Centri di Gravità Differenti

di Ater_Hailie
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Prologo ***
Capitolo 2: *** Capitolo 1 ***
Capitolo 3: *** Capitolo 2 ***
Capitolo 4: *** Capitolo 3: ***
Capitolo 5: *** Capitolo 4 ***
Capitolo 6: *** Capitolo 5 ***
Capitolo 7: *** Capitolo 6 ***
Capitolo 8: *** Capitolo 7 ***
Capitolo 9: *** Capitolo 8 ***
Capitolo 10: *** Capitolo 9 ***
Capitolo 11: *** Capitolo 10 ***
Capitolo 12: *** Capitolo 11 ***



Capitolo 1
*** Prologo ***


Prologo


Ogni cosa che succede nell’Universo comporta sempre una conseguenza, determinata da tutte le forze che interagiscono tra loro. Secondo il nostro caro Newton “A ogni forza impressa ad un corpo ne equivale una uguale e contraria” e la vita che noi viviamo è dovuta da una delle principali: la Gravità.
Tale Legge, per regole divine a noi totalmente conosciute, si dimostra anche nella vita di tutti i giorni, dando a ogni persona un proprio centro gravitazionale, piccolo o grande che sia. Chiamiamolo carisma, carattere o come volete voi, e prendiamo in considerazione esempi comuni della quotidianità: la scuola per esempio, se non ogni gruppo che la compone. Nel mio caso, che probabilmente equivale a quasi tutti gli altri, c’è sempre stato un personaggio con una personalità, mai positiva, così piena di sé da attrarre tutti gli altri e farli ruotare intorno al suo centro, rendendoli come una massa informe di tanti piccoli Corpi Celesti.
Il risultato? O dipenderne completamente o esserne talmente estranei da venir disintegrati. Ma al liceo, quando ormai pensavo di aver già visto di tutto e di più riguardo a tale Legge, scoprii, con mio grande rammarico e raccapriccio, che in quell’istituto c’era come una forma di Sistema Solare, con tanto di pianeti e satelliti più o meno grandi.
Quel Centro di Gravità, che chiamerò Alpha Sole, si chiama Alexander James. Prendete tutte le qualità più oscene mai esistite, con tanto di superlativi, e mettetele dentro a uno bello da morire: eccolo lì, la causa di tutta la mia rovina. E no, uccidete subito le vostre malsane fantasie da fangirls o fanboys, questa storia non parla di amore tra me e quel ragazzo, perché mai sarei così cogliona da innamorarmi di uno come lui.
Tornando alla scenario generale, la mia scuola era un “Complesso di Esistenze Rovinate dagli Ormoni”, o anche rinominata da me C.E.R.O., e la mia presenza era apparentemente quella di un asteroide ben nascosto. Letteralmente anonima, vivevo la mia vita senza fondare sette sataniche su una specie di pavone vitaminizzato e, per quanto potesse esser bello con la sua pelle candida e i capelli biondi, non avevo atteggiamenti perversi nei suoi confronti, a differenza della maggior parte della popolazione femminile del Complesso.
Io vivevo la mia vita e lui viveva la sua, incontrandoci senza mai scontrarci, e così sarebbe dovuto continuare, mantenendo così un equilibrio fisico. Ma il destino, e forse anche il nostro reale carattere, ci riservò uno stravolgimento di piani seguendo semplicemente il Terzo Principio della Dinamica, ossia azione-reazione.
L’Impatto risale ad un lontano giorno di fine terza, mentre ero intenta a dormire a casa mia sul mio letto con la mia musica. Fu tutto casuale, e l’insieme di quelle casualità, dalla sveglia impazzita alle cuffie annodate tra i capelli, mi fecero alzare e vedere dalla finestra due ragazzi che si stavano baciando sotto il cancello del condominio. Nulla di così strano, o almeno così mi sembrava.
Ora sommate al caso la mia stupidità, che mi permise di lottare davanti alla finestra contro le cuffie perfettamente intrappolate in quell’ammasso di fili spinati che avevo in testa, e otterrete un comunissimo esempio applicato della forza di cui parlavo prima: l’MP3 blu, ormai privato dal vincolo imposto dalla mia mano sinistra, fu attirato verso il centro della Terra, fino a quando una forza uguale e contraria esercitata dalle piastrelle in sasso dell’ingresso non lo fermò. Se fosse stato dal primo piano non avrei nemmeno urlato, ma quel “Porca di quella maledettissima sfiga!” veniva proprio dal terzo piano. Come se non bastasse il rumore assordante del povero e santo riproduttore di musica, mentre esalava il suo ultimo respiro, e il mio ululato selvaggio fece subito rinvenire quei due piccioncini, che prima erano belli che avvinghiati come cozze.
Immaginatevi lo shock di aver rotto l’unica cosa a cui tenevate e aggiungete lo sguardo di vostro fratello mentre vi guarda avvinghiato ad un altro ragazzo.
Luke, mio fratello, il grandissimo intenditore di donne, o come si definiva lui, era tra le braccia di un ragazzo. Biondo. Pallido. Non ho bisogno di altro, penso che abbiate capito il risultato di tale somma.
Oltre che aver rotto un qualcosa di fondamentale per la mia esistenza in mezzo a persone da me detestate, avevo pure scoperto che mio fratello era gay ed era il fidanzato di Alpha Sole, Alexander James.
Finché fosse stato omosessuale la mia vita non sarebbe stata stravolta, ma anzi avrebbe avuto un miglioramento imprevisto con innocui e innocenti ricatti della sorella dolce e coccolosa. Ma ad azioni corrispondo conseguenze, e qui l’incognita portava nome e cognome su una testa da Troll.
Quale spazio occupavo dunque nell’universo?
Nascosta, con l’apparenza di un piccolo granello invisibile ai confini del Complesso, William Samantha Smith corrispondeva al più grande Buco Nero mai esistito nella storia di quell’istituto. Omega S, o, in parole più semplici, l’antitesi di un Semidio.
Ma non tutti vogliono tali poteri, ricordatevelo.

 

Angolo autrice

Non so con che mente malata io abbia ideato questa storia e non so nemmeno quanto sarà lunga.

Ciò che so, è che sarà al quanto demenziale, con riferimenti dal mio vocabolario da nerd e con punti di vista molto soggettivi. Ma non fatevi ingannare da ciò, la vera storia non ruota intorno a queste due persone che si rovinano la vita a vicenda, ma al pensiero della protagonista.

Detto questo, dopo aver rotto i suddetti, vi lascio alla vostra vita.

Un’autrice malamente rompipalle,
Hailie

P.s. Si accettano Critiche, quindi non abbiate paura di dire la vostra opinione.


 

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Capitolo 2
*** Capitolo 1 ***


Per l'Amore non esiste Rimedio

Ma se ci penso io, vedi come cambia tutto
 
Non ho mai creduto nell’amore e a cose simili come l’amicizia, la fiducia o quello che volete voi. Un po’ per esperienze infantili poco piacevoli, un po’ per la mia attenzione nei particolari sbagliati che mi portavano sempre alla deduzione sbagliata.
Immaginatevi anche solo quello che mi era capitato quell’esatto giorno di cui non ricordo la data: avevo sempre notato la cura di mio fratello nel vestire, ma a parte quello, non avevo mai notato nulla che indicasse una sua appartenenza alla sponda femminile. E, per quanto non mi importasse, sapere di avere un fratello molto più donna e apprezzato rispetto a me era stato come una specie di shock. Per fortuna io ancora ascoltavo musica decente, mentre lui era fissato con quelle cretinate dei tormentoni estivi. Non sembra, ma nella vita anche la musica che si ascolta è fondamentale.
Comunque, tornando a noi, pensavo all’inizio che fosse quasi come un sogno nato dalla mia mente troppo stanca e liquefatta dal caldo, ma quel deficiente del mio stesso sangue, per tutta l’estate, mi pregò di non dir nulla ai nostri genitori.
Quello di cui nessuno dei due si era reso conto era che il rischio maggiore che correvano era a scuola, e io non avevo nessuna intenzione di svelar quel piccolo particolare.
E così estate di quell’anno passò abbastanza tranquillamente, senza realmente curare quella situazione nella quale mi trovavo complice senza nemmeno volerlo, e onestamente non capivo se quello fosse vero amore o solo una specie di prova per il proprio orientamento sessuale: non perché non fossero teneri assieme, ma ogni due giorni che uscivano insieme, Luke usciva un giorno con una ragazza diversa, e ogni volta che vagavo nella città per far rifornimento di schifezze e libri da leggere, incontravo quel ritardato biondo con il proprio Harem. Forse lo facevano per nascondere la loro reale essenza, ma sembravano come delle specie di prostitute. Almeno potevano sceglierne una definitiva da illudere, e non intrattenere tutta la popolazione femminile di quella città.
Comunque, tralasciando quel mio estremo giudizio molto di parte verso due individui non particolarmente simpatici, settembre arrivò molto velocemente, iniziando il quarto anno di Liceo.
Da qui diciamo che iniziò realmente la serie di sfortunati eventi che mi hanno portata qui a scriverne.
 
Quel giorno, di cui naturalmente non mi ricordo la data vista la mia memoria da criceto ritardato, mi ero svegliata con i primi suoni della sveglia, e, ormai una routine dimenticata, mi preparai, sacrificando tutta la mia sezione di armadio con tutte le tonalità di nero, pelle e pizzo per dei vestiti che dir “osceni” era poco, mantenendo l’accordo con mia mamma sul mio look poco apprezzato e visto di mal occhio.
Avrei dovuto subito notar quanto sarebbe andato storto quel giorno dai segni funesti di quel destino, come la fetta di pane tostata bruciata e il sole che riscaldava con la sua dolce morsa letale di caldo, eppure il sonno fa far di tutto. Onestamente, non ne sono sorpresa, conoscendomi.
Così, da morto vivente con intelligenza sotto la media, mi ero ritrovata partecipe al riassemblamento dei giovani cervelli fusi. Il C.E.R.O. si stava ricomponendo lentamente nelle strade, sui pullman, e intorno alla scuola, quasi fosse un qualcosa di così straordinario, e tutti parlavano, sbadigliavano, si lamentavano così fintamente da urlare per ingrandire il disagio mentale che li turbava, e io, con una canzone dei Nirvana qualsiasi, che solitamente era come un rituale per iniziare bene la giornata, riuscivo solo a camminare con gli occhi ancora annebbiati e con la mente simile a quella di una mestruata isterica.
Cosa cazzo ci vedevano di così entusiasmante nel tornare a scuola?
Lo studente medio, mezzo ritardato della categoria dei paracarri spaziali, avrebbe sicuramente risposto con una solita frase mezza fatta nella quale esprimeva la sua gioia, finta, nel rivedere tutti.
L’unica cosa decente di quella scuola erano le macchinette e il professore di ginnastica arrivato l’anno scorso, la quale gnoccaggine, termine ormai diffuso da rientrare nel mio vocabolario da nerd asociale, era spettacolare. Di sicuro quel Complesso, che assomigliava a un branco di scimmie vittime di un esperimento uscito male, avrebbe ripetuto sempre e solo le solite routine, e io manco mi rendevo conto che il dubbio che mi era sorto durante l’estate su una ipotetica vita rovinata avrebbe potuto anche cambiare molte cose in quella scuola.
Diciamolo, la mattina è meglio non aver a che fare con me.
Così, dopo una camminata degna di non esser trascritta, mi ritrovai esattamente al bar della mia scuola a prendere un pacchetto di cibo spazzatura per riempire il mio stomaco mai sazio, quando sentii dietro di me un gruppo di persone che urlavano così tanto da far rimbombare la loro voce sulle altre. Sfortuna volle quel giorno che il mio primo incontro, che avrei preferito fare con la cara Shelob affamata, fosse proprio con un tizio di cui ormai credo abbiate capito il nome.
Biondo. Pallido. Con gli occhi sgranati come quelli del Gatto con gli Stivali, mentre leggevo con estrema indifferenza quella sua enorme paura poco nascosta.
Fu una delle più grandi soddisfazioni della mia vita
 Lui era zitto, che mi guardava, e io ero zitta, che lo ignoravo e scappavo via da quella fila maledetta, con ancora la testa tra le nuvole. Ero nella suddetta, e ancora non me ne rendevo conto.
Darmi della ritardata non sarebbe nemmeno un insulto.
Così, sicura della non presenza di determinati compagni di classe per forze superiori chiamate “Bocciature”, mi sedetti in classe in uno dei banchi in fondo, e rimasi lì, senza curarmi se esser sola o meno, ad ascoltare musica fino all’inizio delle lezioni senza esser interrotta.
Dovete sapere, per quanto possa esser osceno e al quanto crudele, che a quel liceo i professori non frega nulla se è il primo giorno o l’ultimo, loro hanno il compito di massacrare vite su vite con verifiche, interrogazioni e Battaglie delle Cinque armate. Ma questo, nel nostro istituto, succedeva perfino ai geometri, quindi vi lascio riflettere sulle tecniche dittatoriali della preside.
Passai così, tra professori di dubbia esistenza e ultrasuoni assordanti la prima mattinata, suddivisa in tre ore di latino, matematica e filosofia.
Poi la fine.
Io rimasi in classe, a nutrirmi con il cibo spazzatura, ignorando tutto e tutto, ad ascoltare la musica e leggere un libro qualsiasi, e fu così per circa cinque minuti, convinta di esser sola. Poi, mentre giravo la pagina, qualcosa la fermò, e subito alzai lo sguardo. Indovinate.
Era lì, l’unica esistenza di quella scuola, a guardarmi infuriato come se fosse stata colpa mia per quella situazione, anche se in parte lo era, e nemmeno il tempo di togliermi le cuffie che lui me le strappò via.
Parolaccia, insieme a qualche parola messa insieme a caso. Non ero la finezza in persona.
- Perché non mi hai detto che frequentavamo la stessa scuola? –
Era la prima volta che sentivo la sua voce. In quattro anni mai l’avevo sentita davvero, e ora era lì, a presentarsi a me come un comune mortale a cui veniva posta la salvezza per una qualche forma di ricatto. Quasi come una piccola soddisfazione personale, visto che non capita tutti i giorni di vedere la creatura più arrogante esser lì a togliere tutto il suo orgoglio per un silenzio.
- Buongiorno anche a te, piccola Alexandra- Risposi, ignorandolo e tornando a guardare il mio libro per evitare il suo sguardo. Era divertente istigarlo, conoscendo la sua posizione di estrema inferiorità verso di me. Ditelo, ditelo, ero una specie di sadica.
- Zitta! – Disse, forse un po’ troppo ad alta voce, e, mentre mi tappava la bocca con la sua mano più candida di quella di un morto, si guardò in torno. Era teso, molto, e non gli piaceva la situazione. Lo si leggeva nel suo volto, soprattutto su quelle piccole rughe che si creavano tra una sopracciglia e l’altra, e il suo modo di comportarsi non lo aiutava per nulla.
- Perché non mi hai detto che mi conoscevi? – La sua voce tremava leggermente e, con tutta la sua essenza da uomo che non aveva, cercò comunque di darsi una specie di aria da figo.
Ripeto, vederlo in quelle condizioni era davvero gratificante all’inizio, e mai avrei sentito il senso di colpa. Era troppo divertente quella commedia al quanto tragica.
- Ma chi ti conosce! Sveglia, non sei un dio sceso in terra, ossigenato ritardato-
Cinque secondi di puro silenzio, mentre nella mia testa sentivo ancora la mia voce che ribatteva con estrema arroganza a quella che sembrava un’anima disperata, e subito una piccola e dannata parolina nella mia testa ruotava, radunandone delle altre.
“Chiedi scusa, non è colpa sua se lo hai visto mentre si faceva tuo fratello”
Già, non era colpa sua, ma chi mai andrebbe sotto casa propria a baciarsi con qualcun altro senza aver fatto ancora coming out?
Poi, nonostante la mia antipatia verso di lui, quei piccoli occhi da gatto sperduto e investito erano puntati su di me, quasi a supplicarmi di non proferirne parola. Come se avessi detto qualcosa, poi.
- Farò tutto quello che vuoi – Propose lui, quasi come un patto con il diavolo, che in quel caso sarei stata io.
Era davvero ridotto male a dire a una come me una cosa simile. Faceva fin pena.
- Ma secondo te una come me ne parla in giro di ‘ste cose? Sveglia! Io vivo bene così, non voglio certi problemi nella mia vita. –
Non so con quale anima pia stavo dicendo queste cose, senza nemmeno chiedere un minimo di interessi nel mio silenzio poco innocente, ma ciò che avevo detto con la mia voce di natura bassa lo avevano subito animato, e reso anche più sé stesso. No, non la parte da gatto investito, ma la parte del pavone con la testa da Troll, quella che gli veniva meglio.
Era irritante, ma ancora non sapevo dei guai a cui stavamo andando in contro, e così, senza notare nulla dalla finestra o dalla porta, ripresi le mie cuffie mentre lui stava per aprire bocca. Stava per dire una delle sue, avevo anche quasi sentito un aggettivo come “Asociale” rivolto a una persona che lo aveva appena salvato.
- Sparisci, prima che cambi idea- Troncai subito, tornando ad ascoltare una canzone delle tante di quel nuovo MP3, e osservai il libro, pensando se quel che avevo fatto era giusto o meno.
Quel ragazzo aveva un cervello o era realmente avariato?
E così, persa tra una nota e l’altra di quei pensieri confusi, il primo giorno di scuola finì, senza nemmeno riuscire a capire che durante la quarta, e ultima ora, la fisica aveva ripassato nuovamente i Principi della Dinamica.
 
Quello stesso giorno, dopo esser tornata da scuola e ignorato con estrema gentilezza le domande di quella madre petulante, avevo osservato per molto tempo il comportamento di mio fratello, cercando di capire cosa realmente pensasse di quella relazione con l’egocentrico.
Era arrivato dall’istituto che si trovava dalla parte opposta della città, e, a parte mangiare e parlare di cose da tutti i giorni, non aveva fatto nulla. A volte messaggiava, a volte rideva, ma mai sul suo screen, per quanto io potessi vedere, era comparso il nome di Alexander James, e mai avevo visto il suo sguardo.
Non so nulla dell’amore, e all’epoca ne sapevo quanto meno, ma ricordo perfettamente uno strano luccichio negli occhi di Luke la prima volta che mi aveva detto del suo rapporto con lui, visto che ormai non poteva negar nulla. Nei suoi occhi, che per strana grazia divina erano un azzurro color cielo, non avevo mai visto un qualcosa di simile, e nemmeno le parole potrebbero descrivere ciò che avevo visto. Erano come pieni di brividi, di baci, di paure e di pensieri, e tutti erano lì, a riversarsi sull’osservatore, e io ero solo riuscita a tremare, a sorridere, ed accettare la sua situazione con un semplice silenzio. All’inizio pensai che fosse solo la paura del momento di esser scoperto, ma mai, nemmeno quando veniva trovato da me con una ragazza qualsiasi nel letto, avevo provato tutti quei sentimenti.
Luke era bravo a mentire, ma con me quella volta non era riuscito nemmeno a respirare. Non era un segno, solo che io non ero riuscita a capirlo. E James?
In lui avevo visto la freddezza quel giorno. Avevo visto il silenzio, l’oscurità, la sua arroganza piena di sé.
Per questo intesi che fosse paura, ma quel giorno, dopo quel discorso con quel mezzo ragazzo, avevo incominciato a temere per qualcosa che non mi riguardasse. Ma per cosa?
Non sapevo nemmeno se mio fratello fosse innamorato, figuriamoci quella testa di aria e flatulenze.
Eppure, avevo il timore che qualcuno potesse ferirsi, e non solo mio fratello.
Non è facile da spiegare, ma anche solo osservando quelle sue piccole routine, mi sentivo ancor più lontana dalla sua vita. E la questione non era solo stare zitta o meno, ma era se quello fosse davvero giusto. Se quello fosse realmente amore, e chi sarebbe crollato, se sarebbe crollato.
Però, dopo circa tre mesi, sembrava tutto esattamente come prima della mia scoperta, e la situazione sembrava stabile nel suo segreto, solo con un intrusa con strane e inappropriate curiosità.
Il pomeriggio passò, anzi, non lo vissi neanche talmente ero presa nel pensare ad affari non miei.
E Luke non aveva rifatto quello sguardo, ne aveva parlato con me di quell'incontro.

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Capitolo 3
*** Capitolo 2 ***


Se hai troppi Dubbi, il Cuore ha incominciato a Parlare

Meglio farlo tacere, prima che ci mandi tutti all’ospedale.
 
 
- Signora Smith, non si preoccupi, torno a casa. Mi saluti Luke-
Non sapevo bene perché, ma mi ero ritrovata alla soglia della porta, con una borsa stracolma di libri e il look da “Dark irriconoscibile con tanto di piercing”, a scrutare in silenzio quella madre petulante che osservava con occhi sognanti quel personaggio solitamente presente fuori da quelle mura.
Alexander James avrebbe potuto sicuramente avere una carriera da Stalker con il suo talento naturale: capelli leggermente disordinati, sguardo gentile e coccoloso, la sua presenza in stile Paranormal Activity in quella che teoricamente chiamavo casa sembrava una comparsa di cattivo gusto delle recite delle elementari.
Ero ammutolita, a domandarmi perché ci fosse lui, ma subito mia madre, con l’occhio di un becchino alla ricerca di un’opportunità, mi vide e realizzò un qualcosa che non avrebbe dovuto realizzare: io ragazza, lui bel ragazzo.
Piccola premessa per capire e compatirmi meglio: per mia madre, l’ormai signora Smith, io ero senza speranze, una figlia non tanto modello che non poteva sicuramente trovarsi un ragazzo, figuriamoci quel semidio che avevamo in salotto. Una volta mi diede perfino della lesbica, convinta che il vicino di casa, ovviamente ora amico di mio fratello e ai suoi occhi mio potenziale futuro marito, fosse un bel ragazzo. Che poi, darmi della lesbica solo perché non apprezzavo la bellezza di un ragazzo con pelle a base di brufoli e intelligenza comparabile a quella di una scimmia annegata era esagerato. Bastava darmi il professore di ginnastica, mamma. Bastava quel gran bel ragazzo, e avresti reso felice ben due figli, soprattutto la qui presente.
- Will, lui è quel bel ragazzo che viene nella tua scuola vero? –
Immaginate quel silenzio imbarazzante che si crea durante un incontro spiacevole e provate ad aggiungere vostra madre che dice con doppi fini una frase di questo genere, e ditemi se il desiderio di legarla e mandarla in Antartide vi è venuto: del tipo “Buongiorno anche a te madre, vedo che la tua costante ricerca di fidanzati per me non è finita, e il tuo esser inquietante è realmente formidabile.”
Forse lei era più parte del C.E.R.O. rispetto a me, visto la sua totale adorazione verso quel gatto investito, che mi guardava molto stupito, e per molto intendo uno sguardo indifferente con una bocca tremante. Non mi sorprenderei nel scoprire che nel oscuro passato della mia suddetta madre ci fossero state sette sataniche in onore di idioti con i muscoli.
Tornando a noi e ignorando il disagio che affliggeva mia madre, perché lui aveva varcato quella soglia senza il mio permesso conoscendo la sua tragica situazione? Voleva morire come il mio MP3?
Rimasi così, zitta, mentre appoggiavo a terra le scarpe che mi ero tolta, e nemmeno il tempo di parlare o rispondere alle questioni urgenti che vorticavano nella mia testa che quell’ammasso di nervi atrofizzati subito riprese a fare la sua solita scenata per ingannare la sognante dietro di lui.
- Tu devi esser la sorella di Luke- Disse, quasi come se qualcuno potesse credere a quella sua lieta sorpresa gentile nella quale stava annegando la sua voce, e subito mi accorsi del mio leggero svantaggio di posizioni. Non potevo dir nulla, soprattutto sapendo del carattere di mia mamma abbastanza instabile, e della mancanza di colpe di mio fratello, che, per quanto fosse un rovina giornate, quel periodo paradisiaco non aveva fatto nulla di così tragico.
Solo una cosa mi venne in mente, e subito un qualcosa nel mio sguardo si accese, probabilmente notato anche da Alex.
Maledetto bastardo.
Probabilmente lo aveva fatto apposta, era ovvio che lui sapesse degli allenamenti di calcio di mio fratello. Sicuramente stava progettando qualcosa.
Dopo il breve dialogo il primo giorno di scuola, io per lui ero nuovamente scomparsa, quasi morta, e ogni singola voce che proveniva dai corridoi erano solo i frutti di ragazze ormonate interessate anche a quella testa del mio stesso sangue.
Quindi era sicuro: voleva mettermi a tacere. Ma non sarei rimasta zitta per colpa sua, ma solo per un mio desiderio.
- Tu sei? – Domandai, cercando di apparire più calma e indifferente possibile, mentre il mio sguardo era fisso sulla sua faccia da schiaffi, e lui di tutta risposta si avvicinò a me. Un passo, due, e già sentivo l’odore di deodorante eccessivo proveniente dalle sue ascelle oscenamente glabre e dalla sua maglia
 Lontano, stupido tacchino di Natale farcito di ego.
- Sono un amico di tuo fratello. Ho sentito parlare tanto di te, ma non mi sarei mai aspettato di vederti così – Che ironia nella sua voce gentile e armoniosa che aveva già conquistato mia madre, quasi mi aveva fatto venire il desiderio di infilargli il libro di filosofia su per il naso. Oh sì, era piacevolmente colpito nel vedermi così, conoscendo soprattutto quella mia caratteristica ben nascosta a scuola, dove capelli lisci, pantaloni in pelle molto attillati nonostante il fisico non proprio atletico, collare in borchie intorno al collo e gli occhi color nocciola, affilati dalla matita nera fin eccessiva e soprattutto dalla mancanza di occhiali, non erano nemmeno accennati. Non ero una cenerentola, una ragazza brutta che si trasformava in qualcosa di splendido, ma almeno diventavo qualcosa, che però non avrei voluto far vedere a lui per alcuni motivi.
Non tutti vogliono esser visti per quello che sono, soprattutto io, che realmente non voglio proprio esser vista.
Volevo distruggerlo con le mie stesse mani laccate di smalto nero e ingioiellate con anelli simili a tirapugni, e sputargli in faccia per togliergli tutta quella maschera di falsità che indossava quotidianamente.
Meritava la morte quel Transformer.
- Tesoro, accompagnalo almeno…-
Nemmeno il tempo di finire la frase che subito risposi a quella trovata poco innocente e pura di mia madre con un sonoro “Certamente”, e con estrema velocità mi rinfilai quelle scarpe abbastanza alte e appoggiai a terra quella borsa troppo piena.
Dovevo riprendere in mano la mia vita, e non lasciarla in balia di quei due decerebrati. Toccava a me fare la contromossa, e sicuramente non se la sarebbe dimenticata facilmente, e al solo pensiero di rimanere solo io e lui, quel mezzo uomo aveva ripreso lo sguardo da vittima sacrificale posta sull’altare, consapevole di ciò che aveva fatto. Non ero nata ieri, anche se ero più giovane di lui di un anno, e sicuramente non sarei morta prima io, soprattutto non per colpa sua.
Così, oltre alla soddisfazione regalata a mia madre di quel mio consenso solitamente mancato, avevo pure l’opportunità di parlargli, chiarendo finalmente ogni singolo dubbio che avevo nella mia testa.
Sì, anche il fatto dell’amare mio fratello o meno, anche se rientrava tra le cose da chiedere in futuro.
Ci vollero due minuti, tra l’uscire di casa e scendere fino all’entrata del condominio, in cui lui sembrava aver perso la voglia di vivere con un bacio di un Dissennatore amorevole. Poi la fine, iniziata già il mese prima nella mia classe.
- Che cazzo ci facevi a casa mia? – Gli urlai non troppo forte, mentre le mie mani poco femminili lo afferravano per il collo della giacca e lo spingevano contro la parete di una tonalità poco allegra, con quel bianco sporco che incupiva tutto, e subito incominciai a guardarlo negli occhi, in quei suoi occhi troppo umani, troppo finti. Perché a me doveva capitare la conoscenza di quell’odioso?
Lui rimase fermo, solamente con quell’aria di sorpresa che aveva assunto fin dall’inizio del nostro incontro poco piacevole, e lentamente le mie debolezze incominciarono a roteare nella mia mente troppo pensierosa. Davvero, perché a me?
- Volevo veder Luke – Bugia, proprio come quella in cui stava vivendo, come in quella in cui ero trascinata, e senza nemmeno pensarci due volte strinsi ancor di più quel tessuto ancor più arrabbiata e preoccupata. Lo sapevo che avrebbe risposto così, eppure non avevo mai pensato a cosa dire dopo come invece facevo di solito, e lentamente mi sentii sempre meno me stessa, quella sicura di sé e non dell’opinione altrui.
Era questo il mio problema più grande: oltre all’apparenza si nascondeva ben altro, anche nel mio carattere. E sì, per quanto io possa rovinare l’universo di molti lettori, tutti hanno insicurezze.
- Ti riformulo la domanda – Ripresi, stringendo a me quelle superficialità del mio carattere e schiacciando quell’individuo ancor di più contro il muro, avvicinando la mia faccia verso di lui, quasi volessi sputargli in faccia. – Cosa ci facevi a casa mia? –
Silenzio, mentre la convinzione della sua bugia scompariva sempre di più e la fine di quella questione diventava sempre più lontana, proprio come la sua reale natura evanescente.
Non sarebbe finita bene, non con me così destabilizzata, non con lui così falso.
Pochi secondi, poi lasciai la presa. Pochi secondi e lui subito se ne stava andando.
Ricordo ancora i suoi capelli tra le mie mani, e io che lo tiravo indietro sapendo di aver firmato la mia partecipazione a quel disastro imminente. Urlava con poca voce per non farsi sentire dagli altri, ma non mi importava, io non lo sentivo. Non volevo sentire nulla se non la sua risposta.
- Dovevo parlarti- Sbottò alla fine, mentre le sue mani erano riuscite a raggiungere le mie braccia, e si girò, visibilmente arrabbiato, facendomi leggermente indietreggiare.
Un respiro, poi un altro, e tentai di liberarmi da quelle sue mani forti ed enormi che stringevano saldamente i miei polsi, quel giorno purtroppo non muniti di borchie appuntite anti-stupro, ma tutto fu vano. Cercai pure di prenderlo a calci, solo che mi ritrovai per terra per colpa della mia altezza media e il tacco in gomma di quelle specie di stivali, e l’unica cosa che mi tenne leggermente sollevata fu proprio la sua stretta a quei polsi che lentamente si stavano arrossando.
- Devi smetterla di metter in giro quelle voci, troia – Continuò lui, indebolendo quella presa, ma non me ne accorsi, ero troppo presa dalle sue parole. Certo che poteva far di meglio con quell’insulto tutt’altro che vero e offensivo.
Ma la vera questione era un’altra.
- Cosa? – Domandai, quasi irritata dalla sua stupida e infondata affermazione. Cosa c’entravo io?
Gli avevo promesso di star zitta, e io avevo vissuto proprio ed esattamente come gli anni precedenti, facendomi i suddetti miei. Poi, anche se avessi messo in giro io quelle storie, come avrei mai potuto farmi ascoltare se nemmeno i professori sapevano quasi della mia esistenza?
Quel ragazzo era un totale ritardato, e quella sua affermazione, per quanto potesse esser dettata dalla paura di esser scoperto, era fin troppo stupida.
- Non pensare di scamparla solo perché sei la sorella del mio fidanzato – Continuò, sicuro di sé, con la voce che gli tremava nella gola per ogni singola realtà che gli si stava riversando addosso.
Io non ne sapevo molto di lui, a parte quella cara e dolce crosta esterna che aveva fondato nuove religioni, eppure a osservarlo capivo sempre più quanto anch’io, come il resto del C.E.R.O. e della popolazione umana, ero troppo ferma nel mio pensiero.
Chi era davvero Alexander James?
Per la prima volta, per quanto nel mio cuore ogni pensiero ruotava solo su di me, desideravo pormi quella domanda senza risposta, e incominciavo a credere che già stavo cambiando. E allora, spontaneamente, mi chiedevo se avessi mai trovato la vera me, e non solo quel pensiero superficiale che si creava nella mia mente.
- Credi davvero che io sia così? – Non so cosa parlò di me. Non fu solo la voce, roca, ma le labbra, i miei polsi, i miei occhi, ogni cosa di me. Lui lasciò la presa, lasciandomi crollare rudemente a terra, e ogni cosa che sembrava essersi creata con la distruzione, sembrò rilassarsi, proprio come la fine del Signore degli Anelli, che quasi ti lascia l’amaro in bocca. Quasi fosse una scena di un film, nessuno sarebbe mai rimasto impassibile a una cosa simile: una ragazza, tenuta dai polsi, che diceva un qualcosa di così sensato da poter descrivere pure il ragazzo, che, disperato, la teneva.
Ma realmente mi potevo aspettare un po’ di così chiamato “Patos” da parte sua?
- Si – Rispose secco, spiazzandomi totalmente e lasciandomi con uno sguardo di quel Jedi mentre scopriva l’identità di suo padre. Ma no, l’esser biondo e ritardato non poteva mai esser sostituito da qualcosa chiamata sensibilità, figuriamoci l’intelligenza.
Era un deficiente. Aveva rovinato tutto, anche la più piccola particella di drammaticità che si era creata. Altro che amaro, sembrava una supposta a tradimento.
- Ma io ti detesto- Soffiai, sconvolta da quello che aveva appena insinuato su di me, e nemmeno mi resi conto di averlo detto talmente ero sprofondata in un mondo troppo reale.
Fisica, davvero non potevi lasciar fantasticare sulle tue leggi per una volta, anche se quella che mi si presentava davanti era troppo sciocca?
Ricapitolando, dopo averlo quasi reso pelato e perso due mani, quella creatura a forma di petto di pollo mi aveva paragonato ai suoi amici mezzi andati mentre mi ero quasi spiaccicata a terra nel tirare i calci alle mosche. Davvero, a parte quella sua risata che era scappata per puro caso, quel mio silenzio sembrava un suicidio assistito.
- Io ti amo, William – MI rispose ironico, mentre ogni singolo dubbio e ogni sua singola paura sembravano esser stati risolti dalla mia affermazione dettata dal cuore preso a pugni da quella sua sconvolgente risposta alla mia domanda. Lo avrei ucciso dopo aver superato quello stato di shock.
Ma senza nemmeno aspettarmelo, lui si accovacciò, e con estrema felicità per quel qualcosa che aveva finalmente capito, mi abbracciò, quasi strozzandomi, e subito fui io a rovinare l’atmosfera con ogni singolo insulto che vorticava nella mia mente, lasciando la mia voce in silenzio per i suoi mille grazie sussurrati al mio orecchio destro.
Furono solo altri tre minuti, in cui il mio commento mise fine a quella scenata fraintendibile, ma in quei centottanta secondi compresi che lui ormai era già dentro la mia vita, che io lo volessi o meno.
 


Angolo Autrice
Odio scrivere queste note che mai nessuno leggerà sotto un capitolo del mio racconto, ma mi sembrava giusto dirlo: più o meno pubblicherò ogni venerdì un capitolo. Se avrò problemi con la scuola o con la mia fantasia al quanto scadente, prometto (Ma non giuro visto che sono una pigrona) che la settimana dopo cercherò di pubblicare due capitoli.
Premettendo che sono umana e che forse non manterrò perfettamente la promessa, volevo ringraziare quei pochi e santi lettori che stanno seguendo la storia e son sicura che non la abbandonerò, visto che l’ho anche quasi finita.
Detto questo, vi saluto
La solita petulante scrittrice fallita Hailie.

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Capitolo 4
*** Capitolo 3: ***


Uno Sguardo vale più di Mille Parole

Ma tu, o sei strabico, o sei analfabeta.
 

Dopo quel giorno, dopo quell’abbraccio, ogni singola persona potrebbe aspettarsi un cambiamento nella relazione con quell’individuo, ma ormai io ero abituata alle sue stranezze. Inoltre, conoscendo la me stessa acida e rancida, io non avrei mai fatto una qualche speranza in qualcosa di così estremamente anormale, anzi, speravo che dopo quel suo sfogo di emozioni lui fosse stato tagliato finalmente fuori dalla mia vita.
Ditelo, sono cattiva.
E così, piacevolmente indifferente dalla sua mancanza di attenzione il lunedì successivo, quella specie di dimostrazione affettiva, dove lui aveva anche alitato sul mio povero orecchio, sembrava solo un incubo avuto per il troppo stress, e l’unica cosa che ancora non era sistemata, per quanto fosse insignificante, era mia madre: per tutto il tempo aveva fantasticato sul futuro tra me e il tacchino con la testa da troll, e nemmeno le parole di mio fratello, che avevano un non so che di divertito, erano riuscite a placarle la mente.
Così, mentre la settimana scorreva tranquilla come io avevo desiderato, il sabato della settimana dopo, intanto che stavo per andarmene da scuola, incominciai a sentire le voci di corridoio sul loro caro e dolce sole, e ogni sorta di ragazza diceva la sua sul misterioso ragazzo dagli occhi ghiaccio. 
C’era chi, di natura perversa, lo voleva in stile bambola gonfiabile, e chi, invece malata di mente, lo usava come fantasia da fangirl. Non voglio esser cattiva, anzi, so perfettamente di esser leggermente appartenente a quella categoria, ma trovatemi una popolazione femminile in cui non è presente nemmeno una yaoista: nel nostro istituto, con la presenza di bei ragazzi e il professore di ginnastica, più della metà delle ragazze, oltre che venerare le persone in piccole e inquietanti sette, creavano storie molto fantasiose dove ogni loro lato più perverso sfociava, creando coppie altamente improbabili. E quelle voci, totalmente infondate e nate da menti malate di ragazze con ormoni sballati, avevano fatto tremare quel grande uomo di un James: realmente, quanto poteva esser ritardato quel ragazzo?
Pochi passi, prima del cancello, e vidi mio fratello circondato da una folla inferocita e stupratrice di ragazze, mentre parlava con il tacchino rasato numero due, sottoposto del tacchino superiore, e due furono le mie domande: il perché della sua presenza e perché fosse l’unico della famiglia ad aver quegli occhi ghiaccio. Il mio massimo erano gli occhi color terriccio coltivato, che ingiustizia era mai questa?
Abbassai il volto, imprecando sotto quella montatura spessa contro quella carcassa del mio stesso sangue e pregando un qualche dio pagano della religione nerd di non farmi notare da mio fratello. Cioè, far scoprire a mezzo istituto che io ero una ragazza che aveva a che fare con quello era una specie di tragedia, una rovina per la mia vita idealizzata sotto stereotipi non molto classici. Figuriamoci della questione di fratello e sorella: lettere d’amore, persone petulanti in cerca della mia attenzione per doppi e tripli fini, ragazze invidiose pronte a rendermi una di loro per averlo. No, grazie, prima di compiere un suicidio assistito.
Accelerai il passo, confondendomi così a un branco di passaggio e lo superai, sperando con ogni briciolo di energia rimasta in corpo che lui non mi avesse notato. Attraversai la strada, ripercorrendo la via est che avevo fatto la mattina, e con il fiato bloccato in gola incominciai a rallentare, per ragionare su come evitare la minaccia incombente che sentivo dietro.
Ma forse non stava cercando me. Perché mai avrebbe dovuto cercarmi?
Forse era lì per James, ma quella testa bionda era uscita prima sicuramente, e con certezza il mio stesso sangue lo avrebbe dovuto sapere con un qualche suo messaggio. Magari era finito internet e non aveva più credito nel telefono, e forse non aveva avuto l’opportunità di dirglielo. 
Probabilmente si era dimenticato. O forse Alex non era stato cacciato via prima quel giorno, facendo un’eccezione alla regola, anche se era più probabile la nascosta e brillante intelligenza di Pipino che il suo santo silenzio in classe.
In poche parole: era venuto lì per me.
Dannazione. Ripresi una boccata di aria, che mi sembrò annegare, e poi ripresi quella mia marcia per le strade più interne, che però in quel preciso momento mancavano. Almeno quasi tutti prendevano il pullman, e il restante non andava a piedi come poveri plebei, e probabilmente avrei potuto avere un minimo di fortuna. Avrei. Molto remotamente.
Misi le cuffie, come scusante per non sentire dei suoi futuri e ipotetici richiami, e alzai il volume al massimo, distruggendo così le mie povere orecchie ormai soggette a ogni molestia, mentre ogni dubbio sembrava attanagliarmi e triturarmi come un tritacarne.
Per una volta sapevo di esser nella suddetta, ma non riuscivo a formulare una soluzione.
Forse, se fosse venuto da me, avrei potuto tirargli un pugno e fare una scenata da pazza, ma dubitavo della riuscita del mio piano di tranquillità con quello stormo di oche sotto ferormoni.
Avrei potuto dirgli che aveva sbagliato, e io ero una studentessa straniera appena arrivata a scuola, oppure mi sarei messa a correre lanciando indietro la cartella, che poi mi avrebbe riportato a casa insieme a insulti molto coloriti. Ma ogni possibilità aveva solo una piccola percentuale di compiere il mio amato scopo, e la soluzione era solo una: fuggire.
Una piccola strada a destra mi apparve, e subito, senza pensare a nulla o niente, ci svoltai, guardandomi indietro con fare leggermente ossessivo e continuando quella mia specie di corsa per la sopravvivenza.
Chi incontrai per mia sciagura e fortuna per l’anima?
Anche l’idiota biondo, ma non solo: il mio amato professore di ginnastica che viaggiava con la sua splendida moto nella strada, evitando così la schiera di studentesse che al suo passaggio urlavano.
E poi un tizio, per la precisione la ruota del carro dello stormo dei tacchini del ringraziamento, amico soltanto di James.
Non mi fermai, velocemente li guardai di sfuggita e continuai quella corsa, obbligandomi ad ignorare perfino quella visione paradisiaca simile a Johnny Depp con un’estrema fatica, e in quel momento una canzone degli Shinedown incominciò a suonare a tutto volume, che si poteva benissimo sentire anche senza le cuffie. Pochi metri, con ancora uno sguardo fissato su di me.
“45”, come i secondi che sarebbero bastati e avanzati per superare quei due.
Quello era il titolo della canzone, e parlava di un suicidio interiore. Proprio quello che stavo vivendo io in quel momento, in cui tutto sembrava andarmi storto.
Erano appena partite le parole, e come una maledizione, quella specie di Troll stalker riprese a rovinare, sballottare e calpestare ogni mio tentativo di vita perfetta al di fuori di quelle mura di apparenze, afferrandomi per un braccio e trattenendomi lì. Naturalmente, come avevamo fatto durante tutta la settimana, lo ignorai, strattonando quel braccio sempre con più forza e sempre vanamente. Stavo perfino pensando di amputarmi il braccio a suon di morsi, ma le cuffie, con uno degli strattoni più forti, caddero, lasciando ora un sottofondo generale di canto e chitarra.
 Il ritornello si fece bello che chiaro e il panico mi assalì, visto che quella testa vuota non voleva per nulla lasciarmi.
-Shinedown – Mormorò, totalmente a caso, il tizio che non conoscevo, e sia io che il tacchino ci girammo, sorpresi della sua affermazione. Sia lodata la buona musica, sempre.
Come diamine li conosceva?
Nessuno li aveva mai sentiti, nonostante fossero dei grandissimi musicisti dalle mille risorse e le melodie perfette, eppure quella specie di ragazzo timido e silenzioso, quasi aria per quella compagnia, era riuscito al primo colpo indovinarli. Formidabile.
- Che? – Ma, come spiega la terza legge di Newton, a ogni azione ne corrisponde una uguale e contraria, e dunque, mentre quello era un genio della musica, l’altro lo era dell’ignoranza.
Ma almeno non chiedere, stare zitto e ignorare quella sua strana affermazione fuori luogo.
Era un demente. Un paracarro. Se non fosse stato il ragazzo di mio fratello l’avrei soppresso senza problemi.
Ma la cosa sorprendente non fu come fu fulminato, ma chi lo sgozzò con lo sguardo. 
Diciamo che io, senza pensare troppo alle sue insensate azioni, ero ancora presa dalla fuga da quella trappola mortale che non mi aveva lasciata, e ogni mio strattone si era amplificato con la sua distrazione, approfittando di quella sua estrema demenza senza ribattere.
Quel ragazzo era normale, con uno sguardo normale e una voce normale, eppure quel suo modo di fare era nella mia normalità. Grandioso, allora non ero la prima nerd con cui aveva a che fare, forse.
- Mai sentiti? Ma in che mondo vivi stupido tamarro? – Riprese Caio Sciuro Tipo, e così incominciò una discussione di non so quanto tempo sui gusti musicali dell’uno e dell’altro, che venivano criticati con un certo razzismo dettato dagli stereotipi che avevano nelle loro menti grandi quanto noccioline. Non so quale forma di amicizia fosse quella, ma so e sapevo che quella non era propriamente chiamata, secondo i canoni del C.E.R.O., un’amicizia per doppi fini, ma per quanto potessi stimare il ragazzo dai capelli color corteccia, avevo ben altro per la testa: mio fratello.
Se non era lì per vedere il Caio Sempronio Tacchinus, era lì per un qualche mandato strano di mia madre, nell’ipotesi migliore. Quella peggiore era l’ordine proveniente da lui stesso, e non avevo tempo per ascoltare quei due litigare, sapendo soprattutto a chi dare la ragione onnisciente.
Così smisi di strattonare, pensando a un modo migliore per far ricordare a quei due la mia esistenza, ma l’unica cosa che mi balenava in mente, oltre staccare il braccio di James con i miei denti, era il parlare.
Si. Con loro. Che a momenti stavano per lanciarsi le penne dell’astuccio come freccette.
Ma in che situazione mi ero ritrovata?
Incominciai a tossire, quasi imitando il mio soffocamento e la mia morte, ma nulla.
Gli diedi dei deficienti, ma ancora nessuna reazione.
Mi era rimasta un’altra opportunità, per quanto stupida fosse, ed era una delle cose che mi venivano meglio: mi avvicinai ai due, mettendomi in mezzo, e, per quanto in mio peso me lo impedisse, spinsi il biondo per farlo cadere, ma tutto fu vano, se non per l’idea che mi era venuta in mente.
Lo avevo reso buona parte pelato, cosa ci voleva a renderlo del tutto calvo?
Allungai la mano, e incominciai a tirargli i capelli dandogli del figlio di Troll e Jabba, e il miracolo avvenì, insieme a quella serie di bestemmie non poco udibili che strepitò con una voce profonda.
- Ma sei riconglionita?!- Mi urlò dietro, afferrandomi per l’altro braccio e cercando di trattenere, senza un minimo di sforzo, quei miei tentativi. Io non avevo forza, ma lui a parte quelle sei o sette parolacce comuni non aveva un ampio vocabolario.
- E lasciami stupido Tacchino ossigenato! - Risposi io, tentando ancora con i miei piedi di colpirlo dove potevo, senza però perdere questa volta l’equilibrio, e subito quelli che erano i lividi dell’ultima volta si fecero sentire.
Peggio dei lividi, che appena li sfioravi perdevi quasi quella parte del corpo, esistevano gli apparecchi, che per mia sfortuna avevo sperimentato alle medie, e quello che stava facendo lui era un sacrilegio verso i miei arti superiori.
Per non far insospettire mia madre li avevo coperti con i miei super, fantastici braccialetti borchiati anti-stupro, ma a scuola potevo solo ricorrere a felpe giganti e logore di una tonalità pastello al quanto squallida, e lui poteva benissimo, senza farsi male, fare quel che stava facendo.
Per non parlare di quelle mie cuffie, che continuavano ad oscillare pericolosamente tra noi due, pronte a farsi staccare qualche filo e porre fine alla loro esistenza.
Era tragica quella situazione, ma a lui non interessava nulla. Ero come senza potere, a combattere il boss di qualche gioco amatoriale pieno di bug.
- Hai cercato di pelarmi! – Sbraitò lui, senza lasciar minimamente quella letale morsa, e io, di tutta risposta, cercai nuovamente di colpirlo, agitandomi come un Gollum che tenta di recuperare il suo amato Tesoro dalle grinfie di un ipotetico Frodo-Troll.
-Chiediti perché, sottospecie di Orchetto geneticamente rimbecillito- Risposi, quasi soffiando come un gatto randagio, mentre tentavo ancor di più di tirargli dei calci, mirati a cambiargli definitivamente il sesso.
Forse era meglio staccargli il braccio a morsi, per quanto fosse rivoltante.
- Ma sta qua chi è? –
Ma buongiorno anche a te, genio della musica e ritardato nella vita, non ti eri accorto di una tizia che era stata bloccata dal tuo caro amichetto?
E’ naturale chiedersi, vedendo certi esempi, se l’umanità sia sopravvissuta e si sia evoluta grazie all’intelligenza o solo per i pollici opponibili. E io che mi incolpavo per il mio pessimismo.
- E’ la sorella di Luke, anche se non gli somiglia per nulla – Il biondo parlò, e ogni mia piccola preoccupazione verso mio fratello si riversò su di loro, lasciando alla mia immaginazione catastrofica il compito di delineare il mio futuro in quella scuola, nell’aeroporto mentre prendevo un aereo per l’Alaska, fino a vedermi nei ghiacci. L’unica cosa positiva erano i pinguini.
Ogni mio desiderio infranto per colpa di Alexander James, la persona più strana e disturbata di quella città, anche primo rispetto a me e mio fratello.
Ma sì, andiamo a dire che quella nerd che ero era la sorella del divino ragazzo dagli occhi ghiaccio, lasciamola in balia delle troiette di quella scuola fino a quando non perderà la sua personalità, fino a quando non sarà come loro.
Forse avevo avuto bene l’idea che lui stesse progettando la mia distruzione, perché quello andava oltre alla stupidità di cui era munito, e l’abbraccio, i mille grazie e i suoi modi di fare erano solo un modo per convincermi della non minaccia. Ma dovevo mantenere la calma, le valigie le avrei potute fare velocemente, bastava arrivare a casa, tirando prima un pugno a quel indefinito essere dell’ormai oltretomba.
- Perché mi hai trattenuta? – Domandai, a fil di voce, con le labbra più pallide del solito e gli occhi color concime puntati nei suoi, pronta a picchiarlo appena le mani fossero state liberate.
Non dimenticai quegli occhi, freddi e inespressivi, che sfidavano in una battaglia infinita i miei, e ricordo ancora la sua voce mentre mormorava quelle dannate parole portatrici di guai. Per una volta, una delle tante, il nostro bisticciare si tramutò con una semplice intesa un qualcosa di più serio, lasciando io il mio animo nerd e lui il suo esser Sole.
- Ho bisogno di te-

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Capitolo 5
*** Capitolo 4 ***


Non Bastano le parole per Descriverci

Ma per noi basta dire “disagio mentale”
                                                                                                              

Un centro commerciale, con ben tre ragazzi e una di quelle suddette prostitute scolastiche davanti ai miei occhi ricoperti dalle spessi lente, mentre riflettevo sul come ero stata trascinata malamente in quel posto.
“Ho bisogno di te”
Era questo che quel futuro calvo mi aveva detto, e mai, per nessuna ragione, avrei mai pensato che pure mio fratello fosse immischiato in quella storia così stupida. Tutto senza spiegarmi nulla, trascinata da James in quel posto tra le risate di quel ragazzo ancora senza nome, rapita da idioti e portata in un luogo per me nocivo, per poi scoprire, con grande stupore, che la mia vita scolastica era stata messa a repentaglio solo per un loro qualsivoglia capriccio.
Triturarli sulle scale mobili non sarebbe stato peccato.
Inoltre, tra gli occhiali e i capelli ormai del tutto arruffati, sembravo una pazza uscita da un qualsiasi manicomio vicino a lì, e con quei quattro intorno a me ero forse la più diversa dal gruppo. Inutile dire che volevo tornare a casa, a nascondermi nel mio armadio per evitare quell’idiota di Luke, prima di commettere un omicidio.
- Will, lei è quella per cui ci servi – Annunciò finalmente quel ritardato di mio fratello, mentre quella sottospecie di mutazione genetica dagli airbag sproporzionati, leggermente intimidita dal mio sguardo da pazza omicida, tentava di nascondersi dietro quella massa informe del mio stesso sangue.
Non la volevo uccidere, anche se probabilmente avrei cambiato idea alle sue prime parole. Volevo solo massacrare quei suddetti ragazzi, e non era colpa sua se era in mezzo.
- Non mi sembra che gli serva qualcosa da me – Risposi, incazzata nera come solo loro potevano rendermi così, avvelenandolo con il mio sguardo da serial killer.
Non sono mai stata la ragazza simpatica della compagnia, ma provate ad immaginare di esser rapiti da persone da voi altamente odiate ed esser portate in un posto da incubo per un qualcosa di ignoto. La cosa buffa di quella situazione, oltre la mia presenza in quel posto?
L’esser trattenuta come un cane rabbioso da quella barbabietola a tacchino ancora terrorizzata per i suoi lunghi e sinuosi capelli color oro, mentre quel suo solitamente attraente sguardo si era tramutato in quello di bimbo totalmente terrorizzato.
Com’ero riuscita a pensare anche solo per un istante che mi stesse per dire una cosa seria?
- Kat non vuole apparire come la vedi ora – Mi disse tranquillamente quell’unico finto sano di mente, che con quei suoi occhi tranquilli mi mandava in bestia ancor di più, come se per lui fosse normale rapire una pazza sclerotica urlatrice di termini al quanto sconosciuti.
Dovevo solo aspettare di esser lasciata da quel ragazzo.
Mi sarei messa a correre, urlando di esser salvata da quei presunti stupratori.
Forse avrebbe funzionato, e sicuramente sarebbe stata una singolare vendetta degna di memoria. Dovevo assolutamente farlo.
- Ma se… se non… vuoi… - Una balbettante vocina, intanto che mi immaginavo quella scena afrodisiaca che poneva fine per sempre ai miei problemi, mi fece trasalire con il suo piccolo tremore da piccolo agnellino spaventato. Quella voce l’avevo già sentita, ma quel giorno stava balbettando come un’analfabeta peggio del solito, con quella sua nota acuta che tentava di portare dolcezza nell’animo di una sadica.
Katherine, o anche chiamata Kat, era una di quelle ragazze che tutti i maschi volevano portare a letto almeno una volta nella loro vita, ma che le sue coetanee l’avevano totalmente isolata solo perché più dotata, seguendo così la selezione naturale del C.E.R.O.: bastava non esser stronze, che quella bellezza diventava la più grande condanna femminile.
Ma lei, senza cattiveria, sembrava una prostituta con quella sua scollatura che attirava tutti gli sguardi, pure il mio. Ero etero, amavo quello splendido dio pagano del prof di ginnastica, ma quelle “cose”, o come le posso chiamare, non erano normali, sembravano quasi aver vita propria, dalle loro movenze da budino durante un terremoto. Inquietante, anche se per gli altri era solo uno spettacolo.
Ma il suo viso, per quanto oscurato da due soffocanti presenze sotto di lei, era semplicemente quello che poteva apparire bello, con i lineamenti fini e lo sguardo dolce di un color verde erba allucinante, accompagnati da una bocca perfetta e un biondo naturale che sicuramente portava una certa invidia a tutte quelle ossigenate.
Non era colpa del suo seno, ma di tutto il suo corpo se era in quella situazione.
E poi mi chiedevano perché non volessi rendermi partecipe di quel mondo, dove quell’ingiustizia era sostenuta da solidi tesi idiote.
Così, riflettendo su quanto quelle due cose fossero animate, mi accorsi di quanto quelle loro parole fossero mirate alla mia situazione, in cui io ero l’unica che potesse renderla meno vistosa.
Bastardi, il piano del “scappa e urla” l’avrei attuato con anche quel tizio attaccato alle mie braccia.
- Grazie per avermi detto di aver dei gusti di merda nel vestire – Risposi io, leggermente ironica, cercando di non inquietare maggiormente quella ragazza che stava provocando terremoti su quei due Everest anti-caduta, e alzai il mio sguardo su quello di mio fratello, che invece era serio, puntato su di me con una certa serietà.
Per la cronaca, questa Kat, di chi era amica, se era nella mia stessa scuola?
- Ma cazzo Will, ti sei vista allo specchio? - Incominciò quel demente con il mio stesso cognome, facendomi nuovamente alterare in quei millisecondi di silenzio che si servirono per fargli prendere fiato.
- Sei due persone diverse quando ti vesti. Da nerd anonima diventi una metal che attira l’attenzione al suo passaggio, e nessuno ha mai collegato le tue due versioni! –
Non potevo crederci che lo avesse detto a tutti, ma quel suo modo di parlare mi aveva reso leggermente orgogliosa di me stessa. Quel mio “Trasformismo” era un talento? Allora aveva elogiato quel mio talento nel trovare vestiti osceni per render mia madre più contenta di quel patto?
Strattonai leggermente le braccia per liberarmi da quella stretta asfissiante che ormai mi stava uccidendo, lasciando accompagnare quei miei movimenti secchi dalle mie parole quasi sussurrate sulla mia libertà, e cercai, almeno per quella volta, di vedere il commento di Like sotto l’ottica “Buona e Positiva”.
Un po’, dopo quei tre anni scolastici tra battutine e piccoli atti di puro terrorismo, quella ragazza mi faceva pena, ma dall’altra mi chiedevo perché si vestisse così: non ci vuole un genio per riuscire a coprirle, a meno che lei non volesse realmente coprirle.
Perché si, quella richiesta di aiuto potevo intenderla in vari modi, ma in qualsiasi modo non trovavo la mia reale necessità di azione: se voleva coprirsi, poteva farlo da sola; se voleva diventare più brutta, bastava anche solo coprirsi e truccarsi male; ma forse, più probabilmente, quella ragazza voleva solo esser accettata, e anche in quel caso io non ero utile. Tecnicamente, voleva rinunciare a una parte di sé per non esser aggredita dal C.E.R.O., ma come la vedevo io, era solo un modo per nascondere quelle sue insicurezze, in cui le finte cause erano lì, a creare le alpi sul suo corpo.
Katherine Thompson, che aveva il cognome identico al nome di un mitra calibro 45, era proprio, identica, a Luke e a Alexander, anche se le situazioni erano completamente differenti.
Tutti estremamente accumunati da quel desiderio di esser accettati, fregandosene di accettarsi.
Onestamente, non volevo capire quella solitudine nella quale li vedevo annegare, ma sapevo che quella fosse completamente diversa dalla mia. E, per quanto la mia ragione mormorava di darmi alla fuga, il mio cervello concretizzò che forse, dopo averla accontentata, tutto quel casino sarebbe finalmente finito.
D’altronde, non ero necessaria nelle loro vite, e loro non erano necessari nella mia.
- Se devo proprio…- Mormorai, sconfitta, e lasciai scorrere il mio laccio sui capelli, creando una coda che faceva apparire la mia faccia come quella di una patata obesa.
Non la guardai, mi misi semplicemente ad osservare le mie bruttissime scarpe rosse logorate e sporche di fango, convinta del bagliore negli occhi verdi e i sorrisetti vittoriosi di quei futuri rapitori, e, sospirando un po’, lasciai a quel silenzio il compito di portare un certo imbarazzo tra di loro.
Esattamente, io cosa dovevo fare?
Feci per aprire bocca per chiedere nel dettaglio cosa dovevo fare con Calibro 45, che era perfino legato come nome alla canzone che tanto amavo, quando il cellulare di James brillò, lasciando riecheggiare la sua normalissima suoneria, e quella mia sensazione di pronto omicidio assecondò quei suoni. Pochi secondi, dove compresi subito che quella dolce e splendida ricerca per una ragazza mentalmente complessata sarebbe stata affidata solo a me, e quell’idiota rispose, con quel suo fare borioso e pieno di sé che assumeva con ogni singola persona. Poi due minuti, di chiacchiericcio stupido e vario, e già mio fratello evitava il più possibile il mio sguardo, e quel ragazzo a me sconosciuto, nel suo silenzio e nella sua mancanza di sorrisi, incominciò a tamburellare la punta del suo piede contro il pavimento in resina con fare fin ossessivo.
Ora, l’unica cosa che mancava per quella scena, che oltre ad esser tragica per me lo era anche per l’altra ragazza, era una ruota divisa in due che avrebbe decretato chi far morire per primo.
- Si, ciao – Concluse, riattaccando quasi immediatamente il telefono, e il silenzio riprese a correre tra quelle piastrelle, insieme a quei piani vendicativi che mi volavano per quella testa abbastanza svuotata dalla situazione. Luke, senza parlare, si spostò verso le scale, il tutto sempre evitando il mio sguardo, e Alex, assecondando i movimenti del suo ragazzo, lo seguì in silenzio, per poi incominciare a correre giù dalle scale mobili, quasi fosse inseguito da qualche pazza omicida. Cioè, sarebbe stato così, ma ero troppo allibita, e la scena pagava molto quegli occhi ormai soggetti ad ogni improbabile scena.
- Ci vediamo a casa, Will – Disse poi, con tranquillità, quel suddetto fratello, intanto che ancora avevo la bocca spalancata per ciò che stava succedendo, mentre il tizio senza nome incominciava ad urlare dietro a quei due piccioncini insulti non tanto creativi molto meritati.
Ma che cazzo stava succedendo?
Un passo, poi un altro, ed ero già alla scala mobile ad urlare a Luke di non tornare a casa se veramente teneva alle sue palle, intanto che facevo piccoli segni intimidatori come il taglio sulla gola con tanto di dito medio, attirando non poco l’attenzione di tutti quei poveri sventurati che erano diventati spettatori di una terrificante commedia.
Disagiati mentali. Forse questo era l’aggettivo che li definiva meglio.
La cosa spettacolare, oltre che vedere una nerd sfigata urlare da una scala mobile?
Il ragazzo senza nome che la assecondava, con fare quasi più assassino di lei. Grandioso, quante persone avevano problemi psicologici quel giorno?
Adesso che lo scrivo, mi immagino la faccia di Kat in quel singolo momento che timidamente tentava di chiamarci con la sua piccola vocina acuta e fastidiosa. Povera ragazza.
Non chiedetemi quanto rimanemmo lì, perché ogni mia singola risposta sarebbe solo un numero tirato a caso, ma quando tornammo da quella ragazza, lei era pallida e muta, quasi si sentisse la causa di quella situazione.
Per me lo era, ma piccoli punti di vista.
- Su Kat, prima ci muoviamo, prima li facciamo fuori – Disse Tizio, appoggiandole una mano sulla spalla, e lei di tutta risposta annuì, sorridendo debolmente incerta su chi fossi io.
Probabilmente mi aveva scambiata per una di quelle che la odiavano, o forse mi aveva solo classificata come una schizofrenica sorella di uno al quanto famoso, ma di sicuro non riusciva a vedermi di buon occhio. Non dopo quello che aveva visto.
Così, con quell’ultimo briciolo di calma rimasta nel mio corpo posseduto da tanti piccoli Smeagle, le porsi la mano, sicura e arrossata dalla stretta dei miei pugni.
- William – Dissi, a voce sicura e furiosa, senza sapere quale patto con il diavolo stessi stipulando.
Passarono pochi secondi, in cui il mio pensiero non riuscì mai a formulare le conseguenze causate dal mio gesto, e poi quella mano titubante e tremante si appoggiò sulla mia.
Valeva davvero la pena aiutarla?

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Capitolo 6
*** Capitolo 5 ***


 Ogni Domanda ha una Risposta

Ma non è detto che la si voglia
 

Quel giorno la fisica, dopo aver portato nuove leggi nella mia vita quali “L’attrito non fa miracoli” e “Un corpo in quiete, sottoposto a una forza, accelera”, aveva lasciato inaspettatamente spazio alla chimica, con quel caro Lavoisier e la sua stupida legge rovina studenti.
“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”
E sì, per trasformare la materia bisognava usare molta energia, che non era mai del tutto sufficiente: maledette protuberanze che non riuscivano né a distruggersi né a cambiare un minimo la loro forma troppo sporgente. Avevamo passato più di due ore tra i vari negozi più scadenti che io ricordassi, con articoli che potevano trasformare chiunque, ma anche in quel preciso istante, mentre sbuffavo disperata, quella vocina fastidiosa annunciava il mio totale fallimento.
- Non mi va bene, non ci entro –
Lo aveva detto almeno una cinquantina di volte quel giorno, e circa un’altra cinquantina di vestiti venivano bocciati da me e quel caro sconosciuto che ancora in si era presentato. Nessun progresso, solo un terribile mal di testa e dei piedi ormai ancorati a quel sudicio pavimento.
- Vestiti e andiamocene – Sbuffai io, appoggiata alla parete con la schiena e il piede, mentre giocavo sotto lo sguardo di quel tizio con un ciuffo di capelli scivolato fuori dalla coda.
Noia. Disperazione. Consapevolezza del suo caso insalvabile.
Erano stati dei bastardi quei due, che ci avevano lasciati lì senza uno straccio di aiuto, senza nemmeno che ci conoscessimo. Oltre ad aver abbandonato me, provocando un piccolissimo rischio di morte nella loro vita, avevano lasciato la loro ruota del carro e una ragazza insicura perfino della sua ombra, che doveva fronteggiare una William furiosa.
La tenda del camerino si spostò, e Kat, con gli occhi leggermente spenti, ci superò senza dir nulla.
La seguii, sfilandomi via gli occhiali, e la raggiunsi, seguita dai passi pesanti di quel ragazzo, che, come me, sembrava esser su un punto morto. Cosa potevo fare?
Poi, perché mio fratello mi aveva affidato una cosa simile? Non avevo mai aiutato nessuno, e anche in quel momento non riuscivo a trovare una qualche forma di vantaggio nello sfidare la chimica e nemmeno un valido motivo per cui dovevo seguire gli “ordini” di mio fratello.
- Prendiamoci una pausa – Proposi, mentre quel silenzio generale era caduto tra di noi, che guardavamo come dei ritardati quei vestiti che avevamo già selezionato, e subito quell’imprecatore incallito di termini comuni annuiva, come quei personaggi dei tassisti appoggiato sul parabrezza.
Kat, senza nemmeno un minimo di pugno di ferro o di spirito, concordò flebilmente: sembrava un cagnolino al nostro servizio talmente tanto fosse attaccata a noi, quasi temesse il resto del mondo.
Ma in fondo, lei lo temeva veramente. Non lo dava realmente da pensare, anche se la sua insicurezza era abbastanza visibile, ma quel suo sguardo costantemente appoggiato alle punte delle scarpe o la sua tecnica di mimetizzazione dietro agli altri me lo facevano subito intuire.
Timida sì, ma soprattutto impaurita.
Forse era per quello che io ancora non l’avevo lasciata lì da sola con ancora quei problemi, perché sapevo cosa significasse aver paura.
Ma bastavo altri due negozi che quell’idea si sarebbe subito disciolta come lanciata amorevolmente nell’acido del mio carattere.
Passo dopo passo, con uno schieramento dove io e Tizio (chiamiamolo così, visto che quell’idiota manco si era ricordato di presentarsi in quelle eterne ore di attesa davanti a una tenda) sembravamo i bodyguard di quella piccola e problematica Calibro, ci avvicinavamo alla zona ristorazione di quel maledetto posto di torture, e nulla poteva distogliermi dal desiderio di sedermi su una sedia.
Però, appena quelle luminose e splendide scritte simili a quelle della sigla di Star Wars mi si presentarono davanti, subito mi fermai, a bocca aperta, a pregare quei miei dei pagani per aver salvato quel luogo, sotto le domande e gli insulti di quei due.
Plebei, volevate sottrarmi Candy Word, la Feltrinelli e il Game Stop, ma nulla può battere la mia indole da sfigata. Al diavolo le tonnellate in più con cui avrei potuto fare una ditta di prosciutti, al diavolo i dissanguamenti per i tagli sulle dita e Al Diavolo i bisogni primari come dormire o andare in bagno, io non avevo bisogno di nulla, se non di quella mia trinità. Nessuno poteva separami da essa, nemmeno il passaggio del bellissimo prof di ginnastica o un Kurt risorto per arcani misteri, ma anzi, li avrei trascinati lì dentro, li avrei resi come me, ossessionati da quelle manne celestiali, a morire di overdose di dolcetti leggendo e allo stesso tempo giocando alla Playstation.
Ferma lì, a immaginarmi con una certa sanità mentale ogni singola cosa, mentre una ragazza mi agitava il braccio e quell’altro agitava la mano davanti ai miei occhi, che brillavano come i flash di una macchina fotografica, con a terra i miei occhiali, caduti ovviamente dalla parte delle lenti.
Addio, Mondo e a mai più arrivederci plebei, il mio futuro mi stava chiamando.
Era quasi il richiamo che Frodo e tutta la compagnia dell’Anello sentivano nel guardare quel piccolo oggetto con le scritte in stile “Anello cambia-colore-con-l’umore”, quello che conduceva i miei piedi ormai fuori controllo più vicini a quelle scritte, accertandomi che quello non fosse un’allucinazione. Mi diedi perfino un pizzicotto, ma quelle splendide figure non volevano scomparire, e la loro luminosità abbagliante, unito anche all’odore di fragola che si sentiva da lontano, era lì, a catturarmi.
“Vostra, fate di me ciò che desiderate” e forse l’avrei probabilmente detto, se naturalmente la fisica non avesse creato perfino il contrario di quella somma forza.
- Samantha? –
Chi cazzo mi stava chiamando in quella splendida situazione? Chi?
Da angelica persona che aveva appena raggiunto l’illuminazione ero diventata la bambina di “The ring”, solo leggermente più brutta e più reale, e il collo ruotò, quasi fosse impossessato da un demone superiore, con una lentezza inquietante.
Erano due i problemi: chi avesse rovinato tutto e chi fosse quella persona che conosceva il mio secondo nome, nato come rimedio allo sbaglio a cui era stato soggetto il primo.
- Oh, mio dio! C’è anche Thomson, ma che bella coincidenza…  – Disse una bionda, una di quelle masse di pecore ossigenate che stavano proprio davanti a noi, ad osservarci bisbigliando con quelle bocche che conoscevano più genitali che persone. Oh, no, ma io davvero le amavo. Le volevo stringere, fino a rompere le costole, per poi applicare un massaggio cardiaco e un bagno nella lava.
Dovete sapere che mia madre ha sempre avuto un sesto senso per le persone più oscene di quella terra, a partire dal vicino di casa e dal Tacchino, ma mai era riuscita a incontrare un arpia peggiore di Roxanne Brown, che già dal nome faceva venire l’orticaria oltre che il dubbio sulla fantasia dei suoi genitori nel dare i nomi.
Lei era stata una nostra vicina di casa, esattamente quella che viveva sotto di noi, e mia madre, come una dolce e cara persona molto propensa nel rovinare la vita alla figlia, mi voleva obbligare a diventare sua amica, visto che quella potenziale candidata era sola. Ma farsi due domande mai?
E così si era ritrovata a sapere cose di me che quasi manco sapevo di conoscere, fino a quando non si trasferì dall’altra parte della città, fortunatamente più lontana da me, ma quel giorno, visto che la sfortuna è sempre e costantemente accompagnata da altre sue compaesane, il caso volle presentarmela.
Davanti a me, con i capelli che sembravano pieni di topi, eppure, stranamente, non truccata. Forse anche a lei era capitata una brutta giornata, ma per sicurezza era meglio rovinargliela ancora un po’.
- Amore mio, non hai ancora abbracciato il treno in corsa verso Fanculandia? Lo sai, per te passa a ogni ora – Le risposi, mimando prima i baci che si trasformavano in diti medi al quanto artistici, e mentre il silenzio generale era caduto tra quelle oche dalle maschere di cera, il Tizio senza nome cercò di non ridere, accovacciandosi a terra dando a tutti la schiena. Naturalmente, quella senza suddette di Calibro si era nascosta dietro di me, stringendomi delicatamente il braccio con le sue mani tremanti, e quella sottospecie di ragazza della Brown, che non era nemmeno così brutta, incominciò a tingersi di quelle sue solite chiazze rosse sul collo, quasi fossero eritemi. A quanto pareva, non avevo ancora perso quel mio talento nel mandare a quel paese le persone, e lei l’aveva presa talmente tanto sul serio che già si avvicinava a me, con quel rumore di piedi piatti sulla resina.
- Thomson, oltre ai maschio ora hai deciso di puntare alle ragazze? Come svolgi bene il tuo lavoro, anche se hai scelto una di dubbia femminilità. – Rispose lei, sputando veleno con un sorriso estremamente acido con tanto di sottofondo di risatine al quanto fastidiose.
Nel C.E.R.O., o per meglio dire in tutto il complesso, era una tecnica di sopravvivenza sviluppata dalle ragazze Tau che consisteva nell’abbattere l’elemento più debole dell’imminente minaccia, per indebolire le possibili rivali. Ma con me, tali leggi non funzionavano, e quella ancora non lo aveva capito, nonostante tutto quello che mia madre le aveva raccontato.
- Oh, a quanto pare preferisce scegliere una brutta di natura che una che assomiglia a un Trans con tanto di macchie da Dalmata. Piccola Roxanne, perché non abbai e te ne torni dal negozio di ceramiche da cui sei venuta? –
Boom. Appena avevo nominato le sue oscene macchie lei aveva messo le mani sul collo, quasi a coprire quelle mutazioni genetiche peggiori di quelle di Kat, per non parlare di quell’insulto non tanto velato sulla sua reale natura. Eppure la cosa non mi rendeva molto felice per quanto ormai fosse sconfitta, visto che sapevo anch’io molte cose sul suo conto. Quelle domande che io non avevo fatto mi avevano portato risposte che non volevo, e quel suo esser stronza peggio del mostro di una saga fantasy aveva un suo perché.
Non esistono troie senza motivi, perché la selezione naturale altrimenti le avrebbe già terminate.
Per questo esistevano le Tau, la categoria peggiore di questa specie che dominava incontrastata nell’ignoranza generale.
Nel suo esser bionda, la carnagione ormai sbiancata risaltava, lasciando intravedere quelle occhiaie dovute non solo dal sonno, e quel suo sguardo urlava parole velenose al mio, che annoiato, non poteva non contrastarlo. Non avevo reali rimorsi, solo un leggero senso di colpa che presto si sarebbe dissolto con il passaggio di quella specie di Barbie, ma lei stava bollendo di ira e di umiliazione.
Nessuno le aveva detto di salutarmi, nessuno le aveva detto di insultare Calibro e me. Semplicemente lo aveva fatto e sapeva bene che ero una che reagiva, soprattutto dopo avermi distratto da quell’Eden a misura di William.
- Ci vediamo, Thomson – Rispose, secca, con la voce sicura protettrice dei suoi occhi ormai tremanti, per poi superarci con il suo branco di cervelli bruciati e bucati dai topi, che, con una sicurezza spaventosa, alternavano piede destro e sinistro quasi fosse una marcia. Si, una bella marcia da uno psicologo, di sicuro non avrebbe mai fatto male a nessuna di loro.
Un paio di respiri silenziosi, mentre entrambe guardavamo quella parata di Barbie, e la mia felpa, ormai quasi incollata alle mani di Kat, incominciò ad agitarsi come un ossessa, presa dai fremiti di quella ragazza troppo, e dico troppo, innocua per quel mondo. Naturalmente, visto che dalla sua stessa parte c’erano quei favolosi negozi, mi girai verso di lei per pura gentilezza, intanto che provava a balbettare qualcosa con quella sua vocina che non usciva.
- Ma come hai fatto? – Mi domandò la voce dietro di me, che dopo aver quasi perso un polmone nel tentativo di reprimere quella sua risata assolutamente, irritantemente, normale, era lì, a squadrarmi incredulo con quei suoi occhi nocciola, con quel suo sorriso stupefatto quasi perfetto. Ma come faceva lui ad esser sempre così?
- Palle quadrate – Risposi freddamente, senza distogliere per nemmeno un secondo lo sguardo da quel verde quasi ricoperto di rugiada, che senza che lo volessi, mi distraeva dallo sfondo divino. Quella ragazza aveva problemi. No, non solo Calibro, ma anche la Tau.
Erano praticamente identiche, anche se il loro comportamento era opposto, ed entrambe soffrivano per colpa degli altri, o per meglio dire di quel che il lor cervello ammuffito potesse formulare.
Anche quello era un motivo per cui non volevo appartenere a quel mondo: che senso aveva reprimere sé stessi per desideri altrui?
Io non capivo, e non volevo capire. Solo guardare impotente un esemplare di Ormonata e studiare le sue caratteristiche dietro a quegli occhiali, rimanere fuori da quel Complesso per non rovinare la mia persona. Ma ero ancora sicura di esser totalmente estranea a quelle tante forze?
- Non sei morta, puoi anche respirare – Le dissi, scherzosamente quanto una depressa sul punto di buttarsi giù dal tetto, lasciandole come consolazione non solo quella frase detta in modo atroce, ma anche una piccola e leggera pacca sulla sua esile spalla.
Così innocente in fondo, così diversa da come l’apparenza la stava descrivendo.
A lei non bastavano le parole. Solo uno sguardo e un sorriso, proprio come stava facendo ora.
I miei ideali erano veri?

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Capitolo 7
*** Capitolo 6 ***


Le Sciagure non vengono Mai da Sole

Ma solo con me sembrano la Sesta Armata
 
 
Dopo l’incontro con quel dannato ragazzo, ogni singolo lunedì era diventato il verdetto finale decretato dalle mie decisioni prese di sabato precedente, che da giorno gioioso era diventato un periodo profetico di futura morte. Alexander James, con la collaborazione di tutte quelle maledette persone ancora in vita, aveva reso la mia esistenza come un gioco ad “Effetto farfalla”, come per esempio “Until Dawn”, in cui le decisioni, apparentemente prese da me, erano affidate invece a tutti loro, che giocavano con un dado per scegliere a chi spettasse il controller. Forse era una metafora troppo da nerd, ma ancora oggi non saprei come esprimere meglio questo maledettissimo concetto, che quella mattina mi aveva accolto alle prime luci dell’alba.
Non avevo dormito e le occhiaie sul mio volto erano fin troppo evidenti e i trucchi fin troppo lontani per esser usati. Sembravo una superstite di una qualche apocalisse, con i capelli arruffati e anti-gravità e la bava che scendeva lungo l’angolino sinistro di quella bocca munita di carta abrasiva al posto delle labbra, e nemmeno la musica riusciva a salvarmi o anche solo svegliarmi.
La domenica era volata, e anzi, nemmeno mi sembrava che fosse trascorsa, visto che l’avevo vissuta nel mondo della mia stupida mente calcolatrice che cercava disperatamente una soluzione a tutti i miei problemi.
Resa un buco nero dal mio destino avverso, la mia stessa gravità potenziale mi stava risucchiando in quella specie di dimensione demoniaca di adolescenti pieni di brufoli e malattie mentali strane, e la cosa non mi allettava per niente. Dovevo liberarmi da quella forza di cui ero stata munita.
Ma come, se non con l’omicidio di quella stupida compagnia?
Di sicuro potevo farli affondare come quel biscotto nella mia tazza con su il simbolo dei Nirvana, ma il problema rimaneva sempre lo stesso: come?
La forza e la spietatezza non mi mancavano, e nemmeno l’inventiva, ma allora perché non riuscivo a pensare a nulla di davvero risolutore senza rivedere tutti quei loro dannati occhietti da cani puntati su di me?
Probabilmente provavo pietà per la loro natura da schiavi di sé stessi. Era l’unica spiegazione logica e l’unica che si accostava a quella loro somiglianza ad un branco di Bassotti.
Ma a guardarmi in giro, mentre varcavo il cancello di Mordor per affrontare l’ennesima verifica, ogni singolo studente mi ricordava una marionetta con la faccia da cera.
Sì, tante piccole marionette della vita, a gettare fango sulle altre per liberarsi da quei fili invisibili creati da loro stessi, e mi indignavano. Anzi ne ero talmente schifata che la compassione non voleva nemmeno a svegliarsi da quel sonno eterno in cui l’avevo fatta cadere. Eppure, dopo aver conosciuto quei piccoli esemplari molto differenti tra loro, avevo subito dei piccoli sussulti del mio cuore, come per esempio con quel maledetto abbraccio o quella mia difesa non del tutto giustificata. Perché?
Mi sedetti al mio banco, con le cuffie totalmente silenziose, e la prima cosa che vidi, dopo aver abbassato il mio zaino, furono quei maledettissimi occhi nocciola, che nemmeno appartenevano a quella classe, che mi guardavano con una certa gioia.
Parlare di uno dei diavoli ed eccolo lì con le sue sembianze da cane.
Almeno mi era capitato uno dei meno orripilanti, ma la mia natura da asociale cronica mi consigliava caldamente di ignorarlo. E così, con quella mia non curanza degli altri, abbassai lo sguardo e appoggiai la testa sul banco, quasi a dormire, e subito sentii una sua specie di piccola risata. Non cedetti, rimasi ferma, a imitare una persona in coma, ma il suo sguardo non demordeva: lo sentivo, puntato sulla mia nuca piena di capelli simili a rovi, e sentivo il suo respiro avvicinarsi.
Di sicuro io non avrei fatto nulla, sapendo che la campanella mi avrebbe salvata per l’ennesima volta. Ma come sempre, io sottovalutavo le persone sbagliate.
Si sedette sulla sedia davanti al banco, mentre molte persone di quella maledetta classe si facevano i nostri fatti, e, senza badare minimamente alle conseguenze e alla mia reazione, appoggiò la testa proprio davanti la mia, che era coperta dalle braccia e dai capelli.
Voleva per caso morire?
Sentire quei suoi piccoli occhietti da bassotto ancor più vicino mi mandava in bestia, e quel mio odio generale verso la razza umana che mi era sorto quel lunedì mattina si era totalmente affrancato nella mia mente. Sapevo che quella storia non sarebbe finita bene, non con una come me e uno come lui.
Immobile, ero irrigidita dalla situazione e dalla vicinanza di uno di quei suddetti Tacchini, anche se era il minore e il meno fastidioso, e lui, che sicuramente si era accorto della mia reazione del tutto naturale, incominciò nuovamente a ridere leggermente, senza comprendere che a ogni sua azione corrispondeva una morte brutale e dolorosa. Forse era sul punto di sfilarmi le cuffie mute e parlarmi, ma per pochi e fortunati secondi il suo tempo finì, lasciandomi nella mente quel paradisiaco rumore di campanella.
Un giorno avrei creato una religione dedicata solo al prof di ginnastica e le campanelle salvatrici. Ma non era per nulla quel maledettissimo lunedì mattina, dove la Fisica e le sue Leggi Universali erano completamente avverse a me.
Aspettai un paio di secondi per permetter al maledetto di uscire, e il mio sollievo, dimostrato con un sonoro e piacevole respiro, fu sostituito da un urlo al quanto eccitato di uno dei nostri compagni di classe, in cui dimostrava tutta la sua passione verso le guerre primitive del C.E.R.O.
- La Tettona sta per fare a botte – Urlò a squarciagola in classe, facendo dimenticare all’istante alla maggior parte la scena a cui avevano appena assistito.
Per me sarebbe stata una fortuna, se non fosse stato che per “Tettona” intendeva proprio quella ragazza dalle deformazioni genetiche sul petto.
Ma un attimo di pace mai?
Saltai in piedi, senza accorgermene, e subito pensai a Calibro e al suo grande problema definito anche come “Paura verso il resto dell’umanità” e il suo volto da cucciolo davanti a uno di quei mostri orcheschi truccati da clown. E così, con quei suoi grandi occhioni verdi e spaventati nella testa, mi sfilai gli occhiali, tolsi le cuffie silenziose di fretta e furia, e corsi fuori dalla classe, senza nemmeno pensarci due volte.
Ora, riflettendoci, mi chiedo da chi fossi posseduta in quel momento, visto che la reale me non avrebbe mai fatto una cosa simile per un’abitante del C.E.R.O., ma a quanto pareva il mio senso di “Bontà” nato dai videogiochi mi aveva fatto credere di esser dentro un qualche Survival Game.
D’altronde, quel giorno per me era come un Until Down, solo con un Bad ending. La foga del momento, la mente non lucida per il sonno, gli avvenimenti appena subiti in classe e il mio odio verso il mondo intero furono le reali cause di quel che successe, e ciò che per me fu “Il Patto col Diavolo dopo la Sbronza” o anche P.D.S.
Non corsi molto, anzi, mi trovai quasi subito catapultata davanti a quella scena tipica del Complesso, dove branchi di Tau si coalizzavano per un grosso nemico che comprometteva la loro posizione. Bionde, come una massa di pecore peggiori di quelle del centro commerciale, circondavano e chiudevano tutto un corridoio, dove si stava per svolgere il massacro, e una marea di persone, specialmente maschi, erano lì ad ammirare con avidità uno spettacolo ai miei occhi noioso e ignorante che serviva solo per ricreare i confini ideali dei loro territori. Non fu difficile farmi spazio tra la folla, tenendo conto che appena arrivata mi misi a dare gomitate nelle pance altrui con una certa rabbia repressa, e la cosa peggiore che potessero fare era proprio davanti ai miei occhi: una stupida e schifosa bionda, in pantaloni troppo attillati che stringevano quei suoi orripilanti cotechini, aveva chiuso all’angolo, con quelle sue movenze da intenditrice di genitali, quella piccola Calibro, che si stringeva a un armadietto aperto con tanto di bella vista di un paradisiaco e sacro poster dei Linkin Park.
No, non ho bisogno di dirvi altro, se non che quello era il peggior attacco terroristico nei miei confronti.
Come osava quella lurida vacca imbrattata di lacca e cera per rugose profanare con le sue unghie da squartatrice il mio adorato poster?
E poi, quella ragazza che tremava solo al pensiero di doverla fronteggiare, che si stringeva a un mio libro senza usarlo come arma. Dio Santo, era il libro di latino: con quello potevi uccidere pure un Voldemort inferocito!
Non sapevo se il suo ritardo mentale battesse la leggenda della bionde, ma nel mio cervello l’unica cosa che davvero contava era quel poster, che rischiava il completo annientamento da parte di quella minaccia con i piedi a papera. Il mio intervento era necessario, o lo avrei trovato con tanto di strisciate rosse e buchi.
- Allora, troietta, hai perso la lingua? – Troneggiava quella Tau sul piccolo agnello indifeso, che ancora stringeva saldamente quella dannatissima arma senza usarla, e la sua voce rimbombò in quel corridoio, creando una specie di eco accompagnato da tante piccole risatine finte da sostegno. Un atto di bullismo in piena regola, e nessuno reagiva nel modo giusto: c’era chi filmava, chi sbavava davanti a quegli Airbag mobili, chi rideva e faceva da incitatore e chi, come se nulla fosse, prendeva i libri dal suo armadietto e ignorava il resto del mondo. Io sarei stata dell’ultima categoria, se non fosse che quello era il mio armadietto, spalancato per una qualche arcana ragione davanti a quella furia.
Naturalmente Kat incominciò a balbettare qualcosa come al suo solito, senza pensare che ciò peggiorasse la sua situazione, e dovetti intervenire io, visto che quella mano da Barbie si era proprio appoggiata al mio poster, rischiando di ucciderlo con quello smalto rosso. Un paio di passi, ed ero in mezzo al piazzale, ferma, ad osservare con i miei occhi incendiati di ira quella Tau nel procinto di esalare le sue ultime parole e preghiere.
Fanculo al mondo e a quel lunedì di merda.
- Tu di sicuro l’hai usata molto bene – Risposi, lasciando che tutti si voltassero verso di me con un certo stupore, e quella biondina, cercando di non esser stupita, si girò lentamente quasi a cento ottantacinque gradi verso di me, con quel suo atteggiamento da superiore. - E di sicuro non solo per parlare –
Un sonoro eco generale di chi incitava quell’incontro di wrestling incominciò a diffondersi per quel corridoio di morte e quelle risatine isteriche di quelle care e dolci oche da uccidere insieme ai Tacchini si zittirono, mormorando solo qualche parola di qua e di là. Ero diventata l’attrazione principale di quella giostra mortale, ed avevo in mano la situazione, con tanto di ispirazioni perverse su insulti davvero geniali che non vedevo l’ora di sfoderare con cattiveria malsana.
Lei levò la mano dal poster, alleggerendomi il cuore, e poi venne verso di me per la mia gioia, dimenticandosi di quella che stava per umiliare.
Avevo liberato il poster e Calibro. Ora dovevo solo far cadere la testa di quella Barbie sotto lo sguardo di tutti, pure quelli increduli di Tizio e James nelle ultime file.
- Scusa? – Mi rispose con quel suo tono di voce palesemente irritato, mentre il suo sopracciglio formato da qualche pelo piastrato subiva un attacco di convulsioni, come anche la sua mano, che ritmicamente scorreva quasi assatanata sui pantaloni, rischiando di rompersi quegli artigli sulla stoffa.
Oh, mia cara, avevi sentito fin troppo bene quello che avevo detto, e non sarebbe nemmeno stata l’ultima cosa.
Mi mossi di qualche passo, troppo presa dalla rabbia che mi circolava come veleno nelle vene, e rimasi, lì a pochi centimetri da lei, senza mai abbassare quel mio sguardo terra ormai incenerita dalle maree di sfortune che mi sommergevano la vita.
- Non dirmi che le bionde oltre ad esser rincoglionite sono pure disabili, se no davvero, tutte a voi, piccole Troll con le gambe di prosciutto…- Continuai, con una voce estremamente calma e acida, quasi capace di sciogliere l’aria nella quale si stava propagando, e un ennesimo eco si levò alla fine della mia frase, incoraggiando ancor di più la mia spietata crudeltà e la sua motivata reazione. Ma subito, qualche discepola della suddetta umiliata zittì subito la folla, lasciando a quel silenzio il compito di velare senza successo una tensione capace di uccidere più di una spada laser, e quella ragazza avvicinò il suo volto al mio, mormorando quel suo “Ma chi cazzo sei, puttanella” con un alito sapor menta.
Voi non lo sapete, ma fin dalla tenera età di sette anni ho incominciato a detestare la vicinanza delle persone e il loro tipico atteggiamento utilizzato per catturare l’attenzione, ossia trapanarti una parte del corpo con quel dito tamburellante capace di tirarti giù qualsiasi tipo di dio, pagano o meno che fosse. Figuriamoci la vicinanza così costretta con una di quelle persone che avevano il cervello a nocciolina e la faccia a maschera di Halloween. Fu quasi spontaneo il mio gesto di allontanamento, appoggiando le mani con un certo disgusto sopra le sue protuberanze abbastanza generose e lanciandola lontana con molta forza, mentre la faccia descriveva una fantastica smorfia di disgusto degna di foto e ben vista da tutti.
Peggio dell’insultare certe persone era la sfrontatezza di toccarle e umiliarle pubblicamente, cosa che io avevo appena fatto senza nemmeno pensarci una volta. Dove erano finiti i miei propositi per una vita tranquilla e dedita solo al io benessere, lontana da quel Complesso di menti malate?
Naturalmente quella ragazza si spostò di qualche passo, ma non cadde, lasciandomi un po’ perplessa sulla mia mancata forza fisica, e senza aspettare una qualche altra parola in merito, mi attaccò, affilando le sue unghie alla Wolverine laccate di un color sangue acceso. Io avrei sicuramente lottato, ma per una volta i maglioni schifosi e mezzi malridotti delle svendite per i poveri fecero il loro lavoro, imprigionando la Tau e permettendomi una grande gamma di attacchi combinati provati solo sulla console. Lei aveva le unghie impigliate nel buco della spalla sinistra della felpa color Violetta appassita, e con l’altra mano mi aveva afferrato quei capelli simili a delle gabbie mortali, lasciando tutta la mano imprigionata nella mia capigliatura mora.  Poteva dibattersi, tirare, perfino strappare la mia cute, ma mai si sarebbe liberata dei miei potentissimi capelli liberi da Lunedì Mattina, e io di sicuro non volevo aspettare la sua resa. Semplicemente, come quel ragazzo che stava osservando conosceva bene, la afferrai per la chioma ossigenata, e senza distrarmi dalle sue azioni di strappamento di capelli, incominciai a tirarle i miei famosissimi “Calci della Nana Posseduta”. Cademmo a terra, ci rotolammo sul pavimento, e insieme al coro generale che intonava una lode alla morte le nostre parole risuonavano chiare nella scuola.
Ora, immaginatevi la scena: una Nerd, che ti insulta la famiglia e la tua esistenza con i suoi termini incomprensibili, e una Tau, intenta ad urlare come un ossessa insulti comuni e normali, che rotolano allegramente a terra con le mani tra i capelli e tentando di azzannarsi a vicenda con un sottofondo di canzoni quasi da stadio. Cosa poteva andare peggio?
L’arrivo di un’insegnante. E lo staccarsi delle unghie finte tra i miei capelli.
Oh, che amabile giornata di merda.

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Capitolo 8
*** Capitolo 7 ***


Chi trova un Amico trova un Tesoro


Ma se la vita mi offre te,
vuol dire che mi son persa in una discarica

 
 

L’unica notizia buona di ieri? Mio padre, quel pezzo d’uomo sempre in giacca, cravatta e pelata, aveva preparato i pancakes, che però naturalmente non avevo minimamente toccato per colpa di quella seduta spiritica da quel preside, simile ad un nano, in compagnia di un’arpia e le sue unghie, preziosamente infilate tra i miei capelli arruffati. Mio fratello, come bravo e rispettoso consanguineo come si deve, aveva passato un’ora della sua esistenza a togliermi quelle specie di forcine naturali dai capelli, e tutto un pomeriggio a scherzare sulla mia dannata sciagura subita in un tragico lunedì, in una mia personalissima “Apocalisse 14”. Ma naturalmente, dopo quella serie di sfortunati eventi, non avevo ancora subito la furia dei miei genitori, che quando succedeva qualcosa si infiammavano molto più di me: stirare, fare il bucato e pulire il bagno. Questi erano i compiti che dovevo fare, in stile Cenerentola, per minimo tre settimane, con la pena della cucina sottratta solo per il timore delle mie capacità da piromane, e si aggiungevano a quelli che mi aveva dato il preside con tanto di compagnia di quella Tau porta sciagure.
E che dire della pace che avevo tanto protetto durante quel mese e mezzo con sangue e sudore?
L’avevo mandata al patibolo, in una missione suicida per distruggere nuovamente la Morte Nera.
Per cosa poi, un poster?
Sì, il poster valeva lo sforzo, sapendo soprattutto che era un’edizione limitata. Ma negavo a me stessa la mia reale reazione a quel grido di avviso, e sapevo, per quanto non lo volessi ricordare, che mi ero messa a correre di mia spontanea volontà, senza minimamente conoscere quell’ipotetica fine di quel mio oggetto sacro.
La mattina del giorno seguente, dopo una dormita profonda ed estremamente fondamentale, mi svegliai, e feci la mia solita routine che aveva occupato ogni mattina della mia settimana, con nuovamente il segno funesto del toast bruciato, e senza nemmeno badare all’orario, uscii di casa, dimenticando gli auricolari nella mia stanza. E già a quei piccoli segnali avrei dovuto chiudermi in camera per circa una settimana, ma naturalmente io la mattina sono su un mondo a parte.
Arrivata là al cancello, mentre gli schiamazzi mi facevano desiderare un machete tra le mani, nemmeno una piccolissima vista del Prof mi fu concessa, solo sguardi di persone che mi conoscevano per una fama da eroina “Nerd Sclerotica” intenti a bisbigliare leggende nate in meno di un giorno.
Diciamolo, la fantasia degli adolescenti per certi argomenti non ha confini, esclusa la mia mente da criceto in decomposizione, che a malapena riusciva a decifrare quelle loro assurdità. C’è chi affermava che avevo lanciato i libri contro quella Tau, e chi, mentre rotolavamo a terra, aveva giurato vedermi mordere le sue braccia ormai sanguinanti con un occhio chiuso perché graffiato in precedenza. E infine, come era quasi fin scontato, c’era chi era riuscito a vedere, con quella sua mente perversa, un triangolo amoroso tra noi tre. Ma in tutte le leggende metropolitane, peggiori di quelle che i Jedi facevano per il Lato Oscuro, l’unica componente che non mancava ed era vera era la bellissima figura di merda in cui bisognava sommare unghie, capelli e una professoressa vecchia e decrepita che ci urlava di smetterci.
Naturalmente, quella mia felpa sarebbe passata alla storia, come anche quelle specie di fili spinati che avevo al posto della solita chioma fluente, ma la cosa a me non interessava. Mi dava fastidio il fatto che la scuola sapesse della mia esistenza. Io dovevo esser un piccolo granello di sabbia in quell’universo, e non una specie di buco nero che assorbiva i più grandi satelliti della scuola.
Ma in quel momento, più che pensare a al mio ideale di C.E.R.O. purtroppo mutato, avrei dovuto ricordarmi che durante la mia battaglia furiosa, Alexander James e Tizio avevano assistito. Inoltre mi ero totalmente dimenticata di Kat, che sicuramente non sarebbe semplicemente stata in disparte dopo il mio sacrificio apparso quasi come un gesto di amicizia. Cazzo, quello era amore: fottutissimo amore tra me e il mio armadietto, non era colpa mia se in mezzo c’erano quelle due.
Poi che dire dei professori? Ormai molti si ricordavano di me e della Tau per la nostra noncuranza nei confronti della vecchia megera di matematica, e molti ci avevano catalogate come rischi per le loro classi. Forse, in tutto quel male, almeno l’unico professore di cui mi interessava si era accorto della mia esistenza. Molto remotamente.
Ma per fortuna la mia fama non interessava a molti, solo a quelli pettegoli che amavano il gossip su persone relativamente famose, e quindi, nel passare per quei corridoi senza nemmeno il sostegno della musica, solo poche persone mi tiravano qualche frecciatina silenziosa con lo sguardo, che prontamente ignoravo come mio solito.
Eppure la classe quel giorno mi apparve più lontana del solito.
Primo piano, di fianco ai bagni e davanti alle macchinette maledette che non permettevano di uscire dalla classe all’intervallo, le sue finestre davano un bel vedere sul campo di atletica, dove per la precisione non si scorgeva mai un prof intento a svolgere il suo lavoro, ma solo un branco di zombie che tentavano di sopravvivere alle intemperie della natura. Ci voleva meno di un brano per arrivar lì, ma quel giorno imparai che servivano più di duecento passi, impiegati tra scalini e persone capaci di bloccare la strada meglio di un Gandalf con il suo bastone.
Meno di tre minuti per arrivare fin lì, ma non quella mattina. Ho già detto che la sfiga ha sempre qualcuno con cui andare a tormentare?
Cento ventottesimo passo, finiti gli scalini, e indovinate chi incontro proprio davanti quasi al mio naso?
Avevo due persone da evitare. Due. E una l’avevo incontrata quasi subito.
Maledetta sfiga pallida dalla chioma bionda, che mi fissava divertita con i suoi grandi occhi che presto sarebbero diventati vitrei e senza vita.
Rimanemmo lì per pochi millesimi di secondo, a fissarci in un modo che solo noi due conoscevamo, e poi lo sorpassai, proprio nello stesso momento in cui aveva iniziato a scendere il primo scalino. Per una volta, la popolarità aveva fatto un qualcosa di positivo: la sua legge infatti afferma che una persona dotata di essa ha uno status Cerico maggiore, che potrebbe esser intaccato dagli scarti di questa scala sociale. Ergo, esser uno scarto della società Cerica era una delle cose che non volevo cambiare, soprattutto per tutti i privilegi di invisibilità che regalava.
Ma se lo avessi incontrato fuori da scuola, che avrei fatto?
Avrei potuto fare la strada davanti al campo di atletica, evitando così la via principale, ma esser una persona pigra ti impedisce anche solo di osare pensare un piano simile. Quindi la risposta era solo una: avrei fatto come al mio solito, ossia da ragazza mentalmente instabile. E comunque, le probabilità di incontrarlo erano sotto lo zero, conoscendo la sua attitudine nel farsi cacciare all’ultima ora dalla classe e la mia situazione da carcerata con una bionda di cui nemmeno conoscevo il nome.
Che poi, pensandoci, di quante persone non sapevo i nomi?
Troppe, se contiamo la generalità. Ventisei, se contiamo le persone che avrei dovuto conoscere realmente, zero di quelle di cui mi importava, anche se il nome di Tizio volevo davvero scoprirlo solo per poi minacciarlo. Sì, perché per colpa sua la mia classe aveva notato quell’ultimo banco nell’angolo dove si sviluppava per tutta la giornata la magia nera del Nerd, oltre che per il mio gesto frainteso. Nessuna persona sana di mente si metterebbe a guardare una che dorme con la testa appoggiata al suo stesso banco, ma quella persona, che per mia fortuna non era del tutto famosa, lo aveva fatto, e aveva preso me come cavia da osservare. Ma manco al mio ipotetico fidanzato l’avrei permesso, figuriamoci ad un amico di quel Tacchino.
Ma questo naturalmente i miei compagni di banco non potevano capirlo, perché loro non sapevano chi io fossi. Quelle ventiquattro persone, o per lo meno tutte quelle che erano presenti nel momento del movente dell’omicidio, continuavano a guardarmi con una certa curiosità, mentre io appoggiavo la testa al muro e leggevo sul telefono qualche battuta per loro incomprensibile, senza mai spostarsi verso di me per chiedere una risposta che poi non avrebbero ottenuto. Per mia fortuna, la mancanza di coraggio era una virtù molto diffusa, che mi permise per le prime tre ore di sopravvivere alle materie proposte, con tanto di interrogazione di storia andata bene per un fortuito caso. Tranquillo fu anche l’intervallo, trascorso in bagno per non incontrare la seconda persona spiacevole, e le due ore successive capii perfino matematica e latino. Forse quel giorno non sarebbe stato male, o almeno era quello a cui stavo pensando, ma mancavano ancora l’uscita della scuola e la punizione con quella ragazza, entrambi eventi al quanto tragici.
Per una volta non sbagliai, per mia sciagura, e nessuna fisica dovette intervenire su quel sistema con le sue forze esterne. Al suono di quella splendida campanella, tutta la classe si svuotò in meno di due minuti, e io, ultima superstite con ancora in mano il grande libro di matematica, mi ero persa a guardare la lavagna e i suoi mille segni di quella pazza furiosa che aveva tentato di farmela pagare per l’umiliazione che le avevo inferto inconsapevolmente. Non mi ero accorta di nulla, nemmeno di quegli occhi nocciola, verdi e vitrei che mi guardavano in silenzio, quasi a capire cosa stessi per fare.
Ero immersa nel mio pensiero, cosa che in quei giorni era fin troppo normale, e la cosa onestamente non mi piaceva: pensare fa bene, ma andare in overdose di domande e dubbi no.
Ad un tratto, quando ormai avevo finito di scartavetrarmi i suddetti con quella stupida mente troppo funzionante, mi sentii sfiorare la spalla e quel mattone bianco mi sfuggì dalla mano, finendo a pennello sul mio piede e continuando quella serie di funesti segni di sciagura che quel giorno si stavano manifestando con estrema insistenza.
Mi misi a saltellare imprecando allegramente, naturalmente andando contro quella persona che mi aveva sfiorata e al banco, per la precisione infilzando nella mia gamba lo spigolo. Urlai, lodando con un carissimo “Porca Sfiga” che ormai avevo dismesso, e presa dai dolori lancinanti, mi appoggiai alla sedia sulla quale era appoggiata la cartella spalancata. Il risultato?
Una William sdraiata a terra, su un tappeto di libri e quaderni, con addosso una sedia e la mano puntata sulla gamba, mentre Kat chiedeva balbettando tantissime scuse accompagnate dal sottofondo delle risate di James e Tizio.
Davvero, dovevo chiudermi in casa per una settimana, altro che uscire.
- Bel volo, Medusa- Mi rise in faccia Alexander, che, con il suo modo di fare burbero, si era seduto sul mio banco ed era affacciato verso di me, fissandomi con quei suoi occhi che o urlavano o si svuotavano come se nulla fosse. Quanto avrei desiderato spaccargli il naso per quel soprannome, ma la sedia che magicamente era sopra di me non lo permetteva. Potevo dirgli anche molte cattiverie, ma anche per quelle dovevo aspettare che fossimo soli, o con persone che sapevano del suo esser omosessuale, ritardato e in procinto di morte prematura.
- Vai a buttarti giù da un ponte, prima che ci pensi io- Ringhiai, agitando le mani a caso per liberarmi da quella trappola mortale e far avverare quella minaccia, e Calibro, vedendomi così in crisi, si abbassò verso di me e alzando un poco la sedia incastrata. Non mi lasciai sfuggire quell’opportunità e velocemente, con so come, riuscii a scivolare fuori da quell’angolino e da quel tappeto di libri ormai mezzi rovinati e piegati, fino a ritrovarmi seduta a terra di fianco alle gambe di quella ragazza, che erano semplicemente coperte da un paio di jeans.
- Chiedile scusa Alex, è colpa mia se è caduta-
Senza balbettare. Senza quella sua vocina troppo acuta e troppo mormorata. Cosa diavolo avevano fatto a quella ragazza, che con una voce semplice e normale era riuscita a dire una cosa così a una persona come lui senza esser balbuziente?
- Se è per questo, è sempre colpa tua se ora le tocca passare la punizione con quella – Continuò Tizio, che si era proprio piazzato di fianco al suo caro amichetto del piffero a osservarci come se fossimo povere plebee incomprese. Li avrei presi a calci, se non fosse stato che per quel giorno avevo già avuto abbastanza disgrazie e non volevo finire nuovamente a stringer amicizia con i pavimenti di quell’istituto. Ma perché sembravo esser stata inclusa in quella compagnia di depravati mentali?
Mi alzai aggrappandomi al muro, e senza badare ai loro sguardi o alle loro parole o a qualsiasi cosa fosse loro mi sistemai, e raccolsi tutto quello che si era spiaccicato a terra per colpa delle mie movenze da ippopotamo agonizzante.
Non avevo tempo da perdere, io. Una punizione mi stava chiamando, insieme a quella Tau che desiderava sicuramente distruggermi, e avevo una vita asociale ancora da mantenere. Così, sistemata la cartella e messa sulle mie spalle, me ne andai senza nemmeno salutare, convinta che loro non si fossero accorti di nulla. Ma la mia convinzione mi fregava ogni santissima volta che osavo anche solo nominarla nella mia mente.
Cioè, loro erano lì belli e beati sul mio banco a parlottare con quei loro occhietti da cani e a mordersi le code a vicenda, senza nemmeno osare aiutare quella povera sventurata a qualche centimetro sotto di loro, chi mai andrebbe a pensare che mi fermassero. E soprattutto come.
Avevo sorpassato il mio banco, e i tre non avevano mostrato variazioni nel loro sistema al mio primo passo verso la libertà, e dunque ero tranquilla su quel che il futuro poteva offrirmi. Poi, come ormai succedeva fin troppo spesso, un qualcosa mi afferrò quel maledetto polso sinistro, che non sarebbe mai guarito da quegli enormi lividi, e mi tirò indietro, facendomi quasi cadere.
Una bellissima lode alle buone ragazze di chiesa, con tanto di fini e ricercati aggettivi, e mi ritrovai, con ancora la mia voce che rimbombava nella mia testa, con le braccia di Katherine intorno al mio collo, con tanto di mano nella mano con James.
- Non so se l’hai fatto per me – Incominciò a mormorarmi all’orecchio sinistro quella ragazza timida e dal carattere piccolo e fragile, mentre stringeva dolcemente quella specie di statua di marmo che ero. - Ma grazie, Will-

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Capitolo 9
*** Capitolo 8 ***


La Vita ti riserva Sempre delle Sorprese

Le mie sono come vestiti regalati a Natale a una bambina di sei anni.


Quella stanza piena di libri e scaffali puzzava di cloro, e non so come fosse possibile visto che era la presunta biblioteca della scuola. In teoria, e sottolineo questo termine, l’odore di cloro dovrebbe trovare nelle piscine, mentre l’odore di antico e segreto ovunque ci siano dei libri, eppure sembrava quasi che la bidella, che mi aveva detto dove andare, avesse cosparso la biblioteca con quell’elemento poco piacevole al mio olfatto e alla mia vista. Avevo quasi gli occhi che piangevano l’Oceano Pacifico talmente tanto era forte, e la cosa non era solo una mia impressione, anche quella Tau era sul punto di una crisi respiratoria, unita alla pressione alta che la mia figura le aveva donato amorevolmente.
Quando il preside aveva annunciato a gran voce la sua sentenza sulla pulizia di quel posto, onestamente mi sentivo fin fortunata di passare i pomeriggi delle varie settimane tra i libri e la polvere di quel posto oscuro e tenebroso, ma mai mi sarei aspettata una tragedia simile, che già stava per devastarmi i polmoni.
- Io esco un attimo – Mormorò con un rantolo quella ragazza bionda, che si stringeva saldamente la gola con la mano bianca e senza unghie finte, e con uno scatto repentino, che avevo già visto da vicino, uscì, quasi buttando giù quella porta di legno e marciume. Ma nella mia sfiga, potevo aver mai un minimo di fortuna?
Forse aprendo le finestre saremmo state meglio entrambe, ma il problema era che lì l’unica finestrella schifosa e insulsa era un buco posto proprio al di sopra di uno scaffale, e raggiungerla costava più fatica che neanche il risultato potenziale ottenuto. La porta era impossibile da tener aperta, perché, per qualche arcana stregoneria fatta per il nostro male, tornava sempre verso il suo stipite, per poi incastrarsi alla perfezione con quel pavimento splendidamente ondulato e sporco, rendendoci delle bulldozer per uscire da quella caverna malridotta, e a parte i libri da usare come ventagli, non c’era nulla. Solo una sedia solitaria, messa nell’angolo tra le ragnatele, e poi niente più.
A descrivere quella stanza, o anche solo ricordarla, mi saliva un nodo alla gola.
Pietoso. Semplice e chiaro.
Ma io in quel posto con quell’odore mortale, che batteva quello dei miei compagni di classe dopo ginnastica, non volevo starci, e la mia mancanza di reale timore nei confronti degli oggetti mi portò proprio lì, a osservare con sguardo seduttore quella cara finestrella come se potessi abbassarla. Non ero un fuscello di ragazza, anzi, i piccoli e cari chili in più simili a quelli di un elefante non erano aria, e l’opzione in stile arrampicata libera per gli scaffali era un qualcosa di vivamente sconsigliato dalla mia mente. Ma chi mai non ha nemmeno sognato una volta nella sua volta di fare alla Ezio Auditore?
Se esiste una persona così, di sicuro non ero io, quella cara e dolce drogata di Assassin’s Creed in tutte le sue varianti, che vedeva in quella vecchia e traballante struttura una piccola e docile scaletta da salire ad occhi chiusi.
Guardiamo il lato positivo: almeno al primo scafale riuscivo ad arrivarci, visto che la mia altezza normale e tendente al basso superava quel metro e mezzo. Ero sul punto di allungare la mano e raggiungere il terzo livello di quel gioco con alta percentuale di morte, quando sentii la porta aprirsi di scatto e una bionda con i piedi a papera sopraggiungere. Ecco, immaginatevi un’obesa che si sta arrampicando su una libreria per raggiungere un buco tra ragni e mostri mutanti, e rendete la protagonista una specie di pazza furiosa con i capelli tutti in disordine e gli occhiali che le cadevano dal naso.
La sua esclamazione di stupore, insieme a quella foto fatta col cellulare ci stavano benissimo, anche se nella mia reale posizione non dovevo pensare a una cosa così.
- Dopo che tento di salvarci aprendo quella finestra, tu mi ringrazi così? – Chiesi infastidita, tornando a guardare quei libri polverosi davanti al mio naso e tentando di raggiungere con il piede un possibile appoggio. Davvero, era colpa sua se mi trovavo in quella schifosa stanza sapor cloro, e aveva pure il coraggio di mettersi a fare foto a caso?
Peggio di un Orchetto di montagna quella ragazza. Senza un briciolo di rispetto verso la sua potenziale salvatrice.
- Salvarmi? Ma fammi il piacere Otaku che non sei altro! E’ solo colpa tua se mi trovo in questo lurido posto – Mi ululò dietro lei, come una brava Tau che si rispettasse, e senza aspettare una mia qualche risposta, fece un’altra foto, che probabilmente avrebbe inviato a qualche suo gruppetto del suddetto solo per farsi due risate. Oh, ridi cara, quella che ha perso le unghie sei te, non io. Rozza Tau Mezzosangue.
- Ma al posto di aprire quella bocca solo per dar aria alle flatulenze che hai in testa, perché non provi a darmi una mano? O preferisci morire per il cloro? –
- Preferisco perfino esser sbranata da Ibridi che aiutare una come te, palla di lardo! –
- Oh, aspetta che scendo e poi vedremo come queste tonnellate ti sotterreranno, Wolverine! -
Alla mia ultima frase, che naturalmente era avvelenata quanto un Morso della Notte, quella sottospecie di biondina sudicia si allungò verso di me, per poi fare l’ennesima stupidissima foto di me che mi allungavo e raggiungevo l’ultimo scaffale, che rispetto agli altri era ricoperto da vecchie scatole vuote. Ma per un purissimo e casto caso del fato, una piccola scatola vecchia e polverosa che era proprio di fianco alla mia mano cadde per sbaglio addosso a lei, e in particolare sulla sua testa.
Oh, mano birichina, proprio in quel momento dovevi esser posseduta dall’anima dei chili in più?
- Ma che cazzo fai, obesa rotolante? - Sbraitò lei, che ormai era bella che impolverata con lo sguardo infiammato dall’odio che ci accumunava, e mai sentii soddisfazioni più grandi dalla mia cattiveria se non quelle che ci infliggevano costantemente a vicenda.
- Oh, scusami, mi è sfuggito per sbaglio- Le risposi d’altro canto, imitando la sua fastidiosa voce naturalmente acida, e senza degnarla di un’attenzione o di un’altra parola, tornai alla mia missione, riuscendo a sfiorare con la mano il vetro sporco e abbastanza appannato.
- Osa ancora, sfigata, e la tua vita a scuola è rovinata. Sappilo-
Era aperta. Ero riuscita ad esser una Ezio. La mia vita ormai era completa.
Amai l’aria, amai quel gelo che proveniva da quella finestra, amai quella combinazione di gas dall’odore piacevole, e ignoravo totalmente il problema Tau sottostante. Ora la biblioteca era un posto più felice. Un omicidio, e l’avrei resa un secondo Eden.
Dopo secondi che parvero infiniti, passati a respirare a pieni polmoni tutto lo smog cittadino, mi girai verso di lei, e con i miei soliti sorrisetti beffardi e assassini, la sfidai con lo sguardo, quasi a ridere della sua eterna stupidità da bionda.
- Ti è andata male – Le risposi, con lo sguardo coperto da quei ciuffi di capelli simili a serpenti.
 - Prima di distruggerla devi crearmene una, e non sarà per nulla facile piccola ossigenata-
Non so come facessi, forse me le sognavo di notte queste frasi, ma la sua faccia fu un qualcosa da foto. No, anzi, da quadro, con quella sua sopracciglia presa dalle convulsioni e il suo sguardo chiuso in una lama da rasoio, mentre gli ingranaggi arrugginiti del suo piccolo cervello facevano sentire tutta la polvere accumulata nel tempo. Spettacolo, ma soprattutto soddisfazione verso i miei attributi quadrati, che non avevano umiliato solo quel Tacchino Solare, ma anche quella Tau Mani di Forbice. Medaglie, a me.
Lei, dopo aver intravisto quella scintilla illuminarmi la faccia, si girò, e di tutta risposta scappò tra i vari scaffali di quella prigione, consapevole di dover attuare una vendetta. Io, invece anima candida e pura, dopo esser scesa quasi rotolando, incominciai a guardarmi intorno, a perdermi tra i vari libri ammuffiti e sbriciolati, senza curarmi minimamente né della ragazza né del compito che ci avevano affidato. Non le sentii neanche quelle due ore di prigionia, talmente ero concentrata a tradurre una versione di compito con quel reperto archeologico definito anche come “Edizione del 1970” di un dizionario di latino dal nome impronunciabile, e nella mia fuga, appena la lancetta dei minuti aveva compiuto i giri necessari, mi ero messa quasi a correre per tornarmene a casa per avere un filo di pace.
Naturalmente quel giorno era già stato pieno di sfortune ed effetti del passato, e mai mi sarei aspettata la comparsa di ennesime minacce pronte a far terminare la mia vita.
Uscita dalla porta di servizio, che dava esattamente sul cancello come le due porte principali, avevo intravisto, alla fine del cancello, una persona seduta a terra. Cappuccio ben coprente, nemmeno un lembo di pelle era visibile in tutto quel nero e blu che lo o la ricoprivano, e la schiena incurvata verso di me davano da pensare a una persona che stava aspettando qualcuno. E per qualcuno, sicuramente era Tau, visto che io non avevo nessuno, né volevo qualcuno, ad aspettarmi. Così, felice di me stessa e della fine di quella maledettissima giornata, ignorai perfettamente ogni singolo funesto segno del destino presentatosi con insistenza, e senza nemmeno il supporto mentale e morale della musica, continuai quella mia cara camminava verso la libertà. Nemmeno dopo pochi passi prima di varcare la soglia dell’inferno mi accorsi di qualcosa, e anzi, rimanevo felice nella mia ignoranza. Quando ormai avevo superato quell’oscura figura che manco avevo degnato di uno sguardo, feci per attraversare la strada ed andare nella solita strada a destra, quando una risata mi fece trasalire.
Non so, ditemi voi se quella non fosse una reale persecuzione, visto che avevo incontrato per la terza volta la solita persona che già si è resa protagonista di questo libro. Pelle bianca, occhi che quella volta sembravano non più mascherati, e i capelli finemente nascosti dal cappuccio nero, per non parlare di quelle labbra stupidamente arricciate in un sorriso diabolico.
Sempre lì a fissarmi, come se fossi un bello spettacolo, e a ridere di ogni cosa di me e del mio modo di essere. Si era mai visto? No, perché quella che realmente doveva ridere ero io, e non lui.
- Cosa vuoi? – Domandai, acida, prima che lui si alzasse, mentre io mi preparavo già a una fuga con tanto di urla assatanate e frasi dedicate. Una brutta fine, solo questo gli spettava.
- Nulla, aspettavo – Mi rispose, alzando quelle spalle ben libere da cartelle o pesi inutili, per poi sorridermi con quelle sue labbra che avrei volentieri gonfiato come due palloncini.
Aspettare? Bene, allora poteva continuare con quella sua delicata azione senza far sprofondare ancor di più quella mia giornata. Tecnicamente alzai un sopracciglio, che valeva tanto quanto un dito medio, e poi lo imitai, alzando anch’io le spalle con estrema fatica. Ma nella realtà, ciò che stava avvenendo, dopo quella piccola scenetta era molto di più che una semplice fantasia: io, una semplice obesa come altre, che correva, quasi a perdere quelle tonnellate in più, per quella strada deserta urlando allo stupratore, mentre un semidio biondo e incappucciato mi inseguiva.
- Fanculo, mi vuole Stuprare! – Urlavo a tutta voce, mentre quella cartella ondeggiava pericolosamente a destra e a sinistra, e lui, che di tutta risposta, continuava a inseguirmi.
- Ti piacerebbe, Medusa! - Rispondeva lui, che a ogni singola lettera sembrava recuperare quello svantaggio iniziale, e l’unica cosa che si sentiva, dopo la sua voce allegra e gioiosa, era proprio quella sua odiatissima risata che faceva salire il cianuro in gola.
Il tutto in meno di cinquanta metri, nemmeno quasi cinque secondi, perché naturalmente mai una ragazza come me poteva battere in velocità un atleta. A vederci, era davvero una commedia.
Come era diventata quella mia vita?
Alla fine riuscì a prendermi un polso, che naturalmente avrei desiderato amputare in stile Saw, e in pochissimi millisecondi, mi girai, senza badare alle conseguenze che la mia fisica insegnava da ormai troppo tempo. Fu questione di piccoli secondi, in cui riuscii perfino a guardare il suo più piccolo punto nero della fronte, mentre lo sfondo cielo color pioggia faceva risaltare la sua figura.
Con le mani che stringevano a terra, la cartella che mi teneva leggermente sollevata, e un ragazzo sopra di me, che semplicemente sorrideva e mi fissava quasi fosse un maniaco negli occhi.
Avrebbe potuto baciarmi, talmente eravamo vicini. Ma no, non volevo nemmeno pensarci, non volevo nemmeno immaginare una cosa simile col ragazzo di mio fratello, anche se la situazione lasciava un leggero dubbio.
Lui mi sfiorò con una mano la guancia, e l’unica cosa che capì delle sue parole fu un “Ti stavo aspettando”, accompagnato da quel maledetto sorriso che lasciava intravedere i piccoli universi.

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Capitolo 10
*** Capitolo 9 ***


Tutta questione di Karma

Non diciamo stronzate,
tutta questione di me e te.
 
 
In quel momento, sdraiata a terra, a guardarlo dritto negli occhi con le mani che stringevano il cemento, tutto sembrava ruotare sotto e sopra di me. Il suo volto, perfettamente scolpito, il cielo color pioggia, il freddo a contatto con la mia pelle e perfino me stessa, che quasi vivevo un istante da ragazza normale. Ma io non volevo ritrovarmi in quella situazione, con un semidio della sponda dubbia che mormorava sopra di me quelle parole ambigue con quella dannata bocca tentatrice, se non dispensatrice di insulti poco creativi.
Ferma per pochi istanti che mi sembrarono eterni, a fulminarlo con i miei occhietti da assassina, con probabilmente le guance arrossate, aspettando che si levasse. Ma lui, ritardato com’era, nemmeno con le mie sopracciglia alzate lo aveva capito, e stava lì, a guardarmi con semplicità, come se fosse un qualcosa di normale.
Ucciderlo, ripeto fino alla mia morte, non sarebbe manco peccato.
- Levati – Sbottai, quando ormai tutta la mia speranza di provare a comunicargli qualcosa senza parlare era svanita, e non mi scomposi, rimasi la solita e fredda asociale sociopatica dei bei tempi ormai remoti. Il Tacchino, stupito dal mio comportamento e reso stupido dalla sua esistenza, non disse proprio nulla, ma semplicemente si alzò e mi porse la sua mano come aiuto, che naturalmente ignorai con una certa grazia da acida.
Non me la raccontava giusta, anche se a parte quelle tre paroline non aveva detto nulla. Fino a due ore prima mi aveva preso in giro e si era sdraiato, ridendo come una iena, sul mio banco, a godersi la scena di una povera ragazza spiaggiata sul pavimento, e ora era lì a sorridermi come se fosse nulla?
Uno odiavo i contatti fisici con lui, visto che cadevo sempre e mi ritrovavo con tante piccole macchie sulla mia pelle, e due, quel sorriso genuino era più finto delle creme dimagranti o delle barrette senza zuccheri. Aveva gli occhi troppo svegli, la bocca troppo sgargiante, e aveva agito con me in modo totalmente differente rispetto a quello ormai solito, dove quasi si nascondeva in una tuta per radiazioni. Perfino, dopo avermi inseguito, aveva fatto pure quell’insulso gesto con quella manina spocchiosa da nobile, cercando di spacciarsi per il buono di turno. Un buono a cui piaceva cader sopra le persone come minimo.
- Perché quello sguardo? – Mi domandò, inclinando la testa come se fosse una persona simpatica. Si, simpatica quanto una verifica a sorpresa o i compagni di banco lecca deretano. Finalmente però, senza dover parlare, aveva capito qualcosa probabilmente spiaccicato in faccia, con tanto di luci, ma non era una gran cosa, perché ancora faceva finta di esser una candida anima del paradiso.
- Cosa vuoi da me? – Rifilai subito, con quel bellissimo tatto che a me mancava, pregando dei pagani e non che la sua stupidità non fosse così irrimediabilmente diffusa.
Un secondo, poi due. Poi altro tempo di totale silenzio, in cui quell’ebete era capace solo a sorridere. Altro che bionde, lui le batteva tutte con quel suo ritardo mentale, e io come una stupida lì a provare perfino a portare lodi agli dei dell’Olimpo. Speranza nell’umanità? Persa del tutto.
Ero perfino pronta a renderlo nuovamente pelato se il silenzio fosse continuato, ma appena avevo accennato un movimento di dita, lui mi rispose, con tanto di gote rifatte e occhietti luccicanti.
- Non posso solo aver voglia di vederti? –
Voce falsa, atteggiamento da fantoccio, occhi che presto si sarebbero tramutati in quelli di un bassotto. Ma ancora credeva che con me certe tecniche attaccassero? E dire che non ero l’unica nerd con cui aveva a che fare.
- E tu pensi che io creda a certe cazzate? Ragazzo, il tuo ritardo mentale è disturbante. – E dicendo ciò, con la voce che ormai era puro cianuro, allungai le mani, per allontanarlo ancora un po’ da me, visto che quel suo piede allungato dava tanto l’idea di una mossa con reazioni molto violente. Lui rimase naturalmente, come ormai ci avevo fatto l’abitudine, perplesso e senza dire una parola, incominciò a scuotere il capo, abbassato verso il cemento per nascondere la sua espressione. Probabilmente, e non lo dico io ma il C.E.R.O., lui aveva creduto troppo nei suoi ferormoni, che per questioni di fisica avrebbero dovuto attirarmi verso di lui e rendermi una sua specie di schiavetta personale, ma non aveva fatto i conti con i miei anni di allenamenti al distacco sociale e all’isolamento che mi avevano reso quasi totalmente aria. Plebeo.
I momenti di silenzio in quella giornata erano mancati, ma in quella strada sembravano fin strazianti, con una povera ragazza che aspettava un qualcosa che mai sarebbe arrivato. A pensarci, quel momento avrebbe potuto descrivere il resto della mia vita, lì, ad aspettare ciò che mai sarebbe arrivato. Ma questo, lo capirete in seguito.
Mi girai, con un sospiro pesante simile a quello di Darth Vader, e decisa a chiuderla lì, feci per andarmene, dandogli per l’ennesima volta le spalle che mi sembravano fin troppo leggere. Stranamente lui non mi fermò come il suo solito, ma anzi, sembrava essersi allontanato dalla parte opposta rispetto alla mia, e ciò poteva solo rendermi più sollevata. Che avesse deciso di uscire dalla mia vita definitamente?
Eppure mi sembrava improbabile, anzi, impossibile. Era stato troppo semplice, troppo veloce e indolore, senza litigi, senza sguardi. A saperlo, l’avrei fatto prima, ma in fondo ero convinta che non sarebbe finita così. Parlavamo di me, e il soggetto era lui.
Girai un poco la testa, per controllare le mie supposizioni, e subito mi accorsi che il mio sesto senso era davvero peggiore di una Panda militare degli anni ’90: Alexander James non aveva deluso le mie aspettative, con il suo cappuccio da stupratore sulla testa e i suoi occhietti da bassotto visibili perfino da lì. Pensava che fossi tornata indietro solo per lui? Bella quella.
Feci per tornare a guardare avanti, quando naturalmente presi l’unico palo di quella fottutissima strada in piena faccia, per meglio dire sul povero occhio destro. Naturalmente caddi, cosa ormai fin troppo scontata per quella dannata giornata, e subito sentii le sue maledette risate riecheggiare tra quelle poche macchine che passavano, cosa che mi mandò in bestia. Quel ragazzo aveva lo stesso umore di una donna mestruata, se non incinta: prima ride, poi implora un qualcosa di incomprensibile per poi tornare a ridere sulla sua futura morte, tutto con una semplicità che faceva accapponare la pelle.
- Vai a fare in culo! – Urlai con tutto l’amore che provavo per lui, rimanendo sdraiata a terra e alzando un dito medio al cielo, e constatai che quei poveri occhiali mascheratori di verità si erano rotti, con tanto di lente uscita dalla montatura e finita chissà dove. Giornata di merda, il ritorno.
Cosa poteva aggiungersi a quel piccolo e schifosissimo momento? La cartella mancante, naturalmente. E dov’era? Provate a indovinare.
Di scatto girai il mio sguardo, che per poco non era iniettato di sangue e demoni, e la vidi bella che sdraiata come la sua proprietaria di fianco a quell’individuo dalla dubbia vita, che stava ghignando soddisfatto. Ecco perché non mi aveva inseguito, bastardo.
Afferrai tutti i pezzi degli occhiali, per poi infilarli nelle tasche della felpa, e con una specie di raptus da impossessata/indemoniata, mi alzai, camminando a grandi passi verso di lui. Rideva, fino a quando i metri tra di noi divennero cinque, per poi cancellare quel sorrisetto malefico dal suo volto e lasciare una certa preoccupazione nella sguardo, facendomi godere di quella trasformazione repentina a cui assistevo ogni volta che mi vedeva. Continuai a camminare, fissandolo intensamente con occhi seri e infuocati di rabbia, sfidando così il destino che mi si parava davanti con tanto di ostacoli a terra, fino ad arrivare a meno di un metro da lui. Senza cambiare espressione, rimasi qualche secondo ferma a continuare quel contatto visivo, per poi chinarmi di scatto e prendere la cartella, finemente buttata a caso a lato della strada e ben coperta di fango e chissà cos’altro. Proprio l’unica pozza di fango doveva beccare?
Poi, come se nulla fosse, tornai sui mei passi, ripercorrendo per l’ennesima volta quella strada ormai diventata fonte di sciagure, sperando e supplicando che quello stupido umano uno venisse a rompere nuovamente. Secondo voi?
Per l’ennesima e stupidissima volta mi afferrò per un polso, e tenendolo ben stretto, mi fece voltare verso di lui, nonostante io stessi cercando di liberarmi. Un abbraccio, il secondo di quella giornata, e mi ritrovai spiaccicata contro il suo petto, con le sue pesanti braccia a gravarmi sulle spalle e con le labbra quasi appoggiate al mio orecchio. A ogni respiro, mi salivano i brividi lungo la schiena, e a ogni singolo movimento, sentivo il suo cappuccio sulla mia pelle, leggermente accapponata dalla situazione. Provai a spingerlo via, con la poca forza che avevo, ma tutto fu estremamente vano appena lui incominciò a parlare.
- Non andartene, ho bisogno di te – Mormorò.
Si, semplicemente mormorò, ma quelle parole moleste rimasero attaccate come sanguisughe ai miei brividi, che si erano intensificati. La sua voce aveva preso nuovamente una nuova sfumatura, che quella volta era reale. Niente finzioni, niente apparenze, sentivo la verità a un centimetro dal mio orecchio e il mio cuore che batteva all’impazzata per colpa di quella stupida creatura. Ma non ero sicura della sua serietà, perché anche i giorni precedenti mi aveva fregata con quelle stesse parole. Ma perché doveva fare così? Perché mandarmi così tanto in confusione?
Cosa avevo fatto di male per doverlo conoscere?
- L’hai detto anche l’altra volta – Sussurrai secca, smettendo però di dimenarmi tra le sue braccia, e aspettando silenziosamente la sua risposta, ascoltai i suoi respiri alternati, che sembravano fin tesi, preoccupati per qualcosa. In quel momento, i miei dubbi divennero sicurezze, e l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era la sua situazione, la sua relazione con mio fratello. Avevano fatto una cazzata, sicuro come l’oro.
- Questa volta per davvero, credimi – Mi rispose, per poi staccarsi da quel maledetto abbraccio, che mi sembrò estremamente un’arma letale, e ci guardammo, senza più bisogno di parole. In fondo, c’era di mezzo mio fratello, anche se ancora non lo aveva menzionato, e per quanto lo odiassi, mi sembrava in una posizione troppo indifesa per poterlo lasciare da solo. Era proprio come un cucciolo di cane, quel piccolo bastardino, e io, impegnandomi, non riuscivo a rimaner indifferente.
Forse ero troppo buona in quella settimana.
Lo afferrai per un lembo del giubbotto e lo trascinai nello stesso vicolo in cui l’altro giorno aveva ripetuto quelle parole, e continuai a camminare, senza parlargli o guardarlo. Conoscevo un posto dove potevamo parlare indisturbati, in cui andavo da piccola a leggere i libri quando mia madre mi portava incautamente al parco giochi, che naturalmente io detestavo. Non era lontano, ma in quel silenzio, e in quella situazione dove ero obbligata a toccare indirettamente quella persona mi sembrarono chilometri in salita e silenzio agonizzante, e ogni singola parola che vorticasse in testa era spenta o senza significato. Non riuscivo più a capirlo, e nel farlo, non capivo nemmeno me stessa.
Alla prima panchina, che grazie al freddo di Ottobre era ben libera, mi sedetti, e subito lo guardai con tutta l’apatia che mi era rimasta. Dentro stavo morendo di preoccupazione, ma non potevo cedere alla tentazione di mostrarlo a quello lì, conosceva troppo di me, troppe mie debolezze che avevo custodito gelosamente.
- Cos’è successo? – Chiesi subito, visto che le sue parole tardavano ad arrivare, e portandomi le ginocchia al petto, lo osservai, in tutta la sua insicurezza. Era amore quello che lui provava?
Che strano sentimento, se fosse stato così. Ti fa sentire onnipotente per poi renderti pappa per cani, tutto in meno di un secondo. Eppure tutti lo lodavano come se fosse la cosa più bella di questo mondo. Va bene che in quel Complesso divinizzavano i senza cervello e le bionde munite di airbag, ma esser devoti a una così grande autodistruzione mi sembrava assurdo. Stupido, proprio come quel ragazzo.
Lui non rispose, naturalmente senza mai posare il suo piccolo sguardo sui miei occhi ben freddi e distaccati, che già respiravano un’aria di rabbia che avevo deciso di non usare in quel momento. Stando zitto cosa credeva di ottenere, di preciso?
- E’ coinvolto anche mio fratello direi – Sospirai, provando a stuzzicarlo per ottenere una qualche frase di senso che raramente riusciva a formulare, ma l’unica cosa che riuscii ad ottenere fu la sua testa che dondolava su e giù lentamente, con le sue gote che si coloravano di un bel rosa accesso.
Dio Santo, era proprio innamorato, e perfino una profana come me lo capiva.
In quel momento sembrò bello, ma non quella bellezza che ti fa salire gli ormoni, ma quella semplice espressione che ti fa sentire tutto, ogni singolo timore e ogni grammo di felicità provata, ogni piccola coincidenza dovuta dall’amore. Era bello, indifeso nel suo sentimento, e la cosa non poteva far nulla se non farmi riflettere. Chi era realmente Alexander?
Un bravo bugiardo, un ragazzo strafottente e arrogante, colui che si credeva un dio sceso in terra e che non temeva di ridere. Fragile, innamorato, troppo legato alle apparenze da dover mentire costantemente sia agli altri che a sé stesso, senza mai poter prendere un momento di libertà. Alexander James era una maschera, un inganno per saziare i viventi del C.E.R.O. Perché?
Continuai a guardarlo, mentre inconsapevolmente rivelava aspetti di lui che mai avrei immaginato, e con una voce strozzata dalla preoccupazione, si girò verso di me, e mi disse tutto.
- Ci hanno visto mentre ci baciavamo, Will. –
Occhi lucidi, labbra che tremavano, e uno sguardo perso che provava a trovarsi dentro di me.
Merda.

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Capitolo 11
*** Capitolo 10 ***


L’inizio
 
Tu il problema, io la chimera.
Contro il mondo, contro noi stessi.

 
 
Non sapevo nemmeno più cosa ci fosse intono a me. Colori smorti, luci opache, rumori ovattati, solo il suo viso non era sfocato, anche se i suoi occhi ormai stavano per diventare come due fontane. Per cosa poi? Per essersi innamorato?
Mi misi seduta decentemente, abbandonando ogni tentativo di riscaldarmi, e accavallai le gambe per darmi un’aura più stabile, facendo scorrere le mie mani sul legno ormai marcio di quella stupida panchina congelata fino ai miei presunti pantaloni.
Avevo bisogno di aria, e vedendo la sua faccia, mancava ad entrambi.
Lui era più pallido del solito, con le labbra quasi livide che si tenevano inutilmente salde, e le sue mani, probabilmente anch’esse mosse dai sentimenti, erano ben coperte dalle tasche del suo giubbotto. Ma per quanto potesse provare a nascondersi, con anche quell’insulso cappuccio sui capelli, il suo volto, accompagnato dalla penombra, non riusciva a non catturare il mio sguardo. Quella era la faccia dell’amore, sofferente e resa bella dalle mille debolezze e spontaneamente mi sorgeva quella fatidica domanda che dal suo incontro continuava a vagarmi in testa: perché amare?
- Com’è successo? – Mormorai flebile, senza lasciar intravedere nessuna preoccupazione o insicurezza nella mia voce, che come sempre era ben bassa. Tranquillità, di questo aveva bisogno quel ragazzo che tanto odiavo, altrimenti sarebbe finito ben presto in un manicomio in mia compagnia, urlando come un pazzo il mio nome e quello del mio presunto fratello. Però io non ero brava a dare consigli di quel genere, e sicuramente sapeva anche lui che non ero la miglior scelta per affrontare quel discorso e trovare una soluzione. Forse aveva avuto bisogno di me perché non c’era nessun altro, ma stava di fatto che non ero comunque una buona scelta.
- Eravamo fuori a fare un giro, un caffè e qualcos’altro… e alla fine siamo andati in una strada isolata… Non credevo che ci vedessero, e così… Beh… - Balbettava quel paracarro demente, mentre tutte le mie paure momentanee si rivelavano evanescenti, e anzi, capaci di tramutarsi in perplessità. Esclusa la sua innata capacità nel balbettare peggio di Calibro, quel ragazzo totalmente ritardato mi aveva appena detto che, con la loro stupida convinzione da adolescenti in calore, si erano baciati in una strada pubblica, dove naturalmente non sarebbe mai dovuto passare qualcuno, e sfortunatamente, poiché il caso non rompe i suddetti solo alla suddetta, quel qualcuno era passato, li aveva visti e chissà cos’altro aveva fatto. Ed era venuto da me, in una giornata oscena in cui mi stava succedendo di tutto, a chiedere un qualche consiglio a chi mai aveva avuto bisogno di darne, mettendo in pericolo la nostra situazione sociale nel C.E.R.O.
Di cosa si faceva, oltre che acidi e vernici?
- Ma siete dei coglioni! – Ululai dopo qualche secondo usato per realizzare nella mia mente la situazione e subito mi alzai in piedi di scatto, con quella dolce furia con cui ormai vivevo.
- Tu mi stai dicendo che, come degli idioti, vi siete baciati in strada? Ma quello che era successo l’estate scorsa non vi è rimasto in quella fottutissima testa? Non tutti sono come me, nessuno di solito se ne fotte di certe cose, anzi… - E senza battere ciglio o torturare una piccolissima ciocca dei miei capelli, urlavo quasi quelle parole senza il bisogno di respirare. Mi era mancata l’aria prima che ero solo preoccupata, figuriamoci in quel momento dove anche la rabbia prendeva il suo posto nella mia mente.
Non potevo, non volevo anzi crederci che quella demenza fosse un difetto così estremamente irrimediabile in quei due e non accettavo la mia totale incapacità nel togliergliela, a costo di aprirgli la testa vuota e far fuoriuscire quei gas che sostituivano il cervello. E cosa principale, non sopportavo il fatto di esser stata coinvolta senza aver mai fatto nulla di male: dal suo incontro, tutto quello che mi succedeva era una tragedia, e lui, con la sua sensibilità da becchino, mi gettava senza pudore pure nelle sue sventure quotidiane.
Però, anche se avevo ogni diritto di dare di matto, quello non era il momento adatto e lui, per quanto ormai lo detestassi. Dovevo semplicemente tenermi dentro tutta l’ira e la frustrazione. Non era la prima volta che nascondevo tutto, e quindi rimasi semplicemente a fissarlo intensamente con quei piccoli sintomi da buco nero, senza mai accennare un qualche movimento. E lui? Beh, sembrava perfettamente imitarmi, fermo e muto a guardarmi, probabilmente senza sapere nemmeno cosa pensare. E la cosa non poteva far altro che mandarmi ancor di più in bestia.
Mi alzai nuovamente, sotto il suo sguardo, e avvicinandomi alla sua figura leggermente ingobbita, presi in mano tutta la freddezza seccata sul fondo, mentre sentivo il cuore martellarmi nel petto. Non ho nemmeno paragoni nerd per definire quello che avevo provato in quel momento, ero come svuotata. E la cosa non era per nulla piacevole.
- Allora, non so perché tu ne stia parlando con me, che sono la scelta peggiore che tu potessi mai fare, ma se stai zitto… - E con la voce sospesa, gelata come una grandissima finzione, non conclusi la frase, convinta che lui avesse capito quello che stavo per dire, ma appena il silenzio tornò tra di noi, tutto mi sembrò inutile. Era come parlare con un cadavere, perché perfino la mia scarsa sanità mentale era di molte più parole.
Se non aveva voglia di aprir quella dannata bocca, forse aveva realizzato il suo ennesimo sbaglio e che per gentilezza, al quanto scaduta, non aveva il coraggio di dirmelo, perché l’amore ti può rendere in tutti modi, ma non così. O almeno, io ne ero convinta in quel periodo.
Passarono momenti in cui il sottofondo della città, con le macchine che passavano e il chiacchiericcio lontano delle persone che delicatamente, con lo scivolare della notte sull’orizzonte, sembravano colmare il vuoto tra noi, arrivando perfino a sfiorare le mio ossa, finemente mosse da quella forza superiore che in quei giorni mi era mancata. La ragione mi fece fare il primo passo, titubante, poi continuai, distaccandomi da quelle serie di eventi che mi avevano travolta. Mai avevo chiesto una cosa simile, e, per quanto in quella settimana fossi mossa da buoni propositi, lui era riuscito, con il suo non far nulla, a fermarli.
Non contavo nemmeno i passi, speravo solo di riuscire di a girare l’angolo il prima possibile e fuggire da quella sua presa mortale chiamata Gravità. Anche in fisica, questa forza è sempre stata presente, ha sempre influenzato ogni cosa, senza però farsi notare. E lui era un dannato Sole, pronto ad esplodere. E lui era un dannato ragazzo che nonostante tutto non mollava.
- Hai ragione – Mormorò, con il capo chino e con nuovamente la mano sul mio polso, che ormai portava quel livido come se fosse uno stupido bracciale, e senza il bisogno di farmi voltare incominciò a tamburellare il piede sul cemento. - Sei la peggior scelta che possa esistere, ma io sono il peggior ritardato di questo universo. Ti prego, resta… –
Per una volta il mio sesto senso aveva ragione: ero la peggior scelta per lui. Ma naturalmente, essendo io, William Samantha Smith, la sorella di Luke Smith, ero diventata l’unica potenziale confidente di quel ritardato senza nemmeno volerlo. Che gioia sentire quelle parole, ma almeno si era insultato da solo. Piccole soddisfazioni che sanno scaldare il cuore.
- Detto così, sembriamo un bel duo…- Mormorai, aggiungendo una mezza smorfia al mio volto, e senza opporre nessuna resistenza, mi girai verso di lui, con ancora quel mio distintivo sopracciglio sollevato alla ricerca di risposte. Ma, se da una parte sembravo ormai arresa e davo l’idea di una stabile di mente, dall’altra la mia sanità mentale si stava totalmente convertendo al Lato Oscuro della Forza, e ancora guidata da quella sana e genuina rabbia, gli tirai un pugno sulla spalla, facendo cadere totalmente quella strana atmosfera opprimente e quasi tenera che si era creata.
- Ma sta di fatto che sei un Coglione, James. – Continuai, accompagnando quel suo stupore sul volto con la mia cara e dolce voce roca finalmente libera da quei maledetti pensieri. Avevo capito in parte cosa dovevo fare: esser la solita me stessa, e non quella cupa e pensierosa che a nessuno piaceva, me inclusa.
La sua risposta a quel mio gesto, che naturalmente arrivò in ritardo? Una bella risata e un suo insulto diminuito con uno stupido aggettivo, mentre si accarezzava i capelli muovendo quel cappuccio con una certa agitazione per una volta motivata. In fondo, anche lui era umano.
- Cosa dici di fare, piccola Medusa? – Mi chiese, rialzando quel suo sguardo che brillava con le ultime luci del sole e che rivelava un marrone tendente al nero, e come se nulla fosse, riprese con il suo atteggiamento, totalmente finto, da re della città, osando perfino chiamarmi con quello stupido soprannome che mi faceva estremamente ribrezzo. Mi avvicinai lentamente a lui, abbassando finalmente quel sopracciglio che mi stava mandando in cancrena la faccia, e alzando gli occhi al cielo, sbuffai. Fin dall’inizio, da quando aveva detto quelle parole, quella piccola mente pensatrice e dispensatrice di trip mentali era riuscita anche a formulare, oltre alle mille domande inutili, una soluzione che probabilmente non gli sarebbe piaciuta per niente. Anzi, che sicuramente sia lui che mio fratello avrebbero disapprovato.
- O fate coming out – Dissi, allungando una mano verso di lui e indicandolo – O vi trovate una ragazza come copertura –
Fin dal primo giorno con cui avevo avuto a che fare direttamente con lui mi era venuta in mente quest’idea, e ora mi si presentava una situazione che richiedeva un qualcosa in fondo così crudele, perché significava ingannare qualcuno. Ma la cosa a me non importava più di tanto, erano loro i cattivi ed era loro la scelta tra quelle due opzioni.
Poi con gli inganni e le mezze verità ruotava tutto quel sistema e non era nemmeno così nascosto come meccanismo. Però lui, dalla faccia che si era nuovamente trasformata, sembrava totalmente contrario ad entrambi i miei consigli e, scuotendo quella sua testa come se fosse un bambino, riprese a balbettare come una macchinetta a raffica, fino a quando non se ne rese conto. Così si zittì per qualche secondo, fermando finalmente quella specie di palla vuota prima che si svitasse, e con un movimento repentino, che quasi mi spaventò, si tolse il cappuccio, liberando così quei capelli biondi ancora stranamente belli folti.
- Non se ne parla – Mi rispose a tutto tono, quasi leggermente irritato, guardandomi a tratti sul volto, senza però incrociare mai il mio sguardo, e, mentre una mano era impegnata a toccarsi quei capelli come era suo solito, con l’altra spostò delicatamente la mia mano, facendomi notare quella specie di fossetta che si creava quando sorrideva nervosamente. Una camomilla o un sonnifero non gli avrebbero fatto male in quel periodo, e lo stesso valeva per me probabilmente.
- Non mi puoi dire di farlo, Will. Ho una reputazione da difendere e non posso nemmeno ingannare qualcuno così. Ci dev’esser un’altra soluzione… - Continuava a blaterare bello che agitato senza concludere mai le frasi, mentre continuava quella specie di scenata non del tutto giustificata. Mica lo stavo obbligando, gli avevo solo detto quello per cui ero venuta fin lì e niente di più. Che poi, mica gli stavo ordinando di sposare la mia prof di matematica in una cerimonia per nudisti, era solo una soluzione temporanea lunga meno di un anno. Se non voleva avere la coscienza sporca, poteva sempre chiedere a qualche lesbica della scuola non ancora dichiarata.
- Tacchino ritardato, non ti sto ordinando di farlo. Volevi un consiglio? Eccolo. Se poi vuoi difendere la tua fama da puttaniere fai pure, ma poi non stupirti se ti ritroverai a intrattenere i maschi al posto delle ragazze. – Dissi io che, con l’acidità nello stomaco e nel sangue, ero stata leggermente rude in quelle parole vere. Ma se era quello che gli serviva per capire la questione, di sicuro avrei dato ben più di piccole e dannate frasette di verità. Non ero io quella che si era baciata in mezzo alla strada, ma lui, e doveva accettare le conseguenze e le potenziali soluzioni.
Naturalmente, dopo avergli dato del gigolò, Alex si era preso talmente male che aveva fatto scomparire dal suo bel faccino quel sorrisetto che mi dava sui nervi, e lo aveva sostituito con una specie di linea ben sigillata, che indicava il ritorno del vero James, con solo difetti e sentimenti. Era troppo divertente, ripensandoci, vedere i mille volti di quel ragazzo.
- Stronza, io ti chiedo un aiuto e tu mi insulti? Ma che razza di amica sei? –
Per la prima volta con lui, dopo una sua frase con tanto di parolacce, non mi ero soffermata alle prime parole, ma proprio alla penultima, che nemmeno aveva accentuato più di tanto con la sua voce. Amica. Lui mi vedeva come un’amica? Ma dove?
Mi aveva preso, ribaltato, triturato, stravolto e bruciato la vita senza nemmeno rendersene conto, e mi aveva chiamata perfino con quell’appellativo. Dio Santo, per me l’amicizia non esisteva, era solo una mera definizione per giustificare tutte quelle persone che usano gli altri. Io ero solo una ragazza, la sorella del suo fidanzato. Ero l’unica che conosceva il loro segreto. Niente di più.
- Non ho mai detto di esser tua amica. – Risposi io, mezza alterata e con gli occhi che per l’ennesima volta tornavano a fiammeggiare, e senza però accennare a qualche azione omicida nei suoi confronti. Mi allontanai solo di qualche passo da lui, e con la testa alta presi fiato, cercando di controllare quel mio bellissimo carattere.
- Sono solo la tua ultima spiaggia, quindi piantala di recitare il bravo ragazzo e tira fuori queste dannate palle. Il mondo non aspetta nessuno, quindi muoviti e fa la tua scelta, prima che ti travolga -
E detto ciò, con una calma ormai del tutto abbandonata, mi girai senza aspettare una sua risposta e me ne andai, lasciandolo solo, in mezzo a quel piccolo parco giochi, con le chimere che aveva nella mente. Doveva decidere, a costo di ferire qualcuno e non l’avrei fatto io per lui, ma solo lui e mio fratello.
Era giusto così.


 
Angolo Autrice
Buon Primo dell’Anno a tutti, è sempre quella solita petulante che per una volta si scusa, al posto di parlare a vanvera.
Sì, scusatemi, chiedo umilmente venia per questo colossale ritardo creato dalla gita scolastica, la magia del Natale e la pigrizia da fine abbuffata, condito anche dalla mancanza di fantasia. Vi prometto che da ora, per quanto una povera umana altamente bugiarda possa promettere, che pubblicherò i capitoli ogni venerdì, e magari comparirà, a caso e per farmi perdonare, qualche capitolo anche di lunedì, scuola e fantasia sempre permettendo.
Detto questo, vi auguro un Buon Anno tutto da vivere!
Quella scrittrice fallita fissata con le canzoni natalizie
Hailie

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Capitolo 12
*** Capitolo 11 ***


IL Mondo è lì per Te, Conquistalo

Non spariamo cazzate nuovamente,
il mondo è lì solo per prenderti a calci in culo.
 

Passai tutta la notte a pensarci su e a furia di rigirarmi nel letto, ero perfino riuscita a far cadere due dei tre poster che erano attaccati alla parete di fianco a me. Non era colpa mia se la sua faccia mi appariva pure su quella copia ormai logora della locandina di Assassin’s Creed, ma del suo modo di esser vivo: perché sì, era meglio vederlo come futura creatura sul procinto di esalare l’ultimo respiro che come un ragazzo di quasi diciotto anni ancora pieno di forze. E poi, con i suoi preconcetti scontati e comuni, riusciva a far crescere la rabbia già repressa, che in quel periodo stavo sfogando in modi fantasiosi, mandando all’altro mondo ogni briciolo di sanità in me.
I risultati della giornata appena trascorsa? Foto a caso fatte da una Tau, una compagnia che mi aveva introdotta dopo vari rapimenti senza un minimo di consenso dalla parte della sottoscritta, un’orticaria causata dal Tacchino e un aumento di pena carceraria da parte dei miei genitori per quegli occhiali belli che devastati. O sì, aggiungiamo il mio volto non più nascosto da quella montatura spessa e il risultato, oltre alla notte insonne, era una cara e dolcissima Will affetta dal Bacillo di Frenkel. Ma diciamolo, in quelle settimane vedermi in quello stato era ormai parte della mia normalità.
Ero talmente ridotta male che non aspettai quel fastidioso rumore di sveglia per alzare le mie pigre membra da quel soffice e caldo letto, all’alba delle sei ero già in piedi, con una schifezza in bocca e la musica nelle cuffie. E ancora il suo volto non spariva, e spesso le canzoni sembravano riprendere alcune parole che lui aveva farfugliato. Ma perché continuavo a pensarci?
Mio fratello nemmeno mi aveva accennato al piccolissimo problema, ma anzi, era tornato a casa con l’ennesima ragazza come se nulla fosse. Al che, mentre i miei dubbi iniziali si erano basati principalmente su quello sconosciuto, ormai erano tutti incentrati su Luke: perché lui non ci stava male, mentre quel cretino sembrava sul punto di suicidarsi?
Forse quello che avevo visto quel giorno nei suoi occhi non era amore, era l’attimo fuggente che si portava via, oltre ai secondi di respiri ed espiri, l’infatuazione che gli aveva messo in dubbio la sua sessualità, e probabilmente, con quasi una sicurezza piena, dicevo a me stessa che per lui illudere le persone era naturale. Lo aveva ingannato, e non si era accorto di nulla.
Ma se da una parte avevo quel dubbio, dall’altra, mentre addentavo la fetta di pane ricoperta di sana salutare marmellata alle more, avevo quella piccola vocina da disturbo mentale che mormorava paroline come “Reggere” e “Apparenza”, le stesse che erano state il succo del discorso di ieri. Magari, circa al cinquanta per cento, lui aveva subito reagito a quel piccolo errorino chiamato cretinaggine e si era dato da fare con altro, al posto che pensare. Ma comunque, se quello fosse stato amore, lui non avrebbe fatto così, e dunque la mia risposta a tutto era una, semplice e concisa. Lui non era innamorato del Tacchino, o era troppo stupido per saper amare. E tra le due opzioni, davvero non sapevo quale fosse quella giusta.
E qui, mentre partivano i trip mentali capaci di mandarmi in overdose sotto il getto caldo della doccia, capivo quanto fosse una merda mio fratello e quanto quel ragazzo, che io non riuscivo più ad odiare totalmente, fosse una vittima, che probabilmente, con la scoperta dei reali sentimenti, sarebbe scomparsa dalla mia vita con la stessa velocità con cui ci era arrivato. E qui, come brava disturbata mentale erede di Smeagol, mi chiedevo se davvero lui fosse riuscito ad uscire dalla mia vita e la risposta mi sembrava sempre e solo un sonoro “No”, con un bel punto dopo quel tondo secco. Ma onestamente, non mi creava più così tanto fastidio quel dannato verdetto.
Uscita dalla doccia, resa umana dal mascara e dal pettine, mi infilai di fretta e furia gli ennesimi vestiti osceni color azzurro pastello e grigio e, senza aspettare di vedere le facce degli altri familiari, uscii di casa, lasciando al mio passaggio solo un post-it con scritto qualcosa sulla mia passeggiata notturna. E ancora una volta, come se fosse la colonna sonora della mia vita, la canzone “45” degli Shinedown ripeteva le stesse parole, solo con ancor più carica emotiva.
La fortuna di uscire dalle sette e qualcosa di casa? Non trovare nessun coetaneo che camminava per quelle strade desolate e riecheggianti del traffico cittadino e assistere all’assenza sollevante delle ragazze che si facevano uno di prima mattina davanti al cancello, provocando conati capaci di farti salire il tuo primo pranzo di Capodanno. Pace dei sensi in poche parole, anche se quella giornata, come ormai mi aspettavo, sarebbe stata tutto, ma non una tranquilla routine da nerd. E mi ero pure dimenticata degli altri due amichetti di James, che come per magia, mi avevano introdotta, senza nemmeno un minimo di sensibilità verso la sottoscritta, nella loro compagnia da idioti con gli occhi a bassotto e non avevo voglia di vederli, figuriamoci sentirli. La mia non era cattiveria, era consapevolezza. Nessuno è santo e nessuno è diavolo, solo tanti stronzi in un mondo di stronzi a farsi le scarpe a vicenda dimenticandosi di sé stessi solo per avere un briciolo di felicità, che puntualmente si scambiava per fama. Nemmeno io ne ero esterna, figuriamoci quei due puntini del C.E.R.O. che avevano a che fare con i Soli Maggiori. La vita insegna sempre a non fidarsi, e io ascoltavo, e ascolto tutt’ora, la mia vita.
Il semaforo rosso ancora era bello che acceso davanti al mio sguardo perso nel nulla e, mentre le canzoni si succedevano senza un minimo di attenzione, ancora, a pensare a quelle bellissime cose da non pensare a quell’orario, mi appariva davanti al volto la sua faccia da Tacchino spennato. Che lui amasse mio fratello o che Luke amasse lui, non erano fatti miei, e non li avrei resi miei. Avevo chiuso.
Attraversai, continuando così quella mia marcia verso un buco di morte e sofferenze, e canticchiai un po’, come a cacciare ogni pensiero e anche ogni presunta persona con la mia voce stonata. Qualche parola lì, qualche parola là, nella mia mente si insidiavano nuovamente quei maledetti pensieri a ogni piccola pausa, e mi facevano trovare lì, sospesa tra incubo e realtà, nella linea indefinita dell’orizzonte, come in un limbo tra il bene generale e il mio. E allora, come a sfidare quella mente da criceto in decomposizione, alzavo la voce, sempre di più, fino a quasi gridare come un idiota in mezzo alle strade desolate, svegliando probabilmente troppe persone. Ma ancora loro non smettevano, quasi soffrissi di una quadrupla personalità.
Cosa mi rimaneva se non un fanculo verso me stessa? Ma naturalmente la mia sfiga, che unita alla Fisica, creava situazioni sempre più improbabili.
Avete presente quella cosa sulla pace dei sensi che avevo detto qualche riga più su? Ecco, prendetela, accartocciatela e dimenticatevela se siete sfigati come me, perché quel giorno, come ogni singolo attimo dopo quel maledetto incontro, era un tutto, ma non un fottuto giorno normale.
Ero lì, ad urlare “I Hate everythig about you” dei Three Day Grace con la mia bellissima e gracchiante voce intonata, quando un piccolo bastardo senza nome si mise ad accompagnare, ridendo, quelle maledette parole, come se fosse normale incontrare una che ulula la mattina canzoni mezze sconosciute.  Per una volta non era pallida e bionda quella figura, ma un insulsa sagometta tutta normale, che mi guardava sorpresa e naturalmente divertita. Tizio Caio Ritardato cantava la mia stessa canzone con sicurezza, dimostrando che la conosceva tanto quanto me, ma onestamente non mi interessava nulla: volevo solo andare a vivere in Antartide, sola con orsi e pinguini e freddo.
Continuando a guardarlo, lì in piedi davanti a me ad aspettarmi, svoltai subito alla prima via che mi apparve a destra, di cui fino a quel momento avevo ignorato l’esistenza, e senza girarmi, continuai a camminare, sperando di essergli sfuggita.
Un Dejà vu? Probabilmente sì, vista la natura di quell’aiutante dello stalker. O forse era diventata una moda inseguire le ragazze mezze obese e fissate con i videogiochi che a ogni opportunità mostrano la loro instabilità mentale.
Di sicuro mi stava seguendo, anche perché, a mia sfiga, sentivo la sua voce chiamarmi a qualche metro di distanza da me, come se potesse, con il mio nome, farmi andare da lui. Ma se l’avevo evitato, come faceva a credere che lo avessi fatto senza accorgermene? Irritante, poco ma sicuro. E se quella giornata era iniziata senza segni funesti del destino, in quel momento si era bella che smentita, piazzandomi un C4 davanti alla faccia. Ma forse con lui avevo qualche speranza in più.
Continuai a camminare, accelerando a ogni passo la mia andatura da morta vivente, e senza nemmeno curare la canzone del momento, che naturalmente, per assecondare la situazione, odiavo, incominciai a far arrovellare il mio cervello poco lucido per trovare una soluzione funzionante. Ma la mattina, come vi dico sempre, io e la mia mente siamo tutto, ma non su questo pianeta.
Lui continuava a chiamarmi, io continuavo a camminare come se stessi facendo una marcia, convinta che prima fossi arrivata a scuola, prima mi sarei salvata. Salvata, sì, perché alle future sette e trenta la scuola era un bellissimo posto affollato e capace di nascondere anche una spada laser. Proprio complimenti a me stessa e alla mia demenza, tanto valeva farmi prendere in quel momento e risparmiarmi una corsa senza senso. Ma naturalmente, perché in fondo anch’io devo rendere la mia stessa vita un inferno, non ci pensai nemmeno un secondo a quell’ipotesi, e continuai, svoltando nuovamente a destra, un’altra bellissima strada di periferia abbastanza silenziosa.
- Non canti più? – Spesso e volentieri mi urlava dietro quel demente ritardato che si era dimenticato di presentarsi, e io puntualmente, visto che non sapevo non star zitta alle sue bellissime prese per posteriore, alzavo fiera il mio medio e lo facevo oscillare a suon di musica, che era troppo bassa per zittirlo. Eppure non mi aveva raggiunto, e anzi, non sembrava che volesse farlo: forse aveva solo preso il caso e deciso di farsi una risata, senza dovermi rapire e torturare come il suo caro amichetto. Forse voleva esser abbastanza vicino per parlarmi, o per meglio dire prendermi in giro, ma abbastanza lontano per la sua sicurezza. Scelta saggia, anche se ormai non avevo quasi più energie per reagire.
All’ennesima via che mi si presentava a destra, svoltai, e davanti a me, subito dopo l’altra che prima di quell’incontro stavo maledicendo con la mia intonazione, vidi quella bellissima e odiatissima stradina in cui avevo svoltato ed ero stata rapita. Se fossi stata fortunata, in quel momento avrei rivisto il divino prof di ginnastica in sella alla sua moto, ma dietro di me si sentiva solo quella voce odiosamente solare e irritante.
- Non canti proprio più, Smith? – Continuava a ripetermi, con un’insistenza femminile che io in realtà avevo abbinato a quella povera sventurata di Calibro, e alla sua ultima parola, che naturalmente era il mio cognome e l’unica cosa che mi aveva messo in quei casini, alzai il dito medio nuovamente, e intonai un bellissimo “Crepa Coglione” capace di far commuovere perfino un apatico. Significato semplice, dritto e conciso, dedicato a una persona che meritava totalmente quelle mie fantastiche parole di affetto. Peccato che erano semplicemente parole, che lo avevano fatto applaudire e ridere, e non la realtà che si sarebbe creata se il giorno prima non avessi litigato con James.
Fu proprio la cosa a cui pensai, e non riuscii a credere a quello che incoscientemente il mio cervello aveva formulato. Detto così, sembrava lui la causa, ma solo in parte, come se io non avessi dormito perché ero seriamente preoccupata per lui. Preoccupazione comporta attaccamento, che porterebbe poi l’amicizia con tale individuo, mentre io credevo solo di esser preoccupata per me stessa. Sì, perché se il suo segreto fosse stato svelato, presto e malvolentieri tutti avrebbero scoperto l’oscura identità di quel rospo di mio fratello, e mi avrebbero collegata a lui, facendomi abbandonare ogni forma di vita tranquilla e anonima che volevo condurre.
E poi perché ero andata a scuola così presto? Per non vederlo?
Beh, diciamo che avrei voluto evitare pure il suo sostituto, che ancora mi seguiva e rideva soddisfatto del risultato, però il problema era che in fondo alla mia coscienza ormai fossilizzata, io non volevo vederlo. Non per l’odio che provavo verso di lui, ma per come era andata a finire il giorno prima.
E l’ennesima domanda era: odio incondizionato verso Alex o semplicemente paura per quello che lui poteva rendermi?
Attraversai la strada, che mi divideva da quel grigio edificio pieno di sofferenza e agonie infinite, e mi sfilai gli auricolari, che ormai riuscivano a produrre solo canzoni fastidiose e capaci solo di confondermi. Era solo il trasporto del momento, l’instabilità della mia mente per Tizio e il sonno, io realmente non pensavo a certe cose.
Dovevo solo toccare la mia sedia, dormire un po’ sul mio banco e dimenticarmi della mia avventura da sonnambula. Non dovevo ripetere gli sbagli delle persone che avevo osservato da piccola, perché il mondo non è lì per te. I calci sì.

 

Angolo Autrice
Per una volta sarò breve:sto risistemando i vari capitoli.
Quindi nulla, per il momento a posto c'è solo il prologo.

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