace con te neanche se fossi l'ultima mia speranza di salvezza, giuro. Sei la donna più irritante ed insopportabile che conosca! Infantile!», terminò con un grido, afferrando le chiavi della macchina e sventolandomele davanti gli occhi. «Mi servivano queste, altrimenti la macchina rimaneva davanti il tuo preziosissimo vialetto!».
«Bene!», dissi battendo le mani sui fianchi.
«Bene!», mi imitò lui, picchiando il palmo della grossa mano sul muro accanto, facendo tremare i quadri appesi.
«Benissimo. Spero che tu possa pagare miliardi per aggiustare quella schifezza di auto», gli augurai con il cuore, sfidandolo con lo sguardo.
I suoi occhi a mandorla e verdi mi fissarono furiosi e, in quel momento, mi ricordai che era di ben sette anni più grande di me.
«Perfetto! Ti odio più di quanto tu possa immaginare, Barbara», disse rocamente, facendomi bloccare sul posto.
Quanto mi odiava? Ah, che cavolo mi interessava, io lo odiavo molto di più.
«Mi sta venendo una voglia di andarmene che neanche immagini», continuò gesticolando ampiamente, afferrando il pomello della porta.
«E a me sta venendo una voglia che tu te ne vada che neanche immagini», replicai, gesticolando a mia volta e gettandolo con fatica fuori. «Buon viaggio Styles».
«Fottiti Allen», sorrise, stringendo in un pugno le chiavi e afferrando la porta, sbattendomela lui in faccia.
Ci picchiai forte il naso piccolo e a punta sopra, gemendo per il dolore. Dio lo ammazzo!, pensai e, con un secco scatto fulmineo, aprii la porta, pronta a dirgliene di tutti i colori.
Ovviamente non immaginavo che fosse così vicino all'uscio così, appena il legno che ci separava fu scomparso, volendo entrambi parlare ed insultare l'altro per primo, ci gettammo inconsapevolmente in avanti e, per pochi secondi, le nostre labbra vennero a contatto.
Le mie mani si poggiarono sulle sue spalle, per evitare di cadere in avanti, mentre le sue braccia mi cinsero la vita, per non farmi cadere a faccia a terra.
L'attimo in cui le nostre labbra si toccarono, fu breve ma carico di tensione e sensazioni stranamente piacevoli.
Il mio stomaco si chiuse e centinai di farfalle lo invasero, mentre rabbrividivo maledettamente. 
Ci staccammo bruscamente, sgranando entrambi gli occhi. Io schiusi le labbra come a dire qualcosa, per giustificare quello che era successo, ma lui mi precedette, girandosi di spalle e camminando velocemente verso il carro-attrezzi che si stava trascinando via l'auto. Ci salì sopra, senza neanche degnarmi di uno sguardo.
Respirai affannosamente, rientrando in casa nuovamente, chiudendo la porta e scivolando con la schiena lungo il legno.
Colpa. Mi sentivo maledettamente in colpa per quello che avevo provato per una cosa che neanche si poteva definire bacio. Le nostre labbra si erano semplicemente incastrate e, se il contatto era durato a lungo, era perché eravamo troppo scioccati e non riuscivamo a muoverci, vero? Avevo come la sensazione che io invece volevo che continuasse all'infinito. 
Portai una mano sul mio cuore: mi batteva ancora all'impazzata e mi girava la testa.
Il salone era un disastro a causa dei pezzetti di torta a terra e sapevo che mia madre mi avrebbe ammazzata, ma non riuscivo a non pensare a quanto Harry avesse delle labbra morbide. Così diverse da Alan. Così diverse da quello che mi trasmettevano quelle di Alan.
Scossi velocemente la testa. Io lo odiavo e continuai a ripetermelo, ma mi sembrava quasi stupido anche solo pensarlo.
«No. No! Barbara non lo ami. Dimostralo!», urlai a me stessa come una pazza mentale.
Salii velocemente le scale, afferrando il cellulare sulla scrivania e digitando velocemente un messaggio ad Harry, che inviai con l'anonimo.
Caro signor Styles, 
Abbiamo ricevuto la sua proposta per entrare nella nostra università qui a Londra ed è con grande piacere che vogliamo comunicarle che accettiamo. Spero di poterla incontrare all'università di Holmes Chapel. Un mio assistente, Mark Collins, le parlerà del trasferimento.
Distinti saluti.
Inviai senza pensarci, immaginandomi la sua faccia soddisfatta quando l'avesse letto e anche quella dispiaciuta quando avrebbe scoperto che non esisteva nessun Mark Collins e che era tutta una falsa.
La vecchia me, quella di tredici anni, si sarebbe stesa sul letto con un sorriso soddisfatto. Ma la Barbara di diciott'anni continuò a girarsi fra le coperte tutta la notte.
Era la cosa giusta? Cosa stava succedendo veramente? Amavo Alan? Ero convinta di volermi sposare?
Cercai di non pensarci e, in parte, ci riuscii. 
Ma il mattino seguente, quando mia madre mi disse che Harry non sarebbe venuto per il giardino perché aveva un colloquio con un insegnate all'università, non potei fare altro che dire la verità a lei e scusarmi con Anne, che essendo troppo gentile non si arrabbiò molto. Come faceva? Io ero una stronza! Harry aveva ragione.
Mia madre, al contrario, non mi rivolse la parola. Lei amava Harry, essendo il figlio maschio che non aveva mai avuto.
Aspettai ansiosamente il pomeriggio per parlargli, ma non si fece vedere e neanche i due giorni successivi.
Avevo combinato 

«Che c'è? Ciclo?», chiese nervoso, continuando a seguirmi per tutta casa, con il pantalone macchiato di sugo che, con molta cura e tantissimo amore, gli avevo rovesciato addosso quando aveva detto che ero solo una nevrotica pazza!

Io?! Nevrotica pazza?!!! Parla lui, quello che parla con dei maledetti vegetali senza una cazzo di vita.

«La verità è che sei solo annoiata e te la prendi con me. Ma certo, tanto per la signorina Harry è un diversivo e anche un autista. Ieri per poco non mi usavi come manichino per provare quella merda di vestito al posto tuo!», sbraitò, facendomi girare di scatto.

Avevo le labbra serrate e gli occhi stretti in due fessure, come se potessero sputare fuoco da un momento all'altro. Sicuramente l'idea di mia madre, ossia quella di chiamare Harry a farmi compagnia a pranzo, non era stata ottima. Eravamo finiti per litigare... Come al solito.

Mi trattenni dal tirargli un potente calcio nei coglioni, continuando a camminare verso il salone, fingendomi indaffarata a sistemare cose che stavano già in ordin.e

«Mi sa che dovresti chiamare Alan e farti una sana scopata, perché sei più isterica di una pensionata!», concluse vicino il mio orecchio, rompendomi i timpani e facendomi sgranare gli occhi.

No, adesso è troppo!, pensai imbestialita, afferrando la prima cosa che mi capitava fra le mani, ossia una torta che mia madre aveva fatto per la signora accanto e, con forza e violenza, gliela schiattai in faccia, facendogli schiudere le labbra piene di panna. Sembrava un pupazzo di neve e aveva le lunghe ciglia imbrattate dal cioccolato e, la punta del naso, era coperta da una piccola fragola.

«Perché far venire Alan da Londra se c'è Harry, il mio cameriere personale?! Ho deciso, oltre ad essere il mio autista, sarai anche il mio bersaglio preferito per quando dovrò giocare al tiro con la torta», sghignazzai, mettendomi le mani sui fianchi.

Dire che era incazzato nera era riduttivo. Dalle sue orecchie usciva fumo ed era più sporco quel pomeriggio che gli altri quando lavorava in giardino. I ricci ribelli, quelli che fuoriuscivano dalla fascia, coprendo la fronte ampia, erano sporchi anch'essi di panna ed era forse la cosa che più lo fece imbestialire, dato che ringhiò come un animale.

«Sei una maledettissima stronza! Ti picchierei a sangue se potessi, ma penso che anche le mie mani si rifiuterebbero di toccare un rifiuto come te», disse sorridendo glacialmente, facendo comparire le due fossette ai lati della bocca.

Non so cosa fu, forse quel viso da bambino o le labbra contornate dalla glassa rossa della torta, ma non riuscii a rispondergli a tono, ne a dargli uno schiaffo su quella faccia perfetta.

«Sai cosa ti dico? Mi hai scocciata. Prima finisci quel maledetto giardino prima te ne vai a fare in culo una volta per tutte», mormorai, rimettendo il piatto della torta sul tavolo della cucina.

Mia madre mi avrebbe ammazzata, ma lo avrei rifatto mille volte se questo significava vedere il riccio sporco fin dentro le mutande.

«Amore ci andrei, ma mi toccherebbe condividere anche quel posto con te, dato che tu sei abituata a starci», disse cauto  quasi dolcemente, afferrando poi, dalla pila di panni stirati posta sul divano, la mia maglietta blu e scollata sulla schiena, quella che avevo pagato tantissimo e che Alan adorava.

Se l'appoggiò sulla faccia e, con un ghigno maledettamente fastidioso, se la pulì interamente, strofinando i bordi in pizzo sulle guance piene di cioccolato fondente. Sgranai gli occhi e ringhia incazzata, stringendo le mani lungo i fianchi per evitare di frantumargli il vaso in testa, il preferito di mia madre. Avevo già commesso abbastanza casini.

«Ottima pezza. Lino? Quale mercatino la vende? Potrei comprarla e lavarci il pavimento del mio cesso», proferì soddisfatto, rimettendomi la maglia fra le mani tremanti, scosse da brividi di rabbia.

La strinsi convulsamente, ricordandomi quanto poco gusto per la moda avesse quel ragazzo senza un minimo di cervello.

«Ignorante! Sai quanto cavolo mi è costata? Ho dovuto spendere tutti i miei risparmi per questa maledetta maglietta», mi lagnai urlando, sentendo le lacrime di frustrazione agli angoli degli occhi.

«Beh bambolina», disse facendomi irritare ancora di più al suono di quell'appellativo,«È stata una truffa: a quella maglia manca tutto il pezzo di dietro».

Roteai esasperata gli occhi al cielo. Beata ignoranza! Sbuffai, battendo un piede a terra come una bambina capricciosa e, in un attimo, mi sembrava di essere tornata ai miei sei anni.

«Sei.... Aaargh! Alan adorava questa maglietta ed ora per colpa tua non potrà più vedermi indossarla. Sei nato per rovinare la vita di tutti!», sbraitai, vedendolo sorridere furbamente, alzando l'angolo sinistro della bocca.

Gli avrei mollato un pugno sullo zigomo, ma sapevo che mi sarei fatta più male io che lui.

«Cristo, Alan si eccita per così poco? Sensibile il ragazzo», mi fece l'occhiolino, squadrandomi poi da capo a piedi ed io, in quel momento, seppi che stava per dire una frase che mi avrebbe fatta incazzare più del dovuto. «E poi per eccitarsi alla tua vista bisogna essere gay».

Inizialmente sentii qualcosa spezzarsi dalle parti del cuore, ma forse era solo rabbia. Fatto sta, che il sangue prese a pulsare velocemente nelle vene, tanto che lo sentivo nelle orecchie ad elfo, come diceva lui, e sapevo che stavo per commettere una pazzia.

«D'accordo... Allora io», sussurrai, poi afferrai le forbici sul tavolo e, senza dire nulla, uscii di casa, camminando spedita nel vialetto in mattoni.

«Che cazzo fai? Hai deciso di pulire la strada dalle erbacce?», mi prese lui in giro ancora, seguendomi soddisfatto, con il mento alto e il solito sorriso da bastardo.

Non lo degnai di una risposta, fissando attentamente il mio obbiettivo: la sua schifosissima macchina.

«Barbara, cosa vuoi fare?», chiese titubante, vedendomi girare intorno il suo gioiellino nero, nuovo di zecca.

Deglutì a fatica e vidi nei suoi occhi un grande terrore verso quel paio di innocue forbici. Mi sarei divertita io adesso. Vediamo se ti ecciti alla vista di me che ti sfascio l'auto, pensai ghignando. Poi, con naturalezza e un grande sorriso, senza distogliere lo sguardo dal suo cristallino, ficcai ardentemente la punta della forbice in una delle ruote.

«No, no! Merda! Sei una pazza stronza!», urlò, sbiancando come un cadavere e cercando di afferrarmi per le braccia, ma io raggiunsi l'altra parte dell'auto e, camminando, strisciavo la bellissima fiancata.

«Carino questo vetro», dissi sbattendo le palpebre civettuola, mentre Harry respirava velocemente e faceva scorrere lo sguardo dal mio volto alle forbici,«Così nuovo da poterci specchiare dentro».

Mi ravvivai giocosamente i capelli con la mano, prima di graffiare con la stessa punta anche il finestrino, sentendolo digrignare i denti. Sembravamo due bambini, ma davvero mi stavo divertendo troppo.

«Vedi, amore, anche io posso essere cattiva», sussurrai nel suo orecchio, prima di camminare nuovamente verso casa, lasciandolo pietrificato lì fuori.

Mi sentivo finalmente soddisfatta o, almeno, mi imposi di esserlo. Perché dentro, avrei voluto solo che lui si rimangiasse quelle parole. Mi importava davvero tanto essere eccitante per lui? Si, un casino, ma soprattutto avrei voluto evitare di fargli quel guaio alla macchina.

Si passò una mano fra i capelli, sospirando pesantemente e, poi, si girò verso di me, fissandomi con occhi vuoti.

«Sai che ti dico, Barbara? Sei solo una ragazza gelata e senza cuore. Spero che tu e Alan possiate vivere felici per i prossimi ottomila anni. Fattelo da sola quel cazzo di giardino», sputò acido, prima di incamminarsi verso casa.

Cosa?!

Io ero negata in tutto quello che implicava natura e sporco, non poteva farmi questo. Lo pagavamo, cazzo, e poi mancavano cinque giorni e due settimana all'arrivo della famiglia di Alan e del mio futuro sposo e sei giorni e due settimane al mio matrimonio. Dovevamo fare là il ricevimento e c'erano ancora alberi e siepi secche.

Lanciai un urlo di frustrazione, seguendolo, ma lui sembrava non curarsi di me. Di sicuro non gli avrei chiesto scusa, ne implorato di tornare da me. Mai, mai, mai! 

Bill, il cane che stava appostato sotto l'albero in giardino, ci guardava stranito, ma non si mosse di una virgola, per la prima volta. Di solito correva a salvarmi. Adesso si limitava solo a spostare lo sguardo da me ad Harry, furente.

«La tua macchina, Styles», lo avvisai, parandomi davanti a lui per impedirgli di continuare la sua corsa. 

Ogni passo che faceva corrispondeva a due affannati dei miei.

«Ha le ruote sgonfie, come cazzo vuoi che la guido Allen?», marcò il mio cognome, facendomi bollire di rabbia.

«Non ce la voglio davanti casa mia. Quindi chiama un carro-attrezzi o chicchessia e leva quella merda dal mio vialetto. Non mi importa quanto ci metterai, ne come farai, ma entro un'ora voglio libero lo spazio o chiamo la polizia!», sbraitai, tornandomene indietro.

Ebbi solo il tempo di sentire lui che imprecava contro di me, digitando il numero di qualcuno. Certo, tutto quello gli sarebbe costato parecchio, ma se lo meritava dopo il modo in cui mi aveva trattata.Lo odio, lo odio, lo odio. E io che per un attimo mi ero illusa di.... Amarlo? No, amarlo mai! Volergli bene tutto al più. Ma evidentemente io e lui eravamo come due pezzi di un puzzle destinati a non incastrarsi. Il fuoco e la pioggia, Venere e Marte.

«Fottuto bastardo!», urlai una volta in casa, sbattendomi la porta dietro le spalle con veemenza.

Raggiunsi con una falcata il salone, notando le cornici piene di foto mie e di Harry. In tutte lui sorrideva compiaciuto, mentre io avevo un enorme broncio stampato sul viso. Ne afferrai una in cui lui mi avvolgeva le spalle con un braccio, tirandomi una guancia.

«Sei solo un cazzone che ha il cervello nelle mutande!», urlai davanti il suo volto in fotografia,«La sai una cosa? Eh?», continuai, sobbalzando quando sentii il rumore della porta di casa che si apriva.

Corsi nel corridoio dell'ingresso, vedendo entrare Harry, con ancora tutti i panni sporchi di cibo, che ringhiava sommessamente.

«Esci! Harry giuro che ti ammazzo! È inutile che vieni qui per farti perdonare. Non lo fare mai, neanche se me lo chiedesse Alan!», gli sputai in faccia quelle parole  dandogli un colpetto sulla spalla.

«Tappati quella boccaccia, santo il dio! Non farei la pace con te neanche se fossi l'ultima mia speranza di salvezza, giuro. Sei la donna più irritante ed insopportabile che conosca! Infantile!», terminò con un grido, afferrando le chiavi della macchina e sventolandomele davanti gli occhi. «Mi servivano queste, altrimenti la macchina rimaneva davanti il tuo preziosissimo vialetto!».

«Bene!», dissi battendo le mani sui fianchi.

«Bene!», mi imitò lui, picchiando il palmo della grossa mano sul muro accanto, facendo tremare i quadri appesi.

«Benissimo. Spero che tu possa pagare miliardi per aggiustare quella schifezza di auto», gli augurai con il cuore, sfidandolo con lo sguardo.

I suoi occhi a mandorla e verdi mi fissarono furiosi e, in quel momento, mi ricordai che era di ben sette anni più grande di me.

«Perfetto! Ti odio più di quanto tu possa immaginare, Barbara», disse rocamente, facendomi bloccare sul posto.

Quanto mi odiava? Ah, che cavolo mi interessava, io lo odiavo molto di più.

«Mi sta venendo una voglia di andarmene che neanche immagini», continuò gesticolando ampiamente, afferrando il pomello della porta.

«E a me sta venendo una voglia che tu te ne vada che neanche immagini», replicai, gesticolando a mia volta e gettandolo con fatica fuori.

«Buon viaggio Styles».

«Fottiti Allen», sorrise, stringendo in un pugno le chiavi e afferrando la porta, sbattendomela lui in faccia.

Ci picchiai forte il naso piccolo e a punta sopra, gemendo per il dolore.

Dio lo ammazzo!, pensai e, con un secco scatto fulmineo, aprii la porta, pronta a dirgliene di tutti i colori.

Ovviamente non immaginavo che fosse così vicino all'uscio così, appena il legno che ci separava fu scomparso, volendo entrambi parlare ed insultare l'altro per primo, ci gettammo inconsapevolmente in avanti e, per pochi secondi, le nostre labbra vennero a contatto. Le mie mani si poggiarono sulle sue spalle, per evitare di cadere in avanti, mentre le sue braccia mi cinsero la vita, per non farmi cadere a faccia a terra.

L'attimo in cui le nostre labbra si toccarono, fu breve ma carico di tensione e sensazioni stranamente piacevoli. Il mio stomaco si chiuse e centinai di farfalle lo invasero, mentre rabbrividivo maledettamente.

 Ci staccammo bruscamente, sgranando entrambi gli occhi. Io schiusi le labbra come a dire qualcosa, per giustificare quello che era successo, ma lui mi precedette, girandosi di spalle e camminando velocemente verso il carro-attrezzi che si stava trascinando via l'auto. Ci salì sopra, senza neanche degnarmi di uno sguardo.

Respirai affannosamente, rientrando in casa nuovamente, chiudendo la porta e scivolando con la schiena lungo il legno.

Colpa.

Mi sentivo maledettamente in colpa per quello che avevo provato per una cosa che neanche si poteva definire bacio. Le nostre labbra si erano semplicemente incastrate e, se il contatto era durato a lungo, era perché eravamo troppo scioccati e non riuscivamo a muoverci, vero? Avevo come la sensazione che io invece volevo che continuasse all'infinito.

 Portai una mano sul mio cuore: mi batteva ancora all'impazzata e mi girava la testa.

Il salone era un disastro a causa dei pezzetti di torta a terra e sapevo che mia madre mi avrebbe ammazzata, ma non riuscivo a non pensare a quanto Harry avesse delle labbra morbide. Così diverse da Alan. Così diverse da quello che mi trasmettevano quelle di Alan.

Scossi velocemente la testa. Io lo odiavo e continuai a ripetermelo, ma mi sembrava quasi stupido anche solo pensarlo.

«No. No! Barbara non lo ami. Dimostralo!», urlai a me stessa come una pazza mentale.

Salii velocemente le scale, afferrando il cellulare sulla scrivania e digitando velocemente un messaggio ad Harry, che inviai con l'anonimo.


Caro signor Styles, Abbiamo ricevuto la sua proposta per entrare nella nostra università qui a Londra ed è con grande piacere che vogliamo comunicarle che accettiamo. Spero di poterla incontrare all'università di Holmes Chapel. Un mio assistente, Mark Collins, le parlerà del trasferimento. Distinti saluti.

 

Inviai senza pensarci, immaginandomi la sua faccia soddisfatta quando l'avesse letto e anche quella dispiaciuta quando avrebbe scoperto che non esisteva nessun Mark Collins e che era tutta una falsa. La vecchia me, quella di tredici anni, si sarebbe stesa sul letto con un sorriso soddisfatto. Ma la Barbara di diciott'anni continuò a girarsi fra le coperte tutta la notte.

Era la cosa giusta?

Cosa stava succedendo veramente?

Amavo Alan?

Ero convinta di volermi sposare?

Cercai di non pensarci e, in parte, ci riuscii. 

Ma il mattino seguente, quando mia madre mi disse che Harry non sarebbe venuto per il giardino perché aveva un colloquio con un insegnate all'università, non potei fare altro che dire la verità a lei e scusarmi con Anne, che essendo troppo gentile non si arrabbiò molto.

Come faceva? Io ero una stronza! Harry aveva ragione. Mia madre, al contrario, non mi rivolse la parola. Lei amava Harry, essendo il figlio maschio che non aveva mai avuto. Aspettai ansiosamente il pomeriggio per parlargli, ma non si fece vedere e neanche i due giorni successivi.

Avevo combinato un casino enorme.   

 

Nota Autrice:

Saaaaaalve! Allora, come vi sembra questo capitolo? Io lo amo e mi è piaciuto un casino scriverlo perché mi sono ispirata ad un mio episodio. Inoltre, vi volevo dire che Putroppo la scuola è iniziata e io sono già piena di compiti grazie alla mia amabile professoressa di greco e latino, quindi penso che non riuscirò a postare i capitoli molto velocemente. Vi chiedo quindi di avere pazienza e non odiarmi, perché io vi adoro per i bellissimi commenti che mi lasciate. Grazie.

Oggi è anche il compleanno di Niall: AUGURI AMORE! Non ci credo che fa 21 anni. Per me rimarrà sempre il biondo tinto che si presentò a X-Factor con il maglione rosso e i denti storti. 

Ora vado altrimenti questa nota diventa più lunga della storia.... E non è il caso. Alla prossima :D

 

Ps: vi lascio qui una piccola anticipazione del prossimo capitolo, in cui parlerà Harry per la prima volta:

 

«Ciao Barbara, vedi mi hai spezzato il cuore ancora di più. Ma non preoccuparti, ci sono abituato», scrollai le spalle, facendo fatica a parlare fra i singhiozzi.

Mi avvicinai maggiormente alla porta finestra, vedendoli parlare e sorridere gioiosamente, come se avessero aspettato tanto solo per guardare uno negli occhi dell'altro.

«Ah, comunque volevo dirti che ti amo, così tanto che non mi importa se mi fai del male ogni giorno di più, cioè.... Tanto il mio cuore è tuo e puoi giocarci ancora un po', perché penso che qualche frammento da calpestare ci sia rimasto».

 

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Capitolo 7
*** La bacio?~ ***


 

La bacio?
«È inutile, Luca. Si sposa. Continuandole a correre dietro non ci risolverò mai niente», sbuffai  mettendo in ordine il casino dentro il negozio di fiori, pieno di petali sparsi qua e là.
«Cosa? No! Harry se ti arrendi non ci risolverai mai niente! Combattente!», esclamò, dandomi un pugno sulla spalla, facendomi barcollare leggermente in avanti.
Mi massaggiai il punto colpito, fulminandolo con lo sguardo, prima di riprendere in mano la scopa e spazzare tutto quel terreno.
«Luca, forse non capisci: ama un altro. Lo ama così tanto da sposarlo... E poi che dovrei fare? Fare irruzione in casa sua e dirle Ehy Barbie, comunque ti amo! Immagina la faccia», sputai acido, pungendomi con una rosa che stavo togliendo da sotto il bancone.
Mi misi il pollice in bocca, imprecando mentalmente. Non sapevo se prendermela con il fiore o con quel deficiente di Luca.
«No, no, no ragazzo. Più romantico», disse scuotendo il capo rassegnato, parlando con quel suo dannatissimo accento italiano che mi irritava quasi quanto l'idea di vedere Barbara sposata con un deficiente londinese.
«Ti insegno io», sorrise, tirandomi per un braccio e spingendomi nel magazzino pieno di fiori che erano arrivati quella mattina.
Il forte odore di terreno e insetticida ci riempì le narici, facendoci lacrimare leggermente.
«Lu ma sei impazzito? Lasciami!», provai a scollarmelo di dosso, ma lui mi costrinse su una vecchia sedia di legno, che mi sfilacciò i jeans già rotti e consumati. «Dobbiamo lavorare, non fare stronzate», dissi imbronciato, incrociando le braccia davanti il petto muscoloso, sbuffando sonoramente per fargli capire quanto fossi incazzato.
Ancora stavo pensando alla figura di merda che avevo fatto all'università per colpa di Barbara e, nonostante stessi evitando il più possibile di incontrarla, non potevo impedire a me stesso di appostarmi fuori la porta-finestra del salotto tutte le mattine per vederla fare colazione. Era questa la mia maledizione: non riuscivo proprio ad odiare niente di lei, a parte il fatto che aveva rubato il mio cuore senza neanche saperlo.
«Questo è la chiave del successo!», esclamò Luca, facendomi sobbalzare e tornare alla realtà, mentre mi sventolava davanti gli occhi un telecomando rotto e dai pulsanti sbiaditi.
Inarcai un sopracciglio, guardandolo dal basso verso l'alto con la classica espressione stai-scherzando-vero?! 
«Che c'è?», mi chiese lui curioso, quasi come se stesse reggendo davanti a me un anello di diamanti o una di quelle cose per cui le ragazze impazziscono. 
Un telecomando! Okay Harry, così te lo getta proprio a presso!
«Lu mi prendi per il culo?!», sbraitai incazzato, con i nervi tesi a mille,«Che cazzo ci faccio con telecomando vecchio e logoro?».
Respirai velocemente, cercando di calmare i miei spiriti bollenti che mi inducevano a saltargli a dosso e dargli uno schiaffo per farlo rinsavire. Avevo il sangue che bolliva nelle vene e le orecchie rosse per la rabbia. Una marea di pensieri mi fluttuavano per la testa, tutte con un solo nome: Barbara; e lui che mi diceva che un telecomando era la chiave del mio successo!
Si, Harry, lo sarà se vuoi che ti cacci a calci in culo da casa sua!, pensai ironico, emettendo un ringhio dal fondo della gola.
«Telecomando vecchio e logoro? Harry questo ha permesso alle migliori colonne sonore di farmi scopare qui dentro, anche sulla sedia dove poggi il tuo culo», rise, strizzandomi l'occhio.
Io mi alzi di scatto, disgustato. Eh che cazzo, Lu! Ma fai schifo!! Dannazione.
«Sentiamo, allora, che dovrei fare? Mettere una canzoncina strappalacrime e cimentarmi in un patetico discorso in cui le rivelo che la amo da quando aveva solo undici anni e io come bravo pedofilo ne avevo già diciotto?», chiesi con voce pacata, mentre dentro ero fumante di rabbia.
Il mio sorriso glaciale occupava l'intera faccia e volevo solo dare a pugni qualcuno. Ovviamente quel qualcuno si chiamava Luca!! Coincidenze? Io credo di no.
«Povero me!», disse teatralmente, battendosi una mano sulla fronte dalla pelle scura e leggermente rugosa,«Sono circondato da dilettanti! Bisogna creare.... L'atmosfera»
Sbuffò, mentre si avvicinava ad uno stereo stile anni cinquanta, con ancora le enormi casse ed un'antenna. Pigiò il bottone rosso sul telecomando, facendo diffondere una melodia provocante e bassa. La voce di un uomo, bassa e lontana, si diffuse per le quattro pareti, facendomi rabbrividire.
«Immagina...», disse Luca, chiudendo gli occhi, mentre io mi poggiavo ad un tavolo dietro di me, incrociando braccia e gambe, fissandolo spaesato. Sembrava rincoglionito.
«Lei ti è accanto. Se ne sta seduta lì», ed indicò un punto accanto a me,«Non sa cosa dire ma i suoi occhi ti parlano. Ma non servono le parole sai allora.... Baciala!».
«Cosa....?! No, no! È categorico....», mormorai velocemente, accorgendomi che stava ripetendo le stesse parole della canzone, cantante da quell'uomo dalla voce così roca e sensuale.
«Non ti amerà finché tu non la abbraccerai o bacerai! Stringila e baciala», continuò imperterrito, facendomi girare la testa.
Baciarla? Io.... Lei? E se mi avesse respinto! Luca si avvicinò a me, mettendomi una mano sulla spalla.
«Lu, non posso», deglutii a fatica, guardando altrove,«E se poi dovesse chiudermi fuori dalla sua vita.... Per sempre? Starei peggio di così!», brontolai, scollandomelo di dosso e cominciando a camminare per tutto il perimetro della stanza.
«Forse tu le piaci, ma anche lei non sa come dirlo», ipotizzò lui, mordicchiando l'unghia del suo indice sporco di terra.
Mi girai di scatto, sorpreso. E se avesse ragione? E se stessimo sprecando entrambi il nostro tempo perché ognuno aspettava il momento per dire la verità?
«Tu dici?», chiesi nervoso, mentre lui annuiva,«E... Come... Cioè cosa posso fare?».
«Baciala!», rispose con una scrollata di spalle, facendomi diventare rosso da capo a piedi. Solo che non sapevo se per la rabbia o la vergogna.
«Ma allora sei idiota?! Non posso baciarla», ripetei meccanicamente, dandogli uno schiaffo dietro la nuca.
«Ma perché?!», chiese lui impaziente, seguendomi fuori dalla stanza, dove già c'erano circa una ventina di clienti che aspettavano di pagare.
Grugnii, aprendo la cassa ed iniziando a servire una sfilza di clienti, fra cui ragazze che mi sorridevano timidamente, ma io non le guardavo neanche, troppo impegnato a pensare a due enormi occhi grigi.
«Allora? Perché non puoi baciarla?», mi incalzò Luca, sorridendo ad una biondina che stavo servendo, incartando i suoi fiori.
Lei mi guardò maliziosa, facendomi sgranare gli occhi. No, no! Che cazzo ha capito questa! Le misi velocemente i suoi fiori fra le mani, congedandola con un sorriso e la solita frase alla prossima.
«Perché.... Ho vergogna, okay?», dissi spazientito, mettendo in un vaso delle margherite che una signora sulla cinquantina d'anni mi aveva porto.
Mi sorrise dolcemente, facendomi abbassare il capo imbarazzato. Okay, figura di merda, vai Harry continua!, pensai, pestando un piede a Luca, che imprecò fra i denti.
«Di giovanotti come te ce ne sono davvero pochi», mi disse la donna, armeggiando con il suo borsellino,«Così timidi. Certo, le donne sono attratte dal pericolo, ma solo perché non riescono a capire quanto sia bello vedere un ragazzo arrossire per chiederti un bacio».
Voltai lentamente la testa verso Luca ed entrambi ci guardammo con gli occhi sgranati, imitando la scena di un film. Avevamo due enormi punti interrogativi stampati sulla fronte e se non scoppiai a ridere era solo per rispetto verso la donna.
«Mio marito era così timido. Dovetti baciarlo io al nostro primo appuntamento. Oh, ecco i soldi» continuò, porgendomi le sterline e, senza aspettare il resto, uscì velocemente dal negozio.
«Sentito? Le donne amano gli uomini timidi», mi sorrise Luca, dandomi una gomitata nello stomaco.
«Mi. Fai. Male», scandii ogni singola parola, picchiandogli una bottiglietta di insetticida sulla testa, facendogli spuntare un bernoccolo.
«Ahi, cazzo Hazza! Fa male», si lagnò, massaggiandosi la testa dolorante, con le lacrime agli occhi.
«Ecco, appunto.», gli sorrisi bastardamente, pulendomi le mani sul jeans e uscendo da dietro il bancone.
«Dove vai?», chiesi stupito Luca, mentre un uomo cercava di richiamare la sua attenzione,«Aspetti, non vede che è importante?», sputò acido.
Ridacchiai, mettendomi gli occhiali da sole davanti gli occhi per il forte sole che c'era quella mattina.
«A baciarla», risposi con ovvietà e, prima di uscire definitivamente, sentii il mio amico urlare dalla gioia e saltare con un bambino, più eccitato di me.
«Ricorda: l'atmosfera giusta!!», mi urlò da dietro, mentre balzavo in macchina con un enorme sorriso stampato sulle labbra.
Parcheggiai distrattamente la macchina fuori il vialetto di casa sua, respirando profondamente.
Era tutto così maledettamente difficile, ma sembrava anche la cosa giusta da fare.... O almeno credevo.
Afferrai la rosa, che mi ero portato dietro, dal sedile, sistemandomi come uno sciocco ragazzino i capelli ricci, tirandoli indietro con la solita fascia avvolta intorno la fronte.
Sembri un barbone, mi suggerì la mia vocina interiore, facendomi alzare gli occhi al cielo con disappunto. 
Okay... E allora!? Se non la bacio non ci perdo solo io, ma anche tu stronza!, mi ritrovai a pensare da solo, facendo un animato dibattito con me stesso, pur di rimandare il più possibile il momento in cui avrei dovuto dirle la verità.
«Okay, okay! Sono pronto!», esclamai, battendo le mani fra di loro e mettendomi la rosa sotto il braccio per aprire la portiera.
Il cielo si era fatto più scuro e sembrava volesse piovere da un momento all'altro, cosa strana dato che aveva fatto una settimana di sole e caldo asfissiante. Holmes Chapel non era mai stata così bella.
Sorrisi fra me e me, iniziando a camminare nervosamente verso il giardino: da lì sarei entrato per la porta-finestra sempre aperta, prima di correre in casa sua e dirle che la amavo con tutto me stesso, che non le serviva a niente sposarsi con un mongoloide sudista del cazzo, che io potevo amarla anche più di lui, portarla via e...
«No, Harry, aspetta!», mormorai, bloccandomi sul posto e lisciando i bordi della maglietta sporca di terreno,«Devi pensare a un modo carino per dirglielo. Così la fai scappare».
Annuii fra me e me, continuando a camminare.
«Ciao Barbara, ti amo e ho deciso che da oggi in poi staremo insieme», dissi facendo finta che lei fosse davanti a me, protendendo la rosa davanti il mio petto.
Mi fermai nuovamente, sorridendo come un cretino all'aria che si stava rinfrescando.
«No, no», tornai in me, scuotendo energicamente il capo,«Così suona come un obbligo e io non voglio che si senta costretta. La nostra sarà la storia di amore più bella ed originale del mondo! Si», constatai a me stesso, riprendendo a camminare.
Ero quasi arrivato al giardino e ancora non sapevo come parlarle, così rallentai  muovendo lentamente i piedi sul vialetto.
«Barbara senti il giardino è quasi finito. Che te ne pare? Ah, comunque ti amo da quando avevi solo undici anni», dissi serio, aggrottando la fronte abbronzata.
Un leggero vento mi trapassò, facendomi rabbrividire tutto, da capo a piedi, mentre un enorme peso sullo stomaco sembrava tirarmi verso il basso.
«N-no», balbettai, cercando di scacciare quello strano nodo alla gola che provavo,«È patetico!».
Sbuffai, ero arrivato e dovevo decidermi. Ora o mai più. La amavo e Alabastro, o come cazzo si chiamava, non poteva portarmela via. Io la conoscevo da più tempo ed era mia da quando era nata. Ero stato io il primo a prenderla in braccio e io sarei stato il primo a sposarla e sarei stato l'unico padre dei suoi figli. Lei ne voleva tanti, o almeno così diceva quando era piccola. E li avrebbe avuti, ma da me. Sarebbero somigliati a lei, con i miei occhi però, così si sarebbe sempre ricordata quanto la amavo.
«Okay! Combattente!», saltellai sul posto, rievocando le parole del mio amico,«Dirò: ciao Barbara io.... No, ciao no, fa schifo!», dissi velocemente, iniziando a sudare freddo, anche se non sapevo bene per quale motivo. 
Girai la rosa sgualcita fra le mie dita e qualche petalo cadde ai miei piedi, facendomi venire voglia di piangere. 
No, Harry, che cazzo piangi? Le stai per chiedere di essere tua, dovresti essere felicissimo! 
Certo, ma allora perché sentivo il cuore fermarsi e battere a fatica?
«Barbara senti, le cose stanno così: ti amo e.... No! Come faccio?», sbuffai pesantemente.
Mi aggiustai la fascia, scostando qualche riccio ribelle dalla fronte.
«Basta, lascio tutto al caso!», esclamai convinto, sorridendo vittorioso per la mia scelta saggia.
Feci qualche passo avanti, sbucando finalmente nel giardino enorme e curato. Le piante che avevo sistemato sembravano fiorire bene.
La vidi. Stava correndo e il vento le scompigliava i capelli. Sorrisi teneramente, pronto ad afferrala, baciarla.
«Barbara senti io...», dissi abbassando sempre più la voce e fermando i miei piedi al suolo.
Grosse gocce d'acqua iniziarono a scendere dal cielo, bagnando i nostri corpi. 
Lei era lì, che stringeva le braccia al collo di un ragazzo che non ero io. Lui la sollevò da terra, facendole fare una giravolta in aria, con le labbra incollate alle sue.
«Io... Vedi Barbara... Io penso che...», deglutii a fatica, mentre lasciavo cadere la rosa ai miei piedi, provocando un rumore sordo.
Li vidi ridere quando una goccia di pioggia colpì il volto di lei. Aveva quel sorriso che a me non avrebbe mai rivolto; lo stomaco sembrava una poltiglia e la lingua annodata mi impediva persino di respirare. Il mio cuore era così rotto che dubitavo si sarebbe ricomposto ancora una volta.
Deglutivo a vuoto come un totale cretino e, anche se avevo promesso che mai l'avrei fatto per lei, a causa sua, piansi e le lacrime salate si confondevano con la pioggia che scendeva più fitta.
Lui le afferrò la mano e, insieme, corsero in casa, sparendo dalla mia visuale.
«Ciao Barbara, vedi mi hai spezzato il cuore ancora di più. Ma non preoccuparti, ci sono abituato», scrollai le spalle, facendo fatica a parlare fra i singhiozzi.
Mi avvicinai maggiormente alla porta finestra, vedendoli parlare e sorridere gioiosamente, come se avessero aspettato tanto solo per guardare uno negli occhi dell'altro.
«Ah, comunque volevo dirti che ti amo, così tanto che non mi importa se mi fai del male ogni giorno di più, cioè.... Tanto il mio cuore è tuo e puoi giocarci ancora un po', perché penso che qualche frammento da calpestare ci sia rimasto».
I capelli iniziarono a bagnarsi ed attaccarsi alla nuca, procurandomi fastidio. Sapevo che mi sarei beccato una febbre a quarantatré, ma proprio non riuscivo ad andarmene.
«Non preoccuparti per me. Davvero, sto bene. Se solo potessi svegliarmi lontano da qui e pensare che tutto questo sia un sogno, iniziare da capo, non mi vedresti più qui a piangere e non ti direi che preferirei svegliarmi con un'amnesia e dimenticarmi di tutti quei piccoli tocchi o sguardi che mi hanno fatto innamorare di te», singhiozzai forte, mordendomi un labbro per non sembrare troppo patetico.
Un tuono mi fece sobbalzare e strinsi le braccia intorno il mio busto, come se volessi tenermi attaccato ed evitare di crollare a pezzi su quel fottuto terreno bagnato. Cosa c'era che in me non andava? Perché non poteva amarmi come amava lui?
«Posso dirti la verità Barbie?», dissi ancora ad alta voce, perché mi sentivo bene parlandole oltre quel vetro, nonostante lei non mi notasse e continuasse a fissare lui come se fosse la cosa più importante del mondo.
«Okay», sospirai sorridendo a fatica,«La verità è che non sto affatto bene. L'università, tu.... Sembrate sfuggirmi dalle mani».
Calpestai la rosa, pentendomene subito. Non era colpa sua, ma mia. Ero io difettoso, sempre troppo immaturo ed intrappolato nelle mie fantasie.
«Bene piccolina, adesso penso sia meglio andare. Ti amo e avrei dovuto baciarti, ma evidentemente le nostre labbra non si toccheranno più e si accontenteranno del ricordo di quel banale sfioramento, che mi ha fatto saltare il cuore in aria. Ah, ti prego, a lui, il mio cuore, trattalo bene. Non sembra, lo so, ma è davvero debole e», un singhiozzo forte mi fece bloccare, mentre una lacrima più salata e pesante del solito rigava la mia guancia,«E non riesce a incassare ogni colpo».
Mi dondolai per un po' sui piedi, come un bambino a cui è stato negato di salire sull'altalena. Poi, allungai una mano verso la sua figura lontana, come se fossi capace di afferrarla.
«Bene. Ciao Nanetta», sussurrai, pulendomi il naso gocciolante con la mano zuppa. Il vento iniziò a soffiare più forte e dovetti correre nella mia macchina per evitare la polmonite.
Fissai per un po' la strada davanti a me, prima di partire verso casa, sperando che mia madre fosse uscita. Non mi andava che mi vedesse ancora una volta in quelle pessime condizioni.
Le uniche persone a sapere quello che provavo per Barbara erano lei, Lily e mia sorella Gemma che, sfortunatamente, non sarebbe tornata dall'America prima di due settimane.
Meglio, pensai, non mi va di parlare con nessuno, ne di essere consolato.
E, con questi pensieri, mi chiusi nella mia stanza per tutto il resto della giornata, piangendo persino la mia anima lacerata.
Nota Autrice:
Saaaalve! Ecco il capitolo di cui vi ho parlato la scorsa volta. È stato leggermente difficile scriverlo, perché non è semplice far capire quanto si senta a pezzi una persona nel momento in cui vede il suo amore fra le braccia di uno che non è lui. Però allo stesso tempo per me è stato anche uno sfogo la stesura del capitolo, perché tutto ciò che prova Harry l'ho provato io con un ragazzo sabato sera, quando siamo usciti e lui abbracciava tutte le ragazze che conosceva, con le maglie attillate e i rossetti rossi. Ho pianto più di Harry, ma mio padre (che io adoro) mi ha detto una cosa fondamentale: è semplice amare qualcuno che a sua volta ci ama, mentre ci vuole coraggio nel perseguire a sperare in un amore distruttivo.

 

«È inutile, Luca. Si sposa. Continuandole a correre dietro non ci risolverò mai niente», sbuffai  mettendo in ordine il casino dentro il negozio di fiori, pieno di petali sparsi qua e là.

«Cosa? No! Harry se ti arrendi non ci risolverai mai niente! Combattente!», esclamò, dandomi un pugno sulla spalla, facendomi barcollare leggermente in avanti.

Mi massaggiai il punto colpito, fulminandolo con lo sguardo, prima di riprendere in mano la scopa e spazzare tutto quel terreno.

«Luca, forse non capisci: ama un altro. Lo ama così tanto da sposarlo... E poi che dovrei fare? Fare irruzione in casa sua e dirle Ehy Barbie, comunque ti amo! Immagina la faccia», sputai acido, pungendomi con una rosa che stavo togliendo da sotto il bancone.

Mi misi il pollice in bocca, imprecando mentalmente. Non sapevo se prendermela con il fiore o con quel deficiente di Luca.

«No, no, no ragazzo. Più romantico», disse scuotendo il capo rassegnato, parlando con quel suo dannatissimo accento italiano che mi irritava quasi quanto l'idea di vedere Barbara sposata con un deficiente londinese. «Ti insegno io», sorrise, tirandomi per un braccio e spingendomi nel magazzino pieno di fiori che erano arrivati quella mattina.

Il forte odore di terreno e insetticida ci riempì le narici, facendoci lacrimare leggermente.

«Lu ma sei impazzito? Lasciami!», provai a scollarmelo di dosso, ma lui mi costrinse su una vecchia sedia di legno, che mi sfilacciò i jeans già rotti e consumati. «Dobbiamo lavorare, non fare stronzate», dissi imbronciato, incrociando le braccia davanti il petto muscoloso, sbuffando sonoramente per fargli capire quanto fossi incazzato.

Ancora stavo pensando alla figura di merda che avevo fatto all'università per colpa di Barbara e, nonostante stessi evitando il più possibile di incontrarla, non potevo impedire a me stesso di appostarmi fuori la porta-finestra del salotto tutte le mattine per vederla fare colazione. Era questa la mia maledizione: non riuscivo proprio ad odiare niente di lei, a parte il fatto che aveva rubato il mio cuore senza neanche saperlo.

«Questo è la chiave del successo!», esclamò Luca, facendomi sobbalzare e tornare alla realtà, mentre mi sventolava davanti gli occhi un telecomando rotto e dai pulsanti sbiaditi. Inarcai un sopracciglio, guardandolo dal basso verso l'alto con la classica espressione stai-scherzando-vero?! 

«Che c'è?», mi chiese lui curioso, quasi come se stesse reggendo davanti a me un anello di diamanti o una di quelle cose per cui le ragazze impazziscono. 

Un telecomando! Okay Harry, così te lo getta proprio a presso!

 «Lu mi prendi per il culo?!», sbraitai incazzato, con i nervi tesi a mille,«Che cazzo ci faccio con telecomando vecchio e logoro?».

Respirai velocemente, cercando di calmare i miei spiriti bollenti che mi inducevano a saltargli a dosso e dargli uno schiaffo per farlo rinsavire. Avevo il sangue che bolliva nelle vene e le orecchie rosse per la rabbia. Una marea di pensieri mi fluttuavano per la testa, tutte con un solo nome: Barbara; e lui che mi diceva che un telecomando era la chiave del mio successo! Si, Harry, lo sarà se vuoi che ti cacci a calci in culo da casa sua!, pensai ironico, emettendo un ringhio dal fondo della gola.

«Telecomando vecchio e logoro? Harry questo ha permesso alle migliori colonne sonore di farmi scopare qui dentro, anche sulla sedia dove poggi il tuo culo», rise, strizzandomi l'occhio.

Io mi alzi di scatto, disgustato. Eh che cazzo, Lu! Ma fai schifo!! Dannazione. «Sentiamo, allora, che dovrei fare? Mettere una canzoncina strappalacrime e cimentarmi in un patetico discorso in cui le rivelo che la amo da quando aveva solo undici anni e io come bravo pedofilo ne avevo già diciotto?», chiesi con voce pacata, mentre dentro ero fumante di rabbia.

Il mio sorriso glaciale occupava l'intera faccia e volevo solo dare a pugni qualcuno. Ovviamente quel qualcuno si chiamava Luca!! Coincidenze? Io credo di no.

 «Povero me!», disse teatralmente, battendosi una mano sulla fronte dalla pelle scura e leggermente rugosa,«Sono circondato da dilettanti! Bisogna creare.... L'atmosfera».

Sbuffò, mentre si avvicinava ad uno stereo stile anni cinquanta, con ancora le enormi casse ed un'antenna. Pigiò il bottone rosso sul telecomando, facendo diffondere una melodia provocante e bassa. La voce di un uomo, bassa e lontana, si diffuse per le quattro pareti, facendomi rabbrividire.

«Immagina...», disse Luca, chiudendo gli occhi, mentre io mi poggiavo ad un tavolo dietro di me, incrociando braccia e gambe, fissandolo spaesato. Sembrava rincoglionito.«Lei ti è accanto. Se ne sta seduta lì», ed indicò un punto accanto a me,«Non sa cosa dire ma i suoi occhi ti parlano. Ma non servono le parole sai allora.... Baciala!».

«Cosa....?! No, no! È categorico....», mormorai velocemente, accorgendomi che stava ripetendo le stesse parole della canzone, cantante da quell'uomo dalla voce così roca e sensuale.

«Non ti amerà finché tu non la abbraccerai o bacerai! Stringila e baciala», continuò imperterrito, facendomi girare la testa.

Baciarla? Io.... Lei? E se mi avesse respinto? 

 Luca si avvicinò a me, mettendomi una mano sulla spalla.

«Lu, non posso», deglutii a fatica, guardando altrove,«E se poi dovesse chiudermi fuori dalla sua vita.... Per sempre? Starei peggio di così!», brontolai, scollandomelo di dosso e cominciando a camminare per tutto il perimetro della stanza.

«Forse tu le piaci, ma anche lei non sa come dirlo», ipotizzò lui, mordicchiando l'unghia del suo indice sporco di terra.

Mi girai di scatto, sorpreso. E se avesse ragione? E se stessimo sprecando entrambi il nostro tempo perché ognuno aspettava il momento per dire la verità?

«Tu dici?», chiesi nervoso, mentre lui annuiva,«E... Come... Cioè cosa posso fare?».«Baciala!», rispose con una scrollata di spalle, facendomi diventare rosso da capo a piedi.

Solo che non sapevo se per la rabbia o la vergogna.«Ma allora sei idiota?! Non posso baciarla», ripetei meccanicamente, dandogli uno schiaffo dietro la nuca.

«Ma perché?!», chiese lui impaziente, seguendomi fuori dalla stanza, dove già c'erano circa una ventina di clienti che aspettavano di pagare. Grugnii, aprendo la cassa ed iniziando a servire una sfilza di clienti, fra cui ragazze che mi sorridevano timidamente, ma io non le guardavo neanche, troppo impegnato a pensare a due enormi occhi grigi.

«Allora? Perché non puoi baciarla?», mi incalzò Luca, sorridendo ad una biondina che stavo servendo, incartando i suoi fiori.

Lei mi guardò maliziosa, facendomi sgranare gli occhi. No, no! Che cazzo ha capito questa!

Le misi velocemente i suoi fiori fra le mani, congedandola con un sorriso e la solita frase alla prossima.

«Perché.... Ho vergogna, okay?», dissi spazientito, mettendo in un vaso delle margherite che una signora sulla cinquantina d'anni mi aveva porto.

Mi sorrise dolcemente, facendomi abbassare il capo imbarazzato. Okay, figura di merda, vai Harry continua!, pensai, pestando un piede a Luca, che imprecò fra i denti.

«Di giovanotti come te ce ne sono davvero pochi», mi disse la donna, armeggiando con il suo borsellino,«Così timidi. Certo, le donne sono attratte dal pericolo, ma solo perché non riescono a capire quanto sia bello vedere un ragazzo arrossire per chiederti un bacio».

Voltai lentamente la testa verso Luca ed entrambi ci guardammo con gli occhi sgranati, imitando la scena di un film. Avevamo due enormi punti interrogativi stampati sulla fronte e se non scoppiai a ridere era solo per rispetto verso la donna.

«Mio marito era così timido. Dovetti baciarlo io al nostro primo appuntamento. Oh, ecco i soldi» continuò, porgendomi le sterline e, senza aspettare il resto, uscì velocemente dal negozio.

«Sentito? Le donne amano gli uomini timidi», mi sorrise Luca, dandomi una gomitata nello stomaco.«

Mi. Fai. Male», scandii ogni singola parola, picchiandogli una bottiglietta di insetticida sulla testa, facendogli spuntare un bernoccolo.

«Ahi, cazzo Hazza! Fa male», si lagnò, massaggiandosi la testa dolorante, con le lacrime agli occhi.

«Ecco, appunto.», gli sorrisi bastardamente, pulendomi le mani sul jeans e uscendo da dietro il bancone.

«Dove vai?», chiesi stupito Luca, mentre un uomo cercava di richiamare la sua attenzione,«Aspetti, non vede che è importante?», sputò acido.

Ridacchiai, mettendomi gli occhiali da sole davanti gli occhi per il forte sole che c'era quella mattina.«A baciarla», risposi con ovvietà e, prima di uscire definitivamente, sentii il mio amico urlare dalla gioia e saltare con un bambino, più eccitato di me.

«Ricorda: l'atmosfera giusta!!», mi urlò da dietro, mentre balzavo in macchina con un enorme sorriso stampato sulle labbra.

 

 

Parcheggiai distrattamente la macchina fuori il vialetto di casa sua, respirando profondamente. Era tutto così maledettamente difficile, ma sembrava anche la cosa giusta da fare.... O almeno credevo.

Afferrai la rosa, che mi ero portato dietro, dal sedile, sistemandomi come uno sciocco ragazzino i capelli ricci, tirandoli indietro con la solita fascia avvolta intorno la fronte.

Sembri un barbone, mi suggerì la mia vocina interiore, facendomi alzare gli occhi al cielo con disappunto. Okay... E allora!? Se non la bacio non ci perdo solo io, ma anche tu stronza!, mi ritrovai a pensare da solo, facendo un animato dibattito con me stesso, pur di rimandare il più possibile il momento in cui avrei dovuto dirle la verità.

«Okay, okay! Sono pronto!», esclamai, battendo le mani fra di loro e mettendomi la rosa sotto il braccio per aprire la portiera.

Il cielo si era fatto più scuro e sembrava volesse piovere da un momento all'altro, cosa strana dato che aveva fatto una settimana di sole e caldo asfissiante. Holmes Chapel non era mai stata così bella. Sorrisi fra me e me, iniziando a camminare nervosamente verso il giardino: da lì sarei entrato per la porta-finestra sempre aperta, prima di correre in casa sua e dirle che la amavo con tutto me stesso, che non le serviva a niente sposarsi con un mongoloide del cazzo, che io potevo amarla anche più di lui, portarla via e...«

No, Harry, aspetta!», mormorai, bloccandomi sul posto e lisciando i bordi della maglietta sporca di terreno,«Devi pensare a un modo carino per dirglielo. Così la fai scappare».

Annuii fra me e me, continuando a camminare.«Ciao Barbara, ti amo e ho deciso che da oggi in poi staremo insieme», dissi facendo finta che lei fosse davanti a me, protendendo la rosa davanti il mio petto.

Mi fermai nuovamente, sorridendo come un cretino all'aria che si stava rinfrescando.«No, no», tornai in me, scuotendo energicamente il capo,«Così suona come un obbligo e io non voglio che si senta costretta. La nostra sarà la storia di amore più bella ed originale del mondo! Si», constatai a me stesso, riprendendo a camminare.

Ero quasi arrivato al giardino e ancora non sapevo come parlarle, così rallentai  muovendo lentamente i piedi sul vialetto. «Barbara senti il giardino è quasi finito. Che te ne pare? Ah, comunque ti amo da quando avevi solo undici anni», dissi serio, aggrottando la fronte abbronzata.

Un leggero vento mi trapassò, facendomi rabbrividire tutto, da capo a piedi, mentre un enorme peso sullo stomaco sembrava tirarmi verso il basso.

«N-no», balbettai, cercando di scacciare quello strano nodo alla gola che provavo,«È patetico!».

Sbuffai, ero arrivato e dovevo decidermi. Ora o mai più. La amavo e Alabastro, o come cazzo si chiamava, non poteva portarmela via. Io la conoscevo da più tempo ed era mia da quando era nata. Ero stato io il primo a prenderla in braccio e io sarei stato il primo a sposarla e sarei stato l'unico padre dei suoi figli. Lei ne voleva tanti, o almeno così diceva quando era piccola. E li avrebbe avuti, ma da me. Sarebbero somigliati a lei, con i miei occhi però, così si sarebbe sempre ricordata quanto la amavo.

«Okay! Combattente!», saltellai sul posto, rievocando le parole del mio amico,«Dirò: ciao Barbara io.... No, ciao no, fa schifo!», dissi velocemente, iniziando a sudare freddo, anche se non sapevo bene per quale motivo. 

Girai la rosa sgualcita fra le mie dita e qualche petalo cadde ai miei piedi, facendomi venire voglia di piangere.

 No, Harry, che cazzo piangi? Le stai per chiedere di essere tua, dovresti essere felicissimo! Certo, ma allora perché sentivo il cuore fermarsi e battere a fatica?

«Barbara senti, le cose stanno così: ti amo e.... No! Come faccio?», sbuffai pesantemente.

Mi aggiustai la fascia, scostando qualche riccio ribelle dalla fronte.

«Basta, lascio tutto al caso!», esclamai convinto, sorridendo vittorioso per la mia scelta saggia.

Feci qualche passo avanti, sbucando finalmente nel giardino enorme e curato. Le piante che avevo sistemato sembravano fiorire bene.La vidi. Stava correndo e il vento le scompigliava i capelli. Sorrisi teneramente, pronto ad afferrala, baciarla.

«Barbara senti io...», dissi abbassando sempre più la voce e fermando i miei piedi al suolo.

Grosse gocce d'acqua iniziarono a scendere dal cielo, bagnando i nostri corpi. Lei era lì, che stringeva le braccia al collo di un ragazzo che non ero io. Lui la sollevò da terra, facendole fare una giravolta in aria, con le labbra incollate alle sue.

«Io... Vedi Barbara... Io penso che...», deglutii a fatica, mentre lasciavo cadere la rosa ai miei piedi, provocando un rumore sordo.

Li vidi ridere quando una goccia di pioggia colpì il volto di lei. Aveva quel sorriso che a me non avrebbe mai rivolto; lo stomaco sembrava una poltiglia e la lingua annodata mi impediva persino di respirare. Il mio cuore era così rotto che dubitavo si sarebbe ricomposto ancora una volta. Deglutivo a vuoto come un totale cretino e, anche se avevo promesso che mai l'avrei fatto per lei, a causa sua, piansi e le lacrime salate si confondevano con la pioggia che scendeva più fitta. Lui le afferrò la mano e, insieme, corsero in casa, sparendo dalla mia visuale.

«Ciao Barbara, vedi mi hai spezzato il cuore ancora di più. Ma non preoccuparti, ci sono abituato», scrollai le spalle, facendo fatica a parlare fra i singhiozzi.

Mi avvicinai maggiormente alla porta finestra, vedendoli parlare e sorridere gioiosamente, come se avessero aspettato tanto solo per guardare uno negli occhi dell'altro.

«Ah, comunque volevo dirti che ti amo, così tanto che non mi importa se mi fai del male ogni giorno di più, cioè.... Tanto il mio cuore è tuo e puoi giocarci ancora un po', perché penso che qualche frammento da calpestare ci sia rimasto».

I capelli iniziarono a bagnarsi ed attaccarsi alla nuca, procurandomi fastidio. Sapevo che mi sarei beccato una febbre a quarantatré, ma proprio non riuscivo ad andarmene.

«Non preoccuparti per me. Davvero, sto bene. Se solo potessi svegliarmi lontano da qui e pensare che tutto questo sia un sogno, iniziare da capo, non mi vedresti più qui a piangere e non ti direi che preferirei svegliarmi con un'amnesia e dimenticarmi di tutti quei piccoli tocchi o sguardi che mi hanno fatto innamorare di te», singhiozzai forte, mordendomi un labbro per non sembrare troppo patetico.

Un tuono mi fece sobbalzare e strinsi le braccia intorno il mio busto, come se volessi tenermi attaccato ed evitare di crollare a pezzi su quel fottuto terreno bagnato. Cosa c'era che in me non andava? Perché non poteva amarmi come amava lui?

«Posso dirti la verità Barbie?», dissi ancora ad alta voce, perché mi sentivo bene parlandole oltre quel vetro, nonostante lei non mi notasse e continuasse a fissare lui come se fosse la cosa più importante del mondo.

«Okay», sospirai sorridendo a fatica,«La verità è che non sto affatto bene. L'università, tu.... Sembrate sfuggirmi dalle mani».

Calpestai la rosa, pentendomene subito. Non era colpa sua, ma mia. Ero io difettoso, sempre troppo immaturo ed intrappolato nelle mie fantasie.

«Bene piccolina, adesso penso sia meglio andare. Ti amo e avrei dovuto baciarti, ma evidentemente le nostre labbra non si toccheranno più e si accontenteranno del ricordo di quel banale sfioramento, che mi ha fatto saltare il cuore in aria. Ah, ti prego, a lui, il mio cuore, trattalo bene. Non sembra, lo so, ma è davvero debole e», un singhiozzo forte mi fece bloccare, mentre una lacrima più salata e pesante del solito rigava la mia guancia,«E non riesce a incassare ogni colpo».

Mi dondolai per un po' sui piedi, come un bambino a cui è stato negato di salire sull'altalena. Poi, allungai una mano verso la sua figura lontana, come se fossi capace di afferrarla.

«Bene. Ciao Nanetta», sussurrai, pulendomi il naso gocciolante con la mano zuppa.

Il vento iniziò a soffiare più forte e dovetti correre nella mia macchina per evitare la polmonite.

Fissai per un po' la strada davanti a me, prima di partire verso casa, sperando che mia madre fosse uscita. Non mi andava che mi vedesse ancora una volta in quelle pessime condizioni. Le uniche persone a sapere quello che provavo per Barbara erano lei, Lily e mia sorella Gemma che, sfortunatamente, non sarebbe tornata dall'America prima di due settimane. Meglio, pensai, non mi va di parlare con nessuno, ne di essere consolato.E, con questi pensieri, mi chiusi nella mia stanza per tutto il resto della giornata, piangendo persino la mia anima lacerata.

 

Nota Autrice:

Saaaalve! Ecco il capitolo di cui vi ho parlato la scorsa volta. È stato leggermente difficile scriverlo, perché non è semplice far capire quanto si senta a pezzi una persona nel momento in cui vede il suo amore fra le braccia di uno che non è lui. 
Comunque.... Scusate se vi faccio aspettare tanto, ma la scuola mi tiene davvero impegnata. Spero che il capitolo vi piaccia e vi prometto che cercherò di aggiornare presto.

vi lascio una piccola anticipazione del prossimo capitolo: 

 

«Guarda che sono capace di camminare su dei tacchi», sputai acida, muovendo nervosamente i piedi nudi e penzolanti, sfiorando involontariamente le sue gambe fasciate dai jeans. 

Arrossii.

«Oh, certo, non ne dubito», sghignazzò e, fissandomi intensamente negli occhi, si piegò sul pavimento, inginocchiandosi davanti a me.

Sfiorò con i polpastrelli delle dita affusolate la mia caviglia, facendomi trasalire quando la strinse e la portò dolcemente verso di se, osservando il mio piccolo piede.

Mossi convulsamente le dita, irrequieta, vedendolo alzare maggiormente l'angolo destra della bocca, in un sorriso malinconico.

«Harry?», lo richiamai dubbiosa, ma lui mi ignorò, posando le labbra sul dorso del piede sinistro, facendomi battere il cuore all'impazzata.

Il sangue fluì più velocemente nelle vene, colorandomi le orecchie di un fastidioso ed orrendo rosso porpora. Alzò lentamente gli occhi verso di me, facendomi affogare in quel verde così chiaro.

Poi, con un gesto dolce e studiato, infilò la scarpa al mio piede, sorridendo nuovamente. 

«Adesso è un po' come Cenerentola.... No?», disse semplicemente, scrollando le spalle.

Era la cosa più dolce che un ragazzo mi avesse mai detto. Neanche Alan si era mai inginocchiato per allacciarmi una scarpa per strada e Harry mi conosceva così bene da sapere anche che Cenerentola era l'unico cartone Disney che mi fosse piaciuto davvero da bambina.

«Io... Si, Harry, credo di si», ridacchiai, guardando estasiata il modo in cui la scarpa fasciava il mio piede sinistro.

«Adesso però dovrei portarti a palazzo. Fuori c'è la tua zucca marcia», mi prese in giro, dalla sua posizione.

La caviglia era ancora stretta fra le sue mani calde e grandi e non accennava a lasciarla.

Mi piegai verso di lui con il busto, mettendo le mani aperte sul materasso occupato dalla gonna del vestito, sentendo il suo respiro sulle labbra.

«Guarda che la zucca era una carrozza fantastica», dissi altezzosa, inclinando leggermente la testa di lato, facendo sfiorare i nostri nasi.

Deglutii a fatica, mentre le gambe diventavano molli e la caviglia bruciava sotto il tocco del riccio, che continuò ad avvicinare le nostre labbra.

Vidi le sue palpebre abbassarsi, finché non chiuse definitivamente gli occhi, respirando affannosamente, con la testa leggermente alzata ed inclinata per arrivare alla mia bocca.

 

 

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Capitolo 8
*** Uragano a ciel sereno~ ***


 

Prima di iniziare il capitolo... Volevo scusarmi. Scusarmi con tutte quelle che seguono la storia e hanno sperato che continuassi. Mi dispiace davvero tantissimo. Lo so, è passato un anno dall'ultimo aggiornamento e capirò se molte avranno deciso di rinunciarci e di lasciar perdere, perché tanto non ne vale la pena. L'avevo pensato anche io, in effetti. La verità è che è stato un anno difficile e ancora lo è, solo che sto cercando di sistemare le cose. Avrei voluto aggiornare sempre, anche perché la storia è gelosamente conservata nel mio computer, ma purtroppo non avevo la forza di fare nulla... Soprattutto di far leggere qualcosa di mio. 
Mi dispiace davvero tantissimo e spero solo che questo capitolo, e i prossimi a venire, vi piacciano. Ma soprattutto spero di farmi perdonare. Mi siete mancate e mi è mancato scrivere.
Ps: ringrazio coloro che sono rimaste e soprattutto chi mi ha incoraggiato a continuare, dicendomi che la storia era davvero fantastica. Vi ringrazio.
Pretty_Liar

 

Prima di iniziare il capitolo... Volevo scusarmi. Scusarmi con tutte quelle che seguono la storia e hanno sperato che continuassi. Mi dispiace davvero tantissimo. Lo so, è passato un anno dall'ultimo aggiornamento e capirò se molte avranno deciso di rinunciarci e di lasciar perdere, perché tanto non ne vale la pena. L'avevo pensato anche io, in effetti. La verità è che è stato un anno difficile e ancora lo è, solo che sto cercando di sistemare le cose. Avrei voluto aggiornare sempre, anche perché la storia è gelosamente conservata nel mio computer, ma purtroppo non avevo la forza di fare nulla... Soprattutto di far leggere qualcosa di mio. Mi dispiace davvero tantissimo e spero solo che questo capitolo, e i prossimi a venire, vi piacciano. Ma soprattutto spero di farmi perdonare. Mi siete mancate e mi è mancato scrivere.

Ps: ringrazio coloro che sono rimaste e soprattutto chi mi ha incoraggiato a continuare, dicendomi che la storia era davvero fantastica. Vi ringrazio.

Pretty_Liar

 

«Sembro una palla di neve», mi lagnai, mentre osservavo senza emozioni il mio riflesso allo specchio.

Il vestito da sposa, appena arrivato, era di una liscia seta bianca, con le spalle formate da un tessuto trasparente ed una cintura di brillantini attorno la vita. La gonna ampia, era dotata di un ampio e lungo strascico.

Non sapevo esattamente perché lo avessi scelto: era carino, ma non si avvicinava minimamente all'idea che avevo io.

«Ah tesoro, smettila. Sei perfetta. Io dico di legare i capelli in uno chignon come abbiamo fatto oggi», mi sorrise mia madre, lisciando le pieghe del mio vestito e girandomi intorno.

Era tutto così strano. Mi sentivo quasi soffocare in quel vestito, come se si stringesse intorno i polmoni, sottraendomi l'aria di cui avevo bisogno per andare avanti con la mia vita.

«Dici che ad Alan piacerà?», chiesi titubante, fissando il volto di mia madre, incorniciato da capelli rossi, sciolti per la prima volta.

Lei annuì distrattamente, cambiando subito argomento. Sapevo che Alan non le andava tanto a genio e non era stata molto accogliente il giorno prima, quando lui era venuto per farmi una sorpresa.

«Cerchietto. Ecco cosa ci vuole. Penso di averne uno di sotto. Torno subito!», esclamò soddisfatta, chiudendosi velocemente la porta alle spalle.

Sospirai pesantemente. Avevo creduto che il rivedere Alan mi avrebbe fatto bene, che avrebbe scacciato tutta quella confusione, ma niente.

Harry era sparito ormai, ma sapevo che era tornato a prendersi nuovamente cura del giardino, perché le piante sembravano fiorire ogni giorno di più e l'erba non era mai secca.

Ma allora perché non si faceva vedere da me?! 

Scossi leggermente il capo, continuando a fissarmi nello specchio. Era davvero quello che volevo?

Quando avevo visto Alan mi era sembrato tutto così facile e mi sentivo molto più convinta, ma adesso che era dovuto ripartire, mi sembrava tutto così sbagliato e più fissavo le scarpe con il tacco bianche, sul letto di mia madre, più mi girava la testa per la confusione.

Ne presi una, accarezzandone il contorno pallido. La punta era così dura da sembrare di cemento. Cadrò dopo i primi due passi, pensai terrorizzata, sbuffando ampiamente. Non ero coordinata e cadevo ad ogni passo che facevo. Come avrei fatto a camminare con quei trampoli lungo tutta la navata?

«Ti sta bene», disse una voce rauca alle mie spalle, facendomi sobbalzare e cadere la scarpetta al suolo, con un tonfo silenzioso, che riempì l'intera stanza.

Harry era lì, davanti a me, nei suoi jeans rotti e scoloriti, senza traccia di terreno sotto le unghie delle mani.

«Sei... Mi dispiace per quel messaggio», balbettai arrossendo, mentre abbassavo la testa mortificata.

I suoi occhi erano più freddi e spenti del solito e faceva di tutto per evitare di guardarmi, non solo in volto, ma anche il vestito nuovo che indossavo.

«Già. Anche a me», sospirò sconfitto, aggirandosi per la stanza, osservando le fotografie sul cassettone di mia madre.

Fissai le sue spalle ampie curvarsi quando osservava da più vicino i volti e le mani stringere qualche porta-foto.

«Sei sparito. È successo qualcosa?», domandai insicura, sedendomi sul letto.

La gonna si sparse intorno il mio bacino, mentre lo strascico ancora invadeva il pavimento.

Alzai leggermente la gonna per scoprire le gambe pallide, sentendo davvero caldo. Il pomeriggio prima aveva piovuto, ma in quel momento le temperature sembravano più alte del solito.

«Avevo bisogno di un po' d'aria», scrollò le spalle, girandosi verso di me ed inaugurando il suo sguardo sulle mie gambe.

Mise il labbro inferiore fra i denti, iniziando a tirarlo violentemente, quasi come se volesse strapparlo.

«Dove sei stato?», lo incalzai, assumendo un tono di voce duro ed inespressivo. 

Ero stata in pensiero e lui si faceva vivo dopo sei giorni, guardandomi senza imperturbabilità, con le sopracciglia aggrottate e l'aria severa, come se stessi commettendo io un errore.

«A casa, al negozio di fiori.... Dipendeva da come mi svegliavo», rispose con calma, troppo educatamente per i miei gusti.

«E c'era bisogno di startene a casa per prendere un po' d'aria?! Nel mio giardino non ce n'è abbastanza?», urlai, «Harry mi hai fatta-».

«Sentire in colpa?», continuò al posto mio,«Beh, te lo meriti, no? Mi hai fatto fare la figura del deficiente davanti adulti laureati e se non mi accetteranno a Londra è solo grazie a te».

Sorrise glacialmente, facendomi rabbrividire. Harry per favore, non pensarlo neanche, okay?

«Ci sei riuscita, Barbara. Finalmente mi hai rovinato la vita, contenta giusto?», sbottò, battendo una mano sul muro dietro di se, mentre io chiudevo spaventata gli occhi, sussultando.

Ne aprii uno, trovandomelo vicino, troppo forse. I capelli lunghi e ricci erano più gonfi e disordinati dell'ultima volta e i lineamenti del viso si erano ammorbiditi.

«È uno scherzo vero?», chiese duro, fulminandomi con gli occhi e stringendo la seta della gonna del vestito in un pugno, facendomi rabbrividire nuovamente.

E se mi picchia?, pensai allarmata, pronta a mollargli un calcio nelle palle se solo mi avesse sfiorata.

Non fare la cogliona, Barbie. È un gentiluomo, non un maniaco. È solo... Harry, disse una vocina dentro la mia testa, lontana. Già... Solo Harry, ripetei mentalmente malinconica. Prima era solo Harry, ma adesso cosa stava succedendo?

«Co-Cosa.... Scusa?», balbettai incerta, mentre un enorme sorriso da sbruffone e bambino si apriva sul suo volto abbronzato, coinvolgendo persino gli occhi ridotti a due fessure.

Che? Okay era lunatico, ma mi piaceva l'Harry giocherellone. Aveva un non so che di tenero.

«Questa!», rise fortemente, mentre alzava una scarpa con il tacco, mettendola davanti i miei occhi,«Devi camminare con queste al piede? È già pronta un'ambulanza per il grande evento, vero?», disse fra le risate, facendomi incrociare le braccia davanti al petto.

Misi su un terribile broncio, voltando la testa di lato ed alzando infastidita il mento all'insù.

«Guarda che sono capace di camminare su dei tacchi», sputai acida, muovendo nervosamente i piedi nudi e penzolanti, sfiorando involontariamente le sue gambe fasciate dai jeans. 

Arrossii.

«Oh, certo, non ne dubito», sghignazzò e, fissandomi intensamente negli occhi, si piegò sul pavimento, inginocchiandosi davanti a me.

Sfiorò con i polpastrelli delle dita affusolate la mia caviglia, facendomi trasalire quando la strinse e la portò dolcemente verso di se, osservando il mio piccolo piede.

Mossi convulsamente le dita, irrequieta, vedendolo alzare maggiormente l'angolo destra della bocca, in un sorriso malinconico.

«Harry?», lo richiamai dubbiosa, ma lui mi ignorò, posando le labbra sul dorso del piede sinistro, facendomi battere il cuore all'impazzata.

Il sangue fluì più velocemente nelle vene, colorandomi le orecchie di un fastidioso ed orrendo rosso porpora. Alzò lentamente gli occhi verso di me, facendomi affogare in quel verde così chiaro.

Poi, con un gesto dolce e studiato, infilò la scarpa al mio piede, sorridendo nuovamente. 

«Adesso è un po' come Cenerentola.... No?», disse semplicemente, scrollando le spalle.

Era la cosa più dolce che un ragazzo mi avesse mai detto. Neanche Alan si era mai inginocchiato per allacciarmi una scarpa per strada e Harry mi conosceva così bene da sapere anche che Cenerentola era l'unico cartone Disney che mi fosse piaciuto davvero da bambina.

«Io... Si, Harry, credo di si», ridacchiai, guardando estasiata il modo in cui la scarpa fasciava il mio piede sinistro.

«Adesso però dovrei portarti a palazzo. Fuori c'è la tua zucca marcia», mi prese in giro, dalla sua posizione.

La caviglia era ancora stretta fra le sue mani calde e grandi e non accennava a lasciarla.

Mi piegai verso di lui con il busto, mettendo le mani aperte sul materasso occupato dalla gonna del vestito, sentendo il suo respiro sulle labbra.

«Guarda che la zucca era una carrozza fantastica», dissi altezzosa, inclinando leggermente la testa di lato, facendo sfiorare i nostri nasi.

Deglutii a fatica, mentre le gambe diventavano molli e la caviglia bruciava sotto il tocco del riccio, che continuò ad avvicinare le nostre labbra.

Vidi le sue palpebre abbassarsi, finché non chiuse definitivamente gli occhi, respirando affannosamente, con la testa leggermente alzata ed inclinata per arrivare alla mia bocca.

Lasciati andare! 

No, non posso! 

Perché? Solo per una volta...

Okay. Forse. 

È sbagliato! 

Adesso!

Queste parole giravano nella mia testa come dentro un frullatore, facendomi battere velocemente il cuore.

Avevo gli occhi metà aperti e metà chiusi e, nel momento in cui stavo per buttarmi sulle sue labbra così rosee e piene, un tonfo forte ci fece sobbalzare e girare velocemente la testa  ad entrambi, verso la porta della stanza, adesso spalancata.

Mia madre era lì, ritta sulla soglia, con le mani aperte ed una scatola blu ai piedi, rovesciata. Il contenuto, formato da cerchietti, mollettine, collane ed orecchini, era sparso sul pavimento come tanti frammenti di una vita spezzata. Li paragonai ai mie pensieri tanto che erano numerosi e sparpagliati nella mia mente.

Harry deglutì pesantemente, voltando la testa verso di me e fissandomi con gli occhi sgranati e le labbra schiuse, con ancora il respiro accelerato.

Io, però, non avevo il coraggio di guardare ne lui né mia madre, che aveva le guance tinte di rosso e dondolava nervosamente su entrambi i piedi.

«Forse è meglio se vai, adesso. Grazie per i complimenti», dissi con voce tremante, alzandomi di scatto dal letto, scostando bruscamente Harry e strattonando la caviglia dalla sua presa salda; la gonna del vestito ampia, tornò a coprire le mie gambe e lo strascico si sparse sul pavimento in legno.

«Certo», mormorò Harry, grattandosi la nuca imbarazzato,«Prego», continuò, andando verso la porta, dove stava immobile mia madre.

Mi misi davanti allo specchio, cercando di focalizzare la mia attenzione sulla fascia attorno la vita, ma fissai tristemente il riflesso di Harry dietro le mie spalle, che mi restituiva lo sguardo, vuoto e spento.

«Ciao, Barbara», sussurrò a fior di labbra, voltandosi poi verso mia madre,«Arrivederci signora Lily».

Notai il modo in cui si era rivolto a mia madre. Non l'aveva mai chiamata signora ne rivolto un freddo arrivederci, ma potevo capirlo dopo quello che era successo.

«Forse io... Sono venuta in un brutto momento», borbottò imbarazzata mia madre, gesticolando ampiamente e diventando pallida.

Inspirai a fondo, stringendo in un pugno la gonna del vestito bianco, prima di girarmi verso di lei con un enorme sorriso sul viso dalla pelle chiara.

«Non so di cosa tu stia parlando, mamma. Harry era solo venuto qui per aggiornarmi sul giardino», feci l'indifferente, non perché credevo che lei non avesse visto il mio volto e quello del ragazzo troppo vicini, sapevo che ci aveva colto in flagrante. Speravo solo che anche lei mi reggesse il gioco, facendo finta che non fosse successo niente.

Cercai di sorpassarla, per tornare in camera e sfilarmi il vestito, ma la sua presa forte sull'avambraccio mi fece bloccare, mentre giravo la testa e il busto di scatto, verso di lei. Aveva le labbra schiuse e un'espressione compiaciuta, come se fosse stata contentissima del millesimo quasi bacio fra me ed Harry.

«Barbara, cosa succede?», mi chiese apprensiva, facendomi irritare ancora di più. Cazzo mi confondete così! Io amo Alan! Lo devo gridare?!

«Niente, mamma. Assolutamente niente. Quindi non insistere», sputai acida, strattonando il braccio dalla sua presa.

Mi sfilai la scarpa che Harry mi aveva messo, calciandola via, per correre a fatica verso la mia stanza, ma mia madre mi si parò davanti  facendomi sbuffare sonoramente.

«Oh, avanti, Barbie. Eravate ad un millimetro di distanza e stavate per... Baciarvi», disse con uno strano luccichio negli occhi, prendendo le mie mani fra le sue.

«Mamma smettila! Io non provo niente per Harry. Il nulla assoluto», cercai di impormi, ma risultavo patetica persino a me stessa.

«Allora perché lo stavi per baciare? Tesoro non essere così testarda e ceca. Se Harry ti piace non ci vedo niente di male. Sei ancora in tempo per lasciare Alan e stare con lui. Sareste perfetti», sorrise dolcemente, facendomi spalancare indignata la bocca.

«Cosa?! Mamma io ed Harry ci odiamo! Non faccio la testarda e so benissimo di amare Alan, altrimenti non starei con questo vestito addosso. Smettila di fantasticare su me ed Harry. Io non sono te», sibilai, rossa dalla rabbia.

«Non dico questo, ma se non vi avessi interrotti, cosa di cui mi pento, voi adesso-».

«Noi cosa?», sbraitai, accavallando la mia voce alla sua, per metterla a tacere,«Niente, mamma, niente. Harry è solo un vecchio conoscente, con cui ho dovuto passare forzatamente la mia infanzia, per colpa tua! Non mi interessa se Alan ti piace o meno, ma io lo amo e se non ti sta bene me ne vado io con lui», dissi sull'orlo delle lacrime.

Raggiunsi a fatica la mia stanza, barricandomi dentro.

Mi domandavo perché Harry dovesse sempre rovinare tutto. Perché era rientrato nella mia vita così velocemente? Forse era stato un errore tornare qui. Adesso sarei stata con la mente libera e su un letto a contare i giorni che mancavano al matrimonio.

Mi sfilai velocemente il vestito, riponendolo con cura nell'armadio. Alan mi mancava già o forse mi mancava quella breve sensazione di sicurezza che avevo avuto quando lui c'era ed Harry era sparito.

Forse era meglio prima, quando non si faceva vedere e mi evitava. Perché Harry era così: spariva e poi ti travolgeva come un uragano.

Ed io avevo sempre odiato il maltempo.

 

Anticipazione prossimo capitolo: [...] E forse davvero non eravamo fatti per stare insieme e io dovevo andare avanti finalmente. [...]

 

 



 

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Capitolo 9
*** Non scappare~ ***


Non sei il mio tipo. Proprio come io non sono il tuo. Ma è proprio questo il motivo per cui andiamo bene l'uno per l'altra. Siamo così diversi, eppure così uguali- After

 

«Zio, come fanno le piante a crescere?», mi chiese Tristano, mentre giocherellava con una mela rossa.

La faceva scivolare agilmente fra le dita piccole e chiare, come tutta la sua pelle punteggiata da nei all'altezza delle guance. I capelli ricci e rossi, gli ricoprivano la fronte.

«Basta parlarle», gli risposi come sempre, facendogli un occhiolino prima di riprendere a chinarmi su roseto che stavo potando nei punti giusti.

I suoi enormi occhi azzurri, situati dietro un altrettanto grande paio di occhiali da vista neri, mi fissarono corrucciati, non soddisfatti della solita risposta, prima di tornare a concentrarsi sul frutto che stringeva da ben quindici minuti.

«Ah! Guarda zio, un verme», urlò eccitato, facendomi sobbalzare dalla paura e pungere con una spina, facendomi così portare il pollice sanguinante fra le labbra piene e rosee.

Tristano era la mia piccola peste e amava la natura tanto quanto me. 

Abitava con un'amica di sua madre, la bella e dolce Laila, mia cugina, morta subito dopo il parto. Prima o poi l'avrei adottato io Tristano, dato che era la cosa più bella che mi era capitata nella vita; stavo aspettando di trovare lavoro e casa fissi.

«Bello vero?», sussurrai, avvolgendo il suo piccolo corpo con le mie braccia muscolose e poggiando il mento sulla sua piccola spalla,«Lo sai che tanto tempo fa una mela fece litigare tre donne?».

La piccola peste si girò di scatto, salendo a fatica sulle mie gambe incrociate e, dopo aver nascosto la testa nell'incavo del mio collo, sussurrò un flebile racconta.

Lui amava quando io gli raccontavo miti e leggende varie e io adoravo il momento in cui mi faceva mille domande.

«Stavano pranzando. Beh, erano ad un matrimonio, ma tutto iniziò molto prima», dissi, iniziando a camminare con lui fra le mie braccia, sentendo la sua mano, che ancora stringeva la mela, sfiorarmi la schiena dalle spalle larghe.

Notai, seduta in veranda, la mia Barbie, che osservava incantata il piccolo Tristano. Era ancora più bella di quando indossava il vestito da sposa, ma forse il mio parere non contava, dal momento che io odiavo a morte quel maledetto vestito.

«Zio, chi è quella?», mi chiese Tristano, indicando la ragazza con il piccolo e sottile indice, dimenandosi fra le mie braccia per scendere.

Con un balzo i suoi piedini, fasciati dalle scarpette rosse, toccarono il prato, iniziando a muoversi velocemente verso la veranda dove stava seduta Barbara che, appena lo vide avvicinarsi, schiuse le labbra rosse.

«Ehi», gli sorrise dolcemente, lasciando che lui le accarezzasse i capelli ondulati che le sfioravano il seno, che si abbassava e alzava al ritmo della sua respirazione pacata.

Ebbi come una veloce visione, vedendola giocare sul prato, a piedi scalzi, con il mio piccolo ometto dai ricci rosso fuoco.

«Io sono Tristano», disse mio nipote, porgendole con fierezza la mano e alzando il mento latteo.

Spalancai la bocca, vedendo come faceva il casca morto, con la ragazza che amavo, a soli quattro anni.

«Piacere», ridacchiò lei, coprendosi la bocca con la mano libera, portando la destra a ad incastrarsi con quella di Tristano,«Barbara».

Tris arrossì, prima di schiarirsi la voce e continuare a fare l'uomo adulto. Era bello vederli insieme e quasi ebbi l'impressione che lui si stesse innamorando di quella ragazzina come me.

«Zio, vieni! Ti voglio presentare la mia nuova fidanzata», esclamò Tristano, facendomi sgranare gli occhi divertito.

Tutto suo zio, pensai subito, avvicinandomi a grandi falcate per salutare anche Barbie, che studiò attentamente ogni mio singolo movimento.

«Ciao», mormorò, fissando imbarazzata, forse per quello che era successo nella sua stanza, le scale di legno della veranda, che terminavano sul prato verde.

Era adorabile con le guance leggermente arrossate e il vento caldo e leggero che le scompigliava le onde dei suoi capelli.

«Ciao. Vedo che hai conosciuto il don Giovanni», scherzai, indicando con il mento Tristano, che si aggrappò alla mia gamba con forza, facendomi scuotere la testa rassegnato.

Era basso per i suoi quattro anni, tanto che mi arrivava al ginocchio, e la sua enorme testa, a causa dei ricci, sembrava una massa di fieno.

«È tuo nipote?», mi chiese lei, guardandomi dal basso verso l'alto, accarezzando poi i ricci di Tris, che sembrava godere di quelle attenzioni.

Era difficile dire come mi sentivo così, vicino alle persone che più amavo; ancora più difficile era immaginare che meno di una settimana e lei sarebbe stata sull'altare per uno che non ero io.

«È il figlio di mia cugina», sospirai, pensando a lei in viaggio di nozze con Aladino e un groppo in gola mi impedii di respirare. Cazzo, scappa con me!

Vidi una farfalla volare sopra il piccolo naso a patata di Tristano, che la osservò con gli occhi grandi e azzurri, prima di lasciare la mia gamba e correrle dietro, accompagnato dalla mia solita frase non toccarla altrimenti muore.

«È adorabile. Di quale tua cugina?», mi risvegliò Barbie, sorridendomi dolcemente.

Lei conosceva quasi tutta la mia famiglia, solo che di Laila nessuno aveva mai parlato. Era sempre stata considerata il disonore della famiglia a causa delle sue bravate. Una di queste era stata rimanere incinta a sedici anni.

«Laila. È morta quattro anni fa, dopo aver partorito la piccola peste», dissi freddo, ricordando quel giorno.

Barbara abbassò la testa, iniziando a sfregarsi nervosamente le mani sul jeans chiaro, evidentemente in imbarazzo.

«Scusami, non sapevo che... Mi dispiace», balbettò, volgendo lo sguardo a destra per evitare il mio, mentre l'imbarazzo calava attorno a noi.

Sei ancora più bella quando fai finta di non vedermi, pensai, e un leggero sorriso si aprì sulle mie labbra, facendomi rabbrividire nonostante il caldo. Tris osservava la farfalla poggiata su una pietra.

«Un giorno lo adotterò io, sai? Adesso vive con un'amica della madre e ogni tanto passa il pomeriggio e la notte con me», interruppi quel silenzio, voltandomi come lei ad osservare il mio piccolo nipote dalle guance rosee.

«Vuoi fare il papà?», sghignazzò lei, prendendomi in giro, giocosamente questa volta, e stranamente mi piaceva.

Non c'era cattiveria in quelle parole, solo divertimento e voglia di giocare. Mi piaceva la Barbara giocherellona, quella che dimostrava i suoi diciotto anni senza vergogna, ne paura di non sembrare abbastanza grande.

«Beh... Si. Perché?», chiesi ironicamente, facendole la linguaccia, chiudendo un solo occhio per osservare la sua reazione.

Scosse la testa divertita, osservandomi mentre prendevo posto accanto a lei, con i gomiti sulle ginocchia e un braccio a sfiorare il suo, scoperto a causa della maglietta estiva.

«Oh niente, a parte che dovrai imparare a fare il bucato e sistemare il letto alla mattina. Una cosa da niente. Per non parlare del momento in cui dovrai fare la lavatrice, separando i panni a seconda dei colori. O di quando dovrai stirarli senza-».

«Ok ho capito», risi, mettendole una mano sulla bocca per bloccare il suo flusso interrotto di parole.Così mi faceva spaventare, ma non avrei mai cambiato la mia idea. Tristano era come un figlio per me ed io amavo i bambini.

«Scherzo Harry. Saresti un padre... Perfetto», disse, distogliendo lo sguardo dal mio viso sull'ultima parole, mentre le guance si coloravano di rosso.

Spalancai la bocca, notando che per la prima volta mi faceva un complimento senza urlarmi contro o insultarmi. Ed era la cosa più bella che potesse dirmi.

«Anche tu saresti una brava mamma», replicai, giocando con la collana che portavo al collo, evitando di alzare lo sguardo quando sentii la sua testa scattare verso la mia.

Un rumore ci fece sobbalzare entrambi, mentre vedevamo Tristano a terra, con le ginocchia sbucciate e gli occhiali sul prato.

«Tristano!», urlammo insieme, scattando in piedi e correndo verso di lui, che continuava a ripetere che stava bene.

Barbara lo prese fra le braccia, ripulendo dolcemente i suoi pantaloni a mezza gamba con dolci pacche.

«Tris puoi stare più attento? Mi hai fatto morire», lo sgridai, vedendolo sbuffare, mentre rivolgeva il suo sguardo sulla bella ragazza, che gli spostava i capelli dalla fronte.

Ricordai quando eravamo piccoli e lei, ogni volta che cadeva nella terra bagnata per causa mia, correva in casa a spazzolarsi i capelli, già lunghi, per togliere tutta la polvere incastrata fra questi.

«Come va con il damerino?», chiesi così, dal nulla, facendola irrigidire sul posto e fissare un punto indefinito oltre la spalla della mia piccola peste, che sembrò non badare molto a noi mentre ancora osservava la farfalla.

Non avevo intenzione di chiederglielo, o almeno non in quel momento, ma la realtà era che me lo stavo segretamente domandando da quando l'avevo vista seduta su quelle scale. Insomma, mancava una settimana al suo matrimonio e del futuro e coglione sposo ancora neanche l'ombra. Era venuto quel pomeriggio di pioggia, ma a quanto avevo capito non era rimasto a lungo.

«Bene. Venerdì prossimo ci sposiamo», disse con voce rauca Barbara, alzandosi da terra e camminando velocemente verso la parte opposta alla mia.

Stringeva i pugni lungo i fianchi, facendo ondeggiare dolcemente le braccia avanti e dietro ad ogni passo scoordinato che faceva.

Venerdì prossimo. Mancavano solo sei giorni e io ancora speravo in qualche miracolo. Svegliati Harry!

«Come mai ancora non è qui? Insomma... Il matrimonio è anche il suo. Corso prematrimoniale, bomboniere... Quando le fate tutte quelle cazzate?», le urlai dietro, cercando di raggiungerla e irritarla.

Non volevo rompere quella dolce e pacata atmosfera che si era creata, ma speravo che le mie parole pungenti avessero potuto farle capire l'errore enorme che stava per combinare.

«Perché non ti fai gli affari tuoi?», chiese retorica, bloccandosi di scatto e girandosi improvvisamente, ritrovandosi ad un centimetro, se non di meno, dal mio volto.

I nostri nasi si sfiorarono e le mie labbra chiuse catturavano ogni suo respiro fresco e tremante, mentre mi torturavo le dita per impedire a quest'ultime di chiudersi intorno i suoi fianchi prosperosi.

«Che c'è? Ti irrita che qualcuno ti faccia notare quanto poco se ne fotta quel coso di te?», sibilai con disprezzo, indicando con l'indice l'aria, come se Aladin fosse lì, ad un passo da noi due, così vicini.

I suoi occhi grigi, umidi, si fecero più grandi e scuri, come se stesse per mollarmi uno schiaffo, ma non lo fece.

«Lavora, Harry! Quello che dovresti fare tu!», esclamò con rabbia, ma soddisfatta per la sua risposta a tono.

Sembrava sempre una gara a chi diceva l'ultima parola e non riuscivo ancora a capire perché io amassi fare quel giochetto ogni santa volta e ancora di più non capivo perché, ogni volta che mi urlava contro, l'amavo sempre di più invece che odiarla.

«Perché secondo te io che sto facendo? Mi giro i pollici? Se non l'avessi notato, io starei facendo il giardino per il tuo schifosissimo ricevimento prima del tuo schifosissimo matrimonio! Anzi, faccio più io che lui per il vostro dannatissimo, schifosissimo matrimonio!», urlai a pieni polmoni, vedendo Tristano schiudere le labbra piene e rosee, indietreggiando impaurito.

Il suo volto, pallido e pieno di lentiggini, si contrasse in una smorfia di tristezza e mi sentii con il cuore ancora più pesante.

«Okay, sai cosa ti dico, Barbie? Mi sono scocciato di litigare. La prossima volta vengo quando tu non ci sei», sussurrai sconfitto e, con due falcate, raggiunsi il mio ometto.

Lo presi fra le braccia, lasciando che le sue manine esili si avvolgessero delicate intorno il mio collo,consolandomi. Era l'unica cosa bella che avevo e che mi era capitata nella vita... Insieme a Barbara. Ma lei purtroppo non era mia e mai lo sarebbe stata. Il vestito bianco nell'armadio e lo stesso giardino ne erano la prova.

La vidi sospirare pesantemente, mentre serrava gli occhi ed i pugni contemporaneamente, voltando la testa di lato.

Era tutto così maledettamente straziante e mi domandai se anche lei, almeno per un secondo, aveva provato ciò che provavo io quando la vedevo andarsene via da me. E forse davvero non eravamo fatti per stare insieme e io dovevo andare avanti finalmente.

«Vuoi farmi pesare l'aiuto che mi stai dando con il giardino?», mi disse spazientita, afferrandomi per una spalla e voltandomi bruscamente verso di lei.

Strinsi fra le mani Tris, come se lui potesse proteggermi da quei due occhi grigi che continuavano a farmi maledettamente male. Le sue labbra erano schiuse e in quel momento capii cosa fosse giusto.

«Tris perché non chiedi a Lily di farti una fetta di pane con la marmellata?», proposi al piccolo, vedendo i suoi occhi illuminarsi alla parola marmellata.

Lo liberai velocemente, osservandolo attentamente finché non si richiuse la porta alle sue spalle, facendomi sospirare sollevato, prima che girassi il capo verso Barbara, che si era irrigidita. Non scappare.

«No», dissi improvvisamente, vedendola sgranare per un attimo gli occhi, mentre lentamente indietreggiava, vedendomi avanzare verso di lei.

D'un tratto ci ritrovammo al centro del giardino, circondati dal caldo vento che spirava quella mattina e i suoi capelli le sfioravano dolcemente il viso, sprigionando un forte odore di vaniglia.

«No?... Cosa?», disse spaesata, battendo contro l'albero a cui era fissata l'amaca, facendoci aderire completamente la schiena ritta.

Il mio cuore batteva forte e sperai che lei potesse sentirlo, per risparmiarmi il momento in cui avrei dovuto dirle tutto, mettendomi in ridicolo. Non scappare, non ora.

«No, non voglio farti pesare l'aiuto che ti sto dando con il giardino, ma solo la tua dannatissima scelta di sposarti», risposi brusco, battendo un pugno sulla corteccia dietro di lei, sentendola sussultare.

Il sangue prese subito a scorrere sulle mie nocche bianche, bruciando la pelle fresca e sporca di terreno.

«Harry tu non puoi-».

«Posso, cazzo!», la bloccai, sovrastandola con la mia voce roca, mentre richiudevo il suo volto fra le mie mani grandi, sentendola sussultare.

Non ti muovere, resta ancora qui con me. Più vicino, continuavo a pensare, mentre velocemente incastravo i nostri corpi, insinuando a fatica un ginocchio fra le sue gambe, vedendola arrossire. Sospirai come sollevato. I nostri corpi erano fatti per stare insieme.

«Harry... Ti prego», disse in un sussurro, con gli occhi lucidi e le braccia inermi lungo i fianchi pieni.

Continuava a torturarsi le dita fra di loro, come se stesse combattendo con se stessa. Non scappare.

«Sto per baciarti», mormorai, ignorando la sua silenziosa preghiera, nascosta dietro quelle iridi grigie e profonde.

Inspirò bruscamente, gonfiando a tal punto il petto da farlo scontrare con il mio, che non esitò un minuto di più a farsi più vicino, comprimendo il suo seno fra il mio torace.

Inclinai la testa verso il suo viso pallido e dalle guance troppo rosse, sentendo il suo forte profumo e il suo respiro tremante colpirmi le labbra schiuse e umide, tremanti per la troppa vicinanza con le sue rosse e schiuse. La sentii muovere leggermente la testa, rafforzando, così, la presa sulle sue guance.

«Perché?», sussurrò, lasciando che la mia fronte si poggiasse sulla sua, leggermente accaldata.

«Non lo so», risposi e, in un attimo, le mie labbra erano sulle sue, morbide e fredde.

Sentii il mio povero cuore fare una leggera capriola e fermarsi, prima di prendere a battere nuovamente, troppo veloce. Fa male. Ma faceva così bene.

Avvolsi le braccia intorno il suo busto, staccandola dall'albero rigido dietro di noi, trascinandola verso l'amaca, dove sprofondò a sedere, costringendomi a piegarmi su me stesso per raggiungere meglio il suo volto. Le nostre bocche si muovevano insieme, mentre i nasi si strofinavano a seconda dei movimenti delle nostre teste. Le miei mani ancorate al suo collo fresco.

Sorrisi involontariamente, mordendole forte il labbro inferiore, sentendola sospirare, mentre le dita della sua mano sinistra si incastravano fra i miei ricci, facendomi fremere.

«Barbara!». Un grido ci fece trasalire. 

Non scappare. 

 

Anticipazione prossimo capitolo: [...] «Harry devi smetterla di confondermi! Ho bisogno di pensare, okay? Ma non posso! Non ci riesco se continui a guardarmi così...». [...]

 

«Zio, come fanno le piante a crescere?», mi chiese Tristano, mentre giocherellava con una mela rossa.

La faceva scivolare agilmente fra le dita piccole e chiare, come tutta la sua pelle punteggiata da nei all'altezza delle guance. I capelli ricci e rossi, gli ricoprivano la fronte.

«Basta parlargli», gli risposi come sempre, facendogli un occhiolino prima di riprendere a chinarmi su roseto che stavo potando nei punti giusti.
I suoi enormi occhi azzurri, situati dietro un altrettanto grande paio di occhiali da vista neri, mi fissarono corrucciati, non soddisfatti della solita risposta, prima di tornare a concentrarsi sul frutto che stringeva da ben quindici minuti.
«Ah! Guarda zio, un verme», urlò eccitato, facendomi sobbalzare dalla paura e pungere con una spina, facendomi così portare il pollice sanguinante fra le labbra piene e rosee.
Tristano era la mia piccola peste e amava la natura tanto quanto me. 
Abitava con un'amica di sua madre, la bella e dolce Laila, mia cugina, morta subito dopo il parto. Prima o poi l'avrei adottato io Tristano, dato che era la cosa più bella che mi era capitata nella vita; stavo aspettando di trovare lavoro e casa fissi.
«Bello vero?», sussurrai, avvolgendo il suo piccolo corpo con le mie braccia muscolose e poggiando il mento sulla sua piccola spalla,«Lo sai che tanto tempo fa una mela fece litigare tre donne?».
La piccola peste si girò di scatto, salendo a fatica sulle mie gambe incrociate e, dopo aver nascosto la testa nell'incavo del mio collo, sussurrò un flebile racconta.
Lui amava quando io gli raccontavo miti e leggende varie e io adoravo il momento in cui mi faceva mille domande.
«Stavano pranzando. Beh, erano ad un matrimonio, ma tutto iniziò molto prima», dissi, iniziando a camminare con lui fra le mie braccia, sentendo la sua mano, che ancora stringeva la mela, sfiorarmi la schiena dalle spalle larghe.
Notai, seduta in veranda, la mia Barbie, che osservava incantata il piccolo Tristano. Era ancora più bella di quando indossava il vestito da sposa, ma forse il mio parere non contava, dal momento che io odiavo a morte quel maledetto vestito.
«Zio, chi è quella?», mi chiese Tristano, indicando la ragazza con il piccolo e sottile indice, dimenandosi fra le mie braccia per scendere.
Con un balzo i suoi piedini, fasciati dalle scarpette rosse, toccarono il prato, iniziando a muoversi velocemente verso la veranda dove stava seduta Barbara che, appena lo vide avvicinarsi, schiuse le labbra rosse.
«Ehi», gli sorrise dolcemente, lasciando che lui le accarezzasse i capelli ondulati che le sfioravano il seno, che si abbassava e alzava al ritmo della sua respirazione pacata.
Ebbi come una veloce visione, vedendola giocare sul prato, a piedi scalzi, con il mio piccolo ometto dai ricci rosso fuoco.
«Io sono Tristano», disse mio nipote, porgendole con fierezza la mano e alzando il mento latteo.
Spalancai la bocca, vedendo come faceva il casca morto, con la ragazza che amavo, a soli quattro anni.
«Piacere», ridacchiò lei, coprendosi la bocca con la mano libera, portando la destra a ad incastrarsi con quella di Tristano,«Barbara».
Tris arrossì, prima di schiarirsi la voce e continuare a fare l'uomo adulto. Era bello vederli insieme e quasi ebbi l'impressione che lui si stesse innamorando di quella ragazzina come me.
«Zio, vieni! Ti voglio presentare la mia nuova fidanzata», esclamò Tristano, facendomi sgranare gli occhi divertito.
Tutto suo zio, pensai subito, avvicinandomi a grandi falcate per salutare anche Barbie, che studiò attentamente ogni mio singolo movimento.
«Ciao», mormorò, fissando imbarazzata, forse per quello che era successo nella sua stanza, le scale di legno della veranda, che terminavano sul prato verde.
Era adorabile con le guance leggermente arrossate e il vento caldo e leggero che le scompigliava le onde dei suoi capelli.
«Ciao. Vedo che hai conosciuto il don Giovanni», scherzai, indicando con il mento Tristano, che si aggrappò alla mia gamba con forza, facendomi scuotere la testa rassegnato.
Era basso per i suoi quattro anni, tanto che mi arrivava al ginocchio, e la sua enorme testa, a causa dei ricci, sembrava una massa di fieno.
«È tuo nipote?», mi chiese lei, guardandomi dal basso verso l'alto, accarezzando poi i ricci di Tris, che sembrava godere di quelle attenzioni.
Era difficile dire come mi sentivo così, vicino alle persone che più amavo; ancora più difficile era immaginare che meno di una settimana e lei sarebbe stata sull'altare per uno che non ero io.
«È il figlio di mia cugina», sospirai, pensando a lei in viaggio di nozze con Aladino e un groppo in gola mi impedii di respirare.
Cazzo, scappa con me! Vidi una farfalla volare sopra il piccolo naso a patata di Tristano, che la osservò con gli occhi grandi e azzurri, prima di lasciare la mia gamba e correrle dietro, accompagnato dalla mia solita frase non toccarla altrimenti muore.
«È adorabile. Di quale tua cugina?», mi risvegliò Barbie, sorridendomi dolcemente.
Lei conosceva quasi tutta la mia famiglia, solo che di Laila nessuno aveva mai parlato. Era sempre stata considerata il disonore della famiglia a causa delle sue bravate. Una di queste era stata rimanere incinta a sedici anni.
«Laila. È morta quattro anni fa, dopo aver partorito la piccola peste», dissi freddo, ricordando quel giorno.
Barbara abbassò la testa, iniziando a sfregarsi nervosamente le mani sul jeans chiaro, evidentemente in imbarazzo.
«Scusami, non sapevo che... Mi dispiace», balbettò, volgendo lo sguardo a destra per evitare il mio, mentre l'imbarazzo calava attorno a noi.
Sei ancora più bella quando fai finta di non vedermi, pensai, e un leggero sorriso si aprì sulle mie labbra, facendomi rabbrividire nonostante il caldo. Tris osservava la farfalla poggiata su una pietra.
«Un giorno lo adotterò io, sai? Adesso vive con un'amica della madre e ogni tanto passa il pomeriggio e la notte con me», interruppi quel silenzio, voltandomi come lei ad osservare il mio piccolo nipote dalle guance rosee.
«Vuoi fare il papà?», sghignazzò lei, prendendomi in giro, giocosamente questa volta, e stranamente mi piaceva.
Non c'era cattiveria in quelle parole, solo divertimento e voglia di giocare. Mi piaceva la Barbara giocherellona, quella che dimostrava i suoi diciotto anni senza vergogna, ne paura di non sembrare abbastanza grande.
«Beh... Si. Perché?», chiesi ironicamente, facendole la linguaccia, chiudendo un solo occhio per osservare la sua reazione.
Scosse la testa divertita, osservandomi mentre prendevo posto accanto a lei, con i gomiti sulle ginocchia e un braccio a sfiorare il suo, scoperto a causa della maglietta estiva.
«Oh niente, a parte che dovrai imparare a fare il bucato e sistemare il letto alla mattina. Una cosa da niente. Per non parlare del momento in cui dovrai fare la lavatrice, separando i panni a seconda dei colori. O di quando dovrai stirarli senza-».
«Ok ho capito», risi, mettendole una mano sulla bocca per bloccare il suo flusso interrotto di parole.
Così mi faceva spaventare, ma non avrei mai cambiato la mia idea. Tristano era come un figlio per me ed io amavo i bambini.
«Scherzo Harry. Saresti un padre... Perfetto», disse, distogliendo lo sguardo dal mio viso sull'ultima parole, mentre le guance si coloravano di rosso.
Spalancai la bocca, notando che per la prima volta mi faceva un complimento senza urlarmi contro o insultarmi. Ed era la cosa più bella che potesse dirmi.
«Anche tu saresti una brava mamma», replicai, giocando con la collana che portavo al collo, evitando di alzare lo sguardo quando sentii la sua testa scattare verso la mia.
Un rumore ci fece sobbalzare entrambi, mentre vedevamo Tristano a terra, con le ginocchia sbucciate e gli occhiali sul prato.
«Tristano!», urlammo insieme, scattando in piedi e correndo verso di lui, che continuava a ripetere che stava bene.
Barbara lo prese fra le braccia, ripulendo dolcemente i suoi pantaloni a mezza gamba con dolci pacche.
«Tris puoi stare più attento? Mi hai fatto morire», lo sgridai, vedendolo sbuffare, mentre rivolgeva il suo sguardo sulla bella ragazza, che gli spostava i capelli dalla fronte.
Ricordai quando eravamo piccoli e lei, ogni volta che cadeva nella terra bagnata per causa mia, correva in casa a spazzolarsi i capelli, già lunghi, per togliere tutta la polvere incastrata fra questi.
«Come va con il damerino?», chiesi così, dal nulla, facendola irrigidire sul posto e fissare un punto indefinito oltre la spalla della mia piccola peste, che sembrò non badare molto a noi mentre ancora osservava la farfalla.
Non avevo intenzione di chiederglielo, o almeno non in quel momento, ma la realtà era che me lo stavo segretamente domandando da quando l'avevo vista seduta su quelle scale. Insomma, mancava una settimana al suo matrimonio e del futuro e coglione sposo ancora neanche l'ombra. Era venuto quel pomeriggio di pioggia, ma a quanto avevo capito non era rimasto a lungo.
«Bene. Venerdì prossimo ci sposiamo», disse con voce rauca Barbara, alzandosi da terra e camminando velocemente verso la parte opposta alla mia.
Stringeva i pugni lungo i fianchi, facendo ondeggiare dolcemente le braccia avanti e dietro ad ogni passo scoordinato che faceva.
Venerdì prossimo. Mancavano solo sei giorni e io ancora speravo in qualche miracolo. Svegliati Harry!
«Come mai ancora non è qui? Insomma... Il matrimonio è anche il suo. Corso prematrimoniale, bomboniere... Quando le fate tutte quelle cazzate?», le urlai dietro, cercando di raggiungerla e irritarla.
Non volevo rompere quella dolce e pacata atmosfera che si era creata, ma speravo che le mie parole pungenti avessero potuto farle capire l'errore enorme che stava per combinare.
«Perché non ti fai gli affari tuoi?», chiese retorica, bloccandosi di scatto e girandosi improvvisamente, ritrovandosi ad un centimetro, se non di meno, dal mio volto.
I nostri nasi si sfiorarono e le mie labbra chiuse catturavano ogni suo respiro fresco e tremante, mentre mi torturavo le dita per impedire a quest'ultime di chiudersi intorno i suoi fianchi prosperosi.
«Che c'è? Ti irrita che qualcuno ti faccia notare quanto poco se ne fotta quel coso  di te?», sibilai con disprezzo, indicando con l'indice l'aria, come se Aladin fosse lì, ad un passo da noi due, così vicini.
I suoi occhi grigi, umidi, si fecero più grandi e scuri, come se stesse per mollarmi uno schiaffo, ma non lo fece.
«Lavora, Harry! Quello che dovresti fare tu!», esclamò con rabbia, ma soddisfatta per la sua risposta a tono.
Sembrava sempre una gara a chi diceva l'ultima parola e non riuscivo ancora a capire perché io amassi fare quel giochetto ogni santa volta e ancora di più non capivo perché, ogni volta che mi urlava contro, l'amavo sempre di più invece che odiarla.
«Perché secondo te io che sto facendo? Mi giro i pollici? Se non l'avessi notato, io starei facendo il giardino per il tuo schifosissimo ricevimento prima del tuo schifosissimo matrimonio! Anzi, faccio più io che lui per il vostro dannatissimo, schifosissimo matrimonio!», urlai a pieni polmoni, vedendo Tristano schiudere le labbra piene e rosee, indietreggiando impaurito.
Il suo volto, pallido e pieno di lentiggini, si contrasse in una smorfia di tristezza e mi sentii con il cuore ancora più pesante.
«Okay, sai cosa ti dico, Barbie? Mi sono scocciato di litigare. La prossima volta vengo quando tu non ci sei», sussurrai sconfitto e, con due falcate, raggiunsi il mio ometto.
Lo presi fra le braccia, lasciando che le sue manine esili si avvolgessero delicate intorno il mio collo,consolandomi. Era l'unica cosa bella che avevo e che mi era capitata nella vita... Insieme a Barbara. Ma lei purtroppo non era mia e mai lo sarebbe stata. Il vestito bianco nell'armadio e lo stesso giardino ne erano la prova.
La vidi sospirare pesantemente, mentre serrava gli occhi ed i pugni contemporaneamente, voltando la testa di lato.
Era tutto così maledettamente straziante e mi domandai se anche lei, almeno per un secondo, aveva provato ciò che provavo io quando la vedevo andarsene via da me. E forse davvero non eravamo fatti per stare insieme e io dovevo andare avanti finalmente.
«Vuoi farmi pesare l'aiuto che mi stai dando con il giardino?», mi disse spazientita, afferrandomi per una spalla e voltandomi bruscamente verso di lei.
Strinsi fra le mani Tris, come se lui potesse proteggermi da quei due occhi grigi che continuavano a farmi maledettamente male. Le sue labbra erano schiuse e in quel momento capii cosa fosse giusto.
«Tris perché non chiedi a Lily di farti una fetta di pane con la marmellata?», proposi al piccolo, vedendo i suoi occhi illuminarsi alla parola marmellata.
Lo liberai velocemente, osservandolo attentamente finché non si richiuse la porta alle sue spalle, facendomi sospirare sollevato, prima che girassi il capo verso Barbara, che si era irrigidita. Non scappare.
«No», dissi improvvisamente, vedendola sgranare per un attimo gli occhi, mentre lentamente indietreggiava, vedendomi avanzare verso di lei.
D'un tratto ci ritrovammo al centro del giardino, circondati dal caldo vento che spirava quella mattina e i suoi capelli le sfioravano dolcemente il viso, sprigionando un forte odore di vaniglia.
«No?... Cosa?», disse spaesata, battendo contro l'albero a cui era fissata l'amaca, facendoci aderire completamente la schiena ritta.
Il mio cuore batteva forte e sperai che lei potesse sentirlo, per risparmiarmi il momento in cui avrei dovuto dirle tutto, mettendomi in ridicolo. Non scappare, non ora.
«No, non voglio farti pesare l'aiuto che ti sto dando con il giardino, ma solo la tua dannatissima scelta di sposarti», risposi brusco, battendo un pugno sulla corteccia dietro di lei, sentendola sussultare.
Il sangue prese subito a scorrere sulle mie nocche bianche, bruciando la pelle fresca e sporca di terreno.
«Harry tu non puoi-».
«Posso, cazzo!», la bloccai, sovrastandola con la mia voce roca, mentre richiudevo il suo volto fra le mie mani grandi, sentendola sussultare.
Non ti muovere, resta ancora qui con me. Più vicino, continuavo a pensare, mentre velocemente incastravo i nostri corpi, insinuando a fatica un ginocchio fra le sue gambe, vedendola arrossire. Sospirai come sollevato. I nostri corpi erano fatti per stare insieme.
«Harry... Ti prego», disse in un sussurro, con gli occhi lucidi e le braccia inermi lungo i fianchi pieni.
Continuava a torturarsi le dita fra di loro, come se stesse combattendo con se stessa. Non scappare.
«Sto per baciarti», mormorai, ignorando la sua silenziosa preghiera, nascosta dietro quelle iridi grigie e profonde.
Inspirò bruscamente, gonfiando a tal punto il petto da farlo scontrare con il mio, che non esitò un minuto di più a farsi più vicino, comprimendo il suo seno fra il mio torace.
Inclinai la testa verso il suo viso pallido e dalle guance troppo rosse, sentendo il suo forte profumo e il suo respiro tremante colpirmi le labbra schiuse e umide, tremanti per la troppa vicinanza con le sue rosse e schiuse. La sentii muovere leggermente la testa, rafforzando, così, la presa sulle sue guance.
«Perché?», sussurrò, lasciando che la mia fronte si poggiasse sulla sua, leggermente accaldata.
«Non lo so», risposi e, in un attimo, le mie labbra erano sulle sue, morbide e fredde.
Sentii il mio povero cuore fare una leggera capriola e fermarsi, prima di prendere a battere nuovamente, troppo veloce. Fa male. Ma faceva così bene.
Avvolsi le braccia intorno il suo busto, staccandola dall'albero rigido dietro di noi, trascinandola verso l'amaca, dove sprofondò a sedere, costringendomi a piegarmi su me stesso per raggiungere meglio il suo volto. Le nostre bocche si muovevano insieme, mentre i nasi si strofinavano a seconda dei movimenti delle nostre teste. Le miei mani ancorate al suo collo fresco.
Sorrisi involontariamente, mordendole forte il labbro inferiore, sentendola sospirare, mentre le dita della sua mano sinistra si incastravano fra i miei ricci, facendomi fremere.
«Barbara!». Un grido ci fece trasalire. 
Non scappare. 

 

 

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Capitolo 10
*** Se mi guardi così~ ***


 

«È tutto okay, Barbara? Mi sembri... Strana», mormorò Alan, osservandomi dalla sua posizione, seduto sul mio letto, con le gambe incrociate e i gomiti sulle ginocchia.
I folti capelli biondi erano leggermente scompigliati e i suoi occhi azzurri sembravano così gioiosi che non me la sentii di confessargli del bacio fra me ed Harry.
Tanto non hai provato nulla, mentii a me stessa, cercando di suonare abbastanza convincente.
«Chi era il ragazzo con cui stavi quando sono arrivato?», mi chiese innocente, non avendo ricevuto una risposta alla domanda precedente.
Deglutii a fatica, fermando la mia convulsa camminata avanti ed indietro per la stanza, osservandolo e sudando freddo. Mi sentivo così in colpa e, per un attimo, desiderai che ci avesse colto in flagrante. Almeno mi sarei risparmiata la fatica di doverglielo dire. Ma sapevo benissimo che non gli avrei rivelato nulla. Era solo uno stupido bacio fra me e il mio nemico.
«Il giardiniere», bisbigliai. E probabilmente, in un'altra circostanza, avrei affiancato a quell'appellativo un milione di insulti e aggettivi poco gradevoli, ma le mie labbra ancora erano ferme al bacio di qualche istante prima e avevano ancora la forma delle labbra di Harry.
«Wow! È davvero bravo», mi sorrise dolcemente Alan, alzandosi pacato e avvicinandosi lentamente, come se avesse paura che potessi scappare.
Sentivo il cuore battermi forte all'idea di dover affrontare prima o poi l'argomento con entrambi, Harry ed il mio futuro sposo, e quel vestito nell'armadio mi sembrava troppo ingombrante.
«Barbara... Mi dici cosa succede? Sembri angosciata... Hai forse cambiato idea?», mi chiese insicuro, racchiudendo le mie piccole mani nelle sue, lisce rispetto a quelle di Harry.
Alan mi aveva sempre trasmesso sicurezza ed era un porto sicuro. Aveva già la su vita programmata secondo per secondo e l'idea che anche io potessi vivere così mi aveva attirata fin da subito. Da quando mio padre era morto avevo sempre cercato stabilità, razionalità e sicurezza. Harry non poteva darmele. O almeno così credevo.
Ebbi per un'istante l'impulso di rivelare ad Alan tutte le mie paure. Infondo dovevamo sposarci e bisognava che da subito fossimo sinceri l'uno con l'altro. Ma come mi aveva sempre detto mia madre, non si era mai sinceri fino in fondo in un matrimonio.
«Alan io...», e per questo mentii,«Penso che dovremmo sposarci a Londra», o quasi. «Insomma, Holmes Chapel non è neanche il tuo paese».
«Ma è il tuo. Barbie, ascoltami». A quel soprannome rabbrividii. Solo Harry può chiamarmi Barbie, pensai all'istante, scuotendo poi la testa per scacciare via quell'assurdità. «Tu hai fatto tanto per me. Vivremo nella mia città. Almeno il matrimonio facciamolo qui! Io devo tutto ad Holmes Chapel».
«Perché?», chiesi curiosa, aggrottando le sopracciglia.
Alan si aprì in un tenero sorriso, che mi fece sciogliere il cuore e sentire maledettamente in colpa. La presa sulle mie mani si solidificò, senza essere però prepotente. «Perché è qui che è nata la ragazza che amo e che voglio sposare».
Harry's P.O.V.
«Dannazione!», sbottai, dando un potente calcio alla sedia della mia stanza, mentre mia madre si muoveva indecisa sul letto, dondolando i piedi.
Mi portai le mani fra i capelli, stringendo forte i ricci e tirandoli con foga, come se il dolore fisico avesse potuto sostituire quello emotivo.
«Harry... Mi puoi spiegare cosa è successo?», mi chiese titubante mia madre, strofinando le mani sulle gambe sode e guardandomi preoccupata.
In quel momento dovevo sembrare fuori di senno. Vedevo rosso e ogni cosa mi ricordava la faccia perfetta del damerino. Non avrebbe mai scelto il rozzo ragazzo di campagna al duca di città, dagli occhi chiari e i capelli dorati.
«È qui!», sbottai.
«Ma chi?», chiese esasperata mia madre, evidentemente stanca di vedermi in quello stato e di non poter fare niente. Stanca di non ricevere risposte.
«Lo stronzo, ecco chi! Me la porterà via, mamma. Barbara è mia dannazione, mia! La conosco da più tempo», mi lagnai come un bambino piccolo, dando l'ennesimo calcio alla sedia.
Il silenzio calò nella stanza, avvolgendoci fastidiosamente. Sapevo che neanche lei conosceva il modo per consolarmi e sapevo che oramai non c'era più nulla da fare.
Ora lui era ad Holmes Chapel e io non mi sarei più potuto avvicinare. Se, inoltre, quando era lontano avevo la possibilità di mostrare a Barbie quanto fosse sbagliato per lei quel ragazzo, quanto poco gli interessasse di lei e del matrimonio, adesso che lui le sarebbe stato vicino in ogni momento della giornata, io ero inutile e di troppo.
«Dovresti vederlo!», sbottai, immaginandomi la faccia da pesce lesso di quel ragazzino,«È un attaccapanni con i piedi. Lui e quelle sue maniere da snob».
«Da come parli sembra che ti piaccia», mi prese in giro mia madre, guadagnandosi un'occhiataccia di fuoco.
Serrai i pugni, riprendendo a camminare avanti ed indietro per la stanza. L'idea che quei due fossero chissà dove a fare chissà cosa mi fece ribollire il sangue nelle vene. Sentii l'adrenalina scorrere rapida nel mio corpo ed ebbi la voglia di rovesciare tutto il materiale sulla mia scrivania a terra. Detto fatto!
«Harry! Ma sei impazzito?! Smettila!». Mia madre si alzò, prendendomi il volto fra le mani, e cercò di tranquillizzarmi.
Fissai i suoi occhi verdi, così simili ai miei, e il respiro affannato sembrò tranquillizzarsi. Una lacrima scese lentamente lungo la mia guancia, seguita dalle altre con rapidità. L'avevo persa.
«Harry, amore, guardami», mi implorò mia madre, mordendosi il labbro inferiore, evidentemente nervosa. «So che fa male, ma devi andare avanti. Sei un ragazzo favoloso e troverai sicuramente la ragazza adatta a te».
Il suo sorriso dolce non riuscì a coinvolgermi neanche un po'. Sapevo che il mondo era pieno di ragazze, magari della mia età, ma nessuna era Barbara. Nessuna era così rompicoglioni, isterica, stronza, dolce, bastarda, perfettina, bassa come lei. Nessuna aveva i suoi occhi grigi.
«Mamma... La amo», sospirai, sentendomi così piccolo dopo tanto tempo. 
La vidi sospirai pesantemente, prima di infilare una mano fra i miei capelli disordinati. «Allora valla a prendere», disse decisa, fissandomi intensamente negli occhi.
E sapevo che era la cosa giusta da fare. Perché ogni cosa che diceva lei era giusta da fare. Dovevo solo trovare il coraggio.
«E se poi dovesse rifiutarmi?».
«Almeno ci avrai provato».
«Ho il cuore a pezzi, non so se c'è qualcos'altro ancora da distruggere».
«Ci sarò io. Io lo rimetterò in ordine».
Sorrisi dolcemente, pesando a quanto fosse sconfinato l'amore di una madre. Soprattutto quello di mia madre verso di me.
Le accarezzai i capelli neri e, dopo aver posato un bacio all'angolo della sua bocca rosea, afferrai le chiavi della macchina dietro di me e, con due balzi, fui fuori casa.
Barbara's P.O.V.
«Torno presto».
«Promesso?».
«Barbara, voglio solo comprare un dolce per stasera», rise Alan, baciando uno dei dorso delle mie mani. «Voglio ringraziare tua madre per l'ospitalità. Cosa potrebbe piacerle?».
Guardai i suoi occhi azzurri, radiosi e ben attenti ad ogni mio movimento. Il sole stava iniziando a tramontare, ma grazie al vento caldo che tirava ogni tanto non faceva affatto freddo. I colori rossastri del cielo illuminavano il suo viso, creando un buffo gioco di ombre.
«Un po' di gelato sarà perfetto», mormorai. «Alan davvero, non ce n'è bisogno», provai a convincerlo a non lasciarmi sola con tutti i miei dubbi.
Avevo ancora un fastidiosissimo groppo in gola che non aveva intenzione di andare giù e volevo solo passare un po' di tempo con lui, dimostrare a me stessa quanto mi fosse mancato e quanto volessi sposarlo.
«Perfetto allora!», esclamò lui, tastando le tasche dei suoi jeans in cerca delle chiavi della macchina.
Indossava una leggera camicia bianca e casual, che gli conferiva un'aria più spensierata e bambinesca del solito. Mi sentivo così confusa.
«Ah, comunque i miei genitori dovrebbe arrivare fra un paio di giorni... Insieme al resto della famiglia ovviamente», mi informo, cacciando finalmente le chiavi dalla tasca posteriore, sventolandole giocosamente davanti i nostri occhi.
Deglutii a fatica, mentre incastravo le dita fra le sue, pronta ad accompagnarlo alla macchina. Entrambi, però, ci bloccammo non appena notammo Harry alla fine del vialetto, con una mano chiusa intorno il bordo della portiera e le labbra socchiuse. Immediatamente le mie guance divennero di un imbarazzante rosso porpora, che mi costrinse a portare le mani, costantemente fredde, intorno al viso, per abbassarne la temperatura.
«Oh, il giardiniere!»,esclamò allegro Alan, abbandonando la mia mano per avvicinarsi al ragazzo difronte a noi, che inarcò un sopracciglio infastidito, mentre sbatteva la portiera alle sue spalle.
Torturai le mani fra di loro, nervosa a tal punto che avrei rischiato di spezzarle tanta della forza che mettevo in ogni singolo movimento.
«Volevo ringraziarti per l'enorme aiuto che ci hai dato con il giardino. Devo dire che sei davvero bravissimo», continuò il mio futuro sposo, allungando una mano verso Harry.
Quest'ultimo la guardò con disgusto per qualche secondo, decidendo poi che non l'avrebbe stretta e portando, piuttosto, entrambe le sue mani all'interno del pantalone, consumato all'altezza delle cosce.
«Bene!», esclamai, battendo le mani fra loro, nel vano tentativo di alleggerire l'atmosfera pesante. Harry alzò lo sguardo dalla mano curata di Alan, puntandolo nei miei occhi grigie subito la mia mente fu invasa dalle immagini del nostro bacio. «A-Alan è meglio se vai, prima che l'unica gelateria di questo paese chiuda», balbettai, giocando nervosamente con le punte dei miei capelli.
Il riccio assottigliò gli occhi, cogliendo la punta di disgusto nel mio tono, mentre parlavo diHolmes Chapel.
«Emh... D'accordo», borbottò Alan, dondolando sui piedi e cacciando anche lui le sue mani nelle tasche. «Allora io... Io vado. Si, vado».
Mi sorrise dolcemente, poggiando un bacio sulla mia guancia, chiudendo gli occhi. Io, invece, fissai Harry, rigido nella sua figura imponente. Alan si allontanò e, rivolto un cenno ad entrambi, balzò nella sua auto bianca, partendo verso il centro.
Lo seguii con lo sguardo finché mi fu possibile, ritardando così il momento in cui avrei dovuto rivolgere la mia attenzione ad Harry. 
«Vedo che non gli hai parlato». La sua voce, rauca e fredda, fu la prima a sferzare il silenzio.
«Non avevo nulla di importante da dirgli», dissi pungente, volgendomi verso di lui.
Studiai per un attimo le punte delle ali dei suoi uccelli sul petto, scoperte a causa dell'ampia scollatura della maglia sgualcita, prima di serrare i pugni e camminare spedita verso casa.
«Nulla, Barbara? Il nostro bacio non è stato nulla di importante da rivelare?», domandò subito, seguendomi.
I tacchetti dei suoi stivaletti marroni dettavano legge sul vialetto, rimbombando nelle mie orecchie. E, più sentivo avvicinarlo, più il mio cuore perdeva dei battiti. Ti prego, lasciami in pace!
«Non significava niente!», sbraitai ancora, afferrando il pomello della porta d'ingresso, pronta ad andarmene da lì.
Purtroppo, però, una delle sue grandi mani si chiuse intorno al mio gomito, mentre l'altra avvolgeva con decisione, ma non con brutalità, il mio fianco sinistro, costringendomi a girarmi verso il suo viso. Schiusi le labbra, trovandolo a pochi centimetri dal mio naso, con gli occhi più scuri del solito e le narici allargate a causa del respiro profondo.
«Niente?», sibilò con la lingua incastrata fra i denti bianchi, mentre mi spingeva delicatamente contro il muro esterno della mia casa. Sentivo il sangue pulsare nelle mie orecchie ed il cuore battere all'impazzata; le gambe sembravano gelatina e ogni pelo della nuca rizzarsi ad ogni suo movimento. «Non ti credo».
Una delle sue gambe si fece spazio fra le mie e la mano, che pochi attimi prima stringeva il mio gomito, si poggiò sul muro, affianco alla mia testa. Stese ad una ad una le dita sulla superficie rigida, respirando affannosamente.
I nostri nasi si sfioravano e le nostre bocche continuavano a cozzare fra loro, senza mai unirsi. Ti prego, ti prego, lasciami in pace!
«Do-dovresti invece», sussurrai con la gola secca. Misi le mani fra di noi, nel vano tentativo di allontanarlo, ma più spingevo contro di lui, più sentivo il suo petto aderire al mio.
«Barbara perché non ammetti che c'è qualcosa fra noi?».
«Perché non c'è niente, Harry. Niente! A parte un immenso e profondo odio».
«Mi hai baciato pochi attimi fa», mi rimbeccò, leccandosi il labbro superiore.
«N-no! Tu, tu mi hai baciata», dissi con voce incrinata, le lacrime ai lati dei miei occhi pronte ad uscire. 
Ero maledettamente confusa e lui non aiutava affatto il mio cuore e la mia mente a mettere in ordine tutto il casino che c'era dentro di me. Continuava a portare confusione, così vicino e così bello. 
«Tu hai risposto, però!», ribatté, poggiando la fronte sulla mia. «Barbara-».
«No!», lo bloccai, mettendo una mano sulle sue labbra umide e calde. Il suo odore di erba bagnata e noce moscata mi invasero i sensi, facendomi perdere per un attimo la cognizione del tempo e dello spazio che ci circondava. «Harry devi smetterla di confondermi! Ho bisogno di pensare, okay? Ma non posso! Non ci riesco se continui a guardarmi così...». La mia voce si affievolì pian piano, fino a diventare un sussurro appena udibile.
«Così come?», chiese, inarcando un sopracciglio e baciando la mia mano, che ancora indugiava sulle sue labbra morbide e piene.
«Così, Harry. Come se mi amassi da tutta la vita!», singhiozzai. «Non riesco a pensare se tu mi fissi con quegli occhi».
Harry deglutii, facendo muovere velocemente il pomo d'Adamo ben visibile, mentre inclinava la testa verso il mio viso. Respiravo il suo affanno, il suo odore pungente. Le mie mani si chiusero intorno le sue braccia, dai muscoli rigidi e tesi.
«Barbara non chiedermi di allontanarmi, per favore».
Aprii la bocca, pronta a dirgli di lasciarmi in pace, che lo odiavo. Invece le parole si bloccarono a metà della mia gola quando le sue labbra, con dolcezza e lentezza, si poggiarono per la seconda vota sulle mie, accarezzandole delicatamente, come se fossero la cosa più preziosa.
Strinsi la sua maglia fra le dita, frustrata e confusa ancora di più, mentre mi sollevavo sulle punte per raggiungere con facilità la sua bocca calda. Avevo lo stomaco sotto sopra e sperai solo che niente ci fermasse. Sapevo che dopo, quando sarei entrata in casa o appena avrei rivisto Alan, me ne sarei pentita amaramente, ma in quel momento ero totalmente abbandonata ad Harry. Le palpebre sembravano di piombo e le mie labbra attratte innegabilmente dalle sue.
Mi allontanai delicatamente, rubandogli un ultimo e veloce bacio a stampo, vedendolo ad occhi chiusi mentre si gustava l'ultimo schiocco che producevano le nostre labbra. 
«Devi andartene», sussurrai affannata, leccandomi le labbra e sentendo ancora il forte sapore di noce moscata.
Harry aprì gli occhi, immergendoli nei miei, e proprio quando stava per dirmi qualcosa, che probabilmente mi avrebbe turbata maggiormente, sentimmo la porta d'ingresso aprirsi. Sobbalzammo entrambi e con un salto, riuscii ad allontanarmi in tempo dal suo corpo caldo e ancora scosso da quel bacio, prima che mia madre uscisse in veranda.
«Oh, ragazzi.... Siete qui!», sorrise, rivolgendo subito lo sguardo ad Harry. «Tesoro, resti a cena vero?». Sgranai gli occhi. No, no, no! 
Harry mi guardò intensamente mentre rispondeva.
«Si, Lily. Resto a cena».    

 

«È tutto okay, Barbara? Mi sembri... Strana», mormorò Alan, osservandomi dalla sua posizione, seduto sul mio letto, con le gambe incrociate e i gomiti sulle ginocchia.

I folti capelli biondi erano leggermente scompigliati e i suoi occhi azzurri sembravano così gioiosi che non me la sentii di confessargli del bacio fra me ed Harry. Tanto non hai provato nulla, mentii a me stessa, cercando di suonare abbastanza convincente.

«Chi era il ragazzo con cui stavi quando sono arrivato?», mi chiese innocente, non avendo ricevuto una risposta alla domanda precedente. Deglutii a fatica, fermando la mia convulsa camminata avanti ed indietro per la stanza, osservandolo e sudando freddo. Mi sentivo così in colpa e, per un attimo, desiderai che ci avesse colto in flagrante. Almeno mi sarei risparmiata la fatica di doverglielo dire. Ma sapevo benissimo che non gli avrei rivelato nulla. Era solo uno stupido bacio fra me e il mio nemico.

«Il giardiniere», bisbigliai. E probabilmente, in un'altra circostanza, avrei affiancato a quell'appellativo un milione di insulti e aggettivi poco gradevoli, ma le mie labbra ancora erano ferme al bacio di qualche istante prima e avevano ancora la forma delle labbra di Harry.

«Wow! È davvero bravo», mi sorrise dolcemente Alan, alzandosi pacato e avvicinandosi lentamente, come se avesse paura che potessi scappare.

Sentivo il cuore battermi forte all'idea di dover affrontare prima o poi l'argomento con entrambi, Harry ed il mio futuro sposo, e quel vestito nell'armadio mi sembrava troppo ingombrante.

«Barbara... Mi dici cosa succede? Sembri angosciata... Hai forse cambiato idea?», mi chiese insicuro, racchiudendo le mie piccole mani nelle sue, lisce rispetto a quelle di Harry.

Alan mi aveva sempre trasmesso sicurezza ed era un porto sicuro. Aveva già la su vita programmata secondo per secondo e l'idea che anche io potessi vivere così mi aveva attirata fin da subito. Da quando mio padre era morto avevo sempre cercato stabilità, razionalità e sicurezza. Harry non poteva darmele. O almeno così credevo. Ebbi per un'istante l'impulso di rivelare ad Alan tutte le mie paure. Infondo dovevamo sposarci e bisognava che da subito fossimo sinceri l'uno con l'altro. Ma come mi aveva sempre detto mia madre, non si era mai sinceri fino in fondo in un matrimonio.

«Alan io...», e per questo mentii,«Penso che dovremmo sposarci a Londra», o quasi. «Insomma, Holmes Chapel non è neanche il tuo paese».

«Ma è il tuo. Barbie, ascoltami». A quel soprannome rabbrividii. Solo Harry può chiamarmi Barbie, pensai all'istante, scuotendo poi la testa per scacciare via quell'assurdità. «Tu hai fatto tanto per me. Vivremo nella mia città. Almeno il matrimonio facciamolo qui! Io devo tutto ad Holmes Chapel».

«Perché?», chiesi curiosa, aggrottando le sopracciglia.

Alan si aprì in un tenero sorriso, che mi fece sciogliere il cuore e sentire maledettamente in colpa. La presa sulle mie mani si solidificò, senza essere però prepotente. «Perché è qui che è nata la ragazza che amo e che voglio sposare».

Harry's P.O.V.

 «Dannazione!», sbottai, dando un potente calcio alla sedia della mia stanza, mentre mia madre si muoveva indecisa sul letto, dondolando i piedi.

Mi portai le mani fra i capelli, stringendo forte i ricci e tirandoli con foga, come se il dolore fisico avesse potuto sostituire quello emotivo.

«Harry... Mi puoi spiegare cosa è successo?», mi chiese titubante mia madre, strofinando le mani sulle gambe sode e guardandomi preoccupata.

In quel momento dovevo sembrare fuori di senno. Vedevo rosso e ogni cosa mi ricordava la faccia perfetta del damerino. Non avrebbe mai scelto il rozzo ragazzo di campagna al duca di città, dagli occhi chiari e i capelli dorati.

«È qui!», sbottai.

«Ma chi?», chiese esasperata mia madre, evidentemente stanca di vedermi in quello stato e di non poter fare niente. Stanca di non ricevere risposte.

«Lo stronzo, ecco chi! Me la porterà via, mamma. Barbara è mia dannazione, mia! La conosco da più tempo», mi lagnai come un bambino piccolo, dando l'ennesimo calcio alla sedia.

Il silenzio calò nella stanza, avvolgendoci fastidiosamente. Sapevo che neanche lei conosceva il modo per consolarmi e sapevo che oramai non c'era più nulla da fare. Ora lui era ad Holmes Chapel e io non mi sarei più potuto avvicinare. Se, inoltre, quando era lontano avevo la possibilità di mostrare a Barbie quanto fosse sbagliato per lei quel ragazzo, quanto poco gli interessasse di lei e del matrimonio, adesso che lui le sarebbe stato vicino in ogni momento della giornata, io ero inutile e di troppo.

«Dovresti vederlo!», sbottai, immaginandomi la faccia da pesce lesso di quel ragazzino,«È un attaccapanni con i piedi. Lui e quelle sue maniere da snob».

«Da come parli sembra che ti piaccia», mi prese in giro mia madre, guadagnandosi un'occhiataccia di fuoco.

Serrai i pugni, riprendendo a camminare avanti ed indietro per la stanza. L'idea che quei due fossero chissà dove a fare chissà cosa mi fece ribollire il sangue nelle vene. Sentii l'adrenalina scorrere rapida nel mio corpo ed ebbi la voglia di rovesciare tutto il materiale sulla mia scrivania a terra. Detto fatto!

«Harry! Ma sei impazzito?! Smettila!». Mia madre si alzò, prendendomi il volto fra le mani, e cercò di tranquillizzarmi.

Fissai i suoi occhi verdi, così simili ai miei, e il respiro affannato sembrò tranquillizzarsi. Una lacrima scese lentamente lungo la mia guancia, seguita dalle altre con rapidità. L'avevo persa.

«Harry, amore, guardami», mi implorò mia madre, mordendosi il labbro inferiore, evidentemente nervosa. «So che fa male, ma devi andare avanti. Sei un ragazzo favoloso e troverai sicuramente la ragazza adatta a te».

Il suo sorriso dolce non riuscì a coinvolgermi neanche un po'. Sapevo che il mondo era pieno di ragazze, magari della mia età, ma nessuna era Barbara. Nessuna era così rompicoglioni, isterica, stronza, dolce, bastarda, perfettina, bassa come lei. Nessuna aveva i suoi occhi grigi.

«Mamma... La amo», sospirai, sentendomi così piccolo dopo tanto tempo. 

La vidi sospirai pesantemente, prima di infilare una mano fra i miei capelli disordinati. «Allora valla a prendere», disse decisa, fissandomi intensamente negli occhi.

E sapevo che era la cosa giusta da fare. Perché ogni cosa che diceva lei era giusta da fare. Dovevo solo trovare il coraggio.

«E se poi dovesse rifiutarmi?».

«Almeno ci avrai provato».

«Ho il cuore a pezzi, non so se c'è qualcos'altro ancora da distruggere».

«Ci sarò io. Io lo rimetterò in ordine».

Sorrisi dolcemente, pesando a quanto fosse sconfinato l'amore di una madre. Soprattutto quello di mia madre verso di me. Le accarezzai i capelli neri e, dopo aver posato un bacio all'angolo della sua bocca rosea, afferrai le chiavi della macchina dietro di me e, con due balzi, fui fuori casa.


Barbara's P.O.V.

 «Torno presto».

«Promesso?».

«Barbara, voglio solo comprare un dolce per stasera», rise Alan, baciando uno dei dorso delle mie mani. «Voglio ringraziare tua madre per l'ospitalità. Cosa potrebbe piacerle?».

Guardai i suoi occhi azzurri, radiosi e ben attenti ad ogni mio movimento. Il sole stava iniziando a tramontare, ma grazie al vento caldo che tirava ogni tanto non faceva affatto freddo. I colori rossastri del cielo illuminavano il suo viso, creando un buffo gioco di ombre.

«Un po' di gelato sarà perfetto», mormorai. «Alan davvero, non ce n'è bisogno», provai a convincerlo a non lasciarmi sola con tutti i miei dubbi.

Avevo ancora un fastidiosissimo groppo in gola che non aveva intenzione di andare giù e volevo solo passare un po' di tempo con lui, dimostrare a me stessa quanto mi fosse mancato e quanto volessi sposarlo.

«Perfetto allora!», esclamò lui, tastando le tasche dei suoi jeans in cerca delle chiavi della macchina.Indossava una leggera camicia bianca e casual, che gli conferiva un'aria più spensierata e bambinesca del solito. Mi sentivo così confusa.

«Ah, comunque i miei genitori dovrebbe arrivare fra un paio di giorni... Insieme al resto della famiglia ovviamente», mi informo, cacciando finalmente le chiavi dalla tasca posteriore, sventolandole giocosamente davanti i nostri occhi.

Deglutii a fatica, mentre incastravo le dita fra le sue, pronta ad accompagnarlo alla macchina. Entrambi, però, ci bloccammo non appena notammo Harry alla fine del vialetto, con una mano chiusa intorno il bordo della portiera e le labbra socchiuse. Immediatamente le mie guance divennero di un imbarazzante rosso porpora, che mi costrinse a portare le mani, costantemente fredde, intorno al viso, per abbassarne la temperatura.

«Oh, il giardiniere!»,esclamò allegro Alan, abbandonando la mia mano per avvicinarsi al ragazzo difronte a noi, che inarcò un sopracciglio infastidito, mentre sbatteva la portiera alle sue spalle.

Torturai le mani fra di loro, nervosa a tal punto che avrei rischiato di spezzarle tanta della forza che mettevo in ogni singolo movimento.

«Volevo ringraziarti per l'enorme aiuto che ci hai dato con il giardino. Devo dire che sei davvero bravissimo», continuò il mio futuro sposo, allungando una mano verso Harry.

Quest'ultimo la guardò con disgusto per qualche secondo, decidendo poi che non l'avrebbe stretta e portando, piuttosto, entrambe le sue mani all'interno del pantalone, consumato all'altezza delle cosce.

«Bene!», esclamai, battendo le mani fra loro, nel vano tentativo di alleggerire l'atmosfera pesante. Harry alzò lo sguardo dalla mano curata di Alan, puntandolo nei miei occhi grigie subito la mia mente fu invasa dalle immagini del nostro bacio.

«A-Alan è meglio se vai, prima che l'unica gelateria di questo paese chiuda», balbettai, giocando nervosamente con le punte dei miei capelli.

Il riccio assottigliò gli occhi, cogliendo la punta di disgusto nel mio tono, mentre parlavo diHolmes Chapel.

«Emh... D'accordo», borbottò Alan, dondolando sui piedi e cacciando anche lui le sue mani nelle tasche. «Allora io... Io vado. Si, vado».

Mi sorrise dolcemente, poggiando un bacio sulla mia guancia, chiudendo gli occhi. Io, invece, fissai Harry, rigido nella sua figura imponente. Alan si allontanò e, rivolto un cenno ad entrambi, balzò nella sua auto bianca, partendo verso il centro. Lo seguii con lo sguardo finché mi fu possibile, ritardando così il momento in cui avrei dovuto rivolgere la mia attenzione ad Harry. 

«Vedo che non gli hai parlato». La sua voce, rauca e fredda, fu la prima a sferzare il silenzio.

«Non avevo nulla di importante da dirgli», dissi pungente, volgendomi verso di lui.

Studiai per un attimo le punte delle ali dei suoi uccelli sul petto, scoperte a causa dell'ampia scollatura della maglia sgualcita, prima di serrare i pugni e camminare spedita verso casa.

«Nulla, Barbara? Il nostro bacio non è stato nulla di importante da rivelare?», domandò subito, seguendomi.

I tacchetti dei suoi stivaletti marroni dettavano legge sul vialetto, rimbombando nelle mie orecchie. E, più sentivo avvicinarlo, più il mio cuore perdeva dei battiti. Ti prego, lasciami in pace!

 «Non significava niente!», sbraitai ancora, afferrando il pomello della porta d'ingresso, pronta ad andarmene da lì.

Purtroppo, però, una delle sue grandi mani si chiuse intorno al mio gomito, mentre l'altra avvolgeva con decisione, ma non con brutalità, il mio fianco sinistro, costringendomi a girarmi verso il suo viso. Schiusi le labbra, trovandolo a pochi centimetri dal mio naso, con gli occhi più scuri del solito e le narici allargate a causa del respiro profondo.

«Niente?», sibilò con la lingua incastrata fra i denti bianchi, mentre mi spingeva delicatamente contro il muro esterno della mia casa. Sentivo il sangue pulsare nelle mie orecchie ed il cuore battere all'impazzata; le gambe sembravano gelatina e ogni pelo della nuca rizzarsi ad ogni suo movimento. «Non ti credo».

Una delle sue gambe si fece spazio fra le mie e la mano, che pochi attimi prima stringeva il mio gomito, si poggiò sul muro, affianco alla mia testa. Stese ad una ad una le dita sulla superficie rigida, respirando affannosamente. I nostri nasi si sfioravano e le nostre bocche continuavano a cozzare fra loro, senza mai unirsi. Ti prego, ti prego, lasciami in pace!

 «Do-dovresti invece», sussurrai con la gola secca. Misi le mani fra di noi, nel vano tentativo di allontanarlo, ma più spingevo contro di lui, più sentivo il suo petto aderire al mio.

«Barbara perché non ammetti che c'è qualcosa fra noi?».

«Perché non c'è niente, Harry. Niente! A parte un immenso e profondo odio»

.«Mi hai baciato pochi attimi fa», mi rimbeccò, leccandosi il labbro superiore.

«N-no! Tu, tu mi hai baciata», dissi con voce incrinata, le lacrime ai lati dei miei occhi pronte ad uscire. Ero maledettamente confusa e lui non aiutava affatto il mio cuore e la mia mente a mettere in ordine tutto il casino che c'era dentro di me. Continuava a portare confusione, così vicino e così bello. 

«Tu hai risposto, però!», ribatté, poggiando la fronte sulla mia. «Barbara-».

«No!», lo bloccai, mettendo una mano sulle sue labbra umide e calde. Il suo odore di erba bagnata e noce moscata mi invasero i sensi, facendomi perdere per un attimo la cognizione del tempo e dello spazio che ci circondava. «Harry devi smetterla di confondermi! Ho bisogno di pensare, okay? Ma non posso! Non ci riesco se continui a guardarmi così...».

La mia voce si affievolì pian piano, fino a diventare un sussurro appena udibile.

«Così come?», chiese, inarcando un sopracciglio e baciando la mia mano, che ancora indugiava sulle sue labbra morbide e piene.

«Così, Harry. Come se mi amassi da tutta la vita!», singhiozzai. «Non riesco a pensare se tu mi fissi con quegli occhi».

Harry deglutii, facendo muovere velocemente il pomo d'Adamo ben visibile, mentre inclinava la testa verso il mio viso. Respiravo il suo affanno, il suo odore pungente. Le mie mani si chiusero intorno le sue braccia, dai muscoli rigidi e tesi.

«Barbara non chiedermi di allontanarmi, per favore».

Aprii la bocca, pronta a dirgli di lasciarmi in pace, che lo odiavo. Invece le parole si bloccarono a metà della mia gola quando le sue labbra, con dolcezza e lentezza, si poggiarono per la seconda vota sulle mie, accarezzandole delicatamente, come se fossero la cosa più preziosa. Strinsi la sua maglia fra le dita, frustrata e confusa ancora di più, mentre mi sollevavo sulle punte per raggiungere con facilità la sua bocca calda. Avevo lo stomaco sotto sopra e sperai solo che niente ci fermasse. Sapevo che dopo, quando sarei entrata in casa o appena avrei rivisto Alan, me ne sarei pentita amaramente, ma in quel momento ero totalmente abbandonata ad Harry. Le palpebre sembravano di piombo e le mie labbra attratte innegabilmente dalle sue. Mi allontanai delicatamente, rubandogli un ultimo e veloce bacio a stampo, vedendolo ad occhi chiusi mentre si gustava l'ultimo schiocco che producevano le nostre labbra. 

«Devi andartene», sussurrai affannata, leccandomi le labbra e sentendo ancora il forte sapore di noce moscata.

Harry aprì gli occhi, immergendoli nei miei, e proprio quando stava per dirmi qualcosa, che probabilmente mi avrebbe turbata maggiormente, sentimmo la porta d'ingresso aprirsi. Sobbalzammo entrambi e con un salto, riuscii ad allontanarmi in tempo dal suo corpo caldo e ancora scosso da quel bacio, prima che mia madre uscisse in veranda.

«Oh, ragazzi.... Siete qui!», sorrise, rivolgendo subito lo sguardo ad Harry. «Tesoro, resti a cena vero?». Sgranai gli occhi.

No, no, no! 

Harry mi guardò intensamente mentre rispondeva.

«Si, Lily. Resto a cena».    

 

Anticipazione prossimo capitolo: [...] «Perché non ci vedrà nessuno» [...].

 AlanPerché è qui che è nata la ragazza che amo e che voglio sposare».


 

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