Nel silenzio della sera

di ChiaraSerafin22
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Lista capitoli:
Capitolo 1: *** Cittadino del mondo ***
Capitolo 2: *** Un raggio di sole ***
Capitolo 3: *** A casa ***
Capitolo 4: *** Incidente ***
Capitolo 5: *** Voragine ***
Capitolo 6: *** Basta un indirizzo ***
Capitolo 7: *** Quando non servono parole ***



Capitolo 1
*** Cittadino del mondo ***


Il ragazzo sostava accanto al muretto. Sguardo basso, cappuccio sulla testa e mani a sprofondare nelle larghe tasche dei jeans scuciti. Non si riusciva a vedergli gli occhi, nascosti dall’ombra della felpa e sfuggenti alla curiosità dei passanti.
Stava silenzioso e immobile, e quell’immobilità in qualche modo lo isolava dal resto del mondo, che correva impazzito. Uomini e donne eleganti gli sfilavano davanti: quella gente così distaccata gli pareva ancora più frettolosa e nervosa del solito. Forse era per via del tempo, che stava minacciosamente peggiorando, oppure perché non si aspettavano di vedere lui lì. Trovandoselo davanti, non esibivano moti di sorpresa, ma le loro occhiate silenziose e fugaci erano una frusta molto più irritante.
Le persone lo avevano sempre reso molto nervoso, in quel Paese. Non si limitavano a giudicare: ci tenevano a farlo sapere. Non fissavano, no di certo, ma avevano un atteggiamento che non faceva sentire a proprio agio.
Cercò di non pensarci, ma non gli riusciva molto bene.
Quello su cui doveva concentrarsi era il futuro colloquio di lavoro: era riuscito a rimediarlo con un negoziante che possedeva un’attività poco lontano da lì. Erano passate da poco le quattro e dovevano incontrarsi alle quattro e mezza, ma il ragazzo aveva preferito arrivare in anticipo, per avere il tempo di trovare la tranquillità.
Era la prima occasione che aveva da due settimane. Doveva andare tutto al meglio, qualsiasi proposta gli avesse fatto sarebbe andata bene e, in caso contrario, se la sarebbe fatta piacere.
Aveva bisogno di soldi, la sua famiglia aveva bisogno di soldi, non si sarebbe tirato indietro per nessun motivo.
Stava ancora riflettendo su come presentarsi nel migliore dei modi all’uomo con cui aveva parlato al telefono, quando si accorse che una signorina gli si stava avvicinando, tentando garbatamente di attirare la sua attenzione.
Non si stupì di sentirsi chiedere: “Scusi, potrebbe allontanarsi da davanti il negozio? Sta infastidendo i clienti.” Oltre il muretto, la lucida vetrina di una boutique splendeva ammiccante.
Il ragazzo alzò leggermente la testa, abbastanza da lasciar intravedere i propri occhi all’educata commessa.
Oltre il vetro del negozio altri sguardi erano fissi su di lui.
Fece un cenno impercettibile alla signorina e si voltò senza una parola, cominciando a camminare, ad allontanarsi veloce come un ladro.
Ancora e ancora, occhi giudici lo seguivano implacabili. Le sue mani si conficcarono ancor più nelle tasche e un’impercettibile pioggerellina cominciava già a cadere a bagnargli il viso.
Ah, l’Italia. Il Paese dove era la pioggia a lavare via ogni cosa. Anche il dolore, forse.
Erano solo le quattro e dieci e le strade si riempirono di ombrelli colorati.
Un ragazzo camminava senza altra protezione che il proprio silenzio, verso un lavoro che non gli sarebbe stato dato.
Il ragazzo si chiamava Elvin, aveva diciassette anni e una carta d’identità che lo marchiava a fuoco: veniva dall’Albania.
In quella terra calda e straniera, preferiva definirsi cittadino del mondo.

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Capitolo 2
*** Un raggio di sole ***


Il tempo era peggiorato sensibilmente.
La pioggia aveva cominciato a scrosciare in modo quasi casuale, ma continuo, infiltrandosi nei vestiti e inzuppandogli i jeans.
Mentre procedeva a grandi falcate lungo il vialetto del condominio dove abitava, Elvin si preoccupò non poco del fatto che stava annegando nelle proprie scarpe.
Avrebbe dovuto avere altro di cui preoccuparsi: era uscito da quella casa disoccupato e tale era rimasto. Che cosa avrebbe detto a suo padre?
Quando varcò la soglia di casa, l’appartamento era stranamente silenzioso. La sua sorellina Erora, principale fonte di rumori molesti, non c’era di sicuro. Sua madre doveva averla portata con sé a fare la spesa. Suo padre doveva essere al lavoro. E suo fratello…
“Elvin! Sei tu?” La voce di Kodran giungeva dalla loro camera.
“Arrivo” rispose Elvin, mentre si toglieva le scarpe, facendo attenzione a non allagare tutto il pavimento.
Entrò nella propria stanza, e alzò gli occhi al cielo quando la vide preda del più terribile caos che si potesse immaginare: “Che cosa è successo qui?”
Kodran lo guardò col suo migliore sorriso sardonico: “Cercavo la tua giacca, quella nera. La mia ragazza dice che mi dona un sacco.”
“Non potevi aspettarmi, invece di sparpagliare la mia roba ovunque?” gli rispose, dolente, cominciando ad appallottolare le maglie sparse sul pavimento.
“Avevo fretta, Irida sarà qui fra poco e volevo presentarmi bene. Piuttosto, guarda che volevamo stare soli.”
Elvin lo fulminò: “A cosa accidenti ti serviva il giaccone se ve ne state in casa!”
Kodran alzò le spalle, sorridente: “Così, tanto per fare bella figura”. Tornò a farsi brusco: “Comunque dicevo sul serio. Vedi di sloggiare.”
Elvin scrollò la testa. Suo fratello aveva diciotto anni, solo uno più di lui, ma lo trattava come un ragazzino. A ogni modo, non aveva voglia di discutere. Si cambiò frettolosamente la felpa e i calzini e cercò un paio di scarpe che fossero meno permeabili.
Aveva appena finito di allacciarsene una, quando Kodran si corrucciò di colpo: “Come è andato l’appuntamento, a proposito?”
Il ragazzo non lo guardò in faccia: “Non bene.”
“Intendi che ti hanno lasciato a bocca asciutta sbattendoti fuori a calci.”
“Intendo che non è andata bene. Non ero… idoneo.”
Kodran si rizzò in piedi, stringendo i pugni: “Quei razzisti!”
“Ehi, calmati” sbottò Elvin, con una tranquillità affinata in anni di convivenza col fratello.
Raggiunse la porta prima che potesse ricominciare il discorso eterno sulla discriminazione che Kodran si portava ovunque andasse, accusando tutto e tutti con una volgarità che lo nauseava.
Lo calmò con quelle semplici parole, e aggiunse: “Fra poco arriverà Irida, divertitevi.”
Sua madre si era portata via gli unici ombrelli che possedevano, perciò Elvin fu costretto ad affrontare la pioggia e il suo violento picchiettare.
Decise di andare diritto al bar del centro, che da casa sua si raggiungeva in una decina di minuti. Lì sarebbe potuto stare in pace per il resto del pomeriggio.
Si sarebbe sentito fortunato nel caso avesse trovato qualcuno con cui stare, che si sarebbe accontentato anche solo della sua compagnia, per quanto potesse valere.
Il bar non era molto affollato. C’erano sempre le solite persone a occupare i soliti tavoli, e il proprietario che, da dietro il bancone, passava la maggior parte del tempo a pulire perennemente lo stesso sudicio bicchiere, fingendo un’aria indaffarata.
Quando Elvin entrò, non lo degnò di un’occhiata: era talmente abituato a muoversi fra la gente che riconosceva a occhio i clienti. In quel momento, il ragazzo con la zazzera di capelli bruni e dalla provenienza sicuramente non italiana era stato catalogato come “non pagante” o, per usare una delle sue espressioni preferite, “occupante a sbafo di sedie”.
Elvin non si comprava mai da bere. Non aveva denaro da spendere, e se anche lo avesse avuto non lo avrebbe certo fatto finire nelle tasche di quel tizio.
Sentì una mano che si posava sulla sua spalla: “Lo sai che esistono gli ombrelli, Elvin? Il ragazzo che fa il duro e si bagna pur di non usare quegli aggeggi di ferro è passato di moda, credimi.”
L’ombra di un sorriso, il primo della giornata, gli passò sul volto.
“Ah, ti ho fatto ridere! Vedi che, nonostante tutto, sono buona a qualcosa!” Alice gli si sedette accanto fra un risolino e l’altro, appoggiandosi insieme a lui allo scomodo bancone di legno.
Elvin la osservò mentre si sistemava la borsetta sulle ginocchia e i ciuffi dei capelli dietro alle orecchie, tirandosi su di morale per il puro fatto che quella risata era dedicata tutta a lui.
“Che ci fai qui?”
“Potrei farti la stessa domanda” ribatté pronta lei, osservandolo critica da testa a piedi: “Ora so cosa regalarti per il compleanno. Un k-way.”
“Sarebbe una buona idea.”
“Te ne rifilerò uno giallo fosforescente. So quanto detesti quel colore.”
“Che pensiero carino.”
“Grazie.” Risero tutti e due, di cuore. “Dai, Elvin, seriamente. Perché sei uscito con questo tempo?”
Il ragazzo si strinse nelle spalle: “Mio fratello voleva starsene in casa da solo con Irida. Mi ha letteralmente cacciato fuori.”
Alice storse il naso in quel suo modo carino da bambina piccola: “Che prepotente.”
“Non dire così. È fatto a modo suo.”
“Prima o poi gli darò una regolata io. La smetterà subito, credimi” gli strizzò un occhio. “Non prendi niente? Te la offro io una birra, getta via quell’aria imbronciata. Barista, due birre!”
Elvin non tentò nemmeno di protestare. Con Alice non ne valeva la pena, era troppo impegnata a essere se stessa per riflettere su quello che avrebbe fatto o no piacere agli altri. Era spontanea, il dono più bello che Dio le avesse fatto, e la sua genuinità la rendeva speciale come l’unico raggio di sole in una giornata di pioggia.
“Come va la vita, Elvin? È da un sacco che non ci si vede” chiese mentre sorseggiava la birra, che invece il ragazzo non aveva ancora toccato.
“Non bene” rispose lui. Non voleva turbarla con la questione del lavoro, non aveva voglia di rovinarsi ulteriormente l’umore. In quel momento, con Alice vicino, si sentiva quasi in pace.
Lei lo osservava da dietro il boccale dorato. Se aveva intuito qualcosa, non lo dava a vedere. Non fece altre domande.
Rimasero in silenzio, godendo di quell’amicizia a cui non servivano parole.
A un certo punto, la ragazza mise da parte la sua birra e abbracciò Elvin con una disinvoltura che lo sconcertò. Non fece altro, se ne stette semplicemente stretta alle sue spalle fradice, cercando in qualche modo di trasmettergli quello che provava per lui, la comprensione di cui aveva bisogno.
Il barista smise di rimestare nel bicchiere che teneva ancora in mano e li occhieggiò malamente. Alice lo sfidò con lo sguardo: era amico di suo padre, tanto bastava per farglielo detestare. Sempre a mettere il naso in mezzo agli affari degli altri e a controllarla!
I suoi occhi azzurri balenarono e, un attimo dopo, si staccò da Elvin, riprendendo a parlargli come se niente fosse: “Domani vuoi che ci troviamo? Un po’ di svago ti ci vuole, credimi.”
Lui annuì, mesto: “Facciamo colazione assieme, come l’ultima volta?”
“L’ultima volta era ancora estate, Elvin. La mattina ho scuola, te lo sei scordato?”
Non seppe cosa dire. Non andava a scuola da quando aveva compiuto sedici anni. Fra lui e suo fratello, si era deciso che sarebbe stato Kodran a continuare gli studi. “Beh, frequenti anche le lezioni pomeridiane?”
Alice ci pensò un istante: “Domani sì, la mia insegnante di matematica mi ha rifilato delle ore di ripetizioni.” Alzò le spalle e scrollò la testa. “Tu passa a scuola per le cinque. Sarò fuori ad aspettarti, va bene? Me la vedo io con i miei genitori se torno a casa tardi.” Colta da quel pensiero, guardò l’orologio che aveva al polso e scattò in piedi: “A proposito, devo andare. Saranno in pensiero.”
Anche Elvin fece per alzarsi: “Vuoi che ti accompagni?”
Lei gli svolazzò la mano davanti, sorridente: “Grazie, ma non serve. Ci vediamo domani.”
Pagò il barista e riprese l’ombrellino rosa che le era finito sotto l’alto sgabello. Prima di uscire, gli diede una pacca sulla schiena: “Devi ancora finire la tua birra. Vedi di berla tutta, mi raccomando!”
Si allontanò con quella sua strana andatura saltellante, facendo attenzione a evitare i tavolini e dileguandosi poi nel brumoso temporale.
Elvin la osservò mentre sfuggiva poco alla volta dalla sua visuale. La conosceva da quanti anni, ormai? Eppure non avevano smesso di essere amici. E quello era davvero qualcosa di cui essere grati a Dio.

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Capitolo 3
*** A casa ***


Dopo aver passato ancora qualche tempo chiuso nei suoi pensieri, Elvin si era deciso a tornare a casa.
Era passata l’ora di cena e lui era riuscito a reggere senza toccare cibo per l’intero pomeriggio. Stranamente, non si sentiva affamato, soltanto nervoso.
Sapeva che avrebbe trovato suo padre ad attenderlo al varco. Infatti, appena mise piede nella piccola entrata, sentì il ronzio della televisione e borbottii provenire dal salotto. Samir stava guardando l’ennesima telecronaca sportiva. Essendo arrivato in Italia dopo che aveva superato i quarant’anni, riusciva ad afferrare solo mezze parole dei commentatori, e gli scocciava parecchio.
Elvin batté le nocche sulla parete della stanza per attirare la sua attenzione. Suo padre si voltò e azzerò il volume del televisore. Aspettò che fosse il figlio a parlare per primo.
“Ciao papà” lo salutò il ragazzo in albanese, la loro lingua schioccante e musicale, tanto diversa dall’italiano. Non abbassò gli occhi mentre gli parlava: “Non è andata bene” disse senza preamboli.
Samir non batté ciglio e ridonò la voce ai cronisti sportivi. “Non ti preoccupare, vai a dormire.”
Di fronte a quel netto congedo, Elvin fece come gli era stato detto, chinando la testa e affrontando il buio del corridoio, senza la forza di alzare il braccio per cercare l’interruttore della luce.
Passando davanti alla minuscola stanzetta dove dormiva sua sorella si fermò, indeciso. Alla fine entrò, aprendo piano la porta per evitare di svegliarla.
Il lettino aveva una semplice trapunta bianca, ma il cuscino era sicuro fosse quello coi gatti rossi che le aveva regalato lo scorso Natale. La piccola Erora dormiva già, i capelli bruni sparsi sopra il muso dei gattini e un dito infilato fra le labbra.
Il fratello abbozzò un sorriso pieno di tenerezza e si chinò a darle un bacio sulla fronte. Poi, delicatamente, le tolse il pollice dalla bocca. Se la mamma avesse saputo che succhiava ancora le dita si sarebbe arrabbiata sul serio.
La bambina mugugnò qualcosa di indistinto, ma non si svegliò. Doveva essere stata una giornata faticosa anche per lei.
Nel silenzio opprimente della sera, quando anche suo padre se n’era andato a dormire, Elvin se ne stette sveglio a occhi aperti. Lungo disteso sul letto, che stava proprio sotto l’ampia finestra, non veniva turbato nei pensieri nemmeno dal sonoro russare di Kodran.
Si accorse che aveva smesso di piovere. Adesso la città, vista dall’ultimo piano del condominio, appariva più pulita.
Elvin chiuse gli occhi. Quando li riaprì, chiunque avrebbe potuto rendersi conto che erano mutati: dentro era apparsa una saggia malinconia, che nelle sue pupille nere stonava, da quanto era inquietante. Come una chiazza di colore che si allargava, stava lentamente conquistando anche il suo cuore.
Il ragazzo si sentiva stanco, di una stanchezza che appesantiva l’animo. Perché la sua vita era una continua lotta contro i pregiudizi e le battute a doppio taglio. Perché quasi tutte le persone che lo circondavano o fingevano di capirlo o lo evitavano. In entrambi i casi, lo vedevano per ciò che non era.
Si passò le mani sul viso, tremando senza accorgersene. Nessun luogo sarebbe stato come casa sua. Poteva illudersi quanto voleva, ma il calore dell’Italia non l’avrebbe riscaldato allo stesso modo. Né quello del sole, né quello delle persone.
Si accorse che la tapparella era ancora alzata. La luce riflessa della luna lo investiva come un pallido pugnale. Mentre Elvin tirava giù quella schermaglia, come per proteggersi, si chiese se lo stesse facendo anche per lasciare il resto del Paese fuori della propria camera. Almeno di notte.
 

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Capitolo 4
*** Incidente ***


La mattina successiva. Elvin si era svegliato con un cattivo presentimento. Gli ronzava la testa e aveva i crampi allo stomaco. Scrollandosi per scacciare i brutti pensieri, si vestì e andò a far colazione.
Era ancora presto. Sua madre, Blenda, gironzolava per casa tranquilla, mentre Erora mangiava la sua merendina e rideva perché stava sporcando tutta la sua parte di tovaglia.
Appena vide Elvin, la sorellina cominciò ad agitarsi: “Fratello, fratello!” strillò, cercando di attirare la sua attenzione.
Lui le carezzò la testa: “Come stai stamattina?”
“Ho fame” rispose.
“Allora mangia, invece di giocare con la crema della brioche” rise, con tenerezza. La bambina fece cenno di sì, ma in quella si sentì un rumore di schianto provenire dalla strada, e singhiozzò: “Fratello!”
Sua madre apparve sulla soglia della porta: “Hai sentito anche tu?” Era spaventata: “Mi pare che venisse…”
Elvin deglutì: “Dal portone del nostro garage.”
Un attimo dopo, la voce di Kodran volò fino al loro appartamento, forte e chiara, e minacciosa.
Blenda si coprì la bocca con entrambe le mani: “Oh santo Cielo.”
“Mamma, calmati” scattò Elvin, ma intanto stava correndo verso il terrazzo.
Gli si accapponò la pelle, vedendo il fratello che, col suo motorino di seconda mano, era andato a scontrarsi con una grossa macchina. Sperò che i danni si fossero limitati alle sole cose, ma intanto stavano volando insulti da una parte e dall’altra.
“Ti prego, Elvin, ti prego vai giù da lui. Lo sai che…”
Il ragazzo non aveva aspettato che finisse la frase. Era corso defilato lungo la tromba delle scale, attraversando i piani quasi scivolando sugli scalini. Intanto, dentro di sé, pregava. Perché sapeva che Kodran arrivava alle mani con troppa facilità, perché la rabbia che provava nei confronti del mondo era davvero troppa per riuscire a segregarla.
Quando arrivò alla porta d’ingresso, sapeva che era tardi.
Nel momento in cui spalancò il portone, Elvin avvertì distintamente due cose: la prima fu lo schianto del naso del proprietario dell’auto offesa, che si spezzava contro il pugno di suo fratello; la seconda, e fu ancor più assordante, era il rumore quasi palpabile della tranquillità della sua famiglia che si frantumava.
“Kodran” gemette Elvin, vedendo la camicia dello sconosciuto inzupparsi di sangue e lo stesso sconosciuto sbraitare: “Ti mando in galera, bastardo che non sei altro!”
Gli salì una vampata d’ira al cervello, così violenta che non poté impedirsi di mettersi fra i due.
“Elvin, togliti di mezzo!” ruggì suo fratello.
“Stai zitto, Kodran! Hai combinato un casino!”
“È stato lui a venirmi addosso!”
 “Mi ha rotto il naso! Quel bastardo mi ha rotto il naso!”
Nel caos più totale, fra curiosi che si accalcavano e testimoni che si allontanavano, con le macchine che suonavano il clacson perché i due mezzi ingombravano la strada, Elvin non sapeva da che parte guardare. Intanto attorno a lui ripartirono i pugni, e uno finì per colpirlo alla tempia, facendo sprizzare il sangue. Si tastò la testa e sentì il liquido rosso che cominciava a colare. Se a tutto quello aggiungeva il fatto che non toccava cibo dal giorno precedente, poco non mancò che svenisse sul marciapiede.
Erano arrivati degli uomini a dividere i due furiosi avversari. Dovevano essere stati loro ad avvertire il poliziotto che, accigliato, giunse poco dopo sul posto.
L’ultima cosa che Elvin vide, prima che una marea di gente si frapponesse fra lui e suo fratello, fu Kodran che lo guardava con un livido sul collo e un’espressione di pura rabbia sul bel viso lineare. Era come se quell’astio gli avesse invaso ogni cellula del volto.
Elvin sapeva che non gli avrebbero fatto nessuno sconto. Quello che gli fece male fu sapere che anche Kodran ne era consapevole, e avrebbe dovuto accettarlo.

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Capitolo 5
*** Voragine ***


Fuori della stazione di polizia passeggiavano ignare tante persone.
Il cielo era segnato dalle nuvole del giorno precedente: correvano, nere e instabili, offuscando i pensieri e corrucciando le fronti dei passanti.
Con amarezza, Elvin si ritrovò a pensare che per una parte di mondo il peggio che poteva capitare quel giorno era prendersi la pioggia.
Per l’ennesima volta gettò un’occhiata ansiosa alle due massicce ante dell’edificio, dipinto di un lindo bianco. Forse per compensare la grigia tristezza che dentro si consumava.
Il ragazzo sarebbe voluto entrare per testimoniare a favore del fratello, ma era stato Kodran a non volerlo: “Elvin”, aveva detto, “Stanne fuori. Non voglio che ti mettano in mezzo.” Un modo come un altro per proteggerlo dalla macchina giuridica che si era messa in moto.
Senza che se ne fosse accorto, un uomo si era portato dietro di lui e gli aveva calato una mano sulla spalla. Elvin, che era seduto su uno dei gradoni della stazione a cui dava la schiena, in un solo scatto si voltò e fu in piedi.
L’uomo, sulla cinquantina, aveva un tiepido sorriso sul volto: “Sono Antonio Rossi. L’avvocato affidato a Kodran, tuo fratello, giusto?”
“Sì, sono io. Signor Rossi.” Gli porse la mano, esitante.
“Chiamami pure Antonio, ragazzo” rispose l’altro, con aria bonaria.
“Se non le dispiace, preferisco di no.” Quel tipo non gli piaceva molto. Aveva un che di forzato in quel sorriso eternamente dipinto.
“Comunque, mi scusi, ha sbagliato a pronunciarlo.”
Mentre gli stringeva la mano, Antonio Rossi assunse un’espressione sorpresa: “Come?”
“Il nome di mio fratello. Kodran non si pronuncia come un nome americano. Noi siamo dell’Albania.”
L’avvocato d’ufficio continuò a stritolargli la mano senza dar segno d’aver sentito: “Ti dispiace se parliamo un po’, ragazzo?”
Elvin gli fece un segno accondiscendente, ma assunse un’aria sospettosa.
“La causa di tuo fratello non è molto complessa, ne capitano di continuo di affari del genere. Risse, lesioni a cose e persone. Mi capisci?”
Infastidito, Elvin annuì. Capiva benissimo sia quello che diceva che la lingua, perché doveva sentirsi trattato a quel modo!
“La cosa si fa più grave perché abbiamo un neodiciottenne albanese che se ne va in giro con un motorino di seconda mano, di derivazione non accertata, e che dopo un incidente contro un’auto viene alle mani col proprietario.”
“Sta accusando Kodran di furto e aggressione?” articolò Elvin, senza perdere la calma.
Antonio Rossi lo guardò negli occhi, ancora con quel sorriso stampato: “Tu hai un’altra versione?”
“Le carte di proprietà dello scooter sono a casa” si seccò il ragazzo, “Ed è stato l’altro ad alzare per primo le mani. Anche Kodran è stato picchiato.”
“Però vedi, tuo fratello ha rotto il naso al proprietario dell’auto.”
Elvin, che non capiva dove stesse la differenza, tacque, in attesa.
“Ragazzo, non mi sto occupando dell’assicurazione alle vetture. La colpa sarebbe divisa equamente se non si trattasse di lesione personale gravissima, deformazione ovvero sfregio permanente del viso” citò l’avvocato.
“Capisco.” La sua voce ebbe un fremito.
“Kodran ormai è maggiorenne. La pena, nei casi più gravi, è la reclusione da sei a dodici anni” riprese l’uomo. Inaspettatamente, gli fece l’occhiolino: “Ma noi non vogliamo questo, vero?”
Aveva pronunciato il nome in modo errato, nonostante ciò che aveva detto Elvin poco prima. Ma a quel punto il ragazzo avvertiva solo il terreno sotto i suoi piedi che si sgretolava. Sempre, sempre più velocemente. Quando se ne rese pienamente conto, sotto di lui c’era ormai una voragine che rischiava di inghiottirlo.

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Capitolo 6
*** Basta un indirizzo ***


“Deve esserci qualcosa che si può fare, Elvin!” Alice lo scuoteva con impazienza.
Già, doveva esserci, ma lui non sapeva dove sbattere la testa.
Erano le cinque del pomeriggio, e l’aria era umida e fredda.
Kodran era tornato a casa, era in libertà vigilata e aspettava ansioso e collerico la denuncia da parte dell’aggredito. Il proprietario della grossa macchina lesa era andato al pronto soccorso e non si era ancora fatto sentire. Elvin aveva il suo nome e l’indirizzo appuntati sul cellulare, glieli aveva segnalati l’avvocato. Ricordava ancora quanto fosse irritante il suo sorriso.
“Mi stai ascoltando?”
Si voltò verso di lei. Aveva le guance rosse e gli occhi lucidi. Sembrava essere più sconvolta di lui. “No, Alice, scusami” ammise.
La ragazza allontanò le mani dalle sue spalle e abbassò lo sguardo, addolorata: “Elvin, guarda che le vedo.”
Si scosse. “Cosa?”
“Le tue lacrime. Anche se sono invisibili, riesco a vederle, credimi.”
Elvin era appoggiato al muro della scuola, le mani in tasca e il cappuccio sulla testa, che a stento conteneva i capelli neri e ispidi. Un ragazzo che si sentiva troppo solo, nonostante lei gli fosse accanto.
Alice seguì la direzione dei suoi occhi, che vagavano verso il cielo, poi sospirò: “Non azzardarti a sentirti in colpa per ciò che è successo. So come sei fatto, tu.”
Anche stavolta, non la stava a sentire. Gli prese il mento fra le mani e lo costrinse a guardarla: “Senti, dove abita questo tizio?”
“Chi, Giovanni Da Re? Quello della macchina?”
“E chi sennò?” sbuffò, esasperata, “Ce l’hai, l’indirizzo?”
“Sì, ma…”
“Allora adesso andiamo a fargli una visita e lo preghiamo di non denunciare Kodran.”
Elvin sgranò gli occhi: “Alice, cosa ti salta in mente? Quello se mi vede è capace di chiamare la polizia!”
“No invece. Perché tu sarai molto convincente” risolse lei.
Emise un risolino amareggiato: “Tu sei matta.”
Lei era serissima. “Elvin” disse “Cosa capiterà alla tua famiglia se tuo fratello non solo andrà in carcere, ma sarà costretto a pagare ulteriori multe?”
Gli mancò il fiato. “Questo è un colpo basso, Ali.”
“Io mi limito a dire le cose come stanno. Vuoi provarci o no?” gli domandò, con una sicurezza esasperante. Abbandonando finalmente quell’aria grave, il suo viso cominciò a sciogliersi in dolcezza: “Forza. Non sarai da solo.”
Il ragazzo non osò sperarci troppo, ma lasciò che lo prendesse per mano e lo conducesse via da quel muretto, lontano dal dolore.
E sia, proviamo anche questa.
“Andiamo, tira fuori l’indirizzo. Prenderemo un autobus” lo rincuorò, sorridendo. “E poi, il cavaliere solitario che affronta da solo i problemi è passato di moda, credimi.”

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Capitolo 7
*** Quando non servono parole ***


Giovanni Da Re abitava in un appartamento vicino al parco cittadino, poco distante dalla stazione degli autobus.
I due ragazzi si incamminarono taciturni fino al portone d’ingresso e Alice si mise a cercare fra i pulsanti argentati del citofono. Quando trovò il nome, cercò un’ultima conferma in Elvin, che annuì dopo un lunghissimo istante. Suonò.
Driiin. Attesa. “Chi è?” La voce era giovane e femminile.
Vedendo che il suo amico non accennava a parlare, fu Alice a prendere in mano la situazione: “Cerchiamo il signor Giovanni, è in casa?”
“Cosa volete?” ribatté la ragazza.
“Vorremmo parlargli privatamente, è possibile?” continuò Alice, diplomatica, senza lasciar trapelare nulla.
“Papà scende subito” disse la voce, interrompendo la comunicazione.
Appena si udirono passi frettolosi venire nella loro direzione, istintivamente i due amici si portarono indietro di qualche metro rispetto alla porta.
Il portone si aprì dall’interno, lasciando uscire un uomo di statura media, con i capelli brizzolati e una voluminosa garza sul naso. “Ebbene?” fece, in tono chiaramente nasale.
Alice era ammutolita e si era portata dietro a Elvin. Non doveva parlare lei. A quel punto, non doveva mettersi in mezzo.
Giovanni Da Re li fissava, soprattutto il ragazzo. Era sicuro di averlo già visto.
Proprio quando Alice cominciava a pensare che il suo amico non avrebbe avuto il fegato di farsi avanti, lo vide irrigidirsi e alzare la testa: “Scusi il disturbo”, si presentò, “Mi chiamo Elvin, sono il fratello del ragazzo con cui stamattina ha avuto un diverbio a seguito di un incidente. Mi scuso a nome suo.”
L’uomo, dapprima confuso, partì alla carica: “Mi ha ammaccato l’auto e fracassato il naso!”
Elvin non si permise di scaldarsi: “Lo so. Io e la mia famiglia ci scusiamo. È stato imperdonabile, ma sono venuto per pregarla di non sporgere denuncia. Anche Kodran ha subìto dei lividi” gli ricordò.
“Gli immigrati ne fanno di tutti i colori” ringhiò fra i denti Da Re, come scusante.
“Non ci troviamo in una posizione molto agiata” continuò Elvin, “Le assicuro che le saranno risarciti i danni alla macchina, ma non denunci mio fratello, glielo chiedo per favore. Per me… per noi non è facile accettare di trovarci in un altro Paese e subirne le umiliazioni.” La voce gli si era rotta.
L’altro sbatté le palpebre per qualche secondo, stupito per quella reazione. “Cosa ti fa credere che non lo denuncerò solo per questo bel discorso? Dove pensi di vivere?”
Mentre Alice tratteneva il fiato, il ragazzo lo riprese: “Le chiedo solo di evitare di rendere le cose ancora più difficili per la mia famiglia. Cosa le costerebbe, sapendo di poterci sottrarre da una difficile situazione economica! Solo mio padre lavora e io, a doverlo ammettere, non vengo assunto per discriminazione.”
Giovanni Da Re si chinò in avanti e si grattò la testa con una mano. “Mettiamo che rinunci” incominciò. Gli occhi di Alice brillarono, ma dal viso di Elvin non trapelò nulla, il suo cuore, però, si rischiarò. “Mettiamo che non sporga denuncia” riprese “A me cosa ne viene in tasca?”
Ridonerebbe fiducia negli Italiani a Kodran, pensò Elvin, ma disse: “Non saprei cosa proporle. Lavorerò per lei, se vuole.”
Il signore con la benda sul naso sciolse i muscoli del viso e fece un sorriso forzato: “D’accordo. Elvin, giusto? Che titolo di studio hai?”
Esitò. “Non ho terminato la scuola superiore.”
“Se io, beh, ti proponessi come tuttofare al mio capo. Lui ha un’agenzia… sarebbe solo una prova, s’intende”
Si vedeva chiaramente che voleva aiutarlo, ma lo faceva in modo talmente impacciato che il ragazzo si sentì subito in dovere di rassicurarlo: “Non darò problemi, signore. Arrivo sempre in anticipo, imparo in fretta.”
“Bene. Bene” annuì, rasserenato. “Con quei primi soldi potresti ripagarmi i danni all’auto. Per un impiego fisso, invece, non prometto niente.”
“Accetta!” s’intromise Alice, stringendo il braccio a Elvin. Aveva la gioia che le danzava negli occhi: “Vero che accetti, vero?”
Il ragazzo le sorrise, ancora scosso. “Penso, credo di sì.” Tornò guardare Giovanni: “Grazie.”
“Allora siamo d’accordo, Elvin.” Gli si avvicinò per stringergli la mano e poi gli dettò un indirizzo: “Presentati domani mattina e chiedi pure di me. Qualcosina troveremo da farti fare.”
Se ne andarono prima che Giovanni Da Re cambiasse idea. Mentre si allontanavano, si guardavano e scoppiavano a ridere, una risata di sollievo. Dopotutto, a discapito del futuro, l’importante era stato affrontare anche quel problema, e affrontarlo insieme.
Godendo di quell’amicizia a cui non servivano parole, s’incamminarono tenendosi per mano nel silenzio della sera.

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