Rift

di Cygnus_X1
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Zrythe ***
Capitolo 3: *** L'estraneo ***
Capitolo 4: *** Patto ***
Capitolo 5: *** La missione ***
Capitolo 6: *** Combattere ***
Capitolo 7: *** Viaggio ***
Capitolo 8: *** Etharin ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


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——[Prologo]——




 

M



i chiamo Zrythe.
Vengo da Adiannon, ma non ne ho praticamente ricordo. Ho nella mente solo poche immagini confuse e sfocate. Ho diciotto anni, di cui quindici passati come schiava dei Serket. Mi hanno rapita sotto gli occhi di mia madre che non avevo ancora tre anni, e da allora sono stata loro.
Da quindici anni il mio unico pensiero è la fuga. Ho provato in tutti i modi, ma ho sempre fallito. E intanto si avvicina inesorabile il mio ventesimo compleanno.
Da quando Eileen mi ha detto tutto, io ho preso una decisione. Ho fatto una promessa sul suo ultimo sorriso, sul ricordo che ho di lei e che mi porterò sempre dietro. Ho promesso che entro i vent’anni sarei stata fuori di qui. Anche per lei, che non ce l’ha fatta.
Loro pensano che mi chiami Reet. Quando, dopo avermi afferrata per un braccio, trascinata nell’astronave  e costretta ad assistere alla devastazione del mio pianeta natale, mi hanno chiesto come mi chiamavo, il mio terrore e la mia voce sottile di bambina di neanche tre anni, e il loro pessimo accento, hanno fatto capire che mi chiamavo Reet, ed è così che mi hanno registrato. È per questo che sono sopravvissuta così a lungo senza rassegnarmi. Io non sono quello che loro pensano, io non sono loro.
Io sono Zrythe, non Reet.
In questi quindici anni ho visto di tutto. Ho visto ragazze andare e venire. Ho visto schiave ribellarsi e venire fucilate o violentate davanti ai nostri occhi. Ho visto quelle che dopo un po’ sono riuscita a considerare quasi delle amiche sparire per non fare più ritorno. Ho visto ragazze sfregiate dalla rabbia dei soldati Serket, schiave bellissime vendute al pezzo grosso di turno. Ma tutto questo invece che distruggere la mia voglia di ribellione l’ha solo alimentata.
Io non mi sono mai esposta, finora. Non ha senso ribellarsi alla luce del sole, loro quelle così le ammazzano subito. È stata Eileen a insegnarmelo: bisogna stare il più possibile nell’ombra, senza farsi notare. “Meno ti fai notare e meglio è”, diceva sempre. Le ragazze belle non durano molto, qui.
Per questo da quando ho cominciato a crescere mi sono sempre nascosta. Metto sempre gli abiti più brutti e sformati, per nascondere il mio corpo; tengo sempre uno strato di sporcizia e polvere sul viso, anche quando ci concedono la nostra doccia mensile. Da tanto tempo, ormai, tengo una striscia di terra raggrumata e olio di motore in bella mostra sul viso, ed è così ben fatta e loro sono così stupidi che la prendono per una lunga cicatrice informe.
Le altre ragazze tengono i capelli corti, perché danno meno fastidio nel lavoro e si sporcano meno, e anche perché a quegli stronzi piacciono le ragazze con i capelli lunghi. Ma io non ho mai voluto. Su Adiannon c’è la tradizione che i bambini tengano i capelli lunghi, senza tagliarli mai, fino ai vent’anni. Quando sono stata rapita e ho deciso che non mi avrebbero mai piegato al loro volere, ho scelto come simbolo della mia ribellione silenziosa i capelli. Non li ho mai tagliati, li tengo legati in un bruttissimo chignon sempre sfatto, con i ciuffi stopposi che mi finiscono perennemente davanti agli occhi. Sono così impregnati di polvere che sembrano quasi neri. Nemmeno io mi ricordo esattamente il loro colore originario.
Sono sempre stata brava e defilata. E ho fatto bene.
È successo verso i tredici anni. Quando il mio corpo ha cominciato a cambiare, ho scoperto di avere dei poteri. All’inizio erano poca cosa. Poi, mentre io crescevo, crescevano anche loro.
È stato un bene che io sia sempre stata nascosta. Se loro lo scoprono, mi uccideranno di certo. Lo so perché l’ho visto succedere.
Devo andarmene da qui.









 
******* Famigerato Angolino Buio *******
 
Oook, piccolo esperimento di fantascienza!
Non aggiornerò spesso, ci sono un sacco di storie che sto scrivendo, però volevo arrischiarmi a pubblicare il prologo, giusto così per sapere se è decente o no.
*prende l'ombrello per ripararsi dai pomodori marci virtuali*
Sì insomma, se vi va di lasciare un commento per farmi sapere, sarei contenta ;) ditemi anche che fa schifo se me lo merito, non mi offendo, sono qui per migliorare... so che del prologo è difficile trovare qualcosa da dire, e di questo si capisce anche pochino.
Beh, ciao, al prossimo capitolo! ^^

Vy

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Capitolo 2
*** Zrythe ***


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——[Zrythe]——




 

I



l buio del condotto non è assoluto. È un buio strano, fatto di tanti rumori sovrapposti, spezzato ogni tanto dalle grate che fanno passare la luce.
Mi muovo sicura attraverso il condotto. Io quel buio lo conosco a memoria.
Il rombo cupo e costante prodotto dai motori della stazione spaziale, onnipresente sottofondo alla mia vita. Il gocciolio dell’acqua che a volte si condensa lungo le pareti metalliche. I cavi e i tubi che ogni tanto si inseriscono, restringendo lo spazio che ho a disposizione per passare. Non sono proprio minuta, a volte faccio fatica a oltrepassare le strettoie senza fare rumore.
Anche con le grate devo stare attenta, non posso certo permettere che mi vedano o mi sentano.
Ho scoperto l’utilità dei condotti d’aerazione sei o sette anni fa. Ne ho uno proprio sopra al letto, nella stanza dove dormo con le altre schiave del mio gruppo. Da quando ho trovato il coraggio di esplorarlo, ho trovato parecchie strade interessanti, e ormai ho imparato a memoria quelle che potrebbero essermi utili per scappare. Stanotte mi sono spinta più in là di quanto non avessi mai fatto, cercando una strada per l’hangar. Non so pilotare una nave, ma posso sempre nascondermi in una delle astronavi cargo che vanno e vengono.
Mi sto muovendo alla velocità più alta che la cautela mi consente. Cerco di essere silenziosa, avanzando su mani e ginocchia sulla superficie metallica del condotto. Un minimo rumore appena più forte del previsto e rimbomberà come un’esplosione, lo so. Ma devo sbrigarmi, ormai non manca molto all’arrivo dei Serket.
Supero due strettoie e una curva a destra. Ora c’è da affrontare la serie di quattro grate, tutte quasi di seguito, e poi l’ultimo restringimento, il più difficile da attraversare. E poi sono arrivata.
Le grate ormai sono facili da oltrepassare, per me che ci sono abituata. Guardo per cinque secondi se arriva qualcuno, poi le attraverso veloce.
Quando sto per superare la terza mi accorgo che le guardie che ci devono venire a prendere sono già in corridoio.
Maledizione. Non mi sono mai presa così in ritardo.
Accelero per quanto mi consente la gonna informe che ho come vestito.
Vedo già l’ultima strettoia.
Mi ci fiondo attraverso.
E resto incastrata.
Impreco, sbuffando e cercando di spingere con le gambe. Maledetti fianchi!
Sento le guardie in corridoio, e riprendo a tirare con più violenza. Infine, dopo un ultimo, feroce strattone sono oltre, con il fiato corto e un lungo taglio su un braccio. Dannazione. Spero che non se ne accorgano.
Apro la grata buia che dà sul mio letto e mi butto giù, la rimetto al suo posto con la forza della disperazione mentre i passi e le voci si fanno sempre più vicini. Ho giusto il tempo di strappare un lembo di lenzuolo con cui fascio la ferita e girarmi in una posizione da sonno credibile, che si sente un rumore di chiavi e il beep di un codice riconosciuto, e la porta si spalanca, inondando di luce e rumore la stanza.
Una cinquantina di ragazze di tutte le età si sveglia di soprassalto e si affretta ad uscire, prima che le guardie inizino a sbraitare. Io mi accodo a loro, cercando di trattenere un sospiro di sollievo.

 
——[ ]——
 
Oggi mi hanno spostata. Non lavoro più nel deposito dei rottami. Mi hanno assegnata alla fabbrica di armi.
Significa che si fidano di me, senza dubbio. In fondo, sono qui da quindici anni, sempre sottomessa, defilata, non ho mai causato problemi. Ma non sono sicura che sia un bene, questo spostamento. Almeno il deposito dei rottami era meno sorvegliato.
Seguo la guardia che mi scorta al mio nuovo lavoro con le spalle curve, guardando in basso. Cerco di farmi notare il meno possibile, come sempre.
I corridoi che percorro sono uguali a tutti gli altri, metallici, polverosi, con le grate dell’aerazione sul soffitto e il pavimento liscio dall’usura. Sulle pareti imbullonate c’è qualche traccia di ruggine verdastra.
Ci avviciniamo a una porta ermetica, spessa e piena di bulloni. È il confine che non ho mai oltrepassato: dopo quella porta non sono mai stata.
Il soldato Serket batte un codice numerico sul tastierino accanto alla cornice. La porta si apre con uno sbuffo, io seguo la guardia all’interno.
È una stanza minuscola, quadrata e semibuia. L’unica luce viene da una sottile barriera azzurrina appena luminescente, traslucida, che ondeggia come un sottile strato d’acqua. Il campo di forza attraversa tutta la stanza, perpendicolare, perdendosi nelle pareti. Al di là, intravedo una porta uguale a quella da cui sono entrata.
Il soldato mi ringhia di non guardare, puntandomi addosso il fucile. Io mi volto e chiudo gli occhi. Lo sento scorrere una tessera magnetica in un lettore sulla parete di destra, poi batte qualcosa sulla tastiera, e infine c’è un debole beep e mi accorgo che la luce è diminuita. Il Serket mi strattona per un braccio, e io mi giro e apro gli occhi, per scoprire che il campo di forza è svanito. Attraversiamo la porta, trovandoci in un corridoio in tutto e per tutto identico a quello precedente.
Ma c’è una grande novità.
È fuori dal distretto di reclusione. Non ero mai uscita, in quindici anni, dalla zona delle schiave. Mi sento quasi libera.
Non devo cantare vittoria, comunque. La guardia è molto più ansiosa, ora. Quindi tengo sempre lo sguardo basso, da brava schiavetta diligente. Però noto le grate sopra di me, e so che stanotte verrò a fare un giro.

 
——[ ]——
 
Mi butto sul letto stanca morta. Il mio nuovo lavoro consiste nello spostare casse di munizioni, pesantissime, sopra il carrello trasportatore. Per tutto il giorno.
Mi fa malissimo la schiena, e non sento più le braccia. Forse è meglio se l’esplorazione la rimando a domani notte.
Dopo qualche decina di minuti arrivano anche le altre, tutte più o meno sfinite. Cinquanta ragazze tristi e rassegnate, dai cinque ai diciannove anni, si accasciano ciascuna sul proprio letto.
La stanza dormitorio contiene circa una trentina di letti a castello rugginosi e scomodi, ammassati lungo le pareti e al centro, con solo un metro scarso per camminare tra uno e l’altro. In teoria in questa stanza ci staremmo in sessanta, e fino a qualche mese fa lo eravamo. Poi ne hanno fucilate una decina perché si erano ribellate al lavoro.
Le ultime due ragazze che sono sparite, più o meno due mesi fa, mi stavano simpatiche. Non posso certo dire che fossero mie amiche, però avevamo scambiato qualche parola ogni tanto. Erano gentili.
Una aveva diciassette anni, l’altra diciannove. La più giovane è stata a lungo la mia compagna di lavoro, al deposito dei rottami. Era una Deshin, esile, dalla pelle scurissima e gli occhi grandi sempre tristi. L’altra doveva essere un’umana delle colonie, veniva dal dodicesimo settore. Mi dispiace tantissimo per quello che è successo a quelle due, erano forse quelle che meno se lo meritavano.
Dormiamo in cinquanta in una stanza, le voci girano. Sono arrivate, probabilmente per sbaglio, anche alle guardie sorveglianti, che non hanno esattamente gradito la cosa.
Hanno fatto irruzione una notte, verso le tre. Io per fortuna ero dentro, o avrei fatto parte del divertimento dei Serket insieme a loro due.
Le hanno trovate addormentate abbracciate. Niente di strano. Ma per loro, insieme alle voci, era una prova sufficiente.
Ci hanno fatte uscire tutte, e ci hanno costretto a guardare. Se una si voltava, la picchiavano. Hanno violentato la Deshin, a turno, in tre. Altri due tenevano ferma l’altra, costringendola a guardare, come noi. La strattonavano, e ridevano.
Quando hanno finito di divertirsi, le hanno portate via, le loro urla e i loro pianti che echeggiavano nel corridoio fino a svanire. Ci hanno fatto rientrare, come se non fosse successo niente.
Ho sentito le più piccole piangere terrorizzate, quella notte. Io sono abituata. Questo non significa che non faccia male, fa sempre male. Ma non sento quasi più niente, ormai.
L’unica colpa di quelle povere ragazze era che erano diverse, e i Serket non sopportano chi è diverso. E anche, forse, che erano riuscite a trovare un po’ di amore in tutto questo schifo. Forse è per questo che io ai Serket piaccio, abbastanza da promuovermi, almeno.
Io non provo più nulla.




 
******* Famigerato Angolino Buio ******* 
 
Ciao a tutti!! Devo ammetterlo, sono un po' in ansia. Non scrivo mai cose violente, ma in questo capitolo ho voluto farlo per presentare il mondo di Zrythe... e non ne sono per niente sicura!! Era troppo? Troppo poco? Siccome non ne avevo idea, ho deciso di pubblicarlo lo stesso così com'è e incrociare le dita... fatemi sapere, please!

Vy

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Capitolo 3
*** L'estraneo ***


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——[L'estraneo]——




 

«E



hi, tu!»
Deglutisco, terrorizzata. Il mio cuore accelera i battiti. Cerco di continuare il mio lavoro come se niente fosse, ma le mie mani tremano.
Sento i passi di un Serket alla mia destra avvicinarsi. Sollevo la cassa di proiettili dal nastro trasportatore e la posiziono sul carrello, guardando in basso.
I passi mi raggiungono e mi oltrepassano, e il soldato punta il fucile contro la schiava alla mia sinistra. Non so chi sia, dev’essere di un altro gruppo. La ragazza fissa il Serket terrorizzata, senza parlare. Quello le ringhia qualcosa, minacciandola, e lei indietreggia tremando. Sospiro, sollevata. Prendo un’altra cassa, e sbircio la scena da sotto i capelli.
La ragazza arretra scuotendo la testa. Il soldato la afferra per un braccio e la strattona avvicinandola al viso coperto dalla visiera del casco.
«Non ti conviene scherzare con il fuoco, ragazzina. Se ti becco a rubare ti ammazzo all’istante, chiaro?»
La schiava annuisce. Il Serket la spinge con forza indietro, facendola inciampare, e ritorna alla sua postazione.
Distolgo lo sguardo in fretta e ritorno a concentrarmi sulle casse di munizioni. Seconda regola per sopravvivere qui: non curiosare. Mi sembra quasi di sentire la voce di Eileen quando me lo ha detto. È stato durante la prima notte, io ero rannicchiata in un angolino del mio letto senza più lacrime da piangere. Lei era di fianco a me, mi si è avvicinata e mi ha sorriso.
Eileen aveva già diciassette anni quando io sono arrivata. L’hanno portata via che io avevo sei anni.
Ogni volta che penso a Eileen mi viene voglia di ucciderli tutti. Anche ora, devo stare attenta che la rabbia che provo non traspaia dal mio viso.
È per lei che devo scappare di qui. Voglio combatterli, sterminarli. Voglio vendetta, per lei, per la mia vita rovinata e per il mio pianeta. I Serket pagheranno per tutto quello che hanno fatto.

 
——[ ]——

Sento strani rumori provenire dal corridoio principale della fabbrica. Li ignoro, continuando nel mio lavoro. Mi fa male la schiena, ormai, sono stanca, ma il pranzo e la mezz’ora di pausa sono ancora lontani.
Sollevo l’ennesima cassa, e il carrello automatico si attiva. Lo guardo per qualche secondo mentre segue la striscia magnetica sul pavimento fino al deposito, ondeggiando appena. Arriva un altro carrello, e ricomincio a caricarlo.
Mi chiedo cosa diamine se ne facciano i Serket di tutte quelle munizioni. C’è una guerra in corso? Non ne ho idea. Non è che i capi si confidano con le schiave per le questioni di stato.
Il trambusto si avvicina, si sentono più chiaramente delle voci e dei passi oltre il sibilo basso dei carrelli a levitazione magnetica e gli scatti metallici e ritmici del nastro trasportatore. Chiunque sia, sta venendo verso di noi.
Sono curiosa, ma cerco di trattenermi. Probabilmente non è niente di speciale. Io ho sempre lavorato al deposito dei rottami, non so come funzionino le cose qui.
Le voci si fanno più forti e distinte, e una fiammata di rabbia mi invade e mi fa tremare le mani. Quasi mi cade la cassa che sto spostando.
Ho riconosciuto la risata sguaiata che echeggia nel corridoio. Non dimenticherei mai quella voce. L’odio che ho provato per la prima volta quando hanno portato via Eileen riemerge, come ogni volta che sento la sua voce.
Damien. Maledetto.
Prendo un respiro profondo e mi concentro sul mio lavoro, tentando di ignorare quella presenza. Non ci riesco. Sta venendo proprio qui, entra nella stanza.
Sollevo per un istante lo sguardo sotto il mio ciuffo nerastro e lo vedo. È al centro della grande stanza, in mezzo ai macchinari. Dietro di lui, una scorta di sei soldati.
Indossa la tuta da combattimento rinforzata da piastre, e porta un grosso mitragliatore appeso sulla schiena, come i suoi soldati, ma a differenza loro non ha l’elmo. Devo trattenere un’espressione di odio e ribrezzo. Ha i capelli scuri lunghi fino alle spalle tirati indietro con il gel, i tentacoli neri che si attorcigliano dietro di lui in ampie volute. La pelle bluastra del viso è tesa nella sua solita, odiosa risata, gli occhi cattivi, troppo grandi e a mandorla per essere umani, scrutano l’ambiente intorno. Il suo regno: il distretto di reclusione. È lui il comandante, è lui che si occupa di noi schiave. Siamo di sua proprietà.
Lo odio. Odio i lunghi tentacoli che mostra, fiero di essere un Serket. Vorrei così tanto che si rimangiasse il suo orgoglio insieme con una torta al cianuro.
Per distrarmi, sposto l’attenzione sul suo interlocutore.
Alzo un sopracciglio, confusa. Non dovrei fissare apertamente i Serket, se voglio sopravvivere, ma quel tizio... è strano. Decido di sfruttare i miei poteri per osservarlo più tranquillamente.
Mi concentro, come ho imparato in tutti questi anni. Distolgo l’attenzione dei soldati da me.
Guardo l’estraneo, sempre continuando a spostare le mie casse. Sono confusa. Non riesco a capire.
Il tizio non sembra essere un Serket, anche se indossa una tuta in tutto e per tutto identica a quella di tutti i soldati che ho visto finora. Il suo corpo è troppo longilineo, in confronto alla sagoma tozza e robusta dei Serket. Il colore della pelle è quello, ma potrebbe essere una maschera. Porta i capelli lunghi fino alle spalle, alla moda dei comandanti Serket, ma i tentacoli che gli partono dai lati della testa pendono inerti sulla schiena, palesemente finti.
Mentre lo osservo da distante, lui si guarda intorno, mano a mano che Damien gli indica varie cose. Quando si volta verso di me, quasi sussulto: i suoi occhi sono inequivocabilmente umani.
Distolgo lo sguardo all’istante, e mi concentro ancora di più sui miei poteri. Allontano con più forza l’attenzione di tutti da me. Però continuo a sentire i suoi occhi su di me, e comincio a essere terrorizzata.
Continuo meccanicamente nel mio lavoro, ma la mia mente è in fermento: perché un umano travestito malamente da Serket gira per il distretto di reclusione accompagnato da Damien? Perché sembro essere l’unica che se ne rende conto?
E soprattutto, perché i miei poteri con lui sembrano non funzionare?

 
——[ ]——

Mi lambicco su queste domande per tutto il tempo da quando i visitatori se ne vanno. È impossibile che non si siano accorti del travestimento. Era assurdamente finto. E i Serket odiano gli umani. Quindi, perché?
Suona la pausa, e io non ho ancora trovato una spiegazione plausibile. La guardia mi lancia una scatola che contiene il mio pranzo, e io mi siedo a terra, la schiena posata sulla base del nastro. Non mi è permesso allontanarmi dalla mia postazione di lavoro, a meno che non voglia essere fucilata, e io non voglio.
Apro la scatola. Una bottiglia d’acqua di dubbia provenienza e una bustina trasparente con dentro la mia pillola del pranzo.
Passo la mezz’ora di pausa bevendo la mia acqua e rimuginando sugli eventi di oggi. Quando la campana suona e io scatto in piedi per ricominciare, si sente nuovamente confusione in corridoio. Stavolta non sento la voce di Damien, però. Entrano dei soldati, uno dei quali prende un megafono e comincia a sbraitare.
«Oggi niente turno pomeridiano. Niente domande, ordini dall’alto. Sbrigatevi a uscire!» Come per enfatizzare l’ordine, agita il fucile in aria.
Io mi accodo alle altre schiave, guardando in basso. Non ho paura ora, sono curiosa. È la prima volta in quindici anni che succedono così tante stranezze tutte insieme.
Ci scortano fino al distretto di reclusione, e ci dividono nei vari gruppi di provenienza. Io sono l’unica del mio gruppo. La guardia mi porta fino al dormitorio e mi rinchiude là, senza darmi spiegazioni. Le altre ragazze arrivano a gruppetti, in una decina di minuti ci siamo tutte.
La guardia entra, ci ordina di disporci in fila e ci porta fuori. Le altre ragazze sono confuse quanto me.
Ci chiudono in una stanza rettangolare, vuota. Sul lato lungo, quattro porte. Qui è dove ci fanno fare la nostra doccia mensile. Perché siamo qui?
«Una alla volta in ogni stanza, a partire dalle più piccole. Avete mezz’ora a testa per lavarvi. Dovete brillare, chiaro? L’ospite vuole vedere le schiave, e non possiamo certo presentargli un branco di mocciose luride.»
Di solito ci danno cinque minuti a testa di tempo. Dev’essere una cosa importante se ci vogliono splendenti.
Le più piccole entrano nelle docce. Noi grandi ci sediamo in un angolo e aspettiamo. Non so più cosa pensare. È evidente che l’ospite fantomatico è il tizio strano di stamattina. Mi chiedo chi sia, e soprattutto come faccia a ingannare tutti in questo modo.
Contemporaneamente, sono anche preoccupata. Finora mi sono sempre difesa dai Serket con i miei poteri e l’astuzia, tenendo i capelli sporchi e una falsa cicatrice sul viso. Ma ora? Le mie sicurezze sono state abbattute in una sola volta. Mano a mano che vedo le altre schiave uscire dalle docce pulite e luccicanti, scortate dai soldati fuori dalla stanza, l’ansia cresce. Non oso nemmeno pensare a quello che succederà dopo.
La sala si svuota, e infine viene il mio turno. Entro nella stanza della doccia in una nuvola di vapore. Il soldato mi sbatte in mano un sacchetto, ordinando di mettere quel vestito una volta lavata, poi chiude la porta a chiave.
Mi infilo sotto il getto bollente della doccia. Per terra trovo anche una spugna ruvida e una boccetta di sapone. Sono secoli che non vedo del sapone, l’ultima volta è stata... non me lo ricordo, probabilmente a casa. Immersa in quella schiuma profumata, riesco quasi a rilassarmi un po’.
Mi asciugo i capelli sotto un getto d’aria in un paio di minuti, e mi vesto. Non posso fare a meno di guardarmi allo specchio: questo è il mio vero aspetto, non quello che ho mantenuto per quindici anni, per nascondermi.
Spalanco gli occhi. Quella non sono io.
La ragazza che mi fissa dallo specchio ha la pelle bianca di chi non ha mai visto la luce di un sole. Indossa una veste candida, sottile e troppo corta, che fa vedere fin troppo delle sue forme. Sulla sua schiena, sottili ali diafane e sfavillanti, simili a quelle delle libellule, eredità degli antenati Shadra e segno distintivo del sangue misto della gente di Adiannon. Il taglio sul braccio si è già ridotto a una lunga linea biancastra.
Lunghi capelli di un blu profondo circondano il suo volto affilato e scendono lucenti fino ai fianchi. Gli occhi, grandi e leggermente inclinati, sono strani: l’iride è di una via di mezzo tra il blu e l’azzurro, un colore pieno di energia. Le orecchie sono grandi e appuntite.
Non posso essere io. Mi avvicino allo specchio per guardarmi meglio.
Sono più o meno quindici anni che non mi guardo allo specchio seriamente. Sono ovviamente cambiata tantissimo.
Dannazione. Il mio aspetto attirerà l’attenzione, ovviamente. Da sgorbietto sfregiato sono diventata una ragazza non bellissima forse, ma di sicuro particolare. E non posso nemmeno nascondermi con i miei poteri.
Impreco. Ma non posso farci niente, e quindi busso al soldato per farmi aprire.

 
——[ ]——

Ignoro gli sguardi che mi rivolgono guardie e schiave. Non fanno che ricordarmi quanto sono vulnerabile ora.
Ci portano in una grande stanza, nel distretto di reclusione. Ci fanno schierare, le più piccole davanti, le più grandi dietro. Noi di diciotto e diciannove anni siamo in poche: non sono molte quelle che sopravvivono così a lungo.
Damien arriva dieci minuti dopo. Ci osserva compiaciuto. Io cerco di controllare il mio odio, e d’istinto mi nascondo dietro i miei poteri.
Lo strano tizio è con lui. Non dice niente, si limita a fissarci impassibile.
Il Serket confabula per qualche secondo con l’estraneo, poi quello si avvicina a noi e comincia a fissarci una a una.
«Care ragazze» comincia Damien. Io lo fulmino con gli occhi da dietro la mia barriera di potere. «Oggi è venuto in visita il figlio di uno dei più importanti comandanti.»
Scocco un’occhiata di nascosto all’umano travestito da Serket.
«Ha fatto richiesta di vedervi perché vuole scegliere una di voi.»
Deglutisco, nuovamente agitata. Ora capisco tutto. Damien venderà una schiava allo strano tizio... ecco il perché di tutto questo.
L’estraneo cammina avanti e indietro, scorrendo lo sguardo su di noi. Maledizione. L’ansia sta diventando insopportabile, mi rendo improvvisamente conto che sto rendendo la barriera che mi rende quasi invisibile sempre più forte.
Deve sbrigarsi. Non ce la faccio più.
Qualunque cosa è meglio di questa attesa.
Infine, l’umano travestito da Serket sceglie. E scopro che vorrei non l’avesse mai fatto.
«Voglio lei» dice, puntando la sua mano guantata su di me.

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Capitolo 4
*** Patto ***


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——[Patto]——




 

A



ppena la porta si chiude alle mie spalle, io scatto. Con un’occhiata veloce colgo l’intera stanza: le due porte a destra e a sinistra, i tre oblò sulla parete opposta, il grande divano arancione e le due poltrone abbinate, il tavolino di vetro.
In un istante scaravento con un colpo il vaso di piante tariliane alla mia destra, raccolgo il pesante sottovaso di vetro verde e mi rintano dietro una delle poltrone, in un angolo della stanza. Allargo appena le gambe per essere più stabile e cerco di fare presa con i piedi nudi sul tappeto sottile.
Fisso l’estraneo che ora è diventato il mio padrone con aria di sfida.
«Che cosa vuoi da me?» ringhio.
Lui è un po’ stupito dal mio gesto. È una stupidaggine, probabilmente. Nessuno ha paura di una schiava mezza nuda con in mano un sottovaso. Soprattutto quando hai a disposizione un esercito intero premendo un pulsante del comunicatore.
Le mie ali escono dalla sottoveste e si aprono sulla mia schiena. È così tanto che non le uso che non sono più capace di volare o quasi, ma l’estraneo questo certo non lo sa. Voglio che capisca che se mi vuole fare del male gli darò filo da torcere. Non mi lascerò usare tanto facilmente.
«Non ti preoccupare, Reet» dice. Parla lentamente e alza le mani disarmate, come se avesse a che fare con una bestia feroce. È questo che devo sembrare, con i capelli scompigliati e le ali aperte, pronta a combattere.
«Non ti farò del male. Non sono un Serket.»
Pensa che io sia stupida?
«Che non sei uno di loro» sputo «era chiaro. Tu sei un umano con un pessimo travestimento che li ha imbrogliati tutti non so come. E adesso mi spieghi cosa vuoi da me.»
«Va bene. Però che ne dici se metti giù quel sottovaso? Ci sono dei vestiti, di là. Se vuoi, puoi metterti qualcosa di più...» mi fissa in maniera eloquente «... consono, diciamo.»
Io stringo gli occhi, fissandolo. Non è come loro, e questo mi rassicura. Ma è strano. Non lo capisco, e non mi convince del tutto. E non posso usare i miei poteri, con lui.
Infine, però, lo assecondo. Abbasso la mia arma improvvisata, ma non la poso a terra. Chiudo le ali ma resto all’erta.
Lui annuisce e sembra sollevato. Mi indica la porta alla mia destra.
Io mi muovo lentamente, stringendo il mio sottovaso e continuando a guardarlo. Solo quando faccio scorrere la porta alle mie spalle e chiudo la serratura con uno scatto riesco finalmente a respirare.
L’ambiente in cui mi trovo è una stanza da letto, più piccola della sala precedente. Stesse pareti bianche lisce, un solo oblò che dà sullo spazio. Mi avvicino, curiosa.
Non vedo lo spazio da quando mi hanno rapita e portata in questo posto maledetto. Do un’occhiata fuori, ammirando il nero punteggiato dalle stelle. Sotto di me si intravede il pianeta attorno a cui la stazione orbita: è una sfera giallastra striata di bianco e grigio. Tutt’altra cosa rispetto ad Adiannon: me lo ricordo ancora, verde e blu e bianco, mentre si allontana da me.
Distolgo lo sguardo dallo spazio, osservando la camera. Un letto grande tre volte il mio in larghezza, e una volta e mezza in lunghezza, sta da una parte, ingombro di cuscini. Una pulsantiera sulla parete, proprio di fianco al letto. Una porta che conduce a una stanza da bagno enorme, grande quasi quanto la camera stessa.
Sull’altra parete ci sono varie ante. Le apro tutte, e scopro che solo una contiene qualcosa, e che è mezza vuota: dentro, solo un abito semplice lungo fino ai piedi, un paio di pantaloni larghi viola scuro, una maglia e una tuta nera simile a quelle che usano i soldati Serket.
Scelgo pantaloni e maglia: mi stanno così larghi che mi fanno sembrare un mucchio informe di stoffa e capelli blu. L’unico problema sono le ali: la maglia è troppo accollata per farle uscire, come riuscivo invece a fare con il vestito. Non trovo niente di tagliente con cui bucare la maglia. Le terrò chiuse sulla schiena.
Apro la porta scorrevole stringendo il sottovaso. Il tizio è seduto su una delle due poltrone; c’è una bottiglia d’acqua con due bicchieri sul tavolo, e un piatto e un vassoio colmo di cibo fumante. Da dove sono comparsi?
«Hai fame?» mi dice. Io faccio qualche passo esitante nella stanza. Lo fisso. Lui mi fa cenno di sedermi.
Io eseguo. Sbircio nel vassoio dubbiosa. C’è una strana poltiglia bianca, ma ha un profumo buono. Me ne prendo una cucchiaiata: sotto la poltiglia c’è uno strato sottile di qualcos’altro solido, e poi un altro strato di poltiglia, e poi di nuovo quella cosa solida. Sollevo un sopracciglio.
«È strano» dico. Ne assaggio un po’, maledettamente curiosa. La poltiglia è pastosa, e mi riempie la bocca di sapore buono.
Sono quindici anni che non mangio cibo decente. Ai Serket importa solo che sopravviviamo abbastanza in forma. Il nostro cibo è una pillola di nutrienti sintetici.
Svuoto in pochi minuti metà del vassoio. Mi mancava. Le pillole non riempiono lo stomaco.
Lui mi ha fissata per tutto il tempo. Lo so che mi sta valutando, e non mi interessa. Quando finisco di mangiare, poso il piatto e riprendo il mio sottovaso.
Lui sorride. Si è tolto i finti tentacoli dalla testa e la maschera da Serket, e mi sta già più simpatico. Almeno ora si vede che è un umano.
«Senti» comincia. «Scommetto che vorresti solo andartene di qui.»
Lo guardo da sotto il mio ciuffo blu. Cosa vuole dire?
«Ti ho già detto che non sono con loro. Non dovresti stupirti.»
«Va bene» capitolo. «Dimmi cosa vuoi.»
«Non so se conosci la situazione attuale della galassia.»
Scuoto la testa.
«Sta per scoppiare una guerra. In realtà, la guerra c’è già da parecchi anni, nei settori più esterni, con la differenza che non è mai stata dichiarata. I Serket sono potenti e hanno numerosi nemici, e come avrai ben intuito, io faccio parte di questa categoria. Mi hanno mandato per infiltrarmi e rubare alcuni dati molto importanti.»
Rido. Non posso farne a meno. Scoppio in una risata amara, di scherno.
«Oh, sicuro. Con un travestimento così pessimo? Mi sorprende che non ti abbiano già fucilato.»
Anche lui sorride, ora. Il suo sorriso però mi inquieta: è il sorriso del vincitore, di chi ha assi non necessariamente leali nella manica.
«E se ti dicessi che esistono persone con dei poteri» Sussulto. «... che sono capaci di creare delle barriere mentali, che modificano l’immagine che gli altri hanno di loro?»
«Chi sei tu davvero?» dico stringendo gli occhi.
«Mi chiamo Ryan» risponde.
«Un Solariano» ragiono io. Lui annuisce.
«Dimmi, Ryan.» Sono curiosa, ancora di più. «Ci sono tante persone con questi... poteri? E come funzionano?»
«Non siamo tantissimi, forse un migliaio in tutta la galassia, contando solo quelli abbastanza potenti da mantenere una barriera senza troppo sforzo. Possiamo creare barriere, oppure distorcerle. Ci chiamiamo Rift.»
Rift. Mi rigiro questa parola nella mente. Suona forte.
«Distorcere le barriere significa che potete anche vedere oltre le barriere degli altri? O oltrepassare i campi di forza?»
«I più forti, sì.»
Non dico niente. Mi fisso le mani per qualche secondo.
«Quindi è questo che tu hai fatto» dico infine. «I Serket pensavano che tu fossi uno di loro anche se avevi un pessimo travestimento.»
«Esatto.»
Però io l’ho visto subito che era un umano.
«Quanto forti bisogna essere per spezzare i campi di forza?»
Lui sorride.
«Beh» ragiona «è dura anche per i più forti. Conosco davvero pochi Rift che sarebbero in grado di superare un campo di forza di media potenza, come quelli che ci sono in questa base, senza sforzo.»
Ho scoperto di poter attraversare i campi di forza quando avevo quattordici anni, durante le mie esplorazioni notturne. I campi di forza ovviamente attraversano anche i condotti d’aerazione. Sono caduta addosso alla barriera che separava il distretto di reclusione dal distretto delle fabbriche, sperando con tutta me stessa di non farmi male, e mi sono accorta che l’avevo superata indenne. Certo, dopo quell’impresa ero davvero stanca morta... ma con il tempo, mi sono rafforzata. Ora li attraverso anche quattro volte ogni notte. E al ritorno non sono mai troppo affaticata: mi basta qualche ora di sonno per recuperare le energie.
«Sono una Rift» dico.
«Uno dei più potenti che abbia mai incontrato» conferma Ryan. «E soprattutto, lo sei senza addestramento.»
«Ti assicuro che la volontà di sopravvivere è un ottimo insegnante» ribatto.
«Certo, ma con un buon addestramento puoi fare molto più di così.»
«Dimmi cosa vuoi da me» cambio discorso, fulminea. «È evidente che non hai scelto proprio me a caso.»
«Ti ho detto che sono qui per alcune informazioni. Da solo non potrei mai farcela. Ho bisogno di qualcuno che è stato qui a lungo e che sappia dove andare. Io distoglierò l’attenzione dei generali: tu procurami quelle informazioni, e io ti porterò via con me.»
Lo fisso a lungo, soppesando lui e le sue parole. Potrebbe mentire, dice la diffidenza. Ti farà uscire da qui, dice la speranza.
Mi alzo. Afferro il sottovaso di vetro verde che avevo lasciato sul tappeto. Lo poso accanto alla porta, e ci sistemo il vaso di piante tariliane sopra.
«Sapevo che avresti accettato, Reet» sorride Ryan. Io mi volto, scoccandogli un’occhiataccia.
«Io non mi chiamo Reet. Io sono Zrythe.»





 
******* Famigerato Angolino Buio ******* 
 
Adoro questa ragazza XD continuavo a ridere quando ho scritto la parte del sottovaso, all'inizio... (e c'era lì mio fratello che mi guardava male perchè ridevo da sola, ma vabbè).
Adesso si spiegano un po' di cose, ammettetelo che ve l'aspettavate, daidai ^^
Riuscirà Zrythe nella sua missione? E potrà finalmente andarsene? Tutto questo nella prossima puntata! *musica idiota di sottofondo*
Credo di essere più stupida del solito oggi o.O
Mi dileguo, alla prossima!!

Vy

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Capitolo 5
*** La missione ***


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——[La missione]——




 

T



utto è andato bene finché la torcia che ho estratto per ricontrollare la mappa non ha avuto la malaugurata idea di cadermi dalle mani.
Maledizione.
L’intero condotto rimbomba del rumore. Spero soltanto che quegli idioti non se ne accorgano.
Recupero quella dannata torcia a tentoni, imprecando sottovoce, e do un’occhiata alla mappa. Non è questo granché: qualche segno sbiadito impresso su un pezzo di fotocarta strappato e stropicciato. I Serket non usano fotocarta, solo ologrammi; io non potevo certo girare con un oloproiettore, quindi Ryan ha recuperato quel foglio e ha stampato la mappa meglio che poteva. Devo sforzarmi per leggerla, però, perché il foglio di fotocarta era quasi esaurito e i segni sono sbiaditi.
Distinguo faticosamente la curva del condotto che ho appena superato, faccio due conti e mi accorgo che ho ancora da superare due grate, una strettoia e un campo di forza.
Mi affretto, cercando di essere silenziosa. Sbircio di sotto attraverso una delle grate: il corridoio è deserto. Mi ritorna la speranza che non si siano accorti di niente.
Oltrepasso la prima grata senza problemi, ma ci sto mettendo troppo: entro due minuti e quarantatré secondi dovrei essere sotto la colonna, pronta a salire.
È proprio la fretta che quasi mi fa scoprire.
Guardo velocemente oltre una grata e la attraverso. Ma non mi accorgo che in quel momento un soldato aveva sollevato gli occhi al soffitto.
«Ehi, tu!» grida. Io mi immobilizzo, il cuore che batte a mille. Prendo a sciorinare nella mia testa tutte le imprecazioni che conosco in Shadra.
Passi che si avvicinano. Trattengo il respiro.
«Che diamine succede, ancora?» sbuffa un secondo Serket.
«Niente, mi sembrava...» I passi ora si allontanano.
«Dannazione, Rob. Prima i suoni fantasma, ora le allucinazioni. Sniffati meno Fata, la prossima volta.»
Il primo soldato borbotta qualcosa di incomprensibile, io riprendo a respirare. Spreco quattro secondi del mio prezioso tempo per aspettare che i due Serket si allontanino abbastanza.
Il mio cuore batte come impazzito mentre riprendo a strisciare sulle mani e sulle ginocchia. Indosso la tuta nera che ho visto nella stanza di Ryan, a cui ho fatto due tagli sulla schiena per le ali. Certo, non so più volare, ma in combattimento sono molto più agile. Poi, per questa missione, ho preteso un’arma, e Ryan mi ha affidato una pistola laser con la canna lunga quanto il mio avambraccio e una potenza di fuoco di livello 7, che ora se ne sta nella fondina appesa alla cintura, a pesarmi sul fianco.
Naturalmente punto tutto sui miei poteri di Rift per nascondermi da loro, ma in caso di evenienza mi posso difendere.
Raggiungo la base della colonna. Questo è il punto più difficile.
Il mio obbiettivo si trova due piani sopra rispetto al distretto di residenza dove vivono i Serket e dove è ospitato Ryan (e anche io, attualmente, non riesco ad abituarmi all'idea). Per cui, devo risalire il condotto verticale che passa a fianco della colonna dell’ascensore.
È una faticaccia. Solo a metà del primo piano grondo sudore, e in quello spazio ristrettissimo le ali non mi sono d’aiuto. Raggiungo stremata la diramazione con il primo piano. Abbiamo previsto una pausa a questo punto, ma sono in ritardo sulla tabella di marcia, per cui posso solo riprendere fiato per qualche secondo, e poi riparto. Le lisce pareti verticali sono senza appigli, devo sfruttare i guanti e gli stivali ad alta presa della tuta per avanzare.
Quando arrivo in cima ho tutti i muscoli che mi fanno male e il respiro corto. Non sono abituata a queste cose.
L’archivio è più protetto di una cassaforte. Ho ben tre campi di forza da attraversare, e sono molto più forti di quelli del distretto di reclusione. Appaiono davanti a me uno dopo l’altro a breve distanza.
Il primo lo oltrepasso facilmente, ma arrivo all’obbiettivo esausta. Mi gira la testa. Vedo puntini neri danzare attorno a me, e devo aspettare due maledettamente preziosi minuti prima di poter proseguire.
Faccio un respiro profondo.
Ora arriva la parte difficile.
Estraggo un coltellino laser che mi ha dato Ryan e apro la grata di fronte a me. Secondo i nostri calcoli, dovrebbe condurre all’anticamera dell’archivio. Nella stanza vera e propria non ci sono grate dai condotti: l’aria passa attraverso tubi grossi quanto il mio braccio.
Atterro cercando di non fare rumore, come ormai ho imparato a fare. Il problema è restare concentrata sulla barriera che sto ergendo intorno a me per risultare invisibile.
Ce la posso fare.
Avanzo in silenzio. L’ambiente qui è molto diverso sia dal distretto di reclusione sia dal distretto di residenza: se nella zona delle schiave le pareti erano metalliche, con i bulloni sporgenti e le luci al neon spesso scariche, e nella zona dei Serket prevalevano tappeti sottili e intonaco bianco, qui le pareti sono lucide, lisce, grigie, forti lampade illuminano l’intera zona. Da qualche parte, telecamere nascoste.
Procedo in fretta: l’orologio che ho sul polso indica che ho quindici minuti per entrare nell’archivio, trovare i file, uscire senza che nessuno se ne accorga e nascondermi nuovamente nel condotto per raggiungere Ryan all’hangar.
La porta dell’archivio è blindata, resistente ai laser, protetta da una combinazione e da una serratura a impronte digitali. A me non interessa: ho il giusto programma installato sul palmare al polso.
In trentadue secondi la porta si apre e io sono dentro.
È stato tutto fin troppo facile, non possono essere così idioti...
Non finisco nemmeno di formulare il pensiero. Il silenzio è spezzato da un’assordante sirena d’allarme.
Impreco in Shadra.
Calma, devo stare calma, come mi ha insegnato Eileen.
L’unica soluzione a quel disastro è recuperare quei maledetti file e tagliare la corda.
Corro. L’archivio è labirintico, ma ordinato. Scaffali su scaffali pieni di chissà cosa: computer, cristalli olografici, hard disk.
Io mi fiondo sull’unico monitor della stanza, addossato alla parete di fondo. Tutto sembra collegato lì.
Non sono molto brava a leggere il Galattico comune: il Serket l’ho imparato a forza di rubare rapporti, libri, qualsiasi cosa mi capitasse tra le mani che potesse farmi una cultura, lo Shadra lo so da sempre, visto che me l’hanno impiantato nella memoria quando ancora ero ad Adiannon, ma il Galattico comune me l’ha insegnato Eileen, e sono anni che non lo uso.
Mi sforzo: devo scappare in fretta. Batto qualche parola incerta sulla tastiera, cercando di ricordarmi il codice che Ryan mi ha fatto imparare a memoria. Certo che questa sirena non aiuta, dannazione.
Ricostruisco l’esatta sequenza e avvio la ricerca. Afferro da una tasca l’hard disk di Ryan e senza pensare a cosa sto facendo sposto tutti i file che sono risultati là dentro. Non so niente di computer,  e non ho tempo di leggere se sono quello che Ryan cerca o no. Se ne occuperà lui.
Sono arrivati. Stanno aprendo la porta. Io però non ho finito: digito l’ultimo codice. Premo Invio e si spegne tutto.
La sirena si zittisce, la stanza piomba nel buio.
Sfruttando l’oscurità, riesco a evitare la pattuglia di Serket che si è distribuita per la stanza a cercarmi. La porta è davanti a me, incustodita.
Come prima, attivo il programma dal palmare.
Ma la porta non si apre.
Riprovo, ancora e ancora, sempre più disperata. Niente.
Devo allontanarmi quando un soldato passa a poca distanza da me e rischierebbe di sbattermi addosso. Mi rintano in un angolo.
Vorrei gridare.
Sono in trappola come una stupida.

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Capitolo 6
*** Combattere ***


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——[Combattere]——




 

C



alma.
Devo stare calma se voglio andarmene da questo inferno.
Prendo un respiro profondo e tento di ragionare. Rimanere qui e aspettare che i soldati abbiano finito e se ne vadano probabilmente sarebbe l'opzione più sensata, ma non ho idea di quanto ci mettano a convincersi che non c'è nessun pericolo e aprire la porta, e io di certo non ho tutto questo tempo. E poi dovrei nascondermi abbastanza bene da sfuggire a tutti i loro controlli... troppo rischioso.
Non posso neanche comunicare con Ryan per avvertirlo del problema. Starà intrattenendo i generali Serket, gli farei saltare la copertura... e così moriremmo entrambi.
Bene. Devo trovare un modo per aprire questa maledetta porta, e in fretta.
Non posso abbattere la porta e non so la combinazione per aprirla. L'unica cosa da fare è qualcosa di assurdamente rischioso, e nemmeno sono sicura che funzioni.
Mi arrampico su uno degli scaffali cercando di non fare rumore. La barriera che mi copre ai loro occhi è ancora forte, non mi vedranno. Muovermi su una striscia di metallo larga un metro e distante dal soffitto appena lo spazio per permettermi di muovermi carponi non è facile, soprattutto con i soldati che mettono sottosopra la stanza per trovarmi. Almeno nei condotti avevo l'illusione di essere al coperto... adesso è davvero dura tenere a bada l'ansia.
Ma non posso permettermi di fallire, è la mia unica occasione per andarmene. Se non torno entro il tempo previsto moriremo entrambi.
Mi concedo un altro respiro profondo e chiudo gli occhi. Visualizzo nella mia testa l'immagine che devo proiettare sulla barriera, come mi ha insegnato Ryan nei tre giorni in cui abbiamo preparato la missione.
Perfetto. Ce la posso fare, non è così difficile.
Sento i passi di uno di loro passare dietro di me, nel corridoio a destra. La porta è di fronte, a pochi passi. Allungo un braccio e butto giù dallo scaffale il primo oggetto che mi capita a tiro, cercando di attirare il Serket verso la porta, e so di esserci riuscita quando sento i suoi passi affrettarsi in direzione del rumore.
Creo immediatamente l'illusione ringraziando il buio quasi totale che mi permette di non essere precisa. Sulla barriera appare una sagoma che si avvicina furtivamente alla porta.
E ora arriva la parte difficile.
Erigo una barriera per rendermi invisibile, mantenendo anche l'illusione sulla porta. Lo sforzo improvviso mi fa ansimare, ma non ci penso. Devo restare concentrata, tutto dipende da questo.
Mi sporgo dallo scaffale, apro le ali. Sono tre metri e mezzo, e io non so più volare. Mi arrendo a scendere appendendomi ai ripiani e sperando di non buttare giù niente. Perdo la concentrazione e l'illusione sfarfalla come un vecchio schermo, minacciando di scomparire.
Il Serket si è accorto della sagoma, a giudicare dalle voci. Non riesco a distinguere le parole, però. Tutto quello che sento è il battito accelerato del mio cuore nelle orecchie.
Mantenere entrambe le barriere sta cominciando a essere davvero duro. La sagoma illusoria apre la porta e corre fuori nel corridoio buio richiudendola alle sue spalle. Ogni battito del cuore mi rimbomba in testa come un'esplosione. Non ce la faccio più.
Finalmente il soldato apre la porta e insegue l'ombra, e con lui altri due che sono arrivati nel frattempo. Lascio andare l'illusione con un sospiro di sollievo, recupero fiato per qualche secondo e poi corro, non preoccupandomi minimamente se mi sentono o no.
Esco dalla porta. I tre soldati sono ancora lì, ma è più buio che nella stanza visto che non ci sono le quattro luci di emergenza agli angoli. L'oscurità nasconde chi sono veramente agli occhi dei soldati, finché non arrivano gli altri tre Serket dall'archivio.
Nell'attimo che impiegano a capire chi è l'estraneo, estraggo la pistola e sparo colpi a casaccio. Sento grida e imprecazioni, e scatto sfruttando la confusione verso il buco nel soffitto che porta al condotto. Salto e mi aggrappo al bordo aiutandomi con le ali. Mi tiro su solo con la forza di volontà e richiudo la grata, coperta dai rumori di esplosioni e spari che venivano da sotto.
Mi stendo con la schiena sul metallo freddo del corridoio. Ho il viso bollente e grondo sudore, i muscoli mi fanno male come mai mi era successo e il dolore alla testa non accenna nemmeno a diminuire, ma sono viva, e ho i dati di Ryan.
Sorrido, e se non fossi così terribilmente stanca probabilmente avrei anche riso dal sollievo. Mi rialzo e mi avvio verso l'hangar, non ho tempo da perdere.

 
——[ ]——

Prima dell'hangar nei condotti ci sono delle ventole, quindi ci siamo accordati di incontrarci in un ripostiglio sullo stesso piano. Ho dovuto scendere lungo la colonna che affianca l'ascensore per tre piani, stavolta (l'hangar è allo stesso livello del distretto di reclusione), e sono stanca morta quando alzo la grata e mi butto di sotto.
Ryan è già lì e mi si scaglia contro infuriato.
«Ci hai messo secoli! Si può sapere cosa...»
Si blocca. Deve aver visto la mia faccia.
«Che è successo?»
«Imprevisti» rispondo, tentando di riprendere fiato. Lui mi afferra un braccio con la fronte aggrottata.
«Sei ferita.»
Non me ne ero accorta. Deve essere successo fuori dall'archivio: sulla tuta ho una larga bruciatura da proiettile laser. Una raffica mi ha preso di striscio nella confusione. Ecco perché il braccio mi faceva male.
«Non è importante, dobbiamo andare» gli dico.
Annuisce. Entrambi alziamo la barriera e usciamo nel corridoio che conduce allo spazioporto della stazione.
Ryan mi tiene per un polso e mi trascina nella corsa, ma non ce la faccio. La barriera prosciuga quelle poche energie che sono rimaste. Mi sento svenire e vedo luci danzarmi davanti agli occhi.
Finché la barriera non cade, e alcuni soldati dietro di me gridano. Ryan impreca e capisco che sta andando tutto storto.
Cerco di accelerare la corsa. Sento spari, i lampi dei laser mi superano. Un raggio mi centra al fianco. Il dolore è bruciante e improvviso, urlo, barcollo ma riprendo a correre con le lacrime agli occhi.
Ci ripariamo dietro uno spigolo, Ryan spara alla cieca puntando la pistola oltre il bordo. Ora ci siamo quasi, vedo in fondo i portelloni.
Le sirene suonano ovunque e sono assordanti. Una luce rossa lampeggia sul portellone che comincia a chiudersi.
Ryan impreca ancora, prende il palmare e comincia a lavorare sul terminale.
«Coprimi mentre mi intrometto nel sistema» mi ordina.
Io mi giro verso l'estremità del corridoio e sparo a tutto quello che si muove. La mia mira è disastrosa, dato che quasi non riesco a tenere la pistola in mano. Qualche colpo si schianta sulla porta metallica chiusa dietro di me, un raggio mi sfiora bruciando la punta della mia treccia.
Il portellone si alza di un metro scarso, noi ci buttiamo sotto. Siamo nello spazioporto, finalmente.
Ryan spara al terminale, e il portellone si richiude di botto.
«Questo li rallenterà un po', o almeno spero.»
L'hangar in cui ci troviamo è il più piccolo e meno importante della stazione. È praticamente semivuoto. Le due sentinelle che gridano e ci corrono incontro muoiono sotto i colpi della pistola di Ryan.
Le sirene continuano a suonare e dalle porte cominciano ad arrivare soldati. Sento Ryan imprecare e nascondersi dietro un incrociatore Serket.
«Non abbiamo tempo di raggiungere la mia nave, dovrò forzare il sistema di questa. Tu tienili lontani» mi dice.
Stanno cominciando a sparpagliarsi per cercarci, in poco tempo ci troveranno. E sono troppi, non posso mettermi a sparare a casaccio.
Guardo Ryan con la fronte aggrottata che digita cose sul suo computer.
So cosa devo fare. Racimolo quel poco che resta delle mie forze e creo un'illusione. Il mal di testa che si era smorzato riprende a martellare con furore. Devo appoggiarmi alla fiancata per non ritrovarmi per terra.
Non riesco a capire se l'illusione sta funzionando o no. So solo che dopo un secolo qualcuno mi afferra e mi solleva, e non ho la forza per impedirlo. Provo a muovermi ma il corpo non mi risponde. Il mio cuore batte disperatamente per tenermi viva.
Il buio si chiude su di me.

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Capitolo 7
*** Viaggio ***


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——[Viaggio]——




 

U



na luce azzurrina. Vedo una luce azzurrina da sotto le palpebre chiuse. Sono morta?
Tutto è silenzioso. Fluttuo senza peso in una specie di nulla. Provo ad aprire gli occhi ma non ce la faccio. Non ricordo niente. Cos'è successo? Forse sono davvero morta.
Un'immagine affiora dalla nebbia. Un ragazzo castano che mi sta dicendo qualcosa.
Non è un Serket, è un umano. Un'idea comincia a formarsi nella mia testa. Sì, un umano. Qual era il suo nome? Ryan, giusto.
Mi sta dicendo qualcosa, ma non sento niente. Come faccio a dirgli che non sento niente se non riesco a parlare?
Il fianco mi brucia. È questo dolore a svegliarmi completamente e a farmi capire di essere ancora viva. Capisco che fino a un attimo fa stavo sognando, e apro gli occhi.
Mi trovo legata stretta con delle cinghie in una specie di capsula di vetro opaco, in verticale. La luce azzurra che mi ha svegliata filtra attraverso il vetro.
Essere chiusa in uno spazio così stretto mi opprime. Annaspo verso una pulsantiera che vedo alla mia sinistra, le braccia mi mandano fitte di dolore, premo un bottone blu e con un sibilo il coperchio scorre da parte.
Sono chiusa in una stanza stretta che contiene la mia e altre tre capsule. Vedo una porta alla mia destra e un oblò chiuso alla mia sinistra, nient'altro. Di Ryan nemmeno l'ombra.
Ancora annebbiata, abbasso lo sguardo per cercare un modo di slacciarmi. Non indosso più la tuta corazzata nera, ma una camicia bianca maschile che mi sta enorme. Le mie cose sono appoggiate sul fondo della capsula.
Un attimo. Ryan mi ha spogliata mentre ero svenuta?! Sotto la maglia indosso ancora la mia biancheria, e due fasce verdi adesive coprono le mie ferite sul braccio e al fianco. Con un po' di fatica, stacco il lembo della fascia che mi copre la spalla: la scottatura provocata dal laser si è ridotta a un'ampia ma innocua macchia rossa sulla pelle. Ringrazio mentalmente ancora una volta gli antenati Shadra.
C'è un pulsante sull'aggancio delle cinghie, lo premo e mi ritrovo libera.
Mi prende il panico. Come faccio a muovermi, ora? Sto fluttuando nella stanza come una stupida, senza il minimo controllo sui miei movimenti. La camicia svolazza da tutte le parti, lasciandomi quasi nuda, cercando di sistemarla sbatto inavvertitamente un gomito contro una parete.
«Kehen àshera!» impreco.
Afferro il bordo della mia capsula e provo a stabilizzarmi. Poi, cauta, mi spingo verso l'altra parete. Faccio qualche altra prova fino a capire come devo muovermi. Quando sono abbastanza sicura mi sforzo di indossare di nuovo la corazza nera. Non è il massimo della comodità, ma almeno non è imbarazzante.
Esco dalla camera rimediando un altro livido contro lo spigolo della capsula. Fuori, mi ritrovo in un corridoio abbastanza stretto perché sia facile fluttuarci attraverso senza roteare a casaccio. Lo seguo fino a una porta con una freccia blu luminosa sullo stipite. Mi ritrovo nella cabina di pilotaggio di un'astronave.
Sul sedile del pilota c'è Ryan, lo riconosco dai capelli castani. Ha le cuffie, non mi sente inveire contro qualsiasi cosa mentre mi avvicino a fatica, e per fortuna, o mi prenderebbe in giro a vita. Sta parlando velocemente al microfono in Galattico comune, capisco una parola ogni dieci. Raggiungo il sedile del copilota, mi assicuro con le cinghie e a quel punto mi concedo un sospiro di sollievo. Lui mi fa un cenno con la mano.
Non ha nemmeno il tempo di togliersi le cuffie che io lo fisso torva e lo assalto: «Dove siamo? Cos'è successo? E, soprattutto, perché mi sono svegliata con addosso una tua maglia?»
Lui solleva un sopracciglio, confuso, ma dopo qualche istante scoppia a ridere.
«Non c'è proprio niente da ridere» borbotto, incrociando le braccia.
È evidente che mi sta prendendo in giro. Io lo fisso finché non la smette, aspettando una risposta.
«Non preoccuparti, Zrythe! Ti ho spogliata solo per fasciare le bruciature ed evitare che si aggravassero. Ringrazia la corazza che avevi addosso, altrimenti sarebbero state molto più profonde. Ti ho iniettato una dose di antidolorifico, ma ormai dovrebbe aver esaurito il suo effetto. Se ricominciano a farti male puoi prenderne un'altra dose, basta che me la chiedi.»
«Ah, non preoccuparti, erano già quasi rimarginate. Non penso che mi daranno problemi.»
Mi rivolge un'occhiata scettica.
«È impossibile, sono bruciature da laser di livello 5. Solo con le medicine rigeneranti si rimarginano così in fretta...»
«Vengo da Adiannon» lo interrompo. «Discendo dagli Shadra.»
Lo vedo spalancare gli occhi, sbalordito.
«Questo spiega molte cose. Gli Shadra erano Rift molto potenti, almeno all'inizio. Poi in seguito alla decadenza del loro impero e alla colonizzazione dei Solariani hanno perso quasi tutte le loro tradizioni e quindi l'addestramento dei poteri.»
Molto di quello che ha raccontato non mi dice niente. Non conosco quasi nulla della storia del mio pianeta, se non qualcosa di vago che ho imparato dai rapporti che rubavo ai Serket quando potevo. Non sapevo che gli Shadra fossero Rift. Mi sento stranamente consolata, come se questo significasse che i Serket non mi hanno strappato del tutto le mie origini.
«E questo cambia qualcosa? Sapere la mia provenienza, intendo.»
«Ora so qual è il tuo potenziale, e non mi stupisce che tu sia riuscita a creare illusioni come quelle che hai usato durante la fuga. Con un po' di addestramento puoi fare qualunque cosa. Conosco un'altra persona che discende dagli Shadra come te, ed è eccezionale.»
Sollevo la testa di scatto. Un'altra persona dal mio pianeta? Devo assolutamente conoscerla. Forse mi potrà aiutare nella mia vendetta.
Quello che ha detto mi ha riportato alla mente altre domande, però.
«Aspetta, devi ancora dirmi cos'è successo da quando sono svenuta.»
«Ho rubato un'astronave Serket dal loro hangar. Dal terminale avevo inserito un virus nella rete, e attraverso quello ho aperto i portelloni esterni e bloccato le torrette laser. Purtroppo non è bastato a fermarli finché non siamo usciti dalla loro portata: hanno ripreso il controllo delle torrette esterne e ora abbiamo il propulsore principale danneggiato e il sistema di comunicazione a lungo raggio completamente distrutto.»
Sono disorientata da tutte quelle informazioni. Scuoto la testa e cerco di capire tutto quello che mi ha detto.
«Quindi? Dove siamo ora?» gli chiedo, indicando l'esterno. Oltre il vetro della cabina c'è solo vuoto nero punteggiato da qualche stella, e nient'altro. Siamo fermi: non sento il rumore continuo e lieve dei motori come quando ero sulla stazione dei Serket. Solo silenzio.
«Sto aspettando che il propulsore secondario si ricarichi. Non posso seguire una rotta rettilinea, non ci sono portali diretti per il primo settore nei dintorni della base Serket, ho dovuto infilarmi nel primo che ho trovato per sfuggire al loro inseguimento. Siamo sbucati in mezzo al quarto settore, e da là ho inserito la rotta per il portale più vicino che conduca al distretto Alpha, ma il propulsore non regge più di dieci-dodici ore di viaggio consecutivo.»
«Dodici ore?! Io ho dormito per dodici ore?»
Ryan fa un rapido calcolo a mente.
«In realtà sono quasi trentacinque ore standard. È la terza pausa.»
Sono sconvolta. Trentacinque ore.
«È normale. Hai quasi completamente prosciugato la tua energia. Non sembra, ma i poteri di Rift sono molto stancanti. L'ultima illusione ti ha davvero stremata.»
Scuoto la testa. Non sono mai arrivata a questo punto: è la prima volta che spingo al limite i miei poteri. Forse Ryan ha ragione, ho davvero bisogno di addestramento. Non posso restare fuori gioco per un giorno e mezzo solo perché ho evocato due illusioni.
«Siamo a metà del percorso» mi sta dicendo lui. «Ci troviamo esattamente nel quarto distretto al confine con la Fascia Interna, il portale è a qualche ora da qui. Sono riuscito a evitare i controlli, per ora, ma da questo punto in avanti entreremo nella Fascia Interna e mi dovrai aiutare. Non posso più impostare il pilota automatico, e con i sistemi di comunicazione fuori uso le astronavi della Pattuglia Galattica penseranno che siamo Serket, e hanno l'ordine di sparare a vista.»
«Io non so niente di astronavi» gli dico.
«Mi basta che controlli le telecamere esterne. Guarda...» Preme un pulsante e gli schermi di fronte a me si accendono mostrando spazio e stelle lontane. «Devi solo dirmi se vedi qualcosa di strano.»
Annuisco. Posso farlo.
Lui si rimette le cuffie. «Proverò a utilizzare le comunicazioni a corto raggio. Forse non siamo troppo distanti dal prossimo sistema e posso provare a contattare una colonia che spedisca il messaggio che ho registrato a Etharin.»
Etharin. Questo nome mi ricorda qualcosa. Sono stanca di chiedergli spiegazioni su qualunque cosa dice, però, così mi tengo il mio dubbio. Mi verrà in mente.

 
——[ ]——

«Zrythe!»
Mi sveglio di colpo al suono di una raffica di colpi alla porta della mia stanza e faccio per alzarmi ma mi trovo bloccata dalle cinghie. Ci metto qualche istante a ricordare che non sono più una schiava e che non sono venuti per uccidermi.
Ho addosso solo la camicia di una delle divise di ricambio che Ryan ha trovato sulla nave, ma la tempesta di colpi alla mia porta mi impedisce di cambiarmi. Fluttuo come posso fino alla porta, tenendomi la camicia ben tesa sulle gambe, e apro quasi strillando: «Ma che diamine succede, si può sapere?»
Ryan sta ridendo come un idiota per la mia reazione. Tento di sbattergli la porta in faccia e tornare a dormire ma lui mi blocca e mi afferra un braccio. Lo fulmino con un'occhiataccia.
«È per questo che è divertente prenderti in giro. Ti arrabbi sempre!»
Strattono il polso che mi sta tenendo ma non riesco a liberarmi. Non sono ancora pratica quanto lui con questa maledetta assenza di gravità.
«La smetto, sì. Ero venuto a dirti che tra poco arriviamo su Etharin, penso che tu sia curiosa di vederlo.»
Annuisco e lui sorride. Finalmente mi lascia il braccio e io posso chiudermi nella stanza e cambiarmi. Cominciavo a non sopportare più quella maledetta astronave: mi fa sentire imprigionata e non riesco a muovermi senza risultare imbranata.
Fuori dall'oblò si vede una stella. È bianca, piccola e molto luminosa; la sua luce è tagliente, ferisce gli occhi. È molto diversa sia dal grande sole rosso di Adiannon sia dalla stella gialla del sistema dei Serket, che ho visto dall'oblò della stanza di Ryan. Questa stella è strana.
L'orologio che ho sullo schermo di fianco alla capsula segna le undici di mattina, ora galattica standard. I Serket non seguono le regole standard, ma si basano sul loro sole. Io so come funzionano perché Adiannon le seguiva, e all'inizio mi ostinavo a contare il tempo come avevo imparato a casa. Poi ho dovuto imparare le regole dei Serket, ma ricordo ancora.
Quando entro in cabina Ryan è seduto al posto del pilota. Sta digitando su una tastiera e contemporaneamente parlando a raffica in Galattico comune al microfono delle cuffie, come al solito.
Prendo il posto del copilota come sempre. Sullo schermo di fronte si vedono due stelle: una è quella che ho visto dall'oblò, l'altra è rossa, molto più grande, e assomiglia molto al sole di Adiannon.
Accendo le telecamere esterne e sbircio sugli schermi. Ormai ho imparato come fare per muoverle e guardare intorno: un paio di volte Ryan ha impostato il pilota automatico e le coordinate di arrivo e mi ha lasciata sola a controllare che tutto andasse come previsto mentre lui dormiva. Non è successo niente di preoccupante, per fortuna, ma abbiamo impiegato qualche ora in più del previsto per arrivare: il propulsore secondario è molto meno potente, ha detto Ryan.
Vedo un pianeta di fronte all’astronave, a destra. È enorme, già da questa distanza riesco a vedere nitidamente scie grigie, azzurre e bianche sulla sua superficie.
Ryan dirige l’astronave oltre il pianeta enorme. Io lo guardo sugli schermi quando ce lo lasciamo alle spalle: è molto diverso sia da Adiannon sia dal pianeta morto dei Serket.
Mi accorgo che a destra e a sinistra, a distanza, sono comparse due astronavi. Chiamo Ryan e gli tocco un braccio per farglielo notare, lui annuisce e mi fa cenno di restare tranquilla.
Osservo le navi dagli schermi. Sono affusolate e lucide, di metallo verniciato di blu scuro, con uno stemma bianco sulle fiancate. Sembrano quasi esili in confronto alle astronavi dei Serket che ho visto nell’hangar, ma sono sicura che potrebbero distruggerci in una frazione di secondo.
Rivolgo lo sguardo in avanti, e sento il mio cuore perdere un colpo. Il pianeta verso cui le navi ci stanno scortando a una prima occhiata distratta mi è sembrato uguale ad Adiannon. Stessa atmosfera striata di bianco, stessi oceani blu. Ho impiegato un istante per rendermi conto che no, quello è Etharin, il cuore della galassia, e non un misero pianeta invaso e dimenticato del quarto settore.
Ci avviciniamo al pianeta e io comincio a notare le astronavi. Ce ne sono di tutte le forme e dimensioni, dai sottili caccia come i due che ci scortano a grosse navi cargo; vanno e vengono dal pianeta oppure fanno la spola tra la superficie e le stazioni spaziali in orbita.
Sento Ryan ridacchiare. Probabilmente gli sembro una stupida, così presa a fissare gli schermi cercando di cogliere ogni dettaglio, ma non mi importa proprio. Lui questa cosa la vede ogni volta che vuole, io no.
Etharin incombe di fronte a noi sempre di più mano a mano che ci avviciniamo, finché non copre interamente la visuale davanti a noi. Nell’atmosfera scorrono nuvole bianche che vorticano, morbide e sfilacciate; mi impediscono di vedere la superficie. La luce dei soli le colora e le fa brillare, resto incantata a guardarle. Superiamo la zona delle stazioni spaziali e dei satelliti di difesa senza nessun intoppo.
Sento il mio cuore accelerare. Ci immergiamo nell’atmosfera e Ryan comincia ad attivare i sistemi di frenata. È tutto bianco e confuso. Ryan deve affidarsi ai sensori e ai radar per proseguire. Anche i due caccia blu sono scomparsi.
L’astronave comincia a sobbalzare sempre di più mentre scendiamo, poi, di colpo, è tutto finito, e le nuvole sono sopra di noi.
Guglie altissime, terrazze, palazzi, grattacieli, giardini sopraelevati e torreggianti costruzioni di metallo e vetro si srotolano per tutto il panorama. Navi si muovono e scorrono nell’aria minuscole e insignificanti come puntini, e tutto brilla. Il bianco del cielo e della foschia, i colori balenanti dei riflessi della luce, le insegne e gli ologrammi rossi, blu, viola, verdi, dorati: tutta questa luce mi abbaglia.
Non mi accorgo che stiamo atterrando finché non sento un ultimo, lieve scossone e il reattore si ferma. Ryan ride alla mia espressione estasiata, si alza e si toglie le cuffie.
Il portellone dell’astronave si apre con un sibilo. Lui mi accompagna fuori e con un enorme sorriso mi abbraccia.
«Benvenuta su Etharin, Zrythe.»









 
******* Famigerato Angolino Buio *******
 
Efpiani fantascientifici(?), ciau! ^^
Forse questo capitolo suonerà familiare ad alcuni - molto pochi, presumo - di voi. L'avevo postato ancora secoli fa, salvo poi imbattermi nello studio di alcuni argomenti di fisica che mi avevano fatto rinnegare le idiozie che avevo sparato XD per cui l'ho tolto, insieme al capitolo successivo, e ora li riposto entrambi, sperando di riprendere a scrivere con più regolarità, poi.
Per ora non ho null'altro da dire, se non che spero la storia vi piaccia ^^
Passo e chiudo, alla prossima!

Vy

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Capitolo 8
*** Etharin ***


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——[Etharin]——




 

M



i trovo su una piattaforma sopraelevata, vasta e ingombra di droidi che vanno e vengono, astronavi, persone di tutte le provenienze. Il frastuono e la luce mi riempiono la mente. Mi guardo intorno cercando di cogliere ogni dettaglio; è tutto nuovo per me.
Il lampo frenetico e azzurrognolo di un droide saldatore che ripara il reattore della nostra nave. Le parole per me incomprensibili che rimbalzano tra la gente. Il sentore aspro di metallo e carburante esausto che aleggia ovunque nell'aria. Le linee luminescenti tracciate per terra per guidare i piloti nell'atterraggio. La confusione mi stordisce e mi acceca.
Ryan mi chiama poco oltre. Mi fa cenni con la mano per dirmi di sbrigarmi, io obbedisco senza fiatare. Tutto in questo luogo è alieno, caotico; non riesco a orientarmi. È un luogo troppo vasto, troppo luminoso.
Raggiungo il ragazzo di fronte a due droidi guardiani che mi fissano da una linea azzurra sull'elmo. Mi inquietano, questi cosi. Sono alti almeno due metri e dispongono di un arsenale davvero notevole, a partire dai laser sui polsi e i lanciamissili che spuntano da dietro le spalle. Ricambio il loro sguardo vuoto, voltandomi alternativamente verso uno e verso l'altro. Muovo nervosamente le ali sulla schiena. Ryan scoppia in una risata.
«Non fare quella faccia, Zrythe!» mi prende in giro lui. «Non ti faranno del male. Devono solamente prelevarti un campione di sangue e farti una scansione della retina. Sei nuova, è la procedura.»
Questo non mi rassicura del tutto, ma non protesto. Tolgo il guanto sinistro e tendo la mano al droide più vicino. La puntura mi brucia per un istante solo, ma non riesco a impedire alle mie ali di vibrare appena. Mi abbagliano un occhio per un attimo e poi finalmente se ne vanno, non prima di avermi stampato sul polso con inchiostro blu un codice a barre.
Mi scappa un sospiro di sollievo. Batto le palpebre, cercando di scacciare la macchia iridescente causata dallo scanner. Ryan ride di nuovo e io gli tiro un pugno sul braccio. «Non ti preoccupare, mettono in soggezione chiunque. E ora vieni, devo fare rapporto e devo portarti dal Capo.»
Lo seguo senza parlare. Capo? Non so se essere preoccupata. Non so cosa aspettarmi. È tutto troppo diverso, maledizione.
Attraversiamo gli ultimi metri di piattaforma entrando nell'ombra dell'edificio. È basso e vasto, ed è spoglio, costituito di pareti metalliche senza finestre e scritte di vernice luminescente. Scuoto un braccio di Ryan e gli chiedo che cosa sia.
«Depositi di droidi, pezzi di ricambio e strumenti per la manutenzione» mi risponde. «E soprattutto, gli ascensori di collegamento.»
Costeggiamo l'edificio fino ad una porta scorrevole incassata nella parete. Ne abbiamo oltrepassate altre uguali, ma Ryan si ferma soltanto davanti a questa. Avvicina il volto a uno scanner di retina, poi a un microfono.
«Sanders Ryan Edward, Non Registrato 70544» pronuncia, scandendo bene le parole. Mi fa cenno di avvicinare il codice stampato sul polso a uno scanner da cui proviene un bagliore blu, io obbedisco. La luce a fianco del pannello diventa verde e la porta scorre di lato con un sibilo. Di là, un breve corridoio illuminato da luci al neon che termina nella cabina metallica di un ascensore piuttosto spaziosa ma deserta.
Appena Ryan preme uno degli innumerevoli pulsanti sulla tastiera laterale, la cabina scorre in avanti. Sorpresa, perdo appena l'equilibrio e rischio di finire contro la parete di fronte.
Al suo sguardo ironico rispondo sbuffando e alzando le spalle.
«Sono abituata agli ascensori che si muovono in verticale» ribatto.
«Sei stranamente silenziosa, oggi» spezza il silenzio lui. Io alzo lo sguardo incrociando i suoi occhi azzurri. Non c'è traccia di scherno, stavolta.
«È strano, qui. Insolito» rispondo solamente.
Lui annuisce. «Sì, Etharin è molto diverso da Hathr. Ma non preoccuparti, ti ci abituerai in fretta.»
Ho dei dubbi a riguardo, ma non li esprimo. Piuttosto, mi rigiro nella mente quella parola. Hathr. Così si chiama il sistema dei Serket, quasi me lo ero dimenticata. Loro lo chiamano soltanto "Casa".
La cabina si ferma per qualche secondo, ma le porte non si aprono. Prima che possa chiedere spiegazioni a Ryan, il movimento riprende, ma questa volta verso l'alto. Mi trattengo dallo scuotere la testa. Che ascensori strani che hanno, su Etharin.
Infine, dopo un tempo che mi è sembrato interminabile, la cabina si ferma definitivamente. Ryan sorride e mi fa cenno di avanzare mentre le porte scorrono di lato.
Ma non posso fare un movimento che qualcosa irrompe con furia nella cabina, mi colpisce la spalla scaraventandomi molto gentilmente – di nuovo – contro la parete e si fionda su Ryan con una risata.
Mi rialzo di scatto imprecando, sbalordita. «Razza di idiota!» strillo, insultando il nuovo arrivato senza nemmeno aspettare di vedere chi sia. Sento la risata di Ryan provenire dal mezzo del groviglio, mentre i due ragazzi si districano dall'abbraccio.
L'idiota che mi ha fatto volare è praticamente identico a Ryan. Indossa una divisa grigia, è leggermente più alto e ha i capelli neri, ma ha il suo stesso ghigno ironico e furbo stampato in viso e gli stessi occhi azzurri.
Gli vado incontro ancora scarmigliata, le ali spiegate sulla schiena. «TU!» grido, puntandogli l'indice al petto.
Quello nemmeno mi permette di sfogare la sfilza di insulti che mi sono sorti dal cuore che fa un passo indietro sollevando le mani. Parla in Galattico troppo velocemente perché io possa capire, ma so che si riferisce a me: ha dato una gomitata a Ryan e ha riso.
Io rivolgo un'occhiataccia al ragazzo. Sa che non capisco una parola di Galattico, soprattutto quando parlano alla velocità della luce.
Ryan tossisce per mascherare l'ennesima risata e si rivolge all'Idiota. «Ti presento Zrythe, una Rift che ho incontrato a Hathr. Zrythe, mio fratello Aaron.»
Quindi l'Idiota è suo fratello. Non sono per niente stupita. Ringrazio mentalmente Ryan per aver parlato a una velocità comprensibile anche per me; almeno qualche persona gentile esiste ancora.
Aaron tende una mano. «Molto piacere» scandisce sorridendo. Io lo fisso, chiedendomi se mi stia prendendo in giro. Non accenno a richiudere le ali ma gli stringo infine la mano.
«Il piacere non è mio» ribatto con aria di sfida.
Ryan decide di intervenire in quel momento prima che il fratello possa replicare. Spinge entrambi con decisione fuori dall'ascensore.
«Litigherete poi, se non vi dispiace. Ora dobbiamo andare dal Capo, ha espressamente chiesto di Zrythe. Ti va di accompagnarci, Lee?»
«Ma che razza di soprannome è Lee?» Non riesco a trattenermi. Mi arriva un pugno da parte di Aaron.
Usciamo dall'ascensore e ci troviamo in un vasto atrio luminoso. L'intera stanza, tranne che per la parete dietro di noi e quella di fronte, è composta da vetrate che danno sul vuoto. Sotto il vetro, soltanto una nebbia sottile e, a una distanza vertiginosa, le strade della città. Il sole penetra attraverso le vetrate e si riflette ovunque abbagliandomi. Etharin è sfolgorante e bianco, ancora non sono abituata a tutta questa luce.
Le persone che attraversano la stanza mi fissano, ma a me non importa. Guardo ovunque come una bambina, cercando di cogliere più dettagli possibile: i grandi rampicanti decorativi dalle foglie bluastre che si avviluppano lungo il muro, il banco dietro cui sono sedute due donne vestite di azzurro che salutano con un cenno i fratelli, gli ascensori di vetro, i riflessi iridescenti che gli spigoli disegnano sulle superfici.
Genti provenienti da ogni angolo della Galassia si alternano nel salone, che però è abbastanza ampio per non essere affollato. Riconosco le capigliature dorate ed esageratamente elaborate dei nobili Kyrss; parecchi umani, Solariani e coloniali; uno Scythe dalle creste affilate e le mani armate di lunghi artigli e innumerevoli altre razze che non ho mai visto. Conosco solo i nomi di quei popoli che mi è capitato di incontrare durante la mia prigionia: popoli del quinto settore, principalmente.
La coda dell'occhio coglie un lampo violetto.
Sento il mio cuore accelerare.
Non è possibile.
Mi volto di scatto seguendo quello che mi sembra un fantasma del passato.
Ryan ha chiamato il mio nome e ora mi fissa senza capire. Io nemmeno lo guardo, mi dirigo senza esitare verso la figura poco più avanti. Le ali tremano, il mio respiro è accelerato e incontrollabile.
È lei.
È una donna esile, bassa; probabilmente non mi arriva all'altezza del seno. Indossa una divisa grigia identica a quella di Aaron, diversissima dagli stracci delle schiave, ma riconosco benissimo la pelle opalescente, la testa completamente calva su cui spiccano lunghissime orecchie a punta, le mani palmate e l'aura violetta che distorce l'aria intorno a lei.
Eileen.
Allungo un braccio con ansia crescente mista a una strana esaltazione. Prima che possa raggiungerla, però, la donna si gira.
Non è lei. Lo riconosco dal taglio degli occhi, più inclinati di quelli di Eileen, e dalla pelle più chiara.
Mi sento vuota. La speranza è scoppiata come una bolla nella schiuma del raro sapone che ci concedevano i Serket.
L'Achaleera che ho creduto essere Eileen mi parla. Non riesco nemmeno a distinguere se sia Galattico o chissà che altra lingua. Non sento più nulla.
«Mi scusi, l'ho scambiata per un'altra persona...» mormoro. Non so se lei ha capito e non posso accertarmene, perché sento Ryan trascinarmi via per un braccio, probabilmente scusandosi con l'estranea.
«Ehi, Zrythe. Che ti è preso?» mi chiede poco dopo, mentre le porte di un'altra cabina si chiudono sulla sala.
Io non rispondo subito. Devo ancora realizzare quanto stupida sono stata. Illudermi in quel modo... forse da bambina l'avrei fatto, ma ora mi sento un'ingenua. Eileen è morta, non può essere sopravvissuta ai Serket. Non per dodici anni.
«Zrythe?»
«Non preoccuparti, è tutto a posto» rispondo, riemergendo dalle mie riflessioni. «Ho solo scambiato quell'Achaleera per una che conoscevo una volta.»
Lui annuisce, come se capisse.
Aaron ricompare in quel momento nella mia visuale, io alzo gli occhi al cielo. Mi ero quasi dimenticata della sua esistenza. Ridacchia e si lancia in uno dei suoi soliti discorsi impossibili da seguire.
«Parla comprensibile, dannazione» lo interrompo, irritata. Non ho proprio voglia di sopportare anche lui, l'incontro di poco fa mi ha messo di cattivo umore.
«Hai ragione, scusami, Tiger» risponde lui lentamente sollevando le mani in segno di resa.
Io ricambio il suo sguardo e sollevo un sopracciglio. «Come mi hai chiamata?»
«Tiger, tigre» sorride lui. «Hai presente... quegli animali con la pelliccia a strisce... e gli artigli...» precisa poi, ridendo.
«No.»
«Cosa?! Mi stai prendendo in giro, spero.»
«No» rispondo ancora.
«Ma dove sei vissuta, finora? Non è possibile che...»
«Lee» lo interrompe Ryan. «Zrythe era una schiava.»
«Davvero?» Il modo in cui mi guarda ora è diverso. Imbarazzata distolgo lo sguardo fissandolo sullo spigolo della cabina. Che stupida. Per quale maledettissimo motivo dovrei essere imbarazzata? Non è certo colpa mia.
«Oh, dai, raccontatemi un po' di questa missione, intanto che arriviamo da Shianna» esorta Aaron.
«Niente di speciale, Lee. Sparatorie, illusioni, schiave Rift...»
«Soprattutto su questo sembra che tu ti sia divertito, eh, Fratellone?» dice Aaron, occhieggiando al mio seno ampio fasciato dalla tuta nera. Io incrocio le braccia davanti al petto sbuffando, le mie ali vibrano di fastidio. Ha parlato apposta lentamente perché io potessi capire, maledetto.
«Shehke» sibilo, fulminandolo.
Lui alza un sopracciglio. «Cos'hai detto?»
«Shehke. In Shadra significa "stupido", ma in modo più cattivo» lo sfido. Lui scoppia ancora a ridere – ma quanto accidenti ride, questo?!
«Ho imparato un'offesa in Shadra! Ora posso insultare gli ufficiali senza che se ne accorgano!»
Ryan solleva gli occhi al cielo. «Temo non ti convenga provarci con il Capo, Lee.»
In quel momento, per fortuna, l'ascensore si ferma e si apre su un corridoio silenzioso. Moquette grigia riveste il metallo del pavimento, a destra le onnipresenti vetrate interrotte da pilastri. C'è un profumo lieve che mi punge il naso e mi fa starnutire. Un droide guardiano ci squadra dalla testa ai piedi appena usciamo e chiede di identificarsi con voce sintetica.
«Sanders Ryan Edward, Sanders Aaron Jordan, Non Registrato 70544» risponde Aaron.
Seguendo le indicazioni di Ryan, tendo il polso al droide, un po' intimorita. È un robottone alto due metri che mi squadra torvo, mi sento a disagio.
Un raggio azzurrino esegue una scansione del codice, il droide elabora per qualche breve attimo e poi si ritira. Mi accorgo che ho trattenuto il respiro e cerco di rilassarmi, beccandomi un'occhiata ironica da parte dell'Idiota.
Il corridoio è vuoto, perfettamente silenzioso. Getto un'occhiata fuori dalle vetrate mentre seguo i due ragazzi: siamo altissimi. Un lieve senso di vertigine mi fa roteare per un secondo la testa quando immagino di cadere nelle strade sottostanti da un'altezza simile. Mi allontano dalla finestra, un po' imbarazzata.
Devo concentrarmi sulle parole per decifrare cosa mi sta dicendo Ryan. Mi sento stupida a chiedergli di ripetere perché ero distratta. Il senso generale credo di averlo afferrato, è qualcosa sul fatto che in genere il posto non è così desolato, ma ora molti sono in pausa pranzo.
«Shianna ha detto che vuole vederti subito, però» conclude.
Non sono del tutto tranquilla, devo ammetterlo. Un timore subdolo serpeggia e mi confonde. Chi sarà questo Shianna, il Capo? Cosa vuole da me?
Forse dovrei stare più tranquilla, è vero. Ma non posso farne a meno. Nelle ultime ore ho visto ciò che sognavo da anni, così, all'improvviso. Troppe luci, troppi suoni, troppo diversi da quello che ho sempre vissuto.
Forse non ero pronta per tutto questo.
Scrollo le spalle e cerco di scacciare l'insicurezza, di spingerla fuori dalla mia mente a forza di schiaffi. Non ha senso. Non ora che finalmente sono libera.
I due fratelli si sono fermati davanti a una porta. Mi allungo per vedere: è quasi banale, spoglia, di vetro smerigliato, uguale a tutte le altre. A lato, un campanello e un microfono sotto una targhetta metallica verniciata di nero che recita Maggiore S. Corzas.
Quel nome mi punge la memoria come uno spillo. L'ho già sentito, ne sono sicura. Corzas... chi si chiamava così?
Cerco di frugare più a fondo nella mia mente, pungolata dalla precisa sensazione di déjà-vu. Però, più mi sforzo di ricondurre il nome a un volto, o un dettaglio, più sento la sensazione scivolare via.
Mi ritrovo a sbuffare, frustrata.
Ryan intanto deve aver parlato con l'ufficiale oltre la porta, perché ci viene accordato il permesso di entrare.
Ecco, ora risponderò finalmente alla mia curiosità.
L'ufficio è spazioso, illuminato dalla parete di vetro di fronte a noi, sulla quale si staglia una scrivania e la sagoma controluce del fantomatico Capo.
Che non è esattamente come avevo immaginato.
Invece che una specie di energumeno scontroso, mi trovo di fronte una ragazza. È piuttosto giovane, ma non esile: sotto la divisa si intravedono muscoli tonici e ben delineati. I capelli biondo cenere tagliati a caschetto incorniciano un volto affilato, serio; gli zigomi alti enfatizzano uno sguardo blu elettrico intensissimo che si fissa su di me.
Io la conosco. La consapevolezza appare come un lampo non appena osservo la donna che mi sta davanti. E so che anche lei mi ha riconosciuta, lo leggo nel modo in cui la sua espressione, da composta e imperscrutabile, si è sconvolta quando mi ha visto.
«Non è possibile» dice, con un filo di voce.
Io sono troppo stupita per parlare. Mi sento svenire, la testa che vortica, il cuore che batte fortissimo. Non avrei mai immaginato di incontrarla di nuovo, mi ero quasi dimenticata della sua esistenza. Ricordare, là dov'ero, faceva troppo male.
Sento delle braccia stringermi e so che sono le sue, le riconosco. I ricordi stanno tornando improvvisamente, sommergendomi.
«Zrythe, sorellina... non posso crederci.»

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