Le rose nere piangono

di historiae
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prima Parte ***
Capitolo 2: *** Seconda Parte ***
Capitolo 3: *** Terza Parte ***
Capitolo 4: *** Prequel (Quarta Parte) ***
Capitolo 5: *** Prequel (Quinta Parte) ***



Capitolo 1
*** Prima Parte ***


Fu una notte di luna piena, che Gwendolen Hades giunse a Scarborough, una cittadina del North Yorkshire, in Inghilterra.

I suoi genitori avevano da tempo comprato una nuova casa e finalmente era arrivato il momento di stabilirvisi. Ne avevano parlato assai bene, dicendo che sarebbe stata la casa perfetta.
Era situata in cima al paese, isolata dalle altre, grande e maestosa, preceduta da un massiccio cancello di ferro dall'aria quasi minacciosa, come se il suo scopo fosse stato quello di tenere a distanza gli ospiti indesiderati. Degli sprazzi di muratura con l'intonaco scrostato davano l'idea che fosse una casa antica, ormai in rovina. L'interno era spettacolare: una rampa di scale che dava sulla porta d'ingresso conduceva al secondo piano, dove stavano le camere da letto; c'era poi un'accogliente sala da pranzo e un elegante soggiorno. Non era molto illuminata, poiché le pareti erano tappezzate di scuro. Le finestre erano alte, e se vi si guardava attraverso si poteva scorgere il punto esatto in cui il mare lasciava spazio al cielo. A Gwendolen la casa era piaciuta subito, e non solo: era rimasta affascinata da quel piccolo paesino sperduto in cui si diceva non spuntasse mai il sole.

 

 

 

 

 



***
 

 

 

 

 

 


La ragazza si incamminò di buon'ora verso la scuola. Come suo solito si era vestita di nero e aveva portato con se la sua piccola cartella. Gwendolen, o, come la chiamavano i suoi genitori, Gwen, era sempre stata una brava studentessa e aveva voti eccellenti in tutte le materie.

Amava leggere, studiare e più di ogni altra cosa disegnare sul suo personale e privatissimo blocco di schizzi che portava sempre con se.

Frequentare la quarta classe non sarebbe stata certo una passeggiata, così come diceva ogni anno quando il primo giorno di scuola si avvicinava. Ovvio, la classe era sempre quella, ma alcuni compagni sarebbero cambiati. Nemmeno quel giorno pensò che avrebbe rivolto la parola a qualcuno di essi, e men che meno che si sarebbe fatta dei nuovi amici, perchè era sempre stata molto riservata e non ne aveva mai avuti.
Non era nemmeno mai stata fidanzata e oltretutto non si vedeva per niente carina. In realtà lo specchio diceva tutt'altro: Gwen era di costituzione molto magra ma non eccessivamente. Aveva grandi occhi neri, profondi e penetranti come lame, che quando osservavano parevano scrutare come i falchi. I capelli, corti ma non troppo, anch'essi neri come il carbone, creavano un netto contrasto con la sua carnagione cerea.

Gwen parlava poco, e alcune volte era completamente inespressiva, tanto da assomigliare ad una bambola di porcellana.
Non era una ragazza che si definiva più bella, più brutta o più o meno intelligente degli altri. Alcune volte si sentiva semplicemente un po' diversa.


Era una mattina di metà settembre e stranamente faceva un gran freddo. Il cielo era di un color grigio cupo, come spesso accade in Inghilterra, ed era completamente coperto: in giornata avrebbe certamente piovuto.
Arrivata davanti al cancello della scuola Gwen trovò poche persone e si confuse tra il gruppo aspettando di poter entrare.
Notò che tutti indossavano l'uniforme scolastica: una divisa semplice, con colori spenti: bianco, nero, grigio.
Nelle scuole inglesi era d'obbligo, indossare l'uniforme, ma spesso e volentieri Gwen non dava importanza a questa regola. Non aveva alcuna intenzione di modificare il suo modo di vestire, poichè era unico nel suo genere: neanche una volta aveva indossato un colore che andasse oltre la gradazione del nero.

Quasi nessuno si accorse di lei, ma lei importò ben poco: odiava a morte sentirsi osservata.
Si distrasse guardando altrove. Volse lo sguardo verso gli alberi del cortile della scuola e in lontananza scorse, al di là di essi, le guglie malridotte di una cattedrale. Subito sussultò di meraviglia, ma proprio in quel momento la campanella suonò. A malincuore Gwen distolse lo sguardo e si affrettò a entrare. Raggiunse presto la sua classe e non appena entrò notò subito alcuni dei suoi nuovi compagni osservarla dall'alto in basso, il classico modo di guardare l'ultimo arrivato. Mr Gold, il solito professore di storia, stava dietro la cattedra e scriveva qualcosa alla lavagna. Gwen osservò il suo buffo gilet e il monocolo che portava sull'occhio destro. Era sempre stato un tipo all'antica, e non era cambiato nemmeno di una virgola. Camminando appoggiato al suo solito bastone si affettò a chiudere la porta dell'aula e a cominciare la lezione. Gwen si guardò intorno. Tra gli studenti vide volti noti e alcuni perfettamente sconosciuti. Il suo banco era lo stesso di sempre: penultima fila, ultimo banco accanto alla finestra.

 

Al cambio dell'ora la ragazza uscì in corridoio per rimettere i suoi libri nell'armadietto. Uno di essi le cadde per sbaglio: non era un libro scolastico, ma un libro di narrativa che teneva nascosto nello zaino: nel caso si fosse annoiata avrebbe proseguito la sua lettura.
Fece per raccoglierlo ma qualcuno la precedette. Alzò lo sguardo e si trovò davanti un ragazzo poco più alto di lei con i capelli scuri, gli occhi verdi e un sorriso amichevole. Era uno degli studenti nuovi della sua classe, e probabilmente era venuto a presentasi.

-Ti chiami Gwen, giusto?- le chiese. La ragazza annuì ricambiando il sorriso e sforzandosi di sembrare socievole. Lui le porse gentilmente il suo libro dipo aver lanciato un'occhiata alla copertina. -Oh! Rymer, un grande scrittore.- disse. -Io sono Trent.-
Gwen lo ringraziò. Il ragazzo le rivolse un ultimo sorriso e tornò dai suoi amici. Lei rimase ad osservarlo per un momento. Per un momento ebbe una strana sensazione, un dejavu, un'illuminazione: era convinta di avere già visto quel ragazzo da qualche parte in passato. Forse da piccola? Ma dove, poi? Era stato il primo a rivolgerle la parola e provava quasi simpatia per lui.

Notò poi le due ragazze con le quali stava scambiando qualche parola: erano allegre e vivaci, e se ne andavano in giro mostrando a tutti le loro borsette rosa nuove di zecca. Tutto ciò riportò Gwen ai tempi dell'asilo: le altre bambine erano biondine e carine; lei era una morettina pallida, gracile e sempre vestita di nero, per niente socievole e, come si definiva lei, una sfigatella. Per la prima volta pensò che avrebbe avuto un amico.

La giornata proseguì lentamente. Gwen scriveva poche righe sul quaderno e di tanto in tanto osservava, fuori dalla finestra, gli alberi scrollarsi di dosso le foglie appassite e la nebbia che avvolgeva la città.
Se guardava più in là che poteva riusciva a scorgere una massiccia torre campanaria che si concludeva, sulla cima, con quattro guglie, la stessa che aveva intravisto quella mattina dal cortile della scuola. Se faceva attenzione poteva udire il suono delle campane: era affievolito, ma riuscì a contare i rintocchi. Sedici! Finalmente la giornata era finita.
Erano le quattro del pomeriggio, e siccome non c'era un raggio di sole Gwen non sentì la necessità di tornare immediatamente a casa. Oltretutto era ancora presto, e non aveva nulla di particolarmente importante da fare. Decise così di fare un giro in città.
Aveva intenzione di attraversare l'isolato e di raggiungere la vecchia cattedrale di cui aveva scoperto l'esistenza e che tanto la incuriosiva, quasi la chiamasse a se. Quasi dicesse -Vieni, ti sto aspettando-.
Gwen era sempre stata affascinata dalle cattedrali. Erano luoghi dove avrebbe potuto rimanere per ore, e nemmeno lei sapeva il perchè. Ce n'erano un'infinità anche nella sua vecchia Londra, e naturalmente non ne aveva tralasciata nessuna: St.Mary, St.Gabriel, SouthWark, Westminster Abbey, tutte magnifiche. Ed era proprio per le sue amate cattedrali che si era promessa di tornare a fare visita a Londra il più presto possibile.

Uscita da scuola percorse alcune strade trafficate e notò passanti che camminavano a testa china e poliziotti a cavallo. Non sarebbe stato un problema ritrovare la via di casa, poiché avrebbe semplicemente ripercorso quella strada al contrario.
Ancora pochi passi e si lasciò alle spalle il gruppo di case addossate l'una all'altra, e giunse davanti a quel maestoso edificio.
Sulla gradinata davanti ad esso stavano sedute poche persone, probabilmente studenti in visita, entusiasti delle loro foto appena scattate che avrebbero mostrato agli amici una volta tornati a casa.
La nebbia si era dissolta e la ragazza potè ammirare la cattedrale in tutta la sua magnificenza. Osservò la facciata: un alto arco acuto si stagliava verso l'alto, imponente ed elegante.

Sul tetto c'erano dei corvi, immobili e vigili, quasi dovesse accadere da un momento all'altro qualcosa di inaspettato. Ecco che si alzò il vento, e i pennuti spiccarono il volo formando uno stormo compatto, scomparendo nel bianco di un cielo settembrino ricoperto di nuvole.
Lì fuori faceva freddo. Gwen non resistette a rimanere ferma a guardare. Avanzò di qualche metro, lentamente salì la scalinata tenendo gli occhi fissi sull'alta vetrata che aveva di fronte. Ed ecco, spinse il portone e...

Si sentì piccola piccola.
Le sue narici furono invase da un intenso e delizioso profumo di incenso. Quell'ampia sala, quelle grandi colonne e quegli alti archi parevano proteggerla, avvolgerla in un abbraccio confortante e ospitale. La luce e il calore delle candele creavano una piacevole atmosfera. Il rumore lento dei suoi passi riecheggiava nel silenzio più assoluto. Ebbe di nuovo quella sensazione, come se conoscesse quel luogo da sempre, come se ci fosse già stata.
Anche se per Gwen era diventato del tutto normale visitare cattedrali, visto l'interesse che nutriva per esse, ognuna di queste riusciva sempre a regalarle un momento di estasi. Avendo sempre avuto una prodigiosa immaginazione era convinta che non fossero soltanto semplici costruzioni. Ognuna di quelle colossali e celestiali dimore che parevano avere un'anima propria le ispirava lo stesso pensiero: ''Lei vive, e sa parlare."

Non incontrò nessun altro. Probabilmente era l'ora di chiusura. Il momento perfetto, il posto perfetto.

Il tempo di un ultimo giro e tonò a casa. Ai suoi genitori non piaceva che facesse tardi.

Gwen era figlia unica, ma ciò non le dispiaceva affatto. Sua madre, Victoria Hades, chiamata da tutti Vicky, era una donna attraente e cordiale; il padre, Emil Hades, impresario di pompe funebri, teneva alla figlia più di ogni altra cosa al mondo.

Gwen aveva anche una nonna. Il suo rapporto con quest'ultima, però, aveva preso una brutta piega poco tempo dopo il suo nono compleanno, quando il suo anziano nonno era venuto a mancare.

Ancora poco tempo dopo un suo lontano zio aveva perso la vita in un incidente d'auto.

Agli inizi quella famiglia aveva sempre vissuto felicemente, unita e lontana dalla mala sorte. Ma improvvisamente la loro vita aveva cominciato a cambiare. La vecchia signora non credeva affatto alle coincidenze. Ella, rimasta vedova, aveva incolpato la nipote di quegli sfortunati eventi e aveva continuato a disprezzarla per il resto della sua vita. Gwen aveva sentito dire che la nonna aveva studiato, in giovane età, arti occulte come la magia nera. Probabilmente per questo motivo i genitori della ragazza avevano cominciato a credere che fosse pazza.

Pochi anni dopo la vecchia signora aveva lasciato la casa dove aveva vissuto per ritirarsi in un paesino sulle montagne del nord, e di lei non si era saputo più nulla.


***


Quella mattina, Gwen, all'entrata da scuola si era unita per caso a un gruppo di ragazze della sua stessa classe. Una di queste, Anne, stava parlando da ore del suo fantomatico fidanzato e Gwen lottava contro un desiderio irrefrenabile di soffocarla con le sue stesse mani.
-Il mio ragazzo non mi richiama più, non si fa sentire da settimane. Ho paura che mi tradisca con un'altra...-
-Sarebbe terribile, come potrebbe farti una cosa del genere?- commentava la sua amica.

Improvvisamente a Gwen parve che quella ragazza si rivolgesse a lei quasi a chiederle un parere, ma per qualche secondo la osservò solamente, e quando notò la sua espressione distratta e indifferente se ne uscì con: -Tu non sei una che parla molto, vero?-

Stupita che quella ragazza le avesse fatto proprio quella domanda, Gwen si limitò a rispondere: -Soltanto quando necessario.-

In quello stesso momento udì una voce nota provenire da poco lontano.
Apparteneva a un certo ragazzo di nome Trent, di cui la ragazza, voltandosi, incrociò lo sguardo. Sentì di stare arrossendo, e distolse gli occhi quasi subito.

-Che cosa stai guardando, amico?- gli chiese Conrad, il suo migliore amico, divertito, notando la sua espressione imbarazzata.
-Sto ripensando ad una persona che ho incontrato questa mattina in corridoio.- disse lui.

-Chi è?- volle sapere l'altro a tutti i costi.

-Una ragazza.- rispose Trent. -Più ci penso e più sono sicuro di averla già incontrata da qualche parte.-

-D'accordo, ma chi è? Come si chiama?-

-Si chiama Gwendolen. Ma qui tutti la chiamano Gwen.-
-Ti riferisci a quella asociale disturbata che sta nella tua stessa classe?- chiese Justin, il terzo amico, unitosi alla compagnia. -Fossi in te eviterei di parlare con lei. Ascolta il mio consiglio.- Trent non gli diede ascolto.

-Non è carina?- fece, tornando ad osservarla. Stava appoggiata al muro guardandosi attorno, inespressiva. -No, è impossibile che io l'abbia già conosciuta. Se l'avessi incontrata in passato non l'avrei dimenticata. Non ho mai visto una ragazza così prima d'ora. Ha qualcosa di speciale. Io credo di essermi innamorato.-
Trent sperò di non pentirsi di aver rivelato ai suoi amici i suoi sentimenti per Gwen. La campanella lo distrasse dai suoi pensieri.
Al momento di entrare in classe i due si scontrarono accidentalmente sulla soglia. -Scusa- si dissero all'unisono, arrossendo entrambi. I loro compagni, vedendo la scena, cominciarono a deriderli.
-Trent, non sapevo che sapessi rimorchiare così in fretta!-

-E anche Morticia non scherza!- fece uno dei vecchi compagni di Gwen.

Un comportamento pari a quello di un branco di mocciosi.
Un ragazzetto poco più giovane di Gwen, particolarmente sveglio e spiritoso, rideva a crepapelle e gridava: -Mai vista una strega innamorata!-

Gwen lo fulminò con lo sguardo. Il ragazzo smise all'istante di ridere, e la sua espressione divertita divenne in meno di un secondo un'espressione di pura angoscia. Tornò a sedersi, parecchio intimorito dagli occhi della ragazza che lo fissavano senza sosta.
La lezione cominciò.


***


Il giorno dopo accadde qualcosa di strano. Alle famiglie degli studenti arrivò una lettera che comunicava che la scuola era stata chiusa a causa di uno sconvolgente accaduto: a quanto pareva uno studente era precipitato da una finestra ed era morto sul colpo.
Le madri e i padri erano talmente scioccati che minacciarono di non far più mettere piede in quella scuola ai loro figli finchè la polizia non avesse scoperto come si fossero svolti i fatti. I genitori di Gwen non sembravano preoccuparsi di quanto successo, sebbene suo padre fosse stato coinvolto nell'organizzazione del funerale del ragazzo. Inutile dire che per lui organizzare funerali era diventata un'abitudine e, mestamente parlando, quasi un divertimento.
Quella mattina Gwen era rimasta a casa, per niente scossa dalla notizia, oltretutto dopo aver saputo dai suoi genitori che il ragazzo deceduto era lo stesso che l'aveva derisa il giorno prima a scuola. Non che ne fosse felice, ma non era rimasta particolarmente colpita.
Quel giorno si era chiusa nella sua stanza ad osservare dalla finestra le onde del mare, i nuvoloni grigi all'orizzonte e i gabbiani che si posavano sulle vele.
La sua camera era spaziosa ed accogliente, e non aveva niente in più o in meno di quello che può desiderare un'adolescente.

C'era un grande letto ricoperto da un piumino nero decorato in pizzo; un grande armadio dove Gwen teneva tutti i suoi vestiti più belli; sulla parete di fronte al letto c'era un piccolo camino che, a causa del freddo, teneva sempre acceso; qua e là, sui mobili in legno antico, stavano alcune candele profumate, le cui fiammelle illuminavano un poco la stanza avvolta dalla penombra per via del clima fosco di quella mattinata.
C'era solo un'alta finestra a due imposte che all'estremità prendeva la forma di un arco acuminato. Due spesse tende di velluto nero lasciavano passare soltanto uno spiraglio di luce che illuminava i petali di una rosa rossa, immobile in un vaso poggiato sulla scrivania dove solitamente la ragazza sedeva per studiare.
In quel piccolo oscuro paradiso lei si sentiva come una bella principessa nascosta al sicuro nella sua torre. Trascorreva molto tempo nella sua stanza a divorare uno dopo l'altro i suoi libri preferiti, o a scrivere i suoi pensieri sul suo diario. Ora che la scuola era incominciata erano tante, le novità da raccontare.

"Questa città è sempre avvolta da un alone di mistero. E' piccola, ma ogni giorno c'è qualcosa da scoprire. Poco lontano dalla scuola c'è una bellissima cattedrale, ed è più forte di me, ci passo davanti ogni giorno. E che dire della scuola? Potrebbe essere fantastica, se non fosse per quei pazzi che vi si incontrano. È cominciata da una sola settimana ed è già successa una disgrazia.

Ma pochi giorni fa ho conosciuto un amico. E' simpatico, anche se capisco dal suo modo di atteggiarsi che è molto diverso da me. Finora è stato l'unico a rivolgermi la parola. Forse da questo incontro imparerò qualcosa di buono..."



La scuola riaprì dopo tre giorni. I docenti trovarono gli studenti di quarta classe molto spaventati, e avevano tutte le ragioni di esserlo dopo ciò che era accaduto. Avevano perso uno dei loro compagni dopo una sola settimana di scuola senza sapere il perchè, dato che pochi giorni prima non sembrava avere alcun tipo di problema.

Data l'assidua indifferenza di Gwen gli altri studenti cominciarono a pensare che lei c'entrasse qualcosa con l'accaduto.
Nonostante ciò, Trent continuava a passare del tempo con lei cercando di conquistarla. La sua opinione su di lei non cambiava. Oltretutto la difendeva dalle malelingue poichè sapeva essere innocente.
Quel giorno, all'ora dell'intervallo, mentre tutti uscivano a divertirsi in cortile, Gwen rimase in classe per conto suo. Quella mattina aveva indossato l'uniforme scolastica. Non le piaceva portarla, ma le stava davvero bene.
Osservava dalla finestra un gruppo di ragazzi che chiacchieravano tra loro e di tanto in tanto ridevano di gusto. Non capiva cosa ci fosse al mondo di tanto divertente di cui parlare. Lei non rideva spesso, e non era affatto un tipo divertente.
Tutti i ragazzi della sua età approfittavano delle belle giornate per uscire, andare a divertirsi o al mare. Quasi come i vampiri, lei usciva raramente nelle giornate di sole. Non poteva sopportare quella luce così luminosa.
In estate il mare era di un blu intenso, e la spiaggia inondata di sole brulicava di voci e di colori.
Gwen era stata al mare soltanto poche volte: in inverno, quando la spiaggia era deserta e si udivano soltanto il fragore e il sussurro delle onde di un mare dall'acqua scura, che finalmente poteva far udire la sua voce senza che fosse coperto dalle chiacchiere e dalle grida giocose di bambini scatenati. Gwen, che all'epoca aveva sì e no dieci anni, amava scendere in spiaggia per ascoltarlo: il suo respiro, quasi un lamento.
Soli, lei e il mare.

Improvvisamente qualcuno entrò nell'aula. Gwen distolse lo sguardo dalla finestra e vide Trent immobile sulla soglia, che la sorrise e la salutò.
-Non dovresti essere con i tuoi amici?- gli chiese, tornando ad osservare il cortile, pensierosa. Non ricevette risposta. Il ragazzo le si avvicinò e le chiese se stesse bene.
-Sto bene. Sono solo un pò scossa per quello che è successo.- mentì lei.
-Ti capisco.- disse Trent, comprensivo. -Disgrazie del genere accadono di rado, ma purtroppo accadono.- continuò.
Al ragazzo, che intendeva sollevarle il morale come era solito fare con le persone a lui care, venne una brillante idea.
-Hai programmi per questo pomeriggio?-
Gwen ci pensò un momento. Che cosa avrebbe avuto da fare? Aveva una vita monotona: casa, scuola, scuola, casa. -No- mormorò, spostando lo sguardo sul solito albero spoglio fuori dalla finestra.
-Ti va di fare un giretto?- chiese di nuovo Trent.
Gwen sgranò gli occhi. Era un invito a uscire, e lei non ne aveva mai ricevuto uno.
-Potremmo vedere la città. Sarei felice di accompagnarti.- continuò lui. Non era una cattiva proposta. Trent era così gentile...
-Grazie- disse Gwen. -Direi che va bene.-
-Forte- disse Trent, entusiasta. -Ti va se vengo a prenderti a casa?-
-Sì, certo.- rispose lei.
La campanella suonò.

 

Continua...

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Capitolo 2
*** Seconda Parte ***


Erano le cinque del pomeriggio, Gwen aveva appena terminato i compiti e ora aspettava l'arrivo di Trent seduta sotto la veranda in compagnia della sua gatta, a cui era molto legata. Era stata abbandonata su una strada e Gwen, al tempo bambina, l'aveva trovata. L'aveva sentita miagolare e per salvarla aveva quasi rischiato di venire investita da un'auto. L'aveva portata a casa con se e l'aveva accudita dandole il nome di Regina.
Era una meravigliosa gatta dal pelo nero come l'ossidiana e due grandi occhi color dell'ambra. Era silenziosa, timida e cupa, proprio come Gwen.

Trent, seguendo le indicazioni che la ragazza gli aveva fornito quella mattina, era giunto davanti all'abitazione.
Aveva percorso un'ampia strada un poco ripida, che terminava attraversando un alto cancello verniciato di nero. Dovette poi percorrere un viale alberato ricoperto di foglie cadute. La foschia non gli permise subito di distinguere la casa. Quel posto gli metteva una certa inquietudine.
Gwen lo vide attraversare il cancello portando con se il suo ombrello colorato e camminando nelle scarpe sgualcite. -Che tipo- pensò la ragazza, sorridendo.
Fermatosi davanti al portone Trent la salutò e osservò attonito la grandiosità della casa e le alte finestre in stile gotico che costellavano la muratura antica. Aveva attorno un praticello dissminato di cespugli di rose rosse, le preferite dei signori Hades.
-Ti ha messo in soggezione?- chiese Gwen, scherzosa, riferendosi alla casa.
Trent rispose di no, e che ne era solamente rimasto molto colpito.
Gwen diede un ultima carezza alla sua gatta prima di incamminarsi con Trent.
Scambiarono piacevolmente qualche parola, e dopo pochi chilometri giunsero in paese.
La nebbia si era infittita e quasi offuscava la vista. Il freddo era pungente.
-Che tempaccio- fece Trent. -Mette tristezza, non trovi?-
-Sai, dipende dai punti di vista...- disse la ragazza. Gwen aveva sempre preferito il clima grigio e freddo dell'inverno al clima caldo e soleggiato delle prime stagioni. Non le dava un senso di tristezza, ma di tranquillità.
Trent decise di ravvivare la conversazione. -Che cosa fai nel tempo libero?- le chiese.
-Nulla di interessante. E tu?- Gwen gli rigirò la domanda.
-Più o meno quello che fanno tutti: uscire, fare sport...a te piace il surf?-
-Non particolarmente...- rispose Gwen, con un mezzo sorriso. Aveva sempre odiato gli sport.

Trent era un ragazzo solare, estroverso, che amava divertirsi. In poche parole, il suo opposto.
La ragazza decise una volta per tutte di aprirsi con lui.
-Ti ringrazio per essere così gentile con me.- gli disse con un sorriso sincero.
Il viso di Trent si illuminò. -Non devi ringraziarmi, è un piacere.-
-Finora sei il primo che mi ha trattato come un'amica. Direi che a scuola sei l'unico che non ha paura di me...- proseguì Gwen.
Trent stava per risponderle quando si udì un tuono fragoroso. I due alzarono lo sguardo e videro che sopra le loro teste un nuvolone nero minacciava un acquazzone. Il ragazzo propose di trovare un riparo. Il rifugio più vicino era proprio la grande cattedrale dove Gwen era stata il primo giorno di scuola a quella stessa ora: di nuovo nel posto perfetto, nel momento perfetto.

Probabilmente Trent non era mai stato in una cattedrale. In verità non le aveva mai trovate molto interessanti. Gwen notò la sua espressione stupita e le sfuggì una risata.
-Non ci avevo mai messo piede prima d'ora.- confessò il ragazzo.
-Com'è possibile?- gli chiese Gwen.
-I miei genitori vanno in chiesa di rado.- spiegò Trent.
Gwen si addentrò nell'edificio scomparendo fra i massicci pilastri di marmo. Il profumo dell'incenso era ovunque.
Trent la seguì finchè non si ritrovò assieme a lei nella navata centrale, a pochi passi dall'altare.
-Hai mai desiderato di trovare un posto speciale solo per te dove nessuno può disturbarti?- chiese Gwen. -Un luogo diverso dal solito che non sia la tua stanza o il locale dove di solito ti vedi con gli amici?-
-A volte sì.- disse Trent.
-Devi sapere una cosa.- cominciò Gwen, l'emozione negli occhi. -Le cattedrali sono tra i luoghi più affascinanti del mondo. Non puoi immaginare quante storie sanno. Sono un fondersi di storia e leggenda. Possono sembrare soltanto vecchi ruderi di pietra, ma non è così. Hanno un'aura nascosta che le fa sembrare così magiche e vive.- Trent imitava la ragazza alzando lo sguardo verso le sculture poste sopra le canne dell'organo fino a raggiungere le ampie volte del soffitto.
-Insomma, guardati intorno. Non ti fa girare la testa?- Gwen, nel suo vasto, misterioso ed imponente mondo perfetto, era entusiasta di condividere quel momento con Trent. Il ragazzo si perse ad osservare quelle meravigliose statue che parevano avvicinarglisi, quelle mani dai lineamenti morbidi scolpite accuratamente in un marmo candido, che sembravano inviargli un segno di benedizione. Angeli con sguardi dolcissimi e ali leggere, quasi dovessero spiccare il volo da un momento all'altro. Gwen gli aveva fatto scoprire un nuovo mondo, quello che per lei era il suo posto speciale dove poter stare sola con se stessa. Ora toccava a lui trovarne uno...
Il suo sguardo si posò di nuovo sulla ragazza. In quel momento più che mai si rese conto di essere davvero innamorato.
-Tu non sei come le ragazze di qui.- le disse.
-Che vuoi dire?- chiese Gwen, intimidita.
-Tu non sei come noi. Sei diversa da tutti. Dai miei amici, dalle ragazze della scuola.- spiegò Trent.
-E' una brutta cosa?- chiese Gwen.
-No, affatto.-
A quella frase Gwen sorrise. La ragazza scoprì per la prima volta di provare vero amore per qualcuno. Ed entrambi provarono di nuovo all'unisono quella sensazione di conoscersi da sempre.
Trent, ormai a pochi centimetri di distanza da lei, le sfiorò una guancia pallida, delicatamente, quasi per paura di guastare la perfezione del suo viso, spostandole i capelli corvini dietro l'orecchio. Così entrambi si lasciarono trasportare da un bacio casto, che però durò a lungo.


*****



Era il 19 dicembre e quella mattina era spuntato il sole, a Scarborough: per Gwen la giornata era cominciata malissimo. Non appena aveva scostato le tende una luce accecante aveva inondato la sua stanza e lei, che non la poteva soffrire, si era ritratta coprendosi il volto con una mano, infastidita. Con sguardo seccato aveva lanciato una rapida occhiata alle barche a vela del porto per poi richiudere le tende.
Dal mare soffiava un vento gelido da nord-est che spazzava via le nuvole dal cielo. Erano le sette in punto e a quell'ora in strada non c'era nessuno. Soltanto un pescatore che, dalle reti, trasportava i pesci fino al mercato e un marinaio che, armato di forza e pazienza, issava le vele per prepararsi ad una gita al largo. Poco più tardi, quando Gwen uscì per incamminarsi verso la scuola, in paese cominciarono a sentirsi le grida dei bambini che correvano in strada per giocare approfittando della bella giornata.
"I bambini" pensava Gwen. "Fastidiosi quanto uno sciame di cavallette affamate."
Non mancava molto a Natale, e in paese già si respirava un'aria di festa. Qualcuno era intento ad appendere per le strade addobbi scintillanti.
Mai come quella volta Gwen si sentì sollevata quando potè entrare nella sua buia classe, al riparo da quel sole radioso.
Fortunatamente nel pomeriggio il cielo riprese il colore plumbeo dei giorni precedenti. Anche quella giornata di scuola terminò e Trent pensò di invitare Gwen al mare. La ragazza accettò poichè desiderava trascorrere nuovamente del tempo con lui. Era felice. Aveva trovato un amico, o forse qualcosa di più, che le voleva bene per quella che era e che, a differenza di altri, non si sarebbe mai sognato di prenderla in giro.

In spiaggia poche persone stavano avviandosi verso casa, visto l'arrivo di una nuvola nera che si era fermata lì sopra.
Le barche tornavano al porto e i gabbiani volavano ai loro nidi.
I due rimasero soli davanti all'oceano. L'aspetto di quel luogo era completamente diverso da com'era solitamente in estate, e non era come Trent se lo immaginava. -Non vedo l'ora che torni l'estate.- disse improvvisamente. -Potrò venire a nuotare tutti i giorni. Se verrai con me potremo uscire in barca.-
-Sarebbe bello.- mentì Gwen, non del tutto convinta.
Trent avrebbe fatto di tutto per vedere un sorriso sul volto marmoreo di Gwen: quella ragazza così speciale, così timida e dolce, che rideva di rado.
Il vento cominciò a soffiare più forte e il freddo aumentò. Rabbrividendo, Trent propose a Gwen di tornare a casa.
Proprio mentre stavano per incamminarsi qualcosa di piccolo, umido e freddo cadde sul naso di Gwen.
Era un fiocco di neve, ed era il primo dell'anno. Era la prima volte che Gwen trascorreva l'inverno al mare.
Da due i fiocchi erano diventati cento, e uno dopo l'altro, leggeri e soffici come farina, avevano cominciato ad imbiancare la spiaggia ricoprendo la sabbia. -Nevica!- esclamò Trent, incredulo.
Per Gwen la neve era sempre stata un simbolo di festa, e non aveva bisogno di una data per capire quando stava per giungere il Natale. Le bastava guardare dalla finestra la prima neve, per capirlo. Anche il giorno della sua nascita nevicava. Tutto ciò le ricordava la fiaba di Biancaneve, la fanciulla dalla pelle bianca come la neve, i capelli neri come il corvo e le labbra rosse come il sangue. Sua madre glie la raccontava ogni sera prima di darle la buonanotte, e Gwen desiderava tanto crescere e diventare bella come quella principessa.

Cominciava a farsi buio, e Trent si offrì di accompagnare Gwen a casa. La ragazza gli disse però di non disturbarsi, e che sarebbe tornata sola.
Percorrendo le strade trafficate della città Gwen si affrettò a raggiungere la sua casa. La porta di ogni abitazione era addobbata con ghirlande di bacche e foglie di pungitopo; sul davanzale di ogni finestra c'erano candele colorate e lumini dorati; attraverso le finestre di alcune case già si poteva scorgere qualche abete decorato, i cui addobbi scintillavano alla luce calda delle stanze.
Arrivata al portone Gwen notò che i suoi genitori vi avevano appeso una ghirlanda di agrifoglio. La ragazza sorrise: sua madre non era un tipo da addobbi natalizi, e suo padre ne era totalmente contrario. Varcò la soglia e si chiuse la porta alle spalle. Mentre si toglieva la sciarpa sentì sua madre salutarla, e la vide uscire dalla cucina con indosso un grembiule nero ricamato di pizzo. Le disse che dì lì a poco era pronta la cena, e poi notando l'espressione raggiante della figlia le chiese se si sentisse bene. Per tutta risposta Gwen annuì e salì di corsa in camera sua. Raccattò il suo zaino ed estrasse "Un canto di Natale" di Charles Dickens, il romanzo che amava leggere e rileggere ogni volta che arrivava il periodo natalizio. Le piaceva come il protagonista, burbero e insensibile, alla fine della storia cambiava completamente il suo aspetto interiore diventando generoso e gentile. Forse anche la stessa personalità di Gwen sarebbe cambiata, un giorno: forse non sarebbe più stata riservata, spaventosa e tetra, ma socievole e divertente. Quel pensiero la fece rabbrividire. Andò alla finestra e aprì le tende. La città era piena di luci, i tetti delle case erano completamente imbiancati.
L'affettuosa Regina salì sul letto e facendo le fusa si accoccolò accanto a Gwen e si addormentò. La ragazza aprì il libro e proseguì la sua lettura, davanti al lume di una candela e alla neve che cadeva.


*****


La vigilia di Natale Gwen pensò di portare un mazzo di fiori freschi al cimitero, sulla tomba del suo compagno di classe mancato qualche mese prima a causa di quel terribile incidente.
Era tardo pomeriggio e aveva smesso di nevicare. Il cimitero era a pochi chilometri da casa, e Gwen si mise subito in cammino. Tutto sommato un giretto fino al quel posto non le sarebbe dispiaciuto. Ricordò con piacere che quasi tutti i racconti di paura che udiva raccontare dai suoi vecchi compagni d'asilo erano ambientati in un cimitero. Uno di quei racconti parlava di una principessa rapita da una mummia uscita dalla tomba per aggredirla. Gwen era fatta presto una cultura in merito a storie di paura, e qualche anno più tardi le sue erano diventate le migliori: le bambine, ogni volta, gridavano di terrore e correvano a nascondersi. E ogni volta Gwen sorrideva soddisfatta.
La ragazza si lasciò alle spalle la città illuminata e giunse, poco dopo, in un brutto quartiere. Strada facendo incontrò più volte alcune facce losche. Percorse un sentiero illuminato solo da pochi lampioni la cui luce si rifletteva sul bianco della neve. I sempreverdi che stavano intorno coprirono le fonti luminose e Gwen si ritrovò nell'ombra. Non ne era spaventata ma, al contrario, ne era attratta. Si accorse di trovarsi in un prato, e a pochi passi da lei notò un piccolo cancello. Lo varcò e si addentrò nello spiazzo costellato di lapidi di pietra. Cercò quella a cui i fiori erano destinati. La trovò e lesse a fatica il nome inciso sulla pietra: Charlie Smith. Sedici anni. Una brutta età, per morire.
-Riposa in pace...- sussurrò, ricordando il consiglio di suo padre: "Abbi sempre rispetto per tutti, ma più di ogni altro per i defunti."
Una volta che ebbe deposto i fiori accanto alla foto in bianco e nero del ragazzo si voltò in direzione della strada di casa. Era buio pesto e il bosco era inquietante. Già, ma non certo per Gwen. La notte le dava sicurezza: nascosta nel suo mantello nero niente e nessuno avrebbe potuto farle nulla.

La coltre di nuvole che sovrastava le cime dei sempreverdi si diradò e, improvvisamente, attraverso uno spiraglio, un raggio di luna si gettò sulla neve illuminando un punto poco distante da Gwen: là, in parte nascosta dalla neve, spuntava una graziosa rosa nera ricoperta di gocce di rugiada. "Che meraviglia" pensava Gwen, che non ne aveva mai vista una in vita sua. Fece per andare a raccoglierla ma il raggio di luce svanì, e quella bella rosa venne di nuovo inghiottita dalle tenebre.
Gwen sentì un rumore sordo, come se qualcuno camminasse alle sue spalle. Si voltò di soprassalto, ma non c'era nessuno. Si guardò intorno ma non vide altro che neve, alberi e tombe. Sapeva che di notte si odono i rumori più improbabili e tutto appare sinistro. Sapeva anche che l'immaginazione fa brutti scherzi, e che perciò non c'era nulla da temere.

Si era fatto tardi. Si lasciò alle spalle il bosco e tornò in città.

Udiva i passi della gente sulla strada, gli zoccoli dei cavalli nella neve e le voci allegre dei passanti che si auguravano Buon Natale.
Poco lontano udiva il fragoroso vociare delle campane della cattedrale, che annunciavano a modo loro l'imminente arrivo di Gesù bambino, nonchè un invito alla prossima messa di mezzanotte.
Al centro della città, davanti ad una grande fontana che zampillava acqua gelida, stavano in piedi quattro bambini, un maschio e tre femmine, vestiti con abiti poveri e con un libro di canti natalizi in mano. Ai loro piedi stava un piccolo cappello di lana che conteneva pochi spiccioli, donategli dai passanti. Chissà da quanto stavano lì immobili. Ma cantavano così bene ed erano così allegri che sembravano non curarsi nemmeno del freddo che faceva.
Gwen passò di lì e rimase per pochi minuti ad ascoltare la loro canzone, dopodichè gettò una monetina nel berretto. Poco tempo prima non lo avrebbe mai fatto: aveva sempre detestato i bambini, ma quelli le avevano fatto una tale tenerezza... che fosse stata la magia del Natale?
Una graziosa bimba dagli occhi castani e le trecce bionde la ringraziò con un sorriso che Gwen ricambiò.

Quella notte la ragazza andò a dormire più tardi del solito: aveva aperto la finestra della sua camera e, con la testa poggiata sulle braccia, era rimasta ad ascoltare le voci limpide, soavi e angeliche del coro della chiesa, che si levavano al cielo in lode a Dio.
Nella cattedrale si celebrava la messa di mezzanotte, e tra i numerosi fedeli che vi assistevano c'era nientemeno che Trent, vestito di tutto punto per questo evento speciale. Proprio lui che diceva di non essere un tipo religioso. "C'è sempre una prima volta" aveva pensato. Quale modo migliore di trascorrere la notte di Natale? Il suono delle campane, dell'organo, le voci potenti e melodiose del coro, il profumo dell'incenso e le mura maestose di quel luogo così magico riportarono alla mente del ragazzo Gwen, che, seppur molto distante, era assieme a lui con il pensiero.

Quella notte Gwen si addormentò con un sorriso sulle labbra, cullata dal suono delle campane.

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Capitolo 3
*** Terza Parte ***


Gwen aveva cominciato ad uscire più spesso. Naturalmente non tutti i giorni, ma trascorreva molto meno tempo chiusa in camera sua.
Aveva realizzato che Scarborough era una cittadina molto poco affollata, e dato che per lei non era affatto piacevole trovarsi in mezzo a tanta gente, poteva dire di sentirsi molto più a suo agio.
Era ancora pieno inverno e la ragazza, imbacuccata nel suo cappotto nero, ogni tanto, prima o dopo scuola, si recava al solito vecchio cimitero dove, nel silenzio più tombale, amava passeggiare in tutta tranquillità.
Lo spesso strato di neve attenuava il rumore dei suoi passi e ricopriva col suo bianco scintillante le lapidi e le statue di pietra su cui talvolta andava a posarsi qualche uccellino infreddolito. Tra i rami degli alti pini che crescevano tra la neve si udiva il gracchiare dei corvi che lasciavano i loro nidi per andare in cerca di cibo. I fiori erano tutti appassiti e la maggior parte degli alberi erano completamente spogli.

Un altro magico inverno. Inutile dire che era la stagione che amava di più, con il suo silenzio, la sua pace e i suoi colori spenti.

Un'altra meta di Gwen era un piccolo parco poco distante dalla sua amata cattedrale. Avrebbe dovuto essere un parco per bambini, ma sembrava essere stato abbandonato: non c'erano giochi o attrazioni di alcun tipo. Soltanto uno spiazzo deserto con qualche albero e poche panchine.
Il gelido vento di dicembre muoveva appena due altalene dalle catene ormai arrugginite.
Era questo a rendere quel luogo inquietante ma allo stesso tempo affascinante: Gwen ricordava che alcuni dei suoi romanzi dell'orrore preferiti descrivevano scene ambientate in luoghi simili: case, ospedali, scuole e parchi abbandonati ma ancora popolati dai fantasmi di bambini che un tempo vi giocavano allegramente di cui, se si ascoltava attentamente, si potevano ancora udire le voci.

Ogni giorno, a scuola, Trent era sempre lì ad aspettarla, e quando possibile trascorrevano tutta la giornata insieme. Uno dei loro passatempi preferiti era passeggiare in riva al mare, nonostante la brezza dell'oceano fosse gelida.
Così fecero anche quel giorno.

-Devo ammettere che la spiaggia in inverno non è così male.- diceva Trent.
-Non voglio che cambi idea soltanto per fare felice me- rispose la ragazza.
-No, sono serio.- ribadì lui.
Gwen tirò scherzosamente un calcio ad un sasso, sorrise e prese per mano Trent.
Improvvisamente il ragazzo cambiò argomento e fece a Gwen una domanda alquanto strana.
-Ci credi ai fantasmi?-
Gwen si impietrì per un istante. Non si sarebbe mai aspettata una domanda così da Trent. Il ragazzo ricordò che la prima volta che aveva visto la casa di Gwen gli era saltata alla mente l'idea che potesse essere una casa infestata: nel giardino aveva intravisto una statua dal volto velato, che somigliava davvero ad un fantasma.

-Ho detto qualcosa di sbagliato?- chiese Trent, visibilmente stranito.
-Non dovresti pensare a queste cose.- disse Gwen. -Il mio è un consiglio. Potresti pentirtene.-

-Come lo sai?- chiese lui.

-La mia famiglia ne ha avuto a che fare.-

Trent si fece serio. -Che cosa vuoi dire?-

-Avevo una nonna che era appassionata di occulto e che diceva di praticare sedute spiritiche. Diceva di vedere e sentire cose al di là dell'ordinario. Molto spesso parlava da sola, e ricordo che a me piaceva stare nascosta a sentire ciò che diceva.

Nessuno nella mia famiglia le credeva, e i miei genitori non volevano sapere di ascoltarla. Le dicevano di farla finita e di smetterla con quelle pratiche ridicole. Ma so che lei non ascoltò nessuno e continuò a praticarne. Ricordo che per un periodo divenne mentalmente instabile e io stessa, che le volevo bene, cominciai ad avere paura di lei. E per qualche strana ragione anche lei cominciò ad avere paura di me. So che venne ricoverata in una clinica psichiatrica e che i medici la rilasciarono dopo soli due mesi. Poi decise di fuggire.

Non ricordo altro di lei. Non so nemmeno dove sia in questo momento. Non so nemmeno se sia ancora viva.- concluse Gwen.
Trent ascoltava, angosciato ma allo stesso tempo terribilmente incuriosito.
-Posso sembrare cattiva dicendo questo, ma sono felice che se ne sia andata dalla nostra vita. Spero tanto di non rivederla mai più.-
-Per quanto ne sai potrebbe essere già morta...- azzardò Trent.


La pioggia li colse nuovamente di sorpresa, e i due, dopo un saluto, dovettero correre a casa.

Gwen non lo ammetteva mai, ma ogni tanto le capitava di pensare alla sua infanzia. Era sempre stata circondata di persone che le volevano bene, tra queste i suoi genitori. Anche se non aveva molti amici era una bambina felice, a cui piaceva giocare anche da sola. Nonostante fosse una ragazza giovane la sua esistenza fino a quel momento le appariva come una vita terribilmente travagliata. Soltanto il pensiero di una persona, la metteva a disagio: la sua vecchia nonna.

Talvolta nella sua mente si formava un groviglio di immagini e di parole a cui non riusciva a dare un ordine. Nei giorni in cui orribili ricordi l'assalivano lei era distante da tutto e da tutti, come se non esistesse, completamente assorta e chiusa in se stessa, quasi... un fantasma.
Alcune volte nemmeno Trent riusciva a parlare con lei, e riceveva soltanto uno sguardo vuoto o un mezzo sorriso.
Perfino in classe, talvolta, Gwen si distraeva e rimaneva immobile per interi minuti ad osservare il cielo spento e incolore.
Pensieri strani le attraversavano la mente, pensieri su se stessa, sulle persone e sul mondo che la circondavano. Pensieri che svanivano nel nulla dissolvendosi come vapore non appena il professore la richiamava per accertarsi che stesse seguendo la lezione.
Inoltre la notte le capitava di fare strani sogni. Ed erano così insoliti e confusi che difficilmente riusciva a dimenticarli. Sognava spesso la neve: distese infinite di prati innevati dove lei, bambina, stava immobile, piccola ed innocente, infreddolita, scalza, come un'orfanella. E ogni volta, guardandosi intorno, scorgeva davanti a se un piccolo e grazioso bocciolo dai petali neri. Un bocciolo di rosa, sparso di minuscole gemme di neve. Ogni volta, a quella visione, Gwen si sentiva stranamente felice. Ma al risveglio non era più così: era turbata e confusa, e ricordava solo pochi particolari del sogno. Poco dopo però tornava tutto alla normalità, e la ragazza cercava di riportare alla mente il magnifico prato innevato dov'era stata in sogno, e quella pura ed eterea rosa nera come il corvo che tanto la incantava.


***


Erano i primi di gennaio, e il secondo semestre stava per giungere al termine. Trascorsero settimane molto impegnative per Gwen, come per Trent e per il resto degli studenti. Quasi ogni giorno dovettero affrontare interrogazioni e compiti in classe.
Gwen trascorreva le giornate in casa a studiare, china sulla scrivania o distesa sul letto sommersa di fotocopie, tesine e appunti. Il bianco delle pagine pareva brillare a contrasto con la sua figura completamente abbigliata di nero abbandonata tra i libri.
Una volta rimasta sola e impegnata a fare il suo dovere non si lasciava distrarre da nulla, nemmeno dall'incessante ticchettio delle gocce d'acqua che colpivano il vetro dell'alta finestra acuminata della sua stanza. La tempesta imperversava da giorni, e la pioggia aveva sciolto gli ultimi sprazzi di neve.

Dopo l'ultimo giorno di esami la quarta classe si riunì davanti alla bacheca nell'atrio della scuola dov'erano esposti i risultati dei compiti in classe. Gwen, appena riuscì a leggere i suoi voti, scoprì con sorpresa che aveva superato tutti i test brillantemente. Entusiasta e soddisfatta la ragazza sorrise esultando mentalmente e, dopo aver recuperato i suoi libri si apprestò a entrare in classe. Proprio in quel momento si imbattè in Trent, e vide che aveva un'aria demoralizzata. Gli chiese cosa fosse successo e lui rispose che purtroppo non aveva superato il compito di chimica.
-Mi dispiace- fece Gwen. -C'è ancora tempo, puoi sempre rimediare.- lo rassicurò poi. Trent sembrò sentirsi più sollevato, ma solo un poco.
Anche lui era sempre stato un ragazzo studioso, ma a differenza di Gwen non riusciva a mantenere la concentrazione a lungo: gli venivano a mente gli amici, i suoi programmi per il weekend, la prossima serata all'insegna del divertimento, il prossimo concerto, la prossima vacanza. Come per tutti i ragazzi della sua età era arrivato il momento di allontanarsi da casa. Sentiva il bisogno di sole, di mare, di compagnia, di musica e relax. Tutto ciò di cui non vedeva l'ora era che arrivasse l'estate: quanto gli mancavano il campeggio e le gite in barca...
Naturalmente desiderava anche avere più tempo libero da trascorrere in compagnia di Gwen. Ripensava sempre con piacere ai momenti passati con lei, attimi di vita così diversi da quelli che aveva vissuto fino al momento in cui l'aveva conosciuta. Era come se in un certo senso gli avesse aperto un mondo: un mondo completamente differente dal suo, un mondo nuovo, così oscuro e speciale, così tremendamente affascinante. Dal primo incontro con Gwen, il suo sguardo lo aveva colpito come un fulmine, facendogli credere sin da subito che lei non fosse una ragazza come le altre. Era questo il motivo per cui ne era perdutamente attratto. Ed era ciò che dal profondo del cuore era riuscito a confessarle, poco prima di baciarla all'ombra delle volte della mastodontica cattedrale di Scarborough.

Gwen, a differenza di Trent, invece, non vedeva affatto l'ora che arrivasse l'estate. Anzi, aveva già cominciato a prepararsi psicologicamente alla stagione calda. Ancora pochi mesi e la scuola sarebbe finita. Un pessimo segno che significava l'imminente arrivo della stagione reputata da lei la più odiosa. Ogni estate si prometteva di non lasciare la sua camera per niente al mondo, promessa a cui rigorosamente si atteneva. Tuttavia non le dispiaceva nemmeno avere più tempo libero da trascorrere con Trent. Si disse per cui che se fosse uscita l'avrebbe fatto soltanto dopo il tramonto, come un piccolo sfuggente pipistrello che non compare mai alla luce del giorno.

Anche se era cambiata poco, da quando aveva conosciuto Trent, la ragazza sentiva di essere diventata più gentile, generosa e altruista, valori che prima non possedeva affatto.
Sia Gwen che Trent avevano notato come fosse sorprendente il fatto che due persone così totalmente diverse tra loro potessero scoprire di volersi bene a tal punto da amarsi. Ognuno ammirava qualcosa nell'altro. Gwen ammirava la capacità di Trent di essere così estroverso; Trent ammirava a Gwen il fatto di avere una visione della vita così incredibile.
Lui era il sole, lei la luna. Lui la luce, lei la notte. Lui il fuoco, lei la neve. Eppure erano fatti l'uno per l'altra.


***

Circa una settimana più tardi Gwen, prima dell'inizio della lezione, chiese a Trent se avesse potuto dargli una mano a studiare per recuperare l'esame di chimica. Il ragazzo però dovette rifiutare per ovvi motivi:
-Vedi- fece Trent, con una nota di imbarazzo nella voce. -Qualche giorno fa Jenny si è offerta per darmi ripetizioni tre volte a settimana e ho accettato. Spero che non ti dispiaccia...-
Gwen era dispiaciuta, ma in fin dei conti non le importava molto che Trent avesse preferito prendere lezioni di chimica dalla ragazza più brava della classe. Jennifer Curley, per gli amici Jenny, era alta, bionda, con occhi castani e dannatamente secchiona. All'apparenza poteva avere un'espressione da brava ragazza, ma Gwen non la pensava così.
"Via, deve solo dargli ripetizioni di chimica, che sarà mai?" si ripeteva mentalmente Gwen, cercando di negare a se stessa il fatto di essere un poco gelosa. Con tutte le sue forze si convinse di nuovo che di quella Jennifer non le importava nulla.
-Come va, Trent?-

 

Parli del diavolo...
 

-Non c'è male- fece lui.
-Ti andrebbe bene di trovarci a casa mia questo pomeriggio per le ripetizioni?- continuò Jenny con una voce stridula e un sorrisetto da civetta stampato sulla faccia.
-Andata- fece Trent.
Jenny ammiccò e tornò a sedersi al suo posto. Trent guardò Gwen con aria desolata, come se volesse chiederle perdono. La ragazza sorrise a quell'espressione e lo tranquillizzò dicendo che per lei non vi era alcun problema.

Il giorno dopo Gwen li vide di nuovo confabulare accanto alla porta dell'aula. Dubitava che stessero parlando di chimica. Era sicuro come l'oro, Jenny ci stava provando. Fortunatamente Trent non sembrava prestarle molta attenzione, poiché di tanto in tanto rispondeva accennando un saluto ai suoi amici che entrando in classe gli passavano accanto.
Probabilmente si erano dati un appuntamento per studiare, pensava Gwen, sperando che fosse così. E il loro prossimo appuntamento sarebbe stato ancora per le ripetizioni? Probabilmente non ancora per molto.
Gwen vide Jenny dirigersi verso di lei, e si rimise a cercare i suoi libri fingendo di non averla notata. Jenny le passò accanto e sorrise, come se fosse stata sua amica. Gwen non ricambiò, anzi le lanciò un'occhiata indifferente e si affrettò a entrare in classe.


***

Passò un'altra settimana. Le giornate trascorrevano monotone, e non accennava a voler smettere di piovere.

Una notte Gwen sognò di nuovo lei stessa da bambina, sola in un prato innevato, e come sempre là, a pochi passi da lei, spuntava un bocciolo di rosa di un color nero intenso. In tutta la sua vita non aveva mai visto un fiore di così rara bellezza, una delicatezza così pura e, così oscura e solitaria.
Come in ogni sogno la bambina, estasiata, si avvicinò alla rosa per raccoglierla, ma, come sempre, non ci riuscì. In quel momento un fulmine squarciò il cielo accompagnato da un tuono potente, e improvvisamente di fece buio. Il vento prese a soffiare impetuosamente facendo ondeggiare le cime degli alberi. Gwen, in quel luogo sperduto completamente sola, era spaventata.
Era sola nel bosco innevato, nascosta tra gli alberi secolari. D'un tratto un fulmine colpì uno di essi, e la piccola gridò di spavento.

 

Gwen si svegliò di soprassalto, con le immagini confuse di quel sogno che ancora vorticavano nella sua mente. Sperava di essersi finalmente liberata di quell'incubo, ma non c'era niente da fare. Non capiva cosa volesse dirle, e più ci pensava più non riusciva a trovare risposta.
Il temporale l'aveva svegliata: i tuoni rimbombavano fragorosi e i lampi illuminavano la stanza per frazioni di secondo.

Gwen era frustrata, tormentata, come la tempesta là fuori, e non sapeva perchè. Sentiva come se qualcosa di orribile potesse succedere da un momento all'altro. Forse erano tutte paranoie causate dall'orrendo sospetto che Trent potesse tradirla...
Si alzò e corse a tirare le tende.
Finalmente era di nuovo buio.


***


A scuola Trent aveva preso a comportarsi in modo strano.
Con Gwen parlava poco, e se lo faceva si lamentava degli impegni che aveva e dei troppi compiti assegnatigli. Inoltre era molto concentrato sullo studio. Una cosa positiva, si direbbe, pensava Gwen ogni volta che Trent diceva di voler uscire con lei ma di non potere per via delle ripetizioni di chimica.
Alcuni giorni il ragazzo sembrava persino volerla evitare. Che cosa nascondeva?
Gwen non era una ragazza possessiva: giustamente anche Trent aveva la sua vita e lei non intendeva di certo impedirgli di fare ciò che voleva.
Un tempo era lui a cercarla di continuo, a seguirla ovunque lei andasse e talvolta perfino mandarle dei fiori. Un bellissimo gesto, a parere di Gwen.
Ora Trent era distante, e sembrava aver perso quell'interesse quasi ossessivo che aveva per lei. E ciò era triste, perchè Gwen gli voleva bene, e dopotutto le faceva piacere ricevere tutte quelle attenzioni che lui le riservava. Era l'unico che le pareva tenesse davvero a lei. Ora sembrava considerarla improvvisamente una semplice amica.
Come sempre durante l'intervallo Gwen rimanva in classe, poichè non aveva voglia di unirsi agli altri ragazzi. Quando pioveva nessuno usciva in cortile, e tutti stavano in corridoio. Gwen aveva notato di nuovo Trent e Jenny parlare tra loro. Sembravano andare molto d'accordo, come se si conoscessero da una vita. Questa volta ne era certa, era sicuro che non stessero parlando di chimica.
"Smettila di raccontarti storie, vedrai che non è quello che sembra." si diceva Gwen, parlando tra se e se.
Ma Trent era sempre più distante, e questo faceva crollare tutte le sue certezze.

Andò avanti così per parecchi giorni.
Ogni mattina, all'entrata da scuola, il ragazzo si limitava a rivolgere a Gwen un semplice saluto, quasi volesse sfuggirle al più presto possibile.

Arrivò il giorno in cui Trent dovette sostenere il suo esame di chimica per recuperare l'insufficienza. Grazie alle ripetizioni di Jenny lo superò a pieni voti, e già si preparava a festeggiare.
Gwen, intenzionata ad andare da lui per congratularsi, ebbe purtroppo una brutta sorpresa.
Sfortunatamente assistette all'ultima scena che avrebbe voluto vedere: Jenny si avvicinò a Trent, sorridendo; lui le avvolse la vita con un braccio e i due si scambiarono un bacio fugace.
Trent si accorse della presenza di Gwen quando oramai era troppo tardi.
La ragazza sfuggì al suo sguardo appena in tempo per correre via. Sentì Trent chiamarla, ma non voleva saperne di ascoltare cosa avesse da dirle. Era tutto lì, davanti ai suoi occhi. Non aveva bisogno nè di spiegazioni nè di giustificazioni da parte del ragazzo. Non intendeva rimanere lì un minuto di più. Aveva solo voglia di andarsene. Via, via da quel posto orribile. Pieno di persone false. Maledetti. Tutti uguali. Doppie facce. Ipocriti. Traditori.
Nessuno come Gwen era capace di tali pensieri, nei momenti di collera: impulsi d'ira, istinti omicidi. Le immagini più macabre l'assalivano, insieme al pensiero più orribile: avrebbe pagato per saperli tutti quanti sottoterra.
Gwen si affrettò a raggiungere l'uscita pensando che forse una volta allontanatasi e rimasta sola si sarebbe calmata.
Trent tentò di fermarla ma non ci riuscì. Prima di vederla scomparire scorse per un attimo una lacrima scenderle veloce per la guancia.
All'uscita la ragazza incrociò lo sguardo di Jenny, e fu in quel momento che la rabbia più feroce che potesse mai provare si scatenò.
Nell'attimo in cui Jenny notò la sua espressione si intimidì non poco.
Gli occhi di Gwen parevano indemoniati. In quelle gemme nere come il carbone ardevano le fiamme dell'inferno. Per un attimo si fecero strada negli occhi castani della malcapitata, le scrutarono l'anima per poi lasciare la presa e cambiare direzione.
Jenny, un poco scossa, cercò di dimenticare quel momento e tornò a cercare Trent.



***



Una strana sensazione invadeva Gwen da parecchi giorni. Una strana, orribile sensazione. Si sentiva persa, abbandonata. Davanti a se, il nulla. Un buio ancora più nero di quello che già era presente aveva avvolto lei e la sua vita.
Aveva ancora quella scena fissa nella mente: un bacio, fra Trent e un'altra ragazza che a malapena conosceva, un'altra ragazza che non era lei.
Ogni giorno Gwen li malediceva dando sfogo alla sua rabbia più repressa.
Soltanto le fusa della dolce Regina sembravano acquietarla un poco. Fuori, anche il cielo pareva comportarsi al suo stesso modo. Piangeva ininterrottamente, come Gwen versava una lacrima dopo l'altra, il cielo, quasi a confortarla, piangeva con lei.
Dalla finestra della sua stanza la ragazza poteva scorgere uno spiazzo del suo giardino. Le gocce di pioggia scorrevano sul volto puro e marmoreo di una piccola statua posta accanto ai cespugli di rose. Una piccola Madonna velata, sofferente, con lo sguardo rivolto al cielo.

Alcuni sono bravi, pensava Gwen, a nascondersi sotto un velo di gentilezza, di amicizia e di simpatia.
Ma cosa c'è al di là del velo? L'opposto di ciò che vediamo, oppure niente.

***


Gwen usciva di casa soltanto per andare a scuola, ma per lei non erano certo buone giornate. Seduta immobile nel suo banco in fondo all'aula, trascorreva le ore ad osservare con aria triste l'albero spoglio che stava davanti alla finestra. Ad un ramo era rimasta appesa ancora una foglia. Una piccola foglia brunastra che si dondolava nel vuoto.

Quel giorno lo maledì Trent col pensiero quando egli, rivolgendosi a lei, provò a spiegarle le sue ragioni e tentò di farsi perdonare per quanto successo.
Gwen non lo degnò di uno sguardo. Rimaneva impassibile con lo sguardo rivolto verso la finestra. Udiva ogni sua parola, e ognuna di queste era una pugnalata dritta al cuore. Non voleva ascoltare, non voleva sentire. Con tutta se stessa avrebbe desiderato andarsene, per restare da sola, ma era bloccata, non poteva fare nulla. Serrava le palpebre e con la mente implorava il ragazzo di non dire una parola di più, mentre una grossa lacrima le scendeva di nuovo per la guancia.
Con quella lacrima anche l'ultima foglia sull'albero spoglio del cortile cadde a terra. Quell'albero non aveva più nulla, nemmeno una compagna di vita: il vento se l'era portata via per sempre.

Quel pomeriggio Gwen andò di nuovo a fare visita alla sua amata cattedrale, l'unico luogo dove riusciva a trovare un po' di pace. Spesso era là, che, una volta in solitudine, si abbandonava ad un pianto silenzioso e liberatorio.
Gli angeli statici che costellavano i pilastri delle navate avevano uno sguardo sconsolato, rivolto verso il basso, mentre le loro ali immobili non sembravano intenzionate a schiudersi.

Prima di tornare a casa, la ragazza si diresse ancora una volta al vecchio cimitero. Il vento aveva spazzato via tutte le foglie cadute, ed ora le incisioni di ciascuna lapide erano ben distinguibili.
La luce già tendeva a calare.
Percorrendo l'ultimo tratto di terreno che la separava dal cancello, Gwen si fermò e si guardò alle spalle, convinta di aver sentito un rumore sospetto. "E' solo il vento." pensò tra se e se.
Quando si voltò, lo sguardo le cadde su una delle innumerevoli lapidi che costellavano il prato, e per un attimo il suo viso assunse un'espressione di puro terrore.
 

Un'inquietante visione le fece raggelare il sangue.


Vide il suo nome completo inciso sulla tomba, senza alcuna data scritta di seguito.


In un attimo tutto quanto tornò com'era prima. Gwen, scioccata, con gli occhi sgranati e il fiato corto per lo spavento, lesse meglio il nome inciso sulla pietra e capì di essersi sbagliata. Come poteva esserci la sua tomba in quel cimitero se lei era viva e vegeta? Perchè ad un tratto aveva avuto quella terribile allucinazione?
Non raccontò niente a nessuno. Continuò a farsi domande e, impaurita, quella notte non riuscì ad addormentarsi.



***




Era sempre un duro colpo, per Gwen, vedere Trent ogni giorno a scuola. Come se non bastasse, il ragazzo diventava ogni giorno più strano: era come se in qualche modo la temesse, sembrava apparirgli come una minaccia, un pericolo.
Tutto si fece più chiaro quando, un giorno, la ragazza lo udì parlare con i suoi amici in corridoio.
-Hai più saputo niente di Jenny?-
-No.-
-Hai provato a chiamarla?-
-Ha sempre il telefono spento.-
-Forse sta male.-
-Mi piacerebbe saperlo. Sono preoccupato.-
Trent era preoccupato per Jenny?
-Mi raccomando, avvisaci se riesci a contattarla.-


Gwen realizzò che effettivamente Jenny non si faceva vedere a scuola da un po'. Probabilmente un'influenza, pensò, niente di grave. La ragazza si sentì sollevata, al pensiero che non l'avrebbe avuta attorno ancora per qualche giorno. Inutile dirlo, la sua presenza non le era gradita.
Smise di stare in ascolto e si allontanò, con un sorrisetto compiaciuto.


***


Tempo dopo, una mattina, al notiziario delle 7:00 venne annunciata la scomparsa di una ragazza, avvenuta, secondo i testimoni, nella notte del primo febbraio, ovvero da circa quindici giorni.
I genitori, naturalmente disperati, sostenevano di averla vista per l'ultima volta la sera prima, e di non averla trovata nella sua stanza la mattina seguente.
Sostenevano anche che da parecchi giorni manifestava un comportamento insolito: parlava pochissimo, aveva timore a stare sola e controllava di continuo che porte e finestre della casa fossero state chiuse a dovere.
Inoltre si rifiutava categoricamente di andare a scuola, dicendo di sentirsi poco bene.
I suoi genitori avevano ordinato alla polizia di dare inizio alle ricerche la mattina stessa della sua scomparsa.
Agli ufficiali erano stati forniti documenti, fotografie e quant'altro.
La fototessera della carta d'identità ritraeva una ragazza giovane, sui diciassette anni, con occhi castani e capelli biondi.

Il suo nome era Jennifer Curley.




In paese si era sparsa la voce, e naturalmente anche a scuola. Quando Gwen udì la notizia sentendo per caso la conversazione tra due docenti, rimase di stucco.

In un primo momento si sentì in colpa per averla disprezzata tanto. Ma poi ricordò il feroce sentimento di rabbia e lo struggente sconforto che aveva provato quando lei aveva distrutto la sua storia con Trent, e non potè fare a meno di sentirsi nuovamente sollevata al pensiero di essersene liberata per sempre.
Il banco vuoto di Jenny infondeva malinconia e apprensione nei ragazzi di quarta classe. Trent, più di tutti, era sconvolto. Non negava, però, che l'ultima volta che l'aveva vista aveva un'aria strana: era agitata, molto agitata. Non poteva fare a meno di sentirsi in pensiero per lei. E forse non sapeva neanche lui il perchè, ma non poteva fare a meno di pensare che Gwen c'entrasse con tutto ciò, o peggio, che fosse la responsabile dell'accaduto.

Fu un pomeriggio, che Trent decise di andare in fondo alla faccenda. Gwen si dirigeva, sola, verso il suo armadietto per prendere i suoi libri e tornare finalmente a casa, quando lo vide venirle incontro. Non aveva un'espressione amichevole. Pensò immediatamente di andarsene. Non voleva ascoltarlo, non voleva più saperne niente di lui e della sua nuova ragazza, non voleva soffrire ancora. Fece per allontanarsi, ma Trent la fermò e con un gesto brusco la bloccò con le spalle al muro per paura che fuggisse, e la costrinse a guardarlo negli occhi. Gwen non la prese affatto bene.
-Che cosa vuoi?-
-Lo so che sei stata tu.-
-Non provare a toccarmi!- la ragazza, in preda all'ira, colpì Trent in pieno viso. Quest'ultimo allentò la presa che le impediva di muoversi.
Lei era innocente, non aveva nessuna colpa. Come poteva trattarla a quel modo? Oltretutto dopo averla ignorata per giorni.
La guardava con un'espressione minacciosa, un insieme di rabbia e di paura. Non era la prima volta che Gwen scorgeva la paura nei suoi occhi.
-Da quando ti ho incontrato succedono cose strane. Charlie è morto, Jennifer è scomparsa, non può essere solo una coincidenza! Non so come tu abbia fatto, Gwen, ma io so che è stata opera tua.-
-Tu non sai niente, di me, niente!- Gwen, trattenendo a stento le lacrime, riuscì a liberarsi da quella trappola e a correre a casa, lontana da Trent, lontana da tutti.


***


La ragazza si chiusa la porta della sua camera alle spalle, lasciò cadere lo zaino sul pavimento e si accasciò sul letto, la testa adagiata sulle braccia, i capelli corvini che le coprivano in parte il volto segnato dalle lacrime.
Percepiva una sensazione di intorpidimento, un nonsochè di paura e tristezza insieme. Era la consapevolezza di essere rimasta sola, e che nulla sarebbe cambiato. Era sola, come la luna, unica fonte di luce in un cielo notturno coperto di nubi; sola, come quella piccola rosa nera che appariva nei suoi sogni.
Qualche tempo prima Trent non sarebbe stato capace di farle del male o di accusarla come aveva fatto quel giorno. Era vero, lei non poteva sopportare Jennifer, ma come poteva pensare che fosse davvero lei la responsabile della sua sparizione? Ora la reputava persino una criminale, un'assassina, ferendola nel profondo più di quanto non avesse già fatto.




***




Due giorni dopo, il notiziario della sera annunciò che non lontano dalla città era stato ritrovato il corpo della ragazza scomparsa, in stato di shock: qualcosa o qualcuno doveva averla spaventata a morte e poi probabilmente uccisa, così aveva riferito un agente.
Assieme al corpo di Jennifer era stato ritrovato anche il suo telefono cellulare, dove fu rinvenuto un sms indirizzato proprio al numero di Trent, ma mai inviato.
Il messaggio diceva: "Il suo sguardo... perdonami, Trent."

Suicidio.

Il corpo non presentava segni di ferite, nè contusioni o acqua nei polmoni.
Il decesso era avvenuto per arresto cardiaco, secondo i medici probabilmente causato da un'overdose di farmaci.
Ma l'autopsia non rilevò tracce di sostanze chimiche.
E come si spiegava lo stato di shock?





***





Quella notte, per la prima volta, Gwen sognò Trent: era nella sua stanza, accanto alle tende tirate davanti alla sua finestra acuminata, e le porgeva una rosa color rubino. La ragazza gli sorrideva per ringraziarlo di quel dono così prezioso, ma non appena prendeva il fiore tra le mani, esso si tingeva improvvisamente di nero.
Trent non sembrava accorgersene, le stava dicendo qualcosa.
"Guarda che meraviglia, Gwen. Oggi c'è il sole!"
E una luce copiosa inondò la stanza. Luminosa, accecante, una tortura per l'anima, bruciava sulla pelle.
Gwen si coprì il volto emettendo un agghiacciante grido di dolore.




***





"21 Febbraio, ore 23:00

Due giorni fa ha ricominciato a nevicare.
Sembra tutto così strano, nella mia testa è tutto così confuso. Credo di avere perso ogni cosa.

Non riesco ad amare, nè ad essere felice, nè ad essere triste.
Credo di non essere più capace di provare emozioni.
Credo di non sapere più chi sono, ormai.
Ho cessato di esistere. Non potrò più vivere. Non potrò più vederti, Trent.
Mai più."





A mezzanotte Gwen fuggì da casa. Uscì sulla neve senza nemmeno indossare le scarpe.
La fioca luce della luna che filtrava tra le nubi illuminava un poco la strada. La ragazza non sentiva freddo. In realtà aveva completamente perso la sensibilità alla temperatura.
Corse a perdifiato imboccando un sentiero che si addentrava nel bosco. Le sembrava di impazzire, tutto sentiva esserle nemico, perfino se stessa.
Solo poco dopo capì di aver preso una scorciatoia per un luogo che lei conosceva bene: il vecchio cimitero di Scarborough.

Tutto taceva. Il cancello era spalancato, come se quel luogo attendesse il suo arrivo. La ragazza lo varcò per l'ennesima volta.
All'ombra della notte gli alberi spogli erano neri come la pece, i rami scheletrici si ergevano verso il cielo come artigli minacciosi.
Gwen nel frattempo si era fermata.
Poco lontano da se qualcosa aveva attirato la sua attenzione.
Un raggio di luna cadeva sulla neve e illuminava i petali di una bella rosa nera che cresceva maestosa spuntando dalla terra.
Che stupenda visione. Probabilmente si trattava ancora del solito sogno, pensava Gwen, anche se non ne era del tutto convinta. Non pensò nemmeno di darsi un pizzicotto al braccio per assicurarsi che fosse tutto vero.
Alla vista di quel fiore si sentì di nuovo inspiegabilmente felice. Quella rosa le infondeva un sentimento di gioia, di libertà, di serenità.
Senza rendersene conto, ammaliata, si era avvicinata di qualche metro, per osservarla più attentamente.
Non sembrava trattarsi di un'illusione o qualcosa di simile. Era reale.

Con movimenti lenti la ragazza fece per raccoglierla, ma non appena la sfiorò si punse accidentalmente con una spina.
Emise un lamento, e vide tre minuscole gocce di sangue cadere sul bianco della neve.

Pochi secondi dopo cominciò a sentirsi strana: le girava a la testa, e la sua vista si era indebolita. Sentì suoni di ogni genere, udì i rumori più angoscianti che potessero esistere. Trascorsero pochi minuti, ma alla ragazza parvero un'eternità. Si sentì improvvisamente immobilizzata, come se qualcosa le impedisse di pensare e agire. D'un tratto fu colta da un fremito, simile ad una sensazione di panico.
Fu assalita da visioni macabre, allucinazioni terribili, pensieri che nemmeno la mente più disturbata avrebbe potuto creare. Vide se stessa, il terrore dipinto in volto, gli occhi rosso sangue, torturata ed uccisa nei peggiori modi immaginabili, il sangue che scorreva a non finire.
Quando l'allucinazione finì, Gwen cominciò a sentire voci confuse invaderle la mente, sovrapporsi una all'altra come un unico sussurro incomprensibile. Se prestava attenzione, però, poteva percepire una voce più acuta ed invadente, simile alla voce di un bambino, che con un tono lugubre sussurrava.... “Non esisti... Non esisti... Non esisti!”
Sull'orlo della pazzia, Gwen gridò sperando che qualcuno la sentisse, ma non potè nemmeno udire la sua stessa voce. Udiva solo quei sussurri confusi dentro la sua testa.
Non passò molto tempo che le allucinazioni ricominciarono: questa volta la ragazza vide apparire davanti a se il volto di sua nonna, pallido, gli occhi vuoti, le rughe sul viso. Con sguardo ostile le sussurrava, con voce rauca: “Torna a casa...”
Come poteva sapere dove fosse? Troppi, troppi pensieri affollavano la mente di Gwen, e quelle voci sembravano ripeterli ad alta voce.
Per un istante le parve di riconoscere la voce di Jenny. Fu di nuovo colta da una strana sensazione, questa volta simile ad un forte senso di colpa.

Per un attimo tutto tornò a tacere. Gwen riacquistò la lucidità mentale e cercò di fare ordine nei suoi pensieri. Era ancora scioccata per quanto successo. E la ferita doleva ancora. Com'era possibile che la spina di una rosa potesse provocarle tali allucinazioni? Gwen riprese a correre. Doveva allontanarsi da quella creatura della terra, non sapeva perchè ma doveva farlo.
Corse e corse, ignorando i lievi sussurri che ancora si contorcevano nella sua mente, ora troppo affievoliti per comprenderne le parole.
Si fermò per riprendere fiato. Un silenzio innaturale regnava nel bosco.
Gwen, ormai pervasa da un sentimento di inquietudine, da non molto tempo si sentiva osservata. Non sapeva nemmeno perchè si trovava lì, e perchè stava fuggendo. Qualcosa l'aveva portata lì. Ora doveva fuggire e basta.
Sorpresa da un suono sinistro si voltò di scatto.

E di nuovo le si gelò il sangue, alla vista di quello spettacolo agghiacciante: durante tutto il tragitto che aveva percorso non aveva lasciato orme nella neve.


Com'era possibile, si chiedeva, come? Lei era lì, non poteva essere altrove. Che cosa stava succedendo? Che fosse...? No, non poteva essere.
Sconvolta, riprese a correre. Si inoltrò sempre di più nel bosco, finchè sentì nuovamente la vista offuscarsi e i sensi indebolirsi.
La sua corsa rallentò, e le parve di sentirsi sempre più leggera. Ora poteva di nuovo udire chiaramente un'infinità di voci aggirarsi velocemente attorno a lei. Spaventata, non potè fare altro che continuare a correre. Era logico, sapeva benissimo che non poteva esistere una voce senza un corpo in grado di emetterla. E la ragazza, in quel momento più che mai, era convinta di non essere sola.
Non passò molto tempo e sentì di non avere più il controllo del suo corpo. Si guardò alle spalle per essere certa di non essere inseguita. Nemmeno lei sapeva da chi o da che cosa.

D'un tratto la sua vista svanì completamente. Fu costretta a fermarsi, mentre avvertì di nuovo quella scossa di terrore invaderla dalla testa ai piedi. Stavolta era certa di non essere sola.
Imprigionata nel buio dei suoi stessi occhi, non potè vedere nulla.

Accadde tutto in un millesimo di secondo.

Qualcosa si impossessò di lei.

I suoi occhi si fecero bianchi come il marmo.

Sentì una presenza afferrarla e trascinarla con se, quasi la ragazza fosse stata una foglia leggera rapita dal vento.
Il suo ultimo grido si perse lontano.

Solo in quel momento comprese che n'era stato di lei, ciò che era realmente stata fino a quel momento.


Morta.




 

Continua....

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Capitolo 4
*** Prequel (Quarta Parte) ***


Era il 1993, quando gli Hades si trasferirono a Scarborough.

Era una piccola famiglia formata da una giovane coppia sui quaranta e dalla loro unica figlia, Gwendolen, di appena quattro anni.

La famigliola era giunta in paese alla fine di settembre, giusto in tempo per il concludersi della fiera annuale, un evento tradizionale del luogo.

Assieme a madre, padre e figlia erano presenti anche nonno e nonna, sposati da più di cinquant'anni e desiderosi di andare a vivere insieme con la loro nipotina.

I genitori amavano la bambina intensamente. Tuttavia alcune volte li sorprendeva.

Frequentava l'asilo, e di tanto in tanto la maestra riferiva di comportamenti insoliti da parte sua: non legava facilmente con gli altri bambini, e preferiva stare sola. Oltretutto non esternava mai le sue emozioni, nè partecipava con interesse alle attività di svago.

Inoltre era sempre piuttosto malinconica.

La maestra chiese se ci fossero disagi in famiglia, se Gwendolen avesse problemi a livello sociale, ma i suoi genitori risposero di no, che era solo una bambina molto timida e un po' particolare, ma non aveva alcun problema.

Spesso la nonna la portava al parco, dove tutti i bambini del paese andavano a giocare tutti i giorni dopo aver terminato i compiti, accompagnati dagli amici, dai fratelli o dai genitori.

La nonna sedeva su una panchina a leggere o a lavorare a maglia, come quasi tutte le nonne.

Era autunno, e i vialetti del parco erano ricoperti di foglie brunastre o dorate, che scricchiolavano e frusciavano al passaggio delle biciclette o dei passanti a piedi.

I bambini giocavano a rincorrersi, andavano in altalena, salivano e scendevano dallo scivolo. Qualcuno si arrampicava perfino sugli alberi e qualcun altro faceva le capriole.

Gwen restava in piedi a fissarli, immobile nel suo abitino nero decorato con un colletto di pizzo bianco. Alla nonna piaceva che fosse sempre elegante, come una signorina.

 

La bambina era quasi disgustata dal comportamento allegro di quei bimbi che non pensavano ad altro che a giocare, quasi come se facessero qualcosa di male. Si domandava dove trovassero tutta quell'energia e quella competitività che li trasformava in piccoli guerrieri pronti a tutto pur di vincere ad una partita di pallone.

-Nonna- domandava. -Perchè sono così felici?-

L'anziana donna si soffermava un istante ad osservare i bambini che correvano nel prato. Dopodichè posava gli occhi sulla nipotina.

Quale differenza. Tutti l'avevano notata: i nonni, la mamma, la maestra...

A volte la bambina se ne usciva con delle domande o delle affermazioni tanto insolite da far accapponare la pelle.

La nonna le rispondeva: -Anche tu dovresti essere felice. Sei sana, non ti manca nulla e hai una famiglia che ti vuole bene. Per questo loro sono felici.-

Ma Gwen non era d'accordo. Era come se capisse più di quanto una bambina della sua età può capire. Quei bambini giocavano felici ignari di ciò che sarebbe potuto succedere in avvenire.

La vita di ognuno è fatta di gioie ma anche di dolori, ed era come se Gwen ne fosse già al corrente, quasi sapesse prevedere il futuro.

La sua figura esile in nero immobile con lo sguardo fisso su di essi inquietava non poco i bambini, che non appena incrociavano i suoi occhi si allontanavano in direzione dei loro amici e ricominciavano a giocare.

Lei sapeva che se si fosse avvicinata nessuno le avrebbe rivolto la parola, e nessuno l'avrebbe invitata a giocare. Forse dietro a quel suo modo di fare nascondeva un po' d'invidia: anche lei avrebbe voluto avere degli amici.

 

Il suo comportamento cambiò quando un giorno, mentre si trovava, come sempre, al parco con la nonna, un bambino poco più grande di lei le si avvicinò e la salutò con un sorriso. Dapprima Gwen fu quasi infastidita e un po' impaurita, ma quando il bambino le chiese -Vieni a giocare con me?- dimenticò il suo malumore, gli diede la mano e lo seguì nel parco. La nonna sorrise intenerita e proseguì con il suo lavoro a maglia.

 

Il ragazzino era un compagno d' asilo di Gwen, e sebbene si conoscessero non si erano mai presentati.

-Io mi chiamo Trent. Tu ti chiami Gwen, giusto?- le chiese.

La bambina annuì, ancora un po' intimidita. Fu così che conobbe colui che sarebbe diventato il suo migliore amico per tutta la durata della sua infanzia.

In poco tempo divennero inseparabili: ogni giorno andavano all'asilo insieme e percorrevano la strada del ritorno tenendosi per mano.

Le poche volte che non pioveva andavano a passeggiare al parco o perfino alla spiaggia, dove il più coraggioso sfidava l'altro a provare il brivido di sfiorare l'acqua gelida del mare. Il vento portava a riva onde altissime, e i due dovevano stare sempre molto attenti a non venirne travolti.

Una volta stanchi di camminare si voltavano per guardare le loro orme nella sabbia. Il ragazzino esclamava sempre divertito: -Guarda quanta strada abbiamo fatto!-

E come sempre, prima di tornare a casa, si salutavano promettendosi di rivedersi il giorno seguente.

La piccola Gwen non poteva essere più felice. Aveva trovato un amico che le voleva bene e lei stessa aveva imparato ad amare qualcuno che non facesse parte della sua famiglia. Non si trattava certo di amore vero, poichè Gwen era troppo piccola per capire cosa fosse, e si accontentava di vedere Trent come il fratellino che non aveva mai avuto.

Quando il suo amico non era con lei, Gwen non usciva quasi mai, come del resto aveva sempre fatto, tranne quando la domenica la nonna la portava a messa con se. Così la bimba si accontentava di ammirare la bellezza della grande cattedrale situata a pochi chilometri dalla sua abitazione.

 

 

La piccola frequentava l'ultimo anno di asilo. Era un po' gelosa quando vedeva il suo unico compagno di giochi Trent parlare con le altre bambine.

Una in particolare sembrava rivolgergli più attenzioni di quanto lei non facesse. Ma quando Gwen le si avvicinava lei, intimorita, si allontanava.

Forse era il suo atteggiamento scontroso ed inquietante, a spaventarla. Forse il suo sguardo, che da dolce ed innocente quale può avere una bambina diventava minaccioso ed ostile come pochi.

 

Spesso, quando fuori imperversava il temporale e in aula ci si annoiava, i bambini si divertivano a costruire un nascondiglio apposito, e seduti in cerchio attorno ad una candela accesa ideavano uno dopo l'altro racconti di terrore, alcuni più paurosi di altri, altri ancora perfino divertenti.

La maestra non aveva assolutamente nulla da dire. Se i suoi piccoli alunni si divertivano non poteva esserci nulla di male. Anzi, spesso si univa a loro contribuendo a rendere l'attività ancora più piacevole.

A Gwen piaceva, questo gioco. E il che era positivo, poichè in genere non amava per niente stare insieme ai suoi compagni.

Ma ciò che preoccupava la maestra era la reazione di questi nell'udir parlare la bambina quando veniva il suo turno.

Erano spaventati prima ancora che aprisse bocca, probabilmente poiché quella figuretta pallida si sarebbe accinta di lì a poco a narrare una storia dal tema angoscioso.

Era come sempre Trent, a difenderla dagli sguardi malevoli, e dato che imparava pian piano a conoscerla meglio aveva smesso da tempo di averne timore. Anche se in verità non ne aveva mai avuto.

Rimaneva tuttavia attonito quando, ogni volta che i due progettavano di incontrarsi, dopo essersi allontanato dalla città di parecchi metri sopra il livello del mare, si ritrovava di fronte al cancello di casa Hades.

Sebbene le inferriate nere come la pece e le alte mura antiche della villa in stile gotico apparissero, nella mente del bambino, terribilmente sinistre trovava quel fascino e quel mistero perfettamente coerenti con la personalità della sua piccola amica. Era il suo regno. Chi altri avrebbe potuto vivere lì?

 

 

***

 

 

Trascorse un anno. Nella famiglia Hades entrò a far parte un nuovo membro: una simpatica e meravigliosa gatta dal pelo nero lucente e gli occhi dorati che Gwen chiamò con il nome di Regina, poichè era elegante e altezzosa come sa essere una dama reale.

Quando la bimba cominciò a frequentare la scuola i suoi genitori seppero dalla professoressa di lingue che la loro figlia era la più brava della classe: studiare le piaceva, e aveva anche scoperto di avere una passione sfrenata per l'arte e il disegno.

Tuttavia la bambina non si trovava affatto bene con i suoi compagni di scuola, dato che questi ultimi la prendevano spesso in giro a causa del suo comportamento schivo definendola 'Gwen la solitaria'.

La scuola elementare non era come l'asilo. Era decisamente peggio: le bambine parlavano soltanto di Barbie e vestiti, i maschietti di figurine e di calcio.

In fin dei conti era molto meglio stare sola che annoiarsi partecipando a discorsi poco o per nulla interessanti. L'unica differenza, qui, era che i bambini erano un poco più grandi, anche se, secondo Gwen, non dimostravano di esserlo.

 

Intanto, giorno per giorno, anche lei diventava grande e si faceva sempre più carina.

Fortunatamente nella sua classe c'era anche Trent, il suo compagno di banco. Erano sempre insieme: all'intervallo, a mensa, all'entrata e all'uscita da scuola. A stento, Gwen rivolgeva la parola ad altri suoi compagni, soprattutto alle bambine. A volte era Trent, che tentava di convincerla ad andare a giocare in cortile. Lei non ne voleva sapere. -Non ne ho voglia.- rispondeva sempre allo stesso modo.

Poco tempo dopo, il signor Hades, dopo un altro colloquio con la professoressa, venne a sapere che alcuni genitori avevano vietato ai loro figli di parlare con la bambina poiché la reputavano di cattiva compagnia senza nemmeno averla conosciuta. L'avevano vista soltanto una o due volte all'uscita da scuola e ne erano probabilmente rimasti colpiti in modo negativo, inquietati dal suo aspetto lugubre e dal suo atteggiamento riservato e all'apparenza minaccioso.

-Che cosa ti puoi aspettare dalla figlia di un impresario di pompe funebri?- dicevano con sarcasmo i padri alle madri, alcune delle quali avevano solamente sentito parlare della bambina dai loro figli, e il fatto di non conoscerla personalmente lasciava loro spazio all'immaginazione, la quale faceva apparire la bimba nelle loro menti come una creatura piccola ma spaventosamente ostile.

Tuttavia nessuno osava dare torto a queste dicerie. Quasi tutti, in paese, conoscevano gli Hades, e tutto sommato, sapendo che il loro capofamiglia non operava certo in uno dei settori lavorativi più esaltanti, non c'era da meravigliarsi che la figlia fosse stata influenzata dal carattere del genitore, dal suo modo di pensare, e certamente anche da quei discorsi seri e sempre piuttosto tristi che il più delle volte si tenevano a casa quando qualcuno domandava: “Come procede il lavoro?”

 

Alcuni tra gli anziani del paese, tra cui alcune conoscenti della nonna, non facevano che affermare, ogni volta che capitava di scambiare quattro chiacchiere con quest'ultima, il loro disappunto sul fatto che la sua nipotina non avesse amici e fosse così diversa dagli altri bambini.

La nonna difendeva sempre la piccola. Tutto sommato non le sarebbe piaciuto perdere conoscenti, e meno ancora essere sulla bocca di tutti poiché faceva parte della famiglia.

Gli Hades non avevano vicini di casa, e men che meno amici, forse non intenzionalmente o forse per scelta personale. L'ultima persona di cui la gente avrebbe dovuto parlare male era proprio Gwen. Sapeva essere dolcissima, se qualcuno si rivolgeva a lei con gentilezza era disposta, anche se non sempre, a ricambiare le attenzioni e ad offrire la sua disponibilità.

 

***

 

Trascorsero altri tre anni. Era la fine di dicembre, e Gwen aveva da poco compiuto nove anni. La sua vita andava avanti spensierata. Come sempre trascorreva le giornate in compagnia di Trent o in camera sua a giocare con la sua gatta.

Quell'anno la neve era arrivata tardi, ma come ogni inverno non mancava mai. Ogni sera, prima di coricarsi, alla luce di una candela, Gwen andava alla finestra della sua stanza e osservava la città, piena di luci e di neve. Talvolta, se era fortunata, poteva scorgere una falce di luna tra il nero delle nubi che ricoprivano le case. Come se fosse stata una sua amica, la bambina le augurava la buonanotte, e quella falce sottile, che appariva come un sorriso simpatico, pareva ricambiare.

Gwen non aveva bisogno di amici.

I suoi veri amici erano speciali, come lei: chi altri può ricevere sinceri sorrisi dalla luna, avere come confidente una gatta, giocare a nascondino con la notte, nei momenti tristi piangere assieme alla pioggia e parlare con il mare? La sua vita non avrebbe potuto essere migliore.

 

Ma un brutto giorno, passato Natale, la bimba si ammalò.

 

Inizialmente i suoi genitori credevano si trattasse di una semplice influenza. Ma quando improvvisamente la sua temperatura corporea salì a 41°C e ripetute convulsioni dovute alla febbre iniziarono a colpirla, capirono che le stava succedendo qualcosa di grave. Terrorizzati, una sera di gennaio corsero all'ospedale più vicino e chiesero che fosse ricoverata d'urgenza. La febbre aveva di nuovo preso a salire velocemente nel giuro di poche ore, e tutti avevano temuto il peggio. Fortunatamente i medici riuscirono a far scendere la temperatura fino a stabilizzarla, ma dissero che, per precauzione, la bambina avrebbe dovuto rimanere in ospedale. Dissero che era disidratata e molto debole, e che avrebbe avuto bisogno di parecchio tempo per riprendersi. Quando ai signori Hades venne dato il permesso di vederla, si strinse il cuore a entrambi nel vedere la loro bambina addormentata in un letto d'ospedale, così minuscola e pallida quasi quanto le bianche lenzuola. Il pensiero che avrebbero potuto perderla scatenò il loro un tale senso d'angoscia che preferirono uscire da quella stanza, ma non prima di averle dato un bacio di 'arrivederci'. Già, perchè continuarono a sperare di poterla rivedere il giorno seguente.

Nessuno chiuse occhio, quella notte. Nemmeno la dolce Regina, che accucciata sulla finestra della camera di Gwen miagolava sconsolata, come se piangesse di nostalgia per la sua padroncina.

 

A scuola la bimba mancava già da qualche giorno, e durante le lezioni Trent non faceva che posare lo sguardo sul banco vuoto accanto al suo, chiedendosi quando mai e se la sua migliore amica sarebbe tornata. Fu quel giorno, che venne a sapere da un suo compagno di classe dove stava Gwen e cosa le era successo. Quest'ultimo lo aveva a sua volta saputo dal professore, a cui era stato riferito tutto dal signor Hades. Aveva preferito non informare Trent della malattia della sua amica per non farlo soffrire, ma non era riuscito a tenere il segreto molto a lungo.

Era passata una settimana, da quando la bambina era stata ricoverata d'urgenza. I suoi genitori avevano ricevuto una telefonata nella quale il dr. Cassidy, il medico che l'aveva in cura, diceva di voler parlare con loro. Marito e moglie non persero tempo, e quel pomeriggio si precipitarono in ospedale.

Il dr. Cassidy li accolse con un'aria triste, e il che mise ancora più in allarme i genitori della bambina. Li invitò a seguirlo nel reparto di terapia intensiva e li fece accomodare nel suo studio per parlargli con più tranquillità.

-Purtroppo devo darvi una brutta notizia.- cominciò. -Abbiamo eseguito due esami del sangue e una biopsia del midollo osseo, e abbiamo rilevato un tumore maligno. Temo si tratti di leucemia.-

La madre di Gwen si scusò con il dottore e disse che sarebbe uscita a prendere una boccata d'aria. Sembrava sul punto di svenire. Il signor Hades trovò la forza per restare e sentire cos'altro il medico avesse da dire.

-Pensiamo che sia troppo tardi per sottoporla a chemioterapia. Le sue difese immunitarie ormai sono a terra, fatica a mangiare, a parlare e a muoversi. Dice di sentire freddo giorno e notte, e vuole solo dormire.-

-Quanto le resta, dottore?- chiese il padre di Gwen, lottando per non piangere.

-...Poco più di tre settimane, signor Hades...-

 

Sentirsi dire che la sua figlioletta di appena nove anni non sarebbe mai più uscita dall'ospedale fece crollare in pochi minuti ogni sua speranza. Immaginò come sarebbe stata la vita senza Gwen: non avere più nessuno da accompagnare a scuola, nessuno a cui raccontare favole la sera, nessuno da portare con se ad accendere le candele al cimitero, nessuno da veder crescere.

Ringraziò il medico ed uscì. Trovò la moglie in lacrime, e la strinse tentando di farle forza. Ma chi può sollevare il morale di una madre che sa che dovrà dire addio per sempre alla sua bambina? Soltanto qualcuno che le dica che non dovrà farlo. Ma non avrebbe mai sentito quelle parole.

Quando i medici diedero il permesso ai genitori di salutare -forse per l'ultima volta- la bambina, fecero ingresso nel reparto tre persone: il piccolo Trent accompagnato dai suoi genitori. Questi ultimi, che ancora non avevano fatto conoscenza con gli Hades, si presentarono nel peggior momento. I genitori di Trent dissero che il bambino li aveva pregati di accompagnarlo all'ospedale a trovare la sua amica che stava molto, molto male. Ed ora erano tutti lì tra la disperazione e l'apprensione, pronti a salutare una creatura tanto cara.

Il piccolo Trent guardò con soggezione il medico che stava in piedi accanto alla porta chiusa della stanza di Gwen. Intuendo che fosse un amico della sua piccola paziente, quest'ultimo gli sorrise e gli disse: -Puoi entrare.-

 

Il ragazzino entrò nella stanza. Le pareti erano dipinte di un bianco quasi accecante, e vi era un odore di lattice e disinfettante ovunque. C'era soltanto una finestra, una poltroncina bianca, un minuscolo armadietto e infine un letto. Non si udiva altro che il suono regolare di un frequenzimetro che stava sul comodino accanto ad esso. Sembrava che la stanza fosse deserta. Trent, che era piccolo di statura, non riuscì subito a individuare la figura che giaceva sul letto,ma quando si arrampicò sullo sgabello lì accanto finalmente la vide.

-Gwen?- sussurrò.

La bimba si voltò lentamente, come se fosse un poco indolenzita, e appena riuscì a distinguere chi aveva davanti sorrise dolcemente e mormorò: -Ciao, Trent...-

Aveva un aspetto stanco ma un'espressione serena, non sembrava che il suo stato d'animo risentisse della malattia. Durante quella settimana era dimagrita in un modo impressionante, e la sua vocina flautata era ridotta a poco più di un sussurro.

-Come stai?- le chiese il ragazzino. Gwen era tanto cambiata che quasi non l'aveva riconosciuta. Ma seppur più gracile e più debole di un tempo non aveva perso quella luce speciale che aveva negli occhi.

-Hanno detto...che sono tanto malata...- oramai era in grado di pronunciare solo poche parole per volta. -Ma io mi sento bene.-

Quell'espressione serena sul suo volto era segno inequivocabile che oramai per lei stava per giungere l'ora di andarsene.

-Quando tornerai a giocare con me?- chiese di nuovo Trent.

-Io non potrò...tornare a giocare con te- la bimba si fermò e fece due colpi di tosse. -Andrò via, e non potrò tornare.-

E sebbene avesse solo nove anni sembrava aver compreso da sé che presto avrebbe lasciato tutto e tutti. -Ma io sarò...- mormorò tendendo la mano al suo visitatore -...tua amica per sempre.- E si strinsero la mano per l'ultima volta.

Quale ingenuità, quale innocenza. In fondo cosa ne sanno i bambini, della morte? Solo chi la vede, sa spiegarla. Per chi la prova è troppo tardi per descriverla. Qualcun altro, invece, qualunque età abbia, la sente prima del tempo.

 

In quel mentre erano entrati nella stanza anche i genitori di Gwen. Nel vedere la scena gli si strinse nuovamente il cuore.

-La tua mamma ti sta aspettando fuori, Trent.- gli disse con gentilezza la signora Hades.

-Spero che ci rivedremo presto- disse a Gwen il ragazzino, ignaro -anche se non potremo più giocare insieme.-

Il padre di Gwen si era avvicinato al giaciglio della bimba e teneva le mani dietro la schiena come se nascondesse qualcosa.

-Ti ho portato un regalo.- disse, sorridendo.

Poco prima di uscire tristemente dalla stanza, Trent vide il signor Hades estrarre da dietro la schiena e porgere alla figlia una splendida e maestosa rosa dai petali neri che profumava d'inverno e di purezza. Quanto era bella. Che dolcissimo pensiero. Nel vederla, il volto di Gwen assunse un'espressione di stupore e meraviglia. Purtroppo non era stata privata delle spine, e per far sì che Gwen non rischiasse di pungersi, il signor Hades chiese di poterla mettere in un vaso.

L'aveva estratta da uno dei suoi innumerevoli bouquet funebri che venivano prodotti sul suo luogo di lavoro. La bimba ringraziò il padre per il magnifico dono, ed egli chiese di poter parlare per un momento con sua figlia.

Una volta rimasto solo con lei, vide il suo volto incupirsi improvvisamente. Intuì che volesse dirgli qualcosa e si sedette accanto a lei per ascoltarla. Fu allora che udì una domanda che lo sconcertò.

-Papà...tu hai mai visto la morte?-

Il buon padre dovette sforzarsi di non piangere per non mostrarsi debole e sconvolto davanti alla bambina. Decise però di risponderle con più sincerità e semplicità possibile.

-Purtroppo sì, piccola, tante volte.-

Per più di vent'anni Emil Hades aveva vissuto e lavorato a contatto con essa. Aveva visto tante gente piangere, tante vite andarsene, e aveva perfino conosciuto le persone, ancora vive, ma prossime alla morte, di cui avrebbe organizzato i funerali. Se c'era qualcuno esperto in materia, quello era lui.

-Ma sai- riprese -la morte non è cattiva. Non è come quella delle storie del terrore che raccontano i tuoi compagni. E' una vecchina buona, che viene da te per dirti che con te la vita ha fatto un errore e che devi ricominciare da capo, o che la tua vita ha fatto il suo corso e che è tempo che ti riaccompagni a casa. Ma non ti fa del male. Ti porta soltanto...a casa.-

L'uomo aveva sentito anche parecchie testimonianze di persone che avevano avuto esperienze pre-morte, o persone così prossime ad andarsene che dicevano di vedere sempre più spesso la morte in carne ed ossa.

Rivolse di nuovo lo sguardo alla bambina e le chiese: -Tu l'hai mai vista?-

Gwen si irrigidì per un istante e non parlò. Deglutì come se volesse trattenere il pianto.

-È proprio davanti a me...- sussurrò, sottovoce.

-E ne hai paura?- le chiese di nuovo il padre, che aveva avuto la conferma che la sua figlioletta sarebbe passata a miglior vita di lì a poco.

-...No.- rispose Gwen, dopo un momento di esitazione, e un lieve sorriso ricomparse sul suo visino candido.

Piccola, coraggiosa Gwen.

 

Quando suo padre se ne andò, la bambina non resistette e volle ammirare più da vicino quel fiore meraviglioso che le era stato regalato. Con movimenti lenti raggiunse il comodino e lo raccolse delicatamente tra le mani. Odorò il suo profumo e la ammirò per attimi infiniti per imprimersi nella mente la sua immagine, per non scordarla mai.

 

Ma toccando quella rosa commise un errore fatale.

Si punse con una spina e subito cominciò a sanguinare. La ferita non era profonda, e Gwen, credendo che non si trattasse di un problema grave, non disse niente a nessuno. Quella sera si addormentò molto presto, e dormì senza interruzione per tutta la notte.

 

***

 

Trascorse un'altra settimana. Un lunedì di febbraio i genitori di Gwen si recarono di nuovo in ospedale per vedere la loro bambina e sapere come stesse. Purtroppo, però, quando finalmente poterono parlare con il dr. Cassidy, egli non gli diede il permesso di visitarla. Marito e moglie, sconvolti, gli chiesero il motivo. Il medico disse innanzitutto che le condizioni della piccola erano peggiorate e che, da quanto avevano visto dagli esami del sangue effettuati, la malattia si era aggravata.

-Per qualche motivo è entrata in uno stato di incoscienza. Non apre gli occhi da tre giorni. Sembra sia caduta in una specie di coma. Si sta spegnendo lentamente. Temo che presto non respirerà più.-

Quando la signora Hades chiese ancora una volta il permesso di vederla, il dr. Cassidy ebbe compassione e acconsentì.

Così Emil e Victoria Hades videro per l'ultima volta la loro figlioletta immobile come morta in un letto d'ospedale, con affianco una rosa bruna quanto i suoi capelli.

-Non può vedervi. Non può sentirvi. Non sappiamo se percepisca la presenza di altre persone. Mi dispiace tanto, signora Hades. È il momento di dirle addio...- diceva tristemente il dr. Cassidy mentre i genitori della piccola le rivolgevano le ultime parole.

 

***

 

 

Il 21 febbraio 1998, a mezzanotte e tredici minuti, Gwendolen Virginia Hades smise di respirare.

A mezzanotte e trenta venne dichiarata morta.

 

Tutti quanti erano preparati all'evento, ma fu lo stesso un grande shock. La notizia diffuse dolore e tristezza. Fu struggente, per il signor Hades, organizzare il funerale di sua figlia.

Quando si recò per l'ultima volta in ospedale, i medici gli rivelarono la vera causa del decesso della bambina. Fu insolito, ma purtroppo l'uomo non ebbe altra scelta che credere alle parole che udì: sua figlia si era punta con una delle spine della rosa che le era stata regalata, fino a sanguinare, e la ferita aveva sviluppato una brutta infezione. Questa era stata la causa scatenante del peggioramento della sua malattia. Un'innocua puntura l'aveva portata alla morte.

 

Il giorno dopo la sepoltura, avvenuta nel grande cimitero di Scarborough, qualcuno andò a bussare alla porta di casa Hades. La madre di Gwen intuì che fosse qualcuno venuto a fare le condoglianze, ma quando aprì il portone trovò un fanciullo che ben conosceva.

-Come sta Gwen? È tornata a casa?-

Trent aveva uno sguardo colmo di speranza e allo stesso tempo colmo di preoccupazione. La donna si commosse come faceva sempre quando sentiva nominare la figlia. Sapeva che prima o poi si sarebbe abituata all'idea, ma per il momento le sembrava ancora di vivere in una sorta di sogno confuso senza fine.

-Oh caro...nessuno te lo ha detto?- chiese, piangendo. A quanto pareva la notizia non era arrivata fino a Trent e alla sua famiglia.

Il bambino pianse qualche lacrima, quando la signora Hades gli disse che Gwen se n'era andata per sempre. Anch'egli non ci credette subito, ma quando si rese conto che per tutto il tempo che era rimasto lì la sua amica non era venuta a salutarlo come aveva sempre fatto, capì che lei non c'era davvero più, e che da quel momento sarebbe cambiato tutto.

 

 

 

Quella che venne non fu affatto un'estate felice per gli Hades, e la forte luce del sole e la vita attiva del paese, contrapposte al loro dolore, contribuirono ad accrescere la loro depressione. Le tende alle finestre rimasero perennemente chiuse, come del resto accadeva tutte le estati. Mai un raggio di sole osò entrare.

I più impensieriti erano i genitori del signor Hades, i nonni della bambina: vedevano infatti che marito e moglie non riuscivano a superare quel terribile trauma, e temevano per la loro sanità mentale.

 

Anche l'estate finì e ritornò l'autunno. I due coniugi non accennavano a stare meglio.

 

Tornò l'inverno, e un giorno di metà febbraio nonna Hades li vide piangere mentre constatavano con amarezza che era trascorso ormai quasi un anno dalla morte della loro amata figlia.

Fu in quel momento che l'anziana donna decise che avrebbe tentato di cambiare le cose, e diede fondo a tutta la sua buona volontà.

 

 

Nonna Hades aveva una dote nascosta: era una medium, cioè diceva di saper comunicare con gli abitanti dell'aldilà. Non aveva mai rivelato a nessuno queste sue capacità poiché quandunque l'avesse fatto era certa che nessuno l'avrebbe presa sul serio. Nemmeno suo figlio si era fidato più di tanto, quando glie l'aveva comunicato. Ma quando un giorno, mentre si trovava con lui nell'obitorio di un vecchio ospedale di Londra e gli dimostrò il suo talento chiamando il nome di un uomo suicida che era stato portato lì, ottenendo come risposta il frastuono dei cocci di vetro di una finestra che cadevano a terra, allora il signor Hades le credette, ma la invitò a non esibire mai più le sue capacità né in pubblico né in famiglia, per nessun motivo. Purtroppo la donna era sempre stata un osso duro ed era solita ignorare i consigli che le venivano dati: proseguiva e portava a termine sedute spiritiche malgrado fossero pericolose, interpellava persone decedute anni prima malgrado ricevesse spesso segnali bruschi e devastanti.

Si può dire che cercasse guai.

Quella volta volle spingersi ben oltre. La notte stessa preparò tutto ciò che le sarebbe servito: alcuni libri contenenti antichi rituali occulti di stregoneria, candele, amuleti sacri, sale e quant'altro.

Serrò porte e finestre e diede inizio all'opera.

 

Per poter confortare e allietare i genitori di Gwen, aveva deciso che avrebbe tentato di rievocare lo spirito della bambina così che la sua famiglia avesse potuto salutarla un'ultima volta. Aveva tutte le buone intenzioni, ma quella era stata come sempre un'idea folle.

 

Il rituale iniziò a mezzanotte precisa.

In genere quell'ora della notte ha un significato particolare per gli spiriti, e nel mondo terreno è l'ora più silenziosa, quando sembra quasi che il tempo si fermi.

La donna accese tre candele e sparse un cerchio di sale intorno a se per proteggersi dalle entità maligne nel caso ne avesse incontrate.

Dopo qualche minuto di concentrazione prese il rosario tra le mani, e dopo aver detto una preghiera incominciò a chiamare il nome della nipotina.

Nella stanza regnava un silenzio tombale, e una piccola porzione di spazio era illuminato soltanto dalla luce fioca delle tre fiammelle e dalla luce della luna che filtrava tra le tende. La donna continuò imperterrita a pronunciare il nome della bambina defunta fino a che ad un certo punto le fiammelle delle candele cominciarono a traballare. Non vi era alcuna corrente d'aria, e la donna intuì che potesse trattarsi di un segno della presenza di uno spirito. Ma siccome non sapeva di chi si trattasse decise di porgli una domanda: -Gwendolen, sei tu?-

Le fiamme ormai erano scosse da un forte tremito e nella stanza si era insinuato un freddo siderale. -Se sei qui- riprese la medium -spegni le candele!-

Un soffio di vento spense le fiamme in un sol colpo e la stanza sprofondò nel buio. L'evocazione era riuscita. Lo spirito aveva dato una chiara risposta all'incredula nonna Hades: di lì a poco la sua nipotina Gwen si sarebbe manifestata a lei completamente.

Quando un rumore simile ad un fischio assordante cominciò d'un tratto a pervaderle l'udito, la donna si impietrì per un istante.

Durante quei momenti le emozioni forti non erano mai troppe, e non sapeva se il suo debole cuore di anziana sarebbe riuscito a reggerle a lungo termine.

In pochi secondi quel sibilo frastornante si tramutò in un suono ancora più angosciante: il pianto incessante di una bambina, struggente come un canto funebre, lontano come un eco sommesso.

-Redit domum*- recitò la medium, e il lamento parve avvicinarsi sempre di più. La donna cercò di riaccendere le candele ma non vedeva a un palmo dal suo naso, e non ci riuscì. Fu in quell'attimo, che capì di non essere sola nella stanza. Percepiva una presenza spostarsi continuamente sopra la sua testa. Ed era certo che non si trattasse di una presenza umana. -Et surge et ostendit**!- recitò di nuovo.

 

Il rituale si concluse. Il portale per l'aldilà si chiuse appena in tempo perchè la medium gli portasse via una delle sue anime con una chiamata e la imprigionasse nel mondo terreno. La piccola Gwen, smarrita e confusa, si ritrovò a vagare senza meta tra i vivi. A metà strada del viaggio che si accingeva a percorrere per tornare da dov'era venuta, era stata brutalmente strappata via dalla sorta di limbo in cui era entrata, per tornare nel mondo fisico. E ciò non le era piaciuto affatto. Non faceva altro che piangere sconsolata vagando di luogo in luogo, pervasa dalla tristezza e dalla rabbia verso gli uomini e verso chi l'aveva condannata a quella tortura. Era come se vivesse in una dimensione senza tempo, senza passato, presente o futuro, costretta ad aleggiare incorporea tra le strade della città grigia.

Arrivò fino al mare e stette laggiù fino all'alba ad osservare le onde dietro un velo di lacrime, mentre una pioggia torrenziale scrosciava sulla battigia.

 

 

***

 

 

All'alba nonna Hades si mise a dormire per non destare sospetti. Per quel giorno nessuno si accorse di niente, e ciascun membro della famiglia svolse le proprie attività quotidiane indisturbato.

Fu la notte seguente, che cominciarono a succedere cose strane. Non fu affatto una notte tranquilla per la nonna di Gwen, che sebbene volesse prendere sonno le fu impossibile poiché era troppo emozionata in attesa di veder ricomparire il fantasma della nipote. Quando finalmente sembrò appisolarsi venne svegliata da un forte tintinnio, come se delle sottili catene di ferro oscillassero urtandosi a vicenda. Il vento soffiava più forte del solito e il suo sibilo rimbombava dovunque. La donna accese la luce per potersi alzare e chiudere la finestra che sbatteva violentemente. Quando l'ebbe sprangata e si accinse a tornare a dormire, la lampadina d'un tratto si fulminò e lei si ritrovò di nuovo al buio. Immediatamente la luce cominciò a lampeggiare in ogni stanza della casa. Il signor e la signora Hades si destarono allarmati, e ipotizzarono che ci fosse un cortocircuito per via del temporale. Ma quando andarono a controllare non notarono niente di strano. Il padre del signor Hades, che dormiva al piano di sotto, corse più in fretta che poté in camera della moglie per vedere cosa stava succedendo. Fu inoltre il primo a giurare di aver sentito un sibilo assordante nei pressi delle scale che conducevano al primo piano della casa. Pochi minuti dopo anche gli altri tre iniziarono a lamentarsi di un forte fastidio alle orecchie.

La luce continuava a lampeggiare senza sosta.

Sopra la casa era già comparsa una presenza.

Come accade la notte precedente, dopo pochi minuti il sibilo si trasformò in un pianto straziante che si udì in ogni angolo della casa.

Il signor Hades riconobbe immediatamente la voce di sua figlia, e scosse la testa per essere certo di non trovarsi in un sogno. Si guardò intorno cercando di capire da dove provenisse la voce, ma essa continuava a spostarsi. La signora Hades era terrorizzata, e in cuor suo si chiedeva come e se una cosa simile potesse essere possibile.

-Gwen?- disse il signor Hades. Non appena pronunciò quel nome il gemito si fece più nitido.

-Gwen, mostrati, siamo qui per te.- ordinò la nonna.

In quell'istante l'ingegno e la razionalità pervasero la mente del signor Hades, e lui capì tutto. Guardò la madre con severità e un lume di rabbia gli attraversò lo sguardo.

-Che cos'hai fatto?- le chiese. Ma piuttosto che una domanda risuonò come un'aggressiva accusa. -Come hai osato farlo?!-

-Emil, non capisci- si difese l'anziana, con voce tremante. Le parole di entrambi erano costantemente accompagnate dal lamento che ancora vagava nell'aria. -L'ho fatto perchè tua figlia potesse ricongiungersi a noi e perchè voi poteste averla di nuovo accanto.-

-Come hai osato fare una cosa simile?! Quante volte, mamma, ti dissi di non prenderti gioco dell'altro mondo?! Quante volte ti dissi che sarebbe stato pericoloso, che non avresti mai saputo a che tipo di conseguenze saresti andata incontro?! Perchè non hai lasciato che le cose andassero com'era destino? Perchè non mi hai voluto dare ascolto?-

Quasi come esito della furia dell'uomo, la tempesta che imperversava fuori divenne ancora più impetuosa di quanto non lo fosse già. La luce nella stanza non voleva smettere di accendersi e spegnersi a intermittenza.

La lite tra madre e figlio si interruppe non appena il padre del signor Hades fece notare, indicando un angolo del soffitto, che una strana figura stava prendendo forma davanti ai suoi occhi. Nessuno potè distinguerla a causa del continuo alternarsi di luce e buio, finchè gli occhi della madre riconobbero, seppur per un brevissimo istante di illuminazione, il volto candido della figlioletta. Fu una visione sfumata, quel volto non poteva essere in alcun modo materiale. Ciò che lasciò sconcertata la giovane donna fu l'espressione terrorizzata e avvilita della creatura che non accennava a smettere di piangere così disperatamente.

-Gwen- trovò il coraggio di dire la signora Hades -piccola mia, è la tua mamma, che ti parla, so che puoi sentirmi. Non avere paura, andrà tutto bene.-

-Stà certa che troveremo un modo per aiutarti.- cercò di tranquillizzarla il signor Hades.

I suoi genitori potevano percepire chiaramente la sua presenza, grazie soprattutto al legame che li aveva da sempre uniti.

Fu in quel millesimo di secondo, che il padre vide l'espressione addolorata della bambina mutare in un'espressione di spietata ferocia.

Nonno Hades notò quasi per caso gli occhi dello spirito puntarsi su di lui.

Mai nella vita vide uno sguardo più terrificante.

Il lamento che poco prima infestava l'abitazione si trasformò d'un tratto in un agghiacciante grido di disperazione, proprio mentre l'anziano uomo vedeva fissi nei suoi gli occhi di quel fantasma dallo sguardo infernale. Quello sguardo che gli fu fatale.

Il suo cuore cedette e lo colse un infarto quella notte stessa, poco prima che lo spirito si allontanasse dalla casa.

 

 

 

Continua...

 

 

 

*Redit domum: “Torna a casa”

**Et surge et ostendit: “Risorgi e mostrati”

 

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Capitolo 5
*** Prequel (Quinta Parte) ***


La famiglia cadde nuovamente in lutto. Fu una tragedia, perdere un padre, un marito e un nonno tanto affezionato. E fu allo stesso tempo la goccia che fece traboccare il vaso: il signor Hades, sconvolto coma mai in vita sua, si adirò a tal punto con sua madre che minacciò di farla ricoverare in una clinica psichiatrica al fine di renderla stabile mentalmente una volta per tutte. Era una pazza, imprudente e testarda come pochi. Aveva gettato troppa benzina sul fuoco e le conseguenze erano state tragiche. La sua unica nipote defunta, Gwen, era tornata sulla terra sotto forma di entità sovrannaturale, e, che la sua famiglia ci credesse o meno, aveva ucciso il suo anziano nonno, non si sapeva se involontariamente o meno. Dio solo sapeva in quale stato d'animo si trovasse quella creatura, ma di certo non era in una condizione pacifica e felice.

Gwen era persa nel nulla, straziata dalla nostalgia e dal desiderio di tornare a casa, lassù in cielo, ma non poteva farlo. Era bloccata lì, sola e senza sapere dove andare. Possedeva solo due deboli sensi, la vista e l'udito; non poteva parlare, né camminare, né toccare oggetti o altre persone. Poteva solo manifestare la sua disperazione con tristi lamenti, e la sua rabbia, terrorizzando le persone destinate a incrociare i suoi occhi.

 

Il signor Hades impose alla madre di trovare il prima possibile una soluzione a quel problema. La casa era diventata un luogo pericoloso, dal momento che chiunque avrebbe potuto essere la prossima vittima del fantasma. La sua presenza ormai era percepibile in ogni stanza, in ogni istante di ogni ora del giorno, e nessuno riusciva a dormire sonni tranquilli.

Nonna Hades era distrutta per la morte del marito, e non faceva che chiedersi come mai, dopo il rituale, lo spirito della nipotina defunta avesse portato con se tanta collera e tanta desolazione. D'altronde, dato che ella si trovava ancora su questa terra, non poteva capirlo.

Non poteva capire che ciò che aveva provocato a quella creatura era una sofferenza inimmaginabile.

Con quel rituale avrebbe dovuto rievocarla per mettersi in contatto con lei e riportarla sulla terra per permetterle di manifestarsi per un breve lasso di tempo, di modo che lei avrebbe potuto rivolgerle le ultime parole e ricordarle quanto le avesse voluto bene. Non solo, la bimba avrebbe potuto rivedere i suoi genitori e loro avrebbero rivisto lei; si sarebbero accertati che stesse bene e l'avrebbero lasciata andare.

 

Ma il suo spirito era andato oltre il confine che separa il mondo fisico da quel sottile limbo che conduce le anime nell'aldilà. Avrebbe dovuto manifestarsi sulla terra rimanendo però in quella sottile dimensione.

Qualcosa però era andato storto, e la bambina aveva superato la soglia del mondo terreno rimanendovi bloccata senza poter tornare indietro.

Dopo che, in preda all'ira, il fantasma aveva assassinato suo marito causandogli un colpo al cuore, in nonna Hades si era scatenato un odio quasi assoluto per la nipote che era tornata a infestare la casa. Era nato così un conflitto alimentato dall'odio reciproco. E la donna non avrebbe potuto fuggire da Gwen.

 

 

 

Un giorno il figlio le disse che lui e la signora Hades sarebbero partiti la mattina seguente. Disse che sarebbero tornati a Londra per poter superare al meglio il lutto una volta per tutte.

Ma la realtà era un'altra: volevano fuggire da quella casa, dimenticarla e lasciare che l'anziana risolvesse il problema. Non volevano fare la stessa fine di nonno Hades.

Marito e moglie se ne andarono, e la nonna rimase la sola padrona di casa.

Godeva solo della compagnia di Regina, la gatta di Gwen, che però non le dimostrava molto affetto. Quella gatta a volte si comportava in modo strano: stava ore e ore a fissare il vuoto, o angoli della casa dove non vi era assolutamente nulla di interessante. Alcune volte miagolava tristemente, come se chiamasse qualcuno e lo pregasse di tornare da lei. Nonna Hades comprendeva bene quel comportamento.

Si dice che i gatti vedano cose che la mente umana nemmeno può immaginare, come le anime: la nonna sapeva che Regina era estremamente legata alla sua padroncina, e sapeva che poteva vederla. Ogni volta che iniziava a miagolare malinconicamente o a fissare, immobile, un punto preciso, la donna sapeva che lo spirito si trovava in quel punto. E immediatamente si spostava in un'altra stanza. Del resto, il più delle volte cercava di non rimanere mai per più di un certo lasso di tempo nello stesso luogo della casa.

Non era una vita tranquilla.

Gwen appariva tutte le notti. Specialmente nelle notti di luna o di tempesta. Bastava la luce di un fulmine perchè la donna potesse notare per un millesimo di secondo una minuta sagoma nera nella stanza.

Presto diventò stressante. Nonna Hades era arrivata al punto di non poter più dormire.

Decise di fuggire. Ma prima, sia per dovere personale sia per ordine di suo figlio, avrebbe dovuto pensare alla nipotina. Sebbene la temesse si sentiva in colpa per ciò che aveva fatto.

Non avrebbe potuto riportarla nell'aldilà con le sue mani. Le sue capacità avevano dei limiti e non glie lo permettevano. Oltretutto era passato troppo tempo e il fantasma di Gwen, sebbene si trovasse nella dimensione terrena, aveva acquisito un certo potere.

Ci sarebbe tornata da sola. In che modo? Con una profezia.

Nonna Hades cercò a lungo tra i suoi innumerevoli, arcani libri di spiritismo e trovò le profezie dai generi più disparati: profezie basate su presagi di morte, altre che avevano come fine promesse di felicità e prosperità e molte altre ancora, finchè ne trovò una che parve fare al caso suo. “Prophetia ad capti”, “Profezia al prigioniero”.

Erano tutti riti che, senza dubbio, andavano contro le pratiche della religione cristiana e trattavano di paranormale o addirittura di satanismo. Qualcuno li aveva scritti perchè qualche imprudente potesse compierli, e la donna ne possedeva tantissimi.

Quella profezia era destinata ai fantasmi intrappolati sulla terra. Il medium avrebbe dovuto pronunciarla in base alla sua situazione: lo stregone, o chi per esso, enunciandola, avrebbe avuto il potere di decidere il destino dello spirito.

Il libro non dava istruzioni specifiche. Diceva solo che qualunque fosse stata la profezia sarebbe stata valida per soli otto anni.

Nonna Hades chiuse il libro, aspettò che calasse la notte e si preparò ad una seconda evocazione.

Alcune volte, fortunatamente, non precepiva la presenza del fantasma. Ciò significava che in quel momento Gwen non si trovava nei pressi della casa.

 

A mezzanotte lo spirito si manifestò di nuovo nella stanza. La medium poteva sentire il suo sguardo su di sé. Cominciò nuovamente a chiamarla. -Gwen.-

Sorprendentemente la bambina non piangeva più ininterrottamente come quando era comparsa la prima volta. Soltanto un flebile lamento simile a un sospiro si udiva di tanto in tanto nell'aria. -Se mi senti spegni la prima candela.- ordinò la donna. Come la prima volta, una folata di vento entrò nella stanza e spense la prima delle tre candele che erano state disposte in fila sul pavimento.

-Ora ti parlerò e da questo momento dovrai udire ogni mia parola. So bene che ho agito male nei tuoi confronti, bambina, e che sono stata egoista a credere che se fossi tornata da noi saresti stata felice. So che vorresti tornare a casa ma io non posso rimandarti lassù. Sarà il tempo, a farlo.

 

Per i prossimi otto anni resterai confinata sulla terra. Starai bene e non ricoderai nulla di quanto è successo quando sei giunta qui dall'altro mondo. Non ti accorgerai di non esistere. Potrai parlare, vedere, sentire, odorare e toccare come gli esseri umani. La tua vita andrà avanti. Ma vivrai di allucinazioni, e grazie ad esse, nella tua mente, le persone che incontrerai potranno parlarti, vederti e toccarti. Ma nulla sarà reale. Non ti sentirai più sola, né confusa, né smarrita. Sarai felice come lo eri prima di lasciarci. Mi hai ascoltato, Gwen?- chiese la medium. -Se hai sentito ciò che ho detto spegni la seconda candela.-

La seconda fiamma si spense. Un'ombra continuava a muoversi furtiva nella stanza, sopra la testa della donna, che non pensò nemmeno una volta di alzare lo sguardo per paura di incontrare gli occhi del fantasma.

 

-Tra otto anni esatti- riprese. -il tempo scadrà e tornerai a casa. Oltrepasserai la soglia dell'aldilà esattamente allo stesso modo in cui te ne sei andata. Rivivrai quel momento e prima che tu possa rendertene conto sarai finalmente lassù, in pace. Se hai ricevuto il messaggio, Gwendolen Virginia Hades, spegni la terza candela.-

La fiamma si spense e un eco simile al rumore del vento risuonò lontano.

 

 

La profezia si compì.

 

 

Dopo la seconda evocazione. Gwen aveva cominciato a ristabilire un forte legame con il mondo terreno. Non ne era più spaventata come se si trovasse in un luogo estraneo. Pareva abituarsi giorno dopo giorno a girovagare tra i comuni mortali. Piano piano aveva cominciato a riconoscere la città dove aveva vissuto: la piccola Scarborough con il suo porto, le sue viuzze e il suo cielo grigio; le case sparse, la spiaggia deserta, la sua antica dimora; la scuola, la periferia, il cimitero.

Era tutto come prima. La disperazione e la rabbia erano scomparse. La vista si era fatta più nitida.

A Gwen incominciò a sembrare di avere un corpo. Ora poteva camminare, toccare, respirare, pensare. I giorni passavano e acquisiva sempre più consapevolezza di sé, come un bimbo che piano piano diventa grande. Riscoprì le sue passioni. Era quasi divertente andare in giro per la città senza essere vista da nessuno. Già, perchè nessuno poteva vederla, ma Gwen non se ne accorgeva. Si sentiva di nuovo viva.

Viva, è così che ti senti quando hai piena consapevolezza di dove sei, di chi sei, di cosa fai.

 

Un giorno capitò al parco, dove questa volta c'erano solo pochi bambini a causa del freddo pungente e del gelido vento invernale.

Dondolandosi impercettibilmente avanti e indietro sull'altalena, la bambina rimaneva lì a guardarsi intorno. Fu allora che notò un ragazzetto poco più grande di lei con indosso una giacca color verde pallido che, tutto solo, calciava il suo pallone contro un muretto. Il suo volto le appariva molto familiare.

D'un tratto ebbe un deja-vu. Si ricordò di aver già incontrato quel bambino proprio lì, nel parco. Ma il suo nome gli sfuggiva. Come si chiamava? Todd? Tommie?... Trent?

All'improvviso il pallone sfuggì al bambino e rotolò sul prato fino a fermarsi ai piedi di Gwen. La bimba se ne accorse solo quando vide il ragazzino correre verso di lei e raccoglierla, per poi alzare lo sguardo verso la figuretta che stava seduta sopra l'altalena. La sua espressione si fece immediatamente sorpresa, quando la riconobbe.

Gwen non pensò mai che qualcuno l'avrebbe guardata così, prima di quel momento. Un vortice di immagini aveva preso possesso della mente del ragazzino. Erano tutti ricordi, ciascuno legato ad un momento trascorso con la bambina.

Era passato più di un anno dall'ultima volta che si erano visti, e ognuno dei due ci mise un po' a ricordarsi dell'altro. Trent era ancora a bocca aperta e non si muoveva. -Gwen?- fece, con gli occhi sgranati. Non avrebbe mai pensato di rivederla dopo tutto quel tempo. Credeva che se ne fosse andata, come gli aveva detto la signora Hades. Com'era possibile? La madre di Gwen gli aveva raccontato una bugia?

Gwen annuì accennando un sorriso.

-Tu sei qui- mormorò Trent, quasi per paura che qualcuno lo sentisse. -Credevo che tu...-

Non fece in tempo a finire la frase che udì la voce di sua madre chiamarlo.

-Trent, è ora di tornare a casa.-

Trent non sembrava aver intenzione di tornare a casa proprio ora che la sua migliore amica era tornata da lui.

-Voglio stare ancora un po' con Gwen.- disse Trent. -Non sai quanto sono felice che tu sia qui.- riprese. -Credevo che tu fossi...-

-Che cosa?- chiese Gwen, intenerita dall'espressione radiosa di Trent. Non ricordava nulla circa il suo passato. Chiunque avesse tentato di dirle la verità, a lei sarebbe parsa come invenzione o bugia.
-Sei proprio vera?- sussurrò di nuovo il bambino. Che insolita domanda da rivolgere a un'amica.

-Che stai dicendo, Trent? Il freddo ti ha dato alla testa? Andiamo, si è fatto tardi.- li interruppe di nuovo la madre di Trent, questa volta visibilmente scocciata.

-Non importa.- disse Trent alla bambina. -Ora devo proprio andare.-

-Verrò a trovarti.- disse Gwen, prima che Trent scomparisse dalla sua vista.

 

Inizialmente la madre di Trent era rimasta basita udendo il figlio nominare Gwen, e per giunta sentirgli dire che stava parlando con lei. Ma non si lasciò suggestionare in quanto sapeva che al ragazzino, come del resto a tutti i suoi coetanei, piaceva molto inventarsi amici immaginari.

“Gli manca così tanto che crede ancora di parlare con lei...” aveva pensato la donna per scacciare ogni dubbio surreale nel momento in cui aveva visto suo figlio parlare con un'altalena vuota.

 

 

La bimba mantenne la parola e andò più volte a far visita al suo migliore amico. Solitamente ci andava tardi, dopo l'ora di cena, quando era certa che fosse in casa. Per più di una volta i genitori del bambino notarono, gettando per caso un'occhiata dalla finestra, una piccola sagoma scura nei pressi del cancello, che scompariva quasi subito. Altre volte accusarono un brusco abbassamento della temperatura in tutta la casa, e al momento di coricarsi videro per brevissimi istanti il lampadario appeso al soffitto oscillare lievemente.

 

 

 

In primavera ricominciò la scuola. Per Trent furono gli ultimi mesi in classe con Gwen poiché l'anno seguente, quando entrambi incominciarono a frequentare le classi medie, dovettero separarsi. Finirono in sezioni diverse e per un po' di tempo si persero di vista. Studio e impegni li tennero lontani.

Gli anni trascorsero lentamente. Sia Gwen che Trent si annoiavano parecchio, in classe, senza nessuno con cui parlare.

Il ragazzo conobbe presto dei nuovi amici e arrivò quasi a dimenticarsi della sua vecchia compagna di vita.

Quando, poco tempo dopo, arrivò il primo giorno di liceo le cose non cambiarono. Trent e Gwen continuarono a stare in classi diverse per altri tre lunghi anni.

Si può dire che il ragazzo si fosse rifatto una vita: ora aveva una compagnia di amici con cui trascorreva la maggior parte del tempo, piuttosto ristretta nel numero ma molto unita e sempre alla ricerca del divertimento. Mancava poco al compimento dei suoi diciott'anni e già pianificava, entusiasta, di dare una festa in spiaggia a cui avrebbe invitato tutti i suoi compagni del liceo. Adorava i campeggi in estate e la musica, inoltre si era fatto molto carino e non poche ragazze gli facevano la corte. Ma lui non aveva assecondato nessuna di queste poiché, come ogni bravo ragazzo che si rispetti, era ancora alla ricerca del colpo di fulmine.
La vita di Gwen, invece, era l'opposto: monotona e tranquilla, trascorsa per la maggior parte del tempo in solitudine nella vecchia villa degli Hades oramai deserta.
Nonna Hades, prima di andarsene dalla casa, aveva deciso di sua spontanea volontà di farsi ricoverare in una clinica psichiatrica poiché oramai soffriva di insonnia: lo stress lasciatole dagli esiti delle innumerevoli pericolose pratiche occulte di quegli anni le aveva causato panico notturno e perfino visioni. La sua vita era costantemente dominata dalla paura incontrollabile di rivedere il fantasma della nipote presentarsi a lei così minacciosamente come la prima volta. Sapeva che cosa aveva fatto, e sapeva che, se avesse potuto, la ragazzina si sarebbe vendicata. Non sapeva se potesse dirsi salva dato che Gwen non ricordava assolutamente niente di ciò che le era successo sette anni prima.
Era diventata una ragazza stupenda dalla pelle diafana, uno sguardo dolce e labbra sottili che sapevano inarcarsi a malapena in un sorriso. Già, Gwen non rideva mai. Quando si sentiva triste si recava alla spiaggia e ci rimaneva a volte per ore ascoltando il respiro del mare che sembrava parlare con lei.
La sua vita andava avanti come quella di una comune mortale. Se fosse stata ancora in vita avrebbe avuto diciassette anni compiuti. Avrebbe potuto considerarsi una ragazza come tutte le altre se solo non fosse stata diversa da loro in tutto e per tutto. Era cresciuta e maturata proprio come se fosse stata una creatura terrena.

Sentiva la fame, il sonno, la rabbia, la tristezza, la gioia e ogni tipo di emozione esistente.

Quando fuori splendeva il sole trascorreva il tempo in camera sua con le pesanti tende di velluto rigorosamente chiuse, e per niente al mondo avrebbe osato mettere piede fuori di casa.

Ricordava di avere dei genitori e un'adorabile gatta domestica, ma non ricordava assolutamente di avere una nonna ancora in vita.

L'anziana era stata rilasciata dalla clinica dopo soli due mesi di terapia farmacologica e, convinta di stare finalmente meglio, aveva preso il treno e si era trasferita in un paesino al nord, a casa di una parente. Purtroppo la sua ora non tardò ad arrivare e se ne andò nel sonno in una notte di agosto.

Gwen stava bene, ignara di ogni cosa. Era come se fosse sempre rimasta a Scarborough, il suo piccolo paese grigio e solitario. La vita lassù non era così male, e nemmeno il liceo, del resto. L'unica cosa che lasciava a desiderare erano i compagni, pensava Gwen: non avevano un minimo di cervello.

Fortunatamente la situazione parve migliorare quando, nel settembre seguente, Gwen cominciò a frequentare il quarto anno. Il rientro a scuola fu come al solito seccante e, come se non bastasse, la ragazza scoprì che avrebbe avuto parecchi compagni ripetenti. Erano tutti di uno o due anni più grandi rispetto agli altri, e la prima impressione sui pochi che Gwen conobbe fu pessima.

Tuttavia la ragazza parve cambiare idea quando le prime quattro ore di lezione dell'anno furono concluse: in attesa dell'inizio della lezione successiva Gwen uscì in corridoio e approfittò dei cinque minuti di pausa per riordinare il suo armadietto. Mentre trafficava con i volumi di letteratura, uno dei suoi libri di narrativa preferiti le cadde per sbaglio e qualcuno lo raccolse al posto suo.

 

E per la terza volta nella vita, Gwen rivide quegli occhi verdi dopo tanto, troppo tempo. Quegli occhi che appartenevano allo stesso fanciullo che aveva conosciuto da bambina. Ma non potè ricordare null'altro poiché era trascorso troppo tempo dall'ultimo incontro. Sette anni, per la precisione. Si erano persi di vista e adesso, come già era successo, era come rivedersi per la prima volta.

Il ragazzo disse poche parole sul romanzo e su quanto apprezzasse l'autore, dopodichè disse il suo nome: Trent. Gwen l'aveva visto di sfuggita in classe, quando non aveva perso tempo ed era subito corsa a sedersi al suo banco timorosa degli sguardi dei suoi compagni. Doveva essere senza dubbio un ripetente, poiché non l'aveva mai visto prima d'ora. In quel momento, però, ebbe la sensazione di averlo già incontrato. Sembrava gentile. Anzi, lo era, dopotutto.

 

Quello che Gwen non sapeva era che il ragazzo non aveva proferito parola durante quei cinque minuti di pausa prima dell'ora di letteratura. Era uscito in corridoio con l'intenzione di prendere i suoi libri e tornare subito in classe. Ma giunto all'armadietto aveva sentito qualcosa muoversi accanto a lui, come una presenza invisibile. E subito il suo cuore era stato invaso da un bellissimo sentimento: affetto, verso qualcuno di cui non ricordava né nome né aspetto. Una ragazza che ben conosceva. E senza saperlo stava comunicando con lei, forse solo con la forza del pensiero, ricreando dal principio quel legame che molto tempo prima si era instaurato tra loro allo stesso modo. Quel legame che gli permetteva di percepirla ma non di vederla, cosa che riusciva a fare da bambino.

Ed era così che agli occhi di Gwen il ragazzo si era ripresentato: le aveva chiesto il suo nome con in volto un'espressione gentile. Un vago, offuscato ricordo attraversò la mente di entrambi, ma si dissolse non appena Trent si allontanò per tornare dai suoi amici e la campanella trillò facendo sussultare Gwen, che corse di filato in classe.

Il nome di Trent le risuonò nella testa per tutta la giornata.

 

 

 

Continua...

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