L'equilibrista

di etc
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Il suo primo giorno ***
Capitolo 2: *** La sua classe ***
Capitolo 3: *** Il suo incubo ***
Capitolo 4: *** Il suo anniversario ***
Capitolo 5: *** La sua filosofia ***
Capitolo 6: *** I suoi colleghi ***
Capitolo 7: *** I segreti dei suoi colleghi ***



Capitolo 1
*** Il suo primo giorno ***


IL SUO PRIMO GIORNO

L'uomo dallo sguardo assente camminava a passo spedito, la valigetta in mano, la mente altrove. I pensieri sfrecciavano veloci, seguendo il ritmo dei passi affrettati di gente vestita in giacca e cravatta che si affrettava a superare i tornelli.
L'uomo dallo sguardo assente aveva il viso rivolto in su, ma gli occhi che guardavano in basso, e camminava con falcate decise per la strada che conosceva da sempre. Quel giorno il cielo era nuvoloso, senza uno straccio di sole, con qualche goccia che cadeva ogni tanto sugli ombrelli. Sembravano lacrime che le nuvole non riuscivano a trattenere, e questo all'uomo dallo sguardo assente piaceva, perché aveva imparato che la tristezza è molto più certa e sincera della gioia.
Si diresse verso le scale, fiancheggiando lo sporco angolo dove lo storico barbone della stazione della metropolitana da anni sedeva sullo stesso punto del freddo pavimento urlando "Vi credete belli?!" a chiunque passasse. Aveva una lunga barba grigia e capelli che gli sfioravano le spalle raccolti in un codino da un elastico logoro, grossi vestiti sporchi e un forte odore di birra scadente. Non superava i sessant'anni, ma l'alcool e i suoi stanchi occhietti neri lo invecchiavano di decenni. Quando le persone gli passavano davanti (a debita distanza), lo ignoravano, ma non riuscivano a trattenere un'espressione di ribrezzo dovuto al suo odore e al suo aspetto.
"Salve Bob", disse l'uomo dallo sguardo assente a voce alta per sovrastare il frastuono della stazione, senza rallentare il passo o voltarsi, salutando il senzatetto alzando soltanto la mano sinistra. Quello si girò a guardare chi l'avesse chiamato, e appena lo individuò strillò in risposta: "Ehi, giovanotto! La fidanzatina, come va?"
"Come al solito, Bob", rispose l'altro, mentre svoltava l'angolo e spariva dalla vista.
Un treno era già arrivato sferragliando e aveva aperto le porte, facendo riversare sui binari decine e decine di persone tutte uguali. L'uomo dallo sguardo assente affrettò un po' il passo e salì sul treno, sistemandosi vicino all'uscita e afferrando un sostegno, gli occhi puntati sul finestrino, lo sguardo fisso sul vuoto.
L'uomo dallo sguardo assente era alto e muscoloso, con i capelli biondi e gli occhi azzurri, sul viso una barba di dieci giorni che però non invecchiava affatto il suo viso di eterno giovane. Sotto l'elegante cappotto grigio a tre quarti, indossava una maglietta con una scollatura a V che gli stringeva un po' sui pettorali, accompagnata da pantaloni grigi e scarpe da ginnastica basse ma eleganti, con i lacci accuratamente legati. Al polso aveva un orologio d'acciaio, e addosso un buon e leggero odore di colonia. Era un uomo molto affascinante, tanto che in passato aveva lavorato anche come modello, prima di abbandonare tutto, ma possedeva una bellezza incolta, un po' selvaggia, che riusciva a respingere una buona parte delle persone, ed era l'unico motivo per cui la gente, per strada, non si incantava a guardarlo. L'uomo dallo sguardo assente aveva un aria un po' malinconica e stanca, con lo sguardo fisso su mondi distanti, perennemente assorto tra i suoi pensieri, tanto che ogni tanto lo si vedeva accennare appena un sorriso nostalgico, come se stesse ascoltando qualcuno parlare.
L'uomo aveva lo sguardo assente perché pensava troppo. La sua mente assomigliava a una stazione, piena di pensieri che arrivavano senza preavviso e risfrecciavano via veloci come erano venuti, senza nemmeno dargli il tempo di afferrarli, ed era sempre stato così per 37 anni. Anzi, 38, dato che quello era il mattino del suo trentottesimo compleanno (o, come amava definirlo lui, il quinto anniversario dal suo 33° compleanno). Nonché suo primo giorno di scuola.
Uscì dal treno dopo sei fermate. Quando le porte si aprirono, cedette il passo a un'anziana signora con un debole sorriso, e poi si avviò fuori in fretta.
Svoltò l'angolo, superò i tornelli e salì per le scale deserte, superando la gente che alla sua sinistra si accalcava sulle scale mobili. Rallentò un po' il passo soltanto quando vide un artista di strada suonare il violino davanti a una bambina che lo guardava incantato. Sorrise malinconicamente a quella scena e poi, come riscuotendosi da qualche lontano pensiero, riprese a camminare più in fretta di prima.
Perché stava quasi correndo? Era anche in anticipo. E la scuola non era molto lontana da lì.

Vuoi tornare indietro? Sei ancora in tempo. Puoi farlo quando vuoi.

"No" sussurrò sottovoce a sé con voce ferma. "Non un'altra volta". E continuò a camminare ancora più veloce.

Ti farà male, lo sai?

Stavolta non rispose. Ma in realtà sapeva che sarebbe stato esattamente così. Tuttavia continuò a camminare a passo spedito, per impedirsi di fuggire e tornare indietro.
"No che non farà male. E perché dovrebbe farlo?" si disse, pronunciando le parole ad alta voce nel tentativo di renderle più credibili.

Bugia numero 2. Prima a Bob, adesso a te stesso. Ah, Alessandro… stai prendendo una brutta piega…

Accelerò ulteriormente, fino a ritrovarsi a correre, ma sapeva che non avrebbe potuto scappare da se stesso. Aveva lo sguardo basso, tanto che non si accorse di avere davanti l'imponente edificio verso il quale era diretto finché i suoi occhi non incontrarono il marciapiede che conosceva bene. Si arrestò improvvisamente, poi, lentamente, alzò il viso e si vide davanti la scuola.
Inspirò profondamente, e solo dopo alcuni secondi lasciò andare l'aria dai polmoni. Si lasciò alle spalle il traffico ed entrò.

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Capitolo 2
*** La sua classe ***


LA SUA CLASSE

La scuola era molto grande e comprendeva scuola media e liceo classico, che lui stesso aveva frequentato da giovane. Non era cambiata affatto dal giorno più brutto. Ma entrarci di nuovo gli fece provare una sensazione del tutto differente. Si sentiva come intrappolato in una bolla, con ogni suono rimbombava tra le pareti di quello spazio invisibile stranamente amplificato e distorto. Eppure aveva l'impressione di non sentire veramente i rumori che aveva attorno; risuonavano nelle sue orecchie e premevano sui suoi timpani senza inviare alcun messaggio al cervello. Se qualcuno avesse urlato che l'edificio stesse andando a fuoco, le sue orecchie sarebbero state le prime a udirlo, e avrebbero gemuto sotto il peso di tutto quel suono; ma lui sarebbe rimasto lì, ascoltando un suono che il suo cervello pareva non riconoscere più.
Il pollice della mano sinistra si mise a far ruotare la fede attorno al suo anulare, senza nemmeno che lui se ne accorgesse.
Chiuse gli occhi e respirò profondamente: la vista gli divenne meno appannata e, incoraggiato, riprese la sua solita andatura decisa, dirigendosi al primo piano, verso la classe del 3° C, che era stata la sua, una volta. Salutò le due bidelle (che erano sedute e parlottavano tra loro) con un cenno della mano e un timido sorriso, e quelle sorrisero di rimando, arrossendo. Una di loro rimase imbambolata a fissarlo per troppo tempo, per essere giustificata con semplice curiosità.
Era un po' nervoso. Faceva uno strano effetto tornare proprio lì, ad insegnare, poi. Nel luogo dove aveva giurato di non tornare mai. Non ne ricordava nemmeno il motivo.

È perché sei debole. Lo sai.

Si diresse con maggior decisione verso la classe. Cercò di lisciarsi i capelli spettinati prima di entrare, ma senza alcun risultato. La porta dell'aula era aperta, e da fuori arrivavano le voci e le risate dei ragazzi all'interno, che si mescolavano al vociare delle bidelle e ai tiin provenienti dalle macchinette del caffè in funzione.
Rivolse una rapida occhiata ai suoi vestiti per controllare i lacci delle scarpe non si fossero sciolti, o che i suoi pantaloni non si fossero sgualciti, e poi entrò.
Non appena ebbe varcato la soglia, vide una palla bianca sfrecciare verso di lui alla sua sinistra. Si piegò rapidamente in basso, schivandola per un pelo, e poi si voltò a destra, guardando un grosso foglio accartocciato che era caduto dritto nel cestino accanto alla porta, con tanta forza, da aver fatto barcollare il cestino stesso.
Il vocìo cessò all'istante. Il professore si voltò verso i ragazzi, che avevano tutti gli occhi fissi su di lui, e, squadrandoli uno ad uno, disse con voce potente, che nemmeno lui si aspettava: "Chi è stato?".
Nessuno rispose. Tutti erano immobili, alcuni intimoriti, altri incantati e sorpresi dal suo fascino.
Dopo alcuni secondi di silenzio, il professore avanzò lentamente di tre passi, posò la valigetta sulla sua sedia, si tolse il cappotto, lo appoggiò accanto alla valigetta e si tirò su le maniche della maglietta, poi fece il giro della cattedra e, quando vi fu davanti, vi si sedette sopra.
"Allora, chi è stato?" ripetè.
I ragazzi si scambiarono alcuni sguardi intimoriti. Alla fine un ragazzo che era rimasto parallizzato in piedi sulla sua sedia, all'ultimo banco, alzò la mano tremante, deglutendo vistosamente.
"Come ti chiami?"
"Peter."
Dopo averlo squadrato con fare minaccioso per qualche istante, il professore abbandonò quell'espressione accigliata che non gli apparteneva e disse: "Bel tiro, Peter".
Si alzò di scatto e si posizionò in piedi accanto alla sua sedia, sistemando il cappotto sullo schinale della sedia, davanti ai ragazzi che lo fissavano sorpresi.
Alzò gli occhi e poi rise. "Che vi aspettavate una punizione?"
I ragazzi si rilassarono.
"Mi chiamo Alessandro Renga, e sarò il vostro professore di lettere e filosofia".
Brusìo generale.
"Qualcosa non vi è chiaro?"
Un ragazzo piuttosto carino, con i capelli castani con il ciuffo e con l'aria da gradasso, seduto all'ultimo banco vicino alla finestra, disse: "Voglio dire… ma a che ti serve studià filosofia… cioè… adesso ci sta la scienza, no?"
"Chiudi quella bocca, Marco." disse freddamente una ragazza con i capelli raccolti in un chignon disordinato e un largo maglione di lana, seduta al banco davanti a quello del ragazzo.
Il professore la fissò per qualche istante e sorrise. Aveva un'aria familiare.
"Oh, senti" rispose il ragazzo con un sorriso velato "È inutile che mi tratti così solo perché t'attizzo".
"Hmpf", sospirò lei vagamente seccata.
Il professore si avvicinò alla finestra. "A cosa ti serve studiare filosofia, dici? Be'… Essenzialmente… non ti serve a un cazzo."
I ragazzi fecero una faccia strana.
"Vedi, la filosofia, come la letteratura, o l'arte in generale, non è una di quelle cose che ti serve. Se andrai a lavorare come medico, nessuno ti chiederà mai il pensiero di Nietsche o di Kant, e nemmeno se farai il programmatore, o l'attore, o lo scrittore. La scienza, di quella sì che avrai bisogno. Ma anche senza fare alcun lavoro, ne avrai bisogno continuamente, a cominciare dai compiti più comuni e quotidiani. La scienza risolve ormai ogni interrogativo."
Tacque per un attimo, osservando le espressioni dei ragazzi, incuriositi dalle sue parole.
"Ma non riuscirà mai a porre una nuova domanda. Non troverai mai una macchina in grado di farlo. E dove termina la scienza, inizia la filosofia. Solo il cervello umano può porre nuovi interrogativi e incitare al progresso. La matematica, la medicina, la meccanica… tutte lodevoli discipline che ci permettono la sopravvivenza… ma l'arte, la filosofia, il pensiero… è ciò che ci dà la voglia di continuare a vivere".
I ragazzi lo ascoltavano senza fiatare, e regnò il silenzio anche quando il professore ebbe finito di parlare.
"Prima che qualcun'altro mi chieda a cosa serve studiare l'italiano," riprese dopo una pausa "be'… vi serve a evitare di scrivere quelle frasi copiate male da tumblr quando postate i vostri selfie fatti al cesso su Facebook."
I ragazzi risero. Dopodiché furono molto più a loro agio.
Il suo fascino aveva colpito ancora una volta. Oltretutto gli adolescenti non sembravano affatto disprezzare il suo look selvaggio al contrario della maggior parte degli adulti: anzi, ne parevano attratti. Le ragazze gli rivolgevano le prime domande che venivano loro in testa, con voce stranamente acuta, e giocando continuamente con i propri capelli.
Lui, un po' ingenuo, pareva quasi non accorgersi di questi dettagli.
"Quanti anni ha?"
"Dove vive?"
"Da quanto lavora come professore?"
"Perché non è venuto ad insegnarci prima?"
Lui rispondeva educatamente a tutte sorridendo.
"Professore!" disse ad un tratto una ragazza dai capelli neri legati una stretta treccia "giusto per sapere… ma lei è sposato?"
Il sorriso gli si gelò sul viso improvvisamente. Si prese qualche momento prima di rispondere, sentendosi tutti gli occhi puntati addosso, e aprì bocca solo dopo aver deglutito.
"No…" rispose lui abbassando gli occhi e mostrando un sorriso tirato.
"E sta con qualcuno?" continuò la ragazza incuriosita.
"Veramente no…"
"Oh" disse la ragazza, sorpresa. "E ha figli?"
"Nemmeno…"
Suguì una breve pausa, durante la quale il professore si riprese, e tagliò corto con le domande, non senza disappunto di alcune ragazze.
"Bene." disse con il suo tono abituale "adesso voglio che prendiate un foglio e una penna e scriviate qualcosa."
I ragazzi aspettarono in attesa di una spiegazione che non arrivò.
"Che cosa dobbiamo scrivere?" chiesero allora.
"Qualsiasi cosa" rispose lui come fosse la cosa più ovvia del mondo. "Potete raccontarmi di voi. O potete scrivermi della vecchietta che avete visto cadere sull'autobus l'altro giorno. Qualsiasi cosa andrà bene. Basta che ci mettiate un po' di voi stessi".
"Quanto tempo abbiamo?"
"Direi venti minuti".
"Venti minuti e dobbiamo scrivere qualcosa che parli in qualche modo di noi? Non mi basterebbe una vita intera per parlare di me" disse la ragazza con lo chignon disordinato e il maglione largo.
Lui le si avvicinò lentamente, e poi, inaspettatamente, sorrise.
"Sapevo che mi avresti risposto così".

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Capitolo 3
*** Il suo incubo ***


IL SUO INCUBO

Quando la campanella suonò, gli studenti si affrettarono a gettare le loro cose alla rinfusa negli zaini e poi si avviarono verso la porta.
Tutti salutarono il professore allegramente. "Bella, prof!"
"Ehi, Marco!" rispose quello alzando il pollice in su.
L'ultima persona a uscire fu la ragazza dallo chignon disordinato. Stava fissando il suo telefono.
"Sei riuscita a finire il tuo compito?" le chiese il professore con tranquillità e sfoggiando un debole sorriso.
"Oh…" disse lei alzando gli occhi e voltandosi verso di lui, quasi come se non si fosse accorta della sua presenza. Aveva gli occhi grandi e azzurro-grigi, con appena un po' di mascara "Sì." rispose con semplicità. "Sì, ho scritto tutto."
"Sono ansioso di vederlo" le disse lui con un sorriso.
"Oh… sì…" disse lei distrattamente. "Be', a domani."
"A domani".
Il professore la guardò uscire e scendere le scale, poi, una volta solo, riordinò le sue cose e si mise il cappotto.
Scese le scale senza far rumore, salutò le bidelle timidamente una volta all'ingresso, senza accorgersi di averle fatte arrossire violentemente, e poi uscì fuori dall'edificio, il viso investito immediatamente dal vento freddo.
Chissà com'era andato…
"Non male per essere il primo giorno, non è vero?" si disse.

Ti considereranno ridicolo…

"Mi pare di essergli piaciuto…"

Patetico…

"Be', almeno non mi odieranno…"

Chi lo sa…

Si sentiva lo stomaco annodato…

Non dovevi tornarci, Alessandro, ti stai distruggendo…

"E cosa avrei dovuto fare?" disse ad alta voce, con una nota di isteria.

Rimanere a casa, dormire parecchio, mangiare poco, vivere per nulla.

"E come pensi che possa superare tutto questo senza nemmeno provarci?!" disse, cominciando ad alzare la voce, il tono esasperato.

Ma tu non puoi farlo. Sei troppo debole. Non ci riuscirai mai. Devi rassegnarti, farti avvolgere… scomparire dietro il tuo dolore…

"NO!" gridò. Quasi senza accorgersene si ritrovò a correre. Scese in fretta i gradini che portavano alla stazione della metropolitana, urtando le persone, senza farci troppo caso.
Prese il primo treno che vide e, nonostante molti sedili fossero vuoti, preferì rimanere in piedi accanto alle porte.
Il silenzio era assordante, e, così, immobile, Alessandro si sentiva vulnerabile. Scacciò dalla testa ogni pensiero e prese a tamburellare freneticamente con le dita sul sostegno che aveva afferrato, come se un qualsiasi movimento potesse distrarlo e impedirgli di pensare, potesse salvarlo dal vuoto che sentiva avvolgerlo e intorpidirlo lentamente.
Si precipitò fuori non appena le porte si aprirono, e si diresse a passo deciso verso l'uscita della metropolitana.
Aveva la testa così piena di pensieri che non si fermò nemmeno a salutare Bob, che stava fumando ciò che restava di una Marlboro Gold che aveva trovato per terra.
Attraversò la strada, svoltò l'angolo e camminò lungo la strada, superando le gente sul marciapiede.
Cercò nervosamente le chiavi nella tasca del cappotto, imprecando sottovoce, e, quando le trovò, aprì con uno scatto l'entrata dell'appartamento. Richiuse con forza la porta alle sue spalle e vi appoggiò la schiena, chiudendo gli occhi e concedendosi un lungo respiro.
L'ossigeno ridiede lucidità alla sua mente e, con volto insepressivo, Alessandro camminò a passi decisi per l'appartamento buio. Le stanze erano spoglie, fredde e impersonali, e Alessandro non entrava quasi mai nella maggior parte di esse.
Si diresse verso quella che frequentava di più: lo studio. Era una stanza grande, dai muri bianchi e spogli, assolutamente minimale: il pavimento era in parquet scuro, una parete era occupata interamente da una grande libreria in legno, e l'unica, seppur grande, finestra si trovava sulla destra; sulla sinistra, vicino alla parete, si trovavano una sedia e una piccola scrivania in ebano, dalle curve semplici e classiche, ma eleganti; sopra c'erano una stilografica, una lampadina da tavolo, una piccola scatola in legno, un bollitore e una tazza lasciata lì il giorno prima, piena fino a metà di tè ormai freddo; dall'altro lato della stanza c'era un divano in pelle chiara, su cui Alessandro dormiva la maggior parte delle notti per evitare di doversi spostare nella camera da letto.
Vi appoggiò sopra il cappotto e la valigetta e si tirò su le maniche del maglione sopra i muscolosi avambracci. Prese a camminare in tondo al centro della stanza con il braccio destro abbracciato al lato sinistro del torace e con la mano sinistra che si grattava la barba, come faceva sempre, nel tentativo di calmarsi; ma i pensieri si erano già acquietati. Rimase immobile per qualche secondo al centro della stanza, poi, con uno scatto prese la valigetta dal divano e si sedette alla scrivania. Prese i fogli dalla valigetta, la appoggiò a terra e accese la lampada, direzionando la luce verso i fogli. Incurvò la schiena per sgranchirsi le vertebre ed esaminò il contenuto della tazza accanto a sé. Buttò giù con un sorso i resti del tè e poi alzò il coperchio della scatola che aveva davanti e, dall'interno rivestito di latta, tirò fuori una bustina di tè nero. Accese il bollitore e attese che l'acqua si scaldasse mentre riordinava i fogli allineandone i bordi con un gesto veloce.
Si sgranchì la schiena di nuovo, stavolta portando le braccia dietro la testa. Inspirò a fondo ed espirò rumorosamente. Era esausto. Delle quattro o cinque ore che dormiva ogni giorno (quando andava bene), quella notte aveva chiuso gli occhi per una ventina di minuti, senza mai addormentarsi veramente. Temeva che sarebbe crollato da un momento all'altro e doveva cercare in tutti i modi di impedirlo.
Quindi con un gesto rapido, si mise a leggere i testi che quel giorno i suoi studenti gli avevano consegnato, combattendo contro la stanchezza.
"Mi chiamo Peter, ma per tutti i miei compagni di classe sono Il Frocio…"
Alessandro lesse la prima frase senza comprenderne il senso più volte. Il suo cervello era completamente scollegato e strizzò gli occhi per resistere alle palpebre brucianti che reclamavano riposo.
"… per tutti i miei compagni di classe sono Il Frocio. Mi hanno affibbiato questo soprannome poco carino in seconda media, quando…"
Le parole sembravano sfiorare appena il suo cervello e andarsene senza che questo potesse afferrarlo. Si strofinò gli occhi e continuò a leggere.
"… quando ad una festa, al gioco della bottiglia, un ragazzo è stato obbligato a baciarmi…"
No, non poteva continare a leggere così, ma l'eventualità di addormentarsi lo terrorizzava.
"… Ho creduto di piacergli davvero, e quando pochi giorni dopo ho tentato di baciarlo, lui si è messo a ridere davanti a tutti…"
Sentiva di star perdendo la percezione dello spazio, e impiegò tutte le sue ultime energie per leggere la frase successiva.
"… Forse quell'appellativo mi dà così fastidio perché è vero: io sono gay."
Dopodiché la sua testa crollò esausta sulla scrivania.






Si trovava sulla strada che conosceva bene. Un inconscio senso di ansia gli attanagliò lo stomaco alla vista di quel marciapiede. In lontananza, dall'altro lato della strada, vide due figure in lontananza. Le chiamò da lontano e le salutò con un gesto del braccio, senza che loro lo vedessero.
Le due figure fecero per attraversare la strada, ma quando misero piede sull'asfalto, ci affondarono come se si fossero gettate in acqua e ne vennero inghiottite all'istante. Lui spalancò gli occhi, paralizzato da quella visione. Poi una di loro riemerse con la testa; ebbe il tempo di gridare: "Aiuto, non sappiamo nuotare!" prima di venire sommersa nuovamente.
Alessandro si tolse le scarpe per avere più libertà di movimento e fece per gettarsi in acqua con lo scopo di poterle salvare; ma il lampione accanto a lui, come si fosse tramutato in un elastico, lo aveva avvolto in una strettissima presa che gli impediva di respirare: un serpente con la sua preda. Terrorizzato, guardò l'asfalto incresparsi per i movimenti delle due persone che cercavano di tornare a galla, ma la cosa che lo terrorizzò ancora di più fu vedere l'asfalto tornare liscio e calmo, e dopo qualche secondo, i corpi affiorare a galla con lentezza.
Alessandro urlò, urlò con tutte le sue forze, combattendo la stretta che lo imprigionava all'altezza del torace, ma dalla sua gola non uscì alcun suono.
E allora cominciò a piangere, piangere come non aveva mai fatto, fino a ritrovarsi la vista offuscata…






Si svegliò con il viso bagnato di sudore e di lacrime. Il bollitore elettrico si era spento e l'acqua aveva già cominciato a raffreddarsi. La cambiò, la mise nuovamente a scaldare e vi mise la bustina in infusione, mentre leggeva i testi che gli avevano consegnato i suoi alunni. Quando il tè fu pronto gliene era rimasto soltanto uno da leggere. Tolse la bustina dalla tazza e la appoggiò al lato della scrivania.
Con la tazza nella mano sinistra, bevve in un sorso metà del tè bollente. Poi lo appoggiò. Prese l'ultimo foglio e ne lesse il nome, scritto in una grafia obliqua ed elegante, suppur priva di inutili fronzoli: Marina Lanci. Era di quella ragazza dagli occhi grandi e grigi e quel buffo chignon disordinato.
Prese la tazza e bevve l'altra metà del tè con un sorso solo. Poi, con la tazza ancora in mano, girò il foglio.
Era bianco.

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Capitolo 4
*** Il suo anniversario ***


IL SUO ANNIVERSARIO


Il sole era già sorto. Le prime luci del giorno entravano timide nella stanza accarezzando le tende della finestra.
Disteso supino sul letto con le braccia aperte, Alessandro, che aveva appena aperto gli occhi, si voltò a guardarle; seguì le curve del tessuto con lo sguardo e si fermò a fissare per qualche secondo i pulviscoli che, placidamente e senza peso, fluttuavano nel raggio di sole che illuminava un angolo del pavimento accanto alla finestra.
Rimase in quella posizione per qualche minuto, le labbra dischiuse e la mente assorbita da quella scena. I cinguettii degli uccelli, appena svegliatisi, arrivavano sommessi alle sue orecchie.
Poi inspirò e voltò la testa dal lato opposto: le 05:46, segnava la sveglia. Molto più tardi del solito.
Si tirò su a sedere e si massaggiò le tempie con indice e pollice della mano sinistra.
Stessa scena, stessa strada, stesso incubo. Il medesimo, quello di ogni notte. Le immagini stavano già cominciando a dissolversi, lasciandogli un illocalizzabile e come diluito senso di attanagliamento allo stomaco.
Si alzò e, con una mano sulla zona lombare, si diresse in bagno.
I suoi occhi erano gonfi dal poco sonno, e se li sciacquò con acqua fredda per avere un aspetto migliore. Esaminò con attenzione il suo aspetto allo specchio per un paio di secondi: poi afferrò il rasoio elettrico e si tagliò la barba poco curata fino a ridurla a qualche millimetro di lunghezza. Dopotutto quello era un giorno speciale. Si sciacquò nuovamente il viso prima di togliersi la canottiera bianca e i boxer grigi ed entrare nella doccia.
Sentì l'acqua gelida sferzargli la pelle e si godette impassibile il getto freddo fargli rabbrividire ogni centimetro di epidermide.
Uscì dalla doccia, indossò dei vestiti puliti e andò nello studio.
Mise a scaldare l'acqua nel bollitore e tirò fuori una bustina di tè bianco.
Si voltò a guardare il divano in pelle dall'altra parte della stanza: aveva ceduto qualche giorno prima sotto il peso di anni di usura. Alessandro aveva cercato disperatamente di ripararlo, ma non ci era riuscito. Ritrovandosi senza un posto dove dormire, aveva deciso di passare quelle poche ore di riposo notturno sul pavimento; questo però gli aveva quasi distrutto una spalla, e, resosi conto dell'infattibilità della cosa, non gli era rimasto altro che riposare sul letto nella camera. Per la prima volta dopo anni, era riuscito a dormire per cinque ore filate sulla comodità di un materasso vero. Ma era stato strano, e non gli era piaciuto: il letto a due piazze era troppo grande per lui solamente, e lo faceva sentire piccolo, e perso, e irrimediabile solo.
Mise la bustina in infusione nell'acqua calda e guardò la tazza colorarsi di un giallo pallido e trasparente. Non aveva fame, ma il riflesso slavato della sua pelle nel bollitore lo convinse a mangiare qualche biscotto per essere presentabile. Li buttò giù assieme al tè ancora bollente, poi prese il cappotto sullo schienale della sedia e la sua valigetta. Si diede un'ultima sistemata nel piccolo specchio vicino alla porta, pettinandosi i capelli con un piccolo pettine appoggiato lì vicino, e uscì dall'appartamento.
Era una bella giornata, tranquilla e dal suono delicato. Alessandro percorse la distanza che lo separava dalla metropolitana in un paio di minuti.
Bob era lì, come sempre, seduto per terra su una coperta logora: aveva tra le dita sporche una sigaretta trovata per caso, o rubata a qualcuno, chissà. Se la mise in bocca e poi la risputò con fare offeso e risentito: doveva aver capito che non era una delle sue amate Marlboro; la sua vista non era buona, ma le sue papille gustative non fallivano mai, e conoscevano il sapore di ogni genere di tabacco.
"Bob!" disse Alessandro con un debole sorriso.
"Ragazzo!", disse lui, dopo aver impiegato qualche secondo nel riconoscere il suo interlocutore. "La ragazza, come va la ragazza?"
"Oggi la porto a cena".
"Eh... Bravo, è un bocconcino... " e rise.
"Che c'è, non ti piace?" chiese Alessandro, indicando la sigaretta che Bob aveva gettato a terra, anche se conosceva già la risposta.
"Fumo solo Marlboro, io!" strillò quello indispettito, alzando il pugno a sottolineare il suo disappunto.
Alessandro rise appena. "Ciao, Bob." e continuò a camminare, lasciando il senzatetto a intonare una canzonaccia con voce stonata.
Scese le ripide scale della metropolitana: non se ne vedeva la fine, e ogni volta che le percorreva, Alessandro perdeva la percezione dell'alto e del basso, e si sentiva sospeso e senza forma.
Un treno stava arrivando al binario lentamente e con un rumore pigro e come assonnato. Vi salì e, sebbene molti posti fossero vuoti, rimase in piedi, accanto all'uscita.
Era passata una settimana dal suo primo giorno di scuola, da quando aveva conquistato i suoi alunni con pochi sguardi e qualche frase; erano passati pochi giorni da quando aveva riportato agli studenti i loro testi e aveva guardato le loro espressioni sorprese nell'apprendere che sul foglio, sotto al loro testo, al posto di un voto c'era una frase che il professore aveva scritto per loro.
Erano passati pochi giorni da quando ognuno di loro aveva avuto una reazione diversa nel riconsegnargli il proprio foglio: Peter gli aveva sorriso con affetto, con l'espressione di un ragazzo finalmente compreso da qualcuno; la baldanza di Marco aveva fatto spazio alla timidezza con cui si era avvicinato al professore e gli aveva sussurrato un "grazie" un po' imbarazzato; Marina aveva letto ad alta voce la frase che il professore aveva scritto sotto il suo foglio in bianco: "Quando vedo un nulla così grande, non posso fare a meno di aspettarmi di tutto.", lo aveva guardato per qualche secondo con i suoi grandi occhi grigi e se ne era andata senza aggiungere altro. A tutti il professore aveva risposto con un leggero sorriso cortese e li aveva guardati tornare al loro posto con emozioni diverse.
Lui non lo sapeva, ma la classe già lo adorava, e ne era conquistata.
Quando arrivò in classe, i ragazzi si misero al loro posto in pochi secondi e lo ascoltarono parlare di filosofia. Alcuni fecero domande, altri intervennero per esprimere le proprie opinioni, altri trascrissero tutto ciò che diceva, altri ancora lo ascoltarono e basta; ma tutti furono catturati dai suoi discorsi fin dalle prime parole.
Dopo due ore, al suono della campanella, i ragazzi avevano voglia di continuare a parlare, ma il professore rimise a posto le sue cose e uscì velocemente, senza dare il tempo a nessuno di andargli a parlare. Sfrecciò via verso l'uscita, salutando le bidelle che parlottavano tra loro e il preside, che usciva dalla sala professori.
Qualche giorno prima il preside lo aveva chiamato nel suo ufficio. Gli aveva offerto dei biscotti che lui aveva gentilmente rifiutato, e poi gli aveva parlato con tono caloroso: "Professor Renga, vorrei innanzitutto ringraziarla per aver accettato la cattedra, so che per lei deve essere stato difficile." Fece una pausa. "Ho sentito che gli studenti sembrano molto soddisfatti di lei, almeno quanto lo sono io." e rise appena. "Se dovesse riscontrare difficoltà, di qualsiasi genere, può rivolgersi a me in qualsiasi momento: vorrei rendere la sua permanenza qui il quanto più felice, dato ciò che ha passato."
Alessandro si era sentito a disagio, ma non aveva potuto rifiutare un debole sorriso di cortesia a quella premura e quella buona fede. Aveva sussurrato un "grazie", si era alzato e aveva stretto la mano a quell'uomo verso il quale provava tanta tenerezza, ed era uscito senza aggiungere altro.
Da quel giorno Alessandro si era limitato a rispondere ai premurosi saluti del preside con un formale saluto con la mano accompagnato da un debole sorriso, e quel giorno non fece eccezione.
Uscì dalla scuola rapidamente e fu nel suo appartamento in meno di mezz'ora.
Passò un'ora nella vasca da bagno e poi un'altra a sistemarsi; si mise il gel per fissare i suoi capelli biondi perennemente spettinati e si mise due spruzzi di colonia.
Poi scelse nell'armadio i vestiti più eleganti che aveva: prese una camicia bianca e delle bretelle nere, una giacca e dei pantaloni grigi con una cravatta nera e si cambiò con cura e attenzione. Si mise delle scarpe nere che lucidò fino a farle risplendere e si guardò allo specchio per gli ultimi ritocchi. Quando finì, erano quasi le 18; uscì di casa per comprare delle rose: scelse le più belle tra quelle rosse, poi si diresse verso il ristorante al quale aveva prenotato un tavolo per le 19.
Arrivò al ristorante in perfetto orario. Quando entrò, la cameriera lo accompagnò al suo tavolo, apparecchiato per tre. Appoggiò le rose sul tavolo, accanto a un biglietto già presente sul tavolo e a delle candele, e si fece servire i piatti che i cuochi avevano già preparato per lui qualche minuto prima: i camerieri servirono tre antipasti e tre bistecche, versarono dello champagne in tre bicchieri - nell'ultimo solo qualche goccia - e servirono una torta al cioccolato come dessert.
Alessandro mangiò le sue porzioni, unica persona nel ristorante.
Sistemò le rose e il biglietto, poi fece portare via il suo piatto e le altre due porzioni dei due posti accanto a lui che nessuno aveva toccato.
Quando finì di mangiare si fece portare il conto e lesse la cifra che già conosceva. Pagò il conto e poi si alzò e uscì dal ristorante, lasciando le rose e il biglietto sul tavolo. La luce delle candele illuminava la carta del biglietto. C'era scritto "Buon anniversario".

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Capitolo 5
*** La sua filosofia ***


Era una giornata grigio scuro, pesante, e la sua valigetta si era rotta. Non chiudeva più bene. Alessandro stava cercando di riparare la chiusura della ventiquattrore in cuoio appoggiata sulla cattedra sopra la giacca, quando i ragazzi cominciarono ad entrare in classe chiacchierando tra loro.
"'Giorno, prof!" lo salutarono.
"Buongiorno."
"Salve, professore..." disse timidamente Peter.
"Ciao, Peter." disse lui sorridendogli educatamente.
L'ultima a entrare fu Marina, con le cuffiette nelle orecchie, che alzò appena gli occhi grigi sul professore prima di sedersi.
I ragazzi si sistemarono in pochi secondi. Il professore, in piedi al lato della cattedra, li guardava e aspettava con pazienza. Poi, quando anche l'ultimo di loro si fu seduto, si mise davanti alla cattedra e vi ci si appoggiò.
"Bene," disse unendo le mani "se ci siamo, possiamo cominciare. Allora, oggi parleremo della filosofia a partire dalle sue origini. Qualcuno vuole dire dove la filosofia nacque?"
Nove mani alzate.
"In Grecia, professore." disse Peter prendendo la parola di propria iniziativa.
"Sì, esatto, Peter. In Grecia."
Fece una pausa, poi riprese: "Conoscerete tutti personaggi come Socrate, Platone, Aristotele, e, ancora prima, Pitagora, Parmenide, Eraclito. Sono solo alcuni dei tanti pensatori che contribuirono a gettare le basi della filosofia moderna."
"Allora," disse poi prendendo il gessetto appoggiato sulla cattedra e avvicinandosi alla lavagna. "La filosofia greca viene solitamente inquadrata nel periodo che va dal settimo secolo avanti Cristo al 529 dopo Cristo, l'anno della chiusura dell'Accademia di Atene." e scrisse le due date. "Questo per farvi capire che l'uomo da sempre si interroga sul mondo ed è alla ricerca di se stesso, fin da periodi antichissimi, come naturale bisogno e prolungamento della propria interiorità."
Si avvicinò alla cattedra e vi si appoggiò. "Credo che a molti di voi sia capitato di farsi domande come: 'Cos'è l'esistenza? La realtà è veramente conoscibile? Cos'è giusto e cos'è sbagliato?'. Ebbene, questi dubbi esistenziali sono domande prettamente filosofiche, e sono questioni largamente analizzate dalle principali branche prese in esame dalla filosofia greca. Esse sono l'ontologia, la gnoseologia e l'etica. Ma cerchiamo di definirle meglio."
Fece una pausa per riprendere fiato. Si sentiva ridicolo e inadeguato a parlare davanti a tutti. Sentì l'ansia bruciargli lo stomaco.
È il tuo lavoro, si disse. Non sei fuori posto, non sei inadeguato. Stai facendo proprio quello che devi fare. Smetti di pensare di non avere il diritto di parlare, di essere qui.
Guardò la classe: nessuno lo stava deridendo, e questo lo tranquillizzò. Sembravano addirittura interessati. Almeno un po'. Respirò profondamente; l'ossigeno ridiede lucidità alla sua mente.
"L'ontologia, la gnoseologia e l'etica sono tre branche filosofiche, che si occupano rispettivamente dello studio dell'esistenza, della conoscenza e della ricerca di un modello comportamentale umano. Tutte discipline che vedremo bene più avanti e che rientrano nella concezione che i Greci avevano della filosofia. Ma proprio a questo proposito, prendiamoci un momento per ragionare un attimo sul significato di questa parola."
Si appoggiò delicatamente alla cattedra e mise il piede sinistro sopra quello destro. Con le braccia incrociate sul petto, alzò lentamente il braccio sinistro per grattarsi la barba con aria pensosa, cercando le parole per spiegare quel difficile concetto.
"Voi sapete cosa significa 'filosofia', da dove deriva. Fate anche greco, dopotutto... Be', credo di non sbagliarmi se affermo che tutti voi siete in grado di dirmi che 'filosofia' deriva da phileîn e da sophía, e allo stesso modo credo che tutti sappiate che phileîn vuol dire 'amare'. Quindi 'amore per la sophía'."
Fece una pausa per guardare gli studenti che aspettavo con trepidazione le sue parole.
"Ma cosa vuol dire sophía? Ebbene, per i Greci aveva due accezioni: la sophía "teorica", per così dire, cioè la sapienza, e la sophía "pratica", la saggezza. Sono parole che possono suonare come sinonimi, ma vi è un'importante distinzione. Cos'è la sapienza? La sapienza, cioè la sophía teorica, è la conoscenza, quindi il desiderio dell'uomo di conoscere la verità, che sia essa conoscibile oppure no è una questione secondaria. La saggezza, invece, la sophía pratica, è il bisogno più ancestrale dell'uomo pensatore, il desiderio insito in ogni spirito umano in quanto tale: ed è la felicità. L'essere umano è alla continua ricerca della felicità, di una vita soddisfacente. E qui la filosofia, chiamata 'pratica' proprio per questo, prima che alta espressione dell'intelletto umano, diventa un istinto primordiale, il più animale possibile. L'uomo non elabora pensieri perché è 'bello'. Lo fa per rimanere in vita, perché senza pensiero non sarebbe più in grado di definire la propria esistenza con il nome di 'vita'. La filosofia è un bisogno. La filosofia è sopravvivenza."
Prese fiato.
"Poi sarebbe interessante discutere se le due cose siano correlate, se la conoscenza porti alla felicità, o se essere felici significhi possedere la conoscenza. Ma questo è un altro argomento, no?"
"Professore, professore, secondo lei c'è correlazione tra le due?" chiese Peter con trepidazione, desideroso di una risposta.
"Be'... " esordì il professore alzando lo sguardo al soffitto e facendo una piccola risata. "Bella domanda." Il professore sorrise a Peter, e questi gli sorrise di rimando, timidamente.
"Credo che sia in un certo senso un paradosso. Penso agli anni di studio che ho percorso, alle conoscenze che ho acquisito, e mi dico che con tutto quello che ho imparato, dovrei essere un uomo molto felice. Mi viene da pensare che allora la teoria sia sbagliata, priva di fondamento."
Rivolse lo sguardo verso il basso, con un sorriso velato sul volto.
"Poi però penso che magari il motivo del mio mancato appagamento è che forse... non ne so semplicemente abbastanza, non possiedo abbastanza conoscenza per raggiungere la felicità. E come posso sapere quale sia la verità?" rise, poi tornò a guardare Peter. Alzò le spalle. "Gli interrogativi della vita."
"Professore, ma allora lei... non è felice?" dissero.
Alessandro si sentì improvvisamente scomodo. Forse aveva detto troppo. In futuro si ripromise di parlare meno di punti di vista personali. "Non ho detto esattamente questo." disse con lo sguardo basso, intento a sistemare le sue matite parallele allo spigolo della cattedra. "Penso che in pochi possano dirsi sempre e a pieno soddisfatti della propria esistenza. Devono avere una mente molto semplice."
"Non sono triste." si affrettò ad aggiungere alzando lo sguardo verso la classe e piazzando prontamente un sorriso sul proprio volto, che trasformò in una breve risata.
"La filosofia insegna che perseguiamo la felicità. Nessuno ci ha detto con precisione che la raggiungeremo". Incrociò lo sguardo di Marina, che lo squadrava con gli occhi ridotti a due fessure, come per analizzarlo ai raggi x. Alessandro si sistemò il colletto della camicia e guardò l'orologio che aveva al polso: le 09:17. La campanella era suonata da sette minuti e né lui né i ragazzi se ne erano accorti.
"Wow, è tardi..." sussurrò.
"Bene, la lezione finisce qui."
Prese a riordinare le sue cose. Mise tutto dentro la valigetta in fretta, senza troppa attenzione. Sollevò la valigetta senza pensarci e ruppe nuovamente la chiusura della ventiquattrore, che aveva tentato di riparare un'ora prima, così che l'apertura ondeggiava ritmicamente con i suoi passi.
"Vi auguro una buona giornata, ragazzi.", disse prima di uscire, ottenendo un saluto in risposta.
Quando aprì la porta, era talmente distratto e sovrappensiero che quasi andò a sbattere contro la donna che aspettava lì fuori. Aveva trenta, trentacinque anni, capelli biondi raccolti in una coda, ed era vestita in modo formale. Aveva un viso regolare, un naso piccolo e labbra rosse, e grandi occhi verdi da gatta.
Teneva una valigetta con entrambe le mani.
"Mi scusi." disse Alessandro.
"Oh, si figuri." rispose lei. Poi, dopo averlo guardato meglio, disse: "Sei Renga, giusto? Il professore nuovo." sorrise. "Parlano bene di te. Sembri piacere molto ai ragazzi."
Alessandro non disse nulla. Allora lei staccò una mano dalla valigetta e gliela porse. "Sono la professoressa Reale, insegno latino e greco."
Alessandro guardò lei, poi la mano, poi di nuovo lei, e ricambiò la stretta. "Chiamami pure Claudia." aggiunse guardandolo intensamente negli occhi.
Lui per un secondo non disse nulla, un po' disorientato, poi gli venne in mente che le convenzioni sociali presupponessero che lui desse una risposta, e si affrettò a dire: "Io... sono Alessandro. E insegno filosofia e italiano.
"Sì, lo so." disse lei con un sorriso. "Sei piuttosto noto nell'istituto. Ma forse non lo sai - non ti si vede spesso in Sala Professori."
"Bene." disse lei dopo qualche momento di silenzio. "Felice di averti conosciuto. Ci vediamo."
"Buona giornata." disse lui.
Lei lo salutò con un sorriso velato, poi entrò nella classe che lui aveva appena lasciato.
Alessandro rimase dov'era per un paio di secondi. Poi si riscosse e si avviò a passo spedito verso l'uscita, pensando a come riparare quella maledetta valigetta.





N. d. A. Salve lettori (se esiste qualcuno che mi legge). Vorrei scusarmi per eventuali errori. So che il capitolo non è perfetto, anche perché non ho mai fatto filosofia - dato che sono solo al secondo anno di liceo. Spero di non aver scritto cavolate assurde. Ciò che ho scritto viene dalla mia documentazione su Wikipedia, per la maggior parte. Nell'ultima parte, poi, ho riportato un concetto esposto egregiamente dal professor Cavini, insegnante universitario, il cui discorso mi ha interessato a tal punto da spingermi a inserirlo nella mia storia, con l'aggiunta di alcune considerazioni personali - non così acute e brillanti come le sue, devo dire.
Grazie se siete arrivati fin qui.
Bacini.

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Capitolo 6
*** I suoi colleghi ***


Alessandro stava firmando alcuni documenti, stropicciandosi gli occhi. La sala professori era vuota. Ogni tanto qualche insegnante entrava a passo spedito per prendere alcune cose dal proprio armadietto e per poi risfrecciare di nuovo fuori, troppo preso dai propri pensieri per fare caso alla sua presenza. Alessandro, seduto dietro il tavolo bianco della sala, alzava ogni tanto lo sguardo e li guardava muoversi ed uscire con la rapidità di qualcuno che ha un sacco di cose da fare nella giornata. Lo sguardo gli cadde sul suo armadietto. Era vuoto, non lo usava mai. Preferiva tenere tutte le sue cose dentro la sua fedele valigetta, che cominciava però a sentire il peso dell'usura.
Guardò il suo nome stampato su un'etichetta adesiva vicino alla serratura dell'armadietto, attaccato sopra quella del professore precedente. Una premura del preside, forse.
Espirò profondamente, poi tornò ad occuparsi dei fogli che aveva davanti. Quando ebbe finito, guardò l'orologio che aveva al polso. Le 09:55.
Mancava un quarto d'ora alla sua prossima lezione. La sala era completamente vuota. Si portò i palmi delle mani sugli occhi e li strofinò lentamente. Gli bruciavano un po', e dal riflesso della chiusura d'acciaio della sua valigetta, appoggiata sul tavolo vicino a lui, vide che erano anche un po' arrossati dal sonno.
Sbadigliò, poi tirò fuori altri fogli di cui doveva occuparsi.
Dopo pochi secondi, entrò qualcuno. Alessandro alzò lo sguardo, incuriosito da quei passi. Erano diversi, non erano affrettati come tutti gli altri, ma lenti e scanditi. La professoressa Reale entrò nella stanza tenendo la sua valigetta con entrambe le mani. Alessandro la guardò avvicinarsi e sedersi sulla sedia accanto a lui con un sospiro e appoggiare la sua valigetta accanto alla sua.
Era più moderna e più piccola della sua, ma quasi altrettanto piena. Alessandro tornò a fissare i suoi fogli.
"Ciao." disse lei con il suo sorriso velato.
"Salve." rispose lui alzando lo sguardo.
Alessandro sentì gli occhi verdi di lei continuare a fissarlo anche dopo che lui ebbe interrotto il contatto visivo.
Rimasero in silenzio così per qualche minuto, a studiarsi e ad essere studiati.
Poi, a grandi passi, nella stanza entrò Mancini. Era il professore di fisica del triennio, ben noto anche ad Alessandro per la sua personalità carismatica e la sua socievolezza e affabilità, nonché per la sua indiscutibile leadership. Entrò seguito da vari professori, con cui scambiava battute, e accompagnato dal suo solito sorriso smagliante, con i suoi denti bianchissimi. Era un uomo curato, sui quarant'anni, forse qualcuno in più, di bell'aspetto, con i folti capelli castani pettinati all'indietro, appena ingrigiti sulle tempie, la voce profonda e i vestiti eleganti. Teneva con una mano una valigetta in pelle, probabilmente costosa, tenuta in ottime condizioni, quasi vuota.
Disse una battuta che fece ridere tutti i professori che aveva dietro. Poi li salutò e li lasciò alle proprie mansioni, e si avvicinò al tavolo, piazzandosi di fronte alla professoressa Reale, ignorando completamente Alessandro. Ammiccò e disse con voce suadente: "Salve, cara."
"Buongiorno, Umberto." rispose lei fissandosi distrattamente le unghie.
"Vieni stasera alla cena, allora?"
"Mah... Non so... Ci penserò." rispose lei con aria poco interessata.
"Dai, una bella cena tra colleghi, non puoi mancare."
La professoressa appoggiò i gomiti sul tavolo e staccò la schiena dallo schienale. "Ci penserò, Umberto." ripeté lei con fermezza guardandolo negli occhi senza battere ciglio.
Non avendo ricevuto la risposta che si aspettava, l'espressione di Mancini si gelò appena per un attimo, ma il professore non fece una piega e, con il suo imperturbabile sorriso, si rivolse invece ad Alessandro, comportandosi come se si fosse accorto di lui solo in quel momento.
"Oh!" disse allargando le braccia. "Ma lei è il nuovo professore! Che piacere! Felice di conoscerla, sono Umberto Mancini, professore di fisica." e gli porse la mano. Alessandro si alzò e la strinse educatamente, senza troppa convinzione, ricevendo in cambio una stretta vigorosa. "Ascolti, stiamo organizzando una cena tra colleghi questa sera, nel pub vicino alla scuola. Provi un po' lei a convincere questa signorina. Ah, e, se vuole, può venire anche lei, naturalmente."
"Oh..." disse flebilmente Alessandro "Grazie, ma non credo ci sarò..."
"Oh, d'accordo, non importa, sarà per un'altra volta." lo interruppe Mancini, con aria sbrigativa. Poi, rivolgendo lo sguardo alla professoressa, le puntò scherzosamente un dito contro e disse: "Mi prometti che ci pensi? Pensaci sul serio, mi raccomando. Ci conto. Ci vediamo stasera, eh? " e se ne andò.
"Pff." fece la professoressa Reale quando Mancini si fu allontanato. "Che sfrontato."
Alessandro, che era rimasto in piedi, tornò a sedersi.
"Ci credi che è rimasto scapolo? Non che nessuna ci abbia provato, anzi, ma lui le ha respinte tutte. Non è fatto per la vita matrimoniale. Alcuni dicono che una volta è stato spostato, ma ha divorziato dopo qualche anno. Non so, non ne so molto, a lui piace tenere la questione in un alone di mistero, forse crede che gli conferisca del fascino..." e sottolineò l'ultima parola con un certo disappunto, misto a noia e a un po' di disprezzo.
Lui strinse istintivamente il pugno sinistro e si sentì serrare l'anulare dalla sua fede. Si tranquillizzò nel sentire che era ancora lì.
Lei sbuffò. Poi si voltò verso Alessandro e gli chiese: "Tu ci vai?"
"Io? Oh... No, no, non fa per me..."
Lei sbuffò nuovamente. Poi disse con aria stanca: "Io devo andarci per forza. Sai, il lavoro ha tutta una serie di implicazioni non scritte che portano a certi obblighi. E mi tocca andarci."
Sospirò. "Mi accompagneresti?"
"Come?"
"Non posso andarci da sola, non ne posso più dei suoi flirt. Sono anni che cerca di rimorchiarmi. È un quarantatreenne scapolo, è senza speranza. Ma magari se mi vede con qualcun'altro, si dà una regolata."
Alessandro esitò.
"Per favore. Non sai quanto te ne sarei grata. È importante. Mi saresti di grande aiuto."
"D'accordo..." disse lui, non molto convinto.
"Grazie. Grazie davvero. Lo apprezzo molto. Tieni," disse alzandosi in piedi e tirando fuori dalla sua valigetta un biglietto da visita. "questo è il mio numero. Chiamami per i dettagli. Ci mettiamo d'accordo. Adesso devo andare. A dopo. E grazie."
Alessandro, alquanto disorientato, la guardò uscire, immobile sulla sua sedia, senza sapere esattamente che fare. Poi guardò l'orologio e si accorse che erano già le 10:08, e si affrettò verso la classe in cui aveva lezione, con la sua fedele valigetta in mano.

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Capitolo 7
*** I segreti dei suoi colleghi ***


Le 19:04. Erano passati quarantacinque minuti e Alessandro non era ancora riuscito a domare i suoi capelli biondi, perennemente spettinati. Su di loro, niente funzionava, né il gel, né la lacca, né la migliore messa in piega del miglior parrucchiere del mondo: si ribellavano a tutto, e, imperterriti, seguivano le direzioni che volevano.
Si ricordò che, quando faceva il modello e li portava più lunghi, l'acconciatore impazziva ad ogni scatto o sfilata, tentando di disciplinarli senza successo, anche se il pubblico amava quel look un po' selvaggio che lo aveva da sempre caratterizzato. Gli venne da ridere al pensiero, ma poi lo scacciò in fretta dalla mente.
Prese un cappello e se lo infilò sulla testa, per nascondere i capelli. Poi pensò che a cena avrebbe dovuto toglierselo, e allora sarebbero stati ancora peggio. Se lo sfilò a malincuore e si guardò nello specchio.
Per una frazione di secondo odiò il proprio riflesso. Nello specchio vide due occhi cattivi e pieni di risentimento, e ne ebbe paura. Li chiuse, respirò. Quando li riaprì, trovò i suoi soliti e spenti occhi azzurri. Poi, con uno scatto, si allontanò dalla propria immagine: non aveva tempo di starsi a guardare.
Prese il cappotto grigio e uscì dall'appartamento. Claudia sarebbe arrivata tra poco. Alessandro l'aveva chiamata dopo il lavoro per accordarsi sui dettagli dell'uscita, e lei aveva proposto di passarlo a prendere con la propria macchina, facendo tirare un sospiro di sollievo ad Alessandro, che non guidava da anni e usava la patente solamente come documento d'identità. Sarebbe passata alle 19:30, cioè esattamente - Alessandro controllò il suo orologio - tra 21 minuti.
L'uomo prese le chiavi e chiuse la porta, poi scese la rampa di scale che conduceva all'uscita del palazzo e si ritrovò in strada, sul marciapiede, per aspettare Claudia. Passavano poche auto su quella strada: sicuramente uno dei motivi principali per cui Alessandro aveva scelto di abitarci.
Il sole era già tramontato da un po' e i lampioni illuminavano le strade; tirava un vento debole ma gelido, e Alessandro si strinse nel suo cappotto ignorando i brividi che gli scuotevano la spina dorsale. Ma non dovette attendere molto, perché un'auto grigia arrivò percorrendo lentamente la strada e accostò davanti a lui. Dodici minuti di anticipo.
"Sali." disse Claudia dall'interno, salutandolo con un sorriso.
Lui aprì lo sportello e si sedette sul sedile del passeggero.
"Credevo di essere arrivata troppo in anticipo e di dover farmi un altro giro del quartiere per non presentarmi troppo presto."
Quando l'auto partì, Alessandro guardò con stupore e meraviglia il paesaggio venirgli incontro man mano che la macchina avanzava, mentre lui era lì, immobile. Si sentì fluttuante, come se fosse seduto sull'aria. Dopotutto erano anni che non entrava in un auto, prendeva soltanto la metropolitana, dove non si vedeva granché dai finestrini, e vi rimaneva comunque sempre in piedi. Alessandro li contò: erano cinque anni che non toccava un'automobile, e per un - intenso, ma involontario e rapidissimo, tanto che Alessandro nemmeno se ne accorse - momento, odiò Claudia di un odio sincero e feroce per avergli fatto interrompere quell'abitudine.
Da anni, le auto erano tra la lunghissima lista di cose che Alessandro cercava di evitare con tutte le sue forze: che fosse per ribrezzo, o per paura, o perché cercava semplicemente di dimenticare, non lo sapeva, e non aveva intenzione di chiederselo.
Scacciò i pensieri dalla mente e rimase a fissare il paesaggio, con i polpastrelli appoggiati timidamente sul finestrino appena appannato ai bordi, come un bambino incollato alla finestra che osserva scendere la sua prima neve.
Claudia si voltò verso di lui un paio di volte, guardandolo divertita, prima di parlare.
"Allora?" disse, sorridendo e alzando le sopracciglia.
"Oh." Alessandro si voltò, e si ricordò di essere con un'altra persona. Cercò rapidamente nella sua testa qualcosa socialmente accettabile da dire.
"Come va?" disse.
"Bene, grazie."
"Hai un bel vestito."
Lei rise. "Guarda che non c'è bisogno di queste frasi fatte, tanto per dire qualcosa. Stai tranquillo."
"Cosa ti fa pensare che siano frasi fatte?"
"Innanzitutto, il fatto che non porto un vestito."
Alessandro arrossì lievemente. Non notare l'abbigliamento di una donna durante un'uscita... che errore da principiante.
"Scusami."
"Non c'è problema." gli sorrise lei. "Allora, cosa mi dici?"
Silenzio.
"Cosa hai fatto dopo il lavoro?" continuò Claudia, per incoraggiarlo.
"Niente."
"Niente? Qualcosa dovrai pur aver fatto."
"Oh, be', sì, ho respirato e i miei organi hanno continuato a svolgere le loro funzioni ordinarie, se ti riferisci a quello."
Claudia rise. "Sei divertente. Mi piace la tua ironia."
Per un po' non dissero niente, poi lei disse, con voce dolce: "Grazie, comunque. Mi stai facendo un grande favore."
"Figurati." disse lui, intento a guardare il paesaggio fuori dal finestrino.
Claudia lo guardò per qualche secondo. Poi, dopo aver ascoltato il suo silenzio, decise di parlare lei.
"Io abito lì vicino." gli disse, indicando un gruppo di palazzi. "Mi sono trasferita due anni fa. Prima vivevo in una grande casa in periferia. È una bella differenza passare da una villa a un appartamento, eh?". Poi aggiunse a bassa voce: "Ma non sono mai stata così contenta di cambiare casa...". Tacque per un istante. "Tu hai sempre vissuto qui in centro?"
"No." rispose Alessandro. Poi aggiunse: "Prima vivevo appena fuori da Roma. E ancora prima, vivevo in periferia con i miei."
"Oh. Roma è bella, non è vero?"
"Un po' caotica." rispose.
Rimasero qualche momento senza parlare. Poi Alessandro, temendo che il suo silenzio fosse scambiato per disinteresse, chiese: "Come mai hai cambiato casa?"
Claudia sospirò, e per un attimo lui temette di essere stato troppo invadente.
Lei prese fiato, e quando parlò, la sua voce risuonò seria e grave, dura, carica di un qualche lontano dolore. "Sono stata costretta. Non potevo più vivere lì."
Stavolta il silenzio che seguì sferzò l'aria come una ventata gelida.
Allora Alessandro si affrettò a cambiare discorso.
"Uh... Sei single?" le chiese.
Lei rise. Che imbecille. Alessandro si sarebbe dato una manata sulla fronte, ma sapeva che questo avrebbe reso la sua gaffe ancora più evidente. Era semplicemente la prima domanda che gli era passata per la testa, l'aveva posta solo per cambiare discorso, e non c'era alcuna intenzione dietro, ma si rese conto che le evidenze indicavano il contrario. Non aveva una conversazione con una persona da così tanto tempo che ormai non ci sapeva proprio più fare.
Mentre pensava a qualcosa di discreto per scusarsi, Claudia gli rispose sorridendo: "Sì. O almeno, adesso lo sono."
Prima che lei potesse fargli la stessa domanda, le disse: "Scusami. Non ti volevo mettere a disagio. Era tanto per chiedere."
"Non ti preoccupare. Non mi hai messa a disagio." gli rispose con un sorriso rassicurante.
Rimasero in silenzio. Poi, lei, per toglierlo dall'imbarazzo, disse: "Mi piacciono i tuoi capelli."
Lui, grato di cambiare discorso, disse: "Oh, non riesco proprio a pettinarli come si deve. Stanno sempre come vogliono."
"Io li trovo belli."
Lui si voltò. "Grazie."
Rimasero in silenzio fino all'arrivo al ristorante.
"Eccoci."
Scesero dalla macchina e si ritrovarono davanti a un ristorante molto lussuoso. Alessandro si chiese se avesse abbastanza soldi. Poi si disse che non doveva preoccuparsi: lui non mangiava molto.
"Ti pareva." disse Claudia. "Umberto deve fare sempre le cose in grande."
Entrarono nel ristorante, avvolti dal caldo emanato dal camino. La musica di sottofondo risuonava nella stanza avvolgente e accogliente. Era Stayin' Alive dei Bee Gees, e Alessandro sorrise appena nel riconoscerla.
In fondo all'enorme stanza piena di tavoli illuminati da candele, c'era un tavolo rettangolare lunghissimo. Lì Umberto stava salutando calorosamente i professori che man mano arrivavano.
Era vestito con un abito da sera grigio perla e una camicia bianca, con le maniche tirate sugli avambracci abbronzati, i capelli tirati indietro con il gel, il suo orologio al polso sinistro e la sua solita aria da divo di Hollywood.
Quando Alessando e Claudia si avvicinarono, Mancini allargò le braccia guardando Claudia con un sorriso.
"Lo sapevo, lo sapevo che saresti venuta! Vieni qui." le prese la mano e vi appoggiò le labbra. "Sei bellissima." e ammiccò.
Lei lo guardò con aria di sufficienza e alzò un sopracciglio. "Sono vestita come tutti i giorni, che ruffiano." sussurrò ad Alessandro.
"Oh, e salve, salve." disse Mancini concitatamente, stringendo con vigore la mano di Alessandro e avvolgendola con la sinistra. "Ranghi, giusto?" disse fissandolo dritto negli occhi, con il suo sorriso smagliante.
Alessandro notò che la mano di Mancini che stringeva la sua era quasi prona, con il dorso verso il soffitto, mentre quella di Alessandro era supina, con il palmo verso l'alto.
"Renga." lo corresse, sciogliendosi dalla stretta.
"Prego." disse Mancini, facendo segno di accomodarsi, con la mano destra sui lombi di Claudia e il pollice dell'altra infilato nella cintura. Mostrò a Claudia il posto accanto al proprio - Umberto era seduto a capotavola - su cui egli aveva appoggiato la propria giacca.
Alessandro stava per andare a sedersi in un posto isolato in fondo alla stanza, ma Claudia gli poggiò la mano sull'avambraccio e gli sussurrò a denti stretti: "Ti prego, mettiti vicino a me.", e lui non poté far altro che accontentarla, sedendosi sotto gli occhi di Umberto, non privi di un certo disappunto.
Alessandro guardò le persone arrivare in smoking o tacchi a spillo.
Lui indossava il suo solito abbigliamento formale e sobrio, ma si sentì un po' inadeguato nei suoi abiti non certo costosi e ricercati come quelli della gente che arrivava indossando vestiti eleganti, salutandosi e facendosi complimenti a vicenda sui loro abiti. Alessandro si chiese se fossero sinceri.
Si accorse che Claudia lo stava guardando con occhi imploranti, probabilmente cercando un argomento di cui parlare con lui per scampare a una conversazione con Umberto. Aveva bisogno del suo aiuto. Quindi le venne in soccorso, chiedendole: "Hai già un'idea di cosa ordinerai?".
Gli occhi di Claudia furono percorsi da un sospiro di sollievo. "Oh, credo proprio che prenderò una carbonara. Tu?"
Alessandro non lo sapeva. In effetti erano anni che non andava in un ristorante in compagnia. E non era nemmeno affamato.
"Una bistecca alla fiorentina, credo."
"Ah, regime proteico per i tuoi muscoli, eh?"
"Oh, in realtà non seguo diete o regimi particolari."
"Vuoi dire che prendi gli steroidi per avere questi pettorali?" lo prese in giro lei.
"No, mai presi." rispose. "Costano troppo." aggiunse ammiccando e sorridendo, facendola ridere.
"Dai, allora dimmi il segreto: come fai?" domandò lei, sempre più divertita.
Alessandro era sollevato di essere riuscito a farla rilassare un po'. "Vivo in gran parte di rendita degli anni in cui andavo in palestra tutti i giorni e mangiavo solo petti di pollo." continuò, sforzandosi di mantenere un tono allegro.
"Tutti i giorni?" chiese lei incredula, sollevando le sopracciglia.
"Quando studiavo all'Università, lavoravo per mettere da parte qualcosa..."
"E come facevi a trovare il tempo di andare in palestra tutti i giorni e di studiare e lavorare nello stesso tempo?" disse sorridendo, incuriosita.
"Era proprio per quello... Diciamo... che il mio lavoro dipendeva molto dal mio fisico." le rispose, tentando di rimanere sul vago.
Intanto, attorno a loro i posti si erano riempiti. Accanto ad Alessandro si era seduta la professoressa Fabbri, una donna bionda tra i cinquanta e i sessanta, segretamente appassionata di pettegolezzi, che quel giorno era vestita con un abito blu attillato e degli orecchini di perla, le palpebre piene di ombretto azzurro. Il fondotinta faceva uno strano effetto sul suo viso solcato da innumerevoli rughe.
Mancini, l'unico in piedi accanto alla sua sedia, interruppe tutte le conversazioni parlando con voce sonante: "Carissime colleghe e carissimi colleghi," esordì "sono lieto che siate qui. È un piacere per me osservare come i rapporti tra ognuno di noi non si limitino a collaborazioni a livello professionale, ma si estendano anche a ottime relazioni interpersonali."
Claudia alzò gli occhi al soffitto.
"Non voglio rubarvi altri minuti con inutili discorsi: godiamoci la compagnia e una bella scorpacciata!" e si sedette, lasciando che il suo discorso fosse accolto da parole di assenso e da qualche applauso.
Subito, sei camerieri iniziarono a distribuire menu ai commensali.
Alessandro aprì il suo e scorse con gli occhi l'elenco di piatti senza leggerli. Poi lo chiuse e attese che arrivasse un cameriere per comunicargli la sua ordinazione.
"Sempre deciso con la bistecca?" gli chiese Claudia, con gli occhi fissi sul suo menu.
"Sì. Tu?"
"Non so, c'è un sacco di roba che mi attira. Ma credo che salterò l'antipasto e prenderò comunque una carbonara."
Comunicarono le proprie ordinazioni a un cameriere, poi si misero ad attendere.
Vicino a loro, Mancini stava facendo finta di essere in difficoltà riguardo la sua decisione. Poi ad un certo punto, chiuse di scatto il menu e si sfregò le mani. "Cameriere," disse ad alta voce "del caviale, per cortesia!"
"Caviale?!" esclamò Claudia, con un tono a metà tra l'interdetto e il desolato. "Oh Dio santo..." disse, appoggiando la fronte sulla mano sinistra, per coprire la sua espressione esasperata.
"Cliché?" disse Alessandro.
"Puoi dirlo forte. Non so se lo fa apposta o se è scemo di natura."
Le ordinazioni arrivarono nel giro di dieci minuti, e tutti cominciarono a mangiare tra una chiacchiera e l'altra.
Quando Alessandro si ritrovò di fronte il suo piatto, sentì immediatamente lo stomaco chiuso. Non aveva appetito, come al solito, ma il pensiero di dover mangiare in pubblico lo metteva ulteriormente a disagio.
"Che c'è, non è quello che avevi chiesto?" gli chiese Claudia.
"Sì, è questo."
"Non ti senti bene?"
"No, no, sto a posto." disse prendendo in mano forchetta e coltello.
Tagliò svogliatamente la sua bistecca in quadrati piccolissimi con precisione chirurgica. Poi alzò lo sguardo. La sala era completamente piena, tranne che per un tavolo con quattro posti, che si era appena liberato, e per un tavolo per due vicino al loro.
Un po' troppo affollato per i suoi gusti. Tentò di distrarsi allineando i pezzi della sua bistecca.
Poco dopo, un cameriere con un piatto coperto si avvicinò a Umberto. Quando gli fu accanto, sollevò la cloche. Caviale. Mancini accolse la propria ordinazione con un "Aaah!" soddisfatto e plateale che attirò lo sguardo di tutti, sfregandosi le mani con foga.
"Ne vuoi un po', cara?" disse a Claudia.
"No!" rispose lei visibilmente schifata.
"Io lo sapevo che era scemo, ma non credevo fino a questo punto..." sussurrò poi ad Alessandro.
Alessandro assaggiò la carne che aveva nel piatto, e la trovò troppo salata e troppo cotta. Appoggiò le mani sulle gambe e iniziò a guardare le persone davanti a sé, osservando prima tutti i camerieri, e poi seguendo con lo sguardo l'uomo e la donna che, appena arrivati, occuparono il tavolino per due vicino al loro.
"Sicura che non ne vuoi?" stava dicendo Mancini a Claudia.
"No, grazie." rispose lei con durezza, distogliendo lo sguardo dalla sua direzione e sollevando le sopracciglia.
Umberto non sembrò turbato da quella risposta. Anzi, continuò a sorridere.
L'espressione di Mancini si gelò, invece, nel momento in cui lo sguardo gli cadde sull'uomo e la donna appena arrivati, seduti lì accanto, che avevano giusto finito di parlare con un cameriere e stavano conversando mentre attendevano le loro ordinazioni.
Umberto si bloccò immediatamente: sbarrò gli occhi, perse ogni traccia del suo solito sorriso e il caviale gli si fermò in gola.
Tutti i professori lo notarono e ammutolirono. Qualcuno cominciò a guardarsi intorno con discrezione per individuare la causa della sua reazione.
Poi, con enorme fatica, Mancini ingoiò il boccone e si appellò a tutte le sue forze per mettere su un sorriso che sembrasse sincero - probabilmente per la prima volta nella sua vita. Era un sorriso forzato, e nascondeva un'espressione di disagio e disorientamento, con gli angoli della bocca piegati in giù; sembrava quasi che avesse appena mangiato un limone intero. Che brutto sorriso, pensò Alessandro.
I professori parlottavano concitati tra loro, facendo congetture e supposizioni.
"Ma è l'ex moglie di Umberto!" sussurrò la professoressa Fabbri, coprendosi subito la bocca con una mano, in un'espressione apparentemente sconvolta, che però non riusciva a nascondere una certa eccitazione. Ma le piacciono così tanto i pettegolezzi?, si chiese Alessandro.
Mancini prese il tovagliolo e lentamente se lo passò sulla bocca. Poi, mantenendo la stessa smorfia, spostò con lentezza lo sguardo dalla coppia al suo tavolo, guardò i professori in viso, poi abbassò gli occhi, riflettendo su ciò che aveva appena visto, sempre con lo stesso strano sorriso stampato sul volto.
Tutti gli insegnanti ammutolirono, ogni vocio cessò.
Mancini accennò a una fredda risata, poi sollevò lo sguardo e si alzò lentamente dalla sedia, la mano destra nella tasca dei pantaloni.
"Vorrei, ehm, ehm..." iniziò lentamente con tono potente, schiarendosi la voce per prendere tempo e per attirare l'attenzione della gente "mmh, fare... un annuncio.". Subito ottenette l'attenzione dell'intero ristorante.
Alessandro notò che Mancini continuava a lanciare sguardi rapidi e sfuggenti al tavolo vicino, verso il quale aveva i piedi puntati, dove la donna, accortasi, come il resto del locale, della sua presenza, lo guardava con aria stupita.
"Vi vorrei presentare una bellissima donna, che ho l'onore di avere qui accanto a me questa sera. Claudia, alzati pure, per favore." la prese per mano e la costrinse ad alzarsi in piedi, mentre lei lo guardava con aria spaesata e sospettosa allo stesso tempo.
Alessandro sentì uno strano prurito sul viso. Il suo intuito gli diceva che non c'era da aspettarsi nulla di buono da quello che avrebbe detto Mancini.
"Come alcuni di voi sanno," disse guardando i professori "io e Claudia abbiamo da sempre un ottimo rapporto che negli ultimi tempi si è evoluto e che ci ha portato ad avvicinarci sempre più.". I professori annuirono, come a dire che lo sapevano già. Ma cosa aveva raccontato loro?, si chiese Alessandro.
Claudia si guardava intorno spaesata, in cerca di aiuto.
"E questa sera," continuò Mancini alzando la voce "sono lieto di annunciare... il nostro fidanzamento ufficiale!"
Claudia sbiancò. Tra la gente si levò un applauso immediato e parole di congratulazioni. Gli unici nel locale a non dire una parola furono Claudia, Alessandro e la donna del tavolo vicino.
"Grazie, grazie." disse Umberto compiaciuto, alzando una mano in segno di ringraziamento.
Gli applausi cessarono dopo pochi secondi e tutti i presenti fecero nuovamente silenzio, per sentire che altro Umberto aveva da dire.
Mancini fece una pausa, selezionando accuratamente le parole nella sua mente. Ma Alessandro fu più rapido. Approfittando del silenzio generale, disse pacatamente, tenendo gli occhi bassi sul suo piatto: "Prima di fidanzarvi, dovresti chiedere se lei è d'accordo. Di solito è così che funziona."
Da qualche tavolo arrivarono delle risate. Alessandro alzò gli occhi verso Mancini giusto in tempo per vedere il suo viso minaccioso. La sua espressione era rimasta apparentemente inalterata, ma i suoi occhi mandavano scintille.
Tutti gli sguardi erano ora su Umberto, pieni di trepidazione.
"Mio caro professore..." disse questo "è per caso... geloso?"
Occhi puntati su Alessandro.
"Solo rispettoso del consenso altrui." disse lui con tranquillità.
"Oh, ma sentitelo!" disse Mancini e, con un braccio attorno alla vita di Claudia, la avvicinò a sé e le baciò il collo, facendola sussultare. Poi guardò Alessandro con espressione trionfante e aria di sfida.
Claudia non era più soltanto spaesata: ora era anche seriamente spaventata. E Alessandro lo vide.
Quindi fece una cosa, per la prima volta dopo tempo, senza starci a pensare. Si alzò in piedi di scatto, mantenendo la sua espressione impassibile, e prese il portafogli dalla tasca posteriore dei pantaloni; tirò fuori sessanta euro e li poggiò sul tavolo, pregando che sebbene il lusso del ristorante, il piatto di Claudia e il suo non costassero più di trenta euro per uno; poi afferrò dallo schienale il suo cappotto e quello di Claudia e con l'altra mano prese delicatamente il suo polso, divincolandola dalla stretta di Mancini.
"Andiamo." le disse, cingendole le spalle e accompagnandola verso l'uscita, ignorando lo sguardo di tutti che gli premeva addosso.
Tra la gente scoppiò un boato: mentre i due uscivano, tra le tante voci, poterono sentire quella della Fabbri che urlava a un altro professore: "Ma sì, e quella donna al tavolo lì vicino è la sua ex moglie! E ti dirò: è stata lei a lasciare lui! Te lo giuro, un'amica di mia sorella la conosce!"
Alessandro portò Claudia verso l'uscita, ignorando gli sguardi, con una mano sulla sua spalla e l'altra che le teneva il polso.
Una volta fuori, le appoggiò sulle spalle il suo cappotto e la condusse verso la sua macchina. Alessandro vide che Claudia tremava, e non era sicuro che fosse per il freddo.
Quindi fece una cosa che non si sarebbe mai sognato di fare in una situazione normale: prese le chiavi dalla tasca della giacca di Claudia e, dopo averla fatta sedere sul sedile del passeggero, si mise al posto di guida. Si era ripromesso tempo prima di non toccare mai più un volante, ma in quel momento non ci fece molto caso: pregò solo che con gli anni non si fosse dimenticato come guidare.
Accese il motore e abbassò il freno a mano, poi fece manovra e si mise in strada. Lanciò un'occhiata rapida a Claudia, per vedere come stesse: era rannicchiata sul sedile e guardava fuori dal finestrino, abbracciandosi lo stomaco. L'accaduto l'aveva scossa molto più di quanto ci sarebbe stato da aspettarsi da una persona comune: chiunque al posto di Claudia avrebbe mollato uno schiaffo a Mancini, ma non ne sarebbe stata terrorizzata. E Alessandro l'aveva capito: doveva esserci qualcosa sotto. Non sapeva cosa, ma per il momento non gli importava scoprirlo: il suo obiettivo era solo assicurarsi che stesse bene e portarla al sicuro.
Al sicuro?, si disse Alessandro. Non è che stava esagerando un po'?
Accese la radio della macchina nel tentativo di smorzare l'atmosfera tesa. C'era già un disco inserito. Ad Alessandro bastò sentire poche note per riconoscere How Deep Is Your Love, dei Bee Gees.
La musica lo rese più tranquillo, e si concesse di guidare in silenzio, fortunatamente e contro ogni sua aspettativa, senza sbagliare una manovra.
Con il passare dei minuti, il suo cervello cominciò a riprendere lucidità, e il terrore, lentamente, si impadronì del suo stomaco. Vide due fari sfrecciargli vicino, nella corsia accanto, e ne ebbe paura. Poi abbassò lo sguardo. Era un volante quello che aveva tra le mani, un volante. Dove erano finiti tutti i giuramenti che aveva fatto? Provò il forte desiderio di fermarsi in mezzo alla strada, sfilare le chiavi dalla macchina, poggiare la testa sul volante e piangere un pochino in silenzio, non visto, ma ebbe ancora più paura delle conseguenze. Quindi si disse che mancava poco, in fin dei conti, e che lo stava facendo solo per aiutare Claudia. Sperò in questo modo di attenuare la sua colpa e di riuscire a perdonarsi, almeno un po'.
Fece un enorme sforzo per raggiungere la casa di Claudia, che lei gli aveva indicato prima.
Parcheggiò l'auto nelle vicinanze e spense il motore.
Poi le disse con voce incerta, sperando di non osare troppo: "Vuoi che ti accompagni a casa?"
Claudia si girò lentamente. L'espressione impaurita aveva lasciato il posto a un viso apatico, dal il trucco slavato.
"No, scambiamoci i posti, ti porto a casa." disse con voce piatta, lo sguardo basso.
Alessandro obbedì e si mise sul sedile del passeggero.
"Grazie." disse poi Claudia, con voce più dolce. "Grazie per avermi difesa."
"Figurati."
"Forse posso sembrare un po' esagerata, ma mi ha veramente sconvolta..."
"Non devi giustificarti."
Claudia sospirò. Continuò a guidare fino a che non raggiunse l'appartamento di Alessandro. Poi accostò, e si voltò verso di lui con le labbra socchiuse, come se volesse dirgli qualcosa, ma non ci riuscisse.
Lui si infilò il suo cappotto e fece per uscire, ma la voce di Claudia lo bloccò.
"Vuoi sapere... vuoi sapere perché ho cambiato casa?" disse, mordendosi le labbra subito dopo.
Alessandro si voltò verso di lei, senza dire nulla, e la guardò negli occhi.
Lei continuò: "Anni fa ero sposata, e vivevo con un uomo. Credevo che ci amassimo, ma a quanto pare, non era così. Era... violento... Dopo due anni di matrimonio, non c'era centimetro del mio corpo che non fosse coperto di lividi. Diceva che non gli portavo rispetto, che dovevo assecondarlo e basta, le mie idee non contavano. Ho minacciato di sporgere denuncia, lui ha riso, e ha cominciato a proibirmi di uscire. Una volta mi ha stretto una mano attorno al collo, e ho veramente pensato che sarei morta."
Una lacrima le scivolò sulla guancia. Alessandro l'ascoltava in silenzio, con attenzione. Non sapeva perché gli stesse raccontando tutto ciò. Ad ogni modo, questo spiegava la sua reazione spaventata quando Mancini le aveva baciato il collo.
"Un giorno sono riuscita a sfuggirgli, e dopo qualche anno ho ottenuto il divorzio e un ordine restrittivo nei suoi confronti." Respirò profondamente. "Ho vissuto anni di terrore, e, come hai visto, basta un piccolo urto a riaprire la ferita. Ma oggi... quando mi hai difesa..." lo guardò, gli occhi lucidi su cui tremolava la luce dei lampioni sulla strada "mi sono sentita... al sicuro, e... portata in salvo..."
Claudia aveva avvicinato il proprio viso a quello di Alessandro. Gli guardò le labbra per un paio di secondi, poi tornò a fissarlo negli occhi: aveva uno sguardo indifeso, supplicante.
Alessandro non capì la sua richiesta; non poteva capirlo, tanto meno assecondarla. Si sentì soltanto improvvisamente scomodo e a disagio in quella situazione, di troppo. Allontanò il viso da quello di Claudia e disse: "Be', io vado. Grazie per il passaggio."
Aprì lo sportello. L'aria fredda gli sferzò la faccia.
Lei sospirò e tornò a guardare il volante. "Grazie a te. Buonanotte."
"Buonanotte."
E chiuse lo sportello.










N. D. A. Innanzitutto, grazie se siete arrivati fin qui. Ho alcune considerazioni da fare sul capitolo. Primo, mi scuso per la lunghezza. È lungo più del doppio di un normale capitolo di questa storia e mi rendo conto che questo può aver dato fastidio ad alcuni lettori. In secondo luogo, so che ci sono molti errori, soprattutto morfosintattici. Ma vorrei dirvi che sarebbe inutile segnalarmeli: si tratta di errori pienamente coscienti e consapevoli. In questa storia sto tentando di inserire molti elementi simbolici e mi sono ritrovata a sacrificare la correttezza grammaticale - cui pur sono molto devota e attenta - in favore di una ricerca del suono e dell'espressività, che trovo possa esprimersi anche attraverso la parte più "estetica" del testo. Chiamatela pure licenza poetica, se vi aggrada.
Un abbraccio.

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