Attack on Pearl Harbor

di TonyCocchi
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** I guerrieri ***
Capitolo 2: *** Con le vite tra le mani ***
Capitolo 3: *** Niente promesse ***
Capitolo 4: *** Non se lo aspettava, nessuno se lo aspettava ***
Capitolo 5: *** Coi piedi per terra ***



Capitolo 1
*** I guerrieri ***


snk pearl harbor

Salve a tutti e buon anno nuovo!

Inauguro questo 2016 con questa idea, che non so quanto successo potrà riscuotere, ma che penso almeno di dovere a me stesso visto da quanto tempo ce l’ho in mente! Dovete sapere che adoro alla follia il film Pearl Harbor di Michael Bay, e Attacco dei Giganti non è in realtà la prima serie con cui ho sognato di incrociare le più belle scene del film: avendo trovato dei collegamenti abbastanza azzeccati tra scene e personaggi però, stavolta ho deciso di darmi da fare! Perciò ecco calati i nostri ammazza-giganti nei tragici giorni della Seconda Guerra Mondiale, nel bel mezzo dell’attacco a sorpresa condotto alla base di Pearl Harbor. Quali saranno i loro ruoli, e come se la caveranno in questa situazione drammatica? Per scoprirlo, vi basta leggere!

Il primo capitolo tratterà di Eren e Levi: buona lettura a tutti!

 

Per Info: https://it.wikipedia.org/wiki/Attacco_di_Pearl_Harbor

 

 

 

Il caporale Eren Jaeger dei Marines si era fatto conoscere, persino in tempi di pace, come quelli finiti quello stesso giorno, per la testa calda e l’animo sprezzante e, nelle simulazioni, per un coraggio ammirevole quanto a dir poco suicidario.

Solo da lui ci si poteva aspettare gesti come abbandonare il proprio riparo nel pieno di un attacco nemico.

“Thomas!”

Corse verso il corpo dell’amico riverso a terra: lo chiamò ancora più forte, scuotendolo per le spalle, ma era solo una sciocca illusione, la sua, che potesse ancora rispondergli.

Aveva gli occhi sbarrati, la sua testa penzolava flaccida sul corpo martoriato dai proiettili sparati dai mortali caccia Zero, che lo avevano trapassato da parte a parte in più punti.

Col fiato corto per il dolore e per la rabbia, montante come una marea, Eren alzò lo sguardo dal compagno d’addestramento al caos che si svolgeva intorno: le sue orecchie si sturarono al suono delle raffiche di mitragliatrice, i suoi occhi si accecarono nei lampi infuocati delle deflagrazioni.

La rada di Pearl Harbor, il paradiso in terra in cui avevano vissuto spensierati fino a ieri, fino a quello stesso mattino, si era tramutata in un inferno.

Davanti quegli stessi pontili, solo il giorno prima, lui e Thomas, e gli altri bravi ragazzi del suo battaglione, erano passati per recarsi in caserma, parlando di scommesse sul baseball e discutendo su quale delle infermiere fosse la più bella, e ora le loro bianche e imponenti navi, il loro orgoglio, vomitavano nell’aria pezzi di lamiera e corpi umani ogni volta che venivano centrate dalle decine di bombe che piovevano dal cielo, scagliate dalle centinaia di mosconi che assordavano l’aere col loro ronzio portatore di morte e distruzione.

Perché? Come poteva star accedendo?

<< Perché? >> -chiese affondando le unghie nel cadavere che ancora stringeva tra le braccia.

La corazzata California, dinanzi a sé, sussultò, come non fosse stata fatta d’acciaio ma di carne e le avessero appena tirato un pugno allo stomaco, mentre la sua fiancata saltava in aria colpita da un siluro. E mentre l’intera flotta veniva fatta a pezzi, raffiche su raffiche si abbattevano senza pietà sui marinai gettatisi disperatamente in acqua e quelli che da bordo o da terra provavano a reagire o cercare riparo: cadevano tutti, a detti stretti o in lacrime, urlanti o gementi, col fucile in mano o le gambe all’aria.

<< Perché ci fate questo? Perché ci attaccate? Perché ci uccidete? Che cosa vi abbiamo mai fatto? >> - domandò disperato al rosso sole imperiale nipponico, dipinto sulla fiancata dei caccia che balenavano, cabravano e scendevano in picchiata davanti i suoi occhi sconvolti.

<< Non siamo in guerra con voi, non siamo in guerra con nessuno! Non vi abbiamo mai fatto del male! Che diavolo state facendo? >>

La guerra era lontana, in Europa, non doveva essere lì, in quel posto magnifico di sole, mare e spiagge, dove quasi sembrava di stare in vacanza che sotto le armi. Perché allora i giapponesi li attaccavano? Come potevano venire lì, improvvisi e furibondi, a ucciderli, mentre si addestravano e si esercitavano, mentre ascoltavano musica alla radio, mentre sognavano ragazze carine da invitare a ballare alla prossima serata di licenza, mentre svolgevano il loro dovere con impegno per il loro paese… Venivano lì, a spezzare le loro vite e i loro sogni che li aspettavano nelle loro case lontane a cui sarebbero tornati una volta finita la ferma.

Non capiva, non riusciva a capire.

<< Perché? Ditemi il perché, brutti figli di puttana! >>

Thomas era morto, e chissà quanti altri dei suoi amici erano morti o stavano morendo mentre stava fermo lì a pensare.

Una fortissima esplosione richiamò il suo sguardo verso sinistra: quale allettante, provvidenziale coincidenza notare, tra le nubi di fumo nero, una mitragliatrice contraerea mobile Browning. I soldati che la stavano manovrando giacevano crivellati intorno ad essa.

Eren poggiò con rispetto il corpo di Thomas a terra e, ali ai piedi, tra boati e sventagliate di proiettili, raggiunse l’arma, scostò un paio di cadaveri e innestò la cartucciera.

Acquattatosi tra i sacchi di sabbia, afferrò i due manici dell’arma e alzò il tiro, guardando attraverso il mirino circolare, smanioso di inquadrare uno degli aerei di quel popolo che a malapena sapeva identificare sulla carta geografica, ma che in un lampo per lui, e negli anni a venire, sarebbero divenuti gli odiati “musi gialli”. Ma erano troppo veloci, e lui, neanche addestrato a usare quell’arma, non riusciva a seguirli.

“DOVE SIETE, BASTARDI?!” –diede voce ai suoi pensieri con tanta forza da fargli bruciare la gola.

Quasi l’avesse sentito, uno degli Zero compì una virata proprio davanti a lui per dirigersi nella sua direzione, finendo in tal modo proprio al centro del suo mirino.

“CREPATE!”

Prese a riversargli addosso tutto il piombo che poteva, tenendo premuto il grilletto con goduriosa ira: sparare era diventato, in quegli attimi di accecamento, la sua ragione di vivere, tempestare di colpi quel moscone fino ad abbatterlo e far sì fosse solo il primo di una lunga serie.

“VI AMMAZZERÒ TUTTI! TUTTI! GIURO CHE VI UCCIDERÒ DAL PRIMO ALL’ULTIMO, MALEDETTISSIMI ASSASSINI! CREPATE! CREPATE! CREPATE!”

Le sue urla non si erano ancora spente, che una fumata nera dalla carlinga del caccia preso di mira ne preannunciò la fine: rollando vorticosamente su sé stesso, si schiantò sul freddo cemento del molo, tra i rottami fumanti di quelle che erano state due loro cacciatorpediniere.

Per nulla pago nei suoi propositi genocidi, senza un grido o un liberatorio gesto di esultanza, Eren tornò a scrutare il cielo, frenetico, folle. Solo lo scatto senza mordente dell’arma ormai scarica riuscì a riportarlo alla realtà: nella sua frenesia aveva consumato tutti i colpi.

Diede un pugno stizzato al paramento di sacchi e poi si alzò in piedi, cercando con lo sguardo i commilitoni che aveva lasciato, al sicuro come conigli in gabbia, dietro l’angolo di un edificio.

“Tutti ai propri posti! Cercate delle armi e contrattaccate! Muovetevi!” –ordinò, perentorio da riuscire a farli muovere malgrado lo sgomento che ancora li attanagliava dall’inizio di quel vile attacco.

Eren guardò il cielo sereno, macchiato dalle ampie sagome degli aerei giapponesi. Non gli avrebbe permesso di portarsi via i suoi compagni, i suoi amici, sua sorella, senza combattere, anche in quelle condizioni così impari e disperate.

“Vi fermerò! Dovessi buttarvi giù dal primo all’ultimo!”

 

 

Per molte cose il capitano Levi Ackerman era famoso lì alla base. Certamente per l’essere uno dei migliori piloti dell’aviazione militare statunitense, per la sua passione per l’ordine e la pulizia, cui facevano spesso le spese i suoi sottoposti, costretti a pulire uffici e camerate fino a tardi, per il fatto che avesse una tale scopa su per il culo che nessuno della truppa o degli altri ufficiali potesse affermare di averlo mai visto sorridere…

“VI VOGLIO GIÙ DALLE BRANDE IN QUESTO FOTTUTO ISTANTE! NON È UNA CAZZO DI ESERCITAZIONE QUESTA! SE NON VI VEDO IN PISTA TRA DIECI SECONDI VI FICCHERÒ LA PUNTA DEI MIEI STIVALI SU PER IL CULO, DANNAZIONE!”

… e per il linguaggio talora parecchio colorito. Di solito questo si esprimeva attraverso il suo solito modo di parlare flemmatico e un po’ monotono, ma nessuno ebbe da ridire sull’inusuale volume spaccatimpani raggiunto dalla sua voce, date le circostanze. Il sonno leggero e l’intuito fine gli avevano permesso di attivarsi e reagire prima degli altri, e anche adesso, dietro le urla furibonde con cui dava il primo buongiorno di guerra agli altri piloti del dormitorio, conservava il suo sangue freddo. Non lo perse neppure quando una bomba esplose a qualche metro dall’edificio, mandando in frantumi un intera fila di finestre: fu lui il primo a rialzarsi in piedi, scuotersi di dosso le schegge, e a scrutare con occhi di ghiaccio gli altri rannicchiati in terra e a intimare l’ordine con voce tesa.

“Agli aerei… Ora!”

Qualche istante dopo, la torma di uomini usciva allo scoperto nel campo di volo, lanciata in una corsa folle lungo la pista per raggiungere gli hangar. Lo scenario non era incoraggiante: sagome nere sfrecciavano velocissime e letali sulle loro teste, una jeep era in fiamme, e dall’altro lato della pista l’altro dormitorio era stato centrato in pieno dalle bombe. Alcuni postazioni circolari di sacchi di sabbia stavano abbozzando una timida difesa, insieme ad alcuni fucilieri saliti sulla torre di controllo, ma non sarebbe bastata: dovevano arrivare ai loro aerei, affrontarli ad armi pari.

“Correte! Avanti!” –incitò i suoi.

“Capitano!” –sentì la voce di Eld alle sue spalle, ma non ebbe bisogno di voltarsi: il rumore in crescendo dell’aereo che piombava su di loro, bersagli facili, parlava oltremodo chiaro.

“Più veloci!”

Con uno scatto, il piccolo capitano staccò tutti i suoi e con un agile salto in avanti, atterrò con una capriola oltre la muraglia di sacchi, ma fu l’unico. Si alzò su un ginocchio e vide con orrore gli effetti devastanti che avevano avuto le mitragliatrici del caccia giapponese: aveva falciato i suoi uomini come grano maturo, massacrati come pecore al macello. Scorse, tra i corpi riversi, quelli di Eld e Gunther, e fu dura non vacillare neanche in quel momento.

Si girò, e vide i soldati che cercavano di rispondere agli zero con un paio di mitragliatrici, e una inconfondibile tipa col codino con addosso una tuta sporca d’olio per motori che dava una mano con un fucile a pompa.

“Che cazzo stai facendo qui, Angy?”

“Do una mano!” –rispose lei col suo brevettato sorrisetto sbarazzino, prima di sparare un altro colpo.

Angy Zoe era probabilmente, anzi, certamente, l’unica donna meccanico al servizio dell’U.S. Air Force: davanti alla sua competenza sconfinata in motori e aerovelivoli, e alla sua conoscenza personale con l’ammiraglio Erwin Smith, non c’era stato sesso che tenesse. E poi, obiettivamente, Levi sapeva che era più in gamba di mille uomini messi assieme, alla faccia di chi pensava che infermiera e segretaria fossero gli unici ruoli per le donne sotto le armi.

“Angy, mi serve un aereo!” –gridò per farsi sentire oltre il rumore degli spari- “Quanti sono pronti?”

“Pochi!” –rispose lei perentoria, come d’altro canto si era aspettato dato che non c’era stata alcuna minaccia all’orizzonte per cui mantenerli operativi- “Ma il problema più grosso non è questo! Il problema è…”

Entrambi sobbalzarono al suono di un esplosione più forte: i loro stomaci si torsero all’unisono vedendo, lontano sulla destra, un paio di hangar avvolti in fiamme e fumo.

“Il problema è che questi bastardi ce li fanno saltare ancora prima che proviamo a metterli in pista, cazzo!” –imprecò togliendosi gli occhialoni per pulirli da fuliggine e detriti, mentre anche alcuni fusti di carburante avevano preso a saltare in aria uno dopo l’altro come petardi troppo cresciuti.

Levi vide uno degli uomini sulla torre cadere giù, colpito, e poi notò l’hangar accanto ad essa, e le eliche dell’aereo al suo interno in funzione.

“Quello è Bossard!” –gridò Angy, buttando via il fucile scarico- “Deve essere pronto al decollo!”

 

“Muovetevi, muovetevi! Non ho tempo da perdere!” –scalpitava il pilota, battendo la mano sulla carlinga, come un fantino batte il proprio cavallo col suo frustino.

“Stiamo facendo più in fretta che possiamo!” –ribatté costernato il meccanico intento a finire di caricare le armi al suo caccia P-40.

“Al diavolo!” –si morse la lingua per contenere il nervosismo- “Contatto!”

Il motore ruggì e Oluo Bossard, secondo, a suo dire, miglior pilota sulla piazza, uscì col naso del proprio aereo fuori dall’hangar, come una volpe dalla tana, e lo indirizzò verso la pista di decollo.

“Andiamo! Andiamo!” –sapeva benissimo che spronare e minacciare l’aereo per fargli prendere di velocità non sarebbe servito a nulla, se non a distrarlo dal pensiero che non poteva attardarsi neanche un solo istante. Le ruote del monoposto avevano appena iniziato a sentire l’aria sotto di sé, quando un brivido dietro il collo lo colse, come un sesto senso.

Levi, che stava assistendo alla scena, strinse i pugni: “Prendi quota! Prendi quota, Oluo! Muoviti!”

Tirò la cloche verso di sé, ma a quella velocità ancora troppo bassa non poteva forzare l’aereo a decollare, e due zero erano già sopra di lui. Sentì il rombo delle mitragliatrici farsi vicino, sempre più vicino, e i proiettili trapassare il metallo del velivolo come lame nel burro.

Chiuse gli occhi, e, rassegnato, il suo ultimo pensiero fu per l’amata Petra.

Poi l’esplosione lo avvolse.

Il muso del P-40, dopo aver futilmente puntato il cielo, piombò mesto a terra, fracassandosi e spezzando l’elica.

“……” -la mano di Levi si dischiuse: come un saluto, come la coscienza che pur stretta si era lasciata scappare un altro pezzo importante della propria vita. Non aveva potuto fare niente per lui: non lì appiedato e impotente, non senza ali.

Angy a quella vista si era coperta la bocca con le mani ed era crollata a sedere: anche la sua tremenda forza d’animo stava venendo meno. Ma lui non l’avrebbe permesso.

Le prese le spalle e la scosse: “Angy! Angy, guardami! Guardami!”

“Eh?!” –sospirò lei, riemergendo alla tremenda realtà.

La guardò dritta negli occhi, come da questo dipendesse che restasse sveglia e concentrata: “Mi serve un aereo… Mi serve un dannato aereo, Angy!”

Angy aggrottò le ciglia: alzarsi in volo da lì era impossibile, avrebbe fatto la stessa fine di Oluo e degli altri piloti che ci avevano provato.

“Ho quello che ti occorre!” –rispose, mentre il fuoco le si riaccendeva nello sguardo.

Si protese oltre il riparo e puntò, come un cane da caccia, una jeep parcheggiata vicino un silos.

“Seguimi!”

Seguirla con gli Zero a pisciar piombo sulle loro teste era una follia, ma se sapeva una cosa per certo, era che quella tipa era la regina della follia: sapeva di potersi affidare a lei. Rapidi, saltarono sui sedili, Angy al posto di guida, la quale sgommò con tanta foga che a Levi scappò di mano la cintura di sicurezza che aveva cercato di indossare! Confidando che i giapponesi dessero più peso alla distruzione dell’aereoporto piuttosto che a una jeep di fuggiaschi, Angy lanciò la vettura a manetta sullo sterrato.

“Dove stiamo andando?” –chiese Levi con una nota di preoccupazione, reggendosi più saldamente che poteva al cruscotto e allo sportello, cercando di non farsi sbalzare fuori! Il suo stile di guida era davvero quello di una matta!

“C’è una piccola pista a un paio di chilometri da qui, ci ho portato un apparecchio per delle riparazioni l’altro ieri: ha il serbatoio pieno e le armi in canna, un’ultima aggiustatina ed è tutto tuo!”

“Sei grande, quattrocchi!”

“Ah ah ah! Lo so!”

Levi guardò all’orizzonte, oltre un basso crinale, la baia: le loro navi erano come prede succulente su cui quegli avvoltoi si lanciavano uno dopo l’altro, la sorpresa aveva impedito loro di organizzarsi in un’efficace difesa.

Doveva far presto. Il miglior pilota di Pearl Harbor doveva entrare in azione.

 

 

 

Finalmente ce l’ho fatta: ho iniziato a scrivere un crossover con Pearl Harbor *__* Come sono contento! E sarò ancora più contento se piacerà anche a voi!

Quanto all’episodio di Eren, diciamo che in effetti qualche buon motivo per attaccare gli americani i giapponesi l’avevano in realtà: le due superpotenze erano infatti rivali per il dominio sul pacifico e gli Stati Uniti gli avevano appioppato un bell’embargo sul petrolio… È stato abbastanza facile con lui, è bastato sostituire i titani con i giapponesi… XD  

Quanto alla coppia Levi-aviatore ed Hanji-meccanico… è stato il mio spirito LeviHan a guidarmi, mi dichiaro colpevole XD Però il risultato mi piace un sacco, sono troppo fighi!

Mi sono preso la libertà di “inglesizzare” un po’ il nome di Hanji, spero non vi sia dispiaciuta come idea ^__^
Al prossimo capitolo!

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Capitolo 2
*** Con le vite tra le mani ***


Ciao a tutti! La mia passione per la serie si è rafforzata ulteriormente ora che ho appena letto le scans l’ultimo capitolo uscito, il 77… *__* Tranquilli, non faccio spoiler di alcun tipo, però è grandioso U_U

Con tale spirito di fan rinnovato, che compensa quel po’ di delusione per il fatto che il primo capitolo non abbia avuto manco un commento, vi presento il secondo tassello di questa drammatica AU che vede i nostri personaggi di Attack on Titan nello sconvolgente 7 Dicembre 1941 a Pearl Harbor. Mi spiace che finora questa mia fic sia passata inosservata, ma del resto era da tanto che desideravo scrivere queste scene, e sono contentissimo di come alla fine mi sono venute! Spero piacciano anche a voi!

Buona lettura!

 

 

 

A una prima impressione, silenziosa un po’ musona com’era, poteva sembrare una persona fredda e scostante, invece, dietro le apparenze, Mikasa Ackerman aveva un animo gentile e disponibile, pronto a prendere in mano la situazione pur di aiutare gli altri in difficoltà; nessuna meraviglia, quindi, che per le amiche e colleghe infermiere fosse divenuta una vera e propria colonna, un solido e affidabile punto di riferimento.

La calma che possedeva, unita alla sua ottima preparazione in qualsivoglia procedura medica, faceva si che qualunque problema si presentasse, sanitario o amministrativo, fosse lei la persona a cui rivolgersi per sapere cosa fare e trovare, più o meno, ogni risposta.

Quel giorno di dicembre, Mikasa si ritrovò a dover divenire colonna di sé stessa.

Doveva dimostrarsi all’altezza della sua fama, mantenersi salda dove tutti gli altri sbandavano terrorizzati, resistere a quel torrente che le si era parato davanti e che minacciava di travolgerla nel suo orrore.

Un torrente fatto non di acqua, ma di persone. Feriti. Decine, centinaia, di più.

Il piazzale davanti l’ospedale era gremito: sembrava qualcuno avesse dato fuoco a un formicaio e tutti quei poveri insetti, nella loro miserabile fragilità, fossero usciti fuori a implorare aiuto. La calca si riversava sulla scalinata d’ingresso e poi nel corridoio principale come attraverso un imbuto, e lei era lì, nel collo di esso, che non sapeva più dove guardare, su quale dettaglio concentrarsi.

Vestiti insanguinati.

Monconi d’arto.

Facce e corpi anneriti dal fumo e delle sfiguranti ustioni.

Urla. Pianti. Suppliche d’aiuto.

“La gamba!”

“Aiutatemi a trasportarlo!”

“I miei occhi! Non ci vedo!”

“Aiutatemi, ho detto!”

“Veloci!”

“Mikasa!”

Prestò attenzione solo a quell’ultima voce che giungeva dalle sue spalle.

Scansando una barella che si faceva largo con prepotenza nella calca, l’amica infermiera Christa Lenz, l’”angioletto della corsia”, come era stata soprannominata da medici e pazienti, si precipitò verso di lei.

“Sono in troppi, non abbiamo più posto! I dottori hanno detto di non farli entrare tutti!”

Quel piccolo ospedale non era fatto per affrontare una simile ecatombe, eppure era l’unico posto a cui quegli sventurati potevano rivolgersi, l’unica speranza di salvezza dalla morte giunta a reclamarli. Se volevano adempisse a tale ruolo, con i posti e soprattutto le scorte limitate che avevano, era l’unico modo: fare una cernita.

Frugò nella tasca: “Prendi questo pennarello!” –le gridò per farsi sentire sopra le mille voci e versi di dolore- “Segna con un cerchio quelli che pensi possano farcela, metti una “M” sugli altri!”

“<< M >>?”

“Morfina…”

Senza aggiungere altro, Mikasa, che era una persona diretta e non si faceva scrupoli a menar spintoni per farsi largo, uscì fuori: per prima cosa ordinò ai soldati di guardia di aiutarla ad allontanare tutti dall’ingresso e tenerli fuori, lasciando passare solamente coloro che avevano passato la sua valutazione.

Cominciò così il triage più duro della sua vita di infermiera, gravato da un brutto senso di vertigine: la vertigine di chi è in alto, suo malgrado, di chi ha il potere di scrutare, e di decidere. Della vita o della morte altrui.

“Tranquillo!” –cerchiò la fronte di un marinaio con un proiettile nel braccio ma nient’altro, per poi passare subito ad un ferito in barella.

“Tranquillo.” –disse ancora- “Va tutto bene.”

Per poi aggiungere, all’orecchio del barelliere: “Dategli della morfina, non lo farà soffrire.”

Aveva una gran fiducia nelle sue doti di infermiera e nella razionalità delle sue decisioni, non ebbe nemmeno un dubbio sui giudizi da lei espressi. A farla vacillare era soltanto l’angoscia nel constatare quante “M” stesse scrivendo… Sicuramente più di quante le scorte di anestetico avrebbero potuto tollerare.

Passò allora ad un uomo con una brutta frattura esposta alla gamba, sorretto per le spalle da due commilitoni: era pallido e tremava per lo shock, ma l’emorragia non era grave e probabilmente ce l’avrebbe fatta. Ma come solo si accostò a lui col pennarello, questi sbarrò gli occhi e prese a dimenarsi, tanto da rischiare che i compagni perdessero la presa e lo lasciassero rovinare a terra.

“Non toccarmi!” –urlò.

Cercò di carezzargli la testa per calmarlo, ma questi diede uno strattone al corpo, come avesse provato a colpirla con una testata: “Sei una di loro, vero? Sei una schifosa muso giallo! Non mi toccare! Non mi toccare! Non mi toccare!” –continuò ad urlare e scalciare come un forsennato.

“……”

Qualcuno avrebbe riso dell’ironia: quante volte le era capitato, con ammiratori e farfalloni vari, che questi provassero ad approcciare con lei complimentandosi per quanto “esotici” fossero i suoi occhi. L’americanissima Ackerman constatò tristemente che, nei giorni a venire, il suo sangue nipponico avrebbe pesato molto di più nelle occhiate della gente.

Aveva appena dato istruzione ai due che lo trascinavano per portarlo dentro, quando si sentì nuovamente chiamare dall’infermiera Lenz.

“Mikasa!” –quando la raggiunse, tutta trafelata, vide che malgrado non si vedessero che da qualche minuto, era tutta sudata e stravolta, trasmetteva più spossatezza di quanta non ne avesse. Inoltre, a giudicare dalle ditate di sangue sul camice, qualche ferito implorante doveva esserle caduto addosso.

Decisamente troppo per la piccola Christa, pensò Mikasa: aveva avuto dei dubbi già solo nel farsi aiutare da lei nella selezione, conoscendo il suo carattere per nulla forte, per nulla adatto a prendere decisioni di tale portata.

“Per favore dammi una mano! Alcuni non so decidere se… Non so se…”

“Christa, lo so che è difficile, ma devi farti forza! Devi…”

“Ehi! Ehi, voi!”

Le due si voltarono: un robusto marinaio, ansante per lo sforzo, stava trasportando tra le braccia il corpo di una ragazza: i capelli biondi, che ricadevano disordinati davanti al volto, erano macchiati di sangue, forse un’esplosione l’aveva sbalzata per aria ed aveva battuto la testa.

“L’ho trovata qui vicino! È viva?”

Mikasa avvertì ancora calore in quel corpo, ma il polso della carotide era del tutto assente.

“No, è morta. Portala…”

Appena le scostò i capelli per riconoscerla, Christa emise un forte grido.

“ANNIE!”

Mikasa si sentì torcere la gola. Non v’era dubbio fosse morta, e che fosse proprio la loro collega Leonhardt, quel giorno non in servizio: quel suo inconfondibile naso pronunciato, quei suoi occhi di zaffiro, adesso socchiusi, come fosse soltanto assonnata. Se Christa era conosciuta come l’angelo dell’ospedale, Annie, per l’impassibilità e la mano pesante nelle iniezioni, era un demonio, la più temuta di tutte loro: pochi sapevano che tipo di brava ragazza fosse in realtà, e da quel triste giorno, nessun altro l’avrebbe più saputo.

“No! No!” –continuava a gridare piangendo Christa alle sue spalle. Lei però era quella forte, lei non poteva.

“Portala sul lato dell’edificio.” –continuò atona la frase lasciata in sospeso, indicando all’omone il posto dove stavano radunando i cadaveri.

“A-aspetta! Aspetta, Mikasa!” –balbettò la bionda- “Forse è ancora viva! Portiamola dentro, ti prego!”
“Torna al lavoro, Christa…”

“Ti prego! Potrebbe essere ancora viva! È Annie!”
“Christa!”
“È Annie!” –le squarciò i timpani come squarciato era il suo cuore.

La colpì in viso con uno schiaffo.

Non avrebbe mai voluto ricorrere a tanto, si sentì subito malissimo, ma aveva dovuto, per il suo bene, e per quello di tanti altri.

Non si concesse una lacrima, né una nota incrinata nella propria voce: le afferrò le spalle e la guardò dritta negli occhi.

“Christa, sei un’infermiera… Guardati intorno, in questo momento c’è bisogno di te…”
“……”
“Fai il tuo dovere, Christa!” –gridò tornando verso l’ingresso dove feriti su moribondi si accalcavano contenuti a stento.

Christa invece rimase lì, sola, come paralizzata, mentre il mare intorno a lei continuava ad ingrossarsi senza conoscer pace dal dolore, e dall’incredulità.

“M-ma io… Io non…”

Balbettava e si guardava intorno. Un uomo talmente ustionato che i vestiti si erano fusi alla pelle, fattasi nerastra, gridò passandole accanto, e si raggelò ancora di più.

“Io non so che cosa fare…” –singhiozzò una vocina tra le grida.

Passò un altro uomo, supplicando in lacrime che qualcuno salvasse suo fratello: aveva tre buchi rossi nel petto e un altro al centro della fronte.

“Che cosa devo fare?”

Desiderava fare ciò che sapeva far meglio: aiutare, consolare, guarire, carezzare, restituire sorrisi; ma in quell’orrore insensato, tutta la pietà e la dolcezza del mondo sembravano così ridicoli e impotenti. Le sue mani non si tendevano verso nessun bisognoso, tremando senza sosta; il suo spirito si spezzava al ricordare il volto senza vita di Annie, e il suo cuore si stringeva al pensiero di quando l’avrebbe saputo quella persona.

“Che cosa devo fare?” –implorò al dramma che lì si consumava, indifferente a lei, di risponderle.

 

 

Era voluto diventare medico dell’esercito per poter restare accanto ad Eren e Mikasa. Era stato pure felicissimo quando erano riusciti a farsi trasferire tutti e tre nello stesso luogo, per giunta una meta tanto importante ed ambita. Quindi non aveva alcun diritto di lamentarsene adesso!

Così si ripeteva, per darsi la giusta carica, il giovane dottor Armin Arlet, ed affrontare la più grande sfida della sua carriera finora. Dopotutto se uno entrava nell’esercito doveva pur essere pronto a simili e anche peggiori evenienze, si pungolava nell’orgoglio, perché i nervi non gli cedessero.

Guai fosse successo: stava a lui porre un minimo d’argine a quella catastrofe, ridurre il più possibile il numero delle vittime. Tale era il numero di quelli che chiedevano aiuto che erano stati costretti a trasformare qualsiasi stanza dell’ospedale in una medicheria o una sala operatoria: inclusa la sala relax del personale dove si trovavano ora, che decisamente non aveva mai conosciuto un’atmosfera tanto concitata.

Finora gli era andata bene, ad occhio e croce era riuscito a salvare, per il momento, più persone di quante ne aveva viste morire…

Ma se tra quei feriti ci fosse stato qualcuno che conosceva molto bene… Se gli avessero condotto lì Eren, grondante sangue, o coperto d’ustioni, o con gli organi interni spappolati, magari con qualche pezzo mancante, ce l’avrebbe fatta a rimanere padrone di sé e salvarlo?

<< Dannazione! >> -si rimproverò: non era il momento di pensare a certe cose, aveva entrambe le mani nella cavità addominale di un guardiamarina con multiple perforazioni da schegge all’intestino!

“Dottore!”

Sarebbe stato ancora più facile lavorare senza le urla dell’infermiera Blouse, nella stanza con lui a tenere d’occhio il paziente sull’altro lettuccio, pure lui messo molto male. La comprendeva, poverina: su quel lettino, col collo squarciato, c’era proprio quel soldato semplice con cui aveva tanto legato negli ultimi sei mesi. Quei due erano diventati tanto inseparabili da far iniziare a sorgere voci interessanti sul loro conto… Lo avrebbe intristito molto che tale strana coppia, che aveva portato più volte l’allegria lì alla base, si spezzasse per sempre, ma non poteva interrompere un’operazione così delicata solo per simpatie personali. Non poteva farlo.

“Dottore, la prego! Venga qui!”
“Non posso, Sasha! Non posso!” –gridò, tergendosi il sudore dalla fronte alla bell’e meglio sulla propria spalla.

“C-Connie sta…”
“Non posso muovermi da qui, mi dispiace!” –ribadì, duro ma angosciato, constatando che oltre a un bel po’ di intestino, quel tipo ci aveva rimesso la cistifellea, e pure un rene sembrava a rischio.

Doveva sbrigarsi: più veloce era, meno sarebbero stati i morti. Quel giorno non c’erano turni, quel giorno non c’erano scuse, c’era il suo onore di medico in prima linea: quel giorno, avrebbe tagliato, asportato e suturato fino allo sfinimento, fino a cadere svenuto.

Eren avrebbe fatto lo stesso. Altro che raggiungerlo lì su una barella: se lo conosceva sapeva che quel “matto suicida”, era lì fuori a combattere e far combattere gli altri col suo animo trascinatore, protetto dalla sua pellaccia dura.

<< Eren, tornerai vivo da me e Mikasa, ne sono certo. Ci vediamo a fine giornata. >> -si rivolse a lui nel suo cuore, per poi tornare a immergere lo sguardo in quel quadro di rosso, bruno e biancastro che erano le budella di quel disgraziato.

 

Connie non aveva per niente una bella cera. Gli teneva la mano e tremava tutto, con l’altra teneva premuto un panno sul lato sinistro del collo, squarciato da delle schegge: ormai quel pezzo di stoffa aveva completamente cambiato colore.

Il suo respiro era veloce e stentoreo, il suo occhi, pesti, senza forze, girovagavano confusi per il soffitto, ma quel che non le piaceva in assoluto di più era il suo colore.

Le sembrava si facesse più pallido ad ogni istante che passava: come se il suo amico, il suo complice, il suo Connie, stesse scivolando via a poco a poco, come se lentamente glielo stessero portando via.

“S-Sasha…” –la cercò per avendola accanto, reso cieco dall’anemia.

“Resisti, Connie, resisti! Il dottore è occupato, ma sta arrivando, vedrai! Ora arriva!” –gli disse senza quasi riprendere fiato.

“S-sto morendo, non è vero?”
“N-no! No! Ma che morire, andiamo! È… una cosuccia… Una… cosuccia…”

Anche le dita che stringevano il panno erano fradice del suo sangue.

Pur nel suo stato, il soldato Springer non la bevve neanche un secondo: “S-Sasha, io non… voglio morire…” –prese fiato- “C-ci sono tante cose che voglio fare… E… tante cose che dobbiamo fare…”

Sasha lasciò uscire due lacrime: che ne sarebbe stato dei loro piani? Avrebbe dovuto dire addio al loro presente di risate, balli con la radio a tutto volume, scherzi a superiori e primari; e al loro futuro di piccoli, sciocchi sogni, che non vedevano l’ora di realizzare una volta terminato il servizio.

 

“Se non hai mangiato il pollo fritto di casa mia, nel Kentucky, allora tu, mia cara, non hai mai mangiato pollo fritto in vita tua!”
“Ah ah ah, andiamo, non può essere così buono!” –scoppiò a ridere, smuovendo un po’ la sabbia coi piedi nudi.

“Fidati, è così! E tu ti reputeresti una mangiona? Mi deludi!” –la prese in giro, sgranchendosi sotto il cielo rosso di un caldo tramonto hawaiano.

“Io sarò una mangiona, ma non ho mai conosciuto qualcuno che adorasse il pollo fritto quanto te!”
“Te lo farò assaggiare! Appena è finita la ferma ti porto con me nel Kentucky, così mi dirai!”

“Oh, e come potrei tirarmi indietro?–rise ancora, girandosi su un fianco per guardarlo negli occhi- “Ma lì da voi nel Kentucky sapete fare bene solo il pollo fritto?”
“Che io ricordi nella città vicino la nostra fattoria c’è un negozio d’hamburger niente male!” –le lanciò lui uno sguardo furbetto, conoscendo i suoi gusti.
“Adoro gli hamburger!” –le brillarono gli occhi e le venne l’acquolina- “Quando saremo lì dobbiamo fare una gara a chi ne mangia di più!” –propose, sicura dell’entusiasmo della persona al suo fianco.

“Ah ah! Andata!” –fece subito, suggellando con una stretta di mano.

Un gabbiano si inserì nel felice silenzio venutosi a creare tra i due.

“Non vedo l’ora di andare lì con te.”

 

Così gli aveva detto. Quanti posti voleva vedere insieme a lui, quante risate voleva ancora fare, quante cose nuove voleva sperimentare, con lui, quel ragazzo sulla sua stessa lunghezza d’onda che rendeva tutto più divertente qualunque cosa facessero, purché stessero vicini.

Doveva star pensando qualcosa di simile anche lui, perché anche i suoi occhi presero a grondare come fontane: “Sasha…” –un brivido lo scosse- “Ti prego… non farmi morire… Non… voglio…”

Le scosse convulsive spezzavano le parole del suo pianto, mentre cieco continuava a cercarla.

“Non farmi morire, Sasha, ti prego… Ti prego…”

Un ultimo singhiozzo e lo vide perdere conoscenza.

Al diavolo Armin, non sarebbe stata lì ad aspettarlo nel mentre che la persona più importante per lei al mondo si spegneva tra le sue mani.

Scostò il panno zeppo di sangue e guardò la ferita. La lacerazione era profonda, ed era giunta all’arteria carotide, quella che porta il sangue al cervello. Le arterie fanno fuoriuscire il sangue ad alta pressione: un minuto scarso e Connie sarebbe morto dissanguato. Non era affatto brava con le suture, figuriamoci quelle dei vasi sanguigni, ma ci doveva pure essere un modo per chiudere, o almeno tappare per il momento quella breccia.

I dottori si erano complimentati più volte con lei per il buon istinto nel prendere decisioni: si affidò a quello. Cercò con le dita quel grosso cordone pulsatile, e parò la breccia con le punte dei polpastrelli.

“Io non ti faccio morire, Connie!”

La Morte stessa in persona sarebbe rabbrividita davanti ai suoi occhi e al suo tono di voce in quel momento.
“Mi hai capito, Connie? Non provarci neanche a morire, perché non te lo permetto!”

“Ho quasi fatto!”

La voce del dottor Arlet non le arrivò neanche: i suoi occhi e la sua anima erano fissi su quel campagnolo coi capelli rasati tanto sciocco e tanto buono che era diventato la cosa più bella e divertente del suo mondo, e la cui vita stava letteralmente trattenendo sotto le dita.

“Io non ti faccio morire! Non ti faccio morire!”

 

 

 

Naturalmente la scena Connie x Sasha non poteva mancare, e penso sia quella che ho scritto con più trasporto e la meglio riuscita! La sua determinazione è tale da rivaleggiare anche con quella vecchia megera con la falce: Sasha non permetterà a uno stupido vaso che perde di spezzare il loro epico duo!

La scena dell’ospedale è altrettanto drammatica, e nulla riesce ad addolcirla: tra chi si lascia trascinare, chi resta saldo e non si permette di crollare, e chi purtroppo è rimasta vittima della follia della guerra. Forse è un inconscia vendetta nei confronti di Annie la mia, per ciò che ha combinato nella serie, chissà… XD

Spero vi sia piaciuto! Ai prossimi episodi!

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Capitolo 3
*** Niente promesse ***


Salve a tutti! Finalmente questa storia ha iniziato a ricevere i primi commenti, e spero ne seguiranno altri ^__^

Abbiamo già visto diversi dei personaggi principali calati nelle loro nuove vesti di soldati, medici o infermiere, vesti che con piacere sembra vi siano risultate azzeccate e credibili. In questo capitolo ritorneremo su Levi (con gran piacere dei suoi innumerevoli fans XD) e introdurremo altri personaggi che ancora non hanno fatto la loro comparsa.

Pearl Harbor è sotto attacco, devastata dalle bombe, soffocata dal fumo: il teatro perfetto per trasformarsi in eroi. Riusciranno i nostri ad arrivare al termine di questa lunghissima giornata o il loro destino, come quello di tanti altri, sarà di perire nelle acque della baia o nei cieli dominati dai temibili Zero giapponesi?

Buona lettura!

 

 

 

Se solo sua madre avesse saputo accontentarsi della sua maestria nel rimettere a posto qualsiasi macchinario, aerei in primis, invece di continuare ad attendere con ansia il momento in cui fosse riuscita finalmente ad accalappiare e portare a casa un bell’uomo rispettabile. Che non se ne dolesse, non aveva comunque intenzione di restare single a vita, ma per Angy quello era molto più gratificante e molto meno scontato di un bel matrimonio, una bella casetta col giardino e lo steccato, e una vita di faccende domestiche.

Sgusciò fuori da sotto la fusoliera e, con la mano sporca di grasso, diede due colpetti alla carlinga: “Avvialo!”

“Contatto!” –fece subito eco la voce di Levi dall’abitacolo del monoposto, un non eccezionale ma robusto Curtiss P-40.

Rigenerato dalla famigerata “cura Zoe”, il motore ruggì come fosse appena uscito di fabbrica, come ruggisce un pugile ansioso prima del suono della campana! L’elica sulla punta vorticava come un tornado, bramosa di agguantare l’aria più fresca e più leggera che si respira in alto nell’aere. La stella bianca sulla fiancata, simbolo dell’USA Air Force, era pronta a splendere tra i soli rosso sangue dei giapponesi.

Levi ridacchiò: “Ottimo lavoro, quattrocchi!”
Angy ingrossò il petto, fiera di sé: “Avevi dubbi?”
Neanche uno, pensò il capitano, senza dir nulla per non farla gasare troppo. In realtà, come aveva avuto modo di notare in altre occasioni, Angy era contagiosa: forse la carica che davano il suo sorriso e la sua forza d’animo, forse il fatto che fosse tutta matta e grandiosa così, non si era mai sentito tanto ansioso di spiccare il volo, contro il nemico per giunta.

“Vai e fai secchi quei bastardi!”

“Non devi mica dirmelo tu.” –ribatté.

Infilò il casco e tirò giù sul viso gli occhialoni, preparandosi a portarlo fuori dall’hangar.

“Levi…” –sentì appena, sotto il frastuono dell’apparecchio.

Gli sembrò così diversa rispetto a un attimo prima, un’autentica trasformazione. Il viso così vispo era tutto teso, i suoi grandi occhi nocciola si stringevano preoccupati nell’osservarlo, come si fossero ricordati che poteva essere l’ultima volta che i loro sguardi si sarebbero incrociati. La matta aveva lasciato il posto all’umana.

“Promettimi che…”

Lasciò incompleta la fase per qualche secondo, come ci avesse ripensato.

“Promettimi che me lo riporterai indietro tutto intero.” –decise di dire alla fine, fingendo di guardare l’aereo.

“Niente promesse.” –non ebbe dubbio nel risponderle.

Non stava andando a prendere un tè: sapeva benissimo che quel volo sarebbe potuto essere l’ultimo, che tutto il coraggio e l’entusiasmo del mondo non avrebbero reso lui e il suo aereo immuni alle pallottole. Ma soprattutto, sapeva che una volta lassù, il suo destino non sarebbe stato più solamente nelle sue mani: non poteva promettere ciò che avrebbe rischiato di non mantenere, e, come lui non si faceva illusioni, così non voleva se ne facessero gli altri, solo per dar loro un contentino, una infantile speranza, una rassicurante illusione a cui aggrapparsi.

Angy annuì: “Hai ragione. In bocca al lupo, Levi.”

Sentendosi una gran stupida, scostò lo sguardo per l’imbarazzo.

“D’accordo, te lo riporterò intero.” –disse dopo un breve silenzio, un attimo prima di chiudere l’abitacolo, non senza aver badato che avesse sentito le sue parole.

“……”

La salutò con un ultimo cenno del pollice all’insù e iniziò a farlo muovere. Angy, immobile sul posto, guardò l’aereo scorrerle lentamente davanti, come piano il sorriso tornava a rasserenare il suo volto macchiato di grasso per motori. Lo seguì nel prendere velocità, innalzare il muso, e infine decollare indisturbato, come una passerella giustamente riservata all’eroe pronto ad entrare in scena.

Quel tappo, esclamò nella sua mente e nel suo cuore: doveva sempre avere a tutti i costi l’ultima parola!

 

Captate alla radio le trasmissioni di altri piloti riusciti anch’essi a far decollare i loro caccia, si diresse immediatamente nella loro direzione a dar manforte.

Il primo Zero da lui incrociato venne colto del tutto di sorpresa dal suo arrivo: lo vide svolazzare, e gli sembrò così tracotante, così sicuro di sé. Del resto, erano stati così bravi nel pugnalarli alle spalle, che non si aspettavano di certo che loro altri avrebbero avuto i nervi e le palle di difendersi dopo lo shock che avevano loro inferto. Era il momento di una bella lezione di umiltà.
Levi gli si piazzò in coda e non lo mollò fino ad averlo a portata di mitragliatrici: non premette a lungo il grilletto che azionava le sei mitragliatrici del suo P-40 che l’aereo giapponese prese a ondeggiare e poi precipitare senza alcuna scia di fumo, doveva aver colpito in pieno il pilota. Levi non esultò, né si distrasse, distrarsi è mortale in battaglia. Come si era aspettato, ecco che ora era lui ad averne non uno ma ben due in coda. Rispetto ad altri modelli, il P-40, a fronte di una maggiore affidabilità e resistenza, peccava in velocità, e non avrebbe mai potuto rivaleggiare con gli avversari in quella, di cui era invece il punto di forza. Il P-40 dava il meglio di sé a bassa quota, quindi doveva innanzitutto scendere, portarli a combattere sul terreno a lui più vantaggioso. I due inseguitori calarono con lui, e riuscirono anche a colpirgli un’ala, fortunatamente in maniera leggera.

Il capitano Ackerman, per niente sprovveduto, sapeva bene che dove non arriva l’abilità individuale, arriva la furbizia. Aveva sacrificato l’ebrezza dell’alta quota per la vicinanza ai suoi commilitoni, fiducioso non l’avrebbero deluso.

 

“Caporale Jaeger! Guardi là!”

Approfittandone per ricaricare il fucile, Eren si schermò con una mano dal sole, e notò il P-40 a bassa quota, tallonato dai due Zero, venire dritto nella loro direzione. Radunata una decina di uomini e recuperate ben tre mitragliatrici, l’incrollabile sottufficiale era riuscito a stabilire, sulla piazzola alla cima di un silos, un efficace posto contraereo, dal quale bersagliavano i giapponesi, cercando di appoggiare, finora senza molto successo, i loro aerei.

“Quel tipo è nei guai!” –esclamò uno dei soldati.

Eren però ebbe subito l’intuizione che il pilota del caccia si augurava comprendessero: “Macché, è un grande! Li sta conducendo dritti in bocca a noi!” –gli scappò una risata- “Puntate tutte le armi nella sua direzione, e aspettate l’ordine!”

 

Spronando il proprio aereo come si sprona un fido destriero, Levi lo portò alla massima velocità, e tanto in fondo spinse la sua recita che pure Eren, per un attimo, pensò non sapesse cosa stesse facendo! Ma il miglior pilota di tutta Pearl Harbor non si sarebbe certo schiantato contro uno stupido silos!

Cabrò all’ultimo istante, scoprendo i due Zero al facile tiro del posto mantenuto da Eren e i suoi.

“FUOCO! FUOCO!”

Uno degli Zero sbuffò fumo e roteando vertiginosamente si schiantò su una vicina boscaglia di palme, mentre l’altro, anch’esso colpito in pieno, riuscì a virare e cambiare rotta prima di farsi abbattere. Ma a bassa quota un P-40 dà il meglio di sé, e se c’è Levi Ackerman a pilotarlo, te lo ritrovi in coda in meno di un baleno.
“ABBATTI QUEL BASTARDO!” –urlò Eren che neanche aveva mai urlato allo stadio per le partite di football; quando lo Zero esplose al suolo, lui e i suoi uomini si sarebbero potuti scambiare per degli scalmanati tifosi ubriachi alla finale di campionato.

“Bel lavoro, gentaglia.” –si complimentò Levi, andando in cerca del prossimo avversario.

 

 

Quelli che quel giorno infame si erano trovati a bordo della nave da battaglia Oklahoma avrebbero poi pensato di averla scampata bella, prima di venire a conoscenza del fato della corazzata Arizona: quasi metà dei morti dell’intero attacco risultarono le vittime della sua enorme esplosione, centrata nella santabarbara. Al confronto, condividere il destino con l’Oklahoma, bersagliata dagli aerosiluranti fino a ribaltarsi, parve quasi una benedizione.

A capovolgimento iniziato, un altro siluro centrò la nave, e i buoni riflessi di Berthold gli concessero di agguantare la sbarra che percorreva il corridoio, mentre un paio dei compagni con cui si stava precipitando fuori inciamparono e caddero. Ormai l’Oklahoma era persa, dovevano abbandonarla prima di rimanervi intrappolati.

“Berthold, tutto bene?” –gli gridò dal fondo del corridoio Reiner che li aveva distaccati.

“Si!” –gli rispose, aiutando i marinai a rialzarsi per poi correre a raggiungere l’amico, fermatosi ad aspettarlo. Lo rassicurò con una pacca sull’enorme spalla, facendogli cenno di affrettarsi: ormai soltanto una stretta rampa di scale li separava dal ponte di coperta, da cui avrebbero dovuto giocoforza tuffarsi in mare, non essendoci il tempo per approntare le scialuppe. A metà dei gradini però, si rese conto che stavolta era stato lui a distaccare Reiner.

“Reiner, andiamo!” –lo incitò, vedendolo invece rimanere sul posto, rivolto nella direzione opposta, verso le scale che conducevano ai ponti inferiori- “Che ti prende? La nave si sta capovolgendo!”

“Non senti battere?”

“Dove vai?!”

Rivolse uno sguardo colmo di rimpianto alla luce del giorno che li stava aspettando lì in cima, allettante pur velata da tutto il fumo che si levava dall’intera rada, e, chiedendole di aver un attimo di pazienza, si lanciò dietro l’amico, che anziché salire aveva preso a scendere nuovamente nel cuore della nave. Arrivati al termine delle scale, si ritrovarono davanti un portellone blindato, oltre il quale proveniva un concitato frastuono di attrezzi metallici che battevano e urla che supplicavano.
“C’è qualcuno?”
“Siamo bloccati! La porta non si apre!”
“Aiutateci, l’acqua sta salendo!”

I due impallidirono: con la nave che si sarebbe rovesciata da un momento all’altro, il destino di quei poveracci sarebbe stato segnato e oltremodo orribile. Sarebbero rimasti impotenti a vedere l’acqua salire, sempre di più, fino a morire annegati.

“Tranquilli, ci penso io!”

Il toro dai capelli biondi strinse le grandi mani, temprate da anni di fatiche nella marina, intorno al manubrio, ma non girò di un millimetro, anzi, lo trovò tanto duro da sembrare completamente fuso al resto della porta.

“Sei tosto, eh?” –lo sfidò, rimboccandosi le mani e ricominciando a tirare.

In quel momento, il quinto siluro colpì la nave, sbalzando lui e il gigantesco amico a terra.

“Reiner, dobbiamo andare!”

“Solo un attimo, Berthold!”

Berthold deglutì: non era certo indifferente alla tragica fine verso cui si avviavano i marinai intrappolati, ma chiunque, anche senza un cuore di pietra, si sarebbe reso conto della situazione; non sarebbe mai stata della semplice forza muscolare a sbloccare quel portello, altrimenti tutti quelli di dentro non avrebbero certo invocato il loro aiuto. Non c’era niente che potessero fare per loro. Ma questo andava chiaramente oltre il comprendonio di quel mulo di Reiner.

“Reiner, non ce la farai mai! Non la senti la nave che si inclina sempre di più? Se non ci sbrighiamo ad uscire di qui ci resteremo secchi anche noi!”

“Non li possiamo abbandonare!” –si concesse di sprecar fiato tra un grugnito e l’altro.

“Reiner, sii realista! Dobbiamo andarcene!”

Per tutta risposta, quel grosso sbruffone, come pensasse avesse solo bisogno di essere un po’ rassicurato, ingrossò il bicipite destro e gli sorrise: “Se non li tiro fuori io qui non li tira fuori nessuno!”

L’effetto fu invece solo quello di far esasperare lo spilungone: “Non ce la farai mai!”

“Lo vedremo!”

L’aveva sempre ammirato per il forte senso del dovere, ma a volte non riusciva a capire dove questo finisse e dove iniziasse la sua bonaria stupidità.

Chi d’altra parte lo conosceva meglio di lui? Figlio di militari, un’infanzia passata insieme a giocare ai soldati, l’arruolamento volontario nella marina, una testa la sua, in sostanza, riempita più del necessario di chiacchiere e sogni sul patriottismo, l’onore, il valore. Una testa troppo dura e piena di principi per affrontare la realtà quando questa si faceva drammatica, come ora, che per la prima volta scopriva cosa fosse la guerra vera. Il suo amico era incapace di compromessi, pronto piuttosto a trincerarsi dietro la sua immagine precostruita di “soldato modello”, a trascinarsi dietro i suoi principi e i suoi bei discorsi, piuttosto che mostrare l’umano in fondo fragile che esisteva anche sotto quella montagna di muscoli.

Per un attimo la forza tutt’altro che sovrumana gli venne meno, e la testa gli cedette stanca, sbattendo contro il metallo del portellone, da cui non smettevano di giungere le grida di quei condannati. Era rosso come un pomodoro e le vene della fronte, gonfie come sul punto d’esplodere: pure la schiena, inarcata, sembrava sul punto di spezzarsi, o quantomeno di lasciar partire un ernia. Berthold, reggendosi al corrimano, guardava un po’ lui, un po’ le scale.

“Reiner, dannazione! Andiamo via!”

Gli voleva bene, non voleva morisse per un questione d’orgoglio, né voleva morire lui, ansioso di abbandonare quella trappola, e di raggiungerla il prima possibile…

“Io…” –cominciò a dire ansimando- “… sono Reiner Braun… vincitore a mani basse del torneo di braccio di ferro dell’Oklahoma! Io… glielo devo… Lo devo a tutti!”

Perché tirar fuori persino una cosa tanto sciocca adesso?

“Lo devo a tutti quelli che mi hanno acclamato come il più forte di questa nave!”

Fino a che punto arrivava il suo spirito di sacrificio?

“A tutti quelli che mi hanno riconosciuto del valore!”

Si sarebbe dunque suicidato per un titolo senza importanza, e il caro ricordo del mese prima, quando i marinai se lo erano portato in trionfo sulle spalle per le vie del porto, a sbandierarlo orgogliosamente agli equipaggi delle altre navi, prima di far scorrere frullati e birra a fiumi alla tavola calda. Qualcuno di quei marinai, di quei visi sorridenti e festanti di allora, era già morto quel mattino, e qualcun altro magari era lì dietro quella porta, in attesa di una fine delle più atroce.

“Vai tu se vuoi, io… Non li abbandono… Proprio io non posso…” –riprese a stringere i denti e tirare, benché sul punto di svenire- “Non deluderò… Non…”

“……”

Figurarsi, avevano vissuto insieme fin da bambini, e se c’era una persona incapace di deludere, quella era Reiner Braun. Reiner doveva sempre fare il Reiner: quello dei discorsi su che gran paese è l’America, su quanto bisogna essere orgogliosi di indossare la divisa con cui portarne alto il nome, quello che quando c’è da lavorare è sempre il primo a farsi avanti e a spronare gli altri al meglio di sé stessi, quello che si farebbe ammazzare piuttosto che trasgredire a un ordine, piuttosto che dare di meno di quanto ci si aspettasse da lui.

Berthold sospirò: molto stupido in effetti essersi aspettato che lasciasse perdere solo perché era al di sopra delle sue capacità. A questo punto c’era un unico modo per poter andar via insieme. Procurarsi quella grossa chiave inglese che aveva visto per terra scendendo le scale…

“Berthold?”

E ficcarla tra le razze del manubrio bloccato per poterla usare come leva.
“Avanti, Reiner! Insieme al tre!”

Esterrefatto, ci mise un paio di secondi in più per rispondere: “Si! Uno! Due! TRE!”

Magari Berthold non aveva uno spirito d’acciaio come Reiner, ma quegli annetti nella marina avevano scolpito un po’ anche il suo di fisico; ci vollero altri due conteggi, ma a il manubrio finì col cedere di botto. Berthold tenne aperto il portellone, mentre Reiner, sordo ai ringraziamenti, si assicurava che uscissero tutti, dando una mano e una spintarella a chi aveva bisogno di aiuto.

“Ehi, Bert, grazie…”

Il ragazzo moro scrollò le spalle: avrebbe dovuto essere lui a ringraziarlo se, negli anni a venire, i suoi sogni non sarebbero stati funestati dal ricordo di quelle grida che, fosse stato per lui, si sarebbe lasciato alle spalle. Non si diede del codardo per averlo pensato, e continuava a ritenere che la sua sarebbe stata la scelta più lucida e razionale con la nave pronta a capovolgersi da un momento all’altro.

Ma sarebbe stata una scelta giusta più pensante di mille idiozie, e insieme a lui, grazie a lui, ne aveva fatte di idiozie di cui poi non si era certo pentito, inclusa quella di arruolarsi per potergli stare vicino. Anche quel lunghissimo giorno lo stavano affrontando insieme, e poiché lo aveva avuto al suo fianco, quelle voci che l’avrebbero perseguitato tutta una vita si erano trasformate nei volti carichi di gratitudine che aveva visto scorrergli davanti: un ricordo indelebile molto più facile da portarsi dietro.

La nave aveva raggiunto ormai un’inclinazione per cui era difficile tenersi in piedi: non c’era più un istante da perdere, e stavolta fu Reiner quello ansioso di mettersi le ali ai piedi!

“Muoviamoci!”

Divorati gradini a suon di salti, aiutandosi con gli appoggi offerti dalle pareti, i due tornarono alla luce del sole: l’inclinazione della nave era tale che avrebbero potuto tuffarsi in acqua direttamente da lì, niente di più difficile di quando da ragazzi saltavano dai rami alti degli alberi dritti nel fiume.

In quell’acqua c’erano molti meno cadaveri, pensarono con nostalgia.

 

 

 

La tragedia è nel pieno del suo corso: ognuno fa la sua parte, e qualcuno col suo intervento, come in questo capitolo, cerca e riesce a cambiare le proprie sorti e quelle delle persone accanto a sé. Ma tanti altri muoiono, aerei rovinano al suolo e navi colano a picco, senza che nessuno possa far niente. Quali altri episodi, eroici o tragici, si presenteranno la prossima volta?

Col mio animo LeviHan, la prima scena è filata molto liscia, e anche la sequenza di combattimento mi ha molto appassionato, specie scritta con la giusta colonna sonora (consiglio i << Two Steps from Hell >> per scrivere o leggere scene del genere) *__* Quella di Reiner e Berthold mi ha riservato un po’ più di grattacapi, volendo provare a rendere, in un qualche modo, anche in questo contesto, la “doppiezza” d’animo che in vari punti del manga Reiner ha mostrato. Quanto a Bert, spero non avergli fatto troppo fare la figura del disfattista XD In fondo è un bravo ragazzo, dai!

Alla prossima!

 

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Capitolo 4
*** Non se lo aspettava, nessuno se lo aspettava ***


Ciao a tutti! Ecco che questa storia è pronta a rimettersi in moto! È rimasta per un po’ di tempo in sospeso, oltre che per un sacco di impegni, perché nel frattempo sono stato preso da un’altra ispirazione estemporanea, sempre su Attack on Titan; colgo l’occasione per invitarvi a dare un ‘occhiata!

(“Attack on Titan Swapped! – Io non mi arrenderò”: http://www.efpfanfic.net/viewstory.php?sid=3362511&i=1 ).

Sebbene non senta più la stessa spinta creativa dei primi capitoli, cercherò di recuperarla, e di portare a termine questa emozionante raccolta di scorci sull’attacco di Pearl Harbor, ispirati dall’omonimo film e magistralmente “interpretati” dai nostri personaggi di AoT! ^__°

In questo capitolo ci sarà un solo episodio in luogo dei soliti due, un po’ come uno spartiacque tra quelli ambientati durante e i prossimi che saranno ambientati dopo il termine dell’attacco.

Fan di Jean, stavolta tocca a voi! ^__°

Buona lettura!

 

 

 

<< Dannazione! Dannazione! >>

A quel punto della giornata, Jean aveva ormai terminato da un pezzo la sua scorta di imprecazioni.

<< Non era così che doveva andare, dannazione! >>

Quel macello era tutto meno quel che si era aspettato dalla sua carriera militare. I Kirstein erano una buona famiglia dell’east coast, e grazie al loro nome e alle loro conoscenze, il loro rampollo si era garantito un facile accesso all’accademia, da cui era uscito in maniera brillante come sottotenente. Non era stato invece molto entusiasta della sua assegnazione lì nel pacifico, ma a suo tempo decise l’avrebbe sopportata di buon grado come una lunga vacanza fuori programma, con la garanzia di un trasferimento vicino casa al termine del periodo, e con un’altra promozione magari, se fosse riuscito a distinguersi: capacità non gliene mancavano come non gli mancavano gli agganci.

<< Porca puttana! Mancavano solo due mesi! Cazzo! >>

Non era così che doveva andare: ancora due mesi e sarebbe tornato nel suo mondo, il mondo tranquillo e appagante della gente per bene, dei salotti dove lo aspettavano le lodi di parenti e conoscenti, e le bellissime e danarose debuttanti in società da corteggiare coi gradi di ufficiale in bella mostra sulla divisa, dal risaputo, irresistibile, fascino. Rispetto, comodità, carriera, e ragazze, ragazze, ragazze. Un piano perfetto per una vita perfetta, al riparo da guai di ogni genere.

“FRANZ! FRANZ!”
“Che qualcuno la faccia tacere, per la miseria!”

Va bene la pietà, ma era ormai un quarto d’ora che quella tipa continuava a spaccare i timpani, inginocchiata accanto al cadavere del suo fidanzato: come se i suoi nervi non fossero già abbastanza a pezzi.

Ordinò a un soldato di allontanarla, cosa che, in quanto lei civile, avrebbe dovuto fare già da un po’, ma quella tipa aveva abusato fin troppo della sua umanità. Ordinò anche di coprire il corpo in qualche modo e portarlo via al suo posto, sul retro dell’ospedale, dove Mikasa gli aveva detto di radunarli.

Si massaggiò le palpebre e respirò profondamente, sperando bastasse a lenire il mal di testa: troppe scene strazianti in un solo mattino, ne aveva davvero abbastanza, e grazie al cielo era riuscito a tenersi distante dal vivo della battaglia, se battaglia si poteva definire quella che sarebbe di sicuro passata alla storia come una delle più grandi disfatte mai subite dall’America. Lui e i suoi uomini mantenevano in qualche modo l’ordine fuori dell’ospedale preso d’assalto, arginando il caos in ogni modo possibile, assicurandosi che gli ordini dei sanitari di far passare solo i gravi salvabili venissero rispettati, o ancora aiutando nel trasporto di feriti, che le ambulanze che facevano la spola tra il porto e lì continuavano a scaricare senza sosta nella piazza, di materiale vario, e ovviamente di innumerevoli corpi.

Un compito gravoso, utile, e sicuro. Qualcuno su quel “sicuro” avrebbe calcato l’accento, ma dopotutto aveva solo ventitré anni, e zero voglia di morire, e non sentiva affatto di doversi vergognare di ciò: era solo un essere umano, e tantissimi altri, con la possibilità offertagli dalla sua posizione di comando, avrebbero di sicuro agito come lui. Uno entrato sotto le armi con delle motivazioni come le sue, non era fatto per cose come cercare di portar salva la pelle, propria e dei sottoposti, sotto il fuoco e le bombe del nemico: abbondava di paura e peccava di sconsideratezza, come quella che aveva fin sopra ai capelli quell’impertinente caporale dei marines, nonché fratello adottivo della sua musa, l’adorata Mikasa. Lui si che ce lo vedeva là fuori, a dirigere contrattacchi, incitare gli uomini, spingerli a superare sé stessi per tener testa e dare una meritata lezione al vile nemico che li aveva aggrediti a quel modo.

Ma lui no. Lui era un debole. Non aveva alcun eroe da tirar fuori da sé stesso o dagli altri intorno a lui.

“Coraggio, ti aiuto!”

Darsi un tono gridando ordini smargiassi per cercare di imporre un qualche ordine, rassicurare uomini sotto shock che i propri compagni intrappolati nelle navi affondate sarebbero stati presto soccorsi, aiutare zoppi sanguinanti a trascinarsi fino alla porta dell’ospedale…

“La ringrazio… signore…”

“Aspetta qui che passi qualche infermiera.”

Questo era tutto quel che poteva fare in quella situazione.

Si passò il braccio sulla fronte. La sua divisa era unta di sudore, il suo cappello l’aveva gettato chissà dove chissà quando: quanto odiava il caldo hawaiano.

Eppure anche sotto quella cappa, i moribondi, qui e lì sui margini del piazzale, pallidi come neve, riuscivano a tremare come si tremava d’inverno dalle sue parti.

“S-signore, p-perché non mi hanno fatto entrare?”

“Non hanno posto… Pazienta un po’…” –cercò di consolarlo, maledicendosi per essere codardo al punto da scostare lo sguardo dai suoi occhi pronti a spegnersi da un momento all’altro, e dalla inutile “m” rossa segnatagli sulla fronte… Tutta la morfina era andata da un pezzo ormai: l’infermiera Renz, incrociata poco prima, sfatta come le avessero succhiato via l’anima, gli aveva rivelato che ormai di dentro erano costretti ad intontirli col whisky in luogo dell’anestetico…

Diede una pacca al compagno che gli restava accanto nei suoi ultimi momenti, ed attraversò, con passo marziale e veloce, la piazza, incrociando nuovamente Mikasa, intenta a chiudere gli occhi a un poveraccio rimasto senza entrambe le gambe.

“Jean, puoi farlo portare sul retro?”

“Va bene. Soldato, dammi una mano.”
“Sissignore.”

“Grazie per l’aiuto che ci stai dando.”

Provò a sorriderle, ma non ci riuscì, le sue labbra erano come inchiodate; del resto, sarebbe stato fuori luogo in mezzo a tanta miseria.

Bella, abilissima, incrollabile, e irraggiungibile.

In momenti come quello faceva ancora più piacere ricordarsi delle tantissime, dolci e disponibili ragazzuole che lo aspettavano negli States ansiose di farsi invitare a ballare da lui.

“Due mesi… Fanculo…”

“Come, signore?” –domandò il soldato che lo aiutava a trasportare quel corpo.
“Niente!”

La sua attenzione cascò sul loro carico: non avevano avuto modo di coprirlo, e, tenendolo per le spalle, aveva il suo volto privo di vita proprio sotto il naso. Gli occhi erano ancora aperti, il viso contrito e bagnato di lacrime per il dolore provato fino all’ultimo. Era una vista insopportabile. Ma dall’altro lato avrebbe dovuto trasportarlo per i due moncherini maciullati che erano quel che rimaneva delle sue gambe, e non voleva che il disgusto lo sopraffasse, almeno non davanti i suoi soldati.

Il lato dell’ospedale era diventato una distesa ordinata e triste di corpi allineati all’ombra; i muri dell’edificio descrivevano lì un angolo ormai completamente occupato, vide perciò che avevano iniziato a disporli sull’aiuola adiacente al perimetro. Appena adagiato il corpo ai piedi di una palma venne colto da un immenso sollievo: non avrebbe dovuto offrirsi per quel compito solo per impressionare Mikasa. O forse era stata quella famosa “empatia”, della quale, per qualcuno, ne possedeva in abbondanza, a dispetto delle apparenze, sempre a detta di quel qualcuno...

Tutti quei morti. Non faceva proprio per lui. Non era fatto per la guerra. Non aveva mai desiderato tutto ciò. Ma ora la guerra tanto lontana, tanto affare d’altri, lo aveva raggiunto, spaventosa e crudele. Gli si strinse il cuore al pensiero di poter diventare un corpo addossato a un muro, abbandonato a sé tra i suoi simili in attesa di un po’ di tempo per occuparsene degnamente, e quel pensiero accelerò i suoi passi per allontanarsi da quel luogo e da quella possibilità il prima possibile.

Voleva andare a casa. Vedere i suoi genitori, i suoi amici, e riabbracciarli tutti, sentirli vivi tra le sue braccia, per cancellare anche il ricordo del tocco di poco prima. Forse con gli agganci della sua famiglia e qualche mazzetta sarebbe riuscito a scamparla, a farsi assegnare il più lontano possibile da quella barbarie con cui non voleva avere niente a che fare, che se la godessero Jaeger e quelli come lui.

A un certo punto, incrociò un viso conosciuto, seduto come altri sul ciglio del viottolo, e la fretta sparì.

 

“Marco… sei tu?” –gli domandò.

 

Come potesse ancora rispondergli.

 

“Che ti è successo?”

 

Come non lo vedesse benissimo.

 

Gli mancava un braccio, e metà testa. Il rigor mortis aveva trasformato i suoi muscoli in marmo, sformandone l’espressione, digrignando i suoi denti in un espressione che ben poco aveva di umano.

“Come? Perché?” –seguitò a balbettare.

La guerra lontana, la guerra di altri, la guerra coi morti che non conosci e di cui ti può lavare le mani, sembrava ridere di lui dalle contratte labbra violacee di quel resto umano che era stato il suo migliore amico dai tempi dell’accademia.

Marco Bodt era diverso da lui, era un tipo a posto, mica un altro bellimbusto tutto soldi, grado e ragazze.

No, lui era di quegli strambi individui che avevano ideali, di quelli che si arruolano perché davvero vogliono servire il proprio paese, in ogni momento, difenderlo, farlo funzionare al meglio, rendergli onore. Di quelli che quando la situazione lo richiede non cercano nascondigli, né giustificazioni, ma fanno solo il loro dovere. Di quelli che la divisa la portano con orgoglio, quasi a commuoversi, senza stare a contare le ragazze che vi posano gli occhi ammaliate.

 

“Dovresti pensare anche un po’ a divertirti ogni tanto, sai?”

“Oh, per quello ci sei tu, Jean! Su di te so che posso contare!”
“Mica solo in tal senso, eh?”
“Ah ah ah!”

 

Di quelli cento volte migliori di lui. Di quelli che avrebbero meritato di vivere cento volte di più di tanti altri che, col sedere ben parato, se ne restano lontani a guardare.

Invece lui era quello vivo, ratto su una nave in burrasca che bramava a tutti i costi di abbandonare, e, lui, Marco, un sacco di carne scempiato ammassato a ridosso di un muro.

 

 “Marco… Non farti ammazzare…”

“In bocca al lupo anche a te, Jean!”

 

Senza dubbio era stata un’esplosione: la sua testa spaccata era un tripudio di cervella, il suo torace si apriva come un guscio svuotato, una crisalide dagli orli abbrustoliti, con dentro ancora qualche rimasuglio di budella viscide e maleodoranti.

Poi furono le sue di budella a venire alla ribalta, torcendosi e ribollendo dentro di lui. Riuscì ad impedirsi di mancare di rispetto ai cadaveri allineati vomitandoci sopra, svuotando il contenuto del proprio stomaco in un cespuglio lì vicino. Non aveva mai avuto conati tanto violenti, gli sembrava qualcuno lo stesse prendendo a pugni sulla pancia.

Si accasciò a terra, trascinandosi col respiro corto fino a una parete, contro cui si sedette.

Il dolore non esplose come pianto, ma come un grido, forte e rauco, da lacerargli la gola, intriso di rabbia da rivolgere contro tutto fuori e dentro di sé.

 

“Jean, l’America non resterà indifferente, non può permetterselo: credimi, non è questione di “se”, ma di “quando” entreremo in guerra contro l’Asse.”

“Si, ma tu non hai mica intenzione di farti mandare in Europa se davvero accadesse, no?

“Se ci verrà ordinato non avremo poi molta scelta, no?”

“Scherzi?! Te l’ho detto, Marco, non hai di che preoccuparti, posso far sì che mio padre metta una parola con…”

“Jean, lo sai che questi discorsi non mi piacciono! Se ci sarà bisogno, farò il mio dovere, punto.”

“… Mah… Sei proprio fuori dall’ordinario tu, Marco.”

 

Sbatté i pugni a terra, ferendosi su un sassolino appuntito senza sentirlo neanche. Ricominciò a urlare, come anche la sua testa stesse per scoppiare.

Maledetti i giapponesi, maledetto il genere umano e le sue guerre, maledetto sé stesso per non aver capito niente. Non aveva mai capito niente, di cosa significasse essere un soldato, e di cosa significasse essere un vero uomo.

 

“Empa-che?”

“Significa comprendere i sentimenti degli altri. Jean, tu sei una persona molto umana, ben conscia delle sue paure e dei suoi difetti, senza vergognartene; anzi, proprio perché sei così comprendi gli altri esseri umani, pieni come sono di difetti e paure.”

“Beh… Dici? Sono bei paroloni, ma… Di solito mi dicono solo che sono un gran egoista.”

“Oh, poco ma sicuro! Ma sei senza dubbio l’egoista più empatico che io conosca! Fidati, secondo me sei davvero portato per fare il comandante!”

 

Aveva trascorso la sua vita a guardare dall’alto in basso o da un’altra parte, mentre altri che come lui avrebbero potuto mettersi al sicuro erano andati a morire esattamente come quegli innumerevoli “anonimi” poveracci, che quel giorno non avevano certo chiesto di finire in quel modo e che fino a ieri sognavano come lui di tornare al calore delle proprie case.

Era solo un bamboccio, tutto preso da obiettivi e pensieri sbagliati.

C’erano volute una guerra e la morte del suo migliore amico per capirlo.

 

 

 

Jean è sicuramente uno dei personaggi più di spessore nella serie, capace di crescita nel corso della stessa, e di far immedesimare i lettori grazie alla sua “normalità”. In questo capitolo ho quindi voluto mostrare tutta la sua umanità, fatta di gretti egoismi e insieme di grande generosità, di spocchia e codardia, come di parole gentili e gesti d’aiuto verso i più deboli. Possiamo star certi, una volta superato il dolore, che tale scena orribile sarà per il “sottotenente Kirstein”, come nella serie, il suo momento di svolta e di rinascita.

Ed ecco che ancora una volta il povero Marco ci va di mezzo… T_T Però mi è piaciuto molto riscrivere la scena del suo ritrovamento in questa veste da seconda guerra mondiale, e spero vi sia piaciuta!

Alla prossima!

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Capitolo 5
*** Coi piedi per terra ***


Ciao a tutti, ci si rivede! Contenti? Spero di si, perché significherebbe che questa storia finora vi è piaciuta e bramate il continuo! ^__^

Benché avessi già da parte almeno la parte iniziale di questo capitolo, che preannuncio sarà abbastanza breve, sono successe un po’ di cose negli ultimi tempi per cui non ho potuto mettermi nuovamente a scrivere anche dopo che ho superato l’esame, così il tempo è passato e questa fic è rimasta a lungo in sospeso. A dirla tutta, complice appunto il tempo passato, non sento più la stessa ispirazione che avevo prima al riguardo: mi auguro di riuscire a recuperarla, e intanto approfitto di un “recupero” di idee venutomi facendomi la doccia (si, c’è chi sotto la doccia ci canta e chi pensa a cosa scrivere XD), per completare questo quinto capitolo! L’azione e la concitazione sono terminate, ma questa fanfic ha ancora molte emozioni da offrire, fidatevi!

Pur essendo di due episodi più brevi del solito, spero vi piaccia! Buona lettura a tutti!

 

 

 

L’attacco durò in tutto un’ora e mezza. Soltanto un’infinita ora e mezza, tanto bastò per spezzare tremila vite.

I giapponesi avevano in realtà previsto un’ulteriore ondata, ma ormai gli americani erano riusciti ad organizzarsi, la loro contraerea si era fatta più efficace e combattiva, e preferirono non rischiare di perdere più aerei del dovuto per una vittoria schiacciante: la potenza statunitense nel Pacifico era stata messa in ginocchio.

Passato il lampo, col suo carico di distruzione, il rombo degli aerei nipponici andò a perdersi lontano, nell’orizzonte dell’oceano azzurro, oltre le coltri di nuvole e fumo.

Ma la giornata, e i suoi strazi, erano ben lungi dal finire.

Feriti avrebbero continuato a chiedere aiuto e a morire nelle ore successive, sopravvissuti avrebbero continuato a veder morire amici e chiedersene il perché. Ora che erano andati via, che la guerra aveva detto loro “arrivederci”, adesso cominciava il dramma, e le lacrime a sgorgare copiose.

Ma non tutte sarebbero state dolorose d’addii: la quiete ritrovata, sarebbe stata anche il regno degli abbracci, del ricongiungersi, del rimboccarsi le maniche insieme, più uniti di prima, per sopportare i duri giorni a venire.

 

Appena aprì la capote di vetro dell’abitacolo, la prima cosa che sentì furono fischi estatici ed acclamazioni; un’atmosfera che non poteva essere più distante dai suoi sentimenti in quel momento, ma gli uomini avevano passato un brutto quarto d’ora, e non avrebbe fatto certo lui da guastafeste.

“Capitano Ackerman, è stato grande!”
“L’ho vista in azione!”

“Gliele ha cantate a quei fottuti bastardi!”

Spense i motori, lasciando che il P-40 si godesse il meritato riposo nell’hangar, uno dei pochi ancora interi nell’aereoporto devastato.

Col solito fare distaccato, scese tra i suoi ammiratori, non riservando loro che qualche cenno d’assenso: sciocchi, festeggiare come fosse appena finita quando in realtà non era che l’inizio. L’America, che fino a quel momento aveva rifiutato di unirsi alle danze ora c’era dentro fino al collo, e quanti di quelli che erano adesso attorno a lui, negli anni a venire, sarebbero divenuti i numeri della mondiale, immane tragedia del loro tempo.

Attraversò quella piccola calca con indifferenza, finché non notò, oltre corpi, volti e sguardi, quella coda di capelli castano rossicci, aspettarlo discreta, quasi nascosta: di certo non gli avrebbe mai dato la soddisfazione di correre da lui facendosi largo tra tutti gli ostacoli, sapeva bene che stava a lui andare da lei.

“Visto? Te l’ho riportato tutto intero come volevi, contenta, Quattrocchi?”

Angy l’aereo non lo guardò neanche un attimo.

“Ti è andata bene, Tappo.”

“Non oso pensare che mi avresti fatto altrimenti.”

“Puoi dirlo forte!” –esclamò, un po’ ridendo e un po’ stringendo gli occhi che pizzicavano.

“Non provare a commuoverti, eh?”
“Bada o come parli, ho una chiave inglese nella tasca e nessuna paura di usarla!”

Levi alzò le mani in segno di resa e si voltò, sottraendo in fretta uno dei suoi rari sorrisi agli occhi della meccanica, ai cui quattrocchi non era però sfuggito.

“Soldato, procurami un veicolo. Voglio andare subito alla rada.”
“Sissignore!”

I due scrutarono in lontananza nella direzione della base navale, dalla quale colonne di fumo nero più nero della pece si innalzavano ad indicarla come bandiere. Era giunto per quei poveracci che avevano visto l’inferno in terra il momento del riposo, per i piani alti di tirare le somme, per tutti di affrontare la parte più dura della giornata e quel che aveva in serbo: una parte di essi avrebbe trovato di che renderla un po’ meno disastrosa, per un’altra parte, tanti altri, sarebbe peggiorata ancora.

 

 

Sembrava essere diventato tutto così silenzioso adesso, in confronto alle ore appena conclusesi. Forse le orecchie, esauste, sfibrate come ogni altra loro parte, si erano chiuse a tutti i suoni, delle ultime esplosioni, del crollare di strutture, degli idranti che cercavano di spegnere gli incendi, dei mezzi di soccorso, delle grida d’aiuto.

Berthold non sentiva più niente, solo il proprio respiro appesantito, mentre, appena uscito dall’acqua, trascinava i piedi sulla sabbia della spiaggia, sabbia bianca annerita dai fumi, dai carburanti riversati in acqua, dalla cappa che soffocava nella sua ombra quasi tutta la rada, oscurando la bella giornata che si svolgeva ovunque men che lì.

Si tolse di dosso il giubbotto di salvataggio e ci si sedette sopra come su un cuscino. I suoi respiri erano lunghi, il suo sguardo vacuo rivolto in direzione della riva e delle navi ribaltate o fatte a pezzi.

Il passaggio di un cagnetto spaventato lo ridestò un attimo dal torpore, e un genuino sorriso gli tornò per qualche secondo nell’accarezzarlo. Poi l’innocente animale zampettò via, mentre dal bagnasciuga proveniva il rumore di passi pesanti che avanzavano nelle acque basse come in denso fango.

Reiner grugnì intimandosi un ultimo sforzo, rassettandosi sulle prestanti spalle il marinaio ferito che aveva cercato di trarre in salvo a nuoto. Arrivato all’asciutto, il biondo lo adagiò sulla sabbia e poté riposarsi un attimo, appoggiandosi alle ginocchia.

“Ehi” –lo chiamò- “Sei in salvo adesso.”

Si drizzò e non sentendolo rispondere, gli stuzzicò lo spalla con lo stivale.

“Ehi, mi hai sentito? Ce l’hai fatta, alzati.”

Continuò a non dargli retta.

“Ehi…”

Troppo del suo sangue aveva insaporito l’acqua salata della rada in quel tratto in cui l’aveva trasportato a nuoto: il suo sforzo era stato vano.

Reiner si passò le mani sulla faccia e lo lasciò lì; era nelle condizioni di non voler sollevare neppure uno stuzzicadenti. Raggiunse in silenzio Berthold, buttò via il giubbotto gonfiabile e si sedette al suo fianco, lasciandosi andare a un rumoroso, liberatorio sospiro.

Bert lo stava osservando con la coda dell’occhio. Quasi gli sembrava di sentirlo, chiuso nel silenzio del suo pensieroso broncio, riflettere sull’inutilità delle sue spacconerie e della sua forza smisurata dopo essersi spompato per trascinare a riva quel poveraccio senza che fosse servito ad alcunché; di certo non lo aiutava l’aver lasciato il suo cadavere a qualche metro lì davanti in bella mostra davanti i loro occhi. Sembrava star lì come un monito: quante cose c’erano ben più grandi di lui, oltre la sua portata di uomo qualunque, per le quali tutto il suo ardore e la sua diligenza potevano fare ben poco. Per una persona come il suo amico non v’era niente di peggio al mondo che vedere i propri sforzi non essere ripagati.

Quando non ne poté più della frustrazione, si frugò nella tasca dei pantaloni e tirò fuori un pacchetto di sigarette e un accendino: portò una stecca tra le labbra e poi tentò più e più volte di far accendere una scintilla, prima di rendersi conto che tanto l’accendino quanto il suo tabacco erano fradici d’acqua. Tanti saluti alla nicotina di consolazione.

Borbottando a fior di labbra tirò via il pacchetto sulla sabbia e si mise disteso sui gomiti.

I due compagni rimasero in silenzio a guardare le lance di soccorso occuparsi di tirare a bordo tutti i marinai che ancora non avevano raggiunto la riva. Almeno alcune di esse, altre avevano il compito di raccogliere tutti gli innumerevoli cadaveri che galleggiavano nella rada: quei figli di puttana non avevano avuto pietà nemmeno di quelli finiti fuori bordo, tranciandoli a mitragliate, inclusi molti della loro nave.

Sembravano ignorarsi a vicenda, ma in quel mutuo silenzio riuscivano a leggere il sollievo proprio e dell’altro di essere ancora vivi a quel punto della giornata.

“Porca miseria… Come è potuto accadere?” –si domandò basito Reiner, continuando a guardare davanti a sé.

“Non eravamo preparati: credevamo di poter entrare in guerra quando ci pareva più comodo, e invece…”

“Si, ma qualcuno avrebbe potuto accorgersene! Avrebbe potuto dare l’allarme…”
“Reiner, non serve a nulla adesso…”
“Si… Hai ragione suppongo…”

Guardò con rimpianto il suo pacchetto di Lucky Strike zuppo e sospirò di nuovo.

Berthold pensò a cosa dire in modo da continuare il discorso e distrarlo un po’: “Ce l’abbiamo fatta almeno per oggi, eh?”
L’altro sogghignò e annuì sotto le palpebre appesantite dalla stanchezza.

“Meno male che c’eri tu, amico: sono certo che è solo grazie a te che sono riuscito a cavarmela.” –ammise il gigante bruno, per nulla pronto di spirito al momento in cui tutto era cominciato.

“Andiamo, Bert, non fare certi discorsi! Sei un tipo in gamba, io lo so! Devi solo… cercare di essere un po’ meno “fessacchiotto”, ecco.”

Stavolta fu Berthold ad esibire uno stanco sorrisetto: “Si trattasse solo di quello! Prima, sulla nave, avevo già belle che condannate delle persone che ancora potevano salvarsi. E alla fine ce l’hanno fatta, perché tu eri lì a intestardirti sulla cosa giusta da fare.”
“Ehi…” –gli mollò un affettuoso colpo alla spalla- “Chi c’era lì ad aiutarmi? Se non sbaglio senza di lui non ce l’avrei mai fatta.”

Il timido Berthold fece del suo meglio per non apparire troppo lusingato.

“Probabilmente senza di lui sarei crepato affogato nel tentativo, troppo stupido per lasciar perdere. La cosa giusta da fare, hai detto? Sarebbe stata trascinarmi via da lì… Chi l’avrebbe mai detto che quel bastardo avrebbe fatto una scelta ancora più giusta?”

A quel punto non gli restò che godersi il bello spettacolo di Berthold, colmo d’imbarazzo, passarsi nervosamente una mano dietro il collo. Era un grande, e nemmeno se ne accorgeva, ma un giorno il mondo l’avrebbe riconosciuto, ne era certo.

“Grazie, Reiner.”

“Che ne dici di sdebitarti trovandomi delle sigarette asciutte?”

Berthold rise, prima che un pensiero, che latente in lui l’aveva accompagnato senza un attimo di tregua fino a quel momento, si ridestasse.

Si rimise in piedi: “Te le troverò, amico, ma adesso voglio andare da lei.”

“Si, capisco. Aspettami, vengo con te.”

Si rialzò, sgranchì le spalle e si avviò dietro i lunghi passi del bruno.

 

 

 

Il nostro Berthold sembra avere fretta di ricongiungersi a qualcuno, come del resto molti altri, ansiosi di rivedere tutti interi i propri cari: gli ultimi capitoli di questa AU saranno incentrati sul ricongiungersi dei sopravvissuti, forse un po’ meno trascinanti, ma senza di essi questa storia non potrebbe dirsi completa. I fan come me di Levi e Hanji direi hanno già avuto la loro parte XD Adesso è giusto si torni a vedere tutti gli altri, no?

Spero di riuscire ad aggiornare presto ^__^ Alla prossima!

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